LORENZO DEI MEDICI
STUDIO
DI
MATILDE FERLUGA FENTLER

TRIESTE
TIPOGRAFIA APPOLONIO & CAPRIN
1872.



LORENZO DEI MEDICI
STUDIO
DI
MATILDE FERLUGA FENTLER

TRIESTE
TIPOGRAFIA APPOLONIO & CAPRIN
1872.

M. Ferluga Fentler edit.

La costumanza delle feste di famiglia, sebbene antichissima, si conserva tuttavia generale fra noi; e penso che durerà lungamente nell' avvenire; perciocchè in mezzo alla mutabilità delle umane cose, vi ha qualche cosa che non muta, ed è l' affetto di coloro, che si uniscono per camminare consorti nella difficile strada della vita. Or non è molto, Tu, affettuosissimo, in un giorno che mi apparteneva, mi facesti il più bel regalo che io potessi mai desiderare; mi conducesti a quella sospirata e bella Firenze, dove, come in un tempio, stanno raccolte le sacre memorie e i monumenti delle più eccelse giorie d' Italia. Oggi, giorno che ti appartiene, io offro a Te ciò che di meglio ti posso offrire, un mio studio, che ti ricorderà quella Firenze bellissima nella quale passammo pochi dì, ma troppo lieti perchè possano essere dimenticati. È superfluo, ma pure mi giova dirtelo: Tu in questo libro non devi cercare nè il bello, nè il nuovo, nè nulla che possa meritarsi lode od encomio, ma solamente l' affetto grandissimo della.

TUA
MATILDE.

Il dì 4 di Novembre dell' anno 1872.



CHIUNQUE si ponga a studiare la storia d'Italia, incontra ad ogni pagina, pel non breve corso di quattro secoli, il nome della famiglia Medici. Nella storia di Francia occupa un posto importantissimo per una donna, la quale non solo ebbe parte a grandi avvenimenti, ma segnò il principio di un' epoca certamente non felice per il popolo francese. La storia dei Papi e però della Chiesa ha anche essa un lungo periodo nel quale figurano individui di quella famiglia, individui i cui nomi sono associati al nome di Lutero, e quindi alla Riforma, ed al nome del valoroso Francesco Ferruccio, e quindi al famoso assedio di Firenze. Chi svolge la storia delle lettere italiane, incontra ad ogni piè sospinto i Medici amici delle Muse, protettori delle buone lettere e riformatori degli studi filosofici in Italia. A nessuno è permesso leggere la storia delle arti belle in quel paese, dove più che altrove fiorirono, che a patto di associare a questa singolare famiglia i più grandi artisti ed i loro capolavori. Finalmente oggi stesso a chi visita Firenze conviene sentirsi ripetere all' orecchio Medici e Medici. E mi piace aggiungere che anco negli ultimi fatti politici che precedettero ed aintarono il risorgimento d' Italia, quel nome venne fuori con qualche importanza, quando i Fiorentini invocarono l' ultima volontà di Gian Gastone che li lasciava liberi di sè stessi, sebbene la diplomazia avesse già, prima che l' ultimo dei Medici morisse, disposto col diritto della forza dei destini di Firenze. Gli scrittori poi storici, poeti, romanzieri o politici che siano, non vanno per nulla d' accordo nel giudicare questa illustre famiglia, per cui la vediamo ora esaltata fino alle stelle ed ora gittata nella polvere, quando ammirata per la sua magnanimità e quando vituperata per la sua astuta e crudele tirannide.

Tutto questo e non altro mi indusse a fare uno studio speciale sulla famiglia Medici, vaga di conoscere più da vicino questi uomini che han fatto dire tanto e tanto diversamente di sè, onde formarmene una più chiara idea ed avere così un criterio proprio per giudicarli insieme a quanti di altri tempi e di altri paesi li rassomigliano. Mi sembrò, dopo avere studiato, come meglio mel seppi, che tutti di quel casato si compendiassero in un solo, in quel Lorenzo che fu sopranominato il Magnifico. Infatti questo principe straordinario rivela tutto intero il carattere di casa Medici e ne ritrae tutti i vizi e tutte le virtù. E però io mi fermai principalmente a lui ed ai tempi suoi e ne feci il soggetto principale di questo studio. E questo studio io l' ho fatto per me stessa, profittando di quelle ore di quiete che i cieli mi accordano, e che volentieri più che ad altro dedico alla lettura. E se ora viene all' onore della stampa, non è già per gittare, come suol dirsi, un libro in mezzo a tanti libri, ma per una gioia domestica, ad accrescer la quale, se oltre alle forze del cuore ho voluto anco adoperare quelle della mia povera mente, non credo meritarmi rimprovero. Se poi per caso questo mio scritto avesse la fortuna di capitare nelle mani di qualche persona amica, molto male non me ne dovrebbe venire, primo perchè le persone amiche giudicano più col cuore che col cervello, secondo perchè scrivendo mi sono lasciata guidare da quei principî che costituiscono l' onore, la gloria, la conquista della società moderna.



PRIMA che io imprenda a trattare di Lorenzo il Magnifico, necessità vuole che accenni brevemente all' origine di casa Medici, ed ai loro passi successivi fatti nella via del principato a danno della Repubblica fiorentina. Ma non è cosa facile venirne a capo, per la differenza delle opinioni che s'incontra negli scrittori che se ne occuparono.

Dacchè questa famiglia popolare cominciò a divenire potente, i genealogisti, come è loro costume, si diedero ogni cura per illustrarne gli avi con gloriosi fatti; e sciogliendo il freno anco alle più fantastiche invenzioni, corsero nella oscurità dei tempi per porne la radice nell' epoche eroiche. Taluni dissero di un Everardo dei Medici, venuto in Italia niente meno che a fianco di Carlo Magno; altri vollero che questo casato fosse grande e potente in Grecia e propriamente in Atene, ove seppero ritrovare il suo stemma glorioso; il Ruthière, nella Storia dell' anarchia di Polonia, dice, che la famiglia Mikali, o Jatrani, capi dei Mainotti nel Pelopponeso, sieno il ceppo dei Medici di Firenze; e v' ha chi pretende venir essi da Mugello, per la semplice ragione che quivi, in una chiesa nel piviere di San Pietro in Sieve, esiste un' antichissima iscrizione di certo prete Giambuono che ne fa fede; vi ha pure chi riporta notizie esatte di un tal Chiarissimo, che nell' anno 1201 si trovò fra quei che in nome dei Fiorentini giurarono una lega coi Senesi, dalla qual epoca in poi il nome dei Medici comincia a figurare nelle memorie e tra i magistrati di Firenze.

I più si accordano a porre Everardo a stipite di quei due rami della famiglia Medicea, l' uno dei quali diede Cosimo padre della patria, Pietro, Lorenzo il Magnifico, Leone X, Alessandro, Clemente VII, e l' altro Cosimo I Granduca di Toscana e la sua dinastia.

Per un Giambuono discesero da quei di Firenze i Medici di Milano ai quali appartenne papa Pio IV, e per un Benedetto quelli di Napoli che si ebbero il titolo di principi quando comperarono da Cesare Gonzaga la terra di Ottaiano.

Questo della discendenza; in quanto poi allo stemma, vi ha contraddizioni ancora maggiori. Quelle famose palle rosse in campo d' oro furono attribuite ad Everardo che liberò la Toscana da un terribile gigante, che ne era la tribolazione, chiamato Mugello, uccidendolo in singolare tenzone. Senonchè per il conflitto, sullo scudo di Everardo rimase l' impronta della mazza a sei denti, o chiodi, o palle, di cui il gigante si serviva. Fandonie e baie! Eccoti un altro che con mirabile schiettezza ti assicura, che il nido della famiglia Medici fosse stata una vecchia spezieria, capo stipite uno speziale, e quelle palle non esser palle ma pillole, la qual cosa può esser vera come tutte le altre. Ed io che penso di averne detto abbastanza, lascio la questione ai genealogisti e passo a trattare di cose più importanti, voglio dire dei fatti dei Medici prima che Lorenzo il Magnifico arrivasse a tirarsi in mano le redini dello Stato.

Il primo di questo casato che ebbe la suprema dignità di Gonfaloniere della Repubblica Fiorentina fu certo Silvestro, nell' anno 1378. Di lui narran le storie che, intollerante del Governo dei nobili, sollevò il popolo contro di essi e non lasciò mezzo intentato per umiliare l' aristocrazia. Forse andò troppo in là, e finì per abbandonare la Repubblica nelle mani di una dissennata bordaglia. Per la qual cosa il suo trionfo fu di breve durata; chè la fazione aristocratica, riacquistata con buone e male arti la perduta autorità, fecelo relegare in Modena tre anni dopo la sua esaltazione, cioè nel 1381. Senonchè anche le persecuzioni a qualche cosa giovano; e la famiglia Medici ne uscì con maggiore prestigio, venendo considerata come capo della fazione popolare.

Appare poco dopo un Giovanni Bicci dei Medici, Gonfaloniere di giustizia, che, sposata Piccarda Bueri, divenne nel 1389 padre di quel Cosimo che fu sopranominato il Vecchio ed il padre della patria. Costui, eletto capo della Repubblica nel 1434, vi si mantenne forte per 30 anni, proprio fino alla sua morte. La costanza e la prudenza lo accompagnarono nella difficile impresa di rimettere in istato l' autorità popolare, e di reprimere quella dell' oligarchia. Non è già che la sua vita si passasse tranquilla, chè anzi attraversò forti tempeste, ed ebbe dei tristi momenti. Per opera di un suo avversario, Rinaldo degli Albizzi, fur preso e chiuso nella torre del Palazzo, e poi condannato a 5 anni di esilio, oltre il pericolo corso di morire avvelenato o precipitato giù dalla torre. Esule in Venezia, volle dar prova di sua generosità alla Repubblica di S. Marco ed eresse la biblioteca di S. Giorgio Maggiore; e può ben dirsi che egli nell' esilio stesso preparasse la sua grandezza.

Frattanto la parte popolare afferrava in Firenze la fortuna, e Cosimo, dopo un solo anno di assenza richiamato in patria, si vide dai suoi concittadini onorato e festeggiato. Ritornato al potere, pensò alle alleanze, ed ebbesi amici i Veneziani, il Papa e Francesco Sforza. Nè parve che di esse volesse servirsi o per ragioni di tirannide o a scopo di conquiste, perchè in verità fu sempre inteso ad allontanare da Firenze almeno una parte di quei mali infiniti che allora travagliavano i popoli d' Italia. Fu splendido protettore delle lettere e fondò un' accademia perchè si approfondisse e s' insegnasse la filosofia platonica; istituì alcune biblioteche, fra le quali la famosa Laurenziana, che arricchì di preziosi manoscritti. E vuolsi notare che, essendo egli ricco commerciante, pei suoi scopi letterari servivasi dei corrispondenti commerciali che aveva in Grecia, in Egitto, in Germania, in Inghilterra. La Repubblica a poco a poco venne intera nelle sue mani; egli ne era in realtà signore assoluto, ma rifiutò sempre qualunque titolo di pubblica autorità, e tenne modi di vita in nulla difformi da quelli del più modesto cittadino di Firenze. Fu principe, ma dalla comune dei principi e degli usurpatori in questo differente, che si valse del principato per giovare alla patria, e per tenere in freno tutte quelle passioni che sogliono prima acciecare i potenti, poi rovinarli. Forse non è esagerata la lode che vennegli fatta dall' uomo più liberale e prudente che abbia avuto Firenze non solo, ma qualunque altra città di cui si abbia memoria. *) Questa lode gli fu tributata dal Machiavelli. Vedi Storie Fiorentine, Libro VII.

Pietro suo figlio, che venne al potere nel 1464, quando contava 50 anni, non ebbe nè le sue virtù, nè il suo senno, e se, seguendo l' esempio paterno protesse anch' egli le lettere e le arti, in fatto di politica si mostrò degenere da chi avevagli dati ottimi esempi. L' infermità della persona e la debolezza dell' animo gli resero grave il peso della cosa pubblica, fidossi ad amici che il consigliarono male, commise falli non pochi nè lievi, e grandissimo specialmente quello di aver richiesto ai clienti di sua famiglia il danaro che suo padre aveva loro prestato. Ne nacquero fallimenti e mormorazioni; Pietro non ebbe il danaro, si formò dei nemici, e scadde nel concetto dei suoi concittadini. Eppure giusto quest' uomo aveva la smania dell' assolutismo e voleva raggiungerlo. Cercò parentele illustri, ed a suo figlio Lorenzo diede in moglie Clarice Orsini di casa principesca romana. Questo matrimonio fece aprire gli occhi ai Fiorentini, i quali, correndo al punto opposto, non solo lo dissero tiranno, ma ordirono una congiura per disfarsi di lui. Ita a vuoto la cospirazione, chiamarono in aiuto Venezia e sperarono nell' opera di Bartolommeo Colleone, ma sempre indarno. Pure il Medici si accorse che camminava per via pericolosa, e chiamò suo figlio Lorenzo a compagno nelle cure dello Stato. Morto nel 1469, Pietro lasciava i suoi figli in sospetto di macchinata tirannide e quindi incontro a vita fortunosa, e della quale era impossibile prevedere gli accidenti. Ma gravi vicende dovevano necessariamente avvenire, perciocchè il mal governo dei capi del partito mediceo cominciava a rendere odiosa al popolo quella famiglia. In prova di che Nicolò Machiavelli narra che Pietro dei Medici, poco prima di morire, chiamasse a sè i governatori della Repubblica e dicesse loro così: “Io non avrei mai creduto che potesse venir tempo che i modi e costumi degli amici mi avessero a far amare e desiderare i nemici, e la vittoria la perdita; perchè io mi pensava avere in compagnia uomini che nelle cupidità loro avessero qualche termine o misura, e che bastasse loro vivere nella loro patria sicuri ed onorati, e di più, dei loro nemici vendicati. Ma io conosco ora come io mi sono di gran lunga ingannato, come quello che conosceva poco la naturale ambizione di tutti gli uomini, e meno la vostra; perchè non vi basta essere in tanta città principi, ed avere voi pochi quegli onori, dignità ed utili dei quali già molti cittadini si solevano onorare; non vi basta avere in tra voi divisi i beni dei nemici vostri; non vi basta potere tutti gli altri affliggere con i pubblici carichi, e voi liberi da quelli avere tutte le pubbliche utilità, mentre voi con ogni qualità di ingiuria ciascheduno affliggete. Voi spogliate dei suoi beni il vicino, voi vendete la giustizia, voi fuggite i giudizi civili, voi opprimete gli uomini pacifici, e gl' insolenti esaltate. Nè credo che sieno in tutta Italia tanti esempi di violenza e di avarizia quanti sono in questa città. Dunque questa nostra patria ci ha dato la vita perchè noi la togliamo a lei? Ci ha fatto vittoriosi perchè noi la distruggiamo? Ci onora perchè noi la vituperiamo? Io vi prometto, per quella fede che si debbe dare e ricevere dagli uomini buoni, che se voi seguiterete di portarvi in modo ch' io mi abbia a pentire d' avere vinto, io ancora mi porterò in maniera, che voi vi pentirete di aver male usato la vittoria” *) Machiavelli, Lib. VII, p. 326.). Da questo si vede che i figli suoi, Lorenzo e Giuliano, non restavano certamente in mezzo ai fiori, ma fra difficoltà e pericoli. Difficoltà e pericoli che apparranno più chiari e più evidenti in tutto ciò che verrò narrando brevemente circa la prima metà della vita di Lorenzo il Magnifico.

I tempi nei quali nacque e crebbe Lorenzo dei Medici, volgevano tristi per la politica, ottimi per la letteratura. A prima vista questi due fatti paiono contraddirsi, ma basta ricordarsi dell' epoca di Pericle, per sentirsi costretti ad ammettere che le lettere possano fiorire anche quando la libertà declina. Firenze sopra tutte le città italiane era illustre per il numero e per il valore dei suoi scrittori, i quali facevano a gara per arrivare al tempio della gloria. Dove poi si consideri che quasi tutti questi scrittori erano sostenuti e protetti da casa Medici, facilmente s' intenderà come anco i membri di quella famiglia dovessero partecipare agli studi ed alla gloria. Lorenzo ebbe a maestri Gentile d'Urbino e Cristoforo Landini. Il greco Giovanni Argiropolo lo istruì nella lingua di Omero, e Marsilio Ficino lo guidò nei misteri della platonica filosofia. Ma più che filosofo, egli divenne letterato, e fra i diversi rami di letteratura predilesse la poesia. A diciassette anni trattava la lira, e se non giunse ad imitare nè il Petrarca nè Dante, i suoi cento quaranta sonetti e le sue venti canzoni, secondo il giudizio del Muratori, rivelano tanto buon gusto poetico, da superare in qualche pregio molti altri famosi poeti italiani. Lo stesso si dica delle Selve d' Amore, della Nencia da Barberino e dell' Altercazione. Dei canti carnascialeschi dirò più tardi. Destro e forte di corpo, vinse in quel torneamento che fu celebrato dai versi di Luca Pulci, come il fratello Giuliano uscì vittorioso da quell' altro, che venne cantato da Angelo Poliziano.

Il nome della famiglia dalla quale veniva, le sterminate ricchezze di che poteva far uso, la copiosa istruzione che gli adornava la mente, l' amicizia, anzi la devozione dei più illustri letterati del tempo, fra i quali quel divino ingegno di Pico della Mirandola, la prontezza dell' animo, lo spirito cavalleresco che mai non l' abbandonava, tutto concorreva a formare di lui un uomo straordinario, un principe potentissimo, quale di certo sarebbe divenuto, se i fati, anzichè nella Repubblica fiorentina, lo avessero fatto nascere in luoghi meno restii alla dominazione di un solo; ed infatti, in fondo al euore di questo giovine prediletto dalla fortuna, stavasi riposto un segreto pensiero, un' aspirazione vivissima, un voto: la assoluta signoria di Firenze. I suoi padri erano stati assoluti signori di fatto, egli voleva divenirlo di diritto; per lo innanzi una maschera aveva coperta l' usurpazione; a Lorenzo quella maschera riusciva insopportabile, ed aspettava il momento di strapparsela dalla faccia e gettarla via.

Queste due cose, se non mi sbaglio, vogliono essere considerate e tenute presenti, cioè, l' aspirazione di Lorenzo all' assoluta signoria di Firenze, ed i mezzi tutti da me testè accennati, di che egli poteva disporre. A ventun anno, cioè nel 1469, quando sposò Clarice Orsini, e quando, morto il padre, ne ereditò la potenza, Lorenzo era uomo coi suoi propositi, con la sua politica, con la sua volontà.

Da un anno appena godevasi il giovane Medici gli onori e gli omaggi dei Fiorentini, quando accadde lo scoppio di una congiura. Gli esuli fiorentini espulsi dalla patria nel 1466 per aver cospirato contro Pietro dei Medici, raccoltisi in buon numero intorno a Bernardo Nardi, occuparono violentemente la città di Prato. La fortuna non fu con loro, perciocchè un Ginori alla testa dei Pratesi assalì i fuorusciti, e dopo cinque ore di combattimento li vinse. Questo grave delitto di chi cercava rientrare nella patria perduta fu crudelmente punito. Il Nardi e sei dei suoi compagni ebbero tagliata la testa in Firenze; altri dodici furono giustiziati in Prato, altri molti morirono difendendosi, di modo che quasi tutti che avevano prese le armi perirono vittime della loro audacia. Questa terribile punizione, che avveniva sotto agli occhi di Lorenzo, e che da lui poteva essere almeno mitigata, mi fa conoscere che l' animo del principe parlava più forte che il cuore del poeta; e che le lettere e la filosofia di Platone non avevano per nulla ingentilito, come pure sogliono, l' anima del giovine signor di Firenze.

Due anni appresso, turbolenze e poi aperta rivolta in Volterra. Era questa città non suddita ma alleata dei Fiorentini, ai quali pagava mille fiorini ogni anno. Una miniera di allume presa in affitto da un sanese. Benuccio Capacci, profittando molto al fittaiuolo, fu causa che quei di Volterra volessero levargliela, prevalendosi di non so quale irregolarità nel contratto d' affitto. Ne nacquero partiti, poi zuffe ed omicidi. I dieci della Signoria di Firenze, trovando ingiusta la pretesa dei Volterriani, rimisero in possesso della miniera gli affittaiuoli che ne erano stati cacciati via colla forza. Quei di Volterra si ribellano alla sentenza della Repubblica fiorentina; la Repubblica fiorentina determina di sottometterli colle armi. Nei consigli di Firenze Lorenzo votò per l' uso della forza. Quei di Volterra cercano alleati in Italia, ricevono promesse di danaro e di gente dagli esuli fiorentini, ed il 27 di Aprile 1472 si levano in armi. Forse vi era ancor tempo di impedire spargimento di sangue, ma Lorenzo ed i suoi vollero guerra. L' esercito fiorentino sotto il comando di Federico da Montefeltro conte d'Urbino entrò in Volterra per capitolazione dopo venticinque giorni d' assedio; per un giorno intero saccheggiò la città, non esclusi i sacri edifizi, violò le donne, trascorse a tutti gli eccessi della licenza militare, e finalmente abolì il Governo municipale, innalzò una fortezza sulla piazza del palazzo vescovile e Volterra città alleata fu ridotta suddita di Firenze. Lorenzo dei Medici non prese parte a questo fatto militare; egli si stette in Firenze; e quando gli giunsero all' orecchio le nuove della saccheggiata ed insanguinata città, non pare che il suo cuore di poeta e di filosofo platonico se ne commovesse punto.

Questi avvenimenti poco o nulla turbavano quella nuova maniera di vita che mano mano venivasi introducendo nella società fiorentina. Per lo innanzi costumanze austere, parsimonia nel vitto, operosità generale, educazione della gioventù al lavoro erano stati fregi ammirati di tutte le classi della popolazione; ma ai tempi dei quali parliamo i costumi cominciavano a farsi molli, il lusso stralimitava, l' ozio cominciava a vedersi nelle sale e per le piazze. Questo principio di decadimento morale si rese più sensibile dal 1471, quando il duca di Milano Galeazzo Sforza venne a Firenze con la moglie, Bona di Savoia, col pretesto di sciogliere non so qual voto.

La casa di Lorenzo si aprì al duca di Milano non come casa di cittadino, ma come di principe, riboccante di fasto e di opulenza; tanto che il signor lombardo ne stupì, e con ragione. La Repubblica, seguendo l' esempio del Medici, sfoggiò anch' essa in lusso, feste, sacre rappresentazioni, e tutto il popolo ebbro di tanto splendore mandava affascinato i suoi improvvidi evviva all' ospite illustre, al Medici ed ai governatori della Repubblica.

Da quel tempo in poi la temperanza cominciò a venire in uggia, il buon costume a fuggrie, la mollezza a dilettare. Della qual cosa se il Medici fosse o no contento, lascio considerarlo a chi sa come gli animi molli facilmente soggiacciano alla tirannide. E questa tirannide era già preparata, e ad onta di certi scaltrimenti tratto tratto si rivelava. Giuliano dei Medici che conosceva assai l' indole del fratello, e che aveva mente più riposata per prevedere i periocoli contro ai quali si andava direttamente, si ingegnava a rattenere Lorenzo nella china in che erasi messo e ad infrenarne l'orgoglio e la violenza. Però poco frutto coglieva; Lorenzo procedeva avanti per la sua strada; e mentre allietava gli amici ed i partigiani con la poesia e con le feste, dava opera ad umiliare ed a tenere impotenti le principali famiglie delle quali poteva temere l'emulazione. Scopo ultimo di questa politica, il suo assoluto dominio sopra la moltitudine quand' essa più non avesse un capo intorno a cui stringersi per rintuzzare l' oppressore. Ma è scritto nel destino delle cose umane che, nè tirannide, nè libertà arrivino a sedersi sui troni della terra senza passare per le vie sanguinose o delle congiure o delle repressioni.

E contro i Medici cominciò ad ordirsi una congiura. Motrice principale di essa la famiglia Pazzi.

Sull' origine di questa famiglia i genealogisti, sempre discordanti, ne dissero tante che mal potrebbesi imbroccare la verità. Chi la volle originaria di Fiorenza, e chi di Fiesole. Si sa di certo che i Pazzi di Valdarno ghibellini e quei di Firenze guelfi avevano avuto un ceppo comune. Nella prima crociata un Pazzo dei Pazzi, comandante di 2500 Fiorentini, combattè in Terra Santa, e nella espugnazione di Gerusalemme fu il primo di sua nazione a scalarne le mura e ad inalberarvi lo stendardo maggiore della sua schiera. Reduce in patria, ebbe da Goffredo di Buglione il dono di una corona murata ed il permesso di portar l' arme delle cinque croci con due delfini, che fu adottata nella famiglia Pazzi e sostituita a quella delle tre lune. Di costui narrasi che portasse da Gerusalemme i tre pezzi della pietra del Santo Sepolcro che trovansi tuttora depositati nella chiesa dei Santi Apostoli e dai quali ogni anno, il Sabato Santo, si cava la favilla del fuoco sacro. Certo è poi che questa famiglia ebbe nella Repubblica fiorentina cariche ed autorità, e godette reputazione di onesta, forse perchè non ebbe bisogno di trafficare il pubblico danaro per mantenersi nell' alta posizione che aveva fra commercianti.

Ora fra Pazzi e Medici erano gelosie e antichi rancori. Il vecchio Cosimo per rappacificarli aveva data Bianca sorella di Lorenzo in moglie ad un Guglielmo Pazzi, ma indarno; Lorenzo si spinse tanto oltre in queste segrete gelosie che, per nuocere ad un Giovanni dei Pazzi, marito ad una di casa Borromei, sancì per legge non poter la donna ereditare dal padre morto intestato, privando così la Borromei della ricchissima eredità paterna. Questa prepotenza accrebbe gli odii antichi tanto che un Francesco Pazzi abbandona Firenze e va a stabilirsi a Roma ove diviene il banchiere di papa Sisto IV.

Questo pontefice odiatore dei Medici aveva un figlio per nome Girolamo Riario cui voleva ad ogni costo, come avevano fatto alcuni dei suoi antecessori, elevare al principato. In questa guisa i nemici di Lorenzo venivansi stringendo fra di loro.

Per uno di quei tanti errori a cui l' ambizione trascina anco i più accorti, il Medici indusse gli otto della Repubblica ad ordinare che Francesco Pazzi ritornasse immediatamente a Firenze non so per quale inezia. Il Pazzi ubbidì; ma poco dopo tornò nuovamente a Roma pieno di sdegno e rinfocato nei vecchi odii. Con la benda sugli occhi si pose ad ordire una congiura a danno dei Medici e vi trasse dentro Francesco Salviati arcivescovo di Pisa, il Riario e lo stesso pontefice che non fecesi lungamente pregare. Facile cosa era mascherare la trama con la carità di patria e per tal guisa avere più numerose braccia nell' opera. L' animo di Jacopo dei Pazzi, zio di Francesco e di Giovanni, che era allora il capo del casato, fu espugnato anch' esso, e per la sua autorità i Pazzi tutti ed i loro amici si trovarono d'accordo.

Due lunghi anni stettero aspettando una favorevole occasione, e questa finalmente giunse. Il 26 aprile del 1478 celebravasi in duomo l' esaltazione di Raffaello Riario a cardinale. Giuliano e Lorenzo dei Medici vi intervennero: si celebra la messa, il sacerdote consacra l' ostia e l' alza all' adorazione del popolo; Lorenzo e Giuliano inginocchiati presso all' altare inchinano il capo: in quell' istante un Bandini ferisce di pugnale Giuliano nel petto, Francesco Pazzi lo finisce. Nel medesimo punto due preti assalgono Lorenzo, uno di essi, Antonio da Volterra, gli misura un colpo al collo; ma Lorenzo istintivamente si avvolge il braccio manco nel mantello, sunda la spada e difendendosi corre in sagrestia, le porte della quale sono immediatamente rinchiuse dal suo amicissimo Poliziano. Il grido dell' assassinio corre per la città; l' arcivescovo Salviati vuole impadronirsi del Palazzo pubblico, ma il gonfaloniere Petrucci lo fa arrestare. Il popolo si dichiara a favore dei Medici: i seguaci del Salviati che avevano penetrato nel Palazzo sono necisi e i loro cadaveri gittati dalle finestre; i due preti raggiunti e fatti in pezzi; Francesco Pazzi, Jacopo suo zio, un Ranieri della stessa famiglia, e un Andrea, un Nicolò, un Galeotto, e due Giovanni dello stesso casato, fuggono scompigliati, ma arrestati chi in città e chi fuori sono tutti impiccati, sterminati. L'arcivescovo Salviati con un suo fratello ed un cugino vengono impiccati anch'essi e pendono dalle finestre del Palazzo, misero spettacolo agli atterriti riguardanti. La città era insanguinata e brutta di uccisi. Il furore di Lorenzo ed il fanatismo del popolo non riconobbero più confini. Dei Pazzi solo Guglielmo cognato dei Medici in grazia della moglie ebbe salva la vita e fu cacciato ai confini; degli amici dei Pazzi fu fatta una ecatombe. Giuliano dei Medici vi lasciò la vita, ma Lorenzo ne uscì più forte e strapotente.

Ciò che ora verrò narrando a molti parrà incredibile, ma chi non sa come la tristizia di certi tempi rendesse ordinario persino l' inverosimile?

L' alleanza del papa con Ferdinando di Napoli e con la Repubblica di Siena a danno di Lorenzo, si manifestò intera ed armata quando fu visto fallito il colpo dei Pazzi. Le truppe napoletane valicavano il Tronto, e Federico di Montefeltro generale delle forze alleate, dichiarava la guerra non già, come egli diceva, alla Repubblica fiorentina, ma a Lorenzo dei Medici. Il papa volle aggiungere le armi spirituali e minacciò di scomunica la Repubblica fiorentina, ove entro un mese non consegnasse ai tribunali ecclesiastici Lorenzo dei Medici, il gonfaloniere, i priori, e gli otto della balìa con tutti i loro fautori. La bolla pontificia accennava al delitto commesso con queste parole che meritano di essere considerate: “Perchè i cittadini erano tra di loro venuti a contese civili e private, questo Lorenzo coi priori di libertà, ecc. ecc…. avendo interamente sbandito il timore di Dio e trovandosi infiammati di furore, aizzati da diaboliche suggestioni e trasportati come cani a farnetica rabbia, infierirono con tutta la possibile ignominia contro persone ecclesiastiche. Oh dolore! Oh inaudito delitto! essi portarono le violenti mani sopra un arcivescovo, e nel giorno stesso del Signore (era domenica), lo appiccarono pubblicamente alle finestre del loro Palazzo.” *) Bulla Sisti IV apud Raynald ann. Eccl. 1478, § 9, p. 272.)

I Fiorentini dovettero confessare il loro torto di aver fatto morire l' arcivescovo di Pisa ed i preti congiurati, i quali erano soggetti soltanto alla giurisdizione ecclesiastica; tentarono d'acquetare il papa assoggettandosi alle sue censure e restituirono in libertà il cardinale Riario. Ma tutto fu inutile; il dì dieci delle calende di Luglio Sisto IV con una seconda bolla fulminò contro di loro più gravi censure e vietò ai fedeli di avere commercio di sorta con loro; dichiarò sciolte le alleanze della Repubblica, e proibì perfino a qualunque guerriero di condursi al di lei soldo.

Veggendo tornar vano ogni riguardo i Fiorentini per difendersi elessero i decemviri della guerra, ed inviarono pure a tutti i principi cristiani un rapporto della congiura, e mandarono ambasciatori a richiedere di soccorso il duca di Milano e la Republica di Venezia in forza della pattuita alleanza. Adunarono in Firenze un Concilio provinciale di tutti i prelati toscani perchè protestassero contro la sentenza del papa, ed appellassero dalla sua scomunica ad un Concilio ecumenico; pubblicarono pure i documenti che provavano Sisto IV involto nella congiura, e mandarono questo documento all' imperatore, al re di Francia ed agli altri principi della Cristianità.

Il re di Francia ed altri principi vollero dissuadere Sisto IV dall' intraprendere la guerra, ma il cardinale di Pavia consigliò il pontefice a dare risposte evasive. Sisto IV s' attenne ai suoi consigli, indugiò fino al 27 Gennaio seguente a dare la prima udienza agli ambasciatori francesi ed intanto si apparecchiava alla guerra.

L' esercito pontificio era cresciuto di molto per essersi aggregati ad esso parecchi piccoli principi della Romagna; quello della Repubblica fiorentina non era ancora disciplinato, ciascun condottiere non voleva riconoscere l' autorità di un altro; si decise perciò di offrire il comando al duca Ercole di Ferrara. Questi, genero di Ferdinando di Napoli, stette in forse, ma il trenta Agosto fermò il patto di condotta coi commissari della Repubblica. Cominciarono in Luglio le ostilità ed i duchi d' Urbino e di Calabria guastavano con crudeltà grandissima il territorio fiorentino da loro occupato, ed espugnavano successivamente le più importanti fortezze. Finalmente l' otto di Settembre giunse in Firenze il duca di Ferrara; il dodici si recò a visitare il campo. Ma se i Fiorentini aveano potuto dolersi di non avere un capitano; poichè l' ebbero, si dolsero di averlo, chè s'accorsero di avere mal scelto. Egli è da farne le meraviglie che Lorenzo dei Medici durante una guerra sostenuta per cagione di lui, non siasi mai recato al campo dei Fiorentini. Forse non andrebbe lungi dal vero chi pensasse che Lorenzo si credeva necessario in Firenze per sorvegliare da vicino quei ch' egli reputava suoi segreti nemici.

Allorchè Lorenzo si vide additato dal papa e dal re come il solo nemico a cui movessero guerra, convocò un Consiglio composto di trecento cittadini.

Egli disse d'essere apparecchiato ad andare in esiglio, in carcere, ed anco alla morte ove colla perdita sua la patria credesse doversi riscattare dalle offese dei suoi nemici. Ma in pari tempo fece scaltramente comprendere ai cittadini che la loro prudenza e la loro perseveranza bastavano sole per resistere al turbine e far cessare i mali ond' erano minacciati. I Fiorentini chiamati al consiglio corrisposero alle generose proposte, giurando di consacrare i beni e le vite in difesa dei Medici. *) Machiavelli, Storie Fiorentine, t. VIII, p. 380.)

Frattanto i decemviri della guerra facevano nuove leve di soldati, e Donato Acciaiuoli, uno dei più reputati letterati del secolo, era stato mandato ambasciatore alla corte di Francia, ma giunto che fu in Milano infermò e morì. Gli fu dato a successore Guido Antonio Vespucci, se non che tutte le amichevoli prove che s'ebbe da Lodovico XI dovevano rimanersi senza alcun utile risultato, e così tutti i loro tentativi di farsi alleati anche i signori di Siena, Lucca, Bologna e Faenza andarono a vuoto. La speranza del Medici e dei Fiorentini stava ormai riposta tutta nell' alleanza coi due Stati di Milano e Venezia. Ma Venezia dichiarò di non essere tenuta alla difesa di particolari cittadini nelle private loro liti, valendosi per iscusa della dichiarazione degli alleati. La reggenza di Milano promise di assecondare di buon grado il Governo fiorentino, ma Ferdinando di Napoli, per togliergli ancor questo possente aiuto, aveva trovato il modo di far nascere negli Stati della duchessa Bona delle serie brighe.

Frattanto che la guerra durava, Lorenzo dei Medici vedeva vacillare la sua potenza e temeva prossima una ruina. Le cose di Firenze andavano ogni dì peggiorando. La città era stanca di una guerra con tanti infelici successi, le truppe vedevansi disperse, i nemici avevan guastate le migliori fortezze, quasi niuna provincia era rimasta intatta, il traffico languiva, e ognuno desiderava avessero un fine tante calamità; e Girolamo Morelli, uno degli amici, ed uno dei più zelanti partigiani dei Medici, disse a Lorenzo in pieno Consiglio: “La nostra città è omai stanca; più non vuole la guerra; più non vuole rimanersi interdetta e scomunicata per diffendere la vostra possanza”. *) Jacopo Nardi, Historic Fiorentine, t. I, p. 12.)

Ma ecco che Lorenzo inaspettatamente riceve dal duca di Calabria e da quello di Urbino, suoi avversari, proposizioni di pace. Come ciò? Lodovico XI, cui Lorenzo credeva suo nemico, erasi adoperato a questo fine, imperciocchè, dopo aver preso le redini del Governo, egli erasi vôlto agli affetti dei suoi predecessori e voleva salvare Firenze di cui conosceva utile l' alleanza, e scostarla da Venezia; voleva inoltre staccare il re di Napoli dal papa, e già vedeva svilupparsi fra loro il germe della discordia; infatti il 24 Novembre, quando meno ognuno se l' aspettava, una trombetta venne ad annunciare in Firenze ch' era stata fermata una tregua tra il re di Napoli, il papa e la Repubblica per trattare la pace.

Ma era duratura cotesta pace? era rassicurato il potere di Lorenzo? la pubblica opinione erasi tutta volta in favore di lui? Non ancora! Era necessario un ultimo colpo. Il Medici lo meditò e lo eseguì. Egli appigliossi ad un partito in apparenza audace, ma che pure era il solo prudente, quello cioè di recarsi egli stesso alla corte di Ferdinando di Napoli, di conoscere le segrete sue intenzioni e di approfittarne per negoziare con lui; Lorenzo con questo passo non si esponeva a verun rischio, perchè la politica non permetteva al Re di Napoli nessuna animosità inverso Lorenzo. Esortato dal duca di Calabria e da quello di Urbino a fare questo viaggio, avuta da Napoli la promessa di esservi ben accolto, il 5 Decembre raccolse il Consiglio dei Richiesti ed espose loro la sua intenzione. Partì il giorno stesso, ed il dì dopo scrisse da San Miniato alla Signoria per prendere da lei congedo. Ei si dipingeva in questa lettera come una vittima che si offre in sagrifizio per placare lo sdegno di possenti nemici. Giunto a Pisa, vi trovò le amplissime credenziali mandategli dai decemviri della guerra per negoziare in nome della Repubblica. Imbarcossi poscia su d'una galera napoletana che lo aspettava per ordine di Ferdinando a Livorno, il cui capitano lo ricevette a bordo con i più grandi onori. L'arrivo di Lorenzo dei Medici in Napoli fu un vero trionfo. Federico secondogenito, e Ferdinando, nipote o abbiatico del re, vennero ad accoglierlo al lido, e lo stesso monarca mostrò di credersi onorato della venuta di un tanto ospite. Ebbe con lui lunghe conferenze intorno alle cose d'Italia; gli svelò le profferte di Lodovico XI, e gli fece presente come gl' interessi di Ferdinando e quelli dei Fiorentini erano conformi onde evitare che gli oltramontani scendessero in Italia; che premere doveva ad ambedue gli Stati di mantenere l' Italia in pace, di chiudere l' ingresso ai Turchi per mezzo dei Veneziani, ed ai Francesi per mezzo del duca di Milano; di consolidare il Governo della Lombardia, di vigilare contro i progressi della Repubblica veneta dopo la pace ai confini d' Oriente, e di tener in freno il genio turbolento del papa, il quale, per fondare a pro di suo figlio un piccolo principato, aveva colle più funeste pratiche posta a pericolo tutta Italia.

Ferdinando trattenne a lungo il Medici presso di sè per vedere ed accertarsi se i suoi nemici volessero approfittare della sua assenza. Da ultimo s' indusse a firmare il 6 Marzo del 1480 con Lorenzo la pace tra il suo Regno e la Repubblica fiorentina. Pose per patto che i Pazzi che non avevano preso parte alla congiura e che trovavansi prigionieri nella torre di Volterra fossero liberati, e che i Fiorentini pagassero a suo figlio il duca di Calabria, a titolo di soldo, l' annua somma di sessanta mila fiorini. Dal canto suo il re promise di restituire le città e fortezze prese ai Fiorentini in quella guerra, ed i due Governi si promisero di essere reciprocamente mallevadori dei loro territorii.

Il papa si mostrò indispettito di non essere stato consultato in tutta questa faccenda, e manifestò gran premura di allearsi con la Repubblica veneta, la quale aveva pure ragione di lagnarsi della Repubblica fiorentina sua alleata; ma infine Venezia aderì al trattato di Napoli, e le ostilità cessarono del tutto. La pace pubblicossi anche in Siena il 23 Marzo 1480.

Lorenzo fece ritorno in Firenze, dove venne accolto come il Salvatore della patria. Egli si giovò di questa riconoscenza del popolo per ampliare la propria autorità; il 12 Aprile fece creare una nuova balìa, con intenzione però di non crearne all' avvenire perchè il nome e la podestà di questa contribuiva a rendere odioso il nome dei Medici. Questo nuovo Consiglio fu composto di settanta cittadini, i quali dovevano essere primi consultati nelle pubbliche faccende. Il Consiglio dei settanta cominciò un nuovo scrutinio d'elezione per formare le borse dei Magistrati, e lo fece durare quattro anni, onde più lungamente mantenersi dipendenti coloro che ambivano cariche; e col danaro pubblico pagò i debiti contratti da Lorenzo dei Medici.

Sisto IV, spaventato nel vedere che l' armi turchesche invadevano l' Italia, si determinò alfine di riconciliarsi con Firenze; e comunque tratto a questo passo in forza dell' urgenza delle circostanze, egli diede a divedere tutta l' alterigia della sua indole; e dopo di aver ricevuto gli atti di sommissione dagli ambasciatori fiorentini il 3 Decembre del 1480, per modo di penitenza impose loro che Firenze dovesse armare a sue spese quindici galere per far argine ai Turchi. E così ebbe fine la guerra, nata dalla congiura dei Pazzi.

La possanza del Medici era finalmente rassicurata, e da quell' anno in poi le vicende politiche d' Italia toccarono la Repubblica fiorentina nè più nè meno che come gli altri Stati italiani; e finalmente venne conclusa una pace, per la quale le genti italiche per qualche tempo posarono.

Senonchè per l' assolutismo di Lorenzo era minaccia la virtù del popolo e l' amore di esso alla libertà; laonde gli convenne porsi ad un' opera, non nuova nella storia delle tirannidi, quella di corrompere gli animi e di renderli proclivi a servitù. Ma in siffatta terribile politica s' incontrò in un uomo di dura tempra, in uno di quegli uomini che intermi fan guerra, che s'impongono con la forza della verità e del bene agli nomini più assoluti e dispotici, che tengon viva la fiamma della libertà quale fuoco sacro destinato a scaldare il petto alle generazioni, che attraverso la confusione dei secoli rappresentano le eterne idee della giustizia, che infine propugnano il diritto, ricacciano indietro la forza, e sventano le più sottili astuzie di chi intende ad elevare il suo trono sull' abbrutimento e sulla umiliazione dei popoli. Quest' uomo che a Lorenzo dei Medici attraversò il cammino del trionfo, e che negli incerti animi dei Fiorentini fece giungere la gagliarda parola della virtù repubblicana, fu frate Girolamo Savonarola. Dirò brevemente di lui.

Nato in Ferrara da illustre famiglia padovana, vestì l' abito domenicano nell' anno 1475 nella città di Bologna, studiò, secondo l' istituto monastico, teologia e filosofia; ed in quest' ultima scienza progredì per modo che venne ben presto incaricato di insegnarla pubblicamente. Predicò in varie città d' Italia e finalmente si ridusse a vivere in Firenze nel convento di San Marco. Il suo carattere si mostrò nell'austerità della vita e nella rigidezza dei costumi; e a misura che la marea della immoralità cresceva, il suo animo si chiudeva in sè stesso e non manifestavasi che nella parola terribile ed incisiva di severi castighi pendenti sul capo della generazione pervertita.

Divenuto superiore della comunità di San Marco, cominciò a formare il buon costume dei frati, e sembra non trovasse altra via per riuscirvi che la continua occupazione nella preghiera e nell' esercizio delle arti. Il convento di San Marco infatti ai tempi del Savonarola poteva dirsi un collegio di artisti.

A poco a poco la riforma del convento si estese alle famiglie dei devoti e da queste alle prossime e congiunte per sangue; talchè parve che dal chiostro solitario di quei frati domenicani uscisse rinvigorita la parola cristiana, atta a moralizzare le masse, ed a far vergognare di sè i corruttori del popolo.

Il nome di fra Girolamo cominciò a fare il giro della città, e dalla casa dell' umile artigiano salì inosservato fino alle sale dei ricchi mercanti e dei cittadini più potenti. Fatto il primo passo, questa maniera di riforma proseguì nel suo cammino naturale e giunse fino ai giovinetti ed alle fanciulle, che presto sotto l' influenza dei frati riformatori si videro in processione per le vie di Firenze cantare nei giorni solenni inni e lodi a Gesù Cristo ed alla Vergine. Non bastava; era d' uopo ancora studiare le sorgenti della demoralizzazione e tosto portarvi rimedio. Fra Girolamo trovò queste sorgenti nella famiglia Medici e nei suoi partigiani, e non tardò ad intendere come la mollezza fosse per quel potente casato un mezzo per giungere al dispotismo. Così fra Girolamo Savonarola si trovò nella via che Lorenzo dei Medici voleva percorrere e gli fu di fortissimo ostacolo.

Quando quel frate austero diede principio in Firenze alla sua predicazione, fu una curiosità generale di vederlo e di ascoltarlo; ma la curiosità si cambiò in interesse quando quel frate, nuovo Demostene, fu udito tuonare dal pergamo non solo a favore della religione e contro i peccati, ma anco a favore della libertà politica e contro gli usurpatori.

Da quello che di lui fu scritto dai suoi contemporanei, e specialmente da tali che lo conobbero da vicino, si può dedurre che l' offesa alla religione di Cristo non erano per lui colpe differenti. Egli pensava che non si poteva attentare alla libertà di Firenze senza ferire al cuore la religione di Cristo. Dove simile persuasione e fede dovesse condurlo non è difficile prevedere. Le sue prediche erano sermoni politici pei quali venivansi rinfocando le passioni e le ire dei partiti, le sue minaccie non accennavano che a sventure sociali, onde timori e turbamenti; il suo zelo smascherava le arti di governo e le astuzie usurpatrici e quindi venivansi meglio disegnando persone e cose, e si pensava seriamente con grave preoccupazione al prossimo avvenire.

Nè lo sguardo di fra Girolamo arrestavasi a Firenze; esso spingevasi fino a Roma, fino nel Vaticano, fino nel cuore e nella mente della Curia pontificia. Visto ciò che in quei tempi, comunque bruttissimo a vedersi, si vedeva da tutti; tuonò egualmente sulla corruzione dei papi e del sacerdozio, e vaticinò terribili flagelli, che pochi anni appresso dovevano piombare sopra la Chiesa di Roma per opera di Martino Lutero.

Siffatta predicazione, come è naturale, non piaceva nè ai Medici, col loro partito, nè al papa col suo clero e col suo episcopato. Contro il riformatore di San Marco dovevano dunque sorgere numerosi e potenti nemici. I papi credettero di farlo tacere con alcune minaccie e proibizioni che nell' animo securo del frate non produssero effetto di sorta. Lorenzo dei Medici prima si provò a vincerlo con le blandizie invitandolo al suo palazzo ed alle sue conversazioni; ma vedendo che non riusciva ad espugnarlo, cercò per mezzo dei suoi amici farlo scadere nel concetto del pubblico con le derisioni e con lo scherno.

Io ora non mi porrò a narrare per ordine i fatti avvenuti in Firenze pel cozzo dei due partiti e gli scandali e le baruffe che ebbero luogo per fino nelle chiese, mi basta il rilevare che mentre il Savonarola predicava al popolo la virtù cristiana, il partito dei Medici divertiva i cittadini colle feste, con le veglie e coi canti. Le due correnti si urtavano, e mentre i frati ed i fanciulli da loro educati raccoglievano dalle famiglie libri, quadri ed altro che era giudicato contrario alla morale ed alla fede, e tutto bruciavano in una pubblica piazza, Lorenzo stesso dei Medici non disdegnava scrivere quei canti carnascialeschi, cosparsi di tanto epicureismo da non sembrare fatti per divertire, ma per isfrenare il popolo ai diletti sensuali in cui ogni virtù cittadina si distempra e finisce. E però non è a meravigliarsi se i tempi dessero ai seguaci del Savonarola il nome di piagnoni ed a quei del Medici quello di compagnacci. Come non è a meravigliarsi se fra gli amici intimi del frate troviamo un Zanobi Acciaiuoli, un Giorgio Vespucci, un Tommaso Seratico, un Girolamo e un Domenico Benivieni, ed altri illustri cittadini, i nomi dei quali figurano onorati o nella storia civile o nella storia letteraria. Però si stenta a credere che i due partiti potessero arrivare al segno a cui arrivarono, come ci narra uno storico contemporaneo, il Burlamacchi. Di questo scrittore riporto qui la narrazione di un fatto particolare che servirà di criterio per giudicare gli altri ed i miseri tempi che allora volgevano.

Il Burlamacchi, amico per altro e famigliare del Savonarola, scrive dunque così:

“Essendo gonfaloniere di giustizia Vieri dei Medici, grande avversario del Padre, per mezzo della compagnia dei compagnacci cercò impedirlo nella solennità dell' Ascensione del Signore e fargli qualche dispiacere. Onde mandò alcuni cittadini a dirgli che si astenesse dal predicare perchè non avesse a nascere scandalo. Ond' egli, chiamati molti cittadini onorati dei primi della città, amici suoi, narrò loro quanto gli aveva fatto intendere la Signoria; i quali risposero: Che se egli non aveva paura e aveva animo di resistere ai tristi, che seguisse a predicare. Udendo questo gli avversari fecero consiglio e determinarono di ardere le panche e i gradi dove il popolo si sedeva e il pulpito dov' egli predicava. Onde convennero insieme di nuovo circa cinquanta dei compagnacci per eseguire il proposito; e andando al duomo, uno che fra di loro era il più nobile e il più ricco, avendo pensato meglio la cosa, si voltò agli altri, e disse: Sarà meglio che mutiamo pensiero e ci leviamo in questa impresa acciò non entriamo in qualche pericolo, perchè essendo noi tanti, è impossibile che non siamo scoperti; ed io avendo che perdere non me ne voglio più impacciare. Al partito del quale accordandosi molti altri, la cosa restò impedita. Ma uno fra gli altri, essendo pieno di rabbia, si levò su e disse: Due giorni sono fu portato quì un asino morto; leviamogli la pelle e poniamola in pergamo: ammorberà tutta la chiesa, e ognuno si fuggirà: poniamocela dunque, e imbrattiamo ogni cosa con la sua carne cotta e con veleno sotto ai piedi del Crocifisso, dov' egli alle volte tocca con le mani, acciò di veleno perisca: mettiamo ancora per la sponda del pergamo molti chiodi con le punte rivolte in su, dov' egli suol percuotere con le mani.”

“A questo tutti acconsentirono, e fu subito eseguito; e levarono di più il titolo che diceva: Jesù Cristo Re della Città di Firenze: il che fatto, andarono via. La mattina per tempo il popolo secondo il solito, incominciò a concorrere alla chiesa tre o quattro ore prima che si predicasse; ed entrati dentro subito sentirono puzzo che non si poteva patire, tanto era crudele! E sapendo che in chiesa non v' era altra sepoltura fuori che quella de' canonici, nella quale per molto tempo niuno era stato sepolto, s'avvidero che veniva dal pergamo; onde gli ufficiali dell' Opera chiamati i legnaiuoli e ministri che vicini stavano, fecero in un subito cavare i chiodi e nettare tutto il pergamo in modo che parea nuovo. Solo i piedi del Crocifisso rimasero, perchè non si sarebbono mai immaginati una così orrenda e inaudita empietà.”

“Udendo dunque i ribaldi e scellerati uomini il disegno loro interrotto, di nuovo segretamente convennero nella canonica, e deliberarono di pigliare le armi e ammazzarlo in pergamo. Ma venuto a luce qualche indizio di ciò, fu talmente accompagnato il Padre, e guardato nell'andare e nel tornare, che vano riuscì il loro pensiero.”

“Ed era cosa mirabile, che in quel pericolo non solo gli uomini, ma anco di molte donne in sua difensione presero le arme, mettendosi sotto alcune scimitarre e falcioni per cavarle fuora al bisogno. Ora essendo già cominciata la predica, un giovane scellerato prese una cassetta, dove si tenevano le elemosine del Monte della Pietà, posta sopra un banco nel mezzo della chiesa, fra le due porte che vanno, una alla canonica dei preti, l' altra alla Nunziata; e percosse sopra con quella con grande impeto; onde per lo rumore tutti gli audenti si voltarono. Il che fatto quel giovane fuggì via, e le porte subito furono spalancate. Si era anco dato ordine che si sonassino le campane, ma quello a chi toccò non ebbe ardire.”

“Pensavano loro che a quel segno il popolo dovesse fuggire e lasciar solo il Padre, onde avessino poi facilmente potuto ammazzarlo. Ma niuno partì; anzi cavate fuori di molte arme, insino alle donne incominciarono a gridare: Viva Gesù Cristo nostro Re. E uno degli Otto, nemico del Padre, si accostò all' uscio del pergamo per ammazzarlo; ma Corbizio da Castrocaro, che per commissione guardava quel luogo, gli dette una guanciata; il che non erasi mai più innanzi udito di alcuno degli Otto. Allora il Padre prese in mano il suo Crocifisso d' ottone, il quale sempre portava in petto, e lo mostrava al popolo; ma per lo gran tumulto le parole sue non s'intendevano.”

“Stava egli prostrato innanzi a quel Crocifisso aspettando allegramente il martirio. Allora tutto il popolo, eccetto gli armati, con le croci rosse in mano elevate in alto, con gran voce gridando Viva Gesù Cristo Re nostro; e molti cittadini amici suoi, cavate fuora le spade, cavarono il Padre dal pergamo, e sano e salvo lo accompagnarono insino a San Marco, gridando: Viva Cristo. Levossi in quel punto in arme quasi tutta la città, e poco mancò si facesse qualche zuffa sanguinosa. La sera, dopo cena, il Padre forì nell' orto la sua predica, acciò il demonio restasse confuso affatto; e nel medesimo tempo per pubblico bando fu proibito che niuno potesse più predicare; e tutti i gradi fatti nel duomo per l' audienza furono disfatti, aprendosi dall' altra parte la strada a' giuochi, alle taverne, alle meretrici e ad ogni più enorme vizio, facendosi tutto in dispregio del Padre e de' seguaci suoi; e dicendo: A dispetto del Frate giuocheremo”. *) Fra Pacifico Burlamacchi. La vita con alcuni scritti del Padre Fra Girolamo Savonarola arso in Firenze l' anno 1498.)

Non si può negare che quelli non fossero tempi torbidi e che le passioni tutte non si adoperassero a vicenda per rendere inquieta la vita attuale e pieno di pericoli l' avvenire. Nessuno dei due partiti cedeva all' altro il campo; e se ai compagnacci riusciva facile porre in ridicolo le pratiche ed il fanatismo dei piagnoni, ai piagnoni riusciva altrettanto facile rendere odiosi i compagnacci che si sfrenavano ad ogni laidezza e ad ogni vizio. Lorenzo poteva osservare dall' alto il contrasto dei principî ma non poteva in cuor suo giudicarsi estraneo o indifferente a quel subbuglio di idee e di fatti. Che anzi nella spensieratezza della gioventù fiorentina e nella sua smania per le cosa da nulla venute in moda era costretto a riconoscere le opere sue fatte con profondo studio e con molta destrezza. Ai piagnoni non era possibile strappare il potere dalle mani del Medici che lo teneva saldo; nè a Lorenzo era possibile godersi in pace l' usurpato dominio, perciocchè il Savonarola ed i suoi seguaci erano sempre là a motteggiarlo, e qualche volta a ferirlo nel più vivo del cuore.

Ora ognuno può fare a sè stesso una domanda: I Fiorentini amavano forse la servitù o non si accorgevano che Lorenzo veniva stringendo le catene ai loro polsi? A me sembra di poter rispondere a questa domanda, osservando più da vicino le arti del signor di Firenze in quella sua maniera di dominazione; arte non comune certamente, perciocchè l' orgoglio non lo acciecò mai a tal segno da dimenticare che aveva a che fare coi Fiorentini.

Prima di tutto egli seguì l' esempio dei suoi nel coltivare e far coltivare la filosofia platonica, destinata ad abbattere quella di Aristotile che aveva sì lungamente tiranneggiate le intelligenze. Narra Marsilio Ficino che a motivo di un Concilio in Firenze era giunto da Oriente un Giorgio Gemisto Pletone, austero di costumi, di venerande sembianze, immacolato nella vita, fermo nei suoi arditi e indipendenti principî. Cosimo dei Medici che in quel tempo reggeva le cose della Repubblica, prese a volergli bene ed a farselo amico. Or questo Pletone, dice il Ficino, fosse o per l'analogia del nome o per ischietta ammirazione, amava d' un amore entusiasta le dottrine di Platone, le commentava e predicava con eloquenza incantatrice e con rispetto sì vero e sentito che in lui pareva religione. Fu così che Cosimo divenne protettore della platonica filosofia e ne facesse anco studio speciale per sè stesso, ritraendone, com' egli diceva, allievamenti e dolcezze.

Per diffondere poi l' amore a queste filosofiche discipline, per consiglio dello stesso Gemisto, fondava nella propria casa un' adunanza che, come Platone aveva chiamata la sua, egli pure volle intitolare Accademia.

Ora appunto fu questa accademia che Lorenzo prese ad illustrare raccogliendo in essa quasi tutto il miglior senno toscano. Da questa accademia trassero celebrità oltre ai nominati di sopra, il Marsuffini, il Cavalcanti, il Nutti, il Bandini, il Benci, il Traversari ed altri. Coronato da questi illustri ingegni, Lorenzo si ebbe il nome di Magnifico, e non è necessario il dire che tanta gloria ei la sfoggiasse di buon cuore come atta ad abbacinare gli occhi del popolo.

Ma fuori dell' Accademia io trovo Lorenzo ispirarsi alle massime di Epicuro e valersene a scopo determinato come ora dirò.

Nel cozzo degli opposti principii non era possibile che i cittadini si rimanessero indifferenti, e dei due partiti quello che aveva per sè migliori ragioni di vittoria era certamente il partito del Savonarola, sì perchè propugnava la buona morale, sì ancora perchè faceva risuonare alto il grido di libertà. E per di più, voleva al potere i popolani, ciò che non è piccola lusinga per le masse.

Nei Fiorentini non era spento l' amore di libertà, e le tradizioni democratiche erano in loro troppo eloquenti perchè potessero di un tratto saltare il fosso e acconciarsi alla oligarchia od alla tirannide di un solo. Lorenzo il Magnifico conosceva tutto questo e logicamente venne nella determinazione di sviare la mente del popolo dai pensieri politici, e di trascinarla in un altro ordine d' idee ed in altre maniere d' interessi. Egli era conoscitore degli umori popolari, e però con quella volontà potentissima, che era una delle sue qualità, si pose all' opera di degradare il popolo fiorentino, di affascinarlo colle feste e con la prodigalità e di ridurlo per tal modo indifferente ai suoi veri interessi, passionato a certi modi di vita che possono compendiarsi nella parola ubbriachezza dell' intelletto e del senso, si servì della sua vena poetica e compose quei canti carnascialeschi che divennero famosi non solo in Firenze ma anco fuori. Riporto qui alcun di questi versi coi quali il principe poeta dava principio al suo Trionfo di Bacco e di Arianna. Eccoli:

Quant' è bella giovinezza Che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia; Di doman non v' ha certezza. Questi è Bacco ed Arianna, Belli, e l' un dell' altro ardenti; Perchè il tempo fugge e inganna, Sempre insieme stan contenti. Queste ninfe ed altre genti Sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, ecc. Questi lieti satiretti, Delle ninfe innamorati, Per caverne e per boschetti Han lor posto cento agguati, Or da Bacco riscaldati Ballan, saltan tuttavia, Chi vuol esser lieto, ecc.

E questi canti venivano cantati da uomini in maschera che nelle feste del carnevale stavano sopra od intorno al carro trionfale che percorreva la città al chiarore delle faci nella notte.

I critici lodano questi versi per venustà e per arguzia, e sia così; ma considerandoli nella loro sostanza e negli effetti che dovevano produrre, giustizia vuole si condannino come sorgente d'immoralità.

Gli epicurei volevano forse di più? le loro massime erano forse differenti? si consigliano amori e vino, si distrugge il pensiero del dimani, ad esempi di vita si propongono Bacco, Arianna, le ninfe ed i satiri. E le storie di quei tempi ci narrano che il buon popolo fiorentino non rimaneva freddo nè a quei consigli nè a quei canti, e che faceva del suo meglio per corrispondere convenientemente alle paterne premure del Magnifico Lorenzo. Certo in quelle ore medesime che i compagnacci cantavano di Bacco e di Arianna, i piagnoni ritirati nelle loro case dovevano cantare di Gesù Cristo e di Maria, ma il loro numero venivasi gradatamente scemando, ed il tripudio dei servi la vinceva sulle preghiere religiose dei liberi.

Il Savonarola fulminava dal pergamo, ma i suoi fulmini si spegnevano in quel mare di dissolutezza, nel quale affogava miseramente l' amore della patria, della libertà, della indipendenza e del lavoro. Bisogna dirlo, Lorenzo dei Medici toccò la meta sospirata, si trasse in mano il potere, rese vani i privilegi dei cittadini, costituì il Principato, ed ebbe la fortuna di sentirsi lodato, ammirato, careggiato da uomini che poco prima liberi cittadini, ora servi, forse senza essersene accorti, avevano una lode ed un inno per il loro oppressore.

Lorenzo dei Medici spense la libertà di Firenze con la magnificenza, con le blandizie, con la poesia; egli abbracciò la bella Firenze, ma per serrarla e soffocarla nel suo stesso abbracciamento.

I fati vollero ch' ei non godesse a lungo del suo trionfo e dell'usurpato potere. Contava quarantaquattro anni quando si ammalò nella sua villa di Careggi; una violenta febbre che si aggiunse alla gotta, male ereditario di sua famiglia, lo trasse in breve tempo all' orlo del sepolcro. In quei terribili momenti di certo egli dovette riflettere sullo stato delle cose e su quello che sarebbe avvenuto ai suoi figli dopo la morte sua. E forse questo pensiero lo indusse a volersi rappacificare con frate Girolamo Savonarola chiamandolo a Careggi per confessarsi a lui. Quale strano spettacolo doveva esser quello che presentava il rigido frate al capezzale dell'usurpatore che moriva? Io non m' attenterò a descrivere questa scena e ne lascio la cura al sopracitato Burlamacchi, che nella sua aurea semplicità narra intero il fatto della confessione con queste parole:

“Trovandosi Lorenzo infermo a morte, domandando il confessore, ed avendo appresso don Guido degli Angioli e messer Mariano della Barba, suoi famigliari, disse: Mandate per lo Priore di S. Marco, perch' io non ho ancor trovato religioso alcuno, se non lui. Andò dunque un messo a chiamarlo da parte di Lorenzo; al quale egli rispose: Dite a Lorenzo ch' io non sono il suo bisogno, perchè noi non saremo d' accordo; però non è espediente ch' io venga. Ritornato il servo con questa ambasciata, disse di nuovo Lorenzo: Torna al padre Priore, e digli che al tutto venga perchè io voglio esser d' accordo, e far tutto quello che Sua Riverenza mi dirà. Ritornato dunque il servidore a S. Marco, e fatta la proposta al padre Priore, egli prese subito il cammino verso Careggio, villa di Lorenzo, lontana due miglia dalla città, dov' egli giaceva ammalato, e per compagno suo prese Fra Gregorio, vecchio infermario, al quale per la via rivelò che Lorenzo al tutto doveva morire in quella infermità, nè poteva campare. Giunto presto al luogo, ed entrato nella camera di Lorenzo, salutatolo prima con le debite cerimonie, dopo alquanto di ragionamento disse Lorenzo: Padre, io mi vorrei confessare ma tre peccati mi ritirano indietro, e quasi mi pongono in disperazione. Al quale egli disse: E quali sono questi peccati? Rispose allora Lorenzo: I tre peccati sono questi, i quali non so se Dio mai me li perdonerà: Il primo è il sacco di Volterra, che patì per le promesse ch' io feci loro, dove molte fanciulle perderono la loro verginità, ed infiniti altri mali vi furono commessi. Il secondo peccato è il Monte delle fanciulle, delle quali molte sono capitate male standosi in casa, per non riaver avuta la dote loro. Il terzo peccato è il caso de' Pazzi, dove molti innocenti furono morti. Alle quali cose il Padre rispose: Lorenzo, non vi mettete tante disperazioni al cuore, perchè Dio è misericordioso, ed anche a voi farà misericordia se vorrete osservare tre cose ch' io vi dirò. Allora disse Lorenzo: E quali sono queste tre cose? Rispose il Padre: La prima è che voi abbiate una grande e viva fede che Dio possa e voglia perdonarvi. Al quale rispose Lorenzo: Questa c' è grande, e credo così. Soggiunse il Padre: Gli è necessario ancora che ogni cosa male acquistata sia da voi restituita, in quanto sia possibile, lasciando ai vostri figliuoli tante sostanze che siano decenti a cittadini privati. Alle quali parole stette Lorenzo alquanto sopra di sè, e dipoi disse: E ancor questo farò. Seguì allora il Padre la terza cosa dicendo: Ultimo, è necessario che si restituisca Firenze in libertà e nel suo stato popolare a uso di Repubblica. Alle quali parole Lorenzo gli voltò le spalle, nè mai gli diede altra risposta. Onde, il Padre si partì, e lasciollo senz' altra confessione; nè dopo molto spazio di tempo Lorenzo spirò, e passò all' altra vita.”

“Tutto questo riferì Fra Silvestro Maruffi, compagno intimo del Padre insino alla morte della croce. Lo riferì anco messere Domenico Benivieni, detto lo Scotino, nomo di gran dottrina e santa vita, canonico di S. Lorenzo, il quale diceva averlo ritratto da alcuni famigliari di Lorenzo, ai quali egli lo raccontò prima che morisse. Di questa visitazione parla anco il Poliziano in una sua epistola stampata insieme con le altre”. *) Fra Pacifico Burlamacchi. La vita con alcuni scritti del Padre Fra Girolamo Savonarola arso in Firenze l' anno 1498.)

Lorenzo morì il dì 8 di Aprile del 1492, e senza avere restituito la libertà ai Fiorentini. Mi viene acconcia una riflessione, ed è questa. Lorenzo era credente, perciocchè quei tempi non permettevano di poter fare il male sulla base dell' ateismo. Il morire impenitente o mal confessato lo conduceva al tribunale di colui che giudica rettamente e condanna per l' eternità.

Eppure Lorenzo sfidava questo giudizio e con esso l' eternità e l' inferno purchè lasciasse ai suoi figli in credità l' usurpazione fatta a danno di tutto un popolo. Voler godere dell' assoluta padronanza dello Stato di Firenze fino alla morte sarebbe stata vanità perdonabile alla superbia di lui, ma volerla a qualunque costo tramandare ai suoi figli perchè si perpetuasse nel suo casato, prova qualche cosa di più; prova che il potere illimitato accieca le menti, e che pur troppo in questa discendenza di Adamo il volere imperare sugli altri è una delle più forti passioni. Verità che gli uomini non dovrebbero ignorare per conservarsi la libertà, qualunque ella sia, ed in qualunque modo acquistata.

La fama di Lorenzo il Magnifico è fra noi quale ce la tramandarono i tempi fiacchi e gli adulatori di mestiere. I lumi del secol nostro ne possono disperdere, anzi ne disperdono la gloria menzognera, e ci additano quest' uomo un cattivo genio che ha dalla natura talenti non comuni, dalla sua famiglia ricchezze sterminate, dalla educazione modi e qualità affascinanti, ma che e talenti, e ricchezze, e modi, e qualità adopera per ispegnere la libertà della patria.

Che avvenne di casa Medici dopo la morte di Lorenzo? Quali colpe e quali virtù fanno trista o buona la fama dei suoi successori? Quando finì la dominazione di questa famiglia sulla città di Firenze? Rispondo a queste domande nel modo più breve che mi sarà possibile.

Pietro II successe a Lorenzo suo padre nell'amministrazione dello Stato, ma ben presto diè a divedere quanta disuguaglianza fosse tra l' abilità di lui e quella del padre. Assediato da Carlo VIII di Francia, per istigazione dei Fiorentini a lui contrari e dei suoi cugini Lorenzo e Giovanni dei Medici, volle imitare la condotta del padre verso il re di Napoli, e si condusse al campo di Carlo; ma l' effetto di questa sua risoluzione fu di cedere alla prima inchiesta le tre fortezze di Sarzana, Sarzanella e Pietra Santa, per la conservazione delle quali erasi appunto recato a quel passo imprudente, costretto anzi in appresso ad aggiungervi le città di Pisa e Livorno, senza averne altro profitto che la neutralità della Francia. Indignati di ciò i Fiorentini, egli si vide obbligato in unione a suo fratello Giuliano II di fuggire, e cercò asilo a Bologna e quindi a Venezia. Respinse la chiamata avuta da Carlo VIII di ritornare in Firenze, e soltanto dopo la ritirata dei Francesi provò di fare contro la sua patria quattro infelici tentativi; indi seguì gli eserciti francesi in Napoli, e trovavasi ai 28 Decembre del 1503 sulle rive del Garigliano quando i Francesi furono sorpresi da Consalvo di Cordova. Per schivare i pericoli di una battaglia, s' imbarcò sopra di una galera troppo carica di gente, la quale fece naufragio e perì insieme a tutti in vista di Gaeta.

Giuliano II divise tutti i pericoli di Pietro II suo fratello nell' esiglio ed ebbe parte anche ne' suoi vani tentativi di riacquistare Firenze. Fatto capo della Repubblica nel 1512, ricevette da Francesco I nel 1515 il titolo di duca di Nemours e morì nel susseguente anno.

Pietro II morì, alla sua morte lasciava un fanciullo, Lorenzo II, di undici anni che aveva avuto da Alfonsina Orsini e che viveva tuttora in esiglio. Il pontefice Giulio II per vendicarsi del gonfaloniere Pietro Soderini restituì ai Medici la loro possanza.

Il cardinale dei Medici e questo suo nipote Lorenzo fermarono il pensiero di abbattere il governo popolare, e crearono un supremo Consiglio che venne presieduto da Giuliano II. Due anni appresso per istigazione del cardinale Medici, addivenuto Leone X, che ebbe la gloria di dare il suo nome al secolo, e che fu causa principale del Protestantismo, Giuliano rinunciava alla presidenza della Repubblica in favore del nipote Lorenzo II, che più astuto, più tenace e più attivo dello zio, non portando affetto al popolo, venne in odio ad esso, e morì nel 1519. Egli aveva tolta in moglie l' anno innanzi Maddalena de la Tour d' Auvergne, e da questo matrimonio nacque Caterina dei Medici, che fu poi regina di Francia.

Fu questa donna d' animo non comune; ebbe pure tutti i vizi e le virtù del sangue d' onde nasceva, fu superstiziosa e galante. L' immensa strage della notte di San Bartolommeo ebbe origine in gran parte dai mali conforti di questa astuta donna che, come narra la storia, contemplò con indifferenza quella vista spaventosa. Moglie ad Eurico II re di Francia, per tre volte tenne la reggenza nel regno di suo marito; per ordine suo furono fabbricati i palazzi delle Tuileries e quello di Soissons; i castelli di Monceaux e di Chenonceaux, e morì nel 1589.

Giuliano I lasciava anch' egli un successore, Giulio dei Medici, che se pure figlio naturale, diede splendore al nome dei Medici. Fu dichiarato legittimo da suo eugino il pontefice Leone X, e fattolo entrare negli ordini sacri, lo fece arcivescovo di Firenze, cardinale e cancelliere di S. Chiesa. Salì poscia al papato, e fu quel Clemente VII che voleva reprimere la superchia potenza di Carlo V collegandosi coi Veneziani, coll' Inghilterra e col re di Francia, ma i due ultimi potentati mancarono ai pattuiti soccorsi, e Roma si vide saccheggiata dai soldati di Carlo, e Clemente VII che s' era rinchiuso nel Castel Sant' Angelo non potè uscirne libero che dopo sei mesi quando ebbe dati ostaggi e consegnati vari castelli in mano agli imperiali.

Il papa in seguito ad un convegno avuto in Bologna coll' imperatore, si rappacificò con esso lui e ne ottenne gli aiuti che abbisognava per ispegnere la riconquistata libertà di Firenze sua patria. I casi di quel lagrimevole assedio, le morti, gli esigli, il tradimento di Malatesta Baglioni e le calamità che seguitarono quando Clemente fattosi padrone della città ne diede la Signoria ad Alessandro dei Medici suo bastardo, sono cose assai note ad ognuno.

Per attestare la sua devozione all' imperatore Carlo V, il papa pubblicò quella famosa bolla del maggio 1534 contro Enrico VIII re d'Inghilterra, che partorì la divisione di quel popoloso e fiorente regno dalla Chiesa cattolica. Scrisse bolle per la riforma dei costumi in Italia e per approvare l' istituto dei teatini e dei cappuccini, concedette un breve per la pubblicazione delle Istorie del Machiavelli, del quale accettò la dedica, e cessò di vivere l' anno stesso che aveva emanato la famosa bolla. Morto Clemente VII, Alessandro suo figlio, pel quale il papa aveva ottenuto il titolo di duca o doge di Firenze, non conobbe più freno alle nefande sue voglie, e cominciò per questa sventurata città la più incompatibile tirannide. Onde non rimanesse più alcun testimonio della infamia e viltà di sua nascita, Alessandro avvelenò il cardinale Ippolito ch' era stato esiliato in Roma, ed anco la propria madre; commise nequizie e delitti d' ogni natura, perseguitò ogni ordine di cittadini e finì nel 1537 sotto il coltello di Lorenzino dei Medici, uomo di spirito ardente, nemico dei tiranni e ristoratore di libertà.

Anche un Giovanni dei Medici, famoso condottiero italiano, sopranominato il Gran Diavolo e più noto sotto il nome di Giovanni delle bande nere, pronipote a Cosimo padre della patria, ha la sua pagina della storia di Firenze; combattè per lei contro al duca di Urbino, passò poscia in Lombardia dove ottenne qualche profitto contro ai Francesi. Più tardi, dopo l' alleanza di costoro con Clemente VII suo parente, passò sotto ai loro vessilli e morì di ferita ricevuta presso Mantova nel 1526. I suoi soldati ai quali era caro assai sia pel suo coraggio, che talvolta trascendeva fino a divenir ferocia, sia per la licenza onde li lasciava a godere, tutti si vestirono a bruno alla sua morte, e perciò furon detti le bande nere, le quali continuarono a rendersi celebri per opera di crudeltà e di valore come se fossero sempre guidate dal Medici.

Suo figlio Cosimo I fu dichiarato duca della Repubblica dopo la morte di Alessandro, del quale non era parente che in decimo grado. Carlo V protesse quest' elezione, e l' aiutò con le sue armi contro ai Fiorentini stessi che stanchi dei vituperii medicei, propendevano per Filippo Strozzi. Ma non appena Cosimo uscì vittorioso dai suoi nemici, come il suo predecessore divenne tiranno. Non rispettò leggi, nè averi, nè costumi, ascrisse a dovere la delazione e l' uccisione dei ribelli, mandò in ruina il commercio, usurpandone tutto il monopolio. Le morti che l' una all' altra seguirono dei suoi due figli, il cardinal Giovanni e Don Garzia e della moglie, Eleonora da Toledo, furono universalmente stimati nuovi delitti che questo tiranno aggiungeva ai già tanti commessi. Travagliato dal mal della pietra, divise con suo figlio Francesco il peso, non gli onori del principato, e molto meno le rendite; per ottenere l' amicizia di Pio V abbandonò ai furori dell' inquisizione Pietro Carnesecchi, gentiluomo fiorentino, il quale erasi dato a seguire la Riforma. Per quest' atto il pontefice mediante una bolla lo dichiarò granduca di Toscana e l' incoronò nel 1570. Ma non venne riconosciuto per tale dalle altre potenze. Trasse miseramente il resto dei suoi giorni tra le inquietudini dei tiranni ed il dolorar degli infermi, e nel 1574 morì abbominato da tutti.

Allevato alla scuola dei tiranni, Francesco II suo figlio e successore al granducato di Toscana, si fè noto qual triste despota; orgoglioso e simulatore, s' amicò la casa d'Austria dalla quale con vili e striscianti modi ottenne la sanzione del titolo di granduca di Toscana. Seguì in tutto il reggime del padre. Bianca Cappello ottenne sopratutti i suoi cortigiani le sue grazie e ne abusò a suo talento. Questo Francesco fu il più perverso sovrano, il despota più crudele ed astuto che avesse la Toscana, perì nello stesso tempo di Bianca l' anno 1587, non è certo se di malattia, ovvero di veleno. Amante della chimica, protettore delle lettere e delle arti, a lui si debbono alcune invenzioni nella meccanica; fu il fondatore della magnifica galleria di Firenze, e vide nascere sotto a lui l' accademia della Crusca.

Il cardinale Ferdinando I fratello a Francesco II gli successe nel regno. Nessuno avrebbe potuto meglio di lui per le belle virtù di cui era adorno, far dimenticare i vizi del suo predecessore. Affabile, generoso, zelatore della pubblica prosperità, seppe far rispettare l' indipendenza della sua corona dalle potenze estere, si congiunse in matrimonio con Cristina di Lorena da cui si ebbe quella Maria dei Medici addivenuta poscia regina di Francia, che fu sì rea e tanto infelice, ed alla quale il solo merito che si può dare si è quello di avere protetto le arti. I Toscani piansero la morte di Ferdinando I per le sue buone qualità, ed a lui successe suo figlio Cosimo II, che quantunque seguitasse a fare molto bene alla sua patria, non aveva nè l' ingegno del padre per reggere lo Stato, nè la di lui forza di animo. Ebbe una breve discrepanza con la corte di Francia nel 1617 al tempo dell' uccisione del Concini e del supplizio di Eleonora Galilai, ma senza sinistri effetti. Si spense nella fiorente età di 32 anni nel 1609 dopo un regno riguardato come uno dei più felici della Toscana.

Ferdinando II, quinto granduca di Toscana, entrò successore a Cosimo II suo padre nell' undecimo anno dell'età sua. Fu tutelato dalla madre e dall' avola; tenuto debole per le circostanze difficili in cui versava a quei tempi l' Italia, si mostrò d'animo veramente grande nella pestilenzia che flagellava la Toscana nel 1630. è però molto biasimevole per aver lasciato trascinare in Roma nel 1633 Galileo Galilei settuagenario ed infermo, citato al tribunale dell' inquisizione. Dopo la morte delle sue due tutrici, sostenne la guerra contro il papa, ma con tanta debolezza e timidità che la storia delle sue imprese muove a riso. Più felice ed esperto mostrossi nel reggere il suo dominio, nel proteggere le lettere e le arti, e più ancora le scienze. Morì nel 1670, amato per la dolcezza del suo carattere e per le amorevoli consuetudini che ebbe col popolo e coi grandi, lasciando Cosimo III, suo figlio, erede del suo trono; ma questi non redò le virtù e le buone qualità del padre. Fu infelicissimo a cagione della moglie e dei figli, e vedendo ormai presso ad estinguersi la successione medicea fece dichiarare al Senato che dopo la morte dell' ultimo maschio di casa Medici, sua figlia Anna, già in allora sposa a Guglielmo Elettor palatino dovesse essere chiamata alla successione del dominio toscano: senonchè tutto ciò disparve in virtù del trattato promulgato dalle potenze estere nel 1718 mediante il quale l' Italia fu divisa tra le case borbonica ed austriaca, riservando il retaggio della Toscana e del ducato di Parma ad un infante di Spagna. Indarno Cosimo III protestò contro a questa decisione; abbominato dal popolo moriva nel 1725 lasciando lo Stato in rovina per soperchio di balzelli e pel suo stolto fasto, ed il ministero ridotto a grandi umiliazioni per dover sottostare alle leggi impostegli dagli altri potentati. E si fu per Gian Gastone, suo successore, settimo ed ultimo granduca di Toscana che il nome di Medici presso ad estinguersi, si fece grato ancor per un istante ai Toscani. Con lui si estinse la schiatta di questa famosa famiglia, che per quasi quattro secoli fu fomite ad intestine guerre e discordie nell' Italia tutta. Si noti che Gian Gastone per testamento dichiarò Firenze libera di darsi quel reggimento che meglio le piacesse. Egli non aveva successori, e poteva farla da generoso!