LA
PASSIONE
DI CHRISTO
Descritta in ottaua rima
DA MODERATA
FONTE.

Con una Canzone nell'istesso soggetto
della medesima.

CON PRIVILEGIO.

In Venetia, Presso Domenico, & Gio. Battista Guerra, fratelli. MDLXXXII.

NElla maniera, che tutti i fiumi, conoscendo di hauer la origine loro dal uasto, & profondo mare, quello tengono per loro Prencipe, & capo, & gli rendono per ciò quel tributo maggiore, che loro è dalla Natura concesso; Così io, conoscendo la origine mia da questa marauigliosa, & benedetta Città, ben è il douere, che la riconosca anco per Signora di me, & che per ciò al Prencipe, & capo suo, che è la Serenità vostra, ne porga il tributo, ch'io deuo, & che sia tale, che (rispetto le forze mie debili) dar non li possi il maggiore; Il qual debito mio, hauendo io sommo desiderio di pagar in parte, & quanto prima mi hò imaginato dì ridurre (come hò ridotto) in ottaua rima la Passion di Christo nostro Signore, estratta dai quattro Euangelisti, & quella prensentare alla Celsitudine vostra; certa io, che debba esser reputato ciò non indegno censo alla vostra Serenità da esserli offerto da chi tanto le deue. Ma, che dico io? Anzi se con diritto giudicio uorremo il tutto minutamente discorrere, si uedrà senza dubbio, che nè don di questo più degno, nè à che più degnamente si conuenga, si haurebbe potuto trouare. Et chi non sà, che Christo mediante la sua passione (che pure è il soggetto del presente dono) ci hà, di immersi, che erauamo ne i uitij, incaminati al ben fare? di serui del Demonio, fatti figliuoli di Dio? & di destinati all'inferno, liberati, & instituiti heredi del Paradiso? Chi non sà poi, che in voi Serenissimo Prencipe, come in suo uero ricetto si ritrouano unitamente tutte le uirtù, & tutte le doti principali, che separatamente ne gli altri si puonno uedere? Le quali ui rendono per ciò tale, che sete meritamente unico, & singolar reputato, & ci danno ad intendere, che non altronde peruengono in voi, che dall'Istesso abondantissimo fonte Giesv', dal quale scaturiscono tutte le buone, sante, & uirtuose operationi; & il quale, (conoscendo la unica, & uera fede che in lui hauete,) ui hà con esse aggiunto di poterle godere lungamente, con tanta gloria, & felicità, quanta giamai si concedesse ad altro huomo terreno. A uoi dunque Serenissimo Prencipe, dignissimo tra tutti i degni, & non ad altri, come suddita, & obligata, porgo io uolontariamente, & appresento questa mia fatica, la quale prego, che ui degnate di gradire nella guisa, che anco hauete più uolte già gradito, per vostra innata bontà, altre mie compositioni, che pur (qual si fossero) hanno meritato di essere lette, & udite dalla V. Serenità; alla quale pregando da Dio lunga uita, & ogni prospero successo nelle cose sue, reuerentemente mi raccomando.

Di Venetia à gli otto d'Aprile. 1582.
Di V. Serenità
Humilissima serua
Moderata Fonte.

POi che'l bacio crudel del seruo ingrate In man de gli empi il Redentor diè preso, Lasciar gli altri seguaci il Duce amato Per tema solo, e da nessun difeso. Quel gran Signor, per le cui man creato Fù il cielo, e'l mondo, e quanto è in lor compreso, Hora non hà chi lo soccorra in tanto Duol, nè chi per lui moua ò prego, ò pianto. O terra, che da lui l'esser hauesti, Ne le uiscere tue, ne i tuoi profondi, Che non assorbi, & non inghiotti questi Di sì gran preda insidiator giocondi? O cielo, à gli occhi scelerati, e infesti Il tuo motor che non celi, & ascondi? O spirti in cielo, ò quanti in terra hauete Spirto, il vostro Fattor, che non piangete? Ei d'un intenso amor, caldo, e feruente Nel cor uà lieto à la futura morte, E, mentre il sacro collo annodar sente Da le nemiche man d'aspre ritorte, Cede, e segue la turba empia, e nocente; Che un uero amor soffre ogni dura sorte; Pietro il seguiua in tanto di lontano Con un'altro discepolo pian piano. Segui l'humil Signor ne l'atrio altero D'Anna cinto di stuol crudo, e nemico, Il discepolo amato, e seco Piero Fece introdur, ch'era di casa amico. Era gran freddo, e inuerso il dì leggiero Volaua il tempo al suo uiaggio antico, E nel partir la notte atra dal Cielo Più possente rendea l'humido, e'l gelo. Per tanto da'ministri acceso stato Ne l'odioso albergo era un gran foce, Intorno à cui più d'un s'era adunato. Perch'al calor desse il gran freddo loco. Pietro, fra gli altri essendoui accostato, Si riscaldaua, e ragionaua poco; Che'l grand'amor l'hauea già persuaso, Ch'à mirar stesse il fin di sì gran caso. Tra quei, ch'erano assisi al foco intorno, Non si sentia parlar d'altro soggetto; Di questa prigionia, di questo scorno Fatto à Giesv', risuona ogni lor detto. Hor mentre fà tra lor mesto soggiorno Piero, che sì gran duol chiude nel petto, Ecco un'ancilla, à lui leuando il guardo, Dice; e questi è de' suoi, se ben lo sguardo. Nega Pietro infelice, e per timore Manca à Giesv' de la promessa fede, Nè si ricorda allhor con che gran core D'accompagnarlo ogni sua fe gli diede; Ne ciò, che gli predisse il pio Signore Di sua inconstanza à mente allhor gli riede. Disse ei, tre uolte hai da negarmi, auanti, Che il desto augel, ch'annuntia il giorno, canti. Quanto può l'amor proprio; il miser finge Di non conoscer pur l'amato nome. Nega due uolte à duo, cosi lo stringe Lo spasmo, che le man gli hà ne le chiome. Vn de gli astanti al fin le labbra scinge; La lingua tua fà manifesto, come Vn sei de'suoi, mentre parlar ti sento; Hor come di negarlo hai tu ardimento? Poi che negar con semplici parole Al timido huom la uerità non gioua, Anathematizando acquistar uole Credito, e i maggior giuri allega, e troua. Ecco intanto cantar, come far suole, Il Gallo, e mentre ei dà del giorno noua, Pietro il Signor d'un de'suoi sguardi fere, E lo fà del suo fallo rauedere. Quegli occhi sacrosanti hebber tal possa Nel miser cor col dolce raggio uiuo, Che col ferro huom non diè mai tal percossa, Che più rendesse altrui de' sensi priuo. Per tal piaga ei non fe la terra rossa, Ma cangiò'l sangue in lagrimoso riuo; Giunse il gran colpo al cor; quei, mentre langue, Versa per gli occhi trasformato il sangue. Ne la guisa, che soglion duo torrenti, Che'l Verno tenne già densi, e gelati, Innanzi à gli Austri più benigni uenti Soluersi à un tratto, e inondar ualli, e prati. Così inanzi à quei taciti lamenti, Che mosser gli occhi di pietà infiammati, Si sfecer quei di Pietro; Ahi tal piangea, Che destillarsi in lagrime parea. Nè gli soffrendo il cor di star più auante Quel pio Signor, ch'egli hauea tanto offeso, Quindi leuossi in quel medesmo instante Contra di se d'ira, e di rabbia acceso, E chiamandossi perfido, e inconstante, Poi che le sue promesse hà uilipeso, Sen'gia dolendo, e lamentando quanto Gli concedea sì gran copia di pianto. Empia lingua, dicea, come soffrire Potesti mai d'esser cotanto ardita, Che per una uil tema di morire Hai negato l'autor della tua uita? Ohime; dunque innocente ei dee patire Per le mie colpe? ò crudeltà infinita; Et io che son cagion del suo cordoglio Lo nego, e compatir seco non uoglio. Io, che pur di ragion patir deurei Questi martir, men' uò saluo, & essente. O'Piero assai peggior de i proprij Hebrei, Che lo uan si stratiando indegnamente. Ei t' accettò fra suoi, tu sempre sei A' l' alte imprese sue stato presente; Ei consigli ti diè sempre, e conforti; Questo è dunque l'amor, che tu gli porti? Con tai parole, & altre, lagrimando, Da singulti interrotte, e da sospiri, Sen'gia si fieramente lamentando, C'hauria mosso à pietade aspidi, e tiri; E con grande ramarico pregando Il Ciel, che risguardasse i suoi martiri, S' andò à chiuder in loco imo, e remoto, Sempre piangendo il mal seruato uoto. O Giuda; e tu, c'hai il tuo Signor tradito, Crudel, ingrato, e disleal seguace, Poi che ti sei di tanto error pentito Miser, che fai? che non ne chiedi pace? Và piangendo ancor tu nel cor ferito D'aspro dolor con Pietro, ou'ei si giace; Che quei, che mor per saluar l'human seme Ben saluerà ancorte, se n'haurai speme. Tosto, che uidde il miser disleale D'aspre catene il suo maestro auinto Addur con stratio à più d'un tribunale, Di mille obbrobrij, e uilipendij cinto, Si pentì d'hauer fatto un error tale, E fu in se stesso da stupor sì uinto Per tanta sua impietà, che difidosse, Che'l suo error perdonato unqua gli fosse. Cadde quell'infelice in diffidenza, Essendo tanto il suo peccato graue, Ch'esser potesse in Dio maggior clemenza, Che non fur l'opre sue maluagie, e praue. Così ridotto à falsa penitenza, Ch'à l'huom, che spera, è sì dolce, e soaue, Disse; peccai tradendo il sangue giusto; Erigitò nel tempio il prezzo ingiusto. Del restituto argento un campo tolto Fù poi, che da quel sangue altri nomollo: E l'infelice à sua ruina uolto Gittossi un laccio immantinente al collo, E s'impiccò da disperato, e stolto Egli medesmo, e diè l'ultimo crollo; E mentre di sua morte hebbe ei la palma, Diè il corpo à corui, & à i Demoni l'alma.

In tanto, strettamente circondato Da fieri lupi, il mansueto agnello Venia inanzi a'Pontefici accusato Da più d'un testimonio ingiusto, e fello; E percosso aspramente, e bestemiato Da man cruda, empia linga, e di coltello Tagliente più, con mille scorni, e sprezzi, Con brama di finirlo, e farlo in pezzi. Quel cosi bello, e delicato viso, Che fra gli altri di forma è il più perfetto; La maestà, che tutto il Paradiso Stà à contemplar, ne ui è maggior diletto; Hor da uermi uilissimi deriso, Di pugni, e sputi è liuido, & abietto. Perdon le guancie il bel color giocondo, Squarciato e'l crine innanellato, e biondo.

Stringe il laccio la gola, e'l fiato à pena Lascia eshalar lo stuol superbo, e schiuo; Lo strascina con rabbia, e duolsi, e pena Per le poche hore ancor, ch'ei resta uiuo. Hauea già l'alba candida, e serena Portato al mondo un bel dì chiaro, e uiuo, Quando dal popol fu maligno, e pronto Giesv' condotto al giudice di Ponto. Pilato il qual di sua innocenza udito Ragionar de le uolte hauea più d'una, Ben pensò, che l'hauesse alcun tradito Per pura inuidia, e senza colpa alcuna, E del Pretorio per pietade uscito, Disse à gli Hebrei. Qual causa hor quì u'aduna Contra costui? qual colpa in lui trouate? Per qual causa, à che fin me l'accusate? Se malfattor non fusse (il furibondo Stuol grida) à te condotto ei non saria; Diss' ei, Pigliatel uoi dunque, e secondo La uostra legge giudicato sia. A noi non lice alcun leuar dal mondo, Risposer quei, se nol condanni pria, Pilato allhor nel suo Pretorio riede, E fa, ch'à se Giesv' riuolga il piede. Di molte cose gli dimanda molto, Pur per sottrarne il uer da la radice; Siede l'huom cieco, e Dio gli è innanzi occolto, Ei nol uede, o non uole, ò non gli lice. Ma cosi riguardandolo nel uolto, Tra se diceua, O giouane infelice; Che gli pareua pur, che ei fosse à torto Da' Giudei ricercato ad esser morto. Con molta diligentia intorno al fatto Di tanta accusa interrogando uallo, Pur per saper se qualche cosa ha fatto, Onde ben muoia, e non s'uccida in fallo. Mà nol troua se non puro, ed intatto. E chi mai potè in Dio ritrouar fallo? Onde torna à Giudei, lo scusa, e'l proua Incolpato innocente, e non gli gioua. Ei s'affatica, e non una sol uolta Và da l'interrogar à le difese, E per sciorre Giesv' la lingua sciolta Lo scopre incondannabile in palese. Ma il popol pertinace non l'ascolta, Nè uol, che parli in suo fauor cortese. Contrasta il Pontio; e grauemente espone Di uerità parole, e di ragione. Trà l'altre lor dicea; Donde in uoi sorge Miseri Hebrei questa nequitia noua, Ch'un far uolete, in cui nulla si scorge D'error, morir senza altro inditio, & proua? Opinion, e passion ui scorge; Nè ragion, ne giustitia in uoi si troua. Io non ueggo in costui causa, ch'à sdegno Mouer ui possa, e d'ogni mal è indegno. Deh di gratia, se colpa in lui non cade, Che danno u'è, ch'ei uiua, e che interesse? Se forse la dottrina, e la bontade, Ch'odo in esso regnar non ui offendesse Deh s'appo voi bontà non è impietade, Non uitij rei uirtù chiare, & espresse, E se legge non è, che l'alma tolga A' chi non face error, costui si sciolga. Queste parole, & simili altre mosse Pilato, pur per ueder s'ei potea Far, che Giesv per lui campato fosse Da quella accusa obbrobriosa, e rea. Ma uia più contra lui d'ira infiammosse La turba inessorabile Giudea. Non estingue un gran foco un picciol uento, E più per lo negar cresce il talento. Tutto è gettato in uan, che'l popol fiero L'ha in odio sì, che sofferir non pote Pur di mirarlo in faccia, e il grido altiero Moue con queste ingiuriose note. Dunque fallo ti par tanto leggiero Sedur le genti, e farsele deuote? Farsi Re de gli Hebrei, figliuol di Dio Parti un error da por cosi in oblio?

Vogliam, ch'ei moia, e sia punito questo Ad essempio de gli altri animi audaci, Che non s'ardiscan far, sotto pretesto D'esser figli di Dio, gli huomin seguaci. Se sciogli Barabbà sarà più honesto, Più drittamente à tutti noi compiaci. Era Barabbà ladro, e in carcer messo, Pur dianzi fu per nouo error commesso. E perh'era fra lor costume antiquo, Nella solennità d'allhor Pascale, Di liberar huom, che per caso iniquo Fosse dannato à pena aspra, e mortale. Il popol, c'ha il pensier torto, & obliquo, E, ch'à quel sommo ben uol sommo male; Per quell'empio homicida ad alta uoce Libertà chiede, e per Giesv' la croce. Mentre in questa disputa ingiusta, e pia, Parte accusa Giesv, parte il difende, Giunge un messo à Pilato, il qual uenia Mandato da la moglie, ed ei l'attende. La moglie caramente l'ammonia. Deh Signor mio, s'amor di me t'accende, Non giudicar quel giusto, io ti conforto, Che procaccian gli Hebrei, che moia à torto. Horribil uisioni, e spauentose Sopra il suo caso innanzi il giorno hò scorte, Tremò Pilato à questo, e si dispose D'accostarsi al parer della consorte; Le man lauossi, e chiaramente espose Non uoler colpa hauer di questa morte. Del sangue di quel giusto egli innocente Si mostra, e chiama, e'l popolo è presente. Ma non ual suo lauar, nè che si esponga, E si chiami innocente, e persuada Al popol rio, che'l suo furor deponga, Perche da gli empi cor tanto odio cada; Sopra noi la uendetta il ciel disponga Dicon quei di tal sangue, e à morte uada; Pur ch'ei perisca, il ciel contra noi mostri Tutto il suo sdegno, e contra i figli nostri. O miseri Giudei, qual empio fato A'prouocarui contra il Ciel ui tira? Tempo uerrà, che per si gran peccato Piouerà sopra uoi la celest'ira. Il sangue de l'Agnello immaculato, Di c'hauete hor sete nefanda, e dira, Sù i tetti Hebrei già tal ruina impetra, Che non rimarrà pietra sopra pietra Tempo uerrà, che'l uostro piangerete Vltimo eccidio, e non sarete uditi, Quando il Regno consunto, e uoi sarete Morti, presi, uenduti, e perseguiti; Quando uoi madre Hebree u'ingoiarete Per fame i figli da uoi partoriti; Quando distrutta fia la uostra terra Dopo una lunga intolerabil guerra. Voi negate d'hauer per Re colui, Che è Re del mondo, Imperador del Cielo. E perche nulla ha quel, che non ha lui, Per chiarezza maggior del suo Vangelo, Dispersi andrete per li luoghi altrui Senza Re, senza Regno, al caldo, e al gelo. Nè in tutta la terrestre monarchia Potrete un nido hauer, che uostro sia. Questo allhor a'Giudei si potea dire, C'hauendo il dritto, e la pietà respinto, Procurauan con lungo aspro martire, Che rimanesse il Saluatore estinto. Pilato al fin fu dal commun fremire, E da le lunghe instanze in guisa uinto, Ch'ordina per placar l'alme ribelli, Che sia afflitto Giesv' d'aspri flagelli. Ah Pilato crudel, dunque consenti, Non per giustitia nò, per compiacenza, Di dar quella sententia, che non senti; Di castigar la à te nota innocenza? Sciocco, se d'amorzar lor odij ardenti, E gradirli così fors'hai credenza? Che se uorrai gir dietro al lor talento, Non finirai fin, che nol uedi spento.

Già non tratte, rapitegli da dosso Le sacre uesti, è il santo corpo nudo Stretto à l'aspra colonna, oue percosso Sol di sua patienza à se fa scudo. Rompe il flagel la carne, e'l sangue rosso Già fa uscir d'ogni parte acerbo, e crudo; Ei mira, altri il suo malmirar godendo, E un tal lamento in se moue tacendo. Popolo mio, deh qual cagion ti moue A tormentar questa innocente spoglia? Deh qual colpa d'offese antiche, ò noue Nelle mie membra à incrudelir t'inuoglia? Già mi s'apron le carni, e'l sangue pioue, E tu godi crudel de la mia doglia. Forse hai ragion di dar tormenti, e guai A me, ch'in tutti i modi io ti giouai. Forse ti son nemico in detto, ò in fatto, In che ti offesi mai crudel? rispondi. Io per amor, simil à me t'ho fatto Di nulla, e tu à l'amor non corrispondi. Tu mia fattura ohime, tu mio ritratto Mia uita stratij, e mia beltà confondi: Ti diei forze, e saper, ma ingrato e rio Hor tu le uolgi, e impieghi in danno mio. Che più far ti douea di quel, ch'io fei? Non hebbi forse ancor di te gouerno? Feci il mondo per te, del qual ti diei Il possesso legitimo, ab eterno. Posi la Luna, e'l Sol ministri miei Al tuo seruitio, e fei, che da l'interno Ti fruttasse il terren, cosi mi piacque L'aria ingombrar d'uccei, di pesci l'acque. Le greggie, i boschi, i sassi, e gli elementi Tutti per te disposi; e quanto brami, Quanto odi, quanto uedi, intendi, e senti T'ho dato, acciò lo riconosci, e m'ami. Tu à l'incontro mi uuoi con gran tormenti Cacciar dal mondo, e m'odij, e mi disami. Hor che faresti ad un crudel nemico, Si mal trattando un così caro amico? Quanto m'incresce ohime, che più clemente Qualunque mostro fier di te si rende; La tigre al padre suo non è nocente, Nullo animal chi non gli noce offende. Tu sol uer me tuo padre, & innocente, L'amor sprezzando, che di te m'accende. Mostri più d'ogni fera odio, e furore; Hor fu mai ingratitudine maggiore? S'io ti sottrassi al giogo acerbo, e rio D'Egitto, e posi in dolce libertate, Che uol dir questo laccio al collo mio? Perche son queste man strette, e legate? S'io Faraon percossi al tuo desio Pronto, e sommersi in mar l'alme ostinate, Ond'è che il corpo mio percosso langue, E sommerso riman nel proprio sangue? Che più farti douea? sempre scoperto Benefattor ne i tuoi bisogni m'hai. Quaranta anni guidaiti pe'l deserto, Doue la manna, e l fonte io t'arrechai. Ma tu crudel già ueggio, ahi ueggio aperto, Preparando l'aceto, e'l fel mi uai; E s'io ti tolsi al luogo aspro, e penoso, Vuoi ch'una croce, ahime, sia il mio riposo? Lasso, che del tuo amor troppo iufiammato, Veggendoti ogni gratia hauer perduto, Preso in ultimo hò carne, e humiliato Sommi per te inalzar, ch'eri caduto. Venni come tra i mei, ma rifiutato Son, mal uisto da te, ne conosciuto, Nè pur non mi riceui, e mi ringratij, Ch'ancor mi scacci, scherni, affligi, e stratij. Queste, ò simil querelle iua formando Ne l'intimo del cor uer le pergiure Genti il mesto Giesv', quelle accordando Al tristo suon dell'aspre battiture. Quando parue à lo stuol crudo, e nefando, Fu sciolto al fin da le catene dure; Ma non sembra più quel, non par che sia La forma in lui, ch'esser parcua in pria. Per le tante percosse ei più non serba Figura d'huom; ahi dou'è'l bello aspetto? La dura sferza in man cruda, e superba Pesto, e rotto hà'l bel uiso, e'l crin negletto. Fu nudo auinto à la colonna acerba, Hor coperto è di sangue il fianco, e'l petto. Da tante piaghe il sangue esce, & l'allaga, Che tutto'l corpo suo sol è una piaga. Ma non può ritrouar però pietade La pietà stessa in sì spietata setta; Che quanto in lui piu appar sua crudeltade, D'augmentarla più brama, e s'affretta. Come auaro, che più si persuade Di accumular ricchezze, e sen diletta Veggendo fiammeggiar ne i scrigni l'oro, E d'accrescer più brama il suo thesoro.

Cosi uagheggia, ò con maggior contento L'hebreo le peste, e lacerate membra, Benche non è ancor lieto à compimento Se tutto non lo suiscera, e dismembra. Tosto nouo martir, nouo tormento L'odio perseuer ante gli rimembra. Prende i pungenti rubi, e horrendo tesse Cerchio, e crudel di spine acute, e spesse. Nè Re nessun mai con letitia tanta Fu di corona d'or le tempie adorno, Con quanta allhor fu quella testa santa D'aspre punte traffitta, e cinta intorno. Scorre il sangue dal crin fin'à la pianta, E à gli occhi, che fan giorno, oscura il giorno. Scherni intanto de i rei posti à'suoi piedi Son di tanta Tragedia empi intermedi. Per più derision gli haueano indotta Sopra la uiua porpora la tinta. O dolor, ch'al suo cor diè maggior botta, Ch'à la testa le spine, ond'era auinta. Meglio sofferse hauer la carne rotta, Che udirsi in biasmo una parola scinta. Paga però con immutabil core L'impietà di pietà, l'odio d'amore.

Cosi ridotto, che non men tremendo, Che pietoso era à riguardar, Pilato L'adduce seco; e del Pretorio uscendo, Ne fece mostra al popolo spietato; Stimando, che spettacolo sì horrendo Homai rendesse il suo furor placato. Ma quei tosto, che'l uede, ad alte grida Via uia lo togli, e crucifigi grida. Egli replica pur, ch'in lui non troua Colpa, onde merti un fin sì duro, e forte; Ma il popol per ragion di legge noua Del suo legislator chiede la morte. Pilato ancor l'essaminè rinoua, Nè ui trouando error d alcuna sorte, Cerca lasciarlo, e al fin pertanti cede Gridi, e minaccie, e in man gli lo concede. Di tal conchiusion troppo contenti Quei rei con rabbia allhor se gli auentaro, Spogliandol tosto à peggior opre intenti, Ma come fu quel dispogliar amaro, Che le carni attacate à i uestimenti Con la porpora ad un gli scorticaro, O buon Giesv', qual lingua è, che à dir basti La crudel passion ch'allhor prouasti. Tu sol sapesti il tuo dolor, nel quale Senza uoce gittar ti restringesti, E lui stringesti in te, sì ch'al tuo male Vn minimo rimedio non hauesti. Hor la profana turba un corpo tale, Costante ricoprì delle sue uesti, Et ecco appar l'horrendo empio instrumento, Ch' era serbato all'ultimo tormento. O dura croce, ò spauentoso oggetto, Che del mesto GIESV' gli occhi percosse, Dopo tanto trauaglio ò duro letto Per riposar si stanche, e debili osse. Fu di grauarne il lasso tergo astretto. Ei dal popol crudel, che incaminosse Verso il Caluario, onde tremante, e lasso Par che cada, e che spiri ad ogni passo. Chiodi, corde, martelli, ira, e furore (Fiera procession) gli è dietro, e auante; Sotto il gran peso in lui manca il uigore, Che stancherebbe huom sano, & aiutante. Lieue carco è gran soma ad un, che more, Hor che traue dee far così pesante? Cade al fin uinto, tremulo, e mal uiuo Colmo d affanno, e di possanza priuo. Cadde, o dolor, con la gran croce sopra, E di più rileuarsi è il pensier uano; Mà il Cireneo, ch'à l'improuiso sopra- Venne, soccorse à l'impotente mano. L'onnipotente man, di cui stat opra E'il modo, e'l ciel (quanto a lo stato humano) Hor è debile sì, perch'esser vuole, Benche sia quella istessa, ch'esser suole. Era sì gran concorso di persone Che'l languente stringea corpo atterrato. Ch'in tanta angustia, in tanta passione Da respirar non gli restaua fiato. Non so da qual Ciclope, ò Lestrigone Fu crudelmente al fin pur solleuato; Nol solleuò, tirollo, e strascinollo Per la corda, c'hauea legata al collo. Mentre con sì fier ordine s'andaua Dritto al monte Caluario à pronti passi, Tra l'infinito stuol, che seguitaua; Come per uso in simil casi fassi; Vn numero di donne caminaua Dietro Giesv' con uolti affliti, e lassi, E gli facean con lagrime, e lamenti A' la morte l'essequie precedenti. Ode Giesv'quei pianti, e quel lagnarsi Per gran pietà de le sue pene horrende, Et oblia se medesmo, e vuol mostrarsi Grato à quella pietà noua, ch'intende; E con quel poco spirto, che serbarsi Sentesi ancor, dar lor risposta intende. L'arse labra dischiude, e in uoce pia Apre lor questa horrenda profetia.

Deh figlie di Sion, deh non uogliate Pianger sopra di me, ma sopra uoi Questo duol, queste lagrime uersate Per tanta auuersità, ch'auuerrà poi. La miseria de i uostri lagrimate Figli, la legge, il regno, e i danni suoi. Benche sia ancor la legge, e'l regno in piedi, Compiangete il dolor de i uostri heredi. Perche presto uerran quei dì, ne' quali Beati i uentri sterili fien detti. Che (se ben giunti à i nodi maritali) Non si uedran pieni di figli i tetti, Nè per quei tempi miseri, fatali S'accosteran teneri infanti à i petti. Allhora i monti, e i colli per ristoro Supplicheran, che cadan sopra loro. Perche se in legno tal uerde, e fiorito Di bontà, d'innocenza, e di dottrina, Per hauerlo ab eterno stabilito Comporta il Cielo una si gran ruina. Che sarà in quel si secco, il qual smarrito In tutto da la uia del ciel declina? Così disse egli, e intanto approssimato Esser si uide al loco destinato. Due ladri conducean seco à la morte, Quasi ch'ei fusse in numero di quelli, Et eran già arriuati al duro, e forte Luogo, oue oprar douean chiodi, e martelli; Quando con lunga, e miserabil corte Di pianti, e di ramarichi nouelli L'afflitta madre sua vergine giunse, E noua pena à la sua pena aggiunse. Ella sen uien battendo palma à palma, Per la noua, c'hauea sì fiera hauuta, Oppressa il cor d'insoportabil salma: Vide il figliuolo, e fu da lui ueduta. Come lo uide in stato tal, che l'alma Staua per eshalar, rimase muta. Non pianse, non parlò, che non poteo, Souerchiata dal duol possente, e reo. Attonita rimase, e in tali gesti, Chaurian mosso à pietà le pietre ancora; Parea in un fascio auuilupar protesti, Rinfacciari, lamenti, e preghi à un'hora. Parea dir. O Giudei, dunque con questi Tormenti procacciate hoggi, che mora Il mio figliuol? ohime, che se'l farete, Questa morte anco un di per pagar sete. Questa dunque rendete empia mercede Al suo gran merto, à l'opre sue famose? Dunque mentre à giouarui egli si diede, Per se una croce à fabricar si pose? O figliuol mio, che fier ti si concede Al merto premio? o menti dolorose, Che ti fanno anzi sera oscuro il die, Mio sangue, membra mie, viscere mie. Ahime, questo non è quel dolce viso, C'hò partorito, ond'io uiueua altera. Ou'è il sol de begli occhi? ahi, che conquiso Stà per mancar con poca, e debil spera; Enel suo tramontar lassa m'auiso, Ch'à me farà con la sua sera sera, Ch'altro sol io non hò, questa è la mia Luce, uita, speranza, e compagnia. O bella, o chiara mia tranquilla faccia, O paradiso mio fronte serena, Chi mi t'ha conturbata? ahime s'allaccia Di corda il collo à uti fera terrena, E degne sol queste materne braccia Sono di farsi al collo tuo catena. Chi mi uieta abbracciarti? ahime chi uieta L'ultimo bacio à la materna pieta? Ahime figliuol, che sourastar ti ueggio Penosa morte, e riparar nol posso. Non hai forse patito assai? che peggio Vuolsi à un corpo sì lacero, e percosso? Deh cessate Giudei, poco m'aueggio Gli manca rimaner di uita scosso. Non più, che basta; e se non basta questo, Versate almen sù la mia uita il resto. Così dicea tra se, ma non l'intese Fuor ch'ella stessa e'l benedetto figlio. I suoi lamenti udì, uid'ei palese Il suo dolor nel cor più che nel ciglio. Intanto un'altra uolta empia, e scortese Mano hauea dato al suo uestir di piglio, E nudato'l mostrò più apertamente Le sue piaghe à la madre egra, e dolente.

La croce è in terra, e sopra ei ui si stende Parte da se, parte gettato, espinto; Come Dio uolentier s'offre, e si rende, Com' huom mal uolentier soffre esser uinto. Ecco un la santa destra audace prende, Che più de gli altri era à mal opre accinto, L'accosta al foro, & indi un chiodo afferra, E la palma tra'l legno, e'l chiodo serra. Percuote poi col risonante, e fiero Martello il chiodo, & ei la man percote; Rimbomba il colpo, e'l suon passa leggiero, S'arriccia à mille il pel, l'alma si scuote. Ma à la madre, che'l uede in sul sentiero Spicciar il sangue, il cor trappassar puote. Conficata la destra, il fier ministra Nuouo tormento anco à la man sinistra. Per inchiodarla al perforato legno La stendeua il crudel, quando s'auide, Che non potea arriuarui, e che'l disegno, C'haue il buco lontan guasta, e recide, Onde per forza egli la tira al segno Di funi, e l'osso si disloca, e stride. L'inchiodò poscia, e nell'istesso modo L'un piè su l'altro gli passò d'un chiodo.

Grande fu il suo dolor, ma fu più grande Quando il leuaro in alto, e che sospeso Su tre chiodi restò, le venerande Membra pendendo sue con tutto il peso. Posto à uista d'ognun da gli occhi spande Lagrime, non per se, ch'è tanto offeso, Ma per pietà di quei spiriti peruersi, Che son cagion, ch'ei tanto sangue uersi. Trauagliauan quel cor benigno, e santo D'amore il foco, e de la morte il gelo; E'l sangue, ch'ei spargea, raccogliea intanto Ne gli angelici uasi il Padre in cielo. Placasi il Padre, e il mondo tutto quanto Consente di saluar sotto il Vangelo. Compra il mondo Giesv' mentre arde, e langue, E il paga à prezzo del suo proprio sangue. Ma cinto da i dolori de la morte Con gemiti, e sospir del cor profondi, Duolsi in ueder, che minima riporte Mercede ancor, che di gran merto abondi. Duolsi che'l sangue suo, ch'idoneo, e forte E' per redimer cento mila mondi, Saluerà pochi, e che fra tanti, rari Saranno suoi, che gli costar sì cari. Per tanto non potendo hauer dal petto La uoce à pena, al ciel le luci leua, E fa sentir questo pietoso detto Al Padre, che l'udiua, e gli attendeua. O Padre mio eterno, e benedetto, Che sai quanto mi duol, quanto m'aggreua Veder un'alma per suo error perire, Perdona à questi ciechi il lor fallire. A' questi, che non san quel che si fanno Perdona tù, ch'io che l'offeso sono, Quest' odio, questa ingiuria, questo danno, Questa morte acerhissima perdono. Perdona perch'io soffro tanto affanno, Acciò concedi à i peccator perdono. Non che offesa tal resti punita, Ma acciò la morte mia lor doni uita. Mentre egli per li suoi crucifissori Ora sì caldamente al Padre eterno, A piè de l'alta croce i derisori Errando gíano, e gli dicean con scherno. Se sei figliuol di Dio, perche dimori Più in quel martir? col tuo ualor superno Scendi di croce; e crederemo poi, Che tu sij figlio à Dio; Signore à noi. Altri dicean, già fece salui tanti, Et hora non può far saluo se stesso. Altri, hor distrugga il tempio, e poi si uanti, Che'l reedificherà tre giorni appresso. E le teste torcean in tai sembianti, Che'l buon Giesv' più si sentiua oppresso Da quelle lingue colme di ueneno, Che da la morte, che serpeagli in seno. Ma uien da l'altro canto à braccia aperte La bella peccatrice conuertita, Ch'in un fiume di pianto si conuerte Pel duol, che quasi le hà l'alma rapita. Mentre la madre da persone esperte Vien sostenuta uinta, e tramortita Da l'assiduo martir, che'l cor le schianta, Cinge, e bacia costei la croce santa. Le belle chiome innanellate, e d'oro, Che bionde, e crespe à lei Natura hà fatte, Neglette, e sparse hauea; l'aura con loro Su le candide spalle erra, e combatte. Scolorita beltà giunge decoro Al viso suo più candido, che latte; Non hà color quel bello, humido uiso, Ma sembra un giglio in sul matin reciso. Con le sue molli, e delicate braccia Di schietto auorio ella, spargendo amaro Pianto, la cara, e dura croce abbraccia, Et alza i lumi al suo Maestro caro; E mirando quel capo, e quella faccia, Homai di morte albergo, ahi, le passaro Il cor mill' aspre punte, onde in lamenti Proruppe, e'l Ciel ferì di tali accenti. O mio fido Maestro, ch'insegnato M'hai sciocca, e stola à ritrouar me stessa, Come per me ti perdi? ò lume amato, Che rischiarasti il uelo, onde era oppressa, Come t'oscuri? o vita, che m'hai dato Eterna uita, hor come sei depressa? Chi mi ti toglie ahime? doue rest'io Smarrita agnella senza il Pastor mio. O crudeli Giudei, come à gran torto M'hauete ucciso il dolce mio Signore; Ma, s'io discerno il dritto ben dal torto, Non han colpa i Giudei s'ei langue, e more; Io son colei, ch'il mio Maestro hò morto; Io fui, lassa, cagion del suo dolore, Che le mie colpe scelerate, e praue Lo conficar sù questa dura traue. Fur queste bionde anella, hor sì odiate Da me, che perche già mi fur sì care, Perche d'hauerne amai le tempie ornate, Lo fer d'acute spine incoronare. Mentre queste mie mani scelerate In uanità mi piacque essercitare, Non fabricai quei chiodi? ohime, sì certo; Ond'egli hà di piagar le sue sofferto? Ahime questi occhi uani, insidiosi, Vn tempo auezzi à saettar i cori, Fan pianger hor quei santi occhi pietosi, Perche peccando assai fer peccatori. I miei uani piaceri, i miei riposi, Le mie delitie, i miei lasciui amori, Hanno quel corpo, ahime, vergine, e casto Tutto aspramente flagellato, e guasto. Vana testa superba, ancora ardisci Di comparir dou'hai tal strage fatto? Profana, empia beltà, non arroscisci, Veggendo il tuo Fattor per te disfatto? Vesti, gemme, oro, bagni, odori, e lisci, Ministri del mio error, uoi il sangue tratto Gli hauete, e dato morte aspra, e penosa, Onde uoi deggio odiar sopra ogni cosa, Il deggio, e'l faccio, e'l faro tutti i miei Giorni di questa uita ingrata e schiua, E se questa mia carne un tempo fei Goder in uita morbida, e lasciua, Hor crucierolla, e ancor raccorcierei Quest' empio crin, che dipredando giua L'anime uaghe de i fallaci amanti, Se non che toccò indegno i piedi santi. Ma qual esser potria gran penitenza, Che pagasse il minor de i miei delitti? Così dicea la misera non senza Sempre hauer gli occhi molli al Ciel diritti. Gode Giesv, c'homai fà esperienza, Che non hà indarno i membri suoi confitti. E, già uicino à l'ultimo tormento, Vuol ne la morte sua far testamento. Scorge la madre sua misera in piede, Pur riuenuta al fin fra tanti affanni, Presso à la croce star tremula, e uede, Che nel cor pate i suoi corporei danni. Le dice; O Donna, ecco ti lasso herede Del mio caro discepolo Giouanni; Egli in mia uece homai figlio ti sia. Et ella madre à te Giouanni fia. Al ladro, che'l confessa, ei lassa il Cielo; E lo spirto accommanda in mano al Padre; De i panni, c'hebbe intorno il carnal uelo, Heredi fè le manegoldi squadre; Il merio del suo sangue, e'l suo Vangelo Lascia à la chiesa nostra unica madre. Manca egli in tanto, e mentre manca, e more, Arde di sete ancor del nostro amore. De la nostra salute auido ei grida, Morendo, hò sete; & ecco empio, e crudele Sino in quel punto il popolo homicida Gli offrisce sù la spugna aceto, e fele; Ma la testa ei chinando, alza le grida, E fa in estremo udir le sue querele; Trema in questo la terra, e'l Sol fattura Sua, per pietà del suo Fattor s'oscura. Le tenebre ricopron l'uniuerso, Spezza i sassi, apre i monti il terremoto; Scindesi il vel del Tempio, e in più d'un uerso. Fà Dio (che muor com'huom) se stesso noto; Ritorna indietro il popolo peruerso Piangendo, e batte il sen di pietà uoto; Ei more, e grida acciò ch'ognun l'intenda, Che per ciascun patì morte sì horrenda, Grida è finito, e già col suo finire E' gionto il fin di sì stupenda impresa; Vienlo il cieco di lancia indi à ferire, E gli è la uista, e la salute resa; Morta è la uita, & ha co'l suo morire La morte occisa, e non può far più offesa; Habile ogni alma è già, che può saluarsi, Se peruersa non uuol da se dannarsi. Vittoriosa, e trionfante scende L'anima franca à dispogliar l'inferno; Lega il gran Satanasso, e gli contende D'hauer più possa in questo mondo interno; Le care spoglie sue felici rende Al dolce padre homai del Ciel superno; Le consegna à Michel; si piglia intanto Degna cura Giosef del corpo santo. Ricco, e nobil Giosef tra i fidi, e cari De Giesv Christo amici un, benche occolto, Ch'intende, e sà tutti i particolari De la sua morte, e'l cor gli grauan molto. Se no'l potè tor uiuo à i stratij amari, Procura almen, che morto ei si a sepolto, Audace entra à Pilato, e'l corpo chiede, Che certo del suo fin gli lo concede. Scale dunque, e tenaglie ei troua, e insieme Con Nicodemo incominciò à inuiarsi Là, ue il mesto drapel di Donne geme Presso à la croce ancor, nè sà che farsi; La sera, che già uien, le caccia, e preme; Graue è lo star, più graue il dilungarsi; Non ponno elle spiccar quel corpo sole, Nè hanno un, che l'aiuti, e le console. Fuor ch'el giouin discepolo non hanno Compagnia d'huom, ma solo egli che uale? Che faran? forse il corpo lascieranno, Di cui più, che de i proprij assai lor cale. Hor mentre lor stringea dubbio, & affanno, Vider lontan le desiate scale; La coppia grata al ciel uenir miraro, Che fucagion, ch'alquanto respiraro.

Giunti à la croce i duo, la scala apposta L'uno da l'un, l'altro da l'altro lato, Montano, e'l piè lor trema; e pur s'accosta; Ciascuno al freddo corpo esanimato. Coperto gli è d'una sanguigna crosta; Il dosso, e'l uolto è giallo, e sfigurato. Lo schiodano essi, e'l calano pian piano Sul forte braccio lor con destra mano. Deposto de la croce, à cui si deue, Se non al virginal materne seno? Ella il diè uiuo, e morto ella il riceue; Misera madre, e sconsolata à pieno. Ella con viso pallido di neue Lo stringe, e grida, e sopra lui uien meno. Ella, il lava di lagrime, e gli sono Gli altri intorno compagni al pianto, e al suono. Con quella poca uoce, che le resta, Vuol lamentarsi, e non sà ben di cui. Del Ciel nò, c'ha di lei più parte in questa Doglia, e in commune sente i dolor sui. De' Giudei nò, ch'udito ha la richiesta Del figlio al padre in beneficio altrui. S'egli perdona, ella perdona, e uuole Quel che vuol egli, e di nessun si duole. Chiama più uolte il dolce nome amato, Bacia le piaghe, e non si satia mai; Al fin cauolle il suo martir spietato Dal lasso cor questi dolenti guai. O figlio per penar nel mondo nato, Pur son finiti i tuoi trauagli homai; E' pur sì degna, & innocente uita Sul più bel fior de la sua età fornita. Hor miri per li suoi peccati il mondo Questo, ch'io miro (ohime) spettacol nouo, E torni à i primi error lieto, e giocondo, E non senta il dolor, ch'io sento, e prouo. Hor chi non piangerà di cor profondo Quel, perch'io piango, e'l cor per gli occhi piouo? Chi non compatirà con chi patendo Scosse, e riscosse il mondo al punto horrendo. O figlio, ò figlio; il Sol, che per pietade Di te uidi oscurar, pur luce ancora, Ma ne la tua diuina alma beltade Raggio di uita alcun più non dimora. Manca il gran tuon, che scosse le contrade, Ma non il duol, che l'anima m'accora, Quieta è la terra, ogn'alma è già sicura, E'l terremoto mio più che mai dura. Ohime, che poco in uita io ti godei, Che ti sei sempre affaticato, e lasso Transferito lontan da gli occhi miei, Per ben d'altrui fin à l'estremo passo, E in morte anco per star meco non sei, Ch'in mia uece t'aspetta inuido sasso. Deh s'in me il primo albergo ti diedi io, L'ultimo ancor ti dess'io nel cor mio. Seguito hauria, che tai breui sarieno Querele state à sì lunghi dolori; Ma l'angoscia del pianto pose freno A cordogli, à lamenti assai maggiori. Nicodemo, e Giosef portato hauieno Onguenti in tanto, e preciosi odori, Di che unti i membri nobili, e diuini, Legarti i bianchi, e delicati lini.

Poco dal luogo, oue confitto, e morto Fù il Saluator, un horto era discosto; E di marmo un sepolcro era in quell'horto, In cui null'altro stato era anco posto; Quiui con gran ramarico, e sconforto Di ciaschedun, quanto poter più tosto, Quel corpo sacratissimo posaro, E dolenti, e piangendo sen' andaro.

IL FINE.

S'angelico pensier, puro intelletto De' secreti del ciel misterij immensi A pena ombrar potria l'almo disegno; Come indegna aspirar poss'io à quel segno, Che trapassa, e confonde i nostri sensi, Col fallace mio stil d'errori obietto? Signor, tu che à spiegar l'alto concetto, Che nè scoprir, nè imaginar si puote, Mi sproni, infiammi, e scorgi; Tanta uirtù mi porgi, Ch'almen fra tuoi s'intendan le mie note. Piouan le gratie tue nel duro seno Arido, e uil terreno, E fioriscan le glorie al mondo ignote. Ma pria mi squarcia il uelo, Ch'adombra à l'alma il bel sentier del cielo. Mentre per obedir l'almo, e supremo Voler del sommo padre il sacro verbo Veggio abbassar per noi, leuar dal centro, E ch'io risguardo poi me stessa dentro Tanti error uani, onde'l nimico acerbo S'arma per trarmi seco al fondo estremo, Di uergogna e paura auampo, e tremo. Nè'l cor pensar, nè può la lingua esporre. Quel ch'altri non comprende, E sol se stesso intende. Onde la mente à sua pietà ricorre, E'l giogo altier d'una tremenda Croce, Ch'altrui dà spirto, e uoce Fia'l mio Parnaso, oue altra fonte scorre Da le sacrate uene. E fian gli angeli pij le mie Camene. Era fra'l cielo, e noi tal lite accesa, Che nè d'angel ualea, nè d'huom uirtute Per ricomporci in amicitia, e in pace, Quando al verbo diuin, che in fronte giace Del paterno splendor darci salute Piacque, e'n nostro fauor tolse l'impresa. Egli ch'acquetar sol l' aspra contesa Poteo, lasciò le parti alme, e diuine, E portò insieme unita La morte con la uita, L'ombra col sole, e col principio il fine. Egli pagò per noi quanto dobbiamo Dal dì che nacque Adamo, Prima cagion di tante empie ruine. E poi ch'altro non ualse, Col suo morir nostra ragion preualse. Ahi, che fra'l suo gran Padre, e l'human seme Si pone amico, e si fa scudo, e muro: Ma fero premio, ò mediator, riporti. Poi ch'al ciel noi mandando inguirie, e torti, E'l ciel à noi più d'un castigo duro, La colpa, e l'ira in te ridonda insieme. Tu prendi humana spoglia, e ci dai speme Di uestirci di gloria; e tu consenti, Carco de' nostri errori, Versar pianto, e sudori. Tu fai stupir fin le tartaree genti, Mentre, per noi satiar d'ambrosia, e manna, Tua bontà ti condanna A patir fame, onde t'assalti, e tenti Il Rè del pianto eterno, Per insegnarci à superar l'Inferno. Et se discorro col pensier più auante, Io ti ueggio Signor mandar ne l' horto Notturni preghi al Ciel, donde sei sceso, Et in pregando esser tradito, e preso, Per dar à noi nel nostro orar conforto, Sforzato nò, ma in tuo uoler constante. E benche tu ti ueggia offerto à tante Pene, ed obbrobrij; O Dio; sì non ti cale Del proprio stratio, quanto Perche d'un dolor tanto Non scorgi il frutto à l'alto merto eguale. Ingrata stirpe. Hor non fur mai gli Hebrei Nel tuo mortal sì rei, Come ne l'alma, noi, ch'assai più uale, Col peruerso uolere, Che di continuo ti percote, e fere. Ahi, che per islegar l'aspra catena De l'alme à danni proprij intente, e pronte, Indegno laccio il sacro collo annoda. Ahi, che per far, che l'huom riposi, e goda, Veggio sudar quella benigna fronte, Che'l Paradiso à gli angeli asserena. Quella testa, che'l ciel, l'acqua, e l'arena Formò ad un cenno, hor uà di spine auinta Sotto'l diuin diadema; Di che l' Inferno trema, Per far la mia d'eterna gloria cinta, Al fin la dura traue ascende inuitto, Sanguinoso, e trafitto; Onde la morte in se medesma è uinta. E, perche'l morto uiua, More il principio, onde la uita è uiua. Ma benche al fin sì rara morte impetre Stupende essequie; onde pietà ed horrore Conturba il Cielo, e'l Sol si rende oscuro. E gli angeli ammirati al caso duro Piangono; e'l mondo trema; e di dolore Spezzansi i monti, e l'insensate pietre. Benche lascin le tombe oscure, e tetre Gl'inceneriti corpi, e'l uel diuiso Resti del sacro tempio, Non però il mio cor empio Può da qualche pietà restar conquiso. Ahi, se giace il gran Dio de la natura In poca sepoltura, C'hà'l mondo in pugno, e calca il paradiso Frà questo cor men lasso D'angel, ciel, terra, sol, polue, ombra, e sasso? Signor, che mentre in ciel col Padre regni, Giaci col corpo spento In nouo monumento, E uai con l'alma à i più profondi regni, Deh poni teco ogni mio error sotterra, Indi quest' alma afferra, E trai del limbo de'pensieri indegni, Acciò dal uelo humano Sciolta al fin uoli al suo Fattor in mano.

IL FINE.