POESIE
DI
GIANNINA MILLI.

VOLUME SECONDO.

FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1863.

ALLA MEMORIA
DI GIOVANNI FRASSI
IN TESTIMONIO DI RIVERENZA E DI DOLORE.

Tacito ameno Colle, ov' io mi aggiro Solinga e fuor d' ogni importuna vista, Or che di primavera al dolce spiro Nove bellezze la natura acquista; Salve!…tra poco al tuo gentil ritiro L' anima mia, che acerba cura attrista, Sospirerà dogliosamente indarno Tra 'l fragor cittadino in riva all' Arno. Come limpido il ciel nelle azzurrine Onde del lago si riflette, e come Grave è mirar ristretto il suo confine1 È note che da qualche anno si lavora al prosciugamento del lago di Bientina. Si che tra poco sol ne avanza il nome! Oh nel soffio dell' aure vespertine, Che delle piante fa stormir le chiome, Parmi il lamento udir del genio ascoso, O Bientina, nel tuo grembo pescoso! Quando in pace sepolta è la natura, Siccome l' etra d' infinite stelle, Te scintillar vegg' io per l' aria oscura Di vagolanti vivide fiammelle; Ed a me l' eco vien su quest' altura Delle canzoni affettuose e belle Che scioglie il pescator, curvo sull' onda, Mentre dal suo burchiel le reti affonda. Lui fortunato, chè tra l' ombre ancora Discerner può laggiù, l' occhio aguzzando, Tra i folti ulivi l' umile dimora Ove certo alcun veglia a lui pensando! Oh! qui dal vulgo, che ciancia ed ignora, Viver potessi anch' io per sempre in bando! Potessi almen protrarmi, in duol sì grave, Questa di pianger libertà soave! Ma vieta il Ciel ch' io pure a tanto agogni, Mentre d' un soffio sol l' arido vero Tutti disperse i grazïosi sogni Onde caldo ebbi il cor, pronto il pensiero. Sterile innanzi mi si schiude, e d' ogni Verde oäsi diserto il mio sentiero; Nè per quanto l' acuto occhio si stenda Veggo una meta che di sè mi accenda. E ben che chieggo …. S' è divin consiglio Ch' io senza posa inceda e senza spene, A che sieguo a esplorar con ansio ciglio Queste prive di fior lande terrene?… Non è una meta oltre il mortale esiglio Certa, perenne, d' infinito bene?… E non è scritto che il Signor la serba Ai provati nel duol di sorte acerba?… Su dunque ergiam, siccome il guardo, ai lieti Azzurri spazii il travagliato core. Ivi fia sol che il suo desir si acqueti, Poi ch' ivi sol divampa eterno amore! Addio limpido lago, addio segreti Ombrosi calli, addio tramonti e aurore All' aperto goduti, in tutta quanta L' ingenua pompa di che Iddio vi ammanta! Forse non più fia che mi assenta il fato Di rivedervi, ma l' accesa mente Sull' ali d' un sospiro innamorato A questi lochi tornerà sovente. E un dì qui ritornando al tempo usato Le amiche mie, nell' affisarvi intente, Come da cara visïon riscosse, Il nome mio ripeteran commosse!—

Colle di Compito, presso Lucca, nell' aprile dell' anno 1862.

Dell' angioletto onde si piacque Iddio Compir la speme che nostre alme uni, La pinta immago io t' offro, o Sposo mio, Del nascer tuo nel fortunato di. In estasi gentil di paradiso, Curva alla cuna sua, stetti a spiar Il suo primiero inconsapevol riso Che sulla tela volli a te ritrar. Tra luce ed ombra, qual su niveo fiore Lucida stilla all' ora mattinal, Posava immerso in placido sopore Sovra i lini del candido guancial. Sotto il vel delle palpebre la nera Pupilla in alto rivolgea talor, Quasi a cercarvi la fraterna schiera D' alati spirti onde staccossi or or. Di che, gelosa, un pueril desiro Di destarlo in quell' atto in me spuntò…. Perchè sognar le gioie dell' empiro Quand' io, sua madre, a contemplarlo sto?… Non sa che quanto ha di più puro amore Ch' empie di gloria e di letizia il ciel, Tutto per lui si accoglie entro il mio core Da ch' ei vagisce nel terreno vel?… Così pensava, e dalla man tremante Quasi il pennello mi sentia sfuggir, Ma si agitò la cuna in quell' istante, E a me rivolti i begli occhi si aprîr. Colsi quel guardo d' angiolo felice Ch' ogni mia pena sperse in un balen; Mira!… È qual oggi offrirlo a te mi lice Mentre ti stringo al palpitante sen!

Firenze, il giorno 23 maggio dell' anno 1862.

Estinti entrambi!… nè dell' un spuntava L' erbetta ancor sul lagrimato avello, Che della stessa morte anch' ei mancava L' altro fratello! Estinti entrambi!… e avean la guancia appena Della prima calugine fiorita, E nelle membra vigorosa e piena Sentian la vita! Entrambi estinti…. in santa guerra, è vero, Che libertè contro l' arbitrio mosse; Pur la spada non fu dello straniero Che li percosse! Ahi scorre amaro dal mio eiglio il pianto Sovra la doppia funeral corona, Leggendo scritto ai cari nomi accanto: Geeta e Ancona. Gaeta e Ancona!… itali spaldi, vano Baluardo a tirannidi dannate, Oh quanto generoso italiano Sangue costate! Di quanta speme vedovaste mai Una Gentil, ch' io sulla Dora accolta, Que' giovinetti al sen stringer mirai L' ultima volta! Ambo diceanle addio; dal caro amplesso Staccar la vidi pallida e tremante…. Fu ca un presagio il cor materno oppresso In quell' istante?…. Ah no!…. pietoso a lei, che in veste bruna Piangea la Madre ancor, copriva il cielo La vicina dei figli aspra fortuna Di denso velo. Di santo orgoglio ne' suoi sguardi un lampo Sfavillar vidi in quel fatal congedo, Mentre dicea: Prodi sarete in campo, Emilio, Alfredo! E quei, la soglia già varcando, a un tratto Volsersi un bacio ad inviarle; al paro Commossi e muti la miràr…. poi ratto Si dileguaro. Ma un suon di baci mi pervenne ancora Digli atrii, ove col padre li aspettava Il minor dei fratelli, e la pia suora Che lagrimava. Povera Adele!…. il fulgido mattino Della tua vita ottenebrato ha il duolo, De' tre compagni tuoi crudo il destino Ti lascia un solo! E quali in voi tristi memorie amare Il silente natio tetto ridesta, Sì fragoroso un dì di dolci gare E ingenua festa! Deh con l' amor che nel soffrir si addoppia Stringetevi alla madre! Ella ai gentili Suavi affetti i più sublimi accoppia Sensi virili. Ella sin dai primi anni in cor dei figli D' ogni bella virtù crebbe il disio, E a sfidar li educò stenti e perigli Pel suol natio. Nel casto verso onde esaltar solea L' itale glorie, d' un novello sprone Il giovinetto lor fianco pungea Nell' arduo agone…. Ma che però?… Madre è pur sempre, e il core D' una madre è d' amore oceano immenso; Perchè altera può girne, íl suo dolore Fia meno intenso?… Seco dunque piangete, e allor che meno Acerba il tempo e la Bontà infinita Quella faran ch' or le dilania il seno Doppia ferita, A lei l' arpa recate, e: Segno eleggi, Ditele, ai nuovi canti i nostri Eroi…. Qual vate uguaglierà madre che inneggi Ai figli suoi?…—

Napoli, nel maggio dell' anno 1861.

Quell' aura mesta di gentile affetto Che nelle rime tue sempre si aggira, E par susurri all' anima: sospira, Ma, basso, che non t' oda il vulgo abbietto; Già pria che noto a me fossi di aspetto Noto feami il tuo cor, che al cielo aspira Al ciel dove ascendea quella che inspira La casta musa del tuo fido petto. Pur quando ti mirai figger le ciglia Di lei sul pinto angelico sembiante, Mentre stringevi al sen l' unica figlia, Di pietade e stupor tutta tremai, Chè qual sei sposo orbato, e padre amante, Da quel guardo e quel bacio io l' imparai. —

Firenze, it giorno 16 gennaio dell' anno 1858.

D' aurei monili, onde ogni donna è vaga, Io di fregiarmi fui sempre ritrosa; Chè quest' umile e ardente anima è paga Sol quando in meste fantasie si posa. Pur me vedran da questo dì le genti Di gemme e d' or leggiadramente ornata; E nel segreto mio, pe' miei concenti, Iddio lodando, mi terrò beata. Beata si, non di fuggevol gloria Pel verso che creò ratto il pensiero, Ma dell' affetto e della pia memoria Onde a lungo tra voi vivere io spero. Nè senso fia di vanità che ognora Renderà questi fregi a me diletti; Ma il pensier che li offria l' inclita Flora Premio cortese a' miei poveri detti. Deh!; perchè fioco e disadorno il canto Più del costume dal mio labbro vola?… Ah se il cor si commove, è presso il pianto Interprete miglior d' ogni parola!

Firenze, il giorno 18 marzo dell' anno 1858.

Tra i vaghi fior che tu, Donna gentile, Premio mi offristi allà difficil prova, Io scelsi il fior della viola umile, Che fra pochi áltri conservar mi giova. Più caro a me d' ogni più bel monile, Meco verrà dovunque i passi io mova; E di Firenze tua, di te sovente Al cor mi parlerà soavemente. Un mesto fior t' offro in ricambio anch' io Del tuo men vago, e men di viver degno; Gracile e incolto sullo stel natio Non crebbe ai sguardi invidiato segno. Pur, se all' aura si aprì del tuo disio, Non temerà di reo turbo lo sdegno; Difender tu il saprai d' ogni periglio Sol perch' ei pur d' itale zolle è figlio.—

Firenze, il giorno 6 aprile dell' anno 1858.

Questo segno d' onor, di che il mio petto Fregiar volle il desir vostro cortese, Mi fia sprone novello al santo affetto Che il cor m' infiamma pel natal paese. Oh così voi col disadorno detto Spronar potessi a generose imprese, E come amor ragiona all' intelletto Pinger la speme che a cantar mi accese! Non mercede di plausi, e non d' alloro, Dal canto aspetto; sì mertar vorrei Premio che per me vince ogni tesoro. E avrallo il cor, se in voi, pel verso mio, Di onorar questa patria in giorni rei Surga più forte e più gentil disio.

Siena, il giorno 2 maggio dell' anno 1858.

Quel dì che sulla tua fossa romita Venne di prodi italici una schiera A dispiegar la tricolor bandiera Per cui tu desti volentier la vita, E di lagrime sparsa, e insiem rapita Nella letizia d' una gente intera, La tua sorella alla cagione altera Del tuo supplizio benediva ardita; Quel dì felice, a cui sì tristo e rio Tempo successe, oh perchè mai d' accanto Al sacro avello tuo non era anch' io? Libero un inno a te, libero e santo Spirto, avrei sciolto; oggi del suol natio Nella miseria inni non ho, ma pianto!

Firenze, il giorno 1°ree; maggio dell' anno 1858.

Tre rose io m' ebbi, tre pudiche rose Conforto e premio alla difficil via, E dissi al fato: or più dilette cose Dar non puoi nè più sacre all' alma mia. Ma qual pregio, o gentil tra le vezzose Che l' odorata aura di maggio apría, Qual altro pregio il cielo in te ripose Poi che il vate d'Arnaldo a me t' invia! Oh no! non urna preziosa tanto, Che di te degna sia, possiedo, o fiore, Ch' io bacio e spargo di devoto pianto. Ma qui starai, qui, sull' ardente core; E tu vi addoppia, se t' è dato, il santo Foco dell' arte e il cittadino amore.

Firenze, il giorno 50 maggio dell' anno 1858.

Così casta e soave aura di affetto Spira dal carme ch' io qui leggo impresso, Che profano a me par quasi ogni detto Che strania destra osi segnarvi appresso. Ma per te, Donna, a cui vero intelletto D' italo amore fu dal ciel concesso, Nel desir d' altre sorti al suol natio Un augurio dal cor disciolgo anch' io. Degna di lui, che te sposa adorata Senza pianto lasciò, quel dì che altera De' proprii dritti, questa patria amata Sorse a fugar la cruda oste straniera, Cresca la prole che ti fa beata Della gioia quaggiù più santa e vera; E con fato miglior Dio non le nieghi Che penna ed armi a pro d' Italia impieghi.

Pisa, il giorno 18 giugno dell' anno 1858.

Quando di Mergellina all' odorata Piaggia, a' bei colli, al placido Tirreno, Dal profondo dell' alma innamorata Volsi l' addio, disciolto al pianto il freno, Chi sa, sclamai, qual sorte è a me serbata Lunge da te, che mi nudristi in seno? Chi sa se grato orecchio a' miei concenti Presteran le dilette itale genti? Or la vita raminga ed affannosa, Che l' occaso dei verdi anni mi affretta, Di una luce che è tutta eterea cosa Spesso s' irradia ed a sperar m' alletta. L' Alma, che pregio alcun veder non osa Nel facil carme che il dolor le detta, Dal fraterno assentir fatta secura A una gioia si schiude intima e pura. E questa gioia che mi accorda Iddio Solo conforto nel mortal sentiero, Risvegliarsi non sa nel petto mio Per suon di plauso amico e lusinghiero. Mi allieto sol perchè l' ansio desio E l' indomato italico pensiero Che il verso informa ne' gentili petti, Un' eco desta di concordi affetti. Però quante ottenea l' umile ingegno D' onoranza e di amor splendide prove, Tutte raccoglie il cor, siccome pegno Dell' idea che ad un fin tutti commove. E tu, Pisa vetusta, immoto segno Del fato avverso all' ire antiche e nove, Tu, dolorosa sì, ma sempre altera Di quella gloria che non ha mai sera; Tu che dall' ampie vie, dai monumenti, Solitarii giganti, in noi ridesti Mille e mille memorie onde i cruenti Fraterni odii in eterno ognun detesti; Tu che nell' aule del saver le menti Più divine d' Italia alunne avesti, Tu nell' aureo metallo il tuo scolpivi Nome famoso e in dono a me l' offrivi! Deh non sia chi severo or ti rampogni L' onor largito a troppo labil merto! Ch' io giuro almen non fia mai ti vergogni D' aver tuo nome al mio nome conserto. Non pasco il cor d' ambiziosi sogni, Nè chieggo o spero de' gran vati il serto, Ma fiami solo e intemerato vanto L' amor che ispira il mio spontaneo canto. Quell' ore liete che ne' vostri lari, O bennate e consorti alme, passai, Per tempo o casi fortunosi e vari, Non sarà che d' oblio sparga giammai. Delle vostre virtù, de' vostri cari Angioletti, che al sen strinsi e baciai, Talor pensando arriderammi al core Dolce una speme di avvenir migliore. Che se pari al gran nome, al censo avito, E ai gesti onde fur chiari e benedetti Gli antichi padri, vegga il patrio lito Crescer fiorenti i vostri pargoletti, Più non fia che a sconforto indefinito In preda miri de' suoi prodi i petti. Ma vedrà di virtù nei forti esempi Della sua gloria rinnovarsi i tempi.

Pistoia, il giorno 9 agosto dell' anno 1858.

Nè a te sorríse sulla cuna il sole Che la mente inspirò dell' Alighieri, Nè l' armonia dell' itale parole Ti rallegrò nei dolci anni primieri; Ma appena adulta la virtù che vuole Fu in te, che al genio, ai fervidi pensieri, All' amor delle dive arti, che sole Ne son conforto ai lunghi mali e fieri, Figlia d' Italia ti sentisti; e pura Suonò di Cino la gentil favella Sui labbri tuoi nelle sue patrie mura. E quando io ti mirai, pallida e bella, Di Ferruccio baciar la sepoltura, Al sen ti strinsi e ti chiamai sorella.

Pistoia, il giorno 9 agosto dell' anno 1858.

Come sospir d' un' aura profumata, Che fra i cedri di Portici e Resina Mollemente si aggiri, e innamorata Scenda i flutti a increspar della marina, Come nota d' augel che alla stellata Notte gorgheggi in riva a Mergellina, Vorrei che a te giungesse il verso mio Una imago a destar del suol natio: Del suol natio che tu vedesti appena, Ma in cor certo sospiri, o mia donzella; Chè vince ogni altra la gentil Sirena Città d' Italia al paragon di bella. Chi non la vide in grembo alla tirrena Onda specchiarsi in sull' alba novella, Chi non mirolla della luna ai rai, Qual incanto ha l' amor dir non può mai.

Livorno, il giorno 24 agosto dell' anno 1858.

Questo vago fanciul, che i fior più olenti Raccolti lungo la silvestre via, Quasi simbol de' suoi anni innocenti, Offre in tributo a Te, Vergin Maria; Di due bell' alme in casto amore ardenti È delizia, è speranza unica e pia; E qui innanzi alle tue are clementi, Voto non forman che per lui non sia. All' offerta gentile e al puro affetto Sorridi, o Tu, che l' increato Amore Stringesti infante sul materno petto. Fa che succeda al suo sereno albore Splendido giorno, e sia quest' angioletto Del suol natio novello pregio e onore.

Livorno, il giorno 3 agosto dell' anno 1858.

Addio terra ospitale, addio famosa Cuna di Buonarroti e di Alighieri; Addio reggia dell' arti, glorïosa Svegliatrice di nobili pensieri. Addio schiera diletta e generosa D' incliti amici, che de' tuoi sinceri Voti ardenti accompagni il partir mio…. Addio vi dico in questo giorno, addio! Oh se altra sponda preferir giammai Potessi a quella ove sortii la vita, Se il mar, se i colli dilettosi e gai E l' aure, e il ciel che niun pennello imita, Ira di fato contendesse mai All' anela di pace alma romita, In te soltanto, o mia Flora gentile, Vorrei compormi stabil nido umile! Pèra, non men dorrò, la ricordanza Della benigna lusinghiera lode Che al trepidante cor porse fidanza Nell' ardor della delfica melode. Ma di me, accolta entro modesta stanza Fra gli amici onde il cor si pregia e gode, Stia la memoria affettuosa e mesta…. La sola gloria ch' io vagheggi è questa!

Firenze, il giorno 20 oltobre dell' anno 1858.

Quando non più l' etrusche aurette amene Conforteran l' innamorato petto, E peregrina per lontane arene Cercherò invano un conosciuto aspetto, Il memore pensier delle serene Ore godute in questo ospital tetto Mi addoppierà della raminga vita Il duol che attosca l' età mia fiorita. Ma questa gemma che del vostro amore Voi mi porgeste in pegno, alme bennate, Spesso stringendo sul fervido core Io dolci verserò lagrime grate. Sparso di spine è il mio sentiero; un fiore Sol vi germoglia d' immortal beltate; E questo fiore, che amistà si chiama, È il sol che l' alma omai vagheggia ed ama.

Cisanello, il giorno 8 settembre dell' anno 1858.

Quest' aula, ove il gentil popol di Flora Nel dolce suon di musici concenti Si allieta, e al bello e al ver che lo innamora Le più giovani educa anime ardenti; Quest' aula, il cor grato e commosso ognora, Ovunque io volga il piè, fia che rammenti; E l' ineffabil ansia, e il dubbio, e l' ora Che il fren vi sciolsi agli improvvisi accenti. Deh! che l' affetto, il duolo, e la speranza Che l' estro al vol qui m' impennâro, e vidi Rifletter di ciascun sulla sembianza, Ispirin sempre il mio spontanco verso, Che forse allor pe' cari itali lidi Inutil suono non andrà disperso!

Firenze, il giorno 30 ottobre dell' anno 1858.

Nell' ora che la tua terra natale Lascio, ed agli occhi mi fa velo il pianto, Donna cortese, a te rechi il mio vale Quest' umil nota del dimesso canto. Non obliarmi, io del pensier sull' ale Tornerò spesso a te romita accanto, Colà di Celle nel gentil soggiorno, Ove si lieta mi accogliesti un giorno.

Firenze, il giorno 1°ree; novembre dell' anno 1858.

O fra le cento tue vaghe sorelle Città per senno e per valor famosa, Che il Reno irriga, e di fiorenti e belle Collinette ghirlanda hai dilettosa; O non domata mai dalle rubelle Sorti onde geme Italia e non ha posa, Qual di te degno, e pari al disir mio Grato carme per te scioglier poss' io? Tanto minor del generoso segno Che vagheggia l' indocile intelletto, Suona tuttor del feminile ingegno L' armonioso delfico concetto, Ch' io me stessa compiango, e prendo a sdegno Quel che il cielo mi diè facile detto, Ove in fugaci sol lampi risplende L' eterna fiamma che il pensier mi accende! Pur se del nome che più dura e onora, Colpa del fato, omai persi la speme, Non taccio io già, poichè possente ognora Altra brama e più santa in cor mi freme. Se gloria all' arte che la mente adora Crescer non puote il verso, almen sia seme Che a concordi pensieri e a cittadine Virtù riscuota l' anime latine! Nè alcun mi udrà giammai muover lamenti Sul mio destin, nè perderò costanza S'io cantar possa aHe fraterne genti Sempre d' amor, di fede e di speranza. Questo sol doni agli anni miei dolenti Premio il Signor, ch' ogni altro premio avanza, Che sia l' accento che mi detta il core, Ultimo anel di un vincolo d' amore. Ma ben veggo che spesso è merto a noi Solo il desir d' altera opra gentile, Se così illustre a' brevi voli suoi Già mercede ottenea l' ingegno umile. O madre del saver, culla d' eroi, Felsina, albergo di virtù virile, Tu pur precorri co' tuoi doni il poco Vanto che aspetta il verso inculto e fioco! Oh chi può dir quale a mie voglie accese Cresca il tuo plauso generoso sprone? Tu se' pur quella che pregar s' intese Da un Rege indarno pel figliuol prigione. A mezzo il vol di sue guerresche imprese Interrotto ei ruggía, come lione Che da sbarra importuna ostar si veda Il breve salto ad artigliar la preda. Tu se' pur quella che cedesti, è vero, Al comun fato, ma più tardi; e tanto In te rimase del vigor primiero Che l' offensor non mai rise al tuo pianto. E quando il lauro del valor guerriero Vano disio per noi restò soltanto, Nuove palme fiorîr per te nèi ludi Dell' arti belle e dei severi studi. E del sesso miglior leggiadre e care Donne allora a emular sorser la gloria. Deh non sia chi al membrar quelle preclare, Onde, o Felsina, bella è la tua storia, Volga di scherno a te parole amare, O leda d' ambizion la mia memoria; Ch' io non laude o tesor chieggo ed aspetto, E tu sol pregi in me l' italo affetto!

Bologna, il giorno 15 gennaio dell' anno 1859.

Nel dì che il nascer tuo festeggia, o Dina, Un fiore io cerco, di te degno invano; E pur tanti sull' ora vespertina ler me ne'porse la gentil tua mano! Ma nè il riso immortal che la collina Veste, ove siede eccelso il tuo Ronzano, Nè la felsinea tua pianura ha un fiore Che del tuo fronte ornar valga il candore. Quel fronte che innocenza e virginale Gaiezza abbellan di celeste incanto, Non già di pompa lusing hiera e frale Ma di un fregio immortal degno è soltanto. Oh vaga Dina!… il bacio mattinale De' genitori tuoi, quel bacio santo Ch' oggi più ardente assai fruir ti lice, È il solo fior che al fronte tuo si addice!

Bologna, il giorno 15 marzo dell' anno 1859.

Benedite al Signore, o nuvolette Irradiate dal nascente albore; Beneditelo voi, soavi aurette Per cui sul verde stel tremola il fiore. Voi del notturno gel sciolti, o ruscelli, Benedite al Signore nel corso errante, Beneditelo voi, leggiadri augelli, Ridesti appena sulle verdi piante. — E voi timide greggi, e voi crudeli Belve, e voi muti abitator dell' acque, Benedite al Signor che il mondo e i cieli Col nuovo giorno rallegrar si piacque. — E tu creata a imagin sua, dal lento Sonno ti scuoti umana creatura, Manca solo la tua voce bal concento Di grazie che al Fattor manda natura. La voce che crear può la parola, Onde l' idea cinta di forme uscío, Dell' armonia dell' universo è sola Interpetre fedel degna di Dio!

Ferrara, il giorno 1°ree; aprile dell' anno 1859.

Mentre la sospirata alba si avanza Che in grembo i fati delle genti serra, Ed un sorriso d' immortal speranza Dai foschi nembi il cielo a noi disserra; Mentre bella di sdegno e di esultanza Lei saluta la sacra itala terra, Ed armi grida, e le battaglie agogna A spezzar l' empio giogo, ond' ha vergogna, Dove sei tu, spirto gentile e saggio, Fra quanti son nel Tosco suolo aprico?… Tu che per fede e cittadin corraggio Degno apparivi del buon tempo antico?… E fia pur ver che il tuo mortal viaggio Preciso a un tratto abbia il destin nemico All' appressarsi, oimè, di quegli eventi Che fùr meta de' tuoi voti più ardenti? E fatto gelo è il cor che tanto viva Fiamma accogliea di generosi affetti? Muto quel labbro, onde si larga usciva Vena di forti e in un soavi detti?… Inerte quella man che ognor si apriva De' mendichi al soccorso e dei reietti? E spento il ciglio, che al fraterno lutto Non rimase giammai di pianto asciutto?… Al tuo morente orecchio, oh almen suonato Del popol tuo fosse il concorde grido, Che il sacro dritto alfin rivendicato Volle da chi fu alle promesse infido! Oh di sangue e di oltraggi immacolato Rivisto avessi sventolar sul lido Del placid' Arno il tricolor vessillo, Cui saluta guerrier libero squillo! Da un impeto d' amor l' alma gioconda Rapita, il vol spiccato avrebbe a Dio; Come chiuso vapor, se il foco abbonda, Scoppia e s' innalza all' etere natio. Ma il vale estremo alla materna sponda Mentre volgevi, ti ascoltaro, o pio, Dolerti sol che ti togliesse il fato Spender per essa ancor l' estremo fiato! Oh chi detto mi avria, quel mesto giorno Che la tosca gentil riva lasciai, E dagli amici che vedeami intorno Distaccar non sapea gli umidi rai: « Nel dì non lunge in che farai ritorno, Il più acceso tra lor non troverai, Quei che figlia ti appella, e chiude in petto Per te dovizia di paterno affetto! » Oh quai sostenne in poco volger d' anni Prove il mio cor varie, frequenti, amare! Quanti mi abbandonâr soavi inganni, Dipartir quante io vidi anime care! Ma in te non sol piango i miei proprii danni: Chè spento il sol di tue virtù sì rare, Perde la patria, al maggior uopo, un forte Propugnator di sua novella sorte. Ma forse è inganno di pietosa fede, Che l' anime del cielo cittadine Pieghin sovente alla mondana sede Le inebrïate lor luchi divine?… Stolto è colui, che al sacro ausilio crede Di lor già paghe nell' eterno fine, Quando rugge crudel nembo ferale Sopra quella che amâr terra natale? Ah no!… qui in fondo al travagliato core Dei cari estini miei la voce io sento; Delle speranze mie, del mio dolore Conscii gl' invoco in ogni dubbio evento. E spesso in dolce visïon d' amore Su lucida apparir nube d' argento Li veggo e ascolto: In ciel dove più s' ama Del patrio ben si accresce in noi la brama! E or tu ne arridi, o spirito cortese, Ti mostra a noi nell' ora del periglio. Le lunghe a vendicar straniere offese Ne giovi ancora il tuo fedel consiglio. E il dì ch' abbia dall' italo pease L' augel dal doppio rostro eterno esiglio, All' urna tua trarrem stuolo devoto A scior di libertà l' antico voto!

Firenze, nel maggio dell' anno 1859.

Guerrier Sabaudo, glorïosa luce Di questa terra che in te guarda e spera, Solo palladio, a cui stretti, la truce Fuggimmo di due lusti ira straniera; Deh fra gl' inni di laude, a te gran Duce Dell' anela di gloria itala schiera, Questo che s' alza per l' Ausonio lido Giunga dei nostri cor supplice grido! Affrena, oh affrena i generosi ardenti Impeti del magnanimo tuo core, Che al feral tuon di bellici strumenti Là ti sospinge ov è rischio maggiore. Invan ti mesci ai mille combattenti, Tra i mille emergi ognor pel tuo valore, Sì che il sacro tuo capo è sprimo segno Del teutono predon fatto allo sdegno. Ben so, del padre tuo l' acerba morte E il martír lungo vendicar tu dei; Campaion d' Italia, col leale e forte Brando i ceppi spezzar giurasti a lei. Ma pensa quanta della patria sorte Eccelsa parte, o invitto Re, tu sei; Pensa qual' arra prezïosa a noi Sien de' giorni invocati i giorni tuoi! Già dagli anni pià verdi li tuo coraggio Rifulse, e il mondo ti ammirò guerriero. Ma col valor degli avi tuoi retaggio, In te s' infuse un immortal pensiero! Sire! non merta il tuo gran cor l' oltraggio Che a te larvato si favelli il vero; Dall' ardir coglierai biasmo, non gloria, In te rischiando la comun vittoria! Madri, spose, sorelle, e vereconde Fanciulle amanti, i cui più dolci affetti Vinse la carità di queste sponde Si che spinsero all' armi i lor diletti: « Fate, sclaman da lungi tremebonde, Oh fate scudo voi de' vostri petti Al petto suo…. pur ch' Ei sai salvo, estinti Voi pur cadete, oppressi sì, non vinti! » Ascolta, o Re, quel voto ardente; e, pio, Dallo stesso tuo zel prendi consiglio; Non voler, tratto da guerrier disio, Che ogni trionfo tuo costi un periglio. Degli allôr vagheggiati at suol natio Fa solenne olocausto, italo figlio…. Pugnar, morir per esso ad altri è bello, Tu viver dêi pel suo destin novello! Viver tu dêi perchè sublime esempio Di fè ti ammiri chi si asside in trono. Di libertà custode al sacro tempio Ti elesse Iddio, che diella all' uomo in dono Compiuto Ei vuol dei barbari lo scempio…. Li confonde…. li lascia in abbandono; Poichè al superbo che sovr' essi ha soglio La mente offusca furibondo orgoglio. E a noi pietoso alfin manda il possente Fraterno ausilio delle franche spade; Innanzi a cui fuggir vedi sgomente, Spaurite le nordiche masnade. Oh laude alla profonda eccelsa mente Che vuol su queste italiche contrade, De' tiranni infrangendo or l' empio patto, Inaugurar dei popoli il risCatto! Qual gloria pari alla sua gloria fia Quand' Ei compiuta avra l' atla promessa? Quando quest, che fu terra natia De' padri suoi non più fia serva e oppressa? Oh parla in nome tu d' Italia mia, Digli com' ella un dí, resa a se stessa, Farà chiaro genti a lei nemiche Che degna è ancor delle sue glorie antiche! Sì, te duce e maestro, i figli suoi Sapran tornarla al suo primiero vanto. Odi!… morendo i giovinetti eroi Accomandan suoi fati a te soltanto! Sérbati dunque a lei; tu solo puoi Compir dei voti il più sublime e santo; Poichè concordi e in un voler fidenti Stringonsi intorno a te l' itale genti.

Firenze, nel giugno dell' anno 1859.

Ahi colma ancora la fatal misura De' tuoi mali non era, o patria mia! All' iliade di tua lunga sciagura Questa mancava ancor pagina ria; Mentre imperversa sovra te più dura In suo ferreo vigor la tirannia, Al soffocato tuo gemito inulto Il suon risponde del fraterno insulto! Eccoti dunque, o bella dolorosa, Dall' ultima di tue glorie reietta; Eccoti d' un' accusa obbrobriosa Percossa come da feral saetta. Tu prima un un giorno nella generosa Gara onde Italia un' altra vita aspetta, Inerte, e come del servaggio degna, Non osasti lever libera insegna! Fu timor, fu consiglio, o disperanza, Che il braccio tuo dal forte oprar contenne?.. Qual fu l' arte infernal che a tua baldanza Magnanima tarpò le antiche penne?… Oh! disperda il signor l' empia possanza Che il maledetto e doppio intento ottenne; All' austro ella scemò periglio, e invisa Te dall' itale fea genti divisa! Ma giusta è forse la crudel rampogna Ch' altri ti avventa austero e inesorato?… Oh leva il volto, e la non tua vergogna Rigetta, o degna di più nobil fato! Mostra a ribatter la stolta menzogna, Mostra il bel corpo tuo tutto solcato D' atroci colpi, e carche ambo le braccia Di ceppi, e sparsa di squallor la faccia! Mostra le torme di sgherri stranieri Stretti a interdirti ogni atto o movimento: E la viltà che scruta entro i pensieri, Anela che tradurli osi l' accento; I conati ricorda, a cui non fieri Supplizii mai scemàr lena o ardimento; E i carcer tetri e i prolungati esigli Di mille e mille tuoi gagliardi figli. Sí acerbo forse e sospettoso fora Teco il poter, se paventasse meno La sacra fiamma che divampa ognora, Compressa a forza, nel tuo nobil seno? Oh dolce patria! chi t' accusa ignora Qual sia quel che ti stringe orrido freno; Poi che d' un lieve subitaneo crollo Debil giogo ei potè scnoter dal collo. Tacquer Venezia, e Padova, e la forte Verona, curve allo stranier servaggio; Nè aleimo osa di lor misera sorte Crescere il duol con dispietato oltraggio. Or perchè a te, che invan fremi e sopporte Giogo non men di quel duro e selvaggio, A viltà apponsi quel che ad esse è dato Subir qual legge d' invincibil fato? La bieca voce di suonar deh cessi, È ingiusta, antica, e immensi guai rinserra! Dividere, avvilir, render gli oppressi Di scherno obbietto e di fraterna guerra, Ecco l' arti regali!… Oh di voi stessi Pietade, o figli dell' ausonia terra! Date a quei che il destin dall' opra escluse Date aita, o compianto, e non accuse!

Firenze.

Del terzo lustro il lucido confine, O Giovinetta, tu non varchi ancor, Ed ogni alba novella al tuo bel crine Novello intreccia verecondo fior. Pura e innocente, come il primo riso Ch' Eva al compagno nell' Edenne aprì, Dagli occhi bruni e dal candido viso L' alma traspare che a te lddio largì. Pur non sei lieta; chè il materno affetto Gl' infantili anni tuoi non confortò, Nè mai la luce del materno aspetto Sulla tacita tua culla raggiò. Un' ora il tuo primo vagito accolse E di tua madre l' ultimo sospir…. Ahi nè un guardo amoroso ella ti volse, Nè fu intesa il tuo capo benedir! Ma nell' amplesso disperato e ardente Onde al seno ti strinse ìl Genitor; Era un giuro di fede alla morente, Un olocausto a te d' ogni altro amor. Fra una tomba e una culla egli divise Da quel dì le sue cure e i suoi desir, Con pari affetto a entrambe egli sorrise…. Erano il suo passato e l' avvenir! Pur rivedendo nella tua sembianza La bella effigie di Colei che amò, Quell' Anima già chiusa all' esultanza D' ineffabile e pia gioia tremò. E il tuo sorriso, e le prime infantili Voci che un caro nome balbettàr, Di mille nove fantasie gentili Vennero la sua mente a popular. Tu dunque, o cara della sua sciagura Compagna, e speme di sua tarda età, Sei tu la Musa grazïosa e pura Che i mesti accordi a lui spirando va. O Giovinetta!… agli occhi tuoi di pianto Spesso in udirli si distende un vel, Chè a te rivela di tuo padre il canto Qual fu colei che ti rapiva il ciel. O Giovinetta!… il calle della vita Parrà più scabro e faticoso a te, Poi che ti manca la materna aita Secura scorta di un virgineo piè! Quando, nè lunge è il dì, ti sentirai Da incognito gentil senso turbar, E i fior mirando e il ciel sospirerai A un ben che aneli, e non saprai nomar; E le tue notti ad agitar sovente Una soave immagine verrà, Che all' alma tua misterïosamente In non più udito suon favellerà; Più acerbo forse e sconsolato il duolo Di sua partita fia tu senta allor; Chè il sen materno è porto amico e solo Alle tempeste onde agitato è il cor. Pur non pensar che quella anima pia Immemore di te viva lassù: Prega la madre, o Giovinetta mia, In ogni dubbio evento tuo quaggiù. Prega, e la udrai del cor commosso in fondo Norme spirarti di virtù di fè; Norme onde invan fia che t' insidii il mondo Il bel candore che il Signor ti diè. Deh! nella gioia di più lieta sorte Tutto si schiuda il fior di tua beltà, E t' abbia in premio un generoso e forte Garzon che Italia or propugnando sta. Possa soltanto tu qual sogno rio Questi torbidi tempi rammentar, Possa liberi figli al suol natio Animosa e magnanima educar. E possa alfin d' itala donna il santo Solenne ufficio impavida compir, E un casto serto il cittadino vanto Faccia sul vago tuo capo fiorir.

Firenze, nel luglio dell' anno 1859.

E fia pur ver che l' abborrito estrano, Percosso il sen da subita paura, Volse le spalle alle tue sacre mura Novellamente, o mia gentil Milano? E fia pur vero che al leal Sovrano, Che il gran riscatto in suo valor matura, Spoglia d' ogni rival discorde cura, Recasti il fren delle tue sorti in mano? Benedetta sii tu, che generosa Prima ripudii le gare meschine Che diviser la patria dolorosa! Benedetta sii tu, che dài primiera Il grand' esempio alle Città latine Di quel che Italia, in lor mirando, spera! O Giovinetti, che a incontrar la morte Correte in campo pel terren natio, Madri e sorelle, con sembianze smorte, A voi tendon le braccia in dirvi addio. Pur, mentre pregan che alle patrie porte Vittoriosi vi ritorni Iddio, Benedicon, di voi superbe, al forte Che il cor v' infiamma di pugnar disio. Sparsi di pianto, ma dal sol nutriti Della speranza del riscatto, i fiori V' offrono a gara dei paterni liti. Quei fior posati sugli ardenti cuori Varranno a raddoppiar gl' impeti arditi Che avran mercè di glorïosi allori!

Firenze, il giorno 18 giugno dell' anno 1859.

Nei dì che questa terra al Sol diletta Fu di libere e forti anime sede, A cui sprone a grandi opre era la schietta Dei padri nostri veneranda fede, D' amore in pegno a te la benedetta Immago, o Siena, un tuo gran figlio diede; Pregando fosse tuo palladio eterno Contro i morbi e l' insano odio fraterno. Riverita per lungo ordine d' anni La santa immago stette in questa riva; Nei lieti eventi, nei guerreschi affanni La pietà cittadina a lei veniva. Pe' suoi trionfi, o pe' temuti danni A lei presso inneggiar, pregar s' udiva; E sentito era l' inno, e viva e vera La fiducia dell' umile preghiera! Oggi ancor veggo sui devoti altari L' antica effigie; ancora a lei s' atterra Supplice turba; ma una fede pari Alla vetusta fe, qual cor rinserra?… O Tu, che a morte, dopo giorni amari, Dal ciel venisti sull' ingrata terra, Tu deh ravviva, o Crocifisso Dio, Col tuo culto di sante opre il disìo.

Siena, il giorno 22 aprile dell' anno 1858.

Come tra i fiori di ben colta ajuola, Leggiadra pompa dell' adulto april, Una modesta pallida viola, In mezzo al verde del sou cespo umìl, Sfugge allo sguardo, o dei compagni suoi, Se pur nota, posposta è alla beltà, Così tra i nomi degli amici tuoi Su queste carte il mio nome starà. Pur nel vergarlo mi lusinga il core Dolce una speme ch' ei fia caro a te Al par di quei che son d' Italia onore, E pio conforto che il Signor ti diè. Però ch'io forse nel gentil tuo petto, Più che senso di labile stupor, Un soave destai senso di affetto, Unice bene a cui sospiro ognor. Deh quando lungi mi trarrà fortuna, Che me raminga e peregrina vuol, Da questo che ti diè parenti e cuna Invidiato glorïoso suol, Se in qualche ora de' tuoi giorni più mesti T' avvenga queste carte ricercar, E il guardo tuo sul nome mio si arresti E l' immagine mia tenti evocar, Non qual nell' inquïeta ora tremenda Dell' estro apparvi invasa dal poter, Ma qual dopo l' agon giacqui, mi renda La memoria fedele al tuo pensier. Oh che strazio nell' anima sentía!… Ansia, spossata, delirante ancor, Del cortese altrui plauso il suon venía A me qual eco di un dileggio allor. E, singhiozzando, tra le fide braccia Della madre correami a rifugiar, Quando l' amica tua pietosa faccia Dolcemente su me vidi raggiar. Nel sorriso, nell' umida pupilla Era l' eloquio che mentir non può, E più mi disse una soave stilla Che l' infocato mio fronte bagnò. Oh ti sien grazie, o mia cortese!… io molto Più che non dico amar posso e soffrir, Ma ne'convegni, il vedi, ilare ho il volto, E sorrido all' altrui schietto gioir. Sol quando accolta nella fida stanza Libera sciolgo a' miei pensieri il fren, Vanir la gioia dalla mia sembianza Tu vedresti qual rapido balen. Mi vedresti arrossir del facil vanto Profuso al verso che in oblío cadrà, E superbir del tuo tenero pianto Qual di un trionfo che l' egual non ha. Chè se propizio il ciel sperar mi lice Al caldo voto che dal cor mi vien, Tu scorderai l' errante Trovatrice, Ma non l'amica che stringesti al sen!

Milano, nel gennaio dell' anno 1860.

Nel caro suolo che a voi diè la cuna, E preme ancor la signoria straniera, Tre leggiadre sorelle in veste bruna Trapunser questa serica bandiera. Molle il ciglio di pianto avea ciascuna Ed ansio il sen, qual di chi teme e spera, Mentre pendea sull' opra taciturna Al chiaror della lampada notturna. Oh quante volte, sospettose e smorte Sostàro al suon d' un' improvvisa voce! Guai se irrompea nelle segrete porte, Inaspettato, il Teutono feroce!… Guai se a fisar venía le luci torte Sull' infausta per lui Sabauda Croce, Che su quel drappo appar di raggi cinta E dal bel fregio tricolor distinta! Ma il ciel sottrasse al barbaro furore La sacra insegna ch' oggì a voi si dona. O prodi, o voi che al marzial furore Tanto cordoglio e tanto affetto sprona, Ben vel sapete, le tre meste suore Venezia han nome, Padova e Verona; Mandan esse ai figliuoli esuli in campo Il pio vessillo onde verrà lo scampo. Oh la bellica polve e i Soli ardenti Non ne avranno i colori illanguiditi Prima che tutti esultino, redenti Dall' esoso stranier, gl' itali liti! Fia l' estremo per lui qui dei cimenti Quello in cui l' armi a ritentar v' inviti; Chè con quel segno innanzi alle pupille Ciascun di voi combatterà per mille!

Milano, il giorno 6 febbraio dell' anno 1860.

(Parla una sua figliuoletta.)

Non più sul labbro mio, madre diletta, D' un altro vate fia che suoni il canto; Quel che in confuso il cor dentro mi detta Significar concesso è a te soltanto. Sol nelle note tue la tua Fiammetta Gusta dell'armonia l'arcano incanto, Che qual su vergin fior limpida piova Discende all' alma e la feconda e giova. Giorno forse verrà che amico Iddio Farà ch' io pure, in misurati accenti, A te possa ridir l'affetto mio E i pensieri di questi anni innocenti. Ora a novo augellin pari son io, Che i paterni dolcissimi concenti Nel solitario bosco avido ascolta Presso al nido iterar la prima volta. Deh siccom' egli, al par del canto, il volo Saprà emular del suo parente un giorno, Ch' io sappia, o madre, a te mirando solo Rendermi il cor di tue virtudi adorno! Già m'istillan l' amor del patrio suolo Gli esempli del domestico soggiorno; Tu ad emularli, o madre mia, m'insegna, E d' Italia e degli avi io sarò degna!

Firenze, nel luglio dell' anno 1859.

Laura, quell' estro che me già repente Sospingea degli alati inni alla prova, Languido incerto or mi vanisce in mente. Preme inerzia cui nulla a scuoter giova Dell'ingegno la possa, e questa è pena Tra quante n' ebbi tormentosa e nova. Mentre qual' onda di limpida vena Ier dal tuo labbro il verso scaturia, Io di vergogna e di sgomento piena Tra me stessa dicea: tanto dîsía, Tanto aspetta da me questa cortese, Così ricca d' amor, di poesia, Nè sa che il dubbio a questa alma si apprese, L' amaro dubbio, che m' insinua estinto Il sacro raggio che a cantar mi accese! Deh se non sia da tal sconforto vinto Il tuo spirto giammai, Laura diletta, Compiangi me ch' ogni pensier n' ho avvinto! Te generosa a viril carme alletta Di Sicilia magnanima il tremendo Grido che impreca all' oppressor vendetta; E il fortissimo Eroe che con stupendo Ardir soccorre co' suoi Mille a lei, Sì che potrà sottrarsi al giogo orrendo. Io, che pur vidi e l' Etna ardente, e i bei Trinacrï piani, e della speme il canto Vi sciolsi in tempi paurosi e rei, Mentre invoco dal ciel trionfo al santo Vessillo, ch'ivi iniqua possa atterra, Per la vittoria inni non ho, ma pianto! Ahi di qual onta la Sebezia terra Coprîr le schiere a tirannia devote, Nella fraterna snaturata guerra! Nè lo sdegno del ciel l' empio percote Che, o patria, a te rapir volle perfino Del prisco onor la glorïosa dote?!… Ma già vacilla a ruinar vicino L'osceno seggio a cui, stolto, il puntello Unico ei tolse che gli offrì il destino. Troppo de'falli suoi grave è il fardello, Troppo apparì della sua stirpe degno Perchè tu creda al suo sermon novello. Però tu taci…. oh! quel silenzio pegno Ne sia che alfine si rileva onusta La tau virtù di generoso sdegno! Oh Laura!… il dì che questa madre augusta Assiderassi al libero convito Delle sorelle, e fia la più venusta; Quel dì tu pure all' incantevol lito Forse ritornerai di Mergellina Di suprema letizia il cor rapito. Là dove l' aura, i fiori, e la marina, E il ciel più azzuro, e gli astri più lucenti Spiran d' amore un armonia divina; Tu col tuo carme infiammerai le menti; Io, riscosso il torpor ch' oggi mi prostra, Scioglierò un inno ai generosi spenti In reo martirio per la terra nostra!

Torino, nel luglio dell' anno 1860.

Quando l' amor che sempre altrui si apprese, Purchè paresse fuor, l'alma ti vinse, E dell'esule al fato, o mià cortese, Con santo nodo i tuoi begli anni avvinse, Tale affetto e pietà del bel paese Per cui tanto ei sofferse, il cor ti strinse, Che mutar col tuo nome di fanciulla Ti parve il loco che ti diè la culla. Fu tua la patria del tuo fido; e i suoi Dolori, e l'ire, e i vindici pensieri Così dividi da quel dì con noi, Che tu pur gli oppressor chiami stranieri. E tal risuona sovra i labbri tuoi L'ïdioma gentil dell' Alighieri, Che la dolcezza sua sembra natia In te creata all' itala armonia!

Torino, nel giorno 3 giugno dell' anno 1860.

Quando la pace ti delizia il core Del domestico tuo fidato ostel, Ricordati di me, che nel fragore Del mondo invan chieggo riposo al ciel! E quando esulti nell'amplesso pio Del venerando e caro genitor, Ricordati di me, che il padre mio Stringer non posso da due lustri al cor! Ed io di te ricorderò nell' ora Che a Dio sollevo il fervido pensier, Per implorarlo che fiorito ognora Sia di casta letizia il tuo sentier.

Torino, nel giorno 6 giugno dell' anno 1860.

Questi vivaci olenti fior, cresciuti Nelle aiuole del tuo vago giardino, Perchè da te, donna gentil, venuti, Qual arra accolgo di miglior destino. Ma di tanti or si fea triboli acuti Sparso per me questo mortal cammino, Che del mio nome il giorno io dovrei solo Col carme salutar che spira il duolo. Allor che l' ombra dell' avito ostello Proteggea de' miei primi anni il candore, Oh come atteso, oh come fausto e bello Per me sorgea questo sereno albore! Curvo sul mio virgineo letticello Mi destava d' un bacio il genitore, La madre poscia, e dopo lei la cara Suora e i fratelli al sen stringeanmi a gara. Ahi sì lunge dal mio nido le ciglia Oggi schiudendo al dì sacro al mio Santo, Di quella dolce e lieta mia famiglia Non mi arridon che due volti soltanto! E se ben guardo in lor, sorella e figlia, Veggo che frenan solo a forza il pianto, Chè dei lontani e del terren natale Più vivo e intenso oggi il desir ne assale!

Torino, il giorno 24 giugno dell' anno 1860.

Un dì, romita giovinetta oscura, Te nel fervor dei sacri estri ammirai, E dai conforti tuoi fatta secura Al vol dei carmi anch'io mi abbandonai. Ma tra' bei sogni di miglior ventura Con che il rigore del destin sfidai Quello non ebbi che il mio poco ingegno Fosse a tue laudi un dì pubblico segno. « Astro che già vêr l' occidente inchina Son io, dicesti, e a mezzo il ciel tu stai. » È ver, ma il Sol che piega alla marina Vibra più belli ancor gli ultimi rai; Nè la mesta nottivaga regina Seco di luce gareggiar può mai, Quantunque piena nel suo corso ascenda E nel sereno italo ciel risplenda. Ma se l'aringo di cui tu la meta Tocchi, percorro dubitosa anch'io, Non del serto che il crin fregia al poeta L'alta mercede è segno al verso mio. L'unica gloria che di sè mi asseta, L'unico premio che domando a Dio È che il mio verso dei fraterni petti Sia novo sprone ai generosi affetti.

Milano, nel gennaio dell' anno 1860.

E tu fra poco a respirar ne andrai L'aer che i primi tuoi giorni nudrì, E l'unica al tuo cor stringer potrai Suora, che tanto ai mali tuoi soffrì! Pel doppio serto ond' è il tuo crine altero Di santo orgoglio la vedrai tremar, E dell'italo martire guerriero Esempio ai figli t' udirai nomar. Seco sull' urna della madre prono Che, te invocando, rivolò al Signor, D'ineffabil dolcezza e di perdono. Novello un senso fia ti scenda al cor. Dalla vita riscosso all'esultanza Ti sentirai presso quel sacro avel, E all' alta impresa che a compir ti avanza Benedirà la madre tua dal ciel!

Napoli, nel dicembre dell' anno 1860.

Or compie l' anno, e questa lieta aurora Che in fronte ha il nome più al tuo cor diletto, Esule celebravi in sulla Dora D' esuli amici in mezzo a stuolo eletto. Uno e concorde fu l' augurio allora Che a tutti eruppe dal commosso petto: Deh che ne accolga al ritornar di questa Alba, la patria a libertà ridesta! Ecco, adempiuto è il voto, e della stessa Speme più ratto e fortunato il volo Della vittoria fu che d'un oppressa Gente valse a cessar l' obbrobrio e il duolo. Ecco a te intorno più giuliva e spessa L'amica schiera oggi si stringe, e al suolo Natio redento, ed al tuo sposo acclama Il cui nome fregiò più chiara fama! Oh Laura!… il verso che a me diè il Signore Ha fuggevole e sol mesta armonia; Pur, del tuo gaudio oggi godendo, il core Più lieti accordi disnodar vorria. Ma così ricca e varia a te l'amore Vena di canti italici largía Che, a te dinanzí, a nu1lo altro si addice Questo giorno inneggiar per te felice!

Napoli, nel giorno 17 maggio dell' anno 1861.

1 Questi versi furono letti in Napoli in una solenne Accademia, tenuta nel tredicesimo anniversario della luttuosa giornata. E alfin n'è dato confortar la pia Memoria vostra, o martiri fratelli, Di santi riti e d' itala armonía Che tra le genti il vostro onor suggelli. Tredici volte la feconda apría Aura di maggio i fior, da che gli avelli Vostri, sparsi di pianto cittadino, Segnavan di una rea stirpe il destino! Oh degno è ben di splendide melodi, Abbenchè in note atre di sangue iscritto Ne' patrï eventi, il dì che astute frodi La misura colmâr d' ogni delitto! Chè il vostro eccidio, o giovinetti prodi, Sospinti a truce disugual conflitto, Fra il re spergiuro, e il popolo tradito Un abisso schiudea d' odio infinito! E di quell'odio, or ben si mostra aperto, Crebbe l' itala speme a eccelso volo. Nè sangue mai fu in olocausto offerto Più proficuo del vostro al patrio suolo. Le sparse gemme dell'ausonio serto, Di che degno ne apparve un prence solo, Forse adunar non consentìa la sorte Senza la vostra generosa morte! Pur, rimembrando il modo onde cadeste, Non è chi freni il pianto!… Eran straniere E compre l' armi che d' incontro aveste, Ma non eran per voi le patrie schiere! Ahi tra quante ne aprì piaghe funeste L' esecrato dispotico potere, Piaga non v' è maggior dell'empia guerra Desta tra i figli d' una stessa terra! Nè, benchè vinta in ogni incontro, cessa La scellerata maledetta brama Che ai popolì raccolti in una stessa Fratellanza operosa insidie trama. Una è la patria nostra, Italia è dessa, E lei dall' Alpi al mare Italia chiama Ogni altra gente…. Italia!… hanno i regnanti Caduti un dritto a questo nome innanti?… Stolti, cessate i vani sforzi!… È Dio Che mosso ai nostri secolari danni Di verace salvezza il calle aprío A noi per dubbie vie vaghi tanti anni. Ei tre diverse eccelse anime unìo Il termine a segnar de'nostri affanni, E disse: O Italia, e core, e braccio, e mente T' abbi al grand'uopo; or va, sorgi potente! E sorta è Italia omai, l'antico scorno A lei minaccia invan discordia truce. Or voi, martiri nostri, al trono intorno Di Dio che a meta i popoli conduce, Per le palme onde alteri in questo giorno Saliste al gaudio dell' eterna luce, Pel guardo estremo e per l' estremo vale Che volgeste, morendo, al suol natale, Stringetevi a pregar valore e senno Pari al sublime incarco poderoso A quei che a Italia, già divisa, denno, Unificando, addur gloria e riposo. E quando scocchi il sospirato cenno Dell' ultimo cimento glorïoso, Duci voi siate, onde le patrie squadre Rendan Roma e Venezia alla gran madre!

Napoli, nel maggio dell' anno 1861.

Non si pianga costei, se non peranco Giunta all' occaso della sua giornata, Sull' origlier chinava il capo stanco Nel sonno sempiterno addormentata. Nè di labili fior s'orni la cara Fronte, già sede di pensier virili, Ma di palme abbia un serto in sulla bara E suon di generosi inni civili. Chí la conobbe nel mortal viaggio Spirto sublime ìn grazïoso velo, Eroina di fede e di coraggio, Martire pia di cittadino zelo, Dio benedice che al superno volo Le impennò l' ali il dì che certo e vero Vide il riscatto del paterno suolo, Primo suo voto ed unico pensiero! Quanto sofferse, quanto amò!… di quanta Magnanim'ira, di che invitta speme Nutricò la gentile anima santa Nel lutto avvolta di sciagure estreme! Della morte crudel dei traditori Vide un eroe perir nel suo fratello, E cardi e spine surrogar gli allori Di quel diletto sul diserto avello. L' itala insegna ond' ella il volle ornato, Quando fugace arrise a Italia un raggio, Vide strappar dal barbaro soldato E calpestarla con osceno oltraggio. Vide l' Estense tirannel protervo Tornar ghignando dal suo breve esiglio, Tanto feroce più, quanto più servo Dello stranier che gli aguzzò l' artiglio. E sospesi ai supplizj, o in ferree porte Ristretti, o erranti sovra strania terra Vide i campioni, a cui fallía la sorte, Non la gloria di prodi in santa guerra! Tacita allora, nel negletto ammanto Delle diserte vedove ravvolta, Col dolce figlio che gemeale accanto, Esulò dal suo nido un' altra volta. E fu per sempre!… Oh dal pensier giammai Non mi cadrà quel dì che riverente Il suo solingo asil campestre entrai Là sul piano che irriga Arno fluente. E, in vista altera e dolorosa insieme, Sotto lucido vetro ella additava A me le note di congedo estreme Che presso a morte Ciro suo vergava! Forse, chi sa?… dell' agonia sul letto Di me puranco alla Gentil sovvenne, Mentre il guardo affiggea su quell' obbietto Dell' amoroso suo culto perenne; Chè il flebil verso, ch'io vergava allora Al valoroso martire in tributo, Mirar potea sulla parete ancora Presso al supremo fraternal saluto! Deh! udita avessi anch'io la donna forte, Tra i lunghi spasmi del suo morbo atroce, Pensosa solo della patria sorte, Per l' Italia pregar con ferma voce! Visto l' etereo lampo avessi ond' ella S' accese in volto ritornando a Dio! Oh come pien di vigoría novella Sgorgherebbe, a lei sacro, il verso mio! Ma sol fia dato a chi eternar la gloria Saprà d' Italia sorta a nuova vita, Celebrar di costei l' alta memoria Che ai patrï fasti andrà per sempre unita!

Napoli, nell' aprile dell' anno 1861.

Queste nitide carte, inaugurate Al tuo nome, o Maria, dal genitor, Sol di liete memorie avventurate Segnar ti doni amico fato ognor. L'arti sorelle de'bei fregi loro Vengano il tuo volume ad arricchir; Così che desti un sì gentil tesoro Delle compagne l' emulo desir. Ma sien sprone indomato al tuo pensiero Per l' arduo calle che ti schiude il ciel, Ogni armonica nota, ogni leggero Maestro tocco d'italo pennel! Tenera pianta, a cui vigile intorno Si affatica e solerte il buon cultor, Cresci felice, e sien tuoi frutti un giorno Quali imprometton tuoi leggiadri fior.

Firenze, 18 febbraio dell' anno 1862.

1 Questi versi furono recitati in una solenne tornata dell' Accademia Pontaniana. È questa l' aula ove di Aquino il Sole Giovinetto diffuse i rai primieri, Che il cieco error delle vetuste scuole Diradando, arduo vol diede ai pensieri; Qui tuonaron le sue sante parole Liberamente i più sublimi veri, E fu il dritto dei popoli bandito Un tiranno a spezzar giogo aborrito. Bello fia dunque a noi, che di cotanto Diritto armati un esecrabil soglio Nella polvere abbiam travolto e infranto, Mentre ogni urto sfidar parea qual scoglio, Bello a noi fia sciorre in quest'aula il canto L'evento a celebrar ch'è nostro orgoglio, E il fausto benedir giorno solenne Che il Re d' Italia a queste sponde venne. Il Re d' Italia!… E alfin v'è un glorioso Italo regno! alfin d'egro intelletto Più non fia come sogno ardimentoso Avversato, deriso il gran concetto! E tu, vaga Sirena, il generoso Che a propugnarlo espose in campo il petto Lieta saluti con l'augusto nome, Mentre aggiungi il tuo serto alle sue chiome! O dolce patria!… oh mio perenne amore, Sola e vera mia Musa ispiratrice! Schiava fremente invan d' ira e dolore Te in infausto io lasciai tempo infelice; Con l' immagine tua fitta nel core, Tra le genti raminga trovatrice, Di speranza e di fè l' inno io sciogliea Quando il fato più avverso a noi parea. E quando fausta la vittoria scese A coronar le franche itale schiere, A te fra gl'inni delle grandi imprese Si volgea sconsolato il mio pensiere. Meco a' tuoi mali, o dolce mio paese, Vidi pianger fraterne anime altere, E il tuo nome iterar tra i voti ardenti E i plausi udii delle commosse genti! Oh viva, viva il fulmine di guerra, Il Gedeon dei popoli novello! Viva l' eroe che te, sacra mia terra, Sottraeva dei despoti al flagello. Ei, con la man che i troni iniqui atterra, Al leale Sabaudo Emmanuello Porse il gemino fren delle preclare Piagge ov' ardon due monti in riva al mare. Però risuoni al regio nome unito Il nome suo per quest' antica vôlta; Chè se a noi pure al libero convito Delle genti seder dato è una volta, De' novelli argonauti al duce ardito Si debbe, e al Re che i patri voti ascolta; Ch' ambo scorge ad un fin vario cammino Cui rischiara dall' alto il Sol d' Aquino.

Napoli, nel gennaio dell' anno 1861.

Pei nostri campi eterna Primavera Edùca i fior d' inebriante olezzo, Ed intrecciati alla tua chioma nera Disgradan ogni prezïoso vezzo; Pur non io la serena Alba sacra al tuo nome Saluto, o vaga Lena, Accrescendo il bel serto alle tue chiome; Dell'amistà l' affetto Mal simboleggia il fior, caduco obbietto. Figlia del cor ch' ogni tuo ben disia, L'ingenua nota del modesto ingegno De' sensi miei su questi fogli stia Men perituro e più gradito pegno. Oh possa, ognor che il ciglio V'inchini, un generoso Ispirarti consiglio Di virtude e di zel patrio operoso! Questo, o Lena, è il mio voto Nel dì che sorge al nome tuo devoto.

Napoli, nel giorno 22 luglio dell' anno 1861.

Oh speranza d' Italia, o eletta schiera Di generosi giovinetti ardenti Che in quest'aula, di fasti incliti altera, Educhi al bello e al ver l'avide menti; Ecco la santa tricolor bandiera, Il palladio dei popoli redenti, L'arra onde pieno il suo trionfo arrida A voi la patria in questo dì confida. Sacro, sublime, o giovinetti, è il dono; E a voi con esso oggi si schiude il calle Onde negato fia sperar perdono A chi gli volga per viltà le spalle! Auspici lieti a tanto inizio sono L' angiol d' Aquino, e il gran Vico, che tralle Vetuste nebbie la fatale alterna Degli eventi scoprì catena eterna. Oh qui dinanzi ai simulacri loro, Che spiran forti cittadini affetti, Giurate al patrio suol crescer decoro Con l' ingegno e con l' opre, o giovinetti! De'nostri dritti gelosi il tesoro Giurate propugnar coi vostri petti; Giurate al Re dei popoli campione Che vi avrà seco all'ultima tenzone! In voi la forza, l' avvenir riposa In voi d' Italia; oh sia per voi tornata Al suo seggio d' onor questa vezzosa Regal Sirena a vil giogo strappata! E quando torni l' alba glorïosa All'italica festa inaugurata, Dato vi sia del vostro crin gli allori All'insegna intrecciar de' tre colori! Tu che dall' alba dell' età ridente L' anima schiva del vulgar sentiero Tratta a correr sentisti avidamente Dietro la traccia dell' eterno vero; Tu che Sofo e Levita, hai core e mente Che adegua il doppio eccelso ministero, E deplori l' error che vuol potente D' umana possa il successor di Piero; Tu che per questa Italia nostra hai tanto Sofferto, e crescer men sapesti in petto La carità che fu musa al mio canto, Oh vivi a lungo, e col tuo forte esempio Onor cresci allo stuolo benedetto Che non la patria disertò pel tempio! Quando cadeste tra 'l comun compianto, O vereconde giovinette suore, Tenni degno d' invidia e non di pianto, Il fato che vi addusse all' ultim' ore. Era tornata Italia serva, e infranto Per cordoglio sentiasi, Ebe, il tuo core; E della patria i lutti, Ada, nel canto Sposavi al duol del tuo perduto amore. Or col diserto Genitor, che il Sole Di libertà mirando, in sen più forte Sente il disio della perduta prole, Anch' io mi dolgo; e in voi spenti deploro Due cari esempi che alla patria sorte Certo cresciuto avrian novo decoro.

Livorno, nell' Agosto dell' anno 1862.

Come in cielo tuttor di nubi carco, Nunzio che il nembo pauroso ha fine Si dispiega dell' iri il fulgid' arco, Tal fra mezzo alle belliche ruine Sulla torre d' Orlando inalberata La bandiera d' Italia ondeggia alfine! Cesse Gaeta alfin!… la formidata Rocca fatal, che strale era nel fianco Di Partenope mia rigenerata, È nostra, è nostra!… Chino il volto e bianco Per dispetto e dolor, l' erede imberbe Del Tiberio Borbon si affida al Franco. Quante lo assalgon rimembranze acerbe Al passo amaro, di spregiati avvisi E di repulse stolide e superbe! I fantasmi dei mille in guerra uccisi Inutilmente a puntellargli il trono, Par lo inseguan tuttor di sangue intrisi. E nell' aere ascoltar pargli un frastuono Di voci indarno supplicanti aiuto, Miste a rampogne in minaccevol suono. Deh almen non oda il principe caduto Dello scherno la nota ingenerosa Mentre la strania nave ascende muto. Per la via dell' esilio dolorosa, Ov' ei sulle cognate orme si affretta, Pallida nella faccia ed animosa, Seco procede al par la Giovinetta Che gli fu avvinta il dì che nel regale Ostello irruppe l' eterna vendetta. Ella, che udì al suo canto nuziale, Senza dimora, seguitar gli accenti D' un imprecata nania funerale, Invan con gli occhi di pietade ardenti Spia dello sposo il guardo, il guardo ov' Ella Splender mai non mirò raggi eloquenti!… Ahi nell' età più venturosa e bella, Allor che tutto è gentilezza e amore, E par la sorte ai desir nostri ancella, Qual mai genio infernal precluse il core Di questo gramo ai dolci affetti, ai santi Impeti ond' uom di sè fassi maggiore?… Chi la Divina che gli umani pianti Asciuga, e sol misericordia indìce, E fiducia ed amor spira agli erranti, Di superstizïon tormentatrice, E d' ipocrito zelo, e ignavia oscura Nel culto adulterò dell' infelice?… Forse, o astuta noverca, a te la dura Alma or rimproccia con sommessa voce Di lui l' insania e la comun sciagura. E la rabbia del despota feroce Che gli fu padre, e te nel letto accolse D' onde un Angiolo al ciel reddìa veloce, Oltre la tomba prolungar si volse; Poi che ostinata tirannia suonâro Gli ultimi accenti che al figliuol rivolse. Ma Dio gl' infranse nella man l' acciaro Delle stragi sicane ancor fumante, E l' ardue moli onde si fea riparo Caddero all' oste glorïosa innante, Che le oppugnò d' Italia al sacro grido, Orribilmente fulminate infrante. Or vada, e sconti sovra stranio lido Degli avi i falli, i proprï indugi, e il vano Ceder poi spinto da consiglio infido. Conosca alfin che si resiste invano A Dio, che Italia vuol libera ed una Dall' alpi al mar nel suo giudizio arcano. Al nuovo dritto, al tempo, alla fortuna Ceda, ed offra olocausto almen non tardo D' un titol vuoto al suol che gli die cuna. E noi lodiamo l' italo Bajardo, Il fior dei prodi, il generoso, il saggio Delle cittadi espugnator gagliardo. Però che ai vinti ei non arreca oltraggio, E pompa indice al gran trïonfo solo Di santi riti ai forti estinti omaggio. Chè temprato esser dee d' intimo duolo Il gaudio di colui ch' italo oppresse Itale schiere sovra italo suolo. Deh fregio ai serti che la gloria intesse Per le sue chiome, sovra bianca lista Sien queste note in auree cifre impresse. E tu, Napoli mia, che della trista Fraterna guerra doloravi, e or tanto Lume di gioia disfavilli in vista, Nello spontaneo popolar tuo canto Che Garibaldi redentore acclama, Aggiungi or di Cialdini il nome e il vanto. Chè se quei col terror della sua fama Degli oppressori tuoi fugò il mal seme, Questi d' ogni a tuo danno ordita trama, A Gaeta infrangea le fila estreme!

Napoli, nel Febbraio dell' anno 1862.

(Canto con intercalare e rime obbligate.)

Oh! vorrei nel mio carme trasfusa La dolcezza ineffabile e mesta Delle note onde l' erma foresta Empir suole un canoro usignuol. Di una vergin ridirvi vorrei Il dolor che non trova compianto; « Infelice!… a' suoi gemiti e al pianto Non un core risponde quaggiù! » È leggiadra siccome la stella Che nel cielo si affaccia primiera, Pura è come l' estrema preghiera Che un morente solleva al Signor. Ma nel volto, negli atti dimessi La vïola somiglia soltanto, « Perchè sa che a' suoi gemiti e al pianto Non un core risponde quaggiù. » Quando il Sol che s' inchina al tramonto Ne ricorda il fuggir della vita, Ella il guardo fisando rapita Nella volta serena del ciel, Prega, e il duol che su l' alma le pesa Sfoga in mesto dolcissimo canto; « Infelice! a' suoi gemiti e al pianto Non un core risponde quaggiì! » O Signor, che d' un guardo penètri Degli umani i pensier più nascosi, In fra quanti si prostran dogliosi, Te, gran Padre comune, a pregar, Tu ben sai che niun serra nel petto Cor del mio dagli affanni più affranto, « Da che nacqui, lo sprezzo ed il pianto Fur mio solo retaggio quaggiù. » Son diserta, e diserta mi aggiro Senza nome nè amor tra le genti, Vil rifiuto dei propri parenti, Condannata a perpetuo rossor! Non conosce il mio cor travagliato Di domestiche gioje l' incanto, « La mia vita trascorre nel pianto, Nè un conforto mi arride quaggiù. » Necqui, e certo la misera madre, Tra 'l rimorso divisa e l' affetto, Sentì il core strapparsi dal petto Quando me da sue braccia strappâr. Ahi! vergogna a lei solo fruttava Di natura l' affetto più santo…. « Per la figlia non ebbe che pianto, Poi che al pianto la pose quaggiù. » La pietà di un ospizio mi accolse, V' ebbi a scorta sventura e mistero; Scarso latte di un seno straniero La rejetta bambina nudrì. Ah! perchè, se a me il nascer fu colpa Che punita doveva esser tanto, « Perchè mai non morii, quando il pianto M' era ignoto e il dolor di quaggiù? » Se per via qualche donna pietosa In me figge le luci leggiadre: Chi sa, dico, se quella è mia madre!… E nel seno mi sanguina il cor! Oh! potessi fruirne un amplesso!… Di un sol bacio il conforto ed il vanto!… « A' suoi piedi vorrei senza pianto Spirar l' ultimo fiato quaggiù! » Non si lagni colei che nudrita Nell' amore ineffabil materno, Onorata del nome paterno Orfanella rimase a penar; Riverita, compianta, ella puote Sparger l' urne di rose e amaranto: « Benedetto nel cielo il suo pianto, Trova un eco nei cuori quaggiù. » Io non ho chi nel mondo si curi Della sorte che tanto m' è ria; Ma il ciel guardo, e confido in Maria Che in tutela si prese i miei dì. Tu, sì, o Vergin celeste, mi accogli Sotto l' ombra del sacro tuo manto; « Tu innocente mi serba nel pianto, Ch' è mio solo retaggio quaggiù! »

Firenze, il giorno 2 gennaio dell' anno 1858.

— Sei vergine oscura, ai boschi sol usa, Ignara dell' arti tremende di guerra; Ma possa celeste in te fia trasfusa; Va, salva, o Giovanna, la patria tua terra! — Tuonava una voce, e l' umil fanciulla A un tratto si sente nel cor trasformata; I luoghi abbandona ov' ebbe la culla, Al re si appresenta, e parla ispirata: Quel Dio che Betulia dall' oste crudele Un dì liberava per man di Giuditta, Che il chiodo diresse con cui fe' Giaele Di Sisara al muro la fronte confitta: Mi scelse a strumento di nova sua gloria: A me di tue schiere l' arbitrio confida. Monarca di Francia, avrai la vittoria: È il Ciel che m' ispira, è il Ciel che mi guida! Sì disse: e negli occhi, nel dolce sembiante Brillavale il santo mandato di Dio; Commossi, fidenti, i duci e il regnante Esclaman: Va, salva il suolo natío! Tremate, o Britanni!… già monta il destriero L' eccelsa Eroïna, già impugna la lancia! Un astro le brilla sul saldo cimiero…. È l' astro de' fati propizi di Francia! Due fieri cherúbi che han bruno l' ammanto, E brune le penne dell' ali spiegate, Due fieri cherúbi le muovono accanto Brandendo per l' aere le spade affocate. È l' uno quel desso da cui vôlte furo In rotta le schiere del tumido Assiro; E l' altro, tra l' orgie festanti, sul muro Segnava il destino di un prence deliro. Chi all' impeto regge dei franchi campioni, Cui spinge a battaglia la vergin guerriera?… Si scaglian sugli Angli quai truci leoni Seguendo di quella la bianca bandiera. Ovunque ella volga l' intrepida faccia, Spronando i ritrosi, lodando gli arditi, Nel sen de' Britanni il sangue si agghiaccia, E volgon le spalle sgomenti, atterriti. Alfin la Vittoria sorride, e sospinge Tra i Franchi l' etereo remeggio dell' ale, E, tolto a la propria sua chioma, ricinge Il crin di Giovanna di lauro immortale. Cessato è di guerra l' orrendo clamore; Ai gridi, al rimbombo dell' armi crudeli, Successer dei bardi le voci canore Che l' inno di pace sollevano ai cieli. Già il franco monarca, tra i plausi onde suona Di sacro recinto la volta arcuata, Si posa sul capo l' avita corona Dall' alma Eroïna a lui conquistata. Le imprese, la gloria ne esaltano a gara E popoli e duci; ed ella frattanto…. Ed ella prostrata ai piedi dell' ara Inonda la faccia di un rivo di pianto!… Ah! il vile abbandono di un re sconoscente, Le atroci calunnie, il carcere oscuro, Dell' empie maliarde il rogo rovente Per sè già intravede in grembo al futuro!… E qual già nell' orto pregò il Redentore, Il calice infausto nell' aër scorgendo, Anch' essa prorompe: Deh! storna, o Signore, Da me, fragil donna, tal nappo tremendo!… Ma un vivo splendore le fêre le ciglia, E un Angiol di bianco ammanto coperto De' martiri invitti la palma vermiglia Le mostra, e di stelle un fulgido serto. Allora, le braccia sul seno raccolte, Con gli occhi di zelo sublime raggianti, Sorrise; e del tempio le gotiche volte Suonâr di festivi angelici canti.

Firenze, il giorno 2 gennaio dell' anno 1858.

Spirto gentil magnanimo Che all' ire, ai lutti, ai fasti, Al marzïale strepito Dell' età tua sovrasti, Come sovrasta l' aquila Dei nembi alla region; Conova!…a te fu patria La terra dei portenti; Di Buonarroti e Sanzio Prima inspirò le menti Il Sol che sulla povera Tua cuna sfavillò. Il Sol che all' arti ingenue Sembrò più vivo e bello Quando, dall' alma Grecia Raminghe, un nuovo ostello Qui ricercâro, e v' ebbero Sede gradita e altar. Ma poi che di barbarica Notte funesto velo Si stese sovra l' italo Armonïoso cielo, L' arti neglette e pavide Del bellico fragor, Stetter sui sacri ruderi D' Etruria e Roma assise; E quando nova un' iride Di civiltà sorrise, Esse, di allôr pacifico Incoronate il crin, A seggio altero e nobile Furon raddotte ancora. Ed oh di quai magnanimi Tuoi figli, inclita Flora, L' eccelso lor corteggio Vider composto allor! Allora per mirabili Moli, e divini carmi, E pinte tele magiche, Ed effigiati marmi, Ricca e famosa Italia Fra tutte genti andò. Pur, ch' il diría? dall' apice Di tanto onor le Dive Di nuovo al basso caddero; Chè lor, vergini e schive, Di travïati spiriti Un baldanzoso stuol, In fogge strane e barbare Quai stranie ancelle avvolse; E, inverecondo e stolido, Di sprezzo un riso volse De' gran maestri all' opere Che grette si appellâr! Ma fra cotanta insania, Serena sorridente De l' arte greca ed itala A te brillava in mente Il tipo incomparabile, O Veneto immortal. Robusto atleta e impavido Nell' arduo agon scendesti; Le schiette ingenue grazie Alla beltà rendesti; Ed a civile e nobile Scopo mirando ognor, Ne' marmi tuoi, che il palpito Quasi rendean di vita, Sempre un' idea trasfondere Santa, pietosa, ardita Ti piacque, e meglio all' anima Che ai sensi favellar. Oh la leggiadra e semplice Di Amore incauta sposa!… Oh la celeste Venere, Ch' emerge più vezzosa Dall' onde, poi che al candido Grembo fa schermo il vel!… Ma chi tutti i prodigii Può dir del tuo scalpello?… Ben li eternò la storia; Ma presso al sacro avello Del gran Tragedo italico Sostando il peregrin, Te cittadin magnanimo Ammira, esalta, adora; Chè nell' augusta ed inclita Donna che pensa e plora, E par che altrui rimproveri La sua tradita fè, Il tuo pensier recondito Ravvisa, e il santo orgoglio; Quello che stranio titolo, Da Lui che a stranio soglio Pospose la sua patria, T' indusse a ricusar. E quando una sacrilega Possa i tesor dell' arte Rapiva a questa misera, Che invan con chiome sparte Li reclamava, e videli In Gallia trasportar, Tu generoso e intrepido Alto levasti il detto; E pago sol miraronti, Quando al primier ricetto Ti fu concesso renderli Tral giubilo comun. Deh! non sdegnar, o italica Gloria sublime e pura, Ch' io d' improvvisi numeri Intessitrice oscura, A' lauri tuoi perpetui Caduco aggiunga un fior. Ma è fior cui nutre un alito Di amore alto e gentile; Fior che nel verno rigido Come nel dolce aprile, Sol dalle zolle italiche Manda il profumo al ciel!

Firenze, il giorno 2 gennaio dell' anno 1858.

O doppiamente inver sacro e famoso Tempio, che a forti cittadini affetti Sol del nome possente glorïoso I più schivi riscuoti itali petti; Salve, o tempio, ove l' ultimo riposo Trovâr quattro magnanimi intelletti In cui di sè stampò più splendid' orma L' Eterno Amor che l' universo informa! Salve! e te fin dall' alba de la vita, Ricca di mille lusinghieri incanti, Te vagheggiò la giovinetta ardita Mente, e ti volse il suon de' primi canti. Ma da quel dì che fuor di me rapita Ristetti all' urne sospirate innanti, Così mi vinser riverenza e amore, Che del gran tema ni sentii minore. Pur non sarà che la beata sponda Dell' Arno lasci l' umil trovatrice, Se al suo voto e all' altrui pria non risponda Tributo offrendo a te quale a lei lice. Chè se piegan da lor sede gioconda Que' sommi il guardo alla terra infelice, Leggendo nel mio cor senza alcun velo, Di un riso pio mi afforzeran dal cielo! O tu che quattro allori al crin cingesti, Michel più che mortale Angel Divino; Tu Che modello incomparabil resti Dell' italico artista cittadino; Come all' anima tua che alle celesti Sedi reddía nel suol sacro a Quirino, Come dolce tornar dovè la cura Che il tuo fral ricondusse a queste mura! Sol qui dovean le tue spoglie posarsi Poi che alla patria ognor fosti devoto; E a fronte a te sol degno era di starsi Quei che avvertì pria della terra il moto. Sotto l' etereo padiglion rotarsi Vide ei più mondi, e il Sol schiararli immoto; Onde primo le vie del firmamento Sgombrò dell' Anglo illustre all' ardimento. Deh! ricordar potessi, o patria mia, Sol le tue glorie, ed oblïar gli errori! Strappar potessi una pagina ria Dalla storia de' tuoi tanti dolori! Quella che mostra la crudel genía Che al Grande insidïò vita ed allori; E a rinnegare il conquistato vero Coi tormenti lo astrinse e il carcer nero! Ma pur quel ver niegando il ripetea Tra sè, chè in mente ei gli fulgea più vivo. E tanto a confermarlo il Sol figgea Che l' occhio stanco del veder fu privo. Nella tomba sereno ei discendea Certo del suo trionfo, e del votivo Plauso dell' orbe al suo possente ingegno Che il crollo diè dell' ignoranza al regno. Ma te, sublime pensator profondo Che ai regnator lo scettro temperando Gli allôr ne sfrondi, e di quai stilli al mondo Lagrime e sangue astuto vai svelando, Te le genti gravàr d' ingiusto pondo Di biasmo, i fini tuoi mal penetrando; E son recenti le ghirlande e i voti Che a' marmi tuoi tributano i nepoti. Oh! lode a quei che all' iracondo Alfieri Al tuo dinanzi eresse il monumento! L' Allobrogo feroce i tuoi pensieri Rivestì di magnanimo ardimento; E, sceneggiando finti casi e veri, Dall' ozio neghittoso e sonnolento Riscosse Italia, che stupita e lieta In lui riebbe il suo civil poeta! Ahi! come mesta e pensierosa inchina Sull' urna sua la fronte maestosa Questa del mondo un dì donna e reina, Or vile ancella a chi imperò orgogliosa! Oh gran padre Alighier, la tua divina Musa che la rendea sì glorïosa Tanto non ti mertò che nel natale Nido posasse l' esule tuo frale. È vuota l' arca ove il tuo nome è sculto, Ma tua severa effigie vi grandeggia; E par si adiri, quasi a nove insulto, Che in questa sacra a nostre glorie reggia, Sorgan tumuli a stranii ospiti, e inulto Il patrio dritto fin quivi si veggia Ove di patrio amor tutto ragiona E l' aura stessa: Italia, Italia, suona! Oh! il benedetto Arcangelo che Dio Fe' dell' Eden del mondo protettore, Ti serbi, o tempio, incolume dal rio Poter del veglio edace e distruttore; Chè in te si serba il venerato e pio Palladio del supremo italo onore, Nè il popol che ti eresse e in te si aduna Può a lungo disperar di sua fortuna.

Firenze, il giorno 2 gennaio dell' anno 1858.

Ed ancor del tuo fato infelice Fia che suoni il mio povero canto, Ed ancora una stilla di pianto Per te, o Saffo, dal cor verserò. Per te incauta, che, infida alla gloria, Fosti cinta d' indegne ritorte, « Ed or solo dal gelo di morte Speri estinta la fiamma di amor. » Sul funesto di Leucade sasso, Al cui piè l' onda irata s' infrange, Fra una turba che palpita e piange Sordi Numi invocando per te; Io ti veggo, col crine disciolto, Con le guance mestissime e smorte…. « Ahi soltanto dal gelo di morte Speri estinta la fiamma di amor! » Oh tacete!… sul lauro immortale, Sulla cetra il suo sguardo si posa… Di quell' anima ardente e amorosa Essi un giorno fur premio e desir; Oh tacete!…nell' estro già sente Le potenze dell' anima assorte…. Come cigno vicino alla morte Scioglie l' ultimo canto di amor!… — O gentil, melanconica luna, E voi stelle amorose, salvete! Voi, cui spesso le tenere e liete Mie canzoni rivolsi dal cor; Voi, che luce pioveste e armonia Su quest' alma ai celesti consorte, Rischiarate quest' ora di morte Con un ultimo raggio di amor! Nel delirio dei carmi rapita Le bellezze intravidi del cielo; Poi nel mondo lo spirito anelo Di quel bello una immago cercò; Di quel bello che, ohimè, contendeva Al mio volto adirata la sorte…. Ah perchè non mi colse la morte Pria che ardessi nel foco d' amor?… Era bello, qual Sole nascente, Il garzone che il petto mi accese, Il suo sguardo qual strale discese Nel mio petto e per sempre il ferì; Ma era crudo, bugiardo, e le gioie Sospirate fur labili e corte; E fu infausto decreto di morte Il mio primo sospiro di amor. Che giovommi l' alloro acquistato Nella prova sublime del canto?… E che il plauso ed il nobile vanto Delle greche commosse città?… Nell' ebbrezza del colto trionfo Tese amor l' arti perfide e accorte…. Spenga dunque agghiacciata la morte Questa fiamma vorace di amor! Schiudi, o mare, i tuoi gorghi, ed accogli L' abbattuto ed inutil mio frale, E voi, stelle, lo spirto immortale Accogliete nel lucido sen. E si eternin le voci che estreme Dal mio labbro tremante fur porte: « Che soltanto dal gelo di morte Spero estinta la fiamma di amor! » Disse, e schiuse ad un tratto le braccia, Si slanciò dalla rupe funesta; Per tre volte la candida vesta Sopra l' onda sconvolta apparì. Poi d' ognuno le luci atterrite Da quel loco funesto fur torte; E di Saffo piangendo la morte Imprecâro l' infausto suo amor.

Firenze, il giorno 6 marzo dell' anno 1858.

Oh m' ispirasse il genio Che arrise a Raffaello, A lui che seppe esprimere Col creator pennello La voluttà ineffabile Del maternale amor, Nella celeste Vergine Che stringe il Figlio al cor! Così soave e angelica Di giovinetta madre Vi pingerei l' immagine, Sorelle mie leggiadre, Ch'io vi udirei ripetere Con tenero sospir: « Trista colei che niegasi L' esempio suo seguir! » Eccola; avvolta in candida Succinta veste, siede Del verecondo talamo Tacitamente al piede. Penetra i vetri un languido Raggio del Sol che muor, E al crin diffuso e morbido Forma un' aureola d' or. Ma il raggio dell' occiduo Sole è men vivo e bello Del guardo suo, che affiggesi Nel caro bambinello, Che sui ginocchi tremuli Dolce cullando vien, Mentre gli porge il nettare Del suo materno sen. Pegno primiero e tenero Dell' amor suo fecondo Di doppia vita vivere Parle da ch' egli è al mondo Con lui, tuttora inconscio, Vuol rider, lagrimar, Vuol di sua mente vergine La prima idea spiar! Nessun più a feste videla O a danze lusinghiere; Di quella cuna a studio Passa le lunghe sere; Nè bada, se per vigili Notti, o largito umor, Splenda men fresco e vivido Di sua bellezza il fior. D' orror, di sdegno un subito Lampo l' ingenua faccia Pinge all' udir del barbaro Uso, che a stranie braccia Fida gl' infanti teneri, In ermo casolar, Di compro latte estranio Lor vite a nutricar. Miseri!… ahi non le assidue Cure, e i materni amplessi, E gli agi aviti abbellano I primi giorni ad essi; Ma scarse, rozze, e gelide Carezze porge a lor Donna venal, che il proprio Figlio pospose all' or! E forse il bruno e florido Sembiante a occulto male È velo, che nei pargoli S' insinua poi ferale. Grami crescendo e deboli, Quai fior che il gel colpì, Oh qual saran rimprovero Muto alla madre un di! Oh questa cara!… pavida Solo al pensarne, al petto Stringe con ineffabile Ansia il figliuol diletto, E sclama: Ah se Dio diedeti Da questo fianco uscir, È questo il sen che deveti, O figlio mio, nudrir! Non io, non io dividere Con altra vo' il tuo amore…. A me si debbe il palpito Primiero del tuo core. Con altra, che sol fingere Può i sensi miei con te, Non mai da te confondere La madre tua si de'! — Così parlando, rorido Di care stille il ciglio, Copre di baci il roseo Volto del picciol figlio. E quei, come rispondere Volesse al suo pensier, Leva gli occhietti, e schiudele Un riso lusinghier. O voi, che il latte ai teneri Parti negar poteste, Dite, qual gaudio simile Al gaudio mai godeste Di questa pia, che in tacita Stanza, in negletto vel, Adempie al sacro uffizio Commesso a lei dal ciel?… O mie sorelle…. oltraggiasi Per voi natura e Dio!…. In voi mirando, attristasi, Dispera il suol natío. Ch' ove mollezza e incuria Brutta alle donne il cor, Molle e incurante il popolo Vegeta, e serve ognor!

Firenze, il giorno 6 marzo dell' anno 1858.

Oh patria, oh primo assiduo Sospir dell' alma mia, Bella, vetusta martire Sulla cui fronte pia, De' fati ad onta, un magico Serto scintilla ancor; Oh patria!… A te nell' estasi Dell' improvviso canto, Sempre a te guardo, e all' inclite Tue glorie, e ai falli, e al pianto; La tua futura indomita Speme vagheggia il cor! E i caldi voti esprimere Tento nel verso mio; Chè non per fermo a sterile Altrui diletto, Iddio Questa fatal mirabile Fiamma largiva a me. Questa, onde sol l' italico Pensiero Ei privilegia; Questa, che il cieco Mevio O disconosce o spregia, No, non fia ver che a fatuo Foco somigli ognor! Oh potess' io rispondere All' immortal mandato!…. Alme invilite e torpide Scuoter mi fosse dato Con generosi numeri Devoti al patrio onor!… Potessi ai tardi posteri, Bello di eccelsa gloria, Nel verso mio trasmettere Il nome e la memoria Di Micca, invitto martire Di cittadino amor! Di Micca, che del popolo Semplice figlio oscuro, Quando a morir votavasi Con animo securo Gli Eroi di Grecia e Lazio Nel merto sorpassò. Chè non tra 'l caldo e l' impeto Di marziale agone, Ove si desta l' emula Virtù che a gloria è sprone, E a' rai del Sol risplendono I gesti del valor; Ma in cupo, sotterraneo Sentier ch' ei stesso aperse, Volenterosa vittima Di propria man si offerse, Da stranio giogo i proprï Fratelli a liberar. Ecco, di polve bellica Lunga omicida traccia Sterminio e morte al gallico Assalitor minaccia, Che la città sabauda D' assedio circondò. Difesa estrema ed unica È dei rinchiusi questa; Assidui all' opra sudano, Poco a compirla resta…. Ma qual confuso strepito Sul capo lor suonò? Ahi! fur traditi, e sperdono La mina i Franchi accorti; Oh come muti e pallidi Guardansi in viso i forti!… Dunque curvar dovrannosi Quai vinti allo stranier? No! Micca sorge; un vivido Lampo di ciel sfavilla Nel volto suo, nel rapido Girar di sua pupilla; Gli atti, la voce improntansi D' arcana maestà: Fuggite!… ei grida ai pavidi Compagni, io sol qui resto. Io che a salvar la patria Col mio morir mi appresto, Nuovo Sanson, con l' empïa Oste io qui sol cadrò. Fuggite!… al Prence, al Popolo Recate il detto mio…. La sposa, i figli!… Ahi miseri, Trovin sostegno!… Addio!… I tuoi nemici, o Italia, Dio sperda ognor così! — Sì dice, e tosto orribile Scoppio d' incesa polve Tra le macerie e i laceri Corpi nemici involve L' Eroe, che con l' intrepida Sua destra il provocò. Oh salve, invitto Spirito, Di eterno onor ben degno!… Non a fugace cantico Di feminile ingegno L' esempio tuo magnanimo Si addice celebrar! Ma un italo Simonide Dio ne darà, lo spero. E questi tra i più splendidi Fatti di ardir guerriero Del popolano intrepido La morte esalterà! —

Firenze, il giorno 6 marzo dell' anno 1858.

Nostro non sei; questa fatale e bella Terra nudrice del valor latino Nè la cuna a te diè, la favella Che al ciel levava il Vate Ghibellino; Pur fin dall' alba dell' età novella Ebbi un mesto per te culto, o divino Cantor, che eterni ne' bei versi tuoi L' armi e l' ardir dei lusitani Eroi. Nè sol perchè così sublime il canto, Che amor di patria ti dettò, risuona, Così spesso di te penso e del vanto Che incontrastato il mondo alfin ti dona. Ma t' amo pur perchè misero tanto Fosti, vestendo la mortal persona, Ch' altri non fu, che più terribil guerra Di te durasse col destino in terra. Vate e guerriero, sopra suol lontano Sconti, esulando, l' amor tuo primiero. Ma talor vago in riva all' oceano Ti brilla in mente un immortal pensiero. Quelle son l' onde pur che con sovrano Ardir solcava il lusitan nocchiero; Di là si mosse, e dopo rischi e stenti Nuove terre scoperse e nuove genti! Oh di quai vaghe fantasie novelle Ti vedi popolar la mente accesa! O splenda il sole, o in cielo ardan le stelle, D' altro non pensi che dell' ardua impresa; E vanti, e pugne, e storie meste e belle Lungo tema ai tuoi canti amor palesa; Amor di patria, che più ferve in seno Di chi sospira il suo natal terreno. In ermo loco, al mar da presso, ascoso Ad ogni sguardo interi giorni, vivi. Freme il turbo talor, con procelloso Mugghio l' onda il tuo speco investe a rivi, E tu, assorto nell' estro portentoso, Dei baleni al fulgor mediti e scrivi; E un macigno t' è seggio, e musa ai canti Gli elementi sdegnati insiem cozzanti. Or che son mai per te dei vili o ignari Lo sprezzo, e l' onte del destin tiranno? Le tue vigili notti, e i giorni amari Del plauso della terra il premio avranno. Il dono che alla tua patria prepari È tanto, e tal, che invidïar dovranno Le colte genti la felice sede Che a sì gran vate un dì la culla diede! E di speranza pieno al mar ti affidi, Al mar, che quasi senno avesse e mente, Ti contrasta gran tempo i patrï lidi E in tempesta crudel scoppia fremente. Già le vele son preda ai venti infidi, Già rotte arbori e sarte, la stridente Folgor scoscende, e ognun s' agita e pave Sulla sbattuta perigliante nave. Tra il lamento comun tacito, immoto, Con fermo aspetto la vicina morte Guardi dal ponte, avventuriero ignoto Dal crine incolto, e dalle guance smorte. Come sacro amuleto, con devoto Fremito appressi al cor che batte forte, Picciolo involto di vergate carte In cui vive di te la miglior parte. Oh l' amor del poeta!…. il vivo amore Affisso all' opra del fecondo ingegno!… Tenero è più di quel che un genitore Stringe al primier delle sue nozze pegno; È ineffabil, sublime, intenso ardore Che del senso mortal trascende il segno; Provar nol può chi non sortì il retaggio Del creatore onnipossente raggio! Ma s' inabissa il legno…. oh chi è che sbalza Nell' onde, e lotta con la rea tempesta?… Dell' una man fende i marosi, e innalza L' altra con sforzo estremo oltre la testa; Tra 'l periglio feral che il preme e incalza Del viver suo non un pensier gli resta, Ma sol gli scritti di salvar procura Unico suo tesoro, unica cura! Oh mira, mira! Ei vince; ecco la riva Afferra, e al labbro il suo tesoro appena Reca, che perde la virtù visiva E resta senza moto in sull' arena. Oh meglio or fora se dalla mal viva Salma, spezzata la mortal catena, Il tuo spirto divino alla verace Patria volasse ed all' eterna pace! Chè non dell' egra povertà nel loco Accolto io ti vedrei gramo, languente, Chiedere all' uom di Dio con detto fioco, Ch' ultimo don, ti rechi un tizzo ardente; E non vedrei per te preda del foco Que' scritti che strappasti al mar furente…. Que' scritti, ohimè, che dalle belve umane Non ti ottenner mercè di scarso pane!

Firenze, il giorno 6 aprile dell' anno 1858.

Bella, ospitale ed inclita Patria dell' Alighieri, Che a vol più franco e libero Drizzavi i miei pensieri Col generoso plauso Che tu largivi a me, Vedi!…. ti volgo in lagrime L' accento dell' addio: Come il pensier dolcissimo Del caro suol natio Sempre la tua memoria Avrò scolpita in cor!

Firenze, il giorno 6 marzo dell' anno 1858.

O pietosi, che ai miseri eventi Che i fratelli percosser gemete, E una prece, una lacrima avete Che per essi propizia il Signor; Oh pietosi, nel cor vi discenda Oggi il suon di mie pronte parole; Io dipingo una Vergin, che il Sole Ama d' alto fantastico amor. Come voto d' un labbro innocente Pura e vega è la povera Nina, Nella dolce pupilla azzurrina L' alma bella ed amante traspar. Io la veggo: d' appresso al verone Sta solinga ed immobile assisa, E nel raggio del Sole si affisa Qual farfalla del lume al fulgor. Oh! non sia chi le passi d' accanto E non mandi un sospiro dal core; Oh! non sia chi lo strano suo amore Osi irrider con scherno crudel. Chi, sintanto che offusca l' argilla Che ne fascia la luce al pensiero, Chi scrutar puote addentro al mistero Degli affetti d' un vergine sen?… Forse allor che spiccossi quell' alma Dall' amplesso beato di Dio, Per discender dall' astro natio Nella valle d' esilio e dolor, Nell' oceano di luce infinita Spinse l' avido sguardo profondo, Poi bambina esultò quando al mondo Ne rivide un riflesso nel Sol. Nell' etade che il petto si schiude A un' incognita vita novella, Amar volle, e ogni cosa più bella Mandar vide fugace splendor. L' uom, gli augelli, ed i fiori olezzanti Cangia il tempo, distrugge la morte; Ma disfida immutabile e forte Le vicende dei secoli il Sol!… E del Sol questa vaga innamora, Sì che in lei par la fola avverata Onde Clizia in un fiore mutata Sempre è vòlta al pianeta maggior. Come amante che parli all' amato, Gli rivolge soavi parole, E si adorna per esso, e si duole Come fosse gelosa talor. Ma se d' invida nube ei si vela Adirato lo crede, e dolente Piange e prega, finchè più lucente Non ritorni nell' etra a brillar. Chi può dir come sempre importuna Per lei giunga la sera romita? Del suo cor par sospesa la vita Finchè lungi il suo bene si stà. Ed invidia la Luna e le Stelle, Perchè batton lo stesso sentiero, Ed invidia ogni nuvol leggero Perchè puote il suo caro appressar. Poveretta! oh che fia di te il giorno Che dell' astro bellissimo i rai Ad un tratto oscurarsi vedrai Come infermo vicino a morir? Ah! percossa da fero cordoglio Tu cadrai come giglio reciso; Ed allor che in suo splendido riso Torni il Sole la terra a bear, Manderà malinconico un raggio Sulla muta tua salma gelata…. Ma tu allor sarai fisa e beata In quel Sol che ecclissarsi non può.

Siena, il giorno 18 aprile dell' anno 1858.

Come soave a giovine E fervido amatore Dell' adorata vergine Scende lo sguardo al core, Se sovra i labbri arrestale Amabile pudor La sospirata e magica Parola dell' amor; Così l' estremo e languido Raggio d' occiduo sole Nell' alma malinconica A me discender suole; Se tolta al vano strepito Del mondo menzogner, Vago per piagge floride Sola co' miei pensier. Oh agreste solitudine! A te mai sempre anelo, Ma più nella fantastica Ora che imbruna il cielo; Quando dei dolci cantici D' innamorato augel, L' eco sull' ali recane L' estivo venticel. Oh qual per me vagheggiasi Incantatrice scena!… Giace tra colli fertili Una valletta amena, Ricca di piante ombrifere, Di limpid' acque e fior, Che il tepid' aere impregnano Dei più soavi odor. Ivi, da gente rustica Per sacro voto eretto, Sorge, ricinto d' alberi, Un rustico tempietto, Sacro a Colei che agli angeli Regina in ciel si stà, E dispensiera e agli uomini Della eternal pietà. Nullo importuno strepito Turba la valle queta; Assiso a piè d' un salice È un vecchio anacoreta, Che appoggia il mento ispido Sul torto bastoncel, E al passeggero mormora: « Sia teco Iddio, fratel! Ma liete voci appressano Di villereccio canto; Poi riverenti tacciono Al pio delubro accanto; Sorride il solitario, E sorge a benedir Gli agricoltor che l' opera Dïurna lor fornîr. Ed ecco il bronzo flebile, Che par che pianga il giorno, Lento, solenne spandesi Pel limpid' aere intorno; Tutti a quel suon si prostrano Presso al devoto altar Il triplicato angelico Saluto ad intuonar: — Salve, o Maria, di grazie Piena, e al Signor diletta; Fra le create vergini Sei tu la benedetta; E benedetto è il candido Frutto del Tuo bel sen, Che Redentor degli uomini Per essi a morte vien. O immacolata ed inclita Del Nume Genitrice, Prega per noi, progenie Colpevole e infelice; Sempre, ma più nell' ultima Ora per noi fatal…. Cámpane Tu, Fortissima, Dall' aspide infernal. — Taccion commossi i villici; Ma d' angioletti un coro Il priego lor ripetere Gode sull' arpe d' oro; E Lei che d' astri fulgidi Cinge corona al crin, Volge a quell' alme semplici Il riso suo divin. Oh agreste solitudine!… Mille hai tu voci, e al core Parlan gli augelli, l' aure, Il rivo, e il Sol che muore; Ma il suon dell' Ave angelica È mistica, fedel Voce di Dio, che ai miseri Pace promette in Ciel!

Siena, il giorno 18 aprile dell' anno 1858.

Fra le più care immagini Che la commossa mente Nei dolci suoi delirj Suole evocar sovente, Quando del mondo il tedio La notte allevia a me, Te, dall' antica e gelida Urna dei tuoi riposi, Richiamo, o bella Vergine, Dai canti armonïosi, Dal cor pudico e tenero, Dai fervidi pensier. E par che a me tu vengane Avvolta in bianco velo, Stringendo al sen la cetera, Gli occhi rivolti al Cielo, D' aureola malinconica Cinta lo sparso crin. Allor pel mobil etere Che tu pensosa miri, Lento, indistinto un fremito Di flebili sospiri Par che discenda, e spargasi Mesto d' intorno a te. Misera!… e azzurro e limpido Di gioventù il mattino Rideati, e rose e lauri Spargea sul tuo cammino Innamorato il secolo Di tua gentil virtù. E teco al par venivane Di donne illustre schiera, Innanzi a cui procedere Umil vedeasi e altera Quella immortal Vittoria Del nostro sesso onor; Quella, di cui l' Italia Plaudendo ancor ragiona, Poi che al bel capo cingere Sdegnò regal corona, Paga del verde lauro Sul vedovil suo vel. E te pur d' alti spiriti Benigno il ciel dotava; Sì che l' afflitta patria, Mirando in te, sperava Di cittadino encomio Segno i tuoi carmi un dì. Ma invan sperò; chè i nobili Estri, d' ogni vigore Venne a snervar l' indomita Possa d' infausto amore, Che quasi vasto incendio Ti divampò nel sen. Cara infelice!… ah l' empio Che tradì un tanto affetto, Ben parve a te che d' angelo Favella avesse e aspetto, Ma in sen nutría d' un demone Il fiero instabil cor. Avrian spetrato i flebili Lamenti tuoi le rupi, Teco costretto a gemere Le tigri avresti e i lupi, Se il tuo dolor comprendere Era concesso a lor. Ma quei fu sordo, e accesesi Anzi d' ardor novello; Oh sventurata!… oh scuotiti, Non affissar l' avello Con quel sorriso infausto Che altrui dilania il sen! No, non voler che scindasi Tosto dal caro velo L' alma che invano agli uomini Chiese l' amor, che in cielo Sol può trovar ricambio Di non mentito ardor. Prega!… sublime, angelico È il duol se prega e spera; Ma vile, e stolto, ed empio È quando il cor dispera, Cristo oblïando e il calice Ch' Ei volentier sorbì! Saffo, a' suoi riti credula, Forse mertò compianto; Ma tu… che veggio?… i languidi Lumi t' inonda il pianto, E sospirosa e celere Ecco t' involi a me. Pace, o dolente spirito, Pace alla tua memoria. Io piango sì, chè a Italia Potevi accrescer gloria, E sei trofeo miserrimo Di sconsigliato amor!

Siena, il giorno 18 aprile dell' anno 1858.

Quando fremente e sconfortato il core Della nequizia che nel mondo ha stanza, Di mille giusti ai gemiti, al dolore, Vede irrider degli empi l' esultanza, Tutto smarrito volgesi al Signore E prega: oh afforza in me fede e speranza! Fa ch' io rimembri ch' è fugace in terra, Dei tristi il regno che a virtù fa guerra! E il sacro libro, che lo spirto eterno Dettò ai veggenti antichi d' Israele, A meditar mi pongo, e ognor vi scerno Promesse onde s' infranchi il cor fedele. — Fea del popol d' Abramo aspro governo, Ministro al Perso Rege, Aman crudele, E a sua ferocia, e allo smodato orgoglio Velo facea la sicurtà del soglio. Oh come furo in ogni tempo, e quanto Traditi e illusi quei che han scettro e trono! Come i malvagi dei soggetti il pianto A soffogar presti ed accorti sono! Ma Iddio lo ascolta, Iddio che giusto e santo Mai gli oppressi non lascia in abbandono; Ei, che umil donna, e un garzoncel sovente, Ad atterrar prescelse il prepotente. E Te, bella e gentil sopra ogni bella, Quasi fra gli astri fiammeggiante Sole, Ester, che di modesta verginella, Moglie e regina, serbi atti e parole; Ester, te il Dio dei tuoi maggiori appella Oggi a mostrar ch' Ei può tutto che vuole; Te, nuova immago, onde adombrar si piace Lei che al mondo darà salvezza e pace. Sorgi, non odi il flebile lamento Del tuo congiunto venerando e saggio?… Ei sdegnò con magnanimo ardimento Porgere al truce Aman servile omaggio. E quegli arse di sdegno, e con cruento Editto a vendicar fassi l' oltraggio; Editto, ohimè, carpito al tuo consorte, Che al tuo popol minaccia eccidio e morte. Oh qual si sparge mesta pallidezza Al fero annunzio sull' amabil faccia! Pur non smarrita nella sua tristezza, Con muta prece innalza al ciel le braccia. Cresce in quel punto Iddio la sua bellezza D' arcana grazia che ogni core allaccia; E sol di questa armata, e possa e inganno Ella si appresta ad atterrar d' Amanno. Pur, nel varcar le regie auguste soglie Vacilla, e il cor quasi le stringe un gelo: Simile a fior che nelle proprie foglie Si chiude a sera, curvo in sullo stelo. Ma il re lo scettro alla diletta moglie Stese, e dal volto ella scostando il velo, La bellezza scoprì che sola al mondo Di celeste splendea lume giocondo. D' affetto e meraviglia un mormoiro Tacito serpe tra i commossi astanti; E il re: Svelane, o donna, il tuo disìo, Poichè grazia trovasti a noi dinanti. A questi detti, un indistinto e rio Presagio i foschi rabbujò sembianti Del vile Amanno, a cui volta colei Disse: Da questi, o Re, compar mi dèi. Ei me, nel popol mio, persegue a morte, E Mardocheo che a te salvò la vita: Te, nella fama tua, Re giusto e forte, Insidia in opre d' empietà scaltrita. Dio ti parla pe' miei detti, o consorte; Trama non è dalle mie genti ordita. Ei solo, ei sol sinor fu d' Israello E insiem di Persia l' infernal flagello! Oh giustizia di Dio! Quell' orgoglioso Che a suo talento governò Assuero, Che sul popolo oppresso e doloroso Onnipotente si arrogava impero, Ecco, al balen di un pio sguardo amoroso, A un labbro femminil che parla il vero, Dall' alto seggio al palco è trascinato Ch' ei stesso ergea pel suo nemico odiato! O giustizia di Dio! chi non t' ammira E al suol prostrato non ti cole e onora?… Codardo, e stolto, chi diffida, o aspira La tua sacra affrettar terribil ora! Tu vegli eterna; e l' uom che a te rimira, Te fin del tristo negli eccessi adora: Chè il dì che Amàn più d'ira ebro minaccia, Un Ester sorge, e nella polve il caccia!

Siena, il giorno 18 aprile dell' anno 1858.

È la terra! — ecco un grido risuona Sull' ispano naviglio — È la terra! E a quel grido la ciurma s' atterra Riverente del Ligure al piè. Lagrimando ei di gioia, vèr quella Drizza, affretta la prora veloce; « E sul lido novello la Croce Pianta, insegna di pace e d' amor. » Su quel suolo ignorato ei si prostra Nel trasporto più vivo del core; E dal nome del Dio Salvatore Gode il loco auspicato appellar. Chè color, che or l' adoran qual Nume, Ier dannavanlo a morte feroce: « Dal periglio il sottrasse la Croce, Che implorò con fiducia ed amor.» Ma pur quale d' affetti battaglia Di quel grande ora ferve nel petto! Ha raggiunto l' altissimo obbietto Di sua speme, che sogno sembrò; Vinto ha i rischi del lungo cammino, I ribelli, e l' invidia più atroce; « E sul mondo novello la Croce Ha inalzato qual arra d' amor. » Pur colà rimirando il vessillo Sventolar della Iberia guerriera, Freme in cor che italiana bandiera Non vi scorga in sua vece ondeggiar. Freme e piange; e somiglia a un rimorso Quel dolor che nell' alma lo cuoce; « Chè in lui pari allo zel per la Croce Della patria fu sempre l' amor. » O Liguria! e con scherno accoglievi Il suo voto, e il trattavi da insano…. Ond' ei supplice e mesto all' Ispano La stupenda conquista offerì. Stolta Italia! è tua colpa s' ei cresce Possa al duro stranier che ti nuoce, « Dei tuoi danni oh sopporta la Croce. Se de' tuoi sprezzi il genio e l' amor! » E voi, figli del mondo novello, Che dei strani sembianti stupite, Ed ingenui e sgomenti fuggite Nel vederli sul lido inoltrar; Non temete dell' italo Eroe, Non vi turbi spavento precoce; « Conquistarvi ei sol brama alla Croce Con le vie di dolcezza e d' amor. Ei non avido cerca tesori, Fede e Gloria lo ispiran soltanto; Ma pur troppo di stragi e di pianto Per voi miseri il giorno verrà! Vedrà il Sol di voi scorrere il sangue, Come rivo che è presso alla foce, « Fatta auspicio agli scempï la Croce, Che è l' insegna di pace e d' amor! » Ma fia lungi allor l' italo duce, Lungi, e stretto entro carcer profondo…. Poi che a un re fece dono d' un mondo, Ei mendìco e reietto morrà. Tardo e vano compenso la terra Serberà di sue glorie la voce: « Ma sol Quei che morì sulla Croce Darà premio ai suoi stenti e all' amor. »

Pisa, il giorno 9 maggio dell' anno 1858.

E te, che in mezzo ai floridi Piani Sebezi sorgi, E di stupore e d' ansio Terror soggetto porgi, Monte famoso, ignivomo Di stragi apportator, Vesevo, e te dal limpido Arno il mio cor rimira, E la Città bellissima Che immersa in duol sospira, Mentre su lei più fulgido Ride d' Italia ìl Sol! Da tampo immemorabile Inconsumato avvampi; E nei fuggenti secoli Orma di morte stampi, Dai cavernosi visceri Fiamme eruttando fuor. E dell' umano spirito L' orgoglio ognor confondi; Chè quanto più t' investiga Più la cagion nascondi, Che a te ministra e prodiga Il foco struggitor. La sapiente istoria La menzognera fola, Confuse insiem, s' incontrano Nel far di te parola; Ma i tuoi prodigi vincono Quanto narrâro ancor. Chè gl' improvvisi orribili Del suolo scotimenti, Le pioggie d' atre ceneri E di lapilli ardenti Che tu rinversi, variano Di modo e tempo ognor. Pur chi contempla estatico, Giunto da stranie sponde, La vetta tua cerulea, Le falde tue gioconde, Ricche di verdi pampini, Di bianchi ostelli, e fior; Chi mira le delizie Di Portici e Resina, Che spensierate sorgono Sopra l' altrui rovina, E da' tuoi piè si specchiano Nel sottoposto mar; Quasi dubbioso chiedesi Se l' orrido Vulcano, Che un dì sparir fe' Stabia, Pompeia ed Ercolano, Sia quel gentile e florido Colle che innocuo stà. Tal la virtù Sebezia, Fervida e in Dio Secura, Nell' ombre e nel silenzio I fati suoi matura, E come fiamma indomita Fia che trabocchi un dì! Quando le belle sicule Contrade io visitai, L' immenso Etna terribile Nell' ira sua mirai Quasi gigante impavido E terra e ciel sfidar. E vidi sulle fumide Lave diserte e nere Inerpicarsi i miseri Coloni a schiere a schiere, Cercando alcun vestigio Dell' arso campicel. A udirne il lungo gemito, I disperati detti, Mille nel cor mi sorsero Vari angosciosi affetti; E a te, diletta Napoli, Ricorse il mio pensier. A te, che il tuo Vesuvio Sempre temer pur dei; Che dissepolta all' aure Vedi tornar Pompei, E di sue spoglie splendide T' adorni il regio sen. Oh! da te lungi scorrano Sempre le lave accese! Vegli di Dio l' Arcangelo Sopra il gentil paese, Che dei suoi flutti argentei Riga il Sebeto umìl! Come il Vesevo, fervido È de' tuoi figli ìl cuore. Finch' egli avrà materia All' incompreso ardore, Vivo l' amor di patria Nel petto lor sarà.

Pisa, il giorno 9 maggio dell' anno 1858.

Bella e pura, qual sogno innocente Che rallegra l' età della culla, Per sua madre una vaga fanciulla Prega immersa in crudele martir. Presso al letto, ove inferma ella posa E si lagna con voci interrotte, Solitaria trascorse la notte, Lunga notte d' angoscia e terror. Quante volte improvvisa ella sorse, Da un' orrenda dubbiezza atterrita, E a spiarne tremando la vita Sull' inferma ricurva penò. E all' udirne il respiro affannoso Schiuse a un moto di giubilo il core…. Poi mirando del volto il pallore In singulti repressi scoppiò! Poveretta! nell' alba degli anni Non ha al mondo che quella sua cara; Steso il padre mirò sulla bara, Quando il lustro primiero compì. Ogni speme, ogni affetto ripose Ella allor nella madre adorata…. Oh la udite! sul suolo prostrata Così prega per essa dal cor: Tu che fosti, che sei, che sarai, Increato, Infinito ed Eterno, Che scendesti dal seggio superno Fatto pio dell' umano dolor; Tu l' Eletta fra tutte le donne Onoravi ed amavi pur tanto, Tu puoi dunque l' angoscia ed il pianto Misurar d' una figlia, o Signor! Qual se l' ira di turbo improvviso Urta e sfronda gentile arboscello, Gracil fior, che crescea sotto quello, Trema e scampo non osa sperar; Tal son fatta dal dì che feroce Morbo stese sul letto del duolo Questa pia per cui vivo, ed è solo Mio conforto e sostegno quaggiù. Fu il minor dei suoi doni la vita, Che fra stenti angosciosi mi diede: Debbo a lei de' miei padri la fede, Dell' ingegno la luce e il vigor. D' ogni affetto più casto e gentile Solo a lei debbo il culto e il disio Nell' amor del terreno natìo, Che col latte nel sen m' instillò. Che farei solitaria, inesperta In un mondo che temo ed ignoro? È una madre tal ricco tesoro, Che compenso non trova quaggiù. Non v' è amor che pareggi il suo amore; Non v' è petto del suo più fedele; Non vi è duol così acerbo e crudele, Che il suo riso non valga a lenir. Deh! non far ch' io sì tosto in lei perda La mia guida, il mio solo consiglio…. Per mia madre t' implori Chi figlio Nella valle del duol ti chiamò! Rendi a lei la primiera salute, Dio pietoso, benefico e santo; O a me pur, che t' imploro nel pianto, Dona l' ali a seguirla nel Ciel! Tal pregava quell' angel d' amore Affissando l' imago trafitta Di Colui, che d' ogni anima afflitta Conta e premia i divoti sospir. Tal pregava; e aleggiavale intorno Di celesti invisibile schiera; E ripeter s' udìa la preghiera Cui pietoso il Signore esaudì.

Pisa, il giorno 9 maggio dell' anno 1858.

Ed io sovente la pupilla frale Volli affisar della tua gloria al raggio, E riverente a te, Sofo immortale, Porger tentai nel poco verso omaggio; Ma fiacche troppo a tanto vol fûr l' ale, E caddi affranta a mezzo del viaggio, Simile a pigro augel della riviera Che seguitar s' attenti aquila altera! Pur nuovamente il nobile subietto A ritentar mi sforza oggi il disìo; E più possente m' affatica il petto L' aura del canto che mi diede Iddio. L' imago tua più viva all' intelletto Splende nel suolo che ti fu natìo, E coll' alte memorie al giovin core Più ardenti l' inspirò brame d' onore. Deh! ch' io solinga penetri il vetusto Tempio, delle fanciulle Arti portento; Quello che un popol di tesori onusto, Trionfator sul mobile elemento, Eriger volle ad immortale augusto Di religion, di possa monumento; Quel che un tempo echeggiò di gloria al canto, E or da secoli ascolta inutil pianto! Là di patria, di Dio, d' arcani veri, Che si agitavan nella mente accesa, Traevi a meditar ne' tuoi primieri Anni, non consci di nemica offesa; E là, qual da pensier nascon pensieri, Nell' oscillar di pia lampa sospesa, Quella tua mente, già in saper matura, L' equa del tempo imaginò misura. E pria che Europa tutta a te volgesse Gli occhi ai novelli tuoi dommi stupita, La luce lor nell' animo s' impresse Della toscana giovinezza ardita; Ma l' ipocrito zel, che ignave e oppresse Volea le menti, infin d' allor la vita Tua gloriosa seminò di spine, Che qual martire poi cinserti il crine.

Pisa, il giorno 9 maggio dell' anno 1858.

O famoso Cantor d' Albïone, Che fra l' ire dell' orrida guerra Che straziava la patria tua terra Per deliro fanatico zel, Del terrestre bellissimo Eliso Le perdute delizie pingesti, E le pugne in che i spirti celesti Di Satanno l' orgoglio fiaccâr, Io t' invoco, deh ispira il mio verso, Si che io pinga la donna primiera Nel mattin del creato, qual' era Quando Iddio di sua man la formò! Non dal limo, ma trasse dal fianco Di colui che dal limo già nacque La gentil crêatura, e si piacque Lei di tutte bellezze adornar. Diè a' suoi lumi degli astri il baleno, Delle rose alle guance il vermiglio, Dell' intatto pieghevole giglio Diè alle tenere membra il candor. Alla chioma che sparsa e diffusa Feale al grembo ed agli omeri velo, Diè l' aurato color di che il cielo Pinge il Sole sorgendo dal mar. E alla bocca che timida e pura A sorriso ineffabil s' aprìa, Delle sfere donò l' armonìa Degli accenti nel magico suon. Tal creolla, e dell' opra leggiadra Invaghiron le angeliche schiere; L' aura, l' onde, le piante, le fiere Nel mirarla tremaron d' amor. E proruppe l' Eterno: compiuta Or degli esseri è alfin la catena; D' ogni cosa celeste e terrena In te accolsi la varia beltà. Così disse, e a colui che nel sonno D' esser solo gemea sul destino, Dolcemente la trasse vicino Fra l' erbetta nascente ed i fior. Quei frattanto, miracol d' amore, Vedea in sogno la diva sembianza; Forte il cor d' una ignota speranza Palpitando, dal sonno il destò. Gli occhi schiuse ad un tratto e le braccia, A mirare, ad accoglier la bella; Chè in lei tosto la dolce sorella Ravvisò, suo confuso sospir E mentr' Ella credeasi all' amplesso, Sol di grazia e innocenza vestita, Con Adamo all' Autor della vita L' universo concorde inneggiò. O cantor d' Albïone, la musa Tua divina quell' inno ridice; Ma seguirla sì lunge non lice Ad ingegno che ha debile il vol. E già veggo spiccar l' innocenza Lunge il vol dall' Eliso immortale…. Ahi perchè bella tanto, e sì frale Tu la donna creasti, o Signor? Ma Tu il tutto prevedi e compensi, O Dio giusto, benefico e forte,… D' Eva il fallo produsse la morte, Schiuse il ciel di Maria la virtù!

Pisa, il giorno 13 giugno dell' anno 1858.

1 « Avendo alcuni soldati del colonnello del conte Piermaria di San Secondo, il quale alloggiava nell' Ancisa, scorrendo verso il monte, fatto tra l' altre prede, prigiona una fanciulla vergine bellissima di bassa mano, ma non già di basso cuore, mentre tenzionavano tra loro chi dovesse essere il primo a doverlasi amorosamente godere, ella di ciò contentissima mostrandosi, gli pregò, che dovessero indugiare a risolver cotal quistione la sera nell' alloggiamento; e andandosene con esso loro con lieto viso, quando fu sopra mezzo il ponte dell' Ancisa, si gittò a un tratto a capo di sotto in Arno: e quante volte l' acqua la respingeva in su a galla, tante ella mettendosi la mano al capo s' attuffava giù nel fondo. E così innanzichè fussero a tempo a riaverla affogò; degna certo di tanto lunga e felice vita, quanto ella misera e corta l' ebbe. Così passò il caso, secondochè allora sparse la fama; il costume della quale è accrescere sempre, così nel male, quanto nel bene, tutto quello ch' ella, o vero, o falso, rapporta. Ma …. io so per certo, che costei non era fanciulla, ma donna d' un bel circa a quarant' anni, benchè formata, e fresca molto. So, che non era vergine, ma maritata: chiamavasi per nome Lucrezia de' Mazzanti da Figline: il suo marito aveva nome Jacopo, chi dice de' Palmieri da Firenze, e chi del Civanza da Figline. Costei fu presa sopra l' alpe di Cascia; e in quel medesimo giorno era stato fatto prigione il suo marito, non sapendo l' uno dell' altro. Quegli che prese il marito lo menò nel Castello o piuttosto Villaggio dell' Ancisa: quegli che fece prigione lei, il quale si chiamava il Capitan Giovanbattista da Recanati, la condusse nel borgo pur dell'Ancisa in sull'Arno, e la teneva ben guardata. Ma avendole detto che egli voleva per ogni modo, ch' ella quella notte si giacesse con esso lui, ella di ciò contenta mostrandosi, gli chiese di grazia, che la lasciasse andare al fiume a lavar certi suoi panni: ed egli pensando ad ogni altra cosa, che a quello che avvenne, le diede licenza, mandando però con esso lei un suo ragazzino per guardia. Costei giunta all'Arno, il quale per cagione delle pioggie era allora assai ben grosso, facendo sembiante d' alzarsi i panni di dietro per cominciare a lavare, s' arrovesciò la vesta in capo, e così coperta, e inviluppata si gittò nel fiume, e annegò. » VARCHI, Sloria Fior., lib. XI. E a te di fiori e lacrime Anch' io darò tributo, Io che ogni patria gloria Dal cor guardo e saluto, E invoco in dì che furono Conforto all' avvenir. Pure di sdegno e angoscia Freme l' accesa mente Sempre che i casi memora Di quella età dolente Che te, Donna, tra i nobili Suoi vanti annoverò. Ahi, quell' età d' insanie E di spergiuri è piena!… Di pianto inesauribile Larga schiudeati vena, O mia Fiorenza, e ogni alito Di vita in te smorzò!… Ma qual mentre s' approssima, Crescendo all' ombre orrore Turbo crudel, più fulgide D' un immortal splendore Le rare stelle veggonsi Nel Cielo scintillar; Tal la virtù degli incliti Figli a tuo scampo armati, Che invan da te sperarono Stornar l' ira dei fati, Brilla fra l' empie tenebre Del tradimento vil. E Sol d' inestinguibile Luce è l' Eroe gagliardo Che ultimo resse il libero Tuo popolar stendardo, E cader seco videlo A Gavinana alfin. Dove trascorri?… oh volgiti Al già proposto segno; Canta femminea gloria, O femminile ingegno: Troppo di quel magnanimo Arduo a te fôra il dir!… Di te, Tosca Lucrezia, Suonin le ardenti rime. Più di colei che il Lazio Col suo morir sublime Scosse, sei tu di laude Degna pel tuo morir. Ch' Ella, a fuggir l' infamia Di già commesso errore, Figgeasi il ferro gelido Infino all' elsa in core; Ma tu, sol perchè pavida D' oltraggio al tuo pudor, Del patrio Arno fra i vortici D' un salto ti slanciavi…. Pura così al tuo talamo La casta fè serbavi; Nè al nome tuo legavasi Con l' onta la pietà! Invan cercâro i barbari A te vietar la morte; Chè mormorando il tenero Nome del tuo consorte, Quantunque volte spinseti L' onda pietosa fuor, Tante bramosa ed avida Ti ricacciasti al fondo, Finchè l' eletto spirito, Sciolto dal fragil pondo, Al Ciel volò, dei martiri La palma a conseguir. O avventurosa! e accolseti Nella sua pace Iddio, Mentre tuttor la fervida Speme crescea disìo Di propugnar la patria De' suoi campioni in cor!… Tu non vedesti l' inclita Città tradita e vinta, Ed ahi!… non già da stranio Braccio, in catene avvinta, Indarno i patti e i liberi Suoi dritti rammentar! Ma i generosi ch' ebbero Sul palco ingiusta morte, Vider del sacro empireo Sulle lucenti porte Te prima in mezzo agli angeli Che lieti gl' incontrâr!

Pisa, il giorno 13 giugno dell' anno 1858.

Estro gentil, che le mie labbra al canto Schiudi e m' accendi di sublime ardore, E or sull' italo duol note di pianto Mi detti, e or inni al prisco italo onore; Estro gentil, deh il più flebile e santo Suono fa tu che m' esca oggi dal core, Ch' io favello di Lui che in stil sovrano, « Cantò l' armi pietose e il capitano. » Non tra l' applauso di splendente corte, D' una bella rapito al dolce riso, Nè tra l' orror di ferree ritorte Da invidia bieca vilemente irriso; Ma presso alla tremenda ora di morte, A placido sperar composto il viso, Dagli anni no, ma dal dolor solcato, Io mi dipingo l' immortal Torquato. Nella stanzetta umìl del cenobita Su gramo letticciuolo io veggo il grande; Della fuggente travagliata vita Un fiato appena par dal labbro ei mande; Ma l' alma sua da visïon rapita Già intravede di stelle auree ghirlande, E di celesti festeggianti un coro Che a sè l' invita al suon dell' arpe d' oro. Oh, qual è l' angel che all' amico stuolo Qual colomba amorosa ecco si toglie, E vêr lui spicca disioso il volo Per iscortarlo alle superne soglie?… Nell' occhio grave dell' estremo duolo Il moribondo ogni vigor raccoglie, E d' un sorriso balenando ancora Mormora in basso suono: Eleonora!… Eleonora! Oh le catene, i stenti, I durati per lei dispregi e affanni, Di calunnia le trame frodolenti, Il corso inevitabile degli anni, L' abbandono crudele dei viventi, Della speme delusa i disinganni Spenta non hanno in quell' ardente core Una favilla dell' antico amore! No, non l' han spenta; chè l' amor che nasce Dalla virtù, posta in sublime altezza, D' ignota al volgo vile esca si pasce Fermo il pensiero all' ideal bellezza; Nè perchè in terra il fragil velo lasce Di tal divino amor cessa l' ebbrezza; Ch' oltre si slancia allor lo spirto anelo L' amato oggetto a contemplar nel Cielo! E di tal tempra fu, sommo Torquato, L' amor che t' arse per l' altera e pia, Che insiem ti fece misero e beato E martire de' tuoi mali morìa. Stolto colui che impreca al dì che il fato Quella donna gentil mostrotti in pria, Ch' Ella la musa fu che te, Poeta, Sospinger seppe a glorïosa meta. Ma pria che il mar dell' infinito accolga L' anima tua quaggiù tanto trafitta, Giusto è che in terra ancora il premio colga Della virtù che parve derelitta; Giusto è che sappi come ansia si dolga Roma non sol, ma Italia intera afflitta E ripentita che al tuo divo ingegno Tardi troppo offeri premio condegno, Oh quel veron schiudete!… odi profondo Un mormorio di voci, un suon di pianto. Prence non fu che al suo partir dal mondo Di tal pubblico duol si avesse il vanto! Angelo suo cortese, al moribondo Ciglio, deh squarcia del futuro il manto; Di tre secoli a un tratto ei compia il volo E il guardo affigga sul romuleo suolo. Miri un popolo tutto in riverenti Modi prostrato ai suoi funerei marmi, Che alle sue sacre ceneri squallenti Erge trofei di verdi lauri e d' armi. Oda mille partir dai petti ardenti Di posteri devoti itali carmi, Che il trionfo renduto a sua memoria Esaltan come cittadina gloria…. Oh, non m' inganno!… a placido sorriso Schiude il labbro l' altissimo poeta. Dell' estrema mortal gioja sul viso Gli errò la fiamma passeggiera e queta. Or basti al mondo: vanne al Paradiso, Alma ben degna di sì eccelsa meta; Vanne, e di là dagli immortali regni L' Angel sii tu dei combattuti ingegni.

Pisa, il giorno 13 giugno dell' anno 1858.

O dei monti dell' erma Galadde Antichissima eco gemente, Deh! ripeti all' accesa mia mente Della figlia di Jefte i sospir. Nell' orror di tue cupe foreste Ella errando deplora sua sorte; « D' una vergin già sacra alla morte Tu il lamento raccogli, o Signor! Come stuol di colombe disperse Da rio colpo in aperta campagna, Soglion poi la ferita compagna, Che nel vol regge a stento, seguir, Tal di Masfa le caste donzelle, Tutte in volto mestissime e smorte, Seguon lei che olocausto di morte, Fu dal padre promessa al Signor. Deh! sostate, o pietose, la mesta Non seguite sull' erta del monte; Solo a Dio le parole sien conte Che in quest' ora le sfuggon dal cor. Voi sommesse piangete una vita Si gentil che giornate ha sì corte…. Ella intanto, al pensier di sua morte, Così geme rivolta al Signor: Come striscia di nebbia sul colle, Come solco di remo sull' onda, Come l' orma di un piè sulla sponda Arenosa, se il vento s' alzò, La mia traccia fia spersa dal mondo, Frante ch' abbia le umane ritorte; Nell' albor della vita, alla morte Crudo voto mi danna, o Signor! Ahi me lassa!… sì bello e ridente L' universo al mio sguardo apparìa! Me di baci e carezze coprìa La gentile che il nascer mi diè; E diceami: T' allegra, t' è padre D' Israello il campione più forte; Egli in campo disfida la morte, Disperdendo gli avversi al Signor. E a' bei voti d' amor, di speranza Già schiudeasi il mio vergine petto; Già sognava un amabile oggetto Nei frequenti suoi palpiti il cor, E diceami: il più prode guerriero Certo il padre a te sceglie in consorte, E tu figli avrai pur, che la morte Sfideran per la patria e il Signor. E raccolta nel tempio romito Te coi voti stancava, o gran Dio; Perchè Jefte all' ostello natìo Ritornasse ricinto d' allôr. Spunta alfine il gran giorno; egli riede Vincitor dell' avversa coorte, Per Ammone Ei fu l' angiol di morte Che la spada brandì del Signor. Ratta corro a incontrarlo…. d' un grido Ei m' aggéla, e velando le ciglia, Ahi! t' uccide, prorompe, a mia figlia, L' impaziente tuo tenero amor. Perchè spente non fur queste luci Che tue care sembianze han già scorte?… Infelice! sei sacra alla morte, Chè il mio voto raccolse il Signor! Io non piansi, si dentro impietrai Dall' orrenda novella atterrita. Ma tu, Dio, creator della vita, Che il tuo soffio nell' uom suscitò, Tu che vegli dal germe la pianta Finchè i fiori ed i frutti ne porte, Di', a quel voto funesto di morte Assentivi dall' alto, o Signor?.. Ma tu l' Angiol mandasti ad Abramo Quando lazò sopra Isacco il coltello!… Pur se a render te fausto a Israello Può il mio sangue versato servir, Ecco pronta già son…. Dall scure Le mie luci non fien neppur torte; Prego sol che non costi mia morte Un rimorso al mio padre, o Signor! Di Giacobbe le vergini figlie, Cinte il crin di giacinti e viole, Sul mio fato al tornar d' ogni sole, Sciolgan l' inno di memore duol. Ed io presso l' antica Rachele, Dove l' alme in Te godono assorte, M' abbia il premio che serba la morte A' tuoi fidi, o pïetoso Signor!

Livorno, il giorno 11 luglio dell' anno 1858.

Limpido, azzurro il ciel ridea Sulle tranquille onde del mar, Dell' aura il placido soffio parea Soave invito a navigar; Quando dal porto, fra lieto grido Di speme, l' agile nave salpò; Solo il nocchiero, guardando il lido Fuggir, d' insolita ansia tremò. Oh! non mai parvegli bella cotanto La terra ov' egli fanciul vagì; Non mai nel core flebile tanto Di addio la voce scender sentì. Fisi alla costa, che lunge omai Velava un diafano roseo vapor, Con lungo sforzo cercàr suoi rai, Un caro ostello noto al suo cor. Poi quando tutto fu cielo e mare, La fronte pallida egli curvò; Ed ecco l' onde già quete e chiare, Dall' imo fondo turbar mirò. Riscosso il guardo leva, e una nera Infausta nube vede appressar, E certo annunzio d' aspra befèra Del vento avvisa nello spirar. Gemon gli alcioni, e ratto il volo Spiccan fra i scogli a riparar; Ecco i delfini in folto stuolo Vengon la nave ad accerchiar. Certo è il periglio; or dai sembianti Cancella ogni orma d' ansia e timor; Chè da lui pendono i naviganti, Omai già pavidi pei giorni lor. Ratta obbedisce la ciurma al suono Della sua voce che vincer sa Perfin l' orribile scoppio del tuono Che ai più' securi sgomento dà. Ahimè! la nave sbattuta or s' alza Fino alle nubi sui flutti, ed or Con subitaneo urto trabalza Fin degli abissi nel cupo orror. Abbatte e spezza arbori e sarte Irresistibile vento crudel; Squarciate vele galleggian sparte Sulla sconvolta onda infedel. Esperto invano, contro tempesta Sì rea, di reggere tenta il nocchier; Alfin prorompe: Speme non resta…. Noi più non campa mortal poter! Oh! i stridi, i gemiti che d' ogni lato A un tratto inalzansi a questo dir!… E già il governo abbandonato, Certo che il debba l' onda inghiottir, Ai suoi più cari volge il nocchiero L' addio che estremo crede quaggiù; Ed ecco sorge nel suo pensiero Vision d' angelica forma e virtù. Presso al domestico altar prostrata, Vòlta alla Vergine stella del mar, Coi figliuoletti la sposa amata Vede, e gli ascolta per lui pregar. Vede l' immagine Diva alla pura Prece con dolce riso assentir, Ed a quel riso per l' aria scura Vede la bella Iri apparir. Di ciel partita un' armonìa Ode ripetergli in fonda al cor: « Dei naviganti l' astro è Marìa, Chi in lei confida fia salvo ognor. » Prostrossi allora devoto al suolo. E con indomita fede pregò; E la possente Diva d' un solo Sguardo, la furia del mar calmò.

Livorno, il giorno 11 luglio dell' anno 1858.

E di te spesso, e del pudico affetto Che t' arse il cor per la gentil Francese, Cantai, tremante di dolcezza il petto, Alla diva armonìa che amor t' apprese; Ma in più severo maestoso aspetto Oggi l' imago tua nel sen mi scese, Non di Laura il cantor, ma il cittadino Vate, io vagheggio là sul giogo Alpino. Fregiato il crin del lauro trïonfale Che in Campidoglio un dì Roma t' offrìo, La distesa a' tuoi piè terra fatale Tutta abbracci col guardo e col disìo; Così, raccolte le fortissim' ale, Aquila altera dal ciglion natìo Misurar tutto l' orizzonte suole Col guardo avvezzo a mirar fiso il sole. Oh di che eterna giovanil bellezza Splende l' opima italica pianura! Il doppio mar con placida carezza Lambe di sue città l' eccelse mura; Sembra il sospir dell' olezzante brezza L' armonìa più gentil della natura, Che, innamorata, dal fiorente suolo Fino al ciel senza nubi ergasi a volo. Perchè a tal vista incantatrice e cara Suona dolor del gran poeta il canto? Italia! ei esclama, oh benedetta e chiara Sede un giorno di gloria oggi di pianto; Dall' empio sen di Babilonia avara, Che ti usurpa di Pier soglio ed ammanto, Io riedo a te, nè de' tuoi mille affanni Veggo scemato un sol dopo tanti anni! Siccome lampo che un istante a' rai Sgombra l' orror di notte procellosa, Brillò e sparve, quel Grande ond' io sperai Roma tornasse qual fu pria famosa; Spirto gentile, e indarno a te cantai: Scuoti dal suo torpor la neghittosa, Le man forte le avvolgi entro i capegli Sì che lungo suo sonno si svegli!… E indarno a voi, cui pose in man fortuna Il fren delle bellissime contrade, Mi volsi poi perchè sorgesse alcuna Nel vostro sen dei danni suoi pietade; Invan gridai: Vana speranza aduna Chi cerca ausilio di non proprie spade; Latin sangue gentile esci d' inganno, Peggio è lo strazio, al mio parer, che il danno. Questo forse non è l' eletto nido Ove nutrito io fui sì dolcemente? Non è questa la patria in ch' io mi fido, Che cuopre l' uno e l' altro mio parente? Questo deh! alfin vi scuota intimo grido, Che il selvaggio più crudo avverte e sente; Questo v' inalza il popol doloroso Che da voi, dopo Dio, spera riposo! Oh piangi, Italia mia, chè n' hai ben donde, Invan spesi per te zelo e favella! Tebro, Olona, Arno, Po, l' Adriache sponde E le Tirrene empio destin flagella; Sol di là dove ai mesti si risponde Chieggio aita or per te, Niobe novella; E prego pur che inteso a miglior meta, Ceda l' amante al cittadin poeta.

Livorno, il giorno 11 luglio dell' anno 1858.

Dalla cetra mia fida compagna Rado io traggo gioconda armonia: Mesta è sempre quest' anima mia, Come il carme che parte da me. Con la flebile squilla lamenta, Con la trepida auretta sospira, E fra l' urne dei morti s' ispira A concenti d' amore, di fè. È la notte.— Una placida notte Cui rischiara la luna dal cielo; Sparsa il crine, ed in lugubre velo Sta una donna d' appresso a un avel. Poveretta! congiunte le mani, Genuflessa sull' umido suolo, Atteggiata a ineffabile duolo, Smorto il labbro, qual fior che appassì, Or sul marmo, or su due fanciulletti Che prostrati le gemono accanto, Figge il guardo, e con voce di pianto Così versa l' oppresso suo cor: — Non è ver che si mora d' affanno, Anzi invano la morte sospira L' infelice, che orbato si mira D' ogni bene dal crudo destin. Ben lo seppi, me lassa! quel giorno Che ti vidi, adorato consorte, Freddo, immoto, sul letto di morte, Come arbusto divelto sul suol. Io non piansi nell' ora tremenda Che parlasti a me l' ultimo addio, Chè sentii per le vene ancor io Della morte trascorrere il gel. Ahi! sperava raggiugnerti tosto Dove eterno e felice è l' amore; Giurai teco esser sempre al Signore Quando all' ara fui tratta con te. Perchè dunque l' amante mio spirto Dal suo misero fral non si scioglie? Perchè in terra rimane la moglie Se lo sposo fu assunto nel ciel? Ah! si tronchi una vita che omai Sol m' è fatta odiosa e funesta…. Ma chi piange! Chi mai per la vesta Cerca trarmi lontan dall' avel? Figli…. oh figli! Ah perdona, o consorte, Al delirio di questa infelice; No, che ancora seguirti non lice Alla fida compagna lassù! Viver deggio per questi tuoi cari; Mel chiedesti con gli ultimi detti;… Deggio a santi magnanimi affetti I lor teneri cuori educar, Sì che schivi del secol codardo Crescan degni dell' italo suolo, E ricordin che oppressa dal duolo, Qui, sull' urna che alberga il tuo fral, Io pregai la bontà dell' Eterno Che mi fêsse anche vedova madre, Se un dì il nome dovesser del padre I figliuoli con l' opre macchiar. Ma nol temo; i materni consigli, Presso al marmo che in grembo ti chiude, Saran seme di patria virtude Di questi orfani afflitti nel sen. Deh! ch' io compia l' incarco solenne Che la patria gelosa m' affida; E poi teco, o consorte, mi guida All pace promessa del ciel.

Livorno, il giorno 29 agosto dell' anno 1858.

A Te, che il sacro lauro, Ond' hai sul crin corona, Non devi ai molli, ombriferi Gioghi dell' Elicona, Ma del cruento Golgota L' erta il nudrìa per te; A Te, che d' ebro secolo Nel tenzonar feroce, Serenamente impavido All' ombra della Croce, Sciogliesti il novo cantico Che ti dettò la fé; Manzoni, a te dell' inclito Terren, che ad ambo è cuna, Inneggio in nome, io povera D' ingegno e di fortuna, Ma fra tutt' altre fervida Di cittadino zel. « Vergin di servo encomio E di codardo oltraggio, » Porge soltanto all' itale Glorie il mio verso omaggio; E tu sei pura e splendida Gloria del nostro suol. A tristi nenie nordiche, A pastorali pive, A suon di vuoti numeri Su viete fole argive, Sdegnasti tu, magnanimo, L' alto tuo verso unir. Ma fra il discorde strepito La mite tua parola Surse a bandir mirabile La vereconda scola, Che dal vangelo ispirasi A generoso ardir. Parve all' oppresso popolo La nova melodia Santo dell' alma ed intimo Grido che al ciel salìa, De' suoi bisogni interpetre, L' Eterno a supplicar. E benedì la vergine Musa, che all' are accanto, Della speranza i palpiti Mescea del duolo al canto; Nè più d' Achill e Patroclo, D' Ifigenìa non più, Ma d' Ermengarda al gemito Soave si commosse; Di Carmagnola all' orrido Caso fremè, si scosse; E alla canzon degl' itali Guerrieri s' infiammò. Poi de' promessi ingenui Sposi gli affetti casti Narrando, intero un secolo A' suoi sguardi svelasti, Che negli abusi perfidi Di prepotenza vil, Nell' ire e i vizii, fomite A reo morbo ferale, D' un sacro Eroe magnanimo Nella virtù immortale, Scuote, ammaestra, insinua Sensi d' onor, di fè. Tu, che col guardo d' Aquila Scorrevi l' orbe intero, Che t' abbassasti al solio, Grande, fatal guerriero, Nei dì che il vasto imperio Tutti inchinava a te, Di quest' eccelso ïl genio Ti vide, e pianse, e tacque; Qual Sol tua gloria spegnersi Vide, e tacea, fra l' acque; Ma sciolse all' urna un cantico Che certo non morrà! E non morrà L' indomita Fè che da' versi suoi Spira, e di patrï, candidi Sensi, maestra è a noi…. Deh perchè schivo e tacito Da lunghi anni si sta?… Che l' ama e onora ogni italo, Oggi più ancor lo apprese; Poi che ansioso, unanime, Tutto il gentil paese, Pur ora a Dio volgevasi Pe' suoi languenti dì. E Dio sorrise al fervido Voto; e sì cara vita Fra 'l cittadino plauso Risurge invigorita…. Deh n' abbia Italia in premio Un altro canto almen! Diserta, oimè, la misera De' suoi miglior, si attrista; Sol due fulgenti allietano Astri tuttor sua vista; L' un d' Arno i piani irradia, L' altro d' Olona il suol. E se d' Arnaldo e Procida Riscosso è il gran Cantore, Se a lei Manzoni incolume Or ridonò il Signore, Di riverenza e invidia Fia segno Italia ancor.

Livorno, il giorno 29 agosto dell' anno 1858.

Era quell' ora che un incanto arcano Sulle bellezze del creato imprime, Quando il Sol che già volge all' oceàno Dei monti indora le più eccelse cime; E l' anima, che anela a un ben lontano, Batte le penne a volo più sublime; L' ora in che il novo peregrin d' amore Punger si sente, e intenerirsi il core. Solo, nell' erma disadorna stanza Tacito siede l' immortal guerriero, Che su troni spezzati in sua possanza Il trono alzò del più superbo impero. Sulla pallida sua nobil sembianza Brilla la luce del sovran pensiero, Del pensier che abbracciò vasto, profondo, Le mutate per lui sorti del mondo. O l' immenso Ocean d' un guardo solo Misuri, o conti i suoi bianchi marosi, Chi seguitar della sua mente il volo Tenta, o dirne i ricordi dolorosi! Aquila prigioniera, or fissa il polo, E disegni nel cor forma animosi, Or la catena che gli avvince il piede Guarda, e a sconforto desolato riede. Pur nel severo maestoso aspetto, Dello sguardo nel vivido baleno, Un soave or si pinge intenso affetto, Che il cor commosso fa balzargli in seno; Nell' effigie d' un biondo fanciulletto, Bello come d' amor raggio sereno, Ei fiso mira, e dalla sua pupilla Tacita scorre una pietosa stilla. Ah! non piangea, quando lasciato il soglio Disse alle pompe e al regio fasto addìo, Non pianse allor che il suo domato orgoglio Di Waterloo l' estremo colpo udìo; Non piange quando su quest' ermo scoglio Membra i trionfi onde sì altero ei gìo, Ma piange sempre allor che volge il ciglio Su quella immago del lontano figlio! Ei piange sì, chè immenso, prepotente Vince l'amor paterno ogni altro amore; Provvido il Nume incancellabilmente Dell' uomo, Ei stesso, lo trasfonde in core; E costui, che a provar l' onnipossente Gioja d' esser chiamato genitore La prima infranse nuzial catena, Del suo spergiuro ha in questo amor la pena. Oh mira come tende ambo le braccia A quella muta effigie, e col desiro Del caro amplesso sculto in sulla faccia Volge l' accento a lei, quasi deliro. Favella il padre, ora il guerrier si taccia, Chè santi affetti io sol pingere aspiro; Nè di lui, che altra terra al bel paese Prepor potè, narrar vorrei le imprese: — Oh figlio mio, figlio innocente, a cui Pesan sul capo i miei trionfi e i guai; E fia pur ver che degli amplessi tui Beato in terra io non sarò più mai?… Nè come segua i gran vestigi sui Dal labro di tuo padre apprenderai Si che, lui spento, ognor più bella duri La sua gloria per te nei dì futuri? Nè la mia man sulla tua bionda testa Si poserà nell' ultimo momento!.,. Ma il nome eccelso, il nome mio ti resta, Che d' eserciti e re fa lo sgomento. Il mio spirto sia teco; osa, ridesta De' miei prodi il magnanimo ardimento; E, qual già volli, a te sommessa e doma S' inchinerà la terra, o Re di Roma! — Ahi stolto umano antiveder! sognava L' eroe per quel fanciul vittorie e serto, Ed ei, di vita in sul mattin, calava Nel bruno avello ad inghiottirlo aperto; Nè la diletta pur terra toccava Ch' ebbe lo scettro al suo gran padre offerto, Nè alla sua destra giovanil fu dato Impugnarne il fatal brando onorato! Iddio forse così ruppe il disegno Più vagheggiato dal guerrier fatale, Perch' ei sottrar non volle a giogo indegno Questa, ch' ei rinnegò, terra natale…. Deh! s' altri per valor d' armi, o d' ingegno Surga nel mondo a quel famoso uguale, A lui ripensi, e mai dello straniero Impor non osi al patrio suol l' impero!

Livorno, il giorno 29 agosto dell' anno 1858.

O decoro dell' Itala terra, Vivo esempio di fede e costanza, Tu che angelica avesti sembianza, Ed angelico canto quaggiù; Tu, cui nome donò la Vittoria Che in battaglia i tuoi padri seguìa, Se ancor suono di patria armonìa Molcer puote il tuo orecchio lassù; Deh! al mio voto benigna t' inchina, Ch' io ti vegga, o gran donna, qual' eri, Ch' io penètri ne' santi pensieri Che i tuoi vedovi giorni cruciâr! Io ti veggo; la nobile fronte Ch' ebbe a sdegno un diadema regale, Un' aureola di luce immortale T' orna, e il lauro, dei vati sospir. La persona, che augusta e leggiadra Spira mesto ineffabile incanto, È ravvolta nel lugubre ammanto Che dà fede del lutto del cor. Taciturna e pensosa percorri Le tue fulgide sale, nell' ora Che l' azzurro del ciel s' incolora Della luce morente del Sol. Quelle sale, ove spesso corona A te fan quei divini intelletti Che nell' arte, o nei numeri eletti L' ardue cime del bello toccâr. Buonarroti, l' Estense Cantore Qui rapiti a' tuoi canti rimiri, Qui con essi t' affanni e t' adiri Sul destino del patrio terren. Or sei sola; degli avi i sembianti Sovra l' auree pareti dipinti Guardi, e ognun di quei nobili estinti Con l' affetto ti sveglia un dolor. Quale iliade d' errori, di glorie, Di sciagure, l' Italica Donna Deve agli odî e al valor dei Colonna Che per senno e per forza brillâr! Ah! perchè se di gesti famosi Essi ardeàn nel perenne disìo, Perchè a pro del terreno natìo Non snudaron più spesso l' acciar? Perchè spesso l' italico sangue Prodigâr per vessilli stranieri, E l' alloro dei ludi guerrieri Nelle stragi fraterne insozzâr? Ma che fia?… Tu vacilli, e congiunte Le bellissime mani sul petto, Guardi immota, piangente l' aspetto D' un guerriero degli anni sul fior. Bello egli è di virile bellezza, Ma allo sguardo, che attento il rimira, Dal suo volto un' angoscia traspira, Un rimorso celato del cor. Saria ver?… Quello sposo adorato Per cui sgorgan perenni i tuoi pianti, Quell' eroe che i tuoi nobili canti Ad altezza invidiata esaltâr, La sua fama oscurò d' una nube Pria di scender dei morti alle soglie! Fra l' Ausonia matrona e la moglie, Fra un disprezzo sublime e l' amor, Ferve ignota nel santo tuo petto Una pugna incessante ed amara…. Traditor chiama Italia il Pescara, E il Pescara il suo nome ti diè! Oh pietosa! È ben questo il martiro Che consuma i tuoi giorni dolenti; Questo asconder ti sforzi alle genti, Non a Dio da cui chiedi mercè! La mercè che i colpevoli affida, Presso all' ara tu implori al consorte; Ch' ei fu prode, t' amava, e sua morte Certo il duol del suo fallo affrettò. Ma severo a lui troppo il giudizio Non temer dell' età che t' adora; Se il tuo carme divino l' onora, Se al suo cener tu serbì la fè, Non vi fia chi col biasmo contristi Dell' uom caro al tuo cor la memoria; Dal fulgor della pura tua gloria La sua taccia dispersa sarà.

Pistoia, il giorno 1°ree; agosto dell' anno 1858.

Come stentato e fragile Fior che in rinchiuso loco Crebbe, laddove penetra Di luce un raggio fioco Penosamente volgesi Sull' allungato stel, Così un morente giovane, Dall' egre insonni piume, Presso al veron trascinasi, Del sol cadente il lume Con affannato anelito Bramoso a vagheggiar. Misero!… a lui consunsero Immedicati affanni, Che non han nome, il pristino Vigor de' suoi begli anni. Casto, gentile, e fervido Di eccelse brame il cor, Quando parea che schiudersi Dovesse all' infinita Gioia d' amor, che in roseo Color pinge la vita, E la raddoppia ai palpiti D' un adorato sen; Ei taciturno e pallido Fêssi, e in remote stanze Fuggì degli altri ai facili Sorrisi e all' esultanze, Infin che lento assiduo Malore lo prostrò. Ed or che in sen già scorrere Sente di morte il gelo, Volge un saluto, ahi l' ultimo! Al Sol che a lui dal cielo Col raggio estremo e languido Sembra un addio mandar. E, addio, prorompe, o lucido Astro che in mar dechini; Sol per brev' ora ascondonsi I raggi tuoi divini, Ma per questi occhi a splendere Non torneran mai più! Domani, immoto, gelido Sul letto doloroso Mi troverai: deh! tempera Il tuo fulgor pietoso Della mia madre ai miseri Occhi che il duol stancò. Mia madre!… Oh dolce martire D' amor!… di che ridenti Sogni godevi pascerti Sugli anni miei fiorenti, Qual t' aspettavi premio Di gioie aver da me!… Ed io ti lascio, vedova D' ogni conforto, e sola! Ah perchè mai quest' anima La mite tua parola Di fede ardente ed umile Non giunse ad acquetar? Ah! della scienza all' albero Vietato io m' accostai, Gli occhi e la mente vigili Le notti e i dì stancai, Di Sofi avversi l' opere Famose a interrogar. E da quell' opre, ahi stolido! Al core ed al' pensiero, Che ardente irrefrenabile Struggea sete del vero, Il dubbio solo, il gelido Dubbio, rispose a me! Il dubbio, orrendo demone Che il senno mi scompose, Velen lento, insanabile Che il mio vital corrose Stame, qual verme i petali Di verecondo fior. Ei delle sorti patrie Me disperar facea, Il cieco caso l' arbitro Del tutto ei mi pingea, Nomi e fantasmi vacui Il vizio e la virtù. O Sole!.. O tu che imagine Sei del Fattor superno, Di nube oscura agli empï Detti velar ti scerno…. Oh no, ritorna limpido, Nè inorridir di me. Mosser le molte lacrime D' un angioletta Iddio. La Fè santa, benefica, Col raggio suo più pio, Della mia vita l' ultime Giornate illuminò. Essa il modesto tumulo Mi ombreggerà coll' ale; Oh Sole…. addio! non scorgeti Più l' occhio mio mortale, Ma l' alma al Sol già levasi Che tramontar non può.

Pistoia, il giorno 1°ree; agosto dell' anno 1858.

Tu che al tuo secol molle ed evirato, Nella region cui ride il ciel più schietto, Movesti guerra, solo e disarmato, Pieno di santo ardir la lingua e il petto; Tu, che povero sempre e immacolato, Non vendesti al poter canto ed affetto, E asilo ignoto alle santissimo ossa Col volgo avesti in indistinta fossa; Tu, Parini, al mio carme or sarai segno, Nè la tua gloria umil tributo lede. Ha basso, è vero, e corto vol l' ingegno Che a me, solo retaggio, il ciel concede; Ma quell' amor, quel generoso sdegno Che dell' alto proposto altrui fa fede, Quel che inspirava il tuo civil concento, Me pure infiamma allo spontaneo accento. Nei dì che prima i vergini pensieri In rozze rime all' aure confidai, Ne' fantastici sogni, io d' Alighieri Talor l' ombra sublime contemplai; Moveagli appresso l' iracondo Alfieri, E terzo in tanta gloria io ti mirai; Ma sol più mite in fronte a te parea Fulger la stessa cittadina idea. Chè, non suon di minaccia o di rampogna Dai venerandi tuoi labbri partìa A fulminar gli stolti usi, vergogna Della traviata italica genìa. Armi novelle la tua musa agogna, Ed armi nuove a lei diè l' ironìa, Nei non fallaci mai tremendi strali Che i Lombardi pungean Sardanapali. Quanti, nel fatuo cavalier, che al riso Ed al disprezzo altrui sacri, lodando, Fatti di foco per rossor nel viso Dovean se stessi gir raffigurando! E scossi fûr da un tremito improvviso, Dei lor grandi avi i gesti rimembrando, Mentre gli ozi snervati, e l' empie cene Pingi, e le cure invereconde, oscene! Ma il magnanimo ardir della secura Virtù, che il vizio incalza a viso aperto, Irrita i più vigliacchi, a cui paura Ammonisce serbar l' odio coperto; Allor soccorre la calunnia impura, Che siegue e addenta insidïosa il merto; E s' ei dà crollo per dolor, la voce A grido di vittoria alza feroce. Tu l' empio gaudio alla crudel non desti D' averti aggiunto; ognor sereno e forte Fra l' ire e le discordie rimanesti, Pensoso solo della patria sorte. Nella tomba bramoso discendesti; E aver perduto il Sol pria della morte Forse gaudio ti fu; chè l' onta e il duolo Non contemplasti del natal tuo suolo! Non ombre o marmi la città lasciva » D' evirati cantori allettatrice, Pose al tuo fral, si che tremenda udiva La rampogna che a' rei fatti s' addice; Ma nel carme che mentre esule giva Sciolse ai sepolcri il grande Ugo infelice, Qual forse ambivi, i fati amici dierno Alla tua gloria monumento eterno. E noi posteri ancor punge il disìo Di quel famoso seguitar l' intento; E al patrio Ingegno che ritrarti ardio Su finte scene in italo concento,1 Si allude all' applaudita commedia del chiarissimo Paolo Ferrari, intitolata Parini e la sua Satira. Lungo plauso d' onor sorger s' udìo Che ai tristi e vili generò sgomento; Mentre ogni buono, in quel concorde omaggio, Di nova speme si conforta al raggio.

Pistoia, il giorno 1°ree; agosto dell' anno 1858.

O fra quanti sortiron nascendo Doppia dote d' ingegno e sventura, Vate illustre, a cui sola ventura La certezza parea di morir; Leopardi, degli estri sublimi Manda un eco a ispirar la mia mente; Quel che pinse Consalvo morente, Nell' ebbrezza d' un primo gioir. Ma del fiel, di che gronda il tuo verso, Ne' miei detti l' amaro non sia; È dolente, ma vergine e pia Quella Musa che accende il mio cor. Or l' immago al pensier mi dipinge Di un ausonio gentile cantore, Che la possa di un sacro dolore Tragge a morte degli anni sul fior. Ecco ei giace entro squallida stanza, Solitario, su povero letto; Ha consunto, sparuto l' aspetto, Ma nel guardo ha dell' alma l' ardor. Quell' ardor che sugl' itali falli, Sulle tante durate sciagure, Sulle indomite spemi future, A lui nobili canti dettò. Quel che il trasse ne' campi lontani A combatter l' esoso straniero, E qual vate, e qual forte guerriero Coronollo di duplice allòr. Ahi svaniti i suoi sogni di gloria, Guardò un fior che sul petto serbava; Una bella al partir gliel donava, E, baciandol, di pianto il bagnò. Del suo sangue quel fiore fu tinto, In un di di sciagura e di guerra; Sol per lei, che gliel porse, alla terra De' suoi padri gemendo tornò. Ei tornovvi, rivide le opime Sue pianure, i suoi colli fiorenti; Ma la fama, che il disse fra i spenti, Della vergin la vita troneò. Stupefatto all' annunzio tremendo Stette in pria, poi smarrito ed incerto Volse intorno lo sguardo, e un deserto A lui tutta la terra sembrò. Dell' amata, e d' Italia la sorte Pianse allora in un solo concento; Or vicino all' estremo momento Ad entrambe si volge così: O profondi e infelici del paro Casti affetti dell' egra mia vita, Vergin bella a' miei voti rapita, Dolce Patria percossa dal duol; Vostro io son, qual fui sempre, in quest' ora Che già l' alma mi fugge del petto, Ma diviso il tremante intelletto Or di entrambe pensando si sta; Chè, te o cara, che esanime io piansi, Lieta or or rivedrò fra i superni; E Dio stesso ai purissimi eterni Nostri nodi sorrider vedrò. Ma l' Italia, che ad ambo fu cuna, Quest' Italia a cui già ti posposi Lascio, mentre ai suoi giorni affannosi Un confine non scorge il pensier!

Lucca, il giorno 50 settembre dell' anno 1858.

Oh! se vista risorger l' avessi Bella ancora di un nobile vanto, Se nel suono di un libero canto Mi era dato lo spirto esalar; Per me stata sarebbe la morte Un' ebbrezza di pago disio,…. Ma chi son, che ai decreti di Dio Oso termine e modo fissar?… Polve io son; ma tu squarci al mio ciglio Del futuro, o bell' Angelo, il velo; Vedrò teco da' gaudï del cielo L' era bella del patrio splendor!
S' egli è ver, che nel soggiorno, Dove è pace eterna e vera, Di chi ancor qui piange e spera Lice al grido penetrar, A te Saffo, a te Corinna, Delle donne onore e vanto, Di una donna il facil canto Forse accetto giungerà. Ambo illustri, ambo famose Per ingegno e per sventura, Le due terre, che natura De' suoi doni ricolmò, Grecia e Italia a voi fur patria; Grecia e Italia, ognor sorelle Per bel cielo, e piagge belle, Per ingiurie del destin. Ma per te, Grecia, non era Giunto ancora il secol reo, Quando Pindaro, ed Alceo Sorse Saffo ad emular, E il tuo popolo plaudente, Là d' Olimpia nell' agone, Della delfica tenzone Vincitrice lei gridò. Ma tu già caduta in fondo D' ogni danno, o Patria mia, Eri a' dì che l'armonia Di Corinna risuonò. Già l' allòr, che ornò Petrarca, E che indarno ambia Torquato, Cingea irriso, profanato Di cantori inetti il crin. E le prische ombre latine Fremean d'ira e di cordoglio, Che si osasse in Campidoglio Pompa scenica ostentar. Forse ancor que' coronati Ne sentian l' alta rampogna, E il rossor della vergogna, Non del gaudio, gl' infiammò! Ah perchè…. ma voce ascolto Che mi grida in fondo al core: Saggio è il tempo; ingiusto onore Passa al par di lampo, e muor! O Corinna, o Saffo, a voi Col pensier ratta ritorno, Del trionfo a voi fu il giorno, Giorno estremo di piacer; Chè dè plausi nell' ebbrezza Vi colpi l' acuto strale Dell' amor, che fece l' ale Tronche al genio a mezzo il vol. Deh! locato aveste almeno L' amor vostro in degno oggetto! Ottenuto a tanto affetto Un ricambio aveste almen! Ma un oscuro garzoncello, Pago sol di sua bellezza, Che ti fugge, o Saffo, e sprezza Quel che t' arde immenso amor, Potè indurre in te lo sdegno Della vita e della gloria? Oh il compianto a tua memoria Sempre al biasmo unito andrà! O Corinna, alla tua cuna Dell' Italia il Sol splendea; Sol d' Italia un cor potea Te rïamar di pari amor. Tu quel cor spregiasti, incauta, Lo stranier fu a te più grato; E crudel, ma giusto, il Fato Ti fe' segno al suo rigor! Se virtù, se onor lo ispira, Se a ragion non è ribelle, Di tutt' opre eccelse e belle Prima fonte e sprone è amor. Nè, perchè misero sia Mai furor cieco diventa…. Vil chi vivere paventa Perchè il duolo lo colpì! Ma che dissi? oh voi non turbi, Ombre illustri, il verso mio! Deh! se all' arte e al suol natio Concedete anche un pensier, Sorgan donne in questa etade Di voi degne emulatrici; Ma più degni e più felici, Santi affetti abbiano in cor.

Lucca, il giorno 50 settembre dell' anno 1858.

Se ognor dubbiosa e pavida Del delfico cimento Sciolsi la voce al subito Armonico concento, Ch' è privilegio e gloria Di questo nostro suol, Oggi a ragion più timida Nell' ardua prova io sono, Qui, dove fin la tepida Auretta par che il suono Dei canti d' Amarillide Vada iterando ancor. O Lucca, o tu di libere E forti alme già nido, Tu che assai più da' proprii Figli, qual suona il grido, Che dai nemici estranei Lacero avesti il sen, Tu di Colei che in umile Cuna in te i lami aperse, Che per virtù del rapido Canto famosa emerse, Vuoi che risuoni il povero Verso che il ciel mi diè?… Ben dai più dolci e teneri Anni, nel suol natio, Quando dal petto inconscio Correa sul labbro mio Copia d' ingenui numeri, Qual' onda di un ruscel, A Lei, che il crin di fulgida Aureola si ricinse, Pensai sovente, e l' anima Sconforto e duol mi vinse, Chè l' ali aver pareami Fiacche a seguirne il vol. E qual s' invoca un genio Propizio, io la invocai; Un raggio sol dell' intima Fiamma, onde ardea, pregai Dal suo senil nel giovine Petto passasse a me. Ansia talor le pagine Del nome suo segnate Scorsi, e dell' alte immagini, Per cui ne andàr pregiate, Feci tesor nell' impeto Del concitato dir. Nè delle turbe il plauso, Di ch' altri al suon si gode, Ma di tre Vati italici Le invidïai la lode…. Oh inver sublime premio Che vinse il suo sperar! Monti, Parini, il rigido Sommo Astigian le ciglia Serene in lei conversero, E affetto e meraviglia Per la gentil spontanea Musa sentîro in cor. Nè disdegnâr di volgere Un suono a lei del canto Che con civil magnanimo Scopo, sciogliean soltanto I rei costumi a mordere Della infiacchita età. Questo ricordi il Mevio Che a rinnegar si ostina, O stoltamente a irridere La subita, divina Aura dei carmi, a ossequio Cieco d' altrui pensier. Deh tu, che pari a splendido Sol che dechina a sera, Onusta d' anni e glorie, La tua mortal carriera Compivi, e or dormi in tumulo Sparso di patrii fior, Tu volgi a me benevolo Un guardo, o santo petto; L' orme tue belle io seguito, Ma un più viril concetto M' arde nell' alma, e svelasi Altrui nel verso ognor. Pur benchè tutta m' agiti La sua beltà celeste, Perde possanza, offuscasi Avvolto in rozza veste…. Deh! se tu ancor dell' italo Vanto hai pensier lassù, A me, che a tua memoria Oggi inneggiai devota, Prega più eletto il cantico, Si ch' ei possente scuota L' alme più schive, e facciasi Sprone di patrio onor!

Lucca, il giorno 50 settembre dell' anno 1858.

Quando fei segno dell' umil mio verso Di Buonarroti e Sanzio il vario stile, A Chi fondo descrisse all' universo L' un pareggiai per estro e cor virile. L' altro, che a eteree fantasie converso Tenne da quelle un abito gentile, Al caro assomigliai cigno dolente, Che di Laura cantò si dolcemente. Ed or che insiem di Metastasio e Alfieri Vita ed opre contempla il pensier mio, Di Buonarroti i sensi e d' Alighieri L' alto Astigiano ereditar vegg' io; E i casti affetti di Petrarea, e i veri Miti color che Sanzio al ciel rapio, Trasfusi veggio nel cantor söave Che de' cor volge a suo voler la chiave. L' itala Musa all' un, che in umil cuna Vagia, discese in rosei veli accanto; E l' alma sua di scienza ancor digiuna, Arricchi della sacra aura del canto. All' altro, che splendor d' avi e fortuna Redava, e d' agi ogni più ambito incanto, Ritrosa un tempo fu, pallida e mesta Gli apparve alfine avvolta in negra vesta. Disse al primiero: Degli umani affetti Emergi tu conoscitor profondo; Suonino al ver conforme i tuoi concetti, Ma belli d' armonia unica al mondo; Pingi l' amor che sovraneggia i petti, L' amor gentile, altero e verecondo. E adombra spesso in finte smanie e duolo I veri affanni del natal tuo suolo. Straniera corte, mentre ode rapita La dolcezza dell' itala parola, Apprenda come di Caton l' ardita Alma a imminente schiavitù s' invola; Regolo ascolti che la propria vita Al patrio ben serenamente immola; E tema, d' Ezio undendo le vittorie, Che un nepote a emular n' abbia le glorie. Ma del diletto, che a recar ti appresti A chi deprime la tua dolce terra, Non andrai senza pena, e di molesti Dubbi e timori sosterrai la guerra; Non nutriti dal Sol d' Italia, i mesti Fior, che in tributo avrai sceso sotterra, Parran men belli il di che il sacro ingegno Vôlto a un sol si vorrà splendido segno! Ma tu sdegnoso spirito fremente, Che con robusta infaticabil lena, Come gigante sorgerai repente Crëator della nova itala scena, Tu scoterai col tuo grido possente L' età, di sonno e di stupor ripiena; E alla libera tua forte rampogna Avvampar la vedrai d' ira e vergogna. Più che di mille tube il suono arguto, Penetrerà quel tuo grido ne' cuori; E più che avverso esercito temuto I sonni turberà degli oppressori: Il franco vate irriderai, che Bruto Cantò fra cortigiani adulatori; Quei che non nacque nel latin paese, La latina virtù mai non comprese! Però sempre a te, vate e cittadino, Italia mia s' inchinerà devota; E di Canova lo scalpel divino Lei renderà dogliosamente immota Sull' urna che famosa a te il destino Serba nel Tempio, ch' ogni età remota Dirà sovra tutt' altro e santo e bello, Perchè vi hanno i più grandi eterno ostello. Così la Musa favellò; nè lice A me, donzella trepidante e oscura, De' duo splendor dell' itala pendice Oltre indagar l' ingegno e la natura. Fo voti sol che Italia mia felice Sia d' altri grandi, che per sua ventura Abbian di Metastasio affetto e stile, E d' Alfier I' indomata alma virile.

Lucca, il giorno 50 settembre dell' anno 1858.

È la notte; a fastoso convito Stanno assisi i felici del mondo, E al tepor di lor sale giocondo Più non senton del verno il rigor. Dal cadente tugurio, ove il vento Reca il suon di lor gaia melode, « La sua voce che il mondo non ode A te il povero inalza, o Signor! » Al chiaror d' una lampada fioca Che rischiara le nude pareti, Su meschino giaciglio, inquïeti I suoi sguardi rivolge talor. Là col figlio si giace la sposa, I cui giorni l' inedia corrode, È sopita, e la prece non ode Che il consorte solleva al Signor: Tu che povero e nudo scendesti Tra gli umani, o Fattor del creato, Ed il popolo oppresso e spregiato Preferisti ai potenti ed ai re; Si che fosti qual folle schernito Dal tiranno ed adultero Erode, Tu la voce, che il mondo non ode, Or del povero ascolta, o Signor. Deh! il sopor che benefico scese Al mio figlio, alla misera sposa, Il fragor della veglia festosa Or non venga importuno a turbar. Saría duro il contrasto, anco all' alme Temperate a virtudi più sode; Chè il clamor del tripudio, a chi l' ode Mentre piange, è crudele, o Signor! Non delizie, ma pane e fatica Nel tuo nome io richiesi a quel grande, Che in un solo banchetto oggi spande Quanto noi di miseria può trar. Non rispose; l' inedia ed il gelo Noi tormenta, ei tra 'l fasto si gode…. E fia ver che un rimorso non ode Mai quel grande nell' alma, o Signor? Chiedean pane i miei cari languenti; E, tremando, una sera per via Questa man che il lavoro incallìa Stesi l' obol pietoso a implorar; E una voce proruppe: il mendìco È la piaga che i regni oggi rode; Ma chi un balsamo porga non s' ode A tal piaga cruenta, o Signor! Gridar molti dai rostri sublimi Spesso udï con parole eloquenti, Tutti eguali e fratelli i viventi; E le turbe a quel grido plaudîr. Ma quei stesso che l' èra annunziava Che noi tutti ad un vincolo annode, Del fratello la voce non ode, Se di un pane lo implora, o Signor. Ahi che al detto l' oprar non risponde Della turba egoista e ambiziosa! Caritade, modesta, ingegnosa Che nel manto celata sen va, E l' inchiesta previene, e s' invola Vereconda agli sguardi e alla lode, Rara è fatta, e il mio grido non ode Da lung' ora, o pietoso Signor! Pur non mai sugl' ipocriti e i crudi, Da cui fu la mia prece reietta, Fia che imprechi tua giusta vendetta, Dio possente e pietoso, il mio cor. La tua grazia, che, oppresso, mendico Pur serbommi incolpabile e prode, Pur su quei che il mio grido non ode Si diffonda, o pietoso Signor! Tu che l' agna provvedi e l' augello E di nido, e di cibo, e di vesti, Tu provvedi a' tuoi poveri mesti Ch' abbian pane del proprio sudor. Sovra il tetto che in grembo li accoglie Vegli l' Angiol de' giusti custode; E la voce che il mondo non ode Sempre accetta a Te giunga, o Signor!

Bologna, il giorno 5 dicembre dell' anno 1858.

E te creata a molcere Dell' uom le acerbe cure, Bella, tra le bellissime Angeliche nature, Santa, siccome il palpito D' un innocente cor, Diva amistà, te invocano I versi miei negletti; Te voluttà purissima De' generosi petti, Tesor più caro all' anima D' ogni mortal tesor. So che di te narrarono Come sdegnosa e irata Del lezzo che contamina La terra scellerata, Tornassi al ciel, facendoti Dell' ali agli occhi un vel; Ma non sarà che facciano Eco gli accenti miei A chi straniera agli uomini Grida che fatta or sei; Teco involata fôrasi Ogni gentil virtù! No, Dio, che in preda a innumeri Mali il mortal vedea, Non mai tal pena infliggergli Nell' ira sua potea, Se balenar fe' l' iride Del suo perdono in ciel! D' amor gli ardenti gaudï, Sospir dei giovani anni, Mille crudeli turbano Ansie, sospetti, affanni, E qual lampo dileguansi Al correr dell' età. Ma tu serena e scevera D' ogni gelosa cura, Tu, fida ai dì del giubilo, Fida nella sventura, Pronta ed affetti, e gloria, E vita ad immolar; Tu non dilegui al gelido Soffio degli anni tardi; Saggia, pacata e provvida, Ai nobili, gagliardi Fatti sei sprone, e l' anime Empi di santo ardir. Da' più remoti secoli Sino alla nostra etade, Tra colti e rozzi popoli, Dolcissima amistade, La tua fiamma benefica Perenne sfavillò. Tebe riparo indomito Oppose a' suoi nemici Nel sacro, indivisibile Stuol dei guerrieri amici, Che innanzi ai Dei votavansi L' un l' altro i giorni lor. D' Oreste io taccio e Pilade La gara generosa, Dell' Ateniese Armodio La nobile, famosa Vendetta, che la patria Dai ceppi liberò. Ma di Damone e Pitia Chi può ignorar la storia? Chiaro nei fasti Siculi, Qual cittadina gloria, Viva il gentile esempio Dell' alta lor virtù. Oh grande, oh forte il popolo Dove amistà si sente, Dove fraterni vincoli Stringon fraterna gente, E a santo segno unanimi Tendon pensiero e cor! Iddio ne guida l' impeto A civiltà verace, Che, dissipati i turbini, Qual iride di pace, Splende serena agli uomini, Premio del lungo duol. Oh bella Dea, deh! suscita La fiamma tua più viva In noi cresciuti ai memori Fasti di questa riva, Che l' universo imperio Tenne del mondo un dì; Chè se dei mali innumeri Onde tuttora è mesta, Sempre la rea discordia Fu la cagion funesta, Ben puoi tu sola al pristino Vanto tornarla ancor!

Bologna, il giorno 5 dicembre dell' anno 1858.

Fin dall' età che i provvidi Dommi materni il core Al santo m' accendeano Della virtù splendore, Di donna un tipo angelico La mente si formò, E con crescente, assiduo Affetto il vagheggiò. La sua pudica immagine Vide il mio spirto anelo Nelle ispirate pagine Dell' unico Vangelo; Poi nell' eccelso cantico Del gran padre Alighier, Bella di grazie italiche, La ritrovò il pensier. Figlia, consorte e tenera Madre or la pingo a voi. Della magion fu l' angelo Sin da' primi anni suoi; Benedicendo al vergine Suo capo il genitor, Sempre di laudi un cantico Rivolse al Creator. Mite, operosa, ingenua, A' suoi sommessa ognora Crebbe, e più assai dei splendidi Fregi che il mondo adora, L' anima eletta e nobile, Che al bello e al ver s' apri, Di religion, di valida Sapienza si arricchì. Invan de' fatui giovani Lo stuol per lei si accese; Sol d' un gentil, magnanimo Spirto l' amor comprese; E quando dalla pronuba Ara con lui tornò, Ed ai parenti in lacrime, Piangendo si prostrò; D' un giuro confortavali Nel doloroso addio, — — Degna di voi, d' Italia Sorò; m' ascolta Iddio! — E Dio la udi, chè il gaudio, La carità, lo zel D' ogni bell' opra, entrarono Seco il nuziale ostel. Saggia, prudente ed umile Lesse al consorte in core; Con lui divise il giubilo, La speme ed il dolore; E quando amico arridere A noi parve il destin, Ella lo spinse al debito Di prode e cittadin! Fuggì le pompe, e i labili Piacer che il vulgo apprezza; E Dio di santa aureola Cinse la sua bellezza, Quando al più eccelso ufficio Di donna la sortì, Ed il suo casto talamo Di figli benedi. Non ella mai dal proprio Seno staccò la prole; A religion quell' anime, Come fioretti al Sole, Schiuse, e dal primo nascere Gli affetti ed i pensier, Ne investigò, drizzandoli Al bello eterno, al ver. Da' labbri suoi la pristina Del suol natio grandezza, E le sventure apresero. Ella a civil fortezza, A fede ardente, a indomita Speranza li educò, E pria che vili, martiri I figli suoi bramò! Oh se tuttor la patria Porgesse veneranda A chi da lei ben merita Una civil ghirlanda, Certo, di mille striduli Bruti tra 'l vano oprar, Questa gentil femminea Fronte vorriane ornar! Ma dal superbo premio, E dal fragor del mondo, S' involeria sollecita Ella a' suoi lari in fondo; Chè non di vano plauso O ambizïoso onor Vaga esser può l' angelica Donna che adoro in cor! Oh quando fia che provvido Il cielo a noi conceda, Che pari a questa innumere Itale donne io veda?!… Certo quel giorno a Italia Più fausto Iddio sarà, Chè la virtù femminea Può migliorar l' età.

Bologna, il giorno 5 dicembre dell' anno 1858.

Tanto tesoro a te largi natura Di stupende bellezze, o Italia mia, Ch' ogni alma, ancor che dispietata e dura, Tratta è ad amarti per gentil magia. Ma qual fato vuol mai, qual tua sventura, Che chi più t' ama e più il tuo ben disia, Non l' amorosa in te madre rinvenga, Ma la noverca che il discacci o spenga?! Eppur, sebbene i tuoi più chiari ingegni tu rimerti di sprezzo, onta ed esiglio, Fin nell' ardor de' provocati sdegni Nessun d' essi obliò d' esserti figlio! Quel grande il seppe che creò tre regni Del mondo fuor con immortal consiglio, E quel divino che nel Sol si affisse, E centro immoto ai mondi erranti il disse. Qr l'agitato mio caldo pensiero Nel passato s'immerge, e il sovrumano Fantasma evoca del fatal nocchiero Che i deserti solcò dell' oceàno. Ei che di un nuovo incognito emisfero Al superbo fe' dono avido ispano, E con esso credè sbramar l' infame Di tesori e di regni immensa fame; Egli in oscuro ed oblïato tetto, Da pochi amici circondato e pianto, Dell' ultima agonia giace sul letto, Dal suo dolor più che dai mali affranto. Bello è tuttora il maestoso aspetto, Che la Fè irradia dal suo lume santo; E or d' umiltade, or di magnanim' ira Arde a seconda che lo sguardo ei gira. Adora a destra il Segno portentoso, Che la sua man piantò sul nuovo mondo; E affissa a manca il grave e rugginoso Di sue catene formidabil pondo. Con quello e venti e mar vinse animoso, Giacque con queste a carcer nero in fondo; La Croce il regno a lui del ciel disserra, I ceppi fû la sua mercede in terra. « Mercè di ceppi e di regale oblio M' ebbi, così a parlar sorge il morente: Troppo fui grande e generoso e pio, Nè comprender poteami angusta mente. Serti non voglio sul sepolero mio, Nè d' Ibèro cantor nota eloquente; Sol quei ceppi sien fregio al nudo avello, E solo inciso il nome mio su quello. L' italo nome sull' estranio lido La gloria e il duol del genio italo attesti. Oh Italia! oh dolce mio diletto nido, Che culla e tomba ai miei parenti desti, Deh perchè sorda al mio supplice grido Quasi stolto dal sen mi respingesti?!… Mentre alla vita il vale ultimo volgo, Io del mio fato, a te, per te, mi dolgo! Oh giovanili miei sogni! non solo Zelo di gloria, e della fè di Cristo M' impennâr del pensier l'audace volo, Oltre l' oceano, all' immortal conquisto; Ma sperai glorïoso il patrio suolo E forte render dell' immenso acquisto, Nè misurar de' suoi regni il confine Dal prisco vol dell' Aquile latine. E tu vergine suol ch' io disvelai, Sappi ch' io piansi d' ira e di cordoglio, Quando col Segno redentor, piantai L' insegna ibèra sul tuo primo scoglio. Deh non perchè t' empia di sangue e guai Or del crudo oppressor l'avaro orgoglio, Ad imprecar tu scenda il nome mio, Chè delle stragi tue reo non son io! Tempo verrà che tu giovin robusto, Di un vigoroso sol slancio di vita, Del fiacco infrangerai mondo vetusto L' iniquo giogo che ragione irrìta. De' popoli al banchetto in seggio augusto Starà la prole tua forte ed ardita, E la libera sua possente mano Lo scettro stringerà dell' oceano. Deh ti sovvenga allor che la tua stella Primo scopersi, io già d' Italia nato; Io che di vera religion, di bella Civiltà, te pensai render beato. Sia dunque Italia a te d' amor sorella, S' abbia il tuo braccio nell' avverso fato; E, se onorar vorrai la mia memoria, Reggila a ricovrar l' antica gloria! »

Bologna, il giorno 5 dicembre dell' anno 1858.

Se del valor femmineo Alcun trofeo ne mostra Ogni cittade, ogni umile Terra d' Italia nostra, Ove dell' arti il genio La sede sua fermò; Tu sovra a tutte, o Felsina, Dritto hai di girne altera; Chè dal tuo sen di nobili Donne un' illustre schiera Ad emular la gloria Del viril sesso uscì. Nè sol di miti studï Le figlie tue fûr paghe; Udîr le genti attonite Donne severe e vaghe Astrusi veri ed ardui Dal pergamo dettar. Perfin dell' anatomico Coltello apparve armata Una; ma oimè fuggirono Certo, alla vista ingrata, Da lei le ingenue grazie Che han verecondo il cor. Nè già del facil cantico Farò quell' una io segno; Ma te, gentil Properzia, Te di bellezza e ingegno Nel patrio suol miracolo, Gemendo invocherò. Nei dì che giunta al culmine Del suo vigor, del bello, Per man di Michelangelo, Per man di Raffaello, L'arte soltanto d' itali Lauri si ornava il crin; E Roma e Flora empivano Il mondo di portenti, Tu fisa a quei magnanimi, Stupor di tutte genti, Non di sconforto e dubbio Tremar sentisti il cor; Ma con viril proposito L' arduo scalpel stringesti; E vere e vive immagini Dai marmi tuoi traesti, Onde onorata Felsina Con Roma e Flora andò. Alto correa per l' Itale Terre il tuo nome intanto, E l' arte che in te crescere Vedeasi un nuovo vanto, Già tra i più degni e splendidi Nomi il volea segnar. Ma oimè che mentre il plauso Per te crescea repente, Tu fatta scarna e pallida, Col crin sparso, e languente L' occhio, ove pria sì vivido Degli estri era il balen, Nell' affilata e candida Man lo scalpel reggevi, Ma spesso stanca, immobile Innanzi rimanevi All' opra eccelsa ed ultima Che ardevi ansia compir. Perchè, perchè di lagrime Quei freddi marmi inondi?… Ah! d' improvviso tremito Ti scuoti e non rispondi, Mentre in vivace porpora Si cangia il tuo pallor. Misera! ah quel tuo gemito Per te risponde assai!… Ah se la forza vincere D' un folle amor non sai, Se del dover dimentica Svelarlo ardisti un dì, Piangi sul tuo delirio, Ma la ripulsa onesta Non render no nel nitido Marmo, ch' eterno resta, Del pio garzon che l' empia Sposa d' altrui fuggì. Iddio perdona ai strazii D' un combattuto core; Ma il mondo no, che irridere Suole a spregiato amore, E in suon beffardo ai flebili Lagni risponder suol. Ma tu soccombi, o povera, D' amore al rio veleno!… Sia pace a te, Properzia, Pace nell' urna almeno! Se acerbo troppo il subito Carme suonò per te; Perdona! adoro Italia, La gloria sua vagheggio; E quando un lampo estinguerne Miseramente io veggio, Piango, ma il pianto al biasimo Sgorga commisto ognor!

Bologna, il giorno 23 dicembre dell' anno 1858.

Angiol santo, che al mesto Profeta Che piangea sul destin di Sïonne Fra macerie e spezzate colonne Desti l'arpa temprata al dolor; Angiol santo, oh a quei dì mi trasporta Che lo schiavo ed oppresso Israelle Sotto il giogo dell' empia Babelle, Il lamento levava al Signor. Nella terra lontana d' esiglio, Presso l' onda del rapido Eufrate, Arso il volto, le membra spossate Da penoso ed imposto lavor; Erran sparse le turbe infelici; Taccion chiusi nel duolo i gagliardi, Ma le donne, i fanciulli, i vegliardi Empion l' aere di pianti e sospir. Oh dal salcio straniero ove pende Gioco ai venti, le fila allentate, L' arpa, o bardi dogliosi, staccate, Un accordo traetene ancor! Sia l' accordo che pinga il disio Della patria, e il dolor del servaggio; E la fede che avviva il coraggio, In quel Dio che redimer ci può! —: O Signore, che un dì ne traesti Coi prodigi dall' arido Egitto, E del vasto deserto il tragitto Coi prodigi seguisti a segnar; Tu che alfin ne guidasti al retaggio Della fertil promessa a noi terra, Disperdendo qual turbine in guerra Le falangi di Cana e Moab; Tu degli esuli ascolta il lamento; Siam gli stessi, è ben ver, che procaci Irridemmo ai Veggenti veraci Cui tua luce schiaría l' avvenir. D' ogni vizio sommersi nel lezzo, A' divini tuoi dommi ribelli, Conculcammo gli stessi fratelli; E Sui monti, con rito stranier, T' offendemmo sull' are profane; Onde, al dir dell' irato profeta, Come vaso di fragile creta La tua destra ne infranse e scagliò. Siam gli stessi, è ben vero, o Signore, Ma pentiti e cattivi e infelici; Odi, insultanci i nostri nemici: Il Dio vostro, chiedendo, che fa? Perchè mai non rialza Sïonne?… Voi perchè soffre schiavi e lontani?… Oh confondi, ammutisci i profani Che il tuo popol deridon così! Ve'! le vergini sdegnan di nozze La corona nel suol dell' esiglio, Piange al giorno sponendo il suo figlio Ogni madre, nè pompa ne fa. Curvo al solco de' campi non suoi Suda il forte, ed invoca Sïonne, E a quel nome i vegliardi e le donne Mandan gemiti e strida dal cor! Che se invece di stenti e catene Ne colmasse di doni l' Assiro, Pur la patria sarebbe il sospiro Incessante del fido Israel. Oh radducine ad essa, e se tempio E magioni distrusse la guerra, Basta il ciel, basta nuda la terra, Bastan l' aure del suolo natal! Chi, se vuoi, ti resiste? Già vide Il tiranno un colosso gigante Girne in polve, poichè nelle piante Argillose una pietra il colpì. Quella pietra, o Signor, scaglierai Onde sperso fia l' idolo altero, E sottratto al servaggio straniero Lieto allora il tuo popol sarà!

Bologna, il giorno 23 dicembre dell' anno 1858.

E te fra i mille, a cui fugace e vano Sorrise il raggio delle fauste sorti, Vittima illustre del livor profano Che occhio non torce dalle inique corti; Te non appien compreso, italïano Spirito eccelso, che con saggi, accorti Modi potesti un dì volger soavi Del cor di Federigo ambo le chiavi; Te il pronto verso inneggerá; chè amore, Immenso amor, me stringe alla memoria Di ognun che attese coll' ingegno e il core Il lustro a crescer della patria gloria. E te ben degno d' immortale onore De' tempi tuoi ne rivelò la storia, E più l' accento che Allighier ti volse, E d' ogni accusa il biasmo a te ritolse. Oh i tempi tuoi! Tetra, feral procella Incrudelía sull' itale regioni; Di Piero perigliar la navicella Fea vento d' avarizia e ambizïoni; Fra la barbarie d' ogni ben rubella Contesi i dritti fra la Chiesa e i troni, E inique parti, in fratricida guerra, Empìan di stragi e di terror la terra! Pur di Palermo tra le regie mura Ancor fanciulla, balbettante ancora Sorgea frattanto l' ineffabil, pura Lingua, che a quella in ciel parlata è suora; Ivi il gran re, lasso d' ogni ardua cura, Con teco e i figli ricrear talora Solea l' alma di freno impazïente Nel suon di rozza poesia nascente. L' itala poesia!… la glorïosa Figlia dell' armonia greca e latina, Che di propria brillò luce amorosa Sull' Arno poi coll' Allighier divina; Quella che Laura fè chiara e famosa Sulla terra, e del ciel poi cittadina; Che cantò l' armi, i cavalier, le donne, E poi redenta pel Buglion Sïonne; Te, fra i primi cultori ebbe, o infelice, Che per propria virtù solo ascendesti Là dove raro uomo aggiugner lice Di stirpe umìle, e d' alti sensi onesti. Capua de' padri tuoi culla si dice; Ma qui povero e oscuro un dì giungesti, E di scïenza e d' empito eloquente Fregiasti qui la giovinetta mente. Oh quante volte forse a' rai di luna Avrai guardato in quel tempo primiero Le brune torri, ove dovea fortuna Enzo tuo ritener poi prigioniero! Tu che a renderlo al padre arte nessuna Non trascurasti, e invan, col popol fero Che ostaggio il volle, oh qual della tua fede Aver dovevi e del tuo zel mercede! Oh incauto, incauto chi nel grato affetto Fida dei prenci, e in lor balìa si resta! Vigile accanto a lor stassi il sospetto, E la calunnia sempre ai buoni infesta. La bieca invidia, dal livido aspetto, Col dito scarno ogni più degna testa Accenna, e basta, perchè infamia e morte Colpiscan quei che ognor fu giusto e forte. Nè te, grande e fedel, l' inferna e truce Congiunta rabbia risparmiar potea; Ecco che un dubbio nel monarca induce Che un traditor vigliacco in te gli crea; Orbo fatto ei di mente, orbi di luce I miserandi tuoi occhi rendea, Nè pago ancora in rei ceppi t' avvolse E l' aere aperto di spirar ti tolse. Onde ingiusto, con te giusto, tu reso, Di propria man fine a' tuoi dì ponevi. — Pur se notizia giunse ove al sospeso Allighier del tuo fato ti dolevi, Che vendicato appien spirito offeso Eri nel crudo fin dei regi svevi, Di gaudio no, ma un grido di dolore, Pensando a Italia, ti fuggì dal core!

Bologna, nel giorno 23 dicembre dell' anno 1858.

S' oltre l' usato i numeri Sgorgan spontanei, ardenti, E adorni più d' immagini Dolcissime ridenti, Siccomme i primi ingenui Sogni di un vergin cor, Oh non stupite! l' italo Cielo subietto è al canto, L' italo ciel, che magico Armonïoso incanto Fin nei più rozzi e gelidi Petti trasfonder sa! Iddio che lieti e facili Colli, ed amene valli, E doppio mare, e liquidi Di bei fiumi cristalli, E cerchia d' Alpi altissime A questa Italia diè, Su lei, come su florido Giardino prediletto, Del cielo il manto etereo Stese più azzurro e schietto; E dei più belli e splendidi Fra gli astri l' arricchì. Oh il nostro cielo! i rosei Tramonti suoi chi rende?… Chi la leggiadra e magica Ora in che il dì s' accende, O quella in che più fervidi Vibra i suoi raggi il Sol? Chi delle notti placide La maestà tranquilla, Quando la luna argentea Così tra gli astri brilla, Che mai non splende ai nordici Lidi sì chiaro il dì? Chi le leggere e diafane Nubi a cui l' iri presta I suoi color? fuggevole Lo turba la tempesta, Siccome il duolo un' anima Che il mondo ignora ancor! Ah! nè pennel, nè sonito D' innamorata lira Può sue bellezze esprimere, Ma sempre in lui s' ispira L' italo ingegno, ed ergesi A chi del bello è Autor. Forse la luce e il gaudio Che allieta il paradiso Render potea l' altissimo Dante, se dal sorriso Di questo ciel l' immagine Non glien scendea nel cor? Forse il divino archetipo Potea del vero bello Pinger la dolce e tenera Alma di Raffaello, Se amore e cielo italico Non gli arridean così? No, Grecia sola e Ausonia Privilegiò il Signore, Nel cielo limpidissimo, Del genio creatore. Pur se la nostra gloria L' incanto suo formò, Di quanti guai l' originé Non fu da età remote?!… Ispide genti e barbare, Da stranie piagge ignote Bramose a torme trassero Quest' etra a vagheggiar. Ahi le perpetue nebbie, E i lor geli, e i burroni, Troppo vinceano i fulgidi Tuoi Soli, e tue regioni Incantatrici, o misera Patria, per tuo martir! Oh al par che vaga, indomita Perchè non fosti ognora? Come a' tuoi dì di gloria Bello è il tuo cielo ancora, Ma sulle tue miserie Oggi si volge sol. Oh patria! e affetti e cantico A te sol volgo, e spero! Auro non vo', non plauso Di vantator straniero, Che insulta pur se lauda Gentile italo cor. Io d' uopo ho del tuo limpido Incomparabil Sole, Dell' aure tue benefiche, Dell' itale parole, E di fraterni palpiti, Di cittadino amor! Io languirei fra stranii Cuori sott' altro cielo, Qual trapiantato e gracile Fiore sul curvo stelo… Nè mai cantar nè vivere Lungi saprei da te!

Bologna, il giorno 7 febbraio dell' anno 1859.

Non chiedete alla povera Musa La canzon del tripudio festosa, Ella è vergin severa e pensosa, Che d' affetto sol canta e dolor; E il dolor più solenne e l' affetto Più verace ora a pinger s' è vòlta: « O Signore, la prece tu ascolta Che una madre t'innalza dal cor. » Sovra candido letto un garzone Giace, e langue, qual giglio reciso. Scinto il crin, pallidissimo il viso, Smorto il labbro, compresso il respir; Curva pende sovr' esso la madre, Tutta l' alma nel guardo raccolla; E a ogni gemito fioco che ascolta Sente un dardo trafiggerle il cor. Pur quel gemito invoca la mesta, Chè un orribil sospetto sovente Le attraversa la trepida mente, Mentre ei muto ed immobil si sta. Sovra il petto gli posa la mano, Dal dolor quasi appien di sè tolta, E sorride tra il pianto, chè ascolta Lentamente ancor batter quel cor. Erge alfin lagrimosa la faccia, E l' immago del Cristo trafitto Le soccorre in quell' aspro conflitto, Come faro ai perduti sul mar. Genuflessa ella sclama, a quel segno Di speranza e salute rivolta: O Signore, la prece tu ascolta Che una madre t' innalza dal cor! Tu che immenso, increato ed eterno Dalla destra scendesti del Padre Entro il sen d' una Vergine Madre Che il suo Dio nel figliuolo adorò; Tu che fino sul Golgota orrendo De' carnefici in mezzo alla folta La vedesti, la prece tu ascolta Che una madre t' innalza dal cor. So che ai giusti tuoi santi decreti Ogni fronte piegarsi dovria, Ma al tuo fiero supplizio, Maria Pianse anch' essa, e d' angoscia tremò. Pianse anch' essa, e all' estremo tuo detto Teco quasi di vita fu sciolta; Diva e invitta, se gemer ti ascolta, Franger sente il materno suo cor! Debil donna e infelice son io, Che ogni speme, ogni tenero affetto In quest' unico figlio diletto Ho riposto, e mel veggo rapir! Sol per esso ancor vivo, nel velo Delle vedove meste ravvolta; O Signor, la mia prece tu ascolta, Salvo il rendi al materno mio cor! A' tuoi dommi io lo crebbi, e devoto A ogni affetto magnanimo e pio; Dell' amor del terreno natio Tutto avvampa quel vergine sen. Ei vagheggia la santa speranza Ch'altri appella ed improvvida e stolta O Signor, la mia prece tu ascolta, Serba a Italia un magnanimo cor! Pur se è fatto che un' alba di gloria Non risplenda per ora al suo ciglio, Se (terribil sospetto!) il mio figlio Sensi e norme potesse mutar; Oggi i giorni ne tronca, o gran Dio, E ch' io giaccia con esso sepolta; O Signore, la prece tu ascolta, Che una madre t' innalza dal cor!

Bologna, il giorno 7 febbraio dell' anno 1859.

All' intenso desir de' miei primieri Anni, e all' amor del bello insazïato, Delle scïenze i riveriti austeri Penetrali varcar contese il fato; E quando alfine ai fervidi pensieri Schiuse il delfico Iddio calle onorato, Del corso ignaro tempo io non potei I danni compensar co' sforzi miei. Però, Felsina illustre, io l' immortale Galvani tuo se riverisco e colo, Pei campi ov' ei spiegò sì rapid' ale Spaziar non posso del mio dir nel volo, Di quel ch' ei discoprì fluido animale Corse il grido dall' uno all' altro polo, E i sofi tutti ne inarcâr le ciglia Fra dubbiezza divisi c meraviglia. E il miro caso, per cui fûr vedute Tutte agitarsi per convulso moto Le spente rane, al tocco delle acute Punte, già pregne dell' elettro ignoto, Mille varie destò dispute argute Da cui fulse alle menti il ver remoto; Come dal lungo stropicciar sfavilla Di opposti corpi elettrica scintilla. E se ingiusta l' età di quella gloria Dovuta a lui gran parte ebbegli tolta, Poco non è che nominar la storia Senza Galvani non potrebbe Volta. Però, Felsina mia, la sua memoria Onora sempre, nè scordar che molta Forza accresce agl' ingegni il desir pio D' un lauro colto in grembo al suol natio.

Bologna, il giorno 7 febbraio dell' anno 1859.

E te sovente l' impensato verso Inneggia, o santo generoso petto, Te che osasti scrutar dell' universo Il libro coll' altissimo intelletto. Quel giogo antico, a cui livor perverso Il libero pensier volea soggetto, Colla possente tua mano infrangesti, E della scienza redentor ti festi. Deh tu m' affida, e il verecondo omaggio Non isdegnar del femminile ingegno; Farfalla io son, che a periglioso raggio Troppo d' appresso a batter l' ali vegno; Pur men danno mi fia se cener caggio, Cercando attinger luminoso segno, Che assonnata protrarre inutil vita Fra l' ozio inerte della terra avita. Oh questa terra che gli antichi fasti Con secoli scontò d' onta e sciagura, Questa che in fratricidi empi contrasti Crebbe possa ai nemici e a sè sventura; Questa tu tanto, o glorïoso, amasti, Che tuo solo sospir, sola tua cura Fu di tornarla fra le genti altera Di quella gloria che non ha mai sera. Come cercava il Genovese ardito, I perigli sfidando e le procelle, Pei deserti del mar l' ignoto lito E le ignare di noi genti novelle; Tal per l' oceano dell' etra infinito, Nuove norme scoprendo e nouve stelle, Tu ricercavi il ver, conquista immensa Onde Iddio la sua luce all' uom dispensa! Or chi ridir potria quel che provavi, Quand' Ei sì t' afforzò gli sguardi intenti, Che immoto il Sole irradïar miravi I mondi onde son belli i firmamenti? Qual atomo nel vano ravvisavi La terra, albergo a indocili viventi, Seguir con moto armonïoso e miro D' intorno all' orbe l' annual suo giro! Oh come allora del Fattor sovrano La illimitata immensità ti apparve Maravigliosa per l' etereo piano, Strappato il velo delle antiche larve! Come adorasti la superna mano, Che non senza alto fin prodiga parve, E bella t' apparì cinta di tede Stretta alla scienza e alla ragion la fede! La fede!… ahimè nel nome suo sacrato Te cieca ignavia di catene avvinse, E il venerando tuo labbro onorato Il ver scoverto a rinnegar costrinse! Quel ver che ne' tuoi scritti inaugurato Dell' error le tenèbre in bando spinse, E le menti guidò per via secura I misteri a indagar della natura. Ahi certo amara giunse al tuo gran core L' accesa incontro al ver guerra sì truce, Amara più del luttuoso orrore Che ti cinse vegliardo orbo di luce. Ma a te già stanco e presso all' ultim' ore L' angiol di Dio, che i giusti a Lui radduce, Susurrava con l' ultime parole: Quel che insegnasti durerà col Sole! E quanto il Sole durerà, o divino, La gloria tua su questa bassa sfera, Ove insania e livor, per reo destino, Strazian chi uscì dalla vulgare schiera Deh se mai non s' arresti in sou cammino Lei che di Cristo alzò la pia bandiera, Per la memoria di tua lunga guerra, Veglia tu ognor la sacra itala terra!

Bologna, il giorno 7 febbraio dell' anno 1859.

Ma già stanco e spossato il pensier mio De' pronti carmi più non regge al volo. Addio dal cor dunque ti dico, addio, Felsina, gemma dell' Ausonio suolo. Deh sì tosto non spargere di oblio Me che canto d' amor, di speme e duolo, E sol prego ai ferventi itali petti Concorde voto di concordi affetti!

Bologna, il giorno 7 febbraio dell' anno 1859.

Mentre fervon le danze festose Nelle sale di faci splendenti, E de' sposi, fra i plausi frequenti, S' ode il nome congiunto iterar; Sparso il volto d' amabil rossore, La fanciulla le luci leggiadre Erge in volto alla tenera madre, Che d' accanto amorosa le sta. Ah! quel volto soave si atteggia Al sorriso di gioia tranquilla; Ma furtiva di pianto una stilla La sua gota discende a irrigar. Quella stilla la vergin rimira, E con slancio di subito affetto Si abbandona piangendo sul petto Che bambina l' accolse e nudrì. Poi sdegnosa dei sguardi importuni Seco trae quella cara alla queta Virginal cameretta segreta, Dove i placidi sonni dormì. Là con l' ansia che accento non trova, Alla madre si prostra dinnante, E colei con commosso sembiante, Vôlto al cielo lo sguardo ed il cor, Su quel capo leggiadro la destra Posa, e in atto solenne di amore: Benedici, prorompe, o Signore, Questa figlia diletta con me! Per gli affanni del grave portato, Per le veglie inquïete, frequenti, Per le trepide cure crescenti Che bambina al mio seno costò; Per quel senso d' orgoglio materno Che al mirarla nel cor mi si desta, Poi che saggia, pietosa e modesta Crebbe, e tutti i miei voti adempì; Benedici al sou capo, in quest' ora Che a mie braccia altro voto la toglie, E di donna e d' italica moglie Il mandato si appresta a compir. Arduo è il calle che imprende, lo sai, Son fugaci i suoi fior lusinghieri, E solenni immutati doveri Spesso in triboli mutan quei fior. Mille insidie ad un' alma inesperta Tende il mondo; oh concedi, o gran Dio, Che incolpato quest' angiolo mio Passi in mezzo alla putrida età! Io gelosa finor la vegliai, Ma dell' uom che prescelse il suo core Oggi al senno l' affido e all' amore, Ei di tutto a lei luogo terrà. Sua nel duol, sua nel gaudio…. e se prole Le concedan tuoi santi consigli, Oh! le rendan le gioie i suoi figli Che alla madre diletta ella diè Col suo latte ella in loro trasfonda De' suoi padri la fede immortale, Poi l' amor del terreno natale, Fonte e norma di caste virtù. Forti, saggi e animosi li cresca E abborrenti dagli ozi snervati. Deh! che cinta dai dolci suoi nati, Quando al fin de' miei giorni sarò, Ch' io la vegga d' appresso al mio letto, A' miei voti concedi, o Signore; Benedirla ch' io possa in quell' ore, Come in questa che parte da me!

Ferrara, il giorno 3 aprile dell' anno 1859.

E te, dolente immagine, Spesso la mente mia Nei sogni suoi fantastici Suole evocar, Maria, Quando le varie medita Vicende di quaggiù. Chè a niun di te più fausta Rise da pria fortuna; Scettro regal porgevati Sin da fanciulla in cuna, E quasi fregio povero Ti fosse un serto sol, Un altro assai più splendido Nel franco suol ten cinse, E se tua mente mobile Nell' avvenir si spinse, Pur d' Anglia il vasto imperio Pingea dovuto a te. Ma d' ogni tuo fastigio, D'ogni poter l'idea, Di tua bellezza angelica L'alto fulgor vincea; A un detto, a un riso schiudere Potevi in terra il ciel! Pur la severa istoria Il dubbio ancor non sciolse, Se bella al par fu l' anima Che in sì bel fral si accolse; Feroce odio implacabile, Devoto immenso amor, Segno di cieco biasimo, O di più cieco omaggio, Con pari ardor ti fecero E pari al vero oltraggio; Donna, regina, e martire Io ti compiango ognor! Chè se al pensier disvelasi Del viver tuo la tela, Bellezza e regno origine D' ogni tuo mal si svela. Negli anni tuoi più fervidi Di sconsigliato amor Facile ardesti, e perfidi Trovasti o inetti cuori, Che trascinâr per tramite Di colpe, e di dolori, Te, che inesperta e debile Ti confidavi a lor. E forse inesorabile Persecutor rimorso, Mentre spingevi l' agile Regal destriero al corso, De' tuoi ribelli sudditi La furia ad evitar, La mente tua di nebbia Funesta ricoprìa, E non vedesti il baratro Che ai piedi tuoi s' apria, Quando per tuo rifugio D' Anglia scegliesti il suol. Ah meglio t' era in barbari Lidi le fiere, o bella, Chieder d' aita e ospizio, Che la regal sorella, Dal cor spietato ed arido, Dal simulato zel! Ecco di tristo carcere In fondo ella ti caccia, Nel manto suo d' ipocrita Avvolta, a te rinfaccia Colpe, che il lungo piangere Innanzi a Dio scontò! Nè paga ancor, su funebre Palco ti danna a morte: Tanto in un cor femmineo È inesorata e forte L' empia gelosa invidia Di regno e di beltà! Oh! la mertata infamia Non fuggirà colei!… Ma tu compianta vittima, Vieni, ed insegna a lei Come sereno e intrepido Chi in Dio s' affida muor, Ti veggo, io sì; di lugubri Sei cinta oscuri veli, Come rapita in estasi Gli occhi rivolgi ai cieli, E al sen ti stringi il simbolo Del Cristo Redentor. Il palco ascendi, in lagrime Rompon le accolte genti, E tu disciogli un' ultima Preghiera in questi accenti: Perdona, o Dio benefico, A chi mi tronca i dì! Regni e sia paga. Io misera E incauta, è ver, peccai…. Ma i brevi errori e i guadii Venti anni in duol scontai, Venti anni, ohimè, che l' unico Figlio non strinsi al sen! Che il benedissi all' ultima Ora deh! alcun gli dica; Nè la mia morte ei vendichi; Ch' io, qual da fida amica, Dalle sue braccia gelide Mi spicco, e volo al ciel!

Ferrara, il giorno 3 aprile dell' anno 1859.

« Due sole cose ha belle il mondo, Fatali entrambe Morte ed Amor; » Così sclamavi nel duol profondo, O di Consalvo mesto cantor. Ma a te che amasti un ente arcano Figlio fantastico del tuo pensier, A te infelice sopra ogni umano, Solo, incompreso nel mondo intier, A te perdonisi, se assorto in tetro Delirio il verso tingi di fiel, E se riflettere su di un ferètro Amor contempli raggio di ciel. Io, che se infuria crudel procella, Sperando, al cielo mi affiso ognor, E un qualche raggio di amica stella Spio delle nubi tra il fosco orror; Io, che la Fede, che in cor mi pose Iddio, fra i mali sento avvivar, Di più soavi forme pietose Quel tuo concetto cerco adombrar. Amore e Morte! L' un nome suona: Iddio, speranza, luce, avvenir; Orrendamente l' altro risuona: Nulla, mistero, ombra, martir! Amor non nacque, di Dio consorte A tutte cose diè vita amor; Tutto a dissolvere nacque la morte Dal fulminato primiero error Questa, nel tempo, fia spenta ancora, Quando futuro più non vi avrà; Quello immutato, splendido ognora, Distrutti i secoli, con Dio vivrà. Pur se nell' ora che pellegrina Dai sensi l' alma vede adombrar In sue visioni, quasi divina, Le idee fantastiche che l' agitàr, Di così varie cose cercai La viva immagine nel mio pensier, Due belle angeliche forme mirai Congiunte incedere per un sentier, E dai lor labbri all' alma mia Queste mi parvero voci venir: Oh sempre in vero stolta genìa Che, d' amor nata, teme morir! Dal mar dell' essere senza confine, Se l' ineffabile d' amor virtù Voi stille menome e peregrine Assiduamente piove quaggiù, Non vuol che spersa ne resti alcuna In questa bassa valle feral; Però pietosa morte vi aduna Tutte alla mistica foce eternal. Perchè vi annebbia dunque il sereno Dell' alma, ausilio così fedel?… Perchè, al pensarne soltanto, il seno V' ingombra un subito sgomento e gel?… Paventi l' empio, che stolto crede Per morte al cieco nulla tornar; Paventi il tristo, che il fio prevede De' suoi delitti, nè sa sperar! Ma voi cui Fede santa ammaestra Ch' altro la vita mortal non è Che breve esiglio, ardua palestra, Cui segue eterna pena o mercè, Voi non nemica chiamar la morte Dovete, s' ella fine è al dolor; Ch' ella schiudendovi del ciel le porte Vi adduce dove perpetuo è amor.

Ferrara, il giorno 3 aprile dell' anno 1859.

Era la notte; solitaria e mesta Colorava del raggio innamorato La bianca Luna la magion modesta Onde Arquà s' ebbe onore invidïato. Tutto intorno tacea: dalla foresta Sol venìa d' un augello addolorato La nota, che mesceasi al mormorìo Dell' aura, e al lento susurrar d' un rio. Gli occhi, già lassi dal continuo pianto, Figgea sovra le rime armonïose Il gran Cantore, che di Laura il vanto Alzò su quante fûr donne famose; « E tanto il suo pensier levossi, e tanto » D' idee s' inebbriò caste, amorose, Che nello slancio dell' immenso affetto L' alma fuggì dal suo mortal ricetto. Poichè d' un guardo appena ebbe il suo frale Degnato, e il loco ove tanto soffrìo, Alteramente si levò sull' ale La nuova Eletta ad esser lieta in Dio. Così la fiamma all' etra aspira e sale, Così s' affretta vèr la foce un rìo, Com' Ella sciolta dal terreno incarco Dell' eterno piacer si spinse al varco. Ed ecco fra l' angelica armonia, Che le azzurre ricrea volte del cielo, Cinta di luce tal che non potria Mai sostener umano sguardo anelo, Tutta nel volto affettuosa e pia, Qual non la vide nel caduco velo, Gli appar colei che gli diè tanta guerra, E anzi sera compiè suo giorno in terra. Ma tanto sembra la celeste amica A' suoi sguardi più bella e meno altera, Che solo ai segni della fiamma antica La riconosce in sua letizia vera. All' incontro degli occhi, alla pudica Parola, ond' Ella salutò primiera Il suo fido cantor, la luce, e il riso Parve accrescersi allor del Paradiso. Ben giungi alfine, ella parlò, nel loco Ove s' insempra e si diffonde amore, Dove appurato per divino foco Degno si rende dell' eterno Autore. Or ti parrà pur troppo vile e fioco Quel che per me t' accese umano ardore, Ora soltanto, come un dì bramai, Nel sorriso di Dio tu mi amerai! Oh me beata che non schiusi il petto Alle dolcezze ingannatrici e corte! Beato te, cui del mio vago aspetto Reser vago laggiuso amore e sorte! Chè non avria spiegato il tuo intelletto Sì largo volo, se men saggia e forte Io fossi stata, nè famosa andrei Nel tuo verso immortal de' pregi miei. Vieni a prender tuo loco a Lui vicino « Che scrisse fondo a tutto l' universo » Entrambi sull' Italico giardino L' amico sguardo avrete ognor converso; Chè non scorda del cielo il cittadino La terrena sua patria, anzi converso Per essa in angel tutelare e pio, Venia implora a' suoi falli innanzi a Dio. Voi manterrete nelle Ausonie menti Desta la fiamma del vivace ingegno; Per essa un dì Verrà che i sonnolenti Animi scuota un generoso sdegno. E Beatrice ed io, che coi lucenti Occhi, scala vi fummo al santo regno, De' mortali vivrem nella memoria Finchè duri laggiù la vostra gloria.

Ferrara, il giorno 3 aprile dell' anno 1859.

Spesso io pinsi l' acerbo tuo fato Nel mio verso, o bellissima Pia, Poi che musa dell' anima mia È il dolor che rimorso non ha. Altri pinga malvagi e sirene, Cui redime l' amor presso a morte; E del vizio pingendo la sorte, Tolga, o attenui del vizio l' orror. Io che il genio, che l' alma m' inspira, Del Ciel credo purissimo raggio, Porgo sol ne' miei numeri omaggio All' oppressa e infelice virtù. Quell' omaggio che mai non s' avranno, Per minaccia, o lusinga scaltrita, Il poter fortunato, o l' ardita Stolta ignavia, che ammassa tesor. Tu mi splendi or nell' ansio pensiero, O consorte innocente e infelice, Ahi! non già sull' amena pendice, Dove il ciel ride a Siena gentil, Non in quel che ti schiuse l' Imene Onorato, dolcissimo ostello, Ma in diserto turrito castello Io ti veggo, com' ombra vagar. Di Maremma sui squallidi piani, Ove l' aura che spira è letale, Sorge l' atra magione ferale Che ti accoglie solinga nel sen. Là il tuo sposo, di un perfido amico All' accusa credendo, ti lascia Consumar lentamente d' ambascia, Come reo che non merta pietà! Sventurata!… e dagli angeli ordita Di tue nozze parea la catena, Ti splendea nella fronte serena, E negli occhi, dell' alma il candor. Sventurata! dal ciel di tue gioie Nell' abisso del duolo piombasti! Perchè pura e fedel ti serbasti, La calunnia ti close e perdè. Quante volte la vaga persona, Ahi! già lassa qual rosa appassita, Come anela di luce e di vita, Appressando al dischiuso veron, Con delirio pietoso ti volgi All' auretta, a una nube fuggente, A un augello canoro, al cadente Sole, o all' astro che annunzia il mattin: E narrate, prorompi, al mio sposo Voi, cui dato è sì libero volo, Come invoca ed anela lui solo Quella a cui la sua fede ei sacrò. Sull' anel, ch' ei mi porse, lo giuro, Di un desio, di un pensier non son rea! Sol per esso, ed in esso io vivea, Lieta quanto è concesso quaggiù. Voi di Pia gli recate il perdono, Che ancor l' ama vicina all' avello…. Deh perdona tu pure, o mio Nello, A quel tristo che entrambi tradì! Non di sangue, di lacrime e fiori S' abbia l' urna ove io scendo il tributo; E ricordi con mesto saluto Della Pia qualche Ausonio cantor. Io l' udrò da quel ciel dove eterno Fia quel nodo, che ruppe il livore, E compenso all' ingiusto dolore Di quel canto sarammi l' onor.

Ferrara, il giorno 25 aprile dell' anno 1859.

Là nel tempio consacrato Alla Vergine celeste, Ogni sera in schietta veste, Genuflessa al santo altar, Una bianca giovinetta, Prega, il guardo al ciel rivolto, « E in quell' atto, con quel volto, Sembra un Angiolo d' amor.» È solingo il tempio; un raggio Dell' occiduo sol cadente Penetrando nel silente Loco, ov' ella a pregar sta, Di un' aureola luminosa cinge il vago crin disciollo; « E in quell' atto, con quel volto, embra un angelo d' amor.» Confidente, al par d' un voto Che dal cor sgorghi improvviso, Pura, come il primo riso Di un infante al genitor, La sua candida preghiera, Erge a Lei che pianse molto, « E in quell' atto, con quel volto, Sembra un angelo d' amor. » Oh! degli Angeli Regina, Santa Vergine Maria, Degli afflitti madre, e mia Sola speme nel dolor, Al sospir di chi t' invoca, Deh tu porgi amico ascolto, « Piega a me l' amabil volto Tanto accetto al primo Amor! » Fanciulletta in mezzo ai fiori E all' erbette addormentata, Te, di luce incoronata, O Maria, sognai talor. Di festevoli angioletti Uno stuol cingeati folto, « E negli atti e nel bel volto Eri tutta grazia e amor. » Lassa! allor col bacio lieve Me destar solea la cara Madre mia, che sulla bara Vidi poscia immobil star! Da quel dì che nel tuo tempio Di pregar seco m' è tolto, « Triste apparmi il tuo bel volto Che rideami pria d' amor. » Deh! mi affida: io son solinga Come il fior tra i dumi aperto, Come voce in un deserto Passa il grido del mio cor. Per qual colpa il pensier mio Da sgomento arcano è côlto?.,.. « Deh!… ch' io fisa al tuo bel volto Speri, e palpiti d' amor! » Cerco indarno in ogni viso Uno sguardo affettuoso! Cupo, immenso, doloroso Sento un vuoto in questo sen; Un' angoscia indefinita, Un desir nel dubbio avvolto, « Di pallor mi sparge il volto, Per te scema in me l' amor! » Ah! se mai piegar dovessi Alla colpa i pensier miei, Se di affetti indegni e rei Far potessi albergo il cor; Spegni insiem colla mia vita Ogni senso audace e stolto; « Fiso il guardo al tuo bel volto Morrò in estasi d' amor. » Disse, e al priego intemerato Di quell' alma eletta e pia, Di un' angelica armonia Parve il tempio risuonar. Con le braccia al sen conserte, Con lo sguardo al suol raccolto, « Quella cara agli atti e al volto, Era un Angelo d' amor! »

Ferrara, il giorno 25 aprile dell' anno 1859.

Non delle nove Vergini Fra il lusinghier drappello, Che d' Elicona al vertice Ebber gradito ostello, Presso al gentil Castalio Fonte, tra mirti e allòr, Cercai bramosa io l' intima Mia musa ispiratrice, Ma del cruento Golgota Sulla fatal pendice, Tra due sorelle angeliche Apparve al mio pensier. L' una qual neve candida E vesti, e bende avea, L' altra in un manto rutilo Qual fiamma si avvolgea; Ella, in color di tenere Fogliette nate or or Vestita, a un riso etereo Composta la sembianza, Dirmi pareva: « Inspirati « In me: son la Speranza! Nacqui col tempo, e termine Solo col tempo avrò! » Ond' io rapita al magico Suon di sì cari accenti Proruppi: o Speme, o amabile Conforto dei viventi, Deh! s' egli è ver che l' iride, Di pace arra e d' amor, Tu di tua man benefica Nel curvo ciel pingesti, Quando sul gonfio pelago L' arca fatal reggesti, Ove di Adamo il misero Seme si conservò, Sii tu la dolce ed unica Musa del canto mio!…, Altri scuorato e timido Tremi, se turbin rio Romba pel torbid' aere In minaccioso suon; lo, di te piena l' anima, Nell' ineffabil raggio Dell' immortal Giustizia Ritempro il mio coraggio; E, quai tu spiri, i numeri Ai mesti volgerò! Chè se il futuro avvolgesi In luttuoso velo, A meditar le pagine Io torno del Vangelo; In quel sublime ed aureo Libro che Dio dettò, Tu mi favelli, o angelica Dolcissima Speranza, E all' alma anela e fervida, Fallo ch' ogni altro avanza, Sembra il doglioso gemito Dello sconforto allor. Chè niuno oltraggia il massimo Autor d' ogni grand' opra, Siccome il vil che dubita Di Lui che a tutti è sopra, A te chiudendo, o vergine Figlia del Cielo il cor! Tu, ovunque è vita, penetri, Chè sei la vita stessa; Sol dell' inferno baratro La soglia a te concessa Non è dall' inflessibile Giustizia del Singor!…. Deh! se tu sei la mistica Luce che i cor ricrea, Splendi più viva agli uomini Di quest' etade, o Dea, Di quest' età che s' agita Fra dubbio e fede ognor! Splendi serena! i nugoli Sperdi del turbin rio; Parla!…. ed invitti gli animi Nel più gentil disìo, Avran fausto ai magnanimi Sforzi l' eterno Amor!

Ferrara, il giorno 25 aprile dell' anno 1859.

Languia nel cielo sereno il raggio Del più bell' astro, del dì forier, Allor che pronto al gran vïaggio Lasciò i suoi lari il cavalier. Monta un destriero qual neve bianco Rossa una croce gli sta sul cor; Ha ferrea maglia, la spada al fianco Gli annoda un velo trapunto d' or. È biondo, ha bello, gentile aspetto, Da cui lampeggiano fede ed ardir; Ma pur, lasciando il patrio tetto, Dal cor gli sfugge mesto un sospir, Fermo nell' alto proposto e pio Ei de' parenti deluse il duol, Temè lo strazio del lungo addio, Partir non disse col nuovo Sol. Ed or tremando pensa: fra poco Desta la madre mi chiamerà, E a lei con gemito sommesso e fioco Il fido servo risponderà — Partì il tuo figlio; presso la soglia Del casto talamo tno si prostrò, E a benedirlo con muta doglia, La tua materna destra invocò. — Oh regga un angelo quella amorosa, Nè il figlio ingrato chiami e crudel…. Oh madre!… è santa cagion pietosa Che a te mi toglie e al patrio ciel! Sì pensa, e al vertice giunto del monte Sì volge indietro, ferma il destrier; E il Sol che sorge ìrradia il fronte Pallido e triste del cavalier. Ecco al suo sguardo distesa appare In tutto il vezzo di sua beltà, La terra cinta dal doppio mare, Cui vano schermo l' Alpe si fa. Oh quai tal vista nel giovinetto Ardenti sveglia varî desir! Come gli palpita il cor nel petto, Mentre prorompe in questo dir: — Addio, mia dolce itala terra, Addio mio primo, mio solo amor! Mi avrà campione la santa guerra, Per cui d' Europa s' arma il valor. Tuonò l' oracolo del Vaticano Che voce a tutti parve del Ciel: Onta a chi soffre che l' Ottomano Di Cristo accampisi presso all' avel! Io non degli ultimi la croce ho tolta, E in Asia ardente corro a pugnar…. Ma fia che il giorno sorga una volta Che te i tuoi figli possan francar?.., Verrà quel giorno che non più odiosa Fraterna guerra pugnin fra lor, Ma in causa unanime e glorïosa Risplendan degni del prisco onor? Oh! se a me dato del grande acquisto Sarà la fausta alba veder, Presso al sepolcro che accolse Cristo, Fia questo il voto del tuo guerrier: » Tu che a camparne dall' ugna inferna Dal ciel scendesti, divino agnel, Redìmi l' italo suolo, ove eterna Sede ha tua santa Chiesa fedel! » Disse, e le braccia stese tremando, A Italia, un ultimo vale iterò…. Poi la visiera ferrea calando Sul volto, il fervido corsier spronò.

Ferrara, il giorno 25 aprile dell' anno 1859.

Io che la mente a un immutabil segno Figgo degli estri nel repido volo, E sola Musa del negletto ingegno Ho l' indomito amor del patrio suolo; Spesso di Dante il generoso sdegno, E di Petrarca l' amoroso duolo, E di Tasso la fede e il sentir pio, Auspici invoco al facil canto mio. Ma tu, vate immortal, solo secondo (Che uguagliarlo non lice) all' Alighieri, Tu immaginoso creator fecondo Di care fole, e incanti, e mostri feri; Tu che cantasti in stil vario, giocondo, L' armi, gli amor, le donne, e i cavalieri, Per cui fulse un' età barbara e ria Di lampi di valor, di cortesia; Tu non rispondi alla fremente e mesta Alma che ai tempi fortunosi guarda, E sdegna il riso, e l' ozïosa festa Che i già infiacchiti cor troppo sgagliarda! Pur non sarai sordo a' miei voti in questa Città diletta, ch' ogni età più tarda Dirà beata, perchè in lei ti piacque Condur la vita, ed il tuo fral vi giacque. Come la scienza che all' idea più pura Dell' uom solleva la commossa mente, Varia da quella è in sè che di natura Le arcane leggi indaga avidamente; Tal dal poema d' immortal fattura, Che pinge i regni della morta gente, Diverso è il tuo, che dilettoso e ameno Gode il vario ritrar bello terreno. Pur se nel fine e nello stil son tanto, Tra lor diverse l' opre eccelse, al paro Dell' Italo pensier recan soltanto L' impronta e dell' età che le ispirâro. Libero spirto, d' Alighieri al canto Buonarroti si piacque, e il tuo più caro Ebbe colui che della terra il moto Scoperse, e il Sol vide nel cielo immoto. Ma quei parlando al core e all' intelletto Nel carme ad ardua civil meta intese, Ed appurando in Dio d' amor l' affetto Degno dell' alto suo principio il rese; Tu, che togliesti a fin solo il diletto, Sui tanti mali del natal paese Rado volgi un sospiro, e spesso il velo Togli all' amor, che nulla ha più di cielo! Pur chi di te meglio potea la ria Età corrotta di virtù al sentiero Ridur colla ineffabile armonia Del verso, che ha sui cor sì forte impero?!.. Nel vigor dell' eccelsa fantasìa, E dell' arte immortal nel magistero, Nessun t' agguaglia, e a tuo talento i cori Governi, o canti di battaglie, o amori. Di scherno obbietto render tu volevi Le favolose antiche imprese, e forse Le stolte inique gare t' intendevi Morder fra i prenci de' tuoi tempi occorse. Deh! come allor premio sperar potevi, Anzi come al pensier non ti soccorse Che quegli a cui volesti il carme vòlto, L' avria col ghigno del dispregio accolto?!.. Ahi fu il dispregio il premio ognor serbato Dai Grandi ai sommi italiani ingegni! Forse provvidenzial severo fato Così ammonisce onde adular si sdegni! Pur dall' esempio tuo non fu Torquato Reso più saggio, e vilipendi indegni, E de' folli l' ospizio ebbe in mercede Da quegli a cui fama immortal già diede! Ma non da un prence e da un' età potea Da vio premio aspettarsi, o Generosi, Il mondo tutto un serto a vio dovea Di lauri in ogni tempo glorïosi. Fin che dell' arte la celeste idea Fra i mortali risplenda, e voi famosi Fra le genti ne andrete, e altera fia D' esser stata a voi culla Italia mia.

Ferrara, il giorno 25 aprile dell' anno 1859.

Su queste carte ancor nitide1 Il presente Sonetto fu il componimento primo ed augurale di un Album. io segno Volenterosa l' umil nome mio, Perchè di tempo e lontananza a sdegno Viva nel tuo pensier restar disio. Più del plauso gentil, che al poco ingegno Spesso, fraterno Italo amor largio, Supremo gaudio di mia vita io tegno Dell' amistade il santo affetto e pio. E tante ebbi da te, spirto cortese, Splendide prove d' amistade allora Che in sen mi accolse il tuo natal paese, Che mai non fia, che ricordando i giorni Che ti conobbi, e fei quivi dimora, Il fato amico a benedir non torni.

Ferrara, il giorno 25 aprile dell' anno 1859.

O dell' azzurro adriaco Bella, superba sposa, Che per sì lungo secolo Invitta e glorïosa Il tuo sciogliesti all' aure Vessil di libertà; Venezia!… E chi non palpita A così augusto nome? Un dì sul fronte ai barbari Drizzar facea le chiome, E per sospetto ai despoti L' alma tremava in sen. Or di sventura è simbolo Quel nome, e a noi dal core Strappa un sospiro, un fremito Di sdegno e di dolore, Chè sol la tua miseria Agguaglia il prisco onor! Però se refrigerio Al duolo è amico pianto, M' odi! verace interprete Del fraternal compianto, Io, musa oscura, il subito Verso rivolgo a te! Da che l' itale pagine Fanciulla io meditai, Te grande, e forte, e provvida Sempre, o Venezia, amai; E spesso nei fantastici Sogni del mio pensier, Al raggio melanconico Della sorgente luna, Credei su lieve gondola Scorrer la tua laguna, O di san Marco estatica, La mole contemplar. Or se di te la immagine All' anima mi riede, È qual di donna vedova, Che in riva al mar si siede, Con man dai ceppi livide Tese a implorar pietà. Come tremante e pavido Ne' regni della morte Vide il poeta altissimo D' Averno in sulle porte Le cifre atre, funeree, Nemiche a ogni sperar; Così sul tuo bellissimo Fronte dal duol curvato Di Campoformio leggesi Il nome detestato, Cui « Villafranca » in lugubri Note, s' aggiunse or or! Ahi dunque indarno, o misera, Del tuo sangue più puro L' onde del mare a porpora Incolorate furo, Del mar su cui l' imperio Alto tenesti un di? Due volte, ohimè, nel volgere Di due lustri, il tuo sguardo Vide di Francia il nobile Trionfator stendardo, Per tua salvezza all' aure D' appresso sventolar; E per due volte, simile A larva ingannatrice, Che insiem col sonno involasi Dall' anima infelice, Ratto pel vasto oceano Lo vide dileguar. Oh al disperato gemito Che ti fuggì dal petto, Muti, tremanti e pallidi D' angoscia e di dispetto I tuoi figli magnanimi In volto si guat$r! Ei che supplizi e carceri Sfid$r, da te fuggendo Sol per pugnar col barbaro Dominator tremendo, A cui sottrarti ardevano, Nulla ottenean per te! Ma pur deh spera!… Libere Dal barbaro oppressore Schiuder non sanno al gaudio Le tue sorelle il core, Poichè l' augel bicipite In te s' annida ancor. Spera!… del Re Sabaudo Ristrette al trono intorno Ansie, frementi anelano Del tuo riscatto il giorno. Spera!… quel cor magnanimo T' ama, e mentir non può!…

Bologna, il giorno 21 ottobre dell' anno 1859.

E alfin m' è dato tributar l' omaggio Del verso che dal cor schietto vïen fuora A te, prode Ferruccio, ultimo raggio Della vetusta libertà di Flora. Ah! fra l' onte più ree del reo servaggio, Di che sol la memoria oggi ne accora, Quella si scriva che niegava al santo Cencer de' forti il cittadino canto. Temean la lode alla virtù!… nè quella Vana era forse e stolida paura. Oh ben potea la sonnacchiosa ancella Scuoter la tua magnanima figura! Improntando la delfica favella, La tua voce terribile e secura Non avria forse dall' avello inulto Tuonato invan contro lo stranio insulto. Tu che mirasti sul rovente letto Perir Savonarola a' tuoi primi anni, Poi che sospinse il popolar dispetto Fuor della patria i medicei tiranni, A lei facesti del tuo proprio petto Baluardo e scudo nei guerreschi affanni, Che contro le destò dall' alto soglio D' un figlio suo l' ambizioso orgoglio. Tu, qual l' eroe di Sparta e i suoi trecento, Coi prodi tuoi sull' Appennin cadesti; E teco ohimè nell' orrido cimento Cader la patria libertà vedesti; Però s' oggi a te sacro il mio concento, Fia che altro nome al tuo gran nome innesti, Ei fia di tal che al Greco e a te somiglia, Vivente amor d' Italia e meraviglia. Da che l' empio pugnal del Maramaldo Ti univa a Dio con l' ultimo sospiro, Spirto non fu del suo più puro e saldo Nell' odio ai lacci che i tiranni ordîro. Di libertà l' idea più eccelsa ei caldo Vagheggiò sempre con fatal desiro, Per quella in stranio suol pugnando vinse E di lauri immortali il crin si cinse. Per quella accorse il dì che risorgea Fra noi la speme, e allo stranier soldato Terribile nell' arme ei risplendea Come l' angel di morte inesorato. Fin che un asilo a lei serbar potea, Fin che un sol brando fu per lei snudato Quell' asilpropugnò, quel brando resse, Nè vinto fu quando il destin l' oppresse. Pur quell' idea sì vagheggiata immola Oggi l' eroe per cittadino amore; Poi che udì la magnanima parola D' un re che Italia invoca, e Italia ha in core. Vinto a quella virtù nel mondo sola Che il trono fregia di novo splendore, Ei gli offre il brando suo libero invitto, Già sol devoto al popolar diritto. Oh! tu puranco, se dal ciel lo sguardo Rivolgi ancora a questa dolce terra, Gratulerai tu pur questo gagliardo Che dietro un ben conteso oltre non erra. Ei fiso mira l' italo stendardo, Lo ha seco quei cho lo dispiega in guerra; Poi che d' Italia le speranze uccide Chi le sue forze e i figli suoi divide! Oh tristo quei che i nodi benedetti Franger vorria dei popoli fratelli, Che in un solo pensier congiunti e stretti Speran di gloria alfin giorni novelli! Chi confonder non sa nei propri affetti Ogni contrada che itala si appelli, Chi dal voto comun scindersi aspira, Quegli oggi, o Italia, a' danni tuoi cospira! E tu, Ferruccio, alma amorosa e forte A cui l' età, d' odii fraterni insana, Non consentì sperar sì lieta sorte, Per la patria morendo a Gavinana; Tu alle nove dolcissime ritorte Sorridi dalla tua sede sovrana; E se feroce l' oppressor s' attenti Muover battaglia ai popoli redenti, L' Angiol sii tu che il prode avventuroso Preservi allor che rischi e morte sfida; Aleggia in tua virtù sull' animoso Stuol che alla gloria infaticato ei guida. E quando nel cimento sanguinoso D' Italia e Garibaldi alzan le grida, Tuoni anche il nome tuo, Ferruccio invitto, E fia certa vittoria ogni conflitto!

Bologna, il giorno 21 ottobre dell' anno 1859.

Vieni, e meco ti prostra all' altare In quest' ora solenne di addio; Qui ripeti al cospeto di Dio I tuoi giuri di prode guerrier. Io sul capo la destra t' impongo Ti consacro alla gloria, o alla morte!… » Vanne, o figlio, e pugnando da forte De' tuoi padri rinnova l' onor. » Non temer; se di lagrime gronda Il mio ciglio guardando la croce, Se mi trema sul labbro la voce Interrotta da spessi sospir, Se affissandomi in volto ritrovi Le mie guance più pallide e smorte, » Non temere…. son madre!… ma forte Della patria mi rende l' onor! » Da quel giorno che al seno ti strinsi, Primo frutto d' amore invocato, Dissi: O patria, un campione t' è nato In quest' angiol che il cielo mi diè. Sia qual vuolsi il suo genio, a te sacro Ei fia sempre, e fia sua la tua sorte, » Coll' ingegno, o col braccio, ei da forte Pugnerà per l' italico onor. » Tu ben sia che tuttor balbettante Di tuo padre col nome e col mio, Il bel nome del suolo natio Io ti appresi amorosa a ridir. Delle prime tue voci al Signore Sul tuo labbro io lo volli consorte, » Perchè in te santo al pari che forte, Della patria parlasse l' onor. Poco, ahi lassa! divise il mio spose De' tuoi fati la trepida cura; Quando il duol di un' orrenda sciagura I suoi floridi giorni troncò, Te guardando, dell' alma le posse Come in senso profetico assorte, Disse: « Un figlio magnanimo e forte Riscattar può del pardre l' onor! » Io lo intesi, e ti crebbi alla speme, Alla fede di un giorno invocato; Or quel giorno sì atteso è spuntato, Corri dove t' appella il dover. Non più tempo è di molli canzoni O d' ambagi colpevoli, e accorte; » Vanne, o figlio, e pugnando da forte De' tuoi padri rinnova l' onor. » A me pensa, nell' ora che addentro Ti sospingi nell' orrida gara, Ch' io starò genuflessa a quest' ara Per la patria pregando e per te. Se il nemico t' implora, oh la destra Gli distendi, e sien l' ire tue corte; » Sia coi vinti magnanimo il forte Che propugna l' italico onor. » Io non temo che pari a' più degni Te non vanti la fama lontana; Se nol fossi, la madre Spartana Saprei forse nell' ira emular! Ma che dissi? no, mai dal sentiero Di virtù non fien l' orme tue torte; » Tu saprai combattendo da forte Crescer vanto all' italico onor.» Benedetto dal labbro materno, Va, campione del suolo natio, Su te vegli l' arcangel che Dio Fe' custode del fido Israel. Troverai coronate d' alloro, Se ritorni, le patrie tue porte, » O se cadi pugnando da forte, Dal martirio avrai serto ed onor. »

Bologna, il giorno 21 novembre dell' anno 1859.

Io ti vidi, o Italia mia, Sparso il volto di squallore, Nell' inerzia del dolore Mute lacrime versar. Io ti vidi, e a Dio rivolta, Solo ausilio al cor che geme, Chiesi il canto della speme La tua fede a ravvivar. Or ti veggo, in piè risorta, Al sembiante e agli atti altera, La tirannide straniera E i tuoi despoti sfidar. Io ti veggo, e chiedo a Dio, Che al mio verso dia possanza La virtù della costanza Nel tuo petto a raddoppiar. Altri, o Italia, a cui nel seno Di Tirteo la musa ferve, Delle nordiche caterve Che distruggerti pensâr, Canti l' onta e la disfatta, Poi che d' armi cinta e bella La terribil tua sorella D' oltre l' Alpe a te volò. Di Varese e di Palestro, Di Magenta e Solferino, E di Como e San Martino, Marignano e Montebel, Altri canti i fasti eterni, E il maggior di tutti i vanti, Quel che mostra due regnanti Nuovo un dritto sostener; Quel dei popoli diritto, Che di Francia il gran sovrano Proclamar s' udì a Milano Con magnanimo pensier. Quel che lui condusse al trono, Quel che a noi fruir fia dato, Se dei popoli il mercato Chiuder dee la civiltà! Nè inutili querele Scioglierò voce indiscreta, Perchè a vista della meta Trionfante ei s' arrestò. Se fu errore, o senno, o arcana Altra possa, ei sol conosce; Ma tu, spinta a nuove angosce D' incertezza e di timor; Tu perdura, o Italia mia, Nel contegno e forte e saggio, Non vacilli il tuo coraggio, Non si cangi il tuo voler. A lusinghe ed a minacce Sorda al paro esser tu dei; Se costante, invitta sei, Niun d' opprimerti oserà! Quel d' amor soave laccio Onde insiem congiunte e strette Molte figlie tue dilette I lor fati accomunàr, Saldo, eterno ammiri il mondo Che ai tuoi mali acerbo irrise, Fin ceh deboli e divise Per discordia le Mirò. Nel dubbiar di avversi eventi Abbi a un segno il guardo immoto…. Cara Italia, è questo il voto Ch' io per te sollevo al ciel! Geme, il so, Venezia ancora Sotto il giogo empio straniero, Nè a men rio funesto impero Altre figlie del tuo cor Piangon curve, onde ti affanni Tu per esse, o madre pia; Ma perdura, o Italia mia, E il lor fato eangerà!

Bologna, il giorno 21 novembre dell' anno 1859.

Sul glorïoso ed inclito Colle di San Martino, Che tanto sacro italico Sangue pur or bevè Avvolta in veste lugubre, Affranta dal cammino, Chiusa nel duolo e pallida, Muove una donna il piè. Talor da un freddo brivido In ogni membro scossa, Si arresta, e da ineffabile Angoscia vinta appar…, Oh in qual, fra i tanti cumuli D' ossa indistinte, l' ossa Del figlio suo la misera Donna potrà trovar? Ma il cor la guida, un' intima Misterïosa voce Le parla: « Ove più orribile La mischia infurïò; Là donde il Re magnanimo Dello stranier feroce Per cinque volte l' impeto Sostenne e rintuzzò; Là del tuo figlio esanime Giacque il terreno ammanto. Ei l' amoroso spirito Pago rendè al Signor; Chè udì i fratelli sciogliere Della vittoria il canto, Credè la patria libera Dal barbaro oppressor. » Oh ve'!… l' afflitta, al sonito Di quelle pie parole, Di un riso tra le lagrime Fa il lampo scintillar; Così tra foschi nuvoli Spesso l' occiduo sole Balena un raggio languido Pria che s' asconda in mar. Poi genuflessa, e gli umidi Occhi rivolti al cielo, Sclama; « Perdona, è debole Spesso il materno cor; Ma anch' Ella, insiem cogli angeli, Sul Tuo trafitto velo Volle tua Madre piangere, O Cristo Redentor! È ver, del sacrificio Non pianse già Maria, Teco compíalo il genere Umano a riscattar; Ma, ed io pur anco, io povera Donna, alla patria mia Seppi del caro ed unico Figliuolo i dì votar! Ned or m' è dato i laceri Avanzi suoi di pianto Bagnar, non che raccoglierli Entro sacrato ostel. Ma questo colle è tempio A Te devote e santo, Se della patria i martiri V' hanno indistinto avel! E qual più santa e memore Tomba innalzar potrei Alle tue spoglie gelide, O dolce mio figliuol?… Qui da ogni cor d' Italia, Frammisto a' sospir miei, Vola un sospiro al sorgere E al tramontar del Sol. Poi che non più n' è patria Breve region partita, Ma tutta la bellissima Terra fra l' Alpe e il mar, Ed in un voto unanime Tutta una gente unita, Quanto fu irrisa e debole Tanto tremenda appar. Deh! se il bel fior de' giovani Anni al mattin troncato, Se l' amor tuo ti ottennero Già l' eternal mercè Prega, o figliuol, che compiasi Tosto d' Italia il fato, Prega che io il miri, o appellami Tosto vicino a te! »

Bologna, il giorno 21 novembre dell' anno 1859

È l' ora mesta che fa dolce invito A seppellir nel sonno ogni aspra cura, Quando piove dal ciel lume romito Il palid' astro, amor della natura. Tacito, solo, e in quell' idea rapito Che in lui d' Italia l' avvenir matura, Nella stanza regal vigile siede Dei re Sabaudi il glorïoso erede. L' invitto acciar, con ch' ei da amor sol mosso L' ire sfidò del boreale augello, Posa, pur or dal fianco suo rimosso, Innanzi a lui su serico sgabello. Sovr' ampia carta il guardo suo commosso Cerca segnati i lidi itali, e quello Scorgendo alfin cui bagnan d' Adria l' onde Sospira, e il volto tra le palme asconde. Ed ecco allor che in voce lamentosa: Venezia, mormorando, ei si riscuote, Una forma severa e maestosa Gli sta dinanzi, in lui le luci immote. Più che umano ha l' aspetto, e umana cosa Il suon non è delle possenti note Che volge al re, per meraviglia reso Muto, qual uom che da sgomento è preso. « Non stupir di mia vista, a' tuoi pensieri Il fren raccogli, e in cor miei detti serba; Vengo da loco eterno, e son d' Alfieri La famosa nel mondo alma superba. Schiavi, e tiranni, e Bruti inetti e fieri M' ebber del par dispregiatrice acerba; E questi, e quelli, in tempo ai forti avverso, Scossi, irrisi, atterrii col nobil verso. Disdegnando e fremendo immacolato Vissi, e morte mi tolse al veder peggio. Ma di patria l' amor vive indomato Ne' spirti assunti al sempiterno seggio; Però d' Italia nostra il dubbio fato Io seguii sempre; or che brillar lo veggio Per te di luce inaspettata e nova, Tributarti il mio plauso anco mi giova. Sì t' abbi il plauso mio; t' avresti avuto Dal mio libero cor libero omaggio, Se all' età che fu mia fossi vissuto Tu che regni a cessar l' empio servaggio. Deïficato non avrei di Bruto, Alla mia terra ingiusto e al tuo legnaggio, I dommi e l' ira, se d' un re qual sei Fosse apparsa l' immago ai pensier miei. Oh ben la tua regale alma d' atleta Nel voler forte è all' alma mia sorella; Io volli, volli, e fui sofo e poeta, Abbenchè ignaro nell' età novella. Tu a voler segui, e toccherai la meta Di cui non vide il Sol mai la più bella; I fati sforza, e ai suoi desir li piega Chi tal virtù ne' suoi proposti spiega! Lascia ad altrui le doppie ambagi accorte, E gli obliqui sentieri, e il dir facondo; Tu sii sempre qual fosti, audace e forte Nel dir, nell' opre d' ogni fraude mondo. Oh poichè tanto concedea la sorte, S' abbia puro l' esempio unico il mondo D' un re leal, che della data fede Pel sentier retto it popol suo precede! Guarda! la stella che tanti anni attese Il padre tuo, nell' orizzonte è sorta. Seguila, e a nove generose imprese Infallibil l' avrai lucida scorta. In te confida l' italo paese, Guai se vacilli, ogni speranza è morta!… Ma se starai qual scoglio ai venti immoto, Tu a compir basterai d' Italia il voto. » Disse, e nei tratti dell' austero volto Balenò un riso d' immortal splendore. Mormorò: vale, e d' una nube involto Vanì repente pel notturno orrore. E il re, dal grave suo stupor disciolto, Disse, portando la sua man sul core: « Ombra, tel giuro, o il vote adempio, o in guerra Cadrò da eroe per questa patria terra! »

Bologna, il giorno 21 novembre dell' anno 1859.

Umile donna dall' amante core Degli eventi minor suona il mio canto; Ma voi mi udiste ai giorni del dolore Fede e speranza a voi parlar soltanto. Or che dal ciel ne arride astro migliore, D' un trasporto d' amor nel dolce incanto, Sclamo: O fratelli, la concordia vostra È il baluardo miglior d' Italia nostra.

Bologna, il giorno 21 novembre dell' anno 1859.

Fra l' ebbrezza di un popol redento Che plaudisce al ritorno dei forti, Che le stranie feroci coorti Dalle patrie regioni scacciâr, Mesto in volto procede un guerriero, Qual chi l alma dal duolo ha percossa; « Ahi gli toglie una gelida fossa Il trionfo più caro al suo cor! » Quella via che di mirti e d' allori Sparsa or preme tra stuolo giulivo, Son tre lune, guardingo e furtivo Ei percorse tra l' ombre e il timor. Era seco la madre; a quel varco Giunta, al seno lo strinse commossa, Pur non pianse…. Ma il gel della fossa Certo allor presentiva nel cor! Ei prostrato le cadde d' innanzi: Benedicimi, o madre, sclamando; E colei, la sua destra posando Su quel capo suo solo tesor: Dio con me benedica, proruppe, Al campion della patria riscossa!… S' abbia un giorno l' oscura mia fossa I tuoi lauri col pianto del cor! Di quel voto e del mesto presagio Sculta in seno ei recò la memoria; Tra i più prodi si cinse di gloria Combattendo l' inviso stranier; Ma la pia che lo spinse al cimento, Dal dover cittadino sol mossa, Più non vive…. Ahi gli toglie una fossa Il trionfo più caro al suo cor! Invocata alfin scende la sera Del suo duolo a lenir la procella; Dalle vie fragorose che abbella Delle innumere faci il fulgor, Ratto ei move al recinto che accoglie Della madre dolcissima l' ossa, Là prostrato sull' umida fossa La bell' anima invoca dal cor. Madre, madre!… Oh ineffabile nome Ch' io primiero fanciul balbettai, Nome ch' io nei perigli invocai Come pio talismano d' amor; E fia ver ch' oggi indarno risuoni Sul mio labbro, nè a udirlo s' è scossa Lei che giace in quest' umile fossa, Perchè troppo mi tenne nel cor?… Dolce patria!… la vita che esposi Delle ostili masnade al furore Era scarso olocausto all' amore Che per te mi divampa nel sen; Ma la vita materna, cui spense Il dolor che racchiuso più ingrossa, Questa pur t' ho immolata, e la fossa Vieta il premio più caro al mio cor! E tu martire cara, passasti Senza il bacio dell' unico figlio!… La sua mano non chiuse il tuo ciglio, Nè al tuo feretro in pianto ei vegliò! Oh al pensarne, d' affetti diversi In me rugge terribil sommossa…. Deh un istante il torpor della fossa Scuoti, o madre, e rispondi al mio cor! Oh se almen dopo tante speranze, Dopo turbin cotanto di guerra, Fosse tutta quest' itala terra, Tutta nostra qual Dio la creò! … Se al Lion di san Marco renduta Fosse al volo e al ruggito la possa!… L' alto voto discior su tua fossa Io potrei per conforto del cor! Ma non doma è la speme!… frattanto Qual tributo supremo di affetto, Questa Croce che fregia il mio petto Io sospendo al tuo memore avel. Del mio seno ferito nel sangue Essa il dì del conflitto fu rossa; Stia qual' arra qui sulla tua fossa Del trïonfo che anèla ogni cor!

Milano, il giorno 13 gennaio dell' anno 1859.

Vorrei le tinte di Raffaello Che, quando in seno ferveagli amor, Tanta ritrasse luce di bello Ne' suoi dipinti, d' Italia onor. Vorrei l' armonico soave incanto Che il Catanese Cigno eternò, O di Petrarca il dolce canto Nel dì ch' ei prima Laura mirò. Forse allor pingere nel verso mio Saprei quel tipo d' alta beltà Che nella mente m' impresse Iddio Fin dalla prima ingenua età. Prostrata al tempio, ancor bambina, D' un Angiol sculto presso l' altar Nella leggiadra forma divina Quel mio diletto credei mirar. E i verecondi prieghi innocenti, Che a me sul labbro spingeva il cor, Parea raccogliere, e fra i concenti Sacri offerirli al Creator. Fatta pensosa vergine adulta, Pei patrii colli vaga talor, D' un usignuolo che tra l' occulta Frasca dolevasi in suo tenor, Nell' amorosa voce credei Sua cara voce talvolta udir, La udii nel murmure dei fiumi miei, La udii dell' aure nel pio sospir! Oh quante volte la foglia breve Caduta all' albero a me vicin, Mi parve il tocco di un bacio lieve Ch' ei deponesse sovra il mio crin! E quante volte nel sen di un fiore Che con l' olezzo traeami a se, Lessi recondite cifre d' amore Che la sua mano tracciò per me! Se il ciel guardando a notte burna Degli astri tremoli il pio chiaror, O il malinconico raggio di luna In me dei carmi spirò l' ardor, Lui confidente bramai soltanto, Sol del suo plauso fu il core altier; Per lui disciolsi il primo canto, Ei s' avrà l' ultimo de' miei pensier! Se il sen mi assale ribrezzo o duolo Di oscene colpe, d' odii e viltà, Se sui destini del patrio suolo L' animo incerto dubbiando va: « Passa, ei mi dice, passa, e degli empi Sull' opre il guardo non arrestar; È sorta l' alba dei nuovi tempi, Il Sol tra poco dovrà brillar! » Se il mondo all' umile chioma negletta Suoi vaghi serti offre talor, Ei mi ammonisce: Bada, o diletta, « Non son per casta fronte quei fior! Se in mezzo a folta calca, straniera A me d' affetti, io movo il piè, Ei mi susurra: Procedi e spera, « Tu non sei sola, io son con te! Eppur quest' Angelo ch' è fida scorta Al mio difficile mortal sentier, Che in ogni duolo mi riconforta, Che al ciel solleva il mio pensier; Se bruno o biondo ha il crin, se i rai Azzurri o neri dirvi non so; Qui sulla terra non lo incontrai, Nè coi mortali occhi il vedrò. Sol la romita anima mia Si piace al raggio di sua beltà, E cara fonte di poesia Questo ineffabile amor si fa. Ma forse il giorno che del fatale Ultimo sonno mi addormirò, La stanca fronte sull' immortale Amato petto riposerò!

Milano, il giorno 15 gennaio dell' anno 1859.

Quando l' infausto inverecondo patto Di Campoformio la tradita apprese, Come incredula ancor del gran misfatto Stette, e a gran voce: Il Doge! il Doge! chiese. Tremulo, bianco, e dal dolor disfatto, Qual chi di morte il fero annunzio intese, Al ducale veron trasse un vegliardo…. E disse assi col disperato sguardo! Era un Manin quel veglio miserando, Ultimo prence che il gemmato anello Nell' azzurro del mar flutto lanciando L' Adriaca Donna disposava a quello. Dieci lustri straziò col rostro infando L' aligero Lion l' austriaco augello, Fin ch' ei riscosso con un fier ruggito Franse i ceppi, e il cacciò dal sacro lito. Quel dì tra i plausi e l' agitar di mille Patrie bandiere, sul veron ducale Apparve un uom che con soavi stille Per giubilo piangea più che mortale. Come in lui si affisâr l' ansie pupille, Lungo unanime un grido trïonfale Da tutti i cuori si dischiuse il varco: « Viva, viva Manin, viva San Marco! » Era un Manin; ma della stirpe altera Ch' ultima il seggio tenne, e ne discese, Tardo rampollo e nobile non era L' uom che di tanto amor segno si rese. Dal popol nacque, e dall' età primiera Con l' ingegno, col cor, con l' opra attese Ad inculcar dello stranier servaggio L' odio immortale al vergognoso oltraggio. Oh breve inver, ma bello e sovrumano Tempo di gloria a te, Venezia, arrise, Quando l' eroico tuo popol sovrano Delle sue sorti il freno a lui commise. Quella fida non men ch' esperta mano In quante propugnò nobili guise Le minacciate estreme tue fortune, O martire gentil delle lagune! Ma sorse un dì che infausto atro velame Tessean le nubi al tuo splendido cielo; L' indico morbo e la tremenda fame Mietean gli eroi più che il nemico telo. Simili a spettri le tue genti grame Al ducale veron la sguardo anelo Volgeano ancora; ivi Manin riapparve…. Quanto diverso, ohimè, da quel che parve! Piangean le turbe; ed ei l' ultimo vale Volse piangendo al suol de' padri sui. Francia l' accolse, e come sa di sale Ivi provar dovè lo pane altrui. Lo scendere e salir per l' altrui scale Qual duro calle sia fu noto a lui, Ed ogni cosa più al suo cor diletta Dell' esilio lo stral quivi saetta. Povera Emilia!… povero languente Fiore divelto al dolce patrio suolo! Prona al guancial di tua madre morente Ne invidiasti al cielo il ratto volo. Nè a rattener te valse, angiol clemente, L' amor del padre tuo diserto e il duolo; Gli occhi ei ti chiuse, e susurrar ti udio Nell' estremo sospir: Venezia, Addio! La cagion di tua morte era in quel detto, Ben ei l' intese e mormorò: perdono! Ma tu già lieta nel divin cospetto Gl' impetrasti, o Gentil, sublime dono. Nel futuro ei potè con l' intelletto Mirar gli eventi che or compiuti sono; E mentre alla suprema ora vicino Trepidava sull' italo destino, Vide la Francia glorïosa e bella Scender dall' Alpi del suo ferro cinta; E a pro d' Italia, anch' essa armata e in sella, L' aquila infesta far depressa e vinta. L' inno di gloria udì…. Venezia ancella, Venezia ancora al giogo estrano avvinta Ei non mirò, ch' oltre veder gli tolse L' angiol di Dio che l' alma sua raccolse. O Generoso, o martire indomato, Dormi per poco sulla franca terra; Non è compiuto ancor d' Italia il fato, Tratta al termin non è la santa guerra. Ma, infranti i lacci del Lione alato, Noi dall' ospite suol che la rinserra, Ricondurrem la spoglia tua mortale Del tuo San Marco all' ombra trïonfale!

Mdano, il giorno 13 gennaio dell' anno 1859.

O sorella per genio e natura, Con cui gli odii, gli amori, e gli affanni Fedelmente divisi tanti anni Nell' obbrobrio del giogo stranier; Tu, cui l' empia ragion del più forte Lasciò in preda al nemico abbattuto, Da me libera accogli un saluto Che la fede ti afforzi nel cor! Sparsa il crine, negletta la veste, Stretti i polsi di ferree catene, Senza voce ad esprimer tue pene Sulla riva del cerulo mar, Tu ti assidi, o infelice, e la brezza Che flagella la guancia tua smorta Forse l' eco al tuo orecchio trasporta Della festa che avviva il mio sen! Deh non sembri un insulto a' tuoi mali Il tripudio che l' alma m' invade! L' ira immensa, l' immensa pietade Di che soglio al tuo nome avvampar, Delle danze si mesce all' ebbrezza, Al tumulto de' trivï frequenti, Agli armonici eletti concenti Di che soglion le scene echeggiar. Fin tra' ludi fantastici, avanzo D' empï riti, fu visto l' aurato Bucintoro di lutto parato Simulacro di duolo apparir. Nè fu cor che all' avvinto Lione Non volgesse un augurio e un sospiro!… Ah lo scopo cui ferma rimiro, D' armi e senno afforzando il poter, E l' amor con che gli esuli accolgo, Che dal seno ti strappi tu stessa, Ti fan fede, o bellissima oppressa, Ch' io non cangio d' affetti e voler! Le mie figlie si parton tra loro I tuoi fior come sacri amuleti; I miei prodi frementi inquïeti D' altra pugna sospirano il dì. E a ogni grido che strappa al tuo labbro Il flagel dell' iniquo oppressore, Di vendetta risponde e furore Uno scoppio a ruggito simil! Qual fu il nome, che udissi frammisto Agli evviva del popol, beato Dall' aspetto del prode scettrato Che l' austriaca iattanza fiaccò?… O Venezia!… a quel cor, che non mai Dell' Italia fu chiuso ai lamenti, Il tuo nome dell' itale genti Tutto espresse l' intenso desir! La sua maschia sembianza atteggiarsi A incrollabil fermezza io mirai…. Non indarno ei promette, lo sai, E alla patria se stesso votò. O scaduta Regina del mare, Soffri e spera…. l' aprile si avanza! Come i fiori una nuova speranza L' aura sua forse schiuder saprà. E dei serti che tu m' inviasti, Qual ricordo de' proprï dolori, Con un serto di vindici allori Ricambiarti, o sorella, io saprò!

Milano, il giorno 13 gennaio dell' anno 1859.

O all' uom fatale, indomita Misterïosa cura Che penetrar le tenebre Dell' avvenir procura, Fonte di speme e dubbio, Di gaudio e di terror, Che sei?… che dirti?… l' anima Da che a ragion si desta, Fin che nel frale involucro Ad esular si resta, Con invincibil fascino Da te agitata è ognor. Quando traviati gli uomini De' primi padri i riti Disnaturàr, confusero, Poi disertâro, e miti Nefandi al par che stolidi Ai dommi surrogâr, Di Religion terribile Parte e precipua essenza Fêr sacerdoti ed auguri Dell' avvenir la scienza, Onde gl' ignari e i creduli A voglia lor guidâr. Allor sognati oracoli Trasser da mute piante, Dal serpeggiar d' un aspide, Dal vol d' augello errante, Dal tuon, dal raggio inconscio Degli astri eterni in ciel. Ma sol d' Abramo al popolo Iddio fra tutte genti Schiera donò di savï Veridici veggenti, Che l' avvenir predissero A plebi oscure e a Re. Ei d' uno in altro secolo Volle così trasmessa, Cinta de' suoi miracoli, L' altissima promessa Che il Figlio suo sul Golgota Morendo poi compi. De' suoi profeti I' epoca Ei chiuse allor; ma tempre Non cangia l' uom che crucia L' anima sua pur sempre Con l' inquieta indagine Del trepido avvenir. E anch' io, per te, dolcissima Terra degli Avi miei, Anch' io lo sguardo spingere Nell' avvenir vorrei, Nel vol dell' estro indocile Che mi affatica il sen. Come David di Solima Vide e cantò la gloria, Veder vorrei, disciogliere. L' inno di tua vittoria Piena, secura, incolume D' inganni e di viltà! Oh I' avvenir d' Italia È l' avvenir del mondo! A quell' idea, ch' è inizio Di libertà fecondo, L' ipocrisia, l' arbitrio Con disperato zel, Susciteranno I' ultima Battaglia in questo suolo; Ma di tua speme indomita, Della tua fè nel duolo, Dell' odio irrevocabile Al giogo empio stranier, Iddio nel cielo, e gli uomini Quaggiù ragion terranno; Non più a lor voglia i despoti Vender, partir potranno, Quasi vil gregge, i popoli Che i dritti lor sentîr! Dall' alpi al mar le unisone Genti non più divise, Sotto un vessillo, a un unico Scopo raccolte e fise, Degli avi antichi l' inclite Geste emular sapran. E tu, o Divina, ch' auspice Di civiltà, di pace, Coi poverelli Apostoli Al culto tuo verace Piegasti il mondo, povera D' ogin mondan poter, Tu, quando pura e semplice, Qual fosti, tornerai, Nè più dannar la patria Nel tuo gran nome udrai, Nè di natura un vincolo Rotto diran per te; Tu dell' onor d' Italia Sarai propugnatrice. Oh! affretti il Sol degli angeli Quell' avvenir felice Che del presente ai torbidi Giorni succeder de'.

Milano, il giorno 13 febbraio dell' anno 1860.

A te Sebezio suolo natìo, Idolo e crucio di questo cor, A te sull' ali del pensier mio Torno nell' ora che il giorno muor. Là di Posillipo sulla collina Che tanto riso di cielo ha in se, O dove l' onda a Mergellina Con roco murmure lambisce il piè, Già nel suo volo la fantasia Par che mi adduca in un balen; D' amor, di luce, di poesia Ecco un torrente mi piove in sen. O Sole, o Sole che maestoso Inchini al termine del tuo sentier, Qual trionfante re glorïoso Che omai di pace nudra pensier, Tu che con I' ultimo raggio languente Saluti i colli, il piano, il mar, Dimmi, più vaga scena ridente Fu dato altrove a te mirar?… Vedesti altrove piaggia più amena, Più ricca e varia in sua beltà Di questa u' siede la mia Sirena, Gemma dell' itale cento città?… Ah tu soltanto, tu che nascesti In questa terra, vate e pittor, Salvator Rosa, pinger potresti Questa incantevole scena d' amor! Sui flutti azzurri addormentati Ala non move il venticel, Da bianca nebbia mezzo velati, Quasi a confine del vasto ciel, In lunga fila monti cilestri Giganti stendonsi lontan lontan… Ma s' ergon sole le cime alpestri Di Capri sovra l' ondoso pian. Nube non turba dell' orizzonte Queto e diafano il bel seren Fuor ch' una, immobile sull' igneo monte Che innocuo or specchiasi entro il Tirren. E tu, qual donna che la procella Sfida aspettando chi il cor le diè, Tu così siedi, Napoli bella, Del periglioso Vesevo al piè! Ah! del Vesevo che or lieto splende Per falde ricche d' aranci e fior, Ma cova in grembo le fiamme orrende Che intorno versano morte e squallor, Pari alla calma per certo fia Quel che ti preme strano sopor; Chè innati sempre, o patria mia, Fûr nel tuo grembo genio e valor! Ah! come ogni argine distrugge invitto Della vulcanica lava il poter, Sorgi!… bench' ultima nel gran conflitto, Compir d' Italia puoi tu il voler! Sorgi!… le ardenti fraterne schiere Manda i tuoi mille ad ingrossar, E fien soverchie l' armi straniere A farne liberi dall' alpi al mar! Sorgi!… te grande, te forte, e bella Di generoso impeto un dì, Chi mai spregiata qual vile ancella Segno agli scherni rendea così?… Ah questo pianto, che sul pallore Delle mie guance vedi brillar, È di dispetto, di duol, d' amore, Pianto che indarno vorrei celar!… Deh tolga il cielo!… Ma il Sol sparito Ecco le cose un vel coprì, Dove trascorsi?… del patrio lito Dove l' immagine l' estro rapì?… Oh patria! lunge da me tu sei, Me il Sol tra libere genti lasciò; Ah sol fien lieti i canti miei Quando a te libera cantar potrò!

Milano, il giorno 13 febbraio dell' anno 1860.

« Laude non v' ha che tal nome pareggi, » Inciso io lessi sul marmoreo avello Ove scolpito in vivo atto grandeggi Nel tuo vero sembiante, o Machiavello; E come donna che il suo ben vagheggi, Lungamente rapita innanzi a quello Stetti nel tempio ove riposa altera La più illustre di morti itala schiera. Oh mia Fiorenza!… e alfin, dissi, l' ingiusto Giudizio tuo pubblico omaggio sconta; Alfin del sommo pensator robusto Chiara t' appar la cittadina impronta; E il nome suo d' eterna gloria onusto Nitido emerge dall' ignobil onta, Onde esecrato risuonò tanti anni Qual d' inique maestro arti ai tiranni! O sacro petto!… e te, che i sanguinosi Raggiri, e gli empi del regnar misteri, E la viltade, e i tradimenti esosi Disvelando de' rei donni d' imperi, Insegnavi agli oppressi e neghittosi Popoli a dispregiar mostri sì fieri, Te il secol cieco, con più cieco oltraggio, Credè fautor d' esizïal servaggio?… Nè i romani concetti alla tua gloria Für scudo, nè della materna terra Franco a un figlio crudel narrar la storia Che al civil senno ardui pensier disserra? Nè il sentiero tracciar della vittoria Tu, non guerriero, eppur mastro di guerra?… Nè faticosa trar vita vagante Ne' patrii uffici cittadin zelante?… Debil, corrotta, misera, e partita Fra propri e strani tiranni impotenti, Avea l' Italia de' tuoi di smarrita La corona di donna delle genti. Invan l' arti divine alla schernita Fean tributo di lor serti innocenti; Esca ai rapaci, arti e bellezza omai Servian soltanto a raddoppiar suoi guai! Però tu pure, o nobile intelletto, In tanto obbrobrio di nostra fortuna, D' Alighier vagheggiasti il gran concetto Che la patria volea possente ed una. E se non parve il tuo come il suo detto Ai molti espresso senza ambage alcuna, Fu chiaro assai se ti fruttò l' oscura Carcere, e i spasmi di crudel tortura! Ma non l' errore t' annebbiò il pensiero Dell' esul ghibellino ed iracondo, Che rivocar sognava il vecchio impero Sotto cui giacque riunito il mondo, No!… tu giammai di regnator straniero, Di tesori e di stragi sitibondo, Non invocavi la possa funesta Il freno a racconciar d' Italia mesta! Colpa del tempo fu, se il forte ingegno, Caldo di zel, la patria libertade, Pur fiso rimirando a dritto segno, Fruir cercò per tortuose strade. Ma se il ciel t' offerìa pel gran disegno Il miracol gentil di nostra etade D' un Re leal, che nel guerresco agone D' Italia tutta si nomò campione, Degno di lui del generoso íntento, Volto gli avresti il libero linguaggio. Oh della patria all' ultimo cimento Soccorra il senno tuo, famoso Saggio! Dallo spirto discorde e turbolento, Dal dubbio che il vigor tronca al coraggio, Dalla viltà che di prudenza ha velo, Dall' ambizion che ostenta ingenuo zelo, Campane tu, nell' eterna sede Per certo accrebbe del veder l' acume La giustizia di Lui che tutto vede E tutto segna in immortal volume. Oh non offuschi della pura fede L' Ipocrisia coll' arti bieche il lume! Trionfi il dritto e la ragion col santo Voto che Italia può salvar soltanto!

Milano, il giorno 13 febbraio dell' anno 1860.

Ogni vaga città d' Italia mia Ov' io fermai, peregrinando, il piè, Premio gentil di subita armonia Alcun suo fiore a me in ricordo diè. Con essi io m' intreccìai vaga corona Di cui mi piaccio l' umil fronte ornar; Ma i fior raccolti in riva dell' Olona, Qui dove m' arde il core io vo' serbar!… Chè più santa e più cara è a me la terra Che i figli a generosa ira educò, E del lor sangue, sparso in santa guerra, Le aiuole de' suoi fiori fecondò. Pur de' fior che raccolsi la ghirlanda, Abbenchè ricca, non mi appaga ancor; Chè tuo vi manca, o bella e veneranda Niobe d' Italia, sospirato fior! Deh faccia il ciel che nel novello aprile In te si schiuda il fior di libertà!… Paga tu allor, Venezia mia gentile, Farai la brama che nel cor mi sta.

Milano, il giorno 13 febbraio dell' anno 1860.

Figlia del cor, spontanea Del canto mio la nota, O generosa vergine, A te si volgerà; A te che umìl, magnanima, Quasi a te stessa ignota, Splendi sublime esempio Di patria carità. Non ti vid' io, ma d' Angiolo So che hai l' aspetto e il nome; Che sei modesta, ingenua Degli anni sull' april; E che di casta aureola Circonda le tue chiome Il verecondo effluvio Dell' anima gentil. So che non sei di nobile Stirpe rampollo ambìto, Nè profumate coltrici La culla tua coprîr. Ma figlia umìl del popolo, Il primo tuo vagito So che le mura squallide D' oscuro tetto udîr. Nè la scïenza all' avido Tuo giovanil pensiero, Coi dommi suoi, del dubbio L' acre velen stillò; Ma del Vangel la semplice Parola al Bello e al Vero Potentemente l' anima T' aperse e sublimò! Così che intesa ad umili Uffici, ad ardui affetti Di libertà, di patria Balzar sentivi il cor; Mentre altre forse in futili Cure, entro aurati tetti, L' ore spendean dimentiche Dell' italo dolor! Ma no!… per tanto obbrobrio Di Brescia tua la guancia Non arse mai: chè intrepide Donne Ella ognor nudrì; Donne, che al primo bellico Grido d' Italia e Francia, Tai si mostrâr che il barbaro In cor ne sbigottì. Tu allor di baldi giovani Se stuol scorgevi eletto, Se udivi offerta splendida Al patrio suol largir; Sclamavi: Oh avessi un unico Anch io fratel diletto! Potessi anch' io tesauri A te, mia patria, offrir! Ma quando pesti, e laceri, E monchi, e semivivi Vedesti dall' orribile Tenzone ritornar, A mille a mille i nobili Pordi, che il sangue a rivi Per far l' Italia libera In campo prodigâr: Ecco, sclamasti, un compito A me pur serba Iddio; « Io cure assidue, e lagrime, » E tenera pietà » E della fede il balsamo » Celestïale anch' io » Prodigar posso ai martiri » Di nostra libertà! E dei piagati l' Angelo Fosti, o fanciulla cara, E le compagne ingenue Rapite al tuo fervor, Del poveretto l' obolo T' offrìan con santa gara, Perchè il guerrier refrigeri Nel letto del dolor. Oh quante donne Italiche E Franche, i figli, i sposi Stringendo al sen, di grazie Volgon l' accento a te! E tu, paga alla laude Che alletta i generosi, Mandi a Sicilia il premio Che a tua vertù si diè. Oh frutterà la nobile Offerta al suol Sicano; Il tuo sublime esempio Frutto darà maggior; Poi che superba Italia Di te, dice all' estrano: » Mira! è costei del popolo » Che servo speri ancor!

Brescia, il giorno 13 agosto dell' anno 1860.

Da che schiara la vivida luce Di ragion la mia giovane mente, E solingo pel calle dolente Della vita s' inoltra il mio piè, Sempre un grido mi corre sul labbro Quando il sole s' innalza o tramonte: » Padre ahi! come al dispregio ed all' onta » Me innocente potesti dannar? Padre! oh nome dolcissimo e satno, Che dall' anima oppressa mi sfugge Nella sete d' amor che distrugge I diserti miei poveri dì, Padre! e indarno t' invoco? tua voce Al mio core quaggiù non fia conta? Oh al dolor che si mesce a quest' onta Come mai mi potesti dannar? Io non so se la dura fatica A te un pane sudato dispensa, O se libi da splendida mensa Scelta dapi e fumoso licor; Ma sii ricco, o mendìco, al mio core Di dovizie o disagi non monta; Sol ti chieggo ragion di quell' onta Cui mi vidi innocente dannar! Che se un fallo la vita mi diede, Che il mistero ravvolger dovea, Non su me, che innocente nascea, Dovea il biasmo del fallo pesar. Dalla vittima istessa la pena Ineffabil, perpetua si Sconta…. Padre!… e il cor non ti strazia quell' onta Per cui giungo io la luce a dannar? Oh se tutta la misera tela Si stendeva dinanzi al tuo ciglio Della vita servata a quel figlio, Che respinger potesti dal sen, A troncarne lo stame più tosto La tua man saria corsa più pronta, Che allo scherno, all' inopia ed all' onta L' infelice tuo figlio dannar! Dell' ospizio le squallide mura, Che pesàr sull' infante rejetto, E la donna straniera che il petto Scarso latte gli porse a succhiar, D' un ostello domestico agli agi A una madre amorosa ei confronta…. Una madre!… oh al dispregio ed all' onta Non poteami una madre dannar! Forse morte invocata la colse Del mio nascer sul dubbio momento, Forse invan coll' estremo lamento Al suo petto serrarmi pregò!…. Forse vive, e coi proprii rimorsi Guerra assidua e terribile affronta; Chè potè per sottrarre dall' onta Il suo nome, il suo figlio dannar! Il suo nome!… oh terribil pensiero!… Lo che schiusa a sublimi concetti Ho la mente, e i più nobili affetti Nutro in seno di patria e d' onor, Io che anelo emular l' alte gesta Degli Eroi che la storia racconta, Non ho nome!… o sol quello ho dell' onta Cui m' intesi nascendo dannar! Deh! che feci a mertar questa sorte? Perchè vuota di gioja e d' amore La mai vita appassisce, qual fiore Che su landa diserta s' aprì?… Non ho amici…. ciascun del meschino Trovatello al consorzio s' adonta…. Padre, ahi come al dispregio ed all' onta Me innocente potesti dannar! Pur crudele, dimentico, ignoto, T' amo, o padre!… io tuo vile rifiuto Non potrei sul tuo capo canuto La vendetta superna invocar! Vivi, e t' abbi il perdono di Dio; Ei che in me del martirio l' impronta Scorge, Ei sol mi fia premio dell' onta Cui m' intesi qui in terra dannar.

Brescia, il giorno 13 agosto dell' anno 1860.

Non stupir s' io qui franca mi avanzo A te incontro, o Campione regale; Son l' Italia, la donna fatale Che del mondo lo scettro impugnò. Son l' Italia che al basso travolta Dal fuor della sorte proterva, Per te alfin non più misera e serva Tra le genti ritorno a regnar. A me dunque esser guida a' tuoi passi Qui si aspetta per l' aule novelle Ove industria, commercio, e le belle Arti patrie i lor vanti adunâr. Oh! di'… surto per opra d' incanto Non ti par sulla vasta pianura, Ove ride più gaia natura, L' edifizio leggiadro e gentil?… Sol tre lune a innalzarlo bastâro, E fu dritoo che l' inclita Flora Precedesse ad ogni altra sua suora Nella gloria che a tutte ne vien. Or si schiuda al più nobile orgoglio Quel tuo cor generoso e leale; Quanto in questo lung ordin di sale Ti soffermi, ammirando, a guatar; Dalle lane, che il povero a stento Si procaccia con l' obol sudato, Fino al serico drappo, fregiato D' aurei fili del ricco desir; Dagli arnesi dell' util colono Ai gemmati lucenti monili, Dai prodigi dell' arti gentili Ai prodotti del fertile suol; Dai trovati, onde altera la scienza Vince il tempo, lo spazio avvicina, Ai strumenti di morte e ruina Che la guerra spietata inventò, Tutto è parto dell' italo ingegno; Tutto nacque in me, reggia del Sole, Che un estraneo con gonfie parole Steril terra di morti chiamò! Ma possente è la vita dei morti Nel mio grembo che nudre i vulcani!… Quattro il dican mancipii Sovrani Che un sol urto dal trono sbalzò. Dillo tu, prence eletto, che l' opre Qui di Roma e Venezia mirando Senti correr la destra sul brando Che a Palestro terribil brillò. Oh mio figlio!… il mio seno materno Que' due nomi trapassan quai dardi…. Deh un istante non torcer gli sguardi Dalla meta che Dio ti segnò! Nella fè, nell' ardir che in te scerno, Del trionfo final mi assecuro, E si bello mi arride il futuro Che si eclissa il mio prisco splendor. Chè se tanti le italiche genti D' arti belle e d' industria tesori Qui, al rinascer de' primi fulgori, D' una libera vita adunâr, Che sarà quando forti, tranquille, Di Venezia riscossa la soma, Me potran dalle vette di Roma Una, libera e grande inneggiar?…

Firenze, il giorno 16 novembre dell' anno 1861.

Come al pensier di fervido Casto amator si affaccia Dell' adorata Vergine La pallidetta faccia Più spesso, allor che misera Egra per duol la sa, Così tu' a me, Venezia, Torni più spesso in mente Da che sei tu fra l' itale Suore la più soffrente, Ed è invincibil fascino D' amor nella pietà! Or d' una estiva placida Notte nell' ora bruna, Le torri tue, le cupole, La placida laguna, E gli archi, e i ponti aerei Mi sembra contemplar. E sul veron marmoreo D' arduo patrizio tetto Donna vegg' io, che all' umido Ciglio, al commosso aspetto, Come di sè dimentica, A te guardando, appar. Vedova, e madre d' unico Figlio, assai più che gli anni La fronte a lei solcarono Del patrio suol gli affanni; Pur tale inganno or feale L' ora e la tua beltà, E cosi assorta l' anima Nel tuo passato avea, Che ai dì della tua gloria Riviver le parea, Quando il ruggir del nobile Alato tuo Lion Tuonò dall' Alpi a Rimini, Dall' Istria a Brescia altera; E Zante vaga, e Candia, E Cipro lusinghiera, E il portuoso Illirio L' imperio tuo sentîr. Col mar le tue fantastiche Nozze veder le parve; Di Morosino e Dandolo Le glorïose larve E dell' Eroe di Lepanto D' innanzi le passâr. Ma la vision bellissima Le ruppe in mente un grido, Il rauco grido e barbaro Di che il tacente lido Fece intronar la vigile Scolta dello stranier! Ahi lo stranier contamina Tuttor la patria terra! Vinto l' augel bicipite Altrove in santa guerra, Qui più feroce insanguina L' artiglio suo crudel! Gonfio di calde lagrime Quella pietosa il ciglio Al ciel rivolge, e mormora: Dio ti protegga, o figlio, Che spiri almen dei liberi L' aure lontan da me! Altri, quel dì che ai veneti Desir fu tronco il volo, Rupper furenti in gemiti Di disperato duolo; Altri fatal chiamarono La patria servitù. Tacevi tu; chè un intima Voce diceati: è corta Tregua, non pace; Italia, In sua virtù risorta, Procederà magnanima, Sola all' eccelso fin! E in me fissando supplici Affettuosi i rai, Dirmi parevi: ostacolo, Madre, tu a me farai Se altrove io corro i patrii Destini a propugnar?… T' intesi!…il cor terribile Balzo mi diè, ma la petto Ti strinsi senza piangere, Senza cangiar d' aspetto; Io stessa dell' esilio Ti scorsi in sul sentier. Or benedico ai spasimi Repressi dell' addio, Te benedico e plaudo Dal core, o figlio mio, Che in mezzo a schiere eroica Provasti il tuo valor. Ma quando fia che l' impeto D' Italia tutta unita Si volga a questa misera, Due volte, ohimè tradita, Mentre inneggiava al fausto Vessillo redentor?…. Oh de' miei giorni l' ultimo Sia, figlio mio, quel giorno Ch' io ti riveda in libera Patria di lauri adorno…. Sovra il tuo sen di gaudio Dolce mi fia morir!

Firenze, il giorno 16 novembre dell' anno 1861.

Son belle al paro; ambo in disparte Stanno; ma l' una in riva al mar, Fisso lo sguardo, le chiome sparte Lassa, dimentica del mondo appar: L' altra in virginea stanza romita Siede, e par togale sino il respir Un' ansia indomita piena di vita Che il dolce volto fa trasparir. Son belle al paro; ma varia al certo L' età, la culla, la sorte è in lor; Ai piè dell' una di lauro il serto, Giace, e negletta la cetra d' or; Mentre di fervidi carmi le note L' altra col ciglio scorrendo va…. Chi son? da quali piagge remote Qui insiem convennero, dirmi chi sa?… Stolta, che chieggo!… d' Italia il sole Sorrise al genio che le creò; Dell' arte italica ambo son prole, Pensier diverso sol le animò. Povera Saffo!… nella memoria Dell' empio assorta che ti tradì, Oblii la patria, spregi la gloria, Troncar già mediti tuoi foschi dì! Oh tal tu fosti, e tal nel sacro Furor dell' estro ti contemplò Quei che nel candido tuo simulacro L' ardue vetuste opre emulò; Chè s' io rimiro l' elette forme, L' abbandonata posa, al pensier Vive rifulgono le greche norme Che il bello archetipo sposano al ver. Ma tu sull' alba degli anni gai, Quando alla speme si schiude il cor, Cara fanciulla, che leggi mai? Forse gentili storie d' amor?… Ah no! sul fronte puro ti splende Un più recondito eccelso zel; È amor di patria quel che ti accende, E quì nell' ora che imbruna il ciel, De' tuoi pensieri siegui nel volo L' avventuroso fatal guerrier, Che delle vaghe Sicilie il suolo Sottrasse al giogo più abbietto e fier. Oh giovinetta, parlar non puoi, Ma chi ti guarda sente con te, Che sol chi preme orme d' eroi Può del tuo amore sperar mercè! L' italo amore che la felice Casta fanciulla accenderà, Quanto diverso, Saffo infelice, Da quel che il seno t' arse sarà! Ma Italia unanime plauso tributa Ai prodi artefici che vi scolpîr; Nell' un l' antica arte saluta, Nell' altro il genio dell' avvenir!

Firenze, il giorno 16 novembre dell' anno 1861.

Garibaldi e Cavour!… nomi giganti, Il dolce loco che vi fu natìo E tutta un' èra ad illustrar bastanti, Suonerà verecondo il verso mio. Ben sento al doppio eccelso tema innanti Quasi in me dal timor vinto il disio, E non che il mio, basso e fugace, parme Degno solo di lor di Dante il carme. Pur celeste vaghezza al cor m' è sprone Di questi per ingegno, opre e natale Diversi tanto, in unica canzone Il sublime inneggiar vanto immortale. Varie fûr l' armi lor, vario l' agone, Ma un sol l' intento e la fortuna uguale. E qual di lor stato non fosse, ancora Lunge saria di questo dì l' aurora. L' un popolano, ne' suoi dì fiorenti, Poi che l' Italia aspro destin premea, Eroico venturier, l' ampio dei venti Regno, Campion di libertà scorrea. Di battaglie e d' amor fra strani eventi Il nuovo mondo del suo nome empiea, Fin che alla terra che gli diè la vita Recò all' uopo maggior sua forte aita. L' altro patrizio, nè doglioso solo O insofferente delle patrie sorti, Trasse dell' Anglia sul libero suolo L' alma a nudrir di studi eccelsi e forti. Fatidico intelletto, audace e solo Di Novara fra i trepidi sconforti Vagheggiò forse ei la sublime idea Per cui l' italo ardir fulse in Crimea! Quegli, di libertà sperso il baleno, Il suolo ove depose il frale incarco D' Anìta sua con la vendetta in seno Lasciò di gloria e di sventura carco; Questi del suo concetto il cor ripieno, Poi che seppe al poter schiudersi il varco, Di là d' onde attendean novello oltraggio Derivar fe' di nova speme il raggio. Vera d' Atlante in lui la fola apparve, Chè dell' italo fato ei sol sostenne Due lustri il pondo, e il Briareo ne parve Quando i perigli distornar convenne. Creò gli eventi; arbitro lor comparve, E nella sua robusta man contenne Le forze tutte delle parti avverse Che in fascio unite al suo gran fin converse. Sostenitor del novo dritto, intese Il tempo, e il guardo entro il pensier confisse Del cupo Sire onde il valor francese, Congiunto al nostro, i Teutoni sconfisse; Chè se, costretto, del gentil paese Cedè una gemma, onde il tuo cor trafisse, O guerriero immortal, chi savio ondeggia Fra parte e tutto che salvar si deggia?… E ancor, chi misurò di quel mirando Intelletto sagace e possa e volo?… Forse un trïonfo ei coglier seppe, quando Sconfitto il disse de' ciechi lo stuolo! Forse ei più meritò l' ire affrontando Tue generose, e il biasmo aperto, e il duolo, Che se, Curzio novello, il patrio fato, Morendo, avesse dal perir campato! Chè ben potea, qual ferma torre i venti, Dei pusilli sfidar l' onte e i clamori, Ma non le accuse tue, fior dei valenti, Grande cosí ch' ogni doppiezza ignori! Redentor di due popoli gementi, Bello del plauso che t' allaccia i cori, Sovra il tuo crin del marzio allor la fronda Irresistibil fascino circonda. E t' ebbe avverso!… Oh la crudel memoria Pèra del di che in dubbio Italia mise Della salvezza sua, della sua gloria, E di speme infernal, discordia rise! Ma Dio toccovvi il cor, qual di vittoria Al vostro amplesso Italia un plauso emise…. Ahi che nenia feral, che grave immenso Lutto successe a quel gioir sì intenso! Ei giacque, giacque ei che l' idea raccolse Di Dante e Machiavello, e, più felice Di lor, con senno e ardir pari la svolse, La bandì, la mirò trionfatrice; Italia ancella allor che a lui si volse, Di vittoria in vittoria alla pendice Quasi guidò del Campidoglio; ei giacque, Ma in braccio al Re che a Italia elegger piacque! Oh di lui che all' avel securo scese Del riscatto final che manca al vanto? Un tuo detto, un sospir, che indarno attese Stupíta Italia nel comun compianto! O Lion di Caprera, a nove imprese Tu vivi, ed al trionfo ultimo e santo: Forse quel dì tu pure, umidi i rai, L' urna del Grande ad inchinar ne andrai.

Firenze, il giorno 16 novembre dell' anno 1861.

Ei ritorna, ritorna il guerriero Giovinetto alla terra natale; Fu dei mille, drappello fatale Che empì il mondo di novo stupor. Ei ritorna, ma è languido, scarno, Di pallore le guance ha cosparte, « Per la patria, nei ludi di Marte, » Fu piagato, or l' assista l' amor. » Nera benda gli cinge la fronte, A una fascia l' un braccio è sospeso, E da punta mortifera offeso, Il suo fianco rosseggia tuttor. Oh! chi sa se una vita sì cara Preservar può dei Fisici l' arte?… « Oh! chi sa se le piaghe di Marte Può sanar co' suoi balsami amor? » Oh tacete, non turbi la gioia Dei suoi cari l' orrenda minaccia! Ve'!… dal grembo materno la faccia Ei solleva qualcuno a cercar; Ve'!… un sorriso ineffabil discioglie A una vergin che piange in disparte, « E susurra: Nei ludi di Marte Io fui degno d' un italo amor! » Sulla man, ch' ei le tende, si slancia La fanciulla, e raggiante nel volto: No, prorompe, alla patria e a me tolto Non sarai, n' ho il presagio nel cor. Non indarno ai domestici altari Per te lacrime tante ho già sparte, « Io ti spinsi ai cimenti di Marte, Io sanarti vo' a forza d' amor. » Tutta Italia del sangue versato A suo pro ti fa merto, o mio prode; E dei novi Argonauti la lode S' apparecchia la storia a eternar. Ma all' allôr che alla patria ti appresta, All' onor delle fulgide carte, « Altro premio, o mio giovine Marte, » Vo' che appresti l' italico amor. » Perchè il mutilo braccio mi sporgi?… Perchè il ciglio mi additi bendato?.. Temi forse il mio cor sia mutato, Se quei segni t' impresse il valor?… Se ti amava, or ti adoro, nè umana Forza or me dal tuo fianco diparte…. « Al ferito nei ludi di Marte Per la patria, dovuto è l' amor! » Oh felice l' istante che il detto Scambiai teco di fede immortale! Lieta me che al tuo trepido vale Non opposi vigliacchi sospir! Benedette le sante ferite, II cui duol tanta gloria t' imparte, « Lode a te, che i cimenti di Marte, Preponesti alle gioie d' amor! » Circondato or di tenere cure Poserai da' magnanimi stenti; Chè se il ciel ti diniega i cimenti Del compiuto riscatto affrontar, Parla ai prodi nel dì della pugna, E al trionfo avrai pur la tua parte; « La tua voce nei ludi di Marte Sarà sprone di gloria e d' amor! »

Siena, il giorno 12 gennaio dell' anno 1862.

Addio, leggiadre ed inclite, Cui duro fato svelle Dal genïal consorzio Dell' itale sorelle, Quasi due fior da splendido Serto su vergin crin; Addio, Savoia, vigile Scolta dell' Alpi altera; Addio dal cor che sanguina, O Nizza lusinghiera, Primo gentil vestibolo Dell' italo giardin; Addio. L' amor, la gloria Delle guerresche imprese, L' ignavia e il duol che secoli Pesâr sul bel paese, La speme inestinguibile D' un avvenir miglior, Con noi partiste unanimi, E su voi pur la bella Luce raggiò dall' etere Della Sabauda stella Che, attesa, apparve nunzïa Di libertà, d' onor! Or, dell' antico vincolo Sciolte, per voi straniera Fatta è la madre Ausonia, Strania la sua bandiera, Che la tua destra, o nobile Savoia, inaugurò! Sui monti tuoi, recondita Ma fida e illustre cuna Della regal progenie, Cui fè, valor, fortuna, E amor di grati popoli D' Italia il fren donò, Non Più la Croce candida Dei tre colori ornata Risplende al sol, ma l' Aquila Franca, ai trionfi usata, L' ali raccoglie, e medita Forse più lungo vol. Oh certo, fin tra i plausi Onde acclamasti a lei, Da un senso di mestizia, Fosti compresa e il sei; chè se da noi spontaneo Voto ti distaccò, Odio non già, nè instabile Voler quel voto esprime; Ma quell' istinto indomito Che in questa età sublime Spinge i fraterni popoli A fondersi tra lor. Ma te, che il ciel purissimo, E il mare azzurro, e il mite Aer salubre e tepido, E le piagge fiorite, E il Sol più vivo, e l' unico Eloquio, e il mutuo amor, Svelan d' Ausonia origine, Te nel lasciarci, o cara, Punse un' angoscia, un' intima Delusïone amara, Qual chi dai lari proprii In festa, espulso vien. Ah no! non fu repudio Quel che da noi ti scinse, Ma triste ineluttabile Voler, che un Grande astrinse Te in olocausto all' italo Supremo scampo offrir! E certo in sua sagacia, Segnando il duro patto, Ei nel pensier recondito Mirava al tuo riscatto; Chè troppo Ei d' ogni gloria Patria geloso fu, Per sopportar che strania Tu divenissi a noi; Tu culla al più mirabile Degli italiani Eroi, Che i membri sparsi e laceri Della Gran Madre unîr. Oh non temer! dimentichi Di te non siam; tu pegno Sarai, finchè precario È il novo italo regno, Del patto avverso ai despoti, Che fato e senno ordîr. Ma quando, sol per propria Nostra virtù, daremo Alla barbarie nordica Il suo crollo supremo; Quando pagato il debito Di sangue e di valor, Avrem verso la nobile Francia, sull' Istro e al Reno, Tu riederai, bellissima, Della tua madre al seno, Se il novo ineluttabile Dritto trionfi alfin!

Siena, il giorno 12 gennaio dell' anno 1862.

Non te, che festi più anni macro Di Bice il sommo vate fedel, L' arduo ispirandogli poema sacro, Cui poser mano e terra e ciel; Non te, sublime al par che bella Austera Musa inneggerò; Ma la tua schietta minor sorella, Che al pronto verso l' ali impennò. Tu, pari agli Angeli, di Sol vestita, Procedi cinta d' eterno allor; Ella, modesta vergin romita, Sul crine ha un labile serto di fior. E mentre alletta i tuoi seguaci Della perenne fama il desir, Ella a noi solo plausi fugaci E oblio prepara nell' avvenir. Pur, fin dai primi anni, ascoltai Suo dolce invito parlarmi al sen, E dell' armonica m' inebriai Aura, disciolto agli estri il fren: « Che monta, dissemi, se qual cadente Stella, che un tratto s' accende e muor, Risuona e passa il verso ardente, Che da tuoi labbri erompe fuor?… Se i tuoi fratelli, nel duol sopiti, Un solo istante riscuoter può; Se a pianger, fremere li tragge uniti Sul duro fato che li prostrò; Se nella speme li riconforta Della riscossa certa, fatal…. Dimmi, o fanciulla, e che t' importa Se a darti stabile fama non val? Oh! spregin pure, spregin gli austeri Mevj, a lor posta il mio poter; Ridan d' incredulo riso i stranieri, Che han freddo il core, pigro il pensier, »

Mancano alcune strofe non raccolte.

Oh mia Celeste!… tu il sai, devota Tuo sacro incarco cercai compir; Fugace e rozza fu la mia nota, Ma dell' Italia rese il desir! Ogni suo duolo, ogni speranza Cercai nel poco verso adombrar, E giunto il giorno dell' esultanza: Tacermi or posso, ebbi a sclamar! Ma no!… tu imponi ch' io canti ancora, Ed anzi addoppi l' usato zel, Poichè infelici gemono ancora, Roma e Venezia sotto il flagel. Tu vuoi che inculchi concordia e senno Perchè la mèta s' abbia a toccar E pronti a un unico atteso cenno Ne trovi l' ora sacra a pugnar! Ma il dì che assiso in Campidoglio Vedrem d' Italia l' eletto Re, Ultimo un canto m' ispira, io voglio Poi l' umil cetra rendere a te!

Siena, il giorno 12 gennaio dell' anno 1862.

Nella fertil vallea che l' Appennino Adombra colla sua cresta selvosa, Dove l' Ombrone il flutto cristallino Volve a piè di Pistoia generosa, Tra le piante di florido giardino, Che il verno algente disfrondar non osa, Dall' arti belle a maraviglia adorno, Sorge un campestre signoril soggiorno. Ameni boschi, spazïosi prati, Facili alture, profonde caverne, Rustici ponti, e laghi inghirlandati Di mirti e allori dalle chiome eterne, Ruderi antichi d' ellera fasciati, E Tempio, ed Ermo, ove più Dio si scerne, Marmorei busti, ed obelischi, e miri Monumenti ha il bel loco ovunque giri. Cura perenne e liberal diletto Fu, mentre visse, questo asil giocondo D' un devoto all' Italia inclito petto, Che anzi sera compì suo giorno al mondo. Quì d' ogni terra ad ospital ricetto Illustri ingegni convenian; fecondo Quì l' assiduo pensier dei patrii fati Le memorie rendean dei tempi andati. Ve' di quel colle sulla vetta aprica Diruta torre, a strigi albergo e nido? Sacra di Catilina è all' alma antica Ch' ebbe il destin fra queste gole infido. Per la spregiata osò plebe mendíca Primo ei levar di comun dritto il grido, E alla patrizia tirannia quel forte Valse solo a sottrar libera morte. Ve' là Ferruccio, l' ultimo campione Della possanza popolar, grandeggia, Vivo così che all' ultima tenzone Par che slanciarsi ad ora ad or lo veggia…. Oh! fu senno e pietà che il paragone Di questo divo i mani tuoi non feggia, Castruccio ardito, che pugnasti solo Per soggiogar, tiranno, il patrio suolo! però l' invitta tua fulminea spada Su purpureo guancial vidi in disparte, E scritto v' era: « Alla natía contrada Ruotò funesta con terribil arte. Ma se il ciel nostra ignavia alfin dirada, La impugni un prode in glorïoso marte; E il prisco ad espiar fallo infelice, D' Italia ella sarà liberatrice! » Oh certo etereo un raggio a quel Cortese Dell' oscuro avvenir l' ombre fugava, Quando quel ferro del gentil paese All' ignorato redentor legava. Certo il suo spirto in mezzo a voi discese, O fanciulletti, ch' ei cotanto amava, Quando, siccome a designato erede, Del Re guerrier lo deponeste al piede! Oh nella destra del buon prence, eletto Dal grato amor de' popoli redenti, Tremendo al par, ma sacro e benedetto L' acciar vetusto opererà portenti. E quanto vince il generoso affetto Di patria, i rei d' ambizïone intenti, Tanto vedrassi sovrastar gli andati Trionfi, quei che gli ha il destin serbati! L' infausta taccia del sangue fraterno Dal sangue fia dello stranier detersa. Venezia affrancherà, poi sull' eterno Campidoglio brillar dovrà più tersa. Chè decreto del Ciel miro io qui scerno, Ch' abbia l' Italia a propugnar conversa La spada istessa, che un dì tanto oprava, Col prisco Duce, a farla oppressa e schiava.

Siena, il giorno 12 gennaio dell' anno 1862.

Amore e Luce fia tema al verso Dell' estro facile che a me si dà; Amore origine dell' universo, La luce essenza di sua beltà! Pria della luce era l' amore, A cui principio, fine non è; Tutto del nulla nel vuoto orrore, Onnipotente, beato in sè. Ma quando espandersi volle, il latente Caos col miro fiato agitò: La luce sia, disse, e repente Dal sen dell' ombre quella balzò. E fu sì bella nell' improvvisa Chiarezza al guardo del suo Fattor, Che dalla propria gloria indivisa Da quell' istante la volle amor. Di lei, sua prima figlia diletta, L' inaccessibile sua reggia empì, Vietolla al baratro che la vendetta Superna agli angioli rubelli aprì. E poi che gli astri pel ciel profondo Spinse l' eterna danza a intrecciar, A lei di vita nel vergin mondo Prescrisse i germi di fecondar. Oh! qual la vide nel primo riso Della natura ch' ella evocò, L' umana coppia che nell' eliso Al primo palpito amor destò; Mai più vedralla occhio creato, Fin che l' adombri terreno vel; Pur solo gaudio, benchè offuscato, Che s' abbia il mondo comune al ciel, È questa diva che ne discende Eterno simbolo del sommo Ver; Che tutto penetra, per tutto splende, Tutto abbellisce nel suo sentier. Dalla perpetua fiamma che brilla Su noi dal disco igneo del Sol, Fino alla poca fatua scintilla Ch' errante lucciola manda nel vol; Dal casto raggio che dal bel ciglio D' amata vergine ne scende al sen, Fino alla stilla che in grembo al giglio L' aura dell' alba cullando vien; Dall' iri al lampo che solca il truce Degli addensati nugoli orror; Ministra, interprete, nunzia è la luce Della ineffabile possa d' amor! Quand' ella taccia, ai quattro venti Le tube angeliche s' udran squillar, E gli astri e il Sole dal ciel stridenti Cadranno a estinguersi nel gonfio mar. Quand' ella taccia, inaridita Fia del perdono la fonte al duol; Per sempre il libro chiuso di vita, Tronco degli anni, nel tempo, il vol! Pur non estinta sarà la luce, Ch' ignea, terribile circonderà L' eccelso trono del sommo duce Che i nati tutti giudicherà. Tra un baglior fosco Iddio vedranno L' ultima volta quei che peccâr; Poscia, in eterno ciechi, cadranno Nel cupo abisso del disperar. Tutto del nulla nel vuoto orrore L' ampio universo travolto andrà, Ma non la luce, gloria d' amore, Che insiem coi giusti, con lui vivrà!

Livorno, il giorno 27 luglio dell' anno 1862.

Siccome allor che limpido Sorge il mattino in cielo, Anche il fioretto ingenuo, Che trema in sullo stelo, Manda del poco effluvio Il suo tributo al Sol; Così la musa, timida Dell' alto segno, a voi Volge un saluto, o italici Avventurosi Eroi, Che infaticata celebra La fama in ogni suol. A me non di Simonide Concesse Iddio la cetra, E i Mille che a redimere Valser la mia Triquetra, De' suoi trecento offuscano La gloria al paragon. E chi pari al magnanimo Guerrier, che il suo perduto Nido piangendo, all' ambito Dello stranier ceduto, Pensa due regni rendere A Italia in libertà? Partì l' invito; inaura Col più soave raggio L' incantatrice Ligure Costiera il Sol di maggio; L' Eroe tranquillo, immobile, Col guardo scrutator Fisa i vegnenti, inconscj Del suo voler…. che importa? Ei li appellava, accorsero, Andran dov' ei li scorta; La morte o la vittoria Bella con lui sarà! Son mille, e seco un agile Li accoglie angusta nave; Furor di nembi o d' uomini Insidie alcun non pave; Come la nube mistica Che l' ara un dì velò, Nebbia propizia al vigile Sospetto li sottragge; Ve' di Marsala afferrano Le invan guardate piagge…. Viva l' Italia! è l' angiolo De' fati suoi con lor! E suon di mani, e plausi, E fraternali amplessi, E gaudio irrefrenabile De' già scorati e oppressi, E un chieder d' armi, i regj Sgomenti ad incalzar, Col rombo spaventevole Mesce del suo vulcano Di patrio ardor nell' impeto Il popolo Sicano; Qual polve innanzi al turbine Gli avversi dileguâr! Ma la gentil Partenope Con disiosa faccia, A tarde e ree blandizie Sorda, le amiche braccia Ai Mille stende, ond' ansio Fugge l' imberbe Re. O Patria!… io sul tuo magico Lido quel dì non era, Quel dì che la tua storia Nova, solenne un' Era Di gloria incomparabile Ne' fasti suoi segnò! Io non mirai tra 'l popolo Ebbro, deliro, e pari A flutto irresistibile Di procellosi mari, Inerme il Formidabile Che i lacci tuoi spezzò! Ma vidi, Iddio tal gaudio Concesse a mie pupille, Vidi lo stuol residuo Scarso dei primi Mille, Quando l' Eroe fregiavali Del segno del valor. Lo vidi intorno all' inclito Duce raccolto e stretto, Plaudente al Re d' Italia Dal comun voto eletto…. Poi tra la folla tacito Lo vidi dileguar. Ma quando introni l' aere Di nuovo il marzio squillo, E di Savoja il candido Liberator vessillo, Sul calle che a Venezia Conduce, ondeggerà, Quei prodi al prode esercito Disgombreran la traccia; Falange irresistibile, Come il destin li caccia, Ei seguiran quell' Unico Che moderar li può!

Livorno, il giorno 27 luglio dell' anno 1862.

Dio favella nel grido concorde Che d' un popol prorompe dal petto, E del mondo, del cielo al cospetto D' Alpe a Scilla quel grido suonò: Nostra è Roma, l' antica signora Delle genti e de' cuori l' orgoglio…. « Chi contende il fatal Campidoglio Dell' Italia al magnanimo Re?; » Come l' ago amoroso si volge Incessante immutabile al Polo, Tal severa, fidente in lui solo Che campion degli oppressi si fè, Roma siede, ed aspetta quel giorno Che dia fine al suo lungo cordoglio, Ed ascenda il fatal Campidoglio Il suo eletto magnanimo Re. Qual lion generoso che spregia Vili belve, da compre masnade Correr vede le sacre contrade Che i Cammilli ed i Scipj calcâr. Ode plausi impudenti, bugiardi, Vede in pregio il delitto e l' imbroglio, E avvilito il fatal Campidoglio A cui schiavi già trassero i Re! Ode illusi ed inermi vegliardi Proclamar poche misere glebe, Ed un popol qual gregge di zebe Necessario di Cristo alla Fè. Ode, in odio a sue care speranze, Travisar del Vangelo ogni foglio…. Domma quasi il fatal Campidoglio Sia soggetto al Pontefice Re! E, oh tormento!… le schiere famose Che la Francia a Magenta inviava, A serbar lei miserrima e schiava Vede strette all' odiato poter. Quindi è grata, ma freme, e il suo core Non è d' odio e sospetto dispoglio…. Chi contende il fatal Campidoglio Dell' Italia al magnanimo Re? Dura legge, onde il freno rodendo L' alta angoscia nel petto ella preme, E non osa alle pugne supreme Il suo Prence diletto incitar: Tu ben sai, gli favella, ch' io solo A Te, o Prode, sommetter mi voglio; Coronato sul mio Campidoglio Chi d' Italia fia simile al Re? Oh il delirio supremo, oh l' ebbrezza Di quell' ora invocate e divina, Che l' antica dell' Orbe Regina, Bella e forte di nuovo vigor, Stenderà la materna sua destra De' Sabaudi all' eletto germoglio: E, ben venga, dirà, in Campidoglio Dell' Italia il magnanimo Re! Ma se lungi ancor sembra quel giorno, Non trasmodi l' ardor della speme! Roma stessa che aspetta in catene Ne ammonisce a prudente indugiar. Vedrem forse ir trastullo de' venti Tal che immoto or ne sembra qual scoglio; E dischiusa al fatal Campidoglio Fia la strada al magnanimo Re! E tu, santo Vegliardo, il cui nome Fêr mantello di misere gare, Oh nol creder!… la Fede e l' altare Non insidia d' Italia il voler! Santo Veglio!… è più eccelso e più fermo D' ogni trono terreno il tuo soglio, Ma il suo loco non è in Campidoglio Ove Italia vagheggia il suo Re. Presso l' urna vetusta di Piero Tu trascendi ogni umana possanza, Ma de' Regi al banchetto ti avanza Loco indegno al Vicario del Ciel! Andrà illesa la mistica Nave D' onde avverse nel fero gorgoglio, Ma l' Italia vedrà in Campidoglio Il suo eletto magnanimo Re! Deh che a sorger si affretti quel giorno che, l' error vinto ai raggi del vero, Si circondi del lustro primiero Quella Fede che Cristo bandì! Possa, o Pio, la tua destra sacrata Il buon grano discerner dal loglio; E la Croce starà in Campidoglio, Ma sul bianco vessillo del Re!

Livorno, il giorno 27 luglio dell' anno 1862.

Già diradava la serena luce Della stella d' amor l' ombra notturna, E i lievi sogni che la notte adduce L' imminente fugava ora diurna; Immoto, avvolto nel suo manto, il Duce De' novelli Argonauti, in taciturna Estasi affisse alla mia riva il ciglio Dal già pronto a salpar bruno naviglio. Oh come bella, oh come maestosa, Incoronata di colline amene, Appar sulla riviera ubertuosa, La città che fu culla alle Sirene! Di fantastica tinta vaporosa Lieve nebbia l' adombra, e alle tirrene Onde rivolta, par che impaziente Di specchiarvisi, aspetti il Sol nascente. E già un roseo riflesso a poco a poco Veste la cima del terribil monte, Che eruttando dal sen lave di foco Stampa di morte spaventose impronte: Addio Napoli, addio celeste loco, Sclama l' Eroe con ispirata fronte; Uopo è ch' io volga a te dormente e ignara Questa troppo al mio cor parola amara. Addio; tra poco il popol tuo fervente, Che rapito alla mia nobil fidanza Rispondeva con slancio onnipossente Del suo nuovo destin nell' esultanza, Ad invocar ritornerà plaudente Il nome mio sotto la vuota stanza; E che pari a un fuggiasco io mi t' involo Apprenderà tra meraviglia e duolo. Deh non m' accusi, e non frantenda il mio Pensier, che tanto i fini altrui sovrasta Quanto l' amor che ne sublime a Dio Quel che la terra del suo fango guasta! Del nuovo dritto emblema oggi son io Che invan la vieta tirannia contrasta, E come il dritto incontrastabil, pura Dee mia gloria varcar l' età futura! Teco adempiuto ho il mio fatal mandato, Or la mia speme a te compir si aspetta. Schiva le insidie dello stuol malnato Che tornarti vorrìa schiava ed abbietta; Ad ardue prove ancor ti serba il fato, Ch' ardua è la meta che toccar ne alletta; Nè d' un tratto o a vil prezzo, un popol sconta Di secolar servaggio i danni e l' onta! Del Sabaudo vessillo all' ombra accolti, L' ora aspettando che a pugnar li appelli. I figli tuoi gli sguardi abbian rivolti All' astro che iniziò tempi novelli. Ch' io sempre uniti in una fè li ascolti, Caldi di zel tra gl' itali fratelli; Ma se discordia mai squassi la face, Grida il mio nome e tornerà la pace! Disse, e nel ciglio che il valor trasfonde Lucida stilla tremolar si vide; Ma già l' astro che vita a tutto infonde Pel sereno del ciel s' alza e sorride. Ecco salpa la nave; ecco sull' onde Scorre che in doppio solco ella divide, Mentre il bronzo guerrier tuona alla riva, E la ciurma all' Eroe plaude giuliva. Come nell' onde il Sol dechina a sera Della sua luce nella gloria immerso, Tal ei celossi nella sue Caprera, Povero scoglio in mezzo al mar disperso; Ma a quello scoglio della terra intera Meravigliato il guardo era converso, Chè del Lion d' Italia generoso, Come l' ardor, sublime era il riposo! Ma impaziente dell' estreme prove Il nido ei lascia, e rompe in aspre note; E, come al cenno dell' antico Giove L' Olimpo, Italia a' detti suoi si scote. Qual disegno formò?… che tenta?… e dove, Ei che ostacol non vede, addur ci puote?… Deh! tempri Iddio, che ha in man de' forti il core, Col civil senno dell' Eroe I' ardore!

Livorno, il giorno 27 luglio dell' anno 1862.

Nella stanza ove l' arbitro Sire Della Francia le morbide piume Stanca insonne, ecco il pallido lume Della lampa avvivarsi e raggiar. E improvvisa del letto alla sponda Una donna d' augusta sembianza Fassi, e in atto di onesta baldanza Così l' ode a lui vôlta, parlar: Mi ravvisi? l' Italia son io, Son l' Italia, che incerta e dolente Dell' acerbo responso recente Qui ne vengo i tuoi sensi a scrutar. Che d' ingrata non merto la taccia Tu lo sai, tel provâro i miei figli, Che già troppo prudenti consigli, Per fuggirla, fûr tratti a seguir. Forse il senno al valor de' miei prodi Non fu pari? Oh non torcer la fronte! Ben lo so; del magnanimo Conte Più non regge i miei fati l' ardir. A lui sol, che la cupa tua mente Penetrava, e a mio pro la rivolse, Tutta forse la tela si svolse De' tuoi vasti tenaci pensier. Chè non te, che nell' alba degli anni Sull' estinto fratello imprecavi Quel poter che del cielo le chiavi Vilipende a fastigio terren, Te mai creder convinto non posso Che alla fede e alla pace del mondo Giovi il doppio terribile pondo Che la misera Roma sostien. Nè di vieto sognato diritto Creder posso ti faccia puntello Tu, che regni pel dritto novello Che de' popoli il voto sancì. Tu, che saggio, anzi astuto, ben sai Come mal per blandizie e favori Si sopiscan gli atroci rancori E di parti e d' ipocrito zel. Qual fia dunque il mistero che or spinge Te per via dall' origin diversa?… Bada! il fato dovunque ti avversa Dacchè l' orma v' impresse il tuo piè! Bada! il dritto che al Messico infrangi, Che a Washington infranger tentasti, È quel dritto che tu proclamasti E che a Roma calpesti tuttor! Bada! un fallo rimpianse l' Eroe, Del cui sangue ti pregi, sovente; Far poteami ed unita e potente, E nol volle, e se stesso tradì! Per te vano l' esempio non sia, O con meco e col secol cammina, O travolto nell' ampia ruina, Che già gli odii ti scavano al piè, Dai tiranni e dai popoli al paro Cadrai vinto, ed irriso, e incompianto; Ritardar puoi miei passi soltanto, Non ch' io tocchi la meta vietar!

Pisa, il giorno 13 dicembre dell' anno 1862.

Stella d' Italia! o eterea Leggiadra pellegrina, Che sulle piagge Esperie La tua luce divina Piovi da quando i secoli Mossero al primo vol; Stella d' Italia!… io povera Musa, cui diede Iddio Render, qual eco, il gaudio O il duol del suol natìo, Del pronto ardor nell' estasi Oggi mi volgo a te! Cadde il gentil fantastico Error che in voi, lucenti Figlie dell' etra, un' insita Virtù le umane genti Credean trasfusa, i varj Eventi a moderar. Pur, quando spiega tacita La bruna notte il velo, Te, fra le innumerevoli Faci ond' è bello il cielo, Te sola è tratta l' avida Pupilla a interrogar. Qual nome o loco l' ardua Scïenza esploratrice Del ciel t' assegni, incognito M' è, nè indagar mi lice; Nè quanta nello spazio Orbita segni, e qual Distanza varchi il tremulo Lume che agli occhi miei Mandi, so dir; d' Italia So che la stella sei, Perchè possente un fascino T' avesti ognor su me! Certo sei tu quel mistico Astro che gìa spiando, Grave nel volto e pallido, La man ferma sul brando, D'Alberto la magnanima Romita alma regal. E forse nell' infausta Sera dell' aspra guerra, Che parve estremo esizio A questa patria terra, Mentre ei cingeva il proprio Serto del figlio al crin, Vide, mirando all' etere, Il disco tuo giocondo, Che fu tre volte inizio Di civiltate al mondo, Dritto mandar suo vivido Raggio sul nuovo re. Sì che dal lieto auspicio Trasse immortal conforto; Nè già s' illuse il martire Della remota Oporto, Poi che attraverso i turbini Che Italia flagellâr, Brillando tu qual simbolo D' èra fatal novella Sulla region Sabauda, O glorïosa stella, Tutti i congnati popoli Unisti in un desir! Dirò l'amor longanime Che maturò gli eventi?… De'prodi franchi e italici, Consorti nei cimenti Contro le schiere Nordiche, Le imprese inneggerò?… Dirò ridutti in polvere I troni ingiusti, e scossa Ne' suoi terreni cardini La miseranda possa Di chi a caduco imperio Cristo non mai chiamò?… O Stella!… a me dall' anima Non sgorga or lieto il metro!… Schiava è tuttor Venezia, E il pastoral di Pietro, Col brando in reo connubio, Pesa su Roma ancor. Cadde anzi tempo il, Savio Che disse: Italia è viva! Orde di mostri infestano La mia Sebezia riva, Egro è l' Eroe che i barbari Ceppi le infranse un dì. Stella d' Italia! Oh parlami Dell' avvenir, se il sai: Forti, prudenti, unanimi Vedranne il mondo omai? Presso, o lontano è il termine Dei nostri alti desir? Ma che mai veggo?… rapido, Qual sprigionato telo, Dall'Oriente, un lucido Solco lasciando in cielo, Un altro astro pel tramite Che tu percorri entrò. Stella di Grecia! e all' Itala Stella procedi appresso! Fausto immortale augurio Sia trarne a me concesso Della final vittoria Che civiltade avrà!

Pisa, il giorno 13 dicembre dell' anno 1862.

Amo l' albe serene e i tramonti, E le notti dall' umido velo, Amo i monti coperti di gelo, E le valli olezzanti di fior. Amo i boschi dall' ombra conserta, Caro asil di quïete profonda; Amo il mare, o flagelli la sponda, O sia specchio all' azzurro del ciel. Amo il rio, che qual striscia d' argento Lambe, appena scorrendo, la ripa; Amo il fiume, che gonfio strarìpa, Come popol che il freno sprezzò. Amo i fiori, gli aguelli, le stelle, E gli amici, e i parenti, e un cortese Angiol mesto, che forma sol prese Dai fantasmi dell' ansio pensier. Tutto infine amo quanto rivela La bontà, la potenza di Dio, E concentro nel suolo natio D' ogni cosa diletta l' amor. Poichè tutto l' Italia mi diede, La gentil dall' eloquio celeste, Onde il sacro furor che m' investe S'armonizza nel bello eternal. Care Italia! non mai la mia prece Sollevossi all' eterno Fattore Ch' io mercè non rendessi dal core Perchè nascerti in grembo mi diè. Mai la vita che traggo fra i dumi In te, o bella, che madre mi sei, Sopportar da te lungi potrei Fra le rose d' un lido stranier. Care Italia!…. umil donna son io, Cui retaggio è la vena dei carmi, Nè m' è dato la vita fra l' armi Pe' tuoi dritti animosa arrischiar. Ben per te del martirio alla prova Farmi incontro potrei senza tema…. Pur fu un dì che un' angoscia suprema Non mi tenni bastante a durar! Oh! perfin la memoria disperda Di quel dì la clemenza di Dio!… Fra i tuoi figli, cui sprona un disio, Che ad un patto la fede legâr, Mai più sorga dissenso, che a tutti Vieti, o tradi la meta proposta, Che ineffabil tremendo ci costa Cittadino rimorso e dolor! D'arti oblique e di sensi servili, Di precoci disfide impotenti, Cessin l' onte e l' accuse imprudenti Che sol ponno a chi t' odia fruttar! Io modesta, ma impavida Musa, A cui sola mercede è il tuo amore, Or sovr' ogni privato rancore Anatèma son tratta a gridar!

Pisa, il giorno 13 dicembre dell' anno 1862.

Quando in me taccia per il gel degli anni L' estro, de' giorni miei martirio e incanto, Nè più le rare gioie e i spessi affanni Suprema forza mi faranno al canto, Tra i ricordi dei mille disinganni, Di faticose prove, e labil vanto, Due di fien sempre al povero cor mio, Cagion d' orgoglio verecondo e pio. Io vidi, io vidi entrambi i generosi Itali Vati che al terren natale Immacolato, in tempi obbrobrïosi, Il delfico serbâr lauro immortale! Niccolini e Manzoni! Ei glorïosi Tanto, che ognun solo a se stesso è uguale, Non sdegnaron la destra venerata Posar sopra la mia fronte inchinata! Or mentre l' uno, qual pianta vetusta Che umor rinvigorì, sul patrio Olona Raggia la gloria della fronte augusta E la pace, d' elette alme corona; Sparve dell' altro nella cella angusta Del sepolcreto la mortal persona; E nel ciel, cui fa specchio Arno, s' estinse L' astro ch' ogni altro, sfavillando, vinse. Severo spirto, che al saper profondo D' Ellenia antica s' educò l' ingegno, Degli anni suoi fin dall' april giocondo Di poeta civil raggiunse il segno. Dall' altezza maggior vide nel fondo Cader, chi fè di molti regni un regno; E la lacera Italia inerte e muta Mirò travolta nella gran caduta. Vide, e piangendo lacrime virili La tragica invocò Musa celeste; E sensi a quei dell' Astigian simìli Espresse avvolti in più splendida veste. Procida, Strozzi, Foscarini, ai vili Tempi, parlàr magnanime proteste Per lui, ch' indi pingea viva nel canto « La Pietà che ai mortali insegna il pianto. » Poi riandando del pensier sull' ala Le vicende degli itali dolori, Qui innestrarsi e nutrir vedea la mala Estranea pianta dai roman Pastori. Di Giulio il motto chi vanta e propala Che i barbari, gridò, d' Italia fuori, Oblia ch'ebber gli Svevi infamia e morte Sol perchè la voleano unita e forte! Ond' ei, che a raccozzar le membra sparse Della patria vedea fatal primiero Ostacol Roma, fin dal dì che ella arse Dell' alme al regno unir terreno impero, Pur devote alla fè, che ognor gli apparse Splendida figlia del divin pensiero, Come ai Teutoni, mosse acerba guerra A lei, che aduggia la materna terra! Corrotta, ed ebbra di poter mondano, Di vendette assetata, ansia di prede, Pinse la corte del Pastor romano Che una fronte regal presse col piede L'ombra evocò del martire Bresciano Che di Cristo vedea guasta la fede, E dielle eloquio agitator sì caldo Che in lui parve trasfuso il cor d' Arnaldo. Pur fu un istante che del suo poeta, Illusa, Italia rinnegò il concetto. E spinta si credè verso la mèta Dell' erede di Pier dal sacro detto. Ei solo, il vate, in sua virtù segreta, Vedea l' error d'un inclito intelletto; Nè unì mai la sua voce ai lieti evviva Che d' Alpi a Scilla risuonanti udiva. Pur la perduta illusion d' altrui Compianse, e il duol gravò l' egra sua vita: Ma Dio pietoso i tardi giorni sui Coronò della gioia unica ambìta. Vide Italia redenta, e vide in Lui Ch' elesse a Re, sua grande idea compìta; Or con Dante ed Arnaldo in cielo affretta Il dì che Ei salga al Campidoglio in vetta!

Pisa, il giorno 13 dicembre dell' anno 1862.

Casto, gentil, magnanimo Spirito mansueto, Che or del superno empireo Nel più lucente e lieto Loco, ti godi il premio Del lungo tuo patir, M'odi! Negli anni ingenui, Che sol d' amor si sogna, Io le primiere lacrime Di sdegno e di vergogna, E di pietà per l' itala Terra versai per te! E benedii le memori Pagine tue, feconde Di frutto inestimabile Alle materne sponde, Nella perenne infamia Che allo stranier fruttâr. Dai lieti sogni e splendidi Di libertà, ridesto Tra le pareti squallide Di carcere funesto, All' arte ed alla gloria Rapito e all' amistà; Nelle divine pagine Dell' unico vangelo, Ritemperasti l' anima Calda di patrio zelo, E la virtù dei martiri T' infuse al cor la Fè. Natura in te dovizia Tanta ponea d' affetto, Che all' erma solitudine Fin di spregiato insetto La vista e l' artificio T era conforto al sen. E il canto malinconico D' ignota peccatrice, Che rimpiangea l' aureola Del tempo suo felice; E le carezze ingenue, E l' abbandono, e il duol Della fanciulla veneta, Tremar faceanti il core. Nello Spielberga infausto, Sul letto del dolore Gemevi: « Ah! niun qui un palpito Per me d' affeto avrà! » Ma no! chè, ergendo il languido Ciglio, su te chinato Vedi ansïoso e pallido Uno stranier soldato, A cui furtiva lagrima Rigando il ciglio va. E già sommessa penetra Nella tua muda oscura, Voce d' accento italico Armonïosa e pura, Che chiede a te ricambio Di fraternale amor. Oh l' onda di letizìa Che al sen ti corre! Oh come Ripeti a Dio tra lagrime Dell' Oroboni il nome! Come vorresti l' invida Parete attraversar, Che dell' amico angelico Contende a te l' aspetto! Ma allor, che dato stringerlo Ti fu un istante al petto, Sul magro volto e squallido Leggesti il suo destin. Languì, poi giacque: simile A fior che il ferro infranse. Al vecchio padre, a Italia, A te pensando pianse…. E tu, congiunto al povero Tu o mutilato Pier, Dicevi, vôlto al funebre Campo dov' ei fu messo: « Verrà, verrà il tuo Silvio Tosto a giacerti appresso. Più lieve allor la strania Zolla su te starà! » Ma non avrà l' inospite Terra tue fredde spoglie. Libero sei. L' Italia, L' Italia tua t' accoglie, E a lei consacri i teneri Ricordi del dolor. Nè mai voce di strazio, Od imprecar furente, Valser tant' odio e infamia All' Austro prepotente, Come il tuo detto, scevero Di biasmo e di rancor! Deh! per l' immenso gaudio Che ti concesse Iddio, Quando baciasti reduce Il dolce suol natio, Che te, poeta e martire, Cinse di doppio allor, Prega che s' abbia termine Alfine il reo conflitto, Tra 'l clerical dominio E il cittadino dritto; Prega sovrasti incolume Sempre la nostra Fè!

Torino, il giorno 2 marzo dell' anno 1863.

Come ai mani del gran padre Alighieri Il tributo di rime vereconde Spesso a te porsi, o sacra ombra d' Alfieri, Peregrinando per le ausonie sponde. Ma non mai t' affacciasti a' miei pensieri Dall' austere sembianze ed iraconde Luce raggiando placida, divina, Com' or, dove la Dora in Po declina. Ah! certo, fin lassù, dove ' I disio Si tranquilla nel mar d' ogni dolcezza, Il suon del plauso del terren natio, Agl, immortali in sen cresce allegrezza! E tu, che a intento generoso e pio Miravi, armato di sublime asprezza, Or ti piaci al trionfo, ai marmi, ai voti Che t' offrîr nella tua Asti i nepoti. Io là non era; nè mirai l' accolto Popolo immenso, che in sonori evviva Proruppe, allor che il tuo parlante volto La man del prode artefice scopriva; Ma dell' inno dai bardi allor disciolto L' eco pervenne a me dell' Arno in riva; E mi molcea nell' anima romita D' un antico dolor l' aspra ferita. Oh! quante volte innanzi al monumento In Santa Croce alle tue spoglie eretto, Come côlta da subito sgomento Io di vergogna piansi e di dispetto! Per stranio cenno s' ebbe adempimento Di Canova l' altissimo concetto, E stranio è il nome, abbenchè a te gradito, Ch' ivi si legge accanto al tuo scolpito! Ma a te, d' ogni viltà viva rampogna, Non parrà tardo il cittadino omaggio; Finchè Italia divisa la vergogna Subì di proprio e di stranier servaggio, Finchè un fatuo splendor ch' era menzogna Di libertà scambiò col sacro raggio, Sdegnato avresti i suoi marmi e i tributi, O flagel di tiranni e inetti Bruti! Te il Sofo, autor dell'Italo Primato, Restitutor del patrio genio appella, Chè nel concetto tuo vide il sacrato Germe di nostra civiltà novella; E disse: « Il dì che il germe fecondato Pianta divenga vigorosa e bella, Quei che del gran riscatto esulteranno Non un' effigie, un tempio a te dovranno! » Or noi che all' ombra dell' obbrobrio, lieta Seguir vedemmo di gloria l' aurora, Un' effigie t' ergiam, Divo Poeta, Fisi al pensier che ti fu norma ognora. Ben sai che dall' eccelsa ultima meta De' nostri ansii desir siam lunge ancora; Benchè il valor non ne fallisse o il senno La varia ad emular prole di Brenno! Fu alla vittoria il vol tronco, e funesta Di schiavitù tuttor grava la soma La fidanzata dell' Adriaco mesta, E la regina delle genti, Roma. Ragion di Stato, che ragion calpesta, Di sdegno e di pietà gl' impeti doma…. Ma troppo omai chi n' ha la via preclusa Nel suo poter dei grati sensi abusa! Deh! quel ferreo voler di cui t' armasti L' ingegno a sostener nell' arduo volo, E l' orgoglio sublime onde sclamasti: « Itali esser dobbiamo, itali solo! » Spira dal marmo, sì che il cor ne basti Il riscatto a compir del patrio suolo; E un Pantheon Roma avrà più degno e bello, A te dicato, a Dante e a Machiavello!

Torino, il giorno 2 marzo dell' anno 1863.

Salvete! o pascolo dell' ansia mente, Ali del mobile uman voler, Illusïoni, vario-lucente D' ingenue fate popol legger. Salvete! origine d' ogni gentile Lusinga, io v' amo, vi cerco ognor, Benchè sia lunge quel lieto aprile, Che in voi beato visse il mio cor. Taccia chi austero d' aspre rampogne Voi grazïose suole oltraggiar, Quai di fantasime e di menzogne Perenni artefici, nate a ingannar. Però che senza di voi, sfornita D' ogni prestigio suo lusinghier, Muta, uniforme dovria la vita Scorrer diserta d' ogni piacer. Dall' innocente che dorme in culla, All' uom che avvampa d' ardui desir; Dall' amorosa lieta fanciulla, All' egro veglio vivo al soffrir; Dal tapinello che vergognoso La man distende pane a implorar, Fino al superbo signor fastoso Che la sua noia stenta a ingannar; Sul mar, nei boschi, nei campi aperti, In popolose vaste città. Nei desolati arsi deserti, O dove il ghiaccio perpetuo sta, Non è chi affatto privo rimanga Di voi; non evvi loco quaggiù, Dove alcun raggio non si rifranga Di vostra magica gentil virtù. Chè se a lui stimolo fatal non siete, Langue assonnato dell' uom l' ardor; Che fôran, senza di voi, la sete Di gloria, il genio, l' arte, l' amor? Oh! quante volte dai desolati Ghigni del dubbio che agghiaccia il sen, Dai dommi infausti abbominati Di chi rinnega il vero e il ben, Trova rifugio in voi converso L' innamorato caldo pensier; E, qual di splendido prisma attraverso, Per voi vagheggia il bello e il ver! So ben, siccome le piante i fiori Disertan quando acuto è il gel, Come le stelle ai novi albori Lente spariscono dal vasto ciel, Come si perdono tra le addensate Nubi dell' Iri i bei color, Così voi pure vi dileguate Ad una ad una dall' ansio cor. Ma come all' alba de' miei prim' anni Di voi la mente voglio arricchir! Invan l' amaro dei disinganni Provossi il genio a isterilir; Chè ognor dall' intima nascosa guerra Trionfatrice sorse la Fè…. O illusioni! Finchè la terra Io resti a premere con stanco piè, Meco qualcuna del vago stuolo Pietosamente resti a indugiar; Finchè, con l' ultima che fugge, il volo Possa quest' anima a Dio spiegar!

Torino, il giorno 2 marzo dell' anno 1863.

Quando lungi tuttor parean gli albori Di libertade, e tutto era sospetto, Delle varie città d' Italia i fiori Con ansia arcana io mi posai sul petto. Or che arridono alfin giorni migliori, Nobil Torino, anco i tuoi fiori accetto, Ed arra fien di quei che un dì giuliva Intreccierò sul Tebro e all' Adria in riva.

Torino, il giorno 2 marzo dell' anno 1863.

O travagliata, generosa terra, Che del tuo dritto, e della fè più pura Armata, insorgi a glorïosa guerra Contro il gigante che Europa impaura; Polonia! il suol che due vulcani serra, E cui fan l' Alpi e l' Appennin cintura, Il suol pur ora a servitù ritolto, Non nudre un cor che a te non sia rivolto! Chè se di plausi, e di voti, e di pegni Di solidal fraterno affetto, solo Sterili in fino ad or giungono i segni A te, che pugni contro immenso stuolo, Vano aiuto non fien gli alti disdegni, Onde il signor dell' agghiacciato polo Perseguon lungo la malvagia strada Popoli e re d' ogni civil contrada! Perdura! È questa dei trionfi l' èra Per le riscosse travagliate genti! Di Sobïeschi tuo l' ombra guerriera Incuora i figli ai nobili cimenti. Non dalle stragi e dalla vista fera Delle cittadi tue quai roghi ardenti, Non dal furor del Cosacco selvaggio Alcun dei tuoi prostrar sente il coraggio! Perdura! Forse il dì non è lontano, Che lacerato fia l' infame patto, Che le tue membra lacerando a brano, Ogni prisco splendor n' ebbe sottratto. Dio ti protegge con visibil mano, Se un prence v' ha così di senno tratto Che, il sognato divin dritto invocando, Va se stesso e il suo trono inabissando! Perdura! Unite a tuo favor la voce Levan la Francia e l' Inghilterra, e fino (Chi il diria?) l' Austria, quell' Austria feroce Auspice e parte del tuo reo destino. Perdura! A Italia l' onorata Croce Di Savoia oggi traccia arduo cammino. Maturi i tempi profetati sono, Nè al convito mancar debbe il Polono!

Torino, il giorno 2 marzo dell' anno 1863.

Sulla soglia d' un rustico tempio, Ov' è sculto il ricordo pietoso D' un garzon, che pugnando animoso Per l' Italia trafitto spirò, È prostrata una vergin donzella, Le man giunte ed in candide spoglie: « Santo è il duol che in quell' alma s' accoglie, Come santo è di patria l' amor. » Son quattr' anni, e ogni sera il bifolco, Che alla povera casa s' avvia, Ripetendo: Ave, dolce Maria! Lungo il queto campestre sentier, In quel loco divoto, in quell' atto, Pari all' angel del duolo, la coglie. E al dolor che nell' anima accoglie Benedice, e al suo memore amor. Nei fidati colloqui materni, Tra le amiche degli anni innocenti, Mai non è che prorompa in lamenti, Mai spietato non chiama il destin. Ma in quest' ora, che ai sguardi importuni Ansïosa e romita si toglie. Tutto il duol che nell' anima accoglie, Sfoga in questo lamento d'amor: Ecco l' ora, con l' ultimo raggio Batte il Sol sul tuo nome qui scolto; Ah! così sul tuo nobile volto Io lo vidi quel giorno a brillar, Che dei prodi vestita l' assisa, Il mio cor, le tue fervide voglie, Ogni bene che in terra s'accoglie, Immolavi di patria all'amor! Da quell' Ara, ove infanti pregammo, Ove a unirci il ministro di Dio Era pronto, e ove il dì dell' addio, Il ritorno venimmo a implorar, Movea teco, e diceami un presagio: Ei mai più varcherà queste soglie!… Dio che i voti magnanimi accoglie, Non vi serba letizia d'amor! La mia man, che di gelo si fea, Alle labbra recasti tremando E dicevi: S' io cado pugnando Per l' Italia che i lacci spezzò, Ch' io raddotto qui posi; ecco il voto Che supremo quest' anima scioglie; Dolce è il suol che nel grembo ne accoglie, Se lo bagna la stilla d'amor! Se altri detti aggiungesti, l' ignoro: Sculti in sen questi soli io serbai; Per tre lune alla fama esultai Di tue gesta sul campo d' onor. Già di speme e d' orgoglio tremava Al pensier: d' un eroe sarò moglie!… E all' allôr che nel campo ei raccoglie Intrecciar potrò il mirto d' amor! Breve sogno!… smarrite, piangenti, Le compagne mi affisano in faccia, Singhiozzando la madre m' abbraccia…. Io comprendo, nè chieggo che fu. Tu reddivi, ma spento!… Or chi mai, Il mio cor dal tuo voto distoglie?… Fin ch' io viva, quel suol che t'accoglie Fia che bagni col pianto d'amor. Tal gemeva quell' angiol cortese Nel silenzio dell' umida sera; Ma una volta l' usata preghiera Sul bel labbro d' un tratto spirò. Fredda, immota trovolla l' aurora Ove espander solea le sue doglie; Dove il fral del suo fido s' accoglie, Era morta d' affanno e d'amor.

Torino, il giorno 2 marzo dell' anno 1863,

FINE

DEDICA A GIOVANNI FRASSI Pag. 1

Versi meditati.

Addio alla solitudine campestre. — A Giulia e Norina Matteucci. 1

Luisa Maggiorani, nel dì natalizio del suo sposo Odoardo, gli Offre l' immagine del proprio figliuoletto da lei dipinta. 4

In morte dei fratelli Savio 6

Ad Emilio Frullani 10

Per un dono offertomi dai Fiorentini 11

Per Album 13

Agli studenti dell' Università in Siena che mi donarono una medaglia d' oro 14

A Ciro Menotti 15

La quarta rosa 16

Per l' album di Vittoria Mayer 17

Pel dono onorevole della medaglia d' oro offertomi in Pisa il 15 giugno 1858 18

A Niccolò e Luigia Fortiguerri 21

A miss Luisa Grace 22

Per Album 23

Alla Madonna di Montenero, a cui un fanciullino offriva alcuni fiori campestri 24

Addio agli amici di Firenze 25

A Rodolfo e Caterina Castinelli 27

Per l' album degli Accademici Filarmonici di Firenze 28

Alla contessa Eugenia Caselli. — Ricordo 29

A Bologna, pel dono d' una medaglia d' oro 30

A Dina Gozzadini 33

Il Mattino Pag 34

In morte di Rodolfo Castinelli 36

Un voto delle donne italiane al re Vittorio Emanuele che troppo esponeva la sua vita nei campi di battaglia 40

A Napoli, nel settembre 1859 44

A Claudina Frullani 47

A Milano, nel giugno 1859 51

Ai volontari Toscani che partivano per la guerra dell' indipendenza 52

Per la venerabile immagine del santissimo Crocifisso donata dal papa Pio 11 alla città di Siena 53

Alla contessa Clara Maffei 55

Pel dono di una bandiera che le Donne Veronesi, Veneziane e Padovane inviavano ai loro concittadini soldati nell ' esercito italiano 58

Alla marchesa Giulia Ridolfi nata Tassoni 60

A Laura Beatrice Mancini 62

Alla marchesa Anna Pallavicino 65

Alla marchesa Anna d' Angrogna nata Pallavicino 66

Ad Olimpia Savio Rossi che m' inviava un mazzo di fiori nel mio giorno onomastico 67

Ad un egregio poeta estemporaneo 69

A Cesare Braico, uno dei mille che approdarono a Marsala col Garibaldi 71

A Laura Beatrice Mancini nel giorno onomastico del suo consorte 72

Pei morti del 15 maggio del 1848 74

In morte di Virginia Menotti Pio 77

Versi scritti nell' album di Maria Carcano 81

Per la venuta di Vittorio Emmanuele, re eletto, in Napoli 82

Versi scritti nell' album di una giovinetta nel suo giorno onomastico 85

Ai giovani dell' Università napoletana nell' atto che veniva ad essi consegnata la bandiera nazionale, dopo l' inaugurazione delle statue di san Tommaso d' Aquino e di G˙ - B˙ Vico. il giorno 2 giugno del 1861 86

Al professor Paolo Emilio Tulelli 88

Per la nuova raccolta di versi e prose in morte delle sorelle Ada ed Ebe Benini 89

La resa di Gaeta 90

Canti improvvisi.

La giovinetta dell' Ospizio degl' Innocenti che prega Pag 97

Giovanna d' Arco 101

Ad Antonio Canova rigeneratore delle Arti in Italia 105

Le tombe dei grandi Italiani in Santa Croce 111

L' ultimo canto di Saffo 116

Pensieri di una giovine madre mentre allatta il suo primo bambino 120

Pietro Micca 125

Luigi Camoens 130

Addio a Firenze 135

Ninetta Delille, o L' innamorata del Sole 136

L' Ave Maria della sera in una solitudine campestre 140

Gaspara Stampa 145

Ester che innanzi ad Assuero prega pel suo popolo 150

Colombo che dà il nome di San Salvatore alla prima terra scoperta da lui 154

Un saluto al Vesuvio 157

La preghiera d' una giovinetta per la madre inferma 162

A Galileo 166

Eva nel giorno della sua creazione 168

Lucrezia Mazzanti 171

Il Tasso sul letto di morte 176

La figlia di Jefte 180

Presagj di un nocchiero e suoi palpiti durante la tempesta 184

Francesco Petrarca, reduce dal suo ultimo viaggio, si ferma sulle Alpi 188

La vedova 191

Ad Alessandro Manzoni 195

Napoleone a sant' Elena guarda il ritratto di suo figlio 200

Vittoria Colonna 204

Addio al Sole d' un giovane morente 208

A Giuseppe Parini 213

Ultimi pensieri di un giovine poeta vicino a morte 217

Gl' infelici amori di Saffo e di Corinna italiana 221

Un saluto ad Amarilli Etrusca 225

Metastasio e Alfieri 230

La preghiera del povero 234

Se la vera amicizia esiste ancora fra gli uomini. Pag 238

La donna quale dovrebbe essere ai nostri giorni 243

Colombo sul letto di mOrte 248

Properzia de' Rossi scultrice bolognese 252

Il cantico degli Ebrei nella schiavitù di Babilonia 257

Pier delle Vigne 261

Le bellezze del nostro cielo 265

La preghiera d' una madre al letto di un figlio infermo 270

Luigi Galvani scopritore dell' elettricità animale 274

Galileo Galilei 276

Addio a Bologna 280

Benedizione d' una madre alla figlia che si fa sposa 281

Maria Stuarda 285

Amore e Morte 290

Ultime ore di Petrarca e suo incontro con Laura in cielo 294

Pia de' Tolomei nel castello delle Maremme 298

Un' orfana che prega all' altare della Vergine 302

La speranza ispiratrice del poeta 306

Il Crociato che parte per la terra santa 310

Lodovico Ariosto e il suo poema 314

All' avvocato Giorgio Follegatti di Ferrara 318

Povera Venezia! 319

Ferruccio e Garibaldi 324

Addio di una madre al figlio che parte per farsi soldato 328

Un voto all' Italia 332

Una madre a San Martino 336

L' ombra di Vittorio Alfieri a Vittorio Emanuele II 340

Ai Bolognesi 344

II soldato volontario reduce dalle patrie battaglie sulla tomba di sua madre 345

L' ideale di un primo amore 349

Daniele Manin 353

Milano, nel tripudio delle sue feste, volge un pensiero e un saluto a Venezia 357

L' indagine dell' avvenire 360

Un pensiero alla patria lontana nell' ora del tramonto 365

A Niccolò Machiavelli 369

Per alcuni mazzi di fiori offertile sul finir dell' accademia 373

Una parola di lode ad Angela Terinelli bresciana 375

Il Trovatello 380

L' Italia si fa guida al re Vittorio Emanuele II nelle sale della prima Esposizione Nazionale. Pag 384

La madre del Volontario veneziano 387

La Saffo del Duprè e la Leggitrice del Magni 392

Garibaldi e Cavour 395

Il ritorno del fidanzato ferito nella Guerra dell' Indipendenza 400

Addio degl' Italiani a Nizza e Savoia 403

Alla Musa estemporanea 408

La spada di Castruccio Castracani, conservata nella villa Puccini di Pistoia, offerta in dono a S˙ M˙ il re d' Italia dagli orfanelli eredi del Puccini 411

Amore e Luce 415

I Mille 419

Roma e Vittorio Emanuele 424

Addio di Garibaldi a Napoli dopo l' ingresso del re d' Italia 428

L' Italia a Napoleone III 432

La Stella d' Italia 435

Ciò che amo 440

Giambattista Niccolini 443

Silvio Pellico e Le mie Prigioni 447

A Vittorio Alfieri per la statua innalzatagli in Asti sua patria 452

Le illusioni 456

Ottava improvvisata in seguito alla presentazione di un mazzo di fiori 459

Alla Polonia 460

Una giovinetta sulla tomba del fidanzato morto nella Guerra d' Indipendenza 462