A0045-T008 A0045 E20053-02 Italian Women Writers Project, University of Chicago Library Chicago, IL 4/17/2006 A0045-T008 A0045 E20053-02

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Rekey TechBooks 01/19/2006 Nate Zuckerman Serao, Matilde 1856-1927 o. Ottocento-Novecento Campania Dal vero Dal vero Dal vero Ed. ampliata Galli di C. Chiesa e F. Guindani Milano 1890

[preliminaries omitted, etc]

Italiano (Standard Italian) Short story Female 1890
Prose

DAL VERO



MATILDE SERAO

DAL VERO

MILANO
LIBRERIA EDITRICE GALLI
DI
C. CHIESA E F. GUINDANI

LIPSIA e VIENNA, F. A. Brockhaus — BERLINO, A. Asher e C.
PARIGI, Veuve Boyveau — NAPOLI, Ernesto Anfossi.
LONDRA, David Nutt, Strand 270.
1890

Proprietà letteraria.

Egregio amico,

A me, ignota ancora, voi apriste generosamente le colonne del vostro giornale; nella breve e modesta via letteraria che ho percorsa, mi foste prodigo d'incoraggiamenti. Permettete che ve ne ringrazi, ancora una volta, offrendovi questo libro.

MATILDE SERAO.

Napoli, Giugno 1883.

Questi scritti primissimi, già pubblicati negli anni 1878-1879, hanno adesso una ristampa.

Allora ebbero buona fortuna. Fu benevole, indulgente la critica. Gli è che nelle scorrette e impeluose opere giovanili, accanto all'intralcio delle idee, alla poca profondità delle impressioni, di tanti difetti che producono l'inesperienza e la fretta, vi è sempre una viva franchezza, una certa grazia ingenua. Qualcuno ha dello che i libri giovanili si salvano pel calore. Forse sarebbe più giusto dire, che si salvano per la gioventù.

Cosí, rivedendoli non senza mia grande malinconia, se ho cercato correggere la forma, non ho avuto il coraggio di mutarne la sostanza. Quattro anni di vita artistica militante, senza posa, bastano a trasformare lo scrittore: e lo scrittore trasformalo, avrebbe voluto cambiare tutto, imprimere in queste novelle e in questi bozzetti il senso del presente. Sarebbe stato un nuovo libro: ma più vecchio.

Invece questo è un libro antico e giovane. Sia con lui il sorriso della gente buona!

MATILDE SERAO.

In Roma, Maggio 1883.

A Mimí.

Il fanciullo era bellissimo. Aveva gli occhi grandi ed azzurri, di quell' azzurro vero, leale che non diventa mai nero di sera; il bianco della cornea era irradiato da una tinta bluastra, cosa che faceva sembrare anche più grande la pupilla: i lumi della sala, riflettendosi in quegli occhi azzurri, vi accendevano una stella luccicante, una sola. Poi era biondo; non tendente al giallo, come la Gioconda del Leonardo da Vinci, nè al fulvo, come la Maddalena del Tiziano, e nemmeno come dovette esser biondo il danese Ameleto: quei capelli erano fini, lucidi, biondi e dolci alla vista, riposavano lo sguardo stanco da tante teste opacamente brune. Quella testina originale, dal profilo abbozzato, dai lineamenti puri, dalla fronte serena, attirava il mio sguardo.


***



La commedia quella sera mi annoiava, gli attori gridavano, non avevo il programma e non ci capivo nulla. In palco con noi vi era un medico, ma uno di quelli moderni, che sono prima filosofi, poi fisiologi, poi medici: un materialista calmo e feroce, che in tre parole distruggeva l'amore, l'anima, l'immortalità, riducendoli a questione di nervi. Di Dio non discorreva più: lo aveva ammazzato da un pezzo. Io, fosse conseguenza di una giornata triste ed uggiosa, dipendesse dalla lettura di un libro stupido, o venisse dal dispetto di non aver ritrovata la catenina del mio braccialetto, mi sentivo disposta all'idealismo e quindi a contraddire aspramente il dottore. Per questo, preferii guardare attorno.


***



Il fanciullo ascoltava religiosamente la recita: spalancava i suoi occhioni, quasi a vedere maggior numero di cose, ed appoggiava il mento sulle due manine incrociate; ma il labruccio inferiore, rosso come una ciliegia, era avanzato in atto d'infantile fierezza. Forse la commedia non gli andava a versi, ma non ne perdeva una parola, non batteva palpebra, non si moveva: sotto la candida pelle, gli saliva il sangue per lo sforzo dell'attenzione e pel calore del teatro. All'intervallo rialzò il capo, pensò un poco, poi sorrise a qualcuno che gli parlava: quella sua bellezza si completava, animandosi. Doveva essere anche intelligente.


***



— Vi piace quel fanciullo? — chiesi al dottore.

— Carino — rispose costui sorridendo.

— Come vorreste che fosse, per chiamarlo bello? Bruno forse?

— Forse.

— E perchè? Avete torto, dottore, se negate al biondo il dominio dell' arte, e l'arte cammina sempre verso il bello. Tutte le fantastiche immagini, tutte le incarnazioni della grazia e della bontà noi le fingiamo bionde: così Venere, dea della bellezza, è bionda; così Maria, la Vergine, è bionda, e se il serpente s'innamorò di Eva, è perchè costei dovette essere bionda, Apollo, il primo poeta, aveva le chiome d'oro, e gli angioletti ed il bambino Gesù pure. Ary Scheffer, quando dipinge la sua Gretchen, è grande, perchè ritrae il sogno di molti pittori, e sono secoli che i poeti impazziscono per le donne bionde. Perchè in quel colore è la gioia, la vita, la gioventù. Ma voi sorridete, signor positivo; vi occorrono altri esempi? Ebbene, l'oro, il motore del mondo, il fattore della civiltà, il vostro oro divino è anch' esso biondo!

— Nulla di questo — rispose il dottore, niente commosso dalla valanga delle mie parole — per me, non amo i biondi, e la ragione è chiarissima. Quella tinta, egregia amica, è il risultato di una debolezza nella materia colorante, è la prova di un temperamento linfatico: da ciò poca forza fisica e quindi poca forza morale se vogliamo adoperare questa parola. Come tutte le persone deboli, le femmine bionde sono perfide, e se un uomo biondo arriva a fare grandi cose, ha dovuto adoperare una forza di volontà doppia per dominare il suo organismo. Ma i casi sono rarissimi; la satistica…..


***



— Per carità!

— Vedete, dottore — ripresi — la casa dove vive quel fanciullo non deve essere mai triste: egli la rallegra, la riempie con la sua presenza, i corridoi echeggiano dei suoi passi, le vôlte sono piene delle sue voci, gli angoli oscuri illuminati dal suo sguardo. Il padre quando ascolta il suo riso trillaro, argentino, sente rianimarsi e riprende coraggio a vivere; la madre, guardandolo, pensa che la primavera si è incarnata nel suo figliuolo, tanto i suoi capelli, ricordano il sole ed i suoi occhi il cielo. Quando parla, gli risponde l'uccellino dalla gabbia, ed il loro dialogo è carissimo; e se anche egli commette una piccola mancanza, è così soave il perdonargli…..

— Quando si farà grande…..

***



Mi tacqui subito; il sogno era svanito.

E che?! Tu diventerai grande, il tuo labbro innocente si spiegherà al sogghigno, la fronte bianca diventerà pensierosa, gli occhi azzurri si annebbieranno per la collera. Tu, immagine pura, conoscerai in che fiume d'amarezza si convertono le cose più dolci della vita. Saprai che valgono i nomi di amicizia, di amore, di gloria. E ti sarà palese l'odio, assaporerai la vendetta. Non sarai più grazioso, noncurante, allegro; non riderai più, piangerai; dubiterai, ti annoierai, vorrai dominare il mondo e ne cadrai poi vinto. Sei un fanciullo, e sarai uomo.

Oh! se io fossi Michetti ti dipingerei; se fossi Victor Hugo scriverei per te un libro: ma se io fossi un Dio, fermerei la tua età, biondo fanciullo!



Flavia si sentiva la coscienza quieta: neppure l'ombra di un piccolo rimorso; quello che le accadeva era molto strano, ma senza un briciolo di sua colpa.

Quindi scuoteva la bella testa bionda, si stringeva lievemente nelle spalle e andava al ballo. Perchè poi adempiva agli obblighi della sua posizione con la massima buona volontà, anzi sorridendo sempre; alle feste ballava dalle undici della sera alle quattro del mattino lacerando gaiamente il suo lungo strascico, senza mai essere stanca; non dava mai in quei languidi lamenti delle signore contro i vestiti troppo stretti, i tacchi troppo alti, i cappelli troppo grandi; l'estate si divertiva molto sulle spiaggie, ai bagni, ai concerti improvvisati, seguìti dai soliti quattro salti; di autunno le piaceva la campagna con le escursioni sulle colline, il latte fresco, le serotine partite di scacchi, la vendemmia ed il fieno; l'inverno la inebriava coi teatri e le veglie prolungate. Passava senza intervalli per la fiera di beneficenza, lo skating, i coriandoli e le prediche al Gesù Nuovo. Stava bene dappertutto. Una natura felice se mai ve ne furono; una gioventù fresca, bionda, azzurra, serena: due uomini l'amavano, essa li amava ambidue, ma non si faceva rimproveri. Era la fatalità, l'ananke, per dirla in greco.

Il primo — per epoca — era un giovanotto, un po' parente, un po' amico della famiglia di Flavia; di condizione uguale per ricchezza e per nobiltà; rispondeva al fiero nome di Leone, e quasi a mantenerne intero il significato, era aristocratico, fino ai capelli. Nè qui si tratta del solito tipo di cretino fannullone e gonfio, vecchio da quanto il mondo, tipo perfettamente ingiusto: Leone cuore ed ingegno ne aveva, non in modo eccezionale, ma ne aveva, e se li sottometteva alle leggi della sua società, non bisognava fargliene un torto; ci era nato, non sapeva staccarsene. Era sempre compito, sempre buono ed affabile, con un grazioso sorriso sulle labbra; alcuni lo trovavano troppo eguale. Pure il rispetto che portava alle donne vecchie, il non averne mai compromessa una giovane, un certo senso di lealtà che traluceva da ogni suo atto, avrebbero fatto perdonare qualunque difetto, anche più grande. Sovratutto egli rifuggiva dagli slanci, dagli entusiasmi incomposti, dalle passioni senza regola; amatore profondo della pace, credo non intendesse le ambizioni sfrenate, le altezze inaccessibili; le sublimità lo meravigliano, senza attirarlo. Si era fatto un piano di vita quieta, calma, scorrevole: avrebbe prima goduto la gioventù libera, poi si sarebbe ammogliato, senza troppe furie, con una persona simpatica, poi….. intanto cercava la persona simpatica.

Così una notte, fra una polka ed una gita al buffet fece a Flavia una mezza dichiarazione, che spuntava da un complimento, sussurrato più che detto. Lì per lì ci risero, se ne scordarono; si rividero, ricominciarono, si lasciarono andare alla china: una parolina furtiva, un' allusione mal celata, un sorriso speciale, un brano di conversazione riannodata ogni tanto, ecco tutto. Eppure amore era quello, amore come essi lo intendevano: cioè, amore fine, leggiero, profumato, sottile, lasciato, ripreso, con un'ombra di gelosia per rinforzarlo, ma niente più che un'ombra; amore palliduccio, ma che continuava a vivere bene, come molte persone pallide.

Bastava alla felicità di Leone che Flavia gli inviasse ogni mattina un bigliettino roseo, con tre righe di un caratterino delicato, dove ci fosse il programma della giornata; bastava che al momento dell'incontro fortuito, ello lo salutasse, con quel tale inchino della testa accordato a lui solo, bastava che al ballo gli serbasse sempre il primo valzer, che prima di prendere una grave decisione, come la disposizione di una sala, i colori di un abito, una gita in campagna, egli fosse interrogato in proposito. Pel resto la lasciava libera, non esigeva nulla: egli era guidato sempre dal timore del ridicolo, teneva moltissimo alle apparenze e non voleva far la brutta figura dell'amante geloso; non si adombrava punto dei numerosi ammiratori che circondavano Flavia, anzi dirò che ne provava una specie di contento; sapeva che il mondo lo sapeva e questo era sufficiente a rassicurarlo.

Anche la fanciulla si contentava facilmente: trovarlo esatto ai ritrovi, sempre il primo, ascoltare quelle dolci parole ch'egli sapeva dire così bene, vedergli all'occhiello il fiore simile a quello che ella portava nei capelli, imporgli ogni tanto qualche lieve capriccetto, vederlo ubbidire con un grazioso sorriso: ricevere quella corte seminascosta, squisita, deliziosa, che non le imponeva alcun obbligo. La gente attorno mormorava: Una bella copia! I parenti non dicevano di no.

Nel caso di Flavia la fatalità si chiamava Everardo, ed abitava al quinto piano del palazzo, dove dimorava anche essa. L'intelligente lettore avrà capito che si tratta di un poeta, ed è la verità; ma debbo aggiungere, per diminuire la cattiva impressione, che i suoi versi erano buoni, sebbene non fossero letti da alcuno. Egli apparteneva ad una classe che si trova numerosa in tutti i grandi centri: poichè in tutti i grandi centri giunge ogni anno una schiera di giovani buoni e volonterosi. Hanno la testa piena di meravigliose fantasie e di progetti stupendi, il cuore riboccante di affetti ed il borsellino poco riboccante di scudi; al povero e buon papà rimasto in fondo al suo paesello hanno promesso chi, di frequentare Cujacio, chi di presentarsi ad Euclide, chi di annodare stretta relazione con Tiesot ed Orfila. Promesse; ma vengono i poetici allettamenti delle lezioni della letteratura, ci si mettono di mezzo le associazioni giovanili, i circoli letterari, le vivaci discussioni sull' arte; tutto questo fermenta insieme agli ardimenti dei venti anni. Allora…. allora si forma la classe degli spostati e ne vien fuori il giovane pallido, scettico, anelante ad uno scopo cui quasi sempre non gli basteranno le forze, roso dalla smania di giungere, divorato dall' ambizione, incapace più di ritornare sulla vecchia e diritta strada, torturato da una lotta ineguale che lo rende profondamente infelice. Ed il papà è sempre laggiù e lavora; e si sacrifica e s'illude che il figliuolo sarà contento, avrà una posizione…. e non sai quale sia più degna di compassione; se la dolce illusione del vecchio o la desolata sfiducia del giovane. Così nascono i genî, si dice, lo so; ma per un genio che nasce, migliaia di mediocri agonizzano.

Sarebbe meglio che il genio nascesse altrimenti.

Questa quì è la storia di Everardo: uniteci un cuore passionato, un sistema nervoso irritabile, un paio di occhi ardenti, ed avrete un ritratto somigliante. Come è naturale, incontrò Flavia per le scale marmoree, una giornata di autunno scuriccia, con una luce diffusa e triste; ma Flavia era bionda e sorrideva. Notate, ella discendeva e parve al povero poeta che quella fanciulla scendesse dall'alto, fosse un raggio di luce rosea, scherzosa, smarrito in quell'imbrunire: egli non fiatò, non si mosse: ella passò, ma portandosi via l'anima di un uomo.

Non racconto come il rivedere Flavia non fece che innamorare sempre più Everardo, come egli descrivesse in una lettera di fuoco tutto questo amore e quante e quali difficoltà dovette vincere, prima che la lettera capitasse nelle manine di lei: basti dire che ottenne l'intento. Flavia lesse due volte le brevi parole e rimase pensosa, pensosa, con le sopraciglia corrugate e la fronte seria: la lettera le bruciava le dita come carbone acceso, eppure non la riponeva. Pareva che quelle parole fiammeggiassero, sfiorassero la mano, e penetrassero nelle vene; sentiva un gran calore invaderla tutta, giungere al cuore ed al cervello, precipitarle il sangue; sembravale d' essere in pieno meriggio, in una luce splendida ed abbagliante. Nessuna sensazione di dolore; anzi godeva di quel ricco e dolcissimo incendio in cui le si struggeva l' anima. Pensò a Leone, pensò ad Everardo: li amava.

Vi erano ore in cui Flavia si sentiva penetrata, circonfusa da una grande soavità, come se voci alte e lontane le cantassero una dolce canzone, come se mani di fanciulli facessero piovere sul suo capo foglie di fiori. Le si risvegliavano istinti vaghi, aspirazioni fluttuanti, indecise: desiderava i colori molli, temperati, dove le mezze tinte si sfumano come una carezza; le piccole stanze dove le temperatura è tiepida come soffio umano, dove i rumori vanno a spegnersi nella lana morbida dei tappeti; le stoffe calde e profumate, dal leggero fruscìo, che circondano il corpo, come se lo amassero e palpitassero con esso; gli effluvii sottili che cullano i nervi in un dormiveglia delizioso. E sul fondo roseo-azzurro di questi sogni compariva un'ombra leggiera, che poi si delineava più corretta, si distingueva; era Leone. Bello, nobile, ricco, gentiluomo, innamorato, stirpe di principi: con lui la vita doveva essere una lunga ed inesauribile festa, una serie di giorni felici, sorridenti, senza mai l' amarezza del domani, senza un cruccio, senza un punto nero. Flavia l'amava; quando dalla sua carrozza ella lo vedeva passare sul cavallo inglese dalla testa svelta e dai garretti di acciaio, il cuore le si sollevava verso il bello ed elegante cavaliere, quando vedeva lo sguardo alteiro di lui diventare amoroso fissandola, quando egli le parlava a voce sommessa, ella provava un fascino irresistibile. Leone era per lei tutto un mondo, un mondo elevato, superiore anche alla sventura, dove si gode la soddisfazione dei giusti più raffinati, la calma profonda e sicura della ricchezza, l'infinita e varia lusinga del lusso. Leone era la pace, la gioia tranquilla, la vita quieta. E nella certezza dell'amore di Leone essa cullava, addormentava il suo cuore.

Ad un tratto veniva rapidissimo il risveglio: tutto il suo essere dava in un grande sbalzo, scosso da una forza interna; si alzava, camminava, avrebbe voluto spezzare qualche cosa fra le mani, si sentiva la testa troppo piccola. Sorgevano pensieri tumultuosi e cozzanti tra loro, idee vaste ed ardite, un bisogno chiarissimo di agitazione, di attività di combattimento. Allora intendeva quanto di sublime ha il silenzioso lavoro del poeta e del pensatore; comprendeva come l'arte possa essere l'unico supremo desiderio di un uomo, intendeva la sfrenata ambizione di gloria: essere in basso, essere povero, sconosciuto, perduto nella folla, atomo ignoto di una massa enorme, ed intanto guardare in alto, elevarsi, salire, sfolgorare, essere il solo, l'individuo: Everardo. Con lui la passione energica, onnipossente; un amore che sia l'amore unico, che domini tutto, che vinca ogni ostacolo, che consoli ogni sconfitta, che ingrandisca ogni vittoria. L'oscuro poeta adorava la nobile fanciulla che discendeva dalla sua altezza a bearlo del suo affetto; ed ella era conscia, superba di questo amore cieco, animato dalla più fiera gelosia. Quando Flavia era al ballo, sapeva che nella strada buia e solitaria vi era un uomo che fremeva d'impazienza, che invidiava anche l'ultimo servo di quella casa inondata di luce. E nelle sale dorate, fra gli ondeggiamenti delle stoffe ed i sorrisi delle donne essa presa da una folle idea; avrebbe voluto lasciar tutto, fuggire per le scale, gettarglisi al collo e dirgli: Ti amo; portami via.

Quando pensava alla vita stentata e meschina di Everardo, alla piccola e bassa camera dove l'inverno si moriva di freddo, alle privazioni continue cui andava soggetto, a tutti quei particolari spaventosi della miseria, provava per quel giovane una grande ammirazione, perchè in mezzo a quell' ambiente egli rimaneva poeta, pieno di fede carezzando sempre le speranze, sognando ancora il suo ideale. Flavia si sentiva molto umiliata davanti a quel coraggio, essa che non poteva rinunziare al fastoso e vuoto lusso, ai gioielli inutili, alle mode costose: come le odiava tutte queste cose, come le odiava! Avrebbe voluto rinunziarci, castigare il suo corpo che viveva in quelle mollezze, esporsi al freddo, alla fame, e portare anche lei nel cuore quel tesoro di forze e di gioventù. Sposare il poeta, essere la vita della sua vita, passare per tutte le sue agitazioni, dividere la sua esistenza piena di fremiti, di battaglie e di dolori!

Così si svolgeva in quella fanciulla noncurante ed allegra il dramma meraviglioso del dualismo. Si erano manifestate due potenze, ugualmente forti, opposte; le inclinazioni, sin allora indistinte e confuse, si staccarono, prendendo vie contrarie. Visse passando per questi periodi consecutivi, l'uno negazione dell'altro, che si distruggevano volta a volta, per rinascere più vigorosi e combattere da capo. Eppure essa non ne soffriva; anzi in questo fenomeno strano del suo spirito si sentiva completa e soddisfatta, quasi avesse ritrovato il suo equilibrio. Quell'ondeggiamento perenne la lasciava calma, era il suo stato naturale, era spiegabile.

Flavia nasceva da un matrimonio misto: suo padre molto in alto, sua madre molto in basso, ed ognuno dei due le aveva data una natura. Aveva con sè la tempra robusta della madre, i gusti semplici e grandi, il desìo di lotta, il palpito onesto e vivace, il soffio sano e gagliardo del popolo. Del padre aveva lo squallido sentire: la delicatezza dei nervi, le aspirazioni gentili. Insomma due conscienze; ma queste due coscienze si confondevano, si univano, ne formavano una sola, gli amori si riducevano in un solo e Flavia era felice, molto felice, avendo ritrovato nel modo più assurdo l' unità del suo spirito.

I due giovani che si erano incontrati e fusi così bene nel cuore della fanciulla, incontrandosi nella vita reale e sapendosi rivali, si guardarono in cagnesco: Leone prese Everardo per un pazzo ardimentoso, Everardo scambiò Leone per uno sciocco orgoglioso. Certo non potevano intendersi e molto meno apprezzarsi: andarono di accordo in un solo moto spontaneo, perchè l'indomani Flavia riceveva due lettere quasi identiche la cui sostanza era la parola: Scegli.

La fanciulla provò un doloroso stupore, uno stringimento affannoso al cuore come se le avessero annunziato una grande sventura; credeva di fare uno di quei sogni terribili dove si cade, si cade sempre da una smisurata altezza e l'angoscia si prolunga sino al risveglio. Scegliere. Doveva scegliere. Perchè? Aveva tanto goduto, la sua vita era stata così completa e piena nell'amore! Scegliere. Chi? Sentiva di amarli egualmente, sentiva che tutti e due le erano necessari, non poteva neppur figurarsi di dover annullare uno di quei nomi dalla sua mente, di cancellare una di quelle immagini dell'anima. Era impossibile, impossibile, impossibile. Le si chiedeva una cosa ingiusta, era sdegnata contro quella domanda. Tutto cadeva, tutto cadeva, tutto precipitava nel nulla: la bella armonia era turbata e rotta, la pace era scomparsa, bisognava scegliere: cioè amarne uno solo, far sacrifizio di un affetto all' altro, soffocare una delle coscienze, morire per metà. Volle farlo, volle decidersi, accumulò gli argumenti che dovevano difendere e far prevalere la causa di uno dei due giovani, prese anche una determinazione e cercò di fortificarsi in essa; fu inutile: il momento dopo pensava all'altro. Passò giorni tristissimi, stanca, sfiduciata, in preda a dubbi crudeli, abbandonata a tormentose esitanze: era uno stato insopportabile. Allora preferì l'abbandono completo, lo schianto intiero: distaccò da sè tutto l'amore, rinunziò ad ambedue. Leone ed Everardo la giudicarono una civettuola comune; ma essa non si curò di spiegar loro il mistero del suo cuore.

La bionda fanciulla ha molto sofferto, ha trascorso le notti insonni e le giornate malinconiche, ma anche il dolore si attenua, diminuisce e scompare. Per lei l'amore è diventato un ricordo lontano lontano, un'epoca felice e passata, un periodo bellissimo ed esaurito; ci pensa talvolta, ma senza volerlo far rivivere. Come molte persone di questa terra, ha amato per quanto ne basta: nei suoi due amori, ha riassunto il suo grande amore.

BOZZETTO QUARESIMALE.

Umanissimi lettori, pietose lettrici, io non ho mai potuto soffrire il calendario. Naturalmente, un calendario è una cosa perfettamente inutile e noiosa. Sta lì per misurarvi la vita in una cifra, per imporvi le feste, per imporvi le stagioni, per imporvi gli abiti, per imporvi il buon umore o il malumore; anzi da qualche tempo ha inventato d'imporvi la scelta del pranzo quotidiano; più una quotidiana, ma men costosa saggezza, espressa in un proverbio. Sta lì, sospeso al muro, gittato sopra una tavola, dentro il portafoglio, nella prima pagina dell'Agenda, in tutte le legature civettuole o rozze, in tutti i siti possibili ed impossibili, ed ogni sera, ogni mattina vi dice: «Ieri ne avevamo otto, oggi ne abbiamo nove; ieri al solito non hai fatto nulla; non hai amato quanto dovevi o non hai amato affatto; non hai sofferto, non hai sorriso, non hai imparato niente, non hai lavorato per te, non hai lavorato per gli altri; ieri sei stato uno stolido disutile; ieri ne avevamo otto, oggi ne abbiamo nove: sarai anche oggi uno stolido disutile?» Posto questo, il calendario è assurdo in casa di un galantuomo, ma — e vengo all'argomento — una sola cosa lo può rendere sopportabile, può farlo considerare con occhio benevolo, può farlo aprire con gentilezza. Una sola cosa può farvi fantasticare, aprendo il calendario, dilettissimi lettori. Et è quella sfilata bianca, nebulosa, che si invola nell'aria azzurra, di santi e di sante, che si dànno la mano, si elevano, si elevano e dai fogli stampati del libriccino formano una catena che si perde negli indefiniti contorni del cielo. Sono quei nomi a volta vibranti come un acuto squillo di tromba che vi chiama alla guerra o soavi come una carezza musicale, la cui onda sonora lusinga l'orecchio e si allontana sempre più indistinta, sempre più soave; sono quegli oggetti semplici abbreviati che rappresentano una vita intiera di sacrifizio e di fede; sono quelle figurine ora gioconde, ora meste; ora giovani, ora cadenti di vecchiaia, ora belle e buone, ora brutte e buone che fanno capolino dietro quei nomi; sono le vergini, i dottori, le regine, gl'imperatori, i martiri, i padri della chiesa, gli uomini, le donne, i fanciulletti: una storia ricca di luce, rossa di sangue, bianca di fede, pallida di lagrime….

Fra gli innumerevoli libri che si sono stampati e l'infinito numero che se ne stamperà ancora, rimarrà sempre attraente, interessante, vivace, quello dove si legge la via dei santi. Quando lo si ha fra le mani, lo si legge tutto, tutto, attirati da quelle pagine semplici, ingenue e forti che hanno tanto sapore di verità! A volte, noi moderni, siamo mistici. È mistica la malattia del nostro spirito; è mistica la malinconia della nostra passione; è mistica, nella sua realtà, l'arte moderna. Per quanto più la modernità ci inchioda sulla terra, per tanto più il pensiero ed il sentimento ardono nell'amore dell'ideale vivente. La storia dei santi è una forma di questo ideale. Quei racconti dettati senz'arte, senza ricerca di effetti, senza studio, ruvidamente, con una sprezzatura sdegnosa, riescono potenti, straordinarii. Perchè in ognuno di essi si profila un tipo fieramente o umilmente energico, un carattere spiccato, solitario, un tipo non creato dalla fantasia, ma vero, ma possibile, ma umano. Se li leggete quei racconti, se li vedete apparire quei tipi, ve ne innamorate. Non di tutti, forse. Ma alcuni di essi esercitano una così invincibile simpatia, che voi li andate a ritrovare nel calendario e li nominate sottovoce, come il nome di una persona cara, poetica e lontana, li evocate nella mente, date loro un aspetto gentile, piacevole, caratteristico, che informi l'idea o il sentimento che rappresentano per voi e pare quasi che li vediate e se dovete pregare, pregherete essi, perchè cominciate per amarli.

Ripensate un poco la vita del poverello di Assisi, di quel S. Francesco, che salvo il rispetto e la riverenza dovuta agli uomini, è il primo dei S. Franceschi. È lui il santo poeta che nella sua fervida canzone inneggia a quanto ha di bello e di puro il mondo, con una fiamma d'amore che commuove ancora i secoli di distanza; è lui che gridava amore, amore, amore con ostinazione ardente; è lui il santo innamorato che alzava la mano bianca e sottile a benedire le tortorelle che prolificavano; il santo che era vissuto per la bellezza, per il lusso, per i piaceri, per le imprese audaci e che, cambiando forma, non sostanza alla passione della vita, la ridusse tutta in amore per gli altri esseri. Una figura di fratino, magra, impallidita, col sorriso placido e bonario delle labbra, con lo sguardo soave di carità, un po' errante, raccolto in sè, ma sempre fuori di sè: una figura poetica nel suo oscuro abito di lana, giù per i colli verdi dell'Umbria, fermandosi a guardare i contadini che lavoravano nei campi e dicendo loro nel suo popolare ed efficace linguaggio: lavorate sulle vostre mani in lavorio continuo et onesto, non per chupidigia di prezzo ma per buono assempio e per cacciare oziosità.

Ripensate a S. Teresa, una spagnuola, patrizia, dall'animo eccessivo ed ardente, dal volto bruno, dagli occhi neri e profondi, che mano mano si abbandona all'ascetismo, che esalta ogni di più lo spirito a detrimento del corpo, che si innebria, che ha il delirio dell'idea fissa, che nell'estasi si assorbe così completamente, trionfa tanto della sua vita fisica da venirne fuori spossata, dissanguata, morente; la cui anima acquista tanta forza, tanto vigore, tanto slancio, da ucciderla a trentasei anni, dopo averle fatto soffrire dolori inauditi e gioie ineffabili: ripensate a quella figura così ferrata nella sua volontà, così tenace nel propositio, così intiera, così consona a sè e vedete se non v'inspira ammirazione.

E se volete sollevarvi a sentimenti più miti, più leggiadri nella loro forma, un soffio di musica celeste, un sospiro, un cuore che s'invola in una voce commossa, un'anima che parla, che prega, che canta, vi diranno di S. Cecilia, fanciulla divina che è patrona della musica. E veramente in una corda che geme sommessa, in un tasto che si abbassa e la cui vibrazione risveglia una eco affettuosa in una voce umana che passa dalle note gravi e toccanti del dolore a quelle stridule ed acute della gioia, in questo linguaggio così puro, così elevato, che mentre appartiene all'uomo sale così direttamente al cielo, vi è la traccia ispiratrice di una fanciulla bionda, quasi trasparante, quasi aerea; una fanciulla che sedeva al gravicembalo, dove traeva melodie inusitate, dove ella trasfondeva tutta la delicatezza della sua natura, struggendosi di morire, come quei suoni dolcissimi che venivano nella lontananza; una fanciulla divina che ha lasciato nel mondo, nell'aria, nella mente degli uomini, nelle viscere degli strumenti, nelle gole degli uccelli una melodia segreta.

E se volete l'intelletto mirabile, la parola eloquente, l'insegnamento efficace, la fede conscia e fervente, vi appare grandiosa la figura di Paolo apostolo, nelle cui lettere è tanta la saggezza serena, tanta luce di civiltà, tanta la saggezza serena, tanta luce di civiltà, tanta poesia naturale. Quello che più vi piacerà in lui è l'umanità sempre presente nei suoi pensieri, è la carità giudiziosa, lo spirito equo, generoso, che precorre i tempi, perchè indovina le anime. È lui che realizza l'ideale dell'apostolo, lui che compie un viaggio nell'Oriente e nell'Occidente, un viaggio che appare miracoloso, fantastico, portando poi nelle plaghe più lontane la parola delle misericordia e dell'amore: e sotto i cieli di cobalto, nelle pianure infiammate ed aride, sulle colline dove sfogliano i loro petali le rose profumate, nei boschetti cedui dove tubano le tortore azzurre, il verbo divino anima la natura, signoreggia gli spiriti.

Poco a poco appariscono e scompaiono i nomi amabili del Martirologio, portandosi seco la propria individualità, il segno del loro carattere, l'idea che rappresentano. È gaia S. Matilde — mia venerata patrona — una regina che sapeva aver fede con l'allegria dello spirito, che mentre i cortigiani l' adulavano, sorrideva e pregava sottovoce, che era buona, buona, buona, che compiva i suoi doveri mondani con la massima esattezza e si castigava di andare al ballo, mettendo delle pietruzze negli stivalini di raso.

È fiero S. Giorgio: ve lo immaginate, nevvero? Un bel cavaliere, prode, nobile, che combatte ad armi leali invocando solo da Dio la vittoria, vestito di maglia, con la croce sul petto, il sole che rifulge nella bionda chioma, un iampo di gloria negli occchi azzurri; un cavaliero il cui nome sarà un grido che conduce alla vittoria un popolo intero, un cavaliero il cui nome rimarrà per emblema della virtù cavalleresca, della generosità magnanima, del coraggio animoso; un cavaliero che cade in battaglia, combattendo animoso il nemico, che cade non dodici colpi di lancia tutti nel petto, col riso rivolto al cielo.

È vigilante S. Barbara; la dipingono con le mani distese e spiegate, tra i fulmini che scoppiano da tutte le parti. È lei che impera sui lampi, sui fulmini, sui razzi incandescenti, sulle negre polveriere dove si ammassa la polvere micidiale; è lei che veglia sulle navi da guerra, perdute nei mari lontani; è lei che si aggira, invisibile, nei magazzeni dell'arsenale. Nel suo giorno gli uffiziali di terra e di mare sono in festa, mettono la divisa a gala, si danno bel tempo, al banchetto salutano e acclamano il suo nome che ha uno schioppettìo allegro e veramente pare di vederla bruna, sottile, leggiadra, leggiera, provvidenziale, frenando con le sue manine da fanciulla i fulmini che si sbizzarriscono.

È pensoso S. Luca e guarda nel lontano orizzonte, dove gli sorridono le prime linee della pittura, dove l'arte balbetta appena le prime sillabe di quello che fu dopo uno stupendo, inesauribile, rinascente poema; egli sogna le sue ingenue Madonne, sul fondo d'oro, con la gonna azzurra, il manto rosso, il volto di sangue e latte, gli occhi pudichi, e le mani materne che sostengono il bambinello nudo. Egli s'inginocchia davanti ad un pezzo di legno appena levigato, prega e dipinge, primo degli artisti cui la fede trasforma.

E col corpo di gelsomino, nella lunga tunica candida, col volto bianco ed immobile da vergine, col pensiero assente dalla terra, S. Lucia, la martire giovinetta, guarda il mare senza pupilla….

***



Se vi è qualche cosa che può farvi amare il calendario, questo avido calcolatore della vita, è la schiera dei santi che furono uomini; una sfilata bianca, nebulosa che si eleva dai fogli stampati del libriccino, s'invola nell'aria azzurra e si perde negli indefiniti contorni del cielo.

Sofia non alzava gli occhi dal suo lavoro, e le sue dita leggiere volavano su quella trina delicata. Invece Lulù girava per la camera, spostava gli oggettini sulle mensole, apriva un cassetto per guardarvi dentro, distratta; era chiaro che essa voleva fare o dire qualche cosa, ma che il contegno serio della sorella maggiore la metteva in soggezione. Provò a canticchiare un po' di canzone, disse un verso; Sofia parve non aver inteso. Allora Lulù, che non peccava di molta pazienza, si decise ad affrontare la questione, e piantandosi davanti alla sorella, le chiese:

— Sofia, sai quello che mi ha detto madamoiselle Jeannette?

— Nulla di molto interessante per certo.

— Ci siamo con una risposta secca e fredda, da far venire i brividi in estato! Dove prendete il vostro gelo, o mia glaciale sorella?

— Lulù, sei una vera bambina.

— Ecco dove, v'ingannate bisavola del mio cuore; io non sono una bambina, perchè mi marito.

— Eh?!

— È appunto quello che mi ha detto Jeannette.

— Che imbroglio! Non capisco niente.

— Or ora, ti narrerò tutto, come si dice nei drammai. Sarà un racconto…. ma Vostra Serietà mi presta tutta la sua attenzione?

— Sì, sì, ma sbrigati.

— Il giorno delle corse al Campo di Marte, ecco il tempo e il luogo. Tu non vi eri, tu che preferisci i tuoi eterni libri….

— Se divaghi sempre, non ti ascolto più.

— Devi ascoltarmi; questo segreto mi soffoca, mi uccide….

— Ricominci?

— Smetto, semtto. Dunque alle corse stavamo in prima fila sulla tribuna: viene Paolo Lovato e ci presenta un bel giovane, Roberto Montefranco. Soliti saluti e complimenti vaghi, essi trovano i posti e siedono alle nostre spalle; scambiamo qualche parola, sino a che si ode il segnale della partenza dei cavalli. Ti ricordi che io proteggeva Gorgona, senza prevedere quanto essa mi sarebbe stata ingrata…. bisognerà rassegnarsi anche all'ingratitudine delle bestie. Una nube di polvere fa scomparire i cavalli. «La Gorgona vince!» esclamo io. «No, dice sorridendo Montefranco, vince Lord Lavello.» Io m'indispettisco per la contraddizione, egli continua a sorridere ed a contraddirmi; facciamo una scommessa, una discrezione. Infine dopo mezz' ora di palpiti e di ansietà, arrivo a sapere che la Gorgona è una traditrice, che io ho perduto e che Montefranco ha guadagnato: figurati! Gli dico che voglio pagare subito subito, egli s'inchina e risponde che vi è il tempo; lo incontro a Chiaja, gli rivolgo un'occhiata che è un'interrogazione; egli si contenta di salutare e sorridere in un modo misterioso. Così teatro, così dappertutto; io vivo nella massima curiosità: Roberto è bello, ha ventisei anni…. e stamane il signor Montefranco padre, mio futuro suocero, è rimasto in conferenza due ore con la mamma.

— Oh!

— Segni di attenzione nel mio pubblico. La visita del papà l'ho saputa da Jeannette. Dunque il matrimonio è fatto. Resta a stabilirsi una cosa di grave momento: quando andrò dal vice-sindaco, avrò un abito grigio o foglia morta? Porterò il cappello con le sciarpe o senza?

— Come corri….

— Corro? Sicuro: non vi sono ostacoli. Con Roberto ci amiamo alla follia, i nostri degni genitori sono contenti….

— E tu sposeresti un uomo così?

— Che significa quel così? Vocabolo elastico….

— Senza conoscerlo, senza amarlo?

— Ma io lo conosco, l'ho visto alle corse ed alla passeggiata! Io lo adoro! Ieri l'altro non avendolo visto, rifiutai di far colazione e presi invece tre tazze di caffè, per cercar di suicidarmi.

— E lui?

— Mi sposa, dunque mi ama! — replicò vittoriosamente Lulù.

Ma vedendo il volto di Sofia scolorirsi, si pentì di quella frase imprudente e curvandosi verso lei, le chiese con affetto:

— Ho detto qualche cattiveria?

— No, cara, no; hai ragione, chi ama, sposa. Il difficile è farsi amare — e sospirò lievemente.

— Farsi amare, farsi amare! — ripetè irritata Lulù. — È facilissimo, Sofia; ma quando, come te, si ha la fronte severa, gli occhi tristi e le labbra senza sorrisi; quando si va in un angolo a pensare, mentre tutti gli altri ballano e scherzano; quando invece di ridere si legge, ed invece di vivere, si sogna; quando giovane ancora si ha l'aria stanca e vecchia, allora è difficile essere amata.

Sofia abbassò il capo e non rispose. Le tremavano un poco le labbra come se comprimesse un singhiozzo.

— Ti ho afflitta di nuovo? — domandò Lulù.

— Gli è che vorrei vederti amata, circondata di affetto, e sposa…. Che piacere se fossimo spose lo stesso giorno!

— Follie queste: io resterò zitella.

— Nossignora, io ve lo proibisco, cattiva creatura. Se Roberto è un galantuomo, deve avere assolutamente un fratello celibe: io voglio che abbia un fratello celibe; lo voglio!

In questa entrò la madre in abito da uscire.

— Vai fuori, mamma? — disse Lulù.

— Sì, cara, vado dal notaio.

— Uh! dal nataio! Roba grave è questa.

— Ve ne accorgerete, signora burlona. Sofia, vieni un istante meco.

— Anche Sofia ha affari tenebrosi col notaio?

— Lulù, quando ti deciderai ad esser seria?

— A momenti, mamma; vedrai.

Schiuse la porta, al passaggio della madre e della sorella, fece due profonde riverenze, mormorando:

— Signora, signorina….

Quando furono fuori, dalla soglia gridò loro, scoppiando in una risata.

— Parlate, parlate pure: io farò le viste di non saper nulla.

Roberto Montefranco, per solito, non pensava molto: non ne aveva il tempo. La giornata gli fuggiva fra la colazione, la passeggiata a cavallo, le visite ed il pranzo; la sera scorreva dolcissima presso Lulù, la sua fidanzata. Poi vi erano gli affari spiccioli da sbrigare, qualche convegno con l'avvocato, qualche contratto da firmare, qualche debituccio vecchio da soddisfare; aggiungete i preparativi della casa e del viaggio nuziale. Appena appena, se gli rimaneva una mezz'ora per leggere e un quarto d'ora per isprecarlo alla porta del caffè. Così non lo si vedeva mai assorto in riflessioni profonde, nè si sapeva che egli si fosse mai occupato a risolvere qualche problema sociale: perchè, del resto, Roberto non aveva nulla di tragico o di eroico nel carattere.

Anzi godeva di una serenità di spirito, invidiatagli da molti.

Quel giorno — un giorno qualunque nel pomeriggio — si era disteso sulla poltrona, una gamba a cavalcioni dell'altra, lo stuzzicadenti in bocca, ed un volume delle edizioni Quadrio in mano, con la determinazione precisa di leggere. Il libro era interessante; ma, caso nuovo e strano, il lettore era molto distratto; dirò di più, era nervoso ed inquieto. Non voltava mai il foglio perchè dopo un paio di versi, le lettere uscivano di posto, saltavano, si confondevano, scomparivano. Roberto, senza sua voglia, partiva per le incognite regioni del pensiero.

….Papà è soddifatto, le zie mi mandano la loro santa benedizione, le cuginette sono in collera, gli amici del caffè si congratulano ironicamente, gli amici serii mi stringono la mano — dunque fo bene ad ammogliarmi. Non si può negare che Lulù sia molto graziosa, quando mi fissa con quegli occhietti pieni di malizia, quando scoppia a ridere mostrando i dentini bianchi, mi vien la voglia di stringere fra le mani quella testina leggiadra e di darle tanti e tanti di quei baci! È anche un bel carattere, un carattere d'oro, sempre ilare, sempre di buon umore, pronta allo scherzo, piena di spirito, punto schizzinosa, malinconica mai. Andremo d'accordo; io non posso soffrire le fronti pensierose, massime nelle persone che amo; mi sembra che celino sempre un segreto dolore, un dolore che non conosco e che non posso lenire, o di cui forse sono la causa involontaria. Sofia, la mia futura cognata, ha la virtù di irritarmi con quel suo volto freddo ed impassibile: quando lei compare, l'anima mi si chiude, muore il sorriso sulle labbra, e rilucesse il più bel sole di primavera, mi pare di essere in una oscura e grigia giornata di novembre. Non ho nemmeno più il coraggio di scherzare con Lulù; quella Sofia disperde la gioia. Ella forse si è accorta della cattiva impressione che mi fa, perchè mi saluta senza guardarmi, non mi dà la mano, mi risponde con brevissime frasi, si è accorta della mia antipatia. Forse se ne dispiace.

….Lulù ride sempre. È molto giovane. Non mi rivolge mai una parola sul serio, ed anche vuol farlo, non ci riesce e sembra che voglia burlare. Dice di amarmi, poi si mette a ridere e parla di altro. Mi vuol bene, ma non è amore disperato. In coscienza, neppure io ci spasimo…. meglio così. Per me, ho due teorie chiare, stabilite nella mente: primo, bisogna che i due fidanzati siano dello stesso carattere; secondo, non si deve mai cominciare con una forte passione. Siamo nel caso con Lulù; saremo felicissimi. Andremo a fare un viaggio per l'Italia, ma senza correre, senza affannarci, a piccole giornate, godendo di tutti i comodi, trattenedoci dove più ci piace, osservando anche le più piccole cose. Ci vorranno almeno tre mesi…. no, non bastano…. mettiamo anche quattro: ho piacere di sottrarre Lulù per un certo tempo, alla triste compagnia di Sofia. Ma domando io, è naturale che alla sua età quella fanciulla debba essere così seria? Avrà ventitre anni…. non è brutta, credo. Anzi ha occhi bellissimi e un portamento da regina. — Se non fosse così severa, potrebbe piacere. Prevedo che rimarrà zitella: forse questo è il suo cruccio, forse un amore…. qualche tradimento…. sarei tanto curioso di sapere la causa della sua tristezza…. ne ohiederò a Lulù quando ci ritroveremo un po' soli….

….A Lulù piacciono i dolci, me lo dichiarò la seconda sera che andai in casa sua. Bisogna vedere come li rosicchia; i confetti si liquefano, scompaiono dietro quelle labbruccie rosse, e dopo un momento essa prende una falsa aria di compunzione, per dire che non ve ne sono più. È carina, carina, carina! Mi ha confidato a bassa voce che, quando romba il tuono, ha paura e va a nascondere la testa sotto i cuscini; che ha sempre sognato di avere un abito di velluto nero, lunghissimo, col merletto bianco alle maniche ed al collo; mi ha assicurato che sarà gelosa, gelosa come una spagnuola e che comprerà un piccolo pugnale dal manico d'acciaio, intarsiato di oro, per compiere le sue vendette. È adorabile quando mi ripete queste cosuccie, con quella sua aria fanciullesca e convinta. Anche la Sofia è costretta a sorridere qualche volta; ciò le rischiara il viso…. Quella Sofia? quella Sofia! Chi arriverà mai a conoscere il suo animo?….

Il libro cadde dalle ginocchia a terra, il nostro giovanotto si riscosse al rumore, si guardò meravigliato, quasi si toccò per riconoscersi. Era proprio lui, Roberto Montefranco, colto in flagrante delitto di meditazione.

Il crepuscolo cadeva come una fine pioggerella di cenere grigia; Sofia, ritta dietro i vetri del balcone, guardava giù nella strada popolata e rumorosa. Era l'ora in cui la via Toledo diventa pericolosa pel gran numero di carrozze piccole e grandi, che s'incrociano, salgono, scendono, senza posa. Sofia pareva cercasse qualcuno con lo sguardo: ad un tratto un vivo rossore le passò sul volto, essa chinò un poco il capo, ridivenne pallida e subito rientrò nella cameretta. Non era trascorso un minuto che Lulù giunse come un turbine, sbattendo porte, scostando sedie per correre meglio:

— Che fai qui, donna Sofia Santangelo? Leggevi?

— Sì…. leggevo.

— Non hai avuto lo spirito di stare al balcone?

— E se lo avessi avuto?

— Bah! io ho dovuto stare di là, perchè Albina la sarta ha portato l'abito per questa sera — intanto fremevo d'impazienza, perchè avrei voluto esser qui. Ier sera dissi a Roberto di mettere il suo soprabito bleulè, di attaccare Selin al carrozzino e di passare alle sei e mezzo. Chi sa se mi avrà obbedito!

— Roberto è passato col soprabito bleulè, nel carrozzino.

— Misericordia! Come sai tutto questo? Non leggevi forse?

— …. Ero dietro i vetri.

— Ed hai riconosciuto Roberto, mentre non lo guardi mai? Miracolo! Ti ha egli salutata?

— Sì.

— Come s'è tolto il cappello?

— Ma…. come si toglie sempre.

— E tu hai risposto?

— Mi prendi per una sgarbata?

— Gli hai rivolto un sorriso almeno?

— No…. cioè, non lo so.

— Sei una cattiva, Sofia. Anche ieri sera Roberto mi parlava di te….

— Dicendoti che ero cattiva?

— No, ma chiamandomi la causa di questo tuo carattere chiuso chiuso, così differente dal mio. Allora io gli ho sfilato un bel panegirico; gli ho detto che tu sei più buona, più amabile, più amorosa di me e che hai il solo difetto di nascondere le tue qualità…. Figurati, che lui mi ascoltava con molto interesse; infine mi ha domandato dell'avversione tua per lui….

— Avversione!

— Così ha detto, e sai, non ha tanto torto! Lo tratti con sì poca cordialità! Ma anche su questo punto ti ho difesa, ho messo su una bugia, cioè, che egli ti era molto simpatico, che lo stimavi tanto tanto….

— Lulù!

— Lo so che non è vero; ma Roberto ti vuol tanto bene, non è una ingratitudine averlo per estraneo?

Sofia buttò le braccia al collo di sua sorella e la baciò; Lulù la trattenne un istante e le mormorò, con voce carezzevole:

— Perchè non lo ami un pochino, Roberto?

L'altra fece un moto brusco, tirandosi indietro, e non disse una parola.

— Sicchè — riprese Lulù, stringendosi nelle spalle e cambiando discorso — questa sera non vieni proprio con noi?

— No, ho mal di capo, puoi andare con mamma.

— Delle tue solite. Basta io vado lo stesso, perchè mi divertirò molto molto.

— Viene con te…. Roberto?

Nix; egli va al suo circolo, dove vi è consiglio di direzione. Io ne profitto per svignarmela e per ballare sino a domattina.

— E se egli lo sa?

— Tanto meglio, imparerà da ora a lasciarmi libera. Non voglio fargli prendere cattive abitudini.

— Lo ami poco, mi sembra.

— Moltissimo, alla mia maniera. Ma io scappo a vestirmi, mi ci vorranno almeno due ore.

Sofia stette ad ascoltare il rumore della carozza che si allontanava, portando seco la madre e la sorella; era rimasta sola, sola, come aveva sempre desiderato di esserlo. Da bambina, quando le facevano qualche torto, aveva pianto solo quando era in letto, all'oscuro, e l'uso gli era rimasto: così perduta in quel gran salone, sotto il chiaro lume della lampada, le mani inerti e la testa abbandonata sulla spalliera della seggiola, le si dipingeva sul volto un grande affanno, il vivo riflesso di una lotta interna alacrissima. Certo in quei momenti di solitudine completa le ritornava la coscienza di un grande dolore; il sentimento della realtà, lungamente respinto, diventava chiaro, distinto, crudele.

Un rumore di passi la fece scuotere. Era Roberto. Vedendola sola si fermò, esitante; ma supponendo il resto della famiglia in altra stanza, si avanzò. Sofia si era alzata subito, turbata.

— Buona sera, signorina.

— Buona sera….

Erano entrambi impacciati. «Dio! quanto è antipatica questa Sofia!» pensava Roberto.

Infine la fanciulla si rimise, riprese l'impero della sua fisonomia, che ridiventò composta e severa; sedettero a poca distanza.

— La signora madre sta bene?

— Abbastanza bene, grazie.

— E…. Lulù?

— Anche lei benissimo.

Qui un silenzio. Roberto prova una strana sensazione, come una gioia che lo riempisse di amarezza.

— Lulù è occupata? — chiese egli.

Sofia represse un lieve movimento d'impazienza:

— È al ballo, con la mamma, in casa Dellino — rispose poi rapidamente, quasi volesse prevenire altre domande.

Dunque Sofia era sola: e se non voleva essere il più scortese degli uomini, avrebbe dovuto trattenersi con lei! Roberto a questa idea ebbe l'irresistibile volontà di fuggire. Pure non si mosse.

— Io sono venuto, perchè al mio circolo non siamo stati in numero legale — disse dopo, come se volesse scusare la sua presenza.

— Lulù non vi attendeva…. Mi dispiace….

— Oh! non importa! — interruppe Roberto.

La interruzione era troppo rapida, e quindi poco lusinghiera per l'assente.

— E voi — riprese egli — non siete andata?

— No…. sapete che non amo molto il ballo.

— Preferite la lettura?

— Sì, molto.

— Non temete che vi faccia male?

— Ho buoni occhi — rispose Sofia, alzandoli in viso al suo interlocutore.

— E belli — disse fra sè Roberto — ma senza espressione. — E ad alta voce: Volevo dire….

— Male morale forse? Non lo credo: dai libri che leggo, mi venne sempre una grande pace.

— Avete bisogno di pace?

— Tutti ne abbiamo bisogno.

La voce di Sofia era grave, sonora, eppure Roberto se ne compiaceva come se la sentisse per la prima volta. Pareva si trovasse di fronte ad una donna sino allora sconosciuta, e che costei gli si rivelasse da ogni parola, da ogni atto. Perchè Sofia aveva perduto la sua freddezza, si lasciava andare a guardarlo, sorridergli, a parlargli come ad un amico. Che ci era stato prima fra loro? Che vi nasceva adesso?

— Quando un libro mi piace — riprese Roberto — mi viene un desiderio forte di conoscerne l'autore, di sapere se è buono, se anche egli ha amato, se anche egli ha sofferto….

— Forse provereste qualche disillusione. Gli autori descrivono sempre l'amore degli altri, mai il proprio.

— Per rispetto forse?

— Per gelosia, credo. Vi sono casi in cui l'amore è l'unico tesoro nascosto di un'anima.

Ma la voce di Sofia non si alterò, dicendo queste parole. Rifulgeva dal suo volto tanta onestà; era così semplice, così pura, così convinta in quel suo accento, che Roberto non provò alcuna sorpresa, sentendola discorrere così sicuramente dell'amore. Di nulla più si meravigliava, tutto gli sembrava naturale, preveduto; — anche quella serata, passata da solo con quella fanciulla singolare, gli sembrava che fosse stata stabilita ed a lungo attesa. Quando si lasciarono, si guardarono bene in viso, quasi volessero riconoscersi. Sofia porse la mano, Roberto la prese e s'inchinò; una portiera ricadde pesantemente. Erano divisi.

Cessato il fascino della presenza e della conversazione di Sofia, Roberto si sentì l'animo in disordine, il cervello scombussolato. Era allegro, malinconico, avrebbe voluto morire ed era pieno di vita; non sapeva più che pensare di Lulù, di sè stesso e dell'avvenire.

Sofia era molto felice, molto felice! Per questo piangeva a singhiozzi, col capo immerso nel guanciale.

Erano passati tre mesi, il matrimonio di Lulù tirava in lungo. Alle volte la madre, che non ci vedeva chiaro in questi ritardi, chiamava in disparte la figliuola e gliene domandava.

— Voglio aspettare — rispondeva sempre Lulù — ho bisogno di conoscere meglio Roberto.

Infatti la fanciulla era diventata un po' osservatrice. Andava attorno come al solito; come al solito cantava, rideva, scherzava, ma interrompeva spesso queste piacevoli occupazioni per indagare il contegno della sorella, o per ascoltare ogni parola di Roberto. La si vedeva spesso con le labbra strette, le sopraciglia aggrottate, in aria di grande attenzione: ora Lulù si guardava molto intorno.

Ed intorno avvenivano strani fatti. Roberto non più sereno ed ilare come per solito, ma pensoso, pallido e turbato. Parlava breve e distratto: molte cose cui prima si interessava, sembrava fossero divenute indifferenti: a volte, con grande sforzo giungeva a dominarsi ed a ritornare quel di prima, ma per poco. Abitudine di dissimulare, non ne aveva mai avuta e ci riusciva male: la passione, l'interno cruccio gli si rivelavano dagli occhi.

Era venuta fuori un'altra Sofia: cioè una Sofia inquieta e nervosa, che a volte abbracciava con effusione la sorella, a volte rimaneva ore senza vederla, anzi fuggendola. Fugaci rossori le passavano sul viso, rossori di febbre; negli occhi le si accendeva una fiamma; la voce ora profonda e commossa, ora stridula e secca; le labbra spesso tremanti; le mani agitate da un impercettibile tremolìo. La notte non dormiva: Lulù si alzava a piedi nudi, andava ad origliare presso la porta, e sentiva che Sofia si agitava e piangeva. Richiesta, Sofia rispondeva non aver nulla, esser sempre la medesima.

Quando Roberto e Sofia si trovavano insieme — ed avveniva quasi ogni giorno — allora si chiariva di più il loro cambiamento. Parole rade, risposte o troppo pronte o troppo vaghe, sguardi singolari; per sere intiere non si parlavano, ma l'uno studiava i moti dell'altro. Non sedevano mai daccanto, ma Roberto trovava sempre modo di prendere il lavoro od il libro che aveva toccato Sofia; talvolta costei non compariva e Roberto, sempre più irrequieto, fissava la porta chiusa, rispondendo distrattamente a quanto gli si diceva; talvolta cinque minuti dopo la comparsa di Sofia, egli prendeva il suo cappello e partiva. La fanciulla impallidiva, un cerchio nero le si fermava sotto gli occhi; si decise a non farsi veder più. Si chiuse ogni sera per otto giorni nella sua camera, fremente d'impazienza, soffocando i suoi lamenti….

Una sera Lulù entrò nella camera:

— Vuoi farmi un favore? — le disse.

— Che desideri?

— Ho bisogno di scrivere un bigliettino. Roberto è solo, fuori il terrazzo. Va a fargli compagnia tu.

— Ma io….

— Vuoi continuare a star chiusa? Tanto ti costa il contentarmi?

— Verrai presto almeno?

— Il tempo per metter giù quattro righe.

Sofia si avviò verso la terrazza, cercando di avvalorare il suo cuore per quei pochi minuti. Si fermò sulla soglia. Roberto passeggiava; le si accostò….

— Lulù mi manda — ella disse a bassa voce.

— Veniste forzata?

— Forzata…. no.

Essa tremava tutta; Roberto le era vicino, col viso travolto dalla passione.

— Che vi ho fatto, Sofia?

— Nulla, nulla mi avete fatto. Non mi guardate così — supplicò essa, smarrita.

— Lo sai, dunque, Sofia, che ti voglio tanto, tanto bene?

— Oh! taci, Roberto, per carità, taci! Se Lulù ci sentisse!

— Io non amo Lulù. Amo te, Sofia.

— È un tradimento!

— Lo so, ma ti amo. Partirò….

— Ebbene — gridò di lontano Lulù, comparendo sotto un'altra porta — ebbene, è fatta questa pace?

Ma nessuno rispose. Sofia fuggì via, celando il viso fra le mani, e Roberto rimase immobile, silenzioso, come istupidito:

— Roberto? — chiamò Lulù.

— Signorina.

— Che avviene dunque?

— Nulla; me ne vado.

E senza neppure salutarla, andò via anche lui con un gesto da disperato. Lulù lo seguì con lo sguardo e restò tutto pensosa:

— Uno di qua…. uno di là — essa mormorava — e prima? basta, bisognerà che mi ci metta io!

— …. Per tutte queste buonissime ragioni, io non posso sposare il signor Roberto Montefranco — conchiuse Lulù a sua madre.

— Sono ragioni assurde, fanciulla mia — rispose la madre, scuotendo il capo.

— Insomma, vuoi che io te la dica chiara e netta? Roberto non mi piace e non lo sposo!

— Almeno quì c'è franchezza; ma è sempre un capriccio. Roberto ti ama.

— Si consolerà.

— È corsa una parola.

— Si riprende. Non siamo più ai tempi dei matrimoni per forza.

— Che dirà il mondo?

— Madre, definiscimi il mondo.

— La gente?

— Chi è la gente? non la conosco; non ho obbligo di essere infelice per la signora gente.

— Sei una fanciulla terribile! Ma io come la accomodo con Roberto? che gli debbo dire?

— Quello che vuoi. Sei mamma per questo.

— Già per riparare i tuoi guasti. Ne verrà uno scandalo.

— Non credo; gli si dice con garbo, con buona maniera. Anzi ti permetto di parlar male di me, di darmi della capricciosa, della leggera, della fanciullona; soggiungere che sarei stata una pessima moglie, che sono poco seria, che non ho dignità, che mia sorella è….

— Tua sorella? Perdi la testa, Lulù?

— Bah! potrebbe darsi benissimo. Per adesso Roberto e Sofia sono indifferenti, poi si conosceranno meglio, si potranno apprezzare…. ed allora…. chi sa, chi sa! Tu avresti lode di buona madre per avere maritata prima la maggiore….

— Infatti….

— A me non macheranno mariti, ho appena diciotto anni. Poi voglio divertirmi, voglio ballare ancora, voglio godermi questa mia gioconda gioventù; con la buona mammina, mammuccia….

— Sei un diavoletto — rispose la mamma, commossa, abb acciando la figliuola.

— Sicchè restiamo intesi? A Roberto si annunzia pulitamente la brutta notizia, però gli si aggiunge che si resta amici, che lo vogliamo veder sempre. Se quei due si debbano amare, si ameranno: è scritto.

— Ma credi, cattiva Lulù, che le cose si metteranno bene? Sai che mi piacciono poco gli imbrogli.

— O impersuadibile madre? O madre peggiore di San Tommaso! Ma sì, ma sì, te lo assicuro io, con la mia provata esperienza, che non accadranno scandali. Roberto è un gentiluomo, infine, e non pretenderà che, senza amarlo, io lo sposi.

— Quello che mi sembra impossibile è l'affare di Sofia….

— Nulla di più possibile che l'impossibile — rispose con gravità Lulù.

— Cara, con questi assiomi! Suvvia; lasciamo fare al tempo; forse regolerà egli le nostre faccende. Ciò non toglie che tu sia una pazzerella.

— Ed una capricciosetta….

— Una testa senza giudizio….

— Ed un cervellino bisbetico. Sono tutto quello che vuoi, fammi la predica, me la merito. Andiamo: non hai nulla più da dire? Io attendo.

— Dammi un bacio e va a letto. Buona sera, bambina.

— Grazie mammina. Buona sera.

— Meglio così — diceva fra sè la buona madre…. Meglio così. Lulù è ancora troppo giovane. Si vedono ogni giorno le tristi conseguenze dei matrimoni di convenienza. Dio ci liberi! Meglio così.

— Auff! — diceva prendendo fiato Lulù. — che diplomazia ho dovuto spiegare, che arte per vincere la mamma! Sarei un ambasciatore perfetto, io! Che trionfo! Altro che il trionfo d'amore! Questo è il trionfo di Lulù!

Si fermò davanti alla porta della sorella ed origliò. Si udiva ogni tanto un sospiro represso: la povera Sofia aveva perduto la quiete.

— Dormi, Sofia, dormi — mormorò a bassa voce Lulù baciando la serratura, quasi volesse baciare la fronte della sorella — quietati e riposa. Ho lavorato per te questa sera.

E la generosa fanciulla si addormentò, contenta e felice per la felicità delle persone che amava.

Il tempo, il buon vecchio tempo, l'eterno e giudizioso galantuomo ha fatto il suo còmpito. Lulù chiede a sè stessa, se una signorina che accompagna sua sorella sposa, deve portare un abito azzurro di seta, o semplicemente un vestito di foulard paglierino con semplici merletti. Vuol sapere da Roberto se vi saranno molti dolci da rosicchiare, e da Sofia se le donerà quel bel fazzoletto ricamato, che sembra un soffio, una nuvoletta. Quei due che hanno conosciuto di quanto sia capace il cuore della fanciulla, sorridono della sua gaia spensieratezza, e l'amano, e la considerano come la loro Provvidenza.

— Perchè io l'ho sostenuto sempre — dice Roberto Montefranco ad un amico, parlandogli del suo matrimonio — gli sposi debbono essere di carattere opposto. Gli estremi si toccano. Così s'intenderanno, si fonderanno, formeranno un tutto completo — mentre quelli di inclinazioni eguali, somigliano due parallele: camminano insieme, ma non s'incontrano mai. E poi, quando c'è l'amore….! L'ho sempre detto.

Jèsus, ce que tu fis, qui jamais le fera? Nous, viellards nès d'hier, qui nous rajeunira? A. DE MUSSET. Rolla.

È una sala vasta, deserta, polverosa; qua e là sono aggruppati piedistalli di statue e qualche sedia sgangherata; la luce piove dagli alti finestroni e sembra grigia e fioca, mentre fuori riluce il sole invernale. Camminando in quel salone oudo ed oscuro, si abbassa la voce o si tace, si prova un senso di stanchezza e di oblio, e, giunti all'ampio seggiolone che sta di fronte al quadro, si chiudono gli occhi senza volerlo, quasi ad attendere l'ultimo, il più dolce riposo. Ma convien ridestarsi subito, perchè il quandro è là, rimpetto a voi, grande, immobile, vivente.

***



È un episodio della passione di Gesù: gli leggono la condanna, dopo averlo flagellato. Sono ebrei — uno di essi, dalle spalle tarchiate, dalle braccia nerborute, stringe un flagello, indifferente, se la discorre con certi altri; un secondo flagellatore sghignazza orribilmente, ed alza la verga quasi volesse continuare ancora. Alla destra di Gesù è un tale che gli strappa la tunica, a sinistra un altro che gli mostra con atto vero e vivace la condanna. Tutta questa gente, sebbene animata da sentimenti diversi, come l'odio, il disprezzo, la noncuranza, ha il tipo ebreo spiccato: carnagione bruna, sopracciglia vicinissime, sguardo falso; quello poi che ha in mano la carta è un fariseo, un ipocrita che si rivela: labbra strette, su cui corre l'insulto, fronte bassa, mano rugosa. Guarda il Nazzareno con invidia e con ira: invidia per quella sua serenità pacata, ira, perchè si vede vinto: e indica la sentenza. Ma il Nazzareno non lo ascolta, non lo guarda: pensa.

***



A che pensa? Forse agli sconfinati orizzonti della sua Palestina che non vedrà mai più, alle campagne ridenti, inondate dal sole, al lento volo delle azzurre tortore, alle limpide notti, al cielo stellato e profondo che tante volte ha interrogato con lo sguardo, al placido lago di Tiberiade: egli, che amò tanto la natura, pensa forse a tutto questo. O forse gli vengono in menti i cari compagni delle sue peregrinazioni, quelli che lo compresero e lo amarono; forse ricorda la dolce madre che dovette abbandonare così presto: forse colei che lo adorò sopra tutti: e pensa al loro dolore? No. In quello sguardo vi è qualche cosa di più largo, di più vasto; quel Gesù pensa al suo ideale, s'inebria di esso e imentica l'individuo nell'universo. La fatale notte di Gestemani, in cui il dubbio lo ha sopravvinto, in cui ha visto scomparire l'anima e la sua immortalità, in cui ha sofferto lo spasimo dell'uomo che vede spezzarsi il suo sogno, quella notte è lontana: egli crede in sè, crede negli altri; ancora pochi giorni ed egli morrà; ma il mondo sarà scosso, rivoluzionato dal più grande concetto umanitario: la libertà dell'anima.


***



Io non m'intendo di pittura e molto meno di disegno, non conosco le scuole antiche e moderne e mi affido al solo mio gusto: non so, quindi, se la luce sia giusta nel quadro di Altamura, se le figure del secondo piano siano proporzionate a quelle del primo, se le pieghe degli abiti siano armoniose e via discorrendo. Ma quando una pittura mi colpisce e mi commuove, quando io vi resto estatica lungo tempo davanti, dimenticando in quella sala vuota e fredda il mondo e la vita, quando la tela è illuminata da quel viso intelligente, pallido, buono, sofferente, quando in mezzo a quel gruppo di cretini, di ipocriti, di malvagi, veggo dominare viva e vera la persona del filosofo, del pensatore, del Maestro, io dico che il pittore è un artista, perchè ha raggiunto il sommo dell'Arte.

***



Filosofo. Ho sognato su questa parola. Ho riveduto un altro paese bello e fecondo, culla della civiltà umana, ho riveduta la compagna sterminata e la lunga sfilata dei portici marmorei, sotto cui passeggiava gravemente un vecchietto, circondato da molti giovani. Il vecchio anche parlava ad essi di libertà, d'anima, d'immortalità e quelli lo ascoltavano e lo amavano: come il Galileo, il vecchio maestro distruggeva gl'idoli antichi, annientava il passato e creava l'avvenire. Ma in Grecia ebbero paura come in Gesusalemme, carcerarono il vecchio e gli dettero la cicuta; ed il Nazzareno anche dovette morire. Così, attraverso il tempo, avevano comune il sacrificio i due più grandi martiri dell'Ideale: Socrate e Gesù.

Vi era una volta una fanciulla — oihmè! quante ve ne furono e quante ve ne sono! — una fanciulla che doveva pacificamente sposare un giovanottò. Costui era un bravo ragazzo, negoziante all'ingrosso di spirito e di zucchero: i suoi buoni amici dicevano che del primo non gliene rimaneva mai in deposito e del secondo troppo, volendo significare, con una ignobile freddura, che era buono, e stupido. Viceversa, la fanciulla aveva un professore di lingua italiana che la dichiarava un ingegnaccio; ella leggeva romanzi e parti letterarie di giornali illetterati, assisteva a conferenze scientifiche, storiche e poetiche, spiegava sciarade, era immancabile alle prime rappresentazioni, prendeva viva parte alle discussioni critiche ed inutilli che ne scaturivano: insomma una fanciulla moderna, una fanciulla superiore. Qui si comprende che prima di diventar tale, il suo matrimonio col negoziante di zucchero e spirito poteva sembrar logico, ma giunta che fu la superiorità diventava una proposizione assurda: poichè ogni fanciulla superiore che si rispetta, deve sposare un uomo illustre o morire zitella. I genitori che amavano molto la loro figliuola, si persuasero di questo profonda verità e licenziarono il fidanzato: egli pianse per un'ora, si disperò per tre giorni, fu malinconico per una settimana e finì per isposare la figliuola di un negoziante in legname. La storia non aggiunge se ebbero lunga prole, ma all'onesto lettore è lecito supporlo.

Intanto la fanciulla cercava il suo uomo illustre e dopo molte difficoltà, ne ritrovò uno; difficoltà non già per la scarsezza del genere, poichè a sentire i contemporanei, siamo nell'epoca delle grandezze, — ma ella ne voleva una vera, autentica, bella e buona. Quello che scelse era, come al solito, sorto dal nulla, perchè una celebrità che si permettesse di non sorgere dal nulla, sarebbe una falsa celebrità; aveva combattuto con la miseria, la fame ed il freddo, gioconda compagnia della sua giovinezza: come molti altri entrò in carriera per la porta piccola del giornalismo e portandovi due qualità opposte, la pazienza e l'ardire, riuscì a conquistare un nome ed un posto nella schiera militante. Poi gli si volsero sempre favorevoli gli eventi, per lui accaddero miracoli inauditi; gli editori pagavano, i suoi libri arrivavano alla sesta edizione, la critica lo carezzava, la gloria gli cascava addosso, sua vita natural durante. Tentò la politica, questo grande spegnitoio delle intelligenze artistiche, e fu tanto fortunato da uscirne vivo e vincitore. Quando una sua interpellanza era annunziata, il ministero faceva l'esame di coscienza, gli avversari affilavano i ferruzzi delle risposte, le tribune si affollavano di ascoltanti; un portafoglio gli era stato offerto, aveva avuto lo spirito di rifiutarlo. Gli giungevano onorificenze, gradi, titoli, croci da tutte le parti: egli accettava tutto con serenità olimpica e rimaneva un uomo illustre, osservato, studiato, discusso, commentato e sempre applaudito dal pubblico.

Come la fanciulla potè vederlo, conoscerlo, portarselo in casa, persuadere i parenti, sarebbe lunghissimo il narrare: giorno per giorno, per la parola matrimonio, si disperdono nell'oceano della vita torrenti di diplomazia femminile. Certo non fu lieve impresa fare la conquista di quell'eterno trionfatore, perchè egli si amava troppo per amar molto qualche altro; ma la giovinetta era ricca, bella, elegante; sapeva a memoria i libri di lui e ne recitava qualche brano, con un grazioso sorriso di ammirazione; era un'adorazione perpetua degli atti, delle parole pel grande uomo: i genitori, con la loro adorazione pareano chiedere umilmente l'onore di tanto parentado; lo adoravano gli amici di casa, lo adoravano i servi, egli si inebriò di quell'incenso, si commosse allo spettacolo di tanta brava gente ai suoi piedi; scese dal trono della sua grandezza e si lasciò strappare un benevolo consenso.

Un'adorazione meritata: pensava la sposina. Un uomo di genio nulla ha di simigliante con la turba degli altri esseri piccoli e comuni: egli vive in una sfera elevata, circonfusa di luce. Il portamento altero della testa, la noncurante disinvoltura della persona; lo sguardo ora fisso sulla terra, ora perduto nel cielo, sempre profondo; la sprezzatura artistica dei capelli, il solco della fronte, il senso di mistero dei vari sorrisi, la piega ironica del labbro, tutto rivela la razza degli eletti. Nessuno come lui sa entrare in un salone inchianarsi, richiamare su di sè tutti gli sguardi, essere il centro dell'attenzione, dominare tutta la riunione. Tutto quello che egli dice, ha un senso riposto che talvolta sfugge ai profani; spesso egli dice cose molto semplici, che ognuno sa, ma v'imprime un suggello d'originalità elegante; la sorridente modestia con cui parla di se stesso, la bonomia con cui accoglie i giovani principianti, quella velatura di disprezzo, con cui tratta gli avversari, la calma con cui affronta la discussione ed il subitaneo scoppio dell'idea, sono tutte cose che completano la sua grandezza. Egli ha la singolare potenza di dare un aspetto poetico anche ai nostri prosiaci abiti moderni: il petto della camicia sembra nebuloso, i guanti hanno una tinta soave ed indefinibile, la stessa marsina acquista della linee artistiche — viene la voglia di chiedere se quest'uomo pranzi, beva e dorma come il resto dell'umanità. Come deve essere sublime nel momento dell'ispirazione! E nell'amore! Essere la moglie di quest' uomo, portare il suo nome, possedere il suo cuore, dividere la sua gloria: ecco la felicità delle felicità.


***



Distacco alcune noterelle dal giornale della giovane sposa:

Viaggio bellissimo. Guglielmo a Roma mi ha parlato delle antichità romane, a Firenze delle repubbliche italiane, a Bologna dell'Università, dappertutto di arte e di estetica. In un viaggio di nozze!….

Gli amici di Guglielmo finiranno per irritarmi. Lo circondano sempre, lo assediano, non me lo lasciano un sol momento; con me poi, o mi inganno o usano una cert' aria compassionevole che mi dà sui nervi; ve ne è uno specialmente che quando va via, non manca mai di dirmi: «Vi raccomando il grand' uomo.» E l' altro giorno, mi disse con un tono sentimentale: «Fatelo felice, signora, fatelo felice, perchè la storia ve ne chiederà stretto conto.» Domando io se la storia deve ficcare il naso in certe cose….

Siamo a casa. Guglielmo ha quattro librerie, moltissimi libri che sono ammirati dai visitatori, ma egli non legge mai. Io non credeva che studiasse almeno cinque ore al giorno; mi ingannavo, avrà studiato prima.

Orribile, orribile! Egli porta un berretto da notte con un fiocco rosa, col pretesto di conservare l'arricciatura dei capelli!

Egli restava ore intiere nel suo gabinetto da toilette e ciò stuzzicava la mia curiosità, — ammesso che marito e moglie sono la stessa cosa, non vi è indiscrezione a vedere che cosa fa l'altra metà di sè stesso; ho posto l'occhio al buco della serratura. Egli studia davanti allo specchio; gli ho visto provare una dozzina di sorrisi ed otto pose diverse….

Nei momenti d'ispirazione mio marito somiglia tal quale uno stupido. E guai ad entrare allora in camera sua! È scortese, ineducato, vi manda via con certe parole….

Egli pranza benissimo. Vuole sempre dei grandi pezzi di carne sanguinolenta, che gli dànno l'aria di un cannibale che squarta un cristiano. Venitemi un'altra volta a discorrere dell'ambrosia dei poeti!

Sono otto giorni che mio marito passeggia per la casa, declamando un discorso che improvviserà alla Camera. Non andrò a sentirlo; a momenti lo pronunzio io il discorso, tante volte l'ho inteso ripetere.

Il segretario di mio marito….

Questa politica mi obbliga a fare moltissime cose che mi dispiacciono. Adesso sono obbligata a far visita alla signora Zeta, una donnina gentile, troppo gentile; taci lingua, che ti darò un biscotto! Lo so, noi siamo esseri deboli, ma almeno salvare le apparenze! Ed è moglie di un uomo politico; non ha dunque imparato nulla alla scuola di suo marito?

Sono furiosa. Guglielmo riceve delle lettere amorose da signore incognite, che lo amano pei suoi libri; quando gli ho fatta una scena, mi ha risposto, con la sua solita freddezza: «Cara mia, sposandomi dovevate saperlo, sono gli incerli della posizione!» Me li chiama incerti! Una di queste sfrontate gli scrive: Sono sicura che vostra moglie non comprende la vostra grandezza. Vorrei che questa signorina lo vedesse col suo berretto da notte!

Il segretario di mia moglie….

Guglielmo fa una corte assidua alla moglie dell'ambasciatore. Se gli dite nulla, vi risponde che è per ragion politica; anzi l'altro giorno mi raccomandò di lasciarmela fare dall'ambasciatore marito: così le potenze rimangono in equilibrio e la pace Europea è assicurata. Non già che mi dispiaccia mettere nella lista mia anche l'ambasciatore — ma egli è così noioso, così noioso….

Guglielmo non può accompagnarmi ai bagni. Va a fare un viaggio diplomatico, dove non posso andare anche io. Pazienza, mi rassegnerò….

Grandi uomini…. Ammirarli sì, sposarli mai….

Guido aveva quel giorno l'aspetto di un uomo felice: fronte serena, occhi e labbra ridenti, andatura svelta e spigliata. Ritornava da un banchetto politico — in questo caso, la parola pranzo è troppo volgare — dove alle frutta aveva minutamente spiegato ai suoi elettori il suo programma: gli applausi erano fioccati, la cucina del cuoco, lo champagne ed il programma del candidato avevano prodotto molta impressione: l'elezione era assicurata. La sera poi, Guido sarebbe andato ad un ballo, dove avrebbe incontrato la baronessa Stefania, una crudele che cercava da un mese, un pretesto dignitoso per lasciarsi intenerire; forse, durante un valizer di Metra o in una visita poetica al buffet, il pretesto si sarebbe offerto da sè: la misericordia divina è grande. Aggiustati quindi i suoi affari pubblici ed intimi, Guido rientrava per dormirsela un'oretta, come il grande Napoleone alla vigilia di una battaglia.

Ma Giuseppe, un servitore vecchio e fedele, come se ne trovano ancora pochi, Giuseppe rimaneva in posizione rispettosa davanti al padrone; sul suo volto si leggeva il desiderio di dire qualche cosa.

— Ebbene? — chiese Guido, che se ne era accorto.

— Chieggo scusa al signor padrone…. volevo dire….

— Purchè tu lo dica presto.

— Il signor padrone ricorda che giorno è questo?

— No, Giuseppe, no.

— Oggi è il suo compleanno….

— Ah! — fece soltanto Guido, la cui fronte si rannuvolò.

— Altre volte…. ai tempi di qualcun altro…. in questo giorno, eran fiori dappertutto….

— Erano, non ci sono più! — osservò Guido con una leggera mestizia.

— Ci sono, ci sono — disse il vecchio servo smascherando un grosso mazzo di fiori che troneggiava sopra una mensola.

— E chi?….domandò Guido, ma guardando il volto umile e sorridente del servo, comprese subito.

— Tu, Giuseppe?

— Il padrone scuserà….

— No, non vi è bisogno di scusa. Ti ringrazio: mi hai fatto piacere con quei fiori.

E il candidato al collegio di Roccacannuccia ed al cuore della baronessa Stefania, si commosse pensando che nel suo compleanno, al solo servo era venuta la gentile idea di un dono di fiori. Ma fu una lieve emozione, perchè anzitutto Guido era un uomo di spirito. Ora chi appartiene a questa onorevole e ristretta-classe di persone, ha il diritto di commuoversi qualche volta ma a patto che lo faccia brevemente, senza dimostrarlo all'esterno, e che dopo sia pronto a sorriderne.

— Io vado a dormire un poco — rispose Guido; — mi sveglierai alle sette e mezzo.

— Sarebbe meglio che il signore non dormisse.

— E perchè, savio Giuseppe?

— Perchè stamane, mentre in casa vi era soltanto Girolamo, è venuta una signora. Quando ha inteso che il padrone era uscito, ha detto: «Benissimo, appena sarà di ritorno, ditegli che verrò nuovamente questa sera alle sei, che mi attenda ad ogni costo, perchè debbo parlargli di un affare urgente.» Ed è andata via.

— Bravo! ed il nome?

— Non ha voluto lasciarlo.

— Uhm! roba misteriosa, qualche rondinella pellegrina. Girolamo ti ha detto almeno…. di che si trattava?

— No. Disse che era una giovane, alta, bruna, vestita con molta eleganza.

— Di bene in meglio. La mia curiosità è stuzzicata. E tu credi, Giuseppe, che per questa incognita io non debba dormire?

— Sono le sei. Se è puntuale, il padrone non avrà neppure il tempo di stendersi sulla poltrona.

— E va bene, facciamo questo sacrificio alla Dea ignota. Giuseppe, dammi i giornali, attenderò leggendo. Una bruna ed alta: giusto, Stefania ha i capelli biondo-ardenti; sarà un diversivo.

Qui la lettrice alzerà gli occhi dalla pagina e penserà che Guido minaccia di essere un Don Giovanni; nionte affatto. Non nego che ai suoi venti anni Guido era tanto ricco di cuore da adorarne anche tre alla volta; ma era venuta la sua grande passione in cui aveva messo tutto il cuore, poi per una sciagurata combinazione la felicità era crollata come un castello di carta e la grande passione soffocata e seppellita nel passato. Dopo due anni impiegati a farla morire, Guido aveva ripreso la sua vita da giovanotto, un po' qua, un po' là: ma erano fuochi di paglia.

— Signore, signore — disse Giuseppe, rientrando tutto turbato.

— È venuta?

— È in salotto.

— La conosci tu?

— No, no….non la conosco — rispose il servo, balbettando.

Ma il padrone era già presso la porta del salotto, dove si fermò un momento per contemplare l'incognita. Costei stava ritta presso il tavolo sfogliando l'album delle fotografie; voltava le spalle alla porta, sicchè non si distingueva altro che una figura alta e graziosa, vestita di un ricco abito di stoffa nera, carico di merletti.

— Signora…. disse Guido avanzandosi.

Quella si rivolse subito: Guido provò come una scossa elettrica, e per celare la grande meraviglia che gli apparve sul volto, fece un profondo inchino.

— Non disturbo? — chiese ella, sedendosi con molto scioltezza, dopo aver risposto al saluto.

— Per nulla; sono a vostra disposizione.

— Peggio per voi se questo è un complimento; io sono disposta a profittarne.

— A mio rischio e pericolo dunque — replicò Guido, sorridendo — compiacetevi a parlare.

La signora (in confidenza si chiamava Emma) carezzò un poco il pelo morbido del suo manicotto; pareva che, sicura delle sue idee, cercasse una forma efficace ad esprimerle. Guido si distraeva a guardarla; era proprio lei, sempre bella, sempre affascinante come il primo giorno che l'aveva vista; anzi adesso gli appariva completa, perfetta. Il profilo sempre puro, era più deciso, più fermo; la carnagione bruno-pallida si era colorita di una leggera tinta rosea; gli occhi che prima erano soltanto vivaci, avevano preso un'espressione profonda; quella donna aveva vissuto e sofferto.

— Avete mai recitato la commedia? — chiese lei infine.

— Oh sempre!

— Benissimo, vedo d'aver fatta una domanda inutile. Dunque domani la reciterete ancora; ma vi ivverto che avrete una parte seria e che il successo sarà difficile a conseguire.

— Tutto dipende dagli attori e dal pubblico.

— Avrete mè a compagna

— Conosco la vostra valentia.

— Nel fingere?

— Nel recitare. Sarà un proverbio?

— Sì, ma senza la moralità negli ultimi due versi. La moralità è nello scopo della rappresentazione: si tratta di un'opera pia.

— Viene da voi — disse Guido, con una velatura d'ironìa.

— Vale a dire?

— Che voi siete pietosa; e che io non capisco ancora.

— A momenti. E ditemi….siete in corrispondenza con mio padre?

— Sempre; ma saranno ora due settimane che non mi scrive.

— Invece io ho ricevuto ieri una lettera. Ma scriva che sta bene e che domani arriverà a Milano, col treno delle dieci e venti.

Questa volta Guido non credette dover celare la sua sorpresa.

— Domani?

— Proprio domani.

— Vostro padre che non si muove mai?

— Si trova di passaggio per andare a Napoli e fa una breve diversione per vedere….

— Sua figlia….

— E suo figlio, dice lui.

— Sicchè?

— Sicchè ci troviamo in un grazioso impiccio — disse Emma, distendendo il piede sopra uno sgabellino di velluto.

— Lo chiamate grazioso?

— Non sono solita a pronunziar paroloni. Pure bisogna trovare un rimedio.

— Io non ne veggo.

— E siete un uomo politico, un uomo di spirito? A che vi giova aver imparato l'arte dei sottili sotterfugi, delle transazioni delicate, delle frasi leali e…. molto diplomatiche?

— Se continuate così, io troverò molto meno il rimedio.

— Bah! io l'ho trovato.

— Lo sapevo.

— Siete cortese anche nell'intenzione.

— Vorrei esser tale in tutto per voi.

— Vedremo. Dunque vi diceva che un mezzo c'è. Eccolo qui: io, a niun costo, voglio fare sapere a mio padre la verità….

— La triste verità.

— Aggettivo inutile. Mio padre ne soffrirebbe molto ed io avrei un rimorso cocente della sua sofferenza: le colpe dei figli non debbono essere piante dai padri. Finora, per le mie cure e per le vostre, per la lontananza, per la nessuna conoscenza che egli ha di persone milanesi, gli è stato risparmiato questo dolore. Ma domani, tutto questo bell'edifizio di pietose menzogne cadrebbe, e sa Dio quali ne sarebbero le conseguenze. Occorre impedire ciò assolutamente; voi mi aiuterete in quest'opera. Che egli ci ritrovi domani insieme come ci ha lasciati; che non una parola, non un gesto gli riveli il vero stato delle cose: ecco quanto dobbiamo fare.

Tutto questo era stato detto con voce seria e grave, e seriamente Guido lo aveva ascoltato. Pure non rispose subito: rifletteva.

Emma s'impazientì.

— È la commedia, come vedete — ella riprese. — Una commedia per beneficenza, non vi dovrà costare tanto.

— Per me sono pronto. Non temete che avvenga qualche equivoco?

— Quale?

— I servi….

— Darete licenza per domani al nuovo servo che ho trovato stamane. A Giuseppe parlerò io.

— Benissimo: e se viene qualche amico importuno?

— Per domani non riceverete.

— Suppongo che andremo a prendere vostro padre alla stazione e che ve lo ricondurremo; la gente che ci vedrà uniti, che dirà?

La gente non ci vedrà; anderemo nel coupè e di corsa.

— Vostro padre resterà qui una giornata: per quanto sia buono ed ingenuo, credete che non si accorgerà di trovarsi nella casa di uno scapolo?

— Questa sera farò portare quì il mio tavolino da lavoro, i miei libri e la mia musica: sarà la messa in scena.

— Pure….

— Vi è forse qualche cosa di cambiato nelle camere?

— Nulla vi è di cambiato — rispose Guido con voce grave — la camera è intatta, quale la lasciaste.

— Fate del sentimento?

— V'ingannate, fo del rispetto.

— Grazie; avete altre obbiezioni?

— Nessuna più: resta a vedere se saremo capaci di ingannare il bravo signore Giorgianni.

— Facendo gli sposini affettuosi? Ci ricorderemo i tempi antichi: le scioccherie del primo anno di matrimonio — disse con sarcrasmo Emma.

— Io le aveva dimenticate — rispose prontamente il marito.

Si guardarono in viso, scambiando un'occhiata da duellanti che riscontrano di prima forza.

— Ma forse io sono un egoista, a pretendere di sequestrarvi per una giornata intiera. Domani non avete altri impegni?

— No, nessuno: avendone, li lascerei.

— Grazie, di nuovo; per questa sera siete assolutamente libero: io non ho bisogno di compagnia.

— Come di compagnia?….

— Certo, io rimango qui stasera. Attendo le mie robe, come vi ho detto: ed intanto mi occuperò ad ordinarle, a disordinarle in modo che sembrino essere state sempre qui. Ma a voi non voglio dare maggiori fastidi; uscite, ritornate a quell'ora che vi piace: fino alle dieci di domani, siete un cittadino indipendente.

— Infatti dovrei andare ad un ballo; pure, se volete, rimango.

— E perchè? dovremmo fare conversazione, e fra noi non vi è a dire niente più.

— O troppo; avete ragione. Sicchè chieggo permesso per andare a vestirmi.

Emma s'inchinò e Guido uscì come un uomo scevro di cure e libero di spirito. Ma dentro era un poco scombuiato; infatti l'avventura era meravigliosa ed egli ci pensava, ci mulinava tanto che al ballo fu distratto in modo deplorevole. La baronessa Stefania gli gittò sguardi fulminei che egli ebbe l'impertinenza di non vedere: anzi, profittando di una quadriglia che teneva occupata tutta la sala, egli se ne andò senza salutare nessuno.

Ritornato a casa, si ritrovò in un ambiente trasformato, insolito, nuovo: era stata data aria al grande salone, chiuso da tanto tempo; nelle camere da letto erano accesi i lumi, gli armadii erano spalancati, si sentiva un sottile odore di violetta. Nel salottino il pianoforte aperto e la musica squadernata sul leggìo, i fiori freschi nei vasi, cangiato l'ordine dei mobili, ed Emma in veste da camera, che si adergeva sulla punta dei piedi per prendere una statuetta da un ètagère.

Era un sogno quello? Emma in casa che lo attendeva…. cioè i tre anni di assenza cancellati, cancellato quel doloroso giorno della separazione…. che follie!

— Buona sera — disse Guido e passò.

— Buona sera — rispose lei senza voltarsi.

Mi è duopo confessare, che malgrado la stranezza degli avvenimenti, malgrado i dubbi del domani, in quella casa, per quella notte, non ci furono insonnie, nè guanciali bagnati di lagrime. Emma era persuasa che la commediola da rappresentarsi non avrebbe cangiato nulla all'avvenire, e Guido aveva dal canto suo la medesima persuasione; si conoscevano troppo bene e sapevano che nulla, nulla poteva più riunirli. Emma entrando nella sua antica camera, pensò di essere all'albergo; e Guido nella sua si addormentò dopo tre pagine di Herbert Spencer (non intendo calunniare il filosofo, ma il mio eroe avea sonno).

Era vero, nulla poteva più riunirli. Per maritarsi avevano commesso mille stranezze: Guido era corso dietro ad Emma da Firenze sino a Napoli, aveva passate le notti sotto le sue finestre; Emma gli scriveva ogni giorno una lettera di otto foglietti e stava tutta la notte sul balcone. Il padre di lei, un po' di buona voglia, un po' per forza, finì per consentire, come consentano tutti i papà di questo mondo. In fondo, in fondo, egli era una bravissima persona ed aveva esitato perchè gli doleva di allontanarsi dalla figliuola: pure, temendo di vedersela ammalare, disse di sì. I due sposi, schiettamente felici, si adorarono per tre anni di seguito. Non dico che mancassero fra loro le questioncelle, le gelosie, sovratutto da parte di Emma. Essa aveva un carattere estremo, orgoglioso, irruente; non sapeva amare o odiare a mezzo: invece Guido le si opponeva con quella tinta di freddezza, con quel sorrisetto menomatore ed ironico dei caratteri medii. A volta si urtavano vivamente, ma la pace era sempre più bella.

Un giorno, non so come, Guido ritrovò un'antica fiamma; si rividero, ricordarono, ci corse un biglietto ed un convegno. Guido vi si lasciò trascinare più per debolezza, che per trasporto; più di tutto si vergognava della figura di collegiale. Come lo seppe Emma? Fu un servo imprudente, un'amica zelante, una lettera smarrita? Non si sa, ma fu per certo una prova lampante: perchè tutto l'amore cieco ed ardente che sentiva per suo marito, le si convertì in un freddo disprezzo. Non trovò per lui una scusa, si sentiva ferita a morte nel suo affetto e nel suo orgoglio di donna felice. Fece venire suo marito, e con una calma meravigliosa, senza che mai la voce le tremasse, gli annunziò che si sarebbero divisi senza strepiti, senza scene. Egli strabiliò, per la sorpresa; volle reagire, sorridere, prenderla con lo scherzo, attenuare la sua colpa; ma la moglie gli rispose con fiere e severe parole, che egli dovette tacere. Gli pareva ridicolo continuare a giustificarsi, accettò tutte le condizione da lei impostegli e la lasciò andar via; la giudicò una donna superba e disamorata. Cercò distrarsi, come ho detto, negli affari, nella politica, negli amoretti; assunse un contegno franco, fece il trascurato e lo scettico; ma solo in compagnia della sua coscienza, sentiva che la sua vita era infranta e rovinata.

Rivide la moglie due o tre volte, di lontano: si salutarono come due persone che appena si conoscono, l'uno non cercava mai dell'altro; del resto essa faceva una vita molto solitaria, non frequentando mai i teatri e le feste, mentre egli si gittava a capofitto nei rumorosi divertimenti. Si trovavano di accordo in un solo punto: scrivere al padre come se nulla fosse stato; vale a dire notizie stereotipate. Per esempio, Guido scriveva: «Emma sta bene, credo che vi abbia scritto, vi saluta tanto, abbraccia sua zia.» Ed Emma: «Guido sta benissimo, è molto occupato, non potrà accompagnarmi ai bagni.» Così reggeva, attaccata ad un sottil filo di seta, la felicità del signor Giorgianni.

Nel riverdersi dopo quell'ultima e crudele giornata, marito e moglie furono molto turbati. Per venire in casa del marito, per vincere le sue esitanze, per assumere quel contegno gaio ed ironico, Emma aveva dovuto domare il suo orgoglio. Per mio padre, per mio padre! andava ella ripetendo, per darsi coraggio; ma quello che l'aveva più sollevata fu la gentile freddezza di Guido. Il loro era stato un dialogo cortese, ossequioso, senza allusioni al passato od all'avvenire, salvo qualche frizzo leggiero: non ci erano stati tragismi, recriminazioni; si erano comporstati da persone savie, positive. E il domani?

Il domani sarebbe lo stesso: un po' di finzione, un po' di spirito, esser calmi, non tradirsi mai, celare l'inquietudine sotto il sorriso, dire una filza di bugìe ufficiose, e riaccompagnato il papà alla stazione, farsi un grande saluto e dividersi: ognuno per la sua strada. Di conciliazione, nemmeno l'idea: Guido non avrebbe mai detto la prima parola, Emma non avrebbe mai perdonato.

Ognuno, dal canto suo, aveva l'animo in pace.

Avevano allora allora finito di pranzare, il signor Giorgianni sorrideva contento e beato, e i due attori si sforzavano di sorridere anch'essi. Ma tutto quello che era loro sembrato facile la sera innanzi, diventava difficilissimo al momento di eseguirlo. Dal mattino, all'arrivo del padre che li aveva uniti in abbraccio, erano costretti a darsi del tu, a chiamarsi per nome, ad usarsi quelle affettuose compitezze, che sono di due sposi ancora innamorati: e per una parola, per una intonazione di voce, per un ricordo fuggevole del passato, Guido impallidiva, Emma arrossiva ed un imbarazzo visibile regnava fra loro.

Per quanto fossero disposti a tutto, per quanto avessero pensato agli equivoci che potevano sorgere, per quanto cercassero di dimenticare le loro personalità, pure la realtà sorgeva ad ogni istante e gettava lo scompiglio nel loro animo: era inutile, non potevano sopprimere la loro coscienza. Aggiungete il timore che per una lieve imprudenza andassero perduti tutti i loro lodevoli sforzi e più lontano ancora l'idea vaga, ma persistente, che quella scena così rappresentata non dovesse creare fra loro qualche cosa di nuovo, d'inatteso.

Per le scale, mentre il Giorgianni, saliva avanti, Emma rivolse un'occhiata desolata al marito, occhiata che significava:

— Come la dureremo sino a stasera?

E quegli di rimando, uno sguardo espressivo:

— Aiutiamoci, chè il destino ci aiuterà.

E via di questo passo. Ma in casa i pericoli raddoppiavano. Il Giorgianni pareva ci si dilettasse a porre su discorsi pieni di rischi, a rivolgere domande ingenue che turbavano chi doveva rispondere; povero e buono padre che amava tanto i suoi figliuoli!

— Sì — riprese egli, dopo aver posato la sua tazza — sono lietissimo di questa mezza giornata trascorsa con voi. Vedi, Emma mia, le lettere sono una bella cosa per chi sta lontano, ma io preferisco le visite, anche di poche ore. Tu, figliuola, stai bene; anzi sei divenuta più bella, più elegante. Non è vero Guido?

— È quello che le dico sempre — rispose Guido sorridendo.

— E lo scrivè anche a me! Oh! per questo, figliuola, ti posso assicurare che Guido nelle sue lettere non sa far altro che parlarmi di te; si direbbe che lo hai stregato. Che marito modello!

— Infatti — approvò Emma a voce bassa.

Vi fu un momento di silenzio dopo la risposta della moglie, Guido aveva chinato il capo e pareva contasse i fiorami della tovaglia. Ma per quel giorno il papà aveva la parlantina:

— La zia Elisabetta vi saluta tanto, tanto. È sempre un po'brontolona, ma vi vuole un bene dell'anima. Eri tu, Emma, la sua favorita ed ora non fa altro che discorrere di te….

— È una buona zia.

— Ottima. Sai che mi diceva poco tempo prima della mia partenza? «Sarei più contenta se la mia cara Emma avesse un grazioso figliuccio….»

Ma qui il Giorgianni, malgrado la sua bonomia, si accorse di aver commessa una imprudenza: vide che il viso di Emma si era tutto rannuvolato, vide che il genero si attoricigliava con mano nervosa i mustacchi.

— Anche la Rosalia, tua cugina — riprese allora per troncare quel discorso — anche la Rosalia sta benino. Ma quella lì ha avuto le sue sofferenze.

— Oh! e perchè? Non aveva sposato il suo Piero? — chiese la figliuola, con un po' di ironìa.

— Sì, sì, lo aveva sposato, si amavano molto. Non so come, non so perchè, Piero ebbe un capriccio per una signora napoletana….

— Lo chiamate capriccio, papà?

— Sì, fu un capriccio fuggevole; non essere pessimista. Ma Rosalia n'ebbe un grande dispiacere; vennero pianti, scene….

— Bah!

— Come ti dico. Rosalia se ne fuggì da sua madre….

— Fece benissimo.

— Malissimo, dico io. Una moglie non abbandona mai il marito. Infine, io con la mia eloquenza, la persuasi a perdonargli, a frego su quel debito….

— Voi, papa?

— Sì, e mi glorio del mio intervento. Perchè poi, ad essere intransigenti su queste cose, si finisce sempre per iscapitarci: l'uomo erra talvolta senza sua volontà….

— Comodo morale — ribattè con accento incisivo Emma.

— Era quella di tua madre, figlia mia.

— Come, anche la…. mamma era di parere che si dovesse alzar la mano? — chiese Guido con molto interesse.

— Sicuro, sicuro. Quella donna lì era piena di misericordia e d'indulgenza: era buona, buona, buona. Chi ama bene, soleva dire, perdona molto.

Rimasero tutti pensierosi: e Giorgianni, per interrompere il silenzio, esclamò:

— Sicchè, figliuoli, me lo fate vedere questo appartamento, questo di seta e di velluto? Non ho potuto darci che un'occhiata di sfuggita.

— Andiamo — rispose Guido — cominceremo dal salone.

— Magnifico, magnifico — disse Giorgianni, quando vi furono arrivati. — Questo è buono per grandi ricevimenti. Date feste?

— Ne davamo.

— Capisco, ora gli affari, la politica v'impediscono di vedere troppa gente, ma il salone è bellissimo. E questo salotto, che gusto squisito! Sei stata tu, Emma, a scegliere?

— No, è stato Guido.

— Mi congratulo con lui. Già avrà pensato che in questo salotto tu ti saresti trattenuta di preferenza; qui vengono i tuoi adoratori a farti la corte, nevvero, briconcella? Non sei geloso, Guido?

— Io? conosco mia moglie.

— E tu, Emma?

— Conosco troppo Guido.

Le due risposte erano scattate rapidissime, Giorgianni ne fu soddisfatto.

— Questa camera da letto è una meraviglia. — egli riprese — i colori formano una dolce armonìa. Tutto questo bianco e grigio carezza l'occhio.

Egli girava per la camera, come se cercasse qualche oggetto mancante. Infine chiamò la figlia che era rimasta sulla soglia.

— Emma?

— Papà?

— Dove sta il ritratto della mamma? Non lo veggo.

Essa restò tutta confusa, senza saper rispondere.

— Fummo in Brianza — disse Guido — e di là non sono giunte ancora tutte le nostre robe.

— Quel ritratto avrebbe dovuto giungere prima di tutto. Non importa; Emma non può aver dimenticata sua madre. Che donna, che donna, Guido mio! Peccato che non l'abbia conosciuta! Quando essa, se ne volle andare poveretta, si fece promettere che tutto avrei sacrificato per la felicità di Emma; e così anche lei ha contribuito al vostro matrimonio. Quando Emma venne a dirmi: «Papà, senza Guido io sarò sempre infelice», pensai alla mia cara morta e mi decisi. Voi eravate fatti l'uno per l'altro: vi amavate da un anno, Emma mi diventava pallida e triste, tu, Guido, davi nel farnetico: gioventù, gioventù! Ti ricordi, figliuola, di quel ballo dal console inglese, dove andasti con Guido?

— Mi ricordo — rispose essa macchinalmente.

— Ai vostri volti sereni e felici, agli sguardi che vi davate, tutti compresero che eravate fidanzati: e mi chiamavano padre fortunato! Sì, molto fortunato, aggiungo io: voi vi amavate fin troppo.

— Mai troppo — disse Guido.

— È vero. Auguriamoci sia sempre così, nevvero Emma?

— Auguriamocelo, papà.

— E questa stanza chiusa, che cosa è?

Era la camera di Guido; a sua volta egli si trovò impicciato, ed Emma salvò la posizione.

— È la camera degli ospiti, papà.

— Ah! bravo, bravo. Cioè quella che avrei occupato io, se avessi potuto rimanere una notte con vo È una disgrazia, ma debbo ripartire.

— E vera disgrazia — aggiunse il genero.

— Non importa: consoliamoci nel vederla, invece di abitarla.

— Ma….

— Capisco, sarà disordinata, fa nulla.

Guido aprì coraggiosamente; non si poteva più esitare.

— Non c'è male, non c'è male; è anche questa carina, come tutto il resto. Oh! guarda, guarda! Chi ha messo qui il ritratto della mia figlietta? Certo sarà stato un gentile pensiero di Guido; grazie, caro mio. Ma io non posso rimanere; quanto me ne dispiace!

Sedettero in salotto. Marito e moglie erano molto distratti, e se il signor Giorgianni avesse avuto un po'di naso fino, avrebbe fiutato che qualche cosa di anormale era fra loro. Ma per fortuna il buon papà non era molto furbo.

— Peccato — egli disse — peccato per tutta questa bella casa!

— Perchè, peccato?

— Gli è che fra poco dovrete lasciarla. Se ti eleggono deputato, come ne sei quasi sicuro, ti converrà stare a Roma almeno per sei mesi dell'anno, e non credo che vorrai abbandonare Emma sola a Milano. Dovrete avere due case; sarà un impaccio; pure vi è una cosa che mi solleva molto. Se venite a Roma, io potrò capitare da voi almeno una volta al mese: da Napoli a Roma il viaggio è breve e comodo, mentre da Napoli a Milano ce ne vuole, che ce ne vuole! Allora ci rivedremo spesso.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quando i due eroi salirono in carrozza, dopo aver accompagnato il papà alla stazione, quando si trovarono soli, dettero in un grande sospiro di sollievo. La era finita finalmente; la vita loro avrebbe ripreso il suo corso regolare. Non si parlavano; Emma guardava le goccioline della pioggia che batteva sui vetri del coupè; Guido non dava segno di vita; erano ridivenuti estranei.

Ad un punto, Guido, movendosi, urtò il braccio della moglie:

— Scusate — fece lui.

— È nulla.

Estranei, è vero. Pure, ambidue in quel silenzio riandavano i fatti della giornata; ne ricordavano le più minute impressioni, le sentivano di nuovo.

— Si volta per casa vostra? domandò Guido, ad un certo punto della strada.

— No, vengo da voi: debbo riordinare le mie cose, perchè la mia cameriera non saprà mai farlo. Andrò via più tardi.

— Benissimo.

A casa, entrò direttamente nella sua camera, Guido si gettò sopra una poltrona nel salotto e finse di leggere un giornale. In verità la sentiva andare e venire a passi lenti, la vide anche passare due o tre volte:

— Vi stancate? — le chiese — potrei aiutarvi.

— No, grazie; a momenti finisco.

Infatti poco dopo venne anch'essa a sedersi con un'aria molto stanca; quella giornata l'aveva esaurita. Si guardava attorno come per ritrovare qualche cosa dimenticata.

— Piove meno, mi pare? — disse a Guido che aveva lasciato andare il giornale.

— Piove sempre.

— La carrozza non è ancora pronta?

— Non so, vado a vedere.

— La carrozza sarebbe pronta fra dieci minuti.

— Desiderate che vi accompagni?

— Non importa, grazie.

Parvero un secolo od un istante quei dieci minuti? L'uno e l'altro forse.

Quando entrò il servo a dire che tutto era all'ordine, Emma si alzò con un fare deliberato e andò a mettersi il cappello davanti allo specchio; ci volle un po' di tempo ad annodare i nastri, perchè le dita avevano un lieve tremito. Poi, lentamente infilò i guanti, li appuntò, aggiustò alcune pieghe dell'abito e si avanzò verso Guido per salutarlo. Egli si era levato pallidissimo.

— Addio — disse ella.

Guido non rispose: essa voltò le spalle e traversò il salotto, diritta, fiera, senza barcollare, con un passo fermo ed uguale; pure sentiva benissimo che il marito la seguiva. Presso la porta, alzò la mano per sollevare la portiera ed incontrò quella più pronta del marito.

— Tu dimentichi di perdonarmi, Emma — disse egli con voce in cui combattevano il dolore e la passione.

Essa si rivolse d'un tratto e gli gittò le braccia al collo, soffocata da quell'amore che rinasceva fra loro gigante.

— Non te ne vai più, mai più, cara?

— No, no; manda a prendere il ritratto della mamma, Guido.

A Lulù.

Queste tre rose, una di un bianco castamente appannato, l'altra di un dolcissimi giallo, e la terza cupamente rossa; queste tre rose che formavano un mazzetto di effetto stupendo e che appuntate sulle treccie cadenti, dietro l'orecchio, ad ogni giro più rapido del ballo fremevano quasi fiori vivi presi d'amore lambenti il collo; queste tre rose bisogna posarle sulla fodera di carta velina della scatola. Questa pioggerella nevischiata di fiorellini bianchi, che sembravano ghiacciuoli sulla primavera della bionda testa, vada accanto alle rose; il lungo ramoscello di lillà, fiore poeticamente ammalato che ama mescolarsi nelle onde dei ricci mezzo disciolti e cadenti sulle spalle, terrà loro compagnia; insieme la camelia bianca, che il povero Emilio Praga diceva essere stata forse un cereo funebre; insieme la corona di fogliame morto, acuto desiderio del pallido autunno. E quanti altri fiori freschi ed artificiali, che vissero una giornata sola, che vollero morire fra i lumi, i sorrisi e gli amori! Ti ricordi, Lulù, come erano belli, come erano superbi nella loro umiltà, come raddoppiavano la forza nei loro profumi? E fra tutti quei mughetti di quella famosa sera, come andarono a finire? È vero che dal loro posto naturale che era l'inquadratura del tuo corselto, passarono a fare una fine oscura ed ignorata in un portafoglino di cuoio, fra un biglietto di visita stemmato ed una carta da cento lire? Non mi rispondi? Preferisci chiudere la scatola, Lulù?

Ecco qui la fascia d'oro più lucida, così lucida, così sfolgorante, che sembra un diadema reale; mandavi su un po' di fiato per appannarla, poi strofinala leggermente col fazzolettino di battista e riponila nel suo cassetto circolare di velluto grigio. Non prima però di aver inviato un sorriso a quella notte, in cui ridesti tanto, in cui quindici cavalieri con un seguito di cretinismo perfetto, ti s'inchinarono esclamando: Con quel diadema, una vera regina! E venti altri col solito inchino, ti dissero: Con quel cerchio, una bellisima Adalgisa! Come era bello e stupido il ballerino dei lancieri, come ballava bene, quante sciocchezze diceva! E le fandonie di quel pallido e scarmigliato poeta, afflizione della società sofferente, dove le metti? Ebbe il coraggio di dire in versi troppo lunghi o troppo brevi, che le perle della tua collana erano lagrime di fanciulla tradita; mentre tu gli rispondevi in ottima prosa, che te le aveva donate la tua vecchia matrigna, una contessa, vedova di tre mariti.

Dispiega per un momento e richiudi il tuo ventaglio dei balli: un ventaglio leggero come una farfalla, roseo e velato di oro, dove, in un angolo, una ninfa in leggieri abiti bianchi si culla in una rete, mentre il venticello le solleva i capelli — è l'immagine del fresco che ti doveva procurare. Ma pur troppo, da tempo immemorabile le donne hanno preso il vezzo di far servire gli oggetti a mille scopi, cui non sono destinati; da tempo immemorabile il ventaglio non serve a dar fresco. Serve piuttosto a nascondere il fulgore dei begli occhi, quando questi diventano troppo splendidi per coloro che li guardano; a nascondere il sorrisetto della bocca maliziosa, quando un'amica è troppo, troppo mal vestita; a nascondere il fremito delle mani nervose che vorrebbero spezzare qualche cosa; a nascondere un rossore…. che si ostina a non venire; per chiamare chi è lontano, e per respingere chi si affretta troppo, per salutare, per parlare a bassa voce. Credi tu che il tuo ventaglio abbia eseguito queste manovre? Allora è tempo di dargli un po' di riposo: mettilo accanto al libro di raso azzurro e profumato ove chiudi i tuoi fazzolettini. Sono nuvolette di battista, leggiere, fine, ricamate, smerlate, con le iniziali del nome e la corona marchionale; queste cosette così sottili che piegate passerebbero in un anello, stettero fra un bottone e l'altro dell'abito, in una piega della gonna, in un angolo perduto della veste, perchè la moda ha abolito le tasche per le donne, riserbandole solo agli uomini, come è di regola; questi fazzolettini asciugarono lievemente le labbra dal gelato, dallo champagne e dallo zucchero candito di un marron glacé. Ne andò perduto uno, nevvero? Lo hai forse dimenticato? Non ne sai nulla e sorridi? Ho paura che ti burli di me; fammi leggere i tuoi engagements.

Rappresentano le schede dell'elezione, l'elenco dei nomi degli eletti; i consiglieri…. municipali del tuo cuore; facciamo il calcolo dei voti. Oh! pare che le operazioni dell'elezione non sieno andate perfettamente in regola mia bella elettrice; trovo qualcuno che ha avuto troppi, ma troppi voti, mentre che per il resto vi sono grandissime dispersioni, sicchè nessun altro ha raggiunto il numero legale. Qui ci deve essere stato un blocco — ci è verso di annullare l'elezione? No? E allora parliamo di statistica. Sono dodici libriccini ed ognuno ha per lo meno otto balli; moltiplichiamo; ritroviamo il numero di giri di ogni ballo; moltiplichiamo; ritroviamo il numero dei passi di ogni giro. Moltiplichiamo; cioè no, non ne facciamo nulla. Si verrebbe a sapere che tu sei andata a piedi da Napoli a Milano, e ne sei ritornata; che avresti potuto salire sul Righi, o sul Monte Bianco; si verrebbe a sapere che hai superato, eroina ignota ai giornali, il capitano Salvi, il Bergossi e l'on. Sella, uno dei più attivi alpinisti. E dire che sono proprio quei piedini brevi ed inarcati, che hanno conquistata tanta gloria; e dire che non se ne sono rimasti per nulla stanchi e che ricomincierebbero volentieri a guizzare! Gli stivalini di morbido raso bianco, dai piccoli bottoni, dalla fodera di seta, han sofferto poco: solo il tacco alto e svelto si è un po' piegato per la stanchezza; le scarpettine rosee con la violetta ricamata sulla punta che sembra una mandorla, non hanno alcuna avaria: quelle grigie con la fibbia sul fianco, tempestata di turchine, possono rendere ancora valorosi servigi. Per adesso non v' è altro da fare; rivolgere loro un caro saluto che equivalga ad un ringraziamento per la loro opera umile ma costante, pel lavoro assiduo e senza ricompensa che hanno compiuto; un saluto che equivalga ad un: Arrivederci, per nuovi trionfi!

Perchè i trionfi ci sono stati ed il relativo bottino; sono premii guadagnati nel cotillon, sono sciarpe di garza leggera; un braccialetto, due o tre piccole bomboniere, una farfalla dalle ali splendide di verderame, una ricca decorazione di cui egli, diplomatico dell'avvenire, si spogliò volonteroso per deporla nelle tue mani, come vi deporrà quelle sul serio, un brano di merletto strappato allegramente, un nastro color fuoco, ed in ultimo i cuori innamorati di quattro o cinque giovanotti biondi o bruni. Sono tutte cose belle, care, giovani, ridenti, liete, gioconde; sono echi risuonanti di risa, sono ricordi lievi di sguardi saettanti, sono brividi che si rinnovellano, come se ne ripresenta la rimembranza. La sola rimembranza: perchè siamo in quaresima, cara.

Qui ti vorrei fare la solita predica del mercoledì fatale. Vorrei dirti che bisogna smorzare il lampo degli occhi, non sorridere che raramente ed anche con una certa gravità, chiudere l'abito sino al collo, abbassare le maniche sino ai polsi, nascondere la nuda pompa dei capelli, fare la penitenza, cioè, farla fare ai tuoi ammiratori; qui c'incastrerebbe benissimo l'idea della cenere e del sacco, se non fosse molto vecchia e molto detta; farebbe bella figura da sè il paradiso che si deve conquistare per tornarlo a perdere nel carnevale dell'anno venturo; ci vorrebbe una toccatina d'incenso, un ricordo di ascetismo, qualche citazione latina che abbaglia sempre chi comprende e chi no, qualche riflessione malinconica, qualche pizzico di poetico misticismo, qualche lagrima di Lamartine, qualche esclamazione dall'impaziente Giobbe, qualche versetto di quell'ipocritone di Davide; insomma quello che corre in questi giorni. Se apri un qualunque giornale, troverai la miscela come sopra, con qualche ingrediente di più o di meno; pure io potrei apprestartela specialmente, per la tua pronta conversione. Solamente mi viene un sospetto: che tanto io, quanto gli innumerevoli scribacchini, che un perfido destino creò per la disperazione dei contribuenti italiani, non abbiamo a perdere la fatica della copia conforme. Hai un volto troppo ridente, Lulù per darci ascolto: tu pensi certo qualche cosa. Scommetti, che l'indovino?

Tu pensi che se è trascorso il mese delle feste, dura ancora l'epoca della lieta tua festa, la gioventù; pensi che dodici balli non hanno sciupato l'inesauribile tesoro del tuo vigore e della tua gioia; ti senti nel core, nella mente, nell'equilibrio delle facoltà morali con le potenze fisiche, il desiderio della vita piena e completa. Non pensi alla quaresima, fanciulla impenitente; forse che essa ti cambia, forse che essa lo cambia, forse in questi giorni non siete sempre quelli dei giorni passati? È vero tu devi dare un addio ai fiori, alle stoffe, ai veli, alle garze; ma vi è modo di piacere anche con un abito di stoffa nera ed un goletto di trina bianca — perchè la quaresima non ha influenza sugli occhi belli, sulle labbra fresche e rosse, sul corpo snello. È venuta la quaresima, epoca di ascetismo e di malinconia; ma tu stai troppo bene per soffrire di ascetismo, e la gioventù, con miracolo eterno, si rinnovella nel riso. Ecco, giunge la primavera leggiadra con le sue promesse; e dopo, il caldo estate con la felicità del mare che ti chiama, e poi l'autunno con le gaie escursioni in villa, e poi l'inverno coi balli, daccapo, per allietarsi, per sorridere, per amare! Se pensi tutto questo, ti annunzio che hai ragione, Lulù.

Per quella simpatia che ispira un visetto pallido e quasi divorato da un par d'occhi grandi — per quella attrazione che esercita un corpicino gracile, esile, perduto nelle stoffe, pieno di dolci languori e di febbrili sussulti — per quella seduzione che possiede una fanciulla pensierosa, intelligente, ammalata e nervosa — per tutto questo e per altro ancora, Gemma era molto amata. Intorno a lei vivevano altre giovinette ridenti di bellezza e di salute; ma ella senza fare neppure uno sforzo di civetteria, finiva per vincerle tutte. Da principio destava interesse quella testina un po' curva sotto il peso dei bruni capelli; quello sguardo incerto, stanco, molto spesso smarrito; quella bocca così vivida in quel pallore così cereo; quell'aria di donna che abbia molto amato e molto vissuto in pochissimo tempo. Poi veniva la pietà: si sapeva che la fanciulla era infermiccia, minacciata da una lenta consumazione; che non aveva più nessuno, solo una zia affettuosissima; che era obbligata a vivere sei mesi in campagna; sei sul mare, e non ballare mai, e cibarsi come si ciba un uccellino; che in chiesa ed in teatro aveva spesso gli svenimenti: chi non si sarebbe commosso davanti a lei? Infine una sera, una mattina, un'ora qualunque, Gemma alzava i suoi neri occhi in fronte al suo ammiratore, talvolta si degnava di sorridergli, talvolta di disprezzarlo; gli porgeva una manina lunga, candida, calda ed allora….allora bisognava inchinarsi, amare, adorare ciecamente quella fragile e bella creatura. Essa no, non amava; pare che non ne avesse la voglia o la forza; ed il sentimento più sviluppato in lei era un profondo egoismo, che le faceva accettare, con una riconoscenza passiva tutte le premure, tutti gli omaggi, tutti gli effetti. Quando qualcuno la metteva sul soggetto dell'amore, ella scuoteva il capo con aria triste, dicendo: «Sto sempre così male, così male; come posso pensarci?» E nessuno osava più proseguire.

Andrea non gliene parlava mai; anzi egli stimava molto felice, che Gemma gli concedesse il solo permesso di amarla. Perchè era nella larga ed esuberante natura del giovane il bisogno d'innamorarsi, di voler bene a qualche cosa di piccolo e di delicato, di proteggere qualche cosa di debole; in lui v'era un po'del cavaliere errante, un po' del fanciullone, un po' dell'artista. Figuratevi un giovanotto alto, robusto, quasi un colosso, con un paio di spalle erculee, un collo da toro ed una testa energica, dalle linee nettamente accusate: una salute a tutta prova. Faceva lunghissime tappe a piedi, in cerca di un problematico tordo o di una volpe incognita e dopo molte ore di cammino, rirornava a casa senza l'ombra della stanchezza; montava a cavallo per andar da un paese all'altro e mentre il cavallo si trascinava a stento, egli era fresco come una rosa, capacissimo di ballare per una notte intiera. In lui niuna impressione facevano le notti vegliate, le intemperie della stagione, i lunghi viaggi per mare e per terra: non era mai ammalato. Lo si trovava sempre pronto ad uno svago o ad una opera buona, sempre disposto, mai annoiato, mai triste, incapace di malumore o di collera. Non molto intelligente: ma gli aleggiava sul volto qualche cosa che era sorriso, riflesso, luce, un non so che di buono e di poetico. Sì, anche poetico: in quell'Ercole moderno, vi era la calma e straordinaria poesia della forza e della bellezza fisica. La forma era piena, completa, armoniosa in lui, la linea grande e sviluppata, il disegno compiuto, l'ultimo tocco di perfezione, lo svolgimento potente ed equilibrato di tutte le forze. Era una statua greca o romana, perduta nella nostra razza mingherlina e sgagliardita: egli ne profittava per essere buono, molto buono.

Un cuore largo, largo: credo di averlo detto. Non poteva sentir piangere una donna, veder percuotere un bambino, non poteva sentir raccontare di miserie, di afflizioni, di morti: diventava rosso e pareva che morisse soffocato. In verità era il suo cuore ingenuo che si sollevava contro le ingiustizie e le sventure, era la sua ricca natura che si ribellava per istinto e lo spingeva a mettersi dalla parte dei deboli. Per questo fatalmente s'innamorò della Gemma: egli che stava tanto bene, aveva una grande compassione di lei, che passava dalla febbre all'emicrania e da questa al raffredore; egli che, postosi in letto, si addormenta sul momento, aveva pietà delle lunghe ed agitate insonnie della fanciulla. Un giorno, vedendola melanconica, le chiese se si sentisse più male:

— Al solito, — rispose lei, con voce breve: — finirò per morirne e nessuno mi avrà amata!

A queste parole il buon Andrea provò un grande rimescolìo: l'anima sua n'era andata da Gemma, per farle atto di servitù. Così quel grande cuore divenne un giocherello nelle manine di Gemma, che si compiaceva a farne tutto quello che voleva. Il fiero e robusto garzone, dalla tempra indomabile, si piego a tutte le delicatezze, a tutte le finezze, a tutti i capricci della sua fanciulla, curvò la sua fibra, diventò per lei una donna, anzi una madre. Fu visto impallidire e arrossire ad ogni cenno di Gemma; chiederle ogni momento della sua salute e dopo vergognarsene e domandarle scusa pel fastidio; guardarla negli occhi per indovinarne i desiderii e sconvolgere il mondo per soddisfarli; correr dietro al medico ed interrogarlo ansioso e confessargli che tutta la sua vita, tutta la sua felicità era riposta in quella giovinetta inferma. Egli avrebbe dovuto vivere sempre all'aria aperta, in mezzo alla luce: eppure nelle lunghe nevralgie di Gemma passava le giornate intiere in una camera chiusa, nella penombra, non osando muoversi dalla sua sedia per timore di disturbare, non osando parlare, respirando un'aria carica del sottile odore dell'etere, soffocando anche i sospiri. Qualche volta, dopo averla lasciata bene ed essersene tornata a casa, gli sorgeva il dubbio che ella fosse ammalata; allora usciva di nuovo ed andava a passeggiare sotto le finestre di lei, contento di vedere che tutto era quieto e silenzioso e che non si mandava pel medico. In ricompensa non voleva nulla, nulla — e se Gemma gli diceva colla sua voce languida ed insinuante: «Come siete buono, Andrea!» egli diventava matto dal piacere, gli scintillavano gli occhi e nell'impeto della riconoscenza si sarebbe prostrato, per sentire sul suo capo il piedino vittorioso della fanciulla.

Ma non sempre costei era umana con lui; gli intervalli di dolcezza erano brevi e rari. Quando Gemma si sentiva meglio, nei bei giorni di primavera, ella si dilettava di quelle premure, di quei sacrifizii, anzi si può dire che cercasse quell'anima sempre fedele, quel cuore sempre sicuro; giungeva sino a domandarsi se Andrea non meritasse di esser amato. Erano i giorni lieti del giovanotto, che si accorgeva subito della buona disposizione; giorni lieti, ma pochi pochi e scontati dopo così caramente. Per una lieve cagione, per un cielo piovoso, per un capriccio, per un nastro, Gemma ripiombava nella sua noia, nella sua irritazione: i suoi diavoli neri la prendevano pei capelli, ed ella si sfogava, tormentando tutto il mondo. Andrea sopportava, senza mormorare, le parolette amare, gli sgarbi, i lamenti di Gemma: soffriva, soffriva, ma non le rispondeva una parola; lasciava passare la tempesta, chinando il capo, senza sognare neppure d'irritarsi contro la fanciulla. Era invece lei che s'indispettiva di quella rassegnazione; un'ombra nera le passava sulla fronte, le labbra diventavano sottili sottili, stringeva le mani…. dopo, ridiventava sarcastica e volgendogli uno sguardo freddo, gli diceva:

— Avete troppa salute: è una ingiustizia per chi non ne ha.

Povero Andrea, che avrebbe voluto morire mille volte di seguito per lei. Ma essa continuava spietata: gli diceva che sarebbe morta, che l'avrebbero messa giù nella terra nera, dove il sole non entra, e che allora tutti sarebbero rimasti contenti per essersi sbarazzati di lei. A lui venivano le lagrime negli occhi e le rimandava indietro; talvolta doveva alzarsi ed uscir fuori, tanto era grande la tortura che Gemma gli infliggeva. Una sera, una brutta sera, essa arrivò fino a dirgli che aveva il presentimento di esser seppellita viva, in uno dei suoi prolungati deliquii: egli sognò per tre notti questo caso orribile. Insomma era una vita crucciata, vita di angoscie e di paure, in una continua ansietà del peggio; eppure per questi dolori, per queste torture sempre nuove, l'amore di lui aumentava e dal contrasto traendo novello vigore.

Gemma era ingrata ed ingiusta con lui; essa stessa lo riconosceva nei suoi buoni momenti. Dacchè Andrea l'amava, la salute di lei migliorava, le crisi nervose erano più miti, quasi quasi un po' di sangue cominciava a rifluire nelle vene impoverite. Quando egli compariva, per influsso benefico, essa si sentiva sollevata e sicura, le sembrava di avere un'egida, un'àncora di salvezza. Quell' ambiente di affetto, di adorazione, d'idolatrìa di cui egli la circondava, esercitava un'azione vivificante sul suo gracile organismo. Non aveva più paura dell'avvenire, dell'ignoto, della morte, della terra nera: non era egli là, pronto a salvarla da tutto questo? Fra lei e la sventura s'interponeva Andrea; fra lei e la felicità, Andrea sarebbe stato intermediario. Egli doveva pensarci, era il suo còmpito, il suo dovere, la sua consegna.

Ahimè! il soldato dovè deporre la sua arme, dovè lasciare il posto. Il povero Andrea fu preso da una febbre violenta come ne patiscono solo le tempre forti; il giorno seguente il tifo era dichiarato, e nel delirio egli esclamava: «Non fate venire Gemma, non la fate venire!» E poi aggiungeva raccomandazioni, che le badassero, che non la trascurassero, non la facessero uscire con quel cattivo tempo. In capo al fatale nono giorno, egli aprì gli occhi, disse con voce fioca: «Povera, povera Gemma» e se ne morì.

Alla fanciulla ne parlarono poi, con molta precauzione, a gradi, cercando di non affliggerla: lei non rispose nulla, non pianse. Ma la notte si sentì sola, ebbe freddo, ebbe paura e le parve trovarsi senza difesa, in preda a mille pericoli. Volle distrarsi, cercò di farlo, vi riuscì per poco. Pure pensava spesso a quell'onesto e bravo giovanotto che le aveva voluto tanto bene e che essa aveva tanto mal ricambiato: e per una strana bizzarrìa d'inferma, si pose ad amare quel morto. Come avrebbe voluto rivederlo un solo momento per domandargli perdono! Come si sentiva piccola e meschina davanti a quell' uomo che essa aveva torturato a fuoco lento, sorridendo delle sue lagrime! Come era pentita ed umiliata, di essere stata tanto cattiva! L'inverno fu lungo, lungo; Gemma tornò ad ammalarsi; nelle notti della febbre chiamò Andrea ed egli non rispose: eppure quante cose gli avrebbe voluto dire! La fanciulla diventò sempre più magra, sempre più esile; esaltata dalla sua postuma passione, aspet tava sempre. Ma egli non venne più, ed essa, nella primavera, morì, per raggiungerlo.

Per poter scrivere — ha detto il signor Prud'homme — bisogna avere qualche cosa da dire ai propri concittadini. La frase fa sorridere, poichè sembra ingenua e semplice come molte di quelle che hanno reso illustre il grand' uomo, ma in sostanza è profonda. Tanto è vero che ha fatto fortuna, molti altri l'hanno ripetuta, molti se la sono appropriata. Io voglio adoperarla anche una volta: oggi come oggi, non dovrei scrivere — non avendo nulla da dire ai miei concittadini.

Questa sincera confessione non deve essere presa come una prova di dispetto, di fastidio o di noia pel pubblico. Tutt'altro. Noi scrittori, commediografi, letterati, pittori, scultori, compositori di musica, abbiamo tutti un segreto e mal celato amore pel pubblico: amore spesso infelice, perchè troppo o troppo poco corrisposto, ma appunto per questo forte e tenace. Ebbene sarà accaduto a ognuno di voi, il fatto seguente: avete passata una giornata piena di attività, di lavoro, di avvenimenti lieti o dolorosi, siete arrivato alla sera agitato, con un mondo di notizie, con un mondo di idee, tutta roba che volete narrare a qualcuno. Cercate quindi il vostro miglior amico. Andate in casa sua, o passeggiate con lui, o entrate con lui in un caffè: al momento in cui state per cominciare, lo spirito di contraddizione — diavolo pericoloso, che va sempre in giro, per tentare l'uomo — vi afferra pei capelli, vi mette una mano sulle labbra e vi costringe a tacere. L'amico interroga, voi rispondete a monosillabi o presso a poco. Hai scritto molto oggi? Sì. Hai veduta molta gente? Sì. Hai letto qualche buon libro? No. Hai ricevuto lettere da Roma? No. Che hai? Niente. Mal di capo, forse? No. Sei stanco, sei triste? No. Allora è la mia compagnia che ti annoia? Per nulla. E che cosa e allora? non lo so. Tutto questo mentre vorreste dire, vorreste parlare, vorreste sfogarvi, mentre vi sentite benissimo, siete allegro e vi compiacete molto della compagnia in cui state. Finite con l'ammutolire per davvero, il malumore vi conquista poco a poco, fate il broncio come un bimbo castigato, e piantate l'amico, ve ne andate a dormire, pieno d'amarezza contro voi stesso. Pensate di essere uno sciocco, di aver rattristato senza ragione, chi volete bene, e di aver passata una cattiva serata. Vi è accaduto? È sicuro — ed a me come voi.

Nè si tratta che io non abbia nulla da dire per mancanza di argomenti. Siamo ancora lontani da questo, la Dio mercè. Malgrado la mia condiscendenza, non posso ancora dare questa soddisfazione ad un gruppetto di gente maligna che l'aspetta con una certa impazienza. Voi lo sapete meglio di mè: vi è un gruppetto di gente, pronta sempre a meravigliarsi di ogni cosa bella e buona ed onesta. Essa cominicia per meravigliarsi che osiate lavorare, scrivere, produrvi in pubblico. Poi, quasi obbligata ad accettarvi, si sorprende molto che continuiate la vostra impresa. La costanza, la tenacia nel proposito, sono causa di una sorpresa anche più profonda. E perchè scrive ancora? che vuole? che intenzione ha? che si crede di fare? E ci è bisogno di lei, forse? Ma che serve? Che vantaggio ne ricava? Perchè non si occupa della nota del bucato e della cottura perfetta dello stufatino in umido? Ma vuol scrivere sempre? Ma perchè scrive? E via di questo passo, con queste domande allarmate ed allarmanti, con questi apprezzamenti poco benevoli, i quali naturalmente non arrivano mai a distrarre dal suo scopo l'assiduo lavoratore. Allora il gruppetto assume un'altra faccia: la malevola aspettazione. Il tale, la tale lavorano troppo; dovranno esaurirsi. Non può durare a lungo. Chi vivrà vedrà! Fra sei mesi, al più fra un anno, non avrà più niente nel cervello. Non farà più nulla. È un lavoro improbo, ci rimetterà l'ingegno. E come ho detto, si aspetta questo esaurimento con una relativa ansietà. Provate allora a fare un lavoro meno coscienzioso, a tacere per un mese, a concentrarvi in uno studio che produrrà più tardi, ad essere ammalato, a viaggiare, e udrete il piccioletto coro: Ecco, l'avevamo detto, è venuto l'esaurimento, era naturale che venisse, quell'ingegno non poteva durare, era tempo di finirla, si notava già il decadimento, ha presunto troppo dalle sue forze, s'è sciupato, è morto.

Al postutto questa gente non è specialmente cattiva e non si può andare in collere con essa: val sempre meglio degli indifferenti, poichè porta in giro il vostro nome e vi fa una preziosa réclame. Solamente, per essa, noi altri non possiamo assumere qualche volta la posa del cervello esaurito, che ci converrebbe, perchè fa molto effetto.

Argomenti ce ne sono: entrano dalla finestra, dalla porta, cadono dal cielo, nascono dai mattoni. Quì, nella via, la sarta cucina quattro carciofi in un tegamino sopra un focolaio di tufo: è un argomento. Sono le due meno un quarto, le bambine escono scherzando e ridendo dalla scuola comunale: è un argomento e — oso-dire — bellissimo. Suona il campanello: argomento. La serva ci narra con una verbosità infrenabile ed un lusso di particolari, degno di Flaubert, come è andato che le hanno rubato due lire e otto soldi dalla saccoccia: argomento. Sono argomento l'acquerello sospeso al muro, i guanti abbandonati sulla tavola, la piuma, la carta, il calamaio, ogni più piccola, ogni più grande cosa. Poi vi è un taccuino, un numero spaventevole di bozzetti, di novelle, di romanzi, ancora da farsi, semplicemente catalogati. Poi vi sono i soggetti di occasione, primavera, domenica degli ulivi, venerdì santo, pasqua, ecc. Questa settimana vi erano le corse. Spelndido soggetto, quadro dove il colore non sarebbe stato minore del sentimento, per chi avesse voluto arrischiarvisi. Da giovedì mi si domanda: Farete le corse, nevvero? A chi ho detto sì, a chi no, a chi ho risposto, con troppa franchezza: Non le ho viste, non potrei descriverle. Quasi che non si descriva, per lo più con molta esattezza, quello che non si è mai veduto! Vi è uno scrittore settentrionale che parla d'amore, che scrive d'amore, con un sentimento squisito, con una verità che è vita, eppure è sicuro, è accertato che non ha amato mai. Uno scrittore meridionale ha descritto un viaggio in Italia, con un'evidenza d'impressioni, una originalità di commenti che si trovano raramente — eppure questo scrittore non ha mai visto l'Italia. Forse, con un nobile sforzo avrei anche io potuto parlarvi delle corse e del vasto campo di Marte su cui rideva il sole, e dei raso lucido dalle mille gradazioni, e delle penne che svolazzavano al venticello d'aprile, e dello scalpitìo dei cavalli, e delle bottiglie stappate, e degli occhi fulgidi, e dei cavalieri animosi…. ma non l'ho fatto. Comincio quasi a pentirmene. Ho avuto torto; perchè non l'ho fatto?

Per questo — dicono le donne, e non vi è risposta più misteriosa e più inappellabile. Risposta da sfinge, a cui la donna ha servito da tipo. Ma se si cerca di risolvere l'enigma, sono questi i fatti. Certe settimane tutto procede traquillamente. Si lavora con molta assiduità dal lunedì al sabato, compiendo col massimo ordine ogni progetto. Dal giovedì si sa quello che si scriverà il sabato. L'anima è quieta, serena. La penna cammina. La domenica vi è il riposo, ad imitazione del Signore. Tutto questo è la regola, lo stato normale, non vale la pena di occuparsene. Ma viene la settimana maledetta. Il lunedì, ozio in casa ed un giornale a Roma aspetta la novella — il martedì, ozio al passeggio e un giornale di Torino attende il bozzetto — mercoledì, ozio rovistando i libri e l'editore di Milano vuole la leggenda — giovedì, finalmente, la volontà finge di scuotersi, monta in una collera troppo esagerata per non essere falsa e per il solito dualismo che abbiamo tutti nell'anima, avviene il seguente dialogo, volta a volta ironico, rabbioso, sprezzante, indolente, piagnucoloso e capricciosso.

— Vorrei sapere, mia cara, se avete intenzione di scrivere per domenica?

— Sicuramente.

— Brava, questa risposta mi piace. E se è lecito, che cosa scriverete?

— Non ne so niente.

— Come, non ne sapete niente?

— Appunto.

— E non vi curate saperlo?

— No.

— Se non lo sapete voi, mia carissima, chi lo saprà?

— Nessuno.

— Dunque?

— Dunque….ci penserò.

— Quando?

— Oh! Dio! domani, posdomani….

— Dopodomani è sabato e bisognerà scrivere invece di pensare.

— Non è lo stesso?

— Niente affatto; ma non sperate di salvarvi con le sottigliezze; sabato dovete fare l'articolo.

— Lo so, lo so, lo so.

— Non v'impazientate, voglio aiutarvi, vi suggeritò qualche idea.

— Uhm…. ci spero poco.

— Non potreste scrivere quella novella così strana, che mi narraste una volta?

— Temo che sia troppo strana, mi daranno della matta.

— Allora quel bozzetto borghese di un effetto così sicuro….

— Mi sembra volgare, poi diranno che perseguito la borghesia.

— Allora una leggenda napoletana.

— Il pubblico è profondamente seccato delle leggende.

— Una fantasia sul mare, molto poetica….

— La poesia non può soffrir me ed io non posso soffrir lei.

— Quella novella greca….

— Aspetto una lettera dalla Grecia con una notizia.

— Quello studio sulla fattura?

— Debbo parlare con donna Mariagrazia la copertara, che n'è una vittima.

— La novella Speculazione?

— Non me ne parlate, è orribile, non la scriverò mai.

— Basta. Ho compreso tutto. Non volete farne nulla.

— Vi assicuro….

— È inutile, sono pretesti, sono scuse stupide e baminesche. — Non ingannerete mè: vi conosco. Siete un scansafatiche, una sfaccendata, una poltrona. Ma abbiate la lealtà di confessarlo! Sono vigliaccherie queste, sono gli indizi di un cuore guasto e malvagio…. Mi fate sfiatare e mi fate perdere la testa!….

O buon lettore, ecco quello che accade, quando capita la settimana maledetta. Queste scene durano sino al sabato sera. Poi comincia il monologo. La penna cammina. E come in tutte le altre settimane, novella, bozzetto, leggenda, fantasia, schizzo, si tratta di darti le nostre idee ed i nostri sentimenti, tutto il cuore, tutta l'anima, dicendoti: Ecco quello che ho pensato, quello che ho sentito. Amami o odiami; applaudisci o fischia.

Dinnanzi l'eterno, immutabile paesaggio napoletano: mare immobile e bruno, con striscia d'argento lucida e tremolante; Vesuvio nero dal lento e regolare alito infuocato; isole avvolte in una nebulosa; barchetta-fantasma in lontananza; cielo chiarissimo, quasi trasparente: la serenità continua, la fissità della bellezza. Sul terrazzo, i garofani in fiori, rossi e vividi come le labbra di Fanny; Maria, dai grandi occhi glauchi senza pensiero, che aveva passato alle orecchie delicate due gelsomini dal gambo sottile, bianchi quanto il volto che sfioravano; il profilo tranquillo, la fronte pensosa, le treccie brune senza riflessi di Aurora, la giovanetta sposa; il signaro di Giustino, microscopico riflesso della eruzione; la criniera arruffata di Bruno, un poeta dal grande e troppo facile successo; e infine il volto eloquente come una cifra sola, lo scintillìo di un grosso brillante al dito di Carlo, un appaltatore di opere stradali. Attorno, indietro, dappertutto, altri terrazzi bagnati nella luce lunare, sfumati, quasi indefiniti.

Un silenzio si prolungava.

Le due fanciulle tacevano, distratte. Aurora era assorta. Giustino, si occupava profondamente a consumare il suo sigaro. In quanto a Carlo, aveva parlato pochissimo o niente; forse calcolava fra sè il valore di una traversa, da ricongiungersi con una via principale. Allora Bruno che, nella sua qualità di poeta, si credeva nell'obbligo di dire cose molto comuni, molto volgari, fiutò l'aria l'aria ed esclamò:

— Che buon odore di conserva di pomodoro!

— Io sento i gelsomini — rispose Giustino, diventato elegiaco per contraddizione.

Maria si chinò un poco, staccò un ramoscello di cedratina e glielo buttò; Giustino lo colse al volo, ma non disse grazie.

— È la conserva di donna Raffaela, la nostra vicina — disse Fanny, tornando da un viaggetto di esplorazione e facendo scricchiolare, con un piacere infinito, le sue scarpette inarcate.

— L'avrà messa al sole stamane. In rapporto alla conserva, il sole è molto utile — osservò Bruno, con una profonda aria di convinzione.

— Il sole è bello — disse Maria, con la sua voce armoniosa che s'allargava soavemente nell'anima di chi l'ascoltava.

— Non mi permetto parlare della luna davanti a queste gentili signorine — aggiunse Bruno, col tono di un gentiluomo che reprime il suo disrezzo.

— La luna rassomiglia al primo amore — disse Giustino e si posò nell'ammirazione per la propria frase.

Fanny sorrise e diede un colpetto a un fiocco del suo abito che si era gualcito; il pallore di Maria parve si accrescesse, parve si ingrandissero gli occhioni azzurri; Aurora trasalì e arrossì. Giustino gittò il sigaro spento; il taciturno appalatatore alzò il capo e poi lo abbassò. Ma ognuno s'isolava in un pensiero, forse in un sentimento. Bruno, il poeta, trovò che la situazione era lievemente ridicola: gli spiriti s'intenerivano nella notte d'estate, nelle parole perfide: primo amore. Gli conveniva troncare quei sogni, quelle tenerezze.

— Primo amore, primo amore! — esclamò, saltando sul cavallino della sua fantasia — tutte sciocchezze, tutte fanciullaggini. Quando penso che avrò avuto anche io un primo amore — già, non ne sono certo — mi viene il viso rosso per la vergogna. Figurarsi un giovanotto, un adolescente dalle gambe troppo lunghe, dalle mani rosse e dai gomiti nodosi, che diviene pallido, che perde il sonno e il pranzo, che si taglia i mustacchi futuri colle forbici della sorellina, che inalbera cravatte meravigliose, che scrive dei versi….anche dei versi, mio Dio! Un giovanotto che s'innamora sempre della più stupida, della più brutta figura di donna, la cuginetta, la figlia del professore di calligrafia, la cucitrice di bianco della mamma, la prima capitata, magari una zitellona quarantenne! Primo amore: cose da ridere. Rossori sciocchi, pallori vergognosi, balbettii mortificanti, discorsi inconcludenti, timidità puerili, paure, sorrisi, lagrime, consolazioni e disperazioni inutili. Due innamorati che tremano in un convegno per timore di essere messi in penitenza, se viene il papà! Due stupidini che si scrivono lettere di sette foglietti, con imprecazioni, giuramenti, sgrammaticature, punti ammirativi, punti sospensivi, lagrime che cancellano l'inchiostro, incoerenze, abbracci celestiali, ortografia terrestre, anzi pedestre! Due bimbi che vogliono fuggire, che vogliono uccidere, vogliono uccidersi, che vogliono sposarsi — e l'amica ha le gonnelline corte e l'amico è in terza ginnasiale. Amore languido, pallido, roseo, annacquato, sciroppo d'orzata. E lo senti proclamare e lo senti lodare e tutti si commuovono a parlarne e chi sorride e chi pensa e chi freme. Primo amore: a che serve? — E mentre era salito a una certa irritazione, si calmò d'un tratto, pensando: Restiamo corretti.

Quelli attorno lo guardavano, ineravigliati.

— Che ne dicono queste signorine? — chiese lui, con un inchino. Ma parve si fosse diretto specialmente alla Fanny.

— Per noi donne, il primo amore è sempre l'ultimo — rispose costei col suo ardimento di fanciulla precoce, guardandolo in volto.

Bruno chinò gli occhi un momento e parve cadesse la sua falsa esaltazione.

— L'amore è bello come il sole — rispose lentamente Maria, giungendo le mani come se pregasse.


***



Solo Aurora continuava a tacere. Ella sorrideva melanconicamente, guardando il mare, pensando al suo primo amore, al giovane marito, al brillante ufficiale che viaggiava a quell'ora sulla Vettor Pisani, nei lontani e freddi mari del Giappone, portando seco il cuore della sua sposa giovanetta.

— Bah! tu hai torto, Bruno — disse Giustino, cercando un secondo sigaro nella busta — io sono pel primo amore. Sai, è fresco, è ingenuo, è candido: è il vago balbettio di un fanciullo che comincia a parlare, è un'alba tremolante di raggi, è una incipienza deliziosa. Gioie piccine, vada pure, ma in quei momenti ti soffocano con la loro esuberanza. Le impressioni sono profonde ed intanto conservano la delicatezza; il profumo è sottile, ma capace d'inebbriarti; senti l'anima crescere, svolgersi, aprirsi come un fiore e ti senti soddisfatto, e ti senti in possesso di un tesoro pensando di potere esser per tè solo, per lei sola, felice o infelicissimo.

E una insolita gravità era passata nella sua voce. Il sigaro rimaneva fra le dita, inutile.

— Idilio, il tuo — riprese Bruno, con una lieve stretta di spalle. — Ammettiamo l'amore per obbedire alla rispettabile voce della folla; diciamo che vi sia, che sia una forza, che sia una potenza. Ma almeno un amore robusto, non adolescente; un dramma invece dell'idilio; un meriggio infuocato invece di un'alba; una febbre furiosa invece di un rossore; un profumo violento che ti stordisce e ti annienta; un poema invece di un balbettìo; il fiore tropicale e mostruoso struoso in cambio della violetta dei campi; la vita completa invece che l'incipienza. Il cominciare non vale nulla; il seguitare vale tutto….

— Paradosso — strillò Giustino.

— Verità — ribattè l'altro. — Se io amassi….

— Badate, Bruno; siete per farci delle confessioni — interruppe Fanny.

Egli si chinò, dominato di nuovo.

Stavano tutti gravi, composti, come se tutti volessero risolvere a parte un problema penoso. Dimenticavano di essere in compagnia; s'isolavano in uno di quei momenti strani di egoismo, quando l'anima si rinfodera e il corpo rimane muto e chiuso, come una finestra sbarrata.

Fanny si dondolava sulla sua seggiola, mormorando certe sue paroline, morsicchiando una fogliolina di malvarosa che le rendea verdi le labbra. Bruno la guardava fisso, come se volesse udire con gli occhi.

— Che dice la Fanny? — chiese Giustino a Maria che, non si sa come, gli era accanto, appoggiando una mano alla sua sedia.

— Ha detto i versi del poeta:

Après avoir souffert, il faut souffrir eucore; Il faut aimer sans cesse, après avoir aimè.

E parve che le parole si allungassero nell'aria come una carezza. Aurora disse sì, col capo.

— La signorina Fanny mi offende, citando davanti a me versi non miei — disse Bruno con una perfetta serietà — parliamo di politica o del pesce cane.


***



Nella via di santa Lucia i tre uomini si fermarono insieme un poco. Bruno e Giustino discutevano ancora.

— Il tuo amore roseo non è estetico, caro mio.

— Ma senza il primo, non nasce il secondo. È aritmetica questa.

— Credi?

— Ne son sicuro. Il dramma viene dopo l'idilio. È dimostrato.

— Con l'aritmetica?

— Bruno, to posi.

— No, caro. All'amore ho finito per crederci. Debolezze di grandi uomini….

E die piccoli.

— Resta a vedersi….

— Il vostro parere, signor Carlo?

— Credo che v'inganniate ambedue — rispose costui lentamente. — Invece di parlare d'amore, sarebbe meglio amare.

E la sua svelta figura si allontanò nella penombra del Chiatamone.

È deciso, si deve andar via: basta una letterina gentile al proprietario dell'appartamento per indorargli la pillola e si è liberi. Si dà in un grande sospiro di sollievo per aver affermata la propria indipendenza e si enumerano la millesima volta le buone ragioni per cui si parte. Ragioni solide: una scala alta come quella di Giacobbe: sopra, le stanze piccine; d'inverno, il freddo; di estate, il caldo. Sempre il medesimo orizzonte: un palmo e mezzo di cielo, sette centimetri di collina ed un campanile; di mare e di Vesuvio neppur l'ombra; giù una straduccia rumorosa e sudicia. I vicini, gente noiosa: il damerino che si pettina ad uno specchietto presso la finestra, la sarta che inaffia la malvarosa, il giudice che litiga con la moglie, la signorina che impara la réverie di Ascher dalla mattina alla sera: sempre gli stessi visi, sempre le stesse voci.

E dentro la casa, una monotonia. Gira, gira e rigira, si è sempre in un posto: tutto è uniforme, regolato, ordinato; lo stesso disordine del salottino è stato pesato e discusso; dello scrittoio non si discorre: le pareti occupate dalle libererie, la tavola di fronte alla finestra, le statuine sui piedestalli, una simmetria desolante. Lo spirito è oppresso, schiacciato, ridotto al silenzio; i suoi slanci e le sue ispirazioni si frangono contro questa immobilità; non vi è più modo di scrivere, di lavorare, di sorridere. Irritazione, dispetto, fastidio in tutti; la casa è brutta, cattiva, micidiale; si è stanchi, si soffoca, si muore, bisogna scapparne via.

Sospiro di conforto.


***



Invece la casa nuova, quella dove si andrà, è un amore, un paradiso terrestre. È vasta, ci si può giocar di scherma, vi è lusso di aria e di luce, il Vesuvio entra nella stanza da pranzo, il golfo nel salotto, dal terrazzo si veggono tutte le colline tenersi per mano. I vicini sono roba fine, aristocratica; si è saputo, così di straforo, che vi sono cavalieri, una contessa, un vicesindaco, un ex-ministro, figurarsi! Il portinaio, una vera pasta di miele, una perla nascosta nella conchiglia del suo casotto. I mobili andranno sottosopra, vi sarà un grande rimestìo, se ne compreranno dei nuovi ed i vecchi avranno la pensione in soffitta: discussioni infinite su questo soggetto. Tutto sarà nuovo, bello, diverso. Quanti cari progetti, quante dolci speranze si realizzeranno nella casa nuova! Si farà il matrimonio di Carolina, il figliuolo ritornerà dal suo lungo viaggio, ed allora che feste, che allegrìa! Il lavoro progredirà rapidamente, l'ispirazione verrà; non vi saranno i mille guai domestici che menomano e ristringono la mente: la famiglia sarà felice. Ma viene o non viene questo benedetto maggio? Si contano i giorni, si sorride ad ognuno che ne passa, si è soddisfatti, completamente soddisfatti.


***



Quando il mese di aprile incomincia, quando l'epoca della partenza si approssima, in mezzo a tanta soddisfazione, si fa strada un senso di amarezza. Sulle prime è leggero, inavvertito, si presenta nella solitudine, nel riposo: poi cresce, cresce, diventa assiduo, contnuo, non se ne va più. È un dispiacere vago, come di una disgrazia che sia alle spalle; una cura segreta, indefinibile anche per chi la prova; un dolore sordo per qualche cosa che deve mancare o morire. che cosa è? L'uomo s'interroga, si rivolta, si tormenta, non trova niente, e la pena è sempre là, anzi si va accentuando, si disegna….ecco, sarà una debolezza, una fanciulaggine, una sentimentalità morbosa, ma si è addolorati di lasciare la casa.

È vero, è vero: il cuore si stringe pensando a quelle stanzuccie, dove si è tanto amato, tanto vissuto e che non si vedranno più; pare che dalle vecchie pareti, dagli angoli oscuri partano voci di affetto e di tenerezza; nella notte si ode un sussurrìo indistinto e carezzevole. In ogni cantuccio vi è una parte di vita, un brano di cuore: sul muro, quel segno col lapis è la misura del bambino che ora l'oltrepassa di tutta la testa — ed accanto quel ritratto, quel caro ed amato ritratto di persona morta. In questa camera la buona madre si è ammalata, e quando la salute è tornata a brillare nei suoi buoni ed amorevoli occhi, essa ha respirato l'aria presso quel balcone: sul balcone dove alla primavera tutte le pianticelle hanno fiorito, dove l'edera, più tenace dell'uomo, si è abbarbicata; sul balcone, dove nelle sere estive vi furono tante dolci parole mormorate all'orecchio. E quando vi fu quella grande, grande disillusione, la pace del piccolo scrittoio ha calmata l'asprezza della ferita. Dio, quante memorie! Che fiotto di ricordi!


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La prova che il passato ha esistito bisogna abbandonarla, bisogna dimenticare; e perchè anche l'ultimo profilo delle memorie si cancelli, bisogna lasciare il fedele testimonio della vita trascorsa. Starccarsi da tutto, annullare, fare il vuoto. È uno spasimo acuto. Si vagola per le camere, sogguardando lungamente, quasi a volersi imprimere nella mente ogni linea; non si va più fuori, quasi a prolungare i momenti della permanenza; non si scambiano che brevi frasi; le fanciulle sono malinconiche, i vecchi parenti si fanno pensosi. Il giorno della partenza viene: i volti sono pallidi e scomposti, si va e si viene senza far nulla, quasi per distrarsi; si resta seduti sopra un baule a guardare tristamente i mobili che se ne vanno; la casa è piena di persone estranee, di facchini ruvidi, di voci irose; la casa è profanata, manomessa, sembra una chiesa dove sia passata un' orda di cosacchi. I mobili se ne vanno, se ne vanno, e si è ancora lì, in un angolo polveroso a guardare, a prolungare quello strazio interno: vengono i vicini a salutarvi e si scopre che quella gente era buona ed onesta; è un tormento. Passano, passano le ore, pare un triste sogno; è invece una realtà — il nuovo abitante è venuto, vuole la casa sua, vi scaccia. Si gitta intorno un'ultima occhiata; lentamente, con le labbra serrate ed un gruppo nella gola, si parte.


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La nuova casa. È un'estranea; non la conoscete, non vi conosce, non avete vissuto con lei, le sue mura sono mute, hanno parlato ad altri; è fredda, vuota, sembra un deserto, sembra una rovina, ci si parla a bassa voce, come in una piazza. Sorprese dappertutto; anditi, scalette, porticine, e non si sapeva nulla, ed in quei momenti eccezionali sembrano tradimenti, trabocchetti; la notte non si dorme, si sta a disagio; gli oggetti non trovano il loro posto, tutto va di traverso. Qualche sera per una soave distrazione, si prende l'antica strada, perchè della nuova casa non si sa che farne; si vuole la vecchia, la vecchia e buona casa che è senza tradimenti, senza sorprese, che ama, parla, compiange — è là che si vuol andare, per viverci come tanto tempo ci si è vissuti, in un ambiente cognito ed amico; ci si vuole restare sino alla morte. Non si può più.

Occorre scrollare il capo, sospirare, rassegnarsi, fino a che il tempo, l'abitudine facciano calmare lo spirito amareggiato; e poi in capo a due o tre anni esser ripresi dalla medesima follìa, partire di nuovo, soffirire ancora, agitarsi sempre, fino a far credere che la favola dell'Ebreo Errante sia il simbolo dell'uomo.

La terrazza diventava bianca, bianca sotto il chiaro plenilunio estivo; tutto dintorno si ammorbidiva in quella luce placida e dolce. Piovevano i raggi sopra le quiete fogliuzze del gelsomino, che pareano fatte di argento; piovevano sopra la lucida gabbia, dove gli uccelli dormivano col capo sotto l'ala, sognando forse il loro paradiso; piovevano i raggi come falde di neve sul volto di Clelia, e lo rendevano candido, senza un'ombra, tranne la riga nera delle ciglia abbassate. Le case avvolte in un'atmosfera afosa, lattea; senza un palpito in mare; la lontana curva di Posilipo perduta in una nebbia che era luce, somigliava sempre più alla testa di un animale fantastico, immerso in una riflessione profonda; sulla serenità crepuscolare del cielo dove morivano le stelle, spiccava il sereno profilo della Vittoria, alata ed immobile; ed anch'essa, statua bronzea, pareva circonfusa di dolcezza.

Sulla terrazza, due sole cose vivevano e si ribellavano all'influsso moderatore di quella notte: all'orecchio di Clelia un brillante, che con la fredda e superba indifferenza delle pietre preziose continuava a mandare un raggio fulgidissimo, che pareva fuoco liquido; nell'angolo oscuro formato dalla muraglia, il sigaro di Giorgio che bruciava come un piccolo vulcano in permanenza. Perchè Giorgio era uno spirito forte e si sentiva pieno di disprezzo per le serate estive, per le fantasticherie, le poesie ed il resto, cose tutte che servono a spogliare il cuore della sua corazza di indifferenza, ed attenuano il più grande coraggio di uomo spiritoso. Come si può essere ironico, scettico, realista in quella soave morbidezza che vi penetra per tutti i pori, e distende i nervi troppo tesi e cambia i neri pensieri in idee rosee, vaghe e sfumate? Per questo egli si era seduto nell'angolo non ancora invaso dalla luna, con un sospetto nell'anima, pieno di diffidenza: avrebbe voluto protestare ed accese il suo sigaro, senza rivolgere una sola parola a Clelia. Essa sognava, la grande, la eterna sognatrice; pareva che avesse tutto dimenticato, anche la presenza di lui, perchè non alzava neppure gli occhi per guardarlo. — Non si moveva, non pronunziava una sillaba e sembrava una bianca statua di Dea, che attenda addormentata, un Pigmalione che la desti.

Ad un tratto, in quel grande silenzio, arrivò una nota squillante e vibrata, come se una mano decisa si fosse posata sopra una tastiera lontana: Clelia si scosse, aprì gli occhi, stette un istante in ascolto, poi dirigendosi a Giorgio, gli disse a voce bassa:

— Eccola.

— Chi?

— Sentirete.

Infatti la incognita suonatrice toccò due o tre tasti, come se esitasse, fece una breve pausa, poi attaccò un vivace preludio. Era un rapidissimo scoppiettìo di note, trascorrendo dalle più soavi alle più acute; erano volate bizzare e rumorose: erano scale trillate ed allegre; erano voci profonde, basse come il brontolìo del tuono; insomma una marcia velocissima di cui l'orecchio non poteva seguire tutte le gradazioni. Pareva che le mani della suonatrice s'inseguissero, correndo come matte da un punto all'altro della tastiera, si raggiungessero per disgiungersi subito e perseguitarsi di nuovo, in una corsa affannosa e disperata. Poi lentamente il suono si allargò e si svolse, le note arrivarono distinte e spiegate, si sgranarono come una filza di perle lasciate cadere ad una ad una, in un catino di rame: cominciò a sentirsi un motivo. Era una musica gentile, tranquilla, con un accompagnamento lieve, lieve — qualche cosa di soave, che poteva essere la ninna-nanna di un bambino, o un mormorìo di amore; una musica senza parole, ma che era la traduzione, in onde sonore, delle onde luminose che rischiaravano quella notte di agosto. Musica senza parole, ma il cielo, il mare e la bronzea statua della Vittoria l'ascoltavano con compiacenza: disperso, di qua e di là, si vedeva un sorriso.

Ma non fu sempre così; il pianoforte dette in uno scoppio che parve una risata fresca e gaia, l'andatura divenne più briosa, le mani furono riprese dal loro furore musicale. Il motivo gentile si cangiò in un motivo appassionato, la tranquillità in agitazione; fu un accavallamento, una furia, un delirio, una rovina — poi un grido incomposto; giunta quasi all' apogeo del suo turbine musicale, la suonatrice aveva sbagliato.

— Ha sbagliato, ha sbagliato! — esclamò Clelia, presa da un grande terrore.

E sul volto le si dipingeva l'angoscia, le mani tremavano, tutto il suo corpo fremeva come all'aspetto di un pericolo mortale.

— Ebbene? — chiese Giorgio, con la sua voce sarcastica.

— Nulla…. — rispose lei, e cercò ricomporsi.

La suonatrice ricomincia il suo pezzo: rifece tutto il cammino percorso, mettendovi anzi più anima, risalì la gamma placida, quella del riso argentino, montò al momento agitato, arrivò al culmine e l'urlo selvaggio si intese di nuovo: di nuovo aveva sbagliato e questa volta anche peggio. Si ostinò, e per tre o quattro volte di seguito, principiò da capo per finire sempre nell'istesso modo: ci metteva una pazienza, un'attenzione mirabile — inutile. Quando giungeva al punto fatale, un timore panico l'assaliva, non era più padrona di sè; esitava e cadeva; non le era possibile superare quel punto; era un problema chiuso, una difficoltà insormontabile. Era uno spasimo sentirla andar così bene, proceder con cautela, mettere in opera tutte le più brillanti risorse dell'esecuzione, abbondare, essere artista, poi d'un tratto precipitare in un modo ridicolo: in Clelia si riflettevano tutte queste varie impressioni. Dapprima ascoltava, era sorridente, godeva quasi, poi la sua calma si turbava, il volto impallidiva sempre più, gli occhi si sbarravano, era ansiosa, fremente, pareva desiderasse ed allontanasse l'istante difficile; poi ricadeva quasi stanca, spossata da quella novella sconfitta. Giorgio la guardava trasognato: il sigaro era spento.

Pure quelle impressioni si dileguarono poco a poco, si attenuarono, scomparvero e vi rimase solo una tinta di malinconia. La suonatrice lontana, persuasa della inutilità dei suoi sforzi, era passata ad un altro, pezzo e lo eseguiva alla perfezione: si vedeva che cercava distrarsi, dimenticare quel primo a cui non poteva riuscire. Passò ad un altro, provò il genere serio e quello scherzoso, stancò le sue dita in quel lusso di musica, ma come se le si fosse risvegliata la coscienza della sua inferiorità, ritornò un' altra volta al suo pensiero fisso, a quello scoglio pericoloso — vi ritornò, involontariamente, temendolo sempre: questa volta, davanti alla sua costante incapacità, parve che il medesimo pianoforte desse in un sogghigno di scherno. E tutto tacque.

— Ebbene? — chiese di nuovo Giorgio, ma con voce singolarmente raddolcita.

— Ebbene — rispose Clelia, — questa suonatrice mi sconvolge. Sono dieci giorni che essa è tormentata da quella difficoltà ed io mi tormento per lei.

— Perchè?

— Perchè? Non lo so neppur io. Che importa a me di quello che suona? Perchè provo le sue stesse impressioni? Qual legame vi è fra me e lei? Che mi dice la sua musica, che vuol significare quel punto oscuro ed ineseguibile? Io non comprendo, non comprendo e questo aumenta il mio spavento.

Giorgio non le rispose: pensava. Quasi interrogando sè stesso, si figurava di soffrire come Clelia.

— Ho sempre pensato una cosa, Giorgio. Ed è che noi tutti, scettici o credenti, uomini dal cuore vergine o giovanetti precoci, cervelli positivi o cuori ammalati, tutti, tutti portiamo in fondo all'anima un pensiero segreto, segreto anche a noi. — È latente ma ci segue dappertutto; noi lo sentiamo, ne abbiamo la coscienza, ma non sappiamo che sia; è una domanda oscura del destino, è un punto interrogativo gittato all'infinito, è il problema insolubile della vita? Chi sa! Noi ridiamo, scherziamo, piangiamo, viviamo, ma portiamo con noi questa incognita paurosa: ad un tratto, essa ci si presenta assidua, efficace, grande. Ci tormenta, ci tortura, perchè non conosciamo la sua natura, quel che voglia da noi e tremiamo che non sia la nostra felicità, la quale si dilegua per la nostra ignoranza! Forse è questa lotta con l'ignoto, con l'inafferrabile, questo combattimento con un potere nascosto, che esprime quella musica.

— Forse — disse solamente Giorgio, diventato serio.

— Forse: è la nostra parola. Siamo ciechi e quando apriamo gli occhi, è per vedere il sole che fugge, è per ricadere nella notte. Meglio dormire….

E rivolse la testa, quasi infastidita. Gli orecchini di brillanti, smossi, si rinfransero vivacemente; la luna invadeva quietamente l'angolo oscuro dove stava Giorgio, ma egli non si accorgeva di nulla. Le parole di Clelia gli erano giunte al cuore e ne avevano ridestato il dubbio roditore. Assorto, col sopracciglio proteso, con la fronte abbuiata, egli s'interrogava, come Clelia si era interrogata.

— Allora, quasi per un'attrazione invisibile, si riudì la voce del pianoforte. La suonatrice tentava per l' ultima volta.

— Dio santo! — disse Clelia nascondendosi il volto fra le mani. Non mi potrò mai sottrarre a questo imperio? Non saprò mai che voglia da me il mio cuore?

Il momento si accostava: era vicino, vicino….

— Oh! Giorgio, se la conoscete la parola della vita, se la sapete questa idea sconosciuta, ditela, per pietà!

— Amore — disse lui con voce grave.

Quello del pianoforte fu un grido di gioia, di trionfo: la luna aveva annullata l'ultima linea di ombra sulla terrazza, e la pace profonda di quella notte di agosto si era trasfusa nel cuore dei giovani.

Apparite dunque, testoline bionde e pallide, chiome fulve che il sole accende; occhi glauchi e cangianti, perfidamente azzurri il matttino, misteriosamente bruni la sera; labbra rosse e ridenti, labbra sbiancate e sottili; profili vaghi, linee spezzate, curve nebulose, sagome fluttuanti, sguardi saettanti, fronti pensose e taciturne; apparite nei vostri abiti bianchi, nei merletti, dietro un velo, fra il folgore dei brillanti, nei gonnellini rammendati, col fiore dietro l'orecchio, col dito bucato della cucitrice, col piedino di fata che si poggia sul predellino della vettura; apparite all'angolo di una via, dietro i vetri d' un balcone, in un cantuccio di una bottega, sullo sfondo bigio di una navata di chiesa, nella incorniciatura rosso ed oro di un palchetto, sotto gli alberi di un viale che sembra interminato, sotto un portone, dietro la portiera di un salotto, nell'ombra oscura di una cucina, nella luce fiammeggiante di una festa; apparite fanciulle amabili, fanciulle odiose, sprezzanti, civettuole, innamorate, indifferenti, passionate, calcolatrici, eroine borghesi o aristocratiche glaciali. Apparite, o fanciulle, vive come vi ho viste un giorno, un'ora, un momento — e la vostra figurina si profili, si distacchi palpitante o immobile nelle mie parole.


***



La sala è un po' fredda, nella scialba luce invernale. I gruppi, le statue, i busti rimangono freddi e bianchi, coi grandi occhi candidi senza sguardo. La fanciulla inglese si avanza tacitamente: ha le guance pallide, dalla carnagione opaca, le treccie di un biondo smorto ridotte in uno stretto mazzocchio, l'abito nero, di lana, senza ornamenti; un goletto di tela, diritto, da uomo, una borsettina sospesa ad una catenella di acciaio, gli stivalini senza tacchi. Ella si ferma davanti a ciascuna statua, con l'occhio intento, fisso, vitreo, che pare non veda. Il sole invernale entra pel largo finestrone, ad un capo della sala, illumina e mette in un trionfo lo stupendo gruppo di Amore e Psiche quasi riscaldando e dando vita al marmo, gittandovi attorno un pulviscolo dorato in cui fremono mille vite. La fanciulla si ferma davanti ad Amore e Psiche contemplandoli lungamente senza che una fiammolina salga al suo volto opaco, senza che una scintilla si distacchi dall'azzuro iridato e trasparente della sua pupilla. Ella china il suo scorretto e sassone profilo e ricerca nella sua guida Baedeker, rilegata in rosso, il nome sconosciuto dell'autore del gruppo.


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Nello stretto casotto di legno, dipinto di marrone, rone, con una porta di verti, un gatto rosso dorme sopra una sedia. Sulla parete si impolveravano le fotografie sbiadate della regina Margherita, del papa, di un ufficiale di artiglieria, di un giovanotto in maniche di camicia, di una signorina vestita con una dubbia eleganza. Sul tavolo due o tre lettere, un biglietto da visita piegato in un angolo, un nastrino color fuoco, un Compendio di geografia, un giornale di mode a cui è stata tolta e rimessa la fascia. Sopra una seggiola, Caterina la figliuola del portinaio, una brunettina magra e vivace, alunna della scuola normale, coi capellucci della fronte avvolti nelle cartine bianche dei papigliotti, con gli orecchini di strass alle orecchie, col visetto macchiato dalla grossolana cipria, con l'abituccio troppo corto che lascia vedere gli stivalini eleganti e scalcagnati, legge un romanzo di Ponson du Terrail, tenendo l'orecchio per potere scegliere una posizione sentimentale, nel caso scenda lo studente del quarto piano.

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Con le mani sotili e lunghe, calzate dalla finissima pelle dei guanti, la fanciulla sceglie nella scatola che il profumiere le presenta. È una fanciulla alta e delicata, vestita di seta grigia, con uno strascico lunghissimo e serpeggiante; ha il volto di un pallore trasparente, quasi cereo, i grandi occhi neri, dalla cornea di un bianco azzurrognolo sottolineati di nero, con uno sguardo profondo, errante, il profilo finissimo, le nari appena rosee e frementi, le labbra sottili, vivide, morsicchiate dai dentini. Ella ha posato il suo manicotto, il suo scialle, e si appoggia un poco, come stanca, al ricco bureau, parlando lentamente, sottovoce, muovendo appena le labbra, alzando un poco lo sguardo sul profumiere. Ella prende dei sacchetti di odore, in vaso, e li fiuta lungamente, senza averne nessuna impressione, malgrado l'acutezza del profumo. Ella si abbandona, si ristora in quell'atmosfera calda, pesante, profumata, che vi prende alla gola: ella vi rinasce come nell'aria più pura. Quell'ambiente viziato e artificiale carezza la sua natura anemica, malaticcia e nervosa. Ella sceglie ancora, compiacendosi di quella tardanza, diventando sempre più raffinata nelle sue sensazioni: infine un odore violento sale al suo cervello, le nari fremono, le labbra si stringono, un pallore maggiore si diffonde su quel viso, il cerchio nero degli occhi si ingrandisce, un brivido potente fa ondeggiare quel corpo flessuoso….


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Per la via maestra, gialla di polvere, che taglia sinuosamente la collina verde di Posilipo, sotto l'ardente sole di agosto, discende una fanciulla. Il tacco largo, quadrato della pianella di pelle nera dalla coccarda verde, batte vigorosamente sul terreno; la veste di mussola gialla a fioroni azzurri, inamidata fortemente cade a grandi pieghe dure e tese; il fazzoletto rosso, nero e grigio del collo, è chiuso di uno spiletto di oro. È una lavandaia. Ha i capelli di un giallo opaco, rudi, aspri, tirati sulle tempia; la pelle di un colore molto caldo, colore di sole, un rosso-bruno infuocato, ardente; gli occhi grigi e fieri, la bocca grande, le labbra grosse e bonarie, i denti piccini. Sul collo dove finisce il fazzoletto, una riga di coralli vividi ed una striscia di pelle bianca, come bianco deve essere il corpo sottratto al sole. In testa, sopra il cercine, una grande canestra di biancheria, attaccata con una cordicina, e sulla biancheria un gruppo di fiori, rose di ogni mese, garofani schiattoni, menta, ruta e maggiorana. Malgrado il peso della canestra, la fanciulla procede svelta e ardita, un braccio in arco per sostenerlo ferma sulla testa, una mano in fianco, senza traballare, arrossendo ed infiammandosi al sole di agosto.


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Nel viale della Villa, dove fra gli alberi, fra i rami, fra le fronde, il sole getta i suoi cerchiolini ridenti di luce, si avanza il carrozzino condotto a mano da un servo in livrea e in galloni dorati. Sdraiata nel suo letticciuolo soffice coperta da un manto di velluto verde cupo, col capo appoggiato al cuscino di tela finissima e ricco di merletti, la duchessina si fa trascinare nell'aria balsamica di primavera. Le hanno pettinato i bellissimi capelli castani in due grandi treccie che le discendono sul petto, ha i polsi carichi di braccialetti, le dite zeppe di anelli gemmati; la testa dalle linee pure, regolari, dalla carnagione bianco-rosea, dalla bocca schiusa come un fiore di melograno, è meravigliosa di freschezza e di gioventù. Ella tiene fra le mani un fazzolettino piccolo piccolo, orlato di trina, sul manto un libro semiaperto, un mazzolino di fiori rarissimi, una scatola di confetti, una borsetta pei denari: ella regge con una mano l'ombrellino di seta bianca ricamata in rosso, e l'altra mano va lungo la persona. Lungo la inerte persona. Perchè mai la duchessina potrà alzarsi dal suo letticciuolo, perchè ella è paralitica, perchè ella è il rampollo condannato di una razza nobile, ricchissima di averi ma poverissima di sangue.

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Le hanno messo un abito lungo, e tutto ornato per farla sembrare più grande. Ma in realtà ha quattordici anni, è magrolina, col busto un po' troppo lungo, i gomiti rossi, le graziette selvaggie dell'adolescenza che diventa gioventù. Nella compagnia non avevano altra fanciulla per far fare quella parte ed hanno messo su lei. Ella entra in iscena con impeto, poi si ferma, spalanca gli occhi, arrossisce sotto il belletto di cui le hanno caricate le guance, s'impaccia nella coda dell'abito e per isbrigarsene, le dà un piccolo calcio vivace ed inquieto. Guarda gli spettatori e si distrae; dice la sua parte, ora smozzicando le parole per correre, ora rallentandole per prendere fiato. Ad un tratto vorrebbe prendere il suo fazzoletto e non lo trova; le vien da piangere, volta le spalle al pubblico con un'ingenuità graziosa. Si occupa molto del suggeritore, sorridendogli macchinalmente. Invece di dar la mano al secondo amoroso si accomoda un ricciolo che le dà fastidio. Ha una vocina sottile, acuta, da campanellino di argento che irrita i nervi e che diletta. Finita la parte, scappa via come un cerbiatto posto in libertà, raccogliendo la sua coda, con un moto infantile di scappa scappa. Il pubblico l'applaudisce. Esce fuori e ringrazia senza inchinarsi, ridendo.

Nella notte mentre l'ombra è sulla terra e l'azzurro del cielo diventa sempre più chiaro, avviene qualche cosa di nuovo. Le stelle non sono più fisse, immortali; invece si precipitano in curve rapidissime di luce e si spengono. Lontan lontano, sulla fine dell'orizzonte, dappresso, da tutte le parti, il firmamento è solcato, quasi ferito da strisce luminose; sono inumerevoli stelle che cadono, è una pioggia di astri, è un lusso, una prodigalità di splendori: è uno spettacolo pieno di vita.

Sempre il cielo è chiuso come un problema inesplicabile: è troppo grande, troppo lontano, troppo immobile. L'artista lo guarda sorridendo, parlandogli, pensando di esso; pittore, vorrebbe dipingerlo; poeta, vorrebbe cantarlo; e non può, non può…. Davanti ad esso le idee si allargano, diventano più grandi, sempre più grandi, vastissime, indefinite; passano in un'altra sfera, deviano, trasportano l'anima in regioni incognite e, quando il pensiero ricade un'altra volta sulla terra, l'artista ha nel cuore un freddo e disperato silenzio. Il cielo è una contraddizione perenne; per esso si pensa, s'interroga, si dubita, si spasima, ma non si opera: è il grande assorbitore dell'azione ed intanto pare immoto, senza vita. Allora, per risolvere questo enigma affannoso, si chiede alla scienza che sia il cielo; essa risponde: È un sistema di pianeti regolati dalle leggi immutabili della materia. Dunque l'azzurro sconfinato è un sistema, è una legge l'uragano senza freno, la poesia universale del cielo è materia? Impossibile. Ebbene, si chieda alla fede: Il cielo è il regno di Dio. Come, un regno divino e non un soffio di anima? un regno divino e la profonda, indifferente incoscienza? un regno divino, immobile e cattivo?

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Molte donne sono come le stelle: abitano in alto, belle, noncuranti, splendide, solitarie, ma non si può dire che vivano; non arriva al loro cuore alcuna voce mortale, sia pure di pianto; sono incapaci di grandezza o di debolezza; paiono fatte estranee alla gioia ed al dolore. Figure meravigliose, anime cristallizzate, trasparenti, vuote; brillano pel mondo, ma nulla sanno di luce; restano al posto dove furono messe, nulla ricercano, nulla fuggono. Così passano gli anni e mentre ai loro piedi batte l'onda furiosa delle passioni, esse continuano a brillare, serene ed ignoranti. Pure, un giorno la voce fatale dell'amore si fa strada, arriva sino al cuore di queste donne, con ineffabile accento di seduzione: esse vorrebbero resistere, combattere, rimanere stelle; ma non è possibile; l'abisso le chiama con le sue note misteriose, hanno la follìa della caduta, subiscono l'irresistibile attrazione del peccato, del precipizio, dell'annullamento. Dopo aver esaurito nel brevissimo viaggio ogni splendore, si annientano spariscono nella voragine: ma il cielo resta sorridente, il mondo non le compiange — qualche volta le invidia, esse che compensarono in un solo istante di passione tanti anni vuoti ed inerti.


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Muoiono le stelle — muore anche l'amore. Quando esso s'impadronisce di uno spirito, lo travolge e lo rinnova; diventa il battito del cuore, il pensiero della mente, il fremito nelle vene: tutta la vita, anzi tutto l'uomo. Lui potente, lui maestoso ed immortale; senza lui il deserto, il vuoto, la lettera morta, senza lo spirito che vivifica. È la idealità superiore ed intangibile, la realtà splendida, la fede senza macchia, il vessillo invincibile, lo scudo più forte, l'arme miracolosa di Achille che tocca e sana nel medesimo tempo: l'anima s'immerge, si soffoca, si annega, si perde nell'amore. In una parola, è il sublime. Pure tutto questo entusiasmo decade lentamente, impallidiscono i colori, si disperdono le forti immagini, è scrollata la credenza; la passione si calma, l'amore ha compiuta la sua parabola, finisce. È una corda che non risuona più, un pensiero spento, un'idea vaga, come un ricordo di tempo molto lontano; è entrato nel dominio del passato, non è più nel presente; è inutile ricercarlo più, tentare di farlo rivivere, volerne rinnovare le forti lotte e le delicate impressioni. È un periodo umano e drammatico, perfettamente cessato.


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Cadono le stelle innumerevoli e lucide: nella strada bagnata e polverosa, sulla soglia delle povere case siedono le popolane, parlando vivamente nel loro poetico e rude dialetto. Fra lo spazio angusto dei chiassuoli si scopre una striscia strettissima di cielo e quelle donne vi rivolgono spesso lo sguardo — quando una stella fila, esse dicono fra loro senza alcuna meraviglia:

— È la notte di S. Lorenzo

Perchè corre tra il popolo una pia leggenda: — si dice che quando S. Lorenzo fu martirizzato, le stelle, abituate da lunghissimo tempo a tanti cruenti spettacoli, ebbero si gran pietà dei suoi tormenti che caddero dal cielo per tutta la notte, come lagrime infuocate. Il cielo piange sulla infelicità della terra.

Nei momenti interessanti del dramma, quel palco offriva uno spettacolo degno di ammirazione: quelli che lo occupavano — undici persone — formavano un gruppo di fisonomie ansiose, di occhi spalancati, di bocche semiaperte, di corpi abbandonati; il che attestava qualmente i legittimi e relativi possessori di quei corpi, di quegli occhi, di quelle bocche, fossero profondamente attenti alla rappresentazione. Schierate in fila di battaglia sul davanti, erano quattro fanciulle, volti graziosi, niente intelligenti, linee superficiali, occhi a fior di testa, capelli castani: bellissime borghesi napoletane. La prima aveva fatto un tentativo di abito Pompadour, mettendo dei nastri rosa sopra un abito azzurro; tentativo ingenuamente sbagliato, perchè il rosa tendeva al rosso e l'azzurro era troppo cupo. La seconda portava quella tale iolette, cara alle abitatrici di Floria, dove il giallo si mescola col marrone a furia di losanghe, di strisce, di pieghe, di maniche differenti: imbroglio inestrigabile. La terza si pavoneggiava in un abito bianco, cucito da lei, adorno di trina lavorata in casa, stirato in casa, rialzato da nastri multicolori; giusto un anno e mezzo di arretrato sulla moda. L'ultima infine aveva fatta la felice scelta di una polacca verde pisello, capace di dare l'emicrania ad una persona di nervi delicati. Tutte quattro erano incipriate di quella grossa cipria che lascia le macchie bianche, come di gesso; tutte portavano nei capelli, nodi di nastro, spilli di chincaglieria, fiori artificiali; tutte erano cariche di perle false, di braccialetti in velluto, di lunghi orecchini; erano soffocate dai loro triplici jabots; portavano guanti troppo corti, con filetti bianchi di dieci anni fa, mezzo sbottonati; una li aveva nuovi fiammanti, color burro, troppo stretti, e se li guardava con grande compiacenza, rimanendo immobile per timore d'insudiciarli.

Dietro, due vecchie; capelli grigi, treccia finta tutta nera, figure arcigne, labbra calcolatrici, catena di oro al collo, spillo col ritratto del conjuge — una bambina. In terza linea il soprabitone nuovo di don Giovanbattista Fasanaro, negoziante di pannine e segretario della sua Congrezione, con dentro la rispettabile persona del proprietario; insieme tre giovanotti; il primo commesso del negozio, il figlio del droghiere ed il nipote dell'orefice. Tutti tre serrati nel soprabito delle domeniche, rossi nei coletti troppo alti e troppo duri, fieri della dritta scriminatura del fiore che adornava i rispettivi occhielli; tutti tre pretendenti delle figlie di don Giovanbattista. In tutto, dunque, undici: una borghesia grassa, grossa, beatamente cretina, piena del suo merito, piena del suo disprezzo per quello che è fine, per quello che è artistico; un palco borghese che fioriva alla luce del gas, nel teatro Sannazzaro.

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Eppure — o voi che ogni sera andate in teatro, che vi entrate sbadigliando e ne uscite pallido di noia, che non avete più curiosità, e non vi dolete di non averne, imparate — eppure, quel palco era tutto una storia, tutto un romanzo, quasi un poema. Il borghese napoletano ama il teatro, ma il suo godimento si raffina quando ci va con un biglietto regalato: era il caso. Era tempo che un giornalista, capitato laggiù, ai Lanzieri, per una combinazione strana, come un greco in America, era tempo che gli aveva promesso un palco al rispettabile negoziante. La famiglia, all'annunzio, era andata in visibilio; le fanciulle ne sognavano la notte e pensavano quale abito era conveniente, come dovevano pettinarsi, che figura avrebbero fatto. Tutte le amiche avevano avuto partecipazione della lieta novella, si chiedevano consigli, si sostenevano discussioni: una signorina che abitava di faccia e che aveva avuto la fortuna di vedere il Sannazzaro, era chiamata ogni tanto al balcone, per ripeter le più minute spiegazioni. Per otto giorni non si vedevano per casa che nastri, fiori, sciarpe, veli; non si udivano che grandi colpi di ferro sulle gonne da insaldare: lo specchio era consultato ad ogni momento; le sorelle tenevano conciliaboli negli angoli delle stanze; la cugina, invitata, era commossa per la riconoscenza. Ma il palco non veniva. Prima si cominciò a scusare il giornalista: poverino, aveva tanta gente da contentare — e forse attendeva una serata propizia, forse il teatro era stato sempre pieno. Poi subentrò un po' di inquietudine: avesse dimenticato — e i preparativi e gli annunzii alle amiche e le speranze concepite? Infine, infine tutto è scordato, il cartellino rosso è giunto: terza fila, un po' in alto; numero due, un po' di fianco; ma che importa? si va: tanto basta!

Quel giorno la casa è sossopra, tutto va di traverso, regna la confusione; le fanciulle sono in gonnellino corto, i capelli ravvolti nelle cartine; sui letti fanno bella mostra gli abiti spiegati, i fiori, i guanti, i fazzoletti, le mantelline; i consueti lavori sono abbandonati; è cambiata l'ora del pranzo; non si dorme nel pomeriggio; il negozio si chiude più presto; don Giovanbattista dice ai suoi clienti, spicciandoli in fretta; Scusate, ma stasera vado al teatro, con la famiglia. I tre giovanotti passano un'ora nel salon de coiffure per farsi radere, pettinare ed arricciare. Si appressa lentamente l'ora; le fanciulle litigano fra loro: l'una trova brutta l'altra, la terza ha bisogno di spille, la cugina corre di qua e di là, prestando il suo aiuto, rendendosi utile, le vecchie brontolano, ma non troppo; la bambina piange, perchè ha un ventaglio rotto di sei soldi e la sorellina più grande ha confiscato quello bello che le regalò la matrigna; infine dopo molto chiasso, circa tre ore prima della rappresentazione, ma sempre con paura di far tardi, tutti sono pronti; le giovinette danno un'occhiatina allo specchio, don Giovanbattista porta via la chiave di casa e ripete passando al portinaio:

— Giacomino, andiamo al teatro, si torna tardi.

Arrivano, le porte sono ancora chiuse, passeggiano, vedono giungere gli attori, i pompieri, i carabinieri; appena si approno le porte, entrano in teatro, è oscuro, sono i primi — non importa Ci sono. Con che orgoglio prendono possesso dei loro posti! Come ammirano tutto! Come esaminano minutamente ogni signora che entra!

E quella sera la Marini recitava nella Signora dalle camelie.


***



Comprendete? Sulla scena la Marini ride, folleggia, freme, ama, singhiozza, agonizza: e lassù quelle quattro fanciulle sono attente, commosse, trasportate; questa impallidisce, una diventa rossa, un'altra fa il viso sero e stringe le labbra come un fanciullo che abbia bevuto un vino troppo forte; all'ultima scorrono le lagrime e sono ribevute dalle guance accaldate. Negli intervalli esse rimangono silenziose, distratte, quasi stordite, — ed intanto guardano una bella figura di donna, tutta sola in un palco, la guardano sospirose d'invidia pel volto puro e bianco, per gli occhi ammaliatori, per l'abito di raso, ricco di merletti, pel fuoco liquido e freddo dei brillanti.

Comprendete? Sulla scena Margherita muore di amore; le solite frequentatrici del Sannazzaro, belle giovanette, eleganti signore, abbonate della prima dispari, non piangono e non pensano: tutt' al più discutano il valore artistico della Marini e spiegano se Armando deve essere biondo come Ceresa o bruno come Pasta. Ma le fanciulle borghesi rimangono pensose; la notte forse non dormono o, peggio, forse sognano; l'indomani hanno il disgusto della loro vita prosaica e senza dramma — e negli angoli solitari, a mezza voce, nella penombra, raccontano alle loro amiche la storia di Margherita.

Ebbene, sarebbe stato meglio per voi, o buone e stupide fanciulle, di non essere andate a questo teatro. Voi non aspetta il dramma dell'amore, voi nulla saprete mai di quella passione che fa più vittime di ogni più crudele epidemia: i placidi mariti, la drogheria, l' orificeria, i figliuoli, la casa, nulla richieggono di questi gridi strazianti. Io non so perchè vi hanno condotte a questo teatro, io non so perchè vi hanno fatto intravvedere un mondo, che non sarà mai il vostro; meglio per voi passare la serata attorno ad un tavolino, sotto la lampada a petrolio, lavorando l'uncinetto e guardando il fidanzato. Meglio sul terrazzo mentre la luna scintilla, l'organina suona di lontano e i garofani olezzano; meglio a vespero, quando il predicatore spiega le gioie del paradiso. Se per un solo istante è stata turbata la pace della vostra ignoranza, se un solo lampo vi ha illuminato un paesaggio sconfinato, se avete sofferto un sol minuto, se v'è entrato nell' anima un desiderio ignoto, se avete intuito quanto non sarà mai vostro, se vi è noto un rimpianto, allora quel vostro palco che sembrava una festa, è stata invece una crudeltà.

Ciascuno, vivendo della vita comune, ha una vita propria; e chi la trova nel pensiero, chi nell' arte, chi nel desiderio di gloria. Il popolo, questa grande parte dell' umanità, non conosce ancora la lotta dell' idea, nulla sa di arte e lo splendido fantasma della gloria non gli apparisce — eppure il popolo è l' uomo; l' uomo che soffre, ama, è felice o infelicissimo e deve avere una vita sua, una sua speciale manifestazione. L' ha; ed è il canto. Canta dappertutto — certo dove il sole lo riscalda, dove la luce lo inonda, dove il mare unisce la sua voce, il popolo canta di più, ma nel freddo e nebbioso nord, in quell' atmosfera grigia, il canto popolare si eleva a menomare la tristezza dell' esistenza; le strade della città ne echeggiano, come le vallate della campagna; e lo stesso contadino che lavora nelle fatali paludi Pontine, scaccia il pensiero della febbre col canto. In ogni stagione il popolo canta: nelle sere solitarie dell' inverno è una voce lontana, fievole, che si perde nella distanza; nel risveglio della primavera, nella ricchezza dell' estate, è un concerto che sale da tutte le parti, che vi obbliga a spalancare le finestre ed a lasciar entrare la gioia del popolo; nell' autunno è un sospiro, un addio al bel tempo che parte.


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La canzone poplare non si definisce, essa si sottrae all' arida spiegazione della scienza; è una cosa vaga, fuggevole, senza contorni determinati, evanescente. È tutto ed è nulla; è un soffio leggiero e può diventare una leva potente; brilla di tutti i colori dell' iride, si crede che sia una perla ed è una bolla di sapone; donde viene non si sa, dove va non si conosce; può morire, ma può anche risuscitare: ha una fragile esistenza e intanto resiste all' urto degli avvenimenti ed al trascorrere degli anni. In essa si ritrova lo spirito multiforme del popolo; è gaia, vivace, del ritornello allegro, dalle battute affrettate e rapide; è malinconica, dalle note lunghe e cadenzate, con un pensiero mesto che ricompare ogni tanto; talvolta è burlesca, vi si sente lo scoppiettìo del sarcasmo e il fischio dell' ironia — e infine, con una profonda ed incosciente filosofia unisce spesso parole dolenti ad un motivo brillante. È un lamento, una risata, un sogghigno, un bacio; l'espressione di un momento, la durevole rappresentazione di un sentimento rapidissimo; è un' idea complessa ed energica che ha bisogno di svolgersi con la parola e con la musica. Senza sapere la prima bocca che l' ha intuonata, la canzone si propaga in un momento, diventa la proprietà del popolo, e se essa ha saputo cogliere bene l'idea ed il sentimento, sopravvive lungamente, forse più che nella classe degli intelligenti, un' opera di grande maestro.

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Vi si parla quasi sempre d'amore. Amore diverso dal nostro, s' intende; amore grossolano e che può giungere a certe delicate espansioni, sognate solo dalla fantasia del poeta; amore che dona egualmente un garofano ed un colpo di rasoio; amore che non s'inchina, non porta guanti e suona per ore intiere la chitarra sotto la finestra dell' amata; amore che quando vi si aggiunge la gelosia, diventa passione; amore che è sboccato, villano, ed intanto riempie di matrimoni i registri dello stato civile. Esso ispira le canzoni popolari: vi si narrano le gentili speranze della corrispondenza, il dolore per la indifferenza, l'affannoso tormento della gelosia, le pene del disinganno e dell' abbandono; tutta la profonda variabilità dell' amore prende forma in quella musica. Vi sono canzoni per augurare la buona notte, canzoni per ridestare una cara e pigra dormiente, canzoni per rimpiangere una giovanetta morta; spesso, rinnovando le romanze degli antichi trovieri, vi è un dialogo fra l' uomo e la donna, ed il vincitore è sempre l'amore. La medesima idea della morte, questa idea che fa impallidire i più forti, nella canzone sembra dolcissima; ivi è detto come bellissima cosa sia morire davanti la porta della donna amata, e questa frase che riassume l'amore e morire di Leopardi, è accompagnata da un motivo così lento e triste che vi mette nell'anima un desiderio insolito di pace e di silenzio, un arcano struggimento dell'ultima ora.


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Al popolo nessuno parla di patria e di libertà, nessuno gli dice che ha diritti, nessuno gli suggerisce la parola eguaglianza; il popolo non sa la storia e niuno cura d' insegnargliela, eppure il popolo si solleva, combatte, cade, risorge, è glorioso: una canzone patriottica lo ha infiammato, ne ha risvegliato il valore e sostenuto il coraggio. Nel 1860 vennero fuori mille canzoni di guerra, senza sapere chi ne avesse gettata la prima, nota: al loro suono sorgevano i soldati dalla terra, i giovani ed i vecchi sentivano per le vene un fremito, i cervelli si mettevano in tumulto, le mani correvano all' armi; e si moriva, si moriva con la gioia negli occhi ed il canto sul labbro. Anche adesso, dopo tanti anni, dopo che l' Italia è compiuta, dopo che tante febbrili illusioni sono svanite, al risentire quei canti gli occhi si riaccendono ed il cuore si solleva. Bonaparte il Grande, prima d'inebbriare i suoi soldati con la polvere ed il fuoco, li inebbriava con le canzoni popolari; è la canzone popolare che, insieme alle teorie dei filosofi, crea hi presa della Bastiglia e la rivoluzione francese; essa è un'arme contro il tiranno, contro il cattivo governante, un' arme che vale più del fischio, più dell' urlo, più della pietra; perchè il fischio, l' urlo, la pietra significano l' individuo e la canzone significa la massa, il numero e la forza.


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Si è detto, ed anche da un ingegno geniale, che il popolo non è vero poeta, massime il popolo napoletano. È così: l' elemento poetico è scarso, a lampi, il senso spesso ne diviene incomprensibile — talorasono frasi, parola accoppiate senz' ordine e senza significato. Ma nell' elemento musicale è la grande rivincita, nell' elemento musicale ricchissimo di melodia e di espressione; tutto quello che la poesia non dice, la musica lo interpreta e lo rende, schiudendovi un orizzonte largo, immenso, dove la fantasia può megiio spaziare che nello stretto giro della parola. La cantilena del marinaio vi giunge senza che possiate ascoltare quello che egli dice, eppure vi parla del dolore della partenza, del lungo viaggio in paesi ignoti, dell'ansia del ritorno; quando sulla barchetta al largo, si canta di Santa Lucia, voi senza saperne nulla, indovinate, all'udirne solo il ritornello, tutta quell'allegra vita sotto il sole caldo, nel profumo del mare, nelle notti limpide e serene. Non vi è poesia ed intanto potete crearci un poema, un poema molto più bello perchè vi mettete una parte di voi, riunite al sentimento della musica quello del vostro cuore e quasi tacitamente ringraziate colui che pose frasi senza costrutto sopra una musica divina, e vi lascio la libertà di adattarvi tutte quelle che la vostra immaginazione può sognare. Forse il popolo non è poeta vero nel pensiero, ma è tale nel sentimento — stroppia il concetto ed è insuperabile nella musica. Vi è qualcuno che preferisce questa seconda poesia alla prima.


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La scienza è la misura del dolore — è una severa verità. Più is procede nel regno del pensiero e più l'occhio della mente discopre abissi paurosi, e l'anima, sitibonda di pace, vorrebbe ritornare all'antica ignoranza: in alto vi sono i fatali miraggi che attirano, affascinano e non si fanno raggiungere mai, in alto il pensatore e l'artista soffrono. Ma in basso, nell' ignoranza anche si soffre: in alto vi è la povertà smagliante, in basso la povertà nera. In basso vi è il pensiero del domani senza pane, dei figli senza tetto, della vecchiaia che si approssima: tutto questo può fermentare e diventar odio. Allora si maledirà al lavoro continuo senza la giusta ricompensa, si maledirà all' ingiusta divisione dei beni della terra e la cattiva idea del socialismo, sotto la sua forma più rozza, si farà strada. Ma no, no: il popolo non può odiare, il popolo non può maledire, perchè canta: la povera cucitrice con gli occhi stanchi ed il petto logorato accompagna con la voce il tic-tac della macchina; il muratore, arrampicandosi per le impalcature dove arrischia la vita, gitta al vento le note della sua canzone; nel seno della terra dove non entra barlume di sole, il minatore unisce ai colpi regolari della sua picozza, un monotomo ritornello. Il popolo non ha svaghi, non ha consolazioni, non ha gli strani piaceri in cui noi affoghiamo — il popolo per dimenticare, per non maledire, per sorridere, non ha che il canto.

Chi sa! È forse così che parla a Dio.

Mentre ella parlava vivamente, con la sua voce ineguale, un po' dura, a cadenze brusche, egli la guardava. Certo era la medesima donna d'una volta: doveva soltanto essere ammalata. Sempre quel volto bruno pallido, dalle linee molto irregolari, quasi contorte e spezzate da una mano tormentatrice; la fronte breve, tagliata da due rughe crudeli che scomparivano solo quando ella sorrideva: gli occhi grigi, senza dolcezza, esprimenti l' inquietudine dell'ansietà che li faceva brillare, o la lassezza della delusione che li rendea vitrei; il profilo affinato, quasi diminuito, quasi trasparente: la bocca di un disegno puro, ma senza quelle voluttuose curve delle statue innamorate; il mento un po' lungo, energico e pieno di volontà; il collo magro ma vivo nelle precipitose pulsazioni delle arterie; le spalle un po' alte, quasi n'avessero acquistate l'abitudine per quel moto sdegnoso di chi respinge un fastidio morale o materiale; il busto troppo piccolo, le braccia singolarmente belle per quel corpo, le mani lunghe, affilate, nervose. Poi una fisonomia mobile che in un istante si scomponeva da cima a fondo, che si tramutava nel terreo, e spaventoso pallore dei bruni o si coloriva, come se un'onda di sangue si diffondesse sul viso; brevissimo di vita il fiore del sorriso: a certe parole tremanti lievemente le labbra. Cosi, un tempo, la donna di ventiquattro anni; così, ora, la donna di trentotto. Ma in quell'anima, in quel corpo era passata una malatia: non una di quelle fulminee, complete, perfette nel loro sviluppo patologico, per le quali si muore o si rifiorisce più vigorosi: non una di quelle lente, calme, taciturne, ironiche, che compiono il loro cammino continuamente, sino alla distruzione; invece una malattia strana, indecisa, capricciosa, che ora scoppia improvvisa e fa fremere tutti i nervi nella sofferenza, ora si cheta e si addormenta, lasciando solo una traccia dolorosa; ora scompare totalmente, quasi per ridare forza al corpo, per ritrovare un degno avversario nel nuovo assalto; una di quelle malattie la cui fiamma interna riscalda, abbrucia, dissecca, ma non incenerisce; che attacca la vita con la vita istessa, raddoppiandola, moltiplicandola, sospingendola fino al delirio vitale; che affina ed esalta la sensibilità, per farle provare una più squisita sensazione di dolore; in cui tutto si sposta dal suo centro di equilibrio e di serenità; fibre irritate è amaramente doloroso il piacere, è delizioso il dolore.

Guido aveva ritrovato tutto questo in Fulvia, lo aveva decifrato in ogni piega di quel volto rovinato, in quelle parole rapide e mordenti, in quelle frasi fischianti come una scudisciata, in quelle subitanee stanchezze della voce che si abbassava sino a diventare un mormorio indistinto. Anche d' attorno, nel salotto, negli oggetti muti ed immobili, era passato il soffio di quella esistenza convulsa: nell'aria dove il sottile odore dell' etere cercava stravincere quello grave e pesante delle magnolie; nelle poltroncine sbandate, disperse da una mano irrequieta; nelle corde infrante di un mandolino che si trascinava sotto una tavola e di cui s'immaginava sentire ancora le ultime vibrazioni lamentose; nei libri nuovi, ammonticchiati, sfogliati solo chi nelle prime, chi nelle ultime pagine; nel fazzolettino di battista, dalla trina strappata, buttata in angolo di divano; nel ventaglio di piume lievissime, posato sopra; l'Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis, annotata fittamente al margine, con l'inchiostro rosso come il sangue: insomma tutto quell'ambiente ribelle, disordinato, contradditorio. E Guido che sulle prime aveva guardata Fulvia come un semplice osservatore, sentiva a poco a poco dileguarsi la sua freddezza e come eco di un passato d'amore gli nasceva in cuore una grave tenerezza, una curiosità affettuosa ed investigatrice, una pietà ancora incerta, ma che tendeva a manifestarsi. Pure non osava chiedere a quella donna il segreto della sua vita. Era stata sempre fiera, sdegnosa di compassione. Ora la conversazione era caduta. Fulvia si taceva, quasi stanca. Guido ricercava la parola magica ed efficace che facesse schiudere quel cuore affannato.

— Sempre sola qui? — le chiese dopo un silenzio.

— Anzi — rispose ella, subito — vengono sempre molti amici.

— E se ne vanno.

— E se ne vanno. Tanto meglio — ripetè ella, con un moto spazzante del labbro.

— Voi non amate quelli che vi professano amicizia?

— No, Guido.

— Una volta non era così.

— Ci siamo ingannati. Io non ho mai amato i miei amici.

Vi era nel suo volto tanta triste sicurezza di quello che diceva, che Guido non ebbe coraggio di dirle: Voi posate, in cambio:

— Voi soffrite — le disse.

— Io? No, no, ve lo assicuto. Sto benissimo. Anzi contenta. Mi sono persuasa.

— Di che?

— Di niente, non ci badate. Parliamo di altro: volete?

— No, non voglio.

— Ma che cercate da me, Guido? — gridò essa con uno scoppio disperato di voce. — Perchè mi siete riapparso stamane? Perchè volete assolutamente rievocare un passato odioso? Ma lo sapete soltanto quello che mi chiedete? Quello che forma l' ineffabile cruccio della mia esistenza, dovrà far sorridere un estraneo? Chi siete voi per me? Lasciatemi in pace: io non vi conosco.

E si tacque, chinando il capo, tutta agitata ancora dalla violenza delle sue parole. Guido le si accostò, le prese le mani con un gesto carezzevole ed a voce bassa e dolce, le disse:

— Io vi ho molto amata, Fulvia.

D'un tratto ella pareva calmata. Una soavità addolcì la contrazione di quel viso, si spense il lampo degli occhi, cadde il sogghigno.

***



— Mi ricordo, Guido — cominciò ella con un tuono monotomo che si andò elevando e tramutando — mi ricordo che a sedici anni mia zia mi sorvegliava. Temeva che m'innamorassi e male. Io sorrideva. Sapeva di dovermi innamorare e non cercare di evitarlo. Anzi lo aspettava, con un principio di impazienza. Le mie amiche mi narravano con parole eloquenti le prime emozioni della gioventù che si risveglia, le belle fantasie, le gioconde speranze; io mi commoveva, il cuore mi mandava agli occhi le lagrime, tutto il mio essere si sollevava in una sola aspirazione e mi chiedevo: quando amerò io? E come il tempo passava, una inquietudine m' entrava nell' anima, un sospetto triste compariva e scompariva ad affliggermi. Nessuno mi amerà, forse — dicevo fra me. Leggevo il Leopardi allora, il grande cuore solitario che fu amato tanto poco. Invece, no. Giovanni mi amò: un giovanotto bello, buono ed intelligente. Quando me lo disse, impallidì, balbettò, aveva un'aria smarrita: io rimasi confusa, estatica. Era l'amore, finalmente! Era mia la terra fiorita, mio lo splendido sole, mio il cielo immenso: io amava. La sera mi inginocchiai per ringraziare Iddio della mia felicità. Ma mi ritrovai fredda ed indifferente, le parole mi mancarono, la fede non venne, non venne l'estasi: Giovanni mi amava, io avevo detto di amarlo, ma non era vero. Invano mi sforzavo a credere il contrario, invano eccitavo la mia fantasia, invano mi rivoltavo contro l'ariditezza del mio cuore: nulla si scuoteva in me. Con lui fingevo, per vergogna della verità: a volte fingevo così bene da ingannare anche me stessa. Ma dopo era orribile, orribile! Perchè non lo amavo Giovanni? Chi avrei amato se non lui? Che cosa era la mia singolare indifferenza? E l'idea che forse sarebbe stato sempre, sempre così, mi balenava ogni tanto, rischiarandomi uno sconfinato deserto, dove non risuonava nè voce, nè passo umano, dove non cadeva stilla di rugiada, dove non nascevano fiori. Sedici anni ed il profumo delle rose non m'inebbriava, la poesia non mi esaltava, la musica non mi commoveva! Sedici anni ed io cercava nei libri, per impararle a mente, le parole d'amore che avrei dette al mio innamorato!


***



— Parlatemi di vostro marito — disse Guido.

— Ah! sì, di mio marito — riprese Fulvia con un riso stridente — parliamone pure. Voi non lo avete conosciuto Corrado. Un marito da proverbio, da commedia, da romanzo, un marito fervidamente innamorato di sua moglie. Mi segue dappertutto per sei mesi, abbandona a Firenze la sua famiglia e consente rimanere a Napoli, commette follìe, sogna follìe, io esito, non so decidermi, mi scuoto innanzi a quell'amore invincibile, mi illudo di dividerlo, mi entusiasmo, mi credo rigenerata, riabilitata, mi creo una felicità falsa, la quale decade, sparisce dopo otto giorni di matrimonio. La passione di Corrado non trovò un'eco nel mio cuore. Volli prendere a dùe mani il mio coraggio, volli impormi un amore che non sentivo, dissi mille volte a me stessa che ero una donna vigliacca, odiosa, infedele a' miei doveri: fu inutile. Oh! Guido, quanto terribili le mie lotte e come senza risultato! E quell'uomo davanti a me, nobile, buono, passionato, che mi adorava come una Madonna e mi amava come una donna: ed io muta, ghiacciata, incapace di un palpito, incapace di uno slancio, maledicendomi, rodendomi in una impotente disperazione, fingendo come sempre, per ingannare come sempre, per celare a chi mi amava la mia profonda miseria. Ed egli è morto — aggiunse ella, in un singulto senza lagrime — è morto quasi felice, ringraziandomi del mio amore, baciandomi ancora con le labbra fredde della morte!


***



— E dopo — riprese ella, scuotendo la testa quasi a scacciare il pensiero molesto — dopo era libera, sola, senza legami, senza doveri. Sospinta da una affannosa ansietà, io ho tentato tre, quattro volte la prova. Ancora mi hanno amata, ancora ho visto il sagrificio completo di cuori innamorati. Dove sono andati quei cuori? Chi li ricorda più. Non io: non lasciarono traccia in me. Ed eccolo, eccolo, Guido, il fatale castigo della mia vita, ecco il segreto che mi rode le viscere, che sconvolge la mia esistenza. Io non ho mai amato di amore, Guido. Io non posso, non so amare.


***



— Nella notte, talvolta, nelle mie veglie inquiete, nel silenzio profondo, io mi sono curvata per sentire, se non fosse per sempre spento il battito del mio cuore. Nella notte, in un impeto di disperazione, con le lagrime negli occhi, con la voce singhiozzante, io ho pregato il Signore che mi facesse amare; io l'ho pregato che mi concedesse la grazia di amare; io l'ho pregato che mi togliesse dal capo la spaventosa condanna, che rianimasse col suo soffio la mia anima' di pietra; io mi sentivo morire nello sconfinato bisogno di amare; io mi sentivo morire nell'immenso, inebbriante desiderio di sagrifizio. Amare e soffrire, amare ed essere infelice, amare e non essere corrisposta, amare ed essere calpestata, disprezzata, avvilita: questo chiedevo. Vane le preghiere, inutili i lamenti, le grida rabbiose, i contorcimenti della mia disperazione. Ma lo comprendi tu, Guido, che significa questo? Sai tu che cosa sia una vita simile? È un tormento fitto, continuo, peggiore di quello dei dannati; è l'odio di sè, della propria natura, è l'abbominio del mondo. Perchè nel mondo una sola è la verità: l'amore. L'orgoglio è amore, la vanità è amore, la virtù è amore, la gloria è amore, il vizio è amore, l'egoismo è amore. Intanto trovarsi fuori della legge; fuori della vita, fuori della felicità; essere lo scoglio nudo e duro, dove è l'oceano; essere il ghiacciaio, dove è il vulcano; essere la negazione ove tutto si afferma. Altri piange perchè non è amato. Volgare ed egoistico dolore: io non lo comprendo. Io comprendo solo quello altissimo, quello incapace di consolazione che è il mio.

E rimase immobile, avvinghiata dalla malattia del suo spirito, nel tragico aspetto simile alla Niobe greca. Egli non trovava parole davanti a quella desolazione: si sentiva penetrato dallo stesso cordoglio, una pietà profonda e cosciente era in lui, ma non trovava forme reali. Quasi macchinalmente, quasi parlasse a sè stesso.

— Povera Fulvia! — disse.

— Tu mi compatisci?! Tu, Guido? Ma tu hai dunque tutto dimenticato? Tu mi hai lungamente amata; non te ne ricordi? Ed io ti ho lungamente torturato, mi sono fatta giuoco di te, ho riso della tua passione, me la sono messa sotto i piedi. Poi, per farti maggiormente infelice, ho detto di amarti e come sempre ho cercato d'ingannare me e te, come sempre non era vero. Tutto menzogna, tutto. Menzogna i trasporti, gli entusiasmi, le follìe, la gelosia; menzogna le parole di amore, le lettere, i fiori, i capelli, i nastri; menzogna i turbamenti, i sorrisi, le lagrime, la voce commossa, il pallore, il rossore. Finzione, falsità sempre. Non ti amavo, no, no. Ti ho tradito, poi. Ora te lo dico, che nòn ti amavo. Ecco la verità. Perchè mi compatisci? Perchè non mi disprezzi? Perchè non mi odii? Perchè non mi maledici? Che uomo sei dunque, tu? Che uomini siete dunque stati, voi altri che mi avete amata? Ma disprezzami un poco, Guido, pel bene che mi hai voluto.

— No, Fulvia, no — riprese egli gravemente. — Non lo posso, non lo debbo. In questi quindici anni ho pensato spesso a te, elevandoti nel mio cuore un inno di gratitudine. Che importa l' abbandono, il tradimento? L' uomo tradito è stato amato: basta questo. Fosse solo per un'ora, quella donna gli ha dato il suo amore: egli le deve riconoscenza. Tu mi hai amato, Fulvia, te lo giuro. Evoca i tuoi ricordi, richiama tutte le impressioni fuggite, prova a rivivere quei momenti: ma ricordati, Fulvia, ricordati per pietà di te stessa! Tutto quello che dici falso, è invece la verità: Tutto quello che ti sembra inganno, è la realtà. Non si smentiscono i trasporti e gli entusiasmi, non si finge il sorriso, il pallore, il rossore. Sempre tu hai amato, dai sedici anni nella nascita dell' anima, sino alla sua completa maturità. Ma il tuo desiderio di amore, è amore: ma i tuoi tormenti, il tuo dolore, la tua desolazione sono novelle sue forme; ma il tuo odio, il tuo disprezzo per te stessa, sono il sublime punto dell'affetto. Di chi ti lagni tu dunque, nel tuo spirito insoddisfatto? Hai vissuto, hai amato. Quietati nelle tue rimembranze.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Eila pensava, vagando nel passato, interrogando la sua coscienza, cercando una illusione. Ma la natura fisica, stanca dalla lunga tensione e dallo sfogo improvviso, tumultuoso, si piegava abbattuta.

— Forse — disse poi, brevemente a voce bassa, senza convinzione.

— Perchè il dubbio della mente che dispera di sè è acuto, assiduo, fitto, doloroso: pure si allontana o si guarisce. Ma quello che non si allontana, che non si guarisce mai, quello per sempre irrimediabile, è il dubbio del cuore che dispera di sè.

Noi entriamo nella vita, pallidi e febbricitanti pellegrini, con l' ardente desiderio delle grandi azioni, delle grandi passioni, dei grandi orizzonti; vogliamo, spiriti insaziati, toccare il culmine di ogni cosa, dovessimo pure da quella vertiginosa altezza scoprire abissi paurosi; il nostro pensiero impone alla nostra volontà ardimenti inauditi: abbiamo in noi una fretta affannosa, che ci fa sentire sempre l'imperioso bisogno del fatto compiuto. E trabalzati, scossi, sospinti, urtati nella lotta perenne fra l'idea e la parola, scomponendo vecchi ideali per formarne di nuovi, calpestando quello che fu oggi la nostra gioia per crearne il dolore dell' indomani consumati da credenze incomplete e da dubbi che non osano affermarsi, noi siamo intimamente infelici. Perchè noi trascuriamo nella nostra vita tutto quello che è piccolo, che è soave, che è benigno; lasciamo da-banda un corteo di impressioni leggiadre; disdegniamo le idee troppo vaghe o troppo minute; ci sentiamo pieni di disprezzo per i ricordi infantili, per le ore di tenerezza che assalgono lo spirito stanco della soverchia tensione, per il diletto di una bella apparenza: noi perdiamo, noncuranti, una parte di vita, senza volontà di conoscerla, senza volontà di apprezzarla. O fugaci e dolci impressioni, pensieri indistinti e sfumati, sorrisi lievi della natura, pause dell'anima, apparizioni momentanee, angoli freschi e riposati dove si cheta la fantasia: sentirvi, godervi è forse la felicità.


***



È una campagna di Caserta: sorge il sole; una striscia rossa è all' orizzonte, si diffonde in un pallido giallo e finisce in un bianco smorto; i monti lontani sano azzurrini, quelli più vicini di un violetto stinto. Sulla via maestra, bianca, polverosa, dove ad ogni quindici passi sorgono mucchi di brecciame bianco, cammina un lavoratore, scalzo, con le grosse scarpe sospese alla cintura, la zappa sulla spalla e la giacchetta infilata ad un sol braccio; un muricciuolo impedisce la vista dei campi lontani, dove il grano attende il venticello di luglio — solo, un pino sorge come un uomo trionfo e superbo di sè. Par di sentire il fruscìo dei faggi che cominciano ad agitarsi, par di sentire il concerto trillato degli uccelli, par di veder schizzare le vivaci lucertoline, tanto nervose e simpatiche. Dico, pare; perchè tutto questo è in un acquerello. Un gentile acquerello, che mette una nota soave in una orribile stanza di città, dove non si vede cielo, dove giungono grida feroci di venditori, fragore di carrozze e fumo di pesce fritto, un acquerello, con un' alba tranquilla ed immobile.

Il palazzo di fronte, di un bel giallo-cromo, si cosparge di larghe macchie brune sotto la pioggia, poi si cambia in color legno; le lunghe stille d'acqua, ferite di traverso da un raggio di sole, diventano lucide e sembrano le pagliuche inargentate dell'abito di un allegro saltimbanco. Un fanciullo lacero, in maniche di camicia, con un fazzolettino a scacchi sulla testa, corrè sotto la pioggia, cantando con voce acutissima un ritornello popolare, interrompendosi ogni tanto, per gittare, con un grido, un'ardita disfida alla tempesta: il bambino, figlio di nobili signori, è presso il balcone, pallido, ammalato, vestito di pellicce, solo; e stanco, si abbandona a pensàre, sul ricco libro di immagini che non lo divertono più.


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Sul caminetto, nell' anfora di terso cristallo, s' iilanguidiscono le rose. Le bianche, dal seno lievemente roseo, somigliano ad anime candide il cui cuore si apre all'amicizia; quelle color di rosa, dai petali incappucciati, esalano il profumo irresistibile dei cuori segretamente innamorati; quelle thea rassomigliano a damine schifiltose ed aristocratiche; le rosse, quasi sanguigne, hanno l'aspetto tragico; e la nebbia leggiera della brughiera che si eleva sovr'esse, tempera appena il vigore dei colori forti e sfuma le gradazioni. Ma le rose languiscono, le cime dei petali sono bruciate, tutte hanno in qualche parte un punto nero, una traccia bruna, un'ombra; gli steli sono curvati. Pure il profumo raddoppia, diventa più acuto; lo specchio del caminetto riflette il gruppo delle rose, quello di fronte lo torna a riflettere e lontano, lontano quasi all' infinito, si ripete senza numero la passione di quei fiori morenti.


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Ride e canta sotto il sole di settembre il piccolo porto; i facchini, figure brune ed atletiche, trasportano dalla piatta barcaccia a terra, il carico di carbone; un pescatore dorme raggrinchiato nella sua nassa inoperosa; alcuni fanciulli seminudi guazzano presso la riva, poi si rotolano nell'arena calda e fine per asciugarsi e spiccano da capo un grande salto nel mare. Sulla strada, in alto, quasi a picco si ferma il vapore; visi affaticati respirano alla portiera il venticello di ponente; la venditrice di acqua e di aranci va su e giù lungo i binarii; un velo azzurro di viaggiatrice svolazza; il povero cieco, appoggiato al braccio di suo figlio, augura il buon viaggio a tutti; una bambina, sollevato il vetro, gitta ai fanciulli, che si bagnano, un grappolo di uva nera. Riparte ii treno; sotto il sole di settembre ride e canto il piccolo porto.


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Sulla tovaglia damascata di Fiandra, la colazione attende; ma, dallo spiraglio della porta, non se ne vede che un angolo. Ma nell' aria si aspira un lieve odore di limone fresco; una gamba di pollo arrosto, con la delicata pelle del corpo crogiolata, fa supporre il resto; un'ostrica bruna, rugosa e scabrosa di fuori, bianco-lattea, morbida e lucida di dentro, respira lentamente; in tre dita di Xeres biondo, trasparente, limpidissimo, sono immersi i pezzetti gialli e succosi di una pesca duracina. O ricchi vigneti della Spagna, ardenti come la terra e come lo sguardo delle donne, o freschi ed ombrosi giardini d'Italia, o immenso e benefico Oceano, o gioconda e magnifica Natura, salute!


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Il salotto rotondo, piccolo, è tutto foderato di seta rosa pallida, imbottita e fermata da bottoncini, come l'interno di una bombonierina di cristallo; sulle pareti morbide, piccoli specchi ovali con la cornice semplice di argento, lucido e terso come l'acciaio; grandi giardiniere di argento, lavorato con un cesello così artistico da ricordare la mano di Benvenuto Cellini, portano gardenie, camelie bianche, rose bianche, garofani bianchi, mughetti, fiori di neve. Tutto d'intorno ha riflessi rosei ed argentei, il bianco vi sembra latteo la linea vi si annulla e diventa una dolce curva; la vita vi deve essere buona. Ed il zuccherino di questa scatola di confetti-deve essere una donnina graziosa, rotondetta, una gattina piena di vezzi, una personcina svelta sui tacchetti alti, palliduccia, con i capelli castani, le braccia tornite sotto i merletti, le mani piccole e piene di fossette, una marchesina Pompadour senza cipria e senza nei.


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Le quattro grandi finestre della sala terrena proiettano sulla larga ed oscura via quattro rettangoli di luce: è sera, i forestieri pranzano senza soggezione della gente che li può guardare, le signore sono vestite con eleganza, i camerieri in marsina circolano silenziosi e prodigando inchini. Nella via un suonatore di chitarra accompagna la voce aspra e stonata del suo collega; un omnibus con un fanale rosso ed un altro verde, che sembrano i due occhi strani di una bestia nera, passa lentamente; un giovanotto azzimato, arricciato, col fiore all' occhiello e col cervello in tumulto, corre ad un convegno; un poeta appoggiato al muricciuolo, guarda le onde brune e fosforescenti, prestando orecchio al misterioso ritmo del più giovane poeta: il mare.


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Cade il giorno in Pompei; ma ad onta della sua solitudine, delle sue rovine, della sua morte, la città non è triste. La giovane coppia passeggia ancora, ma la signora lascia trascinare sulle pietre di lava il suo lungo abito, la persona stanca si lascia un po' portare dal braccio del giovanotto; egli si china ogni tanto a parlarle, sotto voce, sorridendo, guardandola negli occhi — perchè si amano. La guida spiega con voce monotona le antichità; ma dalla persona gentile della donna si stacca un sottile odore di violetta, i capelli biondi si disfano nella grossa treccia, l'ombrellino sfiora le pareti dipinte ad affresco, una mano inguantata, lunga, leggiera, si è poggiata sul simulacro d'Iside, e lui preferisce quella manina a mille volanti danzatrici greche. Partono; cade il giorno — e Pompei, la città delle belle donne, dei profumi, dei giocondi amori, si fa triste.

A Lulù.

Infine, quando tu sei partita per Castellamare, la tua, diciam così, attrezzeria, era completa. Non hai dimenticato nulla qui, tranne due o tre disgraziati condannati alla città forzata e che sospirano dietro le tue treccie bionde, scomparse per la linea di Napoli-Castellamare. Rassicurati dunque. Tutto parte con te. Abbiamo fatto insieme uno dei nostri allegri inventari: nulla mancava. L'abito di percallo a pallottoline verdi mi fece ricordare l' ingenuo desiderio di Heine, che i suoi canti fossero tanti pisellini freschi, per farne una zuppettina alla sua amante; quello crema a fioretti rossi, col suo perfido e provocante volantino rosso, all'orlo, coi suoi sbuffi di merletto bianco sarà irresistibile nella luce del sole mattinale. Quello di mussolina d'India bianca, lieve, gentile, trasparente, col suo paltoncino di stoffa turca, dove bruciano insieme il rosso, il marrone e l'oro, nel lungo tramonto estivo, potrebbe dar luogo a un quadro: Castellamare, caduta del sole, con effetto…. di bella fanciulla. Hai fatto bene a tagliare la coda al tuo vestito di seta azzurra, sebbene, sia stato un lembo di cielo, tolto via dalle forbici; ma voi ballerete e la coda è insopportabile d' inverno, figurarsi d'estate. Conosco un giovanotto nervoso, che si è deciso a sposare una fanciulla, per averla vista, durante una intiera stagione, in abito corto; egli sostiene che in quell'assenza della coda, è il fondamento della sua felicità coniugale.

L'amazzone di flanella bianca è un'ardita novità, ed il tuo cavallino Gracieux sarà fiero della sua padroncina; ma se, per caso, in una gita improvvisata, si dovesse andare sull' asino, non disprezzare quell'asino, Lulù, perchè sarà l'asino dell'allegria e della improvvisazione. Degli altri abiti, abitucci e semi abiti, non parliamo: sono sepolti nei profondi e misteriosi penetrali delle tue valigie.

Sibbene i cappelloni enormi dove si nasconderà il bel testolino — che ti pare della nuova parola? — e dove gli occhi desiosi s'innoltreranno ad un viaggio di scoperta, molto più fresco e più piacevole di quelli africani; i cappellini minuscoli, aerei, che ogni momento vogliono scappare via al volo delle piume che si agitano; i veli rosei, grigi, bianchi, che si gonfiano al venticello marino; le pettinine a testa brillante di acciaio, la pettinessa di tartaruga bionda, i chiodi di argento, gli spilloni a pallottole, le farfalle tremolanti e cangianti: tutto questo mi fa rimanere profondamente pensierosa. Quante cose può portare il capo di una donna, oltre il cervello! È inutile di attirare la tua attenzione sulla gravità di questa riflessione filosofica. Scendendo a idee pedestri, approvo gli scarponcini di cuóio giallo, le scarpe alla contadinesca, le scarpette col monogramma, gli stivallini solidi delle escursioni, con relativi tacchi svelti, tacchi a cui grideremo sempre, con tutte le nostre forze: Excelsior!

Non ho nulla da dire per gli ombrellini, cominciando da quello mostruoso, che pare una tenda, sotto il quale tu ed il tuo cavaliere sembrerete Paolo e Virginia, del bello e noioso idillio di Saint Pierre, passando per quello a fondo Pompadour, per l'altro a fondo giallo, per l'altor a fondo rosso: questo può riguardare Michetti e Dalbono che amano le belle teste sui fondi violenti o dolci. Ed i ventagli, le cravatte, i colletti, le trine, i fiori, le calze di seta, i ricami, le borse, i gingilli, mi hanno lasciata una grande tranquillità nell' anima: sono certa di te, Lulù. Nelle gite sulla montagna, di cui le risate sprizzanti risvegliano l'eco, nelle galoppate a cavallo pei larghi sentieri fiancheggianti d'aranci, nelle lente passeggiate pel mare glauco, nei ballonzoli allo Slabia, nella mattina e nella sera, nella luce bionda del sole, e in quella argentina delle stelle, tu sarai l'adorabile e l'adorata Lulù.

***



Ma quì, in mezzo alla dolcezza della mia soddisfazione, vi è un punto amarognolo, un sapor d'aloe. IIo un sospetto, Lulù: uno di quei sospetti che girano per i cinque atti delle commedie moderne, affinchè la catastrofe non capiti troppo presto. Ma io lo risolvo subito. Senti qua, mia cingallegra, e non cercare di schermirti, scherzando e ridendo. Ti assicuro Lulù, che il tuo costume da bagno è troppo elegante. Di tela azzura oscura, è ricamato col filo rosso, le ancore rosse, il nome in rosso, la cinta rossa: il grande cappello di paglia col suo gruppo di papaveri; le scarpettine di tela di paglia, legate coi nastri in croce — troppa eleganza, perchè rimanga inoperosa ed inefficace. Tu hai un progetto, cara: non me lo negare. Tu vuoi discendere nell'acqua, abbandonare il fido camerino, disprezzare la modesta vasca ed uscire al largo per nuotare con quei signori e con quelle signore. Il tuo costume da bagno è troppo grazioso perchè tu non voglia fario vedere a qualcuno, con la personcina dentro. Nevvero? Tu fai una risatina e crolli il capo, e vedendo così bene indovinato il tuo pensiero, rimani sorridente ancora, a carezzare nella mente il tuo gaio disegno. Non sorridere, disgraziata creatura, non distrarti nel tuo sogno: ti aspetta la più crudele disillusione, la più orribile realtà.


***



Avrai letto, Lulù, un po' dappertutto le declamazioni quotidiane con cui l'abito mascolino moderno è dichiarato stupido, inelegante, prosaico, con cui la marsina è detta il capolavoro della ridicolaggine, con cui si aspira — complice Giacosa — agli splendidi costumi medioevali. Fandonie, cara. Se vedi un uomo in costume da bagno nell'acqua, separato dai suoi antipatici indumenti, ti sembra la cosa più lamentevole, più compassionale che sia sul globo terraqueo. Anzi tutto ha il naso rosso e ti lascio considerare tutte le funeste conseguenze di una sventura simile. La capigliatura morbida, a linee sobrie, s'imbroglia sulla fronte, a placche bagnate, che lo fanno rassomigliare ad un canonico. Il mustacchio fiero ed arricciato, pende, umiliato, simile ad un pennello intriso nella gomma. Se sa nuotare bene, rassomiglia ad un ranocchio; se nuota male ad un granchio; se non nuota affatto, è pesante…. come un imbecille. In ogni caso ha perduto la sua disinvoltura, la sua scioltezza; si tasta il collo, sentendo che il goletto e la cravatta mancano alla sua felicità. Istintivamente comprende di esser in una posizione molto difficile e non si meraviglierebbe se i pesci lo guardassero con un'aria di muto disprezzo; tutta la sua persona è una protesta, contro l'iniqua teoria che l'uomo è un animale anfibio. In tanta massa d' acqua lo spirito si perde; non sa più imbroccare un complimento, temendo che un'onda glielo affoghi; se vuol mettere la mano sul cuore trova la maglia bagnata. Pensa: vorresti vedere così il conte Franco, dal volto fatalmente pallido, dai grandi occhi languidi, dalle labbra misteriosamente sorridenti? E Gigi Montefranco, così esperto guidatore di quadriglie, così abile cavalcatore, che in mare ha il difetto di tremare come una donna? E Savelli, l' ufficiale di artiglieria, che ha perduto tutta la sua gaiezza e nuota con un contegno serio, quasi funebre, come se compisse un dovere imprescindibile? E Giorgio Costanzi, il quale ha paura che gli si guasti la scriminatura, che il sole gli abbrunisca la pelle, che i gamberi gli mordano le gambe — e rimane immobile, come una di quelle teste di cera, che hanno i parrucchieri nelle vetrine, con un viso crucciosamente riflessivo? E Galanti, un diavolo, che scompare sott'acqua ogni due minuti, cagionando uno spavento immenso alle signorine? E Antonio Zurlo, che non osa più farti la corte, come gli altri, perchè teme di vederti ridere, perchè come gli altri è ridicolo, ridicolo? E il mattino seguente, la sera seguente, come avrai il coraggio di conversare, di passeggiare, di ballare con questi signori, che ti ricordi aver visti in quello stato di mortificazione plastica e morale? Tu così furba, così maliziosa, così motteggiatrice?

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Poi, in confidenza, che nessuno ci ascolti: anche tu ci perdi, nell'acqua. Il roseo delle guancie si smorza nel pallore, il rosso delle labbra diventa di viola, la bianchezza nivea della carnagione si macchia. Gli uomini, bugiardi pel loro interesse, ti dicono: siete bellissima come sempre. Dopo vanno su e per lo meno, mormorano fra loro: come trasforma il mare; la signorina Lulù non pareva più quella. Per lo meno mormorano questo: a grazia, se non è altro. Non già che siano cattivi, ma infine hanno la coscienza della meschina figura che essi ci fanno e si vendicano un pòco. D'altra parte l'esercizio del nuoto è una gran cosa, in questi tempi di ginnastica; ma tu arrischi di perderci quella grazia molle, quella delicatezza di movimenti, quella seduzione di andatura che ti distingue — e ci si perde anche quell'ambiente di segretezza, quell'aura di fierezza, quella intimità orgogliosa, dove nessuno penetra, che infine sono cose seducenti come i tuoi grandi occhi azzurri e i riccioli biondi della bella fronte. Bel piacere sentirsi dire, fra una polka ed una quadriglia, da un giovinotto semisconosciuto: si ricorda quello che le ho detto stamani, nell'acqua? E il mezzo di non arrossire con ciò?….


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Ma tu fai il broncio, un broncio così gentile che mi verrebbe la voglia di farti andare sempre in collera; tu mi dici che le signorinè Dickson ci vanno a nuotare coi signori. Le Dickson sono americane, carina; appartengono a quel curioso paese dove ogni signorina ha intentato per lo meno due o tre processi ai fidanzati infedeli, facendosi pagare 25 mila lire ogni parola mancata. Ci va anche la Sergianni che è italiana? Ebbene, apparterrà anche essa alle trentasette signorine italiane che vogliono emanciparsi. Ci vanno le Galletti? Lo sai bene che sono sui trenta le Galletti e cercano nell' acqua, quello che non hanno trovato sulla terra; non mi meraviglierei che montassero in pallone per trovarlo in aria, il marito. Ci va la signora del banchiere tetedesco? Turati bocca che ti darò un biscotto! Viceversa la signora Gorini ci viene per sorvegliare il suo sposo; nè la signora Giovanna può più temere che il mare la trasformi; così potesse trasformarla! O Lulù che non sei americana, emancipata, vecchia zitella, moglie sorvegliata o sorvegliatrice, ma semplicemente una creatura bianca e adorabile, o Lulù che ti fai amare dai tuoi amici, dalle tue amiche, dai fratelli, dai padri, dai cugini, dagli zii, dai nipoti, dagli innamorati delle tue amiche, o Lulù bionda, azzurra e soave, o mia donnina, non andare a nuotare con quei signori e con quelle signore!

Quelle due famiglie rivali rifacevano in miniatura le discordie dei Capuleti e dei Montecchi: solo, avuto riguardo alla civiltà dei tempi, invece di sparger sangue, spendevano e spandevano denaro. In cambio di morti, vi erano stati processi molti, lunghissimi ed intrigati; litigavano per dispetto, per ripicco, per rabbia; litigavano con quella cocciuta voluttà processuale che è una delle gioie della provincia. Come al solito si trattava di scioccherie; un filo d' acqua che prendeva cattiva direzione, una turbolenta capra che era saltata dal campo dell'uno in quello dell'altro, alcune oscure e stupide patate che sotterra, distendendosi, avevano annullato il confine. Su questo pioveva la carta bollata, gli uscieri si affaticavano a scrivere con quel loro stile, ultimo ricordo delle invasioni barbare, le sentenze si moltiplicavano, i processi si complicavano: i due avvocati si fregavano le mani per la gioia, e dall'aspetto che pigliavano le cose, erano sicuri di trasmettere, come preziose eredità, quelle liti ai loro figliuoli. Come era stata causata quella inimicizia fra i Pasquali e i Dericca non si poteva sapere chiaramente; da una parte e dall'altra vi erano affermazioni varie: soltanto era una inimicizia profonda e dichiarata. Essendo vicini di casa in città, vicini di terra in campagna, si incontravano spesso, guardandosi in cagnesco; le donne sentivano la messa in due chiese diverse; se le fanciulle Dericca portavano abiti azzurri, le fanciulle Pasquali inalberavano subito il rosa; al consiglio municipale i Pasquali erano sempre conservatori ed i Dericca naturalmente, sempre progressisti; quello che l' uno faceva, l'altro non avrebbe fatto per mille scudi; dove l'uno andava, l'altro non compariva. E poi pettegolezzi, maldicenze, mormorii, avidità di scandali, malignità: insomma quel corredo di piacevolezze che succedono in provincia fra due famiglie rivali. Su questo Carlo, primogenito dei Pasquali e Maria secondogenita dei Dericca, pensarono bene d'innamorarsi.

Gli amori delle piccole città non hanno molta varietà: per lo più sono relazioni che cominciano con l'infanzia, seguitano nelle partite di mosca cieca, si manifestano solitamente nei ballonzoni famigliari, continuano nel giuoco della tombola e si completano sempre davanti al parroco e al sindaco. Sono amori risaputi, sorvegliati, stabiliti, registrati nelle entrate e nelle uscite della casa; protetti dai nonni brontoloni, dagli zii preti; conosciuti da tutta la città; amori senza nervi, senza lagrime, senza tenerumi, senza fantasticherie; qualche cosa di molto calmo, di molto lento, la cristallizzazione dell' amore. Ma Carlo Pasquali aveva avuto l' incomparabile fortuna di passare, in una volta, quindici giorni a Napoli, il che gli faceva guardar con disprezzo gli usi provinciali; ma Maria Dericca, la notte, ad un lumicino fioco, aveva pianto sulle sventurate eroine del Mastriani e le aveva invidiate nelle loro fantastiche passioni; quindi per quei due ci voleva un amore eccezionale. Fu prima uno sguardo furtivo, una paroletta mormorata pianissimo, eppure intesa con singolare percezione, da colei che doveva udirla, un garofano caduto da un balcone per colpa sicuramente del vento, un subitanco pallore di lui, un subitaneo rossore di lei; poi coll' intervento armato di un ferro da stirare di una biricchina quindicenne che andava a stirare in Maria, un bigliettino, una breve risposta: una letterina, una letterona, ed infine quei volumi di otto o dieci foglietti che segnano il più alto punto della follia amorosa.

Ahimè! furono brevi le gioie die due giovanotti e rapidissimo giunse il dolore a dileguarle. Furono visti, spiati, le novelle giunsero ai relativi papà e tutti i fulmini delle ire paterne, inasprite da undici processi, caddero sulle teste dei poveri amanti. Si chiusero i balconi, fu messo il catenaccio alla porta del terrazzo, si contarono i garofani sulla pianta, le passeggiate furono proibite, o almeno fatte senza annunzio, l' ora della messa fu cambiata ogni domenica — ma quei due continuarono ad amarsi. I rabbuffi, le prediche, le proibizioni, le difficoltà, non valsero che ad infiammare il loro amore: la notte, nell'inverno, Maria si alzava, si vestiva, si avvolgeva in uno scialle, con le pianelle, rattenendo il fiato, tremante dalla paura, scendeva le scale, ad un finestrino del primo piano; l'amichetto era nella strada, addossato alla muraglia. Così conversavano per due o tre ore, senza curarsi del freddo, della pioggia e del sonno perduto; conversavano senza vedersi, a cinque metri di altezza, tacendo ad ogni rumore di passante, riprendendo cauta mente il discorso, col timore continuo che i parenti di Maria si alzassero e la ritrovassero in quel colloquio aereo. Ma che importava loro tutto questo? Avevano nel cuore la luce, il sole, la primavera, il coraggio, l'entusiasmo; venisse pure il re, non si sarebbero mossi. Invece il fratello di Maria, una notte che non poteva dormire, si alzò di letto e trovò la porta socchiusa, scese, per le scale, udì un mormorìo e colse la sorella sul fatto; poco complimentoso sbarrò le imposte sul viso a Carlo, dette uno schiaffo sonoro a Maria e se la riportò in casa. Dal mattino fu murata la finestruola del primo piano, malgrado la scala ne rimanesse un poco oscura.

O voi, fedelissimi amanti che vi desolate nelle pene di un amor contrastato, immaginate la disperazione di quei due! Le loro lettere non si potevano più leggere, perchè le lagrime cancellavano le parole; filze di punti ammirativi da sembrare soldati prussiani sotto le armi, seguivano le diuturne imprecazioni alla sorte, al destino, al fato e ad altri esseri impersonali che non potevano risentirsi; mille progetti fantastici erano creati, discussi e poi rigettati. Carlo avrebbe voluto fuggire con Maria, ma suo padre non gli lasciava danaro e sarebbe stato difficile riunire le nove lire e cinquanta per un viaggio in due, sino a Napoli; pensarono per un momento al suicidio, ma trovarono che non risolveva le difficoltà. Poi a lungo andare il loro amore divenne sistematico, le imprecazioni furono sempre le medesime ed essi non poterono andare a letto senza aver versato sulla fedele carta, la piena del loro dolore. Nel paese non si parlava che del loro incrollabile amore e dei loro tormenti; erano l'oggetto dell'interesse generale; se giungeva un napoletano, lo conducevano a veder le rovine dell' anfiteatro e gli narravano il caso di Carlo e Maria. Quindi i due giovanotti, carezzati nel loro amor proprio, si atteggiavano ad un contegno di circostanza, Maria era pallida sempre, con un'aria malinconica, non sorridendo mai, parlando sempre alle amiche dei suoi giorni senza gioia, rifiutando di divertirsi, contenta di somigliare tal quale ad una eroina del Mastriani. Carlo andava a fare certe passeggiate solitarie, era sempre di pessimo umore; ai balli no si moveva mai da un angoluccio, contento che intorno ad esso si mormorasse: Povero giovine, quell'amore sfortunato gli rattrista la vita! Nei circoli, nelle festicciuole, nelle visite, con la monotonia instancabile della provincia, ritornava sempre il discorso dei due amanti, e chi avesse qualche notizia fresca su loro era accolto a braccia aperte: Carlo e Maria portavano dignitosamente il peso della loro popolarità.

Infine, non so dopo quanti anni, quattro o cinque, mi sembra, di questa lotta continua, di questi pianti quotidiani, di questo amore allungato, allungato, mantenuto vivo dai dissidì, le cose cangiarono di aspetto. Vi fu una brava persona — ve ne sono ancora — che con molti sforzi di loquela, persuase i genitori che ai processi, ci si rimetteva del proprio e molto, testimoni i due avvocati che si erano arricchiti alle spalle dei clienti; che quei due giovanetti si struggevano ed avrebbero dato nel mal sottile per quell' amore contrariato; le case erano daccanto; daccanto i possedimenti; Cristo aveva perdonato, perdonassero anch'essi, se voleano trovare perdono: tante ne disse, tante altre persone, mosse dall'esempio, si interposero, che le questioni vennero ad una transazione, la quale aveva per primo capitolo: il matrimonio di Carlo con Maria.

Qui certamente tutti supporranno che i giovinotti furono consolatissimi e supporranno il vero: ma il mio obbligo di novellatrice sincera, mi costringe a dire che nel loro primo colloquio libero regnò un grande imbarazzo. Si erano abituati a vedersi di lontano, alla sfuggita; a parlarsi da un primo piano alla strada, nella oscurità, falsando o smorzando la voce: si trovarono molto diversi, forse un po' ridicoli; non avevano argomenti di discorsi, tacevano spesso, affrettando col pensiero l'ora che dovevano lasciarsi. Non vi erano più imprecazioni e lagrime da mescolare con l'inchiostro; non si scrissero più. Tutto era libero, piano, facile pel loro affetto: non dovevano pensare alle sottigliezze per ingannare la vigilanza dei vecchi, non avevano più nessun gusto al mormorarsi qualche parola in segreto, non facevano più progetti ardimentosi per l'avvenire. Si sarebbero sposati prosaicamente, senza ostacoli, come tante altre copie sciocche. Quei del paese non badavano più a loro: passata la meraviglia ed i commenti sul matrimonio, Carlo e Maria non destarono più l' attenzione, non si parlò più di essi, non si notò più il loro contegno; cessarono di essere additati come esempio di fedeltà. Adesso si portavano gli occhi sulla moglie del pretore che era accusata di avere una simpatia criminale per il sostituto procuratore del re: caso gravissimo.

I due amanti si sentirono abbandonati, una grande freddezza nacque fra loro. Carlo trovava che le virtù della sua fidanzata, quelle virtù che rifulgevano nelle lettere, si appannavano nella casa; Maria pensava spesso che Carlo era un poco triviale nei suoi gusti e che finire con un matrimonio stupido, un amore così tempestoso, era indegno di una lettrice del Mastriani. Vi fu fra loro qualche paroletta vivace sulle illusioni smentile dalla realtà, sui miraggi, sulli inganni ollici ed altre punzecchiature simili; venne una questione, poi due, poi divennero giornaliere. Una sera Maria disse con voce irritata:

— Carlo, lasciamo stare.

— Lasciamo pure, — rispose lui senza esitare.

Ed il giorno seguente parti per un viaggio d'istruzione; Maria andò a Napoli, presso una sua cugina, per pescarvi un marito eroico. Le famiglie si ruppero di nuovo: il padre di Maria aprì una finestra che dava nel cortile del suo vicino; costui per molestarlo fabbricò un colombaio, i cui colombi scorrazzavano dappertutto; subito una citazione, una seconda, una terza, i processi ricominciarono, e questa volta, dicevano gli avvocati sorridendo, senza speranza di transazione.

MONOLOGO CON PERTICHINO

Verso il soffitto, nella stanza chiusa e calda, si dileguavano gli ultimi profumati vapori del moka e cedevano il posto alle nuvolette azzurrognole e leggiere di due zigari avana. Era giunto quell'indefinibile momento di riposo e di calma beata che segue un buon pranzo, fatto in buona compagnia: quel dolce momento in cui si prova il benefico bisogno di sbottonare un occhiello del panciotto e magari tutti quelli dell' anima; poi, coi gomiti appoggiati famigliarmente sulla tavola, l'occhio fisso nel trasparente giallore del cognac, cominciare una di quelle conversazioni lente, scucite, cascanti da tutte le parti, e che finiscono per rialzarsi vivaci, gaie, briose.

— Dunque? — chiese Giovanni al suo ospite.

— Dunque…. — ripetette costui e si distrasse da capo.

— Ti sei divertito nel tuo viaggio?

— Molto — e sorrise vagamente.

— Sai che non sembra? Da qualche tempo, alle altre piaghe sociali, come sarebbero le mogli nervose, le amanti fedeli, gli avvocati politici e i poetini elzeviriani, non dobbiamo aggiungere quella lagrimosissima dei reduci dai viaggi circolari. Una foga irresistibile, una smania di narrare, di descrivere, di illustrare; piovono i bozzetti, gli schizzi, i ricordi, le impressioni e il diluvio è più crudele di quello universale. Ma tu, caro Enrico, sei nato a rovescio, ritorni da un viaggio di cinque mesi: va benissimo Tu compi la più nobile e la più dignitosa azione che possa fare un amico, cioè m'inviti a pranzo; io predispongo alla compiacenza il mio stomaco e le mie orecchie. Il sacro rito del pranzo è terminato: invece eccoti lì, ingrullito, muto, distratto, con lo spirito chi sa dove. Una volta per sempre, ti sei divertito nel tuo viaggio?

— Molto, ripetette Enrico, sorridendo di quella filippica. Ho viaggiato un po' a sbalzi, descrivendo curve fantastiche, tornando indietro, spezzando una linea dieci volte, voltando a destra quando dovevo andare a sinistra, rimanendo due ore in una grande città e cinque giorni in un villaggio. A Roma, vedi, ci sono rimasto tre soli giorni….

— Bah!

— Come ti narro. Roma è stonata come un violino di cantastorie: i monumenti antichi, roba rispettabile, non vanno d'accordo con le case nuove, roba utile. La vita romana antica è morta, sepolta e per isforzo d'immaginazione non la fai risuscitare: la vita nuova comincia appena, è in embrione, un fermento infantile di città moderna, un balbettìo di civiltà. Ti par di essere in un albergo, in un caravanserraglio, in un luogo di passaggio, di transizione, dove non si possa abitare lungamente, dove nulla è tuo, nulla ti si confà, nulla ti piace. Roma è stata una gran bella città, sarà una gran capitale, ma per ora sta in crescenza: è un'eredità che godranno i nostri cari nipotini. In fondo, ne vieni fuori con un mal di nervi acutissimo. Bologna non te lo fa passare di sicuro. È grave, bianca e nera: un silenzìo riflessivo, una quiete scientifica, una università allargata sino alle sue porte, un ambiente di estetica, di filosofia e di critica che ti atrofizza; molte larghe piazze solitarie, molti portici destinati ai filosofi peripatetici che non possiedono ombrello: ogni buon borghese che passa ti sembra un erudito immerso in meditazioni profonde. Vuoi credere che in un'ora sono passate sul Pavaglione solo tre donne?

— Una città greca….

— Senza Elena ed Aspasia.

— Quindi a Firenze, l'Atene moderna….

— Si a Firenze. Arte, fiori, donne, sorrisi, ciel sereno, profumi, colori smaglianti: una festa continua. Ti pare di essere tornato alle gaie giornate del trecento, alle maggiolate, alle canzonette di amore, quell'amore tanto terreno e tanto divino; nei vesperi rosei cantati dal Carducci, quando sull'orizzonte si profila l'ardito pensiero di Michelangelo, quando l'olezzo delle rose ti monta alla testa, quando voci di fanciulle ridono e cantano in lontananza; ti senti ridiventare greco, latino, medioevale, cavaliero di torneo, condottiero di ventura, novellatore di amore, ghibellino, petrarchesco e sogni Monna Lisa, la Fiammetta, lo splendido risorgimento! Ma se ti guardi bene, ti ritrovi vestito col tuo onesto e prosaico tout-de-même bigio, coperto il capo con lo staio; sulle antiche mura distende i suoi manifesti l'operetta francese; uscendo dalle Gallerie degli Uffici, incappi nelle economiche oleografie e nelle statuine di chincagliera. Questo contrasto t'irrita e ti offende, il dualismo si stabilisce nel tuo spirito vacillante; non sai più a che appigliarti, se al mondo di adesso o a quello di allora, e combatti ogni giorno una lotta interna che ti affatica. Una voce parla in te della grandezza e della serenità dell'arte ed un'altra ti risponde, elogiandoti la grandezza della civiltà: la Venere Medicea si pone rivale del telefono — ed allora tu scappi via cercando un paese che sia perfettamente antico; il che è impossibile, o uno che sia perfettamente moderno….

— Difilato a Milano….

— Difilato. Là prendi un bagno salutare di modernità, stai in mezzo alla tua epoca, in mezzo ad uomini come te, ti aggiri in circoli ove comprendi e sei compreso: vita tua, giorno per giorno, ora per ora. Amori, odii, giornali, letteratura, tramway, industria, miseria, ricchezza, vizio, tre suicidi al giorno. Gente cordialissima, donne simpatiche, troppo alte, ben vestite, di un appetito fenomenale. Il duomo è una meraviglia eterna — il Secolo, dicono, tiri ottantamila copie al giorno — molti libri, troppi libri — molti letterati, troppi poeti — se si facesse la statistica del pensiero, una graziosa statistica, Milano dovrebbe avere il primato. Vi si discute molto, di tutto, disgraziatamente anche di politica. Il freddo famoso dell'inverno milanese è diventato una calunnia; aspettavo la neve, voleva vedere la neve, camminarvi sopra, circondarmi di neve, sentirmi il naso gelato, le orecchie gelate, il cuore gelato. Neppure per sogno. Ho pensato con una malinconica sfiducia alle consunte tradizioni meteorologiche che chiamano rigido il clima milanese e dolce quello napoletano; non si può credere più a nulla in questo mondo. La neve non veniva o veniva nel più stretto incognito; decisi di andarla a trovare io e partii per Torino.

— M'immagino Torino.

— Non te lo immagini niente affatto. Delle vie larghe quattro volte le nostre, dove l'aria circola libera e forte per gonfiare quei petti vigorosi; orizzonti ampissimi e lontani dove possa affisarsi sicuro il loro sguardo d'aquila; dappertutto una pulizia che è l'ideale inafferrabile della nostra Napoli: insomma una città solida, quadrata, onesta fin nelle pietre. Caro mio, vi faceva un freddo che avrebbe fatto starnutire cinquecento migliaia di contribuenti meridionali ed invece non ti vedevi d'attorno che ciere rosee ed allegre da sollevarti lo spirito ammollito; e sempre occupati a qualche cosa, quei piemontesi. Ci è il rumore e l'odore del lavoro, uno scoppio energico di attività, un brontolìo burbero e benefico di operosità che viene dalle viscere della terra, sale lungo le case, riempie l'aria, ronza nelle orecchie degli uomini; là bisogna attendere ad un lavoro, sia anche inutile, è l'ambiente vivido e sereno che vi ti obbliga. Chi sa? in quell atmosfera vi deve essere del ferro o dell'argento vivo; se a qualche chimico venisse in mente di farne la decomposizione, vedresti le meraviglie. Ma noi altri uomini morbidi e dolci del mezzogiorno, abituati a fantasticare più che a pensare e pensare più che ad operare, noi che portiamo nel capo un mondo di progetti bellissimi che non ritroveranno mai la prima parola di attuazione, noi uomini perfettamente esterni come sentimento ed interni come opera, ci stanchiamo di quella vita. È la nostra natura grecoafricana che s'inebbria di chiasso inutile, di aria e di cielo; si finisce per essere stanchi del lavoro altrui. Forse esso ci intimidisce e ci mortifica. Noi ammiriamo con l'anima quella fermezza, quella indomita volontà, tentiamo d'imitarla per poco, ma il temperamento ci vince: noi ci sentiamo rotti ed affaticati. Allora vi è un solo rimedio….

— E quale?

— Il segreto di Pulcinella, il riposo. Venezia, dove si tace, dove si sonnecchia, dove si dorme, il mare non è mare, la gondola è una culla, il gondoliere ti canticchia la ninna-nanna, i profili dei vecchi palagi sono bigi e dolci, il volo dei colombi è lento e stanco; si passano i giorni in dormiveglia, sognando di pranzare, sognando di dormire, sognando di vivere. Mai un urto, mai uno scoppio; mai una tempesta, mai un uragano, mai un risveglio: la consegna è di sognare. Le facoltà si annullano a poco a poco, i nervi si calmano, la testa si quieta, non hai più desiderii, non hai più bisogni, passa una sola giornata e ti pare di aver vissuto sempre, sempre in quella contemplazione; nulla sai più di passato, l'idea del presente ti sfugge, quella dell'avvenire non si presenta: tutto è sogno, un sogno non interrotto. Dans Venise la rouge, pas un bateau qui bouge, pas un falot, mi pare che dica De Musset; puoi supporre di trovarti in un paese delle fate, dove vanno le anime a riposarsi dalle pene dell'esistenza. Ma una sera l'incendio del tramonto è più vivo e ti scuote, un gaio accento del tuo paese ti fa risvegliare, la memoria ti ritorna, l'incanto dolcissimo si rompe; da essere passivo tu diventi attivo e pensi e giudichi che quella calma, quella beatitudine, quella ebetudine, quell'eterno cullamento, quell'eterna canzone, quella contraffazione di mare, quel mormorìo incessante, siano l'apparato di una tomba; allora hai freddo, sei colpito dal brivido di coloro che rimasero molto tempo sotto il raggio lunare. Sole, sole, sole, vita, movimento! Te ne ritorni a Napoli.

Qui vi fu un silenzio. Giovanni guardava Enrico con un sorriso così ironico ed insistente, che costui se ne turbò.

— Ebbene — chiese — che ne dici delle mie impressioni?

— Chiedo a me stesso la ragione della tua nostalgia.

— Nostalgia?

— Sicuro. Questo non trovarsi bene in nessun luogo, questa ricerca affannosa di nuovi paesi, i quali neppure arrrivano a soddisfarti, questa logica spietata ed illogica, che ti fa ritrovare ogni minimo difetto nei paesi che hai visitati ed ingrandisce a proporzioni esagerate questi difetti e ti rende bislacco e ti riduce incontentabile: questa, caro mio, è nostalgia. Di che? Ecco la difficoltà!

— È vero, forse hai ragione. Ogni volta che mettevo il piede in una nuova città, vi era in me una voce interna, sottile, piccina che esclamava: Non è qui, non è qui! Ma dove, ma dove?…. Sai, ho pensato spesso all'ideale della mia vita futura, a quell'ideale di cui ti ho parlato tante volte: vivere in campagna, nella pianura, dove i campi succedono ai campi senza interruzione ed il sole li inonda di raggi, la villa isolata, tutta bianca, con le persiane ingenuamente verdi, l'orto, il giardino e poi i campi di nuovo, dove tra il grano maturo si pavoneggiano gli svelti rosolacci e sorridono gli azzurri occhi della pervinca; e lontano lontano una linea di azzurro che è forse il mare, forse il cielo, forse un'idea — e non saper nulla della città, se non per innocua lettura — e diventare agricoltore, pastore, gentiluomo di campagna, imbrunirsi al sole, guardare l'uragano dalla finestra mentre nel camino canta l'abete, abbruciando gaiamente. Dimmi, è forse questa la mia nostalgia?

— Olivia è sempre nella sua villa in Puglia? — chiese Giovanni sorridendo.

— Si — rispose l'altro, ed abbassò il capo, mentre le labbra gli tremavano lievemente ed il volto impallidiva.

Nel novembre venturo, quando si discuterà la legge sulle elezioni comunali e provinciali, i deputati emancipatori faranno molti passionati discorsi. Essi diranno, per la milionesima volta, che la civiltà italiana differisce poco da quella ottentotta, per quanto è relativo alla donna; che l'Europa ci guarda (non sa far altro, povera Europa): che per formare la felicità delle donne italiane, bisogna conceder loro il voto amministrativo. La Camera esita; poi si turba, si commuove al quadro straziante delle donne italiane pronte a suicidarsi, se vien loro negato il voto, ed il voto è accordato. Ma questo non basta — non basta dare un diritto, senza fornire l'occasione di farlo esercitare. Quindi il governo farà bene a sciogliere tre o quattro municipii, o i municipii avranno lo spirito di sciogliersi da sè stessi. Mi figuro allora che cosa vorrà succedere.

Grande agitazione in tutti i boudoirs, congiure nei salotti, dialoghi vivaci agli angoli delle strade, nei magazzeni di mode, nei palchetti dei teatri: non si pensa più all'amore, alle acconciature, alla maldicenza: a tutto questo vi sarà tempo; le elezioni si fanno così raramente! Le amiche, le parenti, le semplici conoscenze si ritrovano, si ricercano per parlare delle elezioni, per far propaganda, per discutere sui nomi proposti; circolano i bigliettini rosei, profumati, gentili; si sprecano gli abbracciamenti, i baci, le parolette soavi; sono tirate dall'arsenale femminile tutte le riverenze, le cerimonie, le vezzosità delle grandi occasioni: le donne cercano sedursi fra loro. Ma con gli uomini diventano gravi, severe, misteriose; ogni tentativo di corte è respinto come sospetto; ogni presentazione è accettata con diffidenza; si passano a rassegna i difetti ed i meriti dei singoli candidati, con una grande serietà. Il tale è bruno: ebbene, tutte quelle che hanno fatto studi fisiologici sui biondi, gli negheranno il voto; in tal altro, mentre spende una lira e ottanta per comprarsi un paio di tiranti, nega a sua moglie un meschinissimo paio di orecchini in brillanti di cinquecento lire — è un cattivo amministratore, non andrà al Consiglio. I candidati subiscono minuziosi interrogatorii, debbono promettere per mantenere; se no, no. Una signorina con le sopracciglia corrugate e la bocca piena di cifre, domanda ad un eleggibile:

— Nel caso che vi mandassimo al Municipio, votereste il progetto per la nuova strada da San Ferdinando alla Villa?

— Sicuramente.

— Bene — e i fondi?

— Una nuova tassa….

— Su che? Spero non sugli oggetti di lusso!

Dio me ne guardi!

Benissimo, persistete in queste buone idee….

E…. posso sperare?

— Vedremo, signore, penseremo.

Una moglie va in giro raccomandando alle sue amiche la candidatura di suo marito; non parla dei suoi meriti, non dice quello che egli farà, ma susurra amabilmente: «L' ho sempre d'attorno dalla mattina alla sera, sarà una fortuna se me lo mandate a fare il consigliere!» E, le amiche mogli, compassionevoli e conscie di quello che significa un marito troppo per casa, dánno il loro voto.

Il candidato non si occupa più dei suoi elettori; è invece tutto intento ad accaparrarsi le elettrici: fa grandi scappellate a dritta ed a sinistra, sfoggia abiti eleganti, diventa virtuoso e morigerato come uno sposo novello. La signorina del primo piano è elettrice: egli nelle scale le cede il passo con galanteria; la maestra elementare dove va la sua figlietta, è elettrice, egli con un grande affetto figliale va sempre a riprendere la bambina; dovunque trova signore, egli fa valere i suoi principii politici e il petto candido della sua camicia. Deve diventare dolce e pio con le buone anime che si fanno guidare dal parroco, promettendo loro che ristabilirà il catechismo nelle scuole; ed invece assicurare ad un gruppo di giovani ed allegre spose che le feste del carnevale saranno splendide ed il municipio voterà una bella somma. Infine una meravigliosa miscela di sorrisi, d'inchini, di concessioni, di promesse che si urtano, si imbrogliano, si contraddicono, si confondono e gli fanno perdere…. se non altro, la testa.

Intanto le donne si riuniscono. Si riuniscono, sicuramente: se sono elcttrici hanno il diritto di riunione e di discussione. Me la immagino, di qui una sala vasta, piena zeppa di donnine, dove si odono da tutte le parti domande di aver la parola, dove le oratrici non arrivano mai ad ottenere il silenzio, dove tutte restano d'accordo…. sulla propria opinione. M'immagino il colpo d'occhio che formeranno gli abiti variegati, scuri, chiari, a mezze tinte; l'abito cilestro di una moderata che farà risaltare i nastri rossi di una repubblicana, il cappellino Empire di una costituzionale che insulterà quello Guitean di una socialista la lotta dei gialli e dei verdi che cercano di sopraffarsi, la serietà del nero che guarda con disprezzo il bianco! E tutte le gentili padrone di questi indumenti, che si agitano, che sono nervose, che scoppiano volta a volta in risate ed applausi; ed i ventagli che si animano, le piume che svolazzano, i fiori che hanno le convulsioni! Là sento quella oratrice di spirito, che avendo un pubblico composto di fanciulle, dice loro queste sole parole:

— Elettrici, votate la lista dei consorli! il loro nome, il loro carattere vi è garante della loro onestà!

La sera del sabato non si dorme: e se il diavolo zoppo potesse realmente sollevare i tetti delle case, vedrebbe tutte le teste insonni ed irrequiete sui guanciali. Riuscirà la lista? E lui riuscirà? Sì, no, sì: non si sa, si spera, si teme; quando spunterà l'alba? Infine, viene quest'alba benedetta, è spuntata la grande giornata, si andrà finalmente a votare; la casa è in rivoluzione, gli usci sbattono, il gatto miagola, i bambini che non hanno una chiara idea delle elezioni, strillano: non importa.

S'indossa il costume di circostanza: abito grigio, colletto di tela, cravatta nera, cappellino sull'orecchio, borsellino sul fianco per la scheda, occhialino per sorvegliare le operazioni elettorali e via — per quel giorno vanno all'aria la messa, la passeggiata, l'appuntamento ed il resto. Nelle frazioni si odono cheti fruscii e frasi mormorate, anzichè dette; si respirano profumi finissimi; si veggono mani bianche, dalle dita affusolate, sospendersi un momento sull'urna; passano le teste bionde e le brune con un'aria dignitosa, composta, e sfilano, sfilano guardando il presidente — povero presidente, lo compatisco, — sorridendo al segretario, sbirciando le altre elettrici, ma con una serenità, una clama invidiabili. Sono oramai persuase di aver esercitato con coscienza uno dei più preziosi diritti della donna; sanno di aver compiuto una missione, non troppo bene quale, ma è una missione. Aspettando l'esito non si parla che di incidenti elettorali, di blocchi — anche di blocchi — d'imbrogli sventati, di trame fallite — e la tal signora che aveva nella manica venti schede, e quelle altre che hanno preso di assalto il seggio, e le ausiliarie telegrafiche che hanno votato compatte! Quando si arriva e sapere il risultato, allora succede la vera guerra; da una parte, balli, canti, scampagnate, pranzi, brindisi — dall'altra, svenimenti, convulsioni, emicranie, lagrime e disperazioni; poi inimicizie, giuramenti di vendetta, legami infranti, amori traditi ed i poveri uomini nei tormenti. E il Consiglio? Un Consiglio strano, eterogeneo, o troppo giovane o troppo vecchio, un po' cattolico, un po' libero pensatore, un poco biondo, un po' bruno….

Baie tutte queste: è tempo, o signori, che la donna non sia più calpestata, è tempo che ella entri nei pubblici uffici, è tempo che le si concedano quei sacrosanti diritti…..

Dio! come si riderà in novembre alla Camera!

La contessa Flavia Andorno era simpatica, aveva ventotto anni, quaranta mila lire di rendita per dote e non prendeva marito. Ogni tanto ne rifiutava uno. La contessa Flavia leggeva molto, inventava lei la moda, che le signore eleganti imitavano, non andava alle prime rappresentazioni, ma alle seconde, non amava la poesia, non s'imbellettava, non era mai ammalata, viaggiava molto spesso, accettava la corte sino ad un certo limite, non parlava mai di politica, amava più la conversazione degli uomini che quella delle donne, aveva gli occhi bigi, la pelle bruna ed i capelli castani. Era quindi chiamata, a torto o a ragione — io non ci metto bocca — una donna di spirito.

Il marchese Ernesto Carafa, idem aveva trentadue anni, una bella testa dalla criniera biondofulva, la barbetta fulva aristocratica, sessantamila lire di rendita e nessun indizio di moglie. Egli corteggiava con una certa noncuranza graziosa tutte le signore, ballava quando gli altri giuocavano, non coltivava il genere ballerina, guidava sempre lui i suoi cavalli, non portava fiori all'occhiello, non proteggeva le belle arti, non amava la musica, prestava del denaro ai suoi amici intimi, non aspirava ad essere deputato, amava le montagne come un alpinista platonico, non aveva tendenze letterarie, non scriveva mai lettere di amore, era sempre innamorato e non era mai innamorato. A torto o a ragione, Ernesto Carafa era chiamato un uomo di spirito.

Questi due esseri eccezionali cominciarono naturalmente come cominciano tutti, per conoscersi. Poi qualche amica di Flavia le disse: «Quel Carafa è proprio un uomo di spirito, perchè non te lo fai presentare?» E gli amici di Ernesto: «Conosci tu la contessa Andorno? Una donna di spirito, caro.» E questi quì, tre, quattro, venti volte, in modo che Flavia n'era seccata ed Ernesto n'era infastidito. Si videro ad una passeggiata e si guardarono con una curiosità mal celata, come due bestie rare; ma la contessa non iscoprì nulla di straordinario ed il marchese si strinse nelle spalle, per la medesima ragione. Una sera, al San Carlo, nel palchetto della contessa fu presentato il marchese, da un amico: furono scambiate poche parole e delle più semplici, di quelle che non sono nel vocabolario della gente di spirito. Ernesto se ne andò subito, sorridendo ironicamente sulle fame usurpate e Flavia chiese a sè stessa, se doveva aggiungere un nome alla categoria degli esseri inutili e sciocchi, già così larga in mezzo alle sue conoscenze. Così quando s'incontrravano, un po' dappertutto, al teatro, ai circoli, alle feste, alle passeggiate scambiavano un certo saluto sdegnosetto, senza cercare di avvicinarsi o di conoscersi meglio.

Ma il caso che lungi dall'essere una persona di spirito, ha ostinazioni perfettamente stupide, li fece incontrare e star vicini, per forza, al matrimonio di una cugina di Flavia con un amico di Ernesto. Si rassegnarono a sopportarsi scambievolmente. Ognuno pensò a sostenere bene le proprie attribuzioni, tanto per non sfigurarci: e giù di lì una conversazione a paradossi, a botticine, a domande bizzarre, a risposte bislacche, ad assurdità stupende, un fuoco di artificio che finì per istordire i due pirotecnici, per metterli in uno stato di nervosità fuori delle loro abitudini. «Che uomo spiritoso e antipatico! ma io gli ho tenuto testa» — disse Flavia quando fu sola. «Una donna uggiosa e spiritosa, ma non le sono rimasto indietro» — mormorava il marchese dalla sua parte.

Pure il marchese andò con una certa frequenza in casa della contessa e la contessa lo accolse con una cortese cordialità. Ambedue si erano accorti che la gente dintorno si compiaceva di questa relazione, che riuniva l'uomo e la donna di maggiore spirito che vi fossero nella città; si erano accorti dei sorrisetti, dell'attenzione curiosa con cui si cercava prender parte ai loro colloqui, della premura con cui si divulgava un motto detto da Flavia a Ernesto o viceversa; infine si erano accorti di essere trattati dal pubblico come attori di merito. Avevano essi la coscienza di rappresentare una parte o di dire la verità? Ecco il punto oscuro che io non illuminerò. Ma è sicuro che la commediola continuò, recitata vivamente e con molto interesse. Appartenendo alla poco numerosa classe delle persone di spirito, i due cercavano appunto di fare l'opposto di quanto tutto il mondo faceva. Ernesto aveva a bella prima dichiarato che non avrebbe mai e poi mai fatta la corte alla contessa e la contessa aveva soggiunto che gli proibiva d'innamorarsi di lei, il che è appunto contrario di fare la corte. Ernesto non mandava mai fiori a Flavia e lei non gli chiedeva mai le sue confidenze, come si usa fra amici. Il marchese non si sentiva mai in obbligo di lodare l'acconciatura, gli occhi, le braccia della contessa e la contessa evitava di parlare di lui con le sue amiche. Sul discorso dell' amore si trovavano di accordo, ne dicevano bene e male ugualmente, sfiorando il soggetto, facendovi naturalmente dello spirito. Su quello del matrimonio accadeva lo stesso. Non s'intenerivano mai, non erano mai malinconici o pensierosi. Temevano sempre far del sentimento come fa la folla. Non si arrischiavano mai nelle discussioni artistiche, non discorrevano mai di poesia. Erano bandite tutte le frasi fatte, i convenzionalismi, le sentenze, le massime, le citazioni classiche, le citazioni poetiche, le frasi da giornalista, quelle che tutto il mondo ripete, perchè tutto il mondo ha principiato per dirle. Non dico nulla dei proverbi: erano rigorosamente proibiti. Prima, per un certo tempo, si divertirono a citarli capovolti, a costo di far fremere il grande Salomone e quanti altri mai furono raccoglitori di proverbi: ma fu uno scherzo che divenne presto molto comune e lo lasciarono andare. Il marchese era sempre in guardia, temendo di veder comparire sulla bella bocca della contessa un sorrisetto di scherno, per qualche offesa involontaria da lui fatta allo spirito: e viceversa la contessa badava bene alle sue parole, arrossendo di venir presa in un momento di debolezza, in cui ella rassomigliasse troppo a un'altra qualunque donna.

Ma per ubbidire troppo alla loro riputazione Flavia ed Ernesto cominciarono a diventare un po' noiosi. Vale a dire, non per sè stessi, ma per la gente che li frequentava. Le persone di spirito è naturale che abbiano molte esigenze, è naturale che vivano una vita differente da quella volgare della moltitudine. Ecco, per esempio, quando si ritrovavano in un ballo, Ernesto salutava la contessa e parlava con lei un solo momento, faceva un giretto e ritornava a dirle qualche cosa, senza fermarsi mai molto, ma ritornandovi spesso: e dattorno la gente a dire che avea ragione di fare così, poichè ella sola poteva intenderlo. Ballavano spesso insieme, per la medesima ragione — e gli altri ammiratori della spiritosa contessa rimanevano un po' male, delusi nella mazurka o nella quadriglia invano sperata. Quando Flavia andava via, il marchese girava un pochino ancora, per le sale, con un'aria annoiata, poi infilava il soprabito e partiva anche lui; perchè già non avrebbe più avuto con chi discorrersela. Al teatro Ernesto si tratteneva molto più del dovere nel palchetto, poichè è assai comune fare una breve visita alle signore: se qualche misero mortale, sotto la forma di un giovanotto bruno, in marsina, petto di camicia tirato a scagliola e relativo gibus, si presentava alla contessa Flavia; se questo infelice sì, ma sciagurato giovanotto, osava avventurare i soliti complimenti, un risolino impertinente sfiorava le labbra del marchese ed una risposta tagliente veniva fuori da quelle rosee della contessa: il risultato era la fuga precipitosa del giovanotto. Correva voce che il marchese Ernesto avesse corteggiato assiduamente la duchessina Cesira Galbiati, una bellissima giovane, alta, dalle forme scultorie, dai grandi occhi giunonici, dai lunghi capelli biondi, una completa fioritura di donna, ma in fatto d'intelligenza, un'oca di quelle ingenue e coscienziose: ebbene, si dovette supporre che la contessa Flavia avesse scoccato più di un epigramma al marchese, poichè costui cessò subito di ronzare attorno alla duchessina Cesira. Ancora: la contessa ed il marchese si erano serbati il privilegio di molte, di troppe idee strane che non mancavano mai di mettere in esecuzione. Quando tutto il corso delle vetture era alla Riviera di Chiaia, Flavia faceva voltare per l'angolo di Piedigrotta e si faceva scarrozzare pel corso Vittorio Emanuele: Ernesto faceva un circolo, prendeva per Toledo e per Salvator Rosa e le veniva incontro. Nella stagione d'inverno, nel cuore dei divertimenti, delle feste, dei balli, Flavia se ne fuggiva soletta a Sorrento e dopo tre giorni vi capitava Ernesto, annoiato della città. Sulle prime Flavia aveva un giorno di ricevimento, poi lo tolse via, vedendo che tutte le dame sue amiche lo avevano ed anche perchè il marchese si era burlato dei giorni; il marchese aveva perduta l'inveterata abitudine di andare a caccia, ogni anno, in Calabria. Così, a poco o poco, un certo isolamento si faceva intorno ad essi; il mondo confessava sempre ad alta voce che quei due riunivano tutto lo spirito napoletano, ma sottovoce diceva, che era meglio lasciare i due modelli dello spirito, alle prese fra loro. Flavia ed Ernesto non se ne accorgevano, e quando arrivò lentamente il momento in cui si trovarono soli, l'uno di fronte all'altro, sembrò loro una cosa molto semplice. Il pubblico si era un po' allontanato, ma non per nulla è stata inventata l'arte per l'arte.


***



Una sera — notisi — di autunno, la conversazione fra quei due languiva, esaurita. Non già che nulla trovassero più da dire, ma un certo senso di stanchezza scendava sovr'essi. Tutta la sera il loro spirito avea brillato vivacemente e i motti graziosi, le gentili ironie, i cortesi sottintesi, le amabilità mordaci erano piovute senza intermittenza. Ora tacevano. La contessa si distendeva un poco sulla sua poltroncina: era adorabile sotto il quieto lume della lampada; ma il marchese, anche riconoscendo questa verità, aveva il buon gusto di non parlarne. Egli giocherellava con una stecca di madreperla.

— Il matrimonio è una gran bella cosa — mormorò, con una falsa aria di convinzione.

— Pei celibi, sì — ribattè subito la contessa.

E si aggiustò il merletto della cravatta. Ernesto prese un libro daila tavola, ne lesse il titolo e lo posò di nuovo.

— Sapete che cosa dicono laggiù di noi?

— Non lo so. E non desidero saperlo.

— Allora è segno che debbo dirvelo. Molti nostri comuni amici sono d'accordo nella opinione, che noi due siamo persone di troppo spirito per isposarci mai.

— Bah! — fece la contessa, stringendosi nelle spalle.

— Se per provare che ne abbiamo, facessimo tutto il contrario? Che ne dite, contessa? Sarebbe grazioso! — ed aprì il giornale Il Pungolo, per leggere le notizie.

— Grazioso, infatti — rispose lei, cercando con la mano il ventaglio.


***



In realtà, erano innamorati sino agli occhi, come due persone di spirito che si sono dimenticate del loro cuore.

Ogni critico letterario — critica piccina o grande — dopo che si è sbrigato a sfondare porte aperte, ammazzando, in mezza colonna, un poetino tanto elzeviriano quanto innocuo, gli dà l'ultima botta, dicendogli: Non scrivete più versi. Qualcuno, anzi, arriva sino a dargli l'aureo consiglio: Non scrivete più, nè in versi nè in prosa. Ma il poetino ginnasiale, liceale, o appena universitario — oltre questi limiti la coscienza si risveglia e proibisce le azioni delittuose in edizioni eleganti — il poetino, dico, è sempre profondamente convinto del suo merito incontrastabile: nutre un disprezzo altissimo per la critica e lo manifesta per lo più nella prefazione, nel commiato, o in qualche brano più o meno lirico del volume; anzi non è lontano dal credere che una vigliacca congiura sia stata ordita contro lui, per ridurlo al silenzio. Invece egli scriverà ancora, di più, sempre. Non vi è che dire, il risultato è soddisfacente….

Ma alle volte qualche critico bonario, sprovvisto della quantità di fiele necessaria alla professione, ha l'infelice sì, ma disgraziata idea di ammonire così il versificatore: Scrivete in prosa. O critico, critico, davanti a quale tribunale speri ritrovare misericordia? Lettori — non oso aggiungere aggettivo a questo prezioso sostantivo — non potrete mai immaginare quale colluvie di calamità, è in questo malcauto consiglio. Figurarsi se un giovanetto ventenne, che si sente disperato, perchè la gloria manca alla sua vita, non voglia profittare dell'incitamento!…. È a questo incitamento che dobbiamo la profileria, la schizzetteria e sopratutto la bozzelleria.

Teorema ricavato da quanto si è detto: Ad un uomo che scrive, preferire un uomo che legge.

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In sè il bozzetto è una bella cosa. Prima di tutto è breve. Quattro colonne di lunghezza chilometrica, senza la macchina a vapore per il relativo divoramento, possono condurre il lettore alle idee più nere, non lontana quella del suicidio per impiccagione. Il bozzetto invece, è amabilmente corto. Occupa per un quarto d'ora; quei tali quindici minuti perduti, che molte persone consacrano ogni giorno alla propria cultura intellettuale. Il bozzetto non ha mai in sè una grande idea, una di quelle tali grandi idee che, non si crederebbe e non si dovrebbe dire, ma spesso riescono incomprensibili e noiose; vi è, invece, un'ideuccia piccina, graziosa, che saltella qua e là, che fa la civettuola, e si nasconde il visetto dietro la mano e sorride fra le dita. Sissignori, sorride; perchè il bozzetto ha quasi sempre una spigliatezza allegra. Di bozzetti lugubri, io non ne conosco: tutto al più, non sono bozzetti, sono marcie funebri. Quest'ideuccia bionda si veste di azzurro: è sottile, leggiera, evanescente. Intorno ad essa vi è un delicato lavorìo di forma, un intarsio elegante, la materia vinta dall'arte: rassomiglia ai meravigliosi ventagli delle nostre bisnonne, dal manico di avorio intagliato stupendamente e fragilissimo, dal raso su cui si fondono armoniosamente le gradazioni di colore di un pennello carezzevole, dal lieve orlo di piume bianche che ondeggiano. Il bozzetto ha in sè qualche cosa di morbido, di attraente, che seduce: gli stessi feroci nemici della letteratura altrui, i letterati, si lasciano affascinare dai suoi vezzi e lo leggono. Nel bozzetto si odono le paroline fuggenti dell'amore, gli scoppietti trillati di risa; passano e fuggono i piccoli sentimenti, i pensierucci fini, le malinconie serene, gli scherzetti del colore, le ironie gentili. Arte minuta, chincaglieria: dicono le teste grosse del romanzo e del dramma, con una smorfia sprezzosa. Sicuro, chincaglieria. Ma in questo caso, il bulino vale lo scalpello.

Conclusione importantissima: nel mondo, vi è ancora qualche cosa bella.

NB. Si accettano firme sotto questa dichiarazione.

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Di primo acchito, al giovanetto che si rassegna a scrivere in prosa, sorride l'idea del romanzo. Egli compra mezza risma di carta, ne forma dei fascicoletti, trova un titolo sonante — l'argomento è cosa secondaria — e lo scrive sulla copertina, a grossi caratteri, col suo nome e la data. Solitamente non va più innanzi della metà del primo capitolo; non parrebbe, ma nel romanzo ci vogliono azione, dramma, dialogo, calore e sovratutto una grammatica costante per trecento facciate di stampa. Quest'ultima condizione specialmente crea una schiavitù, a cui i liberi sensi dello scrittore non possono sottomettersi. La novella, allora; ma le difficoltà crescono perchè egli vuole scrivere qualche cosa di nuovo, di eccezionale; poi per il romanzo e per la novella si perde troppo tempo; le probabilità della pubblicazione sono poche ed il giovanetto vuole essere subito stampato e subito celebre. Non vi è altro che il bozzetto, forma artistica che lo seduce; anzi, guardandosi nello specchio, egli si accorge di avere il bernoccolo del bozzetto.

Il giornale domenicale, clandestino e letterario di Pertola, Il Tramonto, dove una schiera angelica di giovinetti idealisti si'dà il gusto di pubblicare i proprii componimenti settimanali, stamperà subito il bozzetto, richiamando l'attenzione sovr' esso, oppure il giornale idem clandestino e letterario di Panicocoli, Lo Scorpione, in cui versano le loro imprecazioni domenicali molti giovanotti che non oserebbero ripeterle a casa per timore della mamma, accoglierà il bozzetto realista. L'autore compera venti copie del giornale e le spedisce agli amici; l'autore che si vede innanzi la via aperta e la celebrità prossima, si propone di scrivere altri bozzetti, molti bozzetti, sempre bozzetti. Moltiplicate questo caso unico; pensate quanti e quanti giornaletti si pubblicano in Italia; ritrovate la cifra immensa di bozzetti che fioriscono nel giorno che si dovrebbe consacrare al riposo — ed in ultimo riflettete con terrore, che il numero degli analfabeti va pur troppo diminuendo.

Osservazione pratica: La statistica è cosa inutile e dannosa: quando dice la bugia, non serve; quando dice la verità, urta i nervi.


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Classifichiamo dunque la Philloxera Bozzettistica Noiatrix, inclinazione morbosa che andrà a finire in epidemia. Chi ha scritto un bozzetto, ne riscriverà. È come il giuoco, è come l'ubbriachezza. Costano così poco — e valgono lo stesso. Un giovinettino che ne fa, mi confidava che potrebbe scriverne quattro al giorno, senza stancarsi; un altro che rimane dodici ore, scrivendo, cancellando, correggendo, lacerando, rifacendo, sudando, pur di cavarne le mani: ambedue mi spaventarono ugualmente. Un po'è anche la colpa di quella benedetta felicità con cui ogni cosa del mondo, creato ed increato, può essere soggetto di bozzetto. Nulla rimane di sacro. La tranquillità grassa e quadrata del terzo stato è turbata dai bozzetti borghesi, il popolo è più o meno male rappresentato nei bozzetti popolari: l'aristocrazia è afferrata e messa per forza nei bozzetti high-life; nessuno stato sociale, per umile e modesto che sia, sfugge al bozzetto. Amore, bohême, arte, mare, odio, tramvia, monumenti, divorzio, alpi, riabilitazione, pjanura, mostre artistiche, natura morta e natura viva; non vi è che scegliere. Si arriverà, io credo al bozzetto amministralivo, al bozzetto fondiario, al bozzetto logismografico. Libero bozzetto, con quel che segue. Questa smania fa sì che gli autori non conoscono più nessun rispetto. Il bozzetto dovrebbe essere breve e lo fanno lungo, lungo, lungo; dovrebbe essere grazioso, e vi giuro che è appunto il contrario; dovrebbe essere lindo, leggiero, brillante come un giojellino e chiamo a testimoni i numi che non vi è niente di questo; si desidererebbe umilmente che fosse piacevole ed invece….

Riflessione filosofica: Le cose belle vanno soggette a guastarsi, non durano. Quindi tenersi da conto la propria bruttezza, che almeno è immutabile.

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Del resto, per sollevare gli animi afflitti al pensiero di tanta morbosità, bisogna soggiungere che è una morbosità tutta individuale; attacca l'autore, non danneggia il lettore. Fra i grandi misteri dell'umanità — attenti! — che rimangono inspiegabili, appunto perchè misteri; vi è il meraviglioso istinto del pubblico; quell'istinto, signori, per cui dalle prime righe di uno scritto purchessia noioso, il pubblico intende e butta via il giornale; quell'istinto sottile per cui i bozzetti, gli schizzetti, i profilucci, non trovano lettori; quell'istinto per cui il pubblico rifiuta in massa di leggere e massimamente di comperare un libro dal titolo perfidamente unico, in cui egli sospetti che sieno riuniti dei bozzetti. Questo istinto sviluppato, ampliato, educato finemente, rende del tutto innocui poesie elzevire, giornaletti, bozzetti di tutti i generi e di ogni dimensione. (Questo paragrafo non è altro che un incensamento da cima a fondo, per ringraziare i lettori. Anzi).

Conclusione delle conclusioni: Il pubblico lettore, è sempre una persona di molto spirito. (Applausi prolungali).

Quando s'incontravano per via, le due fanciulle si baciuccavano con grande chiasso, si squadravano da capo a piedi per osservare le relative acconciature e farvi su dei commenti molto a parte, ma poco caritatevoli; alla chiesa della Madonna delle Grazie, dove ascoltavano la messa con le rispettive famiglie, scambiavano di lontano un amabilissimo sorriso, mentre l'una computava mentalmente il prezzo del cappello nuovo dell'altra, e l'altra si consolava del dispetto dell'una; alla mattina, si salutavano dai loro balconi, che si prospettavano nella strada Speranzella: Pasqualina notando malignamente che Mariuccia si era alzata mezz'ora più tardi del solito, da vera infingarda qual era — e Mariuccia dicendo a sè stessa, che Pasqualina aveva gli occhi pesti ed il volto pallido quando si levava di letto, il che è segno di freschezza giovanile'che se ne va; ai ballonzoli, convenzionalmente detti periodiche, stavano sempre daccanto: in apparenza perchè si volevano bene, ma in realtà per sorvegliarsi reciprocamente. Se Pasqualina cominciava un lavoro all'uncinetto, Mariuccia metteva subito in mezzo un ricamo in tappezzeria; se Mariuccia imparava a tormentare sul piano la Bellissima di Coop, Pasqualina adottava presto la tortura con la Povera dello stesso maestro. Pasqualina possedeva un medaglione d'oro con la parola Souvenir in ismalto nero, ma Mariuccia portava al dito mignolo un anello con su due perline ed una turchina; Mariuccia aveva un abito di seta grigia, guarnito di azzurro e Pasqualina ne aveva uno verde guarnito di nero. Pasqualina era bionda e fingeva amare i capelli bruni, mentre in fondo li disprezzava; Mariuccia era bruna e si stemperava in elogi dei capelli biondi, mentre non li poteva soffrire. Insomma si correvano dietro, si perseguitavano, si spiavano, si raggiungevano, rimanevano un sol momento in equilibrio, si staccavano daccapo, ricominciavano la corsa, con un ardore concentrato e nascosto. Così a prima vista, all'interesse che l'una portava all'altra pareva che si volessero un bene dell'anima e la gente lo credeva; ma in sostanza erano rivali, rivali accanite, di quella rivalità soffocata, gretta, energica e crudele, di quella rivalità feroce che è uno de' tanti drammi, che si agitano nell'apparente placidità della vita borghese.

La causa fortunata di questo contrasto era rappresentata da Arturo Pietraroia, giovanotto ventenne, molto lontano dall'essere un eroe da romanzo, ma che era diventato tale per le due fanciulle. Innanzi tutto si chiamava Arturo, il che è di grandissimo valore poetico, in mezzo a persone che rispondevano ai rispettabili sì, ma prosaici nomi di Bartolomeo, Bernardo, Gaetano, Rocco, Donato e via via. Poi la sua condizione di figliuolo legittimo di Roberto Pietraroia, negoziante in chincaglieria, con grande bazar a quattro porte in via Roma, gli dava un caratere profondamente eroico ed interessante. Il giovanotto affettava un lieve disprezzo pei negozianti di olio come il padre di Pasqualina, per quelli di cuoio come il padre di Mariuccia, per quelli di baccalà, di farina, di zucchero, gente grossa che traffica di cose ignobili; il commercio di suo papà era qualche cosa di fine, di distinto, ed egli portava in tutta la sua persona il riflesso di questa finezza, di questa distinzione. Le pose inclinate della sua testa somigliavano a quelle delle statuette in porcellana bianca che si vendevano in magazzino; egli s'inchinava come certi marchesi pompadour, dipinti sul raso dei ventagli da otto e cinquanta l'uno; sorrideva ironicamente come un Mefistofele in bronzo fiorentino per candelabro, cui faceva da compagno un magro ed allampanato Don Chisciotte; un'aria svaporata, un'andatura leggiera, la mano lieve e cauta di chi tocca sempre oggetti fragili. Sempre il goletto molto aperto, che è l'indizio del commesso di negozio; cravatte mirabili per assurdità di colori, per lo più di un rosso cupo, ed alla cravatta ogni due giorni uno spillo nuovo, di oro falso, ma brevettato s. g. d. g. per la perfetta imitazione, spilli dalle forme più strane e più ridicole: una forchetta, una lucertola, uno schiaccianoci con la noce rappresentata da una perla falsa, un triangolo coi segni massonici, un grosso chiodo. La catenella dell'orologio, ora di acciaio martellato, ora di argento bruciato, ora di cuoio di Russia in treccia, ora in cordoncino di seta nera ritorto, ora la vera catenella di sicurtà contro i ladri; dei polsini ad imbuto che piovevano sin sopra le dita, chiusi da bottoni enormi, che seguivano le stesse variabilità dello spillo e della catenella. In tasca portasigari di paglia dipinta, portafogli di pelle nera con gruppo di violette ricamate in seta, portamonete di madreperla con la sua brava iniziale, portafiammiferi di falso platino. D'estate la mazzetta in guttaperca, d'inverno un ombrello da chincagliere, seta pessima, manico e pomo favoloso; nel fazzoletto un forte e grossolano profumo, che si sentiva lontano un miglio. Insomma nella sua persona la dubbia eleganza del bazar, il lusso posticcio della chincaglieria, il cattivo gusto chiassoso e clamoroso: tutte cose che servivano ad abbagliare, ad affascinare le due fanciulle borghesi.

Del resto l'amichetto si procurava anche altre seduzioni. Parlava con un orgoglio noncurante dei ricchi equipaggi che si fermavano dinnanzi al negozio, delle bellissime signore che ne scendevano, la duchessa tale che era venuta a prendere un servizio da thè per ventiquattro persone e si era rimessa al suo gusto, al gusto di lui, Arturo Pietraroia; la contessina tal'altra che era venuta a prendere un album da ritratti ed egli nel consegnarglielo le aveva stretto la punta delle dita e la contessina aveva lasciato fare, anzi aveva sorriso — e tutte le dame entrando in negozio si dirigevano a lui, volevano esser servite da lui, a preferenza degli altri tre commessi — e lui s'inchinava, parlava francese, riconduceva le signore sino allo sportello della carozza. Il che faceva fremere di compiacenza Pasqualina e Mariuccia e nello stesso tempo le faceva arrovellare dalla gelosia. Arturo si atteggiava a don Giovanni, conosceva per nome tutte le fioraie più o meno brutte che sono in Napoli, urtava le sartine per la strada, dicendo loro la paroletta galante e lasciava intravvedere, sotto un velo modestamente trasparente mille avventure amorose e misteriose; il che metteva in una continua ansietà le due fanciulle, timorose di vederselo rapire da un momento all'altro. Arturo, la domenica, si agghindava, si faceva arricciare i cappelli, metteva un fiore all'occhiello, infilava un paio di guanti color sangue di drago, e si faceva trasportare in una carrozzella alla Riviera di Chiaia. Arturo era il miglior direttore di quei giuochi eminentemente stupidi, che con frase espressiva si chiamano giuochi di penitenza, e vi faceva brillare il suo spirito, uno spirito bottegaio ed insolente che mandava in solluchero la società; egli era un abilissimo direttore di quadriglie famigliari il cui massimo è di otto coppie, e vi sfoggiava una pronunzia francese apertamente napoletana, ma la cui erre gutturale solleticava dolcemente le orecchie delle signorine danzanti. Per questi meriti e per molti altri ancora, che si tacciono per brevità, Arturo Pietraroia volgeva e rivolgeva le chiavi dei cuori di Pasqualina Rubinacci e di Mariuccia Jandoli.

Ma se le due fanciulle erano innamorate di lui, questo signor lui di quale era innamorato? di ambedue? O di nessuna? Silenzio! Mistero! — come nei libretti di opera. La condotta di Arturo con le due giovanette era così furbescamente equilibrata, così imparziale nella distribuzione delle sue grazie, che a voler vederci chiaro, ci si perdeva il latino — e quelle ci perdevano la testa. Ad esempio: una domenica, alla messa, egli andava nella navata dove era Pasqualina, e le rivolgeva occhiate lunghe e languide: Pasqualina trionfava e Mariuccia si rodeva dalla rabbia. Ma la sera, alla Villa, attorno alla Cassa armonica, dove suona la banda, sedeva nel gruppo della famiglia Jandoli, presso Mariuccia, facendole una corte chiara e manifesta. Per tutta la settimana andava a spasso col fratello della Pasqualina, dandogli del tu, trattandolo con confidenza, regalandoli i sigari ed il caffè, come se fosse proprio il suo futuro cognato: poi per quindici giorni lo si vedeva sempre con don Bernardo Jandoli, parlandogli di cuoio, scrivendogli il reclamo contro la ricchezza mobile, chiedendogli come andasse la piazza, con altre simili graziosissime locuzioni commerciali. Una sera lodava i capelli biondi e guardava Pasqualina; un'altra magnificava gli occhi neri e fissava Mariuccia. Era un giuoco continuo di altalene, un succedersi e un alternarsi di periodi uguali e contrarii, una contraddizione regolare e costante. Appena una delle due credeva averlo acquistato, ecco che lo perdeva. Una vittoria aveva appena il tempo di affermarsi, che subito era seguìta da una sconfitta. La certezza della conquista definitiva non durava più di un giorno, talvolta più di un'ora: dopo era immediatamente posta in dubbio da una nuova mossa del volubile chincagliere. In questo giuoco tormentoso, in questi colpi di sprone, in questi colpi di frusta, la rivalità delle due fanciulle diventava sempre più grande, il loro animo si aizzava, si esaltava alla lotta — ed il segreto che serbavano, serviva a dare un punto maggiore all'odio che all'amore. Dopo otto mesi nessuna delle due si era avanzata d'un passo; Arturo non si era compromesso con una parola soverchia — e le fanciulle erano arrivate ai rimedii estremi.

Rimedii estremi, ci s'intende: messe in moto tutte le piccole risorse della civetteria borghese, ricercati tutti i mezzi per giungere al cuore del chincagliere, per ottenere una decisione. Fu fatto un grande scipìo di polvere di riso alla violetta, a cinquanta centesimi il pacchetto; i nastri vecchi dei cappelli fuori uso, furono ridotti a nodi per i capelli, a fiocchi pel collo; Pasqualina lavorò un merletto all'uncinetto, in filo giallo e ne ornò un abito. Mariuccia ricamò delle striscie di tela battista allo stesso scopo — e ambedue ci perdettero le notti a lavorare di nascosto, stimolate e sospinte da un pensiero fisso. Mariuccia si fece prestare qualche romanzo da Arturo: la Cieca di Sorrento del Mastriani, il Conte di Montecristo, per tentare qualche contrabbando fra le pagine, per poterne parlare con lui; Pasqualina sagrificò la sua frangia bionda sulla fronte, si acconciò i capelli alla foggia che si portava da sei mesi e comperò un pettine di tartaruga a palline. Il giorno dell'Assunzione, Mariuccia mandò una torta dolce, impastata con le sue mani, a donna Assunta Pietrarola, madre dell'eroe, per farle ammirare le sue virtù domestiche e culinarie; Pasqualina manovrò tanto bene per far sapere, indirettamente, a Roberto Pietraroia, padre dell'eroe, che essa era esperta nella contabilità e nella scrittura doppia. Ahimè! tutte premure senza risultato. L'eroe non si decideva, rimaneva freddo, compiacendosi forse dell'omaggio amoroso delle due fanciulle. Forse aveva uno scopo.

Infine, non sapendo più che cosa fare, Pasqualina versò le sue pene nel seno di donna Mariantonia Lomonaco, vedova per la terza volta, con un paio di baffi stupendi, grande confezionatrice di matrimoni, bestemmiata e maledetta da cinque o sei coppie infelici, ma che proseguiva con grande zelo la sua missione civilizzatrice.

E Mariuccia, giunta con le spalle al muro, si confidò a Carminella, una vecchia serva di casa, donna esperta, di fedeltà provata che le promise di condurre a termine questo delicato e pericoloso negozio.

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— Ebbene, mia cara Pasqualina — disse donna Mariantonia Lomonaco, in un colloquio solitario che si era procurato, invitando a pranzo la fanciulla — sono andata alle informazioni e vi assicuro, figlia mia, che ce ne è voluta della pena. Finalmente ho potuto scovare una cognata — cugina di donna Assunta Pietraroia, ed ho finito per sapere tutto. Il parlito è poco conveniente. Il bazar va male, molto male, tanto più che in via Roma, se ne sono aperti altri quattro. Si regge ancora pel credito che ha, guadagna alla giornata, ma non paga puntualmente le cambiali. Don Roberto e donna Assunta sperano che il figliuolo arrivi ad innamorare qualche figliuola di solido negoziante, che porti in dote, come fosse un cinque o seimila ducati, che si metterebbero nel negozio e servirebbero a rialzare la fortuna. Il parlito è un bel giovane, conosce le intenzioni dei suoi genitori e le approva. Se voi, figlia mia, volete mettere la vostra dote nella chincaglieria, se vi pare un buon impiego del denaro, fate voi. Se siete innamorata del giovane è un altro conto. Hò conosciuto anche io l'amore — soggiunse donna Mariantonia, sospirando come un mantice — e so di che si tratta. Se no, ci sarebbe un altro solido parlito, un giovane orefice, Vincenzino Scotti….


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— Signorina mia, signorina mia, — cominciò a dire con enfasi e con molto accompagnamento di gesti Carminella — per servirvi ho rivoltato mezzo mondo. Finalmente, per mezzo del mio confessore, un santo sacerdote, che confessa pure la portinaia di casa Pietraroia, ho potuto farmi amica di costei ed ora si può dire che ci dividiamo il sonno. Mi ha raccontato tutto da cima a fondo: tutte parole sincere, come è vera la giornata d'oggi, del glorioso S. Nicola! Non è cosa per voi; date retta a me, lasciate stare. In casa Pietraroia ci è sempre guerra, litigano dalla mattina alla sera: donn'Assunta rinfaccia al marito la dote che egli ha rischiata nel bazar. Don Roberto ritorna a casa sempre ingrugnato, segno che al magazzino gli affari vanno male. Giorno per giorno si sciala, ma i negozianti di fuori pare che non vogliano più mandare la roba per vendere. Don Roberto e donn'Assunta mettono speranza solo in quel figliuolo, che faccia incapricciare qualche signorina con dote e così acconciarsi quattro uova nel piatto. Signorina mia, la Madonna benedetta, quella Vergine immacolata, vi deve illuminare e farvi levare dalla mente quel giovane. Non è partito per voi: con questa bella faccia, con la dote che portate, vi meritate miglior fortuna. Don Leonardo, il primo commesso di papà, ha avuto sempre un pensiero per voi…..

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Pasqualina strinse le mani nel manicotto, con un leggiero brivido di freddo.

— Hai freddo? — chiese Mariuccia, chinandosi premurosa verso di lei.

— Sì, un poco. Papà ha detto che questo freddo farà male al commercio.

— Anche papà mio. I magazzini speravano in queste feste di natale e di Capodanno….

— Anche i Pietraroia speravano — aggiunse Pasqualina con tono indifferente.

— Ho inteso dire che stanno molto giù — disse Mariuccia sullo stesso tono.

— Molto. Cara mia, la chincaglieria non è un commercio sicuro. Si arrischia, si arrischia…. e poi! Ci si rimette il proprio.

— Già.

Seguì un silenzio. Mariuccia si fece coraggio e buttò giù la grande frase.

— Poi, quell'Arturo è uno scapestrato.

— A chi ne parli! Un bellimbusto sfaccendato.

— Va dietro ad ogni gonnella.

— Tutte le signore che capitano in magazzino….

— Una povera ragazza, oltre al portargli la dote, che sarebbe sempre in pericolo, dovrebbe anche temere….

— Figurati, bella mia! Per me compatisco la poverina che ci capiterà.

— Anche io.

— E…. dimmi, per te ci è niente? — chiese Mariuccia, sorridendo.

— Eh!…. chi sa…. forse…. non ci è nulla di deciso. E tu che mi racconti?

— Nulla di certo…. qualche cosa ci è….

— Speriamo presto.

— Speriamo. Roba solida, eh?

— Orefice e gioielliere. E tu?

— Nel cuoio, come papà.

— Buona sorte, bella mia. Ti ho sempre voluto bene!

— Ed io! come una sorella! Buona sorte.

I gusti sono differenti. Vi è chi, leggendo il giornale, si diletta nei brillanti paradossi dell'articolo di fondo, seguendone mentalmente le evoluzioni; molti frequentano l'appendice, pianterreno lugubre e sanguinoso, dove si commettono, sera per sera, i più atroci delitti; alcuni scelgono la cornaca interna dove leggono importantissimi fatti avvenuti nell'Uraguay, a Capracotta o a Roccacannuccia; altri prediligono i telegrammi particolari, tanto particolari che talvolta i fili del telegrafo non ne hanno saputo nulla: non mancano infine, gli amatori della quarta pagina. Ma vi è una rubrichetta modesta, non molto lunga, a caratteri piccini, ficcata, come per misericordia, in un angolo qualunque del giornale, spesso scorretta, spesso dissestata; ebbene, questa quì è letta da tutti, giovanotti, vecchi, fanciulle, spose, madri, insomma tutti. Persino gli uomini serii, quelli che non vorrebbero far credere di non patire alcuna debolezza comune agli altri mortali, persino quelli, vi danno una sbirciatina di nascosto, scorrendola in un battibaleno o fingendo di leggere la Stefani. E mentre tutto il resto del giornale può forse riuscire indifferente, quell'angolo lì, nella sua umiltà e brevità, fa sempre una impressione: lascia un sorriso sulle labbra o una oscurità negli occhi. È l'estratto dello Stato civile.

Sì, voi lo leggete assiduamente, o pallide zitellone dalle labbra sottili, provando un amaro piacere a dilatare la ferita nascosta del vostro cuore; vi è gente che crede ancora alla vecchia istituzione del matrimonio e che intanto dimentica voi che vi credereste tanto volentieri: voi volete sapere il nome e l'età di questa gente. Quando è molta, ci è il compenso che è di bassa qualità e potete fare un moto di disprezzo; quando è poca, avete la consolazione di dar la stura ai vostri commenti. Quì è una coppia che potrebbe esser felice, diciotto e ventidue anni: sono troppo giovani per aver testa. Altrove la sposa si chiama Leonilda, nome capriccioso, sarà certo una civetta: compiangiamo il marito, poveretto. Questo quì è medico, professore che non corre più con le capsule Guyot ed il ferro dializzato Bravais: la moglie soffrirà gli stenti. — Guarda, guarda, la tale è giunta finalmente a gabbarne uno; lo sa il cielo con quali mezzi! E come, ha fatto scrivere solo trent'anni? Ma se ha avuto sempre cinque anni più di me, che ne ho…. ventotto! E chi sarà lo sposo? Povero imbecille, avrà la vita tribolata, è degno di compassione. — Dopo un'oretta di insinuazioni più o meno benigne, di restrizioni mentali, di sottintesi poco caritatevoli e di riflessioni più o meno filosofiche, voi, vecchie zitelle, vi confortate nel pensiero che tutti i coniugati sono e saranno sempre infelici e che per nulla al mondo voi vorreste rinunziare alla vostra pace.

Invece la bionda fidanzata del bruno giovanotto, dopo che ha accompagnato sino alla porta il suo amore, raccomandandogli di venir presto la sera addietro, rientra e prende distrattamente il giornale tra le mani, leggendovi le'nascite ed i matrimoni. Ella pensa: fra breve, quattro, sei mesi forse, il nome suo vi sarà insieme con quello di lui; gli amici li leggeranno, sorridenti, gli estranei non ne sapranno nulla, ma vi sarà un tesoro di affetto sotto quei nomi. Pensa ed arrossisce e si guarda attorno; chi sa che qualcuno non le legga sulla fronte il pensiero; forse in un'epoca un po' più lontana, se Dio vuole…. una cifra di più nei nati, una cifra che per lei, madre, rappresenterà una testolina grande come un pugno, in una cuffiettina ricamata; una testolina che abbia già i capelli neri del papà e gli occhi azzurri della mammina. Allora, trasportata in questo sogno che è per diventare una realtà, la fanciulla si lascia cader il foglio di mano…. e si scorda di leggere i nomi dei morti.

Ci sono i vecchi per leggerla quella malinconica lista, ma non crediate che se ne dispiacciano. Vi è anzi una punta di egoistica soddisfazione per essi, nel vedere che i giovani robusti se ne vanno a dormire per sempre sotto la terra nera e che essi rimangono in piedi ancora, godendo i bei raggi del sole e respirando la vita. Se trovano un caso di lunga vita, tanto meglio: è una speranza per essi di raggiungere l'età del fortunato; se capita loro sotto gli occhi il nome di un amico d'infanzia, di un coetaneo, si compiacciono a narrarne la storia, o ricordarne i detti, gli atti, le virtù, i difetti: una parolina di compianto e tira via — i vecchi hanno già troppo pianto, per aver più lagrime. Sibbene la madre del coscritto lontano, trema ed impallidisce, leggendo come ogni giorno un soldato muoia all'ospedale militare e compatisce le altre madri; sibbene l'ammalato si sente colpire quasi da una mano invisibile, quando vede la sua malattia abbattere un uomo, alla sua età. Ed in ultimo vi è la turba dei curiosi, che cercano le notizie col fuscellino e sono fortunati se possono, in una riunione, uscire in queste parole: — Ricordate la tale, quella bruttina? Ha preso marito. Ovvero: — Ricordate il tale, quel galantuomo coi fiocchi? Se ne è andato di là….

Per l'osservatore, è una immensa fonte di studio il modesto estratto dello Stato civile. In esso cozzano, si urtano, si confondono, si dànno la mano tutte le passioni umane, tutte le classi; tutti gli stati sociali vi sono svelati. Vi è il piccolo nato, che non ha padre e che comincia già a sentire il peso della sua posizione illegale, presso alla progenie nobilissima di principi; vi è il futuro cretino, che porta il numero precedente a quello che sarà un futuro uomo di genio. È là che spira la fiducia profonda del popolo nella famiglia, la fede nel lavoro delle proprie braccia, il niuno timore dell' avvenire: nel popolo si sposano giovani, allegri, miserabili, senza dubbi e senza esitanze. È là che fa capolino la vanità innata, incurabile, che nel più bello o nel più brutto momento della vita, qual è il matrimonio, fa ricordare di scrivere il nome con tutti i titoli, prenomi e qualità — e si ammira il salto mortale che fa una fanciulla sulla età dello sposo, pur di avere vettura, dieci abiti all'anno da Parigi e il palco in prima dispari al S. Carlo. Si sorride vedendo il matrim onio del celibe, sinora impenitente, che si decide alla catena, per trovare chi gli curi i reumatismi — e si vorrebbe sorridere, ma non si può, alle unioni calcolate, proposte, ventilate, stabilite, per mezzo di confessori, avvocati, notai e vecchi amici di casa. La questione sociale mnta su nel nome dell'operaio morto pel suo mestiere omicida e tutta la dolorosa ed artistica bohème vi appare in quel poeta che va a morire sopra un lettuccio dell'ospedale, la miseria, madrigna crudele degli uomini, è rappresentata dai suicidi crescenti. Quell'epopea scura della vita vi spaventa; quel riassunto breve, efficace e terribile, quella intiera esistenza che si annienta in un nome ed in una cifra, vi mette paura….

Ah! no, se è vita, non può esser tutto fango, non può esser tutto nero; vi deve essere la nota ridente, la parte pura, l'ideale realizzato. Vi è tutta una giornata splendida e lucente: la nascita del fanciullino, alba rosea e tremolante di raggi, balbettìo di paradiso, qualche cosa di assurdo che diventa anima; il forte meriggio delle passioni nel calore soffocante del tropico, nell'amore completo e felice, nelle alte ebbrezze del dovere e della famiglia; ed in ultimo la morte aspettata, cioè il tramonto lento, sereno, pacato, per passare in una notte stellata.

Il faut, en géneral, se mèfier de ces
natures physiques; l'amour et la jalousie
leurs donnent des nerfs d'acier.
MURGER, Madame Olympie.

Fosse pure la musica vergata da una mano divina, fosse pure eseguita dagli artisti con la voce e col cuore, viene un'ora che nel teatro si prova la noia e il disgusto. La mente rimane fredda e scettica, l'anima non si lascia più trasportare, la riflessione analizza, distrugge e sogghigna: le arcate maestose, le ombrie dei giardini sono di cartone dipinto; quei due che si amano, gorgheggiando o strillando, sono ridicoli; le coriste, le nobili damigelle, sono brutte, vecchie e stupide: tutto è falso, convenzionale. Le illusioni, sieno anche quelle ottiche, sono svanite; invano si chiama in aiuto la forte potenza deli'astrazione, invano si cerca un impulso, un impeto di entusiasmo: il senso della realtà è ostinato, ha tutto invaso. Ma coloro la cui vita è fantasia, i sognatori, gli ammalati di pensiero, gli assetati di poesia, si ribellano e quando la scena non dà più loro il dramma, lo ricercano altrove, in un angolo qualunque del teatro. Sono come Archimede: per sollevare il mondo della loro immaginazione hanno bisogno di un punto solo.


***



Non posso dimenticare quelle due donne: quando apro gli occhi nella oscurità, mille fiammelle la diradano, una confusione di colori gira, turbina, si urta; poi si mette a posto, si armonizza ed esse compaiono su quel fondo, vive e parlanti. Erano due tipi così spiccati, così opposti, così personali, così profondamente impressi nella loro materia di carne e di nervi, così completi nella idea che ciascuno rappresentava, da sembrare che l'artefice creatore le avesse ritoccate con un unico concetto, sino all'ultima linea. E per quella legge costante che vuole inseparate le umane contraddizioni, che regola l'attrazione delle forze contrarie, che riunisce i poli con una linea fantastica, che presenta sempre due pensieri opposti, era fatalmente necessario che quelle due donne vivessero insieme, l'una di fronte all'altra, l'una reazione all'altra.

La prima sembrava una madonnina di Carlino Dolce, il soave pittore che ha incarnato nei quadri il suo nome. Era una figura esile, molto esile; i capelli biondissimi, ma di un biondo morbido, quasi timido, di cui si presentiva la dolcezza sotto la carezza della mano e sotto il tocco delle labbra; il volto magro, lunghetto, malaticcio, di un pallore finissimo, quasi trasparente come un cereo; socchiusi i bruni occhi sotto la frangia dorata delle palpebre, sottolineati da quelle occhiaie bruno-violacee che fanno pena al cuore; sottili, vivide, aride, quasi abbruciate le labbra; il collo, le spalle, le braccia scarne e consumate; abbandonata e languente tutta la persona; dappertutto le traccie della febbre e del decadimento. Pure era vestita con quell'arte speciale della donna che tenta tutti i mezzi per nascondere la verità: l' abito di raso bianco serviva ad ingrandirne alquanto la figura; sul collo cadevano ad onde i bei capelli per celarne la magrezza; sulle spalle denudate si aggruppavano fiotti di velo bianco e di merletti, conoscendo ella il valore immenso delle trasparenze che correggono i contorni meschini, mettendoli quasi in una nuvola; la manica scendeva sino al gomito e l'avambraccio, piccolo come quello di una fanciullina, era ricoperto di braccialetti; le affusolate dita delle manine erano zeppe di anelli, quasi ad ingannare la gente sulla loro apparenza; tutta la persona rimaneva in una penombra amica e discreta, in un atteggiamento stanco. Ma la stessa cura che ella prendeva per dissimulare il suo stato, muoveva maggiormente la pietà e non illudeva nessuno: quella donna era ammalata; ammalata d'amore, di quella lenta febbre che non ha requie, che infiamma il cuore ed agghiaccia le mani, che divora il sangue e fa impallidire per sempre il viso, che mina il corpo sordamente, senza compassione, di ora in ora, di minuto in minuto. Era ammalata, buona, delicata, squisitamente sensibile ed innamorata; lo sguardo vagava errante, indeciso, ricercando qualcuno, forse; sul petto due rose bianche e profumate si appassivano, morenti anch'esse di febbre e di amore.

L'altra, perfettamente, in luce, sorgeva come una splendida manifestazione di bellezza. Sul capo altero si attorcigliavano le masse nere dei capelli, lasciando libera una fronte audace; l'arco delle sopracciglia, tracciato nettamente, si distendeva su due occhi scintillanti; il colore lionato della pupilla era circondato da un cerchio gialliccio, bronzo circondato di oro, ma oro vivente, bronzo animato; il profilo severo, purissimo, era corretto dalla rosea trasparenza delle nari; le labbra schiuse e rosse come un fiore di melagrano, si rialzavano lievemente agli angoli con quel sorriso perenne delle figure perfette; il collo pieno, con un battito provocante di vita; il busto scultorio, un braccio modellato con vigore, delicato nell'attaccatura della spalla e del polso, terminato da una mano aristocratica. Vestita di velluto nero, scollata in quadrato, con una puntina di merletto bianco, senza maniche, come esige la moda, senza un nastro, senza un gioiello, ella pareva sollevarsi, slanciarsi candida e sorridente dal fondo bruno di un quadro: si sollevava, come una superba emanazione di grazia, di beltà, di salute. Vi era in lei quella cosciente dei lineamenti che dev'essere la soddisfazione della forma in ammirazione di sè stessa; quella serenità immutabile, plastica, superiore, che è l'unico segno di vita nelle statue greche; e anche a volerlo fare apposta, quella donna non si sarebbe potuta rendere meno perfetta. Sembrava che nè il tempo nè l' amore avessero potuto turbare, guastare quell'aspetto mirabile; ella era così sicura, così imperturbata, che finiva per irritare: si provava lo strano desiderio di vederla un po' rovinata, come si desidera talvolta di rompere una statuina di valore. Poi doveva essere cattiva: quando si rivolgeva alla sua bionda e pallida compagna, la guardava con certi occhi duri e scrutatori, quasi avesse voluto strapparle dall'anima un pensiero nascosto: il labbro inferiore si avanzava con disdegno. Con quel'lusso di vita e di salute pareva che volesse insultare, schiacciare la biondina sofferente, che le rispondeva dolcemente, sforzandosi di sorriderle. Io pensai che qualche dramma intimo dovesse svolgersi fra quelle due donne.


***



La porta del palco si schiuse, un uomo entrò: tutt'e due si turbarono. La bruna arrossì un poco, la bionda alzò uno sguardo su colui che entrava. Era un giovane sulla trentina, alto, simpatico, sciupato ed interessante nel volto; salutò quasi sbadatamente l'ammalata e sedette presso la bruna impegnando con lei un'animata e vivace conversazione. La donna interrogava, alzava il dito con una graziosa aria di minaccia, sorrideva, arrivò sino a battergli sul braccio col manico del ventaglio; l'uomo s' inchinava, cercava difendersi, faceva dei complimenti; per istanti, un'ombra d'inquietudine gli si disegnava sul viso, pure la discacciava e continuava il discorso con molta disinvoltura: quei due obliavano affatto la presenza della loro compagna. Ma essa li guardava a lungo, avvolgendoli nel fluido dei suoi occhi magnetici, li guardava senza dir motto, ma doveva soffrir molto; le occhiaie pareva che crescessero sempre più, fremevano lievemente le nari con un movimento impercettibile, tremava la mano abbandonata sul velluto rosso del parapetto, le labbra si stringevano; il viso, senza colorirsi, ardeva nel suo pallore.

Rivali dunque. Luisa — immaginai si chiamasse con questo nome gentile la bionda — amava quell'uomo con tutte le forze del suo cuore infermo e la sua bellissima amica glielo aveva preso, o voleva prenderselo.

Era uno spettacolo dolorosamente ingiusto: da una parte la salute, la felicità, la bellezza, cioè una di quelle donne senza cuore e senza testa, che fanno il male senza pensarvi prima e senza pentirsene dopo, fredde trionfatrici, feroci ed egoiste, ebbre di vanità, liete di vincere un uomo, solo perchè, vincendolo, feriscono un'altra donna; dall'altra parte Luisa, cioè l'ideale realizzato della dolcezza e della bontà, ammalata, quasi distrutta dalla sua passione, umiliata da quella gloriosa rivale, incapace di lottare, incapace di vincere, Luisa che se ne moriva di quell'amore, di quel disprezzo: in mezzo, un uomo affettuoso, ma debole, capace forse di due amori, trascinato senza dubbio da una corrente fatale. Era questo il dramma, il dramma intimo di quelle tre persone, difatti nel palco la bruna raddoppiava i suoi sorrisi che diventavano quasi ironici, moltiplicava le cortesie che erano esagerate, si dava in spettacolo; il giovanotto era perplesso, inquieto; Luisa si mordeva le labbra e vi accostava spesso il fazzoletto, o nascondeva il volto nel suo mazzetto di vaniglia e quando la Wanda Miller scoppiò nella frase meravigliosa del duetto d'amore dell'Africana: Sarò gelosa, gelosa, gelosa, gli occhi della bionda mandarono tale un lampo di gelosia, da far tremare i due colpevoli.

***



— Dunque la scrivete questa storia? — mi chiese il mio vicino di destra, un amico, un artista, che mi indovinava.

— Perchè no?

— La sapete almeno?

— Me la immagino.

— Non ve la immaginate. Un anno fa quei due sposi si adoravano, si erano presi per amore: bellissima la moglie, intelligente il marito, una coppia eccezionale. Ebbene, ci si mette in mezzo quella palliduccia lì, ricca di languori, sempre moribonda, piena di profumi irritanti, di graziette malaticcie, di veli bianchi, di nastri azzurri e di capelli biondi. Il marito abbandona quella splendida e buona creatura che è sua moglie, per quell'ombra di donna; la moglie lo sa, ma finge per decoro e si rode internamente; egli esita, si tormenta, vuole uccidersi, non ha il coraggio, ama la bionda, rispetta ed ammira sua moglie: è infelicissimo. La causa di tutto questo scompiglio ne sorride soavemente: si chiama Tecla, un nome duro; pare ammalata, ma non è: quello è il suo stato normale, la sua natura; con le sue delicatezze, con le sue sensibilità, vive meglio di chi sta sanissimo: è assai forte, anzi gode di tormentare le persone belle e vigorose. Per questo ha sedotto il giovane che sta là, per questo tortura quei due con una gelosia nascosta ed esigentissima. La scrivete questa storia?

— No, non la scrivo — risposi.

La rividi sullo scalone. Avanti venivano Tecla e il marito della bruna. La bionda scendeva lentamente avvolta nelle sue bianche pelliccie come un uccellino sofferente, stanca, abbattuta, reggendosi al braccio di lui: vi si appoggiava con molle abbandono, ma aveva incrociate le mani, quasi per non lasciarselo sfuggire. Lo guardava di sotto in su, con occhiate lunghe, parlandogli a bassa voce, affascinandolo: vi era nel suo lieve sorriso, nell'atto della testolina cadente, nello strascico lunghissimo di raso bianco, un'aria di conquista: essa si portava via quell'uomo come un bottino. Dietro, sola, altiera, avvolta maestosamente nelle pieghe del suo mantello rosso, veniva la bruna; nulla si leggeva nelle linee del bellissimo volto; ella non dava segno di dolore o di sdegno. Chiusa in sè, nella forte e coraggiosa anima sua, non chiedeva compassione.

Noel, noel! liesse, liesse!

Sopra: una stanzetta quieta e silenziosa, dall'ambiente dolcemente caldo. Una lampada lascia piovere la sua luce eguale e tranquilla sovra le pagine di un libro simpatico; quì e là un sorriso di amicizia o di amore — le ore che trascorrono lente e placide, come belle persone languenti. Giù: la strada bagnata, infangata, sdrucciolevole per la melma, calpestata da miglia di piedi; una nebbia fitta che è fumo, umidità, scirocco, fiato di gente; l'oscurità rotta con violenza dal gas, dal petrolio fumigante, dalla luce rossastra delle fiaccole, dai vividi colori dei bengala; l'andare, il venire, l'incontro, l'urto di una folla fitta, continua sempre rinnovantesi, che parla, ride, grida, schiamazza, canta, urla; — quindi un vocìo che percorre tutta la gamma, dai tòni più alti ai più'bassi, coi salti più bizzarri, diventando ora un clamore acutissimo, ora un grave rombo di tuono. Malgrado le imposte chiuse, malgrado le pareti doppie e foderate, l'eco di quel chiasso si fa un cammino sino a colui che legge; egli si distrae, presta l'orecchio e sorride. Invano d'attorno la temperatura è piacevole, invano il tappeto è morbido, invano la luce è quieta, invano il libro dispiega l'attrazione della sua carta giallina, dei suoi caratterini affusolati, dei suoi fregi capricciosi e dei suoi versi idem: la gran voce della moltitudine è insistente, sale come un appello, risuona come una vigorosa chiamata. Allora colui che legge, è preso dalla nostalgia della strada, della nebbia, dell'agitazione; prova un desiderio aspro di mettersi in quel tumulto, di godere quello spettacolo, di portarvi la sua parte, di sentirsi piccolo, annullato, assorbito: egli non lotta più, cede: e con un soffio gigantesco, la strada vince la stanzetta.

***



Sulle piazze, nelle vie, gittate, profuse tutte le ricchezze vegetali ed animali. Quì è il trionfo della carne: sono le file di polli sospesi per le gambe, dalla pelle gialletta, soda, leggermente punteggiata di bruno, venata di un azzurro pallido: sono i tacchini dalle forme grasse e rotonde, dondolantisi gravemente allo scirocco con la serietà di quando erano vivi. La luce incerta delle fiaccole profila stranamente le masse enormi della carne di vitello, carne bianca, sanguinolenta, dalla fibra lunga e piena di forza, dall'osso levigato, lucido, senza una macchia; ed illumina in pieno i porcellini bianchi, dalle linee quasi eleganti: tenero, succoso e prediletto pasto delle signore e dei preti. Si cammina sempre e non si vede che carne — ed allora quell'odore di macello fresco, quel sangue rosso-bruno che gocciola, quei colpi di coltello netti, decisi, vi cagionano la malinconia, il disgusto: il trionfo della materia piena, grassa, pesante, sfacciata, sorridente della sua morte che è una novella vita, provocante e nauseante, finisce per ischiacciarvi. Pensate a quel lusso, a quel ribocco, a quella esuberanza, a quell'enormezza, con un senso di paura — e ricercate con ansietà impressioni più miti.

Allora entrano in campo gli erbaggi, le verdure, i frutti, la dolcezza vegetale, il tributo della campagna, l'offerta delle pianure e dei boschi. I monticelli dei broccoli verdi, il cui fiore sembra un merletto rilevato, guardano con disprezzo l'umile e piccola cicoria, raccolta in gruppetti, su cui brillano le gocce dell'acqua; i cavoli bianchi, grossi e serrati, pare che vogliano scoppiare dal loro involucro di foglie verde-chiaro, mentre quelli neri si confondono coll'oscurità, quasi desiderosi di solitudine. L'ondulazione dei lumi, il passaggio delle persone e dei carri, il getto improvviso di un razzo, l'ombra che sopraggiunge, dànno a questo spettacolo qualche cosa di fantastico: le proporzioni s'ingrandiscono, il senso della realtà si perde e vi sembra di camminare in mezzo ai prati di maggiorana e di trifoglio, fra due siepi di verdura, mentre in fondo, come orizzonte, si accende la fiamma gialla di una piramide di aranci, ricordo dei tramonti siciliani. Vi giunge al cervello il profumo acuto delle mele, capace di ubbriacare; quello più dolce, quasi più vecchio, delle pere serbate per l'inverno e l'effluvio sottile, leggero ed esilarante dei mandarini; quando un odore più forte, più sano, li scaccia tutti per prenderne il posto e regnare solo.

Si entra nella dominazione del mare; nei cestellini frangiati di alighe, che somigliano ai capelli disciolti di una bella naiade morta, fremono, si contorcono, si annodano le anguille dai dorsi bruni, dalle pance smorte, mentre le aragoste, animali calmi e rassegnati, agitano le lunghe ed aguzze zampe. Le triglie rosee fanno un piccolo moto con le pinne per respirare, le ostriche schiudono un pochino la casuccia, ed i cannolicchi (soleni) scivolano fuori dal loro lungo astuccio, quasi vaghi di libertà. I merluzzi sono morti in una posizione disperata, mezzo contorti con la coda sollevata, quasi avessero avuta una dolorosa agonìa; altri pesci più dignitosi, rimasero immobili e fieri, persuasi della loro sorte. Ed è un continuo spruzzare di acqua salata, un gridare di voci robuste, uscite da petti che hanno combattuto la tempesta; sono pescatori nervosi e bruni dalle gambe e dalle braccia denudate, che vi offrono allegramente la loro mercanzia: è il mare, il buon vecchio mare, il burbero benefico, l'eterno brontolone prodigo, che si è disfatto di un po' del suo tesoro molto volontieri, ed ha mandato il suo biglietto di visita grandioso, in questa mostra colossale. — Andiamo, un sorriso ed un ricordo ai giocondi bagni estivi, alla freschezza delle onde, agli scogli coronati di spuma!

Ma la luce vivida del gas che si rifrange nei lucidi e faccettati cristalli, nei fregi dorati, nelle pagliuzze d'argento, nei rasi vividi, vi attira lo sguardo una vetrina, sopra due, tre vetrine. Sono i dolci con loro forme brevi, leggiadre, aggraziate, che sembrano fiori, frutta, cuori, farfalle; coi loro colori delicati, molli; il cristallino-roseo, il verde-opalino, il bianco-grigio, il violetto pallido, che si fondono, si armonizzano in una tavolozza di tinte sfumate e gradevoli all'occhio. Sono le spume morbide e fioccose che pare si debbano dileguare ad un soffio; le creme tremule, candide, giallette; i frutti gelati, coperti di una trasparente pellicola argentina; le lucide cascate dei canditi; le gravi pesantezze dei mandorlati; il bruno cioccolatte sotto tutte le forme e tutti gli aspetti; le paste leggiere, sgranate, che si liquefano sotto il dente; i datteri imbottiti di pistacchio, unione nobilissima come quella del latte col miele. Insomma la riunione di quanto vi è di più gentile, di più fine, di più elegante; le carezze della vista, del gusto e dell'odorato; il raffinato e lo squisito nella più completa loro manifestazione; il punto culminante di ogni più strano desiderio, la poesia più alta e più pura delle sensazioni, la fantasia diventata vita, l'ideale artistico realizzato, il summum dell' arte.

È in questo sublime volo lirico, che finisce lo splendido inno dedicato dai napoletani alla decima musa: Gasterea.

Natale 78.

Ad Alberto Errera.

La cittaduzza era silenziosa e deserta in quel lunghissimo pomeriggio estivo; nelle sue strade grigie e rettamente allineate non appariva un viandante: i balconi delle sue case, alti, del sesto antico, dalla incurvatura profonda, erano tutti chiusi; le porte brune, massiccie, costellate di chiodi, dal pesante martello di ferro, erano anche esse sbarrate. Invano il cielo si serenava, impallidendo; invano si apprezzavano chetamente le dolcezze del tramonto, invano giungeva il misterioso e malinconico momento della giornata, tanto somigliante all'autunno, tanto somigliante al declinare della vita; i buoni provinciali non si curano di tutto ciò, nulla sanno di tramonti e preferiscono dormire in quelle, ore, dormire di quel sonno pesante e morboso che lascia le membra spossate, la bocca amara e la mente confusa. Solo Silvia rimaneva seduta dietro i vetri del suo balcone: aveva rialzata la stretta tendina ingiallita, appuntandola con uno spillo per non lasciarla ricadere, ed immobile, le mani incrociate sulle ginocchia, la testa appoggiata allo sportello di legno attendeva con pazienza che le ore trascorressero. Ma in quel posto non l'aveva attirata lusinga di gaio o di mesto spettacolo; Silvia non guardava nella strada, non rivolgeva gli occhi all'ultima linea di verde che confinava con l'orizzonte, nè li alzava al cielo crepuscolare: queste cose, come tutte le altre, non la interessavano punto. Era venuta là per abitudine, senza noia e senza diletto, per la medesima ragione che la faceva alzare alle sei di mattina e coricarsi alle undici di sera. Da trentadue anni, nel pomeriggio, stava seduta dietro i vetri del balcone — e tutta la sua vita passata era rappresentata da una fredda e indifferente abitudine.

Pure essa era stata bambina, adolescente, giovinetta; la sua parte di sorriso e di gioia aveva dovuta averla; invece se rivolgeva lo sguardo indietro, sugli anni fuggiti, non iscorgeva che una superficie bigia ed uniforme. Piccina ancora, ricordava le figure severe ed accigliate dei nonni che le mettevano paura, i volti volgari e le voci grossolane degli zii, sempre pronti a sgridarla, la ciera pallida e noncurante di un padre egoista che non la baciava mai. La casa era triste, vecchia, e vi si parlava sotto voce e i mobili antichi, grandi ed angolosi, assumevano nell'ombra forme spaventose; nei quadri dove si contemplavano le battaglie del primo Napoleone, dominava il rosso acceso, come se ancora il sangue vi scorresse; mai altri fanciulli, mai giuochi, mai risa, mai un viso giovane, mai qualcuno che le parlasse della madre, morta troppo presto. La bambina andava a scuola da due zitellone barbute che le facevano imparare interminabili brani di storia sacra, ed eseguire lunghi e monotoni lavori a maglia; a casa il pranzo taciturno, lo studio sotto gli occhi di una serva brontolona, le orazioni ed il letto. Sempre lo stesso metodo, sempre le stesse persone, sempre le stesse cose. Allora nell'anima crescente di Silvia s'impresse la tinta oscura ed eguale dell'ambiente in cui viveva; tutti i sentimenti freschi e giovanili si spensero sul nascere; i suoi nervi furono ammolliti, dominati, vinti; nel suo corpo, nel suo viso vi fu qualche cosa di troppo vecchio, di troppo saggio. Vennero i suoi sedici anni, e la trovarono grave, misurata, parca di parole e di sorrisi; lasciò la scuola ed ebbe, con le chiavi, il governo della casa.

Silvia se ne occupava con molta esttezza, ma senza una soverchia premura: andava, veniva dal terrazzo al granaio, dal granaio in cucina, dalla cucina nelle camere, senza mai affrettare il suo passo, non dimostrando mai alcun fastidio, non andando mai in collera, non alzando mai la voce. Era una figura alta e magra, vestita di grigio o di nero invariabilmente, coi goletti di tela, bianchissimi, diritti, puritani, col grembiule nero, con gli stivaletti di brunella nera dai tacchi bassi, perchè non facessero rumore; per unico ornamento un piccolo paio di orecchini in oro. Il suo volto di un pallore opaco e malaticcio, gli occhi neri senza splendore, i capelli oscuri, tirati e stretti sulla nuca, le labbra sottili e sbiancate, non serbavano alcuna traccia di gioventù. Nella serenità invadente dell'alba, nel pieno sole del meriggio, nella luce incerta del crepuscolo, sotto il lume quieto della lampada, Silvia era sempre la stessa: magra, pallida, fredda, senza attrattive, incapace di desiderarne, provinciale. Ma non soffriva — ella non conosceva e non voleva conoscere, non immaginava nulla di diverso, non fantasticava, non chiedeva mai niente, non si rassegnava neppure: la nota del suo carattere era l'indifferenza. La notte, quando non dormiva, diceva il rosario; quando dormiva, non sognava mai.

Sibbene in quell'anima trasparente, quadrata, vuota di ogni altro affetto, viveva l'unico ed arido sentimento del dovere. Era dovere per lei alzarsi presto la mattina, dirigere le serve che impastavano ed infornavano il pane, dare gli ordini pel pranzo, aprire e chiudere gli armadi; poi invigilare che i letti fossero rifatti e bene rimboccate le lenzuola, che non rimanesse polvere sui mobili, che fossero battuti e scossi i tappeti. Il sabato ci era da sorvegliare la grande e complicata faccenda del bucato, seguìta da quella ancora più importante dell'insaldare: si dovevano distribuire ai poveri le elemosine consistenti in danaro, panni, medicine e commestibili. Alla fine di ogni stagione conveniva fare le conserve dei frutti, rifornire le provvigioni esaurite, discorrere coi coloni, scrivere a quelli che non si erano presentati: alla fine dell'anno fare il bilancio, paragonarli con quelli precedenti, dare i conti al padre, parlandogli con gli occhi bassi, a voce sommessa, di cifre, di affari, di nuove economie; riceverne in cambio, come unico e venale segno di soddisfazione, un titolo di rendita di dieci lire e deporre sulla fredda mano di lui un bacio gelato per ringraziamento. A Pasqua ed a Natale, Silvia doveva scrivere ai parenti lontani quelle sciocche ed inutili lettere di felicitazioni, sempre le stesse frasi; al principio dell'inverno e dell'estate scriveva ad una sarta della capitale perchè le mandasse un abito ed un cappello, lasciando a lei la scelta del taglio e del colore; l'abito arrivava ed era chiuso nell'armadio, per uscirne solo la domenica, quando Silvia andava alla messa, la seconda messa, ascoltata in chiesa da poche devote. Essa leggeva nel suo libro le parole di preghiera che non trovavano alcuna eco nell'anima; la messa finiva, un gran segno di croce, ed a casa un'altra volta. Erano questi i suoi doveri; essa non trovava gusto nè noia in alcuno di essi: la carità, la fede, l'amore, il sacrificio la lasciavano fredda. Perfino — orribile a dirsi in una donna — perfino la vanità era spenta in lei.

Le variazioni in questa vita erano pochissime ed anche brevi. Qualche visita alla sua vecchia matrina che le donava una manata di quei confetti a cornetti, duri, bianchi, con un bastoncino di cannella dentro; qualche immenso lavoro ad uncinetto che solo le fanciulle provinciali osano affrontare, cioè fazzoletti di merletto per garantire il damasco giallo sbiadito dei mobili, copertine per le fiere di beneficenza, copertoni per i letti alti e larghi degli zii; quattro volte all'anno, la confessione, brevi racconti di piccoli e stupidi incidenti. Uno zio morì, vi fu un funerale; Silvia serbò la sua clama e tolse per sei mesi i goletti bianchi e gli orecchini di oro: una cugina si maritò; Silvia ebbe un abito di seta rosa che mise una sola volta e che le stava molto male. Il padre ebbe il tifo, fu in pericolo di vita; la figliuola lo vegliò per dieci notti, gli prestò le cure più minute, senza segno di fatica; ma la premura dolce ed amorosa che consola l'ammalato, il sorriso di affetto, gli occhi umidi e commossi, l'ansia del core che si dipinge sul viso, mancavano in lei. Ai ventun anni soltanto, le venne dato il conto della sua dote. Poi nulla più di nuovo avvenne.

Ma Silvia, diventata il riassunto delle consuetudini provinciali, Silvia, l'esempio dell'obbedienza e del dovere, la pallida figura in cui si adombrava quella vita anemica, cretina, inerte, materiale, Silvia non aveva potuto rassegnarsi ad una delle più grandi leggi del paesi, il sonno del pomeriggio. Questa infrazione alla regola la crucciava un poco ed aveva tentato di vincere una ripugnanza tutta fisica: dopo aver chiuso le imposte della camera sua, si era spogliata ed aveva chiuso gli occhi nella fissazione di voler dormire; ma quella stanza oscura e calda, temeva di cadere in deliquio; le conveniva alzarsi, vestirsi ed andare a passare le ore, solitaria dietro la tendina alzata del suo balcone. Aveva lottato due mesi, aveva usato tutti i mezzi, aveva sprecato una inesauribile dose di pazienza, ma lo scopo si era allontanato sempre più. Ne aveva parlato al medico, ne aveva chiesto al confessore: le fu detto che era un fenomeno naturale, una inclinazione del suo temperamento; la risposta la persuase ed essa si rassegnò. Quando qualcuno le diceva in aria di profonda meraviglia: — Come non dormite dopo pranzo? è strano — ella rispondeva freddamente: — Non vi è nulla di strano, è il mio temperamento.

Che poteva attirarla in quell'angolo solingo, lei che non si faceva attirare da nulla? Era il temperamento, una inclinazione che non poteva vincere, un'abitudine inveterata. Da vedere non ci era niente che non fosse visto e rivisto per molti anni di fila; non vi si ascoltava alcuna voce, alcun canto, alcuna musica; d'inverno spesso pioveva, ed era allora tristissima cosa l'aspetto delle strade che s'impantavano e delle case che diventavano color ruggine. Silvia veniva là per stare tranquilla, con le mani incrociate sulle ginocchia, la testa appoggiata allo sportello di legno e lo sguardo errante nel vuoto. Nella stagione estiva vi era un treno che giungeva da Roma alle sette meno un quarto, ed ella abitava abbastanza vicino alla stazione per udirne tutti i rumori; prima un fischio dalla campagna, debole, lontanissimo, ed in risposta sulla stazione tre squilli argentini della campanella; indi un fragore cupo, sotterraneo come il colossale respiro di un mostro, un respiro che si calmava, poco a poco, come il treno entrava nella stazione. A tener bene l'orecchio si ascoltava la cascata dell'acqua nella macchina che si riforniva, qualche passeggiero scendeva, vi era una pausa silenziosa, la campanella salutava coi suoi tre squilli vibrati il treno che se ne andava, esso diceva addio con un fischio rauco, quasi disperato, l'affannoso soffio ricominciava, cresceva e si allontanava; il treno era partito, la stazione deserta. Nell' inverno anche questo mancava, cambiandosi l'orario.

Le stagioni buone o cattive si susseguivano, la pioggia ed il sole si alternavano con dignitosa equità, i treni arrivavano, si rifornivano d'acqua, lasciavano scendere qualche viaggiatore e ripartivano. Silvia lasciava scorrere le giornate, i mesi, gli anni come i granelli del suo rosario fra le dita, quando ne mormorava le avemmaria. Ma i suoi parenti, il padre, la matrina pensavano spesso che Silvia diventava zitellona: i suoi ventinove anni erano scoccati, essa prendeva una tinta gialliccia come l'avorio conservato a lungo, gli angoli delle labbra le si piegavano in una ruga, un'ombra violacea si formava sotto gli occhi. Intanto non si presentava alcun marito probabile, caso serio in una famiglia dove, nel ramo femmineo, si nutrivano queste due grandi tradizioni: non rimaner vecchia zitella e fare sempre un matrimonio di convenienza. Alla fanciulla non fu detto nulla, come era naturale, ma se ne parlò con gli amici di famiglia, col notaio, col cancelliere del tribunale é col parroco; costoro agirono, informarono, paragonarono; i parenti si dettero a fare, qualche pinzocchera se ne mischiò. Infine dopo molti tentativi infruttuosi, fu trovato un galantuomo sui quarantacinque anni, giudice del tribunale, di mente convenevolmente ristretta, abbastanza brutto, che voleva quietarsi, sposando una fanciulla saggia e senza pretese; egli sarebbe venuto ad abitare in casa della moglie, perchè il padre di costei non poteva privarsene, non avendo altre donne cui affidare i suoi affari domestici, nè convenendogli stipendiarne una. Due stanze sarebbero assegnate agli sposi, una da letto ed una da studio: comune il salone, la stanza da pranzo ed il resto. Silvia aveva ventimila lire di dote, il doppio alla morte del padre e qualche speranza; il giudice avea tremila franchi di risparmi, duecentoquaranta lire di stipendio mensili e la speranza di promozione. Fu detto alla fanciulla che era un matrimonio convenevole ed essa lo accettò, come aveva accettato tutti gli altri avvenimenti della sua vita, senza mormorare. L'idea della rivolta non si formava neppure in lei.

Silvia ebbe due abiti di seta, tre cappelli nuovi, un paio d'orecchini di brillanti, un braccialetto di oro con una perla, una grande spilla col ritratto del marito ed una quantità strabocchevole di biancheria, lusso profondamente inutile della provincia, dove i corredi non si consumano e passano di madre in figlia. Fece le visite, con cappello bianco dall'immancabile tremolante marabout, ricevette quelle insipide congratulazioni a fior di labbro, a cui si risponde con un più insipido mormorìo; andò alla messa al braccio del marito che le portava il libro di preghiere e l'ombrellino di seta bianca coperto di merletto nero, camminando con passo grave e solenne; mandò delle partecipazioni, qualche biglietto di visita giunse e fu incorniciato negli angoli degli specchi verdastri. In casa, Silvia ebbe una camera grande, un immenso letto maritale, un divano rosso e durissimo, ma nuovo fiammante, toilette larga, maestosa, dal marmo nero e sopra un servizio di porcellana azzurra di cui essa non sapeva e non doveva servirsi; sei sedie alte, dure, impettite, incapaci di esser mosse dal loro posto, anzi destinate alla immobilità. A tavola sedette di fronte a suo padre, fu chiamata signora, firmò le lettere col cognome datole dal giudice; e fu tutto. Dimenticavo il marito.

Ma il marito rassomigliava troppo agli zii, ai cugini, al padre, alla città, alle mura, ai mobili, perche qualche cangiamento avvenisse nello spirito di Silvia. Era una persona di più a cui doveva rispetto ed obbedienza, erano nuovi doveri, ma aridi e secchi come tutti gli altri; il giudice non era punto espansivo, e la freddezza della moglie gli piaceva, prendendola per un eccesso di serietà. Quindi esauriti gli episodi delle formalità matrimoniali, Silvia riprese il corso della vita abituale, camminando a passi cheti e moderati, dritta nelle pieghe rigide, quasi monacali, del suo abito nero, colla mano sull'anello delle chiavi, perchè queste non tintinnissero, parlando poco, sorridendo molto meno, pensando pochissimo, immaginando nulla ed aspettando la morte senza impazienza.

Era questa la miserabile creatura seduta dietro i vetri del balcone, nel puro pomeriggio estivo; la povera ed infelice creatura che non poteva comprendere la bellezza di quell'ora. Lentamente nel tramonto, l'orizzonte s'infiammava d'una luce corallina; sull'estremo lembo del cielo, una sbarra di nuvole, lunga, stretta somigliava ad un nastro d'arancio e violetto, frangiato di oro. Poi tutto l'arco del cielo s'incendiò, ma di un incendio lento e dolce; sulle case bigie, oscure, vecchie, si riflesse un chiarore roseo che parve le ringiovanisse; i vetri delle finestre divennero abbaglianti; le banderuole di ferro, agitantisi nel venticello crepuscolare, sembravano ali lucide di uccelli fantastici. Tutto il mondo, nell'infinito amore della luce che se ne andava, parve si fosse cangiato, in oro liquido e colante.

Quasi per forza, Silvia dovette contemplare quello spettacolo meraviglioso. Rimase un istante immota, poi senti un grande calore scorrerle per la persona, un senso benefico e piacevole che sembrò avesse dileguato l'invincibile ghiaccio della sua esistenza. Per la prima volta essa senti la sua vita: ecco i forti ed, onesti palpiti del cuore, ecco il sangue ricco e tiepido che irrompe nelle vene, ecco i nervi pronti, disposti, sensibili; ecco le idee che si affollano al cervello, l'intelligenza che si dispiega, la fantasia che sorge e si libra: è la vita, la vita, la vita! Ad un tratto una scossa profonda fece sussultare tutto il suo essere, una fiamma viva salì a colorarle il viso, una gioia insolita le folgorò dagli occhi ed ella rimase mutola, sorridente, in ascolto di qualche lontano e piccolissimo rumore. In verità una voce l'aveva chiamata.

No, non era più quella. La donna di prima, lettera morta, pagina bianca, era scomparsa, si era disciolta in quel tramonto d'oro liquido ed era subentrata la donna completa, viva, forte e buona: la madre. Negli occhi bruni e spenti, come quelli di una monaca, si accesero fiamme di amorosa dolcezza; la pelle si ammorbidì, si sfumò, divenne perlacea, ed un delicato color roseo vi si diffuse, come un gaio raggio di sole sulla neve; alle labbra rifluì il sangue ed il sorriso ed esse sbocciarono come una rosa; i capelli duri, tesi, senza grazia, ricaddero mollemente sul collo, ondulandosi; la linea rigida ed energica del mento s'incurvò. Il collo esile diventò pieno con un lento battito di vita, la persona parve formarsi e completarsi, le mani si fecero bianche e trasparenti, mentre alle tempia si scorgeva quell'ombra leggiera che è il segno sacro della maternità.

Col piccino che portava nel seno era nata anche lei; il primo palpito di quella piccola esistenza era stato simile alla forte voce di Gesù, che fa sorgere dal sepolcro Lazzaro quatriduano. Il suo passato, pesante, triste, nero, si era annegato nella luce ed ella si trovò compresa da una felicità grandissima. Obliò tutto, la vigilanza, le cure di casa, il marito, il padre: cedette le chiavi ad una zia e trascorse le giornate nella sua stanza, distesa in atto di abbandono nella sua poltrona, le mani inerti, le labbra vagamente sorridenti e gli occhi pieni di visioni. A chi le parlava, rispondeva con voce commossa, dove vibravano tôni di tenerezza fino allora a lei sconosciuti: le sue parole erano dolci e gioconde, i suoi moti lenti e carezzevoli; camminando, il corpo ondeggiava in una linea sinuosa. Rivolgeva attorno, anche alle persone estranee ed alle cose indifferenti sguardi di amore; spesso le venivano agli occhi lagrime di consolazione, che la soffocavano in una gioia infinita.

In quelle lunghe ore di riposo, Silvia volava con la fantasia ai paesi immaginarii, sprecandovi tutta la forza accumulata nel suo lungo periodo d'inerzia. Ecco di bambino, bello, vivo, sangue del suo sangue, cuore del suo cuore; gli occhietti neri luccicano nel bianco visino, le labbruccie spruzzate di rosso chieggono i baci.

— Eccolo nudo e ridente davanti alla fiamma del camino, agitando le gambette, contento del calore e cercando mordere il suo piedino di angelo. Ma è possibile? Questa cosetta rosea, graziosa, quest'animuccia che ancora rammenta le voci del paradiso, è suo figlio, suo, suo, suo? Egli dice la prima parola, il caro adorato vuole la mammá, la chiama, la chiama in tutti gli accenti, e la mammà si nasconde, per udire una volta di più quelle due sillabe scoppiettanti. Presto egli ha voluto camminare e, tutto fiero del suo coraggio, traballando ad ogni passo, cerca raggiungere la mammina che si allontana, sorridendo e tendendogli le mani; cresce, cresce, il bambino è già un fanciullo. Come felice la madre, appoggiandogli la mano sulla bruna testa, a proteggerlo, a benedirlo, a carezzarlo; come felice sentendo sulla sua il contatto di una fresca guancia ed al collo la catena di quelle braccia amorose; come felice nel guardarlo, nel sondare la fierezza del nero occhio, nell'ammirare il riso di quella bocca leale! Oh, madre fortunata senza fine nella sua creatura! Dio! Dio! che aveva ella fatto per meritare tanto?

Oppure era una bambinetta bianca, dagli occhi glauchi e dolci, dalla vocina melodiosa, dalle membroline gentili, dai capellucci così fini e così biondi, che sembran oro ridotto in sottilissimi fili. Non sa far altro la fanciullina che fissare i suoi grandi occhi sorpresi in quelli della madre, non chiede altro che attaccarsi alla sua gonna e seguirla dovunque: perchè è timida come una cervietta, candida ne' suoi abiti bianchi, azzurrina nelle sfumature del suo volto. Adesso i suoi occhi intelligenti si chinano sulle lettere dell'alfabeto che la madre vuole insegnarle, la vocina balbetta, il visino si arrossa per superare la difficoltà; le lezioni vanno benissimo, perchè in fondo vi sono sempre baci e carezze. Soavissima cosa piegare le ginocchia insieme alla figlia, congiungere le mani, elevare gli occhi al cielo ed unirsi nelle stesse parole di preghiera; uscire insieme nelle ore mattinali, scantonare in qualche povera strada, entrare in qualche tugurio miserabile e vedere la figliuola che arrossisce di piacere nel fare l'elemosina, mentre il poveretto la guarda con occhi pieni di lagrime, mormorando: Benedetta questa bionda fanciulla! E nel cuore della madre un'eco risponde: Benedetta questa figlia che è la pace de' miei giorni!

Ora Silvia comprendeva tutto, tutto: una grande tendina era stata lacerata davanti a' suoi occhi, la rivelazione del mondo l'aveva colpita, il suo intelletto era stato invaso dalla scienza della vita. A lei venne il soffio allegro e sano della gioventù con le emozioni freschissime, le trepidanze, i rossori, le gaie speranze, gli entusiasmi, la fede inconcussa nel suo avvenire di donna. Poilo slancio irresistibile nella passione, la lotta coi sentimenti, coi doveri, la parte della coscienza, l'urto perenne dell'anima coi sensi, l'alto ideale della virtù e le basse realtà dell'esistenza: tutta questa eterna battaglia di ogni cuore donnesco, fu la sua battaglia, donde usciva vincitrice. Le parve di aver provato tutti i piaceri della ricchezza, del lusso, della vanità, dell'orgoglio, dell'ambizione femminea; le parve aver amato tanto, aver amato bene, amato lungamente, di essere stata tanto riamata; e che di quel passato d'amore le fosse rimasta una cara malinconia, il cumulo dei ricordi che si svolge lento, lento, i rimpianti soavi, ed il fiotto delle rimembranze che arriva e se ne va, per ritornare e per andarsene di nuovo, simile all'eterna onda del mare. Quanto vi è di vero e di bello nella natura: i fiori, farfalle immote; le farfalle, fiori volanti; la fortezza onesta dei boschi, la verginità della neve, la bontà generosa della terra nera, il fermento di riproduzione che agita il mondo e la inflessibile serenità delle stelle: tutto trovò la via del cuore di Silvia. Comprendeva che la vita è una cosa buona, che la verità di essa è nell'amore e la felicità nei figli; e tutto il suo essere si genufletteva, mentre l'anima balbettava confuse parole di grazia.

In casa la guardavano trasognati, tanto essa era sconvolta, trasfigurata nelle sue contemplazioni; ma nè il padre egoista, nè i parenti volgari, nè il marito metodico osavano farle un'osservazione, quasi compresi da rispetto. Lasciavano fare ed ella nella follìa ragionante della maternità, acquistò le tele finissime, le battiste trasparenti, i merletti di filo, i nastrini di raso, spendendo senza contare. Impedì a chi la circondava di porre mano al correduccio; cucì tutto lei, pian piano, con cura, tirando i punti con un'aria di cheta soddisfazione, maneggiando le forbici senza farle stridere, susurrando paroline di amore alle piccole camicie, alle cuffiettine, baciandole e profumandole. Fu lei che ricamò il lungo abito di battesimo, lei che imbottì e cucì il cuscino di raso azzurro, coperto di una trina delicata, dove il bimbo avrebbe appoggiata la testolina; fu lei che trapunse il mantello di casimiro bianco, foderato di seta. Per un mese si occupò della culla che riuscì un vero nido di piume, di nastri e di merletti, un nido bianco, morbido, dove egli sarebbe stato calduccio, calduccio. E per quando egli sarebbe giunto, ella sognava nuovi cambiamenti; avrebbe modificata la severa casa, l'avrebbe resa piacevole ed allegra: nei vasi dorati del salone dove ora s'ingiallivano e s'impolveravano grossolane rose di mussola, vi sarebbero veri e bei fiori; i quadri spaventosi, rossi e gialli, sarebbero surrogati dalle chiare oleografie dove vari bambinetti festanti ruzzavano nei prati; ci voleva un'uccelliera sul terrazzo, perchè la voce degli uccelli si unisse nel trillare a quella di lui. Molte cose si poteva far venire dalla capitale, era facilissimo: bastava scrivere, e le mille eleganze, di cui in provincia non si conosce neppure il nome, sarebbero giunte a circondare di benessere il piccolino. Dunque si affrettasse il tempo nel suo corso, precipitassero i minuti l'uno sull'altro, si annullassero rapidamente le ore ed i giorni, venisse il desiderato — la madre era pronta e lo attendeva.

Ma l'interruzione subitanea delle antiche abitudini, l'impulso di vita giunto all'improvviso, la attività esagerata delle facoltà sino allora represse, l'esuberanza della forza che si spandeva. tutto questo nuovo rivoluzionava il fisico ed il morale di Silvia. Il sistema nervoso per tanto tempo atonizzato, divenne di una sensibilità squisita: una parola dura, una piccola difficoltà, un nodo nel vestito la facevano sussultare. Le sensazioni si erano perfezionate, raffinate; i suoi gusti erano diventati molto difficili, era stata presa da una grande passione pel caffè e pei profumi, l'impeto della sua vita si era raddoppiato. Piangeva volentieri, silenziosamente, senza singhiozzi, senza alcuna dolorosa contrazione delle labbra; talvolta per un nonnulla dava in iscoppî di riso convulso, inestinguibile: ora desiderava starsene sola per le settimane intere, contenta della solitudine; ora si chiamava tutti dattorno per essere in compagnia. Una fiamma continua le imporporava le gote, una fiamma che la consumava nel suo ardore; i polsi batteano frequenti, il corpo si dimagrava, le mani si assottigliavano; un giorno l'anello del matrimonio le scivolò dal dito anulare e non si potette più ritrovare. Le serve ne mormorarono per cattivo augurio ma Silvia non le intese; essa anelava al termine prefisso, corrosa dalla febbre, sempre più esaltata, coi nervi oscillanti e l'anima beata.

Nella camera dell'ammalata tutto taceva, nelle altre stanze si camminava in punta dei piedi e visi contristati si scambiavano ochiate più tristi ancora: il martello della porta era foderato di lana; nella strada avevano sparso la paglia, alcune visite erano state licenziate in fretta. Presso il letto della inferma vegliava solo il vecchio padre: quando il medico gli aveva detto che Silvia era perduta e con lei il bambino, il suo egoismo aveva ricevuto un colpo formidabile, qualche cosa di aspro gli ricercò il cuore ed era il rimorso. Egli impallidiva e tremava, pensando per quanto tempo aveva trascurata la figlia, egli si chiedeva la misura del dolore che gli aveva inflitto con la sua indifferenza; non le aveva mai dato un bacio, mai detto una parola buona, era stato per lei un estraneo. Ora essa, avvelenata da quella crudele noncuranza, moriva.

Silvia dormiva di un sonno affannoso ed irregolare, con lineamenti contratti, col viso diminuito, quasi divorato dalla lotta combattuta; balbettava ancora qualche frase del suo delirio. Troppo tardi era venuta la vita, troppo tardi ella era stata madre — il suo organismo già vecchio, già disseccato, si era infranto in quella pruova.

— Papà, lasciamelo vedere ancora — disse lei con voce fiocca, risvegliandosi.

Il padre si scosse, prese dalla culla il piccino e glielo portò. Era una creaturina debole e fragile, dagli occhi semispenti, dalle manine gelate. Silvia mise un bacio leggero sulla piccola fronte.

— Papà! — chiamò dopo un momento di silenzio la figliuola.

— Silvia?

— Dimmi: la mamma, la mamma mia era molto dispiacente di morire?

— Non funestarti con queste idee, figlia mia….

— Dimmelo papà, te ne prego. Era molto dispiacente di morire?

— Sì, perchè lasciava in terra una figlia.

— Le doleva, perchè lasciava in terra una figlia — ripetette quasi macchinalmente l'ammalata; — eppure…. era una santa donna.

— Una santa, Silvia.

— Essa sel sapeva — riprese lei lentamente — essa sel sapeva. I figli non possono restare senza madre sulla terra.

Si assopì da capo. Il padre si sentiva soffocare in quella camera dove si respirava l'agonia ed uscì fuori: vi era del tragico in quella figura di vecchio colpito dalla disperazione.

Silvia si era assopita, ma la fierissima febbre rendeva leggero il suo sonno: erano le sei e mezzo; il treno che veniva da Roma fu annunziato dal suo fischio. Essa si destò di soprassalto: era sola.

— Giunge il treno — disse come fra sè — giunge il treno…. fa il suo còmpito…. riparte.

Si alzò sopra un braccio e fissò nella penombra il candore della culla:

— Andiamcene, figlio mio — mormorò essa.

Il sipario era venuto giù in un attimo, come in tutti i piccoli teatri dove si manovra con due cordicelle scorrevoli negli anelletti di ferro; dopo pochi applausi, l'intervallo cominciava. — Si era in aprile e nel teatro senza aperture si appesantiva un'aria calda e greve; i lumi a petrolio fumigavano un poco; per l'atmosfera della sala lunga e stretta si diffondeva una leggiera nebbiolina; i monelli del lubbione avevano tolta la giacca ed erano rimasti democraticamente in maniche di camicia; la platea si vuotava e nei corridoi angusti girava l'acquaiolo, annunziato dalla monotona voce e dall'acuto odore di anici. Nei palchi grande movimento di ventagli in mano alle signore — e per signore intendo donne, perchè non vi era alcuna stella del firmamento aristocratico. La popolazione dei palchi era per quella sera formata da tre o quattro famiglie della grossa borghesia, inanellate e vestite della rumorosa seta domenicale; di un impiegato municipale con la relativa arca di Noè; delle figlie piccole di un giornalista, che era andato al San Carlo con la moglie; delle sorelle dell'impresario, serotine e gratuite frequentatrici del teatro; di una frotta d'inglesi, vestiti di tela bianca e col velo verde al cappello, ed infine di un giovanotto abbastanza misterioso, solo in palco, che ascoltava la rappresentazione, voltando le spalle al palcoscenico, sbadigliando dietro la mano inguantata: una conseguenza, era evidente. Nessun occhialino: sarebbe stato ridicolo a tre metri di distanza. Il maestro di orchestra, un disgraziato pagato ad un franco e cinquanta per sera, squadernava sul piccolo leggìo la vetusta mazurka, volgendo una occhiata pietosa agli otto professori suoi colleghi, che si godevano una paga giornaliera variabile da settantacinque centesimi ad un franco.

Nel palcoscenico un momento di riposo. Là il caldo era soffocante; non veniva un soffio di aria da nessuna parte; la caratteristica, che fingeva una vecchiona ricca e benefica, si era levata dal capo una parrucca a riccioloni maestosi, con suvvi appuntata una cuffia di merletto adorna di nastri e fiori, ed era rimasta con una treccia tonda e brizzolata, perchè la buona donna camminava direttamente sui cinquanta. Donna Carmela, l'amorosa, passeggiava su e giù, facendosi vento col grembiule di seta nera; il suo ventesimo fidanzato — essa aveva combinati e rotti diciannove matrimoni — era corso a prenderle un bicchiere d'acqua gelata, con sciroppo di amarena. Pulcinella seduto sopra alcune vecchie quinte, aveva sollevata la grossa maschera d'incerata nera, per respirare un poco meglio e si soffiava sul volto col berrettone di lana grigiolattea. Pulcinella pensava: nessuno se ne meravigli, era molto giovane.

Non si poteva vedere se fosse o no un bel giovane. Pulcinella porta sui capelli, sotto il berrettone, una stretta calotta di lana nera, più grande di quella dei monaci, che gli nasconde tutta la testa; sul viso, sino alla bocca, la maschera nera del naso magistrale; il corpo è nascosto dal camiciotto di mussola bianca a pieghe amplissime, dalle maniche larghe che giungono sulle dita, dai calzoni bianchi e larghi che ricadono sulle scarpe di tela grigia, simile al berretto. Di lui si vede solo un po' di mento, il collo e le mani: impossibile di riconoscerlo. Ma il pubblico che ama Pulcinella come una gloria paesana, non ricerca quasi mai la fisionomia nascosta sotto la maschera: per lui, Pulcinella non è un uomo, non è una personalità simile ad un'altra, ma è un tipo, un carattere, una manifestazione — è lo spirito popolare, sarcastico, ribelle, filosofico, che scoppietta — è la maschera che personifica ed incarna il temperamento meridionale, pieno di fuoco e d'indolenza — è l'aspetto proteiforme di un popolo — è tutto, fuorchè un individuo. Se ne sa il nome, è vero; ma pochi sanno il viso.

Però posso assicurarvi che Gaetano Starace, senza essere un modello di bellezza, era molto simpatico coi suoi capelli neri e lievemente ricciuti, cogli occhi vividi e la pelle bianca come quella di una donna. Non era un essere eroico, non era un uomo di grandi sentimenti, ma aveva un cuore di oro e conservava fedelmente l'eredità del blasone; da tre generazioni nella sua famiglia si diventava Pulcinella per inclinazione, per abitudine, per trasmissione nel sangue, come le malattie ereditarie. Quando un fanciullo veniva su, non si pensava ad avviarlo per nessuna carriera, per alcun impiego; il suo mestiere era bello e trovato, il suo còmpito era quello d'indossare l'abito e di rallegrare seralmente la gente. Era un lavoro faticoso, esclusivo, opprimente, un lavoro inglorioso e poco fruttifero, ma nella mente ristretta e buona degli Starace non entrava l'idea della ribellione alle ingiustizie sociali; erano uomini umili, cortesi, allegri, senza pretese, fedelissimi al teatro dove erano nati e dove morivano, devoti ed ossequenti al loro pubblico, incapaci d'irritarsi contro i suoi capricci, sempre pronti a carezzarlo, a sollazzarlo, a sacrificare per esso ogni cosa. Il bambino andava a scuola, imparava a leggere ed a scrivere, s'infarinava leggermente di tante altre cognizioni; ma la sera la passava nelle quinte, a vedere ed a sentir recitare suo padre; ai sedici anni faceva qualche particina da Pulcinellino, ai venti suppliva il padre quando era ammalato; alla morte di lui diventava Pulcinella. E questo regolarmente, senza esitazioni, senza dubbi, come un obbligo, come un dovere, come una fatalità.

Così di Gaetano Starace; si aggiunga che, per un po' di naturale ingegno, egli si rendeva utile riducendo commedie italiane in dialetto, raffazzonandone delle nuove su tele vecchie, scrivendo parodie di opere serie — e qua e là non mancava lo spirito. Non roba molto fine, è sottinteso, ma pei frequentatori del teatrino bastava ed era soverchio: come attore, Gaetano era svelto, pieno di vita, aveva una voce gradevole e conosceva l'arte di modularla. Il padre gli morì presto, ed esso, che era figlio unico, gli subentrò, come nei regni costituzionali; recitava bene, era allegro per natura, era giovane; piacque, divenne il beniamino del pubblico. Il suo mestiere non gli dispiaceva, anzi, e' lo faceva con un certo trasporto: nel suo cervello non nascevano le idee dell'arte, la missione, la vocazione, la fibra artistica, l'interpretazione, la scuola vecchia, la nuova e simili formole che affliggono gli altri artisti drammatici — niente di tutto questo. Sibbene, così alla grossa, egli comprendeva che quegli spettatori della platea e del lubbione erano popolo, quel popolo che soffre, che lavora, che stenta e che quando può disporre di pochi soldi va al teatro per dimenticare nel riso i guai della vita — e nel suo cuore di popolano, si consolava di dover essere lui ad alleviare, a sollevare a rallegrare il suo prossimo. Quando si metteva la maschera e stringeva la vagina deì suo camiciotto, si sentiva il cuore leggero, diventava gaio per la gaiezza che avrebbe data altrui; quando una intiera platea scoppiava in un risata omerica, egli gongolava dal contento, come chi abbia fatto una buona azione.

Per lo più, prima che cominciasse la rappresentzione, usava di metter l'occhio al buco del sipario ad osservare attentamente il suo pubblico; notava tutti i volti gravi, i tristi e se ne ritornava fra le quinte, fregandosi le mani, sorridendo e mormorando fra sè: «Vedremo, vedremo, se ci potrete resistere.» Quando aveva ottenuto l'intento e si vedeva davanti una folla di volti ridenti, si congratulava con sè stesso, come di una grande vittoria. Talvolta qualche spettatore isolato s'incaponiva a rimaner serio, non sorrideva neppure ai più graziosi frizzi; allora Pulcinella si ostinava da parte sua, s'infiammava, si moltiplicava, recitava per quel solo spettatore, fino a che lo avesse vinto e domato, sino a che lo avesse visto contrarre la bocca, in una convulsione di riso represso. Chiamava questi spettatori con una parola pittoresca ed energica: scogli.

Quella sera aveva trovato uno scoglio ed anche durissimo; quello lì non voleva ridire, proprio non voleva. Gaetano aveva lavorato bene e molto aveva variato la trita commedia che si rappresentava, infiorandola d'improvvisazioni spiritose; ma lo spettatore non se n'era dato per inteso, era rimasto immobile ed indifferente: Pulcinella ci perdeva, lo spettatore era più forte di lui.

Veramente si trattava di una spettatrice: era una giovinetta che stava nel palco numero due di prima fila, seduta di fronte alla scena e quindi vicinissima. Una giovinetta dal volto pallido e lunghetto, un po' magro; sulle linee esili del collo ricadevano due grosse trecce nere che erano appuntate, con semplice ed elegante ornamento, da certe stelle di tartaruga bionda; vestiva un abito di lana grigia, terminato alla radice del collo da una arricciatura di merletto bianco, chiuso a quel punto da una stella più grande di tartaruga; oscuri i guanti. Aveva ascoltato con molta attenzione, ma la serietà del viso non si era diradata; anzi una certa fierezza trapelava dalla fronte stretta e bianca, dalla linea decisa del mento: non era bella, ma aveva una di quelle fisonomie spiccate, perfettamente individuali che non si possono più dimenticare. Con lei stava una signora matura, vestita onestamente di nero, con un volto somigliante alla giovinetta, ma le cui linee erano più dolci, quasi ammollite dai capelli bianchi e da un benevole sorriso: sua madre forse.

Ma Gaetano non si curava di tutti questi particolari, era preoccupato della gravità della fanciulla. Non era malinconia, non era dolore, non era neppure indifferenza: il sentimento che si leggeva sul viso di lei, era un'aria di serietà superiore, quasi incosciente, certo naturale. Egli si chiedeva perchè una giovinetta, neanche vestita di nero, nell'età del riso, nel teatro dove si andava per ridere, si negasse alla gioia. Ora ella parlava lentamente con la sua compagna, senza gestire, con uno sguardo intelligente, muovendo appena le labbra: che diceva? Quale strana apparenza era la sua! Tutti ridevano, ella no; tutti si divertivano, essa non si annoiava; che faceva, che pensava dunque? Rivolgendo in sè queste idee, Gaetano rimaneva col viso incollato alla sudicia tela del sipario, con l'occhio fisso sulla figura pallida della fanciulla, perduto nelle sue supposizioni, tormentato un poco da quel problema ventenne che stava nel palco di prima fila.

— Fuori scena! — gridò il buttafuori.

Suo malgrado Gaetano dovette rientrare nelle quinte; giunto là gli parve di aver avuto un'idea luminosa, un'idea che gli fece piacere e dispiacere nel medesimo tempo: sicuramente la fanciulla doveva essere innamorata.

— Allora ci penso io a farla stare allegra, — mormorò fra sè; — giusto nel terzo atto vi è una scena d'amore.

Diede una spinta sino all'esiguo camerinetto, dove Donna Carmela, l'amorosa, allo scarso lume d'una fumosa candela di sego, davanti ad uno specchietto di quaranta centesimi, si acconciava al collo un fazzoletto di seta rossa; aveva le guance grossolanamente cariche di bianco e di rosso.

— Mi raccomando, donna Carmela — le disse — un po' di anima nella nostra scena.

— Vi pare! Con voi non c'è bisogno di raccomandazione, — ribattè lei, scoccandogli uno sguardo lusinghiero; tanto il ventesimo fidanzato non c'era! Ma Gaetano parve non ci badasse.

Infatti la scena di amore, che era anche la culminante, cioè l'ultima, fu recitata a meraviglia: Carmela vi mise dell'impegno, parve quasi che sapesse la parte; i suoi occhi ingranditi dal bistro brillavano, la voce rauca aveva qúasi intonazioni d'intelligenza. Gaetano si superò; fu felice in ogni frase, fu spiritoso, fu ridicolo, fu barocco: la platea, anzi tutto il teatro andava in convulsioni pel ridere, egli stesso si sentiva in ammirazione davanti alla sua bravura — e quando all'ultimo, un applauso fragoroso coronò l'opera, egli rivolse un'occhiata alla giovinetta del palco, sicuro di averle fatto impressione, sicuro di averla commossa al riso. No; il volto di lei non aveva cangiato espressione: solo l'occhio fiero avvolgeva Carmela e Gaetano in un freddo sguardo e la bocca gentile si piegava ad una curva dura ed energica di disprezzo.

Egli rimase ghiacciato, immobile, istupidito. Perchè il disprezzo?

Fu così che Gaetano Starace, Pulcinella del popolare teatro di S. Carlino, s'innamorò di una sconosciuta.

Egli non era un filosofo, eppure un giorno passandosi la mano sulla fronte pensierosa, esclamò: Quanto diverso l'amore della commedia da quello della vita! E la testa gli si curvò sotte il peso di quest' amara verità.

Ogni sera l'aveva recitato, l'amore della commedia: quell'amore espressivo, esterno, parolaio, pieno di fiamma, ruvido, carezzevole, passionato del popolo napoletano, egli lo aveva espresso ogni sera a donna Carmela, l'amorosa, e a donna Checchina, la così detta ingenua; ogni sera l'una o l'altra di quelle due donne lo aveva amato, gli aveva rivolte parole d'affetto. Egli era stato volta a volta amante felice, geloso traditore, sfrontato, tradito, non corrisposto; ma in fondo, al terzo atto della commediola, le cose si erano aggiustate, il matrimonio si compiva, e si ballava la tarantela alla luce dei fuochi artificiali. Sempre il suo amore era stato allegro, chiassone, grossolano, volgare, aperto a tutti senza che mai un palpito interno corrispondesse a tutto quel lusso di esteriorità; ma nella vita, quale e quanta differenza!

Dopo quella sera egli era stato una settimana inquieto ed agitato: lo assalivano mille dubbì, mille sospetti; un turbine di pensieri gli girava pel capo: non si sapeva spiegare il contegno della giovanetta. Non se lo spiegava; eppure dovunque si voltasse, a qualunque occupazione si desse, egli rivedeva la freddezza di quegli occhi ed il disdegno di quelle labbra; insieme il volto pallido e simpatico, le trecce nere e le stelle bionde di tartaruga: dappertutto la stessa immagine. Nel teatro era peggio: fissava sempre il suo sguardo sul secondo palco di prima fila, quasi attendesse a vederla ricomparire, irritandosi contro gli altri che venivano ad accuparlo; se veniva al buco del sipario, si ricordava di lei; se donna Carmela gli parlava, si ricordava di lei; se recitava la commedia della prima sera, gli pareva di soffrire le stesse ansie e la medesima disillusione di allora. Infine la sua vita era profondamente turbata.

Un segreto istinto lo spingeva a non ricercare fanciulla sconosciuta; pure la rivide, seppe di lei, della sua famiglia, della sua condizione: vi era una vecchia e solita storia di famiglia nobile, impoverita per cattiva amministrazione e per infelici liti, una madre ed una figliuola che erano rimaste con una piccola rendita, sufficiente a farle vivere d'una vita molto ristretta e molto borghese. Pure nelle vene della fanciulla Sofia Cantelmo scorreva un sangue purissimo ed azzurro, onde la severità scultoria della figura, l'incesso un po' altero, le estremità lunghe e fini, e quell'aria signorile che si ha, ma che non si acquista mai. Gaetano seppe tutto questo, prese cinquanta volte al giorno la risoluzione di fuggire Sofia, di non pensarvi, di dedicarsi intiero alla sua umile vita di Pulcinella, ma il povero giovane non vi riuscì: non era stato mai innamorato, non giungeva a vincersi.

Passava le mattinate a passeggiare nella piazza Cavour, sotto le acacie degli squares, a guardare i balconi di un secondo piano, che si aprivano raramente pel suo desiderio; Sofia vi compariva solo nelle belle giornate e vi rimaneva poco, non lo vedeva mai, o, vedendolo, non lo curava. La domenica ella si recava a sentir messa nella antica chiesa di S. Maria di Costantinopoli, con sua madre, ed egli, pio come tutti quelli che amano entrava nella chiesa e pregava; poi le due signore andavano a fare una passeggiata, ed egli dietro, a dieci passi di distanza, fingendo l'indifferente, ma seguendole come un cane fedele. Pel resto della giornata doveva occuparsi alle prove, correre a casa a prendere un boccone, ritornare al teatro per la rappresentazione di giorno e non uscirne che a mezzanotte: pure a mezzanotte, prima di ritirarsi in casa, stracco morto dalla fatica, oppresso dal caldo, faceva una corsa sino a piazza Cavour, per rivedere un balcone illuminato e qualche volta un'ombra alta e svelta passare dietro le tendine. Questo per settimane intiere, senza variazioni; ma la sua pazienza, quella specie d'innata bontà, quella umiltà rassegnata che si contentava di vedere Sofia senza sperare altro, quella voce interna che lo consigliava a smettere, si stancarono. Era giovane, non aveva mai amato, il sangue gli bolliva nelle vene e gli sconvolgeva il cervello: quell'attesa, quella immobilità gli divennero insoffribili, aveva bisogno di decidersi a qualche cosa, di agire, di muoversi, di sapere che ne doveva essere del suo cuore e di sè. Le scrisse una, due, cinque lettere.

Erano male scritte, è vero: qualche espressione, qualche frase, qualche periodo era preso dalle commedie di repertorio; qualche errore di ortografia vi incappava ogni tanto: pure vi spirava un amore così profondo, così sincero, vi si manifestava un desiderio così vivo di una sola parola, di un sol sorriso, che l'altera fanciulla ne dovette essere scossa.

Era da tempo che essa, sotto la bruna frangia delle palpebre, osservava la fedeltà di Gaetano a presentarsi ogni mattina; era da tempo che essa aveva l'abitudine di vederlo immancabile alla chiesa, alla passeggiata, sempre modesto, sempre un po' triste; e lentamente, nel suo cuore freddo e solitario, comparve l'immagine del giovane innamorato. Sofia era uno di quei caratteri intieri, tutti di un pezzo, incapaci di cedere ad una debolezza, ma incapaci di mentire agli altri od a sè stessi; era altiera, ma per questa medesima alterigia, non soffriva mezzi termini; non amava, o amando, doveva andare fino in fondo. Poi le sventure sofferte da bambina le avevano dato una severa lezione, le avevano insegnato che la nobile nascita non vale nulla, in tempi nei quali non conta che il danaro: che oltre la nobiltà del blasone vi è pur quella del lavoro, anch' essa egualmente bella ed onesta. Il giovane aveva una professione, lavorava certo in quelle ore che non lo si vedeva apparire; forse per soverchia umiltà aveva firmato le sue lettere col solo nome di battesimo, temendo che la nudità del suo cognome borghese non dovesse offendere la fanciulla. Sofia sentì di stimarlo per la sua condotta passata, per quella presente; la madre, desiderosa come tutte le madri di vedere collocata la figliuola, la incoraggiava dolcemente; ella rispose poche parole, con serietà, ma senza freddezza. Lo stimava, voleva conoscerlo; forse lo avrebbe amato.

Egli andò per la prima volta in quella casa tremante di emozione, dominato da una strana ansietà; avrebbe voluto essere perfettamente contento e credeva di essere contento; ma ogni tanto, come per una nuvolà nera, la sua gioia s'intorbidiva ed egli si spaventava per un ignoto pericolo. Dopo si dava del matto, del presuntuoso, dell'incontestabile; chiamava in aiuto il suo amore, la sua franchezza, la lealtà del suo cuore e delle sue intenzioni; pensava che un mese, una settimana prima, non avrebbe neppure sognato una simile fortuna — e si rassicurava. Pure al cospetto delle due donne fu timido ed impacciato, non osava guardare Sofia, non sapeva se darle del lei alla toscana o del voi alla napolitana; le parole cascavano lente, un invincibile dubbio lo arrestava. La fanciulla lo comprese e vide che era mestieri aiutarlo, restituirgli un po' del suo coraggio; gli parlò lei, con bontà, cercando di raddolcire l'espressione del suo volto, giungendo sino a sorrridere; egli si animò, divenne più franco, superò completamente il suo imbarazzo. Le cose si mettevano assai bene, quando la signora Cantelmo uscì fuori con questa domanda:

— E dove ci avete conosciute?

— Al teatro…. — rispose egli preso da una nuova esitanza.

— Al teatro? — riprese Sofia. — Noi vi andiamo molto di rado.

— Nell'aprile, al San Carlino — rispose egli senza aggiungere altro.

— Ora ricordo; quando Maria Desanctis ci mandò quel palco, mamma. Una cattiva serata quella….

— Perchè? — domandò Gaetano, senza osare di chiedere altro.

— Non amo quel teatro; vi si ride troppo e non vi s'impara nulla. Tutto quello che vi si dice è così triviale, così volgare, così basso, che mi ripugna; quelle risate della platea hanno qualche cosa di selvaggio. E quel Pulcinella, quel grossolano buffone, che carezza con la parola e con l'intenzione tutti gli istinti brutti del popolo, mi è insoffribile: io mi chieggo come un uomo si possa rassegnare a quel mestiere….

— Sei severa Sofia — interruppe la madre, mitigando l'osservazione con un dolce sorriso.

— No, mamma. Forse che mancano vie oneste per guadagnarsi il pane? Meglio un lavoro manuale, che quel mestiere ridicolo ed indecoroso. Ma infine, che importa a noi tutto questo? Io non vi vidi quella sera.

— Non potevate vedermi, — rispose Gaetano pallidissimo.

— Andate spesso al teatro? — chiese la madre.

— Non siete occupato la sera?

— Sì, ogni sera — riprese lui, con uno sforzo penoso — ogni sera vado a lavorare.

— È un lavoro faticoso? — domandò Sofia con bontà.

— No…. non molto: ed anche mi ci sono abituato.

— In commercio forse?

Che cosa doveva risponderle? Gettarle la verità in volto e fuggire? L'amava. l'amava passionatamente, l'amava per le sue stesse parole di disprezzo. L'amava. Mentì.

— Sì, in commercio, in una casa bancaria. Ci vado alle quattro e ne esco ogni sera a mezzanotte.

Ed aggiunse il suo nome ed il cognome di sua madre: Rosati. Così l'inganno era completo. Dopo si congedò, andò a casa abbattuto, pallido, ferito al cuore. Sul teatro l'amore era sempre una gaia commedia, ma nella vita diventava per lui un dramma doloroso; il primo giorno della felicità, egli era tanto, tanto infelice.

La mattina egli la passava presso lei: seduto sulla sedia dove ella appoggiava i piedini, scherzando con i gomitoli di lana che le servivano per il ricamo, parlandole a voce sommessa, mentre la madre andava e veniva per le stanze. Non arrivavano mai visite, la camera era silenziosa, piena di luce e di sole; dei fiori erano messi qua e là in certi grandi vasi di cristallo, tersi e puliti; Sofia si degnava di parlare con quella sua voce gravemente musicale, che aveva qualche cosa di intimo e d'affettuoso: Sofia si degnava di sorridere con quel bel sorriso che correggeva la purezza statuaria dei lineamenti; Gaetano si sentiva penetrato da una grande pace, da una tranquillità soddisfatta. Egli godeva di mille piccole cose; le affusolate e bianche dita di Sofia, adorne di un anellino con turchine, che egli le aveva donato, volavano sul canevaccio come farfalle bianche; quando la lana finiva nell'ago, essa la spezzava con un colpo netto delle graziose e lucide forbicine; quando un fiore si doveva incominciare, egli era chiamato a dare il suo parere sulle gradazioni e sulle mezze tinte; spesso la fanciulla lasciava andare in grembo il lavoro e si distraeva a discorrere con lui lentamente, accentuando le parole solo con lo sguardo. Gli diceva che la sera avanti, sull'imbrunire, era uscita al balcone, e che aveva visto nella strada tanta gente; subito aveva pensato a lui, sagrificato in una camera buia, sopra un libro mastro, in compagnia delle cifre, e lo aveva compatito; gli diceva che se l'altra domenica fosse uscito un gaio sole, sarebbero andati tutti e tre a passeggiare nel bosco di Capodimonte; essa gli avrebbe indicati certi bellissimi viali, certi alberi vecchi, vecchi e che avevano l'aria molto buona; gli diceva che aveva letto il tale libro, che le era piaciuto, specialmente un certo punto; prendesse il libro, era sul tavolo, lo aprisse a tale pagina, leggesse ad alta voce, ed egli ubbidiva, sorridendo: leggeva con enfasi, comprendeva più col cuore che con la mente; ella lo ascoltava, socchiudendo un poco i bruni occhi. Poi rimanevano silenziosi, fissandosi a lungo col sorriso innamorato delle labbra. Non discutevano mai; si trovavano sempre d'accordo; perchè Sofia era un po' esclusiva nelle sue opinioni, era inflessibile nelle sue idee; ma Gaetano ammirandola ed amandola, s'inchinava a tutto quanto ella dicesse. Vi era in lei un sentimento così grande, così equo di probità, un disegno così completo della facile morale del mondo, che il giovine si sentiva in sua compagnia diventare più forte, più fermo, più coraggioso. L'amava come fanciulla, come donna, come amica, come sorella; gli piaceva, l'ammirava, le voleva bene, l'adorava; l'amava, l'amava, l'amava.

Ma appena uscito da quella porta, le sue ferite cominciavano a sanguinare. Egli era un mentitore, un traditore, un vigliacco che ingannava una giovinetta nobile e onesta; era indegno del suo amore, egli il buffone, egli il Pulcinella. Sino allora la sua mente era rimasta ottusa: egli aveva amato il suo mestiere, ne aveva compreso il solo lato buono, gli era parso di non essere da meno degli altri uomini che lavorano; ma le parole di Sofia gli avevano acuito l'ingegno, lacerato il velo che gli ottenebrava l'intelletto; suo padre gli aveva lasciato in eredità il ridicolo, quello che faceva ogni sera, era un mestiere indegno. Quindi nutriva nel cuore un odio incurabile per quanto prima era stata la sua consolazione: il palcoscenico stretto, polveroso; le quinte nere, sporche, soffocanti, piene di ragnateli; l'ambiente di petrolio, di fumo rossiccio, di respiri graveolenti; i compagni volgari, chiassosi, sboccati; le donne dipinte, incipriate con la farina, cariche di oro falso, che parlavano il dialetto, gridavano, si urtavano, litigavano, alcune viziose, altre semplicemente miserabili; la sua livrea bianca, la maschera nera che lo deformava, il berrettone obbligatorio; quei caratteri di ghiottone, di pauroso, di egoista, d'imbroglione, che era costretto di rappresentare; quelle frasi a doppio senso, quei frizzi taglienti che addirittura portavano via il pezzo di carne, quell'amore esterno che doveva fingere — tutto, tutto gli sembrava ignobile. La sua vita della mattina lo ingentiliva e gli sviluppava tutte le facoltà morali; la vita di ogni sera lo avviliva, l'opprimeva, l'abbrutiva.

Con uno sforzo disperato aveva cercato liberarsene, aveva voluto gettare lungi da sè quel fardello tormentoso: ma gli mancava la capacità di un altro impiego, non sapeva nulla o un poco di tutto, che vale lo stesso: era un ignorante. Non lo avevano voluto neppure per copista; si chiedevano informazioni sul suo conto e quando si appurava che era il Pulcinella del S. Carlino, ognuno si stringeva nelle spalle e sorrideva: stava al teatro, vi rimanesse. Così soffrì due o tre rifiuti che gli facevano misurare quale e quanto fosse il ridicolo della sua posizione; e ritornava ogni sera alla sua catena, addolorandosene, soffrendo, digrignando i denti quando il pubblico lo applaudiva; odiando sè stesso, il mondo — ed amando Sofia.

A lungo andare non ebbe più pace, neppure nelle ore che trascorreva con lei, non giungeva più a dimenticare la sua personalità; il pensiero della sua condizione miserrimo vinceva anche il balsamo della presenza di Sofia. Costei spesso gli chiedeva minute notizie della sua vita d'impiegato, se il lavoro non fosse troppo penoso, se i suoi banchieri lo trattassero con bontà, se andassero bene gli affari: ed egli ad ingarbugliarsi, a chiamare in soccorso le sue ristrette cognizioni, per pescarvi qualche cosa di commerciale, ad infilzare bugie sopra bugie. Le rare volte che suonava il campanello, egli trasaliva, temendo che entrasse qualche persona da cui fosse conosciuto; qualche volta si alzava come se volesse fuggire; quando giungeva a Sofia una lettera in sua presenza, egli tremava che fosse qualche anonima denunzia: se la ritrovava malinconica, gli si gelava il sangue nelle vene, pensando: Ha saputo qualche cosa! Le aveva promesso di condurle sua madre, una buona popolana: ma con mille pretesti non aveva mantenuto la promessa. Nelle belle mattinate di estate, nei suoi rarissimi giorni di vacanza, Sofia lo incitava a uscire insieme con lei e con sua madre; gli toccava scegliere le vie remote, guardarsi d'attorno, con sospetto d'incontrare qualche amico che lo chiamasse per nome.

Ma vi era di più: spesso nei più bei momenti di calma e di serenità, nei momenti in cui avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a Sofia e adorarla come una Madonna, era assalito da un turbine di pensieri brutti. Sbuffi di cinismo gli salivano al cervello, ricordi di teatro gli intorbidavano la mente, egli si sentiva ridiventare volgare, plateale: chiedeva a sè stesso se quelle bugie, quelle finzioni, quelle delicatezze non fossero esagerazione, roba inutile con Sofia. I mariti sono scarsi e pur di averne uno, le fanciulle chiuderebbero un occhio ed anche due sulla bellezza e sulla professione dello sposo: così aveva egli enunciato dal palcoscenico, ottenendo le approvazioni della platea; così gli accadeva di pensare presso la giovanetta. Con un volo della sua ammalata fantasia, s'immaginava già che Sofia gli avesse perdonata la sua menzogna, che fosse sua moglie, che venisse ad ascoltarlo recitare, che lo applaudisse…. perchè no? Dirle tutto allora…. ma Sofia gli alzava in viso gli occhi sereni e casti ed egli ricadeva nella realtà, più affannato, più crudelmente angosciato di prima.

Un giorno ricadde ammalato di una febbre nervosa, sperò di morire. Invece dopo tre giorni era guarito ed il suo impresario gli venne a fare una visita per discorrere di cose importanti, secondo diceva lui. Era da tempo che il teatro faceva scarsi introiti, mancavano le novità ed il pubblico si ecclissava; nelle tre sere che Gaetano era stato assente, la sala era rimasta vuota: occorreva darsi da fare, lavorare, trovare qualche idea, arrischiare anche qualche spesa, battere la grancassa, pur di richiamare gente. L'impresario aveva un'idea, anzi due: si potea tentare una parodia del Rigoletto, che sarebbe venuta fuori interessante e spiritosa dalla penna di Gaetano, si poteva riprendere una vecchia commedia di repertorio, non rappresentata da una trentina d'anni, dopo avervi praticate delle rifazioni. Che ne diceva il carissimo Gaetano, il sostegno del teatro S. Carlino?

Gaetano rispondeva di sì; avrebbe fatto la parodia, avrebbe praticate le rifazioni; egli era il sostegno del teatro S. Carlino, se ne accorgeva, se lo sentiva addosso il teatro, pesante ed irremovibile. E si accinse al lavoro; scrisse a Sofia che una importante operazione finanziaria, una grossa liquidazione gli impediva di andar da lei per quattro o cinque giorni, che presto sarebbe ritornato, che l'adorava sempre. Nell'impastare alla meglio quella parodia del Rigoletto egli provò un amarissimo piacere ritrovandosi nella persona dello sventurato gobbo, cui unico conforto alla vita di buffone era l'amore della figlia: egli si compiaceva ferocemente contro sè stesso, mettendo in caricatura l'amore paterno del buffone e l'innocenza della figliuola, rilevando la gaia dissolutezza del Duca, di Maddalena. Egli, Gaetano, avrebbe fatto nella parodia la parte di Gilda, vestito da donna, cioè arrivando all'ultimo grado dell'avvilimento; giorno per giorno si configgeva nelle carni, quelle spine, sorridendo come gli antichi martiri, del suo sangue che se ne andava.

Già grandi cartelloni rossi e verdi, incollati per le mura della città, annunziavano al pubblico napoletano la nuovissima e brillante parodia del Rigoletto, scritta espressamente dal Pulcinella Gaetano Starace, in cui egli avrebbe preso parte insieme col buffo Barilotto, con don Felice Sciosciammocca, il Tartaglia, la caratterista ed altri dieci attori; già i giornali consacravano dieci linee della loro cronaca teatrale, per raccomandare ai loro lettori la prima rappresentazione: sarebbe stato un successo clamoroso, una serata allegrissima, un brio da suscitare i morti; anzi un cronista che masticava di francese, lo profetizzò addirittura un succès de fou rire; tutti poi prevedevano delle piene straordinarie.

Infatti la domenica della prima il teatro riboccava di gente e l'impresario gongolava di gioia: Gaetano, con una febbrile attività andava e veniva per badare al macchinismo. Uscì soltanto alla terza scena, fu salutato da un applauso fragoroso, come autore e come attore, ringraziò, pronunziò le prime parole: ma girando attorno lo sguardo fu assalito da un tremore mortale. Sofia era con sua madre nel fatale palco, numero due, di prima fila, vestita di azzurro, immobile, seria, attenta! anzi a quella voce aveva trasalito.

Allora Gaetano ebbe un disperato coraggio, il coraggio delle anime buone che si trovano nel più critico, nel più doloroso istante della vita: glielo ispirava il cieco terrore di perder quella fanciulla che per lui era tutto. Ebbe il coraggio di andare avanti cambiando la voce con un falsetto sgarbato: pel resto era irriconoscibile. Esaltato da tanti mesi di lotta, dalla febbre patita, dalla presenza di Sofia, egli dispiegò quella sera tutta la sua versatilità per sedurre gli spettatori. Vestito da Gilda, fu ridicolo sino alla caricatura, forzò la voce ed il gesto: imitò, esagerandole, tutte le grazie svenevoli delle attrici di terz'ordine; vestito da uomo prese tutti gli aspetti: ballò, cantò, suonò il violino, declamò, bastonò, fu bastonato, finse l'uomo ebbro, riempì il palcoscenico ed il teatro della sua voce, della sua presenza. Si ubbriacava di azione, guardava Sofia, la provocava, la sfidava, certissimo di non essere riconosciuto, inasprito dalla sua sventura, con una esaltazione nervosa spinta al massimo grado. La fine della rapppresentazione si accostava, Gaetano vi anelava per liberarsi da quell'incubo, per liberarsi da quel soffoccamento che gli montava dal cuore alla gola, per trionfare di quel pericolo…. Ecco: le ultime battute si compivano, le signore nei palchi si alzavano. Sofia era già in piedi….

Ma il pubblico soddisfatto del suo amato Pulcinella lo applaudiva senza fine; fu mestieri fermarsi un minuto per ringraziare e poi giù la tela: un sospiro profondo di sollievo. Niente; gli applausi aumentano, bisogna rialzare il sipario, ringraziare di nuovo: Sofia si mette sulle spalle lo sciallo bianco, ma ha gli occhi fissi sul palcoscenico. Ad un tratto una voce dice una parola; due, tre, cinquanta la ripetono; è un grido solo: — Maschera, maschera!

Egli era perduto. Il pubblico voleva vedere il suo viso, voleva vedere l'uomo che si nascondeva sotto la maschera di Pulcinella; Sofia lo guardava con la ciera fredda e disdegnosa della prima sera. Esitò….

— Maschera! — ruggì il pubblico sovrano.

Allora con un gesto disperato strappò la sua maschera e mostrò il viso disfatto di un morente: fissò'lo sguardo sulla fanciulla; ma sul volto di ei lesse un dolore così fiero, un disprezzo così intenso, che abbassò la testa, comprendendo la sua condanna.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quì finisce l'idilio di Pulcinella, perchè egli non osò più rivedere la fanciulla, nè essa cercò mai più di lui. Certo, Gaetano Starace non era un eroe e non ne morì; neppure tentò suicidarsi; invece si consumò lentamente, recitando ogni sera, facendo prove ogni mattina, divertendo il popolo, scrivendo parodie, vivendo in quel teatro stretto, lurido, nero, con i comici volgari e le donne strillone, buono con tutti, ma sempre un poco distratto. Si consumò giorno per giorno, senza lagnarsi: ma dopo di lui, nessun altro del suo cognome ha ereditato la maschera del Pulcinella; perchè egli è morto solo, senza famiglia, senza figli.

FINE.

DEDICA Pag. 5

PREFAZIONE 7

Fanciullo biondo 9

Dualismo 15

Simpatie del martirologio 31

Il trionfo di Lulu 43

Il Cristo di Saverio Altamura 73

La moglie di un grand' uomo 79

Un intervento 89

Per le funciulle 121

Tristia 131

Monologo 143

Viottole 165

Casa nuova 165

Notte di Agosto 173

Mosaico di fanciulle 183

La notte di S. Lorenzo 193

Palco borghese 199

La canzone popolare 209

Fulvia 219

Mosaico 235

Per i bagni 245

In provincia 257

Nostalgia 269

Votazione femminile 281

Commedie di salone 289

Bozzetti 301

Commedie borghesi 311

Estratto dello Stato civile 327

Apparenze 333

Alla decima Musa 247

Silvia 333

Idilio di Pulcinella 383