Diodata Saluzzo Roero "Carteggio di Alessandro Manzoni" Carteggio di Alessandro Manzoni. Parte seconda. 1822-1831
Edited by Giovanni Sforza and Giuseppe Gallavresi
Milano: U. Hoepli, 1921
Lettere di Alessandro Manzoni alla contessa Diodata Roero Saluzzo
[p. 154] 363. Alla contessa Diodata Roero Saluzzo, a Torino.
Dalla Villa di Brusuglio, presso a Milano, il 30 luglio 1824.
Illustre Signora,
La lettera colla quale Ella si era degnata di giustificare,
anzi di premiare la libertà da me presa di
[p. 155]
farle presentare una copia dell'Adelchi, non m'e altrimenti
pervenuta; e la seconda, data fino dai 9 di
gennaio, e destinata a procurarmi l'onore d'inchinare
una sua degna Nipote ed amica,[155-1]
mi perviene ora soltanto,
per la via della posta. Del che bisognava pure
ch'io le parlassi prima d'ogni altra cosa, perchè fra i
tanti sentimenti che questa preziosa sua lettera ha
eccitati nell'animo mio, vivissima è la confusione che
provo in pensare ch'Ella ha dovuto credere ch'io abbia
potuto lasciare una lettera di Lei senza risposta.
Ma come potrò io degnamente spiegarle la mia riconoscenza
per le tanto benigne espressioni di che ridonda
questa che ho pure avuto la fortuna di ricevere?
Già non saprei abbastanza significarle di quanta
fui compreso tempo fa al trovare in una cortese lettera
del signor Marchese d'Azeglio[155-2]
un cenno tanto
prezioso quanto inaspettato di codesta sua benignità:
io, devoto fino dall'adolescenza allo splendido e puro
nome di Lei, e che non avrei potuto senza vanità
darmi a credere che il mio potesse essere presso di
Lei in qualche stima. Ad ogni volta ch'io passai per
Torino, mi son contentato di desiderare che la mia
buona sorte mi facesse abbattere sul passo della illustre
Donna, tanto che altri potesse additarla alla
mia antica e riverente curiosità. Ormai, se questa
buona sorte mi conducesse così vicino a Lei, nè il timore
di farla ricredere della sua troppo indulgente
opinione, nè molte altre cagioni che mi spaventano
dal cercar la presenza anche delle persone che pur
tengo nel più alto conto, non potrebbero essere d'ostacolo
[p. 156]
al mio desiderio di conoscerla, e di umiliarle
a voce i sensi del mio profondo affetto: poichè un tal
desiderio è stato così gentilmente incoraggiato. Si
degni Ella intanto di gradire la sincera espressione di
questi sensi, e di accordarmi d'ora in poi l'onore di
professarmele
Divot.mo aff.mo Servitore
ALESSANDRO MANZONI.
Ardisco pregarla di ricordarmi al signor Marchese
d'Azeglio, il quale, spero, mi avrà perdonata la noja
ch'io gli diedi con una indiscretissima tiritera[156-1].
DALL'AUTOGRAFOTECA DEL CAV. ERCOLE GNECCHI, A MILANO.
[p. 271] 437. Alla contessa Diodata Saluzzo Roero, a Torino
Alla contessa Diodata Saluzzo Roero, a Torino.
Milano, il 12 marzo 1827.
L'onore che mi viene da una così graziosa domanda mi tornerebbe, a dir vero, troppo in rimprovero, se,
dopo l'accoglienza da Lei fatta a' miei poveri lavori,
dopo d'essere io medesimo stato favorito del dono dei
nobilissimi suoi, avessi veramente dato fuori qualche
cosa senza valermi tosto del vantaggio, già acquistato,
di poter farlene omaggio. La filastrocca[271-1] della quale
Ella ha la bontà di richiederne, è bensì stampata in
gran parte, ma nulla ne è ancor pubblicato, nè sarà
che ad opera compiuta. Del quando, non posso fare
alcuna congettura un po' precisa; perchè di quel che
manca alla stampa, una parte manca ancora allo scritto;
e il compimento di questo dipende da una salute incerta
e bisbetica, la quale spesso mi fa andare assai
lento, e talvolta cessare affatto per buon numero di
giorni. Dell'essersi poi, come Ella mi accenna, veduto
costì il già stampato, io non so che mi dire nè che
pensare, non ve ne avendo io spedita certamente copia,
nè in altra parte d'Italia. Mi vergognerei di stendermi
in questi particolari, e di averla trattenuta sopra
un tale argomento, se dall'essere toccato da Lei
non avesse acquistata una certa importanza, e preso,
per dir così, un abito gentile. Nè anche posso tacere
che, siccome l'aspettazione di alcuni mi aveva già
posto in gran pensiero, così in grandissimo mi pone
codesta, ch'Ella si degna mostrarmi: chè, riguardando
al mio lavoro, sento troppo vivamente, quanto poco
sia meritevole di una sua curiosità; e troppo certamente
[p. 272]
prevedo, quanto questa sia per essere mal soddisfatta.
Ma, ad ogni modo, la prova non sarà terribile
che per la vanità; e io confido ch'Ella si contenterà
di dimenticare il libro noioso, senza cacciar
per questo l'autore dal posto accordatogli nella sua
benevolenza. Colla quale spero che intanto Ella vorrà
accogliere i sensi del mio profondo rispetto e della antica
mia ammirazione, e consentire che io abbia l'onore
di professarmele …
DA MINUTA, COMUNICATA DAL COMM. NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI
SFORZA.
438. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Milano, il 19 aprile 1827.
Disperando di potere, non dico degnamente, che
questa era speranza da non concepire, non che da dimettere,
ma in modo che, pare a me, venisse a parer
comportabile, risponder con versi ai bellissimi, dei
quali Ella s'è degnata farmi non solo parte, ma speciale
e solenne dono; convien pure ch'io mi risolva
a contestarle comunque l'umile mia riconoscenza per
un tanto favore. E insieme con ciò, Ella non mi potrà
disdire, ch'io tocchi un motto dell'ammirazione
e del diletto da me provati in leggendo e rileggendo
la splendida ode, dove, al solito di Lei, sagaci e
sapienti pensieri escono in forma d'immagini vive e
varie e pellegrine. A Lei, certo, conveniva, a Lei
competeva di farsi interprete della nuova poesia, o
(a dir rozzamente ciò ch'Ella ha figurato con tantafelicità) del nuovo modo della poesia. Se non che s'è
Ella trovata nella singolar condizione di passar sotto
silenzio cosa appunto, che ad altri viene così naturalmente
al pensiero di un tale argomento; voglio dire
[p. 273]
la bella e nobile parte ch' Ella ha in questo nuovo
modo, fin da quando, ancor quasi fanciulla, destava
la meraviglia di Parini canuto[273-1].
Ma di colui che, in una tale ode, è posto tanto in
alto, oserò io dirle quello che penso? Gli auguro, lo
confesso, d'ignorare un tale onore, onde evitare una
tentazione d'invanimento troppo delicata e troppo potente.Nè, per verità, ho troppa paura che questo
dire abbia a parere strano a Lei; chè, lasciando stare
la squisita similitudine, con che in questa ode stessa
è rappresentata la gloria, io credo pure di aver compresi
e sentiti i molti tratti delle sue poesie, dove
essa è rappresentata sempre come una cara fallacia,come un dolore superbo, come cosa che non tiene mai
quanto promette, e che, tenendolo pure, ingannerebbe;
che, perfetta e non contrastata quanto uom possa immaginarsela,
dee pure avere in sè un vuoto, un amaro, un
inquieto, che ne accusa e insieme ne castiga la vanità.
DA MINUTA, COMUNICATA DAL COMM. NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI
SFORZA.
[p. 358] 491. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Milano, 16 novembre 1827.
Chiarissima Signora,
S'io dicessi che la mia assenza da Milano, le brighe
inevitabili che tengon dietro al ritorno, altre piccole
gite, dei troppo lunghi momenti d'assoluta inabilitàallo scrivere, furon tutte cagioni del così tardo
adempiere, ch'io fo, un ufficio impostomi egualmente
dall'ammirazion della mente e dalla riconoscenza del
cuore; direi vero, ma non direi tutto. La cagione più
forte e la più continua fu la soggezione, che mi prese
ogni volta ch'io volli farmi a parlarle dell'egregio suo
poema; e per vincere la quale finalmente, non trovo
miglior mezzo che il confessarla. Le varie impressioni
di maraviglia e di diletto che ha fatte in me, ora il
sublime, ora il patetico, ora l'inspirato, il profondo,
il pellegrino, il nobile dell'Ipazia, son buone per me;
[p. 359]
ma da tali impressioni alle parole che possono significarlein un modo più particolare, c'è, per me almeno,
un immenso intervallo; lasciando anche stare la difficoltà
speciale di trovar le parole degne d'essere adoperate
con Lei. Pensi adunque, illustre signora Contessa,
che effetto abbian dovuto produrre sull'animo
mio quelle troppo cortesi espressioni, colle quali Ella
mostra degnarsi di aspettar da me un giudizio. Me
pover uomo! mi permetta ch'io Le dica, al modo un
po' di costì[359-1]. Lasciando star pure che invertimento di
parti, e che strana mutazione di posti sarebbe cotesta,
Le dirò, che il giudizio d'un componimento, tanto più
quanto più questo sia esteso, originale, bello, ha aessere, com'io lo sento, niente meno d'una poetica. Io
sono profondamente persuaso della verità di quel principio
espresso la prima volta, ch'io sappia, dal signor A.
G. Schlegel[359-2], che la forma de' componimenti vuol essere
organica e non meccanica, risultante dalla natura
del soggetto, dal suo svolgimento interiore, dalle relazioni
delle sue parti, e dal loro, per dir così, andare
a luogo; e non dall'improntamento d'una stampa
esteriore, estranea: principio fondamentale e fecondo,
il quale, quando sia trattato, particolareggiato, applicato,
e lo sarà tosto o tardi, inevitabilmente, può, anzi
dee, s'io non m'inganno, rinnovare essenzialmente la
critica di diritto e di fatto. Ammesso, o piuttosto riconosciuto
questo principio, s'è condotti o costretti a
riconoscer pure, che ogni componimento, come ha,
o dee avere la sua natura propria individuale, le ragioni
speciali della sua esistenza e del suo modo, così
richiede d'esser giudicato con regole sue proprie, che
son poi il medesimo. Non già ch'io sia così cieco da
non vedere delle leggi universalissime, applicabili a
[p. 360]
tutti i componimenti, e delle più particolari, applicabili
soltanto a questo e a quel genere; ma mi pare
anche di vedere che le veramente tali sieno così ovvie,
così semplici, alcune quasi così necessarie, che,
a trasandarle o a violarle considerabilmente nel fatto
ci voglia una cortezza d'ingegno, o un pervertimento
di giudizio, incompatibili l'uno e l'altro colla possibilità
di produrre un'opera degna d'esame: mi pare insomma
che siano piuttosto una condizione, che un
pregio de' componimenti, e che non possano quindi
divenir materia d'un giudizio, come, a stimare l'abilità
d'un uomo per qualche negozio importante, non
si metterà in conto ch'egli non sia un insensato. I
fatti poi, com'io li posso scorgere, mi confermano sempre
più in questo avviso, o piuttosto sono i fatti stessi
che me lo suggeriscono. Perchè, raffrontando i migliori
componimenti, e, dirò specialmente, i poemi,
mi pare che quello che hanno di simile fra loro, e fra
loro soli, sia una loro eccellenza, un grado di perfezione,un ben pensato, un bene scelto, un ben detto,
non riducibile a regole; e quello che vi si può ridurre
a regole, dico comuni, buone per ogni altro soggetto,
lo abbiano simile non solo fra loro, ma coi componimenti
d'inferiore eccellenza, coi mediocri, e colla più
parte degli assolutamente cattivi. Il valor vero d'ognuno
mi par che stia in ciò che ognuno ha di suo,
di proprio, di esclusivo: nel soggetto, il quale abbia
in sè e dimostri le ragioni sue di essere, si presenti,
per dir così, alla contemplazione come un vero individuo
morale: nei modi d'essere convenienti al soggetto,
dalle parti principali fino, direi quasi, agli ultimi
accessorii, nell'applicazione stessa di quelle regole
universali, che in ogni soggetto prendono, o hanno
a prendere, un carattere speciale. Ognuno mi pare,
che abbia, o debba avere un ordine, un progresso,
[p. 361]
un'unità, una espressione sua propria: tanto che fra le
tante, mi sembra singolar lode dell'Ipazia questa:
ch' Ella non abbia potuto darle un nome, se non generico,
e volendo individuarne la specie, abbia dovuto
ricorrere ad una definizione, non trovando un vocabolo
bell'e fatto. Certo, le sincere impressioni, che si
provano alla lettura d' un componimento, sono prodotte
da quelle stesse qualità speciali, che dovrebbero
servir di materia ad un giudizio fondato; ma tra quel
sentire e questo spiegare, l'intervallo è immenso;
quello stesso che tra il dir bello un volto, bella una
musica, e il render ragione della loro bellezza. Ma
queste ciarle, che, riguardo alla cosa, son peggio che
poche, son già troppe a spiegare, quanto io mi sentaragionatamente lontano dal poter giudicare l'Ipazia; mentre m'è così facile di poter dire ch'essa mi sembra
degna di Lei, voglio dire d'un alto intelletto,
d'una ricca e potente fantasia, e d'un cuor generoso.
Gradisca Ella dunque il semplice omaggio della mia
ammirazione, e quello insieme dell'assente amico mio
Grossi, che mi lasciò l'incarico di presentarglielo,e
che sente vivamente l'onor che gli viene d'un tal
dono. Gradisca pur di nuovo le mie scuse. Oggi medesimo
mi vien consegnata la sua lettera dei 10 del
corrente, e la vista di quel celebre e da me così riverito
nome, in uno coll'affettuoso ossequio che m'inspira,
m'ha dato non poca confusione, e m'ha fatto
crescere il cruccio contro cento grandi e piccoli incidentiche tante volte m'hanno impedito di pigliar la
penna, o me l'hanno tolta di mano. Ora, quantunque
io veggia che questa lettera così lunga e così confusa
vorrebbe esser rifatta piuttosto che spedita, e spedita
ad una Diodata (tolleri dalla celebrità, e condoni alla
ammirazione la famigliarità del modo); pure amo meglio
incorrer giustamente la taccia di rozzo, che sostener
[p. 362]
più a lungo la troppo falsa apparenza di negligente.Si degni conservarmi la bontà, alla quale
Le è piaciuto di avvezzarmi senza alcun mio merito, e che potrei dire d'aver meritata da lungo tempo, e
di meritare ora più che mai, se questa avesse ad essere
un contraccambio della ammirazione. Gradisca
l'attestato di questo cresciuto sentimento e insieme
quello del solito profondo ossequio con che ho l'onore
di rassegnarmele, ecc.
DALL'AUTOGRAFO, NELLA BIBLIOTECA BRAIDENSE, A MILANO (MINUTA).
[p. 386] 508. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Milano, l'11 del 1828.
Una cosa spiacevole che mi fosse comunicata da
Lei, avrebbe da ciò raddolcimento e compenso; ma
cose così graziose, e da tal parte, in una sua lettera,
e sopraggiuntovi l'assicurazione dell'essermi continuata
la sua bontà, sto per dire che è troppo. I sentimenti
prodotti in me dall'articolo di lettera del signor
Abate de la Mennais, che Ella ha favorito di
parteciparmi, sono di quelli che amano di esprimersi,
quando si trovi chi sia fatto per comprenderli, e non
isdegni d'intenderli; ed io trovo l'uno e l'altro nel
cuor di Lei. Sapere d'aver ottenuta l'attenzione di
un grande ingegno, vedere il proprio nome scritto
con favore da chi ne porta uno celeberrimo, è cosa
[p. 387]
certamente che commuove la vanità; ma una miglior
parte dell'animo, se a Dio piace, è commossa, e più
dolcemente dalla benevolenza cristiana. Già si adorava,
e si sperava insieme: il saperlo da ambe le
parti, par che renda la comunione più viva e più
piena. Io provo assai di tutto questo; ma vi è in
quell'articolo una lode magnifica, che mi confonde e
mi spaventa, il est religieux, et catholique jusqu'au
fond de l'âme. Egli è vero, che l'evidenza della religione
cattolica riempie e domina il mio intelletto; io
la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali;
per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa.
Le verità stesse, che pur si trovano senza la sua
scorta, non mi sembrano intere, fondate, inconcusse,
se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono
quel che sono, conseguenze della sua dottrina. Un
tale convincimento dee trasparire naturalmente da
tutti i miei scritti, se non fosse altro, perciocchè, scrivendo,
si vorrebbe esser forti, e una tale forza non si
trova che nella propria persuasione. Ma l'espressione
sincera di questa può, nel mio caso, indurre un'ideapur troppo falsa, l'idea d'una fede custodita sempre
con amore, e in cui l'aumento sia un premio di una
continua riconoscenza; mentre invece questa fede io
l'ho altre volte ripudiata, e contraddetta col pensiero,
coi discorsi, colla condotta; e dappoichè, per un eccesso
di misericordia, mi fu restituita, troppo ci manca
che essa animi i miei sentimenti e governi la mia
vita, come soggioga il mio raziocinio. E non vorrei
avere a confessare di non sentirla mai così vivamente,
come quando si tratta di cavarne delle frasi; ma almeno
non ho il proposito d'ingannare: e col dubbio
d'aver potuto anche involontariamente dar di me un
concetto non giusto, mi nasce un timore cristiano di
essere stato ipocrita, e un timore mondano di comparire
tale agli occhi di chi mi conosce meglio.
[p. 388]
Dal timore d'offendere (almeno colpevolmente) la
religione, introducendola ne' miei poveri lavori, mi
rassicura la coscienza intima, non dico del mio rispetto
per essa, ma dell'unica fiducia che ripongo in
essa, e nella Chiesa che l'insegna. Ma in ogni testimonianza
che appunto mi si renda di ciò, sento, insieme
colla lode, un rimprovero, e in un colla voce
benevola mi par d'intenderne una severa che mi dica:
A che tu vai ragionando delle mie giustizie?[388-1].
Le ho troppo parlato di me; e veggo di dover di
nuovo ricorrere per la scusa alla bontà sua. La cortese
disposizione, che Ella mostra, a concedere a me
e alla mia famiglia l'onore della sua personale conoscenza,anima il vivissimo desiderio che io ne tengo;
ma troppe circostanze si oppongono per me all'adempimento.
Non potrò avere mai la presunzione di credere,
che noi possiamo essere per qualche cosa nella
determinazione, che Ella prendesse di visitare queste
parti; ma se mai nella buona stagione qualche altra
causa portasse loro una tale ventura, noi potremmo
con tutta facilità approfittarne, giacchè alla campagna
dove abitiamo in quel tempo, non è dalla città che
un breve tragitto.
DA COPIA COMUNICATA DAL COMM. NICOMEDE BIANCHI.
[p. 563] 601. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
30 ottobre 1829.
La lettera che Ella mi ha fatto l' onore di scrivermi
il 17 del corrente, dovendo venire a trovarmi in luogo
dove non v' è uffizio postale[563-1], mi è pervenuta ieri soltanto,
ad ora avanzata.
Mi affretto di rispondere alla domanda, che Ella
mi fa, s' io abbia rimesso il manoscritto, senza leggerlo
allo stampatore; e provo una momentanea mortificazione
nel non poter dire un no intero ed assoluto,
come a prima vista pare che potrebbe richiedere
il tenore dell' ultima mia; ma confido pure, che dopo
avere inteso in particolare come stia la cosa, Ella vedrà
non ci essere contraddizione tra l' uno e l' altro
dire. Prima, però, d' intendere il fatto, bisogna che
Ella abbia la sofferenza d' intendere alcnue notizie generali
del mio modo di sentire, e di operare nei fatti
di questo genere.
[p. 564">]
Della noia che son per darle con esse, io chieggo
scusa alla bontà sua; del parlare di me mi scuserà la
necessità della cosa medesima, essendo ciò indispensabile
all' intelligenza di un fatto nel quale sono io
l' attore. Ella deve dunque sapere, che io ho un' avversione
estrema, come una specie di terrore[564-1], all' esprimere
giudizio su cose letterarie, massime in iscritto;
e, a ridurre in breve i motivi, questa avversione nasce in me dall' incertezza, o, dirò meglio, dalla improbabilità
di farlo bene, e dalla difficoltà del farlo comunque. Il
giudizio di una parola può essere, ed è sovente, derivato
da principii di una grande generalità; di modo
che non sia possibile motivarlo, nè quasi esprimerlo,
senza espor quelli, cioè senza scarabocchiar molte pagine.
Nel che sovente il lavoro materiale sarebbe ancora
la più piccola faccenda; vi è questo di più che
tali principii ponno essere, e sono sovente (parlo del
fatto mio), tutt' altro che connessi, che certi, che distinti,
puri, e riducibili a formole precise e invariabili;
e l' applicazione che pur se ne fa, è un tal quale
intravvedimento; è quel che Dio vuole; ma pur la si
fa. E siccome questa incertezza o confusione è anche,
per men male, riconosciuta sovente dall' intelletto in
cui è; così dove si vorrebbe un giudizio, spesso non
si presenta che un dubbio, più difficile assai a mettere
in parole, che non un giudizio. Queste difficoltà,
e altre congeneri (giacchè non voglio abusar troppo
della licenza, che Le ho chiesta, di riuscirle seccatore),
si trovano a cento doppi più nello scritto che nella
conversazione. Qui hanno luogo le espressioni più indeterminate,
[p. 565]
i periodi non formati, le parole in aria,
formole cioè proporzionate a quella incertitudine ed
imperfezione d' idee; e tali formole hanno però un effetto;
giacchè la parte stessa, che si degna volere il
giudizio altrui, viene in aiuto a chi ha da formarlo,
dando mezzo, colle spiegazioni, colle risposte, a porre
in forma il dubbio, a svolgere il giudizio, che non era,
nella mente del giudicante, che un germe confuso.
Questa parolona di giudicante basta, poi, a farle ricordare
gli altri motivi di avversione che ha, e dee
avere, per un tale uffizio chi conosce la propria debolezza.
Contuttociò non voglio dire che io non mi
conduca a farlo qualche volta a viva voce con persone,
a cui mi lega una vecchia famigliarità; nè ch' io
non ardisca pur di farlo, comandato, con persona, per
cui sento la più rispettosa stima; dandomi animo da
una parte questa stima medesima, che dall' altra mi
tratterrebbe; che, quanto al pericolo di dire
spropositi, o di non saper bene cosa si dica, è poca cosa
per chi protesta, e avvisa innanzi tratto, che
probabilmente gli accadrà l' uno e l' altro. Ma per mettere
in iscritto il mio sentimento con un pochin di
perchè (il mio sentimento, dico, intorno a venti versi, o
ad una pagina di prosa), avrei a domandare un tempo
indefinito, che sarebbe lungo, e colla quasi certezza
di riuscirvi malissimo.
Ora, quando io ebbi in mano il manoscritto delle
Novelle, una curiosità ben naturale non mi diè tempo
di pensare, alla prima, che leggendolo io veniva, per
la troppa umiltà dell' autore, a trovarmi impegnato a
far quello, che nè vorrei nè saprei. Lo apersi dunque
senz' altra considerazione: ma, letta una parte della
prima novella, mi risovvenne delle troppo cortesi
espressioni, colle quali Ella aveva significato di voler
che questa lettura dovesse essere per me non un puro
[p. 566]
diletto, ma un mezzo per fare avvertenze. Chiusi tosto
il manoscritto, volendo, come credo d' averle detto
nell' ultima mia, godermi il diletto puro; pensando che
strana cosa le parrebbe (non conoscendo Ella quanto
possono in me le difficoltà, di cui ora ho dovuto
parlarle, e delle quali voleva risparmiarle la noiosa
esposizione), se io le avessi lette, e non avessi nulla da
dirci sopra, quando Ella m' aveva comandato di dire.
Non ho peranco avuto nuove dello stampatore[566-1]; ma,
essendo io per tornare fra quattro di in Milano, e per
dimorarvi, rimetto ad intendermi con lui di presenza.
Ora, poichè Ella non può più stupirsi del mio leggere
senza fare il critico, La avverto, che non mi ratterrò
dall' approfittare dell' occasione delle prove di stampa
per leggere le Novelle il più presto. Voleva troncare
addirittura questa troppo indiscreta lungheria; ma,
venendomi in mente che una delle ragioni, per cui
Ella desidera il parere altrui, è anche quella di presentire
il giudizio dei lettori, non posso a meno di
aggiungere, che questa poi è la parte dove avrei più
timore di proferire il menomo che; giacchè non credo
nulla più incerto, più imprevedibile, e più bisbetico
del giudizio del pubblico.
Le chiedo di nuovo scusa dell' averla tanto trattenuta,
e con tali miserie; e La supplico di continuarmi
la sua bontà in contraccambio dell' alta stima e dell'
affettuoso ossequio, col quale ho l' onore di rassegnarmele….
DA COPIA, COMUNICATA DA NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI SFORZA.
[p. 657] 671. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.
Milano, 17 dicembre 1830.
Ben prima d'ora io le avrei espresso il doppio mio
dispiacere, e dell'essermi stata tolta la consolazione
e l'onore di riverirla di presenza, e dell'incomodo che
ne fu cagione, se una sciagura consimile, anzi di un
genere più grave, non fosse venuta a visitare pure la
mia famiglia, e a tenermi più giorni in affanno.
[p. 658]
Quando io ricevetti la cortesissima sua lettera, mia
moglie era stata presa da un'infiammazione tracheale,
la quale non potè esser vinta che dalla sesta cacciata
di sangue. Ora, grazie al cielo, la malattia è finita, e
con essa ogni timore, e non resta che l'incomodo di
una lunga e penosa convalescenza. Posso adunque a
cuor largo esprimerle, in un col rammarico della perduta
ventura, il piacere che ho provato leggendo e
rileggendo i bei versi che Ella si è degnata comunicarmi,
e renderle grazie speciali dell'onore che le è
piaciuto fare al mio nome. Spero però che quel senso
d'increscimento, che è troppo bene espresso nel componimento
appunto che troppo lusinga la mia vanità,
sarà stato cosa passeggera; e tanto più lo spero, che
questo senso medesimo, con una contraddizione di buon
augurio, non ha saputo esprimersi che in vivissima
e, dirò così, vaghissima poesia[658-1]. Quanto alla cagione,
che Ella mi accenna averlo prodotto in lei, non so se
io le parrò un uomo dell'altro mondo, ma le debbo
dire, che io ne ero affatto al buio, non leggendo
mai, da gran tempo, critiche letterarie italiane, nè sopra
i miei scarabocchi, nè sugli scritti altrui, e ciò
appunto per fuggire occasioni di patimenti dolorosi,
e per non perdere anche quella poca voglia di scarabocchiare,
che pur m' è lasciata da' miei incomodi[658-2].
Mi figuro che bei giorni Ella ha dovuto passare in
Toscana. Se non foss'altro che la lingua, non è ella
[p. 659]
una gran cosa per noi nati e vissuti nelle altre parti
d'Italia, e avvezzi a sentir parlare e a parlare o un
dialetto alterato o un linguaggio mancante di una
più o men grande, ma sempre grandissima quantità
di termini proprii e di locuzioni fisse e solenni; avvezzi
a sentire e a parlare il piemontese, il milanese,
o un toscano scemo di una buona parte del fatto suo,
e incerto anche in parte di quel che gli resta; non è
ella, dico, una gran cosa il trovarsi in mezzo, lo sguazzare,
dirò così, in quel linguaggio, che ha tutta la
vita, tutta la ricchezza dei dialetti, e tutta la cultura,
e (se vogliamo una volta ragionare secondo i principii
e secondo i fatti di tutte le lingue) tutta l'autorità
di una lingua? E di che lingua! Ma io entro
senza avvedermene in un argomento, che non troverei
la via ad uscirne[659-1]; e se, lasciando anche star le lingue,
prendessi da qualunque altro lato a parlare di quella
cara Firenze, mi avverrebbe il medesimo; sicchè mi
ristringerò a dire che, pensando alla gentilezza dei
fiorentini, e pensando insieme che, ad onorar Lei, non
è mestieri di gentilezza, m'immagino e mi godo l'accoglimento
che Ella vi ha avuto. Bene a gentilezza,
anzi a degnazione, debbo ascrivere l'onorevolissimo
saluto che, per mezzo di Lei, mi viene dal signor
[p. 660]
conte Prospero Balbo[660-1], al nome del quale, già da gran
tempo, ho consacrata la venerazione, che gli è dovuta
da chiunque ami le lettere, e tenga in onore la virtù.
La prego di voler partecipargli la mia viva ed umile
riconoscenza, e di far pure gradire i distinti miei complimenti
al sig. conte di Bagnolo. Ho in casa le due
copie del ritratto in litografia, che Ella desidera;
se ne desidera di più, credo si potranno avere. La
prego di indicarmi il numero preciso, e il mezzo di
fargliele pervenire costì. Mi conservi la preziosa sua
benevolenza, e gradisca l'omaggio dell'inalterabile
ossequio, e della viva ammirazione, con che ho l'onore
di rassegnarmele.…..
DA COPIA, COMUNICATA DA NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI SFORZA.
NOTES
155-1. Giulietta de Colbert (1785-1864) moglie di Tancredi Faletti marchese
di Barolo. Accolse in casa come segretario Silvio Pellico, dopo
che fu escito dallo Spielberg. Cfr. A. DE MELUN, La marquise de
Barol, Paris 1869.
155-2. Cesare Taparelli d'Azeglio. Cfr. la parte I, p. 493 n. 1.
156-1. La Lettera sul romanticismo.
271-1. I Promessi Sposi.
273-1. Allude alla lettera indirizzata dal Parini alla Saluzzo il 12 febbraio 1797 e pubblicata dal Reina a p. 196 del IV volume delle opere pariniane.
359-2. Cfr. la lett. 201a, nella la parte del carteggio.
388-1. Dal verso 16 del salmo XLIX.
563-1. Cioè a Copreno.
564-1. Queste riluttanze, delle quali si hanno altri esempi nel presente carteggio, contrasterebbero alla allegata « olimpieità » del Manzoni, lumeggiata ultimamente da ULISSE FRESCO,Intenzioni e intuizioni di artisti nella critica di Francesco De Sanctis (Giornale storico della letteratura italiana a. XXXVII, vol. LXXIV).
566-1. Vincenzo Ferrario.
658-1. A proposito di questo giudizio del Manzoni che implica un suo concetto della genesi della poesia, potrà essere utile il riferimento al saggio di F. LO PARCO, Lo stile poetico e la lingua poetica, secondo il Manzoni in Studi manzoniani di critica, lingua e stile, Messina 1909.
658-2. Questa confessione rafforza l'ipotesi suggerita al d' Ovidio dalla lettera 413a a Giuseppe Visconti, che cioè nella ritrosia del Manzoni dagli elogi avesser parte certe sue suscettibilità (F. D' OVIDIO, Nuovi studi manzoniani cit. pp. 266 e seg.).
659-1. Il Manzoni non doveva in realtà escir più da quest' argomento, della preminenza del toscano, che divenne la sua costante preoccupazione nei quarant' anni che gli rimasero da vivere. Vedansi, a cagion d'esempio, fra i molti scritti intorno all' evoluzione delle idee manzoniane in tale materia, LUIGI MORANDI, Le correzioni ai Promessi Sposi e l'unità della lingua, Parma 1879; FRANCESCO D' OVIDIO, La lingua dei Promessi Sposi nella prima e nella seconda edizione, Napoli 1880; GIOVANNI SFORZA, La risciacquatura in Arno de' Promessi Sposi in Scritti postumi di A. Manzoni, vol. I, Milano 1900. Di capitale importanza al riguardo è, s'intende, il quinto volume delle Opere inedite o rare di A. Manzoni cit. Si legga infine, a mo' d'epigrafe, lo sguardo retrospettivo che dà a tutta l'arena di quelle dispute il CROCE, Alessandro Manzoni e la questione della lingua in La Critica, vol. XI.
660-1. Il conte Prospero Balbo (1762-1837) era stato ambasciatore del re Carlo Emanuele IV presso il Direttorio della repubblica francese dopo la pace di Cherasco e dai francesi non aveva voluto accettare altra carica che quella di rettore dell'accademia napoleonica ed ispettore generale dell' università di Torino. Vittorio Emanuele I reduce in Piemonte lo volle suo ministro a Madrid, poi ministro dell' interno fino all' abdicazione provocata dai moti del 1821. Cfr. NICOMEDE BIANCHI, Storia della monarchia piemontese dal 1813 al 1861, Torino 1877, vol. II; DOMENICO CARUTTI, Storia della Corte di Savoia durante la rivoluzione francese e l' impero, Torino 1892; G. OTTOLENGHI, Reminiscenze della propria vila del conte Ludovico Sauli d' Igliano, Roma 1908; M. DEGLI ALBERTI, Lettere inedite di Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I, Carlo Felice, Carlo Alberto, Torino 1909. Vedansi alcuni tratti ironici consacratigli da Camillo di Cavour nel suo diario (D. BERTI, Diario inedito con note autobiografiche del Conte di Cavour, Roma 1888 pp. 66-67).