OPERE POETICHE
DI
COSTANZA MOSCHENI
LUCCHESE
FRA GLI ARCADI
DORILLA PENEJA

LUCCA
DALLA TIPOGRAFIA
DI FRANCESCO BERTINI
MDCCCXI.

IN MAGNIS VOLUISSE SAT EST.

COSTANZA MOSCHENI

Nel fregiare del rispettabilissimo Vostro Nome questo mio Poema del Castruccio, non imiterò certamente lo stile ordinario dell' epistole dedicatorie. Potrei senza adularvi dir molto in lode degli Illustri e Nobili Vostri Antenati, sì della Famiglia d'onde traete l' origine, come di quella di cui portate il Nome, che in ambedue tanto splenderono fra i seguaci di Astrea, e con tanta gloria servirono lungo tempo la Patria. Potrei diffondermi nell' elogio delle doti Vostre personali, delle Vostre cortesi, ed affabili maniere. Ma con un sì lungo panegirico, sebben fondato sulla nuda verità, offenderei la rara Vostra modestia, non ultima fra le Vostre virtù. Silenzio adunque su tutto quello che può aver l' aria di encomio: Voi non ne avete bisogno, nè io ve ne offro. Accettate l' intitolazione del mio qualunque siasi lavoro, e quantunque io taccia di Voi, tutta Lucca converrà meco, che ben si apparteneva ad una sì rispettabile Dama Lucchese la Dedica di un Poema destinato a propalar le glorie d'un Eroe, che tanto ha illustrata con le sue gesta la Patria.

Gradite, o Signora, le rispettose assicurazioni della mia perfetta stima, e somma considerazione.

Contro Etruria Castruccio arde di sdegno, E le possenti schiere sue raduna; Tien consiglio, ed espone ogni disegno Onde accertar sua marzìal fortuna. Emilia figlia di Ranieri indegno Adora Enrico, e Enrico lei sol una: Caccia alla fiera setolosa belva: Colloquio degli amanti entro la selva. Genio guerrier, per cui Castruccio un giorno Grande si rese del pugnar nell' arte, Talchè del lauro trionfale adorno Il mondo l' ammirò terreno Marte; Or che imprendo del tempo edace a scorno Le sue gesta a vergar su queste carte, Vieni, o Genio guerrier, vieni a dettarmi Degni del gran subietto alteri carmi. Ridire io vò, come in crudel battaglia Il Guelfo orgoglio conculcar potesse, E il sen coverto di ferrata maglia Rotar l' acciar terribile sapesse; Sicchè a folgor simil, che il guardo abbaglia, Etruria tutta sbigottir facesse, Quando rubelli a sua potenza indarno I figli assoggettò d' Ombrone, e d' Arno. Già civil guerra con l' orrenda face Scorrea d' Italia il desolato grembo, Scotendo sopra il suol vasto e ferace Il grondante di sangue orrido lembo Sbigottita fuggia la bella pace Quel di guerra, e di morte infausto nembo: Cinta discordia il crin di rabid' angue Diguazzarsi godea nel vivo sangue. Fuggìa l' agricoltor, Iasciando il campo Onusto ancor delle mature biade, E pe' boschi cercando iva uno scampo Incontro al balenar di tante spade Colpia del par di guerra il fero lampo E l' infantile, e la cadente etade: Fuggìan le madri col crine disciolto, De' lor pianti irrigando ai figli il volto. Stette il Commercio sull' immobil prora Tante a mirar barbare colpe e nuove; E alfin, vie più raccapricciando ognora, Suoi tesori a largir si volse altrove. Scorse uman sangue in negri fiumi allora, E in ampio lago ristagnò, là dove Di tetre faci armate intessean sole Le Furie in riva all' onde ampie carole. Per fin sulle ridenti Esaree sponde Nell' industre città di Lucumone Fatte cieche le genti, e furibonde Fean delle strade un sanguinoso agone, Là vantavan, più forti assai che altronde, I Ghibellin saldissimo campione; E là de' Guelfi a sbaldanzir l' orgoglio Premea Castruccio il meritato soglio. Cinto da tutte le virtù più sante, Munito di valor, di gagliardia, D' ottimo cittadin, di padre amante Di guerrier sommo i pregi tutti unia. Rompe così talvolta il Sol fiammante Di negre nubi in ciel la tenebria, E l' aere empiendo de'suoi spessi lampi Signoreggia gl' immensi eterei campi. Già fugato Uguccion crudo tiranno, Che d' Eridan sovra l' opposta riva In un l' altrui grandezza, e il proprio danno Vedeva, e invan cercando aita giva; Vincitor d' ogni fraude, e d' ogn' inganno, Cinto di gloria scintillante e viva Vinta Castruccio avea già la Liguria, Sol gli restava a trionfar d' Etruria. L' avean feroci provocato a guerra Gl' irrequieti abitator di Flora; E già più volte la Toscana terra Bagnata avean di misto sangue ancora; Or fiero più che mai, l' odio disserra L' audace Etrusco più superbo ognora, E di Castruccio ai danni in mille modi Fa guerra aperta, e tenta occulte frodi. Ma del Lucchese Eroe l' anima grande Stanca di tollerar tant' alterezza, Usa ad inclite gesta, ed ammirande; Conscia di sua terribile fortezza, Pel suo Stato di guerra il grido spande A risvegliar l' audace giovinezza; E il chiaro suon della guerriera tromba Dall' Appennin fino al Tirren rimbomba. Guerra, guerra, eccheggiar l' Esaree valli; L' ardor di guerra in ogni petto avvampa; Odi nitrir di fervidi cavalli, Che percuotono il suol con ferrea zampa. Sù, si corra a punir d' Etruria i falli: Chi dalla spada di Castruccio scampa! Grida l' Esarea gente ardita, e forte, Di sua città volando all' alte porte. Così, se rapitor lupo vorace Di rustico covil spezza le sbarre, E il pingue armento con unghia rapace Alle caverne sue cerca di trarre, La schiera de' villani accorre audace Scuri impugnando, e strali, e falci, e marre; Chiamansi a gara, e di confusi gridi Rimbombar fanno il vicin monte e i lidi; Così di Lucca alle superbe mura Affollasi la turba ardimentosa, Che con fronte terribile e secura Etruria sfida di pugnar bramosa. Chi in finta lotta palesar procura Quanto esperta ha la mano e poderosa; Altri il tagliente acciar brandendo, mostra Quanto oprar possa in sanguinosa giostra. Castruccio intanto dell' altera Augusta Nelle immense raccolte aurate sale Pensava già della Toscana ingiusta Punir l' orgoglio con guerra mortale; E per la cara a lui Patria vetusta Già brandìa col pensier l' arma fatale, Con cui degno si fe' di eterna gloria, Contando ad ogni scontro una vittoria. Il gran figliuol d' Alfea gli siede al fianco Audace sprezzator d' ogni periglio, Terror de' Guelfi intrepido Lanfranco, Che sa morte affrontar con fermo ciglio. Forte di questo al par, prode non manco Del Lucense guerriero è ciascun figlio; E dalla unita lor somma possanza Atterrita d' Etruria è la baldanza. Primo fra lor per anni, e per valore È il quadrilustre generoso Enrico; Di ferma destra, e di pià fermo core Avvezzo a trionfar d' ogni nemico. Arde ei nel petto di sublime amore, Ma guerrier anco è d' onestade amico; A beitade accoppiando, e a cortesia Agilità, destrezza, e gagliardia. Magnanimo Garzon! si udrà tra poco Delle tue gesta risonar la fama; E del tuo petto l' amoroso foco Chiaro esemplo sarà per chi ben ama. Troppo il mio canto a celebrarti è roco, E invan d' onor m' accende avida brama. Deh! perchè non ti porge i dotti carmi Chi sì dolce cantò d' amori, e d' armi! Segue Valerian; costui compiuto Il diciottesim' anno aveva appena; D' indole eccelsa, e d' alto ingegno arguto, Ma di possente ancor robusta lena: Negli stu ij di Pallade cresciuto Trascorse poscia la campale arena; Ma più che l' armi in maneggiar la destra, Rese la mente nel saper maestra. Il girar delle sfere in ciel rotanti, D' ogni regno i confin, d' ogni paese, E di natura i tanti arcani e tanti Fin da fanciul con facil mente apprese; Ma quando il Padre fra i guerrier pugnanti Chiamollo, e il volle a memorande imprese, Da' pesanti volumi ei si distolse, E l' asta e il brando a maneggiar si volse. Giovanni è il terzo; e il terzo lustro ombreggia Di biondo pel la sua vermiglia guancia; La chioma d' or sugli omeri gli ondeggia, Con la tenera man stringe la lancia. Pur de' più forti duci al par guerreggia, E delle pugne nell' ardor si slancia; E benchè in verde, e poco ferma etade, Non teme il balenar di cento spade. Cortez così per la campagna Ibera, Imparava a brandir l' asta temuta Quando de' Mussulman la turba fera Pugnava innanzi della sua caduta; Cortez, alla cui man terribil era La conquista del Messico dovuta; E riserbato da destin secondo La quarta parte a soggiogar del Mondo. Questi del Padre lor siedono a lato, Dell' inclito Signor che Lucca affrena. Altri v' ha di minor possanza armato, Cui pur nota e la via, che a gloria mena. Sovra altissimo soglio auri-gemmato In sembianza magnanima e serena, Volto ai ministri di sue grandi imprese Così Castruccio favellar s' intese. Fino a quando, o miei prodi, e fino a quando Soffrirem noi d' Etruria il cieco orgoglio? Terrem noi sempre in la vagina il brando, Tremerem sempre sul mal fermo soglio? Su, miei prodi, al cimento, io vel comando, Io, che domare alfin l' Etruria voglio. Degna cotanta impresa è ben di voi, Anche l' avverso campo ha molti Eroi. Nè di Flora più d' un crudo guerriero Solo or nell' armi orribilmente suona, Ma vi giunge perfin dal Regno Ibero Il superbo signor della Cardona: Del Siculo regnante il figlio altero Ambisce ei pur la trionfal corona; E tutti insiem la lor possanza accolta Minaccian di venirne a questa volta. Il troppo audace reggitor d' Alfea, Che a me fremendo la cervice piega, Nutre nel cor la fellonìa più rea, Ed ogni frode a insidiarmi impiega; Già di sottrarsi a noi volge l' idea, Se la vittoria avverso ciel ci nega, E, infin che Flora osa levar la fronte, Chi ci assecura dell' infido Conte? Doppio trofeo ci acquista una vittoria, Necessaria del par che memoranda; Arride al brando, che snudiam, la gloria, Il Cielo stesso a trionfar ci manda. Già con ferreo bulin verace istoria Il nostro nome all' altre età tramanda, Figli, compagni, andiam; sul vostro volto Il vicino trionfo io veggo scolto. Come sull' onda d' ocean mugghiante Quando più fera la tempesta sbuffa Al grido del nocchier, che la tremante Ciurma avvalora, e il suo timor rabbuffa, Ciascuno ardir ripiglia, e va costante De' venti irati ad affrontar la zuffa, E animoso si fa della sua scorta Securo omai, che a salvamento il porta; Così chi dianzi impallidir fu visto Nè osato avrìa sfidar l' Etrusca possa, A quel parlar di laude e sdegno misto, Forte sentissi al cor bellica scossa. Si voli a castigar quel popol tristo; A Castruccio dov' è chi oppor si possa? Sclamò concorde il fervido drappello, Cui Castruccio ispirò di ardir novello. Volto il gran Duce al suo diletto Enrico, Tu dotto nel pugnar, dice, sarai Mastro ai nuovi guerrier; nel vallo aprico Tu a lor l' arti di guerra insegnerai: Alla lor testa poi l' empio nemico A folgore simil disperderai. Ah! che al pensier del tuo trionfo, o figlio, Trabocca il pianto dal paterno ciglio. Ma non temer, che guiderdon condegno Avrai del tuo valor, delle tue gesta: A te più vasto, e assecurato regno Mercè le guerre, che imprendiamo, or resta. Disarmato, di Flora il folle sdegno, Troncata di Ranier l' audace testa, Che rimanti a temer? Per quanto lice Esserlo ad un mortal, sarai felice. A questi detti nel paterno seno Si precipita il tenero figliuolo, Pianto ei sembra versar di gioja pieno, E versa amare lacrime di duolo: Ah! s' ei manifestar potesse almeno Di tanti suoi martìri un martìr solo; Ma niega il crudo, il dispietato onore Fin questo sfogo al suo misero core. Tre volte aprì le labbra, e dir volea, Che amava di Ranier l' illustre figlia, Ma sempre la parola si volgea Indietro, e il pianto inumidìa le ciglia. Alfin di superar sè stesso idea, E tacendo soffrir si riconsiglia: Dal genitor si stacca, e per sua scusa La tenerezza filiale accusa. I circostanti Eroi miransi in volto Da quell' oggetto inteneriti, e vinti, E ognuno al padre del garzon rivolto Mostra onde sieno i loro sensi avvinti. E quel nobil consesso omai disciolto Lor Castruccio comparte onor distinti; Ed i suoi figli l' accompagnan poi Ne' più remoti appartamenti suoi. Uniti quindi a riposar sen vanno Il fido Valerian, l' ardente Enrico, Che del piagato cor tutto l' affanno Sfoga in sen del fratello, e dell' amico. Dunque tutto congiura oggi a mio danno? Dunque io son di Ranier mortal nemico? D' Emilia, del mio bene io parricida? Ah pria del ciel la folgore mi uccida! Ma s' io sospendo nel pugnar l' acciaro, Se all' usato non audace e forte, Pel caro Genitor non v' è riparo, E in mano il pongo a chi giurò sua morte. Oh! d' amor dolce oggetto, oggetto caro, Per cui beata mi parea mia sorte, Frutto del mio valor perderti fia! Premio fia questo alla costanza mia! E di pianto amarissimo torrente A mille succedea crudi sospiri; Tenta invano il german di quel bollente Spirito rattemprar gli aspri martiri, Che barbaro vie più, vie più cocente Amor gli raddoppiava i suoi deliri: Del Padre il nome, e della gloria i vanti A riscuoterlo appena eran bastanti: Emilia intanto dell' Etrusca Alfea Ne' muri accolta, e nel paterno tetto, Co' suoi pensier di fomentar godea Quel dolce, che infiammolla, unico affetto Or vagheggiar la venustà credea, Or la prodezza del garzon diletto, E il tenero suo cor scevro di affanno Non conoscea nel padre il suo tiranno. Giurò Ranier di esterminar la schiatta De i magnanimi e prodi Antelminelli; Ma fingendo amistà nel seno appiatta Profondamente i suoi progetti felli. Se fia mai che il Toscan Castruccio abbatta, Vuole in Lucca piombar co' suoi ribelli. E l' ingenua donzella innamorata Si crede in mezzo a tanto orror beata. Ma di Castruccio, e di Ranier gli sdegni Dalla guerra comune eran sospesi, E per fuggir de' Guelfi i ceppi indegni A soccorrersi entrambi erano intesi: E ben altri terribili disegni Covavan sì, ma non gli fean palesi, Che l' un dell' altro Ghibellino al paro Duopo di farsi avean saldo riparo. Al meriggio di Pisa antiqua e folta Macchia al daino, e al cinghial dà asilo, e nido. Ivi d' Alfea la gioventù raccolta Fa della caccia risonare il grido; E in equestre drappello anco talvolta Segue lo stuol delle donzelle fido. Ma tali son le faretrate arciere Da uccider no, ma innamorar le fiere. Piena era Emilia pur di bell' ardore Di gir nel bosco alla città vicino, E gli occhi soavissimi d' amore Aperse all' alba del primier mattino. Purpureo manto, a cui crescean splendore Aureo fregio, e fermaglio adamantino, Che sull omero destro il sostenea, La sua succinta, e ricca veste fea. Gonna bastante ad emular la neve Il purpureo calzar tutto scopria: La snella gamba, il piè tornito, e breve Il lascivetto Zeffiro lambia: Di vel fiammante vaga benda, e lieve Le bionde anella delle chiome unìa; Che in fronte ad essa fra le spesse gemme I tesor mostran delle Eoe maremme. Squassle a tergo la faretra d' oro Pregna di dardi, e dalla destra mano Pende d' eban finissimo lavoro D' avorio intersiato arco sovrano. Preme bianco destrier cui fa decoro L' aurato fren; tal lei che ogni Toscano Eroe col guardo sol vince, e innamora Meravigliando uscir vide l' aurora. Forse così pei campi di Cartago Cacciatrice Didone un dì scorrea Quando d' amor nella mentita imago A lunghi sorsi il rio velen bevea; Nè a lei fea traveder destin presago Che a fine acerbo la spingeva Enea. Ma quì ben altro oggi dispon la sorte, Regno avrà Emilia, e sposo illustre, e forte. Giunta ove d' Arno sull' opposta sponda Offre marmoreo ponte ampio passaggio, Cui d' Alfeo morde la scorrevol' onda Accesa dal solar limpido raggio; Ponte famoso per la verde fronda, Che de' Pisani atleti offre al coraggio, Dolce un sospir dal petto Emilia sciolse, Ed alla fida amica sua si volse. Al fero Sarpedon Guelfo possente Sposa Etrusca in morir già partorilla. Le impose il Padre nel pugnar valente Guerriero nome, e l' appellò Camilia; Alle pugne avvezzolla audacemente, Là crebbe al suon di bellicosa squilla. Cadde ei pugnando con Ranier; viss' ella Suora ad Emilia, più che ad essa ancella. Dolce compagna d' una fida amante, Per cui si raddoppiar le gioje mie, Ben tu rammenti il fortunato istante Di mia felicità nel primo die, Quando Enrico il mio ben gìa trionfante D' Alfea per l' ampie popolate vie, E di falange poderosa a fronte Guerrier di Borea egli avanzo sul ponte. È questo il loco ove un fatale sguardo Accese i nostri cor di mutuo ardore: Ci colse appena l' infocato dardo, Che fu l' alma di sè rapita fuore. Ah quante volte al tempestar gagliardo Resister volle il mio tenero core! Ma chi regger poteva al dolce incanto Di cotanta beltà, valor cotanto? Vedestil tu, com'io lo vidi, ardente Guidare i forti di Aquilon sul campo, Con la destra brandir l' arme lucente, Fiammante in volto di guerriero lampo; E d' Austro poi sullo squadron possente Piombar, spezzando ogni più duro inciampo. Dell' ardua pugna nel fatal momento Quanto affanno provai, quanto spavento! Ben sette volte e sette il fier nemico Scagliossi incontro al giovinetto forte; Ed altrettante il valoroso Enrico Rispinse, e sbaragliò l' austral coorte. Molti del prode a lui drappello amico De' nemici cadean fra le ritorte. Ognun tremava al suo periglio; oh Dio! Pensa qual fosse allor l' affanno mio. Ei vinse alfin; di verdeggiante alloro Inghirlandar vid' io suo crin venusto, Destrier superbo avvolto in freni d' oro Dell' Eroe vincitor vedeasi onusto. Di garzoncei lieto drappel canoro Precedea del trionfo il treno augusto; E tutta Pisa udiva in mille modi Da mille bocche risonar sue lodi. Mio Padre istesso ad abbracciar correa Il pro garzon del Serchio inclito onore; La festante con lui metà d' Alfea Salutava del Ponte il vincitore. Io pur volai; ma chi restar potea Senza porger tributo al suo valore? Io pur volai, fatale istante! Oh Dei! Che ne' suoi s' incontrar gli sguardi miei. Vano il ridirti, o mia Camilla, or fora La dolcezza de' suoi lumi amorosi; E quai mandasse dal bel volto fuora Di virtuoso amor lampi focosi. Ah! che schiava d' amor son' io d' allora, Che a turbar sopravvenne i miei riposi. Ma, che? caro ei mi fu da che lo vidi, Sol d' esser corrisposta allor mi avvidi. E di amare un Eroe l' alta certezza Vie più d' ardente fiamma il cor m' accese. Diresti in contemplar la sua bellezza, Che umane forme il Dio di Cnido ha prese. Chi ignora il grido della sua prodezza? Chi il suon non ode di sue chiare imprese? Chi non sa come ei stringa, e brando, ed asta? Ma prole egli è del gran Castruccio, e basta. Solo una volta io gli parlai, ma sola Bastò una volta al crudo amor possente. Io ricevei di fè salda parola, Io giurai d' adorarlo eternamente. È ver, che il fato di veder m' invola L' idolo mio, che il braccio suo valente Trattienlo altrove; ma s' appressa il giorno, In cui di far promise a me ritorno. Così Emilia dicea: dal volto intanto Le uscìa di amor vivissima scintilla, E quasi perla d' amoroso pianto Da' bei lumi cadea lucida stilla. Ammirava quel cor tenero tanto La fedel pietosissima Camilla: Poi fe con un sospir tai detti aperti, Ti doni il ciel felicità, cui merti. Ei sol degno è di te; di lui tu degna. A voi sventure io presagir non voglio, Ma pensa ch' esser suol spesso a chi regna Privato amor cagion d' aspro cordoglio. Meno a imperar che ad obbedire insegna Il fatale splendor di regio soglio: E inesorabil stà d' Imene allato La sovrana de i re, ragion di stato. Ma già inoltrato per l' Alfea campagna S' è il baldanzoso cacciator drappello; E s' era Emilia con la sua compagna Scostata alquanto in favellar da quello. Ma il perduto cammin già riguadagna Spronando il corridor veloce, e snello; E tutta in un la giovin turba accolta A fronte giunge della macchia folta. De' volanti destrieri il ratto stuolo Volgon le belle cacciatrici a manca; A destra avviasi chi pedon sul suolo Setoloso cinghial nel corso stanca. Dalle trombe si aspetta il cenno solo, E delle trombe il suon l' alme rinfranca, Fa un alto grido rintronar le selve E sbucan già dal lor covil le belve. Velocissimi allor nella foresta Scagliansi in man stringendo i ferrei dardi I cacciatori in quella parte e in questa, Infocati vibrando avidi sguardi. Ecco sbuca un cinghial, ma non si arresta All' aspetto de' giovani gagliardi, E tosto a manca rivolgendo il corso Al pedestre drappel dà rato il dorso. L' aere già fende un nuvolo di strali, Ma il fuggente cinghial ne scampa illeso, Che, come avesse ai piè veloci l' ali, Sì lunge egli è che non ne resta offeso. Ahi folle! ad altri dardi aspri, e mortali È il lieve fil della tua vita appeso; E, mentre il bosco pauroso scorri, A cruda morte irreparabil corri. Freme ciascun di cruccio e di vergogna, Che ad ogni dardo suo scampò la belva, E di scontrarla nuovamente agogna, E scorrer tutta già vorria la selva. Ma mentre ognun se stesso ange e rampogna, Fugge l' ispida fera, e si rinselva; E traversando l' orrida foresta Dalle donzelle circondata resta. La scoprì l' agilissima Camilla Quando scorreva fra le annose piante, E girò la sua schiera, e bipartilla, Ed accerchiò la fera in un istante. Già già l' arco abassò, già già ferilla A sommo il collo con lo stral volante; Freme il cinghial, lontano il dardo getta, E corre furioso alla vendetta. Fugge Camilla dal mortal cimento, E del bajo destrier flagella i fianchi: Già fendon l' aria cento dardi e cento, Ma il fato vuol, che a tutti il colpo manchi. Stringe il periglio, e sembra in quel momento, Che di Camilla il buon destrier si stanchi, Già afferravala il bruto infuriato, Quando Emilia abbassò l' arco dorato. Quale fu vista Citerea furente Molle di pianto l' infiammato volto, Quando d' irto cinghial vorace dente Adon lasciò nel proprio sangue involto La rabida inseguir belva fuggente, L' arco tenendo sovra lei rivolto, Supplici ergendo, a scoccar presta, i lumi, E implorar tutti in suo soccorso i numi; Tale al periglio dell' amica fida Strinse ad Emilia il cor mano di gelo. Già non prorompe in disperate grida, Ma volgendo i bei rai supplici al cielo, Corre animosa, ed il periglio sfida; Veloce non fu mai partico telo Come l' acuta vindice saetta, Che esanime il cinghiale a terra getta. Immerso tutto nel sinistro lato Rimase il dardo entro a mortal ferita. Urla il gran verro, e dal fianco squarciato D' atro sangue in un mar versa la vita. S' alzan gridi di gioja, e l' atterrato Mostro ogni bella cacciatrice addita; Sicchè in tutta la selva echeggiar s' ode D' Emilia il nome e la mertata lode. Quando dal lato d' Occidente giunge A sciolta briglia un corridor veloce. Soprastavvi un guerrier, che già raggiunge Emilia, e drizza a lei così la voce; Di qui trovarti il Signor mio m' ingiunge, Cui di teco parlar la brama cuoce, Enrico egli è; dal Serchio vien; ma cose Dirti ei vuol, che tener deonsi nascose. Balza ad Emilia in petto il giovin core, E abbassando le tremule pupille Ricopre il volto di gentil rossore D' ond' escono d' amor dolci faville. Volta alla schiera sua, nel cupo orrore Gite del bosco; mille fere, e mille Scontrar si ponno; a' vostri passi innanti Sarem Camilla ed io fra pochi istanti. Tu qui conduci il tuo Signor, dice ella All' estranio guerrier. Questi di volo Ritorna a lui. Balza il garzon di sella Quella a trovar, che per lui vive solo, Precipitoso al pie della Donzella Eccolo giunto, eccol prosteso al suolo; A lei copre la man di mille baci, A lei, che affisa in lui gli occhi vivaci. Ciascun di loro è a contemplarsi intento In estasi dolcissima rapito, Che entrambi sfogo dar possono a stento Ai palpiti del sen d' amor ferito; Ma scorso alfin quel tenero momento, In cui restò ogni labro ammutolito, Mesto un sospir dal petto Eurico sciolse, E a lui tai detti la donzella volse. A che vieni? che fai? Quel tuo sospiro Dimmi, Enrico fedel, che dir mai vuole? Giunta è forse la fin del mio martiro? Forse il nostro Imeneo compir si vuole? Ma perchè mai sì mesto oggi tì miro, Perchè non trova il labro tuo parole? Meco pur sei; con la tua sposa; oh Dio! T' incresce forse oggi l' affetto mio? Ah no! diletta Emilia, anco ti adoro, Disse Enrico, e un sospir mandò dal petto; Ah, non ti dia questo pensier martoro, Che sei di questo cor l' unico oggetto. Ben altra sorte (in sol pensarvi io moro) Minacciano le stelle al nostro affetto. Forse, ben mio… forse da te diviso… Ah! pria cader voglio a' tuoi piedi ucciso. Non sai, non sai di quale orribil guerra Etruria avvampi, e le città vicine; Non sai qual sangue inonderà la terra Fra le Guelfe falangi e Ghibelline. Tutti i nostri disegni il fato atterra, E de' nostri contenti è giunto il fine: Forse è questa, mio ben, l' estrema volta, Che il fido Enrico la tua voce ascolta. Già il Guelfo traditore occultamento La sua falange poderosa ha mossa, E veloce, ne vien per dar furente Di mio Padre al poter l' ultima scossa. A rispingerlo va del par fremente Castruccio, e fia doman di sangue rossa Di Tepasio la valle, ove deciso Fia il nostro fato, ed io da te diviso. E che mai dici, Emilia allor riprese, Divider noi, chi mai, chi lo potrebbe? D' inestinguibil fiamma amor ne accese, L' affetto nostro ad ogn' istante crebbe. Corra pure alle belliche contese Chi per la Gloria, o per la Patria il debbe; Vola tu pur, per te non ho timore, Che abbastanza mi è noto il tuo valore. Ah! Emilia, disse il fervido garzone, Di trionfar sul ponte or non si tratta; Ma in sauguinosa orribile tenzone Dover di cittadin vuol ch' io combatta, Ma a ciò non penso; nel tremendo agone Volisi, e il Guelfo insultator si abbatta; Non penso a ciò, solo mi dà martoro, Che armato io son contro di lei che adoro. Questo mio brando, che del Guelfo corre Or baldanzoso ad accettar la sfida, A tuo Padre dovrà la vita torre, O dovrò divenire io parricida. Scampo non v' ha; tutto, ben mio, concorre Perch' io Castruccio, ovver Ranieri uccida. S' io vinco cade il Padre tuo; s' io cedo Da lui trafitto il Genitore io vedo.. Cova Ranier se tu nol sai nel petto Contro al mio Genitor frode funesta: Ma attende a disfogar l' ira, e il dispetto L' esito della guerra, e il tutto appresta: L' Esareo soglio è de' suoi voti oggetto Vuol Castruccio svenar se vinto resta. Il sa mio Padre, e se vittoria ottiene Di Ranier tosto a vendicarsi viene. Così serie fatal d' inique trame La nostra sorte a suo capriccio aggira. Io parricida! Ah sul mio capo infame Piombi prima del Ciel vindice l' ira! Troncar dovrò del Padre tuo lo stame? Ahimè, quest' alma a tal pensier delira; E in bivio tale, in sì tremenda sorte Scampo per me non veggo altro che morte. Morire io vò; ma pria che estinto io cada Conculcato esser dee l' Etrusco orgoglio; Traditrice non fia mai la mia spada, Ma vò del Padre assicurare il soglio. Fino al sen di Guarnier farommi strada, Lui precursor della mia morte io voglio, E se privo di te mi rende il fato Non ti vedrò del vil rivale allato. Eternamente io son da te diviso, Ma, deh! quando sarai da me disciolta Pensa che quì d' amaro pianto intriso Enrico ti parlò l' ultima volta. Io prima di cader nel campo ucciso Ratto volli venirne a questa volta, Per provarti un' amor già troppo ardente, Per giurarti ch' io son sempre innocente. Se mai cadesse il Padre tuo trafitto, Funesto frutto di fatal vittoria, Ah non aggravar me di tal delitto, Non merta oltraggio tal la mia memoria. Barbaro fato in ferree note ha scritto Che per punir la giovenil mia boria Arrecar debba il brando mio fatale A Castruccio, o a Ranier colpo mortale. Io non vedrò questa tragedia orrenda, Che il sonno eterno dormirò fra poco, E di colpa non mia sol per emenda Io la vita consacro al nostro foco: Ma pria, che il colpo abbominevol scenda Prendi, Emilia fedel, prendi il mio loco, Dimmi se mezzo v' ha, se un' altra via Salvar può il nostro amor, la gloria mia. Tace ei, stringendo nella destra ardente La nivea man della donzella amata; Rivolta Emilia al ciel mancar si sente Da angoscia inenarrabile sbranata: Indi prorompe in roco suon dolente Contro il rigor di sua sorte spietata. Oh giustissimo ciel! questa mercede Merta sì casto amor, sì intatta fede? O Enrico, o di quest' alma unico bene, Da me che vuoi? per noi che far poss' io? Se non scordarmi ogni concetta spene, Se non che dirti eternamente addio? Ah, son queste le amabili catene Che a te dovean legarmi, idolo mio! Barbaro fato! ah per compir mia sorte Vibra il colpo fatal, dammi la morte. Lasciami al mio destin, vattene Enrico, E se puoi sol cerca salvarmi il Padre; Salvalo ancor ch' egli ti sia nemico, Sai che virtù d' ogni bell' opra è madre, Se attenti ai giorni suoi, bada, tel dico, L' annunzio udrai fra tue vittrici squadre, Che prevenne d' Emilia il braccio armato D' Enrico e di Ranier l' acerbo fato. Ah! non temer, grida il garzon, vivrai, Tutto far giuro alla di lui salvezza; L' amato Genitor tu rivedrai, Ma di me non so darti ugual certezza. Pago sarò, se lui ti serbo, assai, Poi sfoghi il reo destin la sua fierezza, Che rassegnato, e ancor felice io moro Se salvo il Padre almeno a lei che adoro. Emilia addio; volan gl' istanti; io deggio Esser presente alla feral battaglia. Perdono, idolo mio, perdon ti chieggio Se tuttor cingo al petto usbergo e maglia Ma fermo appena avrà Castruccio il seggio Tutto farò purchè a placarlo vaglia. Addio, far debbo omai di quì partita, Addio mio bene, idolo mio, mia vita. E della donna sua la man stringendo, Sì dolci nomi ripeteva Enrico; Staccossi alfine, e sul destrier tremendo Guadagnò a sciolta briglia il vallo aprico. Emilia i lumi semivivi aprendo Più non si vide al fianco il dolce amico, E singhiozzando, e di doloro insana La sua schiera raggiunse omai lontana. Così il Destin tiranneggiando gia Due candid' alme alla virtù dilette, E d' internar nel loro cor gioìa L' attoscate d' amor crude saette; Ma loro aprì di fausto fin la via Virtù, che immota in quegli assalti stette, E bastò a trar da tanti affanni e tanti Gl' infelici del par, che fidi amanti.

Fine del primo Canto.



Passa il Lucense esercito davanti Al sommo Duce ver Tepasio volto. Si cerca Enrico. Ecco i nemici innanti. Si combatte, e Raimondo è prigion colto. La pugna a rinforzare in quell' istanti Giunge di Galeazzo il Drappel folto. Son rotti i Fiorentini, e corron senza Ritardo a ricovrarsi entro Fiorenza. Ma già Castruccio col nascente giorno Dall' aurato balzò regal suo letto, Si cinse l' armi risplendenti intorno, Ferrato giacco s' affibbiò sul petto; Ricco cimier di rosse piume adorno Adombrava il guerrier tremendo aspette Scudo imbracciò di lucido adamante Effigiato ov' è serpe guizzante. Tal di sua schiatta era l' insegna altera Di non dubbia vittoria annunziatrice; L' asta brandisce nella destra fiera Che fia del Guelfo Capitan vittrice. Vola così l' Eroe di schiera in schiera, E a' prodi suoi chiari trofei predice, E de' suoi sguardi col tremendo lampo Infonde ardir nello schierato campo. Già a' primi rai del dì guidò Lanfranco L' armata tutta sull' crboso spalto; Ed ei con l' armi risplendenti al fianco Cinto d' acciar con la visiera in alto Pone i cavalli al destro lato e al manco, Siccome è l' uso nel guerresco assalto; Ed ala fa la doppia schiera equestre All' impavido esercito pedestre. Fero a sinistra fra i destrier sbuffanti Con chi d' Etruria è congiurato ai danni Sta ricoperto il sen d' armi fiammanti Il valoroso Principe Giovanni. Guida Valerian gli audaci fanti, Seco è Lanfranco, a cui cede sol d' anni: E d' Enrico all' equestre ampio squadrone Sol manca il condottiero, ed il campione. Già tutto è pronto: il magno Eroe tre volte Scorrendo il campo raddoppiò il coraggio, E di valor fra quelle genti accolte Tornò più vivo a sfolgorare il raggio. Ben le vittorie luminose, e molte Della sua patria ei rammentò da saggio, E di Lucca le antiche inclite storie, E de Lucensi eroi membrò le glorie. Quando fu Italia in civil sangue rossa Qui con Crasso, e Pompeo, Cesar s' unio, Qui di Narsete si stancò la possa, Qui di Matilda la virtù fiorio. Così dicea l' Eroe; bellica scossa Ogni guerriero entro il suo cor sentio. Viva Castruccio! risonar le schiere, E in aria sventolar cento bandiere. Che più s' indugia? I corridor frementi Col ferreo piè batton nitrendo il suolo, E Lanfranco, e Giovanni anch' essi ardenti Bramano di affrontar l' Etrusco stuolo. Ma al dipartir de' Cavalier valenti Enrico manca, ed ei si aspetta solo. Di lui, che fia? s' ode sonar pel campo, Quale il rattien, non preveduto inciampo? Valerian, che del fratel diletto L' amor conosce, ed in quell' alma vede, Che tratto l' abbia il violento affetto A riveder la donna sua prevede. Lascia le schiere tacito e soletto Ed in Città velocemente riede, Tosto in Alfea spedisce un fido amico A ricercar l' innamorato Enrico. Al Padre torna, e omai partir si puote, Dice, è già Enrico del Tepasio in riva: Dell' Etrusco per far le trame vuote Notturno e sol dalla Città partiva. Tutte a lui son quelle boscaglie note Ove inatteso, e non veduto arriva; E precorrendo la terribil giostra Egli prepara la vittoria nostra. De' temuti oricalchi al suon guerriero Alto si sollevò grido festante; S' ode il suol rimbombar d' ogni destriero Al presto scalpitar quadrupedante: E l' indomito augusto condottiero Nell' esercito suo giganteggiante Delle sue folgoranti armi ricinto Mostra, che già l' Etrusco orgoglio è vinto. Come rosse meteore in ciel fiammanti Cui seguono le nubi e il tenebrore, Così dall' armi degli arditi fanti Escon lampi di vivido fulgore; Scintillan meno i corridor sbuffanti Che di quelli assicurano il valore, Ed un nembo densissimo di polve L' estreme schiere e i campi intorno involve. Prendon la via del sol nascente in faccia Fin là dove han folte boscaglie a destra, E immenso stagno di lontan s' affaccia Fra la frapposta opaca ombra silvestra; Distende a manca le selvose braccia Degli alti monti la catena alpestra, Che ricopre di folte ombre il lor calle Fin di Tepasio alla ridente valle. Già il gran lago l' esercito vedea Che a lor fu Enrico a sciolta briglia innante; Del fratel sull' avviso ei volto avea In ver Tepasio il corridor volante. Innanzi a sè nel ritornar d' Alfea Scoprì gran squadra accelerar le piante; Ei di nascosto seguitolla, e vide Che in que' l oschi celò l' armi omicide. Dell' Etrusche falangi è questo il fiore, Che il prò Guarniero, il suo rival conduce; Guarnier di braccio indomito e di core, Figlio della Cardona al magno Duce: Enrico il ravvisò: l' offeso amore Lampo a lui fe veder di fosca luce. Fremè; si morse per furor le labbia Già di sè fuora per gelosa rabbia. Nel cavo sen d' uno scosceso monte Con la sua gente s' appiattò Guarniero Tenendo l' armi al gran disegno pronte Per troncare a' nemici ogni sentiero. Si schiera il campo de'Toscani a fronte, Forte pe' molti prodi onde va altero, Ve' il Signor di Cardona, il gran Raimondo Del sangue di Castruccio è sitibondo. Alta ei tien la visiera, e minacciante Sovra bajo destrier che foco spira; Del manto il bisso all' aure lascia errante E infocato d' intorno il guardo gira, Sullo scudo di solido adamante È ritratto Lion ruggente d' ira; E gli torreggia sull' altera testa Del gran cimier la tentennante cresta. Turno così per i Latini campi D' Enea sûdava la terribil possa, D' Enea, che spezzator di mille inciampi Diede al Rutulo ardir l' estrema scossa; Così freme Raimondo, e par che avvampi Di far del sangue altrui la terra rossa: Nè sa che pugna per sua sorte rea Contro a Turno novel, novello Enea. Del Sir Partenopeo l' ardito figlio Sovra niveo destrier lo segue a manca, Porta trapunto d' or manto vermiglio Adòrna il suo cimier gran piuma bianca; Spiega sopra il suo scudo adunco artiglio Aquila di ghermir giammai non stanca; Con l' unghie serpe avviticchiato stringe, Che la Guelfa baldanza appien dipinge. Morbida pelle di macchiato pardo Copre il dorso dell' agile destriero; Mostra insegna paterna all' altrui sguardo Rosso bidente sul colmo brocchiero. Col giovinetto ancor braccio gagliardo Stringe la lancia dolcemente fiero; Nuovo l'ari in battaglia egli rassembra Al volto, al guardo, agli atti, ed alle membra. Fra i germanici ghiacci all' armi istrutto Il feroce Sever quindi primeggia: Il brando impugna d' uman sangue brutto, Sguardi intorno terribili dardeggia. Ei de' nemici è ognor terrore e lutto, Ch' Attila nel pugnar quasi pareggia; Pelle d' angue squammosa è la sua vesta, E n' è il cimier la spaventevol testa. L' ampia falange de' suoi truci sgherri Di fionde armati, e di pugnali crudi Non trovano chi lor vinca, od atterri Sebben le braccia, e il sen portino ignudi; Armano a rintuzzar gli ostili ferri Il manco braccio di rotondi scudi, Ove al par del lor Duce han fera imago Sovra l' Aquila avvinta il verde Drago. Stassi l' Etrusco Esercito sfilato Nel vasto piano, e sul pendìo del colle: Grande in numero egli è: ma qual strappato Fu ad una vita dilettosa e molle; Altri per l' asta, e pel brocchier lasciato Ha il vomero natio, le patrie zolle, E ignara dell' esercito è gran parte Delle tenzoni orribili di Marte. Ma ben diverse le Lucensi schiere Son da quelle per numero e possanza, Meno le genti son, ma più guerriere Sfolgoranti di bellica baldanza; Mille volte pugnando ardite, e fiere De' nemici fiaccata han l' arroganza, E non v' ha lancia che a contar non vaglia Il capo d' un Eroe spento in battaglia. Copre al gran Marte del Lucchese campo Ignivomo cimier l' altera testa, Fosca fiamma a torrenti, orribil lampo, Lo scudo avventa in quella parte e in questa: Ivi il serpente sta, funesto inciampo Per chi s' oppone alle sue chiare gesta, E il colmeggiante fulgidissim' oro Cinge di sculto argento alto lavoro. Così l' estiva rigonfiata Luna Che sorge in ciel con accoppiate corna, Effigiate nubi intorno aduna Delle lor falde rabescate adorna, Ignea cometa per la notte bruna Così a piover maligni influssi torna, Arder così si vede in sangue tinta Di feral fiamma sfolgorante e cinta. Aspra di gemme è del corsier la briglia Che a' rai del Sol pe' gran rubini avvampa; L' audacia porta sulle fosche ciglia, Dalle tremule nari esce la vampa: Trapunta d' or gualdrappa egli ha vermiglia, Or raspa, or batte sul terren la zampa, E fiammeggiante di guerriera luce Superbo è di portar l' inclito Duce. Giovanni ha al fianco, a cui nel petto baldo Terribilmente batte il giovin core; Squassa col braccio vigoroso e saldo L' asta, che fa tremendo il suo valore: D' onor l' accende generoso caldo, E de'nemici il rende ampio terrore: Di folte piume candide adombrato È il suo splendido elmetto alto-crestato. Qual neve è il manto suo trapunto d' auro, È il brocchier lucidissimo adamante; Argentea stella ha in fronte il destrier sauro, Che fu in venti battaglie trionfante. Di perle adorna oriental tesauro I lunghi freni al corridor volante, Che mentre il suo bollor vincer non puote, Freme, sbuffa, nitrisce, e il suol percuote Argento e perle sul ceruleo manto, Pennacchio azzurro sul forbito elmetto, E impresso porta di prodezza il vanto Valerian nel suo guerriero aspetto: Pari all' Eroe, che già pungnò sul Xanto, Ed all' asta d' Achille oppose il petto, Cui poscia ad erger lo guidaro i fati Nuova Troja sul Tebro a' suoi Penati. Seco Lanfranco sta folgor di guerra, Che tremar fa i più prodi, e i più gagliardi; Ei va su' figli dell' Etrusca terra Ferocemente dardeggiando i guardi; Immane lancia nella destra afferra, Porta sul cinto tre volanti dardi, E scintillano i rai di quel valore Che in sen gli avvampa il generoso core. Su bel destrier cinta d' acciar lucente Poi segue amabilissima guerriera, D' essi al par sullo scudo ha il gran serpente, Sospende in alto la bruna visiera: Quanto ha in volto d' amor raggio possente Tanto è in battaglia ardimentosa e fiera; Clotida ell' è in etade quadrilustre, Vanta del magno Eroe la schiatta illustre. La Regina così del Termodonte Venne in soccorso degli arditi Troi, Ove per gesta luminose e conte, Valse il nome a offuscar di mille eroi; E di falange poderosa a fronte Impallidir fece i nemici suoi, E alternando il furor con la dolcezza Di valor facea pompa, e di bellezza. Dell' istrutta falange all' ala manca Di volanti destrier Giovanni è duce; Valerian l' esercito rinfranca E scelti fanti a trionfar conduce; All' ala destra il prode Enrico manca, Ma l' acciar di Lanfranco ivi riluce; Castruccio è al centro col figliuol secondo A sostener della battaglia il pondo. Enrico intanto con drappello eletto De' più prodi agilissimi pedoni S' era a piombar sovra Guarnier diretto Quando squilla di morte in campo suoni. Altro usbergo, altro scudo, ed altro elmetto Vestiron seco i forti suoi campioni, Onde poter fra gli alberi celati Sul nemico scagliarsi inaspettati. In simil foggia l' avversario duce De' Toscani l' esercito dispone. Carlo a pugnar la manca ala conduce, Sta a destra d' Alemagna il gran Campione; Dell' armata nel centro ei si riduce Ad aspettar l' orribile tenzone; Vedi all' aura ondeggiar mille bandiere, E, pugna, pugna odi gridar le schiere. Raimondo infiamma i suoi guerrier feroci E a sciolta briglia per le file scorre; Odio, rabbia, furor son le sue voci E al grand' uopo vuol tutto in opra porre. Avvezzo a' fatti orribili ed atroci Men che a vittoria alla vendetta ei corre, E la di sangue sitibonda spada Sol di Castruccio al sen cerca la strada. Discese allor sulla contesa valle Il genio tutelar della battaglia, Genio che impallidir fece Anniballe, E che di sangue imporporò Farsaglia; Se a' Romani sgombrò di gloria il calle A Castruccio ei vestì lorica e maglia, E in man glì pose la terribil asta, Che di Roma agli Eroi l' onor contrasta. Vivido lampo sfolgorò d' intorno S' empiè Castruccio di celeste lume, Si fè più chiaro e scintillante il giorno, E brillarono l'armi oltre il costume; Più fan de' guerrier suoi l' aspetto adorno Su i gran cimier le tremolanti piume, E la turba che freme inferocita Già il cavo bronzo alla battaglia invita. Quando l' antro mugghiante Eolo percosse Sì slanoiaron terribili e furenti La prova a far di lor tremende posse Sul mar così gli scatenati venti. Già mille spade son di sangue rosse, Rosse di sangue son l' armi lucenti: Mandan gli elmi percossi al ciel faville Ed intronano l' aria in suon di squille. Cade il guerrier, che nel guerrier trafitto Teneva immerso il crudo acciar tuttora; Gli tronca il braccio altro nemico invitto E la mano la spada afferra ancora. Altri mentre da un' asta è al suol confitto La sposa appella e pur forz' è che mora, Ad altri mentre uccide un colpo fiero Trapassa in un la coscia ed il destriero. Balza Clotilda della pugna in mezzo, E il nemico vessillo involar tenta Di bisso, e d' or d' inestimabil prezzo: Ella a Sigier che il sostenea s' avventa. Col forte braccio a trionfare avvezzo Il nemico ferisce, urta, e spaventa. Tronca il braccio a Sigier, l' insegna invola E verso il campo suo qual fulmin vola. Ma qual folgore ratto alla vendetta Di Partenope il Principe si slancia; Più veloce di Partica saetta Lei già ferisce con la lunga lancia: Con l' egro fianco invan sua fuga affretta Clotilda, e di squallor tinge la guancia: Ver le sue squadre a stento il destrier gira, Porge a Giovanni lo stendardo e spira. Chi ridir può come a Giovanni in petto Terribilmente allor balzasse il core? Di pietade e d' orror barbaro oggetto È la donna per lui che langue e more. Infuriò l' ardito giovinetto E a punir si scagliò l' empio uccisore: Nè forza v' ha, nè v' ha poter che basti Perchè alcun la vendetta a lui contrasti. Il fuggitivo Carlo ei già raggiunge Fra mille schiere dissipate, e rotte, Ove a sue gesta altre vittorie aggiunge, Che ravvolge d' oblìo la densa notte. Alto appella il nemico anco da lunge Di Marte in mezzo alle tremende lotte, E del buon corridor flagella i fianchi Quasi che il tempo alla sua rabbia manchi. Si ferma Carlo, e pon la lancia in resta Il nemico aspettando alla battaglia; Ed il colpo primier drizza alla testa Di Giovanni, benchè a ferir nol vaglia. Ma il Lucense campion che non s' arresta Su lui terribilissimo si scaglia; Squarcia scudo, ed usbergo un colpo solo; Zampilla il sangue, e cade il Prence al suolo. Come all' urlo vedea di Polifemo I Ciclopi addensarsi Enea sul lido, Tal quando il Prence nel suo rischio estremo Dal sen disciolse un lamentevol grido, E udito fu benchè di forze scemo, Lo stuolo accorse de i seguaci fido; E tosto circondò l' Esareo duce Immensa turba, forsennata, e truee. A cento colpi il forte scudo oppone, Qual ferisce, qual urta, e quale atterra: Spento de' Guelfi è già più d' un Campione, Sebben tutti ad un sol facciano guerra. Ferito è il buon destrier nella tenzone; Balza Giovanni come lampo a terra, E su mucchio di morti e semivivi Scorrer fa il sangue de' nemici a rivi. Ver la pugna, che ferve ognor più atroce, Valerian co' prodi suoi s' affretta: E Severo terribile, e feroce Là si slancia qual rapida saetta. Corre Giovanni, ergendo al ciel la voce, Di Gualtier, che il percosse a far vendetta; Mentre ei l' appella, e lo persegue fiero Guerra Valerian fa con Severo. La pelle d' angue il duro acciar rintuzza; Severo all' altro in due parte lo scudo: Indi del cor la prisca rabbia aguzza E va sù lui, che del brocchiero è ignudo. L' altro nel fianco il fere; il sangue spruzza, E riman nella piaga il ferro crudo: Nelle tenebre sue l' avvolse morte, E fremendo fuggì l' anima forte. Enrico intanto di Guarnier la gente Distrusse e sbaragliò nella foresta; Poi sul Duce piombò terribilmente, E l' elmo gli partì sovra la testa. Ben combattea da forte audacemente, Ma a tal di colpi orribile tempesta Chi resister potea? Lo volle invano Che a Guarnier via balzò l'acciar di mano. Poichè inerme conosce il suo nemico Il magnanimo Duce il piè ritira, E ammorza in lui quel fero sdegno antico Guarnier, che fiso al suol cheto sospira. Amica man gli stende il prode Enrico, E parla a lui dal sen sgombrando ogn' ira, Che t' affligge, o Guarnier? saper tu dei, Che prigionier d' uom, che ti stima, or sei. Penso, risponde, che dal tuo valore Or d' Emilia la mano a me s' invola. Enrico, Enrico, ah tu sei possessore Dell' idol mio, della mia fiamma sola. Sento strapparmi a tal pensiero il core, Si tronca su miei labbri ogni parola: E padre, e gloria, e fin le mie catene Nulla sembranmi incontro al caro bene. Mentre l' illustre prigionier guidando Del suo campo la strada Enrico prese Raimondo il vide, e sospendendo il brando D' ira terribilissima s' accese. Qual tigre, il corridor quindi spronando Nel vallo come fulmine discese E, Castruccio, Castruccio, ad alte grida Di morte appella alla tremenda sfida. Se sotto aeneo vaso arroventato In cui fumido ferva il chiuso umore Fiamma a fiamma si aggiunga, infuriato, Spumante, fragoroso ei balza fuore. Così il Guelfo slanciossi forsennato Ove il trascina il cieco suo furore: Tigre sembra, cui fu la prole spenta, Sembra Lion che al cacciator s' avventa Di Gerio il figlio il fero invito accetta, E terribile agli atti ed al sembiante Per la gran giostra sul destrier s' assetta, E a sciolto fren va al suo nemico innante. Non sì feroce dall' alpina vetta Trabalza al pian l' Eridano mugghiante, Che gli argin rompe, e le campagne inonda, E quanto infuria più, più d' acque abbonda. Squassa la testa il Guelfo e grida fero; O tu, che al furor mio stolto ti opponi Sappi che mille ha questo brando altero Puniti più di te prodi campioni. Nè trionfo saresti a me primiero Suscitator di civiche tenzoni. O cedi il brando, e vincitor son io, O t' appresta a cader pel braccio mio. Sorridendo sdegnoso a lui rivolto Il prode Ghibellin così rispose, Io ben lo so, puote il tuo braccio molto Son le tue gesta fra i guerrier famose; Tuoi feri detti, e il tuo superbo volco Ponno a me presagir tremende cose; Ma d' ispirarmi invan cerchi terrore, Che appien securo in questo petto ho il core. Non io d' estranie genti alla difesa In lontano terren l' acciar brandisco; Ma per la patria mia dagli empj offesa Or giustamente in campo inferocisco. Onor me guida a così santa impresa, Meco pugna di Roma il valor prisco; Nè tremar me farìa, quand' anco fosse Quivi Annibal, che cento Regni scosse. A questi detti, del nemico ardito Sugli occhi sfolgorò lampo di morte; Ed il Genio di luce rivestito Il magno condottier rese più forte. L' asta il Guelfo brandì; sopra il forbito Elmo il colpo strisciò; ma avversa sorte Mentre egli il braccio feritor distende Fa che l' altro al destrier la spalla fende Cade il cavallo, e col suo peso opprime L' atterrato signor, che invan si sforza Per porre in opra appien le forze prime E il poter, che qual face in lui si ammorza Euro così le torreggianti cime Del pino abbatte con immensa forza E mentre l' arbor rialzarsi tenta Euro più furioso a lui si avventa. Così a vicenda or di Castruccio il guardo, Or del Genio guerrier gli orrendi lampi Rendean Raimondo alla difesa tardo, E sempre gli opponean novelli inciampi. Al minacciar del Ghibellin gagliardo Sospesi si arrestar gli opposti campi, E da interno terrore i Guelfi scossi Già in atto di fuggir tutti son mossi. Qual notator, che stanco si dibatte E indarno d' afferrar cerca la sponda, Mentre col flutto turgido combatte Indietro lo rispinge onda sopr' onda: Di Raimondo così la possa abbatte Quel Genio, che co' suoi lampi il circonda, E fa Castruccio già possente assai Formidabile più del Guelfo a' rai. Raimondo alfin d' uom grande anco in sembiante, Ma qual chi a forza irresistibil cede, Con man non vile il brando fulminante Dell' Eroe vincitor depose al piede. Quanto gli è amara in sì funesto istante La schiavitù, che inevitabil vede! Cede, e cedendo minaccioso e forte Disfida con sicura alma la sorte. Disserrando dal sen sospir profondo Così parla al nemico alteramente; Cedo d' ignoto fato al grave pondo, Cedo, o Castruccio, al braccio tuo valente. Ma a render prigioniero il prò Raimondo No, non v' era mortale assai possente; O un'incognita forza ora mi abbatte, O un qualche nume in tuo favor combatte. Depon Castruccio ogni fierezza, e al vinto Parla così: se mio prigion tu sei, Se in lotta sanguinosa oggi t' ho vinto Sol gli sdegnati numi accusar dei: A me giustizia acciar tremendo ha cinto I sacri a sostener diritti miei; E se il mio braccio vincitor ti atterra Ne incolpa il fato di sì ingiusta guerra. Come al cader del Frigio capitano I Trojani a fuggir ratti si diero, Lasciando in mezzo dell' aperto piano Superbo isoleggiar Pelide fiero: Fugge così l' esercito Toscano, Cue mancar vede il magno suo guerriero; Alto fragore al suo fuggir s' innalza, E lui l' armata vincitrice incalza. D' ogni Guelfo omai spenta è la baldanza; E fugge ognun dal sanguinoso agone; Scorrono i Ghibellin feri in sembianza E ostacol nullo al lor valor s' oppone: Già in preda de' Lucchesi alla possanza Di Raimondo è il gran cocchio, e il padliglione; Su i morti, e semivivi a scorrer segue Castruccio, e il campo fuggitivo insegue. Quand' ecco al suon di bellici stromenti Da lunge alzarsi un nembo amplo di polve, Che d' acciar vibra lampi risplendenti, E i colli intorno e le campagne involve. A poco a poco all' agitar de i venti Si dissipa la nube e si dissolve, E all' aura mostra d' ogni plauso degne Di Galeazzo le temute insegne. Tardi giungesti, o prode: altri la gloria Ebbe già della pugna memoranda; Al tuo braccio si serba altra vittoria, Onde fia che il tuo nome alto si spanda. Delle tue gesta ad illustrar la storia Corri ove il fato a trionfar ti manda; Giura di non depor l' ultrice spada Infin che il Guelfo orgoglio a terra cada. D' emula fiamma acceso il fier Visconte Freme, che giunse alla battaglia tardo. Esser vorrìa di mille squadre a fronte, E prova far del braccio suo gagliardo. Vergogna e gelosia scolpite ha in fronte, Spira furor col dardeggiante sguardo, E alzando il ferro abbattitor d' Eroi In fero suon parla a' seguaci suoi. Compagni invitti, che i nemici vostri Tremar faceste in cento pugne e cento, Onde clascun di voi suo valor mostri Ecco giunto il terribile momento. Gl' inseguan vincitori i brandi nostri, Fin di Flora nel sen portiam spavento; E quei, che già sì baldanzosi foro, Imparino a tremar ne'tetti loro. Tai detti in proferir vivido lampo Sul suo sembiante scintillar si vide, E a sciolto fren scorrendo il vuoto campo S' unì col Duce, cui vittoria arride. Or come troveranno i Guelfi scampo Dalle unite d' entrambo armi omicide? Turbo così dal ciel strisciando in terra Messi strugge, arbor schianta, e case atterra

Fine del Canto Secondo.



Sito, e beltà della Città di Flora, Ove seggono i Guelfi a gran Consiglio; Di Castruccio il valore Ottone onora Pingendol di Muldorf entro al periglio. Scopre il crudo Ranier ch' Emilia adora Del gran Castruccio il generoso figlio. Fugge ella. Innanzi a Flora il vincitore Rende a Clotilda ogni funèbre onore. Flora è Città dell' Appennino al piede D' Etruria vetustissima Regina: Natura appien lussureggiar si vede Nella fertil campagna a lei vicina: Nè di Granata alla ricchezza cede, Nè all' opimo terren di Palestina; Tanto d' ogni prodotto il suolo abbonda, Che d' Arno irrora la pacific' onda. Qui di Bacco, e di Cerere i tesori Con la prodiga man versò natura: Qui eterna ride la stagion de' fiori, Qui il fruttifero Autunno eterno dura. Qui ne' fecondi mattutini albori E frutti e fior il ciel sempre matura; E copron d' Arno le feraci rive Le torte viti, con le pingui olive. Scorre placido il rio di terso argento In quelle floridissime pendici, Ed il gregge lanuto, e il pingue armento Ricchi ne fa gli abitator felici, Che con l' alma tranquilla, e il cor contento Traggono i dì fra i pastorali uffici, E di colpa incapaci e di temenza Godono il bel seren dell'innocenza. Sul Tosco fiume pompeggiante e bella S' erge superba la Città turrita, Di sculti marmi in questa parte e in quella Di magnifiche fabbriche arricchita; Dall' alta sua beltà Flora s' appella, E ad ammirarla ogni straniero invita: Patria d' Eroi, che fur sopra la terra Incliti nella pace e nella guerra. In magnifica sala ivi raccolto Stava de' Guelfi e de'Toscani il fiore, Ciascun col senno, e col valor rivolto Ad opporre ogni forza al vincitore: Guerrier vi stavca in ferreo busto avvolto Di braccio insuperabile e di core; Altri v' era che oprar nel gran periglio Può matura prudenza, alto consiglio. Otton de' Rinuccini inclita prole Tremendo in guerra condottier di prodi, Alle tue chiare gesta al mondo sole Non fia ch' io tolga le dovute lodi; Grande in consiglio con le tue parole, Nemico del raggiro e delle frodi, E magnanimo in pace, e in campo forte Sempre a chi ti sfidò recasti morte. Otton di Flora a guardia era rimaso Mentre correa Raimondo al gran cimento; Della perdita lor già persuaso, De' Guelfi condannava ei l' ardimento; Egli teme Castruccio, e non a caso Solo al nome di lui prova spavento; Ottone sa quanto Castruccio vaglia, E qual fulmine sia nella battaglia. Renato v' ha, guerrier d' illustre sangue Che contro i Ghibellin di rabbia freme; Nel maschio petto suo vigor non langue, A imprese audaci pronto e prove estreme; Ben ei veder vorria Castruccio esangue Castruccio il sol, che fra i nemici teme; Il teme sì, ma l' alterezza innata Fa che porti d' ardir l' alma velata. Guicciardino, Alighier, Lullo, Salviati Ivi a difesa della patria sono: Altri molti con lor stanvi adunati Del Ghibellin trionfo udendo il suono. Forse a' piedi così de' lor Penati Stavano i Troj di Priamo innanzi al trono: Quand' ecco agli altri il suo pensiero espone In questi detti il generoso Ottone. Giunto è, o Toscani, è giunto il gran guerriero, Contro cui mortal possa invan combatte; Ben noto è a voi che nel certame fiero Fur le nostre falangi appien disfatte: Il superbo Raimondo è prigioniero, La Toscana arroganza in lui si abbatte, E il Lucense campion più forte ognora Mostra i vessilli minaccianti a Flora. In tanto rischio che più a far ne resta? Io, se pace sperar ne fosse dato, Pace io scerrei; l' unica strada è questa Perchè sia il nostro regno assecurato: Già viene il vincitor come tempesta; Mal dall' armi l' asil nostro è guardato, E se indugio frapponsi alla difesa, Flora da' Ghibellin fia vinta e presa. Vibrando sopra Otton sguardo fiammante Così Renato favellar s' udìo; Pace proponi tu? di pace innante Con tutti i prodi miei morir vogl' io. Non fia no, che Castruccio unqua si vaute Di veder disarmato il braccio mio. Non è, come tu il credi, ei tanto forte, E se vinse talor, vinse la sorte. Ei che della sua Patria empio tiranno Con sacrilega man lo scettro strinse, E sol di libertà, del giusto a danno Al fianco il brando iniquamente cinse; Son l' armi sue, frode, perfidia, inganno; Seco in campo l' onor giammai non vinse. E grande, in ver, per gesta alte e famose Chi ferreo giogo alla sua Patria impose. E tu di lui quasi ti mostri amico? I tuoi consigli io non comprendo ancora; Ligio sei di Castruccio, ovver nemico? Schiavo Lucense, o cittadin di Flora? Ripieno io già d' alta certezza il dico Del cader di quell' empio è giunta l' ora: E tu paventi? Ah ti riscuoti Ottone, E facciam di virtù sol paragone. D' ira avvampando Otton così fremente Proruppe, e tramandò dagli occhi un lampo: Chi d' insultare Otton fia che si attente? Ignoto forse è il brando mio nel campo? Al par d' ogni più prode e più valente Io forse non spezzai qualunque inciampo? Non è viltà, no, che a parlar m' induce, Ma so qual possa abbia il nemico Duce. Meco ne' campi di Muldorf non fosti A mirar l' indomabile guerriero, Ove gli emuli Prenci in guerra opposti D' Alemagna lottavano all' impero: Quanto Castruccio a' suoi nemici costi Enrico il sa di lui già prigioniero; Federico sconfitto anch' ei l' attesta, Che vide il serto a sè strappar di testa. L' Austriaco Eroe con cento Duci e cento I sudditi a migliaja ivi traea, E affrontando l' orribile cimento Magnanima virtù securo il fea: Enrico de' nemici alto spavento, Enrico al fianco poderoso avea, E le squadre parean piegar la fronte All' aspetto dell' Aquila bifronte. Con forze eguali dall' opposta parte Di Muldorf a ingombrar gl' immensi piani Sta di Baviera l' efferato Marte Atterritor de i pavidi Germani: Radunò le sue forze in prima sparte, Soccorso chiese agl' Itali Sovrani, E fece ogni Monarca a lui nemico Al nome impallidir di Lodovico. Ardea la pugna, e in dubbia lance stava Sospesa de' due Principi la sorte; Sul campo sanguinoso passeggiava Fra i suoi trionfi la falcata morte; E sparso il crin, sozzo d' immonda bava L' odio a caso uccidea l' imbelle e il forte; Inorridita umanità fuggia, Si apriva al soglio ambizion la via. Allor di Federico io stava allato, Quand' ecco trionfar l' Austriache schiere; Alla nostra vittoria arride il fato; A' nemici involiam carri e bandiere: Lodovico smanioso e conculcato Piega, fremendo invan, le insegne altere, E di Giove l' augel ch' è nostro duce Sfolgorar sembra di novella luce. Quando apparve Castruccio, Eroe fatale! Come folgor che al suol scrosciante scende, E un essere divin più che mortale Sembronne agli atti, e all' armi sue tremende. Sulla fronte magnanima e regale Di Federico tentennar le bende; Ed in sua man l' asta che sempre uccide, La prima volta vacillar si vide. Qual uom che al sommo di fortuna spinto A nessuno credea d' esser secondo, E poi si vede superato e vinto Da quella possa, che assoggetta il mondo; Così l' ardir di Federico estinto Sentir gli fe' di sua sciagura il pondo, Ed a fuggir malgrado suo lo sforza D' ignota mano irresistibil forza. Misero Imperador! grande in sembiante Cede al poter del poter suo maggiore, E via sel porta il corridor volante Fuor del campo di morte e di terrore; Ma la lunga brandendo asta pesante Già da tergo il raggiugne il vincitore. Soccorso o Dei! se lui Castruccio afferra Quanta parte di voi perde la terra! Forse così dal vincitor fuggia Ne' Farsalici campi il gran Pompeo, Quando Cesar maggior della natia Sua possa, il genio tutelar rendeo. Tal chi l' Austriaco Principe inseguia Invincibile allor la sorte feo; Ma il fratello a salvar dal fier nemico Forsennato slanciossi il forte Enrico. S'infiamma Enrico, e con ardir tremendo Va ad affrontarlo con la lancia in resta: Ma che! del primo scontro al cozzo orrendo Infranto l' elmo gli sbalzò di testa, E al fiero colpo dal destrier cadendo Sul suolo inerme e sbigottito resta. Sospende il ferro l' Italo feroce. Ed a parlar così scioglie la voce. Sei vinto Enrico; ma i trionfi miei Io macchiar di viltà giammai non soglio; Mi basta sol di poter dir, che sei Mio prigioniero, altro da te non voglio: Nella sventura tua conoscer dei Che il ciel destina Lodovico al soglio. Enrico freme, e con terribil faccia Par Leon, che ferito, anco minaccia. Così Castruccio d' Alemagna il flore Distrusse e annichilò come saetta. E dove esser potrà tanto valore Che la man vinca alle vittorie addetta? Lamagna tutta invan nel suo furore Di tal onta vorria fare or vendetta, E per Castruccio ha ogni nemico a scherno Dell' Italiche glorie il giro eterno. L' Austriaca donna di vergogna tinta Chinò sul petto l' avvilito volto; Si squarciò gli aurei fregi ond' era cinta, E in fosche bende avvolse il crine incolto. Appar Castruccio, e da Castruccio vinta, È ogni schiera, è ogni prode in fuga volto. E noi vorremmo opporci a' colpi suoi? Miriam noi stessi, e si risolva poi. Qui tacque Otton; de' circostanti l' alma Mille affetti assaliro in un momento; Tace ciascun, ma nel suo cor la palma Sul priso ardir porta il novel spavento. Come sorge talora in mar la calma Se le grand' ali a tergo accoglie il vento, O come si acchetò l' onda fremente Quando scosse Nettuno il gran Tridente. Mentre sta ognun qui con sospesa idea Di guerra e pace fra le incerte voglie, La bellissima Emilia in sen d' Alfea In lacrime amarissime si scioglie; L' unico fil, che il viver suo reggea, La dolce speme il fato ora le toglie; L' eburnee braccia al ciel, misera estolle, E il bel viso d' amor di pianto ha molle. Maligno spirto al Genitor furente Rese la fiamma, ond' ella ardea palese, Come a orribil delitto egli bollente D' implacabil furor tutto si accese; Corse alla figlia, e qual Lion ruggente Così ad essa a parlar fremendo prese; Tu, scellerata, ami tu l' empio Enrico, L' esecrato figliuol del mio nemico? Egli genero a me? che il sangue mio Al sangue reo di quel fellon si unisca? Pria che suocero a lui divenir io La folgore del ciel m' incenerisca. Ben saprò, se nol vuoi porre in oblio, Di mia schiatta serbar la gloria prisca. A te tutt' altro fato or si prepara; Ad esser grande, e rispettata impara. Ma guai, se questo abbominevol foco A mio dispetto occultamente ardesse; Ogni vendetta a tant' oltraggio è poco: Cadreste, sì, per le mie mani istesse: La terra non avria riposto loco, Che al mio furor sottrarvi allor potesse. Io tal onta soffrir? no, non fia mai. Sposa a Dudon col nuovo dì sarai. Dudon, che a' raggi del cocente sole Apprese ad insultar del fato l' ira, Che i nemici atterrar qual turbo suole, E ne' petti terror col guardo ispira; Vendica i torti miei, te sposa vuole, Per me pugnando alle tue nozze aspira: Siculo nacque, ha regal sangue altero, E d' Etruria e di Lucca arrà l' Impero. Cadan gl' iniqui, o' di catene cinto Frema degli empj il conculcato orgoglio; Vegga Castruccio ne' miei lacci avvinto Premere da Ranier l' Esareo soglio: Sia da te pur sì gran disegno spinto, Ministra te di mia grandezza io voglio. Cadan gl' iniqui; e sulla lor ruina, Sul trono lor grandeggerai regina. Disse, e alle proprie ambasce in abbandono Lasciò la figlia istupidita e mesta; Quale allo scoppio d' improvviso tuono, Che il pin scoscende, il villanel si resta; O qual uom che di voce orrenda al suono A mezzo il sonno trepido si desta, E vuol ratto fuggire, e gridar vuole, Ma gli mancan le forze e le parole. Barbaro padre, volea dir la bella, Padre crudel! ma l' interruppe il pianto, Che le piovea dall' una e l' altra stella Ad inondarle il bianco seno e il manto: Da una parte l' amor l' ange e martella, La sgomenta il terror dall' altro canto: Ah chi seco non piange in tale stato Da donna no, ma da un macigno è nato! Del truce Sicilian, del fier Dudone Vittima diverrà tanta bellezza! Egli uso a inferocir nella tenzone Sprezzator di pietade, e di dolcezza, Tien riposta nel brando ogni ragione, Somigliante a Ranier nella durezza; Ha lo sguardo sanguigno e fulminante, Fosca la faccia, orribile il sembiante. Ispida pelle di Leon lo cinge, Sospende in alto la visiera bruna, In man la curva scùnitarra stringe, Con cui crede impor legge alla fortuna: Desìo di regno a nodo tal lo spinge, Per questo sol le forze sue raduna; Feroce apportator di strage e lutto, Sempre di sangue uman fumante e brutto. Forse così d' orribil gente duce Sulla trepida Ausonia Attila venne; O l' Etiope Alamar sì fero e truce Ver l'Iberia drizzò le negre antenne. Precorrea lor lampo di fosca luce, Fama volante in ciel battea le penne; Ma a fronte poscia di nemico forte Chi trovò la sconfitta, e chi la morte. Come, Emilia dicea, scordarti o caro, O Enrico di quest' alma unico affetto? Ah che meno il morir sariami amaro, Che dividere me dal mio diletto. Se tanto sei delle mie gioje avaro Strappami, o Genitor, l' alma dal petto, E uccidi in un con la mia spoglia frale L' amor mio, se l' amor cosa è mortale. O discordia fatal, guerra funesta, Barbaro fato, a me nemici tutti! Di tanto amor la ricompensa è questa? Del mio lungo soffrir son questi i frutti? Per opprimermi più, che a far vi resta? Già tuti sono i voti miei distrutti. Oh fatal seggio, inaugurato trono Per cui d' angosce in un abisso io sone! Ma fuggirò: mi farà amor la via, La mia candida fè serammi scorta: Forse anche un Nume a me propizio fia, Che l' oppressa innocenza il ciel conforta. Se in questo accaderà la morte mia Sappia Enrico, che a lui fedel son morta: E pria che viver nelle braccia altrui, Io scelgo di morir degna di lui. Così dicendo dalla man di neve Sollevò il roseo volto, e in piè levosse; Terse l' umide luci, e con un breve Sospir dal suo letargo appien si scosse: Sul crin, sul volto un vel candido e lieve Gittossi, e in traccia di Camilla mosse; Onde poter la saggia amica intesa Della sua fuga agevolar l' impresa. La sua fida Camilla egra giacea Perchè allor che inseguia cinghial feroce, E i boschi come fulmine scorrea, A terra cadde il suo destrier veloce. Fuor de' sensi restò mentre cadea, Fu soccorsa, e involata al rischio atroce: Ma pure il letto abbandonar non anco A lei permette il travagliato fianco. Dal morbido origlier la testa ergendo Con la manca sostien la smorta faccia, E la destra ad Emilia indi porgendo Le chiede qual ria cosa il ciel minaccia. Pianto allor dirottissimo sciogliendo Emilia gitta al collo suo le braccia; Ah! Camilla, gridando, aita, oh Dio! Perdo Enrico, il mio ben, lo sposo mio! E chi tel toglie? sclamò allor Camilla, Tutta avvampando di sorpresa e d' ira. Facendo un rivo d' ogni sua pupilla Spiega Emilia il dolor, che la martira: E mentre amor negli occhi suoi sfavilla L' altra la guarda, e tacita sospira; Poi di acquetar cerca sua smania atroce, E sì prende a parlar con debil voce. Emilia non temer; maggior del fato Rendi te stessa; al Genitor t' invola; Fuggi un nodo a ragion tanto esecrato, Che, non temer, non fuggirai tu sola: Un nume, un nume scenderatti allato, Che il ciel gli sventurati ognor consola: Va di giuliano al monte, ivi felice Vive Laura la mia fida nutrice. Nell' armi mie tue belle membra ascondi Onde partir dalla cittade illesa; Cela nel mio cimier tuoi crini biondi, Che ingannando farai la tua difesa. Questa tua fuga il ciel fia che secondi; Io di speme e di ardir mi sento accesa. Giunta appena sarai di Laura al tetto Tranquillità ti scenderà nel petto. Non palesarle il nome tuo verace, Dille sol che Camilla a lei t' invia: Intanto fia di procurarti pace, E di Enrico avvertir la cura mia. Nutri tacita in sen la bella face, Forse a sorte miglior t' apre la via Il ciel, quando a te sembra essa più dura; Spesso fonte di bene è una sventura. Gli umidi rai tergendo Emilia avvolse Nel flessibile acciar le membra beile; E, nota spoglia di Camilla, tolse D' Ircana Lince maculata pelle: Nel candido cimiero il crin raccolse; Ha l' arco al fianco, e le saette anch' elle: Ma troppo duro il ferreo busto sembra Alle sue molli e delicate membra. Tal del Nemeo Leon nel cuojo un giorno La bellissima Jole apparve involta; Era d' egual beltà suo viso adorno, Ugual dolcezza avea nel guardo accolta: Nugol d' amori a Jole errava intorno, Sul niveo sen, nell' aurea chioma scielta; E invisibile amore a Emilia accanto Le infonde in ogni mossa un nuovo incanto. Le braccia al collo della fida amica Tremante getta, e se la stringe al seno. Oh quanto il pianto lor sembra che dica! E dicon più quanto favellan meno. Si dividono poscia a gran fatica: Camilla che di tema ha il cor ripieno Dice all' altra, deh! cedi al timor mio, Periglioso è ogn' istante; Emilia addio. Si stacca Emilia allora; esce veloce Dal caro tetto, e il ciel sua guida appella. Di bajo corridor snello e veloce Ella già balza come lampo in sella: Obbedisce il destriero alla sua voce Superbo di portar l' alma donzella, E favorita dalla notte oscura Esce d' Alfea dalle merlate mura. Alle eognite insegne, all' armi note In lei Camilla ogni guerrier credea, Che vie spesso scorrendo aspre e remote Solitaria e notturna uscir solea. Ed ella come più veloce puote Addietro lascia la superba Alfea, E ver Borea volgendo il ratto corso Chiede nella sua fuga a Dio soccorso. Come tremante e pavida cervetta, Che fugge il cacciator pe' vasti piani, Sente a tergo il fischiar della saetta, Sente inseguirsi da'latranti cani; Pur tanto il corso pauroso affretta, Che a render giugne i loro sforzi vani; A correr segue, e crede aver pur anco I veltri a tergo, e la saetta al fianco. Così Emilia s' affretta; ad essa innante Cento perigli il suo pensier descrive: Simìle a lei che fra l' ombrose piante Del Giordan giunse alle fiorite rive; E sventurata al par che fida amante, Pel gran Torquato eternamente vive. Nuova Erminia così diè Etruria al mondo; Ma a Torquato dov' è chi sia secondo? Vanne egregia Donzella; a' passi tuoi Più brilla in ciel la candidetta Luna, Ti precorre virtù co' raggi suoi, Nè paventar tu dei sventura alcuna: Sposa a un prode sarai, Madre d'Eroi; A te il suo crin tributerà fortuna, E dopo lunga e dolorosa via Felicità conoscerai che sia. Ma Galeazzo alza di Flora a vista Il trionfante Ghibellin stendardo, E sitibondo di maggior conquista Dar l' assalto vorrìa senza ritardo Sa Castruccio, che invano egli l' acquista Se smembra ivi l' esercito gagliardo: E il ribelle Ranier potrebbe intanto Invader Lucca, e a lui torre ogni vanto. Quindi espugnarla, e compier tante impreso Util non anco alla sua gloria crede: Ma vuol la forza sua render palese Pria di rivolger verso Lucca il piede. Mostrare a Flora vuol che sì l' offese Che non già per temenza ei retrocede: Ma che securo de' suoi lauri all' ombra Con feste e giuochi le sue valli ingombra. Mentre l' oste dell'Arno è sulla riva, Chiama la gioventù nuova tenzone; E cinto il crin di frassino e d' oliva Ognun corre anelante al paragone. Chi prima a un segno destinato arriva, Poichè scorso due volte ha il grand' agone, Ricca clamide avrà trapunta d' auro Di prezzo, e di lavor doppio tesauro. Il magno Eroc sovra il gemmato soglio Fulgidissimo d' or siede e grandeggia; E come cerchio fa l' onda allo scoglio Folla di prodi il trono suo corteggia: De' Guelfi ognun l' annichilato orgoglio Vanta, e di evviva l' ampia valle eccheggia; Seco il trionfo suo portando in fronte Vibra lampi di guerra il fier Visconte. Sli stanno i figli suoi schierati al fianco, E di serpente in verde pelle avvolto, Già spoglia di Severo, evvi Lanfranco Nuovo Marte agli sguardi, agli atti, al volto. L' Etrusco fato sbigottito e bianco A contemplar l' alina Città rivolto Sta meditando sulla sua ruina, E il laureato capo al petto inchina. Cinque trilustri giovinetti arditi, Di cui ferve nel sen l' anima forte, Tutti di maglia serica vestiti Già del corso a tentar vanno la sorte. Forteguerra, Buonviso, e Poggio uniti Del Lucense signor crebbero in corte; Con Arnolfo maggior d' ogni periglio Va baldanzoso di Lanfranco il figlio. Udito il cenno, qual si spicca il lampo, Dalle mosse ciascun slanciasi ardente. Nugol di polve è dietro a loro, e il camp, Risonar fa lo scalpitar frequente. Buonviso cade, e il suo cader fa inciampo A Poggio, che su lui cade repente: Già Forteguerra la vittoria avea, Ma lo raggiunse il fier Garzon d' Alfea. Lanfranco addoppia il vigor suo primiero, Più che vento veloci ali impennando; A lui si atterga disdegnoso, e fiero Arnolfo, sol di trionfar bramando. Com' Euro in giorno burrascoso e nero Sue furie addoppia per lo ciel buffando; Così doppio rigor spiegando a un punto Al termin vincitor Lanfranco è giunto. Arnolfo il segue, e ha Forteguerra accante Sì che ne sente il ventilar del crine; Ma sol Lanfranco ha del trionfo il vanto, Ch' ei primo giunse al destinato fine Lanfranco vincitor gridano intanto E le squadre remote, e le vicine: Ei la clamide ottien d' alto lavoro Tempestata di gemme, e ricca d' oro. D' ebano, e avorio candido forbito Un lucid' arco ha Forteguerra ancora; Di Castruccio per man Verro ferito Del ricco arnese la memoria onora. Acuto acciar di lucid'or guarnito Dassi ad Arnolfo; e stuol d' Araldi allora Volto all' audace giovinezza ardita Ad altri giuochi la falange invita. Si accinge allor d' Eroi drappello fiero Nella gara de'Cocchi a misurarse: Due colonne son meta al lor sentiero, E a quelle intorno deono raggirarse. Sono i Cocchi sfilati, e ogni destriero Sbuffa, raspa, e le chiome agita sparse, E fa fischiar sulla fumante biga L' aspro flagel l' ardimentoso auriga. Quattro giovani Eroi superbi stanno Su i quattro Cocchi assisi alteramente. Quand' ecco il cenno a lor le trombe danno, E si parte ciascun rapidamente. Compiuto appena il sedicesim' anno Avea di que' garzoni il più valente, Che nipote all' Eroe l' origin tratta Ha degli Streghi dall' illustre schiatta. Cesare è il nome suo; Carlo, Ricciardo, Guinigi, son nel corso a lui rivali; Ciascuno i suoi destrier sferza gagliardo, Che di velocità di forza eguali A stento puote accompagnarli il guardo, E si dirla che a' fianchi avesser l' ali Cesar gli altri sorpassa, e ad uguagliarlo Le mal dome cavalle affretta Carlo. E col flagel che sanguinoso rota, E con la voce sì le va incalzando, Tanto che ognuna il freno strappi e scuota Il crin, quà e là per l' ampio agone errando. Già il fervid' asse della calda ruota Nella colonna orribilmente urtando, Sfracassa il cocchio, e dell' agon gran parte La ruota ingombra con le schegge sparte. Cade il misero Carlo in sul terreno, E strappando le redini feroci, Strascinando sul suol lo sciolto freno, Via le cavalle corrono veloci. Tosto di meste grida è l' aer ripieno; Carlo il fragor di lamentevol voci Udir non può, che per l' immenso duolo De' sensi privo stamazzò sul suolo. A stento i corridor quivi rattenne Ricciardo, che a lui presso ne venia; Dalla colonna più lontan si tenne Guinigi, e guadagnò la larga via; Carlo soccorso e di là tolto venne Dalla guardia che il circo custodia: Mentre Cesare innanzi a tutti corre, Nè più gli puote alcuno il premio torre. Sferza Guinigi i suoi cavalli invano, Che già Cesare il premio ha guadagnato; Ed ottien di Castruccio ei dalla mano Il ricco dono al vincitor serbato. Agli altri pur l' Augusto Eroe sovrano Con un premio minor si mostra grato; E allor la gioventù gagliarda e forte Và del Calcio a tentar la dubbia sorte. In due squadre divisi i combattenti Sono, e metà del campo occupa ognuna. Alle fresche d' April rose ridenti Il color delle vesti è eguale in una; Vengon dell' altra squadra i prodi ardenti A cimentar del Calcio la fortuna; Han di rancio color le vesti intorno, Loro insegna è la Dea che guida il giorno. Quanto in larghezza il vasto agon si estende Doppia fila di forti Atleti è posta. L' una schiera l' Aurora ivi difende, Per la Rosa a pugnar l' altra è disposta. Con chi a fronte gli sra ciascun contende, Che l' una stassi all'altra fila opposta; E stendono i guerrier sfilati in faccia Sugli omeri dell' un l' altro le braccia. Havvi nel campo un che la veste ha varia Di color rancio e di color di rosa; Gitta ei fra l' una schiera e l' avversaria Sferica palla che sul suol si posa: Chi tre volte lanciar sapralla in aria, Sicchè il circo oltrepassi ardimentosa, Di sue vesti al color reca vittoria, E di trofei ricolmo va, e di gloria. Si affollan tutti ad afferraria ardenti; Chi l'altro spinge, chi s' abbassa a terra; Quel che l' ottiene, a' perditor frementi Per celarla, in sua man ratto la serra: Nol veggon gli altri, e nell' error furenti Or questi, or quei da lor s' urta e si afferra, Mentre chi la rapì da lor lontano Fa la palla partir dalla sua mano. Chi ridir può quali urti e quai percosse Tramortiti i guerrier gettino al suolo? Non qui le spade escon di sangue rosse, Ma con l' ignuda man si pugna solo. Dal lato rancio, arte o ventura fosse, Già due volte partì la palla a volo; E i nemici in veder già vincitori Fremono della Rosa i difensori. Fabio de' Guidiccioni inclita prole, Garzione invitto era alla Rosa duce; Ei del vantaggio altrui forte si duole Sicchè l' onta nel volto gli traluce; Nel campo egli balzò, qual lampo suole Fendere il ciel con improvvisa luce; E mentre egli piombò sopra i rivali, Al fianco suo spiegò vittoria l' ali. Egli primier la contrastata palla Rapì al nemico, e la slanciò nel piano: Di riaverla allor la parte gialla Tentò più volte, ma tentollo invano; Chè sì destro un guerrier all' altro dalla, O la nasconde altrui con l' agil ma no, Che alfin tre volte dalla rosea ban da La vincitrice palla al ciel si manda. È Fabio vincitor; la Rosa ha vinto: Per tutto il campo risonar s' intese: Ecco d' alloro il giovinetto cinto, Che del foco d' onor gli animi accese. Con ricca ciarpa è dall' Eroe distinto, Che istoriata è da sue grandi imprese; Da Esarea man con sottil or trapunta Ove ricchezza è alla beltà congiunta. Del vincitore amabile guerriero In mille parti il nome allor risuona, Che nulla va di sua vittoria altero Benchè l' adorni trionfal corona. Fine hanno i giuochi, e dall'Eroe primiero Largo premio all' esercito si dona; E delle trombe marziali al suono Scende Castruccio dal gemmato trono. Allor dell' Arno sulle curve sponde Ergonsi all' aura accatastate pire; Ivi l' avanzo degli Eroi s' asconde Che furon del Toscan vittima all' ire. Oh qual ne' cor desìo di gloria infonde Chi per la patria sua potè morire! E sovra cento bare ov' essi han sede, Di Clotilda il ferètro alto si vede. Come giacinto pallido, o viola Cade dal duro vomere reciso, Così a Clotilda, che la morte invola, Cade sul sen lo scolorito viso: Per belta, per fortezza al mondo sola Raggio parea quaggiù di Paradiso; E benchè al ciel ne sia volata l' alma Serba la sua beltà tuttor la salma. Ignuda è del cimier la bionda testa, Si sparge il crin sopra la smorta faccia, Nel sangue ancor la traforata vesta Mostra del Guelfo acciar l' orribil traccia. Ha l' elmo a' piè dall' ondeggiante cresta; Ha lo scudo, e ha l' acciar stesi alle braccia: Con l' arco, che sua vita invan difese, Stan le frecce ora inutili sospese. Cerchio le fan con l' armi arrovesciate Quegli Eroi, che le forze Etrusche han dome; Le compagne discinte e scapigliate Chiamano invan la lor Clotilda a nome: Si percuotono il sen quai forsennate, Ed i veli si stracciano e le chiome; Quando le squadre ivi condotte sono De' tamburi scordati al mesto suono. A lei d' intorno gli schierati fanti Con grave passo e triplicato giro Pingon di duol profondo i lor sembianti, Immersi in amarissimo martiro. Appendon negri veli alle fiammanti Spade, che rosse dalla pugna usciro, E ne avvolgono pur con mesti aspetti Trombe, tamburi, aste, corazze, elmetti. Seguono in grave maestà raccolti I Sacerdoti interpreti del cielo, In negre vesti e candide ravvolti Religion spiranti e santo zelo; Chiaro ben trasparìa sopra i lor volti Che oppressi eran da ri a mano di gelo; Ma la sembianza lor grave e dimessa La serena pietà mostrava espressa. Nella Croce il vessillo alzan di Dio, In cai fiso gioisce il Paradiso. In lungo segue ordin divoto e pio Il sacro stuolo in due file diviso. Sta immoto il campo, e duol profondo e rio, Fa che di piauto ognuno irrora il viso; Lentamente s'avanzano, ed intanto Questo mesto udir fan funebre canto. O Creator del tutto onnipossente, Deh nel giorno di tua terribil ira Quest' alma candidissima e innocente Gran Dio! con l' occhio di clemenza mira. De' giusti nella sede alma e lucente Eternamente il gaudio tuo l' ispira, E non fa nel cader del sol, degli orbi, Che involga lei stuolo di negri corbi. A questa pura e candida colomba Gli Angeli della pace or siano scorta, E quando il suon del furor tuo rimbomba Lei con gioja ineffabile conforta: A quel loco sottraggila ove piomba Le sue colpe a scontar la gente morta. Eternità nel grembo suo l' attenda, E per sempre beata in te la renda. Tacquero, e un basso mormorar s' udia, E dal devoto immenso campo intanto Replicar or di Cristo or di Maria Udiasi il nome riverito e santo. Compiuta alfin la ceremonia pia I Sacerdoti rasciugando il pianto, A lei, che della sacra onda spruzzaro, Quieta eternità dal ciel pregaro. Allora il suo cadavero si pose In plumbea cassa, ma faceva a questa, Ove tanta virtù morte nascose, Cedro odorato una seconda vesta. Di sua morte l' istoria, e le famose Care sempre alla gloria inclite gesta Vi furo sculte; e lei Castruccio poi Al sepolcro inviò de'Padri suoi.

Fine del terzo Canto.



Emilia fugge, e dietro al Pisan monte Alfin posa ritrova al piè smarrito. Castruccio dopo tante gesta conte Riede in pieno trionfo al patrio lito. I vinti a consolar delle proprie onte Chiama i suoi prigionieri a gran convito: U' Emericò poeta a cantar prende Le future di Lucca alte vicende. Dava Emilia le terga alla turrita Alfea, portata dal destrier volante; Ed era pel dolor tanto smarrita, Che nulla discerneva a sè davante: Se un' aura pur le rimanea di vita Tutta era sacra al suo diletto amante: Da' singulti interrotto il nome amato Replicar facea l' Eco in ogni lato. Parea di fior che si smaltasse il suolo, Che il ruscello arrestasse il piè d' argento, E scior parean librando in aria il volo Gli augelletti dolcissimo concento; Parea natura alleggerir suo duolo, E quasi intenerirsi al suo lamento, E il molle innamorato Zeffiretto Movea le piume del lucente elmetto. Volge a Borea il fuggir precipitosa Dal suo terrore accelerata e spinta: La bella faccia di color di rosa Or lo spavento ha di squallor dipinta: Fin tema infonde all' alma paurosa Il suon dell'armi, ond'è guarnita e cin ta: E del mattiu nell' ore ancor men calde Del monte di Giulian giugne alle falde. Di Laura oltrepassata ha la capanna, E ignoti campi a sè d' intorno vede, E poichè invan per correr più si affanna A terra scende e pochi istanti siede: Indi a veder se il desir suo l' inganna Lentamente sull' erto avanza il piede, E sospirosa il guardo in ogni lato Volge per ricercar l' asil bramato. Poco lunge scotea l' agreste verga Rozzo pastor sovra le sparse agnelle. Emilia a lui: se in te pictà si alberga, Laura ov' ha il tetto? e quai case son quelle? Ei sprezzante volgendo a lei le terga, Non so, rispose, di chi tu favelle; Col fischio pastoral la greggia unio, E in altre sponde a pascolarla gio. Emilia il Ciel mirò con un sospiro Molle di pianto l' amorose luci; Ed esclamò: pietà del mio martiro, Nume del Cielo i passi miei conduci! Senza guida e consiglio io quì m' aggiro, All'innocente fin tu mi riduci; Figlia ribelle al genitor non sono: E merta l' error mio da te perdono. Parve che nel finir di tal preghiera Scendesse sovra lei celeste raggio; Lunge ne andò la tema sua primiera, E in sè nascer sentì maschio coraggio. La natura di grazie dispensiera Cibo le ministrò pria del viaggio; La sua mensa imbandir Bacco e Vertunno Con uve, e poma del ridente Autunno. Poich' ebber le sue forze alcun ristoro, E smorzò la sua sete a un chiaro fonte Pose di nuovo sulla chioma d' oro L' elmo, ond' alleggerita avea la fronte; Ascese il corridor d' armi sonoro, E costeggiando di Giuliano il monte Si volse a destra con veloce corso A Dio chiedendo sol guida e soccorso. Vanne, o diletta al ciel fida Donzella, Vanne, e l' afflitta mente rasserena; La via, che il caso ora ti addita, è quella, Ma non è già la via, che a Laura mena. Prepara a te sorte ridente e bella Di doglie inesplicabile catena. Chi gli alti veder può senza alcun velo Disegni imperscrutabili del cielo? Intorno al monte di Giulian s' aggira, Ed altri monti a lui congiunti trova: Amenssima valle a destra mira, Che il pensier della patria in lei rinnova. Oh patria mia! dic' ella, e poi sospira, E sarà ver, che tu a desìo mi mova? Ah Padre! s' eri tu barbaro meno Sarei felice alla mia patria in seno. Dell' Arno vede il tortuoso corno, Che feconda la fertile pianura, Come tranquillo serpeggiando intorno Faccia più ricca vegetar natura. Vede a manca pendìo d' olivi adorno, Che il temperato sol nutre e matura; E gli erti monti, u' sulle ignude cime Par che l' Aquila posi il vol sublime. Giugne sull' ora, ch' è più il sol cocente, Ove di minerali è ricco il suolo, E d' acque salutifera sorgente Dell' egra umanità conforta il duolo; Prosegue innanzi; alfin trova fremente L' Arno bagnar de' monti il piede, e solo Calle angusto restar fra l' erto e l' onda, Che in minor letto più freme profonda. Emilia quivi a meditar s' arresta; Già smarrita di Laura ha la dimora: Qual mezzo a lei per rintracciarla resta? Un ne rimane, e vuol tentarlo ancora. Nella gola de' monti è una foresta, Che la luce del sol mai non colora, E angusto orrido calle ivi si vede, Che schivo fa del passeggiero il piede. Questa è la via che ad Occidente mena, Essa dicea, là porterò i miei passi; E scesa al suol di bell' ardir ripiena Gìa guidando il destrier fra i dumi e i sassi: A poco a poco in lei manca la lena, Ed a stento strascina i membri lassi; Nè scoprir puote il palpitante core Che immensa solitudine ed orrore. Notte distese avea già l' umid' ali, E gemmato di stelle il firmamento; Gravi del suo papavero i mortali Sentiano in lor sopito ogni tormento: Tacean le cure, eran sospesi i mali, Tacean l' aria, il ruscel, gli augelli, il vento; E con calzar di feltro e mantel bruno Giva il silenzio, e fea tacer, ciascuno. Nemmen rischiara la foresta oscura Il benigno di Cintia argenteo raggio: Emilia a sè far forza invan procura, Ma proseguir non può l' aspro viaggio: Mille perigli il suo pensier figura In quel loco terribile e selvaggio: Se l' aura move le frondose piante Una fera veder si crede innante. Presso la sua metà scorrea la notte, Quando smarrita nella selva orrenda Udiva sol dalle lontane grotte Gli urlanti Lupi chiamarsi a vicenda. Ecco fra l' alte piante, ed interrotte Da breve spazio sol, par che risplenda, Ma assai debile e interno un piccol lume: Si allegra Emilia e ne ringrazia il Nume. Il passo affretta, e di speranza ardente Giunge anelando al rustico abituro; Ivi d' acqua al fragor d' alto cadente Vede di musco un ricoperto muro. Mentre il destrier dissetasi al torrente, Con passo ella più lento, e mal sicuro Alla caduta di quell' acque appresso Della capanna umìl trova l' ingresso. Femminil voce con soave canto Esprimer rozze rime ivi si udia; L'interrompeva di un fanciullo il pianto, Che nelle fasce stretto alto vagia. Batte alla porta; ode sospesa alquanto La voce, indi con dolce cortesia Donna di grato aspetto ad aprir viene, Che ha un figlio al fianco, e in braccio altro ne tienc. Ma veggendo un guerrier che albergo chiede, E ingannato il desìo che la movea, Getta un grido atterrita e retrocede, Stringendo il figlio che sul braccio avea: Seco fuggir tre figli Emilia vede, Che ognun le grida risonar facea; E una fanciulla di beltà divina Seder filando al focolar vicina. Emilia a calmar lor tosto s' affretta, E discoprendo l' amoroso viso Rivolge alla smarrita giovinetta Cortesemente un placido sorriso. Salve, o buona famiglia al ciel diletta, In questo dalle genti angol diviso; Deh, non temete; a voi guerra non reco, Nè spavento e terror vengono meco. Al par di te son io debil donzella, Ma ludibrio di barbara fortuna, E seguendo il tenor d' avversa stella Smarrii la via per la foresta bruna: La tua tremante Genitrice appella Che non sovrasta a lei sventura alcuna; Dille che turba sol la sua dimora Donna smarrita, che pietade implora. Ne andò la bella: a lei fece ritorno La Madre, che ingannata esser paventa; Dell' armi il lampo che le vede intorno Sbigottisce il suo spirto e la spaventa: Pure inoltrar nel rustico soggiorno Fa lei, che qual guerrier le si presenta; Con maniere cortesi ivi l' accoglie, Seco s' asside, e la favella scioglie. O chiunque tu sii che in questi cupi Boschi ridusse la girevol sorte, Se sotto il dente di voraci Lupi Non ritrovasti ancor barbara morte Grazie rendine al Ciel; fra queste rupi Raro è che un uom di lor vittoria porte: Deh! cortese disvela almeno a noi Il tuo stato, il tuo nome, e i casi tuoi. O voi felici, Emilia allor riprese, E un profondo sospir trasse dal petto; Cui di guerra l' orribili contese Non giunsero a turbar l' umìl ricetto. A me dette la cuna il bel paese Cui d' Arno parte il tortuoso letto: Emilia son, nobil donzella Alfea, Oggi lo scherno di fortuna rea. All' illustre Ranier nata son figlia, Il riso e il fasto mi educar fanciulla, E tutto lo splendor di mia famiglia Mi circondò nella dorata culla. Sorte instabil, che a sè solo somiglia, Le gioje mie la mia grandezza annulla; E il Genitor, che un dì mi amò cotanto, Or mi condanna a inessicabil pianto. D' un giovinetto Eroe piacqui allo sguardo Di magnanimo Prence inclita prole, Che in battaglia terribile e gagliardo Esser terror d' ogni nemico suole. Amor mi trapassò col dolce dardo, Ma il Padre mio togliermi ad esso vuole, E sanguinosa spaventevol guerra I voti miei, le mie speranze atterra. Ad altro sposo egli voleami unita; Ma al fido amante mio mancar di fede? Non temendo arrischiar per lui la vita Volsi precipitosa in fuga il piede: In questi boschi mi trovai smarrita Nell' ora in cui la notte al dì succede: A un' antica nutrice, a Laura io gia: Or chi m' addita ove il suo tetto sia? Ma come quì secura esser potete O al Ciel diletta avventurosa gente? Delle fiere scampar, che intorno avete, Come vi è dato dal vorace dente? Se in tanta solitudine vivete Fruite almen felicità ridente? Alle bell' alme all' innocenza vostra Come il Cielo propizio almen si mostra? Oh, se tu brami, a lei l' altra rispose, Delle nostre vicende esser a parte, Olimpia è il nome mio; me il Cielo pose Del mondo in questa solitaria parte, Perchè in pace traendo ore nascose Agli orribili strepiti di Marte Felice io fossi: Ma speranze vane! Qual loco è ignoto alle sventure umane A queta oscurità viveva in grembo Diletta sposa di fedel consorte: Se notte distendea l' umido lembo, Se apriva l' alba le dorate porte Non venìa di discordia unquanco il nembo La nostra a disturbar beata sorte; I nostri cor la fedeltà nutria, Nè giammai l' offuscò rea gelosia. Diciotto volte sopra i miei contenti S' infiorò la ridente primavera, Ed altrettante con le nevi algenti Tornò fra i nembi la vernal bufera, Allorchè in campo a ragunar le genti La tremenda si udì tromba guerriera, Ed il figlio maggior mi fu rapito, Che il sedicesim' anuo avea compito. Noi di Castruccio sotto il dolce impero Siamo, in battaglia fier, grande in consiglio; E l' insegne dell' inclito guerriero Seguia pugnando il mio diletto figlio; Ma nell' ultimo, oh Dio! cimento fiero Dal campo uscì del sangue suo vermiglio; Di sua sventura al suon tosto tremante Andonne in traccia il Genitore amante. Gli altri tre figli a me restaro appresso, A me la cara figlia è sempre accanto Dolce sollievo a questo core oppresso, Solo conforto al mio perenne pianto; Il mio consorte a lui vicino anch' esse Chi sa che non soccomba a dolor tanto: Che d' un figlio ben può l' estrema sorte D' ottimo Padre accelerar la morte. O di Lorenzo mio nome diletto, Delle viscere mie parte più cara, Possa il Ciel conservarti al nostro affetto, Nè dare ai genitor doglia sì amara: Possa io vederti nel paterno tetto, Gli amplessi nostri dividendo a gara, A disarmar per noi con tue virtudi L' ostinato rigor degli astri crudi. Ma se da' Lupi a cui vicini siamo Saper tu vuoi come si viva illesi, Sappi che a destra le boscaglie abbiamo, Ma fertili a sinistra ampj paesi; Nè mai nelle foreste c' interniamo, O fra i dirupi orribili e scoscesi; E i Lupi guatan sol dal lor confine L' abitate capanne a noi vicine. Oh, come spesso col vorace dente Furo agl' ignari passeggier funesti! Una giovin donzella orribilmente Quivi afferrata fu da quegl' infesti. Oh, se stata vi fossi allor presente Irte le chiome sulla fronte avresti! Or due lune saran, questa boscaglia Fu teatro d' orribile battaglia. Cadeva il giorno, co' miei figli amati Io qui mi stava ad apprestar la cena; Quando in un punto sol da cento lati D' alte grida la selva ecco ripiena, E de' cani gli altissimi latrati Ci annunziaron di sangue orrida s cena: Di voce femminil s' odon le strida, Chiede soccorso ogni pastore, e grida. L' insolito tumulto, il gran fragore Sparse l' allarme per le nostre case; Ciascun balzò dal proprio tetto fuore, Lo spavento e il timor tutti ne invase: Ma del fiero spettacolo all' orrore Sbigottito ciascun tosto rimase; Gelato il saugue, il cor trepido strinse, Ed ogni volto di squallor si tinse. Vaga donzella per quell' erte rupi Da un Lupo rapidissima fuggia, Che fuor sbucato allor dagli antri cupi La bellissima Vergine inseguia. Compagno stuol d' altri affamati Lupi Da quelle grotte urlar forte s' udia; Già langue in lei la forza sua primiera, E già l' addenta la vorace fiera. Nell' orribil momento io palpitante E supplice sporgea le palme al Cielo: Chi piangea, chi fremea, chi delirante Agli occhi della man faceasi velo: Quando uno scalpitar quadrupedante S' ode, e più pronto che vibrato telo Un giovine guerrier nella foresta Di quattro cavalier giunge alla testa. Vede ei la donna che del crudo dente Già comincia a provar l' atroce morso, E qual fulmine scagliasi furente A quella sventurata a dar soccorso. Ma il fiero Lupo del destrier bollente Ora al fianco, ora al petto, ed ora al dorso Si avventa, e slancia, e rovesciare a terra Minaccia il Duce nell' orrenda guerra. Benchè nell' arte delle pugne esperto Teme il destrier gl' inaspettati assalti, E per sottrarsi a precipizio certo Avvien che a giunti piè lontano salti. Or nel pian si raggira, ed or sull' erto, Or co' piè innanzi rannicchiati ed alti Sorge, e piombando sul terren più fiero Campo lascia al ferir del cavaliero. Tre volte nella belva il prode fisse La lunga e noderosa asta ferrata, Ed altrettante a danno suo rivisse La non ancor del Lupo ira domata: Un quarto colpo alfin sul suol confisse La moribonda salma insanguinata. Di evviva intorno risonò la selva Allo spirar della feroce belva. Balza l' Eroe d' un salto lieve al suolo A richiamar la bella donna in vita; Soavemente ne rattempra il duolo Con dolci detti, e a farsi cor l' aita. I suoi seguaci ivi raccolti a stuolo Che mirar della belva inferocita Gli orrendi sforzi, e accompagnar col ciglio La prodezza del duce ed il periglio, Viva il Principe Enrico! ad alta voce Gridar concordi e nuda alzar la spada: Quindi col corso rapido e veloce Preser di Lucca la più corta strada. D' allor meno de' Lupi il morso nuoce A chi sol per la selva avvien che vada, E di tal colpo memorabil sono La tua salvezza e la tua vita dono. Enrico, ah che dicesti! Enrico mio! Emilia disse, e di rossor si accese; Poi di pianto amoroso un dolce rio Le rosee gote ad irrorar discese. Dunque, o mio ben, sempre trovar degg' io Nuov' esca a quell' ardor, che tua mi rese? Accendermi di più non puote amore, Che non cape il mio sen foco maggiore. Tu il mio ben, la mia pace, il mio riposo, Enrico, sol per questo cor sei tutto. Corremo alfine, o sospirato sposo, Della nostra costanza il dolce frutto: E tu, donna, che il cor nutri pietoso, Giacchè quivi il mio passo ha il ciel condutto, Di gire a Laura addita a me la via Ove crede il mio ben che ascosa io sia. Sul cammin che da Pisa a Lucca mena Prima che al monte di Giulian s' arrive, Ivi, dicea Camilla, in valle amena Tranquilli dì la buona Laura vive. Olimpia allor: con la frugal mia cena Fa che l' usata forza in te s' avvive; Placida dormi; acqueta i mesti lai, Ed all' alba novella a Laura andrai. Impallidita in cielo era ogni stella, E sorta l' alba che le rose inaura; La rugiadosa erbetta era più bella Al fresco ventilar di mobil aura: Quando Olimpia destò l' alma donzella Che volea rintracciar la fida Laura: Levossi Emilia; la ferrata vesta Si cinse, e del cimier gravò la testa. Dissele Olimpia; alla città s' invia Recando il burro ed il filato lino Giulia, l' amica tua, la figlia mia; Comune ad essa avrai lungo cammino; E allor che in due si partirà la via Saravvi il monte di Giulian vicino, E agevole ti fia trovare il tetto Ove la pia nutrice ha il suo ricetto. Emilia l' abbracciò; di pianto un rio Scese a inondarle l' amorosa faccia, E mentre proferiva un fioco addio Stretta al sen la tenea fra le sue braccia: Staccossi Olimpia alfin, pregando Iddio Che all' errante suo piè desse la traccia; E Emilia, come più potè, cortese Del ben, che fece a lei, grazie le rese. La capanna lasciaronsi alle spalle Scorrendo in mezzo ai verdeggianti olivi Sinchè furon discese in ampia valle Irrigata da spessi e chiari rivi. Prendono a manca tortuoso calle, Cui selva antica asconde ai raggi estivi, Spesso dagli alti colli il fertil piano Scoprono, e lago amplissimo in lontano. Vedi, Giulia dicea, vedi quell' onda? E quella torre che là sorge altera? Là di Tepasio è la famosa sponda Teatro di battaglia orrenda e fiera; Nel fecondo terren che la circonda Castruccio riportò vittoria intiera; Mirando il lago e il vasto suolo aprice Sospirò Emilia, e rammentossi Enrico. Verso occidente il corso avean diretto Ove a manca il pendìo sorgea del monte; Ed a formar tranquillo ruscelletto Dal sasso scaturia vivido fonte. Sul ferace terreno a lor soggetto Le villanelle con serena fronte Pasceano il gregge, e il rustico bifolco L' erbose glebe riduceva in solco. Arrestò quivi Emilia il buon destriero,(a) Questa stanza, e le due seguenti non erano nel manoscritto mandato all' Accademia Napoleone per il concorso del dì 3 Gennajo 1811. E la sete smorzò nell' acqua chiara; Indi proruppe: oh come al mio duol fiero, Come al mio cor questa campagna è cara! Qui sorgerà, nè questo invano io spero, Che non sempre coll' uom sei, o sorte avara, Tal che far possa nell' età future La ricordanza delle mie sventure. Non io ti chieggo del cantor d' Achille Che illustre emulator tu mi conceda; Chi nutrì di valor sacre scintille Premio di sue fatiche al Ciel lo chieda: Che Emilia sol fra mille donne e mille D' obblio non resti inonorata preda; E se pietosa il nome mio rammenta Donna che a me somigli, io son contenta Ben dicesti, o Donzella; è questo il loco Ove l' istoria tua Dorilla scrive; Ma se per te suo rozzo canto è poco, Pensa che l' amor tuo narra e descrive: Quivi per te d' un nume il sacro foco L'accende spesso, e queste stesse rive, Questo rezzo, quest' onda, e questi fiori Le insegnano a cantar d' armi e di amori.(b) Luogo di villeggiatura dell' Autrice dove fu scritta la maggior parte del presente Poema. Scorsero innante iufin là dove in due Vicino a un ponte la lor via si parte: Pontetetto quest' è; famoso fue Già teatro agli strepiti di Marte. Fermossi Giulia allor, che l' orme sue Eran dirette dall' opposta parte D' onde Emilia sue brame aveva fisse, Arrestar fece l' altra, e così disse. Non vedi tu quella piacevol via Che in ampia valle si distende e gira? Trascorrerla tu devi; al fianco pria Avrai le sponde che il tuo sguardo mira: Presso indi il monte di Giulian ti fia; E il caro albergo che il tuo cor desira E in florida pianura situato Del monte stesso dall' opposto lato. Un caldo amplesso, un doppio bacio ardente Le verginelle amabili divise: Spronando Emilia il corridor fremente Tosto in cammin ver mezzodì si mise. Or mirava quei piani attentamente, Sulle case or tenea le luci fise; Quando un superbo tetto a destra scopre, Che mostra in sè d' arte maestra l' opre. Questo un palagio è del Signor Lucchese Ov' ei talvolta soggiornar solea Quando scevro da belliche contese Aure di pace respirar godea: Emilia il corridor quivi sospese, Nè chi lo possedesse ella sapea; Ma gli archi, e gli atrj ad ammirar si pose Mirabili per lei novelle cose. Quando di velocissimi destrieri Da lunge ode il frequente calpestio; E sei terribilissimi guerrieri Che le venìano a fronte indi scoprio: Era alla testa lor l' iniquo Geri Di barbaro signor ministro rio: Del Padre suo conobbe Emilia i servi, E a fuggir si affrettò da quei protervi. Dell' ignoto palagio il gran cortile Scampo le offerse nel fatal momento; E senza osservar lei la turba ostile Proseguì il corso suo ratta qual vento. Vecchio d' aspetto affabile e gentile Di curve spalle e di canuto mento Ivi sedea: pietà gli accese il petto, E offersele un asil nel proprio tetto. Or mentre quivi il buon custode antico Fa la donna inoltrar nelle sue soglie, E in dolce aspetto, e con sorriso amico L' accoglie anch' essa la sua fida moglie; Altrove il magno Genitor d' Enrico Che di gloria e d' onor nutre le voglie, Tutta la pompa e la grandezza spiega, E ad eternar le gesta sue l' impiega. Era quella stagione in cui buffando Il vento scuote agli alberi le chiome; Ed era il dì per Lucca memorando, In cui del gran Martin festeggia il nome; Allorchè di trofei carco tornando Ricco di spoglie delle genti dome Castruccio coronar volle a sua gloria Con superbo trionfo ogni vittoria. Tutta adornata era la sua cittade Di mortelle odorifere e d' allori; Di ghirlande fregiate eran le strade Con bizzarri e magnifici lavori: In bianche vesti l' infantile etade Spargeva all' aura un nuvolo di fiori, E mettean lampi in quelle parti e in queste Le ricche stoffe di molt' or conteste. Suon precedea di musici strumenti, Scioglier quindi s' udian voci canore: Cinti d' olivo fanciulli innocenti Lieti andavano incontro al vincitore: Seguiano astati i giovinetti ardenti, Ch' anco in trilustre età senton valore; E i grandi, e i dotti si vedeano tutti Quivi in lunghissim' ordine ridutti. In folla fuor della città festante Il popolo foltissimo accorrea; Chi sull' erto salìa, chi sulle piante, E l' aer coperto d' uomini parea. A rimirar Castruccio trionfante Ogni straniero anco venir potea: Di ammirarlo in quel dì chiese il nemico, E mostrossi Castruccio a tutti amico. Quando l' aurora il rugiadoso velo Scosse su i fiori e sfolgorò vezzosa, E di rancio color dipinse il cielo L' inanellato crin cinta di rosa, Che estinto il suo fulgor la Dea di Delo Nascondeasi crucciata e vergognosa, E natura parea piegar la fronte Al Sol, dell'aurea luce eterno fonte. Il gran corteggio da Tepasio lento Mosse di Lucca a ricalcar la via. Col capo ignudo al sen piegando il mento Gli oscuri prigionier veniano in pria: Col Toscano pastor venia l' armento, Il buon cavallo il suo signor seguia, E i Lucchesi guerrier stavano ai lati Con gli elmetti d' alloro inghirlandati. Disposti quindi in ordine di guerra Seguian di Lucca i cavalieri audaci: L' elmo cingean d' allor; la patria terra Battean frementi i corridor pugnaci. Ciascun di lor ferrata lancia afferra Del magno Condottier prodi seguaci; E fra lor si vedean quai prigionieri I più illustri Toscani, e i cavalieri. Del Duce, il Duce i lacci ivi sostiene, Il guerriero, il guerriero inerme guida; E l' Eroe d' alto Eroe fra le catene, A cui cesse in pugnar l' arme omicida. De'superbi destrier lo stuol poi viene, De' quai non i più belli Arabia annida; Consci essi che già un prode ebber sul dorso, Biancheggiar fan di spuma il duro morso. Seguiva poi sopra di un carro posta, Che gran bufali, e buoi traggono a stento La grave squilla al di cui suon l' opposta Armata sfida l' altra al gran cimento: Sul carro istesso è l' alta insegna esposta Che spiegò già nemica pompa al vento; Ed or l' altera cima al suol rivolta È tra la polve strascinata e involta. Già sovra abete altissimo solea Mostrarsi in campo, e fra i guerrieri ludi Lampi di morte orribili piovea Da lioni, da gigli, aquile, e scudi; Che in sè tutti i vessilli raccogliea De'Guelfi addotti ne' perigli crudi, Ed a fregiar sua rilucente ampiezza Era l' arte profusa e la ricchezza. Seguiva poscia in ricche vesti il fiore Della superba nobiltà Toscana, Ed i guerrier, di cui fatto il valore Avea di tanti eroi l' audacia vana. De' cavalier Tedeschi il reggitore Venia deposta la baldanza insana, Di statura terribile gigante Col rossor d' esser vinto sul sembiante. Il figliuol di Raimondo, il pro Guarniero Scherno in giovine età d' avversa sorte Uguale è al genitor qual prigioniero, Se quasi ugual lo fea suo braccio forte; Or portato da piccolo destriero Piega le luci al suol languide e smorte: E volgendole intorno in mesto giro Dal sen manda amarissimo sospiro. Cinto da quattro Duci in duol profondo Sovra negro corsier d' ogni arme privo Segue il terribilissimo Raimondo All' odio solo e alla vendetta vivo; Tutto del fato suo risente il pondo Del suo competitor reso cattivo; Ed in convulso fremito di rabbia Le man si morde e le schiumanti labbia. Così di Mario incatenato al carro Roma già vide l' Affrican Giugurta; Che gode sbaldanzir fato bizzarro Chi con le leggi sue sdegnasi ed urta. Non di Raimondo io la ferocia narro Dal fier Numida in lui quasi risurta; Tigre avvinta il furor così mantiene, Così rugge Leon fra le catene. Scomposta avea la barba, irti i capelli, Lo sguardo fisso immobilmente al suolo; Prova d' immensa angoscia aspri martelli Che in alme grandi è più cocente il duol o. Fin dagl' Ispani lor gelidi avelli L' ombre degli avi suoi sbucate a stuolo, Nel vederlo cattivo, e in tanto scorno Malediro ululando il tristo giorno. L' Aquila Imperial quindi venia Domatrice d' eserciti e di genti, Da Cesar data per insegna in pria Che i secoli salutan riverenti. Quindi il serpente in alto si scopria, Che al soffio diguizzar parea de' venti: Alto vibrar triplice lingua il vedi, E fischiar l' odi, se allo sguardo credi. Di Verona il terribile alleato Quivi pur suoì stendardi avea ridutti; E il forte Mantovan, che seco armato I Guelfi assalitor mirò distrutti. D' altri vessilli il primo è circondato D'oro e di gemme sfolgoranti tutti, E salutavan l' inclite bandiere Le a migliaja d'intorno accolte schier e. Sovra altissimo cocchio il magno Duce Trae di destrieri candida quadriga, Cui lentamente nel cammin conduce D' Automedonte emulator l' auriga: Lampo ha nel guardo di serena luce, Che innalza la virtù, che il reo gastiga; Di bisso egli è vestito, e ricco d'oro, E cinge al crin l' inviolato alloro. La grave maestà d' alto regnante Sul magnanimo suo volto si mira; Ed in mezzo a' trionfi e a glorie tante Placidamente il guardo intorno gira: Ne' suoi guerrier, nel popolo festante La sua virtù, la sua grandezza spira. O per lui mortal forma un nume prende, O gran parte d' un name in lui discende. Tito a Roma così ritorno feo Poichè adeguò Gerusalemme a terra, E disperdè sul mondo il seme Ebreo Irresistibil fulmine di guerra, Seco immenso traendo aureo trofeo Che quanto ebbe di sacro isdrael serra; E ogni ricchezza al divin Tempio tolta, E di Dio la gran Legge in pietra scolta. Seguono il carro i suoi tre figli equestri Tenendo in alto la visiera bruna; Nudi hanno i brandi nel pugnar maestri Sacri a vittrice militar fortuna: I Tribuni appo lor vengon pedestri; Stuol d' illustri guerrier quindi s' aduna: Seguon gli ambasciatori, e i lor campioni, Macchine, armi, cavalli, e padiglioni. Della cittade atteso era alle mura Da festevole stuol di verginelle, Che fatte avea bellissime natura, Ma rendean bianche vesti ancor più belle; Stavano a guardia lor, d' età matura Savie matrone a custodir in elle Quel pudor santo, e quel costume austerò, Ch'è del sesso gentile onor primiero. Con pontificie vesti, e preziosa Mitra scabra di gemme e ricca d' oro, Stava con pompa grave e maestosa Il Vescovo in suo sacro alto decoro: Seco all' entrar della città festosa Era di Sacerdoti augusto coro, In alto ergendo a mille faci misto Il vessillo santissimo di Cristo. Poichè entrò nelle porte il trionfante Divotamente ivi baciò la Croce; E il Vescovo col Clero andonne innante Sciogliendo ai sacri cantici la voce. Della religion le voci sante Rendean mite ogni petto il più feroce: Torchio ardente che in man teneano i vinti Da' vincitor rendevali distinti. Nella città fe' lungo giro il grande Per l' ampia e ancor più popolata via; E in mille bocche da diverse bande Il suo gran nome risonar s' udia. Maestade all'insegne venerande Dava la cerimonia augusta e pia, E a' balconi affollavasi e alle strade Ogni grado, ogni sesso, ed ogni etade. Nel Tempio alfine il gran corteggio accolto Castruccio a terra le ginocchia piega; E prostratosi appiè del Santo Volto, Dio, per cui vinse, alto ringrazia e prega. L' angusto Tempio ad arricchir rivolto Dell' opimo bottin gran parte impiega, Onde adornar gl' illustri monumenti Di preziosi arredi e vestimenti. Scudi ncmici, usberghi, e scimitarre Furon da varj duci ivi sospese. All' Augusta ei n' andò: chi fia che narre Di quai plausi eccheggiar Lucca s' intese? Si spezzar delle carceri le sbarre, Mendicità le lacrime sospese; Nè fuvvi un solo in si viva allegrezza Che non fruisse della sua grandezza. Quindi i Duci adunò lauto banchetto Del Lucense Sovrano entro le soglie: Ciò che puote il gioir render perfetto Tutto alla mensa sua Castruccio accoglie: Aleggia intorno il candido diletto, E agli scherzi, ed al riso il fren si scioglie, Mentre incalzano il dì sorgendo crebre Le notturne foltissime tenebre. Smaltate intorno son l' ampie pareti Di spesse gemme a mille faci miste; Nè in Mussulmana Reggia in riva al Beti Tante giammai folgoreggiar fur viste, Nè il pingue Egitto ne' suoi dì più lieti, Che di biondo tesor gravi ha l' ariste, De' Califi ammirò dentro la Reggia Tanto fulgor, quant' auro qui fiammeggia. L'abbagliante splendor rompean talvolta Della porpora Tiria i gran festoni; Pinti bizzarramente entro la volta Eran duci, cavalli, armi, e tenzoni: Della patria la storia ivi raccolta Era, e le gesta de' più gran campioni; E in varj gruppi si vedeano espresse Quante glorie vantar Lucca potesse. Vedeasi là fender la terra dura Da Lucumone il curvo aratro spinto; Merlate dietro a lui sorger le mura Che feano alla città saldo recinto. Schiera altrove imperterrita e secura Di Cenina, e d'Antemna il popol vinto Traeva in ceppi, e si vedea da forte Di Romolo ai trionfi esser consorte. Seggono in altra parte in cerchio fiero I superbi Triumviri di Roma, Che del mondo dividonsi l' impero, E ne raddoppian la divisa soma. Quà Narsete indomabile guerriero Freme, e strappa gli allori alla sua chioma; Sorge di Lucca e lo minaccia irato Dall' alte torri l' inconcusso fato. Là il magno Carlo su destrier feroce Scorrer l'eccelse sue mera si vede; La mano stende, e udir parti la voce, Che pace a Lucca e libertà concede. Stassi altrove innalzando in man la Croce La pia Matilda a Bonifazio erede, Che sostegno di Piero ai successori Vien la patria a colmar de' suoi tesori. Chiudea la volta azzurreggiante il cielo, E un serpe radìante ivi apparia: Ne temprava il fulgor ceruleo velo, Ma il suo vivo splendor vi trasparia. L' augel ministro al Dio che regge il telo Con ghirlanda d' alloro a lui venia, Che mortal possa a lui rapir non basta, Ed un motto dicea — Chi mel contrasta? — Cinquanta Duci ivi sedeano a mensa, E cinquanta Toscani aveano ai lati, Ch' ivi di valor tanto in ricompensa Il magnanimo Eroe volle adunati. Qui Castruccio largisce e qui dispensa Ne' ricchi sculti d' or vasi gemmati I prelibati cibi e peregrini, L in auree tazze i profumati vini. Sol fra i Toscani prigionier, che volle Castruccio accolti alla sua mensa intorno, Non v'è Raimondo; ebro di sdegno e folle Duro foragli stato un tal soggiorno: In petto al vinto per lung'ora bolle L'amaro sovvenir del proprio scorno, E Castruccio ostentar in faccia a lui Non vuole il fasto de' trionfi sui. Eburneo seggio, ed elevato alquanto Era sostegno al vincitor Lucchese; Sedeagli il prode Galeazzo accanto Compagno seco all' onorate imprese; Castruccio in tanta gloria e splendor tanto È ugualmente a ciascun dolce e cortese, E a mensa parer vuol qual fra le squadre Compagno a tutti, a tutti amico e padre. Jopa novel dalla crinita fronte Fa le corde oscillar di dotta lira; E alle rime, che al suono accorda pronte, L'auretta molle nel passar sospira. Come scorre sul suol perenne fonte, Che tranquillo e lucente il corso gira, Così scorrean da' dolci labbri suoi Gli eccelsi carmi ad eternar gli Eroi. Sovra quattro gradini aurata sede Sorge dell' ampia sala al manco lato: Ivi Emerico in bianche vesti siede Di dittamo e di mirti inghirlandato. Alla mensa così di Licomede Achille in gonna femminil celato, Forse alternò, dolcissimo cantore Inni sacri a virtù, sacri ad amore. Che veggio? egli cantò: qual si offre nuovo Immensurabil campo al guardo mio? Già più me in me medesmo io non ritrovo; Ove da santo ardor ratto son'io? Più di lingua mortal detti non movo, Che in me discende, e me gl' ispira un Dio. Vieni, o sacro furor, t' apro il mio petto, Se un mortal può d' un nume esser ricetto. Augusta donna, o chi se' tu che appello, Cui luce fulgidissima circonda? Venti secoli al piè ti fan sgabello, E ti tributa il Serchio augusto l' onda: Ve chi nasce da te! chi mai fia quello, Che rompe la caligine profonda, E basta ei sol fermando agli anni il moto De' tempi a riempir l' immenso vuoto! Io lo veggo, io lo veggo: ecco il possente, Che gigante si fa nella sua possa: Lo saluta la terra riverente, E al tocco del suo piè geme commossa. Così del Dio che ha il fulmine rovente Trema l'Olimpo alla potente scossa, Quando l' alta crollando ambrosia testa Fra i Numi incede, e il terzo ciel calpesta. Che veggio mai? Chi la beltà divina Tutta cangiò del venerando aspetto? O di rivali donne un dì regina, Hai scisso il manto e lacerato il petto! Ma tanto sempre nella tua ruina Di riverenza ispiri e di rispetto, Che alle nemiche tue cieche e proterve Fai rammentar che furo a te già serve. Ma non temer; dall' Istro ecco ue viene Chi de'Cesari in fronte ha la corona. Egli toglie il tuo piede alle catene, E il quarto Carlo a libertà ti dona. Pur suonan per le vie d' armi ripiene Gli oricalchi di Marte e di Bellona; E benchè donna di te stessa appieno Tranquillità non ti discende in seno. Paolo già sorge, e a te sua madre impera, Ma rovesciato è dal mal fermo soglio. Guerra ti accende ognor più atroce e fiera Delle rivali tue l'irato orgoglio. Ma che vegg' io! sorgi, deh sorgi, e spera; Ecco giunta la fin del tuo cordoglio. Pace t'irradia col suo dolce lume, Nè più scorre sanguigno il patrio fiume. Te a regnar lunga età destina il fato D'invidia oggetto al circostante mondo; Di Lucca il nome allor fia celebrato Per l'arti belle e pel saver profondo: Sinchè lacero il manto, e il sen squarciato Di discordie in un secolo fecondo Mostri Italia, bersaglio a guerra orrenda, E le supplici palme al cielo stenda. Allor sarà che d' oltre l' alpi un Prode Emulator del punico Anniballe, Verrà maggior d' ogni terrena lode Sgombrando ai passi suoi di gloria il calle: Del Po si udranno risonar le prode, Rimbomberanne ogni remota valle; E al suon vedrassi de' suoi fatti egregi Il serto tributar folla di Regi. Ciò che allor fia non so; la sua grandezza Un abisso di luce a me nasconde: Pure a tal giungerà punto d' altezza Da dominar di quattro mari l' onde. A magnanime e illustri opere avvezza Donna a bear verrà l' Esaree sponde: Suora a lui che al rettore egual del telo Per regno ha il mondo, e per confine il cielo. Chi misurar la tua grandezza allora Puote, o del Serchio altissima Reina? Il Sol per te sorto dall' onde fuora Immobile starà sulla marina: Vedran tue glorie rinascenti ognora E l' Europa remota e la vicina. Un Nume, un Nume che t' innalza io veggo, Ma all' abbagliante lume suo non reggo: Tacque il cantor: sull'infiammato volto Il placido tornò color natio: E uscì fra i spessi ancliti disciolto Dall'ispirato petto il caldo Iddio. Cortesemente agli altri Eroi rivolto Gli accommiatò Castruccio e se ne gio Nelle sue stanze fra 'l notturno orrore Del riposo a gustar tranquille l'ore.

Fine del Canto quarto.



D'Ombrone è la Città dai Fiorentini Con trama perfidissima sorpresa; Ma Castruccio, che veglia ai suoi destini, A punir vien la temeraria impresa. Notturna aspra tenzon. Dai Ghibellini Che l' Eroe guida alfin Pistoja è presa. Mentre ei si trova in tai cimenti fieri Solleva Pisa il perfido Ranieri. O diletta al mio cor Tosca Cittade, Al di cui piede Ombron tributa l' onda; Caro a Minerva è il nome tuo, nè cade La sacra, onde ti cingi, augusta fronda: Vede, e n' esulta ogni novella etade Raddoppiato il fulgor che ti circonda: Piovon sempre da te bellezze nuove, Come eterna dal sol la luce piove. Reggea Pistoja con la giusta mente Genero di Castruccio il pro Tedici; Quei che vera virtù nell' alma sente, Quei che scerne da' falsi i veri amici, Non egli ostenta baldanzosamente In favor della patria i proprj uffici: Ma pago è sol, che d' ogni suo de sio Sia guida la virtù, giudice Iddio. Non ci nell' opre sue consiglio prende Dal basso susurrar del volgo iguaro, Alta virtude ad ascoltar non scende D' insana plebe il rampognare amaro. L' util verace ei della Patria intende, Questo al suo cor, non vano applauso, è caro; E maggior d' ogni biasmo, e d' ogni lode Nel far felici altrui soltanto ei gode. Conobbe sue virtù Castruccio, e sposo Lo scelse per la sua più cara figlia, Che nel sembiante angelico e vezzoso A fulgid' alba di mattin somiglia: Tedici in sì bel nodo avventuroso Con la consorte amabil si consiglia, Ed ogni bocca, ed ogni core esalta La saggia, la bellissima Dialta. Implorò di Castruccio egli l' aita Allorche inopportuna esser parea, Perchè de' suoi trionfi ei l' infinita Storia ne' libri del destin leggea. Che fatto avresti allor, cirtà smarrita, Se di Lucca l' Eroe non ti reggea, Che il Guelfo ebro d' orgoglio, e d' ira pieno Il ferro e il foco ti portò nel seno? Disciolto appena il Fiorentin consiglio D' ira avvampante il barbaro Renato Ne andò da quei che di Roberto il figlio Suo Vicario in Fiorenza avea lasciato: E a lui così parlò: tutto è in periglio: Ma cangiar si potria l' ordin del fato; Che fin che nostra vigilanza è desta Molta gloria a sperare ancor ne resta Or mentre il vincitor le nostre valli Fa risonar di giostre e di tornei, Andiamo al suon de' bellici metalli Il corso ad arrestar de' suoi trofei: I tuoi focosi Iberici cavalli Arma e vieni ad unirti ai prodi miei; Rispingiam debellato alla sua sede Chi già domi al suo piè servi ci crede. Tacque con basso mormorar feroce, Che di rabbia in un fremito fino. L' altro sclamò. Castruccio, ahi troppo nuoce, Quanto l' abborri tu l' abborro anch' io: Ma di prudenza mi trattien la voce, E lasciarlo partire è il parer mio, Che girgli incontro or che su' lauri posa Stolta impresa sarebbe e perigliosa. Se un mio fedel testè recommi il vero, È già Castruccio al dipartirsi accinto. Raimondo in ceppi illustre prigioniero Ei tragge al carro trionfale avvinto. Vada il superbo in sua vittoria altero Dal plauso vil di compra turba cinto, E frattanto da noi si addensi il nembo, Che di fulmini grave ha il fosco grembo. Da che cozzò nell' ultima contesa Con l' esercito Guelfo il Ghibellino, Sprovveduta Pistoja è di difesa, Per piombar sopra lei sgombro è il cammino. A sorprenderla audiam; fia tosto presa, E ricchi ci farà d' ampio bottino: Indi se arride a noi fausta la sorte Sforzar di Lucca anco potrem le porte. Tacque; plaudì Renato, e ad ambo intanto Barbara gioja sfavillò sul volto, E ad eseguir diseguo accorto tanto È ognun sue genti ad approntar rivolto. Ciascun di loro ha di crudele il vanto, Hanno ambo in faccia il tradimento scolto: Ma assai più di Renato iniquo è l' altro Pronto sempre a tradir, mendace, e scaltro. Filippo è il nome suo; tragge i natali Da Sanguineto, onde tuttor s' appella. Furo i raggiri suoi sempre fatali Alla virtù quanto più schietta e bella; Seco mai non spiegò vittoria l' ali Se d' empietà non fu macchiata anch' ella; E perchè un nume hanno gl' iniqui ancora, Ei sol per nume il tradimento adora. Volge Renato frettoloso il piede A industre fabro a compir fraudi tante, E novella armatura a lui richiede, Che sia Castruccio a contraffar bastante. Già sullo scudo fulgido si vede Il dorato raggiar serpe guizzante; E il fa simil del Serchio al gran guerriero Il torreggiante altissimo cimicro. Armar gli sgherri lor, lasciar Fiorcuza Di pochi dì fu la sollecit' opra, Mentre la gloria sua, la sua clemenza Castruccio in Lucca a palesar s' adopra; Fra l' insultante militar licenza Alla Città d' Ombron piombaron sopra, E versarono in sen della meschina Il saccheggio, la morte, e la rovina. Strappano i figli dal materno petto, Inseguono le vergini pudiche; Asilo il Cittadin nel proprio tetto Non ha contro le rie turbe nemiche. Chi ne i templi a cercar corre un ricetto, Chi in fuga va per le campagne apriche; Ma il barbaro aggressor, che non si arresta, Con sacrilego piè tutto calpesta. Dialta allora in dilettosa villa Era d' Ombron sulle colline amene, Notturno il Guelfo vi spedì, e rapilla, E a Pistoja la trasse infra catene: Là nel più forte loco custodilla, E occultamente chiusa ivi la tiene; Riserbarla a maggior uopo pretende, Che disarmar così Castruccio intende. La squadra a guardia di Pistoja eletta Disperata fermezza in opra pose; Alfin le mura a abbandonar costretta Bellaspera a difender si dispose: Ivi una rocca è da Castruccio eretta Donde Pistoja, e immense valli erbose Scopronsi, e di là tosto il buon Tedici Spedì a Castruccio un de' suoi fidi amici. Fulvo Lion che alteramente siede Nell' ire sue sull' Affricana sabbia, Se il nemico appressarsi armato vede Sorge eccitando in sè l' innata rabbia; Squassa la chioma, che gli scende al piede, Di lordar vago l' assetate labbia, Spalancando le canne a lui s' avventa Nè l' asta, i dardi, o il corridor paventa. Così di Lucca il Condottier possente Col vincitore esercito temuto Sovra i Guelfi piombò terribilmente, Cinse Pistoja, e lor privò d' ajuto: Da quel lato accampossi in ver ponente Ove l' acque d'Ombron le dan tributo, Tutta occupando di Pistoja a fronte La destra sponda ed il vicino ponte. Lanfranco sol lunge è dal campo; il figlio Di Pisa ei trasse entro le patrie mura Per goder pochi dì senza periglio Le dolcezze d' amore e di natura. Malaugurato inver folle consiglio! Da un nemico crudel chi t' assecura? Mentre scinger tranquillo il brando credi, Misero te, l' insidie altrui non vedi. Sol di Castruccio al paventato nome A più d' un Guelfo impallidi la faccia, Membrar Raimondo e le sue forze dome, E tremarono al suon della minaccia. Le madri, che avean pria sciolte le chiome, E stringevano i figli infra le braccia, Veggendo ora qual sorte il ciel prepari Ne andar men triste ad abbracciar gli altari. Era sorta nel ciel la terza sera, Nè ancor tinte di sangue eran le spade; Scorsa gran parte avea della carriera Notte, e giacean le squadre in securtade: Quando scoppiò la Guelfa fraude nera, E d' Austro e Borea dalle opposte strade Sul campo Ghibellino in un momento Piombò da cento parti il tradimento. Trucidate le guardie, e in ogni parte E il foco appeso alle Lucchesi tende. In piede balza il Ghibellino Marte, Cinge in fretta le forti armi tremende; E poi che vano è qui l' uso dell' arte Chiama i guerrieri suoi, gli animi accende, E a disperata orribile battaglia Fra 'l bujo, e fra l' orror tosto si scaglia. Là Sanguineto nella pugna atroce Di cinquanta de' suoi scorre alla testa; Sbaraglia, uccide, e col corsier feroce I mal vivi guerrier frange e calpesta: Minaccia, insulta con orribil voce Rapido come fulmine o tempesta; Vincitor sempre è in singolar tenzone, Quando Giovanni al corso suo s' oppone. Non ha cavallo il giovinetto forte, Ma il sol suo braccio è a trionfar bastante, La lunga lancia ad arrecar la morte Nel petto avventa al corridor fumante: Ei cade e tragge nell' estrema sorte Avviluppato il suo signor tremante, Cui di Giovanni sol bastò l' aspetto Il sangue tutto ad agghiacciar nel petto. A soccorrerlo tosto i fidi amici Correr voleano allor ch' egli cadeo; Ma impedito lor fu, che il pro Tedici Gli assalse a tergo e ripiegar li feo. Giovanni sul più vil de' suoi nemici Onta sentìa di riportar trofeo; Che con voce interrotta, e in umil suono Chiedeva al vincitor la vita in dono. Là delle sparse fiaccole al barlume Contemplava Giovanni il vil soldato; E che, dicea, da te che si presume? Forse viver tu merti, o scellerato? Pur magnanimo sempre è per costume Chi di Castruccio dalla stirpe è nato; E maggiore di te troppo son' io Per lordar nel tuo saugue il brando mio. Cedimi i ferro e sorgi; e sì dicendo Gli stendeva la mano il vincitore. Furtivo intanto il rio pugnal brandendo Nella coscia il trafisse il traditore. Gettò un grido Giovanni, e col tremendo Acciar tre volte trapassogli il core: L' erba egli morse del suo sangue rossa, E ruggì l' alma nell' estrema scossa. Castruccio intanto dell' Ombron la sponda Coprì di morti nell' orrenda guerra; Turba di Guelfi rovesciò nell' onda, Che andò sanguigna a flagellar la terra. Galeazzo i suoi colpi anch' ei seconda; Deì ponte Enrico intanto il varco serra; Che mentre una falange a lui contrasta, Solo ei si oppone a una falange, e basta. Sul ponte Enrico a mille Guelfi e mille Sempre oppone il fortissimo brocchiero: Il ripe cosso acciar manda faville, E la morte par ligia al gran guerriero. Vibra il guardo vivissime scintille, Che intorno gira dardeggiante e fiero: Ma sempre saldo il piè fermo mantenne, E l' unto assalitor tutto sostenne. Castruccio, onde al figliuol recare scampo, In sua difesa Galeazzo manda, Ed ode intanto nel Lucchese campo A ritratta sonar dall' altra banda. Volgesi e vede d' atre faci al lampo Che altro Duce l' esercito comanda, Che d' armi a lui simìli è rivestito, E ingannando da' suoi viene obbedito. Renato egli è; le Pistojesi mura Assai lasciò dopo la guelfa armata Ricopertosi il sen dell' armatura, Che a Castruccio simìl s' era apprestata. L' Esarea gente fra la notte oscura Castruccio il crede, e lui segue ingannata. Marca un istante al fatal corpo, e poi Caggion di Lucca i più valenti Eroi. Il magno Ettor quanto fremette e come Quando appressarsi un finto Achille vide, Che sol con l' armi e col temuto nome Preda i Teucri facea d' armi omicide! Pria che ne fosser le sue genti dome Corse furente a discoprir Pelide, E presto sì che il fulmin ratto è meno La lancia al mentitor confisse in seno. Così Castruccio ripiegò il cavallo Precipitoso il traditor mirando, E scorrendo qual fulmine pel vallo Le Guelfe squadre sbaragliò passando: E senza ai colpi suoi porre intervallo Fino all' elsa nel sen gl' immerse il brando. Via gittò l' elmo, e a rendersi palese, “ Son io Castruccio ” alto gridar s' intese. Qual lingua mai fia che narrar si attente Del suo valor le insusitate prove? Scagliato in mezzo alla Toscana gente Lampi di morte in ogni parte piove. Di Vulcano il martel meno frequente Si abbassa sopra i fulmini di Giove Di quel che piomba in quella parte e in questa De' suoi gran colpi la mortal tempesta. Guelfa squadra dagli alti baluardi Mirando stava l' inclito guerriero, Che atterrando i più forti e i più gagliardi Sgombrava ai passi suoi largo sentiero; E d' ira ardenti a maneggiar non tardi Le belligere macchine si diero; E già la catapulta alto-slanciante Di piombo drizza a lui palla pesante. All' insolito peso oppressa geme L' aria e fischiar si sente al suo passaggio, E nel fianco al destrier che sbuffa e freme Rapida a terminar va il suo viaggio. Cade il destrier, ma al suo cader non teme Di Castruccio l' indomito coraggio; Che in piè balza e rotando il brando in cerchio Fa al capo ignudo del brocchier coverchio. Duopo non era che l' inganno a torre Egli spogliasse del cinnier la fronte; Più che bastante è ogni dubbiezza a sciorre Il braccio suo di tante armate a fronte. Or come salda ed inconcussa torre, Or qual fiume che al pian balza dal monte, Resiste a mille, e sovra mille poi Precipita e spesseggia i colpi suoi. O tu che al suon della Romulea tromba Attila primo impallidir vedesti, E più pronta fugar che strale, o fromba Sue torme innumerabili potesti, Ergi la testa dalla fredda tomba L' emulo tuo, ma più felice, è questi; Che non vassallo di Monarca ingrato È dall' amor del popol suo premiato. Fuggono i Guelfi, e affollansi fuggendo Al ponte che serrate han l' altre strade: Ma là di Galeazzo e del tremendo Enrico trovan l' affilate spade. Come alla falce del villan cedendo Caggion sul campo le mature biade, Così cadea nel proprio sangue rossa La domata d' Etruria orribil possa. Valerian, Giovanni, e il fier Tedici Stringono i Guelfi da diversa parte: Ma nel cuor della pugna infra i nemici A tutti è norma il Lucumonio Marte. Ovunque ei move le squadre vittrici Portenti compie di valore, e d' arte; E il Guelfo spinto dal suo braccio forte Ne i vortici d' Ombron trova la morte Di Castruccio la gloria è emai sicura, Nè un sol nemico a fronte sua rimane. Deserte son le Pistojesi mura Che fuggir tutte le genti Toscane, E vinte dal terror dalla paura Alzan le strida di spavento insane. Corrono i Ghibellin recando audaci Le porte onde atterrar macchine e faci. Veduto avresti quivi a tutti innanti Giovanni stringer con la destra fiera La più grave fra molte aste pesanti Onde seco munita è la sua schiera. Già divelte da i cardini sonanti Cedon le porte di Pistoja altera, E inondan della trepida Cittade I vincitor le piazze e l' ampie strade. Come lasciando il Po l' alpestre monte Sempre nel corso suo più d' acque abbonda, E giunto al fine assai lunge dal fonte Gli argini rompe e le campagne inonda; Di tauro alzando la superba fronte Gigante appar sulla squarciata sponda, Ed a tutti apportando alta ruina Spezza, abbatte, travolve, urta, e strascina; Così de i ghibellin l' ardente foga Invade tutta la Città repente: L' inerme sprezza, il folle ardir soggioga, Sdegna in rischio inegual d' esser vincente. Se ingiusto dritto alcun guerrier si arroga Punito è dal suo duce immantinente. E benchè provocati, e all' ira spinti Generosa pietà mostrano ai vinti. Seguendo il suon de' bellici tamburi Dalla meridional più armata banda Un asilo a cercar che l' assecuri Va co' Guelfi il Guerrier che lor comanda. Là l' Eroe d' una rocca eresse i muri, Fortificolla, e la chiamò Rolanda; Destinandola il saggio genitore Del suo Valerian premio al valore. Duce alla guardia della rocca eletto Aveano i Guelfi il barbaro Galasso; Ch' è pur Dialta a custodire addetto Ricoperto d' acciar dall' alto al basso. Ora. ai fuggenti Guelfi a dar ricetto Provvede; or scorre con veloce passo La rocca; or guardie cangia, ora le accresce, Ed agli antichi ordini nuovi mesce. Non ei lung' asta nella destra impugna, Non porta al fianco suo curvo pugnale; Ma l' arme onde trionfa in ogni pugna Può d' Alcide alla clava esser rivale: Con questa solo ogni fortezza espugna, Nè contra lei mortal possanza vale: Mole è pesante di robusto cerro Cui grossi chiodi, e spessi arman di ferro. Ivi rapprese le cervella stanno Di cento cavalier da lui sconfitti. Cinquanta volte rinnovossi l' anno Da ch' ei vince ne' bellici conflitti: Già d' Arrigo campion, d' un tal tiranno Promulgator fu negl' inguisti dritti: Di Lucca a vista ci portò strage e morte, Nè il fa canuta età men truce e forte. Ma poichè Arrigo fu da ferrea tratto Necessità di morte entro la tomba, Galasso ai Guelfi unì nefando patto, E al suou pugnò della Toscana tromba. La clava sua tremendo ognor l' ha fatto Che irresistibil su i nemici piomba: Sovra l' omero destro egli la porta, Scorre le mura, e i suoi sgrida e conforta Tedici appunto allor da un servo fido Il ratto udia della diletta sposa; E disperatamente alzando un grido Diè a Castruccio la nuova dolorosa. Aquila che strappar dal proprio nido Veggasi i figli non sì furiosa Piomba sull' angue, e con l' adunco rostro Fa il cerebro schizzar lunge dal mostro. Come tutti scagliaronsi furenti Della Rolanda ad espugnar le mura L' infame autor di tanti tradimenti Abborrito dal Ciel, dalla Natura, Ove trovar potrà mai tra i viventi Contro il folgor di Dio sede secura? Ma con Renato e il traditor già spento, Solo a lui sopravvive il tradimento. Certo, ah certo Dialta è là racchiusa. Dicea Tedici, e all' arme i suoi chiamava. Della fortezza l' enea porta chiusa Ai colpi del monton già rimbombava. La sua fierezza ha ne' guerrier trasfusa, Quando slanciata dalla turba prava, Mentre ei si avanza vigoroso e franco Freccia alata a colpir lo vien nel fianco. Non è mortal, ma fero è il colpo, e basta Per rovesciarlo sul terren tremante: Di man gli fugge la terribil asta, E a Galeazzo che si vede innante Dice, giacchè il destino a me il contrasta, Pugna, o prode, per me; tu frodi tante Spezza, e d' onor le sacrosante leggi Difendi, e oppressa l' equità proteggi. Sull' alte mura nel momento istesso Dialta avvinta comparir si vede: Galasso stalle orribilmente appresso, E le aggravano i ceppi il molle piede: Ha sul bel volto lo spavento impresso, Pietade a tutti con gli sguardi chiede: E nel campo a spettacolo sì rio Un alto grido universal s' udio. Credeano i Guelfi disarmar con questo Basso raggiro ai Ghibellin la mano; Che paventando un colpo a lei funesto Chiedesser pace al condottier Toscano: Ma sì vil tradimento e manifesto Fu sovra l' alma di Castruccio vano; E la figlia a salvar con più certezza L' assalto accelerò della fortezza. Precipitoso afferra il fier Visconte Lunga una scala, che giacea sul suolo; E lei con braccia maneggiò sì pronte Che afferrarla e salir fu un punto solo. Affollasi su i muri a fargli fronte Di sassi e spade e strali armato stuolo. Dispar Dialta, e vi riman Galasso Per impedire al Milanese il passo. Quant' ei più all' erto ardimentoso poggia Il Toscano drappel si fa più grosso. Di pietre e dardi ruinosa pioggia Gridando il Guelfo a lui scarica addosso: Alza ei lo scudo di coverchio in foggia, Ch' è di piastra d' acciar triplice e d' osso. Grandin di colpi sopra lui non vale, Vie più rapido e intrepido egli sale. Allorchè i, merli ad afferrar giungea Il gran cerro a due mani alzò Galasso, E se quel colpo sovra lui scendea Certo lo avria precipitato al basso: Ma nudo il brando Galeazzo avea, Ed a sgombrarsi immantinente il passo Vibrogli un colpo sovra ambe le piante, E al suolo stramazzar fe' l' arrogante. Galasso atterra e sulla Rocca salta Rotando il brando intorno orribilmente; E de' Toscani lo squadrone assalta De' colpi orrendi al tempestar frequente: Quando lunge condur vede Dialta Strascinata da guelfa iniqua gente. Aprendo tosto egli la turba folta Corre precipitoso a quella volta. Scosso dal suo sbalordimento appena Torna Galasso a rialzarsi in piede; Di sua ferita il crucia, è ver, la pena, Di sangue intriso lo schinier si vede: Ma nulla pur l' impeto suo raffrena Troppo l' altrui vittoria il cor gli fiede; E là s' affretta ove a Dialta appresso Pugna il Visconte e il Guelfo stuolo spesso. Corre e la donna con la manca afferra, E grida al Ghibellin truce in aspetto: O qui tu cedi a terminar la guerra, O a costei strapperò l' alma dal petto. Non Galeazzo allor voci disserra Per disfogar la giusta ira e il dispetto; Ma nel sommo furor che lo trasporta Cerca di trionfar la via più corta. D' un gran fendente all' altro il giacco smaglia Dall' omero sinistro al destro fianco: Trabocca il sangue dalla rotta maglia, E del Guelfo l' ardir cede e vien manco. Cede ei la vita sì, non la battaglia, Che vuol morendo esser terribil anco; Stringe la clava sua; la donna lassa, Ed a due man l' orrendo colpo abbassa. Crolla del Guelfo l' alta mole, e il tira Il proprio peso con la faccia al suolo: Veloce Galeazzo il piè ritira, Che gli franse il cimier strisciandol solo. Mentre ei di morte fra le angosce spira La Rocca inonda il Ghibellino stuolo, Che per le scale anch' ei salì da forte, E ratto corre a spalancar le porte. Di sua man Galeazzo in sulle mura Inalbera il vessillo glorioso. Dalle infrante catene appien sicura Resa al Padre è Dialta ed allo sposo. Medica man prende Tedici in cura, E sana il fianco suo breve riposo. Pur di Giovanni è la ferita lieve, E ognun del valor suo premio riceve. Così Pistoja liberata fue Da quell' Eroe, cui niun valor resiste, Quella che in mezzo a tante glorie sue Fu la più cara delle sue conquiste; Uno il cimento e le vittorie due Furon ch' ei riportò; le fraudi triste Franse de' Guelfi, e l' armi loro vinse Mentre Marte novel l' acciaro strinse. Ranieri intanto ordita avea la trama Contro Castruccio da scoppiar repente: Ma qual chi compier sua vendetta brama Celava il rio disegno occultamente. Allorchè in Pisa divulgò la fama Nuova che il rese di furor bollente: L' unica figlia che da lui fuggia, E che di Lucca avea presa la via. Chi immaginar può mai com' ei spirasse Fiamme di morte dall' orribil faccia; Come l' armi terribile afferrasse Spingendo fino al ciel la sua minaccia? Gli sgherri in armi inferocito trasse, Altri mandonne della figlia in traccia; Quei che da Esarea insegua eran distinti, Fur dati a morte, o fra catene avvinti. Di Lucca andaron le bandiere a terra, O lacerate le distrusse il foco: Di Castruccio ogni immagine si atterra, Case e Templi non son securo loco. Uccisi i padri, ai figli anco fa guerra, Che di Ranier tutto alla rabbia è poco; Di morti sol, solo di stragi è vago, E fra le stragi è sazio no, ma pago. Come Lion che dall' aperte canne Le fanci mostra d' atro sangue lorde, Ma ancor feroce con le curve zanne Dell' uom che divorò le vesti morde, Gira intorno agli ovili alle capanne, Sugge le labbia di nuov' esca ingorde, E quanto è sazio più, più fiero snoda Le sue terga a sferzar l' orrenda coda; Così godea Ranier col proprio ferro Trapassar mille petti o imbelli o armati; Le sue tracce seguendo ogni suo sgherro Spargea fiumi di sangue in cento lati. Forte sbarra non v' è cinta di ferro, Che resista a quei crudi e forsennati. Tutto abbatte empietà ciò che ritrova Per trarne all' ira sua vittima nuova. Fu strappato dal sen di sua famiglia Lanfranco, e di catene orride carco: Di serbarlo Ranier si riconsiglia In chiusa torre e a' suoi ne dà l' incarco. Il figliuol di Lanfranco il brando piglia, E aprirsi tenta insino al Padre il varco: Ma prode è assai se con la spada sola La propria vita a tanti colpi invola. Il dolente garzon per l' ampia valle Fuggia di Lucca sulla nota via; E ancor nella città cui diè le spalle L' alte grida e lo strepito sentia. Quand' ecco scontra sullo stesso calle, Che fra catene orribili venia, La bella Emilia, e la traean le squadre De' satelliti rei dell' empio Padre. Arse Lanfranco e fu dal duolo oppresso L' incatenata vergine mirando, E sull' armato stuol feroce e spesso Orribilmente s' avventò col brando: Ferma, Emilia gridò, pensa a te stesso, Di salvarmi l' idea, deh! poni in bando: Sol contro tanti e che pretendi? Ah vivi! Nè d' un amico il braccio tuo mi privi. Ma se lo stato mio compianger sai Vanne ad Enrico mio, di me gli narra: Digli che invan fuggendo io lo cercai, Che al Genitor mi trae sorte bizzarra. Digli che forse io nol vedrò più mai, Ma che della mia fe siangli caparra Queste lagrime, oh Dio! queste ritorte, E l' ultima l' avrà nella mia morte. Lei sola sì, Lanfranco, adesso imploro, Che del fero Dudon mi strappi al nodo. Esser io d' altri che di lui che adoro? Ah! in tal pensier finir mia vita io godo. Lunge da Enrico mio sento ch' io moro; A voglia sua Ranier ne scelga il modo; Che sciolta da Dudon, fida al mio bene Parmi uscendo dal mondo uscir di pene. Felice io son se te, Lanfranco amato, Pria di morire ora veder poss' io! Qui l' interruppe il pianto invan frenato, E in fioca voce, addio, soggiunse, addio Traevala lo stuol crudo e spietato, Ma il primiero vigore in lei languio, E come cade smorto giglio al suolo, Cadde de' sensi fuor vinta dal duolo. Empj, non fia che la donzella illustre Così si opprima, alto gridò Lanfranco. Ben è il mio brando nelle pugne industre, Nè per bell' opra in me valor vien manco Col fortissimo braccio ancor trilustre Qui strinse il ferro, e ardimentoso e franco Quell' orda iniqua a sbaragliar si mise, E in quattro colpi quattro sgherri uccise. Ei sol contro la turba empia e superba Que' rei dal fianco della donna caccia; Che svenuta giacea sulla verd' erba Con chiusi lumi e scolorita faccia. Quando sorpreso è nella pugna acerba Da altra schiera che gìa d' Emilia in traccia; E un vile pria che il possa egli vedere Nel manco braccio a tradimento il fere. È forza allor che ceda il suo valore, E inutil morte di scampar decide. Dalla pugna ripiega il corridore, Ma due Toscani ancor ferito uccide. Poco lunge d' Emilia il difensore Era, allor quando strascinar la vide Pallida, smorta, e del suo pianto intrisa, E alla volta que' rei trarla di Pisa. Seguir volea Lanfranco il suo cammino, Ma il duol di sua ferita è troppo crudo: Presso a un limpido fonte e cristallino Scende a terra, e depon l' elmo e lo scudo, Sula chiar' onda egli piegato e chino La ferita tergea nel braccio ignudo, E riposo prendea de' mali sui Mentre errava il destrier vicino a lui. Un' ora appena il sol trascorsa avea Da che Lanfranco ivi prendea riposo: Quand' ecco rapidissimo d' Alfea Venir drappello equestre e frettoloso Un fido amico ivi Lanfranco avea, Che a lui ne corse che giacea doglioso: E, che fai qui, gli disse, ignaro sei, Che il ciel si è volto a fulminare i rei? Ranieri in suo poter la figlia appena Ebbe, che strascinolla in carcer nero: Di triplicata orribile catena Gravolla e a fato la serbò più fiero. Ei dal carcere uscìa quando sua pena Dettava il Ciel nell' equità severo, E Guelfa moltitudine furente Scagliossi ad afferrarlo immantinente. Fe' l' anarchia, che il furor suo produsse, Scoppiar de' Guelfi le nascoste trame, E le conquiste sue tosto distrusse Progetto al par de' suoi progetti infame. Or nella torre, ove Ruggier ridusse Ugolino a morir d' orribil fame, Racchiuso egli è; sorda una voce s' ode Cù è Lodovico autor di questa frode. Ch' ei del tumulto una ragion vuol farse Per toglier Pisa a chi l' ha posto in soglio; E fra 'l popolo, io stesso, io vidi sparse Le note insegne del Tedesco orgoglio. Forse improvviso ei vuol quindi mostrarse Clemente alleviator d' ogni cordoglio; E alla volta di Pisa una sua schiera Superba vien già del trionfo altera. A combatterla gìa Dudon feroce Quand' io testè d' Alfea lasciai le mura: Fanno i seguaci suoi battaglia atroce Co' Guelfi, e incerta ancor n' è la ventura. Se Ranier vince, tale ira lo cuoce, Ch' Emilia certo è di morir sicura: E chi il tuo genitor salvar potria? Primo ei del suo furor vittima fia. Andiam, Lanfranco; ad avvertire io volo Del Serchio il Prode di nequizie tante. Felice me, se con quest' opra involo Pisa ad uno spergiuro empio regnante! Non sente più di sua ferita il duolo Lanfranco e balza in piè rabbia spirante. Teco, o Gaddo, io sarò, sclama, e si allaccia L' elmo, la spada, e l' ampio scudo imbraccia, Sul destrier sale e va di Gaddo allato, Che suo compagno fu sin dalla cuna. Verso Lucca il lor corso hanno drizzato Senza frapporvi mai dimora alcuna. Giungonvi; ma non v' è l' Eroe bramato, Che a Pistoja il rattien campal fortuna. Là tosto il suo destrier volge Lanfranco Tal che Gaddo veloce al corso è manco. Là giunto al Magno Eroe tutta palesa Di tante iniquità la serie orrenda; E l' alma grande di Castruccio è accesa Da giustissima e forte ira tremenda. Verrò, gli dice, e spenta ogni contesa Fia quando in Pisa questo acciaro splenda. Ancor non san che si resiste invano A lui cui sol giustizia arma la mano? Sconti Ranier le colpe sue: mal noto Forse è Castruccio alla sua bassa mente. Or che n' andò la sua perfidia a voto Me, quant' io son, conoscerà clemente. Esser non puote a Lodovico ignoto Che grande lo fec' io, lo fei possente; E che non fora in premio al suo delitto Il primo Imperador da me sconfitto. Poi rivolto a Tedici; a te consegno Pistoja, tu qui in vece mia rimani, Tu, Galeazzo, assumer dei l' impegno Di tutti allontanar quindi i Toscani. Disse; ed ai figli di partir fe' segno: L' armi afferrar gli audaci capitani Smania Enrico, aspettar gli altri ricusa, E di lentezza ogni compagno accusa. Fremè in tal giusa allo Scamandro in riva Pel suo Patrocolo ucciso il fier Pelide; E il forte Ettor che del trofeo gioiva, L' amico a vendicar correr lo vide. Rabbia al pari di quella ardente e viva Del prode Enrico il core ange e conquide Del prode Enrico che ad abbatter corre La nuova Troja ed il secondo Ettorre.

Fine del Canto quinto.



Geme in carcere Emilia. Invade Pisa Il gran Castruccio con le sue coorti. Si combatte in cittade in aspra guisa, Son di Lucca i guerrieri alfin più forti. Ranier s' arrende, e il folle error ravvisa. Fansi Enrico, ed Emilia alfin consorti. Flora omai scevra di speranza audace Manda a Castruccio ad implorar la pace. Donne, o voi, che d' amor sublime ardete Della virtù seguendo il santo raggio, Della sorte i capricci, ah! non temete, Ma raddoppiate in voi lena e coraggio. Se contro ai colpi suoi salde starete Dovrà il fato prestarvi alfine omaggio, E fian gl' insulti suoi la vostra gloria, Che amor giunto a virtù sempre ha vittoria. Rupe enorme talora in alto sale Con vetta inaccessibile dall' onda: L'ira d' opposti venti ecco l' assale Tutto agitando il mar che la circonda. Ma qual prò? tanta rabbia in lei non vale! Tace il vento; si fa l' aria gioconda; E torreggiante l' inconcusso scoglio Signoreggia del mar lo stanco orgoglio. Donna così, cui virtù vera regge, Immobile si stà del fato all' onte: Del fato che soltanto a quei dà legge Che sfidarlo non san con ferma fronte. Emilia, cui del ciel forza protegge, Tutte le sue virtudi al cor tien pronte Per sostener qual sia più rea tempesta, Cui rovesci il destin sulla sua testa. Giacea la bella fra 'l notturno orrore In duro letticciuol sovra il terreno Bianca, tremante, in un leggier sopore, Molle di pianto il volto e il nudo seno; Quando in sogno fra subito fulgore, Come l' aria avvampar suole il baleno, Virtù le apparve nel suo sommo lume, E il suol si scosse all' arrivar del Nume. Di fulgidissim' oro ali movea, La sostenea gruppo di Genj eletto; Con maestosa man l' asta reggea, L' astro del dì le risplendeva in petto: Verde lauro al crin d' oro un serto fea, Al crin che sciolto si spargea negletto: Verde lauro che mai perir non puote, Che il fulmine minaccia, e non percuote. Un genio in man tenea l' aurca catena, Che per man di virtù dà legge al fato: Altri una tazza avea di nettar piena, Che pace versa in ogni cor piagato: E quell' amor, che eroi solo incatena, Tendeva a' cenni suoi l' arco dorato: E l' ampia via per cui era discesa Da un candido fulgor tutta era acc esa. Seiolse un sorriso, e sfolgorò più bella La Dea che offesa ancor non giacque inulta Poi rivolta alla misera Donzella, Che in profondo stupor giacea sepulta, Disse; e che piangi or qui? non sei tu quella Ch' io fanciulla educai, ch' io ressi adulta? Che festi fin allor ch' io ti nutria Me compiacer della bell' opra mia? Alti sensi io t' infusi; a te nell' alma Io tramandai magnanima costanza: Del cor ti appresi a mantener la calma Assicurando in me la tua speranza. Io destinata a riportar la palma, E del fato a fiaccar son la baldanza: Il tempo abbassa al voler mio la testa, E iunanzi a me l' eternità s' arresta. Io nutro le sublimi alme alla gloria, Ed ai Numi l' uom frale io ravvicino: Furo opra mia quanti narrò la storia Alti trionfi del valor Latino. E tale io son che a riportar vittoria Sopra i furori di crudel destino Sol può colui nel di cui petto brilla Di mia potente luce una scintilla. Che temi tu? di un forsennato padre La cieca furia il pensier tuo spaventa? Vittrici fien le Ghibelline squadre, E sarai, non temer, sarai contenta. Nuora d' Eroi, d' Eroi consorte e madre Te aspetta Italia or ne' tuoi casi intenta. Pensa, che utile spesso è una sventura, E ne' guai la virtù si fa più pura. Fa cor, ti desta alla natia fermezza, Ed in me fisa, il tuo pensier sublima. Del cammin della gloria aspra è l' altezza, Grandi alme sol giungono all' erta cima. Armati di magnanima fortezza, E a te stessa di te serba la stima. Gloria, felicità, regio splendore T' aspettan meco, ed al mio fianco amore. Disse; e il sogno disparve: Emilia piena Della visione a lei le braccia stende: Ma invan che scorge in sè tornata appena Sol del carcere suo le mura orrende. Pur nuova sente in sen calma serena, Le sembran dure men le sue vicende, E il cor di miglior dì come all' aspetto Meno angoscioso palpitolle in petto. Della sognata Dea mentre su i detti La bella donna meditando gia, E la tempesta de i lottanti affetti Nell' ansio petto abonacciar sentia, Ode eccheggiar le mura antiche e i tetti Di strepiti di Marte in ogni via. In piedi balza, e tien l' orecchie attente Se alcuno alla prigione accostar sente. A rispinger Dudon ne andò la schiera Che spedia Lodovico a quella volta; Ma vana fu la forza sua primiera, Che superollo orrida strage e molta. A Pisa ritornò, che almanco spera Tutta avendo con se sua gente accolta Il Guelfo superar, che a lui s' oppone, E Ranieri strappar dalla prigione. Stan da meriggio i Gnelfi, e a Dudon forte La Fortezza contrastano ed il poute, Tenendo intanto fra le lor ritorte, Formidabile ostaggio, il fiero Conte. Piove sul campo ostil lampi di morte Sotto il grav' elmo la superba fronte Dell' altero Corrado, a cui fortuna Diede all' aure del Tebro illustre cuna. Mentre qui insurti i cittadin fan guerra Presso gli assalitor son di Lamagna Da mezzodì; nodosa lancia afferra Alberto il duce a cui gloria è compagna. I prodi intanto dell' Esarea terra Dal lato Aquilonar nella campagna All' aura sventolar fan le bandiere, E in ordin marzial pougon le schiere. Dal balzo oriental la mattutina Alba di rubin cinta il crin sorgea; E i lucidi cimier la fresca brina Di cinereo color tutti spargea. Surse Castruccio allor che alla vicina Pugna animar l' esercito volea, E surse come in ciel veder si suole Del mondo avvivator sorgere il sole. Ben ei sapea qual assetata furia Scorrer d' Arno facea sanguigna l' onda; E chi spedia soverchiator d Etruria Lodovico dell' Arno in sulla sponda. Gli era del nome suo nota l' ingiuria, E che obliati in carcere profonda Giacean Lanfranco, e di Ranier la figlia, E questi detti a lui gloria consiglia. Prodi, che al fianco mio sempre vinceste, E ad ardue solo e memorande cose Alle sacre del Serchio aure nasceste, Nè mai vincer potè chi a voi s' oppose; Di Tempasio non son le valli queste, O le rive d' Ombron per voi famose; Nà Uguccione i forsennati sgherri Di Lucca per le vie snudano i ferri. Qui Lodovico Imperador spergiuro Le genti trae di cui lo fei sovrano; E di togliermi Pisa ei vien sicuro Con la parte miglior de suol Toscano. L' empie sedizioni opra sua furo, Ed occultar vorria sue frodi invano; De' civili tumulti ei causa sola Or contro tutti sovra l' Arno vola. Mentre Ranier, che della possa mia Invido, sollevate avea sue genti, Il disordin recando e l' anarchia Tradito si trovò ne' tradimenti, E allor che ne' miei fidi inferocia Sursero i Guelfi contro lui possenti, Che osan velare il loro empio furore Le insegne alzando del Roman Pastore. Ora i seguaci di Ranier fan guerra Il Conte onde strappar de' Guelfi all' ire. Mandar vogliono i Guelfi ogni altro a terra E il Pontefice sol fare obbedire: L' ora opportuna iniquamente afferra Il mendace dell' Istro ardito Sire; E far de'Guelfi, di Ranier, di noi Pensa il più grande de' trionfi suoi. Ma fia, son certo, la vittoria nostra, Somma la gloria fia se il rischio è molto; Cesserà tosto ogni nefanda giostra, Vedremo in fuga ogni nemico volto: Il Ciel propizio già per noi si mostra, Veggo il trionfo in ogni fronte scolto. Qui il secondo Renato a spirar viene, E novello Raimondo alle catene. Ve come sorge dalle patrie spume Gigante il Serchio e della nebbia spessa Squarcia il velo; de' glauchi occhi l' acume Assottiglia, e per noi mirar si appressa. Andiam figli d' Eroi; d' un fausto nume La luce io veggo a voi nel volto impressa. Andiam qual turbo che piombando a terra I campi spoglia e le foreste atterra. E quindi ai prodi figli suoi rivolto: Valerian, tu d'Oriente andrai Lungo le mura, e ove si sta raccolto Il campo di Baviera assalirai. Sia Enrico ogni tuo sforzo a Dudon volto, E sul Ponte maggior combatterai. Alla Fortezza io vo; co' suoi Giovanni Del perdente fra noi soccorra ai danni. Castruccio a Pisa va per quel sentiero, Che da Lucca, ove guida, il nome porta. Al duro del monton cozzo primiero È divelta da i cardini la porta. Inonda Pisa l' esercito fiero, E al maggior ponte per la via più corta Enrico va dove Dudon combatte, Che le forze maggiori ha seco tratte. Il Duce a manca i suoi seguaci affretta Presso la rocca al custodito ponte, Dove Emilia dal Ciel soccorso aspetta, Dove freme fra i ceppi il fiero Conte. Che il magno Eroe maggior d' ogni vendetta, Obliando le prische ingiurie e l' onte, Aver Ran ieri in suo poter desia Per dimos trargli il suo gran cor qual sia. Ferocemente a lui si affollan contro I Guelfi grida altissime mandando. Ei di morti il suol copre al primo scontro L' acciar terribilissimo rotando. Corrado istesso a lui già corre incontro Con cenni e voci i suoi Guelfi animando: E vibra d' ogni intorno orrida luce L' elmo ferrato del Romano Duce. Giovanni intanto sulla destra sponda Dell' Arno a mezzo del cammin fermosse. Vede ei che al maggior ponte ognor più abbonda Moltitudine ratta alle percosse: Ma se guadando ivi del fiume l' onda L' altro lido afferrar possibil fosse, Pensa, che aprir potriasi agevol calle, E i nemici assalir quindi alle spalle. Sebben ei vegga sull'opposta terra Le belligere macchine apprestate, Nel fiume balza e sul destrier si serra, Son dall' equino piè l' onde squarciate. Seguonlo i suoi compagni incliti in guerra. Alzan lo spruzzo al ciel l' acque turbate, E l' Arno emerso dall' algoso letto Meraviglia all' ardir del giovinetto. Tal forse Orazio nell' antica etade Balzò dal ponte nell' augusto fiume, Mentre in lui del Tarpeo la libertade Gran parte trasfondea del proprio Nume; E Marte che reggea la sua cittade Sovra l' Eroe versava immenso lume; E Bercintia amica diva a Vesta Spandea fulgor dalla turrita testa. Sull' opposto terren tosto si affolla Gente di varia età, di vario grado, Chi vibra dardi, chi pesante zolla Da' Guelfi spinte ad impedirgli il guado; Ma già tutti a fuggir volgonsi in folla Veggendo il Ghibellin, che lor malgrado Sotto il brocchier secura avendo stanza, Sul natante destrier curvo s' avanza. Già il fero corridor sul lido balza, E le tremule nari agita e sbuffa; Scuote il crin, batte il piè, l' orecchie innalza E la cervice squassa e il pel rabbuffa: Giovanni il preme e i suoi nemici incalza Ove sul maggior ponte ardea la zuffa, E la turba minor, che a lui s' oppone, Non cura e corre alla maggior tenzone. Sull' ingresso sfilati eran del ponte I Guelfi dove ardea la pugna atroce: Là il prode Enrico ha il fier Dudone a fronto Guerriero potentissimo e feroce; Raddoppia l' ira i loro oltraggi e l' onte, E si offendon con l' armi e con la voce, E contempla l' orribile duello Fermo il Pisano e il Ghibellin drappello. Nè Tebe mai, nè Simoenta vide Duo guerrieri affrontarsi a questi eguali; Che tale ira non ebbe in sen Pelide Co' due fratelli nel regnar rivali Nessun fendente invan per l' aere stride, Ma tutti orribilissimi e mortali Frangon gli elmi, gli scudi, e le corazze, Sgombrando ai fianchi lor due larghe piazze. Già d' Enrico spezzato è il gran brocchiero, E sangue versa dal sinistro lato. Sel vede l' altro, e grida, ecco il guerriero Che ne assalì di tant' orgoglio armato; Ecco d' Emilia il pretensore altero Che da me attende sol l' ultimo fato. Amor, qual vincer dee tu manifesta, E a te consacro l' esecranda testa. Così diceva, e il curvo acciar piegando Sovra gl' omeri il colpo avea diretto; Ma lo prevenne del Lucchese il brando, Che al destro orecchio gli staccò l' elmetto Cadde il cimier sul ponte rotolando, E sbalordito a rincular costretto Fu il Sicilian, che l' altro Eroe di fronte Al parapetto lo spingea del ponte. Ma la vibrata scimitarra grave Al Lucense destrier la fronte parte; Se Enrico al colpo orribile non pave, Ha ben nel cor tutto l' ardir di Marte. Balza in piè, che crollar sentito l' ave, E al destrier di Dudon volgendo l' arte L' immerge in petto dell' acciar la punta, E quei ritto su i piè dietro s' appunta. Non si abbassa il corsier, non si ritira, Ma con le zampe in aria ancor sospese Sovra i piè dietro rapido si gira Sicchè il fianco presenta a chi l' offese. Il pronto Enrico le sue forze e l' ira Tutte a levarlo d' equilibrio ha intese. Lo spinge, l' alza, e alfin fuor della sponda Duce e destrier precipita nell' onda. Le torbid' acque nelle vaste ruote Il Cavalier tre volte raggiraro; Alfin le membra d' ogni spirto vote Sull' onda a galleggiar si sollevaro. A contemplarlo stan le squadre immote, E come alzarsi esanime il miraro I Pisani a fuggir dansi, e a' lor danni Arriva il velocissimo Giovanni. Cadea Dudon quando Giovanni al ponte Giunse a turbo simil che i boschi atterra; Il furibondo Geri andogli a fronte, Che cieco il rende la perduta guerra: A lui Giovanni in due partì la fronte, E il tronco informe diguizzò per terra. Ei segue quindi con la destra forte Per tutto ad arrecar vittoria e morte. Castruccio intanto sbaragliate e sparse Le Guelfe genti alla Fortezza innante, Con Corrado era già per affrontarse Scotendo in alto il ferro fulminante, Quando di rabbia orribilmente egli arse Donna veggendo di guerrier sembiante Da quattro Guelfi soverchiata e oppressa, Che schermendo i lor colpi a lui si appressa. Camilla ell' è; d' un corridor ferito Il corso invan d' accelerar procura; Ma intorno ancor col braccio ai colpi ardito Lo spavento tramanda e la paura. Di triplicato acciar Claudio vestito Con un colpo troncò nella cintura; E ad Angerio che tre suoi fidi uccise Staccò l' omero destro, e il sen divise. Grida a Castruccio, o Eroe del giusto amico, Che ai voleri del ciel ministro sei, Tu Emilia salva, o Genitor d' Enrico, Dall' empietà di manigoldi rei. Io fuggir già la feci e altera il dico, Che bell' opra in salvarla io far credei: Ma uatta in carcer poi fra i ceppi venne, E pende sul suo collo or la bipenne. Se pur quel crudo nelle colpe istrutto, Che in guardia tienla non le diè già morte, Che sprangate del carcer da per tutto Son da tre giorni omai le ferree porte. Forse il viver d' Emilia è a fin ridutto Dal suo dolor d' ogni altro duol più forte. Figlia innocente è questa e al ciel diletta; Deh! a liberarla, almo Signor, t' affretta. E dicendo così la man stendea La prigione additando al Ghibellino; Quando pedon da tergo a lei giungea Giulian ch' è figlio al capitan Latino. Ei vibrò l' asta e mentre la spingea Sdrucciolante sul giacco adamantino Strisciolle il fianco, ed il sinistro braccio Sinchè trovò nel cavo scudo impaccio. Come al villan, se la calcò col piede, La mortifera vipera si slancia, E dove ignude a lui le membra vede Dal cavo acuto dente il tosco lancia: Tal Camilla all' acciar di piglio diede Tutta avvampante di furor la guancia; E dal destrier precipitando al piano Fiera si volse al traditor Giuliano. L' arco flessibil come lampo ratta Piegò tre volte e ne scoccò lo strale; E la prima saetta al corso esatta Fe' tra gli omeri a lui colpo mortale: L' altra nel fianco suo tutta s' appiatta, Va sul collo la terza a fermar l' ale: Giulian vacilla e al corso invan s' affretta, E Camilla di gioja un grido getta. Quando Corrado, che all' Eroe tremendo Bramava il braccio temerario opporre, La scontra, e in lei la grave asta spingendo Le squarcia il petto e via qual lampo corre. Cade Camilla, e sol le duol cadendo Che non può de' suoi colpi il premio corre; Ed Emilia, e Giulian furon gli accenti, Che articolò negli ultimi momenti. Come colomba, a cui nel petto bianco Colpì lo stral mentre spiegava il volo, Sparge il sangue, e la lena in lei vien manco, Pur l' ali scuote e vincer tenta il duolo: Così Camilla mentre muor pur anco Rizzarsi tenta sul sanguigno suolo, E camminando su i ginocchi a stento Si strascina da presso al Duce spento. La mano stende, e il più vicino dardo Divellere vorria dalla ferita: Ma il cor si gela, le si appanna il guardo, E priva cade di sangue e di vita. Corrado intanto, quel Roman gagliardo, Che al negro orco spedì turba infinita, Qual fulmine s' avvia dal maggior ponte Per ritrovarsi di Castruccio a fronte. Qual duo venti mugghiar odonsi in prima Su pei campi del ciel con sordo rombo; Si cozzan quindi e l' alta parte e l' ima Fremon del cozzo orrendo al fier rimbombo: O quali a urtar si van da opposta cima Aquile avverse con terribil frombo, Poi cadon ambe da quel colpo vinte A cui con tanto sforzo eransi spinte; Si correan essi, e si arrestar distanti Quanto segnar scoccato dardo puote. L' uno e l' altro rival d' ira fiammanti Si mirar truci con pupille immote. Sclamò Corrado alfine: oh tu che vanti Per glorie fraudi ai Traci stessi ignote, Sacro è il mio brando e ad atterrar tiranni Il benedì, e mel cinse il pio Giovanni. Castruccio allor; nè te Giovanni in armi, Nè il Vicario spedi d' un Dio di pace: E meco ostenta invan per oltraggiarmi Zelo e Religion tuo cor mendace. Degli eserciti il Dio solo atterrarmi Puote e seguo di lui la fe verace. Al Vice-Dio Roman fede protesto, Ma chi usurpa il suo nome odio, e detesto, Disse, e alzando lo scudo e il forte brando Curvossi un poco, e sul Latin si spinse, Che nel possente suo destrier fidando All' urto spaventevole si accinse. E il corso orribilmente accelerando E questi e quei sul corridor si strinse; E mentre vansi incontro audaci e fieri Levan nembi di polve ambo i destrieri. Qual duo Tauri in furor corronsi incontro, Che fischiar l' aria, e il suol traballar fanno; Tali i guerrieri al sanguinoso scontro Ferocemente impetuosi vanno: Sospingon l' un corsier dell' altro contro Sol mirando a cambiarsi ingiuria e danno; E col furor, che l'odio ha in ambi impresso, S' urtano, e al suol cadono a un punto istesso. Preme appena il terren, che in piedi balza Il Ghibellin come baleno ratto. Sull' egro fianco a stento il Guelfo s' alza, Egro pel colpo onde fu a terra tratto. Ma audace ancor la lunga lancia innalza, E dal suo rischio più terribil fatto Tutte le forze al grand' uopo sprigiona, E all' asta il braccio e sè tutto abbandona. Giacea del Guelfo il corridore a terra Fra i due prodi che spingonsi all' assalto. Scosso al fragor della pedestre guerra Il cavallo si slancia in piè d' un salto: Mentre nitrisce e il furor suo disserra, Dell' asta il colpo svia, la sbalza in alto: Su i piè dietro or si rizza e il crine squassa, Alza or le terga e il capo a terra abbassa.

Tomo I.

Aspetta il Ghibellin che in alto sorga Con le zampe sospese il capo e il petto; Tal che d' avventar l' asta agio gli porga, E vada il colpo al fier Latin diretto. Striscia il destrier la lancia; il sangue sgorga Dalla visiera e dall' infranto elmetto, Che in fronte il Guelfo dall' acciar trafitto A terra cade vi riman confitto. L' asta lascia Castruccio e il piè ritira, E a un Lucchese destrier premendo il dorso Che fausto caso offersegli, si gira Ver la Fortezza con fulmineo corso. Di Corrado il caval che a terra mira Il suo signor, cui vano è ogni soccorso, Volge ai battuti Guelfi il piè veloce Col suo aspetto annunciando il caso atroce. Fremea Ranier nella Fortezza intanto, Che l' istruì dell' altrui gloria il caso. Giti in campo i guerrier ch' erangli accanto Un sol Guelfo a sua guardia era rimaso. Versa il superbo Conte amaro pianto Delle perdite sue già persuaso: Pur va pensando, uomo alle fraudi avvezzo, A un qualche disperato ultimo mezzo. Prega da primo il Guelfo a lui custode Che gli ceda quell' arme ond' è vestito; Ch' egli spera veder con questa frode In parte almeno il desir suo compito. Ma poichè sol ripulse e insulti egli ode, Più reso dal furor possente e ardito Si scaglia sul guerrier, l' acciar ne afferra, E con più colpi il getta estinto a terra. Fra sè dicea; se di quest' armi cinto Giungo a affrontar l' audate vincitore, Certo il mio braccio al suol lo getta estinto E di Pisa di nuovo io son signore. Così dicea da rabbia iniqua spinto Vestendo l' armi, e del suo carcer fuoro Corse cercando forsennato e cieco Castruccio, sol per misurarsi seco. Di polve asperso il magno Eroe correa Il fiero Conte a scior dalle catene: Mentre presso alla Rocca egli giungea Vede Ranier che ad affrontarlo viene, Le Guelfe insegne ond' egli si cingea Contempla, e in alto il nudo acciar rattiene; Ed in lui fiso un cotal po' s' arresta Che immoto innanzi al suo nemico resta. Tal quando Perseo al fero sguardo offerse Del Cete immondo la fatal Gorgone In sasso le sue membra fur converse Com' erano atteggiate alla tenzone. Così Ranieri immobile a vederse Restò mirando il Ghibellin campione; E senza il brando alzar, nè mover passo, Rimase al par d' inanimato sasso. Castruccio allor: tu Guelfo sei, tu Conte L' onor tradir delle bandiere nostre? E puoi scoprir senza rossor la fronte Che per l' uomo il piu vil par che ti mostre? Cessin, Ranieri, omai l' ingiurie e l' onte, E congiunte alle mie sien l' armi vostre. Vieni, o Conte, al mio sen; ricopra oblio Gli odj nostri e il tuo sangue unisci al mio. Disse; e il brando gittò da sè lontano Le aperte braccia al suo nemico offrendo. Nell'ira sua commosso il fier Pisano Il suol mirava e impallidia fremendo: Alfin sclamò; so ben che tutto è vano Col fato irremovibile e tremendo; Già l' error si dilegua in cui cadei, E minor di me stesso io mi rendei. Non t' odio più; di pace il sacro amplesso Il pegno sia dell' amistà che giuro. Ma testimon de' tuoi trionfi io stesso Esser non vò; troppo sariami duro. Sotto altro ciel n' andrò; l' iniquo eccesso, Dov' io giunsi, l' oblìo celi al futuro. Sia sposo Emico tuo, se a te somiglia, Alla mia sventurata unica figlia. Disse, e stringendo al petto il suo nemico Sacra ed eterna pace ambo giuraro: Quando a lor giunse frettoloso Enrico, Che in traccia ne venìa del Padre caro. Veggendo il Conte di Castruccio amico, Qual mai piacer al suo piacer fu paro? Al padre ed a Ranier parlar volea, Ma il giubilo gli accenti a lui rompea. La figlia mia, disse Ranier, si sciolga, Che in ceppi stà vittima al mio furore. Eurico allora; il piede a lei si volga Ch' io già la trassi del suo carcer fuore. In tua magione ell' è; deh! non si tolga Un istante al gioir del nostro core. Deh! padre andiam: Deh, compi il mio contento Tu che suocero alfin nomar mi attento. Tutti rivolser frettolosi il piede Ove tremante ancor sulla sua sorte Del Padre Emilia a ognun novella chiede, E s' ei gema tuttor fra le ritorte. È ver che a lei promessa Enrico diede Di liberarlo o d' incontrar la morte, E che, lei sciolta, a lui volse le piante; Ma che non può timor di figlia amante? Mentre s' ange la tenera donzella A lei Castruccio il Genitor presenta; E in Enrico uno sposo offre alla bella Ranier che appien la prisca rabbia ha spenta. Questi è lo sposo tuo, le dice; ed ella, Che tuttor la paterna ira paventa, Cade a' piè di Ranieri, e in fievol suono Dice; Ah, Padre, pietà! Padre perdono! Volea Emilia più dir; ma in quel momento Le mancaron gli spirti e la parola. Cadde de' sensi fuor sul pavimento Come recisa e pallida viola. Tenerezza l' opprime, e il suo contento L' uso de i sensi alla donzella invola: Ma Enrico la sostiene e il viso bianco S' appoggia al braccio e gli è colonna al fiance. Forse di gioja a lei torrente uguale Inondò il sen quando nel carcer nero, Mentre in angoscia ivi giacea mortale Improvviso le apparve il suo guerriero. Ma piacer sommo or sovra lei prevale, Ed ha immenso il suo cor giubilo vero; E vedendosi unita al suo diletto Angusto sente a tanta gioja il petto. Alfin rinvenne; a lei paterno amplesso Diè il sir Lucense e l' abbracciò qual figlia. E Enrico e lei, si strinse al sen l' istesso Ranier che il pianto avea sopra le ciglia. A te, Castruccio, è il viver suo commesso, Disse, del sangue mio cura ti piglia; Affido a te la mia diletta prole, Già che il destin lunge da lei mi vuole. Forse sott' altro ciel fato migliore Mi aspetta ed a me gloria apre le porte. Abbiti, o figlia, in mente il Genitore, Il Suocero rispetta, ama il Consorte. Pensa, che il padre ogni commesso errore Appien purgò nella perversa sorte; E le sue colpe dall' età futura Con tue virtudi cancellar procura. Castruccio, addio, tosto irne lunge io voglio Che l' onta qui da ogni piacer m' esclude, Da vicino mirar non vò il tuo soglio Che potria cimentar la mia virtude. Estinta è l' ira in me; non tace orgoglio, Ma al poter cede che il tuo dir racchiude. Castruccio io parto; i miei pensier ti svelo, O figlia, addio, ti benedica il Cielo. Quindi un rapido amplesso a tutti diede L' ultimo addio del generoso Conte. Egli il suo cocchio e i suoi cavalli chiede, E che sieno al partir sue genti pronte. Pacifica tristezza in lui si vede, E il valor prisco gli balena in fronte: Veloce parte e a viver fugge altronde Per non veder mai più le patrie sponde, Ecco Valerian che reca al Padre De'Bavari sconfitti ampio trofeo. Alberto Duce all'Alemanne squadre Estinto già per la sua man cadeo. Ei n' ha l' effigiate armi leggiadre Onde Alberto più d' uno avido feo. E molti tragge al Genitor prigioni De' Bavari soldati e de' campioni. Abbraccia il figlio il vincitor Lucchese, E così parla ai prigionier rivolto. Guerrier non usi a così vili imprese, È ognun di voi già da' miei lacci sciolto. Tornate all'Istro, e se non anco apprese Lodovico a frenar l'orgoglio stolio, Dite, che qual di Federico ai danni Già fui, rammenti e l'ardir suo condanni. Quand' ecco a lui ne vien precipitoso Lanfranco cui 'l figliuol da' ceppi sciolse. Ma il figlio sol non fu, che il valoroso Gaddo il suo brando ad ajutarlo volse. Di rivederlo era l' Eroe bramoso, E con un caldo amplesso al sen l'accolse; E il festivo corteggio allor s' invia Di Lucca a ricalcar la nota via. Quindi pace a recar d' Alfea nel seno Manda Pietro cognato a lui diletto, Uom di virtù, d' alta prudenza pieno A difficili e grandi incarchi addetto. Della Cittade irrequieta il freno È a lui commesso a far sue veci eletto: E ad abbracciarlo in sen di sua famiglia Guidò Tedici a lui la cara figlia. Accolse dell'Eroe l' augusta moglie Qual nuora amata la donzella Alfea, Dialta pur nelle paterne soglie Chiamarla suora e con lei star godea. Il fren la gioja in ogni petto scioglie, Suoi favi sparge l' amorosa Dea; E di giubilo vero in dì sì grande Il dolcissimo fremito si spande. Nel maggior Tempio appiè del Santo Volto Si giuraron gli Sposi eterna fede; E il gran connubio a celebrar rivolto L' Eroe splendide feste a Lucca diede. Dall' Ombron Galeazzo al Serchio volto Nuovi trofei recò del magno al piede; E ch' eran tutte quete e obbedienti Le di Pistoja in pria sommosse genti. Quando un guerriero ecco dall' Arno arriva, Che Flora quivi ambasciadore invia. Egli adorna il cimier di verde oliva, E per la patria sua pace desia: Ottone egli è, quei che in Senato ardiva Laudar Castruccio a chi sol l' aborria. Ottone egli è, che vien di Flora a nome Pace chiedendo a chi sue forze ha dome. Al trono dell' Eroe guidato innante Il magnanimo Otton così spiegosse. A te, Signor, Flora m' invia che tante Volte il tuo soglio minacciosa scosse. Forte ella è sì; ma come madre antante Veder non soffre far di sangue rosse Le patrie zolle i suoi diletti figli. Ed eterne durar risse e perigli. Pace desia; ben ti rammenta ch' ella Spagna e Sicilia ha in suo favor già pronte, Se cruda incominciar guerra novella Volessi, e d' essa ritornare a fronte. Di pace amor sul labro mio favella, Bramo, che avvolga oblio le ingiurie e l' onto. Tu pur, Castruccio, alle mie brame cedi, E ne avrai somma lode, a Ottone il credi. Non io ti chieggo che alla tua grandezza Parte del fulgor suo da te si tolga: D' un Eroe non disdice alla fortezza Che di pace ai pensier la mente volga; Che quando il Sol le dense nubi spezza Sembra che maggior luce in sè raccolga: Ma, se azzurro e sereno ha il cielo intorno, Siede Re dell' Empiro, e piove il giorno. Invitto Eroe disperditor d' Eroi, Nuovi lauri t' arreca il tuo nemico. Farti maggior della tua gloria puoi, La man mi porgi, e sii di Flora amico. Disse Castruccio allor; se pace vuoi Io vi assento, e all' oblìo do l' odio antico. Ma guai! se Flora provocarmi ardisce, Guai, se le sacre leggi ella tradisce. Disse, e a Valerian diede l' incarco Col Toscano Orater di trattar pace. E omai di guerra dalle cure scarco, Scinto dal fianco alfin l' acciar pugnace Già di trionfi e più di gloria carco Di riposo sentia l' alma capace; Ed i figli, la nuora, e la consorte Intesseano al suo cor dolci ritorte. Ma più de' figli e della cara moglie I sudditi fedeli eran sua cura. Sempre desto al lor ben gl' istanti toglie Ai suoi piaceri e lor giovar procura. Ei come padre l' orfanello accoglie, Le vedove soccorre e rassecura. Trema il superbo; ha il premio suo virtude, E povertà dalle sue terre esclude. Questi è il Guerrier che sull' Esarea sponda Fra gl' Italici Eroi surse gigante: Il cui nome divin raggio circonda D' invidia oggetto a tante etadi e tante: E sebben denso oblìo l' ali diffonda Forza non ha, che a lui resista innante. Solo ei grande non è d' Achille al paro Perchè il Ciel d' un Omero a lui fu avaro.

Finc del sesto, ed ultimo Canto.

ERRATACORRIGE
Pag.Stanza
9.24 Etutti insiemE tutta in un
10.28 cui Castruccio ispirò dia cui Castruccio inspirò
14.45 scorrevol' ondascorrevol onda
16.53 son' ioson io
20.70 vive solo,vive solo.
29.Argomento quell' istantiquegl' istanti
41.56 al furoral valor
100.108 ispiriinspiri
102.115 fra i spessifra spessi
134.23 ferratoserrato