BIBLIOTECA
PER LA
GIOVENTU ITALIANA
Volume X.



SILVANA

RACCONTO
DI
ANNA VERTUA GENTILE

CON INCISIONI

ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAJO
Napoli MILANO Pisa
1886.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

Milano. Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.



Dal collegio, 9 agosto.

Babbo mio caro,

QUANTI giorni ancora devo aspettare?… Ancora dieci, ancora quindici, ancora un mese?… Non ne posso più!… Se non vieni a prendermi subito, subito, capisci, scappo via da me sola. Ecco Bianca, la mia più cara compagna, già vestita e pronta per uscire di collegio. Affido a lei questa lettera, chè lettere di questo tenore, lo sai, non partirelbero di qui con licenza della direttrice. Potessi chiudermi dentro questa lettera!… Vieni, vieni o me ne scappo. Ti aspetta, babbo caro, babbo buono, la tua

Silvana.
Dal collegio, 9 agosto.

Babbo mio,

E ancora non sei venuto!… Veramente sono appena passate tre ore da che ho dato la mia lettera a Bianca, e non è tempo sufficiente perchè tu possa arrivare. Hai ragione. Basta esser babbo per aver sempre ragione. Ma non pensi che per me tre ore contano quanto tre giorni, quanto tre mesi? «Impaziente irragionevole!»… tu mi dici con volto severo. Hai ragione; non sei babbo per nulla. Ma intanto ecco se ne va anche Elvira, e a lei affido quest'altra lettera. E dopo Elvira se ne partirà anche Carlotta, e poi Edvige, e poi Marianna… Se ne vanno tutte… come fanno a settembre le rondini che nidificano sotto la grondaia della nostra torre; un cinguettio, un gridio, e poi una dopo l'altra prendono il volo, e via. Ed io, io sola, resto qui!… Non ne posso più! Queste mura mi soffocano, questi cancelli mi opprimono!… Anche Enrichetta viene a salutarmi, darò una lettera anche a lei. Quante educande partono, altrettante lettere per te, e saranno lettere di fuoco, finchè tu non sia venuto, babbo crudele, a liberare la povera prigioniera, la tua

Silvana.
Dal collegio, 10 agosto.

Babbo cattivo,

Oh me disgraziata!… La direttrice mi chiama, e, pigliandola larga, da lontano, con molti giri e con molte parole inzuccherate e raccomandazioni di pazienza, mi dice che tu le hai scritto di non poter venire a prendermi prima del giorno 17, perchè molti affari ti trattengono: il bosco da tagliare, le commissioni da finire, e tira via… Ma Gualtiero, il tuo commesso, il tuo aiuto, il tuo braccio destro, quel famoso Gualtiero c'è egli per nulla?… Ci sia o non ci sia… al diavolo il bosco, al diavolo le commissioni, vieni, vola! Voglio — il verbo è un po'impertinente, ma mi hanno sempre raccomandato la proprietà di parola — voglio essere costì per il giorno 15. Non pensi che il giorno 15 è la sagra del paese? Non pensi che sono anni ed anni ch'io non la vedo questa festa, che mi piaceva tanto da bambina!… Il giorno 17… aspettare altri sette giorni!… E sia; ma quando verrai, invece del baule farai portar via una cassa da morto, una bara fatta con assi d'abete, di quel bosco che ora stai a tagliare. Puoi venire in abito da lutto; mi troverai morta!… stesa sopra il letto, vestita di bianco. Non piangi? Non credi che noi giovinette si muore presto dal dolore?… Domandane un po'al nostro vecchio dottore… Oh perdonami! Mi dimenticavo ch'egli è morto da due mesi, sia pace a lui!… A proposito: è vero che c'è in paese un nuovo dottorino, giovane e bello?… Ebbene, domandalo a lui se noi giovani non si muore dal dolore. Vieni dunque, vieni subito, finchè è ancor viva la tua

Silvana.

TELEGRAMMA.
Signorina Silvana Della Torre

Milano, Collegio Durand

Pazzerella! Sarò prenderti giorno 12 mattina.

Papà.

La mattina seguente all'arrivo di questo dispaccio, nel parlatorio del collegio di Madama Durand, un uomo dalla barba e dai capelli brizzolati, ma ancora robusto e vegeto, aveva il collo allacciato dalle braccia di una bella fanciulla, che copriva di baci quel volto rugoso e bruno. Era il babbo di Silvana, che ai baci della figlia rispondeva con altri baci, dicendo fra sorrisi: — Pazzerella! Pazzerella!

Come un uccellino che, dopo lunga prigionia, trovata un'uscita fra le gretole della gabbia, fugge via, con un trillo saluta la prigione e dritto vola al verde de'boschi, così Silvana usci trillando dal collegio; e senza un istante d'indugio, senza lasciare che il babbo riprendesse fiato, volle andare dal collegio alla stazione, dalla stazione, con un treno diretto, a Como, e da Como, co 'l battello a vapore, via per il paese suo, un paese posto all'estremità di quel bel lago ove esso s'allarga spazioso, circondato da boscose ed alte montagne, che annunziano la maestosa grandezza delle Alpi.

La sera stessa di quel giorno l'uccellino erasi ricoverato nell'antico suo nido.



Wolto prima che il sole indorasse le vette dei monti, Silvana era già desta. Girò attorno gli occhi ancora velati dal sonno e restò incerta e confusa perchè non vide la lunga, bianca sfilata dei letti nel dormitorio, non sentì la campanella della sveglia, non la voce della sorvegliante. — Dove sono?… Ah! — E sorrise di contentezza riconoscendosi a casa sua, nella sua cameretta.

Sgusciò lesta lesta dalle coltri, raccolse in nodo i lunghi capelli neri ondulati, e buttatasi addosso una vesticciola, spalancò la finestra. Un'ondata di luce e d'aria fresca, profumata dal tiglio in fiore, l'avvolse tutta, baciandola, carezzandole il viso, agitandole su la fronte i riccioli neri.

— Oh finalmente! — esclamò con voce commossa — eccomi qui finalmente!… Non lo lascierò più il mio paese, non la lascierò più la mia casa!… Nessuno più mi governerà, nessuno m'impedirà di fare il piacer mio!… Oh cara, cara libertà!…

Appoggiata al davanzale della finestra, la giovinetta andava cercando con lo sguardo i luoghi a lei ben noti e cari per molte e dolci memorie dell'infanzia, luoghi che dopo la lunga assenza degli anni di collegio ora rivedeva e risalutava con gioia.

La casa del signor Bernardo Della Torre, posta alla estremità del borgo sorgeva presso il lago allo sbocco d'un fiume; tra il fiume e la casa era una bella riva con un fitto bosco di pioppi. Il corpo della casa s'appoggiava ad un torrione rotondo, saldissimo maschio d'un antico castello da cui i padroni del luogo avevano tratto il nome. Quella casa bianca dalla facciata fresca e linda, con una fila di finestre dalle persiane verdi, appoggiata a quel massiccio muraglione co 'l ballatoio e la merlatura anneriti dal tempo e tappezzati d'edera, faceva un vedere pittoresco e bello. Alla fantasia di Silvana quella casa rendeva quasi immagine d'alcuno di noi, deboli personcine moderne, che s'appoggi a schermo d'uno di quegli antichi dal fiero cipiglio, vestito di ferro.

La casa da un lato guardava il lago, dall'altra il monte; e dal lato del monte, risalendo il fiume, s'entrava in una valle profonda e boscosa, co'fianchi sparsi di villaggi, di casette, d'abituri. Dopo due ore di cammino dentro la valle, a un punto dove il fiume formava una bella, spumeggiante cascata, sorgeva un grande opificio per la segatura e la lavorazione del legname, che i boschi de'monti intorno, fornivano in gran copia.

Quell'opificio era antica proprietà e fiorente industria della famiglia Della Torre. Le assi d'abete, di larice, di bianco acero, di noce bruno e marezzato, dall'opificio delle seghe passavano giù al borgo, e sotto le ampie tettoie di fianco alla casa del lago s'ammonticchiavano accatastate in bell'ordine; di là poi, a poco a poco, per la via del lago, passavano alla città a trasformarsi in diverse foggie, in mille guise, nell'industre mano degli operai. A vedere le ben formate cataste di legname sotto le tettoie, a vederle diminuire e scomparire quando si caricavano le grosse barche, e poi nuovamente rifarsi e ingrossarsi per continui trasporti e rifornimenti dalla valle, il signor Bernardo, respirando con voluttà l'acre odore dei legni segati, si fregava le mani contento. Quella era la sua ricchezza!… Di padre in figlio, con indefesso lavoro, con occhio attento, con quella fine accortezza che il montanino mette negli affari, la famiglia Della Torre s'era arricchita; e tutta la ricchezza ora finiva in Silvana, la bella ereditiera, unica figlia del signor Bernardo. Non avere un figlio!… Questa era l'amarezza del sig. Bernardo, ultimo della famiglia. La moglie gli era morta già da molti anni, appena aveva dato alla luce la figliola. Era morta su nella valle, nella casetta svizzera annessa all'opiticio, dove, nei mesi estivi, ella si piaceva tanto d'abitare, ella, semplice e buona, fra le donne ed i figlioli degli operai.

Silvana, assorta nelle ricordanze guardava il monte e la valle ascoltando lo strosciare del fiume, di cui ella seguiva il corso segnato da una fila d'alti pioppi e di pallidi salici. Dal fondo della valle si levò una nuvoletta di vapore cinereo, si alzò su leggera, leggera, soffiata dalla brezza; poi, al brillare del primo raggio di sole, si dileguò. La fanciulla l'aveva seguita con gli occhi.

— Ah così! così! — esclamò — Via le nubi che fanno tristezza! Brilli il sole, e porti la gioia là su nei casolari del monte, nei sentieri della foresta. Silvana è tornata!… Boscaioli taciturni dalla faccia rugosa, dall'ispida barba, robuste montanine, amabili nella rude franchezza, e voi fanciulli, monelli inselvatichiti nel bosco come piccoli Fauni, su, su, fate festa alla vostra amica. Ella è tornata!… Cantate uccelletti vivaci! Sboccino, fra i greppi, i ciclamini, fiorisca tutta dorata la ginestra. Silvana è libera, è con voi!

Senti un'inquieta smania di correre, d'arrivare là in fondo alla valle, dove, annidata fra le piante, era la casetta svizzera, co 'l tetto a largo piovente di grigie ardesie, con la facciata e il balcone di rosso larice, la casetta dove ell'era nata; poco lungi da quel nido, su la spianata della scogliera, sorgeva la chiesuola dove l'avevano battezzata; e giù, in basso, erano le seghe. Risentiva lo scrosciare del fiume trabalzante in bianchi sprazzi, giù dagli scogli, il rumore delle seghe, dei martelli e il canto degli operai. Fiutava nell'aria l'acre odore dei tronchi tagliati, e provava in cuore una strana emozione di gioia e di dolore insieme.

Là, in quella casetta, sua madre era morta quand'ella mandava il primo vagito. Povera mamma!… L'avevano sepolta nel breve sagrato dietro la chiesuola, all'ombra di un abete dalle grandi braccia verdeggianti. Il babbo, zia Clotilde, il nonno, le avevano educato in cuore, fino dalla prima infanzia, un sentimento d'amore e di rispetto per la memoria della povera morta. E quel sentimento aveva germogliato e fiorito nella sua animuccia sensibile, ed eccitava il suo pensiero a fantasticare nel desiderio dell'ignoto.

— Era bella la mamma? — chiedeva spesso a Nanni, un boscaiolo che aveva per la fanciulla la devozione delle anime semplici, e la trastullava in ogni modo nei momenti di riposo.

— Bella e buona come una Madonna! — rispondeva lui scoprendosi il capo per rispetto. — E ci voleva bene a noi, povera gente, — soggiungeva — non era punto superbiosa, tutt'altro!… e a stare qua su, nei mesi del caldo, ci godeva mezzo mondo, ci godeva!… E diceva sempre che la sua bambina — desiderava una bambina lei! — diceva che aveva da nascere qua su, e portar nome Silvana, che vuol dire figlia della selva. Povera signora! aveva appena goduta la consolazione di baciare la sua creatura che Quello di là su la volle con sè! E così lei, signorina, adesso è come se fosse nostra figlia, la figlia della selva!

Queste parole, ripetute le cento volte, erano sempre ascoltate da Silvana con tenerezza e raccoglimento. Nei folto della foresta, ove, fino d'allora, si piaceva di vagare sola, spesso le accadeva d'interrompere a mezzo i suoi trastulli per gridare con quanto aveva di voce: — Mamma! mamma! — Come se in quei tronchi, in quei cospugli, in quei muschi, fosse una parte dell'anima sua.

Zia Clotilde le raccomandava sempre di essere buona per far piacere alla mamma, che la vedeva dal cielo; e bastava questo gentile pensiero a farle spesso troncare una bizza incominciata, e ricacciarle in gola le lagrime li li per prorompere.

La sera, quando brillava la luna, ell'era tutta contenta perchè le pareva che in quell'ora e con quella luce bianca, lo spirito della mamma potesse seguirla e vegliarla. Una volta che la nebbia avvolgeva la valle e si pareva sepolti nelle tenebre, l'avevano trovata come smarrita, accucciata nel cavo d'un grande albero, che piangeva in silenzio. — O che hai piccina? — le avevano domandato. — La mamma non mi potrà vedere! — aveva ella risposto, dando in uno schianto.

Questi ricordi infantili le si affacciavano alla mente tutti ad un tratto, se li vedeva dinanzi come riflessi in uno specchio, ne risentiva mesta tenerezza. — Ma ora so che la nebbia non t'impedisce di vedermi, mamma cara, mamma santa! — esclamò ad alta voce — so che mi sorridi, che sorridi alla tua figliola, la quale, dopo lunghi anni d'assenza, è tornata nella casa ove tu dimorasti. E la veglierai, la tua Silvana, perchè sia felice. Non è vero che la farai felice?…

Ella aveva tanto bisogno di allegrezza, sentiva un così forte desiderio di scacciarsi d'attorno ogni memoria triste, e di muovere incontro alla vita co 'l core aperto alla gioia!

— Silvana! — le gridò una voce dal giardino. Era il suo babbo che, fumando la pipa, contava tavole ed assi d'una catasta, e, levati gli occhi, aveva scorta la figliola.

— Che ti hanno insegnato a meditare in collegio?… Giù, giù, scendi; la vecchia Menica ha portato il latte fresco fresco, e ti vuol vedere. Ti ricordi della vecchia Menica?

S'ella se ne ricordava!… Si racconciò attorno le vesti e in quattro salti discese e baciò la vecchia su tutte due le guancie. — E voi, Menica, vi ricordate ancora di me, mi riconoscete? — le andava chiedendo.

Intenerita da quell'accoglienza affettuosa, alla buona donna luccicavano gli occhi. — Dio del Cielo! come s'è fatta grande e bella! — esclamò giungendo le mani. — Tale e quale sua madre, che il signore le benedica tutte due!

— O e la Bettina, e Maria del sagrestano, e Madda della pineta? — chiese la fanciulla.

— Senti, senti, come le ricorda tutte le sue compagne d'una volta!… La Bettina s'è fatta sposa che saranno due mesi. Maria è andata lontano, in America, con suo fratello, chè qui stentavano la vita, poveretti. Madda non istà più alla pineta; s'è ritirata insieme co'l padre in una casuccia nella valle, più in là delle seghe. Sono passati per molti guai quei disgraziati!… Ma è una storia lunga lunga, che verrà a sapere poi.

Uscì la zia Clotilde a pagare il latte alla vecchierella, e questa se n'andò dopo molti saluti e benedizioni alla bella signorina, che voleva bene ancora agli amici d'infanzia e non aveva messa muffa, come fanno tanti, che vanno foravia e quando tornano pare che disdegnino la gente del proprio paese.

Silvana girava per la casa e rifrugava ogni angolo. Nel salotto vide il vecchio pianoforte di sua mamma, e sopra il leggio un album di musica.

— O chi suona qui! — domandò a zia Clotilde.

— Il signor Gualtiero — rispose quella mentre disponeva su la tavola le tazze per il caffè e latte. — E suona bene; è un incanto a starlo a sentire. Egli era impaziente che tu arrivassi per passare con te della musica. Oh è un giovane a modo, vedrai!

Silvana fece una smorfiuzza, con certo movere delle labbra ad un attuccio, che le dava un'aria sprezzante. Quel signor Gualtiero, del quale il babbo le aveva tanto e tanto parlato in ogni sua lettera, portandolo ai sette cieli, quel signor Gualtiero, che conosceva tutte le lingue, che faceva andare in estasi la gente quando suonava, a lei veniva in uggia prima ancora di vederlo. — La conosceremo questa rara perla — andava pensando — lo sentiremo questo poliglotto, come diceva in collegio la direttrice, del nostro professore di lingue straniere — lo applaudiremo questo nuovo Orfeo!

Nel corridoio si senti lo strascico del passo d'un vecchio, con una voce grossa e piena, da persona bonaria e schietta; e un minuto dopo si aperse l'uscio. Il nonno di Silvana apparve con la faccia tutta ridente, seguito da un giovanotto alto e biondo, vestito con eleganza.

— Ecco qui la piccina — disse affrettando il passo per abbracciarla — non aveva io ragione eh?… non aveva io ragione di dirti ch'è una cara fanciulla?… un fiore nato nei boschi, che non ha paura della tramontana!… Qua, Silvana, dai la mano a Gualtiero, il figlio unico d'un mio vecchio amico; siate amici anche voi altri, figliuoli miei!

Silvana alzò il capo con certo sussiego, poi l'abbassò con un leggiero inchino senza porgere la mano; e il giovanotto che, alle parole del vecchio, si faceva innanzi sorridente, sicuro d'un'accoglienza amichevole, si arrestò di botto, piegando la lunga persona in segno di fredda riverenza.

Il signor Gualtiero Stark era un giovane Alsaziano, dei dintorni di Colmar, figlio d'un ingegnere ch'era venuto per primo a dirigere l'impianto e il lavoro delle grandi seghe nella valle. Giovane dall'aspetto simpatico, dai modi di ben compita educazione, esperto negli usi della buona società, si piccava del suo accento forastiero e si piaceva di far capire di non essere stato allevato all'ombra dei boschi Alsaziani, ma d'aver finito, di tutto punto, la sua educazione a Parigi.

Entrò Brigida, la donna di servizio, con la caffettiera, co 'l miele ed il burro; venne il babbo; zia Clotilde additò una seggiola alla nipote e ognuno sedette a suo posto.

Ci fu un poco di silenzio. Poi, ad un tratto, Silvana posò giù il cucchiaio, e, buttando le braccia al collo del suo babbo, che le era presso: — Oh papà! caro papà! quanto sono felice di ritrovarmi qui, a casa mia! — disse — Dopo sei anni d'esiglio, un esiglio lungo, crudele!… Quando penso che avete avuto il coraggio di vivere senza di me per tanto tempo!… Ecco; quasi quasi crederei che non m'avete mai voluto bene! — E si appoggiò allo schienale della seggiola con la faccia immusonita.

— Pazzerella! — mormorò suo padre sorridendo.

— È un sacrificio che abbiamo fatto per il tuo bene, — uscì a dire zia Clotilde con la sua solita dolcezza.

— E la prova è che tu sei tornata ben istruita, educata, seria! — soggiunse il nonno.

— Oh seria no! seria no!… Non mi parlare di serietà, nonno mio, n'ho fin sopra ai capelli. Pensate un poco!… Sei anni di convivenza con persone tutte, tutte serie!… Direttrice, vice direttrice, professori, maestre, perfino la servitù, tutta gente seria, posata, impettita, che parlava quando doveva parlare, camminava come doveva camminare, non rideva, non ischerzava mai! Oh nonno mio! la serietà è una cosa uggiosa uggiosa!… Per voi altri uomini, per i vostri affari, quando state a far calcoli, non dico, la serietà può passare. Ma per noi fanciulle, e per me in ispecie!… no, no. Ora non sono più in collegio, lasciatemi ridere, lasciatemi folleggiare, spensierata come una cingallegra…

— Ma sentite un po'la biricchina?… Biricchina! — faceva il nonno scuotendo l'indice in atto di scherzosa e piacevole minaccia. E rivoltosi a Gualtiero: — La sente eh?… che spirito!… che demonietto!

Zia Clotilde guardò la fanciulla con aria ammirata e sorpresa; il babbo le diede un buffetto e si alzò per uscire.

— Ho da sbrigare alcune lettere — disse — e vado nello studio. Lei, signor Gualtiero, potrà raggiungermi più tardi.

Il nonno prese il cappello, e, curvo su 'l bastone, brontolando per i reumi, usci anche lui a dare un'occhiata al podere ove si falciava il fieno; zia Clotilde sedette nello sguancio della finestra con un paniere di biancheria, ad agucchiare, e Silvana si mise al pianoforte.

— È sua questa musica? — chiese a Gualtiero che l'aveva seguita.

Egli accennò di si co 'l capo, ed ella prese a suonare. Leggeva bene, aveva il tocco morbido e delicato, un'agilità non comune, ma interpetrava a suo capriccio, e quella musica, eseguita da lei, aveva del bizzarro, del fantastico. Fini con una smorzatura là ove su la musica era scritto un «forte», e si alzò.

— Le faccio i miei complimenti, signorina; lei è una pianista! — disse Gualtiero.

— Che? — fece Silvana con noncuranza. — E poi, senta: se s'ha da essere amici, come al nonno piace che si sia, non mi lodi, non mi aduli mai. Sia schietto, o, se vuole anche brusco. Sa?… da piccina, al dolciume delle frutta mature ho sempre preferito l'aspretto delle frutta acerbe, che allappano la bocca e allegano i denti; n'è vero zia?… Le lodi, a me, non mi vanno; le adulazioni le abborro, come ogni maniera d'ipocrisia. Già, si sa; le fanciulle, le signorine per bene amano i dolci complimenti, le parole di zucchero. Ma io non son fatta così, io!… Ho schifo delle mosche che corrono al miele. In collegio, per cavare qualche costrutto da me, ci volevano delle punture. Se ho imparato la musica… — badi, è lei che ha detto or ora che l'ho imparata, — gli è che me l'insegnava un certo maestro arcigno, incontentabile, che non ha mai detto una volta «brava». Quando, dopo aver sonato il mio pezzo all'accademia finale mi applaudirono da non finire, sa cosa mi disse lui, il maestro, che mi stava vicino?… Mi disse: — Signorina; non ci badi; sono tutti ignoranti! — Io gli risposi: — Grazie, maestro! — e nelle mie parole non c'era ombra d'ironia. Fu quello il solo maestro ch'io abbia amato. Tutto ciò le pare strano?… Si capisce; la finzione sociale o le convenzioni, come dicono, hanno messo radici cosi profonde, hanno disteso propagini cosi larghe, che per la schiettezza ormai non c'è un palmo di posto. Che matto discorrere per una collegiale!… Così mi dicono i suoi occhi meravigliati. Come se le collegiali fossero tutte pulcini co 'l guscio in capo. Ma ci conosceremo meglio in seguito. Vuol ella che ci trattiamo da amici, da camerati?… Ci potremo intendere… forse… Non vuole?… Poco monta. Ciascuno per la sua strada. Il mondo è largo; c'è posto per tutti senza darsi di gomito.

— Mi preme troppo, signorina, il distinto onore della sua amicizia, e le sue condizioni per me sono leggi.

— Là là… — fece Silvana stendendogli la mano — meno cerimonie, e lasci stare l'onore, che qui non ha a che vedere. Zia, voglio fare una scappata nel frutteto qui accanto; qualche pesca acerba, di quelle verdi co 'l pelo, la troverò. Non sgridarmi, zietta cara!

Lesta e leggiera usci dal salotto, lasciando la zia Clotilde e Gualtiero a guardarsi in viso come trasognati. Gualtiero guardava, in silenzio, la signora con occhio pieno di dubbii, d'interrogazioni, di delusioni.

Dal di fuori veniva la voce argentina di Silvana, che cantava allegra. La signora Clotilde, dopo un momento, posò il cucito e disse al giovinotto:

— Caro mio, capisco quello che vorrebbe dire: — è questa la fanciulla dolce, gentile, cara? — Si, è questa; rispondo io. E soggiungo subito: ripensi un poco quello che già conosce della vita di lei. Cresciuta senza l'educazione materna; allevata qui tra i monti, fra il padre e il nonno tutti immersi negli affari dei legnami e dei poderi, aspri come quercioli nelle forme esteriori, ma nell'interno dell'animo, molli, teneri, come sempre sono i vecchi verso il proprio sangue giovane. Per la casa chi ci bazzica?… Gente di montagna, boscaioli, cuori d'oro se si vuole, ma ravvolti, a cento doppi, dentro una scorza rugosa, scabra, dura. Pensi che questa fanciulla è cresciuta così fino quasi ai dodici anni, nella piena libertà della natura: una fanciulla viziata da una parte per essere riverita come unica figlia dell'uomo più facoltoso del borgo, viziata dall'altra per la sommissione di tutta la casa al suo talento. Sa, quand'io venni qui ad abitare con mio padre e co 'l fratello, il bel primo mattino, entrando in questo salotto, sa, cos'ho veduto?… Ma non lo ridica veh!… Il nonno, il vecchio nonno carpone, e a cavalcioni del suo dosso, la fanciulla che gridava: ih! ih!… Venne il momento che si dovette pensare alla sua educazione ed istruzione. Fu mandata in collegio; e di quella deliberazione la parte più difficile toccò a me. Fu un momento critico; ci volle non meno dolcezza che fermezza per uscirne bene; ci volle proprio mano di ferro e guanto di velluto. Ora, quali sono stati i frutti di sei anni di collegio?… Per quanto all'istruzione non c'è da ridire. Le lettero di Silvana mostrano chiaro quanto abbia bene appreso; al piano l'abbiamo sentita or ora; il francese lo parla spedito… Ha ingegno vivace; nel bizzarro suo carattere disdegna ciò che è agevole e si piace delle difficoltà… Ma quanto all'educazione del cuore?… Caro, signor Gualtiero, se alcuno mai avesse bisogno che a questa domanda si risponda, gli si potrebbe dire: è un cuor d'oro! L'educazione gli potrà dare più o meno di pulitura, ma l'oro, che nessuna educazione non dà se natura già non l'ha concesso, oh quello c'è! C'è attorno della scorie vecchia; non riesco a capire se l'educazione l'abbia pulita via, o invece non v'abbia sovrapposto appena una mano di vernice nuova. La vita di collegio opera, a mio avviso, non tanto a formare il sentimento, quanto piuttosto a muoverlo per una data via e a determinarne le manifestazioni esteriori. I germi del sentimento sono in noi da natura; la natura prepara in noi come un primo ordito, che poi l'educazione e l'ambiente in cui viviamo finiscono di tessere senza mutarne il disegno fondamentale. Ora, si figuri quello che Silvana è per natura: una fanciulla ricca di sentimento e di fantasia, fatta vigorosa, indipendente, fiera, dal singolare ambiente in cui crebbe da bambina. Nata e allevata nella selva, ne ha assorbito nell'indole un sapore silvestre incancellabile. Nessuno potrà dire come e quanto nella sua anima e nella sua mente infantile abbiano operato la solitudine e l'ombre del bosco, il rumore del torrente, il fremito dell'aria… ma certo vi hanno operato, e chissà?… quand'ella dal pianoforte trae un singolar fascino di suoni strani, forse risente in sè, inconsciamente, un'armonia, di cui l'essere suo è penetrato fino dalla prima infanzia. Ora, in questa natura, l'educazione cittadina non può avere assopito il vigore natio. La parte buona dell'anima sua è intatta: intendo dire, la schiettezza, l'amore dell'indipendenza, una certa superiorità, non frutto di dispregio, ma spontaneo effetto di chi sia vissuto nella libera natura. Quella schiettezza non si manifesta più co'modi, con gli atti, co 'l linguaggio agreste; bensi con atti e con linguaggio forbiti, affinati dall'educazione. Forse in Silvana s'è formato un singolare e strano miscuglio della sua prima educazione campestre, con la pulitura cittadina; e ciò farà ch'ella trovi, agli occhi d'alcuni, delle ripugnanze, ma agli occhi di qualche altro acquisterà le attrattive della bizzarria. Ma tosto ch'ella, che non è più bambina, entri nella vita vera, nella realtà, e trovi libera significazione e intelligente corrispondenza dell'animo suo, allora la scorie che avvolge l'oro, cioè le bizzarrie, le esteriori stranezze, scompariranno; allora qualcuno troverà il cuor d'oro. Chi sarà questo qualcuno?… Per intanto, caro mio, siamo tolleranti e non ci scandolezziamo, per troppo amore delle forme, se Silvana ci appare una fanciulla bizzarra.



Da due giorni le campane della chiesa del borgo suonavano a festa; la campanella piccola spandeva lontano squilli acuti, argentini; il campanone vi faceva sotto le note basse e cupe; e Tita, il sagrestano, ci metteva del suo orgoglio a far sentire lontano, su 'l monte e su le sponde del lago, l'armonia delle campane da lui toccate con maestria.

— La festa del paese!… sono molti anni che non la vedo — aveva scritto Silvana al suo babbo. Quante memorie le destavano i rintocchi, le onde sonore che dal campanile vibravano lontane lontane!… Alle anime sensitive, alle fantasie vivaci, basta un suono, un odore, un qualsiasi non-nulla per subitamente svegliare nella mente le ricordanze; appena ricevuto l'impulso, il pensiero lavora spontaneo, e ricordanze succedono a ricordanze, e, come imagini, passano e passano davanti agli occhi della mente, e, come sentimenti, toccano il cuore. Quante cose le dicevano i suoni delle due campane!… La campanella piccola, con gli squilli acuti, crudi, saltellanti, le richiamava le fanciullesche allegrezze, lo spensierato folleggiare in su 'l sagrato, allo sparo de'mortaretti, la danza dei fanciulli intorno al falò acceso in piazza, le grida di gioia ond'erano accompagnati i razzi che salivano su, con una grande striscia di fuoco, nel cielo buio, e scoppiavano in alto ricadendo in pioggerelle di scintille… La campana grossa, co 'l suo vocione basso, la riportava co 'l pensiero nel raccoglimento della chiesa, tra il fumo dell'incenso e l'odore de'fiori, nella chiesa dove accalcavansi i devoti venuti giù dalle montagne a vedere la bella Madonna parata a festa.

Già dal primo albeggiare veniva gente dai paeselli vicini, dalle campagne, dal monte. S'aggruppavano a capannelli su la piazza, risalutandosi e richiamandosi; i vecchi si contavano i loro guai, i giovanotti giravano fra i crocchi delle fanciulle; i ragazzetti gingillavano attorno ai banchetti dei rivenditori di dolciumi, con occhio ingordo ammiccando alle chicche ed agli zuccherini. Per le strade e per la piazza era un brusio, un rumore di scarponi e di zoccoli ferrati, un vocio, nell'afa greve d'un mezzogiorno d'agosto. Tratto, tratto traverso la folla, passava un abito o rosa o bianco, un cappellino piumato riparato sotto un ombrellino di seta: erano le signore e le signorine del borgo o dei paesi vicini che andavano alla Messa cantata, fra l'ammirazione delle contadine vestite di traliccio. Sopra tutte le teste ondeggiava il cappello a tuba del sindaco, un cappello alto, di feltro bianco, dal pelo lungo, che ogni anno, da tempo immemorabile, usciva dall'armadio in questo giorno solenne. Fra il bigio e il bruno delle giacchette di frustagno de'contadini, spiccava, come una nota acuta in una musica sommessa, il gran panciotto a fiorami del segretario comunale, che quando parlava animavasi, e gesticolando palleggiava una canna dal pomo d'argento scintillante al sole. Ma allora quasi per castigare la superbia di quello sfavillio, lo speziale cavava solennemente dal taschino del panciotto una tabacchiera d'argento, con intarsj d'oro, colma di rapè profumato da una cantaride o da un fior di gelsomino, e la mandava in giro fra il crocchio. Il pomo d'argento s'abbassava, si nascondeva nella palma chiusa del suo possessore quasi confessandosi vinto. Al di sopra della folla che, all'accostarsi dell'ora della processione si faceva più fitta, ondeggiavano i pennacchi rossi di due carabinieri, come due rosolacci sopra l'erba d'un prato. Dalla chiesa erompevano ondate d'incenso, di suoni d'organo, di canti nasali; finchè, compimento della sacra cerimonia, la Madonna sotto un ricco baldacchino, portata da braccia robuste, usciva dalla chiesa preceduta dalla lunga sfilata della confraternita, seguita da preti e chierichetti, fra il suono della banda, lo sparo dei mortaretti, lo squillar delle campane, il canto de'fedeli, che confondevano ad un medesimo punto, in un pieno terribile, i loro rumori. La folla s'inchinava; i più vicini s'inginocchiavano; dalle finestre, pavesate di drappi, di coperte dai colori vistosi, molte teste guardavano ammirate. La processione faceva il giro del paese, poi rientrava in chiesa. Allora la folla si sperdeva, per le case dov'erano inviti di parenti e d'amici, per le osterie dove, in quel giorno, si benediceva il vino per moltiplicarlo, ovvero sotto gli alberi, all'ombra, fuor dell'abitato imbandendo su l'erba i cibi provvidamente recati.

Le signore e le signorine che quel mattino, tutte in fronzoli, erano andate alla chiesa, smaniavano della curiosità di vedere Silvana, che si sapeva arrivata di poco. Alcuni, cho l'avevano veduta alla sfuggita, dicevano che era una bellezza. Una bellezza!… o allora perchè non si mostrava?… Era una grande aspettazione non iscompagnata da una certa trepidanza. Ma tanta curiosità fu delusa. Silvana non andò in chiesa. Ogni tanto la moglie del pretore si volgeva alla porta a guardare; la sorella dello speziale non distoglieva gli occhi dal banco dei Della Torre; ma nel banco non c'era che il vecchio nonno; mancava perfino la zia Clotilde. Notando quell'assenza, la sorella del pievano, una devota pulzellona, aveva susurrato alla vicina, facendosi il segno della croce: — Che Ebrei! —

In casa Della Torre, zia Clotilde insieme con Brigida, erano in grandi faccende. Era di vecchio costume che in quel giorno di festa vi fosse pranzo d'invito, uno di quei pranzi d'una volta all'anno, con una ventina d'invitati, e lautezza di vivande e sfolgorio di vasellame e d'argenteria. Il nonno ci teneva alle vecchie tradizioni domestiche, e, fin dal primo mattino, passava sollecito dalla cucina al salotto, a raccomandare, a sorvegliare che tutto fosse in ordine, per l'onore della casa, fregandosi ogni tanto le mani per contentezza. Egli soleva dire che uno dei piaceri più grandi della vita è quello di sedere, con alcuni buoni amici, ad una mensa ben imbandita, nel salotto de'propri padri, e fare un brindisi alla salute di tutti. Intanto che pentole e casseruole fumavano su 'l focolare e sopra i fornelli, e Brigida comandava agli straordinari aiuti presi per quella straordinaria circostanza, il nonno accendeva il lume, e, con la paniera infilata nel braccio, zufolando sommesso, da uomo contento, scendeva in cantina a far la scelta delle bottiglie. Quello era il suo proprio incarico, e non lo cedeva a nessuno. Bisognava vederla allora la sua faccia tonda e bonaria illuminarsi d'un dolce sorriso di soddisfazione, davanti ai palchetti ove stavano sfilate in bell'ordine centinaia e centinaia di bottiglie con la ceralacca rossa sopra il tappo. Ciascun palchetto aveva la sua storia, scritta nella fida memoria del nonno. Da questa parte i vini paesani, fatti su le terre di casa Della Torre. — Ecco, quelle tre file di bottiglie, sono ultimo avanzo del raccolto fatto nei vigneti a solatio, su i fianchi del monte, l'anno che nacque Silvana… e sono diciasette anni passati, e me li sento su le spalle! — mormorava il buon vecchio. — Queste altre bottiglie, in file più numerose, son di vino del piano, un vino sostanzioso, ma che non ama d'invecchiar troppo. Questi altri son vini forestieri co'cartellini smaglianti, che quando si portano in tavola fanno un grande effetto; ecco, bottiglie del Reno, dono del padre di Gualtiero quando mandò qui il figlio; queste sono bottiglie di Borgogna, quell'altro è Marsala, e, in quei fiaschi, c'è del buono Orvietano… Roba da risuscitare i morti!

E tra pensieri e ricordanze, il buon vecchio aveva riempito il paniere; lo prese e risalì; veramente il paniere pesava un po'troppo. Che avesse accresciuto il numero delle bottiglie?… O invece che fossero cresciuti i suoi anni?

Il signor Bernardo, quella mattina, aveva fatto un bel disegno: di comparire alla funzione di chiesa con a braccetto la figliola, che aveva da essere ammirata da tutti; e poi tornarsene a casa a ricevere gli invitati, a cui Silvana avrebbe fatto gli onori di casa, con quella grazia, con quella gentilezza che doveva aver appreso in collegio. A mensa ci erano invitati il sindaco, il pretore, il cancelliere, il segretario e lo speziale con le signore e i figlioli. Avrebbe voluto invitare anche il giovane dottore a prendere il posto che già teneva quel vecchio suo predecessore, buon anima, tanto amico della famiglia. Ma questo giovane dottore pareva uno scontroso, e non si sapeva se l'invito gli potesse piacere o no. — Staremo allegri anche senza! — disse il signor Bernardo. Aveva finito di radersi e si accingeva a vestire il panciotto bianco, quando gli si presentò Gualtiero con la faccia abbuiata e un dispaccio in mano. Era un corrispondente che da Milano mandava avviso di temuto fallimento di una casa che aveva grossi affari co' Della Torre. Presto, presto, nello studio a riveder conti, a scrivere note. Le campane suonano a distesa invitando alla funzione. Ma il signor Bernardo ha ben altro per il capo!

I boscaioli che si preparavano a scendere al borgo per la sagra, ebbero notizia che Silvana, la signorina, era arrivata. — Festa doppia! — gridò fra l'ispida barba Nanni, il capoccia, dalla faccia caprina.

La voce si sparse; anche quelli che non volevano scendere per la sagra si deliberarono, per il pensiero di rivedere e salutare la signorina. E ciascuno cercò quel che aveva di meglio, perchè non si va mica a dire il benvenuto con le mani vuote. Erano tanti anni che non avevano più veduto la signorina!

Ed erano scesi, fin dal mattino, a bruzzolo, con le mani piene di mazzi di fiori silvestri, con panierine di fragole montanine, di ciliegie e di mele appiole; con fiscelle piene di bacche di mirtillo; Madda aveva due belle giuncate, e Bista, che l'inverno tesseva vimini, portava in dono un canestrino ch'era una galanteria.

A sentire il rumore dei loro zoccoli pesanti su le lastre del porticato, Silvana li riconobbe ed ebbe un sussulto di gioia. Presto, presto si appuntò i capelli a sommo del capo, indossò un vestito di percalle a scacchi bianchi e turchini, e giù, impaziente, tutta rossa in volto.

— Oh Nanni!… Oh Bista!… E tu Madda!… Veh Cecchetto e mamma Caterina!… E quello con la barbaccia?… è Maso!… Chi lo riconosce più?… E Biagio il lungo?… E nonna Tecla?…

Ed erano abbracci e strette di mano, un rivedersi dei più affettuosi, come se fossero figli o fratelli. Chi l'avesse veduta quella bella signorina, abbandonarsi a tanta espansione d'affetto con quella gentuccia rozza, avrebbe arricciato il naso scandolezzato. Diamine! il decoro! le distanze sociali!… Loro, quella buona gente, felici di così cordiale accoglienza, felici di vedersi riconosciuti, di sentirsi nominati dalla padroncina, dopo tanti anni. se ne stavano là co 'l sorriso su la bocca e le lagrime negli occhi, silenziosi. Avevano il cuore commosso in modo insolito; provavano in sè dei sentimenti gentili; ma le cose gentili essi non le sapevano, non le volevano dire.

— Come s'è fatta grande! — usci finalmente ad escalmare Nanni, guardandola ammirato — Ed io la portavo in braccio ch'era bambina cosi!

— È bella come una rosa! — soggiunse Bista, ch'era stato soldato e s'era un poco raggentilito.

— Tutta sua madre! — disse con voce tremula nonna Tecla.

Il nonno intanto erasi fatto in su l'uscio, e godeva di quella famigliarità, lui ch'era stato boscaiolo, aveva maneggiato ascia e sega e aveva messo i fondamenti della ricchezza di casa.

— Bravi! bravi! — gridò con la sua voce sonora e franca.

I poveri montanini trasalirono come fossero presi in fallo di troppa famigliarità. Ma si rinfrancarono tosto sentendo il nonno soggiungere: — Silvana! fa un po' d'onore a questa gente, e rinfrescali… Vengono di montagna, sai!… Animo, buona gente, in cucina!

Uomini e donne, non senza certa rusticana peritanza, passarono nell'ampia cucina, dove, sopra la lunga tavola, presto furono da Brigida apparecchiati fiaschi, bicchieri, ciotole, e i boscaioli sedettero a far colazione. Silvana, tutta gentile attenzione, andava dall'uno all'altra, ed aveva per ciascuno una parola, e chiedeva mille cose ad un tempo.

O nonna Tecla ce li aveva ancora i piccioni, che a chiamarli volavano dal bosco su la soglia del casolare a bezzicare il grano?… O e Maso, era egli sempre quell'ardito arrampicatore, scovatore di nidi sopra gli alberi più alti, e malizioso inventore d'insidie e di trappole a tutte le bestie della selva?… E Bista ne faceva ancora di graziosi lavoretti co 'l suo coltellino, intagliando l' abete e l'acero?… c'era dell'artista nel cervello di quel giovanotto!… E Nanni, il buon Nanni, aveva sempre il braccio forte quando si doveva dare gli ultimi colpi d'accetta a qualche vecchio tronco di larice da stendere a terra?… E Madda aveva imparato a leggere e scrivere, che quand'era piccina ci si struggeva dalla voglia?… Dio! quanto desidero di venire là su alle seghe! — esclamò stringendosi le mani su 'l petto e alzando gli occhi. — Voglio dire a papà che affretti la partenza e si vada, in questa caldura d'estate, a dimorare nella casetta svizzera. Mi sembrerà di non essere mai stata via; li voglio dimenticare questi lunghi sei anni di assenza, di prigionia!… Oh se sapeste come si sta male fra le mura, con nessun altro sfogo che un meschino giardinetto dalle piccole aiuole fiorite, dalle pianticelle tisiche!

E queste cose le disse con un'ombra di melanconia che dava nuova espressione al suo bel volto. In quel momento ella pensava quanto le erano stati penosi i primi tempi della vita di collegio; pensava, quante volte aveva sofferto umiliazioni, perchè, ingenuamente, con le compagne, parlava di casa sua, delle sue montagne, delle sue amiche d'infanzia, dei rustici suoi sollazzi; e le compagne, tutte signorine nate e allevate nei salotti cittadini, la beffavano, e la chiamavano la montanara, la pastorella!… Ella s'era chiusa in cuore ogni reminiscenza, e in su le prime s'era fatta solitaria; ma poi, poco a poco, s'era rimessa a pari con le compagne, le quali sembravano aver dimenticato la sua origine e i suoi gusti rusticani. Ma quei primi dolori non le si erano cancellati dal cuore, ed ora pareva che fra i vecchi amici, fra quegli amici fidati, volesse risarcirsi degli affanni patiti.

I boscaioli la guardavano inteneriti. Madda, con fine pensiero, capì che l'amica sua aveva dovuto soffrire là giù, lontana dal paese e da chi le voleva bene, e questo pensicro, a lei, che durante la lontananza di Silvana era passata per tanti e tanti guai, gliela rendeva a cento doppi più cara.

Nanni, finito di centellare il suo vino, forbendosi la bocca co 'l rovescio della mano, farfugliando fra l'ispida barba: — Che s'ha da levare il disturbo? — chiese ai compagni.

— Sentite i richiami della campana… spicciatevi, andate a funzione! — disse Brigida, aiutando le parole con degli spintoni, chè desiderava di veder sgombra la cucina da quegli zoccoloni, e, da serva che era, s'indispettiva della famigliarità di Silvana. — Scusi, signorina, il signor babbo l'aspetterà per accompagnarla alla chiesa! — soggiunse.

— Or ora vengo — disse Silvana.

Staccò da un appiccagnolo un largo cappello di paglia, che le incorniciava il volto a meraviglia e la faceva apparire bella come una figura di Rubens.

I boscaioli uscirono avviandosi alla chiesa. Ma la pallida Madda, con le altre ragazze, si ritardarono indietro insieme con la padroncina. Quando furono in capo al giardino, dove cominciava il bosco di pioppi, Silvana, quasi presa da un subito desiderio, come se d'un tratto là con le compagne fosse tornata bambina, battendo le mani esclamò:

— Corriamo nel bosco! — E via di corsa.

Le contadinelle la seguirono ridendo a schiamazzo.

Nel bosco, dove fra i pioppi più alti s'allargava uno spazio erboso e ombreggiato, Silvana si sedette, gettò d'un canto il cappello, e le treccie scomposte nell'impeto della corsa le caddero giù per le spalle; soffusa di rossore con gli occhi sfavillanti, aveva una fiera bellezza che costringeva quelle contadine a guardarla come affascinate.

— Qui, sedete qui — disse — come una volta… Vi ritrovo; già mi pare di non avervi mai abbandonate. Quel tempo che mi sembrava così lungo, ora mi pare dileguato in un lampo!

E veramente, nell'intimo di quella fanciulla, accadeva un mutamento strano. Tornava ad un tratto bambina; pareva che la natura in cui era cresciuta la riprendesse a sè nella più schietta ingenuità della puerizia.

— Eppure ne son passati degli anni, signorina, e, per chi patisce gli anni son lunghi! — disse, con un sospiro, Madda.

— Che?… Hai avuto delle tribolazioni tu?… Forse papà Nicola? — disse Silvana con atto dubbioso.

— Oh vive ancora il pover uomo… ma che vita grama! — disse la giovanetta rivolgendole il volto sbiancato, dai grandi occhi languidi. — Che vita grama dopo tutto quello che s'è passato!… Abbiamo dovuto vendere il podere; la casa qui in paese l'abbiamo venduta anche quella; e noi, adesso si vive nel casolare del monte, coltivando un campicello e allevando due mucche. Papà Nicola vive solo come un eremita, perchè gli amici, una volta che la tavola è sparecchiata, fanno come le mosche, signorina…

— Chiamami Silvana. Sono tornata, sia come non ci fossimo mai lasciate. Vedi?… io voglio ridiventare bambina!

— Oh signorina!… sia come ti piace!… Papà Nicola, dunque, vive da cremita, e solo, di tanto in tanto, capita a trovarlo e a consolarlo il dottore giovane, quello che chiamano dottorino, e che è tanto buono. Veramente non piace mica a tutti; molti lo dicono superbioso perchè parla poco e sta sè; ma con noi poveri è buono, alla mano… Anche fra Uberto…

— Che?… c'è ancora fra Uberto? — chiese meravigliata Silvana.

— Altro se c'è!… Dei pochi frati ch'erano rimasti dopo che hanno disfatto il convento, lui solo è sopravissuto. Nessuno sa dire i suoi anni. Se ne va per la campagna e per i casolari campando di carità. Molti signori del borgo lo cacciano via dalle loro porte, perchè dicono che è un accattone sudicio, e i monelli di piazza lo rincorrono e gli fanno la baiata dietro!… Non c'è che il dottorino che lo difenda e lo soccorra…

— Via, via, lasciamo le tristezze — disse d'improvviso Silvana levandosi da sedere. — Qua, compagne, qua come una volta; giochiamo a rincorrerci, a capanniscondere, a rimpiattino; prendiamoci per mano, facciamo il ballo tondo. Io voglio rivivere, rivivere con voi. Sono ancora bambina, siamo tutte bambine! Correte, correte!… Cogliamo i fiori!…

E folleggiava correndo per il prato e fra le siepi; le compagne boscaiole, quasi soprafatte, ammaliate, tornavano bambine con lei, e compiacenti, con alte risa, la seguivano ne' suoi pazzi trastulli. Il bosco risonava di grida gioconde. La bella figura di Silvana appariva e spariva, rapida come una visione, fra i tronchi ed i cespugli. Quando, ad un tratto, dalla porta della casa si sentì chiamare a voce alta: — Silvana! Silvana!

Finita la funzione di chiesa, gli invitati del signor Bernardo erano arrivati ad uno ad uno con la puntualità scrupolosa di chi s'aspetta un lauto pranzo. Erano arrivati complimentosi, strisciando inchini alla signora Clotilde, che, come rappresentante del fratello, faceva gli onori di casa. Sedevano nell'atrio, tutto ornato di fiori, prospettante il giardino, mentre un servo andava in giro con vassoi e i bicchierini del vermouth. Parlavano sommessi e chiedevano conto della signorina.

— Dov'è la signorina?

— Come sta la signorina

— Ma non la si vede!

— Uh!… fa la preziosa! — disse sottovoce la sorella dello speziale.

La signora Clotilde si guardava attorno inquieta, non sapendo dove fosse la fanciulla. Il signor Bernardo, che finalmente aveva sbrigato i suoi affari, venne, tutto cerimonioso a complimentare gli ospiti.

— Ben venuto signore!… Grazie d'avermi favorito!… La signora sta bene? — E dispensava strette di mano e sorrisi con quanto più poteva di affabile famigliarità, per far dimenticare d'esser egli il padrone di casa che li convitava. Ma anch'egli si guardava attorno con inquieta meraviglia. — Dov'è Silvana? — domandò ansioso.

La signora Clotilde, con uno sguardo confuso, rispose chiedendo: — Che non è tornata di chiesa?

— In chiesa non c'è stata — disse la sorella dello speziale con certa trepidanza maliziosa.

— Non c'è stata?… O dov'è dunque?

Tutti cominciavano ad essere inquieti. Il signor Bernardo si sentiva preso da fastidiosa agitazione. Non c'era da pensare ad una disgrazia, no; ma non essere stata in chiesa, non essere lì a ricevere gli invitati!… Benedetta fanciulla! che contegno!… Compromettere il padre davanti il pubblico, davanti le autorità invitate!…

Questi pensieri traversavano, come lampi, la mente del signor Bernardo, quando il nonno si presentò, e additando l'uscio della sala, disse co 'l suo vocione: — Signori! a tavola!

Uomo curioso! egli non aveva mai voluto che quell'ufficio fosse lasciato ad un servo. Ci metteva un certo gusto orgoglioso a compirlo lui in persona.

Passarono in sala. La signora Clotilde assegnava i posti con quella maggior grazia che poteva nel suo grande turbamento, mentre il signor Bernardo era uscito nel giardino a chiamare la figliola ad alta voce.

Tutti erano seduti; la tavola, lautamente imbandita, mandava eccitanti profumi. Ma nessuno osava toccar cibo vedendo vuoti i due posti principali; e si sentiva sottovoce:

— Che sconvenienza!

— Ah! quest'è l'educazione?

— Già è sempre stata così!… Gente rustica!

Il segretario comunale allungava il collo, come un misero Tantalo, verso la zuppiera che fumava nel mezzo della tavola; le due figliole del pretore ghignavano sottecchi, il nonno già già brontolava… quando, ad un tratto, co 'l volto acceso, ansimante, con le treccie malamente ravviate, rapida come un razzo, precedendo il babbo, piomba nella sala Silvana, e, franca e schietta, va a prender posto, dicendo con un sorriso e con voce tranquilla e dolce:

— Chiedo scusa alla bella compagnia!

— Brava! brava! — gridò il nonno.

— Brava! — risposero in coro i convitati, i quali non desideravano nulla di meglio di quella pronta soluzione, che loro permetteva di dar mano al lavoro della forchetta. Ma le signore e le signorine la saettarono dei loro sguardi, e poi si sbirciarono a vicenda come per chiedere:

— è questa la bellezza?

Ma ciò che gli occhi femminili esprimevano in forma d' un dubbio, gli occhi di Gualtiero, che sedeva di fronte a Silvana, affermavano come una verità.



Il sole era tramontato; nel cielo era quella luce diffusa e mite dei lunghi crepuscoli estivi, calda e rosea dal lato di ponente, degradando in tinte grigie fredde verso levante, dove già scintillavano le stelle. Al fresco soffio della sera, la terra, riavendosi degli ardori del giorno, mandava profumi; gli insetti del prato si svegliavano a cominciare i loro concerti notturni, mentre le rondini, con lunghi voli, raccoglievansi garrendo nei nidi su la vecchia torre, e i passeri ciangottando s'appollaiavano fra i rami folti de'pioppi.

Ad un fianco della casa Della Torre stendevasi un porticato, rialzato da breve gradinata sopra il giardino, che si apriva spazioso davanti. Una grande portiera a vetrate univa il salotto di convegno co 'l porticato, il quale da una parte volgeva al lago, dall'altra al monte. Intorno ai fusti delle colonne e all'architrave correva, come mobile cornice, la glicina da'bei fiori in grappolo, intrecciata coi rigogliosi vilucchi dalle variopinte campanelle.

Era l'ora del caffè dopo il pranzo. Intorno a un rustico tavolo, su cui posava il vassoio con le tazze, sopra sedie di rustica eleganza, lavori de'boscaioli dentro alle seghe, sedevano il nonno, che si dondolava nella dormiveglia, il signor Bernardo e la zia Clotilde. Gualtiero, appoggiato con certa grazia ad una colonna, avvolgeva fra le dita bianche e affusolate, dalle unghie rosee e ben curate, una sigaretta. Silvana, in abito semplice e schietto, con le chiome raccolte in due lunghe treccie cadenti giù per le spalle, girellava fra cespugli ed aiuole come una farfalletta crepuscolare.

Venne Brigida con la caffettiera.

— A me, a me! — disse Silvana, salendo rapida i gradini — farò io da coppiera.

— Più bella e più gentile di Ebe! — disse Gualtiero accostandosi al tavolo.

— Ebe?… — disse il nonno. — Chi era costui?

— Scusi, costei — rispose Gualtiero. — Era la coppiera di Giove e di tutti gli dèi in Olimpo.

— Oh buon Dio! lasci in pace la mitologia! — disse Silvana con accento infastidito. — Dica piuttosto, vuole molto o poco zucchero?… Molto, eh?…

— No; punto zucchero, punto.

— O come?… prende il caffè amaro?

— Come può essere amaro questo caffè?… Esso è più dolce del nettare perchè versato dalle gentilissime sue mani, le mani della bellezza.

— Chè, signor mio!… lo prende amaro perchè l'addolcisce co 'l miele de' suoi complimenti.

Sorrisero tutti. Ma Silvana fece spallucce, e andò a sedere su la gradinata, dalla parte che guardava il lago, gingillando con una fronda di limoncella fiorita. Il suo occhio si perdeva incantato fissando i mobili splendori del cielo specchiantisi nell'onda, mentre ascoltava il roco gorgoglio del fiotto, che rompeva contro il murazzo del giardino. Fantasticava… Di cosa?… Questo chiedeva a sè stesso Gualtiero, che guardava furtivo la fanciulla, pur non lasciando di prender parte alla conversazione che si aggirava su gli affari della giornata e su la cronaca del paese. Molta ricerca di legnami per i traversini e i caselli d'un tronco di ferrovia da costruirsi in Valtellina; il nonno, con la sua vecchia esperienza, faceva i calcoli su le dita, e dava le istruzioni per adire al prossimo appalto. Nel borgo erano arrivate alcune famiglie cittadine e avevano riaperte le palazzine e i chalets di villeggiatura. C'erano vecchie conoscenze di cui aspettavasi la visita; la signora Clotilde le numerava, le nominava, ricordando i più recenti mutamenti. La famiglia Corbelli era in lutto per la morte della madre; i Belardi avevano maritato una figlia e gli sposi erano venuti in villa anch'essi; verrebbero presto anche i De Conti, andati ai bagni di mare; era atteso anche un consigliere d'appello, vedovo, con quattro figliole, che aveva preso a pigione un appartamento; tutta la pretura era in subbuglio per accogliere degnamente l'illustre magistrato. Per il borgo cominciava un periodo di vita cittadina; ci sarebbero delle riunioni, delle veglie di società, qualche ballo. — Bella occasione per i giovanotti! — diceva il signor Bernardo rivolgendosi a Gualtiero, che con certi lunghi giri cercava d'accostarsi a Silvana.

— Occasioni belle, si… ma non sempre belle per le vecchie zie che hanno delle giovani nipoti d'accompagnare — disse zia Clotilde agitando il ventaglio.

— Ti ho sentito, sai, zia! — disse Silvana volgendo la testa. — Ma non ti dare pensiero per me; non sarò io certo la nipote che t'obbligherà al noioso ufficio di chaperon…

— O perchè?

— Perchè non amo le feste da ballo; perchè non amo questa vita cittadina, che invade la campagna; perchè non voglio perdere la mia cara libertà per quattro cerimonie e quattro passi di cotillon; perchè…

— O come? — la interruppe Gualtiero quasi scandalezzato. — Come mai!… una signorina non amare il ballo… Una signorina educata in un collegio distinto, non amare la società!… C'est ètonnant!

— Le pare?… Io sono destinata a farla strabiliare con le mie bizzarrie, come lei a confondermi co' suoi complimenti. Non vede — continuava Silvana animandosi nei discorso come se nel contrasto trovasse piacere ed eccitamento — non vede che c'è per noi due vicendevolmente qualche cosa d'ètonnant!… Lei, nato nei boschi Alsaziani, ha colto il fiore più squisito dell'educazione cittadina; conviene renderle questo merito, la si direbbe un parigino, ed io glielo dico schietto giacchè, ne'suoi occhi, vedo che ne gode assai assai. Io invece, educata in un collegio, come lei dice, distinto, ho conservato i gusti rustici, silvestri, ho conservato l'amore d'una selvatica indipendenza.

— Ed è ciò che mi rincresce, Silvana mia — disse il signor Bernardo — Io credeva che sei anni di collegio avessero tramutato la figliola de'boschi in una gentile damigella… Sai, al pranzo dell'altro giorno, tutti mi facevano complimenti della tua bellezza, della tua disinvoltura… Ma… girando poi fra i crocchi delle signore, qui, sotto il porticato, e per il giardino, ho colto a volo certe osservazioni… Dicevano che le figliole del pretore sono educate meglio di te!…

— Povero babbo, che amarezza! che delusione!… e te ne affliggi, e anche tu sei contro di me. Non domando a te, zia Clotilde, anche tu già non mi potrai lodare, e dubito che nemmeno il nonno osi difendermi. Tutti contro di me!… in prima, tutta la famiglia, compreso il signor Gualtiero; poi le autorità del paese, e le loro consorti e le loro figliole, tutti, tutti contro questa sguaiata contadinella di Silvana!… Figurarsi!… Le signorine del pretore, la sorella dello speziale, co'capegli ben composti, con le manine ben calzate nei guanti di fil di scozia, con le gonnelline assestate, tutte in ghingheri, voi le vedete, sedute in buon contegno, arrossire se alcuno le guarda; se alcuno le interroga, rispondere con gli occhi bassi: — Sissignore! nossignore! — con una vocina che incanta. E quella Silvana, che osa apparire a mensa co'capelli rabbuffati, con la vesticciola di cotone liscia liscia, quella Silvana, che non trova requie un istante, che parla guardando la gente in faccia e ha osato ridere quando il sindaco, a fin di tavola, nel calore della discussione politica, ha detto che il governo federale svizzero avrebbe mandato una flotta nelle acque della Manica, oh quella Silvana è una sgarbata, un'indecente, una… Volete una Silvana diversa da questa, diversa da quella che la natura e i primi anni d'infanzia l'hanno fatta?… L'avrete. Anch'io ho imparato i bei modi, gl'inchini, le riverenze, i sorrisi. Ho imparato anch'io a fare gli esclamativi d'ammirazione davanti alle stupidaggini; quattro parole tra il francese e l'italiano, per darsi dell'importanza, le biascico anch'io… Ma scusatemi, mi ripugna di nascondere il mio verace sentimento, mi disgusta di dovermi coprire d'una vernice di falsità…

— Ma questo è un esagerare, figlia mia — diceva il signor Bernardo. — Qui non si tratta di falsità, ma del modo di contenersi come s'addice a gente per bene, a gente di condizione…

— Ecco, caro babbo, un'altra parola che non capisco «gente per bene, di condizione». Cosa significa?… gente che alla schiettezza naturale ha sostituito una vita fittizia, con mille forme convenzionali, nella cui osservanza si fa consissistere l'essenza dell'educazione senza che per questo sia maggiore la bontà dell'animo e la rettitudine dell'intelligenza. Ci sono cose ch'io non capisco. Cosa v' è mai di più bello di una bella mano bianca? ebbene, educazione vuole che la si copra di un guanto nero. Si loda il guanto e si nasconde la mano. E cosa accade?… che coperte dal guanto tutte le mani su per giù sono eguali. Non distinguete più la mano morbida e bianca dalla ruvida e nera; vedete un bel guanto e v'appagate di quello. Così è la vostra «società per bene»; finzione, esteriorità e null'altro. Io ho passato l'infanzia fra villanelle montanine; separatami da loro, non le ho più vedute da lungo tempo. Ora ritorno; ricordo le amiche d'infanzia, le riconosco, le abbraccio nel loro vestito di traliccio, le bacio su le ruvide gote!… Oh sconvenienza!… Mi godo con loro che sono buone e sincere, con loro rinnovo un'ora della mia infanzia, e dimentico d'esser puntuale a ricevere i convitati, oh indegna sconvenienza! dice la gente per bene. E domani dovrò far visite a questa gente, lo vuole zia Clotilde. Bisognerà mettersi in ghingheri; presentarsi alla signora Eufrasia ed alla signora Veronica, e non so a quante altre, che si sono affrettate di correre qui a sorridermi cerimoniose, mentre poi appena lontane quattro passi, tu, babbo, le hai sentite malignare. Ed io ora ho il dovere di andare a riverirle, a complimentarle, a lodarle, per poi rivalermi contro di loro malignando a mia volta. Se striscerò due begli inchini, se dirò due garbate menzogne, allora si dirà: «Oh che buon contegno!» È così che mi volete?… dite dunque, invece della mia mano, che, via, non è poi nè ruvida nè sporca, vi piace di vedere il mio guanto?… Invece della schiettezza vi piace la finzione?

Con accento appassionato, con rapidi passaggi dal dolore all'ironia, Silvana s'era sfogata. Gli altri rimasero silenziosi a guardare quella strana fanciulla, che, palpitante per l'animazione, con le ciglia aggrondate, pareva attendere una risposta.

Cosa si poteva rispondere?… Il nonno, da parte sua, avrebbe gridato: brava!… Ma gli altri sentivano che in quel discorso eravi la giovanile esagerazione d' una parte di vero. La zia Clotilde pensava che sarebbe toccato a lei di porre il correttivo della ragione a quella fantastica esaltazione. Ma a qual pro?… Certe cose non si correggono a parole ed a sentenze. Ci vuole la pratica della vita, s'ha da cadere tante volte per terra finchè si abbia imparato a star ritti. Per isfuggire ad inutili discorsi, ella si alzò.

— Vedo là, dal cancello, che passa il dottore — disse. — Andrà a visitare la povera Lia, la moglie del fattore, ch'è assai aggravata. Vi lascio alle vostre discussioni e vado a vederla quella poveretta!

Silvana guardò verso il cancello, ma non vide altro che un ampio cappello di paglia che passava.

— Io ammiro — disse Gualtiero per non lasciar cadere il discorso — io ammiro la vivacità, l'ingegno della signorina. Con quanto fuoco sa difendere la sua causa!… Vorrei essere un reo davanti a'tribunali per avere così gentile e così valido patrocinatore. Ma qui, per mia disgrazia, non sono che un oppositore. Oppongo dunque, che la schietta ingenuità non esiste nella società umana, non esiste fra le genti cittadine, e ancor meno fra le campagnuole. Se gli uomini dovessero essere veraci uno rispetto all'altro, verrebbero ai pugni ogni giorno. Le cerimonie, i rispetti sociali, le convenienze, sono il cemento della convivenza. La parola è fatta per nascondere il pensiero. Guai, se noi potessimo veder chiaro nel cuore l'un dell'altro!… La signorina, io l'ammiro, move da un alto ideale; ella, io l'ammiro ancor più, pensa che tutti gli uomini dovrebbero essere buoni, e se fossero buoni, sarebbero naturalmente sinceri. Ma siccome non tutti gli uomini sono buoni, così ne viene che almeno cerchino di parerlo. Io, per me, quando uno mi stende la mano e mi dice: — Amico caro! amico del cuore! — non prendo quelle parole proprio per quel che suonano; so che bisogna detrarne un pochetto; le riduco di valore e così ho la verità. A mia volta io gli dirò: — amico sviscerato — ed egli a sua volta farà la sottrazione, ed eccoci pari. In società si vive di mutue concessioni, di scambievoli pieghevolezze; se camminassimo tutti diritti e rigidi ci picchieremmo l'un l'altro. Le concessioni e le pieghevolezze si fanno poi maggiori nei gradi più elevati della società, dove le esigenze morali sono maggiori. Come ci adattiamo ad un ambiente fisico regolando e curando il corpo secondo le esigenze del clima, del luogo, della stagione, così bisogna adattarci ad un ambiente morale… Capisco, la signorina è un angelo smarrito in questa terra, e perciò…

— Adagio, adagio — interruppe vivacissima Silvana — applico il principio da lei affermato, che la parola è fatta per tradire il pensiero, e concludo che s'ella m' ha detto angelo, pensa che sono un demonio, o, per non essere troppo sgarbato, un demonietto. Ed ha ragione; ci tengo piuttosto ad essere un nero demonietto che un angelo biondo. Ora, ella dice che per vivere in società, e specialmente in società distinta, si richiedono mutue concessioni e pieghevolezze, e quindi un più abile lavorio della parola a tradire il pensiero. E sia! Ma se presso di lei, ogni volta che parla, vi fosse uno che facesse l'applicazione del suo principio, e quand'ella dice angelo traducesse demonio, come io ho fatto dianzi, che ne sarebbe di lei?… Conviene dunque che, per serbare l'equilibrio, ciascun mentitore abbia gli altri conniventi e ossequenti, cioè, conviene si formi una società di mentitori. E allora, quand'ella o qualcun altro dicesse: «Ohime! non c'è più verità, non c'è più sincerità!» cosa si potrebbe rispondere? dica!…

— Io… io ammiro tanta logica. Penetra come un coltello; dovrei battere in ritirata, ma invece m' è caro d'oppormi ed essere ferito. Dolci sono le ferite che si ricevono da mano gentile. Dunque…

— No, no!… Le domando delle ragioni e lei mi risponde con dei madrigali. Sa?… Lei starebbe bene con la parrucca, con la cipria e le frappe davanti, baciando la mano d'una dama in guardinfante, come le figurine che si dipingono sopra i ventagli e su le porcellane di Sevres… Dipinto su la porcellana, come ci starebbe bene!…

E, senz'altro, ridendo e ridendo, Silvana entrò lesta nel salotto. Il nonno e il signor Bernardo guardavano Gualtiero con certa soddisfazione dello spirito di quella figliola. E il giovanotto, prendendola con garbo e disinvoltura, si univa con loro a lodare la franchezza, la vivacità di quella fanciulla, di quel demonietto. Il nonno gongolava. I nonni son fatti cosi; se sentono dire «quella vostra nipotina è un angelo» ci godono. Ma se possono dire «è un demonietto» allora si struggono dal piacere. è un fatto: la parte di demonio, in questo mondo, è più preziosa e più gustosa che non quella di angelo.

Dal salotto intanto venivano gli accordi e le prime ricercate su 'l pianoforte. Silvana pareva seguitasse il discorso sulla tastiera; ed erano suoni aspri, rotti, saltellanti, come di un indispettito; poi variavano in note piane, larghe, sonore, come espressione d'un cuore tranquillo, sicuro, fidente di sè; e morivano infine in suoni dolci e soavi, quasi voce di pace, d'amore, quasi bacio di perdono.

L'aria imbruniva. I tre uomini sotto il porticato tacevano e ascoltavano. Morivano soavi le note musicali quasi accordandosi co 'l morire della luce; e, nel viale del giardino, si sentì la voce di zia Clotilde, che diceva:

— Entri; non mi neghi questa finezza.

Poi seguì uno scalpiccio di passi su la ghiaia, e quando la signora Clotilde fu vicina, il signor Bernardo riconobbe che con lei era il dottore.

— Oh benvenuto, benvenuto, signor dottore! — dissero i tre uomini ad una voce — beato chi lo può vedere!

— L'ho trovato al letto di Lia — disse la signora Clotilde. — Gentilmente m'ha voluto accompagnare fino al cancello. Ma io gli ho fatto violenza e l' ho condotto qui…

— Ed ora resterà? — disse una bella voce morbida e vellutata.

Il dottore volse gli occhi e vide, appoggiata alla spalla del signor Bernardo, una bella fanciulla, che lo fissava con occhio schietto e limpido. Le s'inchinò.

— Ci farebbe un onore! — disse il signor Bernardo. Il medico è sempre stato di casa nostra… non per bisogno, sa, che Dio ce ne liberi! ma per amicizia, sempre per amicizia! Ed ella non ci negherà la sua…

— Ben obbligato! — rispose il dottore, inchinandosi un' altra volta.

Silvana lo guardava con occhio scrutatore. Era ancora giovane, un po'al di là della trentina; di bella statura; il volto d' un pallor bruno contornato da una barba nera aveva espressione maschia e dolce ad un tempo. La fronte large e l'occhi o chiaro e fermo significavano nobiltà e schiettezza.

— Ben obbligato; sarei felice di trattenermi, ma il dovere mi chiama altrove. Avrò ad onore di venirli a riverire un'altra volta. —

E rinnovando un inchino gentile ma contegnoso, volgendo uno sguardo penetrante a Silvana, s'allontanò.

Quando fu fuori del cancello, la fanciulla, voltasi a Gualtiero, disse: — Sarei felice di trattenermi! fatta l'applicazione del suo principio, vuol dire: «Ho gran voglia di andarmene» non è vero? —

E ridendo tornò nel salotto; sedette ancora al pianoforte, scorrendo la tastiera e traendo le note allegre, briose, d'un walzer.



Brillavano in cielo le stelle quando il dottor Rinaldo rientrò in casa.

La signora Geltrude, sua madre, riconobbe il passo del figlio, che saliva le scale. Fattasi in su l'uscio, l'accolse con un dolce saluto. Nel salottino ardeva la lucerna; su la mensa era imbandita la cena; madre e figlio si assisero. Egli raccontava quanto gli era accaduto nella giornata: gli ammalati visitati, le molte miserie che aveva veduto ne'casolari e ne'tuguri. Ella lo ascoltava, soggiungeva sue assennate osservazioni, si condoleva con lui delle tristezze, si rallegrava delle cose liete. Ed egli si beava nella vista del dolce viso materno, un viso che serbava le traccie d'un' antica bellezza e nella dolcezza de' lineamenti e dello sguardo, nelle bianche e ben composte chiome spirava affetto e venerazione.

In quella casina tranquilla, tutta nettezza ed ordine, si rivelava la mano gentile della donna; la semplicità elegante de' pochi arredi, la fresca gaiezza e il profumo de'fiori d'un bel vaso su la caminera, alcuni ritratti di famiglia appesi alle pareti, i libri e le carte ben riposte su la scrivania, il tavolino e la panierina dei lavori femminili, dicevano che là si passava la vita semplice e contenta di lavoro, di studio, d'affetto, di memorie e di speranze di due esseri uniti in un sol cuore. Era come un porto tranquillo, ove, dopo lunga procella di dolori, la buona vecchina si riposava co'l figlio, rinnovando in lui, nel declinare degli anni, le gioie del vivere, e con lui ritessendo la tela delle speranze.

Finita la cena frugale, la signora Gertrude toglieva la panierina, e le bianche ed agili sue mani riprendevano il lavoro, intanto che il figlio leggeva il giornale, le diceva le notizie più significanti, ovvero, aprendo qualche volume di prediletto scrittore, recitava alcune delle pagine più belle. E quei due cuori palpitavano delle stesse commozioni, degli stessi sentimenti, e, nella dolce comunanza degli affetti. formavano una tacita preghiera che a lungo, a lungo, il cielo volesse loro conservare quella vita modesta e tranquilla oltre la quale non andavano i loro desiderî.

Quando la vecchia pendola scoccava le dieci, la signora Gertrude traeva dal cestello del lavoro una piccola Bibbia, ne leggeva alcuni versetti, quindi si alzava, porgeva la fronte al figlio che vi deponova un tenero bacio, e si ritirava silenziosa, lasciandolo solo. Il dottore allora si accingeva al lavoro, e fino a notte alta vedevasi splendere il lume dalla sua finestra. Prendeva nota della cose osservate nel giorno, dei casi di malattia, dei vari aspetti che presentavano, del modo di cura seguito. Consultava gli scrittori di medicina, leggeva le Riviste e studiava le nuove osservazioni fatte, i nuovi metodi, le nuove scoperte. Confinato in un oscuro angolo del mondo, vegliava attento al grande lavorio del progresso scientifico, e nessuna privazione, nessun sacrificio gli era grave, per potere con libri e con giornali vivere in comunanza con le più elette intelligenze.

Finito il lavoro a cui più direttamente lo chiamava il dovere, assecondava gli studî di sua predilezione. Stendeva sopra il tavolo il suo erbario, e traeva fiori, erbe, muschi, che egli, botanico ed acuto osservatore, raccoglieva nelle gite giornaliere, su per le montagne; con nuove osservazioni aveva corretto e migliorato gli studî della flora di quella zona alpina dove estendevansi le sue escursioni. Osservare, pensare, meditare, e, nel silenzio delle sue veglie, interrogare la natura, intendere il vero, dall'esperienza e dalla scienza cogliere alcun frutto in vantaggio delle umane sofferenze, sollevare la mente ai, più puri ideali, ritemprar l'animo negli affetti più nobili, quest' era per lui il supremo godimento, la vera gioia del vivere. Se talora, nella sua vita laboriosa, nel raccoglimento degli studî, lo prendeva lo scoraggiamento, e se alcun sentimento d'ambizione o desiderio della vita mondana gli tentavano il cuore, egli volgeva uno sguardo al ritratto di suo padre, morto quando il figlio giovinetto già dava belle speranze di sè; cercava un bacio, un sorriso alla madre, che l'aveva guidato e sorretto con forza più che da donna; e dalla vista di quell'imagine, e dalla dolcezza di quel ba cio traeva coraggio, vigore e consolazione. La considerazione delle molte miserie, che si svelano al dottore così nel tugurio del povero, come nel palazzo del ricco, avevano dato alla sua mente una tranquilla superiorità, al suo cuore una gentile mestizia, e con uno sguardo compassionevole, considerava le miseriuzze della vita. Perchè gli uomini, con invidie e rancori, con basse passioni, l'un l'altro s'insidiano, si combattono, si feriscono?… Non è già troppo grande il cumulo dei mali inevitabili, cui da natura siamo soggetti, senza che la nostra rea volontà altri ancora ne appresti?… Perchè invece non viviamo da fratelli le brevi ore di quaggiù, aiutandoci l'un l'altro a portare il fardello degli affanni?

Con questi pensieri, egli a chi lo richiedeva non solo portava i farmachi della scienza, ma pur quelli, spesso più efficaci, della bontà, con una parola gentile, con un savio consiglio medicando cuori esulcerati dal dolore e dalle passioni. Era un medico delle anime.

Tanta elevatezza di mente, tanta generosità di sentire, trovava intelligente corrispondenza d'affetto?… I poveri che, ad ogni istante, lo avevano pronto e benevolo soccorritore, lo amavano. Ma a molti degli agiati del borgo la sua sostenutezza dignitosa, la discretezza guardinga di parola, la vita ritirata, lungi dalle combriccole, abborrente dalle passioncelle delle esistenze volgari, non garbava. E ricordavano, con preferenza, il vecchio dottore, morto da breve: un allegro compagnone, un bracalone, gran bevitore e giocatore di tarocchi, che, da tempo immemorabile, aveva appreso quattro aforismi e quattro medicamenti, e, senza più curarsi d'altro, senza logorarsi su i libri e nella meditazione, applicava invariabilmente il suo repice. Il signor Agapito, lo speziale, rimpiangeva più d'ogni altro quella perdita. Questo dottorino nuovo dava ogni tanto una capatina nella farmacia, cercava un medicamento, ne consigliava alcun nuovo, anzi con le sue novità di medicamenti diveniva molesto… Ma quell'altro!… Quello, ogni giorno, sedeva nella farmacia, e chiacchiere sopra chiacchere svesciava tutto quello che aveva veduto e sentito per le case; e il signor Agapito sapeva e ripeteva, per filo e per segno, la cronaca del borgo. E che risate si facevano!

Terminato il lavoro, quella sera il dottor Rinaldo sedette alla finestra. Dall'alto campanile della parrocchiale veniva il suono delle ore; mezzanotte. La notte serena e senza vento; la luna splendeva in pieno e posava la bianca luce su i tetti, su gli orti, e mostrava serene e chiare le vette de' monti variati da ombre cupe nello sprofondarsi della valle. Le cime de' pioppi tremolavano, con lieve fruscìo, alla brezza. Stette a lungo come assorto, guardando quel sempre nuovo e sublime spettacolo della vita che si riposa. Appena qua e là per le case vedevasi qualche finestra illuminata; forse era un povero operaio che intendeva al lavoro, forse qualche pietoso che vegliava un caro ammalato. Da lontano veniva un canto d'operai che, attardatisi all' osteria, tornavano alle loro case, dopo aver forse sperperato nel bagordo il guadagno della giornata. Poi cessava il canto; i lumi si facevano più radi, la luna declinava dietro il monte, tutto restava avvolto nell' oscurità; ogni palpito di vita cessava. In quell' ombra, in quella quiete solenne, piaceva al giovane dottore di sentire la vita di sè stesso, la vita del suo pensiero. Interrogava, scrutava il suo cuore che gli rispondeva con voci di affetto soave, con speranza e promesse di una vita sempre tranquilla.

Ma cosa sa mai il cuor nostro di ciò che promette?



Aii signor dottore, quando le dico che sono cose da far strabiliare! Io non ho mai veduto nulla di simile!… Non c' è convenienza, non c' è educazione!… Si figuri; è stata qui adesso, come le diceva, è stata qui la signorina Silvana, la signorina Della Torre, la gran signorina del borgo, quella che, da quindici giorni, si sente nominare ad ogni minuto. È venuta a renderci visita; intendo dire, a restituirci la visita che noi le abbiamo fatto. È venuta con quella gentil signora che è sua zia Clotilde… Ebbene; cominciamo a dire ch' era in abito di percalle, e senza guanti; teneva in bocca e masticava una fronda di limoncella. Entra, e senza cerimonie: — Addio. Pina! — dice alla mia maggiore dandole subito del tu. — Come stai, Fifi? — chiede all'altra. Noi la si chiamava Fifi invece di Serafina quand'era piccola; ma adesso… adesso è una damigella, ed è un' altra cosa!… E lei, quella signorina del collegio Durand, seguita a chiamarla Fifi. Bell'educazione, dico io!… Ma questo è nulla. Si parla, si ricordano i tempi passati; per un poco ella tiene botta al discorso, poi, ad un tratto, ammutolisce, appoggia il capo allo schienale della poltrona, pare che pensi a tutt' altro. Le domandiamo come ha passato questi primi giorni, come ha trovato il paese. Risponde che ha visto la Tea e la Gegia, che ha trovato Nanni, che ha parlato con Bista e con Maso, tutti contadini, gente di montagna, rozzi, che si sente il puzzo di caprino solo a nominarli. Vede là su la caminiera quel bel mazzo di fiori sotto la campana?… Sembrano naturali, appena colti, n' è vero?… e sono di carta. Io, parlando delle nostre occupazioni, dico che la mia Serafina l' ha fatto lei quel mazzo, durante le serate del passato inverno, come presente al suo babbo per il giorno di S. Antonio, quel di gennaio; e dico alla signorina: — Come son belli, n' è vero?… Guardi quel tulipano, veda questo narciso; che freschezza!… — E lei, si figuri, sorride e dice: — Ma se si vede di lontano che son di carta… e poi, stanno sotto la campana… Io mi meraviglio, — seguita a dire — mi meraviglio che avendo un bel giardino, pieno di fiori, Fifi, (sempre Fifi!) perda il tempo a fare dei fiori di carta!… dei fiori di carta! — ripeteva sorridendo. Si figuri che bel complimento per la mia Fifi… voglio dire, per la mia Serafina. Poi si dice che deve venire il commendatore, consigliere alla Corte d'appello; ne avrà sentito parlare anche lei di certo. Siamo noi che gli abbiamo procurato in affitto la bella casina rossa in riva al lago, quella a due passi dallo sbarco del vapore. Il signor commendatore conosce mio marito; a me poi mi ha una particolare benevolenza, perchè è stato compagno di scuola con mio padre. Lei non lo conosce?… Le mostrerò il suo ritratto; ce l' ha favorito lui, con una dedica di sua mano, si figuri. Eccolo qui; non è un bell' uomo?… Poi abbiamo qui anche il ritratto delle sue quattro figliole; veda; questa in mezzo è la maggiore, Estella, un angelo di bontà. Bene; per farla corta, si parla dell' arrivo del commendatore. Ci ha scritto ieri che sarà quì fra un quindici giorni. A farla corta dunque, si parla delle sue figliole; ed io congratulandomi con la signora Silvana della rinomata sua bravura al piano, aggiungo che anche l' Estella del signor commendatore è valentissima, una delle migliori allieve del maestro Palestrini. E lei: — Ma che?… è un errore; maestro Pollastrini si chiama. è conosciuto come un arrabbiato strimpellatore, sai Fifi? — Ma si figuri, dottore! se quando sarà qui il commendatore quella… come chiamarla… basta, quella figliola uscisse in simili sconvenienze!»

Questo discorso, con molta animazione di gesti esprimenti disgusto e scandalo, lo faceva la signora Eufrasia, la moglie del pretore, al povero dottor Rinaldo, chiamato a visitare Serafina, anemica e sofferente di stomaco.

Il dottore ascoltava, e aspettava che la buona donna prendesse respiro, per svignarsela, come si aspetta nel forte d' un temporale una sosta dell' acquazzone perscappare.

Quando la signora Eufrasia parlava era una pioggia fitta di parole. Girava vivacemente due occhietti acuti sotto due ciglia folte, e moveva, con molte e varie significazioni, il labbro guernito d' una leggiera lanuggine, che le dava una cert' aria di virile risolutezza.

— Signora mia — disse il dottore prendendo il cappello — ci vuole indulgenza: è fanciulla inesperta; e poi non a tutte è data la fortuna di avere una così saggia e prudente educatrice quale è lei!

E con questo complimento sperava di mettersi in salvo. Ma la signora Eufrasia, sorridendo di compiacenza, tenendo una mano su la molla dell' uscio, che il dottore stava in su 'l punto di varcare, cominciò: — Ah non faccio per dire, ma in questo ella mi rende giusto merito! E ci tengo sa, ah ci tengo davvero! Le mie due figliole, Giuseppina e Serafina, le ho allevate come si deve, e possono figurare dove che sia. E le ho allevate da sola; perchè quel buon uomo di Quintino ha ben altro che fare; di giorno l' ufficio; di sera il tarocco dallo speziale, sicchè l'educazione delle due figliole fu tutta a mio carico. E in prima, ubbidienza alla mamma, senza eccezione, alla cieca… Poi modestia, ordine, creanza, compostezza! Istruzione così così. Saper leggere, scrivere, far di conto, ah questo sì! far di conto presto e bene… Ma non tante smorfie di letture, di poesie, di francese. Non voglio mica che sia come la Virginia dello speziale, che non fa altro che leggere tutto il giorno. Libri per casa non ce ne voglio; tutte corruzioni, salvo qualcuno che ci presta, bontà sua, il signor commendatore, che quando lo consiglia lui, si può leggerlo ad occhi chiusi. Invece di logorar la vista su i libri conviene lavorar d'ago, cucire, rammendare, ricamare!… Vede questi copritoi, vede quelle tende, quel tappeto, tutti lavori di Giuseppina. Fifi, cioè Serafina, scusi! è una vecchia abitudine… Serafina lavora al suo corredo, ce n' ha un guardaroba pieno; lenzuola ricamate che sono una bellezza! Serafina poi, sa, oltre essere educata da me come una finita donnina di casa, ha anche un'educazione compita di società. è stata un anno a Milano in casa del commendatore, una casa di quelle!… frequentata da gente di garbo, da nobili. Come le dico, una ragazza da stare in un salotto come una dama. Altro che collegio Durand! per impararvi di quelle sconvenienze! bella educazione, signor dottore!

Il povero dottore sentiva venirsi i sudori; ogni tanto guardava in viso la signora Eufrasia, come a chiederle pietà; poi guardava quella mano posata su la molla dell' uscio, aspettando che facesse la grazia d' aprire. Quando Dio volle, finì di piovere! La signora Eufrasia spinse l' uscio e il dottore, con molti saluti, sgusciò fuori, e ruzzolò giù, a precipizio, per le scale.

Le figliole della signora Eufrasia, che, lavorando presso alla finestra, erano state presenti a quel colloquio, con gli occhi inchiodati su 'l telaio, dissero ad una voce, volgendosi alla madre:

— Com' è simpatico quel signor Dottore!

— Animo, animo, lavoriamo, fraschette! — esclamò la signora; e, passata in cucina, presto si sentì un picchiare rabbioso su 'l tagliere, intanto che le due fanciulle, traendo agugliate su 'l filondente, ciarlavano a voce sommessa.

Il dottore, uscito di là, entrò dallo speziale, ad ordinare una pozione per Serafina. Lo speziale stava dietro il banco con inforcati gli occhiali, rimestando polvere in un piccolo mortaio. La signorina Virginia, sua sorella, una signorina al di là dei trenta, se ne stava in una poltroncina con un libro fra le mani.

— Favorisca prepararmi questa pozione, signor Agapito. è per la figliola maggiore del pretore.

— Per Fifi? — domandò la signora Virginia — oh povera Fifi! cos' ha mai?

— Nulla, nulla; un po' di languore. E lei, signorina, come sta?

— Io?… come vuole? al solito, con questi nervi che non mi danno mai pace. E poi, c' è della gente che par fatta apposta per dare su i nervi! gente screanzata, che non fa che contraddire, e a me, le contraddizioni fanno un male!… Si figuri; c' è stata quì or ora la signorina Della Torre, quella Silvana!… ne avrà sentito parlare anche lei; già, ne parlan tutti!… è venuta con la signora Clotilde a restituirmi la visita ch' io le ho fatto per la prima. Era senza guanti, si figuri!… ma questo non monta!… Io faccio i complimenti alla signora Clotilde che abbia una nipote così bella, così ben educata! E lei, quella testolina bizzarra, sa che dice? — Baie, baie! non s'aspetti gran cose, signorina Virginia, della mia educazione. Per amore di schiettezza, ne la prevengo; se no, resterebbe delusa. Sonno nata in campagna, sono cresciuta in campagna. Amo la mia libertà campagnola, rustica. Mi chiamo Silvana e ci tengo, sebbene — soggiunge con una certa malizietta — sebbene ormai le campagnole, in fatto di educazione e di pretensione, diano de' punti alle cittadine!… Non è vero signorina Virginia?… Quanto a me non mi par vero d' essere tornata quì fra i miei monti! — Oh se lo dici a me — pensai — fa pure; ad essere educata e civile io ci tengo tanto quanto tu ad essere rustica come natura t' ha fatta. è inutile, dottore: la scheggia tiene del ceppo; il proverbio calza a pennello a chi è figlia di legnaiuoli, ancorchè abbiano soldi. Poi si è seguíto a parlare del più e del meno, finchè io, trasportata dal mio buon cuore, dico: — Ma perchè tu mi chiami signorina e non mi chiami Virginietta, come quando s' era bambine insieme? — Hai ragione! — risponde lei — ma da allora è passato tanto e tanto tempo! — E calcò su quel tanto! Oh la smorfiosa! come se non lo sapessero tutti che fra me e lei corre la differenza di pochi mesi!… Si parla di vestiti, di gioielli. Lei non se n'intende, e dice che è una ridicolaggine vivere in campagna per farsi schiavi delle mode cittadine… e si vanta di abborrire tutto quello che è imitazione e contraffazione: che già non c' è più sincerità e schiettezza, che dagli orecchini fino al cuore ormai tutto è falsificazione e bugia, e via così!… La pretenziosa, che vuol fare la lezione a me!…

— Pretenziosa, pretenziosa! — borbottava il signor Agapito, picchiando di forti colpi nel mortaio, che mandava suoni argentini.

Il dottor Rinaldo uscì, ridendo in cuor suo; e si rimise in giro a visitare ammalati. Passò davanti alla casa del sindaco; sotto al porticato, al rezzo, sedeva la signora Nannina, sindachessa; una taccola curiosa che non lasciava passar nessuno davanti la sua casa senza chiedere novità.

— Buon giorno, dottore! Niente di nuovo, dottore?

— Niente, signora Nannina; e lei?…

— Senta, senta; ho avuto una visita; la signora Clotilde…

— Anche costei — disse il dottore fra sè, e provò curiosità di sentire.

— La signora Clotilde Della Torre con la signorina Silvana. Non è un quarto d'ora che sono partite. Ma come la mandano quella fanciulla!… Una vesticciola di percalle liscia, liscia…

— E senza guanti! — disse il dottore ridendo.

— Sicuro, senza guanti. O che l'ha veduta anche lei?… Quei Della Torre che fanno danari a palate!… ma è una pitoccheria!… L'unica figliola mandarla in veste di percalle e senza guanti!… Già, tengono della scorza ruvida del legname che vendono. Mestieracci, denaracci; il proverbio non falla. Voleva presentare alla signorina il mio Emilio, il mio figliuolo, suo compagno d'infanzia. Ma lei dice che non se ne ricorda. La superbiosa! dice così perchè ci schifa. Tutti cosi i villani rifatti: pitoccheria e superbia!… Poi, in su 'l partire, raccomandò di salutare mio marito, il sindaco, e domandargli nuove della «flotta elvetica». O che vuol dire mo' questo?… Io, per me, non ci capisco! Frascherie d' una figliola mal educata!… Ma lei, dottore, non le ridica queste cose; mi confido con lei, perchè è un giovane prudente; del resto io non isparlo mai; rispetto tutti quanti, io. E poi, i Della Torre sono ricchi, contano in paese… e, lei sa, l' autorità deve avere dei riguardi; quando uno è autorità non può mica dire tutto quello che gli frulla. C'è una responsabilità nelle cariche… Ci vogliono riguardi, rispetti…

— È troppo giusto — aggiunse il dottore, e, in cuor suo, terminò la frase: — massime quando si tratta d'una giovane creditiera e si ha un giovinotto da ammogliare! — E, salutando, tirò via, e andò a visitare ammalati e poverelli per i casolari della campagna e del monte; e, per ultimo, capitò al bosco de' pioppi, alla casa di Lia, la moglie del fattore dei Della Torre. Poveretta! aveva servito tanti anni in casa Della Torre, con la devozione delle anime semplici; vi aveva sposato il fattore di casa; vi aveva avuto figlioli; ve li aveva allevati; ed ora era vicina a partirsi per un altro mondo. Un lento malore la consumava e il dottore non credeva che vi fosse rimedio alcuno, se non di buone parole e di dolci conforti.

— Mi sento meglio, sa, dottore! mi sento un po' meglio! — diceva la povera malata, tirandosi a sedere su 'l letto. — è stata qui, poc' anzi, la signorina Silvana con sua zia. Che angelo quella signorina!… s'è seduta qui, al mio capezzale, lei così bella e così ricca… e mi ha parlato di tante cose: m'ha domandato di sua mamma, pover' anima, che lei non ha conosciuta, m'ha parlato de' miei figliuoli, m'ha confortata tutta quanta, m'ha confortata! — Non ti crucciare — m'ha detto — pensa a guarire. A' tuoi figlioli non mancherà mai nulla; sono stati e saranno ancora i miei compagni; fatti animo! — Oh benedetta lei quella cara, quella buona signorina!»

E il dottor Rinaldo si partì dall' inferma, pensando che la bontà e l' amore sono pure un dolce farmaco. Se ne tornava a casa fra mesti e pur dolci pensieri, quando, rasentando la cancellata del giardino Della Torre sentì la voce sonora del nonno chiamare «Silvana! Silvana!» Involontariamente egli si fermò alla cancellata a guardare; e vide, fra gli alberi e i cespugli, una fanciulla in veste bianca, con due lunghe treccie cadenti sulle spalle, la quale si sollazzava rincorrendo, con liete grida, un grosso cane di Terra Nuova, che scodinzolava, rispondendo con abbaiare festoso.

Il dottore si fermò un poco, poi riprese il cammino verso casa. Ma dentro la sua mente sentiva sempre una voce che chiamava «Silvana! Silvana!»



Ma quel nome risuonava in un altro cuore, e quell' immagine appariva ad altri occhi.

Nello studio di casa Della Torre, chino su i grossi registri, stava Gualtiero; sommava cifre e cifre; rivedeva la corrispondenza; preparava gli ordini per le spedizioni; segnava le partite vendute; preparava il pagamento settimanale per gli operai. Si sentiva lo stridere della penna su la carta; un vecchio orologio a pendolo, di quelli con la grande incassatura di legno, misurava il tempo co 'l suo incessante tic tac.

Gualtiero scriveva e conteggiava; ma quella non era una buona giornata! Egli, di solito così pronto, così esatto e sicuro, che con un' occhiata vedeva subito il giusto lato d'un affare, in due tratti finiva una corrispondenza e con rapidità sbrigava un conto complicato, quel giorno intoppava, stava incerto, si riprendeva da capo e sbagliava. Dagli occhielli degli 8 e dagli ovali degli zeri, ch'egli scriveva co 'l più elegante carattere inglese, sorrideva un certo visettino fra il dolce e lo scherzoso, che gl' ingarbugliava, gli annaspava la vista; su la parola «selva», che spesso ricorreva nelle registrazioni, egli si attardava con compiacenza, accarezzando e ornando di ghirigori quell'S iniziale, che pareva rendergli imagine d'un corpicino flessuoso e gentile. E, all'altimo, la somma non risultava, e si stizziva. — Da capo! — diceva con un sospirone. E ritornava da capo. Ma giù dal giardino veniva una certa voce limpida e soave che lo distraeva; voleva sentirla quella voce, voleva sentirle quelle parole… poi voleva vedere chi fosse il possessora d'una voce così bella. Lasciava lo scrittoio; guardava giù dalle persiane socchiuse e vedeva, fra i boschetti e le aiuole, una gonnellina bianca, che appariva sotto un grande ombrellino rosso… fastidioso ombrellino, che copriva quel volto!… — Da capo! da capo! — ripeteva stizzito, picchiandosi la fronte col pugno. Ma non ricordava più l'ultima cifra, non trovava più la lettera da rispondere, sbagliava la pagina del registro; si sentiva umiliato e irritato.— Alla malora! — disse. Respinse da sè i registri, e, abbandonatosi su la seggiola, con gli occhi fissi nei fiorami dipinti sul soffitto, lasciò che il pensiero andasse pure sbrigliato dove meglio volesse. Dove andava il pensier suo?… dietro quella vesticciola bianca, che svolazzava per il giardino. La seguiva con un sentimento misto di dolcezza e di paura. L'affetto per quella fanciulla era sorto in lui quasi prima di vederla; vedutala, s'era acceso vivissimo. Egli sapeva che fra il padre suo e il signor Bernardo, già da tempo, era un comune desiderio che Silvana divenisse la sposa di lui, Gualtiero, il quale doveva in tal modo raccogliere la successione della prosperante industria del legname. Egli, con aperta fiducia, s'era composta la vita tranquilla in quelle speranze, in quei disegni. Non era un poeta il buon Gualtiero; non aveva nel cuore impeto di passione; vedeva la vita dal lato ragionevole, e, in lui, gli affetti non sopraffacevano mai le considerazioni dell'utilità. Aveva ereditato la natura calma e riflessiva del padre; da giovinetto in su, era cresciuto fra gli affari ed i conti; l'educazione, ricevuta nel gran mondo di Parigi durante gli anni di studio, gli avevano dato una vernice brillante di spigliata galanteria, che copriva ciò che in lui poteva parere grettezza, e lo rendeva accetto ed ammirato alla gente, a cui piaceva quel ben formato gentiluomo dalle squisite maniere e dall'occhio accorto negli affari. D' indole bonaria, con la mente sveglia, ma limitata nell' angusta cerchia degli affari giornalieri, egli già aveva tracciato e divisato punto per punto il suo cammino attraverso la vita, un cammino che aveva per meta la tranquillità casalinga, negli agi d'una fortuna ben guadagnata con intelligente e onesta operosità. Silvana doveva essere la stella, che schiariva e rallegrava quel cammino. Tosto che egli l' aveva veduta quella fanciulla era stato vinto dalla sua fiorente bellezza, dalla sua giovinezza fresca e vivace. Ma era quella la fanciulla de' suoi pensieri?… Fra lei, bizzarra, indocile, inquieta, e lui ben ordinato e composto; fra lei, piccola ribelle alla legge che la società impone, e lui che lieto a quelle leggi si sottometteva, poteva formarsi un legame d'affetto tranquillo e fidente?… Dal giorno che Silvana era arrivata egli sentiva in sè un fiero turbamento. La traccia del suo cammino nella vita si cancellava; la stella che doveva schiarirlo non era stella di luce tranquilla, ma piuttosto un astro che annunzia le procelle. Il cuore correva desioso a quell'astro, ma la ragione se ne ritraeva spaurita. E, in quel momento, la ragione riprendeva il comando e diceva a Gualtiero: — Torna ai tuoi conti, ai tuoi affari!

Ed egli si ricompose allo scrittoio, riprese il registro, e ricominciò il salutare esercizio dell'aritmetica… Ma tosto che giù, dal giardino, salivano quei trilli argentini, il cuore si ribellava, e nella testa salda e tranquilla del giovane si risvegliava quella funesta incantatrice, che è la fantasia. Chiuse, con atto di dispetto, il registro, e uscì dallo studio.

Pochi istanti dopo vi entrava il signor Bernardo. A non vedervi, cosa insolita, il suo commesso, a vedere su lo scrittoio il registro chiuso, le carte in disordine, capì che qualche cosa c'era stato, qualche cosa come una folata di vento, che aveva scomposto l'ordine costante nel piccolo campo di quel buon lavoratore. E non tardò a indovinare da dove veniva quella folata di vento. Guardò dalla finestra. Vide la sua buona sorella, che stava per raggiungere Silvana, e tosto chiamò.

— Clotilde!… che puoi salire un momento? — e sedette in una poltrona ad aspettare.

La signora Clotilde era sorella maggiore del signor Bernardo. Vedova, senza figli, erasi ridotta già da alcuni anni a vivere co 'l padre ed il fratello. Aveva veduto molto del mondo e molto ne aveva appreso; l'esperienza aveva affinato la sua intelligenza netta e chiara, e molte volte il signor Bernardo aveva ricorso non indarno ai consigli di lei.

La signora Clotilde entrò.

— E dunque, sorella mia, questa nostra fanciulla? — chiese il fratello.

— Questa nostra fanciulla, caro fratello, pare voglia scandalezzare le anime timorate del borgo — disse la signora sorridendo — Ma non far caso di ciò; sono fanciullaggini!

— Passi per le fanciullaggini. Ma, a dir vero, non m'aspettava che il collegio mi rendesse la figliuola così come la trovo.

— Ma che la trovi forse cattiva?

— Oh no! anzi buona, assai buona, e istruita oltre ogni mio desiderio. Ma que' suoi discorsi strani, quell' insofferenza di regola, quella sua libertà inquieta… questo mi dà pensiero, ecco.

— Hai torto, fratello mio; poichè queste non sono altro che semplici esteriorità bizzarre. La fanciulla ha un difetto… veramente non saprei dire se difetto o virtù… ed è di ragionare dritto, con la logica schietta e inflessibile di cui si piacciono i giovani. La sincerità è una virtù?… Ebbene, si sia sinceri fino alle ultime conseguenze. La libertà è bella?… Ebbene, si spezzino tutti i vincoli. E così via! In Silvana ci sono i difetti delle sue virtù; ciò sembra un paradosso ed è verità. è ciò ch' io diceva, fino dai primi giorni del ritorno della fanciulla, anche co 'l signor Gualtiero.

— Gualtiero?… A lui appunto io penso. Che dice egli.?… Tu sai i miei disegni e le mie speranze; tu sai quanta stima io ho per quel giovine, stima ben meritata per l'onestà del suo carattere, per la sua operosa abilità. A chi affidare la mia fortuna, a chi affidare il mio miglior tesoro, mia figlia, se non a…

— Capisco tutto, capisco. Ma in certe cose non serve preparar l'avvenire. Tutto quello che tu pensi, così come lo pensi, è giusto, è retto, è utile. Ma sai tu se ne' tuoi disegni non entreranno elementi, che tu non puoi calcolare?… L'anima ingenua di Silvana è nel suo sbocciare… A chi si offrirà? Chi avrà la fortuna di spirarvi il soffio che la faccia lietamente fiorire?… Fra i due giovani per ora c'è un atteggiamento di scherzosa ostilità. Alla fanciulla piace di stuzzicare il sentimento un po' dormiglioso del giovine. E lui si trova come smarrito davanti alla vivacità frizzante, alla mobilità capricciosa di questa strana fanciulla. è forse questo uno di que' contrasti che la natura ama poi di fondere in armonia?… Ovvero verrà un altro, un altro che…

— Come, come! un altro?… è questo ch' io non voglio. E poi, quale altro?…

— Nessuno ancora lo sa, caro fratello; tu hai formato il tuo disegno saggio ed utile, e t'inquieti se una linea ti va fuori di posto. Ma pensa che se i saggi divisamenti dei padri andassero tutti a buon fine, il mondo morrebbe decrepito nella felicità. è l'impreveduto, è l' imprevedibile che tiene viva la giovinezza nel mondo umano.

— Oh oh! tu filosofeggi!… Già, dacchè hai conosciuto quel dottorino…

— Via via; non prendere per filosofia una volgare osservazione. Veglia, ed io veglierò con te, all'avvenire. Ma non pretendere di accappararlo…

A questo punto si sentì alla porta una voce gentile.

— È permesso?

E la porta s' apri e si spinse avanti il visetto allegro, dagli occhioni vivaci di Silvana, che entrò lenta e guardinga, con una simulata serietà.

— Oh! oh! nello studio!… In conferenza! Dunque ci sono cose gravi?… Vediamo. è questo lo studio dove lavora il signor Gualtiero?… è questo il suo scrittoio?… Di', babbo, in questi registri v'è tutta la tua fortuna?… Che bella cosa!… E dimmi, dimmi un poco; qua ci sarà un registro in cui noterai le spese che mi riguardano, cioè tutto quello ch'io ti costo; è vero?

— Certamente.

— Lasciami vedere. Vorrei sapere quanto vale la mia personcina. è pur giusto ch' io penetri nei segreti dell'economia domestica!

— È giustissimo — disse il signor Bernardo, e trasse dal cassetto del suo scrittoio un libricciolo su cui era scritto: — Silvana. Spese e corrispondenza co 'l collegio Durand, ecc. ecc.

— Che libruccio piccino!… è segno che costo poco. Lasciami vedere, babbo. «Entrata; uscita.» Su questa pagina sono le spese, su quest' altra i redditi, quelli dei beni della mamma, eh?… Scusa, babbo caro; io piglio la penna, e nelle spese lasciami segnare cinquecento lire.

— E perchè, pazzerella?

— Perchè?… s'io ti chiedessi un abito nuovo, se desiderassi una pelliccia per quest'inverno, se ti pregassi di regalarmi un pianoforte, mi accontenteresti?… Sì, io ne sono certa… Ebbene; niente veste, niente pelliccia, niente pianoforte. Ho promesso a Lia che, se mai ella morisse, io soccorrerò i suoi figli; e voglio ora assicurarmi che avrò modo di soccorrerli. è questo che ti chiedo, e scrivo dunque sotto le uscite «L. 500 per i figli di Lia». Così è fatto. Grazie babbo, babbuccio caro!

— Presto detto e presto fatto. Ma guarda un po' nella pagina dei redditi; cosa contrapponi?… Come bilanciare quelle 500 lire?

— è vero, è vero!… sono una cosa noiosa questi vostri libri di conto! Basta, per fare il bilancio giusto, ecco: nei redditi mettici di fronte questo… un bel bacio di riconoscenza!…



Il dottor Rinaldo saliva su per l'erta del monte, riparandosi dai raggi del sole con un largo ombrello bianco.

Era l'ora di mezzodì; il sole batteva in pieno sulla campagna e su i monti; intorno era un grande silenzio, interrotto dal lungo e monotono cantare delle cicale. Allo svolto dell' erta, si riposò sotto l'ombra d'un annoso castagno, tergendosi la fronte dal sudore. In pari tempo, da un sentiero di fianco, discendeva una donna curva sotto un gran fascio di fronde secche e di rami.

— O Madda! di dove venite con questo sole? — le chiese il dottore.

— Vengo dal bosco, signor dottore! Hanno abbattuto il gran noce. Papà Nicola ne ha venduto il tronco al signor Bernardo; un tronco tanto fatto. Era il noce più bello e più vecchio di tutto il bosco e ne caveremo di camparia quest'inverno.Io ho raccolto il seccume; farà buon fuoco a dicembre, su alla nostra casetta. Povera vecchia pianta, ci ha dato frutti tanti anni!… Ora non abbacchieremo più noci. Ma lei, dottore, con questa caldura, su per questa costa arrabbiata!

— M'ha fatto chiamare il curato di Treolmi, e mi son subito messo in cammino.

— Già, lei è tanto buono!

— E il mio dovere, Madda!… Tiriamo avanti. Nel ritorno, mi fermerò a salutare papà Nicola.

— Ci farà una grazia, dottore. Si riguardi.

Il dottore riprese la salita. Madda, deposto il carico, si riposava all'ombra. Per lo stesso sentiero da lei battuto, scendeva con passo rapido un giovinotto, anch' egli curvo sotto un gran fascio di grossi rami. Era Jacopo, un povero montanaro orfano, che aveva posto affezione a Madda, e sperava di sposarla, quando co 'l lavoro avesse messo da parte un gruzzoletto.

— Anche il noce se n' è andato! — lamentò Madda guardando il giovanotto con occhi tristi. — Se n'è andato come la casa del borgo, come il podere! è una lenta agonia nella miseria!… La mamma è morta, è morto il fratello che aveva braccio forte e ci sostentava co 'l lavoro; sono rimasto io sola al babbo vecchio e infermiccio, io, povero cencio da buttar via. Se non foste voi, Jacopo, che mi date una mano a lavorare quegli ultimi palmi di terreno…

— Che dite mai?… è un magro aiuto il mio. Ma perchè state ad accorarvi?… Per questo inverno c'è da campare, e quando s'è poveri non s'ha da guardare tanto in là.

— Sentite, Jacopo; lasciate che ve lo dica un' altra volta. Io vi rendo la parola, vi rendo!… Voi siete giovane e forte, e non avete nessuno che vi tenga;… no… nessuno. Siete libero di andar foravia, in America a cercar fortuna, come hanno fatto tanti, e sono tornati con fior di quattrini. Lo so; voi restate qui per me, che senza il vostro aiuto non potrei, da sola, bastare a lavorar quel poco di terra. Ma intanto v' arrapinate anche voi per vivere, e non è giusto, no, non è giusto, povero Jacopo. Ed io vi rendo la parola.

Jacopo la guardò fiso e silenzioso crollando il capo.

— È una fissazione — seguitava a dire Madda — una fissazione! Ma volete ch'io abbia su la coscienza il rimorso d'aver impedito la vostra fortuna?… Vi rendo la parola, vi rendo; e voi riprendetela, andate lontano, là ove il lavoro rende, e si possono ragranellare i quattrini!… Andate; ternerete ricco; vi aspetterò io, lo potete ben credere. O che pensate che alcuno m'abbia da volere, me?… Andate via!

Jacopo crollò il capo ancora, e, stendendo il pugno come iroso, disse:

— Mi volete far mancare alla promessa?

— Ma se son io che ve la rendo!

Il giovinetto alzò le spalle indispettito. Accennò a Madda il fascio, e, con voce che non ammetteva replica, disse: — Tiriamo avanti!

Madda chinò il capo. Sentiva in cuore, ad un medesimo tempo, una dolce tenerezza ed un' affettuosa compassione.

— Quando volete così! — disse — Datemi una mano a caricare il fascio. Dovrete aiutarmi a portarne ben altri più pesi nella vita!

E, senza più parlare, l'una e l'altro curvi sotto il fascio, salirono di paro, su per la china del monte; mesta imagine della vita, le cui pene si alleviano solo quando ci fiancheggi amoroso compagno, che con noi le divide e le sopporta.

A mezza costa, su 'l limitare d' un bosco di castagni e



betulle, era la casetta di papà Nicola. Soprastava alla valle, e al di là della valle vedevasi il lago chiuso dalle linee oblique delle schiene dei monti di fianco, come un azzurro triangolo splendente al sole; oltre il lago sorgevano, avvolte nel vaporoso bigio della lontananza, altre montagne.

Papà Nicola sedeva fuori della casetta, all'ombra degli alberi, e vicino a lui era un povero frate, con una barbuccia grigia ed incolta ed una tonaca sdruscita e male rattoppata.

— È veramente così, papà Nicola — diceva frate Uberto — noi siamo rifiuti della tempesta; tavole fracide di nave sconqu assata, che il mare butta alla spiaggia. Che più ci resta a noi?

Jacopo e Madda giunsero in quel punto recando il carico; lo buttarono su la spianata, e il giovane, senza dir parola, si discosò.

— Ecco i resti del mio vecchio noce, frate Uberto. — disse papà Nicola — è caduto anche lui, che da tanti anni stava ritto e forte contro il vento!… Quest' inverno verrete al nostro focolare e ci scalderemo all' allegra vampata. Il fuoco non fa l'avaro; arde per uno come per dieci!

Madda uscì di casa recando due ciotole ricolme di fresco latte, e un gran pane inferigno. Porse una ciotola a suo padre, l'altra al frate, e spezzò il pane. Poi si diede a scopar via dinanzi alla porta le foglie portate dal vento.

Dai villaggi della valle venivano i rintocchi di mezzogiorno. Il frate si levò ritto, stette con gli occhi chini, fece il segno della croce sopra il pane, poi sedette di nuovo e si mise a mangiare in silenzio. Mangiato, rese la ciotola dicendo: — Dio vi rimeriti l'elemosina! — E stava per partire, quando, allo svoltare deì sentiero, apparve il dottor Rinaldo.

— Vedete, Madda, ch' io tengo la parola — disse egli volgendosi alla fanciulla, che appena l' aveva scorto erasi affrettata di portare un rozzo trespolo all'ombra.

— Salute, papà Nicola! e a voi pure frate Uberto!… O quali nuove? — chiese mettendosi a sedere.

— Nuove da noi, poveri vecchierelli romiti, con un piede nella fossa? — rispose papà Nicola. — Anni e malanni, ecco le nuove. Io mi trascino là là su 'l mio bastoncello, chè le gambe ormai non mi reggono più. Mi sovviene del vecchio indovinello, che mi diceva mia nonna: C' è un animale, che all'alba cammina con quattro gambe, il giorno con due, la sera con tre. Allora io ero nel bello del giorno e stava fiero; è venuta la sera ed ecco la terza gamba! — disse agitando il bastone. — Basta; tiriamo avanti!

— O e voi frate Uberto, state sempre all' Abbazia?

— Sempre, dottore. Diventa vecchia anche quella, la povera deserta Abbazia; fino i sassi invecchiano; si sgretolano, si sfasciano, l'edera li copre. Io me ne sto lassù, solo, ultimo de' fraticelli che, per lunga e lunga serie d'anni, l' abitarono. Sono come una sentinella dimenticata su 'l posto, io. Aspetto che Quel di là su mi richiami… se pure — soggiunse dopo breve silenzio — se pure nella bontà sua non vorrà offrire, all' umile suo soldato, un modo di non indegna morte in utile battaglia. Per intanto dico anch' io con papà Nicola: tiriamo avanti!

— Tiriamo avanti — riprese il dottore. — è questa la parola d'ordine nella vita. Il vecchio la profferisce in senso di rassegnazione quando si strascina stanco nel breve cammino, che ancora gli rimane; il giovane la dice con franco orgoglio significando che mira diritto ad una meta da cui nè ostacoli, nè lusinghe potranno sviarlo. E tutti dovrebbero ripeterla questa parola d' ordine, con sentimento di fratellanza, perchè ci aiutiamo l'un l'altro a reggere il peso su per l'erta della vita…

Madda, a queste parole, cercò degli occhi il suo Jacopo. Ma non lo vide.

— Ditemi, fra' Uberto — seguitò il dottore — nell' Abbazia non c'è una vecchia iscrizione, che dicono fino dei tempi dei Longobardi?… Ne ho trovato memoria in qualche libro. Un giorno, passando dall' Abbazia, ho guardato in ogni angolo, e non mi venne fatto di vederla. Vi ripasserò un altro di.

— Una vecchia iscrizione?… Si che c'è. Me la ricordo; ma sono molti anni che non l'ho vista più. è infissa sopra l'ultimo archetto del porticato del chiostro; un' edera vecchia e folta ha coperto tutto quel lato, e dell' iscrizione non si scorge più nulla. Ma io so che ricorda un potente cavaliere de' vecchi tempi, che, spogliate le armi, fuggì il mondo, e si ritrasse a far vita di penitenza là su quell' altura ove poi sorse l'Abbazia. Corre anche una leggenda. Dice che ai tempi della pia regina Teodolinda, un cavaliero possente e feroce ariano…

A questo punto si udì salire su dalla valle un grido squarciato, terribile, e dopo il grido una voce infantile, che chiamava aiuto.

— Che sarà mai? — chiese il dottore. Nello stesso tempo, rapido come un lampo, si vide Jacopo scendere giù balzelloni per il fianco del monte. Il dottore e fra Uberto, senz'altro, lo seguirono.



Ajuto! ajuto… Mamma Menica! Mamma Menica! — gridava un ragazzetto con voce di pianto, e, dall'alto del ciglione, con occhi esterrefatti, guardava giù nella forra. A piedi della rupe, il corpo d'una donna stava steso boccone al suolo, con le braccia innanzi, le mani raggranchite, il capo immerso in una larga pozza di sangue; poco lungi, sbattuti fra i sassi, erano sparsi gli zoccoli, il cappello, un falcetto e un fascio di fieno.

— Mamma Menica! — strillava il fanciullo.

Jacopo, il dottore, frà Uberto gli si accostarono, guardarono giù dal ciglione, videro il fiero spettacolo. Scesero; sollevarono la povera donna: era morta!… da una larga spaccatura della fronte docciava il sangue.

— È Menica! — disse Jacopo — Menica del casolare ai Treolmi.

Diede una chiamata verso i boscaiuoli, che si vedevano lavorar qua e là per la china; ben presto, intorno alla morta, si trovarono parecchie persone. Co 'l falcetto recisero due forti rami, e intrecciandovi pieghevoli salici e fronde ne formarono una barella, vi deposero il corpo coprendone il volto co 'l grembiale, e silenziosi si avviarono verso il casolare.

Povera Menica! povere sue creature!… Era una vecchia contadina; la sua unica figliola l'aveva maritata a un campagnuolo bracciante, e, in pochi anni, s' era trovata nonna di quattro nipotini. Erano venuti i tempi grami; la terra non rendeva, mancava il lavoro, si arrapinava per vivere stentatamente. Il genero di Menica deliberò d' andare in America, e parti lasciando la moglie co' quattro figli su le braccia; parti con la speranza in cuore, che di là, da quel lontano paese, avrebbe presto mandato qualche gruzzolo. Ma non venne nulla, e un anno dopo quella partenza, la figliola di Menica moriva lasciando alla vecchia madre i quattro piccoli figlioletti. E la povera vecchia madre raccolse quel fardello dicendo: — Sia fatta la volontà del Signore!

Lavorando ad opra, se alcuno per pietà la voleva, andando per il bosco a raccattar legna e sterpi, spigolando ne' campi altrui dopo la raccolta, inerpicandosi su per le balze a far erba e strame, con le spalle rotte e fiaccate dai pesi che portava come un giumento, con la pelle bruciata dal sole, la povera donna si guadagnava un pane da dividere fra quelle quattro creaturine, a sè stessa riserbando la parte maggiore della fame insoddisfatta. E anch' essa, fosse co' piedi gelati nella neve, fosse sotto il sollione che bruciava, alzava gli occhi al cielo e diceva: — Tiriamo avanti!… — sperando che di là, da lontano, da quel paese ignoto e misterioso ch' ella sentiva spesso nominare, avesse infine da giungere il genero a darle la muta in quella lunga e penosa fazione. Ma il genero non giungeva!

Quel giorno, la povera Menica era andata fuori co 'l maggiore de' nipoti, un ragazzetto in su gli otto anni; aveva preso il falcetto per andar giù verso la forre, dove, fra brevi spazi delle balze e de' greppi, cresceva a ciuffi l' erba fiorita. Voleva farne un fascio per la vaccherella d' una sua vicina che le avrebbe dato, in cambio, un po' di latte per i fanciulli. Andava su per le balze curva, gocciando sudore giù dalla faccia, e falciava e sterpava, mentre il fanciullo la seguiva raccogliendo l'erba in fascio. Quando fu presso il ciglione, e stendeva il falcetto verso uno spazio tutto erboso, la prese la vertigine, le si oscurarono gli occhi, le vacillò il piede. Si aggrappò ad un ramo; ma quello si spezzò, e la misera, mandando un grido, ruinò nel burrone sottoposto.

Il fanciulletto piangendo seguiva la barella che portavano su al casolare. Quando vi giunsero, gli altri tre fanciulli, sudici e mocciosi, stavano su la porta. Una bambina, già grandicella, riconobbe la nonna, e si diede a singhiozzare ed a strillare, rannicchiata su i gradini della scala. Gli altri più piccoletti non capivano nulla; guardavano la gente che dai casolari vicini era corsa a vedere; ammiccavano, ridendo, al frate, e vergognosi fuggivano dal dottore, che li voleva accarezzare. Egli s' accostò alla fanciulla e prese a consolarla, lisciandole i capelli, dicendole dolci parole. Poi l' affidò insieme co' fratellini ad una vicina, lasciandole un po' di soldi per nutrirli.

— Almeno, — disse la vicina asciugandosi gli occhi, — almeno tornasse il padre di questi poverelli! Ora, chi le sfama ora queste creature?…

La morta, distesa su la barella, la posero in una stanzuccia a terreno, finchè fossero venuti quelli della pretura a constatare il fatto. Le accesero un cero ai piedi; frà Uberto s'inginocchiò a pregare.

Ritornato giù nel burrone, Jacopo recise due bianchi fusticelli di betulla, li sfrondò, li legò in croce, e piantò quella croce fra i sassi rosseggianti del sangue della povera Menica.



Ogni volta che il dottore passava davanti alla cancellata della casa Della Torre, nel suo interno nasceva un contrasto se entrare o no. Consideravasi come obbligato dalle promesse d' una visita; quella bella voce che aveva detto: — ed ora resterà! — la risentiva come un dolce invito. Ma nella sua natura riguardosa e timida sentiva una gran riluttanza, e passava via dal cancello senza entrare, attendendo che qualche singolare occasione desse, alla sua visita, un motivo migliore di quello d'un semplice complimento. E l'occasione non tradò a capitare.

Una sera, quando la famiglia Della Torre stava, come di solito, raccolta sotto il porticato, il dottor Rinaldo varcò finalmente la soglia di quel cancello. Il nonno, il signor Bernardo, la signora Clotilde erano a crocchio intorno al tavolo; più lontano, su una panchina, sedeva Silvana sfogliando fra le dita un fiore di margherita; Gualtiero le stava vicino in piedi e pareva che, seguendo i petali che ad uno ad uno la fanciulla dispiccava dal fiore, mentalmente ripetesse il solito «m' ama, non m' ama» Ma prima che tutte le foglie fossere spiccate, e la sentenza fosse detta, Silvana buttò via il fiore, come se avesse inteso e volesse deludere il pensiero del giovine.

La signora Clotilde si volse.

— Oh il dottore Rinaldo! — esclamò. E tutti gli altri ad una voce gli diedero il benvenuto.

Silvana e Gualtiero s' accostarono. Il dottore levò uno sguardo timido verso la fanciulla; ma tosto incontrò gli occhi di Gualtiero; l' uno e l' altro si guardarono salutandosi con un freddo inchino.

— Finalmente! — disse il signor Bernardo. — Io non isperavo più il bene di vederla. Pensavo di mettermi a letto ammalato perchè lei non avesse più ragione di negarmi una sua visita…

Il dottore si scusò con parole gentili: le occupazioni giornaliere, il desiderio di non lasciar sola la mamma gli avevano tolto fino allora di compiere il gradito dovere d' una visita.

— Ma — soggiunse poi — per essere schietto, questa mia visita non è punto disinteressata!… Vengo a tentare il loro cuore…

Silvana, che tenevasi discosta e silenziosa, mordendo il gambo d'una bella rosa bianca, s'appuntò quella rosa al petto, e s' avvicinò.

— Io già l'indovino; qualche azione filantropica — disse Gualtiero con leggiero sorriso.

— Precisamente! — disse il dottore secco secco, senza volgere lo sguardo.

— è la moda — riprese Gualtiero, che, da uomo d' affari, non amava, o almeno mostrava di non amare le dimostrazioni umanitarie, com'egli diceva, le morbosità sentimentali. — È la moda. Da buon commerciante, io mi vorrei mettere dalla parte de' disgraziati, e farei affari. Una scosserella di terremoto, che dirocca due catapecchie; quattro casi d' un male epidemico; un fiumiciattolo, che allaga due palmi di terreno; un incendio, che distrugge due fenili; due operai disadatti e distratti, che si slogano un braccio, e subito a gridare: «Carità! carità! fratellanza!…» E, all' ultimo, chi ci guadagna sono i disgraziati, ovvero…

Ma qui si morse le labbra, perchè stava per dirla troppo grossa, e arrossì vedendo che Silvana lo guardava con occhio fiso, atteggiando le labbra a disdegno.

Quando Gualtiero ebbe finito la sua tirata, il dottore, come nulla fosse stato, come nulla avesse udito, senza pur guardare dalla parte del contradditore, disse: — Narrerò il caso. — E si mise a raccontare la morte della povera Menica, a descrivere la miseria delle quattro creature; egli aveva fatto subito scrivere in America al padre loro, che venisse presto perchè i suoi figliuoli, morta la nonna, erano abbandonati ed avevano bisogno che alcuno pensasse al loro sostentamento. Ma fra l'andata della lettera e la venuta del padre ci correva in mezzo del tempo! E poi, li avrebbe lui, il pover' omo, i mezzi di rimpatriare?… Occorrevano dunque due cose: denaro da spedire al padre per il ritorno; denaro per alimentare gli orfanelli nel frattempo. O dove trovarli questi denari, se non nella carità dei ricchi?

— Ed io — concludeva il dottore — ho pensato che ero a loro debitore d' una visita, e l' ho riserbata per volgere al loro cuore gentile il primo invito a quest' atto di carità. Già, le visite del dottore si fanno sempre pagare!

Silvana aveva ascoltato quel racconto attenta, attenta; s' era fatta pallida, le tremolavano le lagrime negli occhi; all' ultimo scappò via. Ma fu subito di ritorno; e, accostandosi al dottore:

— Io la ringrazio, signor dottore, — disse — d' aver accordato a noi l' onore del primo suo appello in quest' opera di pietà. Eccole il mio obolo. — E porgendo con una mano un grazioso borsellino di seta, vi lasciò cadere due monete d' oro. Poi accostandosi a Gualtiero, e porgendogli il borsellino aperto, disse, fra lo scherzoso ed il serio:

— A lei, signorino; faccia penitenza delle sue parolacce dure, e versi quì tutto quanto si contiene nel suo borsellino.

— E se fosse poco? — disse ridendo Gualtiero.

— Via, speriamo che non sarà — rispose Silvana.

Che fare?… bisognava prenderla con disinvoltura. Gualtiero vuotò il suo borsellino in quello di Silvana. Per fortuna degli orfani di Menica, proprio in quel giorno, egli l' aveva ben rifornito.

— Ed ora anche a voi, miei cari — disse la fanciulla andando dal nonno, dal babbo e dalla zia. — Eccovi lo scaccino.

Il borsellino era pieno turgido, che non si poteva chiudere. Ella lo guardò soddisfatta e lo porse al dottore.

— Grazie! — disse questi con voce commossa.

— Grazie a chi? — soggiunse Silvana — Dobbiamo noi grazie a lei, che ci chiama a parte d'un'azione gentile. — Stette sospesa un momento, poi toltasi la rosa dal petto, disse: — Gradisca questo fiore! almeno finchè non sarà appassito le ricorderà la mia gratitudine.

Il dottore, con un inchino rispettoso, ricevette la rosa bianca. Levando gli occhi, li scontrò con quelli di Gualtiero. Pareva che si fossero incrociate due spade…

Quella sera il dottore, nella sua cameretta, non trovava la calma tranquilla del lavoro. Sopra il tavolo, davanti alle sue carte, ripiegavasi su 'l labbro d' un bel vasetto di cristallo una rosa bianca; mandava un profumo gentile e acuto, che dava alla testa del dottore.

Il dì seguente, nello sfogliare la corrispondenza del mattino, Gualtiero trovò un piego che conteneva questa semplice ricevuta: — Il dottore Rinaldi dichiara d' aver ricevuto dalle mani della gentile signorina Silvana Della Torre la somma di L. 150, 75, per soccorso alla famiglia di Menica Foresti. Riserbandosi di render conto del come fu elargita la somma, si segna

Dottor Rinaldo Rinaldi.

Gualtiero si morse le labbra e segnò a protocollo la ricevuta.



Ivilleggianti, uno dopo l' altro, erano arrivati; prima i De-Conti, poi i Belardi e i Corbelli, ultimo il commendatore con le quattro figliole; erano arrivati a popolare le casine e i chalets su la sponda del lago, presso il borgo. Verso sera, lungo il viale della spiaggia, presso lo sbarco del vapore, si vedevano crocchi di signore e signori; la brezza del lago agitava gonne di seta e grandi veli; e, co 'l pretenzioso parlare cittadino, si sentivano allegre risate di persone che andate in campagna per divertirsi, ridono per mostrare che si divertono. Il vasto e tranquillo seno di lago, in cui si distende il borgo, era solcato da barchettine leggiere, con barcaiuoli travestiti da marinai. La bella spiaggia del lago, il bel viale di pioppi e di salici lungo il fiume non erano più liberi; ad ogni tratto s' intoppava in qualcuno che leggeva all' ombra d' un albero, in qualche altro che voleva ritrarre su l'albo il monte e il lago … e l'odore del fieno mietuto e de'fiori campestri era sopraffatto dall'odore di muschio e da mille essenze de'profumieri. Già si parlava di serate, di scampagnate, di un ballo, di un' accademia. C' era perfino un professore che minacciava una conferenza.

Molti si pensavano che Silvana diverrebbe l' anima di quella società, perchè e per la sua bellezza e per la sua ricchezza non era disdegnata, ma anzi assai ricercata dalla compagnia cittadina.

Ma Silvana non c'era. All'appressarsi dell'invasione cittadina, ella aveva emigrato verso il monte.

— Vuol far la preziosa!

— Affetta d'essere originale! — dicevano questi e quelli. Nessuno pensò che schiettamente facesse il piacer suo.

Un giorno, dei primi di settembre, il signor Bernardo aveva detto: — Domani si finisce il taglio dei boschi. Mi conviene stare alcuni giorni su alle seghe per sorvegliare le ultime operazioni. Vuoi tu, Silvana, venire con me ad abitare per un poco la casina svizzera?

— S' io voglio!… e lo domandi a Silvana?

E, da quel momento, fu un allegro tramestio per i preparativi. Un bel cappellone di paglia dalle larghe tese; stivaletti alti dalle suola robuste; gonnella liscia e succinta; nei panieri un'abbondante provvisione di coselline utili e cianciafruscole d' ogni maniera da regalare ai figli de' boscaioli.

Di buon mattino, un rozzo carro, accomodato alla meglio con panchine e cuscini, aspettava alla porta. Si caricarono le provvisioni. Silvana e il suo babbo sedettero nel mezzo; Gualtiero andò a cassetta presso il contadino che guidava. Ih! — una frustata, e i due grossi cavalli presero il trotto. Il carro, greve e senza molle, correva su la via sassosa a sbalzi e scossoni, che facevano ridere la fanciulla.

Dalla casa Della Torre all' opificio delle seghe c' era una strada carreggiabile. In antico non era che un sentiero da muli; ma la sempre crescente industria del legname aveva reso necessario, per la maggior facilità del trasporto, di allargare il sentiero, che vi potessero passare i carri agevolmente. E s'era fatta una bella strada spaziosa e comoda, che seguiva il fiume internandosi nella valle fin dove, presso la cascata delle acque, sorgevano i fabbricati dell' opificio. Erano fabbricati grandiosi, ove, oltre a segar tronchi ed assi, si facevano bellissimi pavimenti con varietà di legname e di disegni; era un' industria fiorente; vi lavoravano più di cento operai, per la maggior parte capi di famiglia, che abitavano un gruppo di casolari su a mezza costa del monte. A mezzodì le donne scendevano con pentolini e paniere a portare il desinare ai mariti ed ai figliuoli; a sera, quando i comignoli mandavano azzure spire di fumo, gli uomini salivano agli abituri.

Poco più su dell'abitato, a sommo d'un balzo, sorgeva una chiesettina dal campanile acuto. Là era stata battezzata Silvana, là su 'l sagrato era sepolta sua madre. Era un paesaggio pittoresco: i tetti dell'opificio dai rossi tegoli, parte vecchi e parte nuovi, che indicavano il successivo ampliarsi e variarsi dell'industria; gli steccati d'assi e le cataste di tronchi; il fiume qua spumeggiante fra i sassi, là tranquillo fra seni erbosi; e tutto intorno selve, fra il cui verde spiccavano, luccicando al sole, le ardesie degli abituri e il bianco campanile della chiesetta, formavano come un bel quadro. A valle del fiume, prima dell'opificio e da questo poco discosto, era una casetta al modo svizzero, di muro le parti inferiori, il resto di larice dal color bruno co 'l largo tetto e le piccole finestre; intorno un giardinetto. Era la casetta dei padroni, una casetta civettuola fra que'rustici casolari. Lo strosciare della cascata, il rumore delle grandi seghe mosse dall' acqua, i colpi di mazza e d' ascia, i canti degli operai, animavano quel bel paesaggio; l'aria viva, frizzante della valle, pregna d'un acre sentore di legni resinosi, faceva aprire le nari a larghi respiri.

Silvana, correndo, saltando, tutta lieta e smaniosa di rivedere luoghi a lei cari per tante memorie d' infanzia, salutava gli amici e le amiche, aveva per tutti una buona parola, una carezza. La sua vivacità, che fra la gente di pretensione facevasi ardita, caustica, diveniva, li fra quei poveri montanari, una vivacità bonacciona ed espansiva. Ella non aveva paura nè de' cenci, nè dei musetti sudici; i bimbi, che le si avvicinavano incuriositi, lei li baciava tutti. Veduto Nanni, ch' era venuto innanzi de' primi per salutarla, gli strinse la mano nera e callosa. Presso Nanni era una fanciullina con due occhioni azzurri, sgambucciata e scalza che, tutta peritosa, le porse un bel mazzo di ciclamini. Silvana lo gradi, e, carezzando la piccina:

— Come ti chiami! — domandò.

— Reginella.

— E sei figliola di…

— Figlia mia, figlia mia — gridò forte il fiero Nanni.

— Oh Nanni!… Ma quanti sono questi vostri figli, che, ad ogni passo, se ne trova uno.

— Ecco, signorina; qui abbasso ce n' ho cinque; altri sei sono su al casolare.

— Undici!…

— Undici; e il dodicesimo verrà presto.

— Benvenuto! — disse Silvana — ed io sarò la santola del dodicesimo.

Poi corse via festosa. Entrò nel giardinetto della casina svizzera. C' erano di molti fiori; rose, gelsomini, caprifogli, margherite tanto folte, e erba odorosa a larghi e spessi ciuffi. Ella li andava cogliendo e componendo in mazzo, e ad ogni fiore che spiccava, si faceva seria e mesta in volto. Quando il mazzo fu compito, usci e prese per il viottolo della chiesuola.

— Dove vai, Silvana? — le chiese il signor Bernardo incontrandola.

— Porto questi fiori su dove dorme la mamma — rispose ella con voce mesta.

— La strada è ripida — disse Gualtiero — mi permette, signorina, d'accompagnarla?

— Se le piace! — rispose Silvana. Ma subito, nel medesimo istante, chiamò forte — Reginella! Maria! Orsolina!

Le tre ragazze accorsero a lei.

— Venite, piccine; andiamo là su alla chiesuola; per via coglieremo i ciclamini.

E si misero in cammino.

A mezza costa, fra l' ombra degli alberi e delle macchie, si videro spiccare degli ombrellini e dei cappellini da signore. Era una compagnia di villeggianti, tre giovani eleganti e tre fanciulle, che ciarlando e ridendo tornavano da una gita. Gualtiero levò gli occhi, e animato da un sorriso di contentezza di trovare quell'accenno di città là tra quel rusticume, salutò cortese. Silvana si scostò, chiamandosi vicine e accarezzando le tre montanine. La compagnia passò.

Seguitando il cammino, gli occhi dei due giovani s'incontrarono, e con gli occhi si dissero: — C'intendiamo noi?

Giunta alla chiesuola, Silvana s'inginocchiò su la tomba della madre, segnata da una modesta lapide di marmo infissa nel muro del sagrato; depose i fiori, e stette raccolta in silenzio pregando. Finita la preghiera, sedette sotto il piccolo atrio della chiesa e di là andava spaziando con l'occhio all'intorno, tutta ammirazione per quella bella natura, tutta ingenua espansione de' sentimenti che le agitavano il cuore.

— Com'è bella la montagna verde! — esclamava; e voltasi a Gualtiero:

— Guardi — diceva tutta animata in volto — guardi quelle vette là, lontane, in alto, brulle e scoscese, con quegli striscioni di neve nei valloni!… e là, in fondo, il torrente spumeggiante!… e quel bosco di larici, che si stende su la china!

— Proprietà di suo babbo — osservava Gualtiero — rende tre mila lire, un anno su l'altro.

— E quel prato, più in basso, come un gran tappeto verde, con tante casine sparse?

— Un bel pascolo; proprietà di suo babbo anche quello — diceva Gualtiero — vi sono cento capi di bestiame grosso; tra fieno e bestiame rende due mila lire l'anno.

— Lei è un grande aritmetico — disse Silvana ridendo.

— È il mio vanto — rispose il giovinotto — e lei?

— Io?… ammiro gli aritmetici; ma non li amo.

Come si vive bene su i monti, nell'aria pura, vivificante, con la vista estesa, aperta, varia!… A mattino, quando il sole colora le alte vette, si cammina su per il pendio tappezzato d'erba tenera, di muschi verdi variati da mille fiorellini; si attraversano boschi di carpini e di frassini, dai tronchi robusti e contorti; le betulle alzano i loro fusti svelti dalla corteccia d'un bianco d'argento, che luccica su 'l bruno della selva, e con le chiome dalle foglie pendule tremolanti e sussurranti al minimo soffio di brezza. Regina della selva, or qua or là, spande i nerboruti rami frondeggianti qualche gran quercia in mezzo ad un fitto di piccoli querciuoli cedui. Si passa più avanti, si sale, traversando prati in pendio, sparsi di grigi massi erratici, e si entra nel bosco de' pini; larici ed abeti ergono dritti il fusto superbo, distendono larghi e spioventi i rami, come grandi braccia, e dolcemente agitano al vento l' ultima vetta. Si cammina, e la mano si stende a cogliere mirtilli e fragole, che maturano abbondanti sotto i cespugli, e su per le siepi more e lamponi silvestri, che ristorano l'arsura. Si cammina con fresca lena; l'occhio s'allieta della vista varia; le campanelle degli armenti al pascolo accompagnano il passo. Si esce dal bosco e innanzi si stende il monte ormai fatto brullo; pendii di basse erbe variate appena di pochi ciuffi di rododendro; massi enormi, chiazzati di verde e di grigio dai muschi e dai licheni, e tutto intorno diritte e scoscese scogliere, che si avvicinano, si toccano, chiudono la valle. Giù dalle scogliere scendono rivoletti, nati da fresche polle sotterranee e da valloni dove perpetua dura la neve; i rivoletti si adunano in un bacino e formano laghetto d'acque limpide e ghiacce, contornato di un margine erboso; le acque sboccano dal laghetto in ruscello in cui altri rivoletti, a cento, a mille, si riversano correndo giù dai fianchi de' monti, e tutti si confondono a diventare spumeggiante torrente nella valle, tranquillo fiume nel piano, per mettere foce nel lago. Su nel fondo della valle che solenne silenzio!… Là non arriva la voce del mondo; solo su in alto, a volo rotondo e lento, aleggia il falco con aspro, minaccioso strido. Lassù nei monti è pace. Le misere cure, i pettegolezzi, le piccole ire, le vanità, che pur ieri, giù fra la gente del mondo, negli eleganti salotti, ti angustiavano, là su li dimentichi… Solitudine, silenzio!… Domina la natura, e in quella l'uomo si compenetra, come invisibile atomo del gran tutto.

Con tali sentimenti, Silvana correva per i boschi e per i monti, accompagnata dalle più grandicelle e più robuste fanciulle de' boscaioli, e, assai spesso, da Pipparello, il figlio maggiore di Nanni, un giovincello lesto, accorto, pratico d'ogni sentiero, agile come uno scoiattolo, servizievole e fedele come un cane. E, verso il tramonto, se ne tornava alla casetta svizzera, con panierine piene di fiori e frutti silvestri, con le scarpe rotte, con un grande appettito e con la testa piena di bizzarrie, diceva Gualtiero, che desioso guardava quel bel volto fatto più incarnato e vivo dall'aria della valle e dal sole de' monti.

La selva risuona di colpi d'accetta su i pedali dei più vecchi larici, e dello schianto de'tronchi atterrati. Ferve il lavoro nel taglio de' boschi, fatto a buona luna, come insegna la tradizione de' boscaioli. Il signor Bernardo e Gualtiero vegliano all'opera; quello indicando i tronchi che vanno abbattuti, questi tenendo nota del numero degli alberi e divisando i modi di trasportarli ed allogarli. Nanni guida gli operai; ragazzetti e fanciulle vanno in volta con gerlo e falcetto a sfrondare rami e raccogliere frasche e scheggie. Il sole saetta da mezzo il cielo nel pieno della valle; l'ombra degli alberi s' accorcia, s' accorcia; segna mezzodi. Posano le braccia e le scuri e, dove i rami s' intrecciano più fitti, gli operai si ritraggono a prender cibo e riposo.

Anche il signor Bernardo e Gualtiero, che sono in piedi dall'alba, sentono nello stomaco l'ora avanzata, e aspettano Silvana, che ha promesso di venir lei a portare le provvisioni del pasto meridiano.

Ma Silvana non si vede; si sarà fermata per via a sollazzarsi, la pazzerella! — Ecco quel che si guadagna ad affidare le cose serie a certe testoline!… — brontola sorridendo il signor Bernardo.

Gualtiero guarda giù per il sentiero fin dove arriva l'occhio. Non si vede nessuno. I due uomini sbadigliano dalla fame.

Ma ecco che fuori dalla macchia, ove non é tracciato viottolo di sorta, sbuca, con lieto grido, la fanciulla, seguita da Pipparello, che reca un gran cesto.

Finalmente!… Presto, presto, sopra il tappeto erboso, all'ombra, si stende il tovagliolo. Mano alle provvisioni. Ecco salati, carni, formaggio e frutta… O e il pane?… Ecco anche il pane, e due fiaschetti di quel vecchio, che piace a babbo. Non ci sono piatti; larghe foglie di platano ne fanno le veci. Non ci sono posate. Oh sventatella di Silvana!… In compenso però c'é un mazzo di stuzzicadenti. Non ci sono bicchieri; si beve a cannello, passando in giro il fiaschetto; è un' occasione di più per ridere. Ma attenti! che Silvana, nelle sue democratiche espansioni, non passi il fiasco a Nanni; non ci sarebbe altro!… con quei lunghi e incolti mustaccioni! Si mangia e si ride; le franche risate e l'aria del monte fanno rinascere l'appetito quando già par vicino ad essere estinto. Anche Gualtiero mangia e ride di gusto, sebbene egli faccia smorfie schifiltose disgustato d' impasticciarsi le dita con le carni unte e di bere nel fiasco. Questo non gli rincrescerebbe se il vino gli arrivasse dopo che Silvana ha bevuto… nella bocca del fiaschetto gli parrebbe di baciare quell' altra rosca boccuccia! Ma Silvana non beve vino; corre invece, tratto tratto, al fresco rivoletto, che gorgoglia li vicino, e beve, facendo giumella con le mani. Si mangia e si ride. Ma … non c' è più pane, più, fuorchè un piccolo panetto bianco che sta là in mezzo, punto d'attrazione di sei occhi desiosi, appetitosi. Non basta per tre; non basta neppure per uno solo, e nessuno osa toccarlo.

— Hai portato poco pane, benedetta figliola! — dice il babbo.

— E voi avete portato un troppo grande appetito — risponde Silvana ridendo.

Nanni sente, e rispettoso si fa innanzi offrendo un gran pane, grande come una ruota, nero, nero, pesante.

— Se si degnano di gradire — dice peritoso — se si degnano — e ficcò il suo coltellaccio in quella crosta legnosa.

— Bravo Nanni! — risponde Silvana, e senza cerimonie, piglia il pane e l'affetta.

Gualtiero si rischiara in volto e guarda il panino bianco. Ma Silvana prende il panetto soffice e leggiero e lo porge al boscaiolo, dicendo:

— Prendete, Nanni; voi di questo non ne mangiate mai. Assaggiatelo.

— Grazie, signorina — risponde il boscaiolo, tenendo il panino bianco nelle manone nere — grazie; lo porterò alla mia Ghita.

Gualtiero si rabbuia e la fanciulla ride e lo canzona vedendolo sgretolare quel panaccio inferigno.

Il sole declina verso l'altra costiera; le ombre degli alberi si allungano. All'opera, all'opera, finchè giunga la sera. E la selva risuona di spessi e forti colpi. Silvana, supina, all'ombra, guarda una nuvoletta che veleggia soffice e leggiera per il cielo; il susurro de' rami, il ronzio degli insetti, la immergono in un dolce e languido fantasticare, e il suo pensiero si perde nell' infinito.

Come pesava a Gualtiero la solitudine di que' monti, massime quando, calato il sole, cominciava l' alta melanconia del di che fugge; quando le ombre, che scendono su la terra, pare involgano il pensiero e l'anima di tristezza!… La sera egli non la credeva tollerabile se non nella luce vivace d' un bel salotto, in buona e gaia compagnia, conversando piacevolmente, facendo un poco di musica, magari anche quattro salti…

Ma la sera ne' monti! era un morire!… E di solito, se non ç'era occupazione urgente che lo trattenesse fino a notte, prendeva la strada che conduceva al borgo, e faceva, di buona voglia, quelle due ore a piedi, pur di sottrarsi a quel selvaticume e rifarsi uomo, com' egli diceva, al caffè, o nella palazzina d'alcuno de' villeggianti.

E Silvana?… Gualtiero si sfogava con la signora Clotilde quando la rivedeva; egli non sapeva capacitarsi come mai quella fanciulla si compiacesse in quel romitorio, fra quella gente zotica, standosene, la sera, a novellare su la porta degli abituri dove le vecchie filavano e i fanciulli si trastullavano, ovvero danzando su 'l pratello, con le montanine, al chiaro della luna nascente, finchè il babbo, dalla casina, non la richiamasse al riposo.

Una volta Gualtiero, avviandosi verso il borgo, vide la fanciulla su 'l veroncello della casina svizzera, sola, taciturna, che guardava lontano nello spazio.

— Ha comandi per laggiù? — chiese egli salutando.

— Saluti la zia e il nonno.

— E non altro?

— No, null' altro.

— Ma lei non si muove più?… Giù, al borgo, si danza la sera; c'è musica, c'è compagnia. E tutti la desiderano e l'aspettano. Vuol forse morire qui solitaria?

— Mi piace di essere solitaria. Sono una superba io; piaccio e basto a me stessa, e nella solitudine mi godo. Sa che cosa dice un nostro poeta?…

«Va romito il leon per suo sentiero, Spiega romita al ciel l'aquila il volo, Sia nobil tedio o voluttà d' impero Ogni forte nel mondo é sempre solo.»

— Baie! — esclamò Gualtiero — baie da poeti, che non hanno il senso comune!

E se n'andò. Camminando, in silenzio, pareva che le dolci illusioni del suo cuore andassero svanendo; pareva che il cammino della sua vita, ch' egli erasi tracciato chiaro e diritto, si perdesse tortuoso in una terra ignota.

Din din e den den!… La campanella della chiesetta su 'l monte suona di buon mattino, scossa dalle mani di frate Uberto, chè quando si ufficiava in quella chiesetta, ed era una qualche rara volta all'anno, lo chiamavano lui.

Din din e den den!… I rintocchi si spandevano per la valle.

— O che c'è mai da suonare stamane lassù? — chiese il dottore, che saliva il monte, ad un contadino.

— C'è che si fa il battesimo del figlio di Nanni; un battesimo allegro perchè fa da santola la padroncina.

— La signorina Silvana?

— Per l'appunto.

— O e il compare chi è?

— Non si sa.

Era curiosità?… Era che il dottore non aveva dove meglio dirigersi?… O forse, inconsciamente, altri pensieri lo traevano a sè?

Egli si mosse, su, verso gli abituri ove dimoravano gli operai delle seghe.

Innanzi al casolare di Nanni era un capanello di gente, e un gran brusio. Erano donne e fanciulli, che aspettavano uscisse il bambino per essere portato alla chiesa. In mezzo a quella gente, il dottore vide farsi innanzi una donna vigorosa, che portava su le braccia un guanciale, sopra il quale, avvolto in rozzi ma puliti pannilini, posava una rosea faccina di bimbo. Dietro seguiva Silvana, che aperto l'ombrellino riparava la creaturina dal sole; dopo Silvana veniva Nanni, con la giacchetta della festa e, con lui, molti figlioli della sua nidiata, e molti altri del vicinato.

— Ma… o il compare?… dov'è il compare? — si bisbiglia intorno.

Il compare non c'era. Stefano, il carbonaio, che aveva promesso a Nanni di tenergliela lui a battesimo la creaturina, quando seppe che la signorina Silvana doveva fare da santola, s' era vergognato di apparire lui, tutto nero, accanto a quella fanciulla bianca e bella come un angelo. Ed aveva pensato che miglior partito era di svignarsela su alle carbonaie, ove tutti erano neri come lui.

— O e il compare?

— Non c'è; non c'è! — si diceva, con grande stizza di Nanni, che se ne stava confuso confuso, non sapendo a qual santo votarsi.

Silvana alzò gli occhi, e non penò a discernere, fra quel mucchio di scamiciati, il dottore. Le brillò un lampo negli occhi, e disse con voce risoluta: — Signor dottore, vuol essere con me a tenere a battesimo questa creatura?

Il dottore ebbe un sussulto a sentirsi chiamare da quella bella voce. Come rifiutarsi?… La gente si scostò, ed egli, fattosi presso Silvana, rispose:

— Di tutto cuore, signorina.

Un mormorio d'approvazione si levò d' intorno.

La comitiva a due a due, seguendo la donna che portava il neonato, passò per la stretta viuzza fra i casolari, e, uscita all'aperto, s'avviò su per il sentiero della chiesetta. Frate Uberto, che li aveva visti da lontano, riprese a scampanellare della più bella.

Il dottore camminava silenzioso di fianco a Silvana. Ma, poco a poco, rallentando il passo, si trovò indietro fra gli ultimi. Seguiva con l'occhio quella sfilata di montanine dai fazzoletti bianchi, rossi, celesti, che spiccavano come fiori sul verde de' prati e delle macchie, nello splendore d'un bel mattino d'autunno, mentre la squillante campanella pareva segnare i passi con l'allegra cadenza de' suoni. Sopra le teste de' contadini il dottore vedeva l'ombrellino bianco di Silvana, che ombreggiava il bimbo, e si sentiva come smarrito e confuso. Qual capriccio della sorte era mai stato quello che lo avvicinava alla fanciulla in questa singolare circostanza, e con lei lo legava in un ufficio santo, quasi in vincolo d'affetto e di dovere per quella povera creatura allora venuta al mondo?… E quella fanciulla, offrendosi a tanto ufficio e traendo lui a condividerne la sorte, sentiva ella i doveri che la religione impone, o seguiva soltanto una bizzarra fantasia del suo cervellino?… E quella creaturina allevata alla sacra fonte del battesimo da persone d' una condizione tanto diversa dalla sua, che destino avrebbe?… E quando quel bimbo fosse cresciuto negli anni, lo rivedrebbero essi ancora, lo riconoscerebbero ancora con memore effetto?… O non sarebbe stato meglio cedere quell'ufficio ad un onesto montanaro o ad una povera contadina che, vivendo in quegli stessi luoghi, potessero vegliare il crescere di quel bimbo con sincero vincolo d'affetto?

Fra questi pensieri, il dottore, nella delicata sua coscienza, si rammaricava d'aver ceduto a ciò che forse non era stato altro che una fantasia da fanciulla leggiera. Ma intanto erano giunti alla chiesa. Entrarono. Presso al fonte battesimale, frate Uberto, avendo a lato il dottore e Silvana, benedi il fanciullo e gli impose i nomi che Nanni gli suggeriva. Ma a questo punto il dottore, voltosi al frate, disse. — Badi, padre, e badate anche voi, Nanni: il compare doveva essere Stefano il carbonaro. Non lo private d'un ufficio che gli era caro, non gli togliete un dovere ch' egli assumeva volonteroso, non private questa creaturina di tale che, nell'umile sua condizione, gli può, meglio di me, quando si richieda, essere padre, come la religione domanda. Fate come se io qui fossi in piede suo, e date al fanciullo il suo nome; chiamatelo Stefano.

E alla creaturina fu posto nome Stefano. Ma da quando cominciarono a nominarlo, per abbreviare in vezzeggiativo, lo chiamarono Fanello. E crebbe sano, vispo, allegro, come un vero fanello che trilla su gli alberi.

Le parole del dottore furono ascoltate da Silvana non senza un leggiero sentimento d'amarezza. C'era del vero in ciò ch'egli diceva. Quell' ufficio, a cui ella, per impulso di cuore, erasi offerta così spontanea, non richiedeva solo la benevolenza d'un istante festoso, ma comprendeva un dovere per tutta la vita, un dovere santo, la protezione del forte per il debole. E cos'era questa augusta parola «dovere» che la turbava tutta?

— Dice la leggenda che, al tempo della pia regina Teodolinda, viveva, in queste parti, un cavaliere, un conte longobardo, valoroso in guerra ma feroce ariano… Si ricorda, dottore, il giorno ch' io le aveva cominciato questa narrazione, e che mi fu tronca a mezzo da quel grido di Menica, grido di morte?…

Così diceva frate Uberto al dottor Rinaldo, che gli sedeva a fianco, su 'l muricciolo del chiostro dell'Abbazia.

— Per continuare, dice dunque la leggenda che quel feroce cavaliere, quando la regina per le preghiere del santo Papa si converti alla religione cattolica, le si fece ribelle, e si fortificò in un castello, cinto da molte torri, con molti soldati, qui, in questa sporgenza di monti, ove si preparava a far guerra alla sovrana. Ma una notte che quel cavaliere stava su la torre più alta vegliando alla vedetta co' suoi più prodi, ecco per il cielo buio passare una gran luce e in quella luce apparire un angelo, che con una spada di fuoco tocca la torre e, miracolo di Dio! la torre e le mura del castello ruinano in un colpo. Tutti vi rimasero sotto schiacciati, sepolti; tutti, meno il feroce cavaliero, che restò illeso. Riconobbe la mano di Dio in quella catastrofe, e subito chiamatosi gente intorno, ordinò che con le stesse pietre del castello distrutto, e nello stesso posto, si fabbricasse un chiostro, dove egli sempre visse in dura penitenza, e dove, per lungo seguito d'anni, molti e molti eremiti trascorsero l'esistenza nella meditazione e nella preghiera. Io sono l'ultimo abitatore del chiostro, sono rimasto solo qua su con lo spirito de' padri, che m'hanno preceduto. Fra breve questo luogo resterà libero campo alle ortiche ed alle biscie. Ed ora veda l'iscrizione.

Frate Uberto appoggiò al muro una piccola scala a mano reggendola da piedi, mentre il dottore saliva sbarbicando e dirompendo i rami dell' edera e scostandone le fronde dai ricchi corimbi; vide il sasso scritto ma pressochè illegibile e studiò di tracciarne su 'l suo albo le parole. Mentre egli se ne stava arrampicato in alto, si senti, per la deserta volta del chiostro, un echeggiare di allegre voci femminili, uno scalpiccio di passi, un fruscio di gonne. Il frate scappò via e si rifugiò nella sua cella. Il dottore discese presto, mentre alcune signorine seguite da giovinotti venivano correndo per i melanconici porticati.

Era una comitiva di villeggianti che visitavano l'Abbazia La visita a quel chiostro antico, su quell' altura da dove l'occhio spaziava sopra vastissimo tratto di paese e di lago, era una delle solite gite autunnali. Quella volta chi s' era messo a capo della passeggiata era stato Gualtiero, il quale aveva raccolto una numerosa compagnia per condurli a visitare le seghe. Dopo ch' ebbe scovato fuori dal suo ritiro Silvana, dopo ch' ebbero girato per l' opificio, e dopo che sotto il pergolato della casina svizzera ebbero fatto una lauta refezione, accozzando il pentolino, come si dice, cioè accomunando le provvisioni che ciascuno aveva recato, i più vecchi e più pigri s'erano trattenuti giù nella valle; i più giovani e lesti avevano voluto arrampicarsi fin su all'Abbazia. Silvana l' avevano tratta a forza con loro, ed entrava ultima nel chiostro, con passo lento, con aria distratta e annoiata. A due, a tre, aggruppandosi secondo il caso o secondo i gusti, cominciarono a girare e rigirare per la chiesa, per i porticati, per le celle deserte, ridestando con risa chiassose e impertinenti l'eco di que' luoghi solitari.

L'Abbazia, posta là su l'altura, era un monumento della più antica arte lombarda, degno d'ammirazione per la bella facciata dalla loggetta ad archetti con agili colonnine correnti sotto il doppio piovente, con l'ogiva ed un bel portale di pilastrini a fascio, con le finestre bifore del piccolo campanile. Nell'interno, a lato della chiesa, aprivasi il chiostro con un bel porticato. La pietra grigia s' alternava co 'l bianco de' marmi e il rosso de' mattoni, con bell' armonia di colori; l'edera, che s'abbarbicava tenace e folta su per i muri, le ortiche, i vilucchi, i lapazi, che crescevano rigogliosi negli angoli del cortile, v' aggiungevano il bello del verde; il tempo, passandovi sopra la sua mano inesorabile, aveva dato a tutto l'edificio quella melanconica bellezza delle ruine, tanto cara all'occhio del paesista. Qualche signorina della compagnia si piaceva di tracciare su l' albo un rapido schizzo dell' Abbazia; gli altri giravano qua e là cacciando l' occhio curioso da per tutto, facendo sforzi di fantasia per figurarsi i fraticelli seduti nel refettorio, o preganti nella chiesa, e destando, con alte risa, l'eco di quelle antiche volte. Alcuni trovavano più curiosa compiacenza nel leggere le scritte tracciate a matita o a punta di coltello su i muri dalla mano di que' tanti visitatori, che, solleciti di ricordar sè stessi ai posteri, lasciano ovunque il proprio nome, una data, un pensiero. Poi, poco a poco, tutta la comitiva si trovò raccolta su la spianata dinnanzi alla chiesa, ombreggiata da un vecchio olmo. Di là l' occhio vedeva la valle, la costiera tutta cosparsa di biancheggianti paeselli, il lago chiuso in una corona di montagne che, variate dal verde de' boschi e de' prati, dal grigio delle roccie, si andavano confondendo lontano, in una tinta azzurrina.

— Che bel vivere qua su! — dicevano alcuni.

— Sicuro! che bel vivere, con un buon cuoco e una buona cantina! — rispondeva un altro. — Furbi que'frati!

E tutti a ridere in coro.

Silvana era silenziosa e quasi mesta. Non valevano a farla sorridere nè le volgari risate, nè i motti e le briose inventive de' giovani della brigata. Gualtiero, che coglieva ogni buona occasione per esserle al fianco, le disse:

— Perchè così taciturna, signorina?… forse la vincerebbe l' amore della solitudine quassù, in questa deserta Abbazia?

— E perchè no? — rispose Silvana. — Ci sono vissuti tanti nel corso di molti secoli!

— Se la signorina vuole istituire un nuovo ordine di frati eremiti, do il mio nome per il primo — disse ridendo Gualtiero.

— Domando anch' io un posticino, fosse pur l' ultimo nell'elenco — disse il dottor Rinaldo, accostandosi.

— E due! — esclamò Silvana riprendendo l' umore allegro. — C'è altri?

La voce corse intorno; e, celiando e scherzando, si formò li su l'istante la regola del nuovo ordine di cui Silvana doveva essere il priore.

— Bene bene! — fece Gualtiero. — Ma intanto è l'ora di discendere; a casa ci attende il pranzo. Rimanderemo a momento migliore la sanzione dello statuto e l'inaugurazione del monastero. Avanti!

E scesero giù per il sentiero della valle.

— Eppure — diceva Silvana al dottore che le era vicino, come se continuasse un discorso cominciato dentro sè stessa — oppure ci sono dei momenti in cui l' anima, disgustata del mondo, sfiduciata, aspira alla quiete nella solitudine, all'oblio del tutto. Ciò che in questo o in quel momento ciascuno, segretamente, sente dentro di sè, forse, un tempo, molti lo sentirono ad un punto, e si raccolsero in amorosa fratellanza di pensiero e di dolore, a vivere una vita comune di contemplazione, di silenzio, d'oblio. Perchè non si rinnoverà questo fatto?

— Può essere che si rinnovi nell'avvenire — rispose il dottore — Chi può dire che chi già vacilla nella fede non sia per ritornare, nauseato dei frutti dell'invadente egoismo, alla esaltazione dell'ideale religioso?… Ma per ora, la parola del mondo è «lavoro». Chi ha giovinezza di corpo e di mente non isterilisca nella solitudine contemplativa. Entri nella vita con ardore di soldato che entra nella battaglia. Tutti, se ben intendono, hanno una lotta da combattere, un dovere da compiere.

Silvana, a queste parole, stette silenziosa, seguitando a camminare a capo chino, raccolta in sè. Ad un punto la riscosse una voce.

— Badi, signorina, c'è un ruscelletto da passare. Metta il piede su questa pietra. Posso offrirle la mano?

Non era più il dottore che le parlava, ma Gualtiero che le stava di fianco, e sorridendo soggiungeva: — Posso offrirle la mano?… s'ella sdrucciolasse e cadesse, ci dorrebbe troppo di perdere un così gentile priore!

Non pioveva da un mese. La terra riarsa implorava dal cielo il refrigerio d'un acquazzone. Ma il cielo stava implacato nel suo azzurro, con la terribile maestà del sole sfolgorante. Qua e là, su per la china del monte, si vedevano, nel verde, chiazze d' alberi ingialliti, di prati inariditi. Il poco grano coltivato giù nelle falde piane, le viti piantate su l'aprica costiera intristivano. Il povero colono dalla porta dell'abituro guardava alle speranze che fuggivano, pensava alla miseria del prossimo inverno, levava gli occhi al cielo e il cielo splendeva sempre sereno. Nelle chiese de' villaggi, nelle cappellette sparse per la montagna, i poveri contadini chiamarono il curato a dir preci, e le donne cantavano litanie con ingenua fede, sperando che valessero le preghiere a rendere propizia la clemenza del cielo, a velare d'una nube quello spietato sfolgorio di sereno. E i giovanotti del borgo, gli spiriti forti e beffardi, si ridevano di quella ingenua fede dell' ignoranza. E un giorno nacque un piccolo scandalo, perchè il dottor Rinaldo, sentendo uno di questi tali beffare, nell'alta superiorità del suo spirito, quegli infelici, non si frenò e proruppe in fiere parole: — Ridete, ridete!… ma quando al villano che soffre nella miseria e che voi non soccorrete, avrete tolta anche la fede in Colui che sta sopra di voi, che sta sopra tutti, non voi vi allegrerete, o felici del mondo.

E la pioggia non veniva. Nasceva qua e là qualche nuvoletta; destava nuove speranze; ma il vento le soffiava via.

Finalmente!… due grigie nuvole co' lembi splendenti come d'argento, si levano, si confondono, ingrossano, calano basse e coprono la montagna; si ode di lontano un rombo di tuono, e grossi goccioloni d'acqua, radi in prima, poi spesseggianti, fitti, percuotono la terra spandendo per l'aria un acre odore. Poi la pioggia viene a scrosci, a catinelle, e la terra avidamente la beve. Le verzure de' campi, de'prati, delle siepi, le folte chiome della piante, godono di sentirsi percosse, flagellate dall'acqua che si riversa impetuosa, e fremono gioconde sotto la sferza, con allegro fruscio. Giù dai valloncelli, giù da ogni infossatura del terreno corrono rivoletti gorgoglianti. Poi, a poco a poco, la furia dell'acqua rallenta; le nubi si alzano, lasciano scoperto il monte, e nella valle si vede spumeggiare il bianco torrente; su in alto da ponente s'incurva l'arco baleno, il sereno rompe qua e là fra le nubi. Fugace refrigerio!… Ma verso sera nuove nubi s'adunano, e per quanto è lunga la notte piove a dirotto. E così, da più giorni, nubi e sereno, pioggia e sole, s'andavano rapidamente alternando su la faccia del cielo, come su la faccia d'una bella bambina vivace e capricciosa si succedono fuggevolmente sorrisi dolcissimi negli occhi e su la rosea boccuccia, e grosse lagrime dalle ciglia aggrondate e dalle labbra che fanno il greppo.

Silvana, dalla finestra della casina svizzera, guardava lo spettacolo fantastico del temporale nella valle. I lavori erano finiti, e il signor Bernardo presto sarebbe tornato giù al borgo; ma l'ingrossare del torrente, la cura di vegliare affinchè la acque non portassero danno all'opificio, ora lo trattenevano di necessità.

Sola, nella casetta, la fanciulla, poco a poco si sentiva prendere dalla melanconia che s'insinua nel cuore co 'l cattivo tempo. La melanconia la ripiegava sopra sè stessa, a ricercarsi nell' interno del cuore; e sentiva in sè degli strani mutamenti. L'impetuosa sua vivacità s'andava allentando; vi succedeva una calma grave e serena. La subitanea vivacità delle parole verso ciò che non le piaceva, si temperava. Con Gualtiero, che in quei giorni vedeva di rado perchè occupato nello studio giù al borgo, non era più come prima scherzosa e piccante. Più che mai ora sentiva rinascersi nel pensiero il desiderio della madre perduta. Sospirava come ad un dolce conforto d'avere un cuore in cui confidarsi; desiderava un' anima gentile, che comprendesse la sua e a cui ella rispondesse con amorosa intelligenza. La volontà perdeva di vigore, illanguidita in que' desideri incerti, verso un bene confusamente inteso, in cui l'animo, sospirando, pensava di potersi aquetare. E, in quel succedersi di sentimenti vaghi, di non finiti desideri, volta a volta si formava un' imagine e via dileguava: l'imagine del dottor Rinaldo. Le poche parole dette con lui, Silvana le ricordava tutte e le risentiva vive come se allora le ripetesse quella voce dolce e maschia ad un tempo; degli sguardi, scambiati con lui, ella risentiva la penetrazione come se ancora, lì presente, la fissasse quell' occhio grave e calmo. E ricordava come in ogni sua parola fosse sempre stato un pensiero retto e gentile. Quella voce, quegli sguardi, quella gentilezza di sentire parevale che le guadagnassero sempre più il cuore. Quell'amorosa corrispondenza d'affetti che ella vagamente fingevasi, sembrava ora trovare un oggetto preciso in cui appagarsi.

— Ecco tornato il sereno!… Vado a vedere la cascata ingrossata dalla pioggia. Mi accompagnano Jacopo e Madda, che vanno al monte. Ditelo a babbo; ditegli che torno subito.

Così Silvana ad alcuni operai, che lavoravano presso la casina svizzera. E partì lieta e spensierata insieme co' due contadini.

La cascata trabalzava giù da un alto ciglione, spumeggiante e fragorosa. L' acqua dirompendosi su la scogliera in mille sprazzi, risollevavasi come in una nuvola di vapore, e l'obliquo raggio del sole la coloriva d'una splendida iride.

— Ed ora, signorina, che vuol allungare due passi fino alla nostra casetta? — chiese Madda. — Papà Nicola le appresterà una tazza di latte fresco.

— Volentieri — rispose Silvana; e riprese il cammino a fianco di Madda. Jacopo le seguiva pochi passi lontano, raccogliendo per via fuscelli ed erbe. La contadina sfogava il suo cuore con l' amabile padroncina. L' anno prossimo, se le cose non andavano male, sperava di far le nozze co 'l suo Jacopo. Bisognava arrotondare il piccolo gruzzolo dei risparmi, per un po' di corredo e un po' di provviste. Una volta maritati, loro due, robusti e laboriosi, coltivando la terra avrebbero cavato tanto da camparla con papà Nicola. L' inverno poi, osò aggiungere Madda, il suo uomo avrebbe potuto guadagnarsi qualche soldo lavorando alle seghe, se pure ve lo accettassero, e l' accetterebbero se la signorina dicesse una parola al suo babbo. — E — concludeva — sarebbe una carità!

Intanto il cielo, in un subito, come avviene fra le valli, si era rannuvolato.

— Affrettiamo il passo — gridò Jacopo — viene temporale.

Uno sbuffo di vento impetuoso contorse i rami degli alberi e fece volar via le foglie fitte fitte; poi una romba di tuono ripercossa dall' eco del monte, e giù uno scroscio di pioggia.

Silvana diede un grido di spavento. Sorretta dai due contadini, correva su per l'erta, e tutti insieme in breve raggiunsero la casa. Erano molli, fradici di pioggia. Si ricoverarono dentro l' affumicata cucina. Papà Nicola buttò su 'l focolare un fascio di sterpi, e ad una bella vampata, Silvana si rasciuttava. Ma fuori il tempo imperversava. Le nubi, calate basse basse, oscuravano il giorno; ogni tratto era un guizzo di lampi che abbagliava, e subito dopo uno strepito di tuoni, che pareva facessero crollare la piccola casa e si dilungavano con un cupo muggito. Giù, in fondo, il torrente romoreggiava, con voce che andava ingrossando ingrossando minacciosa. Il vento sbattacchiava iroso le imposte; sopra il tetto crepitava la grandine.

Raccolte intorno al focolare le due giovinette co 'l vecchio, stavano tutte sgomente, rompendo il silenzio con qualche esclamazione di paura ad ogni nuovo baleno. Silvana tremava pensando ai timori del suo babbo; Madda si faceva di gran segni di croce; Jacopo, dalla porta, guardava quella furia di tempo.

Ad un tratto s' ode uno stroscio che non era nè del tuono nè della pioggia. Erano massi, pietroni e scheggie, falde di terreno, che, trascinati dall'impeto dell'acque, scoscendevano, franavano giù per l'erta del monte.

— Gesummaria! la frana! la frana! — gridò Jacopo ritraendosi dalla porta.

Silvana mandò un gemito e svenne. La coricarono su un letto, e le stavano attorno trepidanti, con l'angoscia nel cuore, che la frana non investisse la casa.

Scoscendendo giù per l' erta, trascinando, nel suo corso, nuovi massi, sradicando alberi, con furia devastatrice, la frana ruinava a valle, sopra i casolari del villaggio delle seghe.

Si levò un grido angoscioso, un urlo di terrore.

Alcune case, all'estremo del villaggio, furono invase, schiacciate, sepolte dalla frana che discendeva. I grossi massi, ruinando con impeto, sfondavano muri e tetti; ghiaia e fango trascinati dall'acqua impetuosa si riversavano, seco travolgendo le povere masserizie, il bestiame delle stalle. Fortuna del cielo che la ruina venne di giorno, e le case erano disabitate, gli operai essendo alle seghe, e le donne ed i fanciulli fuori, all'aperto!…

In mezzo a grida di spavento e a voci d'ajuto, accorreva gente da tutte le parti, salivano gli uomini dall'opificio.

Giù per il pendio, la frana avea aperto come un letto di fiume, ove correvano e si riversavano le acque dei rivoletti del monte, che minacciavano di allagare il piccolo villaggio. A forza di braccia, opponendo tronchi, rami, sassi, era necessario contenerne il corso; e sotto il flagello della pioggia, fra il rotolare de' sassi, gli uomini lavoravano disperatamente alla salvezza delle loro case, mentre le donne si chiamavano attorno le loro creature e cercavano un riparo.

Calava intanto la notte. Rami e scheggie di alberi resiuosi, accesi qua e là, o recati a mano, rischiaravano, di luce sinistra, quella scena di desolazione. Attivo, indefesso, a quel travaglioso lavoro, stava, fra i primi, frate Uberto. S'era spogliato la rozza tonaca, e, con un cencio di farsetto in dosso, era sempre dove il pericolo sembrava maggiore, a trascinar tronchi, a far argine, a incoraggiare, a consigliare. Pareva che in quel povero vecchio il pericolo altrui raddoppiasse le forze. Lavoravano, lavoravano.

Ad un tratto si ode fra i lavoratori una voce disperata. — Mia moglie!… le mie creature!…

Era Nanni che, più tardi degli altri, veniva dall'opificio insieme co' figliuoli più grandi. La sua casa trovavasi in basso, sottoposta e in parte difesa dalle case che prime erano state colte dalla frana. La ruina di quelle, contro cui s' era rotto il primo impeto de' sassi e delle acque, l' aveva fino allora salvata. Ma il fango, la ghiaia, i sassi le si agglomeravano intorno già alti dal terreno fino alle finestrelle, e le acque correnti minacciavano di allagarla. Ghita, la moglie di Nanni, ancora debole di malattia co 'l piccolo Fanello in fascie, e con altri due bimbi alla gonna, non aveva fatto a tempo a mettersi in salvo. Rinchiusa nel casolare con quelle tre creature, essa sentiva intorno la romba spaventosa della frana; dalla porta, dalle finestre ghiaia ed acqua invadevano l'abituro. Si teneva per morta.

— Alla casa di Nanni!… Salvate la Ghita! — gridò frate Uberto, e, seguito dai più robusti, raggiunto da Nanni, e da' suoi figli, corre giù all'abituro.

Buttarono sassi e grossi tronchi traverso l'acqua, che gorgogliante batteva i muri. Al bagliore de' rami accesi, con zappe e vanghe si affaticavano per aprirsi un varco fra le tante materie accumulate, e ad appoggiare una scala per entrare dalle finestre.

— Coraggio! coraggio! avanti! presto! — s' incoravano a vicenda.

— Eccoci, Ghita!… Eccoci, mamma! — gridavano Nanni e Pipparello, salendo su per la scala, entrando per la finestra. E presto ne escono; il marito reggendosi in braccio la moglie co 'l bimbo al petto, il giovane recandosì i due fratellini. Coraggio! coraggio!… Frate Uberto si avanza; montato su la scala, con l'acqua che gorgoglia e cresce a' piedi, aiuta a deporre in salvo que' poverelli.

— Presto presto! riparatevi! in salvo!

Ecco un nuovo stroscio d'acqua; ecco, giù per il letto aperto dalla frana, nuovi massi, nuove ghiaie. Anche la casa di Nanni è quasi sepolta.

— Forza, al lavoro!

— Dov'è il frate!

— Oh padre Uberto!

Non risponde. Nessuno più lo vide.

Era ancora su la scala; non s'era allontanato se prima non aveva visto tutti in salvo; il nuovo impeto delle acque l'aveva raggiunto e travolto.

La pioggia è cessata; è cessata la furia dell'acque; giù per il franamento del monte gorgoglia un ruscello. Il vento spazza via le nubi, e si vedono brillare le stelle, che già impallidiscono alla luce dell' alba. I boscaioli, le donne, i fanciulli, affranti di fatica e di paura, si ricoverano negli abituri rimasti illesi. Sorge il sole, e indifferente ride nella più pura sua luce, su quella scena di desolazione.

Giù nella valle, dove le acque della frana sboccano nel fiume, buttato su la riva, è un cadavere livido, gonfio, e tutto pesto. Il fiotto che percuote la sponda tratto tratto lo smuove; il sole lo riscalda con un suo bel raggio; ma non gli ridona la vita.

Povero frate Uberto!… giace là su la ghiaia, con le braccia incrociate su 'l petto, con la faccia al cielo; pare contento che a lui, umile soldato, sia stata concessa una degna morte in battaglia.

Quando Silvana, distesa su 'l rozzo letto di Madda, rinvenne, senti la sua mano posata in un' altra mano. Apri gli occhi. Era il dottore Rinaldo, che osservava se avesse febbre. Ella gli sorrise; poi volse gli occhi dall'altra parte del letto e vide suo padre tutto pallido e sgomento.

— Oh babbo mio! — e gli buttò le braccia al collo, baciandolo e piangendo.

Che ore terribili aveva passato il pover uomo!… Già infuriava il temporale quando seppe che la sua Silvana era su al monte, in compagnia di Jacopo e Madda. Aveva subito preso con sè due de' più robusti operai, per correre alla casa di papà Nicola. Il dottore Rinaldo che, colto da quel rovescio di tempo per via, erasi riparato all'opificio, s' era unito con lui. — La troverebbero là su?… La troverebbero ancora? — domandavansi il signor Bernardo e il dottore; e il dubbio angoscioso, tremendo, tormentava que' due cuori spasimanti d'un diverso ma non meno forte affetto. Su, su per il pendio ripido e roccioso, sotto la pioggia e il vento, con l'imminente pericolo d'essere rovesciati giù per l'erta. Ma a Dio piacque che giungessero salvi. — è qui! è qui! — gridò loro Madda da lungi, quando, tra la pioggia, li vide giungere.

Silvana giaceva svenuta su 'l letto, con un delirio di febbre. Le cure del dottore la fecero rinvenire; ed a lui si rivolse con espressione di riconoscenza il primo sguardo della fanciulla.



Zia mia! — diceva Silvana ch' era tornata alla casa del borgo — oh zia! che spavento ho mai avuto lassù!… Credeva proprio di non poterti più rivedere; mi credeva già morta!… Ma il mio spavento è un nulla. La miseria di quella povera gente, quello è il guaio. Tre famiglie senza tetto; le poche masserizie distrutte, le piccole provviste perdute; e viene l'inverno, il triste inverno!… E quel povero Nanni con tanti figlioli!

Così dicendo il suo volto, pallidino per una febbre di più giorni patita dopo quella notte funesta, prendeva un aspetto di profonda pietà. Dopo essere stata un poco in silenzio, riprese:

— Senti, zia; bisogna fare qualche cosa. Babbo m'ha promesso che aiuterà quella povera gente. Ma non può mica far tutto, lui!… Dunque bisogna trovare un altro modo per soccorrerli; bisogna trovarlo!

— Ma come, cara mia?

— Per esempio, una fiera di beneficenza; usano tanto adesso!

— Si, usano nelle città dove c'è molta gente, molti ricchi che possono contribuire. Ma qui!… E bazza se trovi cinquanta persone!

— E vero!… Faremo un' accademia di musica.

— Benissimo. Ma e i suonatori?

— Già, i suonatori…. Ma pure bisogna fare qualche cosa! — e con la manina si tormentava la fronte. — Dio mio! prendiamo la più spiccia: si va di casa in casa a ragranellare qualche cosa. Chi può, darà denaro quanto può…

— Cioè; quanto vuole…

— Si, quanto vuole; chi non può dar denaro, darà abiti, provviste di cibo, cenci, tutto sarà buono per quella povera gente, che ha bisogno di tutto. Si, si; questo è il partito migliore; tanto più che, in questi giorni, sono giunti vari signori, ospiti de' villeggianti. è il momento buono!

— Benissimo. Ma chi si mette alla testa dell' impresa?

— Chi?… Io.

— Tu?… è presto detto. Ma pensa che tu finora hai fuggito la società di questo paese, e credono o possono credere che tu l'abbia fatto per disdegno, sebbene non sia. Diranno che vai da loro quando ne hai bisogno.

— Dicano pure, purchè diano.

— Poi tu sai che, con la tua pretesa superiorità ai riguardi d'etichetta, e con la tua brusca sincerità, hai disgustato qualcuno. Non serve nasconderlo; non ti faranno buon viso.

— È vero anche questo. Oh quanto mi pento delle mie sventataggini!… Ora pago anche la pena d'essere sincera!… Già, è un poco che m'accorgo che se la sincerità è una bella cosa, le piccole ed innocue bugie sono una cosa assai utile. Riparerò al mal fatto, via. E, in prima, mi metterò in fronzoli; guanti da dieci bottoni, un gonnellino fiammante, un cappellino…

— Allora diranno che vuoi soprastare con le tue ricchezze!

— Oh ma infine!… tu mi leghi in una rete di dubbi, zia mia!… Sarò modesta, sarò gentile, sarò dolce, melata, loderò tutto… purchè diano qualche cosa.

— Oh testolina!… Ma non capisci le convenienze del mondo?… Ti par egli che tu possa, fanciulla come sei, farti iniziatrice d' un' opera di carità, la quale deve risolversi a far slacciare i nodi della borsa altrui?…

— Ma ne darò io per la prima l' esempio, e generosamente.

— Il buon cuore ti trasporta. Si domanderà quale autorità hai tu di metterti, in ciò, per prima, come guida degli altri. Infatti, con che titolo ti presenterai a chiedere?… E poi, diranno: — Sono operai su del vostro opificio; dipendono da voi, e provvedeteci voi!

— E anche questo è vero!… Oh quanto è difficile di fare il bene!

— Cioè, siamo più corretti: quanto è difficile di farlo fare. Insomma, cara figliola, tu puoi contare su la tua borsa, su quella del nonno e del babbo, e un pochino su la mia… ma basta.

Silvana stette un momento sopra pensiero. Poi disse:

— No, no, non mi do' per vinta. Sono cocciuta io; quando mi fisso in una cosa la voglio spuntare. Le tue obiezioni m' illuminano, non mi vincono. Capisco quello che tu pensi. Se a capo di quest'opera di carità ci si mettesse qualche dama, qualche signora titolata, qualche persona d'autorità, la cosa sarebbe ben avviata…

— Forse!…

— Se si potesse, facendo appello al cuore, solleticare un pochino la vanità, senza parere, la cosa s'avvierebbe?…

— Certissimo.

— Se si potesse fare che ciò che dà la destra non solo lo sappia la sinistra, ma tutto il vicinato, tutto il comune, e qualcuno di più ancora, la cosa andrebbe?

— Di bene in meglio.

— Se poi qualcuno potesse sperare che ciò che si dà non è tutto buttato, non è perduto… ma ritorna sotto altra forma; se qualcuno vi guadagnasse, o sperasse di guadagnarvi, salvo il poi, una raccomandazione, una protezione, un zinzino di decorazioncella, allora…

— Allora la cosa sarebbe fatta. Che politica, Silvana mia. Dove l'hai tu appresa?

— Nei boschi, zia; l'aria fina aguzza il cervello. Dunque lasciami tracciarti il mio piano… o divisamento, come in collegio, il professore di lettere italiane voleva che si dicesse in buona lingua. Ed ecco il divisamento. Primo: io e tu andiamo dalla nobile signora Belardi, marchesa, non è vero?… Una vecchia dama venerabile; ci rivolgiamo a lei, tanto benefica, tanto pia; il suo nome, la sua autorità potrebbero soccorrere tanti miseri; solo ch'ella lo voglia… sarebbe un' opera meritoria. E la signora accetta di farsi iniziatrice, patronessa di quest'opera di beneficenza. Secondo: andiamo dal commendatore, quello dalle quattro figliole; il suo nome, la sua autorità, uniti co 'l nome e con l'autorità della marchesa cosa non faranno?… Terzo. Qui viene quello che, a parlar bene, si dice il nerbo delle forze. Tu hai sentito nominare Bianca di Valbruna, la mia amica, la sola mia amica di collegio?

— Sì; ebbene?

— È figlia d'un senatore, il conte Baldassare di Valbruna, che, l'anno passato, fu li li per essere ministro… Non mi occupo di politica, ma me lo disse lei, la sua figliola. Or bene; Bianca m'ha promesso di venire qualche giorno con me, qui in villa. Bisogna sollecitarla a venire, e far venire con lei, fosse pure per un giorno solo, suo padre, il conte senatore. Se lo tiriamo, per un momento, nella nostra alleanza, lui che fu lì lì, e sarà ancora lì lì un' altra volta, per diventar ministro… e, per giunta, ministro dei lavori pubblici… figurati!… Tutti quelli che hanno un figlio da impiegare nelle strade ferrate, per esempio, per un' opera di beneficenza in cui c'entri lui, il senatore, vuotano le tasche. A scrivere ci penso io. Bianca verrà, e babbo ne avrà piacere. Le faremo un' accoglienza splendida. Tu, zia, promettimi di venire con me, di condurmi dalla marchesa e dal commendatore. Prometti?

— Proviamo pure; ma, e la sincerità tanto vantata?… e la franchezza?

— Zia, ricordati bene quello che una volta ho detto, presente il signor Gualtiero. Sono sincera, franca… ma, se occorre, o, se vi piace, le gentili ipocrisie le conosco anch'io. E se per la carità sono necessarie, le uso, e con piacere.

D' allora Silvana non trovò più requie. Ebbe tutti gli accorgimenti, tutte le sottigliezze, le finezze d'una damina. Incantò la marchesa con la sua modestia e gentilezza, si guadagnò il commendatore co' modi più lusinghieri, con le dolci parole prodigate a lui ed alle sue figliole. Bianca accettò l' invito; suo padre l'avrebbe accompagnata, ma si sarebbe trattenuto un giorno solo perchè gli affari lo richiamavano. E, una volta arrivato, non fu difficile, per mezzo della figliola sua, la pupilla de' suoi occhi, di tirarlo nell'alleanza, e di fare che, con la marchesa e il commendatore, costituisse un comitato di beneficenza. Chi poteva resistere?…

Quando, per il borgo, si seppe che si voleva fare una colletta di beneficenza, non rimase nascosto il malumore. I pratici, i positivi, e Gualtiero per primo, co 'l pretore, il sindaco e lo speziale, che gli facevano coro, cominciarono a dire e a ricantare che già oggi sono i cenci che trionfano. Quelle tre topaie rovinate, adesso le avrebbero rifatte a nuovo, co' quattrini tolti alle loro tasche. Era una disgrazia il non avere la casa vicina ad un torrente rabbioso!… Che fortuna un' innondazione!… Ormai conveniva fabbricare in riva d' un fiume!… Solite fisime di umanitari!… tempo della filantropia! E via di questo passo. Le donne poi rabbrividivano a pensare che una moneta data in carità importava il sacrificio d' un nastro o d' un fronzolo. Ma quando si seppe che c'era di mezzo la marchesa, il malumore cominciò a tacere. In grazia del commendatore, il pretore e le sue donne cominciarono a trovare che quella era una cosa bellissima, una vera opera meritoria. In grazia del conte senatore, il sindaco avrebbe voluto entrare anche lui nel comitato, e quasi si lagnava d' essere lasciato in disparte, lui, l' autorità. E quando si disse che della cosa se ne sarebbe parlato su i giornali, segnando nome e cognome degli oblatori, fu un coro di lodi, e molti già davano su la voce a Gualtiero, che, non avendo speranze nè vanità da soddisfare, seguitava a parlar chiaro. Ma anche lui aveva il suo debole; e fini per lasciarsi vincere. Come poteva egli mai durare a mormorare contro i filantropi, quando lo guardavano i begli occhi di Silvana?

Mentre alle tre autorevoli persone era riservata la parte solenne, raccogliendo generose oblazioni dai ricchi villeggianti, dai facoltosi e dalle persone di ceto civile del paese, Silvana, che in tutto ciò s' era nascosta, eclissata, e con lei zia Clotilde, avevano assegnato a sè stesse la parte umile ed oscura. Andavano dai piccoli, cioè da campagnuoli, merciaioli, artieri, da quelli, che, essendo un grado più su della povertà, potessero dare qualche cosa, un soldo, un pane, un cencio smesso. Davano poco ma davano di cuore, senza speranza di ricompensa. La carità era quella!

Al dottor Rinaldo era accaduto più volte d' incontrarsi con le due signore che passavano per qualche viuzza oscura, o uscivano da qualche umile porta. E, con lungo sguardo e con un battito del cuore, seguiva la pietosa fanciulla.

La raccolta di beneficenza fruttò oltre ogni possibile previsione. Ne parlarono i giornali, e non si trascurò di segnare per disteso il nome del sindaco, alle cui cure era affidato il comune dove alla disgrazia era seguito così splendido esempio di carità. Gli oblatori provarono un singolare piacere ripassando l'elenco pubblicato nelle gazzette, e leggendo, come cosa nuova, bello e stampato il loro nome e cognome.

I poverelli su del villaggio alle seghe, si videro riforniti di masserizie, d'abiti, di provviste; le tre catapecchie ruinate furono raddrizzate e rabberciate, e sopra le altre spiccavano vistose co' tegoli nuovi.

Un giorno che Silvana con la zia era andata là su a trovare quella povera gente, additando que' tetti rosseggianti, esclamò: — E dire, zia, che que' tetti sono puntellati di piccole bugie!

— Silvana mia! — rispose zia Clotilde — anche la bugia talvolta è una carità!



Le vette de' monti già mostrano il cucuzzolo incanutito d' una spruzzaglia di neve. I fianchi boscosi hanno spogliato il bel verde per vestirsi di colori smorti. Viene l' inverno, la vecchiaia dell'anno. Il vento soffia a fredde folate e sparge i sentieri campestri di foglie aride, che frusciano e crepitano sotto i piedi. Non più le belle sere godute al chiaro di luna, al rezzo, su 'l terrazzo o nel giardino. Ora piace sedere in un salottino tepido, al fuoco che crepita mandando faville, raccolti intorno al tavolo, al queto lume della lampada. Migrano a folti stormi gli uccelli cercando più mite cielo; ai primi buffi di vento sono migrati via i delicati villeggianti a ricercare nelle città la vita dei salotti, dei caffè, de' teatri.

Cosa farebbe Silvana nel lungo inverno, in campagna?… Su questa domanda aveva molto ragionato il signor Bernardo con sua sorella. Ed erasi concluso che la signora Clotilde accompagnerebbe Silvana a Milano, per restarvi almeno fino a marzo. Conoscenti e corrispondenti non mancavano colà alla famiglia Della Torre; e tutti si sarebbero dati cura di procurare alle due signore compagnia e divertimenti. Sarebbe stato questo il modo di finire per bene nella vita di buona società l'educazione di Silvana; sarebbe stato anche il modo di trovar la soluzione di quell' altro quesito, che si presenta a tutte le fanciulle. Bisognava pur pensare a mostrar Silvana in società, se si voleva preparare le future nozze; giacchè le speranze del povero signor Gualtiero non sembravano fiorire, sebbene egli si studiasse, in ogni maniera, di piacere alla fanciulla. E fu concluso fra il signor Bernardo e zia Clotilde che Silvana avrebbe passato l'inverno a Milano. Ma quando questa conclusione fu significata alla fanciulla, ella fece spallucce: — Che? — disse — non l'aveva già detto alla zia ch' io non le avrei mai dato il tedioso ufficio di chaperon?… Andare in città?… O perchè?… Per impararvi la vita di società, il bene stare, il ben contenersi, i modi eleganti?… Ma tutte le brave donne che sono in questo mondo hanno dunque fatto un'educazione in città?… Andare via per poi tornare con le nuove rondini a contare alla buona gente del borgo le meraviglie del carnevale, a destare ammirazione e magari invidia?… Andare in città perchè poi, ogni sera, o al concerto, o al teatro, o alla festa da ballo, si resti esposti in mostra… se alcuno trovi che la vostra personcina, i vostri modi, i vostri meriti, e la vostra dote, prima di tutto, — ma questo per sottinteso, dopo buone informazioni prese dai corrispondenti — sieno tali che qualcuno si degni di amarvi, di chiedere la vostra mano?… Tutte belle cose. Ma… non fanno per me. O almeno non si doveva battezzarmi co 'l nome di Silvana. Ci ho una superstizione, io; ed è che i nomi hanno un'influenza su le persone che li portano, ovvero che le persone finiscono ad addattarsi ai loro nomi, inconsapevolmente accomodandosi a certe significazioni che i nomi hanno con sè… è una superstizione, capisco; ma ciò non toglie che non abbia un effetto reale. Il mio nome di Silvana m' ha fatto selvatica!…

Non ci fu modo di smuoverla, e convenne pensare a rallegrare l'inverno meglio che si potesse alla campagna.

La casa Della Torre, che, dopo la morte della madre di Silvana, era rimasta chiusa e silenziosa, s' aprì allora ad un pochino d'allegria e di festa. In alcune sere della settimana c'era un convegno famigliare di poche persone, che facevano la partita a tarocchi, chiaccheravano, sorseggiando un bicchiere di vino di quello che il nonno scavava fuori dagli angoli più riposti della libreria, come diceva lui, intendendo dire la cantina. La domenica poi c' era un po' di ricevimento; e se qualcuno si metteva al piano, si facevano quattro salti e si passavano serate allegre.

Che in casa Della Torre vi fosse un poco di allegra ospitalita fu da tutti nel borgo sentito con piacere in su le prime. Ma poi cominciarono le riflessioni: come diportarsi con Silvana, con la sua riputazione di bizzarra, con quella sua pretensione di franchezza che, infine, risolvevasi qualche volta in un po' d'insolenza?… E poi, e poi… forse quella liberalità da parte del signor Bernardo non era del tutto disinteressata. In fin de' conti, c'era la nomina per il consiglio provinciale e per il consiglio comunale… e, in quest' occasione, tanti più amici s' hanno e meglio è. — Ogni villaggio ha il suo Cesare liberale ed ambizioso — diceva sentenziosamente lo speziale, che, fra un cerotto ed un' emulsione, leggicchiava di storia.

Ne segui che al primo invito fu corrisposto freddamente, e quei pochi che corrisposero se ne stavano timidi, quasi sospettosi, come fossero venuti li quali esploratori. Silvana li capi prontamente. A dir vero, che que' signori con mogli, sorelle e figlioli, venissero ogni domenica ad ingombrare la casa, se poteva parere un onore, per lei non era certo grande piacere. Le lunghe serate d'inverno a lei sarebbe piaciuto di passarle nell' intimità della famiglia, nell'affezione del nonno, del babbo, della zia, con un buon libro, in quella tranquilla unione in cui il pensiero si manifesta calmo, con qualche parola, talvolta con un cenno, con un semplice sorriso. Le sarebbe piaciuto che in quell'intimità entrasse qualche amico, che portasse una voce nuova… C'era Gualtiero, che consideravasi come di casa; buono, gioviale, servizievole!… Ma non era quella la voce che Silvana desiderava: voce volgare come le altre, eco ripetitrice di tutte le ciarle, di tutte le vanità. No; ella avrebbe voluto un amico, che sapesse mettere nella conversazione un pensiero giusto, un sentimento nobile, un qualche cosa insomma che portasse su un po' più alto della volgarità giornaliera… un amico come il dottore Rinaldi, per esempio. Ma con qual diritto poteva ella considerarlo come amico?… Questa tranquilla, dolce intimità famigliare sarebbe stata il suo desiderio: ma il suo desiderio e il suo piacere ella non doveva imporlo nè ai desideri, nè alle convenienze altrui. Poteva esser libera e ferma in ciò che concerneva lei sola, non mai in ciò che toccava gli altri. Con la dirittura della sua mente e con la limpida onestà del suo carattere, ella ciò intese subito; e poichè a suo padre era piaciuto che la casa diventasse ospitale ritrovo, cooperò affinchè lo fosse in tutte le forme più schiette, più liberali. E così di giorno c'era una Silvana che si piaceva di ciarlare, di ridere, di folleggiare con Gegia, con Madda, con Tea, con Nanni, con quanti venivano dal monte; vestita umilmente, li accoglieva sotto l'ampia e affumicata cappa del grande focolare di cucina, e se ne stava, co 'l suo grosso cane accucciato a' piedi, a vedere le amiche montanine filare la rozza lana, a sentir Nanni raccontare le notizie del monte, ripeterle le fiabe della fanciullezza; e pareva una figlia di re di que' tempi patriarcali, di cui parlano le panzane. La sera poi, come per incantesimo di fate, succedeva la trasformazione. C' era un' altra Silvana, abbigliata con quell'elegante semplicità, che si studia invano d'ottenere chi non abbia buon gusto naturale; una Silvana vivace, ma d'una vivacità gentile, garbata, tutta cortesia per gli ospiti, interamente obliosa di sè stessa per essere sollecita degli altri; una Silvana, che spogliava la veste della sua indole naturale, per indossarne, almeno per poche ore, una che assomigliasse, quanto mai possibile, a quella che agli altri poteva piacere. Ed in tal modo spandeva a sè d'intorno gaiezza e vivacità. Gli esploratori, venuti la prima sera, se ne partirono abbagliati, entusiasti. Una signorina così bella e gentile in una ricca casa di tanto libera cortesia!… La moglie del pretore con Fifi e Virginia dello speziale, ch'erano state in quell'avanguardia, si ricredevano delle molte ciarle fatte. All' evidenza della cosa aggiungevano poi maggior forza d' argomenti il pretore, lo speziale, il sindaco e il suo giovinotto, su i quali pareva che la così detta libreria del nonno esercitasse un singolare effetto per isviluppare l'oratoria. Non trovavano parole per lodare abbastanza quel buon signor Bernardo, quella distinta signora Clotilde, quel gentile follettino di Silvana. In breve, alla seconda domenica le sale di casa Della Torre riboccavano. Non solamente le persone del borgo ma varie anche dei paesi vicini avevano desiderato ed avevano ottenuto inviti per quelle geniali serate. L'aura popolare era tutta per il signor Bernardo.

Così nelle piccole riunioni famigliari, come nel ricevimento un po' più festoso della domenica, intorno a Silvana sfarfallavano molti sospirosi. Ogni giovanotto, guardando quell'aggraziata e ricca fanciulla, faceva il suo bel sogno dorato. Gualtiero, aveva un gran da fare a sorvegliarli, a pararli lontano; e Silvana pareva che togliesse a tutti il coraggio con l'affettuosa famigliarità che, in molte occasioni, dimostrava a Gualtiero. Ma questi, se da uno sguardo, da un tratto gentile, da una parola, sentivasi confortato la sera, presto perdeva la mattina la dolcezza del conforto. Silvana lo trattava sempre da amico, da camerata, ma non nascondeva, anzi si studiava di far apparire ben chiaro, che i pensieri e i sentimenti suoi non rispondevano ai pensieri ed agli affetti del giovine. E significava anzi nettamente che se cosa alcuna le pareva desiderabile come un bene, quest' era la dolce unione delle anime nell' armonia de' sentimenti; e lasciava intendere che nelle sue affezioni ella cercava qualche cosa che fosse moralmente alto, che a guardarlo si dovessero alzare gli occhi. Nelle sere comuni in cui si stava raccolti in famiglia a lavorare e chiaccherare, nel bianco cerchio della luce piovente di sotto al paralume della lucerna, Gualtiero fra Silvana e la signora Clotilde era tutto premure e finezze. Raccoglieva il gomitolo, teneva stese le matassine, dava il suo giudizio su la combinazione de' colori nei ricami, disegnava cifre su gli angoli de' fazzoletti; poi chiaccherava su 'l favorito suo tema: Parigi, la società parigina, le mode parigine. Silvana ascoltava, rispondeva, rideva; ma, spesso, con una brusca scartata, con una franca parola, con un' osservazione diritta passava da parte a parte la vanità di que' pregiudizi, brillanti e vuoti come bolle di sapone. Pregava il giovine di starsene a braccia tese per reggere la matassina; ma quand' egli si componeva a quell' ufficio con tutta serietà, ella gli rideva in viso e diceva:

— Lei, che sa di mitologia, si ricorda di Ercole che fila la lana a piedi di Onfale?… A me è sempre parsa una figura buffa.

Ma se nei ricevimenti festivi qualche giovinotto agghindatosi alla meglio le ronzava intorno complimentoso, allora ella opponeva a scudo Gualtiero; si posava al braccio di lui, parlava a lui, ballava con lui, e così allontanava gli altri sconcertati; ma più sconcertato restava il poveretto, che ormai sapeva per esperienza quanto poco doveva sperare, o, per ridurre la cosa ad un linguaggio più positivo, sapeva d'essere una ventola per parare i mosconi fastidiosi.

— Sarei io forse una civettuola? — chiedeva Silvana a sè stessa, con un leggiero rimorso. Ma si rassicurava tosto; che diamine! Gualtiero doveva ben capire, ciò ch' ella si studiava di fargli capire, cioè che lo teneva in conto d' amico, anzi in conto di fratello e che a lui riparava come una confidente sorella.

Con l'ultimo giorno di carnevale finirono i ricevimenti domenicali di casa Della Torre. Non conveniva portare in paese quest' altra brutta usanza di ballare di quaresima; e il signor Bernardo non aveva nessuna ragione di perdere l'aura popolare, mettendosi contro il clero, rappresentato dal pievano, dal coadiutore e dal campanaro.

Silvana volle che si chiudesse carnevale con un ballo in piena forma estendendo gli inviti quanto mai possibile. Mentre ella andava divisando i modi della festa, Gualtiero, con certa aria sdegnosa, si rivolse a Silvana.

— Ella propone un ballo, signorina?

— Si, — rispose Silvana, — e mi obbligo con lei per la prima contraddanza.

— Grazie; ma si ricorda ella del nostro discorso d'una sera dell'estate passato?… Diceva di non amare le feste da ballo, le riunioni di società… Non bisogna mai affermare, perchè non si sa poi se…

— Se poi non si sarà costretti di disdirsi, n' è vero? — rispose Silvana — e lei, signor Gualtiero, vorrebbe trovare in me l'esempio della contraddizione. Non nego che sarebbe per me una lezioncina meritata. Ella riconosca però che questa mia schietta confessione è già, per sè stessa, una prova di sincerità e franchezza. Non mette conto che ora io le dica come e perchè le mie idee, un pochino strambe a suo giudizio, si siano mutate. L'esperienza insegna. E poi, mi ricordo bene che allora io ho detto che ci potevano essere due Silvane: una con bizzarri gusti silvestri, con esagerazioni di franchezza, con quella noncuranza delle esigenze sociali che la fanno parere… originale, per usare la parola meno aspra; l' altra invece, che ricorda d'avere lei pure ricevuta una verniciatura urbana, e sa mettere in pratica i bei modi e le garbate finezze; che, a proposito sa tacere o trovare le dolci parole, le innocenti bugie, che accarezzano la vanità… E anche questa Silvana lei la conosce da un po' in qua. Però — aggiunse la fanciulla marcando le parole — sia ben persuaso, mio buon amico, questa nuova Silvana fittizia non ingannerà mai nessuno.

Gualtiero capi l' allusione e chinò gli occhi.

La festa data in casa Della Torre riuscì numerosa, animata, allegra, bellissima. Silvana apri il ballo con Gualtiero, e per i crocchi si andavano susurrando parole di fidanzati e di nozze. La fanciulla appariva meravigliosamente bella, e si guadagnava l'animo di tutti con la sua gentilezza schietta e affettuosa. Tratto tratto però la si vedeva guardarsi attorno come in cerca di qualcuno, e su la sua fronte bianca e serena passava una nube. Suo babbo le aveva detto che il dottor Rinaldi, dopo molte riluttanze, aveva finito per cedere ed aveva promesso di venire al ballo. Ma non si vedeva.

— O perchè mai non si mostra e manca alla promessa? — andava chiedendo a sè stessa la fanciulla, quando in un crocchio sentì nominare il dottore. S'accostò.

— O come sta la signora Geltrude? — disse uno.

— Male assai — rispose un' altro — Non c' è più speranza.

Agli occhi di Silvana, là fra il chiarore della sala illuminata, tra i fiori ed i suoni festosi, balenò d' improvviso agli occhi un' imagine triste: quel giovine, seduto al capezzale di sua madre morente… Non c' è più speranza!… Le vennero le lagrime agli occhi.

Un ballerino si presentò ad invitarla per il walzer; represse un sospiro e si lasciò trascinare nel ballo.

Quando finì la festa, già il cielo albeggiava. Con molti saluti, con molte espressioni di soddisfazione, gli invitati partirono, spandendo per le vie silenziose del borgo la rumorosa allegrezza onde ancora erano animati.

Il dottor Rinaldi nella cameretta, vegliando sua madre, sentì passare sotto la finestra una comitiva tutta lieta; discorrevano insieme a voce alta; le parole giungevano a lui confuse, ma tra quelle udiva ben distinto un nome che gli toccava il cuore: «Silvana! Silvana!»



Di giorno e di notte senza riposare un istante il dottor Rinaldo vegliava sua madre. Aveva chiamato altri colleghi dai paesi vicini; avea implorato il soccorso d'un vecchio suo professore: venissero, tentassero di strapparla alla morte quella sua cara. Invano!… Una malattia acuta rapidamente l'uccideva. Non c' è più speranza! — avevano detto concordi. E un mattino, il povero figliolo sentì nella sua mano farsi rigida, farsi gelida la mano di sua madre. Si chinò sopra di lei… il respiro era cessato, per sempre!… Madre e figlio erano separati, per sempre!… Diede un grido di dolore e cadde riverso nelle braccia d'un amico.

La povera morta la portarono nel piccolo cimitero poco lungi dal borgo, oltre il fiume. Era una mattina grigia e fredda; la notte era nevicato forte. Dietro la bara veniva il figlio della morta, a capo scoperto. Egli con le sue mani l'aveva composta nella cassa; egli non voleva abbandonarla per un istante finchè ancora fosse in terra. Dopo la bara veniva una lunga fila di gente; tutte le persone civili del borgo e molti poverelli, perchè nessuno mai dalla casa della signora Geltrude erasi partito senza il soccorso d'un pane e d'una dolce parola.

Silvana, con la zia, camminava fra le donne. La lunga schiera funebre sfilava bruna su la via bianca di neve.

Nel cimitero i becchini scavarono la fossa; una fossa che si apriva nera come un abisso, là, in quel campo tutto bianco sparso di croci. Il dottore, a capo chino, guardava con occhio asciutto e vitreo dentro quella fossa, che pareva lo chiamasse a sè.

I preti dissero le preci e aspersero d' acqua santa la cassa; i becchini la sollevarono e la calarono giù in quella fossa, dentro cui l'occhio sbarrato di Rinaldo si perdeva, come se scendesse fonda fonda fin dentro l' ultimo abisso della terra, come s'addentrasse scura nelle tenebre dell'eternità. Poi vi buttarono sopra la terra a palate, e le assi percosse dall'arena mandavano un suono cupo. Il dottore, ritto, guardava, ascoltava; pareva che da quel cavo salisse una voce e gli mormorasse — Vieni; quaggiù è la pace eterna!

In breve la fossa fu piena; i becchini livellarono il suolo con la marra, e la neve, che ricominciava a cadere, già la copriva di bianchi fiocchi. E Rinaldo, immobile, guardava, guardava, atterrito che così breve spazio di terra lo dividesse da ciò che aveva di più caro al mondo, e lo dividesse per sempre, per sempre!

La gente se ne andava ed egli rimaneva là come dimentico. Non rispondeva alle chiamate; pareva non sentisse le mani d'amici, che dolcemente cercavano di scostarlo. Guardava quella terra bruna che andava coprendosi di neve; guardava fisso, con occhio asciutto.

Silvana, rimasta fra gli ultimi insieme con la zia, si accostò, cedendo all' impulso del cuore, stretta da profonda compassione per quell' infelice, e gli prese la mano sussurrandogli — Coraggio!

A quel tocco, a quella voce, egli alzò gli occhi; e come se le lagrime, a lungo trattenute, accumulate e rapprese, a un tratto si sciogliessero e trovassero uno sfogo, proruppe in un largo pianto; e singhiozzando si lasciò condurre via di là.

Egli è solo, solo in quella casetta ov' è vissuto felice con lei, felice in una vita di lavoro e d' amore. Ella non è più, ella che sempre è così viva nel suo pensiero!

— Sedeva quì, nella sua poltroncina, e lavorava guardando dalla finestra la campagna. La sua panierina ben ordinata, il ricamo avviato, il cucito con l'ago ancora impuntato, aspettano che la sua mano li riprenda. Non li riprenderà più!

Su la caminiera è il vaso dove, anche nel verno, si studiava, con cura gentile, di conservar qualche fiore. I fiori sono vizzi. La sua mano non li rinnoverà più!

Su 'l tavolino da lavoro, ecco gli occhiali, e accanto la sua Bibbia co 'l nastro azzurro per segno. Il premio che il santo libro promette ai giusti ella lo ha conseguito. In quel libro non leggerà più!

Dall' appiccagnolo pende il mantello in cui si ravvolgeva quando usciva a visitare gli ammalati e i poverelli. Ma i poverelli non la vedranno più!

La pendola, su la caminiera, s' è fermata. La sfera segna le cinque, l'ora in cui ella è partita, partita per non tornar più!

Quì favellava con me, quì mi consolava, quì mi baciava, colei che m'ha dato la vita, colei che ha formato l'anima mia nella dolcezza del suo amore. Ed io sono solo, solo!…

Il povero Rinaldo ascolta, come se per le scale gli sembri di sentire il passo di lei, che ritorna; si guarda intorno come ad aspettare che riapparisca!… I morti non tornano più!

Quante volte non ha egli veduto scolorirsi sembianti, cessare il respiro, venir meno alla vita!… Eppure, ora, la morte gli sembra una nuova e non mai pensata crudeltà!

Stende la mano alla piccola Bibbia. Ella l' avea tanto caro quel libricciolo!… Nella prima pagina bianca è scritta una data: quella delle sue nozze. Quante volte, in quel libro, ella aveva cercato e trovato consolazione!

Egli lo apre ov' è il nastro azzurro lasciato per segno in quella pagina, su cui s'erano posati, per l'ultima volta, gli occhi di lei; è l'ultimo capitolo de' proverbi del re sapiente; sono le parole del re Lemuel, il sermone co 'l quale sua madre l'ammaestrava. E legge:

«Chi troverà una donna di valore?… Il prezzo di essa avanza, di gran lunga, quello delle perle.»

«Il cuore del marito si fida in lei; ed egli non avrà giammai mancamento di veste…»

«Ella mette mano al fuso e le sue palme impugnano la conocchia.»

«Ella allarga la mano all' afflitto e porge le mani al bisognoso…»

«Ella è vestita di gloria e d'onore; e ride del giorno a venire.»

«Ella apre la bocca con sapienza e la legge della benignità è sopra la sua lingua.»

«I suoi figli si levano e la predicano beata; il suo marito la lauda, dicendo: molte donne si sono portate valorosamente, ma tu le sopravanzi tutte.»

«La grazia è cosa fallace, e la bellezza è cosa vana; ma la donna che ha il timor del Signore sarà quella che sarà lodata».

— Oh madre mia! tu sei vestita di gloria là su! — esclama Rinaldo. Chiude il libro, e nascondendo il viso nelle palme, piange lagrime d'amore e di speranza.



Era venuto l'aprile con le viole e poi il maggio con le rose, che fiorivano tutto il giardino.

I giorni passavano uguali e tranquilli per Silvana; ma nella tranquillità della sua vita stendevasi come un velo di mestizia. La sua inquieta vivacità fanciullesca svaniva e lasciava luogo alla calma pensosa della donna.

Zia Clotilde seguiva, con occhio penetrante e con pensiero intelligente, quel mutamento. Il signor Bernardo domandava spesso alla sorella se mai s' accorgesse che i sentimenti della fanciulla facessero sperare l' avvenimento di quell'unione, con Gualtiero, da lui tanto desiderata. Ma zia Clotilde rispondeva: — No; non è lui, ma un altro. — E alle richieste del fratello, che ansioso domandava: — Chi? — rispondeva — Non lo so ancora. Ma ti dorrebbe poi di saperlo, non essendo il giovine che tu desideri?

— No; — rispondeva il signor Bernardo — purchè sia uno degno di lei.

Anche Gualtiero avvertiva quel mutarsi di contegno della fanciulla, che diveniva grave e mesta e solo a rari intervalli rivelava la primiera vivacità. Anche lui intendeva che il pensiero di lei si volgeva ad un altro, e a molti indizi, indovinava chi fosse quest' altro; contro di lui già sentiva nascersi in cuore rancore ed odio; e fatto cattivo dall'odio, pensava, pure tenendosi in disparte, di usare d'ogni studio per disputare al rivale l'affetto della fanciulla, tanto bella e così ricca!

La tranquillità di casa Della Torre fu improvvisamente turbata da una notizia. Giunse una lettera del padre di Gualtiero, che lo richiamava in Francia. Diceva d'essere a Marsiglia per importanti lavori assunti nella costruzione di un grande cantiere; aver d' upop dell'aiuto del figlio per alcun tempo; pregava l'amico suo, il signor Bernardo, che lo lasciasse partire; prometteva che sarebbe presto tornato. Il signor Bernardo fu dolente assai di quel richiamo. Era proprio la necessità che lo richiedeva?… O forse il giovane stesso aveva desiderato d'avere motivo per allontanarsi?

La sera prima della partenza, Silvana sedeva al tavolino lavorando di ricamo, e Gualtiero le era vicino. Il nonno e la zia, co' l giornale in mano, scambiavano poche parole, in un altro angolo della sala. Il giovinotto guardava la bella testina della fanciulla china su 'l lavoro, e taceva. Poi, quando essa alzò gli occhi, le disse:

— Domani sera, a quest'ora, sarò già lonano, lontano assai!

— Me ne duole!

— Davvero? E penserà qualche volta a me?

— Sì, e spesso. Crede ch' io possa dimenticare gli amici?

— E … di me, si ricorderà come d'amico?

— Più ancora …

Un lampo guizzò negli occhi del giovane che, chinandosi verso lei, le prese dolcemente la mano.

Silvana lo guardò negli occhi co' suoi occhioni limpidi e fermi, e disse, con voce dolce:

— Sì, come fratello!

Ma leggendo nel viso del giovine un altro pensiero, ripetè con voce ferma:

— Sempre, come fratello!

Gualtiero lasciò cadere la mano che stringeva nella sua e sospirò. Silvana riprese il lavoro in silenzio.

Da due mesi Gualtiero era partito. In su le prime aveva mandato notizie frequenti; poi, erano passati molti giorni senza che giungesse una sua lettera.

Una sera, leggendo il giornale, il nonno diè un balzo su la sedia esclamando: — Il colera a Marsiglia!

Il morbo era scoppiato con veemenza in quella città, e a quella prima notizia seguirono, per più e più giorni, notizie sempre più gravi. Di Gualtiero non si sapeva più nulla.

Alla dolorosa sopresa di quella notizia, presto se n' aggiunse un' altra inaspettata.

— Sapete? — disse il signor Bernardo, sedendosi a tavola per il pranzo — sapete la nuova?… Il dottor Rinaldo è partito per Marsiglia a curare i colerosi.

Silvana si chinò come per raccogliere il tovagliolo; ma zia Clotilde vide che non le era caduto.

Perchè il dottore era partito così improvvisamente, all'insaputa di tutti?… Morta la madre, egli viveva solingo; non lo vedevano più se non gli ammalati e i poveri. Viveva solo in quella sua casina piena di tante memorie del passato e dove pareva volessero germogliare alcune speranze dell'avvenire. La sua mente tornava spesso al triste giorno in cui avevano sepolto la sua povera mamma; ma di quel triste momento, confuso come un sogno, non ricordava distinte che due sole cose: una fossa scura e grande, in un campo bianco, una fossa nella quale egli si sentiva chiamato a sprofondarsi, da una voce dolorosa; e una mano gentile, di cui sentiva ancora il tocco nella sua, che lo tratteneva. Quella mano gentile, che parevagli avrebbe potuto portar balsamo alle sue ferite, conforto alla sua solitudine, speranza al suo cuore, ora non la ritrovava più!

Viveva solo; non aveva affezioni di parenti; gli amici lo avevano obliato nella solitudine; lo studio e le meditazioni avevano spento in lui le piccole ambizioni, che sono eccitamento all'operare. Vivere senza affetti non è vivere. Un solo sentimento lo ricercava, ma segreto, ma senza speranza; ed egli si provava di soffocarlo. Infatti, come potea egli pensare di far sua colei, che con la bellezza del volto e dell' anima già lo possedeva tutto, quand' ella forse era ad altri promessa, ed era tanto ricca!… Ricca!… Avrebbe alcuno potuto pensare che il suo amore celasse un vile calcolo?… A questo dubbio inorridiva.

Senza affetti, senza speranze, senza timori, senza lagrime e senza sorrisi, la vita gli appariva vana, inutile consumantesi in una sterile solitudine. Ma questo sconsolante pensiero gli faceva rinascere il ricordo di ciò che alla bella Silvana egli aveva detto il giorno che con lei discendeva dall'Abbazia: — Nessuna vita è inutile: tutti possono avere una lotta da combattere, un dovere da compiere.

Tosto che seppe che nel mezzodì della Francia correva devastatore il morbo asiatico, per desiderio di studio, con una segreta speranza di finire, non invano, i suoi giorni, deliberò di recarsi colà, offrendosi come medico e infermiere. E partì. Non si fece gridare su per i giornali; non si ammantò di nessuna veste di missione scientifica. Partì solo ed oscuro, pronto a morire solo ed oscuro. Gli vennero in mente le parole di Frà Uberto: — Trovare non indegna morte, come buon soldato nella battaglia.

Non volle rivedere Silvana. Forse da una leggiera speranza, che una parola o uno sguardo accendessero in lui, poteva essere vinta la sua deliberazione. A lei egli non voleva più pensare se non con l' affetto d' un fratello.



Ah! dottore, dottore! lei qui?… e come?… O mi salvi, mi salvi!… Mi hanno abbandonato tutti, i vili!… Io muoio!… Dio!… che sete! Un sorso d'acqua!… Mi salvi, dottore, mi salvi!

Queste parole, con voce rauca, fra molti gemiti, contorcendosi nello spasimo de' crampi, col volto livido, madido d' un sudor freddo e viscido, era Gualtiero che le diceva rivolto al dottor Rinaldo. E questi lo confortava con parole gentili.

— Su, su, coraggio! io non l' abbandonerò. Stia di buon animo! non s'avvilisca: questo è il primo rimedio.

E prendendo poi espressione più affabile e confidente:

— Coraggio, amico, coraggio e speranza! io non ti abbandono! —

— Amico?… amico lei?… tu!… oh grazie! — e Gualtiero lo guardava con le pupille dilatate, infossate nelle occhiaie, e gli stendeva la mano tremante e diaccia. Quindi, sopraffatto dall'impeto del male, ricadeva assopito.

Povero Gualtiero!… Suo padre si era già da più giorni assentato, ed egli rimaneva solo a sorvegliare le costruzioni del cantiere, sempre in mezzo agli operai per i lavori e per le paghe. Fra i lavoratori, poveri, mal nudriti, abitanti in quartieri sudici, cominciò a serpeggiare il male; ogni mattino qualcuno non rispondeva all'appello, e alla chiamata del nome talvolta s'aggiungeva una voce: — All' ospedale! — ovvero — Partito!

Un giorno, nelle ore infocate del mezzodì, un operaio cadde colpito dal morbo, su 'l lavoro; in pochi istanti spirava. Dopo poche ore, Gualtiero, che da più giorni si sentiva addosso un gran malessere, fu assalito da atroci dolori e mostrò tutti i sintomi del colera. I pochi operai che ancora aveva d' intorno, presi da terribile sgomento, fuggirono via miserabilmente, abbandonando il povero giovine che si contorceva per terra, e invano li chiamava per pietà. Era rimasto là solo, molte ore, su quel terreno ove ergevasi il cantiere, in un angolo estremo e deserto della città. Si sentiva venir meno, e nessuno lo soccorreva; raccoglieva le forze, chiamava: nessuno lo sentiva. Morire là, abbandonato come un cane! Sopraffatto dal male e più ancora dallo sgomento, svenne.

Il dottor Rinaldo, che con alcuni pochi coraggiosi girava i più umili quartieri portando soccorsi, raccogliendo i malati per ricovrarli all' ospedale, sentì le chiamate ed i gemiti del povero abbandonato, ed accorse. Vide l'infelice, lo riconobbe tosto, e preso da un sentimento di viva pietà, animato dalla speranza di poterlo salvare, con l' aiuto dei suoi lo sollevò, lo fece adagiare su una barella e trasportare all'ospedale. Quando fu coricato, lo vegliò con tenera cura; studiava quel volto dal color terreo che già accennava al ceruleo ed era tutto soffuso d' un sudor freddo; toccava quelle estremità, che andavano facendosi sempre più diacce, marmoree; osservava i contorcimenti nei conati del vomito e nello spasimo de' crampi.

Gualtiero erasi riavuto dal primo torpore; con gli occhi sbarrati, si guardava attorno, spaurito di ritrovarsi là in quella gran sala, su quel letto, in mezzo ai letti di tanti altri infelici, meravigliato e quasi sgomento di vedersi vicino, per sorpresa, come per miracolo, persona a lui nota, ma non certo a lui cara. Ma quando quella persona gli tese la mano e lo chiamò amico, quando promise di vegliare su lui, esortandolo a pazienza e coraggio, l' infelice si sentì confortato e chiuse gli occhi in un tranquillo sopore.

I sintomi crano terribilmente evidenti, ma leggieri. Rinaldo vegliava il malato con affetto fraterno. Il ricordo d'una conoscenza, già prima formata, faceva in lui più vivo il sentimento dell' umanità; il pensiero che forse i loro cuori, ad un medesimo tempo, si volgevano ad una medesima imagine e con un medesimo affetto, lungi dal destare in lui alcun sentimento di rancore, gl'inspirava affettuosa fratellanza.

Passò di là, per quella lunga corsia, una suora di carità.

— Suor Maria, — disse Rinaldo — raccomando alla vostra gentile pietà questo poveretto. I sintomi non sono gravi. Se fra breve si può ottenere una reazione, se può cessare il freddo e ridestarsi nelle membra un po' di calore, è salvo. Badate che non si scopra; fategli coraggio. Lo raccomando alla vostra pietà, buona sorella. Io tornerò più tardi. — E, date alcune prescrizioni, si recò dove lo chiamavano più gravi e più urgenti doveri.

Dopo alcune ore, vegliato e curato amorosamente dalla suora, vero angelo di carità, Gualtiero rinvenne dall' assopimento. Non sentiva più quella sete ardente che l' aveva tormentato; cessava il tintinnio nelle orecchie; i crampi lo assalivano con minor frequenza; il freddo e viscido sudore era meno profuso; sentiva di riaversi. Si guardò attorno.

Ringraziò con l'espressione dello sguardo la buona suora, che gli era al capezzale; e chiese:

— Il dottore! dov' è il dottore?

— L'italiano? — rispose la suora — quel bravo giovine venuto a dividere i nostri dolori? le nostre fatiche?

— O dov' è?… dov' è egli?

— Tornerà; tornerà presto; state tranquillo. Abbiate coraggio. Siete fuori di pericolo. Ma state tranquillo; tenetevi coperto. Così!… ed ora lasciate ch' io vada a soccorrere altri infelici.

E si scostò, passando da letto a letto, ministrando pozioni, raggiustando una coltre, dicendo una buona parola, inginocchiandosi a dire una prece là dove non poteva più essere apprestato nessun rimedio; sempre alacre, sempre mansueta, non doma da fatica, non respinta da nauseanti aspetti, non mai vinta da timori, tutta animata da un solo, purissimo affetto: la carità.

— Siete fuor di pericolo! — aveva detto la suora. Quelle parole ricondussero la vita nell'animo di Gualtiero. Vivere, vivere ancora!… Ritornare da quel limitare tremendo; rivedere ancora il padre, i parenti, gli amici!… rivedere… No; riveder lei, Silvana, non era la speranza che più d'ogni altra ora lo consolasse. Per lui, tanto lontano, ella aveva un pensiero come d'amica, di sorella. Ma per Rinaldo… oh egli lo sapeva! per Rinaldo era un altro pensiero, era un altro affetto. Egli aveva compreso da lungo tempo, aveva veduto formarsi tacitamente quell'affetto in seno della fanciulla, ed aveva sentito rancore ed odio contro colui che, inscientemente, erasi conquistato quel cuore. Odio?… Gualtiero si guardava attorno, e si vedeva in mezzo a tante miserie, a tanti dolori, a tante sciagure!… Poteva egli, in mezzo allo spettacolo di tanta infelicità, nutrire un pensiero di rancore e d'odio?

Egli odiare, e l'altro, l'odiato, chiamar lui amico, salvarlo, ridonarlo alla vita!… Egli sospettare e malignamente accusare di mentite vertù colui che tutto aveva abbandonato volonteroso, per andare in soccorso degli infelici!…

Il povero Gualtiero, che sotto apparenti frivolezze e molti pregiudizi, aveva pure un animo retto ed onesto, ora si tormentava nel rimorso. L'aspetto de' mali e delle miserie che si vedeva intorno e che altre volte gli avrebbero dato nausea, schifo e ribrezzo, ora gl'inspirava tremore e pietà. Quelle suore, che sacrificavano sè stesse, tranquille e serene, per la salvezza altrui, e delle quali, altre volte, da scettico avrebbe dubitato, ora lo riempivano di santo rispetto. Il terrore di trovarsi là, in quel luogo di dolore e di sventura, a poco a poco si temperava d'un sentimento di dolcezza, di compassione per gl' infelici, di ammirazione per i caritatevoli soccorritori.

Era in questi pensieri, quando sopraggiunse il dottor Rinaldo con suor Maria.

— È salvo — disse la suora.

Il dottore s' accostò al letto, esaminò l' ammalato con occhio pieno d'affettuosa attenzione. Poi gli prese la mano, e sorridendo: — è passata, amico — disse — è passata! Fra breve puoi uscire di quì. Un po' di riposo per ristorare le forze e ritornerai alla gioia del vivere.

Gualtiero lo guardava in silenzio; gli tremolava negli occhi una grossa lagrima, che gli corse giù per la guancia, lenta lenta.

— Grazie, grazie, amico! salvatore! — diceva stringendo nella sua la mano di Rinaldo.

— Evvia! o che è questo il tempo di dir grazie?… siamo in battaglia, l' uno per l' altro, amico. Ma vedi un poco come vanno le cose del mondo! Abbiamo vissuto vicini tanto tempo, ci siamo incontrati tante volte e mai non ci siamo stretta la mano. Dovevamo trovarci quì, in mezzo a questi dolori, perchè ci unisse la parola d'amico…

— Gli è che gli uomini si conoscono nelle necessità. Ed ora soltanto io conosco il tuò nobile cuore.

— No, no; gli è che gli uomini si amano nella sventura. La pace e la contentezza li rende egoisti, poichè chi gode non ha voglia di pensare a chi soffre. Ma se li minaccia una comune sventura, ma se s'incontrano là dove innanzi al dolore ed alla morte ogni differenza scompare, su un campo di battaglia o sotto il flagello d' un' epidemia, allora tutti hanno un solo sentimento: che sono uomini, che sono infelici; e nell'infelicità si amano.

— Io benedico alla mia sventura. Se dal pericolo corso escirò salvo, se vivrò ancora…

— Evvia! vivrai; non temere.

— Ebbene! benedirò alla mia sventura perchè mi ha aperto il cuor tuo, amico, e, finchè vivo…

— Basta, basta! domani escirai di quì. Ti verrò io a prendere, e, ci saluteremo, poichè io parto per l' Italia.

— Per l' Italia?… Ritorni là su, al borgo del lago? — domandò Gualtiero.

Rinaldo lo guardò fiso negli occhi, come per leggervi se quella domanda nascondesse in sè l' amarezza d' un sospetto. Poi disse: — No; non là su, non al borgo del lago. è scoppiato il colera a Napoli; vi fa strage. Io vi corro. Tu riposati questa notte. Domani ci rivedremo. Addio! — E senza attendere altre parole di Gualtiero, s' allontanò.

Calava la notte. Al debole lume di alcune lampade, quella vasta sala d'ospedale si faceva più triste e paurosa. Nell' ombra i gemiti suonavano più piestosi e strazianti, e le persone si muovevano come fantasmi. Fatto debole dal male, Gualtiero si assopiva, e nel sopore sentiva la mente confondersi e vaneggiare in paurose visioni. Lo riprendeva l'arsura ed una mano pietosa gli porgeva da bere. Parevagli fosse Silvana… Sentiva un gran calore, ed una mano fresca gli si posava su la fronte. E mormorava: — Silvana!… — Poi gli pareva d'esser morto; non sentiva più nulla; era finita.

Ma risalutò con gioia la vita, quando si senti scosso dolcemente, e chiamato a nome; e aperti gli occhi vide un raggio di sole dagli ampi finestroni entrare splendido e festoso in quel luogo di dolore. Era Rinaldo che lo chiamava.

— Sei pronto?… Su dunque, usciamo!

Gualtiero si vestì con quanta prestezza gli consentiva lo stato di debolezza in cui si trovava. Ringraziò commosso la buona suor Maria, e, appoggiato al braccio di Rinaldo, varcò quella soglia da dove non tutti uscivano vivi. Presero per un viale ombreggiato da platani. Le vie erano deserte, squallide.

— Dove abiti? — chiese Rinaldo.

Gualtiero gliel'indicò.

— È un po' lontano, e tu sei infiacchito. Riposiamo qui all'ombra, finchè passi qualche vettura. In casa sei solo?… Per ristaurare le forze hai bisogno d'assistenza, di cura.

— Babbo è in Alsazia. In casa c' è la domestica… povera donna… mi crederà morto!

— Io partirò questa sera. Mi toccherà fare la quarantena al confine, e passeranno de' giorni prima che giunga a Napoli… se il cielo permetterà che vi giunga!

— Vi giungerai, sì. Rivedrai la bella Italia… l' amo anch' io come se fosse mia patria… ma non so s'io la rivedrò ancora. Salutala per me. Se Dio ti salva dai pericoli a cui ti esponi, amico generoso, tu rivedrai ancora… mi permetti di dirlo?… tu rivedrai ancora Silvana.

Rinaldo fissò gli occhi in volto al compagno, aggrottando le ciglia, con aria di offesa, come se uno sguardo insolente osasse frugare nel suo cuore a cercarvi un segreto. Ma si contenne, e disse tranquillo: — Non è ella tua promessa sposa?… Questo si buccinava lassù, al borgo.

— Sì; — rispose melanconicamente Gualtiero — era un disegno del signor Bernardo; era una mia speranza. Ora non lo è più. Ella non mi ama! Ama un altro, ben più degno di me.

Rinaldo teneva gli occhi fissi al suolo.

— Un altro ben più degno di me — riprese Gualtiero. — Chi sa dire che cosa sieno le misteriose affinità dei cuori, onde l'uno parla all'altro, nel silenzio, nella lontananza?… Silvana non è quella che dicono, una bizzarra fanciulla; e se io così pensai un tempo, ora mi disdico. Sotto le apparenti leggerezze e bizzarrie, sotto quell' esteriorità di franchezza impertinente, c'è un' anima bella, sensibile, generosa. è un nobile cuore che cerca un nobile cuore… cerca la poesia nell'aridità della vita.

— La poesia nell'aridità della vita! — disse Rinaldo, quasi che con piacere s'attaccasse a quella frase per deviare un discorso, che gli riusciva commovente, dolce e penoso ad un tempo. — Questa è una frase vana. In tutta la vita c' è poesia; e c' è veramente là dove altri non la pensa e non la cerca. Spasimano per la poesia dei sonetti e dei madrigali, e ignorano la grande poesia delle cose. Eccola la poesia vivente! — disse accennando co 'l dito una suora di carità, che passava, frettolosa, avviandosi all'ospedale.

— Io non m'intendo di poesia — rispose Gualtiero. — Non ho mai sporcato la carta se non con numeri sommati e divisi… Ma so che la poesia di Silvana è quella dei nobili pensieri e delle belle azioni. Io non conosco che un cuore degno di rispondere al suo; ed è…

— Due cuori che s'intendono — disse Rinaldo, che cercava sempre modo di deviare quel discorso — due cuori uniti nell'amore di ciò che è bello e grande, questa sarebbe la felicità della vita… ma forse è un sogno!… Via, lasciamo li le fantasticherie. T'accompagnerò a casa. Conviene che ti si abbiano attenti cure. Poi partirò… ci divideremo. Ciascuno per la sua strada; e forse non ci vedremo più!

La sera, Rinaldo partiva su 'l treno di Ventimiglia.

Per la posta di quel treno, alcuni giorni dopo, partiva una lettera di Gualtiero al signor Bernardo. La lettera diceva:

«Non per presunzione, ma per esperienza della bontà veramente paterna ch'ella ha sempre avuto per me, credo che desidererà e aspetterà una mia lettera, non senza qualche timore ed angustia. Qui il morbo infierisce sempre. Io ho avuto il male, e sono stato in pericolo della vita. Ma è passata; sono salvo per le cure… indovini di chi?… Del dottor Rinaldi. Quello è veramente un nobile cuore! Raggiungo babbo in Alsazia. Di là scriverò più a lungo. Mi ricordi co' più affettuosi rispetti alla signorina Silvana, a tutta la famiglia. Che gioia rivivere quando si è stati lì lì, tanto vicini a quel gran salto per l'altro mondo!… Il dottor Rinaldi è partito per Napoli. Egli accorre, co 'l suo coraggio e con la generosa sua abnegazione, dove il pericolo è più terribile. Egli è davvero, quale altri lo aveva detto, un nobile cuore. Si raccomanda alla cara memoria di lei e di tutta la famiglia.

L'aff.mo Gualtiero.»



Aquando dunque le nozze? — chiedeva Silvana a Madda, ch'era venuta dal monte a trovare la signorina, giù al borgo.

— A primavera — rispondeva la montanina. — Non finirò mai di benedir lei ed i suoi, cara signorina mia. Jacopo ha ottenuto di lavorare su alle seghe, in grazia di lei. Campando co 'l poco che rende il poderetto, con la più stretta economia, ha potuto risparmiare su la sua paga tanto che basti a rizzare alla meglio la nostra casetta. Che il signore la benedica, lei, ed i suoi!

— Via, via, Madda; non mette conto di far tanti ringraziamenti. Il tuo Jacopo è un forte e onesto lavoratore, e alle seghe si dice che è una fortuna averlo… Dunque, questa primavera nozze, e si celebreranno là su alla chiesetta del monte, eh?

— Se ci fosse fra' Uberto, buon' anima!… Chissà se il pievano vorrà venire fino là su!

— Lo pregheremo che venga. Voglio che quel giorno si faccia un festone…

— Un festone!… Oh signorina! Il festone lo faremo tutti quando si sposerà lei… lei così buona con noialtri!

Silvana guardò la montanina sorridendo e tentennando il capo in segno dubitoso.

In quella entrò Brigida co' giornali e le lettere arrivati allora.

— Le notizie di Napoli!… vediamo le notizie di Napoli! — esclamò Silvana; e spiegò un giornale, mentre zia Clotilde ne spiegava un altro, e un terzo il nonno. Il signor Bernardo era passato nello studio a sbrigare la corrispondenza.

Le notizie e le descrizioni del colera, che affliggeva la città di Napoli; le notizie del re, che pietoso e coraggioso, nell'infierire del morbo, si era recato colà a confortare, a soccorrere; le notizie delle squadre de' giovani valorosi, che accorrevano a quella nuova battaglia, riempivano i giornali italiani.

Silvana, come nei giorni di prima aveva cercato le notizie di Marsiglia, ora, con animo trepidante, seguiva quelle di Napoli; era tutta pietà per gl'infelici malati; era tutta entusiasmo per l'atto generoso del re e de' giovani volontari della Croce rossa e della Croce bianca.

Zia Clotilde, così per celia, la canzonava de suoi fervori umanitari, e una volta le domandò, se mai pensasse di farsi suora ed accorrere ove infieriva il morbo. Le guance di Silvana si colorirono come due rose ed i suoi occhi si chinarono pensosi. Eppure una volta ella non era tanto timidetta!

— Davvero ch' io ho colto nel segno! — pensò zia Clotilde.

— Che nuove dunque? — domandò il signor Bernardo tornando dallo studio. — Finiscono i malanni?… Queste benedette quarantene, con mille timori e riguardi per noi e per gli altri, mi fanno ritardare la venuta di Gualtiero… e io ho bisogno di lui!

Zia Clotilde osservò che non era il nome di Gualtiero nè il prossimo suo ritorno, che facevano colorire le gole di Silvana. E disse subito:

— C'è dei guai, c'è dei guai!… Molti casi nel Bergamasco, molti altri nelle provincie del Piemonte. Lo zingaro ci ronza attorno!… Voi, caro fratello, che siete consigliere e membro della giunta, dite un po' cosa fanno queste nostre autorità?… Partito il dottor Rinaldo, s' è accettato, per supplente, un giovinotto che ha finito appena appena gli studi universitari. Che ci capiti il male in casa e siamo serviti. Prima di Gualtiero per i vostri conti, io vorrei che tornasse Rinaldi per la nostra pelle. Dico Rinaldi, perchè lasciando pur da parte il suo merito, egli mostra ben chiaro che non ha paura; e il non aver paura, nei casi presenti, è la primissima cosa. Che ne dici tu, Silvana?…

La fanciulla teneva, con tutte due le mani, il giornale aperto quant' era largo, e dietro quello nascondeva il viso.

— Io — rispose — io dico che adesso non mi pare opportuno il ritorno di Gualtiero. Avrebbe al confine le noie della quarantena… Poi, figuratevi! che susurri in paese! far venire uno da luogo infetto! uno che, per sopra più, è da poco guarito lui stesso dal male!… se mai accadesse il più piccolo malore, come ci salveremmo noi?

— Vero! vero! — ripeteva la zia. — Ma non parlavo di questo, io. Io diceva che dovrebbe tornare il dottor Rinaldi, ora che il morbo ci ronza attorno minaccioso. Non ti pare?

Silvana levò gli occhi in viso alla zia per penetrare se in quelle parole non ci fosse un pochino di malizia. Poi, tutta composta, rispose:

— Non c'è dubbio. Un medico bravo e coraggioso è sempre una fortuna.

Ma, raccogliendosi in sè stessa, pensava, perchè mai la zia, con tanta insistenza, ripetesse quel nome, e, ripetendolo, cercasse di leggerle in faccia i suoi occulti sentimenti. Ella non nascondeva la sua affettuosa ammirazione per chi, generosamente, si offriva in un' opera di carità. E non era un giusto tributo?… Forse che oltre la simpatia verso un animo generoso, ella mostrava d' avere in cuore un altro sentimento più intimo, più forte?… E perchè mai — continuava a pensare — perchè mai Gualtiero, in quella sua prima lettera, ed in altre seguenti, parlando con ammirazione del dottor Rinaldi, vi poneva vicino, quasi con compiacente studio, il nome di Silvana?… Che egli, curato, salvato da lui, gli avesse gratitudine e ammirazione era giustissimo; ma perchè compiacersi d'unire ed intrecciare que' due nomi?… Eppure, quand'ella lo vedeva il suo nome unito a quello del dottore, sentiva un palpito in cuore. Eppure il suo pensiero non si distoglieva dall'imagine di quel lontano amico!… Dacchè ella aveva stretto la mano di lui nella sua, e su la sua mano aveva sentito gocciare le lagrime del dolore, ella lo chiamava amico. Il ricordo di quel giorno, freddo e triste, là nel cimitero, non le si cancellava dal cuore. E nelle sue passeggiate solitarie passava spesso di là; guardava oltre i cancelli, e vedeva, presso quella fossa ove ora sorgeva un umile croce, vedeva, come se fosse presente, quel poveretto, a cui si apriva davanti la terra per rubargli il maggiore, il più santo affetto. Ed egli era rimasto solo nel mondo, e andava cercando la morte. Oh non era forse debito di pietà di restituirgli alcun poco dell' affetto perduto?… Non era forse dovere consacrargli un pensiero d'affetto mentre egli si offriva a soccorrere le sventure altrui, mettendo a rischio la sua vita?… E quando, se Dio lo scampava dai pericoli, fosse ritornato nella sua casa deserta e fredda, non si sarebbe egli consolato vedendo su la tombo della madre morta un fiore che gli dicesse «Mentre tu eri là in mezzo alle miserie ed ai pericoli, qui c'era alcuno che pensava a te?…» Così l'affetto che in lei tacitamente s'insinuava, prendeva forza invincibile, sotto le sembianze d' un santo dovere. E spesso, quando usciva di casa, raccoglieva nel giardino i fiori più belli, e andava a deporli a pie' della croce della povera signora Geltrude.

Zia Clotilde osservava attentamente Silvana, che aveva ormai del tutto perduto le bizzarrie di fanciulla, e crescendo sempre più bella, mostrava in una tranquilla mestizia del volto, i dolci pensieri, il pietoso affetto della donna. La osservava partirsi con que' fiori, a ciascun de' quali era congiunto un palpito soave; vedeva e capiva ciò che Silvana nutriva nel segreto del cuore.



Èstato un magro autunno quest'anno. Non s'è veduto villeggianti. L'albergatore piange miserie. Già, co' malanni che ci sono stati, nessuno ebbe voglia d'allontanarsi di casa. Meno male che adesso sono finiti, pare. Si vedrà però dopo l'invernata: Ci resterà la coda per l' estate nuovo!… Ma non fasciamo il capo prima che dolga. Al poi c'è tempo di pensarci. E in casa sua, tutti bene n'è vero?… Di lei, signorina, non occorre domandare. è un fiore. E nemmeno di lei, signora Clotilde. E il babbo?… già sempre negli affari, eh?… E il nonno?…

Così parlava la moglie del sindaco con Silvana e la signora Clotilde, un giorno che s'erano incontrate a passeggio. Dopo quelle belle e allegre serate d'inverno, la sindachessa, ch'era divenuta sempre più fiera del suo figliolo laureato dottore in ambe le leggi, erasi fatta tutta dolcezza e moine con la signorina Della Torre.

— Il babbo sta bene — rispose Silvana — ma il nonno così così. è un pochetto che non si sente in gambe. Gli dolicchia or qua or là. In questa settimana poi è dato giù. Ma non si vuol curare. Non vuol capacitarsi che gli anni portano malanni.

— Ieri l'altro però s'è persuaso di sentire il dottorino nuovo — disse la signora Clotilde. — Egli non ha trovato nulla di grave…

— Oh meglio così! ma conveniva sentire anche l'altro medico, che, forse, ci ha più pratica…

— Quale? — domandarono ad un punto zia Clotilde e Silvana.

— Il dottor Rinaldi. O che non sanno ch'è tornato?… è già una settimana. Anche quello è un benedetto uomo! Se ne sta rintanato in casa che nessuno lo vede. Lo farà forse per riguardo di questo giovine a cui hanno affidato la cura. E poi è rustico, si sa. Forse anche lo infastidiscono a domandargli di Marsiglia e di Napoli tutte le volte che lo incontrano. Oh! l'ha scampata bella! Che originale! Andar proprio a cercar i malanni co 'l lumicino!… Già ce n'è di quelli che son fatti così!…

E la sindachessa tirava via a ciaramellare con la sua vena inesauribile. Zia Clotilde l'ascoltava, ma assai distratta. Silvana guardava in terra, disegnando cerchielli con la punta dell'ombrellino.

Quando la moglie del sindaco riprese fiato, la signora Clotilde colse l'occasione per congedarsi.

Si separarono. Silvana camminava in silenzio.

— A cosa pensi? — le domandò la zia.

— Io?… non lo saprei dire. Non ti accade mai di essere assorta e di non pensare a nulla?

— Può essere; ma tu, adesso, pensi quello che penso io.

— E sarebbe?…

— Che è una cosa strana che il dottor Rinaldi sia arrivato già da una settimana e non si sia fatto vedere.

Silvana non rispose.

— Converrà farlo chiamare — disse zia Clotilde — perchè visiti il nonno.

E procedettero silenziose fino a casa.

Rinaldo era tornato. Rinchiuso in casa, attendeva ad ordinare e stendere per iscritto le molti osservazioni fatte su i colerosi, a Marsiglia e a Napoli; voleva comporre una memoria da presentare all'Accademia medica. Appena giunto, era corso al camposanto a piegare il ginocchio su la tomba di sua madre, e vide, appesa alla croce, una bella corona di rose bianche. Un sussulto del cuore gli disse chi fosse la mano pietosa che ve l'aveva deposta.

Qualche giorno dopo, recandosi al cimitero, vide, da lontano, una bianca veste uscire dal cancello. Si nascose dietro un tronco di cipresso ad osservare Silvana passar via tutta pensosa. Rincasò che aveva il cuore commosso e il pensiero turbato. Era semplicemente un sentimento di pietà verso l'estinta che guidava la fanciulla a quell'atto gentile?… O v'era forse un sentimento… un altro sentimento, per il povero superstite?… Ripensò alle parole di Gualtiero, quando, uscendo dall'ospedale, gli aveva detto: — Silvana cerca un nobile cuore, che risponda al suo. — Ma era superbia riferire a sè stesso quelle parole, ed egli tentava di cacciarsi dalla mente quel ricordo. Eppure quel ricordo non gli dava pace. Se Silvana avesse della simpatia per lui?… se lo amasse?… Se quell'affetto ch'egli sentiva in sè non fosse solitario, se, per una tacita affinità del pensiero e dell'anima, corrispondesse un pari affetto nel cuore della fanciulla?… Sarebbe stata la felicità; ma una felicità che lo sgomentava. — Ella è ricca — pensava — ed io non sono altro che un povero medico. Forse m'illudo. è il desiderio, è l'affetto che mi fa travedere. Un gentile sentimento di pietà non è l'amore. S'io cercassi di vederla, di sentire dalle sue labbra una parola?… E se da quella parola fossi deluso? No, no; convien resistere, convien fuggire — gli diceva l'orgoglio. E dai dolci pensieri, che lo tentavano, si schermiva, intendendo assiduo al lavoro, cercando, nelle severe meditazioni della scienza, di far tacere le seducenti voci del cuore. Era una lotta dolorosa!… Spesso la voce del cuore lo vinceva, ed allora, sdegnato contro sè stesso, usciva. Andava girando su per la montagna, stancandosi nelle lunghe camminate. Andava a visitare i vecchi conoscenti, papà Nicola, Madda, Jacopo, il piccolo figlio di Nanni. Si aggirava per le rovine della deserta Abbazia, cercandovi lo spirito del povero fra' Uberto. Ma non trovava pace; perchè da per tutto erano memorie, che lo richiamavano a quel pensiero, a quell'imagine, che indarno cercava di cacciare da sè.

Quando fu invitato e pregato di recarsi a visitare il padre del signor Bernardo, non potè rifiutarsi. Vi andò. Gli batteva il cuore entrando in quella casa. Fu accolto con gioia. Silvana gli mosse incontro con un sorriso; gli strinse la mano con affettuosa espressione, e parve mettesse tutto il cuor suo nella dolcezza di voce con cui gli disse: — Ben tornato!

Egli visitò l'ammalato. Poi riconfermò a voce le notizie, che già aveva mandato Gualtiero, schermendosi, con certo fare sdegnoso, dai molti elogi che gli venivano tributati. Sebbene restio, non potè però negarsi dal raccontare ciò che aveva veduto a Marsiglia, e, principalmente, a Napoli. Narrava delle grandi miserie, dei grandi dolori; narrava dell'eroismo del re e de' cittadini. E narrando s'accalorava, e guardando in volto Silvana, che pendeva dalle sue labbra, dava alle sue parole un accento di viva commozione, che si trasfondeva negli astanti.

Quelle visite, quelle conversazioni si rinnovarono per più giorni. Egli non si difendeva più; si lasciava andare, sedotto dalla dolcezza di quegl'intimi colloqui; si lasciava vincere da un dolce sguardo, che si fissava nel suo, godeva di vedere i palpiti che le sue parole destavano in un cuore, che batteva co 'l suo… Ma quando raccoglievasi nel silenzio della sua camera, aquietandosi il tremito degli affetti nel suo cuore, egli sentiva che lo legava una dolce catena; sentiva che ormai non avrebbe più potuto spezzarla senza acerbo dolore…

Eppure doveva spezzarla!

Il nonno di Silvana era guarito. Per Rinaldo non v'era più ragione di rinnovare le visite. Il suo lavoro era finito, la memoria scientifica intorno all'invasione del contagio era pronta. Non v'era più motivo di sostare nel borgo, vergognandosi quasi di contendere il posto che il medico, suo supplente, si pensava di occupare. Conveniva partire, e deliberò di partire.

Raccolse tutto quanto gli restava in quella casetta, dolci memorie della sua vita felice. Preparò le valigie, assestò le sue carte. Tra i fogli pose alcuni fiori disseccati, ch' egli aveva raccolto a' piedi della croce, su la tomba materna. Una volta tutto pronto, si recò a prendere commiato dalla famiglia Della Torre.

Quando, dopo aver dato nuove prescrizioni per il nonno, e dopo averlo rinfrancato di buone speranze, disse che sarebbe partito per sempre, fu una sola voce di sorpresa e di rammarico. Dovette cercare le più ingegnose spiegazioni, le più sottili giustificazioni per dimostrare che la sua partenza era necessaria.

Silvana lo guardava silenziosa, silenziosa…

— E quando partite? — domandò zia Clotilde.

— Domani.

— Irrevocabilmente?

— Si.

— Ma ci rivedremo ancora?

— Lo spero; o, almeno, lo desidero.

Silvana si alzò e uscì dalla camera. Zia Clotilde la seguiva con occhio scrutatore.

Rinaldo prese commiato, commosso da molte gentili parole, da tanti affettuosi saluti. Uscì guardandosi attorno, deluso di non trovare quella mano, che voleva stringere ancora una volta.

Il signor Bernardo e la sorella lo accompagnarono fino all'uscio, rinnovando affettuosi commiati. Quando fu uscito, zia Clotilde disse al fratello:

— Non partirà!

— Oh!…

— Non partirà, credilo. Il peggior passo è quello della porta. Vieni con me.

Rinaldo, giunto sotto il porticato, era per mettere piede nel viale del giardino; vide Silvana, che l'attendeva presso una colonna, e senti una stretta al cuore.

— Dunque parte?… presto?… — disse la fanciulla con voce tremante.

— Si — rispose lui sommesso. — Addio!

Ella gli stese la mano. Si guardarono negli occhi per brevi istanti. Silvana aveva il cuor gonfio, palpitante e le ciglia umide. Infine, come cedesse ad un impulso irresistibile:

— Ti amo! — gli disse con voce sommessa, come un sospiro; e s'appoggiò alla colonna, quasi che per lo sfogo di quella confessione fosse per isvenire.

Rinaldo confuso, tremante, prese la mano della fanciulla, e vi depose un bacio.

— Ed ora non si parte più! — dissero due voci ad un tempo. Silvana si volse e s'abbandonò piangendo fra le braccia della zia. Rinaldo trovò una mano che a lui si stendeva, e levando gli occhi vide su la faccia bruna del signor Bernardo una lagrima ed un sorriso.



V'è egli mai una parola più dolce di quella che unisce due cuori nel vincolo d'un affetto gentile, ispirato dalla virtù? V'ha egli mai affetto più saldo e più costante di quello che trae sua vita dalla comunanza di un dolce e nobile sentire, dalla piena fiducia onde un cuore si confida in un altro?… Nel fiorire di così santo affetto, il cuore si affina e si fa gentile; si conforta nella confidenza dell'affetto corrisposto, e si tempra di fiducia e di vigore nel dolce pensiero che un altro cuore gli sarà compagno nelle gioie, nei dolori, nelle battaglie della vita. Come due raggi di sole, come due sospiri confusi, due anime formano un' anima sola.

Quando quella soave parola, a lungo pensata, a lungo sperata, e, per pudica peritanza, a lungo trattenuta, in un' ora d'abbandono prorompe dal labbro, quella è l' ora più bella della vita.

Rinaldo godeva l' incanto di quell' ora felice. Dal fondo del suo cuore sorgevano voci soavi di speranza e di gioia, e il suo pensiero volava, con dolce ebbrezza, alto alto, nell'azzurro dell'ideale. Gli pareva di traversare, come in sogno, un cielo luminoso, nel mezzo di una soave armonia, fra un nimbo di fiori; e in quella splendida luce, due cari visi gli sorridevano: quello della madre, quello di Silvana. Si riscosse dal sogno e si ritrovò seduto nella sua cameretta, con una mano posata su la vecchia Bibbia materna.

Come era giunto egli là?… Non lo ricordava. La stanzuccia, nuda e fredda, ch'egli stava per abbandonare, pareva che si abbellisse e tutta ridesse; pareva che mille spiriti gli aleggiassero intorno e dicessero: — Rimani, rimani! qui è il tuo buon genio!

Apri il santo libro e gli caddero gli occhi su 'l versetto dell'Ecclesiaste:

«Due vagliano meglio d' un solo; conciossiacchè essi abbiano un buon premio della loro fatica.

«Perciocchè se l'uno cade, l'altro rileva il suo compagno. Ma guai a chi è solo! perciocchè se cade, non v' è alcun secondo per rilevarlo…»

Leggendo quelle sante parole, parevagli di sentirle profferite dalla cara voce di sua madre, che, lì, in quel libro, in quello stesso luogo, tante volte aveva cercato consolazione nella santa lettura.

E, co 'l cuore commosso, pensava: — Oh mamma! è il tuo buon genio che mi parla. Tu non hai abbandonato il tuo posto. Una fedele compagna, dolce, affettuosa, nobile quale tu eri, ora torna nel luogo tuo. Non sono più solo!



RifiorÌ la primavera. Le nevi biancheggiavano su le vette alte e lontane; i fianchi del monte e le sponde della valle rinverdivano nel chiaro colore de' teneri germogli. Su la costiera e nelle falde piane ridevano, come i mazzi d'una sposa, il bianco mandorlo e il roseo pesco tutti in fiore. Su le siepi sbocciavano le roselline silvestri.

— Babbo — disse Silvana, che, a braccetto del nonno convalescente, passeggiava in giardino e spiccava, dal fiorito cespuglio, un bocciolo di rosa bianca — babbo! Mi frulla ancora per il capo una bizzarria! sarà l'ultima!

— Quale?… Sentiamo.

— Jacopo e Madda fanno le nozze nella chiesuola del monte… là su dove dorme la mamma. Voglio anch'io sposarmi là su. Stai zitto, ti capisco. Le nozze tu pensi s'abbiano a celebrare nel borgo, con quella solennità che si addice. Ma giacchè ora la consuetudine religiosa e la prescrizione della legge s'accordano a voler nozze doppie, quella in faccia al curato nella chiesa, questa in faccia al sindaco nel comune, facciamo così: il pievano ci benedirà là su nel nome di Dio, là su in quella chiesetta modesta e cara perchè ci ho i ricordi del cuore; il sindaco poi ci unirà qua giù nel nome della legge. Non dico bene?… Vedi che il nonno sorride ed approva. Credo che anche zia Clotilde approverà. Sono Silvana, la figlia della selva; devo alla selva una parte della mia gioia.

— E sia come ti piace, incoreggibile pazzerella.

Quando in paese si sparse la voce che Silvana era promessa al dottor Rinaldi, la gente trasecolava. Ma dopo tre giorni di chiacchere e di commenti, la cosa cominciò a parere semplice e naturale; e dopo una settimana, molti si vantavano d'averla preveduta da un pezzo.

Din din. den den! la campanella della chiesuola montana suona ancora una volta. Dai villaggi, dai casolari sparsi per il pendio vengono i boscaioli e le montanine, allegri, vestiti a festa. I ruscelletti, gonfi dalle nevi che si sciolgono, corrono giù spummeggianti, con loquace gorgolio; le giovini betulle rinfronzite, i vecchi abeti che mai non depongono il verde, susurrano al vento d'aprile, susurrano a festa, e piegano le cime ad inchinare gli sposi. Su pei rami del bosco, sotto i muschi e le erbe dei prati cantano gli augelli e trillano i grilli.

Il vecchio pievano, curvo su 'l suo bastone, era venuto fino là su, seguito da molti del borgo.

La chiesetta era stipata, gremita di gente. Molti aspettavano in su 'l sagrato di vedere gli sposi.

Il pievano benedisse prima le nozze di Jacopo e Madda, a cui, con delicato pensiero, erasi ceduta la preminenza; poi benedisse Rinaldo e Silvana.

Quando uscirono di chiesa, s' udì una voce robusta di mezzo alla folla gridare: «Viva gli sposi!»

Era Gualtiero; giunto quel giorno stesso, era corso trafelato su al monte, e, con affetto di fratello, abbracciava Rinaldo.

Scesero all'opificio. Tutti gli operai erano convitati ad un allegro banchetto. Stavano ordinati in bella schiera, con le giacchette della festa e i cappelli infiorati. In testa alla schiera era l' irsuto Nanni, che tenevasi in braccio un bamboccione rubicondo, Fanello, il quale, con la sua bianca manina, accarezzava affettuoso quel volto rugoso e nero. Quando Rinaldo e Silvana gli vollero baciare le guance pienotte, egli si schermì facendo il greppo e la cera scura.

Il signor Bernardo guardava il bimbo, e chinatosi all'orecchio di Rinaldo, disse sottovoce, additando alla costa del monte: — Vedi lassù, quel bosco d'alberelli?… L' ho piantato l'anno che nacque Silvana; è giovane ancora. Tu mi devi preparare qualcuno che lo tagli. Fa che sia robusto, che diventi un buon boscaiolo.

Casa Della Torre risplende di lumi, che si riflettono tremuli nell'onda del lago tranquillo.

Tornano gli sposi dalla casa del Comune, e tutto il borgo è invitato ad un ballo.

Per il viale del giardino, tutto fiori e lumi, entrano gli invitati, che nelle sale sono accolti dal signor Bernardo e da zia Clotilde, con la più schietta cordialità. Seduto in un ampio seggiolone, il nonno ha per tutti un saluto ed una barzelletta, e gode quel dolce raggio amoroso, che lo consola nel tramonto della vita. Non manca nessuno. Parenti, amici, conoscenti, molti venuti da lontano, tutti vogliono vedere e salutare gli sposi.

Splendida di bellezza, semplice nel vestito, con una rosa bianca nei capelli, Silvana passa appoggiata al braccio di Rinaldo e sorride soavemente. Le si leva intorno un mormorio d'ammirazione. — Che gentile coppia di sposi! — si dicono gli invitati l'un l'altro, e v'ha chi guarda Gualtiero, quasi compassionandolo delle perdute speranze. Ma Gualtiero balla allegro e spensierato, e cingendo d'un braccio il corpicino svelto di Serafina, che gli reclina il capo languido su la spalla, gira snello ed elegante nel walzer. La signora Eufrasia guarda la figliola con occhio amoroso; la segue nell'armoniosa cadenza del ballo, e abbandona il pensiero ad un dolce fantasticare. Fifi è un' assennata e assestata fanciulla, un cuoricino d' oro. Perchè Gualtiero non potrebbe guidarla lieto nella vita, come ora la guida nel festoso giro del walzer?… Una dolce speranza dice al cuore della buona mamma che presto, forse, si ballerà per altre nozze. L'altra primavera fioriranno altre rose!

Capitolo I. Uccellino che fugge Pag. 1

Capitolo II. Fanciulla bizzarra Pag. 5

Capitolo III. Fra vecchi amici Pag. 19

Capitolo IV. Su l'imbrunire Pag. 33

Capitolo V. Affetti tranquilli Pag. 44

Capitolo VI. Sconvenienze! Pag. 49

Capitolo VII. Fra i libri di conto Pag. 58

Capitolo VIII. Tiriamo avanti! Pag. 65

Capitolo IX. Orfani! Pag. 72

Capitolo X. Una rosa bianca Pag. 76

Capitolo XI. Fra i monti Pag. 81

Capitolo XII. Carità Pag. 110

Capitolo XIII. Mosconi invernali Pag. 117

Capitolo XIV. Povera mamma! Pag. 126

Capitolo XV. Come fratello! Pag. 131

Capitolo XVI. Un nobile cuore Pag. 136

Capitolo XVII. Nel segreto del cuore Pag. 145

Capitolo XVIII. Il peggior passo è quello dell'uscio Pag. 150

Capitolo XIX. Un versetto della Bibbia Pag. 157

Capitolo XX. Rose di primavera Pag. 159