PAOLA DRIGO

La Fortuna

MILANO
Fratelli Treves, Editori
1913

Secondo migliaio.

PROPRIETÀ LETTERARIA

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Copyright by Fratelli Treves, 1913.

A te, padre mio.

— Volete che vi dica francamente il mio pensiero? — proseguì il dottor Fabrizi imbaldanzito da due bicchieri di vin spumante. — Se il contino non piglia un'altra strada, corre un brutto rischio. La ragazza è onesta, c'è di mezzo un aspirante fidanzato, e i fratelli di lei, due colossi, il cui pugno vale una schioppettata. Badate a me. Cinque anni or sono ho assistito a un processo per omicidio, dove l'imputato era un giovanotto del popolo, garzone fornaio, e il morto un benestante, figlio del sindaco del paese. Orbene, pare che questi si fosse preso qualche libertà (intendiamoci, libertà relativa!) colla giovinetta sorella del fornaio; fatto sta che il fratello, avvertito della cosa, ha aspettato una bella sera il damerino dietro una siepe e l'ha caricato di tali pugni e pedate da lasciarlo per morto. Infatti tre giorni dopo se n' è andato all' altro mondo. Bene? I giurati hanno assolto il fratello…. E non basta! Il popolo l'ha portato in trionfo, — por-ta-to-in-tri-on-fo! — non vi dico altro!

Il dottore tracannò un terzo bicchiere di vino e si alzò.

Era l'ora in cui egli osava dir tutto al suo nobile cliente ed amico conte Ademaro Novelli-Casazzi; le cose più audaci, come le più strane, gli venivano spontanee sul labbro favorite dall'ombra, dalla consuetadine e dal vino; le verità più rudi che la mattina dopo avrebbe accuratamente celate sotto un cerimonioso sorriso.

Egli fece un giro intorno alla tavola, e si fermò, ritto a gambe larghe, davanti all'albero genealogico che occupava un'intera parete del salotto. Il suo naso grosso e rosso riluceva.

— Dopo tutto, — continuò, — è inutile farsi delle illusioni: non-sia-mo-più-ai-tem-pi-del-feu-da-le-si-mo. Quando un conte è incapricciato di una sua bella contadina, bisogna che se la sposi, o che fili, se non vuol correre il rischio d'esser bastonato. E dopo tutto, — ripetè accalorandosi e indirizzando la parola all'albero, quasi sperasse da quello una risposta che non veniva, — e dopo tutto, alcune gocce di sangue diverso, di buon sangue rosso e contadino, non farebbero bene nei tuoi rami ischeletriti? Qui da secoli non si vedono segnati che matrimoni fra parenti…. Ecco! Norberto Novelli-Casazzi con Ildegonda Novelli-Casazzi, Giovanni Novelli-Casazzi con Maddalena Novelli-Casazzi, Eufrasia Novelli-Casazzi…. e via via…. Sempre gli stessi nomi, sempre lo stesso sangue! Per questo la razza è indebolita, immiserita, le tare ereditarie accentuate, la fecondità diminuita, la mortalità nei bambini spaventosa, e il contino Folco è, di otto figli nati, l'unico vivo e l' ultimo….

Il conte Ademaro scosse la cenere del sigaro che fumava in silenzio, e tossì.

— Ne convengo.

Il dottore si voltò. I suoi occhi piccoli e acuti fissarono l'amico al disopra degli occhiali, coll'espressione di due punti interrogativi.

Il conte Ademaro ripetè lentamente:

— Ne convengo.

— Ah sì? — disse il dottore, e non trovò altre parole.

— Sì, — riprese il conte; — da questo punto di vista la questione è degna di essere esaminata.

— Pare anche a me.

— Voi avete detto che Folco è, di otto figli nati, l'unico vivo e l'ultimo, ed è vero; vi aggiungerò che egli ha già chiesto in moglie due nobili ragazze e che ha avuto due rifiuti. A questo siamo ridotti, caro amico! La sua poca salute, la sua vita di scapestratezze, sono ormai cosa nota, e nessuna buona famiglia acconsente più a legarsi con noi. D'altra parte urge che Folco prenda moglie, perchè egli è già sciupato, vecchio a venticinqu'anni per la vita di disordini che ha condotto, ed io vedo con terrore il giorno in cui ritorni in città. Finchè il capriccio per la ragazza lo tiene, egli almeno resta con noi, e la sua salute se ne avvantaggia…. Pensate che se Folco non ha figli legittimi, la stirpe si spegne, la famiglia finisce, il nome, tutto!… Da questo punto di vista…. mi capite?… La ragazza è sana?

— Sanissima

— I suoi parenti?

— Li conosco tutti. I suoi fratelli sono due colossi, come vi dicevo; suo padre e sua madre non hanno mai avuto bisogno in vita loro neppure d'un salasso; i nonni, tuttora viventi, sono due splendidi esempi di longevità, e risalendo ancora…. aspettate! Li ho sulla punta delle dita, perchè ho dovuto proprio in questi giorni compilare una statistica…. Domenico Bombarda morto a 92 anni…. Teresa Bombarda sua moglie a 76…. Luigi Bombarda a 81 (mi seguite?) per un calcio d'asino…. Giuseppina Bombarda a 79 dopo aver messo al mondo diciotto figliuoli…. La ragazza poi è un fiore, una bellezza, anzi un vero tipo di bellezza: alta, complessa, formosa, colorita, con denti e capelli splendidi. Come fattrice…. Si può dir tutto, non è vero?

— Anzi, bisogna, dir tutto! — ammonì severamente il conte. — Come fattrice…. voi credete?

— Sarebbe il vero tipo che vi abbisogna, che rinsanguerebbe la razza, che vi darebbe prodotti sani e vigorosi.

— Ah, è terribile, sapete, — proruppe il conte dopo una pausa, — è terribile per me essere ridotto a mettere in discussione una tale possibilità! È terribile, dopo secoli che l'albero è intatto, dopo che la nostra famiglia, forse l'unica in tutto il Friuli, si è conservata pura da ogni inquinazione! Noi abbiamo difeso questa purezza come si può difendere la patria dallo straniero; voi non capite, non potete capire che cosa sia per noi! È terribile!…

E il conte Ademaro si alzò e si piantò egli pure sotto l'albero al posto lasciato libero dall'amico.

Per cinque lunghi minuti egli fissò, meditandoli, e quasi accarezzandoli collo sguardo, i nomi e i nomi che pullulavano lungo i rami, neri minuti come piccoli insetti. E i suoi occhi erano desolati ed umidi.

Infine fece un gran voltafaccia e mandò un profondo sospiro:

— Se è necessario, si farà.

Quel giorno stesso, quasi alla stessa ora, don Evaristo Percoto, arciprete di Collefiorito, si faceva annunciare alla contessa Clemenza Novelli-Casazzi.

Ella era sola, e lavorava a maglia presso alla finestra, colla testa molto bassa perchè era molto miope. Era tutta vestita di seta nera, e portava i guanti anche in casa. perchè aveva sempre freddo alle mani. Radi capelli grigi ben pettinati le incorniciavano il volto di un pallore anemico leggermente venato di rosa, gli occhi azzurrognoli e cisposi completavano la malinconia del sno aspetto, simile a quello di qualche vecchia immagine di santa, dimenticata sotto un velo di polvere in qualche vecchia chiesa, sbiadita dall'ombra e dal tempo.

Ella corse incontro al prete, e baciò devotamente la croce che gli pendeva al fianco.

Poi sedettero l'uno di fronte all'altra.

— Donna Clemenza, — disse don Evaristo, — mi rivolgo alla vostra ben nota pietà, al vostro cuore di madre cristiana, perchè facciate cessare uno scandalo. Il contino è sempre in agguato dietro a una delle giovanette più savie e più timorate del paese, cerea d'incontrarla da per tutto, l'aspetta fuori della chiesa, la ferma per istrada quando torna dalle funzioni. La ragazza è onestissima, e appartiene a una famiglia religiosa e morale. Chi attenta alla sua purezza assume una responsabilità gravissima, incommensurabile, davanti a Dio. E chi, sapendo come stanno le cose, adotta un sistema di accomodante silenzio che diventa quasi una complicità, cade in peccato mortale che nessun sacerdote potrebbe assolvere. Perciò vi parlo, donna Clemenza. Pensateci, donna Clemenza. E se davvero, se seriamente, il contino è innamorato di questa ragazza, se la volontà di Dio si manifesta in questo senso, ad evitare guai peggiori e rimorsi che al vostro pio cuore sarebbero acerbi, promettetemi che la vostra rettitudine cristiana non tituberà neppure davanti all'idea del matrimonio….

Donna Clemenza promise, baciando la reliquia benedetta.

Otto giorni dopo le nozze erano decise.

*


Don Evaristo s'incaricò di trattare coi vecchi e li fece chiamare alla canonica.

Arrivarono, preoccupati e imbarazzati, lui coll'anello lucente all' orecchio e il cappello col fiocchetto rosso, lei col fazzoletto bene incrociato sul petto e un grembiule a fiorami, non sapendo a che attribuire il messaggio e soprattutto il saluto pieno di sorrisi della Perpetua e le due tazze di caffè che furono tosto servite sul vassoio delle grandi occasioni.

Infine, dopo un lungo preambolo sulla giustizia del Signore che qualche volta degna premiare i buoni anche in questo mondo, oltre che in quello al di là, don Evaristo si dichiarò emissario in terra della volontà di Dio annunciando ai coniugi Bombarda, in premio della loro vita esemplare, la fortuna insperata di sposare la loro figliola Rosa al contino Folco Novelli-Casazzi.

I due vecchi non capirono.

Don Evaristo dovette ripetere.

E non ancora i vecchi capirono.

(Da duecento anni i Bombarda tenevano in affitto quel podere dai conti Novelli senza aver mai avuto occasione di parlare ai padroni che consideravano colla venerazione superstiziosa ed ingenna dei servi della gleba).

Allora, abbandonate le metafore, l'arciprete spiegò con chiarezza come qualmente il conte Ademaro lo avesse incaricato, esplicitamente incaricato, di domandare in moglie la loro figliola per il contino Folco.

— In moglie la loro figliola per il contino Folco. Sì, avevano questa fortuna. Il Signore dava loro questo segno della sua benevolenza. Che cosa e'era da impressionarsi? Dio non era padrone di colmare di doni i suoi prediletti? Non aveva egli fatto miracoli ancora più grandi? Non aveva fatto piovere la manna per sfamare gli ebrei? Non aveva permesso la moltiplicazione dei pani e dei pesci?… Questo era un miracolo più piccolo, ma un miracolo, certo, un premio; ed essi dovevano accettarlo a tale titolo e ringraziarne l'Eterno.

E i due vecchi ringraziarono don Evaristo e piansero.

Ecco i patti. Le nozze entro un mese; al corredo avrebbero pensato i nobili signori; durante quel mese il contino e la ragazza si sarebbero trovati insieme due volte, alla canonica, in presenza di don Evaristo. Dopo il matrimonio i coniugi Bombarda avrebbero veduto la loro figliola possibilmente una volta all'anno, in giorno da destinarsi, sempre in canonica, presente don Evaristo. La loro casetta sarebbe stata restaurata, e il debito di tremila lire, accumulato negli ultimi dieci anni, cancellato per sempre.

— Andate, figli cari, a portare la bella notizia alla buona Rosa. Domani verrò io stesso. Il Signore vi benedica.

Ma il vecchio Bombarda indugiava sulla porta girando e rigirando fra le mani il cappello col fiocchetto rosso.

— Che c'è? — chiese don Evaristo di cattivo umore.

— …. Come si fa col « giovine »?

— Ah! — replicò l'arciprete. — Non son mica corse promesse, che io mi sappia?

— No, no, don Evaristo, nessuna promessa, ma mi capisce…. Il « giovine » si era espresso…. sperava….

— Parlerò io col giovane. — tagliò corto don Evaristo. — Andate, andate con Dio, e state tranquilli. E˙ intendiamoci! — aggiunse. — Chiacchiere, meno che sia possibile!

I due vecchi si profusero in ringraziamenti e partirono.

La strada pareva loro lunga lunga e avevano fretta di essere a casa.

Due ore dopo, ecco piombare come un bolide il dottor Fabrizi.

— Dov'è la « contessa »? — tuonò egli trasudando allegria da tutti i pori, dopo essersi assicurato con una rapida occhiata che nessun « krumiro » potesse udirlo. — Dov'è la « contessa »?

Sulla soglia della cucina apparve Menica, la madre, cerimoniosa nella sua semplicità sorridente.

La « contessa » era là, in fondo al prato, colle braccia nude fino al gomito ed una gran scodella di becchime per i puleini. Una chioccia pettoruta regolava con grade dignità la distribuzione.

— Ma vi pare? — esclamò inorridito il dottor Fabrizi. — Ma vi pare che sia il caso di affidare ancora a Rosa certe faccende? Donna benedetta, dove avete il senso dell'opportunità? Vostra figlia sta per diventare contessa, fra quattro settimane salirà il trono…. (si corresse in tempo, ma Santo Iddio! aveva talmente negli orecchi il racconto quotidiano del conte Ademaro: « ….Una volta i Novelli-Casazzi tenevano corte e regnavano….») tra quattro settimane salirà come padrona le scale del palazzo più aristocratico del Friuli, avrà carrozze, cavalli, bei vestiti, ori; e voi seguitate a farle pascere le oche!… Donna benedetta, non capite che in queste quattro settimane bisognerà piuttosto che Rosa cerchi di elevarsi, di educarsi, di ingentilirsi, che so io?… di fare insomma dimenticare un poco che è una contadina? Mi capite? Oppure volete che il contino Folco si vergogni di lei?

— Sissignore….

— Come, sissignore? Sissignore che cosa?

— Eh…. dicevo: sissignore, ho capito…. Io non sapevo…. Mi regolerò secondo le sue idee….

— Donna benedetta, ci vuol tatto, tatto e tatto! In queste quattro settimane arrischiate di guastar tutto, se non mi ascoltate! E per colpa vostra Rosa perderà la sua fortuna….

— Madonna mia, per carità!

— Dunque ricordatevi: non più dar da mangiare ai polli, nè ai bovi, nè attinger acque alla fontana, nè lavare al torrente. E così pure certe dimestichezze colle ragazze del pacse da oggi in poi sono da evitarsi…. Avete capito?

— Sissignore, — rispose ancora Menica, rossa e confusa.

Rosa si avvicinava intanto lentamente tenendo per mano la sua piccola sorella. La sua figura si delineava nitida sul gran sfondo cupo degli alberi.

Ella era alta, svelta e nello stesso tempo formosa; la perfezione delle sue forme dava anche al suo incesso una compostezza e un'armonia che colpivano.

Il volto era bello, purissimo di linea, delicato di tinte, illuminato da due immensi occhi lionati. Una gran treccia bruna incorniciava quella radiosa purità di medaglia antica. Solo le mani e i piedi, un po' larghi e tozzi, rivelavano la razza.

Il dottore inforcò gli occhiali.

— Dio degli Dei! — esclamò. — È pur bella! Rosa, rosa, rosa di maggio, il suo nome è ben scelto! Ma che mi vengono raccontando di alberi genealogici, di quarti, di antenati, di nobiltà?… Questa è la nobiltà vera a cui m'inchino, l'unica, per Dio, che valga qualche cosa a questo mondo, la nobiltà della linea, l'aristocrazia della forma!… Dio degli Dei! Si può essere più belli di così? Di dove vi vengono, Rosa, quegli occhi? e quei capelli? e quei colori, Rosa di maggio?… Bellezza, bellezza! Per nulla gli antichi non ti erigevano dei templi!… Alma Venus!

La fanciulla si era accostata alla madre, arrotolando a testa bassa un lembo del grembiule scarlatto e riparandosi dietro quel baluardo. Ella arrossiva con imbarazzo alle declamazioni del dottore pur senza afferrarne completamente il senso; ad un tratto prese in braccio la sorella e nascose il volto fra i capelli di lei.

— Addio, addio, bella ritrosa! — rise il dottore, tirando un ricciolo della piccola che era fra le sue braccia. — Menica, siamo intesi: tatto, tatto e tatto! — e se ne andò.

Rosa depose a terra la bambinetta, e, sospirando di sollievo, si avviò verso la cucina.

— Rosa, che fai? — domandò timida la madre.

— Vado ad accendere il fuoco per la polenta, mamma.

— No, cara; — disse Menica, e arrossì, — questa sera lo accendo io.

La ragazza si voltò ed incontrò gli occhi della madre.

Ma anche la madre in quel momento guardava la figlia, e la guardava come se la vedesse allora per la prima volta e non dovesse rivederla mai più.

Un po' più tardi, verso il tramonto, gli uomini rincasarono, e le scodelle fiorate furono disposte sul desco.

Il padre incominciò a mangiare lentamente, senza parole, coll'appetito silenzioso e quasi religioso dei lavoratori; il maggiore dei fratelli, presa la sua scodella, sedette sotto il portico sulla scala a piuoli; l'altro, come d'abitudine, sulla soglia della cucina in compagnia del gatto. Rosa si mise a imboccare la piccola.

Una specie d'imbarazzo pesava su tutti.

Poi i fratelli s'incamminarono verso il paese, il padre entrò nella stalla, la piccola fu messa a dormire.

Rimasero sole, nel cortile, Rosa e la madre. C'era una panca, e la madre la spolverò col fazzoletto e accennò a Rosa di sedersi, poi sedette anch'ella, un po' discosto, in silenzio.

La casetta era là, dietro a loro, tacita e affumicata, vigilata dal gran pioppo. Il prato le si stendeva dinanzi, e in quel prato i meli erano carichi di frutta. La chioccia traversava il cortile con aria di importanza seguita dai suoi pulcini insonnoliti, il gattino nero si leccava la coda sull'uscio della cucina. Le prime lucciole apparivano e sparivano lungo le siepi.

— Perchè piangi, Rosa?

— Non so, madre.

*


Un telegramma da Napoli annunciò inaspettatamente il ritorno degli sposi quindici giorni prima del fissato.

Il conte Ademaro e il dottor Fabrizi andarono, con un tempo infame, ad attenderli alla stazione di Udine.

Entrambi cercavano d'interpretare, e commentavano, non senza una certa preoccupazione, il telegramma sibillino.

Il direttissimo da Roma era in ritardo.

Finalmente eccolo, rombante e sibilante; ecco Folco in spolverina e berretto da viaggio che sporge il capo dallo sportello, agita il fazzoletto, e ride colla sua gran bocca.

Rosa è un po' pallida, ma sorride anch'ella dietro al marito, avvolta in un velo grigio, in un lungo mantello da viaggio che dà alla sua silhouette dei contorni molli e indecisi.

— Lode a Dio, state bene! — esclama il conte Ademaro non appena gli sposi hanno messo piede a terra. — Come va che siete tornati senza compiere il vostro giro?

— Prima di tutto i denari erano finiti, papà, — risponde Folco; — eppoi sentivamo nostalgia di questi luoghi, di voi, della casa…. non è verò, Rosa?

— Sì; — annuì mitemente la nuova sposa, benchè non fosse ben certa del significato della parola nostalgia.

Lo suocero le si rivolse con gentilezza:

— Clemenza si scusa di non esser venuta anch'ella alla stazione, ma con questo tempo temeva per i suoi reumi….

— Grazie….

S'incamminarono tutti verso l'ufficio bagagli per lo svincolo dei bauli e delle cappelliere.

Pioveva a dirotto. La carrozza di casa Novelli aspettava, coi due cavalli bianchi divenuti pepe e sale dagli anni, e al suo fianco la carrozza del dottor Fabrizi si pavoneggiava della nuova vernice, colla baia piena di guidaleschi che riassumeva col suo aspetto tutte le amarezze e le delusioni della razza cavallina.

— Rosa sale col papà, io col dottore! « Divide et impera! » — esclamò Folco, citando a proposito e a sproposito.

Ed aiutati i due a salire nel « brougham », si attaccò al braccio del dottore e montò con lui nella carrozzella.

— Ma sapete che è un bel tipo mio padre! — proruppe egli non appena la baia si mosse. — Mi mette sulle braccia una donna…. come dire?… di una primitività selvaggia…. quale Dio fece, insomma…. me la veste da signora, mi dà del denaro e mi dice: « Gira il mondo con lei, va nei migliori alberghi; conducila nei musei, nei teatri, al caffè, divertiti e falla divertire!…» È enorme!… E poi si meraviglia che sia tornato prima del fissato! Ma un altro sarebbe tornato dopo due ore! C'è voluto il mio coraggio da leone, dottore mio, per resistere venti giorni! Una vita, caro amico!… Si tratta che ho dovuto incominciare a insegnare a Rosa a vestirsi, a sedere, a camminare, a mangiare, a salutare, a tacere…. ho dovuto imporle delle vere torture, abituarla a portare il busto, i guanti, il cappello, le scarpe, a mangiare il risotto colla forchetta ed il pesce senza coltello, a fare il bagno…. Auff! E vi assicuro che mi sono convinto che dev'esser più facile ammaestrare un individuo a rubare, ad assassinare, ad assaltare il prossimo per le strade, che ammaestrarlo ad essere puramente e semplicemente una persona civile. Eppure la poverina ci mette tutta la sua buona volontà…. Ma che volete? quando si crede di essere arrivati a qualche risultato, ecco l'imprevisto, l'imprevisto che vi spalanca davanti un abisso, che vi manda all'aria tutte le vostre speranze! Sentite questa. Otto giorni dopo il nostro matrimonio eravamo a Firenze e dovevamo partire per Roma col diretto delle tre. C'era tempo, e i bagagli erano stati spediti, il conto pagato…. io propongo a Rosa di fare a piedi il tratto dall'Hôtel alla stazione; ella accetta. Arriviamo, saliamo nello scompartimento; io guardo Rosa, e la vedo pallida pallida, quasi colle lagrime agli occhi. « Che cos'hai, cara? Ti senti male? » « No…. » « Ti ho dato qualche dispiacere? » « No…. » « Volevi rimanere ancora a Firenze? » « No…. no…. » « Ma insomma, che cos'hai? » « Mi leverei le scarpe »…. Tableau! Non vi dico « ma tête! » Tutto questo, capirete, si poteva evitare se il babbo e la mamma avessero avuto meno fretta, se non si fossero lasciati sobillare da don Evaristo. L'educazione di Rosa si sarebbe potuta iniziare prima delle nozze, e con un po' di tirocinio preliminare….

— Eh, caro mio, bella educazione avreste iniziato voi! Ci sarebbe stato da fidarsi!… Vostro padre ha avuto buon naso limitando il numero dei vostri colloqui da fidanzato!… Quanto alla fretta, voi oggi siete calmo, ragionate da persona assennata, ma allora, non ricordate più? Sembravate impazzito, sembravate un lupo arrabbiato…. « La voglio, la voglio e la voglio! » Si è dovuto far presto per impedirvi qualche follia.

— Sarà, sarà…. Del resto non sono mica pentito, sapete! Sono seccato, annoiato del mio viaggio, questo, sì. Ma per Rosa! Ella è un tale splendore, una così bella creatura…. Io non ho mai visto una donna più bella, più completa…. E sì che me ne intendo di donne! — rise egli, ammiccando cogli occhi lucidi e un po' velati egli uomini che la sensualità tiene come un giogo. — …. E con tutto ciò di una dolcezza, di una sommissione, di una docilità…. quale Dio fece, insomma! Ella è ancora la schiava davanti al padrone, la Griselda boccaccesca….

— Per carità, non vi metterete mica a fare il Gualtieri!

— Non c'è pericolo, mi piace troppo. Ah, bisogna venire in campagna per pescare donne simili! In città se n'è perduto lo stampo, e da un pezzo, amico mio!… Del resto anche come educazione, in questi venti giorni ha fatto miracoli. Vedrete.

Il tempo si era rasserenato. La villa Novelli appariva già, bianca nel folto degli alberi, col suo cornicione barocco e le statue rappresentanti fauni e deità disposte ad intervalli regolari lungo il muro del giardino. Era una villa vasta, di puro stile secentesco, col doppio giro di mura all'intorno, e un mirabile cancello in ferro battuto sormontato dallo stemma di famiglia. Le finestre del pianterreno avevano inferriate a bizzarri disegni e nel centro vi si ripeteva lo stemma. Una specie di porticato fatto di carpini intrecciati partiva dall'ala sinistra della villa e conduceva a una fontana ormai secca dove le lucertole passeggiavano indisturbate. L'ala destra, dove si estendevano i granai e le serre, faceva capo alla chiesetta, insigne per un coro intagliato dal Brustolon.

Dietro alla villa, nel centro di una grande prateria, un'altra vecchia fontana, ma viva, fresca, zampillante, contornata da grandi vasi di limoni e di cedri; in fondo alla prateria il labirinto, dove nessuno più si avventurava, inutile e silente fra le alte siepi di bosso. Tutto aveva un'aria ordinata, rispettabile e vecchiotta.

La contessa Clemenza aspettava gli sposi sulla gradinata, col suo bel vestito di seta nera, uno sciallino sulle spalle e i guanti. Ella aveva preparato il suo più amabile sorriso, e, aspettando, offriva a Dio quell'attesa, il raffreddore incipiente, le Avemarie ripetute mentalmente all'infinito.

Dietro ai vetri del guardaroba Giovanna, la cameriera, curiosa ed ostile, aspettava anch'ella, e commentava fra sè l'arrivo improvviso.

Il conte Ademaro aveva decretato, e in questo si era mostrato gran signore, che la nuova sposa fosse accolta e trattata in casa come fosse stata « una dei loro ».

Poichè l'avevano ritenuta degna di portare il loro nome, qualunque ne fosse il motivo, ella doveva essere rispettata e considerata come una figlia. Ad evitare malintesi e pettegolezzi, egli aveva persino preso la draconiana misura di licenziare tutta la vecchia servitù, tranne Giovanna, in vista dei suoi vent'anni di servizio e del suo attaccamento alla contessa Clemenza: tutti gli altri crano stati congedati e sostituiti. E il conte dava per primo esempio di deferenza verso la nuora, chiamandola sempre: « mia figlia » quando parlava dell'assente in presenza di terzi, e qualche volta anche: « la contessina », il che, bisogna dire a onor del vero, non riesciva mai a pronunciare ben chiaro senza trangugiar la saliva.

Le carrozze erano arrivate. Non pioveva più. L'arcobaleno tingeva dei sette colori il cielo fresco. Folco scendeva d'un balzo, colla spolverina svolazzante, e colle sue lunghe gambe d'un balzo saliva la gradinata.

— Mamma, mamma, siamo qui, ti conduco la sposa!

La sposa saliva composta e modesta a fianco del conte Ademaro, con un sorriso mite e timido sul bel viso improvvisamente divenuto di porpora. Giunta sul penultimo gradino, prese la mano della suocera e la portò alle labbra.

— No, no…. che fai?…. Cara figlia…. — disse la contessa Clemenza, e la baciò in fronte. Poi la guardò socchiudendo molto gli occhi.

Entrarono in sala. Comparve il cameriere col vassoio del caffè e i biscottini. Tutti sedettero nelle poltroncine che avevano ospitato nelle loro comode braccia quattro generazioni di Novelli-Casazzi. Altri Novelli-Casazzi, togati, incipriati, dai grandi orecchi sporgenti, guardavano, chiusi nelle vecchie cornici.

— Cara, — disse la contessa Clemenza rivolgendo la parola alla nuora, — vi siete divertiti a Roma?

— Abbastanza….

— E Napoli vi è piaciuto?

— Abbastanza….

— Come, abbastanza? E il mare?… e il Vesuvio?… — esclamò scandalizzato il dottor Fabrizi trinciando ammirativamente l'aria colla mano.

La nuova sposa guardò il marito e arrossì. Folco le aveva insegnato che « una persona fine non deve mai manifestare vivacemente il proprio piacere, nè il proprio disgusto, nè, sopratutto, la propria sorpresa ».

Ella finì di sorbire il caffè a occhi bassi, dritta sul busto, senza versarlo sul piattino, correttissimamente.

— Ma avrete bisogno di salire nelle vostre camere, di riposare un po', non è vero? — ammonì il conte Ademaro. — Noi siamo dei grandi egoisti a non ricordarci che avete fatto nove ore di viaggio!…. Folco, suvvia, conduci tua moglie nel vostro appartamento!

La contessa Clemenza lasciò passare il figlio e si appoggiò al braccio della nuora. Il cameriere era impietrito col vassoio in mano.

— Cara, — disse la suocera salendo le scale, — voi siete arrivati così improvvisamente, che non si è potuto festeggiare in nessun modo il vostro ritorno. Ma Ademaro vuole presto invitare ad un déjeuner…. a una colazione…. quei pochi parenti che ancora ci restano…. Il tuo corredo è stato combinato così in fretta che tu non hai nessun vestito adatto alla circostanza, ma domani ne ordinerò uno a Torino, e quando l'avrai….

— Oh, signora!

— Chiamami mamma, cara, — corresse la suocera affabilmente; e continuò a bassa voce: — Spero che ti troverai bene con noi. Don Evaristo mi ha detto che tu sei molto pia, molto devota, e questo mi fa tanto tanto piacere. Io conto su di te per richiamare Folco alle pratiche religiose che da tanto tempo trascura…. Se tu potessi ottenere che si confessasse almeno una volta al mese….

— Rosa, Rosa! — chiamò Folco dall'alto delle scale, spalancando l'uscio della camera nuziale. — Ecco il nido!

*


Giovanna depose sulla tavola una grande scatola di cartone timbrata di ceralacca.

— Signora contessa, deve essere la toilette da Torino.

— Avverti subito la contessina, — disse la contessa Clemenza affrettandosi verso la scatola e tagliando colle forbici lo spago.

Rosa accorse premurosamente.

— Sei contenta, cara? — chiese la suocera sollevando con precauzione le carte veline e togliendo i rigonfi dentro alle maniche.

— È anche troppo bello per me, mamma: — disse la sposa.

Il vestito infatti era molto ricco; di una tinta giovanile, e, « nello stesso tempo », seria, — commentava la contessa Clemenza — di una forma nuova, e, « nello stesso tempo », distinta; di un raso bleu electrique coperto di tulle festonato e ricamato.

— Naturalmente bisogna saperlo portare, — disse sottovoce la contessa Clemenza quasi rispondendo a un suo intimo soliloquio, e guardò Rosa socchiudendo molto gli occhi. — È molto bello, molto fine, — continuò in fretta avvicinandolo a sè quasi da toccarlo. — Spero che ti stia bene. La colazione è fissata per sabato venturo, abbiamo dieci giorni di tempo.

E di nuovo ella guardò Rosa con una certa esitazione.

Rosa, che indossava una semplice camicetta di batista ed una corta gonna grigia, non sembrava affatto a disagio ed era molto bella, ma i suoi occhi si attaccavano allo strascico del nuovo vestito con così evidente angoscia, che la suocera trovò opportuno di rincuorarla ripetendo: — Abbiamo dieci giorni di tempo.

— Temo che non sarà possibile presentarla nemmeno sabato…. — sospirò la contessa Clemenza, rivolgendosi a Giovanna, non appena Rosa si fu allontanata colla scatola.

— Perchè, contessa?

— Perchè non può, non sa…. Che vuoi che ti dica? Non è ancora a posto, insomma.

— Ma contessa! — redarguì famigliarmente la cameriera. — In poco più di due mesi, siamo giusti, vuole che faccia miracoli? A me pare che si sia ridotta anche troppo, poverina!… Uno che non sapesse, non direbbe mai…

— Eh sì! Ma tu conosci la…. finezza…. di mia cugina Grola: io tremo, tremo per quella colazione! E Ademaro ci tiene in un modo!

— Si dia pace, si dia pace, vedrà che tutto andrà bene! — predisse Giovanna.

Ormai l'ostilità della vecchia donna era caduta davanti alla dolcezza, alla bontà, alla modestia della nuova sposa. Chi poteva voler male ad una creatura che non apriva bocca se non per sorridere e per ringraziare, che non aveva volontà, che non aveva esigenze, che non aveva civetteria, disposta sempre alla condiscendenza, alla gentilezza? Le armi più acute e più velenose si sarebbero spuntate. Ella era piena di riguardi e di deferenza verso la suocera, che seguiva nelle interminabili novene, nelle interminabili visite agli altari; piena di premura e di pazienza per lo suocero cui teneva compagnia per ore e ore ascoltando senza batter ciglio ogni giorno la stessa storia sul « periodo più florido della famiglia Novelli-Casazzi ». E col marito, sempre eguale, obbediente, sorridente, gentile, pronta ad accorrere alla sua chiamata, disposta a tacere e a restare nell'ombra se egli la dimenticava.

— Certo, per lei è stata una bella fortuna, — diceva Giovanna nei verbosi pranzi della servitù, — ma anche il contino Folco può baciarsi la mano dritta e rovescia per aver trovato un angelo simile! Un vero angelo di bellezza e di bontà, mentre lui, siamo giusti, per brutto è brutto, ed ha fatto una vita, ha una salute!… Libera nos, Domine!

— Ti dispiacerebbe, cara figlia, — chiese il conte Ademaro alla nuora un pomeriggio, mentre egli era immobilizzato sulla poltrona da uno dei suoi soliti attacchi di gotta, — ti dispiacerebbe che ti chiamassi Eufrasia, anzichè Rosa? Eufrasia è un nome…. come dire?… più distinto, e ricorre spesso nella nostra famiglia…. Difatti anche nell'albero….

— Se le fa piacere, babbo!

E da quel giorno ella era stata Eufrasia. Per tutti, fuorchè per Folco che la chiamava Nini, Cici, Seli e Suni, tutto, tranne che Rosa. Il suo nuovo nome le costava molti sussulti e rossori improvvisi, perchè non sempre se ne ricordava, e spesso tardava a rispondere, e poi rispondeva precipitosamente, trasalendo; ma che importa?

— Un po' per volta…. — diceva lo suocero.

— …. Ti dispiacerebbe, cara, — diceva la suocera, — pettinarti così, guarda, come questo figurino? Tu hai dei capelli splendidi, ma li disponi con troppa semplicità e non figurano…. La tua modestia è lodevole, ma pensa che devi piacere sempre più a Folco, e sembrargli, oltre che bella, anche elegante….

— Proverò, mamma.

La suocera le dava un'enorme soggezione, per quel suo passo silenzioso, per quel modo di guardare socchiudendo gli occhi, per l'abitudine di far precedere da un « cara » ogni suo discorso, per quei guanti soprattutto, che non toglieva mai.

— …. Bisognerà che tu prenda qualche lezione di francese, amor mio, — consigliava Folco; — non per impararne gran cosa, ma almeno quelle frasi fatte che cadono ad ogni passo nella conversazione abituale…. Non saprei…. « Le jeu ne vaut pas la chandelle; Honny soit qui mal y pense; A tout seigneur tout honneur…. » Capisci?… Per poterle poi dire con noncuranza quando ne capita l'occasione….

Non ci voleva che la testa vuota del contino Folco per progettare di far insegnare il francese a una che non sapeva neppur l'italiano, che a stento correggeva le ruvide cadenze del dialetto natìo con uno sforzo continuo ch'era un martirio; ma Rosa non si era opposta, anzi aveva ringraziato, e la maestra aveva incominciato a venire da Udine due volte la settimana. Una svizzera dura e stecchita col cappellino alla Lobbia e la penna di gallo, che non guardava mai in viso la scolara, e le faceva ripetere all'infinito:

— La rose - la rosa. La fleur - il fiore. La mort - la morte. La faim - la fame. Plus de nez, plus de nez, madame la comtesse!

— …. Avete mai tentato, figlia mia, di farvi accompagnare alla chiesa dal conte Folco quando vi ci recate per le vostre devozioni? — bisbigliava don Evaristo nella penombra del confessionale. — L'influenza di una giovane sposa è grande sull'animo del marito, e se voi voleste….

— Rosa di maggio, — le diceva il dottor Fabrizi quando gli riesciva di coglierla sola, sulle scale, o in giardino, — siete felice? Vi trattano bene?

— Sì, sono felice, mi trattano bene! — rispondeva ella arrossendo; e scappava da quegli occhi acuti e si metteva alla finestra della sua camera a guardare. Aveva scoperto un vecchio canocchiale da marina che il conte Ademaro aveva comperato illo tempore quando aveva fatto il suo famoso viaggio a Tunisi. Senza che nessuno le insegnasse il modo di adoperarlo ella aveva imparato ad allungarlo e a dirigerlo dalla sua finestra qua e là sui poggi vicini fino a un gran pioppo, di cui la vetta ondeggiava sovra tutti gli alberi. E come l'autunno avanzava, e fe foglie cadevano, e di tra gli alberi quasi spogli si poteva vedere molto lontano, un giorno ella distinse presso al pioppo un tetto, e un pennacchio di fumo, e…. le parve?… nel cortiletto un gonnellino rosso e due gambette nere a lei ben note….

Ogni giorno all'insaputa di tutti ella guardava, ed il suo cuore ingenuo, imprigionato dal busto, occultava con trepida gelosia il segreto di quella finestra, di quella lente, e di quella felicità.

La vigilia del sabato fissato per la colazione dei parenti, Folco, salendo a quattro a quattro i gradini della scala, arrivò alla stanza nuziale e la trovò chiusa di dentro. Di dentro si sentiva un rumore regolare e quasi cadenzato di passi.

— Suni, apri, sono io.

La maniglia girò, e comparve Rosa, molto rossa e confusa, coi capelli arruffati, e il terribile vestito bleu electrique incompletamente agganciato.

— Che fai? — chiese Folco scoppiando in una risata.

— Non dirlo a nessuno! — supplicò lei. — Sto provando il vestito…. per…. per imparare a portarlo…. Domani vengono i tuoi parenti a colazione….

— Oh, bambina cara! — fece egli afferrandola alla vita e coprendola di baci. — Ma come va che questo vestito gira tutto di traverso? Eh! sfido io!… l'hai messo a rovescio…. hai la schiena sul petto! — E lì nuova risata e nuova pioggia di baci.

— Per carità, Folco, lo sciupi! — pregava Rosa schermendosi.

Folco l'obbligò a togliersi il corpetto e a rimetterlo per il suo verso.

— Va bene così? — chiese ella.

— A me piaci meglio senza, — le sussurrò all'orecchio il marito cogli occhi lucidi.

— Credi…. credi…. che la mamma troverà…. troverà…. che so portarlo?

— Io credo di sì, tesoro! — rispose Folco, e l'abbracciò.

Il giorno dopo, alle undici e tre quarti in punto, ecco la campana della portineria che annuncia l'arrivo dei parenti.

Il barone e la baronessa Grola, don Giovanni Novelli (del ramo cadetto) priore dell'Abbazia di Grugliasco, il conte Fiano.

— Questi sono gli unici parenti stretti che ci restano, — disse il conte Ademaro solennemente non appena gli ospiti furono seduti in circolo intorno a un tavolo carico di biscotti e di caraffe di vermouth.

E come soleva dirlo ogni volta che si trovavano riuniti, tutti, compreso don Evaristo e il dottor Fabrizi, accolsero la notizia in dignitoso silenzio. Anzi il dottor Fabrizi pensò irriverentemente: Gli altri parenti se li è mangiati l'albero.

Incombeva su tutti quel silenzio un po' nervoso che precede le colazioni.

— Folco, Eufrasia sa che sono arrivati? — chiese il conte Ademaro per ravvivare l' ambiente.

— È tanto cara…. — sussurrò la contessa Clemenza alla baronessa Grola. — « So lieblich…. », — ripetè poi ricordando che la cugina, tedesca di Haufbeuren, dopo trent'anni che era in Italia non capiva ancora bene l'italiano.

La porta si aperse e comparve Rosa, col viso rosso come una fragola matura, pettinata da Giovanna con lungo studio e lungo soffrire, colla corona comitale sul petto, abbigliata col vestito di raso bleu electrique.

Vi fu un attimo di silenzio. Lo strascico ondeggiava qua e là abbastanza disinvolto. Tutti gli occhi si posarono su di lei e decretarono all'unanimità: Non sa portarlo.

E anche le credenze panciute, e le poltrone rococò, e le terraglie allineate sulla mensola ammiccarono fra loro e dissero: Non sa portarlo.

E tosto gli occhi di tutti saltarono dal vestito terribile alle sue grosse mani.

— Mia figlia…. la nostra cara figlia…. il barone e la baronessa Grola…. don Giovanni Novelli…. il conte Fiano….

— « Schr hübsch! sehr hübsch! » — squittì la baronessa Grola con un sorriso che pareva una smorfia.

Baci e strette di mano. Il cameriere entra ad avvertire che la colazione è servita. Tutti passano in sala da pranzo. Seggono. La baronessa Grola ispeziona Rosa coll'occhialetto.

— « Sehr hübsch! sehr hübsch!… »

Per fortuna la zuppa fragrante di erbaggi e di crostini dà una nuova meta all'attenzione generale. La conversazione riprende e si fa tosto più gaia. Rosa parla poco; ella è seduta fra il barone Grola e don Giovanni Novelli; tutti i suoi sforzi sono rivolti a tagliare con nobiltà un'ala di pollo.

Il dottor Fabrizi che beve molto e mangia poco, gira lo sguardo intorno alla tavola e pensa: Perbacco! O ella è troppo bella per loro, o essi son troppo brutti per lei.

Folco sembra un vecchio, una scimmia perfezionata, più allampanato del solito, colla gran bocca che mostra i denti radi di cui uno tutto d'oro, le basette rossiccie sulle forti mascelle, due grandi orecchi sporgenti; la suocera scolorita, colle mani riparate dai guanti e gli occhi cisposi; il conte Ademaro, grande, grosso e panciuto, coi capelli rossi e il colorito acceso dei gottosi; il barone Grola col cranio lucido come una palla da bigliardo, il monocolo, e la dentiera posticcia; don Giovanni, un'ombra, un cero, uno spettro, colle mani lunghe, adunche, e venate; la baronessa col naso rincagnato e le enormi guance tedesche….

— O ella è troppo bella per loro, o essi sono troppo brutti per lei. Fatto sta che non armonizza coll'ambiente, che fa l'effetto di una pennellata troppo audace in un quadro dalle tonalità tutte grigie. La sua bellezza che si intonava mirabilmente colla verde freschezza dei prati, così perfetta da non temere la gran luce del sole, così viva da non temere il confronto delle rose, sorella dei fiori, delle acque, degli alberi stormenti al rezzo di primavera, qui urta lo sguardo e lo spirito come una nota di troppo squillante gioia. Questo ambiente, anzichè incastonarla come una gemma, l'opprime, la schiaccia. Evidentemente, essi sono troppo brutti per lei….

Ma in verità quel giorno Rosa non era bella affatto. La sua testina, dalla linea cosi svelta e pura, spariva sotto un castello di ricci, il collo bianco e lungo era strangolato da un alto colletto di trina, il viso era troppo rosso, la linea scultoria della sua figura era nascosta e ingoffata dalla doppia tunica di raso e velo.

Ogni volta che alzava gli occhi ella vedeva rivolto su di sè il terrificante occhialetto della baronessa Grola, e maggiormente arrossiva. La baronessa Grola sbucciava con forchetta e coltello l'uva zibibbo.

Finalmente, come Dio volle, la colazione senza incidenti ebbe termine. E fu proposto di prendere il caffè in giardino sotto il pergolato di carpini. Folco si attaccò al braccio della sposa e le afferrò anche una mano accarezzandole il polso e salendo su verso il braccio. Ella si fece di bragia e timidamente si svincolò.

Sotto al pergolato sedettero intorno ad una tavola di marmo inverdita e annerita dalle piogge e dalla borraccina, e il conte Ademaro incominciò una interminabile storia « di famiglia ».

Tutti cadevano dal sonno, accasciati di noia e di cibo, ma si tenevano in dignitosi atteggiamenti sui duri sedili di marmo, ed ogni tanto, a proposito o a sproposito, facevano col capo cenni d'approvazione.

— Sì, tutti i primogeniti della famiglia Novelli-Casazzi erano cavalieri dell'Ord….

In mezzo a quel monotono stillicidio di parole un lungo sbadiglio s'intese, ma lungo, largo, plebeo, di quelli che servono di biglietto di presentazione.

Il conte Ademaro si arrestò di botto. Tutti allibirono.

Un attimo. Agli occhi socchiusi della suocera, all'occhialetto brandito come un'arma dalla baronessa Grola, gli occhi di Rosa risposero sereni, incoscienti.

Il conte Ademaro riprese, guardando i carpini:

— Erano cavalieri dell'Ordine di San Michele Arcangelo….

— Cara, — disse la suocera, — vorresti prendere i biscottini e offrirli al conte Fiano?

Rosa si alzò, inciampando un po' nello strascico, e si diresse verso il vassoio che il cameriere aveva posato sull'orlo della fontana. E all'improvviso gli occhi le si velarono ed ella cadde lunga distesa sull'erba.

Tutti diedero un grido e accorsero.

— Non fate confusione, non è nulla! — disse il dottor Fabrizi con autorità. — Probabilmente questo…. questo deliquio…. è apportatore di una buona notizia.

E da quel momento Rosa divenne una creatura sacra.

*


— Dato che certi desideri, certi capricci, della futura madre durante la gravidanza possono costituire delle vere sofferenze se non appagati nei limiti del possibile, e for-se an-che recar nocumento al nascituro, io consiglierei alla contessa Clemenza di accontentare la contessina, — sentenziò il dottor Fabrizi.

— Vorrei quella di casa…. — azzardò con voce appena intelligibile la gestante.

— Cara, — rispose la suocera, — la polenta è sempre eguale dappertutto. Farina, acqua, sale….

Dopo una lunga attesa comparve Giovanna con un vassoio d'argento, e sul vassoio un piatto, e sul piatto una salvietta, e sulla salvietta un quadratino giallo della grandezza di una fetta di crema. Sulla salvietta erano ricamati in rilievo la corona e lo stemma dei Novelli-Casazzi, e la polenta ne aveva ricevuto al rovescio la chiarissima impronta.

Anche lì!… Due occhi desolati si posarono sulla polenta e sulla corona.

— Bada di masticarla bene, — raccomandò lo suocero; — che non ti riesca pesante allo stomaco.

Egli era raggiante. Le parti adesso erano invertite: siccome la nuora, molto sofferente, lasciava di rado le sue stanze, era lui che andava a tenerle compagnia, animato dall'intenzione di « svagarla » coi suoi racconti « di famiglia », ma cadendo sempre a parlare del bimbo, dell'aspettato, del piccolo Ademaro promesso…. Che fosse una femmina non gli passava neppur per la mente: era un maschio, « doveva » essere un maschio; e se pure qualche volta l'incresciosa possibilità gli si affacciava, celava gelosamente il suo dubbio col superstizioso terrore che parlandone divenisse realtà.

Quanto a Rosa, ella non pensava al sesso; diceva: il bambino…. e non andava più in là. Tutto il suo pensiero, tutto il suo cuore, tutta la sua vita, erano chiusi nel cerchio magìco di quella parola.

…. Due piccole manine, due piccole braccia tenere segnate all'ingiro dagli anelli, una, testina tonda come una mela che si appoggiasse sulla sua spalla colla leggerezza e il tepore d'un uccellino….

E finalmente lo suocero e lei s' intendevano, non avvertivano più barriere, non avvertivano più stonature: erano un solo cuore, un solo sangue per quel piccolo essere desiderato.

L'entusiasmo e la contentezza del conte Ademaro erano tali che arrivava perfino a fantasticare sulla possibilità di nobilitare la nuora.

— Un po' per volta Eufrasia si farà una vera signora! — aveva confidato al dottor Fabrizi. — E chissà che non riesciamo a mettere anche lei « nell'albero »! …. Sst! Silenzio con tutti!… Ci sarebbe a Napoli un nobile decaduto disposto ad adottarla (naturalmente gli ho fatto parlare da terzi colla dovuta circospezione), ma ci vuole l'assenso dei genitori veri, e quel testardo del vecchio Bombarda, cui ho fatto avanzare mezza parola da don Evaristo, non ne vuole sapere…. Basta! intanto speriamo che la cosa più importante vada bene…. Che ne dite, dottore?

— Speriamo, speriamo.

Ma la salute di Rosa gli dava veramente un po' di pensiero.

Ella era pallidissima, cogli occhi segnati da profonde occhiaie, pativa d'un'insonnia feroce, mangiava poco e svogliatamente, e spesso era colta da deliqui che duravano a lungo.

Uno specialista venuto da Torino aveva prescritto l'assoluto riposo e una dieta leggera, quasi liquida.

Rosa era dunque relegata nella sua camera e si moveva languidamente dal letto al divano, avvolta in un'ampia veste sciolta, colla treccia bruna sulle spalle. E quella camera era divenuta il quartier generale della famiglia.

Il conte Ademaro vi passava quasi l'intera giornata, tranne la solita ora dedicata al dottor Fabrizi, al tresette e al vin bianco; Giovanna andava e veniva quanto più spesso poteva, trattenendosi ogni volta, quando altri non c'era, a dare un nuovo consiglio, a fare una nuova raccomandazione.

— Se lo allatti lei, sa, contessina! Non si lasci montar la testa dalla moda e dal contino Folco. Il marito è il marito, ma la propria creatura passa innanzi a tutti!

E un'altra volta:

— Non lasci che gli mettano nome Ademaro! Ce ne son sette con quel nome sepolti nella cappella…. Porta disgrazia!

E ancora:

—Speriamo che somigli a lei, e che sia bello come lei.

La contessa Clemenza aveva trasportato la sua cesta da lavoro, le sue sete e i suoi merletti, nella stanza della nuora, e ci veniva ogni mattina, sedeva presso alla finestra, toccando quasi col naso la finissima tela, tirando l'ago lentamente ma indefessamente colle sue mani inguantate e miracolose.

Cuffiette rosee e cilestrine, morbide, tutte merletti; camicine trasparenti inghirlandate allo scollo da un leggero ricamo a passata, coperte soffici, di raso azzurro e di raso bianco, su cui il grande stemma verde e rosso dei Novelli-Casazza metteva una nota violenta, coi due grifi rampanti….

Rosa ammirava e taceva.

Ora, sì, ora, ella sentiva la sua fortuna. Che la sua creatura avesse quelle cose belle, che venisse al mondo in tanta gioia d'attesa, che non conoscesse mai la miseria, le privazioni, la volgarità che accompagna il bisogno….

Ella non poteva lavorare per « lui ». Quand'era a casa, non aveva cucito che dei sacchi, ed ora, solo toccando i tessuti meravigliosi che componevano il corredo del suo piccolo, ella temeva di sciuparli….

Dalla finestra, di tra gli alberi che gennaio aveva liberato ormai da ogni fronda, si sarebbe ora potuto veder chiaramente la casetta dei suoi, ma ella non guardava più, il cannocchiale dormiva dimenticato. Quando era sola ella parlava col suo bambino; le sue mani posavano sul ventre enorme e aspettavano trepide le pulsazioni del piccolo essere, tentavano quasi di indovinarne e di accarezzarne la forma. Il suo volto dimagrito raggiava di felicità, le sue sofferenze le erano care.

— Come stai, Suni? — chiedeva Folco affrettatamente quando rincasava dalle sue corse in carrozzino.

— Sto bene, — rispondeva sempre la gestante, e gli sorrideva.

Gli sorrideva con occhi un po' assorti, quasi scuotendosi da un sogno, tornando a fatica dal dolce paese dove era stata con lui.

Dacchè ella era incinta Folco era meno affettuoso e si faceva vedere di rado, aveva ripreso quasi la vita di scapolo.

Andava a Udine ogni sera colla charrette e rincasava assai tardi; forse aveva ripreso a giuocare; qualche volta si assentava per pomeriggi interi raccontando poi che era stato qua e là nelle ville vicine al tennis o allo skating.

E quando tornava, Rosa gli sorrideva, e non una parola di rimpianto nè una domanda curiosa uscivano dalle sue labbra.

Qualche volta ella sorrideva anche quando era sola, sorrideva a quello che era in lei, a quello che la faceva soffrire, che la faceva trasalire dei suoi sussulti, al piccolo cuore che pulsava del suo cuore: con così intensa felicità, così disperata speranza quale non tutte le madri conoscono.

Che cos'era lei senza quel bimbo? e quel bimbo che cos'era per lei?

Ella non era, non poteva essere, che mamma; e lo era tanto: ferocemente, appassionatamente, prima ancora ch'« egli » nascesse!

Un'alba finalmente « egli » arrivò.

Vagì, agitò i pugni chiusi, contrasse il piccolo viso rosso e rugoso.

Una donna dai capelli grigi e dall'aspetto tranquillo lo prese delicatamente e lo immerse nel bagno tiepido. Era un maschio.

La contessa Clemenza porse i lini, la cuffietta; Giovanna rimboccò la coperta stemmata della piccola culla; il conte Ademaro lo guardò con muta estasi.

Di là intanto la madre stava fra la vita e la morte.

*


Una donna vestita di rosso cogli spilloni d'argento in testa presentò alla puerpera il piccolo essere incipriato e infioccato come un agnellino pasquale.

Rosa, pallidissima, appoggiata ad una montagna di cuscini, tese le braccia e prese il neonato.

Glielo portavano soltanto nelle ore dei pasti, perchè ella era stata molto malata e non lasciava ancora il letto, e il dottor Fabrizi aveva acconsentito a lasciarglielo allattare solo col patto che fosse ragionevole e permettesse ad una balia asciutta di averne cura durante la giornata e la notte.

Rosa, dinanzi alla minaccia di prendere una nutrice se non voleva accettare quei patti, aveva ceduto.

Di solito il bimbo entrava nelle stanze materne strillando. Egli era molto buono, dormiva per ore e ore, ma quando si svegliava aveva fame e gridava disperatamente per darne l'all'arme.

Quel giorno invece egli era sveglio e non piangeva. Girava qua e là gli occhietti grigi, e un po' di bava gli scendeva sul mento e sul bavaglino ricamato.

— Che vuol dire, così buono, così silenzioso? — mormorò Rosa appoggiando teneramente il volto a quello di lui.

Per tutta risposta dal grosso batuffolo di flanella e trine uscirono acuti vagiti.

— Ho capito, ho capito! — disse Rosa; e si slacciò il corpetto, gli porse il seno.

Avidamente le labbra della creaturina cercarono sulla dolce carne materna il capezzolo morbido e lo afferrarono.

Nell'avidità di suggere il latte gorgogliava, passando, con un piccolo rumore; le manine si agitavano confuse.

A poco a poco il poppare si fece meno intenso, gli occhietti si velarono di stanchezza, e infine, il grosso batuffolo di flanella e trine, ben sazio e pago, senza lasciare il capezzolo si addormentò.

La donna vestita di rosso si avvicinò cautamente al letto e attese che la madre glielo rendesse. Ma Rosa era assorta, in una immobilità di statua, coi raggianti occhi sul figlio.

Entrò la contessa Clemenza, sorridente, seguìta da Giovanna che recava una tazza di brodo e una tazza di caffè; entrò il conte Ademaro in punta di piedi, facendo scricchiolare il pavimento.

Rosa alzò gli occhi e li vide tutti intorno al suo letto nell'attitudine dell'attesa e dell' adorazione.

— Lasciatemelo questa notte! — supplicò. — Vedete, dorme. È tanto buono. Non mi darà nessuna noia. Lo metterò accanto a me sul letto grande. Se vi sarà bisogno, chiamerò Teresa. Lasciatemelo!

— E se torna Folco? — chiese la suocera.

— Folco non dorme in casa da tre notti, — rispose Rosa tranquillamente, — e se tornerà stanotte darò il bambino a Teresa. Lasciatemelo! — supplicò. E c'era tanto ardente fervore nella sua preghiera che il conte Ademaro e Giovanna si lasciarono intenerire. Il loro parere prevalse.

Uscirono tutti, Giovanna ultima, dopo aver posato le tazze sul comodino e aver raccomandato tre volte alla puerpera di non dimenticarsi di bere il caffè e il brodo durante la notte.

Dopo la terza raccomandazione augurò la buona notte a lei e al fantolino, abbassò la veilleuse, e se ne andò.

Appena fuori s'incontrò, e per poco non urtò, nel contino Folco che, con zampe di velluto, traversava frettolosamente la stanza da toilette avviandosi verso le scale. Era in smoking, colle basette arricciate, un colletto inverosimile, le scarpine di vernice.

— Dove va, così bello? — domandò la vecchia donna senza tanti preamboli. — Non entra a salutare la contessa e il « piccinin »?

Folco alzò le spalle.

— Il « piccinin », il « piccinin », il « piccinin »! Ne ho un'indigestione io del « piccinin »! Lo amo, lo venero, e lo rispetto, ma qui è diventata una mania, non si può più vivere! Non si parla, non si vive, non si respira che pel « piccinin »! Avete tutti perduto la testa?!! Di' a mio padre, se è lui che t'incarica di farmi delle ambasciate, che io mi sono sposato per me, non per il « piccinin »! che non ho l'albero di traverso, io, come lui, ringraziando il cielo!… E da oggi in poi impara a pensare ai fatti tuoi; hai capito, Giovanna?

E prima ch'ella avesse tempo di rispondere la piantò in asso, colla bocca spalancata.

Il carrozzino attendeva. Giovanna sentì il trotto del poney, e la voce del contino Folco fischiettare, stonatissima:

Io voglio il piacer, le belle donzelle!

Chiuse gli usci uno dopo l'altro perchè la voce non arrivasse a chi in quel momento non avrebbe sentito neppur lo schianto di un fulmine.

La madre e il neonato, per la prima volta erano rimasti soli.

Ella non gli tolse il seno. Disgiunti e uniti.

Dalla lampada notturna pioveva una queta luce.

…. Tepore dal seno materno a cui ancora la fresca guancia si posa, divina innocenza di quel sonno, incoscienza divina, inesprimibile profondità dello sguardo materno, inesprimibile felicità, sogno, realtà, speranza, dolcezza, unica verità, unico bene, unica estasi a nessuna altra eguale….

…. Tu dormi, piccoletto, ed ella ti guarda. I suoi occhi ti baciano, i suoi occhi ti accarezzano.

Manine, capelli, dolci occhietti chiusi, sentite la carezza?

…. Lo sai? Ella ti parla.

Ti parla nel suo dialetto natìo.

Ti dice le parole che sua madre disse a lei, quando era in fasce, sotto il gran pioppo, e che ella non ha capite, ma « sa ».

Ti dice le parole che sua nonna disse a sua madre, quando era in fasce, sulla montagna, e che ella non ha udite, ma « seppe ».

…. Senti? Ti canta la ninna-nanna che a lei cantarono.

Vê chê gracie che inamòre Cun chê boche de melùz: Cui îsal chê no us adore A vedê chei biei lavruz? Benedete sei chê boche? Agnulùt dal Paradis, Rîd un pôch cun chê boçhute

…. Senti? Ti racconta una storia.

…. « Come il pioppo s'inchina e come ondeggia presso una tacita casetta…. come ride e come serpeggia il ruscello fra i pascoli…. e come argentino suona il campanello della pecora più grande, quella che guida il gregge….

Quanto sono belle le storie che ella ti racconta!

Chi te ne racconterà di più belle?…

Quanto sono dolci i suoi occhi che ti guardano!

Chi ti guarderà più dolcemente?… Chi ti darà tanto amore?

Dormi, dormi, piccoletto!
Vita, non lo destare!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

*


La vecchia Giovanna corse incontro al dottor Fabrizi non appena sentì le sonagliere della baia da lontano.

Lo raggiunse sotto i carpini in giardino.

— Il bambino va peggio — diss'ella affannosamente — ed anche la contessina sta male; è in uno stato!… Stanotte il contino è rincasato alle tre; pare che fosse brillo, e voleva che la signora andasse a letto, mentre essa, dacchè il piccolo è malato, passa le notti sulla poltrona nella stanza di Teresa. Pare che la signora si sia rifiutata, fatto sta che il contino le ha fatto una scena, le ha detto delle cose…. La signora ha sempre taciuto, con una pazienza da santa, finchè a un tratto il bimbo s'è svegliato di soprassalto piangendo, e allora!… Teresa le dirà meglio. Teresa dice che non ha mai visto la contessina così, lei che è tutta dolcezza, tutta mansuetudine, tutta obbedienza. Pareva una furia. Il conte Ademaro è accorso alle voci, ma ormai il contino se n'era andato, e lei, l'ha trovata svenuta lunga distesa ai piedi della culla. Ora sta meglio, ma è così pallida che sembra una morta. Ah, dottore, che strazio! La sconta, sì la sua fortuna!… Venga, venga presto con me, per carità!

— Dov'è il contino? — chiese il dottore affrettandosi verso la gradinata.

— Dorme, il furfante, — rispose ruvidamente la vecchia donna, — e quando si sveglierà non si ricorderà magari più di nulla. E intanto gli altri!…

Nella penombra della stanza la culla tutta veli biancheggiava come un'enorme farfalla.

Il piccolo Ademaro giaceva fra le trine, sveglio, colla testina affondata nel guanciale, e gli occhi aperti, due occhietti un po' opachi, un po' torbidi, senza vivezza. Il labbro inferiore sporgeva un po', cadente, scoprendo due dentini. Una leggera peluria bionda si arricciava sulla testa, sbucava fuori dalla cuffietta guarnita di nastri celesti.

Tratto tratto il piccolo emetteva un lagno, fievole fievole, moveva languidamente le mani, e nulla era più penoso che l'aspetto di quella sofferenza che non aveva neppur la forza di piangere.

Dopo otto mesi di vita rigogliosa, quasi esuberante, dopo che il visetto era diventato roseo e tondo come una mela, dopo che due dentini erano apparsi ad abbellire la boccuccia, dopo che gli occhietti avevano imparato a riconscere gioiosamente la madre, un deperimento improvviso, un arresto, una debolezza inspiegabile, l'avevano abbattuto così in poche settimane.

Il dottor Fabrizi si avvicinò alla culla. Rosa era là, pallidissima, ma tranquilla. Il bimbo pochi istanti innanzi si era attaccato al petto, aveva inghiottito qualche goccia di latte; questo fatto aveva completamente cancellato dalla sua memoria la scena della notte.

Bisognava che il piccolo mangiasse e dormisse, aveva raccomandato il dottore, ed ella stava presso di lui come un came da guardia, vigilante e feroce, ma non inquieto.

Ella non lo vedeva in pericolo, non le balenava neppure l'idea che fosse grave. Non aveva febbre, non aveva tosse, nessuna malattia dichiarata, si trattava di una debolezza passeggera forse causata dalla dentizione.

Il dottore fece spalancare le finestre. Prese in braccio il bimbo, nudo, lo ascoltò e lo battè da tutte le parti. I vagiti si fecero più lunghi, più lamentosi, più stanchi.

— Non c'è nulla.

— Dorme assai poco, dottore, è molto inquieto….

Il dottore scrisse una ricetta e la consegnò a Giovanna.

— Mangia anche poco…. — aggiunse Rosa.

La contessa Clemenza e il conte Ademaro si scambiarono uno sguardo.

Lo spettro del passato ondeggiava fra loro in quella stanza di tristezza, presso a quella culla che l'ala della morte sfiorava.

— Faremo un'altra novena, — disse la contessa Clemenza, — accenderemo due candele a San Vincenzo.

Uscirono, lei e il marito, in punta dei piedi, come due fantasmi.

Il dottor Fabrizi indugiò ancora un momento presso alla culla.

— Che è successo questa notte con Folco, Rosa? — chiese egli affettuosamente non appena i due si furono allontanati.

— Ha svegliato il bambino! — rispose la madre duramente; e tosto cambiò espressione, tono, maniere, e domandò al dottore colle lagrime nella voce: — Guarirà presto, non è vero?

Egli la confortò come meglio seppe, e accompagnato da Teresa uscì dalla stanza, promettendo di tornare l'indomani mattina.

Rosa rimase sola.

Improvvisamente, ebbe la sensazione, inspiegabile, irragionevole, — un istinto? — che quei tre che erano usciti non le dicessero tutto: che fra quei tre vi fosse un segreto, un accordo di silenzio.

Che sguardo si erano scambiati, i due vecchi, presso alla culla? Perchè il conte Ademaro appariva così accasciato, invecchiato di dieci anni in pochi giorni? Perchè?…

Fulmineamente, la decisione fu presa. La contessa Clemenza era nella cappella, essi, il conte Ademaro e il dottore, nel salotto a pian terreno. Ascoltare alla porta quello che dicevano. Subito.

Non le balenò neppure alla mente il sospetto che fosse una cosa scorretta, da non farsi.

— Torno subito, — disse a Teresa che era appena rientrata.

E scese cautamente le scale. Arrivò all'uscio della stanza da gioco dove ogni sera il conte Ademaro e il dottore, da venticinqu'anni, facevano il tresette davanti a una bottiglia di vin spumante.

Quella sera non giocavano.

Ella sentì il conte Ademaro singhiozzare.

— È una fatalità, una fatalità terribile che pesa su di noi! — diceva egli con voce rotta. — Incominciavo appena ad aprire il cuore alla speranza…. Ha tutti i sintomi degli altri, dei miei, ditemi?…

— Amico mio, sarebbe inutile lasciarvi delle illusioni…. Purtroppo!… Voi stesso rivedete in lui quelli che non sono più. Ed oltre a ciò egli porta nel sangue dei germi di miseria, di debolezza, che i vostri non avevano. È figlio di Folco, e Folco ha un tale passato, voi sapete….

— Condannato! — proruppe il conte Ademaro. — È condannato!… Tutto per nulla! tutto per nulla!… Quello che ho fatto, quello che ho tentato, il sacrificio che Clemenza ed io abbiamo sostenuto abbassandoci a queste nozze, tutto per nulla!… Inutilità! miseria! fatalità!!… E Clemenza almeno ha la fede che la sorregge, che le dà tutti i coraggi, tutte le rassegnazioni! Ma io? io?…

— Calmatevi, calmatevi, amico mio. Avrete degli altri nipotini, presto; la madre è sana, quando si riavrà un po', ve ne farà degli altri. Non è detto che tutti debbano subire la stessa sorte. Certo, bisognerà abbondare nelle cautele, esser sempre preparati, non sperar troppo presto…. Il ceppo è leso…. Ma infine chi vi dice che qualcuno non possa sopravvivere? Raccomandate a Folco una vita più regolata, senza stravizi, costringetelo a pensare alla necessità di darvi un erede che abbia delle probabilità di resistere… Chissà! Dopo sette, vedete, quando già disperavate, il contino Folco è venuto a consolarvi….

Il conte Ademaro ruppe in una risata stridula.

— Voi sapete — diss'egli amaramente — che consolazioni mi ha date. Ma per il nome….

Rosa non ascoltava più. Barcollando, attaccandosi ai mobili per non cadere, ella si allontanava lungo i muri, come una bestia ferita.

Raggiunse le scale, la sala, la stanza da bagno, al di là della quale il figlio giaceva. E nella penombra una lunga figura le sbarrò il cammino, a braccia tese per non lasciarla passare: Folco. Folco che sorrideva del suo solito riso scoprente i denti radi e rovinati. Ella si fece da parte, e passò, senza guardarlo.

Sedette presso alla culla, chiuse e premette la testa nelle palme. Batteva i denti e un brivido le correva per la schiena.

Egli strisciò dietro a lei, e le fece il solletico sulla nuca reclinata, fra i riccioli.

Rosa balzò in piedi.

Livida, con gli occhi dilatati, sibilò più che non dicesse: « Va via ».

Egli non si scostò, e si mise a ridere più forte, vezzeggiando, facendole piccole carezze come si fa per calmare i bambini. Un resto dell'ebbrezza notturna brillava ancora nei suoi occhi.

Ella ripetè: « Va via » e la sua voce era bassa e tagliente.

Ed egli tentò di baciarla sul collo.

Ella cercò ancora di dominarsi, di ottenere pietà, di soffocare il tremito che la scuoteva dalla testa ai piedi.

— Non vedi? — implorò, — non vedi, Folco? Il bambino sta male.

— Ti voglio, — rispose egli ghignando, e l'afferrò alla vita.

Allora con un balzo felino ella gli sfuggì, e con un altro balzo gli si appressò ancora, gli mise una mano sulla spalla (ella era più alta di lui, più forte, e l'orgasmo triplicava la sua forza); una mano che era un artiglio, la sua grossa mano di contadina avvezza a spaccare la legna, a tenere la zappa e la vanga, e violentemente lo sospinse verso la porta, lo cacciò fuor della stanza, senza ch'egli avesse tempo di dire una parola, di fare un atto di difesa.

— Via! via! via! — Chiuse l'uscio a chiave.

Poi, senza lagrime, marmorea in volto, riprese il suo posto al capezzale del figlio.

…. Teresa bussava, rientrava col lume; Giovanna portava le tazze, la contessa Clemenza posava sul cassettone la Reliquia miracolosa; tutte attendevano alle loro consuete cure e non sapevano il cuor della madre.

Giovanna, amorevolmente, raccomandava a Rosa di mangiare qualche cosa, di non lasciarsi abbattere così; bisognava mangiare perchè il latte non le mancasse. Se il bambino ne voleva, che cosa avrebbe potuto dargli, se non mangiava?

Ignorando ch'ella sapeva, continuavano la commedia.

Ed ella diceva di sì, di sì, come un automa, cogli occhi attaccati sul figlio, occhi che ora lo vedevano lucidamente, com'era, giallastro, vizzo, un vecchietto, un agonizzante, un povero essere senza sangue cui la vita veniva lentamente mancando…. Come una fiammella senz'olio…. Ancora gli ultimi guizzi…. e poi….

Condannato.

Quella parola le picchiava sul cuore come il martello sull'incudine, ed ogni colpo lo faceva a brani.

Tutto taceva. La contessa Clemenza inginocchiata presso una seggiola colle mani giunte e la testa china, in preghiera. Le donne nella stanza accanto. Il piccolo si era assopito.

….Chi, chi parlava da lontano? Da quali profondità saliva la voce lugubre?…

Ah!… Erano essi, essi! i sette piccoli Ademari sepolti l'uno accanto all'altro nella cappella, che chiamavano nella notte!…

Essi, quei sette bambini sconosciuti che ella « vedeva » sotto la terra allineati, colle manine in croce, che chiamavano il suo tutta la notte!…

— ….Ademaro!… Ademaro!… Fratellino, vieni con noi!…

…. Sette piccole bare uguali… e l'ottava, quella del suo, accanto ad esse!

Com'erano quei sette? Biondi, pallidi, cogli orecchi sporgenti, cogli occhi grigi…. Come il suo, come il suo!…

Ed erano morti tutti, l'uno dietro all'altro, collo stesso nome, della stessa morte, ed altri ancora dovevano morire, tutti i suoi figli, tutti i suoi figli, dovevano finire così!… Tutti sarebbero calati l'uno dietro all'altro a tener compagnia a quei sette, la cui voce non ristava, tutta la notte, tutta la notte, tutta la notte….

— Ademaro! Ademaro! Fratellino, vieni con noi!…

Il bimbo gemeva. La madre si chinò sulla culla e offerse il seno. Gli occhietti vitrei non videro la madre, le labbra toccarono la carne materna e non la presero.

Ella scoppiò in un urlo disperato.

— Muore! muore!

Le donne accorsero, accorsero la contessa Clemenza e il conte Ademaro.

No, non moriva. Dopo qualche tempo tutto fu ancora tranquillo.

Ancora due mesi di quell'agonia.

Finalmente, una sera….

*


Il piccolo funerale si allontanava.

La piccola cassa coperta di un panno bianco portata a braccia dai famigliari, i bambini vestiti di bianco, i gigli, i ceri, le corone di giacinti, tutto quel candore d'innocenza saliva verso il cimitero serpeggiando lungo il viottolo, ed il vento di marzo or si or no portava alla madre dalle aperte finestre le cadenze del salmo.

— « ….Beati immaculati…. »

Ella era sola.

Ella era sola presso alla culla vuota. Senza lagrime. Senza sguardo.

La suocera entrò e le posò la mano sulla spalla.

— Vado alla cappella a pregare per lui. Tu vieni?

La madre accennò di no col capo, e la suocera sospirando si allontanò. Le donne, i famigliari, tutti erano andati col conte Ademaro, col conte Folco e col dottor Fabrizi ad accompagnare il morticino. Non restava che il giardiniere, mezzo addormentato sulla porta della serra. Nessun altro in casa fuor che la madre.

Più di due ore passarono in quel silenzio, in quell'immobilità, in quel vuoto straziante di pensiero e di sentimento, peggiore di ogni disperazione.

A un tratto la ghiaia del viale lontano stridette sotto le ruote d'una carrozza. Era la carrozza di casa, coi cavalli bardati a lutto che risaliva lentamente il viale portando i parenti.

Rosa sentì e balzò in piedi. Si passò le mani tremanti sulla fronte quasi a snebbiare il torpore che la teneva. E tosto un terrore, un furore pazzo la presero.

Imbruniva. Folco tornava, il bambino non e'era più. Quella notte, ella avrebbe dovuto passarla con lui. Ella vedeva il viso del marito, atteggiato ipocritamente alla tristezza, e sotto a quella maschera vedeva l'indifferenza, la noia, la fretta di finire la tragedia, di ricominciare la vita gaia. Egli tornava, il bimbo non c'era più. Ella avrebbe dovuto passare la notte con lui. L'avrebbe ripresa. Oh, lo conosceva!… Non avrebbe rispettato neppure quella notte di morte. Egli non vedeva in lei che la femmina, non l'aveva sposata che per averla, perchè non poteva averla in altro modo. Non gliel'aveva detto? Non gliel'aveva detto in quella sera terribile in cui ella era svenuta ai piedi della culla?… Non le aveva detto che sposandola egli intendeva di poter disporne a suo piacimento?… Egli per il suo brutale desiderio, essi per esser certi di continuare la discendenza, perchè procreasse dei figli, molti figli, come una giumenta da razza! Ed ella si era piegata a tutto, a tutto; aveva abolito la sua volontà, si era piegata piegata piegata fin quasi a spezzarsi, aveva cambiato nome, volto, linguaggio, aveva rinnegato padre, madre, fratelli…. Per loro? No! Per il suo bambino, per una creatura sua, per lui che doveva compensarla di tutto, ridarle in tanto amore le sue sofferenze. Ma ora!… Ora che sapeva che i suoi figli erano condannati, che l'uno dopo l'altro sarebbero morti sotto i suoi occhi, fra le sue braccia impotenti a difenderli, che uno ad uno avrebbero portato nelle vene un germe di miseria e di morte…. Ora!… Ah no!…

Girò lo sguardo smarrito intorno alla camera. Un'ansia di nascondersi, di annientarsi, di dissolversi la prese. Dove? Come?

Ogni oggetto era piccolo, bianco, tenue, « per lui ».

Un acuto odore d'acido fenico e di sali impregnava l'aria. Il cadavere….

La carrozza si avvicinava.

Folco tornava. Tra mezz'ora, tra pochi minuti sarebbe giunto…. Ella non poteva più ribellarsi. Non l'avevano essi comprata? Non era il suo corpo giovane e sano il prezzo di quei bei vestiti, di quei mobili ricchi, di quei gioielli, di quegli agi, il prezzo della sua « fortuna »? Ella doveva dare il suo corpo a Folco perchè meno si infangasse e si perdesse in altre sozzure, doveva dare dei figli a coloro che li aspettavano senza contarli finchè « uno » ne restasse, per il loro nome, per la loro vanità, per procreare altri infelici! Ed ella doveva ancora stringere fra le sue braccia dei piccoli innocenti, ancora nutrirli del suo sangue, ancora vivere della loro vita, ed attaccarsi disperatamente alle loro fragili manine, perchè le agonizzassero poi davanti gli occhi, perchè le dilaniassero il cuore!… Quella notte stessa…. Quella notte stessa ella avrebbe potuto chiamarne uno alla vita…. condannarlo alla morte…. Ah no! no! no! questo, no!… Il suo ventre non avrebbe più concepito dei figli destinati a soffrire, a morire, il suo corpo non si sarebbe venduto così!… No! no! no!

Ella mosse affannosamente verso la culla, afferrò una cuffietta coi nastri azzurri, che giaceva sulla coperta e conservava ancora quasi la forma e il tepore dell'amor suo perduto. La strinse a sè e la baciò forsennatamente; si strappò gli orecchini, gli anelli, la «fede» e li gettò nella culla vuota, al posto lasciato freddo e vacuo dal cadavere; si avvolse la testa in uno scialle di Teresa, e discese a precipizio le scale.

Nessuno in casa. Anche la carrozza era scomparsa ad una svolta della strada.

Nel giardino solitudine e silenzio.

Ella passò rapidamente sotto al pergolato di carpini, raggiunse una porticina mezzo nascosta dall'edera che dava all'aperto sui campi.

La conosceva bene; era passata di là tante volte con « lui » in braccio! Una volta si era fermata proprio là a mostrargli una bestiolina col dorso picchiettato di rosso che passeggiava su di una foglia….

Oltrepassò la porta; la richiuse.

Si trovò in un campo che i filari di viti e di pioppi tagliavano regolarmente.

I grilli cantavano; la gran pace del vespero intorno.

Ed ella correva, correva, follemente, oltrepassava il campo, i filari, col volto sferzato dal vento e rigato di lagrime, senz'altro pensiero che quello di fuggire, di andar lontano. Dove?

Giunta a una siepe la scavalcò; a un bivio, prese istintivamente a destra. Era la strada piccola che conduceva al villaggio, tortuosa fra le siepi.

Ella non rallentò la corsa. I suoi occhi smarriti si posarono sugli alberi, sui cespugli noti al suo cuore e non li riconobbero.

Bisognava traversare il villaggio, la piazza. Tutti erano già rientrati nelle case a cenare ed i fuochi brillavano nelle basse cucine affumicate.

Nella piazza due facchini e una grossa comare accatastavano su di un carretto alcune vecchie ceste. Nessuno di essi la riconobbe.

Rosa traversò il marciapiede senza voltarsi. Uno dei facchini vedendola così discinta e stravolta le sussurrò alcune parole volgari e sputò.

L'altro prese a camminare dietro a lei sullo stretto marciapiede. Ed ella si mise a correre ancora più forte, credendo sempre di sentire dietro a sè quel passo, e non sentiva invece che il batter del suo cuore.

Dove? dove?…

Ah! ecco il sentiero che conduce alla sua casa. Il piede si fa più fermo, il respiro meno affannoso. Ma ancora quel passo!…

Ella riprende a correre. In pochi istanti è sul poggio, nel cortiletto, sotto al pioppo che si inchina. Senza fiato, livida in volto, si appoggia al muro per non cadere.

Nel cortile nessuno. La ferisce l'odore della concimaia.

Fa quasi buio. È una sera ventosa, quasi fredda.

La porta della cucina è chiusa, ma, dalla finestra, tagliata a piccoli rettangoli dell'inferriata, attraverso ai vetri, ella spia dentro un allegro fuoco brillare, e le fette dorate di polenta abbrustolirsi sulla pietra del focolare, e i parenti intorno al desco, intorno alle scodelle fiorate, che aspettano la cena.

Rosa guarda. Tutto il suo cuore si dissolve, si sgela.

….È sua madre, ch'ella non ha più vista dopo le nozze, un po' più grigia, ma sorridente del suo placido sorriso; è suo padre, silenzioso, coll'anello lucente all'orecchio e i duri zigomi lignei; è il nonno — quella sera c'è anche il nonno — con due riccioli bianchi l'uno da una parte e l'uno dall'altra, davanti agli orecchi; è Isa, la piccola Isa, col suo gonnellino rosso; sono i fratelli; e…. chi c'è ancora?… C'è una donna nuova, giovane, dal viso affaticato e un ventre enorme. Chi è quella donna?… Ah, ora rammenta! Don Evaristo le ha detto che uno dei fratelli ha preso moglie; è lei certo, quella, la cognata…. Ed è incinta.

Rosa sente il cuore tremarle, sente che non avrà mai il coraggio di entrare.

Si accascia sulla soglia della cucina. Aspetta.

Aspetta. Che cosa aspetta?

Essi mangiano. Il padre dice: Il raccolto sarà buono quest'anno. I bachi promettono bene.

Il nonno risponde: Sì.

E la voce di Isa: Perchè, nonno, i bachi dormono solo quattro volte?

Tutti ridono. Il suo bambino è morto ed essi non lo sanno? Ridono.

A un tratto la madre si muove, apre la porta, dà un grido.

Ha urtato col piede qualcuno, accasciato là, al posto del gatto e del cane.

Rosa balza. Afferra i ginocchi della madre prima che questa abbia il tempo di riconoscerla.

— Madre! madre! Il bambino è morto! Sono fuggita! Tenetemi con voi!

Il padre, i fratelli, immobili, intorno alla tavola, sotto la lucernetta a petrolio, sono impietriti come al cader d'una folgore vicina.

La cognata si alza in piedi, faticosamente, col ventre enorme; guarda la disperata, ostile.

Un'ora dopo il dottor Fabrizi e Giovanna colla baia grondante sudore, irrompono nel cortiletto, e Rosa riparte con loro, nascosta negli scialli, col viso coperto e le mani fredde.

Ritorna al suo posto.

Come il cane alla catena, fino alla morte.

Il treno entrò sbuffando e anelando sotto la tettoia e si arrestò violentemente con un fischio acutissimo.

Nell'angolo d'uno scompartimento di terza classe un ragazzetto in lutto che dormiva profondamente, imbacuccato in un logoro scialle, si destò di soprassalto, spalancò gli occhi, domandò con visibile ansietà:

— Norimberga?…

Nessuno dei compagni rispose: nessuno comprendeva. Non erano più i tre viaggiatori partiti da Monaco cui il console d'Italia l'aveva raccomandato, erano altri, saliti lungo la linea mentre egli dormiva: grossi tedeschi indifferenti carichi di pacchi, col dorso curvo sotto il « reisesack », colle villane scarpe ferrate; ed ora se ne andavano tutti, e si urtavano e si pigiavano nel corridoio, presi dalla sgarbata febbre del discendere che è la malattia dei viaggiatori d'ogni classe.

Fuori, lungo il treno, era un affollarsi di gente che arrivava, che aspettava, che ripartiva; alcuni fendevano violentemente la corrente, altri, incagliati fra cataste di valigie, gesticolavano con disperazione chiamando: — « Träger! Träger! » — qualche funzionario passava impettito colle mani dietro la schiena dominando la folla coll'ampio torace, ma nessuno guardava su verso il finestrino cui stava affacciato lo spaurito ragazzetto vestito a lutto, nessuno dava ascolto all'esile vocina ansiosa che seguitava ad interrogare:

— Norimberga?… Norimberga?…

Ad un tratto il fanciullo ricordò che a Monaco il console d'Italia gli aveva detto:

— All'arrivo, ti affaccerai allo sportello e sventolerai questa bandierina italiana; non te ne scordare, è il segno di riconoscimento.

Ed egli l'aveva piegata e riposta nella tasca della giacca, e vi aveva sempre tenuto la mano sopra, dormendo, per paura che qualcuno gliela rubasse: ora, nella confusione del brusco arrivo se n'era completamente dimenticato. Forse non c'era più?…

Con un sorriso di sollievo pescò dalla tasca lo sgualcito cencio dai tre colori, protese nuovamente fuor dal finestrino la testa e la mano, sventolando la bandiera.

Ed ecco tra la folla già molto diradata, una vecchia signora si fa largo; è alta, è grassa, è vestita di nero, ha i capelli bianchi, e gli occhi azzurri dietro le lenti, pare che cerchi, corre verso la bandierina…. È lei? la nonna?

Ella alza il faccione verso gli occhi ansiosi e il visetto pallido del bimbo, afferra manina e bandiera, domanda:

— Hans Hubner?…

E il piccolo con voce strangolata risponde:

— Sì, sono io: Hubner.

Allora la nonna lo aiuta a discendere, l'abbraccia, piange, prende il magro fagotto di lui, gli aggiusta sulle spalle lo scialletto, gli dà la mano, lo protegge col suo largo corpo dagli urti della folla, lo conduce fuori della stazione, su di un gran piazzale. E lì si ferma un istante, lo bacia ancora, piange nuovamente.

Egli no, non piange. Batte i denti di freddo e si guarda intorno trasognato.

Vede una città strana, nera: alte case scure coi tetti che finiscono in punta, strade tortuose e ripide, balconi carichi di geranei fiammanti, chiese color del bronzo e traforate come merletti, e, su tutta quell'ombra, su quella fosca patina greve, l'immacolata bianchezza della neve, che ha già coperto le case, le torri, le strade, che cade silenziosa soffice e lenta, come se non dovesse smetter mai più.

Non è maggio?… La Sicilia, tre giorni innanzi, quand'egli era partito, era tutto un profumo di mandorli in fiore, un trillar di rondini reduci ai nidi, ed il mare era così azzurro laggiù, e c'erano già tante rose…. Perfino sulle recenti rovine di Messina, sui sinistri minacciosi cumuli, esse si arrampicavano insolenti e sorridenti, e verso sera gli effluvii della tiepida primavera si mescevano al fetor dei cadaveri…. Ma qui c'è la neve. Non è maggio qui?…

La nonna dice:

— Hans…. — e incomincia un lungo discorso; pare che lo interroghi, che domandi.

Ma il piccolo non risponde. Egli non capisce il tedesco, ha tanto freddo, e non vuol essere Hans. Egli è Giovanni, Giovannino; ed in casa lo chiamavano Nennè: la mamma l'ha sempre chiamato così, ed anche il babbo, benchè fosse tedesco, piccolo impiegato d'una fabbrica di liquori calato a Messina dove aveva conosciuto e sposato Concetta, la pallida e ardente siciliana, che gli aveva fatto dimenticare la patria, la madre, la lingua nativa, soggiogandolo, bruciandolo col suo amore, come sanno bruciare le donne e le lave dell'Etna.

Quante volte Nennè non aveva udito la mamma, dopo qualche lite passeggera e violenta, lanciare al babbo l'ingiuriosa sprezzante parola:

— Croato!

Ed egli rispondere, col biondo faccione impallidito, con quell'atroce pronuncia che, suo malgrado, gli era rimasta:

— Io sono biù italiano di foi!

In una sola tragica notte il terremoto aveva inghiottito mamma e babbo sotto le macerie di cinque piani, e Nennè, tratto illeso per un prodigio di sotto ad una grossa trave, era rimasto solo al mondo. Per tre mesi l'avevano ricoverato in un orfanotrofio insieme a un centinaio di ragazzi colpiti dalla sua stessa sventura, poi, esaurite le indagini, assodata la parentela, e la condizione morale e sociale dei parenti, l'avevano spedito come un pacco in Germania, di tappa in tappa sorvegliato dalle autorità italiane, fino a Norimberga, dove l'attendeva l'unica parente che gli restava, la vecchia nonna tedesca, di cui egli aveva sentito così poco parlare dal padre, di cui dalla madre aveva vagamente intuito che le era nemica.

….La nonna finì il suo discorso, sospirò. Il fanciullo tacque ancora, ostile. E seguitarono a camminare sotto la neve per strade tortuose e ripide, traversarono una gran piazza dove c'era una chiesa color della notte, ed una fontana acuminata, altissima, tutta dorata che pareva un tabernacolo. La nonna disse con una voce diversa dalla solita, nasale e trascicata come quella d'un maestro di scuola:

— Frauenkirche…. Schöner Brunnen….

E costeggiarono un'altra gran chiesa nera, salirono ancora, sotto la neve, fra nere case. Non si arrivava mai; finalmente sbucarono in un piazzaletto, la nonna si fermò presso un basso portoncino, lasciò la mano di Nennè, trasse una chiave, ma prima di aprire disse, colla voce nasale di poc'anzi, ma più bassa, più devota, e più umile:

— Dürerhaus.

E questa volta Nennè afferrò finalmente quello che ella intendeva dire, o meglio ricordò: quello che il babbo, che pure aveva tutto dimenticato, e tutto ostentava di dimenticare, gli aveva più di una volta confidato con accento di mistero e d'orgoglio: « la nonna era custode della casa di Dürer ».

Chi fosse precisamente questo Dürer, Nennè non sapeva, e nessuno gliel'aveva spiegato; ma egli aveva ben capito che il custodirne e l'abitarne la casa costituiva già per la nonna, e per la famiglia, un onore. Forse essa conteneva un tesoro, forse ci stavano le fate, forse la figlia del re….

Mentre la chiave girava nella toppa, il fanciullo alzò gli occhi timidamente sulla facciata, e vide una piccola casa, forse più vecchia di tutte le altre, forse più scura, forse più affumicata, ma che nulla diceva ai suoi occhi di meglio e di diverso delle mille altre che aveva incontrato. Soltanto, sopra il portone, appesa al muro come su di una pietra tombale, una ghirlanda di foglie e di fiori avvizziti rabbrividiva sotto il vento e sotto la neve.

— Dürerhaus…. — ripetè la nonna, varcando la soglia, inchinandosi, coll'atto di chi si fa il segno della croce.

E Nennè, intimidito e curioso, traversò l'andito umido e oscuro, salii dietro a lei in punta dei piedi per la soricchiolante scala di legno, si arrestò col batticuore in una piccola saletta dove un'immensa stufa di maiolica grigiastra qua e là sgretolata brontolava e russava, completamente dimentica che doveva esser Maggio.

…. Dov'era il tesoro?… dov'erano le fate?… e la figlia del re?…

La luce scendeva triste e lattiginosa dalle chiuse impannate di piccoli vetri rotondi, l'aria odorava di muffa, un topo rodeva la parete sulla cassapanca tarlata un gattone fulvo si raggomitolava freddolso: tutto era vecchiaia, malinconia, solitudine. La nonna passò in cucina a cercare i fiammiferi: Nennè restò solo, immobile, col cuore stretto, nel mezzo della piccola sala.

E ad un tratto trasalì violentemente e tremò, come se una mano invisibile l'avesse toccato. Dalle spalancate porte che dalla saletta mettevano alle stanze cento occhi lo guardavano: uomini, donne, vecchi, bambini, immobili nella penombra, gli uni accanto agli altri, allineati lungo le pareti; ilari, tristi, pensosi, sprezzanti, indifferenti; tutti quegli sconosciuti lo squadravano ostinatamente, implacabilmente, silenziosamente, col fisso sguardo di cadaveri vivi, e si stupivano dei suoi ricci neri, del suo viso olivastro, dei suoi occhi profondi, e senza voce tutti insieme gli domandavano:

— Chi sei?… Che vuoi tu qui? che vuoi tu qui?…

Con un urlo, Nennè si precipitò verso l'uscio della cucina, cadde fra le braccia della nonna, scoppiò in disperati singhiozzi.

Allora, fra i due che non si capivano, fu un incrociarsi comico e affannoso di domande, di esclamazioni, di sospiri.

L'uno parlava e si disperava nel più veemente dialetto siciliano, l'altra confortava, s'inquietava e interrogava nel suo aspro tedesco.

— Ho paura! Voglio andar via! voglio andar via!… — urlava Nennè fra i singhiozzi.

E la nonna, curva su di lui, guardandolo inquieta coi suoi miti occhi azzurri dietro le lenti:

— « Bist du hungrig?… Bist du durstig?…»

— e gli offriva una fetta di torta, un bicchiere d'acqua zuccherata, gli tastava il ventre, e gli sussurrava all'orecchio:

— « Abort?… »

Urli e strilli e lagrime più copiose risposero a quell'obbrobriosa parola, l'unica di cui Nennè fosse ben certo perchè l'aveva vista scritta a grosse lettere in tutte le stazioni del suo viaggio sopra edifici di cui lo stile non ammetteva dubbii.

— « Non! non!… Il y a dehors de vilaines têtes qui me régardent!… Je veux m'en aller! je veux m'en aller!… » — spiegò egli irato ed offeso, ripescando nella sua memoria, per avvicinarsi a quella donna straniera, l'unica lingua straniera che conosceva, il povero francese racimolato dai ragazzi svizzeri delle fabbriche.

— Oh?!… — disse allora la nonna. E benchè egli urlasse e si dibattesse, lo prese a forza tra le braccia, attraversò con passo energico la saletta e le stanze terribili, lo depose sul lettino già preparato. Egli teneva i pugni serrati sugli occhi, buttava le gambe di qua e di là, tentava di mordere le mani della nonna, ma i singhiozzi si facevano sempre più languidi. Il tepore del letto, il suo morbido invito, agivano già sulla stanca fanciullezza come un fulmineo filtro benefico; e la nonna poteva incominciare a spogliarlo, gli toglieva le scarpe, gli asciugava le lagrime che rigavano di solchi chiari il visetto sporco e convulso, lo metteva sotto le coltri, lo copriva fino al naso, gli si sedeva accanto, gli prendeva la manina.

— « Tors, tors, mon enfant » — diceva ella in francese, soddisfatta di poter finalmente arrivar fino a lui. — « Tu tois être pien fatigué, paufre. Tu as fait un pien long foyage ».

E, come egli sussultava ancora, nervoso e turbato, ella si curvò al suo orecchio, continuò sottovoce:

— « N'aie bas beur, mon enfant. Ce sont les grafures de Dürer les têtes que tu as fues. Elles sont pien pelles, tu ferras, temain. C'était un crant beintre, Dürer, mon enfant. De tous les gotés du monde on vient le foir. De l'Amerique, de l'Ancleterre, de la Russie, de la France…. Tu ferras, tu ferras, temain. Il ne faut bas en avoir beur ».

Poi, come se raccontasse una fiaba, proseguì a voce sempre più lenta, sempre più bassa, con cantilena sempre più marcata, con pause sempre più lunghe:

— « Tu ferras…. Il y a Saint Cheorches à geval…. et Saint Cherome dans sa gellule…. et les drois lansguenets…. et Erasme de Rotterdam…. »

Ma Nennè si era già profondamente addormentato.

La nonna con un sospiro baciò la piccola zampetta sudicia che stringeva ancora languidamente la sua, si spogliò anch'ella, si cacciò sotto le coltri.

*


La mattina dipoi, quando Nennè si svegliò non nevicava più. C'era il sole, un sóle pallido e pigro che scendeva da un grigio cielo ventoso, e sotto quel sole e quel vento le case parevano ancora più nere, i geranei più rossi, la neve più bianca.

Fosca e turrita sotto il suo manto d'ermellino, la città si destava.

La nonna, già in piedi, andava e veniva per la casa, aveva già spazzato la cucina, accesa la gran stufa di maiolica, ed ora fregava energicamente il pavimento del « quartierino di Dürer », il salotto ancora intatto, le quattro stanzette dove sono raccolte e bene ordinate le collezioni di stampe originali e riprodotte.

Bisognava che tutto fosse all'ordine per le dieci: d'inverno come d'estate la casa era continuamente visitata da forestieri di passaggio.

Infatti alle undici: — Triiiin! — il campanello trillò, un signore e una signora imbacuccati nelle pellicce, due russi, salirono, pagarono la tassa d'ingresso. La nonna se ne andò con loro, e intraprese un'interminabile spiegazione.

Nennè, seduto presso alla tavola fra la finestra e la stufa, con un gran tovagliolo annodato sotto il mento, aveva appena finito di ingoiare le ultime cucchiaiate di un'immensa tazza di caffè e latte e faceva con occhi desolati l'inventario della sua prigione. L'inventario era presto fatto: c'era il gatto e un merlo in gabbia: la stufa di maiolica e una cassapanca. Il gatto, fulvo, grasso, freddoloso, sempre addormentato, pareva un filosofo; il merlo, irrequieto, rabbioso, continuamente in lite coi ferri della sua gabbia: un critico.

— « Le chat s'abbelle Wagner, le merle, Beethoven », — aveva detto la nonna. Ma questo non rappresentava per Nennè nulla d'interessante.

Qualche altra cosa c'era, nella penombra, che l'attirava come una calamita…. verso cui i suoi occhi andavano e venivano senza posa…: la scala…. facile, tentatrice, semioscura…. e conduceva alla piazza.

Perchè no?…

Cominciava davvero per Nennè la vita di tutti i giorni.

Monello avvezzo alla strada, alla libertà, avvezzo a vivere sulla banchina, al molo, fra marinai, facchini, ragazzi, gente libera e spensierata, che va viene arriva riparte in una città di mare come Messina, piena di risa e di canzoni, egli non poteva resistere nella chiusa afa d'una prigione senza sole.

Un passo alla volta, un gradino alla volta, guardandosi indietro, arrivò in fondo alla scala, schiuse il portoncino, fu sul piazzale. Così ogni giorno. Come certi gatti randagi che non si ricordano della casa se non quando hanno fame, la nonna lo vedeva comparire soltanto alle ore dei pasti, pieno di freddo, ispido e arruffato, silenzioso e stanco.

Ed invano, in tedesco, in francese, con una disperata mimica cosmopolita, ella tentava di persuaderlo a desistere da quel perpetuo vagabondaggio, tentava di attaccarlo alla catena: il falchetto era troppo selvaggio, non si poteva addomesticare.

Sì, qualche volta, tocco dalla terribile minaccia:

— « Je vais afertir les audorités…. On te renfermera dans un gollege…. Il y en a de très pons à Nuremberg…» — egli si faceva violenza, tentava di assoggettarsi alla schiavitù, restava in casa qualche mezza giornata, ozioso e taciturno fra la finestra e la stufa, con Wagner tra le braccia.

Il gatto dormiva; Nennè guardava fuori coi grandi occhi appassionati; e c'era tanta malinconia, tanta nostalgia, tanta disperazione in quegli occhi di fanciullo che la nonna stessa ne avëva pietà:

— « Sors! sors! Bromène toi! » — Ed egli non rientrava che a sera.

Ma la sera portava a Nennè un nuovo supplizio. La sera venivano le visite. E non erano visite per Dürer, erano per la nonna.

Frau Minna, Frau Elsa, e Fraulein Gretchen, le sue tre intime amiche, capitavano a tenerle compagnia.

Intorno alla tavola, con un vecchio mazzo di carte in mano e quattro monumentali shops di birra davanti, le quattro donne giocavano e chiacchieravano. Nennè stava a guardarle immobile, in silenzio: Wagner e Beethoven dormivano.

Frau Minna aveva sessant'anni ed era enormemente grossa, rubiconda, paffuta: un ridente faccione di luna piena su di un corpo di virago, ma si vestiva come una giovinetta, prediligeva i colori delicati: il rosa e l'azzurro per le bluse, il verde pisello per le gonne; e cambiava toilette quasi ogni sera. Un elemento però del suo vestiario restava immutato ed immutabile: il cappellino di feltro verdastro colla penna di gallo, piantato ben saldo su una spelacchiata treccia un po' grigia, un po' gialla, un po' rossa, che le faceva rapidamente il giro della nuca.

Frau Elsa aveva un'altra particolarità: l'irrequietudine e l'odore. L'insopportabile odore d'aglio, di cipolla, di lardo, che emanava da lei, dai suoi indumenti, da tutti i pori della sua minuscola e irrequieta persona, animata da due piccoli occhi di topo, secca e striminzita come una castagna troppo cotta.

E colei che rispondeva al dolce nome di Gretchen, — Fraulein Gretchen, — pareva un granatiere: alta, quadrata, tarchiata, con larghi denti e larghi piedi, e fumava come un turco e beveva per quattro. Nennè si aspettava ogni sera di sentirla battere i pugni sul tavolo e bestemmiare, invece ella sospirava come un mantice quando le sue amiche nominavano « l'Amore », e cantava cogli occhi rivolti al cielo e un'atroce voce in falsetto i più sentimentali «Lieders » di Hans Sachs.

Nennè le odiava con tutto l'odio di cui era capace il suo piccolo cuore. Tutto lo urtava in loro: il formidabile appetito, il colore delle bluse di Frau Minna, il continuo agitarsi di Frau Elsa, la schiena da carrettiere di Fraulein Gretchen e la sua mania di ricamare a punto croce toccanti frasi sui più comuni oggetti d'uso quotidiano. Su un paio di babbucce? — «Gute nacht». — Sul comodino della nonna? — « Gott vergelte es euch »! — Sulla mantellina di Wagner? — « Mein lieb »!

Nennè le odiava. Ed esse, — oh esse erano molto dignitose! — fingevano di ignorare il piccolo italiano selvaggio e silenzioso, di non vedere, rannicchiato tra la finestra e la stufa, quell'osservatore spietato che preferiva il gatto alle donne. Ma, quando erano certe che la nonna non udiva, ridevano di lui a tutto spiano, ed avevano cura di domandarsi l'una all'altra, in francese, ammiccando:

— « Où est-il ce soir le bétit degoudant? »

Una sera Nennè, stanco e snervato dallo spettacolo sempre uguale, prese il suo lumicino, salutò la nonna, e si diresse verso la sua cameretta. Wagner lo seguì colla coda per aria. Bisognava traversare le stanze dove le « vilaines têtes pendues aux murs » gli avevano fatto tanta paura la sera del suo arrivo, ma ormai egli era più grande (erano passati sei mesi), più calmo, e sapeva bene che quelle povere imagini non potevano fargli del male.

Con tranquillità e con fierezza egli passò fra di loro alzando il lume, gettando a destra e a manca uno sguardo spavaldo, di saluto e di sfida. E a un tratto trasalì vivamente e si arrestò facendosi schermo agli occhi colla mano.

— La Nemesi!… Fraulein Gretchen! Fraulein Gretchen!…

Nennè la riconosceva: non v'era dubbio, era lei; attraverso i secoli, nella stampa di Dürer rivivevano le linee, il corpo, l'espressione della poderosa amica della sua nonna.

Soltanto, la Nemesi della nonna aveva una blusa scozzese ed una gonna color pistacchio, la Nemesi di Dürer era nuda, completamente nuda, e passeggiava tranquilla su di un nastro di nubi teso da una montagna all'altra.

Il piccolo scoppiò in una risata e tirò fuori mezzo metro di lingua. Wagner lo guardò scandalizzato e sorpreso. Ma Nennè continuò a ridere e a piroettare sulla punta di un piede e a far inchini e boccacce alla stampa vendicatrice.

Dopo quella scoperta, le incisioni raccolte nella casa incominciarono a interessarlo vivissimamente.

Non passava giorno — adesso — che nélle sue corse attraverso ai mercati, le piazze e i sobborghi di Norimberga, egli non incontrasse qualcuno che gli pareva d'avere « già visto », o che rientrando in casa egli non « riconoscesse » qualche figura che aveva appena incontrata. Qualche vecchio popolano venditore d'uova e di pesce, qualche soldato angoloso e poderoso, qualche sgraziata donna dalle guance rosse e paffute, qualche signore dal profilo tagliente, dallo sguardo duro…: la vita, quale egli la vedeva intorno a sè; i tipi vivi, eterni, della razza tedesca, tradotti sulle carte con un rilievo ed una verità che li faceva immortali. Poichè, Nennè non sapeva bene se « il tipo » l'avesse inventato il pittore, o la natura; se « il modello » fosse la stampa incisa, o l'uomo vivo che oggi era lo stesso di cinque secoli fa….

E quell'Albrecht Dürer, scomparso e onnipresente, quel meraviglioso animatore di un popolo, ch'egli vedeva là, nel suo autoritratto, biondo come un Cristo, coi lunghi capelli spioventi sulle spalle, gli occhi assorti e la bocca volontaria e triste, lo faceva curioso e pensoso.

Grossi libri che raccontavano di lui giacevano nella cassapanca tarlata; bisognava cercare, qualcuno forse era francese…. Ma la sua vita non era già là, nella sua casa, raccontata da lui stesso con parole immortali? Nennè non conosceva già sua madre, scarnita dalle sofferenze e strabica, suo padre, dall'aria austera e dall'occhio acuto, due dei suoi diciassette fratelli, Hans ed Andrea? E il vecchio maestro Michele Wolgemut, e il grande amico Wilibald Pirkeimer?… Non conosceva il ritratto di Erasmo di Rotterdam, ricordo di un viaggio a Bruxelles, ed i dolci paesaggi del Tirolo, nostalgia della primavera italiana?…

Ormai il fanciullo vedeva senza terrore arrivare la sera e le tre amiche della nonna, pensava senza sgomento che si sarebbero trattenute fino a mezzanotte.

Non appena esse entravano, accendeva il lumicino e se ne andava. Egli si appartava col gatto, ma si famigliarizzava con un popolo intero.

Nondimeno quel popolo, quella terra, egli non l'amava.

Come una cocente ferita, come una ferita eternamente sanguinante, il pensiero della sua terra abbandonata lo torturava, gravava sulle sue spalle infantili come un plumbeo peso di tristezza.

S'avvicinava l'estate, la gran stagione per Norimberga, quando i forestieri da Monaco e da Bayreuth calano a frotte, e tutti quelli che passano diretti a Karlsbad e a Karlsruhe sostano qualche giorno nella vecchia città tedesca; il Burg e la casa di Dürer diventano la meta di un più o meno devoto pellegrinaggio.

Proprio allora, la nonna ammalò. I reumatismi, la gotta, la coglievano già da qualche anno con insistenza, e questa volta l'abbatterono a letto. Frau Minna, Frau Elsa e Fraulein Gretchen si davano il turno al suo capezzale, ma chi avrebbe ricevuto i visitatori?…

La nonna chiamò Nennè, e colle lagrime agli occhi gli disse:

— « Sois pon, mon enfant. Ce sera suffisant que tu oufre la borte. Sois pon, pendant que ta paufre vieille est malate ».

Ed egli aveva giurato di non uscire, di non scappare, di aprire la porta, e da piccolo italiano d'onore manteneva il suo giuramento.

…. Quanta gente!… Da due settimane, da mattina a sera l'andirivieni non cessava un minuto. Francesi, americani, inglesi, tedeschi…. e poi ancora tedeschi, inglesi, americani…. Quel giorno Nennè era stanco e snervato; ad ogni squillar di campanello tirava fuori mezzo metro di lingua: per fortuna l'orologio segnava le quattro: ancora un'ora, e poi si chiudeva baracca.

— Trrriiiin!… — Il campanello trillò, ed egli corse ad aprire.

I visitatori erano tre: una signora alta e bruna, una signora piccola, e un ragazzetto vestito alla marinara. Ridevano, erano eleganti, parevano francesi.

E infatti, a un tratto:

— « …. Pas allemand? » — chiese la signora bruna colpita dal tipo del fanciullo che la scortava.

— « Je suis italien, madame » — rispose egli arrossendo fino ai capelli.

— « J'aurais parié qu'il l'était! » — esclamò ridendo la signora rivolta alla sua compagna; e: — Paolo, Paolo! — chiamò verso il piccolo marinaio che l'aveva preceduta lungo la scala, — trovi qui un compatriota: questo fanciullo è italiano.

Il marinaretto si arrestò curioso aspettando, e Nennè pure si arrestò: pallido, colle labbra bianche, come se tutto il sangue gli fosse dalle vene affluito al cuore.

Italiani!… Erano italiani!

Infine egli si mosse e salì due gradini. Sul pianerottolo, i due piccoli compatrioti si trovarono di fronte. L' uno coi ricci arruffati, i grandi occhi di passione, e l' ardente pallore della sua Sicilia, l'altro biondo, corretto, cogli occhi grigi e serî, un profilo acuto, e in tutta l' elegante figurina la gracile delicatezza dei bimbi troppo amati.

Entrambi si guardarono con molta timidezza. Nennè si sentiva sporco e mal vestito, l'altro non sapeva che cosa dirgli.

— Ci accompagni? — chiese la signora a Nennè, troncando così la pausa e l'imbarazzo.

— Sì, signora, — rispose egli, pallido, a occhi bassi; e li precedette lentamente su per la scala.

— Ci sapresti dire qualche cosa? — chiese ancora la signora entrando nelle stanzette delle raccolte. — Non abbiamo catalogo, — aggiunse ella, e gli sorrise.

— Sì, signora, — rispose ancora il ragazzetto, come in sogno.

Allora la nonna, che dal letto tendeva l'orecchio al suono dei passi, inquieta sulla pazienza di Nennè dopo una così faticosa giornata, fu l'invisibile testimone di un miracolo.

La vocetta timida incominciava a parlare…. tremula sul principio; esitante; poi più sicura, più energica, più ferma. E parlava italiano, rapidissimamente: pareva che additasse, enumerasse, spiegasse. Che cosa mai?…

Ed ecco che la stessa vocetta traduceva tutto in francese per qualcuno dei visitatori che evidentemente non capiva l'italiano, e la nonna udiva trasecolata l'eterna storia che per lei non aveva quasi più senso, tanto la sapeva a memoria, la storia delle incisioni di Dürer, rifiorire dalle labbra del nipotino, resa più viva e più fresca da una grazia ingenua di narrazione e di commento che ne sollevava e ne abbelliva la monotona aridità.

Sapeva tutto, il piccolo, meglio di lei che da quarant'anni abitava la casa, da settanta viveva a Norimberga…. Anche la vita di Dürer conosceva, ed ora insegnava agli stranieri i musei e le chiese di Norimberga dove avrebbero trovati altri suoi quadri, ed alla storia già nota mesceva qualche osservazione personale, qualche piccola notizia raccolta, dove, come, la nonna non sapeva.

Quando aveva egli visto, imparato, letto?… Se, dopo la sera del suo arrivo, non aveva mai fatto cenno a lei, nè mai chiesto nulla delle « vilaines têtes pendues aux murs? » Forse aveva letto qualche libro…. il Baedeker?

Ma Nennè diceva più e meglio dei libri; e colla rapida intuizione, colla mirabile genialità della sua razza, illeggiadriva e rendeva svelta e agile la convenzionale storia compilata ad uso dei viaggiatori frettolosi.

Lembi di discorso arrivavano alla nonna.

— Sì, signora, è il Cavaliere, il Diavolo e la Morte, una delle stampe più famose.

— …. E questo è il suo ritratto, disegnato da lui a tredici anni, prima di entrare nell' « atelier » di Michele Wolgemut. L'originale è all'Albertina di Vienna.

— « …. La passion verte…. on l'a appelée comme ça parce qu'elle a été gravée sur papier d'un ton vert ».

— …. È sepolto nel vecchio cimitero di San Giovanni, signora, ed ha sempre fiori freschi sulla sua tomba, dopo tanti secoli…. Qualcuno gliene porta sempre….

— …. No, signora. Egli andò in Italia più tardi. Dipinse la Festa del Rosario per il Fondaco dei tedeschi; questa serie di stampe è posteriore al suo viaggio in Italia, e sono forse lepiù belle.

— …. La Nemesi. Prima del suo viaggio in Italia. Après, il n'a plus fait des pareilles laideurs.

Uno scoppio di risa. Ridono i forestieri, ride anche Nennè. Perchè? La nona fortunatamente non ha capito. E non sa neppure che Nennè parlando non stacca dalla signora italiana i suoi ardenti occhi pieni di nostalgia, che la guarda sorridere, muoversi qua e là per le piccole stanze, rabbrividire nel gran boa di volpe bianca, con una gioia, con un benessere, con una felicità, che gli fanno dimenticare che presto la visita sarà finita, che non ci sarà più nulla, ahimè, da vedere, più nulla da dire. E la signora lo ascolta: divertita, interessata, e sorpresa, di non trovare in lui il solito piccolo pappagallo ammaestrato, rattrappito nell'aria dei musei, ma un ometto intelligente e vivace, un fanciullo, che comprende quello che dice, e che nell'aridità delle date e dei nomi insinua ingenuamente la nota comica e originale della sua piccola personalità e un istintivo senso d'arte, ed uno spumeggiar d'arguzia prettamente italiana, anzi siciliana.

— « Il est très, très intelligent », — diss' ella alla sua compagna, non così piano che Nennè non udisse, e una fiamma di gioia e d'orgoglio lo avviluppò come una lingua di fuoco.

Entrarono nel salotto di Dürer, tuttora intatto. La signora sedette nel vecchio seggiolone, si rannicchiò tutta nel gran boa.

…. Che freddo, in pieno agosto, in quella piccola stanza triste che sapeva tante cose passate! presso a quella tavola che ricordava le dispute della bisbetica moglie di Dürer, e lo spegnersi lento e doloroso della madre di lui, mentre egli ne segnava il mirabile ritratto!… Eppure le pareti erano rivestite di legno, e la finestra dai lattiginosi vetri rotondi era ben chiusa, chiusa la porta che tanti secoli innanzi si era forse più di una volta scostata per lasciar passare, pallida e ardente, l'alta figura di Martin Lutero.

L'istitutrice e il piccolo marinaio sfogliavano l'album delle riproduzioni. La signora interrogava Nennè.

— Faceva sempre così freddo a Norimberga?… Egli era in Germania da molto?… Non sarebbe più tornato in Italia?… Come si chiamava?…

Ella sorrideva, e sotto quel sorriso — era dolce? era distratto? era indifferente?… Nennè non sapeva, ma gli pareva un lembo di cielo della sua Italia, ma gli pareva qualche cosa della sua mamma, — egli a poco a poco si faceva coraggio, disserrava il suo cuore, raccontava…. e fra le vecchie cose straniere le bizzarre parole « terremoto, Messina, morte », passavano con un fremito di pianto trattenuto, colle visioni dolci e terribili di un altro cielo.

— Povero, povero ometto…. — mormorò la signora quand'egli ebbe finito, e non aggiunse altro, quasi avesse compreso lo sforzo e il dolore di lui, e la migliore pietà del silenzio.

— Paolo, — disse a suo figlio, — dagli la mano.

Poi aggiunse: — Restiamo qui ancora qualche giorno. Torneremo. Addio, Nennè. — Ed uscirono.

Egli, immobile sulla soglia del basso portoncino, li guardò allontanarsi, vide il piccolo marinaio all'angolo della strada volgersi, e salutare agitando il berretto.

Rosso, cogli occhi sfavillanti, si precipitò dalla nonna:

— « Oh grand'mère, grand'mère! Ils étaient italiens! Ils réviendront! J'ai tout expliqué! très bien expliqué! Ils réviendront!… »

Ma la nonna a cui la visita era sembrata troppo lunga, e che per l'Italia conservava una sacra diffidenza:

— « As-tu pien fermé la borte?… Es-tu sur?… Ils ne seront bas restés dans la maison, tes idaliens?… Il ne seront pas des foleurs?… »

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

« Des voleurs!… » Quella dolce signora che era stata così buona con lui, quella sua compagna semplice e modesta, quel piccolo marinaio che gli aveva stretta la mano con tanta gentilezza!… « Des voleurs!… »

Colpito in pieno petto da quell'ingiuria che lo feriva come se fosse rivolta a lui stesso, Nennè non rispose ed uscì sbatacchiando la porta.

— Infamia! infamia!

Ma che gli importava ormai, che gli importava di nulla e di nessuno, poichè essi sarebbero ritornati? poichè l'immensa, l'inesprimibile felicità si sarebbe rinnovata?…

— Torneremo, — ella gli aveva detto. Ed il fanciullo fidava in lei ciecamente come nella Madonna.

Quante, quante cose aveva dimenticato d'insegnar loro, e voleva, quando tornavano!… Quanti angoli di Norimberga, ignoti agli stranieri, dimenticati dalle guide, piccoli angoli remoti o abbandonati, dove il silenzio la vecchiaia la solitudine parlavano un più forte e più aspro linguaggio!… Cortili di povere case in vecchi quartieri solitari, gemme, che i forestieri non discernevano perchè soffocate sotto la povertà e lo squallore, linee mirabili e pure d'un'architettura quasi scomparsa, neri torrioni lungo le fortificazioni, ringhiere in ferro battuto di cui l'edera aggrappandosi tenace quasi celava il leggiadro disegno, malinconico fascino di una campagna pallida, gaiezza di un nero balcone sporgente sotto una pioggia di geranei rossi!… Tutta, tutta la poesia che il piccolo vagabondo aveva sentito di quella terra straniera, voleva dire a loro della sua Italia, sicuro che l'avrebbero compreso.

— Li condurrò io, — pensava Nennè. — La nonna sta per guarire. Io uscirò con loro. — E intanto con un'ingenua matita si accaniva a copiare « il mazzolino di violette », l'indimenticabile mazzolino che tutto il mondo conosce, a cui Dürer come a un volto, come a uno sguardo, ha dato anima e vita: il celebre mazzolino che pare appena raccolto, appunto da una mano infantile, sotto un ciuffo di felci, umido e fresco, per esser dato a qualeuno cui si voglia bene.

— Lo darò alla signora quando tornerà. Le chiederò di Messina….

Ma essi non tornavano. Passavano i giorni; ad una primavera capricciosa seguiva una pazza estate; pioveva a dirotto, un gran vento turbinava notte e giorno e strappava i fiori e le foglie della corona appesa sulla facciata della casa di Dürer come su di una pietra tombale.

Wagner non lasciava quasi più la cesta da lavoro della nonna; la gabbia di Beethoven era stata ritirata in cucina dalla prudente mano di Frau Elsa.

E Nennè trasaliva ad ogni squillar di campanello e colla tenace fede dei fanciulli continuava ad aspettare.

— Forse sono andati a Bayreuth, forse ad Oberamergau….

*


Quel forestiero, un dinoccolato americano, lungo, col monocolo, e i denti di cavallo, era capitato assai più tardi, quando tutti se n'erano andati, già si stava per chiudere, e nella casetta faceva quasi buio.

Aveva fatto un giro frettoloso e distratto, guardandosi intorno, tendendo l'orecchio alle voci di Fraulein Gretchen e di Frau Minna che cinguettavano nella camera della nonna. E prima di uscire, in fondo alla scala, presso al portoncino socchiuso, aveva chiamato Nennè con un cenno, gli aveva messo una magra adunca mano sulla spalla, gli aveva sussurrato all'orecchio:

— « Peux-tu me ceder quelq'un de ces croquis? Je les payerai très bien. Si tu veux, je réviendrai demain à cette heure ».

Impennandosi come un cavallo di sangue sotto una sferzata, Nennè con un balzo si era liberato dalla stretta, gli aveva sferrato un calcio, gettata la porta sul naso.

— Villano! vigliacco! mascalzone!… Credermi un ladro!… Fare di quelle proposte a me!… — inveiva il fanciullo cogli occhi annebbiati di rabbia, e stava per risalire le scale, ricoverarsi dalla nonna, quando il campanello trillò nuovamente.

Per paura che fosse ancora l'americano tornato sui suoi passi, Nennè non aperse, ma aspetò, trepidando, che la suonata si ripetesse. Forse era qualche altro visitatore, forse il postino….

Infatti udì un piccolo fruscìo di sotto all'uscio, e vide che qualcuno aveva passato dallo spiraglio una lettera. Si chinò a raccoglierla; il sangue gli diede un tuffo. Non era una lettera: era una cartolina, e veniva dall'Italia. Una mano infantile aveva scritto:

A Nennè, custode della Casa di Dürer, Norimberga.

Un saluto da Venezia. Se torni in Italia vieni a trovarci.

Paolo.

Seguiva il nome e l'indirizzo.

Essi!… Se n'erano andati.

Seduto sul primo gradino della scala, col lumicino allato, Nennè girava e rigirava quel quadratino di carta, quel piccolo indifferente addio, e lo rileggeva per la centesima volta, e ne contava le sillabe.

Poi le lagrime finalmente: fitte, cocenti, disperate, gli colarono giù per le guancie.

Se n'erano andati.

E d'improvviso gli pareva che tutto gli fosse crollato d'intorno, che non gli restasse più che morire.

Come un profumo portato dal vento ricorda al triste viandante tutta una storia, tutta una vita, una voce di fanciullo, un sorriso di donna — anch'essi portati dal vento! — avevano risollevato in lui un turbine d'amore, di dolore, di desiderio. Come le lave giungono sulle nevi, improvvise, veementi, travolgendo, bruciando, mettendo a nudo la terra arsa e ferita, ed ogni solco ne sanguina e ne trema, essi erano passati sul suo chiuso dolore, sulla sua animuccia intirizzita, e l'avevano fatta fremere e ricordare…. E aspettarli, aspettarli, era stato per lui il sorso d'acqua che basta all'assetato per non morire, il filo di speranza necessaria al prigioniero, lo spiraglio di luce che illude colui che anela, che spasima verso il sole.

Ed ora?… Egli non li accusava, no. Era tanto freddo; la signora rabbrividiva tutta nel suo gran boa. Ma anch'egli aveva freddo, anch'egli rabbrividiva da mesi, da anni, anch'egli soffriva, anch'egli voleva il suo sole, la sua terra, la sua Messina….

Messina!… Quand'egli era partito, essa non era che rovine, squallore, desolazione; mucchi di macerie su cui ululavano i cani, immense tombe senza croce in mezzo a cui i superstiti vagavano attoniti senza più lagrime per piangere, senza più forza per cercare, ma ora forse, in due anni…. l'avevano ricostruita, fatta nuovamente ricca e bella, ed essa si adagiava forse già sorridente e obliosa fra gli aranceti in fiore, lungo il mare dalle spume d'argento…. Ora forse sul luogo stesso dove suo padre e sua madre avevano cacciato l'ultimo urlo, una palazzina sorgeva, cinta di rose, abitata da gente felice…. forse un bar, un teatro, dove la sera si rideva, si ballava, e si cantavano canzonette napoletane….

Ah, se era una viltà aver abbandonata la patria, così misera, così perduta, quale castigo, non ritornare, non sapere, non vedere mai, com'era, com'era risorta, non poter con essa rinascere e dimenticare!… Non sentire mai più gli effluvi degli aranceti, non aspettare più le barche cariche di pesce approdanti al porto verso sera come stanche farfalle!… non ascoltare più le canzoni dei marinai seduti in semicerchio, colla testa volta verso il rosso tramonto!…

Ah, perchè, perchè, erano essi venuti?… Il suo male era sopito: essi l'avevano risvegliato, ed ora non poteva più guarire, non gli restava che morire!… Perchè erano venuti?… Come ora vivere? come dimenticare?…

«Se torni….», gli avevano scritto. — Se torni! — Come tornare? Egli non aveva denaro, e la nonna era povera, non si sarebbe commossa alle sue preghiere, non avrebbe capito il suo atroce soffrire. Per lei l'Italia era pur sempre la nemica, l'infida, che due volte le aveva rapito il figliolo.

Come tornare?… Il biglietto non costava molto, il viaggio non era tanto lungo,…. un viaggio verso paesi caldi, per cui non era neppur necessario portare bagaglio…. ed egli si sarebbe accontentato di restare laggiù poco, poco…. risalutare Messina, il mare…. il suo mare…. Ah, se avesse avuto il denaro per il biglietto!… Se avesse potuto procurarselo!… Dopo, sarebbe rientrato a Norimberga, pago, tranquillo, ad aiutare la povera nonna malata, ad aspettare i visitatori della casa di Dürer, a conversare con Wagner e con Beethoven nelle lunghe sere d'inverno. Ma prima tornare, tornare!… Egli moriva, se non tornava: la malìa della sua terra adorata l'abbatteva e lo travolgeva come una febbre, come una follia….

— « Se torni…», gli avevano scritto….

Sì, egli sarebbe tornato!

Dove, come, procurarsi il denaro per il biglietto?… Bisognava far qualche cosa…. pensare, inventare, vendere….

Ah, non già le stampe!… Egli era italiano, non era ladro; e per nulla al mondo avrebbe manomesso le mirabili collezioni affidate all'onore della vecchia nonna. Far denaro…. Ma come? Come?… Egli non aveva contatto che coi visitatori della casa e da quelli soltanto poteva sperare qualche risorsa, ma pochi di essi erano generosi, e quell'anno la stagione era rovinata dal mal tempo. Non passavano quasi più che degli americani, eterni vagabondi, boriosi e pettoruti a fianco di ragazze che parevan serpenti, di signore che parevano corazzate, se ne andavano senza dargli nulla, e senza salutarlo. Ed uno di essi l'aveva creduto un ladro! un ladro!…

Ah, vendicarsi di loro, obbligarli a dare il denaro per tornare in Italia! Ma come?… Egli aveva in consegna le cartoline illustrate, ma la nonna le contava regolarmente ogni sera e registrava le vendite, eppoi Nennè non voleva a nessun costo imbrogliare la nonna. Bisognava trovare altro…. altro.

Fulmineamente, gli attraversò la mente il ricordo di certi ragazzi di Messina, gemelli, Antonico e Fifillo Gargiù, custodi di un piccolo santuario sul lido, che vendevano ai forestieri minuscoli pezzetti d'unghia accuratamente condizionati battezzandola per l'unghia di San Criseldo, unghia miracolosa cui bastava accostare le labbra per guarire il mal di denti. Ed avevano fatto fortuna, quei due, e in pochi anni avevano comperato un campo e una casetta, senza far male a nessuno, senza rubare…. Tutti li rispettavano nell'isola, e le madri li citavano ai figli come modelli di ingegnosa saggezza….

Se anch'egli avesse potuto avere una reliquia!… Inventarla…. fabbricarla…. per ottenere da quella gente ricca che veniva da tanto lontano, per cui pochi marchi non erano nulla, il misero prezzo d'un biglietto di terza classe per la sua Sicilia!…

Una voce stridula chiamò dall'alto:

— Hans!

Qualcuno passando pestò la coda di Wagner, e Frau Minna e Frau Elsa, l'una grande grande e grossa, l'altra piccola piccola e magra, entrambe armate di un identico verde cappellino alla tirolese con penna di gallo, scesero rumorosamente facendo scricchiolare tutta la scala.

Nennè si scansò senza salutarle, ed esse borbottarono qualche cosa fra i denti, in tedesco, mentr'egli saliva tre gradini per volta, giungeva in saletta.

— Fabbricare una reliquia!… vendere agli americani… chissà mai che cosa?… Anch'egli, come Antonico e Fifillo, le unghie…. o i capelli…. o la barba…. di qualche santo…. la barba…. la barba di Dürer!… La barba di Dürer!!…

Con un fremito di terrore e di rimorso, gli occhi di Nennè si posarono sul ritratto di lui, biondo, ieratico, malinconico, poi, folli di audacia e di speranza, discesero su Wagner che grasso e freddoloso si raggomitolava come sempre accanto alla stufa. Il gatto era fulvo e russava; russava l'immensa stufa di maiolica grigia, e nel suo letto, sotto una montagna di cuscini di piuma, russava anche la nonna.

Allora, cautamente, movendosi senza rumore, scivolando come un serpe fra la cassapanca e la stufa, Nennè afferrò la forbice tra i gomitoli di lana rossa e, gentilmente accarezzando Wagner con una mano, coll'altra gli recise sulla schiena un grosso ciuffo di pelo, poi un secondo, un terzo, un quarto.

— La barba di Dürer!…

Il tradito socchiuse appena gli occhi. Nennè fuggì nella sua stanza portando seco il prezioso tesoro.

Il giorno dopo, subito, con un'audacia, un sangue freddo ed una prontezza meravigliosi, il piano fu ideato ed eseguito. La barba di Dürer fu divisa in venti eleganti ciuffetti graziosamente legati colla seta azzurra con cui Fraulein Gretchen ricamava un paio di pantofole, e collocata in venti scatoline che prima avevano contenuto ignobili pillole per la nonna. Nennè ebbe cura di incollarvi sopra una piccola marca réclame collo stemma di Norimberga che serviva anche per le cartoline.

E quasi a favorire la sua impresa, il cielo si fece sgombro di nubi, il sole riapparve, i forestieri tornarono ad affluire.

Nennè, serio, corretto, dignitoso, apriva la porta, guidava le comitive, riconosceva tosto la nazionalità degli ospiti, aveva adottato un sistema infallibile.

Colpiva di preferenza gli americani, per una sua personale vendetta, e perchè aveva intuito la psicologia della più fanfarona delle razze.

Dal vile americano che gli aveva suggerito di rubare le stampe, egli aveva imparato il procedimento per burlarsi di tutta l'America: accompagnava i visitatori in fondo alla scala, e là, nell'andito semioscuro dove era ben certo di non esser visto se arrossiva troppo, presso al portone che era facile richiudere sul naso ai diffidenti, tirava fuori una delle sue scatoline, e, con aria di mistero e d'importanza gentilmente offriva:

— « Un véritable souvenir de Dürer, messieurs dames?… quelque chose de très rare?… quelques poils de sa barbe?… »

— « Aho?!… »

Tutti abboccavano all'amo, ed i marchi piovevano: le signore, specialmente, facevano pazzie per quelle scatoline e partivano raggianti di gioia pregustando già l'ammirazione e l'invidia delle amiche collezioniste, al loro ritorno a New York o a Rio.

— Sono contenti, — pensava Nennè mentre li guardava allontanarsi tronfi e pettoruti come fossero i padroni del mondo. — Sono sempre gli stessi che comprano le unghie di San Criseldo.

Ma bisognava affrettarsi. La cosa poteva venire scoperta; la nonna avere dei dispiaceri. Povera vecchia nonna tradita! Ella ringraziava ogni sera Nennè:

— « Tu es très pon », — gli diceva con affetto. E poi, guardando il gatto: — « Wagner va tomper malate: il perd tout son boil ». — E il rimorso addentava il cuore del fanciullo.

Bisognava affrettarsi, partire, racimolar presto la somma necessaria. Il pericolo era sul suo capo come una spada sempre balenante.

Un giorno un signore che a Nennè pareva d'aver già visto altrove — forse a Messina guidando un cab?…. — un gran signore, rosso, calvo, poderoso, sprezzante, gli aveva detto fissandolo con un grosso riso:

— « Est-ce qu'il avait la barbe très longue, ce Dürer?… Ah ah!… » — e gli aveva gettato cinque marchi, ma aveva respinto la scatolina. Nennè aveva risalito le scale battendo i denti di paura e di vergogna. O Italia! Italia!… Ancora venti marchi….

L'ultima settimana fu affannosa, tragica. Nennè non dormiva quasi più durante la notte, ma quando riusciva ad assopirsi sognava continuamente il viso e il riso del poderoso uomo che gli aveva sghignazzato in faccia:

— « Est-ce qu'il avait la barbe très longue? Ah ah!… »

Febbricitante, sconvolto, sfinito, roso dalla fretta e dall'inquietudine, Nennè raddoppiò di audacia come l'equilibrista che, prossimo a cadere affranto dalla corda tesa sul precipizio, corre per arrivare. Ormai le vendite si succedevano alle vendite, senza più prudenza, senza scelta d'individui e di nazionalità. L'ultimo giorno egli vendette sei scatoline, compì i sessanta marchi.

Gli parve di esser liberato da un incubo: uscito illeso per un prodigio da un pericolo immane: libero, salvo.

Aveva seppellito trenta marchi nel cortiletto, li disseppellì, li raccolse nel nodo del fazzoletto, si cacciò a letto, tentò di ordinare i suoi pensieri, si disse: — Finalmente! — e volle aggiungere: — Ora sono felice! — Ma tosto si accorse che tutta la sua febbre era caduta.

…. Nonna, nonna! povera nonna buona, sola, vecchia e malata in una vecchia casa di morti!…

E nondimeno bisognava partire, lasciarla, fuggire…. con rimorso, piangendo…. ma tornare là di dove si era venuti, come le rondini tornano al nido per una legge più forte d'ogni legge, più sacra della parentela; per quel bene, per quel male, che ha nome nostalgia, che ritorna alla sua terra il vagabondo dalle più lontane contrade, che ridona i figli alla madre anche se non li ha nutriti, anche se li ha percossi e traditi; per quella febbre che della terra infida rammenta solo le dolci primavere e le notti serene come una donna perfida e adorata alla memoria dell'amante ridice solo i brevi istanti d'amore….

— … Per non morire, per non morire, nonna!…

Suonavano le quattro. Nennè scese di letto, e, in camicia e a piedi nudi, reggendo con mano tremante il lumicino, prese un grosso vocabolario e lo scartabellò. Poi esitando e riflettendo, e ad ogni lettera rituffando il nasetto nel libro, scrisse su di un foglio, a grossi caratteri incerti:

« Grossmutter verzeihe mir. Ich werde zurück kommen. Hans ».

Per la prima volta egli le parlava in tedesco.

Prese il foglietto e lo mise in una busta, vi unì il mazzolino di viole copiato per chi non aveva voluto ritornare, e posò la lettera bene in vista sulla cesta da lavoro.

— Perdono, perdono!…

Poi si vestì velocissimamente, colla cautela e la rapidità di una scimmia, intascò i sessanta marchi, scivolò giù per le scale, fu sul piazzaletto immerso nella notte.

Fosca e turrita, cinta dal suo monile di geranei rossi, Norimberga dormiva; ma nella stazione il primo treno per l'Italia scuoteva già i freni, e con uno stridore di catene e di ruote, gettando un fischio, si lanciava in corsa verso la patria.

Norimberga, autunno 1912.

…. Car ces êtres sont de la race Du Vice et de la Pauvreté…. Qui font les enfances sans grâce Et les tristesses sans beauté.

François Coppée.

Quando in paese si raccontava che Nanna, la sciancata che domandava l'elemosina sulla porta della chiesa, era stata trovata in mezzo a un campo « in istato d'ubbriachezza ripugnante », e perciò trasportata all'ospitale e poi in carcere, nessuno se ne meravigliava.

Regolarmente ogni anno, al principio d'ottobre, all'epoca della pigiatura, Nanna si ubbriacava.

Che volete?… Verso sera, al tempo delle vendemmie, tutti sono allegri, un po' esaltati dalle canzoni e dai fumi del vino; le ragazze arrivano cogli ultimi cesti carichi d'uva bionda; sotto il portico gli uomini pigiano a piedi nudi e cantano; il mosto corre torbido e dolciastro: in cucina arde un gran fuoco: chi potrebbe rifiutare qualche cosa a un poverello? Appunto verso sera l'accattona ronzava intorno alle fattorie, entrava nei cortili, si appoggiava alla sua stampella, ed aspettava in silenzio.

Tosto la massaia le portava una traboccante scodella di mosto, ed ella beveva golosamente fino all'ultima goccia, deponeva la scodella per terra, e se ne andava in silenzio com'era venuta: verso un'altra fattoria, verso un'altra scodella.

Gasparone, la guardia municipale che all'epoca della pigiatura per ordine superiore correva i dintorni in traccia di risse che non avvenivano, scovava invece regolarmente ogni anno la mendicante ubbriaca fradicia sotto un albero, sulla riva d'un fosso, dietro un pagliaio, qualche volta nella cuccia d'un cane.

Egli la trascinava all'ospitale senza troppi complimenti, incoraggiandola con piccole piattonate. Un codazzo di monelli seguiva ridendo e beffando. Qualche buccia d'arancio e di mela volava sul capo di Nanna, ed allora ella si rivoltava, agitava la stampella, grugniva ingiurie cui rispondevano fischi e risate. Gasparone domava tosto il tumulto coll'autorità dei suoi baffi tinti, irti e minacciosi come due chiodi. Ma più spesso l'accattona si lasciava trascinare e beffare passivamente: la sua ubbriachezza era silenziosa e triste.

Chi a Castelluzzo poteva più interessarsi ad uno spettacolo tanto vecchio e tanto stupido?

Una sera però in causa di Nanna tutto il paese fu messo a subbuglio.

Il segretario comunale, Giacomino Ganzetta, entrò in farmacia cogli occhi fuor dell'orbita.

Il sindaco, il maestro e l'arciprete, schierati in bell'ordine coi vasi di sanguisughe e col magnifico angora sonnacchioso, lo interrogarono con sguardo spaventato. La signora Zenobia che lavorava all'uncinetto dietro il banco, e il signor Prospero che manipolava certe pillole, smisero di lavorare, e fissarono su di lui quattro occhi ansiosi.

— Che c'è?

— Non avete ancora visto il dottore? — articolò il segretario, cui l'agitazione accresceva l'abituale balbuzie.

— No! — dissero tutti ad un tempo. — Ma che c'è, signor Giacomino?

Il segretario non riesciva a spiegarsi. Infine, dopo innumerevoli suoni inarticolati e gesti di un'eloquenza da impressionare un pellerossa, il racconto esplose, terribile.

— Nanna, la sciancata della chiesa, visitata nella mattina per certe piccole ferite che non volevano rimarginarsi, aveva colpito il dottore per la sua…. come dire?… per la sua configurazione anormale. Un lampo di genio. Il dottore l'aveva esaminata… E…. l'aveva trovata in stato d'avanzata gravidanza. Uno scandalo.

— …. Non c'è dubbio?

— Non c'è dubbio.

Vi fu un silenzio d'indignazione e d'orrore. L'Arciprete aspirò l'aria con un tal sibilo che il gatto d'Angora si svegliò di soprassalto e si guardò intorno con diffidenza. La signora Zenobia chinò pudicamente gli occhi sul lavoro, e il signor Prospero riprese furiosamente a manipolare le pillole. Infine il maestro Zanella, che era il più ardito, osò la domanda che stava sulle labbra di tutti:

— E…. chi?…

— Non si sa. Finora.

La signora Zenobia guardò istintivamente il marito e questi arrossì fino alla radice dei capelli.

Nello stesso momento il campanello d'avviso squillò, e il dottore apparve. Tutti gli furono intorno.

Confermava il fatto?

Si, confermava il fatto; ma consigliava la mas-si-ma prudenza sulla faccenda estremamente delicata, in cui (era inutile nasconderlo) Castelluzzo non si faceva onore.

Tutti si ritirarono scandalizzati e preoccupati.

In quella sera molte mogli guardarono i loro mariti e molti mariti arrossirono senza ragione. Una specie di malessere teneva il paese intero; le parole del dottore: « Castelluzzo non si fa onore » erano state ripetute al caffè; sugli uomini, sopratutto sugli ammogliati, gravava l'apprensione d'un pericolo possibile. Chissà mai che cosa poteva inventare quella cenciosa, mezzo scema, vagabonda? Le mogli erano nervose o irascibili, i mariti imbarazzati e coll'aria di delinquenti.

Anche in farmacia si respirava un'aria carica d'elettricità. Il maestro Zanella aveva osato sull'argomento una parola scottante.

— L'amministrazione comunale sola — egli aveva detto — è responsabile dello stato anormale di Nanna. L'amministrazione comunale, noncurante ed inerte, che permette l'accattonaggio sulle piazze e il vagabondaggio di esseri deficienti e degenerati nocivi a sè stessi e agli altri.

Ben detto! Ma dacchè la politica aveva fatto capolino, maestro e segretario si cavavano quotidianamente gli occhi, e il gatto d'Angora non poteva più dormire.

E intanto Nanna era ogni giorno interrogata, e il paese attendeva trepidando l'esito degli interrogatorî.

Infine, come Dio volle, la notizia venne, ufficialmente ripetuta in farmacia, in sacristia e al caffè. Interrogata e riinterrogata, Nanna non accusava nessuno, anzi « negava il fatto ». Contro l'evidenza materiale, contro il suo stesso interesse, con un'ostinazione pazzesca e incomprensibile, negava.

Il paese respirò.

— Non è vero! — aveva detto l'accattona nel primo interrogatorio. — Non è vero! — aveva giurato nel secondo e nel terzo.

E dopo giorni e giorni di snervanti insistenze aveva finito per inveire, colla sua voce rauca e violenta:

— Ebbene, lasciatemi in pace! Se è vero, è vero, ed è stato il diavolo! E quando nascerà questo suo figlio, che voi dite che deve nascere, come è vero Dio, lo strangolerò!

*


Durante i due mesi che mancavano al parto, Nanna fu tenuta in osservazione all'ospitale e guardata a vista.

Nelle prime settimane le suore le furono d'attorno amorevolmente per cercar di blandirla e di ottenere da lei una parola di pentimento, un atto di contrizione e di fede.

Ma la sciancata che dapprincipio accettava le cortesie senza mostrar gratitudine nè contrarietà, chiusa in un'indifferenza fra sdegnosa ed ebete, non appena si avvide dove si andava a parare, oppose una resistenza imprevista e feroce.

Si rifiutava di mangiare, grugniva, rispondeva con spallucciate, guardava le buone Madri sospettosamente. Confessarsi? Comunicarsi?… Come? Gli interrogatorî erano finiti, ed ancora la si voleva tormentare? Con qual diritto? Che la lasciassero vivere o morire in pace.

Le suore per il momento desistettero.

Ella stava là, sulla seggiola presso alla finestra, colla stampella fra le gambe, inerte, sguaiatamente abbandonata su sè stessa, brutta d'una bruttezza repugnante e volgare.

Vecchia non doveva essere, ma i suoi capelli eran già quasi tutti grigi, ispidi, arruffati; la pelle aveva ruvida e untuosa, gli occhi chiari a fior di testa: le mancavano due denti proprio davanti.

La sua voce era rauca e violenta, ma di rado ella rivolgeva la parola a qualcuno; parlava, o piuttosto mugolava fra sè continuamente: si rivolgeva dei lunghi discorsi, ora lamentosi, ora concitati, incomprensibili per tutti. La suora infermiera e le sorveglianti però dicevano sembrar loro che in quei soliloqui la sciancata minacciasse continuamente qualcuno: forse colui che doveva nascere.

All'avvicinarsi del termine fu raddoppiata la vigilanza.

Una sera nacque, o meglio fu strappata col forcipe, una bimba, un mostriciattolo gialliccio, coi capelli già lunghi, e la pelle così floscia che pendeva in fonde pieghe dal miserabile corpo.

Nanna aveva perduto coscienza.

Due medici e due suore, oltre alla levatrice, erano intorno al suo letto.

Uno dei dottori le applicava delle compresse per stagnare l'emorragia e diceva che il caso era bellissimo.

L'altro giudicava l'operazione eseguita dal collega come brillantissima.

Tutti e due erano molto contenti.

La Superiora invece, una nobile mantovana grassa e pallida con chiari occhi freddi, era sulle spine perchè, se Nanna non riprendeva i sensi, sarebbe spirata fuori della grazia di Dio, senza confessione nè comunione. Scandalo su scandalo.

— Crede, dottore, che….? — azzardò ella porgendogli l'asciugamano.

— Madre reverenda mia! — rispose il dottore gaiamente, stropicciandosi le braccia fin sopra al gomito. — Questa qui ha la pelle dura! La bambina, piuttosto! Se riusciamo a salvarle tutte e due, possiamo dire d'aver fatto miracoli.

E tosto riprese col collega una discussione irta di termini scientifici e di parole latine.

Nanna rinveniva. L'emorragia era stagnata. La sua preziosa esistenza era salva.

La bimba invece non si risolveva a vivere nè a morire.

Naturalmente, non appena venuta alla luce, ella era stata tolta alla madre e portata al capo opposto dell'ospitale, nel riparto « Lattanti ». La Superiora stessa l'aveva tenuta a battesimo, e le aveva imposto, non a caso, il nome di « Innocenza ».

Una nutrice aveva tentato subito di attaccarsela al petto, ma inutilmente. Due giorni erano passati, e ancora la piccina non voleva attaccare.

Suore e infermiere si fermavano intorno al suo lettino e dicevano:

— Povera bimba!… Forse attaccherebbe al seno della madre, ma la madre non vuol vederla: la vuol strangolare. Se non si attacca neppur stanotte, morirà di fame.

La Superiora insisteva:

— Provate, Marianna.

E la nutrice provava, ma inutilmente. La piccina rifiutava il suo latte.

Morire, doveva: morire.

A metà del terzo giorno la Superiora prese una decisione gravissima.

Tolse la bambina in braccio, l'avvolse in una flanella, e traversò rapidamente il lungo corridoio che separava il reparto « Lattanti » dalla Clinica ostetrica.

Si affacciò all'uscio della stanzetta di Nanna, e dalla soglia, senza avanzare, alzò sulle braccia il povero essere moribondo.

— Nanna, — disse con voce calma, dominando l'inferma coi suoi chiari occhi freddi, — ecco la tua bambina. Se tu non le dai il tuo latte, muore di fame.

Allora, davanti agli occhi ansiosi e meravigliati delle suore e delle infermiere accorse in punta di piedi, uno spettacolo profondamente pietoso e inaspettato si svolse.

La donna che giaceva sul letto, coi capelli grigiastri scompigliati sul guanciale, coi lineamenti rilassati in atto d'indifferenza e d'incoscienza profonda, balzava a sedere; i suoi occhi smisuratamente si aprivano per abbracciare d'un colpo le forme incerte della sua creatura, e un grido rauco, più selvaggio che umano, usciva dalla sua bocca.

Poi le sue braccia si tendevano verso la creatura, e le labbra, inutilmente cercando un nome, una parola, per chiamarla, balbettavano disperatamente e tremavano.

La Superiora non avanzava; teneva sempre la bimba sollevata in alto verso la madre.

— Non le farai del male?…

Un singhiozzo rispose, uno schianto, un pianto, che non rassomigliava al pianto di nessun'altra donna. Veniva forse da una sconosciuta fonte, dalle più misteriose addormentate profondità dell'essere, lavava troppe sozzure: certo aveva un suono diverso e strano.

Nanna era ricaduta sul guanciale e si nascondeva il volto colle due mani.

Un fremito di pietà strinse il cuore delle donne presenti: alcune di esse erano madri, altre non lo erano, non lo sarebbero state mai.

— Datele la bambina! Datele la bambina!

La Superiora si avvicinò pianamente e staccò le mani dal volto della sciancata, poi le posò la bimba in grembo.

— Ha fame, — disse semplicemente. — Prova a darle il petto.

E Nanna cessò subito di piangere e si scoprî.

Un altro miracolo avvenne. La bambina attaccava: pareva che indovinasse sua madre.

*


Per alcune settimane la vigilanza intorno a Nanna continuò.

Si diffidava; la vagabonda poteva essere ripresa dal suo furore e nuocere alla bambina che ormai cominciava lentamente a rimettersi.

Ma ben presto tutti si avvidero che, se di qualche cosa bisognava diffidare, era della soverchia passione della madre per la figlia. Nanna si rovinava, non dormiva quasi più. Giorno e notte contemplava la sua creatura, la covava collo sguardo, l'adorava.

I suoi occhi torbidi e grossi si facevano dolci di una pietosa e tragica dolcezza posandosi sul piccolo mostriciattolo giallastro che poppava debolmente ma ogni giorno più si attaccava alla vita; la volgarità sfrontata e repugnante dei suoi lineamenti appariva mitigata, ammorbidita, in una bontà, in una compostezza nuova.

Quelle labbra che non avevano mai sorriso, talvolta sorridevano; quella bocca che non si era mai schiusa ad una gentilezza balbettava con voce rauca piccole parole nuove, inventate « per lei »; e le mani venose e adunche tentavano timide carezze, e il rossore, — il rossore! — saliva su quel volto dianzi aspro e indifferente come la pietra su cui tutti posano il piede. Il rossore, il pudore, la timidezza!… Il pugno chiuso della creaturina portava tutto questo a sua madre.

La Superiora stimò esser giunto il momento opportuno.

— Bisogna confessarsi e comunicarsi.

— Sì, tutto, tutto.

Nanna acconsentiva colla docilità d'un agnello. Pareva non rammentarsi neppure della resistenza feroce opposta pochi mesi innanzi.

Soltanto, al momento di lasciare per la prima volta la figlia per recarsi alla chiesa, un improvviso dubbio le balenò, e il terrore trasfigurò il suo volto. Posando le mani sul braccio della Superiora:

— Finchè io sarò alla chiesa, non mi porteranno via la bambina?… — balbettò.

La buona Madre la rassicurò, e Nanna si lasciò condurre, pallida, tremente, voltandosi indietro ad ogni passo, tendendo l'orecchio, come la cavalla che lascia il suo nato, e sosta, e nitrisce, e si volta, per salutarlo e chiamarlo.

Quella sera tutto Castelluzzo parlò del fatto e la Superiora fu portata ai sette cieli.

— Non tanto per la confessione e la comunione, — sentenziò in farmacia il maestro Zanella che era un mangiapreti, — quanto per aver riconciliato la madre colla figlia. È impossibile negarlo: Madre Antonietta è una gran donna.

— Una gran donna! — ripeterono il sindaco, il dottore, e l'Arciprete.

E perfino il gatto d'Angora socchiuse gli occhi, e, leccandosi i baffi, parve affermare: — Una gran donna.

Voci forse un po' esagerate, ma singolarmento edificanti, su quella che ormai si chiamava « la conversione di Nanna », cominciarono a circolare in paese, e, ben lungi dall'imaginarselo, la poveretta divenne l'argomento delle conversazioni e dell'interesse generale.

Ben presto alcune signore di Castelluzzo, facenti parte del comitato per la « Redenzione della giovane », comitato che ogni paese rispettabile alberga nel suo seno, fecero domanda alla Superiora di poter visitare Nanna per coadiuvare alla sua redenzione, e prendere qualche provvedimento sul suo collocamento avvenire.

Pensate!… L'avvenire di Nanna, di lei che non aveva avuto altro collocamento che il gradino della chiesa, altro pane che quello gettatole dai passanti.

Fu accordato. Le signore del comitato, compunte e dignitose, incominciarono le loro vìsite. Ma ebbero tosto una delusione. Nanna non aveva più bisogno d'essere redenta.

A ciò bastava, era bastata, quella grossa testa difforme coperta da una peluria bionda, quelle piccole scarne braccia che si agitavano, quell'essere fragile e brutto che miagolava in fondo al giaciglio.

Nanna non era più riconoscibile. L'istinto materno prima, la consuetudine colle buone suore, e il riposo poi, avevano fatto di lei anche materialmente un'altra persona, una donna quasi simile alle altre donne.

Rispondeva timidamente, umilmente; e la sua voce, sempre rauca, si era adattata ad inflessioni basse e monotone che ne moderavano la violenza; i suoi capelli erano ravviati, le mani e le vesti pulite.

Le signore del comitato interrogavano.

— Praticava?

— Sì, andava alla messa dell'alba ogni mattina.

— Si confessava?

— Tutte le settimane.

— E faceva quasi ogni giorno un fioretto per la salute della bambina, e partecipava alle novene per i malati gravi…. — aggiungeva la Superiora. Ad occhi modestamente chini, ella gongolava.

Le signore del comitato però non lasciarono presa. Fallita la speranza della « redenzione di Nanna », per opera loro, restava tuttavia « l'avvenire di Nanna ».

Che avrebbe fatto la poverina, con una bimba sulle braccia, spirato il termine dell'allattamento? (Ed era già molto che le fosse stato concesso di passarlo là dentro!) Che cosa possedeva? Nulla, se non una cadente capanna in riva al fiume. Poteva forse tornare a chiedere l'elemosina sulla porta della chiesa, d'inverno e d'estate, colla bambina? Poteva vagabondare di paese in paese, colla bambina?…

No. « Castelluzzo non avrebbe mai permesso una cosa simile ».

Le signore se ne andavano impettite ripetendo questa frase con energia.

E non appena restava sola colla Superiora, Nanna le si gettava ai piedi, le abbracciava i ginocchi, baciava la croce che le pendeva al fianco, piangeva, supplicava:

— Madre, madre, dove mi manderanno?… Non mi toglieranno la bambina!…

La Superiora la calmava. Ella sapeva che la portinaia dell'Istituto dell'Infanzia derelitta era morta da un mese e non era stata ancora sostituita. Le signore del comitato proponevano intanto un posto di custode alla Casa di Ricovero per Nanna, ed uno all'Orfanotrofio per la bambina. Era la separazione. Seguì una scena violenta di lagrime e di convulsioni. La Superiora comprese che bisognava affrettarsi. La sua influenza era misteriosa e grande. In capo a pochi giorni il consiglio d'amministrazione dell'Infanzia derelitta proponeva la nomina di Nanna come portinaia, e l'accettazione della bambina nell'Istituto come educanda.

Era un posto ideale: si trattava di aprire la porta dopo aver spiato dalla piccola grata, e di fare i segnali d'avviso secondo la persona introdotta. Bisognava vestire una specie d'uniforme, alzarsi all'alba, seguire le pratiche religiose delle suore, non uscire che una volta al mese in compagnia di una monaca.

— Nanna accettava?

— La bambina sarebbe stata ricoverata colà? L'avrebbe potuta vedere ogni giorno?…

Accettava tutto: tutto. La facessero prigioniera, la caricassero di catene, non le lasciassero più vedere il sole, ma non le togliessero la bambina.

Madre e figlia furono accolte.

Il « Comitato per la Redenzione della giovane » passò un quarto d'ora di cattivo umore.

*


Sedici anni trascorsero. Nanna e Innocenza non avevano più lasciato l'Istituto.

Innocenza era già una giovinetta: gobba, con un pallido viso dal mento aguzzo, e dei biondi capelli meravigliosi che sciolti toccavano terra. Nell'Istituto tutti le volevano bene.

Le suore che l'avevano accolta piccina dalle braccia di sua madre, con una grossa testa che ciondolava malforma, e due lunghissime mani irrequiete, l'avevano sempre considerata come una cosa sacra, come il segno visibile d'un prodigio avvenuto.

La scena — un po' fantastica, un po' storica, — della repentina conversione della sciancata alla vista della sua creatura moribonda, aveva colpito come un miracolo quelle anime semplici e proclivi ad ammettere il soprannaturale, ed aveva cinto d'una specie d'aureola la grossa testa della piccina.

Intorno alla sua culla Innocenza non aveva visto che volti sorridenti, mani solerti e amorose. Ella non aveva avuto una sola madre: tutte le suore le erano state un po' madri.

Ed oltre alle suore, anche le compagne l'avevano amata, perchè era la più piccina e la più debole. Le grandi di dieci anni l'avevano difesa dai baci e dalle carezze maldestre delle piccole di cinque; le vecchie di quattordici l'avevano protetta dalla prepotenza di quelle di dieci: qualche volta erano avvenuti serî litigi ed eran piovute lagrime di gelosia.

Innocenza aveva tardato molto a camminare. Tutte le malattie dell'infanzia si erano addensate su di lei. Fino a tre anni, ella era stata nella sua seggiolina, davanti a un panchetto, intenta a tagliuzzar carta e a formar bizzarre figure colle sue mani irrequiete; non camminava ma continuamente chiacchierava con voce acutissima ed aveva i capelli già raccolti in due treccioline lunghe e sottili come serpentelli.

A tre anni, un bel giorno, e precisamente il giorno di Santa Teresa, la piccola aveva lasciato la sua seggiola, e, barcollando e tentennando colla sua grossa testa fra il silenzio ansioso delle suore presenti, aveva traversato il guardaroba ed era andata a cadere davanti all'altarino, sotto il Crocefisso stillante sangue dalla sua corona di spine.

La piccina cadendo aveva battuto in uno spigolo, e piangeva, ma le suore confortandola ammiccavano fra loro con occhi lucidi e commossi; i primi passi di Innocenza erano stati rivolti verso l'altare.

E così, dai tre anni in poi, ogni tappa della vita di lei era stata accolta con commossa compiacenza, con meraviglia, quasi con orgoglio.

A sette anni, in occasione della visita del vescovo di Mantova, la piccola, vestita di bianco, coi lunghi capelli sciolti sul corpo difforme, aveva recitato una poesia di circostanza con tale accento da strappare le lagrime.

A dieci anni, nel saggio annuale, ella aveva cantato un a solo: « Ave, Maris Stella »; e le autorità di Castelluzzo l'avevano freneticamente applaudita.

A dodici, a quattordici, il giorno della dispensa dei premi, era stata sempre lei a salire per la prima la scaletta col tappeto rosso conducente al palco del sindaco, ed aveva ricevuto i più bei libri di premio, rilegati in verde, in celeste, trattenuti da un nastro. Un suo quadro ricamato a passata: « Il giudizio di Salomone », col re, le due donne, il neonato agguantato per una gamba, figurava nell'oratorio sotto una tendina di seta verde, ed era scoperto nelle feste solenni.

Ah! ella era ben l'eletta del Signore!… La sua pietà era citata ad esempio: assisteva ogni mattina alla messa dell'alba, e si comunicava con tal fervore che bene spesso nell'atto d'ingoiar l'ostia benedetta era colta da deliquio o da convulsioni.

Nel suo quindicesimo anniversario la Superiora le aveva regalato un libro di preghiere a fregi d'argento, « Le preghiere a Gesù », dove lo Sposo celeste era invocato coi più dolci, coi più sacri, e coi pïù inaspettati nomi.

Innocenza ne era stata riconoscente e turbata a tal segno che il libro non la lasciava più nè giorno nè notte. Lo accarezzava colla mano sotto il guanciale, o lo teneva sul petto, ripeteva i dolci nomi per lunghe ore e ne sognava.

Madre Antonietta, la sua prima protettrice dell'ospitale, s'interessava continuamente a lei, non senza una segreta rivalità di Madre Gesualda, Superiora dell'Infanzia derelitta. E una vecchia signora molto devota che faceva ogni anno il « Ritiro » nell'interno dell'istituto, ben consigliata, aveva lasciato morendo ventimila lire alla Pia Opera, e dodicimila alle due ricoverate, Innocenza e Nanna, usufruttuaria la madre.

Nanna passava le sue giornate in portineria, seduta presso alla grata, con un grosso mazzo di chiavi alla cintura. Lavorava a maglia; aveva sostituito la stampella con un bastoncello forte e ricurvo, ed aveva intorno al collo il largo nastro azzurro delle madri cristiane. Anche di lei le suore non avevano che da lodarsi: silenziosa, devota, premurosa, esatta.

Ella non viveva che per aspettar l'ora della ricreazione in cui sua figlia veniva a trovarla. Per quell'ora si sarebbe fatta tagliare a pezzi, scorticar viva brano a brano.

Di rado Innocenza se ne dimenticava, ma, quando questo avveniva, la disperazione di Nanna era tacita e profonda: un annientamento di tutto il suo essere. Improvvisamente, pareva divenire ebete e sorda: non udiva più il campanello d'avviso, oppure apriva senza spiar dalla grata, trascinava la gamba storpia con una lassitudine che la sua infermità ne appariva d'un tratto quadruplicata.

E in quei momenti avveniva che il passato le ritornasse fulmineamente dinanzi…. La campagna immobile nelle arsure d'agosto, il ciglio polveroso d'una strada, l'odore d'un'acqua stagnante, il latrato di un cane, la sua capanna bassa e nera in riva al fiume…. Ah! fuggire laggiù, ancora, libera, sola, nei campi deserti, sdraiarsi all'ombra d'un albero e ascoltare le rane, trascinarsi di cascina in cascina, senz'altra legge che il sole che si leva e che si corica, mangiare nella scodella del cane, libera, libera!…

La voce d'Innocenza squillava nel cortile. Uno scalpiccìo cadenzato di piedi, due battute di mano. Le piccole educande intonavano il coro.

…. In questo santo asilo Posa serena il piè!

Come a un inaspettato squillo di tromba il cuore di Nanna sussultava, e la madre trasfigurata balzava zoppicando verso la finestrella e guardava in cortile.

Le educande, tutte eguali nell'uniforme color piombo orlata di viola, colla mantellina rotonda, e il nastro delle figlie di Maria, sfilavano a due a due marcando col passo la cadenza del coro.

Avevano tutte i capelli tirati sulle tempie e riuniti sulla nuca in un minuscolo nodo; i grossi piedi uscenti dalla gonna nè lunga nè corta; le mani rosse e gonfie di geloni.

Innocenza, nel mezzo del cortile, colla testa che sembrava piegare sotto il peso delle trecce, segnava il tempo battendo le palme. Madre Gesualda, suor Genoveffa, e suor Agata, ascoltavano.

E ad un tratto la fanciulla alzava il mento aguzzo verso la finestrella, e sorrideva a sua madre.

Tutto era dimenticato. Non esisteva più nulla. Nanna era felice. Felice!… Tornava al suo posto; e sorrideva; e balbettava parole di tenerezza; e tendeva l'orecchio; e batteva festosamente col bastone sull'impiantito. Un'onda d'amore e d'orgoglio le gonfiava il cuore, passava, travolgendo e placando, sulle memorie di vergogna, sugli avvelenati istinti.

…. Come era bello, quel coro!… E come Innocenza sapeva dirigere bene!… Quale trionfo per lei alle prossime recite di carnevale!… Si inaugurava il teatrino, e si rappresentava nientemeno che un dramma con musica e cori: Innocenza, naturalmente, sosteneva la parte principale, e sarebbe stata una duchessa: una duchessa bellissima e saggia che tre principi volevano sposare. Ma ella invece rifiutava, e si faceva religiosa per fuggire così le tentazioni del mondo.

…. In questo santo asilo Posa serena il piè!

Con una toccante cecità le suore sembravano non avvedersi che Innocenza era gobba. Più di una volta esse l'avevano fatta recitare, e l'avevano abbigliata con ingenua ricercatezza, le avevano arricciato ed infiorato i lunghi capelli. Non finivano di ammirarla per quei meravigliosi capelli. Nanna li accarezzava con devota timidezza, le piccole imploravano come un premio di poter vederli quando erano sciolti: morbidi, un po' flosci, d'un biondo smorto, incornicianti un pallido viso di donna su di un corpo difforme di bambina.

Tutto lasciava credere a Innocenza di essere una vera bellezza.

Ella toccava i diciassett'anni. Alla vigilia del saggio annuale, ai primi di luglio, una violenta epidemia difterica scoppiò. La mortalità era enorme.

Tutto il paese fu in allarme; le scuole furono chiuse, i collegiali rimandati alle loro case, le monache ad altri conventi.

Nanna e Innocenza dovettero acconciarsi ad andarsene. Dove?

Nanna ricordò di avere una capanna in riva al fiume, a due chilometri dal paese. Avrebbero potuto ricoverarsi colà: il denaro non mancava per riattare alla meglio una stanzetta; già, non l'avrebbero abitata che per poche settimane. Così fu deciso.

E un dopo pranzo madre e figlia salirono piangendo su una carrozzella.

Non riescivano a staccarsi dalle care mura del convento, dalla Superiora diletta, che restava per ultima, come il capitano sulla nave che affonda.

Dopo tanti anni ininterrotti di quiete, di protezione sicura, di sicuro asilo, trovarsi ad un tratto sole, sperdute nel mondo!

La luce feriva violentemente le loro pupille avvezze alla penombra, le strade che le conducevano lontano sembravano loro paurose e interminabili.

Madre e figlia smarrite baciavano lo scapolare della Superiora, ripetevano fra le lagrime:

— Fra pochi giorni, fra pochi giorni torneremo, Madre Gesualda!…

E sotto la mantellina color piombo Innocenza serrava forte il grosso libro a fregi d'argento: « Le preghiere a Gesù », unico conforto nel doloroso distacco.

*


Una voce allegra chiamò dall'argine: — Innocenza!

E tosto, ad una finestrella della capanna, fra due vasi di garofani rossi, una testa bionda s'affacciò ed una voce acuta rispose:

— Un minuto, Pasquetta, scendo subito!

La ragazza che aspettava sull'argine si mise a canterellare. Era una ragazzona tarchiata, dalle spalle quadre, dalle guance paffute; aveva due piccoli occhi d'un azzurro intenso ed una larga bocca sempre ridente. Portava una blusa chiara di percalle, e tra i capelli crespi e rossicci aveva una dalia rossa.

Sulla porta della capanna apparve Innocenza seguita da Nanna.

— Uh!… — esclamò l'altra alzando le braccia. — Come sei bella!…

Innocenza aveva sostituito l'uniforme del convento con un vestito di tela giallognola a fiorellini viola; aveva i capelli divisi in due grossi rigonfi, sul volto pallido un velo di polvere molto visibile.

Ella si lasciò ammirare con compiacenza, poi disse, attaccandosi al braccio dell'amica:

— Era ora che lasciassi quei cenci!

Le due ragazze si allontanarono allegramente verso il paese.

In tre settimane si erano fatte inseparabili amiche. Le loro case, poste l'una quasi dirimpetto all'altra sulle rive opposte del fiume, si guardavano: Pasqua non aveva che da traversare il ponte per arrivar da Innocenza, Innocenza non aveva che da sventolare il fazzoletto per chiamare Pasquetta.

Nelle prime sere dopo il suo arrivo alla capanna, Innocenza sedeva nel cortiletto, a lato di sua madre, e con molta tristezza. Ambedue tacevano; Nanna lavorava; Innocenza guardava il fiume scorrere. Non conoscevano nessuno.

Pasquetta passava ogni giorno sola con un piccolo paniere; aveva un fiore tra i capelli e canterellava; ed ella, che sorrideva a tutto: al fiume, agli alberi, alle rondini, aveva sorriso anche alle due sconosciute che vedeva ogni sera silenziose allo stesso posto. Poi aveva cominciato a salutarle, a sostare davanti al cancelletto, a scambiare qualche parola.

L'amicizia si era legata in fretta. Veramente era stata Nanna a precipitare le cose. Avendo capito che la figlia moriva dalla voglia di uscire a passeggio, aveva trattenuto Pasquetta con un pretesto, poi le aveva offerto una fetta di focaccia, e, da una parola all'altra….

Le ragazze trottavano a braccetto chiacchierando.

Era il tramonto. La strada, alta sull'argine che seguiva il fiume, era popolata di frotte d'operaie che uscivano dalle fabbriche per tornare alle loro case; gruppi di giovani in camiciotto precedevano e seguivano ridendo e celiando. Tratto tratto sostavano per attendere lo sciame femminile o affrettavano il passo per poi lasciarsi ancora sorpassare. Qualche coppia d'innamorati proseguiva con volontaria lentezza, parlando sommessamente nel dolce tramonto.

Quasi tutti si voltavano a guardare Innocenza che, arrivata da poco, non era conosciuta. Le ragazze bisbigliavano:

— Chi è?

Ed uno dei giovani disse forte:

— Che bei capelli, signorina!

Ed un secondo:

— Pronta per friggere.

Gli altri si misero sguaiatamente a ridere.

Le due amiche continuarono il cammino senza voltarsi.

Tutti quei giovani, quegli sguardi, quella curiosità, eccitavano Innocenza, le sferzavano il sangue; ed ella rideva forte, gesticolava colle sue lunghe mani, chiacchierava volubilmente con voce acutissima. E Pasquetta l'ascoltava a bocca aperta.

Pasquetta era molto bestia. Sapeva appena leggere e scrivere; ella ammirava la sapienza della sua amica e credeva ciecamente alle mirifiche descrizioni dei trionfi di lei.

— Capisci, — raccontava Innocenza guardandosi furtivamente intorno nella speranza che qualcuno ascoltasse, — in carnevale s'inaugurò il teatrino con una recita: « La duchessa Ildegonda ». Io feci la parte di duchessa. Capisci? Tu non ti puoi imaginare quali splendidi abiti ho indossato: uno così, color del cielo a stelle d'argento; l'altro, color malva trapunto d'oro.

Tutto ciò non era forse scrupolosamente esatto, ma Innocenza era convinta di dire la verità.

— Ah, che bellezza!… — proseguiva ella. — E tre principi mi volevano sposare.

— Quale hai scelto? — chiese Pasquetta, subitamente interessata.

— Nessuno, — rispose con sussiego Innocenza. — Mi sono ritirata dal mondo, e mi son fatta suora.

— Pazza! — rise l'amica con una risata lunga e argentina. — Io mi sarci presa uno dei principi, il più bello!…

— Anch'io, sai!… — confessò Innocenza sottovoce stringendole il braccio. E seguitò: — Bisogna che tu venga a casa mia a vedere i miei libri di premio: ti mostrerò le figure. Sono rilegati in tela e oro: ne ho dieci.

— E li hai letti tutti? — chiese Pasqua con ingenuo stupore.

— Tutti! — asseverò Innocenza. — Ora però leggo altra cosa. Leggo i « Reali di Francia ».

Continuarono a camminare. Pasquetta raccolse un sasso e lo gettò nel fiume. A un tratto Innocenza sospirò, guardando il cielo:

— Ah!… Io vorrei essere una regina, e che qualcuno si uccidesse per me.

Entrarono nella borgata. Era un'ora dolce. Molti oziavano sulla porta delle case; le beghine si dirigevano alla chiesa; suonava l'Ave Maria.

Nella piazza, fuori della farmacia, due gatti giovani erano usciti a godere il fresco e si baloccavano in fraterna domestichezza col cane. Dall'ultimo piano di una casa veniva il suono d'un a solo di flauto.

Sulla vetrina del barbiere, fra due file di trecce stoppose, due teste si facevano ammirare, l'una di legno, bianca e rosa, cogli occhi di smalto, coi capelli dipinti color ebano; l'altra viva, bianca e rosa anch'essa, ma con una zazzera di ricciolini biondi e due baffetti un po' più scuri impomatati. Era Zeffirino, il giovane barbiere, che si esponeva così ogni sera agli sguardi ammirativi del bel sesso castelluzzese. Egli si sporse vivamente al passaggio d'Innocenza e di Pasqua.

— Dove andate, belle ragazze?

— Dove ci pare e piace, — rispose ruvidamente Pasquetta senza fermarsi.

— Uh, che scontrosa!… — fece lo zerbinotto. — Non parlo con lei, parlo colla sua amica!

E, abbandonato il suo posto d'osservazione, uscì nella strada.

— Vuol dirmi dove vanno di bello, signorina Innocenza? — insistette egli, pur non cessando di sbirciare Pasquetta che guardava ostentatamente dall'altra parte.

— Andiamo da Giocondo a comperare del pane, e da Agesilao a comperar del formaggio, — rispose gentilmente Innocenza; e piegò un po' il capo per far ammirare le trecce.

— Vuol darmi quella dalia? — domandò Zeffirino a Pasquetta.

L'altra gli rise in faccia.

— Se la prenda, se ci arriva!… — lo sfidò ella mettendosi a correre sul marciapiede. Quando fu a venti metri sostò, e gettò la dalia sopra i tetti.

— Se lei crede che me ne importi!… — le gridò dietro Zeffirino, e si accompagnò a Innocenza, raggiungendo con marcata lentezza la dispettosa.

— Come sa che mi chiamo Innocenza? — chiese la ragazza al compagno.

— Me l'ha detto la sua amica, quando passava sola, e degnava rispondere alle mie domande, — fece Zeffirino, e più forte: — A lei, signorina Innocenza, prenda questo garofano: lei se lo merita, perchè è tanto gentile quanto è elegante.

La fanciulla prese delicatamente fra il pollice e l'indice il gambo esile del garofano e avvicinò il fiore alle nari. Poi sorrise a Zeffirino con infinita riconoscenza.

Il giovane ormai non rivolgeva più il discorso a Pasquetta: tutte le sue attenzioni erano rivolte a Innocenza. Pasquetta si era chiusa in un ostinato mutismo.

Innocenza rideva, scuoteva la testa con civetteria, stringeva le labbra, guardava Zeffirino con estatica ammirazione; gli occhi luccicavano di gioia nel viso aguzzo.

Fatte le provviste, s'incamminarono verso casa.

Quando furono davanti al cancelletto della capanna, Innocenza chiamò forte:

— Mamma!

S'intese lo scalpiccìo del faticoso passo di Nanna, ma Pasquetta non l'attese, e piantò in asso i due con un burbero « buona sera ».

Nanna apparve sulla porta della cucinetta dove un fuocherello divampava allegro.

— Vede?… — disse Innocenza, — questa è la mia mamma, e questa è la nostra casetta. Era un orrore quando ci arrivammo, pareva una tartaruga accovacciata sotto l'argine: nera, screpolata; ora l'abbiamo intonacata e restaurata un po', e, a poco per volta….

— Loro sono qui da molto? — chiese Zeffirino seguendo cogli occhi la tarchiata figura che si allontanava.

— La mia Innocenza è uscita solo da tre settimane dall' Istituto dove è stata allevata, — disse con fierezza Nanna.

— Si capisce dalla sua educazione! — notò galantemente il giovane barbiere. — Lei non è come la sua amica.

— Oh, quella là!… — fece Innocenza con disprezzo, e si mise a ridere.

Zeffirino si congedò.

Le due donne sedettero nel cortiletto.

— Vuoi cenare, Innocenza?

— Non ho fame, mamma. Restiamo qui ancora un poco.

L'ombra era calata sulle case, sui campi, Il fiume nero scorreva ai piedi della capanna, tacitamente.

All'improvviso la figlia chiese alla madre:

— Abitavi qui, tu, mamma, da ragazza?

Nanna alzò il capo con un fremito. Poi rispose a voce bassa:

— Sì, cara.

— E, dimmi, mamma, il tuo fidanzato come ti conobbe?

Nanna non rispose.

— …. Fu a passeggio, oppure fu qui, vedendoti fuori della porta a lavorare?… Raccontami.

La madre ripetè come un automa:

— Fu… qui… vedendomi fuori della porta a lavorare.

— Com'era, mamma?… Non me ne hai mai detto nulla. Com'era?…

La madre ancora non rispose. Pareva che l'ombra le si fosse addensata dintorno.

Innocenza le si avvicinò e le sfiorò colla mano la mano fredda.

— Sei agghiacciata, mamma!… Hai freddo!… Vuoi che rientriamo in cucina? Lì c'è un bel fuoco, e potrai raccontarmi meglio la tua storia. Rientriamo, rientriamo, mamma!

— No! — oppose impetuosamente la donna. — Ti racconterò tutto quello che vuoi, ma lasciami qui. Il fuoco mi fa male.

— Dunque, come fu?…

— Dunque…. — incominciò penosamente la madre dopo una lunga pausa, rannicchiandosi nell'ombra. — Fu così…. Io abitavo qui. Non uscivo mai da questo cortiletto. Lavoravo presso alla porta. Un giovane che passava ogni sera si innamorò di me e mi volle sposare. Poco dopo avermi sposata morì, ed io mi ricoverai con te all'Istituto.

— Ma…. com'era?… com'era, mamma, il tuo sposo?… Era biondo?… aveva i capelli ricciuti? due baffetti più scuri?…

— …. Era biondo, coi capelli ricciuti…. coi baffetti più scuri…. sì, era così.

— E che cosa ti diceva?… ti dava dei fiori?…

— Mi diceva tante cose…. mi dava tanti fiori….

— Veniva ogni sera?… Ti voleva molto bene?… E tu, mamma, l'amavi?

— Tutto questo è vero, figlia mia.

— Povera mamma!… — esclamò Innocenza, — ti fa male il parlarne, non è vero? Sei stata così disgraziata, povera mamma!… Avere uno sposo che ti adorava, e perderlo!… Perdere una felicità così immensa…. Perchè tu sei stata felice, proprio felice, non è vero?

— Sì, figlia mia.

Le due donne ricaddero nel silenzio.

Ad un tratto Innocenza riprese ad interrogare, con una voce ansiosa e timida:

— …. Eri molto bella, tu, mamma?…

La sciancata si sollevò nell'ombra con un brivido di passione, tese le mani a cercare la testa di sua figlia, e l'accarezzò.

— Tu sei molto più bella. Io non avevo i tuoi bei capelli. Io non avevo la tua bella voce. Io non avevo la tua istruzione. Io, non ero come sei tu.

Innocenza posò il capo sulle ginocchia di sua madre.

— …. Quante stelle!… Dev'essere una felicità immensa, l'amore!… Tu che lo sai, mamma, dimmi…. è una felicità proprio immensa?… È proprio una felicità di paradiso?…

La voce cupa di Nanna ripetè come un'eco:

— Una felicità di paradiso.

*


Innocenza stava alla finestra a consultare il « Linguaggio dei fiori». Lo aveva comperato di nascosto, ed ora l'interrogava con ansietà.

Possibile?… Zeffirino in una settimana le aveva dato due garofani rossi: « amore ardente »; due bianchi: « indifferenza »; un fiore di gaggia: « gelosia »; un ciclamino: « siete bella e fredda »; una dalia gialla: « odio e disprezzo ». Come raccapezzarsi?…

Il ciclamino forse diceva il vero; egli glielo aveva dato la sera innanzi con viso cupo mentre Pasquetta fischiettava; certo era un rimprovero per lei, Innocenza, per la sua freddezza che gli toglieva il coraggio di spiegarsi.

Poichè non c'era dubbio che egli l'amasse. L'aspettava ogni sera, si univa a loro, chiacchierava sempre con lei, le dava i fiori, la complimentava di continuo, anche in presenza di Pasquetta, che, un po' in disparte, ottusa e immusonita, fingeva di non sentire, guardava in alto, e batteva forte gli zoccoletti rossi sul marciapiede.

Ma non appena Zeffirino le lasciava, ella scuoteva il braccio dell'amica e le rideva sotto il naso, nervosamente:

— È innamorato di te! È innamorato di te!…

E qualche sera dimenticava passando di chiamarla, o rinunciava alla solita passeggiata, ma cantava a squarciagola dalla sponda opposta del fiume.

Innocenza sentiva, e scuoteva il capo con disprezzo. Nanna borbottava:

— Tutta rabbia!

E allora Innocenza se ne andava sola al paese, tutta bene acconciata dalle mani di sua madre che le arricciava i capelli e le metteva la cipria sul viso. Ogni sera Nanna le stirava il vestito nuovo a fiorellini viola, e la guardava allontanarsi rapida, colla testa un po' storta, carica di trecce, e le lunghe braccia magre.

Zeffirino vedeva da lontano giungere la gobbetta; usciva dalla bottega.

— E Pasqua? — domandava.

Qualche volta non lo domandava neppure, ma era nervoso, turbato, si capiva che avrebbe voluto dire qualche cosa e non osava.

Innocenza lo guardava coi suoi grandi occhi avidi, colla testa un po' curva sotto il peso delle trecce, gli diceva timidamente:

— Vuole accompagnarmi per un po' di strada?…

Ed egli l'accompagnava; ma l'imbarazzo cresceva, il silenzio si faceva greve, Zeffirino le dava il fiore che stava rigirando fra le mani, si congedava in fretta, riguadagnava in due salti la soglia della sua bottega. Qualche ozioso gli chiedeva ridendo:

— A che punto siamo, Zeffirino, colla gobbetta?

Innocenza tornava a casa trasfigurata dalla gioia, portando il fiore come una reliquia, come un trofeo di vittoria. La madre l'attendeva sulla porta.

— Mamma! mamma!… È un garofano, questa sera! Guarda come è bello!… Ah, mamma! che felicità! Mi aspettava. È innamorato di me, ed io l'amo, l'adoro! Ah, mamma, mamma mia!… Siedi, vieni qui, lascia che ti racconti.

E sedevano tutte e due nella cucinetta, presso alla tavola preparata, madre e figlia cogli occhi scintillanti. Non mangiavano; dimenticavano la zuppa che si raffreddava nelle scodelle, dimenticavano di accendere la lucerna. Nanna beveva le parole di sua figlia, e la felicità di lei l'abbagliava e la travolgeva come una veemente ebbrezza.

— Sai, mamma, mi ama tanto…. non me l'ha detto, ma mi ha guardato così…. mi ha stretto la mano così…. mi ha dato questo fiore in un certo modo…. Ah, Dio mio! Se tu avessi visto come era bello stasera!… Aveva una cravatta rosa a bolli verdi…. E poi era così commosso che la voce non gli veniva…. Anch'io ero commossa, e non riescivo a dirgli una parola…. Perciò egli crede che io sia fredda, mentre l'amo, l'adoro!… Ma succede a tutti, non è vero?… che l'amore fa quest'effetto, che rende timidi, impacciati?… Succedeva anche a te, mamma?

— Sì, sì, anche a me, cara.

— E il tuo fidanzato non se ne offendeva? ti voleva bene lo stesso? capiva?… Io ho paura che il mio creda che non l'ami…. Ho paura che si stanchi di me…. ho paura, mamma!…

— Ma no, cara, no; non temere: ascolta. Anche a me avvenne. Sì, certo… avvenne, avvenne anche a me…. Non ti affannare: ascolta.

Più l'ombra infittiva, e più Nanna si faceva loquace. Coi gomiti sulla tavola, colla testa fra le mani, nel buio, ella raccontava. Era sparito l'imbarazzo penoso del primo giorno; ora i dettagli si moltiplicavano; gli episodî fiorivano; il suo sposo era descritto come un eroe, come un Dio; il periodo del loro fidanzamento come un periodo d'incantata felicità.

— I suoi parenti si opposero perchè io ero povera, ma egli mi volle, mi volle a tutti i costi….

Qualche contraddizione cadeva qua e là nella meravigliosa favola, ma nè la narratrice nè Innocenza ne avevano coscienza. Madre e figlia erano immerse in un'atmosfera di sogno.

Infine la voce di Nanna taceva, e improvvisamente lo scorrere del fiume fra le alte sponde nere riempiva del suo fruscìo la cucinetta.

Innocenza diceva con un sospiro:

— Accendi, mamma.

La madre accendeva la lucerna; si guardavano in viso tutte e due un po' pallide; si mettevano a mangiare in silenzio, l'una davanti l'altra, la zuppa fredda e oleosa, e tratto tratto smettevano di mangiare per sorridersi, cogli occhi umidi e felici.

Un giorno Innocenza era nella sua camera quando Nanna la chiamò:

— Innocenza, il postino!

La ragazza scese di volo.

— C'è una lettera da Mantova, una raccomandata, — disse il grosso uomo colla bisaccia a tracolla.

Innocenza firmò sul libro, poi aperse la lettera, e lesse.

— È della Superiora, ci annuncia che fra quindici giorni l'istituto sarà riaperto, — diss'ella duramente, e gettò la lettera sulla tavola. Dalla busta cadde un'imagine sacra, contornata di trafori. Nanna si chinò a raccoglierla.

— Che cosa facciamo?… — chiese con timidezza non osando guardare la figlia.

Questa, che si era messa alla finestra colla faccia tra le mani, si volse impetuosamente alla madre.

— Non penserai che torniamo a seppellirci là dentro, non è vero? Non penserai che io torni ad essere la schiava e la serva di tutti, non ti passerà per la mente?

Nanna curvò la schiena come il cane quando il padrone lo batte.

— Faremo quello che vuoi tu, cara, — rispose umilmente. — Non arrabbiarti.

La ragazza si riaffacciò alla finestra e cominciò a strappare le foglie secche dalle piante di geranio. Le strappava rabbiosamente e poi le gettava nella strada. A un tratto rientrò verso sua madre e disse, più calma:

— Senti; ho pensato. Congedarci dalla Superiora, bisogna, altrimenti direbbero che ricambiamo coll'ingratitudine i beneficî. Noi li abbiamo pagati dieci volte, tu ed io, in sedici anni; ma per il mondo!… Dunque bisogna congedarci dalla Superiora; ma se aspettiamo a parlarle qui, quando l'Istituto è riaperto, chissà con quali arti ci tratterrà! Là le pietre sono gommose, e chi vi posa il piede vi si attacca. Andiamo invece a Mantova alle Orsoline. Troveremo la Superiora sola: è altra cosa. Le spiegheremo….

— Che cosa le diremo?…

— Quello che vuoi…. la verità!… Che io non voglio più tornare in convento…. Le racconteremo…. Le diremo che infine…. che infine…. io penso piuttosto a maritarmi!

*


La diligenza sgangherata colle due bolse cavalle grigie sostò nella fitta nebbia del mattino davanti al convento delle Orsoline.

— Signore! — avvertì galantemente l'auriga facendo schioccar la frusta. — Siamo arrivati.

Le due rozze si voltarono mestamente a guardar Innocenza e la madre che discendevano; i compagni di viaggio, un carabiniere baffuto, e una donnetta con una valigia sulle ginocchia, le salutarono con cenni del capo; la dilligenza si rimise in moto. Era stato un viaggio allegro, pieno di chiacchiere; Innocenza, che aveva sognato Zeffirino tutta la notte, eccitata ed inquieta, aveva intrattenuto incessantemente la compagnia, aveva persino cantato riscuotendo gli applausi del carabiniere. Ella diede una spavalda strappata al campanello: tosto due occhi spiarono dalla grata, e la porta ferrata, con grande rumore di chiavi, girò sui cardini.

— Che odore di chiuso!… — borbottò Innocenza all'orecchio di Nanna, ed inoltrarono una dietro l'altra nel corridoio.

Ma non appena la portinaia guercia ebbe richiuso dietro a loro pianamente l'uscio del parlatorio, madre e figlia si sentirono riafferrate da quel non so che di tacito e di ferreo che stagna nella chiusa atmosfera dei conventi, delle chiese, delle prigioni, che induce a smorzare la voce ed il passo, che immobilizza le volontà.

Nel nuovo vestito a fiorami, nella nuova pettinatura a rigonfi, Innocenza si sentì a disagio. Ella si passò la manica sulle guancie per toglierne la polvere; incontrò gli occhi di sua madre, grossi e spaventati.

Ed ecco che la porta si aperse pianamente, e Madre Gesualda entrò. Sottile come un cero, pallida, col volto soffuso di bontà, e fasciato dalle bianche bende. I neri occhi di lei, l'unica cosa viva ed ardente in tutto quel pallore, si posarono fuggevolmente con un'impercettibile espressione di sorpresa sull'abbigliamento strano della sua protetta, ma la voce tranquilla non tradì nessuna contrarietà, le mani si offersero a baciare, molli e benedicenti.

— Avete fatto tutto questo viaggio per…? Racconta, racconta, figlia mia.

E Innocenza incominciò a raccontare. Prima esitante, cercando le parole, arrossendo sotto lo sguardo calmo che non la lasciava, poi animandosi via via che raccontava.

— La nuova vita…. la casa…. i restauri…. il giardinetto…. le nuove relazioni….

A questo punto si arrestò improvvisamente.

— Continua tu, mamma.

E Nanna, ingarbugliandosi ancor più della figlia, proseguì:

— L'amicizia con Pasquetta, una buona ragazza…. le passeggiate fino al paese…. Quella vita di moto faceva molto bene a Innocenza…. (si era fatta rossa e grassa!…) gli incontri…. infine…. infine…. perchè nasconderlo?… c'era un giovane che aveva delle intenzioni su Innocenza. Erano venute per questo, per confidarsi alla Superiora, per chiederle consiglio, e raccomandarsi alle sue preghiere. Poichè…. poichè naturalmente…. per il motivo di questo giovane…. Innocenza non avrebbe più potuto ritornare in convento.

Vi fu una pausa interminabile che un moscone annaspante presso ai vetri riempì del suo assordante ronzìo. La nebbia si era levata; dalle alte finestre entrava il sole allegro. Due suore giovani, colle gonne rimboccate, gettavano grandi secchie d'acqua sulle mattonelle del porticato in fondo al cortile; nella stanza accanto una mano infantile ripeteva le scale, sbagliando ostinatamente la stessa nota.

— Do, re, mi, fa, sol, sol, sol….

Finalmente una pioggia di domande si scaricò sulle spalle delle due donne: lenta, calma, monotona.

— Il giovine è di religione? Come si chiama? Che cosa fa? Da chi è conosciuto? Siete sicure che sia un buon giovane, timorato di Dio, mosso da sincera affezione per Innocenza, e non da cupidigia per il vostro piccolo peculio? Ha intenzioni serie? Quanti anni ha? Come si è espresso? Conoscete la sua famiglia? siete informate della sua salute?

Innocenza ripeteva come un ritornello:

— Sì, Madre; sì, Madre… — ed aveva gli zigomi accesi, e due piccole macchie rosse sulla fronte. Nanna guardava la figlia e faceva col capo cenni continui d'assenso.

Finalmente la Superiora si alzò:

— Promettetemi di sospendere ogni impegno, ogni trattativa, finchè io non sia tornata all'Istituto. Si tratta di aspettare due settimane. M'incarico poi di assumere informazioni, e, se la cosa è possibile…. Se è per il tuo bene, figlia mia…. Dio sa le sue vie…. Pregherò intanto per voi…. E anche voi pregate, raccomandatevi al Signore….

Ella aveva regalato a Innocenza due imagini sacre, aveva accompagnato le due donne fino alla porta, aveva offerto le mani a baciare. La guercia col suo gran mazzo di chiavi era accorsa ad aprire.

— Mamma! — disse Innocenza non appena furono sulla strada. — È andata abbastanza bene!… Torniamo a casa. Non ne posso più.

Alla Corona d'Italia c'era una diligenza che partiva quasi subito, ma si fermava a Cernedo, a due chilometri dalla capanna di Nanna.

Le due donne vi salirono egualmente, prese dalla febbrile ansia del ritorno. Non avevano mangiato nulla; Nanna però aveva un po' di pane e salame nella lunga tasca della sua gonna e l' offerse alla figlia che ingoiò qualche boccone nervosamente, mentre i cavalli stracchi s'avviavano.

Che stanchezza, quel viaggio!… Non finiva mai: la campagna sempre eguale; la pianura monotona nuovamente affogata nella nebbia; i paesetti insonnoliti nella grigia quiete del pomeriggio; i visi imbambolati del falegname colla pialla in mano, del calzolaio che imbrandiva una scarpa, che si affacciavano al passare della diligenza: sempre lo stesso, sempre lo stesso…. Faceva quasi freddo; Innocenza avrebbe voluto spingere la carrozza, frustare i cavalli a sangue, pur di arrivare più presto.

Nanna la guardava e non osava chiederle nulla. Tutte e due, senza dirselo, si sentivano stringere il cuore.

Ma ad un tratto, dopo una svolta, trasalirono insieme di sorpresa e di gioia.

Il bel fiume largo e silenzioso che passava davanti alla loro capanna, il loro amico, il caro confidente, che le ascoltava ogni sera chiacchierare presso al cancelletto, era là, all'improvviso, più largo e più azzurro nella piatta campagna.

— Mamma! Guarda, mamma! — esclamò Innocenza sporgendo vivamente il capo dal finestrino.

E tosto la nebbia plumbea parve sollevarsi sul paesaggio come un sipario, ed esse festosamente riconobbero e salutarono campanili, case, cascine, alberi, cani abbaianti, finestrelle fiorite. Innocenza incominciò a cantare.

Si rientrava, si rientrava nel paese dell'amore!…

A Cernedo dovettero discendere. Ma non sentivano più stanchezza nè freddo; la strada era la stessa che Innocenza quasi ogni sera percorreva per incontrar Zeffirino: ogni sasso era bello e dolce al suo piede, e Nanna rifletteva come uno specchio le impressioni di sua figlia.

— Domani lo rivedrò! — ripetè per la decima volta la ragazza. — Domani!… Ma tu, mamma, non raccontargli che siamo state dalla Superiora. Del resto, che importa a noi delle informazioni?… Se egli mi ama, ed io lo amo, non basta, mamma?…

— Certo che basta, cara.

— Ah, che gioia! che gioia!…

Ella riprese a cantare con quella squillante acuta voce un po' in falsetto che sovrastava anche nei cori tutte le voci:

Se tu mi fai morir Non me ne importa!… Se tu mi dai il tuo amor Fammi morire!…

Erano arrivate al cancelletto arrugginito del loro piccolo giardino; la capanna era tutta chiusa, colle finestre sbarrate. Nanna trasse di tasca una grossa chiave,

E tosto, di là dal fiume, una voce chiamò:

— Innocenzaa….a….a!…

E la tarchiata figura di Pasqua apparve sulla riva, attraversò correndo il ponte. Aveva un grembiale a righe bianche e azzurre, una dalia nei capelli scompigliati, gli zoccoletti dalla punta rossa: la bocca, gli occhi, ridevano, sfavillavano.

— Ti ho sentita da lontano! — gridò ella abbracciando rumorosamente l'amica. — Di dove torni?… Sono già stata a cercarti a mezzogiorno, ma era tutto chiuso, — continuò tutto d'un fiato senza accorgersi del contegno freddo e un po' imbarazzato delle due donne.

— Vorrei pregarti di un favore, Innocenza!… Tu sola puoi farmelo, che sei tanto brava, che sai scrivere tanto bene!… Io ho una calligrafia da gallina… Sai? ho ricevuto stamane una lettera… una lettera di Zeffirino… Così bella!… Egli voleva darla a te, ma tu non c'eri, e me l'ha mandata per la posta…. Sai, da due anni mi ama, e non aveva coraggio di dirmelo…. credeva che lo disprezzassi… E infatti, io non gli facevo che dispetti!… Ma, per timore che non mi volesse bene sul serio!… Quanti dispetti gli ho fatti, Dio mio!… — Pasquetta si mise a ridere di gran cuore nascondendosi il bel viso nelle due palme. — Ma lo amavo, sai!… Oh, come lo amavo!… E quanti pianti ho fatto per lui!… Ma ora si è dichiarato…. Sono così contenta! così contenta!… E tu gli risponderai una bella lettera per me, non è vero, Innocenza?… Ho portato la carta.

Le due donne erano impietrite, livide, immobili, come inchiodate al suolo.

Nanna fissava alternativamente sua figlia e la ragazza straniera, ed i suoi occhi erano torbidi e cupi. Innocenza, pallida, colla testa storta, si mordeva le labbra a sangue, e taceva.

A un tratto Pasquetta ricordò di essere stata negli ultimi tempi poco gentile colla sua amica, di aver trascurato di andare a prenderla, di avere cantato a squarciagola per farle rabbia, e, interpretando il silenzio di lei come un memore corruccio, pensò di indurla al perdono con una prova di fiducia.

— Innocenza! — diss'ella toccandole il braccio. — Non sarai mica in collera con me?… Vuoi che ti faccia leggere la lettera di Zeffirino?

Nanna scattò come una biscia cui si pesti la coda. Brutalmente afferrando la ragazza, e scuotendola per il petto, ella la cacciò contro la polverosa siepe che cingeva il cortiletto.

— Vuoi tacere, vuoi tacere, svergognata?… Vuoi levarti dai piedi?… — le gridò sulla faccia con voce rauca e sibilante. Indi tirò a sè con un violento strappo il cancello, lo sbatacchiò sul naso di Pasquetta, e, presa per le spalle la figlia, la spinse dentro, nascondendola, difendendola, coprendola colla sua persona.

Giunta nel mezzo della cucina che era buia, colle imposte tutte chiuse, a tentoni senza lasciarla trovò la seggiolina sua bassa presso alla finestra, la fece sedere, le si accoccolò accanto, le prese le mani, e glie le baciò. E come Innocenza taceva, senza lagrime, presa da un tremito convulso, la madre balzò in piedi, disperata, violenta, cacciandosi le mani nei capelli, ululando ingiurie e bestemmie da tanti e tanti anni sepolte nella sua memoria, minacciando col pugno chiuso verso colei che aveva fatto tutto quel male, verso colei che fuggiva lungo l'argine cogli svelti zoccoletti rossi senza voltarsi indietro.

— Svergognata!… Sgualdrina!… Ladra!… Losca figura!…

Poi di nuovo si accoccolò in terra vicino ad Innocenza, la cinse colle sue braccia.

— Cara…. Non era degno di te quel furfante… Non era degno…. Tu sei tanto bella, figlia mia…. sei tanto bella…. ne troverai un altro migliore…. Non disperarti…. non tremare…. Ne troveremo un altro…. Vuoi che ti comperi un vestito nuovo a righe bianche e verdi?… Vuoi che ti accompagni alla fiera di Cernedo?… Tutto quello che vuoi… tutto quello che vuoi… ma non disperarti… non soffrire….

*


La vendetta di Pasqua era molto semplice, forse non voluta: ella passava ogni sera davanti alla capanna d'Innocenza, stretta al braccio del suo Zeffirino.

La prima sera ella aveva lanciato passando un'occhiata alla finestrella della sua amica, un'occhiata fra trionfante e paurosa; ma le sere di poi era passata chiacchierando così fitto col suo innamorato, così stretta a lui, così immersa nella sua nuova felicità, che aveva persino dimenticato di vendicarsi.

Ma Innocenza, dietro le imposte socchiuse, raggomitolata su sè stessa come un serpe, pallida e a denti stretti, la spiava.

Ella non era più tornata al paese; si era rinchiusa in casa, in una solitudine, in un mutismo ostinato e freddo che desolava sua madre; non mangiava quasi nulla, passava le notti a voltarsi e rivoltarsi nel letto, ma non piangeva, non si lagnava, e se Nanna la guardava, se l'interrogava con quei suoi umili occhi di cane prorompeva aspramente:

— Perchè mi guardi? che vuoi? — e correva a chiudersi a chiave nella sua cameretta.

Nanna dal buco della serratura vigilava, e intravedeva la figlia, presso alla finestra appena, socchiusa, in agguato. E avrebbe voluto gridarle:

— Non guardare!… — e trascinarla via con sè, bendarle gli occhi, perchè non vedesse. — Non guardare! non guardare!…

Nanna sapeva bene!… Era primavera, l'ora in cui l'amore degli altri fa tanto male a chi è solo; dopo il tramonto tutti gli innamorati venivano a passeggiar lungo il fiume… Passava Pasquetta con Zeffirino; passava la figlia dell'oste del Gambero con Gigi carrettiere; passavano Concettina e Rosa, le merlettaie, coi due fidanzati; e Teresa, la zoppetta pallida, col suo fedele suonatore di flauto che da sette anni aspettava di poterla sposare; e Nina, la rossa, colla gran bocca e gli occhi sempre ridenti, ora coll'uno, ora coll'altro… E come andavano lenti, come parlavano sommessamente!

Poi veniva il gaio sciame delle operaie delle filande, degli operai della cartiera, stornellando, chiacchierando, ridendo, arrestandosi a scambiare sguardi, fiori, saluti.

Era primavera, era primavera!… Qualche cosa passava nell'aria, come un fremito, come un chiamarsi, come un volersi bene… Il fiume era così trasparente che rifletteva il cielo tutto a bianche pecorelle, e in fondo ad esso si scorgevano morbide foreste vellutate, e piccoli pesci guizzare; le siepi si facevano verdi; nelle ondate dell'aria si sentiva un fiato tiepido e odoroso.

Innocenza guardava. Un vagabondo cieco, tutto barba e cenci, con un grosso naso bitorzoluto si fermava ogni sera sotto alla sua finestra e cantava, accompagnandosi colla chitarra:

Quando gli augelli fan versi d'amore E l'aria fresca comincia a schiarire La gente fa di fior le ghirlandette Cominciano a gioire li amadori E fanno dolzi danze i sonadori. E non si può d'amor proprio parlare A chi non prova i suoi dolzi savori; E senza prova non se 'n può stimare Più che lo cieco nato dei colori.

Un piccolo sordido barbone, tenendo fra i denti il piattino e dimenando la coda, raccoglieva l'obolo dei passanti. Tutti davano qualche soldo, anche i più poveri; tutti avevano un saluto amichevole pel cantatore cieco che si diceva essere un antico professore di letteratura caduto in miseria.

Innocenza guardava: dapprima con odio, con rancore, con rabbia, tutta quella gioia intorno a lei destarsi negli uomini e nelle cose, poi a poco a poco, coll'acquietarsi del ricordo, con interesse, con curiosità, con simpatia, con struggimento…. quasi con tenerezza, quasi con speranza….

Sì, con speranza!… Perchè non anche per lei?… C'era tanto amore al mondo!… Ce n'era tanto tanto, per tutti, per tutti!… Lo si sentiva talmente nell'aria, nell'erba, nel cielo che mutava colore ad ogni ora, nel gioioso trillo dei passeri dondolanti sulle vette degli alberi!… Perchè non anche per lei?…

Ella aveva diciassett'anni; dimenticò Zeffirino e Pasquetta; spalancò la finestra; e si rimise a sperare.

Così, quando sua madre un giorno salì a bussare alla sua porta e con timidezza le chiese se acconsentiva a comperare due biglietti per il trattenimento organizzato a beneficio dell'erigendo padiglione per i tubercolosi (c'era giù l'incaricata alla vendita che aspettava) ella rispose subito:

— Ma sì, certo! Perchè no?…

E Nanna tutta contenta scese le scale quanto più in fretta potè a recare la buona nuova alla venditrice.

Da quel giorno Innocenza si rifece ciarliera, allegra, affettuosa con sua madre, impaziente dei preparativi.

Fu comperato il vestito a righe bianche e verdi; una grossa scatola di polvere; una bottiglia d'acqua di rosa, un ferro per arricciare i capelli. La sarta venne da Castelluzzo con un fascio di figurini, e, dopo lunghe discussìoni, tagliò e cucì un vestito meraviglioso, forse un po' complicato, ma indubbiamente di ultima novità e di sicuro effetto.

Il prezzo delle sue giornate parve a Nanna alquanto elevato, ma in compenso la buona donna prima di andarsene dichiarò che Innocenza sârebbe stata la ragazza più elegante della riunione, e questo bastò per rendere la madre completamente docile alle sue pretese.

*


Le due frazioni di Castelluzzo e Cernedo, tradizionalmente in lotta fra loro, che si dilaniavano a sangue sull' « Eco della verità » e sulla « Scintilla del bene », dopo lunghe esitazioni, discussioni e litigi, si erano finalmente accordate di mandare entrambe un egual numero di consiglieri al concerto vocale istrumentale indetto pro « Padiglione Tubercolosi ».

Come astenersi, quando era ben stabilito che il padiglione sorgesse ad eguale distanza di chilometri, metri, centimetri e millimetri, dalle rispettive chiese? Come rifiutare il proprio obolo ad una simile opera di carità? Lo scandalo sarebbe stato troppo grave. Perfino l' « Eco » e la « Scintilla » da qualche giorno tacevano.

Quella sera, alle otto in punto, cinque consiglieri di Castelluzzo, rappresentanti il partito moderato, in severa giacca nera, entrarono solenni nella sala sfarzosamente addobbata di bandiere tricolori e di festoni d'edera, e presero posto nelle poltrone di velluto rosso: « a destra entrando ». Alle otto e un minuto, i cinque di Cernedo, rappresentanti i partiti popolari, in elegante « négligé », fecero il loro ingresso e occuparono le poltrone di vellute rosso: «a sinistra entrando».

Il sindaco, che non era di Cernedo nè di Castelluzzo, seguito da due assessori, l'uno moderato, l'altro popolare, entrò per ultimo, salutando col capo ad eguale profondità a destra e a manca.

Le due falangi nemiche affettavano di ignorarsi.

E, nei posti distinti, le signore di Cernedo, quelle di Castelluzzo, a gruppetti di tre o quattro in fila, l'uno più variopinto dell'altro, separate da barriere più insormontabili che trincee, affettavano esse pure di ignorarsi, ma si contavano reciprocamente i capelli, e scrutandosi di sottecchi facevano provvista di pettegolezzi e di chiacchiere per l'indomani.

Del resto tutto era andato benissimo. La signorina Attila Meggiorini (di Castelluzzo), vestita di lana bianca con un nastro di raso celeste in testa, aveva cantato con voce soave e con molta espressione « M'hanno detto che Beppe va soldato », ed era stata richiesta, del bis.

La signorina Aida Ratta (di Cernedo), vestita di lana rosa con un nastro verde in testa, aveva suonato sul mandolino con incomparabile delicatezza « La leggenda valacca », ed era stata richiesta del bis.

Due eguali mazzi di fiori erano stati offerti alle due vezzose giovinette. Poi c'erano stati gli interessanti giochi di prestigio presentati dal signor Pericle Meneguzzi, maestro di Castelluzzo; e la canzone di Garibaldi declamata con voce tonante dal cavalier Ildebrando Restelletti, nipote di uno dei mille, di Cernedo.

Due eguali medaglie d'argento, col nome inciso, e la data, erano state offerte ai due ottimi giovani.

Il sindaco stesso volta per volta aveva dato il segnale degli applausi, e le due parti avevano militarmente incominciato insieme, ed insieme finito, i battimani, come regolate dal metronomo.

Nondimeno, chi l'avrebbe detto?…. Tutte queste precauzioni non erano valse ad impedire il giorno appresso lo scatenarsi della guerra civile.

Sì, il concerto era andato bene, non c'era che dire; le due frazioni avevano dato per la beneficenza il fior fiore dell'intellettualità e dell'eleganza…. ma poi?… poi?… partite le autorità, tolti i freni, che cos' era successo? dove si era andati a finire?…

Appena l'élite aveva lasciato libero il campo era successo un pandemonio. La folla che gremiva i posti da cinquanta centesimi aveva invaso la sala, sgombrate le seggiole, fatto entrare due suonátori di armonica….

E mentre quelli di Cernedo, giovani e ragazze, pur nell' allegria avevano saputo conservare un contegno castigato e dignitoso qualle si addice a gente timorata di Dio, la plebaglia di Castelluzzo (dominata dal mal governo dei socialisti!) si era abbandonata ad uno scapigliato tripudlo, bevendo, ballando, cantando, profanando insomma il luogo sacro alla beneficenza con una vera orgia infernale.

Gli abitanti di Cernedo, in massa, avevano sgombrato la sala in segno di protesta. Due episodî documentavano la descrizione dell' « orgia » facendo inorridire anche i più spregiudicati.

Nina, la rossa, era stata colta mentre si lasciava baciare, dietro una porta, da un uomo ammogliato, padre di cinque figli!!!…

E una certa Innocenza, una gobbetta da poco stabilita fuori di Castelluzzo, presa in mezzo da tre scapestrati, un sergente e due operai della cartiera, era stata ubbriacata e malmenata, poi il sergente l'aveva fatta ballare ed erano andati a finirla tutti e due a gambe all'aria. Un'orgia!… un'orgia!…

Sulla prima pagina della « Scintilla del bene » apparve un articolo di fondo di quattro colonne, listato a bruno, con questo titolo a lettere cubitali: « Horresco referens ».

Ma le due principali eroine non lo lessero.

Nina, la rossa, fuori della porta della sua osteria, colle mani sotto il grembiale e la bella bocca senza pentimenti, rideva e canterellava; Innocenza, cui le confuse reminiscenze della serata avevano lasciato una più ardente irrequietudine, una più torbida arsura, capitava in paese due o tre volte al giorno, passava e ripassava davanti alla caserma, tirando il collo, sperando di vedere il suo sergente, di cui non rammentava bene il volto, ma le braccia robuste che l'avevano abbrancata e fatta girare vorticosamente, i lucidi bottoni, il fiato caldo e vinoso.

Il sergente era irreperibile; ma fuori della caserma c'erano sempre soldati, e al passar della gobbetta, azzimata, infarinata, che li guardava tutti con occhi avidi, umili, e sfacciati, si davano di gomito, assumevano delle pose assassine, e poi sghignazzavano alla più bella.

Un'anima caritatevole stese un piccolo rapporto anonimo, e l'indirizzò a Madre Gesualda da poco rientrata all'Istituto dell'infanzia derelitta.

La chiamata della Superiora piombò fulminea e inaspettata.

— Va tu, mamma: io non vengo!… — dichiarò dispettosamente Innocenza. — Sono stanca di essere sotto tutela! Dille che ci lasci in pace, che noi abbiamo diritto alla nostra libertà. Dille che ti paghi il salario di sedici anni di portineria. Dille che ho altro per la testa, io, che le sue querimonie!…

E Nanna andò.

E quando fu davanti alla Superiora negò, negò tutto; giurò sul Cristo che la lettera anonima non diceva il vero, che la sua Innocenza era sempre stata la stessa, tutta chiesa e casa; che anzi non aveva più voluto saperne neppure di quel tale.. di quel tale di cui avevano parlato alla Reverenda Madre; promise di tornare presto con lei a rassicurare, a convincere la Superiora.

La buona Madre, scossa dall'insolita eloquenza di Nanna, si lasciò disarmare. Ella non voleva, no, richiamarle per forza nell'istituto se preferivano vivere fuori (il Vescovo anzi aveva anche recentemente raccomandato alle religiose di non influire mai in questo senso sulle loro protette) (tempi infidi!) ma intendeva metterle in guardia contro i pericoli di cui è sparsa la via, specialmente per una giovinetta. Se la buona Innocenza era stata presa di mira dalla maldicenza senza sua colpa, che si astenesse per qualche tempo dal tornare in paese, che facesse vita ritirata, di preghiera, in modo da chiudere, coll'aiuto di Dio, la bocca ai maligni…

Nanna ringraziò, promise…

Innocenza intanto stava alla finestra, nell'ombra della sera, ma non per aspettare sua madre.

*


Vi sono sventure che strappano le lagrime; altre, più insultanti e più atroci, che muovono il riso, che eccitano lo scherno, il frizzo mordace, quasichè il loro aspetto abbia il potere di attirare a galla quanto nell'anima umana v'ha di più spietato e perverso.

La sventura di Innocenza era fra queste.

La sua comparsa al concerto aveva attirato l'attenzione; la sua deformità, resa ridicola dalla bizzarra e ricercata acconciatura, l'ansiosa smania di piacere, l'esasperata debolezza con cui aveva accolto le buffonesche galanterie del sergente, l'insistenza con cui si accaniva a mendicare l'amore, avevano fatto di lei lo zimbello di tutte le ironie, la caricatura meta di tutte le beffe: il bersaglio, cui ogni passante si credeva in diritto di scagliar la sua pietra.

L'innamoramento per Zeffirino fu risaputo: raccontato e abbellito da Pasquetta di molti particolari; vi fu chi assicurò che ella era stata anche innamorata del cappellano, e che attualmente faceva gli occhi dolci al vecchio sordo che colla sua barca portava i passant di là del fiume. Qualcuno dubitò; altri volle provar « se era vero ». E per qualche tempo « far la corte alla gobbetta » divenne il trattenimento di moda, lo spettacolo quotidiano più attraente e saporito. A una cert'ora a Castelluzzo i ragazzi oziosi sulla porta delle case domandavano:

— Chi è di turno?

I corteggiatori erano tre, tre scavezzacolli, ed ora all'uno ora all'altro toccava passeggiare sotto alle finestre della gobbetta.

Gli altri seguivano in gruppo a qualche distanza, o vigilavano dietro una siepe. Ed ognisera andava a finire allo stesso modo: fosse l'uno o l'altro dei tre, la gobbetta appariva alla finestra, camuffata con una pettinatura monumentale tutta a onde e a riccioli, con un enorme nastro rosa al collo, pallida e infarinata: assumeva una posa languida fra i due vasi di garofani; e man mano che l'ombra avanzava si faceva audace, rispondeva ai cenni, ai sorrisi, odorava un mazzolino di fiori, sospirava, agitava il fazzoletto.

A pianterreno, la capanna, colle imposte tutte chiuse, sembrava deserta; ma Nanna era invece prigioniera volontaria nella cucinetta non osando mostrarsi per non disturbar la figliola.

Gruppi di ragazze, preavvisate del trucco, passavano a braccetto cantando, e appena svoltate lasciavano di cantare e si mettevano a ridere come pazze.

Una sera uno dei tre commedianti spinse l'audacia fino ad accennare alla gobbetta di scendere nella strada.

Ed ella, tremando e rabbrividendo, discese.

Ma non c' era più nessuno; verso Cernedo un'ombra dileguava rapidamente, certo l'innamorato aveva avuto paura di quell'ombra.

Che notte, fu quella per lei!… Col libro di preghiere stretto sul seno gramo, ella ripeteva perdutamente le invocazioni a Gesù, ma vedeva una bocca rossa china su di lei, sentiva un alito caldo sfiorarle l'orecchio…. Aveva freddo, le mani brucianti, e la fronte molle di sudore… Il suo misero corpo ardeva e si consumava, ed ella batteva i denti, e tremava, e si sentiva mancare… come altra volta, in convento, in qualche gelida mattina, quando nella penombra il prete avvicinava alle sue labbra l'Ostia consacrata. Perdutamente ella ripeteva, rabbrividendo: — Sposo celeste, vieni, non tardare, ti supplico… — Quanto lunghe sfilarono le ore primadi giungere ancora alla penombra della sera!…

Ma, giunta la sera, non apparve più alcuno.

Cominciava a far freddo; una banda di saltimbanchi aveva piantato le sue tende nella piazza di Cernedo; avevano due scimmie, un cane ammaestrato, il nano Bagonghi; le belle ragazze e i giovanotti accorrevano in frotta. Si era stufi di far la corte alla gobbetta; se ne aveva riso abbastanza: per il momento lo spettacolo era sostituito.

Ed ella aspettò, aspettò; dapprima fiduciosa e impettita nei suoi ricci, nelle sue gale; poi inquieta, sporgendosi alla finestra, smaniando, rabbrividendo di freddo e d'ansia, aprendo e chiudendo l'impannata, arrivando fino a scender sulla strada, ad attendere accovacciata per terra fino a tarda ora nella notte.

Nessuno, nessuno più!… La strada era deserta; il fiume frusciava appena tra le sponde; la luna splendeva fredda sui campi, sulle siepi immobili; tutto era silenzio.

Qualche tempo dopo il suo disgusto con Pasquetta, Innocenza aveva legato amicizia con altre tre ragazze: Rosina e Teresa, operaie delle filande, e Ninetta, loro cugina, che le raggiungeva ogni sera dal paese dove prestava servizio dall'alba al tramonto. Ma verso Rosina e Teresa l'amicizia d'Innocenza non era che un nome: era piuttosto ammirazione, diffidenza ed invidia. Rassomigliavano troppo a Pasquetta, entrambe avevano il fidanzato, e non facevano che connettere le dolcezze del loro amore coll'inconscia crudeltà delle creature sane e felici.

Ma verso Ninetta, silenziosa, timida, vestita a lutto, verso Ninetta che non pensava all'amore e non ne parlava mai perchè doveva ogni dì lottar colla fame e sgobbare per sè e per i suoi piccoli fratelli, Innocenza sentiva tenerezza e simpatia, forse perchè la vedeva così diversa da lei, forse per un inconscio bisogno della miseria di consolarsi col pensiero di un'altra miseria.

Ella l'aspettò una sera, la colse sola, le si confidò.

— Ninetta, Ninetta mia, io impazzisco di dolore!… Sono abbandonata, sono abbandonata!… Mi hanno lasciata tutti e tre!…

Ninetta la guardò. Innocenza era così stravolta e consunta da non lasciar dubbio che non soffrisse davvero, che non avesse preso sul serio l'indecente gazzarra: le sue lagrime erano lagrime vere.

Una sincera pietà e un acuto rimorso punsero il cuore di Ninetta. Ella era buona, e, non appena Rosina e Teresa le avevano svelato ridendo la trama ordita ai danni dell'amica, si era ripromessa di metterla subito sull'avviso; ma poi…. un fratellino malato, la necessità di lasciare il servizio per curarlo, nulla da mangiare per sè e per le creature…. come trovar tempo di pensare agli altri?…

Ella aveva lasciato correre, o meglio aveva completamente dimenticato il suo proposito, ed ora l'amica si confidava proprio a lei, con tanto dolore, con tanto visibile spasimo: a Ninetta pareva di essere complice del tradimento.

Tosto, ella pensò che era necessario impedire almeno che Innocenza ricadesse nell'inganno, che si prestasse nuovamente alla farsa umiliante.

Ma non appena ebbe incominciato con parole timide ed esitanti a far intravedere la verità ad Innocenza, il furore che si dipinse sul volto di lei fu tale, e ne fu così contraffatta, che Ninetta non ebbe più coraggio di continuare.

— Per…. per ridere?… Tu dici…. tu dici.. che venivano…. per ridere?… Ma ripetilo, se sei capace, ripetilo davanti a questi occhi che li hanno veduti, gettarmi dei baci, divorarmi cogli sguardi!… Ripetilo!…

E le si avvicinava con tanto furore, con tanto astio; con tanto livore le soffiava in viso le sue smentite, e con tale lacerante spavento della verità, che la povera Ninetta tacque per non farla soffrire di più, e si allontanò in fretta per non esser battuta.

Ma ormai il veleno del dubbio si era infiltrato nel cuore di Innocenza, ed il bene che Ninetta aveva voluto farle si era tramutato in una nuova tortura; la timida parola ammonitrice era diventata un mostro dalle cento teste, implacabile, feroce, che le divorava l'anima di continuo.

— Per…. per ridere?… No, non può esser vero!… Non deve esser vero!

E nuovamente ella si acconciava alla finestra tra i due vasi di garofani, livida e infarinata, colla monumentale pettinatura a rigonfi, con un enorme nastro color rubino intorno al collo: sembrava una di quelle grottesche figure di cera, spettrali e variopinte, che attirano i villani fuori delle baracche da fiera.

Ma nessuno, nessuno più tornava!…

Qualche carrettiere passava a lato del suo barroccio, senza alzare gli occhi, facendo schioccare la frusta; un merlo fischiettava con ironia:

— Per…. per…. per…. per ridere!

E allora ella nascondeva il volto fra le braccia e bagnava di lagrime il bel vestito a righe verdi, il nastro color rubino; oppure si gettava sul letto, si torceva come una furia, si mordeva le mani, si strappava i capelli, singhiozzava così forte che Nanna l'udiva dal pianterreno.

Una sera la madre non resse più, e faticosamente salì la scaletta di legno, si chinò sulla figlia, le posò la mano sul capo, chiese con umile timidezza:

— Perchè piangi, Innocenza?

Quella balzò:

— Non piango! Non piango! Perchè dovrei piangere?… Vattene!

E in quel momento sentì di odiare sua madre.

Sì, di odiare sua madre.

*


Ormai un sordo rancore, un'acre invidia, una perfida gelosia l'inasprivano anche contro di lei.

« Ella », « ella », sapeva che cos'era l'amore!… Ella era stata amata, scelta, voluta a forza, accarezzata da un uomo innamorato. Che importava il resto?… Che importava il dolore, la miseria, il sacrificio « di tutta una vita », dipoi?… Fosse pure per un'ora, ella era stata amata, era stata felice: nella sua esistenza e'era questo lume!…

Mentre Nanna faticosamente si aggirava per la cucinetta intenta a preparare la cena, oppure nel piccolo giardino ad annaffiare le violacciocche dell'unica aiuola, la figlia la seguiva cogli occhi, notava — per la prima volta, dopo tanti anni!… — il corpo deforme di lei, i grigi ispidi capelli, la goffa e cascante grassezza, il penoso trascicare della gamba sciancata, e non guardava con occhi di figlia, ma con cattivi occhi di donna, di rivale.

— Tutte, tutte, perfino « lei »!…

E dinanzi a sua madre un'atroce vergogna la prendeva, un atroce furore, d'esser così brutta, così disprezzata, così sola; e sospettava «anche nei suoi occhi» l'ironia, nelle sue parole l'offesa, nella sua pietà la condanna.

— Lasciami sola! Non guardarmi! Va!…

Una sera udì la povera sua madre ridere con una vicina sulla porta del giardinetto, e sobbalzò come sotto un colpo di staffile.

— Ridono di me!…

Un'altra volta Nanna le portò a vedere un gatto, un povero gatto malato, spelacchiato, irto e tremante nei suoi peli, un povero gatto randagio che i monelli avevano ferito, percosso, rincorso a sassate fino alla loro capanna abbandonandolo poi per morto in mezzo alla strada. Nanna l'aveva raccolto, medicato, nutrito.

— Ma sarebbe meglio che morisse…. — diss'ella, — non ha padrone, nessuno lo vuole, tutti gli fanno del male…

E Innocenza nelle tenebre del suo cuore:

— Dice a me!… Dice a me, perchè nessuno mi vuole!…

Ah, tortura, tortura!…

Così fu che ella incominciò un giorno, durante l'assenza di Nanna, a scriversi una lunga lettera d'amore: la scrisse, la lesse palpitando, tracciò l'indirizzo tendendo l'orecchio ai rumori, e, calata la sera, corse al paese ad impostarla.

Il giorno dopo il postino gliela riportò, ed ella l'aperse con ostentazione, la scorse, se la nascose in seno, ma poi Nanna la rinvenne sulle scale, come smarrita.

Due giorni appresso, ecco un'altra lettera; e i giorni seguenti un'altra, un'altra, ed una terza ancora.

Ormai il postino arrivava quasi ogni sera, e Innocenza lo attendeva impaziente. Gli occhi materni la seguivano trepidando, sperando.

Ma ormai la convinzione della madre non bastava più ad appagare la fanciulla; ora bisognava mostrare le lettere alle amiche: a Rosina, a Teresa, che erano così fiere degli scarabocchi dei loro fidanzati, che avevano troppe volte sogghignato fra loro quando alla posta tutte e due ritiravano lettere ornate di un cuore trafitto, mentre ella rimaneva in un canto a mani vuote.

Le ragazze ascoltarono la lettura di quelle lettere a bocca aperta. Poi Innocenza mostrò loro la busta, il timbro, l'indirizzo. Le lettere erano firmate: « Fernando Altoviti ».

— Ma chi è?… — chiesero le amiche non potendo credere ai loro occhi.

Innocenza rispose con sussiego:

— Io non lo conosco, sarà un forestiero, ma egli mi conosce, mi ha vista, mi ama, e un giorno o l'altro verrà a chiedermi in isposa.

Le ragazze si guardarono in silenzio. Poi si congedarono in fretta, ed Innocenza udì per un buon pezzo le loro voci e le loro risate.

— Non credono, — fremette ella mordendosi le labbra.

Ma due sere dopo le fanciulle si fermarono nuovamente davanti alla capanna.

— Ti ha più scritto?… — chiese con aria di mistero Teresa.

— Sì, un'altra lettera, — rispose Innocenza fissandola; e la cavò dal seno.

— Vuoi farcela leggere? — disse Rosina.

Innocenza uscì sull'argine, e, a bassa voce, al lume della luna, circondata dalle fanciulle che curvavano sulla carta le teste bionde, incominciò la lettura, con enfasi contenuta, sottolineando le frasi più dolci, abbassando la voce trucemente sulle più cupe, commovendosi sinceramente alle più patetiche.

Sopraggiunse Tarquinia, la sorella di Teresa, ed anch'ella si unì al crocchio ed ascoltò. La sera dopo vennero anche Caterina e Gigetta, le gemelle che abitavano verso Cernedo, e poi anche Giovanna, sorellastra di Pasqua, col suo fratellino.

E tutte ascoltarono. I saltimbanchi se n'erano andati; il crocchio si faceva ogni sera più numeroso.

— Ormai credono, — disse fra sè Innocenza; e si guardò allo specchio.

Del resto, perchè non poteva esser vero?… Ella si ricordò che in convento nell'ultima recita di carnevale aveva sostenuto la parte di Duchessa Ildegonda.

— Tre principi mi volevano sposare… — mormorò ella.

E suor Agata, provandole il vestito di seta azzurra a festoni d'oro, non le aveva detto: Sembri una vera duchessa?…

Con un pezzo di specchio rotto ella si guardò di profilo.

Perchè non poteva essere vero?…

Era pallidissima, di un pallore verdastro e triste, magra come se un fuoco interno la divorasse, cogli occhi cerchiati, le labbra bianche. Ella sciolse i capelli, i meravigliosi capelli, flosci, molli, smorti, malati, che la coprirono come un manto.

— Perchè non potrebbe esser vero?… Fernando Altoviti!… — mormorò ella come in sogno.

E con un cencio di stoffa rossa si strofinò le guancie e le labbra, con un piccolo carbone calcò la linea delle sopraeiglia.

*


Così fu che una sera il postino, anzichè una, portò due lettere a lnnocenza. L'una aveva il solito formato, la solita calligrafia, la solita firma: « Fernando Altoviti »; l'altra era più grande, di color rosa acceso, colla busta adorna di una colomba recante nel becco un ramoscello di « non ti scordar di me ».

La lettera rosa diceva:

« Signorina!

« Nutro per Lei da lungo tempo un vero amore, un'indomabile passione, ispiratami dal suo gentil sembiante e dalle sue rare doti di educazione. Sì, signorina, Io l'amo, e spero di poter renderla felice. Da tanto tempo ammiro i suoi occhi dolcissimi e i suoi magnifici capelli d'oro; L'amo, signorina!… E spero di essere da Lei riamato!… Venga, La supplico, giovedì a sera verso le ore otto al vecchio cimitero di Sant' Eusebio, presso al castagno, lungo il muro di tramontana dove occhi indiscreti non disturberanno il nostro primo colloquio d'amore. L'aspetto trepidando, col cuore in tempesta, speranzoso di poter presto baciare appassionatamente quella mano che agogno di far mia per sempre.

« R˙ S˙ »

P˙S˙ Non vedendola giovedì, l'aspetterò anche venerdì, alla stessa ora, allo stesso posto. Avrò una cravatta rossa e un mazzolino di gaggie all'occhiello.

Innocenza si appoggiò al letto per non cadere.

Era vero?! Era vero!!!… Questa volta, questa volta, era vero!!…

Le pareti, gli oggetti, le rotearono vertiginosamente dintorno; il cuore le batteva fino in gola; gli orecchi le ronzavano.

Era vero!… Era vero!… Qualcuno l'amava!… Era giunta anche per lei la felicità!…

Diceva giovedì…. giovedì…. alle otto…. dunque quel giorno stesso…. tra un'ora…. sì, tra un'ora…. perchè aspettar domani?…

Febbrilmente ella tirò il catenaccio all'uscio della sua stanza; si strappò di dosso le vesti, corse all'armadio, ne trasse il vestito a righe bianche e verdi, si cambiò dalla testa ai piedi, si arricciò i capelli, si strofinò le guance e le labbra col cencio rosso, si cosparse il volto di cipria, si spruzzò d'acqua di rosa.

Nanna che lavorava a maglia presso alla finestra della cucina se la vide sguisciar dinnanzi così agghindata, cogli occhi luccicanti, una sciarpa sul braccio, una rosa sul petto. Non osò chiederle: — Dove vai? — (ormai ella tremava continuamente di fronte alla figlia) ma l'aspetto di lei, l'abbigliamento, tutto le disse che qualche cosa di grave e d'insolito avveniva, c questa certezza l'attenagliò d'inquietudine.

Un inesplicabile sentimento la spinse a seguirla, cauta nell'ombra nebbiosa che saliva dal fiume.

Aveva ricevuto due lettere quella sera…. Dove andava?… Forse….

Ah, se andava a un appuntamento, Nanna non l'avrebbe trattenuta!… No!… Purchè fosse felice, purchè fosse tranquilla, ella avrebbe accolto « anche un amante » per sua figlia come un salvatore, l'avrebbe ringraziato in ginocchio…. Il senso morale, il rispetto di sè, il pudore, così tardi ed incompletamente formatisi in lei durante gli anni di convento, quello strato incerto e malfermo che aveva come avvolto la sua oscura coscienza, e si era sovraposto ai tristi istinti, alle inconfessabili abitudini della vita randagia, crollava in frantumi: sommerso, dissolto, annientato in un baleno, davanti al pensiero di sua figlia, « alla necessità » che sua figlia fosse felice….

Andava a trovare un amante?… Ed ella le avrebbe fatto la guardia da lontano, l'avrebbe vigilata, protetta e difesa dalla curiosità altrui. Occorreva tacere, ignorare?… Ed ella avrebbe taciuto, ignorato. Occorreva ascoltare, consigliare, aiutare?… Ed ella non si sarebbe sottratta. Tutto, tutto, tutto, le più abbiette cose…. Ma che Innocenza fosse felice, che non piangesse più!…

Così, le due donne l'una dietro l'altra arrivarono al vecchio cimitero abbandonato.

La madre rimase fuori e si nascose dietro un mucchio di ghiaia; Innocenza procedette svelta fra i tumuli coperti di alta erba, segnati da qualche croce malferma. Ella andava verso l'uomo, verso l'amore, come l'uccello va verso il serpe che l'ha affascinato, con occhi aperti e ciechi, per una fatalità inesorabile del suo destino e del suo sangue che rendeva inutile ognidelusione, che esasperava nel suo corpo deforme la sete inesausta, la torbida attesa. « Ebbra, ansietata, affocata d'amore »….

Alla vecchia torre di Cernedo l'orologio suonò otto ore; un uccello spaurito si sollevò nell'aria con un rapido batter d'ala; la luna sbucò livida da un groviglio di nuvoloni.

Innocenza aspettò, ritta fra due croci, nell'angolo a tramontana dove agonizzava il vecchio castagno, e per darsi un contegno staccò la rosa dal seno e l'odorò.

Ad un tratto, lungo il lato esterno del muricciolo cadente che chiudeva da quella parte il cimitero, si udì come uno stridìo di sassi. uno sgretolar di calce, e, sulla sommità del muro, una forma nera apparve.

Una voce in falsetto gridò:

— Ecco lo sposooo!… — e un cagnuolo nero, tutto rabbuffato di peli, col collo attorto da una cravatta rossa e un mazzolino di gaggie legato alla coda, balzò giù ai piedi di Innocenza e si mise disperatamente ad abbaiare.

Innocenza si guardò intorno smarrita, sferrò un calcio al cagnuolo inviperito che l'afferrava alle gonne, alzò gli occhi, e vacillò.

Il muricciolo di cinta si era popolato come per incanto di teste di ragazzacci, e da venti, da trenta bocche, fra risate, fischi e battimani, prorompeva frenetico il grido:

— Viva gli sposi! Viva gli sposi!!…

Il cagnolino seguitava furiosamente ad abbaiare.

Allora Innocenza, raccolta in sè stessa come una belva ferita, afferrò un grosso sasso e lo seagliò con tutta la sua forza verso la cresta del muro.

Qualche po' di calce si sgretolò con un rumore secco; le teste degli schernitori sparirono in un baleno, si udì lo schianto di rami spezzati, rotolìo di pietre, risate e fischi repressi, scalpitìo di piedi fuggenti. Qualche voce gridò ancora:

— Viva gli sposi!!…

Innocenza raccolse le gonne colle due mani e saltando fra le tombe traversò il camposanto correndo come una pazza, ed uscì.

Nanna, accovacciata dietro il mucchio di ghiaia, al confuso vocìo si era rizzata in piedi, tendendo l'orecchio, alzando istintivamente il bastone, ma in quel momento la figlia le passò dinnanzi senza vederla, cogli occhi fiammeggianti e folli, e il viso così livido che pareva quello d'un morto.

La madre rabbrividì e, lasciato il bastone, si slanciò sui passi di lei.

Innocenza correva come il vento verso casa, e la sciancata affannosamente la seguiva, inciampando, scivolando, cogli occhi disperatamente fissi sulla veste chiara che pareva quella di un fantasma.

Giunta alla capanna, trovò la porta spalancata; nella cucinetta, nessuno, su per le scale, nessuno…. Sulla soglia della camera da letto inciampò nel corpo di sua figlia.

Innocenza era là, per terra, colle vesti scomposte, le treccie disfatte, scossa da terribili tremiti. Tutta rattrappita e contorta su sè stessa, colla testa che penzolava dal gradino e nelle scosse urtava la pietra, ella rideva…. Una terribile smorfia le contraeva il viso aguzzo, il petto scarno si sollevava con furore, i denti battevano sinistramente nel singhiozzo dell'atroce riso…. Ed ella era venuta ad abbattersi, a cadere, nella sua casa, a rifugiarsi, a nascondersi, a nascondersi….

La madre barricò la porta della cucina, accese un lumicino ad olio, slacciò il corpetto e le gonne della fanciulla, le bagnò le tempie, la trascinò sul letto. Le lagrime materne colavano sul gramo corpo convulso.

— Innocenza!… Innocenza!…

Ma la sciagurata rideva, rideva sempre, con occhi di pazza… L'acqua aveva disciolto il rossetto sulle sue guancie e colava in un rivoletto rosso fin sul mento, la linea delle sopraciglia si allungava in uno sconcio baffo sulla fronte, le mani lunghe adunche tremanti afferravano spasmodicamente le lenzuola, piantavano le unghie sul guanciale.

— Innocenza!… Innocenza!…

Alfine il terribile riso si quetò; il tremito si fece meno aspro; le mani stancamente disserrarono la stretta, si apersero gialle e molli di sudore sulle coperte sconvolte.

Innocenza chiuse gli occhi e si voltò verso il muro.

Nanna non si mosse.

Fuori si era levato un gran vento, la fiamma del lumicino ad olio vacillava, un topo rodeva la parete.

Gli occhi di Nanna, sbarrati nella penombra, non lasciavano la testa di sua figlia, la forma grama che si delineava sotto le coltri.

A un tratto la ragazza sobbalzò, spalancò gli occhi in faccia a sua madre, la fissò come se non la riconoscesse, poi le disse, con voce d'odio e di comando:

— Va a letto.

Nanna si alzò penosamente e obbedì.

Passarono alcune ore. Nanna si era addormentata. Il suo russare profondo, ed il respiro faticoso e greve, sembravano piuttosto di qualche grossa bestia che di un essere umano. Il vento si era calmato, anche il topo si era stancato di rodere e si era rifugiato nella sua tana. All'orologio del paese suonarono le ore.

Allora Innocenza balzò a sedere sul letto, gettò indietro i capelli che le piovevano da tutte le parti, spense con un soffio il lume.

Cautamente, con delle mosse feline, scivolò giù dal letto, afferrò a tentoni una gonnella, strisciò verso la porta. Un cigolìo l'arrestò.

Livida, immobile, addossata al muro, guatò nel buio verso il letto di sua madre, ma il russare profondo, il respiro faticoso e greve di lei la rassicurarono. Spinse la porta, l'aperse, scivolò più che non scendesse giù dalla scaletta di legno, si trovò in cucina.

Dal focolare, presso a un monticello di cenere tiepida due occhi la fissarono, accesi e scintillanti. Era il gatto malato di cui Nanna aveva avuto pietà. Innocenza si sottrasse con un brivido a quello sguardo, e con un balzo fu alla porta d'uscita, alla porticina verde presso a cui tante volte ella e sua madre avevano fantasticato d'amore.

La porta era chiusa di dentro, asserragliata da Nanna: bisognava tirare il catenaccio, togliere la vecchia spranga arrugginita. Febbrilmente Innocenza agguantò la spranga irta di chiodi e tentò di sollevarla dagli anelli: nello sforzo un chiodo le lacerò il polso, e la spranga le sfuggì di mano e cadde con rimbombo a terra.

Il gatto balzò giù dal focolare e si appressò miagolando alla ragazza. E al tempo stesso due gridi laceravano l'aria.

— Innocenza! Innocenza!

Si sentì il tonfo di un corpo pesante sul pavimento, un passo irregolare, traballante e precipitoso, qualche cosa che inciampava, rotolava, e precipitava nel buio giù per le scale.

Innocenza tirò violentemente il catenaccio, si gettò nel giardino, l'attraversò di corsa senza voltarsi, squassò disperatamente il cancelletto, uscì, fu sulla riva viscida dell'argine al di là del quale scorreva il fiume.

Era una notte nera, ed ella non riesciva a discernere il viottolo che conduceva alla strada; cominciò a salire carponi su per l'erta, ma le alte erbe umide cui si aggrappava le tagliavano le mani e si rompevano, ed ella sdrucciolava, cadeva, e si rialzava con disperata febbre, e già dietro a sè sentiva un ansimare paurose, già due mani l'afferravano alle vesti, ai capelli, ed un corpo si aggrappava al suo corpo, ed una bocca convulsa sfiorava il suo orecchio dicendole con una voce che non aveva più nulla d'umano:

— Dove vai? dove vai?

Senza una parola Innocenza si svincolò, ritrasse violentemente il volto, riguadagnò distanza, riprese ad arrampicarsi su per la costa senza voltarsi.

Ma la madre non la lasciava; le sue mani l'avevano ora attenagliata alle cosce, e tutto un corpo poderoso e disperato si trascinava su per la riva viscida, fatto tutt'uno col corpo della figlia, greve come il piombo, tenace come una piovra.

Ora anche Innocenza ansimava; ansimava e batteva i denti; aveva il volto graffiato, i capelli strappati e scarmigliati, dal polso ferito le colava il sangue, era molle di sudore dalla testa ai piedi. E Nanna dietro a lei.

A un tratto Innocenza si voltò, cercò nelle tenebre il volto di sua madre. Le soffiò in volto:

— Lasciami.

Nanna non rispose, e l'agguantò più forte.

Allora, nella notte nera, sulla riva viscida, madre e figlia selvaggiamente si misero a lottare.

L'una cercando di liberarsi, di sfuggire, di guadagnare la costa, con morsi e graffi respingendo la disperata, che senza un lamento, senza difendersi, seminuda, coi bianchi cernecchi irti sul capo, perdutamente afferrava la figlia, e la ghermiva come una preda.

Frasi disperate e roventi, coll'ululo del vento, empivano le pause del duello tragico.

— Perchè mi hai messa al mondo?… Lasciami che me ne vada! Lasciami morire!… Tu devi odiarmi, se vuoi farmi vivere ancora!

E l'accusa inconfessata, l'umiliante invidiosa accusa, sulla soglia della morte, sibilava finalmente fra le labbra bianche:

— Tu, non sai che cosa sia la mia vita! Tu!… Devi ridere di me! tu, che sei stata amata! Tutte sono state amate! Perfino tu!… Lasciami, ti dico, lasciami morire! Assassina, sci, se non mi lasci morire!

La notte nera, il cielo indifferente, guardavano quel groviglio umano, quelle due miserie in guerra.

Avevano raggiunto il ciglio della strada.

Allora Innocenza cessò di lottare, e senza forze si abbattè sull'erba. Lagrime disperate le scesero lungo le guancie.

La madre le si inginocchiò accanto e le baciò le mani; le accarezzò le guancie, i capelli, prese i piedi di lei fra le palme, e col fiato tentò di riscaldarli.

Un interminabile tempo passò. La mezza suonò all'orologio del paese. Innocenza si rizzò a sedere e fissò sua madre in volto, senza più furore.

— Mamma, bisogna che io vada.

E tale era il suo accento che la madre comprese che nessuna forza umana avrebbe potuto più trattenerla.

Allora, in ginocchio, a mani giunte, con una voce nuova, colla voce bassa e lieve che aveva trovato improvvisamente per lei quando l'aveva accolta per la prima volta fra le braccia piccola moribonda, curva al suo orecchio, tremante, la madre parlò. (Forse le parole non furono queste, ma il senso.)

— Sentimi, Innocenza. Se vuoi proprio morire, se assolutamente hai deciso, lasciami venire con te. Io non ho che te, non ho avuto che te al mondo che mi sia caro. Che ti ho fatto, perchè tu voglia andartene senza di me?… Credi che la vita mi sia dolce? Che sia stata diversa dalla tua?… Ascoltami, guardami. Non si mente sull'orlo dell'abisso come stiamo tu edio. Ascoltami! Ti dico ora la verità. Anch'io, come te, come te, anch'io sono stata derisa e calpestata da tutti, anch'io, come te, non ho da ricordare un attimo, un solo attimo, di felicità, d'amore. Senti: ascolta: credimi. In ginocchio ti supplico: credimi!… Chi sia tuo padre non so, non lo conobbi: non mi amò, non mi sposò. Vagabondavo di cascina in cascina…. ero ubbriaca…. mi prese come il cane prende la cagna randagia, e mi abbandonò. Ti lasciai credere tutto quello che hai voluto per vergogna, per rispetto di te…. inventai…. non so…. forse per esserti più vicina…. Ed invece ti ho fatto del male!… Perdono! Perdono, Innocenza!… Mia Innocenza, mia figlia, amor mio, non scacciarmi, non fuggirmi, prendimi con te, se vuoi davvero morire! Lasciami venire con te!…

E le mani della madre brancolando accarezzarono ancora il misero corpo contorto della figlia, e nuove lagrime caddero sull'unica bellezza di lei, sui capelli; e tremando e supplicando la madre si avviticchiò ancora al suo unico bene.

E Innocenza più non la respinse, ma pianamente si abbandonò…. Quelle braccia che l'avevano cullata, la cullavano ancora; quel dolore e quella miseria che l'imploravano erano il suo dolore, la sua miseria…. Unica certezza che non poteva mentire: il volto di sua madre presso al suo, colla guancia che le sfiorava la guancia…. NULL'ALTRO AL MONDO ERA VERO.

Un barroccio passò sull'argine.

Madre e figlia in ginocchio, strette l'una contro l'altra, attesero immote.

Poi si cercarono tacitamente la mano, ed insieme scivolarono verso il mistero.

Il vecchio si caricò sulle spalle la culla, e cominciò a salire penosamente la scala del granaio.

Bisognava nasconderla. Il telegramma annunciava a un tempo la morte del piccolo e l'arrivo dei genitori. Dovevano esser fuggiti a precipizio da Roma dove li aveva colti all'improvviso tanta sventura, e venivano a rifugiarsi nella vecchia casa paterna.

Battista, che da anni ed anni custodiva e abitava solo la casa padronale, si era fatto leggere il telegramma dal fattorino stesso che l'aveva portato, ed era rimasto come impietrito.

Egli non sapeva che il bambino fosse malato, e a un tratto…. così….

Il fattorino aveva dovuto tossire e toccargli la spalla per farsi dare la mancia, poi se n'era andato, e il vecchio immobile aveva continuato a fissare il foglio giallo rimasto spiegato sulla tavola, a fissare i misteriosi segni che volevano dire: « Il piccolo Cici che ti voleva tanto bene, il piccolo Cici che si divertiva a tirarti il naso e ad arrampicarsi sulla tua gobba, il piccolo Cici colla testina tutta a ricciolini, non tornerà più. È morto».

E a un tratto l'orologio di cucina aveva suonato le ore, il canarino si era messo a cantare, e il vecchio si era scosso, violentemente richiamato alle necessità del momento: essi, i poveretti, il papà e la mamma di Cici, i suoi padroni cari, tornavano; e Dio sa in quale stato!

Presto, nascondere la culla: nascondere il cavalluccio di legno; cancellare dalla lavagna la figura del gatto coi baffi irti che Cici l'autunno prima, a due anni e mezzo, aveva tracciato col gesso, con grande meraviglia e orgoglio di tutti; presto, nascondere il panchettino, e il pupazzo senza testa, portare in granaio anche la minuscola giacca rossa e il cappuccetto che erano rimasti appesi all'attaccapanni….

Su per le scale, su, su, su…. affinchè essi tornando non incontrassero ad ogni passo…. Il cappuccetto odorava ancora di latte, dalla tasea della giacchettina rossa erano caduti due sassolini….

Il vecchio con mani tremanti li raccolse, li rimise nella saccoccia di « lui ».

Quando tutti gli oggetti appartenenti al bambino furono accuratamente accatastati nel più remoto angolo del granaio, e coperti da una tela cerata, il vecchio scese, rientrò nella stanza nuziale, mise l'acqua nelle brocche, approntò il bagno, preparò in anticamera una piccola tavola colle modeste risorse della sua dispensa.

Prese in mano le forbici per staccare qualche fiore e adornarne la tavola come sempre, ma le ripose senza servirsene, e, più gobbo del solito, trascinando molto le gambe, sedette fuori della porta di casa, al suo solito posto, ed aspettò.

*


Ogni sera, da cinquant'anni, egli sedeva colà, fra i rami di vite selvatica che serravano di selvaggia rete la vecchia casa.

Cinquant'anni prima — egli aveva allora quindici anni — la Signora delle « Torricelle », la Signora pallida che portava il lutto vedovile, lo aveva fatto chiamare, e gli aveva chiesto:

— Vorresti accompagnare a caccia i miei ragazzi? portar loro la civetta ei vischioni? badare che non vadano in pericoli?… Si tratta di restar con noi durante le vacanze, poi tornerai colla tua famiglia.

Battista aveva acconsentito, un po' per timidezza riverente al desiderio della Signora da cui i suoi tenevano in affitto il podere, ma molto più per l'ammirazione che gli ispiravano Valerio e Carlo, i due terribili padroncini, che nessun precettore riesciva a seguire, di cui tutto il paese raccontava le imprese.

Non erano essi saliti a passeggiare sulle mura sgretolate della rocca d'Asolo, fra un merlo e l'altro, col pericolo che una pietra smovendosi li facesse precipitare nel vuoto? Non usavano essi all'insaputa della madre cavalcare a dorso nudo i puledri della fattoria, per boschi e per fratte? Non erano scappati più volte di collegio?

E con tutto ciò passavano i loro esami: ed erano così simpatici, allegri, pieni d'ingegno e di coraggio, che gli stessi parrucconi più arcigni del paese non sapevano ancora se condannarli od assolverli.

Battista li vedeva ogni giorno passare davanti a casa sua: bei ragazzi dagli occhi e dai capelli neri e dal colorito olivastro; li udiva ridere e chiacchierare, e li seguiva con uno sguardo pieno di curiosità e di desiderio.

Egli, maggiore di loro di qualche anno, timido ed irrosoluto per natura, sentiva vivamente il fascino della loro diversità; era attratto verso di loro da ciò appunto che a lui mancava: l'audacia, l'arguzia, l'energia.

Essi l'avevano accolto dapprincipio con diffidenza.

Insofferenti di vigilanza e di disciplina, quel compagno scelto dalla madre sembrava loro una schiavitù da portare, uno spionaggio da temere; ma in pochi giorni avevano capito il semplice cuore di lui e avevano finito per associarselo davvero come un compagno.

Il primo autunno egli li aveva seguiti alla caccia, di macchia in macchia, lungo le siepi, presso al ròccolo sulla collina: instancabilmente. Aveva diviso ogni gioco, ogni avventura, mantenendo il segreto quando si trattava di monellerie e d'imprudenze, ma esigendo con montanara ferrea ostinazione di partecipare ai pericoli. Intuiva con sicuro istinto che quello era l'unico mezzo per indurli a riflettervi.

E l'autunno era passato senza troppi malanni.

Venuto l'inverno la Signora l'aveva chiamato nuovamente. Gli aveva chiesto:

— Vuoi restare ancora? Li accompagnerai a scuola. Lavorerai nel giardino, e la sera andrai a riprenderli. Resti?

Sì, restava. Come aveva potuto la Signora dubitare della sua risposta?

Egli li aveva accompagnati ogni giorno alla scuola della vicina città guidando lungo l'argine la cavallina bianca che correva come il vento. Per la strada i ragazzi cantavano, salutavano con nomi buffi gli alberi, i paracarri, i passanti, mettevano in musica le declinazioni latine, e qualche volta la cavallina s'impauriva alle voci e sbandava improvvisamente. Battista la teneva con polso fermo, e nel ritorno la riconduceva al passo perchè a casa non s'accorgessero che era sudata.

Così passò un anno, due anni, tre anni.

Carlo ebbe il tifo, e Battista lo vegliò. Battista prese il male, e i due ragazzi l'assistettero giorno e notte.

Nessuno ormai più gli chiedeva se voleva restare. Egli era della casa, come la vite selvatica che la serrava intorno intorno ed ogni giorno più tenacemente l'abbracciava.

I due ragazzi erano cresciuti; erano ormai quasi due adolescenti: alti e svelti, dagli occhi ardenti nel viso pallido.

Essi si pettinavano con cura, ed avevano un numero infinito di cravatte: declamavano le poesie d'Aleardi, e leggevano Jacopo Ortis.

E Battista, che era brutto e tozzo con un lunghissimo naso un po' storto, si faceva la scriminatura da un lato, come Carlo: e annodava la cravatta alla bohémienne, come Valerio.

Anche Elena, la sorella, che Battista aveva conosciuta bambina fra due bambole gigantesche, era divenuta una leggiadra giovinetta, vestiva di celeste, e si guardava molto allo specchio.

Fausto, il piccolo, era sempre assorto nelle sue fantasticherie, delicato e malinconico su di un panchettino, presso alle ginocchia di sua madre.

*


Nella villa vicina, da molte stagioni vuota e squallida, era uscita una famiglia a villeggiare, la famiglia dei conti Frattina.

E il ragazzo Frattina si era legato subito d'amicizia con Carlo e con Valerio.

Erano gli anni febbrili che preludevano la guerra coll'Austria.

Un fremito di ribellione correva la patria, pulsava ed urgeva nelle sue più profonde vene.

Qua e là, all'improvviso, moti di malcontento scoppiavano, e scoppiavano in dieci luoghi nello stesso giorno, quasi nella stessa ora, subito repressi con violente reazioni. Poi tutto pareva quietarsi, e, per un lungo intervallo di calma, tutto pareva dimenticato.

Ma un nulla bastava a far sprizzare nuove faville dal fuoco ormai troppo ardente e troppo profondo per non propagarsi; e la febbre riprendeva gli animi, dimentichi d'ogni prudenza, folli di poesia e di speranza.

Si tentavano le prime audacie: illuminazioni, fiori, colori, saluti; dimostrazioni che erano un misto di coraggio e di puerilità, ma che avevano tutte lo stesso significato, da un capo all'altro della patria, come una parola d'ordine, come uno squillo d'allarme.

I ragazzi vi si divertivano come ad un gioco.

Un giorno era corsa l'intesa in paese, d'illuminare interamente ad una stessa ora tutte le case, e di lasciare tutta la notte le imposte aperte di modo che inaspettatamente la borgata intera brillasse da mille e mille occhi luminosi quasi a dire: Si veglia!

I ragazzi si erano divertiti un mondo nei preparativi, ma più ancora, il giorno appresso, a contraffare le facce dei tedeschi che avevano dovuto ingoiare la provocazione senza potere in nessun modo punire i cittadini.

Si divertivano: era un gioco.

Ma un'ora suonò, una notizia venne, in mezzo a quell'inconscia spensieratezza, che li chiamò duramente alla realtà.

A poche miglia da loro, italiani e tedeschi si erano battuti. I nostri erano stati sopraffatti dal numero, le case incendiate e messe a sacco, tutti fuggivano costernati.

Carlo Frattina aveva avuto la casa dei suoi nonni devastata: la vecchia casa deserta, ma piena di memorie care, ed era corso dai suoi amici, pallido, mordendosi le labbra, cogli occhi pieni di lagrime.

Per qualche settimana il paese fu a lutto: non più una voce, non più una risata per le strade; nelle case i pianoforti tacevano, le fanciulle avevano smesso di cantare, si parlava sommessamente come intorno a un funerale.

Poi la vita riprese la consueta apparenza.

Ma Carlo e Valerio non erano più gli stessi. Sulla loro infantile spensieratezza un velo era sceso, una raffica, che li aveva maturati a un tratto, fatti uomini.

Carlo Frattina veniva ogni giorno e passava con loro lunghe ore. I tre parlavano a bassa voce, s'interrompevano al sopragiungere di qualcuno, si guardavano intorno.

Battista aveva finito per esser geloso di Frattina.

Essi lo preferivano a lui; si capisce: era giusto! Egli era un servo!… Ma perchè nascondersi? Perchè diffidare?… Non l'amavano più; lo mettevano da parte con disprezzo, ora che avevano un amico più degno, un loro pari!

Eppure… no, no; non era così! Battista sentiva che non era così!

Ma che cosa, allora, che cosa, li separava?…

Le notizie più varie e più contradittorie correvano intanto.

Il medico del paese era stato perquisito e arrestato. Altre perquisizioni si prevedevano. Nascostamente si vendeva l'argenteria delle case più ricche per far denaro, si preparavano bende e filacce. Garibaldi….

Un'inquietudine, un'ansia, un'eccitazione continua e mal dissimulata, teneva gli animi.

E una mattina Battista entrò in camera dei suoi padroncini, e non li trovò più.

I letti erano intatti: sul letto di Valerio una lettera.

Era per Elena, la sorella: poche righe.

« Partiamo con Frattina; andiamo a batterci; ti raccomandiamo di tranquillizzare e confortare la mamma».

Una parola scritta a matita era in fondo alla pagina, per Battista:

— « Battista, fa buona guardia! »

E questo era tutto.

Battista aveva ascoltato la lettura di quella lettera in silenzio, a capo basso. E per tutta la giornata aveva atteso alle sue consuete occupazioni senza che nulla rivelasse il tumulto del suo cuore.

Ma la sera, quando finalmente aveva potuto sottrarsi agli sguardi, si era rintanato sotto la vite selvatica, nel più folto dei rami aspri e contorti, ed era scoppiato in violenti singhiozzi. Singhiozzi di dolore e d'offesa.

— Se n' erano andati!… Se n' erano andati!… E non gli avevano detto nulla!… Non l'avevano creduto degno di un loro segreto! Avevano; avuto paura di lui! Paura che li seguisse! E forse non sarebbero tornati mai più! Non li avrebbe più riveduti!… Che cosa faceva egli ormai nella casa, dacchè essi non c'erano più? Si era trattenuto per loro: era rimasto anche troppo! Se ne sarebbe andato: era tempo.

Era rientrato in casa cogli occhi gonfi e il viso sconvolto, sperando che tutti ormai fossero addormentati.

Invece, nel salotto dove ogni sera la famiglia si riuniva, ardeva ancora la grande lampada velata di rosso. La porta era spalancata.

E al di là di quella porta, tre figure immobili nel cerchio luminoso colpirono violentemente Battista « come se le vedesse in quella sera per la prima volta ».

Una era la madre. Ella sedeva sotto alla lampada, presso alla tavola, e non piangeva. Abbandonava la testa fra le mani pallide e guardava nel vuoto.

Accanto a lei Elena, la fanciulla, colle bionde trecce serrate intorno al viso smorto, ricamava.

Battista sapeva che ella e Carlo Frattina si amavano.

Fausto si era addormentato coi ricci sul tappeto.

Battista sentì che non avrebbe mai avuto la forza di lasciarli, e sentì anche che non aveva il diritto di piangere.

La sera stessa si costrinse alla calma; e la mattina dipoi rientrò coraggiosamente nella stanza dei fuggiaschi, ripulì i fucili, i carnieri, allineò i libri, i disegni, riordinò il guardaroba messo a soqquadro, le cento cravatte abbandonate.

Ogni giorno passava in quella stanza l' ora di libertà che gli restava; riordinava tutto ogni giorno come se da un momento all'altro essi dovessero tornare.

A furia di pensarci e di rifletterci aveva finito per confessare a sè stesso che i padroncini avevano fatto bene a nascondergli il progetto di fuga.

Avrebbe egli capito?…

Come, come, avrebbe potuto egli comprendere la sublime follia di quei fanciulli che dai giochi correvano alla morte, per amore di una terra più grande, e più lontana del loro paese natio? Egli, povero zotico, per cui l'idea della patria si arrestava al casolare dove era nato, e, più ancora, alla casa dei suoi padroni, al chiuso giardino che un muricciuolo irto di punte serrava?… Per lui…. c'era forse un « al di là»? Come capire? Che cosa sognare al di là?…

Servo egli era: servo; « e l'esserlo era per lui una gioia». Come intenderli?

Essi avevano avuto ragione; il suo affetto avrebbe potuto tradirli: per paura o per amore svelarli alla madre. Ed ella li avrebbe trattenuti. Li avrebbe trattenuti?… Chi sa?…

Più di una volta Battista scrutava quel volto pallido, quel dolore muto, coll'ansia di indovinare, di leggere al di là del silenzio tragico.

Ella soffriva; era ancora più pallida; passava le notti insonni; il male di cuore da cui era insidiata da tempo si era aggravato; eppure….

Non si sa, non si sa, se li avrebbe trattenuti, pur soffrendo come soffriva Era tale la sua somiglianza anche materiale coi figli: gli stessi capelli, lo stesso ardore contenuto degli occhi cupi sul viso olivastro, che Battista pensava che ella era così intensamente la loro madre, ed essi erano così intensamente i suoi figli, che non potevano esser dissimili neppur nel pensiero.

Ma soffriva, soffriva!… Battista tremava per lei. Non per Elena. Elena aveva sedici anni e non taceva come sua madre.

Passato il primo doloroso accasciamento la fanciulla si era confidata con Battista; gli aveva detto le sue inquietudini, le sue speranze, il suo amore; e ben presto aveva ripreso a curare i fiori, a spaventare con una fronda i cardellini della grande uccelliera, a cantare anch'ella dopo il tramonto, come l'usignolo cantava. Ella era certa che Frattina sarebbe tornato, e l'amava con orgoglio per il suo coraggio.

Ma il silenzio della madre!…

Ah, difendere, difendere quel silenzio da un nuovo dolore!… Vegliare su Fausto!…

Fausto, l' ultimo che restava, biondo come Elena, delicato, taciturno, chiuso in una timidezza un po' dolce, un po' triste, un po' selvaggia, arrossiva e impallidiva per nulla: in casa l'avevano battezzato «la femminuccia».

Ma Battista diffidava di quella timidezza.

Egli l'aveva colto più di una volta a leggere di nascosto delle carte, più di una volta l' aveva trovato in camera dei suoi fratelli, solo, pallido, e quasi febbricitante.

E il cugino del medico già perquisito e arrestato, ed altri ragazzi delle famiglie più sospette, venivano troppo spesso a cercarlo.

Giocavano. Sì, giocavano. Ma in quegli anni ogni anima di bambino nascondeva un soldato o un cospiratore.

Più di una volta Battista era tentato di gettarsi ai suoi ginocchi, e supplicarlo:

— Fausto, per amore di lei, per amore di lei, non fuggire! Le rimani tu solo. Guardala. Se tu la guardi bene, se tu la guardi…. non partirai.

E non aveva il coraggio di parlare, per paura di, determinare colle sue parole l' irreparabile, e lo seguiva cogli occhi ansiosi, e si trovava sempre sui suoi passi, e nella notte trasaliva al più lieve rumore, pronto a balzare, pronto ad ogni eccesso, purchè ella fosse risparmiata.

Ma non vi fu bisogno di nulla.

Una notte bussarono.

Silenzio.

Battista solo era desto e non si mosse. Il cuore gli si era fatto di gelo, i denti gli battevano. Ad occhi sbarrati, seduto in mezzo al letto, aspettava. Forse si era sbagliato, forse non era vero. Non erano essi.

Bussano ancora più forte. Non c' è più dubbio. Sono essi. I tedeschi. La perquisizione.

E Battista balza; a piedi nudi si affaccia all'uscio della stanza di Fausto, lo trova già sveglio, coi biondi capelli scompigliati; coll'indice sulle labbra egli accenna a Battista di tacere, tende l'orecchio.

Bussano ancora: replicatamente, violentemente: tutta la casa ne rimbomba.

Fausto comanda la calma con voce bassa e calma, ed ordina d'aprire.

Egli passa intanto nella stanza di sua madre.

La circonda colle sue braccia, le parla sommessamente, la supplica.

— Mamma, non è nulla. Non troveranno nulla. Sii tranquilla. È una formalità. Se ti mostri desolata, puoi perdermi.

Ed ella ringoia le lagrime, si fa di bronzo; guarda che entrano, che mettono i gendarmi alle porte, e frugano dappertutto, e prendono alcune carte, e spiano fra i ritratti e le memorie più gelose e più care….

E non dice una parola. E poi il figlio la bacia ancora, e le sussurra che se ne va con loro, che tornerà subito, che nulla può risultare contro di lui.

Per tutta la notte, per tutto il giorno appresso, ella lo attende: terrea, coi grandi occhi spalancati, comprimendosi colle mani il cuore che non si frena, e scruta la strada, la tortuosa strada tra i boschi, di dove e gli deve ritornare.

Tende l'orecchio, se una sonagliera, se lo stridere di ruote sulla ghiaia, se una voce….

— Sì…. No….

Quante volte!!… E il cuore batte, martella una danza tremenda e disordinata….

— Sì…. No….

Finalmente….

— Sì! Sì!… È la carrozza! È lui!

Ella si sporge con impeto, ed il sangue le colora violentemente le tempia, tende le braccia che tremano….

Ma la carrozza è vuota; egli non c'è!

— Non c'è!… L'hanno trattenuto!… Me lo fucileranno!…

E cade pesantemente sulla terra nuda, e non si rialza mai più.

A distanza di tanti anni, ancora oggi Battista singhiozza se rammenta quell'ora, ancora oggi egli, credente, stringe il pugno, e guarda con rancore il cielo, l'impassibile cielo, che era là e non doveva permettere.

Poichè, non era vero che Fausto fosse stato trattenuto, non era vero che fosse prigioniero; nulla di grave era risultato contro di lui, ed egli seguiva a piedi di pochi metri la carrozza: attorniato da amici che l'avevano ricondotto, aveva sostato con essi ad una svolta…

E sua madre era morta di quell'errore.

Patria, patria, terra lontana al di là del chiuso giardino, libertà, grandezza…. Battista non ti vede che con occhi foschi da cui grondano lacrime….

Fra te e lui c'è quella donna morta, distesa sulla nuda terra, inutilmente, mentre i suoi figli si battevano per te.

*


Sul cadavere di sua madre Fausto giurò di non partire, di non abbandonar la sorella. E non l'abbandonò infatti, per quanto quella promessa gli costasse. Ah, avere del sangue nelle vene, e sentire che gli altri si battono, che si vince, che si muore, e fremere nell'inerzia, e non accorrere….

No, bisognava restare. Già Elena aveva patito una troppo dura scossa alla morte di sua madre; ella era al suo fianco quando era stramazzata a terra, e i suoi occhi parevano sempre pieni di quella visione.

Talvolta nella notte l'incubo la riafferrava, ed ella balzava con un urlo sul letto:

— Mamma! Mamma!

E pareva che quel dolore avesse travolto come in un naufragio tutto il coraggio, tutta la speranza e la fiducia della fanciulla, e tutto ora la impressionava, tutto la faceva tremare, alimentava un orgasmo, una febbre, che dall'ora funebre datavano.

Inutilmente Battista si affaccendava intorno ai fiori, intorno agli uccelli, coll'ingenua speranza d'interessarla ancora ad essi, di riattaccarla a ciò che un giorno le era stato caro. Mai i fiori erano stati più belli, mai l'uccelliera più ricca di ospiti variopinti, ma i cardellini cantavano soli sotto l'ontano: la loro garrula compagna d'un tempo aveva disimparato tutte le sue canzoni.

Ed era Battista, il grosso Battista colla sua sgraziata voce nasale, che s'incaricava di tenere alto il diapason dell' allegria: da qualche tempo una bizzarra abitudine lo aveva preso, ed egli accompagnava il suo lavoro in giardino con lunghe cantilene.

Un giorno Elena gli passò accanto finchè cantava. Ella era vestita di nero, colle trecce bionde che le fasciavano il viso tanto dolce e tanto triste: tutto in lei parlava dolore, memoria.

Gli passò accanto, e stava per dirgli:

— Come puoi tu cantare, Battista?…

Ma lo guardò, e vide che egli aveva i grossi occhi pietosi dei bimbi che fanno il chiasso per ingannare l'angoscia, per illudersi e per illudere di non aver paura. Ed allora gli posò una mano sulla spalla, e gli disse:

— Povero Battista!

Entrambi avevano gli occhi pieni di lagrime.

I mesi, gli anni passavano; ed essi non tornavano.

Si sapeva che si erano battuti a Vinzaglio, a San Martino, a Gaeta; che avevano fatto in Sicilia la campagna contro il brigantaggio. Fra una battaglia e l'altra peregrinavano di città in città col loro fardelletto: espulsi da un luogo ricomparivano in un altro, collo stesso fuoco, collo stesso ardore di fede.

Deposto il fucile, lavoravano colla penna e colla parola.

Da Pisa a Ferrara, da Ferrara a Bologna…. collaborando nei giornali, promovendo dimostrazioni, seguendo a sbalzi le lezioni dell'Università….

Poichè in quegli anni una popolazione particolare, libera, audace, prepotente e ardente, si agitava nelle scuole, che talvolta comprometteva la tranquillità pubblica e i lavori sottili degli uomini di governo e da una città o dall'altra venivano improvvisamente pubblicati decreti con cui si imponeva che quella falange turbolenta di studenti e di emigrati si sciogliesse, si sparpagliasse per altri luoghi. Ed essi partivano, per rimettersi tosto all'opera sotto altro cielo, o per riprendere il fucile e battersi…. Il sentimento della patria era scudo in tanta giovinezza, in tanta libertà di vivere.

Ignorando la morte della madre, erano riesciti a far avere loro notizie in famiglia con una lettera per lei, che non era più…. Ed erano parole di coraggio, di fede, quasi di gioia, destinate a due occhi ormai chiusi per sempre, Ah, essi non erano tristi. Tutta la tristezza è per chi resta, per chi ama ed aspetta. Vecchia storia che tutti conoscono, non si sa che cosa voglia dire averti vissuta!…

Le case più ricche si spogliavano, le povere si facevano ancora più povere. Ogni giorno in paese si segnalavano nuove partenze: presso il focolare deserto non restavano che i vecchi e le donne.

Di Garibaldi e dei suoi volontarî si narravano le cose più sublimi e più folli. Quasi senza artiglieria, con armi arrugginite, con soldati scalzi e affamati, egli vinceva, vinceva….

La fantasia popolare lo circondava già di poesia e di mistero. Monte Suello e Storo e Condino suonavano vittoria, e la terribile e gloriosa Bezzecca….

Dopo Bezzecca non più notizie dei tre che erano partiti.

Fausto fremeva d'inquietudine; Battista vigilava come un cane intorno ad Elena, e nondimeno seguitava a cantare, lavorando, per dimostrare la sua tranquillità.

Ma ogni sera prima d'andare a letto, si inginocchiava sul nudo pavimento, e, stringendo fra le mani la corona ereditata dai suoi vecchi, cominciava a pregar Dio per coloro che « non si sapeva dove fossero, non si sapeva se fossero vivi o morti ».

Cominciava con umiltà, a mani giunte, a capo chino; poi a mano a mano che la passione lo afferrava, come il servo si ribella al padrone quando l'ingiustizia soverchia di troppo, egli si ribellava contro il Dio onnipotente davanti a cui giaceva prostrato, e lo minacciava quasi, a pugni chiusi:

— « Non farete morire anche questi!… Avrete pietà!… »

Poi, colla testa sulle pietre, subitamente umiliato, singhiozzava:

— Fateli tornare, fateli tornare, Dio mio!

*


. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tornarono: ma non tutti. Frattina era morto a Bezzecca. Carlo riconduceva Valerio gravemente ferito.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E allora fu la volta di Elena.

Finchè il fratello fu in pericolo, finchè lo vide, sfigurato, irriconoscibile, colla barba ispida su di un volto scarno ed acceso, giacere sul letto, guardarsi intorno con occhi ardenti e folli, delirare chiamando con lunghe urla sua madre e i suoi compagni d'arme, e poi placarsi in un singhiozzo atroce, e balzare ancora e voler strapparsi le bende, ella parve dimenticare completamente sè stessa.

Per loro che tornando non avevano più trovato la madre, ella si sostituì a colei che mancava, prese il suo posto, ebbe il suo cuore: sempre intorno al letto del ferito, sempre in quella stanza, colla mano lieve sulla fronte del febbricitante, con dei passi così silenziosi, come se un'anima si movesse, e non una creatura.

Così per tre mesi, finchè Valerio si riebbe: finchè comprese dov'era, e perchè era così tornato, e immediatamente cessò dal lamentarsi, e cominciò, colle grucce, seguìto da Battista, a scendere in giardino, a muovere, lento e curvo come un vecchio, i primi passi verso i luoghi cari.

Allora la volontà di vivere abbandonò colei che non era più necessaria: il lume ch'ella aveva acceso, si spense.

E cominciò a morire.

Ogni giorno un poco, con abbandono e con dolcezza.

Continuava a scendere in giardino, a sedere presso all'oleandro, e chi vedeva passando la gentile testa bionda china sul ricamo, i grandi occhi di malinconia, non avrebbe mai pensato che la fanciulla aspettasse così, in silenzio ed in pace, con tanta grazia, la gran voce di Colei che divide e riunisce.

Ogni giorno un poco. Ella si allontanava.

E non aveva ancora pronunciato il nome di lui, non aveva pianto una lagrima, non aveva chiesto nulla di lui ai fratelli.

Forse perciò moriva: il suo silenzio la devastava di dentro.

E Battista, che aveva già visto la madre di lei tacere e morire, non aveva illusioni sul prossimo domani, e ogni sera le diceva addio come se non dovesse rivederla mai più.

Finalmente un giorno (ella non lasciava già più la sua stanza ed era seduta presso alla finestra aperta verso i colli):

— Come fu?… — chiese; e non pronunciò nessun nome; e tutti compresero, come se quella domanda continuasse un colloquio da gran tempo incominciato.

Valerio le prese la mano, gli altri le si strinsero intorno con un brivido.

Valerio incominciò:

— Sai, egli era gravemente ferito. Si era battuto come un leone. Io me l'ero caricato sulle spalle e lo trascinavo su per l'erta sperando di deporlo in un sito sicuro. Eravamo pochi, accerchiati da ogni parte, il terreno coperto di morti. Le palle fischiavano. Una mi colpì al ginocchio, ed anch'io caddi…. Quando rinvenni, lo vidi al mio fianco, ma già….

Ella non ascoltava più. Era passata.

*


Tanti anni, tanti avvenimenti sono trascorsi.

Elena riposa accanto a sua madre nel cimitero di Sant'Anna; Valerio e Fausto si sono sposati, e dai loro matrimoni sono nati un altro Carlo, ed un'altra Elena, in memoria dell'amico e della sorella.

I due cugini si sono amati, sono sposi: sono il papà e la mamma di Cici.

Ad uno ad uno i vecchi se ne sono andati a dormire a Sant'Anna; Valerio, l'ultimo, è partito per sempre da poco tempo.

A guardia della casa e delle memorie è rimasto Battista.

Egli non porta livrea, ma l'amore ha impresso egualmente un sigillo ed un nome sulla sua vecchia fronte: invecchiando, egli ha preso senza volerlo qualche somiglianza di voce e di gesto coi padroni: si passa la mano sulla fronte come Valerio, parla ad alta voce da solo come avveniva a Fausto nei suoi ultimi anni. La gente dice che egli parla coi morti.

E Battista ama Carlo ed Elena non soltanto perchè sono essi, ma perchè vede in loro anche gli altri, quelli che non sono più; perchè a lui, spettatore della vita dei suoi padroni, il presente non sembra una pagina nuova, ma una continuazione, e quasi una ripetizione del passato.

*


Carlo ed Elena rappresentano per lui il presente ed il passato; e Cici era e rappresentava tutto; il passato, il presente, e l'avvenire; i vivi e i morti, tutte le memorie e tutte le speranze. Cici era tutto, e tutti.

Ed ora?… Il vecchio attende che gli sposi tornino senza il loro bambinetto, e a un tratto singhiozza ad alta voce nella sera, al giardino addormentato, agli spiriti che vegliano con lui:

— I bambini non dovrebbero morire!…

Carlo ed Elena, gli sposi, avevano riparato precipitosamente nella casa paterna, come in un rifugio.

Il piccolo Cici era stato loro rapito in tre giorni, e là, nel grande appartamento di Roma, la disperazione li aveva scossi e afferrati con tal forza da render loro impossibile di resistere in mezzo ai ricordi di lui e alle imagini di dolore e di morte.

Erano fuggiti a precipizio, sperando in una sosta, in un'oasi di calma….

Ed ecco che tornando si accorgevano di aver portato con loro tutto quello che li rendeva infelici.

Dove il loro piccolo aveva passato gli autunni della sua breve esistenza, tutto, tutto, raccontava la sua storia gentile: la testina arruffata sbucava da ogni cespuglio, la vocetta squillante scampanellava in ogni voce e in ogni suono, il sorriso di lui rideva negli occhi di tutti i bimbi che passavano….

Ah, che pena, che pena!

Essi non uscivano, perchè il veder gente e il rispondere a condoglianze era loro insopportabile; non ricevevano nessuno; e là nella casa tutto era lui, tutto portava l'impronta del suo piccolo piede.

Battista aveva ben potuto nascondere in granaio la culla e il panchettino: non c'era filo d'erba, nè sasso, che non parlasse alla mamma del suo bambino.

E così, non volendo nominarlo per non accrescere la pena l'uno dell'altra, e pensandovi di continuo, e volendo celare reciprocamente l' angoscia, e indovinando che l' una e l'altro avevano pianto, e « si erano nascosti per piangere », i due giovani sposi avevano finito per sorvegliarsi a vicenda, per scrutarsi, per assumere un contegno d'imbarazzo e di disagio che li rendeva doppiamente infelici.

Battista, colla chiaroveggenza profonda dell'affetto, era colpito ogni giorno più da qualche cosa che non capiva.

Egli guardava Elena: la fragile e delicata sua giovinezza che piegava, i suoi grandi occhi di malinconia, che troppo gli ricordavano quelli di un'altra Elena lontana….

Dunque un fato tragico pesava sulle donne della casa: tutte, d'una rara armonia di forma e di pensiero, erano colpite al di là della loro forza? Anche questa?…

Implorava il vecchio:

— Signore, un altro bimbo, a questa mamma, un altro bimbo!

E non sapeva, nella sua ingenua primitiva bontà, nella semplicità del suo sentimento, ciò che martoriava e turbava i due giovani sposi dopo la morte del loro piccolo, l'artiglio che li aveva afferrati, l'incubo dove la loro acuta sensibilità li aveva gettati: essi non osavano più amarsi, essi avevano pudore e vergogna di amarsi, di poter essere ancora felici, quando il loro bimbo non era più, e freddo e bianco riposava sotterra….

Una strana timidezza li coglieva, un brivido, come se il piccolo Cici li chiamasse, rimproverando:

— Voi non piangete dunque più, mi avete dimenticato!…

Elena sopratutto si ritraeva con un fremito, si staccava volontariamente da Carlo con paura, lo allontanava con freddezza…. quasichè Cici alzando dalla fossa la testina tutta a ricciolini fosse là a guardare se almeno la sua mamma gli era fedele, se piangeva ancora….

…. L'amore…. che è gioia, voluttà, giovinezza, vita, oblio…. di fronte a quella piccola bara, così presto!… No! No!…

Battista non capiva nulla di tutto ciò. Come poteva egli, avvezzo alle forti volontà e alle sane energie delle vecchie generazioni, comprendere i nervi malati, l'abbattimento inquieto, la sensibilità acuta, complicata e dolorosa, dei figli di un altro tempo?

Ma ben capiva un'altra cosa, la vedeva scritta negli occhi di Elena, in tutta la sua figura languida e dolente:

— Anch'essa, anch'essa, come le altre!…

…. Una sera, dopo settimane di chiusa malinconia, Carlo annunciò ad Elena:

— Domani vado a Roma a prendere il bambino. Ho ottenuto l'autorizzazione per il trasporto. Lo metteremo a Sant' Anna insieme con loro.

E l'indomani per tempo partì.

Egli era molto triste: gli pareva che Elena non l'amassè più.

La giovane donna accettava infatti quasi con riconoscenza la separazione. Ella era in uno di quei momenti, fortunatamente rari nella vita, quando la presenza degli esseri più cari pesa su di noi quasi come un giogo: appunto perchè ci sono cari, perchè ci amano, perchè ci guardano, perchè il loro affetto ci vigila e ci spia.

Il dolore di Elena reclamava la solitudine. La mamma voleva piangere senza essere consolata. Anche gli occhi di Carlo, quegli occhi che ora pareva l'interrogassero, ora la supplicassero, erano di troppo fra lei e il suo bambino morto.

Poco dopo la partenza di lui, ella si chiuse nella sua stanza, e, immersa nella disperata contemplazione di una piccola imagine sorridente, le parlò, le parlò, fra i singhiozzi, per lunghe ore, senza paura finalmente che nessuno la sentisse; le ripetè all'infinito le parole di dolcezza note solo alle mamme e ai bambini, quella musica eterna che si bisbiglia tra i baci, tra i riccioli d'una indocile testina….

Ed infine il suo dolore parve placarsi, distendersi, in un'amara ma tranquilla attesa, quietarsi in una speranza:

— Cici, piccolo mio, amore della tua mamma…. ti porteranno quassù coi nonni, cogli zii: non sarai più così solo! Non sarai più così solo, anima mia!… — E a un tratto, fulmineamente, le balenò al pensiero l'imagine di Carlo, di lui che era solo, davvero solo, in quel momento, in viaggio verso una meta triste, ed era partito senza il conforto d'una parola affettuosa.

Solo, veramente solo: poichè il cuore di lei non l'aveva seguito, e soltanto ora, così tardi, si ricordava.

Quanto tempo era passato?… Era egli già a Roma?… Era già rientrato nella casa?…

…. Arrivare nell'appartamento deserto…. rivedere il disordine delle stanze abbandonate come in fuga…. toccare le cose note alla morte…. rivivere le ore terribili…. Quanto, quanto soffrire, povero Carlo!…

Come mai ella non aveva pensato, non aveva sentito prima d'allora nulla nel suo cuore che l'avvertisse di ricordarsi di lui, di non abbandonarlo in quel momento, di essere più buona?… Come mai l'aveva lasciato partire così, con tanta indifferenza, quasi con freddezza?… Perchè?… Perchè?…

Affannosamente Elena scrisse poche righe; chiamò Battista e gli consegnò il telegramma.

Era una parola di saluto dove vibrava timido il rimorso.

Attese fino a sera la risposta che non venne. La giovane donna si coricò inquieta e affannata. Quel silenzio le diceva troppe cose….

E nella notte, a grandi occhi aperti, accusandosi come sanno accusarsi le donne che amano di fronte a un assente che tace, ella rivisse tutti i suoi ricordi più cari, tutta la storia del loro amore che partiva dalle confuse reminiscenze dell'infanzia per arrivare fino all'ultima dolorosa tappa (e non una parola l'assente vi aveva scritto che non fosse gentile, che non esprimesse protezione, sollecitudine, tenerezza) fino agli ultimi mesi, dacchè il piccolo li aveva lasciati, dacchè ella, chiusa nell'egoismo feroce del suo dolore, aveva intrapreso a torturare, ad offendere, a respingere, il cuore a lei troppo devoto. Perchè?… Perchè? Perchè non stringersi invece più forte a lui nell'angoscia?… Perchè sfuggirlo?…

Ah, era stata cattiva ed ingrata!… Ed ora?… Se egli non l'amasse più?… Se non tornasse?…

Si era allontanato, non rispondeva alla sua voce…. Anche lui, anche lui, voleva forse « piangere senza essere consolato »!…

Elena si rivolse al suo bimbo e disperatamente lo pregò:

— Cici, Cici mio, ritornami il tuo babbo!… Digli che non sia geloso di te!… Digli che mi perdoni, piccolo mio!

Il telegramma tanto atteso arrivò.

Carlo tornava la sera stessa. Indisposto, era stato ospitato da un amico. La corrispondenza gli era giunta in ritardo. A voce i particolari del triste viaggio.

*


Nell'ombra della sera tranquilla il giardinetto odora. La casa tutta ammantata di foglie rossastre, colle grandi finestre e le porte spalancate sulla valle, è immersa in una placida serenità, dolce come un invito.

Battista siede come sempre al solito posto in faccia ai monti che la sera ha tinto di viola.

Ad un tratto una finestra brilla, e nel vano luminoso due giovani figure appaiono. Una testa bionda si posa sulla spalla di Carlo, e le labbra di lui sfiorano quelle della sua donna. Prima incerte, esitanti…. poi, al tacito consenso, audaci, avide, ardenti, imperiose, suggenti l'anima di lei perdutamente in un lungo bacio profondo.

Le due figure avvinte lentamente si sciolgono, rientrano…. la luce si spegne. Sul giardinetto addormentato non brillano più che le stelle, non veglia più che il vecchio, che ha veduto, che sa.

Ed ella si lascia baciare…. e Cici non chiama più la sua mamma.

Cici riposa ormai sereno sul poggio di Sant'Anna; è in buona compagnia: stretto fra la nonna Paolina, e la zia Elena, ascolta le storie di guerra che gli racconta lo zio Carlo, e reclina il visetto ardito sul petto dello zio Fausto. Nonno Valerio gli tiene la manina….

Cici non chiama più la sua mamma.

Un velo di lagrime annebbia i poveri occhi del servo, un impeto di gioia scuote il suo vecchio cuore fedele. Rabbrividiscono di dolcezza gli oleandri al soffio dell'eterna canzone. Dicono le ombre:

— « Vecchio, non tremar più! Ella è salva, se le resta l'amore!… »

Pochi giorni appresso, quando gli sposi annunciano che partono, che tornano a Roma, Battista non è sorpreso, non è afflitto, non domanda; ma li aiuta nei preparativi, e canticchia, e sgambetta per la casa affaccendato ed ilare come se vent'anni fossero discesi dalle sue spalle.

E quando essi se ne vanno, li accompagna alla stazione con un grosso mazzo di rose muscose e di vaniglia, e mentre il treno si muove, sventola il fazzoletto e fa gran gesti di saluto e d'augurio.

Torna solo. Trova la casa deserta.

Non si guarda intorno. Non sente il silenzio. Non è triste. Non è stanco.

Sale allegramente le scale del granaio. Ridiscende portando la culla, il panchettino.

Rimette tutto al posto antico: la culla presso al letto di Elena, presso allo scrittoio di Carlo il panchettino. Allinea i due sassi, il pupazzo senza testa.

Poi va a rintanarsi nella solita sua nicchia, nel più fitto della vite selvatica, colle spalle alla porta della vecchia casa, ed aspetta.

Asolo: da Sant'Anna.

N˙ d˙ A˙ Di guardia ritrae, per quanto riguarda gli episodi patriottici, una pagina di storia vera vissuta dalla mia famiglia. Valerio e Carlo Bianchetti, mio padre e mio zio; la Signora pallida la N˙ D˙ Paolina Radonich Bianchetti, la mia nonna. Alla loro memoria questa novella è dedicata.

Intorno al tavolino da gioco, posto fra due finestre in un angolo del salotto, quattro persone silenziosamente assorte facevano la solita partita a bezigue.

I giocatori erano sempre gli stessi, ogni giorno: la padrona di casa Marchesa Ottavia Monfalcone, Mademoiselle Sarazin, vecchia dama di compagnia, Don Luigi, cappellano di casa Monfalcone, e il Barone Virdia, cugino in terzo grado della marchesa, e suo fedele amico da cinquant'anni.

Erano le quattro del pomeriggio; nel salotto vasto ed austero dalle pareti coperte di ritratti antichi, cominciava a fare un po' scuro e un po' freddo.

Entrò Ignazio, il cameriere, curvo sotto il peso di dieci lustri di fedeltà, e inchinandosi domandò se la signora marchesa desiderava il lume e il fuoco.

Donna Ottavia che era un po' sorda guardò Mademoiselle Sarazin, questa rispose sì, ed Ignazio uscì con tutta la fretta delle sue vecchie gambe.

Un minuto dopo rientrò reggendo una grande lampada velata di rosso, mentre un altro cameriere, Benedetto, fratello d'Ignazio, come lui bianco, curvo, e colle mani tremule, posava due pesanti candelabri d'argento sulla mensola e s'inginocchiava davanti al caminetto per accendere il fuoco.

I due vestivano i colori della casa — verde ed azzurro —, ed avevano i calzoni corti e le calze bianche.

Fuori del salotto, nella grande anticamera, s'intravedeva un'altra livrea verde ed azzurra, immobile: era Gianni, un ragazzo, nipote d'Ignazio e di Benedetto, che faceva il suo noviziato.

— Quando vi deciderete, donna Ottavia, a far introdurre la luce elettrica nel vostro appartamento? — chiese il barone Virdia a sua cugina, senza alzare gli occhi dalle carte che teneva in mano.

— Per amor del cielo, Everardo, non mi parlate di modificazioni! Questo è ancora l'unico sito dove possa illudermi che non siano passati questi ultimi disgustosi quarant'anni!

— Disgustosi per davvero, cugina, se non foss'altro perchè ci hanno portato le rughe e i capelli bianchi!…

— Voi sapete meglio di me che non è la vecchiaia che mi affligge, ma il disordine che sento negli uomini e nelle cose. Tutto è così sconvolto, mutato…. La nostra società stessa è così cambiata, che vi assicuro, Everardo, io non mi trovo bene che qui, in mezzo alle vecchie cose, dove mi rifugio come in una rocca.

La marchesa Ottavia aveva pronunciato queste parole con un'amarezza e una forza che rivelavano sotto il vecchio involucro un'anima ancora giovanilmente energica e volontaria.

La partita era finita; ella congedò con un cenno il cappellano e mademoiselle Sarazin, e si alzò.

Era una vecchia alta, magra e dritta, con capelli candidi e il profilo imperioso. Vestita di un semplice abito di seta viola, colla cuffietta di trina in capo, conservava nello sguardo e nel portamento qualche cosa d'inconsape-volmente altero, di rigido, e quasi di dispotico, che teneva le persone a distanza malgrado la sua amabilità di gran dama.

Rifulgevano nel suo sangue e nei suoi lineamenti le caratteristiche dei Monfalcone: la tenacia, l'orgoglio indomabile, e l'indomabile intransigenza; ed ella impersonava due volte la razza, per la sua nascita e per il suo matrimonio, poichè nata Monfalcone, aveva sposato a sedici anni suo cugino Norberto dello stesso casato.

— Avete ragione, Ottavia, — disse il barone alzandosi lentamente e zoppicando un po'. — Milano è divenuta impossibile! Questa è l'ultima città dove noi della vecchia guardia possiamo trovarci bene. Scioperi, dimostrazioni, arbitrati, congressi, comizi…. ed anche quando tutto è tranquillo qualche cosa di rivoluzionario, di urtante, rende l'aria irrespirabile!… Io credevo che quest'anno vi sareste fermata a Monfalcone…

— Eh, caro mio, come si fa? Bisogna maritare Valeria….

— E l'inverno in un'altra città meno sanculotta non vi tenterebbe? Roma, per esempio? Dicono che c'è una stagione brillantissima, e Valeria potrebbe….

— Avevo pensato anch'io a Roma, Everardo; ma Monsignore Arcivescovo cui ho chiesto consiglio me ne ha francamente dissuasa. Già, il soggiornare in una città dove l'usurpazione è riverita pubblicamente mi sarebbe stato un supplizio…. Come potrei dimenticare che mio marito, a fianco del Santo Padre, ne divise le angoscie durante le fatali giornate del '70?… Eppoi, credetemi; anche a Roma la società è orribilmente democratizzata; non v'è luogo dove tutti non possano arrivare. L'aristocrazia nera, l'unica che si mantenesse fedele alle tradizioni, comincia anch'essa a lasciarsi trascinare dalla corrente…. Ah, non ci sono che ben poche case, Everardo, che portino ancora il lutto del '70! E fra qualche anno, chi sa?…

Una fanciulla era apparsa sull'uscio ed attendeva.

— Nonna, miss Leight è pronta per la passeggiata. Mi permettete d'uscire?

La contessina Valeria Monfalcone attraversò il salotto col suo passo regale e si avvicinò alla nonna, le baciò la mano e le porse la fronte.

— Buona sera, Everardo, come va?

Ella era tanto bella, d'una bellezza così luminosa e viva nel semplice vestito di panno cupo, colla volpe bianca al collo, che il vecchio scapolo rimase per un attimo estatico a guardarla, poi le baciò galantemente la piccola mano.

— Permettete, nonna?

— Sì, sì, va subito, — rispose la marchesa Ottavia, — altrimenti non riesci a rincasare per le sette.

Il barone e la marchesa la seguirono cogli occhi in silenzio mentre si allontanava.

Alta, snella, con una figura scultoria, grandi occhi chiari pieni di luce e d'espressione, pareva portare la vita e la gioia, pareva creata per l'amore e per il dominio.

— Scusate, Ottavia…. fra i partiti che ha avuto finora Valeria, nessuno di conveniente?

La marchesa Ottavia sospirò.

— Eh, sì, purtroppo, amico mio. Non ne ho mai parlato neppure a voi, tanto me ne duole. Alcuni molto convenienti, l'ultimo, splendido addirittura.

— E perchè non accettarlo?

— Valeria non ha voluto saperne. Si trattava, — e qui la marchesa abbassò la voce, — si trattava del principe Ruffo, lo conoscete? Bel giovane, ricchissimo, figlio unico, di nobiltà purissima ed antica, e nondimeno….

— Ma perchè?

— Per nulla. Valeria dice che non pensa per ora al matrimono, dice che vuol prima godere un po' di gioventù, accampa mille scuse, e maggiormente insiste su quella di non voler sposarsi senza essere innamorata….

— E la vostra autorità?

— La mia autorità?… Povero Everardo! Non avete ancora capito che la mia autorità presso Valeria è quasi nulla? Ella ha verso di me le forme del più cerimonioso rispetto, mi vuole fors'anco un po' di bene perchè sono tutto quello che resta della sua famiglia, ma è di una indipendenza morale che spaventa. Fino a quindici anni ha vissuto con sua madre, e non era certo da quell'americana di nascita e di abitudini che si poteva attendersi un'educazione perfetta…. Io l'ebbi troppo tardi per poterla ridurre, ed ella è già una donna….

— Qualche simpatia?

— Non credo. Non è facile piacerle! Io spero sempre che arrivi questo « Prince Charmant »!… Sono vecchia, e la responsabilità comincia a pesarmi.

— Non avete lasciato nessuna speranza al Ruffo?

— Sono riescita ad ottenere da Valeria che lo rivegga qualche volta ancora prima di dargli una risposta definitiva…. Devono ritrovarsi insieme sabato sera al Ballo di beneficenza pro Infanzia Abbandonata.

— Allora tutto non è perduto, cara Ottavia! « Bonne chance!… » E adesso mi congedo, perchè è già tardi e per voi è quasi l' ora del pranzo.

Il coupé di casa Cantelmo, nero filettato di bianco, e quello di casa Monfalcone, verde colla gran fascia azzurra, arrivarono contemporaneamente alla porta del Casino.

Dal primo scesero il barone Virdia e il duca di Cantelmo e si affrettarono premurosamente verso la seconda carrozza di cui un giovane cameriere aveva aperto lo sportello.

Il barone Virdia aiutò a scendere donna Ottavia, tutta imbacuccata nelle pellicce, poi una manina guantata di bianco porse al duca di Cantelmo un ventaglio, una borsetta d'oro, una lunga sciarpa di merletto, e infine Valeria balzò leggermente a fianco di lui, fulgida e bionda, colla testolina sbocciante come un fiore dall'alto colletto del mantello azzurro.

E le due coppie s'incamminarono lentamente su per lo scalone.

Era già molto tardi, e la festa era nel suo massimo splendore.

Ma Valeria arrivava sempre tardi, per indifferenza o per civetteria, e i suoi adoratori che lo sapevano l'aspettavano al varco nel vestibolo per accaparrarsi subito un giro di valzer o una quadriglia: vana lusinga sperare il cotillon che ella disertava troppo spesso colla scusa della stanchezza della nonna, o che talvolta le saltava il grillo di concedere a quel mezzo gobbo di suo cugino Cantelmo: altra civetteria, dicevano i maligni.

Quella sera una gran nuova correva nei crocchi e si sussurrava a mezza voce: il prossimo fidanzamento Ruffo-Monfalcone.

Tutti avevano notato da tempo la corte serrata del Ruffo, e siccome da ambe le parti si riunivano tutti i requisiti necessari: gran nome, gran censo, gran parentado, la notizia non suscitava sorpresa.

Gli adoratori della vigilia si mettevano in seconda linea aspettando gli eventi; gli intimi del Ruffo gli mormoravano passando qualche frase scherzosa a cui egli rispondeva sullo stesso tono, ma veramente seccato in fondo: seccato del ritardo di Valeria, e seccato che si fossero sparse con leggerezza delle chiacchiere che molto probabilmente avrebbe dovuto presto smentire.

Egli non aspettava nel vestibolo, ma sulla porta del salone, colle spalle alla scala. Era alto, biondo, elegantissimo; col profilo regolare, un po' allungato e un po' freddo, che gli veniva dalla madre inglese; gran sïgnore dalla testa ai piedi, avvezzo a piacere alle donne.

E Valeria saliva lo scalone al braccio di Gualtiero Cantelmo cui sorpassava per statura di tutta la testa, e si chinava, e gli sorrideva, motteggiando, stuzzicandolo, e scherzando con lui e su di lui come una bimba.

Egli le portava il ventaglio, la sciarpa, la borsetta, e levava su di lei grandi occhi timidi di cane avvezzo a leccare la mano che lo colpisce. Quando fu nel vestibolo, l'aiutò a togliersi il mantello, la guardò riflessa tutta nel grande specchio, l'avvertì sottovoce che una fibbia delle scarpette era slacciata. Ella tese sorridendo il piede, ed egli gliela allacciò.

Dal salone veniva un ronzio confuso come da un alveare.

Il vecchio marchese di Santa Silia, sorridente nella gran barba bianca, e don Giannetto Maina, accorsero ad offrire il braccio alle signore; alcuni ufficiali di cavalleria che chiacchieravano presso all'uscio fecero ala rispettosamente in un improvviso silenzio d'ammirazione.

Valeria infatti in quella sera era in tutto lo splendore della sua bellezza: bianca e bionda nella veste di merletto, senza un fiore, senza un gioiello; coi suoi strani occhi di color cangiante animati infantilmente dal sorriso.

Ella sentiva il suo trionfo, ed entrava nella sala con quella noncurante sicurezza che accresceva il suo fascino, e che aveva fatto esclamare ad un osservatore: — Eccone finalmente una che è abituata ad essere bella!

Si era appena affacciata all'uscio del salone e già uno sciame di cavalieri l'attorniava: don Roberto Guarienti, don Emanuele Farinola, il piccolo conte D'Effrè, il tenente Vallotti….

Il carnet di pelle grigia colla data in argento, dono delle patronesse, si copriva di nomi.

— Fate pure!… — rideva Valeria in mezzo a quell'assalto. — Dopo, rimetterò io le cose a posto!

Don Vittore Ruffo l'aveva scorta da qualche minuto ed indugiava deliberatamente ad avvicinarsi.

Intanto anche donna Carla e donna Emma Maina, le gemelle, l'avevano vista da lontano e accorrevano a lei tenendosi per mano, spumeggianti nelle fresche toilettes di tulle rosa.

Erano le amiche più intime di Valeria, e Carla la baciò sull'orecchio, e le sussurrò qualche parola ridendo, poi si allontanarono di nuovo tenendosi per mano, leggere come farfalle.

L'orchestra attaccava un boston.

Don Vittore Ruffo si era intanto lentamente avvicinato.

— Si è ricordata, contessina, d'avermi promesso il primo boston? — chiese egli inchinandosi e baciando la piccola mano che gli si offriva.

— Quale primo? — disse Giannetto Maina. — Il primo è già passato da un pezzo, amico mio!

— Il primo dopo il suo arrivo, naturalmente, — rispose il Ruffo indirizzando la parola a Valeria.

— Meriterebbe che le dicessi di no, — esclamò la fanciulla, — giacchè viene così tardi a reclamare i suoi diritti!

— Ha ragione, donna Valeria! — tuonò il tenente Vallotti col suo vocione fragoroso. — Anche per i diritti c'è una prescrizione!

— Vorrà essermi così severa? — chiese il Ruffo fissandola per un momento nei begli occhi cangianti.

— No, per questa sera le perdono! Sono in vena d'indulgenza!… È per noi subito, non è vero? — chiese ella sentendo le prime note lente di un valzer. E, lasciato il braccio di don Giannetto Maina, posò leggermente la manina su quello di don Vittore Ruffo.

Ballavano ed erano belli. Che splendida coppia! Tutti li ammiravano e ripetevano la facile profezia. Ma non era possibile parlare in quell'arruffio di gente, nè conveniva appartarsi. Don Vittore prese un mazzo di violette dalla cesta che una dama sorridendo gli tendeva.

— Grazie per i miei poveri! — disse la Signora; ed il giovane le porse una moneta d'oro e passò le viole a Valeria guardandola lungamente.

— Può concedermi il cotillon? — le chiese egli, sentendo un indefinito disagio dal prolungarsi di quella situazione, e volendo ad ogni costo uscirne la sera stessa.

— Volentieri!… — rispose Valeria, e in quel momento i suoi occhi furono chiamati improvvisamente e violentemente da altri occhi che da lontano la fissavano e, non appena incontratisi coi suoi, la sfuggirono. Ella impallidì. — Dov' è Gualtiero? — chiese, cercando suo cugino, come sempre quando voleva liberarsi di qualche importuno, quando voleva un cavaliere con cui non fosse necessario sorridere, nè chiacchierare, nè esser gentile.

— Eccolo laggiù; — disse il Ruffo e, traversata la sala, raggiunse il duca di Cantelmo e gli confidò la sua dama.

— Vuoi che usciamo di qui? Si soffoca stasera… — disse nervosamente Valeria al cugino, e, preso il suo braccio, lo sospinse e lo guidò ella stessa attraverso la folla verso i due occhi che l'avevano afferrata e sfuggita.

Ora quegli occhi seguivano distratti l'ondeggiar, nella danza, delle chiare vesti femminili, e la fanciulla andava verso colui che l'aveva guardata senza ch'egli mostrasse di accorgersene nè di osservarla. Era un uomo sui trent'anni, pallido: un volto profondamente e duramente segnato, una bocca sensuale, uno sguardo volontario ed ironico.

Passando davanti a lui, Valeria lasciò cadere il mazzo di mammole che teneva in mano. Egli si curvò, lo raccolse, e glielo porse inchinandosi.

— Oh, voi?!… — diss' ella donnescamente quasi lo vedesse in quel momento, e non gli stese la mano, ma lo fissò con un appassionato, lunghissimo sguardo.

— Potete concedermi un giro? — chiese egli inchinandosi di nuovo sotto l'impero di quei begli occhi.

Valeria lasciò il braccio di suo cugino e passò a quello del giovane.

Si mossero. Vi fu un attimo di silenzio.

— Devo a queste violette la fortuna di passare un quarto d'ora con voi?… — chiese ella con voce che si sforzava di rendere indifferente e scherzosa. — Dite la verità, avreste avuto il coraggio di non avvicinarvi neppure per un piccolo saluto?…

— Temevo di essere di troppo questa sera.

— Di troppo, questa sera? E perchè?

— Mi hanno dato per certo il vostro fidanzamento col principe Ruffo….

— E voi ci avete creduto?

— Perchè non avrei dovuto crederci?… Sarebbe una bellissima alleanza … — aggiunse il giovane dopo una pausa; e la piega ironica delle sue labbra si accentuò.

— Sì, l'alleanza di due vanità, se io fossi una donna per cui « tout prince est beau »! Voi dunque mi approvereste, se fosse vero?…

— Io non potrei approvare nè disapprovare….

— Ve ne disinteressate completamente, dunque? che sia o non sia vero vi è del tutto indifferente? — chiese ella con impeto. — Oppure mi consigliate?… Ditemelo, in tal caso! Non dipende che da me, e sono ancora in tempo….

— Non mi fate dire quello che non ho mai detto! — replicò il giovane bruscamente. — Io non consiglio nè sconsiglio nulla, ma credevo che la vostra famiglia lo volesse.

— E mi conoscete così male da supporre che io mi sposi secondo le imposizioni della mia famiglia?… Io mi mariterò…. se pure mi mariterò…. quando e come vorrò io…. secondo il mio criterio e il mio sentimento…. Non voglio essere un'infelice come mia madre! Saprò scegliere da sola, credetemi, e non accetterò consigli che dal mio cuore.

Egli taceva.

— Io avrei forse già scelto…. — proseguì la fanciulla a voce bassissima, senza guardarlo in viso, aprendo e chiudendo nervosamente il ventaglio di merletto, — ma non mi si ama abbastanza per accettare il poco che offro…. senza preoccuparsi di ciò che dirà il mondo.

Egli non rispose, e distolse gli occhi da lei.

…. Ah, resistere all'impeto di stringerla fra le braccia, di coprire di baci quella bella bocca, quei capelli d'oro pallido, quegli occhi color d'acqua marina!…

Valeria vide forse passare un lampo di quel desiderio; portò il mazzo di mammole alle labbra, ne aspirò lungamente il profumo, poi sorrise in silenzio al giovane, e glielo porse.

Erano rimasti quasi soli in un angolo del salotto; qualche coppia passava a quando a quando per raggiungere il buffet.

— Dunque, non è vero? — chiese egli afferrando e trattenendo per un attimo coi fiori la mano di lei.

— Ma no! no! non è vero!… È necessario proprio che « ve lo dica » perchè lo sappiate?… Cattivo!… — proseguì la fanciulla piano in tono di rimprovero. — Perchè non siete venuto a Brera in questi ultimi giorni? Non lavorate più? Ero in pensiero per voi…. vi ho aspettato…. Suvvia! — continuò con volubilità toccandogli lievemente il braccio col ventaglio. — Non siate così scuro! Ditemi qualche cosa carina…. Fatemi un po' la corte…. Come mi trovate questa sera?

— Siete anche troppo bella! — mormorò egli con asprezza, quasi il constatarlo gli costasse pena e fatica.

— Ah!… — sospirò Valeria con occhi improvvisamente divenuti serî, — che m'importa di essere bella?… Vorrei piacere solo a quelli che amo.

Intorno si incominciava a notarli. La contessina di Monfalcone era un astro troppo fulgido perchè una sua prolungata eclissi non fosse presto osservata. Sentirono entrambi ad un tempo l'inopportunità di continuare il colloquio e lentamente rientrarono tra la folla. Il pittore Lollita sbarrò loro il passo.

— Dunque, caro De Renzis, il tuo quadro, un trionfo! I giornali sono pieni del tuo nome…

— I Sovrani l'hanno notato! — rincalzò Vallotti colla sua voce da basso profondo.

— E tu, perchè non ti sei fatto vedere all'Esposizione? Sei modesto come la violetta, o superbo come Lucifero? — chiese ridendo lo scultore Gargià.

— Non mi è stato possibile, — rispose De Renzis. — Sono stato tutt'oggi fuori di Milano…. — e si sottrasse alle lodi con una fretta che poteva essere veramente modestia, o smisurato orgoglio.

Ma la vecchia duchessa Del Maino il cui salotto accoglieva tutte le notabilità dell'arte, della politica, della bellezza, gli si fece incontro con un raggiante sorriso.

— Aiutatemi, De Renzis: come dice Bourget?… « Il y a des touches de pinceau…. — sì, è così — …. il y a des touches de pinceau comme il y a des touches de style qui sont une façon, non pas de peindre ou d'écrire, mais de sentir, mais de souffrir, d'aimer…. de vivre!… » Il vostro quadro è una rivelazione! — E gli strinse calorosamente la mano, accarezzò i capelli a Valeria.

Un giovanotto dalla lunga chioma che discuteva in un gruppo proclamava intanto molto forte sul loro passaggio:

— C'è dello Stuck, del Franz Stuck in lui, non c'è dubbio; ma vivificato dalla genialità del temperamento latino. Il temperamento latino, cari amici….

Valeria e De Renzis sorrisero insieme.

— Eccone uno che è persuaso di avervi fatto un grande elogio scoprendo in voi dello Stuck…. — diss'ella. — Mentre voi…. dite la verità?… scommetto che preferite di essere peggiore di tutti, i vivi e i morti, ma di essere « voi »…. non è vero?

Egli le strinse lievemente il braccio col braccio: certe parole che ella gli diceva gli erano infinitamente care.

Il principe Ruffo, che da qualche minuto cercava Valeria, si appressò premurosamente alla coppia.

— Donna Valeria, — diss'egli, — il cotillon è prossimo, ed io vorrei non arrivare tardi una seconda volta.

Valeria esitò un attimo; ella aveva perduto il carnet, dimenticato il cotillon, l'impegno preso, il mondo intero.

— Mi dispiace, principe, — disse poi con fredda cortesia, — ma non mi sento bene…. lo dicevo adesso al mio cavaliere…. Non è vero, De Renzis? Cercavo anzi la nonna…. Sono costretta a lasciare la festa prima del cotillon…. Sono veramente dolente….

Don Vittore Ruffo era abituato ad essere festeggiato, desiderato, conteso; quel rifiuto che per lui chiaramente ne dissimulava un altro ben più grave e più seccante, lo feriva nel vivo; nondimeno s'inchinò con perfetta amabilità, disse qualche frase gentile di rammarico, s'incaricò di avvertire la marchesa Ottavia e di ritirare dal guardaroba i mantelli delle signore.

Esse furono tosto circondate da amici e da amiche che si dolevano per la partenza improvvisa. Anche De Renzis s'inchinò alla marchesa Monfalcone, ed ella rispose al suo saluto coll'amabilità distratta e un po' stanca con cui trattava quelli che non facevano parte del suo mondo.

Valeria intanto aveva impigliato alla maniglia dell'uscio la lunga catenella che reggeva il ventaglio; chiamò con un cenno il giovane perchè l'aiutasse a sciogliersi.

— Domani alle tre, a Brera! — mormorò ella in un soffio, quasi senza muovere le labbra, con un'audacia che contrastava colla grazia quasi infantile del volto, colla purezza dello sguardo e del sorriso.

Egli non rispose.

Mentre aspettavano nel vestibolo che i camerieri facessero avanzar le carrozze, Valeria intravide Don Vittore Ruffo traversare il salone a fianco della bella miss Smart, un'australiana giunta da poco, rossa di capelli ed elegantissima, cui molti già facevano la corte per la sua eccentricità e per i milioni, e dal modo insolitamente animato con cui egli le parlava,e da tutto l' atteggiamento di lui, comprese che aveva trovato, o per lo meno cercato, una consolazione.

Gualtiero Cantelmo, l'unico che avesse preso sul serio l'indisposizione di Valeria, le raccomandava premurosamente di coprirsi bene lungo le scale.

Ella sorrise e lo rassicurò.

Come tutto, tranne il suo amore, le era completamente, profondamente, indifferente!

Col bavero della pelliccia tirato fin quasi sugli occhi e la sigaretta fra le labbra Fausto De Renzis uscendo dal ballo si era diretto a piedi verso il solitario e lontano Corso Sempione dove abitava.

Faceva molto freddo. Ed egli era malcontento e nervoso.

Perchè era andato a quel ballo? L'avventura doveva finire. Egli se lo ripeteva da mesi, e quando pareva vi fosse veramente deciso, ecco che la sua inerzia morale lo riconduceva sulla ridicola via dell'idillio.

Lui, Fausto De Renzis, a trentaquattr'anni, dopo una vìta come la sua, filare l'amor puro con una fanciulla di diciotto! Con una fanciulla che non faceva un passo senza essere accompagnata, che dall'amore non chiedeva che uno sguardo, un fiore, un sorriso!…

Era ridicolo e stupido.

Oltre a ciò, qualche cosa gli diceva che era anche pericoloso.

Egli non amava Valeria, o almeno credeva di non amarla, come del resto credeva di non poter amare più nessuna donna, ma pure, quella sera, all'udire come certa la notizia del fidanzamento di lei aveva provato qualche cosa, non sapeva bene se rabbia, malinconia, o gelosia, che non l'avevano lasciato finchè dalle labbra stesse della fanciulla non aveva sentito il diniego.

Ora, il loro colloquio gli tornava tutto alla mente, gli sembrava più strano e più grave. Ella lo amava, lo amava! Glielo aveva detto in tutti i modi: colla parola e col silenzio. Ed era splendidamente bella, fine, vibrante: bisognava sfuggirla ad ogni costo, al più presto.

Fausto si fermò ed accese la ventesima sigaretta. Un'ondata di fumo e di malinconia l'avvolse ancora e lo tenne.

Era inutile negarlo!… Nella sua vita aspra, turbinosa, la sua amicizia per Valeria segnava una sosta, un'oasi di purezza, in cui egli aveva riposato alquanto lo spirito affaticato ed amaro; la sua tenerezza per la fanciulla, lentamente sorta dalla curiosità fredda dei primi tempi e dissimulata da lui sotto le parole ironiche e mordaci, era quello che gli restava di più sano nel cuore, estremo fiore germogliato da rovine. L' amore di lei gli dava un fremito d'orgoglio….

Non bisognava farle del male. Bastava una parola, ed egli non l'aveva ancor detta. Ed ogni giorno aveva promesso a sè stesso di dirla, ed ogni giorno si era abbandonato alla corrente, accidiosamente….

Domani.

…. Si erano incontrati a Monaco, tre anni innanzi. Valeria aveva quindici anni e tornava da un lunghissimo viaggio. Mentre sua madre trascinava d'albergo in albergo i suoi mali, la sua stranezza, e la sua noia, la fanciulla affidata ad un'istitutrice francese, correva i musei, le pinacoteche, i laghi e i castelli della Baviera, con una gioconda avidità di godere e di vivere.

Fausto l'aveva incontrata per la prima volta su di un battello che faceva il giro del lago di Starnberg, del malinconico lago che sa i folli sogni, i languori, la disperazione, d'un'appassionata anima regale.

Lungo la traversata egli non aveva fatto che ammirar la fanciulla, colpito dalla sua strana ed espressiva bellezza, ed ella non se n'era accorta.

Poi erano sbarcati tutti e tre, soli passeggeri in quella grigia giornata di settembre, presso il castello di Berg.

Un barbuto colossale custode era accorso ad aprire e li aveva guidati lungo le stanze non tocche dopo la morte del re: nella camera da letto tappezzata di pallide stoffe, nelle sale, nello studio, in quei chiari piccoli salotti delle torri d'angolo che le onde del lago, appena appena recinto da molli siepi di rose, sembrano lambire con tacito invito.

Qua e là ritratti di Luigi: uno ve n'era che lo raffigurava giovinetto, che sbarcava da una nave sulla cui prora stava scritto a caratteri d'oro: « Tristano ». Ed era bello, con grandi occhi sognanti, e teneva in mano una rosa.

— « Oh! qu'il est beau, ce roi! » — aveva esclamato ad alta voce Valeria. — « Quel dommage qu'il soit mort!… Je suis amoureuse de lui!… »

Mademoiselle aveva sgranato due rotondi occhi esterrefatti, e Fausto non aveva potuto trattenere una franca risata.

Anche Valeria aveva riso, e così avevano incominciato a chiacchierare.

Ella gli aveva raccontato che detestava la lingua tedesca, che non capiva la musica di Wagner, ma che tuttavia quella musica le dava una impressione profonda…. come dire?… solenne, religiosa…. Presto sarebbero passate a Bayreuth, se la mamma migliorava. La mamma era sempre stanca…. malata….

…. Il giorno dopo, egli l'aveva rivista al Prinz Regenten Theater, vestita d'azzurro, con un mazzo di violette alla cintura, molto diversa da quella del giorno innanzi; non più bambina, non ancora donna: un essere ïmpreciso, dalla grazia conturbante e misteriosa.

Una raffinata curiosità d'artista e di corrotto l'aveva spinto a cercare le occasioni d'incontrarla, di parlarle. Seguiti dall'istitutrice francese che sgretolava pasticeini, avevano fatto delle lunghe passeggiate e delle lunghe conversazioni.

…. Non più bambina, non ancora donna…. E così ingenua nella sua audacia, così inconscia, così noncurante della sua bellezza e del suo fascino!

Più di una volta i grandi occhi puri di lei avevano fermato sulle labbra di Fausto le parole ardite, ed egli aveva finito per mettersi all'unisono colla fanciulla con quella flessibilità di spirito che egli ben si conosceva e che veniva, ahimè, dall'ombra più ambigua del suo passato.

Valeria era partita all'improvviso, senza congedi, portata altrove dal capriccio e dal male di sua madre. Egli l'aveva pensata per due giorni, si era anche provato a fissare sulla carta il suo profilo; poi la corrente l'aveva ripreso, vertiginosamente.

Tre anni dopo, venuto a Milano per istudiare, se l'era vista ricomparire dinnanzi a Brera, o meglio l'aveva trovata seduta a un cavalletto colla tavolozza in mano, intenta a copiare un Luini. Un'istitutrice inglese, dagli occhi e dai capelli gialli, aspettava, seduta a pochi passi.

Senza dissimulare la sua sorpresa e il suo piacere, la fanciulla l'aveva subito riconosciuto e salutato, e le conversazioni iniziate a Monaco erano state riprese, nell'ombra amica della Galleria.

Nuovamente, la curiosità raffinata di lui l'aveva spinto a scrutare in quell'anima.

Valeria era divenuta una giovane donna, elegantissima, piena di fascino: la sua personalità come la sua bellezza, completandosi, si erano affinate; e l' indipendenza, le contraddizioni, le originalità del suo pensiero e del suo sentimento, facevano di lei un fiore raro e interessante. Ma i suoi grandi occhi puri erano sempre gli stessi, ed arrestavano sulle labbra di Fausto le parole ardite.

Fino a quando?… Ella lo amava, e, in qualche ora fosca, egli sorrideva di sè stesso. Valeria poteva tutto temere da quel sorriso.

…. Fausto non aveva mai conosciuto sua madre. Suo padre era un attore. Egli bambino l'aveva seguìto coi comici nelle piccole città di provincia; rammentava gli albergucci pieni di mosche e di odor di cucina, i camerini disordinati e sporchi, il vociar fra le quinte, il gergo pittoresco ed ignobile, il belletto, i crayons, le parrucche, e la fiala d'acquavite, sul tavolo da toilette di suo padre.

Rammentava una delle amiche di lui, un'attrice rossa di capelli e grassa con cui avevano vagabondato cinque anni per finire col separarsi dopo una scenata orribile di grida e di pianti; ne rammentava un'altra, pallida, romantica, tutta occhi e denti, che si faceva venir le convulsioni ad ogni piè sospinto e singhiozzava con suo padre la Signora dalle camelie. Una sera prima di uscir di teatro ella lo aveva schiaffeggiato; poi erano rincasati insieme tranquillamente. Quante donne, nei ricordi di Fausto!… Tranne sua madre.

Dove, chi, era ella?… Perchè l'aveva abbandonato?… Più che contro il padre che s'ubbriacava e lo batteva; contro la madre ignota che l'aveva tradito, il piccolo accumulava nel cuore un rancore implacabile. Se gli avveniva d'incontrare una donna con un bimbo fra le braccia, egli sussultava di dolore, d'ira e di vergogna, e si nascondeva per piangere.

…. Tratto tratto la compagnia restava incagliata in qualche grosso paese finchè si organizzava una colletta per farla partire, e intanto era la miseria, la miseria nera….

Questa, era stata l'infanzia di Fausto.

Egli aveva veduto tutto con grandi occhi profondi e cupi, e nella sua anima infantile si era maturato poco a poco il proposito irrevocabile: fuggire, uscirne.

Ed era fuggito infatti, a quindici anni: a piedi, senza saper dove andare, portando seco cento lire tolte a suo padre.

Attraverso a quali amarezze, a quali lotte, egli era passato prima di giungere a essere ciò che era: l'artista riconosciuto e ammirato? Attraverso a quali roveti si era insanguinato le mani prima di giungere a strappare la fronda d'alloro? Quante volte era scivolato e aveva creduto di non più rialzarsi prima di lasciare per sempre la palude da cui veniva?… Egli solo sapeva; e avrebbe voluto dimenticarlo.

Era arrivato, era libero, era giunto alla vetta: aveva collocato sè stesso al posto dei vincitori. Ma in fondo all'anima?

In fondo all'anima egli era un vinto; dominato e stretto tuttora con artiglio feroce dal suo passato: reso crudele dai ricordi, indifferente e scettico dall'esperienza; raffinato e cinico da anni di disordinata vita vagabonda, schiavo, che trascinava al suo piede una catena da cui non avrebbe potuto mai più liberarsi: la lassitudine delle troppe battaglie…. La sua vittoria non celava che rovine.

Egli aveva raccontato a Valeria parte della sua storia — parte — anche l'episodio delle cento lire, fino al primo suo collocamento nello studio d'un pittore ungherese, dove la sua attitudine per l' arte aveva cominciato a delinearsi.

Ed ella aveva ascoltato avidamente ciò che Fausto aveva voluto narrarle, ed ogni parola di lui si era impressa a caratteri di fuoco nel suo cuore. Per il suo dolore, per la sua povertà, per le sue lotte, per la vittoria strappata a prezzo di lagrime non piante, per la sua diversità dagli altri uomini, ella lo amava. Perdutamente…. Anch'ella era un'anima irrequieta…. Anch'ella nella sua infanzia, fra un padre indifferente e una madre malata e vagabonda, aveva sofferto e giudicato in silenzio…. Anch'ella era una ribelle…. Un fremito di simpatia attraeva la sua femminea volontà, anelante di svincolarsi dai ceppi di una vita arida e vuota verso la maschia volontà, di lui, superba, ardita, sempre in arme contro gli uomini e contro il destino; un brivido di passione spingeva le giovanili sue labbra ardenti verso le labbra di lui, memori di troppi baci, stanche, come il suo desiderio ed il suo cuore. Perdutamente….

Fausto era arrivato davanti alla casa dove aveva lo studio e l'alloggio. Trasse di tasca la chiave ed aprì. In quel momento si ricordò che don Vittore Ruffo nel vestibolo del Casino gli era passato davanti senza salutarlo, anzi volgendo ostentatamente la testa da un'altra parte.

Un lampo d'ironia gli balenò negli occhi.

— Chi l'avrebbe detto che sarei arrivato ad avere degli scrupoli in fatto di donne?… Vuol dire che invecchio.

Da un vicino caffè « chantant » giungevano a ondate le strofe d'una canzonetta miagolata da una stanca voce femminile:

La liberté, l'amour! Il me faut ces deux choses. Pour mon amour je donnerais ma vie, Et pour la liberté, l'amour!

Pioggia a rovesci. Il castello di Monfalcone fosco tra i pini. Gli alberi del parco frementi con lunghi brividi sotto l'uragano.

Via via che le ore passavano Valeria si sentiva invadere da un'inquietudine, da un orgasmo, sempre più forti.

Ella aveva mentalmente calcolato il tempo necessario all'andata e al ritorno del messo — un'ora e mezzo di salita e un'ora per la discesa —: egli avrebbe dovuto tornare a Monfalcone prima del tramonto, invece erano già scoccate le nove e nessuno era ancor comparso.

Gianni, il groom addetto al servizio della contessina, ispezionava dalle larghe bifore dell' anticamera la strada livida, sferzata dalla pioggia, ed ogni tanto veniva a riferirle che non si vedeva arrivare nessuno.

Valeria si aggirava da una stanza all'altra, fermandosi a guardare i delicati pastelli appesi alle pareti, ad accomodare le rose nelle coppe, con mani febbrili, con occhi che non vedevano nulla.

Miss Leight lavorava silenziosamente all'uncinetto, e sbirciava coi suoi ipocriti occhi gialli le mosse della fanciulla.

Ah, come Valeria odiava quella donna! La testimone della sua umiliazione, la complice legata a lei dalla colpa!

L'odiava, e non poteva scacciarla; la disprezzava, e non poteva gridarglielo in faccia; l'odiava per la sua condiscendenza che le aveva permesso di perdersi, l'odiava per l'ipocrito rispetto, per l'ipocrito sguardo dei suoi occhi gialli.

— Contessina, il signor duca è qui!

Tra il sibilar del vento e lo scrosciar della pioggia, un tintinnar di sonagliere, un risuonar di ruote, e il calesse scoperto del duca, tirato da due poneys russi a lunghe code, entrava a gran corsa nel cortile.

Guidava il duca stesso, caso rarissimo, benchè avesse a fianco il cocchiere; e i cavalli sbuffavano, grondavano pioggia e sudore.

Gianni spalancava i battenti della porta della grande anticamera, precedeva il duca lungo le chiare stanze dai soffici tappeti dove ogni suo passo lasciava impronta d'acqua e di fango.

Valeria guardava il cugino avvicinarsi, curvo, coi ginocchi grossi, colla sua andatura dinoccolata, colle lunghe braccia che sembravano pesargli, e i capelli biondastri scompigliati dal vento: era molle d' acqua dalla testa ai piedi.

Ella gli si fece incontro, gli tese la mano, ritrovò un sorriso per accoglierlo davanti ai domestici.

Gualtiero borbottò arrossendo alcune frasi confuse per scusarsi di non essere accorso prima: era assente da casa fin dal mattino per un giro nei boschi coll'agente generale, il mal tempo l'aveva colto per istrada; giunto a Torri aveva trovato la lettera e il messo e aveva proseguito in calesse malgrado la pioggia, per non perder tempo….

— Scusami se mi presento così….

— Povero Gualtiero! Come sei buono! Ti ringrazio! Sei tutto bagnato…. Avrai anche freddo…. Vuoi una tazza di thè?

Ella ritrovava i gesti e le frasi convenzionali, sorretta, anche in quel momento, dalla forza dell'abitudine.

Avvicinò una poltrona, premè il bottone elettrico, diede ordine a Gianni di accendere il samovar, appressò al cugino la piccola table à thé coi sandwiches e il latte.

Era pallidissima.

Egli ne seguiva i movimenti colla fisionomia illuminata, ravvivata, e quasi abbellita, dalla gioia che la presenza di lei bastava a donargli.

Valeria tese a suo cugino una tazza di thè; le sue mani tremavano tanto che un po' del liquido bollente le si rovesciò addosso, strappandole un piccolo grido.

Quella scossa fisica le ridonò il suo coraggio, come una staffilata.

— Gualtiero, — disse sedendo di fronte a lui. — Devo dirti delle cose gravi. Tu mi vuoi bene, non è vero? Io non ho che te, non posso fidarmi che di te solo.

Fissandolo coi suoi cangianti occhi quasi per trasfondergli la sua imperiosa volontà, ella proseguì:

— Io posso considerati come un fratello, non è vero? Posso contare su di te?… Dimmi francamente, Gualtiero, tu che sei stato sempre con noi quest'inverno…. ai concerti…. ai balli…. non ti sei accorto di nulla? non hai notato che io…. preferissi qualcuno…. tra quelli che mi erano intorno?…

Gualtiero scosse malinconicamente il capo.

— No!… Scusami, Valeria, ma io…. non ho notato nessuno…. in particolare!… Sono così miope e distratto! E sono tanti, intorno a te!… Scusami, ma non ho proprio notato nulla, particolarmente….

Egli insisteva nelle scuse, con una confusione che la leggera balbuzie e lo strisciar dell'esse rendevano più evidente e più penosa.

In fondo era vero. Egli non si era mai curato di distinguere l'uno dall'altro i molti adoratori di Valeria riunendoli tutti in un solo senso di diffidenza, colla certezza che un giorno l'uno o l'altro gliel'avrebbe rapita. Egli divideva il mondo, di cui Valeria era centro, lume, ragione di essere, in due parti l'una dall'altra separate da un'insormontabile barriera: dall'una era lui…. solo…. colla sua bruttezza…. colla sua infermità…. colla sua malinconia…. colla sua goffaggine…. colla sua disperata febbre d'amore; dall'altra Valeria ed « essi », i belli, gli audaci, i fortunati, quelli che si chinavano sorridendo sulle spalle ignude delle dame, che strisciavano il boston con movenze serpentine, che dicevano madrigali più cogli occhi che colle labbra. Tosto o tardi, l'unoo l'altro di coloro gliel'avrebbe rapita: che importava il nome?

Ed ecco: era arrivata la confessione tante volte prevista! Ella aveva finalmente scelto…. Ella amava!… E gli confidava il suo segreto…. aveva forse bisogno di lui per rimuovere qualche ostacolo, per persuadere la nonna. Coraggio!

— Tu non hai dunque capito nulla! — esclamò Valeria balzando in piedi.

Attraversò la stanza e si affacciò all'uscio del salotto attiguo.

— Miss Leight, — diss'ella, — « please, leave me alone ».

Era in balìa di quella donna e seguitava a parlarle in aspro tono di comando. La piccola inglese si alzò e sguisciò via.

— Devo dirti dunque tutto io stessa, Gualtiero! — continuò Valeria tornando di fronte al cugino. — Sentimi dunque. Tu conosci Fausto De Renzis, non è vero? Non è del nostro mondo, ma l'ho amato e l'amo con tutta l'anima. Naturalmente ho dovuto nascondere a tutti quest'amore perchè tutti voi mi avreste disapprovata. Gli ho scritto e ci siamo visti di nascosto.

Lo sguardo costernato di suo cugino le arrestò per un attimo le parole sulle labbra.

— Sì. Ci siamo visti di nascosto, — proseguì ella lentamente con un'energia fredda e disperata. — Per quattro mesi ci siamo incontrati quasi ogni giorno a Brera, alle Conferenze di storia d'arte, nello studio del pittore Lollita. Quando lo seppi ferito nei tumulti del Maggio — i giornali dicevano « gravemente ferito » — mi recai a casa sua con miss Leight.

Vi fu una pausa in cui si sarebbe sentito il batter dei due cuori.

— Tornai più volte.

I lampi rigavano il cielo di gran luci gialle.

— Un giorno, io sono stata sua.

— Non è vero! — balbettò Gualtiero fattosi pallido come un morto.

— Sì, Gualtiero, è vero, è vero purtroppo!… Ti ho fatto chiamare per questo, per confessarlo a te, a te che sei tanto buono, che mi hai dimostrato sempre dell'affetto. A chi rivolgermi se non a te? Tu solo, tu solo, puoi compatirmi, comprendermi un poco, aiutarmi ad uscire dalla mia condizione orrenda! Tu solo puoi sollevarti al disopra dei nostri pregiudizi, delle nostre catene! Non abbandonarmi, Gualtiero, non abbandonarmi, se mi vuoi bene! — e gli afferrò le mani sperando, in quell'atto, di afferrargli l'anima.

Ma Gualtiero si svincolò violentemente dalla stretta.

L'incredulità e l'angoscia gli si leggevano in volto e lottando furiosamente lo rendevano come cieco e come pazzo.

— Ma non è vero! — balbettò smarritamente quasi parlando a sè stesso, stringendosi la testa fra le mani. — Non è possibile che tu, Valeria, abbia fatto questo!… Io ti aiuterò, farò tutto quello che mi domandi, ma non è necessario che io ti creda perduta per aiutarti! Hai mentito per questo, dimmi? Perchè torturarmi così? Dimmi…. che hai mentito!

— Ma vuoi dunque che te lo ripeta? — proruppe la fanciulla. — Vuoi che ti dica le date, vuoi che ti racconti i particolari, per persuaderti?…. Fu alla vigilia della nostra partenza per Monfalcone. Da alcuni giorni non lo vedevo. Andai da lui per pregarlo di scrivermi qualche volta. Fino ad allora l'avevo sempre visto in presenza di miss Leight. Comprendi? Ella era stata sempre presente ai nostri colloqui. Quel giorno, per esser più libera di parlargli, pregai quella donna di aspettarmi in chiesa. Ella acconsentì. Salii sola. Egli non voleva promettermi di scrivere, diceva che era bene finire, troncare, abbandonare ogni idea, ogni speranza, non vederci mai più…. Io mi disperai…. piansi…. lo supplicai…. divenni come pazza…. E tu disprezzami, odiami, insultami, ma non farmi aggiungere di più, non essere così crudele!…

Gualtiero era ripiombato nell'ampia poltrona dove sembrava ancora più debole e più meschino, aveva nascosto il volto tra le mani; grosse lagrime mute gli colavano lungo le guance, tra le dita.

Lei! lei! la più fiera! la più bella! l'adorata! l'unica!…

Valeria aveva preso una rosa da una coppa e ne lacerava convulsamente i petali.

Il pianto di suo cugino, più che impietosirla, sorprendeva ed urtava il suo orgoglioso e impetuoso carattere. Ella si aspettava dei rimproveri acerbi, delle parole dure; gli riconsceva in cuor suo ogni diritto: dopo tutto egli era suo cugino, quasi suo fratello! Se l'avesse insultata, battuta, ella avrebbe piegato umilmente il capo sotto i colpi, ma quel pianto no, non poteva sentire quel pianto! Ella non ne coglieva che il ridicolo, la viltà, l'umiliante impotenza….

E quello era l'uomo che doveva salvarla! alla cui energia si era rivolta per avere un sostegno! Quello, era il suo difensore!

— Gualtiero! — chiamò ella in tono aspro e impaziente chinandosi su di lui e scostandogli a forza le mani dalla faccia. — Gualtiero! Smetti di piangere. Io ho bisogno di te, hai capito?… Ti ho confessato tutto come a un fratello nella speranza che tu faccia per me quello che io non posso fare. E tu non sai che piangere!…. Ma non capisci che bisogna che tu faccia qualche cosa di più per salvarmi? Dimmi, sei disposto a qualche cosa per me?

Egli scattò in piedi, avvicinò il volto al volto di lei, afferrandola ai polsi, tremando come una foglia.

— Non posso battermi, lo sai! Non posso battermi!… Nessuno accetta un duello con me!… Posso uccidermi, ma non punirlo!… E tu non vuoi che pianga!… e tu non vuoi che pianga!… — e ricadde a singhiozzare.

Ah! quel grido finalmente le arrivava all'anima, l'avvicinava al cugino più di quanto avrebbero potuto mille proteste di devozione e d'affetto.

…. Quando, dove, l'aveva sentito un'altra volta piangere così?…

Ah sì!… ora rammentava!… Molti anni innanzi…. Ella una bimba…. egli un ragazzo…. nella prateria verde innanzi al castello cavalcavano due piccoli arabi irrequieti…. Il duca Gian Carlo li guardava, colla ruga fonda e gli occhi cupi che aveva sempre davanti all'unico debole rampollo della sua razza…. A un improvviso scarto del cavallo, Gualtiero era caduto goffamente sull'erba…. Il duca era accorso e l'aveva staffilato in volto…. mentre lei, coi capelli al vento si allontanava al galoppo…. Quel pianto!…

— Senti, — disse Valeria facendosi ad un tratto tenera, dolce, e femminea. — Senti, Gualtiero. Non si tratta di battersi. Se pure tu lo potessi, non rimedieresti a nulla e faresti del male a me. Io lo amo. Fui sua di mia volontà e di piena coscienza: bisogna che tu lo sappia. Sono « io » la sola colpevole in questa triste avventura. Ma appunto per questo, appunto perchè non voglio ritogliere il dono liberamente fatto, io ti prego di aiutarmi, Gualtiero, a crearmi un avvenire meno fosco del presente, a troncare quest'esistenza d'ipocrisia e d'inquietudine che mi avvilisce e mi ripugna!… Ti prego, ti supplico, e ti scongiuro, di farlo, se mi vuoi bene!… Liberati dai nostri pregiudizi d'educazione e di casta e ricorda solo che l'uomo che ho scelto vale quanto, e più, di noi… O meglio ricorda solo che io l'amo!… che egli mi è necessario…. che non posso vivere senza di lui! Io sono qui come uno a cui manchi la luce e l'aria…. Voglio esser sua moglie, voglio poter amarlo senza arrossire e senza nascondermi!… Gualtiero, ti supplico, aiutami tu!…

— Devo parlare alla nonna? — balbettò egli con voce fioca, quasi afona.

— La nonna? — esclamò vivamente Valeria, e il suo volto riprese un'espressione dura, quasi crudele. — La nonna? Ella è chiusa nei suoi pregiudizi e nel suo egoismo. Ella non mi ha mai amata, ed io non l'amo. Sono decisa a far senza del suo consenso! E quel giorno in cui lascerò questa casa dove sono stata sempre infelice, la lascerò senza voltarmi indietro. Ma è ad altri che tu dovresti parlare, Gualtiero…. — e si rifece dolce, quasi timida. — … È presso altri, che tu dovresti perorare la mia causa….

— Presso altri?

— Sì, presso di lui, Gualtiero!… Tu non puoi credere quanto sia orgoglioso…. Il nostro orgoglio è nulla in confronto al suo! Figúrati che all'inizio della nostra conoscenza, pur amandomi, per fierezza mi sfuggiva; e più tardi, quando non ebbe più la forza di sfuggirmi, mi ripetè inesorabilmente che non avrebbe mai potuto, nè voluto sposarmi…. La mia ricchezza, la nobiltà, comprendi?… ciò che avrebbe attirato e lusingato un altro, è un ostacolo insormontabile per lui…. Ed anche in questo io riconosco la sua delicatezza!… Ma ora? Tu che sai tutto, non pensi come me che non c'è più da esitare?… Va da lui, Gualtiero, parlagli in nome del mio amore, trova le parole buone e forti; vinci la sua fierezza, i suoi scrupoli, digli il mio soffrire, qui, sola, lontana, senza sue lettere!… Vuoi farlo, non è vero?… per me?… per la tua sorellina che ti sarà grata in eterno del bene che le fai?…

— No, — rispose egli, gelido di fronte a quell'ardore.

— Non vuoi? non vuoi?… — ripetè la fanciulla non potendo credere ai suoi orecchi, — E perchè dunque non vuoi?…

— Perchè quel giorno che io dovessi cercare e trovare quell'uomo, sarebbe per cacciargli un coltello nell'anima, — disse Gualtiero pallido come se non gli rimanesse stilla di sangue nelle vene, — non già per implorare che ti sposi dopo averti disonorata!

— Dunque tu mi abbandoni? Dunque tu vuoi esser lasciato tranquillo? Vuoi seguitare a suonare il tuo violino e a studiar Nietzsche senza seccature? Ed è questo il tuo affetto? il tuo fedele attaccamento?… Tu mi lasci sola nel momento dell'angoscia: sola, e disperata! Batterti non puoi, salvarmi non vuoi!… Che sarà di me?… Chi mi vorrà tendere una mano?… Chi pregherò? A chi mi rivolgerò?…

— A nessuno! — si rispose ella stessa, fissando il cugino con occhi lampeggianti di dolore, d'audacia, di sfida. — A nessuno!… Andrò io stessa da Fausto, lo pregherò io stessa, lo supplicherò di sposarmi, di togliermi da questo ambiente di vili e di egoisti! Egli mi respinge per fierezza, e non sa che vale più di tutti voi!… Andrò io stessa!

— Tu non andrai! — gridò Gualtiero afferrando la fanciulla per un braccio e scuotendola con un'energia che lo trasfigurava. — No, per Iddio, tu non andrai!

— Sì! Io andrò, io andrò! Devo forse chiedere il permesso a te? Chi sei tu? Io non ho bisogno di nessuno! non ho bisogno di nessuno!… Ormai!…

— Che cosa: « Ormai? » — fremette egli. — Che cosa: « Ormai!… » Tu non ti muoverai di qui, hai capito? tu non farai un passo fuor di casa prima del mio ritorno! Giuralo sulla memoria di tua madre, e se manchi!…

Ella si era lasciata cadere su di una seggiola, accasciata su di sè stessa, col capo abbandonato fra le braccia, e singhiozzava disperatamente e gemeva, ridivenuta donna, debole e bambina. Il suo bello e giovane corpo sussultava scosso da lunghi fremiti, la sua testina, già cosi altera e allegra, pareva non sapesse rialzarsi più….

Egli si sentì struggere di pietà, di tenerezza, d'amore. Ah! ogni supplizio, ogni umiliazione, la morte stessa, piuttosto che vederla soffrire e piangere così!

— Valeria….

Ella sollevò lentamente il volto inondato di lagrime, gli occhi gonfi e stanchi.

— Valeria, càlmati…. senti….

— Andrai? — singhiozzò ella.

— Farò quanto sta in me….

— Ah! tu sei buono! — esclamò la fanciulla balzando in piedi e gettando indietro i capelli che le facevano velo agli occhi. — Tu sei buono, Gualtiero!… Grazie! — e gli afferrò ancora le mani, l'attirò vivamente a sè, avvicinò la sua bocca alla fronte di lui.

— Grazie, Gualtiero mio!

Egli impallidì d' angoscia e duramente la respinse.

Il bacio lieve gli aveva sfiorato i capelli

Egli appoggiò la fronte ai vetri rigati dalla pioggia, e rimase qualche minuto immobile, in silenzio.

— Telegrafagli avvisandolo del tuo arrivo…. Non dirgli che sai tutto…. Digli soltanto « che sai che io l'amo »….

— Addio.

Egli riattraversò le chiare stanze, discese a testa bassa l'ampio scalone.

Gianni lo precedeva.

Nell'atrio d'ingresso il maggiordomo aspettava e chiedeva rispettosamente se il signor duca desiderasse far attaccare una carrozza coperta.

Gualtiero accennò di no colla mano, e si diresse con lui verso il cortile delle scuderie.

Fatti pochi passi, si ricordò che bisognava pure spiegare la sua visita ed evitare che la nonna ne venisse a conoscenza. Pregò il maggiordomo di non parlare alla marchesa della sua venuta che, avendo per iscopo di prender notizie della sua salute, poteva impressionarla inutilmente.

— Troppo giusto! troppo giusto! — annuì il maggiordomo con ossequio, ed aiutato Gualtiero a salir sul calesse e ad avvolgersi le gambe negli scialli, assistè alla partenza di lui non senza permettersi di ricordare rispettosamente al signor duca che, dato l'uragano infernale, avrebbe potuto pernottare alla palazzina: in dieci minuti le stanze sarebbero state pronte.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

…. No! No! Meglio quelle tenebre paurose, quella pioggia, quel freddo; meglio correre all'impazzata fra gli alberi che si curvavano fino a terra sotto l'urto del vento, fra i tuoni, e i lampi, e lo scrosciar del torrente; meglio sentire i cavalli balzare e fremere allo scoppiar delle folgori, e dover aguzzare gli occhi, e tenere il polso vigile e fermo, e stordirsi in quella guerra, piuttostochè agonizzare lentamente nella pace d'una chiusa stanza sotto il morso tenace del proprio dolore!

Già, anche nella pazza corsa attraverso alla foresta devastata dall'uragano, una voce perfida lo inseguiva, ed egli la discerneva nel sibilar del vento, nello scrosciar del torrente, che gli sghignazzava all'orecchio:

— « Ella ti ha baciato!… ella ti ha baciato! Per lui! per lui!… »

…. Quanti giorni, quante notti, quanti anni, non aveva egli fantasticato, sognato follemente, la felicità inarrivabile di un bacio di lei?… Quante volte non si era egli sdegnato acerbamente con sè stesso sorprendendosi a sperare quello che ben sapeva non sarebbe stato mai?…

E invece…. Era avvenuto!… Ella…. sì… — ella! — gli si era avvicinata…. gli aveva posato una mano sulla spalla…. — così — lo aveva baciato là…. sui capelli…. con quelle labbra rosse che egli aveva proibito a sè stesso di pensare anche in sogno….

Ah! come si odiava per quel bacio! Come si disprezzava e si malediceva per non averlo più duramente respinto!… Vile! vile!… E non poter liberarsi dall'ossessione di quel ricordo!…

— Per lui! per lui! — sghignazzava la voce perfida, nello scroscio dell'acque, nell'urlo del vento. — « Gobbo Cantelmo, hai avuto

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

il tuo bacio! »

Il salotto dove Valeria passa la maggior parte delle sue giornate è nell'ala moderna del castello — grande, semplice, chiaro — con un'ampia vetrata che dà sulla terrazza, e da questa a picco sul mare.

Di quella terrazza Valeria ha fatto una specie di giardino pensile, e il glicine si abbandona sulla balaustra, e le rose thee vi sfioriscono con molle grazia, e le rondini in primavera vi intessono nidi, voli, e garriti.

Nel salotto pochi mobili di stile inglese, un pianoforte di Erard, un grande ritratto di sua madre, una fotografia di suo padre a cavallo, alcune acqueforti di pregio, qualche delicata maiolica faentina, molti libri, i pennelli, i colori, ed alcuni oggetti strani, disparati, che parlano un linguaggio noto a lei sola: memorie della sua infanzia e dei suoi vagabondaggi.

Ella siede allo scrittoio, presso alla grande vetrata. Risponde ad una lettera di Emma Maina. Tre giorni sono passati dal suo colloquio con Gualtiero. La nonna è indisposta ed ella ha definitivamente relegato miss Leight nelle sue stanze. Può almeno essere sola.

Ma anche la solitudine, nell'attesa, è un male!

Tutto, tutto, è un male; ed ella si sente mancare se Gualtiero non torna presto.

La nota voce annuncia:

— Contessina, il signor duca di Cantelmo!

Ella balza in piedi, va incontro al cugino, gli tende le mani con tutta l'anima nello sguardo.

— Dunque?…

— Partito.

— No?!!

— Il mio telegramma l'ha raggiunto a Cannes; ha risposto subito che si tiene a mia disposizione otto giorni colà — Grand Hôtel — per qualunque comunicazione io volessi fargli.

Ella non parla; gli occhi suoi quasi neri nel volto illividito si attaccano su Gualtiero con una tale espressione che egli si sente morire.

— Ascolta, Valeria, non irrigidirti così. Ascolta. Forse tutto non è perduto, può essere che c'inganniamo. Ma in ogni caso, se le tue, se le nostre speranze vengono a mancare, se la tua fiducia in quell'uomo è destinata a cadere, non disperarti, Valeria!… Se egli ti abbandona, io ti offro il poco che posso: se ne hai bisogno, se lo vuoi, il mio nome e la mia vita ti appartengono. E non sarai tu che dovrai essermi grata!

Valeria balza come sotto un colpo di scudiscio.

— Che mercato mi proponi? — esclama con voce strangolata e rotta. — Che mercato mi proponi, Gualtiero?… Ma tu credi che le ricchezze ed il nome…. Suvvia! Non si tratta di questo!!… Se non hai altro da dirmi!

Egli abbassa il capo sotto l'affronto.

— Tu mi hai frainteso…. — dice poi con semplice umiltà. — lo volevo solo darti il mio nome se egli ti abbandonava; ma era mia intenzione…. « starti sempre lontano ».

— Perchè non l'hai raggiunto dov'era? Per chè non hai condotto a termine la missione che ti era affidata?… Avevi bisogno di consiglio?… Il consiglio era uno solo, lo sai! Vederlo, parlargli: ottenere « ad ogni costo » quello che chiedo. Poichè egli non sa tutto! Ma…. io…. temo di essere madre.

— Ho una lettera per te….

— Dammela dunque, dammela! Sai che agonizzo da tre giorni, sai che sto per morire d'angoscia, e non mi dai la lettera!…

— Valeria!…

—. … « Ammogliato…. diviso dalla moglie…. con una bambina di otto anni in collegio a Losanna…. » — ella legge con una voce diversa, strana, tremante e rotta. — Tu…. tu sapevi?

— Il pittore Lollita solo lo sapeva, e l'ha raccontato ieri a Santa Silia e a Vallotti in mia presenza…. Perciò indugiavo a darti la lettera.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Silenzio. Ella non piange. Si è appoggiata al davanzale della finestra, ha gli occhi spalancati e fissi sul mare che scintilla. Le sue mani tremano e tengono ancora la lettera, il suo volto sembra invecchiato, avvizzito a un tratto, reso più duro, più imperioso, più freddo. Somiglia alla nonna.

Dice a sè stessa:

— Non mi resta che morire.

Ed ecco, guarda la morte ai suoi piedi: la scogliera irta di punte, contro cui il mare combatte e si frange in una schiuma d'argento.

— Non mi resta che morire…. non mi resta che morire….

Ed ecco, vede il suo corpo giovane e bello dilaniato dagli scogli, portato lontano dalle furie del mare, scoperto, toccato, da mani villane; fatto mèta alla curiosità profanatrice del volgo…. poi lo scandalo, la vergogna, la pubblicità, che di ogni errore fa un'arma, di ogni passione ludibrio….

— Non mi resta che morire?….

Ed un'immensa pietà la prende, di sè, della creatura che forse le freme in seno, e un impeto di ribellione contro quest'onta, contro quest'infamia, di dover morire…. per colui.

Ella si guarda intorno. Il mare è glauco e dolce come un lago, una rondine si posa sulla balaustra, un soffio di vento stacca i molli petali del glicine e li sparge sulla terrazza.

…. Dice forse il mare:

— Sai che i tuoi occhi sono glauchi ed azzurri come l'onda mia più profonda?…

…. Dice forse il vento:

— Sai che è più dolce scompigliare i tuoi biondi capelli che i grappoli delicati del glicine?…

…Dice forse la rondine:

— Sai che primavera torna ogni anno, ed ogni anno riporta i nidi e le rose sulla tua terrazza?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

— « No! Non bisogna morire! Sopratutto non bisogna morire per colui! »

Nè morire, nè piangere.

….Ella si muove. Posa le mani sulle spalle di Gualtiero; gli si aggrappa: comanda:

— Va dalla nonna, presto, non perdere un minuto. Dille che abbiamo deciso le nozze per il prossimo mese. Non tornare se prima non hai ottenuto il suo assenso. Ella te l'accorderà certamente. Era il suo sogno. Va presto! Va!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ed egli andò.

O alti pioppi che tutto vedete, Ditene dunque: Biancofiore ov'è?

C'era una volta, in un magnifico castello dell'Asia, una principessa molto bella e molto infelice.

Ella era orfana, si chiamava Biancofiore, ed era una meraviglia di bellezza; era anche immensamente ricca, i suoi dominii si estendevano fino al mare, aveva vesti trapunte d'oro e di gemme, collane di perle, serti di rubini: aveva tutto, ma le mancava l'amore. Perciò la principessa era profondamente infelice.

Una fata che presiedeva ai suoi destini, aveva decretato che Biancofiore concedesse il suo cuore soltanto al principe più bello, più valoroso, più intelligente della terra. E non soltanto il decreto della Fata, ma la volontà stessa della fanciulla, esigeva una così rara perfezione, poichè ella era orgogliosa e strana, e per amare aveva bisogno di sentirsi dominata. Ora, come la fama della bellezza e della ricchezza di Biancofiore aveva superato di gran lunga i confini del suo regno, quando la fanciulla compì i sedici anni cominciò una sfilata di principi che dai più lontani reami venivano a bussare alle porte d'argento del castello. La Fata chiamò Biancofiore, e le disse:

— Tu hai sedici anni, gli aspiranti alla tua mano cominciano ad arrivare: essi ti assedieranno e faranno il possibile per piacerti; sii cauta prima di decidere, e innanzi di fissare la tua scelta promettimi di guardare bene ogni uomo che ti si presenta attraverso a questa lente che non inganna. — E così dicendo le consegnò un cristallo rotondo e terso che un cerchio costellato di gemme incastonava. La principessa promise.

E tosto le porte d'argento furono spalancate, e grandi feste furono indette per ricevere gli ospiti: tornei, giostre, conviti, dove la bellezza il valore lo spirito avevano campo di rifulgere, e dove ognuno dei giovani principi gareggiava coll'altro per apparire in miglior luce agli occhi della principessa.

Biancofiore assisteva a tutti i festini avvolta nel suo manto regale che era verde a fiori d'argento: coi biondi capelli raccolti a diadema sul capo, era così bella da sembrare un'apparizione. Quando qualcuno dei principi le si accostava per parlarle, per porgerle un fiore, o per cantare un madrigale, ella sorrideva graziosamente, ma quando essi le sfilavano dinanzi nel chiuso recinto del torneo, alzava la mano che serrava la lente gemmata e ad uno ad uno li guardava fissamente attraverso al nitido cristallo. Essi caracollavano chiusi in scintillanti armature; la manina di Biancofiore ricadeva languidamente lungo il verde manto stellato d'argento, un velo di malinconia scendeva sul volto della principessa.

….Non poter amare…. non poter amare!… Non trovar mai l'uomo degno del suo amore!… Il più bello, il più valoroso, il più intelligente…, dov'era? Perchè non veniva?…

Altri principi arrivavano intanto alle porte del castello; altre feste ancora più splendide erano indette, e la principessa vi prendeva parte, sorrideva graziosamente, osservava i convenuti colla sua lente gemmata, ma il suo volto si faceva sempre più malinconico. Finalmente, un bel giorno, la Fata l'interrogò.

— Dunque, Biancofiore, hai scelto? hai deciso?… Nessuno di quelli che sono partiti, nessuno di quelli che sono arrivati, ti ha toccato il cuore? Neppure uno dei tre ultimi che spasimano d'amore per te?… Non trovi bello il giovinetto venuto dall'Assiria, il re adolescente dai lunghi occhi a mandorla, dai capelli inanellati, dalla barba prolissa, dal profilo di cammeo, sospiro di tutte le fanciulle di Babilonia?… Non ammiri la forza e il valore del principe Oláf, il guerriero dalle cento battaglie, l'eroe, la cui spada fa indietreggiare venti nemici?… Non apprezzi Alfeo, il greco, il re poeta, che così dolcemente improvvisa soavi carmi, che recita con tanta grazia le canzoni degli antichi rapsodi?…

Biancofiore scosse la testa bionda e sospirò.

— Sì, l'assiro, è bello, ma sa troppo di esserlo. È profumato come una donna, porta troppi anelli alle dita e troppe gemme alle vesti; i suoi capelli sono lisci come il velluto; egli ride troppo spesso per mostrare il candore dei denti: deve passare ore ed ore davanti allo specchio. Oláf è valoroso, ma è feroce, pensa sempre a guerre, a cacce, a battaglie; i sentimenti gentili non hanno presa sul suo cuore; ignora la dolcezza di una casa, non sa parlare alle donne, e non accarezza i bambini. Il greco mi piacerebbe di più, ma quando incomincia a cantare non vorrebbe più smettere; egli non ride mai, e nel lungo studio degli antichi poeti i capelli si sono alquanto diradati sulle sue tempie. Infine, per esser dotato di tanto ingegno, mi guarda con occhi troppo imbambolati.

La Fata rise, e disse a Biancofiore:

— Sei molto difficile.

La fanciulla sedette ai piedi di lei come quand'era piccina, appoggiò la testa sui suoi ginocchi e cominciò:

— Mamma di Biancofiore — (ella la chiamava sempre così quando voleva ottenere qualche cosa) —: nessuno dei principi che sono venuti a cercarmi nella mia reggia mi piace; in nessuno di essi io trovo la bellezza, il valore, lo spirito, che valgano il mio amore. Essi mi si mostrano impennacchiati delle più belle piume, accesi dalla speranza di piacermi e dalla gelosia che li tiene continuamente in gara l'uno coll'altro: tutto ciò è molto antipatico, e li induce a manifestarsi forse peggiori di quello che sono. Lasciate che io abbandoni il mio palazzo, che esca dal mio reame, che viaggi il mondo e le corti, e che io studi gli uomini come sono in realtà, quando nulla li sprona a fingere, a posare, a mentire. Chissà che non riesca finalmente a scoprire quello che il mio cuore aspetta: il più bello, il più valoroso, il più degno?… Permettetemi la prova, mamma di Biancofiore; lasciatemi partire: in capo a un anno avrò scelto uno sposo.

La Fata arricciò il naso e rimase soprapensiero.

Benchè quelli fossero tempi in cui le fate godevano una grande autorità e le principesse una grande emancipazione, l'idea che Biancofiore girasse il mondo in cerca di uno sposo, le pareva grave e poco dignitosa. Ma la fanciulla le accarezzava gentilmente la mano, e la guardava con due occhi così dolci e supplichevoli che nessuno avrebbe potuto resistere. Vinta e convinta, la Fata domandò: — Chi ti accompagnerà?

Biancofiore rimase perplessa, ma fu un attimo. Giocondamente, ella battè le palme ed esclamò: — Elmìr!

Elmìr era suo cugino, il giovinetto orfano che viveva alla reggia con onori e diritti sovrani, tranne quello di regnare perchè figlio d'una schiava.

La Fata calcolò ad alta voce come riflettendo: — ….Elmìr…. la nutrice…. dieci cavalieri di scorta scelti fra i più fedeli…. Come farai a non essere riconosciuta?

— Mi dirò sorella di Elmìr: nessuno saprà che io sia la principessa Biancofiore le cui ricchezze suscitano tante cupidigie.

— Ed Elmìr vorrà seguirti?

— Vorrà — disse con sicurezza la fanciulla. — Anch'egli, come me, ama le avventure e muore dalla voglia di viaggiare un po' il mondo.

— Ne vedrai di crude e di cotte — ammonì la Fata — e non credo che gli uomini studiati da un altro punto di vista ti sembreranno migliori. In ogni modo prima di scegliere osservali attentamente colla lente che ti ho data, e sopratutto osserva coloro che ti dicono d'amarti: sono quelli che più facilmente riescono ad ingannare.

*


Biancofiore rassicurò la Fata con mille promesse, e, leggera come una gazzella, corse a ordinare i preparativi della spedizione.

Biancofiore, Elmìr e la scorta erano in viaggio da due mesi; avevano visitato le più grandi corti orientali, e non ancora la fanciulla aveva scelto uno sposo. Anzi, era più che mai imbarazzata dallo spettacolo che le offrivano gli uomini.

Non più protetta dal fasto della sua reggia, dalla potenza del suo nome, dalle lancie dei suoi soldati, e ritenuta da per tutto sorella di Elmìr, cioè semplice principessa nata da morganatiche nozze, Biancofiore aveva dovuto rinunciare a qualche illusione. La sua splendida bellezza attirava come sempre gli omaggi, ma erano omaggi un po' differenti da quelli a cui era abituata quando sedeva sul palco reale, avvolta nel verde manto stellato; in che cosa consistesse la differenza, la fanciulla stessa sulle prime non sapeva spiegare: erano sfumature, un rispetto meno profondo e meno vigile, un'eccessiva audacia nei madrigali, che mal velavano lo scopo obliquo. La lente le aveva detto il resto: volevano il suo amore, ma non la sua mano, i suoi baci, ma non il suo cuore. Offesa e ferita, Biancofiore disse ad Elmìr:

— Elmìr, questi uomini perdono la tramontana. Quando mi sapevano ricca e potente si pavoneggiavano davanti a me come tacchini, strisciavano ai miei piedi come schiavi, erano pronti a qualunque viltà pur di strapparmi un sorriso, ad affrontare il ridicolo per un mio capriccio. Ora che mi credono povera, mi dànno uno spettacolo ancora più nauseante: ritengono che una fanciulla povera possa considerarsi una preda sicura spettante al più sfrontato. Come posso io scegliere fra questi uomini?

Elmìr sollevò i grandi occhi pensosi in faccia a Biancofiore, e rispose:

— La donna e l'ubbriachezza sconvolgono il cervello agli uomini: entrambe li inducono a svisare la loro vera natura. Indossa abiti maschili, studia questi principi da uomo a uomo, partecipa alla loro vita, osservali come sono quando la donna non fa loro perder la testa, e forse troverai in essi qualche buona qualità.

Biancofiore domandò: — Tu sarai con me?

— Io non ti lascerò un attimo: sarò come la tua ombra.

E Biancofiore si vestì da uomo, si tagliò i capelli, cinse la spada.

Montò su di un cavallo nero come la pece a fianco di Elmìr, e, sotto il nome maschile di Assur, riprese il pellegrinaggio.

*


…. Che bel giovinetto era Biancofiore sotto le spoglie di Assur!…

Alto, svelto, cogli occhi scintillanti nel delicato viso, e i ricci al vento, di galoppo sul nero cavallo!…

Lungo i fiumi dalle sponde fiorite di loto, attraverso le praterie verdi e sterminate, Biancofiore ed Elmìr s'inebriavano di luce e di libertà. Dietro a loro i cavalieri di scorta, neri come fantasmi, cavalcavano in silenzio.

A dir vero, per essere un uomo, Biancofiore era un po' troppo ciarliera. Ma bisognava compatirla. Dacchè si era travestita ed aveva cambiato sesso, il mondo le appariva sotto un aspetto così strano e inaspettato, che non poteva trattenersi dal comunicare rumorosamente le sue impressioni ad Elmìr. Cavalcando al suo fianco, ella cinguettava come un uccellino. E i suoi discorsi erano spesso comicamente desolati.

— Elmìr! — diceva. — Sei mesi sono passati, abbiamo girato cento corti, e nulla ancora, nulla!… Che dirà la Fata?… Uomo bello, intelligente, valoroso, dove sei?… Dove battere la testa per trovarti?…

Elmìr la incoraggiava ad aver pazienza. Ma anch'egli cominciava ad essere stanco, e sopratutto sfiduciato, di quel pellegrinaggio. Fedele alle promesse, la fanciulla non abbandonava un istante la sua lente gemmata, e attraverso ad essa guardava la vita con così fredda chiaroveggenza, con intuizione così profonda, con così fine ed acuto spirito critico, che nessun uomo arrivava ad incarnare per lei l'ideale sognato. Oltre a ciò, ritenuta dovunque un giovanetto, ed ammessa senza diffidenza nell'intimità dei principi che si recava a visitare, ella aveva avuto occasione di conoscere certi retroscena, di valutare certi sentimenti, che non avrebbe mai sospettato. Spalancando i begli occhi ingenui, Biancofiore interrogava:

— È così, Elmir, è così, che gli uomini considerano la donna? È così che ne parlano?… questo, il loro linguaggio quando sono fra loro? Questo, il culto che le dedicano?… Questi, i loro costumi? Questi, i loro passatempi?… Ah, io non potrò mai più, mai più credere all'amore!…

Ed Elmìr si mordeva le labbra per aver consigliato l'audace esperimento. È vero che la purezza rezza di Biancofiore era tale che non prendeva macchia, nè si appannava, ma nondimeno ella usciva da quella prova inutile con qualche illusione di meno, e una certa amarezza in fondo all'anima. Ed Elmìr non perdonava questo a sè stesso, poichè ben sapeva che distruggere un'illusione è distruggere un po' di gioventù.

— Senti — diss'egli ancora —: facciamo un'altra prova. Fra i principi che vennero a cercarti alla reggia, mi pare che tre ti interessassero di più: il re Alfeo, il principe Oláf, e l'assiro dai lunghi capelli. Vuoi che andiamo a trovarli nei loro paesi dove potrai studiarli da vicino senza che sospettino di essere osservati? Cala la visiera, confonditi agli uomini di scorta, nessuno ti riconoscerà, e tu forse potrai legger più chiaro nella vita e nel cuore di quei tre che più degli altri ti parvero degni d'attenzione.

E così fecero. E cavalca via e cavalca per monti e per valli, per prati e per sentieri, arrivarono alla reggia d'Oláf.

Era calata la notte, e il principe, tornato dalla caccia, con tutti i suoi fidi sedeva a banchetto. Elmìr fu accolto con onore dal gran scudiero ed invitato ad entrare colla scorta nei suoi appartamenti; il principe l'avrebbe ricevuto il giorno seguente.

Una femminea curiosità spinse Biancofiore sulla veranda a scrutar colla lente verso il padiglione dove il banchetto avveniva.

La mensa principesca, i lumi, i fiori si avvicinarono così da sembrar di toccarli. Ed una ridda incomposta e triviale apparve agli occhi di lei: ministri, cavalieri, scudieri e paggi, intorno alle tavole saccheggiate, fra le coppe rovesciate e infrante, fra i lampadari mezzo spenti, cantavano sfrenatamente e bevevano… Ma dov'era Oláf? Due gambe poderose e due enormi piedi armati di sperone sbucavano di sotto alla tavola ed una mano scintillante dell'anello reale: i cani la leccavano mugolando: il principe era ubbriaco fradicio.

Elmìr e Biancofiore ne ebbero abbastanza e decisero di partire senza aspettarlo.

E cavalca via e cavalca, per monti e per valli, per prati e per sentieri, arrivarono alla corte del re Alfeo.

— Dov'è il re?… — chiese Elmìr presentando il sigillo colle armi della sua casa.

— Il re sta recitando dei versi alla corte riunita! — rispose solennemente il gran maestro delle cerimonie. — Biancofiore respirò. Meno male!… Non ci sarebbe stato pericolo di trovarlo nello stato di Oláf. Elmìr e la scorta furono introdotti.

Alfeo stava recitando con grande enfasi un carme di sua creazione e non si interruppe. Solo quand'ebbe finito di recitare, e la corte d'applaudire, mostrò di accorgersi di Elmìr, e gli andò incontro, e gli strinse le mani con parole molto belle e molto gentili. Parve a Biancofiore che in quei pochi mesi egli fosse diventato ancora più calvo, ma non vi diede importanza, felice di trovare finalmente un uomo che passava le sue serate in nobili occupazioni spirituali ed aveva il peplo d'un taglio irreprensibile e abbottonato fino al collo.

La riunione era poco numerosa ed intimissima. Ma per renderla più numerosa Alfeo non aveva trascurato alcun mezzo. Uno spirito di ben intesa democrazia guidava l'intellettuale re nella scelta del suo uditorio, poichè, oltre i ministri, i consiglieri, i gran scudieri, e perfino il guardacaccia, anche le schiave erano ammesse ad applaudire il loro signore.

Biancofiore guardava tutto ciò con molta simpatia. Benchè principessa asiatica, ella sapeva apprezzare il progresso dei tempi moderni e capiva che a questi lumi di luna un principe che vuol esser saldo sul trono deve appoggiarsi sul popolo. Ma, a lungo andare, una bella sera, osservando con sempre crescente simpatia ed interesse le mosse del saggio Alfeo colla sua lente, la povera Biancofiore…. si accorse…. (oh Dio, non voleva credere ai suoi occhi la povera Biancofiore!…) si accorse…. che il re furtivamente fra un carme e l'altro pizzicava le schiave.

Pizzicava le schiave!…

È vero che alcune erano ancora roride dei lavacri dell'Ilisso, altre venivano di lontano e parlavano strani idiomi, ed egli le idealizzava poi nei suoi versi, ma ciò non toglie che fai suoi atti e le sue parole vi fosse una leggera stonatura e che mentre le sue parole erano sempre idealmente nobili e delicate, i suoi atti troppo spesso rasentassero la volgarità.

Nondimeno, passato il primo moto di contrarietà, Biancofiore gli avrebbe perdonato, poichè ormai sapeva che in quell'argomento tutti gli uomini sono eguali, e il migliore vale il peggiore, ma un altro fatto sopraggiunse, o meglio un'altra scoperta, a metterla fuori della grazia di Dio. I versi che il re Alfeo recitava ogni sera con tanta enfasi, non erano suoi!

Decifrando una superba poesia che recava la firma e la corona di Alfeo, la fanciulla scoprì sotto i caratteri di lui l'impronta d'un altro nome: la poesia del re era la copia d'un'antica canzone! Attraverso al freddo nitore della lente la verità brillava di un duro e nudo rilievo.

Quando Biancofiore ebbe la certezza del fatto, proruppe con Elmìr in tali accenti di sprezzo e di ribellione che ci volle del bello e del buono a calmarla. Benchè ella fosse donna, era la lealtà fatta persona, e per nulla al mondo si sarebbe abbassata ad un'ipocrisia, a una viltà.

— Partiamo! — diss'ella ad Elmìr. — Non posso più respirare quest'aria! Andiamo in Assiria!

E cavalca via e cavalca, per monti e per valli, per prati e per sentieri, arrivarono in Assiria.

Era una chiara mattina, faceva un caldo tropicale, e di lontano essi videro biancheggiare la reggia e le sue cento terrazze, in un'abbagliante luce del sole.

Biancofiore istintivamente portò la lente agli occhi e guardò.

I delicati trafori delle bifore, le balaustre adorne di animali strani e misteriosi, le colonne incrostate di preziosi marmi, d'un balzo le si appressarono. E, sulla più grande terrazza a specchio del fiume, ella potè discernere nettamente una figura a lei ben nota avvolta in un rosso mantello. Era il giovane re che prendeva il fresco. Due schiavi neri agitavano presso a lui gli enormi ventagli di piume variopinte, nessun occhio indiscreto turbava la regale siesta mattutina.

Ma… che aveva mai il giovane re sulla testa?… Che cosa gli deturpava le gote?…

Per poco Biancofiore non perdette l'equilibrio sotto la violenza del colpo. Il bel re, sospiro di tutte le fanciulle di Babilonia, il giglio aulente, il fiore di loto, il vaso di delizie, aveva attorto i suoi lunghi capelli intorno a innumerevoli papillotes, ed anche la sua barba, la sua serica barba, orgoglio dell'Assiria, aveva subìto il medesimo trattamento!…

Dopo il primo momento di sorpresa, Biancofiore fu presa da una tale ilarità da non poter più frenarsi. Rideva, rideva e rideva…. Curva sul collo del cavallo, cogli occhi umidi, la bella bocca rossa che scopriva due file di perle, ella rideva, rideva, rideva…. irrefrenabilmente… E la sua ilarità si era comunicata ad Elmìr, ai muti uomini di scorta, perfino ai cavalli, che si erano fermati, e scuotevano la criniera e la coda, e non ne potevano più. Infine la fanciulla fra una risata e l'altra ebbe la forza di mormorare ad Elmìr:

— Scappiamo! — E tutti, ridendo ancora follemente, voltarono la briglia ai cavalli, e via al galoppo, in una bianca nuvola di polvere, verso la campagna, verso il verde, verso la libertà!…

*


Biancofiore si annoiava. Si ha un bell'atteggiarsi a donne superiori, e protestare che gli omaggi seccano, che gli adoratori sono un peso, che il sentir lodare la propria bellezza è insopportabile, ma, in fondo in fondo, quando si deve rinunciare a tutto ciò, si capisce che il supplizio è tra i meno feroci. Dacchè Biancofiore si era tramutata in Assur, e nessuno dubitava dell'esser suo, ella era trattata naturalmente dovunque colla familiarità e la noncuranza con cui è trattato un ragazzo. Ed ella si annoiava, si annoiava mortalmente. Sentiva la mancanza di quell'atmosfera di desiderio e di ammirazione a cui sono assuefatte le donne molto belle, sentiva la mancanza di qualcuno che le facesse la corte, che sospirasse per lei, magari inutilmente. Ella si guardò intorno e non vide nessuno che sospettasse nemmeno lontanamente che ella era una fanciulla, e la più bella fanciulla dell'Asia. Soltanto suo cugino Elmìr….

E siccome avevano in prospettiva un lunghissimo viaggio prima di arrivare alla meta fissata, un lunghissimo viaggio attraverso sconfinate solitudini, Biancofiore per passare il tempo ideò di farsi corteggiare da Elmìr.

Cominciò a guardarlo con insistenza da lontano, per poi sfuggire ostinatamente il suo sguardo, a sorridergli dolcemente, per poi trascorrere ore ed ore senza occuparsi di lui, a passare senza motivo dalla gaiezza alla malinconia, dalla loquacità al silenzio, dalla cordialità alla fredezza. Rifiutava il suo aiuto nello scendere e nel salire da cavallo, oppure si appoggiava alla sua spalla con languido abbandono. Elmìr non se ne dava per inteso. Egli accettava i capricci di lei come quelli di una bambina viziata e non mostrava di scrutare al di là. E il suo contegno affettuoso e sereno acuiva l'irrequietudine e il dispetto di Biancofiore.

— Ma che uomo è questo?!… É un pezzo di marmo, di legno, di ghiaccio?… — esclamò fra sè la fanciulla dopo aver esaurito tutte le sue ingenue arti per attirare l'interesse di lui. — Oppure…. oh cielo!… sarei per caso diventata brutta?…

Ella si guardò ansiosamente nello specchio. Ma lo specchio la rassicurò…. No, ella era sempre la stessa; anzi la vita libera e selvaggia aveva dato alle sue delicate tinte di fiore un tono più caldo, ai suoi occhi uno splendore più intenso, più vivo. E, dacchè era fuor dalle fasce, tutti gli uomini avevano ammirato quella sua bellezza, l'avevano adorata come cosa divina: Elmìr soltanto, colui che le viveva sempre accanto, era cieco e indifferente. Ella guardò suo cugino con curiosità e con dispetto, come se lo vedesse allora per la prima volta, come per indovinare sulle linee del bel volto maschio e pensoso, il perchè dell'enigma.

— Sarà forse perchè sa di non poter aspirare alla mia mano…. — pensò la fanciulla con un sospiro di sollievo. — Se potesse sperare….

E ideò un abile stratagemma. Un giorno, mentre il cugino riposava sotto la sua tenda, ella si arrampicò come uno scoiattolo sul più alto palmizio, e, lassù, scorticandosi le mani e arrischiando dieci volte di precipitare a terra, attaccò alla cima ondeggiante la lunga fascia azzurra che le serrava la cintura. Ella era appena discesa dall'ardua vetta, e ancora ansante e trafelata guardava l'opera sua con occhi furbi e soddisfatti, quando sulla soglia della tenda apparve Elmìr. La fanciulla compose il volto a solenne gravità, e gli additò la fascia azzurra che sventolava gaiamente al sole.

— Se tu riesci a staccare quel nastro dalla cima della palma, io forse sposerò te, Elmìr.

Elmìr guardò in alto, poi rispose tranquillamente:

— Non ci tengo affatto.

— Come?… — esclamò Biancofiore colpita in pieno petto. — Come?… Non ti piaccio?…

— Io ti considero come mia sorella.

— Ma se non mi considerassi come mia sorella, ti piacerei?… Mi sposeresti?… — insistette la fanciulla colla sua voce più insinuante, piegando la testolina, e guardandolo con civetteria.

— Io non sono il principe più bello, più valoroso, più intelligente della terra!… — rispose Elmìr ridendo francamente.

— Questo purtroppo è vero! — asserì con serietà Biancofiore, e di sottecchi spiò sul volto del cugino l'effetto delle poco amabili parole.

Ma egli era già lontano; aveva scorto laggiù verso il fitto della macchia, il cervo, il bel cervo dalle possenti corna, la cui presenza era stata segnalata dai cani fin dal mattino, ed inforcato d'un balzo il suo sauro a dorso nudo galoppava verso la fiera coll'arco teso e l'occhio scintillante.

…. Eccolo!… Ritornava. Aveva colpito il cervo sulla fronte, fra le corna, e chiamava con un fischio i suoi uomini perchè ammirassero la bella preda. Biancofiore non si mosse. Rannuvolata e taciturna ella aspettò che il cugino la raggiungesse e non gli disse parola. E poichè dovevano levar le tende e partire, ella per la prima balzò a cavallo e si mise a galoppare davanti a tutti. Calava la notte. Elmìr non si lasciò distanziare e le fu accanto dopo pochi passi.

— Che hai, bambina?… Hai freddo? Ti senti male?

— Tu sei noioso come la nutrice, — disse sgarbatamente Biancofiore. — Temi sempre che abbia freddo, che sia malata: mi credi una vecchia d'ottant'anni?

— Io ho promesso alla Fata di ricondurti sana e salva alla reggia, e lo farò, — disse Elmìr.

Biancofiore toccò colla cravache il collo del suo cavallo che scattò sui piedi posteriori con un balzo e un nitrito.

— Non ti sono grata affatto! — mormorò ella fra i denti, curvandosi sulla criniera.

— Questo non importa! — rispose Elmìr, e, afferrato per la briglia il cavallo di lei che sbuffava e tremava in ogni fibra, l'obbligò a fermarsi e avviluppò la fanciulla col suo mantello. Ella fremeva.

— Sono sotto un giogo! sotto un giogo! Egli crede di potermi dominare, crede che io abbia bisogno di lui, della sua difesa, della sua protezione, assume delle arie da padrone, mi fa soffrire!… Tutto questo non può continuare: non voglio che continui!…

E da quel momento non tralasciò occasione per ribellarsi al cugino, per cercare di imporgli la sua volontà, per fargli capire che la sua indipendenza non ammetteva limiti. Elmìr cedeva molto frequentemente e con molta gentilezza quando si trattava di pericolo esclusivamente suo, quando invece Biancofiore proponeva follie ed imprudenze che avrebbero esposto lei pure, era inflessibile. Un po' scherzando, un po' seriamente, egli rispondeva alla fanciulla:

— Tu mi sei stata confidata sana e salva e sana e salva ti riporterò!

— Ha paura! — mormorava fra sè Biancofiore. E tosto incominciava a intonare il panegirico di Oláf, del suo coraggio, delle sue lotte, delle sue vittorie. — Quello è un eroe!…

L'amore di un uomo così, deve rendere orgogliosa una donna!

Non una parola usciva dalle labbra di Elmìr, nè un sorriso ironico balenava nei suoi occhi. Eppure egli sapeva la triste debolezza di Oláf…

— Non è neanche geloso! — fremeva la giovinetta. — Neanche geloso!… Che uomo è mai costui? Di che gelido marmo è fatto?… E che donna sono io, per non riescire in nessun modo ad interessarlo a me, nè colla dolcezza, nè colla severità? Del resto — diss'ella un giorno — ho fatto male ad impressionarmi così della complicata toilette del re d'Assiria. Ah, egli era molto bello!… Che occhi! che capelli! che denti!… E siccome ogni bellezza ha diritto ad una religione, egli in fondo non ha torto se consacra tante cure ai suoi capelli, alla sua barba. Che ne dici, Elmìr?… Tu, per esempio, sei sempre spettinato: se ti mettessi per qualche ora le papillotes come lui, saresti molto più bello.

Elmìr scoppiò in una risata.

— Che cosa c'è da ridere? — disse in tono di sorpresa Biancofiore. — Tu, non lo faresti?… E perchè?… Neppure se una donna che ti amasse molto (e la fanciulla calcò su quel molto) te ne supplicasse?…

— Non credo che una donna che mi amasse molto potrebbe desiderare che io diventassi un imbecille, — rispose Elmìr.

— Se tu lo facessi per amore, non saresti più un imbecille! — ribattè la fanciulla. — Che razza di concetto hai tu dell'amore?… Un uomo deve obbedire a tutti i capricci della sua donna se vuol essere amato da lei. (Ella non lo pensava, ma voleva ad ogni costo punzecchiare Elmìr, contraddirlo, indurlo a discutere, farlo arrabbiare). Ma Elmìr non si arrabbiò.

— Bambina! — diss'egli affettuosamente. — Tu non sai nulla.

Biancofiore diventò di fiamma, e sferzò l'aria più volte rabbiosamente col frustino.

— Bambina! bambina! — esclamò infine con impeto. — Tu mi chiami sempre bambina!… Io ne so quanto te. Io ho soltanto cinque anni meno di te. Io sono una donna. Sei tu che… — Stava per dire: — Sei tu che non te ne accorgi!… — ma si morse le labbra e ricadde in un imbronciato silenzio. Cavalcavano per una grande verde prateria, lungo un fiume immenso che pareva d'argento.

— …. Non credi che un po' alla volta avrei potuto indurlo a mettersene meno? — uscì a dire Biancofiore dopo un interminabile silenzio.

— Di chi parli?

— Oh bella, del re d'Assiria! delle sue papillotes!… Non credi che sposandolo…. potrei ottenere un po' per volta…. colla dolcezza…. che rinunciasse…. almeno a quelle della barba?…

— Credo di sì…. colla dolcezza…. — annuì Elmir. E a un tratto si guardarono in viso e scoppiarono tutti e due a ridere come due ragazzi, rappacificati e felici, come se le burrasche dei giorni scorsi fossero state cancellate da quella fresca risata.

Per due giorni le cose procedettero a meraviglia. Come fratello e sorella, come quando erano alla reggia, essi erano tornati d'amore e d'accordo: sereni, felici del bel cielo azzurro, del gran fiume d'argento, della dolcezza dell'aria, del canto degli uccelli, di tutto e di nulla, che è appunto quello che basta alla felicità.

Ma all'alba del terzo giorno lo spiritello maligno che agitava Biancofiore si risvegliò.

Ella si destò di cattivo umore e incominciò a dire che aveva male a un piede e non poteva partire. In quel giorno appunto dovevano levare le tende e arrivare ad una grande città.

Elmìr pazientò fino a mezzogiorno, ma a mezzogiorno decise di partire in ogni modo per poter essere alla città prima di sera.

— Laggiù troverai un medico che ti guarirà il piede, — diss'egli a Biancofiore ostinatamente muta ed immobile. — Suvvia, bambina, arrenditi: fra una mezz'ora noi partiamo.

E, per amore o per forza, ella dovette cedere. Ma aspettava l'occasione per vendicarsi.

Arrivarono a un bivio.

— Prendiamo a destra, — disse Elmir. — Il cammino è più sicuro.

— Ma a sinistra è più pittoresco: prendiamo a sinistra, — contraddisse subito Biancofiore.

— Ma sai che il bosco è infido, che è infestato dalle tigri, e la notte non è lontana.

Biancofiore sorrise sprezzantemente.

— Hai paura? — diss'ella. — Io vado!

E, senza attender risposta, cacciò gli sproni nel ventre del cavallo che partì come una freccia e s'internò nel bosco. Elmìr e gli uomini dovettero seguirla.

Il bosco era scuro, fitto, intricato e pauroso. Le foglie secche scricchiolavano sinistramente sotto le zampe dei cavalli, ma il silenzio intorno era lugubre, rotto soltanto da strane voci di uccelli sconosciuti appollaiati sugli alberi. Biancofiore precedeva la comitiva, ma di mano in mano che l'oscurità si faceva più nera ella si voltava furtivamente a misurar la distanza che la separava dai suoi compagni e una tentazione acuta la prendeva di raffrenar la corsa, di unirsi agli altri, di tornare indietro: era tanto scuro e tanto freddo, ed ella aveva molta paura.

— Se la tigre ci fosse davvero!… Se mi mangiasse!…

Ma l' orgoglio e l'ostinazione la spingevano avanti, cogli occhioni sbarrati e le mani tremanti.

A un tratto, ecco la tigre.

Tigre classica: orecchie ritte, mantello vellutato, occhi gialli fosforescenti, fauci spalancate. Tigre digiuna da quindici giorni.

Biancofiore cacciò un urlo; il cavallo fulmineamente si sbandò, fece un voltafaccia, e via, ventre a terra, in una fuga pazza e terribile. Elmìr e gli uomini sentirono l'urlo di Biancofiore e videro balenare a un tempo la fantastica forma del cavallo fuggente colla donna e il lampo sinistro degli occhi gialli della tigre in agguato. Elmìr si slanciò verso quegli occhi e i suoi uomini dietro a lui in falange serrata.

— Indietro tutti! — gridò Elmìr accoccando la freccia all'arco. — Lasciatemi solo! Raggiungete la principessa! Alla vostra guardia, se io muoio!

Il vento portò lontano le parole rotte e imperiose.

Gli uomini obbedirono all'istante; arrestarono a fatica i cavalli, tesero l'orecchio verso il lontano disordinato galoppo del cavallo di Biancofiore, poi si diressero tutti insieme a quella volta. Dopo una corsa sfrenata attraverso all'intricato labirinto dei sentieri e dei rami, la raggiunsero e l'accerchiarono. Ella era bianca come una morta, coi biondi capelli che le sfuggivano dall'elmetto d'argento; i suoi occhi più grandi e più azzurri nel viso pallido cercarono angosciosamente fra gli nomini che la circondavano la figura svelta di Elmìr.

Seguì un attimo di silenzio…. Infine, intuendo rapidamente quello che era avvenuto, la fanciulla lasciò sfuggire le redini e con un gemito cadde riversa sul dorso del cavallo e scivolò come corpo morto a terra.

Quando più tardi, ella finalmente rinvenne, e si guardò intorno, si trovò in una verde radura tranquilla, sotto un grande albero fronzuto. Elmìr era inginocchiato al suo fianco e teneva il polso di lei nella sua mano, la nutrice le bagnava la fronte con acqua di sorgente. Il cuore della fanciulla balzò, e gli occhi di lei appassionatamente si attaccarono al caro volto di colui che credeva perduto.

— Elmir, sei tu?… E la tigre?… — mormorò ella con un filo di voce, temendo ancora di essere sotto l'inganno di un sogno troppo bello.

Elmìr fece un cenno, e un cavaliere presentò a Biancofiore un gran piatto d'argento: su di esso la testa e la coda della tigre, contornate di fiori, si pavoneggiavano con tranquilla civetteria.

— Eccoti la mia caccia d'oggi, — disse Elmìr. — Ti avverto però che un'altra volta lascerò placidamente che tu serva di colazione alla tigre.

— Taci!… — supplicò Biancofiore cogli occhi pieni di lagrime. — Non rimproverarmi!… Ho avuto tanta paura, tanto dolore, per te!…

E, soggiacendo nuovamente alle terribili impressioni e alle fatiche della giornata, ella svenne ancora sotto gli occhi di Elmìr.

*


Alcuni giorni più tardi, essi sedevano fuor della tenda, in una fresca mattina.

Biancofiore intesseva una piccola ghirlanda di fiori gialli ed azzurri appena colti sulla riva del fiume, ed Elmìr sommessamente cantava. Ma la fanciulla era inquieta, preoccupata e nervosa. Erano in viaggio verso l'ultima tappa, quella che doveva segnare la fine del pellegrinaggio: verso la reggia splendida e celebrata del Sire d'Ayèban che aveva sette figli maschi, l'uno più bello, più intelligente, più valoroso dell'altro.

— Fra tre giorni saremo a Kartùzar! — disse Elmìr smettendo di cantare. — Dicono che quella città sia la più bella d'Oriente, la perla dell'Asia, e che il giardino della reggia, il celebre Giardino Rosso, sembri un giardino incantato.

— Tu hai un ritratto, — rispose Biancofiore. — Tu hai un ritratto, e lo baci ogni sera. Di chi è quel ritratto?

Elmir tacque e guardò lontano, forse la cerulea linea dei monti in fondo all'orizzonte, forse l'airone che in lenti giri fendeva l'aria.

— Di chi è? — insistette Biancofiore.

I begli occhi di Elmìr si erano fatti più seri, il profilo di lui diritto e imperioso si era improvvisamente fatto più duro. Ed egli ancora guardava lontano.

— Perchè non vuoi dirmelo? — ripetè la fanciulla. — Perchè non vuoi dirmi che è della tua innamorata?… Forse io la conosco, se mi dici il nome!… Parla: perchè ne fai mistero?… È forse brutta, o di condizione troppo modesta?… Dimmi, insomma, dimmi! — esclamò ella in tono di supplica insieme e di comando.

Elmìr taceva.

— Allora ti dirò io molti nomi di donne, donne del nostro paese!… — disse Biancofiore. — Ma prima…. mettimi sulla buona strada, ti prego!… La donna del ritratto è una dama, un'attrice, una camerista, o una ballerina?…

Elmìr impallidì, e afferrò impetuosamente i polsi della fanciulla; pareva che stesse per pronunciare delle parole aspre e violente, ma si passò la mano sulla fronte e si contenne. Disse semplicemente:

— È mia madre. — E la sua voce vibrava d'infinita malinconia.

Biancofiore si sbiancò in viso, e chinò gli occhi.

Un impeto di vergogna, di tenerezza, di pentimento, le strinse il cuore: avrebbe voluto afferrare le mani di Elmìr, baciarle, chiedergli perdono in ginocchio, ma non osava dir nulla, non osava neppure guardarlo in viso, nè piangere. Ah, cattiva!… cattiva e stupida!… Come avrebbe potuto egli mai più perdonare?… Da mesi, da mesi, da quasi un anno ella lo tormentava, metteva a prova la sua pazienza, lo punzecchiava coi dispetti, coi capricci, colla superbia, coll'ironia…. Perfino in quello che gli era più sacro, perfino nella memoria di sua madre, aveva trovato modo di ferirlo e di offenderlo!… Cattiva e stupida!… Eppure…. non era cattiveria, no, quella che l'aveva spinta ad insistere così inopportunamente sul ritratto: era uno strano sentimento che ella non sapeva ancora forse spiegare…. Pensando che quell'imagine ogni sera baciata da Elmìr fosse di una donna a lui cara, e cara per amore, ella aveva realmente sofferto, tremato…. Soffriva ancora…. No, non era cattiveria, no, la sua; era paura, gelosia, dolore, era a…. Ma come, come farlo capire ad Elmìr, che ormai forse la disprezzava, che la giudicava leggera, superba e fredda, incapace d'un sentimento e d'un pensiero? Come dirgli?…

Un pudore quasi doloroso sigillava le sue labbra: quanto più soffriva, quanto più amava, quanto più era donna in tutto il significato di debolezza e di abbandono, tanto più si ritraeva in sè stessa, avvolgeva la sua anima di veli…. Sola, sotto la sua bianca tenda, ella pianse le più disperate lagrime.

Ma, nei giorni seguenti, con ogni mezzo, pur nel silenzio, come una donna sa, cercò di farsi perdonare. Elmir del resto non aveva verso di lei cambiato contegno; in ogni atto, in ogni momento, le dimostrava deferenza e sollecitudine. Soltanto quando Biancofiore nei lunghi pomeriggi tentava di condurlo a parlare della sua infanzia, dei ricordi suoi più lontani, più intimi e più cari, la fronte di lui si faceva scura, le labbra restavano ostinatamente mute.

— Non mi perdona! non dimentica!… — gemeva fra sè la fanciulla. — Così mi punisce! — ed ogni giorno penetrava furtiva nella tenda di lui e deponeva alcuni fiori sotto all'imagine di sua madre.

Elmìr trovava quei fiori e taceva. Ma i suoi occhi posandosi su Biancofiore si addolcivano talvolta di un'improvvisa tenerezza. I giorni passavano. Aveva egli perdonato? Una sera egli cantava sommessamente.

— Che cosa canti, Elmir? — chiese con timidezza Biancofiore, tremando che egli si chiudesse ancora in quel silenzio sdegnoso che così profondamente la feriva.

— … E una vecchia canzone che « ella » sempre cantava…. — rispose Elmìr.

— Oh, insegnamela!… La musica ne è così strana, e le parole così dolci…. « Ella » te la cantava ogni sera?…

— …. Ogni sera…. quando il sole calava dietro i monti, mi prendeva sulle sue ginocchia, e cantava…. — diss'egli quasi parlando a sè stesso. — Era per lei l'ora della malinconia…. Cantava le canzoni della sua patria…. poichè la sua patria non l'aveva mai potuta dimenticare.

— E tu ricordi tutte le sue canzoni?…

— No, non tutte, purtroppo!… — proruppe dolorosamente Elmìr. — La nostalgia di qualche parola ch'ella mi disse e che più non rammento mi persegue di continuo…. Di una canzone che mi cantò fino agli ultimi giorni, una canzone tanto triste e tanto bella, ch'ella preferiva, non rammento che un verso, un verso solo….

….O Tessaglia, o campi aperti….

e darei dieci anni di vita per ricordarla intera!…

— …. Ma tu almeno ricordi il suo viso! — disse Biancofiore. — Io di mia madre non rammento nulla, nulla!… Io non ho avuto mamma: perciò sono così cattiva.

Elmir le accarezzò la mano.

— Tu non sei cattiva…. Sei una povera bambina sventurata.

— Ah, è vero, Elmìr!… Tu solo puoi capire, tu solo!… quanto in mezzo a tutti gli splendori io sia sola ed infelice!… Sola!… in mezzo a gente che mi teme e che mi adula senza amarmi! Sola!… Quand'ero piccina, ed avevo più bisogno di tenerezza, d'amore, ma anche di verità, di disciplina, io non sentii che la voce della Fata che mi ripetè senza posa che ero bella, potente, ricca, e che tutto mi era concesso, tutto mi era dovuto! Mi mancò l'appoggio di una mano dolce e forte…. Come posso io non essere divenuta stupida e cattiva?… Il solco lasciato da questa infanzia desolata rimane forse per tutta la vita…. — mormorò Biancofiore con accento di profonda amarezza.

Tacquero entrambi. Era la prima volta, la prima volta ch'ella disserrava il suo cuore, e non se n'era accorta.

— Ah, se avessi un bambino mio, quanto, quanto bene gli vorrei!… — esclamò la fanciulla ad un tratto, sollevando impetuosamente il capo.

Si fissarono negli occhi ed ella arrossì. Improvvisamente, provarono un leggero imbarazzo l'uno di fronte all'altro; si accorsero di essere soli, nella campagna deserta, al cadere del sole. E non c'era filo d'erba che non fosse fresco, nè fiore intorno, nè alito di vento, nè stormir di fronda, che non dicessero: primavera, speranza, amore….

*


— Sarà…. — disse Biancofiore a suo cugino che l'accompagnava ai suoi appartamenti dopo un fastoso banchetto dato in loro onore dal Sire di Ayèban. — Sarà vero…. Sono belli, valorosi, intelligenti: hanno tutto, tutto quello che io avevo sognato, tutto quello che la Fata desiderava per me…. e anche di più…. e nondimeno…. che devo dirti?… non mi piacciono. No, no! Credo che non sceglierò il mio sposo neppure in mezzo a loro!…

— Pensa che è l'ultima tappa, — rammentò Elmir. — L'anno di viaggio è già quasi trascorso, e tu hai promesso alla Fata…. Aspetta ancora prima di rinunciare definitivamente all'idea di una scelta… Osserva meglio; rifletti… Domani ci sarà la gran festa notturna nel Giardino Rosso del palazzo d'estate, avrai campo di rivedere i principi e di pensare….

— Aspetterò! — rispose con un sospiro Biancofiore. — Poichè tu lo vuoi!… — e tese la mano a suo cugino che la baciò, e scomparve.

— Non mi ama! — pensò dolorosamente la fanciulla. — Non mi ama!… — E si nascose per piangere.

*


La festa volgeva al suo termine. Nei giardini reali le faci illanguidivano.

I festoni di rose che legavano un albero all'altro lungo gli interminabili viali, formando aulenti e snelle arcate che ondeggiavano al vento, si sfogliavano mollemente sovra le mense cariche di coppe, di vasellame antico e prezioso.

Siepi, cespugli, pergolati, boschi interi di strani immensi fiori purpurei, dai larghi petali carnosi, ardenti, vellutati, empivano la notte di uno snervante profumo; dagli incensieri una nebbia rosea s'innalzava: lenta, leggera, continua; e salendo si colorava del color dei fiori e come un gran velo di fiamma avviluppava il giardino e la folla. Rosse le faci semispente; rossi i regali gonfaloni ondeggianti; sanguigne di rubini le auree anfore e le tazze: sotto la falcata luna il giardino palpitava violento e misterioso.

Il barbuto re, dall'atletica figura, chiuso nella tunica di porpora bordata d'oro, ed i figli di lui, i sette principi che gli formavano intorno il più brillante stato maggiore che mai sovrano e padre avesse potuto sognare, avevano già lasciate le mense ed erano rientrati alla reggia. Alla tavola reale, coperta di pallidi damaschi e di trine, indugiavano soltanto Elmìr ed ï suoi. Elmìr diffidava. Un'inquietudine strana, quasi un presentimento di pericolo, gli mordeva il cuore.

Partita la corte, la folla degli invitati si era sparsa nei meandri dell'immenso giardino. Uomini ammantati di meravigliosi tessuti, colle tempie strette da enormi turbanti su cui scintillavano gemme, donne di cui gli occhi sotto il mistero dei veli sfavillavano più dei brillanti, passavano e ripassavano in una compostezza quasi ieratica: strana moltitudine tacita e ambigua che si rinnovava intorno alla mensa regale come un anello ondeggiante e tenace.

Elmìr vigilava, ed aspettava impaziente il diradar della folla per muovere coi suoi e partirsene. Il lampo di qualche occhio nero gli era sembrato sinistro, sinistro il riso su qualche femminea bocca dipinta, gli era sembrato persino che certi occhi si posassero con troppa insistenza su Biancofiore. Le ultime faci morivano. Di lontano, portati dal vento, i canti orientali giungevano…. forse dal mare…. forse dal deserto…. sommessi…. lenti…. malinconici…. di un angoscioso languore, di una voluttà quasi crudele…. Qualche fontana zampillante solcava di un guizzo luminoso il fogliame cupo degli alberi. A un tratto un bisbiglio si comunicò di gruppo in gruppo, raggiunse Elmìr ed i suoi.

— Le danzatrici!… Le danzatrici!…

Dodici fanciulle indiane, ignude, colle caviglie strette da larghi cerchi d'oro, si avanzavano tra i fiori agitando con moto ritmico lunghi veli a lamine scintillanti. Erano adolescenti, quasi bimbe ancora: il seno piccolo e rigido, il corpo svelto voluttuosamente flessuoso fra il palpitar dei veli, gli occhi precocemente cerchiati di bistro. procedevano a semicerhio, nude fra i rossi fiori. Un fremito solcò la folla.

— Partiamo! — disse Elmìr risolutamente, e, seguìto da Biancofiore, intorno a cui si serrò la scorta, si diresse verso l'uscita del misterioso giardino.

La folla si aperse e si richiuse al loro passaggio come un'onda.

Raggiunsero la gran porta, la varcarono, trovarono i loro cavalli, balzarono in sella. La strada serpeggiava tortuosa tra i boschi; in fondo in fondo la città bianca pareva addormentata.

— Sai? — disse Biancofiore regolando il passo del suo cavallo su quello del cavallo di Elmìr. — Sai? Li ho guardati bene colla lente. Uno ha la bocca troppo grande, l'altro il mignolo della mano destra un po' più lungo di quello della sinistra, il terzo parla troppo, il quarto troppo poco, il quinto…. che ha il quinto?… Ah sì, forse un capello bianco… il sesto….

Non potè continuare. Fulmineamente una masnada di uomini a cavallo, incappucciati di nero fino agli occhi, era sbucata dalla macchia e li accerchiava, tra il guizzar dei pugnali.

Una voce beffarda risuonò.

— Straniero, perchè te ne fuggi misteriosamente, quando le belle fanciulle giungono a danzare? Quale prezioso bottino nascondi, straniero, che ti fa disertare in piena notte le voluttà dei giardini incantati?…

Istintivamente la mano di Elmìr corse alla spada, ma il pensiero del pericolo di Biancofiore gli attraversò l'anima. Ingaggiare una zuffa cogli sconosciuti significava forse perdere la fanciulla. Perciò egli tacque fremendo, e spronò il cavallo.

Ma la voce beffarda raddoppiò l'insulto. — Hai forse rubato il vasellame prezioso alla mensa del re?… Oppure una schiava al corteggio dell'imperatrice?… Tu non parli, straniero! Male nascondi col tuo silenzio il tesoro che vuoi celare ai nostri occhi: sia una coppa d'oro, o una donna, non la porterai intatta al tuo paese! A noi!…

— A me!

I cavalli cozzarono impennandosi, le spade e i pugnali scintillarono al lume della luna. Con un violento strappo Elmìr obbligò il suo cavallo a piazzarsi dinanzi a quello di Biancofiore, le fece scudo di sè stesso, circondò la fanciulla di un cerchio inaccessibile segnato dal rotear della sua spada. Gli altri tumultuosamente stretti intorno al loro signore si battevano come leoni. Calavano i fendenti l'un dopo l'altro sui cavalieri e sui cavalli; già due uomini di scorta erano caduti nel sangue, già la masnada degli assalitori stava per soverchiare il drappello di Elmìr. Ma i banditi miravano di cogliere la donna viva, e ben sapendo che per averla bisognava passare sul cadavere di Elmìr, tutti insieme infierivano contro di lui e lo flagellavano di colpi.

Egli si batteva selvaggiamente; difendeva con freddo furore prima che la sua vita la salvezza di Biancofiore: quasi solo contro dieci, erto sul cavallo, pallido e scapigliato, vivente baluardo a colei che non doveva essere offesa. Pareva che il pensiero di lei avesse dato al suo corpo mortale la divina invulnerabilità e la forza degli antichi eroi. E anch'ella, la giovinetta, aveva tratto il pugnale, e in silenzio preparava la sua mano perchè non tremasse. Ad un tratto Elmìr si lasciò sfuggire la spada e cadde riverso sul cavallo; una pugnalata gli aveva squarciato il braccio, ed il sangue sgorgava a fiotti dalle vene recise. Con un urlo Biancofiore si gettò verso di lui, ma i banditi le furono sopra, ed uno di essi la ghermì alla cintura, un altro si curvò sghignazzando su Elmìr per finirlo. Già l'arma nuda balenava sul capo di lui quando si udì un fischio lungo, acutissimo, di tra gli alberi. Fulmineamente, gli uomini neri abbandonarono la preda, si gettarono nella macchia e scomparvero.

Elmìr era svenuto. Biancofiore, col pugnale in pugno e gli occhi annebbiati d'angoscia, gettò intorno uno sguardo smarrito. Solitudine. Il galoppar dei cavalli si allontanava. La fanciulla fece un cenno ai pochi uomini che le restavano; in un baleno sciolse dalla cintura la sciarpa azzurra e ne fasciò il braccio squarciato di Elmìr, poi pianamente lo sollevò di sotto le ascelle e coll'aiuto dei suoi lo caricò sul cavallo, l'assicurò alla sella, salì dietro a lui, reggendo con una mano le redini, e colla spalla la testa del ferito.

Inerte, bianco, come se la morte avesse già sulla sua fronte impresso il suo bacio, Elmìr posava per la prima volta il capo sulla spalla di Biancofiore, ed il suo sangue inzuppava la sciarpa azzurra e colava sulle vesti e sulle mani della fanciulla. Ella non piangeva. Cautamente, senza una parola, poichè nel silenzio stava forse la salvezza, la lugubre carovana s'internò nel bosco. E cammina, e cammina, e cammina… I cavalli andavano leggeri sull'erba, quasichè fossero consci del loro còmpito, quasichè partecipassero con umani sensi alla fuga… Per ore ed ore, nel bosco nero, in un silenzio di morte, andavano, portando quel corpo insanguinato di cui ogni scossa poteva segnar l'ora ultima. E cammina, e cammina, e cammina…. Dove sostare?… dove trovare un asilo che non fosse infìdo?… Non una casa, non una fonte…. Ombra… solitudine che parevano non dover finire mai più… E cammina, e cammina, e cammina…

Finalmente gli alberi si fecero meno fitti, la natura meno selvaggia, ed un rumore strano colpì gli orecchi di Biancofiore. Era come il fruscio del vento, ma più morbido e più forte insieme, più dolce e più possente, armonïoso. E cammina, e cammina, e cammina!… Ed ecco a un tratto, improvvisamente, il mare!… Il bel mare glauco ed azzurro, sconfinato, tranquillo, colle sue spume dolci scintillanti al sole!… Il mare!…

L'alba s puntava.

Biancofiore arrestò i cavalli, scivolò a terra, svincolò Elmir, e dolcemente, appassionatamente, come una mamma può fare del suo bambino adorato, l'adagiò sul lido. Bagnò un fazzoletto nell'acqua marina e glielo posò sulla fronte, appoggiò l'orecchio al cuore di lui. Debolmente batteva. Allora, con tutta l'anima nella voce, china su quel pallore di morte, Biancofiore lo chiamò:

— Elmìr!… Elmìr!…

E il mare sorrideva, e il sole era dolce e tiepido, ma egli non rispondeva.

— Elmìr!… Elmìr!…

E il suo accento era tale che i guerrieri di scorta si sentirono spezzare il cuore e si ritrassero cogli occhi umidi. Accasciata sulla sabbia, colla bocca sulla bocca del ferito, ella lo supplicava, lo supplicava disperatamente, delirante d'amore e di dolore, colle parole più dolci e più ardenti, quasichè dipendesse da lui rompere quel silenzio lugubre, quell'immobilità sinistra.

— Elmìr!… Apri gli occhi! Guardami! Sono io, sono la tua Biancofiore che ti adora!… Non farmi impazzire d'angoscia, Elmìr!… Guardami, guardami, rispondimi, amor mio!… Non farmi morire!… Abbi pietà di me!… Ti amo tanto!… E tu non mi rispondi!… Elmìr!…

Il ferito socchiuse finalmente gli occhi e si guardò intorno attonito. Dov'era?… chi gli stava presso?… Fece per sollevarsi sul gomito, e l'immane ferita gli strappò un gemito di dolore, vide il braccio fasciato, e in un lampo ricordò. Affannosamente raccolse le forze, si sollevò sul busto.

—Sàlvati! — implorò egli. — lasciami qui! Torna in patria colla scorta! Fuggi! Non perderti per me! Fuggi, Biancofiore, senza attendere un attimo! — E ricadde spossato.

Allora ella si scostò un poco da lui, pur restando in ginocchio, e le lagrime cominciarono a grondare dai suoi occhi.

— Perchè vuoi che io mi salvi — diss'ella — senza di te?… Che m'importa di salvarmi, se ti perdo?… Che m'importa di ritornare in patria senza di te?… Io ti amo. Dove sei tu è la mia patria. Se tu morirai ti seguirò. Ma se anche tu m'ami un poco, Elmìr, se comprendi il mio cuore per te…. non respingermi! Lasciami qui con te…. Poichè, « tu », sei la felicità che ho cercato tanto lontano, e l'avevo accanto; « tu », sei l'amore che sognavo, e per monti e per valli ho camminato per trovarti, amor mio…. Lasciami, lasciami restare con te!…

E come Elmìr col gesto più che colle parole ripeteva il consiglio di salvezza, ella si curvò ancora sulla sua bocca, e gli domandò in un soffio:

— Dunque non mi ami, dunque non mi ami, Elmìr?…

Il ferito la guardò.

— Io ti adoro.

— Amor mio! Mio sposo! Mio amore!

Penosamente, egli fece ancora cenno di diniego, e cercò di respingere la fanciulla.

— Ma perchè dunque? Perchè?

Con voce appena intelligibile egli sussurrò: — La Fata…. la lente….

Biancofiore arrossì con violenza al richiamo, e con impeto selvaggio strappò dalla cintura la lunga catena che reggeva la lente e la spezzò. Poi cogli occhi scintillanti d'amore e d'audacia scagliò la lente nel mare.

Elmìr era nuovamente svenuto. Una barca colle vele bianche solcava le onde e si avvicinava alla riva.

Biancofiore agitò il mantello, e chiamò con disperata voce:

— Soccorso!…

*


La moltitudine attendeva dall'alba sulle mura della città cogli occhi intenti verso la sconfinata distesa azzurra del mare. Di là la principessa doveva ritornare. Un anno e un giorno era passato, ed ella non era ancora ricomparsa. Come mai mancava al suo patto? Come mai?…

I gonfalonieri, i banditori, le damigelle, gli scudieri, usciti sugli spalti ad aspettare, si ripetevano l'un l'altro lo stesso angoscioso dubbio. I più impazienti si rivolgevano alla Fata che era ella pure venuta ad attendere sulla grande terrazza quasi lambita dalle onde, e dissimulava a mala pena la sua inquietudine. L'ansia aumentava di ora in ora; la sera si avvicinava.

Infine, sull'ampia distesa azzurra delle acque si delineò una fragile imbarcazione dalle vele bianche, una povera barca da pescatori. E la barca lentamente si avvicinò, si avvicinò; toccò terra, si arrestò cullandosi sulle onde calme. Una barella fu deposta sul lido e su di essa giaceva un giovinetto colla fronte sfregiata da una lunga cicatrice e la mano destra mozza; dietro a lui una fanciulla, dagli occhi stranamente profondi e azzurri, i ricci biondi intorno all'appassionato viso, le vesti semplici e disadorne, poi pochi uomini laceri e affaticati come mendicanti.

La strana comitiva si fermò sotto alle mura della città, sotto la grande terrazza di dove la Fata scrutava l'orizzonte. La fanciulla bionda staccò dalla cintura una fascia azzurra inzuppata di sangue e di lagrime e la sventolò tre volte in aria in faccia al suo popolo. La Fata aguzzò gli occhi.

— Possibile?!…

Ma il cuore del popolo riconobbe prima di lei la sua signora, e la moltitudine proruppe in un grido frenetico:

— Biancofiore! Biancofiore! Biancofiore!

La principessa alzò gli occhi e sorrise alla patria. E tosto furono spalancate le porte della città, e la Fata, i dignitari, i gonfalonieri, i banditori, le damigelle, gli scudieri, volsero incontro ai pellegrini. Sulla gran piazza, dinanzi al tempio, la comitiva lacera e affaticata e il corteo scintillante di gemme e di stendardi, si trovarono di fronte. Il popolo, una gran siepe umana, intorno, in silenzio.

— Dunque — disse la Fata — hai trovato il principe più bello, più valoroso, più intelligente della terra?

Biancofiore additò Elmir, steso sulla barella, pallido come un morto, col volto sfregiato, e la mano mozza.

— Eccolo. È lui.

La Fata sussultò, ma si contenne. Domandò sottovoce alla fanciulla:

— L'hai guardato attraverso alla lente?

Biancofiore mormorò:

— Lo amo.

La Fata insistette per la seconda volta:

— L'hai visto attraverso alla lente?

Biancofiore arrossì, ma rispose con voce ferma:

— Sì! — e i suoi occhi accarezzarono la fronte di Elmìr, la sua mano gli sfiorò lievemente i capelli.

La Fata allora si volse alle genti e disse:

— È lui!

E allora le trombe cominciarono a squillare, i gonfaloni si alzarono tre volte nell'aria in segno di gioia, i banditori spronarono i cavalli, per tutto il reame corse un brivido di allegrezza.

— Biancofiore, la dolce principessa che avevamo quasi perduta, è tornata al suo reame, ha finalmente scelto uno sposo: il più bello, il più valoroso, il più intelligente principe di tutta la terra! Sia gloria a lui! Gloria e felicità!…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E la Fata non seppe mai che Biancofiore aveva mentito, o meglio che aveva senza saperlo affermato una verità. Ella aveva infatti guardato Elmìr attraverso a una lente, la lente che ogni donna crea per l'uomo che ama, l'unica attraverso cui la perfezione sia possibile: la lente dell'amore.

Suor Maria Angelica, al secolo signorina Adelaide Castori, gettata la veste alle ortiche dopo dieci anni di vita monacale, ritornava in famiglia.

*


Una fanciullesca passione sfortunata l'aveva spinta diciottenne in monastero, ma benchè si fosse pentita non appena sanata la ferita amorosa, aveva lasciato passare dieci anni senza avere il coraggio di confessare la sua disperazione, rimettendo ogni giorno al domani la parola che le avrebbe dato la libertà, ed ogni giorno sentendo scemare la sua forza contro una resistenza fatta d'inerzia, di dolcezza, di silenzio.

Come osare? come scagliare la pietra nello stagno immoto?

Subito dopo il noviziato era stata traslocata in Francia e non aveva più riveduto la famiglia da cui riceveva regolarmente brevi lettere che esaltavano i conforti della vita claustrale e si raccomandavano alle sue preghiere.

Una volta le avevano anche scritto che sua madre era passata a seconde nozze, e che suo fratello Antonio si faceva prete. Le due sorelle, Dorotea e Alice, non si erano sposate: non sapeva altro.

D'improvviso, allo spirare del decimo anno, le era giunta la notizia della morte di sua madre, e, nell'infuriar del dolore, aveva scritto al fratello prete una lettera in cui si riassumevano tutte le sue torture, un disperato appello di liberazione. Egli aveva risposto poche righe tranquillizzanti di cui Adelaide aveva afferrato un solo senso, una sola parola, incredibile, insperata, ma pur vera: veniva a prenderla! la liberavano!

Non era un sogno?

Spogliatala della veste e delle bende le avevano fatto indossare un abituccio di lana nera, e in gran silenzio, in gran mistero, l'avevano mandata ad aspettare il fratello in un piccolo convento a poche miglia dal suo paese natio.

Ella lo aveva aspettato colà, segregata dalle altre suore, vigilata dalla zoppa monaca infermiera che le rivolgeva sospettosamente le parole necessarie.

Un giorno, sull'imbrunire, le avevano fatto scendere le scale, avevano aperta cautamente la porta piccola che non mandava cigolii, e l'avevano messa sulla strada.

Sulla strada deserta e semioscura, presso alla siepe che esalava un acuto profumo di madresilva, ella aveva intravisto una carrozzella, e una cavallina storna…. e una lunga figura in veste talare muoverle incontro e porgerle una mano fredda e umidiccia.

— Antonio….

Poi il richiudersi lento e discreto della porticina senza voce, il tintinnar dei bubboli, una frustata feroce, e addio! addio!

*


La famiglia di Adelaide godeva di una certa agiatezza. Il padre di lei, un piccolo negoziante di ferramenta morto quand'ella era ancora bambina, aveva lasciato una bottega ben avviata che avevano potuto cedere a patti vantaggiosi, e la casa, una bella casa comoda, in una delle vecchie contrade del paese.

Il padrigno poi, calato dal Tirolo coi suoi grossi chiodi e il suo cappello verde, possedeva pascoli e mandre e greggi lassù fra i boschi e le solitudini alpine.

Adelaide nei lunghi ozi claustrali aveva spesso ed ostilmente pensato allo sconosciuto, all'intruso, e se lo era raffigurato in mille modi diversi, sospettando in esso istintivamente un nemico.

Si vide invece davanti un povero essere che non poteva ispirare altro che disgusto o pietà: obeso e floscio, con smorti occhi a fior di testa, paralizzato nelle gambe e nella lingua, immobile in una carrozzella.

Egli aveva troppo amato in gioventù il buon vino e le belle ragazze, e la paralisi lo aveva colpito da due anni, inesorabilmente.

Con lui un'altra persona nuova era entrata nella casa: Zia Zelinda, che non s'era mai separata da suo fratello ed era scesa dal Tirolo il giorno stesso delle nozze di lui colla vedova Castori.

— Troverai la sorella del padrigno; — aveva detto Don Antonio poco prima di giungere in paese.

E Adelaide arrivando se l'era vista comparire innanzi per la prima, con una candela in mano di cui tentava riparare la fiamma dal vento, gobba e vestita di verde, con occhi che ridevano e pungevano.

Si erano baciate, poi la gobba aveva fatto lume ad Adelaide su per la scala voltandosi ogni tanto a guardarla con mal celata curiosità.

In cima alla scala, due lunghe ombre aspetanti e mute, le s'orelle, si erano avanzate tenendosi per mano. E all'improvviso sotto agli sguardi delle tre donne Adelaide si era accorta che lo scialletto le era scivolato giù dalla testa piccola e rasa come quella d'un adolescente malaticcio ed aveva violentemente arrossito.

La mamma mancava. Tutto il resto nella casa era immutato. I dieci anni trascorsi avevano lasciato allo stesso posto i mobili, gli oggetti, ed anche le persone.

Sulla solita finestra, fra un vaso d'erba rosa ed uno di garofani, la gabbia gialla con due canarini; sulla mensola dorata i due mazzi di fiori di perle; vicino alla stufa il parafuoco fatto di figurine ritagliate, e sulla credenza il servizio da rosoli filettato iu oro e il pappagallo imbalsamato.

Ogni mattina, come dieci anni innanzi, Alice si aggirava nel piccolo giardino fiorito di amorini e di bocche di leone chinandosi a raddrizzare uno stelo, a staccare una foglia secca, colle mosse un po' esitanti delle persone miopi.

E ogni mattina Dorotea traversava la sala col suo passo senza rumore, facendosi appena annunciare dal cre-cre delle sottane inamidate, per andare a rimetter olio nella lampada votiva.

Nella chiara cucina risplendente di rami e di peltri, la vecchia Laura brontolava e tabaccava attizzando il fuoco, e la gazza saltava dalla tavola alla credenza.

Don Antonio era quasi sempre assente, alla Canonica o all'Ospitale.

Adelaide riebbe la sua piccola camera a tramontana.

Ella si guardò intorno, ed ogni cosa le disse:

— Sei tu? ci riconosci? ti ricordi? — Ed ogni voce le scese in cuore con un sapore di lagrime e di felicità.

Una mattina ella uscì di buon'ora dalla sua stanza ed entrò in cucina. Era febbraio, aveva nevicato tutta la notte, ed i rami ed i peltri risplendevano più tersi, il fuoco brillava più vivo. Laura stava manipolando la pasta per le tagliatelle. Ad ogni tratto sospirava, brontolava e si riposava. Adelaide che aveva seguito con attenta ammirazione i movimenti della vecchia donna senza che questa mai alzasse gli occhi su di lei, in una delle soste più lunghe si fece coraggio e chiese:

— Laura, volete che vi aiuti? Ho osservato quello che voi fate, e forse potrei farlo anch'io.

La vecchia la guardò finalmente, e non rispose. Poi, accatastata dispettosamente la pasta in un grosso mucchio, la coperse con un tovagliolo ed uscì a gran passi sbatacchiando l'uscio.

Adelaide si raccolse presso la finestra e si mise a seguire il volo dei canarini nella gabbiuzza. Il maschio spiccava il volo sempre da destra a sinistra, la femmina, che aveva una zampetta segnata col filo rosso, sempre da sinistra a destra.

Ecco lo stridere della carrozzella del padrigno che Dorotea trascinava al solito posto. Ecco Zia Zelinda che si accoccolava nella poltrona e si metteva a sferruzzare. Senza occhiali, ella faceva dei merletti meravigliosi di finezza, a disegni strani, di sua fantasia; e pur lavorando guardava qua e là, e i suoi occhi curiosi e beffardi si fissavano e rifissavano su Adelaide. Dorotea e Alice andavano e venivano per la casa intente alle loro cure. Ecco il fabbriciere che capitava ogni mattina a prendere il caffè dalla Zia Zelinda. Laura lo introduceva nel tinelletto e richiudeva l'uscio comunicante con la cucina. Ma arrivava fin là la voce nasale della gobba e il ridere compiacente del fabbriciere e l'aroma del caffè. I canarini spiccavano sempre il volo l'uno da destra a sinistra, l'altra da sinistra a destra. L'ora del desinare raccoglieva tutti intorno alla tavola, nel tinelletto. Don Antonio tornava, recitava il « Benedicite », raccontava la sua giornata. Poi usciva nuovamente e le donne si ritiravano nelle loro stanze. Il padrigno dormiva. Il cancello del giardinetto era chiuso a chiave. Nessuno disturbava Adelaide. Nel pomeriggio ella sentiva dei passi discreti traversare la sala e allora balzava all'uscio e dalla fessura spiava l'arrivo e la partenza dei visitatori.

Oramai aveva imparato a conoscerli tutti anche senza vederli: li distingueva dal passo, dal particolare suono della voce o del riso.

— Questo che trascina i piedi è Don Giocondo.

— Questa che ha le scarpe che scricchiolano così forte è la maestra Gabetti.

— Questa risatina in gola è della moglie del farmacista.

La sera, Dorotea e Alice uscivano insieme; andavano a giocare a tombola dal fabbriciere che abitava in fondo alla piazza.

Benchè avessero, l'una, più di quarant'anni, e l'altra trentanove, vestivano ancora perfettamente eguali, come due educande. L'una e l'altra portava una mantellina di seta nera, l'una e l'altra portava le scarpe di brunello, l'una e l'altra portava una borsetta di seta viola.

Dorotea, lunga, magra, con capelli neri ondulati e lucidi, occhietti rotondi e labbra sottili, era stata la bellezza e l'orgoglio della casa e ne rimaneva tuttora l'oracolo. Quando parlava ella non alzava mai la voce, ma stringeva le labbra con compunzione scuotendo i ricciolini come piccoli campanelli. Era figlia di Maria, ispettrice dell'Asilo di San Giuseppe, presidente della confraternita di San Rocco: le signore del paese la consultavano nelle più importanti contingenze della vita e la sua sentenza era inappellabile in fatto di moda. Le parole: « corretto, dignitoso, decoroso», tornavano spesso e volontieri sulle labbra di questa irreprensibile donzella che camminava, dormiva, pensava, e pregava Domineddio con sussiego e decoro.

Alice anch'ella era alta e magra, ma un po' curva, con una gran massa di capelli rossi, il viso lentigginoso e smorti occhi miopi. Camminando, ella si teneva un po' indietro da Dorotea quasi volesse anche materialmente dimostrare la sua deferenza alla sorella maggiore; quando Dorotea parlava Alice taceva o approvava.

Lungo la sera Adelaide rimaneva colla Zia Zelinda e coll'infermo ad aspettar che rientrassero: tutti e tre sotto la borbottante lampada dal paralume verde.

Quasi sempre Zia Zelinda intesseva lungamente l'elogio della bellezza di Dorotea e della bontà d'Alice, e il padrigno si addormentava colle mani gonfie abbandonate sulle coscie. In una di quelle serate Adelaide ebbe il coraggio di parlar di sua madre. Da tanto tempo la domanda le bruciava le labbra e la ricacciava ogni sera a forza, non osando.

— Ditemi, zia…. la povera mamma, prima di morire…. si è ricordata di me? mi ha nominata?…

La gobba alzò gli occhi dal lavoro e li confisse in faccia ad Adelaide.

— Ella non ti ricordava mai! — disse; e, riabbassata la testa, si rimise a sferruzzare.

*


Adelaide restò molti giorni sotto il mortale abbattimento di quella risposta. Ma era cattiveria, perfidia della zia! Non era possibile! Non poteva creder questo della sua dolce mamma!

Intanto accadde un fatto imprevisto.

Un bel giorno (erano tutti nel tinelletto, stavano per mettersi a tavola, Don Antonio recitava il « Benedicite », la minestra fumava nella zuppiera) la vecchia Laura socchiudendo l'uscio annunciò che c'erano giù i parenti da Castel luzzo: potevano salire per un salutino? Don Antonio uscì in sala esclamando gaiamente:

— Entrate! Entrate!

Adelaide era rimasta immobile, timida presso alla tavola, non sapendo se eclissarsi o restare: in quell'attimo di confusione nessuno badava a lei.

Si trattava di parenti di campagna, benestanti che scendevano in paese due o tre volte all'anno. La signora era prima cugina del padre di Adelaide, vedova, con un'unica figliuola di diciannov'anni, biondina, bellina, smorfiosetta, col nasetto all'in su e troppa cipria sul viso.

Costei era da circa un anno fidanzata ad uno studente di farmacia ed ora venivano ad annunciare la data delle nozze e a presentare lo sposo.

Vi furono baci, abbracci, carezze; alla biondina gli occhi scintillavano vedendosi fatta segno all'ammirazione generale.

Il fidanzato, un giovanottino smilzo con scarpe giallo arancio, seguitava a inchinarsi con dei: — si figuri! — alle congratulazioni che gli piovevano addosso da ogni parte.

Finalmente, quando il cicaleccio ebbe posa, sedettero tutti.

Solo allora le visitatrici parvero accorgersi di Adelaide, curva sul piatto, ad occhi bassi e sfuggenti. La signora sussurrò qualche cosa all'orecchio di Dorotea, questa sospirò, strinse le labbra, scosse i ricciolini.

Poi la conversazione riprese, animatamente.

— Dunque i due colombi sposano in fine d'aprile; abbiamo la casa quasi pronta ed il corredo, ma quanto da fare, cari miei!

Parlava la madre, senza posa, dimenandosi sull'orlo del divano, e i due fidanzati, seduti molto vicini, si guardavano. A un tratto la biondina lasciò cadere il fazzoletto, si chinarono entrambi insieme a raccoglierlo, e nel cercarlo si sfiorarono furtivamente la mano con uno sguardo lungo.

Adelaide, seduta dirimpetto a loro, vide, e diventò di fiamma.

Da quel momento, a lei che non prendeva parte alla conversazione, non isfuggì più nessun movimento di quei due.

— Che ora è?… — domandava la biondina al fidanzato, pianissimo, piegandosi verso di lui come per confidargli un segreto.

L'altro traeva l'orologio; ella stendeva la mano e lo prendeva; si chinavano entrambi a guardar l'ora, poi la ragazza riabbassava la testa, giocherellava coi fiocchi dell'ombrellino, e il giovane seguiva i moti delle sue mani con occhi imbambolati e lucidi.

Ad un tratto la biondina disse forte:

— Noi ci sposiamo il ventotto aprile, e voi dovete venir tutti alle nostre nozze…. tutti!…. anche Adelaide!

Vi fu un momento di silenzio.

Dorotea strinse le labbra, Zia Zelinda si affaccendò di più intorno all'infermo, Alice arrossì e guardò Dorotea.

Don Antonio disse, colla sua voce buona:

— E perchè no?

— Bisogna che ce lo promettiate! bisogna che ce lo promettiate! — strillarono madre e figlia.

— Sì, sì, vogliamo promessa solenne! — ribadiva il fidanzato. — Tutti, anche Adelaide!

Insomma dovettero promettere. Sarebbero andati tutti, anche Adelaide.

L'anno di lutto era compiuto in febbraio, avevano dunque più di un mese per combinare la spedizione.

Vi fu un congedo rumoroso e affettuoso.

La biondina che pareva presa da una gran smania d'essere gentile, baciò ed abbracciò anche Adelaide, lo sposo la salutò con un inchino profondo, la signora le ripetè più volte:

— Arrivederci dunque senz'altro.

Partite le visite, il desinare finì in fretta e in silenzio.

*


Quella sera Adelaide domandò il permesso di coricarsi prima del ritorno delle sorelle.

Desiderava ardentemente di essere sola, fuori degli occhi cattivi della Zia Zelinda, fuori dalla vista pietosa e disgustosa dell'infermo. Voleva esser sola colla sua gioia, col nuovo pensiero che l'occupava tutta, che la riscaldava, che le illuminava l'anima.

— Tra un mese, tra un mese!

Le pareva che quell'avvenimento avesse per lei un significato, un'importanza vitale, segnasse una tappa nella sua via dolorosa, che da quell'invito cui Don Antonio aveva accondisceso, le venisse una specie di riabilitazione morale, una riammissione tra gli esseri umani.

Tutta immersa in quella inaspettata gioia, non s'era avvista del silenzio gelido che le si era fatto d'intorno dopo la partenza delle parenti, non aveva indovinato l'acre ostilità delle sorelle.

Ripeteva a sè stessa, coll'ingenuo abbandono d'una bambina:

— Antonio ha promesso! Antonio ha promesso!

Quando scoccarono le dieci all'orologio della sala, cominciò lentamente a spogliarsi, seduta sul letto, alla luce verdastra del lumicino ad olio, indugiando distratta fra un bottone e l'altro per inseguire la dolcezza del suo pensiero.

— …Come era stata gentile la buona cugina! e la figliuola, com'era affabile ed espansiva!… e che bei capelli aveva! e che vestito elegante! Doveva essere ben contento quel fidanzato!…

Improvvisamente Adelaide rivide i due chinarsi, sfiorarsi la mano, guardarsi a lungo.

Si sentì di nuovo arrossire fino alla radice dei capelli; appoggiò la testa sul cuscino, rimase immobile, ad occhi semichiusi, mezzo svestita com'era, tentando languidamente di scacciare l'imagine voluttuosa che giganteggiava nel silenzio della cameretta, nel deserto della sua anima. Alfine ripigliò a spogliarsi rapidamente, quasi infuriando contro sè stessa, spense il lume, si cacciò sotto le coltri.

E le preghiere?

Ella le aveva dimenticate…. Cominciò a mormorarle macchinalmente interrompendosi ad ogni istante.

— Ave Maria….

Ah! la cattiva imagine la turbava fin nel profondo!

— Gratia plena….

E le sorelle? erano ritornate? che avrebbero detto non vedendola?

Adelaide sguisciò dal letto al buio, scivolò fino all'uscio, stette in ascolto: silenzio.

L'orologio a pendolo della sala faceva tic tac.

Allora, con un movimento così rapido di cui ella stessa non ebbe quasi coscienza, riaccese il lumicino, staccò dalla parete un piccolo specchio torbido, sedette in mezzo al letto e si guardò.

….Com'era, lei?… era bella?… brutta?… era giovane?… era una donna?… e che voleva dire per lei essere una donna?…

Molti anni fa, — ah! lo aveva quasi dimenticato! — anch'ella era stata giovane e graziosa, aveva avuto una figurina snella e flessibile, due grandi occhi scuri e labbra di corallo….

Ma ora? ora?… Era suo quel lungo collo giallastro e vizzo, sue quelle spalle magre, quegli occhi quasi sempre abbassati o sfuggenti, cerchiati di pallide vene azzurrognole, quel seno piatto e senza forma?

— Brutta! vecchia! ridicola!

Il torbido piccolo specchio vide riflettersi nella sua luce un viso stravolto e pallido rigato di lagrime mute.

Eppure…. eppure….. gli occhi non sarebbero stati brutti, se l'espressione ne fosse stata un po' più gaia, se i capelli fossero stati accomodati con maggior cura, il viso non sarebbe apparso tanto magro…. il collo si poteva nascondere con una cravatta di nastro o di merletto….

…. C'era in fondo alla sala un vecchio cassone, uno di quei vecchi cassoni rozzamente scolpiti che un tempo servivano alle spose per custodire il corredo; là dentro Adelaide aveva visto spesso Dorotea riporre vecchi nastri, avanzi di stoffe, anticaglie sdruscite e fuori d'uso.

Se avesse potuto farsi una cravatta con uno di quegli stracci sdrusciti! Ma non avrebbe mai osato chiederlo a Dorotea, affrontare il disprezzo di quelle labbra sottili….

Dunque, dunque, Dio mio, come fare? Le sorelle si ordinavano per la circostanza due magnifici vestiti di merinos grigio: doveva ella comparire alle nozze di sua cugina vestita come una serva?

Quel pensiero la ossessionava, non le dava tregua, le intorbidava la gioia del prossimo avvenimento.

Una notte infine non resse più. Mentre tutto taceva e tutto dormiva, traversò a piedi nudi la sala, trattenendo il respiro, col cuore che le batteva a gran colpi….

Sollevò il pesante coperchio del cassone…. un cigolìo s'intese…. poi tutto fu ancora silenzio.

Adelaide afferrò il primo cencio di seta che le capitò sotto mano, riattraversò palpitando la sala; finalmente fu in salvo.

Era uno sbieco di seta celeste, sbiadito, e qua e là bucherellato dall'uso; a lei pareva di possedere un tesoro.

*


— Dunque, Adelaide, non sei pronta? Noi partiamo.

Adelaide trasalì e raccolse precipitosamente lo scialle sul petto a nascondere la cravatta celeste che stava appuntando davanti allo specchio.

— Non so capire come si possa perdere tanto tempo a far toilette, — borbottò la zia incamminandosi verso la scala. — Non si direbbe certo che tu abbia passato dieci anni nella semplicità e nella preghiera, figlia mia.

Adelaide diede un ultimo ansioso sguardo allo specchio ed uscì dietro alla zia senza rispondere.

Tre ore dopo sedevano tutti in casa della sposa, lungo la tavola infiorata fatta in forma di ferro di cavallo, dove i mazzi contornati d'erba Luigia, e le fruttiere cariche di mele e d'uva malaga, e le torte a foggia di cuore e di stella, si alternavano.

Grandi piatti d'allesso e d'arrosto erano passati, grandi piatti di frittura agro-dolce; e la maestra Gabetti aveva confidato in segreto ai suoi vicini di mensa che all'ultimo sarebbe comparso un monumentale croccante da cui sarebbe volato fuori un uccellino.

— Non c'è che dire: la signora Elisabetta sa fare le cose per bene!

Tutti chiacchieravano, tutti bevevano il frizzante vino biondo delle colline, tutti erano allegri e contenti.

— Nozze di buon augurio!

A un tratto un silenzio solenne si fece: il Sindaco, cavaliere Pietro Barrai, si alzava per parlare.

— Io brindo, — disse egli alzando il bicchiere, — io brindo alla prosperità della bellissima sposa…. e dell'egregio sposo…. che…. che saprà renderla…. come non dubito…. felice! E brindo anche alla madre della sposa, all'ottima signora Elisabetta, che riceve finalmente…. il meritato guiderdone…. alle sue cure materne…. e che con tanta cordialità ci raccolse a questo eletto simposio! E brindo…. brindo…. a tutti i convenuti…. che fanno degna corona alla coppia gentile. O sposi! amatevi! E siate felici!!

— Bravo!… Bene!… Evviva gli sposi! Evviva!… Evviva tutti!…

Il Sindaco sedette, trasse un profondo respiro, si asciugò il sudore della fronte e distese il tovagliolo sull'ampio ventre scintillante di catene d'oro.

— Ora tocca al signor Giacomino, ora tocca al signor Giacomino! L'ha in tasca, il brindisi! Fuori! fuori! Parli! parli!…

Questo signor Giacomino era il segretario comunale, il letterato di Castelluzzo, scrittore di ammirate epigrafi e di sonetti per nozze e lauree, e sedeva a destra di Dorotea Castori, alla cui sinistra era il parroco di Castelluzzo, rosso e rubizzo con bei capelli candidi. L'uno perchè covava il brindisi, l'altro perchè mangiava per quattro, non avevano ancora rivolte parola alla loro dama mortificata e impettita. Finalmente il Parroco si ricordò.

— Desidera un po' di dolce, signorina? Questa torta è squisita. Signor Giacomino, vuol passare il dolce alla signorina? Signor Giacominoooo!…

L'interpellato si scosse come da un letargo, e presentò il vassoio a Dorotea col più cerimonioso dei « pardon ».

Il volto di lei si rischiarò.

— Oh grazie! mille grazie! non s'incomodi!

Ma il sorriso mellifluo che le era spuntato sulle labbra gelò ad un tratto, parve pietrificarsi in una smorfia di sorpresa e di rabbia. La forchetta che infilava un pezzo di torta tremò così che la crema cadde a larghe chiazze sulla gonna di merinos grigio. Attraverso alle teste dei convitati, al capo opposto della stretta e lunga tavola fiorita, ella aveva scorto d'improvviso sua sorella Adelaide e la cravatta celeste: la cravatta celeste fiammeggiante di mille fiamme diaboliche.

— Ah! sfacciata! sfacciata!

Il buon parroco di Castelluzzo e il signor Giacomino attribuendo alla crema rovesciata il turbamento della zitella, le erano d'attorno coi tovaglioli inzuppati d'acqua.

— Non importa, non importa, non è nulla! — riescì a dire Dorotea, livida di rabbia; e si rimise a sedere rientrando tosto nel contegno dignitoso che una donzella par sua sapeva conservare anche nelle più gravi vicende della vita.

Adelaide, all'altro capo della tavola, non s'era accorta di nulla.

Senza conoscer quasi nessuno, aveva passato il tempo della colazione mangiando pochissimo, ammirando tutto e tutti, divertita e sorpresa ad un tempo come ad un cinematografo vivente. Quel chiasso, quell'allegria, quel movimento, l'inebriavano e la stordivano come un vino troppo forte. Ma quello che la colpiva maggiormente era l'eleganza e la varietà delle tollettes femminili.

Il suo occhio, avvezzo alle quasi incorporee imagini monacali e alle figure piatte di Dorotea e d'Alice, si soffermava rapito sulla triplice salva di volants che ornava la mantellina della sindachessa e sul cappello a due scompartimenti della sorella dello sposo.

Quasi di fronte a lei la signora Cleofe Marchesetti sfoggiava sulla toque un grappolo d'uva così ben imitato che pareva vero, e la signora Dorina Dorini, unica rappresentante della nobiltà castelluzzese, un gigantesco fisciù di merletto a stelle.

Alcune ragazze, con un vitino inverosimile e molti ricciolini schierati sulla fronte, sorridevano colla bocca stretta.

Differiva da tutte quelle eleganti Ermelinda Barrai, la figliola del Sindaco, più semplice, più spontanea, con un nastro di velluto nero nei capelli biondissimi.

Anche il suo fidanzato, il dottore di Ripamonte, era bello, simpatico, con occhi vivi e intelligenti. Fra lui, la fanciulla, il vecchio medico di Castelluzzo e due studenti di legge formavano un gaio gruppo a parte dove si chiacchierava e si rideva molto. Adelaide, inconsciamente attratta dalla vivacità di quel gruppo, divorava cogli occhi la bella ragazza dall'aria semplice e felice.

— E Micheluccio? come mai manca Micheluccio? — uscì a dire uno degli studenti di legge.

— È malato?

— No, ha dovuto recarsi in città ier mattina ed aveva promesso di tornare in tempo per la colazione….

— Si nota, però, l'assenza di quel bel tipo!

— Eccolo!!

— Lupus in fabula!

— Micheluccio!!

— Michelaccio!!

— Ritardatario, non ti vergogni?

Il nuovo venuto si fermò un momento sulla soglia, perplesso sotto la valanga di chiamate. Era un impiegato del catasto, tornato al natio Castelluzzo dopo sei mesi di soggiorno a Napoli. Alto, molto bruno, grassotto, con baffetti arricciati; e in tutto l'abbigliamento l'ingenua e goffa ricercatezza del Don Giovanni di villaggio. Nel sorriso mostrava una compatta chiostra di denti candidi.

— Non ci sarà un posticino per me? — chiese con un forte accento meridionale, arrestandosi dietro la sedia del dottore di Castelluzzo, dopo aver fatto grandi saluti e scuse agli sposi e alla signora Elisabetta.

— Non te lo meriti! — rispose quegli.

Lo studente di legge lo afferrò per la manica, lo costrinse a chinarsi e gli brontolò ridendo qualche cosa all'orecchio.

Micheluccio rispose forte:

— Va bene!

E, presa una seggiola, la piantò vicina a quella di Adelaide, fece un profondo inchino, e sedette.

— Dunque, signorina, ella ama molto la musica? Suona?… Canta, forse?

— ….In passato…. sì…. quand'ero giovane…. suonavo il piano…. e cantavo un po'….

— Come?! Quand'era giovane? Ma le rose della giovinezza sono tuttora fiorenti sulle sue gote! Per un'anima poetica la musica è la cosa più divina che si possa sognare!… Ah, si capisce subito che lei deve avere un'anima poetica!… Io l'ho capito subito al primo vederla…. Ed ora? non suona più? ha tralasciato definitivamente?

— …. Non so…. Credo!… Sì!… Definitivamente!… Non ho più pianoforte!… — Adelaide rispondeva con un filo di voce, cogli occhi ostinatamente fissi su di un filo più greggio della tovaglia, e si faceva pallida e rossa.

— Come mai non ha più pianoforte? Ma una volta l'aveva?

— …. Sì…. ma fui…. rimasi… lontana da casa. diversi anni…. e…. nel frattempo l'lhanno venduto….

— Oh, che peccato! Ella sarebbe riuscita meravigliosamente, colla passione che ha! Le sarebbe stato un passatempo! Non può pregare Don Antonio, che è così buono, a noleggiargliene un altro?

— …. Non ho coraggio.

— Povera signorina!

Adelaide sentì fino in fondo all'anima quel compianto, il primo che le fosse rivolto, dolce come un'inaspettata carezza.

Alzò i grandi occhi cerchiati in faccia a Micheluccio ed incontrò quelli di lui, lucidi e neri, che la fissavano intensamente.

— No…. — diss'ella con voce tremante, — non oserei chiedere altri sacrifizi a mio fratello…. che è stato anche troppo buono con me!… Lei la sa, non è vero, la mia storia?…

— Sì, signorina, so, so tutto! Ed è anche per questo che mi interesso immensamente — immen-sa-men-te! — a lei! Sapevo la sua storia, e un presentimento mi diceva che un giorno l'avrei conosciuta, avvicinata….

— Davvero?…

— Perchè non vuol credermi?…

E gli occhi oblunghi, socchiusi, di Micheluccio, si piantarono nuovamente su lei avvolgendola in un cerchio di fuoco. Adelaide sentiva quegli occhi, più che non li vedesse; era un calore, una luce, una felicità e un malessere insieme, che la turbavano troppo….

(Sotto alla tavola un piede cauto cercava il suo piede?…)

— Il suo destino deve mutare, signorina; ne ho la certezza! Non mi crede neppure questa volta? Perchè? Vediamo le linee della sua mano…. Io so leggere nel destino! Non vuol darmi la sua manina?

— ….

— Che bella manina!

— ….

— Cuore appassionato, ardente, fedele! Felice l'uomo che riescirà a possederlo!! — e Micheluccio sospirò profondamente arricciandosi i lucidi baffetti.

…. Ah! chi più ricordava, chi più vedeva Dorotea, Zelinda, Alice? Esistevano esse ancora? esisteva un tinello colla lampada velata di verde, un padrigno mugolante nella carrozzella? esisteva la vita di ieri? e la vita di domani?… Chi più ricordava? chi temeva più nulla?…

— Tenterò in tutti i modi di rivederla, signorina Adelaide: ne ho bisogno! Se non isbaglio, deve presto esserci una gran fiera al suo paese, non è vero?

— Sì…. la fiera di Sant'Anna del Monte, in fine di luglio….

— Signor Micheluccio! — chiamò Ermelinda Barrai. — Cattivo soggetto, venga qua, senta.

Micheluccio si alzò per ubbidire alla fanciulla, e si alzò in quel momento anche Giacomino con un foglietto in mano. Tutti tacquero.

— Serbò l'egregio giovane Un puro ardente affetto Per la sua sposa in petto Per la sua sposa in cor.

— Santi Dei! — gemette il dottore di Castelluzzo cacciandosi le mani nei capelli.

— Giammai non sarà il fato A un puro amore avverso! L'allieterà beato Di dolci frutti ognor!

Un subisso d'applausi coronava la fine del brindisi e tutti si alzavano rumorosamente e passavano nella stanza attigua dove troneggiava un ïmmenso pianoforte a coda.

Verso le quattro un landau a due cavalli venne a prendere gli sposi per condurli alla stazione più prossima, e gli ospiti si congedarono rinnovando gli auguri e le congratulazioni alla signora Elisabetta piangente e sorridente.

Adelaide risalì in carrozza a fianco di Don Antonio per rifare lentamente la ripida strada.

…. Vedeva ella per la prima volta le primule bianche e gialle occhieggiar tra le siepi? sentiva ella per la prima volta il mormorio dolce e vivo della fresca acqua tra i sassi?

…. Primavera, primavera, eterno sospiro, eterna illusione, eterno inganno!

*


Nella sua cameretta, in piedi davanti allo specchio, ella staccava lentamente la cravatta celeste e si sorrideva.

Gli occhi le brillavano, aveva le guancie rosse e infiammate; in tutto il volto una espressione di così intensa gioia che la trasfigurava. No, non era un sogno! La giornata che finiva valeva per lei una vita. Nella stanza del piano Ermelinda Barrai l'aveva pregata di cantare, e accompagnata da lei, ella aveva accondisceso. Colla sua voce un po' tremula negli acuti ma dolcissima nelle medie e nelle basse, aveva cantato una vecchia romanza che le ricordava altri tempi, e tutti l'avevano applaudita, e avevano consigliato Don Antonio a riprenderle il pianoforte.

E Micheluccio, stringendole la mano, guardandola lungamente, — Ella canta come un angelo! — le aveva detto, e quella stretta ardente, appassionata, ella la sentiva ancora; la sua mano ne bruciava, e ne fremeva tutto il suo essere.

La porta si spalancò ad un tratto senza rumore, ed apparve Dorotea, livida nel vestito di merinos grigio, col cappello a sghimbescio, e il respiro affannoso.

— Ah! tu rubi dunque? — diss'ella con voce sibilante e rotta, puntando l'indice minacioso verso la cravatta celeste. — Tu rubi? Tu sei ladra? Non ti basta averci coperti di vergogna colle tue pazzie? Non ti basta che tutti ridano di noi per colpa tua? Non sei contenta di aver fatto morire nostra madre di crepacuore?

— Non è vero! — urlò Adelaide, sobbalzando come se fosse stata morsa da una vipera. — Questo, non è vero!

— Sì, ella è morta per te, per te! per i dispiaceri che le hai dati, per la paura e la vergogna che tu tornassi! E tu rubi anche, per giunta! tu rubi ai tuoi parenti…. per rinfronzolirti…. brutta, vecchia e ridicola come sei…. nella speranza di attirare gli nomini!! Pazza! pazza! civetta! svergognata! ladra! ladra!!…. E noi dovremo tollerare tutto da te? dovremo ancora tacere??… No! — gridò Dorotea rivolgendosi alla Zia Zelinda e ad Alice che avevano assistito mute e allibite alla scena. — No, non taceremo! Antonio stasera saprà tutto!

E uscì dalla stanza tirandosi dietro l'uscio che sbatacchiò con veemenza.

Adelaide rimase sola, in piedi davanti allo specchio, nell'atteggiamento in cui la sorella l'aveva colta: colla cravatta in mano, senza lagrime: impietrita.

Il rimbombo della porta parve rimbombar sul suo cuore.

— Io ho fatto morire la mamma di crepacuore? Ah Dio mio, non è vero! questo non è vero! questo nonè vero! ditemi che non è vero!

Le lagrime e i singhiozzi proruppero con tale violenza che il povero petto scarno pareva dovesse spezzarsi; ella si gettò traverso il letto, affondò il capo fra i cuscini, nascondendosi come una bestia ferita a morte.

Quando risollevò la testa, una luce scialba entrava dalla finestra aperta, faceva quasi freddo, ma il cielo era tutto rosa, di quel dolce rosa violaceo che tinge per un momento i cieli dopo il tramonto. In sala si sentiva un calpestio di passi rapidi e leggeri.

Adelaide riconobbe la voce della signora Beatrice, la moglie del farmacista; sentì bisbigliare il suo nome e quello di Dorotea.

— Povera Dorotea!

— Speriamo che domani stia meglio.

— Speriamo! Ma con questi continui dispiaceri!…

Passò Laura, trascinando le gambe, carica d'una brocca d'acqua calda e di pannolini per fare i bagni a Dorotea che s'era messa a letto coll'emicrania.

Adelaide tendeva l'orecchio ai rumori, immobile nell'ombra che avanzava. Le ultime lagrime le colavano lentamente lungo le guance, tra le ciocche irte e incomposte di capelli; ella ne sentiva il sapore amaro e salso e non aveva la forza d'asciugarsi il volto.

Le pareva che le avessero disseccato l'animadalle sorgenti…. che le avessero sradicato fin dalle midolla ogni forza di vita…. una stanchezza fisica profonda la prendeva, uno stupore quasi ignaro di quanto era successo.

Era vero? quanto tempo era passato?… ed ora? che avrebbe fatto? e domani? e Antonio?…

A un tratto una gran luce le attraversò l'anima.

— Egli, egli, verrà!

E l'indomani Antonio, sedendo a tavola dopo recitato il « Benedicite », le fece il solito sorriso tranquillo e bonario, e la vita riprese per tutti la sua immutabile fisionomia.

*


— Verrà?…

Ogni mattina e ogni sera Adelaide ripeteva a sè stessa questa domanda, con un'inquietudine sempre più viva, mano a mano che il tempo passava. E le giornate sfilavano infatti, uniformemente grigie, ancora più solitarie ora che le sorelle e la Zia tacitamente le avevano dimostrato il desiderio di vederla il meno possibile.

Senza un lavoro, senza un libro, ella stava nella sua cameretta a tramontana colle mani in grembo, oppure lungamente a guardarsi e riguardarsi nello specchio che rifletteva un viso sempre più pallido, ed occhi che in quel pallore sembravano sempre più ansiosi e più cupi. Pregare? Ah no! ella non poteva pregare più! Dieci anni di costrizione avevano fatto di lei quasi una ribelle… era giunta al punto da non poter più sentire la campanella del vicino oratorio senza sussultare di contrarietà e di paura….

Zia Zelinda l'accompagnava ogni mattina alla messa dell'alba; andavano e venivano senza scambiare una parola, ma ella passava il tempo della messa, col viso tra le mani, spiando fra le dita se dietro una colonna, o nella penombra d'un'arcata vedesse luccicare gli occhi e scintillare i denti di Micheluccio.

— Verrà?… Verrà??…

Ma i giorni passavano, ed egli non veniva.

Era il maggio; un maggio caldo, pieno di rose, una precoce estate. Nelle lunghe notti tiepide una pioggerella fine cadeva crepitando sulle foglie, e dagli orti saliva l'odore della terra bagnata, e il profumo della madresilva, e la snervante mollezza della primavera. Adelaide non dormiva….

Come tutto era bello, voluttuoso, dolce!

Spesso, quando la casa era immersa nel sonno, ella scendeva scalza dal letto, coi capelli sciolti, le braccia ignude; si gettava sul da vanzale della finestra, protendeva avidamente la testa fra i cespugli di madresilva, ne afferrava qualcuno colle labbra, ne mordeva qualche fiore…. e lungamente aspettava…. sospirava…. piangeva….

Al di là del muro dell'orto, una voce maschia cantava:

Sti silenzi, sta virdura, Sti muntagni, sti vallati L'ha criati la natura Pe' li cori 'nnamorati.

— Lui?….

Ma il viandante si allontanava cantando, e l'eco dei suoi passi svaniva nella notte plenilunare.

In una delle sue veglie alla finestra Adelaide sentì una notte salire dal giardino un lamentìo fioco che pareva quasi d'un piccolo essere umano dolorante.

Tese l'orecchio…. Il lamento si ripeteva più distinto, più supplice…. Scese cautamente le scale, scavalcò il muricciolo dell'orto, guardò fra i cespugli di sempreverdi.

Oh! non era che la gattina, la piccola gattina grigia che durante il giorno faceva le fusa nella cesta da lavoro!… Era diventata mamma per la prima volta e giaceva nel più fitto di un cespuglio coi nati, due neri e due bianchi, cogli occhi chiusi e il pelo arruffato.

— Ah, sei tu, Mommina, sei tu? — disse Adelaide intenerita all'inaspettato spettacolo. — Hai fame? hai sete? Aspetta, poverina; ora vengo colle provviste.

E tornò infatti dopo qualche minuto con una ciotola d'acqua e alcuni pezzi di pane. La gattina bevve avidamente, ma poi guardò Adelaide con diffidenza e miagolando coperse i nati col suo corpo come per difenderli.

Ben presto però Adelaide e Mommina divennero amiche. La gattina aveva trasportato i piccoli ad uno ad uno, prendendoli delicatamente per la pelle del collo, nello stanzone della legna, e Adelaide passava colà gran parte delle sue giornate, accoccolata vicino alle bestiole, accarezzando i piccoli dal pelo irto e dai grandi occhi verdi. E le pareva di non esser più così sola, parlava ai suoi amici come se fossero in grado di comprenderla.

— Mommina, — diceva, — come mi cambierei volontieri con te! Tu hai i tuoi piccoli, la tua ciotola di latte, e non pensi ad altro! Tu sei mamma: io non sarò mai mamma!… Tu sei felice, non è vero? Io non ho nulla, nulla!…

La gattina seguiva ansiosa i movimenti del più audace dei suoi nati che tentava i primi passi fuor del giaciglio e gli altri la fissavano coi scintillanti occhi verdi.

— Io non ho nulla, — nulla!… — gattina mia! Sono sola! Nessuno mi vuol bene, nessuno! E tu, almeno tu, mi vuoi bene?

Un giorno parve ad Adelaide d'intravedere nello spiraglio dell'uscio gli occhi beffardi della Zia Zelinda; non ne era ben certa, ma l'indomani, al suo scendere nello stanzone, madre e piccini erano scomparsi.

Adelaide risalì le scale in un baleno, stringendo fra le mani la ciotola dell'acqua che s'infranse in mille pezzi sull'ultimo gradino.

In sala s'imbattè in Don Antonio che stava per uscire per la consueta messa.

— Antonio! — diss'ella con voce soffocata e rauca. — Antonio, sentimi; devo parlarti!

L'agitazione e il pallore del suo volto erano tali, che il prete comprese che non avrebbe potuto sottrarsi.

— Vieni, — diss'egli additando l'uscio del suo studio, dove nella penombra biancheggiava un gran Crocefisso d'avorio.

— No! — gridò ella come una pazza. — No!! Che mi sentano tutte! Voglio che mi sentano!… Io non posso più vivere in questo modo, Antonio!… Voi mi avete aperto la prigione, mi avete ripreso in casa, mi avete fatta una carità, è vero! Ma ora!!!… non mi fate impazzire, non mi fate morire di mille morti!!…

— Ma che cosa ti hanno fatto, Adelaide?

— Senti, Antonio, non ridere di me…. Io avevo una gattina…. Sai?… la gattina grigia che aveva fatto quattro gattini…. Io portavo loro da mangiare e da bere ogni mattina…. passavo delle ore a guardarli, ad accarezzarli…. non facevo male a nessuno!… Non ridere di me, Antonio!… pensa che io sono tanto infelice e sola che quella distrazione mi bastava! Pensa che bisogna pure a questo mondo avere qualcheduno…. qualche cosa… a cui attaccarsi…. per non morire!… Ebbene! appena la Zia Zelinda si è accorta di questo mio svago, ha fatto sparire gattina e piccoli…. Ah, mio Dio, mio Dio! che ho mai fatto per meritare tanta perfidia! Tu non sai la mai vita, Antonio, non sai! Tu, sei buono! Ma esse! Esse, mi odiano tutte, e tu non vedi nulla, e tu non vedi nulla!…

E Adelaide afferrò le mani di suo fratello, gli si gettò ai piedi singhiozzando, in un impeto d'esaltazione selvaggia.

Egli la rialzò con forza, la costrinse a seguirlo nel suo studio, chiuse la porta a chiave e si fermò sotto il gran Crocefisso.

Era pallidissimo; aveva anch'egli i grandi occhi di Adelaide che l'agitazione rendeva più ansiosi e più cupi: come si rassomigliavano!

— Calmati, Adelaide; — disse il prete con voce volontariamente ferma, — tu hai voluto tornare a casa e ti ho accontentata. Sei qui… Ti lagni d'aver trovato un'accoglienza fredda? Ma pensa che sei rimasta assente dieci anni, e le tue sorelle si erano abituate a non considerarti più della famiglia….

— Ma io mi accontenterei di far loro da serva, mi accontenterei di aiutar Laura in cucina! Ma io mi faccio piccola piccola, umile umile, cerco di occupare il minor posto possibile, di nascondermi, di scomparire…. E non basta! E non basta!… Che cosa mi hanno fatto, mi domandi? Nulla! Ma è il gelo che sento vicino a me, l'indifferenza che mi respinge, il silenzio che mi si fa intorno…. Ah, tu non sai, Antonio, tu non puoi sapere!

— Senti, Adelaide: forse la colpa è mia. Dovevo prevenirti, aprirti gli occhi, prima di riprenderti con noi. È una verità amara e dolorosa, ma è verità: quando uno si è scelto una via…. come la nostra…. deve seguire quella, capisci?… Ad ogni costo. Meglio pagare con tutta la vita la leggerezza d'un giorno che tornare indietro per divenire mille volte più infelici, più miseri, più spostati di prima…. La nostra, strada, la mia e la tua, Adelaide, non hanno ritorno! Credi tu di essere la sola a soffrire, la sola a rimpiangere?… — Ma Don Antonio s'interruppe vivamente, scrutò il volto di sua sorella col terrore ch'ella avesse indovinato il non espresso pensiero. — Senti, Adelaide; calmati: sii buona. Cerca di farti compatire e di compatire. Le tue sorelle hanno un ottimo cuore. Prega; prega con devozione e con fede…

— Non ho più fede, non ho più fede, Antonio! Non sento che rancore e dolore! Ti giurc che qualche volta penso di non esser più degna di comunicarmi…. temo di essere dannata… temo….

— No! no! no! — oppose impetuosamente il prete tremando di intravedere nell'animo della sorella una ferita troppo profonda, un incolmabile abisso. — No! Non esagerare, Adelaide! Bisogna un po' imporsi la devozione, la fede; molto dipende anche dalla volontà! Tu ti sei un po' disgustata dalla preghiera, ma vedrai che il tuo cuore vi ricorrerà spontaneamente se cercherai di essere più buona….

Tutta l'esaltazione di Adelaide era caduta alle parole affettuose del fratello. Ora gli stava davanti umile e timida.

— Hai ragione, Antonio…. Cercherò di essere più buona…. Ma non potresti tu aiutarmi, sollevarmi dalla mia miseria, darmi un'occupazione, un lavoro? Esse non mi permettono di far nulla…. passo le mie giornate in un ozio che mi esaurisce…. Perchè non mi permetteresti di guadagnarmi da vivere? Conosco abbastanza bene la musica per dar lezioni…. se tu permettessi….

Antonio allargò le braccia e scosse la testa in segno di diniego.

— Impossibile, Adelaide, impossibile!

— Perchè?

— Perchè…. perchè direbbero che vogliamo farti lavorare per sottrarci al peso del tuo mantenimento….

Egli non volle dire: — Perchè non mi fido di te, perchè non voglio lasciarti andar sola di casa in casa, esposta agli scherzi e ai tentativi degli sfaccendati.

— E un uomo come te si preoccupa di quello che dice il mondo?

— Insomma, Adelaide, non insistere, ti prego: non posso!

— Ti supplico, ti scongiuro, permettimi di dar lezioni, permettimi di lavorare!

— È tardi; — rispose il prete avviandosi verso l'uscio; — dovrei già essere alla chiesa. Sii ragionevole….

— Non mi lascerai senza prima avermi promesso! — gemette ella. — Sii buono, Antonio; in nome di nostra madre, abbi pietà!… Non lasciarmi così!

Gli sbarrò il passo livida, senza lagrime, tremando in tutto il corpo.

— Promettimi, promettimi!

Si era gettata ai suoi piedi, gli abbracciava i ginocchi, le sue mani brancolando avevano afferrata la tonaca.

Il prete fece una mossa brusca per liberarsi.

— Promettimi! — insistette ancora Adelaide aggrappandosi a lui sempre più forte. E all'improvviso le mani di lei lo lasciarono, ed ella cadde riversa, il corpo teso come un arco, la bava alla bocca, e gli occhi stralunati di cui non si vedeva che il bianco. L'accesso durò pochi istanti.

Don Antonio sentì che non bisognava chiamare nessuno. La donna si placava a poco a poco: i denti si disserravano; i fremiti si facevano più radi; lente lagrime cominciavano a rigarle il volto.

Ella si rizzò a sedere; con occhio attonito e torbido si guardò intorno. Il fratello piegato su di lei le asciugava il pianto.

— Perdonami…. — e con passo barcollante, come ubbriaca, ella raggiunse la porta, uscì, e lo lasciò solo sotto il Crocefisso.

*


Le notti dopo, Adelaide, non potendo dormire, era discesa ancora nell' orto, scalza e a capo nudo, strisciando fra i cespugli e guardandosi sospettosa d'intorno per tema d'esser scoperta dalle sorelle.

S'era seduta sul muricciolo basso che divideva l'orto dalla strada, fra i vilucchi di madresilva e di convolvoli: nell'ombra.

Quante ore passavano così?

La solita voce, al di là del muro, nella strada ripida, cantava:

Sti silenzi, sta virdura, Sti muntagni, sti vallati L'ha criati la natura Pe' li cori 'nnamorati….

e nel silenzio notturno la bella voce maschia assumeva un tono più dolce.

Un passo risonava, lento e tranquillo.

Una notte il viandante rallentò il cammino, proprio sotto ad Adelaide, e sfregò sul muro un zolfanello per accendersi la pipa.

Adelaide guardò, sporgendo impetuosamente il capo.

L'uomo alzò gli occhi e vedendo biancheggiar qualche cosa fra il verde si arrestò.

I due si fissarono.

L'uomo aveva un largo cappello di feltro scuro; la pipa accesa gli scintillava fra le labbra.

Adelaide si ritrasse fra i cespugli rabbrividendo nella sua nudità, l'uomo riprese a camminare, lentissimamente, voltandosi ad ogni passo. Quando fu alla cantonata, risostò.

Pareva incerto se continuare la strada o tor nare indietro; infine, non vedendo più nulla, ripigliò la canzone e si allontanò.

…. La notte dopo, alla stessa ora, ella era an cora là…. e lo sconosciuto passava senza can tare…. e ripassava lento…. e si fermava ad accendere la pipa…. e i due si fissavano….

L'uomo sorrideva ad Adelaide, ed ella attaccava su di lui i suoi strani occhi d'allucinata.

Chi era? che voleva?

Nella sua mente malata, sconvolta, turbata dalle insonnie, le imagini si confondevano, torbidamente: era Micheluccio? era un altro? era l'uomo per cui bambina aveva pianto tanto e fatto getto della libertà?…

Tutti l'avevano fatta soffrire, e costui le sorrideva….

Un venticello caldo, passava, lieve come una carezza, sui cespugli…. l'aria era solcata di profumi…. Quelle notti lunghe, molli, palpitanti di stelle, come la lasciavano stanca, come le facevano male!….

…. Come fu che una volta l'uomo scavalcò il muricciolo basso…. le sussurrò all'orecchio parole di fuoco…. la strinse brutalmente fra le braccia…. la portò di peso nell'ombra più fitta… senza ch'ella movesse un grido…. senza un gesto di difesa…. travolta dall'istinto selvaggio che pareggia gli umani alle fiere?

*


Per quante notti lo aspettò ella senza che colui mai più ritornasse?

Zia Zelinda annunciò alle nipoti, con gesti di meraviglia e d'orrore, che Adelaide non voleva più assistere alla messa quotidiana, e che aveva voltato il ritratto della sua povera mamma, che stava sopra il suo letto, colla faccia verso il muro, per non vederlo.

*


Era la fiera di Sant'Anna del Monte.

La chiesa era tutta piena di palme e di ceri, e nelle strade e nelle case ferveva un'insolita vita.

Si ripristinava in quell'anno con gran pompa la processione solenne che da cinque anni era stata sospesa.

Dodici ragazze del paese, scelte fra le più virtuose, tutte vestite di bianco, dovevano portare su e giù per la borgata la Santa dal manto di damasco violetto, seguite da dodici bimbi in cámice azzurro colle ali di carta dorata e una coroncina di gigli in testa: dietro a questi i cantori, poi le figlie di Maria, le madri cristiane, le Confraternite di San Rocco e di Santa Marta.

Prometteva d'essere una processione magnifica, di cui si avrebbe parlato per un gran pezzo.

Intanto le piccole bizze, le invidiuzze, i pettegolezzi, infierivano.

Nella canonica era un andirivieni continuo di malcontenti.

— Perchè avevano scelte due sorelle, Rosa e Giovanna?

— Perchè avevano fatto angioletto il bimbo della merciaia che era un po' zoppo, anzichè quello del portalettere, un cherubino di bellezza?

— Come mai Concetta Carbone, di cui c'era stato molto a ridire tempo addietro, era stata messa fra le verginelle a portare la Santa, accanto alle più onorate ragazze del paese?

— Ingiustizie! Parzialità!!

A tutte queste recriminazioni Don Giocondo, l'arciprete, opponeva una calma evangelica.

Ma nella sua vecchia mente, non priva d'arguzia, un dubbio balenava, inespresso: — E questo si chiama onorar Dio? Vanitas vanitatum!!

Tutte le case del paese erano addobbate a festa. Era uno sventolio gaio di drappi gialli, rossi, fiorati, che si gonfiavano al vento.

Zia Zelinda aveva tratto da una vecchia cassapanca certi sbiaditi arazzi — ch'erano belli veramente — e che tutti passando guardavano con deferenza come ad una gloria paesana.

— Poche famiglie di città potrebbero esporre arazzi come quelli di casa Castori! — aveva sentenziato Dorotea sedendosi a tavola, ed aveva detto: Casa Castori, coll'istesso tono con cui avrebbe potuto dire: Casa Hohenzollern.

— Sarà una giornata memorabile!

— Il tempo è splendido! quanta gente!

— Alle Tre Spade non c'è più un posto libero…

— Avete visto il Sindaco Barrai colla moglie e la figliola?

— Sì?… c'è anche il segretario comunale, e Micheluccio Mastella colla sua fidanzata.

Le tre donne guardarono di sfuggita Adelaide che non chinò gli occhi nè arrossì.

Che le importava ormai? che cosa le importava di nulla, di nulla al mondo?

Era indifferente a tutto e a tutti…. Era ridotta l'ombra di sè stessa, tutta occhi e bocca, uno spettro….

Seppure Micheluccio fosse venuto, e le avesse detto: — Eccomi, sono qui, sono venuto per te, per liberarti, per condurti via! — ella non avrebbe più avuto la forza di sorridere, nè di fare un passo.

Troppo tardi! troppo tardi!

Dopo colazione le sorelle, la zia, la vecchia Laura, uscirono agghindate cogli abiti delle feste. Don Antonio era già assente dal mattino, ospite di Don Giocondo alla canonica.

Adelaide rimase sola in casa a custodire l'infermo.

Era una giornata caldissima. Nella penombra afosa del tinelletto le mosche ronzavano incessantemente posandosi sulle mani gonfie e gialle del paralitico che impossente a scacciarle esprimeva il suo tedio con un mugolio lamentevole.

Adelaide pazientemente scacciava le importune con un ramoscello frondoso, ma esse tornavano senza tregua a posarsi sulle mani e sul volto del vecchio.

Così passò un'ora. Infine l'infermo si addormentò. Adelaide rimase immobile, rannicchiata nella gran poltrona della Zia Zelinda, e lo guardò.

Dalla bocca sdentata un rivoletto di bava scendeva a intridere la cravatta e le mani, la testa ciondolava miseramente da un lato come una cosa morta….

Ella e lui…. l'una di fronte all'altro…. Non erano essi due destini che si rassomigliavano? Non ancora morti, ma così poco, così miseramente viventi?

Era vita quella?… Valeva la pena di viverla?….

Dalle finestre aperte salivano a ondate i canti religiosi, flutti d'incenso…. La processione passava davanti a casa Castori…. Ecco la maestra Gabetti vestita di verde pisello, e la moglie del farmacista gocciolante di sudore…. Ecco Ermelinda Barrai bionda bionda sotto il velo… e Micheluccio Mastella con un cero in mano… Tutti alzavano gli occhi a guardare gli arazzi….

Adelaide si mosse e traversò lentamente la sala. Entrò nello studio di Don Antonio, s'inginocchiò sotto il gran Crocefisso d'avorio che nella penombra pareva quasi livido.

Sentiva dentro di sè una gran pace. Le speranze, i terrori, i rancori, si acquetavano come se qualche cosa su di lei fosse passato, di più grave e più forte.

Dopo qualche minuto riattraversò la sala, si accertò in punta dei piedi che il padrigno dormisse: dormiva sempre.

Allora, sempre lentamente, senza affrettarsi, passò in cucina, riempì un gran braciere di carbone, pazientemente lo accese, soffiando, e facendo volar qua e là le faville. Quando il carbone fu acceso, portò il braciere nella sua stanza e vi si rinchiuse.

Trasse dall'armadio la cravatta celeste, accuratamente avvolta nella carta velina; la spiegò, la cinse, ne rifece il nodo due volte con grande attenzione, si ravviò i capelli, si guardò nello specchio, rivolse a sè il ritratto di sua madre…. si stese sul letto….

— …. Che pace! che pace! non più soffrire! non più pensare!… dormire finalmente!…

La stanzetta si popolò di ombre.

— …. O mamma, guardami almeno morire!

Ma per una crudele ironia, erano proprio gli esseri che ella aveva voluto fuggire quelli che tornavano intorno al suo letto e si curvavano pietosamente su di lei nell'ultima ora della sua vita.

…. Ecco Suor Paolina con così chiari occhi tranquilli, e Suor Maria olivastra e irrequieta, e Suor Agnese dalla voce tanto dolce, e la Superiora armata di lunghe forbici da fiori….

…. Ecco il corridoio lungo lungo, bianco bianco, silenzioso; e la lampada votiva, e ïl giardinetto dai fiori pallidi e le siepi di bosso…. Quiete…. simmetria…. immobilità….

…. E tutto svanisce! tutto svanisce!…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dorotea, Alice, Zelinda e Laura, rientrarono tardi dopo il tramonto.

Tutte e quattro erano stanche, accaldate, e avevano fame.

Alice portava infilato sul braccio un lungo rosario di ciambelle.

L'infermo, spaventato dalla solitudine, guaiva dispettosamente.

— Dove sarà andata quell'altra? — chiese Dorotea con asprezza slacciando i nastri della mantellina.

Zia Zelinda traversò la sala in punta dei piedi, arrivò all'uscio della stanza d'Adelaide, vigilò coll'orecchio, infine girò la maniglia cautamente, annunciandosi con un colpo di tosse.

L'uscio resistette.

— Adelaide! che fai?… ti sei chiusa di dentro? Adelaide!

Sopragiunse Alice.

— Adelaide! Dormi?

— Adelaide!…

— Adelaide!…

Le due donne si dettero a urtare e a spingere l'uscio.

— Ma Adelaide?!!… rispondi!

— Si può essere più ridicoli di così?… Adelaide! Adelaide!…

Ad una nuova violenta spinta il debole uscio cedette.

— Adelaide! Adelaide?!!!… Ah!… Dorotea! Laura! Antonio!… Aiuto!! Aiuto!!…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La casa si riempì di grida.

FINE.

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