La freccia
del parto
ed altre novelle

MILANO
Lib. edit. Calli di C˙ CHIESA e F˙ GUINDANI
Galleria Vitt. Em. 17 e 80

1895.

Diritti di traduzione e riproduzione riservati.

La Freccia del Parto.



LA
FRECCIA DEL PARTO
ed altre novelle.

MILANO
Lib. edit. Calli di C˙ CHIESA e F˙ GUINDANI
Galleria Vitt. Em. 17 e 80

1894.

PROPRIETÀ LETTERARIA

7 e 45.

Costanza rileggeva per la cinquantesima volta l'ora della corsa. Ella era sempre un po' distratta; ma fatta finalmente persuasa che il diretto per Calolzio non partiva che alle 7 e 45, e consultato il suo cronometro che segnava le 6, capì che aveva un'oretta abbondante di aspettativa.

Si sdrajò nella sua poltroncina americana e fece coll'occhio l'inventario del bagaglio: un grosso baule, una cassa, una borsa, una scatola di cartone, lo scialle e il parasole, — c'era tutto. Incrociò allora le mani sul grembo e si pose a guardar fuori dalla finestra.

Era una bella mattina di giugno, fresca, con un cielo spazzato, limpidissimo. Era piovuto durante la notte, e si sentiva nell'aria l'odore della terra bagnata; Costanza l'aspirò deliziosamente, dilatando le narici, socchiudendo gli occhi.

— Oh il bel tempo per andare in campagna!

Stette ferma un istante su questa esclamazione, vedendosi passare nel cervello un panorama di prati verdi, di cespugli fioriti, di colline, di ruscelli, d'alberi ombrosi; di brevi soste sotto la tenda della veranda con un ricamo in mano; di lunghe passeggiate sulla strada maestra al lume della luna.

A poco a poco i suoi pensieri cambiarono; si confusero con mille reminiscenze del passato, vagarono incerti da ondate improvvise di luce a tenebre profonde; fermandosi su certe cadenze di musiche lontane, su fruscii indistinti, su una frase interrotta, su una parola senza senso. Profili diversi le si aggrupparono intorno, faccie bieche, occhi ridenti, sorrisi maliziosi, fronti nobili e pure, — e poi scene intere che le passavano davanti come un baleno nei loro più minuti particolari; il tal giorno, la tal ora, con quella luce, quella camera, quel profumo, quel colore, — e subito sparivano per dar luogo ad altre visioni tristi o serene, maledette o care, tutte perdute nel gran mistero del tempo. — Si alzò con un movimento vivace e appoggiò i gomiti alla finestra. Presso a lei, sul davanzale, c'era un vaso di gerani bianchi; ne strappò una foglia e si pose a morsicarla, cantarellando a mezza voce la romanza prediletta delle donne che hanno amato: Quando il tuo labbro sul labbro mio….

Nella voce di Costanza non c'era ombra di rammarico. Ella aveva amato ed era stata amata molto, — ciò le bastava. — Quando giunse al verso Io rispondeva che non credeva, vi mise bensì una leggiera tinta malinconica, ma di quella malinconia dolce che ha perdonato. Sapeva che in amore ci inganniamo tutti reciprocamente e che le lagrime che noi versiamo non sono che il giusto compenso di quelle che facciamo spargere.

L'amore è come un balzello che si paga nelle mani dell'esattore, ma che va allo stato; l'amante è la forma esterna, momentanea e mortale di quel grande Iddio che vive da secoli e che non morrà mai. Che importa che si chiami Romeo, Paolo o Torquato? Che importa la veste? L'anima è una sola. Giulietta, Francesca ed Eleonora hanno amato tutte ad un modo, hanno amato sotto diverse forme il medesimo uomo.

E perchè dovrà lagnarsi il pellegrino che è giunto in fine della sua strada? Non è quello il momento più dolce, il momento di riposare guardando il cammino percorso? Dopo l'ebbrezza dell'amare c'è la soavità del non amar più.

Costanza si era fabbricata una felicità colle sue memorie; aveva il vantaggio del calore senza il fuoco. I pericoli, gli affanni, le lotte, i sacrifici erano tutti passati; le restava ora la dolcezza dei ricordi, idealizzata, come quelle immagini di santi che alcuni pittori dipingevano, su fondo d'oro o su fondo azzurro, nei messali antichi.

Ella si sentiva calma e forte; nè avrebbe voluto tornare indietro, nè l'avvenire la spaventava. Il mondo allettava la sua anima intelligente, e il suo cuore amoroso ne comprendeva i dolori. Dove c'era da entusiasmarsi, dove c'era da commuoversi, Costanza era sempre là. Aveva tanta vita in sè stessa che non ne chiedeva ad alcuno; dava la sua agli altri. E poichè l'era toccata la somma ventura di conservare intatte le sue forze anche dopo le battaglie; poichè cadute le illusioni le restava ancora la fede, ella percorreva serena il resto del cammino, guardando in alto!

In questo momento, mentre stava masticando la foglia di geranio, Costanza pensava al suo ultimo amore; se ci fosse stato il bisogno ella si sarebbe felicitata con sè stessa della quiete che era subentrata a quella tempesta. Non doveva essere un gusto a trovarsi innamorata nel tempo ch'ella doveva partire per una lunga campagna, in casa di parenti maliziosi, fra una piccola società pettegola e maldicente. Costanza era felice di potersi presentare armata fino ai denti, inaccessibile a qualunque attacco.

Tale riflessione la pose di buon umore. Guardò un'altra volta il suo bagaglio se era legato bene e tutto chiuso perfettamente; levò il guanto della mano destra per girare le chiavi, poi tornò alla finestra.

L'aria del mattino s'intiepidiva sotto i raggi del sole; dalle case, dalle strade vicine salivano i rumori confusi di una città che si sveglia: sui tetti svolazzavano le rondinelle, e dalle vicine e dalle lontane chiese l'onda sonora delle campane si fondeva in un concerto solo per salutare il giorno.

— Addio, Milano, addio! La più libera e la più lieta delle tue cittadine se ne va.

Sette ore: lesse Costanza sul piccolo quadrante del suo orologio.

Era finalmente tempo di muoversi.

***

« Al gentilissimo signor Rizzio
(Villa Paolina)

« Gentilissimo amico. Se ieri sera non m'aveste tanto perseguitata colle vostre opposizioni, mi sarei ricordata d'invitarvi a pranzo per tenere un po' di compagnia a mia cugina arrivata stamane: ma sono abbastanza buona da rimediare alla dimenticanza. Vi aspetto senza fallo. Sapete che ci mettiamo a tavola alle cinque.

« Godo annunciarvi che i turaccioli preparati col cerchio e colla catenella, costano una lira e cinquanta centesimi cadauno; avete perduto la vostra scommessa e siete in mio potere. Non ho ancora pensato il genere di discrezione che devo infliggervi. Ma sarà certamente molto indiscreta.

« Vi stringo la mano,

Vostra affezionata
« Olimpia Matazzi. »

« Alla gentilissima signora Matazzi »
(Villa Olimpi)

« Gentilissima signora. Accetto l' invito e la ringrazio anticipatamente. Mi dispiace che i turaccioli costino tanto; avrei giurato di poterli pagare settantacinque centesimi. Eccomi invece obbligato a giurare che pagherò la qualsiasi indiscrezione che a lei piacerà d'infliggermi.

« Sono con tutto il rispetto, di lei gentilissima signora,

« Devotissimo
« A˙ Rizzio. »

« P S˙ Il latore della presente le re cherà un saggio del mio giardino. Metto Flora e Pomona a' suoi piedi, in aspettativa di mettermici io stesso.

— Oh! è un matto! — disse Olimpia leggendo forte il poscritto, e dissimulando così poco la sua gioia che Costanza domandò ridendo:

— È forse un tuo adoratore?

— Quasi. Figurati, è il solo uomo interessante in dieci chilometri di circuito, ed io non per vantarmi, sono l'unica donna possibile della nostra società. Vedrai che bell'assortimento di tipi esotici! Povero Rizzio, se non avesse la risorsa di farmi un po' la corte…. È parente di mio marito. Oh siamo intimi. La sua casa è a quattro passi di quì.

— Hai sempre una conversazione numerosa?

— Non troppo. C'è la moglie del dottore, una meggiona dal placido viso, che non fa altro che calze e figliuoli tutto l'anno, che non porta mai il busto; e ad onta di questo s'impanca a discorrere qualche volta di eleganza; segno particolare: è grassa e fa una guerra atroce alle donne magre. Per gli uomini è più corriva…. gli accetta anche magri.

— Il tuo spirito è sempre quello d'una volta, Olimpia, e la tua lingua, anche.

— Che vuoi? — (Olimpia si strinse nelle spalle). — La mia non è maldicenza, è pura verità. Capita qualche volta, di rado per fortuna, madama la sindachessa colle sue due figlie; tre tegoli! In fatto di uomini, ho il dottore, Salviati, Puccini…. li conosci tutti mi pare.

— Salviati non era una tua vittima?

— Siii, lo è sempre un poco.

— E tuo marito?

— Va a caccia tutto il giorno. La casa è piena de' suoi fucili e de' suoi stivali; ti assicuro che ci vuole tutta la mia pazienza. Si portano a Milano i vestiti a pieghe nel dorso? Vorrei farmene uno.

— A Milano poco. Sono abiti da viaggio e da campagna, per te forse andrebbe bene….

— Ne parleremo poi. E, dimmi, gli affari di cuore come vanno?

— Sai bene che ci ho messo sopra un sasso coll'iscrizione. qui giace.

— Come lo dici seriamente! Si direbbe che vuoi farmelo credere.

— Io lo credo di sicuro.

— Baje, alla tua età!

— Non ho mica detto di voler farmi monaca. Solamente mi piace la mia indipendenza e la difendo per terra e per mare.

— Fino al giorno che si scoprirà la navigazione aerea.

Le due cugine risero insieme di gran cuore, e prendendosi sotto braccio s'avviarono in giardino: Olimpia ciarlando sempre: Costanza ascoltandola un po' distratta, com'era suo costume.

Non si somigliavano in nulla, quantunque fossero della medesima età, alte e snelle entrambe, e tutte e due coi capelli neri.

Un osservatore superficiale avrebbe esitato nella scelta: un osservatore fino no, chè la bellezza di Costanza era di quelle dove l'anima ha la maggior parte. Gli occhi splendenti d'intelligenza, larghi, sereni riflettevano come in uno specchio i nobili sentimenti di lei, che un dolce e buon sorriso confermava; mentre lo sguardo obliquo e sospettoso d'Olimpia tradiva il suo freddo cuore incapace d'amore. Costanza inoltre aveva quel non so che di distinto che è come il profumo del pensiero, la forma visibile di una bellezza ideale; quel non so che che fa riconoscere in mezzo a mille la donna superiore e che nessun'arte insegna perchè è una squisita educazione del sentimento.

Si amavano per abitudine, per convenienza, perchè erano cresciute insieme, e perchè le loro menti egualmente coltivate potevano incontrarsi nei soggetti di conversazione; simpatia sincera non poteva esistere fra loro ma si scambiavano quell'affetto convenzionale che basta nei rapporti semplici della vita. Ora poi l'interesse le riuniva. Olimpia aveva pensato che potevano ben vivere insieme, e Costanza tentava la prova.

***

— Vedrai come si fa aspettare, — disse Olimpia entrando nel tinello e levando il coperchio alla zuppiera.

— Chi? domandò il marito affacendato in un angolo della tavola a preparare la zuppa al suo cane.

— Rizzio.

— Può darsi; non è l'uomo della fretta.

— Dovrebbe però essere quello della galanteria, e quando due signore….

Un'ombra passò dietro la tenda della finestra bassa che dava sul giardino.

— Eccolo!

— Buon giorno; ho io tardato troppo? Ne domando mille perdoni.

— Benignamente concessi. Vi presento a mia cugina.

Rizzio s'inchinò. Era un uomo di poca apparenza, giovane ancora e un po' sofferente all'aspetto; aveva una voce simpaticissima, dalle cadenze smorzate, qualche volta ironiche.

— E da mia cugina che ho saputo il prezzo dei turaccioli. Eh, signor ostinato, è una bella sconfitta la vostra.

— Finchè sono sconfitto nei turaccioli….

— Non dubitate, vi batteremo su tutta la linea.

— Pazienza. Dirò allora, parodiando il saggio antico: Batti, ma….

— Ma che cosa?

— Ve lo dirò al momento che mi batterete.

— Sempre prudente. Ma voglio essere prudenteanch'io, e per questo tengo in serbo la discrezione. Quando il corno suonerà…. Tosto Rizzio accorrerà!

— Ah! badate, le discrezioni si pagano subito.

— E se subito non mi occorre?

— Peggio per voi; ve ne dimenticherete.

Questo dialogo seguì rapidamente, accompagnato da gesti vivaci, nel vano della finestra; finchè Olimpia, sospendendosi al braccio del suo cavaliere, indicò i posti a mensa e sedette anche lei.

— Giù, giù; là la zuppa, là, da bravo. Olà!

Era il marito di Olimpia che parlava al suo cane.

— Bella giornata oggi! — disse Rizzio stirandosi i polsini.

Costanza osservava e taceva. Due o trè volte i suoi occhi s'incontrarono con quelli di Rizzio. Singolare! Gli occhi di questo personaggio non andavano d'accordo col sorriso, e il sorriso smentiva le parole; c'era in lui un partito preso di mascherare i propri pensieri e mentre il labbro pronunciava motti leggeri, scherzosi, in fondo alla pupilla aveva un'ombra grave. Quando le volgeva questo sguardo pieno di serietà, Costanza provava un senso di malessere, un'impressione penosa e opprimente.

Andarono a prendere il caffè in giardino, dove capitò quasi subito la compagnia solita; il dottore colla moglie, Salviati, — uno sguaiato, — Puccini, un imbecille. Tutto ciò a detta di Olimpia, che sorrise gentilmente a ciascuno e non mancò di stringere con forza la mano a tutti gli uomini.

Più tardi venne anche la sindachessa colle due figlie, — i tre tegoli! — vestite color spigo ed ornate di spilloni rossi.

Salviati si sbracciava a fare il galante, Puccini raccoglieva le briciole, il dottore chiudeva la marcia.

— Se aveste fatto quindici chilometri come me…. — incominciò il padrone di casa.

Ma non lo lasciarono finire; nessuno volle udire le sue avventure di caccia; avevano voglia di ridere e di ciarlare colle signore.

Salviati andò a mettersi in ginocchio davanti a Olimpia.

— Qui, — disse piano Rizzio a Costanza — si dà sempre un po' di ragione al celebre verso: Rien n'est beau que le vrai.

— E di qual vero intendono? rispose Costanza, sorridendo e appoggiandosi alla spalliera della sedia per udire meglio quello che diceva Rizzio, seduto dietro a lei. — Il bello è uno solo, ma i veri, pare, sono molti.

Egli non rispose direttamente; la domanda era stata un po' troppo precisa, disse:

— La signora è nemica della scuola moderna?

— Chiederò ancora quale delle scuole moderne?

— Oh! oh! vedo che non si può discorrere a caso. Zola ci ha creati molti nemici.

— No. Io non sono eccessivamente puritana, forse non lo sono affatto; non ho che la pretesa di essere educata, e, mi dirà, si leggono di quelle cose che fanno pensare con terrore al dove si andrà a finire. Poche sono le voci che si alzano contro questa lebbra invadente….

— Pochi e inutili, — interruppe Rizzio, fissando negli occhi di Costanza il suo sguardo severo.

— Perchè inutili?

— Perchè nessuna voce, nessun scritto, nessuna legge, nessuna forza, nulla al mondo può trattenere una società sul pendio dove si è posta. In letteratura come in politica i popoli seguono una specie di parabola e devono compierla a qualunque costo. Dunque andremo fino in fine. Ma consoliamoci, bisognerà poi tornare al principio. Non abbiamo avuto l'Aretino prima di Manzoni? Eccoci di nuovo all'Aretino e poi avremo Manzoni ancora. Tutte queste guerricciole ci sono sempre state e ci saranno sempre; ma che valore hanno per il pensatore che guarda il mondo dall'alto? Che valore hanno per il mondo medesimo, immane colosso, che vede morire tutti i giorni a centinaja, a migliaja, a milioni i rappresentanti di quella razza presuntuosa che si chiama uomo? Noi siamo tutti egoisti e vani. Vorremmo che la società si occupasse delle nostre piccole idee, ascoltasse i nostri piccoli consigli e si commovesse alle nostre piccole indegnazioni; siamo la mosca che pretende di condurre il carro, e il carro ci passa sopra e ci schiaccia; e nessuno si accorge che quella macchietta nera sulla superfice del globo è il cadavere di una mosca.

— Ma pure….

Si erano riscaldati. Rizzio aveva tirato avanti la sua sedia; intanto la compagnia si era dispersa un po' qui, un po' là, e loro due che non si conoscevano nemmeno stavano a discorrere con tanto interesse come se fossero soli al mondo.

— Ma pure….

La replica di Costanza fu interrotta da sua cugina. Olimpia arrivava a tutta corsa dal fondo del viale gridando:

— Che fate qui? siamo tutti in salotto. Il tegolo numero due sta per suonare la Mandolinata o la Stella confidente o qualche altra novità del genere. Andiamo a battere le mani. Ma che diamine ti diceva Rizzio?

Queste ultime parole furono pronunciate a bassa voce, e con un leggero accento dispettoso.

— Non so, — rispose Costanza, meravigliata anch'essa dell'accaduto, — ci siamo ingolfati sensa accorgercene in una discussione.

— Oh! sono il suo forte. Ti avrà contraddetta, m'immagino?

— Non troppo. Anzi, a pensarci, credo che fossimo della stessa opinione.

***

A Costanza piaceva moltissimo il soggiorno di villa Olimpia, non per Olimpia sicuramente, perchè le carrezze di costei, come quelle del gatto, mostravano sempre l'unghia; neppure per Matazzi, un buon pastricciano di quelli che lasciano il tempo che trovano, ma infine la vita vi era aggradevole e variata.

Costanza che non è un'eroina da romanzo apprezzava anche il lato materiale delle cose; quando si trovava comodamente seduta nel vano della finestra, col giardino davanti agli occhi, circondata da quei tanti oggetti che l'abitudine del lusso rende indispensabili, ella si abbandonava volontieri a' suoi pensieri e non desiderava gran fatto di più. Un fatto però che le faceva molto piacere era l'uscio che si apriva per lasciar passare Rizzio.

Dopo quel primo colloquio improvvisato, ella discorreva spesso con lui e sempre con un vivo interesse. Sembrava che avessero tutti e due delle grandi cose da dirsi, perchè si cercavano reciprocamente, e a poco a poco presero l'abitudine di palesarsi ogni loro impressione. Facevacaldo, faceva freddo? Erano lieti, erano tristi? Quando se l'erano detto si sentivano sollevati. Il senso penoso che Costanza aveva provato una volta in presenza di questo uomo lo sentiva ancora, a intervalli, specialmente quando non poteva parlargli; ma svaniva subito e si mutava in una sensazione di pace e di benessere infinite se egli le si faceva accanto e le parlava con quella sua voce dolcissima, che pur sapeva all'occasione assumere note stridenti d'ironia.

Di sera, in mezzo al solito circolo, Costanza incontrava spesso lo sguardo di Rizzio fisso su di lei con una curiosità seria e benevola che non aveva nulla di importuno: la guardava in un modo speciale, come non guardava nessun'altra donna, e Costanza si persuadeva sempre più che egli non si mostrava tutto qual era.

Ma che cosa mentiva in Rizzio? Erano i suoi occhi, la sua voce o il suo sorriso? Costanza credette accorgersi qualche volta, quando si trovavano per caso soli, che quella specie di maschera affaticante cadeva dal volto di Rizzio: i suoi sguardi, la sua voce, il suo sorriso sembravano allora riposarsi e cedere a un desiderio intenso di quiete. Anche le parole non erano più quelle. Facile oratore in pubblico, egli teneva nella loro piccola società la supremazia della conversazione, ma vicino a lei taceva lungamente o parlava a monosillabi interrotti. Non si credeva obbligato, con lei, a recitare la solita parte galante: non le aveva mai fatto neppure un complimento. E quando la grazia e l'eleganza della giovane donna suscitavano nel crocchio degli amici una generale acclamazione, egli solo non univa la sua voce, prontissimo invece alle più esagerate esclamazioni se si trattava di un'altra.

— Insomma, dite qualche cosa.

Da mezz'ora Rizzio stava seduto presso a Costanza senza aprire bocca, giuocando col suo ventaglio.

— Par facile: dite qualche cosa; ma io non so che cosa dire.

— Ho io sola il triste privilegio di rendervi muto; per il solito non fate così.

— È vero, capisco anch'io che è una stranezza, perdo vicino a voi tutto il mio spirito, e sa il cielo se ne avrei bisogno

— Davvero?

— Sì. Mi apparite così diversa dalle altre donne che vado chiedendo a me stesso se per caso foste un fenomeno.

— Mi studiate dunque?

— Vi studio.

— Eppure credo di essere così schietta!

— Non mi fido io alla schiettezza.

— Ne avrete certamente dei buoni motivi.

L'accento di Costanza era leggiermente malizioso, ma egli non vi badò; stette zitto un momento e poi chiese:

— E voi che opinione avete di me?

— L' opinione che vi piacciono le donne.

— È vero. Questo però non è che un lato del carattere. Credete che non m'occupi d'altro?

— Non so.

In quel momento Costanza si sovvenne che la sera prima egli era stato molto assiduo con Olimpia, e soggiunse:

— Credo che le signore vi guastino.

Rizzio era fino come una volpe; comprese subito l'allusione, più che dalle parole, dallo sguardo di Costanza.

— Non c'è pericolo, — rispose, — io fo come il cacciatore: prendo tutto e poi scelgo.

— Cattivo sistema. La vostra caccia deve imbarazzarvi molte volte.

— Ma!! Non ho ancora trovato un mezzo migliore. Sapete quelle belle farfalle che si presentano con smaglianti colori all'occhio avido di novità?…

Costanza capì che egli intendeva parlare di Olimpia.

— Allettano, seducono, ma che senso di tristezza quando non si trova altro che un po' di polvere sulle loro ali dorate! Ignoro se tutti gli uomini sieno come me. Io mi sento trascinato potentemente verso un ideale sublime, e tutti i giorni calpesto un fantasma che mi era sembrato l'ideale: mi ubbriaco e ho sempre sete: afferro cento farfalle e non trovo mai Psiche!

— Mai?

— Una volta sola fui amato.

— Basta una volta nella vita.

— Avete ragione.

Egli le prese la mano, e cadde in uno de' suoi interminabili silenzi. Vedendolo così assorto, Costanza ritirò la sua mano.

Olimpia e gli altri stavano aggrupati intorno al pianoforte, su cui Salviati suonava delle variazioni del Ballo in Maschera. Costanza e Rizzio restavano quasi isolati, tutti e due sul divano e vicino tanto che l'abito di lei toccava i ginocchi di Rizzio; era un abito di seta nera tutto coperto sul davanti da piccole balze.

Cullati dolcemente dalla musica, ma più ancora dai loro pensieri, essi si staccavano a poco a poco dal mondo reale e sentivano confusamente il piacere di volar insieme nel mondo delle fantasie. Senza dirsi nulla si comprendevano in modo maraviglioso. Quel lembo di vestito che li riuniva portava dall'uno all'altro un fluido magnetico deliziosissimo.

Le variazioni accennarono brevemente il coro del primo atto, si fermarono prolungate sul duetto d'amore, gemettero piene di tristezza sull'aria del baritono e si fusero alla fine in un'armonia flebile, sentimentale che pareva il grido di un'anima appassionata.

A quel punto la mano di Rizzio cercò di nuovo la mano di Costanza, e trovatala fra le piccole balze del vestito, la tenne soavemente stretta nella sua. A intervalli ella tentava ancora di ritirarla, ma una tenera pressione ne la impediva sempre. La dolcezza di quegli istanti era infinita: l'abbandono era stato così spontaneo e completo che tutti e due si sentirono presi da un leggiero fumo d'ebbrezza. Costanza fu la prima a scuotersi; si alzò e si allontanò senza guardarlo in volto.

Rizzio rimase sul divano, immobile come una statua.

***

Nella sua lunga esperienza della vita, Costanza aveva trovato che il mezzo migliore per liberarsi da un pensiero fisso, è quello di soffocarlo sotto una valanga di altri pensieri. E per questo che, mentre dava un punto a una delle balze del suo vestito nero, ella pensava, primo: se per fare lo spezzatino di pollo alla genovese occorre la cipolla sì o no; s'era impegnata di dirlo a Matazzi; secondo: perchè Fantasio, il simpatico Fantasio di Fanfulla, non scriveva più nulla o quasi; terzo: quanti metri occorrono per fare una spolverina da viaggio, ammesso che la stoffa abbia l'altezza di novanta centimetri. E non sembrandole ancora che questi pensieri fossero sufficienti a scacciare il suo unico pensiero, si pose a cantarellare la Marcia del Re; ma per una inesplicabile analogia, si accorse di scivolare nei motivi del Ballo in Maschera.

Allora Costanza scosse delicatamente il suo vestito nero, ne accarezzò con amore le balze, e disse a sè stessa risolutamente:

— Sì, non vi è stato più bello della libertà; una donna di spirito non dovrebbe mai cercar altro, molto più quando si sono già conosciute le astuzie dell'amore e che si sa per prova essere tutto illusione.

Alzarsi alla mattina lieta e serena dopo avere dormito sonni tranquilli; far colazione con appetito; non avere nessun sospetto, nessun desiderio, nessuna puntura di gelosia, nessun' ansia di aspettativa, nessuna angoscia di distacco, nulla, nulla, il beato nulla!

E poter starsene serena, in veste da camera tutto il giorno, colle farfalle di carta ai capelli, senza la paura di essere sorpresa, senza il terribile peso di comparire sempre bella; starsene calma, a leggere versi d'amore e dire: Passò quel tempo, Enea! Così va fatto.

A buon conto Costanza, dopo aver recitato coscienziosamente a sè stessa questo fervorino, indossò il suo vestito nero e si pose al collo una collana turca che le stava a maraviglia.

Non udì certo uno scoppio di risa argentine e non vide nell'angolo più remoto della camera il tristarello Amore che ripiegava l'arco.

(Tali cose per solito non le vedono che i poeti, ed io fui lì lì per sopprimere tutto il periodo, ma poi ho pensato che hanno diritto a qualche licenza anche i romanzieri, e d'altronde me ne rimetto al titolo di questo racconto.)

Costanza era decisa a mostrarsi un po' fredda con Rizzio. Gli era immensamente simpatico, questo è vero, e sentiva di avere per lui una sincera amicizia; ma bisognava stare attenti a non trascendere per non far supporre quello che non doveva essere nemmeno supponibile. Alla loro età certe scappatelle ingenue non sono più permesse; grazie al cielo avevano abbastanza giudizio tutti e due.

Quando fu l'ora del circolo ella preparò dunque un sorriso disinvolto, e per esercitarsi incominciò a sorridere al dottore, a Salviati, a Puccini; se non che il sorriso le morì convulso sulle labbra, vedendo Rizzio che, in piedi dietro a Olimpia, le voltava le pagine della musica e le parlava piano nell' orecchio con aria di confidenza somma. A un tratto Olimpia smesse di suonare perchè era troppo eccitata e sbagliava i tasti. Aveva in seno una bellissima gardenia: Rizzio si chinò a fiutarla, e le disse ancora qualche cosa che la fece ridere ed arrossire insieme. Costanza si sentiva uno spillo in mezzo al cuore.

— Vede, — le disse Puccini, al quale ella aveva sorriso per ultimo e che si credette in obbligo di cortesia, — io la guardo tanto volontieri perchè assomiglia a una mia sorella.

— Sì?

— Morta però. E morta di tifo a ventidue anni: era più alta di me, ed io sono discretamente alto, nevvero?

— Altissimo.

— Ebbene; mi oltrepassava di due dita; forse due dita no… mettiamo uno e mezzo; oh! ma erano due. Vedere che bella giovane! Dal naso in su era precisamente come lei; gli occhi un po' più chiari…. non molto; e aveva le sopracciglia così ben disegnate, fine, distanti l'una dall'altra; identiche, identiche.

— Che combinazione!

(Olimpia e Rizzio si erano seduti sul divano, — su quel divano: — e ciarlavano sempre.)

— Ho poi una cugina, meno bella, ma che ha il medesimo tipo. Nella mia famiglia vi sono due tipi ben distinti. I Puccini grassi, rossi, biondi come me, e i Puccini pallidi, magri, bruni. Pare incredibile, ma questi due tipi si alternano senza fondersi mai; non c' è un solo Puccini castagno. Eh! che caso singolare!

— Singolarissimo.

Rizzio aveva allungato un braccio, sul divano, intorno alle spalle di Olimpia.

— Il più bello è che tutti i maschi Puccini hanno un segno particolare…

— Scusi; vuol farmi il favore di andarmi a prendere un bicchier d'acqua?

Rizzio si era alzato; Costanza gli mosse incontro.

Egli le volse uno sguardo rapidissimo, profondo, e passò oltre.

— Che demonio! — (Era Olimpia che si gettava sul braccio di sua cugina tutta commossa, fremente, coll'occhio animato di gioja e di malignità). — Bisogna sentirlo. Io non gli credo veh?… è tale un furbacchione che gonza chi ci casca, ma parla che è un incanto. Ti immagini che egli si dice innamorato morto di me?

— È una confidenza che dovresti fare a tuo marito. — rispose Costanza con un filo di voce.

— Oh come tu pigli le cose sul serio. Forse che Rizzio….

Stava per continuare, ma un lampo le attraversò il cervello; guardò sua cugina fissamente in fondo alle pupille e sorrise del suo brutto sorriso di donna senza cuore.

Puccini intanto arrivava col bicchiere di acqua.

— Mia cugina, quella che assomiglia a lei più in brutto, ha avuto un bambino…

Olimpia lo interruppe attaccandosi a lui per dirgli che all' indomani c' era baldoria in casa del dottore. Tutti gli anni ai tre di luglio, — San Foca, — il dottore festeggiava con una cena l'anniversario della sua cara metà. Erano tutti eccitati pensando alla gazzarra che li aspettava; Costanza sola se ne stava muta e malinconica assai, sfrondando un ramo di cedrina che pendeva fuori da un vaso.

— Volete un consiglio da amico?

Ella si voltò vivamente e incontrò gli occhi di Rizzio.

— Non andate domani dal dottore. Non è posto per voi; finiscono sempre coll'ubbriacarsi.

— Voi però ci andate?

— Oh! dove non vanno gli nomini?

— E Olimpia anche?

Appena pronunciato questo nome, Costanza avrebbe voluto sprofondarsi sotterra, ma: « voce dal sen fuggita…»

— Vi prego, — disse Rizzio, — non fate dei confronti assurdi; io vi ho messa su un piedestallo troppo elevato per abbassarvi alla misura degli altri.

La sua voce era grave e affettuosa. Tolse dalle mani di Costanza una foglia di cedrina e se la pose tra le labbra. Egli era perfettamente padrone di sè, calmo, disinvolto come sempre; soltanto Costanza poteva accorgersi del leggiero movimento delle sue labbra e soltanto lei poteva comprenderne la eloquenza.

***

Coi guanti in una mano, allungando coll'altra lo scollo del vestito, Olimpia si fermò davanti a sua cugina che, in bianco accappatojo, annaffiava le ajuole del giardino.

— Sei proprio decisa a rimanere?.

— Sì. Non ho voglia di muovermi.

— Ti duole ancora la testa?

— Un poco.

— Dovresti applicare sui polsi delle fettoline di limone, oppure del prezzemolo tagliuzzato nelle orecchie, se però non hai la polvere Magnus da fiutare. Questa è veramente efficace per i mali di testa nervosi. Suppongo che il tuo è un mal di testa nervoso.

— Tutto me lo fa credere.

— Peccato! Perdi una bella festicciuola. Rideremo come matti. Per la circostanza la moglie del dottore mette il busto e vale la pena di vederla. Oggi è la sua kermesse; scommetterei un occhio se fra nove mesi non regala a suo marito il settimo figlio, e ce li regala, pover' uomo, ce li regala senza interesse! Ti sembro troppo scollata?

— Secondo il punto di vista.

— Giustissimo. Se c'è colpa, la colpa sarà di chi non sceglie il punto. Quand'è così ti saluto.

— Divertiti bene.

— E tu non annojarti troppo; la noja infossa le guance. Porto i tuoi saluti alla compagnia?

— Sì. Salutali tutti.

Salutali tutti, — disse Costanza, — ma in quei tutti ella non vedeva che uno solo. E perchè quell'uno?

Partita sua cugina, Costanza terminò di inaffiare le ajuole, lentamente, volendo ad ogni costo conservarsi tranquilla. Non aveva neppure l' ombra di mal di testa; aveva deciso di passare la sera leggendo le poesie di Musset, ma era un po' presto per accendere il lume. Sedette su una panchina a godersi la bella notte.

Le ortiche d'America coi loro fiorellini gialli e rossi imbalsamavano l'aria; le lucciole mettevano dei punti luminosi sui cespugli; si sentivano cantare i grilli nell'erba. Dal cancello del giardino la strada maestra appariva bianca bianca sotto i raggi della luna; i rari viandanti battendo il piede sulla terra secca vi destavano un' eco misteriosa come di luoghi disabitati.

Costanza cadde nella malinconia.

Domandava a sè stessa perchè aveva ceduto al desiderio di Rizzio, e se la prospettiva di veder delle persone un po' brille era proprio così terribile da farle rinunciare ad un divertimento. Rizzio si prendeva giuoco di lei; in quello stesso momento egli corteggiava forse Olimpia. Per reagire contro questo pensiero insopportabile, volle persuadersi che non era rimasta in casa per far piacere a lui, ma perchè le accomodava di fare così. Le si presentò allora davanti agli occhi la nudità della sua esistenza. Che cosa faceva? Dove andava? Perchè viveva? Levarsi, passeggiare, mangiare, coricarsi e levarsi ancora, è vita questa? Valeva la pena di avere tanto amato e tanto sofferto, tanto combattuto e tanto vinto, per adagiarsi nell' indifferenza passiva di quelle serpi che i ciarlatani mostrano ravvolte in coperte di lana? Perchè aveva essa ancora de' bei denti e de' bei capelli? Perchè i suoi occhi mandavano scintille? Perchè chiudeva il suo piedino in stivaletti eleganti e il suo corpo in busti di raso? Era stata seria la sua risoluzione di rinunciare per sempre all'amore? e che cosa sperava dl trovare in cambio?

Costanza si voltava ne' suoi affanni come un infermo nel suo letto. Le vennero in mente tutte le ore più tristi del passato. Non osando piangere per Rizzio, pianse per sua madre morta già da dieci anni e per il suo primo amore morto da quindici. Si sentiva così mesta, così scoraggiata, che si sarebbe distesa volontieri, là, vicino alle ortiche d'America senza darsi nemmeno la fatica di andare nella sua camera, si sarebbe distesa e addormentata in un sonno profondo, interminabile.

Attraverso l'aria pura della notte le campane del villaggio le portarono il suono delle dieci ore. Si rizzò in piedi e sbadigliò; era dominata da un vero malessere.

Nel salotto terreno ardeva la lucerna che i domestici avevano accesa prima di ritirarsi. Costanza si diresse verso quel punto luminoso e si fermò nel mezzo della camera come una sonnambula, collo sguardo fisso, colle braccia cadenti. Guardò a lungo un parafuoco ricamato al punto in croce, dove una donna colla faccia di seta mostrava di suonare l'arpa sotto un salice piangente. Costanza avrebbe forse finito per commoversi alla malinconia di quella donna ricamata. Il canarino d'Olimpia che fece due o tre salti nella gabbia la distrasse per un momento. Dopo prese la calza dal panierino da lavoro, infilò quattro maglie e la depose.

Pensò se doveva andare a letto, ma non aveva sonno. C'era lì sul tavolino il volume delle poesie di Musset; lo aperse e lesse La nuit d'octobre: Le mal dont j'ai souffert s'est enfui comme un rêve.
Je n'en puis comparer le lontain souvenir
Qu'à ces brouillards légers que l'aurore soulève
Et qu'avec la rosée on voit s'évanouir.

Un'amarezza straordinaria le impedì di continuare, la fronte le cadde sulle pagine aperte e….

— Eccomi qui…. — disse una voce accanto alla finestra del giardino.

— Rizzio!

Fu un'estasi: ella non si curava nep pur di nasconderlo. Si strinsero le mani con una gioja infinita, sedettero sul divano guardandosi negli occhi, tremando; per alcuni minuti nessuno dei due parlò, finalmente Costanza gli chiese da qual parte era entrato.

— Potrei dirvi che ho adoperato una scala di seta come Romeo, ma il fatto è che avevo la chiave del cancello; m'è rimasta in tasca dall'altra mattina quando sono venuto a prendere Matazzi per andare a caccia.

La realtà si sostituiva all'ideale; Costanza si calmava a poco a poco.

— Avete abbandonata la compagnia?

— Sì, per venire a trovare la mia bella prigioniera.

C'era il trionfo di un orgoglio smodato nella parola mia prigioniera. Rizzio aveva molte delle qualità virili, ma ne aveva eziandio tutti i difetti; era aspro, fiero, orgoglioso; la sua voce modulava qualche volta la nota tenera della tortorella, ma la sua mano non sapeva nascondere l' artiglio. Costanza sentì che quell' artiglio le lacerava un velo nel cuore, ma era immensamente donna, e le ferite per le donne hanno sempre qualche attrattiva.

— Grazie, siete molto gentile. E si divertono laggiù?

— Come pazzi. Prima di mezzanotte non si muoverà nessuno. Vostra cugina ha già perduto un monile e il fazzoletto; non garantisco che vi ritorni intera. La moglie del dottore beve come un cocchiere, suo marito soffia il naso ai bambini. La sindachessa e le sue figlie sono vestite di verde con degli stivaletti gialli. Gli uomini fumano. Siete contenta?

Rizzio fece per prenderle una mano, ella se ne schermì, e soggiunse prontamente, con disinvoltura:

— Fa molto caldo questa sera!

— Che importa a me del caldo? Io non lo sento, non lo ascolto; può il caldo scemare il piacere che provo a trovarmi con voi? Vi guardo e non so altro.

Stettero ancora in silenzio, uno di quei silenzi eloquenti che inebbriano. Fu ancora Costanza che disse:

— Sono stata due ore in giardino a contemplare la luna; oggi si è fatto il primo quarto ed è così graziosa a vederla falciata! Mi piace più assai della luna intera.

Si fermò, aspettando che Rizzio pronunciasse lui pure la sua opinione sulla luna, ma Rizzio non parlò.

— Le ortiche americane hanno un profumo delizioso; lo preferisco a quello delle magnolie; la magnolia è comune. Olimpia vorrebbe piantarne un boschetto e io tento dissuaderla. Che significato hanno quei fiori bianchi e chiusi come tante ova sospese per aria? L'odore è poi così acuto che a molte persone nuoce. Vi pare?

— Ma io non vi ascolto, sapete? Credete che abbia seguìto i! vostro discorso, che abbia capito una parola di quello che avete detto? So che vorreste farmi parlare di luna e di flori, ma io preferisco tacere e guardarvi.

— È un metodo nuovo di far visita a una signora.

— Non vi piace? — esclamò Rizzio preso da uno de' suoi accessi di bruscherìa; — ebbene, vi lascio subito. È naturale che le signore preferiscano le paroline galanti, la loro vanità ne resta più soddisfatta. Vorreste che io vi dicessi che siete bella, che siete amabile, che quel fiocco amaranto vi sta bene, non è vero?

Si era alzato e si metteva i guanti.

— Avete immaginato di poter fare di me un adoratore numero cento da mettere in coda agli altri novantanove.

— Questo è troppo! — esclamò Costanza con una indignazione mista a dolore profondo. — Non vi ho dato il diritto di insultarmi.

Egli non disse nulla, non le chiese perdono: terminò di mettere i guanti, pallido, agitato. Finalmente:

— Andiamo, vedo che siete nervosa questa sera.

— Non è vero.

— Ma è come se lo foste. Mi dispiace di avervi disturbata nella vostra contemplazione della luna e delle ortiche, me ne dispiace davvero. Volete darmi la mano?

— No.

— Pazienza, allora felice notte.

Costanza si sentiva schiantare il cuore.

— Così ve ne partite?… senza dirmi una parola gentile?

— Come! Non vi ho detto felice notte?

— Oh! siete cattivo!

— Via, datemi la mano.

— No.

— Datemi la mano.

— Ditemi una parola gentile.

— Prima la mano….

— No, no, no.

— Addio

Rizzio fece due o tre passi verso la porta. Costanza in piedi, colle spalle appoggiate al muro lo guardava. Egli si voltò indietro.

— Ah! siete troppo cara! — esclamò improvvisamente; — questi occhi, questi occhi neri la meritano la parola gentile.

Le cinse la vita con un braccio e le mormorò all' orecchio, pianissimo: Ti amo.

Costanza sollevò la faccia; e gli sorrise dolcissimamente.

— Grazie! — disse Rizzio.

E s'avviarono, muti, sul sentiero del giardino fino al cancello; si tenevano per mano come due bambini; ci vedevano appena quel tanto da non urtarsi contro gli alberi.

— Addio!

— Addio!

Non avevano più nulla da dirsi.

Costanza stette ad osservarlo mentre si allontanava, fino a che la sua ombra si disegnò sulla via, fino a che il suo passo risuonò nel silenzio della notte.

***

Tutti quelli che vantano le dolcezze del primo amore non hanno forse provato l' ultimo. È certo che nell' ultimo si raccoglie il frutto dell'esperienza del primo; si apprezzano maggiormente le gioje, anche piccole, perchè se ne conosce il valore, e i disinganni ci affliggono meno perchè si sa che tutto passa a questo mondo. Costanza trovava ancora una goccia di miele in fondo al calice, proprio quando credeva di averlo esaurito; ma quella goccia non voleva trangugiarla in un colpo solo, era diventata economa, non aveva più le impazienze dei quindici anni. La sua gioja se la centellinava con avarizia sapiente.

All'indomani della festa, Olimpia ricuciva i suoi guanti, sdrajata sul divano e di pessimo umore.

— Non ti sei divertita? — le domandò Costanza.

— Ma sì, mi sono divertita tutto quello che si poteva divertirsi a vedere degli imbecilli che si divertivano. Ho cercato di stordirmi anch'io gettandomi nella baraonda, e non raccolsi altro che un abbraccio del dottore e due pestate di piede da Puccini. E tu come hai passata la sera?

— Magnificamente!

— Col mal di testa?

— Svanì subito.

— Sola?

— Soletta. — (Che piacere a mentire!)

— Quell'originale di Rizzio non si è fermato che sino alle dieci.

— Ah sì?

— Aveva un impegno. Non si può mai fidarsi di lui; sguscia fuori di mano come un' anguilla. Oggi è di un colore e domani di un altro; incomincia a diventarmi antipatico. Che te ne pare?

— Che cosa?

— Di Rizzio.

— Non mi pare nulla.

Le due cugine si fissarono negli occhi, ma erano troppo abili entrambe per far conoscere quello che pensavano.

Alla sera però quando venne Rizzio, Costanza si tradì un poco, e lui stesso, ad onta del suo sangue freddo, non seppe frenarsi interamente.

Nelle sere successive invece, Rizzio tornò a fare l' assiduo presso Olimpia, ridendo, scherzando come uomo che ha il cuore leggiero e la mente disoccupata. Costanza ne soffriva, troppo orgogliosa tuttavia per dimostrarlo, e convinta forse che egli non poteva interessarsi sul serio a quella femmina volgare. Ma allora avrebbe voluto anche lei sentirsi leggiera, disinvolta, ridere e scherzare cogli altri, e subiva eroicamente i dialoghi di Puccini e le dichiarazioni di Salviati colla morte nell'anima.

In uno di quei momenti, Rizzio che le leggeva negli occhi come in un libro aperto, la prese per mano e prese pure Olimpia dicendo:

— Udite, o mie signore, voi che amate i bei versi; udite come sono carini: — Perchè fra tutte d'una stella il raggio
Il cupid'occhio ricercando va?
— Perchè è la sola che nel suo linguaggio
Ridir le cose del suo ciel mi sa.

Costanza sentiva la mano di Rizzio stringere la sua tenerissimamente.

— Li conosco, li conosco, — disse Olimpia svincolandosi senza lasciarlo finire; — sono versi per nozze.

— Siamo osservati, — mormorò Rizzio a Costanza.

— Ebbene?

— Volete farvi dei nemici?

— Chi?

— Vostra cugina.

— La temete tanto?

— Per voi.

— Non ho paura.

— Vi odia.

— Lo so.

— E odia me pure.

— Oh! avrei creduto il contrario.

(La voce di Costanza era questa volta un po' ironica; Rizzio sorrise).

— Sapete che l' odio tocca tanto da vicino….

— L'amore?

— Non profaniamo questo bel nome; diciamo il capriccio.

— Ne convenite dunque?

— Non posso negarlo.

— E per parte vostra?

— Me lo domandate?

Parlavano a bassa voce, curvi sul tavolino, fingendo di sfogliare un album.

— Me lo domandate? — ripetè Rizzio guardandola come egli sapeva guardare colle sue pupille serie e profonde.

— Le fate la corte.

— Questo non prova nulla; un po' di corte io la faccio a tutte le donne, è un'abitudine; vedete che sono sincero.

— Anche troppo.

— Se volete informarvi, l' ho fatta successivamente, ed anche contemporaneamente, alla moglie del dottore, alla sindachessa, alle sue figlie e ad una signorina gobba che c' era qui l'anno passato. È questione d'esercizio, per non arrugginirmi.

Costanza dovette ridere.

— Si vede che siete parente di Matazzi; cacciatore nel sangue. Ciò non molto lusinghiero per chi avesse l' intenzione di amarvi.

— Perchè? Sono appunto i cacciatori di professione che raggiungono le aquile. Credete che la regina degli uccelli si troverebbe più lusingata a cadere nelle mani del primo idiota che capita?

— Ah! dopo tutto credo che la regina degli uccelli, a domandarlo a lei, preferirebbe non cadere affatto.

E Costanza tornò a ridere saporitamente.

Puccini, che passava in quel momento, si fermò per dirle:

— Ora somiglia proprio tutta alla mia povera sorella.

***

All' estremità del giardino, verso la strada maestra, c' era un boschetto di convolvoli e di rose del Bengala, dove Costanza si recava spesso a leggere e a lavorare. Rizzio pure vi fece qualche apparizione nelle ore in cui Olimpia doveva accudire a' suoi impegni di casa, ed erano ore beate per i due amici.

Costanza si rifiutava ad ammettere la parola: amanti.

Secondo lei, questa parola implicava l'idea della caducità; non si è amanti per tutta la vita, ed ella voleva essere sempre l'amica di Rizzio.

Ritrovavano tutti e due la freschezza delle loro impressioni giovanili; s' incontravano con un palpito, si lasciavano con un sospiro. Erano maravigliati di sentirsi ancora così ingenui e di trovare ancora qualche cosa da raccogliere, qualche spica lasciata indietro su quel campo che credevano di aver mietuto così bene. Andavano d'accordo per non sprecare il loro tesoro, gli avari sapienti, poichè il disinganno aveva loro insegnato tante e tante volte che, se c'è una fine a tutto, essa non è mai terribilmente sicura come in amore.

Si accontentavano di guardarsi a lungo, di stringersi la mano, di morsicare il medesimo fiore, di sedere vicini, vicini. Quando si parlavano in società, fingevano sostenutezza; ma l'aria era più calda intorno a loro, la luce più intensa, tutti capivano che lì c'era un segreto. Ad onta della molta esperienza, non erano abbastanza prudenti, e l' amore divulgato è amore in pericolo.

Una sera, prima che arrivassero gli amici, trovandosi soli, Olimpia pregò Rizzio di accompagnarla al piano; ella era distinta dilettante e Rizzio appassionato per la musica. Suonarono due o tre pezzi del Fausl con un accordo meraviglioso.

— Mi pare che la mia anima passi nella vostra; — disse Olimpia con voce velata, piegandosi mollemente sulla tastiera, come se un fascino la dominasse.

Rizzio non rispose; le sue mani correvano veloci sfiorando spesso quelle d'Olimpia, i loro ginocchi si toccavano.

— Siete stanco? — chiese Olimpia dopo pochi momenti.

— No. Ripigliamo il duetto d'amore.

— Soffro…. non so di che.

— Perchè non dirlo prima?

— No, terminiamo

— Vi prego….

— Lo voglio!

E continuarono, nervosi, trasportati dall'ebbrezza della musica, palpitando insieme, commossi, parlandosi a rari monosillabi.

— Bravissima! — sclamò Rizzio facendo premere le ultime note.

Olimpia sembrava cedere a un languore arcano, indefinibile; non aveva nulla del brio e del sarcasmo soliti. I suoi occhi lasciavano sfuggire pallidi raggi.

— Che avete?

— Nulla.

— Soffrite ancora?

Per risposta ella pose nella mano di Rizzio la sua mano sottile e bianca.

Egli la guardò.

— Qualche cosa dovete avere sicuramente, perchè suonaste come un angelo. Meritate un premio.

— Datemelo.

— Se sapessi….

Olimpia fece scorrete i diti sulla tastiera.

— Volete i più bei fiori del mio giardino?

Olimpia scosse il capo negativamente.

— Volete un sonetto?

— Nemmeno.

— Volete….

— Datemi la discrezione che non mi avete mai pagata; ve ne ricordate?

Olimpia aveva ripreso il suo accento scherzoso; guardava Rizzio, sorridente, leggiadra, sotto una pioggia di ricci un po' scomposti, col seno agitato, le belle braccia candide abbandonate in grembo.

Rizzio era uomo in tutta l'estensione del termine, e questo formava in certi casi il suo miglior elogio; ma in certi altri era pur troppo il suo difetto. Gli uomini hanno la specialità di poter dimenticare completamente, in dati istanti, qualunque più cara affezione. — Sono brevi istanti, — è la loro scusa.

Egli non udiva in giardino la voce di Costanza che dava alcuni ordini alla cameriera. Rispose:

— Eccomi pronto. Devo andare per voi alla conquista del vello d'oro?

— La meta che vi propongo è più vicina.

— Francamente, lo desidero e lo spero.

— Che cosa desiderate e sperate?

— Che la meta sia vicina…. con questo caldo

Le ultime tre parole le aggiunse per celia, affinchè il discorso non prendesse una piega sentimentale.

— Là, — disse Olimpia coi denti stretti, colle gote accese; — fatemi un bacio. Sono discreta?

Ella aveva visto sua cugina che entrava in quel punto. Rizzio, a capo chino, allungò le labbra e fece due o tre baci rapidi, leggieri, sul braccio di Olimpia. Quando sollevò gli occhi, incontrò gli occhi di Costanza, larghi, sbarrati, pieni d'angoscia e di disperazione.

— Vile, — gli mormorò ella passandogli accanto.

Rizzio impallidì come se lo avessero sferzato, ma non disse una sola parola,

Di lì a poco, Costanza, accusandosi indisposta, si ritirò nella sua camera, e Olimpia fu di un'allegria smodata per tutto il resto della sera.

***

Non si guardavano più. S'erano feriti reciprocamente nell'orgoglio, e l'orgoglio, passati i vent'anni, occupa una metà buona del cuore.

Rizzio principalmente, perchè aveva torto, si mostrava il più fiero.

Costanza non nascondeva il suo dolore, solamente sdegnava di scendere a spiegazioni. Mettevano tanta cura nell'evitarsi come nel ricercarsi prima; Rizzio stette anche cinque o sei giorni senza farsi vedere alla villa.

Olimpia trionfava. Ella divertivasi a punzecchiare Costanza in tutti i modi possibili; ora tessendo lodi sperticate di Rizzio, ora parlandone male e narrando tutte le sue imprese galanti; possedeva l' arte infernale di mettere la febbre addosso con una parola; aveva della reticenze che strozzavano.

Costanza pensò un momento a tornare a Milano, ma ella non era di quelle che fuggono; la lotta non la impauriva; forse non aveva il coraggio di separarsi da Rizzio; preferiva soffrire vicino a lui, anzi che cercare la pace dimenticandolo. Ad ogni modo decise di rimanere dov'era.

In quei giorni Olimpia contraccambiò con un pranzo la cena del dottore. Le due cugine, Rizzio, Salviati, Puccini, stavano in giardino aspettando gli altri invitati; Olimpia, raggiante, con un abito di tela color avorio a risvolti rosa, non poteva stare seduta; andava dall'uno all'altro ridendo, motteggiando, provocandoli tutti. Rizzio aveva un po' di sussiego, non sembrava certo del contegno che doveva prendere, e fingeva d'interessarsi a sgranare le bacche dei convolvoli.

Un po' in disparte Costanza, volendo anche lei mostrare d'interessarsi a qualche cosa, osservava la cacciagione di Matazzi giunto allora.

— Vedete che bella cardellina? Oh! non dubitate, è una cardellina. Se fosse un cardellino avrebbe il dorso più nero e la testa più lunga.

Costanza prese la cardellina e l'esaminò in tutta coscienza. Colla coda dell'occhio vide lontano Rizzio che ascoltava e più che mai si credette obbligata a giuocare d'indifferenza. Cacciò la manina nel carniere di Matazzi, e tirando fuori un piccolo uccello grazioso, domandò:

— Che è questo? un passero?

— Ah! veramente. un passero! Cugina mia, vivete a Milano e non conoscete i passeri? Questo è un reattino. Non faccio per vantarmi,ma ci tengo al mio reattino; non tutti i cacciatori possono pigliarli.

— Perchè? — tornò a domandare Costanza, come se la cosa le stesse immensamente a cuore.

— Perchè hanno il volo rapidissimo, — rispose Matazzi, felice di trovare qualcuno che s' interessasse alla sua caccia. — E questo, mia cara, sapete come si chiama questo?

— Io no, davvero.

— Provate a dire qualche cosa!

— Proprio non saprei.

—Ebbene, è un tordo. Chi non lo piglierebbe per un merlo? La somiglianza fra le due specie è grandissima, ma il tordo ha le penne sparse di piccole macchiette regolari; vedete? il merlo no. Vì ripeto che è un tordo, di quelli che si chiamano comunemente calandre; l'ho preso su un pioppo, che non m' è parso vero. Immaginate che il primo colpo lo aveva fatto fuggire, ma io dissi: tornerai, amico! ed è tornato e panf! Ecco che ha finito di fare la calandra cruda.

— Pare impossibile! — gridò Olimpia, tendendo la testa verso Rizzio per farsi puntare uno spillo nei capelli, — come Costanza si accanisce nei discorsi di caccia. Costanza mia bella, perchè non ti lasci fare un po' la corte da questi signori?

Costanza si morse le labbra senza degnarsi di rispondere, ma una viva contrarietà le si dipinse sul volto. Salviati le si precipitò ai ginocchi e forse le avrebbe fatta una dichiarazione, se non entravano il dottore e sua moglie.

A pranzo, Olimpia sedè vicino a Rizzio, e Costanza dirimpetto. La tavola era piccola, stavano un po' pigiati; Costanza vedeva ad ogni movivento il braccio di Olimpia che urtava quello del suo cavaliere.

Non erano ancora alla seconda portata, e già Costanza si sentiva male. I piatti, i bicchieri, le bottiglie, danzavano davanti a' suoi occhi una ridda fantastica; Olimpia, moltiplicata per cento, le riempiva le pupille. Se avesse qualche volta guardato Rizzio si sarebbe accorta che egli la osservava intensamente, ma al posto di Rizzio Costanza non vedeva che un bujo orribile.

— Che cos'ha quella povera signora? — domandò la moglie del dottore intanto che si slacciava accortamente il busto; e lo domandava a Puccini.

— La signora Costanza? Ma nulla, credo. Avrà mangiato troppo in fretta e in questo caso il ventricolo si gonfia, si prova un senso di stanchezza e di sazietà. Passa però subito. Dopo, magari, avrà fame meglio di prima.

La dottoressa, che era riuscita a slacciare il suo busto, si accontentò di fare:

— Aaah!

Venne il caffè. Olimpia prese colle dita una zolletta di zucchero e la gettò nella tazza di Rizzio; Rizzio, per non parere un orso, dovette ringraziare sorridendo.

Si bevette del rhum. Olimpia dichiarò di non ne volere, ma al momento ne assaggiò una goccia nel bicchiere di Rizzio.

Quando tutti lasciarono la mensa, Costanza, pallida come un morto, si sentì quasi venir meno. Un braccio robusto la sostenne e una voce a lei ben nota le susurrò all' orecchio bruscamente:

— Che fate? Tutti vi guardano.

Ella sentì che le lagrime le gonfiavano gli occhi, e approfittando di un po' di confusione si allontanò inosservata; Rizzio la seguì.

***

In un piccolo sottoscala quasi bujo, tutto ingombro di travi e di canestri, Costanza si fermò; avrebbe voluto nascondersi, nonchè agli occhi di tutti, a' suoi propri occhi.

— Perchè fate così? — le disse Rizzio. — È la vera maniera di renderci ridicoli; credevo aveste maggior pratica del mondo e delle sue esigenze. Non capite che Olimpia gode del vostro dispetto? Perchè darle questa soddisfazione? Siete pur bambina!

Al nome di Olimpia, Costanza non potè più frenare il pianto; scoppiò in singhiozzi.

Egli taceva.

— Così mi consolate! — esclamò lei. — Non avete più nulla a dirmi?…

La ritenne con una forte stretta, e prendendole la testa colle due mani la baciò sui capelli e sulla fronte.

Il cuore di Costanza batteva a precipizio, ella tremava tutta e piangeva ancora.

— Io godo a vedervi soffrire, — mormorò Rizzio, — perchè fin che soffrite siete mia; vedo le vostre lagrime, ascolto i vostri singhiozzi, e dico a me stesso che tutto ciò è amore. Soffrite, angelo mio, ma soffrite così; soffrite per me che vi amo!

Costanza provò un istante di fascino sovrumano. Ella era ben fatta per comprendere un simile amore; ma l'immagine di Olimpia le guizzò davanti come un lampo sinistro.

— No, — disse, voltando la testa per sottrarsi a Rizzio; — voi non mi amate. Se fosse vero terreste un contegno diverso colla donna che mi odia, non le offrireste l'occasione di avvelenarmi ad ogni ora, ad ogni momento. No, Rizzio, voi non mi amate, non mi amate!

Egli indugiò prima di rispondere, poi disse lentamente, con voce grave:

— Era meglio che le cose camminassero nel modo da me stabilito. Vostra cugina è una donna pericolosa, una donna che non perdona…. Non obbligatemi a farvi delle confidenze che in bocca mia sembrerebbero fatuità. Vi basti sapere che quel po' di incenso che le tributavo, era l'offerta che me la teneva amica. Credevo aveste maggior fiducia in me. Ora, sia come volete. Prima d'oggi io non vi avevo promesso nulla, nevvero? Ebbene, vi prometto che d'ora in avanti vostra cugina troverà in me un macigno. Le conseguenze poi le vedremo.

— Che ci importa! — esclamò Costanza, felice. — Ah! ripetetemi che sarete tutto mio.

— Sì, avete la mia parola e basta. Ed ora andate ad asciugarvi gli occhi prima di comparire in sala.

Costanza si meravigliò che Rizzio, in tali momenti, avesse la testa a segno da accorgersi ch'ella aveva gli occhi rossi. Quanto a lei, avrebbe voluto che il piccolo bujo sottoscala, fosse il primo teatro del mondo, che centomila indifferenti vedessero la sua gioja; gioja profonda, perchè il dolore l'aveva preceduta.

Si volse a Rizzio e gli disse:

— « Ho consumato tre vestiti di ferro tre paja di scarpe di ferro, tre bastoni di ferro per trovarti, amor mio, ed ora non ti lascio più! » Ve la ricordate la principessa della favola? Rizzio, is sono la vostra principessa, e voi siete il mio re.

— Cara!

Egli non disse altro che: cara; stringendosi sul petto quella bruna testina.

Ma convenne separarsi. Rizzio era sempre il più forte; entrò in sala per il primo e non trovò nessuno. La compagnia si era dispersa nel giardino; egli andò a raggiungerla, sostenendo imperterrito lo sguardo indagatore di Olimpia.

Poco dopo apparve Costanza, lieta, sorridente, col suo trionfo scritto in fronte.

L'amore ha questo di male, ed anche di bene, che non si può mai nascondere interamente, come interamente non si può fingere quando non c'è. Gli occhi di Rizzio cercavano quelli di Costanza; starebbe il paragone, se non fosse troppo vecchio, dell'eliotropio che si volge al sole — e come il sole lo contraccambiava!

Dalla parte di Rizzio, questo freddo schermidore avvezzo a tutte le tattiche della galanteria, il caso sorprendeva. Invano, appoggiandosi sul suo sterminato orgoglio, egli tentava resistere alla passione che li aveva allacciati, si può dire, fin dal loro primo colloquio. Mascherato dall'asprezza, trincerato nella civetteria, tenuto in freno da una volontà dispotica, il suo affetto per Costanza continuava nondimeno la parabola ascendente. Egli apparteneva alla classe ormai tanto numerosa degli uomini positivi; il suo sistema era quello di far prevalere in ogni circostanza la ragione; ma o fragilissima umanità, accanto all'inflessibile dea, batte pur sempre il tuo cuore!

Appena Rizzio si mostrò in giardino, disinvolto, con uno stecchino in bocca (l'aveva preso passando nella sala da pranzo; perchè, quantunque verista, non lo era al punto da uscire da un colloquio amoroso con uno stecchino tra le labbra). Olimpia eseguì una mossa felina e gli si trovò accanto in un attimo, sospesa al suo braccio. Lo guardò dritto in fondo agli occhi e gli disse:

— Avete una faccia strana.

— Che faccia? — domandò Rizzio svogliato.

— La faccia di un uomo che ha commessa una sciocchezza.

Sotto la sua mano ella sentì fremere il braccio di Rizzio, e soggiunse perfidamente:

— Scommettiamo?

Egli si era già ricomposto.

— Ah! no, — disse colla sua voce ironica, — non faccio più scommesse con voi.

— Avete paura di perdere.

— Già, e di pagare la discrezione.

Questa impertinenza ferì Olimpia sul vivo: il rossore della collera le salì al volto:

— Badate, Rizzio, badate!

La moglie del dottore si gettò in mezzo a loro per proporre una passeggiata; Olimpia non potè terminare la sua minaccia, ma la completò con uno sguardo che era una sfida.

***

Il Dio degli innamorati (poichè nella disfatta generale degli dei questo ci fu lasciato) preparò a Rizzio e a Costanza una lunga, intera giornata di felicità.

Olimpia doveva andare a Milano per alcune spesucce; essi erano liberi; ora la libertà in amore equivale alla libertà moltiplicata per cento.

Sotto il boschetto di convolvoli e di rose del Bengala, essi s'incontrarono fin dal mattino, e si regalarono la gioja innocente di bere una goccia di rugiada nel calice azzurro di un convolvolo. Tornavano all'idilio questi due epicurei; avendo percorsa da soli tutta la gamma del piacere, la rifacevano insieme in senso inverso, sdegnando le note del finale per i soavi preludii, dove l'ideale batte ancora le ali candide.

Se Costanza fosse stata più giovane avrebbe interrogato Rizzio sulle sue intenzioni: le fanciulle sono impazienti. Ma Costanza invece gustava le dolcezze del desiderio immateriale.

Guardarsi, stringersi la mano, dirsi tutto nell'ebrezza del silenzio, scambiarsi le anime in un bacio, ella sapeva che non si può andare più in là.

« Non dirmi che sono la tua vita, dimmi che sono l'anima tua; l'anima è immortale e la vita ha un giorno. »

Non parlavano di nulla; tacevano per ascoltare la loro felicità.

Gli splendori di quel mattino di settembre, il cielo, il sole, l'aria mite, rappresentavano una seconda parte, la cornice del quadro. Un raggio di meno in cielo, un profumo di meno sulla terra, non avrebbero scemata l'armonia di quei due cuori che si amavano.

Rizzio volle provare il ditale di Costanza, e poi volle fare un punto nella trina che ella stava ricamando. Costanza pensò che, quando la trina sarebbe cucita a foggia di guernizione sul suo vestito nuovo, ella avrebbe sul cuore il punto di Rizzio. Questo pensiero glie ne suggerì un altro. In un momento ch'egli aveva tra le mani il portafogli per notare dei versi, ella prese le matita e scrisse in un angolo Costanza.

— Quando non mi amerete più, questo nome vi rammenterà che mi avete amata, — disse sorridendo tra lo scherzoso e il mesto.

Egli se la strinse contro il cuore.

— Come sono felice! Oh! chi li paga questi dolci istanti?

— Noi li paghiamo! — esclamò Costanza con fuoco.

— Sì, avete ragione; li paghiamo noi!… e per questo godiamoli, o tenerezza mia.

— Un presentimento crudele mi tormenta, — diss' ella staccandosi, presa da un subitaneo terrore. — Vedete quell'albero verde che ci sembra sorridere e scuotere davanti a noi le sue foglie facendoci festa?

— Lo vedo, è un pioppo.

— Mio amore, fra pochi mesi quel pioppo perderà le sue foglie, e voi….

— Non continuate, io vi amerò sempre; ma se il destino volesse disgiungerci, perchè avvelenare queste brevi ore di gioia? Perchè non lasciare dietro a noi una striscia pura, immacolata, un raggio che ci illumini, un calore che ci conforti? Amica mia, la foglia inverdisce e cade, l'uomo ama e muore, ma che perciò? Il futuro distrugge forse il passato? Qualunque cosa possa avvenire farà sì che le nostre labbra non si sieno congiunte e i nostri cuori non abbiano palpitato insieme?

Costanza gli strinse la mano in silenzio. Egli intanto spiccò una rosa e gliela pose nei capelli.

— Voi non sapete come questi capelli mi piacciono. Quando vi lascio ne porto il profumo con me; quando non vi vedo più, li sento ancora.

Venne il momento di separarsi, ma si trovarono più tardi per caso sulla strada maestra, dove Costanza faceva una passeggiata prima di pranzo, e stettero fermi un quarto d'ora in mezzo alla polvere, mettendo la mano davanti agli occhi ogni volta che passava un carro, almeno Costanza la metteva; Rizzio no, perchè non era effeminato, si piccava al contrario di spregiare i comodi materiali.

Costanza pranzò sola con suo cugino Matazzi. S'era fatta promettere da Rizzio ch'egli avrebbe desinato quel giorno con delle costolette fritte e dell'arrosto di montone, perchè quello era appunto il pranzo che ella aveva ordinato e che mangiò di buonissimo appetito, riflettendo ad ogni boccone che Rizzio provava le medesime sensazioni.

Alla sera vide Rizzio per la terza volta, insieme a Puccini ed a Salviati. In mancanza di Olimpia, toccò a lei a fare gli onori di casa. Era lieta, serena, gentile, con una lieve tinta di distrazione, parlava con Puccini e pensava a Rizzio, parlava con Salviati e pensava a Rizzio. (Egli aveva un bel nome, di quelli che piacciono alle donne, ma ognuno lo chiamava Rizzio ed ella pure).

Li congedò verso le dieci, dicendo che voleva andare a letto a fare dei sogni d'oro. Sorrideva, strinse la mano a tutti; a lui diresse uno sguardo di paradiso.

Andò a letto, ma non dormì, era troppo felice. I sogni d'oro li fece ad occhi aperti.

Sentì tutte le ore, sentì i grilli che cantavano nelle siepi, il cane che abbajava, Matazzi che puliva il suo fucile, il camparo nella vigna che sparava in aria per spaventare i ladri notturni, le ruote che trascinavano le bare pesanti e i passi dei muli aizzati dalle voci dei carrettieri.

Si levò alla mattina per tempo con una voglia matta di correre nei campi, di abbracciare tutti i bambini e di versare denari a manate nei grembiuli di tutte le povere donne.

Una carrozza che si fermò davanti al cancello, annunziando il ritorno di Olimpia, pose una nota scordata nell'inno di Costanza. Ella scese tuttavia facendo il buon viso e pensando che nessuno oramai poteva toglierle il suo amore.

***

Anche Olimpia era lieta. Balzò lesta dalla carrozza e abbracciò sua cugina.

— Come stai, cara?

— Io sto bene, e tu?

— Divinamente.

I suoi occhi obliqui scintillavano in modo strano. Costanza era buona, era sopratutto generosa, la gioja di Olimpia non poteva recarle dispiacere; eppure quella gioja la inquietò. Le sembrava che avesse un'espressione maligna.

— La tua gita non ebbe inconvenienti?

— Di sorta, — rispose Olimpia infilando il braccio in quello di sua cugina. — Ho fatta la tua commissione; la modista non aveva fiori rossi, e sono andata a ordinarli io stessa; tre rose del Bengala stupende. Ti piacciono le rose del Bengala?

— Sì, grazie.

— Per me invece le comperai gialle; ritengo che il giallo mi sta meglio. Ha piovuto qui ieri sera?

— No, e a Milano?

— Abbiamo avuto una spruzzatina. lo era fuori e l'ho presa tutta. Mio marito è andato a caccia?

— Credo.

— Bene; noi intanto faremo colazione; ho un appetito da collegiale. Sai? ho visto Malagutti, il tuo spasimante fedele; mi ha chiesto di te, e gli dissi che sei ancora disponibile. Non è vero?

— Verissimo: — fece Costanza sorridendo, non senza arrossire alquanto.

— Ho però soggiunto che sei agguerrita per terra e per mare. Eh?

— Difatti.

— E che nemmeno il pallone areostatico avrebbe molta probabilità di successo.

Olimpia parlava con una disinvoltura forzata, un tono più alto del naturale. A Costanza faceva l' effetto di udir fischiare un serpente. Dopo colazione, mentre erano sedute nelle loro poltroncine accanto alla finestra, col lavoruccio in mano, entrò Rizzio.

— Vedete, — diss'egli a Olimpia con una cortesia cerimoniosa, sottolineata di sarcasmo, — vengo subito a offrirvi i miei omaggi.

— Fate il vostro dovere! — rispose lei lanciandogli un'occhiata che ghermiva al pari di un uncino. — Per riconoscenza io vi darò le notizie milanesi.

— Benissimo. Il duomo è ancora in piedi? La compagnia della Teppa è sciolta? Federico Barbarossa si è ritirato?…

Celiando con Olimpia, Rizzio non aveva trascurato di guardare Costanza, e i loro occhi stavano appunto ripetendosi una infinità di dolcissime cose, quando Olimpia, rispondendo a Rizzio, disse:

— Devo darvi una notizia più importante e più seria.

Si arrestò, facendo un movimento di spalle, stringendo le sue labbra sottili.

Senza rendersi conto del perchè, Rizzio e Costanza attendevano ansiosi.

— Non vi dispiacerà ch'io parli davanti a mia cugina, — continuò Olimpia, — è un'altra me stessa; d'altronde l'amicizia che voi le dimostrate è una prova della stima che vi ispira.

Nuova pausa leggerissima, piena di perfidie sottintese.

— Alle corte, Rizzio, sono andata a trovare la vostra povera moglie.

L'immobilità assoluta di Rizzio e di Costanza le permise di soggiungere:

— Sta molto meglio; mi ha riconosciuta, mi ha detto di salutarvi. Il direttore non dispera di potervela rimandare quanto prima. È tranquillissima, povera donna!

Che cosa si deve provare ricevendo una martellata sul cranio? Costanza lo seppe. La camera girò intorno a' suoi occhi, un rumore confuso come un brulichìo d'insetti le ferì il timpano. Non smesse di lavorare, ma il ricamo le sembrava doppio, triplo, tagliato da grandi strisce nere; la mano irrigidita trascinava l'ago a stento per uno sforzo supremo della volontà. Se il mondo fosse crollato in quel punto le sarebbe parsa una cosa naturalissima. E a guardarla, tranne un pallore di statua, nulla trapelava dell'interno spasimo.

Non vi sono che le donne per sostenere simili colpi.

Rizzio avrebbe fatto compassione ai sassi. La sua faccia era stravolta, l'occhio smarrito, balbettava come un bambino côlto in fallo. Il suo orgoglio, la sua fierezza, la sua lunga pratica della società, il dominio di sè stesso, che possedeva tanto bene, tutto gli mancò in quel momento. È permesso credere che un desiderio solo galleggiasse nella confusione de' suoi pensieri; il desiderio che Olimpia fosse un uomo per poterla schiaffeggiare.

Alle parole inintelligibili pronunciate da Rizzio, Olimpia rispose, per metà rovesciata sulla poltrona, odorando un fiore:

— Non vi ho avvertito prima che volevo andare a trovarla per lasciarvi il piacere della sorpresa. E poi, se l'avessi trovata male, ero decisa a non dirvi nulla. Mi piace a fare da colomba e non da corvo. Assicuratevi che sta proprio benino, cara creatura! Invece di cambiare il nome alla villa, come era vostra intenzione, potete prepararla a festa per inaugurare la guarigione della vostra Paolina.

Rizzio finalmente si era ricomposto.

— Grazie, — disse, levandosi in piedi, — la mia riconoscenza sarà pari alla vostra bontà. Siccome però questo avvertimento mi terrà molto occupato, permettete ch'io prenda congedo.

Si inchinò, rigido, e uscì.

Passando davanti a Costanza cercò invano il suo sguardo; ella salutò senza guardare, continuando il suo ricamo, come una macchina montata che a fermarla improvvisamente si spezzerebbe.

***

Cessato lo sbigottimento che accompagna il primo stadio del dolore, Costanza sentì crudelmente l'offesa fatta al suo cuore e alla sua dignità.

Che pensare di un uomo che le aveva detto d'amarla tacendo di essere ammogliato? Si poteva scusarlo in qualche modo? Si poteva difenderlo? No, non si poteva. Egli le appariva così ignobile, così indegno di stima e di affezione che il suo maggior dispiacere era quello di averlo amato.

Avrebbe voluto distruggere ogni memoria del passato.

Oh! se si potesse dimenticare.

Perchè non esiste veramente quel fiume dalle acque pietose che tutto cancellano? La memoria in certi istanti è il più caro, ma in certi altri è il più doloroso dei doni.

Costanza ricordava con profonda angoscia le parole pronunciate da Rizzio nel loro ultimo colloquio d'amore: « qualunque cosa accada non potrà fare che i nostri cuori no abbiano palpitato insieme. » Profetiche parole!

E come presto si realizzavano i suoi malinconici presentimenti! Era ancor verde il pioppo in fondo al giardino, vicino al boschetto dei convolvoli, ma il loro amore non era più.

Care dolcezze della pace, ore tranquille, sonni beati, indipendenza del cuore, per chi aveva ella sacrificato tutto ciò? A chi aveva dato l' ultimo raggio della sua giovinezza, l' ultima fiamma della sua anima? Veder morire la persona amata è un piccolo dolore in confronto al dolore di non poter stimarla più.

Per una reazione naturalissima, per quello spirito di partito che accomuna sempre le donne contro gli uomini, Costanza non provava per Olimpia tutto l'odio che sentiva di avere per Rizzio; infine le aveva aperto gli occhi, e se il modo era stato sleale, ella non le aveva mai detto e giurato di amarla per sempre; ella non le aveva rubato l'amore per calpestarlo poi sotto i piedi; ella era stata crudele, null'altro che crudele. Ma che parola trovare per Rizzio? Come poterlo disprezzare abbastanza da cancellare tutto il bene che gli aveva dato? Ah! ella lo sentiva, fino all' ultimo giorno della sua vita l' avrebbe seguita il rimorso di aver amato quell'uomo.

Tra le due cugine non ebbe luogo nessuna spiegazione. Costanza dissimulava maestrevolmente la vipera che le rodeva il seno. Olimpia, sazia della sua vendetta, la lasciava in pace; la sua attività morbosa si rivolgeva ora ad un altro scopo: trovare un uomo che surrogasse Rizzio, che potesse occupare la sua mente annojata di donna isterica e maligna. Lì per lì non trovava che Salviati; Salviati le era antipatico, ma per comparsa poteva bastare; tanto da far vedere a Rizzio che non aveva bisogno di lui.

Questa volgare rappresaglia non si presentò neppure alla mente di Costanza; ella l'avrebbe respinta con sdegno. Se un pensiero la consolava, era il pensiero di mostrarsi tanto grande quanto lui era stato vile. In alto, era la sua fede.

Ma nei ritrovi della sera, quanta forza doveva fare a sè stessa per non prorompere in pianto, su quel divano dove si erano per la prima volta strette le mani, vicino alla finestra del giardino da cui egli era entrato quella sera che disse d'amarla, e nel piccolo sottoscala e nel boschetto, e dovunque ella avrebbe pianto amarissime lagrime, perchè dovunque egli l'aveva ingannata.

Subito dopo la scena fatale, Rizzio le scrisse una lettera; Costanza la rimandò senza leggerla; sperando forse segretamente ch'egli avrebbe cercato di parlarle. Ma Rizzio non si fece vedere. Una sera la trovò in casa del dottore; Olimpia non c'era. Sosten nero entrambi dignitosamente l'urto del primo sguardo, poi evitarono di parlarsi. La fierezza dava loro un coraggio straordinario.

Il dottore si sentiva poco bene, e nel ritorno Costanza dovette accettare la compagnia di Rizzio. Quando egli fece per offrirle il braccio:

— Non mi toccate! — esclamò con una violenza maggiore di quella che ella stessa avrebbe voluto.

Egli le camminò al fianco, in apparenza calmo:

— Dovete essere molto in collera con me? — disse dopo qualche momento.

— In collera? No. La collera è un sentimento che nasce tra pari e pari.

Rizzio si morse le labbra:

— È come dire che non mi stimate degno nemmeno di essere odiato.

— Che ve ne importa?

Dalla casa del dottore a villa Olimpia il tratto era breve. Rizzio capì che non c'era tempo di entrare in una lunga spiegazione, d'altronde il contegno gelato di Costanza lo paralizzava.

— Non volete lasciarmi la speranza di giustificarmi?

L'indignazione di Costanza non le permise di rispondere questa volta; ella affrettò il passo stringendosi nel suo scialetto di lana bianca, quasi fosse una barriera di più fra lei e Rizzio.

— Non volete? — mormorò ancora lui con voce strozzata.

— Giustificarvi? E come lo potreste? Non dite una parola di più; ogni vostra parola sarebbe una menzogna od un insulto.

Erano giunti davanti alla griglia del giardino. Costanza afferrò con mano febbrile il bottone del campanello.

— Lasciatemi dire allora, — disse Rizzio prendendola per un braccio e scuotendola col suo solito misto di passione e di dispotismo selvaggio, — lasciatemi dire che io credevo che voi lo sapeste. Olimpia stessa mi lasciò in questo inganno fin dal principio della nostra relazione, ed ora ne capisco il perchè. Vidi il tranello quando era già aperto sotto i miei piedi….

— Ma che volevate dunque da me? — interruppe Costanza con alterezza.

— Che volevo? Nulla. Io vi amava; vi ho mai chiesto altro? Il mio contegno non fu sempre quello del massimo rispetto? Quando lessi nei vostri occhi un lampo di amore potevo forse frenare il mio? Pensate ch'io sia un eroe? Ho mai voluto farmi credere migliore degli altri uomini? Ah! Costanza, siete ingiusta aggravandomi di una colpa che è tutta del destino.

Egli parlava rapidamente, vedendo con angoscia avanzarsi il lume del domestico che veniva ad aprire.

— Non sapete quanto soffro?… Costanza, ditemi che mi perdonate.

Si avvicinò in atto di abbracciarla. Ella retrocesse con terrore, quantunque un sentimento di pietà combattesse nel suo cuore l'orgoglio.

— Perdonatemi, Costanza! — tornò a supplicare Rizzio quasi ai suoi ginocchi.

Si fissarono un istante nelle pupille con uno sguardo lungo, scintillante; egli la teneva per le vesti e sentiva il corpo di lei che tremava.

— No, — disse Costanza sciogliendosi, — non posso perdonarvi.

La sua agitazione era immensa.

Il domestico aperse il cancello e si tirò da parte per lasciarla passare.

— La vostra ultima parola? — mormorò Rizzio, pallido, colle labbra che fremevano.

— Mai!

Il cancello si chiuse. Se Rizzio avesse potuto seguire l'ombra bianca che fuggiva sotto gli alberi, non per sè stesso avrebbe chiesto pietà..

***

Era stato sincero il mai di Costanza? Poteva ella ignorare l'infinita dolcezza del perdono? No, ella non l'ignorava; sapeva, al contrario, che nessuna vendetta soddisfa tanto un nobile cuore come lo soddisfa il perdono.

Perdonare vuol dire sentirsi superiori. Fu Dio stesso che parlò per il primo di perdono; chi perdona si avvicina alla grandezza di Dio.

Costanza aveva mentito per deliberato proposito. Ella non voleva lasciare alcuna speranza a Rizzio. Poichè tutto era finito, irremissibilmente finito, meglio era non parlarne più; una parola dolce poteva far credere a Rizzio che ella lo amava ancora; ciò non doveva essere a qualunque costo.

S'era anche proposta di dimenticarlo, ma qui la cosa si mostrava un po' più difficile; alcuni momenti le sembrava impossibile addirittura, ed era quando pensava alla serietà profonda degli occhi di Rizzio, alle sue carezze talvolta così tenere che escludevano ogni idea materiale e davano quasi l'immagine di un amore paterno.

Costanza ricordava con ebbrezza il modo che aveva Rizzio di prenderle la testa colle due mani per baciare i capelli, e certe strette di mano le ricordava più ancora, e la sua voce più che tutto.

Il progetto di ritornare a Milano le era ripassato per la mente, ma la dignità di sè stessa la consigliò a rimanere almeno per un certo tempo.

Però non aveva il coraggio di restare molte ore sola con Olimpia; un imbarazzo penoso l'assaliva in presenza di sua cugina. Usciva allora e faceva lunghe passeggiate o sulla strada maestra o nei campi e prati che si stendevano dietro il giardino, alcuni dei quali appartenevano ai Matazzi, altri alle ville circonvicine.

In una di queste passeggiate ella scoperse un sentieruzzo ombroso che fiancheggiava un campo di trifoglio, e le parve così romantico e deserto che vi si inoltrò recitando ad alta voce i versi delle Rimembranze: E questa è l'ora; mormorar io sento
Co' miei sospiri in suon pietoso e basso
Tra fronda e fronda il solitario vento.

Ottobre pingeva la campagna di una tinta malinconica; il giallo dominava sul verde. Le colline sfumavano dentro un velo di nebbia rotta qua e là dalla freccia acuta di un campanile. La natura era fredda e silenziosa, il cielo grave; si sentiva l'inverno attraverso le folate di vento che facevano cadere le foglie e stridere i rami.

Costanza non era sola. Davanti a lei, fra gli steli del trifoglio, camminava una giovane signora molto piccola di statura e colla faccia sprofondata nelle larghe tese di un cappello color oliva. Ella sembrava affaccendata a cercare qualche cosa per terra, così affaccendata che Costanza si fermò e le disse:

— Ha perduto qualche cosa?

— L'incognita sollevò due occhi smarriti, chiari, privi affatto d'espressione, e rispose con dolcezza, quasi con una vergognosa titubanza.

— Sì. Ho perduto i miei pesciolini. Macchinalmente, Costanza si chinò a cercare in mezzo all'erba, ma poi chiese rialzandosi:

— Scusi, che pesciolini?

Un gran turbamento si manifestò in viso all'incognita; ella chinò gli occhi e fregando rapidamente le mani una contro l'altra, balbettò:

— I miei pesciolini, i miei pesciolini.

Quasi nel medesimo istante una contadina apparve in fondo al campo gridando:

— Signora! signora!

La signora del cappello color oliva, visibilmente contrariata dalla presenza della contadina, si avvicinò a Costanza e ponendole sul braccio una manina diafana, disse con accento supplichevole:

— Ho perduto anche la luna.

Costanza capì che la povera donna aveva smarrito il senno; le venne una compassione immensa, e insieme alla compassione uno strano sospetto.

Intanto la contadina continuava a gridare:

Perchè è fuggita? Sa bene che il padrone non vuole che ella esca sola.

Andiamo, venga a casa. Io sentirò a sgridarmi per colpa sua.

A Costanza batteva il cuore in modo singolare. Strinse con amorevolezza la mano della sconosciuta, e domandò alla contadina:

— Chi è questa signora?

— È la signora di villa Paolina. Era a Milano in un ospizio di…. mi capisce (qui un gesto eloquente): ma siccome ora è tranquilla, sperano che in casa sua possa rimettersi più facilmente. Hum?… quando il cervello è fuori di posto!

— Non parlate così in sua presenza. Ella potrebbe comprendervi e soffrirne, poverina!

Costanza si sentiva le lacrime agli occhi. Mille sentimenti combattevano in lei, e fra gli altri un desiderio di abbracciare quella disgraziata, di consolarla di farle del bene. Era la moglie di Rizzio!

— Li cercherete i miei pesciolini?

— tornò a dire l'infelice volgendo tutto verso Costanza il suo povero volto scolorito.

— Sì, cara, non dubitate; li cercherò e ve li porterò.

— Ah! come fa a dire di queste cose? — esclamò ridendo la contadina.

— Non capite, — ripetè Costanza, — che a secondare la sua idea ella è contenta? Vedetela come mi guarda! Non avete voi dei bambini, ai quali fate credere che in paradiso c'è il pan d'oro? Figuratevi che queste povere creature sono come i bambini. Abbiate pazienza con lei, usatele bei modi e buone parole. Pensate, se foste voi nel suo stato!

— Madonna santa! preferisco essere quella stracciona che sono!

La piccola signora del cappello oliva si accorgeva benissimo che Costanza perorava la sua causa. Quando la contadina la prese sotto il braccio per condurla a casa, ella guardò Costanza in modo pietoso.

— A rivederci. Penserò a voi, non dubitate.

Così disse Costanza salutandola, e stette ferma a guardarla mentre si allontanava lungo il campo di trifoglio. Una voluttà celeste le era scesa nel cuore, la voluttà di contraccambiare con tanto bene tutto il male che Rizzio le aveva fatto.

***

— Non credete che ella possa guarire?

— Tutto quello che era possibile si è già ottenuto. Non ha più accessi furiosi; non attenta più alla sua vita; la sua è adesso una follia innocente ed innocua.

— Si trova da molto tempo in questo stato?

— Saranno quasi cinque anni; ciò le accadde dopo il parto, ma nella sua famiglia si ebbero altri casi di pazzia. Gli uomini dovrebbero essere un poco più cauti quando scelgono una moglie.

Questo dialogo correva fra il dottore e Costanza. Costanza soggiunse, con un lieve tremito nella voce:

— Egli era forse molto innamorato?

— La bella ragione! Ma no, non mi pare che fosse innamorato. E stato un matrimonio di convenienza; certo due esseri opposti non si potevano unire in peggio, — e pensare che è per tutta la vita!

Un brivido agitò Costanza, che non rispose.

Nei giorni seguenti, grosse pioggie le impedirono di uscire; i sentieri dei campi erano impraticabili, la strada maestra sembrava una pozzanghera.

Salviati veniva tutti i giorni a fare la corte a Olimpia. Costanza incominciava a stabilire sul serio la sua partenza; per la fine di ottobre contava essere a Milano.

Ma come tornava cambiata alla sua casa! Come vi tornava cambiata da quel bel giorno di primavera in cui erane partita così gaja e serena! Anche ora, mordendo pensierosa una foglia di geranio, le accadeva di cantare a mezza voce: quando il tuo labbro sul labbro mio; ma calde lagrime accompagnavano la romanza. Costanza non poteva dimenticare.

Per santa Teresa venne fuori un bellissimo sole. Si doveva ballare alla sera in casa della sindachessa, che aveva ordinato per sè e per le sue figlie degli abiti color sangue di drago; Olimpia si riprometteva tutte le gioje della maldicenza; Costanza era più malinconica che mai. I divertimenti non svagano che le anime plebee; un nobile dolore nobilmente sopportato desidera la solitudine.

Ella uscì nel pomeriggio, per trovarsi sola co' suoi pensieri, e prese senza accorgersene, il sentiero che conduceva al campo di trifoglio.

Passeggiò un poco e poi sedette sotto a un albero, godendo la delizia di quella giornata di tardo autunno, così placida e così severa, così fatta per mettere la calma ìn un cuore agitato.

« Poichè l'uccelletto del bosco svolazza e canta ancora su quel ramo dove le sue uova si ruppero nel nido.

« Poichè il fiore del campo dischiuso fin dal mattino, vedendo un altro fiore sorgergli accanto, s' inchina senza mormorare e cade prima di sera.

« Poichè in fondo alla foresta, sotto gli archi di foglie, il legno morto scricchiola sui sentieri; e perchè l'uomo attraversando la natura immortale non ha saputo trovare nessuna scienza che duri, fuorchè quella di andare sempre avanti.

« O musa, che m'importa vivere o morire?

« Amo, e voglio che la mia guancia diventi pallida; amo e voglio soffrire; amo, e per un bacio do il mio ingegno.

« Amo, e voglio sentire sulla mia guancia dimagrata scorrere una fonte che non inaridisca mai. »

I pensieri di Costanza erano forse eguali a questi pensieri di un grande poeta! poichè la nota del dolore è la specialità del genio, e quando il poeta crede di parlare al proprio cuore, parla al cuore dell'umanità.

Una voce riscosse Costanza. Ella levò gli occhi e vide la piccola signora dal cappello oliva che le correva incontro, seguìta dalla solita contadina.

— Come state? Ho molto piacere di incontrarvi, — disse la piccola signora.

— Sapete che sono rimasta in casa tutti questi giorni in causa della pioggia?

— Certamente, io lo supponevo, — rispose Costanza maravigliata di sentirla discorrere così a proposito. — E voi state bene?

— Sì, sì, non c'è malaccio. Ho sempre qualche cosa qui — (si toccò la fronte) — come un chiodo. Non avete mai provato voi ad avere un chiodo? Una volta ne ebbi fin mille, facevano tic tac, tic tac, e poi li ho perduti. Ah! ho perduti i miei chiodi. Dove sono? Dove sono?

— Ci siamo, — disse la contadina.

Costanza offrì il suo braccio alla povera demente, e con somma dolcezza la intrattenne ascoltando pazientemente le stramberie che andava dicendo.

Una curiosità affettuosa la spingeva a leggere la vita di quella donna attraverso le incoerenze del suo linguaggio. Sperava e paventava sempre di udir pronunciare il nome di Rizzio; ma la piccola signora non vi faceva neppure allusione; non nominava nessuno; parlava di sè e degli oggetti inanimati. Il sole, la luna, i pesciolini la occupavano sempre.

Al momento di separarsi, ella si aggrappò alla mano di Costanza, come un fanciullo viziato:

— Venite con me! — esclamò tirandola. — Venite!

— Non posso, carina, — rispose Costanza commossa. — Io abito laggiù, vedete? Laggiù dove c'è un pioppo che oltrepassa il tetto.

— Conosco quella casa, — disse la pazza corrugando la fronte quasi per richiamare idee lontane. — Ci sono stata quando, quando…

Non si ricordava più.

— Presto vado via però; forse è l'ultima volta che ci vediamo. Volete darmi un bacio?

— Uu bacio?

Sulla sua faccia smunta passò il raggio di un sorriso. Costanza la prese per le spalle e la baciò due volte. Una tenerezza malinconica le stringeva il cuore; sentiva di non essere più padrona di sè. La salutò ancora colla mano e si allontanò rapidamente.

***

Rizzio non era più comparso a villa Olimpia. Si dubitava anche assai che dovesse accettare l'invito del sindaco per quella sera. La presenza in casa sua della povera demente giustificava fino a un certo punto tale eclissi.

— Tuttavia, — diceva la moglie del dottore, che non si consolava tanto facilmente della perdita di un uomo simpatico, — se è lecito supporre che sua moglie gli resti pazza per trenta o quarant'anni ancora, vorrà egli restare tappato in casa fino al secolo venturo?

— È buon marito!

Questa frase la gettò là Olimpia, passando con indifferenza per andare da Salviati a farsi allacciare un guanto.

— Sì, — mormorò la moglie del dottore, — ve ne sono molti di buoni mariti!

(E appoggiò l'accento sull'aggettivo qualificativo).

Puccini sorrise. Le figlie della sindachessa sorrisero anche loro senza sapere il perchè.

— Io sono d'opinione, — intervenne Matazzi, — ch'egli avrebbe fatto bene a lasciarla dov'era.

Costanza si era indotta a malincuore a venire in quella riunione che mancava per lei d'ogni attrattiva; ne l'aveva decisa il pensiero di fare i suoi saluti a tutti in una volta sola.

Seduta vicino al vecchio sindaco che dormiva, le restava se non altro la libertà della sua tristezza. Vedeva svolazzarsi davanti nel turbinio del ballo le gonne grosse delle padroncine di casa e il lungo strascico di Olimpia ravvolto intorno ai piedi di Salviati; li vedeva come in sogno.

Improvvisamente trasalì. Aveva udito la voce di Rizzio; egli diceva: vuol piovere o fa freddo, o qualche cosa di altrettanto comune e insignificante; ma era la voce di Rizzio!

Costanza si sentì presa dal bisogno di fuggire, di sottrarsi agli sguardi di lui, almeno finchè avesse preparata una maschera di freddezza conveniente.

Accanto alla sala del ballo c'era un corritojo che serviva per il giro delle coppie, e in fondo al corritojo la camera della sindachessa.

Costanza vi si rifugiò e sedette accanto al letto tutto coperto dei mantelli e dei cappucci delle signore.

Una pallida lucerna la rischiarava. I ritratti del sindaco e di sua moglie stavano appesi alle pareti, il sindaco in giubba, cravatta bianca, guanti in mano appoggiato a un tavolino dove c'era un calamajo e una penna; madama in velluto celeste con delle fettuccie rosa. I due onesti coniugi guardavano Costanza e sembravano maravigliarsi, nelle loro cornici di legno, ch'ella potesse soffrire tanto; le loro ciglia immobili e dipinte esprimevano lo stupore; sulla bocca della sindachessa, atteggiata in forma di cuore, un sorriso bonario voleva dire: « C'è qualche cosa al mondo che valga la pena di essere presa sul serio?»

Costanza appoggiò la testa sui guanciali: in sala suonavano un valzer; si sentiva lo stropiccìo dei piedi, le risa soffocate, le parole interrotte; quegli uomini e quelle donne che si tenevano abbracciati mandavano fino a lei l'eco del loro tripudio; era come un'onda esuberante di vita che veniva a frangersi contro la sua solitudine.

Ma sognava o la voce di Rizzio la perseguitava ancora? No, non era un sogno.

Due persone, stando nel corritojo, si appoggiarono contro l'uscio della camera da letto. Rizzio diceva:

— È per voi che sono venuto qui.

— Per vendicarvi? — (Questa era la voce d'Olimpia).

— Appunto; per vendicarmi. — (Una amarezza singolare accentuò queste parole).

— Credevo vi bastasse il non venire più in casa mia.

— Non perdiamo tempo in ciarle inutili e sopratutto non torniamo sul passato. Badate piuttosto a scegliere meglio i vostri adoratori; non tutti sono discreti. Ecco una lettera che voi avete scritto a Salviati.

— Come l'aveste? — (La voce d'Olimpia strideva per la collera).

— Poco importa saperlo; Salviati è uno sguajato….dicevate un tempo. Prendete la vostra lettera e siate più cauta.

— Grazie. Siete dunque ancora mio amico?

— No.

Vi fu un momento di silenzio. Olimpia soggiunse con inflessione carezzevole:

— Perchè volete essere generoso solamente a metà?… L'amate dunque assai mia cugina?

Rizzio interruppe:

— Non pronunciate il suo nome.

— L'amate? — insistè Olimpia con voce soffocata.

— Ebbene, sì, l'amo, l'amo. Se questo vi può tormentare come voi avete tormentato me, ve lo ripeto, l'amo! Vedete che è impossibile una riconciliazione fra noi due. Vi ho portata la vostra lettera, una lettera che vi poteva perdere; non chiedetemi altro.

Le voci si allontanarono. Costanza, in preda a un'agitazione vivissima, si levò in piedi; ma non poteva reggersi. Ci volle un po' di tempo prima di ricomporsi per rientrare in sala.

Rizzio era già partito.

***

Il breve colloquio udito per caso da Costanza, era di natura a smuoverla da' suoi propositi di oblìo. Ella perdette in un colpo solo i vantaggi ottenuti con tanti giorni di lotta.

Credere Rizzio totalmente indegno del suo amore era un ajuto per dimenticarlo; scoprire invece che egli è, ad onta di tutto, un nobile cuore e trovarsi ancora davanti il dovere inesorabile, fatale, e vedere sempre ritta la insuperabile barriera che li divide, e doversi dire che non sarebbe suo giammai, ecco il nuovo dolore che venne ad aggiungersi ai dolori di Costanza.

La sua partenza venne fissata per l'ultimo del mese, ma ora sì che le si attagliavano i versi di Bernardo Tasso: Parte l'amante, ma non parte solo, C'ha i suoi cari pensieri in compagnia, l quali ad ora ad or s'alzano a volo Tornando a lei per la più corta via.

E guardando sull'album d'Olimpia il ritratto di Rizzio non poteva ella soggiungere: Nè per baciar le mille volte e mille L'imagine cotanto amata e cara Sol una spegne di tante faville.

O poeti, consolatori di quelli che soffrono, la vostra missione sulla terra è ben dolce! Raccogliete intorno a voi in un grido solo d'amore gli amori di tutti i secoli, voi siete l'arpa e la croce, il Parnaso e il Golgota, il cuore che canta e il cuore che geme.

Il trentuno di ottobre si levò splendido e sereno, ma dopo qualche ora di sole una fitta nebbia scese a coprire ogni cosa.

— La brutta giornataccia che avete per partire, cugina mia! — diceva Mattazzi intanto che attaccavano il cavallo alla carrozzella che doveva condurli alla stazione.

Costanza si preoccupava poco del tempo; non era eccessivamente nervosa. Si sentiva triste però. Abbracciò Olimpia quasi piangendo, con una voglia immensa di raccontarle tutto e di dirle che le perdonava.

Olimpia si mantenne impassibile; aveva la tosse e prendeva delle caramelle d'orzo; ne offerse anche a sua cugina, che rifiutò.

— Hai il vestito sulla ruota, — le disse, quando Costanza fu seduta nella carrozzella.

— Grazie.

— Buon viaggio e conservati sana.

— Anche te. Addio.

Il cavallo si mosse; non aveva fatto quattro passi che già era scomparso nella nebbia. Olimpia stava per ritirarsi dacchè era impossibile distinguere nulla.

A un tratto si odono acutissime grida. La voce di Matazzi dominava quella di Costanza e un'altra fievole e lamentosa come di persona ferita. Avanzandosi, Olimpia vide la carrozza ferma e suo marito che balzato a terra tentava ritirare di sotto alle zampe dei cavalli una piccola signora con un cappello oliva.

La causa prima della disgrazia era stata la nebbia. La povera donna, sfuggita alla sorveglianza veniva a salutare Costanza che aveva conosciuta tanto buona con lei; proprio al momento che entrava nella villa, il cavallo usciva, investendola e gettandola a terra.

La rialzarono; parlava, si lagnava molto; le usciva il sangue in abbondanza da una ferita alla mano, ma non sembrava fosse lì il male maggiore.

Due messi furono spediti in tutta fretta ad avvertire Rizzio e il dottore. Disgraziatamente Rizzio non c'era. Il dottore accorse subito, fece portare la poveretta su un letto, la spogliò e la esaminò coscienziosamente.

Tolta la ferita della mano, non c'erano lesioni visibili, ma siccome i suoi lamenti erano strazianti, si dubitò che avesse ricevuta una scossa interna.

Per la doppia considerazione di non aggravare il suo stato trasportandola e perchè Rizzio non era in casa, decisero di tenerla nel letto di Costanza. Alla partenza non ci si pensava più. Costanza, che si riteneva non affatto estranea alla disgrazia, perchè l'infelice si era mossa per venire a trovar lei, le sedeva piena d'angoscia al capezzale tenendole una mano stretta nelle sue ed applicandole sui polsi il ghiaccio che era stato ordinato dal medico.

— Purchè guarisca! Mio Dio! purchè guarisca! — esclamava di tratto in tratto, sollevando gli occhi al cielo.

— Lo spero, — disse il dottore, — e forse guarirà completamente. Non è la prima volta che una forte commozione ridà la salute a un pazzo. Curandola bene, chi sa che non ne esca a tutto suo vantaggio.

Udendo queste parole, Costanza rivolse una fervida preghiera a Chi regge i destini degli uomini. La sua anima, pronta sempre al sacrificio, si offriva in cambio di quella povera anima sofferente.

— Non l'abbandonerete? — domandò l medico, — almeno finchè viene suo marito. Olimpia non ha attitudine a fare la suora di carità.

— Vi prometto di non muovermi da questa camera. Ah! signore, quanto darei per salvarla!

Il medico le strinse la mano assicurandole che egli sperava molto.

***

— Questa camera è gelata; non so come tu puoi resistere a starvi.

Olimpia era venuta a visitare l'inferma e se ne stava ai piedi del letto nell'attitudine precaria di chi vuole andarsene presto.

— Vedi? ho tenuto lo scialle appositamente; non c'è mica male così.

— Già; tu non hai la tosse. E come va questa povera Paolina?

— Il dottore ha buone speranze. Parliamo adagio perchè dorme; infelice! chi sa quanto soffre!

— Mi dispiace che la cosa sia avvenuta, qui, colla mia carrozza e col mio cavallo; è seccante, capirai, quantunque ritengo che non vorranno accagionarmi anche questa disgrazia.

— Oh! ti pare!

— Non so che ne penserà Rizzio. Oggi per l'appunto è andato a Milano e non tornerà che stasera, o domattina. Ma decisamente a star qui la mia tosse cresce. Ti manderò la cameriera.

— Per far che?

— Per ajutarti, per sollevarti, che so io! Deve essere molto penoso il curare gli ammalati!

— No, non è penoso. La cameriera non mi gioverebbe affatto. Se mi occorre chiamerò.

— Come vuoi! Eccoti cinta di tutte le aureole!

Su questa frase discretamente sarcastica, Olimpia si allontanò tossicchiando.

Dopo pranzo venne ancora il dottore. L'ammalata giaceva in uno stato di letargo; non capiva quello che le si diceva, non conosceva nessuno, neppure Costanza; non si lagnava più.

Le rinnovarono la fasciatura della mano, e poi il dottore propose di chiedere un consulto al medico alienista che l'aveva curata nello stabilimento di Milano. Ma il marito era assente; come prendere una decisione di tale importanza senza di lui? Convenne aspettare. Intanto mandarono a chiamare la contadina che l'aveva in guardia. Essa e Costanza si prepararono a passare la notte vegliando: Matazzi si offerse a supplire una delle due quando sarebbero stanche. Tuttavia, la più grande tranquillità essendo prescritta di rigore, ognuno si ritirò lasciando la poveretta colle sue due infermiere.

Difficile sarebbe ridire le meditazioni che fece Costanza; le sfumature, leggierissime del suo pensiero, le ansie, i dubbi, le paure, i dolci riposi della sua coscienza, le ambascie del suo cuore battagliero. Tutta assorta com'era non si accorse che la camera si faceva buja e che la contadina dormiva.

Il suono di un pendolo collocato in un angolo della camera la riscosse.

Otto ore!

Si alzò e accese un lume. Nel salotto terreno si udiva il mormorio di diverse persone riunite. Lontano, attraverso la nebbia, attraverso gli alberi sfrondati, il fischio del vapore sibilò per l'aria. Era l'ultima corsa che arrivava da Milano.

Costanza prese da un cassetto alcuni pannolini usati e cominciò a farne delle filaccie per la mano di Paolina. L'immobilità della pazza la sgomentava; avrebbe preferito udirla sragionare piuttosto che vederla così impietrita, col volto che pareva di cera e l'occhio spento.

Portandosi coll'immaginazione nel passato di quella povera donna, se la figurava lieta e sorridente sotto il velo di sposa: pensava come doveva essere stato quel volto che, fosse pur poco, era piaciuto a Rizzio, e quegli occhi dove egli aveva fissato i suoi; quasi la prendeva un desiderio violento di essere al suo posto, solo per chiamarsi la moglie di Rizzio, per avere diritto alla sua compassione e morire nelle sue braccia e avere il nome di lui scritto sulla sua tomba.

Passi affrettati risuonarono su per le scale, Matazzi, il dottore e Rizzio entrarono, col cappello in mano, parlando a bassa voce.

Costanza si pose nell'ombra. I tre uomini circondarono il letto; Matazzi spiegava come era succeduta la disgrazia; il medico intanto teneva gli occhi fissi nell' ammalata, e sulla sua fronte corrugata si potevano leggere tristi pronostici.

Il contegno del marito era serio, afflitto senza affettazione. Prese la mano di Paolina. La chiamò dolcemente, ma non ottenne risposta. Sembrava affatto insensibile; aveva solo un respiro affannoso, rotto da lievi gemiti.

Si decise subito di telegrafare al medico dello stabilimento; Matazzi discese a dare gli ordini.

— Voi!…

Indietreggiando di alcuni passi, Rizzio aveva veduta Costanza; i loro occhi avvezzi a comprendersi s'intesero con un rapido sguardo.

Costanza pose un dito sulle labbra invitandolo al silenzio.

— Oh! permettete almeno che vi ringrazi.

Ella sorrise melanconicamente.

Di lì a pochi momenti il dottore prese commiato.

Costanza si mosse per accompagnarlo, ma volgendosi prima verso Rizzio, gli domandò:

— Restate?

— Certamente.

— Allora io vado a prendere qualche ora di riposo; ci scambieremo verso il mattino.

Rizzio non osò pregarla di rimanere: le stese la mano, che ella toccò leggiermente tremando.

***

Tutti erano accorsi quella sera a villa Olimpia per sentire le notizie dell'accaduto.

La moglie del dottore si dava un'aria importante di persona iniziata ai misteri della scienza; parlava di spina di cerebro, e della sutura che congiunge le ossa del cranio; ma quando le domandavano l'opinione di suo marito sullo spiacevole caso, ella si ravvolgea in un velo di reticenze prudenti, come se fosse un confessore e non potesse palesare i segreti ricevuti.

La sindachessa pure era accorsa colle sue due figlie.

C'era stato prima un consiglio di famiglia per sapere se, in vista del disgraziato accidente, non era il caso di vestire abiti bruni. In seguito alla decisione affermativa,la sindachessa aveva indossato il suo abito nero; le figlie, che non avevano abito nero, tirarono fuori dal guardaroba il loro abito dell'inverno passato che era color sorcio, unica circostanza in cui non si videro vestite tutte e tre a un modo come le Grazie.

Salviati esclamava tratto tratto: « Che disgrazia! Che disgrazia!« ritto sui garretti e con una mano sul fianco, Puccini raccontava i casi analoghi che erano succeduti nella sua famiglia, dove pare gli accidenti di carrozze si moltiplicavano all'infinito.

La figlia maggiore del sindaco (una ingenua di trent'anni) ebbe la dabbenaggine di dire:

— Se la povera signora morisse, il signor Rizzio prenderebbe moglie ancora?…

Al che Olimpia rispose in modo sarcastico:

— Se è per qualche tua amica che parli, bimba, asciugati la bocca!

— Come! — domandò la moglie del dottore intanto che l'ingenua si confondeva in proteste. — Rizzio avrebbe egli un'innamorata?

Olimpia alzò le spalle sdegnosamente senza aggiunger altro.

La moglie del sindaco credette bene di avvicinarsi alla dottoressa e, forte della sua esperienza di mamma, susurrarle all'orecchio:

— Rizzio, mia cara signora, è uno di quegli uomini pericolosi.… voi m'intendete! (uno sguardo intelligente fu scambiato fra le due matrone). — Uno di quegli uomini che lusingano, che seducono, che adescano senza promettere mai nulla…. voi m'intendete! Uomini immorali, dissoluti, via!…. Non gli darei le mie figlie se me le pagasse un milione per capello.

— Rinuncia magnanima! — sibilò Olimpia.

In quel momento entrò Costanza. Veniva a dare la buona notte alla compagnia prima di ritirarsi. Poichè Rizzio vegliava la moglie, ella si era fatto apparecchiare un lettuccio nella camera accanto.

— In verità, mia cara, — le disse Olimpia, — ti dai troppa pena per quella gente.

— È una pena che mi darei per tutto il mondo, — rispose Costanza, che aveva le lagrime agli occhi, — per il primo che capita, se fosse uno che soffre e che avesse bisogno di me!

— Tu sei padrona di fare del tuo cuore quello che vuoi, anche gettarlo ai cani.

Costanza avrebbe potuto rispondere: « E l'ho pur gettato!» ma non disse nulla. Salutò tutti e se ne andò.

Durante la notte non potè chiuder occhio. Rizzio e Paolina erano a due passi da lei. La pietà e l'amore la tenevano desta; porgeva l'orecchio ad ogni minimo rumore, trasaliva ad ogni gemito dell'ammalata.

Verso le quattro la contadina venne a bussare al suo uscio.

— Che c' è? — chiese Costanza aprendo.

— La signora muore.

Non corse, volò. Rizzio la sosteneva sotto la testa; era disfatta in volto e già del colore di un cadavere.

— Il medico! Il medico! — gridò Costanza.

— E inutile, — mormorò Rizzio crollando il capo, — non ha quasi più polso.

Tuttavia la donna andò a svegliare Olimpia e Matazzi; qualcuno mosse in cerca del dottore.

Intanto Costanza, ajutata da Rizzio, metteva dei guanciali dietro le spalle della moribonda.

Essi non si guardavano.

Costanza batteva i denti per il freddo. Rizzio prese il proprio mantello e glielo pose sui ginocchi in silenzio.

La pazza aperse gli occhi un istante; Costanza si curvò su di lei e la vide sorridere:

— Mi conoscete?…

Senza rispondere, l'infelice allungò le labbra e baciò Costanza sulla fronte. Anche Rizzio tentò di avvicinarsi, ma ella aveva già chiusi gli occhi.

L'alba, pallidissima, sorgeva in cielo: la camera si riempiva di una luce fredda, vaporosa, che dava a quei tre volti un solo aspetto di cera.

— Oh Dio! ella muore, — esclamò improvvisamente Costanza.

Entrava allora Olimpia seguìta da suo marito e dal dottore.

— È morta! — disse il dottore ponendole una mano sul cuore.

***

L'indomani Costanza era ammalata.

Si credette sul principio una semplice febbre dovuta allo strapazzo, ma poi subentrarono dei caratteri reumatici e nervosi che la obbligarono a una cura rigorosa.

Stando in letto, ella udì i becchini che venivano a prendere la povera morta, e le martellate che davano sui chiodi per conficcarli nella bara. Udì il buon Matazzi che diceva: « Dopo tutto, meglio così: che faceva al mondo quell'infelice? »

La voce di Rizzio l'udì una volta sola; non potè comprendere quello che disse.

Olimpia veniva spesso a trovarla; si metteva sotto alla finestra col lavoro in mano, ma parlava poco. La diffidenza era nata in mezzo loro. Un solo pensiero le dominava quando erano insieme e tutta la loro cura mirava a nasconderlo.

— Stanno tutti bene? — dimandava Costanza (ella pensava a Rizzio).

— Sì, benissimo tutti, — rispondeva Olimpia. — Sai bene: chi muore giace e chi vive si dà pace (ella pure pensava a Rizzio).

Costanza struggevasi che la sua malattia la ritenesse ancora in campagna. Già da quindici giorni avrebbe dovuto trovarsi a Milano, nel suo salottino, nella sua poltroncina americana, dove aveva imparato a dimenticare, e dove temeva, pur troppo, di non poter dimenticare più.

Appena cominciò a star meglio, ebbe fretta di annunciare a tutti la sua partenza; troppo fretta, perchè una ricaduta la obbligò a tornare in letto.

Venne così la fine di novembre. La campagna era uno squallore; la neve ricopriva tutto: alberi, prati, sentieri; pareva di essere in un deserto ai confini del polo.

Col freddo, le riunioni della sera erano più vive; ballavano sempre di qui e di là; la moglie del dottore, inaugurando la settima gravidanza, faceva dei renversé a tutta possa.

Costanza non si mostrava in nessuna casa; le sue premure erano volte a guarire in fretta; e poi avrebbe paventato troppo un incontro con Rizzio, quantunque sapesse che anche Rizzio non si faceva vedere più.

In una gelida sera di dicembre Olimpia doveva andare dal sindaco. Nessuna preghiera valse a smuovere Costanza dal suo proposito di restare in casa, onde Olimpia partì sola questa volta come tutte le altre.

Costanza si era avvezzata ad amare queste placide sere, che ella trasoorreva, libera, in compagnia delle sue memorie. Erano proprio le ultime perchè fra due o tre giorni sarebbe partita assolutamente.

Lavorava, accanto al fuoco, immersa nella dolce malinconia che l'era diventata abituale, quando le parve di sentire un rumore in giardino, e il dubbio divenne certezza poi che due o tre colpi picchiati sulla griglia l'avvertirono che qualcuno cercava di entrare.

Un leggiero e naturale senso di paura s'impadronì dell'animo suo pur così forte. I domestici dormivano al piano superiore. Ella non sapeva che fare, ma una voce la rassicurò subito:

— Aprite, sono io.

— Che fate? Che volete?

— Aprite, ve ne prego.

Era la sua voce grave, dolcissima, persuasiva. Costanza levò il saliscendi, e Rizzio, intirizzito, coperto di neve, entrò nel salotto. Egli avrebbe potuto dire che, al pari di Romeo, aveva scavalcato il muro di cinta questa volta; ma Costanza non glielo domandò. Disse invece, vedendo il suo pallore:

— Vi ho spaventata?…. Ma come dovevo fare? Ho saputo che volete partire senza vedermi, ed io…. — Si arrestò perchè Costanza rimaneva fredda, in piedi, appoggiata alla sedia, e non lo guardava. — Ecco, lo vedo; voi non mi avete ancora perdonato. E potevo io restare così? Dopo tutto quello che c'è stato fra noi due possiamo lasciarci in tal modo?

Costanza non seppe leggere attraverso queste parole ciò che vi metteva l'orgoglio e ciò che vi metteva l'amore; si ingannò, e rispose:

— Io vi ho perdonato, non parliamone più.

— Non è vero che mi avete perdonato! E se pur perdonaste, fu dimenticandomi.

Costanza lo guardò.

Oh! quella sera, quella bella sera d'estate che egli si trovava lì, al medesimo posto, giurando d'amarla, oh! quella bella sera in cui ella aveva creduto!…

Gli occhi di Costanza erano più sinceri del suo labbro, Rizzio vi leggeva chiaramente che ella non dimenticava.

— Credete che il mio cuore sia cambiato o credete che io mentissi allora? Vi amo, Costanza, lo sapete, lo sentite; non ho mai cessato un istante di amarvi, mai, e voi pure, oh! non dite di no, voi pure mi amate!

L'aveva presa attraverso la vita guardandola dentro alle pupille.

— Come potremmo non amarci se ci siamo scambiate le anime col primo sguardo? Costanza, che è questo tremito che ci invade, questo pallore che ci ricopre? Perchè il vostro cuore palpita sotto la mia mano? Perchè il mio vuole schiantarsi entro il mio petto?… perchè, se non per amore? Bussando alla vostra finestra sotto alla neve, io ardeva; la commozione mi stringeva alla gola; ma anche voi, anche voi avete sussultato al suono della mia voce; anche a voi la commozione rompeva la parola. Costanza, io sono vostro e voi siete mia!

Ella si sentiva morire, di una morte soavissima che le toglieva le sensazioni dolorose della vita per sprofondarla in un gaudio di paradiso.

Ella non poteva parlare.

— Oh! dimmi una parola sola. Mi perdoni?

— Sì.

— Mi ami?

— Sì.

— Sarai mia?

— Sì.

Costanza aveva perdonato.

Nel 1835 l'osteria del Lepre a Roma era (come la è forse anche adesso) il ritrovo di tutti gli artisti, studenti, commessi viaggiatori e buontemponi in genere. Vi si andava a mangiare l'abbacchio e a discutere una tesi, senza pregiudizio delle carte, del vino e delle donne. Marcello, che era il capo di una comitiva di giovani pittori, diceva che a questo mondo ogni cosa ha il suo posto, meno il giudizio, che non trovò ancora il domicilio stabile.

(Ecco una riflessione preziosa per gli storici, rilevandosi dalla massima di Marcello che in quel tempo non esistevano critici di sorta).

L'eroe di questa storia declamava appunto, com'era suo costume, seduto al posto d'onore in una sala terrena del Lepre, ed erano intorno a lui a fargli corona quattro pittori, uno scultore e un architetto. Il tema corrente era: il bello nell'arte: tema classico messo avanti dallo scultore.

— Non mi persuaderete — gridava Marcello, rizzando al di sopra di tutte le altre la sua fronte fiammeggiante — che il bello artistico sia diverso dal bello reale. Perchè piacciono la Venere, l'Apollo, la Beatrice di Guido Reni? perchè sono vere oltre all'esser belle.

— Vere, vere — si arrischiò a dire uno dei pittori, cui mancava l'erre ed era veneziano — nella realtà intanto non si trovano su tutti i canti le Beatrici.

— Giusto; perchè la bellezza non corre i trivi. Noi pittori avremmo la pappa fatta se ad ogni svolto di via ci imbattessimo nella bellezza. Si sa che la bellezza è rara come la virtù, come il denaro, come…. che so io!

— Come il giudizio — suggerì ridendo l'architetto.

— Benissimo.

— Come il talento — ribattè un altro.

— Anche.

— Come lo stufatino a punto.

Questa sciocchezza la pronunziò il pittore senz'erre per vendicarsi della sconfitta.

— Tutte le volte — continuò Marcello — che l'arte ha voluto scostarsi della verità è caduta nel barocco.

— Verità sì, ma verità abbellita.

— Che abbellita d'Egitto! Come se bellezza non esistesse prima che noi tingendo i pennelli nel bianco e nel rosso dicessimo alle turbe esterrefatte:

Ecco il bello. L'abilità e la specialità dell'arte è quella di scegliere diverse porzioni di bello e riunirle in un tutto armonico. La natura ci dà un bell'uomo qui (non parlo per te, venezianino), una bella donna lontana cinquanta miglia e un bel paesaggio lontano altri cinquanta; l'arte mette in un quadrato di tela l'uomo, la donna, il paesaggio e fa un bel quadro.

— Scusa — saltò su lo scultore — il paragone non è reso bene; sembra dire, e non è quello che tu pensi certamente, che l'arte fa il mestiere dei rigattieri.

— No, no, no….

— Marcello intendeva….

— Oh! insomma, se un bambino nascesse in una casa ermeticamente chiusa, nuda, vuota, e non vedesse mai nè cielo, nè alberi, nè fiori, nè persone, nè leggesse i poeti, nè udisse la musica, quand'anche natura gli avesse dato l'ingegno di Dante e di Michelangiolo, credete che potrebbe fare qualche cosa?

— Concesso; ma concederai tu pure che la copia servile della natura non è arte.

— E chi parla di servile? Io ho sempre parlato di bello, e sostengo che il bello è in natura, ma non ho detto che tutta la natura sia bella. ll genio dell'artista si dimostra appunto nella scelta che fa del suo soggetto e nel modo di trattarlo. Che se anche non fosse eguale alla natura, quella parte di bellezza che sembra e che dicesi ideale non è che il riflesso di altre bellezze vere, o sentite o intravedute o gustate, sparse nella sua mente a guisa del seme che cade in forma di chicco e sorge in forma di foglia.

La discussione incominciava adesso a farsi seria, ma per quella avversione alla serietà che hanno appunto i giovani e per conservare la fama che giammai discussione al mondo ha concluso qualche cosa, anche questa futroncata. L'architetto togliendo da una sedia dove l'aveva deposto un vecchio libraccio legato in cartapecora e corroso dai sorci, trovò questo punto intermediario fra la discussione artistica e un più piacevole argomento.

— Ecco qua il per fetto scrittore Francesco Cresci cittadino milanese, che scioglierà i nostri dubbi sul bello. È un libro del 1570, è dunque più vecchio di noi, e Socrate insegna che bisogna rispettare i vecchi.

Tutti gli studenti furono addosso al libro ridendo e schiamazzando. L'architetto incominciò a leggere la dedica facendo spiccare, secondo stavano scritte, le effe invece delle esse e i vi invece degli u.

« All'ill. mo sig. Marcantonio Florentio cameriero segrelo di N˙ S˙

« Poi che al sig. Dio è piacciuto che col favore della fua divina gratia io fia pervenuto al fine di quefta mia lunga e difpendiofa fatica, a me non refta far altro che provvederla d'un foftegno al quale ella poffa appoggiarfi o difenderfi dall'impeto delle punture de' miei invidiofi emuli, effendo io certiffimo…. »

Il veneziano dietro le spalle dell'architetto, leggeva anche lui ad alta voce e gli altri commentavano con grida, risate e lazzi, per modo che non si riuscì a capire più nulla; finchè l'architetto seccato richiuse il libro e dichiarò che andava a dormire, invitandoli a fare altrettanto.

La proposta non era di quelle che suscitano l'entusiasmo, ma era ragionevole, e a poco a poco vi si conformarono tutti, uscendo a due, a tre per avviarsi ognuno alle proprie case.

L'architetto, preso a braccetto lo scultore, riappiccicò il discorso sul bello nell'arte. Marcello, rimasto solo, s'avviò lentamente giù per via Condotti.

***

Nel cielo purissimo la luna di maggio splendeva chiara senza nubi. La linea irregolare dei tetti, i comignoli, le torricelle, i frontoni dei palazzi, la facciata delle chiese spiccavano netti su un fondo trasparente, pallidamente glauco.

Non si sentiva uno zitto; i fedeli sudditi di Sua Santità dormivano il sonno del giusto; Roma pareva una immensa necropoli, ma una bella necropoli imponente e severa, intorno a cui le aure primaverili scherzavano spandendo un soffio di vita nuova.

Di notte le cose prendono tutte un aspetto diverso; le proporzioni si confondono, le distanze spariscono, i suoni sembrano più gravi e i silenzi più solenni. Le persone fantastiche (Marcello lo era un poco) si compiacciono a popolare la buja solitudine coi fantasmi del loro cervello — evocano le memorie del passato, rivivono nelle scene di sangue o nei duetti d'amore, si fanno volta a volta tiranni, vittime ed eroi.

Già Marcello aveva veduto sfilare una processione di triumviri, di proconsoli di imperatori e di re; il bianco seno di Virginia gli era balenato davanti, un momento, cancellato subito dal profilo severo di Cesare e dallo sguardo profondo di Bruto — quando, svoltando l'angolo di una viuzza, si arrestò improvvisamente davanti a un palazzo antico, sulla cui facciata annerita dai secoli la luna batteva in pieno.

Da quasi un mese egli aveva l'abitudine di fermarsi tutte le sere a quel posto; tutte le sere si apriva tacitamente una finestra, e sulla immobilità marmorea del vecchio palazzo si disegnava la figura soave di una fanciulla. Oh! i casti amori che chiedevano alla luna tutta la sua luce, che si pascevano di sguardi e di sospiri! — Di soli sguardi e di soli sospiri.

Come poteva la giovinetta patrizia sfuggire alla sorveglianza delle sue governanti? per quante ore aveva tenuta chiusa nel cuore l'ansia di quel momento? perchè, dai principi che la circondavano, il suo primo sguardo amoroso era caduto su un povero pittore?… Queste ed altre domande bruciavano le labbra di Marcello, ma egli non aveva mai parlato. Un senso ignoto d' onestà, una persuasione dell'abisso che c' era fra loro due, una simpatia troppo debole per arrischiarsi a folli imprese, lo tratteneva. Gli bastava passare di là, fermarsi, alzare gli occhi, scambiarsi, quando v'era luna, un sorriso — dopo si metteva a letto tranquillo sognando blandemente di un angelo.

Aveva una bella amante, una popolana; e delle altre ancora, avventure di piazza, conoscenze di studio — era abbastanza celebre; ma la sua apparizione della sera, quella non la raccontava a nessuno; la teneva per sè, in una celletta alta alta del suo cervello dove raggiava perenne l'ideale.

La sera di maggio era così limpida che Marcello vide questa volta la fanciulla meglio che non l'avesse veduta mai, e si fermò compiacentemente a mirarla, appoggiato al muro dirimpetto, colle braccia conserte. Lei, tremante, stava chinata sul balcone togliendo per pudore la faccia dai raggi della luna, e pur sollevandola tratto tratto con un lieve sospiro.

Chi contava i momenti? Essi no. Ma un rumore nell'interno della stanza e la rapida comparsa di un lume trassero alla fanciulla un piccolo grido; si scosse e fuggendo lasciò cadere (giudichi chi vuole se pensatamente o a caso) una rosa boraccina bellissima. Nel medesimo punto la finestra fu chiusa violentemente.

Marcello raccolse la rosa; sostò qualche minuto per accertarsi che nulla di strano accadeva in palazzo, poi continuò la sua strada morsicchiando, sopra pensieri, il fiore che teneva in mano; fiutandolo distratto.

È di prammatica che i fiori donati dall'amato oggetto si debbano custodire gelosamente sul cuore, o per lo meno in un libro, in un tiretto, in un astuccio. Ne conosco uno, beato fiore, al quale il suo proprietario ha fabbricato un piccolo tabernacolo con due iniziali sullo sportellino. Marcello non fece nessuna di queste cose.

È d'uopo però dire in sua difesa che la gentile fanciulla non era proprio per lui quello che si dice l'amato oggetto, anzi non l'amava affatto. Sarebbe impossibile amare tutte le donne che si corteggiano a vent'anni.

Marcello dunque s'avviò a casa coll'intenzione di porsi a dormire; senonchè quando fu sulla soglia cambiò idea; tornò indietro, rifece parte della strada già fatta, si cacciò per viottoli e per traversi, e riuscì in un chiassuolo. Una voce di donna cantava alta e serena dentro una piccola finestra illuminata; egli raccattò un sassolino e lo gettò contro i vetri; la donna smise di cantare.

Alcuni momenti dopo Marcello sedeva vicino alla sua amante, che faceva la cucitrice e che aveva quella sera molto da lavorare. Marcello, quando si metteva in vena, era di un naturale allegro; cantò anche lui, rise, ciarlò, disse e fece mille pazzie. Quando uscì dalla stanzetta della popolana non aveva più la rosa; la rosa della patrizia era rimasta sul tavolo dell'operaja.

E però bisogna compatire il nostro eroe. Se quella benedetta rosa fosse riuscito a portarla a casa, non dico il tabernacolo, ma un libro forse l'avrebbe trovato per disseccarvi in pace.

Anche i fiori hanno il loro destino!

L'indomani Marcello stava vestendosi lentamente, ancora un po' sonnacchioso quantunque fosse abbastanza tardi, e leggiermente distratto da una biondina che annaffiava un vaso di garofani dall'altra parte della strada.

Marcello, teoricamente, non amava le bionde; egli aveva sostenuto parecchie dispute accanite con i suoi amici dimostrando che le bionde per piacere hanno bisogno di una bellezza assoluta, mentre sotto una chioma nera basta il lampo di una nera pupilla. Ma in pratica le cose sono sempre diverse, specialmente queste cose.

La biondina aveva annaffiato tre volte la sua pianticella come fosse un campo di riso, e non poteva risolversi ad abbandonare la finestra, ostinandosi a cercare dei bruchi sulle foglie e dei sassolini nella terra; Marcello si faceva la barba, canterellando negli intervalli.

A un tratto irruppe nella camera la padrona di casa del giovanotto con una scopa in mano e delle ragnatele in capo.

— Signor Marcello, signor Marcello….

— Rispettabile matrona, mi lasci terminare questa barba e sono da lei; i bottoni li voglio più piccoli….

— Non è per i bottoni, signor Marcello; c'è abbasso un signore, credo bene un pezzo grosso. Vorrei sbagliarmi, ma è il camerlengo di qualche Eminenza.

— E perchè vorrebbe sbagliarsi? — disse Marcello sciogliendo un po' di sapone nella catinella. — Non posso io ricevere il camerlengo di una Eminenza? E forse monsignor Durazzo che vuol farsi ritrattare e viene da me perchè sa che non riesco nelle somiglianze; spera di sembrare meno brutto.

La padrona di casa, dividesse o non dividesse questa opinione, chiese se doveva farlo salire.

— Certamente — rispose Marcello, senza affrettarsi troppo.

Aveva appena terminato di asciugarsi il mento quando entrò un personaggio grave e solenne, vestito di una mezza livrea nera tra il laico e il pretesco. Il personaggio s'inchinò.

— Padron riverito — disse Marcello

— posso sapere in qual modo ho l' onore di interessarlo?

— Sua Eminenza il reverendissimo cardinale principe S*** ha bisogno di parlarle, e la prega a recarsi in palazzo oggi stesso dopo il tocco.

Marcello pensò un momento. Il cardinale S*** era uno dei più potenti e ricchi signori romani, che poteva mai volere da lui? Dargli una commissione? Hum! L' ipotesi era arrischiata, assai più che se si fosse trattato del cardinal Durazzo. Un ammonimento? in quel tempo i principi assistenti al Soglio estendevano la loro autorità su chiunque vivesse in Roma papale. Su questa seconda supposizione il giovanotto si fermò più a lungo, e un lieve rossore gli passò sulle guance che la barba non copriva interamente.

— Dite a Sua Eminenza che non mancherò.

Il camerlengo fece un secondo inchino e sparve.

Marcello, per quella mattina, non si ricordò più di guardare la bionda. Terminò di vestirsi in fretta per recarsi allo studio, proponendosi di ritornare più tardi a farvi una toilette più accurata.

Al tocco preciso, lindo, lisciato, vestito di nero, coi guanti, Marcello presentavasi al palazzo S***.

Restò in anticamera tre quarti d'ora appena, una vera inezia, e alle due meno un quarto venne introdotto nel gabinetto del principe cardinale.

Era costui, prima di tutto, un gran signore e poi un prete. Sulla veste talare il rocchetto pavonazzo cadeva con pieghe maestose, simili a quelle di un manto regale; la larga fascia che gli cingeva le reni somigliava più che al distintivo di un servo di Dio, al cinturino di un soldato; si cercava la spada in mezzo alle pieghe della sua sottana. Aveva l'aspetto aristocratico e marziale, imponente e punto benevolo.

Le insegne di un gran potere se non fossero state visibili nella numerosa servitù, nei corridoi riboccanti di persone che venivano a chiedere protezione, nelle lettere aperte e stemmate che giacevano sul tavolo davanti a lui, nel rispetto col quale pronunciavasi il suo nome, queste insegne le si sarebbero trovate vive e parlanti nel corruscare del suo occhio aquilino.

Si sentiva subito, appena messo il piede in quel gabinetto, che il cardinale non era un uomo come gli altri.

— Siete voi il pittore Marcello?…. — domandò egli con una voce bassa, velata, in aperta contraddizione col suo sguardo scrutatore.

E quasi senza aspettare la risposta, soggiunse:

— Duolmi di non potervi tributare in questa circostanza, come vorrei, le lodi che si devono al vostro ingegno….

— Eminenza….

— Si è parlato di voi nel circolo intimo del Santo Padre; il quadro che presentaste all'ultimo concorso dà luogo alle più belle speranze; ma, quanto è spiacevole vedere che proprio nel grano migliore si annidi sempre la zizzania.

Tacque. Marcello, che stava in piedi appoggiato alla gamba destra, mutò posizione e si appoggiò alla sinistra, aspettando che Sua Eminenza si spiegasse meglio, e Sua Eminenza visto che la montagna non veniva a lui, andò lui dalla montagna.

— Sapete di che cosa voglio parlarvi?

— Eminenza no.

— Non lo sapete?

— Neanche per ombra.

Il cardinale prese un'aria severissima.

— Siete pur voi che tutte le sere, dalle undici a mezzanotte passate per via***. È vero?

— Eminenza, credevo che le contrade di Roma fossero libere.

Intanto che Marcello rispondeva così, freddamente, nel suo interno pensò: Ci siamo!

— Certe libertà un onesto giovane non se le prende mai; un giovane che si rispetta sa rispettare anche le convenienze, l'onorabilità, l'inviolabilità di persone che per il loro nome, per il loro grado, per la loro stessa innocenza dovrebbero essere sacre.

Marcello stava per dire: — O lei perchè viene alla finestra? — ma non lo disse, e rispose invece fingendo la più bella indifferenza del mondo.

— Eminenza, io credo che persone malevole l'abbiano male informata.

Il cardinale sorrise.

— Vecchia astuzia. Ma poichè vedo che siete accorto, meglio, ci intenderemo con poche parole: o piuttosto siamo già intesi. Sua Santità non tollera ne' suoi stati chi, in qualsiasi modo, può recare molestia alla tranquillità dei cittadini e al decoro della religione. Capite?

Marcello ebbe qui un movimento di rivolta. Gli balenò l'idea di sfidare il cardinale; ma da un lato l'assurdità della cosa, dall' altro il riflesso che il torto era proprio suo, lo decisero a starsene trincerato nel suo sistema di difesa negativo. E questa fu una delle poche circostanze in cui si condusse con senno e prudenza.

— Dichiaro — disse con voce ferma, leggiermente caricata — ch'io non ebbi mai nessuna delle cattive intenzioni a cui Vostra Eminenza sembra alludere.

— Prendo nota della vostra dichiarazione e per ora me ne accontento. Andate. Non dimenticatevi che c' è un occhio aperto su di voi.

Marcello, che stava per inchinarsi, si raddrizzò bruscamente. Il cardinale soggiunse con unzione:

— L' occhio paterno di Sua Santità.

Marcello terminò l'inchino, non senza mettervi un po' d'ironia, e aperse l'uscio che si richiuse dolcemente su di lui scivolando sul tappeto di velluto.

***

Gli ostacoli che accrescono le grandi passioni agiscono in senso contrario sulle piccole. E probabile che se Marcello fosse stato seriamente innamorato della principessina, l'ammonimento del cardinale non lo avrebbe distolto dal passare ancora in via***. Ma Marcello badava a farsi un nome; l'amore entrava nella sua vita per la strada grande della pluralità e non vi lasciava traccia. Non volle più occuparsi della sua bianca visione della sera, e vi riuscì senza grandi fatiche. La bella popolana poi ne lo compensava largamente.

Alla sera, quando usciva dal Lepre, pigliava un altro giro; e siccome tutte le vie conducono a Roma, egli sapeva bene trovare la casa bassa e la piccola finestra della sua Fornarina.

Tutta l'estate era trascorsa con molto profitto degli studii dell'arte che Marcello amava con passione; le dispute al Lepre si succedevano e si rassomigliavano senza concludere mai nulla, ma intanto il nostro pittore lavorava e il suo nome non era più ignoto.

In una mattina di settembre, fulgida, di quel fulgore caldo e trasparente del cielo meridionale, Marcello usciva dalla casetta della sua amante, e fermatosi un istante sulla soglia alzò il capo a mirare lo splendido sole.

— Veh! — diss'ella, correndo a raggiungerlo con in mano una rosa carbonara del più cupo vermiglio — veh! che bel fiore; mettilo all'occhiello.

Egli la ringraziò accarezzandola sotto il mento e si infilò la rosa.

Camminando a brevi passi, quasi sorbendo l'aria deliziosa di quel mattino di autunno, vagando colla fantasia dietro i raggi d'oro che lambivano le cupole e facevano scintillare i cristalli sulle ogive delle vecchie chiese, Marcello si imbattè in un gruppo di persone che ciarlavano vivamente. Non vi badò; ma poco lungi c'era un altro capannello, e un altro ancora, parevano tutti animati da una grande curiosità. Sulle botteghe, alle finestre stavano affacciate le donne con certi sguardi cupidi, intenti, e a seconda delle faccie si vedevano guizzare certi sorrisi o ingenui o maliziosi o di semplice meraviglia o sottolineati da una espressione furba e misteriosa.

Tendendo l'orecchio, Marcello udì a varie riprese la parola sposa, e capì che si trattava di qualche matrimonio cospicuo. Crescendo la folla, egli si trovò quasi portato davanti a una chiesa dove una turba di accattoni stava schierata in due file, sfidando le zampe di otto cavalli che, attaccati a superbi equipaggi, aspettavano sulla piazzetta l'uscita del corteggio nuziale. Di fianco alla chiesa si apriva una via che Marcello guardò con lieve sussulto nel cuore; erano cinque mesi che non passava più per quella via!

Un bisbiglio, un accorrere e qualche grido gettato dai monelli avvertiva Marcello che gli sposi sono usciti dal tempio. Allora, mosso da una subita e ansiosa curiosità, si avvicina alla folla e acquista subito la certezza che la novella sposina è la sua platonica visione delle sere di maggio.

La fanciulla sembrava molto mesta, ma era bellissima nel suo abito di raso bianco coperto di perle, colla vita sottile, il collo cinto di brillanti e i bei capelli neri intrecciati di fiori d'arancio. Il marito appariva più vecchio d'assai e, al suo confronto, brutto e antipatico. Questo contrasto fu avvertito dalla folla che circondava gli sposi, destando improvvisamente un senso di compassione per la fanciulla sacrificata; alcune donne le baciavano rispettosamente il vestito, altri tendevano la mano per avere un'elemosina; tutti la stringevano da vicino rendendo difficile e lungo il breve tratto che divideva la porta della chiesa dalla carrozza.

Marcello provò una sensazione strana, uno slancio di simpatia come non lo aveva provato mai; nascosto tra i mendicanti, sentì sul suo ginocchio il fruscio dell'abito di lei, e in quel punto fatto audace, colpito da un'idea romanzesca, mentre si curvavano tutti al passaggio della principessa, egli le offerse la sua magnifica rosa.

Forse ella credette che fosse l'offerta di un bambino e tese la mano sorridendo; soltanto quando l'ebbe presa incontrò lo sguardo di Marcello. La poveretta impallidì e non osò gettare il fiore; salì tremando in carrozza; dallo sportello aperto si vedeva la rosa posata sul suo grembo, rossa come il il fuoco sulla veste bianca.

Anche Marcello era commosso, ma si mantenne forte.

Nel seguito degli sposi egli aveva riconosciuto Sua Eminenza il cardinale S***, e affrontando a testa alta la sua occhiata sospettosa, Marcello non potè trattenere un piccolo sorriso di trionfo.

***

Sedici anni svolgendosi coll'inesorabile fatalità del tempo e degli avvenimenti cambiarono la situazione di Marcello.

Non è più lo studente scapigliato, il facile avventore del Lepre e della casetta di Fornarina. La fortuna secondando il suo ingegno lo creò caposcuola di una falange di ritrattisti famosi.

Stabilito in Milano, sua città natale, egli prese una parte attivissima alle vicende del quarantotto, e l'aureola di patriota posandosi su quella dell'artista e del perfetto gentiluomo, terminò di metterlo alla moda nelle società più ricercate.

Non c'era dama elegante che non volesse dire, mostrando sè stessa in una cornice dorata e in abito scollato:

— Ecco il mio ritratto, fatto da ***.

Tutti sanno che uomo simpatico fosse Marcello, principalmente nell'intimità, e questo spiega maggiormente il suo successo presso le signore.

Correva l'anno 1849. I milanesi, sotto le apparenze della rassegnazione, gettavano i semi della gran rivolta; Marcello, in attesa di riprendere il fucile, lavorava alacremente col pennello. Un giorno, il suo amico marchese Fassalli gli propose di presentarlo a una gran dama, una vedova venuta da poco tempo in Milano, la quale aveva mostrato il desiderio di farsi ritrattare da lui.

La presentazione venne fatta con tutte le regole, e Marcello fece la conoscenza di una amabile signora, per la quale egli sentì a prima vista una inconcepibile tendenza affettuosa. Era bella la duchessa della Misericordia, ma più che bella era cara, era buona; sul suo pallido volto un po' dimagrato, gli occhi raggiavano così sereni che era una dolcezza il mirarli: l'onda opulenta dei capelli neri ombreggiavano una fronte sulla quale quindici anni di vita mondana non avevano cancellato il candore dell'innocenza.

Dopo due o tre visite fu stabilito il giorno per incominciare il ritratto. La duchessa sembrava molto impaziente, e frattanto interrogava Marcello sui suoi studii, sulla sua vita giovanile, prendendo vivo interesse a tutto quello che Marcello raccontava.

Qualche volta parve a Marcello di aver veduto altrove lo sguardo soave della duchessa, ma non si rammentava dove.

Le prime sedute si limitarono alla testa; non occorreva mettersi in toletta. La duchessa stava seduta nella sua poltroncina, e quando era stanca diceva: per oggi basta; ma in genere era molto paziente. Marcello aveva espresso il desiderio di vederla pettinata alla greca, ma non vi riuscì, perchè ella si mostrò decisa a tenere i capelli lisci, leggiermente intrecciati con piccoli fiorellini bianchi.

Venne la volta che Marcello disse: — Domani bisognerà incominciare l'abito. E all'indomani la duchessa apparve con un abito di raso bianco a lungo strascico, accollato con una modestia quasi verginale.

Marcello restò colpito. Quel soave volto di donna gli si imprimeva ogni dì più nel cuore, e, strano a dirsi, qualche volta gli sembrava che quel volto uscisse dal suo cuore stesso come una lontana visione. Socchiudendo gli occhi, egli vedeva farsi più piena la linea della guancia, il sorriso prendere un'espressione più fresca, cancellarsi dalla fronte della duchessa quindici anni di pensieri, e allora, come un sogno, balenargli davanti un'altra donna. Ora poi, con quell'abito bianco, coi bianchi fiori intrecciati nei capelli nerissimi egli ravvisava intero il suo poetico ideale d'una volta.

La duchessa, ella pure, pareva agitata.

— Non sta in piedi? — chiese Marcello, sconvolto, tanto per dire qualche cosa che lo ravvicinasse alla realtà.

— No; preferisco rimanere seduta.

— Terrà in mano un ventaglio?

— L'ho dimenticato; posso mandare a prenderlo.

Perchè c'era una nota tremante nella voce della duchessa? e che cosa disse quella nota a Marcello? Un'idea lo colpì improvvisamente. Sul tavolo, lì vicino, giacevano molti fiori raccolti in un vaso; egli adocchiò una rosa carbonara, la prese, e posandola sui ginocchi della signora:

— Il rosso — disse — è il migliore alleato del bianco, come l'amor puro non va mai scompagnato dall'innocenza.

Aveva piegato un ginocchio, e cogli occhi fissi raccoglieva gli sguardi smarriti della duchessa, i quali gli dicevano che non si era ingannato.

***

Qui la lettrice vorrà ad ogni costo una conclusione; ma l'autore è ben deciso a non darla. Ci ha per questo una quantità di buone ragioni.

1.°ree; Non tutte le cose di questo mondo arrivano a una conclusione.

2.°ree; Le conclusioni delle novelle accontentano metà dei lettori per disgustare l'altra metà.

Valgano queste ragioni per dugent'altre che potrei dire, e immagini ognuno a suo modo come avrà fatto Marcello a riacquistare il tempo perduto.

Questo solo devo aggiungere, che alla Mostra del 1850, nel palazzo di Brera, fu lodato da tutti il ritratto della duchessa della Misericordia nata principessa S*** vestita di raso bianco con una rosa rossa in mano.

Dunque il quadro è stato terminato, questo è positivo, e così termina anche la novella.

Sull'unghia lucida, opalina, proprio in fondo verso la radice, c'era una piccola striscia bianca, che ne guastava l'elegante armonia. Pareva una vela candida su un lago tranquillo…. no, pareva una macchia, una vera macchia ignobile e plebea; e il ditino si ribellava a questo marchio degradante rizzandosi in mezzo a' suoi compagni, provocando ad ogni istante le occhiate malinconiche della contessa.

Ella era ben sicura di non avere lavorato la terra, nè spolverati i mobili, nè spazzolati i tappeti, nè compromessa in qualsiasi altro modo l'immacolata purezza del suo anulare.

Perchè dunque quella macchia?

A furia di pensarci la contessa si ricordò di aver sentito dire dalle sue governanti, quand'era piccina, che quelle piccole striscie bianche sull'unghia indicano una bugia. Certo la contessa non aveva pregiudizii, ma era meridionale, e qualche cosa le restava delle idee che aveva succhiate col latte.

Un improvviso rossore le passò sulla fronte, si diffuse sulle guance e andò a morire nel collo sotto un alto goletto di trine arricciate alla Medici; la mano accusatrice cadde abbandonata lungo le pieghe dell'abito.

— Dunque — esclamò la contessa con un sospiro — la mia colpa è già manifesta? L'ignobile menzogna di cui sono rea mi si legge scritta sul dito? sul medesimo dito che porta il pegno della fede giurata e tradita!

Molti altri furono i pensieri della contessa; pensieri profondi, dolorosi, acerbi, nati come nascono molte volte le grandi cose, da un punto appena percettibile.

E d'uopo però dire immediatamente che la contessa esagerava le proprie colpe, e quello che a lei, anima nobile e pura, sembrava poco meno che un delitto, a molte e molte altre donne non avrebbe neppure solleticata la sensibilità di quello strano sentimento che è la coscienza.

Che cosa aveva fatto alla fine la contessa Beatrice Cucchiari? Ella era rimasta tutta una sera a contemplare la luna insieme al marchese Guido Monteviti — colle mani nelle mani. Questa è la circostanza aggravante — unica — è vero, ma fatale per la povera donna, che non aveva più trovato pace dopo quella stretta di mano.

Monteviti era un seduttore di professione, di quelli che non muojono mai quando c'è un'epidemia, ed ai quali non capita mai che cada loro un tegolo sulla scriminatura; razza di ladri in natura che rubano agli uomini di cuore lo sguardo appassionato e la voce persuasiva; commedianti nati che hanno la fronte del genio; truffatori che vivono sulla buona fede delle donne oneste, perchè (a capo e parentesi, minacciando il periodo di diventare troppo lungo).

Le donne oneste non sono solamente quelle che attraversano il loro sentiero coi piedi in mezzo ai gigli e lo sguardo in cielo. Sono pur oneste (e quanto) le donne che si pungono ai rovi, che inciampano nelle spine, che dal cielo sono costrette a rivolgere gli occhi sulla terra non sempre pura, e che forti e battagliere proseguono impavide senza cadere mai.

Beatrice avrebbe preferita la prima maniera, più comoda, più facile. Ella amava suo marito, ne era amata, e nulla le sembrava più assicurato della sua pace conjugale. Ma Dio che si piace ad affliggere (dicono) ed a provare quelli che egli ama, mandò Guido Monteviti sul sentiero della contessa.

La prima volta che Beatrice incontrò ferme su di lei le pupille corruscanti del marchese, provò un senso di malessere e di noja, un po' somigliante a quello della sonnambula sotto l'azione del magnetizzatore.

Allora appunto ella attraversava un periodo critico, di quei periodi che capitano alle donne sensibili quando il marito si appassiona per una cava di carbon fossile, per i cavalli, per la caccia o semplicemente per l'ingrasso de' suoi poderi. Il conte Cucchiari, sicuro dell'affetto e della virtù di sua moglie, l'abbandonava un pochino a sè stessa, sembrandogli che dopo cinque anni di matrimonio si potesse onorevolmente dare il benservito alla luna di miele. E non v'ha dubbio che su ciò l'ottimo gentiluomo s'ingannava di grosso, poichè dai quindici ai cinquant'anni la luna è sempre l'astro maggiore nel cielo delle donne.

Beatrice non aveva il benchè menomo pensiero di mancar di fede a suo marito; ma Monteviti si faceva strada, se non nel cuore, nella fantasia di lei, esagerando quelle prove di gentilezza e di devozione che servivano a dare maggior risalto all'apparente freddezza del marito, e con quest'arme perfida demoliva giorno per giorno, in segreto, la tenace virtù della contessa.

Dalle vette rigide del dovere l'incauta era già discesa sul pendio delle concessioni, e lì, tra i fiori brillanti del sofisma voleva persuadersi che il cuore è eternamente libero, che nessun ceppo di legge, di religione o di società può imporsi alla fiamma immateriale dell'anima; che la carne ha degli obblighi, ma lo spirito no — e divideva, e sottilizzava, volendo salvare tutto e tutti, lei, suo marito e il marchese.

Ma certe volte, improvvisamente, era còlta dal rimorso, il quale prendeva spesso delle apparenze puerili e superstiziose, come ora che nella piccola striscia bianca credeva leggere in caratteri di fuoco la terribile parola: Adultera. Oh! come si sentiva infelice! È dunque per vivere in tali tormenti che si desidera l'amore? Ma ella non lo aveva desiderato; le era piombato addosso inesorabile e fatale come il destino; aveva creduto fino a quel giorno di amare suo marito e non era vero; la prima, l'unica bugia della sua vita le si smascherava così pubblicamente. Se anche ella avesse voluto negare di amar Monteviti, la macchia accusatrice era là; la vedeva tutte le ore, tutti i momenti; col volgere delle settimane si portava più in alto; già aveva troneggiato nel mezzo dell'unghia impudente e maligna; ora saliva, saliva; fra poco sarebbe scomparsa, a Dio piacendo — ma e poi?

***

Di contro al mare, sul terrazzo di marmo roseo dove la folta vite d'America gettava delle ombre verdi, Beatrice lavorava soletta contemplando il tramonto del sole, nè la sua corazza di raso strettamente allacciata intorno alla vita tradiva un sussulto, nè le pieghe morbide dell'abito coperto di pizzi lasciavano indovinare la benchè menoma contrazione dei due piedini immobili appoggiati allo sgabello.

Tirava l'ago placidamente a lunghi intervalli fissando attenta il lavoro e mordendosi tratto tratto le labbra. Una lieve ruga verticale le si era annidata tra ciglio e ciglio, e sola svelava l'intensità di un pensiero costante e rinchiuso.

Beatrice aveva presa una grande risoluzione. Per quanto le si schiantasse il cuore, il suo dovere le imponeva di allontanare Guido Monteviti; ella ne avrebbe fatta una malattia, sarebbe forse morta di quel cruccio lento che corrode nell'anima le sorgenti della vita, ma che importa? Si sentiva eroica.

— Che bell'abito avete oggi, contessa! esclamò dietro a lei la voce giuliva di Monteviti. Il bigio e il rosa vi vanno a meraviglia, e non è poco, ve lo giuro. La duchessa di Montegemoli, che è obbligata al rosso a perpetuità, ne morrebbe d'invidia se vi vedesse.

— Grazie, marchese; avete sempre il complimento sulla punta della lingua.

— È la sincerità nel cuore! si affrettò a soggiungere Monteviti mettendo nella sua voce una nota profonda di passione.

La contessa sospirò.

— Il cuore è spesso un cattivo consigliere.

— Io non ne ascolto altri quando sono vicino a voi.

— Fate male, marchese, fate male, perchè….

— Perchè?

— Perchè a un cuore che parla occorre un cuore che risponda.

— Contessa?

— Oh! per pietà non fatemi quegli occhi.

— Ma voi dite delle cose atroci! È veramente quello che pensate?

— È quello che devo pensare.

— Lo pensavate anche ieri?…

— Perdonatemi. Dimentichiamo il passato — fui pazza.

Egli la guardò fissamente negli occhi e fece per prenderle una mano.

— No, no, ve ne prego.

— È dunque un congedo che mi date?

La contessa esitò a rispondere; Monteviti non aggiunse altro. S'inchinò profondamente, girò sui tacchi e scomparve.

Beatrice rimase per un istante come acciecata. Questa scena breve, ridicola, triviale, così diversa dal patetico addio che ella aveva immaginato, le fece l'effetto di un'operazione chirurgica. Le sembrava che le avessero strappato qualche cosa; sanguinava in qualche parte, ma non sapeva bene dove. E lo strano è che sotto la fitta acuta del dolore momentaneo sentiva un benessere immenso, il sollievo di una lunga oppressione, come il paziente che trae un gran respiro quando gli levano di bocca il dente cariato.

Era dunque quello lì l'uomo al quale aveva posposto suo marito? Per un libertino, per un vanesio, per uno sciocco ella era stata sul punto di offuscare la sua fede intemerata di sposa — aveva potuto per un istante solo amare un Monteviti, lei che si chiamava la contessa Cucchiari! Ora capiva come si può rubare, come si può uccidere, perchè vi sono veramente nella vita dei momenti di pazzia.

Si alzò in piedi e si pose a passeggiare sul terrazzo; il sole era scomparso; l'ombra della vite si faceva più bruna; in fondo, davanti a lei, il cielo e il mare placidissimi si ricambiavano dei raggi azzurri.

Che pace dolcissima, insperata.

L'incubo era cessato, il brutto sogno era finito e non ricomincerebbe mai più. Come sentiva di amare suo marito, di averlo amato sempre anche quando stava sotto il fascino di Monteviti. La bugia era il falso amore, l'estasi della immaginazione annoiata dove il cuore non aveva nessuna parte.

Sollevò il dito anulare guardandolo agli ultimi barlumi del crepuscolo; la striscia bianca aveva raggiunta l'estremità dell'unghia. Beatrice prese le sue forbicine di lavoro e tagliò profondamente quell'unghia, come non l'aveva mai tagliata di certo.

In quel momento un domestico facendo la sua apparizione sulla porta del terrazzo, annunciò:

— È arrivato il signor conte.

— Ah! — fece Beatrice tutta allegra, arrossendo e succhiando colle labbra l'estremita dell'anulare che le doleva un poco.

Come stesse in piedi la casa di Tonino e perchè la chiamassero casa, mentre non era che una cameraccia informe riparata da un tetto fradicio, non lo so e non lo potrei dire.

Quello che ho visto coi miei propri occhi è la suddetta camera, molto bizzarramente mobigliata, e di cui l'oggetto più bizzarro ancora era il proprietario.

Entrando lo si vedeva subito, seduto al suo deschetto di ciabattino, colle grucce accanto, grucce che gli servivano poco per camminare, ma che egli esercitava volentieri sulle spalle dei monelli che venivano ad importunarlo.

Era un ometto alto poco più d'un metro, brutto come l'orco, col sorriso sarcastico proprio dei gobbi e cogli occhi chiari e sporgenti delle persone afflitte di mal di cuore.

Non era cattivo. Dava gratis i numeri del lotto e il rimedio per i paterecci; strappava i denti di latte ai bimbi, medicava i calli e ci fu anche qualche donna che venne a consultarlo per i disturbi della gravidanza.

Era l'amico di tutti; dei preti quantunque non andasse mai in chiesa; dei liberi pensatori. quantunque avesse le pareti tappezzate di santi e di madonne e tenesse in un'ampolla di vetro la passione di Nostro Signore Gesù Cristo. I fanciulli poi affluivano in casa sua come alla fiera; era tanto curiosa la casa dell'eremita! Lo chiamavano così perchè viveva completamente solo nella sua bicocca, in mezzo ad un campicello che gli coltivavano un po' tutti per carità e per simpatia, ed anche perchè fruttava le più belle pesche del circondario. Quando Tonino regalava una delle sue pesche era un regalo da re, ma le regalava difficilmente ed anzi ne era così geloso, che nel mese di luglio dormiva colla finestra aperta e con un pistolone da cavalleria sotto il guanciale, pronto a far fuoco sui ladri notturni.

Durante il giorno il pistolone stava appeso al muro in mezzo alle immagini di S˙ Ermolao e di S˙ Priscilla vergine. Lì presso c'era un mucchio di ciabatte, miste alle pannocchie di gran turco che egli dava di mano in mano al fornaio in cambio del pane. Un cassone da legna gli serviva per riporre gli abiti e quei qualsiansi indumenti di cui usava ricoprirsi; era abbellito sul coperchio da un figurino delle mode di Parigi dell'anno 1821. Il letto dell'eremita compiva la mobiglia, ed era un letto degno in tutto delle Tebaidi; senonchè egli vi teneva sotto i suoi arnesi da cucina, la pentola, il paiuolo e la minestra avanzata. Gli oggetti più interessanti li aveva sul suo deschetto; un frate di cartone che indicava il cattivo tempo alzando in testa il cappuccio; una noce di tre spicchi; un libro di magia bianca; un dente di Sant' Apollonia; la baionetta di un soldato di Napoleone I; un bastimento intagliato in un nocciolo di ciliegia; nonchè molte altre rarità.

I buli del paese venivano spesso a farlo chiaccherare per ridere alle sue spalle. Egli si dava un'aria ingenua e melensa, fingeva meravigliarsi di tutto e protestava di essere innocente come un bambino appena nato. Ogni tanto volevano dargli moglie, ed egli rideva e non diceva nè sì nè no.

Sua cognata gli rifaceva il letto tutte le domeniche e qualcuno de' suoi dieci nipotini gli attingeva l'acqua nel corso della settimana. Questi suoi parenti abitavano poco lontano ed erano così poveri, così poveri che lo zio Tonino sembrava loro un riccone.

Da parte sua Tonino li beneficava, accomodando a tutti le scarpe, senza compenso — è ben vero che di scarpe non ne portavano quasi mai.

***

Quell'estate, che ci fu il cholera, Tonino incominciò a dar giù; aveva una paura maledetta, si tastava la pancia tutto il giorno. Accese un lumino davanti a S˙ Ermolao e promise a S˙ Priscilla una cornice nuova se lo scampava dal morbo, — ben inteso che dal momento che si fosse creduto obbligato a S˙ Priscilla, avrebbe spento subito il lumino a S˙ Ermolao.

Non curava nemmeno più le sue pesche. Di notte la finestra la teneva chiusa per via dell'umido, e di giorno mentre lavorava al suo deschetto, guardava fuori nell'orticello e apostrofava l'albero: « A me non me l'appioppi! De' tuoi frutti per quanto polposi e morbidi, io non so che farmene; non vo' mica crepare io, per far piacere agli eredi! Vi saranno ancora pesche quando non vi sarà più cholera. » A' suoi nipotini proibiva di toccare i frutti e guardava loro la lingua per sapere se avevano la gastrica.

— O Tonino, vi rincresce a morire per lasciare i quattrini, gli diceva sua cognata.

E lui:

— Sicuro! Mi rincresce a lasciarli a voi che prenderete marito la seconda volta.

— Se poi lo pigliassi, dove sarebbe il male?

— Prendete me allora che sono vostro parente e di figliuoli ve ne regalerò altri dieci e saranno tutti cugini.

— Nespole! Restiamo cognati che è meglio.

Una lontana speranza di eredità la cognata l'accarezzava davvero. Nessuno aveva mai visto il fondo al cassone dell'eremita e poteva ben darsi che ci tenesse il gruzzolo. Egli poi era uno sparone; diceva sempre che morto lui i parenti sarebbero andati in carrozza, e che solamente a vendere il dente di S˙ Apollonia a qualche persona pia c'era da guadagnare mille lire.

Però quel malanno del cholera — (pensava la cognata) che Dio confonda i ricchi, trovano sempre qualche mezzo per tormentare i poveri — quel malanno del cholera mungeva la borsa a Tonino. Aveva incominciato col regalare un paio di scarpe nuove fiammanti al farmacista, poi s'era inscritto sulla lista dei contribuenti per far cantare una messa speciale tutti i venerdi primi del mese; teneva i profumi in casa come un signore e i soldi li riceveva in un piattello pieno d'aceto.

— Tonino, vi preme troppo la pelle!

— diceva ancora la cognata.

— Guà! ne ho una sola; mia madre s'è scordata di farmi il cambio.

— A riguardarsi per burla ci si ammala davvero.

— Il Signore ha detto: « Aiutati ch'io ti aiuterò….»

— Già, gli uomini, quando si tratta di mali, sono tutti pulcini bagnati. Guardate me che ho avuto dieci figliuoli, e dieci figliuoli non sono mica pillole.

— Per fortuna! se erano pillole ne avreste fatti venti.

La cognata nutriva il sospetto che Tonino non dovesse morir più, perchè era troppo cattiva lingua.

Eppure sul finire dell'estate quando il calore incominciava ad andarsene e Tonino già rammaricavasi di aver regalato un paio di scarpe al farmacista e di aver tenuto acceso per tanto tempo il lumino davanti all'immagine di S˙ Ermolao, fu assalito una notte da dolori così forti che morì in men che si dice Jesus.

La cognata pianse un poco, che in fin dei conti era fratello di suo marito; ma poi si chetò, riflettendo che egli era andato in un mondo migliore e che in fondo al cassone ci doveva ben essere qualche cosa per fargli dire delle messe.

Strillò come un'aquila al vedere che le bruciarono tutto, il letto, il materasso e la coperta, sotto pretesto del contagio; disse che lei non aveva paura dei mali, ma tant'è lasciarono la casa pulita come una mano. Il cassone, non c'era stato nemmeno bisogno di pulirlo, che era vuoto.

— Ah! Tonino me l'avete fatta grossa — lamentavasi la donna, seduta sul mucchio delle ciabatte — sapevate bene che avevo dieci figli da mantenere! C'era proprio bisogno di morire di cholera per farsi portar via tutto?

***

La casuccia dell'eremita nuda e cadente, imbevuta di cloro fino al tetto, accolse la povera famiglia della vedova che continuava a piangere e a lagnarsi.

Il maggiore dei suoi figli aveva tredici anni; guadagnava quattro soldi al giorno e gli altri non guadagnavano nulla. La miseria li stringeva da tutte le parti.

Al cadere delle foglie l'orticello diventò la più squallida cosa che si potesse immaginare; nessuno lo curava; i bambini si arrampicavano sul pesco e ne schiantavano i rami; quando pioveva si formavano per terra delle larghe pozze, e i bambini andavano a guazzarvi dentro. Venne poi il gelo, e i bambini sdrucciolavano.

Dietro alla finestra dove c'era una volta il deschetto di Tonino, la vedova rattoppava i suoi cenci guardando con occhio disperato quelle tempeste di ragazzi che stracciavano tutto. Il suo maggiore, che era un omino, tentava consolarla, promettendo di aiutarla quando sarebbe grande; ma ella aveva le sue buone ragioni per non abbandonarsi più alla speranza.

— Quando tu sarai grande — diceva — io sarò morta.

L'inverno, che è il nemico dei poveri (veramente qual'è il loro amico?) accrebbe tanta miseria. I piccini sparuti e malazzati, piangevano tutto il giorno, ammontichiati due o tre insieme in una culla di legno. La mamma aveva una tosse d'inferno; al maggiore gli si ammalarono i piedi e non potè più andare a guadagnarsi i suoi quattro soldi.

Un uragano furioso aveva spezzato i vetri della finestra, sì che il vento soffiava fortemente; non c'era angolo della camera dove potersi riparare dal freddo. Dal soffitto guasto e fradicio piovevano le filtrazioni del tetto; la culla dei bimbi era tutta bagnata.

— O Signore Iddio gemeva la donna — noi siamo troppi in questo mondo, non c'è pane per tutti. Toglieteci, Signore, me e i miei figli!

Alla fine di novembre uno le venne tolto davvero. Quando lo portarono via, nella piccola bara coperta di bianco, la madre si sentì struggere dal desiderio di seguirlo. Povero angelo! almeno aveva finito di soffrire!

Non era ancora nevicato quell'anno. Dopo piogge dirotte, il tempo s'era messo all'asciutto e al gelo — un bellissimo tempo per passeggiare con stivalini a suola di sughero e pelliccie fin sopra le orecchie.

Ma nella casa di Tonino ci si stava come in piazza; non aveva un grado di più. Di due sottane che possedeva, la vedova aveva dovuto tagliarne una per fare delle vesticciuole alle sue bambine, e tutti insieme tremavano dal freddo ch'era una pena a vederli.

La fame poi aumentava il freddo; mangiavano in media un giorno sì e l'altro no.

Dall'alba al tramonto e dal tramonto all'alba c'era sempre qualcuno che piangeva sotto il tetto dell'eremita — e non erano solamente i bimbi.

***

La mattina dell'Epifania, Tonino, il maggiore (era stato il figlioccio dell'eremita), levandosi dal saccone che gli serviva di letto, esclamò:

— Che cosa mangeremo oggi, mamma?

— I signori, — saltò su la piccola Luigina — mangiano oggi tante buone cose, e per i figli dei signori la Befana porta tanti bei regali. O non dovrebbe invece portarli a noi che siamo poveri?

— La Befana non sa che siamo poveri — credè ben fatto di rispondere Tonino.

— Ma la Befana sa tutto! — ribattè la Luigina.

— Pregate — disse la mamma — Dio avrà compassione di voi. Andarono alla messa tutti in fila sotto un bel sole pallido; un sole di lusso che non scaldava. Tornarono a casa mesti e intirizziti.

— Ci fosse almeno una bracciata di legna per fare un po' di fuoco! — sospirò Tonino.

Ma non c'era.

Il povero ragazzo uscì fuori, sulla soglia della porta, colle mani nelle tasche dei calzoni. Intanto capitò una buona donna dei dintorni a portare del riso e del pane per i figli della vedova.

Era un'operaia e non poteva fare di più; la vedova la benedisse.

— Ci fosse almeno una bracciata di legna! — ribattè la pappagallina Luigia — faresti cuocere il riso, nevvero mamma?

— La legna c'è! — esclamò Tonino dalla soglia, non vedete che il pesco è morto?

— È proprio morto? — domandò la madre con indifferenza, insensibile a quel leggero aiuto.

— Sì, è morto, a toccarlo lo si sente secco che canta.

— Ah! le belle pesche dello zio Tonino! gemette la vedova.

— Quello ch'è passato è passato. Lo zio è morto e muore anche il suo pesco. Andiamo ad abbatterlo, mamma, che almeno ci scalderemo.

— Oggi è il giorno dell'Epifania, figlio mio, non si lavora.

— Coloro che non lavorano, mamma, stanno accanto al fuoco.

— E poi nessuno ci vede nel nostro orto, appoggiò la Luigina.

— Abbiamo fame e freddo, mamma mia. Colla legna del pesco faremo cuocere il riso, e terremo ben coperta la bragia sotto la cenere, così ne avremo per un pezzo.

Senza aggiungere altro Tonino spiccò da un chiodo una vecchia falce arruginita.

— Ti farai male! gridò la donna.

— No, no, vedrai; legheremo l'albero con una corda ed io lo scalzerò, adagino, adagino, finchè cadrà da sè dolcemente come se si mettesse a letto.

Questo paragone fece rider molto la Luigina, che impadronitasi della corda aprì la marcia con passo trionfante. E la mamma e Tonino e tutti i bimbi dietro. L'alberello sottile e sfrondato presentava pochissima resistenza; Tonino non aveva campo di sfoggiare tutta la sua abilità; ai primi colpi di falce il fusto tremò e prese a dondolare come un briaco.

— Uh! uh! uh! — gridava la Luigina, picchiando l'una contro l'altra le sue piccole mani. Pareva la mosca della favola che mandava avanti l'aratro. A un tratto la falce urtò contro un oggetto duro. Tonino rimosse la terra, e intanto che l'albero cadeva da un lato mettendo all'aria tutte le sue radici, apparve una cassettina di legno bruno scrostata e vetusta che Tonino si affrettò a prendere in mano. La vedova impallidì per la commozione.

— Andiamo ragazzi — disse — andiamo in casa. Erano tutti agitati e curiosi. I piccini speravano che nella cassetta ci fosse qualche bel fantoccino, o delle chicche colla carta d'oro, come ne avevano visto qualche volta ai bimbi dei signori. Furono invece sorpresi, quando sollevando il coperchio, Tonino ne cavò fuori delle manciate di monete bianche e gialle che gettava in grembo alla mamma, urlando come un pazzo:

— Il tesoro! il tesoro!

Sì, era il tesoro di Tonino l'eremita. La vedova pianse in una volta tutte le lagrime che teneva in serbo e i bambini stretti intorno a lei un po' ridevano e un po' piangevano senza capirne il motivo. Quasi si scordavano di accendere il fuoco e di far cuocere il riso. Ma Tonino ci pensò; nè solamente fece cuocere il riso in quel giorno memorabile; una bella salsiccia, un pezzo di cacio e una bottiglia di vino vennero ad alietare il pranzo improvvisato.

— Mamma — domandò Luigina — è stata la Befana a mandarci il tesoro?

— Sì, rispose la mamma; ma nel suo interno pensò:

— Lo sapeva che non era cattivo il cognato Tonino!

Requiem eterna all'anima sua.

La casa del marchese di Roncegno non era precisamente nè un castello nè un maniero, ma assomigliava un poco a questi due generi di fabbricato. Vi assomigliava nelle alte e nere muraglie esterne, nell'aspetto grandioso del cortile, nella fuga di sale a vòlta mobigliate all'antica, coi seggioloni larghi come un letto e le caminiere ampie, sporgenti, capaci di ricoverare una intera tribù. Compiva la somiglianza la sua posizione, in alto di una collina, affatto isolata, nella sicurezza spavalda del potere.

Il Lago Maggiore le stava davanti; a tergo, poderosa e imponente spalliera, il Motterone.

Il marchese di Roncegno, che possedeva a Milano un palazzo storico, passava i suoi giorni in questa casa, diviso amichevolmente dalla società, la quale se ne era consolata dimenticandolo. Se per caso qualcuno pronunziava ancora il suo nome nei salotti dell'aristocrazia lombarda, mezza dozzina di bocche motteggiatrici esclamava tra due sbadigli: « Ah! quell'originale! »

Originale il marchese di Roncegno non lo era, più che non lo fossero i suoi accusatori; egli avrebbe potuto trovare una quantità di fac-simili in quei gentiluomini del principio del secolo, che avevano un culto per la forma e che non si dipartivano mai dalle regole di una cavalleria aristocratica, circonfusa di certa grazia quasi femminile, che ora è affatto giù di moda.

E chiamando femminile la grazia del marchese mi sono forse espressa male; dovevo dire che si ispirava a un alto ideale femminino — rimasto sempre ideale — la qual cosa mesceva un po' di malinconia rassegnata alla sua naturale serenità.

Giovanissimo, si era aggregato alle lotte politiche, cospirando, quando la cospirazione era il solo mezzo che si aveva per mostrarsi italiani, e in quel periodo eroico e poetico il marchese si era fatto un nome. Poi i tempi mutarono. Ai baldi entusiasmi, alle emozioni della lotta successe l'ebbrezza della conquista, e in quella molti sentimenti si alterarono. Gente nuova, accorsa al suono delle fanfare, si fece largo, ingrossando le file, confondendosi ai vittoriosi. Una quantità di persone che non avevano fatto nulla, per mostrar di fare, disfarono il già fatto. I primi, i pochi, furono ricacciati in dietro, nascosti dalla turba invadente. Il marchese di Roncegno si ricordò che un silenzio dignitoso è la sola risposta che deve dare l'uomo onesto quando è tratto in inganno; e soprafatto da una generazione emancipata, avida di lucro, scettica e materialista, una generazione che non lo comprendeva, il marchese tentò di rifarsi una via coll'arte. Ma anche qui gli intenti erano mutati; il marchese finì col chiedere a sè stesso, seriamente, se era un cieco che barcolasse in mezzo ai veggenti, oppure il solo veggente tra un popolo di ciechi.

Senza venir mai ad una risposta decisiva — che una certa riservatezza timida e sdegnosa ad un tempo, lo rendevano moderato in ogni suo giudizio — egli finì col ritirarsi, senza scandalo — in base ad una provata incompatibilità.

Da cinque anni viveva nella sua villa; e quando al mattino, in qualunque stagione e con qualunque tempo, scendeva nel giardino a passeggiare fino ad un punto dove un fitto viale di carpini squarciandosi improvvisamente scopriva l'ampia distesa del lago, il marchese, che si fermava a lungo in quel posto collo sguardo perduto sull'orizzonte, seguiva forse col volo della fantasia gli inafferrabili contorni di larve lungamente vagheggiate, invano.

Nell'aspetto il marchese era simpatico; alto, dritto, un po'rigido, un po' calvo, ma con un sorriso fresco e, negli occhi, un raggio di giovinezza calma. Dimostrava quarantatre o quarantaquattro anni; in realtà era già passato dal lato peggiore dei quaranta.

Nei mesi caldi stava col marchese, per tenergli compagnia, ed anche per rammentargli tacitamente che ne era l'erede, il nipote don Luigi Oldrati di Roncegno, che i servi e gli amici chiamavano abusivamente il marchesino.

Gli altri mesi dell'anno don Luigi li passava a Milano, a Roma a Parigi, con una forte propensione per quest'ultima città. Era un giovinotto comune, nè migliore nè peggiore del primo capitato, senza aspirazioni, senza bisogni morali, che si trovava ben contento di aver ventimila lire di rendita e che le spendeva allegramente.

Alla villa egli faceva penitenza, non sapendo mai come raggiungere l'ora del pranzo, sazio fin sopra i capelli di Stresa, di Baveno e di Pallanza, dove non vi sono nè attrici nè clubs, e dove la sola emozione sperabile è di ammazzare di tanto in tanto un cavallo facendolo correre sulla via del Sempione — e ancora ce ne vuole, essendo quella via così piana e così liscia!

Per grazia di Dio, il quale ha concesso che i mesi fossero di trenta giorni, era appunto il ventinove ottobre e don Luigi, gettando al palafreniere le redini del suo cavallo, pensò che poco tempo gli restava da desinare a faccia a faccia collo zio.

Suonavano le sei nella sala da pranzo, dove i lumi non erano ancora accesi, il marchese ritto davanti agli alti finestroni, contemplava il pallore di quel tramonto d'ottobre.

La sala, quadrata, colle pareti a stucco aveva in mezzo alle due finestre e sul camino, due grandi specchiere in cornice bianco e oro con dei lacci d'amore in tinta azzurrina. Le rimanenti pareti occupate da quadri antichi, alcuni pregevoli, tutti adatti all'ambiente e allo stile della sala, erano mobigliate con seggioloni coperti di ricami antichi a colori teneri; scansie intagliate, coi vetri, riboccanti di porcellane fine e d'oggetti d'arte; sulle finestre, appese a un cornicione di legno intagliato, ricche cortine di damasco con disegni da arazzo, frammezzato da fili d'oro.

Non è questo il mobiglio classico di una stanza destinata a tinello. Infatti vi era nella casa un'altra stanza fabbricata e arredata per quell'uso, ma il marchese se ne serviva appena nelle rare occasioni di un pranzo. Desinando solo, o col nipote, non voleva uscire dal suo salotto preferito, dove teneva i suoi libri, i suoi quadri simpatici e dal quale si godeva la più bella vista della villa; tutto il lago da Stresa a Intra, con davanti, in fondo, la riva lombarda mesta e fantastica ne' suoi squallidi dirupi.

Il marchese non si stancava di seguire, collo sguardo, il ramingare delle nuvole negli ultimi raggi del sole; e si volse soltanto quando un improvviso bagliore alle sue spalle lo fece avvertito che il domestico aveva acceso i lumi.

— Mio nipote?

— Il marchesino è tornato or ora dalla cavalcata.

Così dicendo, il domestico metteva accanto alla posata di don Luigi, una lettera arrivata allora.

« La solita lettera, » pensò il marchese, sbirciando attraverso la mensa un caratterino nervoso con inchiostro violetto.

E avendo sollevata la faccia, ponendosi la mano sulla gola quasi per aiutare il passaggio di un boccone difficile (il quale atto dinotava in lui emozione e preoccupazione), il marchese si fermò ritto davanti a un quadro che, posto in una cornice speciale e ricchissima, faceva riscontro alla specchiera del caminetto.

Fermarsi, ritto, pensando, era una delle abitudini del marchese; e davanti a quel quadro egli si fermava spesso, socchiudendo gli occhi, con una voluttà intima e raccolta. Era un dipinto dello Zuccarelli, morbido e pastoso, come tutti i lavori dl questo pittore singolare. La scena arcadica, rappresentava una donna che filava e un pastore che la stava guardando, immersi entrambi nei vapori molli di un cielo rosato e nelle grandi ombre romantiche degli alberi, questa scena riceveva dalla ricca tavolozza dello Zuccarelli una rotondità piena e palpitante, come il preludio di una fusione possibile fra l'ideale e il reale. Sotto il corpetto di una tinta sfumata, combinazione paziente di giallo e di azzurro per ottenere il risultato di un colore originale, sotto quel corpetto che nessuna donna ha portato mai, rotondeggiava il contorno di un vivo corpo di donna nelle sue linee più pure. Dal cielo, dagli alberi, che erano un modello di lavoro studiato e attento, emanava un senso di realtà delicata: il vero scelto nel bello; con certi sfondi improvvisi, pieni di trasparenze, che inducevano il ricordo delle ore felici trarcorse, o sognate.

Improvvisamente, lo sguardo del marchese, che aveva deviato un istante dal quadro, si concentrò sovra una coppa di antica terraglia etrusca, posta nel mezzo di un tavolino, sull'orlo della quale biancheggiavano alcune lettere gettate alla rinfusa. Avvicinò la faccia e guardò meglio. Erano proprio quelle lettere; le lettere di suo nipote, che arrivavano regolarmente ogni due giorni e che don Luigi non si dava nemmeno briga di aprire.

Il primo movimento del marchese fu di allungare la mano; il seconde di ritirarla senza toccare le lettere, accontentandosi di crollare il capo in segno di disapprovazione.

Don Luigi entrava allora. Vedendo lo zio in piedi, si scusò di aver tardato qualche minuto, e soggiunse:

— Non occorreva aspettarmi.

— La regolarità anzitutto, — rispose lo zio con accento più sostenuto del solito, — e poi, quantunque fuor di moda, la cortesia.

Don Luigi capì che c'erano delle nubi per aria. Sedette al suo posto e spiegò il tovagliolo, senza vedere la lettera che aveva coperta inavvertitamente col pane. Si sentiva appetito e guardò con occhio soddisfatto la zuppa alla polonaise, emanante un profumo succolentissimo.

« Se quella bestia di cuoco vi avesse aggiunto delle regaglie di pollo…. » pensò; ma non lo disse, per non urtare la suscettibilità del marchese. Pensò pure: « Che noia questi desinari fotografati l'uno sull'altro, con un vecchio davanti in cravatta nera, e un vecchio di dietro in calze bianche…. ah! le cene di Landerinette!… »

Fatalmente i pensieri di don Luigi erano tutti di tal natura da non potersi tradurre in parola; così il silenzio si prolungava sul lento assorbimento della zuppa; fino a che, dopo una interna evocazione di gioie lontane, scappò di bocca a don Luigi: hop là accompagnato da un risolino in pelle in pelle — ed avendo quei due monosillabi echeggiato cupamente nella sala antica, il giovinotto tornò prontamente in sè, porgendo il bicchiere al bardolino e lanciò, a buon conto, questa frase inoffensiva:

— Bella giornata oggi!

— Bellissima, — rispose il marchese, sollevando lo sguardo limpido, e arrestandolo sul suo diletto Zuccarelli.

— Giornate simili dovevano piacere a quel pittore lì! — riprese don Luigi seguendo lo sguardo dello zio.

— L'arte vera e la bella natura sono sempre andate d'accordo.

— Siccome, però, c'è anche la natura brutta….

— L'arte falsa si affretta a copiarla.

La pronta interruzione del marchese fece dimenticare a don Luigi i suoi proponimenti conciliativi; egli soggiunse con fuoco:

— È l'arte che ama le difficoltà e la lotta, che sentendosi giovane, piena di forza e di ardire, sdegna i mezzi conosciuti e i lenocinj dai vecchi. Essa non si preoccupa di piacere, le basta di conquistare. Il suo motto è coraggio.

— Ci vuole difatti un bel coraggio, per esporre ai nipoti di Michelangelo e di Raffaello quegli sgorbi che voi altri chiamate pittura dell'avvenire; e dove, — dopo avere guardato a lungo senza capir nulla, — il meno che possiate concludere è che il pittore ha voluto burlarsi di voi.

Don Luigi non credette di dover continuare una discussione inutile, che non avrebbe convertito suo zio e che non offriva neppure l'attrattiva della novità. Sbadigliò pulitamente, colla mano sulla bocca, rifiutando un piatto di croqueltes; e allungando poi quella mano sul tavolo, in attitudine di uomo che si annoia, toccò la lettera.

Il marchese che lo spiava attentamente, lo vide alzare le spalle, poi voltarsi con un movimento pesante, che dinotava una eccessiva seccatura, e gettare la lettera nella coppa etrusca, rimettendosi colla mano sul tavolo, attento alla seconda portata.

— Se credi, — disse il marchese, spianandosi ripetutamente il colletto, — leggi pure….

Don Luigi crollò il capo.

— È strano che…. sì, è molto singolare questo tuo modo di ricevere le corrispondenze.

— Ma siamo a tavola, caro zio, a meno di una circostanza eccezionale non so perchè dovrei turbarmi la digestione con letture inconcludenti.

— Egli è che, nemmeno dopo tavola, apri le tue lettere…. ve n'è una mezza dozzina, intatte, dentro a quella coppa.

— Ebbene, io non le leggerò mai.

Così concludendo, con accento risoluto, don Luigi sollevava l'ampio torace, sbuffando.

— Tu mi permetti certamente, qualche osservazione?…

— Oh! a tuo comodo, se ti fa piacere….

— Quelle lettere sono tutte di una sola persona?

— Siii.

— E evidentemente la persona ha bisogno di te…. ti chiede qualche cosa.

— Hum!…

Il marchese esitò un momento; la cravatta gli stringeva il collo, assai più dell'usato.

— Forse, — arrischiò, — un creditore….

— Ooh!… — fece don Luigi, quasi offeso.

— Scusa…

Il volto del marchese si rasserenò per la durata di un baleno; poi tornò a farsi buio e impacciato.

Il domestico entrava in quel momento con un piatto di pernici arrosto.

— Mi sembrano troppo fresche — esclamò don Luigi fissando il piatto con occhio pratico.

Il domestico con una mano sul petto, si fece mallevadore, protestando che erano a punto. Servì i signori e sparve, com'era costume in casa Roncegno.

La voce dolce e fioca del marchese continuò:

— Allora, una donna….

— Una donna? — Don Luigi colla forchetta sul ventre della pernice, girò intorno gli occhi. — Che donna?

— Quella che ha la costanza di scriverti ogni due giorni.

— Ah!

Don Luigi lasciò cadere le braccia. Ancora la quistione delle lettere! Per fermo suo zio aveva giurato di fargli prendere una indigestione.

— Se vuoi credermi, queste pernici sono eccellenti; le avevo giudicato male.

E rimise, deliberatamente il naso nel piatto.

Un profondissimo silenzio regnò sovrano fino all' ultimo boccone.

Quando il domestico ebbe sparecchiata la tavola e che don Luigi, accendendo un sigaro, si sdraiò rassegnato in una poltrona,colla mente che galoppava lontano lontano nella buia galleria del Frejus, il marchese pacatamente ripigliò il discorso allo stesso punto dove lo aveva lasciato — quelle lettere. E ad un gesto vivace del nipote, rimbeccò con una punta finissima di ironia.

Il vostro motto, il motto dei giovani è: coraggio: non è vero? Noi, ai nostri tempi, ne avevamo un altro: pazienza. Dunque, se non ti dispiace, e poichè io ti faccio le veci di padre, vuoi confidarmi il segreto di quelle lettere?

— Il segreto di quelle lettere! Bel segreto! — tuonò don Luigi con uno scroscio di risa, — è a tua disposizione il segreto! Forse che io curo quelle lettere più che la cenere del mio sigaro? Leggile alla buon'ora, e divertiti.

Il marchese, alquanto scandalezzato, si affrettò a rispondere.

— Non è la curiosità, ti prego a crederlo; ma so bene che i giovani si lasciano trascinare talvolta….come spiegarmi?… a impegni…. a promesse…. e se il nome di Roncegno….

— Il nome di Roncegno non c'entra per nulla. Non ho fatto debiti, non ho sedotto l'innocenza, non ho tradito nè ingannato nessuno. È questo che ti preme sapere? Bene. Ora se vuoi il resto, quelle lettere sono di una donna che mi annoia. Ciò è permesso, credo?

Don Luigi, sentendosi la coscienza netta, si rimise a fumare di santa ragione; e fu molto meravigliato che il marchese, dopo essersi palpato il collo in modo significante, soggiungesse:

— Tu non dimentichi, spero, che una donna, in qualunque posizione si trovi, ha diritto ai riguardi di un gentiluomo; e quand'anche fosse caduta così basso da…. da…. (il marchese si esprimeva con fatica, esagerando il grazioso ondeggiamento di frase che gli era abituale) quand'anche non meritasse più la tua stima…. se il bisogno….

— Ma no, ma no — interruppe don Luigi — sei fuori affatto del seminato. Quando ti dico che non ho nessun obbligo con quella donna?

— E allora….

— Perchè continua a scrivermi, eh? Me lo domando anch'io. Vedi che siamo perfettamente d'accordo.

— Tu però — ribattè il marchese — non hai letto nessuna di quelle lettere, e potrebbe darsi….

— Ma se lo so che cosa dicono quelle lettere!

— Lo sai?

— Positivamente.

?…

Don Luigi, con svenevolezza mormora: — Ti amo, ti adoro, ti aspetto, non vieni più, mi hai abbandonata, ecc.

Una tinta rosea, metà pudore, metà indignazione, apparve sulle gote del marchese.

— Quella donna ti ama?

Per tutta risposta il giovinotto si strinse nelle spalle.

— Sciagurato, sai tu che sia amare?

— No. In compenso, e per mia disgrazia, so che sia l'essere amato.

Una fatuità grossolana increspava ad un brutto sorriso la bocca di don Luigi, quel sorriso fece pena al marchese, che si sentì ferito nel più delicato de' suoi ideali, tanto che riprese con voce commossa:

— Tu avrai, certamente, lusingata quella poveretta; affascinandola col tuo nome, colle tue ricchezze….

— Grazie! come se non avessi altra carne al fuoco; e come se lei abbisognasse del mio nome e delle mie ricchezze.

— È ricca?

— Quasi il doppio di me.

— Libera?

— Vedova.

— Una signora della buona società?…

— Della buonissima.

Il marchese tremava, un po' pallido.

— E ti ama?

— Pare.

Con un movimento vivace, il marchese raccolse tutte le lettere che erano nella coppa, e le gettò sulle braccia di don Luigi.

— Nascondile e nasconditi — disse.

Don Luigi non fece nè l'uno nè l'altro; scosse la cenere dello sigaro, buttò le lettere sul tavolo e rispose:

— Caro zio, io non sono un paladino che abbia giurato fede eterna al suo Dio, al suo re e alla sua dama. Ho conosciuto la signora Montecuccoli….

— È la signora Montecuccoli? — interruppe il marchese, sbarrando gli occhi.

— Sì, la padrona della villa giù al lago. La conosci?

— Solamente di nome.

— È una bella donnina, non lo nego, ma sentimentale all'eccesso; e poi ha una voglia di cioccolata sulla tempia sinistra, presso i capelli; l'ho scoperta l'ultimo giorno che fui a trovarla. A Ginevra, l'autunno passato, ebbi la dabbenaggine di farle la corte; ella morse all'amo, credette a una passione irresistibile, mi circondò, mi trattenne in tutti i modi possibili. Già le donne di trent'anni somigliano alle pulci in settembre; guai se ti si attaccano!…

Un altro lungo silenzio.

— Ci deve essere, tuttavia, un mezzo per escirne. Tu non puoi permettere che quella signora passi la sua vita a scriverti senza costrutto. Va a farle una visita, dalle una spiegazione conveniente, presentale delle scuse. La più semplice cavalleria impone di lasciare alla donna, anche sconfitta, l'onore delle armi. Un uomo di cuore, un uomo educato, non pagherà mai abbastanza i favori che una donna gli ha concessi.

— Bei favori! — borbottò tra i denti don Luigi.

— Eh?

Macchinalmente, il giovinotto aveva ripreso l'ultima lettera, e gingillando ne stracciava la busta. Una riga sola: Rimandatemi tutte le mie lettere.

— Incomincia a rass egnarsi; siamo a buon porto. Domani faccio un pacco di tutte le sue frasi e Giacomo gliele porterà. Amen.

— Giacomo?… Vuoi consegnare delle lettere d'amore a un domestico, nello stesso modo che si manderebbe una dozzina di quaglie?

— Visto che Mercurio non è più in servizio….

— Portale tu stesso.

Un gesto eloquente, quantunque plebeo, mostrò che don Luigi non se ne voleva incaricare, a nessun patto. E per tagliar corto ad ogni altra osservazione, si levò in piedi, suonando il campanello per farsi portare un lume.

Quella notte, il marchese che non aveva mai veduto la signora Montecuccoli, sognò di lei — il sogno era così efficace che gli sembrava proprio di contemplare l'afflitta donna, bagnata di lagrime, inconsolabile. La condotta di suo nipote, in quell'occorrenza, era stata brutta: ed egli, marchese di Roncegno, capo della famiglia, se ne trovava quasi macchiato di rimbalzo.

« Non si fa così, no » — mormorava tra sè e sè, la mattina dopo, scendendo in giardino, e percorrendo il viale dei carpini andò a guardare il lago, come soleva; cercando fra le molte ville che corrono da Intra a Pallanza, la verde, solitaria villetta della signora Montecuccoli.

« Povera donna! » continuò il marchese, camminando a lenti passi sopra uno strato di foglie secche, che altre foglie cadenti venivano ad aumentare di minuto in minuto. Si fermò poi di botto, colle labbra strette, cogli occhi socchiusi, in preda ad una delle sue solite visioni.

Il domestico venne a cercarlo per l'asciolvere.

Don Luigi, che non prendeva parte a questa colazione, comparve sulla soglia del salotto, in stivali, soprabito e cappello, mettendosi i guanti.

— Vado a Milano.

— A Milano?

— Ho ricevuto questa mattina un telegramma…. Tornerò domani o dopo.

— Va bene.

Don Luigi tese la mano in atto di congedo.

— E — fece il marchese, leggermente turbato — le lettere?

— Sono di sopra, sul mio tavolo; Giacomo le può prendere quando vuole.

Il giovinotto scappava, libero, sotto il vestibolo, quando si sentì preso per il braccio da una mano esile e nervosa.

— Te ne prego….

— Che cosa?

— Porta tu stesso quelle lettere.

— No.

E fu un no deciso, che fece salire il sangue alla fronte del marchese.

— Ebbene, se non vuoi compiere tu il tuo dovere, lo compirò io, per l'onore dei Roncegno.

— Vuoi portare le lettere alla signora Montecuccoli?

— Sì.

Il sì del marchese valeva il no di don Luigi; ma don Luigi non ne fu punto, al contrario trovò molto buffa l'idea dello zio e ne rise di cuore. Decisamente i paladini non eran finiti con Carlomagno.

— Sei sicuro della tua decisione? — domandò ancora il marchese. — Non ami quella signora?

— Sicurissimo; tanto più che non l'ho amata mai. Se ti dico che fu lei a riscaldarsi la testa! Per parte mia l'avrei forse amata un giorno, s'ella si fosse lasciata amare alla mia maniera; ma quando vidi che si impancava nel sentimento, al diavolo! Ho ben altro da fare.

Sparve, lasciando il marchese attonito, rigido sotto l'impressione di un disgusto che sollevava tutti i suoi istinti di gentiluomo.

Rientrò nal salotto e si lasciò cadere in una poltrona davanti al quadro del Zuccarelli, risplendente in quell'ultimo mattino d'ottobre di una luce chiara e diafana, sulla quale si posarono ben tosto i suoi sguardi erranti.

Anche dagli altissimi finestroni pioveva un mite raggio sugli arazzi delle cortine, entro i fili d'oro sbiadito, scivolando fino alle cornici bianche ove si intrecciavano i nodi d'amore — e il marchese, sempre sprofondato nella poltrona antica, seguiva i ghirigori fantastici del pensiero.

« S'ella si fosse lasciata amare alla sua maniera! » — Questo era il tema intorno al quale lavorava la fantasia del marchese; contento, in fondo, che la signora avesse una maniera d'amare opposta a quella di suo nipote.

« Ma allora perchè — suggestione naturalissima — erano corse tutte quelle lettere, e la signora sembrava tenerci tanto al ritorno dell'infedele?

Sembrava, ecco il cavillo. Quali prove c'erano della desolazione d'Arianna? Le lettere. Ma aveva egli, marchese di Roncegno lette quelle lettere? O non potevano essere, invece che lettere d'amore e di rimpianto, sfoghi di sdegno?

« La signora Montecuccoli — egli ripeteva: — la signora Montecuccoli — scandendo le sillabe. — Quando viveva nel mondo si era incontrato con un Montecuccoli veterano di Napoleone I˙

Come mai Giacomo aveva lasciato una striscia di polvere sulla cornice dello Zuccarelli? Il marchese si rizzò in punta di piedi, levando delicatamente la polvere colla pezzuola, guardando da vicino le mani della pastorella che gli apparivano di una delicatezza squisita; principalmente la destra alzata aperta sullo sfondo roseo del cielo.

Nel voltarsi vide che il sole indorava tutto il lago. Batteva mezzogiorno.

« Orbene! » pronunciò ad alta voce. Si era deciso.

Salì in camera di don Luigi, dove con sua grande meraviglia e pari turbamento trovò il pacco delle lettere ravvolto in un semplice foglio di carta, neppure suggellato, con una funicella in croce.

« Povera donna! »

Sì, egli compassionava immensamente colei che aveva potuto, anche per poco, dare il cuore a suo nipote.

Accese un lume e suggellò accuratamente il pacco, apponendo sulla ceralacca il largo stemma dei Roncegno. Le sue mani tremavano un poco, aggirandosi intorno a quelle ceneri d'amore e sul volto gli passava a ondate calde, un soffio di giovinezza.

S'avviò poi, raccolto e pensieroso, giù dal colle.

La villa della signora Montecuccoli non figurava tra le più ricche, ma era certamente una delle più graziose. Piccola, raccolta, come un uccello nel nido, entro una fitta boscaglia, tutta coperta ella stessa sui muri e sul tetto da variate graminacee, sembrava nascondersi agli sguardi volgari.

Il fabbricato, leggero, senza pretese architettonniche, sorgeva tra i fiori, toccando da una parte il lago. Dalla parte opposta vi si accedeva, quasi per sorpresa, svoltando un sentieruolo romito; nessuna prospettiva per gli sciocchi, nessun portinaio per gli oziosi. Gli amici solo ne trovavano la via.

Il marchese pensava con quali parole avrebbe consegnato l'involto prezioso, e a chi. Non era deciso se presentarsi alla signora o rimanere sulla soglia; se farsi conoscere o conservare l'incognito, quando si trovò, per un cancello aperto, nel giardino della villa, e subito una forma femminile usci frettolosa dalle robine quasi lo aspettasse.

Egli allora si fermò e vide che anche la donna si arrestava, indecisa, pur fissandolo con occhio sicuro.

Era indubbiamente la padrona della villa; ma non aspettava lui, Forse don Luigi.

Questa riflessione gli diede coraggio e glielo crebbe un certo qual pallore sofferente diffuso sul volto della signora. Fece un bell'inchino, all'antica e le chiese subito se aveva l'onore di parlare alla signora Montecuccoli.

— Son io.

La voce, lo sguardo tra dubbioso e temente, l'attitudine incerta, una vaga somiglianza nella situazione, tutto questo fece ricordare al marchese il famoso: Son io, di Violetta Valery. E noi sappiamo che il marchese era abbastanza sentimentale per commoversi al ricordo di un melodramma.

Si inchinò per la seconda volta; trasse dal taschino, sul petto, una carta di visita e la presentò alla signora. Su quel rettangolino di carta bianca, senza corona e senza stemma, si leggeva. Anatolio di Roncegno.

La fronte della signora arrosì improvvisamente.

— Prego…. — balbettò, indicandogli colla mano il salotto a pian terreno, — e quella mano alzata, aperta sullo sfondo pallidamente roseo del cielo, impressionò molto il marchese che credette di scorgere viva la pastorella del suo Zuccarelli; solo la mano della signora era più esile, trasparente quasi come una porcellana.

Varcando la soglia del salotto egli era molto commosso; sentiva la difficoltà della missione assunta.

— S'accomodi….

Sedette ella stessa in una poltroncina bassa, tirando colla mano un piccolo paravento ricamato, tra lei e la finestra, per mettersi al riparo della luce, e stette, col corpo lievemente piegato avanti, aspettando.

Pel primo, il marchese si passò la mano su quel tal nodo che gli stringeva la gola nei momenti difficili; poi tossì, diede un'occhiata in giro e finalmente con voce dolce e fioca:

— L'ardire che io ho di presentarmi, sconosciuto, a lei, proviene dalla necessità in cui mi trovo di scusare mio nipote Luigi che, obbligato a partire improvvisamente, non potè venire in persona a renderle questo oggetto.

Di rossa che era, la signora divenne smorta come cera, riavendo il pacco dalle mani del marchese.

— Ella sa che cosa contiene? — domandò con un'alterezza che frenava a stento il dispetto.

— Gioielli preziosi.

Così dicendo il marchese si inchinava con naturalezza bonaria; e soggiunse:

— Mio nipote, dolentissimo del contrattempo, le presenta i suoi umili rispetti.

La signora si era rimessa. Con una mano appoggiata al pacco delle lettere, socchiudendo mollemente gli occhi, riprese:

— Starà assente molto…. suo nipote?

Il marchese ebbe un lampo d'audacia, guardandola fissamente, rispondendo:

— Forse.

I loro occhi si erano incontrati; la signora comprese che egli sapeva tutto

Intanto il marchese si era già formato un concetto preciso: quella donna meritava tutti i riguardi.

— Mai come in questa occasione, sarà vero che gli assenti hanno torto, — disse.

La signora abbozzò un sorriso, tentando di indovinare se il complimento fosse a doppio fondo.

Da parte sua, il marchese, ammirava il sangue freddo di colei che egli era già disposto a consolare; lo avrebbe probabilmente accagionato a leggerezza, se una piega dolorosa delle labbra non avesse palesato nella signora lo sforzo di repressione.

Si alzò, dignitoso, corretto, non volendo abusare della situazione.

Anche la signora si alzò, accompagnandolo lentamente verso l'uscita del giardino; ma egli non permise ch'ella ne varcasse la soglia. La salutò con un profondo inchino e mosse, tutto solo, verso gli alberi.

Se non che, fatti pochi passi, udì il rumore sordo di un corpo caduto per terra, e retrocedendo vivamente trovò la signora in ginocchio sul pavimento, colle braccia buttate a traverso di un divanuccio e la faccia sprofondata tra quelle.

La prima cosa che fece il marchese fu di rialzarla, adagiandola sul divano; poi chinandosi sul volto di lei, lo scrutava per sapere a qual partito appigliarsi. Lo svenimento, se era stato fulmineo, non sembrava però doversi prolungare. Già la signora, di carattere altero e vergognosa di quell'istante di debolezza, tornava in sè; e poichè il marchese accennava a suonare il campanello, per metterla forse nelle mani della cameriera, ella intervenne con un gesto vivace che fece salire una rapida fiamma sul suo recente pallore:

— No — disse, — poichè ha scoperto il mio triste segreto, resti fra noi due.

Gli tese la mano, che il marchese baciò, pieno di rispetto e di gratitudine. Da quel momento parve cadesse una gran barriera; si riconoscevano, si sentivano amici.

La signora, mettendo a posto le gale dell'abito e rialzando i capelli leggermente scomposti, ebbe un sospiro di sollievo. Roncegno le ispirava fiducia. Quella fisonomia seria e fredda, di una dolcezza melanconica, rassegnata, doveva coprire un gran cuore.

— Che cosa le ha detto suo nipote? — domandò, così, a bruciapelo, con un fremito nelle labbra.

Il marchese vedeva crescere a dismisura l'imbarazzo della propria posizione.

— Nulla, — rispose.

La signora, colla faccia appoggiata alla palma, tacque; ma il suo era un silenzio agitato, gravido di procelle.

— La ringrazio — disse poi con accento volubile, rizzandosi sulla vita, evitando di incontrare gli occhi del suo interlocutore. — Ho conosciuto suo nipote a Ginevra, in circostanze bizzarre. Facevo la cura idropatica, con una mia amica, in uno di quegli stabilimenti svizzeri, così noiosi per noi italiani; e, che vuole? — dopo avere osservato se Pilato metteva oppure levava il suo leggendario cappello di nuvole, dopo aver rifiutati una dozzina di leoni intagliati in tutti i legni possibili, dopo aver seguito collo sguardo il vaporino che sale il Righi, si finiva, la mia amica ed io, col parlare dell'Italia. Enumerando i suoi amici, ella favoriva di un ritorno costante il marchese di Roncegno, nobile, buono, gentile, leale, artista, gentiluomo perfetto — questi gli aggettivi della mia amica. A suo dire il marchese di Roncegno era il più simpatico fenomeno vivente, l'ideale di noi donne. Mi lasciai così bene cullare dagli entusiasmi della mia amica che, più tardi, quando ella partì con suo marito per Londra e che io mi indugiai qualche giorno a Ginevra, udito che nel mio albergo c'era un Roncegno, feci di tutto per conoscerlo.

La signora prese fiato, avendo detta la sua parlata d'un tratto, quasi volesse stordirsi al rumore delle proprie parole.

— Mi feci presentare il marchese, non so più da chi…. ah! sì, dal vecchio conte Guidotti che io conosceva appena. Fu una condotta leggera, forse, una di quelle curiosità femminili che si pagano sempre a caro prezzo.

La signora fece un'altra pausa, mordendosi i labbruzzi.

Anatolio di Roncegno, nel guardarla, pensava che tutta l'anima di quella donna le saliva agli occhi quando parlava, svelando un carattere ingenuo e caldo. Sembrava pentita dalle confidenze fatte, oppure desiderosa di farne ancora, attratta invincibilmente dal silenzio di lui attento e benigno.

— Ah! no — continuò la signora, torcendo fra le mani il fazzoletto di batista — per quanto sulle prime egli recitasse discretamente la parte di gentiluomo, oso dirlo anche davanti a lei, il marchese di Roncegno non è un gentiluomo!

— Mi permetta dirle, — balbettò egli tutto rosso e tremante, ma con un raggio di lontano orgoglio tra ciglio e ciglio — che mio nipote Luigi non ha alcun diritto al titolo ch'ella gli attribuisce. È cadetto della famiglia Roncegno.

— E il marchese allora chi è?

— Sono io.

Mai più umile accento, corresse più giusta alterezza. La signora arrossì fino alla radice dei capelli.

— Mio Dio! — mormorò, e si nascose la faccia tra le mani.

Non era più possibile prolungare la visita. Il marchese si alzò, inchinandosi profondamente.

La signora non lo trattenne; ma quando egli ebbe varcato il cancello del giardino, voltandosi, la vide ritta sotto gli alberi e per tutta la strada ebbe nella retina dell'occhio, l'effetto ostinato di un abito bianco sul verde delle robinie.

Passarono quindici giorni.

Il novembre cupo e nebbioso sprofondava i monti in un velo funebre, mettendo sul lago luccicori smorti di stagno. Poche foglie giallastre pendevano dagli alberi tenerelli, mentre i vecchi abeti e le quercie robuste resistevano nei loro toni freddi d'inchiostro.

Nel salotto del marchese crescevano le penombre intorno ai mobili intarsiati, fra le pieghe delle stoffe impallidite, sull' oro antico dei cornicioni. Solo alla sera, quando Giacomo accendeva la lucerna, uno sprazzo di luce irradiava in pieno il quadro dello Zuccarelli e, nel circolo luminoso, scintillava qua e là un pezzo di cornice, un'anfora, il fianco facettato di un vetro di Murano o il filo dorato che segnava il contorno delle rose sulla stoffa dei vecchi seggioloni.

Don Luigi, che doveva restare a Milano un giorno, non era ancora tornato. Il marchese fantasticava tutto solo davanti al finestrone che dava sul lago, stringendo le palpebre, quasi per fermare il contorno di una visione fuggitiva, — o davanti al suo quadro prediletto — od anche, semplicemente, cogli occhi chiusi, guardando in sè stesso.

Una sera, Giacomo aveva dimenticata la tovaglia sul dossale di una poltrona; e quel bianco lino, morbido, sottile, cadendo a pieghe fino per terra, diede al marchese l'illusione di una donna bianco-vestita, seduta sulla sua poltrona, come dama del luogo. E l'illusione continuò, anche quando Giacomo ebbe tolta la tovaglia; continuò sotto la forma della pastorella. che sembrava essere scesa dal quadro per sedere alla sua mensa; improvvisamente la pastorella prese il volto, la figura, l'atteggiamento della signora Montecuccoli. Allora il marchese si passò la mano sul collo e divenne ancor più pensieroso.

Sulla fine del mese don Luigi capitò, affrettato, dicendo che lo aspettavano a Parigi.

Si fermò un paio di giorni alla villa, impaziente, rodendo il freno, sgridando i domestici, affaticando i cavalli. Suo zio lo lasciava fare, pìù indulgente del solito, guardandolo qualche volta alla sfuggita con certe occhiate tra lo sdegnoso e il compassionevole, che se don Luigi se ne fosse accorto, dovevano mettergli una pulce nell'orecchio. Ma don Luigi, che non si occupava mai di nessuno, non si accorgeva mai di nulla.

In un mattino grigio, freddo, prendendo una subita risoluzione, diede l'ordine di attaccare.

— Te ne vai definitivamente? — chiese il marchese.

— Sì, — rispose don Luigi sprofondando le mani nelle tasche, come uomo che si è seccato abbastanza.

Il marchese ottenne che si fermasse almeno a colazione; partirebbe colla seconda corsa; c'era da prendere meno freddo.

— Tornerò a primavera, disse poi, come formola riassuntiva del suo affetto.

— Se non ci sono ti avvertirò.

Queste parole, dette dal marchese colla solita pacatezza, meravigliarono il giovinotto.

— Come? dove vuoi essere questa primavera?

— Non so ancora…. probabilmente farò un viaggio.

— A Gerusalemme, colla compagnia Clygel, tremila lire, primi posti, primi alberghi, cammelli compresi.

Allo scherzo di suo nipote il marchese stette serio e zitto.

Verso mezzogiorno attaccarono la vittoria; i cavalli battevano le zampe sul terreno freddo e duro; il cocchiere terminava di infilare i guanti.

— Dunque buon viaggio.

Erano in piedi tutti e due, vicini.

— Altrettanto.

Don Luigi sorrise ironicamente. Anche il marchese aveva tra pelle e pelle un sorrisetto quasi ironico, ma di una ironia fine, inavvertita.

Si abbracciarono.

Don Luigi saltò in carrozza; i cavalli partirono al trotto.

Ritto sulla spianata che dominava la valle, il marchese, dopo aver accompagnato cogli occhi la carrozza, si volse a guardare giù, giù, in riva al lago, una verde villetta seminascosta.

Pallido, tra le nubi si sprigionò un raggio di sole.

Il marchese, sollevando gli occhi, parve lo salutasse come buon augurio; riguardò di nuovo la villetta, il lago, l' orizzonte, e quel raggio di sole.

— Perchè no ?…. — disse piano a sè stesso, con una mano sulla gola.

E s'avviò, lentamente, giù dal colle.

Mezz' ora prima di arrivare a Spezia, il treno diretto proveniente da Pisa dovette arrestarsi per un disastro accaduta in una galleria. C' erano due ore di aspettativa innanzi che si potesse, in qualche modo, proseguire il viaggio e la maggior parte dei viaggiatori si adattò a rimanere nel treno, assonnati e indifferenti.

Qualcuno invece discese per sgranchirsi le gambe, per riconoscere il paesaggio ai primi chiarori dell'alba, bianca sovra il mare di lapislazzoli. Fra costoro si trovava un giovinetto smilzo, di naturale aristocratica eleganza, alla quale poco aveva da aggiungere un vestito da viaggio di taglio perfetto e di irreprensibile bu on gusto. Sulla sua fisonomia intelligente e mobile si venivano disegnando con giovanile schiettezza tutte le impressioni della sorpresa, della curiosità, dell'attenzione e non ultima quella di un certo piacere per il contrattemp o che a lui, libero da qualsiasi preoccupazione, appariva come un'avventura di viaggio piccante e originale, affatto fuori programma.

Con passo leggiero, la fronte al vento egli si inoltrava anima e corpo nelle dolcezze dell'ignoto. Il mattino non poteva essere più splendido, le montagne sorgevano dal mare, diafane, con vaporosità di veli, con palpiti impercettibili di ali spiegate, tese nel rinnovamento della vita; avevano parvenze umane di donne ammantate, fascino misterioso di simboli, di grandi idee incombenti sulla terra, di forze occulte riunite e pronte all'appello. La luce dell'oriente, che s'avanzava di minuto in minuto, sembrava gettare fasci di rose nell'aria.

Il giovinetto era felice. Aveva tutto per esserlo: l'ora del tempo e quella della vita. Era anche, per dono sovrano del cielo, poeta; apparteneva alla categoria di esseri privilegiati sui quali i casi materiali della esistenza non hanno una solita presa che danno alla esteriorità solamente quel tanto che occorre per non urtare contro i muri o cadere nei fossi, ma che per tutto il resto si fabbricano il loro mondo nella propria anima.

Egli andava lungo la riva del mare, non pensando già più al treno, preoccupato da una visione che gli era apparsa quella notte mentre dormicchiava leggiermente, non avvezzo al rumore ed agli sbalzi delle rotaie. Aveva visto in sogno una meravigliosa capigliatura di donna china su di lui, una capigliatura densa che velava tutto il volto, strana di colore e di forma, poichè incominciando nera al vertice si svolgeva poi con onde dorate di un oro cupo quasi di rame e scendeva sempre più pallida, sempre più bionda, perdendosi alla fine in fiotti bianchi e spumosi che non sembravano nemmeno più capelli ma frangia d' onde increspate. E il volto, misteriosamente coperto a quel modo, gli era pure apparso, per intuizione o per desiderio, il più delizioso volto cbe possa sorridere nei sogni di un fanciullo di vent'anni.

Egli cercava ora nella cresta delle onde che una lieve brezza faceva correre sul mare, di riafferrare la sua visione; e quando l' onda si alzava con quel gonfiamento di seno che somiglia a persona viva, vi figgeva ansioso lo sguardo quasi colla speranza di vedere a disegnarsi traverso il cristallo dell'acqua, il bianco corpo di una naiade che gli movesse incontro.

Indi si pose a recitare versi, ebbro di quella raggiante solitudine, facendo salire ben alta e ben lontana la sua voce, a cui rispondeva solo il sonante muggito del mare.

E camminava, camminava. Sotto i raggi del sole oramai chiaro sull'orizzonte, i colori spiccavano vivaci: l'azzurro intenso del golfo, quello più delicato del cielo, il violetto macchiato delle montagne, il verde dei boschi; sulla riva, le casine rosse e bianche, i battelli ammarrati dei pescatori; una vela, una bandiera, una rete tesa ad asciugare gocciolante dai suoi mille nodi, mille piccole gemme iridate. E in mezzo a tutto, al di sopra di tutto, un' aria dolcemente eccitante mista di sali marini e di profumi di fiori come il respiro di una bellezza che si desta, come il soffio stesso della primavera.

Pensieri lieti gli attraversavano a sprazzi il cervello: l'affetto di sua madre, l'indulgenza paterna, tutta la casa ridente e serena che si lasciava dietro; e tutta la via che gli stava davanti, nuova, piena di sorprese, coi parenti che lo aspettavano, colle relazioni che avrebbe fatte. Ma più ancora quello che non sapeva, il grande, l'occulto fascino della giovinezza che aspetta, l'ansia trepida e giuliva del momento che passa preparando il momento che verrà poi.

— Che bel mattino! Che bel cielo! Che bel mare!— Egli esclamò così, fermandosi. Alla sua destra una dolce salita conduceva per una cinquantina di passi all'ingresso di una villa, tutta chiusa ancora e dormente in grembo a una conca di fiori. Una panchina di marmo stava a fianco del cancello; sedette.

Incominciavano i rumori. L' allodola trillava alta nel cielo; il tonfo di un remo, una canzone lontana, venivano dalla spiaggia insieme a piccoli gridi di fanciulli, a ragli, ad abbaiamenti di fanciulli, a ragli, ad abbaiamenti di animali invisibili. Una finestra della villa si aperse con un rumore secco delle gelosie sbattute contro il muro. Egli voltò il capo in su e rimase abbagliato. Come se una mano poderosa lo avesse preso alla gola, il fiato gli si strozzò nell' ugola, sbarrò gli occhi e stette così immobile.

Nel vano della finestra che le gelosie aprendosi avevano improvvisamente scoperto, era apparsa una testa di donna, la stessa che egli aveva sognata quella notte china su di lui, cogli stessi capelli sciolti velanti la faccia e, fosse effetto del sole che ci pioveva sopra, o della sua stessa fantasia, quei capelli neri al vertice, digradavano in color di rame, in biondo, in bianco argenteo arricciato e spumoso. Stette forse cinque minuti, ma piuttosto meno, quasi prendendo un bagno di luce, poi sparve..

Allora il giovinetto si stropicciò gli occhi, si palpò le braccia, mosse alcuni passi per accertarsi se fosse sveglio. Sveglio era. Si ricordò anzi a puntino che doveva raggiungere il treno per proseguire il suo viaggio; guardò l'orologio e vide che un'ora e mezzo era già trascorsa. Fece un brusco movimento per ritornare sui suoi passi, ma proprio allora dai gradini della villa scendeva e veniva nella sua direzione una fata vestita di veli, la quale aveva appena appena rialzati i suoi magnifici capelli, tanto che qualche ciocca le cadeva ancora sulle spalle.

Che fosse veramente una fata fu la prima impressione del giovinetto, e come fata valeva la pena di perdere qualche istante a guardarla; quando poi si accorse del suo essere femminile e terreno, non era anche più interessante, anche più meravigliosa, così divinamente bella? E la strana capigliatura non meritava di essere osservata da presso? Egli si arrestò netto.

Veniva la bella, senza fretta, con un ondeggiamento ritmico della persona che faceva pensare ad una palma accarezzata dal vento. Quando fu a pochi tratti dal forestiero, drizzò su di lui uno sguardo così mirabilmente contemperato di dolcezza e di dignità, che egli si levò automaticamente il cappello, salutandola. E siccome il saluto era giunto, per la commozione stessa, un po' in ritardo, quando cioè la bella si trovava già a un quarto di profilo davanti a lui, rimase con una acuta voglia di sapere se, un attimo prima, nel momento che i loro occhi si incontravano, avrebbe risposto al saluto.

E quei capelli li aveva egli osservati bene? Che colore avevano? Dovette convenire di non saperlo affatto.

Ella intanto continuava a scendere verso la riva del mare, rimpicciolendosi via via, svanendo come un'ombra; un punto luminoso ancora, la sua testa; un bianco ondeggiamento, la sua gonna: poi più nulla.

Il giovinetto si sentì disperato; gli mancava ad un tratto l'aria e la luce; una fitta acuta gli trapassava il cuore; un brivido gli salvia dalle reni al cervello. Prese la rincorsa e tornò a vederla.

Ella passeggiava ora anche più lentamente, colle braccia cadenti, come assorta in un pensiero malinconico. Egli la seguì, raccorciando sempre più la distanza, eppure nascondendosi se gli veniva il dubbio di essere scorto, provando una grande voluttà a respirare nell'aria il passaggio della sua persona ed a ricalcare sulla sabbia la traccia del suo piccolo piede. Improvvisamente ella cambiò strada, internandosi in un sentiero fiancheggiato da orti che doveva ricondurla alla villa per la parte opposta da quella cui era uscita. Ciò era evidente.

Dunque la perdeva? Non l'avrebbe vista mai più? Questa considerazione accrebbe l'ardore del giovinetto poeta, che tornò a correre, senza un progetto in mente, senza sapere nulla di ciò che farebbe o direbbe, solo per seguire la sua visione. Le capitò innanzi mentre ella già stava per toccare il muro di cinta della villa, spaventandola, ma non molto:

— Signora….

Non disse altro; e perchè aveva detto questo? Che cosa le avrebbe chiesto? Che cosa voleva? È permesso fermare una signora in mezzo alla via, così, come un accattone che domanda l'elemosina? Un violetto rossore subentrò alla pallidezza e la voce gli morì in gola.

Ma lei, con una disinvoltura sapiente e soave sorridendo a mezzo, disse:

— Ha forse smarrito il cammino?

Quante volte, più tardi, ripensando a quella frase, il poeta trovè risposte piene di spirito, e destre atte a dare d'un colpo la migliore opinione della sua intelligenza. In quel momento però la sua intelligenza non glie ne suggerì manco una. Balbettò un monosillabo privo di senso e guardandosi in giro per darsi un contegno qualunque, arrestò gli occhi sovra una striscia di fumo che fuggiva lontano in mezzo agli olivi.

— Guardo — disse allora — il treno che passa.

— Va a Genova.

— Sì.

— E lei…. (una rapida intuizione l'aveva illuminata) ha perduto la corsa?

— Quasi.

— Sarebbe a dire?

— Che posso averla guadagnata.

Si interruppe, sbigottito del proprio ardire e guardando timidamente la signora; la quale nel modo più semplice e naturale soggiunse:

— Lei venne forse col diretto di Pisa che dovette arrestarsi per un guasto sulla linea?

— Appunto.

— Me lo disse la cameriera intanto che mi alzavo, ed apersi io stessa la finestra, immaginandomi di vedere un gran subbuglio in questi paesi sempre così tranquilli.

Egli era ora sulle spine. L'evocazione della finestra gli aveva fatto figgere gli occhi sui capelli della gentile incognica — morbidi, lucenti capelli misti di nero e biondo, non precisamente quali li aveva sognati, ma assai vicini al sogno, e di una vitalità così intensa nelle loro lunghe spire fuggenti al laccio, che ognuna di esse sembrava un filo elettrico attaccato al suo cuore.

— Buon giorno, signore.

Sobbalzò, come ferito:

— Oh! non ancora….

Ella, che già si era mossa, ristette e il sorriso che gli volse fu tanto benigno da crescergli in un subito il coraggio.

— Non prima — disse il giovinetto con patetico, sincero accento — che le abbia chiesto perdono delle mie indiscrezioni.

— Quali?

La sorpresa che la signora tentò di mettere nella sua esclamazione era più falsa che vera, e il giovinetto, senza saperne bene il perchè, sentì crescere il coraggio del doppio. Inesperto e delicato tuttavia non perdette nè il tremito della voce, nè quell'andare e venire pel rossore sulle guancie, che a lui faceva dispetto ed era per la signora un fascino.

— Prima di tutto per averla fermata.

Ella fece un segno cortese colla testa.

— E prima ancora seguita.

Fu lei questa volta che arrossì impercettibilmente.

— E prima ancora….

— Salutata, d'accordo, perdono tutto.

— C'è dell'altro.

— Oh!

— Si guardarono curiosi, trepidi, giulivi, sentendo che un'ora deliziosa passava loro accanto.

— Le chiedo scusa di averla sognata.

La signora non era preparata a questo. Si fece indietro due passi e misurò il suo interlocutore con una occhiata elittica, profonda. Soddisfatta dell'esame, parve raccogliere le sue forze come un capitano avanti la battaglia. Un oleandro fiorito stava dietro a lei; vi si appoggiò colle spalle.

— Credevo che i sogni fossero immagini del giorno alterate e sconnesse.

Egli si pose a raccontarle il suo, dolcemente vestendolo di una graziosa arte poetica, di un desiderio fine, indistinto, di una passione discreta e di una rassegnata malinconia. Quand'ebbe finito la signora ascoltava ancora, per cui vi fu un silenzio; e poi:

— Ella è molto giovane, nevvero?

— Non ancora vent'anni.

— Non ancora vent'anni! — ripetè la signora.

Ma non vi era nel suo accento nè sorpresa, nè malizia, bensì una tenerezza di sorella maggiore che ricorda. E non sembrava neanche disposta a staccare le spalle dall'oleandro, che veramente co' suoi fiori color di rosa le stendeva sul capo un delizioso ombrello, sotto la cui ombra riparava anche il giovinetto; stavano così guardandosi come fosse la cosa pìù naturale del mondo e solo dicevano tratto tratto qualche parola per giustificare quella stranissima sosta.

— Deve avere un bel nome.

— Gabriele.

— Il nome di un angelo.

— Dovrebbe essere il suo, allora.

— Oh! io non sono un angelo.

E che cos'era dunque? Egli si sarebbe prostrato a' suoi ginocchi con tanto ardore? Nessuna donna gli aveva dato fin allora una emozione così intensa. Aveva paura di parlare, di respirare, per non rompere l'incanto.

— Ora sono io che devo chiederle scusa per averle fatto perdere la corsa.

Sorrideva nella felicità di quella piccola bugia; e lui pure sorrise, approvando, sentendo stringersi di minuto in minuto la rete invisibile che li avvolgeva, aspettando il cataclisma che doveva portarli via insieme, in paradiso. Forse la signora aspettava anche lei qualche cosa, tant'è che si guardavano dentro gli occhi come se si fossero gettati reciprocamente un uncino e stessero a vedere che mai fosse per uscirne. Situazione divina, ma alla lunga insopportabile.

— Dunque mi perdona?

Oh! Dio! Lo spasimo che passò sul volto del giovinetto fu tale da obbligarlo a chiudere istintivamente gli occhi. Ella comprese.

— Addio — disse; e più dolcemente

— A rivederci.

— A rivederci?

— Chi lo sa! Non potrebbe darsi?

— Oh! se sapessi di poterla rivedere….

— Ebbene?

— Ma non mi muoverei di qui.

— Fanciullo!

Un istante ancora di silenzio inebriante, e poi una parola grave:

— La sua famiglia lo aspetta.

— No. Lasciai la mia famiglia ieri, viaggio per diporto, sono affatto libero

Un pensiero scettico attraversò rapidamente il cervello della signora. Ella disse, staccandosi finalmente dall'oleandro:

— È meglio che continui il suo viaggio. Una impressione cancella l'altra quando non si hanno ancora vent'anni!…

— Oh! signora!…

Egli apparve vivamente addolorato.

— Mi conoscesse almeno! Vorrei che potesse mettermi alla prova.

— Scusi, e lei sa chi sono?

— Sì che lo so, un angelo, glie l'ho già detto.

— Vede come è bambino?

Ma intanto che diceva così, il volto della signora momentaneamente turbato si rasserenava.

— Sentiamo, quanto tempo sarebbe capace di stare ad aspettarmi sotto questo albero?

— Sempre!

— Zero in storia naturale — esclamò la signora con una franca risata — lei non sa nemmeno che l'uomo è mortale.

— Lo avevo dimenticato infatti.

Non era da bambino lo sguardo lungo e penetrante che accompagnò questa discolpa. La signora lo assorbì tutto con un sottile fremito della persona.

— Orsù, vedo che il destino vuole che diventiamo amici. Mi aspetta due ore?

— Tutto il giorno.

— Tutto il giorno è troppo. Mettiamo tre ore? Sarà ancora in tempo per partire in giornata col diretto che arriva a Spezia alle quattro.

— Non mi muovo, ecco.

— E se si stanca?

— Non mi stancherò.

— Se mi dimentica?

— Non la dimenticherò.

— Ma infine, bisognerà pure fissare un premio alla sua pazienza.

— Mi basta la gioia di rivederla.

— Le concedo — disse la signora con accento gaio — una discrezione.

— A mia scelta?

— Si intende.

— Benedico il cielo.

— Allora, sans adieux.

Con un balzo rapidissimo si spiccò da lui, fece due o tre passi lungo il muro di cinta, pose la mano sopra una porticina mascherata dal fogliame, l'aperse, scomparve.

***

Gabriele giovane, libero e poeta si trovava nelle migliori condizioni per fantasticare sotto un oleandro fiorito, presso la soglia dove abitava un incantevole creatura, donna e fata ad un punto.

Dal suo posto d'attesa la facciata della villa non si scorgeva; solo il tetto d'ardesia biancheggiava sulla massa verde di un boschetto di platani. Tutto intorno erano chiusi coltivati, campicelli, sentieruzzi conducenti alla montagna, silenzio e solitudine; davanti, il mare.

Avrebbe ben potuto domandarle il suo nome! Il nome no, era indiscrezione. Ma se la villa le apparteneva? Neanche questo. Se era del paese? Alla buon ora, la domanda non presentava nulla di indiscreto, perchè non l'aveva fatta?

Come era dama! e semplice, gentile. Che sorriso fine! Che stoffa straordinaria quella del suo abito, molle, trasparente, lattiginosa, con una vita…. E le braccia? Che cosa c'era nelle sue braccia di elegante, di alato, che faceva pensare alla curva di certe anfore antiche?

Andò a mettersi coi piedi allo stesso posto dove ella era stata, appoggiando le spalle a quel medesimo albero, così colla testa un po' alta guardando lontano. Una ebbrezza interna lo faceva tremare tutto e aveva davanti aglì occhi come una nebbiolina d'oro.

— Il destino vuole che diventiamo amici. — Aveva detto questo. Lo ripetè due, tre, quattro volte, tentando di dare alla sua voce la stessa tonalità, le stesse inflessioni. Il destino vuole. Quanta dolcezza in questo occulto dominio del destino! E quando aveva detto — Dunque mi perdona? — E prima — Il nome di un angelo. — E — fanciullo! — Ah! come l'aveva pronunciata quella parola, con una tenerezza, una morbidezza quasi….

Schiuse e serrò le labbra, toccandosele colla punta della lingua, sentendo una fragranza nell'aria.

E sarebbe tornata! Glielo aveva promesso formalmente. A questa visione, alla visione di lei rapparente da lungi sul sentiero scattò. Vedeva già la flessuosa persona, l'ondeggiare della veste bianca, il volto delicato, la splendida chioma e lo sguardo. Il creatore del mondo sapeva lui quello che faceva dando lo sguardo all'occhio umano. L'occhio parla anche quando la bocca tace o non può dir tutto. L'occhio bacia. L'occhio dice ti amo, intanto che la bocca dice buon giorno.

Ma come erano i suoi occhi? Gabriele evocò l'immagine di una stella, di una gemma, di un barbaglio lampeggiante; eppure non era ciò, non era niente di tutto ciò. Era uno spiraglio aperto sopra un'anima. Sì — movendo frettoloso alcuni passi lungi dall'albero, ripeteva concitato — uno spiraglio aperto sopra un'anima. — Un verso gli fluì dalle labbra. Questo ti chiedo o vergine. Tuttavia…. Arrossì, diede colla sua massa un colpo nell'aria e andò a riprendere il suo posto sotto l'oleandro.

Le ore? Fatalità. Il remontoir nuovo, troppo nuovo, si era fermato. A Gabriele sembrava che fosse passato un secolo, pure non doveva esser molto tardi. C' era ancora nel cielo, negli alberi, sul pendio erboso della collina tutta la freschezza delle prime ore del giorno; il sole si avanzava, è vero, ma la rugiada non era scomparsa e luccicava qua e là sui fili d' erba, nel calice dei fiori. Qualche paranza filava solitaria sul mare.

Un rumore di passi lungo la spiaggia attrasse la sua attenzione oziosa. Non erano passi di donna, nè di contadino, bensì uno scricchiolio di scarpe lucide non ancora distese dall'uso; e subito comparve, al principio del sentiero dove Gabriele stava aspettando, un giovinotto in elegante abito da mattino, calzoni quadrigliati e giacchetta di flanella bianca, un berretto inglese sulla testa, un parasole di seta grigia in mano. Nè tosto si videro che si squadrarono a vicenda, riconoscendosi di primo acchito parenti, cioè figli della stessa società e abitanti nello stesso mondo.

Il nuovo venuto, invece di continuare la sua strada lungo la spiaggia, sembrò mutar parere alla vista di Gabriele, perchè infilò il sentieruzzo e raggiunto Gabriele gli si fermò davanti toccando leggermente il suo berretto.

— Il signore ha smarrito qualche cosa?

— Io? No.

— Scusi.

Ritoccato il berretto lo sconosciuto stava per tornare indietro, quando Gabriele messa istintivamente la mano in tasca si accorse di non aver più il portafoglio.

— Cioè…. sì.

— Che cosa?

— Un portafoglio verde, di pelle scamosciata, con….

L'altro non lo lasciò finire. Gli porse garbatamente l'oggetto, soggiungendo.

— Lo trovai sulla panchina davanti a Villa Silvana e siccome mi pareva quello del mio amico Serra, un habitué della panchina, lo raccolsi. Mi sono poi accorto che non era suo per questa corona di conte. Scusi l'indiscrezione, ma è permesso osservare un portafogli che si trova per strada.

— Anzi, la ringrazio.

A Gabriele tutte quelle parole di villa Silvana e dell'amico Serra avevan messo un gran tremore addosso; balbettò:

— La ringrazio, e perchè il ringraziamento non voli via insieme alla parola mi presento da me.

Trasse dal portafogli una carta da visita col nome: Gabriele Apriceno e al disopra la corona colle nove perle.

Lo sconosciuto la prese e si affrettò a ricambiarla. La carta che diede a Gabriele recava: il marchese di Suna.

— Il marchese di Suna, lombardo? Ho appunto una lettera di presentazione per lui, ma è nella valigia…. —

Gabriele arrossì, rammentandosi che la valigia aveva viaggiato senza di lui alla volta della Spezia.

— Sarà per mio zio, il marchese di Suna Monticelli, che ha parentela in Romagna. Lei è Romagnolo?

— Marchigiano.

— Ho avuto una anticipazione di fortuna sopra mio zio. Ne sono tanto più lieto in quanto che mio zio si trova all' estero e non so se tornerà così presto. Lei fa conto di percorrere l' alta Italia? Per piacere?

— Per piacere ed anche per rendere una visita a dei cugini, i San Martino.

— Conosco. Una contessa di San Martino viene tutti gli anni a villeggiare qui.

— Come lei?

— Oh! io sono uccello di passaggio, corro dietro generalmente a una gonna e vado dove piace a Sua Bellezza.

Gabriele tornò ad arrossire. Il marchese soggiunse:

— Si ferma qualche giorno?

— Conto di partire colla corsa delle tre e mezzo.

— E di qui ad allora contempla il paesaggio? Oh ma io posso mostrarle qualche cosa di meglio. Le propongo una gita nel golfo, anderemo a….

Grazie, non posso. Ho….

— Un appuntamento? Basta; la lascio libero, molto più che potrebbe giungere da un momento all' altro il mio amico Serra, un habitué, come ho avuto l' onore di dirle.

Gabriele mandò giù un grosso nodo che gli strozzava la gola e disse:

— Ma non ho nessuna fretta. La sua compagnia è tanto piacevole che la prego di accordarmi ancora alcuni istanti. Lei conosce forse il…. la…. la villa qui accanto?

— Villa Silvana? Senza dubbio. Non è una meraviglia, ma è molto graziosa, ha un giardino che è più fiorito dei dintorni.

— E…. i proprietari?

— Cioè la proprietaria; fiorita come il suo giardino.

— È molto bella nevvero?

— Sì, bella. La conosce?—

Il turbamento di Gabriele era così evidente che al marchese non fu difficile intuire parte della verità. Soggiunse allora con un sorriso che a Gabriele parve cattivo.

— Non è difficile conoscerla.

— E…. ha marito?

— Secondo quel che si intende caro signore.

— Ella è molto giovane nevvero?

Oh! Dio, la stessa domanda che gli aveva fatta Lei! Ma senza quel dolce accento, al contrario, quasi con una punta di ironia. Rispose freddamente:

— I miei anni dovrebbero importarle poco, io non le ho chiesto i suoi.

Questa durezza piacque al marchese; se Gabriele aveva il bel difetto di essere troppo giovine, mostrava però che era già uomo.

— Oh! io non ho nussuna difficoltà a dirli. Sono trenta suonati, dieci almeno più di lei; ciò mi dà qualche diritto e qualche dovere verso l' amico di mio zio, no? —

Gabriele vide sfumare tutto il suo rancore e tese francamente la mano al singolare mentore.

— Facciamo quattro passi sulla spiaggia?… M' accorgo che la proposta non le garba…. Ah! è vero… è di fazione sotto quest' albero — della scenza? — soggiunse guardando in su comicamente l' oleandro.

Gabriele si abituava a poco a poco allo scetticismo mondano del marchese. Forse era segretamente attirato, nella sua qualità di giovinetto ingenuo, verso un giovine fatto, di larga e natura esperienza. Più che tutto, certo, lo arrovellava il desiderio di informazioni precise sulla leggiadra incognita. Disse ancora il marchese:

— Ma infine, conosce o non conosce Silvana? Tra unomini si può parlar chiaro.

— Non so se quella che lei chiama Silvana, (che palpito a pronunciarne il nome) sia la divina donna che vidi stamane ad una finestra della villa, poi su questo sentiero….

— Sparita dentro a quella porticina? Coi capelli di uno strano colore di rame? Che cammina così, ondulata come un salice o come una palma? È lei. Del resto non c' è che lei per fulminare in tal modo un uomo.

— Ma io non….

— Vuol dire che è fulminato? Via, non facciamo questione di parole. E poi che male c' è? « Et si d' une fenêtre vous vous faîtes une porte — N' étant pas marié, mon ami que m' importe?

— Mi pare che lei parli troppo leggermente di una donna che forse conosce poco e di un uomo che non conosce affatto.

— Bravo Apriceno, buon sangue non mente. Mi piace questa suscettibilità in un giovane; è indizio d' animo nobile e caldo. Però, se conosco poco lei m' è in compenso molto nota la signora. Dirò ancora: Che male c' è?

— Mi parve una signora rispettabilissima — balbettò Gabriele che si rodeva fra il bisogno di difenderla e il ridicolo di sembrare un ingenuo.

— Per il gentiluomo una signora è sempre rispettabile o rispettata alla peggio. Ma Santo Dio non ricaschiamo nella filologia. Concludiamo piuttosto. Lei, tra una corsa e l' altra ha trovato modo di ottenere un appuntamento da Silvana; gliene faccio tutti i miei complimenti e ne approfitti senza scrupolo. Come già disse benissimo, la signora ha l' aspetto di una fata, di una gran dama almeno. È veramente di buona famiglia, una educazione di prim' ordine, possiede anche uno stemma con un motto: multitudinem arceo, ma i suoi amici lo hanno cambiato; essi dicono: multitudo non impedit.

Questa volta ci fu un lungo silenzio. Gabriele meditava; il marchese faceva saltar via colla punta dell' ombrellino i petali secchi dell' oleandro.

Mio nonno — era ancora il marchese che parlava, seguendo cogli occhi la parabola che i petali staccati tracciavano nell' aria prima di cadere — un vecchietto arzillo, sempre elegante nella sua giubba turchina coi bottoni d' oro, ultimo avanzo di quei galanti cavalieri che sapevano maneggiare altrettanto bene la spada e la lingua, povero uomo, mi diceva: l' erba spunta tutti i giorni, le rose tutti gli anni, il fior dell' aloe tutti i secoli; l' occasione una volta sola. Oh! — disse poi traendo il cronometro — è ora di far colazione; Sua Bellezza mi aspetta; e — soggiunse abbassando la voce — non è neanche bella come Silvana. Buon giorno caro signore, scriverò a mio zio il fortunato incontro.

Gabriele rimase solo, un po' malinconico, un po' scorato e con quel senso penoso d' indeterminatezza che prova il viaggiatore smarrito davanti a due sentieri. La lezione mondana del marchese aveva agito come una sferza sulla sua ammirazione nascente, lo aveva ferito cioè e stimolato insieme. Che cosa farebbe ora?

Egli si trovava in quel periodo difficile dove l' innocenza ha già scosso i suoi veli, ma li trattiene ancora per un resto di pudore. Immobile sotto l' albero guardava alternativamente i fiori freschi aggruppati sui rami e quelli vizzi che l' ombrellino del marchese aveva atterrati, ponendosi il dilemma: Vado? Resto?

Tornò a pensare tutto il dialogo avuto colla signora, e pensarlo in modo diverso, dando una diversa interpretazione alle di lei parole. Fin dalle prime, le primissime « ha forse smarrito il cammino » non c' era una intenzione provocatrice? E il sorriso che gli era apparso così schietto ed ingenuo, non aveva una piega di malizia in certi momenti? E come non si era offesa del suo sogno! Come aveva accettato prontamente il convegno! Come lo aveva guardato nel partire?… Decisamente egli era stato uno sciocco.

Questa conclusione gli pose il sangue in ribellione. Arrossì, impallidì, diede cinque o sei pugni nel vuoto come per sfidare un nemico invisibile e calcandosi risolutamente il cappello in testa affermò a voce alta: Resto.

***

Appena rientrata nella villa la bella signora ebbe il bagno pronto; poi la cameriera le aveva recato l' asciolvere, l' aveva pettinata, vestita, ed ora libera e sola gustava qualche istante di dolcissima fantasticheria, sdraiata in una lunga poltrona, nella penombra azzurrina del salotto in cui faceva macchia un grosso mazzo di rose bianche.

« Caro, sì, molto caro e più seducente nel suo lieve imbarazzo che non il più esperto don Giovanni. Che occhi dolci e profondi! La sua voce è la più simpatica voce d' uomo ch' io abbia mai udita. Ma non è egli differente in tutto dagli altri uomini? »

Il monologo della signora fece a questo punto un brusco salto indietro. In una rapida visione del passato le sfilarono davanti le sue incertezze di fanciulla, le prime rivelazioni, il primo anello di quel vortice che doveva poi trascianarla irremissibilmente. Non era ella stata così ingenua e fidente? Che cosa, se non la brutalità degli uomini, aveva dissecate in lei le sorgenti mistiche dell'ideale? Oh! ricordava anche ne' suoi vent'anni certi mattini di primavera, trascorsi a sognar d'amore sotto gli alberi fioriti, come lui, come lui che la attendeva trepido e beato, niente altro che per rivederla. Quasi da un fiore agreste colto sul sentiero, le veniva da quella nuova e impensata conquista un profumo delicato, l' impressione di una voluttà sana e nel suo cuore di donna dove la maternità sonnecchiava, un sentimento di protezione e di rispetto si mesceva all'attrazione sensuale, dominandola. A lei, sazia di incensi violenti, saliva quel dolce profumo di una giovinezza pura.

Tornare angelo, tornare fata per una volta ancora, avere per una volta ancora quindici anni, quale sogno!

Nulla sarebbe avvenuto come il solito; non il bruciante desiderio seguito dal disgusto, non l'estasi preparante l'oblio; non menzogne, non giuramenti, nessuna profanazione. Due fiori, sì, due fiori che si piegano un momento l'un verso l'altro e basta. Egli sarebbe ripartito colla sua immagine nel cuore e non si sarebbe cancellata mai più. Durare per tutta la vita nella mente di un uomo, apparirgli accanto alle realtà disgustose come l'immagine di una bellezza superiore, di una potenza occulta e recare, lei, nel turbine del suo avvenire quella consolante oasi di riposo, quell'ora di amoreideale. Questo.

La mente della signora, raffinata e gentile, era ben fatta per gustare tal genere di voluttà. Si alzò un istante dalla poltrona e andò a chinarsi sul mazzo delle rose bianche, sfiorandole colle labbra poi tornò a cadere sulla poltrona colle braccia allungate sui ginocchi, le palpebre socchiuse.

« Gli ho promesso una discrezione. Che cosa mi chiederà egli mai?… Il nastro de' miei capelli? Il fiore che tengo in petto? Uno spillo? Una parola? Il mio nome? Forse…. oh! egli è così timido che non oserà certamente di domandare un bacio. Ma pure, se lo domandasse? »

Chiuse gli occhi del tutto, ponendovi sopra entrambe le mani, una per occhio.

« Se me lo domandasse?… sul lembo della gonna, sulla mano, sui veli del collo…. Che divina dolcezza un bacio sulla bocca…. così fresca, così pura, che non ha forse baciato mai! »

Un'onda ardente di desiderio passò come un uragano attraverso tutto il corpo della signora. Ella fece uno sforzo violento per dominarsi.

« No, no, deliro. Egli mi chiederà un pensiero, una preghiera, meno ancora. Che cosa non saprà inventare quel cuore innocente di poeta?… Ma sono pur rosee le sue labbra e candidi i suoi denti…. »

La lotta continuava, fiera, con grandi forze spiegate d'ambo le parti, finchè vinse l'antica sentimentalità in quella tormentata anima femminile. Si rizzò in piedi, decisa. Corse nella sua camera, buttando all'aria frettolosamente uno stipo, cercando un piccolo medaglione appeso ad una catenella d'oro; se lo pose al collo e lo accomodò amorosamente fra le trine, nascondendolo un poco.

« Se veramente volesse darmi un bacio — e impossibile — tuttavia se lo volesse, questo medaglione lo raccoglierà e non mi abbandonerà più. »

Si sentì leggera, colle ali al cuore. Un amore così diverso dai soliti! meno e più che un amore. Attraversò correndo il giardino della Villa, poi rallentò il passo per un raffinamento dell'immaginazione che gli prolungava il piacere dell'attesa. Giunse alla porticina a poca distanza dalla quale aveva lasciato Gabriele e guardò per il buco della larga e rozza toppa. Il giovanetto era là. Non si scorgeva che parte della persona, ma la signora lo riconobbe subito.

« Oh! un suo bacio, un suo bacio! »

Il desiderio venne a morderla così, improvvisamente, ed ella tornò indietro volendo vincersi ad ogni costo. Ormai era una sfida gettata a se stessa. Fece due o tre giri per i viali più ombrosi del giardino finchè ritrovossi ancora davanti alla porta. Gabriele, al di là del muro, canticchiava per ingannare il tempo.

Le parlate d'amor
o cari fior….

Faust! mormorò la signora spingendo la porta; non si ricordava più che dietro Faust c' è Mefistofele.

Il giovinetto le venne incontro, ilare, con una fiamma negli occhi.

— L'ho fatta aspettare troppo? — disse la signora abbassando le pupille dinanzi a quello sguardo.

— Troppo? Non saprei. Ciò dipende dal compenso che mi aspetta.

Egli era ben pronto a parlare di compenso. La signora si turbò lievemente.

— Il posto è bello, l' ombra profumata, ella non deve essersi annoiata molto.

— Crede forse che abbia composto dei versi?

— Potrebbe darsi.

— Si inganna; quantunque — soggiunse Gabriele con galanteria — la Musa li meritasse per avermi inviata così gentile ispiratrice.

Perchè quel complimento spiacque alla signora? Quale stonatura le guastava l' armonia della canzone?

— Che aria pura! — esclamò sollevando la faccia e guardandosi attorno, nella attitudine di chi vuole orientarsi.

— Sì — rispose il giovinetto — ma il sole scotta.

— Il mare — continuò la signora allungando il braccio verso la riva — ci manda una frescura incessante….

— Ma il tempo fugge.

Ella non osò guardarlo. Istintivamente sentiva che l' incanto era rotto, l' ora passata per sempre.

— E la mia discrezione? — disse Gabriele all'improvviso, con molta disinvoltura.

— Chieda — mormorò la signora con un fil di voce, nascondendo colle dita il medaglione quasi per proteggerlo.

— Lei sarà cristiana mi immagino. Sa dunque che la buona sementa messa in buon terreno frutta il cento per uno. Domando…. tutto.

Excusez du peu.

Aveva trovato questa frase bella e fatta per mascherare l' emozione del disinganno; ma il cuore le si era stretto come in una morsa. A piccoli passi, rinculando, si era portata accanto alla porticina. Di là sollevò la fronte con un misto di fierezza, di sdegno e di ironia.

— Lei ha studiato il latino nevvero? e il greco? e la filosofia? e le matematiche? e le lasciò un buon consiglio: studi la donna.

La porticina sbattè cigolando dietro la signora, che nel rifare i propri passi a qualche minuto di distanza e in condizioni tanto mutate, andava ripetendo fra se stessa: — Perchè? Perchè?

Dal canto suo Gabriele, rimasto stordito sotto il colpo che era ben lungi dall' aspettarsi, ripeteva pure: — Perchè? Perchè?

E nessuno dei due lo seppe mai.

FINE.

La freccia del parto pag. 5

Le tre rose pag 183

Bugia pag 227

Tonino l'eremita pag 245

Arte antica pag 271

Una discrezione pag 331

I migliori romanzi italiani moderni
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