IRIDE

Seconda Edizione

MILANO
Casa Editrice BALDINI, CASTOLDI & C˙°ree;
Galleria Vittorio Emanuele, 17-80
1905

PROPRIETÀ LETTERARIA
Tutti i diritti di traduzione e di riproduzione riservati all'Autrice

Ma chi di noi sul proprio cammino
Non calpestò, rimpiangendolo, un fiore?

Quanto ero lieto in quel mattino di maggio!

Il trotto moderato della mia cavalla saura mi portava attraverso la campagna romana come sull'ali del vento incontro all' orizzonte azzurro. La mia felicità tuttavia era più vicina dell' orizzonte ed anche più azzurra — se con questo colore si vuol dipingere i sogni della giovinezza.

Possedevo la prima delle ricchezze — venticinque anni — nè mi mancavano le altre. Tutti i fiori della vita spuntavano sul mio sentiero; non avevo che a chinarmi per raccoglierli; ed uno … quel bel fiore, Elisa, tu lo sai, un angelo me lo aveva gettato dal cielo! Esso solo sarebbe bastato per farmi pienamente felice.

Però, ne ringrazio vivamente Iddio, l' esuberanza della gioia non mi ha mai reso egoista. L'anima mia si alzava pura e lieta verso un ideale di bene; la pietà traboccava dal mio cuore gonfio d'amore. Avrei voluto abbracciare con una immensa stretta tutti i miei simili, farli buoni e felici come me; seminare nel mondo la mia gioventù, il mio oro e il mio amore. Cristo senza Golgota sognavo una nuova redenzione.

La virtù, in quell'ora, mi sembrava tanto facile! Vedevo ogni cosa più grande del vero; Fede e Bellezza mi stavano davanti, splendide. Sentivo dai campi lontani le cornamuse dei pastori e tra le siepi vedevo volteggiare colle farfalle i capelli d'oro delle ninfe.

Pensai a lungo un verso che mi rendesse nelle soavi cadenze della poesia quello che io avevo nell'anima; ma non lo trovai. I miei poeti prediletti sfilarono, evocati dall'ardente desiderio, ed io li contemplai con profonda compassione. O vati, correte, voglio farvi l'elemosina di una scin tilla; io lo posso — amo.

Hop! Hop! mia dolce cavalla. Hop!

Roma, ch'io mi lasciava indietro, si bagnava voluttuosa nei vapori del mattino. Una nebbia rosea la cingea tutta — pareva un rossore sui bianchi veli della vestale. Ma il rossore scompariva a poco a poco. Il sole le metteva sulla testa un diadema di raggi; alzando la fronte in mezzo a quel fulgore, la gran colpevole diceva: Perdonatemi, ho tanto amato.

Il cielo, il bel cielo di Raffaello e della Fornarina, si illuminava di tinte accese. Una colonna spezzata, un arco coperto di musco mi facevano balzare il cuore; in quella armonia d'ombre e di luce il passato si mesceva al presente; io fondevo il pensiero dei secoli in un unico pensiero. Avevo sulle labbra Clelia e Veturia — e nell'anima Elisa.

Oh! tutti coloro che hanno amato nella calda primavera della vita, conosceranno queste ore di immensa ebbrezza in cui pare che le forze si raddoppino e che il nostro essere sia riscaldato da una fiamma soprannaturale. Ore divine in cui siamo volte a volte poeti ed eroi, apostoli e soldati.

Avanti Roberto duca di Niscemi… Sì, io sarò duca un giorno: e frattanto quale più brillante carriera che questa mia di giovine diplomatico? È una parola che piace alle signore. Elisa deve pronunciarla con orgoglio, arrossendo un poco nella sua bella verecondia.

Avanti. Hop! Hop! Hop!

***

Ecco la villa. Mi batte il cuore.

Veramente è la prima volta che faccio il mio ingresso in famiglia col titolo di fidanzato.

Un servitore in piccola livrea mi apre il cancello; mi inoltro sotto una doppia fila di melagrani fioriti.

In fondo al viale un fiocco di neve svolazza in mezzo agli alberi — il sole mi sta davanti e non posso veder bene. Ah! ora distinguo perfettamente; è una fanciulla che si dondola sull'altalena. Ha un vestito di lana bianca con guarnizioni di velluto verde.

Al mio apparire ferma l'altalena puntando sulla sabbia l'estremità del suo stivaletto di pelle bronzata — e così, in quella positura un po' eccezionale, colle braccia allargate intorno al canape, colla testina sporgente, mi guarda — ed io la guardo.

È di una bellezza rara; penso subito che non può avere più di dodici anni. Elisa mi ha parlato di una sorellina; potrebbe bene esser lei; tuttavia non le assomiglia.

Il casto volto della mia fidanzata non si ritrova in questa fanciulla dal tipo di zingara, dai grandi occhi audaci, pieni di scintille. Ha i capelli neri, come Elisa, ma corti e un po' ricciuti — non le oltrepassano l'orecchio. Un cerchio d'oro le stringe la testa come una corona… o come una catena. I lineamenti accentuati, eppure gentili, vestono una grazia tutta muliebre dalla carnagione pallida senz'ombra di rosa; la si direbbe anzi leggermente bruna. La passione e l'orgoglio prestano l'espressione più rilevante alla sua fisonomia, ma le ultime incertezze dell'adolescenza la adombrano ancora; a vent'anni questa creatura sarebbe forse poco simpatica: a dodici è adorabile.

La saluto sorridendo ed ella mi risponde seria, accompagnandomi col suo sguardo indagatore.

Fatti pochi passi mi pento di non averle diretta la parola; mi volto indietro — l'altalena è vuota.

— È la signorina?… — domando al servitore.

— La signorina Eleonora.

Ma già non penso più a lei. Da una finestra m'è apparso l'angelico volto di Elisa. Affretto il passo, salgo lo scalone, m'inchino alla principessa e con Elisa ricambio uno sguardo che valeva un abbraccio d'amore, intanto che l' etichetta mi costringeva alla solita banale stretta di mane.

La principessa è una buona donna e una tenera madre. Ella si accorge del nostro imbarazzo e per darci agio a rimetterci parla in fretta di cento cose. Mi chiede notizie della città e della Corte — non per saperle, almeno — perchè subito dopo mi tesse l'elogio del suo pappagallo e del cactus della sua serra.

La mamma parla e noi ei guardiamo; il tempo scorre deliziosamente.

— Oh, ma — dice la principessa — e Nora che non si vede?

— Vado a cercarla? — domanda Elisa, alzandosi.

— Sì, figlia mia, va.

Elisa esce. I miei occhi e il mio cuore la seguono.

— Andiamo — dice la mamma ridendo — signor diplomatico!

Dopo un tempo abbastanza lungo, occupato dalla principessa a intrattenermi in quel modo piacevole delle matrone che non sono cascate nel bigottismo, Elisa ritorna sola.

— E Nora?

La mia fidanzata si dava una pena immensa per nascondere una viva contraddizione.

— Nora… sai, ha la lezione d'inglese…

— Come, ancora? — esclamò la principessa.

— lo — povero diplomatico affascinato dai begli occhi di Elisa — ebbi la dabbenaggine di dire:

— Madamigella Eleonora stava sull'altalena quando sono arrivato.

La principessa diede una crollatina di spalle:

— Bimba mia, a lui si può dire la verità. Tanto un giorno o l'altro la scoprirebbe.

Elisa non rispose nulla e la mamma continuò volgendomi direttamente la parola:

— La mia piccola Nora è capricciosetta.

— Ne ha la fisionomia.

— Buona, veh? Ma santo Dio, una testina che farebbe ammattire mezzo mondo. Quando fissa un chiodo, è inutile; novanta volte su cento la guadagna lei. Spesso si impuntisce a non voler venire in sala; le persone nuove la infastidiscono, piange, si dispera, grida in modo da passar l'anima. Noi siamo d'accordo di chiamare tutto ciò la sua lezione d'inglese… per gli estranei, s'intende; voi avete il diritto di conoscere la verità. Usatele un po' di compatimento, caro Roberto, è una ragazzetta!

Il cieco amore materno traboccava da ogni espressione. Ella amava questa sua bella fantastica, questa seconda ed ultima figlia, non più dell'altra, ma certamente con una dose maggiore di indulgenza; con una specie di civetteria retrospettiva che la faceva rivivere in quel vispo demonietto.

— Spero che sarò abbastanza fortunato per poter distruggere le cattive prevenzioni della signorina Eleonora. L' ho forse spaventata mentre era sull'altalena?

— No, no — si affrettò a soggiungere Elisa — mia sorella è tanto nervosa che non può mai dar ragione de' suoi capricci. Il medico dice che è un isterismo precoce; lei non ne ha colpa.

Ho capito. Erano tutti infatuati della piccola zingara. Il caso d'altronde non mi riusciva nuovo; solo mi rallegrai che le due sorelle non si somigliassero punto punto.

Come passasse poi il resto del giorno, non saprei dire veramente. L'ora del pranzo mi giunse inaspettata; la campana della villa echeggiando in squilli prolungati sotto i melagrani mi riduceva a un solo pensiero: Ricordati, fratello, che devi partire.

— Mi permettete di tornar presto, Elisa?

Inchinandomi verso la mia fidanzata per raccogliere il dolce che spuntava sulle sue labbra, vidi due occhi neri che mi guardavano intensamente. Nora era entrata allora.

La principessa, disinvolta sempre, sorvolò l'impaccio di una presentazione ufficiale. Disse appena:

— Dà la mano, bimba, a questo signore. È un caro amico.

La fanciulla mi presentò in silenzio la sua manina; ardeva in modo singolare.

Durante il pranzo io la guardai poco, ma quelle poche volte incontravo immancabilmente il suo sguardo fisso e scintillante. Il cerchietto d'oro che le tratteneva i brevi capelli era meno lucente dei suoi occhi. Non parlò quasi mai e finito il pranzo scappò via.

Partii senza rivederla.

Le visite ch'io feci poi, molto frequentemente, alla villa indussero un po' di dimestichezza fra me e la mia futura cognatina. Elisa, felice di questo buon successo, ci lasciava volentieri insieme; io mi ingegnavo di piacere alla zingarella poichè era un modo indiretto di piacere a lei.

La cosa tuttavia non sembrava molto facile.

In quel caratterino di dodici anni si manifestavano geroglifici complicatissimi abissi profondi. Molte volte si era tentati di credere che una vera donna si nascondesse sotto quell' abitino di lana bianca — una donna appassionata e fantastica — tanto lo sguardo era carico di scintille e la fronte di pensieri. Aveva dei sorrisi da civetta consumata; ma sorrideva così anche alla sua bambola.

Non era molto alta, nè molto complessa; la struttura fisica era proprio da bambina, le mosse no.

Salutava come una signora, piegando la testa; sedeva con una grazia somma; si alzava con dignità. Camminando, non si vedeva in lei quel portamento dinoccolato oppure ligneo delle altre fanciulle. Un'armonia seducente la dominava tutta. Qualche cosa della mollezza orientale piegava il suo agile fianco e dietro il tessuto dell'abito, il disegno delle spalle si presentava già con una finezza da scalpello greco.

Che braccini delicati uscivano dalle sue maniche un po' corte! Le mani erano un portento.

Io domandavo molte volte a me stesso che meraviglia sarebbe diventata e quale uomo mai avrebbe avuto la presunzione di amarla. Per me, una bellezza tanto singolare mi faceva quasi paura.

Assolutamente la principessa era troppo indulgente colla sua ultima figlia; si lasciava affascinare e le perdonava qualsiasi capriccio. Nora cresceva libera e superba come un palmizio del deserto.

— Io so — le dissi un giorno — perchè non vi sono mai venuti i capelli lunghi come alle altre ragazzine.

— Eperchè dunque?

— Perchè avete troppi capricci. Guardate un po' vostra sorella Elisa…

Ella mi interruppe:

— Oh! Elisa…

Ma con tale accento curioso che non potei raccapezzarci nulla.

Un momento dopo mi disse:

— Volete vedere il lago verde?

— Cos'è questo?

— È un lago che papà fece fare appositamente per me; un altro capriccio!

Appoggiò vivamente il sostantivo, guardandomi con tutta la malizia dei suoi occhi neri.

— Non sono punto sorpreso — risposi serio.

Pensavo tra me e me: Se potessi educare questo cervellino bizzarro? Tutta la famiglia dovrebbe essermi riconoscente e non sarebbe poi fatica sprecata… È un modo di fare esperienza per il futuro!

Sorrisi all'imagine di quel futuro.

Nora intanto s'era mutata. Cogli occhi bassi, malinconica, strappava punto per punto i merletti del suo fazzolettino.

— E dunque?

Rispose senza guardarmi:

— Ho riflettuto che forse non siete degno della mia confidenza.

— Davvero, madamigella Eleonora? Non vi ispiro abbastanza fiducia? Ne sono proprio mortificato; credete, è la prima volta che mi capita di ascoltare una frase simile. È ben vero che il senno che la detta non è che il senno di una bambina.

— Non voglio che vi facciate beffe di me, capite, signore? Sono ben libera di pensare e di dire quello che mi pare e piace.

— Fin troppo! Non v'è alcuno che lo ignori. Quando il pappagallo di vostra madre dice qualche scioccheria si indovina subito che gliel' avete insegnata voi.

Mi venne incontro furente. Sulla sua pallidezza di donna il rossore della bimba mortificata faceva un contrasto nuovo. Ho creduto per un momento che volesse graffiarmi; invece si fermò di botto lanciandomi dal fondo delle sue pupille uno sguardo di regina offesa.

Feci l'atto di accarezzarla, ma era già fuggita. In quel momento entrò Elisa.

— Che cosa avete fatto a Nora? Piange lagrime grosse come nocciuole; la mamma, che era con me, si è fermata a consolarla.

— La consolerà, non dubitate. Voi potreste ben fare altrettanto col vostro tenero adoratore…

Eravamo soli e non volevo perdere l' occasione.

— Siete così infelice? — domandò Elisa timida ente.

— Infelice no, perchè vi vedo, ma ho bisogno che mi aiutiate a portar pazienza…

Pensavo che m'aiuterebbe assai un qualche cosa che vedevo volteggiare intorno ai freschi labbri di Elisa — parola, sorriso, bacio, non so — stavo per accertarmene quando entrò la principessa.

Rimasi un po' stizzito.

— Ebbene — esclamai — è finita la lezione d'inglese?

— Povera piccina! — disse la principessa con commozione. — Voi non la conoscete ancora. O che credete che piangesse per capriccio? S' è punta, m'ha detto, con un lungo spillo e il dolore fu più forte di lei.

Una bugia! certo; una bugia di Rosina senza l'attenuante di Almaviva. Ma perchè quella bugia? Oh che testina romanzesca! Per fortuna Elisa non le somiglia.

***

I fanciulli viziati non mi piacciono proprio; non vedevo nessuna ragione perchè avessi a sopportare le stranezze della mia cognatina.

Ero disposto alla guerra.

Con mia sorpresa Nora si mostrò discretamente buona nei giorni che seguirono. Evitava di parlarmi, questo sì, ma siccome a rigor di termine potevo farne a meno, non pensai a rammaricarmene.

I buffetti sulle guancie non le piacevano, le carezze sotto al mento neppure; m' ero messo a levarle il cappello e a dirle con gravità: « Buon giorno, signorina ». Ella mi rispondeva sullo stesso tono. Voleva essere trattata come una persona grande.

Passò circa un mese a questo modo. Tuttavia io non l'osservavo attentamente perchè Nora subiva un cangiamento notevole e fui l' ultimo ad accorgermene. È però naturale; non pensavo che ad Elisa.

— Vedete come la mia sorellina mette giudizio?

— Hum! Ne mette troppo; finirà col diventare giudiziosa al pari di voi.

Queste parole io le scambiavo ridendo colla mia fidanzata in uno di quei brevi momenti che la mamma ci lasciava soli.

Elisa ricamava, seduta nel vano della finestra aperta. A' suoi piedi, sulla gradinata di marmo, si intrecciavano i rami del caprifoglio e sopra la sua testa una bruna ed esile pianticella di gelsomini imbalsamava l'aria intorno a lei.

Questa figlia di principi aveva nel suo insieme, nell' espressione dolcissima della fisonomia, una grazia pura, direi quasi villereccia. Il diadema di brillanti che le regalerò per le nozze non la renderà più bella; non è adattato per la sua fronte verginale troppo timida e troppo modesta.

Così, com'eri in quel giorno, seduta sotto i gelsomini vorrei dipingerti o Elisa, cara metà dell'anima mia!

Il suo sguardo sereno, innocente, errava su di me avvolgendomi in un fluido soave tutto amore e poesia.

Non mi ero mai sentito tanto vicino al cielo.

— Elisa, tralasciate di lavorare; sono geloso di questo ricamo che vi occupa troppo.

— Oh! non mi occupa; anche lavorando penso a…

— Ebbene, cara fanciulla, perchè vi interrompete?

Le presi le belle mani candide:

— A chi pensate?

— Lo sapete bene! — rispose, tingendosi di un rosa vivo e tremando sotto la stretta della mia mano.

— Cara, cara!

Non potevo dirle altro; cioè, avrei potuto benissimo, solamente a lasciar parlare intero il mio cuore; ma davanti a quel pudore ombroso mi sentivo timido anch'io; i desiderî più cocenti sotto i suoi occhi si vestivano di verecondia.

Osai, nondimeno, baciarle le mani.

— Oh! Roberto, lasciatemi.

Non ne feci nulla. Ella aveva il polso più delicato che si possa imaginare, morbido, con una adorabile pozzetta dove incomincia il palmo della mano; la mia bocca l'aveva scoperta e le apparteneva per diritto di conquista. Insensibilmente l'ebbrezza mi saliva al cervello; di seduto che ero scivolai ai suoi ginocchi; la mano non mi bastava più; la cinsi colle mie braccia e la baciai sugli occhi bellissimi.

Un grido acuto mi svegliò dall'estasi. Elisa giaceva immobile, col petto oppresso per l'emozione, colla testa rovesciata sulla spalliera, quasi svenuta — ma il grido non lo aveva gettato lei.

La camera era vuota; guardai ansiosamente in giardino. A venti passi da noi, l'abito bianco di Nora correva sotto i melagrani ed il suo cerchietto d'oro luccicava tra le foglie come un fuoco fatuo.

***

L'osservazione che facevano tutti e che alla lunga dovetti fare anch'io, è che Nora soffriva.

Il suo visino, già pallido, aveva acquistato delle trasparenze di camelia. Intorno agli occhi, così neri e profondi, un cerchio bruno ne accresceva lo splendore febbrile; la bocca era mesta e la fronte preoccupata.

Cambiamenti dell'età; diceva qualcuno.

La principessa non si contentava di questa spiegazione. Il suo istinto di madre la metteva in allarme; taceva, ma osservava.

Elisa mi confidò che sua sorella piangeva spesso e che nessuno poteva strapparle il segreto di quelle lagrime. La si vedeva malinconica e sola passeggiare in giardino; oppure accovacciata in una poltrona del salotto, mentre gli altri stavano riuniti a parlare, sfogliando degli album che i suoi occhi non guardavano.

La principessa, unica fra tutti, riusciva qualche volta a farla sorridere e a farsi abbracciare. Con Elisa affettava un contegno freddo, quasi sarcastico; se la buona giovinetta tentava di intenerirla con parole o con baci, la respingeva duramente schermendosi.

Eranle venuti a noia i trastulli: sull' altalena non saliva più; suonava, certe sere, sul pianoforte le romanze più tristi e più disperate. Faceva pietà il sentirla.

Il principe che si vedeva di rado alla villa perchè infinite occupazioni lo trattenevano in Roma, restò colpito dal cambiamento della sua giovane figlia e le mandò dalla città un medico famoso.

Ero presente anch'io quando venne.

Nora si lasciò guardare e riguardare, rispondendo con svogliatezza alle domande di quel signore e mostrando chiaramente nello sguardo distratto la sua poca venerazione per la scienza.

— La signorina mi sorprende — disse il dottore. — il suo sviluppo morale è così… così… come dire?… avanzato… che non vidi mai l'eguale. Ciò spiega d'altronde i fenomeni che la signora principessa ha osservati. L'equilibrio essendo il perno della salute induce naturalmente quando viene a mancare i più deplorevoli sconcerti. La signorina legge romanzi?

Questa domanda fatta a bruciapelo mi fece sorridere; la mamma rispose:

— Oh! Dio, Manzoni, De Amicis, che vuol mai che legga questa bimba?

Guardai Nora. L'attitudine superba e sprezzante del suo labbro, diceva netto: Che bon'uomo quel dottore!

Infatti, se non ci fossero romanzi al mondo la testina di Nora li avrebbe inventati.

Quando il medico se ne andò la principessa volle accompagnarlo fuori del salotto. Parlarono ancora per dieci minuti a bassa voce. Nora intanto aveva presa un'attitudine di sfinge; sprofondata sulla poltrona di sua madre, collo sguardo fisso, intento, pareva affascinata da abissi misteriosi.

La principessa comparve sulla soglia e chiamò Elisa colla mano.

— Ditele qualche cosa — mi susurrò all' orecchio la mia fidanzata prima di uscire. — Da me non vuole ascoltar nulla. Ditele voi che l'amo tanto, che mi fa pena vederla così!

La fanciulla non si era mossa; non aveva visto nè udito nulla. Aveva l'immobilità di una statua.

— Nora! — chiamai ad alta voce.

Si scosse, volse attorno una rapida occhiata e fermò sopra di me le sue pupille scintillanti.

Presi uno sgabello e sedetti vicino a lei; restavo molto più basso; la mia testa era a livello delle sue spalle.

— Nora — continuai — perchè fate tante stranezze? Non amate più vostra madre e vostra sorella? Sapete che ci addolorate molto?

Un lieve rossore le passò sulle guance, ma non rispose.

— Siete una bella ragazzina, cara, intelligente; potreste essere anche buona… come vi si amerebbe allora! Rispondete dunque, volete essere buona?

Uno scoppio di pianto altissimo, irrefrenabile, l'agitò tutta. Mi buttò le braccia al collo, premendo sulla mia bocca la sua faccia inondata di lagrime e mormorando:

— Non posso, non posso!

Mi era quasi sui ginocchi.

Le presi la vita con una mano e la sollevai, ricomponendola sulla poltrona, rifacendole intorno ai piedi le pieghe della veste, agitato io pure e commosso da quell'impeto selvaggio.

— Da brava, non piangete più.

— Parlatemi ancora!

— Avete visto lo scacchiere nuovo che mandò vostro padre?

— Non così, no, parlatemi come prima!

Si era appoggiata con un braccio sulla mia spalla e mi guardava dentro gli occhi.

— Che dicevo prima? Vi ho esortato ad essere buona, ma questo vi fece piangere… Ho detto che siete una bella ragazzina, cara, intelligente, vi piaciono i complimenti? Oh! ve ne farò ancora. Avete i più begli occhi del mondo. Sorridete? Ecco dunque le figlie d'Eva. Madamigella, siete troppo civetta!

Ero deciso a rabbonirla a qualunque costo e vidi con piacere che il sistema camminava.

Da vero diplomatico poi mi ripromettevo di cavarne tutto il profitto possibile, rappresentando ad Elisa i miei sforzi eroici, la mia pazienza e il mio trionfo.

— Vorrei sapere una cosa da voi, Roberto!

La mia cognatina pronunciò queste parole con una grazia incantevole, tirandomi dolcemente il baffo sinistro che si trovava dalla sua parte.

— Eccomi pronto. Desiderate che vi spieghi un quesito d'alta politica, un capitolo di filosofia della storia o la teoria di star bene a cavallo? Ah! Ah! indovino; volete sapere qual è la molla che fa camminare e parlare le bambole.

La fronte di Nora si corrugò all'improvviso, mi privò dell'onore di tirarmi i baffi e rispose seria seria:

— Sapete che non mi piaciono gli scherzi; non sono più una bambina.

— Perdonatemi, donna Eleonora.

Le presi gravemente una mano e l'accostai alle labbra con tutta la cortesia di un paladino.

Ella parve placata. Strinse nella mia la sua piccola manina e mi disse:

— Vorrei sapere se gli uomini amano allo stesso modo delle donne.

Confesso che rimasi di sasso e fui lì lì per rispondere che sua madre avrebbe potuto informarla meglio di me. Ma capii che era un prendere la cosa troppo sul serio. Certe birichinate da ragazzi non bisogna toglierle dalla loro sfera di ingenuità — si sciupano. Mi accontentai dunque di ridere, affermando che non conoscevo l'argomento.

Nora si morse le labbra con un dispettuccio tanto comico che non potei resistere al desiderio di baciarla, cosa che feci immediatamente, alla presenza della principessa che ritornava in quel punto battendomi le mani.

Il resto del giorno fummo tutti lieti. Nora non ci regalò nessuna romanza malinconica ed Elisa mi rese beato colla sua riconoscenza.

Ahimè, bel tempo d'aprile! La pioggia ci stava alle spalle; la vidi scendere in forma di lagrime dagli occhi di Elisa!

— Mia sorella non mi ama più!

Così dicendo la mia fidanzata mi abbandonò le mani, con un accasciamento doloroso, come se le restassi io solo sulla terra.

— È egli possibile, Elisa, che i capricci di una bimba vi turbino a questo modo? Tutti qui dànno troppa importanza a una ragazza male educata e cattiva.

— No, cattiva; vi assicuro che Nora non è cattiva. Ci siamo sempre amate intensamente; io con eguale dolcezza: lei alla sua maniera, con impeti di passione, con gelosie, con smanie… Guardate, sono persuasa ch'ella ora è in collera con me perchè… perchè vi amo.

Un delizioso turbamento aveva separato quei due perchè — ci sarebbe stato un posto per un bacio — ma Elisa continuò:

— Ieri sera m'ha fatta una scena; dice che non vuol più dormire nella mia camera; non si lascia più pettinare da me. Una volta, io sola toccavo i suoi bei capelli; il cerchietto d'oro glielo mettevo sempre io; mi chiamava la sua giovane mamma. Ci amavamo, Roberto, oh! ci amavamo tanto! Ed ora, mio Dio, non so resistere al pensiero di perdere quel piccolo cuore ardente…

Calmatevi, Elisa, sono burrasche passeggiere. Vostra sorella vi amerà ancora e quando mai… sollevate gli occhi, fissateli attraverso i miei sguardi nel mio cuore, dite, non ci trovate abbastanza amore?

Un lieve sorriso rischiarò il volto d' Elisa; mi strinse la mano in silenzio e per un istante dimenticammo ogni cosa, guardandoci: indi a poco riprese:

— Le è tornata la smania del suo lago.

— Che lago?

— Non vi ha mai parlato del lago verde?

— Sì, mi pare, ma non mi disse che cosa sia.

— Ah! dovreste vederlo. È un vero lago, lungo cinque o sei metri, coll'acqua profonda e verde come lo smeraldo, circondato di grotte, d' erba, d' alberi, di fiori, che so io, non mi ricordo nemmeno più. Da qualche mese Nora sembrava dimenticarlo, ma il gusto le è tornato perchè vi passa ore ed ore, sola.

— La principessa non dovrebbe permettere queste emancipazioni.

— Che male c' è — domandò Elisa la quale, come il resto della famiglia, non comprendeva che si potesse negare qualche cosa a Nora.

— La solitudine non fa bene ai ragazzi e i capricci poi, per quanto innocenti, non vanno tollerati.

— Ma è stato il babbo a farle la sorpresa del lago.

— Come! anche lui?

Io volevo dire: anche lui acciecato a tal punto? Ma Elisa non me ne lasciò il tempo.

— Sono già quasi due anni. Nora si destò una mattina tutta esaltata e commossa per un sogno che, al dire di lei, era durato tutta la notte e l'aveva riempita di una felicità tale che la febbre dell'ebbrezza le faceva battere ancora i polsi. Le pareva di riposare in mezzo a un lago verde, galleggiando come una naiade, sulla superficie lucente dell'acqua e mirando nel fondo uno scintillìo di gemme, un bagliore profondo e misterioso, fra una quiete altissima, tra profumi ignoti di fiori strani, — io non so raccontare, Nora ci meravigliò tutti colla sua descrizione. Era così innamorata di quel lago visto in sogno, che babbo per il suo onomastico gliene fece il regalo.

— Che!

— Davvero. Fuori del giardino, a destra, se Nora volesse darvene la chiave… ma è gelosa del suo lago; i profani non sono ammessi all' onore di vederlo.

Scossi il capo, compassionando non so se più le stranezze della figlia o l'indulgenza dei genitori.

— È da allora che la vostra graziosa sorella si veste di bianco e di verde?

— Ah! questa è un' altra cosa — disseElisa ridendo. — Nora pretende che nessuna donna osa vestirsi di verde e che lei sola può farlo.

Era orgogliosissimamente vero; al temuto confronto la bellezza straordinaria di Nora trionfava.

Quando si parla della rosa spunta il bocciolo. Stavo per fare questo complimento alla mia cognatina, ma mi accorsi ch'ella, entrando, non mi aveva veduto. Sedetti allora sulla poltroncina bassa, accanto alla finestra, nel posto favorito di Elisa; l'ampia tenda di damasco mi nascose completamente.

***

Nora si buttò svogliata sul divano.

Era un divano molto largo, antico, coperto di seta pavonazza a fiorami gialli, coi cuscini ornati di nappe pesanti. La figura giovanile di lei vi faceva un contrasto simpatico, stesa in un molle abbandono, privo d' arte ma non di grazia. Credendosi sola colla sorella non aveva studiato le sue solite pose di donna che la rendevano un po' ridicola e non posando, singolare a dirsi, era più donna che mai. La morbidezza delicata del suo busto aveva un palpito sensuale, come di persona che i desideri avvampano; il suo collo bianco e pieno si piegava indietro tra le ciocche brune dei capelli quasi per respirare nell'aria la voluttà di un bacio. C' era un dolore profondo, un vero dolore sotto le sue palpebre socchiuse, attraverso le quali gli occhi nuotavano in misteriosi languori.

Mi faceva, a guardarla, un effetto nuovo. Non l'avevo mai vista così; la trovai interessante in sommo grado, per la prima volta ne sentii compassione.

— Elisa!

La sorella, chiamata dolcemente, corse a lei.

— Elisa… mi ami?

— Se t'amo, cara, e puoi dubitarne?

Sedette anch'ella sul divano e l'abbracciò.

— Tu piuttosto…

Nora le chiuse la bocca col dito.

— Se sapessi come soffro!

— Ma di che cosa, mio angelo? Parla. Lo vedo bene che non sei più la mia Norina, che non mi apri più il tuo cuore come una volta. Ho pianto tanto, sai, ieri sera…

— Perdonami, che vuoi ch' io ti dica! Sono stanca di vivere.

— Nora, alla tua età!

— Io non ho età. Capisco che non sono mai stata una bambina come le altre. Mi sento vecchia di cent' anni; mi sembra di aver veduto tutto, di saper tutto e sono sempre le medesime cose. Io, vedi, non posso ridere, nè correre, nè giocare, nè essere felice. Ho un gruppo qui, qualche cosa che mi soffoca, che mi opprime. Non mi trovo bene in questo mondo; ne ho in mente un altro, diverso, non so come, ma diverso.

Si rizzò sul gomito. Era un po' rossa, di un rossore direi quasi interno, una fiamma chiusa in un globo d'alabastro.

— Sei ammalata, poverina!

Nora affermò col capo.

Le due sorelle stettero un bel pezzo abbracciate, confondendo in un gruppo la loro gioventù e la loro bellezza. In quel momento Elisa sembrava la minore. Elisa, colla sua fronte di vergine e i suoi occhi di bambina era l'innocenza. Nora era l'amore.

— Vorrei pregarti di un piacere — disse la fanciulla.

— Parla, rispose Elisa baciandole la manina.

— Dovresti cantare quella romanza che mi piace tanto… sai!

— Oh! è triste.

— Mi piace appunto per ciò.

— Ma non è da ragazzina, lo dice anche la mamma.

— Cantala egualmente!… Ti accompagnerò.

L' accento di Nora era supplichevole; Elisa cedette.

Le due sorelle si posero al piano. Elisa che ha una voce incantevole incominciò pianissimo; le piccole dita di Nora la seguivano sulla tastiera.

Io conoscevo assai bene quella romanza, tuttavia mi destò una commozione straordinaria.

Forse l'ora malinconica del tramonto, forse quelle due fanciulle biancheggianti nella penombra della sera, non so… tremava agitato da una tenerezza nervosa.

Quando Elisa disse:

« Ma quel bacio su cui semispento Il tuo labbro s'univa col mio, Nè tu stesso, nè il tempo, nè Dio Mi potranno quel bacio rapir. »

Nora mise un gemito; Elisa volle fermarsi ma la sorella ne implorò la fine con una violenza disperata.

« Io l'ho qui sulle labbra, lo sento Caldo ancora dall'ultima sera: Esso allora dicevami: spera, Or mi dice: ti resta morir. »

Non potè continuare.

Nora era caduta sul piano, piangendo e singhiozzando. Elisa, a' suoi ginocchi, l'abbracciava piena di desolazione e di sgomento.

***

Con un balzo fui presso a loro.

Elisa si ritrasse un poco ed io restai ritto, in piedi davanti a sua sorella.

Sulle prime non mi vide, non osavo chiamarla, poi alzò la testa e riconoscendomi, tese le braccia verso di me con un movimento rapido e angoscioso; poteva essere egualmente per attirarmi che per respingermi. Io l' interpretai nel primo senso e prendendola per le mani la strinsi contro il mio petto.

Che pensavo? Nulla. Fu un impeto istintivo; ma appena sentii la sua gracile persona appoggiata al mio cuore, ebbi come una vertigine, gli occhi mi si copersero di un velo, vacillai, la strinsi più forte e le nostre bocche si incontrarono.

Dio santo, che rivelazione!

Cercai Elisa collo sguardo — era scomparsa.

Le ombre della sera si addensavano nel salotto, reso più oscuro dagli ampî cortinaggi delle finestre. Fra poco sarebbe venuta la principessa; non dubitavo che Elisa fosse andata a chiamarla e Nora restava sempre immobile, singhiozzando sul mio petto.

La cinsi con un braccio, trasportandola di peso. Avevamo bisogno entrambi di ricomporci.

Fuori del verone, un'auretta deliziosa sollevava i profumi del giardino.

— Nora, venite, andiamo incontro a vostra madre.

Ella mi segui senza parlare. Povera fanciulla!

Non sarei uomo se dicessi che io camminavo al suo fianco impassibile. No! Quell'amore di donna sbocciato come un fiore prematuro in un seno di bambina, non poteva lasciarmi indifferente. Sentivo il suo respiro caldo, affannoso e mi domandavo quali arcani nascondeva quell' angelo di dodici anni; tentazioni bizzarre mi spingevano verso l'abisso delle sue pupille nere, ardenti, piene di tenebre e di passione.

Ella era affatto cambiata per me. Ogni traccia di fanciullaggini e di capricci scompariva davanti a un sentimento di profonda pietà e di inenarrabile simpatia.

Se qualche volta un sospetto, un dubbio si era prima d'allora affacciato al mio pensiero, lo avevo respinto come una sciocca vanità; ma ora tutto mi si faceva chiaro — le sue malinconie, le stranezze, le lagrime. Non avevo mai arrischiato nulla che potesse destarle amore; ma chi semina i fiorellini sulle vette rocciose e nei burroni inaccessibili? Chi dice all'aquila: vola in alto, l' orizzonte è per te?

Erano cresciute insieme, quelle due sorelle, sotto gli occhi della madre, eppure quanto diverse!

Vicino a Nora, in quel momento, sentivo il bisogno di pensare ad Elisa — come quando si è in pericolo si pensa al cielo — ma non avevo il coraggio di vederla, così subito.

Ero turbato, distratto.

Nora, sentite la voce di vostra madre sullo scalone? Da brava, correte a raggiungerla. Io vado a far sellare il cavallo. C'è una luna stupenda questa sera.

Chi sa che cosa avrei aggiunto ancora; forse nulla, forse troppo.

Ella mi stese la mano in silenzio, guardandomi col raggio investigatore de' suoi occhi dove l'innocenza si mesceva stranamente a un vago desiderio di colpa.

— Addio, Nora, addio. Dormite bene.

Fatti pochi passi, mi voltai per vedere se ella era ancora là. C' era. La luna l'avvolgeva tutta; in mezzo a' suoi capelli neri un punto d'oro brillava.

Pareva una piccola fata delle foreste d'Irminsul.

Gridai un'altra volta: Addio, Nora!

***

Dormii male nel mio elegante quartierino del Macao. Mi accorgevo proprio che sul principio d'agosto Roma diventa inabitabile — tuttavia l'avevo sempre abitata.

Il giorno seguente non potei recarmi alla villa. Gli affari e una quantità di occupazioni relative al matrimonio mi rubarono tutto il mio tempo — no, diciamo meglio, me lo comperarono pagandomi con un po' d'oblio. Nel mettermi a letto alla sera ero stanco ma calmo, e quando sotto i primi raggi del sole presi la strada della villa mi sentivo leggero e felice.

Le donne hanno pur ragione di dire che l'amore degli uomini è composto metà di orgoglio e l'altra metà d'egoismo — raro esempio coloro a cui sfugge qualche frazione da consacrare all'affetto puro.

Preso dalla vaghezza del paesaggio e dalla soavità de' miei pensieri, non affrettavo il passo della mia cavalla; lasciavo che le redini le ondeggiassero sul collo e lasciavo pure ondeggiare la mia fantasia nell'ignoto mare del futuro, mare sì dolce a vent' anni che tutti vorremmo annegarci.

Una sorpresa mi aspettava alla villa.

La principessa era uscita in carrozza con tutte e due le figlie, senza dire dove andava nè quando sarebbe tornata.

Nessun domestico aveva ricevuto ordini speciali. Doveva essere più ammalata del solito la signorina Eleonora perchè il giorno prima non s'era vista e tutta notte la principessa aveva vegliato presso di lei.

Quella mattina poi la signora aveva ordinato la carrozza con un fare tanto serio e reciso, con quel fare proprio da « imperatrice romana », diceva la cameriera da non permettere un tentativo di domanda qualsiasi.

L'opinione generale era che sarebbe tornata per il pranzo.

Accettai l'opinione e mi posi a passeggiare nel giardino. Non l'avevo mai visitato per intero, avendo poca simpatia per la botanica e trovando il posto migliorefra le due tende del salotto terreno presso la poltroncina d'Elisa.

Ora, poichè non mi restava di meglio a fare, percorsi quattro volte il viale dei melagrani, mi fermai davanti una siepe di rose del Bengala, ammirai col sigaro in bocca e il frustino in mano dei bellissimi tulipani d'Olanda, scambiai una poenia per un girasole, e finalmente posi il piede davanti a una misteriosa porticina, elegante, verniciata di fresco, che il giardiniere mi disse essere il terreno privato di madamigella Eleonora, il famoso lago dunque? Sì, il famoso lago.

Bisognava essere una bambina per tenersi la chiave di quel luogo incantato come fosse una fortezza inaccessibile. Aveva un muricciuolo così basso che io mi ricordai subito di averne scavalcati parecchi durante le odissee del collegio, e in fatti, senza quasi uno sforzo, mi trovai al di là.

Quantunque avvisato non potei frenare un moto di sorpresa scorgendomi sotto gli occhi un lago perfettamente verde, lucido, profondo, scintillante — pareva uno smeraldo vivo.

Il fondo era stato preparato apposta per dare all' acqua quel riflesso, e delle rive l' erba vi si specchiava così folta e lussureggiante che l'illusione riusciva completa.

Una grotta artificiale lo cingeva per metà; era anch' essa tutta verde, coperta e tappezzata di muschio, con un tavolino rustico e una sola sedia. La capricciosa eremita non vi riceveva visite. In quel piccolo eden la donna aveva preceduto l'uomo.

Vi regnava il più profondo silenzio; non mi venne fatto di trovare traccia alcuna di colei che soleva abitarlo.

Appena vicino molto vicino alla riva un posto, dove l'erba si mostrava alquanto calpestata, sembrava indicare che Nora vi si coricasse spesso. Quelle fitte foglie piegandosi l'una sull' altra dolcemente avevano conservato l'impronta del graziosissimo corpo; io mi vi gettai alla prima senza pensarci molto, ma poi mi parve di aver commesso un sacrilegio e me ne scostai arrossendo, mosso da un senso bizzarro di pudore.

Quell' erba coricata, quell' erba che l'aveva avvolta tutta, assorbito il suo respiro, baciato i suoi capelli, accolti forse, i sospiri della sua giovane anima, aveva una fisionomia propria, una voce, un accento.

Tutto ciò che Nora non aveva detto a me, quell'erba lo sapeva.

Cara fanciulla, il mondo intero potrebbe accusarti, ma non io, non io!…

Pensai allora — come non pensarvi? — alla romanza da Nora prediletta:

« Ma quel bacio su cui semispento ….. »

Perdonami, Elisa!

***

Alle 5 precise la carrozza della principessa entrò nella corte.

L'aspettavo. Corsi ad aprire lo sportello, porgendo la mano alla mia futura suocera. Ella discese con una certa vivacità insolita, così insolita che la rammento perfettamente come era in quel giorno e in quel momento. Aveva un vestito di velluto nero e un mantello chiaro a ricami; teneva in mano un ventaglio chinese che mi picchiò sul braccio.

Elisa le venne dietro, un po' mesta, cogli occhi rossi.

— Dov'è la piccina?

— Ah! — disse la principessa appoggiandosi, anzi abbandonandosi sul mio braccio — siamo andate a trovare mia cugina di Tersis e Nora è rimasta là.

— Non è ammalata dunque?

La principessa mi guardò in mezzo agli occhi.

— Ammalata! Perchè?

— Da molto tempo non si sente troppo bene, noi tutti lo sappiamo.

— E sapete anche il motivo, voi?

L'intenzione era di mostrarsi calma, ma la voce le tremava. Risposi con sicurezza:

— So che io non ci ho colpa.

— Da uomo d'onore?

— Da uomo d'onore.

— Bene. Mostriamoci lieti; dopo quindici giorni di assenza la bambina ci tornerà guarita da tutti i suoi capricci. Intanto tenete un po' allegra quella povera Elisa… vedetela!

Elisa infatti sembrava abbattuta; me ne ero accorto subito. Ci precedeva di alcuni passi, silenziosa, senza voltarsi indietro per guardarci o prender parte ai nostri discorsi.

Giunti sulla scalinata che mette al salotto terreno, la principessa si sciolse dal mio braccio:

— Vi raggiungerò miei cari. Vado a cambiare questo abito che mi soffoca; stamattina non credevo che dovesse fare caldo.

Mi volse uno dei suoi buoni sorrisi che era questa volta anche eloquente e ci lasciò soli.

Non sono mai imbarazzato quando mi trovo solo con Elisa; nemmeno allora, quantunque una nube leggerissima alitasse sopra noi e nel sereno occhio della mia fidanzata tremolasse, indistinto, un vago dubbio.

Il primo movimento mi spinse ad aprire le braccia — se io la presi o se ella vi si gettò non muta nulla alla situazione che parve ad entrambi dolcissima — così che quando Elisa sedette sulla sua poltroncina, in mezzo alle tende, era tornata la solita Elisa, la mia vergine campestre.

Il gelsomino appunto la incorniciava, come sempre, e come sempre io trovavo accanto a lei una pace profonda, un senso intimo e completo di ineffabile felicità.

***

La principessa non parlava mai di Nora, come se non esistesse. Oh le madri!

Il pensiero di quella sua prediletta doveva occuparla da mattina a sera; cercandolo lo si sarebbe scoperto in una piega della fronte, in una distrazione dello sguardo, ma nessun altro sintomo lo tradiva.

Ella voleva che Elisa si preparasse alle nozze in una atmosfera tutta di gioie. Io stesso che, molte volte, l' avevo accusata di favoritismo per la sua ultima figlia, dovetti convincermi che se una debolezza di simpatia l'attirava maggiormente verso quella, non restava però alterato l'amore vero e santo ch' ella portava ad entrambe.

Evitava con premura l' argomento malinconico dell'assenza; se Elisa nella sua serena innocenza vi faceva allusione, subito una parola gaia, uno scherzo, troncavano le investigazioni. Una volta poi le disse in confidenza (ed io lo so per lo stesso motivo) che non s'addiceva ad una bambina svegliata come Nora la vista quotidiana di due fidanzati…

Fors'anche la principessa, compiendo questo sacrificio, si preparava la gioia purissima ed esclusiva di riprendersi la cara fanciulla e tutta in essa concentrare i suoi affetti quando Elisa non sarebbe più là.

Elisa intanto non dubitava di nulla. Turbata, commossa, vedeva ogni cosa attraverso il velo immacolato del suo candore che l'amore appena tingeva di riflessi vermigli.

In quel periodo delizioso che si può chiamare il sonnambulismo dell'anima, una donna è troppo assorta nel celeste mistero che deve trasformarla per poter pensare lungamente ad altra cosa. E ua condizione eccezionale — alta troppo per guardare sulla terra e non ancora abbastanza per spaziare in cielo.

Coloro che sono partigiani dell'amore colpevole non sanno — e se lo meritano — quante ebbrezze prepara la virtù ai suoi seguaci. Non parlo delle ebbrezze mistiche, ma pure dirò, cara fanciulla, che nessuna delle donne che si acquistano o si conquistano nel mondo della galanteria mi fece mai battere il cuore come te quando ti guardavo e tu arrossivi.

Tutti e due in quegli ultimi giorni dimenticammo un poco la povera Nora. Elisa tuttavia se ne ricordò in tempo per domandare a sua madre:

— O che Norina non verrà per il matrimonio?

— Ma! — rispose la principessa. — Ella si diverte immensamente dai nostri cugini che hanno bimbe della sua età; non so quanto bene le farei conducendola qui ad assistere alla vostra partenza e alla mia solitudine.

— Appunto per questo. Tu sarai troppo malinconica allora…

— Lasciami scegliere il sacrificio, Elisa. Mi consolerò pensando a lei ed a te.

Elisa fu molto dispiacente di questa disposizione che le teneva lontana la diletta sorella; ma la principessa seppe dipingerle così bene il lieto soggiorno di Nora dai Tersis, e come avrebbe cambiato male tornando a casa in quei giorni di eccessive commozioni che alla fine parve rassegnata.

Un lutto nella mia famiglia doveva togliere alle nozze ogni apparenza di festa; si era scelto il soggiorno della villa appositamente.

Sembrava dunque che tutto camminasse liscio. Un'ombra, nondimeno, offuscava e rendeva sforzato il sorriso che la principessa conservava d'obbligo sulle labbra.

— Mi nascondete qualche brutta notizia? — le chiesi una volta, dopo che la lettura di una lettera del Tersis l'aveva rabbuiata. — Nora…?

— Nulla, nulla. La bimba sta bene. Dopodomani, dunque? Siete pronto? V' accomoda l' ora scelta? Si? grazie.

Mi strinse la mano con una gentilezza convulsa, senza darmi tempo di farle altre domande e si ritirò nella sua camera colla lettera in mano.

— Come porterete, mia dolce Elisa, quello strascico regale? Si può credere che faranno buona amicizia queste trine superbe colla vostra bellezza ingenua? Via, scommetto che sarete impacciata.

— Oh! impacciata proprio non credo; mi parrà di essere sul palco scenico; ma vedrete, signor critico, che la dilettante si farà onore.

— Sì, voi dovete essere capace di fare anche questa parte. Smanio però di vedervi al mio fianco, sulle montagne della Svizzera, col vostro abitino da viaggio e la veletta grigia.

— La veletta grigia non sta bene a tutte.

— D'accordo, quando non hanno le vostre rosee guancie e i vostri occhi brillanti. Vi assicuro che sarete incantevole; oh! allora proprio dovrò ripetere:

« Son geloso del zeffiro amante Che ti scherza sul crine e sul velo.»

Si parlava di veli — se ne metteva dappertutto. Io ero impaziente e affrettavo col desiderio quell'ora che doveva darmi Elisa per sempre.

Venne anch'essa. Vengono tutte « l'ore dai tetri mortali contate », le ore del delirio, le ore dello spasimo, le ore sante, le ore maledette. Venne, serena, come s'addiceva alla circostanza.

— Che bel sole! — disse Elisa. — Vuol farci festa.

— Troppo onore. Lo vedete, Elisa, il cielo si illumina per noi. Ringraziamolo con un bacio. Non è amando le creature che si dà lode al Creatore?

Eravamo beati.

La principessa incominciava a lasciar scorrere le sue lagrime: di gioia, diceva, ma non lo credetti, perchè dietro al pensiero di Elisa stava quello di Nora.

Una letterina della bimba giunse appunto quel mattino, diretta alla sorella. Era molto affettuosa, piena di espressioni tenere e meste, piena di ricordi; non una sola parola per me.

Nessuno mostrò accorgersi di questa lacuna — io meno degli altri — si lasciò Elisa tutta intera al piacere di leggere e rileggere la lettera. Si parlò di quando saremmo ancora riuniti, facendo i più lieti pronostici e i più graziosi progetti.

Il nostro viaggio doveva compiersi per la fine di settembre; il principe promise di passare l'ottobre con noi alla villa. Soltanto per l' apertura del Parlamento egli doveva trovarsi a Roma e noi tutti insieme.

I gusti della mia sposa erano semplici e casalinghi. La fantasmagoria delle feste, dei balli, dei ricevimenti a Corte non entrava nel suo programma e neppure nel mio; noi lo avevamo limitato ai confini del nostro salottino color perla, nel crocchio geniale dei parenti e dei vecchi amici; un po' di teatro, un po' di musica, tutto intimo, tutto in casa. Il sogno più caro non lo si diceva; ma quando i bruni occhi di Elisa si fissavano incerti e pensatori dentro i miei, forse ch' ella non vedeva al pari di me biancheggiare lontano una culla?

***

Molti parlano male del viaggio di nozze. Perchè? Io l'ho trovato delizioso.

Si fugge, si abbandona ogni cosa, persone e abitudini; si rapisce il nostro tesoro e lo si porta via dagli occhi curiosi, tutto nostro.

Dicono: si va a seminare in terra straniera le memorie dell'amore. In terra straniera? Qual è la terra straniera per un uomo felice? Io vorrei stringerti o alma terra dalle tue cime nevose fino ai caldi mari dove si specchiano le palme; vorrei stringerti al mio cuore come donna amata e chiamarti a testimonio del mio trionfo.

Non è che spazzandogli l'orizzonte davanti che si ingigantisce l'amore; albero superno gli abbisogna toccare coi piedi le viscere del suolo e colla fronte le nubi — tutto il mondo è per esso.

Tutto il mondo era mio e d'Elisa.

Due anime che s' incontrano, due corpi che si abbracciano, ecco il paradiso.

La principessa scriveva quasi ogni giorno. Ci diceva che Nora insisteva per tornarle vicina, che sembrava affatto guarita e che alla fine del nostro viaggio avremmo trovato la famiglia raccolta e in pace.

Elisa si rallegrava. Io no.

M' era occorso di vedere nel baule della mia sposa, mischiata coi libri e colle carte, una delle lettere che la signora Tersis mandava a mia suocera prima dei mio matrimonio. La principessa, che si era assunta il materno impegno di disporre per il viaggio gli oggetti della figlia, l'aveva smarrita e confusa insieme a quelli.

Tremai al pensiero che Elisa potesse leggerla; me ne impadronii, e per tutto quel giorno ebbi, lo giurerei, l'aria di un colpevole.

La signora di Tersis si esprimeva così:

« Non so cos'abbia la nostra Nora; ammalata non è, credetemelo; ho pratica di ragazze. La studio, la sorveglio e… mi preme di non precipitare un giudizio; aspettiamo.

« È buona, sapete? Vuol tanto bene a me e alle mie figlie, ma non giuoca mai con queste; preferisce restare in mia camera, sfogliando libri, pestando il cembalo; oh! a proposito, scusatemi, cara cugina, avete permesse alla vostra ragazza certe romanze che mi sorprendono: se pure, può darsi anche questo, ella non le ha imparate malgrado il vostro divieto…

« Noi, è certo, abbiamo avuta un'educazione diversa; ve ne ricordate? Da bambine eravamo proprio e null'altro che bambine. Ogni sforzo è nocivo alle giovani piante; mi pare che adesso si sfruttino troppo presto, ohimè! con quanto danno, i germi delicati e fatali del pensiero.

« Il male di Nora è nella testa. Riflettete e sappiatemi dire qualche cosa per mia norma. Vengono dei giovanotti in casa vostra?… Perdono, cara cugina, la mia domanda è sconveniente — ma se sapeste, se aveste osservato voi stessa certi sintomi ai quali noi donne e mamme non possiamo ingannarci!…

« V'ho parlato di testa, non di cuore; appunto perchè la credo e la spero una scappata del cervello.

« Sapete la mia compassione per i fiori di serra. Io amo le nevi immacolate dello inverno, perchè dopo quel gelido squallore mi torna più caro il bocciolo che germoglia spontaneo e profumato. State di buon animo, amica, noi manderemo fuori dalla serra il vostro fiorellino, gli diremo di dormire ancora i suoi sonni vergini sotto la neve.»

Povera madre! Come doveva avere sofferto nel vedere scoperto da altri quel segreto che essa sola credeva di conoscere.

Era questa certamente la lettera che le avevo veduto fra le mani. Povera madre!

Ed io?

Settembre finiva.

Salutammo i monti, i laghi, muti e cari testimoni della nostra luna di miele.

Lasciammo i nostri nomi intrecciati sulla corteccia di un pino in Savoia; due ciocche dei nostri capelli, strettamente uniti, in fondo al lago di Costanza; baciammo tutti e due al medesimo posto una roccia poetica e solitaria dell' Ercinia, e in una deliziosa vallicella presso Chamounix crescerà ancora, ai venti dei nord, un eliotropio che abbiamo piantato insieme, simbolo del nostro amore?

Il viaggio del ritorno fu dolce, di una dolcezza diversa.

Si stava per riabbracciare i nostri cari. Elisa aveva sempre sulle labbra la mamma e Nora. Quale vedrebbe prima? Che accoglienza le preparava la piccola zingarella fantastica?

Per parte mia non mi sentivo tranquillo.

Un presentimento no, nemmeno un sospetto: ma un'ombra tuttavia, un cruccio insistente, un malessere mi dominava.

Capivo che la cosa non era finita. Mio malgrado mi appariva nel futuro una minaccia ignota; temevo per Elisa, temevo per Nora… Oh! sventura ch'io non potessi formare la felicità dell'una senza distruggere quella dell'altra!

Ci aspettavano alla villa. Lettere e telegrammi si erano incrociati per una settimana, facendosi interpreti delle nostre impazienze. Credevamo di trovare qualcuno che ci venisse incontro fuori del cancello.

Elisa sporse con impazienza la testa dalla carrozza:

— Non si vede la mamma?

Nessuno.

La carrozza arriva nella corte deserta. Scendo. Elisa si precipita senza aspettare la mia mano.

Sulla scalinata di marmo incontriamo un servo cogli occhi spaventati, cogli abiti in disordine; è un vecchio cameriere che ha visto nascere le signorine.

— Dov'è la mamma?

Il pover' uomo si mette davanti a noi per impedirci di entrare; la sua lingua si rifiuta a proferir parola, ma i suoi gesti sono eloquenti. Una grande disgrazia è avvenuta.

Entriamo finalmente nel salotto terreno. Sull'ampio divano, dove per l'ultima volta avevo visto Nora abbandonata così bella nel fascino del suo occulto amore, giaceva ancora la fanciulla, immobile, col pallore della morte.

La principessa, accasciata, col volto nascosto su quel caro corpo, non ci vide entrare; udì il grido di Elisa e sollevò la testa.

Che sguardo fu il suo! Ne sostenni! la disperata angoscia con un coraggio che l' immensità stessa del dolore mi dava. Elisa si gettò nelle sue braccia.

Il principe, ritto accanto al divano, mi additò il piccolo cadavere con un gesto solenne.

Mi avvicinai, e la vidi nella sua veste bianca, cogli orli verdi, tutta intrisa d' acqua, sparsa di lunghi fili d'erba. Il cerchietto d'oro brillava ancora fra i neri capelli, ma lo splendore degli occhi era spento.

Non osai toccarla.

Sentivo lo sguardo della madre fisso su di me; era uno sguardo terribile, spietato; sembrava chiedermi: Perchè mi hai rapito tutte due le mie figlie?

E che potevo io fare se non cadere in ginocchio e piangere con lei?

Nora aveva chiesto vivamente di tornare presso la madre; la principessa che non desiderava altro ne era stata oltremodo lieta.

Quei pochi giorni trascorsi insieme resteranno scolpiti eternamente nel mio cuore — diceva — Nora non si mostrò mai così tenera, così affettuosa. Era un baciarla a tutte l' ore, un venirle presso, un chiederle amore e carezze. La povera bimba si struggeva in abbracci e in proteste appassionate.

Quando le annunciarono il nostro ritorno non si mostrò nè contenta, nè turbata. Si fece seria e pregò la madre di dire ad Elisa che lei le voleva tanto, tanto bene. Avendole risposto: Ma non glielo dirai tu? — soggiunse: — Non si sa mai!

La mattina del nostro arrivo sembrava assai mesta: pianse in segreto — la madre se ne accorse guardandola — poì si calmò, sorrise anche.

Un po' prima dell'ora attesa, scomparve.

Dopo averla cercata trepidanti, coll' ansia nel cuore, la trovarono distesa che pareva dormisse, nel suo lago verde, e dalla pace della composta fisonomia si potè credere ch'ella era felice nella realtà del suo sogno — che in fondo a quelle acque scorgesse i misteriosi bagliori che l'avevano attirata.

Elisa singhiozzava sempre accanto alla madre; il principe pareva impietrito. Io non trovavo parole di consolazione per alcuno — Dio santo! avrei dovuto prima consolare me stesso — e mi sentivo inconsolabile.

Verso sera, una pietosa curiosità mi condusse nel recinto favorito da Nora, là dove era il suo lago verde, dove era morta, dove ogni cosa ancora doveva parlare di lei.

Il silenzio vi dominava assoluto, quel silenzio materiale che lascia ascoltare così bene le voci del cuore. Non c'era un'eco in quella grotta solitaria? Nessun fiore, nessun sasso aveva ritenuto i sospiri della poveretta? E quelle onde immobili non lasciavano sfuggire il segreto della innamorata fanciulla che vi si era annegata?

Tutto taceva, tutto era muto.

Sedetti sull'erba e diedi libero corso alle lagrime. Un'ombra grigia, disegnandosi elegante e leggera sullo specchio dell'acqua, mi fece balzare in piedi.

— Elisa, tu qui?

La mia sposa sorrise con una dolcezza malinconica che sembrava dire: Il mio posto è vicino a te. Mi prese le mani e conducendomi pochi passi lontano, mostrommi sulla sabbia del viale alcune parole che la brezza della sera stava per cancellare.

Mi chinai, ma al debole raggio della luna non potei leggere.

— Ro-ber-to: disse Elisa lentamente, quasi sillabando.

Elisa dunque sapeva chi aveva scritto il mio nome sulla sabbia? O inutile silenzio, o inutili precauzioni!

Eppure, meglio così.

Strinsi Elisa fra le braccia, tremava tutta e piangeva.

— Elisa — proruppi con tutta la sincerità dell'anima mia — questo segreto che forse ci avrebbe divisi ci congiungerà di più. Ora non ho nulla da celarti.

Presi una foglia d'edera e cancellai interamente le traccie del mio nome. Elisa, curvandosi a sua volta scrisse: Nora.

— Verremo qui a pregare, amico mio. Dove gli altri non vedranno che una tomba noi sentiremo aleggiare lo spirito dell' amore che non muore.

Avevo compiuto dodici anni il giorno prima quando il babbo mi disse:

— Vèstiti, dobbiamo fare una visita.

Io non potevo immaginarmi che visita fosse perchè non conoscevo nessuno. Corsi diffilata da Betta e le domandai se sapeva dove il babbo mi avrebbe condotta.

Betta non sapeva nulla: essa argomentò che il babbo si fosse deciso a farmi fare la conoscenza dei nostri vicini, i quali lo avevano pregato tante volte di lasciarmi giocare colle loro bimbe.

— No, Betta, le dissi: sono persuasa che non si tratta dei nostri vicini; per loro il babbo non mi avrebbe detto di vestirmi.

Betta confessò di non poter trovare altro e si fece a calmare la mia curiosità osservando che presto lo avrei saputo positivamente.

Indossai così il mio abitino color pesca e stavo raddrizzando un bottone di rosa sul mio cappello di paglia, quando il babbo comparve sull' uscio della camera.

— Sei pronta Paolina?

— Eccomi.

Egli mi guardò minutamente con un' aria poco soddisfatta, a dir vero.

— Non si poteva vestirla meglio? domandò alla mia governante.

— Non saprei… rispose Betta confusa: è il suo abitino delle feste: vossignoria lo conosce.

Mio padre si masticò i baffi in silenzio: mi prese per mano e scendendo le scale disse che le mie mani erano ruvide.

— Non hai guanti?

— Sai bene che non ne porto mai.

— Ne compreremo un paio strada facendo; queste mani non sono presentabili.

Ma Dio buono, dove si andava?

La faccenda dei guanti presentò qualche difficoltà; non si poteva calzarmeli per nessun verso; non ci ero avvezza: una volta infilati alla meglio non potei piegare le dita, nè riunirle, per modo che le mie mani ciondolavano appese alle braccia come due ventole spiegate.

— La è pur goffa! borbottò mio padre a denti stretti. La sua intenzione non era di farsi udire da me; ma io udii e mi prese una gran voglia di piangere.

Adoravo mio padre, anch'egli era sempre stato buono e amorevole, e per la prima volta mi accorgevo di spiacergli. Un velo di tristezza mi offuscò tutta; mi parve che il babbo si trasformasse, che non fosse più lui.

— Suvvia sta allegra; smetti quel muso. Che diranno di te nella casa dove andiamo? Rasserenati; vedrai una signora buona e bella, che ti vorrà tanto bene.

Perchè questa promessa non mi ridonò la mia allegria? Non so. Avrei voluto tornare indietro, nella nostra casa, gettar via quegli odiosi guanti, consegnare a Betta il mio vestito color pesca e riprendere i miei giochi nell'orto colle mie bambole, i miei fiori, i miei libri.

Il babbo si fermò davanti a una bella porta, alzò gli occhi e sorrise; io guardai subito a chi aveva sorriso, ma non vidi alcuno — la persona era già fuggita.

Mi raccomandò ancora di essere gentile, di salutare con garbo; mi allacciò un bottone di quegli infelicissimi guanti, e ripetendo: da brava! suonò il campanello.

Un servitore in livrea, senza nemmeno chiedergli il suo nome, alzò una portiera di velluto. Mio padre mi trascinò dietro a lui; allora la voce più soave ch'io avessi mai udito pronunciò queste parole:

— Finalmente, Giorgio, vi siete deciso a condurci la bambina!

Chi diceva a mio padre Giorgio! semplicemente? Per la prima volta in vita mia lo sentivo chiamare così, e ne provai una impressione dolorosa come se qualcuno mi contendesse il suo cuore inalberando diritti che io sola credevo di avere.

Guardai quella persona.

Era una splendida creatura, di una bellezza così fulgida che non la potrei paragonare ad altro che ad un raggio di sole. Altissima, snella, di forme morbide e delicate, sembrava muoversi come una canna a ondate flessuose — oh! lei non era goffa. L'abito elegante non aggiungeva nè toglieva una linea alla grazia del suo corpo; aveva le braccia un po' nude, cinte da molteplici cerchietti d'oro che luccicavano e tintinnivano ad ogni gesto. La mobilità raggiante della sua fisionomia era incredibile; tutto aveva vita in quel volto; gli opulenti capelli neri, gli occhi espressivi, il sorriso incantevole, la carnagione pallida e bruna che si coloriva parlando e mutava ad ogni istante. Io la contemplava attonita.

— Vieni, Paolina! esclamò lei, circondandomi colle sue braccia graziose; noi dobbiamo diventare amiche.

Sapeva anche il mio nome!

— Non le ho detto nulla, sussurrò mio padre a voce bassa; vi chiedo scusa per lei se è un po' imbarazzata.

— Non preoccupatevi di questo, Giorgio; la conoscenza la faremo a poco a poco: non è vero, piccina?

Corrisposi male, devo dirlo, alle sue gentilezze; vedevo la fronte di mio padre corrugata quasi muto rimprovero, eppure non trovavo in me un solo impeto d'affetto, una sola parola buona.

— Andiamo, Aurora: disse una vecchia signora che faceva calze di seta sdraiata in una poltrona, lasciala in pace; si vede che è scontrosa e ci vorrà del tempo ad avvezzarla.

— Aurora, io ne sono desolato!…

Queste ultime parole le pronunciò mio padre

volgendosi alla bella creatura, la quale non parve per nulla turbata e mi rovesciò in grembo una manciata di chicche, sorridendo sempre.

La vecchia signora incominciò a farmi delle interrogazioni su' miei studi, su' miei passatempi: ed io le rispondevo in modo laconico, senza tralasciare mai di guardare mio padre e l'altra signora — Aurora! — sì, nessun nome poteva esserle più adatto; chiunque vedendola avrebbe indovinato che si chiamava così.

Si erano affacciati al balcone e parlavano piano guardandosi dentro gli occhi; mio padre le sorrideva in un modo che mi faceva orribilmente soffrire — non lo avevo mai visto lo quel sorriso!…

— Senti, mi diceva intanto la vecchia signora; non sta bene essere imbronciati: la mia Aurora, quand'era piccina, si faceva voler bene da tutti per il suo carattere allegro e gentile; la bontà e la grazia sono le più care doti di una fanciulla. E poi si diventa brutte, sai, a fare la cattiva!

Oh per questo non avevo bisogno di diventarlo. Non me ne ero mai preoccupata, ma allora capivo proprio di essere brutta e — curioso — nello stesso tempo mi accorgevo che il babbo era giovine e bello, e ne provavo un dispiacere così vivo come di una ingiustizia.

Silenziose lagrime colavano sulle chicche che avevo in grembo; la vecchia signora, disperando di potermi ammansare, si era rimessa a far la calza.

Nel tornare a casa il babbo non mi rivolse mai la parola — prova che egli era malcontento di me.

Io corcai subito la Betta e mi gettai nelle sue braccia raccontandole ogni cosa.

Per qualche giorno tutto camminò liscio come prima; il babbo sembrava bensì provare un momento di malessere quando arrestava gli occhi su di me, ma poi si rischiarava e baciandomi su ambedue le guance finiva sempre col dirmi:

— Sii buona, Paolina, allora tutti ti vorranno bene.

Tutti chi? Lui e Betta non erano le sole persone che dovevano amarmi? E non mi amavano già così, ad onta de' miei difetti? Non avevo conosciuta mia madre, la vita mi era passata intera fra quei due esseri che segnavano i confini del mio mondo; non mi era mai venuto il pensiero che tale stato di cose potesse cambiare e non invidiavo le bambine dei nostri vicini circondate di fratelli, di sorelle e di parenti. Io ero felice di avere il babbo solo tutto per me e la Betta mia anch'essa. Amavo in secondo luogo la nostra casetta e il piccolo giardino incolto dove m'era lecita qualunque scorreria e dove regnavo da padrona assoluta su mezza dozzina di brulli rosai. A cagione della mia gracile salute non andavo a scuola; un maestro veniva a darmi le lezioni primarie e il babbo mi faceva da ripetitore; non avevo dunque nessuna amica e cresciuta sempre sola non mi piaceva neppure la compagnia degli altri fanciulli. Ero una piccola selvaggia malinconica e capricciosa.

Una domenica dopo pranzo il babbo era uscito; Betta aveva ricevuto senza dubbio delle istruzioni, perchè la trovai in giardino grave, compunta, col suo libro di preghiere in mano.

— Paolina, ella disse mettendomi due dita sulla spalla: tu sei oramai una donnetta e certe cose le puoi comprendere.

— Sicuro, risposi sfogliando senza scopo e senza pietà i poveri fiori dei rosai.

— Sta tranquilla dunque; è tempo di mettere giudizio; sai che devono accadere grandi cose?

Diedi un balzo, come i puledri quando accennano ad imbizzarrire; ero retrograda fino al midollo delle ossa. Tutti i cambiamenti mi sgomentavano.

— Anzitutto, continuò Betta, lascierai questa casa per un'altra più grande e bella.

— Ecco che il principio non mi piace. Perchè non restiamo qui? Questa casa è sempre bastata per noi; l'abitiamo da dieci anni. Forse che non siamo le medesime persone?

— Tu ragioni sempre, piccina.

— E se un momento fa dicevi che sono una donnetta?

— Pace, via, non c'intenderemo più, se non hai un po' di pazienza. Il signor Giorgio…

— Meno male, tu continui a chiamarlo il signor Giorgio; non sei come quella signora dell' altro giorno che gli diceva Giorgio!

— Ah! ma quella signora, esclamò Betta afferrando la palla al balzo, quella signora, vedi, ha ben diritto di chiamare tuo padre col suo nome di battesimo.

— Diritto! esclamai rizzandomi come una vipera a cui si calpesti la coda.

— Eh! buon Dio, come ti alteri. Non si può parlare con te.

— Dimmi perchè quella signora ha diritto di dire Giorgio al babbo — e di mettersegli a fianco così, vicino vicino, guardandolo fisso negli occhi? … Ma dimmelo dunque.

Alcune goccioline di sudore imperlavano i capelli grigi della Betta; ella avrebbe rinunciato volontieri alla sua missione, ma io le ripetei con crescente impazienza:

— Dimmelo!

E allora ella si fece coraggio puntellandosi colle due mani sul suo libro di preghiere, come fosse un'àncora di salvezza:

— Perchè, Paolina, il signor Giorgio deve sposare quella signora.

Non dissi nulla. Continaia di lucciole mi danzarono improvvisamente davanti agli occhi, il giardino girava, girava, girava. Mi sentivo un gran gelo nel cuore e un fuoco tremendo nel cervello.

La Betta ebbe paura.

— Misericordia! esclamò facendomi sedere a forza sul banco vicino a lei.

Ma io diedi in uno scroscio di risa:

— Sposarla!… Lo credi?

— Non è quistione di credere; me lo ha detto lui.

— Lui!… Ebbene, io non voglio.

Mi alzai furibonda. Avrei schiantato ogni cosa intorno a me; avrei picchiato la Betta, me stessa, che so io? Mi sarei uccisa. Certo diventavo pazza; se non che le forze mi mancarono e a quell' eccesso di collera subentrò un leggero svenimento. La Betta mi portò sul mio letto.

Molte ore dopo, era notte fatta, io avevo ripreso completamente i sensi, ma non aprivo bocca; la mia governante, seduta presso una lucerna velata leggeva ad alta voce:

« Dio è misericordioso ma è giusto; egli premia i buoni e castiga i cattivi. Egli dice pure: amatevi gli uni cogli altri siccome fratelli. »

La porta di casa si aperse e si rinchiuse con strepito. Era mio padre; il suo passo risonava sulla scala; veniva come il solito a darmi il bacio della sera.

La Betta si alzò vivamente uscendo fuori nel corridoio; essa gli impedì di entrare, dicendogli:

— Dorme. La lasci riposare tranquilla.

Io udii ogni cosa e tacqui.

Non ho mai potuto sapere precisamente se la Betta abbia raccontato al babbo la mia scena del giardino. Sotto certi rapporti mi parrebbe di sì, sotto certi altri rapporti mi parrebbe di no; comunque, alcuni giorni dopo il babbo mi parlò lui stesso del suo matrimonio e di quella Aurora così gentile che doveva essere la mia seconda mamma. Disse tante cose tenere e commoventi tenendomi stretta fra le sue braccia, che mi vergognai un poco del mio cattivo carattere e gli promisi di essere più docile per l'avvenire.

Però alla sera domandai a Betta:

— Che bisogno avea mio padre di prendere moglie! Io ero felice con lui: e lui perchè non se ne è accontentato?

— La cosa è ben diversa, rispose Betta.

Ma per quanto io la stringessi, non riuscì mai a spiegarmi questa diversità: così non restai persuasa che a mezzo; e mi parve proprio che l'amore del babbo a mio riguardo non fosse così intenso ed esclusivo come il mio. Mi ricordo che soggiunsi:

— Io però non avrei voglia di prender marito!

— Eh! è presto: fu la risposta di Betta: e chi sa cosa faresti anche te se invece di dodici avessi vent'anni. Oh! si, io lo so cosa faresti anche te se invece di dodici avessi vent'anni. Oh! sì io so cosa faresti al primo uccellino che picchiasse nei vetri cantandoti: vieni? tu spiegheresti il volo senza guardare nè il babbo, nè me. Cose vecchie, cose vecchie!

Andai a letto sorridendo delle parole di Betta, e quando ebbi spento il lume, mi parve di sentire sui vetri della mia finestra — tic tic, tic tic: vieni?

Che faccia avrebbe quell'uccellino? Tanto, nessuna faccia d'uomo mi piaceva fuorchè quella di mio padre. Egli era veramente bello; aveva un paio di baffi lunghi e sottili, due occhi tanto dolci — non passava certo i trentaquattro anni.

Un giorno venne a casa con un bottone di cardenia all'occhiello.

— Dammi quel fiore!

— No, rispose ponendovi sopra la mano in atto di difesa: non posso dartelo.

— Perchè?

— È un dono.

— Dammelo egualmente.

— No, tornò a dire mio padre con fermezza.

Che dispiacere mi fece quel no!

Aurora mi mandò a casa una bella bambola vestita di seta rosa, colle perle al collo, nelle orecchie e nei capelli.

— Che amore! fece la Betta.

Io posi la bambola a sedere su un panchino e minacciandola col dito:

— Veh! — le dissi — se non sei buona!

Nè la guardai più, occupando tutto il mio tempo in giardino a svellere i rosai. Io volevo lasciare il deserto dietro a me; poichè si abbandonava quella casetta dove erano trascorsi i miei più belli anni, non aveva a restarvi traccia delle mie gioie passate, de' miei divertimenti rustici e solitari. Atterrai una capannuccia di vimini che mi ero fabbricata dove mi ritiravo nelle ore del sole a leggere Teofilo o il piccolo eremita.

Anche Betta era molto malinconica. Ella non voleva seguirci nella casa nuova; mio padre la consolava assicurandola che avrebbe potuto venire a trovarci quando che fosse, e che noi non l'avremmo dimenticata.

Oh! no, mai.

Il giorno del matrimonio mio padre era raggiante. A me avevano fatto un vestito appositamente, ma anche inutilmente, perchè non volli andare a vedere. Quando suonarono le campane della chiesa turai le orecchie.

— Non sta bene, ripeteva la Betta: una ragazzina deve essere docile; i dispetti e la musoneria sono proprio una brutta cosa.

— Ma quando la ragazzina è malcontenta? domandai piagnucolando.

— Le ragazzine non sarebbero malcontente se ubbidissero di buona voglia, come comanda Iddio. Vieni qui, inginocchiati e preghiamo insieme.

Andai, m'inginocchiai, ma non dissi nulla, accontentandomi di sospirare nel grembiale di Betta.

Dopo la cerimonia gli sposi dovevano partire per un viaggio e io fui condotta a salutarli alla stazione. Il babbo mi abbracciò con effusione baciandomi due o tre volte, Aurora mi diede le vertigini curvandosi verso di me col suo bel viso, co' suoi capelli che esalavano un profumo di giovinezza. Mi domandò a bassa voce che cosa doveva portarmi da Napoli, mi accarezzò, mi sorrise, disse che presto saremmo state sempre insieme e ci saremmo amate molto. Lo credeva?… ad ogni modo la frase era gentile.

— Sei un angelo! le mormorò mio padre all'orecchio mentre l'aiutava a salire in carrozza.

Ella sorrise ancora, e non ne fu che più bella.

Per un mese intero restai sola con Betta; la buona donna mi viziava in tutti modi, mi lasciava fare ogni cosa a mio capriccio, predicandomi tuttavia e recitandomi degli squarci di Vangelo.

In quel mese mangiai cinque volte la crema al cioccolatte, che era la mia passione; Betta me la preparava in segreto, dicendo poi: Ma ricordati di cambiar vita.

Terminai di mettere a soqquadro il giardino, e la Berta mi incoraggiava:

— Sfogati, poverina. Quando sarai nell'altra casa che ha un giardino all'inglese colla serra, colle aiuole, coi viali di sabbia fina, non potrai fare altrettanto; non te lo permetteranno.

Poco alla volta, senza affrettarci, raccogliemmo tutte e due i nostri fardelli, e per quanto Betta pretendesse di fare la forte, la sorpresi parecchie volte cogli occhi rossi.

Ogni tanto ricevevo una lettera del babbo che aveva in calce due righe di una scritturina aerea tutta piena di gentilezza per me. Io rispondevo con gravità seguendo strettamente le regole e avendo cura di mettere le virgole al loro posto.

Finalmente venne il giorno fatale. La Betta voleva struggersi raccomandandomi al Signore e raccomandando sè stessa al mio affetto. Dopo avere ben pianto:

— Là, Betta, io le dissi risolutamente: poichè siamo in guerra, combattiamo. Addio e coraggio.

Ci separammo così.

Casa nuova, vita nuova.

Aurora abbracciò con ardore i suoi doveri di madre; mi teneva sempre con lei, mi pettinava, mi vestiva, mi insegnava a lavorare. Era buona, era indulgente, eppure il filo arcano che lega due cuori non si svolgeva dai nostri. Lo sguardo solo della mia matrigna posandosi su di me, si velava spesso di una leggera tinta di noia! Più volte la sua manina bianca sollevandosi all' altezza della bocca reprimeva uno sbadiglio.

Bisogna convenire che la mia compagnia non era molto divertente; e poi non avevo nessuna delle doti graziose e leggere che attirano la simpatia. Mia madre mi avrebbe amata egualmente… ma lei che obbligo ci aveva?

Fra tutte e due segnavano i due poli estremi; in mezzo correva tutto un mondo. Lei era bella, gaia, felice, espansiva; io, brutta, malinconica, di carattere chiuso e riservato. Talvolta mi guardava con meraviglia, mordendosi in silenzio le labbra e pensando forse: Che razza d'una creatura è questa?

Del resto mai un rimprovero, mai una parola dura.

Aveva tentato sulle prime con un certo zelo di innalzarmi fino a lei, di insegnarmi il segreto delle sue eleganze, di foggiarmi sul suo modello cara e gentile — ma si stancò presto perchè nulla la sosteneva nell'ardua impresa, nè un forte amore, nè la docilità mia. Io ero, è duopo lo confessi un rozzo macigno immobile al suo posto; ma pure il cuore batteva dentro il mio petto meschino — sentivo anch'io il bisogno prepotente d'amare, sopratutto di essere amata, ma mi mancava una via di comunicazione fra i sentimenti e le parole. Ebbi la peggiore di tutte le disgrazie, quella di rimanere presto senza mamma, e in dodici anni di libere scorrerie come pianta selvaggia cro cresciuta irta di rovi e di asprezze. Se c'era qualche cosa di buono in me stava sepolto tanto in fondo e lo circondava sì dura scorza che al di fuori non ne traspariva nulla.

Il confronto giornaliero con Aurora mi nuoceva anche presso il babbo. Senza perdermi l'affetto, egli non poteva a meno di restare malamente impressionato dal mio poco garbo.

— Dora, disse un giorno a sua moglie, perchè non insegni a Paolina il tuo portamento, il tuo modo di camminare e di muoverti?

Lei alzò le spalle con un attuccio pieno di adorabile civetteria e prendendomi le mani esclamò:

— Andiamo dunque, signorina, imparate. Uno, due, tre — un bell'inchino.

Ma invece di approfittare delle sue gaie lezioni io mi facevo più triste e divoravo solitaria la gelosia che mi rodeva.

Tutte le sere, nei bei dopopranzo di maggio, Aurora appoggiata al braccio di suo marito percorreva i viali del giardino. Le loro figure leggiadre, strette insieme in un colloquio appassionato, si perdevano sotto i boschetti; la veste bianca di Aurora fluttuava tra i salici e le magnolie e si udivano gli scoppi argentini della sua voce come trilli d'allodoletta in amore.

Mi dimenticavano allora.

E quando tornavano indietro, vedendomi ancora seria e taciturna sulla soglia di casa:

— Che fai, mi dicevano: perchè non giuochi?

Non avevo voglia di giuocare. Io volevo essere felice come loro e non potevo.

Durante i caldi mesi dell'estate, Aurora passava quasi tutto il giorno sdraiata in una poltrona; si sentiva poco bene, era pallida, sofferente. Il babbo le stava vicino per delle ore, contemplandola; egli le prendeva le belle braccia nude e si divertiva a numerare i cerchi d'oro de' suoi braccialetti; quando aveva finito ricominciava. Poi dicevano delle parole a bassa voce, lui sorrideva lei scuoteva il capo. Quando si accorgevano della mia presenza, si mettevano in contegno. Aurora non mancava allora di rivolgermi qualche parola affettuosa, ma i suoi grandi occhi guardandomi non avevano lo splendore di scintille che vi avevo scorto prima, e la voce di mio padre dicendo: cara Paolina; non era così tremante e carezzevole come a dire: cara Dora.

La Betta veniva tratto tratto a trovarmi; piangeva quasi tutte le volte, e mi domandava, piena di mistero, se la mia matrigna mi faceva patire la fame — ella aveva sempre udito dire che le matrigne fanno patire la fame.

La rassicuravo pienamente su questo capitolo; aggiungevo per la pura verità che la mia era una matrigna molto buona.

Verso l'inverno, Aurora che non abbandonava quasi più la poltrona, ammonticchiava colla sua foga solita dentro un bel paniere nuovo tanti camiciolini guernite di trine, tante cuffiette ricamate coperte di nastri: il tutto così grazioso, così piccino che le domandai a che cosa dovevano servire.

— Ti preparo un bel fratellino, mi rispose festante; tu lo amerai?

— Ma egli mi amerà?

— Sì certo; tutti ti ameranno, purchè tu sii buona.

Pensai un pezzo e seriamente a quel futuro fratellino: il mio carattere naturalmente invidioso me lo presentava talvolta come un rivale, ma poteva anche essere un compagno, un alleato. Divisai di stare sempre con lui e di lasciare soli il babbo colla sua Dora.

Nel mio concetto dell'amore c'era infallibilmente l'idea egoistica del possesso unico; la persona che dovevo amare la volevo tutta per me, senza divisioni, nè concessioni. Il babbo, l'idolo della mia infanzia, m'era stato infedele — io gli avrei dato un successore.

Con queste disposizioni, udii in una fredda sera d'inverno le grida di un bambino e la vecchia signora madre d'Aurora, che già da qualche giorno si era stabilita in casa nostra, venne a portare in sala sotto il lume della lucerna un cosino tutto rosso, letteralmente sepolto tra i merletti, che si disse essere mio fratello.

Allungai subito le braccia per portarlo via, gli avevo già trovato nella mia camera un posticino a modo; ma, con mia grande sorpresa e dolore, la vecchia signora spaventata lo sollevò in alto, quasi a sottrarlo dai miei poco delicati amplessi, e mi ammonì di stare zitta, di avvicinarmi con riguardo, solamente per guardarlo.

Che delusione!

Il piccino dormì in camera del babbo e di Aurora, una donna fu posta esclusivamente al suo servizio, ed a me proibito in modo assoluto di prenderlo in braccio.

Dopo qualche mese tutti impazzivano per quel bambino, il più leggiadro, il più vezzoso, il più intelligente dei bambini.

Aurora lo mostrava, orgogliosa, a mala pena coperto da un camiciolino di battista che lasciava scorgere i gigli e le rose del corpicino — ne faceva osservare gli occhietti brillanti, la piccola bocca, i capelli fini e ricciuti. Tutto il giorno sentivo a ripetere: Com' è bello! Com' è carino! Il babbo se lo mangiava di baci.

— Ma è tuo figlio al pari di me? gli domandai una volta con alterigia.

Egli scappò fuori a ridere e non mi rispose nemmeno, tanto la domanda gli parve stravagante.

Certo — egli era suo figlio al pari di me e per Aurora lo era a mille doppi più di me.

Il fratellino non si fermò lì. Venne dopo una sorellina e poi un fratellino ancora; in cinque anni Aurora popolò la casa di tre vispi demonietti

— o angioletti, come si vuole.

Intanto, è facile capire, io non ero più una ragazzina; avevo finito l'epoca dei giuochi e delle carezze, contavo diciassette anni. Il babbo mi guardava pensieroso nei brevi istanti che i piccini lo lasciavono libero: Aurora aveva assunto a mio riguardo un'indulgenza molle, un po' indifferente, mista di superiorità e di dolcezza. I nostri rapporti erano tranquilli, corretti e freddi.

Davanti alle persone mi dava volentieri il titolo di figlia; sapeva bene che questo non l'invecchiava punto — era sempre nello splendore massimo della bellezza, con tutte le grazie della fanciulla unite alle seduzioni profonde della donna e della madre. La ci aveva un garbo tutto suo a trascinarsi dietro, ella così giovane e vezzosa, una bighellona di figlia tanto lunga. Mi presentava seriamente, e poichè nessuno voleva crederle, affermava incalorandosi:

— Sì, sì, è proprio mia figlia.

Espansiva, amava i suoi figli fino al delirio, ma si frenava in mia presenza. La udii più volte, dietro l'uscio, scoccare i baci più lietamente amorosi sulle guancie paffute del suo ultimo nato, e appena io comparivo farsi languida e indifferente. Gli slanci che non mi poteva dare cercava bilanciarli con una giustizia rigorosa e con tutte le apparenze dell'eguaglianza.

La passione che il babbo aveva per lei si era accresciuta di tutto il rispetto, di tutta l'ammirazione che destava la sua bontà inalterata. Aurora regnava su un trono di luce, e d'amore — i suoi bimbi, belli come lei, le crescevano intorno sorridenti — io sola stuonavo nella tinta generale del quadro; io sempre taciturna e malcontenta!

I miei fratelli mi amavano un poco; non troppo. Preferivano ruzzarsi e scherzare tra loro e mi chiamavano Paolina scura.

Lavoravo accanto ad Aurora, ma molte volte la mia presenza le riusciva di imbarazzo — imbarazzo che si traduceva in una lieve inquietudine nervosa o in un lento sbadiglio. Io capivo e senza darmi a conoscere la lasciavo sola co' suoi figli.

Erano allora degli scoppi di gioia vivace, un chiasso festivo, un'espansione di amore che nulla tratteneva, nulla vincolava. Le loro grida e i loro baci venivano a ferirmi nella solitudine della mia camera.

Avevo subito anch'io, come tutti, il fascino d'Aurora e l'amavo mio malgrado di un amore pieno di amarezza. Oh! che cosa non avrei dato per sorprendere ne suoi occhi una scintilla sola di quelle che prodigava ai suoi figli. Avevo le sue dolci parole, le sue carezze, anche i suoi baci, ma quegli sguardi non potei averli mai!

La spiavo nei menomi atti, nei cambiamenti rapidissimi della sua nobile fisionomia; vedevo quando, confrontandomi mentalmente coi suoi figli, un sorriso soddisfatto le irradiava le labbra. Una volta sgridò severamente il primogenito che mi aveva fatto non so quale dispetto, ma in quei rimproveri c'era maggiore tenerezza nascosta che in tutti gli elogi palesi tributati a me.

E chi potrebbe accusarla? C' è un dovere al mondo che obblighi una madre ad amare i figli degli altri come i suoi propri?

Aurora era generosa nella pietosa menzogna che si imponeva di mostrarsi egualmente amante e il suo cuore doveva soffrire quasi come il mio di quella continua finzione. Ella non poteva come le altre madri espandersi in tutte le forme di adorazione e di estasi che ispira quell unico fra gli amori — l'occhio geloso della figliastra le numerava gli amplessi.

E però una volta colsi a volo queste parole ch'ella diceva a sua madre e che senza alcun dubbio si riferivano a me:

— Sì, è una noia: in certi momenti sopratutto la sua faccia straniera che non dice nulla al mio cuore mi pesa e mi opprime, ma che farci? È la mia piccola croce, conviene sopportarla con pazienza. Pensa poi che non ne ho altre.

Buona, sempre buona, anche confessando che io ero la sua croce!…

M'avviavo sui diciotto anni e quel tal uccellino di cui Betta aveva parlato una volta non veniva ancora a picchiare nei vetri della mia cameretta.

Ci fu tuttavia una novità preparata dalla vecchia signora e messa avanti sotto le forme nè belle nè brutte di un vedovino con una bimba.

Mi fecero vedere anche la fanciulla; aveva quattro anni, era pallida. Mi guardò fissa con due occhioni malinconici e in quegli occhioni credetti scorgere una lagrima.

Ricordai tutta la mia vita dell'infanzia fino a quel giorno; ripassai per tutte le torture dell'invidia e della gelosia; feci col pensiero una tela di quello che sarebbe il mio avvenire con quella bimba — freddezza ancora, freddezza sempre, in luogo dell'ardente amore che io sognavo.

No, no. Ne avevo abbastanza di essere figliastra, non volevo diventare matrigna. Sapevo che quella bimba non mi avrebbe amata e sapevo pure che io non l'amerei.

Il mio rifiuto contrariò assai la vecchia signora. Aurora e il babbo non dissero nulla, ma lei battè il chiodo per un pezzo:

— Sperate di maritarla facilmente questa ragazza? Per le sue doti personali… non credo; e se Giorgio non le tiene nascosto qualche tesoro, non avrà neppure quanto basta per farle il corredo. Avesse almeno pensato a darle una professione, a renderla indipendente col mezzo del lavoro! quando si è poveri!….

Tali riflessioni me ne fecero fare molte altre. Incominciai a preoccuparmi del futuro. Mio padre occupava una brillante posizione dovuta al suo ingegno, ma ricchezze non ne aveva. I miei fratelli, sarebbero stati agiati per parte della loro madre — io no.

Una posizione indipendente! Come si fa dunque ad acquistare una posizione indipendente? Col lavoro; ma che lavoro potevo fare? Davvero non ci avevo mai pensato; eppure l' idea mi lusingava.

Ne parlai a Betta.

— Betta, che lavori può fare una donna?

Presa così all'impensata la mia vecchia governante rispose:

— Calze, orlo, ricamo.

— Quanto si guadagna?

— Secondo. Venti, trenta, ottanta centesimi al giorno; forse una lira; ma perchè me lo chiedi?

Le spiegai la cosa francamente, e allora sì che la vidi rovesciare lagrime a secchi.

— O la mia bambina! esclamò. Siamo dunque ridotti a questo? Ti mandano via? Ti obbligano a lavorare per vivere?

Dovetti calmarla, farle intendere con pazienza che nessuno mi scacciava, ma che io stessa desideravo di farmi una posizione per non dover nulla a chicchessia.

I miei studi trascurati fin dal principio e rimasti poi incompleti non mi avrebbero mai procacciata la patente di maestra; avevo però un'attitudine speciale per le lingue, ed applicandomi di proposito non disperai di perfezionarmi nel francese e nell'inglese, tanto da poter dare delle lezioni.

Eccomi dunque all'opera con tutto il fervore.

Subito subito non dissi il perchè di quella smania improvvisa, ma dovetti palesarmi alla fine, e sì il babbo che Aurora se ne mostrarono afflitti. Sembrava loro che tale risoluzione dovesse involgerli in una tacita accusa.

Aurora fu più tenera, il babbo prese ad occuparsi di me con maggior cura; per poco l'illusione biancheggiava ancora sull'orizzonte e mi cullai in essa — ma per poco.

Tante piccole inezie, un'occhiata, un sospiro, un moto d'impazienza, una parola sfuggita a caso; a serietà del babbo, la dolcezza rassegnata d'Aurora, l'indifferenza balda e giuliva dei ragazzi, tutto concorreva a raffermarmi nell'idea prima. Io ero d'imbarazzo in famiglia, o per lo meno la mia mancanza sarebbe stata così poca avvertita che non valeva la pena di rimanere.

Sulla fine d'ottobre annunciai in forma ufficiale il mio proposito irremovibile di accettare un posto di maestra per le lingue in un Istituto della città.

Erano tutti riuniti nel salotto, anche i miei fratelli e la mia piccola incantevole sorellina, che a tre anni era già un modello di grazia, a proposito della quale nessuno si faceva riguardo d'esclamare.

« Quanto è vezzosa!… non somiglia a Paolina.»

Una commozione improvvisa (ma chi può scer nere nell'arcana composizione di una lagrima se più prevalga il dolore o la gioia?…) inumidi gli occhi d'Aurora; mio padre scosse il capo in silenzio. La piccola Maria venne a gettarsi fra i miei ginocchi gridando colla sua vocetta acuta:

— Starai via molto tempo, Paolina? oh! prendi allora con te l'abitino della mia bambola, che ci farai la gala nuova.

— Lasciamola sbizzarrire, disse mio padre, questo capriccio dell'emancipazione non le durerà molto; la nostra casa le è sempre aperta, e i nostri cuori pure, non è vero, Dora?

Chi non cercò punto di dissimulare la propria contentezza fu la madre d'Aurora. Ella mi fece dei complimenti sinceri sulla mia risoluzione; disse che una ragazza povera, se non trova marito — e i mariti sono rari — va incontro a una esistenza travagliata, piena di sconforti e di umiliazioni. Soggiunse che il lavoro nobilita, che offrendoci uno scopo alla vita ci riconcilia con noi stessi, dissipa i malumori, ci rende più buoni e più giusti.

Mi meravigliai un poco che, in mezzo a tante virtù enumerate dalla vecchia signora, ella non mi dicesse anche che il lavoro cambia la faccia e sostituisce a una fisionomia poco amabile tutte le seduzioni della bellezza.

Negli ultimi giorni Aurora era sempre con me; mi colmava di dolcezze; si sarebbe detto che nel suo animo così giusto ella cercava i più piccoli torti del passato per compensarli e farmeli dimenticare.

Il mattino della partenza feci colazione sola col babbo e con Aurora; i ragazzi giocavano in giar dino sotto i grandi alberi che l'autunno sfrondava lentamente. Eravamo muti tutti e tre, pieni di una tenerezza nervosa che aspettava il menomo pretesto per sciogliersi in lagrime.

Quando si udirono nel viale le ruote della carrozza che veniva a prendermi mio padre si alzò di scatto, turbatissimo. La Dora mi allacciò con materna sollecitudine i nastri del cappello — tremava un poco.

— Ci rivedremo presto; la domenica la passi con noi; è cosa intesa, nevvero?

— Sì, sì.

— E non ci dimenticherai?

— Ah, no.

— E… pensa che ti vogliamo bene.

Mi gettai nelle loro braccia. Fu un momento di commozione indimenticabile.

Mio padre scese il primo per osservare se avevano portato i bagagli in carrozza. I bambini accorsero tutti giulivi, cogli occhi animati dal gioco, sorridenti.

— Addio, Paolina! Addio Paolina!

La piccola Maria mi fece scivolare in tasca la sua bamboletta raccomandandomi di rimetterla a nuovo per benino.

Sedetti fino in fondo alla carrozza; il babbo mi si pose allato. Aurora coi bimbi formavano gruppo sulla gradinata di marmo e mi inviavano clamorosamente i loro saluti.

Sull'edera rossiccia che pendeva dal muro la figura ammirabile della mia matrigna si disegnava più bella che mai; la sua fronte un po' pensierosa non riusciva ad ombreggiare il lampo degli occhi, splendidi. Vista così, in alto, coi tre fanciulli che le si aggruppavano alle vesti, col busto gettato all'indietro e il braccio teso verso la carrozza che partiva era degna del pennello di un artista.

Fino all'ultimo, come nel primo giorno che la vidi, la sua meravigliosa bellezza mi soggiogava con un fascino strano, misto di simpatia e di acre invidia. Continuavo a guardarla, gustando un piacere pungente nel tenerla tutta occupata di me, immaginando che in quell'istante nessuno avrebbe potuto togliermi la sua attenzione.

Ma la piccola Maria, saltellando, cadde per terra, ed Aurora si precipitò verso di lei.

La carrozza intanto voltava l'angolo… Aurora non pensava più a me.

Et je fis deux heureux à la fois!
BÈranger.

Raccontate — io dissi — ed egli incominciò:

« Compivo a Bergamo l' ultimo anno di liceo quando, stimolato da un amico, mi posi in capo di studiare il tedesco e lo stesso amico s'incaricò di scegliere il professore — un professorone coi fiocchi certamente, un Anderbuchen o un Vlandisbachen colla barba, cogli occhiali e con tutto lo scibile umano nel cervello.

— Vieni — mi disse un giorno l' amico prendendomi sottobraccio — voglio presentarti alla fonte eccelsa dove noi beveremo a ondate, a fiotti, a torrenti la tedesca sapienza.

Prendemmo la salita di città — e su e su lungo i Torni che serpeggiano a guisa di spira sul cocuzzolo della montagna.

— Dove diavolo mi conduci?

— Il genio abita sempre in alto, le vette o il quinto piano. Il primo piano e le valli sono per la gente da poco, per gli infelici banchieri carichi di reumatismi, per i milionari idioti, razza plebea che non comprende la voluttà dell'aria libera, del cielo spazzato.

— E di quindici lire al mese per il fitto.

Eravamo giunti. L' amico bussò a una casetta piccina e bianca che dominava da un letto di verdura tutta la valle del Brembo; aveva davanti un giardinetto pieno di rose e a tergo i picchi di granito vestiti di muschio. Vi si respirava l'idillio — ma io me lo guastai anticipatamente pensando alla barba del professore — caso morale e pratico per dimostrare che a guastarsi le idee si è sempre a tempo! Comparve una giovine signora bionda, grassotella, con un nastro ceruleo intorno alla vita.

Guten Tag! — diss'ella inchinandosi con una mossa franca e leggiadra.

— Madamigella — rispose il mio amico — noi siamo totalmente stranieri alla lingua di Goethe. Voglia permetterci di salutarla in italiano.

Ella biascicò qualche parola italiana facendosi rossa — per mio conto capii più il rossore che le parole.

— Vittorio — dissi piano al mio amico — costei è la figlia del professore?

— Stupisci e impara. È il professore stesso.
Stupii sùbito — l'insegnamento venne dopo…

Un professore in gonnella! che larga prospettiva di istruzione volontaria e di scienza applicata per due studenti!

In quell'istante avrei pagato dieci lire un frammento di specchio e le avrei pagate tanto più volontieri perchè ciò implicava la supposizione che le dovessi avere.

L'amabile maestrina ci chiese se volevamo incominciare subito la lezione. Vittorio mi consultò collo sguardo — a dir vero ci aspettava il ripetitore di fisica con un tema preparato sull'attrazione dei corpi celesti — ma qual corpo potevasi immaginare più celeste di quella ventenne giovinetta, fresca come il mattino e raggiante come un sorriso?

Attrazione per attrazione, Vittorio ed io non stemmo in forse. Cinque minuti dopo si sedeva tutti e tre attorno a un tavolino lungo un metro e largo sessanta centimetri.

Ella era la maggiore, noi toccavamo appena i diciotto anni — e vi domando cosa si fa, con cinquantasei anni in tre, attorno a un tavolino!

Credo che per quel giorno non abbiamo veduto altro che il cartone della grammatica — ma in compenso avevo osservato i bellissimi denti e la manina morbida di madamigella Wilhelmine.

Nei giorni che seguirono fu una gara tra Vittorio e me per arrivare i primi alla lezione; accadeva di correre trafelati ambidue per strade opposte e di batterci il naso sulla porta della casetta solitaria. — Allora si prendeva un'aria seria:

— Come hai anticipato!

— Anzi tu!

— Ti aspettavo.

— Ti cercai dovunque.

Sulle prime ella ci accoglieva gentilmente senza parzialità, ma mi parve notare che i suoi occhi diventavano oltremodo teneri quando correggeva sul mio foglio il verbo Lieben.

Eravamo giunti alle piccole frasi e Wilhelmine accentava con sentimentale languore: Mein Herz seufzt nach ein unbekantes Wohl: il mio cuore sospira un bene ignoto.

Anche il mio cuore incominciava a sospirare un bene… non troppo ignoto a dir vero — tuttavia nemmeno notissimo; non vorrei mi pigliaste per uno scapestrato.

Io ero allora in quel periodo fortunoso della prima giovinezza che bene si può rassomigliare all'alba — il sole non è sorto ancora ma non è più notte.

Sentivo una dolce commozione quando la bella Tedesca mi guardava, o quando, sotto al piccolo tavolo, accadeva uno scontro più o meno involontario di ginocchi.

Il focherello prendeva a poco a poco le proporzioni d'una fiamma.

Un giorno, fatto ardito dalla circostanza che Vittorio raccoglieva per terra alcune penne cadute e quindi non poteva vedermi, mi impadronii della mano di Wilhelmine e la strinsi con tutto l'ardore d'una dichiarazione appassionata. Ella ritirò la mano, ma pochi momenti dopo scriveva sul mio quaderno: Eure Augen gefallen mir: e siccome avevo il dizionario davanti, tradussi senza fatica: mi piacciono i vostri occhi.

Che potevo desiderare di più? Gli occhi sono la via del cuore e se alla bella prima madamigella Wilhelmine imbroccava la via giusta, io dovevo considerarmi senz'altro il più felice dei mortali — frase consacrata per l'uso speciale degli innamorati in estrema cottura.

Alla lezione seguente, madamigella ci significò che i nostri progressi erano troppo ineguali per continuare a istruirci insieme. Si rimase d'accordo che io sarei andato alla mattina e Vittorio dopo mezzogiorno.

La mia vanità fu oltremodo solleticata per questo ritrovato ingegnoso e il mio amore seppe approfittarne. Wilhelmine era una di quelle donne dolci, sentimentali e vaporose sulle quali si arresta quasi sempre la fantasia inesperta di un giovanetto in cerca del suo primo amore.

Il primo amore, si sa, è indispensabile come il primo veglione — e torna poi comodissimo a quarant'anni, quando si sente il bisogno di rifare il cuore e di tessere un po'di poesia retrospettiva.

Wilhelmine dunque era sentimentale. Amava il raggio di luna, le stelle nuotanti in una striscia di latte, leggeva Werther, sfogliava le margherite e mostrava un delicato orrore per tutto ciò che sapeva di materia.

lo l'adoravo. Avrei voluto avere ali d'angelo per sfiorare, accarezzandoli, i suoi biondi capelli. Invidiavo le zanzare e le mosche che si posavano sul suo bianco collo. Invidiavo il suo canerino che le baciava le labbra per carpirle una mandorla.

Tenera e appassionata, non mi nascondeva l'affetto che le ispiravo, ma sapeva avvolgerlo in nubi così eteree che io stavo sempre sospeso fra il cielo e la terra.

— Ella è pura come un cherubino — pensai — non somiglia alla Margherita di Goethe, ma piuttosto all'Ofelia di Shakespeare.

Presi in conseguenza delle pose d'Amleto; mi vestivo di nero, passeggiavo di notte nel camposanto e le recavo al mattino una viola côlta sul sepolcro d'una vergine.

Un incidente semplicissimo accrebbe il romanticismo dei nostri amori.

In una bella domenica sulla fine di aprile ella mi pregò di accompagnarla a pranzo da una sua amica, ed io mi feci un dovere di andare a riprenderla verso sera. La strada era lunga e noi senza fretta. Quando si giunse in cima ai Torni cadeva oscurissima la notte e il cielo senza luna copriva come un ampio padiglione azzurro la sottoposta valle del Brembo.

— Mio angelo, le dicevo, vedi tu quella stella che ci guarda soavemente? È l'astro del nostro amore.

— Mia vita — ella rispose — finchè splenderà quell'astro in cielo il cuore di Wilhelmine splenderà del tuo amore.

— Anima mia!

— Mio sospiro!

A questo punto ci trovammo davanti alla porta di casa sua e Wilhelmine sciogliendosi dal mio braccio cercò nel taschino dell'abito la chiave.

— Quanto mi duole lasciarti! — mormorò ella improvvisamente. — Ho paura di morire stanotte e di non vederti più!

Le donne hanno di queste idee funebri nelle ore più liete. Risposi:

— Se vuoi, mi coricherò sotto alla tua finestra, sul muschio profumato e sognerò di te.

— Vieni! — ella disse prendendomi gentilmente per la mano; — voglio mostrarti il mio piccolo giardino; intanto passerà la prima parte della notte e non avrò più paura a restar sola.

Era buio come nella coscienza di un ambizioso, ma ella volle ad ogni costo farmi vedere un boschetto in fondo al giardino ed io per creanza le dissi che era bellissimo.

— Entriamo nel folto di queste piante; udremo cantare l'usignuolo.

— E vi resteremo, amor mio, fino ai primi trilli dell'allodoletta.

Passai il mio braccio intorno alla sua vita e i suoi biondi capelli profusi m'avvolsero in un'aureola, e il suo timido cuore innocente palpitava sul terzo bottone del mio soprabito. Fu una notte di cielo!

Wilhelmine mi chiese di lasciarla morire fra le mie braccia — ed aveva abbandoni così casti, ebbrezze così pudiche ch'io mi sarei prosternato ai suoi piedi come sui gradini di un altare.

— O Wilhelmine, cherubino dai capelli d'oro mi amerai sempre così?

E Wilhelmine oppressa dall'emozione, pallida di languore, col capo abbandonato sul mio petto rispondeva:

— Chiedi al fiore se in ogni mattino sarà aperto al bacio della rugiata, chiedi al zeffiro se cesserà di accarezzare i platani frondosi, chiedi al ruscello se rallenterà il suo corso, chiedi al sole di domani se brillerà ancora sulle nostre teste!…

— L'aria è un po'fredda, per te, mia divina!

— Posa la tua mano sul mio cuore e mi sentirò avvampare. Tu sei la mia vita.

L'allodoletta cantò e noi non l'udimmo.

L'alba che spuntava dietro le creste dei monti ci sorprese abbracciati. Wilhelmine si coperse di un incantevole rossore.

— Addio mio puro giglio! — esclamai ebbro di felicità.

— Addio, mio unico pensiero!

Lungo la strada incontrai molte fanciulle che si recavano ai lavori.

— Donne! mormorai guardandole con disprezzo. Donne plebee e volgari, materia appena animata. O Wilhelmine, spirito etereo, tu sola esisti per me!

Durante la settimana chiesi invano alla mia bella di concedermi una seconda conversazione al raggio delle stelle — ella resistette dolcemente, ma con fermezza. Le era venuto qualche scrupolo; il suo cuoricino ingenuo temeva di abbandonarsi troppo alla passione.

Pregai, piansi, promisi, ottenni.

Al giovedì ci trovammo ancora — splendeva la luna — ella teneva sui ginocchi Werther tradotto in italiano — ed io sdraiato a'suoi piedi leggevo le pagine più sentimentali.

— Domenica vai ancora dalla tua amica? — le chiesi al sabato a sera.

— Sì.

— E verrò a prenderti?…

— No, mio bene; non sarebbe convenienza… due domeniche consecutive!

Ammirai il suo prudente riserbo, ma non potendo resistere all'idea di restare tante ore senza vederla meditai una graziosa sorpresa.

Sull'imbrunire i Torni sono deserti; scavalcai senza fatica la siepe bassa del suo giardino e mi nascosi nel romantico boschetto, tempio di sì graditi misteri.

Udii sonare tutte le campane, udii i falchetti stridere rintanandosi sui greppi e l'usignuolo modulare tra i rami il suo invito all'amore; colsi tutte le rose del giardino e le sfogliai sul piccolo banco di legno dove Wilhelmine appogggiava il suo corpicino morbido; c'era nella ghiaia dei sassolini bianchi che io baciai pensando che ella li aveva sfiorati col lembo della gonna.

Finalmente udii la sua voce; non era sola — naturale — qualche vecchio zio o qualche cugino losco le avrà fatto da cavaliere. Ma i passi si avvicinavano. La voce chiara e simpatica di Wilhelmine pronunciò queste parole:

— Vieni! voglio mostrarti il mio piccolo giardino.

Pare una mania in lei!

I passi si avvicinarono sempre più ed io mi rimpiattai alla meglio dietro un cespuglio.

Vidi due ombre. La sua, bianca e vaporosa — l'altra, nascosta da un ampio cappello.

Proprio sul limitare del boschetto Wilhelmine esclamò con quel tuono languido che io conoscevo tanto bene:

— Sediamo sotto gli alberi; udremo cantare l'usignuolo.

E la voce di Vittorio rispose:

— Mia cara, c'è rischio di prendere un raffreddore.

No, non ridete altrimenti non avrò il coraggio di confessarvi ch'io dovetti stare non so quante ore cheto è tranquillo dietro il mio cespuglio intanto che Wilhelmine e il mio perfido amico filavano l'amor platonico.

Udii Wilhelmine che sfoggiava il suo repertorio di frasi sentimentali, che chiamava i fiori e la rugiada a testimonio del suo amore, che semi-svenuta sull'òmero di Vittorio mormorava con un fil di voce:

— Vorrei morire ora!

Insomma tale e quale la parte che recitava con me — un quadretto in doppio originale — una lezione in due tempi.

E a proposito di lezioni, potete essere persuasa che io non ne presi altre dalla innocente maestrina — nè da nessuno più.

« Ecco perchè non conosco troppo bene la lingua tedesca. »


Note: * Nota dell'editore: Da questa novella fu tratta la commedia milanese che si intitola: La mia pipa.

L'ottimo Joseph Goldbacher, borgomastro della città di Lindau in Baviera, si svegliò una notte di soprassalto e non trovossi più accanto la moglie.

Poffare, che caso! Ell'era forse sparita?

Che avrebbero detto le buone comari di Metzgerplatz e chi avrebbe preparato a lui, Joseph, del vero sauerkraut alla tedesca, poichè nè Elisabet, la figlia, nè Trudchen, la serva, sapevano cucinare alla perfezione come madama Gretchen Goldbacher?

Esistevano forse nella pacifica città di Lindau don Giovanni capaci di rapire la moglie di un borgomastro … — e dentro il proprio letto? — chè alla sera egli l'aveva proprio veduta, mentre inginocchiata sul talamo annodava intorno al capo l'ampio fazzoletto di madras; e aveva udito colle proprie orecchie il solito gute-nacht che da vent'anni cullava i suoi dolci sogni.

— Ah! madama Gretchen, madama Gretchen, me l'avete fatta grossa! — mormorò l'onesto magistrato, rizzandosi a sedere e girando intorno alla camera nuziale le sue pupille tonde e stupefatte. — Dovrò io scendere dal letto e cercarvi per tutta la casa, per tutta la contrada magari, infida Gretchen?

L'ombra di questi tristi pensieri oscurava la fronte del pacifico borgomastro contrastando col florido vermiglio delle sue guancie che simili a due mele moscatelle gli pendevano da una parte e dall'altra e tremolavano ad ogni scossa della testa.

— Per fermo se l'assenza si prolunga io dovrò scendere dal letto — continuò il brav'uomo gettando uno sguardo melanconico alle sue pantofole ovattate sulle quali. Elisabet aveva profuso dei vergies-meinnicht di lana e seta con certe perline bianche trasparenti che dovevano simulare la rugiada.

Posso io ammettere il caso ch'ella sia andata a preparare la pasta per i Krapfen onde averli pronti domani all'ora della colazione? No, è troppo presto — concluse osservando che la sfera del suo grosso orologio d'argento segnava appena le due. — Forse Elisabet si sente male? ma è impossibile; mia figlia non si sente mai male. Orsù, m'avvedo che dovrò discendere; e tuttavia se ella è in casa ritornerà; se è fuggita, come faccio a inseguirla? Calmati, calmati, Joseph, tu hai un naturale eccessivamente vivace. Andiamo; bisogna ragionare con tranquillità.

Faceva un po' freddo e il degno borgomastro si tirò le coltri sul naso.

— Vediamo, calcoliamo tutte le ipotesi probabili. Gretchen è una donna assennata, casalinga, affezionatissima alla famiglia; non avrà aspettato a perdere la testa proprio questa notte, dopo vent'anni di matrimonio! a meno che fosse questa la notte del Giudizio universale e per evitare scandali abbiano incominciato dalle donne!

Sorrise egli stesso della sua lepidezza e voltandosi sull'altro fianco:

— Io ho un'immaginazione assai feconda in verità; ciò deve nuocere al benessere generale dell'organismo; la sovrabbondanza dei pensieri dimagra … Gretchen, che brutto tiro mi hai giocato! Se fossi certo di non pigliare una infreddatura vorrei arrischiarmi fino alla camera di Elisabet; ma e'è di mezzo quel corridoio dove soffia un vento perenne; converrà vi faccia porre un'impannata; sarà molto ben fatto. Ma intanto chi mi consiglia?

Un improvviso slancio di coraggio decise Joseph Goldbacher a rigettare le coltri e teneva ancora una gamba sospesa, quando Gretchen entrando improvvisamente col lume in mano gli suggerì il pensiero di ritirarla; ciò che egli fece col massimo piacere, rimproverandosi in cuor suo di essere stato troppo impetuoso e sollecito.

— Gretchen, mia buona moglie, mi fai passare una perfida notte e il tuo madras è di raverso.

— Ah! Joseph, quale disgrazia ci ha colpiti! — esclamò la donna arrotondando sul fianco il suo braccio muscoloso, così che presentava tutt'insieme l'aspetto di una leggiadra bastardella col manico. — Hanno rubato la pipa dello zio Bernhard!

— La pipa dello zio Bernhard! — ripetè il borgomastro con una leggera velleità di ricacciare fuori la gamba; velleità, m'affretto a dirlo, che fu subito repressa. — E come avvenne ciò mia buona Gretchen? La nostra casa è forse in possesso dei ladri?

— Dormivo — rispose Gretchen, senza avvedersi che il madras moltiplicato colla camicia dava un prodotto abbastanza incerto — dormivo e mi svegliò un rumore nella sala da pranzo. Balzai allora dal letto …

— Turbolenta Gretchen! Non hai dunque riflettuto ai pericoli che potevi incorrere?

— No, amico mio. Cedendo a un moto subitaneo volai nel salotto ma sulle prime non vidi nulla …

— Se venissi a letto, Gretchen, colomba mia? Io son tutto assiderato e muoio per impazienza di sentire come sparve la pipa dello zio. Non c' è esempio ch'io abbia mai passato una notte come questa; ammalerò di sicuro; vieni a letto Gretchen.

— Non vidi nulla — proseguì Gretchen coricandosi a fianco dello sposo — ma non volli darmi per vinta e rovistai in ogni angolo …

— Imprudente donna!

— Finchè mi accorsi di un vuoto al di sopra della stufa; oimè, la pipa non era più appesa al suo bel cordone verde.

— Quello che tu racconti è meraviglioso. Mi faresti credere di essere a Balsora o a Bagdad, dove ai tempi del califfo Aaron-al-Raschid succedevano tali strane avventure. S'è mai udito di un ladro che si introduce di notte in una casa per rubare una pipa?

— Non pare verosimile infatti poichè vi sono le nostre belle posate d'argento e la tua catena d'oro, Joseph, e la mia collana di perle; no, qui vi è un mistero.

— Un mistero! — borbottò il borgomastro — un mistero nella mia amministrazione, nel mezzo della mia buona e pacifica città di Lindau! Gretchen, te ne scongiuro in nome del nostro amore, non parliamo più di questa faccenda. Sento che domattina non avrò appetito.

— Joseph — riprese la donna incrociando le sue mani grassoccie sopra la rimboccatura del lenzuolo — m'è venuto un sospetto. Non potrebbe essere l'anima dello zio Bernhard ch' è venuta a riprendere la sua pipa?

— Gretchen — disse l'onesto magistrato con voce solenne — vi sono tali argomenti che la gente timorata non affronta mai. Prega pace all'anima dello zio Bernhard e procura di addormentarti come intendo di fare io. Senti? Suonano le ore a tutti e due gli orologi di Marktplaz — sono le tre. Ti pare che una buona cristiana debba vegliare ancora? Dormi tranquilla Gretchen, domani schiariremo la cosa.

Su questa saggia conclusione i due sposi chiusero gli occhi.

Ben tosto la camera ripercosse il russare sonoro e prolungato di Joseph Goldbacher mentre il sonno di Gretchen, più leggero, tradiva l' inquietudine.

Il sole — un pallido sole di febbraio — aveva già baciato le ondo azzurrine dove Lindau si bagna, vaga nereide del lago di Costanza; il borgomastro e la sua fida consorte dormivano della grossa.

Nel salotto riscaldato dall'enorme stufa di terracotta dove si schieravano in bell'ordine i seggioloni coperti di cuoio a grosse borchie lucenti, Elisabet stendeva la tovaglia sul nero e massiccio tavolo di quercia intorno al quale si erano allargate le pancie di ben quattro generazioni di Goldbacher.

La ragazza sembrava molto mesta.

Sotto le palpebre che ombreggiavano i suoi quieti occhi sfuggiva tratto tratto una lagrimuccia che non arrivava a cadere perchè le guancie pienotte la raccoglievano e vi si stemperava sopra, luccicando come una pioggia lieve sulle foglie di una rosa.

Ora guardava i tetti grigi e acuminati delle case vicine, ora un giacinto che faceva capolino da una bottiglia tra i doppi vetri della finestra; ma più spesso un posto vacante alla gran tavola di quercia, un posto dove ella avrebbe messo volontieri la posata, ma che l'ordine formale di Joseph Goldbacher doveva lasciare vuoto.

A un tratto, nello specchietto che appeso fuori della finestra secondo l'uso di Germania, rifletteva la porta della casa e con essa le persone che entravano o che uscivano, Elisabet vide disegnarsi la snella figura di un giovinetto e arrossendo tutta per improvvisa emozione si slanciò nell'erker (balconcino coperto di vetri dal quale si domina tutta la contrada).

Il giovinetto sollevò la testa, la vide e le fece un cenno grazioso che voleva dire: coraggio! Poi sparve con aria affrettata e giuliva.

Elisabet non sapendo cosa pensare e male accordando la felicità del giovinetto colla propria malinconia, se ne stava muta contemplando l'angolo per dove era scomparso, quando entrò la grossa. Trudchen con un piatto fumante di schibling in una mano e una insalata di patate nell'altra.

Nel passare accanto alla fanciulla inchinò verso lei il suo volto pavonazzo dove due occhietti grigi facevano l'impossibile per mostrarsi maliziosi e susurrò:

— Eh! signorina, l'avete visto il giovane Hans?

— Non so quello che vuoi dire, Trudchen …

— Andate là che ho capito tutto! e le occhiatine tenere di Hans e i vostri rossori e i vostri turbamenti; e ditemi un po' perchè il padrone non vuole più che Hans sieda alla tavola comune? Tutto per voi, signorina, per il vostro bel sorriso! Intanto il povero ragazzo pranzerà nella sua camera dove fa freddo e dove io non potrò portargli che quello che resterà sui piatti. Io almeno di questi rimorsi non ne ho; per colpa mia nessun giovane dabbene ha sofferto mai. No.

Elisabet era tanto persuasa di questo che non tentò opporsi; solo mormorò, coprendosi gli occhi col grembiale:

— Credi forse, Trudchen, che io sia senza cuore? Ho pianto tanto quando papà ha fatto quell'intemerata al signor Hans.

— Dite pure Hans semplicemente, chè colla vecchia Trudchen non e'è bisogno di complimenti. Tiriamo via — cosa ha concluso il vostro pianto?

— Lo ignoro … ma io non so far altro!

— Uh! — fece Trudchen con aria di disprezzo — siete proprio un pulcino bagnato come vostro padre.

— Ma tu che faresti, Trudchen? — domandò la fanciulla sollevando i suoi begli occhi celesti.

— Io? Io non ne ho mai avuti de' cascamorti; ma se un uomo mi amasse sinceramente come vi ama il povero Hans non ne vorrei sapere d'altri.

— Ed io forse ne ho degli altri?

— Non so nulla; quel signore Nicolas Strübelmeyer che viene qui tutte le domeniche a portarvi un mazzo di fiori, e quell' imbrattacarte di Rinkelin che ha osato paragonarvi ad una stella, e chi ancora! Insomma, io dico che quando si ha la fortuna in casa non bisogna lasciarsela sfuggire.

Elisabet stimò che fosse meglio non aizzare la vecchia brontolona; senza rispondere asciugò gli occhi e mosse incontro ai suoi genitori che si presentavano per l'appunto sull'uscio del salotto.

Gretchen abbracciò la figlia intanto che Joseph colle mani dietro la schiena si era fermato a guardare il cordone, già sostegno della pipa famosa.

È d'uopo dire che il secondo sonnellino aveva maturato il dispiacere del borgomastro e se di notte, nel suo letto caldo, nel momento della digestione e della riparazione delle forze non gli era parso il punto giusto per imbizzire, ora, al contrario, fresco, riposato, collo stomaco digiuno, montò gradatamente in collera finchè gli uscirono dalla bocca queste esclamazioni:

— La pipa dello zio Bernhard! rubarmi la pipa dello zio Bernhard! Ma non sapete che se arrivo a scoprire il ladro lo faccio chiudere in prigione sotto la condizione implicita di lasciarlo morire di fame? Non sapete di che cosa è capace un Goldbacher quando viene offeso ne' suoi più legittimi affetti?

In tutta la sua vita di cittadino e di borgomastro non aveva mai parlato con tanta veemenza.

Gretchen, Trudchen ed Elisabet ascoltavano in silenzio; quest'ultima un po' distratta — senonchè Trudchen interruppe la filippica avvertendo che i schibling si raffreddavano.

Argomento più convincente non si poteva opporre alla furia del degno magistrato, che sedette subito nel più vasto dei seggioloni ed appendendosi al collo il nitido tovagliolo delibò con vero olfato di gastronomo il profumo della vivanda nazionale.

Gretchen sedette alla sua destra, Elisabet alla sinistra; Trudchen girando alla tavola lanciava occhiate torve al posto del giovane Hans.

Elisabet, incapace di trovare un'occhiata torva nel fondo sereno delle sue pupille, guardava timidamente e sospirava.

— Dove sarà a quest'ora … — pronunciò con lentezza Joseph Goldbacher perchè aveva la bocca piena.

— Hans? — interruppe la vecchia ringhiosa.

— No — corpo di Bacco! Chi osa nominare qui quel briccone? Io penso al ladro della pipa.

— Ed io al povero ragazzo.

— Non vi si chiede a che cosa pensate, vecchia Trudchen, ma se assolutamente volete occuparvi riempite la mia tazza di birra.

Trudchen riempì la tazza e se ne andò in cucina; prima per borbottare e poi per nascondere sotto il grembiule il più grosso dei schibling destinato al giovane Hans.

In proporzione inversa dei cibi che calavano nel suo stomaco, la facondia del borgomastro scemava; ed anche la sua collera non era omai più che una tristezza muta scioglientesi in grugniti gutturali.

Quanto a Gretchen, la buona creatura non poteva togliersi di mente che l'anima stessa dello zio Bernhard fosse venuta a riprendere la sua pipa.

***

Perchè una pipa potesse mettere tanto scompiglio in quella pacifica famiglia bavarese doveva essere per lo meno una pipa diversa da tutte le altre.

Ma non solo la pipa dello zio Bernhard si distingueva per la bizzarria della forma e l'accuratezza della fattura; essa aveva un merito ben più grande agli occhi dei Goldbacher.

Lo zio Bernhard, tornitore emerito, l'aveva lavorata per l'occasione importante del suo debutto nell'arte; quella pipa gli aveva valso il titolo di primo tornitore della città.

Era di una bella radica chiara sagomata in una foggia totalmente estranea, con profonde scanalature diagonali e sormontata da un arabesco in corno di cervo dal quale si slanciava attorcigliandosi in spire originali la cannuccia di bosso. Dall'una all'altra estremità misurava un braccio abbondante e quando veniva messa in comunicazione coi polmoni robusti di Joseph Goldbacher svolgeva onde di fumo cinereo meglio che uno stantufo da locomotiva.

Joseph Goldbacher, tornitore anche lui, l'aveva ereditata dallo zio coll'obbligo di trasmetterla alle più remote generazioni, e l'onesto borgomastro la teneva in tanto rispetto che permettevasi di fumarla appena nelle circostanze più solenni.

Appesa al di sopra della stufa, spolverata religiosamente ogni mattina dalle bianche mani di Gretchen — (Trudchen non le dimostrava una sufficiente venerazione) — veniva considerata il dio Penate della famiglia.

Se Joseph Goldbacher avesse avuto un figlio, quello doveva essere l'oggetto più prezioso della eredità paterna; ma il Signore che diede un figlio a Giuseppe benchè marito putativo e un figlio a Sara benchè sterile da sessant' anni, non volle usargli che la misericordia di una figlia — la bionda Elisabet rappresentava tutta la sua discendenza.

Due o tre anni addietro il borgomastro tornitore aveva avuto la cattiva idea (se ne pentiva ora amaramente) di prendersi in casa un allievo, figlio di un suo antico amico, per addestrarlo nell'arte propria; ma il Giovane Hans, sebbene di ingegno svegliatissimo, mostrava così poca disposizione al lavoro che Joseph Goldbacher disperava di poterne mai cavar fuori nulla di buono.

Era un monelluccio di diciannove anni colla fisonomia intelligente e gli occhi neri — ragione segreta dei sospiri di Elisabet — vivo come a Lindau non è viva nemmeno la polvere e così destro, così sagace che all'infuori del borgomastro erasi accaparrati tutti i cuori della casa. La vecchia Trudchen si sarebbe fatta ammazzare per lui e Gretchen aveva molte volte interposto la sua parola per rabbonire il marito quasi sempre malcontento del suo indocile allievo.

Si sentiva tanto tranquillo, lui, il florido borgomastro, che non capiva la irrequietezza di quel ragazzo, e ciò che era semplice bollore giovanile acquistava nel suo cervello le proporzioni di un carattere sfrenato e indomabile.

La minaccia che faceva maggior impressione al giovane Hans era questa: Ti manderò al tuo paese.

Fürth, il suo paese, gli era diventato odioso dacchè a Lindau viveva la dolce Elisabet; d'altronde a Fürth il povero ragazzo non aveva altri parenti che un vecchio prete.

La passioncella dei due giovani era cresciuta chetamente all' ombra tranquilla della famiglia, presso la grande stufa di terra verniciata e dipinta dove Elisabet scaldava le sue manine e dove Hans faceva degli studi sulla combinazione dei colori, risultando in definitiva che il più bello azzurro stava negli occhi di Elisabet e l'oro più smagliante era quello de' suoi capelli.

Dichiarazioni non ne erano corse molte. Si guardavano, arrossivano, scordavano insieme l'ora del pranzo, si stringevano qualche volta la mano se accadeva che le loro mani si incontrassero errando sulla stufa …

Una volta la fanciulla gli aveva dato un fiore e un mese dopo egli le mostrò che lo conservava ancora sul cuore s' intende e chiuso in una specie di tempietto di carta dove era scritto: E˙ H˙ eternamente.

Come due rondinelle che hanno sospeso il nido sotto il medesimo tetto i due innamorati vivevano di pagliuzze e di canzoni, di sguardi e di sorrisi.

La vecchia Trudchen che aveva scoperto l'idillio pensava: sono fatti l'uno per l'altra; e nel pensarlo brontolava, poichè tanto la gioia quanto il dolore trovavano in lei l'unica manifestazione che era quella di ringhiare come un cane da pagliaio.

Gretchen, massaia infaticabile, tutta assorta nella manipolazione del sauerkraut e dei krapfen, sempre colle maniche rimboccate e le braccia coperte di farina, non sospettava nulla.

Fu un vero scoppio di bomba il giorno che Hans, seduto cogli altri intorno alla tavola di quercia e visto che la birra spumeggiava allegramente nel bicchiere del borgomastro accendendo ne'suoi occhi scintilluccie di soddisfazione, si levò in piedi e con un certo garbo tutto proprio disse:

— Joseph Goldbacher, io avrei qualche cosa da dirvi.

La meraviglia più sincera si dipinse in volto al borgomastro; Gretchen girò intorno gli sguardi trepidanti intanto che Elisabet, impadronitasi d'un piatto vuoto, riparava in cucina.

Allora il giovane Hans spiegò le sue intenzioni; ma Joseph Goldbacher non lo lasciò finire.

Il degno magistrato trovava eccessivamente ardita questa pretesa alla mano di sua figlia. Elisabet era una ragazza per bene, educata, gentile e con una dote discretina. — Hans un discolaccio senza giudizio, senza abilità, senza avvenire. Concluse:

— Come potresti tu mantenere una famiglia?

— Lavorando — rispose Hans con rispettosa sicurezza.

— Ma se non sai lavorare?

— Oh! sì, so lavorare quando ho voglia e per Elisabet lavorerò.

— No, tu non farai mai nulla di bene.

Proteste da una parte, negazioni dall' altra: il giovane Hans era un po' bollente, Goldbacher digeriva male e ne nacque una mezza lite che Gretchen dovette interrompere pregando Hans a ritirarsi.

Da due giorni appena era accaduto questo fatto che doveva decidere Joseph a rimandare a Fürth il suo allievo, e per intanto lo aveva bandito dall'intimità di famiglia obbligandolo a restare nella propria camera, quando la sparizione della pipa sopraggiunse come un nuovo incubo nel placido corso della sua vita.

Un pensiero doloroso era già troppo per il suo cervello — due lo atterrarono.

Simile a un marinaio che ha perduto la bussola (supplico tutti i marinai dell'universo a perdonarmi il paragone) Joseph Goldbacher non sapeva da qual parte voltarsi, ove dirigersi, come incominciare.

Tra Hans, la pipa e i sospiri di sua figlia il pacifico cittadino di Lindau dimagrava a vista d'occhio. Gretchen, la buona e tenera Gretchen, aveva già dovuto per ben due volte stringere la fibbia del suo panciotto — e più che mai persuadevasi della presenza degli spiriti nella sua casetta una volta così gaia e serena!

***

Una domenica era il giorno natalizio del borgomastro, la famigliuola doveva riunirsi per festeggiarlo nella solita camera coi seggioloni di cuoio e la stufa verniciata; l'erker era tutto pieno di fiori e un bel mazzo di fiori campeggiava dentro un vaso di maiolica sulla tavola di abete.

Gretchen aveva dei nastri azzurri ed Elisabet un vestito rosa; appendevano entrambe festoni di edera alle pareti, ma Gretchen impallidì nel coprire con un ramo il posto vuoto al di sopra della stufa — il posto dove c'era una volta la pipa dello zio Bernhard.

Elisabet non sospirava quasi più ma pareva un'ombra delle leggende germaniche.

Entrò Joseph Goldbacher.

— Ah! la è finita — esclamò egli lasciandosi cadere nel suo seggiolone — ho perduto la salute e il buon umore. Non mi riconosco più.

Trudchen che standosene in cucina coll' uscio aperto aveva sentito queste parole incominciò a borbottare rimestando furiosamente un vassoio pieno di crema:

— È il Signore che vi castiga, Joseph Goldbacher; dal di che avete cacciato il povero Hans la maledizione è piombata sulla vostra casa.

Nessuno udì per fortuna.

— Fatti coraggio — diceva dal canto suo la buona Gretchen — chi sa che non ritroviamo la pipa! e quanto al ragazzo…

— Non me ne parlare.

Elisabet soffocò un singhiozzo.

Era una bella giornata, ma il sole batteva indarno sui piccoli vetri della finestra facendo sbocciare i giacinti; la gioia aveva disertato da quella camera e l'antico impiantito di legno che scricchiolava sotto i piedi sembrava lagnarsi che un Goldbacher fosse così malinconico in un giorno di festa; proprio quando il piacere doveva illuminare la sua faccia rubiconda e spargere per tutti i pori quella calma soddisfazione che fa prosperare più che altri sotto il cielo il buon popolo tedesco.

— Vediamo, Elisabet, che cosa m'hai preparato? Cosa nascondi nel grembiule? — Il borgomastro fece queste domande per cacciare i pensieri fastidiosi.

La fanciulla si avanzò presentando un berretto greco ricamato in oro.

— Oh! oh! oh! Come deve star bene la mia faccia bavarese sotto questo berretto alla Botzari — e tutto sorpreso di aver potuto ridere tornò a fare: — oh! oh! oh!

In quel punto una voce simpatica e virile si fece udire accanto all'uscio di cucina.

— E permesso?

Prima che alcuno si desse la briga di rispondere, Hans si trovava già nel mezzo della camera.

I tre personaggi si atteggiarono stupefatti in pose differenti. Il borgomastro col suo berretto in mano e colla bocca singolarmente imbarazzata tra il riso recente e le parole aspre che si credeva in obbligo di pronunciare; Gretchen disposta tutta quanta all'indulgenza; Elisabet rialzandosi sfolgorante come un eliotropio che rivede il sole.

— Joseph Goldbacher — pronunciò il giovane senza iattanza ma con un raggio di trionfo nello sguardo — io vi ho chiesto la mano di vostra figlia e me l'avete negata perchè sono un discolo, perchè non ho voglia di lavorare, perchè non so lavorare. E vero?

Il borgomastro accennò di si.

— Ebbene, io non so lavorare ve lo concedo, ma sono qui per dimostrarvi che la volontà non mi manca. Sapete chi è venuto a portar via di notte la pipa dello zio Bernhard? Io. Sapete perchè l'ho portata via? Per copiarla; perchè credevo di potervi riuscire e darvi una prova della mia abilità. Mancai al còmpito, ma vedete, Joseph Goldbacher, che la buona intenzione c' era. Ora vi rendo la pipa dello zio Bernhard.

Il borgomastro la prese, la rimirò, riconobbe la macchia della radica, la perfezione della tornitura, la finezza colla quale era trattata la cannuccia di bosso e prorompendo nella più sonora, nella più omerica risata che avesse mai fatto traballare il suo grosso ventre, esclamò;

— Povero pazzo che credeva di eguagliare lo zio Bernhard.

— Convenite — ripetè il giovane — che il mio tentativo, benchè ardito, non mancava di un certo buon senso. Non mi avreste concesso la mano di Elisabet se io mi dimostravo così buon tornitore?

— La mano di Elisabet? — gridò il borgomastro. — Io ti avrei abbracciato come figlio, come degno successore dei Goldbacher!

— Abbracciatemi allora perchè la pipa che avete in mano l'ho fatta io. Ecco qui quella dello zio Bernhard.

E sì dicendo il giovane Hans presentò una pipa in tutto eguale all'altra.

La meraviglia, la gioia, la sorpresa più impensata scosse tutti i cuori. Elisabet piangeva e rideva. Gretchen rideva solamente.

La vecchia Trudchen balzando fuori dalla cucina gettò le braccia al collo di Hans e di quel trasporto di felicità restarono le tracce sui piccoli baffi di Hans che si tinsero di crema.

Lo stupore più profondo lo sentiva Joseph Goldbacher.

Rapito nella contemplazione di quei due capolavori s'era posto in testa, per non sapere dove metterlo, il berretto greco, e tra le varie sensazioni che lo agitavano, tra le pipe, tra il berretto aveva un' aria così tragicamente comica, così umoristica che Rembrandt lo avrebbe preso per modello.

Ma se per lo stupore il borgomastro primeggiava, l'estasi era tutta dei due giovani. Si guardavano e credevano di vedere aperto il paradiso.

Ah! come finì bene quel giorno di festa che aveva avuto un così brutto principio!

Il giovane Hans tornò a sedere intorno alla mensa giuliva e l'ampio piatto di crema fece il giro allegramente, fiancheggiato dalla schietta birra di Baviera.

Dopo pranzo Joseph Goldbacher fumò nella pipa dello zio Bernhard, e tra un buffo e l'altro si lasciò sfuggire queste parole:

— Bisognerà bene inaugurare anche l'altra pipa, ma il giorno — guardò Hans che sfavillò, guardò Elisabetta che arrossì — il giorno lo fisserete voi due!

Tolte le due occasioni di cui parla questa novella, nessuno vide mai una nube sulla fronte serena di Joseph Goldbacher e la tradizione assicura ch'egli fu il borgomastro più lieto e più felice della pacifica città di Lindau.

— Vi giuro che è il suo amante.

— Per carità non ripetetelo, mi fa male.

— Siete pur bizzarra. Che vi importa?

— Che mi importa? Ma è un'amica d'infanzia, una donna che amo come una sorella.

— Ebbene, ella ha ora trovato qualcuno che l'ama come fratello.

— Siete una lingua d'inferno, non vi credo un ette!

— Padronissima; ma quello è il suo amante.

— Quello! Chi è questo quello misterioso? Un uomo che non conoscete, che non sapete neanche chi sia, che avete veduto per caso insieme a Carolina. Bell'affare! Bell'affare! Anche voi adesso siete con me, e che male facciamo, tolta la vostra maldicenza?

— Sì, ma non andiamo a spasso alle dieci di sera, sul bastione, durante il primo quarto di luna, sapete bene, quando fa le corna.

— O Dio — risposi impazientita — e che prova in fin dei conti una passeggiata sul bastione?

— Eh! può provare molte cose; questa per esempio mi ha provato l'utilità diretta delle panchine poste all'ombra degli ipocastani fioriti e l'utilità indiretta dei medesimi ipocastani, dietro il cui tronco un osservatore intelligente…

— Ah vergogna! voi li avete spiati.

— No, accendevo un sigaro, ma siccome i fiammiferi si prestavano di mala voglia, ebbi campo di ascoltare il sostantivo angelo ripetuto due volte e il verbo adorare in due o tre tempi, vi avrei adorata, adorarvi! vi adorerò. Ora, se voi acconsen ite a chiamarmi angelo o a lasciarvi adorare, mi indurrò a credere anch'io che il colloquio della nostra amica col nostro amico fosse innocente come un bambino appena nato. Andiamo, volete chiamarmi angelo?

— Demonio!

— Non credo che Tommasèo abbia posto queste due parole nel Dizionario dei sinonimi.

— E poi — interruppi — come volete che io creda a un amante? Carolina amava suo marito. Lo deve amare ancora; sembrano fatti apposta l'uno per l'altra.

— Ogni uomo ed ogni donna, a parer mio, sono fatti l'uno per l'altra.

— Insomma vi proibisco di parlare.

— Alla buon'ora! ecco un mezzo semplice e sicuro per aver ragione voi.

***

Non avrei potuto altrimenti far tacere quella linguaccia. Ma che spina ei m'aveva fitta nel cuore! Figuratevi che Carolina è la più simpatica fra le mie amiche; buona, cortese, ci siamo maritate insieme; ci vogliamo un bene! un bene!

E suo marito, dunque? che brav' uomo! quasi come il mio. Assolutamente io non potevo ammettere le insinuazioni di quel ciarliero maldicente; ma d'altra parte se era vero, com'egli aveva giurato, di averla veduta una sera sul bastione in compagnia d'uno sconosciuto… oh, imprudente Carolina! Lo stesso giorno mio marito, rientrando a pranzo, mi disse:

— Ho incontrato la tua amica…

— Carolina?

— Appunto; era insieme a un giovanotto…

— Biondo, alto, pallido… è suo marito.

— Ma no, ma no. Costui è piccolo, bruno, volto rosso quasi imberbe.

— Ti sei forse ingannato, non sarà stata Carolina.

— Oh! per questo era proprio lei; aveva un cappello nero.

— Tutte le donne oramai portano cappelli neri; sono di moda.

— Ma aveva una certa piuma azzurro-mare che non tutte hanno; e poi, se ti dico che era lei!

Io non avevo proprio nessun argomento per negare il fatto; chinai il capo sospirando e promettendo a me stessa di venirne in chiaro. Andai difilato da Carolina; ella mi accolse colla solita squisita gentilezza, mi fece molta festa, ma non tardai a osservare che era un po' eccitata, un po' distratta. La strinsi di domande, feci lodi sterminate di suo marito, mi congratulai sulla sua felicità domestica… e intanto la osservavo profondamente. Ella spiegazzava i suoi manichini.

— Tu sei stata ben fortunata sposando Filippo!

— Oh sì! — e sbadigliò.

— I vostri caratteri armonizzano perfettamente.

— Senti, vuoi farmi un piacere? Parliamo d'altro. Sei stata ai Lituani?

— È dunque vero? — esclamai prendendole con forza una mano e fissandola negli occhi.

Ella si svincolò un po' imbarazzata e diffidente, collocò a suo posto il velo della poltrona che non si era menomamente smosso e disse con accento strisciante, molle, come di persona annoiata:

— Non so che vuoi dire mia cara.

***

— Tu sei ben padrona de' tuoi segreti Carolina; ma allora custodiscili meglio.

— Che?

— Non lasciarti vedere alle dieci di sera sui bastioni…

Ella arrossì fino al bianco dell'occhio, ma non osò rispondere.

— Cara, io ti voglio tanto bene che non so tollerare le dicerie che si fanno sul tuo conto; anzitutto non voglio credere…

— Ma che dicerie si fanno? — Interruppe ella un po' altera.

— Sai bene… le solite. Ti hanno veduta con un giovane…

— E così? I miei amici sono dunque obbligati ad avere l'età dei senatori?

— Devi giudicare tu stessa ciò che conviene e ciò che non conviene. Io non voglio farti la maestra. Ho voluto soltanto avvertirti che il mondo è tutt'occhi, tutt'orecchi e tutta lingua.

Ella aveva abbandonato l' aria fiera e giaceva accasciata sulla sua poltrona, meditabonda. A un tratto scattò come una molla:

— Senti, mia buona amica, a te posso dir tutto; non son felice!

— Non sei felice?

— No, no. Mio marito non mi comprende; siamo agli antipodi. Io tutta nervi, tutta cuore, tutta sensibilità; egli un materialone, un prosaico!

— Oh! oh! — feci col più malizioso sorriso.

— È vero che sei materialista anche te! — esclamò guardandomi colla superiorità di un essere che appartiene a un altro mondo.

— Vediamo tuttavia se possiamo intenderci; iniziami ai gaudi di queste tue sfere soprannaturali. Perchè dici che tuo marito è un materialone?

— O Dio! un uomo che non gusta nessuna delle purissime gioie del pensiero, che non legge mai un verso, estraneo alle intime commozioni del sentimento.

— Scommetto che tu poni il sentimento nel raggio della luna e la poesia in qualche terzina sfogata colle rime in ore.

— Già la poesia è una sola. Quando mio marito viene a casa e infilza quelle sue orribili pantofole ricamate a canovaccio — immagina! l' eterno fondo nero colle eterne rose — Dio! come detesto quelle rose; poi accende la lucerna, poetica occupazione! poi legge… che cosa credi tu ch'ei legga?

— Il giornale.

— Hai indovinato; quel prosaico giornale! Io da una parte con Prati e Berchet; egli dall' ltro col pareggio e colla guerra di Spagna. Auf!

Carolina si faceva vento.

***

— Che vuol dire il punto di vista! Anche mio marito ha un paio di pantofole ricamate al canovaccio; sono rosse con una testa di cane; incominciano a rompersi in punta, ma non mi irritano i nervi, t'assicuro; al contrario le guardo con piacere pensando che potrò presto surrogarle con altre fatte da me; quel giorno sarà una festa; mi par di vedere il sorriso soddisfatto di mio marito; egli calzerà allegramente le mie pantofole e baciandomi sulla fronte mi dirà: « Brava mogliettina! » Ah! quanta poesia.

***

Carolina alzò, sdegnosetta, le spalle.

— E legge il giornale anche lui, tuo marito?

— Tutti i giorni, è ben naturale. Che vuoi! egli non è un letterato; Berchet non può tenerlo al corrente degli affari del suo paese e Prati non gli saprebbe dire se la rendita è alta o bassa. Mio marito bada a'suoi negozi, fa conti, acquista o vende; quando ha concluso un buon affare mi abbraccia giulivo e: « Lavoro per te, sai! quanto più sarò ricco, la mia donna avrà agi e la mia donna sei tu! » È sfortunato? gli riesce male un interesse? mi abbraccia egualmente: « Tu sei il mio conforto; quando lascio malcontento lo studio, trovo la gioia e la felicità sul tuo cuore! Ecco, mi pare, del sentimento squisitissimo. Forse che tuo marito non fa altrettanto?

— Sì, non nego…

— Ma vedi dunque? Tu sei abituata a quel sentimento convenzionale che è piuttosto sentimentalismo e per questo disprezzi il vero sentitimento, il sentimento del cuore. Tu cerchi la poesia nei versi e la poesia è dovunque e più che tutto nella realtà. Tuo marito ti sembra volgare perchè accende la lucerna? A'miei occhi acquista merito, è di sentire delicato, ha riguardi per te, non vuole che tu stessa ti affatichi in una tediosa occupazione. Anche il mio accende la lucerna sulla modesta mensa, e gli sorrido; mi fa l'effetto del Creatore, mi dà la luce.

Carolina tentennava il capo. Aveva fra le treccie una stella di lustrini e ad ogni movimento, quelle brillantate faccette scintilla vano come sguardi maliziosi di pupille nere.

— Anche tu non mi comprendi!

— C'è almeno qualcuno che abbia avuto questa fortuna o mia graziosa sfinge?

— Vuoi alludere a quel giovane che il tuo spiritello famigliare ha veduto in mia compagnia?… Ebbene, non lo nego, quello è un giovane simpaticissimo, colto, artista, letterato… un po'di tutto.

— Una biblioteca circolante.

— Oh! se lo conoscessi! Egli mi apprezza immensamente, riconosce la mia sensibilità, divide i miei gusti poetici; ora sta spiegandomi i passi difficili dell'Aminta e del Pastor fido; è un lavoro un po' lungo.

— Eh! lo credo, perchè i passi difficili abbondano in queste novelle, ma se io fossi in te non vorrei farmeli spiegare di notte, sul bastione… Anzichè facilitare i passi, questo sistema può crearti degli imbrogli.

— È stato un capriccio! ma spero bene che non penserai…

Carolina si fermò imbarazzata.

— Io vorrei poter non pensare nulla; sarebbe il meglio.

— Dubiti forse della mia onestà?

— Io non dubito di nessuno; so appena che il mondo ciarla e che non bisogna lasciarlo sbizzarrire troppo in supposizioni. Sono false, tu dici. Che monta? Non c'è a fianco la traduzione come nelle opere greche per la comodità dei confronti, e il pubblico crederà sulla parola. Del resto, mia cara amica, anche lungi dai curiosi e dai maldicenti questa tua inclinazione è pericolosa. Le vie del cuore sono seminate di trabochetti; si crede di passeggiare sulla ghiaia fina e compatta e si rotola invoce… chi sa dove!

— Tu si felice, vivi con tuo marito in una perpetua luna di miele e t'è facile moralizzare. Se sapessi che vuol dire il vuoto del cuore!

— Lo so benissimo; il vuoto del cuore vuol dire non essere amati, non avere un petto su cui posare il nostro capo, non un'anima che risponda alla nostra; ma tu queste cose le hai. Filippo ti ama, egli vive della tua vita, ti dà la felicità della pace, dell'amore, ti dà gli agi e la sicurezza dell'esistenza.

— Sì, sì, sì, ma non c'è poesia!

— Come, non c'è poesia? Questa è la grande, la vera poesia; quella che tu cerchi è la poesia imbellettata e artificiale delle frasi sonore e dei concetti vuoti. Tu hai la realtà e sogni le larve!

— Io sogno l'ideale.

— Ebbene, che cos'è questo? A quindici anni il mio ideale era un giovinetto magro, pallido, sparuto, stretto di spalle, lungo di collo, imberbe, coi grandi occhi cintati d'azzurro… Già, tutto questo mi pareva ideale. E poi aspirazioni ideali alla luna, alle stelle, baci ideali, ebbrezze ideali, tutto per aria, tutto nelle nuvole.

— In alto! — fece Carolina con enfasi.

— Sicuro; come la pioggia che finchè sta in alto non conclude nulla e se vuol esser utile a qualche cosa discende sulla terra.

— Tu non potrai negare che l'amore nobile, l'amore sublime è quello che si distacca dalla terra e vola al cielo.

— Con tua pace l'amore nobile, l'amore su blime è quello dell'uomo che dice alla donna: « Ti do il mio nome e la mia casa, vieni, mangia del mio pane, bevi alla mia coppa e ti riposa sul cuor mio. » Qui c'è tutto, sai? C'è la massima poesia, c'è il sentimento, c'è la verità, c'è la natura. Io non capisco perchè il cielo debba essere più poetico della terra, della terra ove ci sono i fiori, ove c'è il mare, ove c'è la donna.

Carolina faceva spalluccie. Io continuai:

— Lasciamo stare le digressioni e teniamoci stretti all'argomento. Che speri tu da questa romanzesca amicizia?… maggiori gioie di quelle che ti può dare e che ti dà tuo marito? Come farai a nobilitare, a sublimare un'affezione illegittima? Sono dunque così tortuose e buie le vie che conducono al cielo?

— Il brutto vizio che tu hai di scrivere per le stampe t'ha affilata la lingua per modo che io non posso tenerti dietro a ragionare. E poi dovresti sapere, tu che te la pretendi a scrittore psicologico, dovresti sapere che la donna non è fatta per ragionare molto e che in materia di simpatie poi non ragiona affatto.

— Ma disgraziata! tu scherzi col fuoco.

— Oh!… — fece Carolina offesa — che opinione hai tu de' miei principì?

— L'opinione che finiranno male… scusa…

— Sono stanca di questi discorsi! — esclamò l'amica mia alzandosi repentinamente. Io feci altrettanto e presi commiato.

Avevo il cuore dolorosamente stretto; nello scendere le scale incontrai il portinaio che saliva con una letterina; seppi molto tempo dopo che proveniva dall'Arturo… dico Arturo per un modo di dire; si chiamava Giulio, e conteneva questi versi, che se non danno un'alta idea di valore poetico per parte dell'autore, dovevano però impressionare moltissimo la sentimentale Carolina:

Degli occhi tuoi dolcissimi La luce ancor m'innonda; Figlia tu sei dell'etere. Come una stella, bionda. Deh! lascia ancor ch'io palpiti Sotto la tua pupilla… Ch'io beva stilla a stilla Quel nettare divin!

***

Carolina infatti (sono tutte cose che mi raccontò ella stessa) si sprofondò deliziosamente nella lettura di questo madrigale. L'idea di essere bionda come una stella la trasportava. Bionda come l'oro, bionda come le spiche sono paragoni soliti e prosaicamente terreni; ma una stella!

— Dio! come sono infelice! — concluse l'ideale donnina — mio marito non s'è mai accorto ch'io ho i capelli di questo biondo.

Il marito evocato in modo così poco lusinghiero apparve, quasi per incanto, sulla soglia dell'uscio. Aveva le sue pantofole nere ricamate a mazzi di rose e le mani in tasca.

— Carolina, mia cara, vai a dare un'occhiata a quei piccioni?… se il naso non mi tradisce sentono un po' l'abbruciaticcio.

Un'occhiata ai piccioni; ella! le cui pupille facevano palpitare un poeta!

***

L'ideale di Carolina, statemi attente fanciulle, (* Non bisogna dimenticare che queste novelle furono scritte trent'anni fa.) che parlo per voi, era un marito impossibile. Un marito che si alza alla mattina colla voglia di sciogliere un inno al creato; che passa il resto del giorno a indovinare i pensieri di sua moglie, a trasalire co'suoi nervi, a palpitare col suo cuore; un marito che legge Jacopo Ortis e che tra il lesso e l'arrosto trova modo di citare qualche verso di Lamartine; un marito pieno di grandi idee, di concetti sublimi, di pensieri superiori a quelli di tutti gli altri uomini, bello, poetico, romanzesco; senza dolori di denti, senza reumatismi, senza raffreddori, senza calli, non soggetto a nessuna delle volgarità della materia. Deve mangiar poco perchè questo è indizio di animo delicato; odiare il vino, abborrire lo sigaro, annoiarsi in compagnia degli amici e riporre ogni suo diletto nella contemplazione della moglie. Oh! un marito che mi adori così!…

Zitto, ragazze; chiedete un poco alle vostre mamme se di questi mariti ne sono mai spuntati sotto la cappa del cielo.

Esse vi risponderanno di no; ed io aggiungo: fortunatamente.

Buon Dio, come si potrebbe vivere con un uomo sempre ai nostri piedi? un uomo grande poi, un uomo sublime; c'è di che morirne. Nessuno ammazza con tanta sicurezza, nemmeno un brigante, come ammazzano questi esseri superiori che hanno l'aria di portare sulle spalle il firmamento e lo fanno pesare sulle costole degli altri.

No, no, ragazze, statevi al minor danno, e voi che sognaste per marito un eroe da romanzo, uno di quelli che passano la notte a sospirare sotto la finestra, a baciare l'erba che voi avete calpestato, tutto ciò si legge, non è vero, nei romanzi? e dietro questi bei tipi vi formate il vostro ideale; no, no, ragazze, preferite un marito in prosa; val meglio sotto tutti i rapporti; e se porta le pantofole, non vi spaventate; e se mette il berretto di cotone, non inorridite; e se vuole accendere la pipa, deh! ragazze, non fate le schifiltose, anzi, se vi è caro un mio consiglio, porgetegli voi stesse lo zolfanello colle vostre bianche manine. Vi giuro che sarete ugualmente poetiche; più, è il modo questo di creare una poesia tutta vostra, senza l'intervento di quei guastamestieri che sono i poeti, senza le vecchie armi dello zeffiro e del rio. Voi, in questo semplice atto di condiscendenza, nel sorriso col quale lo accompagnerete, nello sguardo riconoscente che vi sarà reso, troverete maggior poesia che non in tutti i versi della terra.

***

Passò molto tempo prima ch'io vedessi Carolina; finalmente seppi che era stata gravemente ammalata; a questa notizia il mio cuore indipendentemente dai puntigli decise di andarla a trovare. Era a letto e dormiva. Le persiane chiuse, le tende accuratamente abbassate, gli usci difesi da paraventi, i guanciali del letto disposti con previdente accortezza, le tazze, le medicine schierate sul nitido tovagliolo; tutto l'aspetto di quella camera rivelava una cura intelligente e affettuosa. Filippo, il marito, seduto su una poltrona, calmo e paziente, approfittava del sonno della moglie per dare una occhiata alle ultime notizie del Sole.

Volli ritirarmi, ma egli mi vide, s'alzò, diede uno sguardo a Carolina, lisciò colla mano il guanciale che faceva alcune pieghe movendo alla mia volta mi invitò tacitamente col gesto a precederlo nel gabinetto attiguo.

— E così fu una cosa seria? — domandai.

— Oh molto seria! ma tutto è passato; si, non c'è più pericolo, tutto è passato! — così parlando il suo volto raggiava d'amore: — Ho vegliate dieci notti al suo capezzale; ne'suoi lunghi deliri io solo le fui compagno; solo la mia mano la calmava nei trasporti della febbre. Non ho mai fatto l'infermiere, signora e le assicuro che non me ne sentivo punto la vocazione, eppure la cosa non mi è riuscita male! no.

Carolina fece un movimento nel suo letto, il marito accorse con premura, io lo seguii. Nell'istante che entravo egli le porgeva da bere e le labbra pallide di Carolina si atteggiarono a un sorriso di ringraziamento. Quando mi vide, un fuggitivo rossore le inondò le guancie; mi chiamò per nome.

— Non agitarti, cara — le disse Filippo.

— No, sono tranquilla; desidero parlare un momento colla mia amica.

***

— Egli è un angelo! — esclamò stringendomi la mano, intanto che Filippo si trovava in fondo alla camera a ripiegare il Sole. — Quanto sentimento, quanta delicatezza sotto un'apparenza così semplice! Ed io che…

Un pensiero doloroso contrasse la fronte dell'ammalata.

— Sta cheta dunque, hai sentito che non devi agitarti? Sono ben contenta che tu abbia riconosciuto i meriti di tuo marito, ma un'altra volta credimi in parola senza ammalarti…

— Oh! se tu sapessi quanto egli è buono! — continuò Carolina coll'entusiasmo febbricitante de' suoi nervi ancora deboli.

— Anche tu sei buona ora; vedrai quanta felicità ti aspetta! Ma non metter fuori le braccia… così, da brava.

— Quando stavo tanto male e che egli, curvo sul letto, spiava i miei desideri nel mio sguardo, non puoi credere che giubilo mi sentissi in cuore; sembravami vedere un cherubino colle ali d'oro.

— T'inganni cara, tu vedevi un buon maritino affettuoso, tenero e fedele. Lascia stare i cherubini: dopo tutto non puoi sapere so sono migliori di tuo marito.

— Ah! è vero… l'ideale, sempre l'ideale che riritorna! — mormorò Carolina mezzo ridendo, mezzo sospirando.

Io la minacciai scherzosamente col dito.

Ella soggiunse a bassa voce:

— Sono guarita, non temere; quello là…

— Chi? l'Arturo?

— Giulio, intanto che parlava a me di stelle e di etere, faceva all'amore colla mia cameriera.

— Sia ringraziato il Signore! Ora puoi vedere tu stessa da qual parte trovasi la verità.

— Carolina, ciarli troppo! — disse il marito.

— Mi sento tanto bene! — rispose Carolina raggiante.

Vent'anni son trascorsi
Dal dì che t'incontrai la prima volta.

Che si fa in queste lunghe sere d'inverno, sotto il camino, intanto che fuori nevica o il bracco ringhioso legato alla catena abbaia sinistramente?

Il fattore ammucchia legna sul focolare e vi stende all'ingiro le sue ghette di pelle; la coperta del cavallo vi trova posto anch'essa — è il tappeto di Pascià, il gatto di casa — e la fiamma scoppietta alta e chiara lambendo su in alto la cappa affumicata.

I polli sono tutti rinchiusi? Le vacche dormono? Il nuovo garzone si ricorderà di andare a mungere alle quattro? Bene. Non bisogna poi dimenticare, alle cinque, di tener pronta la carrettella.

S'è visto il sensale? No. Cercheremo avena al curato.

Gli affari sono finiti. Si può ben fare quattro chiacchiere vicino al fuoco. È un freddo indiavolato e si sta bene qui.

Quante generazioni hanno preso posto sotto questa cappa grande come una camera!

Le memorie del passato devono correre intorno a questa fiamma giuliva a scaldarvisi come ad una seconda giovinezza.

Chi sa qualche storia del buon tempo antico?

— storia di ladri, di streghe, di fantasmi o di principesse erranti?

La storia c'è, ma non è poi tanto antica, e di stregonerie punte.

Peccato!

È una storia di questi paesi e di questo focolare.

In una giornata dell'autunno mille e ottocento cinquantadue una carrozza usciva da Milano per la porta Romana, e infilando lo stradone dritto tra le due file d'alberi che l'autunno ingialliva, avviavasi per le campagne del Basso Milanese.

A vedere quella carrozza ampia, bassa, con due piccoli vetri agli sportelli, coperta da un mantice che pareva una montagna — e quei due cavalli dal pelo rosso e sudato, dalle zampe grosse, fasciati a un par di ginocchi, si capiva subito che era roba da affittaioli.

Il villano che conduceva la carrozza, preoccupato della sua tuba colla coccarda, poco pratico delle redini e fiducioso, pare, nel buon senso delle due bestie si lasciava andare alle dolcezze di un sonnellino all'aperto e stava a cassetto con tanta grazia quanta ne può avere un sacco di cenci sul carro del lavandaio.

Il paesaggio invitava alla calma.

La monotonia degli alberi allineati, i prati verdi fuggenti sotto un cielo grigio, uniforme, la lunga via sempre piana che l'orizzonte tagliava con una linea di pallida porpora — meschino tramonto di un sole freddoloso — i campi disabitati, le rare case, i pochi viandanti, tutto era silenzioso e tranquillo.

Nell'interno della carrozza un uomo ed una fanciulla discorrevano famigliarmente, ridendo, occupandosi poco della strada che conoscevano a perfezione.

Erano fratelli e si volevano un gran bene. Daniele, di molto maggiore, teneva a Clelia le veci di padre.

Non aveva preso moglie per dedicarsi tutto alla piccina. Appariva un omaccione robusto, alla buona, poco complimentoso e meno elegante; ridanciano, tutto cuore; forte e tenero, capace di atterrare un bue con un pugno, e capacissimo di trattenere il fiato per non sciupare le rose di sua sorella, come faceva allora per l'appunto.

Queste rose, ammirabili per la stagione, in numero di tre come le Grazie. riposavano sui ginocchi di Clelia e la fanciulla vi prodigava le più delicate attenzioni.

Lei poi era una bella ragazza, giusta miscela di campagnuolo e di cittadino; fresca ed elegante; robusta e gentile. Era stata in collegio dove si imparano tante belle cose, e uscitane, vi aveva aggiunto di suo la lettura dell' Jacopo Ortis — che era allora molto alla moda — e che l'impressionò assai.

I due fratelli tornavano placidi e sereni dopo aver passato una giornata in città alla placida vita dei campi. Quando furono vicini all'antica Abbazia di Chiaravalle Clelia voltò la testa.

— La tua simpatia — disse Daniele ridendo.

— Sì. Non vedo mai questa vecchia chiesa senza emozione. È poetica, è imponente così tutta nera in mezzo ai prati verdi. Solamente a pronunciare il nome: Abbazia di Chiaravalle! par di sentire un profumo medioevale, delle preci di frati, un tintinnìo di spade, e principesse infelici appoggiate al verone che suonano il liuto.

— Romanzi, romanzi! — esclamò il fratello, scuotendo la testa. — Benedetti romanzi!

A uno svolto repentino, dove la strada tagliata a picco da un lato fiancheggiava un fosso largo e profondo, i cavalli si arrestarono con molta sorpresa del signor Daniele che mise il capo fuori dello sportello, interrogando:

— Che c'è?

Ma prima che il servitore allibito potesse rispondere egli vide due brutti ceffi, i quali per l'appunto tenendo il freno dei cavalli impedivano che le due oneste bestie potessero fare il loro dovere.

Daniele non si sgomentò nè troppo nè poco. In quelli anni e in quei luoghi le aggressioni erano molto frequenti, ma non tutte terribili. Spesso se ne usciva con qualche moneta e con un po' di spirito — alcune volte anche con una salva di pugni bene amministrati.

Il nostro affittaiolo stava giusto pensando a quale di questi tre partiti gli era meglio attenersi (parteggiando forse istintivamente per l'ultimo) quando da un nascondiglio praticato nelle pareti superiori del fosso saltò fuori un giovinotto alto e svelto, bruno, con uno sguardo audacissimo poco palliato dall'ampia tesa di un cappellaccio nero.

Aveva una sciarpa rossa attraverso la vita e fuori della sciarpa sbucava il calcio di una pistola.

— Imbecilli! — gridò il giovinotto rivolto ai due ceffi. — Non vedete che è il signor Daniele? Lasciatelo andare.

Qui occorre dire che l'aggettivo qualificativo applicato come sostantivo ai due manigoldi fu nel detto e fatto molto più energico di quello che appare in queste pagine — ma lasciamo andare.

Il signor Daniele, mentre da un lato gli si schiarì la faccia a tale comparsa (che ben conosceva il giovinotto e lo aveva più volte sovvenuto di consigli e di denaro), dall' altro non potè nascondere un senso di tristezza, di compassione quasi e minacciò col dito dicendo.

— Ah! birichino, birichino, mi avevano preso per un gendarme, eh? Basta, fate giudizio.

Queste ultime parole furono pronunciate a bassa voce all'orecchio del giovinotto che aveva aperto lo sportello e se ne stava un po' confuso col piede appoggiato sul predellino.

— Buona sera e buona fortuna! — tornò a dire Daniele visto che colui non si moveva.

Guardandolo bene si accorse che il giovinotto era assorto nel contemplare Clelia. Allora si rizzò in piedi, toccò le spalle del cocchiere e, stando sempre in piedi, così che colla aitante persona nascondeva la sorella, ripetè ben cinque o sei volte come strette da una gran premura:

— Addio, state sano, state bene.

I cavalloni rossi si mossero e la carrozza ripartì — Ah! — gridò Clelia mettendo la testa fuori del finestrino — ho perduta una delle mie rose!

— Poco male, rose non ne mancano — borbottò Daniele afferrandola per un braccio e tirandola indietro.

Clelia ricadde sui cuscini della carrozza vicino al fratello e non disse più nulla. Ma aveva veduto il giovane bandito raccogliere la sua rosa.

Il lettuccio che Clelia occupava in casa del fratello era il medesimo che aveva protetto per ben dieci anni i suoi sonni innocenti al collegio delle Orsoline.

Piccolo lettuccio colla sponda di ferro e il materasso di crine, tu solo conosci i pensieri di Clelia — e sai se in quella notte una figura alta e snella, cogli occhi neri e la pistola al fianco, le apparve in una lunga visione di guerrieri, di dame, di frati oranti, di rose, di baci.

Certo è che al mattino, appena levata, spalancò la finestra e cercò collo sguardo la torre dell'Abbazia nereggiante in mezzo ai pioppi, ma nell'appoggiare la mano sul davanzale esterno gettò un piccolo grido di sorpresa e di sgomento — la sua rosa era là.

Quello che provò Clelia non si può dire.

Meraviglia, ebbrezza, paura; un senso vago di sgomento, uno di profonda gioia come quando si trova nella realtà la conferma di sogni lungamente accarezzati.

Il primo impulso riflessivo fu di correre in cerca del fratello, poi si fermò, vinta dalle seduzioni del mistero; felice di averne uno da custodire.

Che cosa avrebbe detto Daniele? Che quella non era la rosa perduta; che lei stessa ve l'avrà dimenticata la sera prima; che i bimbi dell'ortolano la gettarono lassù; che i banditi non si occupano di raccogliere fiori e molto meno di renderli — insomma una quantità di ragioni brutte, prosaiche, logiche che Clelia non voleva ascoltare, perchè Clelia era un po' romanzesca e adorava le cose fantastiche.

Tenne dunque la scoperta per sè — la rosa anche — restando per lungo tempo alla finestra, coll'occhio fisso sulla vecchia Abbazia e col pensiero perduto in una miriade di sogni teneri e mesti.

Più tardi prese il lavoro, ma non lavorò; più tardi ancora sedette al desco, ma non pranzò. A sera fatta si godetto un'ora deliziosa davanti alla sua finestra prestando l'orecchio ai rumori del vento, guardando le stelle.

***

Se a taluno può parer singolare che una gentile fanciulla si preoccupasse di un volgare aggressore, diremo subito che ella conosceva un poco le gesta di quel personaggio — e quel di che Daniele di ritorno a casa disse ai suoi famigli che aveva incontrato il Disertore, Clelia si ricordò a puntino una storia udita le mille volte e commentata dalla simpatia e dalla pietà di tutti.

Il Disertore (così ognuno lo chiamava non conoscendogli altro nome) era il figlio illegittimo di una gran dama, messo al mondo e abbandonato come un trovatello qualunque sovvenuto tratto tratto di denaro, d'affetto mai, ed era cresciuto solitario, bersaglio agli scherzi di coloro che avrebbero dovuto essergli compagni, ombroso e selvaggio, finchè la coscrizione lo colse in mezzo alla vita errabonda.

Se in un paese libero, servire la patria e il re è uno dei più cari doveri, quando è lo straniero che comanda si può nella disubbidienza trovare motivo di plauso. Nè raro era il caso in quelli anni tristissimi di giovani lombardi renitenti alla leva, viventi alla macchia come belve, perseguitati dalla soldatesca e protetti dal popolo.

Il Disertore era conosciutissimo nei dintorni di Chiaravalle dove egli viveva nascosto e dove i gendarmi gli davano continuamente e inutilmente la caccia. Da due anni che era sfuggito alla leva egli scorreva i boschi che crescevano allora foltissimi intorno all'Abbazia e dove malagevole riusciva inseguirlo; molto più che ogni affittaiuolo o villano del paese si sarebbe lasciato tagliare una mano piuttosto che denunciarlo.

Male non ne faceva a nessuno fuorchè ai gendarmi quando si combinavano sulla sua strada. Le aggressioni ai borghesi erano molto rare e finivano quasi sempre all'amichevole; un po' per compassione, fors' anche per un certo salutare timore, che, quantunque buon diavolo in fondo, non era tutto farina da ostie e a chi gli sbarrava il passo sapeva mostrare nonchè il calcio la duplice canna della sua pistola.

Si narravano di lui fatti incredibili, generosi, commoventi. Era il protettore di tutti i deboli, di tutti gli oppressi. Molte ingiustizie erano state accomodate da lui in modo brusco e sommario, col trionfo dell'innocenza. Aveva sovvenuto di pane una povera vecchia per più di un anno e aveva salvato un bambino di contro a un toro con pericolo grave della vita.

Quanto alle ragazze non si può dire che le lasciasse in pace: ma aveva un modo di far loro la guerra che evidentemente non dispiaceva perchè tra le ragazze appunto egli era oggetto di grande commiserazione.

Si pensava alla sua nascita signorile, ai suoi infortuni, ai suoi begli occhi e si concludeva: Povero giovane.

Clelia pensò per molto tempo al Disertore con una segreta speranza di rivederlo o di avere almeno sue notizie.

Alla sera, prima di mettersi a letto aveva sempre un po' di paura. Guardava tutti i mobili, chiudeva gli usci e la finestra, investigava le pareti, e quando si era fatta persuasa che non c'era alcun pericolo, — o misteri del cuore! l'assaliva una fiera malinconia.

L'inverno volgeva crudo, misero assai per la povera gente.

Frotte di contadini nomadi invadevano le campagne con un sacco sulle spalle, coi piedi nudi; penetravano nelle case degli affittaiuoli implorando un pezzo di pane e morivano qualche volta sulla soglia di languore e di freddo.

Clelia, pietosa, esercitava largamente la carità pensando che Dio glie la renderebbe in tanta misericordia verso il proscritto che aveva per tetto i nudi alberi e per giaciglio l'umida terra dei boschi.

Si parlava in quei giorni di una persecuzione atroce.

I gendarmi austriaci battevano giorno e notte le campagne; due di essi erano stati uccisi in una lotta corpo a corpo col Disertore. La testa di costui aveva una taglia di quattrocento svanziche.

Nelle lunghe veglie intorno al focolare i famigli raccontavano scene strazianti. Clelia era avida di particolari; tutto ciò che riguardava il Disertore lo teneva attenta, col cuore sospeso. Lo aveva veduto una volta sola, ma quella figura bella e fiera le stava sempre davanti agli occhi. Non immaginava diversamente gli eroi dei suoi romanzi prediletti.

Una sera ad ora tarda, essendo già coricati tutti i domestici, Daniele puliva il suo fucile accanto al fuoco e Clelia lo guardava con quelle pupille immote che dinotano l'astrazione del pensiero.

Da una mezz'ora buona i due fratelli non aprivano bocca, occupati come erano l'uno del suo fucile e l'altra delle sue fantasticherie.

Fuori nevicava.

Lontano lontano l'ululato di un can da pagliaio rompeva il silenzio della notte.

A un tratto due colpi furono bussati alla porta di strada. Clelia si fece pallida. Daniele, calmo, caricò il fucile e mosse ad aprire con un lume in mano.

— Ritirati — aveva detto prima alla sorella.

La fanciulla, invece di ritirarsi, si nascose dietro l'uscio del salotto e di là potè vedere suo fratello che tornava indietro seguito dal Disertore.

All'improvvisa comparsa Clelia non si sentì più padrona di sè stessa. Cedendo all'impeto dei varî sentimenti che l'agitavano, incapace di rimanersene zitta e chiotta dietro l'uscio, pur non osando mostrarsi, ella si diede a correre all'impazzata sotto i portici della cascina, stringendosi il cuore che le voleva scoppiare.

***

Un deserto di neve l'arrestò in fine della sua corsa.

L'aia grandissima era tutta bianca; bianchi i gelsi che la circondavano, la siepe, il muricciuolo, il tetto basso della stalla; era un candore generale.

Clelia si fermò un istante. Non sentiva il freddo; non si accorgeva che i piedini le si intirizzivano sul terreno umido. Aveva la testa in fiamme, povera fanciulla!

La campagna nuda e deserta le si stendeva davanti agli occhi sconfinata. Il riflesso della neve la illuminava di una luce mesta che pareva quella di una lampada sopra un lenzuolo mortuario. Clelia fu colta da un senso di paura.

In quel momento lo scalpitare di un cavallo attrasse la sua attenzione e guardando sul sentiero che girava dietro all'orto vide due gendarmi che s'avanzavano dritti verso la casa.

Comprese tutto.

Rifece, più veloce di prima, il portico e la corte; saltò alcuni utensili da contadino che giacevano abbandonati per terra ingombrandole il passo, e comparve nel salotto dove Daniele e il Disertore discorrevano a voce bassa, concitata.

— I gendarmi! — gridò Clelia.

I due uomini si voltarono a quella voce. Clelia non guardò il fratello, guardò il Disertore che ritto in piedi, pallido, s'era levato il cappello davanti a lei.

— Dove sono? — chiese Daniele.

— Sul sentiero dietro all' orto; vengono qui. Odi? Ecco il passo dei cavalli.

Clelia tremava come una foglia guardando sempre il Disertore.

— Volete nascondermi? — disse costui rivolto all'affittaiuolo. — Ebbi fiducia in voi e venni qui sicuro.

— Non vi tradirò — rispose Daniele — seguitemi!

Alcuni colpi fortissimi risuonarono sul martello della porta.

— Non c'è tempo! — esclamò Clelia. — Sono qui.

— Nella camera della frutta — suggeri Daniele rapidamente.

— Non si può entrare, sai, hanno smarrita oggi la chiave.

— Maledizione!

Durante questo breve dialogo il Disertore, immobile, non distoglieva gli occhi dalla fanciulla. Vi fu un istante in cui parve volesse dire qualche cosa; non lo disse; ma allora come se il pensiero di lui portato da una corrente magnetica avesse toccato il cervello di Clelia, ella esclamò con vivacità:

— La finestra della mia camera mette sui campi — è bassa — il bosco è vicino…

Si interruppe; aveva incontrato lo sguardo del Disertore e una vampa di fuoco le coperse il volto.

Bussarono ancora.

— Andiamo! — disse Daniele prendendo il bandito per un braccio.

Egli stesso voleva condurlo nella camera della sorella; intanto i colpi spesseggiavano sulla porta. Una voce tonante gridò: « Aprite in nome della legge ».

Non era il momento di discutere, nè di scegliere fra il bene e il meglio. Daniele mosse verso la porta, Clelia guidò il Disertore.

La fanciulla non potè mai ridire a se stessa come fosse riuscita in quell'occasione ad arrivare nella sua camera — nè se aveva parlato durante il tragitto — nè che cosa avesse fatto oltre che aprire la finestra e stringersi tremante contro il muro.

Ma vi fu un punto che non dimenticò nè allora, nè mai più. Fu quando il Disertore, appoggiando un ginocchio sul davanzale della finestra si voltò a guardarla.

Ottimi pedanti, prudentissimi legislatori del buon costume e delle convenienze sociali che prescrivete la misura di uno sguardo fra uomo e donna, che decretate contr rio all' educazione il fissare lungamente una persona fra ciglio e ciglio, ditemi, cos'è quel raggio irresistibile, improvviso, ardente, che lampeggia nelle pupille di due sconosciuti, che li avvince, che li unisce e li stringe più che non farebbe un bacio?

Non si conoscono; nulla sanno l'uno dell'altra, nè donde vengano, nè dove vadano; nessuna memoria li riunisce; non hanno mai pianto nè riso insieme; dovrebbero essere perfettamente indifferenti.

Ma no. Essi, i due predestinati, le due anime gemelle si incontrano, si riconoscono, si abbracciano con uno sguardo. Che importano i nomi? Che importano i destini? Essi si comprendono.

Non ne sarà nulla, verranno divisi, si dimenticheranno, forse, a vicenda — ma si sono amati. Per un minuto, per un istante le due anime vissero in una.

O amore, fra le tue delizie è delizia immensa uno di questi sguardi lunghi, natanti nel raggio di due pupille nere!

Così il Disertore guardò Clelia — e sembrava le dicesse: « Cara, invano apparisti sul mio sentiero; ti porto nel cuore, non posso portarti nelle mie braccia ».

Ma quand'anche la pupilla del Disertore non esprimesse tutto questo e avesse appena fatto trasparire la parola: io t'amo, — che più? Clelia si senti venir meno per l'ebbrezza. Un velo sottile le coperse gli occhi; tese la mano a lui che dolcemente la strinse — dolcemente e fortemente insieme sì da lasciarle un'impressione d'infinita soavità — e poi non seppe più nulla.

Qualche tempo dopo venne in camera Daniele, agitato e trepidante per la cara sorella. Chiuse i vetri e volle che Clelia bevesse un sorso di vino per farsi passare lo spavento.

— I gendarmi sono andati — disse. — Brave persone! Mi hanno creduta sulla parola o forse avevano freddo e vedevano il letto distante un miglio. Via, è passata anche questa.

— E il Disertore? — domandò Clelia con un gruppo in gola che voleva sembrare quello che non era, cioè compassione semplice.

— Lui! Poveraccio, a quest' ora spero sarà lontano.

Clelia avrebbe domandato qualcos'altro in proposito, ma Daniele stringendosi nelle spalle troncò il discorso e le augurò la buona notte.

***

Accadde dell'augurio di Daniele come della maggior parte degli auguri — la notte di Clelia fu pessima.

Pessima in due modi e per due sensazioni opposte, l'una di piacere e l'altra di dolore, conducenti entrambe a una veglia tormentosa.

Ora ella chiudeva gli occhi pensando di addormentarsi sul ricordo delizioso di quello sguardo e di quella stretta di mano: e il ricordo invece la teneva svegliata, rinnovandole sotto l'epidermide una corrente elettrica che la scuoteva tutta.

Ora l'assaliva tremendo il dubbio che il Disertore fosse raggiunto dai gendarmi e se lo immaginava preso, legato, messo in prigione, ucciso.

Apriva gli occhi, e nel buio della notte luccicanti come stelle vedeva le pupille del Disertore tenere e meste, umili e ardenti.

Si voltava, si rivoltava; gettava via il piumino; aveva caldo, aveva freddo; non poteva trovar pace.

Il suo buon guanciale sprimacciato le sembrava uno strumento di tortura e lo rizzava sulla sponda del letto; poi, brancicando, lo prendeva chi sa per che cosa e tornava a tirarlo a sè, abbracciandolo con passione, sprofondandovi la bocca che fremeva.

Voleva dormire; ma quando il sonno scendeva lieve lieve a chiuderle le palpebre, ella reagiva. Non sapeva staccarsi dall'immagine del Disertore; le incresceva abbandonare i suoi dolci pensieri, le fluttuazioni vaghe della sua mente, e vegliava ancora e tornava a fantasticare e a smaniare per il letto.

Le riuscì di dormire un poco sull'alba.

Appena desta, pronta come una sentinella, l'immagine della sera prima le tornò davanti. Si vesti in fretta e corse ad aprire la finestra. Che cosa sperava? Nulla. Tutto. Lo sanno forse gli innamorati quel che sperano? L'ignoto è il loro Dio.

Appoggiò i gomiti sul davanzale, proprio dove lui' aveva appoggiato il ginocchio, e guardò attorno l'ampia campagna che, muta e deserta, biancheggiava nel suo lenzuolo di neve.

Un pallido sole faceva scintillare i ghiacciuoli incastonati come brillanti sui rami degli alberi, il cielo era scuro; l'aria fredda. Un passero, movendo dall'Abbazia sulla cui torre aveva formato il nido, posò un istante sul cornicione disotto alla finestra — trillò e volò via.

Clelia lo seguì malinconicamente cogli occhi sospirando. Oh! se anche lei avesse avuto le ali.

Nella giornata qualcuno venne a dire che il Disertore era stato preso; poi la notizia fu smentita, poi riconfermata. Clelia moriva fra le ansie del dubbio; non aveva mai sofferto tanto.

La notte che segui fu peggiore ancora della prima per la povera fanciulla; ma alla mattina un biglietto sulla sua finestra le recò queste tre parole: Grazie, son salvo.

Tro sole parole che agli occhi di Clelia rifulsero come caratteri d'oro, che le parvero belle ed espressive come un lungo poema d'amore — parole che baciò, che ribaciò — fortunate parole, cui era destinato per dimora ignota e santa un seno di donna.

Forse, nei suoi sogni giovanili, ella s'era formato un concetto diverso della prima lettera d'amore. Forse aveva desiderato anche lei, come tante altre, un foglietto di carta lucida, rosea, tutto coperto di una seritturina nervosa e colla frase sacramentale: « Dal giorno che vi ho veduta… »

Ma pazienza. Il Disertore aveva ben altro a fare che distillar delle frasi. Del resto, i suoi occhi e la sua stretta di mano le avevano già detto tutto.

Clelia sentiva di essere amata, ne aveva il convincimento in se stessa; questa sicurezza la rendeva felice.

L'inverno, quell'anno, pareva che non dovesse più finire.

I contadini avevano esaurite le loro provviste; non c'era più farina, nè fagiuoli, nè patate, nè riso. Chi aveva qualcosellina da parte potè tirare avanti fino ai primi d'aprile — gli altri, o si ammalavano o vivevano stentatamente di carità; i vecchi e i fanciulli morivano a frotte. Gli ospedali, assediati, rimandavano tutti i giorni un numero infinite di poveri che tornavano ad accrescere la miseria del paese.

Per gli affittaiuoli le cose non andavano meglio. Toccava a loro a provvedere in gran parte e gli anni erano cattivi per tutti.

Daniele si mostrava triste e preoccupato. Al suo fianco, nelle serate solitarie del focolare, Clelia provava quasi rimorso di accarezzare sogni d'amore. E quale amore mio Dio!

Da quattro mesi non sapeva più nulla; il nome del Disertore non veniva mai pronunciato, nè ella osava chiederne.

Fu allora che tentò di svellersi dal cuore una passione senza avvenire e senza speranza; ma o fosse debole il proposito o saido l'affetto, non riuscì.

Le scene meste che la circondavano, la monotonia della sua vita, la mancanza di una madre, di una sorella, tutto contribuiva a sostenere quel fantastico amore. A poco a poco Clelia ne fece la sua unica gioia; gioia intima, ideale, poetizzata dal sacrificio.

Viveva con lui nei tiepidi mattini di primavera, quando il verde dei boschi rifulgeva al sole e sembrava stendere sulla pianura un manto di pace e di silenzio. Viveva con lui nelle notti placide, seduta alla finestra, col capo sul davanzale, ascoltando i rumori lontani, e nelle notti burrascose, rannicchiata nel suo lettuccio, colle mani giunte, pregando Iddio!

Molte volte si recava sui prati che circondavano l'Abbazia, presso il luogo dove lo aveva visto la prima volta, nella segreta speranza di rivederlo ancora, e interrogava gli alberi, i sassi, i fili d'erba; credeva di trovare una sua traccia. Non trovava nulla e tornava malinconica alla sua cameretta, alla sua finestra, al lettuccio confidente discreto d'ogni suo pensiero.

Intanto passavano i mesi, dopo passarono gli anni.

Clelia rifiutò due o tre matrimoni, non perchè avesse fermamente deciso di rimanere zitella, ma perchè con quell'immagine fissa in mente le ripugnava qualunque altra figura d'uomo.

Una volta ancora (e precisamente nell'occasione che aveva respinto un ricco partito del paese) Clelia trovò sulla sua finestra un ramoscello d'edera. Questa cara pianticella non è forse il simbolo dell'affetto tenace? Non vuol forse dire: Costanza ad ogni prova?

Clelia la bagnò di lagrime e la unì al tesoro della breve lettera e della rosa appassita.

***

S'era al mille e ottocentocinquantasette. Gli affari di Daniele avevano preso una cattiva piega negli ultimi cinque anni; egli aveva voluto acquistare dei fondi per conto proprio, sperando di poterli pagare con utili straordinari, ma l'utile era mancato, e Daniele si trovava alla vigilia di un fallimento.

Cuore retto e carattere forte, sicuro di poter provare in qualsiasi occasione la propria onestà, Daniele non si crucciava molto per sè stesso, ma gli doleva immensamente la sorte della cara sorella. Per lei temeva la miseria, temeva sopratutto di doverla un giorno lasciare sola sulla terra.

La sventura riunì maggiormente i due fratelli.

Clelia che si era votata a un amore infelice non era meno agguerrita di Daniele contro i colpi del destino. Ella lo assicurava di continuo che non rimpiangeva l'agiatezza e pur di avere un posto vicino al fratello di null'altro ormai le importava nella vita.

Disponeva tranquillamente il loro avvenire tutto dedito al lavoro; faceva piani, combinava progetti; si sentiva forte e attiva. Ella sapeva che in qualunque posto, in qualunque condizione l'avrebbe seguita il suo dolce sogno; che valore aveva tutto il resto?

Provava anche una specie di voluttà nel sapersi povera, quasi proscritta come Lui; le pareva di essergli più vicina.

Così confortandosi a vicenda, coraggiosi, rassegnati, i due fratelli aspettavano la loro sorte.

Clelia aveva salutate le pareti della sua cameretta, la memore finestra, la torre dell'Abbazia, la cui vista le ricordava tanti pensieri soavi! Sul punto di staccarsi per sempre dal suo passato, l'assaliva una leggera tristezza che essa cercava di soffocare sotto un raddoppiamento d'energia e di forza.

Entrò una mattina nello studio di suo fratello, accesa in volto, tenendo fra le braccia un fascio di vecchie carte e appena entrata indietreggiò facendosi più bianca della neve. Il Disertore le stava davanti

— Ma se vi ringrazio! — diceva Daniele con voce agitata e commosso in volto come se due sentimenti contrari si facessero guerra dentro di lui. Mettete che abbia accettato.

— Però non accettate.

Queste parole le pronunciò il Disertore colle labbra strette, con accento amaro.

— Non abbiatevene a male giovinotto; via, datemi la mano. La mia intenzione non è di offendervi.

I due uomini erano così assorti nel loro dialogo che non si accorsero della presenza di Clelia. La povera giovane non osava fare un passo nè avanti nè indietro.

Vi fu un momento di silenzio. Il Disertore si asciugava il sudore sulla fronte; era pallidissimo.

Daniele picchiava con una penna sullo scrittoio e teneva gli occhi bassi. In mezzo a loro c'era un piccolo sacco che si capiva contenere del denaro.

Finalmente il Disertore con una calma disperata sotto la quale si travedeva lo sforzo, domandò a voce bassa:

— E se vi provassi che questi denari furono guadagnati lealmente? … Se …

Daniele si alzò in piedi. Colla mano tesa, in attitudine nobile e paterna, interruppe la confessione dello sconosciuto:

— Basta — disse — io non vi chiedo ciò. Mi piace credere che tutto in voi sia leale. Non accetto perchè non accetterei nemmeno dal mio migliore amico. Non posso. La mia disgrazia è irreparabile, quantunque (sorrise tristamente) non insopportabile.

Prese il sacchetto colle due mani e lo posò sulle braccia del Disertore che fremente e confuso si ritirò in silenzio.

Accanto all'uscio vide Clelia ritta contro il muro e bianca come una statua. I loro occhi si cercarono; in quelli del Disertore brillava una lagrima ardente.

Clelia volle parlare, ma tutta la sua anima era condensata nello sguardo; ella assorbiva quella lagrima e la faceva sua.

Il Disertore sentì tutta la dolcezza del conforto che gli offriva l'amore; i suoi occhi espressivi ne ringraziarono Clelia e per la seconda volta le dissero nel loro muto, eloquente linguaggio: Ti amo.

***

Daniele era ricaduto sulla sedia.

— Mio povera sorella — esclamò — siamo dunque così miseri da destare perfino la compassione di un vagabondo!

— Daniele! … Oh, Daniele!

L'accento doloroso di Clelia lo colpi. Egli l'aveva ferita, senza saperlo, nel lato più sensibile ed esulcerato.

L'infelice amante si nascose la faccia tra le mani; il suo cuore traboccava.

Pianse a lungo, dapprima disperatamente, poi silenziosa a intervalli rotti da profondi sospiri.

Raccontò tutto, seduta su uno sgabello, colla fronte appoggiata ai ginocchi di Daniele come quando, piccina, calmava così i suoi primi dolori.

E Daniele ascoltò, grave, ma non accigliato, la confessione della sorella. Era una nuova disgrazia che piombava su di lui, ma più ancora sulla poveretta.

Non le mosse alcun rimprovero. Sapeva che amore non ragiona. Le disse appena con somma dolcezza, quasi volesse garantirla contro futuri disinganni:

— Tu non speri nulla, non è vero? Clelia scosse il capo negativamente. E Daniele soggiunse abbassando la voce:

— Sai che era venuto a far qui?

— Lo immagino — disse Clelia arrossendo. — Ti ha portato i denari per pagare i tuoi debiti.

Daniele si morse i baffi e stette qualche minuto prima di rispondere.

— Non potevo accettare. Capisci, Clelia, che non potevo accettare?

La fanciulla capiva pienamente. Il suo abbattimento era profondo.

Pochi giorni dopo lasciavano tutti e due la casa dove erano nati, dove erano vissuti ricchi e felici. Come il viaggiatore nel deserto essi riallacciavano i loro sandali dopo il riposo dell' oasi e riprendevano il cammino faticoso.

La loro nuova abitazione li portava un po' lungi da Chiaravalle. Nel passare accanto all'antica Abbazia Daniele senti la mano di Clelia che tremava nella sua; avevano entrambi il medesimo pensiero, ma non se lo comunicarono.

***

Le donne, maestre d'amore e custodi in ogni tempo del fuoco sacro, si trovano per una speciale condizione del loro cervello e più ancora per il genere della loro vita, assai meglio dell'uomo approfondite nei misteri della passione.

Un ricamo, un orlo, una calza impediscono forse alla donna di dedicarsi tutta ad un pensiero? L'uomo, anche se volesse, non può vivere una giornata intera e poi una intera notte, ed altri giorni ed altre notti ancora fantasticando. Il movimento, l'azione, il positivismo degli affari lo incalzano; la cura amorosa appare in lui come il lampo — brilla a intervalli.

Ma ditelo voi, cuori di donna, come l'amore vi allaccia, vi stringe, vi accompagna passo a passo; come vi destate con esso al mattino e come alla sera vi coricate senza allentare le braccia — cuori di madre che già presentite l'esistenza in due!

Clelia aveva portata con sè la sua dolce croce e nella povertà dei giorni che l'attendevano era quella la sua ricchezza.

Poco le mancava ai ventisette anni: non era più una bambina. Sentiva della vita tutta la mestizia e la sublimità. Il dolore le ingrandiva l'anima.

Lavorava adesso per guadagnare il duro pane; nè di ciò veramente le incresceva molto — era coraggiosa. Ma Daniele non trovava mai dove collocarsi. Lo avevano lusingato con promesse e proteste d'amicizia, intanto il tempo passava e un tetro sconforto si impadroniva di lui. La sua robusta salute ne fu scossa.

Un anno trascorse a quel modo, lento, uggioso, fra lotte meschine d'ogni giorno, colla preoccupazione continua dell'avvenire sospesa come una minaccia sulle preoccupazioni presenti.

Daniele parlava poco. Aveva l'apparenza calma, quasi serena; tentava molte volte di sorridere, ma l'occhio profondo della sorella ne scrutava la mentita rassegnazione e scendeva fino a ricercargli il cuore — quel cuore che sanguinava.

L'ozio forzato, i pensieri insistenti, terribili, il dubbio — verme che lacera i visceri — lo sgomento, la sfiducia di sè, di tutti e una stanchezza dolorosa lo minavano, lo struggevano nelle radici della vita.

Nei primi giorni del milleottocentocinquantanove, quando incominciava a fremere in Lombardia la rivolta contro lo straniero, e già nelle città e nelle campagne un'onda d'entusiasmo ardeva tutti i petti, Daniele, vinto da un male che i medici non conoscevano e che i farmachi non potevano guarire, si spense lentamente, raccomandando la sorella a Dio.

Clelia restò sola nel mondo.

***

Una sera — era il mese di marzo — una bufera fortissima imperversava cacciando turbini di vento e di pioggia per le vie deserte.

Clelia, riparata nella modesta cameretta, cuciva alla fioca luce di una candela; nè i suoi pensieri erano più lieti del cielo che appariva nero attraverso gli spiragli della finestra.

Cuciva e sospirava e non volle credere che qualcuno bussasse alla porta, quantunque due colpi ben distinti avessero dominato lo scrosciare dell'acqua contro i battenti chiusi.

Si levò finalmente prendendo il candelliere nella mano e mosse ad aprire pensando fosse qualche vicina; ma non potè trattenere un grido poichè vide nel buio della soglia quella faccia pallida a lei nota.

— Madonna santa! — fece la povera giovane scostandosi di alcuni passi per lasciar entrare il Disertore.

Egli era molto cambiato. Più severo, più freddo, mostrava in ogni linea del volto le traccie degli anni passati. I suoi occhi, sempre belli e scintillanti, avevano un raggio più profondo; alcuni fili bianchi — pochi — si mescevano al nero d'ebano de' suoi capelli.

— Mi permettete di riposare qui?

Ella osservò allora che egli (non ne conosceva ancora il nome) appariva molto stanco; i suoi abiti erano inzuppati e coperti di mota. Gli additò una sedia; parlare non poteva.

Prima di mettersi a sedere; il Disertore gettò il mantello a cavalcioni di un paravento e il cappello sul tavolo; poi, prendendo le due mani di Clelia e tirandosela vicina, per modo che stando egli seduto l'aveva ritta davanti:

— Mi amate? domandò con voce bassa, vibrata, che sembrava uscisse dai più lontani recessi del cuore.

Stette un minuto ad aspettare la risposta. Clelia non rispose, ma lo guardò — non era sempre stato quello il loro linguaggio? Le loro mani tremavano, strettamente avvinte.

— Il giorno è arrivato, Clelia, in cui posso parlarvi d'amore. Ma prima ditelo, ditelo, mi amate?

I sette anni trascorsi si affacciarono alla mente di Clelia con tutti i sogni, i sospiri, le ansie, i desiderî, le lagrime di quell'infelicissimo amore, e cercò una parola che potesse esprimere tutto ciò — e non trovò la parola — e chinatasi tremante pose un bacio sulla fronte del Disertore.

Sette anni di sacrifici trovarono in quel bacio il loro compenso. Esso parve un battesimo pel Disertore che rialzò la testa sfavillante; un raggio di pura gioia gli brillava negli occhi.

— Grazie! — disse; ma lui non osò baciarla.

***

Seduti vicino, espansivi, confidenti come se avessero passata tutta la vita insieme, incominciarono a svolgere i loro progetti per l'avvenire.

Egli partiva. Andava ad unirsi alla giovane armata che preparava in Piemonte la grande riscossa. Sui campi dell'onore avrebbe guadagnato quel nome che il destino gli aveva negato alla culla e sotto la gloriosa divisa di soldato italiano sarebbe tornato a lei felice e redento.

Clelia non credeva a tanta contentezza. S' era abituata alle lagrime; la felicità le faceva paura.

— Se fosse vero! — mormorava, stringendo con appassionato trasporto la mano abbronzata del Disertore.

— Sarà vero, lo giuro! — rispose il giovane con entusiasmo.

Clelia sollevò gli occhi al cielo. Sapeva che c'è qualcuno che spezza i giuramenti degli uomini. Il vento era cessato; la pioggia non cadeva più. Nell'aprire l'uscio Clelia vide il cielo quasi azzurro sparso di poche stelle.

— Vedete? — disse il Disertore stringendole dolcemente la vita, così che Clelia si trovò appoggiata contro il di lui cuore. — Vedete la costellazione della Lira? La prima di quelle tre stelle, la più lucente, quella è il mio astro. Nelle notti solitarie in mezzo ai boschi io la guardavo pensando a voi. Penserete voi a me guardandola?

Strinse il braccio — le loro bocche quasi si toccavano. Egli si gettò vivamente indietro.

— Addio! — esclamò.

Ed ella rispose: — Addio.

***

Sotto l'ampia cappa del camino, nelle lunghe sere d'inverno, accanto alla fiamma che crepita sugli alari neri, una donna veglia e lavora. Ha i capelli bianchi, la fronte mesta ed una espressione negli occhi di dolcezza infinita e rassegnata.

E Clelia.

Da quella notte memorabile ella non ha più visto il Disertore. Voci raccolte dicevano che egli era caduto nel primo scontro cogli austriaci battendosi da valoroso. E Clelia che aveva avuto paura della gioia tornò alle lagrime — alle care lagrime versate in silenzio.

Nessuno seppe mai la sua storia; ella non disse ad alcuno i suoi dolori. Chi la conobbe la vide invecchiare calma e serena conservando sotto le rughe un raggio della sua bellezza passata. Si credeva generalmente ch' ella non avesse mai amato.

Ma quando sul cielo opaco della sera brillavano le prime stelle, Clelia colla fronte appoggiata ai vetri della sua finestra guardava a lungo la costellazione della Lira — la prima delle tre stelle, la più lucente, — forse l'anima di Lui era là.

Fra gli amici di suo cugino il più antipatico era proprio quello lì.

A farlo apposta non potevano scegliere meglio per assicurarla contro le tentazioni; ma vi sono donne di tempra battagliera che le amano, invece, le tentazioni. — Cosa volete farci?

Urania era così per l'appunto.

Ella rifiutò la mano del suo cavaliere e saltò leggera nella barca, senza darsi cura di nascondere un grosso dispetto e neppure un piccolo piede con stivalini di pelle di daino a dodici bottoni. Romeo li vide tutti e dodici, dispiacente che non vi fosse il tredicesimo.

E sedettero nella barca.

Vi ricordate, lettori, quella terribile inondazione del mille e ottocento …? Ma no, non mettiamo date. Quando e'entrano delle signore in un racconto le date è meglio sopprimerle.

Vi basti sapere che il Po ne aveva fatte delle sue, straripando e allagando la campagna sulla riva destra fino a Parma. Era uscito anche a Cremona; da quelle parti la strada ferrata era stata coperta in varii punti. Chi da Casalmaggiore voleva recarsi a Milano era costretto a traversare il fiume e portarsi in barca dentro i campi innondati fino a Parma per prendere la linea d'Alessandria. Precisamente quello che faceva Urania dopo essere stata a villeggiare dalle sue cugine.

Il paesaggio era strano. Le viti e tutte le piantagioni basse scomparivano sotto l'acqua al di sopra della quale emergeva tratto tratto la cima altera di un olmo o di un pioppo, pari ad una grande ninfea galleggiante. C'era qualche cosa della maestà biblica in quelle acque, che salivano, salivano sempre, atterrando, distruggendo, recandosi dietro il terrore e la morte.

Giù per la corrente passavano oggetti singolari e spesso irriconoscibili: pezzi di travi delle capanne cadute; frammenti di mobili, vesti, attrezzi, vasi, cenci; perfino una gabbia dove alcune galline impazzavano ben persuase che fosse giunto il finimondo.

La navigazione riusciva tutt'altro che facile in quel lago improvvisato di cui si ignoravano i tradimenti; era d'uopo procedere a tentoni, scandagliando i fondi e puntando il remo sui tronchi d'albero che ingombravano il cammino.

Urania si divertiva immensamente. Spirito forte, amava il pericolo, e solo rammaricavasi perchè invece di quel bellimbusto di Romeo non l'avesse accompagnata il cugino. Lui era un uomo!

Senza fare sospetti temerari si può arrischiare la supposizione che il cugino la preoccupava molto. I modi soldateschi, le opinioni avanzate, i gusti marziali, i lunghi baffi e i tacchi sonori ornati di sproni l'avevano impressionata. Nel suo disprezzo per gli uomini effeminati era giunta perfino a farsi piacere le mani ruvide di suo cugino. Oh! con lui si sarebbe divertita — così …

Romeo, seduto a prora (ella era a poppa), sembrava prendere poco interesse alla scena pittoresca che lo circondava; il suo profilo delicato e freddo si staccava netto come un cammeo antico sullo specchio lucente dell'acqua; con una mano arricciava i baffi piccoli e biondi, l'altra pendeva fuori dalla barca. — Era insopportabile.

Urania voltò la testa dall'altra parte.

È certo — pensava — che costui non ha sangue nelle vene; deve essere cresciuto a olio di merluzzo. Questa idea le rimase così persistente nel cervello che le parve di vedere il suo cavaliere a cinque anni, con una bavettina davanti, colla bocca aperta per ingollare il cucchiaio d'olio.

In quel momento il barcaiolo ritirò i remi e guardandosi attorno pensieroso:

— Ho paura — disse — di non aver preso la strada migliore.

— Perchè? — domandò Urania.

— Perchè gli alberi crescono a tutto crescere e invece di trovarci al di sopra di un sentiero siamo entrati in un bosco o poco meno.

Romeo si alzò.

— Forse … raddoppiando il vigore dei remi …

— Sa maneggiarli lei?

— Proviamo.

Il giovinotto prese un remo e con grande meraviglia del barcaiolo gli diede dei punti.

— Oh! oh! — fece l'uomo — ella mi ruba il mestiere.

— Credi? Allora ascolta un consiglio. Di qui colla forza non s' esce; conviene serbarla e manovrare con prudenza al solo scopo di evitare gli ostacoli; questa barca non deve resistere a un urto un po' forte.

Il barcaiolo strinse le labbra senza rispondere.

Urania incominciò a pensare se non fosse stata per caso un'imprudenza quella di scegliere la corsa della sera; per evitare il sole e la polvere s'era messa a un brutto rischio davvero. La presenza di suo cugino le sembrava più che mai desiderabile; si immaginava che bell'effetto farebbe la sua grossa voce tuonante in mezzo all'acqua, le sue braccia d'atleta ai remi, la sua fronte abbronzata coperta del sudore dei forti!

Con lui almeno il pericolo aveva un lato eroico, poetico; si poteva affrontarlo con un certo gusto!

Gettò unò sguardo di compassione e di disprezzo sul biondo cavaliere che le avevano dato e si adagiò comoda, colle braccia conserte, rassegnata a subire gli avvenimenti, poichè non le era dato cambiarli.

La barca intanto urtava a destra e a sinistra, ora trattenuta da un fascio di erbaccie, ora spinta da un tronco d'albero, minacciando ad ogni istante di capovolgersi.

La faccia del barcaiolo si faceva sempre più scura.

Romeo, tranquillo, si abbassò sul fondo della navicella, e rimovendo un asse fece osservare che l'acqua incominciava a penetrare nell'interno.

Urania, con tutto il suo coraggio, impallidi.

— Ma come andremo a finire? domandò rivolgendosi per la prima volta all' amico di suo cugino.

— Si rassicuri — disse Romeo — il pericolo di annegare non c'è.

— E non ve ne sono altri?

Il giovane la guardò un momento, incerto; poi disse, senza abbandonare il suo piglio indifferente:

— Speriamo di no.

Il malessere di Urania cresceva di minuto in minuto: l'aveva anzitutto con Romeo, questo si sa; ma l'aveva anche con sè stessa, colla barca, col barcaiolo, col Po, colle pioggie d'autunno e quanto — oh! quanto! — coi cugini negligenti che si fanno rappresentare dagli amici.

— Temo — disse ancora Romeo con una placidezza da far disperare i santi — che l'opportunità della corsa per quest'oggi sia perduta.

— Bella notizia! — esclamò Urania. — Fallire lo scopo è proprio quello che ci voleva per coronare una gita così piacevole!

Era dura, sarcastica.

Ma il destino le preparava ben altre cause di malumore e di dispetto. Tutt'a un tratto la barca si fermò impigliata in una specie di pantano formato di sabbia, di paglia e di siepi divelte. Doveva finire così.

Avendo sbagliato strada, la sola praticabile in quell'oceano dell'ieri, erano andati a casaccio sopra i campi ed eccoli arenati in mezzo alle viti ed agli olmi, a due chilometri da Parma. Un'avventura inverosimile, diciamolo, per quanto sia verissima.

Pensate poi, signore mie, che tramontava il sole, e gli ultimi suoi raggi vermigli splendenti sulla cima dei pioppi annunciavano prossima la sera.

Romeo, punto alterato (dopo averne chiesto permesso alla signora), si levò il soprabito, sbottonò i polsini, sciolse la cravatta; pose il tutto delicatamente in un angolo, e fatto padrone di un remo si diede, insieme al barcaiolo, al difficile còmpito di smuovere la barca.

Io nou ho, come Urania, cattiva prevenzione contro gli uomini biondi: posso dunque rendere giustizia a quel giovinotto, e dire che stava molto bene colle guancie colorite dalla fatica, coi bei capelli scomposti svolazzanti sulla fronte candida. Le sue braccia bianche e forti si alzavano e si abbassavano regolarmente, disegnando sotto la battista i muscoli vigorosi. C'era in lui dell'Ercole e dell'Apollo.

Per disgrazia Urania non lo guardava.

Quando, dopo un'ora di lavoro, uscirono a mettera la barca fuori dagli impacci scintillava già qualche rara stella.

— Uff! — fece il barcaiolo tergendosi il sudore.

— Ti credi in porto, brav' uomo? — domandò Romeo, appoggiando un piede sulla sponda, che si pose a scricchiolare. — Al primo urto questa povera carcassa volerà in una dozzina di frantumi. Ne farei giuramento.

— Ma lei è proprio l'uccello del malaugurio! — disse Urania inasprita. — Se fossi niente superstiziosa ci sarebbe da credere che la sua presenza è infausta al mio viaggio.

— Vuole che mi getti nell'acqua per liberarla? Io sono pronto.

L'accento di Romeo era calmo, freddo, ed aveva qualche cosa di amaro; la giovane donna ebbe vergogna di essersi mostrata fino allora inesorabilmente sgarbata. Sorrise, e prendendo un'aria scherzosa:

— O Dio, signore, come è suscettibile! Le chiedo scusa del mio cattivo umore; convenga però che sono da compatire …

Romeo s'inchinò.

— Dunque che cosa facciamo — interruppe il barcaiolo. Pur troppo questo legno non regge dopo le scosse ricevute al peso di tre persone.

A un tiro di schioppo si vedeva il tetto di una casa rimasto fuori dell' acqua che aveva coperto il resto del meschino edificio. Gli abitatori di quel tugurio erano fuggiti abbandonandolo e la piccola isola formata dal tetto parve a Romeo un punto da potervi far sosta.

— Propongo — diss'egli — che uno di noi due approdi colla signora a quel tetto e l'altro se ne vada il più prontamente possibile a Parma per prendere una barca in migliore stato. Non vi è altro a fare; che ne pensa la signora?

Il progetto parve a Urania un tantino ipotetico e non del tutto rassicurante; molto più quando Romeo soggiunse col suo più bel sangue freddo:

— Quest' uomo io lo conosco e mi rendo garante che saprà proteggerla contro ogni eventuale pericolo.

Dunque era lui che voleva andarsene?

— Ma — chiese Urania turbata — non sarebbe più naturale che il barcaiolo conducesse la sua barca?

(Restava sottinteso: e che lei mi tenesse compagnia?)

Era un arrendersi con armi e bagagli, tuttavia Romeo non mostrò alcun sintomo di fatuità; rispose tranquillo:

— Come crede.

(Restava sottinteso: mi fa lo stesso.)

Or bene, questo impertinente mi fa lo stesso punse sul vivo l'amor proprio della bella donnina. Chi sa quanti sarebbero stati felici dell'occasione … Suo cugino per esempio!

Era strano. O per un verso o per l'altro, quel signor Romeo l'occupava costantemente; prima lo detestava appena — ora lo avrebbe strozzato.

Fu sul punto di gridare: No, vada lei. Ma che figura avrebbe fatta? Non era un dare troppa importanza a quel bellimbusto? E poi, francamente, la prospettiva di rimanere qualche ora sopra un tetto con un barcaiolo …

Non furono dunque scambiate altre parole.

I due naufraghi approdarono al novissimo isolotto e la barchetta seguitò tutta sciancata e zoppicante la sua strada per Parma.

— Presto, neh? gridò Romeo improvvisando colle mani un portavoce.

— Prestissimo! appoggiò Urania.

Nessuno dei due aveva speranza di divertirsi lassù.

Se le antipatie come le simpatie sono facilmente reciproche, doveva riuscire un bel duetto.

A buon conto (c'era un fumaiolo in mezzo al tetto), visto che Romeo si dirigeva al sud, Urania sedette al nord — il fumaiolo li divideva: — ma il verbo sedere in questo caso è una metafora ardita. Urania si accoccolò alla meglio, tirandosi appresso il vestito, senza riuscire a nascondere i suoi eleganti stivaletti di pelle di daino, molto meravigliati di trovarsi sopra un posapiedi così duro e gelido: anche gelido, perchè ai ventidue d'ottobre, dopo il tramonto, in mezzo all' acqua non fa caldo sicuramente.

Romeo avrebbe passeggiato volontieri, ma come passeggiare sopra un tetto? Prese il partito di sedere dall'altra parte del fumaiolo.

— E pensare che dovremo star qui — incominciò Urania senza voltare la testa — quanto crede, signore, che abbiamo a restar qui?

— Ciò dipende dal barcaiolo e dai contrattempi che possono nascere. Io ne sono dolentissimo per lei.

— Dica pure anche per sè stesso.

— Il caso potrebbe esserè diverso.

— Ma non lo è.

— Supponiamo che lo fosse? …

— Allora toccherebbe a me a compiangerla. Improvviso silenzio.

Romeo si pose a picchiare i tegoli col suo bastoncino; Urania a intrecciare la frangia del suo scialle.

E faceva freddo!

Un senso pauroso, una debolezza patetica e mesta invadevano a poco a poco il cuore di Urania. Per forte che fosse, era donna alla fine, e quel trovarsi sola con uno sconosciuto, in circostanze tanto fuori dell' ordinario, le metteva addosso un bisogno di tenerezza, d'affetto; si sentiva piccina piccina. Pensava a' suoi genitori morti, alle amiche lontane, alle illusioni svanite, alla brevità della vita, a cento cose melanconiche insomma.

E faceva buio! Le poche stelle erano scomparse; un vento gelato addensava grosse nubi in cielo.

— È impossibile — disse Romeo — che ella possa resistere senza soffrire all'umidità della notte; permetta che la copra col mio soprabito: io sono avvezzo a qualunque temperatura. È il vantaggio che ci resta, a noi uomini, dopo le fatiche del campo.

Urania lasciò fare. Poco dopo domandò:

— È stato soldato lei?

— Prima con Garibaldi, poi nell'esercito regolare: mi sono battuto due volte.

Nel fare un movimento Romeo smosse un tegolo che ruzzolò e cadde nell' acqua: questo incidente fortuito gli suggeri un' idea che Urania approvò pienamente.

Si trattava di praticare un buco nel tetto e scendere nella casa per vedere se ci fosse mezzo di acconciarvisi meglio.

Il giovinotto si pose all'opera con disinvoltura, nè Urania temette di aiutarlo colle sue bianche manine.

Aperta la breccia, Romeo vi si calò risolutamente, ma Urania con uno slancio istintivo e grazioso lo trattenne per la mano.

— Badi — esclamò — se avesse a cadere?

— Faccia voti per me e uscirò illeso.

Non so se Urania facesse voti, ma so che il tempo le parve molto lungo e che ad ogni istante si affacciava al pertugio gridando:

— Signor Romeo! signor Romeo!

E quando il giovinotto risali, tutto bagnato, con un materasso sulle spalle, la donna forte si sentì sollevata da una gran paura. Ella aveva paventato per un istante di non vederlo più comparire.

— La casa è inabitabile — disse Romeo buttando giù il materasso — l' acqua è penetrata in ogni buco; i mobili sono fracidi; non si sa dove metter piede. La Provvidenza che protegge, dicono, gli ubbriachi e gli innamorati, ha voluto usarci misericordia.

— Quantunque — interruppe subito Urania — non possiamo pretenderla nè coll'uno nè coll'altro titolo.

— E — continuò Romeo senza avvertire l' interruzione — fece galleggiare al disopra di un cavalletto questo gramo materasso. Non le pare che giunga a proposito sull'ascetica nuditá di questi tegoli?

Steso il materasso, Urania volle per cortesia che il suo cavaliere vi prendesse posto; egli lo prese.

Nell' occasione di tale ravvicinamento Urania pensò che se invece di Romeo vi fosse stato il cugino non avrebbe potuto evitare un forte odore di pipa e d'olio di pesce col quale soleva ungere i pesanti stivali da cacciatore.

Positivamente, come vicino di materasso, questo signorino era preferibile. Però non poteva darsi pace dei trovarsi con lui sopra un tetto. Che ne avrebbero detto, sapendolo, le sue amiche di Milano? In altre circostanze (non confessava apertamente quali) l'avvenimento poteva riuscire gradevole, così era una cosa ridicola, oh! assai ridicola.

E poichè l'ultima parola le era sfuggita a voce alta, Romeo soggiunse:

— Il ridicolo confina col sublime. Mai fantasia di poeta accarezzando i balconi dorati e i terrazzi di granito seppe riunire attorno ai suoi personaggi ideali tanta poesia come l'abbiamo noi sopra questo miserabile tetto. Qui, nessuna cornice, nè zeffiro tra i fiori, nè raggio di luna (ella vede quanto è buio), nè bianche nuvolette, nè gondole molli, nè usignoli, nè liuti, nè canti d'amore — null' altro che un punto fermo su questo lago fatale. Intorno a noi girano i frammenti di case distrutte, di focolari dispersi; il guanciale di una culla ci porta attraverso all'acqua i pianti di una madre. Ascolti. Laggiù, dove abbiamo urtato contro il muro di una cascina sommersa, non ode le grida dei poveri lavoratori? non vede la miseria stendersi insieme all'onde sui campi devastati?

Romeo parlava senza enfasi, tranquillo; tutta via sembrandogli che la sua compagna rabbrividisse alquanto, le prese la mano e continuò:

— Quante famiglie rimaste prive di tetto! Quante persone prive di pane! Intere vite di abnegazione e di lavoro giacciono sepolte sotto queste acque immobili; tante speranze deluse, tanti inutili sacrifici. Essi dormivano sereni tra le loro messi raccolte, nella pace delle loro semplici esistenze e il terribile flagello li colpì disarmati. Che scena! Gli urli della disperazione destarono echi non mai tentati prima; fiaccole accese erravano come anime in pena sui ponti crollanti, sulle barche sfracellate. Donne discinte, fanciulli nudi, uomini pazzi di dolore e di paura. Ad ogni oggetto che scompariva si alzava un grido, ad ogni sfasciarsi di dighe rispondeva un gemito. Anche in quella notte tremenda non c'erano stelle, non c'era luna — il pianto dei disgraziati saliva dalle acque al cielo invisibile, forse inascoltato. Grandiosa e commovente poesia, non è vero, signora?

Era ironica la domanda? Quale profonda amarezza gli velava il timbro della voce?

Urania sentiva quella mano forte e fredda stringere la sua; il giovane effeminato spariva; in quella persona elegante si nascondeva un cuore virile, un nobile e buon cuore.

— Lei parla — disse la signora — come se avesse assistito alla scena dell'inondazione.

— Vi ero.

— Si? Nel numero di quei generosi che si affidarono con poche barche sul fiume irritato per portare soccorso agli inondati? … Ma non ne disse nulla; nessuno lo seppe.

— Non mi parve necessario.

— Mio cugino le tenne compagnia?

— No. Doveva andare a caccia.

Un rimorso cocente, una vergogna di essersi così grossolanamente ingannata, tinse le guancie di Urania nella cupa oscurità.

Il suo rossore non fu visto, ma qualcuno senti certamente la stretta entusiastica della sua manina mentre diceva:

— Ammiro gli uomini coraggiosi e forti. Quanto li invidio per il bene che possono fare!

— Anche le donne tenere e gentili possono fare molto bene. L'uomo dà il soccorso materiale ma la donna consola l'anima.

— Crede proprio che la donna abbia tanto potere?

— E come dubitarne se un solo sguardo di lei ci solleva e ci fa migliori, se una parola dolce, se una stretta di mano, se un moto spontaneo e innocente del suo cuore amoroso ci compensano di lunghi dispregi?

Tremava proprio la sua voce? Ad Urania parve di sì.

— C' è un comitato, una sottoscrizione, s'è fatto insomma qualche cosa per le vittime?

— Me ne sto occupando.

— Sarei indiscreta pregandola di associarmi a quest'opera buona?

— L'indiscrezione è mia accettando subito … per non darle il tempo di pentirsi.

Ancora un po' d'amarezza! Urania la sentì, ma se l'era meritata e tacque. Solo dopo un silenzio molto lungo e molto interessante ella esclamò per sottrarsi al fascino:

— Chi sa quante saranno l' ore! Il barcaiolo tarda di molto; ho freddo.

Romeo le si avvicinò. Santo Dio, che poteva mai fare? Abbracciandosi, certo, sarebbero stati più caldi. Lo ebbe, lui, questo pensiero? Ad ogni modo non lo si poteva esprimere nè in greco nè in latino. S'accontentò di rispondere:

— Mi dia tutte e due le mani. Così!

E se le pose sul cuore.

La donna forte si trovava più che mai debole e piccina.

— Dica, se l'uomo non venisse più?

— Fabbricheremo, come Robinson, la nostra capanna aspettando l'opportunità di tornare in patria.

Nel pronunciare queste parole, ridendo, il giovinotto si strinse contro il petto le due manine che vi avevano chiesto un rifugio, e poichè le braccia sono tanto vicine alle mani, le belle braccia di Urania vi trovarono posto anch'esse.

Fu in quel momento che Urania mormorò:

— Mi perdoni, sa? L'avevo giudicata male.

Romeo, commosso e grave, rispose:

— Grazie. Ora sono felice.

Il barcaiolo poteva fare i suoi comodi; nessuno dei due pensava più a lagnarsi. Difatti quando arrivò, verso le dieci, e tutto confuso tentò scusarsi dell'involontario ritardo, Romeo lo interruppe:

— Ma no, caro, hai fatto anche troppo presto.

Tò! — pensò il barcaiolo — che brava gente sono questi signori. Avvezzi alle ottomane elastiche conoscono il modo di passare due ore sopra un tetto senza nemmeno aver l'aria di essersi trovati male.

L'anno dopo, al tempo che Urania faceva la sua solita visita alle cugine, propose a Romeo una passeggiata sui terreni dell'inondazione.

Le case erano risorte, le viti rialzate, le siepi a lor posto. Nei campi coperti di messi spirava l' abbondanza di un raccolto fortunato; i prati erano verdi, il cielo sereno, e sotto i pioppi giganteschi il povero contadino riposava stanco ma lieto.

I due giovani si fermarono davanti a una cascina; riparati dall' ombra che il tetto rifatto a nuovo proiettava sul sentiero, si strinsero con moto simultaneo cuore contro cuore, e, senza pronunciar parola, si baciarono.

Una lettrice scandalizzata: Oooh! … L'autore: Erano fidanzati!

Ma sapete bene, voi, che cosa vuol dire pranzare? Chi conosce il valore di questa parola ha il segreto di tutte le agitazioni della vita umana.

Ora Patrizio aveva pranzato per l' appunto — cosa che non gli succedeva così regolarmente come egli avrebbe desiderato — ma tant' è, per quel giorno, una zuppa di trippe la divina Provvidenza e l'oste della Croce Bianca glie l'avevano procurata e Patrizio si dichiarava il più felice degli immortali.

Le discussioni sull'ideale e sulla materia non lo preoccupavano più del bisogno — che è quanto dire niente affatto. Egli era molto spensierato; nessuno dei suoi professori faceva calcolo su di lui per le future speranze della patria. I suoi amici tuttavia lo amavano moltissimo.

Era lo studente più vecchio e più peccatore della vecchia e peccatrice Università di Pavia. Sembrava ch'egli dovesse fare lo studente a perpetuità; certo che quella vita gli piaceva sopra tutte le altre; alla fine d'ogni anno si accomodava sempre in modo che dovesse rimanervi un anno ancora.

Le virtù casalinghe e morigerate di un giovane ben pensante (se caso mai esistevano allo stato d'embrione nei bernoccoli del suo cranio) non avevano preso uno sviluppo visibile. Una foresta — non vergine, oimè! — di capelli biondi gli recingeva la fronte spaziosa, e l'occhio sereno, audace, vibrava lampi continui sulla sua fisonomia birichina. Aveva i baffi sottili, i denti bianchi e un piccolo nèo sotto la guancia. Era bello, gentile e scapestrato anzi che no.

Il suo tutore gli scriveva tutti i mesi una lettera commovente di questo tenore:

« Io m'avvedo pur troppo, caro Patrizio, che tu cammini sulla strada della perdizione; il tuo patrimonio è sciupato; ti mando le ultime cento lire; provvedi alla tua esistenza perchè sei rovinato. »

Patrizio prendeva nota delle ultime cento lire, ben persuaso che non sarebbero state le ultime definitive, e colla lettera fabbricava degli uccelli di carta da gettare nella finestra della cappellaia dirimpetto, per farle sollevare gli occhi e farle gridare a bassa voce senza chiudere i vetri: « Insomma, signor Patrizio, vuol finirla? »

Egli si era deciso a non leggere più le lettere del suo tutore; primo, perchè il brav'uomo scriveva ancora colla erre all'antica e questo metodo lo stancava; poi perchè ripeteva sempre le medesime cose proprio le sole che Patrizio, libero ascoltatore in massima, non poteva udire assolutamente; no, perchè se le opinioni sono diverse e la sua opinione particolare era quella di vivere come gli piaceva, che conclusione potevano avere le prediche del suo vecchio tutore arrembato?

Oh! se Patrizio avesse avuto solamente per un giorno gli attacchi di gotta, la testa calva e le gengive senza denti dell' ottimo tutore, forse chi sa, anche le sue opinioni si sarebbero modificate; ma poichè Patrizio aveva ventisei anni appena e tutto il resto conforme, la saviezza lo lasciava freddo.

« Peuh! — egli pensava — che bisogno c 'è di avere giudizio? E sopratutto che cosa si intende per giudizio? E perchè poi non sarà giudizio il mio a preferenza di quello degli altri? »

Le persone gravi crollavano il capo parlando di Patrizio; ma egli se ne rideva.

In regola generale le donne fino ai quarant'anni adoravano Patrizio; più in là ne dicevano corna.

Oltre gli uomini saggi e le donne vecchie, militavano contro Patrizio i suoi numerosi creditori, ond' è che egli non aveva un domicilio stabile; trovando spesso di qua e di là degli usci aperti, si era persuaso che una camera propria fosse una superfluità; se posava il piede come una rondinella stanca delle sue escursioni sotto il tetto della Croce Bianca era sempre con un' attitudine precaria, disposto a spiegare il volo da un momento all' altro. (Questa instabilità, voglio dirlo, dispiaceva oltremodo alla cappellaia dirimpetto).

Dunque Patrizio, dopo aver pranzato, non suggerendogli il suo stomaco vigoroso nessun bisogno fittizio di digestivi, deliberava tranquillamente sul modo di terminare la sera, quando il cameriere dell'albergo, soprannominato Piedolce, gli si avvicinò recandogli su d' un piatto di maiolica una grossa lettera e mezza dozzina di sigari.

Patrizio guardò sospettosamente e l' una e gli altri; dichiarò subito i sigari cattivi e riconosciuta la calligrafia della lettera si disponeva a farle subire la solita trasformazione alata — ma un urgentissima scritto in stampatello, colla erre all'antica, gli fece cambiare pensiero.

« Che c'è di nuovo? — pensò. — Il mio tutore è forse moribondo? I rispettabili elettori del mio paese nativo mi vogliono deputato? O sarebbe la Società cattolica per i buoni costumi che mi ha decretato il premio della continenza? »

Egli era ben disposto — l'ho già detto; — la zuppa di trippe scendendo regolarmente nel suo ventricolo giovanile gli accelerava i moti del sangue diffondendo in tutto il suo essere quella sensazione intima di appetito soddisfatto che predispone alle più nobili azioni.

Dissuggellò la lettera del tutore e lesse attentamente:

« Caro Patrizio, io m' accorgo pur troppo che tu cammini sulla strada della perdizione. »

Patrizio si interruppe. La strada della perdizione colle cento lire insieme era tollerabile, ma così asciutta asciutta, non gli andava per nessun verso. Tuttavia continuò a leggere:

« È questa la terza lettera che ti scrivo sopra un argomento dei più importanti e tu non mi hai ancora risposto. »

— È la deputazione — ripensò Patrizio.

« Iddio misericordioso che ti ama ad onta di tanti demeriti vuole aprirti una via sicura per appoggiare il tuo avvenire. »

— Che fosse proprio la Società cattolica per i buoni costumi? — tornò a pensare Patrizio.

La lettera non si spiegava maggiormente. Supponendo che il suo pupillo avesse letto le tre precedenti, il tutore si era limitato a scongiurarlo per una pronta risposta, e, meglio ancora, perchè si decidesse a fare una gita al paese collo scopo di intendersi meglio.

Quella sera la cappellaia non ricevette nessun uccello e Patrizio, uscendo dopo un quarto d'ora dalla Croce Bianca, andò lui stesso a impostare una lettera all'indirizzo del suo tutore.

***

Nel momento che Patrizio usciva dall' albergo un' ombra piccola e mingherlina staccandosi da un pilastro di contro si fece a calcare le sue orme in lontananza.

Patrizio non se ne avvide menomamente, dopo aver gettata la lettera nella buca continuò a passeggiare fischiando tra i denti:

Se il vino zampilla, Se spuma, se brilla, E ricchi e pitocchi Son lieti del par.

Attraversò il ponte; non si vedeva luna; la notte era buia e fredda. Patrizio fischiava sempre:

La coppa di Pippo, La pippa, la poppa, Il nappo che accoppa Le pene del cor.

Una finestra si schiuse in una viuzza deserta. Patrizio si fermò; anche l' ombra si fermò dieci passi lontano. Non si udiva uno zitto; ma sembrava che Patrizio aspettasse qualche altro segnale perchè se ne stava immobile colle braccia conserte.

Improvvisamente sbucarono fuori, sa il diavolo da dove, tre robusti giovinotti che circondarono subito Patrizio menando giù botte senza parlare.

La scena in sè stessa non riusciva del tutto nuova al nostro Don Giovanni che appostatosi al muro si preparò a una valorosa difesa, ed ebbe anche tanto sangue freddo da staccare un mazzolino dall' occhiello del suo soprabito e gettarlo su nella finestra sotto gli occhi de' suoi aggressori — mariti, amanti o fratelli che fossero.

L'ombra mingherlina tutta sbigottita e tremante strisciò per un momento contro il muro, ma vedendo che la lotta continuava si slanciò all' impensata, gridando e agitando le braccia.

Patrizio intanto s'era ridotto colle spalle contro una porta; la faccenda si disponeva piuttosto male per lui; i tre sconosciuti sembravano decisi a tutto, quando l'ombra, guizzando leggera e inavvertita fin presso Patrizio, aperse improvvisamente la porta contro la quale egli stava appoggiato e ve lo trascinò dentro, lasciando ricadere lo sportello che si rinchiuse come un trabocchetto.

Patrizio, caduto naturalmente per terra, si rizzò subito brancicando nel buio per orizzontarsi e mettendosi a buon conto in guardia. Egli aveva appena intravvisto il cosino che gli aveva giuocato quel tiro; non sapeva ancora se si trattasse di un aiuto o di un tranello.

— Chi siete? — domandò a scanso d'equivoci.

Una mano nervosa prendendolo per il braccio lo invitò a seguirla, mentre una voce leggermente alterata ma dolce di timbro gli rispose:

— Amico.

Patrizio salì una ventina di scalini dietro la sua incognita guida e venne introdotto in una cameretta veramente bella e geniale. Fu acceso un lume e allora Patrizio guardò curiosamente il suo salvatore.

Era giovinetto, quasi un fanciullo, colla fronte nascosta sotto lunghi capelli castagni un po' ondulati e con due guance pallide pallide, illuminate da occhioni neri grandissimi. Teneva la testa china e appariva molto timido.

— Studente? — disse Patrizio dopo averlo esaminato un istante.

— Sì.

— Matricolino?

— Sì.

— Non ti ho mai veduto. E tu mi conosci? L'altro esitò; poi rispose:

— Questa sera per la prima volta.

— Grazie, mi hai reso un servigio; tra camerati è facile poterlo rendere ed io non lo dimenticherò. Come ti chiami?

— Gildo.

— Va bene. Ma se la memoria non mi tradisce, io devo aver ricevuto qualche pugno da quei birbanti — qui, là, un po' dappertutto. Ahi! mi sento le ossa indolenzite. Spero bene, Gildo, che mi lascerai dormire nel tuo letto questa notte.

Pare che ciò non entrasse nei progetti di Gildo.

Con che cuor … — incominciò Patrizio modulando il ritornello di una canzonetta che era allora in tutta la sua voga. — Con che cuor … mandarmi via in tale stato? Aspetti forse qualcuno, matricolino? … Se non è che questo, io sono un compagno discreto; mi basta una sedia e guarderò tutta notte verso il muro.

Gildo arrossì come una bragia e si affrettò a rispondere:

— No, no; restate pure.

Resta, matricolino. Gli studenti come gli antichi Romani si trattano fra loro col tu.

Per quanto Patrizio volesse portarle con disinvoltura, egli le aveva proprio buscate sul serio e fu con un senso profondo di benessere e di stanchezza che si lasciò cadere sul letto senza nemmeno svestirsi, celiando sempre, chiedendo dei sigari e del vino, intanto che le sue palpebre si chiudevano, finchè un sonno greve gli troncò il motteggio sulla bocca lasciandogli ancora le labbra dischiuse al sorriso.

Dormiva placido sotto l'aureola dei capelli biondi — quantunque il suo non fosse il sonno dell'innocenza — e Gildo, sveglio sopra una sedia, lo contemplava malinconico e pensieroso.

Se Patrizio fosse stato osservatore avrebbe visto nel contegno del giovinetto qualche cosa di strano; ma non lo era e non vide nulla.

Destandosi la mattina stirò le braccia, fece tre o quattro movimenti per mettere i muscoli in esercizio; gli dolevano un poco le spalle ma i garetti lo sostenevano ab

Non si profuse, a dir vero, in soverchi ringraziamenti al suo giovane ospite ma gli strinse vigorosamente la mano e gli disse:

— Amici per la vita. Vuoi?

Il fanciullo evitò lo sguardo scintillante di Patrizio e rispose debolmente alla sua stretta: pure lo accompagnò sul pianerottolo e non si mosse finchè gli stivali di Patrizio scricchiolarono sotto la porta: allora rientrò nella cameretta, aperse la finestra e vide Patrizio che si allontanava franco, spigliato, ricantando con aria baldanzosa:

La coppa di Pippo, La pippa, la poppa.

Gildo chiuse la finestra e venne a sedersi sul letto appoggiando la testa sul guanciale ancora caldo. Piangeva.

***

Erano passate due o tre settimane.

Patrizio, nella sala terrena della Croce Bianca, arringava mezza dozzina di studenti suoi amici particolari. Il tema era questo:

« Dimostrare che il mondo civile si appoggia sul progresso, il progresso sulla scienza, la scienza sui professori, i professori sugli scolari, ergo, — essere gli scolari la classe più benemerita della società e la sola degna di considerazione.»

Gli uditori di Patrizio lo circondavano in pose diverse classiche e romantiche, ascoltandolo più o meno, ma fumando tutti e gridando in mezzo a nuvoli di fumo tra i bicchieri colmi di un vino color amaranto.

Un po'in disparte Gildo, intabarrato come fosse il mese di gennaio — ed era aprile — non faceva mai udire la sua voce. Lo si chiamava già l'ombra di Patrizio: Patrizio era fiero di avere un'ombra così fedele.

Avevano tentato di prendere a gabbo quel cosino esile e spaurito. Uno studente del terzo anno gli domandò a bruciapelo:

— Che cosa è l'ipotenusa?

E Gildo si era chiuso più che mai nel suo mantello tirandosi vicino a Patrizio.

— Lasciate in pace questo ragazzo — disse Patrizio — io lo proteggo e guai a chi lo tocca. Udite piuttosto una grande notizia. Sto per diventare milionario.

Un urrà strepitoso fece eco alle parole di Patrizio. Non gli si credeva nè punto nè poco.

— Davvero! davvero! Vi giuro sulla testa di cane della mia pipa che quanto ho detto è la pura verità.

Il fumo denso del tabacco si svolgeva in spire cineree; i bicchieri danzavano sul desco frequentemente percosso; il gas oscillava su tutte quelle giovani fronti lumeggiando le capigliature arruffate, liscie, crespe, brune, bionde — più bionda di tutte quella di Patrizio che aveva dei riflessi da aureola.

Gildo tossì una o due volte e rimosse la sua sedia. Nessuno si occupava più di lui.

La parola l'aveva Patrizio.

— Ch'io possa diventare benedettino e farmi canonizzare dopo morte se mai e poi mai mi venne in mente di avere uno zio.

— In America?

— No, in Inghilterra. Un originale che non ho mai visto e che è morto qualche mese fa lasciandomi i suoi milioni.

— Simpatico originale! Così avesse molte copie; ne reclamerei una per me.

— Compreso il codicillo? — disse Patrizio scuotendo sull'orlo del tavolo la sua pipa spenta. — Perchè c'è un codicillo, amici carissimi; e tu Augusto che volevi sapere da quel povero ragazzo che cosa è l'ipotenusa, dimmi un po' che cos'è il codicillo di mio zio?

Augusto non lo disse e Patrizio continuò:

— Pare che lassù in Inghilterra il mio ottimo parente abbia avuto in qualche modo una figlia, e la condizione esplicita dell'eredità è che io me la sposi per riunire in un ceppo solo i rampolli superstiti delle due famiglie. Bella, nevvero? La cuginetta avrà trent'anni almeno, i piedi lunghi, i denti sporgenti, una veletta verde e voglio perdere l'amore della mia cappellaia se non dirà schoking solamente a vedermi.

— Ma i milioni! — esclamò uno studente cui uscivano i gomiti dalle maniche.

— I milioni! — ripeterono tutti leccandosi le labbra, sbarrando gli occhi o picchiando pugni secondo il modo particolare che ciascuno aveva per esprimere l'ammirazione e la cupidigia.

— Ebbene — disse Patrizio colla massima indifferenza — se non cambio parere, cosa possibile in questo mondo dove nulla è eterno, la mia decisione per oggi è di non sposare l'amabile cuginetta colla gobba piena di ghinee.

— Oooh! Uhh! Ah! Oibò!

Tutte esclamazioni tendenti a biasimare una risoluzione così leggera e spensierata.

— No — continuò placidissimamente Patrizio. — La cara zoppettina coi tacchi d'oro non passeggerà al mio fianco nell'alma città di Pavia. La libertà « quest'unico bisogno dell' uomo saggio » non si vende nemmeno per un milione. Versami del vino, Augusto. Bevo all'indipendenza del mio cuore!

Le voci degli studenti si alzarono più rumorose e più discordi. Parlavano tutti insieme, gesticolando, rovesciando sedie, facendo volare i cappelli, cozzando litri e bicchieri. L'atmosfera era diventata irrespirabile; si vedevano gli strati di fumo sovrapposti l'uno all'altro come veli sospesi nell'aria.

Finalmente qualcuno incominciò a sbadigliare e qualche altro nel subire il contagio propose di andare a letto.

Si sciolsero così, abbandonandosi a due a tre, canticchiando, disputandosi e facendo commenti sul caso di Patrizio.

Patrizio, rimasto solo, cercò cogli occhi il suo piccolo amico e lo scoperse quasi svenuto sulla sedia, soffocato in quell'ambiente a cui i suoi polmoni non erano avvezzi. Ma gli ebbe posto appena la mano sulla fronte che subito si scosse e sollevò gli occhi pieni d'angoscia.

Patrizio si sentì invaso da una tenerezza insolita per quell'essere debole e affettuoso che sembrava attaccarsi a lui come una di quelle esili pianticelle che non hanno la forza di sostenersi.

— Andiamo, Gildo, su! Non voglio che tu vegli così tardi; un'altra sera te lo proibirò.

Gli pareva di avere verso quel fanciullo dei doveri di padre; — lui che avrebbe riso delle cose più sacre provava vicino a Gildo una specie di pudore misterioso e bizzarro.

— Levati dunque, ti accompagnerò a casa. Sei ancora tutto sossopra perchè Augusto ti ha domandato che cos'è l'ipotenusa; a me, vedi, non importa affatto che tu non lo sappia. Se te lo domanda un'altra volta digli che l'ipotonusa è una persona di spirito fra due imbecilli. Da bravo; dammi il braccio. Stai bene?

Gildo non rispose; parlava sempre pochissimo; oramai Patrizio era abituato a leggere ne' suoi grandi occhioni neri e gli occhioni neri di Gildo erano, quella sera, straordinariamente mesti.

Patrizio non disse più nulla. Silenziosi tutti e due s'avviarono e, giunti sulla porta del matricolino, Patrizio gli accese uno zolfanello perchè ci vedesse su per la scala.

— Singolare personaggio! — pensava poi Patrizio allontanandosi. — Eppure … eppure sento di amarlo più di tutti gli altri.

***

Ogni mattina sotto i portici dell'Università i due amici si incontravano.

Patrizio non si sentiva completo se non vedeva la bruna personcina del suo protetto movergli incontro e domandargli:

— Mi permetti, Patrizio, di venire con te?

Del resto Patrizio non si era mai curato di informarsi precisamente sulla condizione di Gildo. Sembrava molto agiato; questo era facile a capirsi dagli abiti, dalla biancheria finissima, dalla bella camera che abitava, dalla facilità di spendere. Chi fosse poi era un segreto che egli sembrava custodire gelosamente e che Patrizio non aveva smania di conoscere.

Facevano insieme delle lunghe passeggiate. Insensibilmente, senza accorgersene e senza annoiarsi, Patrizio variava il suo genere di vita.

In presenza di Gildo non gli piaceva comparir troppo scapato; l'innocenza di quella creatura gli imponeva un rispetto superstizioso e poetico; ne subiva senza sforzo l'ascendente e più d'una volta in quel dolce mese d'aprile si trovò — lui, lo scapestrato — a correre in un prato insieme a Gildo, osservando i fiori, il cielo, le rondini, trovando in questo genere di vita delle sensazioni nuove e curiose; una specie di ritorno all'adolescenza; una follia diversa dalle solite e che lo faceva più profondamente lieto.

Una volta passando da una certa viuzza il vecchio peccatore si accorse di una scena poco edificante che accadeva dietro una porticina; voltò indietro bruscamente perchè Gildo non si accorgesse di nulla; questa manovra puritana fece un chiasso indiavolato fra gli studenti.

Frattanto Patrizio non si decideva a dare una risposta formale al suo tutore. Il tempo prescritto per la decisione era stato dal defunto ristretto a un anno; sei mesi erano già trascorsi e si aspettava da un giorno all'altro la cuginetta.

Il tutore, quantunque per l'età di Patrizio non esercitasse più una legale sorveglianza su di lui, non vedeva l'ora di disfarsi della responsabilità morale e della piccola amministrazione che Patrizio aveva continuato a lasciargli per scanso di noie.

Nel suo interno il mio eroe era quasi sicuro di non cedere alla tentazione dei milioni; ma il no ufficiale, il vero no che non ammette repliche non l'aveva ancora pronunziato.

Su questo argomento fra Gildo e Patrizio non si discorreva mai. Gildo non gli aveva fatta nessuna domanda in proposito, imitando il riserbo che Patrizio usava a suo riguardo; — così il tempo passava legando sempre più con vincoli arcani e misteriosi la loro bizzarra amicizia.

Sulla fine di maggio, ricorrendo l'anniversario d'Augusto, venne combinata fra gli studenti maggiori una partita di piacere. — Patrizio, anima di tali baldorie, fu il primo ad essere invitato.

Nè Gildo vi doveva intervenire, nè Patrizio lo avrebbe voluto, sapendo per lunga esperienza come andava a terminare la festa. Egli fece dunque un bel sermoncino, la sera prima, esortando Gildo a ritirarsi presto e dicendogli che l'indomani non si sarebbero trovati perchè aveva degli affari.

Il fanciullo lo guardò fisso fisso, tremando, quasi avesse paura di indovinare la verità e pur volendo indovinarla. Però non fece alcuna osservazione; soltanto al momento di dividersi prese con vivacità la mano di Patrizio, esclamando:

— Ricordati!

— Di che cosa? — domandò Patrizio ridendo.

— Di me …

Patrizio gli toccò la guancia colle due dita in atto scherzoso.

— Che pelle morbida! Sembri una signorina.

Gildo si tirò indietro.

— Addio, dunque.

— Addio.

***

Erano sei uomini e sei donne.

Dovevano partire tutti insieme sopra una gran barca e portarsi al di là del Ticino in un'osteria cognita e rinomata fra la gioventù studiosa …

Dapprima s'era fissata una colazione, poi un pranzo, e si concluse per una cena concorrendo il piccante della notte, dei lumi e della solitudine.

Si parlava di follie d'ogni genere; erano tutti ebbri prima d'aver bevuto. La gioventù saliva alla testa di quei capi ameni, di quelle ragazze senza giudizio. Essi sentivano troppa vita nel loro sangue e volevano buttarne via una parte come zavorra inutile, per sollevarsi più leggeri nel cielo delle illusioni.

Un temporale nereggiava sull'orizzonte; si partì egualmente. Ci voleva altro che temporale a trattenerli!

Patrizio seduto al timone guardava il Ticino che gorgogliava cupo e minaccioso.

Augusto era buon rematore e per di più conosceva le perfidie del fiume. Ad onta di un certo pericolo la barca si sorreggeva abbastanza bene, rompendo i neri cavalloni che le spruzzavano sui fianchi una spuma candida come la neve.

Le donne gridavano un poco per vezzo e per altre loro mire particolari.

— Guardate — disse Patrizio — quella barchetta che si stacca ora dalla riva; ho in mente che vada a mostrare alla luna il colore della sua chiglia.

— Certo — rispose Augusto sollevando il remo e spingendolo vigorosamente — non vorrei esservi dentro.

La bufera si avanzava a passi di gigante, ma l'allegra brigata non la temeva più che tanto, essendo oramai prossima alla meta. Le grida di giubilo succedevano alle grida di spavento nella parte femminile; il riso o almeno il sorriso era su tutte le labbra.

Soltanto Patrizio non rideva. Collo sguardo intento seguiva le mosse della barchetta lontana. Un'attrazione irresistibile gli faceva prender. il più vivo interesse a quella lotta disuguale tra quattro misere assicelle e un fiume agitato.

Il cielo diventava scuro di momento in momento — pioveva a larghe goccie — un vento freddo increspava le onde e cacciava stormi di uccelli che fuggivano rasentando l'acqua.

La barchetta ballottata in tutti i sensi minacciava di capovolgersi ad ogni istante. L'uomo che la guidava faceva forza di braccia con un vigore disperato. In quel mentre una figura rizzandosi nel mezzo del fragile legno si delineò netta e tagliente sull'orizzonte. Patrizio la riconobbe.

— Terra! — gridò Augusto facendo sgocciolare il remo e coricandolo disteso in fondo alla barca. — Si salvi chi può.

Tutti uscirono in fretta, ultimo Patrizio che s'era fatto taciturno e pensieroso.

Augusto legò la barca assicurandola con un triplice nodo.

— Come faremo a ritornare con questo tempo? — domandò una delle ragazze.

Il ritorno è tempo futuro e questo è tempo presente, non confondere le coniugazioni, bella del cuor mio. Avanti, ragazzi! Un premio da destinarsi a chi arriva per il primo.

Il temporale era al suo colmo; alcuni alberi svelti dalla forza dell' uragano si erano piegati fischiando e giacevano a terra; turbini di sabbia roteavano portati dalle folate impetuose. Sul fiume quasi deserto la misera barchetta esauriva le sue risorse estreme.

Patrizio si chinò sul piuolo che ratteneva la barca d'Augusto e ne sciolse i nodi.

— Che fai Patrizio? Vieni? — gli gridarono da lontano i suoi compagni.

— No, non vengo! — rispose Patrizio saltando nella barca e spingendola risolutamente in mezzo al fiume.

Il rematore della piccola barchetta accorgendosi che qualcuno andava in suo aiuto raddoppiò gli sforzi, ma la corrente era contraria e Patrizio, calcolando che sarebbe stato facile tornare verso Pavia anzichè avanzarsi, gli accennò di manovrare in quel senso.

Una cosa che sorprendeva Patrizio è che la persona da lui intraveduta nella barchetta non si mostrava più — ed era singolare che non prendesse per lo meno una parte di spettatore nella situazione. Fu per questo che, appena credette potersi trovare a portata della voce, gridò al barcaiuolo:

— Non avete nessuno dentro?

Il pover'uomo che si trovava nell'impiccio appunto perchè quello dentro si era ostinato a voler partire ad onta di tutte le rimostranze, diede una crollata di spalle della quale Patrizio non riusci a capir nulla. La sua impazienza diventò così acuta da somigliare un dolore; l'energia delle sue forze riunite aveva qualche cosa di febbrile.

Finalmente raggiunse la barchetta, vi gettò uno sguardo ansioso e vide Gildo sdraiato sul fondo, pallido e senza moto.

Slanciarsi, prenderlo in braccio e portarlo di peso nell'altra barca, fu una manovra tanto rapida e sorprendente che la barchetta perdette l'equilibrio del tutto e andò proprio a mostrare la sua chiglia, non alla luna, ma ad un lampo che appariva in quel momento squarciando le nubi.

Il barcaiuolo fu preso a bordo da Patrizio e l'infelice guscio rimorchiato a poppa rifece vergognoso la via già fatta.

Ceduti i remi, Patrizio si occupò tutto del suo giovane amico. Il primo pensiero era stato di sgridarlo per l'imprudenza commessa, ma poi vedendolo li inanimato che non dava nessun sentore, la compassione la vinse sul risentimento e sedutolo sulla panchina ne sorresse il capo sui proprii ginocchi.

I lunghi capelli castagni che Gildo soleva portare molto avanti gli cadevano allora scomposti dietro le orecchie mettendo a nudo una fronte pura, bianchissima, solcata da piccole vene azzurre; la bocca semichiusa aveva una grazia infantile. Patrizio gli sciolse la cravatta e vide con meraviglia la linea del collo rotonda e graziosa come quella di una donna.

Patrizio si arrestò colpito da un'idea bizzarra. Intanto il temporale era cessato: il fiume ridiventava tranquillo; la barca ondeggiava con mollezza sulle acque ancora frementi.

Gildo non rinvenne.

Patrizio gli prese le mani, le sentì fredde e se le accostò alle labbra per riscaldarle col proprio fiato. Non le aveva mai guardate; erano mani piccole e fine, morbidissime. Sollevò il manichino della camicia e scoperse il principio del braccio.

Una vampa ardente salì dal cuore di Patrizio al suo cervello. Quella testa abbandonata che riposava su i suoi ginocchi gli dava le vertigini; si curvò lentamente passandole le dita fra i capelli …

Come al tocco di un filo magnetico il fanciullo si scosse; un'onda vermiglia gli corse sotto la pelle delicata; aperse gli occhi.

— Patrizio!

Fu la sua prima ed unica parola.

Patrizio lo divorava con uno sguardo insistente, profondo; uno sguardo che sembrava lacerare tutti i veli misteriosi che lo avvolgevano; uno sguardo che era nello stesso tempo una domanda e una rivelazione.

Gildo comprese vagamente il tumulto che avveniva nel petto del suo amico, e tale scoperta lo riempì di una trepida confusione mista di inenarrabili dolcezze e di sgomento.

Ma la sua debole p rsoncina era affranta. Sorrise per rassicurare Patrizio e tornò a chiudere gli occhi.

Patrizio lo coricò di bel nuovo, ravvolto nel mantello; gli coperse i piedi, gli pose un cuscino sotto il capo, gli tenne strette le mani fra le sue sotto il suo cappotto. Dove aveva imparate tante delicatezze? Come faceva a improvvisare così bene la suora di carità, lui che di carità non doveva essere molto pratico — di carità evangelica almeno?

Ma Patrizio stava sulle spine. Gli si era suscitata nel sangue una tempesta a petto della quale il fiume, il cielo e gli elementi scomposti non gli sembravano più nulla.

Avvezzo a desiderare ardentemente, a far cedere sempre e subito ogni cosa alle sue passioni, egli avrebbe quasi gettato nell'acqua il barcaiuolo per trovarsi solo con Gildo e domandargli:

— Chi sei, tu che mi fai fremere, palpitare, commuovere, agire a tua voglia? Chi sei, tu che amo? …

Giunsero quando Dio volle alla sponda. Patrizio uscì dalla barca per entrare in una carrozza e si fece condurre alla casa di Gildo.

Durante il tragitto il fanciullo per metà rinvenuto piangeva, e Patrizio agitato, turbatissimo, gli teneva la testa stretta sul suo cuore che batteva rapidamente.

Lo portò a braccia su per le scale, lo depose sul letticciuolo dove egli stesso aveva riposato una notte e non potendo più reggere al tumulto delle idee e delle sensazioni:

— Gildo — esclamò — Gildo, per pietà!

Gli si fece vicino; tornò a prendergli le mani, ma Gildo tentò ritirarle. Volle guardarlo dentro gli occhi, ma Gildo abbassò le palpebre. Con un movimento rapido e insensato accostò le labbra alle guance pallide del fanciullo — un grido gli rispose — e Patrizio raggiante, senza staccare le labbra da quella guancia, mormorò:

— E dunque vero?

***

Sì, era vero — e come tutto cambiò allora!

I due che da oltre un mese facevano vita comune, in confidenza, dandosi del tu, non osavano quasi guardarsi o per meglio dire Patrizio guardava in un modo diverso, e lei non attingeva più nel suo segreto oramai svelato il coraggio di sostenere quello sguardo.

Questo ritegno in mezzo a tanta libertà voleva ben dire che l'amore aveva morso sul serio, questa volta, lo spensierato Don Giovanni!

Egli contemplava in estasi que! profilo delicato e quei grandi e neri occhi che lo avevano ammaliato fin dalla prima volta, inconsciamonte.

Ripensava alla vita trascorsa, all'affetto costante, alle gioie e ai dolori che avevano avuti in comune senza conoscersi; ripensava alla notte che si erano incontrati e che lui aveva dormito in quel letto, su quel medesimo guanciale dove ora riposava la bruna testina della sconosciuta (era sempre una sconosciuta). Cento idee pazze e fantastiche gli attraversavano la mente.

— Mi amate? — domandò a bassa voce, coll'accento supplichevole e casto d'una preghiera.

— Si, vi amo! — rispose dolcemente e tristemente la fanciulla.

Patrizio sentì un brivido corrergli nelle ossa. C' era tanta sicurezza in lei! tanta fede e tanta innocenza!

Nella cameretta regnava una blanda penombra, rotta in un punto solo dalla fiamma oscillante di una candela. La città sembrava addormentata; una pioggia sottile, leggera, batteva contro i vetri — e quei due giovani soli, innamorati, si guardavano e tacevano.

L'avventura era certamente la più singolare fra quante fossero capitate a Patrizio — egli non si riconosceva più — tanto meno quando la fanciulla gli disse:

— Patrizio, i due camerati sono scomparsi; non potete restare in questa camera.

E che lui si alzò, arrossendo, cercando una scusa, timido e imbarazzato come se fosse alle sue prime armi compreso da un sentimento arcano che pareva pudore.

E partì, barcollando giù per la buia scala. Giunto nella via si guardò attorno come per orizzontarsi, per essere sicuro di non aver sognato.

Una brigatella di studenti passava schiamazzando.

Patrizio ritornò col pensiero ai suoi compagni lasciati sull'altra sponda del Tacino e sorrise al destino bizzarro che gli aveva fatto terminare così platonicamente una partita incominciata sotto tutt'altri auspici.

Dormì poco e male all'ombra cosmopolita della Croce Bianca, nè alla mattina destandosi e aprendo le imposte si curò di verificare se la cappellaia dirimpetto aspettasse gli uccelli di carta mostrando di cucire le fodere di raso accanto ai vetri.

Si alzò nervoso e impaziente. L'antico Patrizio era in lotta col nuovo — il libertino combatteva ancora per l'onore delle armi coll'innamorato.

Scoccarono le dieci: Patrizio pensò che era ora di farla finita in un modo o nell'altro.

S'avviò bel bello alla casa di Gildo, salì i gradini, guardò l'uscio e lo vide aperto — entrò nella camera — deserta! Il letto vuoto, i cassettoni rovesciati, le sedie fuori di posto — una donna di servizio scopava sulla soglia.

La bella paradisea dalle ali azzurre era volata via.

Fu allora che cominciò per Patrizio una fase di attività prodigiosa e di passeggiate interminabili su e giù per Pavia, rovistando in tutte le case, spiando tutte le finestre, seguendo ogni persona che alla lontana rassomigliasse, sia pure come uomo o come donna, il suo perduto Gildo.

Ma egli conosceva Pavia tutta quanta e gli uomini — e le donne meglio ancora — e gli pareva impossibile che Gildo potesse sfuggirgli.

Era dunque andato lontano?

Si pentì di non averne mai chiesto nè la patria nè la famiglia, di non aver cercato nessun filo che potesse ora servirgli di guida.

Perchè quel travestimento? Lo amava? Chi era? Che cosa voleva? Che fare?

Un pensiero che gli tornava spesso era quello di esaminare i giorni passati insieme; tante piccole cose, un rossore, un silenzio, un sospiro, uno sguardo mesto e tremante di quei grandi occhi neri — e quante volte egli si era mostrato volubile!

Si mordeva allora le mani abbandonandosi ad eccessi di rabbia che irritavano sempre più il suo amore.

In confidenza: verso quell'epoca ebbe credito nella scolaresca la voce che Patrizio avesse dato volta al cervello.

Le persone saggie non mancarono di assicurare che la cosa era prevista, come conseguenza inevitabile dei suoi stravizi. Le donne piansero un poco e poi si consolarono — la cappellaia in ispecie giurò che non voleva più saperne di biondi e si volse ad Augusto che era nero.

Qualche studente domandò a Patrizio: dov'è il tuo angelo custode?

Questa frase detta per celia fu la base di congetture bizzarre, di fiabe gonfiate da certa gente timorata e bigotta che non si peritò a ricamarvi sopra una storia di miracoli e di apparizioni

La cameriera della Croce Bianca, losca e colla faccia coperta di lenticchie, raccontò a Piedolce che il giovinetto scomparso era proprio l'angelo Gabriele mandato per convertire quel discolaccio del signor Patrizio, che non vi era riuscito, e che d'ora in avanti essa aveva paura a dormir sola la notte temendo l'albergo abitato dal diavolo.

Patrizio non si curava menomamente delle variazioni che accadevano intorno a lui. Non era occupato che da un solo desiderio: ritrovare Gildo.

Una sera, passeggiando in un viale remoto fuori della città, vide correre lesta lesta davanti a sè una figura femminile che egli poteva affermare sulla sua coscienza di non avere mai vista in Pavia.

Era piccola, sottile, vestita di nero e sotto il velo le svolazzavano brevi ciocche di capelli castagni.

A Patrizio balzò subito il cuore; e poichè nem. meno un'anima si vedeva nelle campagne e lui, Patrizio, era poco disposto alla pazienza dopo tanta che aveva dovuto trangugiarne a suo mal costo, le si gettò in ginocchio, abbracciandola, stringendosela sul cuore e mormorando ancora su quella pallida guancia, al posto del primo bacio:

— Non mi fuggirai più… dovessi morire!

O Dio, si anche lei lo baciò perchè sentiva di essere amata ed era fiera e felice della sua vittoria.

***

Anime innamorate che passate da quel viale, sciogliete un voto alla conversione di Patrizio — e se volete chiedere all'erba fresca, ai fiori olezzanti, al cielo, all'aria, ai sassi, tutto quello che si dissero i due innamorati in quella sera, fate pure. Io ho un'altra cosa a dirvi.

La bella fanciulla che col nome di Gildo e nei modesti abiti del matricolino aveva conquistato il cuore dello studente era sua cugina, venuta appositamente dall'Inghilterra per conoscere il suo futuro sposo e cattivarsene l'affetto indipendentemente da qualsiasi idea d'interesse.

Amarlo non era difficile, ma farsi amare fu il suo vanto e la fortuna d'entrambi.

Il nome di Patrizio restò come una leggenda nelle memorie dell'Università. Quanto a lui, visse felice e tranquillo nei dolci affetti della famiglia, con grande soddisfazione del vecchio tutore che non ebbe più bisogno di scrivergli con nessuna erre nè antica, nè moderna e che potè finalmente mettere a riposo la famosa frase: « Mi avvedo, caro Patrizio, che tu cammini sulla via della perdizione. »

L'ultimo sabato di aprile, Carolina si alzò con un gran progetto. Aveva terminati i suoi lavori della settimana, splendeva un magnifico sole e nessun impegno la chiamava fuori di casa — tre circostanze favorevolissime per deciderla a fare il suo piccolo bucato.

Intendiamoci. Ella non era così povera da non poter pagare un lavandaio; quando si ricama bene e lesto, come appunto ricamava Carolina, non si sarà ricchi, oh! no, ma per lo meno il necessario non manca; egli è che Carolina, ragazza economa, aveva osservato come i lavandai in genere siano sciuponi e come nelle loro manaccie le mussoline e i merletti realizzino troppo spesso il dettato: « Cosa bella e mortal passa e non dura. » Per questo lavava da sè la biancheria fina, le camiciette, i manichini, le cuffie e quegli aerei fazzolettini di velo ch'ella annodava intorno al collo e che le davano l'aspetto di una bella madonnina pudica.

Accese il fuoco, attaccò all'uncino il paiolo pieno d'acqua, dispose la biancheria a strati nel mastello dopo d'averla insaponata con cura, e siccome queste faccenduole avevano riscaldato il suo giovane sangue di vent'anni, aperse la finestra e vi si appoggiò un istante.

lo vi assicuro, lettore possidente, inquilino obbligato dei primi piani, che una sfilata di tetti rossi e brillanti sotto i raggi del sole di primavera non sono poi quella brutta cosa che vanno dicendo i pessimisti.

Dall'abbaino di Carolina si vedeva una quantità di tegoli civettuoli, alcuni coperti di un fitto musco vellutato, altri abbracciati dagli esili rami della glicine i cui fiori lilla disegnavano ghirlande intorno alle grondaie. Stormi di rondinelle volavano pigolando dall'uno all'altro tetto, e qualche bel gattino dal pelo lucido e dalle zampine rosa, faceva le sue prime armi dietro i comignoli dei fumaioli. Copriva tutto il padiglione azzurro del cielo… oh! come volete che Carolina trovasse brutto il panorama della sua finestra?

Se ne staccò finalmente a malincuore per dare un'occhiata al paiolo e già le pareva che l'acqua fosse a buon punto, quando si udì una vigorosa scampanellata e comparve il ragazzetto della portinaia con una lettera.

Carolina non era abituata a leggere il suo nome, non dirò stampato ma nemmeno scritto, pensò subito che fosse una disgrazia, tanto le riusciva strano che qualcuno avesse avuto la voglia di scriverle. Le balenò poi un secondo pensiero, sorrise, arrossì; chi sa che diavolo era! — e ruppe prontamente il suggello.

Non era il diavolo, peccato! — ma una vecchia signora che le doveva da molto tempo una discreta somma, sulla quale la giovane ricamatrice si rassegnava quasi a tirare una croce. La vecchia signora trovandosi in fondi la pregava di portarle la nota al più presto possibile perchè doveva partire per la campagna. Il contrattempo, via, apparteneva alla classe dei contrattempi sopportabili; difatti Carolina infilò senza rincrescimento i suoi stivaltti di brunello, cinse un vestitino di lana nera sparso di piselli bianchi, gettò il velo in testa affrancandolo con un fiocco celeste e scese lietamente le scale pensando: Al mio ritorno l'acqua sarà bollente, in un paio d' orette sbrigo il bucato.

Queste preoccupazioni non le impedirono — quando fu al piano di sotto — di volgere uno sguardo particolare ad un certo uscio… Santo Dio! ne aveva presa l'abitudine in causa di due baffi castagni che abitavano là dentro; due baffi carini carini che l'avevano l' aria di essere tanto buoni! Poi allungò il passo e in quattro e quattr'otto si trovò davanti alla sua debitrice che le pagò la nota in tanti biglietti da dieci nuovi, azzurrini, con due belle teste turrite. Carolina li chiuse diligentemente nel suo piccolo portafogli e se ne tornava lesta col suo bucato in mente, quando si sentì chiamare per nome.

Un'amica d' infanzia di cui aveva perduta la traccia ma che subito riconobbe, le si buttò al collo con quella innocente espansione dei giovani affetti che non hanno ancora provata la vita.

Figurarsi gli abbracci, le ciarle le rimembranze evocate! Promisero di non abbandonarsi più, di vedersi tutti i giorni. L'indomani appunto era festa — sarebbero state insieme dalla mattina alla sera. Proprio veh! senza fallo. Addio. Addio. Un altro bacio! Sì, un altro.

Si divisero finalmente. Carolina entrò in fretta nella sua casa, salì le scale leggiera come un uccello, ma per quanta fretta avesse non crediate che l'uscio dei baffi sia rimasto defraudato della solita occhiata… queste cose non si dimenticano mai: aperse l' uscio della sua cameretta e per primo visitò il paiolo dell'acqua. Il fuoco era spento e l'acqua fredda.

Pazienza! Carolina si spogliò riflettendo che era appena mezzogiorno; con un poco di buona volontà sarebbe riuscita ancora a lavare la biancheria e sciorinarla al sole, al gaio sole che lasciava assai tardi la sua finestra.

Eccola dunque colle maniche rimboccate, col gonnellino tirato su a mezza gamba, in pianelle, eccola ad attizzare il fuoco, cantando, e ponendo ad ogni istante un dito nel paiolo per sentire se l'acqua si scaldava

Mancava poco, davvero, piccole bollicine apparivano alla superficie dell' acqua: Carolina non la toccava più col dito: aveva preso un pezzo di carta piegata in doppio e si disponeva a levare il paiolo

— Che è ciò? — Un timido squillo di campanello. — Capitano tutti oggi?

Tirò il catenaccio, spinse l'uscio, ma invece di tenerlo aperto lo rinchiuse precipitosamente.

— Ah! mio Dio, ah! mio Dio! — Giù infretta la gonnella, giù le maniche…

— Signora, la prego, si tratta di mia madre.

Questa voce supplice e dolente indusse Carolina a riaprire l'uscio, rossa come una ciliegia, e a domandare al suo vicino:

— In che cosa posso servire sua madre?

— Sta male, — disse il giovane, rosso anchelui più del naturale — è un incomodo che soffre qualche volta, spero nulla di serio, ma tuttavia mi duole lasciarla sola. Sono fuggito dallo studio per vederla, ma devo tornarvi subito; se lei volesse curarla un po'…

— Volontieri, sì, volontieri.

— Scusi se mi sono rivolto a lei… mi è sembrata tanto buona.

— Oh no!

— E tanto…

— No, no — continuava a balbettare Carolina.

Il Signore le perdoni, non sapeva nemmeno lei quello che diceva.

— Dunque vado… tranquillo e.. la ringrazio.

Quei baffl eastagni avevano un modo di parlare che toglieva lo spirito affatto a Carolina. Ella non disse più nulla, quantunque avesse detto ben poco. Tornò a mettere il suo vestito nero a piselli bianchi, e dimenticando di guardare il paiolo — sì, questo lo dimenticò — scese abbasso dalla vicina. Non l'aveva mai vista, a dire il vero, ma poichè era la madre, Carolina l'accostò con uno slancio di simpatia, che le valse uno sguardo profondo e scrutatore. Evidentemente la vecchietta pensava che suo figlio sapeva scegliere le vicine.

— Mia cara ragazza, temo assai che abbiate a disturbarvi per causa mia… forse il lavoro…

— Non lavoravo, signora. Ho terminato i lavori della settimana e facevo scaldare un po' d' acqua per il mio piccolo bucato… ma non fa nulla, ho tempo; credo bene che un'ora mi basti per sbrigarlo, e alla più disperata oggi farò soltanto la prima lavatura.

La vecchietta raddolcì il suo sguardo; quei dettagli casalinghi la interessavano dandole una buona opinione della ragazza.

— Avrete insaponata la vostra biancheria, m'immagino.

— Senza dubbio; il sapone a secco la fa diventare bianca come un fiocco di neve.

La madre approvò col capo. Carolina, presa confidenza, soggiunse:

— Mi dica, che posso fare per lei?

— Sto meglio, assai meglio; tuttavia, se vi intendeste di decotti prenderei volontieri un decotto di camomilla.

— Se me ne intendo? Ho avuto il mio babbo infermo cinque anni; son pratica di ammalati. È questo il cartoccio?

— Sì; guardate lì accanto che c' è la pezzuloa per colare il decotto. Povera me! quando mi pigliano questi accessi nervosi non sono più buona a nuila; capisco che invecchio.

— Molto carico?

— Così, così.

Intanto che Carolina preparava la bevanda, la vecchietta non cessava dall' osservarla, argomentando dai suoi movimenti sicuri e precisi ch' ella fosse una molto brava massaia. Le piacque sopratutto il suo metodo di accendere il fuoco — innalzando prima un monticello di cenere per non disperdere la brace.

Carolina faceva anche lei molte osservazioni: le sembrava strano di trovarsi in quella casa, di toccare quei cucchiai, quelle scodelle, tutti quegli utensili: sedere su quelle sedie, passeggiare su quel pavimento — appunto, ella vide per terra una cravatta da uomo, si chinò e la raccolse: e' era un po' di polvere sopra e la sua mano attiva non potè trattenersi dal pulirla. Vi metteva tanta grazia che pareva proprio l'accarezzasse.

— Orsù, vedo che siete una donnina —disse la madre sorridendo — Quanti anni avete?

— Venti compiuti.

— Che bella cosa avere vent'anni! Alla vostra età ero svelta anch'io come un pesce e sana come una lasca. Ora invece mi trovo alla vigilia di dover passare la vita in poltrona… Avessi almeno una figlia!

— Signora, io ho desiderato tante volte di avere la mamma che non conobbi mai; se posso esserle utile, la servirò con vero cuore di figliuola.

— Buona ragazza! — esclamò la vecchietta commossa. — Ma come fu che non ci siamo incontrate mai sulla scala? È molto tempo che abitate qui?

— Da due anni. Ma io esco poco e quelle poche volte corro in fretta senza guardarmi attorno.

— Dimodochè non sapevate neppure chi c' era sotto a vio?

Qui Carolina perdette un po' della sua franchezza: arrossì, torcendo l'angolo del grembiale e cercando una parola che non fosse proprio una bugia.

— Sapevo che c'era un signore, il signore… suo figlio.

— Oh! — fece l'altra guardandola col suo occhio esperto di vecchia mamma.

— Ma non gli avevo mai parlato! — si affrettò a soggiungere Carolina.

— Difatti. Quando mi sentii male, poco fa, mio figlio mi disse: « Vado a chiamare la nostra vicina, non la conosco, ma per un piacere non vorrà dir di no ». Egli aveva letto la bontà nella vostra faccia, quelle volte che vi incontrò per caso sulle scale — sulle scale, nevvero?

La bonomia un po' maliziosetta della vecchia turbava Carolina, la quale lasciava scorgere nei suoi sguardi smarriti come attraverso ad un limpido ruscello ogni pensiero della sua anima.

Per buona sorte sopraggiunsero i baffi castagni, e allora la fanciulla credette di poter ritornare al suo bucato; ma i baffi castagni erano di una curiosità incredibile — vollero sapere per filo e per segno come la signorina aveva guarita la mamma, cosa aveva fatto, cosa aveva detto e se la mamman on trovava veramente che era una fortuna per loro aversi accanto quella impareggiabile vicina.

La mamma confermò che le sembrava proprio una fortuna.

Soltanto dopo queste parole, Carolina potè accomiatarsi. I baffi castagni la ricondussero fino sul ballatoio profondendosi in ringraziamenti. Carolina non lo seppe mai precisamente, ma avrebbe quasi giurato che in quella circostanza singolare una mano avesse stretta la sua con passionata te nerezza.

Di ritorno in camera trovò il fuoco spento per la seconda volta e l'acqua fredda. Erano le quattro. Carolina rinunciò al bucato.

Aperse la finestra, come aveva fatto al mattino, e vi si appoggiò. Il sole già basso sull' orizzonte mandava i suoi ultimi caldi baci ai tegoli vermigli e ai festoni di glicine profumate; le rondinelle intuonavano la canzone del tramonto, il giorno finiva.

Finiva tutto l'opposto di quello che avea imaginato Carolina, poichè la biancheria, suo costante pensiero, giaceva vergine d'acqua in fondo al mastello — pure Carolina non se ne dolse.

In luogo del bucato ella era riuscita a prendere dei denari che non aspettava più, a ritrovare un'amica che credeva perduta e, dulcis in fondo, Carolina non diceva il resto ad alta voce, ma si sentiva felice, la furbetta, poichè il cuore le diceva: Sì! Sì!

(Dal giornale del Maggiore).

Mi trovo contento di essermi preso questo mese di permesso, più ancora di trovarmi a passarlo qui, in casa del mio più vecchio e più caro amico.

Sono pioppi, sono olmi, sono castani che ombreggiano così dolcemente il viale davanti alla mia finestra? Non lo so, non me ne curo. Ho fatto una colazione squisita. Già Stefano è un grande epicureo; lo era anche al reggimento; stando di guarnigione nel Friuli faceva venire le ostriche da Taranto e trovandosi in Sicilia mandava a prendere il burro a Milano.

Ora Stefano è un uomo felice. Si gode la sua pensione di generale in piena libertà… ha la figlia, è vero, ma quella piccina appena uscita di convento è una nuova gioia per lui e presto poi penserà a maritarla.

Invidio Stefano. Quando si giunge « a quell'anta che tutta notte canta » — come me — e quando la si è passata — come lui — che c'è d'altro al mondo fuorchè mangiare e dormire in pace? Ah! in pace! Che bella cosa la pace!

Allungo le gambe e mi stendo su questa poltrona che per verità è molto comoda.

Benissimo. Che cosa è la vita?

I pioppi, gli olmi o i castani tremolano, luccicando, sotto il sole. Che bel verde! La sabbia del viale sembra d'argento.

Che cosa vedo là in fondo? Sono forse fiorite le peonie? No, è l'abito di Federica, rosa per l'appunto come una peonia.

Che aria soave! Che voluttà in queste giornate di primavera!

Ma ancora non ho trovato che cosa è la vita.

Basta, lasciamo andare. Quando arriverò a dare le mie dimissioni voglio anch' io, come Stefano, finire i miei giorni in campagna. Non c'è di meglio per un vecchio peccatore che ha dei reumatismi da curare. I guerrieri antichi facevano così tutti; avevano ragione.

Dicono che in campagna ci si annoia. Eh! può darsi. Mi farò pescatore, cacciatore, orticoltore — tutte le passioni si assomigliano; il piacere che esse ci dànno non è che quello che noi vogliamo attribuir loro.

Fra qualche momento scenderò abbasso, nella gran sala, che ha il pavimento di legno e le pareti dipinte a uccelli. Stefano mi aspetta per fare una partita a scacchi — ecco un bel giuoco in fede mia; collo scacchiere davanti mi sembra di essere su un campo di battaglia.

(Dal giornale di Federica).

— Buon padre! Mi ha fatto arrivare della musica nuova per ingannare la solitudine — ed io, ingrata, non l'ho aperta neppure.

Quando mi metto al piano e mi trovo sola sola in quella gran sala dove la mia voce echeggia come fosse in un tempio, sento una malinconia, quasi una paura… Ero avvezza colle compagne, colle suore, e qui non c' è mai nessuno. A farlo apposta sento come non ho mai sentito un bisogno di parlare, di espandermi; vorrei ridere e vorrei anche piangere. La vita senza emozioni non mi piace.

Che cosa dicevano le suore che tornata nel mondo avrei avuto a combattere fiere lotte, a vincere ardue battaglie?

I miei giorni non sono mai trascorsi così placidi.

In convento almeno c' erano delle chiacchiere, delle espansioni d'amicizia, degli impeti di rabbia seguìti da una dolce pace; e l'emulazione che ci teneva sempre deste — oh! cari piaceri io vi ho disprezzati un poco, ma ora quasi vi desidero.

Che faccio qui? Alla mattina mi alzo e passeggio in giardino; il viale dei platani è simpatico, ma c' è in fondo la finestra del maggiore… e mi fa soggezione.

Vado nel pollaio a raccogliere le uova per la colazione di babbo; poi in guardaroba per imparare dalla vecchia Giovanna come si fa a regolare una casa. — Giovanna è una buonissima donna, lo so, ma sputa in faccia quando parla; è un difetto grosso — le sue lezioni non le ascolto mai fino alla fine. Ricamo, leggo, torno in giardino — il maggiore è quasi sempre alla finestra — e all'ultimo mi rifugio in sala dove pur troppo mi addormento.

Forse prenderò una risoluzione. Visto che sull' ultimo numero del mio giornale di mode c'era un disegno assai grazioso per sedie rinnoverò tutte le sedie del salotto — sono sedici e mi daranno un bel da fare.

(Dal giornale del Maggiore).

Nè pioppi, nè olmi, nè castani. La signorina Federica mi ha assicurato che il viale davanti alla mia finestra è di platani. Toccava proprio a me, nella verde età di quarantadue anni, a ricevere lezioni da una bimba di sedici! Ma le bimbe in giornata ne sanno più di noi.

Non voglio dir male della figlia di Stefano che è, a parte la sua scienza botanica, una cara fanciulla. Anzi, non voglio nemmeno confonderla colle moderne signorine incipriate e imbottite che sembrano bambole meccaniche e nemmeno, tolga Iddio, colle fanciulle romantiche che si pascono di zeffiri e di sospiri.

L'ho sorpresa stamattina mentre faceva la festa a un paniere di fragole senza pregiudizio della colazione che l' aspettava — e che non aspettò invano.

Signorina, le ho detto: avete buon appetito.

Ella diventò rossa come le fragole che le stavano davanti e scappò via.

Ha un modo di guardare in faccia tutto suo; lo si direbbe molto ardito se non fosse estremamente ingenuo. Spalanca le palpebre e getta là quelle pupille nere come se nulla fosse. Fa un po' l'effetto di una pistola sparata a bruciapelo — là! là! — basta, è quistione di stare in guardia.

Stefano ieri ha giuocato male: gli ho vinto tre partite. Se giuoca male anche oggi io giuocherò peggio — so che gli dispiace a perdere.

Ma perchè Stefano si ostina a vivere come un orso? Io e lui andiamo perfettamente d'accordo; gli è quella poverina che si annoia… davvero mi fa compassione.

Ignoro ciò che ci vorrebbe per una ragazza appena uscita di convento: che so io? delle amiche, delle passeggiate, qualche svago.

Gli uomini sono proprio egoisti. Studiano le donne solamente per quel tanto che basta a farsi conoscere da loro; a cinquant'anni sarebbero indifferenti se il mondo fosse tutto quanto popolato da uomini.

(Dal giornale di Federica).

È singolare quello che ho udito stamattina a proposito del maggiore.

Giovanna discorreva in guardaroba con un'altra cameriera e quando si accorsero di me cambiarono argomento; ho però inteso queste parole da Giovanna: Eh! certo egli ha avuto molta fortuna colle donne; si capisce del resto; è un bell' uomo come se ne vedono pochi.

Il maggiore un bell'uomo? Mi misi a ridere proprio di gusto. Bello un amico di babbo? È possibile esser belli quando non si hanno più vent'anni?

Ho voluto guardarlo apposta, più tardi, mentre faceva la solita partita; ed ecco dirò… Non so veramente che cosa dire. Certo non mi sarei mai immaginata che il maggiore potesse avere dei capelli così lucidi e fini, occhi espressivi e baffi arricciati. Io dunque non lo avevo guardato.

Ma che cosa avrà voluto dire Giovanna con quella frase: ebbe molto forluna colle donne? C'è una fortuna che si ha cogli uomini e un'altra che si ha colle donne? La fortuna non è una sola? Essere fortunati vuol dire essere felici.

Il maggiore poi è stato molto gentile oggi con me. Dopo la partita mi propose una passeggiata sulle colline; che idea stupenda! Almeno ho potuto sfogarmi un po' a correre e saltare e ridere anche, perchè il maggiore è burlone quando vuole ed ha un certo modo di dire basta ad ogni cinquanta parole che mi ricorda tutto tutto la mia povera Giulia. Veh! che combinazione, se diventassimo amici proprio come lo ero con Giulia?

Non sarebbe mica male ad aver per amico un maggiore con cinque medaglie, due titoli di cavaliere, uno di commendatore e marchese per giunta. Io che ho tanta paura dei sorci se appena ne vedessi uno gli direi: Amico maggiore, tirate fuori la vostra sciabola e fatemi la grazia di uccidere quel sorcio.

So che il maggiore ha un ottimo cuore. Quando era negli Abruzzi a combattere i briganti ha fatto l'eroe e il missionario insieme — è babbo che lo dice. Si vede, del resto, che egli è buono; ha uno sguardo tanto dolce e un sorriso fine fine che non è allegro e non è mesto, ma fa bene a guardarlo. Ed io che in principio avevo soggezione!…

(Dal giornale del Maggiore).

« Conduciti nella vita come se tu fossi ad un banchetto; ti offrono un piatto? — e tu prendilo.

Passa oltre? — e tu non lo dimandare. »

Ho io fatto così? Perfettamente, mi pare.

Federica è venuta questa mattina sotto la mia finestra mentre io vi stavo affacciato e leggevo i Commentari. Era tutta rosa in mezzo agli alberi verdi (platani). Faceva piacere a vederla tanto che le dissi: Signorina, voi state benissimo.

Non fuggì via questa volta; al contrario sollevò un poco il suo cappello di paglia per poter guardare in su e rispose — se pure si può dir risposta: — Andiamo oggi sulle colline?

Certo, amabile fanciulla, certo. Amabile fanciulla non lo dissi a lei, ma lo brontolai a me stesso chiudendo i Commentari.

E come eri bello, o maggiore, su quel sentieruzzo di montagna a cogliere ginestre insieme ad una bambina! Così è — io mi ci divertii un mondo.

Sono forse un compenso sul tramonto della vita queste gioie profonde e impensate? questo ritorno a sensazioni antiche, lontane, che si credevano spente per sempre?… Un giorno di primavera e sedici anni — come queste cose rinfrescano il cuore!

(Dal giornale di Federica).

Povero maggiore! Il cuore me lo diceva che quel telegramma di ieri sera gli portava una brutta notizia; la sua mamma sta male ed egli è partito subito.

Come sono mesta oggi!

In fondo al viale dei platani vedo la sua finestra chiusa. Babbo è di cattivo umore perchè non ha potuto fare la partita a scacchi. Vorrei saper giuocare io, ma non so. Ho provato a prendere in mano i pezzi e mi faceva piacere a muoverli sulla scacchiera imitando i movimenti del maggiore e dicendo come lui: basta, vedremo. Povero maggiore!

Le lane che mi ha comperate Giovanna non vanno bene; poichè il salotto ha le tende turchine, le sedie non devono essere celesti. Anche per oggi non incomincio il lavoro.

Che fare, mio Dio, per ingannare il tempo? Questa giornata mi sembra eterna — è certamente la più lunga di quelle che ho passate qui. E come sono malinconica!

Vorrei tornare in convento. Ho la nostalgia dei grandi muri bianchi, dei corridoi silenziosi, delle celle tranquille. Penso al vasto giardino così folto che pareva un bosco. Penso sopratutto e vorrei tornare nella chiesetta delle suore sempre piena di fiori e dove si sentiva fuso insieme un odore di cantina e un odore di rose.

Ecco che ora mi vien da piangere…

(Due ore dopo).

No, questa giornata non finisce più.

Mi sono fatta condurre in chiesa da Giovanna.

Ah! Non è la bella chiesina del mio convento; questa è una chiesa che sembra una caserma — tutta a polvere e ragnatele; lo scaccino ha una faccia da brigante.

Mi sono inginocchiata davanti alla madonna e l'ho pregata tanto tanto per la mamma del maggiore. Giovanna aveva fretta di partire perchè il pavimento umido incrudiva i suoi dolori artritici. Quanta cura di se stessi hanno i vecchi!

Chi sa se il maggiore scriverà qualche cosa?

(A sera inoltrata).

Babbo è nervoso. Ila pranzato male, si annoia. Ho voluto sonargli la sua marcia favorita, ma mi ha mandata via… Che cosa devo fare, o Signore?

Non ho sonno, non posso andare a letto.

Quante belle stelle in cielo! Quanti esseri felici sulla terra! Ed io che dovrei esserlo non lo sono. Perchè non sono felice? Perchè ho nel cuore un tormento acuto, profondo come se un verme lo rodesse? Perchè ho tanta voglia di piangere? Perchè mi sento così triste, così triste, che vorrei morire?

(Dal giornale del Maggiore).

Basta, è passata.

La mia buona madre sta bene ed eccomi ancora qui.

Sono stato assente tre giorni; ieri sera entrando dalla porta del giardino mi spaventai quasi — se pure è possibile che un vecchio lupo come me si spaventi. Infine mi commossi — sì, vada per la commozione — vedendomi correre incontro come un turbine la mia giovane amica, precipitarsi sulle mie mani, stringerle…

Non diceva ella: finalmente!? Proprio, lo diceva, come fosse un secolo che non mi vedesse, e si aggrappava co' suoi ditini alla mia mano — cara fanciulla!

Oggi le dovevo una ricompensa. L' ho portata sul più alto colle dei dintorni. Ah vedere la sua gioia!

Sembrava anche a me di essere uno scolaretto in vacanza; mi sentivo pieno d' ardore e di entusiasmi. Ho ammirato il cielo, i boschi e il torrente che scorreva ai nostri piedi; ho raccolto colle mani l'acqua di una fontana e ne feci bere a Federica — sento ancora i suoi labbri appoggiati alle mie palme!

Abbiamo raccolto dei sassolini, delle erbe, che so io? Ci siamo seduti all' ombra dei noccioli; abbiamo scritto sulla sabbia, io col mio bastone, e lei col suo ombrellino — io scrivevo Federica e lei scriveva maggiore; poi io presi l'ombrellino e lei prese il bastone, ma scrivevamo ancora Federica e maggiore.

C'era una cappelletta sul sentiero. Federica si inginocchiò e colla sua candida fede di fanciulla ringraziò la madonna per la guarigione di mia madre. Io ero in piedi dietro a lei — la guardavo — mi pareva un angelo.

Nel correre giù della collina perdette il cappello; le sue treccie si impigliarono ai rami bassi delle rubine, si sciolsero nere e lucenti sulla veste rosa… avrei voluto essere pittore in quel momento. L'aiutai a districare i suoi capegli dalle spine che li trattenevano — strano! — quei capegli avevano un odore di fiore, ma di fiore non conosciuto, un odore vago di giovinezza e di salute.

Non le permisi più di correre. La presi per mano e discendemmo passo a passo.

Che ore felici vi sono nella vita! Da molti anni non provavo una dolcezza così profonda, come la provo vicino a lei. Ho seppellito il mio cuore ed ecco che lo ritrovo più vivo che mai…

(Dal giornale di Federica).

Ho una gran paura di essere volubile. Babbo dice molte volte con disprezzo che le donne sono volubili, ma non ci ho colpa; non può essere altro che volubilità questo passare dalla tristezza alla gioia senza nessun motivo.

La settimana passata volevo morire; adesso mi sento invece tanto felice che la vita è breve a soddisfarmi.

Nulla è cambiato ma tutto mi piace di più.

Se avessi un uccelletto nel cuore non potrebbe saltare e cantare più di quello che fa. Mi sento talvolta delle smanie improvvise di baciare qualcuno; mi sento buona buona, piena di tenerezza per tutto il mondo, con un desiderio infinito di far del bene e di vedere tutti gli uomini felici.

Sono stata ingrata verso Dio a non accorgermi prima che la terra è così bella, il sole così lucente, i fiori così soavi. E la luna? e le stelle? Che meraviglia infinita! Ieri sera il maggiore mi spiegava l'ordine degli astri e le costellazioni, i pianeti — tutte cose che ho udite dalle suore; ma è ben diverso parlare di stelle su un banco della scuola e parlarne davanti alla finestra in una sera incantevole…

Il maggiore ha una voce che penetra nell'anima. Non so perchè siamo rimasti tanto tempo colle mani strette insieme: egli non tratteneva le mie — ed io perchè non le ho sciolte?

(Dal giornale del Maggiore).

Io l'amo!

Vecchio cuore avvezzo a dissimulare tenti invano di ingannarmi con dei sofismi. Io la sento la terribile passione che mi allaccia nelle sue spire, la sento mordermi e bruciarmi i lombi.

Credevo finito per me il tempo delle battaglie; mi preparavo alla calma, all'oblio… Ma quando mai si è sicuri di non amar più? O potentissimo iddio Amore, nella tua religione non vi sono atei; tu atterri l'incredulo con uno strale e lo obblighi ad adorarti.

Ma dove mi conduce questo amore? Che posso fare per Federica? Che può essere lei per me?

Devo io unire la mia vita stanca alla sua giovane vita che incomincia?… Devo mettere le sue illusioni accanto ai miei disinganni? Federica è il fiore che si apre e che offre, inconscio di se stesso, i suoi profumi al primo curioso che lo coglie. Nulla ella sa dell'amore, nulla ella sa della vita — accettare il suo profumo sarebbe un profanarlo.

No. Il mio dovere è nel silenzio. Ella non saprà mai quale fremito mi destano i suoi lunghi sguardi innocenti; ella non saprà che mi balza il cuore solamente a sfiorare il suo vestito…

(Più tardi).

Dio che tormento!

L' ho avuta vicino; eravamo seduti sulla panchina in fondo al viale; sentivo il suo respiro, vedevo la sua giovane bocca tremante di desiderio — anche lei, anche lei, divina fanciulla!…

Io non so come feci a frenarmi. Oh! la virtù non è un vano nome, perchè un nome non può infondere tanto coraggio.

(L'indomani).

Ho vegliato buona parte della notte. Il mio partito è preso: partirò.

Cercai tutti i punti del problema e se ne avessi trovato appena uno che potesse accontentare la mia coscienza… ma non l'ho trovato.

Federica ha sedici anni — io ne ho quarantadue. Federica ama in me il primo uomo che le si presenta — fra pochi anni sarebbe pentita ed infelice. Non posso accettare il dono di un cuore che si ignora: non posso abusare della sua inesperienza e vincolarla per sempre. Federica non è per me.

Ho respirato l' olezzo di questo puro fiore — basta.

Innanzi ch' ella sia ferita mortalmente, innanzi ch' ella trovi la causa del nuovo turbamento che la invade, io devo rompere questa catena di fascini.

Ma non ti abbandono sulla via, o puro fiore; voglio darti tal prova di affetto che nissun altro uomo diede mai. lo sarò infelice, ma tu devi essere felice. — Coraggio, vecchio soldato!

(Lettera del Maggiore a suo nipote Riccardo).

Non ho mai risposto categoricamente alla tua domanda, mio caro Riccardo, perchè quello che tu volevi da me appartiene a un ordine di cose tanto delicate che (è una mia opinione) non si possono trattare per lettera.

Lodo il tuo proposito di accasarti. Colla tua fortuna, co' tuoi meriti, colla saggia esperienza che hai della vita, sei destinato a godere tutte le gioie della famiglia e meriti una donna che comprenda il tesoro dei tuoi affetti.

Il caso (mio caro Riccardo, non sarebbe meglio che dicessimo Dio?) mi ha fatto conoscere una fanciulla angelica nella figlia del mio antico commilitone generale X˙ Vuoi venire a vederla?

Per nessuno fuorchè per te, nipote mio, vorrei prendermi una tale responsabilità — e per nessuna fuorchè per lei.

UN ANNO DOPO
(Lettera di Federica al suo fidanzato Riccardo).

… Abbiamo avuto una bella visita ed una bella improvvisata. Colla corsa del mattino insieme al sole, alla rugiada ed alle rondini è giunto qui il maggiore.

Dirvi la gioia di babbo non potrei. Vi dirò appena la mia, più moderata, ma però degna di nota. Vostro zio è uno di quegli uomini dolci e leali che una volta conosciuti non si dimenticano più. È il vero ritratto del gentiluomo e del soldato.

Mi parve (ve lo dico in confidenza) un po' invecchiato; l'anno passato non aveva capelli grigi ed ora ne ha parecchi. Del resto sta bene di salute ed ha sempre quel buon sorriso indulgente che lo rende così simpatico.

Vi dirò che mi ha portato un dono — dono un po' serio per verità se non fosse stato accompagnato dal sorriso che sapete. È un bellissimo volume legato in pelle, cogli angoli dorati e contiene la vita degli eroi antichi e moderni. Incomincia con Scipione Africano.

Mia cara Federica, mi disse: questo libro servirà per voi e per i vostri figli. L'esempio delle grandi virtù ci è di sommo aiuto nelle battaglie della vita.

Povero maggiore! Aveva un' aria triste nel dirmi così; eppure sulla sua fronte brillava un raggio di fede ispirata. Egli è ben degno di essere vostro zio, Riccardo; ed io sono fiera di aver ricevuto dalle sue mani la felicità del vostro amore.

Nel fortunato paese culla dell'uman genere, che il Tigri e l'Eufrate attraversano, che cinque mari abbracciano e dove il cactus e l'aloè ondeggiano mossi da correnti imbalsamate sotto il cielo splendido di Palestina…

Prendiamo una via più corta.

Alle porte di Bagdad, la città cara ai califfi, due filosofi sedevano sotto l'ombra di un palmizio.

È un modo un po' brusco di entrare in materia, ma io lo preferisco — anzitutto perchè è il modo mio — poi perchè su quattro lettori tre almeno mi saranno riconoscenti della brevità.

I due filosofi si chiamavano Nourredin e Bettredin; appartenevano a sètte diverse e avendo preso moglie da poco tempo ragionavano insieme sull' efficacia dei mezzi più adatti a conservare la pace coniugale.

Prego a credere che i miei due eroi non erano filosofi da strapazzo ma persone di gran merito, stimatissime non solo nel loro paese ma anche nella vicina Arabia, nella Persia, in Egitto; perfino le spiagge remote del Beluchistan, dell'Afganistan e dell'Indostan ripetevano con venerazione i loro nomi.

Se noi non ne sappiamo nulla dobbiamo incolparne la decadenza del nostro spirito che da qualche tempo è tutto occupato nella questione d'Oriente a scapito degli studi profondi ed utili che vengono trascurati con danno palese dell'intelligenza, del buon gusto e dei librai.

Il saggio Bettredin soleva dire che non si pensa mai abbastanza prima di parlare e che non si parla mai abbastanza prima di operare; massima sorprendente e luminosa, che qualora venisse adottata per intero aprirebbe nuove prospettive all'arte oratoria e al modo di cucinare le bistecche.

Egli era dunque assorto in un religioso silenzio, foriero di qualche meravigliosa rivelazione, quando Nourredin prese a dire:

— Vi confesserò, caro fratello, che non sono senza inquietudini. Per quanto abbia studiato il carattere della mia sposa, l'incantevole Aïssa, non mi sono ancora formato un concetto preciso sulla qualità delle molecole che compongono il suo cervello e sulla maggiore o minor rapidità nella circolazione del suo sangue dalle vene arteriose al cuore. Sarebbe per me importantissimo conoscere la sutura che congiunge le ossa del suo cranio e da questa dedurre lo sviluppo delle sue qualità morali, come insegnano i dottissimi Huxley, Vogt e Büchner, filosofi della Cocincina — poichè vorrete concedermi, caro fratello, che tutto finisce in una quistione paleontologica — il problema dello scheletro della superficie ossea, della materia! Un certo ordine di molecole si fondono insieme per fare un briccone e dell'armonia di certe altre nasce il galantuomo.

Bettredin, sempre assorto nelle gravi preoccupazioni della sua mente, non rispose ma scosse negativamente il capo con tanta violenza che il turbante gli rotolò dieci passi lontano.

Nourredin il quale aveva imparato i bei modi da un maestro di ballo francese si alzò e glielo rese con molta grazia.

Bettredin ricoprì il venerabile tabernacolo della sapienza turca, sempre in silenzio, e l'altro proseguì:

— Noi educhiamo i fanciulli con un codice di morale fatta e con nozioni retoriche di virtù e di eroismo, senza badare che i fanciulli quando nascono hanno già l' angolo facciale disposto in una data maniera e che a volerlo modificare converrebbe vi mettesse opera la Natura stessa o quanto meno la levatrice con un opportuno raddrizzamento di linee. Chi insegnò al nostro santo profeta la via che dall' umile posizione di domestico lo condusse alla massima gloria? Credete che le leioni ed i precetti gli altri avrebbero ispirato il Corano se il Corano non fosse nato con lui in una cellula riposta della sua fronte?

Un sordo brontolìo annunciò a Nourredin che il suo compagno stava finalmente per parlare; e da quel filosofo garbato ch'egli era (il fatto è tanto raro che non temo di ripeterlo soverchiamente) tacque subito e si pose in attitudine di chi ascolta con attenzione.

Bettredin esclamò:

— Oh setta traviata, materialisti ignobili che in un pugno di fango riponete le leggi divine dell'universo! Allah è grande e Maometto è il suo profeta. Ègli ci disse che chi opera bene avrà bene; chi si leva le ciabatte prima di entrare nel tempio godrà l' eterna voluttà del paradiso e chi si astiene dalla carne di porco abbraccierà la più bella fra le huri. Come potete dunque sostenere che tutto è materia? Ci avrebbe Allah comandato di mortificare la materia se la materia fosse l'unica base del nostro essere? E che valore avrebbe la virtù ridotta allo stato di semplice protuberanza?

— L'uguale valore — gridò Nourredin — che merita allo stato d'astrazione. Quando tutto il sistema spiritualista fosse tradotto in realismo si procederebbe per vie diverse ai medesimi effetti col vantaggio della verità per scorta. Una volta stabilito che il sangue ricco di globuli e di calore non si modifica davanti a un capitolo di filosofia, si tenderà a calmarlo con mezzi materiali, con un trattamento dietetico confacente. Credete che la proibizione del porco, precetto santissimo della nostra religione, agisca su tutti con eguale profitto? Io ne conosco molti che aspirano organicamente alla carne di maiale e che si troverebbero meglio se non fosse vietata.

— Ma dove lasciate il libero arbitrio, la volontà, l'intelligenza, tutti i moti superiori dell'anima indipendenti dalla materia e senza di essa vivi?

— Senza di essa? scusate. Io vedo bensì molti corpi privi d'anima, ma non vedo un'anima sola senza corpo e dove l'uno e l'altra camminano di conserva è sempre l'anima che soggiace ai materiali bisogni.

A questo punto un largo e prolungato sbadiglio dischiuse le mascelle di Bettredin.

— Argomento, fratello mio, che abbiate fame — continuò Nourredin. — Per quanto possa ripugnare alla vostra nobile anima, io credo che un pasticcetto caldo aiuterebbe mirabilmente la vostra facondia.

Passava appunto un giovane eunuco recante su un vassoio d'argento alcuni profumati pasticci d'ananas.

— Che Allah mi perdoni se sbaglio, quello è uno de' miei schiavi! — esclamò il filosofo spiritualista, e lo chiamò per nome.

Il giovinetto si accostò riverente.

— Dove porti quei pasticci?

— Alla mia padrona e vostra sposa, la celeste Badura, poichè si sente lo stomaco languido e le pigliano i vapori.

— Come! la celeste Badura che io nutro di idee sublimi e di ragionamenti spirituali, si permette in mia assenza così basse condiscendenze alla carne?…

Si interruppe, non volendo mostrare tutto quanto il suo pensiero davanti a un servo; prese colle due dita un pasticcetto e lasciò che il messaggero continuasse la sua via.

— E perchè — disse Nourredin arrestando la mano del suo confratello che si accostava rapidamente alla bocca — perchè fate torto alla celeste Badura di un desiderio innocente? Avrebbe ella così floride carni e guance color di rosa e braccia rotondette se non vi provvedesse di tanto in tanto con una coscia di montone o un piatto di pilau?

— Siamo tributari della carne… non facciamoci schiavi — rispose Bettredin, seguendo cogli occhi la curva discendente del pasticcetto — ogni boccone che alimenta il corpo spegne una scintilla del fuoco divino.

— Secondo la vostra teoria il mezzo più spiccio onde raggiungere la perfettibilità sarebbe quello di crepar di fame.

Pronunciando questa conclusione, Nourredin fu preso da un eccesso di ilarità così potente che ne ebbe scosso tutto quanto il diafragma e i nervi comunicanti colla mano si rallentarono, facendo cadere il pasticcetto che andò in mille frantumi.

Il saggio Bettredin ne tolse argomento per declamare sulla caducità della materia.

Il sole dardeggiava nella sua massima forza, nuotando dentro un'atmosfera azzurra attraversata da pulviscoli d'oro.

Le larghe foglie della palma ombrellifera difendevano a stento i due filosofi, ma una dolce brezza movendo dal Tigri stormiva fra i boschetti di tamarindi e di fichi e temperava l' eccessivo calore.

— Quale è il sistema da voi scelto — domandò Bettedrin dopo un lungo silenzio — per educare lo spirito e il cuore della vostra compagna, l'incantevole Aïssa?

— Il primo sistema è di lasciare che i pori del suo corpo, mediante una temperatura dolce e molle, lascino evadere in sudore tutti i miasmi dell'organismo. Una donna in istato di traspirazione è generalmente buona e compiacente; la pelle asciutta indica bile e irascibilità. Vedo poi volontieri ch'ella si occupi colle sue schiave ad ammannire succulenti manicaretti, conserve e liquori, tenendo per tal modo gradevolmente occupata la fantasia che se fosse libera divagherebbe in fisime sentimentali tanto nocive alla felicità domestica. Non le manca per parte mia nessuno degli agi della vita; pago puntualmente le note della sua sarta e per la più corta ieri le ho regalato un vestito colore della punta della coda di colibrì maschio, che è l'ultima espressione della moda.

— Ma e il cuore, disgraziato, il cuore?

— Mi maraviglio che non sappiate essere la donna quasi priva di questo viscere nel quale noi riponiamo le sensazioni più squisite, quantunque i pareri sieno vari e molti naturalisti propendano a credere che il cervelletto è la sede unica dei moti interni; ma, comunque sia, è positivo che la donna ha meno fosforo dell' uomo e i suoi bisogni, più ancora che i nostri, sono prettamente materiali. Quando una donna mangia, si veste e mette al mondo dei figli, è senz' altro all' apice della sua felicità.

— Ecco dunque la vostra preoccupazione coniugale — tuonò Bettredin con vivissimo sdegno: — mettere al mondo dei figli!

— Permettete, è dovere. Forse che voi…

— Io non desidero che la celeste Badura abbia ad essere la causa involontaria di quel lubrico ammasso di fango che si chiama uomo; astuccio fragile e immondo entro cui si dibatte come un angelo incatenato l'anima immortale.

Le eiglia di Nourredin si inarcarono per sorpresa descrivendo al di sopra dei suoi occhi un accento circonflesso. Arrischiò timidamente un — Per cui… — ma l'altro continuò:

— Il corpo col suo seguito di bisogni mortificanti non può essere che un castigo inflitto da Allah. Nel giorno ideale della creazione, quando i mari scintillavano nelle loro vasche di corallo e gli uccelli liberi correvano dall' una all' altra sponda posandosi sugli alberi incontaminati, anche le anime fluttuanti per lo spazio, inconscie di vincoli terreni, saranno convolate a puri amori ed a dolcezze paradisiache, delle quali la terrena voluttà non è che un pallido riflesso.

— Sarà; mi vorrete però concedere che per anime fluttuanti nello spazio non era il caso di creare i frutti saporiti che pendono dagli alberi, nè di dare alle carni di certi animali quel gusto delizioso che emanano girando su uno spiedo. Vi domanderò anche: Perchè furono creati i sessi? e perchè i sessi appartengono al corpo e non all'anima? Mostratemi due anime che fluttuando in giro popolino lo spazio di altre anime e crederò alla loro superiorità.

Un frutto maturo, staccandosi dal palmizio, cadde sul naso dell' eloquente Nourredin che si affrettò a tirare fuori il fazzoletto.

Bettredin supponendo che il suo compagno volesse starnutire ebbe la compitezza di dirgli: Felicità!

La qual cosa non consolò nè punto nè poco il filosofo materialista.

Uno splendido tramonto rosseggiava sulle cime dell'Ararat e già le prime stelle salivano dall' orizzonte a popolare il cielo, nè i due filosofi mostravano di voler andarsene — anzi dialogavano con molta vivacità allo scopo di rendere felici le loro spose e sè stessi.

Bettredin diceva:

— Le donne, creature eteree, vaporose, caste, che assai più di noi si avvicinano all' ideale non dobbiamo considerarle (come pur troppo avviene) quali macchine passive destinate a scopo di materia. Un nutrimento leggero esclusivamente vegetale, foglie di rosa se fosse possibile, letture mistiche, aspirazioni continuate verso l'indefinito…

— E pediluvi frequenti — interruppe Nourredin ridendo sotto la barba.

Non pare che Bettredin rilevasse l'ironia perchè seguitò:

— Quando il mondo uscì perfetto dalle mani di Allah e prima che la materia si ergesse a dominatrice…

— Un momento. È oramai provato provatissimo che la terra è un sole estinto, e sia che la si voglia considerare all'epoca del suo massimo calore, un aggregato cioè di materia gasosa incandescente, sia allo stato solido che acquistò gradatamente raffreddandosi — o sia pure quando spenti i fuochi interni e stabilito l' equilibrio dell' atmosfera si manifestò nel primo filo d'erba il germoglio della vita, noi vediamo sempre e dovunque la materia che regna.

— Queste teorie alla fin fine non sono che ipotesi — mormorò Bettredin, rompendo a mezzo la frase con un sonoro sbadiglio.

— Ma basate — incalzò Nourredin — su calcoli astronomici, fisici, matematici e geodetici; e dopo aver o servate le stratificazioni della terra nelle epoche più remote, la paleozoica, la siluriana, la devoniana, la carbonifera…

— Vedete, vedete come la vanità umana si affatica dietro ricerche che non provano nulla, che non insegnano nulla, che non conducono a nulla. Quando avete ben determinato che la crosta solida del nostro globo è di circa quarantottomila metri nei quali si trovano a strati e a filoni l' allumina, la potassa, il quarzo, il granito, l' argilla e una infinità di silicati e di felspati, di micaschisti, di clorite e di manganese, ebbene? Mi sapete spiegare perchè da un seme nasce l'albero e da un ovo l'uccello? Voi trovate una ragione a tutto, una soluzione a tutto, ma il perchè, il fiat, il Dio dov'è? Ne sapete voi qualche cosa?

— È appunto per questo che non credo. Datemi una prova evidente, palpabile, sicura…

— Alzate gli occhi al cielo e mirate la danza armonica degli astri nell'etere inesplorato. Ditemi, la forza che li regge può essere materia?

— Perchè no? Dal momento che un atto puramente materiale soffia la così detta anima in un corpo d'uomo… ci vorrà maggior spirito a fare una stella?

— Ma questi astri brillanti di una luce incognita non dicono nulla al vostro cuore?

— Sì — disse Nourredin alzandosi — essi mi avvertono che è l'ora di andare a letto, e spero bene che l'incantevole Aïssa mi aspetterà impaziente per presentarmi una torta di ribes fatta colle sue belle mani. Venite anche voi?

— Non ancora. È questa l'ora soave del raccoglimento e della meditazione. Vedo di qui la celeste Badura in colloquio coi genî misteriosi della notte; le nostre anime vaganti d'astro in astro si incontreranno in pure aspirazioni che non giova turbare con una importuna presenza.

— Addio, dunque. Che Allah vi protegga.

La casa di Nourredin, bianca, piccina, cinta da aranci (destinati a fare del giulebbe) e che la nascondevano quasi tutta, pareva immersa nel sonno. Solo l' eunuco, custode dall' harem, accoccolato sulla soglia piangeva dirottamente e stracciavasi il turbante.

— Che mai avvenne? — chiese il filosofo oltre ogni dire meravigliato e perplesso.

— Mio signore — gemette l' èunuco trascinandosi carponi a' suoi piedi — una orribile disgrazia ci ha colpiti. Aïssa, l'incantevole Aïssa, bella come il raggio del mattino che brilla sulle vette del Caucaso, elegante come il palmizio che si specchia nelle onde del Tigri, dolce come i profumi che il vento ci reca dall' Yemen, candida come la perla appena formata nel grembo dei mari, maestosa come i cedri…

— Parla, miserabile. Che avvenne di lei?

— È sparita. Nell' harem desolato echeggia il suono della sua voce divina; il morbido divano conserva tra le pieghe di raso l'impronta della vaga persona; geme nel bagno di porfido l'acqua che accolse le bellissime forme e sulla mensa apparecchiata si raffredda la torta di ribes.

— Sparita! sparita! — ripeteva Nourredin — ma come? quando? perchè?

L'eunuco tirò fuori una lettera nascosta gelosamente tra la doppia fodera del suo turbante e la consegnò in silenzio.

Il filosofo l'aperse con precipitazione. Era profumata di muschio, colle iniziali a timbro secco e diceva:

« Caro marilo,

« Sono stanca di sudare e di far torte; non incolpa nessuno della mia fuga; l'eunuco è innocente. Io parto con un capitano francese che mi assicura essere Parigi la città delle donne, e che il costume europeo mi anderà a pennello. Pare che non si portino calzoni oltre il Mediterraneo; ti lascio i miei per ricordo; ma prendo i gioielli e l'oro che mi serviranno durante il viaggio. Sono delicata in materia d'onore e non voglio essere d'aggravio al capitano. Addio, caro marito. Quando ne hai abbastanza di fare il turco puoi venire a trovarmi in Europa dove vivremo di buon accordo tutti e tre. Mi assicurano che la cosa è possibilissima e niente affatto contraria alle leggi del paese.

« Tua fedele AÏSSA. »

« PS˙ Ricordati di rinnovare il miglio nella gabbia del mio canarino. »

Dopo la lettura di questa epistola. Nourredin si abbandonò al più violento dolore. Invano l'eunuco tentava consolarlo, promettendogli una seconda sposa, una circassa dagli occhi tagliati a mandorla neri come il manto della notte, col naso a punta di spada, la bocca vermiglia come il fiore dell'alto, il collo bianco e flessibile come quello delle cicogne quando si curvano vezzeggianti dall'aloe dei minareti… L'eunuco aggiunse molte altre descrizioni, ma tali che si potrebbero dire appena in lingua turea.

Nourredin si mostrò insensibile; ed anzi, venutogli in uggia la vista di uno schiavo che non aveva saputo custodire il tesoro affidatogli e la casa stessa richiamandolo alla memoria delle perdute dolcezze, fuggi a lunghi passi che lo portarono sotto la palma dove Bettredin contemplava ancora le stelle.

— Mio povero amico — esclamò il filosofo spiritualista, quando ebbe udito il triste caso — non mi maraviglio che il vostro sistema vi abbia condotto a sì deplorevoli effetti. La materia…

— Vi prego, consolatemi diversamente — interruppe lo sposo tradito, prevedendo una dissertazione metafisica.

— Volete venire a casa mia? L'ordine, la pace, il puro amore che vi regna calmeranno il vostro spirito e la celeste Badura vi solleverà il cuore colle armonie soavi del liuto.

Nourredin nulla rispose; l'altro lo prese sottobraccio avviandosi silenziosamente per le strade della città, attraverso piazze deserte e giardini sconfinati fino ad una solitaria collinetta dove sorgeva fra gli oleandri la casa di Bettredin.

— Entriamo dalla porticina del parco che mette direttamente all'harem.

Così disse Bettredin; ma fu ben sorpreso allorquando trovò la porticina aperta… Corrugò la fronte come soglione tutti i filosofi nelle circostanze gravi e si diede a riflettere seriamente.

Bentosto un rumore lieve, indistinto, variato nelle sue cadenze, ora fievole come un sospiro, ora schioccante come un bacio, percosse contemporaneameate le quattro orecchie dei due filosofi.

— Qui e'è gente — disse Nourredin.

— Parlate piano e levatevi le babbuccie.

Nourredin rattenne il fiato, ma spalancò gli occhi e vid'e agitarsi sotto gli oleandri fioriti due ombre… di ambo i sessi: Lui aveva il caffetan azzurro ricamato in oro, Lei un paio di calzoncini color perla e una tunica di cachemir rosa tutta sparsa di gemme; un lungo velo bianco le adombrava gli omeri ignudi e tremolava come una nuvoletta ai raggi della luna.

— Eterno Iddio chi vedo? La celeste Badura!
— mormorò Bettredin vicino a svenire.

— Conversa, a quanto pare, con un genio della notte — disse Nourredin separando i rami per osservare meglio, e dopo aver osservato soggiunse: — e il tema non mi ha l'aria di essere molto spirtuale…

Per quanto i due filosofi usassero cautela il loro bisbiglio fu udito. I calzoncini color perla balzarono in piedi e il caffetan azzurro si pose in guardia facendo balenare la lama damaschinata d'una scimitarra persiana.

— Allontaniamoci — biascicò il marito mezzo morto per l'affanno e l'altro mezzo per la paura — io sono il più infelice degli uomini.

— O non avete per consolarvi l'anima immortale?

Bettredin non rispose verbo; tutti e due macchinalmente ripresero la via del palmizio. L'aurora imperlava gli estremi lembi dell' orizzonte e gli uccelli chiacchierini cantavano i loro amori sulle cime dei bambù.

Due giovani contadini marito e moglie entravano allora in Bagdad carichi di frutta e di erbaggi destinati al mercato. Avevano la gioia dipinta sul volto e ta tranquillità negli occhi sereni.

— Da dove venite? — chiese loro Bettredin, sperando di poter sfogare con qualcuno il suo dolore.

— Dal lavoro.

— E dove andate?

— Al lavoro.

— Siete voi felici?

I due si guardarono e risero.

— Che sistema usate — interruppe Nourredin vòlto al marito — per mantenere l'equilibrio negli umori latenti della vostra sposa?

Nuova occhiatina e nuovo sorriso.

— Non vi siete mai occupato dei globuli del suo sangue?

— No sicuramente — rispose il contadino che incominciava a credere di aver incontrato due pazzi.

— Conoscete almeno le protuberanze del suo cranio?

— Nemmen per sogno.

— E la sutura?

— Cos'è quest'affare?

— Comprendo — riprese Bettredin — voi seguite la filosofia spiritualista, la credenza nel fattore invisibile, nella forza incorporea, nell'anima che aleggia al di sopra della terra.

— Ma signori, io non so niente di tutte queste cose. Adoro Allah, amo mia moglie, lavoro il mio campo e sono felice.

Così dicendo proseguì la sua strada.

I due filosofi si guardarono interdetti e dopo aver riflettuto profondamente sedettero ancora sotto la palma per cercar nuove teorie.

Le signore sono pregate a
non spaventarsi.

Sofia aveva intrecciate le braccia (le più candide braccia del mondo uscenti nude da uno sbuffo di trine) dietro il capo, sull'appoggiatojo della poltrona e coi piedi allungati (due amori di piedi con calze di seta grigia e sandalini) su un cuscino di velluto, dondolava la faccia da destra a sinistra, ridendo.

— Eppure — continuai gravemente — questo signor Emanuele il quale tenta riannodare vecchie amicizie che la convenienza aveva interrotte non mi predice nulla di buono.

— Capisci — Sofia abbassò le braccia e me le stese davanti nell'atto di un maestro elementare quando spiega una regola difficile — non è stato lui a voler riannodare…

— Allora sei stata tu?

— Nemmeno. Ci siamo incontrati, figurati, al cimitero, dove io porto ancora tutt'i i mesi una corona sulla tomba di Beppino, quantunque l'anno di lutto sia già passato.

— E tu debba accingerti a nuove nozze col fratello di lui.

— Già

— È una promessa fatta al letto di un moribondo; non puoi infrangerla.

— E chi ci pensa, mia cara? io sono dispostissima a sposare mio cognato. Ragioni di famiglia e di interesse mi vi spingono; una promessa. come tu dici, mi lega — ebbene lo sposerò. Non è guercio, non è gobbo, non m'ispira nessuna ripugnanza; amore… ah! questa è un'altra faccenda. Sai bene che io non so amare, non voglio, non potrei neanche. Dopo le fanciullaggini fatte per Emanuele dieci anni addietro, vere fanciullaggini da educanda che oggi mi muovono al riso — io non ho mai provato nè un palpito nè un desiderio. A che prò? Poichè l'amore è una illusione, poichè è un miraggio lusinghiero e falso, che non mantiene nessuna delle gioie che promette, poichè muore prima di noi e non ci fa felici — queste sono cose che tutti sanno — a che prò amare? No, no, no — (aveva riposte le braccia sulla spalliera della poltrona e vi dondolava su la testa) — amore non mi piglia!

— Dicevi…

— Ah! sì, devo raccontarti l'incontro con Ema, nuele. Al cimitero dunque; tornavo dalla tomba di mio marito; lo riconobbi subito Mi salutò gravemente, nè no vidi alcun male a fermarlo per chiedergli notizie della sua salute. Mi rispose, tossendo un poco, che ora sta meglio ma che fu gravem nte ammalato. Intanto che egli parlava io pensavo che m'ero dimenticata di chiudere la gabbia del mio cardellino e che senza dubbio non ve lo avrei più trovato — vedi quanto Emanuele mi soggiogava!… Non capisco proprio come feci a innamorarmene, ma ero tanto giovane allora che forse scambiai per amore un leggerissimo capriccio; il fatto è che mi parve punto bello; e, sai? non ha gli occhi neri — no; visti sotto il sole hanno un misto di castagno dorato e di grigio azzurrognolo. Egli disse: mi permettete di accompagnarvi fino alla carrozza?

Risposi: perchè no? Solo non vorrei togliervi dalla vostra strada. Egli replicò (sta attenta al complimento): In vostra compagnia non sono mai giù di strada. Ah! ah! se non fosse stata ia solennità del luogo, avrei riso proprio di cuore, ma mi accontentai di dirgli: non scherzate fra i morti.

Prese un'aria grave, abbassando la voce quasi avesse paura che lo udissero le lucertole o il mendicante sordo-muto accoccolato dietro il cancello:

— Non scherzo, Sofia. Abbiamo anche noi il nostro povero morto, quel morto cui non aspetta veruna resurrezione… il nostro amore.

Eh? Avevo ben ragione di dirti che non e' è nulla da temere per parte di Emanuele. Possiamo stare vicini come due cariatidi su una tomba — senza toccarci, senza guardarci neppure. Gli ho dato il permesso di venire a trovarmi quando non sa più come uccidere il tempo; ci annoieremo insieme — è un' opera di misericordia anche questa.

***

Gli amori di Emanuele e di Sofia erano appunto, com'ella aveva detto, vecchi di dieci anni, ed io ne ricordavo perfettamente le sentimentali e platoniche peripezie. Tutt'insieme, tra il primo sguardo e l'ultimo bacio (sulla mano) durarono il tempo che corre tra lo spuntare delle viole e la maturanza delle nespole; poi la fiamma si spense, non so bene perchè, per atonia, per malintesi, perchè la ragazza era troppo giovane o lui troppo timido o perchè doveva spegnersi.

Andarono, l'uno sulla via della medicina, l'altra su quella del matrimonio; il primo a immergere specilli, la seconda a gettar scandagli; studiando tutti e due la gran scienza della vita.

Ora, dopo dieci anni, il caso li riuniva in un cimitero.

Emanuele era diventato un po' più pallido; aveva una gran barba castagnina, due occhi serii e profondi. Era medico di prim'ordine.

Sofia, cui il matrimonio aveva giovato, sembrava trovarsi benissimo anche nella vedovanza e positivamente non si preoccupava delle seconde nozze; era sempre, con gran dispetto delle sue rivali, una donnina fresca, vivace, seducente, con una dozzina di pozzette sparse un po' dappertutto e un sorriso che valeva un Perù.

L'avevane soprannominata il polo nord per la resistenza veramente di ghiaccio contro la quale si spuntavaro le freccie de' suoi adoratori.

Ella diceva: l'amore è il wermouth che gli stomachi deloli prendono prima del pranzo; una volta seduti a tavola non si prende più wermouth.

Ma che cosa intendeva per tavola? E perchè voleva escluderne l'amore?

Basta, anche le persone d'ingegno hanno talvolta degli apprezzamenti sbagliati, e Sofia era veramente per meriti e per educazione una donna distinta.

È niente affatto improbabile che la parte larghissima ch'ella concedeva nelle sue occupazioni alle arti, alle lettere, ed a certi studi amabili e positivi, come la storia, la botanica, ecc., le togliessero un po' di quell'ozio della mente che è così fervido infiammatore di cuori.

Sofia nella sua corazza di raso (perchè era molto elegante e vestiva all'ultima moda). si trovava così sicura e intangibile come il Duilio nella sua corazza di ferro.

Ella me lo ripetè ancora, fermamente, accompagnandomi fuori del salotto e mentre io la baciavo in fronte promettendole di tornare presto.

Viene poi a trovarti il signor Enanuele? le domandai una sera mentre sedute tutte e due accanto al primo fuoco d'autunno facevamo delle calze americane per i bimbi.

— Sì, viene.

Lì per li non trovai altro da soggungere, ma un po' dopo le chiesi:

— Quanti punti hai messi tu?

— Trenta.

— Ma il tuo cotone è più grosso del mio.

— Mettine trentacinque allora; sono più che sufficienti. Maria non ha le gambe molte robuste.

Ruppe il filo perchè c'era un nodo e le cadde per terra il gomitolo; glielo raccolsi ed ella mi disse grazie, poi:

— È strano, quegli occhi! Sono azzurri affatto affatto.

— Gli occhi di Maria?

— No, gli occhi di Emanuele.

— Ah!

— Di un azzurro scuro, profondo…

Bleu marin insomma.

Sofia diede fuori in una gran risata. Quel colore di moda, quel colore della sua sottana applicato agli occhi di un dottore le parve buffo.

Rideva ancora quando Emanuele comparve sull'uscio.

Aveva un'aria composta e grave; davvero, se avessi avuto una figlia di vent'anni glie l'avrei confidata senza scrupoli.

Una mestizia tranquilla impallidiva il suo volto senza alterarne le linee; c'era in lui del quaquero e del puritano — e pensare che io… vergogna! sì, per un momento mi erano pullulati nel cervello certi sospetti… Come si è maligni! Dio de' dèi quanto fango ci deve essere in questo nostro io pensante per vedere sempre del male!

— L'avete? esclamò Sofia con quella sua foga impaziente che la fa somigliare a un piccolo razzo quando prende fuoco.

Sì, lo aveva.

Era un libricino giallo, fresco, nuovo, col frontispizio rosso e in caratteri elzeviriani, ma non osava deporlo sul tavolino di Sofia.

— Datemelo dunque!

— Non so se devo — disse Emanuele colla sua bella voce larga e sonora — la critica ha trovato molti peli in quest'ovo…

— Ragione di più. Le ova senza pelo sono una cosa tanto comune!

— Ma si vuole che questi sien peli da satiro…

— Via, anche i satiri non saranno poi così brutti come li dipingono.

— Decisamente non avete paura? — disse Emanuele con un sorriso singolare.

— Io no; perchè dovrei avere paura?

Il dottorino si morse le labbra.

— E la signora che dice? — esclamò volgendosi dalla mia parte.

Sofia interruppe:

— Aprite il libro a caso e leggete qualche strofa. Noi abbiamo a buon conto dei parafuochi che potranno servire da parapudore — è ancor meglio che fare da paramarito come li destinava la buon'anima di Parini.

Emanuele aperse il libro e lesse (credo con intenzione):

….. Non ti ricordi Che bei capelli avevi? Non ti ricordi dei capelli biondi Che ti coprian le spalle, E degli occhi nerissimi, profondi,

Sofia ascoltava avidamente passando una mano (con troppa civetteria per verità) in mezzo ai suoì capelli biondi e spalancando gli occhioni

Pieni di fiamme gialle?

Sofia che un momento prima aveva riso per il bleu marin, a quella improvvisa fiamma gialla tornò da capo, sconcertando un poco la gravità di Emanuele. Egli lasciò passare lo sfogo poi tornò a leggere:

Dove sei, dove sei tu che m'hai detto Che ne' tuoi baci l'anima mi davi E mi stringevi all'anelante petto Con parole d'amor così soavi?

Io non credo, no, è impossibile, ch'egli volesse alludere al passato — un uomo così serio! — nondimeno Sofia parve leggermente commossa e lo pregò a desistere perchè in quelle poesie non trovava nessun concetto nuovo, nulla veramente che valesse la pena di occuparsene.

Emanuele rintascò il libricino giallo. Parlammo di teatri, di russi, di turchi e d'altre cose.

Quando Emanuele si alzò per prendere commiato, Sofia gli chiese sbadatamente:

— Come sono que' versi: i canli che pensai ma che non scrissi…

Le parole d'amor che non ti dissi —soggiunse Emanuele.

E mi parve che una corrente elettrica mi fosse passata accanto e vidi che gli occhi di Emanuele erano propriamente azzurri, d'un azzurro cupo, profondo.

Verso quel tempo, poichè avevo molta cura di star lontana dalle correnti d'aria ed evitavo di bagnarmi i piedi — aggiungi che portavo sempre meco uno scialletto per gli improvvisi abbassamenti di temperatura — mi buscai un solenne raffreddore. Ne ebbi per ben quindici giorni, durante i quali Emanuele veniva a ordinarmi dei pecotti e Sofia a farmeli ingoiare.

Sofia ed io ridevamo spesso; Emanuele no.

— Sapete che abbiamo avuto un gran giudizio noi due quando abbiamo seppellito il nostro morto?

Così dicendo ella lo guardava fisso e lui rispondeva con calma.

— È vero. Non eravamo destinati.

— No certo, voi siete tutto ghiaccio ed io sono tutta scintille.

Pareva anche a me che Sofia avesse ragione.

Vi ripensai sul tardi quando li vidi partire insieme e conclusi che la felicità di Sofia stava nelle mani di suo cognato e viceversa.

Siccome stetti due giorni senza vederla, al terzo trovandomi abbastanza ristabilita volli andare a sorprenderla nel suo salotto.

Era sola e piangeva.

Non di quel pianto dirotto che accenna a un vivo dolore, ma silenziosamente accorata, come immersa nella malinconia dei ricordi.

Nascose al mio giungere un pacco di lettere, ed io, persuadendomi di leggieri ch'ella ripensava al suo defunto marito, mostrai di non accorgermene. Prima di partire però le chiesi se aveva notizie del cognato ed ella parve — come appunto mi aspettavo — impazientita di questo richiamo alle sue seconde nozze.

Mi rispose che era lontano ancora, forse a Teheran, che gli affari della seta si presentavano male e che ad ogni modo ella non voleva parlarne perchè non si sa mai quello che può accadere.

Aveva i nervi eccitati; sbadigliò, bevette due gocce d'acqua antisterica e mi ripetè quattro o cinque volte che era stanca della vita.

Che la donna sia mobile è una verità che tutti quelli che hanno udito Rigoletto non mettono più in dubbio — specialmente se il tenore ha bella voce — ma l'improvviso cambiamento di Sofia era troppo in dissonanza col suo carattere per lasciarmi tranquilla.

Ebbi la debolezza di credere che la mia compagnia le fosse utile e ritornai alla sera.

Questa volta non era sola. La voce di Emanuele, bassa e concitata, diceva:

— Che male c'è? I rancori cedono davanti a una tomba…

Ho capito — pensai — parlano del morto. — Entrai — e Sofia rimosse così vivamente la sedia per venirmi incontro che io mi posai il dilemma: O le faccio un gran piacere… o era troppo vicina al suo buon amico…

Tuttavia vidi Emanuele così grave, così serio; pareva tanto al di sopra delle debolezze umane!…

***

Sofia cambiava, oh! come cambiava — non era più lei, ecco.

Tra il sì e il no, tentennando, ora accogliendo il dubbio, ora scacciandolo; un po' dicendomi che Emanuele era un uomo d'onore, un po' invece ricordandomi che era semplicemente un uomo, e pescando nei vecchi proverbi: La paglia vicino al fuoco — Antico amore dà sempre bruciore — Tira più forte il fil d'una gonnella che la gomena d'una nave — ragionando, sragionando, ma pieno ad ogni modo il cuore dell'avvenire di Sofia, riuscii a formulare un'idea press'a poco così:

Siavi o non siavi simpatia non è conveniente che una fidanzata passi le sere e qualche volta anche le mattine con un terzo.

Io sono persuasissima per mio conto che non c'è ombra di male e che l'evocazione del loro morto è tutto quanto v'ha di più peccaminoso in quei colloquii. Sofia è tanto positiva, Emanuele tanto calmo! — Sì, sì, ma le apparenze vogliono essere rispettate e se qualcuno, per esempio, si togliesse la briga di scrivere al cognato a Teheran che la futura sposina si fa dipanare le matasse dal dottore e che strimpellano insieme sul pianoforte il vecchio walzer di Arditi, walzer che ballavano insieme dieci anni fa, durante la luna piena dei loro amori:

Sulle labbra se potessi…

Eh! cospetto, li avevo proprio visti io chini sul pianoforte e lui con che passione diceva se poleeessi…

Capisco che la passione è nella musica, ma tant'è, non mi sentivo tranquilla.

Il mio dovere d'amica voleva che io avvertissi Sofia della china pericolosa su cui scivolava e che lasciasse dormire i morti in pace per non disturbare i vivi.

È evidente che Emanuele non pensava più a lei ed anche nella lontana ipotesi che gli fosse rimasto qualche focherello nei lombi non era uomo da avventurarsi a una dichiarazione così fuori di tempo e di luogo; ma il mondo, quel benedetto mondo che vuol sempre aggiungere il pepe al sale e la senape al pepe!

Orsù, il piano mi si spiegava davanti molto chiaro, avevo una missione da compiere.

Restava da scegliersi il momento, l'opportunità, la prima parola.

***

Avrei fatto così: invece di lavorare assiduamente com'è mio costume trascinerei intorno il gomitolo e lascerei cadere le mani in grembo. Sofia non mancherebbe di chiedermi: Che hai questa sera? — ed io allora: Ah! Sofia, tu mi domandi che ho? ecc.

Oppure — bisogna prevedere tutto — dato il caso che Sofia non volesse accorgersi delle mie distrazioni, dovevo prendere il toro per le corna e incominciare: Sofia, la lunga amicizia che ci lega, la mia esperienza, la tua giovinezza, il nostro afletto, la sua maldicenza… parto del mondo.

O non era meglio scrivere?

Sì, no, scriverò, parlerò. Scoccarono intanto le otto ed io, rimandando al domani la decisione, cacciai la calza nel panierino e mossi dalla mia alla villa di Sofia.

La campagna era deserta, ravvolta in una leggiera nebbiolina. Attraversati i pochi sentieri che ci dividevano, entrai da Sofia, ma la cameriera mi avvertì che la signora non si trovava in salotto.

E dov'era dunque?

In giardino — proprio con quel fresco e quella nebbia — che calori!

Sorrisi e dissi alla cameriera che andavo a raggiungerla.

Eterni dei!

Li trovai tutti e due seduti sotto un'acacia caven e quel ch'è peggio, abbracciati… modestamente, si intende, e inondati di lagrime.

— Che cosa fate qui?

Davvero, io dissi queste precise parole piantandomi davanti a loro coll'intenzione di sbigottirli; ma non ne feci nulla.

Sofia fu la prima a rispondere, e mi dichiarò in mezzo alle lagrime che adorava Emanuele, il suo primo, il suo unico amore.

Fortuna che si trattava di un morto, se poi fosse stato vivo!

La mia curiosità era di sapere come mai dalla freddezza dei giorni prima erano giunti a trovarsi di notte, colla nebbia, in fondo al giardino.

Non c'è che amore capace di simili farse.

Si erano incontrati al cader del sole, in quell'ora « che volge il desio. » Emanuele aveva fatto osservare che dieci anni prima, in quel giorno, in quell'ora essi giuravano di amarsi eternamente.

Vollero rivedere i sentieri, vollero toccare gli alberi, vollero salutare i fiori. Le memorie del passato si affollavano sotto i loro passi; in ogni boschetto trovarono l'eco di un sospiro o di un bacio.

Se ci fosse stata la luna oh! come l'avrebbero interrogata sospirando, ma siccome non c'era sospirarono egualmente e per compenso si stringevano il braccio.

Che so io! La morale è che non vi sarebbe punto morale in questa avventura; anzi sospetto che doveva riuscire immoralissima se due giorni dopo una lettera da Teheran non avesse annunciata la morte del cognato vittima del suo interesse per i bachi.

Questo morto, diciamolo, veniva a proposito per surrogare quell'altro morto che non lo era più — e intanto che scrivo l'occupazione di Emanuele è di provare a Sofia ch'egli è ben vivo.

Si sono sposati jeri.

FINE.

Nora 1

Paolina 57

Una lezione di lingua tedesca 91

La pipa dello zio Bernhard 105

Un ideale 131

Il Disertore 153

Sopra un tetto 191

Patrizio 213

Il sabato di carolina 219

Scipione Africano 263

Avventure di due filosofi 285

Un morto 307