Il Lombroso non trova fuor di luogo il supporre che gli abitanti della provincia di Reggio derivino in parte da quei greci che, nel 1147, Ruggero Il portò prigionieri in Sicilia, dopo aver saccheggiato Tebe, Corinto ed Atene. Erano oltre 15,000 d' ogni condizione, misti a parecchi Albanesi e Schiavoni, per la maggior parte operati, tolti alle officine seriche del Peloponneso, introdurre in Sicilia l' arte di tessere in oro gli sciàmiti: e, al dire dello Zambelli, i più nobili tra essi furono mandati a popolare le terre allora disabitate che circondavano Reggio.

L' eredità del sangue greco, come del sangue barbaro, vi è riconoscibile a prima vista. La donna dal tipo greco ha linee purissime, fronte perfetta, naso aquilino, occhi sporgenti e lucidi, mento rotondo, persona alta e slanciata; mentre la donna a tipo saraceno è piccola, tarchiata, olivigna, dagli zigomi sporgenti, dalle folte sopracciglia quasi congiunte su occhi profondamente incassati, d' un bel castano oscuro. La prima è lenta, nobile nei movimenti, ma tarda nel pensiero; l' altra, agile, industre, astuta, ha sotto la bruna cute e gli occhi profondi un ardore di vita, un lampo d' intelligenza che innamorano. Più che nei grecismi del dialetto, nelle vestigia di qualche circo e nella tomba di quella Giulia, che, relegata e morta a Reggio, vi ebbe sepoltura, l' impronta greco-romana si ritrova in questo tipo femminile.

Lo stesso potrebbe dirsi delle invasioni barbariche, a ricordar le quali stanno, oltre gli abitanti, le torri così dette dei cavallari, poste in riva al mare, di dove la vedetta, incaricata di sorvegliare l' arrivo dei saraceni, al primo spuntare delle galee nemiche balzava a cavallo, dava fiato alla tromba, e destava all' armi il villaggio addormentato.

Le donne che godono fama di maggior bellezza sono quelle di Scilla, di Bagnara, di Fiumàra di Mura (che, sorta sulle rovine di Cenide, s' intitola così dal fiume che la rasenta) e di Gioiosa Jonica, fondata, al dir della leggenda, da una formosissima femmina di giocondo nome e di più gioconda vita, la quale, perseguitata, come la Mila di Codro, dal desiderio di tutta una turba di maschi, vi si rifugiò, e, raggiunta dai suoi adoratori, diede vita al villaggio che porta il suo nome.

Le donne di Scilla sono così belle che allorchè Carlo III di Borbone, giovanissimo ancora, s' imbarcò a Palmi, per passare trionfalmente in Sicilia, già conquistata dalle sue armi, si vide venir incontro, a festeggiarlo, gran numero di gondole, dove, come tante Cleopatre, stavano le formose fanciulle scillesi, travestite da ninfe ed inghirlandate di fiori. Anche un proverbio paesano dice: « le bedde (belle) sunno alla Schiggia; (scilla) janche (bianche) e russe (rosse) alla Bagnara … »

In vero tali sentenze non sono racchiuse in un distico, ma in una quartina, che mette anche gli ubbriachi a Palmi ed i mariti troppo compiacenti a Seminàra; ma non io adombrerò d' un sospetto la virtù delle Seminaresi, che, dopo tutto, sono tra le più econome e saggie della provincia.



Donne di Bagnara alla fonte (Debbo parte di queste incisioni e di queste notizie alla cortesia dei sigg. comm. Morisani, marchese Sarlo ed on. Mantica, ai quali rendo grazie, di qui.).

Ai tempi in cui Locri dettava le sue austere leggi, le donne locresi andavano lodate per la semplicità dei costumi. Era loro proibito d' ornarsi di seta e d' oro, a meno che non volessero distinguersi come donne venali, nel qual caso l' insegna vistosa era di rigore: legge inspirata ad un profondo concetto morale, cioè che il lusso e la vanità si pagano a prezzo dell' onore: ammonimento e simbolo ben degno dei legislatori che tenevano in così alto concetto la dignità umana da punire gli adulatori con la perdita della vista, e giudicavano tanto bella la morte da proibire alle onne di piangere, pubblicamente, i defunti.

In quanto alle donne di Bagnara, la piccola città dalle cento fontane, che ha nello stemma una femmina versante acqua dalle memmelle a simboleggiare la ricchezza industriale ed ortense che le viene dai suoi due fiumi, Caziano e Sfalassà; quanto alle donne di Bagnara, dico, la loro bellezza è così indiscussa che perfino un cappuccino, Fra Fiore, le ha reso omaggio, lodandone i capelli d' oro, tanto più pregiati quanto più rari nel resto delle Calabrie. E non sono belle soltanto. Pratiche, ardite, disinvolte, esse vanno a gruppi di centinaia, portando in giro pei paesi limitrofi pesce, ortaggi, stoviglie, legna, doghe di botti, e quanto altro offre Bagnara. È incredibile il peso che giungono a portare sul cercine queste valorose creature: un quintale circa! Nel circondario di Palmi il pesce è quasi esclusivamente portato dalle bagnarote che, arrampicandosi per le scorciatoie, su pei sobborchi di Pellegrina e di Solano, traversano quasi di corsa i piani della Corona, si spingono fino a Cittanova e più oltre, mentre gl' industri mariti, con titaniche fatiche che ricordano i Liguri primitivi, tagliano gli scoscesi colli rocciosi, per costruirvi gradinate di mura a secco su cui piantar le viti che vi prosperano rigogliose.

Venti anni fa uno scrittore, Nicola Marcone, descriveva a vivi colori le acque di Bagnara formicolanti all' alba di imbarcazioni piene di bagnarote, le quali, da sole, sollevavano il carico nelle carche, e, remando, si allontanavano alla volta di Reggio o di Messina.



Alla pesca del pesce spada (Scilla).

Adesso fanno quello stesso viaggio di notte, sui vaporini, imbarcandosi a Reggio o a Villa S. Giovanni, dove giungono a piedi, grondani sudore sotto il peso di enormi ceste.

Per cui, venendo di notte da Palmi o da Scilla, si vedono numerose fiammelle scendere in processione giù dai monti per vie tortuose, accompagnate da canti popolari che or si elevano or si smorzano a seconda del vento. È così che le povere bagnarote anmano le tenebre delle vie maestre e confortano la loro fatica.

Più che il regno della donna, la casa, in Calabria, può dirsene lo scrigno. La contadina, è vero, vi passa la minor parte del giorno; ma la borghese vi è rinchiusa, come un prezioso gioiello, da che nasce fino a che muore.

Da essa trae la parte di felicità e d' infelicità assegnatale quaggiù, ivi impruttisce e langue come una pianta in serra, mentre la contadina prospera al sole come un rigoglioso fiore dei tropici.

Fino a qualche tempo fa tutta l' educazione femminile di quei luoghi si riduceva alle faccende domestiche, ed era grazia se qualche fanciulla sapeva seguire stentatamente la messa nel libro di preghiere. Basti dire che una Guevara non fu in grado di apporre la firma al proprio contratto di nozze! Soltanto nel secolo scorso le fanciulle di buona famiglia venivano affidate alle suore di S. Maria della Vittoria, dove, anzichè una lettera in buon italiano, imparavano a manipolar dolciumi e biscotti. Ma anche in quelle maggiormente sprovviste di coltura non mancava la signorilità dei modi ed un certo gusto nell' abbigliarsi. Quando nel 1808 Gioacchino Murat giunse a Reggio, ed il Municipio diede un ballo in suo onore, si mostrò ammirato della grazia, della eleganza delle signore reggine.



Fanciullette che lavorano al tombolo.

Fu galanteria sovrana? Non credo: pochè anche i brillanti ufficiali del seguito non ebbero che parole d' entusiasmo per le signore e per le signorine, con le quali danzavano allegramente, mentre il re ballava con la figliuola di Don Carlo Plutino e di Donna Geronima Filocamo.

Cotesta DOnna Geronima, donna di alta sensi, aveva partecipato col marito nel 1798 ad una congiura massonica-giacobina avente per iscopo la morte del Governatore. Ne seguì la uccisione di questo, generale Pinelli, per cui i congiurati furono tratti in carcere e Donna Geronima chiusa in un convento messinese.

Per quanto io abbia cercato nella storia di Reggio, è questa la sola donna illustre che mi sia riuscito trovare. Ho consultato vecchie cronache, interrogato eruditi, ficcato il naso qua e là, con ardore, con petulanza: ho dovuto convincermi che le donne calabresi, come i popoli felici, non hanno storia. Ammesso – io non ne dubito! – che i grandi uomini si formino sulle ginocchia delle loro madri, è soltanto nei grandi uomini calabresi che possiamo rintracciare le grandi donne. La colpa – o il merito, perchè quanto di noi più felici non saranno state quelle umili eroine oscure? – è in parte, s' intende, dei signori uomini. Da che mondo è mondo, sotto tutte le latitudini, l' uomo ha, con le altre creature viventi di esso più debole, asservito la donna; ma in Calabria, credendola nata per suo esclusivo uso e consumo, l' ha monopolizzata senza scrupoli. È doloroso il vedere tra i contadini quanta parte del proprio lavoro egli le accolli, lasciandola invecchiare e sformarsi sotto il peso di some sproporzionate alle forze, e quale servile obbedienza esiga da lei, senza darle in cambio altre prove d' amore che una gelosia selvaggia, opprimente, condita di busse!



Boschi nei dintorni di Reggio.

Contentiamoci dunque di ammirare la donna calabra fusa nell' anima del marito, dei figli, intenta alle opre dei campi, o al telaio, mediante il quale provvede quasi completamente, da sola, a quanto occorre per sè e per i suoi.

Taluni scrittori vogliono che l' arte di filare e di tessere il bisso (filamento di alcuni molluschi, o specie di conchiglia marina, non si sa bene), per cui andò famosa la Magna Grecia, sia stata poi esercitata dalle donne di Calabria fino ad epoca non remota, ma di ciò non si ha alcuna prova sicura. La necessità di provvedere, per mancanza di comunicazioni con le altre provincie d' Italia e con l' estero, al cunsumo locale, le rendeva esperte in tutti i mestieri: e, a cominciare dalla coltivazione della materia prima, quale il lino, il cotone, la canapa, – fatta allora su vasta scala – fino alle macerazione, alla cardatura, alla tessitura, alla tintura, alla confezione, tutto passava per le loro mani, ed il lavoro compiuto aveva perciò un carattere locale che invano vi si cercherebbe adesso.

Prima che la produzione italiana e straniera a buon mercato, portata dai merciai ambulanti o dai mercantucoli paesani, entrasse a tentare le borse ed a far decadere, con le stoffe pregiate ma faticose, i ricchi costumi contadineschi, le dame, aiutate dalle loro ancelle, tessevano i pesanti broccati pei fortinaggi del letto, e le stoffe che ricoprivano i divani a spalliera dritta del salotto; le vesti a fiorami d' argento e di oro, che tuttora si conservano nei vecchi palazzi signorili; nonchè le tenaci tele casalinghe che duravano quanto la vita, tra cui quella, così caratteristica, detta pipireddu, omai caduta in disuso, che, nei servizi da tavola, ben faceva le veci della tela di Fiandra. Lacoravano anche al tombolo ed all' ago pazienti merletti dai disegni monotoni ma dall' esecuzione perfetta, tra cui alcuni ricordano il punto di Bruxelles; ma anch' essi, con l' invasione dei pizzi a macchina, furono sopraffatti e posti in abbandono. Mi si dice che qualche tempo fa, a Gallico, la signora Matilde De Gaetano, monaca di casa, avesse rimesso in onore fuselli e tombolo impiantando una scuola dove si facevano merletti accessibili a tutte le borse. Essendo tale industria decaduta per la morte della De Gaetano, va ora risollevandosi per merito della signorina Santa Caracciolo, i cui sforzi andrebbero incoraggiati.



Capraio di Reggio Calabria.

Un altro prodotto femminile che merita di risorgere (prima del sessanta se ne faceva oggetto di esportazione) è quello dei fazzoletti di seta a strice, a fiorami, d' un bel rosso cupo, di cui magnifici esemplari sussistono nel palazzo del marchese Gagliardi, recentemente incendiato. La contadina, che non aveva tempo nè denaro da consacrare a lavori di lusso, tesseva il ruvido albagio (abbracio) pel costume del uomo, e i lunghi calzettoni a maglia ch' egli si legava sopra al ginocchio, ed il berretto caratteristico in forma di sacco, pendente sulla schiena, e la borsa pel tabacco, nonchè le stoffe di cascami pei propri abiti da festa, e la fitta tela della saja d' ogni giorno, ed i drappi di seta del letto portali con orgoglio in corredo, ed i panni (vhancali) da mettersi in testa nei giorni di pioggia o durante gl' interminabili lutti. Le donne filavano per le strade, andando per le lor faccende, al mercato, dove si recavano a vendere la tela avanzata ai domestici bisogni, a veglia, la sera, sparlando delle comari, e non deponevano il fuso che per recarsi in chiesa, sì che se Ulisse fosse vissuto a quei tempi in Calabria, in ogni donna avrebbe potuto ritrovare la sua Penelope.

Ogni sposa portava nella casa maritale il telaio, non il vecchio talaio dove aveva, fanciulla, atteso al corredo, ma un telaio nuovo fiammante, che occupava il primo posto nella minuta della roba portata in dote: minuta talora lunga come l' enumerazione dei beni di ricca donzella fatta nei capitoli da notaio coscenzioso.



Donne di S. Giorgio a Morgeto.

Manifatturata la tela, se destinata a far camicie, lenzuola, materasse, ecc., le donne si affrettavano ad imbiancarla nell' acqua potabile delle gore scavate in riva al mare, poi a stenderla perchè si asciugasse nel letto dei torrenti; se destinata agli abiti, veniva tinta di nero, di rosso, di azzurro o di viola, secondo i giusti e il bisogno, can durevoli tinture fatte di cortecce d' albero, di pericarpio di granati, di noci e di arbusti speciali A Reggio, in via Gabelle, si vedono tuttora delle stese di panni, tinti dalle donne e messi ad ascingare.. Così in ogni casetta contadinesca, insieme con l' arcolaio, col fuso e con la rocca, v' è il cardo, simbolo anch' esso di domestiche virtù. La « civiltà » ha di molto semplificato le cose. Il costume maschile si va perdendo rapidamente: la Mèreca (America) come si dice laggiù, ci rimanda il nuovo figurino del campagnuolo moderno: abito scuro, catena d' oro al panciotto: e nelle Marine, attraversate dalla ferrovia, anche le donne hanno preso a somigliarsi tutte, brutte gonne sgheronate, nei goffi corpetti dalle maniche lunghe. Ma, nell' interno, sui monti, la contadina si mantiene fedele al costume tradizionale. Le Cardòle (da Cardeto, villaggio presso Reggio) vestono tuttora le grevi sottane azzurre dalle minute pieghe, il giubbino svolazzante su cui ricandono gli ampi merletti della camicia scollata, il busto rosso allacciato largo sul petto e portante al sommo un fiocco con crocetta, cornetti, medaglie ed amuleti di ogni sorta. Così quella di S. Giorgio a Morgeto, il cui costume non differisce dall' altro che pel giubbetto di damasco in seta a colori più svariati; così quella di Gioiosa Jonica, dalla saja di taglio monacale, color turchino, cannella, o fior di lino, secondo la circostanza, dal velo (grambè) di seta a fiorami, posato leggiadramente sui cappelli, e ricadente sulle spalle: tutto un' armonia di colori digradanti, dai merletti della camicia allo sparato (shiaccàto) del corpetto, dai nastri che vi s' incrociano sopra, al grembiulino di broccatello.

Ora le contadine, tessuta la stoffa, non fanno che passarla al tintore; poi alla majista (sarta) per la cusitura; agli accessori – grembiule, velo pel capo, nastri e guarnizioni – pensa il mercante, il quale, venuto da Napoli con le ultime novità, e facendo pagare sette lire un metro di broccato che ne costa tre, sconvolge la testa delle contadine, portando le oscillazioni della moda fin nelle linee jeraticamente immobili d' un costume secolare. Ciò che l' importazione non è ancora riuscita a volgarizzare sono le coperte del letto, che le contadine ordiscono e tessono amorosamente sul preistorico telaio. Ve ne sono di originalissime, a fondo chiaro con disegni simmetrici in rilievo che ricordano gli antichi riccioni genovesi. Altre a dadi di seta sfilacciati rossi, verdi, gialli, presentano l' aspetto di enormi scacchiere; ma, con maggiore sobrietà e discernimento nella scelta delle tinte, potrebbero riuscere bellissime. Non vi è limite per questo gusto contadinesco. Alcune spose ne portano in corredo una dozzina, che poi, piegate in quattro e messe a cavalcioni di una corda, fanno bella mostra di loro, rivaleggiando, per numero e vivacità di colori, coi santi policromi che tappezzano le pareti.

L' industria della seta, importantissima nelle tre provincie, è in questa di Reggio mirabilmente favorita dal clima.

Le donne, che al filugello han votato una specie di culto, si dedicano con passione all' allevamento, e lo circondano di cure gelose. Per la calabrese religione è sinonimo di superstizione, sì che anche questo culto ha i suoi riti, insidiati da spiriti avversi, ed una rete di bizzarri pregiudizî protegge la vita del prezioso verme, dal seme al bozzolo, dalla schiusa alla infornata. Perchè nasca più presto la buona massaia se lo nasconde in seno o nel letto, tra il marito ed il bimbo, dove la temperatura è così alta che il baco viene sovente alla luce prima del tempo. Ma già un proverbio locale ammonisce:

Il coccio (seme) ai primi d' aprile mettilo in caldo e non lo dire

Non lo dire! Questo sopratutto: giacchè la preoccupazione del malocchio perseguita l' allevatrice durante le quattro fasi grecamente dette: ziijaartericasarro (le quattro spoglie il cui intervallo è segnato dal letargo), cioè dal momento in cui il seme ha sentito i primi tepori del fuoco (quando non è una vampata che lo brucia addirittura!) fino a che i bozzoli d' oro non vengono distaccati dal bosco. Durante quei quaranta giorni ogni casetta colonica è tramutata in una bacheria. Ma non è facile penetrarvi! La massaia mette ogni astuzia nel – sottrarre la nutricata agli sguardi indiscreti, giacchè ogni occhio invidioso le è fatale; quelli benevoli poi le fanno la reggiore delle jettature d' affezione: soltanto l' occhio del padrone la fa crescere, perchè il suo interesse a che prosperi è uguale a quello della contadina.

Se si riesce a penetrare nella casetta, ch' è il più delle volte un tugurio, si è subito colpiti dal particolare odore del filugello, e dal rumore, come di minutissima pioggia, ch' esso fa brucando la foglia del gelso. Graticci ovunque: sulla finestra, sulla tavola, sulle sedie: financo il letto ha un baldacchino di cannizze dove, sopra uno strato verde, formicolano i vermi bruni, giallognoli, dorati, secondo le età: tutto un brulichio di carni molli, uno svolgersi di spirali, su cui la crutta testina operosa del baco si solleva lenta e quasi ritmica, come nell' atto di trar fuori dalla bocca il prezioso filo …



Contadina che lavora ai medaglioni del pizzio
(berta che circonda lo scollo della camicia).

Uomini, bimbi, maiali, bigatti: sono tutti lì, in quel breve spazio; e su tutti, dominatrici, instancabili, le donne, pallide, spettinate, nervose per l' ansia e per l' insonnia, ma raggianti d' orgoglio e di speranza negli occhi.

Tutto il bozzolo delle campagne va poi a finire a Villa S. Giovanni dove batte il cuore, per dir così, della Provincia industriale … È una cittadina simpaticissima, con un bel porto, cui la popolazione, mista di stranieri, dà un che d' esotico, dove le fanciulle (pei frequenti incrocii anglo-italiani ed italo-germanici) sono bionde e leggiadre. Io la rivedo ancora, aperta, ridente al sole, rivedo i vaporetti bianchi che solcano silenziosi le acque azzurre del suo porto, trasportandovi di continuo il lavoro, la ricchezza, la vita!

Ma prima d' indugiarci a parlare di Villa S. Giovanni, diamo uno sguardo retrospettivo alla povera Reggio, che, con tanti dritti al primato, si vede spodestata, assorbita dalla piccola e industre rivale.

I continui assalti dei turchi, l' essere stata distrutta sette od otto volte, finirono col paralizzare in essa ogni impulso al commercio, e perfino il gusto dell' arte, per cui fu insigne al tempo in cui vi fioriva la civiltà greca (basterebbero ad attestarlo le crete conservate nel suo museo civico); andò languendo, si spense.

L' industria più antica e prospera – anteriore financo alla cacciata degli ebrei – era quella della seta, quindi il gelso l' albero più coltivato, prima che salissero in tanto onore gli agrumi. I reggini traevano dall' allevamento del baco il maggior reddito loro. Il dazio n' era fissato (il fitto dicevasi arrendamento); ma i proprietari mai tolleravano la sorveglianza del fisco, obbligati com' erano a dichiarare in apposito libretto la quantità di seme intendevano schiudere, ed a veder sorvegliato l' allevamento così come ora si fa pel tabacco.

L' accertamento dell' imposta era fonte di continue liti, tanto più che il clero godeva la franchigia. Finalmente Comune ed arrendatori s' intessero nel fissare l' imposta totale a 40,000 ducati (170,000 lire), e un po' di pace s' ebbe; ma non essendovi altro cespite d' entrata, durante il resto dell' anno il popolo languiva nella più cruda miseria. A sollevarla, il Comune avanzò, nel 1610, petizione al Governo per l' impianto dei telai. Il Re mandò la supplica alla Regia Camera della sommeria, la quale ordinò un' inchiesta, e poichè allora, come adesso, le inchieste non serviano che a metter le cose nel dimenticatoio, soltanto l' anno dopo, venuto a Napoli Re Filippo di Spagna, fu concesso ai reggini di tenere i telai per lavorar drappi di seta.



Reconte esposizione di lavori femminili fatta a Reggio Calabria.
sotto la direzione del cav. Pedace.

Così sorse l' industria dai broccati, che, per la resistenza dei tessuti, per la freschezza dei colori, venne presto in eccellenza, ed ebbe fama anche fuori d' Italia. Ma, a poco a poco, anche questa nobile arte declinò, insieme con l' industria dei fazzoletti, delle tele casalinghe, del cremore di tartaro, dei fiammiferi. Decadde il commercio del leozucchero, tanto gradito nelle feste pasquali; del torrone, che anche ora va sempre più perdendo di pregio; delle ortaglie, apprezzate, per tenerume e sapore, fin dai tempi di Cassiodoro. Vennero abbandonate e la scuola nautica e la costruzione dei bastimenti a vela, tutto quanto aveva formato l' orgoglio e la speranza di Reggio: un gelo di morte pervase la cittadina che aveva, sopra tutti, avuto dal cielo il dono della vita.

Alla più immane delle sue sciagure – il terremoto del 1783 – che superò forse in orore quello per cui la Calabria oggi sanguina e con essa il cuore degli italiani tutti – deve Reggio la rifioritura di civiltà, di leggiadria, che ne fanno una fra le più care città del Mezzogiorno.

Dopo il '700, quietatisi gli animi ed apertisi alla speranza, vi fu un accenno di risveglio industriale che il Governo secondò. Il 30 luglio 1784, nell' abolito convento dei PP. Riformati venne inaugurata una fabbrica di organzine che poi passò in quello dei Domenicani, nel sobborgo dell' Annunziata. La fabbrica, dovulta principalmente all' iniziativa del marchese Domenico Grimaldi, produsse sì pregevoli cose, che un ispettore governativo, inviato sul luogo, ebbe a scrivere:
damaschi per apparati si fabbricano meglio a Reggio che a Catanzaro ed a Messina



Panorama di Villa S. Giovanni.

Alla direzione del nuovo impianto il marchese Grimaldi fece delegare Don Roccantonio Caracciolo, direttore della scuole per la manifattura della seta già esistente in Villa San Giovanni; a direttore tecnico il savoiardo Renaud.

Erano in tutto diciassette maestre, più sette discepole di Messina, alle quali se no aggiunsero parecchie di Reggio, di Pizzo e di Bagnara. Le maestre messinesi perceptivano un pagamento di 3 carlini al giorno (lire 1,27); le discepole di 12 grani (centesimi 60) oltre vitto ed alloggio; le apprendiste reggine, che vivevano in famiglia, soli grani 10 al giorno.

Tutto procedeva bene: ad introdurvi più esperte lavoratrici furono impiegate, per mezzo del Console di Napoli, quattro maestre genovesi, le quali giunsero a Reggio l' 11 agosto, dopo un viaggio di circa 30 giorni. Da prima siciliane e liguri lavorarono d' amore e d' accordo; poi, essendo sorti dissensi e rivalità tra le maestre, le mesinesi vollero essere rimpatriate.

Ma era destino che ogni buona iniziativa dovesse arrestarsi. Dopo aver prodotto le organzine più resistenti, i più preziosi veli trapunti di seta e d' oro, l' opificio fu chiuso, dopo solo un anno di vita, e l' industria trasferita a Villa S. Giovanni, dove il Governo continuò a sussidiarla.

A Reggio non rimase altro conforto che quello di mandarvi le apprendiste, scelte per lo più tra le organelle del conservatorio, le quali avevano dritto, oltre alloggio e vitto, alla paga di un carlino al giorno.

Nel 1850 (o giù di lì) un inglese (Allem) impiantò, a Villa San Giovanni, la prima filanda a vapore. L' esempio fu seguito: i numerosi manganelli, coi quali fino allora si era estratta la seta dei bozzoli, furono gettati via come vecchi ordegni, una folla di opifici sorse a popolare la ridente riviera, da Acciarello a Campo, la dolce riviera profumata di zagare, verdeggiante di olivi, di bergamotti, di palmizi, di cactus, tra cui brillano l' oro e l' ambra degli agrumi.



Villa S. Giovanni – Quartiere di S. Giovanni ‐
Veduta degli Stabilimenti serici e dello Stretto di Messina dalla collina Monaci.

Intanto Villa S. Giovanni andava crescendo d' importanza fino a presentare quell' insieme organico, completo, che la rende oggi superiore anche a molti centri industriali dell' estero. Dall' impercettibile seme, al bozzolo ambrato e lanuginoso, dal bozzolo alla stoffa più fine, tutto passa atraverso un esercito di macchine che si completan l' un altra: la serichiera, la stufa, il cocconiere, la filatura, l' incannatorio, l' ovale, la cardatura, la tintoria … Centotrentadue donne (oltre quelle adibite al trasporto del legname ed all pulizia dei forni) trovano in quelle filande lavoro e mercede. Nel camerone attiguo alla serichiera (una serichiera monstre, capace di contenere, in due piani, centocinquanta enormi graticci) sessanta operaie sono intente alla selezione del bozzolo; e, chine sulle grandi tavole che ciascuna ha davanti a sè, con due canestre ai lati, tuffano rapidamente le mani nella soffice messe bionda; gettano in una cesta lo scarto, nell' altra ìl bozzolo scelto, che vien poi distribuito alle maestre della filatura.

Due sono i metodi in atto per la filatura: quella alla Piemontese, e l' altra della all S. Giovanni. Nulla di più simpatico del colpo d' occhio che offre al visitatore la filatura alla Piemontese: un corridoio lungo più di 500 palmi, dove, a destra ed a sinistra, si allineano 60 màngani, guarnito ciascuno di due naspo, sì che quando l' un d' essi è pieno, si sospende alla tettoia per dar tempo alla seta di asciugarsi, e si rimpiazza con l' altro. Ciò sotto la sorveglianza di fanciulle quasi tutte giovanissime e graziose, mentre la maestra, seduta innanzi al fornello, è intenta al lavoro. Ed è bello vedere i primi naspi allungarsi in festoni aurati a destra e a sinistra della tettoia, mentre di sotto, i secondi, messi in moto dalle fanciulle, girano, girano, empiendosi di seta come rocchetti.

Dal simmetrico allungarsi dei màngani, dal roteare dei naspi, in ritmico accordo coi gesti delle giovinette, si sprigiona un' armonia singolare che par diffusa dallo stesso Spirito del Lavoro, che io mi piaccio ad immaginare colà sempre viglie e sorridente.

Allorchè i màngani sono tutti in attività, hanno circa 70 libbre di setta al giorno; ogni maestra, tirando dai naspi due fili di seta in una volta, riesce a farne per una libbra e più.

Sarebbe troppo lungo descrivere i perfezionamenti apportati agli opifici, e le meragiglie dei filatoi (uno per l' organzino, che ha sei vòliche; l' altro pel torto, che ne ha quattro, con 96 fusi per vòlica) e l' esattezza dell' incannatoio (dove le patèche e le cicogne hanno rimpiazzato i vecchi guindoletti, sì che vi s' incannano seicento fili ad un tempo), e la rapidità con cui l' ovale dà alla seta la trasparenza voluta: ovale di tanto superiore a tutte le macchine consimili, che mentre le altre filano soltanto, questa fila e torce, sol cambiando una spora al congegno. Nulla manca: dai telai per le stoffe, a quelli per le calze; dai grandi serbatoi che somministrano l' acqua, alle caldaie dove la seta vien messa a mollo affinchè perda la gomma; dalla stufa alla tedesca, alla tintoria: tintoria alla cui direzione occorrerebbe un chimico valente, perchè quest' arte non continui ad essere, com' è stata finora, monopolio di pochi artisti, e quasi un segreto di cui essi son gelosi custodi. Se il Governo se ne interessasse un poco?

Dimenticavo il corpo di guardia, posto ad invigliare il buon ordine; la taverna che fornisce di viveri il personale delle filande, e le comode case per gl' impiegati: tutto quanto fa di Villa S. Giovanni una vera città operaia, un possente alveare umano che manda il suo miele al di là delle frontiere.

Un' altra industria meno fortunata, benchè degna anch' essa di ogni attenzione, è quella della carta. Se la provincia di Reggio è fra le ultime per il consumo della carta da scrivere, può dirsi la prima pel consumo della carta d' uso commerciale. Prima del sessanta vi prosperavano due importanti cartiere: una a Gallico, l' altra a Straorino (piccolo villagio sull' altura nel Comune di Reggio), le quali non producevano che carta straccia atta ad involgere aranci e limoni; ma, insieme con le seghe idrauliche impiantate poco lontano per la confezione delle cassette, agevolavano di molto il commercio degli agrumi, fornendogli sul posto il materiale necessario all' esportazione.

Le vicene militari con cui si è chiuso il secolo scorso, e più gli sconvolgimenti tellurici – che, oltre al far crollare gli edifici, fecero spostare corsi d' acqua e quindi le forze motrici che davano impulso alle fabbriche – causarono l' abbandono delle cartiere. Così perì quest' industria, la cui utilità è provata dal fatto che, per il solo imballaggio degli agrumi, si importanto nella provincia parecchi quintali di carta all' anno.

Anche in queste cartiere le donne lavoravano molto e bene; ma dove anche ora si mostrano più svelte e graziose, è nell' involgere gli agrumi destinati all' esportazione, e a sistemarli nelle bionde sottili cassette di faggio. È un lavoro tenue, gentile, che permette loro di chiacchierare e di cantare.

Anche il bergamotto (un agrume color verde oscuro, tra l' arancio ed il limone) costituisce una industria tutta locale. Se ne distilla una essenza ch' era la base della vecchia profumeria; ma che i profumeri moderni vanno purtroppo surrogando con distillati di qualità inferiore, non senza grave danno dei proprietarii di bergamoti. Anche secco, questo frutto conserva il grato profumo. Da tempo detenuti e detenute del carcere di Reggio foderano con la sua corteccia scatolini e tabacchiere di loro fabbricazione, così come i giapponesi foderano di sandalo le loro eleganti scatole di lacca … Non vi pare che, incoraggiata, anche quest' umile industria potrebbe diffondersi, rendere il bergamotto ancor più pregiato ed utile di quanto già sia?



La sbozzolatura in una casa colonica.

Ceramica e figulina ebbero qui anch' esse i loro bei tempi … ahimè tanto lontani! Nel secolo XVII, ad imitazione dei principi di Firenze e di Urbino, alcuni signorotti, come i Carraffa di Castelvetere ed altri baroni, atteggiandosi a Mecenati, fecero venire alcuni artisti dall' Abruzzo e da Faenza, ed impiantarono fabbriche di ceramica nelle borgate soggette al loro dominio. Di questa ceramica, piacevolmente decorata, non solo si faceva largo uso nei Castelli, ma anche nelle più modeste case, poichè i baroni obbligavano i vassalli a provvedersene. Che coteste fabbriche abbiano dato prodotti non volgari – e taluni portanti un vero suggello d' arte e di bellezza – lo provano i campioni esistenti nelle collezioni; ma, oltre all' aprire ai salariati un più vasto campo di lavoro e di lucro, ebbero soprattuto il merito di fare ricercare ed utilizzare quei materiali indigeni, fino allora negletti o spregiati. Un riflesso di questa industria è rimasto nell' arte del vasaio, povera arte che sussiste tuttora nei luoghi dove più fu secondata, ed è ora in gran parte affidata alle donne, le quali aiutano i mariti nel fabbricare al tornio ruvidi orciuoli.

È evidente che in quei luoghi la materia prima – marne, farine di feldspato e di juzzo – non manca; e, coi progressi della moderna tecnica (la quale mette per tenue prezzo in commercio smalti belli e pronti) e dei moderni metodi concilianti la rapidità con l' economia, una nuova industria potrebbe ben sorgere e prosperare, là dove, in condizioni peggiori, ha potuto fiorire l' antica!

Prima di chiudere mi piace accennare alle industrie minori, cui le donne amorosamente si dedicano, quali quella d' intrecciare canestri di vimini, o cesti fatti con liste di castagno.

Non è raro, sulle rive del Tirreno e dell' Jonio, vederle sedute per terra, alla maniera araba, o quasi, intente ad intesser reti con le spolette, mentre i mariti sono dediti alla pesca. Fino a non milti anni or sono ogni casetta di contadini aveva i suoi piccoli alveari, alla cui custodia erano preposte appunto le donne, che, con le api, hanno una così intima somiglianza; ma anche quest' industria del miele e della cera è decaduta, nè accenna a risorgere. Ed i fichi disseccati? Tutti li hanno mangiati e li mangiano; ma pochi sanno che sono le contadine calabresi ad infilarli nelle canne (conocchie), a farne corone e pupazze. – Nei paesi del Tirreno dove il sole non li matura così rapidamente come nelle coste joniche, le donne sogliono infornarli, dopo averli imbottite di mandorle, noci, cannella, cedro, ingredienti cui debbono quel sapore che li distingue dai fichi non di manifattura calabrese. Oppure li disseccano semplicemente, li schiacciano, e li dispongono in fitti strati nelle cestine, leggiadramente commisti di fili d' oro e d' argento; e sono gli stessi fichi, che poi, mandati all' estero come fichi di Calabria, ne ritornano, pagati il triplo … come fichi di Smirne!

Sono opera delle donne anche quei cuscinetti di foglie – foglie di alloro o di viti – imbottiti dell' uva passa così grata ai buongustai e quei biscotti terrosi che, al modo degli antichi Pelasgi, esse usano cuocere tra due pietre arroventate.

Ma di che cosa non sono capaci le donne calabresi? Se fossi al governo le nominerei, in massa, cavalieresse del lavoro (non è una ingiustizia che tale onorificenza sia riserbata ai soli uomini?), così come un re di Napoli, per suoi fini politici, nominò baroni tutti i cotronesi e tutti i cittadini di Tropea cavalieri … Ed alla definizione che diede di esse il Courier: « Noires dans la plaine; blanches sur les montagnes; amoureuses partout » aggiungerei quell' aggettivo di « laboriose » che tanto le onora, e darei loro uno dei primi posti fra le belle, utili, rigogliose piante femminili (sebbene men coltivate), di cui il giardino d' Italia si adorna.

CLELIA PELLICANO.