Neera
AUTOBIOGRAFIA

IL CASTIGO

1891
L˙ ROUX e C˙ - Editori
TORINO - ROMA

PROPRIETÀ LETTERARIA

AUTOBIOGRAFIA

Voi mi avete onorata, dedicandomi nella seconda edizione dell'Homo e nella terza della Giacinta le vostre confessioni letterarie. Grazie.

Io, onorarvi non posso, ma, per sentimento di gratitudine e per la stima che ho della vostra coscienza artistica, vi prego di aggradire il racconto delle mie prime armi.

Sono memorie che già da qualche tempo volevo mettere insieme, non perchè abbiano alcun valore, ma perchè in questa voga di documenti umani, qual più qual meno autentici, la narrazione schietta dello svolgimento di un pensiero in un dato ambiente potrebbe interessare gli studiosi di psicologia, quale voi siete appunto. Altri che mi chiedono da quanto tempo scrivo, come ho incominciato, chi mi educò e tante cose, troveranno qui onesto pascolo alla loro curiosità.

Una seconda ragione mi spinge e mi decide a questa specie di autobiografia, ed è che sono ammalata, che il medico mi vieta assolutamente le occupazioni del pensiero, che non potendo per ora accingermi allo studio faticoso degli altri, mi ripiego su me stessa per trovare una occupazione leggiera, un lavoro di poca fatica, com'è quello del ricordare.

Scaccio, non senza pena ve lo assicuro, i personaggi tentatori di un romanzo che sto meditando — intanto che il mio dottore mi predica la necessità del far nulla — li scaccio, per lasciare passar avanti le smorte larve di chi ebbe un giorno corpo e sangue, voglio dire i miei giovani anni. Incrocio le braccia e li lascio sfilare.….

Prima però vi voglio dire perchè premetto queste pagine alla seconda edizione del Castigo.

Castigo, a torto od a ragione non so, fu sempre tra i miei figliuoli prediletti. Lo concepii di slancio, lo scrissi con passione. Il pubblico lo conobbe poco, la critica lo giudicò superficialmente. Ristampandolo non mi lusingo di modificare il giudizio della critica, ma tento di allargare il suffragio del pubblico.

È d'uopo anche dire che questo racconto segna per me una specie di via di Damasco. I miei primi romanzi mostrano troppo il contrasto fra la tendenza del romanzo moderno al quale noi tutti aneliamo ed i preconcetti della letteratura romantica antecedente. Castigo fu il passo decisivo verso lo studio dal vero.

Anche questa è, fino ad un certo punto, la storia di una zitellona. Si sa che io le prediligo. La loro miseria relativa, personale, soffocata nel gran mare delle miserie umane, trascurata com'è trascurato il mal di denti da chi ha i denti sani, è pure una miseria che dà il contingente di mille e mille esseri infelici, obbligati a nascondere le loro sofferenze se non vogliono servire di zimbello.

Perchè questa è la grande ingiustizia: la società, che priva le donne dei loro diritti naturali ove non abbiano trovato un marito, si fa poi beffe di loro se rimangono zitelle, e le chiama maligne, invidiose, sensuali.

Gli uomini, che hanno in ciò la parte del leone, dovrebbero almeno imitarne la generosità. Essi, quando la materia parla troppo forte, la fanno tacere come la fiera di Dante gettandole in gola un pugno di fango, e dalla sazietà di quel fango si rialzano con vaghi desideri di ideale. Essi dividono le donne in due categorie e: Tu — dicono all'una — pascerai il mio corpo; all'altra: Sarai il raggio dell'anima mia.

Ma di queste divisioni la natura non tiene conto. Attraverso i secoli noi sentiamo ancora il grido della celebre cortigiana che ai piedi di Gesù si strugge d'amore divino.—Noi quel grido lo comprendiamo, ci desta l'entusiasmo, ci ispira pietà! E perchè non ascolteremo egualmente il grido di colei che, abbeverata di ideale, piange sui ceppi che straziano la sua carne?

È una banalità, è una ignoranza da medio evo il pretendere che la donna non abbia sensi.

Laura è un tipo umano. In lei vivono e si riassumono i palpiti di mille donne. Sicuro non è simpatica, ma passò quel tempo in cui le eroine di un romanzo dovevano essere simpatiche ad ogni costo. Ella è meno e più che simpatica. È infelice.

Quando incominciai a scrivere è un tempo di verbo così remoto che, tutte le volte che ci penso, concludo colla persuasione di avere scritto sempre dal giorno in cui seppi tenere la penna. Infatti, sulle gelosie di una finestra restarono per parecchio tempo queste parole vergate a matita:

ho nove anni
sono brutta
la mamma mi sgrida sempre
scrivo così.

Documento umano vero, in un tempo in cui le due parole non erano ancora diventate di moda; perocchè vi invito ad osservare che il movente mio non era quello dei monelli che imbrattano, purchessia, i muri sbiancati di fresco. Istintiva nemica d'ogni vandalismo, avevo anzi cercato una cornicetta interna della gelosia per apporvi la mia memoria, per metterla al sicuro e ritrovarvela intatta quando sarei stata donna; senza riflettere che prima di allora avrei cambiato casa o quando mai avrebbero verniciato a nuovo le gelosie. Il fatto è che prima ancora di tali avvenimenti le piogge, il sole, la grandine, la neve, cancellarono il mio documento.

Doveva essere in quel torno che perpetrai la mia prima novella, dove si narrava che una bambina avendo rubato un paio di buccole ad un'altra bambina venne scoperta e punita.

A scuola non ci andavo volentieri. Tranne le lezioni di italiano, tutto il resto mi era indifferente; non fui mai una scolara modello.

La mia direttrice era una zitellona rubizza, che prendeva il suo stato in santa pace, buona, sorridente, calma; disgraziatamente non le ero simpatica e la brava donna faceva sforzi veramente meritori per non sgridarmi che quel tanto indispensabile. La rivedo perfettamente colle sue guancie di mela appiola, i capelli lisci a bandò, l'abito color granato, il grembiale nero; vedo poi con una lucidità portentosa il cordoncino dell'orologio sul quale ella passava e ripassava la mano intanto che parlava, una mano grassoccia e rossa di persona pacifica.

Per compensarmi dell'antipatia della direttrice, i professori mi volevano bene tutti. Fischer per il primo. Forse ho fra le mie lettrici una allieva di Fischer ed ella lo ricorderà, come lo ricordo io, pieno di fuoco e di nervosismo, irascibile, sincero, colla piccola persona sempre agitata, coi grandi occhi sempre fosforescenti — più poeta che professore.

E Martin, il buon insegnante di francese, l'indulgenza che aveva cambiato sesso!

E Marelli, il maestro di aritmetica e di calligrafia, tanto rosso nella barba quanto ardente nell'opinione che la calligrafia è la prima di tutte le scienze!

Oh! gli dovevo essere entrata, chi sa perchè, nelle grazie, non avendomi egli mai dato un penso, nè una mortificazione, nè una — più e più volte meritatissima — lavata di capo. Egli si accontentava di guardarmi con occhio di profonda compassione e con una cert'aria che sembrava dire « Perdonate, mio Dio, a lei, perchè non sa quello che si fa ».

È positivo che nessuno a scuola mi ispirò l'idea di scrivere. Scrivevo, è vero, nel tempo della ricreazione, perchè essendo allora permessi gli svaghi, io non ne trovavo un altro che potesse paragonarsi a quello; ma non lo seppe mai nessuno. Si credeva generalmente che copiassi i miei compiti.

Non è dunque nella scuola che devo continuare questo mio studio sull'ambiente. La scuola l'ho attraversata senza lasciarvi e senza prendervi nulla.

Come fosse poi la mia vita in quel periodo di tempo, lo si legge tra l'una e l'altra delle quattro linee tracciate sulla gelosia.

Incominciavo con una affermazione positiva: ho nove anni. In quell'età si sente spesso parlare dei propri anni ed è una cosa che assume una certa importanza.

Poi: sono brutta. Questo vuol dire che nessuno mi faceva dei complimenti e che non vivevo in quell'aura di dolci incantesimi tanto favorevole alla serenità dell'infanzia ed alla persuasione dei propri meriti.

Non ero difatti una bimba allegra nè ridanciana. Ero piuttosto timida, scontrosa, selvatica, niente gentile, niente carina. Non avevo riccioli in testa, nè fossette alle guancie, nè fronzoli. Il primo ed unico mio abito color di rosa lo portai a quindici anni, per combinazione, avendolo ereditato.

Mia madre, già da tempo malaticcia e che mi lasciò orfana a poco più di dieci anni, spiega la terza linea: la mamma mi sgrida sempre. Avesse potuto sgridarmi per un pezzo ancora!

Lei morta, tutto peggiorò: il genere di vita, le relazioni, le abitudini. Avevo avuto appena un barlume della società, quando la casa si chiuse in un silenzio di chiostro. Altre linee, dello stesso tenore, avrei potuto aggiungere sulla gelosia..… ma si vede che, fin da allora, abborrivo i componimenti lunghi.

Desiderato e invocato venne l'ultimo anno di scuola. Bruciai tutti i libri; con speciale compiacenza quelli di fisica, di aritmetica e i saggi calligrafici del professor Marelli. Non odiavo il sapere, odiavo la scuola. Mi gettai allora con frenesia, con avidità sulla piccola biblioteca di mio padre, su qualsiasi libro che trovassi in casa di una parente, sui fogli di carta stampata dove i droghieri ravvolgevano le spezie ed il merciaio i gomitoli.

Vi immaginate, caro amico, quanto tempo sprecato, quante letture inutili, mediocri e cattive?

Io appartengo ancora, quantunque giunta sul finire, alla generazione in cui si intrattenevano i ragazzi colle avventure di Bertoldino, e i racconti del canonico Schmid mettevano la sola nota alta. Ma dopo aver letto Il buon Fridolino, Diederico il malvagio e il resto della collezione, non sapevo più a qual santo votarmi.

Il primo libro che mi destò un vero entusiasmo, che mi procurò gioie indicibili, schiudendomi quasi un altro mondo, fu Le mille ed una notte.

Adesso che il mio ingegno si è deciso per una via affatto opposta, mi pare impossibile di essermi appassionata tanto per un lavoro fantastico, ma pure è così.

È ben vero che la fantasia è una pagina elementare ed una delle prime che si schiudono alla mente, poichè non occorre ad essa nè la conoscenza degli uomini, nè l'avere amato e sofferto. Vi posso dire che non avevo allora amici più cari di Bettredin Hassan, di Aladino, di Ali, di Schemselnihar, di Badura, di Tormenta. Il califfo di Bagdad poi, Aaroun-al-Rascid, fu la mia prima fiamma.

Notate questo: alcuni anni dopo, avendo tentato di rileggere Le mille ed una notte, non vi uscscii.

In fatto di versi, mi caddero sotto mano alla rinfusa (tutto fu caso nelle mie letture) le Favole di Lorenzo Pignotti — due volumetti color cenere bagnata, col ritratto dell'autore — le Liriche di Alessandro Guidi, Byron, Ossian, Prati, Fusinato, Guadagnoli, Giusti, Aleardi; quest'ultimo era allora molto in voga, ma a me non finiva di piacere. Nelle prose ricordo con sentimento ancor vivo d'entusiasmo Jacopo Ortis e l'Epistolario di Ugo Foscolo.

Ma il libro dei libri, la scoperta che feci un giorno nella libreria di casa, il caro volume gualcito, ruvido, chiazzato, segnato, baciato è il Viaggio Sentimentale di Lorenzo Sterne. Io amo quel libro come una persona; eppure, lo credereste? da vent'anni non lo leggo più..… ho paura.

Leggere, scrivere, pensare: ecco il riassunto della mia giovinezza. Erano le sole gioie che avevo alla mia portata e le prendevo avidamente.

Senza madre, senza sorelle; amiche ne tenevo qualcuna, ma lontana; senza amore per il chiasso, per le passeggiate, per il moto; con una tendenza specialissima all'analisi, con una serietà che talvolta sembrava musoneria, tal'altra disdegno; differente in tutto dalle mie coetanee, che istintivamente fuggivo, la mia vita, invece di allargarsi come avrebbe comportato l'età, si venne man mano restringendo e chiudendo in se stessa.

Lavoravo moltissimo. Vi assicuro che ho fatto più orli e sopragitti io che non dieci ragazze del giorno d'oggi. Le calze poi non si contano; saranno la mia scusa quando i devoti del lanam fecit mi rimprovereranno i miei romanzi.

Ma appunto questo lavoro monotono, sedentario, favoriva lo squilibrio delle mie facoltà; sì che nel fisico conducevo l'esistenza di una vecchierella e l'immaginazione raccogliendo tutte le forze della giovinezza mi abituava a quel fenomeno dello sdoppiamento che dà tanta intensità al sentire, ma che mina l'organismo nelle sue molle più vitali.

Rappresentatevi un po' i giorni e gli anni ch'io trascorsi in un vasto appartamento deserto, insieme a tre vecchi, lontana da tutto ciò che avrebbe potuto piacermi, in un ambiente freddo, meschino, dove nessuno mi comprendeva e dove, per la pura verità, io non seppi amalgamarmi a nessuno — straniera in grembo alla mia famiglia.

I miei fratelli avevano gli studi, le passeggiate, gli amici; e poi furono per molti anni all'Università. Essi ridevano qualche volta. Io mai.

Certe ore del giorno e dell'anno mi si impressero nella memoria colla grandiosità di un'epoca. In febbraio, dopo S˙ Antonio in cui, secondo le mie zie, si allungano le giornate di un ora, non si accendeva la lucerna a pranzo; terminato il quale, mio padre si abbandonava sul divano in una dormiveglia melanconica e le mie zie sedute accanto al muro, immobili, colla testa ritta a guisa di cariatidi, recitavano mentalmente le loro orazioni.

La luce moriva a poco a poco, fuggendo prima dagli angoli, lambendo gli ottoni della stufa, le bullette del divano, le cornici dei quadri, fermandosi un istante tra le pieghe bianche delle tendine a cui dava una flessuosità vaga di fantasmi, finchè le tenebre cadevano improvvisamente, come un velo, nel silenzio altissimo. Solo allora si sentiva, al posto dove non si vedevano più le teste delle mie due zie, un bisbiglio lieve d'Ave Marie.

No, non posso dirvi che cosa succedeva in me nella tristezza snervante di quelle tenebre. Mi ricordo che il mio corpo non si ribellava. Immobile anch'io, silenziosissima, la mia unica risorsa era quella di fuggire per la porta sempre aperta della fantasia. Fu allora che mi venni creando un mondo a parte e lo popolai con tutte le mie idee, tutte le mie aspirazioni, tutte le mie speranze, tutti i miei desideri. La colonia divenne presto una legione e poi un popolo, nella compagnia del quale io mi sentivo così bene, che sempre più ero invitata a sfuggire il mondo reale.

Tuttavia la mia fuga non era che apparente; per un'altra via andavo ancora avvicinandomi ai miei simili, astraendomi così dalle loro persone, ma entrando nei loro pensieri e nelle loro sensazioni. Dei regni delle fate mi stancai prestissimo, e senza nessun invito, seguendo il mio naturale impulso, mi addentrai in quell'esame continuo del cuore umano dove un intuito felice mi rischiarava quasi magicamente gli abissi.

Formavasi in me questa cristallizzazione, direbbe Stendhal, questo fenomeno ad ogni modo, che in seguito ad un colloquio, non mi accontentavo di ripensarvi, ma entrando risolutamente nella personalità del mio interlocutore tentavo, con uno sforzo di tutti i nervi, di rendermi esatto conto d'ogni sua sensazione, di non essere più io, ma lui. Non mi bastava di udire, di raccogliere; volevo penetrare nell'anima di chi aveva parlato; soffrire e gioire come lui.

Così, aspettando una persona, non sapevo limitarmi alla mia parte di aspettante, ma sbalzavo fuori di me stessa, mi spostavo; e questo, non solo prima dell' abboccamento, ma anche dopo — quando il vantaggio materiale non esisteva più, quando non c'era più ragione di tornare indietro. Proprio allora, come un ruminante, ero irresistibilmente attratta a ritessere coll'immaginazione l'accaduto; al pari dei commedianti che rifanno i gesti e le parole di un dato individuo, rifacevo a me stessa i movimenti del cervello, del cuore, dei nervi che avevano occasionato i tali gesti e le tali parole.

In diverso modo, ma sempre per lo stesso principio, osservando gli altri ritornavo in me, e quest'onda incessante di dare e di avere, questo immettermi continuamente negli altri ed accogliere gli altri nel mio pensiero mi assorbiva per modo, che stupida e lenta riuscivo in tutte le altre manifestazioni della vita. Mi succedeva allora di sentirmi chiedere all'improvviso: A che pensi? Ed io, naturalmente, rispondevo: A nulla.

La facoltà di sdoppiarmi, di astrarmi da me stessa mi conduceva lontano. Chiunque avvicinassi mi forniva il materiale per queste indagini, al risultato delle quali è più favorevole uno studio ristretto ma indefesso degli uomini, che non una osservazione vasta e superficiale. Difatti, se per occuparsi di psicologia bastasse conoscere molte persone, un commesso viaggiatore ne saprebbe più che Diogene, chiuso nella sua botte.

C'è un motto grazioso in proposito; è di Rivarol: « La plupart des hommes qui vivent dans le monde y vivent si étourdiment, pensent si peu, qu'ils ne connaissent pas ce monde qu'ils ont toujours sous les yeux; par la raison qui fait que les hannetons ne savent pas l'histoire naturelle ».

A molti che mi chiedono come mai scrissi di passioni, vivendo lontana dalla società, risponderò che per creare qualsiasi passione bastano quattro persone.

Adamo ed Eva, Caino ed Abele, non formavano una società molto numerosa, eppure nacquero da essi l'amore, l'adulterio, la gelosia, l'invidia, l' assassinio e la menzogna. Non è vero?

Sono convinta che la vita interiore, come l'ho fatta io, pochi la conoscono; ed a questo contribuì certo, oltre la naturale disposizione, l'ambiente singolarissimo, squilibrato, mistura stridente di provincialismo e di vivere cittadino, dove le mie tendenze artistiche si urtavano ad ogni mossa contro i pregiudizi della piccola borghesia, dove io stavo continuamente in compagnia di Foscolo e di Byron per liberarmi dalla presenza dei bottegai e delle cameriere in ritiro, alle quali non sapevo che cosa dire.

Se fossi stata circondata da una semplice parvenza di vita intellettuale e geniale non mi sarei chiusa così inesorabilmente in me stessa; avrei sentito, riflettuto, osservato e sofferto molto meno. Vi prego di ponderare la parola sofferto, alla quale do molta importanza. Se avessi avuto i baci della madre, il sorriso di una sorella, il chiacchierio delle amiche, le occupazioni eleganti e frivole, le distrazioni mondane, od anche semplicemente una vita molto attiva e campestre, chi sa, avrei forse scritto egualmente, ma la tortura psicologica non sarebbe entrata così profondamente in me da formare quasi una seconda natura.

Altre ore ricordo. D'estate, nei tramonti afosi di luglio e di agosto, spalancavo le finestre, e, sicura che nessuno si occupava di me, mi accoccolavo da vera Cenerentola accanto ai ferri del balconcino. Le finestre davano sopra un giardino abbastanza ampio, in fondo al quale si aprivano altri giardinetti e cortili, terrazzi e poggi, per cui vedevo di scorcio, di fianco di tergo una quantità di case, situate in vie differenti.

Quante macchiette, quante scene, quante impressioni io raccolsi da quell'umile cantuccio! Quante volte sospirai allo svolazzare di una veste bianca cui accompagnava il trillo ridente di una fanciulla felice! Quante volte due sposi nella luna di miele (essi non sapranno mai che io li osservavo) mi rivelavano il pericolo di affidarsi troppo alla complicità di una tenda!

Vedevo l'appartamento a primo piano di un noto medico, dove le sale erano sempre aperte ad un gaio sciame giovanile di cugini e di cuginette —nastri rosa ed azzurri, fiori, romanze, rincorse da una finestra all'altra, timide suppliche da una parte, dinieghi ridenti dall'altra.….

Vedevo una cameretta misteriosa, aperta di rado, dove appariva fugacemente una splendida figura femminile, modestamente vestita, con un incesso molle, il passo affrettato, un velo sugli occhi.….

Non mancava la parte brillante, rappresentata da una rammendatrice al terzo piano; una donnetta di una bruttezza burlesca, viva come la polvere, sempre in faccende e tanto avara del suo tempo che molte volte, prima di uscire, già vestita, col cappellino in testa e coi mezzi guanti a rete, si lavava in fretta la punta delle dita in una scodella. Quando si accorgeva della mia attenzione, mi faceva uno sberleffe colla lingua.

In altre stanze vedevo persone che si adornavano per il passeggio, donne davanti allo specchio, uomini che fumavano, aspettando, sdraiati sulle poltroncine, col giornale in mano.

A poco a poco le abitazioni si facevano deserte, la frescura della sera attirava ai giardini, ai concerti delle piazze. La vita notturna si sovrapponeva alla vita giornaliera. Alle finestre apparivano e sparivano lumi, vagolavano ombre incerte, ondeggiavano ventagli, fluttuavano gonne. La brezza faceva dondolare nappe di coltroncini, veli di culle, mentre nella penombra luccicava la sponda levigata di un letto e la maiolica fiorata di un servizio di toeletta—dolci intimità d'alcova, misteri che si abbandonavano alle tenebre nascenti, lanciando nell'aria un profumo sottile di voluttà.

Da lontano, oltre i tetti, fra i campanili delle chiese e le sagome dei fumaioli, altri bagliori di lucerne invisibili e piccoli punti di lumini misteriosi allargavano la cerchia del brulichio umano, di tutta quella vita che si agitava intorno a me, così vicina, così lontana, e di cui io era la non impassibile spettatrice.

In cielo le stelle si accendevano anch'esse ad una ad una, come la splendente Venere, oppure in gruppi di nebulose e in quella zona così dolce all'occhio, che si chiama Via lattea, che sembra il velo virgineo del firmamento.

Ho sempre amato molto le stelle. Ad ognuna di esse recitavo i versi, poco noti, di Lucrezia Davidson, la poetessa americana morta a dieciott'anni.

Bell'astro della sera,
Gemma che adorni i cieli,
Come desia quest'anima
Afflitta e prigioniera,
Le sue ritorte frangere
Volare infino a te!

Ma quando era cessato il movimento umano, quando la notte imperava solitaria e fredda, non potevo più reggere. Una malinconia acuta e insopportabile mi faceva chiudere i vetri e lasciare la finestra.

La penna mi calmava. Scrivendo, una consolazione grande scendeva in me, o piuttosto una consolazione grande mi prendeva e mi sollevava ad essa. Scrivevo tutte le sere. Era la chiusa lieta della mia giornata.

E l'inverno? Oh! come ricordo le giornate d'inverno, nel piccolo salottino dalla tappezzeria cupa, davanti al tavolinetto dove ammucchiavo le mie calze ed i miei sopragitti! Quanta neve ho visto cadere, un'ora, due ore, sei, sette ore di seguito, là, su quella sedia, colle mani coperte da due paia di guanti, i piedi intirizziti e l'anima ardente che volava, volava al di sopra della neve!

Dicono che la gioventù è un tesoro. La mia, quando mai, fu un tesoro sepolto.

Eppure accanto a me, insieme a me, viveva una delle più nobili figure d'uomo ch'io abbia mai conosciute: bella intelligenza, sensi gentili, carattere alto ed integro. Parecchie volte fui tentata di contrapporre questa virile bellezza ai tipi d'uomo fiacchi, egoisti e sensuali che gli amici della morale ad ogni costo rimproverano ai miei romanzi. Ma i personaggi dei miei romanzi come il dipinto di Apelle sono il risultato di molteplici osservazioni prese nella massa.

Lui invece è lui, unico, luminoso e sacro; non lo posso confondere e mischiare con altri, non lo posso sbalzare dal suo piedestallo di maestà per attaccargli un filo di marionetta. Mi ripugnerebbe dargli a prestito un nome che non fosse il suo. Nominandolo oggi, per la prima volta, piego il ginocchio: è mio padre.

Di famiglia antica, che diede nel cinquecento due celebri pittori fratelli, famiglia oriunda dell'Italia meridionale e stabilita poi in una provincia lombarda, mio padre ebbe fin da giovinetto viva inclinazione al disegno. Recatosi a Roma, ivi studio architettura; accasato definitivamente a Milano, ebbe la soddisfazione di vedere riconosciuta la sua intelligenza e la sua probità, ma carattere intero, intangibile, si andò a poco a poco logorando negli attriti colla società, e, per la continua lotta della vita, esausto e fiacco innanzi tempo, sentì il crollo di tutte le sue illusioni nella morte della compagna che egli adorava, nella giovane famiglia disfatta, ritta ancora ma priva d'anima, come si trovano negli scavi di Pompei figure che sembrano vive e che appena tocche cadono in cenere.

Egli pure viveva qual larva in mezzo ai figli ancora bambini; serio, triste, dolcissimo, di una dolcezza che nascondeva lo strazio dell'anima. Visse così dieci anni, ed io che avevo allora tutto l'egoismo della giovinezza e tutta l'ignoranza, non mi chiesi mai la ragione della sua melanconia, della sua taciturnità. Taciturna e melanconica anch'io, egli pure non me ne chiese mai il perchè. Oh! ma certi sguardi che ora ricordo non equivalevano forse alle parole che scrivo adesso tremando? Fatti per intenderci, passammo l'uno accanto all'altra senza poterci consolare; egli, il vecchio disilluso, ripiegato sul suo passato; io, la fanciulla dagli occhi bendati, che tendeva le mani all'avvenire.….

Chi sa quante volte, nelle tenebre del salottino, i nostri due pensieri sfuggiti insieme dal carcere si saranno incontrati per le stesse vie in senso contrario, egli rimpiangendo, io sperando —raminghi entrambi per il vasto cielo dell'ideale.

Avevo una grande fiducia in mio padre. Tutto ciò che egli diceva assumeva a' miei occhi l'importanza di un dogma. Mi sembrava che con lui non potesse succedermi nessuna disgrazia, che egli avesse il potere di prevedere ogni male e di preservarmene. Il disprezzo per tutto ciò che è vile, che è basso, che è ignobile, l'ho imparato da lui.

Nessun trattato di morale avrebbe potuto agire più profondamente sulla mia anima giovinetta, quanto le brevi, fiere parole pronunciate da mio padre, man mano che si presentava il caso. « È una donna volgare ». « È un uomo banderuola ». « È una famiglia spregevole ». « È un libro cattivo ». « È un giornale disonesto ». Detto ciò sopra il fatto che aveva motivato la sentenza, restava indelebile in me il disprezzo per quelle persone e per quelle cose.

Mio padre portava a casa tutte le sere il Pungolo e questo era il solo punto di congiunzione tra me e il così detto mondo.

Sul Pungolo leggevo le descrizioni delle feste del Casino, dei veglioni del venerdì grasso alla Scala, dei balli alla Società degli Artisti; e poi l'eco dei teatri, i trionfi di Marenco e di Ferrari, le beneficiate della Tessero e della Marini — uno sprazzo di luce nelle tenebre, ma quanto bastava per alimentare la mia fantasia.

Indifferente a tutto ciò che fosse cronaca, pettegolezzo o politica, cercavo avidamente le notizie artistiche, gli articoli letterari. Scrivevano allora Torelli-Viollier, Uda, Pinchetti. Questi signori non immaginavano neppure di avere una lettrice attenta ed appassionata, fedele sopratutto ed amica — amica al punto che quando Giulio Pinchetti si suicidò, io ne provai dolore come se lo avessi conosciuto.

Amai così Ugo Tarchetti, lo seguii con vivo interesse sugli splendidi gradini della sua scala artistica e piansi la sua morte col doppio rammarico dell'affetto e dell'ammirazione.

Così ebbi una profonda impressione dal primo libro di Fogazzaro — quella soave, indimenticabile Miranda, che doveva piacermi tanto perchè accarrezzava ad un punto e le mie tendenze ideali e la sete di analisi crudele, spietata, che è il martirio e la gioia di noi, cercatori del vero.

Fu pure in quei tempi che lessi sulla Illustrazione popolare un racconto intitolato Storia di una capinera e firmato da un certo G˙ Verga. Oh! Verga ha avuto molti trionfi, molti ammiratori e molte ammiratrici da allora in poi.…. tanto che sarebbe inutile dirgli come una semplice fanciulla, quasi ignorante, gli profetizzasse nell'ardore della sua anima solitaria il posto che egli ha ora conquistato.

Ricordo le Memorie di un ottuagenario di Ippolito Nievo, tanto acclamato prima come dimenticato in seguito.

Ricordo i versi di un ignoto, Enrico Gallardi, che da allora in poi non sentii più nominare da nessuno. Erano versi ispirati al sentimento patrio che in quegli anni scaldava tutti i cuori e forse per ciò sembravano belli.

Io sono andato a pianger sulla croce
Del mio figliuolo che mori soldato.
Era notte profonda e la sua voce
Parea che mi chiamasse… m'ha svegliato.
E a pianger sulla croce sono andato!

Non v'erano nel ciel stelle nè luna;
Ma troppo lo conosco io quel sentiero…
Povero vecchio, via per l'aria bruna
Mia sola compagnia fu il mio pensiero
E la porta trovai del cimitero!

Trovai la porta e mi parea che fosse
Per me socchiusa e ch'io fossi aspettato
E pallido guardai tutte le fosse…
Non dee piangere il padre d'un soldato.
Perciò di notte a pianger sono andato.

E Teobaldo Cicconi agli sgoccioli della sua breve carriera, e Ferdinando Fontana iniziante la sua colla lirica ispirata delle Demolizioni, e gli ultimi canti di Prati e i primi di Praga e di Boito. Quante memorie codesti nomi mi ridestano!

Nomi cari di persone ignote, amici lontani che non sospettavano la mia esistenza e coi quali io sentivo affetti, simpatie, slanci, illusioni, speranze; per cui piansi, risi o palpitai.

E quel buon Fortis direttore del Pungolo, essere privilegiato che doveva più o meno conoscerli tutti e davvero, codesti miei amici spirituali, quanto lo invidiai! Mi pareva che sarei stata così felice al suo posto, conoscendo il colore dei capelli di Fogazzaro, stringendo la mano a Boito e tenendo corrispondenza con G˙ Verga!

Le mie idee in fatto d'arte erano allora, come potete di leggieri immaginare, molto confuse. Delle lezioni di Fischer ricordavo il solito centone affastellato « Origine delle lingue romanze. Idee generali sul secolo XV », ecc. Non credo di essere stata più stupida di un'altra, amico mio, ma vi confesso che tutte queste cose le avevo imparate pappagallescamente, senza che un raggio solo dello spirito di esse mi avesse penetrata. È per ciò che rimasi priva di cultura; e di cultura non solo, ma di guida e di quel gusto già preparato sul quale i giovani ingegni non hanno a far altro che avvoltolarsi per cogliere fiori.

Tutto, intorno a me, era: contrario alla mia passione. L'educazione incompleta, l'ambiente ristretto, la mancanza d'affettuosità, la quasi nessuna comunicazione col mondo, e niente emulazione, niente stimolo, niente aiuto — nemmeno quella ostilità che alcune volte è sferza e sprone. No — un marasma indifferente, qualche cosa tra lo sprezzo e il compatimento — un lasciar correre — un sopportare disapprovando. Ci voleva proprio una vocazione irresistibile per vincere tutto ciò.

I miei fratelli, studiosissimi, erano esclusivamente portati alle scienze matematiche, e questa loro inclinazione allontanava da me chi avrebbe potuto essermi naturale alleato. Mio padre, come già dissi, stanco, disilluso non viveva oramai che la vita di un'ombra, concentrando le forze che gli rimanevano ne' suoi tre amatissimi figli, non potendo tuttavia seguirli nel sentiero faticoso della giovinezza.

La sera, dopo aver letto il Pungolo, mio padre si sprofondava ne' suoi rimpianti, i miei fratelli nel calcolo differenziale e integrale, le mie zie nella calza, mentre la serva, dalla prossima cucina, russava, ed io, io pure, colla mia brava calza fra le mani compivo il quadro fiammingo.

Voi non sapete, caro amico, quale amore eccezionale io nutra per il letto; ma cercandone le origini, credo di non errare fermandomi appunto a quelle famose sere. Ritta sopra una sedia dura, obbligata a muovere metodicamente quei quattro ferretti, in quell'ambiente, con quella compagnia, appena appena suonavano le nove e mezza o le dieci meno un quarto le accoglievo come la campana della liberazione.

Forse voi non vi siete mai soffermato ad esaminare le gioie del letto. Pensate un po'! Libertà assoluta, solitudine perfetta, sciolti da qualsiasi legame materiale e sociale, senza ganci e stringhe intorno al corpo, senza ipocrisie sul volto; nella positura che meglio accomoda in barba al galateo, sul morbido, nel tiepido, cogli occhi e colla bocca chiusi, soli. È come se si svitasse il corpo, e liberato da questo involucro molesto, il pensiero divenisse lui padrone.

Ebbi poi nella vita amicizie carissime, colloqui interessanti, intellettuali, ma nulla mi parve mai comparabile a tale abbandono di me stessa a me stessa. Perchè, in questo caso, io ero tutto il mondo; la mia fantasia aperta e libera accoglieva qualunque divinazione di pensiero, d'affetti, di speranze. Non conosceva ostacoli, non esistevano barriere, l'avvenire era mio, e l'avvenire a quindici anni è tutto.

Aggiungete l'inenarrabile felicità di non vedersi più davanti i volti antipatici.….

Nè serve che mi facciate osservare come, per la stessa ragione, restiamo privi dei volti simpatici. Questi sono sempre con noi.

Ecco perche l'ora di andare a letto mi suonò ognora grata e soave; perchè del letto feci l'amico, il confidente, il porto sicuro ed esclusivo.

Io so come si fantastichi deliziosamente in una sera d'estate, lunghi supini, le braccia abbandonate, il petto alto, il corpo riverso; e quanto molle sia la voluttà del rannichiarsi, d'inverno, colle ginocchia accanto ai gomiti, le mani sotto le ascelle, il capo basso, pensando ai fremiti di una orchestra in un salotto splendente di luce, e alla neve che cade lenta lenta nella via solitaria, o alla bella pagina dell'ultimo libro letto, o alle parole barattate sopra un divanino, nell'angolo della stufa, o alle storie antiche medioevali, alle tragedie, ai poemi, ai martirii, alle guerre, alle vendette; e come si pianga largamente, a grosse stille fitte, col cuore gonfio, col volto in giù, sprofondato, sepolto, annientato in mezzo alle coltri…

Eppure il letto, il letto dove si nasce e si muore, dove si soffre e si tripudia, non è dai più considerato che sotto l'aspetto di dormitorio.

Ma anche prima della mia strana e malinconica giovinezza, nella infanzia ignara, avevo divinate le risorse di quel cantuccio solitario e libero. Questo risale al tempo delle Mille ed una notte. Mi ricordo benissimo. I miei fratelli si coricavano in una camera attigua, l'uscio era aperto, poca la voglia di dormire e le nostre immaginazioni eccitate dai fantastici racconti ci portavano a realizzare quel mondo di fate e di maghi; per cui era convenuto tra di noi che, appena coricati, si partiva e questo voleva dire che ognuno si ritirava nel proprio castello.

— Ci sei? mi domandava mio fratello maggiore.

— Sì, ci sono. Le schiave vennero ad incontrarmi, sparsero di rose il vestibolo, aprirono i rubinetti delle fontane odorose. Mi trovo ora nella gran sala delle palme; i divani sono coperti di raso roseo, trapunti di perle; tappeti di Persia coprono il pavimento; il sandalo brucia nei turiboli d'oro; l'uovo dell'uccello Roc è sospeso alla vôlta e mi assicura la felicità; gli eunuchi (Dio mi confonda se sapevo che cosa fossero) fanno la scolta intorno al castello. Le mandòle suonano dolcemente nei boschetti dei tamarindi e degli aloè, ecc.

In verità, caro Capuana, la ragione mi obbliga a dire che sarebbe stato molto meglio se invece di sognare ad occhi aperti i palazzi incantati, avessi russato della grossa…

Chi sa se le vostre fiabe avranno prodotto qualche effetto consimile? Ci credo poco — non per causa delle fiabe, ma perchè i ragazzi di adesso nascono già positivi e a sette anni conoscono e mettono in pratica tutte le regole dell'igiene; mangiare a tempo, dormire a tempo, ridere e piangere in battuta.

Come ci furono gli ultimi Templari e gli ultimi Mohicani, si potrebbe scrivere la storia della nostra generazione e intitolarla: Gli ultimi sognatori. Non vi pare? Dove li trovate voi, al giorno d'oggi, i bambini che credono alle fate, i fantasiosi ed ingenui bambini che mettono fuori la scarpetta la sera della Befana? Questi sarebbero pure i bambini che giunti a quindici anni si confessano ancora con ardore, che a sedici incominciano ad amare una parvenza eterea fatta di raggi e di veli, che a diciotto se ne stanno allo stesso punto e che a vent'anni conservano l'inimitabile facoltà di arrossire. Tutte anticaglie, come vedete.

Il pensiero, l'immaginazione erano tali gioie per me, mi assorbivano, mi astraevano così completamente, mi rendevano così inetta alle realtà della vita, che molte volte dovetti passare per stupida — con assoluta indifferenza da parte mia. Mi ricordo una volta in cui avevo accompagnata la mia balia ai Fate bene fratelli per farsi strappare un dente. Non so sopra quale Pegaso fossi partita in quel giorno e in quel momento, ma il fatto è che vedevo il pavimento sparso di boccioli di rosa.…. i quali non erano altro che i denti di coloro che avevano preceduto la mia balia. Solo sul punto di raccattare uno di quei boccioli mi accorsi della mia strana allucinazione.

Da questo abbandono a me stessa, da questo modo di crescere uso pianta selvatica a norma del sole e del vento, me ne venne, io credo, un male ed un bene. Il male fu la perdita di tempo, l'essere giunta in ritardo sempre e — come il viaggiatore, che fa la strada a piedi — giunta polverosa, colle scarpe lacere e le membra battute. Ma per continuare questo paragone del viaggiatore, che m'è sfuggito senza pensare che i paragoni non si usano più, devo aggiungere che colui il quale fa la strada a piedi, ha, sopra chi viaggia in carrozza, il vantaggio di conoscere tutti i sentieri e di poter affermare a se stesso che le sue gambe e i suoi polmoni sono solidi. E questo fu il bene.

Voi vedete che la mia vocazione letteraria non ebbe un antefatto logico e preparatorio; se pure non lo volete cercare nel misterioso granello postomi nel cranio dalla natura stessa il dì del mio concepimento.

Si potrebbe fors'anche trovarne il germe nel latte della mia nutrice, la quale aveva per l'appunto un figlio che dimostrò sempre le maggiori attitudini a diventare romanziere. Un tipo curioso questo mio fratello di latte. A sedici anni era venuto dalla campagna in Milano per apprendervi il mestiere del sarto; ma più che per il mestiere aveva una abilità tutta sua a rendere le scenette della sartoria.

Attraverso la sua parola colorita e precisa ogni assente prendeva aspetto di persona veduta; descritti da lui, è come se io avessi conosciuto tutti i suoi compagni di lavoro: Pilade, il giovane innamorato e sentimentale, cogli occhi neri a mandorla, che cuciva i calzoni cantando, tra i sospiri, l'aria del conte di Luna « Il baglior del suo sorriso … » L'occhiellaia, una civettona amica di tutti i giovani maggiori e disposta ad iniziare alle sue abilità anche i garzoncelli che mostrassero buona disposizione. I garzoncelli, un esercito, porta pene di tutta la sartoria. Il tailleur, elegantissimo, coi favoriti lunghi, le mani bianche, un'importanza da ministro degli esteri. La padrona, il padrone, gli avventori, le loro mogli — tutti passavano sotto le forche caudine del mio fratello di latte — egli sviscerava uomini e donne colla stessa sicurezza di intuizione, colla stessa sottigliezza di analisi, aiutando la parola coll'espressione del volto mobilissimo, non bello, illuminato da due occhietti grigi, dove la ingenuità degli anni lottava colla malizia dell'ingegno.

Aveva lasciato al paese una fanciulla che egli amava, Caterina, della quale in grazia sua io conoscevo gli occhi, i capelli, la bocca, il colore e il numero degli abiti, la forma degli zoccoletti, perfino le preci che ella recitava alla sera e che egli stava a sentire, accoccolato dietro l'uscio, in estasi. Per descrivere questo amore trovava tutt'altre parole di quelle della sartoria; aveva delicatezze di sentimento e di espressione, tocchi leggieri, misti alla ineffabile malinconia della lontananza. Doveva, voleva sposarla… invece egli morì a vent'anni, di vaiolo, in quella tetra Rotonda di Porta Vittoria. Povero Francesco Bachetta!

È certo che, allora, quando leggevo avidamente le appendici del Pungolo, non mi sarei mai immaginata di dovere un giorno comparire io stessa sulle colonne dei giornali e tra i fogli di un libro. Non ho mai compresa la vanità letteraria, anzi il mio orrore della notorietà era così forte, che allorquando mi trovai al punto di scendere nell'arena presi uno pseudonimo, colla ferma convinzione di innalzare una barriera inaccessibile fra me e l'opera mia.

Ma non anticipiamo gli avvenimenti, come dicevano i nostri babbi.

A sedici anni, io che continuavo a trovare quasi unico diletto nel pensiero e che non avevo smessa l'abitudine di scrivere qualche componimento per mio svago, incominciai ad inossare il primo romanzo. Era qualche cosa di straziante per tutto il corso di un grosso volume; in ultimo però l'amore felice, coronato dal matrimonio, doveva far dimenticare le pene incredibili sopportate dall'eroina.

Per alcuni mesi non vissi e non palpitai che coi miei personaggi; rileggendo le pagine più patetiche piangevo a calde lagrime, estasiata, trasportata. La mia commozione era così forte che dovette traboccare e cadde, in mancanza d'altri, sulla donna di servizio; una buona ragazza, alla quale raccontai per filo e per segno i casi pietosi di Lucia la suonatrice d'arpa. Era il titolo del romanzo.

Questo primo esperimento del pubblico, lo confesso senza orgoglio, riuscì al di là di ogni aspettativa. La servetta si inteneriva, quasi piangeva al pari di me. Stirando insieme, sulla stessa tavola, le comunicavo i miei entusiasmi, al punto che incontrandola parecchi anni dopo, già maritata e mamma mi disse: E quella Lucia, se ne rammenta?

Ma io facevo un po' come Saturno, divoravo i miei figliuoli. La Lucia tanto amata andò a finire sul fuoco; e press'a poco finirono allo stesso modo altri romanzi immaginati e scritti con passione, poi distrutti. Nessuno — tranne la servetta per quell'unico — seppe mai nulla di ciò che scrivevo; nessuno dunque poteva dirmi se fosse bene o mal fatto. Ero io che rileggendoli non li trovavo più di mio gusto e me li toglievo in fretta dagli occhi, per ricominciare.

Ne avrò fatti e disfatti a questo modo una mezza dozzina, fra cui ne rimpiango uno, scritto in lettere di un giovinetto ad un amico. Se lo potessi pubblicare ora, riuscirei almeno a far paga quella falange di amabili nemici—la maggior parte amici miei — i quali mi rimproverano costantemente il pessimismo maschile. Quel giovinetto era un ideale da fare il paio colla suonatrice d'arpa.

Mi succedeva allora come a quasi tutti i principianti, di preferire i soggetti e i personaggi di fantasia e di vestire il così detto eroe o la così detta eroina colle tinte più smaglianti di luce, di poesia, di virtù. Osservavo fin da allora la vita, ma quelle osservazioni inconscie ed oggettive andavano a formare i diversi strati dei lavori futuri, a mettere i germi e le radici dell'analisi naturalistica che doveva svilupparsi più tardi, senza partito preso, così come mi accadde di fare ogni cosa, sempre, per evoluzione spontanea.

La forma, dico il vero, non è mai stata la mia maggiore preoccupazione. Ora lo diventa, ma per servire meglio il pensiero. Non posso essere dell'opinione di Flaubert, per il quale la forma era tutto. Certo mi piace, come a voi altri uomini piacciono tra un sigaro e l'altro le donnine allegre; ma forse ciò basta? Che cos'è la forma senza l'idea? È appunto la carne senza l'anima.

Vi dirò ancora, a complemento del mio pensiero, che giudico la forma come il processo di imbalsamazione, ma occorre sempre un corpo da poter imbalsamare. Rispettabili pedanti, grammatici, filologi, cercatori del pelo nell'ovo, rispetto le vostre imbalsamazioni, non posso tuttavia mettermi in adorazione davanti a un vaso d'acido fenico. Sarebbe un gusto da farmacista.

Dice Flaubert nella sua corrispondenza colla Sand, che egli cercava di pensar bene al solo scopo di scrivere bene. Ecco uno scopo che mi lascia piuttosto fredda.

Se tento di scrivere bene è per esprimere bene il mio pensiero. Effettivamente, la mia passione, il mio diletto, la mia idealità è lo spirito, non la lettera. Il momento bello per me non è quando scrivo, ma quando penso. Infine, scrivo quando ho pensato; non mi succede mai di pensare a scrivere.

Non gridate alla profanazione, delicato cultore della forma. So anch'io che senza forma non esiste opera d'arte. Vi ho pur confessato che la cerco, che la riconosco indispensabile. Quello ch'io intendo stabilire poichè si tratta di uno studio autobiografico e perchè la verità è il maggior pregio in questo genere di lavori, è la prevalenza naturale in me dell'uno sull'altro istinto; prevalenza che tende ad equilibrarsi nella aspirazione verso un ideale più perfetto, ma che ad onta di ogni sforzo resterà il fondo del mio temperamento artistico.

Il modo stesso col quale venni a riconoscere la necessità della forma è tutto intimo e sentimentale; non frutto di ragionamento, ma di impressione.

Vi citerò ad esempio le opere di Raiberti, che volli leggere per scoprire la causa e del loro trionfo e del loro abbandono. Ebbene, questa causa mi parve proprio di doverla trovare nella vivacità del concetto per il primo caso e nella trascuratezza della forma per il secondo.

Onore dunque alla forma. L'idea è l'idea e la forma è il suo profeta.

E adesso che mi lusingo di avere esaurita, per mio conto, la quistione della forma, ne vedo spuntare un'altra gravissima — almeno una di quelle che sembrano gravi. In fondo la trovo una bolla di sapone; intendo, caro Capuana, tutti quegli ismi che voi sapete.

Per me l'arte è la perfezione del sentimento, e il sentimento è natura. Non vedo quindi la ragione di scuole nè di precetti. Da che pubblico ebbi sempre contro di me due partiti: uno che mi accusa di soverchio realismo, l'altro di eccessivo sentimentalismo; ma ciò mi prova soltanto che vi sono tre differenti modi di intendere l'arte, proprio come i pagani avevano tre forme per adorare la luna. E chi la voleva Febea, chi Ecate, chi luna semplicemente — come me.

Un poeta ha pur detto: Ne forcez point votre génie, vous ne ferez rien avec grace. Mi pare che l'obbligo che abbiamo noi tutti, artefici del pensiero, del pennello o della lira, è quello di migliorarci sì, ma seguendo l'indole nostra. Siccome poi scrivo anzitutto per rispondere a un piacere mio, ove seguissi il piacere degli altri non mi accontenterei più—dunque non avrei più ragione di scrivere.

Fate vostro, amico Capuana, il mio ragionamento e convenite che voi stesso non agireste in modo diverso.

Per quanto frughi lontano nelle letture fatte da giovinetta, trovo che solo le pagine dedicate al sentimento o ad una certa filosofia sperimentale della vita, mi impressionarono vivamente. Così fu del Viaggio sentimentale, di parecchie novelle di Voltaire, del Jacopo Ortis e del Gazzettino del bel mondo, di alcune satire di Gaspare Gozzi ed anche (vedete che sono abbastanza eccletica) degli stupendi poemetti di Carlo Porta — il quale a mio umile avviso riunisce meglio di chiunque le due forze artistiche della verità e del sentimento.

Mi ricordo che in quegli anni erano alla moda i romanzi violenti del Guerrazzi: l'Assedio di Firenze, la Battaglia di Benevento; ma io che non fui mai attirata dalla moda, che non mi trovai mai all'unisono della folla, preferivo e preferisco Il buco nel muro.

Ciò mi porta a parlare di un'altra tendenza che chiamerei femminile, se i romanzieri maschi non ci avessero dato numerosi esempi che sono gioielli nel genere—tendenza che, dopo tutto, sono contenta non sia specialità di alcun sesso, così entra a far parte degli attributi artistici di tutti:—è l'osservazione delle piccole cose, non per la compiacenza del piccolo, ma per la chiave che esse porgono alle grandi.

Ho dimenticato molti capitoli della Madame Bovary; ma la descrizione del berretto in forma di budino che portava da fanciullo il dottor Bovary, l'ho sempre presente: C'était, d'abord

E qui l'autore entra in un dedalo di rettangoli, di losanghe, di impunture, di imbottiture così tipiche, così atavistiche, dove si riconosce il padre, la madre, l'educazione, il carattere, l'ambiente di quello sgraziato Bovary con tanta evidenza, che mi capita molte volte di fermarmi pensierosa davanti al copricapo di qualcuno mormorando: C'était, d'abord

Non credo che questo amore del minuto, dell'intimo, del femminile mi venga dall'essere donna, perchè altre scrittrici non lo hanno e predomina invece in tutti gli scrittori psicologici come ho già detto, dimostrando che è una conseguenza di temperamento e non di sesso.

La donna, per lo scrittore analitico e sentimentale, è il soggetto di predilezione, la fonte inesauribile di simpatia e d'arte.

Per citare solamente i fratelli Goncourt, essi hanno sette romanzi che portano un titolo di donna, che si imperniano sulla donna e si diramano per tutti i meandri più sottili e più complicati delle sensazioni femminili: Germinie Lacerteux, Madame Gervasais, Renée Mauperin, Manette Salomon, Sœur Philomène, Chérie, La fille Élíse.

Negli scrittori nostri questa tendenza non è molto spiccata o per lo meno non così perseverante; e lo stesso forse si potrebbe dire degli inglesi, dei tedeschi, degli americani, dei russi; quantunque dalla Russia abbiamo avuto un'Anna Karenine di Tolstoi e una Taziana di Puschkine che sono gioielli da mettere a pari colla Miranda, con Edmengarda, con Fantasia, colla Santuzza di Verga, colla Dorina di Rovetta, con tanti altri profili delicati, accarezzati, sminuzzati dall'analisi psicologica, che sbocciano tratto tratto da noi quasi per provare che volendo si sa fare anche questo.

E voi pure, alla vostra opera più studiata, più amata, quella per cui combatteste maggiormente e nel volume e sul palcoscenico, non poneste un nome di donna? E l'altro vostro lavoro così fine, così originale, quel delicato Ribrezzo, che è mai se non uno studio, una analisi di donna?

Osservate, vi prego, come a questa tendenza si collega spessissimo la scelta della provincia; di quell'ambiente noto e pur sempre singolare, dove i personaggi hanno lo stesso rilievo che dà ad un quadro lo sfondo del cielo.

Artisticamente io adoro la provincia; essa mi ispira e mi riposa insieme; la trovo più elevata, più intima, più personale della grande città, dove a furia di urtarsi e di rotolare si riesce tutti eguali, dove gli angoli si smussano, i profili si affinano, i colori si smorzano; dove si piglia tutti supergiù l'aspetto dell'ultimo figurino.

Sono stata nei salotti eleganti, ho assistito a qualche gran ballo, ho ascoltata l'eco del mondo aristocratico, ho visto le dame celebri; e non voglio dire che tutto questo mi dispiaccia. Ma nella cella del mio pensiero, dove si raccoglie l'impressione artistica, nulla di quanto sopra è rimasto. Se descrissi qualche ambiente elegante, non lo feci per amore ma per contrasto; appunto come Lydia, che venne dopo Teresa.

Oh! l' ingegno, l' ingegno che vorrei avere per rendere le impressioni da me provate intorno al camino della mia nonna! Sono cose che non si vedono più; che vidi anch'io per ben pochi anni e fanno parte di quella cara provincia che va scomparendo.

Figuratevi un' ampia cucina linda e rilucente come un salotto, la fiammata di una fascina intera che saliva lampeggiando intorno a una pentola di proporzioni gigantesche, l'ora del tramonto, d'autunno, e l'Ave Maria che suonava…. Il padrone colla giubba di panno scuro a bottoni dorati, la padrona col ramaiolo in mano che non cedeva a nessuno, le figlie, i nipoti, i servi tutti in circolo, lo stalliere che abbandonava in quel momento i suoi cavalli e la cameiera che lasciava a mezzo i rammendi. Mia nonna intuonava l'Angelus. Tutti rispondevano rispettosi, a capo basso, colle faccie illuminate dalla vampa altissima, così riuniti, pareggiati nella solennità della preghiera e del cenacolo, vecchi e piccini, padroni e dipendenti.….

Mai più dimenticherò quella scena degna del pennello di Michetti. Fin da allora, mezzo nascosta fra le sottane della nonna, ne comprendevo la grandiosità sentimentale ed umana; e quella casa patriarcale, quella larga vita così semplice, così vera, mi facevano diventare poeta.

La visione artistica mi seguiva nella sala da pranzo, colle pareti tappezzate di legno e il soffitto dipinto a paradisee, fette di cocomero e pesche alternate. Il nonno e la nonna pontifcaivano alla mensa lautamente imbandita, ed io, sgattaiolando fra le sedie coperte di damasco rosso, andavo a guardare il paracamino e a compitare, sotto uno sgorbio che somigliava lontanamente ad una montagna di fuoco, queste pale misteriose: L'Etna o Mongibello.

Perchè tali impressioni vive e profonde non le ricevetti nè dalla vetta dei monti, nè dalla spianata del mare? Ho il sentimento dellà natura, ma un sentimento tutto umano, palpitante, vitale. Amo la natura in quel tanto che essa ha di relazione cogli uomini, coi nostri amori, coi nostri dolori. Il campo della mia osservazione è ristretto e appassionato; esso guadagna in profondità quello che perde in estensione.

L'uomo per me è tutto. Il mio maggiore interesse viene da ciò che è dentro di lui; il secondo, dalle relazioni che egli ha col resto del mondo. Più in su o più in giù, a destra od a sinistra di questo parallelo non capisco più nulla. Ma mi appassiono per una lagrima, per un sorriso, per una smorfia, per un gesto, per un grido, per un ricciolo dato al vento; e passo le ore entusiasta trattenendo il fiato, sui libri di medicina dove è descritto il cervello, il cuore, il fegato, i polmoni. Oh! come capisco la smania feroce dei bambini che rompono il balocco per vedere cosa c'è dentro!

Ho letto un viaggio intorno al mondo, scritto da un inglese, in cui per cinquecento pagine non si parla altro che di bastimenti, di gomene, di alberi maestri, di carbone, di mare, di cielo, di terra, di monti, di fauna, di flora, di sassi… L' odioso libro! Piuttosto che girare il mondo così, preferirei restare tutta la vita nella désobligeante di Sterne al posto della dama fiamminga.

A proposito, fra le impressioni acute della mia giovinezza devo pur notare i viaggi in diligenza. E anche qui vi chiederò perchè la ferrovia con tutta la sua novità e il suo meraviglioso non mi ha mai data nessuna delle emozioni della diligenza? Io non so trovare altra ragione che nel mio temperamento innamorato del pittoresco, e nemico delle macchine, dell'eguaglianza, di tutte le cose piatte e volgari.

Avevo otto o dieci anni quando feci il mio primo viaggio dentro a quelle venerabili carcasse — una notte intera senza chiudere occhio, cullata nelle tenebre e nell'ignoto, colla fantasia che galoppava agli sportelli gettando manciate di perle in ogni raggio di luna… C'era un soldato che cantava, una donna che sospirava, un prete che dormiva e qualcuno che offriva, in un cartoccio semiaperto, dei pezzettini di cioccolata alla compagnia.

Non sarete sorpreso ch'io vi narri queste piccolezze, avendovi già dichiarato che è il mio sistema; seguendo il quale voi potrete intuire un poco l'ambiente nel quale vissi, così com'io intuii il dottor Bovary dalla descrizione del suo berretto.

E intanto scrivevo sempre? Sì, scrivevo sempre e sempre per me. Incominciavo però a sentire il bisogno di un pubblico, ma come trovarlo? A chi rivolgermi? La stampa de' miei scarabocchi mi sembrava un premio ch'era follia sperar.

Fu tuttavia in quel tempo che leggendo una ode di Orazio a Neera, restai fortemente impressionata da questo nome e lo ritenni dentro di me, quasi presaga dell'avvenire; mentre ero affascinata dalla bellezza dei versi che dànno principio all'ode:

Alta è la notte e nel sereno cielo
Fra le stelle minor splendea la luna.

La morte improvvisa di mio padre cambiò ancora la mia vita come già l' aveva cambiata la morte della mamma; come la cambiarono nuovi avvenimenti in seguito. Per tutte queste ragioni stetti quattro interi anni senza prendere in mano la penna, altro che per lettere di famiglia o per la nota del bucato.

Mi credevo morta assolutamente a quella che chiamavo « la mia passione ». Ebbi anche qualche velleità di diventare una perfetta massaia; studiai i fritti, le salse e la conservazione dei pomidoro. Scrissi un intero volume di ricette culinarie, dove la bas-bleu faceva capolino nella epigrafe posta sopra un pasticcio:

Amor, che a nullo amato amar perdona,
Mi prese del costui piacer sì forte
Che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Ma grattate il russo, troverete il cosacco. Amico mio, il vizio d'origine non si perde mai.

Come, quando, perchè: ecco tre incognite. Il fatto è che un bel giorno ripresi la penna, ma questa volta sul serio e decisa di andare fino in fondo.

Guardate combinazione! La mia prima novella firmata Neera la pubblicò Leone Fortis sul Pungolo.

Ma un altro giornale spiegava allora la vittoriosa bandiera del brio, dell'eleganza, della modernità: Fanfulla accolse i miei lavori, incoraggiandoli, e mi invitò a creare una rubrica quasi inedita: Los aux dames; alla quale diedi il carattere mio ingenuo e schietto, più che l' andamento naturale ad un corriere di moda.

E che cosa ne sapevo io della moda? io, che proprio allora dovendo farmi un abito da estate, non seppi trovare meglio di una metratura di mussolina bianca per la quale spesi quattordici lire… Io, che adorando mio padre come lo adoravo, il giorno dopo la sua morte mi posi al collo un nastro rosso per la sola ragione che egli lo amava! destando così un vero scandalo in famiglia e prendendomi la taccia di senza cuore… Io che andai ad una festa di ballo con un abito che la mia mamma portava per andare a prendere il bagno — un abito di mussolina tagliato all'antica, che non era neppure al mio dosso, lavato, stinto, corto di gonna e dentro il quale mi sentivo sovranamente serena…

Le molte novelle e gli articoli che tennero compagnia ai Los aux dames avevano un carattere spiccato di umorismo, di gaiezza, che venne poi modificandosi fino a toccare lo sconforto e il pessimismo degli ultimi lavori; pessimismo che non posso giustificare altrimenti che presentando la ragione unica di tutti i miei scritti: sentire così; ragione che spiega e legittima ogni opera d'arte.

Ma questo pessimismo che non è nel mio carattere, che non è posa, che non è imitazione, che non è neppure elezione; questo pessimismo sgorgato dalle più intime evoluzioni del sentimento e della osservazione, che è forse un periodo transitorio a più eccelsi ideali; questa forma addolorata e piangente del pensiero, è il miglior tributo ch'io possa offrire per ora all'arte — è il sangue del mio sangue, è l'amore fatto umanità, è la fede diventata ragionamento.

Il mio non è il pessimismo dello scettico che nega e dispera; è quello del credente che soffre e lavora.

Non apparterò mai a nessuna scuola, non seguirò mai nessun metodo, resterò sempre troppo realista per gli uni, troppo sentimentale per gli altri.

Ma poichè tra gli uni e gli altri c'è pur qualcuno che mi accetta come sono, per quei pochi continuerò a scrivere—e meglio ancora che per quei pochi, per l'unico, divino, che mi ispira —quegli che, amico mio, non so chiamare diversamente di così: l'ideale nel reale.

Neera.

Milano, marzo 1891.