MARTIRI ITALIANI

ALCUNE DONNE
PEI
DANNEGGIATI POVERI DALL' INNONDAZIONE IN ROMA.

VENEZIA
TIPOGRAFIA DEL COMMERCIO DI MARCO VISENTINI
1871.

Quando il Tevere nello scorso Gennaio straripando, inondava l' eterna città, immergendo il suo popolo nella miseria, un grido di pietà si clevò per tutta la bella penisola, e chi non è sordo alla voce del cuore, volle soccorrere i danneggiati da tale sciagura; mandare il suo obolo a sollievo di tanti infelici.

E la donna, ch' è l' incarnazione della carità, non poteva certo restare indifferente e semplice spettatrice in questa gara di generosità; ed anzi dopo di essersi unita all' uomo nell' offrire il suo soccorso, desiderò in altra forma dimostrare quanto vivo sia in lei quel sentimento, che la cangia in angelo della provvidenza.

Ricordare alcuni de'nostri martiri; narrarne con parola d'amore le gesta, le virtù, e tributare una lagrima di riconoscenza alle loro tombe, era opera a cui la donna avrebbe dato mano con lietezza, imperocchè rispondesse al suo pensiere, al palpito del suo cuore, tutto fuoco per la patria.

Difatti al mio invito essa non fu tarda a corrispondere, ed io ho potuto tanti scritti raunare da comporne il volume, che avrei stampato a vantaggio de' poveri innondati in Roma, e per il quale, già m'erano pervenute da mille soscrizioni. La donna forniva la merce, che la donna comperava.

Questo libro dovuto allo impulso della beneficenza, ha principio con un ben colorito quadro de' dolori delle povere madri de' martiri, informato a quelle idee umanitarie, che devono oramai esserci di guida al conquisto della civiltà vera; e si chiude con un ricordo toccante del nostro popolo, così prode, così valoroso, sì potentemente concorde, quando si sappia accendergli l'anima d' una santa idea, ricordargli la sua dignità di cittadino, e i suoi doveri di figlio verso la gran madre comune. Il popolo è il martire perenne della libertà; senza il suo aiuto saremo noi ora una nazione? E chi più di lui soffrì, e si sagrificò? Dalla madre, che occupa bene il primo posto fra' martiri, ad esso, si discorre una via, tutta seminata di tumuli, ma tumuli irradiati dalla luce, che sopra vi spande l'angelo della gloria.

E la donna evocò le ombre de' prodi caduti, e della luce che li circonda illuminando la mente, e il cuore accendendo, scrisse de' lor giorni, facendo voto che il nobile esempio da essi tracciato, non sia perduto, e sorgano nuovi apostoli della fede di patria, ad imitarli.

Avrei desiderato compilare il libro, dando alle biografie l' ordine che le epoche storiche mi avrebbero consigliato; ma fummi impossibile, dacchè i lavori mi giungessero a distanze tali, che non avrei allora mai dato principio alla stampa.

Queste pagine, scritte per Roma, a Roma consacro.

Venezia nell' Ottobre del 1871.

Gualberta AlaÍde Beccari.
Compilatrice.

A TE
R O M A
PER CIVILI E GUERRESCHE VIRTÙ
DOMINATRICE DI POPOLI

LASSEZZA DI COSTUMI
IN CATENA DI SCHIAVA
TI CAMBIÒ LO SCETTRO GLORIOSO

SCONTASTI TUE COLPE
PER SECOLI

PURIFICATA NEL MARTIRIO
SORGESTI NOVELLAMENTE REGINA

ITALIA TI SALUTA
FUTURA MADRE DI CIVILTÀ

A TE
QUESTE PAGINE
RICORDO DI PRODI CHE FURONO
POCHE DONNE
DA CARITÀ INSPIRATE
CONSACRANO
LA GIOIA DEL TUO RISCATTO MEMORANDO

G˙ A˙ B˙

E l' anima loro si versava
nel seno delle loro madri.

Geremia.

» È salita contro il mio paese una nazione possente, innumerevole; i suoi denti sono denti di leone, ed ha mascellari di fiero leone;

» Ha deserte le mie viti, scorzati i miei fichi; gli ha del tutto spogliati, e lasciati in abbandono.

» Giorno di tenebre e di caligine, giorno di nuvole e di folta oscurità; che si spande su per li monti; un grande e possente popolo viene! Il simile non fu giammai, nè sarà dopo lui in alcuna età.

» Davanti lui un fuoco divora, dietro lui una fiamma divampa; la terra è davanti lui come un giardino di Eden, e dietro a lui è un deserto di desolazione.

» I popoli ne sono angosciati, ogni faccia diviene fosca.(1) Joele.

» E i figli spasimavano per le piazze della città e dicevano alle madri loro: dove vi è del frumento e del vino? E svenivano per le strade della città, come i feriti; e l' anima loro si versava nel seno delle loro madri.

E si potrebbe numerare quante volte, nel lungo procedimento dei fatti umani, questo lugubre canto si ripeta?

Come mesta nota d' accompagnamento in grande tragedia musicale dura incessante, inavvertita finchè il canto si svolge complicato e vario, ma di quando in quando s' innalza sonora, prolungata, fortissima sopra ogni altra armonia, cosi il desolante ritornello risuona fin nel profondo degli intimi precordi: I figli versano l' anima nel seno delle loro madri.

Oh donne di tutte le epoche, di tutte le lingue, di tutti i paesi, venite, venite!

È la biblica genitrice del genere umano che, sulla faccia esangue del figliuol suo, esterrefatta ci mostra la morte, perchè l' ira e l' odio erano entrati nel cuore dell' altro figliuolo.

È la veneranda Ecuba, madre fortunata di cinquanta talami, che esultante in terra straniera, piange con le desolate nuore, tutti i figli, tutti i nepoti uccisi, e manda dalle sue viscere ululi d' angoscia.

Sono le donne ebree; « I Nazarei erano più puri che neve, più candidi che latte, vermigli del corpo più che gemme, puliti come zaffiri. Ma il loro sguardo è divenuto fosco; non si sono riconosciuti per le strade; la loro pelle si è attaccata alle loro ossa, è seccata, è divenuta come legno; e muoiono ad ogni capo delle vie. Più felici sono stati gli uccisi, il loro sangue era colato ».

Interroghiamo ancora tra le stirpi dei popoli; ascoltiamo le madri dei popoli celebri per civiltà, e le madri dei popoli barbari; sono sempre le medesime lamentevoli grida, dalle prime genitrici fino alle madri alemanne e alle infelicissime madri francesi. — I figli versano l' anima nel seno delle loro madri.

l'ure la storia ci narra delle madri e delle spose spartane, che al partire dei loro cari per la guerra, gli vestivano delle armi e, lungi dal prorompere in lagrime, con sensi virili dicevano, o ritornassero vincitori con quelle, o morti su quelle.

Alle donne, più ancora agli uomini tale fierezza d' animo sembra enorme, quasi impedisse alla loro anima, nel punto fatale, di versarsi nel seno della madre; poichè l' uomo ama nella donna; sua madre, sua sposa, sua compagna nella vita e nella morte, la dolcezza, la grazia, la tenerezza, l' amor sviscerato.

Ma vi è dubbio che la donna possa mutar natura? — « Le mani delle pictose donne hanno cotti i loro figli! »(1) Geremia. — Ma perchè gli uomini infieriscono gli uni contro gli altri? Sono forse le madri che dichiarano ad altre madri la guerra? Sono desse che mandano i propri figli a rapire la patria, a conculcare i figli l' altre madri?

E siccome in ogni cosa quaggiù la più nobile, la più santa vi è contraddizione, altrimenti la vita sarebbe felice e il dolore sparirebbe dalla terra; quando la madre raccoglie il frutto delle sue domestiche virtù, e i figli adulti sono il suo orgoglio, la sua gioja, ecco altra virtù imperiosa, l' amor della patria, che è vita ed onore dei figli, sorge alle prese con l' amor di famiglia, che è sua propria vita e felicità.

E poichè gli uomini non ascoltano le grida disperate delle sue viscere che gridano, pace! pace! dovranno pur vederla emulare le virtù spartane, preferire la patria alla famiglia, le glorie maschili e guerresche agli affetti miti e soavi; divenuta feroce per necessità, vestire con la debole mano i figli delle armi, e tentare di vendicarli uccisi.

Chi non sa che cosa sia guerra? Quando gli Austriaci signoreggiavano il nostro paese, e i nostri figli sorsero al grido dei fratelli che venivano a liberarci …

Prima l'ansia degli apparecchi; i figli sono chiamati … partono; i figli d' altre madri arrivano; guidano fila interminabili di carri, di cannoni, di cavalli e per ore ed ore battono i selciati della città con le zampe ferrate; le pesanti ruote, le striscianti catene sollevano una polvere, mandano un fragore che da per tutto si sente e spaventa le madri. Ecco i rulli dei tamburi; sono i soldati. Drappelli arrivano e passano — reggimenti arrivano e passano — corpi d' armata arrivano e passano. Ecco le fanfare, ecco i cavalieri! E tutti hanno il volto truce e brutale; dove vanno? Vanno ad uccidere i nostri fratelli, e i nostri figliuoli. Ed essi chi sono? Sono figliuoli, sono fratelli di povere madri, di povere sorelle che piangono, come noi, desolate nei deserti focolari. Ah il loro aspetto non è truce e brutale, ma addolorato; poveri figli! Obbediscono a quella fatale ragione, che vuole le nazioni provino la loro virtù col ferro, col fuoco e col sangue; pensano alle loro madri amorose e desolate.

Ma zitto! Ecco il cannone!… un colpo! … due!.. tre! è un lugubre romoreggiare da diverse parti; il rombo s'avvicina, oh spavento! — Ma no, rallegriamoci; sono i figli nostri che s' avanzano, guadagnano terreno: i figli d' altre madri retrocedono, i colpi s' incrociano …. ecco la fucilata …. sono corpo a corpo … ma il cannone si allontana di nuovo, oh Dio, i nostri figli fuggono!… sono inseguiti … ora cessa ogni fragore di guerra, tutto è silenzio.

Di chi è la vittoria? Quale è più vírtuoso? Quegli che ha ucciso di più, ecco due grandi monti di cadaveri, ecco due grandi stagni di sangue; separiamoli e contiamo. Dove il monte di cadaveri è più alto, dove è più vasto e profondo io stagno di sangue, è la vittoria, è la gloria, la maggiore virtù. Vediamo; e come sulla sera il contadino misura sull' aja il grano battuto o il vino nei tini, così l' uomo di guerra misura la messe dei figli mietuta nel campo della battaglia ed il prodotto della vendemmia umana.

Ma ecco il silenzio per la vasta campagna rotto da un lugubre rotar di carri, che lento lento si avvicina. Cosa è? L' ambulanza; carri carichi d' uomini tagliati a pezzi, grondanti sangue a rigagnoli, come carne macellata di fresco. Si alza da per tutto un compianto, … presto, presto accorriamo, sono i nostri figli che gemono e domandano il seno delle loro madri per versarvi l' anima. Ma nò, sono gemiti di voci sconosciute; dicono parole strane in lingua ignota, ah sono i nemici! Sì, sì sono i figli d' altre madri!… e i nostri? Poveri figli!…

Senza baci moriste e senza pianto.

Se le donne sapessero impedire la guerra! Ma i figli crescerebbero forse vigliacchi e molli? Sarà poi vero che l' indole umana si purga e si avvalora per sì feroci virtù?

Chi, dalla nostra città, va fuori a porta S˙ Lucia, lungo la strada maestra, vede a destra fra la siepe ed un fossato, una rozza pietra con breve iscrizione che dice, riposare là sotto le ossa di un povero ufficiale ungherese, morto nell' assalto di Vicenza nel 48. La pietà di un amico ve la pose, onde la povera sposa potesse ritrovare le ceneri del caro perduto.

Questa desolata si parte dalle rive del Danubio per vedere i luoghi ove riposa l' uomo del suo cuore, bagnarli del suo pianto, mirare il cielo che vi spande la sua luce, e poi ridire ad una cara bambinetta i pietosi casi dell' infelice suo padre.

Ma ahi sventura! la poveretta trova rovesciata quella tomba, l' ira degli oppressi incrudeliva contro le ceneri dell' innocente oppressore. Rimessa a luogo riparte, tenendo sempre nella dolente fantasia la vista di quella pietra rovesciata. Che fare? Come impietosire i rancori degli oppressi contro le amate ceneri?.. Ma madri e spose ci sono in Vicenza. Ed un pio sacerdote riceve da quella dolente una lettera in cui scrive, che lega alla pietà delle madri e delle spose vicentine la povera tomba dell' amato consorte. Ah sì, sui sepolcri dei nostri cari siamo tutte eguali, madri, spose e sorelle.

Vicenza 10 Febbrajo 1871.

T˙ B˙ C˙

Rammento un giorno infausto! un inquieta Ansia regnava a tutti in cor; sospesa Parea la vita ovunque, o solo intenta A un evento aspettato; un senso arcano Di fiducia e di dubbio; uno sgomento E una speranza indomita apparia Su tutti i volti invigilata invano Dall' oppressor. Per le frequenti vie Il cittadin curioso interrogando Qualche timido crocchio iva del guardo Ardentemente, e ne traea dai gesti O dal sommesso dir, nove argomento Di gioia o duolo. Ognun la gran novella Attendea palpitante, e giunse, ed era Ahimè l' annunzio d' una gran disfatta. Lissa! gridar s' intese; e baldanzoso Del suo trionfo inaspettato, al nostro Mal celato dolor come ad un' onta Irridea lo stranier. Onta non era; Vil chi dircelo osò! Come leoni Ilan pugnato anche allor d' Italia i figli. Nè dei gagliardi colpa fu se il duce Ebbe cor di coniglio: il nostro tempo L' ha giudicato; ed ora un lento obblio Pari a quel velo che Venezia ha steso Sull' effigie del suo doge spergiuro Ne copre il nome; e a lui resta soltanto Giudice l' avvenir. Quando l' angoscia Del disinganno e lo stupor di tanta Ruina cesse a una pietosa cura, Il nome allor dei poveri caduti A ricercar ci diemmo. Ahi tutti cari E conosciuti e col dolor rimpianti, Che balsamo non ha dal nobil vanto Della vittoria. Oh ma il tuo nome, il tuo Nome soltanto, o Ippolito, ci parve Illuminar tutti i dolori arcani Di quel giorno fatal! perchè la morte Tu non cercavi allor; ma inerme e solo Forte del genio e dell' amor che il petto Per questa terra t' accendeva, ahi tanto Bella e infelice, ia tenzon suprema Combattuta sul mar tra i volorosi Figli d' Italia e lo stranier volevi Sulla tela eternar. L' opre non io Del tuo pennello creator, le gesta Non io dirò di tua mirabil vita. Altri di me più deguo alla commossa Patria le ha già narrate ed il tuo nome Rivivrà nella storia. A tributargli Una pietosa lagrima soltanto Io rammentarlo osai. Due grandi amori Governàr la tua vita; a noi lo disse Una gentil con sì leggiadro stile(*) Luigia Codemo Gersten brand. « Cui crescer pregio assal difficil fia » La patria e l' arte. D' una fiamma istessa Raggi gemelli, l' un del Bello ai regni Innamorato pellegrin ti trasse Ed il mistero delle forme elette Ti rivelò con cui l' arte si sposa All' eterna beltà della natura; E l' altro t' inspirò l' odio implacato Per l' oppressore, e la pietà profonda Per quest' Italia oppressa. E a te quell' ira E quell' affetto armarono la destra Col vindice moschetto, al suon di guerra Che un di tuonò dai sette colli e tutta La penisola scosse; e tu pugnasti Da forte in Roma e sui cruenti campi Del memore Friuli ove per poco L' ardir del braccio ed il tuo santo amore Non ti valse il patibolo; e su questa Sacra terra accorresti ove splendea Sovranamente bello il raggio estremo Della morente libertà, e i perigli D' una lotta da eroi divisi, quando Rïentrò lo stranier fra le ruine Della grande caduta, anche l' esiglio Coi generosi dividesti. Ed ecco L' amor dell' arte che s' inspira ai santi Ricordi della patria invan difesa Più gagliardo risorgere, e il pennelle Che i colori ineffabili e la luce Del ciel dell' Asia sulle illustri tele Riproducea, con vigorose tinte Ritrar le pugne memorande in cui Venezia parve la più degna erede Delle virtù latine ed i portenti Rinnovò d' altre etadi. Oh perchè mai Di tua bell' alma non s' effuse il raggio All' aër mite di più lieti giorni? Genio immortal, cor generoso, e braccio D' eroe ti die' natura, e impunemente Nella tristizia d' infelici tempi Non accumula Iddio tutti i suoi doni Sovra un capo mortal. Forse la stessa Vicenda rea di colpe e di sventure Che il secol nostro contristò, la tua Alma gentil temprò sì virilmente. Scritto era in ciel che due sì forti amori Uniti insieme e dal solenne istante Più che non cape il core ingigantiti Ti traessero a morte, e l' uom non puote Al destino sfuggir. Quel pio consiglio Che nell' orror di disperata lotta Volea far salva la tua sacra testa Ahi ti perdè! col cor presago uscito Fuor della mischia e reluttante asceso Sull' ammiraglia, la nemica palla Cieco strumento d' un avverso fato Ti colse, e di future opre la luce Spense col fior dell' immatura vita. Fossi caduto almen colla certezza Della vittoria, e del trionfo pieno Dell' invocata libertà!… Ma noi Che rifiorenti ne veggiam le fronde Dal mare all' Alpe e colla lieta speme Dei di aspettati ci assidiam sicuri Alla sua protettrice ombra, piangenti Pensiamo a lor che germogliar l' han fatta Col proprio sangue, e lamentiam che ad essi Dato non fia raccorne i frutti. Assiso Così l' erede non venal di ricco Poder la sera sulle svelte loggie Ch' egli erette non ha, guarda commosso Ai giardini ed ai parchi; e nel bisbiglio Dell' aura vespertina in tra le fronde Dei teneri arboscelli, al mesto raggio Del sol che cade e tra le annose piante Si dischiude la via quasi cercando Chi più non è —, sentir crede il sospiro Dell' involato spirito che i lochi Idoleggiati un di saluti ancora.

Venezia.

Anna Mander Cecchetti.

Non sovra i campi dell'onor fu colta Da Voi la palma che sorride al forte Quando le tube eccitatrici ascolta E glorïosa e bella è a lui la morte; Ma inonorata e nel mistero avvolta Fu l'ora che del ciel v'apri le porte, E allor perfin la speme era a noi tolta Di vendicar la vostra acerba sorte. Ma sullo spettro sanguinoso e truce Del vecchio trono che del di novello In voi spegneva la nascente luce, Piombò l'ira del cielo, e in un momento Stritolato disparve; e allor più bello Rifulse il sole a un popolo redento.

Venezia il 18 Giugno 1867.

Anna Mander Cecchetti.

(*) Queste notizie attinte in gran parte al libro del signor Guttierez, le devo alla squisita gentilezza dell'illustre Professor Malacchia Decristoforis, fratello al Capitano Carlo. L'ingegno ed il cuore sono patrimonio di codesta nobile famiglia. (Nota dell' Autrice).

Santa Democrazia! Solleva la tua fronte pura
d'ogni menzogna, gonfia il petto d'orgoglio,
scuoti la tua asta di guerra… quest' uomo, questo
martire, quest' eroe — Carlo Decristoforis —
è un altra tua gloria.

Guttierez. — Il Capitano Decristoforis.

Beato chi muore per redimere la patria; beato chi partendo lascia sulla terra la sacra eredità degli affetti, e vive per tal modo in mezzo ai cari superstiti, amato dagli amici, venerato dai posteri! Egli è pur triste cosa il dover narrare la santa vita d' un grande estinto, e il rintracciarne le memorie nelle gesta gloriose di un paese tanto bello e sì sventurato quale è il nostro!

Oh soavi inspirazioni dell' affetto, religiose memorie, carità di patria, e voi estri gentili, venitemi d' intorno ond' io possa vincere la commozione e narrare questi brevi cenni di una grande esistenza scomparsa! Il cittadino, l' intrepido cospiratore, il filosofo, il profugo, il soldato, l' economista, il figlio adorato, l' uomo onesto, il caro fratello …. tutto riposa sotto le zolle! egli è sparito dalla mutabile scena del mondo, s' è involato a questa bolgia d'affanni e di miserie sol ricca … e forse dal cielo sorride ai più lieti destini che attendono l' Italia! Riposa in pace, o generoso, e se dentro la tomba vive ancora amor di patria, deh benedici a questa tua che tanto amasti e di si grande onore hai ricoperta!

Carlo Decristoforis nacque in Milano il 10 di Ottobre 1824, da nobile famiglia ed era il maggiore di cinque fratelli e tre sorelle. Se gli fu madre un angelo di donna, ebbe pur la fortuna d' esser figlio a distintissimo padre; ma questi moriva lasciandolo a soli 14 anni orfano e guida ai minori fratelli Fu un gran dolore pel povero Carlo! Ma nel seno della madre versò le sante lagrime di quel sublime affanno, e nell' anima grande di questa donna attinse forza, e imparò la religione del dovere.

Dotato d'intelligenza pronta e vivace, egli percorse splendidamente la carriera degli studî, e dedicossi a questi con tanto amore da allarmarne la vigile tenerezza materna. Era all' università di Pavia in quell' epoca che la gioventù ridesta alle idee di nazionale redenzione, fremeva di novella segreta vita e maturava il generoso tentativo d' una riscossa. Ma il giovinetto non sordo a queste idee nuove, pure non ismetteva lo studio e le severe meditazioni che in lui maturavano non solo l' eroe, ma anche il pensatore. In lui dovevano naturalmente predominare quelle tendenze alla filosofia, che è retaggio delle anime più nobili ed elevate, per le quali è bisogno il sollevarsi al dissopra del convenzionalismo volgare e dei pregiudizì, per meglio spaziare nello sconfinato campo di quella luce che non muore, ove il sole di verità disperde le tenebre d' ogni superstizione! E cosi avvenne di quel grande.

Come tutte le anime ferventi adorò con entusiasmo, poi senti la discordanza di questa fede coll' intima inspirazione del cuore e col sindacato dell' intelletto(*) Guttierez.. E qual fosse il pensiero del giovinetto tutto risplende in questa frase da lui scritta: Qual uomo è stato Gesù, come gli voglio bene! L'anima del Decristoforis era fatta per intender quella del Nazzareno; i nobili cuori son sempre fratelli, ne li divida pure lo spazio ed il tempo!

In mezzo alle aspirazioni mancate, ai tentativi falliti, al sangue sprecato, terminava il 1847 e gravido di nuovi eventi sorgeva il 48. Non v'ha cuore d' italiano che non batta violentemente nel sentir mentovare queste date! Il 18 Marzo 1848 segnava sul libro della storia una di quelle fasi che sono il battesimo di una nazione.

Milano è insorta; come per incanto le vie sono sbarrate, la popolazione freme, urla, combatte; le campane della città fanno appello alla sommossa, la fucilata si fa intensa, il cannone va spargendo la morte e la desolazione dovunque. In mezzo a queste scene luttuose una falange d' eroi brilla di splendido bagliore; sono giovani arditi, generosi che han nome Manara, Dandolo, Morosini, Mancini, Decristoforis e molti altri; ma ora son quasi tutti spenti, e l' occhio mi si vela di pianto nello scrivere i nomi di codesti martiri, che segnano il cammino della redenzione d'Italia, col sangue che hanno sparso!

Chi cadeva nella battaglia, chi sulle mura di Roma, chi a Venezia periva dopo aver sfidato la fame e la peste! Nè qui finisce la dolorosa istoria, e all' avello che si apre per accogliere il cadavere d' Emilio Dandolo, tien dietro S˙ Fermo, Magenta e Solferino … e Custoza! Oh Italia, quanto costi ai tuoi figli! guarda quante ombre s' aggirano in questa terra sacra al dolore … vedile errare ravvolte nel drappo mortuario … sono i giustiziati di Mantova, son le vittime di Curtatone.

Carlo Decristoforis attraversò questa fase, come la traversano gli eroi; scintillò come meteora … indi disparve! Il dolore, il disinganno aveanlo spinto a ritirarsi colla famiglia in Gavirate, da dove, attendendo a più serî studî, seguiva gli ultimi strazianti rintocchi della patria indipendenza che moriva; e questa lenta agonia era segnata dalla sconfitta di Roma, dalla resa di Venezia, dalla capitolazione di Milano!… dalla battaglia di Novara!…

Il Decristoforis, sconfortato e deluso si portò in Milano dove fu nominato professore privato di diritto. Il gelo dell' inazione invadeva gl' italiani schiacciati a Roma dallo straniero chiamatovi dal sovrano che fu per mesi l' oracolo della penisola, nelle altre provincie dal tedesco che ad ogni principe italiano s' impose deludendo così tutte le aspirazioni del paese! Carlo Decristoforis toccava appena il ventiquattresimo anno.

Un' eletta schiera di giovani stringevasi d' intorno al professore che, lui stesso giovinetto, ne li veniva educando con amore alle austere discipline della scienza, informando quelle vergini intelligenze a principii liberali, a patriotiche aspirazioni, mentre lui consumava le notti nelle veglie studiose; dotato di mente grandissima, egli con immensa facilità passava dalle astrazioni metafisiche, alle teorie della guerra, dalle leggi del Cosmo che andava scrutando, alle piacevoli creazioni letterarie, dal positivismo delle cifre, alle fantasticherie del romanzo, pur sempre conservando quel certo che di semplice, quasi d' infantile che lo rendeva caro a quanti lo conoscevano. — « Melanconico e riflessivo, pronto al frizzo ed allo scherzo; affettuosissimo e dolce colla madre e colle sorelle, colle donne in genere; breve, severo, secco in una questione di patria, di morale, di religione (Guttierez) ».

Questa sua indole è tutta propria delle maschie intelligenze; la sua semplicità e modestia, erano il distintivo del vero di lui merito. Cara e preziosa virtù principalmente in un' epoca in cui molti sogliono posare il genio incompreso e imporne alla folla collo sdegnoso silenzio, e col volto corrugato a meditazione … ma il più delle volte codeste celebrità da campanile dal volto pensoso, fanno ricordare la favola della montagna che diede alla luce un topo.

Ma il giovane professore non mendicava il plauso d' alcuna consorteria; egli voleva il bene per il bene, e negl' italiani tutti vedeva una grande famiglia infelice da redimere, e chi avesse chiesto a lui a qual partito apparteneva, egli avrebbe risposto: — sono italiano — coll' eguale nobile alterezza con cui ai tempi gloriosi di Roma e di Atene avrebbesi risposto: sono romano o ateniese.

Forse egli pure divise le illusioni e le speranze della generosa gioventù; ebbe fede nei principj e negli nomini e se questi fallirono, la colpa non è di chi restò deluso.

Il nostro Carlo diedesi tutto allo studio; scrisse alcune memorie o lavori letterari, non rimase estraneo nè alla politica, nè all' arte, e in economia pubblicò un' operetta intitolata: — Il Credito Bancario e i Contadini e le Memorie sulle condizioni dei contadini in Lombardia in relazione ai contratti rurali e alle istituzioni di Credito Agrario. Quest' ultimo era quesito proposto dalla società d' incoraggiamento di scienze e lettere di Milano nel 1851. Decristoforis ebbe con Sacini, il merito di occuparsi in un' epoca in cui nessuno parlava degli interessi della popolazione rurale, dei contadini e delle loro condizioni.

Ma la sua opera che gli merita un posto speciale nella repubblica delle lettere è un lavoro di strategia militare intitolato: — Che cosa sia la guerra. M' astengo dal parlarne, sia per l' argomento che tratta, di cui sarei giudice incompetente, quanto per ristrettezza di spazio, essendo questo un cenno non già una biografia, nè una critica. Chi brama di esserne più informato in proposito non ha che a rivolgersi al libro del signor Guttierez: — Il Capitano Decristoforis — e all'opera che questi lasciò scritta e che ora venne pubblicata dal medesimo. Una sola cosa mi sia lecito aggiungere ed è che in ogni riga, come in ogni azione il Decristoforis lasciò orma della sua mente e del suo cuore.

Ma il tempo corre, gli eventi s' intrecciano, le idee si maturano e le aspirazioni compresse riprendono vita. Pur troppo ella è una triste pagina quella che ora mi tocca scrivere. Non debbo tacere che la pubblicazione del primo suo lavoro gli valse che gli fosse negata dal governo austriaco la patente per l' istruzione privata. E questo basti per giudicare cosa sia un governo straniero che opprime una nazione sia per diritto di conquista o in base ai trattati. Ma le nazioni non si vendono, chè oppresse dalla ragione del più forte restano pur sempre indipendenti e libere in faccia al diritto delle genti. Pur troppo gli strazî della schiavitù fecondano la cospirazione, che tenebrosa e terribile ordisce poi gli attentati e le rivoluzioni. La lealtà d' alcuni generosi sfruttata forse dai pochi illusi e dai molti ingannatori, fe' prorompere il torrente delle generose passioni e queste travolgono nel vortice di terribili disinganni. I Bandiera, Pisacane, e altri poveretti nelle varie cospirazioni per inscienza o troppe illusioni fallite, sono una prova di quanto asserii più sopra.

Al povero Decristoforis, se svanite erangli le speranze, incolume e fervente serbò nell' animo la fede nei futuri destini d' Italia. Finita la pugna, cominciò la cospirazione, lasciato il libero campo innondato di sangue e di sole, fu alla tenebria della notte che ricorsero i patrioti, e assorti nel culto della patria, non esitarono ad immerger le mani nel sangue, non ripugnarono all' idea del massacro. Siate giusti voi tutti che vivete in tempi meno infelici, con coloro che v' han preceduti sulla via dell' eroismo e del martirio.

Il 1851 andava preparando di lunga mano gli avvenimenti del 6 Febbraio 55. A Milano in pieno giorno è trucidato il protomedico Vandoni; chi l' uccise? il popolo dice: l' Angelo della vendetta e della giustizia. Vandoni era una spia infame, che aveva dato nelle mani degli austriaci il dottor Ciceri, uomo integerrimo di venerata memoria; quanti sono di Milano, non ignorano le sventure che s' aggravarono su questa nobile figura e sulla di lui famiglia. Dai molti si volle incolpare Mazzini di questo assassinio: non è vero, era il senso morale rivolto che compiva quel nobile misfatto; era un giovinetto dall'animo mite, dalla mente infiammata, dal cuor generoso, che così vendicava la sventura toccata al Ciceri. Era un popolano, che agiva per proprio conto.

Giunse il 6 Febbraio!… fu un orrendo malinteso, un inutile macello, una dolorosa memoria! Decristoforis vi si oppose quanto potè, ma visti gli amici ingolfati nella mischia, si precipita con quelli, pronto a dar morte e a morire per la patria sua. Io non giudico, racconto. Gli amici erano compromessi, numerose le spie, generale il terrore. Decristoforis già guardato dalla Polizia, sicchè dopo la morte di Vandoni fu obbligato ad allontanarsi da Milano per alcuni mesi, quantunque innocentissimo di quel fallo; ora non poteva, non doveva esitare. Pallido ma coraggioso, ei corre sul teatro funesto, non ferisce, ma sta pronto alla difesa, e con calma guarda al capestro che lo minaccia. Qui ancora prendo le parole del Guttierez. « Combattevano in lui due potenze contrarie, — l'istinto del coraggio, il sentimento dell' amicizia, la simpatia per le cose ardite. — Dal lato opposto, la riflessione, la nessuna fiducia nei capi di quell' impresa, le precedenze della cospirazione, la conoscenza degli uomini — onde in istato di penosa agitazione, domandava indarno consiglio a se stesso ».

Tralascio di addentrarmi nei dettagli. Tutti conoscono gli avvenimenti che contristarono l'Italia in quell' epoca. Il Decristoforis, rimase salvo, ma allontanossi da casa fino al 22 Febbraio. Ma la madre che come tutte aveva il presentimento del cuore, non volle che restasse in famiglia; il giorno dopo infatti gli agenti di Polizia bussavano alla porta della sua camera.

Carlo fu avvertito dell' accaduto da un fratello, e ne rimase sorpreso ed attristato. Ma nelle anime superiori l' indecisione è passeggiera, come nube in sereno cielo d' estate.

— A me un rasoio ed una gonna, esclama. — Bisognava fuggire, riprender la via dell' esilio.

Quando ci vuol coraggio e destrezza, la donna non è mai estranea, e la sua gentile influenza sa farsi sentire anche nei casi più difficili. Una leggiadra cospiratrice trovò modo di farlo fuggire, e alla mattina del 24 Decristoforis trasformato in domestico a cassetto di una carrozza, passava in mezzo alle guardie e usciva da Milano. Arrivò al Lago Maggiore e con ansia indicibile sospirava di trovarsi all' opposta riva. Ranco fu il luogo da alcuni amici del Decristoforis prescelto alla fuga, un battello di povero pescatore attendeva vicino alla spiaggia. Il fuggente vi scese, e avviluppatosi nelle reti, dopo angustie e palpiti inenarrabili, senti allontanarsi la barchetta e cullata dalle onde salpare per meno inospite riva … il cuore del povero profugo sanguinava nell' allontanarsi dalla terra nativa, ma con gioia toccava la sponda piemontese.

Era salvo!

Gli fu impossibile fermarsi in Piemonte. Gli ultimi eventi costrinsero quel governo ad internare gli emigrati. Il 29 Febbraio Decristoforis si porta a Lugano. Ma nemmeno qui gli è concesso fermarsi; v' era una maledizione che seguiva il profugo; il 6 Febbraio, il Commissario federale, gli intima di recarsi a Berna dal Ministro di Polizia, e questi lo invia a Zurigo. Quivi passa alcuni mesi, scrivendo e ricevendo lettere e libri da Millano; riprese la sua vita studiosa e meditabonda; quell' anima d' artista si sprofondava nelle dolci e poetiche impressioni dell' alpestre natura!

Una soave e santa rimembranza riempiva il suo animo, la madre sua; a questa scriveva lettere affettuosissime e narrava più ancora che i suoi dolori, le sue speranze!

« Addio, cara e venerata madre, ei scrive, un milione di baci sulla faccia ed uno sulla mano con abbasso il cappello ».

Ma il tempo vuole azione e moto; chi si sofferma a riposare, langue e scompare come atomo che si dissolve. Non era questa la vita che attendeva il Decristoforis. Pensò di recarsi a Parigi per attendere agli interrotti studi in una scuola militare. Abbandonati quindi gli studi legali, corse a Parigi.

Non istarò, in così breve spazio, a narrare le mille difficoltà, i dolori che si frapposero all' attuazione del suo progetto. Finalmente ottenné un passaporto per la Francia; passa la frontiera, ma le autorità gli contendono la meta e deve alle molte e vive raccomandazioni di giungere a Parigi nel mese di Luglio. Qui altri ostacoli per poter entrare nel collegio militare. Mette sossopra tutti, egli voleva riuscire, e riuscì. Ai 15 Novembre 1853 fu ammesso come allievo esterno alla scuola imperiale d' applicazione di stato maggiore, nella quale gli stranieri hanno gravi difficoltà d' ottenere accesso. Infatti di non francese, non aveva per compagno che un principe valacco.

Studiò in modo indefesso fino al 55, e la vita provata dal dolore, le notti vegliate nello studio, fecero sì che a 30 anni i suoi capelli incanutirono!

Ma più avanzo nel mio racconto, più m' avvolge l' animo una tristezza infinita. Povero Carlo! le maglie intessute dal tempo onde comporre la tua vita, si stringono con rapidità fatale, l' avvenire rasserenato un istante per la magica potenza della speranza, si rannuvola; se il patriota si abbandona al sorriso di care illusioni, l' uomo s' avvia con piè veloce verso una meta fatale, la tomba!

La guerra di Crimea è scoppiata; nell' animo di lui fervente, spera, secondo le apparenze, che sarebbe divenuta Europea, e l' italiano palpita di care lusinghe pensando alla sua patria; non potendo ottenere un grado nella Legione straniera in Francia, vuol farsi semplice soldato in Piemonte. Egli lascia Parigi con tale intenzione e si porta ad Arona. Quivi il raggiunse ed abbracciò la povera madre … doveva esser l'ultimo bacio scambiato fra loro!

L'Inghilterra stava organizzando in Piemonte una legione italiana per la guerra di Crimea. Decristoforis presentato all' ambasciatore Hudson, e al generale Percy incaricato di organizzare quel corpo, ottiene un brevetto di ufficiale, in forza del merito che fu in lui riconosciuto in occasione di un rilievo di terreno fatto in pochi minuti dal Decristoforis, fuori di Torino: mandato in prima a Chivasso, poi dalle vicende della guerra a Malta, colle speranze che le complicazioni orientali, facciano nascer la guerra in Italia.

Ma la pace tronca queste illusioni! si risolve quindi a prendere servizio presso gl'inglesi in India o al Capo di Buona Speranza.

A Malta fu promosso al grado di Tenente col disimpegno delle funzioni di Capitano e nominato istruttore del reggimento. Passa la vita sotto le tende e comincia a balbettare qualche frase inglese; sono i primi passi in una lingua, che un anno dopo darà una diversa direzione alla sua vita. Il 27 Decembre 1856 lascia Malta per portarsi in Inghilterra. La legione era sciolta, il governo inglese si mostrò generoso, e le liberalità di questi, permisero al nostro italiano di attendere a' suoi studi, perfezionarsi nella lingua e veder Londra, e diviene direttore del collegio militare di Sumbury dove dà in inglese lezioni di matematica.

Il Febbraio 57 ritorna a Parigi. Durante il suo primo soggiorno aveva contratto distinte amicizie; egli frequentava la casa di Ferrari e di Proudhon, dove convenivano tutte le notabilità politiche e letterarie. Ma l' esule non può neppur riposarsi nelle braccia degli amici! vi sono doveri sacrosanti e terribili che lo spingono in cerca d' una patria che il despotismo gli contende.

Abbandona di nuovo Parigi e per la via del Belgio e del Reno scende in Italia.

Questo viaggio è ravvolto nel mistero. — Era un'altra speranza che doveva fallire! In quell' epoca la storia registra l'avvenimento conosciuto sotto il titolo di sbarco del Colonnello Pisacane …. Decristoforis aveva perdute altre speranze!

Il tedesco gettava in faccia ai profughi il simulacro di un' amnistia che verrebbe concessa a chi la chiedeva stretto più che da tristezza, dalle istanze di parenti ed amici, stese una supplica, che più che tale potevasi chiamare una canzonatura. Era nell'indole sua il ridere e corbellare quando trovavasi nelle circostanze dolorose, nè per questo rimaneva inerte la corda della mestizia.

Mentre aspetta l'amnistia, cerca pane in Tornio, lavora … ma v' ha un destino che pesa su certe esistenze, tutto gli va male. È qui che comincia il suo libro. — Che cosa sia la guerra. La sua esistenza è nomade; corre da Parigi a Londra; studiare, scrivere, occuparsi di scienze, vivere una vita tutta intellettuale, è l' unico suo conforto. Ma per quell'animo fervente non bastava; due progetti gli balenavano alla mente; il primo di prender servizio nella legione straniera dell'Algeria, ma questo fu bandito dalle negative che si ebbe da Parigi. L' altro era di portarsi in Abissinia dove il negus Teodoro, dicevasi chiamasse europei valenti nelle discipline guerresche, onde preparare un esercito nazionale capace della riconquista dell' Abissinia. Ma le informazioni richiesero tempo, e intanto arrivò il 59. Però queste sue aspirazioni provano la nessuna fiducia che il Decristoforis poneva nell'amnistia; difatti il governo dell' Austria rispose con una negativa.

Le attese e le delusioni creano al misero giovane una posizione dolorosissima …. ma un astro brillò d' improvviso sull' orizzonte della sua vita.

Viene da un suo parente mandato a Londra per fare l' esperimento e ottenere il brevetto di una sua scoperta. Carlo rivede ancora una volta Parigi e l'Inghilterra. Ma qui doveva morderlo il serpente della vile calunnia, e certi individui non indietreggiarono dal giudicare e inventare a Milano, la sua vita di Londra. Pur troppo la vilissima razza dei rettili dal demone della tentazione in poi non s' è mai spenta! A queste amarezze aggiungevasi un principio di nostalgia, che gli faceva l'esistenza dolorosa, e potrebbesi la sua vita compendiare in due parole: aspirazione e disinganno. Ma l' inestricabil labirinto degli avvenimenti, sempre più si complica. Povero Carlo! hai asceso il Golgota … or t' attende la croce! Io non istarò a ridire tutte le fasi del 59; è tempo troppo a noi vicino perchè ce ne siamo scordati; la speranza rifulge, vivida luce che illumina l' avvenire; le idee si moltiplicano, le complicazioni politiche s' intrecciano … e Decristoforis scrive — « sia come vuol essere, fossi anche Tamburino, voglio trovarmi al più presto nel mio paese, e avervi la possibilità di subire il primo colpo di fucile! »

Anima generosa! il tuo voto fu, ahi! troppo presto, esaudito!

Giunse a Torino ai primi d' aprile modesto e valoroso come sempre, non patteggiò sul posto, accettò quello che Garibaldi gli conferì; era italiano e non mendicava onori nè gloria, solo bramava la redenzione d' Italia. Agli altri le ambiziose brame … a lui, al distinto giovane lombardo, un' oncia di piombo … Oh, ma va, anima eletta, la tua patria ti venera e ti ricorda qual venerata memoria, mentre forse di sprezzo ricopre molti a cui fortuna arrise più mite!

Decristoforis è con Garibaldi, è in Piemonte … è in Lombardia; l' ultima sua lettera è datata da Borgomanera 22 Maggio e così scrive al Guttierez:

«Ti mando il libro militare che ho portato meco per isbaglio; conservalo bene e così i documenti miei, e pensa alla stampa di esso. — » Queste furono per me, continua il Guttierez, le ultime disposizioni della sua volontà, che cinque giorni dopo dovevano essere quelle di un defunto!

Mio Dio! la mano mi manca nel tracciare queste ultime righe! Gli avvenimenti delle guerre incalzavano, di ore in ore la lotta impegnavasi; da una parte la fuga e la sconfitta, dall' altra le armi italiane, che avanzano vittoriose. Vano sarebbe un esame di codesti eventi; caso, fatalità, valore, tutto contribuì, e l' Italia ridestavasi, risorgeva, aspirava novella vita, era un' epopea che svolgevasi colla rapidità del fulmine.

I Garibaldini toccano il suolo lombardo, di notte arrivano a Sesto Calende … e commossi baciano il terreno della patria infelice! come meteore volano su quei campi e si portano a Varese e prendon la via di Como; ogni passo è una vittoria, ogni vittoria, un ceppo d' Italia che s' infrange e cade …

Qui la vita di Decristoforis è ricolma di generosi e arditi episodi: coraggio e cuore, ingegno e sangue freddo, maschei virtù di soldato, eroismo di volontario! Egli corre sulla terra lombarda disseminando il trionfo e il riscatto della sua patria; gli austriaci toccan Sesto Calende, ma egli per la via d' Osmate, tentato Monate, Berozzo, Gavirate, si porta a Varese; da qui percorre la linea che mena a Como, devastata da Urban. E qui dovrei narrare … ma non posso che piangere! S˙ Fermo è vicino! Ai trionfi, al tripudio, alle gioie … sta vicina una funebre data! quelle care e geniali fantastiche apparizioni, che dalle finestre lanciavan sui prodi una pioggia di fiori … or meste e vestite a bruno, piegheranno la fronte davanti al convoglio di un grande estinto!

La lotta incominica, la mischia ferve, le palle fischiano, Decristoforis è il primo alla pugna! Il terreno si copre di morti, è bagnato di sangue; i feriti giaccion bocconi … e più in là degli uomini portan delle barelle su cui stanno le vittime! …

Nel mentre un generoso pagava colla vita il suo tribute d' amore alla patria, il di lui fratello, dottor Malacchia, dirigeva l' ambulanza e cercava lenire gli spasimi dei feriti. Egli trovavasi al letto di un morente, il povero Cartellieri, che si contorceva fra gli strazi dell' agonia, allorchè entra un Ufficiale ad annunciargli che il fratello Carlo, è ferito. A tale notizia egli esce, corre incontro allo sventurato … ma ahi … sulla bara non giace più che un cadavere.

Carlo Decristoforis è morto! Il suo voto era compiuto; … un colpo di fucile l' aveva ucciso!

Piangi o generosa ed infelice Italia, le ossa de'tuoi figli ti santifichino e faccian degna di libertà imperitura.

Ora non aggiungo parola; il dolore e la gratitudine sono sentimenti celesti, degni di rivaleggiar cogli angeli, e nessuno se li meritò più del Decristoforis, che nel fiore degli anni moriva, tolto alla famiglia, alla patria, alla gloria dalla micidiale palla di un gregario austriaco!

Moriva quel prodigio di vitalità, di robustezza, di genio, e l' occhio spento, le labbra mute, parean nel tacito linguaggio della morte conversare coll' eternità!

Addio anima eletta, addio martire sublime; s' egli è vero che al di là della tomba, novella vita ci attende… deh, che sia felice o gentile, e ricongiunto ai tuoi cari per te risplenda eterna la divina luce dell' immortalità.

Addio per sempre! … a te resti la gloria … a noi il pianto.

Comabbio 1871.

Ernesta Margarita.

Undici anni or son che io qua venia Col mio minor fratello, Addio, dicendo ad una madre pia, Che scese nell' avello; Or quì torno, ma solo e mutilato, Chè tutti ho perso, e son d' un membro orbato. O Italia, Italia! Non mi duol se tutto In terra, ohimè, perdei; E benedico di mia casa il lutto, Perchè salva tu sei, Perchè rallegra ogn' italo confino, Il vessil dispiegato a San Martino! Era il tramonto: Solferino avea Vinto il Franco alleato, Ma San Martino ancora resistea All' urto disperato Dell' armi nostre, e per tre volte invano, Vincemmo l' erta, e fummo spinti al piano. Pochi eravam contro assiepate schiere, Ma quai leoni ardenti: Fra scatenate folgori, il dovere Cí rispingea furenti! … Cadeano a mille i miseri fratelli, Ed, ahi meschini, noi salir sovr' elli! Ma qual vista mi fère! … Arturo mio, Di mia madre l' amore, Boccheggiante ravviso … e quasi, oh Dio, Tradivami il dolore! … Ma quei lo sguardo a San Martin levato, Segnò la meta all' italo soldato. Innanzi andava il piè, ma fisso il guardo Al Fratel che moria! … Quando curvo su lui vidi un vegliardo, Che periglio vincia, Per prodigargli, unico suo tesoro, Un sorso d'acqua ad ultimo ristoro. Salve, uom benedetto! sulla terra Passerai sconosciuto; Ma il guerriero che un cor grato rinserra, Ti manda il suo saluto: Le poche stille, che a talun fûr vita, Premio fieno alla tua pace romita. San Martino fu nostro! … ma fra il sangue, E la polve, e gli estinti, Invan cercai del mio fratello esangue, Calpestato dai vinti; E la madre che morti ambo credea, All' orribile colpo soccombea! Povera madre! … Oggi che alfin raccolti In mesto asilo pio Sono i caduti, e dai marmorei volti Sembrano dirci, addio! … E vinti e vincitor confusi stanno, Deposta ogn' ira del sofferto danno; Oh, ch' io potessi fra que' scheltri almeno Il fratel rinvenire, E ancor serrarne i freddi avanzi al seno, Dopo il lungo desire! … Ahi, ch' io mi sento sollevar le chiome, Pender mirando da que' teschi un nome. Leggo, ma il suo non è! … qui un nome ancora, Ma, ohimè, che non è desso! … Nè il terzo, ahi pur! … la speme si scolora Nel cor dal dubbio oppresso! … Ma … non traveggo, Arturo, Arturo miro, E l' ambascia mi soffoca il respiro! Prova secura, a lui trovata fue, Qual talisman sul petto, Santa immago, che diede ad amendue, Pegno d' immenso affetto, La madre! … e nulla cancellar potea Quel nome che una madre impresso avèa! Oh, finch' io viva, pellegrin d' amore, Mi vedrai, San Martino, In questo giorno sacro di dolore, Al mio fratel vicino, Qui pregare fra i teschi, aridi, algenti, Pace ai fratelli, ed ai nemici spenti. Addio patrii vessilli, inalberati Nel giorno glorïoso; Addio cipressi, a crescere piantati Sul suol fatto ubertoso Per tanto sangue! … No, giammai non fia, Che a voi non venga la preghiera mia! Morti dei tre Paesi, i geni siate, Che in vincolo fraterno Stringan le genti; e se voglie sfrenate, Mal facciano governo Di popoli e di re, dal loco santo, Le scarne braccia distendete in pianto. Deh, se un di, dubbia penda o pace o guerra, Su bilancia fatale, E per mercato vil di poca terra, Che sangue uman non vale, Sangue si chieda! … oh, nel feral consesso, Venga alle madri di seder concesso!

Verona il 1870.

Francesca Zambusi Dal Lago.

» L' Italia sarà libera e indipendente.
I suoi confini saranno i tre mari e le Alpi ».

Fu questo e il programma e lo scopo delle società secrete, che per tutta quant' è vasta la Penisola, più particolarmente nel nostro secolo, concitarono gli animi e prepararono avvenimenti grandiosi ed immortali, di cui noi con santa ansietà abbiamo seguito lo sviluppo, onde pur ora abbiam festeggiata con gioja immensa la quasi compita unità della Nazione.

Volgono appena poco più di due lustri e l'Italia non esisteva.

« In sette spezzata da sette confini »

Il mondo chiamava i suoi figli Veneti o Lombardi, Piemontesi, Toscani, Romagnuoli, Parmensi, Modenesi, Napoletani e Siculi, italiani non già. I principi, uniti fra loro dalla solidarietà ch' è partorita dalla cupidigia dei troni, cresciuti alla scuola del De Maìstre, il quale dichiarava primo ministro alle corti ed in Vaticano dover essere il carnefice, con editti avvalorati dalle papali scomuniche, e i bandi, le prigionie, i patiboli, tentavano invano di soffocare ed uccidere la Patria, chè la Patria viveva pur sempre, di vita occulta, operosa, feconda.

E la Patria viveva nelle camere segrete dei congiurati. La Repubblica Ausonia, la Carboneria ed altre sette affini, stringevano a sè quanti sentivansi caldo il cuore per la libertà, e col senno e coll' opera intendevano dar mano a compire il sogno di tanti secoli, il voto più ardente d' ogni bennato cuore italiano, dal fiero Ghibellino in poi: l' unità d' Italia.

A partire dal 1820 cominciò a correre un' epoca infausta pei patrioti. I carbonari, per l' occhio vigile e la ferrea mano della polizia, vedeano ogni di più diradarsi le loro file; l' idea del nazionale riscatto perdeva i suoi più validi sostenitori: Silvio Pellico, Andryane, Confalonieri, Maroncelli, venivano dall' Austria cacciati allo Spielberg. In Napoli perivano sulle forche il Morelli e il Salvati, mentre gli ergastoli andavano popolandosi del fiore della cittadinanza. Gl' iniqui ministri di Ferdinando Borbone con si nera perfidia conducevano i processi che una volta un giudice, di nome De Simone, ebbe ad esclamare indignato: « O che! siamo noi qui giudici o carnefici? » La Francia, la Germania, la Spagna, l'Inghilterra, la lontana America ospitavano gli emigrati, la maggior parte dei quali perivano per istenti e per inedia, senza, e ciò nota la Storia, pur mai macchiare l' onore italiano e la dignità di patriotti, scendendo a vili patti onde campare la vita.

Ritraendo lo sguardo dal quadro di desolazione e di terrore che presentava a quel tempo la Penisola, noi vogliamo soffermarci solo ad un triste episodio di quest' iliade di glorie e di dolori che si chiama la liberazione d' Italia.

Regnava in Modena il duca Francesco IV. Astuto, simulatore, vegliava sempre sospettoso e tremante, ad ogni passo scorgendo macchinazioni, e desideroso quant' altri mai di rassodare la propria autorità estirpando da' suoi Stati ogni germe di libere aspirazioni. A tal fine istituì in Rubiera, piccolo castello tra Modena e Reggio, un tribunale di uomini a lui devoti e somiglianti, con a capo l' apostata Giulio Besini ex Carbonaro.

Senz' altri indizii che semplici sospetti vennero imprigionati quanti a que'feroci sembravano pericolosi. Ogni mala arte fu dagli scellerati giudici posta in opera a fine di estorcere dagl' infelici le bramate rivelazioni. La storia narra di farmachi ed estratto di bella donna propinati ai prigionieri onde alterarne la fantasia; dice che per mezzo di domestici affetti ne furono tentate le vie del cuore, e se ne volle stancar la costanza sottoponendoli ad immani torture, scarseggiandone il cibo, mettendoli a soggiornare in celle umide e malsane; venivano destati a mezzo il sonno onde sorprenderne i segreti, si che le perfide astuzie non mancarono di portare il lor frutto e varie rivelazioni vennero fatte.

Fortuna volle che parecchi individui, il cui nome nella disperazione dei tormenti fu pronunciato dai poveri prigioni, potessero sfuggire alla collera ed alla rabbiosa vendetta del duca. Fra loro non pochi erano insigniti de'più alti gradi della Carboneria. Per tutti però doveva portare la pena il giovine Professore Giuseppe Andreoli.

Nativo di Correggio, appena trentenne, era costui per l' ingegno non comune, il mite animo e l'indole schietta ed integerrima ben noto in Modena e caro a quanti lo avvicinavano. Dedito tutto all' istruzione della gioventù s' avea fama d' onesto e di valente. Abbracciata la carriera ecclesiastica, i costumi e le azioni lo rivelarono il vero discepolo del Cristo, che predicò l'affrancazione dei popoli e suggellò col proprio sangue il grande principio della fratellanza universale.

Caduto in mano d' un tribunale efferato, sino dai primi momenti egli s' avvide esservi per lui ben poca speranza. Invano il Besini con subdole domande e insidiose promesse d' impunità cercò di strappargli nuove rivelazioni. Egli stette saldo, nè una parola gli escì dal labbro che aggravar potesse gli altri imputati. Quanto non potevano ottenere le lusinghe, fu strappato da un impeto di confidenza a quell' anima ingenua. In carcere con lui era stato chiuso un tristo traditore, certo Malagoli, il quale fingendosi al par di lui compromesso ed accusato di carboneria, riusci a scoprire quanto il buon Andreoli nelle inquisizioni del tribunale avea sempre rigorosamente taciuto. Fu per conseguenza condannato a morte, perchè tale era l' espressa volontà del duca, il quale ne sottoscrisse la sentenza il giorno che facea grazia ad un montanaro, colpevole d' avere ucciso il padre a sangue freddo, onde levarsi un incomodo peso.

L'annunzio che la pena capitale gli era stata decretata, non giunse al generoso giovine nè nuovo nè inaspettato. Lieto pertanto che nessun altro insieme a lui fosse condannato all' estremo supplizio, augurò che almeno la sua morte potesse in qualche modo giovare alla santa causa, cui s' era votato con tutto l' ardore dell' anima e con si piena abnegazione. La religione di Roma, figlia e alleata della tirannide, scagliava i suoi anatemi ai ministri infedeli alle sue dottrine di menzogna e di servaggio, e pronti in quella vece a far rifulgere la ragione umana ed innalzare la dignità di cittadino; per lo chè il vescovo di Carpi, venuto a cognizione del fatto di Modena e della sentenza che pesava sul giovane sacerdote liberale, di proprio impulso, prima che l' ordine fosse venuto dal Papa, si recava al carcere del povero condannato per praticarvi la cerimonia della sconsacrazione. Atteggiato ad un sorriso di compassionevole ironia si mantenne il volto dell' Andreoli per tutta la durata della triste commedia; dopo di che lo sventurato pensò alla madre, e tagliatasi una ciocca di capegli pregò che qualche pietoso insieme ad essa le recasse l' ultimo suo saluto; pensò ai compagni di carcere e ad ognuno di loro lasciò un ricordo, uno dei pochi oggetti che si trovava avere con sè. Anima dolce ed affettuosa, i cui pensieri anco al confine della vita erano d' amore.

Il giorno 17 ottobre 1822 doveva egli venir giustiziato. Il tempo era triste e nebuloso e minacciante tempesta. Dífatti questa scoppiò terribile come giunse l' ora fatale. Lampi e folgori correvano il cielo; grandine e pioggia portate da venti impetuosi e cozzanti si riversavano sulla terra. L' uragano ascese al colmo della sua furia, quando il povero martire, tutto carico di catene, pallido ma rassegnato, salì il palco. Con sì disperata risoluzione piegò egli il capo sul feral ceppo, che la falce lo colse nell' omero destro.

Compiuto appena il sacrificio della nobile vittima, d' improvviso diradaronsi le nubi e riapparve il sole. Il popolo ingenuo, e sempre proclive ad accarezzare le idee del soprannaturale e del maraviglioso, in questo semplice accidente volle scorgere palese un indizio della collera celeste.

Così moriva l' Andreoli, nel fiore dell' età e delle speranze, quando il pensiero del nazionale risorgimento incominciava a balenare agl' italiani quasi alba foriera di giorni migliori.

Ed i giorni migliori vennero, ed ora l' Italia s' assise al banchetto delle nazioni.

Non tutte sotto le sue ali materne stringonsi le sue provincie; ma l' Italia sarà, e ne andrà debitrice al valore ed ai magnanimi sacrifizj de'suoi figli, i quali, più che una storia, le diedero una grande e gloriosa epopea.

Trieste, Febbrajo 1871.

Caterina Croatto-Caprin.

« Appiè dell' Alpe che serra Lamagna »

baluardo e schermo naturale d' Italia contra la rabbia tedesca di ingojar terre non sue, s' addentra a guisa di cono fra il Veneto ed il Lombardo un paese, dove eternamente verdeggia l'ulivo; un paese italiano per limpida serenità di cielo, per mitezza di clima, per soavità di lingua, per uguaglianza di costume e di istinti, per tenacità di aspirazioni — e sopra tutto italiano da immemorabile tempo per l' identità del martirio, e pel comune oppressore.

Questo paese è il Trentino. Patria dell' Acconcio, del Barbacovi, del Pilati e del Rosmini, per tacer di tant' altri, divenne vittima anch'esso della calcolata nequizia dei Santi Alleati, e nel tristamente famoso mercato dei popoli venne dato per suprema sventura, mani e piedi legati, in potere dell' Austria. E questa, che meglio d'ogni altro Governo seppe e sa adoperare quell'iniquo argomento di tirannia ch' è il — Divide et impera — staccato il misero Trentino da' suoi disgraziati fratelli della Lombardia e della Venezia, lo fece schiavo della più rozza e più brutale fra le tribù germaniche — la Tírolese — lasciandole piena balia di farne ogni suo capriccio, di estenuarlo, di dissanguarlo, e di distruggerne, se pur fosse stato possibile, nome e natura.

Novello Prometeo — prigioniero del Giove viennese, e facile preda dell' avoltojo d'Innsbruch che gli rodeva le viscere — destituito di ogni soccorso di famiglia, perchè con scellerata sagacia, e con arte infernale i proconsoli Austriaci aveano sparso il seme dell' odio fra italiani e italiani — non per questo il Trentino gittossi appiedi de'suoi carnefici implorando mercede, ma forte de'suoi diritti aspettò con cieca fiducia il giorno della riscossa — e chi volesse dir la sua vita politica da quell' epoca nefasta in poi, non avrebbe che a registrare una serie di energiche e dignitose proteste, ed a descrivere un continuo divincolarsi e dibattersi contro le strette dell'efferato straniero.

Il sangue generoso sparso dai prodi giovani trentini, che a migliaia volarono a schierarsi sotto il tricolore vessillo negli anni 1848-1859-1866 e 1869, i bandi, i sequestri, le confische, i moltissimi arresti eseguiti in questo lungo corso di anni, il mostruoso processo dell'anno 1864, aperto per alto tradimento contro più di 60 individui, e, seguito da condanne al carcere duro di 12, di 7, e di 5 anni — son fatti codesti che, abbinati all'eccezionale malgoverno che fa I'Austria della Provincia di Trento, provano luminosamente come il Trentino sia e si senta terra italiana, e quanto esso aneli a stringersi in indissolubile amplesso colle provincie sorelle.

E i giorni della sospirata riscossa spuntarono — e i figli d'Italia dal Brennero al Lilibeo si stesero le destre, e giurarono il patto di far libera ed una la patria terra — e

» Quel che giurar l'attennero
» Han conbattuto, han vinto…

ma ahimè! l'infelice Trentino sta ancora incatenato al suo scoglio, e il maledetto avoltojo gli divora ancora i precordj.

Oh! quando fia che le ossa de'suoi grandi caduti a Venezia, a Roma, a Novara, a S˙ Martino, a Varese, a Rezzate, a Palermo, al Volturno, a Mentana possano esultare dentro della tomba, sapendo compiuto il loro più fervido voto?

Ah! non v'ha baleno che squarci per ora il bujo dell'avvenire — ed al Trentino altro non resta che battere perseverante I'usata via, tener fisso lo sguardo alla buona stella d'Italia — a quell'astro che tolse Roma testè alla secolare tirannide dei Papi — ed educare i proprj figli ad alti e nobili sensi additando loro ad esempio le chiare gesta dei valorosi che morirono per la sacra causa della italiana unità.

» A egregie cose i forti animi accendono
» L'urne de'forti »

e quelle di Narciso e di Pilade Bronzetti, ambo trentini, posta l'una nel Camposanto di Brescia, l' altra in Castelmorone a fianco d'una romita chiesuola, debbono essere e certo saranno inestinguibile foco nei petti della tridentina gioventù.

La famiglia ormai famosa de'nostri Bronzetti ebbe l' origine in Roverè della Luna, ameno e ridente villaggio che giace diciotto chilometri a settentrione della città di Trento. Allorchè il Trentino, fatto libero, potrà rendere pubblica onoranza a'suoi Grandi, non v'ha dubbio che Roverè della Luna porrà anch'esso una pietra che ricordi ai posteri, come l'umile paesello situato all'estremo lembo d'Italia sia stato culla d'una schiatta di Eroi. Narciso e Pilade nacquero di Domenico e Caterina Bronzetti, che per domestiche vicende, e specialmente poi per meglio attendere alla educazione della numerosa figliuolanza tramutarono dapprima il loro domicilio da Roverè della Luna in Cavalese grossa borgata del Trentino, e quindi nella gloriosa patria del cantore di Enea. Quali fossero i principii instillati dagli invidiabili genitori nelle giovani anime dei loro figli, lo dicano di questi la intemerata vita e le antiche virtù, la loro eroica morte lo dica.

Narciso, il maggior dei fratelli, nato il 5 giugno 1821, fino da primi suoi anni — quasi per arcana intuizione, come accade de'forti intelletti — si senti irresistibilmente tratto allo studio della scienza delle armi, ben comprendendo che a far rinascere un popolo domo e avvilito non vuolsi altro battesimo che di sangue. E senza più — compresso nel cuore l'affetto di patria — entrò quale cadetto in un Reggimento di Cacciatori Austriaci, ed in breve si vide promosso al grado di maestro in una scuola militare. Ne uscì nell'anno 1847, allorchè gli spiriti di tutta Italia erano commossi, e bruciavano di desiderio di scuotersi di dosso l'abborrito giogo — e ne uscì sempre più fermo nel suo proposito di dare sangue e vita alla patria.

Infatti non appena scoppiò come tremenda eruzione vulcanica l'italiana rivoluzione del 1848, egli vi si gettò in mezzo a corpo perduto, e prese vivissima parte ai patriottici moti di Mantova. Ma fallito in quella città il tentativo dei liberali, si vide con molti altri costretto a fuggire, e perseguitato da una pattuglia tedesca prodigiosamente salvossi, difendendosi armata mano, ed uccidendo un qualche nemico. Da quel punto noi lo troviamo dappertutto dove più fervette la lotta fra italiani e tedeschi. Arruolatosi nell'eletto corpo dei Bersaglieri Mantovani, diede a Governolo, e principalmente a Castellaro, tali prove di coraggio che venne fatto ufficiale in sul campo. Con tale grado egli seguì passo passo tutte le vicende della funesta guerra dell'anno 1848, e quando, perduta ogni lusinga, dovettero gli italiani ripararsi nell'ospitale e cortese Piemonte, anche il nostro Narciso — rodendosi dentro di sè per l'infelice successo — pose piede su quella terra di libertà, e continuò la sua vita di soldato nel 6.o Battaglione de'Bersaglieri comandato dal Maggiore Manara. Il suo cuore trasali di gioja quando nell'anno successivo gli brillò nuova speranza di vittoria per la santissima delle cause, ma non fu che breve ed amara illusione. Si battè con disperato coraggio al Gravellone, e dopo la disfatta di Novara, allorchè per l'alta Italia tutto era tristamente finito, anelando a pugne novelle pensò a Roma dove ancora sventolava impavida la tricolore bandiera, e volò a sostenere contro il Papa-re e contro le forze coalizzate dei tiranni la lotta titanica d'un popolo sorretto e guidato da quel miracolo d'uomo ch'è il Generale Garibaldi.

Quali fossero le sue imprese durante quella maravigliosa epopea, che îu la campagna di Roma, lo narrarono Hofstetter, Dandolo, Baroni ed altri scrittori suoi commilitoni, i quali mai non parlano di Narciso Bronzetti senza portare il suo nome alle stelle, come quello dì un valoroso senza pari.

E Garibaldi — il prode dei prodi — il Generale senza macchia e senza paura — lo amava siccome figlio, e appunto per questo lo incaricava dei più arrisicati colpi di mano.

Mandollo un giorno qual condottiero di una scorribanda contro l'esercito napoletano: l'audace intrapresa riuscì, e il nostro Narciso sostenne uno splendido combattimento nelle circostanze di Valmontone. Di questo fatto abbiamo un modesto cenno dello stesso Narciso in una sua lettera famigliare, nella quale scriveva:

« A Valmontone ebbi campo di vendicarmi assieme a Pilade delle vergate date dagli Austriaci al nostro piccolo Oreste(*) Oreste Bronzetti, fratello di Narciso e di Pilade, nel marzo 1848 non aveva ancor tocchi i quattordici anni. Arrestato siccome compromesso nella sollevazione di Mantova, fu tenuto per qualche tempo in prigione, e condannato quindi dal Governo militare per alto tradimento. Gorgowsky graziollo accompagnando la Grazia con 15 colpi di bastone, che gli vennero applicati nel giorno che compì il 14.o anno. Emulo de'suoi fratelli fece valorosamente le campagne del 1848, del 1859 e del 1866. Non ne parliamo perchè vive, e la sua modestia ne soffrirebbe..

Promosso a capitano, Garibaldi gli affidò la difesa del 2.o bastione a San Pancrazio, ed egli adempiè allo incarico tanto difficile quanto importante con una fermezza e con un'attività da procacciarsi l'ammirazione dello stesso nemico.

Che più? Perchè nulla mancasse a rendere perfetto questo tipo di soldato italiano, eccolo emulare i greci guerrieri degli antichi tempi, e con magnanimità senza esempio slanciarsi egli con Pilade e dieci altri soldati nel mezzo d'una intera compagnia di Francesi — e lottar corpo a corpo per riprendere la quasi esanime spoglia del suo confidente Silvestri — e afferrarla — e, combattendo sempre, portarsela in Roma adagiata sulle spalle.

Ma anche Roma dovette cadere, oppressa dal numero prevalente delle nemiche falangi — cadde con la fierezza degna della Romana repubblica — cadde qual può cadere una terra, davanti alla quale si rizzano come bastioni di ferro Garibaldi ed i suoi volontarj.

Con Roma si dileguarono le ultime speranze d'allora: l'Austria, i Borboni ed il Papa fecero regnar l'ordine nei felicissimi Stati a furia di forche, di fucilazioni, e di carcere, e in que' primi momenti di terrore l'Italia parve conversa in una casa di forzati. Ma c'inganniamo: esisteva pur sempre in un canto della bella Penisola un asilo inviolabile pei compromessi e per gli irreconciliabili; quest'era il Piemonte, e tosto vi si ridussero i fratelli Bronzetti.

La loro vita in que' dieci anni di agonia trascorsi fra il 1849 e il 1859 fu divisa fra il lavoro, lo studio della scienza militare, e l'adoperarsi a tutta possa per diffondere nel popolo il principio della italiana unità. Ma non appena il Re Galantuomo ebbe dichiarato di sentirsi commosso al grido di dolore delle oppresse provincie, non appena surse Italia alla terza riscossa, i fratelli Bronzetti diedero di piglio alle armi e si posero sotto gli ordini del Generale Garibaldi. L'entusiasmo del nostro Narciso, allora Capitano nei Cacciatori delle Alpi, era giunto al suo colmo — ei presentiva forse il prossimo fine, e voleva che gli ultimi guizzi della lampada della sua vita fossero sprazzi di luce abbagliante.

Operò prodigj ai fatti d'arme di Varese e di San Fermo, e mostrò quant'ei potesse col suo genio e col suo gran cuore nella giornata di Seriate, quando spedito con soli 94 uomini contro un battaglione di tedeschi, lo sconfisse e lo pose in fuga disordinata, inseguendolo con la bajonetta alle reni. Questo brillantissimo scontro meritogli il grado di Maggiore e la Medaglia d'Argento al valor militare.

Scampato mille volte da tanti rischj di morte, chi non avrebbe creduto che Narciso avrebbe avuta almeno la soddisfazione di veder pria di morire libera la sua terra? Ahi! Non doveva essere così.

L'invitto Garibaldi, che primo toccò il suolo lombardo, dopo diversi vittoriosi combattimenti — sapendosi appoggiato dalle divisioni comandate dal Generale Cialdini — non esitò punto a lanciarsi il 15 Giugno verso Treponti, ed attaccare battaglia con un numero preponderante di forze nemiche. Ma fatto improvvisamente consapevole che Cialdini non poteva trovarsi sul campo che l'indomani, videsi obbligato a desistere dal proprio piano, e trarsi lentamente addietro senza che il Tedesco potesse avvedersene. Chiamato quindi a sè, il nostro Narciso gli comandò di prendere posizione con una sola compagnia presso un ponte, e di difenderlo ad oltranza. « Fatevi massacrare, disse Garibaldi, ma non cedete. » E Narciso ubbidi alla parola. Fu così accanita, così micidiale la resistenza opposta dalla compagnia capitanata dal Bronzetti, che i Tedeschi — credendo ivi fosse il grosso del corpo di Garibaldi — conversero tutti su quel punto e in tal modo i Volontarj poterono compiere una ritirata così perfetta da sembrare manovra.

Fu questo estremo sforzo di Narciso: solo con pochi uomini sostenne il poderoso urto di tutta l'oste nemica — ferito di palla al braccio destro guidò all'assalto la sua compagnia brandendo la sciabola col sinistro — spezzato anche questo da un'altra palla, si diè a gridare viva l'Italia! avanti … avanti … e, postasi la spada fra i denti rimase ancora lunga pezza alla testa dei suoi, finchè colpito mortalmente da una terza palla agli intestini piombò a terra mormorando il suo grido di guerra: Viva Italia!

Sottratto agli strazj nemici dall'amore dei suoi, il povero moriente fu condotto a Brescia su di un carro tirato dallo stesso Oreste fratel suo ed ebbe ospitalità ed assidue cure in casa dei signori Maffezzoli. Ma arte ed affetto non valsero però a sanare le sue ferite, e dopo due giorni di tormentosi dolori sopportati con indicibile forza, spirava l'eroe di tante battaglie sorridendo ai fratelli ed agli amici desolati, e guardando con giusto orgoglio alla croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoja, della quale era stato testè decorato.

La gloriosa salma s'ebbe gli onori dovuti alle rare ed incomparabili virtù militari e cittadine che adornavano l'illustre estinto, e portata dai fratelli e compagni d'arme venne sepolta nell'emiciclo prospiciente la facciata della Chiesa del Cimitero di Brescia, dove, ad eternare la sua memoria, fu eretto un monumento colla seguente iscrizione:

AL PRODE CITTADINO
NARCISO BRONZETTI
CADUTO AI TREPONTI IL 15 GIUGNO 1859
PER L'INDIPENDENZA ITALIANA

Sulla faccia a monte dello stesso monumento sta impressa quest'altra Epigrafe:

PILADE
EMULO DEL FRATELLO
CADDE IL 1.o OTTOBRE 1860 A CASTELMORONE.

Noi dicemmo in sul principio che i Bronzetti sono una schiatta d'eroi, ma le nostre parole varrebbero ben poco ad affermarlo se non fossero appoggiate dai fatti, e dall'incontestabile opinione espressa su questo proposito dal più grande fra gli uomini del nostro secolo, dall'immortale Garibaldi, il quale così scriveva al moribondo Narciso:

» Caro Bronzetti — Voi siete superiore ad ogni elogio, ed » avete meritato il nome di prode dei prodi nella nostra Colonna. Il vostro coraggio supererà la gravità delle vostre ferite, voi sarete reso ai vostri compagni d'arme: accogliete un fraterno abbraccio dal vostro Garibaldi. »

E altrove in un suo indirizzo ai Trentini datato da Modena il 10 Settembre 1859 egli rese imperitura la fama dell'estinto Narciso con queste parole:

» Il nome del trentino Narciso Bronzetti durerà nella memoria de'posteri quanto i fasti gloriosi della nostra storia, e sarà il grido di guerra de'bravi Cacciatori delle Alpi nelle pugne venture contro gli oppressori dell'Italia. »

Al che i Trentini rispondeano:

» Oh! fosse venuto il giorno tanto aspettato, in cui la bandiera di Vittorio Emanuele, portata da Voi, avesse seventolato sugli ultimi baluardi d'Italia! Là forse avreste trovato altri forti e modesti soldati e cittadini, altri Santi della Patria che, come fu Narciso Bronzetti, l'avrebbero custodita fino alla morte. »

Anche a Rezzate su di un Obelisco, nel quale si leggono i nomi dei prodi caduti nel fatto d'arme del 15 Giugno, il nome del trentino Bronzetti sta scolpito pel primo.

Così il nome suo e quello del fratello Pilade rimangano eternamente scolpiti nel cuore dell'italiana gioventù! così ai padri ed alle madri italiane sieno specchio fedele Domenico e Caterina Bronzetti! —

Nacque Pilade il dì 23 Novembre 1832. Di natura ardente e sensibile, ed allevato nelle sante ma allora perigliose idee di libertà ed indipendenza, come avrebbe egli potuto resistere e starsene neghittoso davanti al nobile esempio datogli dal fratello Narciso? Nè stette, e ancor sedicenne, posti da parte i libri e quaderni — studiava rettorica — die'di piglio al fucile, e con una costanza, con un coraggio superiori d'assai alla sua età, fece tutta la campagna dell'anno 1848. Andate a male le cose nostre, nell'animo affettuoso di Pilade corse una fiera contesa fra l'amore di figlio e il dovere di cittadino, e dubitò per poco se dovesse ritornare in seno alla propria famiglia ed attendere tempi migliori, o seguire in Piemonte il fratello Narciso e l'eletta schiera di volontarj che vi avea trovato un rifugio. Ma memore dei ricordi paterni e materni la sua esitazione fu breve, ed inscrittosi nei Bersaglieri del Comandante Manara, preparossi a nuovi cimenti. Nell'anno 1849 in un sanguinoso combattimento alla Cava il nostro Pilade si distinse in guisa da procacciarsi l'affezione e la stima di quanti lo circondavano; e d'allora in poi si può dire che bastava il solo suo aspetto ad esercitare una specie di prestigio sui suoi commilitoni.

Nè la catastrofe di Novara valse a scemare in lui la dignitosa fierezza del proscritto, o a far vacillare i suoi virili propositi. Inseparabile dal fratello Narciso corse a Roma con lui — prese parte a tutti i giornalieri combattimenti, ne'quali pareva che Duce e soldati sapessero moltiplicarsi, negli ultimi dì ebbe l'agognata soddisfazione di essere ferito, e di spargere il suo sangue per la causa della libertà. Risanato, e resaglisi fastidiosa la vita sotto la sferza di padroni che detestava, si ritrasse di bel nuovo in Piemonte, dove — amato e festeggiato da tutti — mercè la propria singolare attività e il suo carattere leale potè crearsi senza stento una posizione onorevole e chiara.

Ma al primo fragore d'armi nell'anno 1859 — sentendosi bollir sempre nell'anima l'odio contro lo straniero, e ognora ricordevole degli ammonimenti paterni — lasciò senza rammarico, anzi giubilando, il posto tranquillo che occupava, ed entrò come ufficiale nel Corpo dei Cacciatori delle Alpi.

La fama che di lui già correva fra i volontarj non rimase smentita, essendosi egli coperto di gloria a Varese guidando più volte la sua compagnia alla carica alla bajonetta contro un reggimento tedesco. Il suo sangue freddo e il suo coraggio di leone vennero immediatamente premiati colla Medaglia d'argento al Valor Militare.

Ma ben crude ferite doveano aprirsi, fra breve nell'anima gentile del nostro Pilade. Il 15 Giugno spegnevasi la splendida vita del fratello Narciso, e poco dopo veniva firmata una pace che lasciava Venezia e Trento sotto il giogo dell'Austria. Povero Pilade. Inconsolabile egli stesso, pur gli toccò di spargere il balsamo della consolazione sul concente dolore della vecchia madre adorata, e del padre ottuagenario — e lo fece, ma giurando di non più deporre la spada finchè non avesse tratta aspra vendetta della morte di Narciso, e finchè rimanesse una zolla di terra italiana in potere dello straniero.

Non havvi giuramento che sia mai stato mantenuto in tal guisa. Confidando non lontana l'epoca di una riscossa finale, Pilade rimase col proprio grado nelle file dell'esercito, e parea sempre che gli tardasse di combattere e di morire. Elettrizzato da una parola di Garibaldi, che vegghiava mentre gli altri, posavano, lasciato l'esercito, volò a dare un addio, che fu l'ultimo, a'suoi diletti genitori, e accompagnato dal venerando suo padre e dalle benedizioni e dai conforti materni corse ad imbarcarsi coi Mille di quella leggendaria spedizione, che non poteva essere concepita ed attuata che da un sol uomo — da un Garibaldi.

E laggiù nelle Sicilie dovevano compiersi i fati di Pilade Bronzetti.

Coraggioso quant'altri mai per istinto, e ripieno l'animo del fatto giuramento, senti egli raddoppiarsi la propria energia, e centuplicarsi forza e intelletto. Chi potrebbe noverare tutti i rischi da lui corsi e tutte le sue prodezze? Chi potrebbe dipingere la sua stupenda intrepidezza?

Capitano di una compagnia di Bersaglieri trovossi alla battaglia di Milazzo e conquistò di sua mano tre cannoni al nemico.

E si fu in occasione di questo fatto, che il Generale Cosenz scrivevagli in nome del Dittatore che pel modo mirabilmente valoroso con cui si era comportato egli sarebbe stato promosso al grado di Maggiore. Ed infatti alla metà del Settembre gli venne affidato il comando di un battaglione, alla testa del quale nel giro di pochi giorni acquistossi Pilade e un'immarcescibile corona di gloria, e con essa la morte.

Il 1.o Ottobre, giornata celeberrima nei fasti del Generale Garibaldi, gli eserciti Napoletani minacciavano dai campi di Capua di rovesciarsi come valanga sulla città di Napoli. Epperò Garibaldi s'affrettò a prendere rapidamente le opportune disposizioni per respingere e battere l'inimico, e col suo sguardo d'aquila avendo preveduto che i Borbonici a grandi masse avrebbero certo tentato di irrompere nella pianura, mentre un grosso corpo, ascesa l'erta di S˙ Angelo, avrebbe cercato di Calare improvviso dai monti di Caserta, ordinò al maggiore Bronzetti di collocarsi alla stretta di Castelmorone, e di non cedere a nessun costo un solo palmo di terra.

Castelmorone, informe rovina d'un covo feudale fiancheggiata da una piccola chiesuola, è situato sopra un'eminenza dominante il Volturno in sulla strada che mette al piano di Caserta ed a Maddaloni.

Quivi appostossi Pilade al varco, ed attese di piè fermo il nemico, animando con brevi ma vibrate parole i suoi volontarj a non dimenticarsi dell'onore italiano, ed a tenere per fermo che chi stava con lui doveva vincere o morire.

La previsione di Garibaldi avverossi. Alle sette del mattino quattromila Borbonici guidati dal Duca di Trani in persona salirono l'erta di S˙ Angelo, pensandosi di poter di là senza ostacolo di sorta piombare in sul piano — ma non sapevano gli stolti che a Castelmorone gli aspettava un Bronzetti. Fu cozzo tremendo e feroce. Monti di cadaveri si accatastavano davanti alla nuova Termopili, ma nè assalitori nè assaliti cedevano. Invano i Napoletani mandavano di continuo freschi battaglioni all 'assalto: questi si frangevano di contro al petto del Bronzetti e de'suoi come fragili onde contro uno scoglio. Trasmutato nel viso dal sangue e dal fumo della polvere, roteando la terribile spada, Pilade sembrava l'Angelo della Morte, e ratto come fulmine discorrendo da un punto all'altro della fiera battaglia, con parole e più ancor coll'esempio incoraggiava i suoi pochi soldati. Ma cessa ad un tratto il fuoco della parte italiana. Che è? I Napoletani si guardano l'un l'altro stupiti, e paventano insidie: quindi al passo di corsa procedono a nuovo assalto. Una tempesta di enormi massi gli accoglie dietro a questi, come impetuoso torrente che tutto atterra ciò che gli si para davanti, il Bronzetti co'miseri avanzi del suo battaglione. Allora il Duca di Trani, fatto attonito da tanto valore e non potendo a meno di sentirsene altamente commosso, si avanzò fino alla prima linea de'suoi, e si diede a gridare: « Capitano, giovine valoroso … più non potete resistere, rendetevi a me: sono il Duca di Trani. »

A ciò Pilade, incorando i suoi ad altro attacco, rispose esclamando: « Viva Italia! I Bronzetti non si arrendono — vincono, o muojono ».

Così caricando egli a più riprese il numeroso nemico, giunse a ribatterlo e contenerlo per tutto il giorno, ed impedi che il corpo di Garibaldi venisse girato alle spalle. Ma alla fine in sulla sera, privo di munizioni, stremato di forze, e ridotto a soli 15 compagni, conscio d'aver perfettamente compiuto l'incarico, e comprendendo di non poter più opporre resistenza, serratosi in breve falange coi pochi suoi — gridando: Viva Italia! — precipitossi a testa bassa nel folto dei Borbonici, e cadde trafitto da mille colpi.

Le ambulanze Napoletane lo raccolsero moribondo, e il Duca di Trani — fattolo trasportare nel proprio appartamento e postolo sotto la cura del suo medico — non se ne discostò un istante dal capezzale, finchè non l'ebbe visto morire.

Te fortunato, o Duca, che accogliesti l'ultimo sospiro disimile eroe!

Al maggiore Pilade Bronzetti furono fatti splendidi funerali, e quali si addicevano alle sue virtù ed al suo grado, volendo così gli stessi nemici onorare la immortale sua fama. —

Sul sito del combattimento a ricordo di tanto fatto fu eretta una lapide con queste parole:

» Pilade Bronzetti — magnanimamente combattendo a Castelmorone — cadde con 15 compagni — il 1.o Ottobre 1860. —

» Nella vittoria dell'esercito meridionale trionfando — piegò la spada confortato — nel pensiero che il sangue fraterno sparso — suggelli patto di concordia imperitura — nella fede della patria — una, redenta. —

Ed ora a irrefragabile testimonio dei pochi nostri cenni, ci crediamo in dovere di aggiungere i seguenti fatti.

Il generale Garibaldi nel suo Ordine del Giorno sulla battaglia del 1.o Ottobre così parla di Pilade Bronzetti:

» A Castelmorone Bronzetti, degno emulo del fratello, alla testa di un pugno di cacciatori, ripeteva uno di quei fatti che la Storia porrà certamente accanto ai combattimenti dei Leonida e dei Fabj. »

E più sotto:

» Questo corpo (4000 Borbonici fatti prigionieri a Caserta il giorno 2 Ottobre) sembra essere quello stesso che aveva attaccato Bronzetti a Castelmorone, e che l'eroica difesa di quel valoroso col suo pugno di prodi aveva trattenuto la maggior parte del giorno, ed impedito quindi che nel giorno antecedente ci giungesse alle spalle. »

Pochi giorni dopo il Regio Ministero della Guerra decretava alla memoria di Pilade la gran medaglia d'oro al Valor Militare, che mai non si concede che pei fatti di guerra più insigni.

A Caprera nella stanza solitaria del Santo vecchio stanno appesi sopra il suo letto i ritratti di Narciso e di Pilade Bronzetti, mandatigli in dono dalla famiglia degli estinti; ed egli — il Generale — con onorevole ricambio spediva il suo, apponendovi di proprio pugno questa iscrizione:

ALLA FAMIGLIA BRONZETTI
CHE DIEDE ALL'ITALIA NARCISO E PILADE
DI CUI VA GIUSTAMENTE SUPERBA
OMAGGIO DI AMMIRAZIONE
DI RISPETTO, E DI AFFETTO
DI G˙ GARIBALDI.

Così nel breve lasso di due anni — ai Treponti e a Castelmorone — dall'uno all'altro estremo d'Italia — cadevano i figli maggiori di Domenico e Caterina Bronzetti — cadevano per la patria — e la bella loro morte diffondeva un mare di luce sull'oppresso Trentino.

Treponti e Castelmorone! Questi nomi suscitino, oh! suscitino una degna invidia negli animi degli italiani, che ancor gemono sotto il giogo dello straniero — questi nomi imparino alla italiana gioventù come si possa e si debba morire per rivivere davvero d'una vita immortale!

La infelice madre — sviscerata de'figli suoi — li vide l'uno dopo l'altro partire per quelle guerre di sterminio, che furono le guerre d'indipendenza — il cuore le sanguinava, ma — simile alle madri spartane — pur non fece una lagrima, perchè talvolta i teneri figli, commossi dal pianto materno, non venissero meno davanti al dovere di cittadini. Ma le lagrime rattenute fecero gruppo, e il cuore affranto scoppiò allorquando Oreste, l'unico figlio superstite, prese parte all'ultima guerra dell'anno 1866. Povera Madre! tu andasti a raggiungere i tuoi martiri diletti — e noi trentini — di te superbi e de'figli tuoi — deponiamo sul tuo sepolcro un omaggio di immensa, di inalterabile riconoscenza.

E onore a te, o Domenico Bronzetti, modello dei padri, che più che ottuagenario serbi ancora spiriti giovanili e indomabile affetto di patria! Onore a te nobile vegliardo, che sapesti educare all'Italia tai figli!

Dal Trentino nel Gennajo 1871.

E˙ P˙ S˙

A egregie cose il forte animo accendono
L'urne dei forti…

Foscolo.

L'arpa m'accordo!… Ad una tomba appresso Timidamente il canto Sciolgo, mescendo colle note il pianto. Alfin libera e unita L'Italia mia m'invita A scior possente un cantico d'amore, Sui lagrimati avelli Dei martiri fratelli. E canterò!…. Santo pensier m'ispira La mite e flebil lira, E a porgere una lagrima ed un fiore Romitamente ignota, Io pur vengo devota Sull'urne sacre degli spenti eroi. Oh, generosi! o voi Ch'ora, su in ciel sublime allòr corona, La ghirlanda che Italia oggi vi dona Deh! cortesi accogliete, e a voi sia pegno Di sovvenir perenne. Felice Italia, che di voi s'onora, E in atto pio solenne Al pellegrin fa segno, Che pieghi il fronte ognora Ai nomi vostri innanzi, e ai vostri altari!… Felice l'ombra dei cipressi ignari, Che sopra voi distende Le brune ali piangenti e vi difende: Felici i fior primaverili e cari, Che di profumo spargonvi le salme E a cui morirvi accanto È dato, al tramontar del di che muore. Oh quante nobil alme Che a spargere di pianto Vengon le vostre tombe all'ultim'ore, Invidiano la sorte Dei fior del composanto!…….. E sul tuo avello pur talor fu vista, O Modenese martire infelice, Venir la tua consorte Di pianto e fior dolente spargitrice. Ivi adducendo seco Pietosamente il giovanetto stuolo Degli orfanelli tuoi Che ti spargeano il suolo Delle lagrime lor vergini e pie; Dessa piangendo intanto, Iterando gli accenti insiem col pianto, Loro apprendea l'istoria Dell'immortal tua gloria Santificando, con pensier divino, L'amor del suol natio Nel sagrifizio pio, Che della vita a te troncò il cammino. E se, dicea, fia pur che un di voi pure La patria o figli, appelli; Cogl'itali fratelli Ite a compir del padre vostro il voto E sul suo avel ben noto, Quando d'Italia alfin spunti l'aurora, Posate il vittorioso Vessillo glorïoso Ed ei, su voi volgendo il guardo allora, Dal suo celeste Eliso, Dischiuderà un sorriso Che d'ogni pena gli sarà mercede. E non fallia la prece!… Era d'aprile Sparso di gigli e viole Un di primaverile, E nel suo bel sorriso Tutta natura avvolta, Parea del paradiso Aver in se tutta la grazia accolta. Anche d'Italia il cielo, Più limpido e sereno, Parea intuonar un'armonia d'amore Col verginal candore Dell'universo rinascente ameno. Volgean quei dì di patrio affetto caldi U' di speranza baldi Sorgean gl'itali cori Ed i primieri allori Cogliean di libertà, spiegando il santo Vessillo tricolore Su libere città, che udiro il canto Alfin levarsi altero Del libero pensiero. Sui Modenesi spalti Quel di echeggiò la salutar parola. E sventolar sugli alti Culmini delle torri Le italiche bandiere. Fu un echeggiar di plauso e di contento, Di gaudio e di preghiere, Pel popolo redento Quell'ora, che il compendio unia in se sola Di tanto duol patito, Di tanto ben largito. E fra il comun gioïr, rapido corse In ogni mente, — il santo e pio pensiero Dei martiri caduti, E alle lor tombe ognun, a offrir tributi In atto pio solenne Seguendo Italia, venne. Cinta la fronte della sua corona Bella e ispirata, all'urna tua sospese O nobil Modenese Il passo d'essa, e raccogliendo prona I fior primaverili Surti d'appresso al tuo sepolcro, pose Le vïole e i gigli umili Insiem fra loro, e intanto Che una ghirlanda colla man tessea Dolce per te sciogliea Come ispirata un canto: « Oh mi ridona, mi ridona ancora O sublime de'carmi aurea scintilla L'ispirazione mia!….. Lascia ch'io accenda ancora una favilla Di possente armonia, Ad una tomba appresso Dove disciolgo un voto, E una ghirlanda intesso.— Quando di ceppi e di dolore avvinta Melanconicamente abbandonata Io gemea solitaria, Veleggiando per l'aria, Giungere udiva un grido Che mi porgea il sospiro Estremo del desiro, D'un core che moría, Martire eroico e fido, Della sventura mia. Allor d'amore e di compianto vinta. Se alfin redenta un giorno, Sparger giurava e pianto e fiori intorno All'urna sua. Candidamente bella Or sorge la mia stella E in atto pio, devoto, Ecco io disciolgo il voto. — Questi ch'io piango, disse allor rivolta Alla pietosa schiera Intorno a lei raccolta, Sorti l'anima altera Presso agli ameni praticei di Carpi, E quando i primi accenti D'infanzia egli sciogliea, Sopra i mortali eventi Il secolo cadea. Insiem col nome della madre, apprese Fin da'prim'anni a modulare il mio, E quali note d'un medesmo accordo, Armonizzar gl'intese Concordi ognor, nel core onesto e pio. D'una vergin modesta il puro sguardo Bebbe a stille d'amor dolci, infinite, E il palpito confuse Del suo core in quel cor, che lo suffuse Di celestiale affetto. Come colombe timide e romite Posano l'ali insiem sopra un negletto Ramo di foglie scarco, E a favellar d'amor schiudono il varco; Tal le bell'alme insieme, Sciolser d'amore il volo, In una sola speme, In un desiro solo. Ma una voce più ardente e più sublime, Che non la mite e pura, Di verginetta oscura, A lui scendea nell'ime Fibre del cor, e come nota ardente Vibrata di repente, A compir richiamava i suoi pensieri Più nobili doveri. Della sua patria l'infelice e triste Spettacol doloroso, In un sol punto ira e dolor gli accese Nel core generoso. Ed ei giurò redimerla o morire. Contro il crudel tiran congiure ordire Occultamente ei volle, Ma l'ardimento folle Sorti funesta e impreveduta sorte E ai congiurati la congiura torse Le crude sue ritorte. Quanti nobili ardir! quanto possente Entusiasmo di patria ahimè! sepolto Giacque, in allora, in fra le tetre, nude, Profonde, orride mude Dei barbari castelli!…. Ed ei pur chiuso, insiem coi suoi fratelli Di sventura e dolor, gemè i penosi Eterni dolorosi, Giorni del prigionier; portò la prima Pena, di quel fallir che il cor sublima. E a ricercarlo gemebonda e mesta Venne d' intorno al carcer, la modesta Solinga vedovella, Siccome abbandonata tortorella Che va cercando il fido amico indarno. Ma un di l' avara carità del grande Eccelsa grazia offerse al prigioniero: La libertà dell' aere, Incatenando quella del pensiero. Folle! … egli non sapea Che tutto all' uom si toglie men l' idea. E il nobil prigionier vieppiù sicuro Nel generoso ardir, rivide il puro Sorriso del suo cielo. E collo spirto anelo Già rivedea la patria sua risorta Libera e bella ancor. Riconoscente Al nobile perdon del regal prence, L' idea crëò d' offrir d' un regno il serto A quell' uom, che (per poco) un' alma ardente Credè d' alto sentir. Ahi! quanto affanno All' infelice poi costò tal fede!…… L' orror d' un disinganno E la crudel mercede D' un capestro di reo!… Pur nel fatale Destino d' un mortale Tutto segnava man divina. — E venne Menotti al duca. Ei fè brillar al guardo Dell' avido Signor, lo splendid' ostro D' uno scettro e d' un trono, e tutto il foco D' un mal celato orgoglio Del suo giuro dimentico e del voto, Con cento armati ei vola Al loco a lui ben noto Dove un' eletta schiera Stavasi insiem raccolta, Là proferir doveasi una parola Che il domane echeggiar dovea possente In fra l' Itala gente, E a lui dovea posar sul crin regale Un doppio ed immortale Serto di prence e di liberatore. Che val?… Cieco e crudele Ei giunse, colmo d' ira e di furore, Presso allo stuol che gli era ognor fedele, E una battaglia accese Vile ed infame, fra i suoi cento sgherri E poche anime forti Sol dal coraggio e dal valor difese. E combattêro. Con furor, con odio, S' avvicendar le morti Dalle parti rivali. Eroico, ardente Fu dei prodi il valer, ma alfin fur vinti Dal numeroso stuol dei rei nemici. Più dal dolore avvinti Che dai rodenti ferri, Fur tratti gl' infelici Alle prigioni infami; E quando sparso di tal fatto il grido Fu tra le genti, insorse Ogni popol soggetto e all' armi accorse Per cacciar gli stranier. Fuggì pur desso Il traditor, e rifugiò fra i lembi Del vessil degli Asborgo, il suo pauroso Capo di Duca. Ei seco il generoso Al sol pensier d' un soglio Ratto infiammò quell' alma abbietta e vile. In dolce far gentile Ai caldi accenti e nobili ei rispose Dell' entusiasta espositor; poi ratto Con lui scambiò d' appoggio e fe' promesse E all' amicizia ed al dover eresse Solenni eterni giuri Che vincolâro a un patto Di scambievol soccorso Entrambe l' alme pei destin futuri. Ahi! ben diverso volo Librâr l' alme diverse Sacrando un giuro solo!….. L' una compunta di fiducia e speme Infino all' ore estreme Incolume giurò tenere il voto, E l' altra al primo volger di ventura Si propose discioglierlo. Oh venale Fatal giuro regale!……. Volgean gli eventi intanto Rapidi, e un grido liberal d' oltr' Alpe A risvegliar giungea In ogni core italïano, un santo Eco, che fremer di passione il fea. Erano omai mature Le italiche congiure, E s' attendea da Modena un sol segno Per scioglier d' improvviso ogni catena. E già compia Menotti il santo impegno Quando al pensier balena Del tiranno di Modena, l' orrenda Idea d' esser tradito. Rapidamente ardito, Menotti addusse e quando riebbe il regno Dell' infelice Modena, la sorte Del martire sublime Segnava colla morte. Era un mattin di maggio. In dolci pose Si dischiudean le rose, E le modeste viole A quel tepente raggio Del rinascente sole, Illanguidian siccome meste e belle Anime sensitive e verginelle A cui si vieti amore. D' un sorriso ineffabil sorridea Tutta natura, e dalla terra al cielo Parea volar una soave nota D' infinita armonia. Era quell' ora pia In cui più s' aman le colombe, e brilla Di celestiale incanto Il fronte della vergine. Ma intanto Che si cingea natura La ghirlanda dei fiori, una sventura Compieasi in sen d' un'itala contrada, E fin che il sol sorgea Palco di morte orribile s' ergea. Serenamente altero Un martire sublime vi salia, E sulla fronte pia Scritto avea il motto d' un divin pensiero. Melanconicamente ei volse il guardo Alla turba raccolta e del perdono Con dolce accento tardo Fece ai nemici suoi nobile un dono. Sparse l' ultimo pianto Per la sua patria misera e pei cari Di sua sventura ignari, E quando vide impallidir il volto Di molte anime pie vinte dal duolo: Non me piangete, egli esclamò, ma solo La sventurata patria, e in quell' istante Dalla terrena salma Gli fu disciolta l' alma. Oh vola, vola fra l' elette schiere Soffio leggier di peregrina vita E della terra oblia La lagrimevol via!…….. Pallida e illanguidita Rimase al suol la spoglia E immemore il creato Sullo spettacol truce Profuse a piene man sorriso e luce Quasi a beffardo scherno Di sì funesto fato. —» E qui si tacque la regal divina E lagrimando, dai lor steli infranse L' ultime bianche rose Che alla ghirlanda insiem, sull' urna pose. Poscia ……… prostrossi e pianse.

Argia Castiglioni.

Rovigo Aprile 1870

In sul finire dell' ottobre 1869, io presi commiato da Nicola Gaetani Tamburini, e gli strinsi la mano con maggiore tristezza del consueto, quasi avessi saputo allora che non doveva più rivederlo…. Povero amico mio! mi parlò insino all' ultimo col solito affetto, e quasi si scusava dell' essere stato poco in mia compagnia, come quello che aveva dovuto fare alcune letture politiche a Fermo ed a Teramo; nella quale ultima Città trovò concorrenza e plauso maggiore di quello che non trovasse qui nella sua Ascoli diletta!

Oh! chi mi avesse detto allora che nell' autunno venturo non l' avrei riveduto?… Mi scrisse parecchie lettere dopo la sua partita nelle quali mi parlava dei lavori fatti e di quelli che si proponeva di fare: in una mi diceva: Il mio povero spirito vorrebbe dir tutto se mi bastassero le forze e gli studi. — Debbo confessare che l' educazione avuta mirava più a farci piccoli che a rendere ai grandi voli l' anima adatta. I nostri maestri, i nostri libri, le nostre società, tutti e tutte facevano ogni possa affinchè l'anima non iscoprisse nuovi orizzonti!!!

Ma egli col forte volere e con l' anima ardente aveva scoperto quegli orizzonti vietati e ad altissimi voli aveva innalzata la mente.

Nato a Monsampolo del Tronto presso Ascoli nel 1828 da Giuseppe Gaetani Tamburini e Maddalena Tamanti, dalla quale ereditò l' anima gentile e il cuore affettuoso, e che vive ancora quasi destituita della mente per essere stata Sorella sposa e madre di martiri: ebbe egli i primi rudimenti di lettere a Teramo e Macerata e da quivi poscia passò a Roma ove al grande ed al bello innalzò l' anima innamorata.

Natura poetica quant' altra mai, traduceva le sue immagini nuove e gentili ora in forma epigrafica, ora in prosa piena di affetto e di vita. Lasciata Roma, ove insieme con gli studi aveva raccolto caro tesoro di nobili amicizie, si ridusse in grembo alla famiglia nella sua terra natale donde veniva ad Ascoli che amava e teneva patria adottiva.

Egli impiegava tutto il suo tempo ed il suo avere nello studio e ne' libri: Dante, Leopardi, Tommaseo erano l' anima sua, e da essi attingeva i forti propositi e gli affetti generosi.

Io lo conobbi nel novembre del 54, e fin d' allora mi chiamò e mi ebbe sorella e per tale mi tenne fino al 24 marzo del 1870 giorno della sua morte. — In quel tempo egli ideava un lavoro su Dante che volle chiamato Nuove divinazioni; lavoro che condotto con lungo studio e grande amore dopo molti anni dava alla luce a Brescia diviso in tre discorsi: Dante e la sua Commedia, Dante e Virgilio e La Beatrice di Dante.

Sentendo fin da giovinetto l' amor dell' Italia e la carità cittadina; essendo in relazione con moltissimi cultori di scienze e di lettere; prontissimo sempre a provvedersi di tutti quei libri che avevano grido di utili e buoni, e sui quali pesava la riprovazione del governo; egli raccoglieva intorno a sè un'eletta di giovani che amava illuminare ed istruire.

Non è a dire come così operando, divenisse inviso al governo teocratico, il quale vigilava continuamente, affine di cogliere l' opportunità per punire tanto amore e tanta fede nei futuri destini della Patria Italiana. Nè, disgraziatamente, tale opportunità si fece attendere a lungo! Aveva egli divisato insieme a mio cognato, Francesco Augusto Selva (che fu suo compagno di carcere e lo segui dopo quattro mesi al sepolcro) ad Alessandro Corsini ed altri, di istituire un' accademia letteraria che avesse per iscopo principale la maggior istruzione possibile, lo studio di Dante e la coltura della donna; e quest' accademia si chiamò dell' Apostolato Dantesco. — Riunirsi segretamente allora, anche solo per istudiare, era grave colpa; ma studiare poi e prepararsi pel giorno del riscatto, era delitto che bisognava severamente punire!

Il nostro Tamburini, sempre guardato a vista, spesso relegato nel suo paesello nativo, più spesso amareggiato dalla visita degli sgherri pontificii che rovistando impunemente in ogni lato gli staggivano libri e manoscritti ove egli rivelava le sue nobili aspirazioni: si vide un giorno, sopraccolto da costoro, toglier di mano una lettera in cui si parlava di quell' accademia e si trovavano notati i pseudomini che avevano assunto i fratelli fondatori! Quella riunione di giovani studiosi ed amanti della patria si chiamò società segreta minacciante la tranquillità dello Stato. Ne seguì incontanente l' arresto del Tamburini e il giorno seguente quello degli altri soci (8 decembre 1857). Il processo condotto dal troppo noto Collemasi con la più raffinata nequizia, durò lunghissimi mesi e si chiuse con la condanna a 20 anni del Tamburini e del Selva; e a dieci pei più giovani, i quali poi colla Pasqua del 1859 furono posti in libertà.

Strappato dalle braccia materne, dalle care sorelle, dai fratelli diletti, venne condotto nelle carceri di Ascoli e rinchiuso in una buia, umida, fredda segreta, ove, a strazio maggiore dell' infelice, non potè ottenere niun libro! Or chi può ridire le sofferenze di quell' anima buona in pensare ai suoi cari lasciati nel pianto, ai suoi compagni di carcere, ai diletti studi interrotti, a quell' inerzia, più grave delle stesse catene, a cui dannavalo la mala signoria? Dopo lunghi mesi fu trasportato in carcere men duro e potè ottenere qualche libro e si diè a studiare le lingue con quell' ardore che soleva porre in ogni sua opera. Ma le privazioni, la mancanza di luce, di aria, di moto; il tormento lungo dell' anima per le sofferenze de' suoi cari, prepararono quel malore che si presto doveva rapirlo alla famiglia e alla patria!

Il giorno 19 settembre 1860, udita la vittoria di Castelfidardo, colti da subito spavento gli assoldati raccogliticci del Pontefice, Ascoli prima chiamò alla riscossa e inalberata la bandiera del riscatto, liberò il Tamburini che dal carcere passava a formar parte della giunta provvisoria di governo. — Lorenzo Valerio, commissario generale delle Marche, lo chiamò ad Ancona e si giovò della sua opera e del suo consiglio, nominandolo poscia Provveditore degli studi nella provincia di Ascoli, ove egli da tempo aveva sparso i semi dell' educazione civile.

Dopo la sua liberazione egli vide e s'invaghi della colta giovanetta Enrichetta Pretaroli che lo rese sposo e padre felice di due figliuoli, l' ultimo de'quali, Brunetto, gli fu rapito per morte. Il primo Alighiero, bello e svegliato d' ingegno, era l' amore e la speranza del padre suo, che lo volle così chiamato a ricordanza delle lotte eroicamente sostenute in nome del divino Poeta. — Voglio egli scriveva, voglio che Alighiero impari tutta la divina commedia, e la impari per bocca di sua madre … Non senza un perchè gli posi il nome del grande Poeta … voglio che mio figlio sappia che ò sofferto moltissimo che abbia la coscienza del perchè ò sofferto e del come ò sofferto. — Ed ora questo fanciullo, orfano derelitto, è consolazione unica della vedova inconsolata!

Nel 1863 fu nominato preside del Liceo Arnaldo a Brescia nella qual città si aperse la cerchia delle sue cognizioni e ad opere di maggior lena volse la mente. Colà si dette con pienezza di amore ad educare la mente ed i cuori dei giovanetti affidati alle sue cure i quali lo ebbero sempre amico e padre amorosissimo.

Amante come era di ogni cosa buona, appena giuntovi ricercò ogni istituzione, e si offerse spontaneo, senza altro scopo che la compiacenza del ben fare, a cooperare con l'ingegno, con gli studi e con la buona volontà all'incremento del bene.

Così fu uno dei primi a promuovere la società degli amici dell' istruzione popolare: fu Preside onorario dell'istituto sociale di educazione ed istruzione: uno degl'istitutori della Società filodrammatica di beneficenza, e prese parte vivissima a tutto che si andò facendo, studiando e proponendo nell' Ateneo, ove niuno più di lui vi lesse e recò copia di scritti. I quali tutti a rammentare, vi vorrebbe apposito libro: il che nè la forza nè il tempo a me fare consentono; ma posso ben dire come in ciascuno di quelli si rivelasse la stessa cura e desiderio del bene, e non vi si trovassero che affetti gentili, nobili e generosi.

All'anima sua furono ignote passioni la malignità e l'invidia: mansueto ed amorevole con tutti, era l'idolo della sposa, del figliuolo, degli amici. Ed ora non è più! e tanta bontà di cuore, tanta potenza di volontà, tanta alacrità di azione, furono spente ad un tratto per subito e invincibile malore.

La nuova della sua morte così immatura ed improvvisa fu cagione a tutti di vivissima doglia: io ne rimasi come trasognata e per più giorni non volli prestar fede a tanta sventura. — Oh mio povero amico! chi avesse mai detto che a me spetterebbe il duro compito di dire una parola sulla tua morte … io che sperava scender prima sotterra ed avere da te lagrime e compianto?

Nè qui posso e voglio tacere, come mi dolga l'anima in vedere che la patria mia non à dimostrato in niun modo ancora (come pareva volesse e dovesse fare)? il dolore provato per la perdita di un uomo così benemerito, che sin dalla prima giovinezza à operato e sofferto per lei, e di lei fino agli ultimi giorni di sua vita ebbe pensiero, come lo prova l'ultima lettera di lui alla madre della moglie in data 13 marzo 70, cioè undici giorni prima di morire; nella quale così si esprimeva: ò caldamente raccomandato al Prefetto Taga che Ascoli rimanga capo provincia, e unitamente al Rosa gli abbiamo chiesta calda raccomandazione per il Lanza … le stesse raccomandazioni ò fatto al mio Boselli.

Quest' oblio dei buoni è grave colpa rimproverata sempre a gl'Italiani: e il Leopardi scriveva:

» O Italia, a cor ti stia
Far ai passati onor …»

E il Foscolo:

» A grandi cose il forte animo accendono
L'urne dei forti. »

Deh possa la patria mia lasciar degna memoria con la quale dimostri avere avuto e perduto l'illustre cittadino Nicola Gaetani Tamburini.

Ascoli Piceno 4 Febraio 1871.

Giulia Centurelli.

All'Italia redenta dal secolare servaggio mercè il sangue gloriosissimo de'suoi Martiri, io presento il nome di Giovanni Croci, affinchè lo seriva fra quelli de'suoi figli prediletti. — Chè l'amore di Lei, possente nel core del giovanetto, più di quello della madre e del padre, sebbene amatissimi, lo trasse, nell'età delle più floride speranze, a cingere rassegnato e voglioso la corona del martirio, ed a posare in eterno sotto il bacio dell' Angiol della Morte, un anno dopo il suo ritorno dalle Patrie battaglie, dove combattè da valoroso sotto l'egida del Leone di Caprera nella miracolosa spedizione di Sicilia. —

Povero Giovanni! Chi te l'avrebbe detto che a te pure, siccome ai Cairoli ed a tanti altri giovani ardenti di amorosa fiamma per questa nostra divina ed infelicissima terra, sarebbe stata niegata la sorte di veder compiuta l'opera santa della sua redenzione? … Eppur è fatale che nei disastrosi ma saluberrimi rivolgimenti di un Popolo che sorge da lunga morte a vita novella, i migliori soccombano, giacchè il campo della Libertà presto isterilisce se da numerosi magnanimi esempî non è fecondato. —

Giovanni Croci nacque in Gallarate (nel Milanese) da famiglia benestante. — Sortì indole affettuosa e vivace, cuore generoso, ingegno eletto. — Vivendo in un'epoca di continua concitazione morale, e dall'esempio del padre ammaestrato nel culto delle preclare virtù del cittadino, crebbe mirabile esempio fra i suoi coetanei per intelligenza e precoce saviezza, amabile vivacità, rispetto e devozione illimitata a'suoi genitori, cuore aperto e fervido per tutto ciò che a prosperità e ad onore della sua Patria ridondava. — Amava lo studio ed assiduo lo coltivava, comprendendo gli avrebbe giovato un giorno più di ogni altro mezzo, a glorificare la madre comune. —

Il padre suo ingegnere, pensò avviarlo all'arte sua, per la quale il giovanetto mostrava non dubbia inclinazione, ed a tal fine, compiuto il corso tecnico, fu mandato a seguire gli studi di matematica alla Università di Pavia. Non era scorso gran tempo dacchè egli colà soggiornava e già veniva fatto segno della più lusinghiera distinzione per parte de'suoi professori che in lui presagivano la più cara illustrazione delle loro dotte fatiche; e dell'amore, dirò così, ossequioso de'suoi colleghi, i quali, obbedendo a quell'imperioso senso di affettuoso rispetto che il vero merito sa imprimere anche negli spiriti più volgari, e d'altra parte attratti dalla soave gentilezza de'suoi modi, ed alcuni dal vincolo di personale gratitudine, andavano a gara nel tributargli le prove della loro non invida stima. — E della nobile influenza che il virtuoso giovanetto sui propri compagni esercitava accorgendosi Egli, se ne valse all'uopo per accendere in alcuni, risvegliare in altri quella magica scintilla a cui l'Italia va debitrice della più splendida Epopea che penna d'uomo abbia finora registrata. — Ma di questo a suo luogo, chè innanzi di narrare il fatto per cui meritò di assidersi fra la gloriosa schiera dei Martiri italiani, mi conviene accennare alcuni particolari della sua vita privata, che varranno a compiere lo schizzo di questa nobile e bella fisonomia. — Dissi più sopra che alcuni de'suoi compagni erangli legati da vincolo di personale riconoscenza ed ecco come. — Essendo egli di condizione agiata e figlio unico idolatrato, l'assegno mensuale che il padre gli passava eccedeva non poco gli ordinarii suoi bisogni. — Eravi invece fra'suoi collega più d'uno a cui non che il superfluo, lo stretto necessario difettava, e Giovanni che a magnanimi sensi la più squisita delicatezza accoppiava, studiava il modo più opportuno, ed in sollievo di quelli tutto il suo profondeva, arrivando talvolta a limitare perfino il proprio vitto, ed a privarsi de'più leciti passatempi onde giungere in tempo ad alleviare la miseria altrui. — Nè la sola privata beneficenza era il mezzo per cui si rivelava il suo cuor generoso. — Era intento della mente di Giovanni lo stabilire nel suo paese natìo una scuola gratuita di disegno e di principii architettonici, con macchine e libri all'uopo, non appena avesse compiuti gli studi universitarii. — Ed intanto, allo scopo d'illustrare la Storia della sua Patria, che insieme alla madre ed al padre, formava la più diletta preoccupazione de'suoi pensieri, passava rovistando manoscritti e leggendo pergamene nelle pubbliche biblioteche, quei momenti d'ozio che altri all'età sua suole comunemente dedicare a facili o dannosi passatempi. —

Non è a dire quanto sì pregevoli doti di mente e di cuore, lo rendessero caro e stimato a suoi concittadini che nelle urgenze della pubblica cosa non isdegnavano consultare il suo parere, sebbene giovanissimo; e qual tenera soddisfazione procacciasse al cuore de'suoi diletti il vederlo insignito della stima e dell'ammirazione universale. —

Ma la beffarda fortuna, nemica giurata dell'ingegno e del merito sublime, lavorava ciecamente a distruggere la base del suo splendido avvenire. — Giorni di severa prova si avvicinavano pel coraggioso giovanetto, che ne sarebbe uscito vittorioso, ma colla fronte cinta della mesta aureola del martirio. —

Correva l'anno 1859 — Italia tutta si scuoteva al magico grido della propria indipendenza. — Il sacro fuoco della rivoluzione che da dieci anni covava soffocato sotto gli sforzi confederati della tirannide, del tradimento e della sciagura, di vampava gigante al primo soffio promettitore di miglior ventura. — I giovani invasi da sublime delirio accorrevano a stormi sotto il vessillo del re Sabaudo e dell'Eroe de'due mondi.—

In tanto momento, in tanto subbuglio, che faceva il nostro Giovanni? — Ahi misero! Egli assisteva con febbrile amarezza al fecondo agitarsi de'suoi concittadini, in un letto di dolori, dove crudel morbo lo teneva inesorabilmente legato. — Chi sa ridire gli spasimi di quell'animo arde nte condannato alla più dolorosa inerzia, mentre sui campi della gloria si decidevan le sorti della Patria comune! — E d'altra parte il venerabile cordoglio de'suoi diletti genitori, doppiamente attristati dal suo soffrire gl'imponeva di nascondere il proprio dolore sotto il velo di una dignitosa rassegnazione, da cui l'animo suo rifuggiva siccome da colpa. —

Ma la lotta fu breve — combattuto da si diversi sentimenti, la sua determinazione non poteva indugiare. — Elesse sopportare in pace il suo crudo destino, aspettando più propizia occasione di mostrare al paese la illimitata sua devozione. E l'occasione non tardò a presentarsi. —

Erano scorsi pochi mesi, ed il Croci ritornato agli studî, all'annunzio dello sbarco dei mille a Marsala, tutta sentiva ribollirsi in petto la nobile brama. — E datosi con ardore a perorare la causa della Nazionale indipendenza, non che persuadere coloro che dal generoso suo proposito tentavano smuoverlo, gli riuscì di aggiungere non pochi al numeroso stuolo di giovani Lombardi che alla grande impresa s'accingevano, sicchè il 10 Giugno del 1860 il nostro Giovanni fuggiva in compagnia di 200 e più studenti da Pavia, ad insaputa de'suoi genitori; e giunto a Genova ed assicuratosi che il vapore già stava per prendere il largo rimise ad un fattorino due lettere ad essi indirizzate con preghiera di subito impostarle. —

Crediamo far cosa grata ai nostri lettori dando qui luogo a que'due preziosi documenti della capacità e dell'elevatezza di animo di questo insigne giovanetto, molto più essendo esse già state onorate della pubblica stampa. —

Amatissimo Papà!

» Tu ben sai quanto l'anno scorso soffrii, d'esser costretto da un serio malore a restare inerte, in un momento in cui si decidevano le sorti della patria comune, e nel mentre mille vite di caldi giovani erano barbaramente mietute. — Il mio cuore che batte solo per te, per la dolce mamma e per la Patria, era vivamente piagato. L'inerzia in quei critici e difficili istanti era colpa, era delitto. — Ma come poteva offrire il mio braccio allora? … Io soffriva e tanto, ma soffocava la mia angoscia per non rattristarvi. — Giurai per altro avanti Iddio di imbrandire un'arma appena si fosse presentato il destro….

» Passò un anno, ed ora mi trovo pienamente ristabilito e vegeto, e l'occasione s'affacciò propizia, io l'afferrai.

» Partii per la Sicilia in compagnia di più di 200 giovani, miei collega, a'quali l'amor patrio non sarà troncato che colla morte.

» Non imprecare per carità contro di me. — Io t'amo tanto, o papà, ma rammentati che tu pure nel 1848 quando la patria versava in quei tremendi pericoli, tu da uomo generoso e caldo qual sei sempre stato, da vero Italiano, eri in procinto d'abbandonar me ancora fanciullo e mia madre…. poveretta! al destino, per volare in soccorso dei tuoi fratelli!… E l'avresti fatto se non fossero sopraggiunti que'disastri che tutti sanno. — Ad un padre così nobile di sentimenti non sarà mai detto che succeda un figlio degenere, vigliacco, insensibile.

» Non fui tanto forte quanto in questo istante. — Iddio, credimelo, Iddio veglierà su di me, e i tuoi cari genitori che dall' alto contemplano tutto non permetteranno la morte del tuo unico figlio.

» Sentomi interno presentimento che m'addita ch'io ritornerò sano e salvo fra le tue braccia. Qual gioja allora!… oh allora potrò alzare con gaudio questa giovine fronte, e come se l'anima mia avesse subìto un lavacro apparirà nitida e rilucente qual astro! Ah! l'amor patrio è pure un sacrosanto, soprannaturale amore, ed io, vedi lo sento con tutta la forza!!!

» Del resto il nostro sacrifizio non sarà sterile, esso servirà pel trionfo di quel contrastato principio che rannoderà la sparsa famiglia Italiana: — la nostra morte gloriosa appaleserà perchè e come sappiano morire gl'Italiani. — L'uomo ha dei vincoli verso la famiglia, ma più stretti li ha verso la patria. La patria, il bene universale, sta al dis opra della famiglia, della felicità di pochi individui. I doveri che mi raffermano agli autori de'miei giorni, quegli stessi doveri mi impongono di offrire la mia vita alla grande famìglia italiana a cui appartengo, sarei un vile rinnegato se nol facessi. Dal mom ento che un padre maledice alla propria prole se, commettendo atto infame lo disonora, a maggior ragione la patria comune, questa disgraziata Italia, non deve considerare come suo legittimo figlio quell'Italiano che non prende un'arma per schiacciare l'idra informe che cerca di renderla abbietta, di ucciderla. Questi sono sempre stati, e sono i miei inalterabili pensamenti. Guai a chi osasse rimovermi da questi principii; come i primitivi Cristiani sacrificavano volonterosi la propria vita pel trionfo d'una causa di redenzione, così io tutto saprei superare pel trionfo d'una causa che formerà una e indipendente sotto l'ombra del vessillo Sabaudo, sotto lo scettro del Re Galantuomo, questa invidiata regione. Ritornerò cos perso di gloria. Fa cuore alla mia amata madre, qui v'è pure una lettera per Lei.

» Non dubitare, per carità, del mio attaccamento inverso di voi. Dio mio! tu che leggi nel profondo del mio cuore, dì a mio padre e a mia madre, ch'io li amai sempre e poi sempre, e che tuttora non sono che l'unico oggetto de'miei pensieri dopo quello di Patria. Addio, coraggio e forza.

» Salutami i conoscenti tutti, di loro che si ricordino di me, Addio, amato papà, addio! appena mi sarà dato ti scriverò. Addio, addio ».

L'affett. ed obb. tuo figlio
Giovanni Croci.

Amatissima Madre!

» Il più amaro istante della mia vita si è quello in cui conosco di accagionarti dolore e profondo dolore. Ma che vuoi?.. L'animo mio focoso non può rimaner cheto alla nuova che fratelli, che Italiani, sollevano la fronte al sole di libertà e spezzano i duri lacci chi li torcevano. — Come si può rimaner saldi al saper che donne, fanciulli combattono per torsi un vergognoso giogo?

» Sarò da meno delle donne e dei fanciulli? Non correrò in soccorso di questi fratelli? Fatti animo, mia amabile e cara madre, fatti animo, son partito per la Sicilia, sì, ma ritornerò, e allora ti ricompenserò della mia lontananza con maggiori cure e più sollecitudine. Non credere già ch'io mi sia indotto a far questo passo; così insensatamente, nò come sai è fino dall'anno scorso che voleva accorrere nelle file dei combattentì, ma per la malattia sopraggiuntami dovetti porre da banda, momentaneamente, il pensiero. Ora stò bene, l'ora della pugna è risuonata, ed io fedele a'miei inconcussi principj, mi vi slancio con tutta l'anima, con tutto l'impeto.

» Con me porto il tuo ritratto e quello del Papà, essi mi saranno di talismano ne'pericoli. Egli è pur vero che il Cielo dona forza nei momenti supremi, poichè io non mi trovai tanto forte come in questi giorni.

» Il tutto tenni segreto, non misi nemmeno a parte il mio amico della decisiva risoluzione.

» Del resto pensa che se avessi anche a restar vittima, io avrò risparmiato la vita a qualche padre di numerosa prole, o a qualche padre che è il sostegno della famiglia, di più avrò contribuito in quel poco che sta in me a rendere la libertà a fratelli oppressi.

» Prega per me, chè la prece d'una madre sale quale gradito olezzo al trono del Supremo.

» Io ritornerò e ritornerò con ornato il petto d'un fiorellino di Sicilia, di quella sublime parte d'Italia, di quella terra di giganti, d'eroi.

» Addio cara, non dubitare che appena il potrò ti manderò mie nuove, addio, abbi un bacio dal

Tuo affett. ed obb. figlio

Giovanni Croci.

Qual colpo fosse pei miseri genitori la lettura della tremenda notizia lascio alle mie tenere lettrici l'immaginare. — Poco stettero ad impazzirne. — Il padre volò più che non corse a Genova nella incerta lusinga di trovarvelo ancora — e coi consigli colle preghiere stornarlo dal generoso proponimento. — Chè più dei perigli della guerra, alla salute sua gracilissima paventava fatali le fatiche e i disagi. — Ma inutilmente, Giovanni co'suoi compagni già toccava l'isola benedetta, ed indossata la leggendaria camicia rossa, correva sull'orme degli oppressori della sua Patria, sotto il benefico influsso di quell' Astro che per tempo od ingratitudine d'uomini mai non giungerà ad offuscarsi.

Primo sempre all'assalto, ultimo alla ritirata, — eccitando con maschia eloquenza e più ancora coll'esempio i compagni alla pugna, consolando i caduti, rincorando i meno animosi, Egli prese parte alla battaglia di Milazzo, non che ai diversi combattimenti avvenuti sulle rive del Volturno, durante i quali gli accadde un fatto degno sotto ogni rispetto di particolare menzione.

Togliamo l'episodio dalla necrologia letta sul suo feretro dal Cav. Bonomi suo ex precettore. Egli narra: « che nella sì contrastata pugna del Volturno, dovendo più fiate le prodi schiere del gran Nizzardo indietreggiare assottigliate dalle perdite, dinanzi ad un numero infinitamente superiore d'incalzanti nemici, cadde ferito al suo fianco l'amico fedele del cuor suo, il figlio del Presidente Miglio, e il Croci lo tolse sull'istante da quel luogo mercè l'aiuto di alcuni suoi compagni, e portatolo ad un vicino casolare, ove stavan raccolti altri 12 feriti, mai non volle dipartirsi di là sebbene l'avvicinarsi del nemico rendesse oltremodo pericolosa la vita di tutti e venisse quel luogo fatto bersaglio ai colpi delle batterie borboniche e abbandonato dai nostri interamente, diventò egli solo colà e comandante e cappellano e infermiere di quegl'infelici. — Fintantochè i nostri ingrossatisi ed incoraggiati dalla presenza dell'invincibil Duce respinsero quell'orde tiranne riportando su loro la più completa vittoria. —»

Dopo questo fatto stette più di un mese languendo sotto le mura di Capua — ma infine, estenuato di forze avendo, per gli strapazzi sofferti, la fatal malattia rinnovati i suoi assalti, dovette abbandonare dolente le vittrici schiere, e presago dell'imminente sua fine ritornare a dare l'ultimo addio a'suoi cari, e consolare la loro prematura vecchiaja coll'estremo suo bacio. —

Un anno dopo la sua fuga il 17 Giugno 1861, questo giovane, che per le non comuni doti di mente e di cuore prometteva di adornare col suo nome la Patria nostra di una nuova e più fulgida gemma, chiudeva la breve ma feconda sua vita fra lo straziante dolore de'suoi genitori improvvisamente incanutiti, ed il cordoglio dell'intera cittadinanza che in massa assisteva a'suoi funerali. —

O madri, che i figli educate ad onore e lustro della Patria, se alcun esempio vi occorre additar loro, ricordate il nome di Giovanni Croci e con esso ricordate che sacro dovere v'incombe di render coll'opra vostra fruttifero il campo che i nostri martiri ci hanno preparato.

Roma. li 15 febbrajo 1871.

Elena Ballio.

La vedova madre aveva riposto in lui ogni sua gioia, le sue più belle speranze. Fin dall' infanzia gli fu d'attorno con quelle mille solerti ed affettuose cure che sono proprie della donna che ha concentrato nel figliuoletto suo l' amore di sposa e di madre. A vederla accarezzarlo, stringerlo al seno, e dirgli le più tenere cose..; a udirla quando gli studi l' obbligarono a staccarselo dalle braccia, parlare di lui con orgogliosa soddisfazione, ed affrettare con ardente brama il felice momento di rivederlo; a leggerle impressi in volto i mille affetti che vi scolpiva la gioia quando le era dato di riabbracciarlo; si sarebbe detto prevedesse che quel suo diletto le sarebbe serbato per poco.

Povera donna!… Il suo Antonio, così bello, franco e leale, così svegliato d' ingegno e tenerissimo di lei e degli amici; il suo Antonio ventenne appena, le giunse un giorno improvvisamente da Pavia, alla cui università attendeva con lode allo studio del diritto, e le giunse per dirle addio. Il grido di guerra che nella primavera del 1866 si diffuse colla rapidità del fulmine per tutta Italia, aveva trovato un' eco potente nel cuore del coraggioso giovine, che colla fronte aperta a sovrumana felicità, mostrava chiaramente come fosse fiero di potere lui pure prestare il suo braccio alla patria amata.

E la madre?… la madre adorava il suo Antonio, ma ella stessa lo aveva educato ai più nobili affetti — se lo strinse al seno, lo baciò ripetutamente, lo bagnò delle sue lagrime; si sentiva spezzare il cuore a quell' addio, ma dal suo labbro non usci neppure una parola che consigliasse il figlio a viltà. E il suo Antonio la lasciava lieto e sereno, lasciava il paese natio, pieno di vita, di speranze, d' amore; povero giovine!

L' undici Gennaio del 1867 a Soresina, terra del Cremonese, si compieva una pia e mesta cerimonia; sulla porta principale della chiesa stava scritto:

ONORI FUNEBRI
A
PONZETTI ANTONIO
MAGNANIMO — DI ELETTO INGEGNO
CHE VENTENNE APPENA
DUCE GARIBALDI
PUGNANDO LE POPOLARI BATTAGLIE
CON LA PATRIA IN CORE — L' ETERNITÀ IN FRONTE
CADEVA COLPITO NEL PETTO
A MONTE SUELLO
INCONSOLABILI LASCIANDO LA MADRE E LE SORELLE
CHE CON PIETOSO DELIRIO
QUI
RACCOLSERO I RESTI MORTALI
ANCOR FREMENTI PATRIO AMORE.

Una palla nemica aveva infranto il petto del giovine valoroso, aveva rapito alla madre l' unica sua gioia, al paese natio una cara speranza, agli amici, ai conoscenti, ai giovani tutti di Italia, un esempio di virtù cittadine. Non appena salutata la madre era volato a raggiungere il deposito di Como, d' onde partiva poi colla letizia nel cuore, e portavasi infine sul luogo dell' azione; ebro di folle coraggio pugnava ardimentoso fra i primi, quando fu colpito nel petto e cadde immerso nel sangue che sgorgava copioso dall' ampia ferita; moriva senza il conforto di una voce pietosa, moriva forse invocando in cuor suo la madre lontana cui non poteva consacrare i suoi ultimi accenti, che non poteva confortare con quelle parole che il suo animo tenero e generoso, e il suo fervido amor patrio gli avrebbero suggerito in quegli estremi momenti; moriva dimenticato, e solo e sconosciuto aveva sepoltura nel luogo stesso ove trovava morte gloriosa.

E la madre?… Durò parecchi mesi nella più terribile incertezza; suo figlio non si trovava più; si credeva prigioniero, si credeva giacente ferito in qualche ospitale. Chi può ridire l' ansia, l' angoscia mortale di quella povera donna?… Chi può descrivere le dolorose immagini che le si succedevano senza posa nell' anima in quella crudele incertezza?… Si figurava il suo Antonio prigioniero in terra straniera fra gente nemica, solo, certamente mal veduto, forse maltrattato. Se lo figura va ferito in un ospitale, mancante di cure, privo di conforti; qualche volta anche gli appariva supino sul campo, senza vita… ma scacciava lo straziante pensiero, e richiamava quel filo di speranza che pur le lasciava l' incertezza; la richiamava per vivere, perchè voleva vivere; se il suo diletto fosse ritornato, e l' avesse trovata ammalata o morta? — Ma intanto il tempo volava veloce e Antonio non tornava mai!… Alcune voci accennavano alla sua morte, l' infelicissima madre quasi pazza pel dolore, grida che rivuole il figlio. Allora un degno amico e commilitone del prode caduto, corre a cercare pietosamente il suo Antonio sull' aspro monte, campo di battaglia, e dopo affannose ed inutili ricerche, lo ritrova infine il giorno 7 Gennaio dello stesso anno .. Quale strazio!.. l' aveva lasciato in tutto il fiore della bellezza e della forza e lo ritrovava cadavere sepolto in deserta gleba! La sua salma venne trasportata nel paese natio, ove l'attendeva il lutto dei concittadini, il loro mesto tributo di fiori e di lagrime, e dove ora riposa nella tomba de'suoi avi. Il fedele amico che lo aveva ritrovato, il giorno della mestissima cerimonia fece un pietoso e triste discorso di commemorazione in onore del caro perduto e gli diede questo lagrimevole addio:

» Ora tu sei in questo luogo di luttuose memorie circondato dai più cari amici, vicino a scendere nel sepolcro degli avi e posare accanto le ceneri del padre tuo orgoglioso d' averti avuto per figlio. Deh! ricevi, o amico, in questo momento supremo il nostro tributo di fiori e di pianto. »

» E voi pure o prodi Italiani, che giacete disseminati pei campi di battaglia, abbiatevi il saluto e l'augurio di pace che noi facciamo all' amico. »

» Oh! Antonio sacra ci sarà la tua memoria ed a' figli nostri apprenderemo la tua virtù, la tua sventura, il caro tuo nome. Un giusto pensiero, indovino del comun desiderio, un diletto amico ti volle fregiato con la medaglia al valore ch' ei si meritò combattendo coi Mille, tu pure al par di lui valoroso, ma più di lui sventurato la meritasti, ed egli te la depose sul petto, là dove ti batteva il core. Ricevila come l'estremo, sincero conforto de' suoi concittadini. Di forte esempio e sprone ci sarai sempre; spesso verremo colla tua madre e le tue sorelle a spargerti lagrime e alloro sulla fossa, e se venga il di che le trombe d' Italia, ci chiamino a pugne non mentite contro lo straniero, noi t' innalzeremo nobile monumento uccidendo il nemico che ti uccise. »

» Antonio addio!…»

E la madre?… Piange ancora il figlio perduto, vive e vivrà sempre sconfortata e sola; non le arride che la speranza di rivederlo in Cielo! —(1) La povera madre morì non è guari, uccisa dal suo dolore, e sperando di rivedere il suo Antonio in cielo!.. (Nota della Compilatrice).

Nella Chiesa di S˙ Giacomo presso Ponte Caffaro l' anno passato ebbe luogo l' inaugurazione della lapide posta dalla desolatissima madre alla memoria del figlio.

L' iscrizione alla lapide Ponzetti è la seguente:

QUI PRESSO
NEL COMBATTIMENTO 3 LUGLIO 1866
FURONO SPENTI DAL PIOMBO NEMICO
LA VITA, IL VALORE, LE SPERANZE
DEL GARIBALDINO
ANTONIO PONZETTI da SORESINA
DI CUI GIACQUERO LUNGAMENTE IGNORATE
LA SORTE E LA FOSSA
FINCHÈ LA PIETÀ DEI PARENTI
DOPO ARDUE AFFANNOSE RICERCHE
NE SCOPERSE I RESTI MORTALI E LI TRADUSSE
ALLA SUA TERRA NATIVA NELLA TOMBA DEGLI AVI
IL GIORNO 11 GENNAJO 1867
LA MADRE LUIGIA VERTUA VEDOVA PONZETTI
ALL' UNICO FIGLIO AL GIOVANE EROE
QUESTO SASSO CONSACRA.

Anna Vertua.

L' Angelo della Patria scrive sul libro d' oro il nome de' suoi martiri; lo ripete nel cantico inspirato e le mille voci dei popoli riverenti lo benedicono.

Luce di speranza circonda le zolle bagnate dal sangue dei forti caduti: aure di gloria accarezzano i loro sepolcreti e coll'incenso dei fiori, che olezzano sulle ceneri sacre, spiriti invisibili innalzano l' inno di libertà immortale. E nei secoli vive eternamente ricordata la storia dei valorosi, e le splendide pagine della vita di Giovanni Chiassi saranno ognora inspiratrici di alti sensi, di magnanime virtù cittadine alle generazioni future.

Nel 1827 la stella d'Italia sorridendo nel cielo di Mantova diffuse gli arcani suoi raggi nell'intima stanza dove egli nacque, e fu la stella che più tardi gli segnò la via luminosa che doveva percorrere, additandogli la corona del mistico alloro che non compra serbavagli.

Il padre Gaetano Chiassi e la madre Giuseppa Magagnuti consacrarono gli anni primi del giovanetto a schiudere il suo ingegno alla beltà della scienza, ad aprire l' animo suo candidissimo alla virtù del Buono, al libero culto del Vero. Compiuti gli studi classici a Mantova si recò a Pavia, dove incominciò il corso di Matematica in quell' Università nel novembre del 1844. Si era appena laureato quando il fremito di una rivoluzione grande, sublime — la rivoluzione del 1848 — destò anche in lui, che amava d'infinito amore l' Italia, ardente desio di toglierla a quel fato, che avea per lunghi anni ribadito le sue catene. E il grido di guerra all' Austria trovò un eco potente nel suo animo, e gli fu invito a prendere le armi in difesa della patria sua. Egli ritornò in quei giorni a Mantova, che forviata da lusinghe di circostanze e di persone si agitò coll' entusiasmo di una suprema lotta, ma non cacciò gli Austriaci dalle proprie mura. Chiassi uscito dalla città entrò in un corpo di Volontari concittadini che col nome di legione mantovana, comandata dal capitano Longoni, ebbe brillantissimi scontri cogli Austriaci, li battè a Governolo e dopo la resa di Milano ritirossi in Piemonte coll' amaro sconforto di ardenti illusioni svanite, ma colla speranza in cuore sarebbe nuovamente risorta la Nazione oppressa, animata dall' aura vendicatrice di vicine battaglie. Rifiutò in Vercelli il giuramento al Re e si offerse a Garibaldi, che si trovava allora in Genova, centro di più forte legione, che si andò meglio organizzando nelle provincie di Roma per sostenere i diritti che il popolo di quelle contrade voleva riconoscere colla repubblica.

Chiassi entrò in quella legione di prodi, diretta dal più generoso degli uomini, chiamata dal suo nome, legione Garibaldi. Fu il primo corpo e più importante della difesa romana, fu desso che con altri corpi battè i Borbonici a Palestrina, a Velletri, e i Francesi sotto le mura della grande, eterna città fino agli ultimi di Giugno.

Con invincibile eroismo Chiassi anelando alla vittoria si distinse valorosissimo e da Ufficiale venne nominato Aiutante del Colonnello Marocchetti.

Ma l'ora suprema di una invocata redenzione non era ancor giunta, e Roma cadde e nell' animo di molti entrò la sfiducia, la gelida, fatale certezza che il sangue di mille generosi non avea bastato per salvare l' Italia da una schiavitù ancor più funesta.

Chiassi ritornò alla sua città ove lo attendeva nuovo lutto, che sebbene domestico, non era meno sentito di quello che gli aveva serbato in cuore la caduta della Patria infelice. Eragli morto il padre, e due sorelle da pochi anni spose, avevano tramutato la loro rosea ghirlanda nuziale in una corona di cipresso. Mantova gli divenne soggiorno quasi triste e si ritirò colla madre a Guidizzollo presso aviti poderi. In quella solitudine, nel segreto de' suoi pensieri, nelle aspirazioni della sua anima, egli adorava l' idea che l' Italia doveva pur farsi libera e grande e obliava le crudelissime amarezze sofferte, sollevando lo spirito al lucente sorriso di quella speranza, che prometteva migliori destini alla sua Patria. E intanto si adoprò ad estendere le fila di una cospirazione diramata a quasi tutte le provincie Lombardo-Venete e capo della quale era Mazzini, che intendeva preparare agli italiani i mezzi per una insurrezione contro gli Austriaci e ad assicurare ad essi colla potenza di una iniziativa e di un indirizzo affatto popolari, il dominio delle loro sorti future e toglierli infine ad un secondo intervento regio, che li aveva forse troppo severamente ammaestrati.

Scoperta la congiura, Chiassi fu obbligato passare il confifine e andò a Genova; ma per una nuova cospirazione destinata a far entrare in Lombardia armi ed armati e finita coll'audace, sciaguratissimo tentativo del 6 febbraio 1853. Chiassi venne con altri amici arrestato in Alessandria e costretto ad abbandonare il Piemonte. Si ritirò a Ginevra e dopo due mesi a Zurigo, dove rimase fino alla fine del 1854, prendendo anch' egli parte ad una cospirazione di quegli emigrati italiani che ebbe come tante altre un successo infelice. Pensò allora di recarsi a Parigi, e dopo qualche tempo a Londra, e di là ritornò a Genova verso il 1857. Frattanto la nobile impresa di un rinnovamento nazionale veniva iniziata a compiere gli ardenti voti, le lunghe speranze degli italiani, che gli eterni dolori e l' esilio amaro e le continue delusioni sperimentate non avevano mai potuto nè umiliare, nè vincere.

L' aspettazione di essi era febbrile; si ripeteva da tutti la terribile voce di sfida: guerra al nemico e si preparavano animosi a combattere le ultime battaglie della loro indipendenza.

Chiassi fu dei primi che arruolatosi nei Cacciatori delle Alpi diede prove di quel mirabile coraggio che gli valse l' onore di essere promosso da Luogotenente a Capitano. E con tal grado entrato nelle nuove milizie dell' Italia centrale si addimostrò ognora patriota ardentissimo, valoroso guerriero.

Nel 1860 volle e potè escire dall' armata regolare per prender parte alla spedizione dei Volontari in aiuto dell' insorgimento nell'Italia meridionale. Partito colla spedizione divenne capo dello Stato Maggiore della forte Brigata diretta dal Colonnello Sacchi. Alla fine di quella gloriosissima campagna diede la dimissione e ritornò presso sua madre, che trovavasi allora a Castiglione delle Stiviere; e poco tempo dopo andò a Milano come Ingegnere di Ferrovia.

Nell' estate del 1862 recatosi a Genova per visitarvi Garibaldi, accettò l' invito che gli fece l' eroe di accompagnarlo a Caprera, donde mosse con lui a Palermo, per l' impresa che fini ad Aspromonte. Ma Chiassi non ebbe a provare il tremendo dolore di trovarsi in quella guerra di fratelli, perchè Garibaldi avealo mandato con speciale incarico novellamente a Genova. Ritornò più tardi a Castiglione, e ormai consacratosi alla santa causa della libertà aiutò con audaci scorrerie nel Veneto il generoso tentativo d' insurrezione del Friuli e a Padova fu in estremo pericolo di essere arrestato dagli Austriaci.

Nel 1866 entrò nel corpo dei Volontari e fu nominato Luogotenente Colonnello comandante il 5.o Reggimento. Ma il 21 Luglio lo preparava all' ultimo, al sublime sacrifizio della vita. Occupando di fronte agli Austriaci la posizione di Bezzecca venne assalito da forze assai maggiori, e mentre egli accompagnato da pochissimi incoraggiava colla parola e coll' esempio i suoi che cedevano, fu colto da una palla nemica sotto il costato destro. Gli Austriaci, che lo ferirono a pochi passi di distanza, lo presero morente e lo portarono nella chiesa di Bezzecca, ove passati alcuni istanti lasciava all' Italia di aggiungere un altro nome alla corona de' suoi martiri.

Erano scorsi brevi momenti dalla morte del Chiassi e i Volontari, che avevano preso animo, riconquistarono la posizione perduta e riebbero spento il loro Colonnello. Egli venne tra sportato coi dovuti onori e sepolto nel cimitero di Castiglione delle Stiviere, dove per pubblica sottoscrizione fra qualche mese gli verrà eretto un monumento già finito dallo scultore egregio Tantardini.

Alto della persona, di forme belle e gentili; felice ingegno; indole soave, affettuosissima; costumi intemerati.

Vero patriota amava con una specie di culto l' Italia, e la redenzione di essa fu il costante voto della sua vita.

Agli amici, a tutti che lo conobbero carissimo; Garibaldi lo ebbe fra i suoi prediletti, e Mazzini lo stimò fra i più valenti soldati.

Salve, Chiassi! cittadino immortale, salve! L' anima mia assorta in una visione di cielo vede ora aleggiare il tuo spirito sorridendo lieto sugli spaldi del forte Belfiore, sulla veneta Laguna, sul libero Campidoglio.

Lo vedo soffermarsi mesto, ma bello di speranza e di fede sulle povere terre italiane, schiave ancora e frementi sotto il dispotismo dello straniero….

Contemplo commossa la stella d' Ausonia, la stella che presiedeva al tuo natale, sfolgoreggiare di nuova luce sul tuo sepolcro onorato.

Odo, come armonie di angeli, il coro dei martiri, che inneggiano a' tuoi trionfi, e gli Italiani che ripetono il giuro solenne di serbare nei loro cuori la tua memoria, che durerà benedetta finchè amor di Patria avrà una religione e un altare.

Mantova

Aroldi Gesira.

Fra i martiri che fecondarono col loro sangue la libertà della nostra Italia, conta Napoli un' illustre donna, che la vita breve e gloriosa finì sui patibolo; Eleonora Pimantelli, nata nel 1768, bella, di soavi costumi, d' eletto ingegno, come molti ne fornisce quella terra vulcanica, ferace di portentosi intelletti; l' indole sua immaginosa ed amante passionata del bello, la fece volgere agli studi letterari, coltivò pure le scienze, fra le quali, strano a dirsi, per rifuggirne l' anima della donna, s' applicò con ardore all' anatomia, e le sue dotte osservazioni comunicate al celebre Spallanzani suo ammiraiore, giovarono a quest' ultimo ne' passi ch' ei fece fare a quella scienza. Mario Pagano, Logoteta, Cirillo, Delfico, l' ammirarono e le furono amici, avvinti dalla doppia luce di virtù e d' ingegno; Pietro Trapassi la amò lodandola negli amorosi suoi versi. Carlo Botta dice di Lei nella sua storia d' Italia: « I più belli, i più cortesi, i più colti spiriti con esso Lei conversavano, e già virtuosi, a maggior virtù per esortazione ed esempio s'infiammavano. » Platone dominava; dolcissimi affetti da si contrarie parti s' accendevano e s' insinuavano. — Maritata nel 1784 col marchese Fonseca, d' antica e nobilissima famiglia spagnuola, fu presentata a corte, ed accolta fra le dame dalla regina Carolina d' Austria, d' infausta memoria. E forse, la superba regnante, era altera e gelosa ad un tempo di far mostra ne' suoi circoli di sì eletto fiore di pregi peregrini. Ma le anime elevate come Eleonora Fonseca-Pimantelli, hanno sempre il sublime difetto di non saper celare i loro sentimenti. Quando nel 1789 la corte di Napoli dolorava per le sventure, nelle quali la rivoluzione francese avvolgeva i cognati Borboni, quel sollevarsi d' un popolo al simulacro di libertà esaltava Eleonora; e i principii di eguaglianza, banditi in quei primordi, le davano impulso a quel beato immaginare di felicità civile imminente ai popoli, ch' ella sognava e sperava coi Pagano, coi Ciaia ed altri meravigliosi e nobili ingegni. Già erano cominciati i sospetti della paurosa tirannide; la polizia ebbe allora giudici, commissari, e guardie in ogni rione della città di Napoli, sorsero delatori ovunque quali prezzolati, quali volontari, che spiavano in segreto i pensieri e le opere dei cittadini, chi ne' pubblici luoghi, e chi pur anche ne' penetrali domestici. La regina stessa presiedeva quei maneggi, conferendo a notte colle spie nella sala della reggia chiamata oscura; e quell' arti infami, chiamando col nome di fedeltà non arrossivano d' esercitarla, sacerdoti, magistrati e nobili. Si fu allora che le attinenze che aveva la Pimantelli - Fonseca con Logoteta, Delfico, Confortï ed altri, mal visti e sospetti al governo, le furono ascritte a colpa, e più di tutto alcune parole imprudenti fecero sì che le fu imposto di non tornar più alla corte. Nè certo questa era pena ad Eleonora che tutta data a forti studi, tolta a quell' afa di vizi, più liberamente, fra i chiari intelletti che le facevano corona, aspirava a tempi migliori.

Un' era crudele si preparava al regno di Napoli; cessarono ad un tratto le riforme di Stato, e si ebbe pentimento delle già fatte; si proibirono le gazzette e i libri estrani, quelli di Filangeri furono bruciati in Sicilia, sbanditi nel regno. All' ira del governo più degli altri erano esposti i sapienti per la fallace credenza che la rivoluzione francese fosse opera de' libri e della filosofia, più che de' tempi e delle compresse aspirazioni dei popoli; pericolosa opinione alla quale si debbe la rovina delle migliori intelligenze, e l' esser mancati al sacerdozio e all' impero i potenti aiuti dell' ingegno. Ma intanto gli avvenimenti incalzavano; la testa di Luigi XVI cadeva sul palco, e la repubblica francese, bruttata di sangue, sorgeva nel terrore, spaventando i monarchi ed allettando i popoli a una libertà immatura e fallace, perchè non fondata su civili virtù, ma nella sfrenata licenza popolare, peggiore d' ogni tirannide. Come tanti altri regnantì negò il re di Napoli riconoscere la Francia ordinata a repubblica, non volendo ricevere l' ambasciatore Makau: ed operò che Semmeneville non fosse ricevuto come ambasciatore della medesima dalla Corte Ottomana; e di più cercò collegarsi colla Sardegna, con Venezia e col pontefice per far barriera sulle Alpi e vietare che scendessero in Italia i Francesi. Animoso partito che sebbene accolto dal re di Sardegna, fu respinto dal Senato Veneto e posto da banda dallo stesso Ferdinando I, per timore del grosso naviglio Francese che a bandiera spiegata, comandato dall' ammiraglio La Touche, entrò nel golfo di Napoli proponendo l' emenda di quegli atti ostili, o la guerra. Subito fu accolto ministro il Makau, e spedito un ambasciatore a Parigi, promettendo neutralità nella guerra e amicizia alla Francia. La Touche salpò, ma costretto dalla tempesta a ritornare nel porto Partenopeo, ed ivi trattenendosi, molti giovani napoletani vaghi delle nuove dottrine, conferirono cogli ufficiali francesi e con Makau e La Touche; il quale, poichè tali erano allora le arti francesi, d' incitare i popoli a libertà, per trarne profitto d' aiuti nelle guerre; infiammò quelle giovani menti, consigliando segrete congreghe atte a far nuove cose, e in una cena, fra le allegre speranze, i convitati s' appesero al petto un piccolo berreto rosso, simbolo de' giacobini. Quelle colpe seppe la polizia di Napoli, preparandone il castigo alla partenza della temuta flotta; allora sfogò lo sdegno, e furono presi nel silenzio notturno e menati in carcere quanti avevano praticato coi francesi ed altri cui facevano sospetti la nobiltà e l' ingegno; la loro sorte era ignota agli stessi parenti: il popolo li diceva morti, o mandati ne' forti di Sicilia; si seppe poi che stavano chiusi ne' sotterranei di Castel Sant' Elmo. Una Giunta appositamente creata li giudicava, le pene erano severissime. Emmanuele De' Deo di vent' anni, Vincenzo Vitaliano di ventidue e Vincenzo Galliani di soli diciannove, nobili giovinetti la cui sola colpa era troppo amor patrio, furono condannati a morte, tre alla galera, altri all' esilio. Frattanto il regno di Napoli collegato coll' Inghilterra, preparava armi, e per sopperire ai bisogni dello Stato erano fraudolentemente spogliati i banchi pubblici, e quella spogliazione e l' opprimente tirannide, crescevano l' odio alla regina e al ministro Acton, sui quali correva per la bocca del popolo una canzone derisoria, ingiuriosa al decoro regale. Non è a dire quanto la Fonseca Pìmantelli, tanto amante di libertà, fremesse, vedendo oppressa la patria e il vizio sfacciatamente trionfare in alto; l' illustre donna non seppe tenersi di biasimare altamente la condotta pubblica e privata della regina; e l' ira concitata dell' implacabile Carolina d' Austria, frenata allora, fu poi causa che, nè la nobiltà del sangue, nè il prestigio del chiaro ingegno, scampasse Eleonora dal perdere la vita sulla forca. Tanto costa incitare con parole imprudenti un possente perchè, come disse il più sublïme degli epici:

Quando il possente col minor s' adira
Reprime ei si del suo rancor la vampa
Per alcun tempo, ma nel cor la cova
Finchè prorompe la vendetta…

ma ogni timore, come lo dimostrò più volte, era ignoto all' anima forte della Fonseca.

Sceso Buonaparte in Italia, e vinte le battaglie di Montenotte, Millesimo, Dego, Mondovì, ritiratasi l' Austria dagli Stati Lombardi, i principi Italiani deboli negoziarono la pace, i forti crebbero l' armi alla difesa; e fra questi il re di Napoli ardito, presuntuoso, volle lor guerra, inviando cavalieri in Lombardia; e chiamando con editti all' armi il suo popolo. Ad infiammarlo nell' ira contro i partigiani di Francia, e i francesi, l' aiutava il clero, che li dipingeva da' confessionali e dai pergami come nemici d' Iddio, che scendevano alla rapina dei beni e della religione; e quegli odii seminati in cuore della plebe ignorante e feroce, fruttarono le stragi che desolarono poi la misera Napoli. A quell' apparato d' armi ristettero i francesi dalla preparata guerra contro il regno delle due Sicilie, ed un armistizio fu offerto ed accettato. Poi, per rianimate speranze, violato da Ferdinando, e concertati i mezzi d' offesa coll' Austria e col Pontefice; quindi occupate da' francesi le Legazioni, fu riconfermato l' armistizio ed ottenuta la pace. Ma rincorato dalla battaglia d' Aboukir, accolse il re di Napoli il vincitore con lietissime feste, l'ambasciatore di Francia chiesta ragione di quella pubblica gioia, non ebbe risposta. Già si preparava scopertamente la guerra alla Francia ed a comandante dell' armi inviava l' Austria alleata il generale Mak; ma cominciata felicemente, ed occupata Roma e toltovi ogni segno di repubblica, il re di Napoli, poichè furono battuti e costretti a ritirarsi i suoi generali Micheraux e San Filippo, fuggì nel suo regno; e sentita la perdita degli Abruzzi, chiamava il popolo a sollevarsi a guerra sterminatrice. Il popolo s' armò come per voce d' Iddio; preti, frati il guidavano, ma non aveva capi, nè arte di guerra; il valore suppliva; senonchè cedute a tradimento Civitella, Pescara, e Gaeta, sciolta la disciplina ne' soldati, e discorde il parere del governo, i regnanti, cui la mala coscienza rimordeva, spauriti dalla furia popolare, che più non conosceva freno, nè amici o nemici e già prorompeva alle stragi, decisero la fuga. Nè distolta da quel proposito per l' offerirsi del popolo a sua difesa, partiva la famiglia reale alla volta di Sicilia accompagnata dall' ammiraglio Nelson; e la plebe, temendo, per le trattative intraprese dal Vicario coi Francesi, d' essere tradita tumultuò, e gridando: — Viva il re e la santa fede, — elesse suoi capi Moliterno e Roccaromana, i quali accettarono sperando moderarne il furore. Molti degli ufficiali antichi creduti giacobini furono feriti od uccisi, dai lazzari, che cercavano a morte i partigiani di libertà. Le nobili donne delle famiglie segnate come amanti di repubblica, stavano paurose della loro sorte; quando l' animosa Eleonora Fonseca le raccolse insieme, e traversate le vie di Napoli, le recò sotto la protezione di Castel sant' Elmo, che Noliterno aveva munito segretamente di genti repubblicane; e tanto impose quel suo coraggioso contegno a quella turba feroce, che s' aperse rispettosamente sgombrandole il passo, e a nessuna delle donne da Lei guidate fu torto un capello.

Provvidenzialmente la foga popolare allentò spargendosi al sacco della reggia; Championet s' avanzava contro Napoli, e dopo sette giorni, malgrado l' ostinata resistenza dei Lazzari il 23 gennajo 1799, il Castel Sant' Elmo alzò bandiera Francese, e i soldati di Francia entrarono in Napoli. Il generale Championet mansuefece il popolo, mettendo una guardia d' onore a S˙ Gennaro; e parlandogli in italiano amichevoli sensi, fu applaudito e le armi cessarono, e il grido di: — Viva la santa fede — si cangiò in — Libertà — voce gradita a molti ma compresa e seguita degnamente da pochi. Pacificata la città, Championet per ordinare lo stato creava un governo di venticinque cittadini de' più chiari per natali, dottrina e virtù; tutti amanti di libertà, per la quale alcuni di essi avevano sofferto il carcere e l' esilio, ma certo più atti a filosofare in una colonia di Pitagorici, che a reggere il freno, in tempi difficili, d' un popolo corrotto usato a lunga servitù. Si costituiva la repubblica Partenopea, ed il suo ordinamento era opera principalmente di Mario Pagano, che in mezzo alla servile imitazione della francese, vi poneva ordini nuovi, ottimi, ed importanti. E tosto caldi partigiani di libertà si riunivano ne' circoli, cercando insegnare ai cittadini quanto utili e belli fossero i liberi reggimenti, e compiacendosi d' utopie impossibili in que' tempi in quel popolo; nè le donne se ne ristavano, e la dotta e virtuosa Eleonora Fonseca risplendeva fra tutte eloquentissima oratrice nelle tribune e nei circoli; ella scriveva il giornale « Monitore Napoletano » ch' ebbe gran voga, e dove svelando la tirannide caduta e gli errori de'suoi ministri, infondeva l' amore di libertà e la carità di patria. Ma frattanto gli Abruzzesi sollevati straziavano ed erano straziati dai francesi in guerra più di belve che d' uomini, e la repubblica vacillava in quel popolo di natura monarchica, che l' aveva sofferta per forza de'casi, non per sentita volontà; si sopportavano mal volentieri i sacrifici che il mutare delle cose necessariamente apportava; e peggio ancora, benchè gli uomini che reggevano lo stato fossero de' più dotti ed integri, i cittadini de' circoli, che l' amor di patria riponevano nelle esagerazioni, ne dicevano pubblicamente ogni male, e il desiderio di salire al potere, non il pubblico bene, guidava i detrattori. E quando uomini egregi sono stimati corrotti e vili, solo perchè siedono al governo o tengono magistrati, la libertà è minacciata e il popolo diviene preda d' intriganti ambiziosi.

Moti importanti seguivano nel regno, i baroni e il clero, che non amavano il nuovo ordine di cose, e i francesi e molti soldati vecchi del re attendevano a fomentare discordie e sollevazioni, mentre per la coalizione de' nemici di Francia, correva voce che armate Turche e Russe dovevano giungere nell' Adriatico con genti in soccorso de' regi, e le terre d' Otranto e di Bari si levavano a rumore per l' arrivo d' un supposto principe ereditario; poi sbarcato in Calabria il Cardinal Ruffo, ed ivi trovato seguito di soldati regi che a Lui da ogni parte accorrevano, guadagnò prima le campagne e le terre aperte, poi le terre murate, finchè ridusse tutta la Calabria in suo potere. Anche le altre provincie tumultuavano, e genti feroci le percorrevano commettendo barbari eccidi. In Campania era sorto Mammone, tigre in volto umano; nell' Abruzzo, colle sue bande, incrudeliva Proni, e la ferace Puglia pur essa si sollevava. I Francesi e i soldati della repubblica muovevano a domarli, e furono commessi eccessi da ambo le parti; ma richiamato da Napoli Macdonato crebbero le forze e le speranze dei regi e presa dal cardinal Ruffo Altamura, chiamarono le terre, le fortezze principali il nome del re, e la guerra s'avvicinava a Napoli ed erano intercette le vie fra questa e Roma, mentre comparivanle in cospetto le nemiche navi Inglesi e cresceva lo spavento la scoperta congiura de' Balker. E intanto prima che fosse disfatta dalla forza la libertà, languiva pei sospetti e le intemperanze de' suoi partigiani, si facevano decreti che ponevano un terrore infinito nella città, e ne' ritrovi politici nascevano tumulti regnando ovunque l' anarchia. Ben s' opponevano a questo i pochi e veri patriotti, ma pur essi, per voler troppo far trionfare la loro causa, ingannavano il popolo su le forze di cui disponevano, e sulle sorti che lo attendevano. La repubblica cadeva, ed essi la predicavano eterna; Eleonora Fonseca, nel suo Monitore, pubblicava ogni giorno vittorie dei repubblicani e sconfitte de' regi; in ciò riprovevole certo, benchè il facesse a buon fine. Ma a chi non venne fatto, vedendo cedere la sua fazione, cercare d' illudere se e gli altri? Intanto la guerra seguiva infelicemente; Belpuzzi s' era ritirato in Napoli dove si era pure ridotto Schipani fugato da Scarpa, ed Ettore Caraffa si ricovrava in Pescara. Pietose donne fra le quali la Fonseca, andavano per le case agiate raccogliendo denaro per difesa della repubblica, e tanto ne raccolsero che bastò ad armare tre legioni di veterani; similmente scampati alla morte per grazia del popolo i prigioni regi di Castellamare venne ad Eleonora il pietoso pensiero di rimandarli alle loro case, e subito fatta una questua furono provveduti di quanto era d' uopo.

Ma la fortuna dell' armi riuscì contraria al valore repubblicano e la difesa si ridusse in breve alla sola Napoli, non sicuro nè per forze sufficienti, nè per discordia di cittadini. Le bande del cardinal Ruffo assaltavano Napoli, la difendevano valorosamente i repubblicani, ma sollevatisi i Lazzari alle loro spalle gridando: Evviva il re! furono vinti e le stragi e le immanità commesse dai vincitori e dalla plebe fecero testimonio di quanto possano gli odi politici lungamente aizzati. Molti fuggirono e si nascosero, ed allora pregata dai parenti ed amici ed allontanasi da Napoli vi si rifiutò Eleonora Fonseca poichè l' amore della terra natale, ed il parerle viltà sottrarsi ad aver comune la sorte con chi aveva avuto eguali le speranze e la gloria, distoglievano la gentile da quella determinazione; e fors' anche perchè credeva che la fede nei patti e la clemenza, non fossero sbandite dal vincitore. Ma capitolati i castelli e sottoscritto il patto dal cardinal Ruffo come vicario del re, e da rappresentanti delle potenze collegati; fu cassa e violata quella capitolazione in nome del re dall' ammiraglio Nelson, vinto a' preghi d' Emma Liona, apportatrice d' una lista di morti segnata dall' ira vendicatrice di Carolina d' Austria. Rimessi i reati di sangue a' Lazzari predatori, cominciarono i supplizi de' più onorati cittadini ch' avevano retto la repubblica. Le due prime vittime di cui fu accelerata la morte, prevalendo l' odio, fu il generale Oronzio Massa autore della capitolazioni, ed Eleonora Fonseca-Pimantelli; la condanna della quale, per l' egregia virtù, il chiaro ingegno, il nobile stato, mosse molti della nobiltà napoletana a chiederne la grazia, ma le preghiere furono vane, poichè da gran tempo la vendetta della regina ne chiedeva la morte.

Ella udi senza mutar volto la sentenza, e chiesto caffè incedeva serenamente al patibolo favellando dell' immortalità dell' anima, e rammentando il detto del Galliani: che molto sangue chiedeva la libertà, il primo essere il più nobile — giunta al palco e salitolo con fermo passo, si rivolse a parlare al popolo; ma tosto i carnefici impauriti che l' eloquente parola potesse muovere tumulti le diedero di piglio, troncandole i generosi detti e la vita. Così fu spenta compiendo appena 31 anni l' illustre donna, poetessa fra le più chiare della sua età; anima forte, degna certo di tempi migliori!

Carrara

Adele Pelliccia.

A GUALBERTA ALAIDE BECCARI


Amica!

Tu vuoi che anch' io, benchè incapacissima, intrecci un mio umile fiore alla bella ghirlanda della quale con delicatissimo pensiero intendi far stromento ad un pietoso soccorso, fregiando nel medesimo tempo di novello vanto la patria nostra col far conoscere tanti suoi martiri ignorati? Grazie per l' affettuoso invito, o Gualberta mia. La coscienza della mia pochezza dovrebbe rattenermi dallo aderire, ma io ascolto soltanto la voce del cuore, che mi spinge ad accettare.

A mille a mille conta Italia i suoi prodi caduti per il trionfo de' sacri suoî dritti, per la redenzione della sua indipendenza conculcata. Non v' ha, a così dire, famiglia che non abbia fatto olocausto d' alcun suo caro, che non pianga la memoria d' un diletto morto sui campi ove si combattè la guerra più giusta, più santa: ed io sola potrei ricordare parecchi nomi onorati. Fra questi scelgo quello però del Milani che alla mia mente appare come illuminato da più simpatica luce, e ch' è notissimo a te pure. — E tu aggradisci questi poveri cenni e, se non ne li trovi indegni, concedi loro un ultimo posto nel novero delle splendide biografie tracciate da tante penne illustri.

Conobbi il Milani ch' ero bambina ed egli giovinetto: regnava stretta intimità fra le famiglie nostre.—Di lui rammento l' anima fiera ed ardente, temperata però dall' influenza dei miti sentimenti che la madre, dolce, piissima creatura, gli aveva fin dall' infanzia inspirati. Rammento gli slanci d' entusiasmo appassionato col quale parlava egli dell' Italia che amava con culto, ch' era sempre stata l' idolo suo; poichè, ragazzino ancora, andava egli spesso ripetendo che voleva combattere per la patria, per liberarla dagli oppressori, che voleva o vederla fatta donna di sè, o morire sotto i colpi della bajonetta straniera. Queste idee, questi sentimenti erano innati in lui; più tardi il raziocinio li aveva rafforzati e li aveva resi saldi e profondi.

Varie circostanze gl' impedirono correre una lunga carriera di studii e lo fecero dedicarsi alla mercatura; tuttavia l' aridità delle cifre e de'calcoli, la materialità stessa delle occupazioni non avevano potuto nonchè spegnere, ma neppur diminuire il sacro fuoco di poesia che lo infiammava. Di svegliato ingegno, si piaceva egli delle belle lettere, ma più ancora forse delle arti e della musica in particolare, cui egli attribuiva un altissimo fine; come Mazzini ei la voleva riformatrice dei costumi, maestra di civiltà e di gentilezza. Ed era tanta la sensibilità dell' anima sua, tanto era in lui possente la forza del sentimento, ch'io lo vidi piangere all' udire una melodia del Bellini, un' aria del Petrella. Caro a quanti lo conoscevano per gli eletti modi e la rara franchezza, era amico leale, ottimo figlio e tenero fratello. Di mille affettuose cure circondava la madre diletta e l' unica sorella, leggiadra e soave fanciulla. Ed un altro amore sincero e profondo si nascondeva in quel suo fervido cuore…

Ma quando appena nel 1859 suonò l' ora della riscossa, quando Italia chiese il braccio a' suoi figli, nulla potè rattenerlo; non titubò un istante. Risolvette e si diede all'azione. Partì nel marzo e onde sventare ogni sospetto e non esporre il suo coraggio ad una lotta dolorosa colla famiglia, lasciò la sua città natale in abito da ballo fingendo recarsi ad una festa. Dopo molte vicende e molto affannarsi per isfuggire all' occhio vigile dei tiranni, dalla parte della Svizzera arrivò egli in Piemonte e corse ad arruolarsi volontario nei bersaglieri. Prese parte a tutte le battaglie e si fece rimarcare per il coraggio, la condotta ed il valore. Ricusò costantemente quanti gradi gli vennero offerti, adducendo per iscusa al suo rifiuto ch' egli s' era arruolato al solo scopo di soccorrere la patria e non per avere onori o distinzioni.

Intanto la madre, divisa tra la gioja di possedere sì degno figliuolo ed il dolore d' averlo lontano ed in mezzo ai pericoli, angosciata ed ansiosa aspettava. Venne la pace di Vîllafranca, quella pace che deluse tante speranze, fece cadere tante illusioni, condannò al silenzio tanti desiderii, tante aspirazioni. — La famiglia Milani si trovava una sera riunita, e certo per parlare dell' amato lontano, quando lo squillo del campanello avvertì che qualcuno giungea; era Andrea in arnese da mugnajo; con infinite difficoltà ed astuzie si era ridotto alla casa paterna, ora che la patria non abbisognava più di lui.

Quantunque beati del riabbracciarlo, dell' averlo d' appresso, i suoi vivevano in continua inquietudine temendo che egli venisse cercato e perseguitato; così fu in realtà — per cui risolvettero mandarlo alquanto tempo presso la famiglia mia. Abitavamo noi allora un gentile paesello fra i monti; dimora sicurissima e affatto fuor di vista. Ricorderò sempre i tre mesi durante i quali l'Andrea fu con noi; come pendeva dal suo labbro allorquando egli con concitato linguaggio, con frasi espressive, mi narrava delle recenti battaglie, mi dipingeva l' ardimentoso coraggio de' suoi commilitoni (chè di se poco parlava.) La gioja entusiastica con cui venivano accolti ne'paesi fatti liberi omai! … Povero Andrea! Che anima nobile era la tua!

Col mezzo di amici trovò modo dappoi di collocarsi come agente presso un negoziante d' Adria; gli era duro vivere così disoccupato. Ci lasciammo con lagrime; a tutti un funesto presentimento opprimeva il cuore; pareva che fossimo consci esser quello un ultimo addio.

Cominciavasi a parlar sommesso dell' ardita impresa che mille prodi compierono e che vivrà eterna e sublime nella nostra storia; correva su tutte le labbra il nome di Garibaldi. Il mio pensiero spesso volava ad Andrea; m' aspettavo ad ogni momento ricevere la nuova della sua partenza.

Capitò infatti una sua lettera da Ferrara; ci partecipava la sua determinazione, e fra le altre questa memorabile frase scriveva; « se non facciamo noi italiani l' Italia, chi la dovrà fare? … » Un' altra sua lettera ricevemmo da Genova prima ch' ei s'imbarcasse; in seguito ci scrisse da Palermo. Finalmente rimanemmo affatto privi di notizie sue, e i più tremendi dubbi ci angustiavano. La povera madre fece ogni diligenza onde averne contezza, ma invano; come tante altre infelici donne visse lungo tempo in un' incertezza amarissima, supponendo il suo Andrea o ferito, o prigioniero. Molte volte sorpresi la poveretta che cogli occhi pieni di lagrime, le braccia alzate verso il Cielo, chiedeva a Dio con voce rotta dai singulti il figliuolo diletto. — A poco a poco dovettero dileguarsi tutte le speranze; la tremenda realtà apparve nel suo nudo aspetto; più non ci restava che piangere sulla sua memoria.

La madre mancò poco non perdesse la ragione; sconsolata! Non potè neppur avere il triste conforto di piangere sulla di lui tomba. Molto tempo dopo un compagno d' armi del nostro Andrea ci raccontava che l' amico nostro aveva combattuto come un leone, con quell' ardore tutto proprio della sua anima di vero patriota, ed era caduto contento, superbo quasi di morire per la sua Italia adorata.

Il nome del nobile e sfortunato giovane sarà sempre per coloro che lo conobbero simbolo di patrio amore, di generosità, di sublime alterezza. Possa la crescente generazione offrire all' Italiaca terra molti che lo somiglino e che comprendano come lui la carità di patria!

Venezia.

S˙ V˙ V˙

Come scintilla che scoppiando irradia
E l' aspro calle al peregrino addita,
Così del vero l' alta idea sfavilla
Attraverso il terrore e l' ignoranza;
Quindi si cela, e par che muoja; alfine
L' ascoso incendio crepitando brilla
E fra i vortici suoi la fiamma ardente
Purifica quel lezzo, e il ver risplende.

Dolor alluma l' intelletto all' uomo, Ed alla scienza i misteri strappando, Il ver stenèbra. Di sventura all' ardua Scuola ogni fibra vien scossa. L' ingegno, Che nel cervello siede, se del core Il vëemente palpitar non scuote Questa ossuta compagine nervosa, L' ingegno ammuta, ed algido si spegne Nell' ossea cavità dell' uman cranio. Ma di sventura è pur cocente il bacio! Ed al serrato ed improvviso amplesso Talor non regge l' infelice, e a terra Cade affralito, o forse in un istante Il passato, il presente, e l' avvenire Sconnette, intreccia, e nel delir confonde. Forse è bello il cader più che la lotta, In cui della morte gli strazj orrendi A mille e mille ognor si prova, e mai La calma della morte, oh! mai non giugne …. E pur …. anco il dolore ha voluttà sublime. È gioja il pianto talor … e benedetta È l' ora in cui soffrendo dir si puote Almeno: Oh non fia vano il mio patir …. È feconda la stilla del mio pianto, E il sangue mio la rabida ferocia Basta a saziar di un re brutale, e infame. Oh! quale affetto è più santo di quello Che la patria nel cor dell' uomo accende? Benedetto il dolor che la virtù Creava … Così l' ingegno al magnanimo Oprar, sotto la sferza che barbarie Adopra, un varco fulgido dischiude E la giustizia e libertà per quello, Passan maestose. Se in umano frale Ad indomito ardir, ferreo volere Ed ingegno gentil natura aggiugne, Se un palpito dà il cor dolce nell' ora, In cui dover con la pietade è in lotta, E pur giustizia non riman tradita, ….. Oh! fortunato fia il mortale, e grande, Che tanta copia di sublimi sensi Col soffio della vita ricevea. Se pur natura ne plasmava il frale Con reo pensier, oh! non matrigna fora Ma a te Conte di Ruvo, Ettor Caraffa Agli alti sensi che t' adornan l' alma Venustade concesse ancor natura. Di nobil stirpe antica, altèr spregiasti Il fasto. È vana pompa il dir: Degli avi Illustri il nome io porto. È stolto quei Che dell' altrui splendor pago si tiene, Ed il riflesso di cocente raggio Confonde col fulgor che il raggio apporta. L'uom che di gloria ha sete, e il vero merto Estima, con eroiche virtù un nome E' da sè stesso crea, un nome sacro, Così, che di lunghi anni il corso oh mai! Potriane impallidir la ricordanza; Ma riverito suonerà in eterno Sul labbro di colui, che della patria Il lustro e la possanza, di sua vita In maggior pregio tiene. Oh! la più bella Nobiltà col suo sangue l'eroe compra, Nè si trasmette ad altri. Ettor Caraffa Nobile tipo di virtù e valore Commossa e riverente io ti saluto. Amor di patria fu dell' alma tua Primo sospiro, e palpito primiero, Del tuo vergine cor, nobile Ruvo; Amor di patria fu tuo sprone e guida A magnanimo oprar, e la virtude Nell' aspro tuo cammin a scudo avesti. Deluse l' arti di codardi regi Cadean, allora che in Santelmo, ad altri Prodi unito, ti confinaro i vili Sgherri di Ferdinando e Carolina Austriaca, poichè il puro ardente foco Dell' Italico amor sciogliea tuoi ceppi, Nova e stupenda eloquenza prestando Al nobile pensier che ti infiammava. Amor gentil quindi vegliò a tua fuga(1) La figlia di un ufficiale del presidio innamorata di Ruvo lo calò con una corda dalle mura del castello, acconsentì di non mai vederlo, ma di saperlo salvo per suo mezzo.; E se Ella pianse, poveretta! in core Ti benedia fra l' angoscioso pianto: Te benedia, quell' itala donzella Chè dopo lunghi, e travagliati giornì Libero, alfin per lei, t' era concesso Figger lo sguardo nel sereno azzurro, E tu dei duchi d' Andria discendente Illustre; tu cui benigne alla culla Sorrisero le Grazie, e in sulla fronte Il bacio ti donar fra mille incensi; Nel duro esiglio, fra l' angoscia orrenda, Nel perenne timor, nell'ansia arcana, E nella speme, che ignorata vive, E ne martella con pietosi inganni; E nell' odio legittimo, profondo, Che al rege infame la virtude sacra; Ma che è impotente ad atterrarlo sola, Lunghi passasti, desolati gli anni, Nè il pensier si infiacchi della tua mente, Milan ti accolse fuggitivo, e il plauso D' ogni core gentil t' era conforto E riaccendeva l' abbattuto spirto. Ma vindice un' aurora alfin risplende E di riscossa il grido d' ogni parte Eccheggìa. Ettor Caraffa è in armi…. Come lion che la catena ha infranta E sulla preda a lungo vagheggiata L' irata zanna già securo preme, E ancor più rugge, allora che di sangue L' orrida sete a satollar si appresta, Così a quell' odio, da virtù profonda Compresso a forza nell' eroico petto, Libero il corso Ettòr lascia esultante, Che l' alma innonda di novella gioja. Che fia il periglio? che l' ostacol fia Per chi la vita giustamente ha in uggia Se a prezzo vile, al disonor si serba? Novo incentivo ad alto oprare è all' uomo! E fia il martirio la più bella gloria. Da sì ardente pensier, da tal desio, E dall' amor così profondo, e santo, La grand' alma di Ruvo accesa, or ferve. A lui dappresso degli armati il fiore In fretta aduna, e già son mille, cènto, E cento sol; ma cento mille all' ira, All' indomito ardir tu li diresti: Possente è sì nel battagliar l' ardore Che, folgor sembra di quei prodi il brando, Alto è il terror: a mille, a mille stanno Gli esanimi, e i feriti in monte accolti; A destra, a manca i rei nemici in fuga Si sperdono, si inseguono, si uccidono Fra lor medesmi per terror confusi. Vittoria i passi ognor precede, e insegue Di quella eroica schiera, e sotto ad Andria Giugne. La resa intìma alla cittade Ettòre. Invan, forti, serrati stanno Sulla difesa gli assediati; ricca Di vitto e munizioni Andria non cura Di pochi armatì la superba legge. Arde di sdegno, e di furor Caraffa; E come onda che gli argini sfacela, E i campi invade, ed ogni messe sperde; E nel corso precipite travolge Abitazioni, e abitatori in frotta; Ruvo e i suoi prodi sovra d' Andria armata Come l' onda precipitan furenti. Sotto la pioggia d' infuocate palle, All' orrido baglior di spessi lampi Che morte arrecano, e rovina, Ettòre Il primo la scalata tenta. Nudo In pugno ha l' acciar, che roteando ovunque Mena strage, terror, vittoria e morte. Già in sulle mura è giunto, ed il vessillo Alfin della vittoria insanguinato E' pianta. Quinci, quindi, brillar vedi La rossa di libertà bandiera. Andria Già tutta è in fiamme; si, quell'Andria a[gap] Degli avi suoi culla e splendore; e pure Non si turba l' eroe! … terribil fassi Se di patria l' amor così richiede, Ma dolce e umano è allor, che della guerra Il dover cessa di richieder strage. Del tigre ha l' ira quando in campo pugna Del leone il valor; dell' uomo savio Il possente pensier che guida e regge; Quindi ha gentil come di donna il core; Ei di sua vita a rischio, all' ira insana Che più insana voglia accende In furibondi vittoriosi armati, Una vergine strappa, e a desolata Madre, pura la reca il grande Ettòre(1) Con pericolo d' esser ucciso, salvò una giovinetta di onesta famiglia, dalle violenze di due francesi, uccidendo uno dei soldati. Ma del prode l' acciar non anco posa E sotto Trani vincitor si appressa, Che batte, vince, ed espugnando strugge. Quindi trionfante nelle Puglie riede. Di Ruvo il nome come un Dio si onora; Fia meraviglia de' nemici l' opra Di quel gagliardo, e de' seguaci suoi: Merto non v' ha che quel di Ruvo agguagli. Un sol guerrier su lui portar può il vanto, Quell' uno, che d' Italia l' entusiasmo, E l' omaggio strappar d' Europa seppe; Quell' uno che del mondo un di l' applauso Ben raccorrà, s' oggi alcun vil gliel niega. Stanco e affannato, non mai vinto, Ettòre In Pescara si chiude, chè di patria Così l' alto dover impone. Fiera, Tremenda, sanguinosa, orrida lotta Impegna, ed una volta ancora in fuga Con sublime valor pone i nemici. E pur …. non vinto, ah no! ma vincitore, Orrendo a dirsi! nella man di un Ruffo Egli cadea, pel tradimento infame Di un console britanno ….. Oh! se potenza Sovra l' umana esìstere potesse Muta, oh! perdio, non resteria nell' ora, Che tranquillo un delitto l' uom consuma!…. Amor che è sprone a nobili ardimenti, Primo motore e guida ad alte imprese, Ahi! di donna l' amor, causa fatale, D' orrido scempio fu. D' Emma Liona, L' esecrato nome si unisce a quello Di Nelson traditore … … Oh non fia mai Che oblio ricopra così atroce fatto!…..(1) Nelson, narra il Colletta, cedendo alle lusinghe della bagascia Emma Liona, divenuta strumento di Carolina, non vergognò per un amore così impudico e malvagio, di farsi vile strumento delle voglie tiranne di Ferdinando, macchiando così per sempre la fama del vincitore di Trafalgar, fama ed onore fino allora intemerati. Morte non teme, è ver, Ettor Caraffa; Assai già visse, e Ferdinando l' empio Sul fiore invano questa vita crede Recider colla scure. Ella fu breve Sì, ma più di te, nessuno, o conte Ruvo, Miracoli operar seppe col brando. Or più non sei … …. Deh! questo pianto Che dal ciglio mi sgorga, Ettor perdona … Oh! di femminea debolezza figlio Ei non è. A ciglio asciutto no, non puossi Mirar gli eroi d' Italia ad uno ad uno Cader per legge iniqua. L' alta idea Dei martiri nel sangue si ritempra; Ma l' uomo? … oh! l' uomo ahimè! per sempre muore. Prode in vita Ruvo tu fosti, grande Nel morir, ed al vigliacco, nol chiamo Giudice io no, ma stolto e baldo sgherro, Che fra i ceppi serrato ti insultava, Sul volto i ferrei polsi gli scuotesti, Con accento terribile gridando: Audace sì ti fan queste catene, Chè se libero io fossi, a me dinnante Tremar io ti vedrei, giudice infame Di più infame signor che ti governa. Questo scanno su cui vittima or seggo No, nol darei per mille troni odiati Di un re spergiuro, che tu iniquo servi. E per terrore impallidia Sambuti, Chè ognor paventa chi si sente reo; E di sangue la sentenza firmò ….. Ed il palco feral, sacro all' infamia, Sereno in volto Ettòr ascende, e forte, E il nobil guardo figge in sulla scure ….. Ed ei non trema, no: Morte si venga, Esclama. Mirar vogl' io discendermi Sul capo la bipenne, dei vigliacchi Terror, gloria de'prodi … …. E più non disse: Scese rapido il colpo, e il sacro capo Dal tronco fu divelto … …..(1) Salì al patibolo nel gennajo del 1800. Impara o stolto Popol che lambi del tiranno il piè. L' uomo a l' uomo è fratel, e l' uno all' altro Simìl natura fece: uguale ha dritto. Se defraudarlo tenta iniquo o fiacco Re, furibondo allor ti leva, e a terra Quell' idol getta, che su te mìnaccia I fulmini versar che alla sua fede All' alto senno sol tu confidasti. È vil chi piange, o mormora sommesso. Oprar dee l' uomo se giustizia, onore, Il dritto e libertà conosce, ed ama. A santa emulazion Caraffa il prode, Solenne esempio fia: Ricordo ai regi.

Rovigo 1871

Clarice Dalla Bona Rongall.

E tu onore di pianti, Ettore avrai
Ove fia Sacro e lagrimato il sangue
Per la patria versato e finchè il sole
Risplenderà su le sciagure umane.

Foscolo — I sépolcri.

Il martirio non è sterile mai. Il martirio
per un' idea è la più alta formola che l'lo
umano possa raggiungere ad esprimere la
propria missione; e quando un Giusto sorge
di mezzo a'suoi fratelli giacenti, ed esclama:
ecco, questo è il vero, ed io, morendo, l'adoro,
uno spirito di nuova vita si trasfonde
per tutta quanta l' Umanità; perchè ogni uomo
legge sulla fronte del Martire una linea
dei propri doveri e quanta potenza Dio abbia
dato per adempierli alla sua creatura.

Giuseppe Mazzini
(ricordi dei fratelli Bandiera)

Il 18 Luglio 1867 tutta Venezia era in moto; ella si apprestava a compiere un atto solenne e della massima importanza. Le case imbandierate, chiusi i negozi, la gente moltissima per le vie, affollata anzi in alcuni punti, avrebbe forse sembrato annunciare una festa, un giorno di pubblica gioja, di comune esultanza, se le bandiere che sventolavano alle finestre d'ogni casa, non avesser portato in una od altra foggia disposto, un velo di lutto; se i volti d'ognuno non fossero stati atteggiati a mestizia, ad una indefinibile espressione di duolo soave e riconoscente, che più d'ogni eloquente parola rivelava il perchè di quella commozione universale.

Ed era invero una mesta cerimonia quella a cui si preparava la città delle lagune, ed era invero con animo tristamente commosso e con intimo senso di compianto e mestissima gioja, ch' ella avviavasele incontro; stava per ricevere le ossa dei fratelli Bandiera e di Domenico Moro spenti da piombo borbonico, vittime dell'ardente amore onde aveano consacrato alla patria ogni azione della vita e la vita stessa nel fiore degli anni.

Allorchè le Calabrie furono libere dall'esecrando governo, mentre Venezia gemeva ancora fra'ceppi stranieri, serbò Cosenza gelosamente custodito il sacro deposito; e al compiersi del lieto fato pel Veneto ancora, ci fu tradotto in patria, affinchè Venezia com'era orgogliosa d'aver dato un giorno i natali agli eroi, offrisse loro nel proprio seno onorata la tomba. E nel seno della patria riposano; e nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, giustamente chiamata il Panteon delle glorie veneziane, pei molti monumenti di eroi ond'ella va ricca e gloriosa, tre semplici lapidi ricordano ai posteri le virtù di quei giovani: ne ricordano le virtù eloquentissimamente, quantunque il solo nome vi scolpisse l'artefice; poichè all'apparire di esso tutta la storia della sublime lor vita si fa immantinente palese.

Attilio ed Emilio Bandiera nati il primo in mare presso Spalato il 24 Maggio 1810, l'altro in Venezia il 20 Giugno 1819 e figli del barone Bandiera contr' ammiraglio delle forze navali austriache, furono di buon'ora allievi del veneto Collegio di marina. Giovani d' ingegno svegliato e di egregi sentimenti, ebbero desta ben presto nel cuore la sacra fiamma dell'amore di patria, e con essa un cruccio ineffabile per le di lei sventure, pe'suoi mali infiniti, ed un profondo senso di vergogna per essere trascinati dal volere paterno a vestire la divisa dell' odiato straniero. Quante volte passeggiando sul Molo e volgendo gli sguardi d'intorno all'azzurra laguna, alle gentili isolette, agli splendidi monumenti che fanno a Venezia leggiadra corona di gloria e di venustà, non sospiravano dessi amaramente sull' aspro servaggio che la teneva oppressa, sovra i suoi troppo mutati destini?

Più serio e meditabondo Attilio, anima di fuoco ma dalle apparenze forse un po'fredde; più espansivo Emilio e non meno ardente di lui, gemevano entrambi e comunicavansi la cagione del loro dolore terminando quasi sempre con un chi sa pieno di progetti e di speranze future.

Ma gli anni correvano ed entrambi solcavano il mare già ufficiali di marina segnalandosi pel loro contegno e pel coraggio e l'ardore ond'erano animati. Tutta Italia si presentava allora allo sguardo dei giovani generosi che dovunque la vedevano oppressa, conculcata, infelice. Quà e là brillava di quando in quando un lampo di luce; alcuno alzava la voce a scuotere le moltitudini che frementi lo udivano, e già all'opra disponevano le mani; ma la carcere od il patibolo faceano tacere ben presto anche l'ultimo eco di quella voce importuna ai tiranni, e fortunati ancora si nomavano gli esuli che moveano tapini di terra in terra deserti di ogni bene e d'ogni conforto, fidando talora nell'avvenire della patria quando incontravano in menti ed in cuori capaci di raccoglierne i consigli e gli affetti; disperando anche di lei quando il terrore o l'ignavia rendevano inutili le gagliarde parole ed i virili propositi.

Quanto sanguinassero le anime dei Bandiera a quella vista non è chi non lo comprenda, perchè non v'ha pur troppo fra noi chi non abbia vedute le sventure della patria nostra desolatissima, e non abbia avuto il cuore profondamente commosso di cordoglio e di sdegno; non è fra noi chi non abbia sentito scorrere più frequente il sangue ne'polsi ed affluirgli al cuore allo spettacolo miserando che offrivano ancora pochi anni sono le contrade del bel paese!

E fin d'allora i due fratelli accarezzarono l'idea di cooperare possentemente a compiere il nazionale riscatto, e cercarono ogni mezzo per tradurre il nobile concetto in realtà. Già da oltre un anno Attilio anelava di far giungere una sua lettera a Giuseppe Mazzini, nè mai gli venia fatto, quando nella seconda, metà del 1842 fu raggiunto finalmente l'intento. Mirabile per semplicità, risoluzione ed ardore è quella lettera che vorrei poter qui riportare interamente, se la brevità imposta a questi poveri cenni non sorgesse ad impedirmelo. Valga però questo brano a far comprendere di qual tempra robusta fosse veramente dotato l'animo del giovane generoso:

« Sono Italiano, uomo di guerra, e non proscritto. Ho quasi trentatre anni. Sono di fisico piuttosto debole; fervido nel cuore, spessissimo freddo nelle apparenze. Studiomi quanto più posso di seguitar le massime stoiche. Credo in un Dio, in una vita futura, e nell' umano progresso: accostumo ne' miei pensieri di progressivamente riguardare all' umani-tà, alla patria, alla famiglia, all'individuo; fermamente ritengo che la giustizia è la base d'ogni diritto, e quindi conchiusi, è già gran tempo, che la causa italiana non è che una dipendenza dalla umanitaria, e prestando omaggio a questa inconcussa verità, mi conforto intanto delle tristizie e difficoltà dei tempi, colla riflessione che giovare all'Italia è giovare all'Umanità intera. Sortito avendo un temperamento ardi to egualmente nel pensare come pronto alxl'eseguire, dal convincermi della rettitudine degli accennati principii, al risolvere di dedicar tutto me stesso al loro sviluppo pratico, non fu quindi che un breve passo. Ripensando alle patrie nostre condizioni, facilmente mi persuasi che la via più probabile per riescire ad emancipar l'Italia dal presente suo obbrobrio consisteva forzatamente nel tenebroso maneggio delle cospirazioni. Con quale altro mezzo infatti che con quello del segreto può l'oppresso accingersi a tentar la sua lotta di liberazione? … … ….»

Ed a quello ricorsero i due fratelli, e vedendo come nel 1845 un fermento insolito, energico, unanime agitasse l'Italia centrale, come prendessero forza le voci di un moto imminente nella Meridionale, essi ne aveano tratto speranza ed ardire credendo esser giunto il giorno supremo. Vennero a contatto con taluni de'più influenti fra' cospiratori, ed offersero se stessi, e fecero proposti d' azione di cui alcuno certo importante e facilmente attuabile, ma, ohimè, come dovettero allontanarsi da quelli disillusi e scorati!

» Cercavano l'entusiasmo il quale raccolti una volta gli elementi a fare, è il più alto calcolo delle insurrezioni, e trovavano diplomazia: cercavano la lava ardente di anime vulcanizzate, e trovavano rigagnoletti di acque tiepide volgenti a palude; il Fiat onnipotente di fede, di volontà, e udivano vocine di eunuchi susurranti computi di aritmetica e di paura … …..(1) Mazzini — Ricordi dei fratelli Bandiera. ».

Non deposero certo però i Bandiera per quella prima delusione il loro peasiero; non rinunciarono ai loro progetti, alle loro speranze. Sentirono nell'intimo del cuore che si avviavano al martirio, ma credendo fermamente non esser desso mai sterile, vi si votarono animosi e sereni. Nè valsero a rattenerli dal seguire la via che avevano scelta, i più soavi affetti di famiglia.

» Amavano entrambi con tenerezza la madre; ma di quell'amore che leva all'angiolo, non respinge fra i bruti; di quell'amore che confessa suo primo debito far del core un tempio a'più alti e nobili affetti, purificandolo d'ogni egoismo e consacrandolo al Giusto, al Bello, all'eterno Vero. Attilio era marito e padre; ma la missione da Dio commessagli di educare un'anima al bene, gli era di sprone, anzichè di ritegno all'impresa; e la donna del suo cuore, morta poi di dolore, era degna di lui e partecipe de'suoi segreti »(2) Mazzini — id..

Ma il governo austriaco sospettando già di ciò che passava nella mente dei due giovani, li facea sorvegliare dalle sue spie, e forse poi informato da esse o da alcun traditore, che si fingeva amico loro e della causa nazionale per iscoprirne i progetti, richiamava Attilio, allora alfiere di vascello da Smirne a Venezia, al certo, com' ei credette, per carcerarlo. Alla vigilia della partenza, il 28 febbraio 1844, Attilio mandando ad esecuzione quello che già da tempo avea preparato, fugge a Sira, mentre Emilio partecipe di questo progetto di fuga il 24 dello stesso mese fuggiva da Trieste e si riduceva a Corfù. Poco dopo la più aspra delle prove lo aspettava colà. La baronessa Bandiera illusa e confidente nelle promesse fattele dal governo austriaco a nome dell'arciduca Rainieri di perdono certo per Emilio, come più giovane e quindi più inesperto, anzi per lui perfino di ritorno agli onori ed al suo posto di alfiere di fregata; di perdono più difficile ma pure possibile per Attilio, tanta era la clemenza di Ferdinando, qualora essi fossero ritornati in patria; facessero atto di sommessione, e si mostrassero veramente pentiti del loro traviamento; partiva all' istante ed arrivata a Corfù, adoperava ogni mezzo per persuadere il figliuolo ad ascoltarla, a ritornare. Lo scriveva Emilio stesso al Mazzini il 22 aprile in una lettera da cui tolgo questo brano …. « vi lascio considerare quali assalti, quali scene io debba sostenere. Invano io le dico che il dovere mi comanda di restar qui, che la patria mi è desideratissima, ma che allorquando io mi muoverò per rivederla, non sarà per andarmene a vivere d'ignominiosa vita ma a morire di gloriosa morte; che il salvacondotto mio in Italia sta ormai sulla punta della mia spada, che nessuna affezione mi potrà strappare dall' insegna che ho abbracciato, e che l'insegna di un re si deve abbandonare, queila della patria non mai. Mia madre agitata, acciecata dalla passione, non m'intende, mi chiama un empio, uno snaturato, un assassino, e le sue lacrime mi straziano il cuore; i suoi rimproveri quantunque non meritati mi sono come punte di pugnale, ma la desolazione non mi toglie il senno; io so che quelle lacrime e quello sdegno spettano ai tiranni, e però, se prima non era animato che dal solo amore di patria, ora potente quant'esso è l'odio che provo contro i despoti usurpatori, che per infame ambizione di regnare sull'altrui, condannano le famiglie a siffatti orrori ….. Rispondetemi una parola di conforto: il vostro applauso mi varrà per le mille ingiurie che a gara mi mandano i vili, gli stolti, gli egoisti, gli illusi ».

Da Sira Attilio passa a Malta e finalmente a Corfù dove si riunisce al fratello, a Domenico Moro e più tardi (ai primi di Giugno) anche a Nicola Ricciotti.

Ma il fermento sopito alquanto verso la fine del 1843, si era risvegliato più minaccioso che mai. A Cosenza s' era tentata una sommossa armata che fu repressa, ma lasciando nei cuori l' ardente desiderio della riprova. I due fratelli da Corfu maturano il progetto di uno sbarco in Calabria sperando, anche essendo pochi, di giungere colà, di cacciarsi fra'monti, di mettersi a capo della insurrezione, farla sorgere gigante e portarla poi dal mezzodi dell' Italia nel suo centro, dove pure il fermento si faceva ogni giorno maggiore. Ma non riescono ad ottenere il poco danaro indispensabile a mettere ad esecuzione il loro progetto, e ricevono consigli di desistere dall' impresa. Forse quei consigli eran saggi; forse collo spronarli di nuovo a tentare si tese loro un laccio dai nemici d'Italia, e ce lo farebbe credere il non trovar essi alcun ostacolo nè allo imbarco in Corfù, nè lungo il viaggio, nè allo sbarco in Calabria: comunque ciò accadesse, l' undici giugno così scrivono nella loro ultima lettera a Mazzini: « ….. Fra poche ore partiamo per la Calabria ».

» Se giungeremo a salvamento, faremo il meglio che per noi si potrà militarmente e politicamente.

» Ci seguono diciasette altri Italiani, la maggior parte emigrati: abbiamo una guida calabrese. Ricordatevi di noi, e credete che se potremo metter piede in Italia, di tutto cuore ed intima convinzione saremo fermi nel sostenere quei principii che riconosciuti solo atti a trasformare in gloriosa libertà la vergognosa schiavitù della patria, abbiamo insieme inculcati ».

» Se soccombiamo, dite ai nostri concittadini che imitino l'esempio, poichè la vita ci venne data per utilmente e nobilmente impiegarla, e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti, è la più santa che abbia mai scalda to i petti degli uomini; essa è quella della Libertà, dell' Eguaglianza, dell' Umanità, dell' Indipendenza e dell' Unità Italiana….. »

Partono la notte dal 12 al 13 e sbarcano dopo quattro giorni di viaggio la sera del 16 agli sbocchi del fiume Noto dove si cacciano in una selva. Eran ventuno gli uomini della libertà, ed orrendo a dirsi, fra quei ventuno un traditore!

Io nol nominerò, chè troppo mi ripugna pensare ad esso per riprodurne il nome colla mia penna. È un Giuda qualunque; il nome non direbbe di più.

Povera Italia! sventurato paese che accanto alle glorie più splendide e rare di cui a ragione è superbo, dee lagrimare per le vergogne che inzozzano le pagine della sua storia! Misera Italia che dovette, che deve forse ancora ripetere a bassa voce per tema che gli stranieri possano udirla: Più che gli estrani mi furon dannosi talora i miei figli; più sono a piangere le infamie commesse dagli italiani che l'efferata tirannia degli stranieri!

Giunti appena in Calabria ei spariva, nè gli esuli lo rividero che dinanzi al tribunale come accusato di aver conosciuto la trama senza svelarla e quindi al sicuro da ogni grave condanna.

Dopo tre giorni di viaggio, in mezzo a foreste, gli eroi si affacciano ad un burrone presso S˙ Giovanni in fiore, e si trovano d'un tratto aspettati, circondati dalle forze appostate colà dal governo di Ferdinando….

Descrivere la sorpresa, il dolore di quei traditi sarebbe opera più che da me; certo furono immensi. Il luogo era tale da non offrire alcun altro mezzo di salvezza che la vittoria, e questa impossibile pel numero di soldati che circondavano quel pugno di valorosi. Combattono non pertanto e quanto accanitamente, lo dice con assai più eloquenza che io nol potessi un decreto di Ferdinando col quale conferisce ricompense in danaro, promozioni, croci e medaglie a più di centosessanta individui presenti al conflitto. Quanti fossero quelli che per non essersi segnalati non meritarono ricompensa, il decreto non dice; certo moltissimi. E meritavano premio difatti quei centosessanta bravi; aveano lottato meglio che i compagni contro venti uomini, di cui alcuni veramente giganti tanto era il valore ed il coraggio supremo che guidavano il loro braccio!

Uno ne cadde ucciso, un operaio, Miller, di Forli, esule fino dal 1832; due, insieme al calabrese che li guidava, riuscivano a rinselvarsi; gli altri furono trascinati a Cosenza.

Ciò che avvenisse fra i martiri ed i giudici scelti dai Borbone a terminare quel dramma sanguinoso, non mi venne fatto di saperlo. Il Mazzini stesso ne'ricordi che pubblica di loro, dice d'ignorarlo.

Alle cinque del mattino del 25 luglio 1844 i fratelli Bandiera con sette compagni morirono di fucilazione. Gli altri languirono lunghi anni in catene.

» (1) Mazzini — Ricordi dei fratelli Bandiera.Gli ultimi momenti dei martiri furono degni della loro vita e della Fede Italiana, ch'essi col sangue santificarono. Estraggo quanto segue da una lettera di Calabria, contenente il ragguaglio di un testimonio oculare:

» La mattina del giorno fatale furono trovati dormendo. Si abbigliarono, con somma cura, e per quanto potevano, con eleganza, come se s' apparecchiassero ad un atto solenne religioso. Un prete venne per confessarli: ma essi lo respinsero dolcemente dicendogli: ch' essi, avendo praticato la legge del Vangelo e cercato di propagarla anche a prezzo del loro sangue fra i credenti di Cristo, speravano d'essere raccomandati a Dio meglio dalle proprie opere che dalle sue parole, e lo esortavano a serbarle per predicare ai loro oppressi fratelli in Gesù la religione della Libertà, e dell' Eguaglianza. S' avviarono con volto sereno e ragionando fra loro al luogo dell' esecuzione. Giunti, e apprestate l' armi dai soldati, pregarono che si risparmiasse la testa, fatta ad immagine di Dio. Guardarono ai pochi muti, ma commossi circostanti, gridarono: Viva l' Italia! e caddero morti ».

Oh! benedetti voi che della libertà dell' Italia foste veramente gli angeli! benedetti i giorni di vostra vita e gli ultimi istanti: benedette le sante parole che per l' ultima volta esprimeste ed il sangue che scorse ad irrigare e a fecondare la terra d' Italia!

Corradino dall' alto del suo patibolo gettò il guanto fra la folla e Giovanni da Procida lo raccolse, onde poi suonarono tremendi i vespri della vendetta: nell'ora suprema del vostro supplizio quel grido di viva l' Italia, fu il guanto che gettaste sul volto ai tiranni. Nell'anima vostra viveva in quell' ora più che mai la fede nell' avvenire, ed in faccia al martirio vi sorrideva sublime l'idea di aiutare la causa della libertà mille volte più col morire che con tutte l'opre di vostra vita, chè il sangue de'martiri è seme di uomini liberi: le tombe ne sono gli altari ed il fremito che scorre per l' ossa nell'accostarvisi, ne rivela i responsi.

La Francia al cadere di quei nostri eroi innalzava loro un monumento, e l' egregio artista David vi scolpi l'Italia coronata di spine mentre accende la fiaccola della vendetta sull'urna de'prodi caduti, e sulla base di questa ei rappresentava la lupa di Roma, apponendo al monumento l'iscrizione:

COSENZA
25 LUGLIO 1844.
FERDINANDO II RE˙

E gl'Italiani stretti dai ceppi, non potevano, ed era ancor molto, che coniare una medaglia portante da un lato il nome de' martiri, dall' altro una ghirlanda d' alloro coll' iscrizione:

ORA E SEMPRE
LA GIOVANE ITALIA
A'SUOI
MARTIRI
1844.

Possano ora e sempre ispirarsi gl' italiani all' esempio dei martiri e consacrare tutte le azioni, gli affetti, le aspirazioni, i voti più ardenti a cementare l' edifizio d' indipendenza, di civiltà, di progresso di questa terra strappata appena dal giogo straniero; possano accostandosene alla tomba esclamare con intimo senso di orgoglio e di vera soddisfazione: noi raccogliemmo l' eredità che ci avete lasciata.

Padova — Marzo 1871

Rosa Piazza.

ALL'ILLUSTRE POETESSA ERMINIA FUÀ FUSINATO NELL' ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL COGNATO CLEMENTE

Fantasia(*) Amando che fra' martiri ricordati in questa raccolta non fosse dimenticato Clemente Fusinato, pensammo, permettendocelo la gentile autrice, di ristampare i suoi versi che, a commemorazione del prode, scrisse il giugno dell' anno perduto, e dedicò all' esimia poetessa Erminia Fuà Fusinato.


I.

« Quanto il Sol gira, Amor più caro pegno Donna di voi non ave! »

Petrarca, Canzoni.

Illustre donna cui la patria è musa, E che attingi dal cor grazia e valore, La divina favella ch'hai diffusa Inebria l' alma di superno amore; Ogni eletta virtude in te s' aduna, O fior leggiadro de la mia laguna. Se a te giungesse questa voce umile A non sdegnarla almen ti pregherei; Perchè vien da la terra si gentile Di cui tu gloria ed ornamento sei, Da quel mar che geloso ti coltiva Una fronda d' allor su la sua riva. Come al suo nido va la rondinella, Così te trasse amore a quelle mura Dove fosti esemplar sposa e sorella Fra le dolcezze d' una vita pura; Due cor trovasti fra quei sacri lari Che onoravan la patria e te del pari. L'Italia, allora schiava ed avvilita, Fra catene gemea povera e oscura: Figli animosi volean darle vita Nell' ombra d' una nobile congiura; Con l' armi, cogli scritti e col pensiero Giuravan guerra all' oppressor straniero. E la gran derelitta benediva La tua magione come santo tempio, Dove a gara ciascun teneste viva Col carme, con la spada e con l' esempio Di libertade la prima scintilla, Ch' ora nel suo spendor fulgida brìlla. O quarant' otto, imperitura gloria Dei popoli d' Italia io ti rammento Qual pagina più bella di lor storia, Qual apogèo di patrio sentimento! Caddero i prodi, e là sorsero fiori Freschi e smaglianti dai tre bei colori.

II.

Ahi forse a tanto strazio « Cadde lo spirto anelo E disperò … …

MANZONI, il 5 Maggio.

O sol di primavera, al tuo apparire S' alzò ruggendo il Veneto leone: Gridò Venezia: o vincere o morire. Tosto corsero i figli a la tenzone: Fra quella schiera, d' amor patrio ardente, Fu dei primi a pugnare il pro' Clemente. Delle venuste Beriche colline Furono i bianchi fior in rosso tinti Col sangue degli eroi, che su le chine Caddero lieti prima d' esser vinti. Un ferito che in volto avea la morte Lottava ancora col voler d' un forte! Era Clemente, il fiero giovinetto Che d' un sublime spirito dotato Alle palle nemiche offriva il petto Già carco di ferite, ed affannato; Fino all' ultimo istante che s' arrese La vicentina terra ei ben difese. Quindi volò l' impavido a Marghera, Ov' ebbe fra quei prodi il primo posto. Salvarono l' onor de la bandiera « Col resistere tutti ad ogni costo; » Sui cumuli di morti il gran vessillo Repubblicano sventolò tranquillo. Sparì quel roseo sogno, e un nero velo Coperse ancor la bella Dogaressa, Nè mai più azzurro le sorrise il cielo, Nè mai più il canto rallegrò l' oppressa; Tornò l' estranio e ne puniva i figli Con le forche, le carceri e gli esigli. L' isola di San Giorgio, muta e oscura. Guardata dal croato e dal cannone, Che il soggiorno parea de la sventura, Chiuse Clemente in orrida prigione; Ed ei scordando quelle atroci pene Ancora congiurò fra le catene. Dei sagrifici il premio non ha côlto Che in paradiso, dove lieto or vede Quanto il mondo quaggiù sia ingiusto e stolto, E che virtude ha in se la sua mercede…. O spirito gentil che alfin riposi Lascia che un fior su la sua tomba io pôsi. Se muovi, o Erminia, al cimitero santo, Come Antigone e Argia io verrò teco; E quando sul suo avello intuoni il canto Di tue note soavi io sarò l' eco; Tu scioglierai la funebre armonia, Io 'l povero sospir de l' alma mia.

Venezia 3 Giugno 1870.

Madonnina Malaspina.

Degno di considerazione è lo stato politico delle terre di Italia dal cominciare del passato secolo al 1848. Le genti Italiane asservite da governi più stupidi che feroci, si scossero fortemente al grido di libertà, che usciva trapotente dal seno della rivoluzione di Francia. Napoli ancor più delle città sorelle riscossa da quel grido, faceva sventolare già sulle avite torri il libero vessillo della repubblica. Com' è cosa naturalissima tutti coloro, che potean vantare nobile ingegno e cuor generoso, votavano sull' altare della patria sostanze e vita. Quando la restaurazione del 1815 venne a dissipare ad un tratto tutti gli splendidi sogni degli Italiani, chè i principi ristabiliti sui loro troni, avean decretato di soffocare nel sangue la libertà, la quale dilaniata da inique ritorte mandava gli ultimi aneliti di vita. I suoi figli però che avean giurato di non lasciarla morire, diedero mano alle cospirazioni, alle congiure, e però nuove vittime, esilii, confische, persecuzioni spietate, spaventevole lotta di luce e di tenebre, di bene e di male, di dispotismo e di libertà.

Travolte in siffatta tempesta molte Italiane famiglie si cinser di gloria, ma della gloria sanguinosa del martirio. E tra queste a nessuna seconda è la famiglia Poerio di Napoli. Fede nell' avvenire, volontà incrollabile di affrettario, dignità nel martirio, perseveranza nel lavoro, per cui si propagano le idee, sacrificio di ogni cosa al risorgimento della patria diletta, ecco i caratteri sublimi di quest' illustre famiglia dal cui seno nacque ed in tempi siffatti visse, il generoso del quale imprendo a tessere alcuni cenni biografici.

È questi Alessandro Poerio, che sotto il fatato sorriso della bella Partenope nel 1802 apriva gli occhi alla luce, mentre quasi risorto cadavere usciva dai sepolcri di Maretimo, ove a lungo l' aveva condannato la sospettosa polizia borbonica, il glorioso suo genitore Giuseppe. Cuore ardente come il fuoco che erompe dal suo Vesuvio, mente poetica come il cielo che amoreggia la sua terra, anima pura come il terso cristallo della sua marina, Alessandro molto amò e molto sofferse. Sognò la patria libera e grande ed a lei sola sacrò il genio e la vita. — Già in tenerissimi anni segui sulle frontiere degli Abbruzzi il generale Pepe, e nella sventurata battaglia di Rieti (1821) diede pur memorande prove di valore. Ma era scritto nei decreti del fato che chi maggiormente amasse la patria, quegli appunto dovesse esserne strappato con maggior prepotenza, e al giovane Alessandro venia già segnata la via dell' esiglio.

In un giorno fosco sovra uno sdruscito naviglio che minacciava essere ingoiato ad ogni istante dai flutti tempestosi, il Poerio insieme al padre, suo compagno d' infortunio, salpava dalle sponde della terra natia, per giungere dopo lungo penosissimo viaggio sotto il freddo cielo d' Alemagna. Ma il genio però non si spegne nè per vicende, nè per clima, e non sta mai inerte ed Alessandro seppe trar partito anche dall' esiglio, ed apprendendo la lingua di Goete aggiungere così una nuova cognizione a quelle tante, che arricchivano il patrimonio della sua mente. Solo quando l' anima appassionata sentiva prepotente bisogno di favellare alla patria lontana ed infelice, oh! allora obbliando i suoni stranieri temprava la lira alle dolcissime note de' suoi padri.

Il suo cuore però capace com' era d' affetto grande, universale, non poteva accontentarsi d'amare la sua patria soltanto, ma tutti quegli sventurati paesi ch'ebbero a soffrire danni, prepotenze; e Polonia e Ungheria e Grecia, erano da lui immensamente amati e immensamente compianti, perchè anch' essi provati al crogiuolo della sventura al pari della sua diletta Italia, ed ei soleva chiamare col nome di patria, qualunque luogo ove si respirasse aura di libertà e di giustizia. E infinitamente s'addolorava scorgendo con quante fatiche, si trapiantasse in Germania la pianta della civiltà ch'era cresciuta in Francia inaffiata dal sangue di mille vittime.

Finalmente dopo lunga dimora e lungo soffrire rilasciato dalla corte di Vienna potè ritornare a Firenze. A Firenze, in quella splendida sede del bello, il Poerio si senti veramente poeta! All'ombra de'monumenti di santa Croce, ei s'intese ardere la scintilla del genio, ingigantire nell' anima la fiamma dell' entusiasmo, e cantò della patria e de'suoi sommi, cantò de'suoi martiri con liberi concetti, con inspirazioni sublimi.

E non coi carmi soltanto, ma pure coi fatti fu quivi sempre visto a parteggiare per la libertà, e stringersi a quelli che la propugnavano, pronti ad immolar la vita per essa. Nelle memorande giornate del luglio 1830 volò tosto in Francia, ebbro di ridenti illusioni, lusingandosi di veder porta mano alla rivoluzione di Bologna (che per quant'era da lui sorresse) e inaugurata così la libertà della Penisola. E in mezzo al furore delle galliche lotte fu sempre visto stendere la mano amica agli ottimi ed ai più generosi soltanto, come Lafayette. Foy, Beniamino Constant, Cormenin, Lamennais, e Carrel.

Infine dopo lunghi e dolorosi anni gli fu concesso di rivedere le piaggie della sua terra natia. Oh! il rivederla dopo tanti affanni, non poteva che concitare maggiormente l' anima sua all'odio contro la tirannide, al bisogno di farla libera e felice! E così fu. Capo di tutte le congiure, egli gittava in secreto le basi del futuro risorgimento: propugnatore del giusto e del vero con le pagine del suo giornale il Progresso sbatteva arditamente in faccia al tiranno le sue iniquità.

Ma ahime!, che nuove sciagure dovevano imperversare sovra il suo capo! Il padre suo amatissimo, travagliato da infiniti guai andava ad attenderlo nella tomba. Il fratello Carlo balestrato dall'avversa sorte traeva i miseri giorni di prigionia in prigionia. Ed Alessandro allora, Alessandro, debile, infermo, dovea rimanere unico sostegno alla madre, novella Cornelia, e vero esempio di madre italiana; e l' anima forte di lui trionfo sulla fralezza delle membra, perch'ella gridò loro: Sorreggetevi, ed elle si sorressero ed obbedirono al comando dello spirito.

E quante volte benchè affranto da morbo misterioso che lo consumava, lo si vide penetrare sotto le luride pareti di santa Maria Apparente, e con la parola della fiducia e dell' affetto consolare il fratello e gli amici, che li dentro pagavano il tributo dell' amore di patria, e legger loro proclami di libertà!

È d' uopo dire però che Alessandro Poerio, come quasi tutti, credette un giorno veder brillare la stella della salvezza in Campidoglio, ed insieme agli altri osò sperare nel nuovo Pontefice, il quale aveva inaugurato sì bene l' aurora del suo pontificato. Vane speranze, condivise indarno con tanti illustri Italiani alla testa dei quali stavano il Gioberti ed il Balbo! Era scritto nei destini d' Italia che i Pontefici non la potessero e non la volessero far salva mai; ed Alessandro dovette ricredersi, e s'avvide che quel momento di speranze fu un rapido lampo che lo gittò in tenebrore più fitto e profondo. Cionullameno in quel tempo di gare, di dissidi, di tremende paure egli non temette di sciorre inni di libertà, e di porvi sotto liberamente il suo nome. — E in casa sua dinanzi la venerata immagine del suo genitore fu segnato il foglio che chiedeva conto di tante barbarie a Ferdinando Borbone, il quale sorpreso da tanto ardire, simulò, accarezzò, promise. Ma la mente fiduciosa del Poerio vide ben tosto diradare i suoi sogni dorati, in quella guisa che si dileguano le fantastiche ville del miraggio della Sicilia. Imperciocchè quando udi delle infami accuse lanciarsi contro suo fratello, quando vide alcuni degli amici suoi venire meno ai doveri d'onesto cittadino, di vero patriota, ei cadde affranto dal dolore, e cominciò a disperare di tutto e di tutti.

Solo una voce valse a sollevarlo da tanta prostrazione e fu la voce dei valorosi Lombardi che correvano ad affrancar la Venezia dallo straniero. Al clamore delle armi egli surse ebbro di santo entusiasmo, e si pose sotto la bandiera del suo vecchio amico il generale Pepe. In questa sventurata spedizione fu uno dei primi che energicamente s' oppose all' inaspettato comando, d' arrestarsi a mezzo cammino; e mentre i fratelli traditi ritornavano indietro, egli con due mila gloriosi tragittava il Po, e poneva il piede sulle storiche pietre della regina dell' Adriatico.

Poeta com'era non poteva non ispirarsi alla vista di quella grande infelice! Ed egli la contemplava, cantava di lei sulla patriottica lira, e quelle contemplazioni e quei carmi valevano a rafforzargli maggiormente il braccio nell' ora del combattimento. — E già quell' ora giungeva, quell'ora in cui il Poerio doveva mostrare alla passata e presente generazione ch'egli era veramente grande! Italiani, apprendete dalla memoria di quel valoroso come si ami la patria. Stranieri, imparate dal racconto delle sue geste a rispettare l' Italia. Udite: — Alessandro scagliavasi sempre colà dove più ferveva la mischia, e al generale che gli chiedeva: « Non senti come le palle ci fischiano intorno »? ei rispondeva sorridendo: « Non sento; sai che difetto nell'udito.» Mentre il generale ed i compagni, volendo risparmiare all' Italia una vita tanto preziosa, gli celarono l'ora del conflitto, ei gittavasi nelle acque del Sile per giungere a tempo sul luogo dello scontro. Nel sanguinoso attacco di Mestre si lanciava sempre innanzi a tutti. Una palla nemica gli sfracellava la gamba, ma il nostro eroe pari agli antichi di Grecia e di Roma continuava a combattere. Un secondo colpo gli spezzava il cranio, e quest'ardente figlio del Vesuvio cadendo immerso nel proprio sangue gridava: Viva l'Italia! Ma ahi infelice! Non l'amore degli amici, non le pietose cure del generale, non le materne sollecitudini della contessa Rachele Londonio Soranzo di Milano valsero a salvarti. Tu spirasti facendo voti per la patria, e assicurando di non aver odiato veruno, fuorchè i tuoi nemici.

Alcuni giorni dopo, sotto le volte abbrunate di san Marco l'abate Rambaldi diceva calde e patriottiche parole sul feretro del prode Napoletano, e il popolo piangendo comprese, che un cadavere talora, benchè freddo, vi accende l'anima in petto, benchè muto, vi grida forte: Sorgete! benchè sul punto di scendere sotterra, v'innalza e vi sublima.

O Italiani, inspiratevi alle tombe dei vostri martiri. Questi, questi sono degni del vostro culto, perchè con le loro opere resero gloriosa la vostra sventura, e col loro sangue vi riscattarono dall'obbrobrio del servaggio.

Trieste.

Adele Butti.

Questo nome illustre per scienza e per martirio appartiene a quell'epoca gloriosa del risorgimento scientifico nella quale fecersi immortali i nomi venerati di Telesio, Bruno, Galileo, Cartesio, Bacone. Non andremmo errati, se dicessimo che dobbiamo a questa schiera gloriosa di robusti pensatori, la luce della scienza che presentemente ne illumina. E però parvemi conveniente ricordarlo ai contemporanei, conoscendo per aitro che ai lavori ed ai sagrifici di Tommaso Campanella, unico compenso concessero i fati la gratitudine dei posteri.

Nacque egli il 5 settembre del 1568 a Stilo, piccola terra dell' estrema Calabria. Precoce sviluppo d'ingegno lo trasse alle lettere, e, giusta l'andazzo dei tempi e dei luoghi, alla religione. A 15 anni trattava con inarrivabile facilità in prosa ed in versi qualunque argomento gli venisse proposto. L'eloquenza sacra di un frate Domenicano ed il nome gigante di san Tommaso di Aquino lo spinsero nell'ordine dei Predicatori di cui vesti l'abito quando toccava i 15 anni, e dove lasciato il suo nome di Gian Domenico, quello assunse di Tommaso.

Correva il 1588 quando Telesio di Cosenza, l'ardito riformatore della filosofia, moriva nella stessa sua patria. Nell'ora in che i ministri dell'altare pregavano pace a quella grand'anima, immobile presso la bara stavasi assorto un giovine frate domenicano. Sopravvenne la notte, il tempio era diserto, immerso nel più profondo silenzio, ma presso alla bara vegliava tuttavia e meditava il giovane frate. Era il Campanella! Vi ha momenti nella vita degli uomini che possono dirsi solenni; essi decidono dell'intera esistenza. Da quella profonda meditazione il Campanella non si scosse che divenuto affatto Telesiano.

Aveva egli studiato filosofia nel convento dei Predicatori di Cosenza, aveva letto il libro di Telesio appena allora comparsone, ne aveva succhiato i principii, non gli restava che informarsi alla sua costanza, e lo fece in quella notte, nella quale gli parve di vedere sulla fredda fronte dell'estinto la corona della sapienza, verde sempre e che le ire partigiane non giungono ad isfrondare.

Poco tempo di poi l'ispirato discepolo di tanto maestro riportava con le nuove dottrine in pubblica discussione una segnalata vittoria sopra un monaco francescano; del qual trionfo spaventati i frati del suo convento, come di vittoria riportata da dottrine quasi eretiche, lo allontanarono da Cosenza, mandandolo ad Altomonte. Intorno a quel tempo il valente giureconsulto Marta napoletano pubblicava sotto il titolo Pagnaculum aristotelis una confutazione dei principi Telesiani. Il giovane Campanella dal suo convento d'Altomonte, confutava alla sua volta il libro del Marta, e recatosi in Napoli pubblicava col titolo di Philosophia sensibus demonstrata la più bella e gagliarda difesa di Telesio. Vasto campo gli apri Napoli all'esercizio del suo ingegno, ed egli lo consacrò tutto ad abbattere l'autorità delle dottrine Aristoteliche. Ma tosto si accorse qual opera difficile fosse fare risplendere la verità alla mandra numerosa dei mediocri ingegni che popolavano conventi e collegi, e come fosse loro più facile seguire i dettami della autorità anzichè liberamente regnare col proprio intelletto nelle sublimi sfere della filosofia.

L'odio e la persecuzione di questa turba ignobile di scolastici gli caddero addosso, ond'egli rifugiossi in Roma con la speranza di trovarvi amici e fautori delle sue dottrine. Presto ne fu disilluso e abbandonando la metropoli del Cristianesimo rivolse i suoi passi alla volta di Firenze.

Il granduca Ferdinando I.o lo accolse con molta benevolenza, ed il Campanella a segno di gratitudine gli dedicò la sua opera filosofica De sensitiva rerum facultate. Quel principe volea fare di più, volea conferirgli una cattedra all'Università di Pisa, ma nol potè, che i nemici del Campanella indirettamente ne lo impedirono. Sotto il peso delle nuove disillusioni abbandonava Firenze; recavasi a Padova e poscia a Bologna ove fermava la sua dimora. Ma i suoi nemici lo seguivano ovunque con le armi e con le arti della setta; essi avevano giurato di perderlo; ed ordinariamente gente siffatta non suole giurare indarno. In questa città gli furono rubati i suoi scritti; tra'quali un libro compinto di Fisiologia in cui contenevansi varie disputazioni contro tutte le sette. Chi il crederebbe? cotesti scritti il Campanella più tardi ritrovò depositati al Santo Ufficio in Roma!

Da Bologna fece ritorno a Padova, dove diede opera a ristaurare la filosofia di Empedocle, uno dei più illustri discepoli di Pitagora, e dove dettò una nuova Fisiologia secundum propria principia. Dettò eziandio rettorica per istruzione di alcuni giovani veneziani che da lui imparavano filosofia; scrisse un commentario sulla Monarchia dei Cristiani e un altro libro intitolato Del reggimento della chiesa, dimostrando per esso come con le sole armi ecclesiastiche possa farsi un solo ovile sotto un solo pastore.

Sventuratamente abbandonava Padova, non sappiamo il perchè, e recavasi a Roma. Appena vi giunse, venne posto in carcere, e poscia chiamato avanti il tribunale della Inquisizione a difendere le sue dottrine tacciate d'eresia; splendida fu la difesa e gli meritò l'assoluzione. Venuto nuovamente in Napoli, e dopo breve dimora passato in Nicastro, riducevasi finalmente alla sua patria nel piccolo convento di Stilo.

Comincia ora triste racconto. Reggeva allora le sorti di Spagna Filippo terzo; Lombardia, Napoli e Sicilia eran cadute sotto quella sciagurata dominazione, intesa a spegnere ogni cosa utile e buona, e ad impoverire le provincie per fame esecrabile di oro.

Stava suo vicerè in Napoli il conte di Lemos. Il popolo napoletano fremeva e pareva pronto a ribellarsi. Alla povertà ed alla fame che pesavano sopra le masse aggiungevasi la nuova filosofia che concitava gli studiosi.

Il Campanella non poteva restarsi indifferente nè alle calamità della patria, nè alle congiure che si ordivano: che anzi egli stesso fattosi cospiratore e trascinandosi dietro e frati e vescovi e laici, si pone alla testa di un forte partito pronto a qualunque sacrificio per liberare la patria dallo straniero.

Ma il governo vegliava. e nessuna congiura fu mai esente da traditori. Fu svelata la cospirazione, e la maggior parte dei congiurati arrestati e messi in prigione. Fra costoro, Tommaso Campanella. Condotto in Napoli e gittato in un carcere vi rimase ventisette anni. E qual prigionia! Ascoltiamo lui stesso. —

» Fui rinchiuso in cinquanta carceri, e sottoposto sette volte alla più aspra tortura. L'ultima volta essa durò quaranta ore. Legato con funi strettissime e che mi laceravano le ossa: sospeso, colle mani avvinte dietro il dorso, sopra una punta di legno aguzzo che mi divorò la sedicesima parte delle mie carni, e trasse dieci libbre di sangue; guarito per miracolo dopo sei mesi di malattia, venni gittato in una fossa. Quindici volte fui posto in giudizio. La prima volta, quando mi fu domandato: Come dunque sa egli ciò che non apprese mai? Ha egli un demonio a' suoi comandi? Io risposi: per apprendere quello che so, io consumai, più olio che voi non beveste vino. Un' altra volta mi accusarono d'essere autore del libro Dei tre impostori il quale era stampato trenta anni prima che io fossi uscito dal ventre materno. Fui anche accusato d'aver le opinioni di Democrito, io che feci libri contro Democrito. Mi s'imputarono sentimenti avversi alla Chiesa, a me che scrissi un'opera sulla Monarchia Cristiana, in cui ho dimostrato che nessun filosofo aveva potuto immaginare una repubblica pari a quella che fu stabilita in Roma sotto gli Apostoli. Mi si accusò d'essere eretico, io che composi un dialogo contro gli eretici del nostro tempo …. Finalmente mi si accusò di ribellione e di eresia per aver detto che vi sono segni nel sole, nella luna, e nelle stelle, contro Aristotile che fa il mondo eterno ed incorruttibile …. Per questo mi gettarono, come Geremia, nel lago inferiore ove non è nè aria, nè luce … Io non presumo di essere irreprensibile …. Ma sostengo bensì che non vi è cagione di punirmi a questo modo(1) Cousin Fragments de philosophie cartesienne, p. 12. ».

Questa narrazione è terribile; essa sconforta; eran tempi di ferro che correvano sinistri ai riformatori ed agli amanti di libertà e di patria. Affinchè tanta durezza in parte almeno cessasse, ci vollero i buoni uffici di alti personaggi e persino della corte di Roma. Allora gli fu permesso tener libri, scrivere, conversare coi dotti che volentieri accorrevano a visitarlo. Ed era di tanta robustezza quell'intelletto, che trovò ancora in sè tale energia da comporre versi italiani e latini; elegie sulle proprie sventure e sopra quelle dei suoi amici; Aforismi politici, e quella Città del Sole, una specie di repubblica, vera utopia se si vuole, ma che rivela un grande pensatore. Scrisse eziandio di economia politica, di Medicina, di Fisiologia, di Metafisica, di Teologia, di Filosofia naturale, di Astronomia; e sono sue opere l'Ateismo trionfato, la Monarchia Ispanica, e la Monarchia della sapienza eterna incarnata nel corpo umano; ed onore infinito presso le coscienze generose trasse dall'avere egli prigioniero, scritto la difesa di Galileo Galilei, prigioniero anch'egli in quel medesimo tempo nel santo Ufficio di Roma. Non andò immune dagli errori e dalle superstizioni dei suoi tempi, e lo vediamo trattare Magia ed Astrologia, ma diversamente dagli altri astrologi egli rispetta e propugna il libero arbitrio dell'uomo. Tanti e tali lavori uscivano dalla sua mente fra gli orrori della prigionia; e però non ci sorprendono quelle sue esclamazioni con le quali pare benedica alla provvidenza di avergli tolto la libertà per meglio concentrarlo nelle elucubrazioni dell'intelletto.

Cosa strana, ma vera! Mentre patia prigionia per volontà del governo spagnuolo, una sentenza della Congregazione dei Cardinali presieduti da Clemente VIII condannava il Campanella per tutta la vita al carcere del Sant'Ufficio in Roma.

Cotesta sentenza giunse in Napoli; ma il governo di Spagna rigettò la domanda del Pontefice e non consegnò il prigioniero; la corte papale inviava proteste; nel 1608 papa Paolo V spediva un ambasciatore per avere il Campanella, ma tutto indarno. Il governo Spagnuolo non voleva lasciarsi sfuggire quella vittima illustre.

Arrivava l'anno 1616; in Napoli sedeva vicerè il celebre duca di Ossuna. Costui, giusto estimatore dei meriti del Campanella, contrasse famigliarità ed amicizia con lui, ma potentissimo qual egli era non valse a tirarlo di prigione, anzi ne peggiorò lo stato; perciocchè scoperta la trama disegnata dal Duca di usurpare a Filippo III il trono delle Due Sicilie, il governo di Spagna sospettò che a far questo avesselo confortato Tommaso, per cui la prigionia tornò dura e strettissima ed i patimenti dell'illustre prigioniero si accrebbero.

Alla morte di Filippo III saliva sul trono di Spagna Filippo IV; sulla sede di san Pietro saliva Urbano VIII; nel 1626 questo pontefice mosso a pietà del povero frate, domandava alla corte di Madrid che gli venisse consegnato il Campanella perchè il Santo Uffizio doveva rivederne il processo.

Il di 45 maggio di quello stesso anno, il filosofo di Stilo uscendo dalle prigioni di Napoli si avviava alla volta di Roma, dove dopo passati altri tre anni nelle stanze della inquisizione, dichiarato innocente, otteneva piena libertà. Fu il 6 di aprile 1629 il giorno ultimo della sua prigionia; ne aveva passati ingiustamente trenta anni!

Confortato dall'amicizia del Pontefice, e provveduto da lui di convenevole stipendio; careggiato dal duca di Noailles ambasciatore francese a Roma, Tommaso Campanella poteva dirsi contento; ma a turbare la sua nuova pace veniva l'insensata plebe romana, che da emissarii spagnuoli scaltramente aizzata chiedeva ad alte grida l' eretico agitatore.

Impotente il Pontefice a difenderlo dal popolare furore, lo consigliò a lasciare Roma. L'ambasciatore francese lo fe' trasportare nella sua carrozza a Civitavecchia donde imbarcatosi per Marsiglia, fermatosi tre mesi ad Aix, finalmente recossi a Parigi chiamatovi dallo stesso re Luigi XIII. Fugli assegnata annua pensione e stanza nel convento di sant'Onorato; la Sorbona e quanto la Francia in quei tempi vantava di preclaro nelle scienze e nelle lettere, tutti corsero a festeggiare il filosofo a cui i fati negavano vivere liberamente e morire nella sua patria.

Sull'anima del travagliato ritornava la calma; ma assai tardi! Non potè goderne che fino al giorno 21 di maggio 1639. Rassegnato a morire, munitosi dei sacramenti, sentendosi prossimo alla fine pregò che si ponessero intorno al suo letto vasi di fiori odorosi, e che una melodia risuonasse nella sua stanza fino al punto della sua morte. E così colla serenità del filosofo, colla buona coscienza del patriota, coronato dell'aureola del martirio, fra l'olezzo dei fiori e gli accenti ispirati della musica chiudeva per sempre gli occhi alla luce.

Dopo due secoli e mezzo poterono i suoi compatriotti alzargli un monumento nella terra ove nacque, e dopo due secoli e mezzo, è permesso ai figli d'Italia di onorarne apertamente il nome, di benedirne la memoria, e di esecrare tutte quelle maniere di tirannide a cui soggiacquero in tutti i tempi i genii riformatori della nostra Italia.

Trieste.

Matilde Ferluga Fentler.

Un prete? Sì, per appunto, un prete, ascritto anch' esso nel glorioso ruolo dei martiri Italiani. Anzi tanto più volentieri, fra i mille mi sono appigliata a questo, in quanto che da ciò due gradite verità si appalesano manifeste: primo che la storia è imparziale e fa giustizia a tutti senza guardar in faccia a condizion di persona; secondo che anche fra i preti vi furono di quelli che nell'ora del patrio riscatto risposero all'appello, e sdegnando il Vangelo di Roma, s'attennero a quello di Cristo, e fecero vedere che il loro ministero non esclude la carità della patria, ma che è bello perfino sacrificar la vita per essa.

Ma veniamo alla storia. Tutti sanno come colla battaglia di Novara tramontasse l'ultima speranza della libertà italiana, e come i principi d'Italia e gli stranieri andassero a gara nelle più crudeli repressioni. Eran giorni di terrorismo, e il sole non ispuntava sulla Penisola che per rischiarare cadaveri pendenti dai patiboli. A Bologna il piombo rompeva il petto di Ugo Bassi, nella piazza della fiera vecchia, in Palermo undici giovani cadevano fucilati l'un dopo l'altro; nel regno Lombardo-Veneto il 5 novembre 1851, il 7 dicembre 1852, il 23 febbraio 1853 sono giorni registrati a carattere di sangue nei fasti dell'indipendenza nazionale; i più generosi cittadini, i soldati della libertà muoiono strozzati dal boia. La mattina del suaccennato 7 dicembre 1852 i raggi del sole nascente rischiarano sugli spalti di Mantova cinque forche dalle quali penzolano le membra di cinque martiri della patria, lo Scarsellini, il De Canal, il Poma, il Zambelli, ed ultimo Enrico Tazzoli, di cui m' accingo ad esporre in pochi cenni la sventurata e insieme gloriosa fine.

Nacque egli il 19 aprile dell'anno 1812, a Canneto, grossa terra del Mantovano. La prima educazione, quella che lascia tracce indelebili, quella che non si scorda mai, e forma la base di ogni altra, voglio dire la famigliare, Enrico l'ebbe eccellente dai genitori, Pietro e Isabella Arrivabene, entrambi distinti per virtù civili e per sentimenti patriottici. Nella palestra degli studii letterarii e scientifici parve maggiormente inclinato alla severità di questi ultimi, quantunque egli fosse realmente poeta, semprechè per poeta non s'intenda soltanto colui, che trova facilità nel compor versi, ma bensi colui che dotato di una mente fervida ed elevata e di un'anima ardente, generosa e capace di sacrifizio, si esalta alle idee più nobili di patria, di libertà, di umanità. Appena assolto il corso teologico fu tosto dato ad Enrico un verdetto di dovuta estimazione, coll' eleggerlo a professore di filosofia e storia nel patrio seminario di Mantova nel novembre 1856, nel qual compito non è a dire come egli giustificasse la fiducia che s' era riposta nel suo valore didattico. Frattanto si avvicinava quell'epoca, che rimarrà sempre celebre nella storia e che apparecchiò la strada ai futuri destini d' Italia: il 1848. L'Italia più di ogni altra nazione intollerante del trattato del 15, che la sbocconcellava, la indeboliva e la rendeva schiava dello straniero, non aveva cessato mai di cospirare, per torsi dai polsi quei ceppi ignominiosi. Nel 1846 parve che l'aurora delle più belle speranze sorgesse in Roma, all' assunzione di Pio IX al pontificato, il quale però, dopo di aver inaugurato il suo regno con una generale amnistia pei delitti politici, e benedette le armi Italiane dei sollevati nel marzo 1848, si smenti poi nel maggio con quella famosa Enciclica in cui professava, che padre di tutti non poteva dichiarare la guerra a nessuno(*) A questo proposito osserva bene il dall'Ongaro in un suo Stornello. O lo Spirito Santo aveva preso un granchio la prima volta, oppure la seconda, e in tal caso la infallibilità del Papa è cosa assai problematica. Ma più che lo Spirito Santo qui avea lavorato la vecchia diplomazia, la quale colle sue arti avea convertito il pontefice.. Da quel punto tutti sanno come andasse la guerra combattuta sui campi di Lombardia dall'esercito subalpino unito ai sollevati accorsi da tutte parti d'Italia. Tutti conoscono il disastro di Novara e le sue fatali conseguenze. L'Italia dovette ricadere sotto il giogo Austriaco, e lo slancio nazionale de'suoi figli fu compresso dalla forza. Qual parte prendesse il Tazzoli in queste commozioni politiche ognuno può di leggeri immaginare; egli di anima ardente e generosa, egli versatissimo nella storia, e nei sacrosanti diritti dei popoli. Ma ben pochi potranno comprenderne il dolore nel sentirsi morire in cuore ad una ad una ogni speranza di nazionale riscatto, e di vedere le sue patrie contrade ancor passeggiate con insultante burbanza dal nemico vincitore. Allora Enrico insofferente di tanta sciagura gettossi a corpo morto nelle congiure, nulla ritenendo più sacro che il dovere di tentar tutto per la libertà ed indipendenza del suo paese, la quale ormai non si poteva più raggiungere se non col sacrifizio della vita, ch'egli votava con entusiasmo sull' altar della patria, convinto che la causa dei popoli, come tutte le grandi cause, non trionfa che per le virtù dei martiri. In conformità a queste convinzioni ed a questi intendimenti il Tazzoli nel 1850 diede il suo nome ad una associazione rivoluzionaria bene organizzata, in cui emergevano i nomi di Acerbi, di Castellazzi, Giacometti, Marchi, Mori, Poma, Quintavalle e molti altri. Le cose procedevano a seconda, quando nel 1851 dal comitato Mazziniano di Londra venne fuori un ordine del giorno che suonava così. « Ogni Italiano si prepari all'armi, e volga l'occhio a Roma. Ogni emigrato si prepari a partir per Roma ». Nello stesso tempo, per disporre di una certa somma indispensabile all' uopo si emise una serie di biglietti che acquistavansi a danari, ed il Tazzoli spinto dal suo caldo patriotismo, prese tosto parte alla diffusione di tali biglietti. Ma volle sventura ch'ei venisse scoperto, e tradotto nelle carceri del Castello la sera del 27 gennaio 1852. Ora incomincia il martirio del Tazzoli, ora la sua vita si può dire veramente una catena non interrotta di dolori, l'ultimo anello della quale è il patibolo. Per ben trecento giorni fu sostenuto in carcere, esposto ad ogni più dura prova, assalito dalle più fiere minacce, non esclusa la tortura, qualora egli si ostinasse a restar chiuso nel silenzio. In questo frattempo gli fa recata la nuova che sua madre era morta di puro affanno per la sua cattura. Mio Dio! qual colpo fu questo per Enrico! Ma l'amor della patria, quell'amore che gli era stato instillato nel cuore dalla sua povera morta, lo reggeva e lo rendeva forte a sopportare sciagure forse ancor più amare. Il 13 novembre adunossi il consiglio di guerra ed egli veniva condannato come reo di alto tradimento a morir di capestro al pari de'più infami. Ma ciò non era ancor tutto, chè da Roma partiva l'ordine di sconsacrarlo, come indegno del suo ministero prima ch'egli porgesse la testa al carnefice. A tale inaspettata condanna ammutoli per un istante il Tazzoli, ma poscia ridivenne filosofo e sorrise di tanta iniquità. E difatti egli aveva ben ragione di sorridere alla ridicola sentenza di Roma. Imperciocchè a che cosa si riduceva il delitto di Enrico rispetto alla religione? Formulando in una sentenza l'opinione del Tazzoli, ella sarebbe questa: Gli stranieri a casa loro. Ora domando io se una tale convinzione era tanto opposta ai dogmi della Religione da formare un eresia, e se implicasse un tale delitto da meritar la degradazione sacerdotale? Questa cosa io non la intendo minimamente, e solo mi assicura di un fatto incontrastabile. Che la curia di Roma stretta in alleanza coi potenti, e coi nemici d'Italia, non voleva contrariarli anche a costo di ledere la giustizia, anche a costo di andar contro ai santi precetti di Cristo, il quale non disse mai che l'amor di patria sia un misfatto da patibolo e pianse sopra Gerusalemme al solo pensiero che un giorno ella dovrebbe esser schiava dei Romani. Forse queste parole potranno, a taluno sembrar troppo azzardate, perchè uscite dalla bocca di una fanciulla; ma v'hanno tali cose e tali momenti in cui non si può rattenere la foga del cuore. Ad ogni modo io rimetto il giudizio alla coscienza del popolo italiano e senza più do fine al mio racconto.

Da quanto io ho esposto fin qui si fa manifesto come il Tazzoli fosse stato provato entro un crogiuolo di ben dure sofferenze per la patria, e tale da poter dedurre a tutto dritto, che ei ne avesse finalmente toccato l'apice ed il fiae. Eppure chi il crederebbe? La corona del suo martirio non era ancor completa, e vi si doveva intrecciare la spina più fiera e più acuta al suo cuore di cittadino. Si, Enrico Tazzoli, che aveva spesa la vita intera al bene della sua patria, per la salute de'suoi fratelli, che erasi generosamente immolato sull'altare della libertà, e che aveva con animo forte, sostenuto tante sventure, tante umiliazioni, tanti sfregi, Enrico Tazzoli, prima di consegnarsi al carnefice, seppe, oh! dolore, ch'egli era caduto nell'infame sospetto di delatore de'suoi compagni. Ma quel marchio d'infamia col quale l'odio dei nemici voleva bruttargli la fronte incontaminata, egli lo tolse del tutto col proprio sangue, ma fu ben dura cosa per quell'anima pura il pensare che non già le sue azioni, ma solo il patibolo gli avrebbe rilasciato il verdetto di buon cittadino. D'allora in poi il nome del Tazzoli suonò compianto e onorato per tutta Italia e servi di sprone e d'esempio ai veri patrioti, i quali giurarono sulla sua fossa di rendere la patria libera ed una come egli ne'suoi sogni, ahi! troppo presto, l'avea vagheggiata.

E appena questa terra fu libera, in un mattino di Maggio, i raggi di un bellissimo sole splendettero sopra una moltitudine infinita che traeva fuori di Porta Pradella in un luogo situato a fianco della lunetta del forte Belfiore. Sul volto di ciascuno era dipinto un religioso raccoglimento, un'ansia, una commozione profonda. Era il popolo Mantovano che traeva in devoto pellegrinaggio alla fossa dei Martiri della patria, la quale avea decretato feste ed onori ai loro resti mortali, là dove era stato eretto infame monumento, la forca! Dopo di che quelle preziose reliquie vennero restituite alle singole terre natali. Oh! Italiani! Voi cui è dato in sorte di prosperare all' ombra dell'albero della libertà, inaffiato dal sangue di tanti generosi, vi ricorda talvolta dei martiri del 48, e pensate a qual prezzo essi l' abbiano coltivato.

Sofia Butti.

Non è con poca esitazione ch'io m'accingo a scrivere la storia di questo martire da me fino ad oggi ignorato, giacchè quanto maggiore è l'infortunio tanto più grande ne dovrebbe essere il compianto, e la mia debole penna non varrà a dipingere si al vivo tutte le circostanze che accompagnarono questa vita di sagrifizio, perchè chi mi legge possa piangere una lagrima di pietà su tanta sventura: ma invitata dalla famiglia del martire, non mi vi potei rifiutare; prego però le cortesi che scorreranno queste righe, di perdonare all'imperizia di chi scrive. Come l'oro che appena cavato dalle miniere ha bisogno d'infinite operazioni prima che nelle mani dell' orefice sorta in graziosi giojelli, così io avrei dovuto lavorar sopra a questo mio povero scritto, per modo che nelle vostre mani non avesse avuto che a trasformarsi in gentili ed affettuosi pensieri, ma nulla io feci di ciò, e presento a voi l'oro quale l'ho trovato, confidando nella vostra generosità, che non vorrete rigettarlo perchè vi costa qualche fatica a renderlo puro. — E con questa lusinga dò principio.

Dissi che avrei parlato d'un martire, e quale altro nome puossi dare ad un uomo, la cui vita di continue torture, non ebbe un'ora, un'ora sola di quiete, di riposo?

Nasceva Giacomo Caponetti nel 1810 a Percile da agiata famiglia cui le disgrazie però ridussero ben presto ad una condizione più che limitata; suo padre ritiratosi quindi a Frascati, con fermo proponimento di mai più immischiarsi in ciò che avesse odore di politica, pensò all' educazione dei figli; Giacomo, il maggiore di tre fratelli, si distingueva fra i compagni per isvegliata mente e felice ingegno, e già progrediva alacremente negli studi, quando, per avere egli dimostrata una indomabile ostilità a tutto ciò che sapesse di tonaca e di stola, spaventò tanto il padre che fu privato del benefico pane della scienza, e dato invece ad un mestiere. Ma la pianta avea già poste salde radici, e benchè non aiutata da un'accurata coltivazione, pure cresceva rigogliosa sotto la benefica influenza del sole d'Italia. — Quando scoppiò la rivoluzione del 31, Giacomo Caponetti si trovava in Roma, e presone parte attiva con tutto il fuoco de'suoi vent'anni, veniva come molti altri scoperto, e tradotto in carcere, da cui era tosto liberato per la pietà dei parenti.

In sul finire dell'anno 1848 e durante il seguente, egli di nuovo impugnava la spada per la causa italiana, benchè circostanze morali e fisiche battagliassero colla sua ferma e santa volontà. Avea preso allora allora in isposa una giovanetta che teneramente amava, e fin dai primi momenti la rendeva consapevole dei lunghi dubbi, degli infiniti strazi che avrebbe dovuto soffrire per sua cagione coll'abbandonarla all'incertezza di un avvenire doloroso, orribile…. Ma ritornò tosto sperando di trovare nelle tenere cure della sposa e nel sorriso dell' angiolo che già Dio avea loro concesso, quella pace che non potea in altro modo riacquistare — e così passarono cinque anni — ma quando corse voce di una congiura che avea per iscopo di assassinare il pontefice, egli credette suonata l'ora della vendetta, sperò in un momento d'esaltazione febbrile, che con lui potesse aver fine la cancrena che rodeva il cuore d'Italia, e non pensava il poveretto che la cancrena al cuore non si guarisce per la mutilazione di un sol membro… Ma, come dissi, ei lo sperava, quindi fu uno de'principali attori nella congiura, la quale ben presto scoperta, ne conseguiva l'incarceramento di quanti v'avevano preso parte. Il nostro povero Giacomo veniva trascinato in una oscurissima ed angusta segreta in cui il letto era il nudo suolo. Per quante indagini furono fatte non si riusci a provare la reità del detenuto, onde si decretò, a scanso d'ulteriore pericolo, di esiliarlo oltre il confine; gli fu permesso prima di partire di riabbracciare la moglie ed i figliuoli. Coloro a cui fu commesso il doloroso e delicato incarico di comunicargli le nuove disposizioni, si presero gioco dello sfortunato, ed anzichè annunciare all'infelice la commutazione della pena, cavatolo dalla oscura segreta in cui si giaceva, e repentinamente espostolo ai vivi raggi del sole, gli gridarono con disprezzo: Vanne, sei libero! Una così subita, così insperata felicità, gli diede tale un sussulto di gioja, che, quasi colto da un colpo apopletico, cadde stramazzone a terra, e quando si riebbe trovossi cieco …. Cieco! Egli, che tanto bramava vedere i visi di quei cari angioletti che soli lo tenevano legato ad una vita così sofferente, così tribolata! — e forse doverli lasciare, dover andare in paese lontano, senza speranza di mai più rivederli! ….. Oh! a tanto strazio il cuor suo non avrebbe potuto resistere, e già stava assecondando, accarezzando, quasi, un pensiero di lutto, quando giunse alla soglia della sua casa, senti una voce soave chiamarlo per nome, senti dei cari labbruzzi premere i suoi tremanti, e non ebbe più forza di continuare in quel triste pensiero …. anzi allontanollo da se, quasi temendo che potesse contaminare quell'aura tanto nuova, e tanto pura che respirava …. Si penti d'aver disperato di Dio, e gli disse in cuor suo: sono nelle vostre mani. Sublime fiducia ispiratagli dall'amore paterno! … Non andò molto che mediante le indefesse cure de'suoi riebbe alquanto la vista; ma l'ora dolorosa del distacco stava per iscoccare, ed egli coll'animo agitato da mille tristi presentimenti, la senti con ripetuti colpi ribattere al cuore, eppure dovette mostrarsi con viso sereno all' ultimo addio per non accrescere il dolore di cui già tanto aveva sofferto, e soffriva per sua sola cagione, dovette anzi, dare parole di conforto, di speranza, egli, che si sentiva la disperazione nell'animo! Dopo aver benedetti i suoi tre cari angioletti, abbracciata la consorte, parti per l'esiglio. Ebbe soventi lettere della famiglia, ma per prepararsi di giorno in giorno ad una nuova, tremenda disgrazia; la povera moglie sua lottava colla indigenza, non avea pane da satollare gli innocenti suoi figliuoli, e la pietà dei parenti era fredda, muta, innanzi al suo misero stato, chè la vera pietà, quella che benefica, disinteressata e paga di sè stessa, è tanto rara in questo secolo di speculazione e di guadagno! …. Non durò a lungo questo stato d'incertezza, mercè l'opera indefessa della moglie egli ritornò in Roma, ma per più davvicino palpare la miseria che travagliava i suoi cari, e per conoscere una nuova disgrazia che la pietosa consorte gli avea fino allora taciuta. Uno de'suoi figli era diventato muto e pazzo, chè questi era ancora lattante, quando egli era stato imprigionato, e lo spavento della madre produsse l'effetto sul povero bambino che d'allora non articolò parola, ma nelle smanie a cui lo trasportava la pazzia pareva volesse tener sempre viva nella mente de'suoi quell'ora di tormento, e chiederne vendetta al cielo.

Le privazioni, i patimenti sofferti accagionarono al Caponetti un lungo malore che per cinque anni lo tenne obbligato a letto. Sorgeva adorno di mille speranze l'anno 1859, la derelitta schiava che per tant'anni con sublime rassegnazione aveva sopportato il peso delle sue catene, nella certezza che un avvenire migliore dovea pur giungere, ora le scoteva con tanta forza che ne schiacciava i suoi oppressori, il tremito si diffuse in un baleno per tutta la penisola, e fece battere di gioia ogni core italiano. Ora come si potea stare inoperoso il nostro eroe? Egli che avea già fatti tanti sagrifizi, dovea rinunciare a quest' ultimo, che forse gli avrebbe fruttato il compenso di tutti i dolori sofferti?…

Eccolo di nuovo lavorare alacremente per la patria sua; a tale scopo stringe amicizia con certo Raffaele Jacovelli, pur egli martire della causa italiana, che avea servito per cinque anni come dragone nelle armi pontificie, e con lui dà opera indefessa alla diserzione dei compagni d'arme che aveano cuore e coraggio italiano. Anche in questo difficile e penoso lavoro egli ebbe a soffrire non pochi tradimenti da quegli stessi che più gli si dicevano amici, onde nuovamente scoperto e fatto arrestare dal governo pontificio subiva un mese di prigionia, ma poi, quasi per incanto, ne veniva liberato; già si consolava nelle braccia della famiglia, quando dal comitato romano a cui egli apparteneva, gli venne avviso di fuggire subito da Roma colla sposa ed i figli, se non voleva nuovamente cadere nelle zanne della lupa « che dopo il pasto ha più fame di pria ». Ed eccolo ancora fuggitivo, dopo lunghi stenti arrivare al paese d'Orvino sul confine romano, e qui nuove sventure morali e materiali. La moglie da una grave polmonite inferma a letto è obbligata a vendere tutto ciò che ha qualche valore onde provvedere ai bisogni della famiglia: a sè non pensava, chè niuna cosa potevasi trovare in quel disagiato e misero paesello; lasciò che il male facesse il suo corso, e quando si ristabili prese la risoluzione di concerto col marito di trasferirsi colla famiglia a Rieti. Quivi, dopo un lunghissimo e faticoso viaggio a piedi, poterono finalmente rifarsi un poco dei danni sofferti mercè un sussidio che fu passato al Caponetti come emigrato romano, e l'impiego a maestra della figlia Giovanna. — Ma era scritto fin dal suo nascere che il nostro povero martoriato non dovesse godere un' ora di perfetta tranquillità. L'impiego venne meno, ed ei trovossi ridotto a sostentare sè e la famiglia col misero soldo che gli passava il governo, di più, incronichitoglisi il male che soffriva fin da bambino, si vide inchiodato sovra un letto di stenti, inoperoso spettatore della miseria che con maggiore imperio rinnovava il suo assalto. — Era tanto il suo corruccio, così grande la spossatezza dell'animo suo, che un giorno richiesto dalla figlia che lo senti tossire con sofferenza, se abbisognasse di qualche cosa, egli le rispose: E che mi darai, figlia mia, se non abbiamo più nulla al mondo? … Lo sollevava finalmente da tanta penuria uno dei suoi figli, che giovanetto ancora, dopo non poche difficoltà veniva impiegato come scrivano nella cancelleria governativa, ma era troppo tardi, e quel poco d'argento raggranellato dopo tante privazioni, non doveva servire che a rendere meno penosi gli ultimi istanti del nostro martire! …. Al mattino del 26 settembre 1867 moriva Giacomo Caponetti nelle braccia della moglie e dei figli cui benediceva dicendo: « Muojo contento perchè sta per scoccare l' ora di libertà per tutta Italia …. benedetta sia la patria per cui tanto soffersi, amatela, figli miei, e siatene benedetti » …. e spirava fra le lagrime de'suoi cari.

Roma.

Giulia Ballio.

Chi per la Patria muor
Non muore mai!

Forse così non si potrebbe esclamar dell'infelice Giuseppe Cavallotti morto sul suolo di Francia il 21 gennaio di quest' anno nel conflitto di Dijon, se per chi abbraccia un principio, e a quello consacra gli affetti tutti, i pensieri, l'ansie, le speranze, non fosse sua la patria ove si pugna per la difesa dello stesso vessillo, — per la conquista degli stessi diritti!

Giovanetto ancora mosse nell' Emilia ove arruolossi volontario nel 38.o reggimento, brigata Modena, dell'esercito che dovea avere a sommo duce l'Eroe di Marsala! —

Avvenuta la fusione dei soldati dell' Emilia coll' esercito regolare, ottenne la riforma e accorse in Sicilia, ove l'avea preceduto la memoranda spedizione dei Mille! —

Le fatiche del campo, i disagi delle lunghe marce, le privazioni varie e molte che dovette durare, sopportò col coraggio proprio alla gioventù che sol vede innanzi a sè il sole della libertà, — presente l'inno della vittoria, e anzi che vinta anela alla palma del martirio.

Nel 1866 riprese come semplice soldato il suo posto, nelle file dell'esercito nazionale, e sul campo di Custoza il suo valore meritogli d'essere promosso a sott' ufficiale.

Nel 67 milite ancora, non potè aver parte all'insurrezione dell' Agro Romano, e alle infelicissime vicende di quella campagna, che impressero allo stendardo di Francia, ed alla candida tiara del papato una macchia indelebile!

Deposte le armi, e libero di sè, si vivea tutto delle sante e miti gioje della casa sua, ove l'affetto de'genitori, della sorella, e lo spirito nobile, ardente del suo Felice, lo confortava in mille modi; — e pur ripensando al tumulto del campo, all'ansie di conflitti, agli urrà della vittoria, — coll' opera, e col consiglio lavorava ancora e sempre al trionfo della sua idea, di cui fu apostolo, soldato, e martire!

Arrestato dalla polizia Italiana il 17 aprile 1869, per ben nove mesi fu sostenuto in carcere; e senza che neppure l'ombra di un giudizio fosse pronunciato per lui, — fu rimandato libero il 19 novembre! — Le sofferenze, le privazioni della lunga prigionia, gli temprarono l'animo gagliardo a più saldi ed energici propositi.

La partenza del generale Garibaldi per la Francia, gli raffigurò d'un subito come un concetto, un partito vanti ovunque gli stessi diritti di difesa e d' appoggio per la sua consacrazione; — e detto addio ai tranquilli e dolci ozî della famiglia, — volò ad offrire il suo braccio là ove una grande nazione si dibatteva nella colossale e suprema agonia d'una catastrofe vicina! E vi trovò la morte, là ove sognò lauri e canti di gloria! Povero Giuseppe! Lui pieno di gioventù, di speranze d'amore, dovea spegnersi si presto, dire addio alla vita, alle sue liete illusioni, proprio allora ch'essa incominciava a sorridergli!

L'ultima lettera ch'ei scrisse al suo Felice, chiudeva con queste parole: Termino perchè parto, — Addio! Oh! ei non pensava no, che quella parola d' addio scritta a mo' di saluto, dovesse essere l' estremo che ai suoi cari mandava; — che quel foglio sarebbe stato per essi la sola preziosa ed ultima reliquia del loro diletto!

Salutava il fratello, perchè il suono della tromba guerriera lo chiamava al conflitto; — e si toglieva alla dolcezza di riedere a'suoi coll'anima, e col pensiero, per correre ove il dovere lo aspettava!

Il piombo nemico non risparmiò quella nobile vita! — Cadde col grido sulle labbra di « Viva la Repubblica, — ma non morì sì tosto! Due lunghi giorni ei sopravvisse ancora. — Chi potrà ridire quanto spasimo fisico morale ebbe a durare in quella sua lenta e penosa agonia! Quanto desiderio in quell' anima, del suo paese, della mamma ch'ei prediligeva, della sorella, e del suo Felice a cui l'univa più che fraterno amore! — erano i vincoli del sangue consacrati dall' unità delle aspirazioni, e benedetti dal santo orgoglio che quel suo caro sarebbe stato l'onore della famiglia e della patria comune.

Morì senza un bacio della mamma, — senza un sorriso che rispondesse alla muta ed eloquente chiamata dell'anima sua, — senza che una mano a lui cara gli chiudesse gli occhi alla vita! Tanto strazio, tanto soffrire, — e non ancor trentenne!

Povero Giuseppe! Tu cadesti vittima espiatoria del grande principio ch' è la forza morale dei popoli! Umile, modesto, ignorato, quasi la tua vita passò fra la penombra della famiglia, ed il turbinio della polvere delle battaglie!

Oh! s'intrecci alla palma del martirio l'alloro del forte, ed il tuo nome intemerato, adorno della duplice corona passi ai tardi secoli esempio e scuola di fede, di coraggio, d'abnegazione! —

Milano Febbraio 1871

Pozzoli Felicita.

Nacque Rainiero Cicogna in Venezia nell'anno 1843 dal nob. Vincenzo e da Teresa Mari. Spirito eletto, fino dall'infanzia fece dello studio ogni sua delizia, e in quell'età in cui i fanciulli amano solo i balocchi, egli non cercava che dei libri per istruirsi. L'ingegno come una scintilla del raggio divino brillava sulla aperta fronte del giovinetto, la poesia faceva vibrare le corde di quell'anima pura ed ardente, patria e famiglia furono i sentimenti a cui rivolse il culto del suo cuore.

Non ancor sedicenne scrisse all'insaputa perfino di sua madre una commedia in dialetto veneziano, e in versi martelliani intitolata — Le donne pettegole e fufignone — commedia che rappresentata al Teatro di San Samuele nel Carnovale del 1859 fu vivamente applaudita ed a richiesta del pubblico ripetuta per cinque sere consecutive.

Il pensiero della patria schiava gli era martirio. Durante la guerra del 1859 egli fremeva impaziente attendendo il giorno della redenzione; e quando il trattato di Villafranca tarpò l'ali alle nostre speranze, e ci ribadì le catene, non potè più a lungo patire il giogo, finì per trovarsi in lotta colla Polizia Austriaca che nè adolescenti nè donne seppe mai rispettare, ed eludendo le persecuzioni degli sgherri tedeschi fuggì oltre il Mincio a respirare quell' aura di libertà tanto a lui necessaria e ad offrire il suo giovine braccio per la redenzione del suo paese.

Io che ebbi a tergere le lagrime di quella pia che era sua madre, io che so di quale amore era amato dal padre e dai fratelli, devo dire che per staccarsi dai suoi, per rompere affetti e memorie e abbandonare le patrie Lagune ci voleva una tempra eroica come quella di Rainiero. Dio solo sa quale lotta crudele avrà sostenuto il suo povero core nell'ora solenne del distacco, che dolore nel baciare per l'ultima volta i suoi cari senza poter dir loro addio, giacchè la sua partenza doveva essere e fu un mistero per tutti! — Passato, senza gravi pericoli il confine, scrisse ai genitori per tranquillarli, e munito di valide commendatizie recossi a Firenze ove per cura dell'illustre nostro concittadino conte Agostino Sagredo, e del dott. Gian Giacomo Alvisi, che gli fu più che protettore amico fino all'ultim'ora, venne presentato al Marchese Guiccioli, al Nicolini, al cav. Bachet, e da tutti accolto con la più affettuosa simpatia, e con quella stima che era mestieri accordargli appena si conoscevano i pregi della sua nobile anima. Ma il Rainiero non aveva lasciato patria e famiglia per rimanersi inoperoso. Indarno i genitori lo esortavano lo pregavano di farsi ammettere in qualche Collegio militare, egli rispondeva; non essere momento di studiare ma di agire. Vedendo però che i suoi cari stavano affannosi del suo destino li blandi con promesse, poi senza ascoltare che il suo coraggio si arruolò quale semplice soldato nel R˙ Esercito, ove in onta ai suoi diecisette anni die'prove tali di capacità e d'ardire che in brevi giorni giunse ad ottenere il grado di sott'ufficiale, e con questo la stima e l'affetto dei suoi superiori. Ma l'avidità di combattere, il grido della patria oppressa non gli davano pace, egli chiedeva ansioso un'occasione per dar prova del suo valore. Ahi! l'occasione giunse, pur troppo, e troppo presto!

Partito da Firenze segui il Generale Nicotera nell'Italia Meridionale. Poi nel mese di settembre 1860, circa sei mesi dopo la sua emigrazione, mentre sul Volturno comandava un piccolo distaccamento, ebbe uno scontro coi soldati della Cavalleria Borbonica. Lunga e disperata fu la lotta; il giovinetto combatteva da eroe, ma soprafatto dal numero cadde colpito da un palla nel petto che lo lasciò cadavere sul terreno. Viva l'Italia! fu l'ultimo grido che uscì dalle sue gelide labbra, mentre l'ultimo pensiero di quell'anima benedetta fu rivolto come un supremo addio alla famiglia, che non doveva più rivederlo quaggiù.

Raccolta dagli amici la salma fu trasportata a Capua, e là mercè le pietose prestazioni del dott. Gian Giacomo Alvisi fu seppellita nel Cimitero di s. Maria.

Bello, forte, gentile, intelligente, sulla sua tomba si confusero le lagrime dei suoi Superiori con quelle del più rozzo fra i suoi soldati, poichè nel dolore gli animi si affratellano.

Per lungo tempo rimanemmo incerti sul fato di Rainiero Cicogna, avvegnachè in quell'epoca le comunicazioni coll'estero — che tale era per noi la redenta Italia, giungessero in ritardo, e spesso rimanessero sepolte negli uffici della Polizia Austriaca, che paurosa di tutto distruggeva perfino le lettere che pareva avessero odore di libertà. Quando la notizia ci giunse sicura il povero Rainiero era morto già da oltre due mesi. — Nè qui mi lice finire la pietosa istoria del nostro martire senza ricordare la madre di lui morta d'affanno alcuni mesi dopo il figliuolo del quale ignorò il triste caso fino all'ora estrema. Allorchè le notizie incominciavano a mancare, quell'infelice addolorata andava qua e là interrogando ognuno per saper qualche cosa della sua creatura, nè vi fu chi non alimentasse le speranze del suo povero core, e quando non rimase alcun dubbio intorno alla lagrimevole sorte di Rainiero Cicogna nessuno osò troncare il filo a quelle deboli speranze, per tema di troncare con esso una vita già troppo logorata dai patimenti. Miseranda cosa era l'udire quella meschina crucciarsi perchè le lettere non arrivavano, e più miserando l'incarico di mantenere la sua illusione. Pel marito e pei figli fu una lotta terribile, essi stavano fra una tomba chiusa di recente, ed un'altra vicina ad aprirsi! — Intanto i mesi si succedevano, e la vita di Teresa Mari Cicogna, s'avvicinava al suo fine. Negli ultimi giorni ella non osava più interrogare, collo sguardo fiso nel ritratto di Rainiero ella passava delle ore senza muover labbro, i suoi occhi soli parlavano un linguaggio che straziava l'anima. Circa sei mesi dopo la morte del figlio ella lo raggiunse in cielo lasciando dietro a se il più amaro compianto. Ella era una santa.

Rainiero Cicogna lasciò alcuni scritti inediti, fra questi molte poesie, delle farse, ed una commedia intitolata: Un gradino sociale, tutte cose che meritano essere ricordate e che rivelano di quale ingegno fosse dotato. I suoi canti pieni di fede e di nobili aspirazioni sono come fiori freschi e soavi sbucciati da terreno vergine, e sul quale la troppo viva lampa del sole e le bufere improvvise non hanno ancora portato le loro tristi influenze. Chi s'arresta su quelle pagine non può a meno di deplorare l'immatura fine del giovinetto che vivendo avrebbe aggiunto lustro e decoro alla nostra Venezia.

Le nocrologie di Raniero Cicogna scritte dal chiarissimo cav. Nicolò Barozzi, e dell'esimio prof. Giuseppe Occioni affermano ciò che la mia povera penna s'ingegnò di narrare, tracciando la storia della brevissima vita del caduto martire Veneziano.

Venezia agosto 1871.

Caterina Tetamanzi Boldrin.

Ultima io vegno, e'il più modesto fiore Malinconicamente aggiungo al serto Che uno spirto gentile e pien d'amore Ha già conserto. Non ha tinte vivaci nè profumo: A un soffio che l'investa, si disperde Suo disco, somigliante a lieve fumo, Nè foglia ha verde. Com'esso, a dileguarsi prestamente Parve frale tua vita, o giovinetto: Ma onor renda al tuo nome nostra gente, E suoni accetto Nell'alta compagnia di que'che furo, Più della patria, che di sè curanti, Cui tutto dièr, spregiando il fato oscuro: Martiri santi. Deh! come invida sorte al chiuso foco Nel tuo gran cor d'irrompere impedia, Si che solo n'apparve un raggio fioco, Narri elegìa. Eri bello e cortese: il maschio volto Temprava una dolcezza inusitata; Chè il molto ardir molcea, d'affetto molto L'alma assetata. Le domestiche a te sacre pareti Erano un mondo, e sue benigne stelle Influssi vi piovean dolci e discreti Madre e sorelle. Erati il genitor lume e conforto: E sereni orizzonti ti scopria Quando a nobile vol scioglica le penne Di fantasia; E commosso esultavi allor che, vinto Dall'estro, percorrea l'agon dell'arte, O di bella redia palma distinto, Che onor comparte. I prestanti fratelli amârti fidi E in te beârsi, ahi! con fallace speme! Perchè gli adrìaci abbandonasti lidi? … Il cor ne geme. Acque funeste a valicar t'accese La patria carità, che in te fervea; Pugnar volevi pel natio paese, Per alta idea. I feri lacci, ond'era oppresso, gravi Ti pesavan sull'alma, insofferente D'indugio; le paterne disdegnavi Cure prudenti. « Oh! ch'io libera baci itala terra, Ch'io varchi l'onda amica, e tocchi riva, Ove suona gagliardo inno di guerra: Italia è viva! » Vive Italia, e integrossi redimita, O giovin prode! E il sogno tuo s'avvera. Ma tua breve giornata è, ahimè! fornita Innanzi sera. Il baldo ingegno indarno figurava All'ardente alma tua la fiera ebbrezza Di titanica lotta; invan brillava Tua giovinezza! Il poderoso braccio invano all'armi, E il petto esercitavi a larga lena, E fremevi all'udir bellici carmi Di vena in vena. Tanto fervor, tanto disio, tant'ira Spense un istante! e dell'eroe sol resta, Che in te sorgea, fugace suon di lira Che l'eco desta. Baldo affrontavi di speranze il varco Del sospirato fiume: a miglior sponda Già già lieto anelando: d'armi scarco Rompevi l'onda: E già, figgendo avidamente il guardo. Scorgevi sventolar sull'altra riva L'iri di libertà, l'alto stendardo D'Italia viva. D'ineffabil compreso estasi, il core Cresceati in sen: famiglia e patria e Dio Confondevi in un'estasi d'amore … Era l'addio! Era l'ultimo addio che il giovin prode A'suoi diletti, al patrio suolo invia … Sul vigilato margo un grido s'ode, Che il cor feria. Un barbarico grido, e di feroci Moschetti il lampo, e la plumbea tempesta … A sgomenti pensier mancan le voci Sull'ora infesta! Ahi duro fato! l'Eridanio flutto Lavò l'empie ferite e ti fe'manto, E inospite sepolcro il limo, brutto Di sangue e pianto. Tomba certa non hai, su cui pietosa Man di suora o d'amante intrecci serti, Ove susurrin prece armonïosa I cor diserti! Nè co'suoi baci il labbro intiepidirti (Estrema illusïon del cor materno) Potea, chi col suo sangue ti die'spirti, T'ebbe in governo. Senza lotta cadevi! E di te orbato, Nè almen poteati, estinto, il caro padre, Brancolando nel duol, trovar, corcato Fra dome squadre! Nè soave a lenirgli il cupo affanno Sonò di tua virtù l'eco diffusa … Tardo il voto or n'adempie, in tanto danno, Povera musa!

Venezia

Eugenia Pavia Gentilomo Fortis.

I.

Il cor favella; la mia musa è questa.

Giannina Milli.

Adelaide Cairoli-Bono nacque in Milano il giorno 5 marzo dell'anno 1807, da Benedetto Bono di Belgirate, e da Francesca Rizzi. Bono era uomo di vasto ingegno e di nobile cuore; doti che dovea trasmettere nelle sue due figlie; bella eredità di cui le figlie seppero fare così gran prò. Conte del Regno, Commendatore dell'Ordine della Corona ferrea, Presidente del Consiglio di Stato, Direttore generale dell' Amministrazione delle Comuni del Regno d'Italia, Revisore del conio delle monete ecc., per suo solo merito giunse a così fatti onori, e a lui devesi il Codice Amministrativo pe'Podestà e Sindaci; opera di molta considerazione, tanto è vero che le leggi da esso saggiamente dettate, vennero mantenute in vigore anche dal Governo Austriaco; non dal nostro però; poichè da noi è un fatal vezzo, di non volerne sapere di roba buona, manipolata in casa nostra.

Adelaide era una vaga fanciulletta; io ne vidi il ritratto di quando aveva cinque anni. Oh, la bella e interessante fisonomia; la non aveva un di que'soliti visi di parvoli, che l'innocente sorriso, e i gai colori abbelliscono, dando risalto a quella loro amabile espressione, che muta le mille fiate in un giorno, conforme le impressioni della loro anima tenerella, che passa di sorpresa in sorpresa, man mano che acquista coscienza del mondo che la circonda. Sull'ampia fronte, ne'suoi grand'occhi castano oscuri, nell' insieme del suo tipo pronunciato, tu leggi un pensiero, una specie di preoccupazione, cosicchè non ti sorprende come quella fanciulla abbia fatto un giorno tanto parlare di sè!

Adelaide ebbe una sorella, cui era maggiore di qualche anno. Con questa divise i primi giuochi e gli studî primi, le prime gioie, i primi dolori … Ed uno ne ebbero le poverette, che non poterono apprezzare, ma che pure intuirono, rimanendo sbigottite al suo annuncio: Non avete più padre! Oh, le infelici potevano comprendere l'immensa sciagura che le avea colpite? Il loro buon padre, non era più … sparito … ma dove andato? Su, nel cielo, s'era trasformato in una nube, in una stella … Può spiegarsi l'infanzia il terribile mistero della morte …. può intendere neanco questa fatale parola? Pure, quando la sventura ci visita fino dalla culla, c'imprime il suo suggello, e l'anima s'immelanconisce, e il nostro carattere si fa serio, meditabondo; d'allora noi pregustiamo tutta l'amarezza della vita. Ma avviene che l'animo prematuramente impressionato dal fantasma del dolore, s'abitua ad esso, e lo sfida: così diviene forte, e può incontrare le battaglie della vita, serenamente altero e pago di sè.

I saggi parenti aveano data alle due fanciulle un'ottima istitutrice, che educando il cuore, arricchiva loro la mente di quelle prime nozioni, che preparano il terreno a ricevere il seme di studì più serii. Però giunte in quell'età, in cui termina l'infanzia e comincia l'adolescenza, furono divise, e l'una posta, la nostra Adelaide, nel Collegio Reale di Verona, che era in quell'epoca in grande rinomanza, ed Ernesta in un collegio di Milano. Le povere fanciulle soffrirono nel separarsi e nel lasciare il tempio de'loro affetti, per irsene presso a stranieri, l'una dall' altra lontana; era per queste due che s'amavano, un reale dolore, a cui mal si piegavano. Ma conveniva obbedire, e fin d'allora abbassare il capo con dignitosa rassegnazione innanzi al dovere. Amendue aveano ricevuto in dono da natura un ingegno elevato e un'anima sensibilissima; avrebbero adunque approfittato degli studî e di quegli anni di forzata reclusione, e sarebbero uscite saggie donzelle, avverando le speranze ed i sogni della madre.

E così fu; ma la nostra Adelaide, assai cagionevole fino dall'infanzia, in conseguenza d'uno spavento sofferto, se lasciava il collegio ricca d'ogni più bella prerogativa, era però assai debole in salute. È quasi sempre il destino delle anime grandi; la forza fisica non regge alla potenza della loro psiche, che si dibatte così entro un'angusta prigione!

Adelaide era di forme gracili, delicatissime; non imponeva la sua persona, ma vinceva il fuoco dei suoi occhi; attraeva la sua parola, che scorreva facile dal labbro, e rivelava il tesoro d'affetti che si nascondeva in quel leggiadro involuero. L'anima di Adelaide era fatta per amare, ardentemente amare; Dio, la patria, la famiglia, erano gli oggetti cui nell' intimo consacrava un culto; erano per essa la più sublime sintesi della vita; poeta e filosofo, avea ardente la fantasia, ma già maturo il senno. Volava a'regni sconosciuti la prima, come ogni fantasia di fanciulla, ma la sua saggezza metteale la briglia, cosicchè avevamo il più caro insieme che si potesse desiderare. Sua sorella Ernesta accennava ad altra natura, più mite; ella possedeva una di quelle anime sensitive, che una volta il turbo le agiti, si restringono in sè stesse, e più non sentendo della terra, volano a luoghi migliori; Adelaide era fatta per amare e lottare, Ernesta per amare soltanto, così questa poveretta non potè durare a lungo alla perdita de'suoi cinque figli, e del marito, mentre Adelaide seppe resistere, sebbene si struggesse di passione, a quella di quasi tutti i suoi diletti. Oh, la vita è lotta la cui palma è in cielo; la palma del trionfo, dell' immortalità, nell'eterna memoria de'presenti e de'futuri.

La mente d'Adelaide, che già nella fanciullezza mostravasi così piena d'intelligenza, si era ora bellamente sviluppata e mostravasi adorna d'ogni più svariata cognizione. Viveva in epoca di somme agitazioni politiche, e l'anima sua ne riceveva le forti impressioni, a queste informandosi. Italia, che sperava dal grande Napoleone la sua libertà, e il suo ritorno alla dignità di nazione, e l'affermava in questa sua lusinga il pensiero che il prodigioso condottiero, era nato in una delle sue isole, avea scosso la sua ignavia rispondendo con entusiasmo all' appello del genio guerriero. Ma, ahi, povera illusa! quel figlio snaturato, non vagheggiava il riscatto della madre, come il suo sogno accarezzato di gloria; libidine di regno, spense nell'anima sua, che pure era grande e fatta per comprendere i doveri di cittadino, il sacro fuoco di patria: ed ei fu ingrato alla terra natia per una gente, sempre fatale a'destini d'Italia! Oh, quell' uomo, che tradì la propria missione, ebbe fine miseranda, ma non immeritata. Adelaide, cresciuta di mezzo a tanta vicissitudine di tempi, s' abituò dall' infanzia a grandi idee, e sentiva nell'intimo che un dì ne sarebbe stato un apostolo. È un fatto codesto che ha riscontro nella storia; non si viene alla luce in un dato momento inutilmente; le impressioni che noi riceviamo fanciulli, determinano i nostri pensieri, quando saremo adulti. Io non so, ma l'aure stesse che si respirano col primo alito della vita, imprimono su noi il carattere: ed altri sono i figli generati in tempi di schiavitù, altri quelli in tempo di libertà.

Adelaide avea quindi succhiato dal nascere quelle idee generose, di cui un dì madre, dovea rendersi martire!

Il suo cuore palpitò segretamente pe'martiri del ventuno, e l'Italia aveasi dalla nobile giovanetta un fervido sospiro d'amore, un voto per il suo riscatto. Allora, che altro poteva ella fare? ma intanto alimentava la fiamma di che ardeva l'anima, e sarebbe venuto il giorno in cui avrebbe posto in azione quel suo pietoso desiderio.

Non perdeva però la nostra Adelaide il suo tempo in frivole occupazioni, come le donzelle di quell'epoca, e molte ancora della presente, d'agiata condizione, suolevano e sogliono fare. Onde appagare l'ansia di apprendere, ch'è nobile indizio di mente svegliata, e dar pascolo alla viva immaginazione, e a quel sentimento che già gagliardo si destava in lei, il sentimento d'amore verso i nostri fratelli, per cui avrebbe voluto essere l'angelo della provvidenza, si mise a studiare ne'libri avidamente; così le ore le scorrevano piacevoli, piene di soavi emozioni; le idee che riscontrava in quei volumi, rispondevano alle sue, e a lei sembrava di aver pensato tutto quel di bello che la veniva impressionando. Così accade a que' che comprendono veramente un autore; in lui s' immedesimano, con esso vivono, e palpitano. Ma la salute d'Adelaide, ch'era attaccata a un debolissimo filo, lo premisi, s'era venuta affievolendo ancor più, così che si vide costretta a guardare il letto e la colse una tremenda malattia; venne a fin di vita; però l'angelo d'Italia, vegliava al suo capezzale, e l'anima bella rattenne in quel debile corpo, e le disse: Rimani, transito fatale devi percorrere, pure segnerai sulla terra una parabola di luce, che sarà pegli avvenire raggio di redenzione; rimani, devi compiere missione dolorosa ma splendida; t'incoronerai di spine, però il tuo nome andrà glorioso in fra'nomi dell'itale madri! Adelaide migliorò; ma d'allora si svilupparono i germi di quel malore, che la condusse alla tomba. Era ritornata alla vita, le rose rifiorirono sulle sue guancie; la scossa però era stata violenta; del fiero nembo che avea minacciata la gentil pianticella dovea averne eterna memoria. I suoi parenti, i quali vedevano la poveretta soffrire, colta da una ostinata nevralgia allo stomaco, studiavano il modo onde vedernela ricuperata. Affidarla alle esperte cure d'un dotto medico, era il loro desiderio. Un uomo avea levato grido di sè per la sua perizia nella nobile arte d'Ippocrate e di Galeno; ad esso, che era stato discepolo dell'illustre ostetrico prof. Scarpa, e lo sostituiva nella cattedra presso l'Università di Pavia; che avea portato innovazioni nella chirurgia, e per le puerpere era stato un benefattore, a lui dovendosi il miglior modo di sorvegliarle; ad esso, che alla dottrina straordinaria, aggiungeva un cuore gentile, affettuoso, inclinato a' più soavi legami della famiglia; a lui, stimato da'ricchi, benedetto da'poveri, verrebbe affidata l'inferma giovinetta, la quale da Milano portossi a Pavia, ospite in sua casa, e questi si chiamava Carlo Cairoli. Le circostanze favorivano felicemente l' incontro di due anime, che erano fatte per intendersi, e della loro unione dare sublime spettacolo al mondo!

Carlo aveva già compiuto il suo nono lustro. Alto della persona, nobile nel porgere, era bello nel volto, pieno di dignità e di candore, e ben dico candore, imperocchè la coscienza paga di sè sparga di cosifatta tinta la faccia, che nella pienezza della virilità, tu conservi quell'aria di candore, come allora che eri fanciullo in su'ginocchi materni. I capegli aveva bianchissimi e ricciuti; senza barba il mento, come la foggia di que'dì portava. Così la purezza de'suoi lineamenti appariva singolarmente; l'occhio vivace e pieno d'espressione: l'occhio, specchio dell'anima, rifletteva la sua, tutta fuoco per la scienza e per la famiglia. Ampia la fronte, le cui rughe ti narravano le lunghe notti vegliate sui volumi; tra ciglio e ciglio leggevi il pensiero, scrutatore della natura, a cui carpiva i segreti, onde confortare l'umana progenie, dannata a piangere e dibattersi fatalmente nelle strette di disperati dolori. Quando Adelaide stabilissi presso di lui, egli trovavasi in preda ad una profonda melanconia. Un di quei dolori, che non t'uccidono per godere a lungo del tuo strazio, lo avea visitato, e il suo cuore, ch'era sempre in festa, perchè trovavasi nel tempio dell'amore, pareva morto sotto il colpo ferale. Carlo era marito, e la sua donna, Dio avevagli tolta; gli restavano due figli … ma ad esso la sua casa sembrava diserta dopo la partenza di quell'angelo. Inutilmente, tempra d'acciaio, onde distrarsi della sua sventura, erasi dato con maggiore alacrità allo studio; dalle fatiche diuturne non era lei a consolarlo, ed egli, il poveretto,se ne crucciava a recarsi danno alla salute. Di gioviale erasi fatto serio; di felice era divenuto infelice, e non isperava salvezza al naufragio della sua contentezza domestica. Ma egli stava per accogliere un altro angelo, che gli avrebbe mesciuto nel calice delle gioie, nettare ancor più prezioso, che lo avrebbe inebbriato di que'casti, santi godimenti, che offre solo la famiglia.

Adelaide, giovinetta a diecisette anni, dotata di una mente, cui a ben poche è dato possedere, d'un cuore, che non tutti possono vantare l'eguale, era nata, parmi già di averlo avvertito, per amare, ed amare possentemente. Pure, benchè fatta l'oggetto di parecchie richieste, a tutte avea dato un diniego, chè l'uomo del suo pensiero, non rispondeva certo a'molti che le si facevano intorno. I giovani spensierati non la ingannavano; essa a' suoi figli volea padre assai migliore di quelli. Quando entrò ospite in casa di Carlo, quell'uomo della scienza impose alla sua ardente fantasia, e il suo cuore cominciò a battere ben altrimenti. La soave e assennata parola, la geniale presenza, la severità del gesto, e sopratutto quell'aria melanconica, quella inesprimibile tristezza, che gettava un velo sulla vivace fisonomia dell' egregio medico, quel mesto sorriso, che appena sfiorava il suo labbro, ed accennava ad una preoccupazione intima, che lenta lenta, limava la sua esistenza, interessavano ad Adelaide, così che da prima gli concedette una larga simpatia, poscia cominciò a stimarlo in quel modo che poco più è la stima che l'amante accorda all'amato, e un bel dì, esaminando lo stato dell'anima sua, trovò mutati l'interesse e la simpatia, la stima, la pietà, nel più fervido amore. Eppure ell'era una bambina in suo confronto! Carlo accostandola, avea sentito suscitarsi nell' anima un fuoco, cui da tempo non conosceva. Intrattenendosi con essa in dolci ragionari, gli era parso che a poco a poco il peso che aggravavagli il cuore, si facesse più leggiero … e in breve, della memoria della sua povera defunta erasi formato una religione, e sentiva d'amare come un dì avea quella amato, Adelaide. Dissi che aveva due figli già adulti, Giovanni, dottore in medicina, e Carolina, fanciulla di eguale età a quella di Adelaide; questi due trovarono che l'ospite gentile avrebbe degnamente sostituita la madre loro, e a quelli del padre unirono i proprii voti, perchè l'avventurata unione seguisse in breve, e l'ardente brama del genitore fosse appagata.

Adelaide e Carlo si erano intesi e si amavano. Il medico aveva operato miracoli; colla forza dell' amore guariva la sua cliente, e la cliente per riconoseenza, donavagli la mano di sposa e la felicità.

II.

Di Giovanni Cairoli, che, vivendo avrebbe emulato il padre, io vidi il busto in marmo nella casa di villeggiatura in campagna, nel museo di famiglia. D'austeri lineamenti ritraeva della bellezza paterna; ma lo studio soverchio, e, vuolsi, un segreto e perciò più fervido amore, per donna già ad altri legata, avevano logorata la sua salute. Viaggiò onde, distraendosi, obliare; ma la sua natura assomigliava troppo a quella del padre … più desiava l'oblio, meno dimenticava. Sentia la vita fuggire e ne ebbe paura; oh, gli sarebbe stato pur doloroso chiudere gli occhi per sempre sotto altro tetto che il paterno non fosse. Riedè al domestico lare sfinito; una lenta tisi, lo consumava d'ora in ora, di minuto in minuto, disfacendolo. I suoi dì erano numerati, vedea vicina la morte, terrore delle anime imbelli, non della sua, già preparata al crudele destino. Si ridusse infermo, e al padre non isfuggì la serietà del suo male, che non lasciava speranza; Adelaide lo comprese dall'accuoramento del suo Carlo, che inutilmente con lei si avrebbe infinto. Angelo di conforto, si pose al capezzale dell'infelice giovanetto. Oh, la pietosissima suora di carità, quale usava sollecita presso il povero malato, attentamente osservando ogni ordine del marito; prodigandogli affetto sviscerato di madre, ella tanto di lui più fanciulla! E lo accarezzava così come fosse un bambino, porgendogli di tal guisa il farmaco più confacente all'indole del suo male. Giovanni vedendosi circondato di tante tenere premure, soavi, dolcissime, avea ristoro nella sua sventura; ma lunge dal riattaccarsi alla vita, s' immergeva in un'oasi di castissimo gioire, così al di sopra de'sensi, che ne godeva nell'estasi dello spirito; nel suo sublime delirio, gli pareva che l'anima avesse lasciato il debole frale, ed ei riposasse felice, in grembo all'eterna luce. Il raggio dell'amore vivificò i suoi dì estremi; il padre, la sorella, i parenti, ed Adelaide, quella ch'era così degna di sostituirgli la madre, attorniavano il suo letto di morte. Egli sorrideva, e i suoi lineamenti erano informati ad una placida serenità, e sereno aggiunse il porto, oltre cui non sappiamo se sia il nulla eterno, o l'eterna vita; però la fede, dolce poesia dell'esistenza: la speranza, ultima dea, ci fanno credere che il soffio animatore della creta, non si spenga, ma arda immortale, oltre il breve transito … e, per non bestemmiare alla vita, crediamolo e lo speriamo!

Adelaide non ismentì un solo istante alla sua divina missione, e su quel cadavere pianse come si piange un figlio, un fratello, un amico, infine un infelice, cui il giorno fu breve, e coronato di spine!

III.

Ma un avvenimento, che la giovine sposa attende trepidante, a cui si prepara pudibonda palpitando arcanamente per quell'essere, che nel suo seno accoglie, sta per avverarsi. Adelaide è per dare alla luce la sua prima creatura … — Non si oblia la tomba di un figlio, accanto alla culla di un altro figlio; pure, beandosi nel sorriso di quel nuovo nato, si sparge sul tuo dolore un mite raggio di conforto; il drappo funerario a poco a poco muta i suoi melanconici colori, e il vago velo della culla prende il posto di quello. Il dolore non muore, ma muta forma; non è più disperato, si cambia in un'indefinibile mestizia, che rende l'anima ancor più sensibile. È poi fatal legge di natura: l'uomo nato per morire, non guarda al cadavere, che gli dà la desolante sintesi della esistenza; sibbene al bimbo nella culla, che nel suo sorriso di cherubino, gli rivela il poema della vita! Carlo fu perciò pieno di letizia, e nuovamente benedisse al suo nodo. Carolina erasi fatta sposa infrattanto al celebre professore Panizza, condiscepolo del padre; ma anche a questa poveretta i giorni erano contati, e le rose della sua ghirlanda nuziale ben presto appassirono. L'infelice moriva dando la vita ad una pargoletta, lasciando nel pianto congiunti ed amici. Adelaide cercava di raddolcire così acerbe pene al suo Carlo; però egli rimanea sbigottito, in vedere distrutta la sua prima famiglia interamente; e talora un profondo sospiro gli usciva dall'anima, ed una lagrima gl'inumidiva il ciglio. Ma ben presto il suo domestico focolare risuonò di care voci infantili; biondi angioletti, dagli occhi ceruleì, e dalle espressive fisonomie, allietavano la sua casa, erano i fiori vagheggiati del suo edenne. Quegli innocenti, co'vezzi loro, le dolci moine, a cui non v'ha uomo che possa mostrarsi indifferente, asciugavano le lagrime, che irrigavano il volto paterno; ed ei, il buon Carlo, guardava al cielo commosso, e quindi ad essi sorridendo, rispondeva con baci infuocati a'baci loro. Adelaide vedeva con gioia svanire la nube di tristezza dal di lui fronte, ed era paga che l'amore operasse tale miracolo! Ed all'amore tutta informava la sua famiglia, la quale andava ognor più facendosi numerosa. Amore, fede, carità, erano i genii ch'ella invocava a tutelare l'opera intrapresa di educare le anime tenerelle de'suoi figliuoletti, i quali sempre avea con sè, sapendo essere l'esempio quello che produce il più sicuro effetto; e che il bambino imitando, s'informa al modello, che gli è dato a studiare: compresa del compito suo, avea cura di esibirsi a' figli irreprensibile, onde le amabili pianticelle non avessero a tralignare … Ma, aimè, le sta per accadere la maggiore sventura, che madre amorosa possa colpire; un de'suoi angioli, è per rivolare al cielo! Povera Adelaide, la tua vita di martirio incomincia; preparati, innocente vittima, l'ora del tuo sagrificio sta per iscoccare; la morte ha segnata la tua casa: ti vide felice ed invidiò il tuo sorriso; ma tu, anima grande, intimorirti, non affronta la procella, non piegarti al fato … sfidalo: è tutto che può questa fragile argilla, che si chiama uomo.

Carolina era l'ultima nata delle tre figlie; dirvi quanto bella, vezzosa, nol potrei. La parola è talora insufficiente a descrivere certi tipi, che solo il pennello d'un artista, che l'arte divina intuisse, potrebbe riprodurre. Aurato il crine e ricciuto, l'occhio cilestre, ritondetta la faccia; angelica l'espressione conforme la sua anima tutta innocenza ed amore. Non avea che di poco oltrepassato il lustro, ed era la delizia de'parenti, degli amici. Abituata a dare il suo a'poverelli, s'era fatta la piccola amica d'un vecchio cieco, che sull'angolo della piazzetta di S˙ Lorenzo cercava l'elemosina. A quegli arrecava il suo obolo, e vezzeggiavalo amorosa, con tale tenerezza, che il tapino quasi a Dio rendeva grazie della sua cecità, se per questa poteva avere il benefico bacio di quell'angioletta. Non la vedeva, ma lo comprendeva, ch'era ella dotata di una bellezza non umana, tutta di cielo; ei la credea un messaggiere di quella provvidenza, di cui il povero si fa un mito, onde sopportare la sua miseria. Ma un dì la cara fanciulla ammalò; una violente febbre la sorprende … la casa è tutta sossopra: presto … la si muore; oh Dio, non permetterlo, te ne prega la dolentissima madre … ma ahi, il cherubino spiega le ali, sorride alla madre derelitta, le mostra il cielo, e, là ti attendo, le dice, e vola nell'ignoto. Morta! il funebre grido si sparge per la città … morta! oh, e il povero cieco che dirà, intendendo la triste novella? … Vedetelo, disperato, chiamare ad alta voce la sua fanciulla, come s'egli l'avesse procreata, e l'avara morte gli avesse tolto, ciò ch' era suo … infelice! chi più l'avrà consolato?

E tu, Adelaide, qual'è mai il tuo cuore? Armati di coraggio, o benedetta; tu cominci a salire il calvario. La via è alpestre, e non sei, pur troppo, che a'passi primi; ma guarda all'alto; vi sfavilla una croce … è l'apoteosi del sagrificio; guarda animosa a quel punto, o magnanima donna, e ti assista Iddio … per te ha principio l'êra del martirio …

IV.

A render meno acerbe le angosce materne, sopravvennero le preoccupazioni della politica. Dissi come Adelaide sentisse l'amore di patria; trovarono un'eco profonda nel suo cuore i fatti del trentuno, ed ella a sè stessa promise di educare i figli a difensori della libertà. Voto sublime; mai però avrebbe creduto che le dovesse costare tanto il compierlo!

Nel suo primo figliuolo, a cui aveva imposto il nome venerato del di lei padre, scorgeva un'anima fiera, suscettibile di quell'impressioni, a cui amava s'ispirasse. Tutta occupata in questa caro ufficio, il dolore della sua Carolina parea avesse scemato d'intensità; ma così non era, ella avea un angioletto in cielo, e ne momenti di trepidazione a lui col cuore si rivolgeva, a lui pensava, lo invocava, e poi sentivasi più forte al suo ministero. E i figli le cresceano d'attorno; Benedetto, Ernesto, son già giovanetti, belli di aspetto, belli di cuore e di mente. Benedetto conta ormai i suoi dieciotto anni, e ci avviciniamo all'epoca, che segnò passi giganteschi sul sentiero della nostra rigenerazione politica, sebbene epoca cotanto infortunata, al 1848.

— Oh! mamma, diceva Benedetto a lei, ch'era la fata de'suoi concitati pensieri, presto la patria chiamerà all'arme i suoi figli, ed io, io sarò il primo a rispondere al suo appello. Da qual celeste voluttà sarò in quel dì compreso, in cui ti dirò addio, e volerò sul campo di battaglia! — E la madre che sentivasi colta da un'emozione invincibile, perchè quella non fosse presa per debolezza, e lo era, fiacchezza materna, le sue labbra tremanti posava su la di lui fronte, e così toglievasi al suo sguardo indagatore, ed ei a quella dimostrazione amorosa, si sentiva vieppiù acceso. Oh, il bacio della madre, quanto bene può fare!

Già Benedetto lavorava per la buona causa, ed Ernesto lo aiutava. Venne però l'istante in cui la sospettosa polizia, ebbe sentore come nel giovinetto si nascondesse un cospiratore, ed era per istendere i suoi artigli; ma quando supponea di cogliere al nido l'augello, quegli avea spiegate l'ali alla vicina terra di Piemonte. Poco andò, e Italia sollevossi al grido di libertà; Benedetto nel dì della lotta fu soldato. Dal campo scriveva alla madre, le idee che il nuovo mondo che gli si presentava allo sguardo, gli andavarisvegliando. Ei poeta, artista, amante del bello, del vero, le sue vergini impressioni versava in seno di chi solo potea comprenderlo. Adelaide aveva ancora quattro figli, Ernesto, Luigi, Enrico, Giovanni; ad essi leggeva quelle lettere, spiranti da ogni riga amor di patria; dessi stampavano nel cuore le nobili parole, e fra pochi anni avrebbero provato quanto si sarebbero resi degni del loro fratello. Ernesto fremeva già di non poterlo seguire …

Intanto Carlo era stato per voto di popolo acclamato Podestà di Pavia; ei fu integerrimo cittadino; al bene della patria consacrò l'ingegno, e con prodigalità encomiabile non poca parte della sua ricchezza le sagrificò. Ma le cose volgevano ad una fine deplorevole; era avvenuta la rotta di Custoza. Benedetto avea fatto ritorno alla famiglia, non più semplice soldato, capitano, ma colla disperazione nel cuore. S' erano ritirati nella loro terra di Gropello. Avvenne la battaglia di Novara: nuove speranze, più crudeli disinganni. Quando l'età è fervida, per quanto assalgano possentemente le disillusioni, abbiamo nella nostra stessa gagliarda natura, la forza di combattere quel dubbio di morte … Ma Carlo avea già scorso il suo diciannovesimo lustro. In quegli anni la disillusione uccide; s'affievolì, intese tutto perduto; non guardò all'avvenire, riflettè al doloroso presente: volse gli occhi al passato, tanto triste … disperò d'una rivincita, e tramontò … benefico astro, non brillò più su questa terra …

Oh, Adelaide, questo tuo, fu ben straziante dolore, inenarrabile ambascia; colui, che tanto amasti, non è più! Ma guarda a'figli; suo testamento fu: virtù, amore, fede; adempilo: ne esulteranno le sue ossa, che fremono amor di scienza, e di patria.

A di lei dolcissimo conforto avea due figlie, Emilia e Rachele. Quest'ultima, bella e interessante fanciulla, di eletta mente, di cuore gentile, innamorò di sua vaghezza giovine scelto, a cui corrispose, e furono sposi. Adelaide accolse fra le sue braccia il primo nato della sua creatura, ed ebbe istanti di suprema felicità. Ma aimè, la casa Cairoli era segnata dalla sventura, che le si era fatta ospite ingrata. La mia povera storia non è se non una sequela di dolori; non ho a registrare che morti; i Cairoli furono tutti meteore luminose; vennero, sparirono!

Quando nacque la povera Emilia, Adelaide era stata colpita da un forte spavento; la creaturina infelice dovea portarne le fatali conseguenze per tutta la vita; uscì dal seno materno contratta dall'epilessia! Vi lascio immaginare se Adelaide ne avesse strazio, e quali cure amorose a lei prodigasse, che la mente non avea splendida per intelligenza, ma la compensava il cuore, ricco di generosi sentimenti. Era dessa la conti nua preoccupazione della madre, la quale di spesso pensava: E se avvenisse che io morissi, che sarebbe d' Emilia? Oh, io pregherei tanto Iddio, che in quel dì ella fosse tolta meco! S'era già fatta donna, quando infierendo il triste malore, si ridusse al mal punto, in cui più non c'era speranza … — In quegli ultimi momenti, l'intelligenza dell'Emilia si fe'chiara: comprese che per lei la era finita, nè disperò, ma più amante che pria de'cari suoi, tutti gl'invitò intorno al suo letto: Venite, venite a me, ond'io possa ancora godere della vostra dolce compagnia, disse loro con accento earezzevole; e perchè non avessero a credere che il male, come era infatti, l'aggravasse maggiormente, li costrinse a prendere con lei un rinfresco; ma l'ora fatale scoccò … e la meschina, suffusa il volto dell'ultima scintilla della vita, alzossi a sedere in sul letto, chiamò a sè la madre, e gettandole le scarne braccia al collo, con un fare tutto fanciullesco, cominciò: Mamma, un dì commettendo una disubbidienza, mi posi in ascolto alla porta della tua camera, e t'intesi dire: Oh, vorrei morire allor che Emilia morrà … mamma, io ho compiuta la mia giornata … vieni dunque, mi accompagna …

I parenti guardavansi l' un l'altro commossi … e la madre … che potea rispondere la madre? Emilia le sorrise del sorriso degli angeli, e deponendo sulla sua mano l'ultimo bacio: Resta pe'miei fratelli, le disse, resta, e cadde sul guanciale … era morta!

V.

Non mi attento descrivere l'angoscia materna; il cuore di Adelaide era diviso fra le due ch' erano morte, e que'cari che rimanevano; chi avrebbe vinto? Chiuse nell'intimo suo il dolore: sì fe' una reliligione delle ultime parole di Emilia, e visse …

Ma come nulla dovesse essere la sventura di rimaner vedova del più adorato in fra' mariti, di perdere due figlie, un'altro fiero colpo l'attendeva. Rachele, sposa e madre felice, nel dare alla luce il suo terzo figliuolo, le spirava in fra le braccia. All'egregia giovane non dolse del suo partire, sibbene del lasciare i figliuoli, che alla madre affidò quale deposito sacro. Ernesta, la sorella di Adelaide, anch'ella passata a marito, tenera sempre di lei, questa fiata cercò di consolarla accordando la sua cetra (era poetessa gentile) ad un'armonia, che l'anima afflitta accolse quale eco lamentosa di loro, che più non erano … Nell'affetto de'congiunti carissimi ritemprandosi, ebbe la forza di resistere alla nuova sciagura: intuiva che avrebbe dovuto prepararsi a maggiori infortuii. Infatti, chi amava Italia, e per il suo bene segretamente s'adoperava, sapeva quali cose fra breve si sarebbero sviluppate. Benedetto ed Ernesto, segnati dalla polizia austriaca, aveano dovuto, per non essere catturati, riparare in Piemonte. Non estranei a'tentativi del 1853, quando la rivolta credevano imminente, essi erano al Ticino pronti al loro dovere; ma quella abortì per poca concordia, poca previdenza, o forse. per immaturità di consiglio; scuorati, ritornarono alla terra d'esilio. Alquanto prima del 1859, ripatriarono, approffittando dell'amnistia; avrebbero lavorato di più nel proprio paese. Ma arrivò finalmente l'epoca cotanto invocata; i Cairoli furono di nuovo costretti ad emigrare, per ò questa volta fu per prendere le armi, ed arruolarsi ne'Cacciatori delle Alpi.

In questo povero scritto, ove non vo'narrare che della vita intima, e de'dolori della nostra eroina, mi tacqui riguardo alla politica; in altro mio lavoretto su'fratelli Cairoli, descrissi i fatti accaduti nel decennio, in cui si compì il nostro riscatto, pronunciando la mia opinione; ma in queste pagine, ove disfogo il cuore soltanto, mi sia permesso di non accennare alla politica, che per quel tanto che me ne può occorrere. Via discorro adunque sopra ogni avvenimento, e non dirò che di Ernesto caduto presso Biumo Inferiore, il 26 maggio, nello scontro ch'ebbero i volontarii cogli Austriaci; scontro glorioso, segnato a caratteri d'oro nel libro della storia. Povero Ernesto, non aveva che cinque lustri: era dottore in legge; studioso, buono, melanconico come chi ha scienza del proprio destino, ardente della madre, e della patria; e morì benedicendo all' una e all'altra. Quando le giunse questa fatale notizia, Adelaide trovavasi a Nizza presso diletti parenti. Infelice, credette impazzirne dal dolore! Aveva adempiuto al suo dovere di cittadina: la rimprovereremmo noi se ora piange? Nè ebbe più pace finchè il eadavere del suo Ernesto non ottenne. onde poterlo collocare appresso del padre, della sorella, e quindi su quelle tombe versare la piena del suo affanno. La città di Varese la fe'sua concittadina; ma che può l'omaggio anche di un'intera popolazione sul cuor d'una madre, ferito a morte, dacchè sia stata orbata d'un amato figliuolo, ch'era la sua compiacenza, il suo orgoglio!

Al campo rimanevano ancora Benedetto ed Enrico; sarebbero quelli ritornati al suo amplesso? avrebbe voluto scrivere ad essi: Oh, venite, venite, vostra madre non può sopportare il pen siero che voi ad ogni istante correte peric olo di morte … ma. e il dovere? lotta tremenda … il dovere vinse.

Finì la guerra col patto di Villafranca; riederono i prodi alle loro case: gli scampati alle terribili battaglie … e Benedetto ed Enrico, mesti, desolati, chè le cose non erano procedute certamente secondo i loro desiderii, volarono ad abbracciare la madre. Piansero insieme sulla fossa d'Ernesto, ma le lagrime sparse li resero più tenaci nel volere la patria libera tutta dall'Alpi al Lilibeo; libera e grande!

Scorsero alcuni mesi; i Cairoli studiavano, chè sapevano come non debbasi un istante riposare nel servire il proprio paese: oggi coll'azione, domani col pensiero; guai a chi dice: ieri ho lavorato, oggi riposo …non è quello degno figlio d'Italia!

Ma la Sicilia insorgeva; il Generale Garibaldi, dicevasi, sarebbe andato ad aiutare la rivoluzione. Un dì Benedetto chiede alla madre di assentarsi per un certo lasso di tempo.

— Ove ti rechi?

— Nelle nostre campagne sul Lago Maggiore …

Ella indovina quasi il di lui pensiero; però tace, sospira, e gli dà l'addio di partenza.

Pochi giorni di poi, la verità apparisce chiara; Benedetto trovavasi presso il Generale Garibaldi a Genova, egli erasi confidato con Luigi, che, appartenente all'esercito regolare, non lo avrebbe potuto seguire: correano lettere tra'due fratelli; un dì la madre, già caduta in sospetto, ne sorprese una, che lesse … e scoprì il pietoso inganno … Ma, e perchè dubitare di sua madre? si prepara a raggiungerlo, e seco conduce Enrico, che già avendo subdorato della generosa spedizione, le avea dichiarato che ne avrebbe senza dubbio preso parte; Luigi li accompagnò. Allorchè Adelaide s'incontrò in Benedetto, in tuono di dolce rimprovero gli disse:

— Non mi stimi adun que, se in me non confidasti!

Quel devoto figliuolo strinse la di lei mano al cuore, e non potè profferire accento; troppo era commosso, troppo lo trasportava quel miracolo di madre così potente nell'amare, tanto grande nel sagrificio!

— Perdonami, poscia le disse; tu eri malata, temetti di affliggerti per la tua sì affranta salute; ho mentito, soffersi, ma fu per amore di te, perdonami. Se tu non venivi, sarei io volato a'tuoi piedi, tutto confidandomi nella tua forza d'animo.

Scossa per tanto contrasto di emozioni, tristi e soavi in un tempo, la sorprese uno de'suoi attacchi nervosi fierissimi; invano lo combatteva, bisognava cedesse alla violenza del fatale malore. Ella ne era disperata pe'cari figli suoi, a cui molto avrebbe costato lasciarla, così sofferente. La madre sola nella sua stanza, Iddio soltanto a testimonio del suo profondo dolore, si abbandonava in braccio a questo senza ritrosia, e piangeva, disperatamente piangeva; invano si avrebbe allora cercato in lei la forte cittadina; così esasperava il suo stato. Ma un dispaccio pervenuto al Generale dalla Sicilia, il quale dicea soffocata la rivoluzione, sospendeva per allora la partenza …. I figli ne la avvertono …. Dio, Dio …. perdona Italia, povera Sicilia mia, perdona …. l'infelice donna, congiunse le tremanti mani, e gli occhi umidi di pianto alzò al cielo; in quello sguardo c'era tale espressione di riconoscenza, tale inno di ringraziamento, tale fervida prece, che l'angelo incaricato di recare a Dio i voti de'mortali, raccolse compunto il suo sotto l'ali, e l'offerse con giubilo al Signore!

Quel contr'ordine le avea arrecato la vita; potè lasciare il letto e portarsi a salutare il generale Garibaldi, che aveva esternato la brama di vederla, alla Villa Spinola. Nel 48 prima ch'egli andasse a Roma a compiervi quelle memorabili giornate, che saranno eternamente ricordate ne'fasti de'popoli, era stato in sua casa; si rivedevano dopo dodici anni, e, quanti avvenimenti infrattanto! Italia era, in parte, redenta; ma egli non aveva più la sua fida compagna, la generosa Anita; ella piangeva su quattro fosse; possiamo immaginarci qual sarà stata la loro stretta di mano, quale il colloquio …

Luigi, esternò al prode nizzardo, il suo fervido desìo di far anch'egli parte della spedizione, che non era se non aggiornata. Garibaldi gli ricordò di non essere padrone della sua volontà; quegli abbassò il capo, apparentemente convinto; ma gli rimase nell' anima un profondo avvilimento. Pareva a lui gli avessero detto: Di te, giovinetto, che farne?

Con Enrico e Luigi, ritornò Adelaide al focolare domestico; Benedetto si trattenne presso il suo maestro, quindi, anch'esso si recò a Pavia, poscia con Enrico ritornò a Genova, d'onde a Quarto co'mille, s'imbarcarono.

Da Marsala a Calatafimi, lo sappiamo, fu una marcia trionfale. Ogni madre di que'mille, che furono compagni all'eroe di Montevideo, trepidava per la vita del suo diletto; però l'anima accoglieva con santissimo entusiasmo, la nuova delle vittorie, che coronavano gli sforzi di que'gagliardi. Sono alle porte di Palermo; già entrano vincitori in quella città … però ogni trionfo costa sangue, e costa le vite più generose e belle. A Porta Termini, Benedetto cade colpito alla tibia della gamba sinistra; Enrico vede l'amato fratello immerso nel proprio sangue: lo crede esanime; una vertigine gli sale al capo … un desìo di vendicarlo sorprende quell'anima degna de'tempi di Grecia antica e di Roma … E il giovinetto, invaso dal genio della guerra, opera miracoli … ma, oimè, una palla lo colpisce al cranio, ed ei pure cade, ma fra le braccia del suo duce, che lo baciava sul fronte, e lo nominava maggiore dello Stato Maggiore.

Allorquando giunse il tristissimo annunzio alla madre, questa eletta martire, restò sbigottita per tanta iattura. Come largamente soddisfaceva al suo voto di servire alla patria!

Luigi, ch'era rimasto al suo fianco, (Giovanni trovavasi nell'Accademia Militare in Torino), appena intese che i fratelli non poteano più prestare il loro servigio alla rivoluzione, risolutamente disse alla madre:

— Ora non mi vieterai più di partire; lo sai, il campo non può rimanere diserto d'un Cairoli …

— E tua madre, e la tua promessa sposa?

— Mi ameranno di più questi miei angioli, allorchè avrò adempiuto al mio dovere di cittadino!

V'hanno certe virtù, certi eroismi, certe nobili azioni, che lasciano l'anima sublimemente attonita: ciò accadde ad Adelaide. Il suo Luigi era un dolce giovinetto, tutto poesia, amore, scienza; di debile salute, e'non avea tempra di soldato; il suo pallido volto, il suo mesto sorriso, i suoi grand'occhi neri, che tramandavano onde di luce, la luce che illuminava la sua anima, tutta informata a melanconici pensieri, sembravano averlo sortito a tutt'altro uffizio; ma e'vuole imporre alla sua delicata natura, ed essere prode come i fratelli suoi. Questo generoso pensiero lesse Adelaide sulla corrugata fronte del suo Luigino: dirgli non voglio, sarebbe stato lo stesso che gettargli in faccia la sua sentenza di fiacchezza, e il poveretto ne sarebbe morto di avvilimento. Non si attentò quindi di rimuoverlo da quel santo proposito, ed egli felice pel suo acconsentimento, partì.

— A lei, dalle tu l'addio …

E fu l'ultimo!

VI.

La gentile fanciulla de'suoi pensieri, la di lui promessa sposa, poche ore di poi, si recava alla casa della nostra Adelaide, di cui era lontana parente Non immaginava mai il terribile annuncio che l'attendeva; essa vi andava col cuore pieno di soave emozione: per lei vedere Luigi, stringergli la mano, era tutta la sua felicità. Dopo che alla madre die'il suo bacio, girò gli occhi intorno: e … Luigi, chiese tremante … Adelaide impallidì, nè rispose; quindi, imponendo a sè stessa e tutto sperando dalla virtù di quella nobile donzella, le disse: Partito! Un grido di disperato dolore uscì dall'intimo di quella creatura … e si gettò fra le braccia di Adelaide; piansero insieme, insieme confusero le lagrime … presaghe che più non lo avrebbero veduto … — Nè s'ingannavano le infelici!

Avvertii che il giovinetto non era di fisico robusto. Poco abituato alle fatiche, le lunghe marcie, e i disagi della vita militare, lo sfiacchirono. Presto, ahi, troppo presto, le sue povere forze furono esaurite, e morì di malattia acuta sotto il bel cielo di Napoli.

Ad Adelaide in breve ritornarono un cadavere, e due feriti… Non è possibile che umana penna si attenti di offrire un'idea di quel tremendo istante in cui le furono restituiti que'suoi tre, de' quali non sapeva se più compiangere i due feriti o il povero morto…. Alle madri lasciamo immaginare il suo strazio; mi parrebbe profanazione il volerlo io descrivere…

Pietosa si pose attorno ai due infelici, e la cura del suo Luigi, nascose nell'intimo suo; non potea lasciar campo al proprio dolore, se voleva badare agl'infermi suoi cari, e addolcir i lor patimenti col balsamo del suo affetto.

Due anni occorsero ad Enrico, onde la sua ferita si rimarginasse. Possiamo enumerare i suoi spasimi? pure, quell'anima gagliarda, li sopportò col sorriso de'forti sul labbro, e quel tempo, che altri il fiero martoro avrebbe fatto consumare in lamentevoli lai, ei lo consacrò a terminare i suoi severi studì di medicina, e fu dottore. Giovani, imparate come volendo, si puote raggiungere il sublime della forza morale.

A Benedetto toccò sorte peggiore; egli non dovea di quella crudele ferita guarire più mai; sarebbe rimasto invalido per tutta la vita. Anch'egli sofferse inenarrabili torture; ebbe lunga, penosa agonia, tanto più tormentosa, imperocchè la di lui natura soverchiante di forza fisica, avesse bisogno di moto. Avvezzo a vivere dalla prima giovinezza fra le agitazioni d'una vita piena di emozioni, ieri cospiratore, oggi soldato, domani uomo politico, i molti mesi durati nell' infermità, doveano essere per esso, mesi di reale supplizio… Ma l'angelo suo eragli allato ad allievargli, per quanto era dato alla sua potenza d'amore, le pene; egli per lei soffocava i suoi lamenti; ella per lui reprimeva l'ambascia, che pur la struggeva, in vederlo così languire.

Mai però che que'martiri sentissero scemare il grand'amore per la patria; mai che una parola di rammarico uscisse da'loro labbri! Se a Italia guardavano, già donna e padrona di sè, benedicevano a'tormenti, a cui erano crudamente condannati; il frutto di libertà, che a costo del sangue la fata de'loro pensieri avea colto, li ricompensava bastantemente.

Però le torture della madre niuno le conosceva; in qual guisa poter misurare l'immensità del suo soffrire, s'ella accortamente nascondeva sotto un sorriso di pietosa menzogna, il suo accuoramento? Alle tombe di Carlo, di Rachele, di Ernesto, Luigi, andava la poveretta a disfogare la sua ambascia, e le carissime ombre invocava, supplicandole di darle forza al patire. Un'altra mestissima creatura in bruna vesta, talvolta l'accompagnava; questa andava a deporre serti di viole alla lapide, che un caro nome portava scolpito, e, disciogliendosi in lagrime, colà sfogliava la sua corona di sposa… — L'anima di Luigi alitava forse intorno alla bionda e fulgente chioma, e la sfiorava di un castissimo bacio!

Adelaide, se ebbe un'istante di tregua, si fu quando il Generale Garibaldi venne a visitarla nell' anno 1862. Quelle due nobili anime, erano fatte per intendersi; erano fiamme di un sol fuoco: vicine godevano l'una dell'altra. Le idee, da cui erano inspirate, aveano una sola sorgente, miravano ad uno scopo soltanto. Guardando all'avvenire, nel lontano, lontano orizzonte, ei dimenticavano il fosco passato. Ricordava egli la sua Anita, ma per narrarne i giorni pochi spesi virtuosamente a prò di una santa causa; ella raccontava de'figli… la febbre dell'entusiasmo li sorprendeva. Piangevano, ma non di dolore, no; erano paghi: piangevano come piangono i veri eroi!

Ma vi fu altra spada che ferì il cuore della nostra donna de'dolori; quando Garibaldi volea Venezia, ed ebbimo i moti di Sarnico, Enrico era con lui; quando egli voleva Roma, ed ebbimo la tragedia d'Aspromonte, Enrico trovavasi al suo fianco; era il figlio dell'anima sua, l' ombra del suo corpo, allorchè l'Apostolo nizzardo avesse a compiere azione generosa in prò della patria. La di lui devozione all'eroe, all'Italia, scontò questa volta colla prigione nel forte delle Tenaglie. A delaide aveva Benedetto infermo, Enrico prigioniero; il solo Giovanni, bello, gentile come un pensiero d'amore, la consolava… pure, un triste presentimento turbavala; le parea che anche quel suo diletto fosse predestinato al martirio, e la vaga testa premeva al seno, e la copriva di baci, spesso innondandola di lagrime; avrebbe voluto preservarla dal fulmine col proprio corpo!

Dicemmo che compagna alla sua sventura aveva la giovinetta, promessa sposa al suo Luigi. Essa vedea la meschinella struggersi, e desiava riparare al suo dissolvimento; la scorgeva incamminarsi veloce alla tomba, volea ad ogni costo ritrarnela. Ma, Dio buono, come? Oh, Luigi, tu che tanto l'amavi, inspirami! Le sorrise un'idea, che accolse speranzosa; renderle necessaria la vita, col farla madre; pe'figli suoi ella vorrebbe vivere! ma ogni proposta di matrimonio la buona fanciulla avea fermamente respinta; intendeva serbarsi fida nella sua gramaglia, allo sposo dell'anima sua. Però, chi il cuore le avea proposto, era schivo di sagrificare a quella religione della tomba, cui tutta la vergine s'immolava. Ei voleva il cuore di lei interamente, non dividerlo con un morto; ma di quel cuore, ella non poteva più disporre…

Adelaide aveva scorto un giovine che nel segreto ardea di purissima fiamma per la sua cara; parlandogli aveva compreso, ch'ei l'amava appunto per quel suo dolore, che non avea mutato un dì, un'ora, un istante. E lo interrogò: Ditemi, facendola vostra, le proibireste voi quel culto, ch'è la sua vita?

— No, con essa m'inginocchierei su quella tomba, e con le sue mescerei le mie lagrime…

Adelaide gli strinse la mano commossa: la figlia del suo cuore non sarebbe morta.

E la chiamò a sè, ed abbriacciandola, le disse dell'amore del giovane; ella conforme il consueto, sorrise mestamente, e le sue labbra erano per pronunciare il diniego; ma la madre affettuosamente le parlò del rispetto che verrebbe usato all'amore dell' anima sua; e ad assicurarla sorvenne il gentile garzone, che a mani giunte, guardandola di quello sguardo, che tutto dice, le giurò fede alla tomba di lui, venerazione, culto al pari di lei… La giovinetta non potè a meno di rimanere stupita a quel linguaggio così inusato in amatore; non disse sì, ma non ripetè il rifiuto … Adelaide vide sicura l'unione tanto invocata!

E fu così; quella giovinetta è ora sposa, e madre; non dimentica del suo Luigi, che invoca come il genio benefico, custode de'suoi giorni, ella non disama il marito, che fedele alla promessa, non le contrasta quel purissimo affetto; così casto, che non può essere compreso da chi non intende il sublime della virtù. I figli sono la gioia della sua vita; al primo, impose il nome di lui; e la sua bellezza è cosa tanto di cielo, che il diresti l'incarnazione di quel pensiero, che l'anima della madre informa, plasmandola a quel delicato sentimento, che la fa angelo fra le donne. Il suo compagno l'ama con passione, con trasporto; e unione più bella io mai non vidi: bellezza, amore, virtù benedicono, e intrecciano ghirlande di fiori non perituri su que'giovani capi!

Oh, Adelaide, tu, povera mia, lo volesti; ella vive, e gode in terra le gioie del cielo; compisti il voto del tuo Luigi, la rendesti felice!

VII.

Ci avviciniamo ad altre tristissime catastrofi: dobbiamo affrettarci; il compito sarebbe lungo, ma lo spazio concedutoci non è tale da consentire che la penna liberamente segua gli sfoghi del cuore. Affrettiamoci adunque, il tema doloroso incalza, e l'anima mia è infranta, governata da un genio melanconico, come lo è di continuo. Il richiamare alla memoria tristi fatti, quando gli eroi dell'azione avete prediletti, amati, oh, è pure uno strazio orrendo; il cuore palpitante, detta le sue immagini sanguinando!

Nella guerra del 1866 per cui Italia ebbe la Venezia, combatterono Enrico e Benedetto con Garibaldi, Giovanni nell' esercito regolare. I tre fratelli tornarono alla dolce magione illesi nel corpo, non così nell'anima, chè gli avvenimenti troppo li aveano conturbati, nè le cose erano seguite quali le aveano sognate; ma era scritto che Adelaide dovesse veder segnate le epoche del risorgimento italiano, con vittime tolte alla di lei famiglia.

Ernesta, sua sorella, avea due giovinetti figli, i quali vollero seguire l'esempio de'cugini, che per essi erano maestri d'ogni più generosa dottrina. Marco, che quattro lustri non avea compiuti, bello di form e d'anima, partiva nel 66 colla legione garibaldina degli studenti di Torino. Affranto il giovincello, dopo l'aspra lotta in su' monti del Tirolo, sostenuta da quelle schiere infelici, eppur tanto eroiche, riedeva alla madre, ma oh Dio! per darle il bacio estremo, e morire… Morì vestito della rossa camicia, col sorriso del martire sulle labbra. Il cugino Giovanni, che lo amava intensamente, dal Reggimento ove trovavasi, senza nemmanco attendere il regolare permesso, tosto che ne ebbe l'annuncio, accorse… troppo tardi però; non potè deporre il suo bacio ardente che sulla gelida fronte del poveretto! La madre era assistita dalla nostra Adelaide, la quale, sebbene avesse il cuore spezzato da mille angosce, pure trovava tanto di forza da soccorrere all'infelice Ernesta. Questa da molto tempo non avea ricevuto notizia del figlio maggiore Benedetto, il quale esasi battuto nella sciagurata battaglia di Custoza; allora che era rimasta orba del suo Marco, un lampo di luce le attraversò la mente, di fosca luce, che le rivelò una tremenda verità: Morto, anch'esso morto! esclamò, lo sento, ecco perchè non mi scrive…

E non s'ingannava la misera; suo figlio avea infatti cessato di vivere da tre mesi nell'Ospital militare di Verona, in seguito alla ferita ricevuta nella coscia destra, da una palla di fucile, che gliela trapassava … Infelice! morire lunge da'suoi cari, prigioniere… quanto, oh, quanto avrà sofferto lo sventurato!

Giovanni, non posso non raccontare quest' episodio, che dimostra quale anima gentile vantassero i fratelli Cairoli, tutta informata alla santa scuola di carità e d'amore, a cui la madre li avea educati; Giovanni, che non lasciava senza un suo fiore e una sua lagrima la tomba di Marco, onde appagare il vivo desiderio della zia, d'avere presso di sè il corpo di Benedetto, si recò a Verona. A questi veniva data sepoltura con altri cinque valorosi compagni di armi e d'accademia, nel camposanto civile; si recò alla fossa, e, grande d'animo come era grande la pietà che lo ispirava, procedè alla verifica de'cadaveri; ma, amara disillusione, il verme roditore della carne inanimata, li avea sformati; impossibile riconoscere l'amato volto del cugino. Il filosofo die'forza al parente; si ricopersero quelle ossa informi… e… Dio, che recare alla madre? Una lagrima cocente rigavagli il volto: la disperazione del nulla stava per sorprenderlo; ma la sua lagrima cadde sopra un fiore, che spontaneamente era cresciuto su quella zolla…. lo strappò, appressandolo alle aride labbra…. e quella reliquia portò alla madre…

Questa però, che in poco volger di tempo avea veduti rapirsi tre figlie, il marito, e due figli, sentissi stanca; ebbe desìo di congiungersi alle anime benedette, che aveva in cielo; reclinò il capo, e più non fu.

Scorriamo via da questa ten ebra di morte; ma per sospingerci veloci in lande più tenebrose.

I Cairoli fremevano amor di patria; Roma tardava a divenire capitale d'Italia: affrettiamo i voti della nazione, dissero, ed Enrico e Giovanni furono gli eroi di Villagloria. Enrico, generosamente spirava l'anima, in un empito di santissima ira contro i vigliacchi, che a lui e il fratello feriti, moribondi, fecero oltraggio colle baionette; spirò da grande: sciolto il problema, mormorò, e rimase. Giovanni venne tradotto prigioniero a Roma, quindi, reso a libertà, risalutò il tetto paterno, ma, ahi! per finirvi lentamente consumato, imperocchè un'organo vitale gli fosse rimasto leso nelle ferite ricevute. A lungo nascose il malore che lo travagliava; però un giorno venne, in cui trovossi costretto di tutto svelare; fu per mesi infermo. La di lui agonia, è stata terribile agonia della madre. E l'ora fatale scoccò; il giovane mesto ne'dì di gioia, fortissimo ne'giorni di prova, strinse la mano al fratello, e, Roma, gli disse; guardò alla madre….. raccolse tutte le sue forze, e le sorrise, mormorando un detto d'amore; da lei non distaccando i suoi occhi, passò…

Se l'anima della madre non seguì a volo quella del suo Giovanni, fu miracolo dell'amore, che la legava al suo Benedetto, che unico, oramai le restava.

Un'anno dopo Roma era degli italiani; Enrico, Giovanni, e i nobilissimi compagni, ombre beate, strette in fraterno abbraccio, la cup ola di S˙ Pietro visitarono, e ivi sciolsero un inno di vittoria; il sangue loro aveva fruttato.

Ma… e la madre? Avea esaurita ogni lena… lo diceva: Io non posso più vivere, e, se un bacio di Benedetto la riattaccava alla vita per poco, poi sentivasi trascinata alla tomba, da una forza irresistibile. Pure, quest'eroica donna, se come madre avea il cuore trafitto da mille acute spade, se una corona di spine le inghirlandava il capo, se una pesantissima croce le gravava gli omeri, come cittadina non ismentì mai sè stessa, e il figlio che, taluna volta avrebbe desiato riposare fra le sue braccia, onde continuamente versare sulle di lei piaghe il balsamo del suo affetto, incitava con parole auguste al suo dovere, ripetendogli: Oh, mio figliuolo, l'obbligo di cittadino innanzi tutto!

Io lo dico: v'hanno certe virtù, così sublimi, che non sembrano vere al volgare de gli uomini; e quand'essi ciechi le miscredono, inventano turpemente basse passioni, onde bestemmiare alla divina natura di certi esseri privilegiati. La Cairoli si accusò di essere stata più cittadina che madre… si accusò di ambire la corona d'alloro, che immortale le poserà sul capo, quando nulla cura la premea di se, ma tutta dell'Italia, solo obbiettivo d'ogni sua aspirazione, d'ogni sagrificio suo; quando il dolore di vedersi orbata di quasi tutte le gemme del suo serto nuziale, la uccise prima del tempo… — Forse sulla sua tomba, l'invidia, il livido fantasma che gli uomini divide, abbagliato della pura luce che quella tramanda, avrà abbassate le armi, e verità, vittoriosa, avrà spiegato i vanni, le azioni di lei proclamando grandi quali furono, e legandole a'posteri.

Poveretta, non era più che l'ombra di sè stessa: la pelle informava le ossa; s'era cons unta, non pascendosi che di lagrime; del cibo del corpo più non vivendo, ma di quello dell'anima! Veder la sua casa, che un dì di tante care voci risu onava, ora deserta; vedersi sola, sola nel labirinto delle stanze, che furono un giorno il tempio del suo amore, gettavala in un orribile sconforto. Riedeva a un fiato di vita, allorquando il suo Benedetto a lei veniva… Oh, allora, me lo scriveva, i soavi colloquii coll'amato figliuolo, che mi consolano nella mia solitudine, mi vincolano all'esistenza, che nuovamente per esso mi sorride; e per lui vorrei vivere ancora, e lungamente, ma per lui… per lui soltanto!

Di ogni oggetto che a'suoi morti appartenesse, facevasi reliquia; se ne circondava, imperocchè per essa non erano certo cose inanimate; ma come all'archeologo le antiche memorie narrano delle epoche alle nostre anteriori, così a lei quegli oggetti rammentavano ognuno i suoi cari. Pareale allor che li contemplava di vedere i figli quasi per incanto rinascere; parlava ad essi un linguaggio d'amore: era intesa e ne ave va la dolce risposta; non erano che i palpiti del suo cuore, non erano se non i trasporti della sua mente malata di dolore; ma que'sublimi deliri, le faceano vivere momenti deliziosi. E al tempio si recava, il tabernacolo d'ogni sua fede… Vedi: una, due, quattro, sei lapidi… un numero infinito; Carlo, Rachele, Ernesto, Luigi, Giovanni…(1) Emilia e Carolina sono sepolte nel Cimitero di Pavia; quando mori Carolina il sepolereto in Gropello non esisteva; aliorche mori Emilia, la Polizia Austriaca proibi il trasporto del cadavere in Piemonte. Oh Dio! il mio Giovanni: tu, il tesoro dell'anima mia… e l'infelice piangeva a struggersi … Ma quel tempio s'irradiava di una luce celeste; s'udiva lontana una melodia… melodia che quaggiù non s'intese mai… e una voce fra quella diceva: Non disperare: presto sarai con noi!

Oh, l'estasi di una madre, chi la può descrivere? non una penna umana; l'angelo che raccoglie le lagrime di chi piange, potrebbe solo narrarla!

VIII.

Non sopravvisse alla morte di Giovanni che pochi mesi; ebbe un dì in cui le fu consentito di gioire ancora; e fu quello in cui Italia fe' sventolare il suo vessillo in Campidoglio; ma quindi, come se la sua missione fosse stata compiuta, accennava ad un affievolimento, che d'ora in ora cresceva. Attiva sempre; operosa benefattrice, a tutte cose belle a cui la si fosse invitata, ella aderiva con riconoscenza. Le sue ricchezze erano per la patria, per il povero… Difatti, il patrimonio della sua famiglia è ora molto diminuito, chè la benedetta si permetteva di essere prodiga, pur di assecondare la propria brama di soccorrere alla miseria. Amava i fanciulli, e se un figlio del figlio suo avesse potuto baciare, forse, non sarebbe morta sì presto! Nel dì dell' Epifania, in cui è l'uso regalare i bimbi di balocchi, ella soleva riempirne la propria carrozza, e percorrere la città, passando dal palazzo al tugurio, e ogni fantolino che in quello o in questo trovava, facendo felice del suo dono, e avendo un sorriso di gratitudine dalle buone madri. Si conoscono i suoi beneficî agli asili infantili di molte città d'Italia, a cui pensò pur anco nel suo testamento. E testò da donna saggia, lasciando un documento dell'alto suo senno; mostrossi tenera anco in questo del bene del proprio paese. Oh, il suo cuore acceso di santa carità, mandò fiamme d'amore fino allo estremo di sua vita.

Esausta di forza fisica, lo dissi, più non si reggea che per virtù della forza morale. Un dì il suo Benedetto le ritornò alquanto malandato in salute; le di lui ferite gli si erano riaperte; ella vegliò al suo capezzale giorno e notte… con ans ia orribile… pensando: Quest'unico mio, che tanto sperava mi avesse a chiudere gli occhi — lo dovrò come gli altri comporre per entro la bara? Dio, Dio, sarebbe troppo!

Oh, ella ben fu attossicata di aceto e di fiele, e le venne crudamente aperto il costato con aspra lancia, e ribaditi i chiodi nelle sanguinolenti piaghe!

Però Dio non permise l'ultimo stazio; ebbe di lei misericordia: Benedetto migliorò; ma l'infelice avea disseccata la sorgente della vita: sentiva la morte vicina, pure non la temeva; come il poeta inglese forse la salutava, messaggiera del Signore.

Trovavasi a Pavia; desiderò rivedere Gropello; vi giunse, e come le deboli gambe la reggevano, si condusse al sepolcreto: ivi molto pianse, meditò, fervorosamente pregò… poscia… prese congedo… e, per sempre!

Non per sempre; vi ritornò cadavere!

Restituitasi in città, fu costretta porsi a letto; la nevralgia allo stomaco, malattia che ognora la tormentò, si era fatta negli ultimi giorni d'un'insistenza allarmante. Troppo bene comprendevasi come quell'affranto corpo, avrebbe dovuto cedere… Eppure dal suo letto d'ambagi, vivea ancora della vita dell'anima, del pensiero… Pochi, pochissimi giorni prima che la suprema agonia la sorprendesse, mi ha scritto, e… oh, vedi sua potenza di carità, volle ingannarmi pietosamente e dirmi, che il suo malore era così leggiero, che in breve mi avrebbe scritto del suo ricupero… ma ahi, non mi venne se non l'annuncio della sua morte!

Fino all'ultim'ora seppe di sè; un dì di tutti quelli che aveva cari ricordò il nome; le si chiese se un sacerdote avrebbe desiderato al suo letto, il sacerdote che aveva allora allora rammentato… fermamente, rispose: Ne ho io di bisogno?

Oh, la fu una martire, la cui vita è stato un continuo sagrificio; non si smentì nemmeno sul letto di morte; la sua fede era la pura emanazione della sua anima; fuggì le tenebre, s'inabissò nella luce…

La promessa sposa del suo Luigi, l' assistette con affetto di figlia, la vegliò Benedetto… Amore, amore sviscerato del figlio, tratteneva ognora la bell'anima al passaggio… chiudeva gli occhi, pareva per sempre; Benedetto disperatamente gridava: Oh, madre, non mi lasciare! quella gli riapriva; l'occhio ch'erasi fatto vitrco, mandava un baleno di luce: Son quì, ancora con te, sempre con te, e premeva le di lui mani fra le sue, gelide… aggrampite…

Ma venne l'ora… e il suo sguardo, la stretta della sua mano, il suo sospiro, ancora caldo, infuocato, alito amoroso, furono gli ultimi… la fiammella s'estinse… o meglio, si congiunse al fuoco eterno.

Di lei che resta? il nome, il ricordo delle sue azioni, l'esempio della sua vita; che ogni donna s'incida nel cuore la memoria di lei, e cresca alle sua scuola, ma dre e cittadina: degna d'innalzare l'ara della famiglia, sulla quale sagrificare a prò dell'Umanità.

Benedetto abita in fra le tombe; colà io lo vidi, e lo contemplai commossa nel silenzio di quel sepolcreto, consacrato da tanti affetti e da tanto lutto. Diserto d'ogni suo caro, sta fra' morti, come se quelli vivessero; infelice, possa la tua virtù sorreggerti, nè il dolore t'uccida!

Oh, vivi, e per Italia tua, vivi; a te la vita è sagrificio: compilo, e siati di conforto la stima, l'amore, che l'universale ti rende!

Venezia ottobre 1871.

Gualberta Alaíde Beccari.

Innanzi di chiudere questa patriottica e commovente raccolta di martiri della Libertà, altissimo dovere di giustizia, e bisogno del cuore, non è forse l'accennare alla sua origine ed al redentore di essa?

Non è forse al secolare martirio del Popolo, da cui ebbe principio, ahi! la tarda rivendicazione di legittimi e sacrosanti diritti, da brutali pregiudizii, per tant'anni sconosciuti e conculcati, che l'umanità va oggidi debitrice dell'evangelico precetto: Libertà, uguaglianza, fratellanza?

Non è il Popolo, quell'essere collettivo, in cui si compendiano tutti gli strazii e i dolori patiti, in ogni tempo ed in ogni luogo, dai Martiri tutti della Indipendenza?

Dalla ritirata sul monte Aventino della oppressa plebe Romana, alla morte di Virginia ed al massacro dei Gracchi; sempre dal sangue popolare ebbe battesimo la Libertà.

Dagli eccessi, dai vessatorii tributi e tasse del medio evo, dall'obbrobrio dei diritti feudali, sotto a cui gemerono e soggiacquero per secoli le popolazioni, sorse la rivendicazione dei diritti dell'uomo. Jacques Bonhomme stanco in fine di cospargere dei suoi sudori un suolo ingrato, onde recarne il frutto ad una classe privilegiata ed in cambio riceverne persecuzioni, esazioni ed oltraggi, dalla immensità stessa della propria sventura attinge la virtù di ribellione, soffocata bensi dalla forza brutale, ma col suo sangue la Jacquerie segna la via a civili franchigie. Scoppia in fine la rivoluzione del 1793, dalle ire a lungo represse, dai fremiti, dalle miserie di un popolo, ebbro di vendetta.

E quante lagrime, quanto sangue popolare sparso per la Libertà, raccolse l'Italica terra dal 1815 ai di nostri, in cui cacciato lo straniero dal patrio suolo e raggiun la la meta dai Martiri nostri iniziata, un pugno di generosi, capitanati dall'Eroe dei due mondi, dimentico, magnanimo, dell'esser stato due volte dal governo di Francia combattuto a Roma ed a Mentana, e solo mirando alla sublime missione assunta ed alla solidarietà dei Popoli, offri il suo sangue e pose a cimento la vita per la Indipendenza della patria di Lafayette.

Dalla mano della tirannide cadde il seme dell'albero Libertà, nelle lagrime e nel sang ue del Popolo esso germogliò e sopra mucchi di vittime popolari pose salde radici. — È ormai tempo che della sua ombra ricopra la terra, e stenda i suoi rami la gigantesca pianta sulla scuola civile, solo monumento degno di esser eretto alla Libertà; dove assiso il popolano accanto al ricco, abbia diritto ad una medesima istruzione, fonte unico da cui scaturir possa Libertà vera e duratura, e fratellanza, senza cui eguaglianza è una vana parola. Allora comprenderanno i popoli che tutte le guerre ch'essi fra di loro si fanno, per ordine di despoti, rassomigliano ai colpi che nella oscurità si danno due amici, da un perfido istigatore eccitati. Se viene a farsi la luce, essi gettano le loro armi, si abbracciano e castigano colui che gl'ingannava.

Un di la chiesa cattolica consacra alla memoria de'santi che non hanno onoranza particolare. Ai milioni di umili ed ignoti Martiri popolari, caduti per la Santa Causa e scesi sotterra senza ricordo nè monumento, questa pia commemorazione dedica

Torino

Giulia Monastier.

PREFAZIONE — Gualberta Alaíde Beccari Pag. III

DEDICA — Gualberta Alaíde Beccari »v

Le Madri de Martiri — Teresa Boschetti Confortini » 1

Una lagrima sulla tomba di Ippolito Caffi — Anna Mander Cecchetti » 6

Sulle ceneri dei Martiri di Cosenza — Anna Mander Cecchetti » 11

Carlo de Cristoforis — Ernesta Margarita » 12

Uno dei cento Martiri della Venezia, ovvero il volontario del 1859 all' Ossario di S˙ Martino il 24 Giugno 1870 — Francesca Zambusi Dal Lago » 26

Giuseppe Andreoli — Caterina Croatto-Caprin » 30

Narciso e Pilade Bronzetti — E˙ P˙ S˙ » 35

Ciro Menotti — Argia Castiglioni » 50

Nicola Gaetani Tamburini — Giulia Centurelli » 60

Giovanni Croci — Elena Ballio » 67

Antonio Ponzetti — Anna Vertua » 76

Giovanni Chiassi — Aroldi Cesira » 81

Eleonora Fonseca-Pimantelli — Adele Pelliccia » 86

Andrea Milani — S˙ V˙ V˙ » 95

Ettore Caraffa co. di Ruvo — Clarice Dalla Bona Roncali » 97

Attilio ed Emilio Bandiera — Rosa Piazza » 109

Commemorazione della morte di Clemente Fusinato — Madonnina Malaspina » 120

Alessandro Poerio — Adele Butti » 124

Tomaso Campanelia — Matilde Ferluga Fentler » 130

Don Enrico Tazzoh — Sofia Butti » 137

Giacomo Caponetti — Giulia Ballio » 143

Giuseppe Cavallotti — Pozzoli Felicita » 149

Rainiero Cicogna — Caterina Tetamanzi-Boldrin » 152

Pietro Federigo — Eugenia Pavia Gentilomo Fortis » 156

Adelaide Cairoli-Bono — Gualberta Alaíde Beccari » 161

Il Martire perenne della libertà — Giulia Monastier » 198