VERSI
DI
TERESA ALBARELLI
VORDONI

PADOVA
PEI TIPI DELLA MINERVA
M. DCCC. XXIV.

MICHELE ALBARELLI

Voi, pregiatissimo Amico, quando io riceveva de' versi da mia Sorella, e li sottoponeva al vostro giudizio, mi confortaste più volte a far ch'ella vincesse il timore, per cui si rimaneva dal pubblicarli, promettendomi di dirigerne voi stesso la stampa. Or dunque, poichè ne ottenni l'assenso, a voi gl'indirizzo; e se persistete a crederli degni della pubblica luce, stampateli pure. Essi furono dettati in quegli ozj che lo stato suo le consente, nè certo alla Sorella mia si fece mai pur da lontano alla mente che dovessero andare per le mani degli uomini.

Ella, se non m'inganna l'amor fraterno, sarà almeno meritevole dell'altrui indulgenza. I suoi brevi componimenti tendono ad uno scopo morale per la via d'un'onesta giocondità, e parmi che non possano dall'universale venire accolti con difficile animo, se anche a' più ritrosi sapienti giova alcuna volta consolare d'un sorriso i fastidj del vivere e del meditare. Fra i buoni si mette in conto anche la buona intenzione; e guai se, giudicando delle opere dell'ingegno, non si tiene una mano sul cuore!

In questa speranza io venni pregando mia Sorella de' suoi versi, in questa a voi li consegno.

Ecco Dicembre, ed ecco brevi giorni, E sacre a voluttade od ai sbadigli Eterne sere. Non ha il servo ancora Le tavole levate, è notte: il lume Tu chiedi e vai, chè in solitaria stanza Ti conduce il dover: sola io mi seggo Presso al cammin, e del ginocchio al braccio, Al mento d'una man fatto sostegno, Sonnecchiando, con l'altra ora le molli, Or la paletta prendo, e tratto tratto Vado sbraciando od attizzando il foco. Vedi gioconda vita! io compiangeva Ne'miei primi anni le artigiane donne Quando udiva di lor, che alle faccende Sorgon col sole, e van col sole a letto. Sì anch'io faceva; chè la buona madre, Come abbujava, di bollito pane E cotte mele fanciullesca cena Solevami apprestar, e poscia orando Mi conduceva a ritrovar domani: La seguiva ingrognata, in cor bramando Vegliar con la sorella. Ah! m'ingannava A partito in quel tempo; or mi tradisce La folla dei pensier, l'uno sull'altro Accavallati sì, che invan riposo Cerco sovente nella tarda notte, E lunghe ore m'annojo. — E tu lavora, Cuci, ricama. — Trattar l'ago e il filo Non m'è grave nel dì; ma da lucerna Opre queste non son. — Leggi. — Tu sai Se de'nostri miglior le dotte carte Volgo e rivolgo; ma pur sai che torna In fastidio ogni troppo. — E tu le Muse, Che avverse non ti son, fa che la noja Rimovano da te. — Ben di': qua presto Il calamajo. Or taci. Ho in man la penna. — Ma che scriver non so: manca il soggetto, Mancano le parole. — Oh donde avviene Che argomento non trovi? Il mondo intero Più materia non ha, su cui tu possa Quattro versi dettar? — Sono infiniti, Egli è il ver, gli argomenti; ma gl'ingegni Tutti eguali non sono, e al buon volere Il valor non risponde: nella mente Cento progetti accolgo, e cento a un tratto Dalla mente discaccio. Epica tromba, Perchè squilli sonora, vuol esperte Labbra e polmon robusto; e chi potria Cantar qual'arse del divin Pelìde Vendetta in cor, quando da'Teucri estinto Patroclo ei seppe, e quale orrendo un grido Mettesse allora, onde i trojani petti Tutti tremaro, ed ai destrier sul collo Per lo spavento si rizzar le chiome? Nè men fa d'uopo per descriver fondo All'universo, e scender negli abissi A noverar de'rei l'eterne pene, Poi, per lo calle del dolor che spera, Salire in Cielo, e l'incrëata luce Farne patente del SIGNOR DEL MONDO. Argomento sublime egual richiede Sublime ingegno. — E tu l'esempio segui De'lirici pöeti. — È pöesia Codesta degli affetti: averli in core Pria si dee, poi dettar, finger non mai, Nè a me finger convien. — Dunque tu, amica Dell'Orazio dell'Adria, a che lo stile Che gli fe tanto onor non segui? — È vero; Ma al par di lui poss'io gridar la croce Addosso ai mille ch'oggi son pöeti, E dir com'entro alla castalia fonte Chi sol de'versi la misura e il suono Conosce, o s'imbrattò presso al buratto De'riboboli antichi, or si sciaguatti? Chi se'tu? mi diranno; e qual ne desti Saggio del tuo saper, che a noi mäestra Sorgi, e sputi sentenze? — Altro argomento Ne presti dunque il battagliar de'dotti: Si scenda nell'agon di questi nuovi Gladiatori; veggiam la sanguinosa Pugna, che mai non resta, e alfin non giova Che a sollazzar la letteraria plebe. — Ma s'io dirò, che degl'ingegni madre Fu la critica un tempo, e obbedïenti Avea figliuoli, che prendeano a grado Le sue parole, ad avanzar nell'arti; E ch'oggi tutti, di pupillo usciti, Scuotono il fren materno, e fan dell'arme Il viso, tosto che garrirli ardisce; O se dirò, che del saper consorte Fu già tal madre, e a cui la vuole adesso Disgiogata s'accoppia; che conforto Più di ragion non han suoi detti, e ai figli Di veleno mortal mensa imbandisce, Da invidia preparata, che persegue Oltre la tomba chi ha di grande il nome; Vedi, m'udrò sonar, donna che appena Squadernò due volumi, de'censori Fatta è censor; tanto di sè presume, O con tai detti di cansar si spera Della critica il marchio? O saccentuzza, Miglior senno farai, se ragionando Verrai di nastri e cuffie, onde a gran pezza Più ti conosci. — Ebben, dunque si parli Di cuffie e nastri. Non si tardi: entriamo In uno di que'tanti vuota-borse, Che fondachi son detti. Oh qual soggetto Mi porge solo il soffermarmi all'uscio! Ma se al sermon l'affido, o se il sermone Mi trascina più addentro, e fa ch'io spinga Curïosa lo sguardo in sui quaderni Del venditor, io vi vedrò segnate Sentenze di mariti, alle cui case È terremoto, ed è tempesta ai campi L'eterno varïar de'figurini; Io vedrò come le sagaci spose, Per piacere ai consorti, volar fanno Corrieri per l'Italia, o ver la Senna, A saper pria dell'altre di quai panni, Di quai cappelli o trine instabil moda Verrà tra poco a ridestar l'andazzo. Ma taci, udrò gridare, al par di queste Non vai, perchè mal grado tuo ti frena Il non poter: a te parlar di donne Forse convien? Il biasimo non vedi, In che sarai condotta? — Il veggo: dunque Agli uomini torniamo; i lusinghieri Sieno a'miei versi têma; i lusinghieri, Che a cintola il rasojo, in bocca il mele, Han per costume a tal, che mai sul labbro Lor non deriva il cor; ma questo e quello Piaggiando vanno, e nell'altrui segreto Tentano entrar, per poi svelare arcani, Macchie scoprir, ed ove il destro venga, Fino colpe inventar. Ma già una voce Sento gridar: — di chi favelli adesso? Non rispondi? il sappiam: con tal crucciata A lui l'attacchi. — Invan protesto, giuro Che crucciata non son, che il vizio sferzo, Che a null'uomo l'attacco; ho bel che dire, Predico a'porri: oh me tapina! troppi Ha scogli questo mar; chè l'un fuggendo, Forza è romper sull'altro. E che far deggio? Dettare, o non dettar? — Pensai. — Dettiamo, E lasciam dir: chi fa la casa in piazza, O la fa bassa, od alta; è dura impresa Piacere a tutti. — A verità si piaccia. Michel, se ingordo topo mai non roda Alcun de'libri tuoi, dimmi, leggendo Di quegli antichi, che doppiere altrui Erano per trovar filosofia, Di lor pietà ti prende, ovver di noi, Che per altro sentier messi ci siamo A saper dove sta? Poi dimmi un tratto Filosofo qual è? Chi scarno ha volto, Ispida barba, scarmigliato crine, Veste cenciosa, e gran bisaccia al collo Tu filosofo chiami? Andar girone Con la lanterna in man di giorno fitto, Far d'una botte casa, o gir narrando D'esser nato sei volte, or uomo, or donna, Or pavone ed or gallo; basta, dimmi, Onde un per noi filosofo si appelli? — Stolta sorella, di que'gravi capi Eran trovati ad allettare il volgo, Che tutto vuol gigante. Orfeo si disse Figlio del Sol per ammansare i Traci. Chi abbaglia vince sempre; entro al midollo Vuolsi mirar. Per lungo studio e stento A'reconditi arcani di natura Attigneano saper; seguian virtude Ne'detti, e più nell'opre, e solo allora Di filosofi aveano eccelso nome, Apriano scuole, ed eran torcie al mondo. Odi bei paroloni! Miserandi Erano, credi a me, quegl'imbecilli Filosofi meschini; e saggi noi, Noi saggi, che sappiam ciò che ne torna. Filosofia moderna oggi è una merce Di più facil mercato, e in ogni dove V'ha filosofi e scuole. Eccoti all'uopo Nuovo caffè; v'entriamo. Or vedi quale, Di sua sorte contenta e di sè paga, Giovanaglia qui trovi; e seco insieme Mira quanti vi sono attempatelli Che stanno schiamazzando. Buon compagni Tu gli diresti: oibò! felice schiera Di mäestri e scolari. A che sudare Su libri e carte, e seppellirsi, e strema Vita menar? Sono i caffè, le piazze, I passeggi, i tëatri oggi le scuole In cui tutto si appara. Scollacciato Guarda colui, che in una man le carte, Nell'altra tazza di liquor fumante Tiene, e contende: del paterno scrigno È saggio votator; e il suo rivale, Che vincitor commendano gli astanti, Già servo, parrucchier, mezzan, barratto, È fido Acate a tanto Enea. Del volgo Sprezzano entrambi la mordace lingua, Sprezzano l'avvenir; filosofia Gli solleva così: così que'due Che loro vedi allato, uno sdrajone, L'altro che appoggia sulla sedia il fianco, E cenni fa, che rende poi lo specchio All'onorato vincitor, son essi Filosofi indovini, e del futuro Sicuri a tal, che ognun di lor scommette. Or meco vieni. Escir vedi del tempio Colui che ancor si segna, e tale ha indosso Un giubberel, che fu a'suoi tempi nero, In cui capisce a stento? Un libricciuolo Porta sotto il ditello. — Sacre note Certo contien — T'inganni: di pitocchi Abitatori delle sue stamberghe Nomi e sentenze. Con quel libro in mano Pigioni va chiedendo, e cenci arraffa, O carceri minaccia; e tutto a fine Di poter poi soccorrere gli afflitti, E a'miseri pagar devotamente Quattro ciò che val cento. Bada, bada Come si fan delle botteghe agli usci Le genti per vederlo; maledetto! Da ogni lato gli vien; scuoti se sai, Su buon ramo egli sta; filosofia Imperterrito il rende; al borsellino Mette la man, stringe il danaro, e passa. Filosofia così dall'importuno Rossor libera quei che baronando Va per la stessa via che il vide in cocchio Intronizzato d'una Taide al fianco; Libera quei che andar senza pastoje Lascia prole perversa, e si compiace Che la pudica moglie abbia servente Ricco di chiaro nome, pingui entrate, Cuochi, fanti e cavalli, onde onor vero Ed oneste speranze a sè deriva Filosofo marito. Finalmente Oggi filosofia tutti per campo Libero e aperto nell'oprar ci pone; E chi leggi calpesta, e Dio non teme, È filosofo primo. Or di costoro Chi più saggio e felice, e qual fia mai Più abile mäestro? Con l'esempio Si addottrinano i figli, e mille e mille La nostra età filosofi prepara Che avanzeran Senocrati, Zenoni, Socrati, e Grecia tutta. Ov'uno vada Per aspra, lunga e dirupata via, Quando ir potrebbe per iscorciatoja Piana e fiorita, per tua fè rispondi, A folle non lo avrai? Di chi sel piglia È questo mondo. Ridi? a te favello Del miglior senno; nè sapon, nè ranno Perder non soglio, e so che invan si affanna Chi agli sparvieri vuol drizzare il becco. Piero, avanza stagion, per cui deserte Si fanno le città; minuta plebe, O miseri dannati dal bisogno Alla catena del giudizio, stanno Fra le roventi cittadine mura; Ogni altro n'esce, e chi palagi e ville Solo in mente possiede, alle altrui spese Dassi tempo, e villeggia. Anch'io mi sento Ruzzo di villeggiar. — Dove? — M'ascolta: Degli uomini il cervel, fonte d'ingegni, Onde per tutti di goder v'è taglio, Mezzana gente assiste, e a capo venne, Vedi trovato, di spacciar salute A voluttà congiunta. Or dove scorre D'un'onda mineral bollente vena, Là non di reumi, gotte, ed ossa infrante Ricettacolo trovi, o del dolore, Qual già credi, l'albergo; cento ricchi Di beni e di capricci, e cento a cui Non illumina il sol scrigno nè zolla, Ma seguir denno del bel mondo i riti, Traggono sani a visitar le Terme. Andiamo. Vettural, doppio avrai nolo, Ma sia comodo il cocchio. Economia Questo sacro ai diletti estivo mese Non tollera, e disprezza. Di bäuli, Scatole, cassettine, illustri fregi, È grave la carrozza; il cane, il servo, Il marito son pronti; impazïente Freme l'auriga; eccomi al posto: or movi — La salmeria della città le strade Lenta trascorra; dilicati nervi Non reggono al brandir. L'occhio frattanto Sulle finestre e sui passanti vola, E ricerca, e distingue in mezzo al volgo Quanti narrar potran, ch'io pur non sono Dell'altre men, ch'io pur d'invidia oggetto Vo tra gl'infermi a ritrovar la gioja. Fra tai pensier dalla città mi scosto Mille incontrando in cor; e come sento Rumor di fruste o ruote, allo sportello Ratta mi faccio, e carattando il fasto Di maggiori superbi, o compiangendo Lo stento de'minori, ecco mi trovo All'albergo incantato. In men che il dico Balzo dal cocchio; saltelloni seguo Il fante che precede, il volto ascondo, E mal paga di me lascio l'infesta Temerità dell'ozio. Poco stante Scendo verso l'agon in cui raccolti Gli altri già sono. Doppia schiera trovo Di pompeggianti Ninfe. Allato allato Siede a ciascuna, e da'suoi cenni pende Infermo fortunato; men felici Seggono i tardi giunti sulle scranne Che son scabello delle Dive al piede. Della lizza nel mezzo i poco esperti, O quelli che di sè tengono indegne Le Ninfe tutte del sedente coro, Van passeggiando. Al tavoliere impanca Le madri, le custodi e le matrone Necessaria prudenza; alma corona Lor fanno del tressette e del picchetto I severi Minossi. Del recinto Ne'quattro canti annicchiansi meschini Pesi di gruccie, che träendo omei Star vogliono tra'vivi. Al mio venire Il cicaleccio si rimane, e in cambio, Quale di pecchie che nemico zolfo In fuga volge dalle industri case, Ronzìo si leva, e il buccinar sì piano Esser non può, che il nome mio non oda Zuffolar negli orecchi a questa e a quella. Tale che mi conosce, mi fa motto Con le solite inchieste; uno, che appena Di veduta m'è noto, come amico Mi fosse dalla culla, mi rimbrotta Del mio lungo tardar; ed un Narciso Con chino sguardo, fioca voce, e in atto Di timida donzella, a dir mi viene Che quinci innanzi più ridente il cielo Sarà per lo splendor di nuova stella: — Galanti bolle — In quello a me s'accosta Ignoto un uom col crin brinato, in volto Tutto ridente: al mio vicino chiede, Come se d'altro a ragionar m'avesse, Che la sedia gli ceda: il suo casato Tosto mi dice, inutil noja crede Altri cercar che il faccia, e mi assicura Come, non già per medico consiglio, Ma per fuggir mattana, ei da vent'anni Suol rallegrar di sua presenza il loco. Quanti qui vedi, segue, io li conosco Non sol di nome, ma il perchè venuti, Lo stato loro, e fino a'lor pensieri Tutto m'è noto: io, consiglier di tutti, Di tutti rido; ed or di questi pazzi Rider vogliamo insieme. A tai parole Il valent'uomo io fiso; ei buon augurio Ne prende, e sì comincia: — Qui pur v'hanno Uomini saggi, giovani discreti, Femmine valorose; ma son gemme, E la mondiglia è molta. Tal vedrai Che Vestale diresti: quattro amanti Muojono del suo fatto; i tre qui sono, E le stan sempre al fianco; il quarto è lunge, E va imbrattando sdolcinate carte Per la fedel sua Nice. Altra vedrai Sposa novella, che il marito uggioso Da sè volle partir: per disperata Qui giunse insieme a men austero amico. Vedrai Saffo novella; il suo Fäone D'altra fiamma s'accese; ella qui venne L'amor tradito a soffocar nell'onde. Due poi ne abbiam che, di nessuno amanti, Dell'oro il sono; e ti parrà gran fatto Che a costoro ingannar si lasci il senno. Ne udrai di belle: pria che doman passi Io ti farò stupir; tra'bell'imbusti Uno ti mostrerò, che innamorato Di tutte donne, ed a nessuna in pregio, A'rivali s'appaja, e si compiace Se ti par suo quel ben che un altro gode. Un v'ha di lui peggior, che ad ogni passo Scocca sguardi e sospiri; eccolo, vedi Ch'or sull'omero destro ed or sul manco Cader si lascia l'olezzante capo, Zerbin languente: è questo sciagurato Millantator d'erotiche conquiste Moderno insetto; ma più assai funesto Colui ch'ora gli parla; dadi e carte, Smugnendo borse, a ben trattare insegna. Tal poi ti mostrerò, che a far mercato Qui vien del senso che or ti vo togliendo Con le mie ciarle. — Volea dire ancora; Ma giunse un altro: ei tacque. In quell'istante Fede non gli prestai; pur lingua d'oro Tropo parlò, ma disse il ver pur troppo. Piero, che te ne par? Te non fe il Cielo Lieto di prole, ed a me pur contende Tal dono il Fato; ma se un giorno mai Darammi un figlio, massime o precetti Non udrà dal mio labbro. A queste rive Il guiderò: vedrà quai su quest'onde Regnan venti e procelle, e quanta guerra All'audace nocchier fan scogli, sirti, Banchi e sirene. — Qui le ciglia inarca, Dirogli allora, il vasto mar del mondo, Vedilo, è tale. Or va, sciogli le vele. — Mute sono le vie: tuona ne'templi Penitenza; e com'uno ad uscio fassi Od a finestra, più non vede in frotta Correr le genti, con cerate tele Travisate la faccia; anzi que'dessi Che jeri udisti le facezie stolte Dello Zanni imitar, o'ngonnellati Sesso mentir vedesti, e in su le piazze Esser zimbello della impronta plebe, Uomini da faccende, alle consorti Ed a'figliuoi di contenenza e senno Sputan oggi sentenze. Oh strana forza De'calendarj, io dico, e a'dì passati Vola il pensier, e in un la mano al foglio: Seggo, detto, ti scrivo. Or soffri, e leggi. E'non ha guari, mentre ad opra inteso Stavi tu forse, che l'umana razza Vieppiù sproni a virtude, io giovin donna Di vicina città trassi nel grembo Popoloso con altre, al grido presa Di giuochi e danze care al nostro sesso. Giunsi'nsù l'annottar. Fervea la pressa Nel maggior campo. Vado. Ecco mi serra D'uomini e donne una trincea, qual muro Insuperabil salda. Or un di cozzo Dammi ne'fianchi; or mi riurta e preme Le spalle un altro, con villana prova I gombiti alternando. Mi pensai Che m'arian morta. Allor, fatto scabello Degli altrui piedi a'piè, de'bracci altrui A'miei puntello, in un caffè vicino I'ricovrai con affannata lena. Eran vuote le stanze. Incantucciato, Serrato nel mantel, forte russava Un sol; chè alle migliaja delle genti Sì crucciate al di fuori, entrar disdice Moda crudel, insin che l'ora scocchi. Il bëato battaglio alfin percuote La mäestra campana. Ecco primiera Sculettando s'avanza ampia matrona, Che alle trine, a'cincischi e fiorellini, Anzi che donna, fondaco di merci Detta l'avresti. A lei venìan dallato, Con lento il grave passo seguitando, Un garzoncel bilustre, ed avvenente Figlia d'età maggior. Qualche gran fatto Mi credei che si fosse. A me vicina S'accoscia, e un risolin, stando sul grave, Sottecchi mi concede. A cento lezj Uno starnuto segue. Per usanza Il capo io chino, e un gran mercè disserra La chiavica all'inchieste. E patria, e nome, E stato, e stanza, e quanto in casa e fuora Io m'abbia, saper vuol. Quindi mi narra, Non ricerca, i suoi casi, e del taccagno Sospettoso marito, e de'non sciocchi Figli arrozziti, perchè lor si vieta Usar le veglie; e come di soppiatto Quivi condotti, perchè almen la figlia, Che da marito è pur, veduta fosse. Volea più dir; ma balzelloni entraro Quattro a sei perdi-giorni, e a'lor cachinni Drizzò tosto di gana orecchi e mente. De'bellimbusti la contenta ciurma Si volge al sonnecchiante. Eh dormiglione, Che non fostu con noi! Vegniam dall'oste, E nosco fuvvi la vezzosa Frine, De'tëatri splendor. Pesci non piglia, Babbion, chi dorme. Stende l'altro allora Sbavigliando le cuoja, e il più facondo Del casto crocchio a lui pinge le forme Dal capo al piè della notturna Diva. Al mäestro pennel con un sogghigno, Che svela l'imo cor, la nuova Ortensia Fa plauso e ammicca; poscia, oh pazzi! sclama Alla figlia rivolta; arrossa questa, Sta il putto ammirativo. Dei festanti Uno s'addà di noi. Nel sovrapposto Cristal si mira: la ricciuta chioma D'una man si compone, e difilato A la mia volta vien; ma pe'suoi ferri Terren non trova, e alla fanciulla volge Il traguardo e le piante. Altri alïando Le vanno intorno; ed e'si tiene e loda, Come di quadro in fiera, or le pupille, Or gli aurei crini, ed or l'acerbo seno. Gli occhi al suol fisa, vereconda in atto, L'impacciata donzella; ei dell'amante, Che molti deene aver, le parla e chiede. La punzecchia la madre, e le garrisce, Chè non regge alla celia; indi l'escusa, Se all'anticaccia l'ha cresciuta il padre. In quel, come del chiuso escon gli armenti, Entran carnascialando a diece a diece D'ogni età, d'ogni sesso, i mascherati In varie fogge. Il damerin ghermisce A quest'una la man, a quella il braccio, E tal punge co'motti, e negli orecchi Ad altra tal di notti in dolci spese Cure d'amor va zuffolando, a modo Che l'odano i vicini. Intempestiva L'aurora spunta; amor di pace scuote La prudente matrona, e alla fanciulla, Sol perch'è tardi, la partita intima. Or il cervello in su le carte, amico, Perchè ti stilli? Infin che di tai scole Si gioveranno i figli, e tai custodi Lor darà gentilezza, è vana speme Che il mondo muti; e per mutarlo, credi, Ben altro vuolsi che sermoni e ciancie. — Candida micia in femmina vezzosa Gli Iddii cangiaro: lieto stuol d'amanti Sedeale intorno. Un topolin repente Sbuca da un lato; in piè balza la bella: Ratto carpon si lancia, il topo insegue, Adunghia, addenta, strazia, e se ne pasce: Lungo costume di natura ha forza, Nè si cangia natura: — il gatto è gatto. Egli è il vero, Ghirlanda! in ogni dove, Se di tëatri a ragionar t'abbatti, Di cantanti e mäestri odi taluno Deplorar la mancanza. Oh Pacchierotti! Dicea jer l'altro un vecchierello, e forte Batteasi l'anca; oh Cimarosa, oh Sarti, Babini, Rubinelli, ove ne andaste, Onor vero d'Italia! Il vostro canto Era diletto che non sol gli orecchi, Ma l'anime nutriva: oggi aspre selve Son di crome i spartiti; oggi è cantante Chi ha polmoni di ferro, e a testa grida Quanto n'ha in gola; son falangi armate Di sonatori le moderne orchestre Di oricalchi, di timpani, e tamburi, E cannoni, e bombarde; e palma a palma Là più si batte, 've maggior frastuono Assorda e sbalordisce. Italia un giorno Era prima nel canto; oggi sotterra L'arte andò co'mäestri; onde oltremonti Armonia fugge, e a noi resta il rimbombo. — Sì dicea quel buon uomo ad un vicino Ch'iva crollando il capo; e a lui rivolto Alto sclamò: — Son baje; arte ed artisti Non mancano all'Italia: le udïenze Non son più quelle; e se vivesse ancora Cimarosa o Babini, e modi e stile Arian cangiato. Gli uomini d'un tempo Non son quelli d'un altro. Smisurati Elmi e loriche i smisurati membri Difendean degli Achilli; oggi è gigante Chi lancia o spada può impugnar dell'avo. Ossi, muscoli, nervi, e fibre, e sangue, Tutto è moderno in noi; moderne teste Han moderni cervelli. Ivan gli antichi Col calzare del piombo, e in ogni cosa Eran lenti e melensi; anni cogli anni Sotto a'verroni di donzelle amate Pigliavansi l'acceggia, e a vincer belle Eran balestre polizze e sonetti; Inezie contegnose. Erano allora I tëatri musei che di anticaglie Facean rancida mostra; i vizïosi Ignoranti collegi, i monasteri, Nidi di fole, rinserrate allora Tenean cupide figlie, e prigionieri Giovani ardenti; sguinzagliati adesso, Il vasto del piacer fiorito campo Corron tutto per loro: occhi cisposi E sdentate mascelle oggi non sono Ornamenti di logge, e più non vedi Nelle platee di libri e facellini Chierical pompa, cui presiede austero Incomodo silenzio. Passò il tempo Che lagrimare a'gorgogliati lai Dei Cesari, dei Bruti e degli Arsaci Vedeansi gli uditori. Or ne'tëatri Chi più sa più gavazza, e i spettatori Son primiero spettacolo a sè stessi. Quanto l'alta donnesca fantasia Di fogge o gale inventa, e quanto accresce Beltade o vezzi a'rugiadosi volti Di acerbe giovinette e vaghe spose, Brilla su le ringhiere. La sfidata Nemica di molesta economia, Gentilezza moderna, in ogni loggia Fa che s'ardano cere, ed alla scena Vuol che volte le spalle abbian le belle, A far bëata la sopposta turba Di zerbini dannati a far conquiste, Occhi sbarrando, ed allungando colli. Meraviglia è il vederli: uno fa motto A questa e a quella; un rende cenno, un ride; Questi si raffazzona, e si compiace D'esser uom tutto buccia; quegli balza Per sognate venture; qui novelle Costui ti narra; là parole ed atti Colui nota, e berteggia; un crocchio gioca, Un altro gozzoviglia, e il dirivieni, E il continuo ronzìo di tante voci, E l'aprire e il serrar d'usci e palchetti Ti fa sentir che se'tra'vivi, e il core Ti solleva e t'allegra. Il canto, il ballo Sono zimbelli e nulla più: chi bada A ciò che fan gli attori, se fragore Non lo scuote di tuono, e brevi istanti A tacer non lo astringe? E che di affetti Vieni tu favellando? A'sensi, a'sensi Parli chi piacer brama, e non ristucchi Col faticarli a lungo: or non diletta Che il bello passeggier, che abbaglia e fugge. M'intendesti? Fa senno. — In così dire Ad un, ad un ci affisa, sputa, s'alza, Sogghigna, e parte. Il vecchierel confuso, Tu che ne di? mi chiede. Io fo spallucce, Non gli rispondo, e penso. Europa tut'a Offre il serto a Rossini; or chi d'Europa Tutta si ride, ai pazzerelli danna Giudice tutto il mondo. Ebbe nell'arti Il suo gusto ogni età; volge una ruota Tempi e costumi: un dì risorgeranno I Cimarosa e i Sarti; intanto io lodo Musica di cannoni e di bombarde. Ippolito, splendor delle natali Rive d'Adige nostro, quante volte Al pensier mi si affaccia il primo istante Ch'io te vidi da presso! Eletto crocchio, In amica magion dell'ospitale A te cara Venezia, al tuo venire, Onorando l'altissimo pöeta, Ti si fea intorno: umile tu, fra liete Iterate accoglienze, col sorriso Che virtù pone sulle labbra, accanto A me sedevi; delle caste suore M'accomandavi il culto, e di conforti Sì m'eri liberal, che più devota Di loro io venni, e più a me stessa in pregio. Tal, volge or l'anno, l'europeo Canova Su quel lito conobbi: non palagio D'ospite illustre per dovizie ed avi, Ma buon albergo in artigiana casa, Che l'accolse fanciullo, ei risplendente Quivi fea di sua gloria, e in quello stesso Acerba morte il colse. Ahi come! ahi come! Mi ricorda del dì ch'egli al mio braccio Appoggio fea di quel che ai rozzi massi Vestia forme immortali, e mi rammento Ch'egli a dettare per lo suo Possagno M'invitava cortese, e promettea Con opra di sua man cambiare il dono. Stolta! nol feci. Ma di me l'impresa Maggior pareami troppo, nè presaga Esser poteva di cotanto danno. Di te, di lui pensando iva jer l'altro Lungo la via che per obbliquo calle In su la nuova sbocca; ed in mio core Brama volgeva, che da voi ritratto Facesser quei che in alto stato pose Cieca fortuna. In quel mi corse agli occhi Un certo tale, a cui non vo'dar nome, Che pettoruto su la soglia stava D'un rigattier; pendeagli dagli ucchielli Di nera giubba non so quale insegna Di stirpe immacolata: entrai, fermando D'altro far vista; al Cavalier la fronte Nel passare chinai: come ronzino Che adombri, un tratto rinculò; musando Volse in altrove il capo, e con due dita Un cotal pocolin mosse il cappello. Non guari andò che trar dalle callaje Vidi la gente, ed arrestarsi un cocchio Grave d'oro e di servi. Il Cavaliere, Lesto così che ne disgrado un cervo, Previene i fanti, e col cappello in mano Lo sportello spalanca. Il cocchio cinge Popolesca improntezza. Ecco ne smonta Uom d'alto affar, che di pompose vesti, Di ricami e di gemme risplendente, Verso noi move. Il rigattier, stimando Vender ogni sua merce un gran danajo, S'alza come baleno, corre, inciampa, Cade, rompe uno specchio. — Ehi bottegajo, Serrature all'inglese; di tre usate Il baratto vogliam: dubbia il mercante Qual chi non crede il vero; alfin si scuote, Mostra le serrature, e offrendo loda Di lucerne, stipetti, armadi e scranne, Oltramontan lavoro. Il forestiero Nè risponde, nè il guarda, e sol per bocca Del Dragomanno, che le chiavi volge Provando entro le toppe, mentre squarta Lo zero nel pagar, tacer gl'impone. Molti da lor bisogne, o da desio Di veder, di sentir, quivi condotti, Stanno a canna badata; si contorce Il comprator, chè l'alito di plebe L'ammorba e lo deserta: largo largo Gridano gli staffieri; il Cavaliere Largo largo ripete; e mentre involge Le serrature in candida pezzuola, D'inchini a furia e riverenze avanza Il suo Signor, che, qual lëon che posa, Ne guata in pria, poi va corbando al cocchio. Il rigattiere con la mano in mano Resta per trasognato, e gli occhi fisi Tien sul cristallo infranto. Van ronzando Nello sgombrar gli astanti; un buon cristiano Si segna, e ride; ed io nella groppiera Penso non starsi del cavallo il fatto. Oh quai ciance, dirai; pur, te lo giuro, Fior non v'ha di menzogna; e s'altre fole Vuol dettare il pöeta, ascolta. Un giorno La mosca, proverbiando il filugello, Sè più nobil vantava. Tu carpone Sempre radi la terra; io volo, e scorro Per miei dei Re i palagi: nude foglie Tu rodi tra'villani; io sulle mense Odorose mi poso, e vini e cibi Dolcissimi delibo. In odio a tutti, Rispose il filugel, tu vivi, e mori Ora tra'grandi, or nelle fogne; io grato Vivo a tutt'uom fra'miei bifolchi; industre M'affatico per loro, e dopo estinto, Vivono l'opre mie fregiando i troni. Vedi baja novella! Pindemonte, Che posso io dire? Del giardin d'Esopo Sono tai frutta, e non inutil succo Forse dar ponno chi le colga e sprema. Barbieri, vo'sapere in confessione Qual veramente sia la differenza Che passa fra l'epistola e il sermone; Poichè, a farvene intera confidenza, I'non l'ho mai saputa in vita mia, Nè mi cale di porvene credenza. S'altri badasse all'etimologia, Come a un bisogno sembra naturale, Direi che fosse entrato per la via. Il sermone è un sermone di morale; L'epistola è un'epistola che in versi, Anzi che in prosa, un tale scrive a un tale. Fin qui la è cosa facile a vedersi; Ma su lo stile in cui s'hanno a dettare, De'critici gli avvisi son diversi. Io, che il cervel su ciò m'ebbi a stillare, Senza che mi venisse aperto il nodo, Sicchè mi son voluta sbattezzare, Del tutto alla fin fine ho fermo il chiodo Di uscir di questo pelago alla riva; Chè dove ci son uomini c'è modo. Ma poichè la mia mente non arriva A saper di latin più là che tanto, Fa mestieri che a voi ne parli o scriva: Però quel ch'io ne pensi udite intanto, Ed a buon agio mi direte poi Se il torto o la ragion sia dal mio canto. Il Venosin, mäestro a tutti noi, Col Chiabrera, col Gozzi, e i pochi eletti In fra la turba de'seguaci suoi, Purchè morali fossero i concetti, Ne dettarono epistole o sermoni; E s'ei vi par, chiedetene al Vannetti. Sicchè son fuor di loco i paragoni: Le pistole ai sermoni son sorelle, Per quanto se ne dica o si tenzoni. Questi diretti ad un divengon quelle, Quelle divengon questi per l'oggetto, Le dispute sul nome son novelle; Chè in entrambi troviam lo stil negletto, In entrambi lo stile più elevato, A seconda dei casi e del subbietto. Intendetemi ben, fin qui ho parlato Di epistole sapienti ed istruttive; Dell'altre ragionar non ho pensato. Non di semplici nude narrative, D'eroiche o d'amorose, chè con esse Per diverso sentier va chi le scrive; E forte mi dorrìa se vi paresse Che lancie con mannaje i'stia mescendo, Come quei che non san mezze le messe: D'un sol genere io parlo, e vo dicendo, Che se da i didascalici dettati L'alto stil si proscrive, io non la intendo; Ed anzi come sianvi apostrofati Uomini d'alto affar, poggiar conviene; E quei che non lo fan si vanno errati. Che se errore saria, chi pensi bene, Con le tinte d'Albano e col pennello Andar pingendo di fiamminghe scene, Così fora il narrare di Tigello Col linguaggio che parli a Mecenate Un cerpellon troppo maggior di quello. Or se a noja il mio dir non vi recate, S'io sono ben di voi, statevi attento; Io vo'che appien la cosa conosciate. Un accidente, come ve n'ha cento, Mille, un milion, da poter farne un monte, Ad un mio sermoncin prestò argomento. Mi venne fatto, come dir, bifronte, Chè in narrar la novella mi abbassai, Poich'ebbi apostrofato Pindemonte. Essendo che dall'uso mi scostai, Se a taluno sembrasse rattoppato, Vo'mostrar che in arcata i'non tirai. Esser voglio prosciolta dal peccato Di aver con nuovo scandaloso innesto Il sermone all'epistola accoppiato; Poichè se questo è quella, e quella questo, Il dir che alla Vordoni io m'accoppiai, Torna lo stesso, il fatto è manifesto. E dove a colpa mi segnasser mai Che in frotta il Pindemonte ed il Canova, Duo menavampo e un rigattier mandai, Io vi so dir che non è cosa nuova, Che per ciò non ho posto il piede in fallo, E che lo stesso Venosin l'approva. Por capo d'uom su collo di cavallo, Unir tigre ad agnel non è concesso; Anch'io lo so, sì come ogn'altro sallo. Ma se al mio ghiribizzo fo il processo, Per entro non vi scerno cotai mali. Udite: in breve io ve lo spongo adesso.— « Pindemonte, sei grande per natali, » Per virtù, per ingegno; il Possagnese » Più Nume che mortal fu tra'mortali. » Al mondo chi di voi fia più cortese? » Perchè da voi non fan color ritratto, » Che cieca sorte ad innalzar si prese? » Guari non ha che due ne vidi a un tratto » Andar per queste vie menando orgoglio, » Mentr'era una miseria ogni lor fatto; » Chè, altieri assai più di chi preme un soglio, » Nel fondaco meschin d'un rigattiere » Irono a barattare un frusto spoglio. » A che narri, dirai, cotai chimere? » Vera è la storia, ed è chiaro lo scopo » Cui mirare si puote in più maniere; » Ma se imitar si vuole il padre Esopo, » Dirò .…» e qui segue certa favoletta Che in quel genere piace, e torna all'uopo. Ecco tutta quant'è la novelletta; Mi dite or voi se mi scostai dal segno, Se ho posto il capo sopra la berretta. Vi parrà forse il fatto poco degno; Ma se oprar deve il ben la medicina, Così parlar conviensi al loro ingegno; Chè ognora è vana ogni miglior dottrina, Se chi apparar la deve non la intende; E meglio è lasciar ir l'acqua alla china. Chi alle regole sta fugge le mende, Senza farsi dagli altri singolare; Ma si affatica invan, se a fama intende. Barbieri, dich'io ben? che ve ne pare? Gran mercè, ser Apollo: io ti so grado, Che mi trovo tra mani un argomento Di quei che se ne colgono di rado. Quante volte ne cerco, mi tormento, Mi becco le cervella, mi consumo, Scrivo, cancello, risolvo, mi pento; Ma d'averlo imberciato alfin presumo: E mi suonin pur dietro le tabelle, Io vo'cantare, e lodar voglio il fumo. Certo egli è tal, che fra le cose belle, Per ognun ch'abbia fior di fantasia, Vorrebbesi lodar fino alle stelle. E a cui crede ch'io dica una bugia, Quantunque ei vaglia posso far provare, Purchè voglia venire a casa mia. Nè badi punto all'ora del pranzare, A quella della cena o del dormire, Chè di giorno e di notte il può trovare. Nol sa il padron di casa sofferire, E avvisa cento argomentacci strani, Con che vorrebbe farnelo partire. Gran ventura che tutti tornan vani, E che mastro Felice muratore La sa pel verso, e vuol tenerci sani. Oh! dicesi che un giorno ebbe l'umore Anche Severo, imperator romano, Di soffocar col fumo un ciurmatore. Egli era un pazzo, e pazzo il Padovano, Pazzo Vitruvio, e, con sopportazione, Pazzo fino al buon uomo del Cardano. Voleano il gioco delle genti bone, Con l'Eolipile, con i Ventitutti, Nomi da spaventare un can barbone. Ma il nostro eroe la fece in barba a tutti; Chè quanto un più lo scaccia, ei vuolci stare, Se mille regni andassero distrutti. Oh l'avesse pur preso a celebrare Colui che tanto celebrò la peste, Ch'egli è ben altra cosa da lodare! In cambio d'esaltar cose funeste, Di commendare il fumo è mio pensiere, Perchè so di laudar cosa celeste. V'ha di quei che nol ponno sostenere; E se a caso lo scorgon da lontano, Chiudono gli occhi, e voltangli il messere. Mi tolga Dio da un atto sì villano; Ei mi parrebbe affè grave peccato A fargli, come dire, un viso strano. Chi vuol negar che in Cielo egli sia nato, Levi così un pochetto l'occhio in suso Allorchè dalle nubi è il ciel velato; Pensi che come Giove aveva in uso Di venir fra'mortali a far l'amore, Scendea nel fumo avviluppato e chiuso. Però il sommo de'nembi adunatore, Mentre che ogni altra cosa al centro tende, Die'al fumo che rimonti al suo fattore. Vada ne'templi quei che non l'intende, E vedrà che col fumo ivi si onora Chi tutto fece e in sè tutto comprende. Oh! ciechi della mente, che finora Vi faceste a sprezzar cosa sì degna, Vi ravvedete, che v'ha tempo ancora. Quant'ei sia grande, tutto dì v'insegna Tal o tal altro, a cui vi sberrettate, Mentr'ei perfin l'umiltà vostra sdegna. S'ei non risponde quando gli parlate, Ma sì vi narra della sua duchèa, E il novero vi fa delle su'entrate; Se teme che gli lerci la giornèa Un galantuomo che gli si avvicini, Miracolo egli è sol della fumèa. Il fumo sta co'grandi e co'quattrini, Fugge la plebe, e però si suol dire Che a'pitocchi non fumano i cammini. Ma dalla sua grandezza or lasciam ire, Chè mi tarda veder se al mondo giovi; E ch'ei vale un Perù vi fo sentire. D'incendiarti l'albergo alcun si provi: Ecco il fumo che reca le novelle, Sì che tu accorto il peggior mal rimovi. Questo si chiama ben salvar la pelle, Senza che, se ne chiedi a'professori, E'ti diran che ne sa far di belle: Che un antitodo egli è per li dolori, Che spesso suol giovare a più d'un male, Tra gli altri a quei che s'han per troppi umori; E talvolta, pigliato in serviziale, Alcun guarì, da'medici sfidato: Or di'che non è un farmaco vitale. È noto poi che v'ha più d'un trovato, Per cui si adopra fuor di spezieria; E chi n'ha più, si tiene per bëato. Fa che tu vada in qualche tintoria; Vedrai che, usato con modo e misura, Egli è la miglior cosa che vi sia. Grande è il suo fatto nell'agricoltura, Grande per quei che han vecchi gli stivali, E per lo fumo fanno ancor figura. Egli è mäestro di cerimoniali; E quando vuole uscir gli apron le porte, Come a'gran Magistrati e Generali. Dove d'un ricco piangesi la morte, Egli insegna all'erede la prudenza; Fa che compianga, e ch'altri lo conforte. Costringe i creditori a pazïenza; Chè s'uno viene a chiederti danari, Fa che il balocchi al fumo, ed ei va senza. Sovente egli è conforto degli avari, Che come hanno a dipingere le case Gli serve dall'amico, e non ha pari. Certo Pandora non l'avea nel vase, O senza ch'ella il sappia ei restò in fondo, Ed unito a speranza si rimase; Poi seco venne a consolare il mondo. Tu, che se'avvezzo al suono armonïoso Della tua cetra che dolcezza spira, So che alla mia l'orecchio avrai ritroso; Ma s'io riprendo la scordata lira, Fo come l'augellin che, in gabbia stretto, Canta per isfogare il duolo e l'ira; E l'ira e il duolo, onde ho ricolmo il petto, Si van schiudendo sulle labbra il varco, E m'è forza cantare a mio dispetto; Nè più reggendo all'ineffabil carco, Che da ogni lato il cor mi preme ed ange, Su chi udire mi vuol la soma scarco. E qual chi narra sua sciagura e piange, Sì a te mostrar vogl'io l'infame scoglio, Sovr'esso il quale ogni mio ben si frange. Nè flebili querele usare or voglio, Chè cantar miserere in tuon di gloria, E d'improvviso cangiar stile io soglio. Or odi dunque la dolente storia, E come avversa fortunaccia ria Non mi lasciò del ben che la memoria. Fra una prigione, un orto e un'osteria, Che intorno cinge un fetido pantano, Il fistolo piantò la casa mia. In questa villa non v'ha un corpo sano: Chi ha il caldo della febbre e chi il ribrezzo, E s'un non l'ebbe ancora è caso strano. La china e la jalappa non han prezzo, Chè si spacciano a libbre e a centinaja, E senza ne riman chi vien da sezzo. Misurasi così l'assenzio a staja; Chè, divenuto universal pozione, Ne bolle in ogni casa una caldaja. Tocca e rintocca sempre il campanone; Chè or suona il deprofondi, or l'agonia, E i preti vanno sempre in processione. Or vedi trïonfar, vedi allegria, Da far morir di stento in men d'un mese Chi s'avvisasse farmi compagnia; Nè però mala voce i'do al päese, Ch'egli ha di ben più ch'altri non sel crede, Ed io son pronta a far le sue difese. ‘Di tre cose a buon conto, chi ben vede, Non abbisogna ov'abbia qui sua stanza, E tre ne acquista chi non le possiede. Son le prime: saper, oro e crëanza; L'altre, di cui ciascun troppo ha mestiero, Parcità, pazïenza e vigilanza. Or fa che da te scacci ogni pensiero, E spalanchi gli occhiacci della mente, Onde conosca s'io ti dico il vero. Dimmi, che farian mai tra questa gente Dante, Petrarca, Socrate e Platone, Se più s'ha in pregio chi non sa nïente? E se ci fosse Creso ed Epulone, Si ficcherian di dreto i lor tesori, O fariano a piastrelle nell'Alpone. Che se dal Ciel la madre degli Amori, In donna parigina trasformata, Scendesse ad ammoinar questi signori, Ti so ben dir che resteria scornata; Chè qui fanno all'amor come le miccie, E qual più ragghia e morde è più stimata. Dall'altro lato manicar salsiccie, Capponi, polli d'India, confortini, Manicaretti, e frutta primaticcie, È lo stesso che dar gusto a'becchini: Di pazïenza domin tu lo sai, Se ne abbisogna più che a'cappuccini. Menar giorni di noja in mezzo a'guai, Conversando con bipedi animali, Che s'apron bocca, e'sembra il can ch'abbai; Ragionar tutto il dì sol di majali, Di serve, polli, figli e gravidanza, È il purgatorio in terra de'mortali. Finalmente il dormir è four d'usanza; Chè le mosche, le pulci ed i tafani Ti tengon mal tuo grado ognora in danza. E ben ti fanno far scambietti strani; Chè se altrove si balla sol co'piedi, Qui si balla co'piedi e con le mani. Ch'io t'abbia detto il ver tu ben lo vedi, Senza che il giuri per lo biondo Apollo; E vieni qui a veder ciò che non credi. Vieni, e fa ch'io ti vegga ad armacollo La cetra che a te dier le caste suore Quando del latte lor ti fean satollo; Mi scorreranno allor più liete l'ore. Caldani, ho risoluto, e non mi movo: Io sono in villa, e in villa vo'restare; Tanto e tale è il piacer che vi ci trovo. Dica ciascuno ciò che gliene pare, A posta sua m'apponga stravaganza; Ma pensi bene pria di giudicare. Pensi che son le cose altro in sostanza, Ed altro spesse volte appajon fuori, Sicchè non le conosce l'ignoranza: Quest'è aforismo de'più gran dottori; Nè a provarlo mi becco le cervella Con voi che siete onor dei professori. Dirovvi sol, che più non mi martella La vita che menando sto in campagna; Ed or che la conosco mi par bella. Sicchè se udiste a caso un che sen lagna, Miserere di lui; quel poveretto Ha il capo dove gli altri han le calcagna. Se voi qui foste, amico, ci scommetto Che lasciereste a'Padovani il Prato; Ei vi parrebbe così gran diletto. Vivere in villa è vivere bëato, Fonte di sanitade e d'allegrezza, Nemico capitale del peccato; Ogni suo fatto è gioja e contentezza, Appresso a cui quant'hanno i cittadini Fior di garbo non ha, nè di dolcezza. Vedi un po'sanità dei contadini: Al sol di luglio, al diaccio di gennajo Li trovi esposti come fosser pini. Non adopran costor mantel, nè sajo, Ma mezzo ignudi fannoti alla neve, Nè monta lor se zuffola rovajo. Vedi come il villan e mangia e beve, Che scorpa e trinca senza mai temere, Ed ogni grosso pasto gli par lieve; L'odi cantar sì gajo ch'è un piacere, E lo vedi guidar più d'una danza, Nè badar più che tanto per godere: Adastiando l'incomoda crëanza, Ei già fil filo non la suol guatare; Dassi bel tempo, e sempre gliene avanza. Nè solo il contadin suol così fare, Ma quanti seco lui vivono e stanno, A potere lo vogliono imitare. Qui a ciascun giorno viene il capo d'anno; È sempre berlingaccio, è sempre festa, E gavazzano più quei che più sanno. Dimmi se v'ha vita miglior di questa? E pensa poi come ti mette l'ali, E di volare al Ciel la via ti appresta. Qui non si fan peccati venïali, Ed anzi tutte le virtù fan prova Che sono opposte ai vizj capitali. Umiltà pari a questa non si trova: Il Conte chiscia, il Cavalier sarchiella, Spronan le scarpe, e lasciano che piova. Cavalcano le dame un'asinella, E premer san con atto assai decoro Il rozzo basto in cambio de la sella. L'uomo schiavo non è del suo tesoro: Felice quei che in serbo ha un sol zecchino; E i più non san di che color sia l'oro. Ben generosi prestano al vicino Ora la micia per pigliare i sorci, Or la pietra focaja, or l'acciarino. Qui lussuria non v'è che i giorni accorci; Sono le donne contro tal peccato; E se le vedi, tosto il piè ritorci. Di pazïenza chi non viene armato Sen fugga, se a buon concio vuol partire, O affogarsi dovrà per disperato. Contro la gola abbiamo l'elisire: Fa del signor chi ha la saracca al fuoco, E più non evvi se tu vuoi morire. Non istà invidia qui nè assai, nè poco; Chè s'anco la vi fosse vera e viva, Da far l'ufficio suo non avria loco. L'accidia, zoppicando se ci arriva, Fra costoro adagiarsi mai non puote; Ma come viene, va mesta e furtiva. Ondeggiano per l'aria ancor le note Del vigilante augel, che il fabbro s'alza, E coll'alterno martellar ti seuote: Tutt'uomo allora tosto in piedi balza, E brancolando, chè non vede ancora, Mette le brache in testa, e il giubbon calza: Esce poi ratto a contemplar l'aurora, E i cornuti arator quindi disserra, O al marron dà di piglio, e non dimora. Così si acquista il paradiso in terra, Così godendo poderosi e sani Possiamo al tempo ingordo far la guerra; Però men resto in villa: addio, Caldani. Cognato mio, vi sono certi pazzi Che vivono a casaccio, come dire, A guisa che farebbero i ragazzi; Lascian le cose andar come san ire, Senza mai darsi un sol pensiero al mondo: Finisca ei pure quando vuol finire. È il fatto di costor tutto giocondo, E tengono lo stare in festa e in riso Per tale un ben che non può aver secondo; Maggior di quel che han l'ombre nell'Eliso, Di quel che spera ritrovar nel Cielo Chi crede di Maometto al paradiso. I'lo so anch'io che loro luce il pelo, So che hanno il miglior tempo fin che dura, E non li coglie di vecchiezza il gelo; Ma giunge il punto, in cui suole natura Chieder vendetta delle ingiuste offese; Nè indarno chiede, chè l'ottien sicura. E l'allegria non è tanto cortese Da prodigar suoi beni a tale o quale, Ma tardi o tosto fa pagar le spese. Per giunta parmi che la pensi male Chi star vuol sempre allegro e spensierato, E terminarla come le cicale. Il ber vien più gradito all'assetato, Più apprezza libertà chi fu prigione, Più la salute quel che fu ammalato. Però dovriano tutte le persone, Che alcun piacere vogliono gustare, Usarne con assai moderazione. Chi 'l buon umor sapesse ben temprare Con qualche fastidiume o dispiacere, Vivrebbe assai più lieto ch'ei non pare. Io non intendo già che per godere Debba talun ficcarsi nella testa Di trambasciar, volere o non volere; Dico sol, che sarebbe cosa onesta Mescere la tristezza all'allegria, Avere un po'di quella, e un po'di questa. Tristezza, voglio dir melanconia; E se alcun mi chiedesse di qual sorte, Io gli accomanderei l'ipocondria. Stimeranno le genti poco accorte Che ogni gaudio dal core abbia sbandito Chi sempre teme d'esser presso a morte: Ingannavami anch'io così a partito; Ma, lode al Cielo, ho conosciuto il vero Mercè d'un galantuom che m'ha chiarito. L'ipocondria non è nè un male intero, Nè uno stato perfetto di salute, Ma così fra li due medio sentiero. Or la conosco intus et in cute; E in dir di lei non faccio l'indovina, Ma cose posso dir da me vedute. Si sveglia chi l'ha indosso la mattina, Protendesi e barbuglia: ahimè dolente! Datemi presto qua la medicina. E quanti mali aver può nella mente Qualunque sperto fisico dottore, Ad un ad un vi narra ch'ei si sente. Se alcun ricorda poi febbre o dolore, Ell'è spacciata, non vi dà più pace, E qui vede una piaga, e là un tumore. S'alza del letto alfin quando a Dio piace, Sol per provare se si regge ancora, O se i piedi e le coscie ha di bambace; E va piagnendo: come ho da uscir fuora? Mi gira il capo, e tremo a nervo a nervo; Venite intorno a me prima che mora. Tosto chiamate la fantesca, il servo, Il medico, il notajo e il sacerdote, Fin che favello, e mente ancor conservo. Allor comincian le dolenti note; Dell'anima si acconcia, e dice addio Alla moglie, al figliuolo ed al nipote. Chi non direbbe allor, Cognato mio, Il pover'uomo ha poco da campare, E sarà in men d'un'ora a'piè di Dio? I congiunti si fanno a lagrimare; Corre quest'uno a far che giunga il prete, Quest'altro il funerale ad ordinare. Ma quei che adesso in agonia vedete, Dal detto al fatto sorge salvo e sano: E ipocondria; miracolo il credete. Scuotesi, e si rinforza a mano a mano; Al festin va la sera ed allo scotto, Come può andare ogni fedel cristiano. Saria più tondo assai dell' O di Giotto Chi non dicesse che un dolor di denti Delle magagne sue conta per otto. I'per me dico, che cotai portenti Non sono nè ben sani, nè ammalati, Ma quadrar ponno tra'convalescenti; E se i convalescenti son bëati, Come già il Gozzi n'ha mostrato un giorno, Questi sono di lor più fortunati. Han sempre quelli chi lor dice intorno: Bèi poco vino, mangia poco pane; Vuotano questi la cantina e il forno. Stan quelli alla catena come un cane; Questi, se torna lor, vanno a diporto, Nè badan più alla notte o alla dimane. Pensa poi s'egli sia lieve conforto Il trovarsi la sera lesto e gajo Chi la mattina si credeva morto. Diresti: e'van pel buco dell'acquajo; Fa che tu a fondo li conosca, e impari Che son tessuti su di un buon telajo. E a furia di purganti e lattovari Sta lor l'anima in corpo a suo dispetto, Come l'oro entro a'scrigni degli avari; E col purgarsi, con lo stare in letto, Col fare il tutto ognor pensando al poi, Van più tardi degli altri al cataletto. Per giunta non han cura che gli annoi, E s'odono che il mondo va in bordello, Sputan, dicendo pian: salute a noi. Di costor non avria viver più bello Chi fosse un Epicuro in carne ed ossa, Di gioja padre, e del piacer fratello. E quel ch'io vo dicendo qui alla grossa Tu sai meglio di me che cosa sia; Anzi non so ciò che ignorar tu possa: Ben so ch'è un don del Cielo ipocondria. Il pomifero autunno avanza, e toglie L'ammanto verde di dosso alla terra, Cui van rendendo gli alberi le spoglie; Agl'innocenti augei muove aspra guerra D'accorti cacciator vagante armata, Che in mille guise li persegue e serra; Chi s'arma di fucil, chi di ramata, Chi reti appresta, e col zimbel gl'invita. Chi nel capanno s'accovaccia e agguata. Soletta i'stommi a guisa di eremita, Rinchiusa giorno e notte in una stanza, U'muor la gioja, ed i fantasmi han vita; Ma poichè alfin confortami speranza Di trovarmi tra poco a miglior passo, Fatta è di me maggior la mia costanza. E qual è il vïator cui stanco e lasso, Come vede in lontan la patria torre, Par che si allenti l'affollar del casso; Tale io mi sono, e men da me si abborre Viver solingo e viver tra gli agresti, Or che il pensiero al vicin ben precorre. E quel che odiava un dì, par che m'appresti Insolito vigor nel mio cammino, Per cui tema o dolor più non mi arresti. Emmi or conforto allor che a capo chino Penso che a noja ognuno ha il proprio stato, E tiene per miglior quel del vicino; E penso che più pura in fonte aurato L'onda non è di quella che dal monte Vien rimbalzando ad irrigare il prato. Emmi or conforto, allor ch'alzo la fronte, Mirar lieti sull'aja i contadini Con le lor donne all'opre intese e pronte: Carreggia l'uve l'un, l'altro ne'tini Sta sgambucciato, e pigiale col piede, E ride e scherza, benchè s'affacchini. Mentre li guato come quei che vede Turba di accattapan che si trastulla, Meno infelice assai ch'altri sel crede, Grido: bëati a voi, cui cura nulla, Nulla noja è tormento delle tante Che a noi rodono il cor fin dalla culla! Ben tre volte bëato all'ignorante, Che non pensa al diman, nè pensar puote A quello che gli avvenne il giorno innante; E pur che s'alzin le fumose ruote Dalla capanna, e a tramenar la polta Trovi la moglie, cura nol percuote. E come annotta corre ove raccolta Donnesca turba va sformando il lino, E le novelle delle fate ascolta; O salta fin che un altro contadino Con impeciato crin, o male o bene, Vien stropicciando il querulo violino: Non affliggon costui le macre pene Che a mano a mano van straziando il petto Agli egri alunni della Dea d'Atene. L'ignorante non prova alcun sospetto; La causa ignora quando il ciel minaccia, E non si crucia col temer l'effetto; Non ei l'incerto mal fuggir procaccia, Chè non vede più lunge d'una spanna, E sì sovente il certo mal discaccia; Mentre il saggio la notte e il dì s'affanna, Pensando a ciò che puotegli avvenire, E pensa e teme, e in suo pensier s'inganna. Vedi angoscia, per cui dovria morire Chi da natura fosse fatto in prova, Per poter contro morte a campo gire; E sapere alla fin l'uom di che giova? D'inutil fama allor ch'è sceso in tomba, Ove invidia pur ciò non gli rimova. Che valse al Ghibellin l'eterna tromba, Al cui suon tacquer gli angelici squilli, E Cielo e terra e Inferno ancor rimbomba? Ebbe forse di lui dì più tranquilli Chi fèo che lo splendor d'armi pietose A traverso dei secoli sfavilli? E cento e mille autor di rime e prose, Onde Italia, Albïon, Francia e Lamagna Altere son, e vanno glorïose, Cadder d'invidia nell' occulta ragna; Nè fia che, dopo estinti, empia ignoranza Di travagliar lor ceneri rimagna. Quale aver ponno i saggi omai speranza? Di strisciarsi alla mensa d'un potente, E cibarsi di quel che agli altri avanza; Chè più s'ha in pregio il soro impertinente, Che quanti sono al mondo e fur dottori, Pur ch' ei sappia far bene da servente; E se con garbo raccontar gli amori Ei sa di Taide o Frine, e andare a'versi A chi nome ha più grande e più tesori; E se a tempo s'allegra e sa dolersi, Trillare e carolar, e Tassi e Danti A petto di costui son belli e persi. Bëati pur, bëati agl'ignoranti, Che con poca fatica han molti onori, E spaccian le lor baje per contanti. O saggi stolti, a che tanti sudori? Forse a temer del mal pria che v'accada? Forse a mietere alfin sterili allori? Forse a farvi bersaglio di masnada Che quanto puote più vi adunghia e addenta, E a grandeggiar fa d'ogni campo strada? — Io abbraccio l'ignoranza, e son contenta. Tu, che schiudesti con lo stil giocondo A mille menti del saper le porte, E mille, che premea d'ignavia il pondo, Sul bel sentiero della gloria hai scorte, Esempio sei, che in questo mar del mondo Sol ne regge favor di cieca sorte, E che nuda virtù spesso nel fondo, Dopo lungo vagar, trova la morte. Ma se infelice un dì, quando il tuo fato Pendea da stella di languente raggio, Hai l'onda infida e avverso il Ciel provato, Or miglior acqua corri, e nel vïaggio, Che di compire a'sommi ingegni è dato, D'influssi rei non temi più l' oltraggio. Morto è colui che mille e mille a morte Con divin' arte vittime rapìo; Quei che tenero padre, e pio consorte, E saggio e giusto fu, quegli morìo. E giunto là 've le celesti porte Schiudonsi a quei che virtù mena a Dio, Chinò lo sguardo, e su la nostra sorte Pianse amoroso in darne anche un addio; Chè orbi rimasti noi, guida e consiglio Perdemmo, ahi lassi! nel cammin fatale Che a compier ci rimane in questo esiglio. Padre, se in Ciel de'figli tuoi ti cale, Deh! ne impetra che a te fuor di periglio Ne ricongiunga un dì vita immortale.

MATTACCINO

Messer Barbieri, fa che dea di piglio A taballi, oricalchi e pifferoni; In quilio canta sì, che il mondo introni; Mena gazzara ch'otta mi svinciglio. I' mi beccava i geti, e nel periglio Stava tra' verri, alani e pelliccioni, E avea gran dotta non con loro unghioni M'avessero lo corpo a far vermiglio. Esc'or di lustra, e dalle topinaje Boccino a posta loro i bertucciotti, Ch' i' fuggo l'acqua sotto le grondaje. E' non fia già per lor che neve imbotti, O che acchiappar mi lasci a cotai baje, E a gretola trovata m'appillotti: Chi ha boria più s'abotti D'essere il barbassor de' babuassi. Barbier, mena gazzara; io sono a'passi.
Barbieri, e' mi pigliò strano desio Di dettare un sermon, o male o bene: Qual m'uscì della penna i' te lo invio, Sprezzato e umìl più ch' ei non si conviene. Tu forse riderai del fatto mio, Dirai che i granchi fan delle balene; Ma ridi pur, chè la mercè di Dio So pigliare il mio mondo come viene. Fama non cerco da' miei versi strani, Nè tener mi saprei tanto valente Ch'i' potessi drizzar le gambe a'cani; Ma quanti ghiribizzi ho nella mente Lascio cader sul foglio dalle mani: Dica di me ciò che si vuol la gente. Ecco un nuovo sermon, che pien d'ardire Mi vuol uscir di mano a mio dispetto: Vorrei frenarlo; ed ei si sa schermire, E sgombrarmi dal cor cerca il sospetto. Le prediche, i sermoni, ei prende a dire, Oggi son ciance, e fanno tanto effetto Su i pochi o molti che gli stanno a udire. Quanto fa una canzon, quanto un sonetto. Però lasciami andar, benchè censore; Io non ho reo talento, e temi a torto Se d'altro temi che del mio valore. Sì mi dice fuggendo; io mi conforto Di averlo accomandato a tal signore, Che può, se vuol, guidarlo salvo in porto. Amico, sto rinchiusa in una stanza, A guisa d'uom che trovisi prigione; La febbre ho all'uscio, e noja in abbondanza: Or vedi s'ella vammi di rondone. E per più, son tre mesi che a speranza I'sto che tu mi mandi una canzone, Un sonetto, un capitolo, una stanza; Ma veggo che vuoi giungermi al gabbione Il Diavolo si prenda i Codicilli, I Codici, la Glossa e le Pandette, Su cui t'inchiovi, ed il cervel ti stilli. Riedi un poco alle Muse, poverette! Che ti prometton giorni più tranquilli, E lascia quelle liti maledette. Più di dieci finor m'hanno tentata A dettar nello stile del Petrarca, E voglion dir che buona merce carca Colui che imbotta cosa dilicata. So ch'egli è de' pöeti il patrïarca, Ma so che per seguirlo io non son nata; E non essendo punto innamorata, Non vo' senza biscotto entrare in barca. La mia povera musa è sì meschina, Che non mi fa sperar fama, nè alloro, E vuol ch'io detti versi da dozzina. Però quel sommo e i suoi seguaci onoro; Ma l'estro vo'seguir dove più inclina, E li lascio cianciare a posta loro. Lassa! che al core i'mi credea dar vanto Che mi tenesse incontro amor sicura; Aspra vendetta di me feo natura, Poi ch'or senza pietà mi struggo in pianto Morte crudel, che ogni bell' opra fura, Rapì 'l mio sole, e dissipò l'incanto; E le forme leggiadre e il dolce canto Solo memoria son di mia sventura. Per erme piagge vo movendo i passi; Ma in ogni dove la ferita porto, Per che i miei giorni fian tra poco spenti; E chiedo all'aure, all'erbe, ai fonti, ai sassi L'infelice cagion de' miei tormenti. Misera invano! il mio bel grillo è morto. Un gran Signor, di cui non so il casato, A sè fatto venire un dipintore, Disse che in certa sala avria bramato Simbolo nuovo di fraterno amore. Il pover'uom, che si trovò impacciato, Pinse due somarelli di buon core, Che alle reni dell'un l'altro appoggiato, Grattavansi a vicenda il pizzicore. Io non avrei dipinto in quella scena, Per far cosa che fosse a ognun piaciuta, Due somari che grattansi la schiena; Ma un'altra carità men conosciuta: Due pöeti che fanno all'altalena, Per lodarsi l'un l'altro a muta a muta. L'avviso vostro sulle mie terzine Gli è, ch'abbiano strozzata un po'la chiusa; Ond'io risolsi di cangiar la fine, E volai tosto a consultar la Musa. Costei, che suole ognor fuggir le spine, E a limare e a rifar mai non s'adusa, Vuole ch'io lasci star quelle meschine; E udite come al suo voler fa scusa. Dice, che quando a morte altri ha guidata Con mesto carme l'infelice amante, Ogni rima di più saria gettata; Che fora periglioso il dirne innante, Sicchè ne resti la pietà scemata; Che chi giunse al confin ferma le piante. Tai baje dice e tante, Che mi conviene chiedervi perdono, E lasciar le terzine come sono. Vuoi saper come io viva? In pochi accenti Tutto per me saprai da capo a fondo: Son come un morto in mezzo de' viventi, Nel centro dell'Italia, e fuor del mondo. Quanto più so, cerco fuggir le genti; Non narro i fatti miei, non li nascondo; Cura o dolor non ho che mi tormenti; Di buon umor non manco e non abbondo. Nella famiglia mia regna la pace; Io ne sono al governo, e del mio sesso Compier ogni dover non mi dispiace. Co'lavori lo studio alterno spesso, E come ogni altro si riposa e tace, Tento appressarmi all'onda del Permesso. Il Gozzi ho sempre appresso, E me lo tengo sotto al capezzale. Or disssi tutto: faccio bene o male? Muse, mi rendo in colpa: ho maledetto Il punto in cui mi diedi a far de'versi Senza veder, ciò che dovea vedersi, Che un dì ne avrei dettati a mio dispetto. Appena questa mane gli occhi apersi, E rizzata non m'era ben sul letto, M'udii sonar che son momenti persi Quelli in cui non si fa stanza o sonetto. A mezzo dì taluno mi ripiglia Che non feci due sciolti, una terzina; La sera un altro a farne mi consiglia. Ma s'io scrivessi pur sera e mattina, Senza punto pensare alla famiglia, Il fatto mio sarebbe una rovina. Oh che bella dottrina! Una donna trattar da scioperata, Se non fa tutto il dì la letterata; Come se il Ciel mandata L'avesse in terra sol per far sue voglie, Senza esser mai nè femmina, nè moglie. Alfin qual frutto coglie Chi accozza quattro rime triste o buone? Il dar da scardassare alle persone, Che cercano occasione Di dir mal delle donne ad ogni costo, E più che mai se lor prendono il posto. Sicchè fermai proposto, Per fuggir quanto so da tal malanno, Di non dettare che una volta l'anno.
In grembo a Citerea Stavasi Amore assiso; La destra man le avea Scherzandole sul viso, E con lo braccio manco Teneale avvinto il fianco. Baciava il figlio Venere, Baciava lui la madre, E con le luci tenere Fisando le leggiadre Forme di quella Dea, Amor così dicea; Oh come se' mai bella! Madre d'Amor ben sei, Ben sovra ogni altra stella Risplendi fra gli Dei; Chè quanto il Ciel possede, La tua bellezza eccede. Se un'egual donna nascere Potesse fra' mortali, Mie brame potrei pascere Fin ch'io m'avessi strali; Potrei frenar l'ardire Di chi mi vuol schernire. Chè il mondo ormai protervo Ardì cangiar consiglio, Nè mi vorrà tuo servo Se or non mi vuol tuo figlio, E d'avarizia e orgoglio M'ha per venduto al soglio. Amor dicea; ma impose Silenzio Citerea, E tosto sì rispose, Baciandolo, la Dea: Cessa da un vil timore; Amore è sempre Amore. Non è che a tua potenza Là giù insultar si attenti; Lagnansi che Innocenza Non sia con te i viventi. Mirala; e in così dire A sè la fea venire. Era Innocenza amabile Tenera fanciullina, Che di mortale e labile, Siccome era divina, In sè non avea nulla, E sì parea fanciulla. Parea che la natura In prova col pennello Avesse la figura Tratta del corpicello, Perfetto in ogni parte, Che nol potria far l'arte: Le chiome avea biondissime, La fronte spazïosa, Azzurro-vivacissime Pupille, neve e rosa Eran le guancie, e il petto Parea d'avorio schietto. Del tumidetto labbro, In breve spazio strette, Contrasto al bel cinabro Fean bianche perle elette Quando moveane il riso, Ch'era di paradiso. Una colomba in braccio Avea quell'innocente, E lieto di quel laccio Il tenero-gemente Augel, con gran diletto Le si serrava al petto. Turbossi Amor veggendola, Ch'è ognor geloso Amore; Ma Venere, stringendola Söavemente al core, Disse: quest'è mia figlia. Non vedi? ti somiglia. A un tempo foste nati: Mia figlia ell'è costei; Ma i tuoi desir malnati Ti svelsero da lei, E fino da quel giorno Noja n'avesti e scorno. Miei figli, or deh! abbracciatevi, E la materna speme Deh! secondate: amatevi. Fin che sarete insieme Avrassi lode e onore Con Innocenza Amore. Disse, e lasciolli: allora Bendò al germano il ciglio La semplicetta suora; Chè in terra, per consiglio Del sommo Re de'Numi, Amor bendati ha i lumi. Scesero al mondo amici, Ed esultàr le genti; Gli amanti eran felici, Perch' erano innocenti; E con devoto core Si venerava Amore. Ma il nodo indissolubile Pur troppo, ahimè! non era; E Amor cieco e volubile Lasciò la condottiera, E la Lusinga infida A'passi suoi fe guida. Oh quanti danni avvolsero Allor gli egri mortali, Che a bestemmiar si volsero L'autor di tanti mali! E il Dio ben pianse allora L'abbandonata suora. Da quell'infausto giorno Della sorella in traccia Va brancolando intorno, E spesso anche l'abbraccia; Ma fugge l'innocente Cupìdo sconoscente. Pur Venere, a ristoro Del disperato Amore, Ebbe dal divin Coro Che in forma ed in candore Ad Innocenza eguale Nascesse una mortale; Onde per lei prendendola, Sia pago il suo desio; Oppure conoscendola, Temer non possa il Dio Degli uomini la guerra Con tal mortale in terra. Marietta mia dolcissima, Sarestù forse quella? Al certo innocentissima E al par di lei se' bella, Sicchè d'Adige in riva Me tua beltà rapiva; E lei sì mi sembrasti Al volto, agli atti, al riso, Ch'eterna in me lasciasti Memoria di quel viso Che mi fu incanto allora, Ed ho presente ancora. E il biondo crin rammentomi, E le pupille e il petto; E ancor rapita sentomi Dal tuo leggiadro aspetto, Che in forse mi tenea Se mortal fossi, o Dea. Ah sì, tu se', Marietta, Che per la Dea di Gnido Hanno i Celesti eletta A consolar Cupìdo, Chè dell'ingenua Diva Immagine sei viva. Va: se la Grazie indorano L'aurora di tua vita, E l'erta via t'infiorano Gloria e virtude avìta, Ti scorgeranno l'Ore A far felice Amore. Già della notte al taciturno impero Obbedìa la natura, e il Dio di Delo Facea lieto di sè l'alto emispero; Infinite fiammelle ardeano in cielo, E gioconda di lor l'onda suggetta Rendea l'immago dell'etereo velo. Iva increspando il mar cortese auretta, E da quello movea roco lamento, Che tenea di pietà l'alma costretta. All'alta mäestà del Firmamento, Al cupo susurrar della marina Quell' ermo lito mi pareva intento. Lungo la spiaggia con la fronte china Io gìa, come colui che volge in mente Alto proposto, e col pensier l'affina. Mi agitavano il sen söavemente Ignoti affetti, che a cantar d'amore L'anima e l'estro mi faceano ardente. Già sulle labbra traboccava il core, Ed io sciogliea come persona franca, Quando mi scosse subito splendore. Come l'aurora l'orïente imbianca, Così vidi inalbar quella gran fonte Che m'era a destra, ed i macigni a manca: Volsi lo sguardo verso l'orizzonte, E in dileguo mirai fulgida stella Che sorgeva dal mare incontro al monte. Più la fisava, e più pareami bella; Indi, mirabil cosa! a me venire Io vidi quell'insolita facella. Distinti allor parvero i raggi, e uscire Altri da'primi, sfavillando intorno Sì, che il veduto non potrei ridire. Ben so che, come quei che fa ritorno Da fitta notte, e indarno affrontar vuole Con la debile vista i rai del giorno, Io mi rimasi; e tanto era quel sole, Ch'ambo le luci chiusi al suo bagliore, Fin che il suon mi ferì d'este parole: O tu, che movi per la via d'onore, Se il Ciel ti guardi da sorte funesta, Fa di non temprar mai note d'amore. Come colui che dal sonno si desta, Io schiusi a cotai detti le pupille, E mi si fe una donna manifesta. Non avean più il principio le faville Che m'offuscasse la virtù visiva, Sicchè lo sguardo potea sofferille; E me' di quello che per me si scriva, Annidarsi vid'io nel suo splendore Colei che m'ebbi per celeste Diva. Allo su' aspetto, come fa il minore Che nel maggior s'avvenga, i'm' atterrai, Tra per la riverenza ed il timore; Ma nol sostenne, e cominciò: che fai? Tanto non son, benchè mortal non sia, Disse; e fe cenno tale, ond'io m'alzai. Ed ella a me: ciò che il tuo cor desia Vede la Mente a cui nulla s'asconde, Ed a ritrarti di lassù m'invia. Io vissi un giorno, e delle amate fronde Apollo diemmi, che cignessi il crine. Ahi! che mi furo di dolor feconde. I'fui già Saffo: or qual fosse il mio fine Ignorar tu non puoi, de'carmi amica, Se fama d'ogni età varcò il confine. Fui di Cupìdo, qual tu se', nemica; Nè vi fu strale della sua faretra Che potesse piagar l'alma pudica. Ma l'armonia, che i cor più duri spetra, Fe che il mio s'ammollisse a poco a poco Al molle suon della mia stessa cetra. Amor, che di tradir sa il tempo e il loco, Allor mi colse al varco, e in seno allora Io mi sentii destar l'infame foco; Foco divorator che m'arde ancora, Senza che nulla speme mi conforte, Poichè in Ciel vuolsi ch'io n'avvampi ognora. Fin che vita vivea, sperai che morte Attutasse l'ardor; ma spirto errante Non ha speranza di cangiar sua sorte. Emmi presente ancora il primo istante Che in quei del traditor gli occhi fissai, Ed, insensata! lo credetti amante. Ah non lo avessi pur creduto mai! Era il mio amor che riflettea da lui; Mio quel raggio fatal onde abbagliai. Ma tutti perde il senno i dritti sui Sul nostro cor, se per avverso fato Avvien che cieca passïon l'abbui; E quindi amante mi sembrò l'amato, E felice mi tenni, e il mio contento Con quel de'Numi non avrei cangiato. Tutti gli affetti miei da quel momento In lui sol posi, ed ogni altro desire Nell'egra anima mia rimase spento. Ma fu breve il piacer, lungo il martìre; Chè il cor, presago del futuro danno, Tosto d'amaro asperse il mio gioire. Oh quante volte, oh quante il nero inganno, Lassa! previdi, e passeggiera doglia Nunzia mi venne d'un eterno affanno! Ma il crudo amor, che a suo voler ne invoglia, Mi trascinava incerta, palpitante Di pensiere in pensier, di voglia in voglia; Sì che l'abisso, che mi aveva innante, Sprezzai, seguendo lusinghiere larve, In temere e in sperar sempre incostante. Il punto giunse alfine, in cui m'apparve Tutto l'orror del mio misero stato, E d'ogni speme insin l'ombra disparve. Ahi qual divenni allor che disperato Conobbi tanto amor! arsi, gelai, Senza moto rimasi e senza fiato. Poi furibonda al Ciel le mani alzai, Gridai vendetta, e dell'infido il nome, Empia! con quel de'Numi bestemmiai. A ciocca a ciocca mi strappai le chiome, E ruggendo qual fiera, il suol natìo Fuggii, senza sapere il dove, il come. A morte corsi, e mi vi spinse un Dio. Figlia, non temprar mai note d'amore: Ti rammenta il mio fin.— Disse, e sparìo; Ed io rimasi a guisa d'uom che more.