IL MESCHINO,
ALTRAMENTE DETTO
IL GVERRINO,
FATTO IN OTTAVA RIMA
DALLA SIGNORA TVLLIA
D'ARAGONA.

OPERA, NELLA QVALE SI VEGGONO
& intendono le parti principali di tutto il mondo,
& molte altre diletteuolissime cose, da esser
sommamente care ad ogn i sorte di
persona di bello ingegno.

CON PRIVILEGIO.

IN VENETIA,
APPRESSO GIO˙ BATTISTA, ET MELCHIOR
SESSA, FRATELLI. M˙ D˙ LX˙

HAvendomi la mia buona sorte da cer ti anni à dietro fatto capitare alle mani questo bel libro della Signora Tullia d'Aragona, & scritto tutto di sua man propria, & essendo finalm&etilde;te da prieghi di molti stato astretto à uolerlo donare al mondo, io per non mancar dell'uso commune, & di aggiungere al libro tut ta quella dignità, & quello splendore che mi fosse possibile, ho eletto di farlo uscire sotto l'onoratissimo nome di V˙ S˙ Et parendo forse conueneuole, che in questo luogo io mi stendessi alquanto nelle lodi del libro, & in quelle di V˙ S˙ io mi asterrò così dell'uno, come dell'altro. Percioche delle qualità del libro ragiona à bastanza nella seguente lettera à i Lettori quella Signora stessa, che l'ha composto, & d'entrar nelle lodi di V˙ S˙ io miritengo, sì per non offen dere la molta modestia sua parlando à lei stessa, sì ancora mol to piu, perche io sò, che elle sono già distese in carta da molto più illustre penna che questa mia, come è principalmente quella del Signor Girolamo Rvscelli, & da più altri, piena mente informati della nobiltà, & dello splendor della casa di V˙ S in Mantua, & della sincerità, della bontà uera, & della ra ra prudentia, & grandezza d'animo di lei, con le quali sue lodeuolissime qualità si uede che ella, mal grado della malignità di molti, uien tutta uia prosperando felicemente di bene in meglio nelle cose sue, & è in commune speranza, & predicamento di hauersi à ueder'in brieue così bene accompagnato il fauor di Dio con la sua prudentia & bontà, che ne sieno per gioir tutti i buoni, da i quali V˙ S˙ è sommamente amata, & hauuta in pregio. Percioche io credo di poter quì dir per cosa notissima, come in questa nobilissima città, oue la perfettion del giu dicio fa come una continua anatomia, & diligentissima essaminatione del ualor'altrui, non sia da già molt'anni stato forestiero di qual si uoglia grado, che più sia stato conosciuto, amato, & riuerito da i nobili, & da i uirtuosi, di quello che s'è ueduto, & uede esser conosciuta, amata, & riuerita V˙ S˙ co me quella, che con la giouiale, & gratissima presentia, con la dolcezza delle parole & della conuersatione, con la modestia, & principalmente con la grandezza dell'animo, & con la uera, naturale, & propria, non finta ò artificiosa bontà sua, tira come à forza gli animi di tutti quelli, che non sieno tinti, & infetti d'inuidia, & di malignità, & dirittamente di natura, & di costumi, & di uita contrarii à lei. Il che tutto io mi son lasciato tra sportare à toccar quì così in corso, non per uoler, come ho det to, entrar nelle lodi sue, ma per giustificatione di me medesimo appresso di lei, perche ella non si marauigli, se in amarla, & in riuerirla io procuro di concorrere col giuditio quasi uniuer sale di tutti quelli, che per presenza ò per fama la conoscono. Della qual'affettion mia, io, con mandar sotto il nome suo que sto libro in luce, ho aspirato non meno à gloriarmi col mondo, che à far utile, & fauore al libro, sperando poi unitamente con tutto questo di conseguirne all'incontro l'affettione, & la gratia di lei, della quale fo tanta stima, quanta ueggio, & odo, che ne fanno in colmo, persone di molto maggior grado, & di maggior ualore che non son'io. Di Venetia, il dì Terzo d'Agosto. M D LX˙

DI qvanti onesti & diletteuoli spassi possono ha uer le persone umane, si uede per chiarissima esperien za, che niuno è tanto comodo, & tanto caro quanto quello, che si ha dal legger cose liete & piaceuoli. Percioche tutti glialtri spassi conuien quasi che si prendano, ò con l'interuenimento d'altri, & questi noi non possiamo hauer continui, nè quando ò come uo gliamo, ò con modi che tosto stancano, & fastidiscono, sì come è il mangiare, il bere, & l'altre sì fatte cose, ò con pericoli, trauagli di mente, spese, & molte uolte con fine dannoso ò spiaceuole, si come sono l'andar' attorno, i giuochi, gli amori, & molt' altre cose tali, che quì non è mestiere di spiegar più distesamente. Là oue nel leggere, noi possiamo da noi stessi gouernarci à tutto uoler nostro, soli, accompagnati, poco, molto, senza spesa, senza pericolo, senza danno, senza trauaglio, ma con piena satisfattione, & contentezza di noi medesimi. Et se questo sì perfetto solazzo, & questo sì gran solleuamento dell'animo è commune uniuersalmente ad ogni huomo, & ad ogni donna di non in tutto basso & uil'animo, alle donne è poi tan to più utile & necessario, quanto Giouan Boccaccio seppe molto ben con ra gioni mostrare al mondo nel primo proemio delle sue giornate, oue distesamente mostra, che quasi à tal solleuamento delle donne sole, egli s'era posto à scriuer quel libro. Nel quale se egli hauesse poi così ben saputo eleggere una cosa importantissima, & fuggirne un'altra, non è alcun dubbio, che egli sarebbe stato degno di somma lode, & hauria pienamente asseguito l'inten to suo di far cosa gratissima alle uere donne, & per rispetto loro, & per quello di se medesimi, anco a gli huomini di gentil'animo. Quella cosa, ch'ei non seppe eleggere, è il uerso, il quale non è alcun dubbio che molto più diletta, molto più uagamente si legge, molto più efficacemente fa impressione ne gli animi nostri, & molto più lietamente ci lascia la forma sua nella memoria, che le prose non fanno. Quell'altra, che egli non seppe, ò per grande imperfettion di giudicio in questa parte, & di natura, non uolse fug gire, fu il metter tante cose lasciuissime, disonestissime, & ueramente scelerate, quante se ne ueggono dall'un capo all'altro di tutto quel libro, non perdonando ad onor di donne maritate, non di uedoue, non di monache, non di uergini secolari, non di commari, non di compari, non d'amici fra loro, non di preti, non di frati, & finalmente non di Prelati, nè di Cristo, & di Dio stesso, come si può chiarir da tante scelerate nouelle, & da tante scelerate parole sue, come è quella, Et così tratta Cristo, chi gli mette, le corna in capo, & altre moltissime, che per certo è cosa da stupire, come non solamente i principi, & superiori, ma nè anco i ladri, & i traditori, che si facciano pur chiamar Cristiani, habbiano mai comportato d'udir quel nome, senza segnarsi della santa croce, & senza serrarsi l'orecchie, come alla più orrenda, & scelerata cosa, che possano udire l'orecchie umane. Ma la na tura nostra è tanto corrotta, che non solamente non si è fuggito come cosa abomineuole, ma si è desiderato da ciascheduno, et è salito in tanta stima, che l'han chiamato il padre della Lingua, il Cicerone Toscano, & per fino à muouersi il Dolce, il Rvscelli, il mio Bembo, & tant'altri rarissimi ingegni à far da esso le regole, ad esporlo, à dichiararlo, & à metterlo sopra i sette cieli. Onde non è poi stato marauiglia se ambitiosi di questa sua gloria, si sien posti de gli altri à far le Nanne, & le Pippe, le Puttane erranti, & per fino à quel libro, che ha per certo offesa troppo altamente la maestà della gentilissima Città di Siena, il sapersi che egli fosse fatto da persone nate & nodrite in essa. Io adunque, la quale ho ne' primi anni miei hauuta più notitia del mondo, che ora con miglior senno non uorrei hauer'hauuta, & la quale in me stessa, & in altre molte ho ueduto di quanto gran danno sia ne i giouenili animi il ragionamento, ma molto più la lettione delle cose lasciue, & brutte; & d'altra parte cono scendo quanto le donne, et gli huomini sien uaghi di leggere ò d'ascoltar cose piaceuoli, andar per qualche tempo ricercando, quasi tutti i libri d'istorie, ò di poesie, che hauesse la lingua nostra. Oue risolutami, come ho detto, che per certo la poesia per molti rispetti, ma principalmente per quella del uer so, è molto più grata ad ogni persona, che tutte l' altre, trouai finalmente, che Morganti, Ancroie, Inamoramenti d' Orlando, Boui d' Antona, Leandre, Mambriani, & finalmente l' Ariosto stesso non mancauano di questo gran uitio di contenere in essi cose lasciue, & disoneste, & indegne, che non solamente monache, donzelle, ò uedoue, nè maritate, ma ancora le donne publiche se gli lascino ueder per casa, non essendo però cosa nuoua, che ad una donna per necessità, ò per altra mala uentura sua, sia auenuto di cader' in errore del corpo suo, & tuttauia si disconuenga, non men forse à lei, che all'altre, l'esser disonesta, & sconcia nel parlare, & nell'altre cose. Dico adunque, che con questa mia saldissima intentione di trouar qualche libro di uaga & diletteuole lettione, oue non fosser cose disoneste & brutte, io doppo l'hauerne riuoltati quanti me ne poterono capitar'in mano, trouai finalmente questo bellissimo libro in lingua Spagnuola, nel quale si trattano tante, & così uarie cose, che per certo non sò se altro più giocondo nell'es ser suo ne sia in alcuna lingua. Et è poi tutto castissimo, tutto puro, tutto Cristiano, oue nè in essempi, nè in parole, nè in alcuna altra guisa, è cosa, laquale da ogni onorato & santo huomo, da ogni donna maritata, uergine, uedoua, & monaca non possa leggersi à tutte l'hore. Anzi sempre dall'un capo all'altro si uede, che l' Autore di esso libro ha hauuto pensiero di tirar con uaghezza, con dolcezza, & con piacere, & diletto grandissimo gli ani mi cosi delle donne, come de gli huomini alla uita onesta, giusta, & santa. Ma uedendo io, che à questo libro mancaua quella importatissima perfettione, ch'io dissi auanti, cioè la uaghezza del uerso, per esser dall' Autor suo stato fatto in prosa, io, per mio essercitio, & piacere, & per far'anco, se fos se possibile, cosa grata & utile al mondo, mi disposi di farlo in uerso. Et hauendo considerato & inteso da molti giudicio si la diuersità de gli stili in quei libri d'ottaua rima, che fin quì si son uisti, trouai, che alcuni uanno tanto serpendo à terra, che ogni animo non del tutto basso si sdegna pur di uederli, non che possa dilettarsi à leggerli. Altri all'incontro hauendo aspi rato à quasi piacer solo à i dotti, si sono alzati tanto, che non solamente, à i mezani, & principalmente alle donne, ma anco à i dotti stessi danno in mol ti luoghi da fare per farsi intendere, & si ueggono ad ogn'ora cõmentatori, & espositori sopra di loro, come nelle leggi, & nella filosofia. La onde io ho procurato di tenermi con quei che han seguita la uia di mezo, si come è stato il Pulci principalmente, e'l Boiardo, & il Mambriano. I quali ancora non son restata di far pruoua d'auanzare in quelle cose, che in quanto allo stile, per hauer la facilità, & la uaghezza insieme, mi son parute opportune. Nella lingua poi, ho uoluto seguir non quella d'una sola Prouincia, ma quella di tutta la nostra Italia, & che communemente è in bocca delle persone chiare, & giudiciose. Nel che tutto io mi son sempre ualuta del parere, del consiglio, & dell' aiuto di quante persone dotte, & giudiciose ho potute hauere. Col sincero & libero parer de' quali, io mi con fido d'hauer procurato al mondo un libro, da essergli gratissimo per ogni parte, & da potersi leggere con piena dilettatione & utile di ogni sorte di persona onesta & buona. Il che quando così sia, com'io desidero & spero, sarà ufficio Vostro, gentilissimi spiriti, d'aggradirne solamente la buona intention mia, & di tutto dar lode à Dio solo, dal qual solo uiene ogni bene, & da chi solo io riconosco questa gran gratia d'hauermi in questa mia età non ancor souerchiamente matura, ma giouenile & fresca, dato lume di ridurmi col cuore à lui, & di desiderare, & operar quanto posso, che il medesimo facciano tutti glialtri, cosi huomini come donne.

L'Eccelse merauiglie, il ualor uero La virtv saggia, la religione Canto, d'un franco, e forte Caualiero Degno à star con ogn'altro al paragone Tu celeste Signor, perfetto, e uero Guida mia pura e casta intentione Ch'io non inuoco Febo, Euterpe, ò Clio Ma te sommo Signor del mondo, e Dio. De'Filosofi antichi, e de'Poeti Non seguo l'orme, in altro loco parmi Da dimostrar de' cieli i bei segreti, Che doue son pellegrinaggi, & armi Lo stile umil, gli accenti mansueti Potranno appresso i più saggi scusarmi Poi ch'io non piglio a far tanto lauoro Per gran desio di fama, ò premio d'oro. Chi de religion, che ogn'hor gouerna La terra e'l ciel, si troua il core accenso, Chi con ogni pensier la patria eterna Ha sempre in m&etilde;te, e'l suo rettore imm&etilde;so, Chi con alta uirtù uuol che si scerna Tener'il fren l'alma ragione al senso Da questo libro il pensier mai non mute, Pien di religion, fede, e uirtute. Voi, che pellegrinar ui dilettate, E sapere i costumi altrui diuersi, Il modo da Guerrin prima imparate, E di fuggire i falsi inganni auersi Se la sorte fatal sentir cercate In Guerrin chiara ben potrà uedersi E saprete conoscer quanto importe Pellegrinar, costumi, inganni, e sorte Mostrerauui anco il sito de l'Inferno, Che ui possiate procacciare in uita Di scampare il dolore, e'l pianto eterno E qual peccato, à maggior duol u'incita, Del Purgatorio ui mostra il gouerno, E de la gloria santa la uia trita Sì che intender si può com'è diuiso L'Inferno, il Purgatorio, e'l Paradiso L'origin di tant'huomo, e sì stupendo, Prima ch'altro di lui cominci à dire, Breuemente narrar da capo intendo Per meglio il passo de l'istoria aprire. Correvan gli anni del giusto e tremendo Signore, ilqual per noi uenne à patire In terra morte, sette cento ottanta Quando hebbe origin questa nobil pianta, Era il gran Carlo magno allora eletto Del bel Regno di Cristo Imperatore, Ma non uolse uenir prima à l'effetto Che d'un suo uoto non uscisse fuore C'hauea di ire à l'Apostol benedetto Dal cui corpo Galitia ha tanto onore, Ma fu impedito da diuersi affanni Prima che egli u'andasse, e mesi, & anni. Tra i quali affanni narrerassen'uno, Che'al proposito fa di nostra impresa Ilqual si tolse per il ben communo De fedeli di Cristo, e di sua Chiesa D'Africa essendo uno stuolo importuno Mosso, hauea Puglia e la Calabria presa Sua guida essendo un feroce Africante Molto crudel, nominato Agolante. Di Napoli la parte preser tutta Diuerso la marina, e in prima giunta Fu da lor'occupata, arsa e distrutta Rissa, posta d'Italia in sù la punta, Non t&etilde;ne Carlo à questo annuntio asciutta La guãcia, e l'alma ha di tal duol cõpunta, Che per saluar quel glorioso Regno Tosto ui andò con apparato degno, Benche Girardo di Fiandra, nemico Fosse di Carlo, à quest'impresa uenne, Con quattro suoi figliuoli, come amico, Fu'l primo Arnaldo, e l'altro nome tenne Raineri, or questi due, che prima io dico Ciascun di Caualiero il titol tenne In Borgogna dal padre, oue fu Duca Perche la stirpe lor chiara riluca. Il terzo fu Guicciardo, e poi Milone Ma questi due se Carlo Caualieri In Aspramonte, sol per la cagione Ch'erano in arme ualorosi, e fieri: Or Carlo, poi che'l santo Confalone Hebbe spiegato, uinse i Duchi altieri. Vinse dico Agolante e'l suo figliuolo Almonte, capi à l'Affricano stuolo. Trouò da l'empie man di loro spenti Tutti i Signor, ch'erano scorte fide Di Puglia, e di Calabria, e i lor parenti, Onde gli prouedè di nuoue guide L'esser Guicciardo, e Milon sì ualenti Fa ch'egli à lor quel paese diuide, Ma nel ritorno di Francia menolli, Et in molti gran fatti adoperolli. Campata hauendo Italia, e poi ritorno In Francia fatto, fece perigliose Guerre, con onta de' nimici e scorno Et al Borgognon Duca freno pose, Di tutti quei paesi al suo dintorno Morir molti Signori, e di pietose Lagrime, riempi più d' una parte Che tali i priuilegij son di Marte. Mori Don Chiaro, e Don Buoso, nepoti Di Girardo, e Balante, e Veraguino, E Rossetto, e Girardo restar uoti Di uita, come uolse il lor destino: Morto Girardo, i due figli, che noti Vi fei, che per lo figlio di Pipino Fur fatti Caualier, cioè Guicciardo, Col fratello Milon, bello e gagliardo, Passaro in Puglia, oue fu riceuuto Guicciardo, e fù del Regno incoronato E Milon fù gran Principe ottenuto Di Tarento, dal qual dapoi è nato Guerrin, sotto il cui nome, è quì uenuto A faruisi ueder questo Trattato Sterono in pace i due fratei cinque anni Poi uoltaro il pensiero à gli altrui danni. Però ch'essendo allora in Albania Due Turchi, Duchi di tutto il paese. Quiui uoltò Milon la fantasia E tanto più perche da molti intese Che di somma beltate, e leggiadriae, Vna sorella hauien, di cui s'accese Ber fama, ch'Amor fa cose maggiori Qual'hor s'annida ne gli umani cori. Non però scopre Milone al fratello, Ch'Amore à ciò lo spinga, ma gli dice (Tutto d' Amor mostrandosi ribello) Ch'egli non sì terrà gia mai felice S'ei non fa per la fede tutto quello Che à uero Caualier non si disdice, E che se non fallaua il suo disegno Crescer pensaua con la fede il Regno. Guicciardo, che non fu men dal desio Spronato à quel, che mostraua Milone Volentier, disse, quest'impresa anch'io Consento, dunque in ordine ti pone Che per mancar non t'è l'aiuto mio; Tanto ch'insieme à la conclusione A Napoli d'accordo se n'andaro, Per parlarne col Re, nè uel trouaro. Quiui sepper che à Capua egliera andato Ch'edificar faceua una fortezza, Là dunque andaro, & hauendol trouato Gli chieser quel; ch'ai bisogni s'apprezza E conseglio; e fauor non manco grato, Tal quale hauer potien da sua altezza Ottenner l'uno e l'atro, e fu contento Il Re, di dargli ogni lor supplimento. Posta la gente in punto à quell'impresa, Guicciardo già rimosso, frate caro Disse à Milon, nouo dubbio mi pesa Che non sia'l fin di questa guerra amaro, Se dolce il principio è, tu sai, che tesa Fortuna tien la rete, che di raro Vien uota de l'altrui maluagia sorte, D'eterna infamia, e di dannosa morte. Pensa quanto dolor mi saria quando La cruda ti facesse ò preso, ò morto; Perche se uieni in Albania passando Facil fia da pensar, che poi di corto Molti infideli ti uerran cacciando, Con dare à la tua gente aspro conforto; Et oltre à questo i Coruatti, e gli Schiaui, Darangli aiuto, ai qual tu non pensaui. Facile è, che col piede ne la sabbia Incorra l'huom, doue stenta à ritrarlo; Par che Guicciardo impression fatt'habbia Voler pur da l'Impresa ritirarlo, Pargli uederlo darfine la gabbia; Sì nel petto gli rode un nouo tarlo Replica, e mostra i danni, e le rouine, C'hanno facil principio, e duro fine. Come, dir à qualcun, sì presto uolto S'era, s'al cominciar fu tanto pronto? Fu perche non haueua in se raccolto Quel che pensar non si puote in un ponto, Perche l'huomo assai meglio in t&etilde;po molto Discorre col pensiero, e fa buon conto; Occupa il fragil senso la ragione Col tempo, e poi con altra si dispone. Dunque, disse Milon, uuoi per paura Lassar sì degna impresa, & onorata? Vuoi che dal tempo à noi tanta uentura Sia tolta, ò ch'aspettiam che ci sia data? Vuoi che la fama nostra al tutto scura Non sia da chi uien dopo ricordata? Se per nostra uirtù non siam Signori Facciam uergogna a i nostri genitori. La gratia, la bontà, di Carlo è quella Che ci ha data in Italia Signoria E non nostra uirtù, che uoi più bella Ragion, quì de la nostra codardia? La uita è da sprezzar più tosto, ch'ella Al mondo resti in tal poltroneria: Quanto ci fia più gloria al mondo poi S'harem gran regno, & aquistatol noi? Che quand'io penso, e'l tutto ben riguardo Il nostro patrimonio è stato assai, Che habbiam del già nostro padre Girardo Di tutta la Borgogna? e pur'il sai I nostri frati, e non già noi, Guicciardo Ne son Signor, non io teco eredai I tanti ben paterni, or ci bisogna Pensar che non Signor siam di Borgogna, Nè c'è da dubitar, che di quel Regno N'ho piena cognition, doue si possa Tentare, e doue sia da far disegno, Verso Durazzo fia la prima mossa Ch'è posto à fronte di Branditio a segno, Ne l'Isola, ou'il mar discresce, e'ngrossa; Detto Adriano, e uerso Romania Quiui prendere intendo la mia uia. Con la mia gente anderouui in persona E con quella che tu penserai darmi Per portarne, s'io posso, la Corona Con la forza, e l'ardir, l'ingegno, e l'armi, E per far tale impresa con più buona Speranza, che ne uenga meco, parmi Lamberto da Pauia mastro di guerra, Per Capitano in mar, sì come in terra. Al Re Guicciardo il contrastar non piace Et à quel ch'egli uolse, fu contento, Vanne, disse, fratel, ua pure in pace, Bhe dal tuo grand'ardir resto già uento, Nè che teco ne meni già mi spiace Di mia gente, per fare il supplimento Con che ti basti assalire i nemici, I quai nouellamente assalir dici. Diedegli quattro mila Cavalieri, E cinque mila à piedi huomini forti, Quanti quelli hebbe de suoi non men fieri Co iquali ritrouò del mare i porti, Là doue preparar gli fù mestieri Molti nauili, e nauiganti accorti, Così diè quest'armata in un momento I remi à l'acqua, e le gran uele al uento. E passaro à Branditio, e dero à terra In Albania, uerso Durazzo, al quale Giunto il romor de la futura guerra, Tosto per riparare à tanto male, Il suo Signor' Napar fe de la Terra E de l'altre ordinare un campo tale, Ch'ei possa contrastar fin che'l fratello Gli dia soccorso con maggior drappello. Ma Milon, che non dorme, e uuole onore Attende à sottomettersi'l paese E con ingegno, e subito ualore, Del Regno due castella hauea già prese, Farse fu l'un, l'altro Trapal migliore, E come quel ch'al suo bisogno attese Quelle fornì di gente, nè quì resta Che ueder uuole il fin di quella festa. E ua scorrendo'l tutto, e mette in preda, Nè troua chi gli faccia resistenza Che chi può men, bisogna che gli ceda, Che lor mal gradõ non posson far senza, Non sa Napar quel che si speri, ò creda, Pur pone a farsi forte diligenza, Assai si duol che tardi n'hebbe auiso Ch'assaltato trouossi à l'improuiso, Pur'uscì di Durazzo à la Campagna Con uentimila tra caualli e fanti Milon per questo nulla si sparagna Ma passa con buon'ordin sempre innanti Ciascun per questo nel sudor si bagna In compartir le genti, e far di quanti Huomin da guerra sono, e quelli, e questi, Vn'opra tal, che uincitor ne resti. Diuide le sue genti, e fa due schiere Milon la prima à Lamberto consegna, Ilqual pose nel mezo le bandiere, Son tre mila cauai sotto un'insegna, Questa pareua, e ben douea parere A gli auuersi di lor gente più degna, Però che ueston l'armi Italiane Di tutte le più degne, e piu sourane. Cinque mila pedon con questi pose, La seconda per se ritenne il fiero Milon, di genti non men bellicose E da non esser uinte di leggiero, Però che d'onor fur desiderose Quanto richiede di Marte il mestiero; Cinque mila caualli furo in questa Seconda, ch'in gouerno a Milon resta Tanti furo anco i fanti, or l'altra gente Che Napar per difesa sua rassetta, Fur tutti uentimila, & ugualmente Gli parte, per far l'opra sua perfetta; Et un suo Capitan molto ualente Diede à la prima schiera, con gran fretta; Per se glialtri ritien, ma gente noua. Che senza altro pensar la pone in proua. Tosto s'appressano i due campi insieme, Cominciar grida orribili i Pagani, Lamberto, che l'onor lo sprona, e preme I suoi conforta à menar ben le mani, Dicendo, chi più grida, è chi più teme Comun costume d'assalti di cani, Tal che'l prouerbio con essi è concorde Che'l can ch'abbaia rade uolte morde. Il fiero Capitan degli Albanesi Ne l'affrontar che'l Cristian campo uiene Sta tutto rassettato su gli arnesi, E'l baston con due mani in alto tiene, Cominciando à menar uerso i Pugliesi Ritroua lor con quel baston le schiene, Adopran piu che l'armi la gran uoce I suoi, ch'ai nostri stranamente nuoce. Storditi son da i gridi lor diuersi, Che fan tremar sotto i piedi la terra Tal che da l'ordin' lor son mezi persi E fan con gran disordine la guerra Di che Lamberto comincia à dolersi Dice chi'l uostro ardir si franco atterra Che puote il grido ch'è cosa bestiale Nuocere, ò causarui oltraggio, ò male? Che puote un brutto uiso, quando un finto Inuisibile à l'huom sa l'opra scura? A che credere al ciel quand'è dipinto Di uaghe stelle, se sì poco dura? A che ual lieto mar, se poscia è spinto Dai uenti? ò se fortuna, ò la natura A sua posta fa nero, e poi non manco Riuolge il nero, e fa ritornar bianco? Qual fia maggior sospetto, e più timore Che del nemico il celato pensiero Quando costor ui fan ueder di fuore Ch'in lor non è timor punto leggiero Il terror grande c'han costor nel core Causa quel gridar sì strano, e fiero; E tutta uolta proua, e fa uedere Con l'arme in man, che non sia da temere. Fa ueder, che ciascun che gli s'appressa Bagna del sangue il terren polueroso, Là doue uede più la gente spessa Quiui più feroce entra, e furioso, Più d'una spalla, e d'una testa fessa, Lassa col brando, e tutto sanguinoso: Fuggesi ognun, ch'appressar se lo uede E pargli hauer di mille libre il piede. Per la propria uergogna, e per lo ardire Del ualente Lamberto i buon soldati Che ha seco, lo cominciano a seguire, Facendo fatti fieri, e dispietati; Preser partito i Turchi di fuggire Poi che sì malamente eran trattati. Di quà, di là, chi più può si guadagna L'indegna uita, per l'ampia campagna. Tiberio sol senza paura uolta L'orrida faccia, che Tiberio è detto Il Capitano loro, e ne la folta Gente si ficca con ira, e dispetto, Vistol' Lamberto, una lancia haue a tolta Per trargli l'alma s'ei potrà del petto; Non si moue colui, nè fa sembiante Tirare à dietro un dito pur le piante. Quantunque l'arme in man più corta tegna Stima la lancia un gambo di finocchi Nè che con essa adosso gli si uegna Pensa, nè prezza, ch'addosso gli scocchi Ma la punta, ch'à dargli in petto segna Schifa da parte, trauolgendo gliocchi E con la lancia attrauerso percuote La lancia, ei pezzi fan pe l'aria ruote. S'appressa poscia al caual di Lamberto E dagli un pugno onesto in su la zucca Che'l miser ne restò guasto, e diserto Nè più ne uuol, che quel solo il ristucca. Lamberto in pie per dargli pari merto Si uolta, e con la spada gli pilucca La uita d'una punta, e cadde estinto Tral sangue inuolto, e tra più morti cinto. Cadde, ma prima al suo cader, sì forte Percosse in su la testa il Caualiere Con quel baston, che gli diede la morte Così in un tempo l'un sopra'l destriere Languido cadde, e l'altro à simil sorte Anco sopra'l terren uenne à cadere, Perdon la uita, e ogni gente perde La speranza, ch'in lor più non rinuerde. La speranza mancò da ogni banda Hauendo persi i Capitani loro, Ma piu la gente d'Albania si sbanda Che'l piõbo al parangon non stà con l'oro, Napar, che'l uede subito comanda Senza osseruar dell'ordin il decoro; Che la schiera seconda uada auanti Mischiati insieme e Caualieri, e fanti. Tu prezzasti color più presto ò Roma Mentre'l Tempio di Iano apri la porta, Mentre che Marte, ch'i cuor pigri doma Ti fù buon padre, e ben fidata scorta. Allor dico prezzasti, che la chioma Con le tue man non t'eri guasta ò torta; Quei ch'ordinati perser la battaglia Che chi senz'ordin uinse ogni puntaglia. Per dimostrar, che le battaglie sono Con la scienza una doppia arte e degna, E che non merta scusa nè perdono Qualunche à caso inutilmente uegna A scontrare i nemici, e con più buono Sperare un può, che con arte disegna; Quantunche pochi, incõtro à molti metta; Che stà nel poco gran uirtù ristretta. Or ecco quì Napar, che cel dimostra Che corre à guisa di furia infernale, Senz'ordin, senza sfida, e senza giostra; Senza de' suoi temere oltraggio, ò male Spinge con quel furor la gente nostra Di sorte che difesa poco uale Per l'impeto di quel che soprabonda E bisogno han de la schiera seconda. Ma Milon saggio, che conosce il gioco Le teste, e i fianchi ben prouisti assetta; Poi muoue lo squadrone a poco, a poco, Et appressato ua con maggior fretta: Visto i nostri il soccorso al primo loco Ciascuno à la battaglia si rassetta: Tanto che giunta la seconda schiera Diuentò la gran pugna assai più fiera. In somma, perche i colpi ad uno ad uno, Sarebbe à raccontar cosa tediosa, Perche de gli Albanesi allor nessuno Vi fù che facesse opera famosa, O pel disordin che fù mal communo, O per proprio difetto, ò d'altra cosa Dico che rotti furo gli Albanesi, E sì sparser per tutti quei paesi. Voltarsi in fuga, e Milon seguì doppo Con tutto'l resto de suoi buon Cristiani, Dir ben si può che non sia pigro ò zoppo Chi gli scappa sicuro de le mani, Napar fuggiua più che di galoppo Per non uenire in man d'Ialiani, I quai son già di Durazzo a le porte, Portando seco il gran terror di morte Pensano gli Albanesi iui saluarsi Senza pensar che'l nemico hanno appresso, Ma quando poi ueggono accompagnarsi Veggon senza speranza il danno espresso: Di quà, di là, ciascuno à dileguarsi Attende spinto dal proprio interesso: Napar si fugge, e la terra abbandona Che sol gli basta à saluar la persona. Cambia nouo signor la gran cittade Per mala guardia, e chi non u'acconsente Subito è posto al taglio de le spade, E per questo più d'un restò dolente, Ma poco questo contrastar gli accade Che'l me che puote ognun sta patiente, Et egli fatto al fin da tutti onore, Milon chiamando sol per lor Signore. De la terra il palazzo principale S'elegge il buon Milon per nuouo nido Quiui trouò la donna, de la quale Bellezza, hauea sentito il uanto, e'l grido; Ell'era di Napar suora carnale. Egli per dimostrarsi grato, e fido; La riuerisce, & umilmente onora, E uuol ch'ognun la tenga per Signora. Per costei dissi già, che Milon'era Mosso per gran desir di conquistarla, Or se la uede fatta prigioniera Nè uuol contr'al uoler suo pur mirarla, E me che può, che la fortuna fiera Per lei non sia, comincia à confortarla, Dicendo sol che la sua fiamma accesa Nel petto, gli fe tor simile impresa. L'amor, che per uoi donna il petto m'haue Dicea Milon, gia molti giorni acceso, Vuol ch'io quì uenga, e non mi paia graue A presentarmi à uoi legato, e preso, Cosi con parlar dolce, e dir soaue S'era già del suo fallo in colpa reso, Se fallo dir sì può, per simil uia Cercar che peruenuta in man gli sia. La Donna, al suo parlar si stà confusa Che tra molti pensier non sà torne uno S'ella si piega pensa con qual scusa Potrà l'infamia tor del dir communo, Seco pensando tien la bocca chiusa, Ma perche'l tempo le pare opportuno Così risponde, poi che le bisogna; Col uiso di duol tinto, e di uergogna. Alfin, che quest'amor qual dite hauermi Cada non so, ma come si proceda Di poi che uoi cercaste in man tenermi Per forza, e che di uoi fosse pur preda, Che poss'io far, senon sempre dolermi Se contro al mio uoler conuien ch'io ceda? Il uostro ben uolermi à che mi uale S'io so cagione (oimè,) di tanto male? Me cercauate, in uostre man son'io, Et io quì perdo quel ch'io più stimai, Perche quì non consiste l'onor mio, Ma ben tormento, e dolorosi lai, Ch'ancor ch'io salui l'onor, piaccia à Dio, La fama sarà guasta sempre mai, Nè sarò più per pudica onorata, Ma da chi mi bramaua rifiutata. Però ui prego, fe'l mio prego è degno S'in uoi trouo pietà nei dolor miei, S'auien che d'onestà passiate'l segno, Se temete lo sdegno de li Dei, Se'l mio fior uirginal qual saluo tegno Pur mi torrete in tanti tristi omei, Fate ch'al men per ultimo dolore Col crudo ferro mi passiate'l core. A Dio non piaccia, nol consenta il cielo Che contra al tuo uoler tal cosa faccia Dicea Milon, nè ch'io u'offenda un pelo; Ch'à me non pur quel ch'à uoi spiace, piaccia, Che uoi non siate la cagion non celo Per cui d'amore ho seguita la traccia: Venni per fare un'opra, e uerrà fatta S'auien che ne restiate sodisfatta. Anzi per farne due, che l'una è questa D'hauer la terra nostra ne le mani L'altra ch'à fare indietro ora mi resta E' se non fate i miei buon pensier uani Di torui per isposa, se l'onesta Voglia nol uieta, quando trà Cristiani Cristiana ui facciate, però ch'io So ch'altramente offenderei'l mio Dio, Quand'intese Fenisia, che per sposa Tanto huom, qual fù, Milon la richiedeua Timida uenne in faccia, e uergognosa, Che di lui tal credenza non haueua, Ch'oltre à quella uittoria gloriosa Sapea quel ch'in Italia possedeua, Però le par ch'a lui non si conuegna Lei chieder, che di lui si tiene indegna. Non son, Signor mio tal, ch'io debba hauere Fenisia rispondea, per sposo quello A chi son fatta ferua, e se'l uolere Vostro pur fia così, resti il fratello Adietro. resti ogn'un, ch'io uo tenere La uostra fede insieme, e'l uostro anello; Vengo à la uostra fe tanto più intenta Quanto d'una sol moglie ui contenta. La nostra nò, che quante un può nè tiene Nè so come ragion questo comporti, Tanto che non sappiam che si sia bene; Non riceuon le uostre questi torti, Di tal risposta allegro Milon uiene, E per mostrar che di ciò si conforti, Piglia licentia di baciarla in bocca, Per grã dolcezza, ch'al cor gli trabocca Quanto dolce d'Amor lo stral potente Fosse, à sentir. prouò la Donna allotta, Pigliandosi piacer del ben presente, Ch' à buone man gli parue esser condotta, Ste non di meno uergognosamente, Però c'haueua dintorno una frotta Di cittadin, che mai l'abbandonaro; Che'l tutto ad accettar la confortaro. Volse Milon, che dal sagrato fonte Fenisia allor la salute prendesse, Per sodisfare à le sue uoglie pronte, E battezata, per sposa l'elesse: Fatte le nozze, fur le noue conte Per tutta Italia, e Guicciardo commesse Che per tre dì nel suo regno gran fochi Sì facesse, e sì stesse in feste, e giochi, Fatte le feste, e le nozze pompose E consumato il matrimonio santo, La citta poi talmente si compose Che ciascun l'odio posto hauea da canto, E se pur parte uen'hauea, si ascose Che ben fù riserbato in fino à tanto Che la fortuna trouò modo, e uia, Da mostrar sua uolubil fantasia. In capo di due mesi Fenisia hebbe D'un figlio da Milone il uentre pieno, Ilqual, poi ch'al suo termin giusto crebbe Venne ella à partorir, che fù non meno Caro à Milon, di quel che fatt'haurebbe S'à tutto il mondo hauesse posto il freno; E lo fè battezar, doue al Diuino Fonte, gli fece por nome Guerrino. Così fu il nome de l'auo, che hauea Milon, qual uolse poi ch'auesse'l figlio, E fecelo nutrir qual richiedea L'altezza doue posto haue a l' artiglio, Non più stimando che fortuna rea Gli potesse à la chioma dar di piglio, Così fu dato à custodire à quella Che già lattata hauea Fenisia bella. Laqual di molte, & esperte Nutrici Prouide, e pose ogni sua diligenza Per farlo ben nutrir, ma gli infelici Casi, che han sopra l'huom troppa pot&etilde;za, Volser che i due fratelli, che nemici Di Milon eran, non andasser senza Vendetta, de lo scorno à lor gia fatto: Massime à l'un, che ne restò disfatto. Non è stabil la rota, che gli affanni In compensa del ben de la fortuna Quiui pose ella freno ai felici anni Di Milon perche mai si sta digiuna Quanto men ui si pensa, à gli altrui danni; E tosto tol, quel che tardi s'aduna. Come ne l'altro Canto io uo mostrarui Se l'altro udir uorrete uoi degnarui.

IL FINE DEL
CANTO PRIMO.

NOn si deue, nè uuole huom mai dolere Sõmo conoscitor de l'auenire, Che tu lo leui del mondan piacere Sapendo pur, ch'al fin ne deue uscire, Il tutto per tuo amor dee sostenere Chi teco uuol nel Regno tuo uenire, Ch'ogni cosa à buon fin da te s'aspetta Pur che la fede nostra sia perfetta. Però se condennato il buon Milone Con la bella Fenisia lungamente Sarà da i due fratelli à la prigione, Non fu, Lettor, senza segno euidente Che ne doueuano uscire opere buone Del suo Guerrin, ne l'opera presente, Da me mostrate, à chi sentir le uoglia Et à chi non piacesser non le toglia. A quelli, à chi tal'opera diletta Prometto io migliorar materia, e stile; Or se da me tal opera s'aspetta Può seguitare ogni animo gentile Nè men fia gran uirtute in lui ristretta Che fia rosa dal Maggio, e'l fin d'Aprile Lo splendor de laqual raguagli il Sole, L'odor, qual de le rose, e di uiole. Ceda la digression, che l'opra ormai Non resti dal soggetto disunita, E tornisi à narrar dou'io tentai Il dir del buon Milon l'oscura uita, Ecco'l principio di suoi tanti lai, Poi che pur la sua sorte è stabilita, Ecco i due Turchi, l'un Napar è quello L'altro in suo aiuto, e Madar suo fratello. Costor fero un trattato, & hebbe effetto Contra Milon con quei de la cittade Che le porte gli aprir senza rispetto Di notte, non hauendo pur pietade A la bella Fenisia, che nel letto Fù presa con Milone, e fur le spade Contra tutti i Cristiani insanguinate Tal son le nimicitie non prezzate. Presi c'hebber Milone, e la sorella Loro, i due Turchi, e tra lor consigliati Quel che ne debbian fare, e se à la fella Morte fia meglio che sien condennati, O pur ne la prigione empia, e ribella D'ogni diletto, fusser carcerati; Ne la prigione al fin lor dieron bando, Per hauerli poi uiui bisognando E saria poi, dicean, troppo gran male Che di Milon sapendolo il fratello (Perche pur son di gran sangue reale) Poi morto uendicar uolesse quello, La guerra è da fuggir, e se pur uale Poco tal cosa, assai minor flagello Per timor che non sia di uita priuo Ce ne potrà uenire essendo uiuo. Cercaro Guerrin poi, ma la Nutrice Con quella, à chi fu dato à custodire Veggendo il tristo caso, & infelice Preser partito con esso fuggire, E mentre che nessun non lo disdice L'impresa seguitar con tanto ardire Che l'una e l'altra si calar d'un muro Con Guerrino, e gli dier luogo sicuro. Onde poi giunser col fanciullo insieme Quanto poteron per coperta strada A la riua del mar, che miglior speme Non han, ch'abbandonar quella contrada; Or mentre che ciascuna spera, e teme E che per tale scampo oltre si bada Giunser nel porto, oue una naue eletta Trouaro, e sù ui salser con gran fretta. Hauendo il Padron d'essa noleggiato, Nè lor mancaua il modo, c'hauean seco Molto tesor de la città portato, E se ne uan uers'il paese Greco: Ma non si può fuggire il tristo fato Che di sua uista altrui fa restar cieco, Mentre fuggono un mal, ne l'altro uanno; Che di fortuna l'insidie non sanno. Al gran Costantinopoli disegno Fatto hauean di saluarsi, che promesso Lor fu così dal padron di quel legno, Ma furo i lor pensieri dal crudo eccesso Di ria sorte dirotti, ò Fato pregno Di tanta crudeltà, poi che sì spesso Con le minacce aggiugni l'opre triste, O Donne sì fideli, à che ueniste? Non eran di tre giorni in mare entrati Che da certi Corsari hebber la caccia E fu la naue e lor presi e legati Che non u'è gente, che difesa faccia Fur i serui e'l padron in mar gittati Seffera, che di doglia hauea la faccia E'l petto pien, nè le cessando il pianto Gettaro in mar, col suo famiglio à canto. Questa Seffera è quella, ch'io u'ho detto Ch'era già di Fenisia balia suta Laqual fu messa per simil rispetto Per custodia a Guerrino, or è uenuta A morir per saluarlo, in tal dispetto: La Balia, che'l lattaua fu tenuta Tanto à sfogar le loro inique uoglie Ch'al fine anch'essa la morte ui coglie. La meschina morì per simil uia In capo à quattro giorni una mattina, C'hebbe de la pietà gran carestia Di color che sol uiuon di rapina, Morta costei, Guerrin menaro uia La doue l'arcipelago confina, E lo uendero à Salonicche à certi Mercanti astuti, & in quei mari esperti. Nel partir' i Mercanti ad un fu dato Guerrino in parte, che de la Cittate Del bel Costantinopoli era nato, E quiui con le robbe più pregiate Con diligentia grande fu portato, Perche de l'innocentia hauea pietate, Et à la moglie, da chi nessun figlio Hauea, prese di darlo per consiglio. Epidonio chiamossi quel Mercante Che Guerrino condasse à la mogliera, Ella, come sel uide porre innante Non fe nel primo molto buona cera, Pensando che'l marito d'altra amante Sotto color d'una finta maniera Volesse quel, d'un'altra donna hauuto, Che da lei fosse per figliuol tenuto. Ma poi ch'udì da i serui, come il fatto Era passato, assai ne fu contenta, E come dal suo uentre fusse fatto Così'l nutri, che più non la tormenta Alcun sospetto, onde con pie toso atto Lo prese, nè mostrossi punto lenta In trouargli una balia, & ogni cosa Che si richiede ad opera pietosa. Ciò fatto, il fa poi battezar, che pensa Che battesimo ancor non habbia hauuto, Era'l Fanciul di gran beltate immensa, Ma sendo schiauo, e pouer diuenuto; Ella al suo stato un nome gli dispensa Per mostrar com'in man le sia uenuto E come auilito era dal destino Vil nome diegli, e lo chiamò Meschino. Ma non di meno, il fe nutrir di sorte C'harebbe fatto hauendol partorito, Che pregna non fu mai del suo consorte, E per questo hauea preso per partito Di tenerlo per figlio, fe la sorte Il buon pensier non le hauesse impedito: Ingrauidò d'un figlio, sì ch'in tanto Il misero Meschin restò da canto. Vedutisi di lor proprij un figliuolo Nascere, e maschio, secondo il desio C'haue a'l Mercante & ella, Meschin solo Senza padre restò, posto in oblio; Egli di ciò non si prese alcun duolo Nè conosceua alcun suo caso rio, Ma crescendo su guardia d'Enidonio Così chiamato il figlio d'Epidonio. Vero è, ch'ancora che di grado stesse Del fanciullo Enidonio, un passo à drieto; Pur parue ad Epidonio, ch'ei douesse Imparar le uirtù, che nel segreto L'amaua ancora, e col figlio lo messe A' studiar, di che molto egli era lieto E fece in breue ne gli studij cose Stimate da ciascun miracolose. Imparò ben Latino, e Greco à pieno Appresso à quelle poi lingue diuerse, Era robusto, e d'aspetto sereno; Nè di star perso in otio mai sofferse, Ben che Epidonio lo teneua à freno Che per mar poscia al faticar l'offerse, Menandol come Schiauo, e come uile; A' la cui seruitù, ste sempre umile. Così crescendo poi, quando tal uolta Con Enidonio se n'andaua à Corte Doue l'Imperapor facea raccolta Per far proua di qualche gioco forte, Cominciouui egli ancora à mostrar molta Prestezza in armeggiare, e in ogni sorte Di giochi, in trar gran pietre, e lãciar pali; Di se mostrando stupendi segnali. D'ogni sorte di salti, e lotte, doue S'interpone destrezza, forza, e ingegno; Vinceua'l Meschin già tutte le proue, Onde Alessandro figliuolo del degno Imperadore, ad amarlo si moue; E già fatt'ha sopra di lui disegno Seppe chi egli era, e tosto che l'intese Ad Enidonio in uendita lo chiese. A' cui disse Enidonio, il padre mio Questo può far, per ch'egli già comprollo, Non che di questo già mi ricordi io Ma perch'egli l'ha detto, però sollo; Onde Alessandro un suo messo espedio Et al Mercante Epidonio mandollo, Giunto Epidonio, dargliel fu contento Libero, senza hauerne pagamento. Signor mio car dicendo, quant'è nostro Senza denari, ad un sol cenno fia Con me insieme ad ogni uoler uostro, Ben ch'è più dì, ch'io feci fantasia Di liberarlo, e glielo haurei dimostro; E perch'io bramo ancor che così fia Pregoui che da schiauo nol teniate, Ma come buon Signor lo liberiate. Disse Alessandro, in prima accetto il dono Poi per mostrar, che'l tuo uoler mi piace Libero il faccio, e contento ne sono. E perche ei uiua con maggior sua pace Chiamò più testimonij, con un buono Notaro, e ne fe schritto più uerace In presentia di molti, e gli concesse Che libero per tutto andasse, e stesse. Poi fatto questo Alessandro si uolta In presentia di tutti al buon Meschino E domandogli, come gli fu tolta La libertade, e presso à qual confino Nascesse, e chi fu'l Padre, à questo molta Acerba ammiration prese Guerrino, Oimè dicendo, Signor'io credeua Epidonio per padre, e lui teneua. Ad Epidonio Alessandro riuolto Domandò per qual uia l'hauesse hauuto, Et ei rispose, come l'hauea tolto In parte, fanciullin, sendo compiuto Vn uiaggio per mar, che non di molto Prima à i compagni, e lui, l'haue an u&etilde;duto Certi Corsar, nè sapea dir'il resto, Onde prese Guerrin gran duol di questo. E se n'afflisse tanto, che di corto Morto se ne sarebbe senza forse, S'ei non prendeua pur qualche conforto Che suo padre à cercar poteua porse, Per tutt'il mondo, ò fosse uiuo, ò morto; Ma del porlo ad effetto, allora il torse La riuerentia ch'umilmente porta Ad Alessandro, che molto il conforta. E fu contento seco accomodarsi Ad agni suo seruitio, fino à tanto Che miglior tempo uegga appresentarsi, Ponendo allora ogni pensier da canto: Col ben seruir, cercando guadagnarsi L'amor di tutti, e se ne diede il uanto Che in correr lance e maneggiar destrieri Auanzò tosto, gli altri Caualieri. Di liberalità, di cortesia, D'umanità, di gentilezza ogn'uno Superò sempre, e grata leggiadria, Quanto in Corte ui fosse huomo ueruno Potea uantarsi, e fu di uillania Sempre nemico, onde un'amor communo E de l'Imperadore, e da la figlia Guadagnossi, di tutta la famiglia. E perche gliera accetto, e l'hauea caro L'Imperador se lo fece Trinciante, Nel quale offitio non si fe men chiaro C'hauesse fatto nel giostrare innante, Dunque il ciel sempre non si mostra auaro Massime à quel, ch'è di gratia prestante, E c'habbia in se uirtute, e gentilezza; Che da' giusti Signor sempre s'apprezza. L'imperadore hauea una sua figlia Detta Elisena, di quattordici anni Di gran beltate ornata à merauiglia, Ben ch'Amor tesi non le hauesse inganni; Ma ella ben con un uolger di ciglia Legaua i cuor ne gli amorosi affanni; Onde Guerrin senza farui difese Ardentissimamente sen'aceese. Or'innanzi Alessandro, & ora à quella Trinciaua, sì, che'l delicato uiso E l'accorta maniera, onesta, e bella Aperto gli mostraua il Paradiso, Gli occhi eran le ueloci aspre quadrella Che da se stesso lo tenean diuiso, Di giorno in giorno l'amoroso frodo Più gli stringeua l'intricato nodo. Più d'un'anno passò, ch'ancor nessuno Conobbe entro à qual laccio fosse preso, Nè pensouui Elisena, che digiuno Haueua il cor del fuoco, ou'era acceso Il giouene Guerrino, or pensi ogn'uno Che per entrarle in gratia hauesse teso Ogni laccio, ed ogni arte, ch' Amor mostra; In balli, in salti, in canti, in lotte, e'ngiostra. L'Imperador, che uide al tempo l'opra Hauer fornita, che hauea disegnato Per maritar la figlia, diedeui opra, E se sopra di ciò, grand'apparato, Ma prima fè mandarui un bando sopra Che tosto che l'April fosse passato Libera à ciascheduno e lieta giostra S'hauea da far con generosa mostra Non molti dì doppo il bando passaro Da diuersi paesi, e circonstanti, Da cinque mila, ò più ui capitaro Quasi tutti à caual, con pochi fanti: Quiui i maggior Signor si rassettaro: Per hauer de la giostra i primi uanti, Di sopraueste, e di diuerse insegne Ch'à lor conuenientia stimar degne. D'Astilador, ui uenner due figliuoli Ch'era Re sommo di meza Turchia, Pinamonte, e Torindo, nè fur soli Ch'anco ui capitar per altra uia Degli altri Duci di diuersi stuoli Afimontes fu l'un Rè di Soria Di Macedonia Apollidas, ma prima A gli altri fu tal Re di molta stima, Giunseui Brunas d'Eliconia, e doppo Napaler d'Alessandria, & anche il figlio Del Re di Persia Anfilio, e non poi troppo E Napar, e Madar, nel cui artiglio Era Milon; giunseui di galoppo Costantin, tratto al bellico consiglio, Signor de l'Arcipelago, & appresso Archilao, e'l fratel uenne con esso. Amazone chiamato, & anche molti Cristiani, e Pagan, che non accade Quì dirne il nome, che ui fur raccolti. Di più remote, e uicine contrade: Onde tutti color, che fosser uolti Del bando à trasgredir l'autoritade, L'arme e i cauai perdeuano i Cristiani, La uita s'al fallire eran Pagani. Furon gli allogiamenti apparecchiati Per tutti, & i Signor de l'altre genti Benignamente in la terra accettati Dal Magno Imperador, non altrimenti Che se fratelli gli fossero stati: I più bassi restar da loro assenti, Stan de la città fuor, nessun contende, Sotto à frascate, padiglioni, e tende. Venuto il tempo, & appressato il giorno Per dar principio à la festa solenne, Cominciar ne la piazza à farsi intorno Gran palancati, con traui, & antenne; Essendo di poi fatto il gran Contorno Il deputato giorno al fin ne uenne Per far la giostra, ou'à la piazza centa Ogni giostrante in ordin s'appresenta. Ma il grande Imperador prima bandire Fe, che nessun ne lo steccato hauesse Con più d'un Caualier d'entrarui ardire; Nè che nessuno à giostrar si mettesse A pena de la uita, se mentire Credea, che gentil'huomo esser dicesse; Nè uuol che pria nessuno à giostar uenga Se quel ch'ei dice d'esser non mantenga. Questo fu'l bando, ch'al Meschino il core Afflisse, sol per ch'à lui fu uietato Il poterui giostrar, per quello errore Di non saper mostrar di chi sia nato; Elisena, à laquale, à tutte l'hore Egli seruiua, ueggendol turbato, Domanda la cagion perch'ei si mostra Sì mesto al far di quella noua giostra. A cui Meschino con un gran sospiro Disse, per non saper di chi sia figlio L'onore, al qual de la gran giostra aspiro Vietate m'è, nè mi gioua consiglio. Non è poco il mio mal s'io dunque miro Che fortuna mi tenga in tale artiglio; Da che uirtute non mi può far grande Indarno dunque nei pouer si spande. Pietà n'hebbe Elisena, e gliene increbbe, E uolta à l'altre Donne, dicea, questo Al cor che ha generoso, esser potrebbe Di nobil sangue, e lo fa manifesto Il desio grande, ch'à giostrare haurebbe, Non senza gran cagion ne uien sì mesto, Tutte le Donne faceuan giuditio Che di sangue gentile ei daua inditio. Volta al Meschin, non dubitar, diceua Elisena gentil, sia pur ualente, E'l dolor, che dimostri da te leua Che ben sarai in gratia d'ogni gente; Al cui parlar Guerrin le si poneua Innanzi inginocchiato, che ne sente Molto conforto, & assai la ringratia Dicendo, sol mi basta esserui in gratia. L'hora de la gran giostra s'appressaua Doue tre gran Baron fur deputati Per giudicar chi meglio si portaua Armato in giostra dentro à gli steccati; Tutta la gran città d'arme sonaua, Così furon gli assalti cominciati Da quei, che fur di condition più bassa, Ch'à questi tali il principiar si lassa, Il Meschino era andato per uedere Cominciare il sanguigno e forte gioco Sù nel palazzo, oue credea potere Vna finestra hauer posta in un loco Doue nessuno il potesse uedere, D'inuidia carco, e de l'ardente foco Acceso del desir, poi ch'egli cede A chi giostrar, com'ei uorrebbe, uede. Battesi il uiso, e si lamenta spesso De la sua ria fortuna, e mala sorte; Alessandro, che'l seppe, s'era messo Per udir quel che tal lamen'o importe; Odel perche non può giostrare anc'esso Dolersi, e lamentarsi in sino à morte E pien d'ammiratione e merauiglia Scopresi al fine, e per la mano il piglia. E senza allor dir'altro, seco'l mena In una certa camera segreta, Con faccia più turbata che serena E l'ammonisce, & al tutto gli uieta Che non debbia sperare à quel che'l mena In così folle audacia, & indiscreta: Parti ch'à te conuenga, gli replica L'arme di tal periglio, e tal fatica? Che crederesti far, che più di uenti Caualier u'è, ch'ognun di loro è buono Superar diece di noi più ualenti? Ond'io so certo ch'in error non sono Che'l grand'animo e'l cor più fier ti senti Più che'l poter, ma questo non è dono Perfetto di natura, onde le uite Son mal difese poi sì disunite. Chiedi quanto tu uedi in mio potere E lassa andar questo pensier sì uano Che più difficil fia questo ottenere Ch'à l'ombra il crin d'Apollo hauere in mano S'io chiedessi altro, io nol potrei uolere Che di prouarmi con la lancia al piano Disse il Meschino, e se ciò non credete Resta che'l mio ualor ben non uedete. E che mi gioua se'l uostro fauore Non può sì breue cosa far ch'io possa Seguir, perche morendo con onore Non curo far di me la terra rossa; Dio'l sà, disse Alessandro, se'l mio core E se la uolontate io u'ho commossa, Ma che partito pigliar posso ò deggio Se doppo un rio pericol, uiene un peggio? Il primiero è, che l'onor, la persona Si pone àrischio indubitato, e certo, E l'altro è, che s'offende la Corona Del padre mio, di che sai ben, che merto S'acquista di tal fallo, onde ragiona D'altro, se uedi il tuo mal tanto aperto Nè si potrebbe impetrar poi mercede, Ch'ei suol tener la gran giustitia in piede. Queste cose ti dico acciò tu uegga Ch'io t'amo, e perch'amandoti t'appregio Non aspetto altro, senon che tu chiegga Se uuoi comprar l'onor con tanto pregio E quel ch'elegger puoi da me, s'elegga S'esser pur uuoi del martial collegio Segua di poi che uuol, ma il mio conseglio Ti mostra prima, quel che stima meglio. Questo desir m'uccide allor più, quando Me lo sento uietar per tal cagione, Dicea Guerrin, ma non son di me in bando Sì, ch'io non uegga la compassione Che mi portate, ond'io questo pensando Sempre àuostra bontà resto prigione, Prenderò dunque il rio; lassando il meglio, Perch'io ui chieggio aiuto, e non conseglio. Senza più contrastar, sia fatto, dice Questo gentil Signor, uientene meco Sè quì consiste il uiuer tuo felice Contentandoti in questo, io uo che teco Vnito m'habbi, e lo mena oue lice Per armarlo menare, in luogo feco Doue l'armò di sua man propria, e doue Poi gli diede un destrier da far grã proue. E fello uscir per un certo giardino Che hauea'l palazzo, in parte assai segreta Prima hauendo sù l'arme d'acciar fino Messa una soprauesta non di seta Nè d'oro, ma di panno bigiellino, Di poca stima, e ual poca moneta; Et una grossa lancia in man gli pose Da farne un guerrier forte, opre famose. Ma prima l'auisò, ch'egli douesse Con modo ritornar donde era uscito Sì destro, che nessun non s'accorgesse Che'l bando sia da lor disubidito: In piazza giunto poi Guerrin si mosse In frotta d'ogni Caualiero ardito; Ma chi'l uide gridaua forte ò piano Ecco un rozo à giostrare, ecco un uillano. Per quella soprauesta ogn'un non uede Che sotto roza scorza spesso suole Apparir gran uirtù, che non si uede Se più chiara stagion non mostra il Sole; Doue anche spesse uolte quel gli cede Che uuol far pruni di rose, e uiole; Ecco il Meschin, che in nõ prezzata mostra Potrà col fuo ualor uincer la giostra Ride Elisena ancor di lui, che forse, E senza forse, non ui passò molto Che per il disprezzarlo ben si morse Le man più uolte, e graffiossi il bel uolto. Per simil grida il camin già non torse Il Meschin, ma ben tutto in se raccolto, Con la neruuta lancia, che in man tiene Vn Turco affronta, ch'affrontar lui uiene. E con tanta ragion compassa, e guarda Con l'occhio, che fuor morto de l'arcione, Lo trasse, sì la lancia fu gagliarda; Ma quel ch'aprì la bocca per cagione Di ridersi del colpo, si ritarda Et apre gliocchi pien d'ammiratione, E la bocca ch'aprì, tosto riserra Veggendo il Turco morto esser in terra. Anfitrion abbatte di Soria, Che di diece piu franchi era tenuto Ogn'un, che uede tanta gagliardia Ammiratiuo stassi, attento, e muto; Tal huom ueggendo senza compagnia Solo à giostrare, e ch'era già temuto Da chi prima si rise di sì brutto Abito, che sù l'arme hauea condutto. Chi sarà? chi può esser, quel uillano? E chi nè fa giuditio, non s'appone, Solo Alessandro si morde la mano Che'l ualor disprezzò di quel Campione; E poi ch'armato non l'haueua in uano Molto allegro ne stà, ma più cagione Harà di rallegrarsi, come appresso Da lui uedrà qualche altro in terra messo. De' circostanti ogn'un desidra, e brama Che'l Villan resti uincitor del gioco. Da l'altra parte, quei che la lor fama Si ueggon torre in sì palese loco, Ciascun con noue astutie cerca, e trama Mettergli à i fianchi più cocente foco; E chi trà loro è stimato più forte Quel prima giostra, e cerca dargli morte. Di questi Costantin fu col fratello, E Tanfirio di Persia, e altri assai Ch'andaro in frotta, & in un sol drappello Con la pungente inuìdia sempre mai, Che hauean per torgli un'onor tanto bello; Dai quali hebbe'l Meschin di molti guai; Ma pur per forza si difese al fine, Col fauor sol de le gratie diuine. Vedeua questo Dio, che'l tutto uede, E perche non gli piacque, mai non fue Abbattuto il Meschin, ma sempre in piede Mostraua il suo ualor tuttauia piue; Dunque egli al suo nemico mai non cede Ma mostra ogn'or più chiar le uirtù sue; Chi'l uide, uide aperto che lui solo Valeua più che tutto l'altro stuolo. Cosa non già senza abominatione Di tanti temerari Caualieri, Che contra un sol far uoglion paragone De gli sdegnosi loro animi fieri; Ma perche guerra fan senzar ragione De l'error lor uidero segni ueri, Per danno loro, e per l'altrui parole, Ch'ogn'un che'l Villan uiua grida e uuole. Già per suo gran ualor l'ama Elisena E per saper chi era ne domanda Ad Alessandro, con fronte serena; Dicendo, chi è quel che tanti manda In terra, e par che non gli tochi appena? Ei dice non saperlo, ò di qual banda Venga, ma sia d'onde si uuol, che basta Che ben'il sà, chi s'incontra in quell'asta. Mentre ch'ella desidera sapere Cadon tre Caualieri innanzi à quello Incognito guerrier, fuor del destriere; Archilao fu'l primo, e doppo il fello Amazone di Stiua, & à cadere Poi uenne Atrapal, di pietà ribello; Allor tutt'il restante gli si serra Addosso, per por fine à tanta guerra. Ai canagliaccia uil, gente bestiale Alessandro diceua per se stesso; E corre al padre, e dice, egliè pur male Che gli sia fatto un tãto oltraggio espresso; L'esserci uoi presente, che ci uale S'un pouer Caualiero in rotta è messo Con tanto oltraggio, e che ciò sia cagione Per non tener uoi dritta la ragione? Vinto dal suo parlar sì giusto, è degno L'Imperador fe sonare al trombetta Per dare à tutti inditio, e chiaro segno Che per quel dì la giostra si dismetta; Sentendo il suono il Meschin con ingegno Sgombrò la piazza allor con molta fretta, E tornossi al giardin, oue ordin'era Dato, c'hauesse à ritornar la sera. Questo disegno, ben giouò, ch'allora Chi uedesse non fu doue egli entrasse; Or pensi ogn'un s'Alessandro l'onora Ch'ei solo l'arme di dosso gli trasse; Era già de la cena giunta l'hora, Onde à l'usato modo si ritrasse Il Meschino à seruir l'Imperadore; Et io ui lasso di tal canto fuore.

FINE DEL CANTO SECONDO.

ATe Dio debbon gli odorati incensi, Le divine olocauste, & à te solo Vmilemente gratie dar conuiensi; Poi che tu sol, che da questo, à quel Polo Nulla celar ti uedi, or a dispensi La gratia, à chi non solo esser figliuolo Vedi di gran Baron, ma uedi come Deue Guerrin pregiar tuo santo nome, L'alta uirtù, che fin ad or dimostra, Come non è senz'il uoler tuo giusto, Così deue esser la credenza nostra S'ella non perde di ragione il gusto. Vinta hà la prima, or la seconda giostra Vincer potrà, col ben neruuto fusto De la sua lancia, e poi la terza appresso Sio'l posso quì narrar, com'ho promesso. Mi preme sì l'amore, e la pietade Di non lassar questo principio perso Poi ch'io l'ho fatto, benche sien le strade Mal trouate da me del bel dir terso; Ch'io son disposta insanguinar le spade, Romper le lance, e mostrarmi conuerso In huomo ardito, ancor che donna io sia Onde torno à seguir l'istoria mia. Già era à cena il grande Imperadore La figlia, eraui seco il suo figliuolo, Et ogni degno Barone e Signore, Sì Cristian, come del Pagan stuolo: Doue parlossi del passato onore Che douea darsi à quel Caualier solo, Chi lo lauda, e chi'l biasma, e lo tien pazzo Ch'appresentar non si uada al palazzo, Era presente ad ogni lor parola Il Meschino, e tra se diceua spesso A' la barba l'haurete, ei non si uola Che quel che uinse, uoi l'hauete appresso, Ma ben diceua, mente per la gola Chi di uoi mi tien pazzo, ben confesso Ch'io sarei pazzo, et arcipazzo quando Mi palesassi contro à tanto bando. Finissimi Tappeti furo in tanto In terra stesi, ou'i Turchi mangiaro, Secondo l'uso loro, poi che quanto Lor piacque, de la giostra ragionaro. Guerrin seruendo nel passare à canto Ad Alessandro, con aspetto chiaro Al Meschin uolto disse, à quell'huom sorte Che non t'armaui tu per dargli morte? Mi ui sarei fors' ancor'io prouato Diss'egli, quando maneggiar potesse Il caual tutto'l dì sù'l campo armato, E che prouato come glialtri, hauesse D'esser di nobil sangue ancor'io nato Sì com'il bando Imperial commesse; Non farai poco, Alessandro rispose, Pur che ti proui ben ne l'altre cose. Risero tutti di quella risposta Che'l Meschin diede, apprezzãdolo poco, Che molti non san ben quant'ei gli costa; I quai restaro fuor del primo loco, La doue la gran giostra era composta. Prese il Meschino ogni lor riso à gioco: Mostrandosegli umile, e poco accorto; Sperando far noui fatti di corto. E far molti sospir con breue riso Comprare à tutti. e dopo cena poi Non sendo del uillan nato altro auiso, Andaro tutti à cari alberghi suoi, E poi ch'ogn'un da la sala è diuiso, Non par che punto ad Alessandro annoi D'assettar tutta notte col Meschino Vna ueste di drappo Alessandrino. I ricami disfer, che hauea d'intorno E l'assettaron sopra l'armatura Con altro modo, e diuer so contorno De la primiera solita misura Acciò che se ueduta gliè dattorno Nessun di corte, col porui ancor cura La riconosca, onde con altra mostra Del solito, il Meschin comparse in giostra. Il dì secondo nel primiero affronto Abbatte Pinamonte di Turchia; Poscia in quel modo fe cadere à ponto Il suo fratel, con somma gagliardia Torindo detto; onde il popol congionto Lo loda, e grida ch'egli in piedi stia, Poi che i più forti uedeuan cadere Per man d'un solo, e pouer Caualiere. Ecco Amazone, & Archilao di Stiua Inuidiosi, che glialtri sien cascati; Costor l'un dopo l'altro ne ueniua; Che lor piacque cascare accompagnati: Del cader loro al tutto ne deriua Che Brunas d'Eliconia i noui aguati Scopre gridando, e fa cenno con mano Quest'è quel rozo d'hier, quest'è'l uillano. Sù grida à i Caualier, sù presto à dosso Che s'uccida'l Villan tanto molesto; Al quale inuito, uno squadron fu mosso Segu&etilde;do Brunas, ma'l Meschin, che questo Oltraggio uede, imbraccia il targõ grosso, La forte lancia, e quanto può più presto Affronta Brunas, che ueniua innanzi, A' far, come ui fece, pochi auanzi. Ben che'l Meschin d'un colpo assai uillano Fosse percosso, pur restò di sopra, E'l nemico restò disteso al piano. Tal che ciascun giostrante ui s'adopra Con grande sforzo, acciò che resti uano Ogni poter, che in forte huomo si scopra, Veggendoli Alessandro infuriati In piazza uien con molti huomini armati. E col baston, che ne la destra tiene Colpeggia sopra le lance abbassate: In sì publico luogo si sconuiene Mostrar simil uiltà qual dimostrate? Grida à coloro, e tocca lor le schiene Tal'ora ancor con aspre bastonate Quest'è, dice, uillan, ch'inodio hauete, A' far tai torti, or dunque uoi chi siete? Poi manda un bando à pena de la uita Che si debbia giostrar lancia, con lancia; E chi giostrar non uuol, faccia partita Ouer ch'ei tenga dritta la bilancia. Vedendo pur la gente inuelenita Nè'l bando suo uolendo addurre in ciancia Chiamo'l Trombetta, alqual subito disse Che col sonar la festa si partisse. Ma douesse indugiar per fino à tanto Ch'ei fosse nel palazzo ritornato, Egli mostrò certa finestra in tanto, Dicendo, quando là sarò montato Allora seguir ai à punto quanto C'haurai da fare, e ch'io t'ho ordinato: Così di piazza uscissi, e diede il segno Quando tempo gli parue, il Signor degno. Fece questo Trombetta il tutto, e seco Fece sonar tutti glialtri stromenti, Onde lo stuol, ch'è d'ogni ragion cieco Si ritrasse àgli usati alloggiamenti, Così'l Turco, col Turco, e'l Moro, e'l Greco, Ciascuno si ritrasse à le sue genti, Con lor poco guadagno, e men contento Poi che nõ hanno il buon Meschino spento. Ma prima à tutti, uscì del fiero ballo Il Meschin, come accorto, e come saggio, Veloce speronando il buon cauallo, Come fugge ueloce il solar raggio Quando la nube infuriata fallo Debol per lo diuerso suo uiaggio, O' come stral, che da duro arco scocchi, S'auien, ch'un braccio ben robusto il tocchi. Quiui l'Imperador, quiui la Figlia; Con tutti glialtri, di stupor son pieni Ciascun di questo rozo assai bisbiglia Con gesti più turbati, che sereni; Chi quà gliorecchi porge, e chi le ciglia Là torce l'altro, nè troua chi il meni, A' saper noua ancor, che chiara sia Dou'il rozo sen uada, ò per qual uia. Molto cerca Elisena, e ne domanda Ad Alessandro, che le finge, e niega Che non sa pensar come, ò di qual banda Ne la lor terra tal uirtù si spiega, Ella mentre ad Amor si raccomanda, Che l'incognito ardir la stringe e lega, Già l'ama, e già si mostra dolorosa Che tanta gran uirtù le sia nascosa. Non men l'Imperador fa, ch'essa faccia, Ma'l tutto è uan, ch'Alessandro non uuole Che di tal desiderio si compiaccia, Ch'ei sa ben, ch'obedito egli esser uuole. In questo mezo il cenar si procaccia, Il Meschin torna à seruir com'ei suole; E più che prima si mostraua umile, Debol di forze, e di spirto gentile. L'Imperador pur comanda, e commette Che'l terzo dì, che la giostra dee farsi Sien fatte guardie di tal sorte elette, Che'l Villan più non tardi à palesarsi, Alessandro è, che queste guardie mette, Ai quai comanda, che debbian portarsi Di sorte, sì ch'à lun si sodisfaccia, A' l'altro in tutto ancor non si dispiaccia. Et auisa'l Meschino, e lo consiglia Ch'ei nõ si uoglta armar, che'l caso importa Ma quel, ch' a'l grã desir sciolt'hà la briglia Ne l'istesso ualor sì si conforta Ch'al parer d'Alessandro non s'appiglia Ma ben lo prega gli sia scudo, e scorta; Com'i due primi giorni gliera stato Mentre egli in piazza era uenuto armato Al fin disse Alessandro, sia rimesso Il tutto in te, se pur andar ui uuoi. Così si fu'l Meschino in ordin messo Di caual, lancia, e spada, & altri suoi Bisogni, e giunse in piazza, oue lo spesso Popol' era à uedere, à che fin poi Resti la giostra, & Alessandro messe Le guardie, com'il padre gli commesse. Pure in quel modo che già dissi innanzi Che con piaceuol modo debbian farlo, Ma'l Meschin fa uedersi, & entra innanzi, La gente ch'era intorno à riguardarlo Non pensa, che sia quel che hauea pur diãzi Fatto cader, chi uenia ad affrontarlo; Ch'era à bianco uestito, & insieme anco Fornito er'il caual tutto di bianco. E mentre che i Signori, e i Caualieri Stanno à ueder se quel' Villano arriua Il Meschino un di lor, di quei più fieri Fa cadere, e per questo oltre ueniua Torindo, e Pinamonte, i frati fieri; Di questi un, doppo l'altro, in terra giua, Et è seco rimaso ognun balordo, Allor gridossi, gliè nel uisco il Tordo. Quest'è'l Villano, e sono i lacci tesi Dicono i Caualier, tu starai forte E d'odio, e di furore, e rabbia accesi Ciascun cerca pigliarlo, e dargli morte; L'Imperador ueggendo i passi presi E le uie del fuggir, uietate e torte, Fa chiamare Alessandro, e dice espresso Che seguir debba, quanto gli ha commesso. Sola Elisena, nel segreto teme Ch'un tanto Caualier non uenga manco; Son pur cose, dicea, del tutto estreme Che tal torto riceua huomo sì franco, Sentesi al core un non so che, che'l preme Da quel c'ha l'Arco, e la faretra al fianco, Da quel, ch'altri già disse, e non per lei Stanco di saettare huomini, e Dei. Ahi cruda impressione, ahi duro nodo Ch'à scior fia tardo più, chi forte il serra, Repugna il legno, à l'appuntato chiodo Quant'è più dur, ma poi più forte afferra, Tu sei tenace Amore, in ogni modo; Se ben tal uolta sei tardo à far guerra: Costei già duolsi, di quei tesi inganni Et ama solo i fatti, e l'ombra, e i panni. Il uiso nò, perche la fama è quella Che lega i cor soggetti à la uirtute, Ad Alessandro dunque la sorella Diceua, habbi pietà per sua salute, E non patir, che quella gente fella Con lor malignità (che uedi,) astute Gli faccian tanto oltraggio, e tanto danno; Come aperto si uede, che gli fanno. Lassa la cura à me, disse'l fratello, Ch'io n'ho forse di te molto più fretta. Dicea questo tra se, poi come uccello Si moue, ò d'arco ueloce saetta; Se non col proprio affetto, ben con quello Desir, ch'ei puote, e tra la noua setta Giunge, e percote con le guardie insieme Tre n'urta, un ne percote, e uenti preme. Finge il Meschin, ben ch'ei conosca à pieno Non uedere Alessandro, ò altri seco, Mena la spada à tre, che già nel freno L'hauean preso, d'un colpo da cieco, Questi mostrauano il uolto sereno Dicendo, noi non uogliam guerra teco Ma solo il nome tuo uogliam sapere Nè ueniam per farti altro dispiacere. Queste lusinghe non quadrauan bene Però il Meschin, che uuole assicurarsi Tre man tagliò, che non oprauan bene, Veggendosi nel fren cosi pigliarsi: Non parue à gli altri, ch'ei facesse bene, Però cominciar tutti à dileguarsi Chi con le man'in sen, chi dietro à fianchi Per che qualch'una tosto lor non manchi. Vn Contestabil, che uuol fare il grande E uuole obedientia, e non parole; Dicendo, elle son cose pur nefande E ch'ei farà ueder, che gliene duole: Et poi che quel tanta arrogantia spande Il farà squartar tosto, e porre al Sole Mentre ch'ei braua, e batte le mascelle, Gli fa'l Meschin del capo due scudelle. Quell'estremo ualor fe quel dì proue Sol per assicurarsi la persona Da fare in ciel con Marte, stupir Gioue E la Regina de l'armi, Bellona; Non resta ancor, chi di nouo si moue Con maggior forza, e contra gli sperona Sì ch'è mestiero ancor con più persone Mostrar di se più chiaro paragone Alessandro or da sinistra, or da destra Parte s'accosta, e con uoce alta dice Riposate Signor la uostra destra, Se'l ciel mai sempre ui faccia felice: Da uoi si cerca sol con la più destra Foggia, che quì per noi cercar si lice; Che ne diciate il nome, e chi uoi siete E come piace àuoi, liber sarete. Stringesi ne le spalle, e con la mano Cenna'l Meschino allor, come dicesse Che quello stuolo importuno, e uillano; Nol lassa esser' uman quand'ei uolesse E che ben uolentier farebbe piano Il nome suo, tutt'hor, ch'egli potesse Ma che per forza in tal modo non uuole Che quì bisognan fatti, e non parole. E più che puote à poco si ritira De l'ampia piazza appresso dell'uscita Et à le uolte, uolto con grand'ira Segnaua alcun d'asprissima ferita. Così con essi tanto si raggira Che quella calca è quasi indebolita. Mostra Alessandro hauer gran dispiacere Che quei non lassin dirgli il suo uolere. Così da parte alfin s'era tirato: E torna al padre, e dice, quel Campione E da tutti i Signor sì circondato, Che far non può la uostra intentione: E che più uolte à lui s'era accostato Et ei mostraua hauer gran passione Parte perche non può farui contento: E perche cerca ognun dargli tormento. Strignesi ne le spalle il padre al fine, E fa sonar ch'ognun lassi la festa; Per riparare à l'ultime ruine Di tanti gran Signor, ma nessun resta. Sol con l'ardite forze, e peregrine; Risponde il buon Meschino à la richiesta. Và indietro uenti passi, e diece torna E uitupera ognun che'l segue, e scorna. Ma per dare omai fine à tanta guerra, Che uuol da tal fastidio torsi uia: Stringe la spada, e'l dente arruota, e serra; Punge il caual con tanta gagliardia Che trenta d'urto ne manda per terra; E tre n'uccide, ou'egli fa la uia; Diece restar feriti, onde il furore Fe conuertire in subito terrore. Chi suo mal grado, e chi per sua paura Adietro fassi, ond'il Meschin, che uede La strada del partire esser sicura; Con gran uelocità riuolta il piede; Che'l non esser ueduto sol procura: Ilche ben facilmente gli succede: Ch'alcun per la città non si dimostra: Ch'ognun in piazza era à ueder la giostra. Dunque egli ben potè sicuro entrarsi A' posare il cauallo, e l'armatura; Quei de la piazza, tosto à dileguarsi Cominciaron senz'ordine, ò misura; Cosìrestaro i lor disegni scarsi Nè di saper più nessun piglia cura. Dicendo ognun, palesisi à sua posta, Che'l uolerlo saper troppo ci costa. Piace à molti saper nulla di manco; A chi sia quell' onore attribuito: Ancor ch'alcuno affaticato, e stanco Fosse, per quel che'l giorno hauea patito; Vuol saper chi fia detto esser piu franco. Et entra ou'il bellissimo conuito Era ordinato nel palazzo, e doue Si parla à pien de le passate proue. Quiui ricorre ogn'un, ne la gran Corte; Tanto Signor Pagan, quanto Cristiani Parte, ch'aspettan che colui sì forte Si uada à palesar, parte, che i uani Pensier li tira, e par che si conforte Che tant'onor gli caschi ne le mani: E ui furon tra questi, i due fratelli Turchi, d'ogni ragion cassi, e ribelli. Torindo, e Pinamonte fur costoro; Di temeraria inuidia carchi, e pieni. Pensando che l'onor rimanga à loro, Quando lor buona sorte non ui meni Quel Villano, che sol diè lor martoro; Ma non sì, che frenasse i lor ueleni; Che pensan quando si ueggano esclusi, Gli odij tener di ciò nei petti chiusi Il Meschin tutta uolta seruia, come Soleua nel passato, di coltello; Dinanzi ad Elisena, che del nome Di quel guerriero, or a à questo or a à quello Spesso domanda, che quel giorno dome Ha l'altrui forze, e fatto tal flagello. Et il uolto al Meschin di poi uoltato, Gli domanda, ouer' ei quel giorno stato. Risposele il Meschin, che ne la piazza Dou'era la gran festa, anch'egli er'ito. Ma non le disse già che di corazza D'elmo, e di lancia, e scudo, era fornito; Che pagheresti esser di quella razza, Disse ella, ch'è quel Caualiero ardito? Vedesti tu, (replica) quell'huom franco Ch'oggi combattuto ha, uestito à bianco? Viddil, diss'egli sì, ma che mi gioua Veder tanti spogliar d'onore, e poscia Che'l grande acquistator, che fè tal proua In uan drizza la lancia in su la coscia? In uan sua forza non più uista, e noua Orna, se d'ogni onor riporta angoscia. Che già per suo ualor gli porto amore Sì ch'ei s'asconda me ne crepa il core. Non merta la uirtù di tal guerriero, Occulto star, tra i Caualieri arditi, Diss'ella, ben che di saperlo spero Pria che tanti Signor uia sien partiti, Non potrai, come credi, di leggiero Così tosto satiar questi appetiti Dicea Guerrin tra se, tacito, e piano; Vita mia, sì, che tu t'adopri in uano. Ma poi che tutti quei, che n'hebber scorno Non ne seppero noua, falsa, ò certa, Fece l'Imperadore andare intorno Vn bando acciò ch'ognun si stesse all'erta; Che chi potesse quel presente giorno Noua saperne, gli faceua offerta D'un don di stima, e per uaghezza ornato Quanto quel per ilqual, s'era giostrato. Nè questa uia bastò, che'l tempo è perso; E bisognouui un'altra espeditione, Dipoi che'l uincitor uuol, che sommerso Sia quell'onor, che gli uien per ragione. Parue à l'Imperador, che miglior uerso Fosse in presentia d'ogni gran Barone, E d'ogni Caualier, quelli à giuditio Chiamar, ch'eletti furo à tale offitio. Quei, disser, che l'onor non potea darsi Ad altro Caualier, ch'à quell'un solo Che da nessun fu uisto scaualcarsi, Che quel non auenia de l'altro stuolo Doue nessun di lor potea uantarsi Non essere abbattuto, con suo duolo. Sì, che'l giuditio loro, è che si tenga Il pregio, fin che quel per esso uenga. Perche termin non hebbe il bando alcuno In fra che tempo, à domandar uenisse L'onore il uincitor, sì che digiuno Restar ne debbia, non par che'l patisse Legge, nè scusa, ò statuto nessuno; Nè par che'l darlo ad altri conuenisse A tanto Imperador; che la ragione Tutta è riuolta à quel nobil Campione. Restò sospeso dunque, il grande onore; Nè si diede à nessun, sì che per questo Non sapendo che farui, ogni Signore Per partirsi, si pose in ordin presto; Con buona gratia de l'Imperadore; Ma sol con pensier falso, e men ch'onesto; Si partiro Torindo, e Pinamonte, Celando il rio pensier, sott'altra fronte. E'ben lo dimostrar giunti che foro Nel lor paese innanzi à la Corona Del padre loro, e disser come loro Vinser l'onor per un'altra persona; Vdendo questo, il Re Astiladoro In cotal forma, con essi ragiona; Chi ui uieta l'onor? chi ue lo nega? E sopra i fianchi con le man si piega. Il Greco Imperador, risposer loro Sol per inuidia, e mala intentione L'onor ci uieta, che nè gemme ò oro Può pareggiarlo, ò fargli paragone; Mosso per tal parole Astiladoro Sopra se giura, e sopra il suo Macone; Se troppo tosto il ciel nol fa perire, Che lo farà di tanto error pentire. Più bella occasion non uuol che questa Che da già molti giorni ha desiato; Di seco guerra hauer, da disonesta Voglia, e dal uan giuditio suo tirrato Dà ordine à la guerra, e non si resta Che in man gli pare hauer già quello stato; Senz'esser di conseglio più prouisto, Ben ch'al buon gioui, e sia perso col tristo. Crescere il Regno uuol, nè uede ò sente Se'l ceruello gli cresce in testa, ò manca Nè pensa à danno alcuno, ò ui pon mente, Perche gli pare hauer gente assai franca; Cento cinquanta mila hauea di gente Raccolta seco, non già pigra ò stanca; Perch'era scelta, e mossesi con furia, Per non lassar freddar la calda ingiuria. Mossesi questo Re, coi figli suoi; I quai quindici fur, gioueni, tutti Da portar arme, e questi scemar poi, Che de le guerre si trae simil frutti; I nomi loro ben sapete uoi, Ma prima dei paesi, onde ridutti Hauea tutti i guerrier, tristi e perfetti; Che tutti sono al Regno suo soggetti. Erano i suoi confin con l'Vngheria; Di Bossina, e Polonia era Signore; Di Frigia, e Vesqua, e Babilonia ria E de lo stretto d'Elesponto il fiore; Comandaua egli à meza la Turchia. E de lo scettro suo staua in timore Paflagonia, Bitinia, e più paesi; Quai tenea per amor, chi à forza presi. La Galatia, e l'Assiria, e due reami De l'Amazonie, che Panfilia l'uno, L'altro Cilicia, che de i maggior rami Eran del suo dominio, tal ch'ognuno Di questi, per sì piccioli richiami A' rischio pose, con danno communo Di tutti quei, che di tal parte trasse; Senza temer che'l suo pensier fallasse. Il primo dei figliuoli è Pinamonte Torindo, Manacorre, e Turonoro, Falisar, Antifor, Aferamonte E Tanfirio, e Danate, fu de' loro Turco, Dragone, Anfitras, Aramonte, Mariante, Aritran, sì, che costoro Erano à la grandezza del suo stato Tali, che'l Re potea dirsi beato. Ma quel desio d'hauere, e d'occupare Non lascia mai godere il ben presente; Che'l crin non uuol sempre fortuna dare In mano à quel, che si tien più potente. Presso à Costantinopoli accampare Si uenne Astilador, con quella gente; Et al seruigio de la sua persona Quattro altri Re ui uenner di corona. Albacto fu l'un, buon uecchio, e degno, E di Polonia anco il Re Dolcebrando, Et il Re Mursitan, grosso d'ingegno, Ma fiero armato, di lancia, e di brando; Di Satia, ch'è in Turchia, fu'l suo gran regno; Il quarto uien dopo lor seguitando, Astenio, Re di Pampagonia, ilquale Bello era, e forte, ma molto bestiale. Tal essercito giunto il proprio giorno Di forte la città per mare e terra Assediaro, sì, che d'ogni intorno Daua segnal di stratio, morte, e guerra; L'Imperador, ueduto tale scorno, Prouisto anch'egli, si prepara; e serra Il passo al suo nemico, e la muraglia Accomoda, à difesa di battaglia. Mandò per tutta Grecia per soccorso A quei Signor, che allor u'eran Cristiani Per impedir de' suoi nemici il corso E far d'Astiladoro i pensier uani Che ben che'l uegga innanzi sì trascorso Fin ch'al nemico sia fuor de le mani Vuole aiutarsi, che'n Dio spera, e crede; Non curando morir per la sua sede. Fugli gente promessa, e fin che sia Giunta, di dentro uuol uiuer prouisto Che l'uscir fuor gli parca gran pazzia Con poca gente, à far dannoso acquisto. Or, perche stanco son, per poca uia; Non sarà forse il mio partito tristo, Ch'io ui faccia indugiar d'udire il resto Ne l'altro canto, e por quì fine à questo.

FINE DEL
CANTO TERZO.

SI fan tanti disegni, e tante sono Le speran Ze quà giù, Mo tor superno, Che s'io pur di seguir l'opra ragiono, Però non posso senza il tuo gouerno; Che perfetto fu sempre, giusto, e buono: Nè più sicura uia di te discerno. Termin giusto non ho, non alcun segno; Doue si fondi altroue il mio disegno. Il grande assedio, le minacce, e'l grande Pensier d'Astilador, che uuole in mano L'Imperador, l'Imperio, e quanto spande Il suo poter, sopr'il popol Cristiano, V'ho detto già, e perch'io non ui mande In lungo, seguirò di mano in mano, S'io posso far quel, ch'io uorrei seguire; Che del principio so, non del finire. Di tanto assedio il Meschin solo è quello Che sta senza timor, ch'allegro stassi; A'tal che chi'uedea, pensaua ch'ello Del mal de la città si rallegrassi. Ma'l generoso cor suo puro, e bello Desiaua che sol gli bisognassi D'entrare in opra, à mostrar suo ualore; In aiuto del Magno Imperadore. Questo segnal di tanta contentezza Fe (com'io dissi) à molti hauer sospetto Ch'ei fosse Turco, ben che la certezza Non potesser hauer, per tale effetto; A dunque quest'insolita allegrezza Fe che molti il uedeuan con dispetto; Stando l'Imperio tutto in gran paura, E ch'egli di tal mal punto non cura Ma egli nel seruire intorno à quella Che lo tenea legato in dolce ardore Veggendole turbar la faccia bella (Per la ria noua de l'Imperadore) E gli atti, e i gesti, e i modi, e la fauella Pien di doglioso, e subito timore; Presegli tal piet à del suo languire Che d'affrontar quel campo ha solo ardire Giocondo tutto, e ne la uista altiero; Dicea, deh non temer per Dio, Signora E non t'affliger, con tanto pensiero; Che gli huomini fanno, e Dio dispone ogn' ora. Ella cõ p&etilde;siero aspro, crudo, e fiero; Si uoltò tosto al suo parlare allora Credi, (gli disse) al tuo cianciar, ch'io sogni E tal conforti dar non ti uergogni? Or leuati di quì, uillan, poltrone; Che non sia Turco già negar non puoi; E pensiti or con tua presuntione Conforto darmi con gli inganni tuoi Leuamiti dinanzi, furfantone Schiauaccio, uil, ua stà trà i pari tuoi Chi speranza uuol darmi, e chi conseglio? Vn che non sa chi sia, un uil fameglio. Deh, come dolce Dea, che Cipri onora Gli fusti si ribella? e non temprasti Col dolce, ilqual tutt'il mondo innamora I furor suoi? come non riguar dasti Il cor, che douea poscia, à tempo, et hora Temer gli strai, ch'al tuo figliuol donasti Pianger ai tai parole anco Elisena Nè trouer ai rimedio à la tua pena. Gliè uer, disse tra se tutto smarrito Il misero Meschin, ch'io non so cui Figliuolo io sia, ò donde, e di qual lito In queste bande trasportato fui. Così partissi, tutto sbigottito Ahi ciel dicendo, com in casa altrui Son uilipeso, e tanto più da quella Che per nume hauea tolta, e per mia stella? Altro premio pensaua, altra mercede Speraua del seruir Donna crudele; Che non era altro in me, che pura fede, Per la quale m'hai dato assentio, e fele; Questi sono gli acquisti, e l'alte prede Che doni Amore, à quel che t'è fedele? Questo al mio desiderio si conuiene; Che hauea di trarla fuor di tante pene? Troui or chi questo faccia, e chi si metta A' tanto rischio, per la sua persona, Ahi femine crudeli, ingrata setta; Contrarie à chi per uoi fa opra buona Ben st uedrà, s'in me mai fia ristretta Virtù, che'l ciel di rado à gli huomin dona Prouaila in giostra, è mal lodar se stesso La Dio mercè, che tal don m'ha concesso. E la prouaua ancor, ma non bisogna Ch'un poltron, ch'un furfante questo facci; Nè che'l prometta à una, che non sogna, Che d'altro difensor, uo si procacci, Di quì mi partirei, ma la uergogna Ciò non comporta, fin che tali impacci Sono à questa città, per mostrar' anco Che chi mi uuol far ner, mi uegga bianco, Son troppo debitore, e troppo deggio Al mio Signor dar merito del bene D'hauermi liberato, ond'io non ueggio Cagion d'abandonarlo in tante pene; Però con lui non mi uo portar peggio Che in tal oblighi far mi si conuiene, Nè uoglio abbandonar la sua cittade In tal bisogno, in tal calamitade. Certo Lettor, che sì'l cocente sdegno Il Meschino assaltò, che mancò poco Che uia non si partisse, se'l disegno L'atto non gli mostraua esser dapoco; A' non mostrar per qualche chiaro segno D'aiutare à smorzar l'acceso foco. Ma d'Elisena che già tanto amaua Non più curaua il mal, nè lo prezzaua, Dunque s' Amore è grande, or l'ira è tale Che le stingue, raffrena ogni sua uampa; Ne rimedia c'huom faccia, nulla uale. Qual hor lo sdegno in un petto s'accãpa, Però sempre fuggir si deue il male, Che quest'è poi troppo tenace stampa, Nè basta à remediarvi tutto il mondo, Perche con la ragion ua troppo à fondo. Ei non si uuole armar non uuol prouarsi Se la città non uede ben serrata, Ond' Alessandro, che i partiti searsi Vede, e del padre la faccia turbata; Nè tempo hauendo hauuto à procacciarsi Per far difesa, contr'à tanta armata, Pensa non conoscendoui altro scampo, Al me che puote, assaltar egli il campo. Mal uolentieri il padre ui consente Nè ui essend' altri, che tolga l'impresa Che l'assalti, gli dice, con la gente Che seco uuol menar, per sua difesa; Ma che poi si ritiri in continente Nè faccia con sì pochi gran contesa. Egli d'arme guarnissi il capo, e'l busto, Ch'era assai franco, e di corpo robusto. Allegro tutto di quella licenza, Tre mila buon guerrieri ei seco guida, E pone ordin tra lor, con gran prudenza; Che'l campo assaltar uuol senza più sfida, Tutta uolta il Meschino à la presenza Staua, nel qual non poco si confida Alessandro, e gli dice, che si uada Armar, s'ei uuol giocar di lancia, e spada. A' cui diss'il Meschino, io non mi sento Signor mio, molto ben, si che per hora In dietro resterò, non da spauento Tenuto già, del campo ch'è di fuora: Così disse il Meschin di mal talento Et Alessandro non istette allora A' replicarui, & uscissene fuore Più contento esser sol, s'harauui onore. Ma come uscito è de la porta aspetta Con tutti i suoi, per domandar battaglia; Manda ad Astiladoro un suo Trombetta A' dir, che s'ha nessun che tanto uaglia Per affrontarlo in ordine lo metta Con patti prima, che l'un l'altro assaglia; Che se'l Campion suo resta uinto, meni Sua gente fuor di tutti i suoi terreni. E caso che i pensier suoi restin uani Restando perditor, ben ch'ei nol creda; Vuol la cittade dargli ne le mani, Con ciò che dentro ui si troua in preda: Ma nulla ual, perch'à questi sì strani Partiti il padre conuien che ui ceda: Ma tosto ch'al Re fu tal noua gionta Ascoltato'l partito, lo racconta. Parlonne à i suoi Baron, sì che da fronte Gliandaron molti, per pigliar l'impresa Tra i quali fu il figlio Pinamonte Con fiera uoglia, fuor di modo accesa: Ma inginochiato con sommessa fronte Padre li disse, perche'l caso pesa; S'io son tuo figlio, e colui ch'esser soglio, Lassami ad Alessandro trar l'orgoglio. Consenti il padre, e loda ogni Barone. Sì ch'affrontar lo uà, d'arme guarnito; Tosto ch'ei giugne, sù la resta pone La lancia, & Alessandro, che l'inuito Accetta uolentier con gran ragione Sprona il destriere, il Caualiero ardito, La lancia abbassa, in se tutto ristretto E l'uno a l'altro se la ruppe al petto. Al medesimo rischio er'ito l'uno, Che l'altro, e non ui fu gran differenza: Ma pur per quanto giudicaua ogn'uno Contr'era ad Alessandro la sentenza Il padre, ch' à uedere er'ito ad uno Torion de la Terra, e'n sua presenza Stando la moglie ancora, & Elisena Hebbe senza misur a angoscia e pena. Però che non ster molto, che le spade Trasser facendo aspra guerra, e mortale Alessandro à la fine, in terra cade Ferito in testa, con gran doglia, e male, Pinamonte, che post ha la pietade Da parte, da caual com'hauess' ale Smonta per far del resto, sì ch'in questo Leuo'l pianto la madre, e'l padre presto. Piangeua anch'Elifena, ma col poco Spirto, Alessandro, che tornato gli era Pur si difende, e tien lontan dal gioco Meglio che può'l nemico, ma non spera Molto d'uscir di quello strano loco, In che si uede colto, e si dispera: A' pena si tien ritto in su'l terreno, Che'l sangue manca, e la forza uien meno. Pur dice à Pinamonte, che'l douere Vuol che si pigli fiato, che l'affanno Non lassa à l'huom la sua uirtù potere Mostrar, che in uno assalto troppo stanno: A' Pinamonte piacque il suo parere, Però ch'à lui tornaua poco danno: Che per lo sangue, che tutt'hor ua fuore La forza d' Alessandro era minore. Et preso fiato, diero nel secondo Assalto, e fu crudele, e furioso; Cose Alessandro fa de l'altro mondo Per hauer preso quel poco riposo: Ma pur prouando de la spada il pondo Che del fèroce braccio, e poderoso, Nasce di Pinamonte, al fin s' arrese Poi che perdute ha le miglior difese. Perche del braccio, oue tenea lo Scudo Era ferito il miser cavaliero Perche rotto lo Scudo, il ferro crudo Tagliò 'l bracciale, onde fu di mestiero, Che gliandasse à trouare il braccio nudo Sì che ferito il braccio, di leggiero Il misero Alessandro andò prigione, Del Re Astiladoro al Padiglione. Doue ferito, inginochion si mette Dinanzi al Re, chiedendogli perdono; Nol guarda Astiladoro, e tanto stette Senz'udir di parola alcuna il suono, Che hauendo già le uene uote, e nette Di sangue, cadde in terra, in abandono; Sì che lo fe portar uia mezo morto Pinamonte, per dargli alcun conforto. Al proprio Padiglion se'l manda, tutto Di uergogna ripien, che sia il padre Stato tanto crudel, che tal costrutto A' i suoi uinti pregion per premio dia. Ahi uitio scelerato, orrendo, e brutto; D'un Re, che hauendo'l nemico in balia Ferito à morte, e perdon gli domanda E'l crudo, uolge'l capo in altra banda. E che ne uuole? è costui dunque quello Che motor di tal guerra stato è forse? O' che'l suo figlio, ò padre, ò che'l fratello Per uccidergli à torto, iui trascorse? Ma ben uerrà dal ciel tanto flagello Che lo castigher à, fe'l camin torse. Pur Pinamonte gli fa qualche onore, Sendo figliuol di tanto Imperadore. Pietosa cosa, d' Alessando il padre Era à ueder, che fe di pianto un fiume, E mesta cosa era; a ueder la madre Che perdè i sensi, e più non uedea lume. Le luci, ch'eran già tanto leggiadre Pien di saggia onestade, e buon costume De la bella Elisena, eran nel fello Dolore inuolte, del suo car fratello. Poi ch'è la gran ruina manifesta E de l'Imperadore il pianto scuro: Pietà di lui il core al Meschin desta, Et per farlo sperar nel mal futuro, Gli fa de l'armi, e del destrier richiesta Che pochi giorni fa, giostrati furo; Per dimostrar di fuor nel campo armato Ardir, che da nessuno era stimato. A cui l'Imperador, disse, non uoglio Perche se'l uincitor, l'armi chiedesse Per alcun tempo mai, (se da l'orgoglio Campo d' Astilador) uo che per esse Possa uenire, onde s'io me ne spoglio Sarei poi mancator de le promesse Non l'hauend'io, pur s'hai questo desio D'altr' armi ti prouedi figliuol mio. Era tanto l'amor, che quei Baroni Portauano al Meschin, che quasi tutti D'accordo, con dolcissimi sermoni Prometton, (che s'auien che sieno i frutti Del Meschin uani, senz' altre ragioni L'armi perdendo, in modi belli, ò brutti;) Esser tenuti à sodisfarle loro E'l caual, se ben fosse tutto d'oro. Per simil promission gli fu concesso Insieme col cauallo, l'armatura, Nè sopra à quel sì tosto s'era messo Armato, che ponendogli ogn'un cura Ciascun diceua, che parea quel desso Che uinse la gran giostra, che natura Far nol potrebbe, à colui piu simile, Nè fu tenuto (ciò uedendo) à uile. Posesi l'elmo in testa, & poi uoltato Al Popol, confortandol, l'essortaua Che per lui, Dio pregar fosse pregato Che trouar possa quel ch'ei desiaua, Cioè da chi fia stato generato, Et egli, in cambio donar gli pensaua Tosto lieta uittoria ne le mani Cõtra a quei Turchi, in fauor de' Cristiani. Impugnò poi la lancia, e con lo sprone Punse'l cauallo, e corse com'un uento Verso la porta, per far paragone Di fuor, di quello che si uantò drento, Trouò color, che lassaron prigione Alessandro, e uoltolli in un momento Adietro seco, che così commesso Del loro Imperadore, gli haueua ùn messo. E disse lor, che si douesser porre In luogo da la porta non lontano, E se ueniua seco un solo à torre Guerra, quantunque di ualor soprano Che non si mouan se ben fosse Ettorre; Così s'allarga poi subito al piano, E suona il corno, e battaglia domanda Che si sente del campo in ogni banda. Pinamonte, sù grida à i suoi feruenti Che l'armi, e'l suo caual, pongano in ponto Ma non potè combattere altrimenti, Perche'l fratel Torindo, presto gionto Dinanzi al padre, con sommessi accenti, Ottenne d'esser primo, à tale affronto, Dalqual, così'l Meschin, fu salutato, Qualunque tu ti sia, sia'l mal trouato. Chi sei tu, disse, si presuntuoso Ch'ardisci domandar dal nostro campo Battaglia, c'hai bisogno di riposo, Se ben' in me, di te l'effigie stampo? Disse il Meschin, chi era, e quel furioso Gli rispose, per altro non ti campo Che per la cura c'ho de l'onor mio, Ch'à giostrar con famegli non uengh'io. Fossi pur (disse) fatto Caualiero, C'haurei pur qualche scusa, perc'ho uoglia Veder (se come mostri) sei si fiero; Disse Guerrino, adunque non ti doglia Aspettar, perch'io spero di leggiero Come de la città dentro à la soglia Sarò entrato, farmi anche Barone Se pur sei di sì uana opinione. Fu contento Torindo ch'egli andasse, E d'aspettarla, fin che fatto sia Caualier, se quel dì tutt'indugiasse Ancor ch'à fare haviesse poca uia, Poiche'l Meschino dentro si ritrasse Nessun sapendo com'il fatto stia, Pensaua ogn'un, che per uilta ritratto Si fosse, da che inanzi non s'è fatto. Egli giunto al palazzo Imperiale Disse à l'imperador, l'esser' andato Senz'esser Caualier, nulla mi uale; E che dentro per quello era tornato A' cui l'Imperadore, è poco male Questo, rispose' e funne contentato. L'Imperatrice, come cosa'onesta Gli fe don d'una bella soprauesta. Elisena gli uolse ancor donare Di gioie, e perle, una ghirlanda bella; Quella non uolse Guerrino accettare E'n cotal modo uerso lei fauella, Che simil cose deue essa donare A' chi non è poltrone, e non uuol ch'ella A' un furfante, à un famiglio dia Quel, ch'un'huom degno n'ha poi carestia. E ritorna à la uolta de la porta E seco fa tornar tutti coloro Ch'eran tornati dentro, e gli conforta Che non debbian mancar de l'ordin loro. Torna poscia à trouar per la piu corta Il Turco Caualier, indi tra loro S'andarono à trouar con l'aste basse, Senza che piu tra lor si ragionasse. Ma prima'l Meschin fe quest'oratione A Dio, pregandol che trouar gli facci, E padre, e madre, e sua generatione Prima che morte fuor del mondo il cacci Però c'hauea ferma opinione Trouati lor, l'altre fatiche, e impacci, Per la fè di Giesù tutte tor poi Sì come si dee far da tutti noi. Vdì quest'oration l'eterno Dio Et esaudilla, perchell'era onesta, Perche quantunche il colpo fosse rio Che gli die'l Turco, con la lancia in resta, Non gli fe mal, com'egli hauea desio; Ma quella del Meschin, con più tempesta Fe lui cader, malamente ferito, Sì che'l pensier non gli restò fallito. Guerrin, prigion ne la città lo manda E poi di nouo battaglia richiede Pinamonte, che l'ode, ridomanda L'armi, e'l caual, per non u'andare à piede; E grida, e chiama, e minaccia, e comanda, Che senza dubbio, inghiottir se lo crede, E dice ad Alessandro, che gli dica Chi è quel, ch'à giostrar quiui s'intrica. Risposegli Alessandro nol sapere Di certo, se non fosse gia'l Meschino; E che s'egli era, mal potranne hauere Onor, perche gliè più che Paladino. Rispose Pinamonte, io'l uo uedere Con chiara proua, e subito il camino Al padre piglia, & à lui giunto chiede La sua licentia, & egli glie la diede. Giunt'al Meschin, disse, Dio ti sconfonda C'hai rotto il patto d'Alessandro, al quale Non piace, che la legge si confonda; Perche disse uoler, per minor male (Se à me la sua possanza era seconda) Far il mio padre, (come principale) De la città padron, con tutti noi; Che n'hai dunque à far tu, che tu non uuoi? Et egli, che n'ha à far, se'l padre è quello, Diss'il Meschin, ch'è nostro Imperadore, Non tel promise lui, sì che fratello Tù e lui siete de l uer camin fuore. O' tù, ò io, che sia fuor di ceruello. Pinamonte rispose con furore; Ben presto si uedrà, ma uo uedere Come tù giostri, e se sei Caualiere, Perche, se ben conosco la fauella Tu sei huom da giostrar la notte à scuro Per ciò che sei colui, cui de la bella Elisena, il seruir non era duro, Nè solazzarti con qualche donzella, Ma questo non è luogo sì sicuro, Sì, che tornati dentro à starti seco. Chi Caualier non è, non giostra meco. A questo'l tuo fratello anche m'oppose Ond'io mi feci, e presilo prigione Disse il Meschino, e non fe tante cose Com'ei uantossi, e gi fuor de l'arcione Non piu ciarlar, Pinamonte rispose; Siamo à le proue, al chiaro paragone, Volto'l cauallo, e'l Meschin uoltoll'anco Per tor del campo, com'ardito, e franco. L'asta di Pinamonte in pezzi resta, Ma quella del Meschin con miglior nerbo Colse nel mezo al petto quasi à sesta, Del Turco, sì, che'l crudo ferro acerbo, Dietro à la schena fuor si manifesta; E rifrenato il Caualier superbo Morto giù cadde, e non fu di mestiero Mandarlo ne la terra prigioniero. Il Meschin torna, e suona un'altra uolta L'altiero corno, e più battaglia chiede; Per questo, Astiladoro, e'l campo molta Speranza perde, e ne faceua fede Il Re, che con le mani ne la folta Barba si da dolorosa mercede; E per l'un figlio preso, e l'altro morto, Grida à gli altri uendetta in suo conforto. La doglia, ch'era ne la città prima Con la speranza si stingueua in parte. Era à l'Imperadore in tanta stima Venuto gia'l Meschin, che mai si parte De la muraglia, ò sù de l'alta cima Di qualche torre, oue crede ogni parte Veder dou'egli giostra, e intanto al cielo Volto, Dio per lui prega, con gran zelo. De sarà mai, dice Elisena, ch'io Possa ueder questa guerra fornita Per man del mio Meschino? io dico mio Che s'egli resta con uittoria in uita Mio padre mel darà (com'io desio) Per marito, e Signor, ma fia fallita Questa speranza c'ha, perch'egli, certo Terrebbe al bene oprar, questo mal merto. Etti Elisena egli si tosto fuore La male usata uillania di mente Che pensi, che'l Meschin ti porti amore (Come già ti portaua) or al presente? Sai ben, che la grandezza del suo core Mostrò più uolte, ch'amando altamente Non s'era posto senza qualche segno, E potendoui Amor, ui potè sdegno. Non basta tua beltà, quantunche bella Più ch'altra fosse, se con tal ueleno Premij chi t'ama, e non è in cielo stella Che non sappia dar luce al ciel sereno, E che ualpoi, se ne la gran procella A i nauiganti al bisogno uien meno? Costui, non per tuo amor già l'arme piglia. Ch'esser lontan ti uorria mille miglia. Ma uuol, che non gli sia rimprouerato Che in tal bisogno, Alessandro abbandoni; Che uuol che per hauerlo liberato Da lui riceua simiglianti doni. Or, poi ch'ancor di nouo egli ha sonato Venner per affrontarlo tre Baroni Pur del Re figli, e uenner tutti insieme Che men che'l danno, uergogna gli preme. Venner costor, per affronnarlo tutti Insieme, ond'il Meschin, che l'atto ha uisto Per dar (s'ei puote) à tutti amari frutti Chiama in aiuto, e per sua scorta Cristo. E ben che sien per lui tali atti brutti Gli aspetta, e sta con l'animo prouisto. Ma come presso furo i Turchi gionti, Non parue à l'un, che da tutti s'affronti. Fu'l primo Manacor, che prima uolse Andare innanzi, e su'l primo à cadere E dal obligo tosto si disciolse; Disse'l Meschin, tu se mio prigioniere. Questo partito da noi non si tolse Rispose Manacor, nè fia douere Non uenimmo per renderci prigioni Se tutti e tre non siam fuor de gli arcioni. Se glie così, diss'il Meschin, tu hai Forse ragione, in questo, ecco'l secondo Chiamato Falisar, che per suoi guai Si fece innanzi tutto furibondo, Più ben'huom di costui, non cascò mai Com'ei senti di quella lancia il pondo; E si fiaccò tanto le membra e l'ossa Ch'appena par ch'in pie drizzar si possa. Seguì poi Antifor, il terzo d'elli; Costui si tenne al colpo de la lancia, Onde sperare in parte fa i fratelli; Ma ben s'ha egli da batter la guancia Volar le lance in pezzi a i colpi felli Nè cominciar con le spade da ciancia; Ma'l Meschĩ, c'hauea'l braccio assai più forte Diede in due colpi à quel Pagã la morte. Che l'un gli ruppe l'elmo, e l'altro poi, Il capo gli parti fin sotto il mento Si che prigion furo i fratelli suoi Che nessun prima andarui era contento. Lettor, dunque per questo pensar puoi Se'l campo per tal danno habbia spauento; E se l'Imperador se ne conforta Ch'era uenuto già fuor de la porta. Con tutti i suoi Baroni, è quasi il resto De gli huomini da guerra seco hauea. Ma com'il fatto al Re fu manifesto Di tre suoi figli la noua sì rea, L'orgoglio, ch'auea prima, tanto infesto In parte col pensier da se stinguea; Dicendo, se tal forza ha questo solo Che farà poi con tutto l'altro Stuolo? Con l'onor, coi prigioni, e con la gratia Di tutta la città, per prender torna Dentro il Meschin riposo, ú non si satia Il popol di uederlo, oue l'adorna Corte, e l'Imperador quiui il ringratia; E chi l'ha uisto un tratto, anche ritorna; Che più sicur si tien fuor stargli appresso Che senza, d&etilde;tro al mur, ch'intorno è messo Mentre che nel Palazzo erà à cauarsi L'arme di dosso, in quell'instante uenne L'Imperador con fretta à inginocchiarsi Dinanzi al buon guerrier, nè si contenne Si, ch'ei non si uedesse lagrimarsi Di tenera allegrezza, nè ritenne Cosa per fargli onor, che far si possa, Per quanto stender puossi la sua possa. Deh, diceua'l Meschin, pur'or m'aueggio, Verso l'Imperador, ch'io non son uostro Seruo, di poi ch'inginocchiar ui ueggio, Se ben da seruo l'opre mie dimostro; Io non so, Signor mio, che farmi peggio Possa uostra Corona. Tu se nostro, Disse l'Imperador, ma non ti piglio Per seruo già più nò, ma per mio figlio. E drizzato abbracciollo, e ne la fronte Baciollo, & egli inginocchiossi allora. Eranui in tanto à la presentia gionte L'Imperatrice (che molto l'onora) Con Elisena, che le uoglie ha pronte Per fargli onor, ma la tema l'accora; Sa ben quant'il Meschin l'odiaua, et anco Quant' offeso habbia quel Caualier franco Non osa palesarsi, e sta da canto Pentesi, e non le ual, da l'altra parte Amor di lui l'accende ogn'hor più quanto Più lo uede onorar, ma non uale arte, Ingegno non ui ual, che l'odio è tanto Che dimostrar nol posso in queste carte. Dũque d'entrargli ingratia in darno stima. Et s'or non può, douea pensarui prima. Tornale à mente ch'altri esser non puote Colui, che uinse la superba giostra Che mi ual, dice, il batter de le gote Che colui, ch'io haueua in casa nostra Era quel, le cui opre non fur note Che di lui fosser, & però dimostra La ria fortuna il ben tanto celato Ch'appena posso dir ch'io l'ho sognato. Anzi nol posso dir, ch'io non so quando Prima mi fosse mostrato, che tolto; Mi seruì ben costui più tempo amando Che nè daua segnal l'effigie, e'l uolto; Ma se giostrando temeua del bando E se mia gratia desiaua molto; Sapendo ch'io amaua il uincitore Dir mel poteua pur senza timore. Che corso non sarebbe quel ch'e stato Sapendo il suo ualor, come il so ora, Ch'al suo prometter l'haurei più stimato; E la risposta trista che m'accora Haurei taciuta, & egli ingiuriato Non saria com'egliè, nè io di fuora De la sua gentil gratia non sarei, La qual può far felici i giorni miei. Quiui l'Imperador preci deuote A Dio fe celebrar, per la cittade Le quai non furo in uan, nè restar uote Digratia da l'eterna alta bontade; Ciascun de i Cittadin quanto si puote Onoraua il Meschin, ma la pietade Ch'egli hauea d'Alessandro suo Signore Armare il fe, più che desio d'onore. Astilador, che i figli hauea prigioni E per trarneli fuor, pensaua come, Sapea, che col dar noue occasioni Più gli grauaua di dubbiose some; Tenne à la fin, sol per queste cagioni, Che meglio fosse dar di triegua nome, E dopo il nome poi seguir l'effetto, Per partito miglior, per buon rispetto, Mandò, fatto conseglio, Ambasciadori Dentro à l'Imperador, per trattar pace Caso ch'à pieno egli osserui i tenori Dei patti lor commessi à uno audace Ambasciador, se non tutti i rancori Depor per qualche dì, non gli dispiace; Per conto de' prigion, uuol chieder tregua Acciò che doppio mal non gli consegua. Di Vescoa fu Re l'Ambasciadore Antico, e saggio, e da tutti stimato, Il qual fu'l primo à tutti esploratore Si come piacque à chi l'hauea mandato. Ne l'altro Canto udirassi il tenore Di quel ch'ei chiese, e quel che fu fermato. Piacciaui dunque ch'io quì faccia punto Poi ch'al prescritto termine son giunto.

FINE DEL
CANTO QVARTO.

GIvsto Signor, che i più potenti poni Spesso nel basso, quand'in lor discerni L'arrogante superbia, che i più buoni Opprime, e fa di lor tristi gouerni; Deh come con giustia or ben disponi, Del Greco Ambasciador gli audaci scherni Tutto pieno d'orgoglio, e di tal sorte Che'l manco minacciare era la morte. Espose l'imbasciata, e disse come L'accetta Astilador per tributario S'egli uuol farsi, e che più de le some Nol graueria di guerre, e'ch'auuersario Più non l'haurà, ma ch'egli farà dome Le forze à chi gli fosse mai contrario; Ma che uuol, che gli renda in dietro i figli Et Alessandro in contracambio pigli. A cui, l'Imperadore, io uo uedere Disse il parer del mio fedel conseglio, Che l'udir di lor menti il buon parere Del mio giuditio mi pare assai meglio; Nè ui rincresca qui soprasedere Mentre, ch'à darui la risposta io ueglio Così restaro, & egli consigliossi Coi suoi perche dar la risposta possi. Or dipoi che'l consiglio suo raccolse Chi loda il nero, e chi s'appiglia al bianco; Chi per miglior partito pace tolse E chi la guerra, facendo cor franco; Dopo lunga disputa Guerrin uolse Parlar, per non parere esser da manco De gli altri, anch'egli, e disse, non mi spiace In questo stato nostro il uoler pace. Caso che sia di sorte, che si resti Ne la primiera sua dominatione; Ma non par che la cosa qui ben sesti A dargli censo, come suo prigione; Io uo morire in prima, se con questi Patti, saluar uolete le persone. Ma se parte d'onor punto ui costa Lassate sopra à me, questa risposta. L'Imperador gli presta sì gran fede Che per sua man non crede mai perire E l'autorità tutta gli diede Ch'egli pensasse di uoler seguire, Con la douuta riuerentia, in piede Allor drizzossi il Meschin per seguire Quanto promesso haueua, uscendo fuori E trouò gli aspettanti Ambasciadori. Huomin dal Re Astilador mandati (Disse lor pronto) qualunche uoi siate Per non tenerui in lungo quì tediati Piace al gran Signor mio, che uoi pr&etilde;diate Da me risposta, à i uostri domandati Patti, li quali hauer da lui cercate; E come ho detto, in suo cambio mi manda Or' ascoltate à la prima domanda. In quanto al censo, ò darui alcuno omaggio Vso ei non ui è, nè ui si uuole usare; Nè de le stelle ui darebbe un raggio Se quelle ancor ui potesse negare; Non una lisca ui daria uantaggio S'hauesse i Pesci al suo domin del mare, Sì, ch' ascoltate il resto, perche questa Prima risposta è fatta in tutto onesta. Segue poi la seconda, de i prigioni Che riscattar con Alessandro dice, Quì ben dimostra per chiare ragioni Che darne uno per tre non si disdice, Perche tutti i suoi figli non son buoni A' barattarli con tante camice Che d' Alessandro sien, nè fia bugia Ch'egli sol ual, più che tutta Turchia. Sì, che contento e'l padre, che si facci Non già per tema, ma per fargli onore, Però, ch'in breue, uoi che questi impacci Hauete presi, con maggior furore Procurete uscir de' nostri lacci Auanti il terzo giorno, e non sol fuore Di qui, ma sgombrerete Grecia tutta, E Romania, che fia per noi distrutta. Gran segno di franchezza, estremo ardire Mostro'l Meschin, che fu da lor taciuto Nel campo, e ciò non uolser riferire, Celando il tutto, con bel modo astutto; C'haurien fatta ogni gente sbigottire; Perche già molto era il Meschin temuto, Pel nome ch'egli già dato s'haueua; E per quel che di nouo si temeua. Il cambio de i prigion fa confermato. E poi gli replicò l'Imbasciadore, Il mio Signore Astilador, m'ha dato Comession, che con l'Imperadore (Caso che'l patto non habbia accettato) Tratti battaglia con ordin migliore, Per far manco prigioni, e minor tedio, E non star quì poi sempre con l'assedio. Gli par, che questa lite sia fornita Con cinquanta guerrier, contr'altrettanti E s'ei n'ha il peggio, uuol poi far partita Di quì con tutti i suoi caualli, & fanti. Et s'egli è uincitor, uuol mentr'inuita, E mentre dura il mondo, à tutti quanti Suoi discendenti, fia sempre tenuto Il uostro Imperator di dar tributo. E com'è detto, se i suoi son perdenti Non sol di quì si partirà, ma uuole Che mai da lui, nè da suoi de scendenti Questa città nè in fatti nè in parole Sia molestata. Io non uoglio altrimenti Pensarui, com'in tai casi si suole; Disse il Meschin, e per l'Imperatore Accetto il tutto con allegro core. Perche sarà, quel ch'io farò, ben fatto; E questo al mio Signor diletta, e piace, Dunque si cerchi luogo, e tempo, adatto, Dando à la moltitudin noua pace. Allora il Re di Vesqua stupefatto Partissi, d'una tal risposta audace; E al Re Astilador tal noua porta Poi condusse i prigion presso la porta. Il medesimo Re, accompagnato A'la porta tornò, che seco haueua Alessandro, per tor, seco menato I tre prigion, che la città teneua, Così fu un per tre figli cambiato D'Astilador, così si prouedeua Al resto, ad esequire à punto quanto Fermato fu da l'uno, e l'altro canto. Fu fermata la triegua per un mese I nel cui tempo ognun sicuro andaua Dentro à la Terra, e fuor per quel paese. L'Imperador in tanto fuor mandaua Messi à far gente per le sue difese; Però che mal fornito si trouaua, E da molti Signori amici suoi Fu ben soccorso in tai bisogni suoi. In questo tempo Costantin comparse Duca de l'Arcipelago, in aiuto, Et Archilao d'Astiua à presentarse Venne, e u'era il fratello anche uenuto Detto Amazon, che fece seguitarse Da i suoi di Negroponte, e fu ueduto Ciascuno uolentier, ben che fra tutti Più che sei mila non u'hauean condutti. Or quì, dice l'istoria, può uedersi Già del Magno Alessandro la grandezza Dou'ita sia, e come tutti persi Sono gli onor di tanta somma altezza; E'l gran poter dei Greci, che sommersi Son già per dapocaggine, e tristezza, Doue fieno or'i gran Lacedèmoni Che sien del proprio mal lor testimoni? Chiamisi Agamennone, e i suoi seguaci Veggan la Grecia, e le cose passate Che'n preda hãno lassata à gli aspri audaci Vicini Turchi, in tal calamitate; Nè il ciel cõporta al fin gli empi e rapaci Onde son quelle genti or soggiogate Sotto canaglia, & huomin sì proterui Che già degnati non l'haurian per serui, Or ne le uoluttà satio e sfamato Sei Tolomeo, rompendo i modi onesti, Or s'ei de la sorella innamorato, Contr'ogni legge, or conuien che digesti Sieno Antigono i uin, che ber ornato D'Edera il capo circondar uolesti, Per scettro il Tirso, e deuiando l'orme, L'Imperio traslatasti in porche forme. Quanto crebbe l'onor sì chiaro al mondo, Tanto più biasmo, e uituperio merta Grecia, lo stato tuo già tutto al fondo E di color, che t'han così diserta. L'Imperador, con animo giocondo E grande onor, raccolse già l'offerta Gente, ch'io dissi, & i Signori insieme E dimostra ò per lor la presa speme. Poi che fu'l tempo à la battaglia presso Al posto termin, fece egli raccorre Tutti i Signor, che gli haueuan promesso L'impresa insieme per suo scampo torre; E disse lor, come per patto espresso Hauean cinquanta con cinquanta à porre; E quel che uuol prouarsi, in ordin sia Il deputato dì ne la Bastia. E mostrò lor per sì chiare ragioni Che combatter si deue francamente Che Signori non fur, nè fur Baroni Voti d'acceso alto desire ardente; Chi lance adatta, chi ferrati arcioni, Chi fa proua di spada, ò di possente Mazza ferrata, e chi si proua l'armi Primà che se le uesta, e ch'ei se n'armi. A' Costantin, sì com'à principale Disse l'Imperador, poi che uoi siete Offerti, non temendo oltraggio, ò male Per mio amor contenti, accetterete Il Meschino, che tanto in arme uale Per Capitano, al qual, cose uedrete Far da stupire ogn'un, s'io non m'inganno; Perche le sue uirtù per noi si sanno. Rospose Costantino, esser contento Che sol per obbedirlo uenut'era. Trasse dunque il Meschin di lor dugento Di gente à tal bisogno, la più fiera, De i quali, tra coloro hauea talento Ch'esser douea il dì de la sua schiera Or udirete l'ordine ch'ei tenne Et come sol cinquanta ne ritenne. Menò seco i dugento, ou'il sagrato Tempio de la città principale era, Doue fu quello à lor da lui parlato Che saluteuol frutto far ne spera, Dicendo lor, di poi ch'io ui son dato Per capitan, contr'à la rabbia altera D'Astilador, confesso esserne indegno E del merito mio passare il segno. Or, perch'alcun non sia che possa dire Ch'io lo conduca à l'improuiso danno, Dico, ch'andiamo in luogo da morire, E per uccider quei, che noi uorranno Vccider, sì, che chi uorrà uenire Pensi non tor l'impresa senz' affanno, Nè altro premio uincendo s'aspetta Che liberarsi da la Turca setta. Il che, quanto gl'importi, or m'ascoltate, Prima l'onor de le uostre mogliere, E de le figlie, che so che l'amate Come uuol la ragion, com'è douere, Di poi, che schiaui lor sempre restate; Nè liberarui haureste mai potere; Nè solo à uoi s'aspetta questo danno Ma sopra à quei, che di uoi nasceranno. Sì, che l'eterno ben, l'eterno onore Di tutta Grecia in uostre mani è messo, Dassi in uostro poter l'Imperadore Con ciò ch'egli si troua d'interesso, Qual dunque sarà mai sì duro core, Che non uoglia morir più tosto, ch'esso Voglia uita sì dura? e dare in mano L'onor, la patria à popol sì uillano? Dunque chi uuol uenir pensi hauer morte, Ma non uoglia morir, se prima un paro De' nemici non ha col braccio forte Morti, e non gli habbia fatto costar caro Il proprio mal, ma se lor trista sorte Vuol, com'io spero, che uorrà, l'amaro Dolor discacceremo, e qnel ch'io dico Dicolo, ch'apprezzar s'habbia il nemico. E che con quel ualor, che puote usarsi Da uoi s'affronti, e chi questo non facci Indegno de la uita habbia a chiamarsi, Sì, che colui non pigli questi impacci Che non pensi immortale al mondo farsi Nè per ch'alcun lo braui, ò lo minacci Mai s'abbandoni, perch'io sarò doue Voi, & uedrò chi farà miglior proue. Imitando la uolpe, e'l lupo, e'l cane Da me sarete stimati ualenti, Che mentre de lo spirto lor rimane Oprano à più poter gli artigli, e i denti, In chi persegue lor con uoglie strane Nè far si deue per uoi altrimenti, Quì consiste l'onore, e quì la gloria: E di quì nasce trionfal uittoria. Chi uuol dunque uenire, habbia auuertentia Di pensarui sù ben tutt'oggi, auenga Che doman dè trouarsi in mia presentia A' farsi scriuer, perche poi mantenga Quel ch'ei promette, e così dò licentia E libertà, che chi uuol uenir uenga; E chi non uuol, faccia quel che gli piace, Che la guerra non è, per chi uuol pace. Questo parlar diè che pensare à molti, Onde il seguente giorno ritornaro Di color parte, che s'eran raccolti Il dì dinanzi, e questi poi s'andaro Dopo le messe, à scriuer, che tra molti Volser combatter, e questi arriuaro A' cento, e questi cento il giorno appresso, Furo chiamati al giuramento espresso. Volse il Meschin, che fino à morte ogn'uno Giuri, nè se, nè glialtri abbandonare, E chi non uuol giurar, di lor nessuno Non uuol per suo compagno confermare, Quei ch'à giurare andaro à uno à uno, Sessanta furo, e ne fece rogare Vn Notar, ch'al bisogno hebber quiui atto; E ne fece di lor chiaro contratto. De i sessanta trae diece à suo piacere; E fu'l numero giusto stabilito. Costantin uolse per compagno hauere Per onorarlo il Caualier gradito, Hebbe di questo Alessandro piacere, Ben ch'egli era per primo riuerito. Et Archilao, & Amazon gagliardo Ambi fur posti in guardia à lo stendardo. De la città fu'l Meschin pria notato Et appresso Alessandro, poi seguiua In quella lista il nome disegnato Di chi di mano in mano oltre ueniua, Et oltre al nome, ancor dond'era nato, (Di poi che questo ancor cõuien ch'io scriua) De la città fur uenticinque tutti Valenti, e d'aspettarne ottimi frutti. Di quei de l' Arcipelago fur' otto E di più Costantino lor Signore, Poi Archilao, & Amazon, che sotto Di lor hebbero sei che con amore Glieran Vafalli, ogn'un de l'armi dotto. D' Andrinopoli sette, e tutt'il fiore, Vn sol di Salonicche, e di Patrasso Ancora un sol, che si può dire un'asso. D'Antipoli due furo trai giurati Che fanno il numer giusto di cinquanta; Ch'eran come fratelli diuentati; Baciarsi in fronte, & era tra lor tanta Speranza entrata, che d'esser' armati Lor par mill'anni, per ch'ogn'un si uanta Far quanto si può far per corpo umano, Tenendo hauer quella uittoria in mano. Andaro insieme, da l'Imperadore A' dir che l'ordin dato era già presso E che fuor mandi qualch'Ambasciadore A'rãmentar quel che s'era promesso; Onde l'Imperador mandò di fuore Al Re Astilador subito un messo Per un saluo condotto, e gliel concesse Così gli Ambasciadori in ordin messe. Archilao mandouui, e Costantino I quai come dal Re furo arriuati Con animo gagliardo, e peregrino Esposer à che far u'eran mandati. Il nostro Imperador, poi che'l destino Vuuol, mãda à dirti, ò Re, che gli ordinati Patti, (disse) si mandino ad effetto; Che i suoi combattitor sono in assetto. Si, che saper uorrebbe doue, e quando, Sendo il tempo à tre giorni approssimato. Rispose Astiladoro, io confermando Dico, che faro fare uno steccato, Ouero una Bastia, & ordinando Anderò sì, ch'al giorno deputato Nulla ci mancherà, sì che si segua, Che già s'appressa al fin la nostra tregua. Tornar con la risposta, e tosto mano Fu messo, à far tra'l campo, e tra la Terra Vna Bastia, in uno acconcio piano Serrato da più poggi, oue la guerra Potea uedersi presso, e da lontano, Che con due porte l'entrata si serra, Fu quadra lunga di due quadri à punto, La qual finita era già il tempo giunto. Era d'intorno di gran fossi cinta, E dentro uno steccato la circonda Da non lo mandar giù con una spinta Di grossi legni, e fan gagliarda sponda L'entrata, (acciò che ben ui sia dipinta) Verso doue di gente il campo abonda Era una porta, & un'altra fu fatta Verso la Terra, ogniuna al bisogno atta. Et ogni porta il ponte leuatore Hauea, & eran i ponti sì stretti Ch'appena sù u'andaua un corridore Si, che conuien, che'l primo, l'altro aspetti; Fece communicar l'Imperadore I suoi, prima ch'alcun l'arme si assetti E Messa udir, con molta Chieresia Dentro à la Chiesa di santa Sofia, E fatto questo, con gran tenerezza Rigandosi di lagrime la faccia Voltatosi al Meschin, che tanto prezxa Lo bacia in fronte, e con amor l'abbraccia; Dicendogli, figliuol la mia uecchiezza Mi uuol pur far ueder quel che mi spiaccia, Voi gioueni, e gagliardi, e franchi tutti Oggi per me gustate amari frutti. Pensando poi, che non sol giouerete A'me, ma tutta Grecia fia contenta, E che trionfal gloria acquisterete, Laqual non fia per alcun tempo spenta; Questo mi fa sperar, che uoi uorrete La morte prima, che tosto tormenta E tosto ha fine, che uiuer morendo Ogn'hor, ueggendo un seruir tant'orrendo. Piangeua il popol tutto, ch'era intorno; Piangea l'Imperatrice, che per tutti I monisteri, hauea mandato à torno A far fare oration, nei noui lutti Temuti, e che dirò quì de l'adorno Aspetto d'Elisena, che gli asciutti Occhi, più ch'altri di lagrime bagna, Per che con più sospetti s'accompagna. Dicendo, se mai questi son perdenti Perdo forse l'onor, che troppo uale. Che fia del padre, e madre, e dei parenti Che de lo Stato nostro Imperiale? E quando il mio non fosse altrimenti O cruda morte, ò non forse men male Sarà dal mio Meschin, ben ch'io non sia Da lui amata, pur esser potria. Dato l'ordine, uscir fuor de la terra I cinquanta, il Meschino essendo scorta; Per prepararsi à la sanguigna guerra; E gli fece fermar presso à la porta; Astilador da l'altra parte serra I suoi, & dolcemente gli conforta, Ma bisogno non n'han, che son ualenti. Et erra forte chi crede altrimenti. Et à l'Imperador poi manda à dire Che uuole esser con seco à parlamento; L'Imperador, che n'hauea gran desire. Risposegli, à sua posta esser contento; Si, che diede ordin, de la terra uscire, Sa ben che'l Re non anderebbe drento; E cosi abboccati insieme furo In luogo per ciascuno assai sicuro. I patti in questa forma fur fermati Con giuramento graue, e con prestante Animo sopra i libri, che portati Fur già dinanzi à Carlo, & Agramante Sù l'Alcorano l'un, sopra i pregiati Vangeli l'altro, e de le man le piante Ambe fermate, e gliocchi uolti al cielo, Giurò l'Imperador sopr'il Vangelo. Che se la gente sua sarà perdente Si partirà con una sol Galea Dando ad Astilador, come uincente; Tutto quel, che di Grecia possedea; Et che per sicurtade, ora al presente Gli daua cento ostaggi, i quali hauea Menati à posta, e così glieli diede, Per chiara sicurtade, e certa fede. Allora Astilador, sù l'Alcorano Con cor deliberato, e uiua uoce Disse, mettendo sopra à quei la mano; Che se fia la sua gente men feroce Vuol'hauer prese le sue terre in uano, E liberi lassar quei de la Croce; Giurando di partirsi, nè più puoi Vscircirgli contra da i confini suoi. E cento anch'egli, per ostaggi dette Al nostro Imperador, poscia ogni parte I suoi combattitori in ordin mette Con somma diligentia, e con grand'arte. Or tinte fien di sangue l'armi nette, Or trionfar uedrassi in terra Marte, Ciascuna parte tre giudici pone Per quei notar, che cascher an d'arcione. Di che, diss'il Meschino, e non bisogna Giudici sopra noi, che nostre mani Ben mostreran uittoria, ò la uergogna Di chi sar à de' Turchi, ò dei Cristiani E chi pensa altramente in darno sogna. Si ritrassero dunque à star lontani Quelli d'Astilador, da l'altro lato L'Imparador s'era anche ritirato. Fecesi innanzi un Sacerdote santo Et à i Cristian diè la beneditione. Il primo fu'l Meschin, che dal suo canto Il ponte passa, e la dentro si pone Da l'altra parte entraua un Turco in tãto, Poi Alessandro diede oltre di sprone, Dopo quel, Costantin, così seguiua M&etilde;tre ch'entra un Cristiano, un Turco arriua, Sì tosto non si uide dentro entrarli Che fu mandato à pena de la testa Vn bando, per chi faccia cenni, ò parli Di chi staua à ueder l'oscura festa; Fessi innanzi chi dentro hebbe à serrarli; E perche male ogn'un la fede presta Per più lor sicurtà, uerso i Cristiani I Turchi ui serrar, con le lor mani. E la porta che uerso i Turchi è posta Han serrato i Cristiani, onde le chiaui Ciascun, de l'auuersario tien riposta La sua, acciò ch'alcun non se ne caui, E che nessuno uscir possa à sua posta; E fatto ciò con aspri colpi, e graui Si salutar, da l'uno e l'altro canto, Poi che gittato fu'l sanguigno guanto. Chi crederà, che simigliante in terra Nasca, qual Gioue fa col tuono in cielo Folgor, che ciò che troua, apre et atterra Mentre ch'à noi dimostra scuro il uelo; Tale è nel cominciar di questa guerra Tra Macometto, e tra quei del Vangelo, Nè uide alcun, che'l cor non gli tremasse, Il greue scontro de le lance basse. Era alquanto'l Meschin col suo cauallo Iunanzi, e abbattè Torindo morto, Che mai non corse alcuna lancia in fallo Nè quella ancor non gli uolse far torto, Alessandro, che cerca d'imitarlo Scontrossi in Manaccor, sì, ch'à un porto Medesmo uanno, ambe due son cascati; Ma con le spade in piè s'eran drizzati. Con Falisar s'affrontò Costantino Rupper le lance, e con tanto furore S'urtaro coi caualli, che nel chino N'andaro, e l'uno e l'altro corridore Ma uolser poi prouar l'al ro destino Con le spade mostrando alto ualore. Ch'ogn'un gli giudicò trai Caualieri Da sceglier ben, per più forti, e più fieri. Et Amazonne, d'Archilao fratello Con Damon s'affrontò, & ei con esso, Che mai fu uisto scontro così fello; Che l'uno à l'altro apr&etilde;do il petto ha fesso; Ambi cascaro in terra, & questo è quello Languido cadde, e da la morte oppresso. Onde fu'l primo scontro di tal sorte Che uenticinque hebber de i nostri, morte. Sol quindici dei Turchi furon morti Tal che l'Imperador si tien disfatto Da l'altra parte, par che si consorti Astiladoro, e loda questo fatto Ma ueggendo'lesch Mino i suoi men forti, Depon la patientia, al primo tratto, E tanta tema de l'onor l'assale Che di furor or non troua al m ondo uguale. Et adirato, contr'à Afieramonte Là facciagli partì per mezo, e'l petto, E sciolto il manda al fiume d' Acheronte; Spingendo glialtri, indictro à lor dispetto. Poi uoltò in dietro, con ardita fronte, Grida ai compagni il Caualier perfetto Innanzi ogn'un, che la uittoria è nostra Or e'l tempo, mostrar la uirtù uostra. Ma che direm del nostro Imperadore Che quando al primo scontro uide tanti De' suoi girsene in terra con dolore Et dei Turchi à cauallo restar quanti Vede restar? quasi di gloria moue Nè spera più che nessuno si uanti Di dargli più speranza, perch'ei uede Il figlio, e Costantin restati à piedi. Astilador mentre pensa e disegna Et à suo modo col pensier dispone; Nè aspetta'l fin, che de la guerra uegna Che già partisce ad ogni suo Barone Di Grecia (già per fama altiera e degna) Le terre, e dato n'hauea gia'l Bastone A questo e quello, chiamando codardi I suoi, ch'à uincer glialtri stan sì tardi. Pur dicea forniranno, hauendo uisto Quattro de i suoi figliuoli, insieme stretti Con pensier risoluto, e ben prouisto Sopra del buon Meschino, e ch'e gli aspetti; Ilqual per far de la uittoria acquisto, Diede à Mursante de i quattro già detti Vna gran punta col fier brando saldo; Che dietro uscir gli fece il sangue caldo. Glialtri tre, che restaro à un medesmo Tempo, con tre gran colpi furgli intorno Di sorte tal, che i nostri del battesmo Cominciaro à temer di dannò, e scorno. Archilao, in fauor del Cristianesmo Con una punta, il Caualiero adorno, Diede a Dragon la spada ne la gola, Che morto cadde senza dir parola. Veggendo Timbro, il suo fratel Dragone Così morto cader, per sua uendetta Menò nel uiso un grande stramazzone Ad Archilao, che sprouisto aspetta; Tanto che lo mandò fuor de l'arcione. Allor trasse il Meschin con molta fretta Vn colpo crudo à Timbro in mezo al collo Che gliel tagliò come fosse d'un pollo. Dei quattro, sol restaua in piè Brunoro E fu che non morisse una gran sorte Perciò che un Greco per dargli martoro Diede al cauallo, e non à lui la morte Se ciò non auenia, certo costoro Prouauan tutti una medesma sorte, Costui lassò'l Meschin sotto il cauallo; E segui'l resto del sanguigno ballo. E corse in parte, doue il suo Signore Doue dico Alessandro combatteua Con Manacor, con quel miglior ualore Che far da huom ualente si poteua; Giunto quiui il Meschin pien di furore Molti altri Greci già soccorsi haueua; E molti Turchi fieramente morti; Tal che i nostri Cristian restar più forti. Non bisognaua già star molto à bada, Perche non più che rotta quella schiera Dei Turchi, ch' Alessandro da la spada Di Manacor, moriua, perch'egliera Oppresso sì, ch'ei trouaua la strada. Con una punta dentro à la uisiera; In guisa s'era combattendo alzata; Ma il uenir del Meschin gliel'ha uietata. Che ueggendogli insieme forte stretti Dismontò da cauallo, e tosto prese Tra l'elso; e'l pomo, acciò ch'egli non metti La spada innanzi, e l'altra man distese Al mezo de la lama, & interdetti A Manacor gli effetti, poi gli tese La punta al fianco, e meza uela caccis, Onde quel colpo, fuor del mondo il caccia, Et Alessandro, ch'era sotto in terra Fe poi drizzare, e montare à cauallo. In questo mezo Costantin fa guerra Con Falisar, e battono il metallo. Così ferito, Archilao tosto afferra La spada, e ben diuise questo ballo; E diede à Costantin tanto fauore Che Falisar per le lor man pur muore, Tanfirio uerso Costantin si mosse E d'una lancia lo ferì nel fianco, Che le bianche armature si fer rosse Vccisel con due altri quest' huom franco; Tal che la pugna in gran dubbio rimosse; Soccorre i Turchi, nè si mostra stanco; Ma'l Meschin del pericolo s'accorse Et à caual salito, quiui corse. E fece che Tanfirio quella impresa Lassò, perche restò con glialtri al piano, Che con la forza d'ogni ardire accesa Mettendo insieme l'una, e l'altra mano Con la sua spada, laqual rade, e pesa Gli aprì la spalla, e non tornò più sano; Onde i Turchi lassaro la uittoria Per forza à ì nostri, et ogni onore e gloria. Quattro Turchi restaro à grande stento Mal uiui, & anche i nostri, quasi tutti Feriti, ma per forza hanno pur uento; Mercè del buon Meschin, del quale i frutti, Fer rallegrar qualunche staua drento De la città, per cui sur gli occhi asciutti Del degno Imperadore, e de la moglie; Questo'l frutto è, che d'un fedel si coglie; Come dett'ho, fur quattro i Turchi, quelli Che camparo, (e fur quindici i Cristiani) Quei per fuggire gliultimi flagelli Al buon Meschin si diero ne le mani Per prigioni, e per uinti, onde i coltelli Poser fine à uersare i sangui umani. Le chiaui furon subito trouate E del serraglio le porte allargate. Così con la uittoria sanguinosa La città riceuè'l suo gran Campione; Co i fuoi quattro prigion, ch'era pietosa Cosa à uedere, e gran compassione; Or questo canto pure al fin si posa Poi ch'egli ha data à i nostri saluatione. Ora ne l'altro apparecchiar mi deggio, Però che pronti ad ascoltar ui ueggio.

FINE DEL
CANTO QVLNTO.

FAcile e' giudicar l'altrui fatiche, Increato motor, senz'altro impaccio Però perdona à le lingue nemiche Che poca preda fa lor teso laccio, Ch'io cerco quì le tue gratie amiche, Che ha tosto il bene, e'l mal terreno, spaccio Ben che pur'anco in darno mi lamento, Ch'ancor alcun che mi morda non sento. Mentr'io pur seguirò la trionfale Vittoria, col fauor sol di natura, Che del mio dire è uerbo principale; Elicona lassando à chi n'ha cura. De la città la festa uniuersale Dirò, ch'è fuor d'ogni ordine e misura; Veggendo il suo Meschin uittorioso, Entrar si fiero, e tutto sanguinoso. Te Dio tutti laudiamo, eterno Padre Tutta la Chieresia andò cantando, Et ogni uecchio, ogni canuta madre L'andaua per le strade seguitando, L'Imperador con tutte le sue squadre Gliera ito incontro, sempre lagrimando Per allegrezza, e'l grande, e'l piccolino Venia gridando, Viua il buon Meschino. Troppo sarebbe i molti abbracciamenti Voler ridir, con tutte le parole Tra loro usate, con giocondi accenti; Da far fermar per tenerezza il Sole; Sola Elisena par che si lamenti Che come glialtri, accarezzar nol puole; Tra se sospira, si distrugge, e rode, Poi ch'ogn'altro, e lei non di lui si gode. Deh fortuna crudel, per che non fai Veder, dice, il cor mio, perche nol mostri A' tutto'l mondo? che s'io bene errai, S'erra anche per le carte cõ gli inchiostri Che ui si pensa, ond'io, che non pensai A' tant'error, non dè giouar ch'io mostri Hauendoui or pensato, esser pentita, Per crescer maggior doglia à la mia uita Stassi da canto, macilenta, e mesta Portando inuidia ad ogn'altra persona. Quiui per altri si gode, e fa festa; Quiui de i colpi fatti si ragiona. A' trarre l'armi, & ogni soprauesta Ai feriti s'attende, e poi con buona Cura si fece medicargli tutti Ch'eran terrosi, insanguinati, e brutti. Solo il Meschin non si riposa, e chiama Vn suo trombetta, & al campo lo manda Ch'ei dica al Turco Re, che s'egli brama Riscattar da la presa miseranda I quattro suoi figliuoli, e s'egli l'ama Quiui lassarli fia cosa nefanda, Ch'ei mandi à far de la sua fe memoria E far quel che far dè, per tal uittoria. Per simile ambasciata il campo tutto S'empì di gran dolor, nè fu Signore Che potesse tenerui un'occhio asciutto, Rimenbrando il passato disonore, Haurebbon uolentier colui distrutto Se de i prigion non era il troppo amore, Ma'l Re, che riscattargli pur desia Mandò ne la città, l'ambasceria. E fe trattar, che per li suoi figliuoli Per quelli dico, che restar prigioni Per riparare al biasimo, che soli Non restin quiui, al Meschino si doni Molto Tesoro in cambio, e poi gli stuoli Suoi uuol ritrar ne le sue regioni; E ch'a l'Imperador sien dipoi rese Le sue cittadi, & ogni suo paese. Così rese gli fur le sue contrade, Che'l nome narrerò de le più degne Borscia, Apollonia, con le lor cittade, Niconia, e Mesebria, anche l'insegne Vecchie, Andrinopol prese, che pietade Era à uederle, di duol uinte, e pregne, Lascianle or, che n'ha il ciel misericordia, Con le quai fu la città di Concordia. Venn'in persona il Re poscia à giurare La pace, e confermare i primi patti Appresso à la città, là doue stare Potea sicur, quiui fece i riscatti. Oue nel uolto di ciascuno appare Contentezza, e dolor, secondo i fatti, Così ciascuna parte à l'altra rende Gli ostaggi, che nessun non ui contende. Ma nel partir, non potè far Brunoro Ch'ei non dicesse con publica uoce, E' possibil fortuna, che coloro Che son d'ogn'altra gente più feroce Sien uinti, e così ceda al piombo, l'oro? Vint'è'l sangue Troian, ma quel che nuoce Più à nostra grandezza, in ciò sia stato Vn uile schiauo, un seruo ricomprato. Quiui il Meschino, à cui risponder tocca Si fece innazi, e disse, sappi certo Che dal parlar, ch'uscito or t'e di bocca, Ch'io non mi uo restar, ch'io sappia certo (Se morte prima l'arco non mi scocca) Di chi sia nato, e tu n'harai mal merto Se sangue nobile è, che per mia mano Morrai, così ti giuro, e te lo spiano. Ben ch'Alessandro ancor fosse ferito, Era uenuto ad ascoltar gli accordi, Et hauendo il Meschin così sentito Parlar, dissegli fa che non discordi I fatti nostri, & egli allor più ardito Rispose, e son nel parlar troppo ingordi; Duolmi che dimostriate hauer timore. Ma tutto il mondo non basta al mio core. Sappi che in parte non sarò mai, doue Senta, che'n questa banda Turchi sieno, Che qual folgore in ciel tosto si moue Allor che quì tra noi mostra il baleno Ch'io non sia quì, e quando io stessi altroue, Nõ ci hauro'l cor, di quel ch'io ci habbia, me no, Fra quel parlar ogn'un d'indi si parte; E torna ad abitar ne la sua parte. Tornaro i Turchi à i lor paesi, e quelli De la città s'entrar dentr' à far festa, E di Trofei gloriosi, e belli Quello orna quella parte, e questo questa. Ritrouansi gli Oliui, e molti d'elli Adopran per corona à la lor Testa; E se ne pianta assai, per far memoria D'un giorno tal, d'una si gran uittoria. Oltre à le uolgar feste, nel reale Palazzo, ui si tien corte bandita, Vi si balla à la Greca, e fa segnale Ciascun di quei Baron, d'allegra uita; Tutte le stanze son tutte le sale Di feste piene, e di gioia infinita. Ma di tutti i piacer, che uì si danno, Che'l Meschin si rallegri mai non fanno. Tal ch'à nessuno, il festeggiar par buono Così à particolar come Barone Nè men le Donne mal contente sono; Ogn'un si duol non saper le cagioni, Alessandro, sapendo questo suono Portar si fece in braccio à due garzoni Però che ferito era, nè si tenne Per fin, ch'ou'era il festeggiar non uenne. A' l'impensata sua uenuta, intenti Si uolser tutti, e poi drizzati in piede Larghi gli danno il passo riuerenti. Il Meschin, che uer lui uenir lo uede Vennegli in contro con passi non lenti, (Che sempre fu d'amor pieno, e di fede) Alessandro per man pigliollo, e disse Ch'egli sedesse, e'l suo parlare udisse. Non è (disse) fratel sì graue il danno De la persona mia, del mal presente; Che non mi prema, e nõ mi dia più affanno L'udir, che tu da gli altri uiui assente Da le feste, e da i giuochi, i quai si fanno In nostra corte da tutta la gente; Onde se lecito è, piacciati dire Donde procede'l tuo nouo martire. Come uuoi Signor mio, (rispose) come Poss'io con gli altri mescolarmi insieme S'ogn'altro sa di qual patria si nome E di chi nato sia non dubbia, ò teme? Sol'io non so dir pur mio proprio nome, Nõ che la patria, ò'l sangue, or se mi preme Il dolor più che prima il tristo petto; Sai quel che da Brunor pur mi fu detto. Poi mi ricordo, anzi pur sempre in core Lo tenni, e lo terrò, poi ch'Elisena Tra tante gentil donne con furore Mi disse ingiuria, pur troppo ripiena Di ueleno, (oimè) che s'al dolore Refrigerio non fusse, e à la gran pena, Il pensar pur che'l tempo, che mi resta Cercar pel mondo debbo la mia gesta. Credo, che fino ad or tardi uenuto Sareste Signor mio, per rallegrarmi; Nè però di proposito mi muto; Nè di questo pensier penso leuarmi. Anzi mi dolgo d'hauer già perduto Qualche dì, ch'io potea deliberarmi, Ma qualche cosa ne uedeua'l cielo; Di quanto oprar douea per l'euangelo. Mentre che questo diceua'l Meschino, Tuttauia ne la sala si danzaua; Ecco Elisena con un bello inchino Et il Meschino à ballare inuitaua, Egli, che col pensiero altro camino Facea, con occhio torto la miraua; Et uolgendosi altroue non risponde, Onde la meschinella si confonde. Tanto più, ch'Alessandro, gli fa cenno Che d'indi si partisce, ond'ella tutta Smarrita abbandonando ogni suo senno S'era tra l'altre donne, à star ridutta; Tra se dicendo, dunque sempre denno Tenersi à mente fin ch'io sia distrutta L'ingiurie, nè mai più si placheranno, Tanto fondate dentro al cor gli stanno? La festa, anch'ella il di pose da canto; Nè più potè ballar, ma sola poi In camera la fece sol di pianto; Maladicendo i duri casi suoi. Torniamo ad Alessandro, che di quanto Il Meschin disse, par che sì s'annoi Che mai prouò col pensier tal martire, Poi che'l Meschin si uuol da lui partire. Che nel parlar più uolte ha confermato Che per simil cagion uuol tanto errando Andar pel mondo, che di chi sia nato Saprà, se morte gia non gli dà bando. Promettegli Alessandro un grande stato, De l'Imperio donargli in fatti quando Il padre il lassi dopo, appresso à quello, Tenerlo in tutti i fatti per fratello. Pur ch'egli non partisse, anzi diceua Che per Cognato già l'haueua eletto Però che dargli Elisena uoleua Per moglie, che già'l padre l'hauea detto Il Meschin, di ciò gratie gli rendeua Ma disse, tal partito non accetto E ben ui prego, se punto m'amate Che più di questo non mi ragioniate. E seguì, ch'io l'amassi, non ui sia Già d'udir graue, per il tempo adrieto, Ben che far questo à me non conuenia Perche fortuna me l'hauea diuieto. O' conuenirsi, ò nò, pur tuttauia Per fino ad or di lei mal frutto mieto Nè so doue sien donne ornate, e conte Per sua cagion, per mai drizzar la fronte. Se mentre giouinetta, e non ancora Da l'età puerile abbandonata Hebbe tant'arrogantia, che fia allora Ch' à gran marito uedrassi appoggiata? Per ben ch'à me non conuien pensarui ora Poi ch'al tutto la mente n'ho leuata. Ma perchio t'amo, il mio gran desiderio E ch'ella habbia un, c'habbia del mõdo Imperio. Quand'io l'hauessi, e n'hauessi desio, Con tutto il ben, che tu m'hai quì promessõ, Non trouerci per questo il padre mio; Nè di ueder lo mi saria concesso. Con questo ragionar di sala uscio; Dicendogli Alessandro, poi ch'espresso M'hai sopra d'Elisena il tuo uolere; Ch'io più di lei ti parli non temere. Perche più pregio te, che sette mondi, Non ch'una donna, ch'è fragile, e uana, Però giusto è, che'l tuo uoler secondi, Ben che graue mi paia, e cosa strana Che tu debbi lasciarmi, e mi confondi Ch'oggi'l Campion de la fede Cristiana, Et in chi più da noi s'hauea speranza. Vada in essilio il tempo che gli auanza. Da che pur far lo dei, piacciati almeno Tant'aspettar, che liberato i sia Da questo mal, perch'esser un ueleno Il tuo partir sì subito potria, Che molto presto non uerrebbe meno, S'è uer che nuoca al mal malinconia. A' questo, ben'il Meschin fu contento, Che da giusta cagion si uide uento. Aspetta, e tutta uolta rode il tarlo Del desiderio, che presto guarisse. Alessandro, che modo di uoltarlo Non uede, al fin guarito, un dì gli disse Che gli pareua, che fosse da farlo Al padre intender, prima ch'ei partisse, Fu contento egli, ma come l'intese L'Imperador gran fastidio ne prese. Prega Alessandro il padre, che nol lassi Partir, per cosa che per lui si possa Far, ma perse eran le parole, e i passi; Ch'egli più ui s'indura, e ui s'ingrossa. Dicea l'Imperador, se si trouassi Via da uietar questa tua noua mossa, Col ritrouar la tua generatione; Mouerestiti tu, d'opinione? Certo s'io senza far sì gran camino Lo potessi saper, ch'io non uorrei Partirmi (allor gli rispos'il Meschino) Nè del uostro uoler mi partirei. Allor l'Imperadore, ogni indouino Cristian, come amator di uani Dei, Ogni Astrologo fe che far potesse Trouare, à chi simil cura commesse. Mandò per Epidonio, e domandonllo Di punto in punto, dal dì ch'egli l'hebbe; E doue primamente egli trouollo. E se di chi sia nato dir saprebbe. A' cui disse Epidonio, dir non sollo, E che saperlo difficil sarebbe Ma com'io l'hebbi, (seguì) posso dire, S'hauere pur di saperlo desire. Venner ne l' Arcipelago già certi Corsari, u si faceua una gran fiera; E come gente di rapina esperti Che doue uanno il dì, non uan la sera; Ci uender lui fanciullo, altro poterti Non posso dir, se ben là donde gliera Venuto, si cercò da noi Mercanti, Saper, altro non disser quei briganti. Senon, che ci rispose un men uillano, Che hauendo presa certa nauicella Ch'attrauersaua il bel mare Adriano, Il fanciullino hauean trouato in quella; Et à due Donne il tolsero di mano; L'una era uecchia, e l'altra di più bella Età, u'er a un famiglio ancora, e quello Hebbe di morte l'ultimo flagello. La uecchia in mare à ber de l'onde salse Andò, che fù per lor disutil preda; Nè prieghi ch'ella disse, ò pietà ualse. (Si che per quanto di tal cosa io creda) Dapoi ch'al cielo ancor del Meschin calse; In noi pur la ragion, non manchi, ò ceda, Di pensar ch'à tai segni, egli sia nato D'huom degno, & aleuato à grande stato. Al partir poi, ch'io feci coi mercanti Con altra mercantia melo contai Questi son dunque inditij à punto quanti Vi posso dar, poi che quì lo menai. Diede il Meschino allor principio ai piãti; Dicendo, sfortunato ben pensai Che'l nome di mio padre fosse spento, Ma non di sorte, come dir ui sento. Dicea l'Imperadore à questi segni Che sei di nobil sangue tienti certo; Ma ne farò cercar per tanti regni Che in qualche luogo abitato, ò deserto Si trouerà, pur che tu non ti sdegni Quello aspettar, che da me t'è offerto. Nè restarò per gente, ò per denari, Ch'alcun farò trouar di quei corsari. I porti tutti fe di Romania E quei d'Italia se tutti cercare; Di Schiauonia, di Candia, e d'Albania; E doue s'usa intorno nauicare; Molti Corsar trouò per questa uia; Che in quei tempi scorreuano'l mare. Di quelli non trouò già mai, che forse Ciascuno innanzi à questo tempo morse. Fu uana l'arte ancor dei Negromanti; Et uano è chi gli crede, che da quelli Nulla si seppe, pur tra tanti incanti Vn sol ui fu di questi monstri felli, Che d'Egitto era, ilquale hauendo innanti Vn Spirto stretto, nè con brutti, ò belli Modi, potendo altro inditio ottenere Dimmi almen (disse) oue si può sapere? Disse lo spirto con altre parole, Vada oue gia'l Magno Alessandro andò; A trouar uada gli Arbori del Sole, Che già per altra uia saper nol può; Quei noua gli daran de la sua prole; Che bene anche Alessandro gli parlò. Nè gli usaron di nulla già mentire; E gli mostraro oue douea morire. Ma non farà già poco, s'ei u'arriua Che gran trauagli patir gli conuiene. La strada, è quasi di salute priua; Che lamorte ui tende assai catene. Mentre che questo il Meschin dir sentiua Gli parue un refrigerio à le sue pene; E domandollo da qual banda stanno Gliarbori, e come trouar si potranno. Lo spirto disse, e son uerso Leuante; Nel fornir de la Terra, oue si leua La Luna, e'l Sole, e più non disse innante. Di girui, il buon Meschin si disponeua. Onde licentia tolse in uno instante; Di che l'Imperador quanto poteua Lo cercaua distor, ma poi che uede Di non lo poter far, pur gliela diede. Quiui sua Maestà, quiui il figliuolo Di lagrime han per doglia gli occhi pregni; Nè resta de la corte un'huomo solo Che sapendol le luci asciutte tegni. Ad Alessandro par restar sì solo Che par che piu di uiuer già si sdegni. Volse l'Imperador, ch'ei promettesse Tornar, se ritrouato il padre hauesse. Promise Guerrin farlo, e per più chiara Certezza dar, per giuramento uolle Fermarlo, e in tanto le lagrime à gara Gli fean con dritte righe il uiso molle; O fede chiara, ò gran bontà, che rara Oggi si uede, e chi l'ha si tien folle; Lassando il proprio bene, elegger prima Morir, che del suo sangue non far stima. L'Imperadore una crocetta d'oro Gli diè, legata ad una catenella Non già per prezzo di mondan Tesoro, Nè perche fosse ancor ben fatta, e bella Gliela diè, che poco era un tal lauoro, Ma perche dentro u'era chiuso in quella Del latte de la Virgin gloriosa, Maria, di Gesù madre, figlia, e sposa. Eraui di quel sangue, ilqual fu sparso Per noi, dal Redentor de l'uniuerso, Quando per ricomprare ei non fu scarso Il seme uman, ch'era dannato, e perso. Sarà ben questo scudo à tempo apparso, Ch'à sì lungo camino, e sì diuerso, Bisogno harà di tanto nobil segno; Ou'era de la Croce ancor del legno. Sì, che l'Imperador quella gli diede Dicendogli, figliuol mentre che haurai Addosso questa, e che la tien con fede; Di false incantantion non temerai; Nè mai potrai perir, per ria mercede Di traditor, se tu non peccherai Con essa carnalmente, & auisato Sia da guardarti da mortal peccato. Con quella diuotion, che puote usarsi Al collo se la messe, e lagrimando Cominciò coi Baroni, accomiatarsi, Or questo, or quello per la man pigliando; Quì cominciaua il pianto à rinforzarsi I cari abbracciamenti riformando, Con tanto amore, e tanta caritade Che hariano un Tigre cõmesso à pietade. Benedisselo il Vecchio Imperadore Con ogni suo poter, con ambe mani, Concordando la lingua insieme, e'l core E Dio, dice, ti scampi da quei cani Nemici de la fede; e con onore Ti liberi da casi orrendi, e strani; E facciati del padre tuo contento Com'è'l tuo desiderio, e'l tuo talento. S'era'l Meschino ai piedi inginocchiato De la sua Maestade, e perdon chiesto; Dicendo, Signor mio, ciascun ch'è nato De'l'uman seme, ò sia tardi, ò sia presto A' qualche error del mondo è destinato; Io, che non son miglior di tutto il resto S'offendendoti mai trascorso sono Vi chieggo quì del mio fallir perdono. Dipoi ch'ei perdon chiese, e benedetto Fu da l'Imperadore, e ch'Elisena Vide, il partir più non gli esser disdetto, Tanto dolor la uinse, e tanta pena, Che spinta da l'amore à suo dispetto Non potendo schifar la sua catena Oltre si fe pria che'l Meschin partisse. E'n questa forma, innanzi al padre disse. Giusto è, prima che quel, che perdon crede Trouar', ad altri perdonar disponga; Con qual ragione al suo Signor si chiede Mercè, se l'odio ad altri egli prolonga? Io, padre, com'il cielo aperto uede Conuien ch'in tua presentia quì mi ponga? A chiedergli perdon, poi ch'ei non uolse Mai depor l'odio, in ch'egli già mi tolse. Sforzanmi i beneficij tanti, e tali Quali egli à la città nostra ha usati, A doler d'hauer uisti quei segnali Che da me prima non fur mai pensati; E per quest'io, ueggendo i nostri mali Allor nouellamente apparecchiati, Anzi pur cominciati, essendo quello Occorso ch'ogn'un sa del mio fratello, Per simil nouo, e subito dolore Di lui, non conoscendo quei rispetti Che hauuti hauer potrei, come poi fuore Ben mi rauuidi, e dolsi de gli effetti Ch'io nascer uidi; or che gioua se l'hore Gittate uia fur sempre, & i concetti Di mostrarmi pentita, e del desire C'ho di perdon, s'egli non uuole udire? Poi che biasmar d'ostination mi puote Qualcun, conuien ch'io parli per mia scusa Diss'il Meschin, che non facendo note Le mie ragion, com'in tai casi s'usa, Indarno l'huom si graffia poi le gote; In uan si uede l'opra sua confusa. Prima dirò, ch'io t'hauea perdonato Tutt'hor ch'un fallo tal tenni celato. Se fallo si può dir; ben ch'io non credo Che fallo sia parlando dir il uero; E tanto uolentieri al uer più cedo Quant'io misuro lo stato ou'io ero; Si che di nouo perdon ti concedo Perfare il nostro caso men seuero, Or, da poi ch'altro quì da far non ueggio Restate in pace, ch'io partir mi deggio. Questa à l'Imperador fu cosa noua E uolea replicar, ma'l modo manca, E di gran uampa acceso si rinoua Subito, e poi come persona stanca Resta, ueggendo che più nulla gioua Per ritardar quella persona franca; E gli dispiacque forte hauendo inteso Che'l Meschin fosse (nol sapendo) offeso. E corre col pensier, che'l suo partire Sia per altra cagion, ch'egli non disse; E perche'l caso uolse chiaro udire Fece, che seco Elisena ne gisse Da gli altri separata, e le fe dire La cagion prima che da lui partisse; Onde Elisena, più morta che uiua Con simil proferir la bocca apriua. Dicendo, padre al mio graue peccato Promettetegli dar giusta mercede, Dame tutto l'errore è causato Di fargli fuor di qui metter'il piede; Esser deuea di me, com'or'è stato Così interuiene à chi'n fortuna crede Vditel pur, poi che n'hauete uoglia Pur che'l castico qual'io merto, coglia. E promettendo (oimè) quel ch'ei pensaua Potere oprar, anzi quel ch'ei se poi, Dico, che di buon cor mi confortaua Mentre ch'assediati erauam noi Et io, che col pensier mio uacillaua In tal modo risposi, tu, tu uuoi Con ciance ristorare il nostro danno? Or leuati di quì col tuo mal'anno. Schiauaccio uile, (oimè) ancor più innanzi, Ch'ei non sapeua di chi fosse nato, E ch'egli era anche Turco, or questi auãzi E' questo giusto merto ho guadagnato; Nemico ho fatto colui, che pur dianzi Per me nel fuoco si saria gittato. Questo l'ha mosso andar pel mõdo errãdo, Sol questo il manda il padre suo cercando. E questo era anche quel (rispose'l padre) Ch'era atto à farti un di portar Corona Di più d'un Regno, tant'è la bontade E la franchezza de la sua persona; Tu stessa te l'hai tolto, or non accade Più dir, che chi del ben perso ragiona Accresce il male, & al mal passione, Et uien l'estrema poi disperatione. Marito hauer potrai, ma non già tale Qual'egli, perch'al mondo son sì rari Ch'oggi non n'è uestigio, nè segnale Di chi si possa à lui mettere al pari; Non rinouiamo adunque il nostro male Che troppo prezzo è quel d'õde tu impari. Sarai, poi ch'al pentir sei stata tardi Esempio à chi di tali error si guardi. Quest'è'l gastigo adunque, ch'io uo darti Di questi error dicendo il mio disegno Che con esso uoleua accompagnarti Per render più sicuro il nostro Regno; E se tu uuoi di ciò certificarti Colei il sa, che di te fu sostegno, E che nutrir ti fece, e chi più bello Inditio ne può dar, che'l tuo fratello? Mentre egli pur sen ua, sì che figliuola Duolti di te, se qualche giorno stai Senza marito, abbandonata e sola Così questo peccato sconterai. Ond'Elisena, senza dir parola Si partì fatta chiara de' suoi guai Che poco più ch'à partirsi indugiaua Dinanzi al padre languida cascaua. Parmi ueder già por calde querele Da color, che dal senso sono oppressi. Accusando il Meschin per huom crudele; Onde non so anch'io quel ch'io facessi, Ancor che stato le fussi fedele, E che seguita gran tempo l'hauessi; La seguirei sì com'huom poco accorto, Dandole ardir farmi qualch'altro torto. Ma pur la forza, anzi la gran ragione Mi sa quì del Meschin procuratore, Senza hauer punto à lei compassione, Che non douea pescar sì ne l'onore, Hauendone sì poca occasione; Dunque lecitamente il suo furore Spesso Amor mostra, e luogo, e t&etilde;po aspetta Per far di dõna ingrata aspra u&etilde;detta. Che uorreste saper mi sono accorto Quel ch'essa sola in camera fe poi; Ma perch'io ueggo auicinarsi il porto Forza è che basti sol pensarui a uoi. Basta sol ch'essa in breue, è tempo corto Monica fessi, e uisse i giorni suoi Vmile, disprezzata, e senza hauere Chi del suo mal prendesse dispiacere. L'istoria costei lassa, & io la lasso; Del Meschin segue, & io di lui ui parlo; Che hauea de la città fuor mosso il passo Doue Alessandro uolse accompagnarlo. In fin al porto, sconsolato e lasso; Che strano gli pareua abbandonarlo. Sì, ch'assai tosto gli parue esser gionto Sù'l mar uerso lo stretto d'Ellesponto. Giunsero al braccio di san Giorgio, ou'era Per ordin d'Alessandro in ordin posta Vna assai bene ordinata galera Doue poteua il Meschino à sua posta Per mare andar uerso quella riuiera Ch'egli uoleua, e quiui su riposta L'arme sua tutta, & il cauallo, & quanto Gli bisognò per auiarsi in tanto. Alessandro uolea, ch'egli menasse Gente da portar'arme in sua difesa; Tutt'hor che nel camin gli bisognasse; Ma'l Meschin disse non ualer la spesa Che per lui solo tanta gente andasse Sì gran camino, & a patire offesa Senz'util certo, e con lor danno espresso; Che s'egli il cerca n'ha proprio interesso. Non replica Alessandro, ma seconda Il suo uoler, se ben n'è mal contento; Et ordina che in Colchi, ò in Trebisonda O' uerso Armenia, dien le uele al uento, Per fuggire ogni lito, & ogni sponda De le terre de i Turchi, e sol d'argento Presi cento denar, diede il Meschino Principio al desiato suo camino. Ma prima uolto al suo Signor con quello Orsù, con un sospir, che dal cor porta A gli occhi un mar di lagrime, e con quello Abbracciar, che'l silentio seco porta Per lungo spatio, tal che questo, e quello L'effigie d'una statua immota porta. E con quel ritornar de i sensi poscia Ch'allarga il passo à la serrata angoscia. Deh doueua però l'inuida sorte D'insieme torci? Alessandro dicea; Ch'esser mai non douea se non per mortè, Quest'è noua à i Cristian, pur troppo rea Chi sarà fratel mio, che mi conforte? E per la man tutta uolta il tenea E saria uolentier seco inuiato Pur che'l Meschin non l'hauesse uietato. E con parole mozze à meza uia Riforma le promesse, e i giuramenti Di ritornar, tutt'hor che certo sia Del padre suo, e non già altrimenti. E con gli occhi bagnati oltre s'inuia Ne la Galea à discretion de i uenti, Et Alessandro à la città tornossi Che poi per molti dì non rallegrossi.

FINE DEL
CANTO SESTO.

Cada benigna in me l'alta tua santa Divina gratia, Redentor gradito; E'l fosco uel de l'ignorantia schianta; Gli sterpi leua, ond'io son'impedito; Pereh'io possa sicur fermar la pianta Del piè, che fu nel dar principio ardito Di fare un tanto insolito camino; Per seguir le pedate del Meschino. E tu lettor senza scusar uedrai Quel, che tutt'hor cõ mio mal prò, si uede. Or, nel passato canto io ui narrai Con quanta caritade, amore, e fede Desse il Meschin principio di lunghi guai; Per stran uiaggi dirizzando il piede. Sua sarà la fatica dunque, e mia, L'udirlo à uoi piaceuol cosa fia. Dal braccio di San Giorgio, hau&etilde;do il legno Per molti di ne l'alto mar guidato E con uele, e con remi, il Campion degno Vedendosi à la fin pur' arriuato Di san Mauro à lo stretto, fe disegno A' la bocca d'un fiume, licentiato Hauendo il legno, la lancia in man prese E tutto armato in su'l cauallo ascese. E tanto dilungossi per la riua Del Vardon fiume, ch'ei uide Corona; Famoso monte, ch'à inuuoli arriua. Poi uerso Colchi il cauallo sperona, Per la cui uia passando, sempre giua Tra Saracine terre, & abbandona I nostri liti, e tanto si distende Che uerso il Caspio mare il camin prende. Albanos, Terzo, Arcanio secondando Questi di tai paesi nomi sono. Son molti, che per quel mar nauicando Il chiaman Tartaresco, e questo suono Nasce che per la riua caminando Verso la tramontana, uno assai buono Paese abitan Tartari; e son questi Mercanti umani, e più de gli altri onesti. Tartari Maccabei trouansi ancora Gente bestial, de l'altra Tartaria; Che l'uman carne à tutte l'hor diuora Altunoni chiamati; d'ogni ria E pessim'opra pieni, oue s'onora Solo omicidij, ò qualche rubberia; Sono ancor quei, c'hanno corpo di Cane, Che stan più dentro à i monti, per le tane. Sì, che la Tartaria del Caspio mare In uerso tramontana è molto grande, Et uiene al mar di Fiandra à confinare; E per l'India, e per l'Asia anche si spande E per la Persia; & anche ne compare Verso Alemagna, tal che si comprende Se di tal region bensi pon mente Che quasi ua dal Leuante al Ponente. De la superior son quei bestiali; E son nemici à gli altri, e differenti Che son più bassi, e son più communali Di corpo, e sono uman tra l'altre genti. Nè mangian carne cruda questi tali; Nè come gli altri à le rapine intenti Che son giganti, pien di gran magagne; Abitator d'altissime montagne. Dette Taranse; dond'esce il gr an flume Derauo detto, d'un monte chiamato Ceneros, il cui fiume ha per costume Generar ghiaccio tanto congelato Che pietra fassi, e resta l'acqua in fume; E questo è quel, che poscia è nominato Il uer cristallo, perche questi monti Sono i piu freddi, ch'altroue si conti. Sì, che'l Meschin uolto à man dritta, andaua In uerso Colchi; & hauendo trouati Certi Castelli, e uille, domandaua In lingua Turca con accenti grati La uia d'Armenia, doue andar cercaua; Per fuggir Colchi, oue stanno abitati I Saracini, & in fra pochi giorni Appressossi d'Armenia ne i contorni. Nel Reame d'Iberia, il quale è posto Ad Armenia uicino era già gionto; Il cui Regno à l'Armenia è sottoposto; E gli parue paese di gran conto, Per due buone città non molto accosto Le quai uolse ueder dal defio ponto; Sarmagon fu la prima; e la seconda Artanisia, ch'ogn'una in gente abonda. Huomini son, non grandi, ma ben grossi De i Turchi più, ma d'una tale altezza. Poi uerso il fiume Dercrie uoltossi Doue Amatiza città ui s'apprezza Posta su'l fiume, nè molto fermossi A' ueder suoi costumi, e gentilezza; Ma lassolla da canto, e passo'l fiume Che tempo non gli par da couar piume. Entra quel fiume Dercrie nel grande Fiume Eufrate, di uerso Soria, Doue la grande Armenia si spande Appresso Iberia, ond'egli fe la uia Verso Leuante, perche in quelle bande Volea passar ne la bianca Albania; Giunseui, e fugli forza riposare Dou'era una città su'l Caspio mare. Zatar chiamata, ò Gretar, saluo il uero Era quella città, doue il Meschino Fe qualche di riposarsi pensiero; Ch'era sbattuto dal lungo camino. Di quì gli abitator non han mestiero Lisciarsi alcun, perche dal fronte insino A' i piè son bianchi, et han bianchi i capelli, E son le donne, e gli huomin molto belli. Dipoi che uecchi son, neri si fanno Al contrario de i Greci; or lassiam questi; Che de l'altre cittadi à trouar s'hanno Doue i costumi non son meno onesti. Il Meschin, che stimaua esser gran danno Che quiui à perder tempo più si stessi; Andonne uerso la città d'Albana Ch'era capo del Regno, e la fontana. Di questa, tutti i suoi abitatori Veston di lino ò tela fino al piede La chioma, che di testa gli esce fuori E molto lunga. Et son di molta fede Nel conuersare, & feron molti onori Al buon Meschin, che ancor simil mercede Non ha trouate per altre nationi In tutte le passate regioni. Indi partissi, & il uiaggio prese Verso Narmantia, & ui uide una buona Citta, chiamata Alchimia, in quel paese E finalmente ancor quella abbandona. Passati molti fiumi, si distese Dal mar maggiore, al mar che'l nome suona Tartario, al fiume Derans, ilqual parte, Quel paese, e da'l nome ad'ogni parte. Da una banda la prouincia resta Del'mar maggior, da l'altra u'è la bassa Tartaria, sù'l mar Caspio, sì, che questa E quella ch'io già dissi; onde si lassa Tutta uolta il Meschin la rena pesta Del fiume Derans, ma però nol passa Perche non uede come, e non sapeua L'uso che per natura il fiume haueua. Però che sol di notte usa passarsi Che qual pietra agghiacciata, allor diu&etilde;ta; E poi di giorno torna à disghiacciarsi. Dunque'l Meschin di passarlo non tenta. E di quiut comincia allontanarsi, E sopra un'altro fiume s'appresenta Verso Cerenio, montagna diserta Ond'ei prese il camin sù per quell'erta. E lungo quel camin, molte giornate Diserto sempre, e pien d'assai spauento; Oltre al pericol gran fame ui pate Tal, ch'ei trouossi quiui mal contento. E molte selue, e colline passate; Presso à Caronca montagna, à gran stento Trouossi una mattina, in sù la riua Del fiume, e uide un che contra gli giua. Era un Gigante smisurato e strano Ignudo tutto, e di feroce aspetto; Tenea per mazza, un mez'arbore in mano La schiena hauea pelosa tutta, e'l petto, Il Meschin scese del cauallo, al piano Perche sol del cauallo hauea sospetto. Raccomandossi à Cristo, & in mã tolse La lancia, & per ferirlo se gli uolse. Quando fu presso, il terribil Gigante Trasse un'orribil grido, e spauentoso Che intronò quelle selue tutte quante Pensando fare il Meschin pauroso; Ma egli, che non è molto distante Col forte braccio, tutto coraggioso Trasse la lancia, e fu' l'colpo sì giusto Che tutto fuor passò lo strano fusto. Si, che'l Gigante à gli urli solo attende; Et à trarsi la lancia de la schiena; La moglie sua, che sì gran grido intende Da lontan, uien correndo; che la pena De i non usati stridi sol l'offende; Veggendola il Meschin, pigliando lena Dicea, quì non bisogna stare à bada E pose mano à la sua fida spada. E dal Gigante strano, e smisurato Vna gamba uia taglia, onde quel cade Poi le trasse la lancia del costato; La moglie senza cercar buone strade Haueua ogni sentiero attrauersato. Dicea Guerrin, bandita è la pietade In cotai luoghi, sì che mi conuiene Per la uita campar, portarmi bene. Ma come presso se la uide, e ch'ella Arme non ha, ne gli uide bastoni Poco stimolla, ben che quella fella Tenesse ne le man sì grandi unghioni Da trar con essi à un Drago le budella; E tosto giunta posta inginocchioni Di terra un sasso suelse, à piè d'un cerro Che tratto non l'harien sei pal di ferro. E con tal furia al Meschino auuentollo (Sendo ella grande assai più che'l marito) Che se'l coglieua tra la testa e'l collo Del fiume gli gia'l capo à l'altro lito; E morto rimanea senza dar crollo. Egli non fu per questo sbigottito Ma l'andò contra con la forte lancia; E ficcogliene un braccio ne la pancia. Grida ella, e con le man uuol trarsi l'aste Del uentre, ma'l Meschin la spada adopra; Onde restar l'imprese di lei guaste Ch'una man le tagliò, che cascò sopra La terra, nè ci uolse unguenti, ò taste; Che poi l'alzò la spada fin di sopra La testa, e cala con tal forza il braccio Che gliela aperse, e se trasse d'impaccio. Sepoltura sol d'Orsi, e Lupi hauranno Costoro, à i corpi lor coi figli suoi Che quattro sono; i quai cercando uanno La madre, e'l padre, che gli trouar poi Nel modo, ch'ancor essi à restare hanno Se'l Meschin non troua altri che l'annoi; Ma ne dubita forte, e teme certo Che ne sia pien quel paese diserto. Quei, perche son bestiali e senza ingegno Vsar non san lor forza, onde fur tosto Morti dal buon Meschin, che fa disegno Che non ne sien de glialtri indi discosto. Ma poi ch'altri apparirui non fa segno Di montare à caual s'era disposto; Pur uolse prima più minutamente La statura ueder di simil gente. Trouò, che per lunghexza diece braccia Erano, e del lor pel proprio uestiti; E che sì sterminata hauean la faccia Che non si conuenia co i membri uniti; Nè par che punto col busto confaccia, La bocca han grossa, & i labri uestiti D'un liuido color, tal che più bella Vna milza à ueder parea che quella. Gli orecchi grandi, e gli occhi non maggiori De i nostri; e'l uolto largo, e smisurato. E se tale il conoscer, tali i cori Che hauea la forza del corpo stimato Hauessero tenuti in uan gli onori Che hauuti hauea di loro, hauer cercato Conosceua'l Meschin, che in tal statura Rendeano, ancor così morti paura. Che tutti i Tartar Maccabei sien tali Pensa il Meschin, perche i figliuoli ancora Teneuan i medesimi segnali. Ma perche già di lassargli era l'hora E in preda dargli à degli altri animali Da cui l'umana carne si diuora; Torna al cauallo, e sù ui salì quando Lo ritrouò, ch'assai l'andò cercando. Erasi per quel bosco dilungato, Onde per rihauerlo, e per potere Correr, s'era de l'arme scaricato Che in altra guisa, no'l poteua hauere, Presol, tornossi à l'armi, e sù montato Non sa che farsi, s'ei deue tenere Il cominciato suo camino; o pure Tornarsi in dietro à strade più sicure. Ma pargli, che imputar se gli potrebbe A' mancamento, & à uiltà di core; Se ben certo ne fusse, eleggerebbe La uita prima perder, che l'onore (Come debitamente far si debbe Da chi del camin uer non sia già fuore) Segue dunque l'andar, che più lo sprona L'onor, che senza, saluar la persona, Verso la riua, che quel fiume bagna Prese il camin, doue alloggiò la notte; Poi la mattina salì la montagna Di spelonche copiosa, e strane grotte; E già la fame sì ben l'accompagna Ch'ei si sente le forze al tutto rotte; E quel ch'aggiunse tema al suo conforto Fu, ch'ei trououui un capo d'huomo morto. E mostraua che poco era ch'ucciso Fù, per lo sangue, e per altri segnali Che de l'altre ossa gli dauano auiso; Ond'ei pensò, che non altri animali Che quei Giganti l'hauessero ucciso. Vide anche caminando poi più mali Di teste e busti uman di molti giorni Abbandonate, e sparse in quei contorni. Calando il poggio uide un'altra testa Che haueua anco i capei, di fresco morta La qual mirando, se gli manifesta La cherica, ch'in mezo ancora porta; Di questa uista, stupefatto resta Pensando qual cagion sia stata scorta Quiui un prete condur, che prete il uede, Nè sa s'ei debba à gli occhi suoi dar fede. Il desio di saper uinse il sospetto Che ha cagiõ quiui hauere, e uuol chiarirsi Ancor che questo gli fusse interdetto Pensa ò con l'arme in mano il passo aprirsi O' morir con difesa, per dispetto Di chi uolesse in fuo danno scoprirsi. Et uolti gli occhi in giro al gran sentiero Vide d'abitatori segno uero. Vede tizzoni arsicci in molti lati Che quai col fuoco, e quai senz'esso stanno; Sotto al cenere ancor mezi aguattati Chè quei Giganti abbandonati gli hanno, Vedeui monti in alto rileuati Di legna ancor, che quei condotte u'hãno, Questo trouò doue due monti spalle Si fanno, ou'era un'ampia, e larga ualle, Dipoi sopr'il salir de l'alto monte Vide la gran cauerna, e strano ospitio Dou'il chieder mercè con le man gionte Era crudel de i uiatori offitio, Di quei, ch'auean le uoglie pur congionte Di porsi in rischio à tanto malefitio; O che lor dura sorte hauea condotti Quiui, non sendo del camin ben dotti. Dal basso de la ualle, à la gran bocca Che nel cauato monte, entrare inuita Eran quaranta braccia, che mai Rocca Non hebbe, ò Torre già uia manco trita; Quantunque andarui stimi cosa sciocca Il Meschino, e pericol de la uita. Delibera ueder s'entro ui fia Chi fuor si mostri à troncargli la uia. E scarica di se l'affaticato Caual, che per la fame anch'egli ha meno Gran parte già del suo ualore usato, E lo lega à un'arbor per il freno; Che son due dì, ch'egli non ha gustato Per sì stanco camin, paglia nè fieno. Quest'è maggior cagiõ, ch'andar s'affretta Che trouar iui qualche cosa aspetta. Ma tra la debolezza e tra'l sospetto Del tristo e rio camino, à gran fatica Ancor che'l passo non gli sia interdetto Da gli erti sassi, mani, e piedi strica. Che da l'un braccio era lo scudo stretto Da l'altra man la fida spada amica; E quand'ei pensa hauer più fermo il passo Il piede il perde, e uagli dietro un sasso. Nè si trouaua ancor sei braccia in alto Che'l uarco stretto, oue s'ascende uede; Doue i Giganti andauan con un salto Ben che carichi fosser di gran prede; Salì con men fatica al duro smalto De la gran caua, e pria che dentro il piede Metta, si ferma sù l'entrata, e grida Per ueder s'altro malfattor u'annida. Poi che nessun si scopre, acconcio in atto D'huõ, che uegga inuitarsi à noua guerra; Entro ui salta, quant'ei può più ratto Che alcuno il passo non gli uieta, ò serra. E l'empia stanza in un medesmo tratto In giro mira, in alto, e in sù la terra; E poi ch'alcun non è pel luogo sozzo Dassi à cercar da rinfrescare il gozzo. Trououui di molt'erba secca, e molte Castagne secche, ancor che l'una fia Del caual cibo, se bene altre uolte L'Orzo col grugno haria gittato uia; Paruer fagiani le castagne colte Di terra, al buon Meschin', c'haria pazzia Tenuta un'altra uolta di mirarle, Non pur con tanta auidità mangiarle. Se quando Tito Imperador, l'assedio Tenne à Gerusalemme, hauesse hauto Da dar di queste à quei, che per rimedio A' lui più d'un fuggiua mal pasciuto (Che tal cagion, faceua più che'l tedio Lassargli la città) non saria suto Cagione il troppo e subito mangiare Di dar lor morte, e farne assai crepare. Si ch'è'l Meschin temperato manduca Ma non ha debil, com'il resto, i denti; E mentre che ciò fa, d'una gran buca Sente uenir dolorosi lamenti; Che par che d'un profondo li conduca Tanto gli sente di uigore spenti; Accostasi più oltre, ou'un gran sasso Serra di quell'entrata il fiero passo. Ma dubita tra se poi, che non fia Di quei che ruinar dal sommo coro Che cerchi qualch'inganno, per tal uia; Di rompergli il pensier con suo martoro, Onde ricorre à Cristo, & à Maria, Togliendo in man la sua Crocetta d'oro; Poi grida, chi è dentro? ad alta uoce Fattosi prima il segno de la Croce. Chi se tù quel; che con si strani accenti Percuoti il sommo del cauato monte Che par che di tua sorte ti lamenti? Vsa con me parol, se puoi, più pronte; Il Meschin parlò Greco, ond'egli attenti Gli orecchi hauendo in suso alzò la fronte Che'l parlar Greco intese, & ha parlato Io son d'Armenia un prete suenturato. Ma uoi, chi site, e chi u'ha quì guidato Che non è luogo'per Leon sicuro? Perche disse il Meschin, chi t'ha cacciato In questo pozzo sì profondo e scuro? Partiti oimè (diss'egli) se trouato Sei da color, che rapitor ne furo Tu uerrai anco, dou'io or mi lagno; O mangeranti come il mio compagno. Io lo uidi sbranare à brano à brano, E poi mangiarlo così caldo, e crudo; Da un Gigante orribile e uillano Da non prezzar difesa d'elmo, ò scudo. Perche dou'egli accenna sol con mano Tanto fa d'huomo armato, quant'ignudo. Partiti presto dunque, se tu puoi E se tu scampi, prega Dio per noi. Disse il Meschin, quanti Giganti sono Questi, che uuoi ch'io fugga così presto? Color, ch'abitan quì, di ch'io ragiono Son due Giganti grandi, e quatto il resto; Il prete disse, & sarà per te buono Di non saperne più altro che questo. Son la femina, e'l maschio i due più grandi Gli altri, suoi figli, poi che ne domandi. Se più non sono, io tanti n'ho già morti, Si che la fuga risparmiar'io posso; Et à te dar saluteuol conforti. Rispose un'altro, ch'era anche nel fosso Col prete, ò car signor, da poi che porti N'hai questi aiuti, leuaci da dosso Quel che serra la bocca à questa caua E se tu puoi di tal prigion ne caua. Costui parlò Francese, e non fu inteso Dal prete Armenio, perche Francioso era; Ben l'intese'l Meschin, ma'l troppo peso D'un sasso che gli serra, e tra la fiera Fame, che molto debol l'hauea reso Fa ch'egli di leuarlo non si spera; E poco harebbe fatto ancor che hauesse Hauute le sue forze, e quiui messe, Sappiate dice, à quei che sotto sono, Che sì gran sasso ui ricopre, ch'io Solo à leuarlo non ueggo esser buono S'altro soccorso non prouede Dio. Perdon quei la speranza à questo suono; Ma'l Meschin dice lor, sappiate s'io Douessi rimanerci, io uo uedere D'usar, che uoi n'usciate, ogni potere. E cauatosi l'elmo, e postol sopra Quel sasso, con la spada scalza tanto Quel da la banda, oue più facil opra Giudica far, ch'assai ben da l'un canto Smosse di quel terreno, e sì s'adopra Che già con lor cauarli si da uanto; E ui fa già sì larga, & ampia buca Ch'ei fa, che l'aria dentro ui riluca. Trassene il prete al fine, e l'altro seco Con gran fatica, perche'l Francioso era Per tanto quiui star già mezo cieco, E molto debol fatto per la fera Fame, che ha sopportata in quello speco Ch'altro che ghiande da mãgiar non u'era; Ma poi che fuor liberato si uede Al Meschin uolse umil baciare il piede. Che già gliera dinanzi inginocchiato E con uoce sommessa il ringratiaua; Veggendolo il Meschin dapoi chinato Che i piedi appresso baciar gli pensaua, Non, gli diss'egli, ch'à migliore stato Tai cerimonie usar si ricercaua, E fattolo drizzare; il Prete & egli Diss'altro mal n'arriccia or'i capegli. Quella gran forza, quella secca e smorta Guerriera, ch'ogni rocca, ogni castello, E'n ogni terra in espugnabil porta In ogni forte core, empio flagello; Quella, ch'abbatte ogni serrata porta Orribil furia, e del nuouo macello, Ne sopragiugne in questa fosca strada, Nè teme colpo lei, di lancia, ò spada. Fame si chiama, d'ogni fama ingorda Nemica di uirtù, ch'ouunque spira Col pestifero fiato, u con la lorda Faccia si uolge; e doue gli occhi gira; Secca erbe, piante, e gli ordini discorda De la natura, e sempre più martira I buoni, umili, e sotto falsi inganni Il sangue gli fa ber da rei tiranni. Meglio è cercar, prima ch'altro si faccia Quel che'l bisogno ne comanda, e uuole; Seguite dice, dunque la mia traccia, Prima, ch'à l'Ocean si tuffi il Sole. E mentre che'l bisogno si procaccia E che'l Meschin con quegli altri si duole; Vedeui un'altra caua, che la serra Vn sasso dritto, il qual giù spiana in terra. Eran pecore in questa, nè sì tosto Videro aprirsi, che saltar on fuore A' pascer l'erba, nè molto di scosto Vn'altra tana uider, che l'umore D'un'acqua appresso gliusciua, che'l mosto Tengon chi copia n'ha, molto peggiore. Era piena la caua di castagne Di fresco colte in quell'aspre montagne. Queste non eran come l'altre dure, E le mangiauan senza discretione: Eran per satollarfene, ma pure Tosto'l disegno (che uolea ragione) Fecero altrouè, e con opre mature Ordine dieron, che chi lo spedone Facesse, e chi scannasse un grande agnello Di quei, che u'era'l più grãde, e'l più bello. Fu fatto il fuoco in un momento, e messo A' cuocere, e'l Meschin fin che sia cotto; Scioglie al caual la briglia, e l mena presso A' la cauerna, donde usciua sotto Quell'acqua, ch'uscia fuor d'un sasso fesso; Cauogli il fren, ch'era già mal condotto, E pascer lo lassò fin che condotta Gli hebbe de l'erba de la prima grotta. Sì, che senza cercarla à poco à poco Poteua satollarsi à suo piacere. Tornò il Meschino in questo mezo al fuoco, Ma prima andonne à quella fonte à bere. Cotto l'arrosto cominciaro il gioco Con quell'agnello, postisi à sedere Sù certi sassi, e non hauendo piatto Fecero à pezzo in mano al primo tratto. Mangiato c'hebber, se n' andaro intorno Cogliendo l'ossa umane abbandonate; Sotterrate, che l'hebber, ser ritorno Chel'ombre hauea la notte apparecchiate; Per quì fermarsi fin'à l'altro giorno Dou'eran da i giganti preparate Quell'erbe secche, ne la grotta prima; Ch'altri che lor, dormirui non fer stima. Ben che'l dormir fu breue, e sospettoso Tal, quale il luogo, e'l tempo concedea. Non era meza notte, che'l riposo De gli occhi, col parlar rotto s'hauea. Il Meschin, ch'è di saper disioso Qual sorte iui color condotti hauea. Disse al Francese, ò Caualier cortese Dite qual nome è'l uostro, e qual paese? D'una città son'io de la Guascogna Chiamata Bona, & io chiamato sono Messer Branditio, che cercando rogna Come udirete di mia uoce il suono; Capitai quì, però che mi bisogna Cercare il mondo, com'io ui ragiono, Non prezzando il morir, per osseruare Quanto in parole già m'hebbi à uantare. Ritrouandomì in Francia ad una festa Bella, che fece il Re, ne la qual furo Assai Signori, & huomin d'alta gesta Di cor feroci, e d'animo sicuro; Per fare il Re più memorabil questa E ricordarla nel tempo futuro Vì fece cinquecento Caualieri Da portar'arme, e maneggiar destrieri. De i quali uno son'io, che per dar segno Di qualch'alto ualore, e degna proua Chi d'una cosa far, chi d'altra pegno Demmo la fede, che'l uantar non gioua Senza l'effetto, ond'io, che haueua à sdegno Vantarmi à cosa uil; presi per noua Fatica, di cercar per mare, e terra Quanto il grande Ocean circonda, e serra. Di quel uoler medesmo, un mio compagno Fu meco, e con la fede ci legamo Di mai non far fino à morte sparagno, Se in casi di pericoli giungiamo Per aiutar l'un l'altro; or quel mascagno Gigante, fa che separati siamo. Con colui molti paesi io cercai Come da me per ordine udirai. Inghilterra cercammo prima, e Irlanda E Scotia, Fiandra, la Frigia alta, e bassa; Hauendo prima cerca Norbellanda Poi dopo Frigia, uenimmo ù si passa In Vngheria; e giunti in quella banda Boemia ancor uedemmo, con la grassa Cicilia, Italia, Corsica, e Sardegna Che son membri d'Italia altiera e degna Maiorica, e Cicilia ripassammo A' Branditio, à Durazzo, & in Dalmatia Di tai paesi usciti, seguitammo Per ordine l'andar uerso Coruatia, Albania dietro, nè Pira lasciammo Nè Macedonia, del mondo mal satia Entrammo in la Morea, bella, e copiosa E per le sue città molto famosa. Le quai uedemmo, & i lor nomi à ponto Segnati eran per noi, per alfabeto, Per poter darne al Re di Francia conto Come ce gliobbligammio per decreto. Patras, Chiarenza, Malia, Osia, e Coronto Modon, Coron, nè ui lasciammo adrieto Ofaza, con l'Arcadia, e con Misistra; Nè Fermenico posto à man sinistra. Vidi anche Stiue, poi di Negroponte L'Isola tutta, e Candia, & in Tessaglia Tornando, in Romania con non men prõte Voglie, uolemmo entrar ne la muraglia Del bel Costantinopoli, oue conte Noue ci fur di non so che battaglia. E partiti di quì, per terra andammo Verso la Tana, & à Colchi arriuammo. Per Albana ad Armenia poi uenuti Per cercar poi la bassa Tartaria, Vedemmo il Caspio mare, e sproueduti Hauendo presa in quà la nostra uia, Senza mangiar due dì fummo uiuuti Per la riua del fiume, or com'io sia Dal Gigante quì preso, uoi potete Pensarlo; come il Ceruio ne la rete. E son diciotto dì, che ne la tomba Fui messo, e che'l cõpagno mio mangiorno. Quando fortuna le disgratie piomba Non lascia altrui mai netto senza scorno, Dio lodo, ilqual'in cambio à la Colomba Te m'ha mandato Caualiero adorno; Tu m'hai cauato di sì ria prigione; Or seruo ti sarò, che uuol ragione. Sol per compagno, e per fratel t'accetto Disse il Meschino, e così fur d'accordo L'Armenio, quel che'i Frãcese hauea detto Intese men, che non intende un sordo. Ma il Meschin la sostanza, e'l puro effetto Veggendolo mirar come balordo; Gli disse, quanto sentì dal Francese, In lingua Armenia, e cosi'l caso intese. Voltato à lui, poi disse, e uoi qual sorte V'hauea condotto à così stran periglio? Diss'egli, e mi ci hauea condotto morte A' cui uoi mi traeste de l'artiglio. Chi ua pel mondo troua de le torte Strade, oue aiuto non ual, nè consiglio; E tanto più fortuna il uischio tende Quanto men ui si pensa, e men s'attende. Sappiate, ch'io son Armenio, e Cristiano Sotto religion sacerdotale. Così fu'l mio compagno, non men sano Di ceruel, ch'io mi sia, ma la fatale Sorte ne la sua uita pose mano. L'amor, che da l'instinto naturale Ci hauemmo, ci fe tor questo uiaggio Nel modo ch'udirai Caualier saggio. Sono oltre ne la bassa Tartaria Certi compagni del nostr'ordin pure Che per lor uisitare, in questa uia Mouemmo i piedi; or di queste paure E fatti, che facea la bestia ria Ben sapeuamo, e come mal sicure Eran di quì le strade, & ogni passo; Ben che mai uenne il Gigante sì basso. La nostra intention fu di passare Il fiume prima, che uenire in questo Luogo tant'oltre, perche suol ghiacciare Quell'acqua in sù la sera, e tutto il resto Poi de la notte suol così restare. Ma dal Settentrion non uien molesto Il uento come suole, il quale il serra Gelato sì, ch'andarui è com'in terra. Questo basta saper, disse il Meschino, E poi ch'anco egli disse la cagione Che'l mandaua pel mondo pellegrino, Disse ancor come la sua intentione Era di seguitare il suo camino; E che d'andare innanzi si dispone. E che passar quel fiume ha destinato Se gratia harà di uederlo ghiacciato. Non ui curate seguitar tal uia (Disse l'Armenio) che per molte miglia Trouar potreste di questa genia, Ma quel, che più l'impresa ui scompiglia E' che uoi prouereste carestia Del mangiar, nè fia questo merauiglia, Che per quindici dì non trouereste Altro, che laghi, fiumi, e gran foreste, In Armenia tornar, fia piu sicura Via, perch'andar per mar potrai di quiui In questa Tartaria, che la sicura Strada, quando non son gli huomini priui Di uita, fa che l'huomo à tempi dura Da sparger la lor fama in molti riui, Derche gliè troppo mancamento, e male Per poco perdersi un, quand'assai uale. Il tuo ualor, non è di sì uil pregio, Che restar debba in simil modo estinto, Anzi tra ciascun'huom, per fama egregio: Da non restar de gli ultimi, nè uinto. Serbati dunque à far con maggior fregio Segnar'il nome tuo, che fia dipinto Forse in più luoghi di famose carte, Mostrandoti à Dio seruo, e figlio à Marte. Che se tu passi per mar, com'io dico, Tenendo (ben che uile) il mio conseglio: Hauendo estinto un cosi gran nemico Di quella gente, tu potrai poi meglio Con lor fauore andar doue à l'antico Tempo si legge come in chiaro speglio, Ch'ando'l grand' Alessandro, e sappi certo Ch'ei non passò per tal luogo deserto. Non è manco'l camin questo, che guidi A gli arbori del Sol, come tu pensi, Però se del mio dir punto ti fidi, A te tornar dou'io dico, conuiensi, Non crediate (il Meschin disse) ch'annidi In me questo pensier, perch'i miei sensi Son pronti ad obbedir chi mi conseglia S'à creder con ragion chiare mi sueglia. Torniamo pur per quella miglior uia, Che fè quell'Alessandro sì famoso, Se la sapete, & ei per la Soria Disse, e per l'Asia, & India glorioso Passò, entrando in mar, che par che sia Indico detto, nè senza affannoso Viaggio ui si uà, di quì si suole Gli arbor ueder de la Luna, e del Sole. Dopo Armenia, e Soria, in Media andrai, Et per l'India, che u'è molti paesi Da Cristiani abitati, & ui sarai Veduto uolentier, nè male spesi Fieno quiui i tuoi passi, perc'harai Da Dio buon merto, e da color, ch'offesi Eran da quei Giganti, e maggiormente Hauendo i testimoni à te presente. Piacque al Meschin questo consiglio, e tolti Di quelli agnelli, e castagne con loro: Fur subito à tornare à dietro uolti, Guerrin non torna, ch'ei tema coloro, Cioè simil Giganti, nè lor uolti, Ma per fuggir de la fame'l martoro, Nè per questo anche il uiaggio haria torto Se per lui fusse stato iui piu corto. Passaro il fiume la notte seguente. E per cinque giornate caminaro Inuerso un fiume di corso repente, Pur ghiacciato di notte lo passaro, Remino è detto, e ui nasce un serpente Cilestre tutto, e uedesi di raro, Fuor mangia sassi, e nel fiume s'intana Nemico al tutto de la carne umana. Troppo obligo sarebhe à uoler dire Passo per passo d'ogni cosa à ponto. Vn'alto fiume uidero apparire Dopo due altri dì questo congionto Di due rami in un sol mostra'l finire La doue con bassa onda, e dolce affronto De i Tartar bassi l'Isola circonda C'ha due fortezze in sù l'estrema sponda Non fur sì tosto giunti in sù la riua Del fiume Emintas, che così uien detto; Che di quelle fortezze fuore arriua Gente à cauallo armata, per rispetto Di saper chi così quiui ueniua. Ch'à guardia son del fiume, ou'è più stretto; E uedutili pochi, in una barca Da parecchi di lor, di quà si uarca. E domandaro prima, se passare Ne l'Isola uoleano, e chi lor sono? Disse l'Armenio, ch'eran per parlare Quiui uenuti al Signor lor, per buono Rispetto, ch'un'auiso gli han da dare Intendeua il Meschin ben tutto il suono Di quel che'l prete dice, e in tanto bada Se quiui harà bisogno de la spada. Pur à montare in barca il primo fue Per buon rispetto, tirandoui drento Pel freno il suo cauallo, e facea il bue, A' l'elmo stando tutta uolta attento Ch'era à l'arcion; ma tutte l'armi sue Indosso hauea, che mai, quantunche uento Da fame i giorni innanzi fosse stato Non s'era giorno ò notte disarmato. Così da l'altra ripa giunti, quello Ch'era lor Capitan disse, chi siete? L'Armenio espose il tutto; e come quello Gigante l'hauea preso, e ch'era prete; Seguendo poscia morto ei fu da quello Caualier, che dinanzi ui uedete Mostrandogli il Meschino; e ch'à la moglie E i figli, diè di morte ultime doglie. Sentendo il Capitan, che'l Maccabeo Gigante con la moglie, e i figli hauea Morti colui, che per nimico reo Più ch'altro al mondo da lor si tenea, Disse, se quest'è uero, un semideo Cert'è costui, ma per che gli parea Impossibile, disse, ora ui piaccia Star quì, per fin che cert'io me ne faccia Che se fia uero, à uisitar andremo Il nostro Rè, che per la noua buona Che di quel rio Gigannte gli daremo Farauui grand'onor la sua Corona. Allor disse il Meschino, aspetteremo Pur che sia presto, che'l desio ne sprona Perche tempo non ha mai di uantaggio Chi'l perde, e c'habbia à far lungo uiaggio. Venticinque à caual mandouui armati Con archi, com'usanz'è del paese; I quai fra quattro dì furon tornati E fecer la certezza più palese Perche con grand'allegrezza smontati Da loro, il Capitano il fatto intese; E come tutte sei, uist'hanno in terra Morti, e che i uermi già fanno lor guerra. Per questo il Capitan, con grand'amore Il Meschino onoraua e suoi compagni; Essendo ripien tutto di stupore Dicendogli, e conuien, ch'io u'accompagni Fin doue abita il Re, nostro Signore Ch'oggi hauer fati terrà buon guadagni Diss'il Meschin, andiam, ch'assai contento Son, poi ch'io u'ho sì gran nemico spento. Messer Branditio, e'l Prete ch'eran'iti Dai Giganti, in fin quì senza cauallo A cauallo fur messi, che in quei liti Forza à Messer Branditio fu lassallo. Or quì bisogna, ch'à posar u'inuiti; Ch'assai lungo ho tenuto questo ballo. Ne l'altro canto ad ascoltar u'aspetto Quel che dalor col Re fu fato, e detto.

FINE DEL CANTO SETTIMO.

ALto motor, che dai superni chiostri Venisti à far di te proua sì chiara Che tu ci amaui, ond'i peccati nostri Purgar uolesti, per tua morte amara; Pur che la uia, che tu ci hai mostra, e mostri Da noi s'osserui, e sia tenuta cara; Piacciati che'l mio dir tal gratia troui Ch'ai Cristian, del tuo zelo accesi, gioui. Ne son uergate tante carte, e tanti Fogli, di quei, che sotto la tua Croce Han fatte opre stupende, e tanti Santi Canta ogni dì tua Chiesa in uiua uoce, Che ben poteua tacer questi canti Sì rozi, ma il desio troppo mi coce Per uoglia c'ho di scriuer con mia mano L'opre famose d'alcun buon Cristiano. Poco dei Paladin potèua dire Di uer, che piu si legge di bugia Ond'io, che'l uero seguo, ho preso ardire Volger il canto per un'altra uia. Ilqual quì seguirò, pur che l'udire Sì degna istoria, fastidio non sia. Or trouo, che spacciato hanno il camino, E giunti sono glialtri col Meschino. Son giunti à la città, doue à parlare Al Re condotti, il Capitan gli hauea; Galegan tal città s'usa chiamare Doue la Real sedia il Re tenea; Fece la noua il Remerauigliare Di quel Gigante, e gran festa facea. E'l Meschino stimò di maggior pregio C'huom, ch'allor fosse al martial Collegio. Con dire, io ho prouati tanti, e tanti Caualier di gran cor, chi per tesoro Promesso, e chi di farlo sopra a quanti Soldati tengo nel mio tenitoro; Se nessun l'uccideua, onde i lor uanti Tornauan uani, e con lor gran martoro Morti restaro; or in prouiso è stato Da te, ch'ogn'altro onore hai guadagnato. Chiedimi quanto uedi in mia balia Pur ch'io tel possa dar, ch'io tel prometto; Ecco quì'l Regno, e la corona mia Che per compagno à reggerlo t'accetto. O se desideri altro, che ci sia Ch'oggi da me non ti sarà disdetto. Disse il Meschin, non Signoria, nè Regno Cerco; ch'altroue batte il mio disegno. Cosa chiedrò, che ti sarà men graue Forse, che quel che mi prometti, e dici. Sol uoglio, che mi presti una tua naue; Che mi conduca da queste pendici In ne l'Armenia grande, or che soaue Il uento spira; con questi altri amici, E cari miei compagni, e tu ti resta Con la ben degna tua corona in testa. Fecegli dare il Re la naue, e quella Fornir di buon Pilotto, e buon Nocchiero; E fe montar Messer Branditio in sella Che com'io dissi, era senza destriero Dandogli una caualla molto bella Gagliarda, destra, e di gran corso fiero Per onor del Meschin, quella gli diede Che non hauea caual di sì buon piede. Sperando che qual, or quella prouasse In luogo che di lei bisogno hauesse O per graue giostrar di lance basse, O pur che gran camin far gli accadesse; Che per la sua uirtù si ricordasse, Quant'egli in pregio il merto lor tenesse Non che di tal ualor tenga tal dono. Ch'à spegner uegga il debito esser buono. Poscia in persona accompagnar li uolse Al porto, in fin ch'ei montasser nel legno; E di poi, che ciascun, comiato tolse A Trepidon fecer d'andar disegno; Di quiui poi partiti, si riuolse La naue nel mar Caspio, uerso il Regno D' Armenia, ù giunser' à uele spiegate, Dou'in mar entra il gran fiume Eufrate. Smontò quiui il Meschino à terra, e dette Licentia à quei del legno, com'usciti Furo i Compagni, & à cercar si mette Con lor molte cittadi, & molti liti D' Armenia, e le città fur queste elette Per principali, & in perfetti siti; Podia, Canafar, Mauria, e Sirtara Ciria, & Brantisca, populata e chiara. Et molte altre cittadi insieme e molti Castelli, che per tedio à dietro lasso. Poi uerso Saracena si fur uolti Quiui il prete lasciò, che di buon passo A casa sua tornò, doue fur sciolti Gli oblighi tutti de l'andare à spasso E per farne à gli antichi suoi memoria Scrisse di tal uiaggio un'ampia istoria. Messer Branditio col Meschin passaro L'Eufrate, e se n'andar uerso Soria. Poi quindi, à Babilonia capitaro; E preser uerso Media la lor uia. Questo Reame senza Re trouaro Che ricaduta era la Signoria Dopo il Re morto, ad una sua figliuola Di quindici anni, sfratellata, e sola, Per questo era quel Regno sottosopra, Per la cupidità, che tra i Baroni Era già nata del regnar, ma sopra Tutti Calidocor, l'altrui ragioni Vane facea tornar, c'ha messo ogn'opra Gente à condur di molte regioni; Che uuol Re farsi con armata mano; E far d'ogn' altro il pensier restar uano. Questo Calidocor era il maggiore Baron, c'hauesse il Regno, per potenza; Perche de le montagne era Signore Cornocors dette, e non poteua senza Il suo uoler, nessun mouer peggiore Guerra di quel, nè con più prouidenza. Che le montagne, ou'hauea Signoria Cingon parte del Regno, e di tal uia. E son meza giornata appresso à quelle Chiamate Sagrons, à le quali unite Son le montagne Coronas, ma quelle Ch'io dissi prima, son meglio fornite Di castella, e città, sì, che di quelle Traca da guerra gente assai spedite; Eran di circuito da dugento Miglia, nè di tal stato era contento. Eranui due città tra l'altre, tali Che simil tutta Media non hauea. Da quella in fuor, doue i gran tribunali Di tutto il Regno, dal Re si tenea E doue era la figlia. De le quali Fur questi i nomi. Aronta si dicea L'una, ful'altra Samuina detta; Quest'era grande, e più de l'altra eletta. Mentre, ch'eran tal cose al Meschin dette, E ch'egli intese come il fatto andaua; Allegro à caminar tosto si mette; Che trouarsi à tal guerra desiaua. E giunse col Francese à le predette Montagne, ú l' Alfamecche dimoraua; Questo era un principal'offitio dato Dal Re, che l'Alfamecche era chiamato. Et haueua un castello al fin de i monti Fasine detto l'un, l'altro Corona, Che quasi son con quelli altri congionti; Ond'il Meschino al castello sperona. E non sì tosto quiui suron gionti Che fuore ad un'ostier buona persona Ch'un alberghett'hauea, press' al castello; Smontaro, e liecis alloggiar con quello. E poi chi di riposo, e cibo furo Alquanto ristorati, e c'han saputo Dal'oste, che quel luogo era sicuro; Essendo il uenir lor già peruenuto A l' Alfamecche, mandò fuor del muro Vn messo, à dir che qualunch' è uenuto Forestier, uoglia mantener l'usanza; Ch'è, di seco allogggiar ne la sua stanza. Disse Messer Branditio, noi non siamo Per mantenere altra usanza che quella Di noi medesmi, e di chi non sappiamo Che l'usi tal, che per ogn'un sta bella. Nò, nò, diss'il Meschin, non ne parliamo, Metti pure à i caualli oste la sella; E poi s'alcun ci uuol uenga à trouarci, Ch'à noi non par per or di quì mutarci. L'oste dicea, Signor non dubitate Che gliè Signor benigno, e non uuol farui Se non piacere, e uorrà che uoi stiate Seco quanto ui piace, à riposarui. Al dir che l'oste fece, fur mutate L'opinioni, e senza più pensarui Disse il Meschin, se gliè come n'hai detto Di te mi fido, e uo senza sospetto. Ben che Messer Branditio dubitasse, Pur'al Meschin più contradir non uolse; Ma sol gli ricordò, se bisognasse Che l'arme che'n difesa lor si tolse Quando pria le uestir, ch'egli pensasse Oprarle nei bisogni, nè più sciolse Del fuo pensier; nè questo bisognaua; Che con altro disegno, ei non u'andaua. Entraro nel castello, e dal Signore Fur con fronte benigna riceuuti; E facea lor, quanto più puote onore. Poi domandò dond'erano uenuti. E che fede e la loro? al cui tenore Risposegli il Meschin, che per perduti Van doue lucer ueggon Sole, e Luna; E che il Dio loro è'l cielo, e la fortuna. Dissegli ancor del suo uiaggio parte, E perche mosso era à cercare il mondo; Non dicendo, chi gliera, ma che l'arte Sua, giudicar si può da lui secondo Il suo uestir, se ben sol'il Dio Marte Ne i cori alloggia, e non in greue pondo Di grosse piastre, di ferrigna scorza Ch'un cor feroce scema ogn'altra forza Son belle l'armi, e forti credo sieno Rispose l'Alfamecche, e s'io non erro Non deue il uostro cor risponder meno Che si richiegga un tal uestir di ferro. Or, perch'io sappia il uostro int&etilde;to à pieno Dir ui uoglio il pensier, che in petto serro; E se di guerra far desio tenete In fauor nostro, nosco ne uerrete. E' capo à questo Regno, una cittade Media chiamata, onde la regione Così si chiama; de le cui contrade Nè questa parte, ch'à contentione N'ha mossi noi Baron, sol la pietade Di dare il Regno, à chi uuol la ragione. E ciò facciam, perche il Re nostro e morto; E più d'un, per succedergli è risorto. Vero è, ch'una fanciulla sua figliuola V'è, che ricade à lei, d'età già tale Da non restar senza marito sola Che reggerne così potrebhe male. E non uuol anco intendere parola, Perche'l più gran Signore è liberale Di questo Regno, la chiede per moglie Et ella contradisce à le sue uoglie. Calidocor si chiama quel Signore; Et è uicino quà sù la destr' Erta. Ilqual, già mosso da giusto furore, Veggendo ch'ei, che più de gli altri merta Re farsi, di speranza è posto fuore, Delibera per forza, e con aperta Guerra mostrare à la sciocca fanciulla Com'il poter d'un tal Signor s'annulla. Et io sonseco, c'hò di questo Regno Le chiaui in mã, perche il Re mort'hau&etilde;do Gran fede in me mi diede per sostegno Di se l'offitio, ilqual tenere intendo. Tal'offitio, di ch'io non molto degno Sõ, l'Alfamecche è detto, e s'io comprendo Il uer con giuste, e ben chiare ragioni Gouerna, e netta il Regno di ladroni. Sì, che s'hai pur desir, com'io t'ho detto Di guerra, à quest impresa ne uerrai; Col tuo compagno, che mi par perfetto Guerrier, nè so come riuscirai. Disse il Meschino, ancor non tel prometto Ma domattina il mio uoler saprai. Ch'io ui uo sù pensar, ch'à quel ch'io int&etilde;do Tu deui esser da guerra, huomo stupendo. Rispose l'Alfamecche, dei sapere Ch'à quest imprese non istan poltroni. Tra se disse il Meschin, uorrò uedere Se gliè così. come tu mi ragioni. Noi potrem poi far conto con l'ostiere Ilqual fei tu, fedendo in sù gli arcioni Poi disse sta Messer Branditio attento. Ch'ei non ci usasse qualche tradimento. Disse in lingua Francese, che l'intese Lui sol, nè l'Alfamecche ui pon mente. In questo mezo, in terra si distese Vn panno, oue fu posto prestamente La magnifica cena, onde palese Vider la sporca usanza di tal gente. E secondo il costume lor mangiorno Che furono otto ad un sol piatto intorno, Ogn'un pescaua, e come uedean fare Messer Branditio, e'l Meschino, ancor loro Così faceuan, e dopo'l cenare Fur menati à dormir, oue à coloro Assai parue di far nel consegnare Che lo fecer d'un letto di lauoro Simile à quei, che gli sporchi osti danno, A' quei ch'à Roma al giubileo ne uanno. Hebbero una schiauina bella, e netta Di pelo, e la lettiera fu lo spiazzo. Nè l' Alfamecche facea piu perfetta Di simil uita, & il resto del pazzo Stuolo, à le panche, e sopra'l fien s'assetta; Disse il Me schino, e sia quest'un solazzo. Pur che sta notte uada ben del resto, Che noi siamo usi à peggio ancor che questo. Dicea Messer Branditio, e ci bisogna Far la guardia l'ũ l'altro, e quad'undorme, L'altro stia desto, e di grattar la rogna Mostri, ch'è scusa lecit'e conforme; Ond'in fu'l buon, che dormendo si sogna, Starò nell'armi, come stare in forme, E farò buona scolta, e uoi potrete Spogliarui, e riposato dormirete. Passata meza notte, e uoi potrete l'armi uestire, & io potrò spogliarmi; Che più sicure uie, non ci uedrete, Che se ci assaltan, ch'un sol habbia l'armi: Non ne potranno tender sì la rete Addosso, che'l compagno pria non s'armi, E lor riuscirem con l'opre forse; Quant'ei uantando col parlar trascorse. Parue al Meschin, che da diuin giuditio Venga'l consiglio, e tutto si conforta De l'ardir pronto di Messer Branditio, Ch'ancor non sà, com'in arme si porta, Dicendo, che per commun beneficio Gli piace la ragion, qual'egli apporta: E così fer, che fino al nouo giorno La guardia fer, s'alcuno andaua intorno. Nè sì tosto apparir da l'Oriente Vider la bianca Dea, del nouo albore, Che senza ueder surgere altra gente, Per seguir lor camin, uolean gir fuore, In questo l'Alfamecche si risente, E chiama gente à se con gran furore, Dicendo; se quei due drizzati sono, Che gli meniate a me tosto, fia buono. Che l'armi loro à me lascin mi pare, Poi uadan'u lor piace, s'han pensiero D'andare altroue, ch'io mi uoglio armare De l'armi d'un di lor, l'altre pel fiero Calidocor, da parte uo serbare, Perche mi piaccion troppo à dir'il uero Se uestite non l'han, dite ch'io sono Quì, ch'io l'aspetto, e ch'io le uoglio ĩ dono E caso ch'ei dicesser non uolere Lasciarle; dite, che mi son piaciute, E ch'io le uo per loro amor tenere, Che le più belle non ho mai uedute: O che le portin lor, se in uoi hauere Fede non uoglion, pur che sian uenute, Ch'io non sò come quì l'habbian portate, E forse che à qualcun l'hanno rubate. E mal per essi, se fan resistenza, Che s'io trouo che in lor sia tal peccato Impiccar gli uo fare in mia'presenza, E s'auuedran, quanto meglio era stato Darle d'accordo. Odi, che coscienza, Che gliene pare ancor far buon mercato Se per ladroni non gli fa impiccare, E à lui, uer ladron, non par rubare. A lui non par rubar, s'ei uuol per forza, O per amore l'armi, c'han costoro: Ma non sà ben, che sotto quella scorza Di ferro, u'è'l terrore, e'l suo martoro, E chi la rabbia à' fier tiranni ammorza, I quai sol per gli ingordi uoler loro De l'altrui robba fan larga misura Nè doue, come, o quando, pongon cura, Giunti i serui al Meschino, & al cõpagno, Ch'usciuan fuor de la guardata tana (Dio ui dia disse l'un) miglior guadagno Pecore mie, lassar conuien la lana. Al parlare aspro di questo mascagno, Ben conobbe il Meschin lor uoglia strana Dicendo loro, in tutto, e che uolete? Et a che fare à noi uenuti siete? E m'incresce (rispose un, che mostraua Esser discreto) che ui siate messe Indosso l'armi, che non bisognaua Ma forse non pensaste le uolesse E l'Alfamecche nostro, or s'ei ui graua Cauarle, patienza, che per esse Venuti siamo à posta, e le uogliamo, Ouer dice ch'è lui là ui meniamo. Come piace al Signor, che u'ha mandati Così farem; ma meglio è uenir noi (Disse il Meschin) perche noi siamo usati Cortesemente dar, quel che tu uuoi Quasi per forza, e senz'esser uolati Quà sette, ò otto, e bastaua un di uoi Ch'era sufficiente à quel c'ho inteso Vn di uoi sol portarci à lui di peso, Col nome sia di Dio (gli rispose uno) E ci basta pigliarui per un braccio, E che tra due di noi, di uoi uada uno Per miglior sicurezza, e meno impaccio Cominciasi accostar quest importuno: Ma gli hebbe ũ grosso pugno nel mostaccio Dal Meschin, che non uuole esser cont&etilde;to, Che gli sia fatto oltraggio, ò tradimento. Messer Brãditio proua anch'ei, se'l grugno D'un'altro è sodo, che gli fè uedere Quante lucciole fa'l mese di Giugno, Che quasi tramortito il fe cadere; Serra di nouo in uerso un'altro il pugno, Ma colui forse no'l douea uolere, Che spauentato pel palazzo è corso Gridando, arme, arme, e soccorso, soccorso. Corse oltre à quel romore assai brigata, Ma nessun 'è, ch'ardisca dir parola Perche'l Meschin, con fieri occhi li guata, Poi ueggon, che quei due, giù per la gola Han mezi fitti i denti, e c'han segnata La faccia del color de la uiola In fino à l'Alfmecche corse urlando, Vn de i percossi, di se quasi in bando. Mezo stordito, disse al suo Signore; Queste son l'armi, che noi ui portiamo, Tal pagamento danno, e tale onore, Ne fan color, che la notte alloggiamo Corse con gente, oue nacque'l romore, E l'Alfamecche, e disse, dunque siamo Di picchiate pagati in casa nostra Da chi sol cortesia se gli dimostra? Tai parole al Meschin con furor disse; Onde il Meschin rispose, io non pensai, Ch'un forestier, ch'à casa tua uenisse: I tradimenti aperti, che tu fai In uece di carezze, compartisse, Nè tu fors'anco intendesti già mai, Che in luogo à tanta, e sì gran cortesia, Da noi tal merto, in cambio gli si dia. Se tu non usi altr' usanza, che quella Del tuo paese, e noi, che non ci piacque, La nostra usamo, che non è men bella, E detto questo, aspettando si tacque, Per ueder s'alcun'e tra quella fella Gente, che per mostrar, che gli dispiacque, Voglia far cenno, ò con bocca, o cõ mano, E mentre grida, ogn'un si stà lontano. Non può tenersi il Francioso superbo, (Ch'era da l'ira riscaldato, e tinto) Ch'ei non uoglia ueder se miglior nerbo, Harà la spada, che il prima sospinto Pugno non hebbe; e poi con uolto acerbo, Vn colpo mena, non già scarso, ò finto, E colse un caporal sopra l'orecchia, Che gli mostrò, come più non si'nuecchia. Turbossi l'Alfamecche, ch'era ardito, E disse, che uuoi far pazzo spacciato, E trae la spada tutto inuelenito Dicendo, or punirotti s'hai fallato Messer Branditio trouossi assalito, Da trenta, ò più, che l'hauean circõdato, Ma l'Alfamecche disse, à dietro tutti, Ch'io uo ch'ei sappia'l sapor de' miei frutti. Attendete à pigliar l'altro briccone, Ch'à costui di mia man trar uoglio il core, Messer Branditio accetta la tenzone: Ma disse, hauendo cura al suo onore, Come pigliar pensi con me questione? Ch'io son'armato, e tu non hai di fuore Cosa, che riparar ti possa, s'io Far uoglio un colpo buon col brando mio, Questa compassion poco può torti De la gran punition, ch'io t'apparecchio, Diss'egli, nè pensar, ch'io ti comporti L'omicidio c'hai fatto, e s'io mi specchio In questo, sò c'hai fatti mille torti Ad altri, che mi gridan ne l'orecchio, Fà uendetta Alfamecche, tu che puoi Farla per te, e la farai per noi. Col furor del parlar, la forza adopra Del braccio, e de la spada, ond'à la fronte Il colpo gli disegna, e gli fe sopra La uista, andar fauille, e ueder pronte Stelle di mezo dì, sì che tal'opra Gli hauea nel corpo le forze disgionte, Ma Dio non uuol, che così tosto pera, Che in se tornò con la sua forza altiera. E trasse un colpo, e doue uà non bada, La risposta terribil de l'offesa Fuor di se mena attrauerso la spada Il colpo giunse, ou'era l'altra impresa Contra'l Meschin, che non istaua à bada, Et era uincitor de la contesa. Partì quel fiero colpo in un momento Due, che bisogno non hebber d'unguento. Menane un'altro, e mi uergogno à dirlo, Perche cogliendo ad un ne la berretta, Ch'era di pel di capra, fece aprirlo, Fin doue tiene il gozzo la ciuetta; Gli altri, che uider per lungo partirlo, Hebber di sgombrar uia molto più fretta, Ch'à uenir ui non fer, nè il lor Signore Di quiui si partì con men terrore, Nè si creda però, che'l Meschin desse Men danno à la ria turba, e lo spauento Già non era minor, ch'ei non difesse Membra uedere haueua alcun talento, Ma stoccate, e'mbroccate crude, e spesse Facean'uscir con strano, e roco accento; Gli spirti fuor de i male armati busti, Ch'abbandonauan lance, e mazzafrusti. Di forse trenta ne restar soli otto, Che non fossero morti, ò mal condotti: Ecco che son pagati de lo scotto, Disse il Meschino; or n'hã prigion cõdotti. Sentesi in questo un certo suon dirotto Di uoci, e conche fesse, che ridotti S'eran quei, che fuggiro in sù le torri, Perche tu popolazzo à l'arme accorri? L'Alfamecche era à la stalla già corso, Per uietar, che non montino à cauallo, Tanto, che uenga il suo maggior soccorso: Ma non ui puote por troppo interuallo, Che più bizarro il Francioso, ch'un'Orso Col Meschin segue il cominciato ballo E così del palazzo scesi al basso A la stalla ne uan più, che di passo. Era salito sopra un palafreno Già l'Alfamecche, e grida ch'altri saglia, Ma perche il tempo era uenuto meno, Non s'era armato da pigliar battaglia; Ilqual, come s'auede, che quei sieno Venuti à basso, senza far puntaglia, Trouar la porta, & oltre passa i ponti, E per soccorso corre à i uicin monti. Per la futura guerra, eran uicini A quel castello à i lor alberghi andati Molti guerrier di tutti quei confini, Che'l gran Calidicor, gli hauea mandati Sentendo i corni, i bussi, e i tamburrini A l'arme dar, sopra le torri alzati Misersi in ordin, per porgere aita, Contr'à chi hauesse la terra assalita. In questo l'Alfamecche quiui arriua, Per Dio dicendo, correte al castello, Che poca u'è di mia famiglia uiua, Che Marte la distrugge, e fa macello Bellona è l'altro, & à fatica apriua La bocca, e pazza cosa era à uedello, Cosi fe dar ne i timpani, e ne i corni, Acciò, ch'ogn'uno à la rassegna torni. Messer Branditio era corso à la stalla, E del Meschino il caual prima caua; Poi tosto pon la sella à la caualla Sù la porta il Meschin destro aspettaua, Che non sopragiugnesse qualche calla, Che non sol'il castel sozzopra andaua, Ma tutto quel paese à l'arme grida, Perche ciascun' i lor nemici uccida. Fa pensiero il Meschin uccider prima Tutti quei del castel con ferro, e fuoco, Ma se più quiui tarda, facea stima Ch'in pregiudicio gli tornasse'l giuoco, Ch'ogni ualle risuona, & ogni cima De i uicin monti, onde non faran poco S'uscir potran sicur fuor de la terra Ne la campagna, à più scoperta guerra. E fu tanto il ualor di loro, e tanto Il gran terror di color, ch'eran drento, Che d'uscirne sicuri si dier uanto, Perche ueggendo ogn'un tanto spauento, Dier tutti strada, e si tirar da canto, Che hauean del core ogni ualore spento, Nè trouar ne l'uscir d'alcuno intoppo, Ma senza guerra non isteron troppo. Che color, ch'eran fuore à la campagna Non sapendo il ualor di questi due, Ciascun per affrontargli si scompagna (Per giugner tosto) da le genti sue: Ma chi s'appressa, poco ui guadagna, E se ne duol che troppo tosto fue, Che questo morto, e quel stroppiato resta, Che'l passo gl' impedisce, e gli molesta. Tuttauolta il Meschin, col suo compagno Spingono innanzi francamente, e presto Con disonore, e con poco guadagno Di chi per impedirli era molesto; L'un Cesar par, l'altro Alessandro Magno, Ch'acquistan terra, e gente, e tutto il resto, Ch'innanzi gli si para, e prezzan poco Ripar di ferro, gente, fassi, ò fuoco, Risonauano monti, piani, & ualli Di uoci orrende, e d'alti suon di corni I gran bussi di timpani, e metalli, Il richiamar, ch'ogn'un'à i suoi ritorni, Il sentir dire ammazza, e dalli, dalli, Non dà terrore à i caualieri adorni: Ma dan buon conto di lor forze altiere Tal, ch'ogn'un gia ne comincia à temere. Verso la gran Città presa han la strada, Che pochi son, che lor facciano intoppo, Seguono innanzi, e non si stanno à bada Più che mai franchi, e più che di galoppo Rotte han le lance, & sol hanno la spada, E i pigri fan guarir de l'andar zoppo Pur or conuien, che sudin lor le tempie, Che'l passo è preso, e di gran g&etilde;te s'empie, Questi eran cinquecento caualieri Sotto un lor capitan, molto feroce Grandi d'aspetto, al primo affronto fieri, Son uantatori, e di terribil uoce Venner coperti quì, per stran sentieri Corre il Meschin, col segno della croce, E di quel s'arma, e così fa Branditio, Ilqual non ha nel cor di uiltà uitio. Lancia non ha'l Meschin, con laqual possa Dar dentro, ma'l nemico ardito aspetta, Ilqual come gli uide, fece mossa, Che fu quel Capitan, con molta fretta Destramente il Meschin la gran percossa De la lancia schisò, dipoi s'assetta La spada in mano, e tien lo scudo stretto, E diede un colpo à Tamor sù l'elmetto. Nome haueua Tamor quel Capitano Che non pensando à uirtù de la spada Che'l buon Meschin si ritrouaua in mano Conuien che fesso in due parti giù cada O tempra di Minosso, ò di Vulcano Che hauesse, io ben non so, ma par che rada L'elmo tagliò, formato d'un forte osso Con un torchio di tela un palmo grosso. Non potè l'altro oprar la Scimitara Che (com'ho detto) e fesso fin'al busto Per la sua morte la turba bizarra Chi l'arco, che hauea in mà, chi'l mazzafrusto Adopra per uendetta, e fanno sbarra Ma'l buon Messer Branditio, fiero e giusto Dà dentro fedelmente, ch'era franco E fanne ogni suo colpo, un uenir manco. Or da sinistra, & or da destra mano Or con punte, riuersi, or con fendenti Fa la gente il Meschin cadere al piano Chi passato, chi fesso fino à i denti Chi riman senza braccio, e senza mano Tal la grandine, e'l gran furor de' uenti Tribbia le uigne nel terzo fecondo Mese, allor quando uien più bello il mondo Da lance e dardi assai furon percossi I due Cristian, per tutto il corpo spesso Ma l'armatura passar non lasciossi Perche la tempra non l'hauea concesso Pur tosto questa guerra terminossi Che morto il Capitano, e molti appresso Chi quà, chi là, ueggendo i colpi fieri Fuggiro i male armati Caualieri. Quaranta n'hanno morti, gli altri sono Spariti, per fuggir la morte orrenda Allor, disse il Meschino, e'sarà buono Partirsi, non ci essendo altra facenda Ringratiando Gesv di tanto dono Però che tal uittoria fu stupenda E n'andaro à gran passo uerso Media Città, ch'era di tutto il Regno sedia. Il desio di ueder la figlia erede Del morto Re, gli guida à tal camino Guidali la giustitia, e la gran fede Gli sprona, con pensiero alto, e diuino Di far per la ragion, contr'à chi crede Tor per forza à quel Regno il bel domino L'istessa offesa à uendicar gl'incita Contra di chi uolea lor tor la uita Seguir quel primo giorno, col secondo Senza trouare alloggiamento buono Sterile era'l paese, & infecondo Fatto da gli abitanti per il suono De la prossima guerra, che l'immondo Signor Calidocor, senza perdono Vsare à l'innocentia de la figlia Del Re, uuole a quel Regno por la briglia. Pur com'hò detto, la seconda sera Sù la riua d'un lago fer soggiorno Martia chiamato, quiui un borgo u'era Di case del medesmo nome adorno Lor uenne un uecchio con benigna cera In contro, senza più temere scorno Et inuitolli, s'alloggiar uoleuano Essi accettar, che bisogno n'haueuano. Accettato, e smontati da cauallo Lor uenne in contro de l'oste una figlia Molto leggiadra, uestita di giallo Ch'era tela sottile à merauiglia Vien tutta lieta, e non pone interuallo Ch'àl caual del Meschin caua la briglia E lo conduce ne la stalla seco Spinta da nouo amor fallace, e cieco. Gli abiti, i gesti, l'armadura, e'l uolto Parue insolita forma à la fanciulla E'l corpo del Meschin, sì ben raccolto Che quei del suo paese stima nulla Rispetto à lui, onde col desio sciolto Di sue bellezze si pasce, e trastulla E quel cauallo à uezzeggiar si pone Con quel desir, che farebbe al padrone. Il Meschin, che suol prima uoler dare Al caual buon ricetto, ch'à se stesso Volsele dietro ne la stalla entrare Che non si fida di mandato, ò messo Nè così tosto à la fanciulla appare Che tutta uolta al cauallo era appresso Che gli fa riuerentia, e poi l'abbraccia Et ardisce uoler baciarlo in faccia. L'atto libidinoso, e disonesto Al Meschin, fuor di modo e dispiaciuto E la rispinge da se uia ben presto Dicendo, io non son qui per ciò uenuto Et accenna al compagno, e dice, questo Se tu uorrai per me, fara'l douuto, Il Francioso sogghigna à questo detto Dicendo, & io ben uolentier l'accetto. Voi cacciate da uoi Signor la rogna A me la date, & io ne son contento Nè però colei punto si uergogna Anzi chiama il Meschin codardo, e lento Egli ne ride, e dice non bisogna Altro fuoco, se'l primo non è spento. E dice il uer, quì bisogna riposo E'l corpo empir diss'allora'l Francioso. Dando speranza à la seguente notte Far quanto il suo desir richiede, e brama Così trouossi allor l'imprese rotte E ritirossi la focosa dama, Ma non è merauiglia, se condotte A tal uoler Vener le tira e chiama Che le uicine, e quella regione Son sottoposte al segno di Scorpione. Chi'l zodiaco in questo ciel misura Ne gli uman corpi, questo segno mette Ne l'una, e l'altra genital natura E sopra à queste Region predette Al fin di Cancer questo segno dura Ilqual di se fa le contrade infette De la sua qualità, con gli altri segni Secondo lor nature, in tutti i regni. Furon prima da lor ben gouernati I destrier, che uolesse alcun di loro Cibo pigliar, ch'eran mezi affamati E daua lor il uentre aspro martoro Ma tosto come in casa furo andati Fu la lor cena in punto da coloro Posta secondo l'uso del paese Con modo quanto far sanno cortese. Vn tappeto hauea posto molto bello Quella fanciulla al Meschin per sedere In terra al modo loro, e dopo quello Posegli innanzi da mangiare, e bere Questa cena fu tutta in un piattello Da poterui sguazzar dentro, e godere Con broda da notarni fino à gli occhi Senza antipasto, ò dar di poi finocchi. Intorno à questo piatto smisurato Era l'oste, l'ostessa, e la figlia. Si posero à mangiar da ogni lato Con tutto il resto de la sua famiglia Disse il Meschin, ben si può dir beato Chi meglio pesca, e più gran pesci piglia Ride messer Branditio de l'usanza Per ben che del mangiar nessun l'auanza. Molta uaghezza l'ostessa, e'l marito E la figlia hanno à riguardar costoro Che mai nessun sì ben d'arme guarnito Visto hanno dentro di quel Tenitoro E sopra tutto, del bel uiso ardito Che hauea il Meschin, godeuansi tra loro Dicendo, che da presso, ò da lontano Mai uider sì ben fatto un corpo umano. Pareua ben tutt'il contrario à i nostri Cristian di lor, ma ne fan poco conto E dicon che da essi lor si mostri Il letto, ch'al partir faran poi conto Risp se l'oste, io so che i pari uostri Meritan di trouar gente più in ponto Letto non ci è, ma piglierete questo Tappeto sotto, e no ui fia molesto. Perche la cruda guerra àpparècchiata In questo Regno ci ha fatta leuare Di quì la robba da noi più pregiata E dentra à la citta fatta portare Fu dal Meschin questa scusa accettata Tolse il tappeto senza replicare E ui si poser sù fin che ritorno Facesse Apollo à lor col nouo giorno. Ma de l'ostier l'innamorata figlia Non potendo frenar l'accesa uoglia Ch'ogn'un dorma per casa il tempo piglia E poi d'ogni timor lieta si spoglia Disiando il camin di molte miglia Non pensa, che'l Meschin se ne distoglia Ponglisi à canto ignuda, e gli s'accosta Nè fu pari à la uoglia la risposta. Sueglia Messer Branditio, e fagli offerta De la da lui già ricusata preda De la qual poi, che'l Francioso s'accerta Non sa s'ancor ben chiaramente creda S'ei non esce à battaglia più aperta Dicendo, e basta, che mi si conceda Ridendo seco, e franco s'appresenta Di sorte tal, che la mandò contenta Il resto de la notte hebbero amica E riposarsi senza hauer sospetto Ch'eran lontan da la gente nemica Ben che non fosse molto agiato il letto. Il dì seguente, con poca fatica Giunsero à Media, e non fu lor disdetto Il passo, da nessun fino à le mura Or quì fornisce il canto, e più non dura.

FINE DEL
CANTO OTTAVO.

TAnt'e' fragile il fil, Vergine pura De la misera uita de i mortali Che non c'è strada al caminar sicura Ma tu, che presso al uerbo tanto uali Pregal, che guardi sì mia uil natura Ch'io dia de la sua fè chiari segnali Freni la Parca, che possibil fia Pur che sia gratia chiesta da Maria. Io ueggo tante, e sì mirabil proue Di questo amico di sua fede santa E tanto à dirne il gran desir mi moue Ch'io chieggo uita, che mi basti tanta Che di lui dica, ancor ch'udirlo altroue Il mondo senza questo stil si uanta, Ma non sia graue udir da la mia penna Ch'ella ne canta, se l'altrui n'accenna. Or per tornar dond'io già m'era tolto Dal dir di questi franchi due guerrieri Dico, che'l dì seguente andar con molto Contento, lieti, insieme; e uolentieri Rinouando il piacer del piacer colto Con la placata figlia de l'ostieri Burla il Francioso, & al Meschin da poco Dice, che spegner potea lui quel fuoco. Giunsero à Media la seguente sera Ma non u'entraron fin l'altra mattina Che trouar, che l'entrata serrat'era Che così uuol la sua noua Regina Con certe guardie ster la notte intera In una casa à la città uicina Venuto il dì, furon dentro guidati De la città, da quelle guardie, armati. L'ordin dato era, ch'ogni forestiero, Al palazzo real fosse menato, Fosse huom'di pace, ò fosse Caualiero: Subito, ch'era ne la terra entrato. Accordaronsi i nostri di leggiero, Senza aspettar nessun d'esser forzato, Perche il Meschin sol di parlar desia A' chi de la Città tien Signoria. Giunti al palazzo, smontar da cauallo, Per uisitar la figlia del Re morto, Che bella era, e leggiadra senza fallo; Il Meschin, che'l Francioso tiene accorto, Vuol, ch'egli parli, e innanzi mãdat'hallo, Et ei lo segue, in spatio breue, e corto; Vi&etilde; in questo un Buffon, ch'è mezo pazzo, Ch'era spasso, e piacer di quel palazzo. Costui uede il Francioso, e sù lo scudo Gli dà d'una bacchetta, c'hauea'n mano Messer Branditio, ben ch'ei fosse ignudo Di patientia, uolse essere umano, Disse il Meschin, sarò ben'io più crudo, Perch' è mercè co i pazzi esser uillano, Nè così tosto ha la parola detta, Ch'ei sente un colpo di quella bacchetta. Dagli il Meschin'un pugno sopra un ciglio, Che gli fe l'occhio mezo uscir di testa; Cade egli in terra di fangue uermiglio, Vuolsi drizzar per torsi da tal festa: Ma non potè sì tosto da l'artiglio Del Meschin torsi, che d'un'altro resta Segnato, che non ha con che si copra, E mette quel palazzzo sottosopra. Fugge gridando à la publica piazza, Doue ogn'un dice, di chi ti lamenti? D'un pazzo, disse, assai di peggior razza Di me, che m'ha pestati gli occhi, e i d&etilde;ti; Non andate al palazzo, ch'egli ammazza Co i pugni, e dicel, che tutte le genti Fa rider, doue un Cortegian, che'l sente, A' la regina è corso incontinente. E narrale il lamento del Buffone, Per farla ridere, e dar le piacere; Diss'ella, chi gli ha dato? e qual cagione? Fugli risposto, ch'era un Caualiere Molto ben fatto, & ha un compagnone Seco, quant'altri si possa uedere Disposti, e bene armati; e son di poco Venuti forestieri in questo loco. Menateli (diss'ella) al mio cospetto, Massime quel, ch'al mio Buffone ha dato; Ond'al Meschin da parte sua fu detto, Però fu'l primo, e'l Francioso è restato Adietro, e gli diss'ella, qual'affetto T'ha fatto dimostrar tanto insensato, D'hauer battuto quel mio pazzo, senza Hauer rispetto alcuno, ò riuererenza? S'io l'ho battuto, egli battè me prima, Diss'allora il Meschin, nel uiso ardito; La Donna di sua scusa non fa stima Dicendo, tu sarai anco punito, Mostrando de lo sdegno esser'in cima; Non si mostra il Meschin punto inuilito, E dice, ascolta almen quattro parole, Poi di ciò segua, quel che seguir uuole. Se'l Pazzo con le busse si raffrena, Nè altra uia ci fia miglior che questa, Era obligato à rompergli la schiena A dunque l'opra mia fù troppo onesta A' non toccarlo con le mani appena La Fanciulla il guardaua, che la presta Risposta del Meschin è tanto arguta, Che del primo proposito si muta. Ride per forza sentendo il parlare, E confessò, ch'egli hauea detto il uero, E dipoi cominciolli à dimandare Che gente sono, e sotto qual'Impero; E qual cagion gli faccia armati andare, E doue habbiano preso il lor sentiero; Risposegli il Meschin, d'Armenia siamo, E soldo, e guerra, e uentura cerchiamo. La uisiera de l'elmo alzata haueua, E ueggendolo in uiso la fanciulla, A' poco à poco di lui s'accendeua, Ch'ei portò le bellezze da la culla, E per torsi dal fuoco, che l'ardeua, E d'onde Amore à poco la trastulla, Dice, che nel palazzo gli si dia Stanza capace, ou'e gli agiato stia. Fella fornir di paramenti adorni, E comandò, ch'ài lor caualli sia Fatto carezze, per tutti quei giorni, Ch'egli, e'l compagno ne la terra stia, Così si uolsero in piacer gli scorni, E lasciata del pazzola pazzia; Il cenar de la sera, e de la notte Il dormir, ristorò le triste dotte. Leuati poi la seguente mattina, S'andaro à presentar tra gli altri in corte, E grand'onor lor facea la Reina, Che mostra ogn'un di loro esser huom forte Ne l'amor del Meschin sempre raffina Colei, che dianzi uolea dargli morte E sentel ragionar' attentamente De le cose di Grecia, e di Ponente, E de le condition spesso dimanda De i popoli, lor leggi, e lor costumi, Iquai non si confanno à quella banda, Perche u'è troppo in mezo e mari, e fiumi; Or perche tempo in uan più non si spanda, E più parole in dir non si consumi, Non fa mai pasto alcuno, oue non sia' Il Meschin col Francioso in compagnia. Il sesto dì, ch'eran quiui arriuati, Standosi lieti à la mensa reale Con alquanti Baroni accompagnati. La guardia d'una torre fa segnale, Come da i monti calan molti armati: In questo quiui arrlua il Generale Capitan de la terra, e le dà aoua, Che'l campo presso à la città si troua, Dimmi Reina quel, che uuoi, ch'io faccia, Diss'ella, attendi à guardar ben la terra, E per timor si scolorisce in faccia, Che non era usa à uedersi far guerra, Il Capitano non sà, che si faccia, Perche'l crudo timor anco lui serra, Il Meschin lietamente la conforta, Che per timor la uede meza morta. Mi merauiglio ben di uoi Signora, Dice egli, e di chi fa tai Capitani, Costui per gran uiltà dat'ha pur ora Voi, e la terra à gli auersari in mani, Lo stil de i Capitan glialtri rincora, E costui gli auilisce, e ne gli strani Casi, dimanda à chi douria consiglio Dar egli, e cercar trarui di periglio. A' lagrimar cominciò la Reina, Dicendo, uoi uedete il bel gouerno, Colui, ch'adosso mi uien con ruina Per l'obligo, c'hauer ci deue eterno La Città uuol per forza, e me meschina, Per quel, che di sua opre rie discerno: Fu Cortegiano in corte di mio padre, Or mi uien contra con armate squadre. Quest'è'l merito degno, e'l guiderdone Di tanto beneficio riceuuto, Che d'huom priuato fu fatto Barone Dal mio buon genitore, or ch'è uenuto In questo grado, uuol, che per ragione Il nostro Regno gli sia ricaduto Domandami per moglie, e pargli onesto, Che per forza, ò amor debb'io far questo. Fauoriscelo à questo un'altro ingrato, Ch'era pur sottoposto al padre mio, Che l'Alfamecche di Media è chiamato: Pur ribellato del mio scettro uscio, Disse allora il Meschin, sono informato Di questo fatto, e per questo uenn'io, Si che datti conforto, e stà sicura, Che temeranno ancor di queste mura. Ftae pur, che cì segua questa gente, poi dateui piacer senz'altro affanno, La Reina, che tanta offerta sente, Piglia conforto al sospettato danno, E fece à se chiamare incontinente Quel Capitan, che pare un saccomanno Rispetto à i nostri, e gli comanda espresso, Ch'ei faccia quanto gli sar à commesso. Poi fe'l Meschin General Capitano In sua presentia, e'sopra l'arme uolse Porgli una soprauesta di sua mano, Messer Branditio ancor l'armi sue tolse; Poi sceser tutti ne la piazza al piano, Quiui tutta la gente insieme accolse, Fè sonar gli strumenti à loro usanza, Per auezzargli à star in ordinanza. Fa condursi il cauallo, e sù ui sale D'un salto senza staffa, ò girar freno; A'la Reina piacque quel segnale, E di maggior speranza s'empie il seno, Che uenne per ueder la generale Rassegna, e come i suoi arditi sieno Stando à una finestra del palagio, Doue il tutto ueder potea con agio. Messer Branditio in questo mezo corse Due lãce, che'l Meschin le squadre assetta, Che le punte ad un mur gagliarde porse, Che d'arco presto sì non uà saetta: Fiaccolle in pezzi, nè punto si torse; Poi ne tolse una tra molte altre eletta, E se la serba per farsi uedere Oprarla poi tra le nemiche schiere. Grande speranza prese il popo'l tutto Di questi Caualier giunti improuiso. Il Mefchin, che l'essercito ha ridutto In ordine, in due parti l'ha diuiso; La Reina, c'ha già ueduto il tutto, Rese il colore al suo smarrito uiso, E ritornò nel solito uigore, Veggendosi tanti' huomo in suo fauore. Di cinque mila uno squadron fu fatto, E ne fe Capitan Messer Branditio, Col Capitan, che d'ufficio fu tratto, Per ueder quanto uaglia, e s'ha giuditio, E gli manda à incontrar il campo in fatto, Dicendogli l'indugio piglia uitio; Gli altri caualli, e l'altra fanteria Seco ritien fin c he'l bisogno sia. Fur sette mila il resto de la gente, E questi seco tien per dare aita Se quel primo squadrone era perdente: Perche non gli par gente molto ardita, Nè son sì tosto fuor, che tra lor sente Vna discordia grande, e inaudita, Che tra il Francioso è nata, e'l Mediano, Ch'era, com'ho già detto, Capitano. Messer Branditio uuol, che quella gente Vada à dar dentro à la nemica armata, Quel Capitan uillan non lo consente: Ma uuol, ch'ài cariaggi sia uoltata, Tutta quella canaglia conoscente Del Capitan s'era seco accordata; Calidocor'in tanto s'auuicina, E dà lor dentro con molta rouina. Così disordinati, e mal prouisti, E con disauantaggio fur forzati Tosto dar'opra à i lor dannosi acquisti, Perche furo in un tratto sbaragliati; Ben ch'à partiti gli uedesse tristi Messer Branditio, e così mal trattati Sprona il cauallo, e con la lancia bassa Vn franco caualier con essa passa. Ma perche gli ha la gente addosso stretta, Lasciolla così star nel caualiere: Caua la spada, e lo scudo rassetta Per far il suo ualor più chiar uedere; Misero è quel, che i suoi gran colpi aspetta Che i morti in frotta in terra fa cadere; Non è chi uegga la sua forza èstrema, Che di lontan da le sue man non tema, Era ualente, e de là guerra esperto Messer Branditio, e fa proue stupende: Ma ueggendo per tutto esser coperto Di gente, ch'à i suoi danni solo attende, E uoltandosi à dietro, ancora aperto De i suoi la fuga, molto si difende Ritirandosi à dietro per saluarsi Veggendo sì uilmente abbandonarsi. Fu morto il Capitan de i Mediani, Che haueua à morte anch'egli due feriti, Al qual poco giouò menar le mani, Ch'ei suoi soldati son mezi spariti, Perch'à sì furiosi, e così strani Assalti, tosto s'erano auiliti, Ma'l Meschin tosto col soccorso corse, Quando di tal disordine s'accorse. Esce co i sette mila de la porta, E grida à i fuggittiui, Ahi uil canaglia, Doue lasciate uoi la uostra scorta? E' dunque il uostro ardir fuoco di paglia? E tanto or gli minaccia, or gli conforta, Che gli fa ritornar ne la battaglia; Messer Branditio, che'l soccorso ha uisto, Si caccia innanzi, ringratiando Cristo. Calidocor, con uno sforzo altiero Di bella gente, assai robusta, e fiera Gli si fa incontra, & egli uien primiero, Lassando ben guardata ogni bandiera, E col Meschin s'affrontò di leggiero, Perche trascorso assai più de gli altri era; Feron di lance uno scontro sì crudo, Che' mal gli resse l'uno, e l'altro scudo. Calidocor fe de la schiena un'arco, Nulla di meno à caual si sostenne: Non riceuè il Meschin simile incarco, Che come un muro il gran colpo sostenne. In questo la gran calca impedì'l uarco, Che con impeto à guerra soprauenne, Pur per sorza'l Meschin, di quelle schiere Cerca atterrar le nemiche bandiere. E l'hauria fatto, e posto il campo in rotta Tanto spauenta ogn'un, doue egli arriua, Ma la gente, che seco hauea condotta, Secondo il suo uoler non lo seguiua. In ogni lato uccideua una frotta Messer Branditio ancor, doue appariua; I Mediani ancor nel primo affronto Fecer gran fatti, e dier di lor buon conto. Quei, che primieramente eran fuggiti, Veggendo nel Francioso tant'ardire, Con quelli del Meschin s'erano uniti Per fare insieme i nemici morire, Ciascuna de le parti tien l'inuiti Calidocor, poi che uide partire Da se il Meschin, più dietro non gli bada, E cacciò fuor del fodero la spada. Ogni colpo, ch'ei mena un Mediano, O due manda per terra, e in altra banda De i suoi Messer Branditio mãda al piano, E fassi spesso intorno una ghirlanda Di corpi morti, un mar di sangue umano Conuien, che di lor uene in terra spanda: Ma qual lingua dirà, per dirne il uero Volendo del Meschin narrar l'intero? Ha riciso l'essercito per dritto Vn mezo miglio, e l'ordinanze ha rotte, Et essi in fino à le bandiere fitto In mezo à tutte le nemiche frotte. Non era l'Alfamecche in quel conflitto, Perche mandato fu prima la notte Con diece mila à dare il guasto à tutta La terra intorno, che da uiuer frutta. Sentì lontan' parecchi miglia il grido Del campo, e si stimò quel ch'era certo, E per parere al nouo Signor fido, Più tosto che potè, gli s'era offerto, Com'ei fu presso, fe dare uno strido, Che pareua, che'l centro fusse aperto A' tutti i diece mile, il cui concento A' i Mediani diè grande spauento, Veggon per fianco in un tempo assaltarsi E sentonsi stordir dal gran romore; Onde cominciar tosto à ritirarsi E danno opra al fuggir, con gran timore Il Francioso, che uede abbandonarsi E seco esser lasciato il suo Signore In mezo de l'esercito sì solo Cacciasi dentro tra'l nemico stuolo. Dopo le spalle, lo scudo si mette E con doppio furore, e doppia forza Apre in un tratto quelle squadre strette Nè per molto colpir la furia smorza Con due man mena, e fa spesso due fette D'un colpo, l'una à poggia, l'altra ad orza Manda per terra; ond'è forza che uada Innanzi, che la uia fa con la spada. Vuol'egli che sia quell'ultimo giorno De la sua uita, pria ch'abbandonare Si debba il suo Signore in tanto scorno E uuol seco morir, se di campare Rimedio non haranno; e gira intorno La spada, quanto si possa girare Egliè fatto assai largo dou'ei passa Che chi morte non uuole, andare il lassa. Trouo'l Meschin, doue sentì'l romore Che quella gente intorno gli faceua Allora aggiunse forza al suo ualore Et il Francioso in tal modo, diceua Per Dio saluati car Signore E che sua gente abbandonato haueua Il campo; e che tra li nimici stuoli Restati sono abbandonati, e soli. Pensauasi il Meschino, esser seguito Ma poi ch'intese com'il fatto andaua Di ritirarsi prese per partito Che poco più che quiui dimoraua Quel campo haueua addosso tutto unito Perch' altro à far che lor non ci restaua Pur con dispetto, e uergogna di tutti Si furo insieme à ritrar ridutti. Nessun si cura di uietargli il passo Che pensan che dal ciel ui sien mandati Per gran giustitia à far di lor fracasso Tanto, che i due guerrier si son saluati E uanno à la città più che di passo A la porta ch'uscir, son rientrati. Calidocor e l' Alfamecche in quello Seguiro i rotti, e ne fer gran macello. Quei che poter saluarsi in questa, e'n quella Porta dè la città me' che si puote Senz'ordine si caccian, che la fella Tema è lor contra, e'l petto lor percote La giouinetta Reina nouella Haueua del Meschin le proue note E le uiltà da la città uedute De le sue genti, e fuggir per perdute. Non così tosto il Meschin, col Francioso Al palazzo real furo arriuati Ch'ella lor uenne in contra con pietoso Affetto, e da lei furon salutati Salite, disse, à prenderui riposo Ch'io so che deuete essere affannati, Ma il Meschin del palazzo in sù la porta Si ferma, e dice posar non importa. Ma ben ti prego gradita Reina Che per il banditor sia comandato A la tua gente, fuggita, e meschina Che han posto à sì gran rischio questo stato Che uenga in questa piazza à te uicina Sia chi si uuole, armato, ò disarmato Acciò ch'io possa in parole sfogarmi Et ammonirli, e poi potrò posarmi. Fu fatto, & ragunato il popol tutto Disse Messer Branditio, ai gente brutta Doue lasciasti lo sperato frutto Di chi nel campo, t'haueua condutta Il Meschin, per parlar, s'era ridutto Innanzi, hauendo la Baronia tutta Intorno, e la Reina, e così disse Poi c'hebbe le sue luci in lor ben fisse, Solfo, con fuoco, questa fuga è stata Anzi infocata pece, al nome uostro Che lassa eterna la macchia attaccata Più che non lassa la carta l'inchiostro L'antica gente uostra, con l'armata Hà dato buono esempio al uiuer nostro Che uinsero gli Assirij, e quei d'Armenia Pur siete nati di quella progenia. Quei dominaro tutta la Soria E fecer guerra contra l' Amazoni. Non hebbero i Romani Signoria Senza gran danno in queste regioni Si poca gente or ui fa fuggir uia E noi lasciaste peggio che prigioni E tanto cresce più l'infamia uostra Quanto noi siam sol quì per uirtù nostra. Era già nostra l'aperta uittoria E già faceua guerra à le bandiere Ma uoi, che fuste indegni di tal gloria Via ui fuggiste per non la uedere E che più tengo lunga questa istoria. Si come aperto potete sapere Non uenn'io quì per uoi, ma la cagione Or ui dirò, nè cerco guiderdone. Contra à color combatto, c'hanno il torto E per tenere in piedi la giustitia Dicaui il mio compagno, in parlar corto S'io parlo con ragione, ò con malitia Disse il Francese del Gigante morto E com'il liberò di tal tristitia Di passo in passo, come capitato Quiui era, e dal Meschin di poi campato, E prima come messo in quella tana Fu dal Gigante, e'l compagno mangiare Vide, perche mangiaua carne umana Tal ch'ei faceua molti lagrimare Vn prete Armenio er' anche in quella strana Stanza dicendo; e per abbreuiare Disse quì'l mio Signor, per tali imprese Noi liberò, con tutto quel paese. Certi mercanti di Tartaria bassa Venuti, confermaro esserui stati E ben saperlo, nè però si tassa Cosa, ch'ei dica, anzi son confermati Tutti i suoi chiari fatti; or qui si lassa Il ragionare. Allora inginocchiati. Gli feron riuerentia, come ad uno Da Dio mandato per il ben communo. Crebbe in lor la speranza oltra misura E giuraro non uolger più le spalle Ne la battaglia; sia quanto uuol dura E di seguirlo per monte, e per ualle Noi uerrem teco fuor di queste mura O sia per aspra guerra, ò erto calle Disser gridando con romor diuerso Che uogliam racquistare l'onor già perso. Andatene pur tutti à i luoghi uostri Lor rispose il Meschino, e siate pronti Che'l uer con fatti da uoi si dimostri Quando sarete à la battaglia gionti Andiam, di poi seguì, nei fatti nostri Poscia che da uergogna son componti E salì nel palazzo, con la corte Che lo stimaron saggio, quanto forte. E giunti in sala uolse la fanciulla Onorarlo, e se'l fe sedere à canto Doue Amor la riscalda, e la trastulla E fecesi seder da l'altro canto Messer Branditio, che non uide nulla Che gli piacesse à meza strada, quanto Veder già ordinar la magna cena Di uiuande finissime ripiena. Posti à mangiar, la Donna si mostraua Con bel modo al Meschino iunamorata Ben che'l Meschin tra se stesso pensaua Ch'ella fusse al Francioso maritata Al quale spesso in sua lingua parlaua Io uo dicendo, che ti sia sposata Non pensar dunque contr'al mio disegno Ch'io ti uo far Signor di questo Regno. Dopo molto uietar di non uolere Abbandonarlo là dou'egli andasse Pur disse, io son per far il tuo parere Quando la donna se ne contentasse Restaro al fin conformi d'un parere. Nè aspettar che'l quarto dì passasse Ch'ei fecer dar ne i tamburi, e ne i corni Perche la gente armata al campo torni, In due schiere il Meschin gli ha disuniti Per combatter, la prima per se tenne Fur quattro mila mal d'arme guarniti Accettar l'altra al Francioso conuenne Che furo cinque mila, tutti arditi E buona guardia à la città ritenne Il primo fu'l Meschino à far la scorta E co i suoi sen'uscì fuor de la porta Poi comandò, che da quella muraglia Non debban discostarsi, perche solo Vuole à quel campo domandar battaglia E se non gli ua contra qualche stuolo Che non si mouan, perch'un sol l'assaglia Poi parue ch'à caual mettessi un uolo E uerso il campo suona il corno, e chiama Se nessun far battaglia à corpo brama. L'Alfamecche che'l sente, s'arma in fretta Dice à Calidocor, dammi licentia Ch'io uada, e ch'io lo porti quì m'aspetta Morto, ò legato ne la tua presentia Ti darò quel guerrier, ch'ha sì gran fretta D'esser prigion sotto la tua potentia, Hebbe licentia; e furioso uenne Et fece uno sbrauar molto solenne. Conosco disse, all'armi, che sei quello Che sì uillanamente ti portasti A questi giorni dentro al mio castello Ma non so come sì tosto scappasti Or t'ho pur giunto quì traditor fello, Disse il Mefchin, non più tanti contrasti Ch'io ti prometto, che s'harai fallito Contr'al tuo Re, tu sarai quì punito. L' Alfamecche adirato à tai parole Drizzossi in sù le staffe, ch'era usato Caualcar molto corto, e ferir uuole D'una lancia il Meschin, ch'era uoltato Per correr contra lui, come far suole Ma l'Alfamecche falso, e scelerato Nel uoltar, ch'ei si fa, sopra man mena La lancia, e pensa passargli la schiena. Molto lunga era la lancia, e sottile Ch'auentò l' Alfamecche, e giunse in fallo Accorsesi il Meschin de l'atto uile E riuoltò poi subito il cauallo Dicendo, quì bisogna un'altro stile Tenere, e cominciare un'altro ballo Piglia la spada, e tosto gli s'accosta Per fargli più d' appresso la risposta. Ma l' Alfamecche prese un gran bastone Tutto ferrato, di mirabil peso Ilqual' haueua attaccato à l'arcione Che pensa esser con questo meno offeso Mena con esso senza discretione Spingelo innanzi, quant'ei può disteso D'un dritto, che gli cade in sù la testa Pensando fargli à quel colpo la festa. Ma l'esser troppo innanzi, gli fe corre Sù'l taglio de lo scudo del Meschino Con la man, che gli uenne il colpo à torre Il baston, come uolse il suo destino A la sua torta scimitarra corre Presto per seguitar l'aspro camino E quì si cominciò crudele assalto Col fier colpir di spade, or basso, or alto. Durò la zuffa, quanto la speranza De l'Alfamecche fu di far difesa Ma poi ch'ei uede, che poco u'auanza Si uorrebbe ritrar da tal impresa Chiede al Meschin riposo, perche sanza Quel, superar si uede da l'offesa Disse il Meschin, nostra guerra è mortale Si che'l chieder riposo poco uale. Non uo por tanto indugio à uia portarne La testa tua, maluagio, tradittore, Così'l caual, perch'io debbo oggi farne Vn dono à la Reina, e son quì fuore A posta uscito, e'l resto di tua carne Benche lassarla à i lupi è troppo onore Allor ti lascerò, poi ti riposa Quì con ogni opra tua uituperosa. Veduto l'Alfamecche non potere Fiato pigliar, nè uincere altrimenti Vuol fare un colpo, in tanto dispiacere Con ogni forza, che uaglia per uenti Drizzasi sù le staffe, e'l Meschin fere Con ambe mani, e tien serrati i denti E fa calar la scimitarra à basso Che mai più non calò con tal fracasso. Fessi il Meschin da canto assai leggiero E destro sì, che'l colpo giunse in fallo Venne à calare in terra il brando fiero Sì, che'l Pagan quasi trae da cauallo Il Meschin colse il tempo, e quell' altiero Percosse d'un fendente, e finì'l ballo Che tra l'elmo, e le spalle giunse à sesta Nel suo chinar, che gli spiccò la testa, Cascò dal busto separata, e sciolta In terra, e'l corpo lontan diece braccia Dal caual fù portato; al fin diè uolta Abbandonando le gambe, e le braccia Il Meschin scese da caual con molta Fretta, e leuolli l'elmo da la faccia E'l caual prese, con la testa in mano Gridando à i suoi, uittoria, da lontano. Il tutto fu da la città ueduto Da la Reina, e glialtri cittadini E fu da lor di gran ualor tenuto I quai, pria che'l Meschin lor s'auuicini Facciasi egli Alfamecche, c'ha saputo Vccider questo Re de i malandrini Dicono, i quest' egli entra in Media, e porta Verso il palazzo quella testa morta. Presentò quella, e'l caual ch'era stato De l' Alfamecche à la nobil fanciulla Di che fu molto da lei ringratiato Il Meschin, dice, questo non è nulla Io penso liberarti questo stato Se'l Dio, che mi fu dato da la culla, Virtù mi presta, e tu riman sicura Ch'io uoglio or ritornar fuor de le mura. Cosi diè uolta, & al Francese disse Ch'attento stesse, con le squadre armate Acciò che quando il bisogno uenisse Che sien per far battaglia apparecchiate Poi, prima che sua gente lo seguisse Volse saper s'erano inanimate Di far gran fatti, dicendo, compagni Chi si sente animoso, m'accompagni. Menateci pur tosto à farne proua Gridar tutti d'accordo, Signor degno, Allora un messo presto il Meschin troua Perche à Messer Branditio desse segno Ch'ei si mouesse, e subito rinoua L'ordinanza composta con ingegno E dieron dentro à l'antiguardia, e quella Rotta, dier'opra à la battaglia fella. Han tanta fede posta nel Meschino Color, che seco, affrontarieno il mondo Ogn'un è diuentato un Paladino Ogn'un si duol di restar'il secondo Per forza d'arme passano il confino De l'ordinanze de' nemici, e'l pondo De la battaglia sostengono arditi Et uan serrati, e ne l'ordine uniti. Il Meschino, uccidendo, à le bandiere Vuole arriuare, e passa tra gliauuersi Tanto ch'eglier a in mezo de le schiere E circondati son da tutti i uersi. Non è de i suoi chi mostri di temere Ben che si ueggan tra l'àrme sommersi E colti in mezo da souerchia gente Ammazzan de i nemici francamente. Ristrigneli il Mischin, e fa tirarli A' poco à poco, e rompe i passi sorti, Corre Messer Branditio à rinfrescarli Co i cinque mila da lui fatti accorti, E non bisognò molto confortarli, Perch'eran uaghi di fare assai morti De i lor nimici per uendetta, e uoglia, C'han, che l'infamia hauuta lor si toglia. Calidocor col resto, c'hauea seco Di sua gente, si mette ne la folta, Che da l'ira, e furore, è mezo cieco; Imperò che i suoi uede quasi in uolta, E ritrouar uorrebbe qualche speco Per poter sicurarsi da la molta Furia de gli infocati Mediani, Per la uirtù de i lor buon Capitani. Quei di Calidocor eran quaranta Mila; ma gente mal ne l'arme usata: Ma s'ei n'hauesse ancor due uolte tanta Sarebbe dal Meschin uia sbaragliata, E dal Francioso, che ui mette quanta Virtù metter piu possa in tal giornata; Ma pur Calidocor à i Mediani Fà sentire il ualor de le sue mani. Il Meschin, che lo uede soltra tanti Far tanto danno, à la sua gente ardita Faglisi incontro, e non uuol, ch'ei si uanti Di tardar più la uittoria gradita, Ben uede à l'opre, e conosce à i sembianti, Ch'egli, e non altri, la tiene impedita Dagli due colpi orrendi, che'l secondo, Per gran forza il cacciò di questo mondo. Morto Calidocor, quella canaglia Senza guida rimase, e senza core, Chi di quà fugge, e chi di là si scaglia, Poiche restati son senza Signore, Dieron d'accordo uinta la battaglia Dandosi per prigioni con timore A' chi gli uuole, e sol furon saluati Quei del paese, che u'andar forzati. Il Meschin, come Re fu onorato E giunti à la città gridaron tutti, Ch'à la Reina fosse il Meschin dato In pregio di sue opre, e santi frutti Per marito, perche poi quello stato Non poteua temer d'amari lutti; Ma'l pensier del Meschin non era quello. A' cui fu fatto un trionfo assai bello. Egli passate le gran feste uolse Messer Branditio incoronar del Regno, E fe che la Fanciulla se lo tolse, Scusandosi egli, e mostrando il disegno Da lui fatto più dì, donde si dolse La Reina, & ogn'un; ma per dar segno Di grand'amor la Reina acconsente, Perche'l Francioso era anco assai ualente. Stè poi due mesi, à partirsi'l Meschino, Tanto, che'l Regno fu ridotto in pace; Fè battezare ogn'un grande, e piccino, E di Dio posti ne la fe uerace. Volse poi seguitare il suo camino, La Reina, che uede, che gli piace Partirsi, gli prouede di due guide, C'hauean molti linguaggi, accorte, e fide. Erano stati in India, e san parlare Di quei linguaggi, e uolentier le prese; Il Re Messer Branditio uolse andare Seco con gente; ma egli i lcontese. Tutto'l popol commosse à lagrimare, Quando la sua partenza chiara intese. Or'il canto è quì giunto al suo finire, Poiche'l Meschin ha fatto uia partire.

IL FINE DEL CANTO NONO.

INfondi alto Monarca e senno, e uita, Si', ch'io supplisca à fug gir l'otioeterno Deh Signore apri la strada impedita, Prendi tu cura al corporal gouerno, Scaccia da me la miseria infinita, Che fa, che'l febeo raggio non discerno, Che s'io date non son tratta di stento Al pelago, in ch'io son, mi passa il mento. Quanti spirti gentil, quant' alti ingegni, C'haran' del bel discorso la uia chiara Sento già dire, in uan sì bei disegni Prendesti, hauendo uita tanto amara, E temeraria mi diran, che i segni Credea passar di questa sorte auara; Pur merta qualche scusa il fallir mio, Poi ch'io nol so senza sperare in Dio. Giunto il Meschin al Caspio mar, trapassa La montagna d'Aronte, e ne la cima D'Arantes la Città ueder non lassa, E Samurà, che con Media uicina, Che l'una, e l'altra er' abbondante, e grassa; Poi le montagne di Media declina, E uede un fiume chiamato la Sonda, Che di molte montagne e d'acque abbonda. Indi è Sinica fredda, donde uiene Il gran fiume chiamato in quel paese Bausticone, e'l Regno in se ritiene Di quà dal fiume tre Città distese, Disse la guida, e così ti conuiene Vederle, nè ti basta hauerle intese; Or' odi, com'il nome lor si spiana Ortorecora, Orsona, con Selana. Gli abitator di questi tre Reami Son'huomin di statura grandi, e rossi Di carnagione, & hanno assai bestiami Dimestichi, però giudicar possi, Che l'aer con dolcezza il paese ami Per esser, com'ho detto, grandi, e grossi. Nasceui molta seta, e grano in copia, Nè u'han di cosa à i lor bisogni inopia. Buoi, e caualli è la lor mercantia, E de la seta fanno tal racolta, Che ne forniscon tutta la Soria Per il mar Caspio, e così uanno in uolta. Al Meschin manco incresceua la uia Sentendo ragionar; ma pur con molta Noia salir di Cornes le montagne, Che scoprono di là noue campagne. In mez'à l'Alpe trouaro un castello Di Bersaricche posto nel confino Chiamato Castel sano, e presso à quello Passaro; dipoi preser'il camino Giù per la ualle, e giunser'in un bello, E spatioso piano, ond'al Meschino Volt'una guida, disse, in Persia siamo, Nè per due dì Città trouar possiamo. Parthians noua si chiama tal parte, Solta è quella Città, che dè trouarsi, Regn'è di Persia; ma molto in disparte, Però che quì comincia à principiarsi; Conuien, come sei giunto, appresentarte Al Re, che fa Pacifero chiamarsi, E' tal paese sottoposto al segno Di Scorpio più, che nessun'altro Regno. Questo disser le guide, poscia entraro Dopo i due di ne la Città predetta, E dinanzi al suo Re s' appresentaro; Ma per le strade uider gente in Setta, Che'l Meschin per miracolo guardaro, Anco al Re molto uederlo diletta; Non sà se maschio, ò femina gli pare, E da le guide sel fe dichiarare. Al Meschin, che l'intese s'inuermiglia La faccia d'onestissima uergogna, E disse, alzando uerso lui le ciglia, Io maschio son, poi che dirtel bisogna; Il Re di sua beltà si merauiglia, E già di brutto uitio seco agogna Di tentare il Meschino, e nel palagio Stanza fe dargli, oue stesse con agio. E poi la sera uolse, ch'egli andásse A' cena seco, e fu sopr'un tappeto Disteso in terra, e tal fu la sua asse; Ma quel lusserioso, & indiscreto, Senz'aspettar, che più'l Meschin cenasse, Per man'il piglia, e con atto inquieto Lo sfrenato desir gli fe palese, Ond'il Meschin di colera s'accese, E se nò, che le guide fanno scusa Del paese, ch'è sotto à cotal segno, Haurebbe già quella cena confusa, Pur dimostr ò d'hauerlo forte à sdegno; Il Re si ferma, e con la bocca chiusa Stassi, ueggendo'l tanto d'ira pregno, E la cena hebbe fin senz'altro dire, Cosi s'andaro à la fine à dormire. Il Re per tema, ch'ei non si partisse Leuatosi per tempo il dì seguente, Trouò't Meschin, e pregando'l gli disse, Ch'à sua presuntion non ponga mente, E che più non uedrebbe, ch'egli ardisse Far simil' atti, e tanto acconciamente Fa la sua scusa, che'l Meschin gli ammette Quante parole in suo fauore ha dette. E seppe tanto far prima, c'hauesse Postesi l'armi in dosso, che parlando Di camera il condusse, oue potesse Poter ben di lui fare il suo comando; Prima gente ordinò, che gli tollesse In questo mezo l'armi, sì che quando Pensa in dietro tornar, fu circondato Da un forte squadrone, e bene armato. Ne la sala Real, com'un ladrone (Però, ch'armi non han con che s'aiti) Fu menato, pensando ire in prigione; Ma poi uede molt'altri compariti, E uede, che dinanzi gli si pone Vna fanciulla da coloro usciti D'una camera, tra molte donzelle; Tutte assai nere; ma del resto belle. Vn dolce tradimento, un dolce inganno Volto al Meschin, il Re disse, uo farti, Perche questi paesi miei non hanno Nessun, che di beltà possa agguagliarti, Io uo far quel, che glialtri Re non fanno, Però sarai contento accompagnarti, Per moglie quì uo darti la mia figlia, E farti primo tra la mia famiglia. A' cui diss'il Meschin, nol farò mai, Ch'io uenuto non son per quest'effetto, Il Re disse, per forza lo farai, Se no'l fai per amore, io ti prometto, Dicean le guide, Signor tu potrai Lassarla sempre, fa quel, che t'è detto, Se non rimedio al tuo campar non ueggio, Però de i due partiti lassa il peggio. Veggendo pur, che consentir non mostra, Di morte il Re crudelment'il minaccia; Dopo tua morte, seguirà la nostra, Diss'una guida, mezo morto in faccia. Il Meschin disse, per causa uostra, E per non ui far mal, conuien, chi'o faccia; Così mal uolentier la rifiutata Donna restò dal Meschino sposata, Non fu per questo il Re fuor di sospetto, E tanto più la sua partita teme, Che non sà quel, che le guide habbiã detto; Ma pur ueggendo, che'l caso lo preme, Deliberò farlo pigliar nel letto Mentre, ch'ei dorme, con le guide insieme, E così fe, ch'à pena erano entrati Nel primo sonno, ch'e' furo assaltati. Al Meschin tolser prima le difese De l'armi, e così poi lo fer prigione; La noua sposa il caso bene intese, Delquale haueua gran compassione, Verso del qual'hauea le uoglie accese, Che uenir fan quel segno di Scorpione, E parle esser gabbata, che'l marito Dal padre sia condotto à tal partito. Era il Meschin in un fondo di torre Statoui già due di senza mangiare, Ne l'altra stanza fe le guide porre Il Re, che seco non possan parlare; Ma pur fuor di prigion fur fatte sciorre, Imperò, che ben sepper cicalare. Il Meschin'era già dimenticato Da tutti, hauendo due dì digiunato. Ma ben con la sua dolce, e cara madre La noua sposa si lamenta, e dice, Che uoglia tanto impetrar da suo padre, Ch'aiutar possa lo sposo infelice; Fur sue parole sì giuste, e leggiadre, Che'l padre al suo uoler non contradice, De la prigion le fece dar le chiaui; Ma non uuol già, che di là dentro il caui. Dicendo, fa mia scusa, ch'io nol lãsso Vscir, però, ch'io temo sua partita; La fanciulla n'andò più, che di passo, Portando seco da tenerlo in uita, Che per la fame era fatto sì lasso, Ch'era mancata sua uirtù gradita, Et s'era già con Dio tutto rimesso, Conoscendo sua morte esser' appresso. Vna finestra aprì, che rispondeua Nel fondo de la torre, la dolente Fanciulla, laqual già seco temeua Di non trouarlo de la uita assente; Poscia il mangiar, che portato gli haueua Gli porse in un paniere acconciamente, E con parole dolci lo conforta Chiamandolo sua uita, e chiara scorta. Posto s'era à mangiar quelle uiuande Il buon Meschin, che'l bisogno uel tira Nè à cosa ch'ella parli, ò che dimande Le risponde egli, nè punto la mira La fanciulla pur dice l'amor grande Ch'ella gli porta, e che per lui sospira Ma pur parendole esser disprezzata Di quiui si partì mezo adirata. Laltra mattina à se fece uenire Vna di quelle guide, e gli racconta Com'il Meschin non l'ha uoluta udire Egli ridendo disse, non si conta Per merauiglia, quel ch'io sento dire Ch'ei la mente non ha già sì disgionta Che'non apprezzi uoi, che siete il fiore Di quante donne mai sentiro Amore. Non intende il parlar, dunque è scusato Per esser forestier, come sapete E questo ui sarà certificato S'un di noi à parlargli condurrete E troueretel sempre apparecchiato E pronto à far di lui quel che uorrete Piacque à la danna il parlar de la guida E tutta nel conseglio suo si fida. Fa portar da mangiare à certi serui Che menò seco, e con la guida gionta A la prigion, dice, Dio ti conserui Al suo Meschin, che con la uoglia pronta Pur la dispregia, che i pensier proterui Suoi, mal con questo nouo amore affronta E delibera porsi in abbandono Nè di parole le mostra alcun sono. Tu uedi, uolta à la guida diceua Egli non mi risponde in alcun uerso Allor (la guida dice) ò Signor leua Questo pensier, che quì ti tien sommerso; Il Meschino acramente si doleua Seco del suo destino, e caso auuerso Dicca la guida, buon uiso le mostra Che quì consiste la salute nostra. Io la uorrei ueder mangiar da i cani Il Meschin dice, ma se fuor con uita Scampo, e con lìbertà de le mie mani Farò uendetta di questa infinita Miseria, e di costumi sì uillani E farò che mai più sarà tradita Dal falso Re persona, che per sorte Venga di nouo à uisitar sua corte. La Fanciulla domanda, ciò c'ha detto Che sì lungo parlare insieme han fatto Disse laguida, ei dice c'ha sospetto Sempre di mal, fin che fuor non è tratto Per questo, al tuo parlar non pose effetto Deh, gli diss'ella di quanto gli ha fatto Mio padre, dì, ch'ei non si pigli affanno Che nõ gliè per tornare oltraggio, ò dãno. E digli, ch'ogni minimo suo male Sarebbe la mia morte aperta, e chiara E pregal, ch'ei mi dia qualche segnale Ch'egli con me non tenga alcuna gara Di quant'io l'amo, e s'esser micidiale Di me non uuol, che faccia manco amara Questa misera uita; e in somma faccia Ch'io mi possa posar ne le sue braccia. La guida il tutto dice al buon Meschino E'l Meschin, gli risponde ogn'hor piu duro Ma pur per allargar sì stran confino Dice, e per darci luogo più sicuro E per poter seguire il mio camino L' animo fin ad hor mio casto, e puro So contento à chinar, poi che uuol sorte Che mi minaccia d'oltraggiosa morte. Dunque, rimanti seco, e non ti doglia Che l'huom di questo non porta uergogna Volto à la donna, dice, la tua uoglia Contenta seco, quanto ti bisogna Ch'egli è contento, e così de la soglia S'uscì, lassando lei, che tanto agogna Far la pace carnal, se per lei tiene Riceuer il Meschino oltraggi, ò pene Partitasi la guida, la figliuola Del Rè dal grand'ardor spronata, e uinta Ancor che non s'intenda in lei parola Diede opra, à seguitar la sua non finta Voglia, et abbraccia al Meschin suo la gola Ma ben che freddamente fosse cinta Da lui nel mezo con le braccia; fece Quel che stimar si può, ma dir non lece. E presa poi maggior dimestichezza Tornar più uolte, à i dolci abbracciamenti Ne la fanciulla si uedea bellezza Se ben son i colori alquanto spenti In lei, perche sbandita è la bianchezza Di quel paese, in tutte l'altre genti Ma per conchiuder dico finalmente Ch'ella d'un figlio grauida si sente. Tornossi à la sua stanza, allegra, e piena D'un cocente desir di trarlo fuore De la prigion, laquale haueua piena Già d'ornamenti, da real Signore Ordinogli la sera ben da cena Ch'ogn'hor più cresce l'amoroso ardore E le guide, la stimolano ancora Che uada al padre, e lo faccia trar fuora, A' la Reina madre, che l'amaua Spesso ne parla, ond'ella ch'altra figlia Nè figlio non hauea, desideraua Di questo contentarla, e'l tempo piglia Ch'il Re senza pensier, folingo staua Tutto giocondo, e con allegre ciglia E giunta à quel, disse, consorte caro Ascolta di tua figlia il pianto amaro. Con paterna pietà quindi l'accoglie Dicendo, dì pur figlia il tuo pensiero Ella con tal parlar la lingua scioglie Dicendo, tu m'hai dato un Caualiero Per mio marito, e per ch'io sia sua moglie Na non so se tal fatto è finto ò uero So ben ch'appena non uidi il suo uolto Che l'hai fatto prigìone, e me l'hai tolto. M'hai mostro il dolce, e poi mi dai l'amaro A lui prometti pace, e gli dai guerra Destimel per marito, e l'hebbi caro Ma non perche'l mandassi sotto terra Non m'esser padre di tal gratia auaro Liberamel di là, doue si serra O se ti piace pur suo stratio, e morte Fammi il tutto patir col mio consorte. Erasi posta in terra, in ginocchione Dinanzi al padre, e da gliocchi uersaua Lagrime in copia, tal ch'ogni Barone Per la pietà con essa lagrimaua Il padre uinto da giusta cagione Disse à tua posta di prigione il caua Subito menal quì, ch'io uo che giuri E che di non partirsi m'assicuri. Fu cauato il Meschino, e fu condotto Al Rè, che prima hauea fatto uenire Vn suo Cadì, ne la lor fede dotto E fegli innanzi i sagri libri aprire Il Meschin ui giurò senz' altro motto Ma non pensaua gia poi d'obedire Tal giuramento, perch'egli non crede In Apollo, ò Macon de la lor fede. Giurato c'hebbe, il Re perch'egli stesse Più uolentier, di tutta la sua gente Il fece Capitan, di poi l'elesse Re, dopo la sua morte incontinente E comandò, ch à quel ch'egli uolesse Gli fusse ogn'un de' suoi ubidiente E per le noue nozze molti giorni Festa fe far per tutti i suoi contorni. Sì, che'l dominio in poco tempo tolse Sopra la gente di guerra, e di pace Che così il Re per suo contento uolse Per dargli sicurtà maggiore, e pace Ma nel segreto il Meschin non si stolse De l'alta impresa, se ben seco tace Et à la fine, à i Median l'ha detto Poi che'l Re uede star senza sospetto Le guide esser parate al suo uolere Dicono, e nel camin parlano spesso Dicendo che bisogna prouedere Prima ch'in tal camin si fosse messo Che diece dì da mangiare, e da bere Non troueran pel camin, che concesso Da lana tura, à quel paese è stato Non ch'egli sia di tanto ben dotato; Dicea'l Meschin, lasciate à me il pensiero Che ben prouederò di uettouaglia E di tutto ch'à ciò farà mestiero Prima che'l Sol tre uolte al Polo saglia E se segretamente, di leggiero Far nol potrò, per forza di battaglia Ciò ui prometto far, perch'io non posso Tener, quand'ho la spada, e l'armi indosso. Così dopo tre mesi, c'hauean perso Quiui di tempo, in sù la meza notte Quando ogn'uno era nel sonno sommerso Fur da lor tre ne la stalla condotte Le uettouaglie, e dato modo e uerso Che da nessun non gli sien lor opre rotte Carchi i miglior caualli de la corte Vscir de la città fuor de le porte. Stauan le porte aperte, com'il giorno Però ben lor successe, ogni segreto Et uerso l'India in fretta caualcorno Quanto poteuan costeggiando drieto Al monte Masdron, e girando intorno Nel far del dì, s'accorse'l poco lieto Re, con la figlia, che n'hauean sospetto Non trouando le guide, e lui nel letto. Fece cercar per tutto, e fatto chiaro Fecesi armare, e caualcare ancora Cento de'suoi con seco, e con amaro Pensier lo seguitò, correndo ogn'hora Fin che scoperse da lontan, chiraro O non mai teme,, quand'è liber fuora A' la campagna, onde le guide accorte Ecco il Re, disser, che uuol darci morte. Disse il Meschino, or posso uendicarmi Di quante ingiurie, e quanti tradimenti Riceuuti ho, però uiene à trouarmi E uoi non siate al uostro camin lenti Ch'io uo ueder se forz'haran quest'armi Di far, che d'ogni mio scorno si penti Disser le guide, seguitate poi A piè del monte, e trouerete noi. Così le uettouaglie innanzi messe Fur da le guide, e'l Meschin si rassetta La lancia in mano, e fin che'l Re giugnesse Aspettò, che ueniua con gran fretta Prima che'l Re per giostrar si mettesse Dissegli un seruo, il tuo nemico aspetta Per Dio Signore accetta il mio conseglio Tornati à dietro, che per te fia meglio. Io son d'Arabia, e ben conosco il modo De i Caualieri Arabi, e Turchi, e Grechi Che mai per aspettar, pongono in sodo Che'l cor feroce à questo non gli rechi D'Italiani ancora à questo modo Molti ne uan pel mondo, e non son ciechi Tanto de l'intelletto, che potendo Non odiassero il male al men fuggendo. Ma il sentirsi potere apertamente L'impeto sostenere, e uincer'anco Come d'ingegno, e d'animo potente Fa, ch'egli si dimostra ardito e franco E s'affrontare il uuoi, fa che di gente Ch'adietro uiene, al men non uenga manco Fuss'io pur giunto, il Re gli fa risposta Com'io potrò uendicarmi à mia posta. Al fin ui giunse, e con la lancia bassa Grida al Meschino, ancora à la campagna So castigar chi l'ordine mio passa E so far dare i tordi ne la ragna Disse il Meschin, non fare ormai sì grassa Questa brauata, che quì si guadagna Manco che tu non credi, che spogliato Nõ m'harai sempre, per ch'io sono armato. Poser fine al parlar, perche'l furore Del Re Pacifer troppo innanzi scorre Dà di sprone al cauallo, al cui tenore Il simigliante corso al suo fe torre Il Meschin, che non è men corridore Ecco che basse cominciano à porre L'ingorde punte de le lance, e quelle Trouar le piastre per passar la pelle. Resse à lo scontro il ben ferrato scudo Del Meschin, come piacque al giusto Dio Ma'l suo, fu uers'il Re molto più crudo E fe contrario effetto al suo desio Ch'una spalla passar dal ferro ignudo Sentissi, che di dietro un palmo uscio E restouui il troncon, nè più ui bada Il Meschin, che già presa hauea la spada. E mette in rotta quei, ch'à poco à poco Erano giuntì al Re l'un l'altro doppo Ogn'un si tolle dal sanguigno gioco E guariscono i pigri del gir zoppo A tal, ch'in un momento, come il fuoco Fugge la Volpe, e'l Lupo, così il troppo Ardir del buon Meschin, fuggon coloro Che troppo presso ueggono il martoro. Non seguita il Meschin, chi fugge e torna Dou'era il Re, dicendo tu m'hai fatto Sì graue scorno, che come si scorna Vo ch'à tue spese impari questo tratto E con la spada addosso gli ritorna E gli fe dare al fin l'ultimo tratto Nè giù sì tosto in terra cascar fallo Ch'egli cambiò con esso il suo cauallo. Tols'il caual del Re, ch'era migliore Del suo, e segue la sua compagnia Fu ricolto di terra con dolore De' suoi il Re, che stimauan pazzia Il Meschin più seguir, nè lor dà il core Farglisi incontro ad impedir la uia Onde poi la città s' empì di pianti E la corte del Re d'oscuri manti. Rimase sconsolata la fanciulla Pensando al caso non pensato e fiero Così dicea tra se, così s'annulla La fida sposa, falso Caualiero Ma quel destin, ch'è dato da la culla Non passa senz'effetto di leggiero Ma se mio padre tanto in odio haueui Me, che ti fui fedel, menar doueui. De la morte, c'hai data à lui, mi doglio Ma lecito ti fu per tuo men danno Io morrei uolentier; ma uiuer uoglio E perch'il facci, sol li Dei lo sanno Graue di te rimango, ch'al cordoglio Ch'io debbo hauer mi fa minor l'affanno A qualche tempo, per tal mezo un giorno Potresti à la tua sposa far ritorno. Pensaua questa misera Donzella Per qualche uia fargli saper poi, come Fusse nato il figliuol, questa, nouella Ben che per doglia si strappi le chiome In capo d'otto mesi, d'una bella Creatura infantossi, & hebbe nome Pellione, e fu bruno, e fu maggiore Del padre, e forte, e di feroce core. Il Meschin giunse sempre costeggiando Intorno à i monti, à le lasciate guide Vennero insieme ad un fiume arriuando (Aris chiamato) grande, che diuide L' Alpe, dette Sarip, lequali stanno Con Corones congiunte, onde le fide Guide, disser, quel fiume si distende Nel Regno Stupri, e Tabiana fende. Il Regno Tabiana fende in cerchio E nel Regno di Stupri, poi ritorna Va sotto terra, che gli fa coperchio Brombas montagna, et altri Regni adorna Esce in Suascona, e non mi par souerchio Narrar, com'à la fin, dipoi s'informa Muta in Suascona nome, che uien detto Coas, poi tornano otto in un sol letto. Si congiugne à la fin con sette fiumi E tutto insieme da la Persia parte L'India, che ingrossa come fan più lumi Congiunti insieme, e in separata parte Pindus, Indus, si chiama. Or che i Lacumi Trouano, un Median, ch'era in disparte E forse cento braccia innanzi andato Da un grande animal fu assaltato. Vscì d'una gran macchia, folta, ch'era Vicina al fiume Arich un trar di mano Com'un grand'Elefante, e questa fiera E col cauallo uccise il Mediano Il Meschin, che ciò uede, si dispera Che'l suo soccorso uede tardo, e uano Pur da cauallo smonta, perch'ei teme Più del cauallo, e più di quel gli preme. Mentre ch'à diuorar la fiera attende La fatta preda, il Caualier s'appressa E con tal colpo la lancia distende Che la Fiera passò tutta con essa L'aste quel animal con bocca prende Ch'era dentro à le guance molto fessa Et in pezzi la ruppe, non di manco Il troncon non potè trarsi del fianco. E dal nouo dolor, che la martira Mettesi in fuga, ma non le riesce Molto la corsa, on'il Meschin con ira Segue correndo il mostruoso pesce, Al fin lo giugne, e con la spada tira Col solito ualor, che di lui esce E le gambe di dietro in modo intacca Che dal gran busto, quasi gliele stacca. Rimase morto l'animale strano A uederlo il Meschin fermasi, e troua Che ha pelo asinino, e poi con mano La testa e'l muso, maneggiar li gioua Cinque palmi ha di grugno e non lontano Il fesso de la bocca, che gli schioua Da gli orecchi la troua; e così'l resto Si confaceua di grandezza à questo. Altro fiume, che questo fuor non manda Quest'animale, in solito e bestiale L'altra guida diceua, e in fuga manda Il caual, quì bisogna metter ale Dice al Meschino, & egli, li domanda Qual paura sì subito l'assale Guarda dic'egli, s'ho d'hauer spauento Che ce ne uengon sopra più di cento Con prestezza il Meschino à caual monta E con la guida da lor s'allontana Che nel taglio fidarsi, e ne la ponta De la sua spada gli par cosa uana La fretta del fuggir, far tanto pronta Bisognò, che da tanta furia, strana Non poteron campar le uettouaglie Nè de ilor cariaggi, le bagaglie. E per due dì, continouando forte Di caminare erbe e frutti saluatichi Furo i lor pasti, per campar da morte E fu forza al dìgiun, diuentar pratichi Pur à la fin s'abbatterono à sorte In tra certi pastor, mezi lunatichi. Pur dieron lor del pane, e de la carne Tanta, che ben si poteron satiarne. Quei pien di merauiglia, e di stupore Com'il Meschin sia giunto in simil parte Stanno tra lor gli facean grande onore Quanto sapeuan far, ben che tal'arte Non sia usa tra lor, pur, fu maggiore Che'l Meschin non pensò sendo in disparte Del conuersare uman; & al Meschino Mostrauano per cenni, il buon camino. E l'inuiaro, doue un lago posto Era in un pian, d'acqua dolce perfetta Ilqual dipoi trouò poco discosto Intorno al qual, con la guida s'assetta A' rinfrescarsi, che sì caro il mosto Non saria loro, onde il Meschin con fretta L'elmo cauossi, empillo; e bebbe tanto Che la sete crudel mandò da canto. Bagnossi il capo, e le man d'allegrezza Lòdando Cristo di sì largo dono E resa al corpo l'usata fierezza, Presero quel camin, ch'à lor piu buono Parue, e andando con molta prestezza, In un fiero leon dati si sono, Ch'al lago in sù quell'hora à ber n'ãdaua, Onde il Meschin fuor la sua spada caua. E smontò da caual, come s'accorse Il leon, che'l Meschin uuol far battaglia, Con gran furor le branche innanzi porse, E uerso il buon Meschin fiero si scaglia, Se ben co i denti, e con le branche torse Alquanto l'armi, non però le taglia, Perche la tempra loro è sì perfetta, Che'l Meschino saluar da tanta stretta. Staccandosi il leon per far la presa Miglior, fu dal Meschin da una ponta De la spada passato, ei con accesa Rabbia, di nouo il Caualier affronta; Ma egli tosto la spada ha distesa, E gli spacca la testa, onde la pronta Forza, c'hauea'l leon giù cadde à terra, Et al Meschin lasciò uinta la guerra. Dopo quello scontrò un liocorno; Ma non gli fece il Meschin dispiacere, Però, ch'andaua al detto lago intorno, Com'era usato sempre andarui à bere; Con quattro leoncini poi scontrorno Vna gran leonessa, quest'hauere Volse battaglia, e ne restò perdente, Che ui rimase morta incontinente. Nè per quel dì trouaro chi gli desse Altro fastidio, & essendo già sera Il Meschino, e la guida oltre si messe Per ueder d'alloggiar, se luogo u'era, Nè bisognò, che molto distendesse Il camin, che trouò ne la riuiera D'un'altro lago, una ulla capace, E si passar per quella notte in pace. L'altra mattina, non molto lontana Trouaro una Città, Sotora detta; Quiui gente abitaua assai umana, Nè gli fu da nessun punto disdetta L'entrata, ancor, ch'à lor paresse strana Cosa, uedergli correr con gran fretta Per rimir arli, e lor fer grand'onore, Che'l Meschino stimaron gran Signore. Ma crebbe assai maggior la riuerenza, Quando la guida fecelor sapere, Che'l Re Pacifer lor nemico, senza La uita ha fatto il Meschin rimanere; Per questa noua gli deron licenza, Ch'ei di lor faccia quanto è suo piacere, Son questi huomini forti, e sono bruni, E manco di grandezza, che communi. Tre dì ui stè'l Meschin, dipoi partissi Di tal Cittade, e gli fu dato prima Vn'altra guida, con laqual seguissi Più sicuro il camin, che fare stima. Dissegli l'altra guida, io non ui dissi Di tal paese dal piede, à la cima, Cubinar questa Regione è detta, Sonui molte Città, ciascuna eletta. Aras è l'una, e segue dopo questa La arida Alessandria, che fu fatta. Da Alessandro Magno, e dipoi resta Taueciana, Arcana, al uiuer atta, Badassar, Butadana, e se la sesta A' dimostrarmi il uer punto s'adatta, Restane quattro, l'una è Bitignana, Iubibus, Sotorà, Ciura, e Basana. Disse il Median, ch'egli l'hauea cercate, Così parlando arriuaro a i gran monti Detti Barombas, e in tre dì passate Furo da lor queste montagne, e gionti Al calar de le spiaggie, che uoltate Stauan di là, prima che giù si smonti In tutto, al Meschin disse il Mediano, Vedi Signor discosto quel gran piano? Quello è quel fiume, ch'à dietro lasciamo Chiamato Daria, e questi monti passa Di sotto terra, à tua posta caliamo, Che poco di tal parte à dir si lassa, Però, che in Indià pian pian n'appressiamo. Doue tal fiume il primier nome lassa, Non più Daria, ma Indio uien chiamato, Ora, che sotto i monti uien passato. Tutta la terra dou'il fiume bagna Verso Leuant'e la Tartaria ghiaccia India la grande col nome accompagna, Nel qual paese conuien, che tu faccia Molte giornate, ond'il Meschin si lagna Di tant'impresa seguitar la traccia, E sopra'l destro piè fermossi alquanto, E poi uoltossi intorno d'ogni canto. E squadrato il paese si riuolta Al Mediano, e dice, che ueggh'io? Sù la man manca, quella sì gran folta, Son nuuole, ò son monti? perche'l mio Giuditio, col ceruel già dà la uolta, Disse la guida, tosto il tuo desio Sodisfarò, monti Masarpi sono; Ma pur'aspetta quel, ch'io tiragiono. Noi non debbiam passar per quella parte, Perche son luoghi frigidi; la uia Nostra è nell'altra man, molt'indisparte, Là doue il caldo ha maggior Signoria; Quel giro di montagne, oltre comparte, Et ha principio à l'erta Tartaria, E nel mar Caspio à terminar poi uanno, Nè montagne sì grandi al par non hanno. A tre giornate sono appresso, doue Di tre giri di monti fe serrare Alessandro la bocca, che con proue Miglior, non seppe i Tartari domare, Or e'è qualch'un, che certo dubbio moue, Che de Giudei diece tribu murare Vi fe; ma non s'accordano al sicuro, Perch'à i suoi tempi i Regni lor non furo. E per dir meglio, molte centinaia D'anni, Alessandrò fu pria, che gli Ebrei Regno tenesser, come par, ch'appaia In altra parte, che ne i detti miei; Ma Tartar'furo, e de gli Ebrei è baia, Ben'è uer, ch'Alessandro da gli Dei Volse saper, chi per maggior s'appelle, Il Dio, gli fu risposto, d'Israele. E la notte seguente in uisione Gli apparue il Padre eterno, e Dio uerace; La mattina seguente in gìnocchione Tentar uolse, e ueder quanto uiuace Fosse il suo prego, e fe quest oratione; O d'Israele Dio fa, s'ei ti piace, Se sopra tutte l'opre tue son magne Comanda, e fa serrar queste montagne. Onde Dio per mostrar, che onnipotente Era sopra la terra, e sopra il cielo, Fece serrar quei monti immantinente Sol per leuargli d'ignor anza il uelo. Di tal montagne nascon similmente Molt'altri fiumi, & è tanto il mio zelo Di dirti queste cose, ch'io non guardo, S'io son prolisso, ò nel diffinir tardo. Dì pur, diss'il Meschin, ch'altro conforto Non ho, nè chi'l camin più leggier facci, Però non badar più se lungo, ò corto Questo tuo ragionar meco ti facci; Diss'egli, poi che quest'ardir m'hai porto Seguirò senza tormi tali impacci, Dirò de i fiumi grandi, e piccolini, Che sonde i Regni termini, e confini. Però de le Montagne, c'ho narrate Oltre à l'Indo, esce Sarnacos pur fiume Suastene, e'l Regno là dou'or a andate Indos uien poi, che lassa per costume Viuer d'odor di pomi le brigate, Et è tal uita à tutti lor commune, Però tal Regno, Pomadas si chiama, Nè più tranquilla uita iui si brama. Vn'altro Regno, che di là poi uiene Casperio è detto, che'l confino stende Per fino al fiume Sardabal mantiene, Varan poi segue, pur fiume, che prende Fino al fiume Bibans, or mi conuiene Dir quanto di tal fiume se n'intende, Perche congiunti insieme Isola fanno, Poi tutti in un camino insieme uanno. Di là da Bibans segue Zilidina Pur Regno, e fin'à Dimuas arriua, Fiume anche questo, con loqual confina Vn gran paese, oue persona uiua (Perch'è deserto) mai non ui declina; Di là u'è'l fiume Gionzes, ch'in la riua Del mar si cala, ch'Indicos si dice, Or'odi qual paese e'l piu felice. Tra Indicos, e Cancer, i migliori Paesi d'India sono, e questa parte E' di quell'una, doue or tu dimori, E come tu cominci à lontanarte, Vscirai sempre di questo più fuori Verso Parisca, conuiene appressarte, Che uien tra India, e Cancer l'altro Regno Sardapora, tra terra uiene à segno. Quel, ch'al monte Masarpia uiene appresso, Cilidia ha nome, in questo non andiamo; Or tra Cancer, & Indus fiumi, è messo Il Regno d'India; ma nota, ch'io bramo Nararle chiar, Masarpia prima ad esso Si troua, & à Masarpia di quà siamo; Di là da India uà uerso Leuante Cancer, e scorre quel paese innante. Et Indus uerso Persia si riuolta, E da l'entrar, che tai fiumi in mar fanno V'è cinquecento miglia, e doue tolta Ciascun d'essi la uolta d'insieme hanno Son mille miglia, e non è però molta La distantia, là donde insieme uanno In India (intendi ben) dou'ogn'un piglia La uolta, perche u'è cinquanta miglia. Tra tal mezanità di questi fiumi Tutta la nobiltà d'India ui siede Mercanti sono, e di ciuil costumi, Trafican spetierie, come si uede; E perche manco tempo io ci consumi Basti à dir, c'huomin sien di molta fede, Gli abitati lor Regni uo mostrarti Più breuemente, ch'io potrò narrarti. Di uerso Persia Albaonas, pur Regno, Largoas, Biruas, al mar di Leuante Vicini, e'l Regno Tauri à quel segno Meduras, Arcufà, poco distante, E' tal Regno Arcufà quasi'l più degno, Per una gran Città, che passa auante, Col medesimo nome, & è la prima Sedia de l'India, e in maggiore stima. Di queste maggior parte ne uedrai (Diss'al Meschin la guida) ond'egli forte Sospirando rispose, uedrò mai La fin di tal uiaggio? per sì torte Vie, mi conuien cercar quel, ch'io pensai Breuemente trouar; ma se la morte Non s'interpone à tanta giusta uoglia Seguitare oltre uo, segua che uoglia. Non ti doler Signor, disse la guida, Che'l più forte è passato, or segue il buono Camino, ei luoghi sol, doue s'annida, E si stà uolentier, che tutti sono Abitati paesi, e ui si fida Ogn'un, quiui natura ha posto il dono Di gran ricchezze, e tante spetierie, Che uan pel mondo da diuerse uie, Quiui l'Indico mar, quiui Plobana Isola, Reuca, e'l monte Tigrisonte Vedrai, là doue è l'Idolatria uana, Che uai cercando con le uoglie pronte, Gli arbor del Sol, quantunque cosa uana, E de la Luna uedrai sù quel monte; Potrai per altra uia poi far ritorno, Che uedrai più d'un bel paese adorno. L'India abitata, e la Persia uedrai, Così l'India minor, prima l'Egitto Sia che accidente uuol, che tu n'harai Assai più gran piacer, ch'io non t'ho ditto; In Soria dopo questo n'anderai, Nè più, nè men, com'io te l'ho descritto, Il Meschino, che l'ode, si conforta, Poi che sì bene il Median l'esorta. E con questa ragion, calaro intanto La gran montagna, e'n Suastene pronti, Lassando il monte Barcombas da canto, Sì che uerso Leuante erano gionti, Però uadano pur, che questo canto Non mi concede, che più ne racconti, Et io lassato questo, seguir uoglio Se'l potrò fare, e dirne, com'io soglio.

IL FINE DEL CANTO DECIMO.

LA man de la tua gratia, e la dolcezza, Che danno i prieghi al tuo fattor per noi, Miseri peccator, Donna, bellezza Del ciel, contento, & pace de li tuoi Deuoti, porgi à la mia uil bassezza, E fammi acquistar Vergine, che puoi Intelletto, e fauor, perch'io non resti Ne l'otio immerso, e che mai più mi desti. Io fol ne la tua gratia mi confido Seguendo com'in capo dì tre giorni Del fiume Tebas, giunsero nel lido L'altro dì uider, come son due corni Torcer due fiumi, con superbo grido E congiugnersi insieme in quei contorni Così di due fatti uno, e poi chiamato Indio, che uuol dir due in un tornato. Et India, similmente in due partita Altri dicon per Indos Re si chiama Così, che fu suo Re, ma la più trita Ragion si tien come n'è chiara fama Che col raggio del Sol piu presto unita Si troua ch'altra parte, ond'ella brama La notte più che'l giorno, che ui sface Gli abitator com'un'accesa face. La chiaman gli Affricani India minore Perche d'Africa e'l capo, e gente nera Et hanno il prete Ianni per Signore Che la più parte di tal terra impera Consumando in parlar la strada, e l'hore Son già del Nilo sopra la riuiera Disse la guida, in quel paese affronte Vi sono region ch'io non u'hò conte. De le quai, due ue n'è, ch'io l'hò già dette Che sol d'odor di pomi son nutriti Nè alcuno à mangiare, ò ber si mette D'altre uiuande, ò far altri conuiti. Poi trouar genti pastorali inette Che stanno sempre à discoperti siti Trouaron anche molte città guaste In preda à Serpi, à Leoni, à Ceraste. Diece giorni seguir sempr'il camino Per tai paesi, per fin che trouaro I Monoculi, c'hanno sotto il crino Vn occhio solo, e con quel ueggon chiaro Gran caldo già ui sentiua'l Meschino E quanto andaro più, più lo trouaro La guida tutta uolta fa la scorta Passand'innanzi, e'l buon Meschin conforta Ma di conforto bisogno, e d'aiuto Hebbe egli al fin, perch'innanzi à la uia Vn cento braccia sendo peruenuto Sente un gran uento, ne sa quel che sia Soccorso chiede, e per tem'è caduto Già da cauallo, per grand'albagia Ma subito un Grifon col fiero artiglio Vi giunse, & al caual diede di piglio. Squarciolli cõ l'unghion la schiena e'l uentre E cominciossi à pascer de la carne Il Meschin, ch'appressato era già mentre Di tanto danno non puote altro farne Ma pur conuien, che seco'l Grifone entre A far battaglia, ma prima cauarne Ne uolse il suo cauallo, e già ne scende Et aspra zuffa poi con esso prende. Com'un Drago l'uccel soffia feroce E con l'artiglio lo scudo gli piglia Che'n braccio haueua, e di poi con l'atroce Becco ne l'elmo l'afferra, e scompiglia Ben ch'al Meschin tal presa poco nuoce Che l'elmo resse con gran merauiglia Onde, trouandol col becco sì duro Spiccossi per tirarsene al sicuro Ma nel partirsi, con la spada cala Vn fulminante colpo che gli prese In nel colpire, un gran pezzo d'un'ala Di che'l Grifon di più stizza s'accese E uoltossi soffiando, è fuore essala Vno strido terribil, che'l paese Tutto sentillo, ma'l Meschino in questa Furia, col brando gli partì la testa. Cascò subito morto l'animale Vols'il Meschin ueder la sua statura E disteseli prima ambe due l'ale Da una punta à l'altra poi misura Diece braccia distante fan segnale Poi tutt'il resto molto ben procura D'Aquila il becco, e'l capo, e'l collo haueua Ma di maggior misura rispondeua. Maschio era, e tutto di color rossigno Disse la guida, ch'era assai maggiore La femina, e pur fiera, e di maligno Aspetto. Il Meschino hebbe assai dolore Del caual morto, e perch'era benigno Disse, daremo al mio caual maggiore Soma, e si pose il Mediano in groppa Et uerso una città così galoppa. Giunsero à la città, ch'era abitata Da gente nera, con un'occhio solo Nè u'era intorno terra lauorata Solo à Bestiami attende questo stuolo La città era Arcoita chiamata Et il Regno Redordas, uerso il Polo A dusto posto; e del nostro Campione Presero tutti grande ammiratione. Grande spauento, e merauiglia grande Preser de l'armi, più che d'altra cosa E corre a gente da tutte le bande Per ueder il Meschin; ma nessun'osa Parlar, sol uolentier par che domande Il Signor lor, mentre ch'egli si posa De i fatti di Ponente, onde le guide Gli dauan relation, ueraci, e fide. Gran merauiglia, e gran piacere haueua Che'l Mediano suo linguaggio intende Sapendo che'l Meschin partir uoleua Del camin l'ammaestra, e dice prende Due di mie guide, e'l Meschino intendeua Per cenni solo, e sol con cenni attende A ringratiarlo, e accetta le scorte Caso ch'ei giunga à qualche passo forte. Indus fiume passò, sù certi legni Legati insieme, e sol meza giornata Quelle guide menò, poi fece segni Ch'ei facessero indietro ritornata Ma prima gl'insegnaron bene i Regni Con ogni strada bene abbreuiata Si che'l Meschin con la sua guida uecchia A' seguir il camin suo s'apparecchia Perche gli haueua altro caual trouato E lungo'l fiume Cancer, uer Leuante Sempre ne ua, tanto ch'egli ha scontrato Tra certi boschi, chi gli mene innante Quest'era un'animale smisurato Che soffiando ne ua di stran sembiante Grandi urli getta, ond'i caualli ombrati Si fuggiuan'in dietro spauentati. Il Meschin, che fuggir per nulla uuole Scende del suo cauallo, e si rassetta Per affrontarlo come sempre suole Il Median, disse, non hauer fretta Per Dio Signor, se'l ritardarti duole Che questa non è fiera maladetta Come son l'altre, e non fa dispiacere A chi non uuol' seco battaglia hauere. Non si resta il Meschin per questo dire, Ma fassi innanzi, per farne la proua, La fiera, com'il uide comparire Con la testa lo scudo gli ritroua Si, ch'in terra per forza lo fece ire Riuerso, che destrezza non gli gioua; Ma poi che uide ch'egli in terra staua Lassollo stare, e più non lo toccaua Rideuansi le guide di quell'atto Diss'il Meschino, al Grison non rideste Questo, disser, Signor non è già fatto Di tal natura, & uoi ben lo uedeste Vuole il Meschin prouarsi un'altro tratto Acciò che uendicato di se reste Schifa ella i colpi, e pur al fin si rizza In piedi, e se gli uolta con istizza Il Meschin, che la uede à la sua uolta Drizzata, le menò una stoccata Che le passò la pancia, senza molta Fatica, onde la bestia, che piagata Trouossi, mise un urlo, e diede uolta Per uia fuggirsi, ma non fu lasciata Che'l Meschin le tagliò le gambe drieto E fu de la sua morte al fin pur lieto. Volse ueder com'in terra trouossi La bestia, quanto dura habbia la scorza Ne la cui schiena molto riprouossi Ma di tagliarla non hebbe mai forza Disse la guida, molte trouar puossi Per India di tai bestie, ogn'un si sforza D'hauer per arme questa pelle dura Che d'ogni colpo d'arme l'assicura. Dimesticar tal bestia non si puote. Nome ha Sentochio, e di lor pelli moltè Ne son per India, or le sue parti note Chiare farò sì com'io l'ho raccolte Nel mezo de la schiena sonno uote A guisa d'una sella, e com'un ponte Sta'l resto de la schiena e'l corpo tutto D'asino hà forma, & è molto più brutto. Bouino il capo, ma con dritte corna Come tra noi le tiene il becco in testa Le gambe di leon, ma'l piè l'adorna Vna sol unghia, or de la bocca resta Denti non u'ha, ma solo un'osso intorna L'una e l'altra mascella, e quella e questa Adopera à mangiar sol'erba, e pesta Con esse, barbe, con ciò che ui resta. Lassata c'hebber quella bestia morta Caminar uerso la montagna Spera Doue trouar d'una città la porta Chiamata Salum, la gente che u'era Son detti Picinnagli, onde la scorta Diss'al Meschin, come questa gent'era Quella che coglie il pepe, e caualcando Venner noci moscate assai trouando. Nascon come le nocchie, ò le nocciuole Che dir uogliamo, in queste nostre bande Nè tai spetie di noci trouar sole Ma d'altra assai più ch'un nostro ouo grãde Chi ce ne porta quà chiamar le suole Noci Indiane, e seruono per ghiande A le lor bestie, e gli arbori del pepe Vider passando, e stan com'una siepe. Ma fu detto al Meschin, che son migliori E più perfetti, quei de la montagna Vespericus chiamata, e già di fuori Scorgono una città, c'ha la campagna Scoperta in torno, che gli huomin minori Hauea di lor, del resto gente magna Secondo tai paesi, e com'è detto Neri son tutti, ma d'umano aspetto. Suo nome è Selapura, e su ueduto Con quell'armi il Meschin per merauiglia. Quiui ciascun caual fu ben pasciuto Che biada in copia u'han per molte miglia Il Meschin passò quella, e peruenuto A Canogitia città, si consiglia Posarsi quella notte appresso fuore E uide cosa che n'hebbe stupore. Perche serrate à la città di poco Le porte, lontan uide i monti tutti Con gran parte del piano, arder di fuoco Nè sapendo perche, quei che ridutti Intorno gli eran, disser di quel loco I Picinnagli, così tranno i frutti Così colgono il pepe, e nè fann'arte Però mettono'l fuoco in quella parte La cagion che ciò fannò, è che la pianta Che fa tal frutto, per la sua caldezza La terra che sott'han, tutta s'ammanta Di certi uermi di strana fierezza Tal che nessuno accostarglisi uanta Che s'ascondon con molta ageuolezza Tra cert'erbacce, e certi spin sottili Così tra essi fanno i lor couili. E come il Sol di Virgo entra nel segno Ilqual arrido, e secco si ritroua Il frutto di tal arbor si fa pregno E si matura, e l'erbaccia che coua Li sotto, diuien secca, che sostegno E' di tai strani uermi, or che si moua A l ostro il uento aspettano, e poi danno Il fuoco, e così i uermi, morir fanno. Or ch'Ostro spira, in più di sette miglia Di terra han posta la gran fiãma ardente Cessato il fuoco, ogn'un s'accosta, e piglia Vna pertica, e tende incontinente Sotto, con gran prestezza à merauiglia Gran tele in terra, e subito si sente Batter con quelle pertiche, e con questo Ordin lo colgon quanto si può presto. Pei fiumi à i porti loro il portan poi E barattanlo à Gran co i Mercatanti E à bestiame ancor, secondo i suoi Bisogni, che lor son denar contanti Così per questa uia ne uiene à noi, Ora uenuto il dì, passaro innanti Entrati in Canogitia, la passaro E per camino altre città trouaro. Portan sopra i Camelli le lor some, E pel uiaggio ne uidero assai A noi sono assai noti, il narrar come Sien fatti di souerchio esser stimai De le città trouate dirò'l nome Se ben Lettor, poco piacer n'harai Ch'i uocaboli sono, & aspri, e duri Pur bisogna ch'à dirli io mi procuri. Romorica trouar, laqual'è posta In Cautica, e questa è Regione Quella passata'l Meschino s'accosta A la città Cascamus, poi si pone Ad andare à Valmena, che accosta A due gran fiumi, i quai passar dispone Carulo è'l primo, e Vospar il secondo Dipoi trouaro un paese fecondo. Tal regione Calcitras si chiama E sterono à passare un giorno intero Per una selua assai grande per fama Del cui nome non seppero l'intero Ma ne l'uscire, il buon Meschin che brama Spedir tosto il camin, per quel sentiero In un fiero animale, e molto destro Si diè, che di far guerra era maestro. Il Mediano, e'l Sotoro mai furo Da tal timore oppressi, quando questo Animal uider uenir uia sicuro Vers'il Meschin, che non fu tanto presto A prouedersi, che d'un colpo duro Percuoter si sentì sopra'l sinesto Fianco, & à tempo cauò fuor la spada Che mal per lui, se più ui staua à bada S'arrosta quant'ei puote, e non può corre Colpo ch'ei meni, à l'animal ueloce Che destro si ritira, quando porre Pensa'l Meschino à fin tal mostro atroce Scende al fin del cauallo, perche sciorre Si uuol di quel timor, perche quel nuoce Molto al cauallo, e trouasi impacciato Che'l dritto assalta, & or il manco lato. Ma doue manca forza, con l'ingegno Supplir già pensa, e si lassa uenire Riuerso in terra, perche fa disegno Che facilmente sia per riuscire Com'in terra si pose il Campion degno La fiera il uenne subito assalire Con tutta la sua forza il scudo piglia Con bocca e scuote con terribil ciglia. E trouandol sì duro di leuarsi Prese partito, e partir se ne uolse Ma non potè si tosto lontanarsi Che'l Meschino una gamba uia gli tolse E leuatosi ritto, à uendicarsi Cominciò, fin che lo spirto gli sciolse Del brutto corpo, & à ueder si pose Le simiglianze sue miracolose. Haueua il corpo Leonino, e'l uolto D'huomo, e le gambe, e l'ugne di Leone Lupino il pelo, serrato e raccolto Con gran presa di bocca, e grand'ugnone La coda corta, pannochiuta molto Viuo soffiaua come fa'l Dragone Naso haueua schiacciato, e nel palato Tre ordini di denti u'ha trouato. Armaticor si chiama, e la lasciaro Star così morta, seguendo la uia, Là doue una Città dipoi trouaro, Chiamata Alsagas; quì gran cortesia Fatta gli fu, questa già non passaro Sì presto, onde di simil compagnia Merauigliossi tutta la Cittate, Come iui sien lor persone passate. E fu lor fatto onor tre dì, che preso V'hauean riposo, che poi si partiro, Hauendo nel partire à pieno inteso Del più breue uiaggio, e di men giro, Che g'i arbori del Sol (di luce acceso) Gli guidi, ò de la Luna, e l'ammoniro, Che dritto al fiume Danoas per niente Non gisse, che'l camino era dolente. E gli fu detto cinquecento miglia Di selua u'è sempre continuata Et euui fiere di gran merauiglia, Seluagge tutte, con la trasmutata Forma d'huomini, e donne, che si piglia per bestia, e come bestia esserui nata, Sì ria generation, cosi natura Vi fa serpenti fuor d'ogni misura. Saluatichi elefanti, e tigri, e molti Leoni, e leopardi, & una setta D'animai, che nei boschi stan piu folti, La quale in India, Zempotricia è detta Han lunghi colli, e quando son raccolti, Non gli si ueggon, che con molta fretta Se gli mettono in corpo, e poi cauati Son'otto braccia giuste, misurati. D'elefanti più grandi quattro uolte Sono, & han quattro palmi fuor di bocca I denti, con le punte in sù riuolte; Grand'han le gambe, de i piedi mi tocca A' dir, che u'han tre ugne, in giù raccolte, Et ogni pianta tronca, ch'egl'imbrocca, Il piede ha giusto, per la cui grandezza, Ciò, ch'urta, e'n toppa, ogni cosa scauezza. Sonui certe montagne, che ui stanno, Huomin, che per natura son saluatichi, Che ha testa di cane, e la bocca hanno Abbaian, come cani, & son lunatichi, Chiamansi Canamoni, allegri uanno Nel t&etilde;po tristo, & al miglior mal pratichi Mostransi, che fan doglia, & urli strani, Mentre, che da la pioggia son lontani. D'un'altra sorte d'huomini ui stanno, C'han la punta del piede in dietro uolta Ancor d'un'altra, che sol'un piede hanno, E quel sì grande, che senz'hauer molta Fatica, sopra'l capo ombra si fanno, Quand'il Sol più gli scalda à briglia sciolta Senodopes son detti; un'altra ancora Sorte d'huomini strani, ui dimora. Questi son posti in più lontana parte, Doue Danao fiume à l'Ino mare Entra, à i quai la natura mal comparte, Che con un'occhio sol gli fa guardare, E quello hanno nel petto, e non si parte; Vsan con quattro gambe caminare, E così corron forte, & hanno il pelo Lustrante, e bello, co' purpureo uelo. Il capo, han come l'huomo; ma peloso Tutto, e ne l'acqua uolentieri stanno, Staua il Meschin'attonito, e pensoso Al ragionar, che color fatto gli hanno, E così dando fine al suo riposo, Ogn'hor gli par per uia partirsi, un'anno, E uerso l'Indio mar pres'il uiaggio; Per più sua sicurtade, e più uantaggio. Per tal camin Cristiani, e Saracini Trouò con molte diuerse nationi, E molte Città buone, i cui confini Han nere genti in assai regioni. Di quiui poi uoltaro i lor camini Verso l'australe, sopra i liti buoni Del fiume Arancueca, che del monte Melises esce, ne la prima fronte. In sette giorni a Frigurica gionti Di quiui furo, città popolata Da Cristian, che son'huomin giusti e pronti Mereanti, & è da quelli assai pregiata Tal arte, e son con Tigliaffa congionti Region d'India, la prima stimata E tutti quasi intorno, e in questo loco Cristian son di cintura, e chi di fuoco. Giunse'l Meschino à la città del Regno Predetto, che Tigliaffa pur si chiama In libertà si sta suo popol degno Et è città tra lor di molta fama. Fecero grande d'allegrezza, segno Sapendo che'l Meschino i Cristiani ama E che gliera Cristian, si che l'onore Futal, che far non gli potean maggiore. E tanto più, ch'à l'abito, al sembiante D'huom ualente mostraua, et uso in guerra Da l'altra parte gliè detto le tante Sue proue da le guide, che la terra Di uoce in uoce s'empie sempre innante Onde l'amore in lor sempre si serra E derongli un palazzo de migliori De la città, degno di gran Signori Da molti cittadin fu uisitato Per riuerenza di sue degne proue E fu da molta gente presentato Che la cortesia lor così gli moue Il Doge lor, che fu ben'informato Di sua franchezza, non intesa altroue Mandouui Cariscopo, suo maggiore Capitan, per mostrar di fargli onore. De la felice Arcabia era uenuto De la città di Saba, & è Cristiano Fatto, però c'haueua conosciuto Quanto che ogn'altro creder fusse uano Giunt'al Meschin, dopo un gentil saluto Et un parlar, cortesemente umano Seppe ch'era Cristiano, e perche conto Per sì lungo camin fuss'iui gionto. Come chiar seppe Cariscopo il fatto Et ch'andar uuole à gli arbori del Sole Restò di tal uiagggio stupefatto E cominciolli à dir queste parole Se Dio uittoria mi da questo tratto Contr'al nemico, che battaglia uuole Io uo teco uenir, pur che ti piaccia Restar quì, fin che la guerra si faccia. E seguì poi di dir, che certe terre Di nouo ribellate, han l'armi prese In contr'à la cittade, e che le guerre Eran tra lor, gia crudelmente accese Risposegli il Meschin, pria ch'io mi sferre Di quì, pur che ui piaccian mie difese. Per la uostra città, con uoi tor uoglio Anch'io l'impresa, sì come far soglio Se d'aspettar ui piacè, io ui prometto Rispose Cariscopo, di uenire Con uoi, la doue andare hauete detto E se più oltre harete anche desire Pur che la guerra, che di fare aspetto Con uittoria si possa diffinire Accettollo il Meschino, e fu contento Di fare in questo ogni suo piacimento. Fugli mandata molta uettouaglia E presentato magnificamente, E l'informaron ben de la battaglia Che lo stimaron Capitan ualente, Ben che non sappion quant'in arme uaglia Fu tra loro ordinato in mantinente Con consenso de i primi de la terra Di farlo Capitan di quella guerra. E Cariscopo, per il primo prega Ch'egli accetti'l baston suo Generale, Il Meschin tal'offerta al tutto nega E poi che'l prego de gli altri non uale Cariscopo umilmente almen lo lega Che per compagno à la guerra fatale Gli resti, ei fece il suo uoler di questo E dieron à la guerra ordine esesto, Il quinto dì, ch'à Tigliaffa era gionto La nuoua à la Città si fece chiara, Ch'era gran gente de' nemici in ponto Per dare à la Città battaglia amara, Et assediarla con superbo affronto Sbigotisce la uulgar turba ignara, L'altra gente feroce, e di cor forte, Sotto i lor Capitan non prezzan morte. Quindici mila buon pedoni, e poi Trecento Caualier furon contati Ne la città, perche gliordini suoi, Non son tener caualli, ch'alleuati Quiui non son, sì come son tra noi Cento elefanti haueuan bene armati, Furon'in ordin'il settimo giorno, Così ne la campagna fuor saltorno. Ma prima ordine diero, è modo, come Si douesse assaltare il campo, e quando Il Meschin, che fortuna ha per le chiome In questo modo uenne ragionando A' i Cittadin; Signori, anch'il mio nome. Noto non u'è; ma chi potria penfando Imaginar, che Dio m'habbia mandato A' uoi, per difension del uostro stato? Io spero per sua gratia, e sua bontade, Che la uittoria haurem, se uoi seguite L'ordine nostro, come far u'accade, Or quel, c'hauete à far, da me l'udite Contr'i nemici, in le uostrè contrade, Perche tutte le forze loro unite, Son dugento elefanti, come habbiamo Per certo, nè di loro altro temiamo. Vi conuien mille luminarie hauere, Fatte con solfo, e pece, e queste sieno Da tre mila di uoi, ne le frontiere Poste de gli elefanti lor, che meno (Così facendo) potrete uedere Spente le forze loro in un baleno; Ma quando far quìsto douiate, harete Da me l'auiso, & allor ui mouete. Il restante di uoi sien pronti, e desti A' far guardia miglior, dou'è men forte La muraglia, però, ch'à seguir questi Auisi, non potrà per tante torte Vie tender lacci, e inganni, che non resti Vinto'l nemico con uergogna, e morte, Nè per occulta, e discoperta guerra Del nemico patir potrà la terra. Ordinate le cose in questa forma, Fero tre squadre de le genti armate, Tre mila trasser di tutta la torma Di gente in guerra manco ammaestrate, E perche l'altro restante non dorma, L'han in due altre parti separate, Fan che la prima de i tre mila assaglia Il campo, e dian principio à la battaglia. L'una de l'altre due per se s'elesse Con cinquanta elefanti, e quei trecento Caualli (il buon Meschin) con iquai messe Ben tre mila Pedon, con gran contento Di Cariscopo, e'l restante commesse Al detto, che non fu pigro, nè lento A' porgli in ordinanza, & i suoi fanti Fur noue mila, e cinquanta elefanti. Sette mila, de l'Isola Blombana Dì quei di Cariscopo, eran uenuti, E fer per quella notte prossimana, Perfette guardie, acciò che sproueduti Colti non sian da quella gente strana, Poi sendo à l'altro giorno peruenuti Il Meschino ordinò di far giornata, E di dar dentro à la nemica armata. Ma prima un bando fe mandar, che fatti Non sien prigion'à pena de la uita Per fin che uinti i nemici, e disfatti Non sien, con ogni insegna lor rapita, Dipoi, fece i tre mila mouer ratti, Et ei mouendo i suoi, pian piano inuita E perch'in Cariscopo si confida, Dice, che i suoi in due parti diuida, E che ne la Cittade mandì à dire, Che sien co i fuochi in punto, e uengan uia Per far quelli elefanti impaurire, E di poi gli soggiugne, com'io sia Ne la battaglia col tuo grand' ardire Percuoti i fianchi per diuersa uia, Perche meno il nemico si preuaglia, E che parte non sia senza battaglia. Poi uà uerso i nemici passo passo, Con le sue squadre in buon'ordin raccolte, Doue i tre mila rotti con fracasso Le schiene à i lor nemici haueuan uolte Il Meschin, ch'à l'impresa non è lasso Per dare à i suoi più cuor, ne le piu folte Squadre, si ficca con la spada in mano, E fa proue maggior, che d'huomo umano. Nel mezo fende la nemica gente, Ne la cui fronte hauea cento elefanti; E nel uedere l'ordine, pon mente, Ch'in altra parte ne sono altretanti; Ma la primiera parte più potente Paruegli, e giudicò, che tutti quanti Fusser quarantamila, e che tra tutti, Non u'han trecento caualli condutti. Veduto questo, inanimito, e fiero Ritorna à le sue squadre, e le conforta Costui, con Marte ha partito l'impero, Nè si può desiar'più fida scorta; Or quà, or là corre destro, e leggiero, Qua leua file, e là l'aggiugne, e porta Rimedio, oue bisogna, e i santi à i fanti Pon contro, à gli elefanti gli elefanti. E come pecorelle abbandonate Dal suo pastor, che dal lupo affamato, Sien fieramente in prouiso assaltate; Tal il Meschin gli assalta infuriato, E perche pur son genti male armate Ei da i trecento cauai seguitato, E facendo di se proue stupende, Ogn'uno à la salute propria attende. I primi eran gia rotti, e'n fuga uolti I fanti à piè, dou'il Meschin è uolto, E più, che i uiui l'impedisce i molti Morti, ch'ogn'un ne l'istesse armi inuolto, Tra lance, & archi si stauan sepolti, E non duraua quella pugna molto, Se non ch' à gli elefanti primi è corso De i secondi un gagliardo, e fier soccorso. Co i quali i lor cauai s'erano uniti, E racquistar per forza il perso campo, Sì che bisogno haran di chi gli aiti; Quei del Meschin, s'hauer uogliono scãpo, Egli uedendo questi stran partiti Nel bisogno soccorre, e mena uampo, E manda à dir, che Cariscopo uenga, E che l'ordin già dato ora mantenga. Per fianco da due bande, entro percosse Il franco Cariscopo in quello affronto, Da la Città tutt'un tempo si mosse La gente con quei fuochi accesi in ponto, Onde contr' ai nemici ancor uoltosse La fortuna contraria in ogni conto, Che gli elefanti lor da i fuochi oppressi Si son con gran timore in fuga messi. Da le fiaccole i primi spauentati, Mal grado de i secondi, fuggon uia, Iquai da gli urti, e da i fuochi assaltati Dan uoltà à dietro per'diuersa uia, E ne i'castei, ch'addosso han fabricati, Mise la cittadina compagnia. A' molti il fuoco, & abbruciar fuggendo, Che glialtri dauan terrore stupendo. Si che gli ordini rotti, facilmente Col senno, e col ualor da ogni parte Restò'l Meschin còn tutta la sua gente, E Cariscopo (buon guerrier di Màrte) Vittorioso ogn'un del fraudolente Nemico campo, le cui genti sparte Di quà, di la, nè u'hebbe trista sorte, Chi di quelli scampò quel dì da morte. Di uentiquattro mila trionfaro Che morti da quei fur de la cittade Mille de i quali al conto sol mancaro Non dimanco'l Meschin per sua bontade Con Cariscopo, tanto seguitaro Che scorser poi le nemiche contrade Per diece dì senza riposo hauere Con maggior parte di tutte le schiere. Doue città non fu, non fu castello Che non desse l'entrata de la porta Senza contrasto, al Cristian drappello Del quale i due Baroni erano scorta Presi i paesi, e fatto'l gran macello Dè nemici, tornar per la più corta Verso Tigliaffa, doue i Cittadini Gli fecero trionfi, alti e diuini. Le città racquistate in fede diero Tributi, ostaggi, e quant'il Meschin uolse E gli condusse à Tigliaffa col fiero Capitan Cariscopo, che si tolse Di nominar le terre egli il pensiero Per essi racquistate, e così sciolse La lingua à i Cittadini, l'opre nostre Queste città danno or ne le man uostre. Barbano, Malasar, Caspio, e Crosiga Barbaora è la quinta, poi Zabano Vostre fatte si son, senz'altra briga Di Saura il Regno, ci ha post'anco in mano Le chiaui. Al consigliar poi si castiga Con destro modo ogn'animo profano Pria che nel Regno siam di Sauria entrati Le chiaui dunque e tributi ci han dati. Le cui città, come sapete, sono Tutte sopr'il mar Indos, uer Leuante Ansiga u'è la prima posta in buono Et in persetto loco, con alquante Verso Ponente, ui chieggon perdono Pallada, & Albanar, poco distante Bonea, e Depazida, e per buon segno Di fedeltà, danno un tributo degno I negri Moricin coi rami in mano D'oliua, d'ogni sesso, il buon Meschino Circondauan, cantando da lontano Con suon diuerso dal Greco ò Latino Ma per non passar troppo tempo in uano Non dirò quanto d'ogni Cittadino Fu l'amor grande al Meschin dimostrato Nè quant'ei fusse da tutti onorato. Tre dì si riposò, poi per seguire Il suo camino in ordine si messe, Harien uoluto i Cittadin disdire Ma pensando, che'n uan ciò si facesse Fecer consiglio che'l suo grand'ardire Ristorar con gran premij si douesse Ogni cosa il Meschin rifiuta, e chiede Vna sol guida di tanta mercede. Non creder disse Cariscopo, ch'io Voglia tant'huom', con una guida sola Lassar andar per tanto luogo rio Ch'io non ne uoglio intenderne parola Che sarebbe grand'onta al mondo e à Dio Nè così facil tal camin si uola Che'l mar, per la fortuna nol consente De i uenti caldi sotto il Polo ardente. Per terra prouedersi anche bisogna Doue son boschi di Fiere copiosi Che chi col dente fere, e chi con l'ogna Altre coi fiati crudi e uelenosi. Non tiene l'accettarlo egli uergogna Per fare i passi suoi men faticosi Lodanlo i Cittadini, e per tal uia Ordinaro una degna compagnia. Quattro mila pedoni, e quattrocento Caualli, e gli elefanti ben armati Furon quaranta, & per men mancamento Di uettouaglie, gli fur consegnati Di Camelli ueloci cinquecento Che furon à Tigliaffa caricati E per onor di sue uirtù pregiate Assai l'accompagnar per più giornate. Molti giouin gentil l'accompagnaro De la città, per fin che fuor del Regno De la degna Tigliaffa uia passaro Seguitò Cariscopo il Campion degno Ma perche de la uoce il suon più chiaro Sento mancar, di posar fo disegno Ritornero come posato io sia A seguitar la bell'istoria mia.

IL FINE DEL CANTO VNDECIMO.

PEr varie uie diuersi error fa chiari La gran bontà de l'immortal Monar(ca A color, che gli son per fede chiari Fin ch'à più uera perfettion si uarca Lassa'l tutto prouar perch'altri impari Ch'egli solo è d'ogni scienza l'arca Dunque al Meschin, quest'andata concede Ch'ei conosca l'error di chi ui crede. Il Regno di Tigliaffa hauean passato E la città di Bòras, quando il fiume Doras, in diece giorni hauean trouato Che corre uers'il mar, com'è costume De i fiumi, e poi trouar da l'altro lato Igonoa città, che nel salsume Del mar Pelago detto, si riposa Di qui giunsero à Tamora famosa. Poi uerso la città detta Picchione L'essercito inuiò, passato prima Sapio, che uien d'Oribia regione Molto gran fiume, e di non poca stima La montagna Stimarius uel pone Che d'India surge, à la più alta cima E quiui appar dou'il principio dia L'Imperio del gran Can di Tartaria. Ilquale Imperio, à null'altro secondo Principia à i detti monti, e gira intorno Da India in là tutti'il resto del mondo Troua'l mar Caspio di gran gente adorno Che di tal seruitu tengono il pondo Coi monti, che da me si nominorno Corona detti, & di qui s'allontana E stendendo il confin, giugne à la Tana. E del mondo in diuerse parti stende Et han più uolte tutta Persia presa Che male contr'à i Tartar si difende Ma non ui stanno molto à la contesa Ch'al suo stato di prima pur si rende Quando manca la forza de l'offesa Che'l passo è aspro, nè posson seguire L'aggiugner forze al cominciato ardire. Questo d'India un Cristiano haueua detto Pel uiaggio al Meschino, & egli allora Domandò, se'l gran Can mai pose effetto Di pigliar l'India, com'il resto ancora Fugli detto di si; ma per rispetto Del caldo non ui posson far dimora E che le lor città son le maggiori Che sien nel mondo, e fors'anco migliori. De lequai nominò Sipibo, e doppo Zimaria, poi Pasameria, e Salata Anclimarto, è là doue dà d'intoppo Spesso il gran Cane, Archimora chiamata, Vassi in due giorni poi chi non è zoppo A Tantico, città molto pregiata Tartari son, con quest'altre si mette Città in un Regno sol tutte perfette. Vers'il monte Masarpi, poi dou'esce Il gran fiume di Cancer (disse) sono Queste città, poi ch'udir non u'incresce Otolan, Cora, e Salampa, il cui suono E' strano à nominar, ben che più cresce Quanto più dico, pur merto perdono Che manco incresca il fo, questo camino, Seguita pur, gli rispose il Meschino. Con questo ragionar sono arriuati Ad Aman, posta sopr'il marin lito Rimaser quiui tutti sconsolati Perche'l Meschin fu da febre assalito In capo d'otto dì, fur consolati Perch'ei rimase libero, e guarito Ha questa terra in mare un porto degno Sicuro, e buono per ogni gran legno. Quiui nascon Cotoni, de i migliori Del mondo, & anche gengeuo, e cannella Neri son tutti i suoi abitatori Che la lor pelle si può dir morella Naso han largo, occhi rossi, e labbri in fuori De la persona il resto, hann'assai bella Gran piacer si pigliaua questa gente Sentir dir de le cose di Ponente. Per interpreti il Meschin lor parlaua E riceue da lor gran cortesia. Ma perche'l tempo in uan quiui passaua In uerso Caucan tolse la uia In tal città di quanto bisognaua Fornì ben prima la sua compagnia E Cariscopo, che'l bisogno intese Per condur seco molti porci prese. Di quì partiti, andar uerso i deserti E le selue di Rampa, à tal cittade Gli ultimi termin de la terra certi Sono, e doue hanno fin tutte le strade Verso Leuante, onde per segni aperti Vide'l Meschino esser la ueritade Sopra del fiume Seucor è posta Rampa città à l'Oceano accosta. Ch'è sei giornate à gli Arbori del Sole Questa citta uicina gli fu detto Il Meschin non contento à le parole Benche non fusse tal uiaggio retto E perda tre giornate s'ir ui uuole D'andarui pur al fin pose ad effetto Ma ben conobbe l'error suo quì certo Ch'era uolere ir sol per quel deserto, Per la deserta selua caminaro Vna giornata, mescolatamente E d'acqua dolce un fiume ui trouaro Ilqual non era di corso repente La cui riua due giorni seguitaro Il terzo, allor che l'alba uien lucente Furo assaltati, e morti i manco pratichi Da forse cento elefanti saluatichi. Ma Cariscopo ritirar le genti Fece, e poi mise gli elefanti armati Ch'eran quaranta, con lance pungenti E così furon subito assaltati Tanto ch'al fin fur superati e uinti Essendone di loro assai mancati Pur non lassauan per ancor l'impresa Che fu da Cariscopo ben difesa Fece stridere i porci, al cui romore Gli elefanti saluatichi, lasciata L'impresa, si fuggiro à gran furore Per sentir quella uoce inusitata Ma nel camin trouossi anche peggiore Battaglia, già per loro incominciata Eran gran quantità di tigri e draghi Ch'eran de l'acqua di quel fiume uaghi. Andauano à ber sempre in sù quell'otta Congregauansi là di molte bande Veggendone la gente sì gran frotta Posersi in fuga, con un terror grande Ma Cariscopo, che la uede rotta Diss'al Meschin, pria che'l uelen si spande Mandiam lor sopra i porci, e così fece Il cui consiglio al Meschin sodisfece Spinsergli innanzi, & appiccar la zuffa Che fin'al ciel mandauan l'alte strida E con le sanne leuauan la muffa A quei serpenti, ma il uelen ch'annida Nei corpi loro, spesso li rabbuffa Onde conuien che molti se n'uccida Pur al fin si forni la guerra loro Che i porci à i serpi dier aspro martoro. N'ucciser forse mille, e fu fornita La guerra, sendo gli altri in fuga uolti; Ma i morti di ueleno, e di ferita Fur ottocento porci, il resto colti Insieme, ne lassar molti la uita Poi nel camin, e così furo sciolti Dal pericolo i nostri, e col Meschino Si ridussero al fine al lor camino. Non hebber altro impaccio, in fin la sera Che uolendo pigliar gli alloggiamenti Si fece innanzi una terribil fiera Laqual squartò due Indian coi denti Misegli addosso il Meschin, quella schiera De gli elefanti, e ne fur cinque spenti Di uita, che col dente, e con la testa Gli percoteua con molta tempesta. Hauea diece de glialtri stesi in terra Ma'l Meschin d'una lancia sopramano Due uolte in mezo al uentre ben l'afferra Tal che morissi l'animale strano Hebbe già con un'altro il Meschin guerra Che già l'ho detto, però non ispiano Più la sua forma, Centocropos detto Era quest'animale in tal distretto L'altra mattina, il Meschin desioso Di ueder Rampa, fe uoltar la gente Laquale hauea bisogno di riposo Però d'andarui uolentier consente Ma ne l'uscir del bosco, un periglioso Affronto d'animal subitamente Gli assaltar; ma di questo il maggior male Che ne seguì, fu d'un solo animale. Cauoles è da gl'Indian chiamato Ilqual si moue si destro, e leggiero Ch'ogn'un giudicheria ch'ei fusse alato; Ma non fe danno à l'arriuar primiero Fu l'esercito poscia seguitato Da quel che spesso fermo in su'l sentiero Guardaua in uiso l'huom, come s'ei fosse Vederlo uago; ma poi si rimosse. Com'eì si uìde un pezzo oltre condutto Cominciolli assaltar con tal destrezza Ch'ogn'un facea difesa senza frutto Perche la fiera à far rapina auezza Diece Indian priuò di uita al tutto Che di nessun la difesa non prezza E pur fu morta al fin, da i più arditi Ma più di trenta ella n'haue a feriti. Gambe di ceruio, e corpo di cauallo La testa hauea com'il porco cignale Coi denti fuor, che mai fan presa in fallo Hauea due corna fuor del naturale Aguzze, & lunghe, come di metallo E forti quanto ben temprato acciale Gliocchi hauea rossi, e peli leonini Dal mezo innanzi; e di cauallo i crini. Rosso dal mezo indietro ha'l pelo, e corto I piedi di Leon, con grandi unghioni Ch'ancor metteua terror così morto Ma non conuien che tant'io ne ragioni Ch'io nõ faccia'l Meschin pr&etilde;der conforto E maggiormente à gli stanchi pedoni I quai giunsero in Rampa quella sera Ch'è de la terra l'ultima riuiera. Quiui presero alquanto di riposo. Il Meschin col pensier uolto à se stesso Tra se diceua, à quanto faticoso Viaggio, e lungo à caminar son messo E sto di saper noua anche dubbioso Chi fu'l mio genitor, poi ch'io son presso Dou'io pensaua di saperlo, or temo Ch'io resterò di tale effetto scemo. Partironsi da Rampa, e ritornando Per altra uia uers'India in sei giornate Et il camin uerso Aman ripigliando Cominciaro à gridar molte brigate Ecco quel Monte, che si ua cercando Però Signor Meschin ui rallegrate Ond'il Meschin umile Dio ringratia Pregandol che da lui uenga la gratia. Però che poca fede in altro tiene; Ma non uuol che nessun mai possa dire Ch'ad un fuggir fatica non conuiene C'habbia à pigliar' alcun'impresa ardire. Sopra'l mar d'India questo monte uiene Verso Leuante, e fece ogn'un salire Quattro miglia su'l monte, per potere Sicuro star da le basse frontiere. Eranui molte uene di dolci acque Che'l monte stilla, dou'ogn'un contento Per due giorni posarsi non gli spiacque Il Meschin tutto à la salita intento Poi che due giorni in riposo si lacque Il terzo di, fe questo parlamento Con quelli che salir uoleano il monte Dou'era di Tigliaffa un degno Conte. Masdar chiamato, & un prete Cristiano E due d'Apollo esperti sacerdoti Ch'eran Pagani, ond'il Meschino umano Più che mai fusse à quei disse, i miei uoti Voglio omai sodisfare, e porui mano Poi che noi siamo in tal parti remoti Dunque ogn'un si prouegga de le cose Che sono al salir sù più bisognose. D'ogni sua colpa prima confessosse Dal Cristian prete, ilqual assai pregollo, Ch'ei non u'andasse, e sì crudel non fosse Ch'egli adorasse l'Idolo d'Apollo Pur la pietade alquanto lo commosse Poi ch'à sì lungo giogo ha posto il collo E disse, se ui uai, questo far dei Perch'altramente non t'assoluerei. In ogni modo uo che mi prometti Che non adori quest'Idoli uani; Ma lor malgrado à scongiurar ti metli Si com'ingannator di quei Pagani Che tutti son demoni maladetti Quiui postisi à i danni de gli umani. Diss'il Meschin di farlo uolentieri. É seguitò poi gliordini primieri. Il fido Cariscopo, e'l Meschin sole Di tant'armi portar cinte le spade E à la lor mente con dolci parole Disser, se rotte ci fosser le strade Al ritornar da gli Arbori del Sole Voi ritornate à le uostre contrade, Se noi non torniam quì l'ottauo giorno Ben che'l quarto dobbiam farci ritorno. Ma gli parue del monte l'alta cima Sì forte con le nuuole congiunta, Che d'andarui sì tosto, non fa stima Che'l suo ueder tanto alto non si spunta Poi che fur mossi la giornata prima Da che la cima al fin hebbero aggiunta Sterono un giorno e mezo, & aggiraro Due uolte il poggio, e due uolte tornaro. E uider nel girar, che le bandiere De l'essercito, al mar parian congionte E con fatica scerneuan le schiere Tant'era la grandezza di quel monte. Lettor, per quel Mar d'India hai da sapere Ch'ogni diece anni con le uele affronte Van molti pellegrin pagan deuoti D'Apollo, à sodisfar lor persi uoti. Altri per deuotion, come tra noi Ogni uenticinque anni à Roma fassi Del Giubileo, al qual non com'i suoi, Vi perdono i Cristiani i santi passi Or tornand al Meschino, che di poi Ch'in alto fu tra greppi, sterpi, e sassi, Coi suoi compagni, il passo era sì stretto Che non posson'andar senza sospetto. Perch'un sol piè, che per disgratia metta Alcun di loro in fallo, la speranza Di più campar, er'al tutt'interdetta E dà grande spauento la sembianza De la salita dritta e maladetta Ma il Meschin, che di core ogn'altro auãza Nè di destrezza essendo inferiore Saglie ueloce, senz'hauer timore. Il di secondo, ne la cima gionti Trouaro un'ampio piano e spatioso Sopra'l quale eran tre punte di monti E'l gran Tempio d'Apollo, sì famoso Intorno al giro i monti eran congionti, Il simil'era il Tempio luminoso Il qual'è uerso Tramontana posto Il mur di pietre uiue era composto. Staua un de i monti, di uerso Leuante, E la parte Austral l'altro guardana L'altro à Ponente da glialtri distante Il Meschin l'edificio contemplaua E giudicò, che da l'alto, à le piante Venti braccia s'alzasse, e s'allungaua Per trenta braccia, la larghezza à ponto Quindici braccia n'hauea colto il conto. E, com'hò detto, di pietre minute E uiue, edificate eran le mura Furono insieme sì ben conuenute Che non ui si uedeua una rottura Dintorno ha un bosco di piante tenute Gran tempo uerdi da l'alma natura, E dinanzi à l'entrata una piazza haue Con una quercia di molt'anni graue. Nè fur uicin sì tosto al nobil prato; Ch'ũ'huomo scinto, e scalzo uscì del T&etilde;pio; Grande, e di grossi panni era addobbato Per dar di castità più chiaro essempio La stesa chioma pendea d'ogni lato Sopra le spalle, e stauasi quell'empio Quiui, per condur sotto à quell'inganno Quanti quell'Idol falsi à ueder uanno. Pareua assai d'aspetto uenerando; Con una barba fin sott'al bellico. Costui ueniua i nostri domandando Che gli hà guidati à quel uiaggio ostico? E quel ch'insieme andauano cercando? Il sacerdote Pagan più antico Che uenne col Meschin, fe la risposta Dicendogli à che far sien'iti; à posta. Se uoi non siete casti dí tre giorni Disse colui, più quà non u'accostate Ma pel camin chi non è casto torni Ch'ei uenne, che le piante son sagrate; E de la piazza ancor tutti i contorni. Non sol di tre, ma di trenta giornate Siam disse casti Cariscopo, noi; Sì ch'à tua posta là condur ne poi. Prima che'l piè mettiate in la sagrata Piazza, u'ingenocchiate, allor rispose Colui, al quale era tal cura data E che poi si scalzasser loro impose. Ben che'l Meschin tal fede scelerata Conosca, acciò non si turbin le cose Fingeua riuerenza per uedere A che fin dè poi la cosa cadere. Tra se dicendo, benedetto sia Tu Daniel profeta, che tal sorte Di falsi sacerdoti, e gente ria Ben conoscesti, e degni d'ogni morte Raccomandossi à Cristo, & à Maria Così nel Tempio entrò, per quella corte Con Cariscopo, e co'l prete Cristiano E con quell'altro Barone Indiano. I Pagan sacerdoti prima andaro Imperò che la lingua san di quello Ma pria la Quercia con mano toccaro Ch'era nel mezo di quel praticello E glialtri nostri poscia s'inuiaro Con lor nel Tempio, per molto oro bello Oue d'Apollo il sacerdote pose La faccia in terra, e così à gli altri impose. Dicendo, à l'alto Apol gratie rendete, Tant'hauessi tu uita il Meschin disse Così tra se, così diceua il prete Cristiano, il cui pensiero in lor s'affisse Colui, disse, l'Imagin che uedete Che tien sì pronte in uoi le luci fisse E' il grande Apollo, à cui nulla si cela E quel ch'ogni segreto ancor riuela. Hauea la faccia rossa, e d'or la chioma Giouin l'aspetto, e di sembianza fiero Tien due saette in man, con le quai doma Girando intorno, il lucido Emispero D'ogni altra cosa scarco, e d'ogni soma Liber si mostra, ueloce, e leggiero. Son le saette di legno d'Alloro I ferri, un piombo, l'altro di puro oro. Da man sinistra, la casta Diana V'hauea l'imagin, con le corna in testa Ch'è de la Luna, l'Idolatria uana Vecchia si mostra, macilenta, e mesta Di quì poi gli condusse ad una Tana Là doue il Tempio da man dritta resta Sotto un di quei tre monti, ch'eran uoti Doue stauan due altri Sacerdoti. D'abito di quel primo assai peggiore Quì, disse il primo, ui riposerete Per fin che passin de la notte l'hore Dipoi la gratia domandar potrete Con diuotione, e purità di core Sì come fare à tanto Dio douete Così nel Tempio fece egli ritorno I nostri, iui aspettar fin presso al giorno. Che sacrificio ad Apol far uolete, Dissero i sacerdoti de la grotta, V sono i buoi, che menati ui hauete? Disse il Meschin, la strada è tanto rotta Che per uiaggio son morti di sete Nè m'haran forse l'impresa dirotta Perch'io ui darò d'or tanti talenti Che più de' buoi ne starete contenti. E presso al dì la mattina seguente Feron per molti lumi il Tempio chiaro, Facendo sacrificio al Dio lucente. I sacerdoti, lè preci cantaro Con modo al nostro molto differente Il Meschin poi, per non parere auaro Più che per diuotion, l'offerta fece E più ch'ei non promise, sodisfece. Dipoi s'inginocchiò, sì come imposto Gli fu da'l sacerdote, e gli hauea detto Adora Apol, con tutt'il cor disposto Perch'egli adempia tutto il tuo concetto Poi che'l Meschino inginocchion fu posto Fingendo santimonia ne l'aspetto In lingua Greca à scongiurar si messe Di sorte, che nessun non l'intendesse. Falso demonio (disse) io ti scongiuro Daparte di quel Dio, ch'è sempre eterno Nel passato, presente, e nel futuro, Tenne, tiene, e terrà sempre il gouerno De le cose che son, saranno, e furo, E te condannò (pessimo) à l'Inferno Come uero Signor potente e santo Padre, figliuolo & ispirito santo. Tre d'una sol sostanza, un solo Dio Che'l tutto fece, dimostrando aperto La uirtù ch'era in se, il cui desio Ci fece, nel formar del mondo certo Facendo il firmamento, donde uscio Pel suo comandamento il ciel scoperto Le tenebre partì da l'alma luce Dunque egli è d'ogni cosa il uero Duce. Le stelle, e lor pianeti far gli piacque In terra gli animai, come partita (Come si uede) e diuisa da l'acque L'hebbe, e poi fatta l'oper a gradita Adamo per sua mano, & Eua nacque De gli quattro elementi; e diè lor uita A i quai fu falso ingannator del mondo Perder facesti un stato almo e giocondo. Dunque, per la uirtù del suo gran nome Pel cui comandamento in mare, e'n terra Ogni seme moltiplica, sì come Si uede in ciò che dentro ui si serra Poi per far le tue opre al tutto dome (Che non ti resti ancor di farci guerra) Mandò'l suo figlio à pigliar carne umana Per aprirci del ciel la strada piana. Per l'immensa pietà, ch'à la natura Vmana hebbe, in la Vergine sagrata Incarnò Cristo, e fessi creatura Il Creator d'ogni cosa creata Sì com'ell'era innanzi al parto pura Et Vergine, così immaculata Et Vergine restò nel parto, e sempre Santificata con perfette tempre. Per quella passion, ch'egli sostenne Per ricomprarci, e per tutti i suoi santi Pel gran dì del giuditio alto e solenne Che giudicar ne deue tutti quanti Per la uirtù ch'al Sole anco à dar uenne Nel qual, tu falso ingannator ti uanti Hauer tanta uirtu, però costretto Per Cristo mi rispondi à tuo dispetto. Senza alcun frodo usar, senza bugia Parlami chiaro in qual parte del mondo Ritrouar debbo la progenie mia E doue io nacqui, e se di sangue immondo O pur di chiaro ancora io nato sia E se son uiui, ò pur da morte al fondo Son posti quei, che m'hanno generato Cioè mia madre e'l padre mio pregiato. Fatto lo scongiurar, fuor s'inuiorno Del Tempio, ilqual quel sacerdote uolse Che tre uolte aggirassero d'intorno Dipoi, uerso un giardino i passi sciolse Di palme, e mirti e begli allori adorno Quiui, il sagrato fuoco in man ritolse Ecco (dicendo) con pronte parole Gli arbor sagrati à la Luna, & al Sole. E mostrò lor, due arbori eleuati In alto al par di quei tre monti detti I quai da un'Altar son tramezati La doue i sacrificij eran concetti Sù'l quale Altar, poi che furo arriuati Sagrificaro coi medesmi effetti Che nel T&etilde;pio hauean fatto, ingenocchione Mostrando haver di ciò gran diuotione. Ma'l Meschin, poi che gli arbori ha ueduti Vscì d'ogni speranza fuore al tutto I passi conoscendo hauer perduti Senza nessuno effetto, e senza frutto Poi che gli ha per cipressi conosciuti Et che di quelli ne nasce per tutto Massime in Europa, e che d'intorno Ve n'era di minori il luogo adorno. Ma poi che'l Sol col bel dorato crine Spuntando à l'Ocean pronto ueniua Velando pria le stelle matutine Col suo ueloce corso compariua, De gli arbori, le parti più uicine Diuerso il ciel pian pian già ricopriua Allor quel sacerdote disse, chiede La gratia che tu uuoi, con pura fede. Il Meschin replicò, che pel ualore Dè la scongiura fatta, gli dicesse Quel che già chiesto hauea, per ilche fuore De l'arbore una uoce il Dimon messe Dimmi (diss'al Meschino) huom di ualore Com'è'l tuo nome? io pensai, che'l sapesse Rispose il Caualiero, ora Meschino Mi fo chiamar, dou'io prendo'l camino. Tu sei stato due uolte battezato (Disse lo Spirto) e Guerrin fu'l primiero Nome, e poi fusti di nouo appellato Il Meschin, ma Guerrino e'l dritto, e uero Nome, che da tuo padre ti fu dato Sei figlio d'un Baron gran Caualiero Di real sangue nato, e sei Cristiano Or s'altro uuoi saper, tu cerchi in uano. E quì si tacque, nè uols'altro dire Ond'il Meschino al sacerdote uolto Disse, che sodisfatto al suo desire Quella risposta non haueua molto. Risposegli colui, non ti partire Fin che'l Sole à gli Antipodi sia uolto Perche nel far poi de la notte bruna Risponder atti l'arbor de la Luna Dunque aspettò la sera, e scongiurata Come hauea fatto il Sol, la Luna ancora; Allor che dal suo lume fu toccata La cima à l'arbor, senza far dimora Disse ua in Ponente, e fia trouata Da te la stirpe tua, che dimandi ora Sì che'l Meschin, poi ch'altro non intese Di sfrenato furor tutto s'accese. Doue hai miser (dicea) spese sì male Tante giornate, e tanti passi in uano? A che più stare in uita omai ti cale Poi che sei senza frutto sì lontano. Ma poi ch'altro rimedio non mi uale, Disfarò questi inganni con mia mano Et incambio al mal riuscito disegno Vo d'esser stato quì lasciare il segno. E uolto à Cariscopo, disse, io uoglio Da questa altezza, nel mar dar la uolta. A questi sacerdoti, ch'io non soglio Dou'io uo comportar cosa sì stolta Spegnerò di quelli Idoli l'orgoglio Et uo mandare a fuoco, e ferro in uolta Gli arbori, il Tempio, e per tutto Ori&etilde;te Far fino al ciel ueder la fiamma ardente. Quand'altro mal, che questo, Signor mio, Rispose Cariscopo, non succeda N'harei di te molto maggior desto Ma quand'ei si facesse, uo che creda Ch'ogni Cristian, ch'adora il nostro Dio Per Leuante, anderebber tutti in preda A sacco, e sangue, pur che ne le mani L'hauesser questi popoli Pagani. Vinto da tal ragion mutò pensiero Il buon Meschin, che non si può dar pace Del riceuuto scorno, ma il primiero Voler rimuta, che saluar gli piace Il Cristian gregge, poi che più che uero Il suo parlar, non sol chiaro, e uerace Conosce, ritornar fu risoluto Per la uia d'onde al monte era uenuto. Calaro il monte, è fu fatta gran festa Di lor tornata, da l'armata gente Laqual poi il Meschin fe mouer presta Dandole un Capitan molto ualente Che in quattro dì la seluaggia foresta Le fe passar, che del Meschin la mente Era di far per mar sua ritornata E per terra mandar tutta l'armata. Perche d'Arabia, e di Persia su'l lito E del mar rosso, al gran monte uicine Eran naui uenute, nel cui sito Condotte erano genti pellegrine Preser di noleggiarne una partito Che'l Meschin uuol ueder quelle marine Et i tre sacerdoti anche u'andaro Che con l'armata gir non li lasciaro. Il monte di Netupero, han lasciato Sotto il gouerno d'una Tramontana L'Ostra chiamata, pel mar, ch'è chiamato D'India, e girando ogni costa erta e piana Il bel porto di Signa hanno trouato E doue è posto in parte più lontana Il porto Pantalon, poi uer Ponente Venner, dou'è manco nera la gente Ma uide prima l'Isola Arginaria Che d'India il nome tien molto feconda Questa l'aria non ha sopra contraria Che di cotoni, e molte spetie abonda, Nè mai per istagione alcuna uaria Che non habbia ogni lito, & ogni sponda Ricca di frutti, & è la sua lunghezza Ducento miglia, cinquanta in larghezza. Più ch'in Ponente, assai uerso Leuante Larga era, & un'altra Isola possiede Detta Plobana, non molto distante Che in quel camin possando poi si uede Ch'è similmente ancor molto abondante Ma mi riserbo à farne maggior fede Ch'or seguir debbo, come fur uedute Verso Ponente l'Isole Perdute. Da spauentosi draghi spumar l'onde Or fenderle da serpi, e basilischi Che strisciando, saltar fuor de le sponde Da tre Isole, al suon d'acuti fischi, Da la sinistra mano, u' par ch'abonde Da le lor gole, attossicati uischi Videro; e non pur questo, in molti lochi Vomitar di lor bocche orrendi fuochi. Sabastibe, Intropogos chiamate L'Isole son, dissero i nauiganti E che più sotto l'Ostro situate Ve ne son tre, più copiose di quanti Veleni, e brutte fiere generate D'hauer già mai la natura si uanti E nauigando ne passaron molte Tutte perdute, e di ueleni inuolte. Non si poteua'l Meschin ritenere Ch'ei non dicesse, ch'era gran pazzia A i Pagan sacerdoti il lor parere Credendo ch'in quelli arbori un Dio sia E che doueuan per certo tenere D'esser fuor tutti de la uera uia Perche l'huom far nõ puote maggior male Ch'ador ar cosa stata già mortale E che Grecia, e Ponente i boschi haueua Pien di quelli arbor, chiamati Cipressi L'uno e l'altro Pagan di rabbia ardeua Rodono il chiodo i marinar con essi; Ma quel prete Cristian se ne rideua E con buoni argumenti chiari, e spessi Del Meschin confermana le ragioni Ben che fusser noiosi i lor sermoni Non potean comportare i marin ari Sentirsi predicar contra d'Apollo E con minacce crudelmente amari Feron consiglio di leuarsi in collo Il Meschin, e quel prete, & in quei mari Fargli affogando dar l'ultimo crollo Ma'l Meschin pien di colera, e di stizza Per uccidergli tutti in piè si drizza. Non far Signor mio car, deh non uolere Diceua Cariscopo, esser cagione Di pilotto priuare, e di nocchiere La naue ch'anderebbe in perditione Questa cagione il fece ritenere E l'hauer del compagno discretione Più che di se; dou'i due sacerdoti Per la tema parean di spirto uoti. Voi non ne siete uil, canaglia, degni Cariscopo diceua à i marinari Ch'un'huom simile à questo non si sdegnì Parlarui, nè che'l buon uiuer u'impari Gli ha cerchi assai di uoi molto più Regni Nè alcun se ne troua, non che rari Che sappia dar più chiara relatione Di fè, diregni, e d'ogni natione. Sì che attendete à far l'offitio uostro Se nò'l farete à suon di bastonate Se adorar non uolete il Cristo nostro Vero fattor de le cose create, L'errore, in che uoi siete, u'ha dimostro Quel che seguir ui pare, or seguitate E che di uoi minaccia è ben douuto Ch'ei sìa primier, (come sarà) battuto. Sapean per fama i marinar chi era Già Cariscopo, e quant'egli era amato Di quei paesi in più d'una riuiera, Per Capitan famoso, & onorato Sì ch'inuiliro la lor mente altiera Vedendo che da quel tant'apprezzato Era il Meschin, nè fu chi respondesse E chi mal fatto hauer non gli paresse. Da questo giorno in làtenete pure Da Cariscopo hauer la uita in dono Disse il Meschin, dipoi che le nature Vostre fuor diragion tant'aspre sono Sette giornate da i uenti sicure Hauean passate, e con quel tempo buono Poi con le uele à man destra uoltate Nauigarono ancor più tre giornate. Al gran fiume Faracchio peruenuti Smontaro in terra, e la naue lasciaro E pagaro i denar, che conuenuti S'eran, quando la naue noleggiaro I Pagan sacerdoti, come muti Con lui, uerso Tigliaffa caualcaro Con loro onore, altroue uolto il piede Haurian, per non parlar più de la fede. La noua à la città corse uolando Com'i due Caualieri erano gionti E uenner per la riua caminando Del fiume, ú fur lor fatti allegri affronti Da molte uille, ch'andauan trouando I Cittadini, il più che poteuan pronti Gli riceueron lieti. Ben ch'alquanto Dubitasser, d'hauer uicino il pianto. Questo timor, fu, che di tanti andati Con loro, i Capitani esser sol quiui, Pensando gl altri esser mal capitati Ma quando sepper poi, ch'erano uiui Et per terra (com'erano) inuiati Fur de i primi sospetti al tutto priui Et indi à diece dì uenne la gente Salua, e ne fecer festa allegramente Prese il Meschin tre giorni altri riposo E quei passati, fece à tutti nota La sua partenza, doue ogn'un doglioso Restò, di che la festa più remota Da lor si fece, e con pregar pietoso Facendo un'oration tutta deuota Con uolontà di tutto il reggimento Acciò ch'ei di restar fusse contento. E gli prouò per tutte le ragioni Che non poteua senza sua uergogna Quiui restar, perch'altre regioni Per suo padre trouar cercar bisogna Per questo, ordinar lor molti gran doni Ma egli, ch'altro che tesoro agogna Due guide chiese sol, nè altro uolse E con pochi denar, comiato tolse.

IL FINE DEL CANTO DVODECIMO.

POi che lo spirto ãcor mi serue, e puote In qvesto corpo usar le forze date Da te Motore, e posso farle note, Quali esse sien non fier forse sprezzate Da le persone, che ti son deuote E son de'tuoi buon serui innamorate Per liquai lieue mi par ogni peso Poi ch'io son seco in tal feruore acceso Or tempo è dunque di seguir ormai L'istoria, che m'aspetta, e dice ch'io Il Meschin troui, dou'io lo lassai Ilqual ripien di cocente desio Per seguire il camin, già ui narrai E come di Tigliaffa fuore uscio Per andarsene in Persia, hauendo prese Due guidé dotte di più d'un paese. Però, che de le guide che menate Seco hauea quiui, l'una era già morta Ne le battaglie prima cominciate Di Tigliaffa, e'l dir come or non importa Quel di Media restò ne la cittate Poi che'l Meschin si prese noua scorta Ilqual per dargli al suo seruir ristoro Gli fe donar dal Re molto tesoro. Certi denar per se di poi portossi Per supplire à le spese del uiaggio E Cariscopo seco accompagnossi Pensando poter far con lui passaggio. Di questo il buon Meschin non contentossi Che del ualor non era ancor men saggio E disse, che nel cor seco anderebbe Ma da Tigliaffa partir non si debbe. Nè lasciar la cìttà per sua cagione Ch'un suo par troppo in tal luogo bisogna Sì, ch'ei restò, uinto da la ragione Conoscendo il partirsi esser uergogna Senza prouarne giusta occasione Ma pur, l'accompagno per fino à Fogna Cittade, e nel partir pianse e baciollo Più uolte, & mesto al fine andar lasciollo Molte giornate per paesi ameni Con piaceuol camin, dai due compagni Fu guidato; e per luoghi tutti pieni Di uillaggi, castelli, fiumi, e stagni Bestiami da pastor lieti e sereni Trouò guardati, intenti à i lor guadagni E quiui trouò gente assai cortese Che gli dier da goder, con poche spese. Trouaro una città bella, e copiosa Di molta gente, al piè de la mangna Espemus detta, e la città famosa Tasipion si chiama, e la campagna Scorrendo, uider Margiran, Palmosa E Paluera, che'l mar uicino bagna Et ha nel porto, e tra quest'altre conte Coricola euui à piè di Sardon monte. Poscia le guide domandar gli piacque Se per terra à la Meca andar si puote Per non u'andare à discrition de l'acque (Che spesso fann'altrui l'imprese uote) Disser le guide', poi che'egli si tacque A noi son queste bande tutte note E puossi uolteggiando andar per terra Senza punto temer d'oltraggio ò guerra Ma forza fu tornar, per la gran uolta Di quel mar, cinque gran giornate indrieto Verso Leuante, & à la fin con molta Fatica caminò tanto, che lieto Contra à la tramontana à briglia sciolta Tornò, ma per camin molto inquieto Passo, perch'ei trouò molti paesi Diserti, hauendo molti giorni spesi. E giunsero à la Meca, oue uenuto Era il Soldan di poco; che possiede Tutta la Persia, che gli dà tributo Ilquale hauendo à Maccometto fede Visitar con gran gente hauea uoluto L'arca, con l' Argaliffo, che possiede Luogo da Papa, che così si noma Come fa'l Papa de' Cristiani à Roma. Giunto à la Meca, il nostro Guerin forte Nè ui trouando alloggiamento meglio, Andò pensando d'alloggiare in Corte Che così fu de le guide il conseglio E giunto del palazzo in sù le porte Feglisi incontro un gentil'huomo ueglio E giudicandol per presentia degno Di fargli cortesia fece disegno Perche pensò, che qualche Ambasciadore Di paese lontan fusse mandato Con qualche degna noua à l'Almansore Veggendolo sì in punto, e bene armato Ma poi che dal Meschin seppe il tenore Ch'egli non era quel, c'hauea pensato Per questo non restò, ch'ei non uolesse Che seco ad alloggiar si rimanesse. Et gli altri due compagni, e i tre Caualli Similmente gli fe far buona cera Perch'ei non uuol che'l suo ordine falli Che liberale, e molto cortese era I destrier costodiro i suoi uassalli E col Meschin uolse cenar la sera Per ragionar di cose forestiere Come tra i grandi suol spesso accadere. Quiui Guerrino àragionar si messe Con Ponedas, (che cosi nome haueua Il degno cortigiano) e de le spesse Fortune, puntalmente gli diceua Ma non già, che per Cristo fatto hauesse Tante battaglie, ch'egli riteneua Quel che'l poteua mettere nel fuoco E fargli molto danno, e giouar poco. Quando il buon Ponedas tant'oltre intese Che gliera stato à gli Arbori del Sole, E che cercat'h auea tanto paese Disse, parlando con dolci parole Vo che per te dal Soldan sieno intese Quest'opre, perch'udir uolentier suole Cose, che noue sien, come son queste Tai domande, diss'egli, sono oneste. Io son contento, per la cortesia Ch'usata da uoi m'è, che noi u'andiamo A'tutte l'hore che piacer ui sia Diss'il Meschino; e quel disse possiamo Come cenato habbiam, prender la uia Perche di compiacere al Signor bramo Sì che cenato, subito u'andaro E Ponedas gli fece il tutto chiaro Sentendo l'Almansor tanto diuerso E sì strano camino, e le tenzoni Con feroci animali, e che sommerso Non sia per boschi, ò per mari, ò prigioni O in guerra; e che pur or ne uien di uerso Gli arbor del Sol, per tante regioni Prese alta merauiglia, e senza fede Cercarne, il tutto senza dubbio crede. Credonlo anche i Baron pien di stupore Stero à sì fatti, e gran ragionamenti, Vn sol ui fu, pien d'ira, e di furore Che disse, ingannator falso, tu menti Tu se di tutto il mondo truffatore Come à tanto Signor non ti spauenti, A dir che uieni senza tema alcuna Da gli arbori del Sole, e de la Luna. Il Meschin, che riguarda il tempo, e'l loco Inginocchiossi, e disse al gran Soldano Gliè uer, che in me s'accozza il solfo, e'l fuo co Alto Signor, pur gli rispondo umano Sol per tua riuerentia; e'l tengo à gioco E quel ch'io dissi, io ui rimetto mano E lo raffermo, replicò il Barone Del tutto menti, com'un uil poltrone. Alta Corona, fa che la potenza Non superi la fede, e il uero in tutto Dammi almen di rispondergli licenza Poi che sì male è l'onor mio condutto Disse Guerrin, sempre hauendo auuert&etilde;za E bellamente mirando per tutto Perche'l troppo fidar tal uolta costa Potendo essere inganno fatto à posta A lui, disse il Soldan, come ti chiami Corona in uitta io mi chiamo Guerrino Diss'egli poi che'l nome saper brami Nè dir gli uolse il nome di Meschino, Acciò che la fortuna non si sfami Che qualcun per Cristiano in quel confino Nol riconosca, e prese per partito Il nome dir, c'ha dal Demon sentito. Guerrin (diss'il Soldano) io ti prometto Ch'àme fia grato quel che per tua scusa O per proua di quel, che tu m'hai detto Vuoi operar, nè che ti sia confusa L'opra da me, giuro sopra il mio petto Che nè in fatti, ò parole ti fia chiusa La uia, e però dì senza timore Quel che uuoi dir, per ricomprar l'onore. Ei disse, io dico, ch'à questo superbo Baron, non posso altramente far uero Il mio parlar, se non ch'io mi riserbo Armato di pari armi sù'l destriero A uendicarmi de l'oltraggio acerbo Però, s'ei non sarà uil caualiero Venga à mostrar se'l suo ualor risponde A quel parlar, che mia ragion confonde. Ecco il guanto ch'io getto, egli sel prenda Da che la tua Corona mel concede Et à difender sua ragione attenda Se ch'io menta, di quant'ho detto, crede; Quel Baron non l'accetta, e non s'emenda Io non mi mouerei, dice, d'un piede Per un'huomo sì uil, poi torce il ciglio Acciò che'l guanto colga un suo famiglio. Non consentì Guerrin, ch'egli il cogliesse Dicendo, quest'impresa à te non tocca Disss'il Soldano al Baron, che'l cogliesse Poi che cagion n'ha data la sua bocca Accordo al fin sorridendo si messe Mostrand'esser per lui l'impresa sciocca Commise à i Siniscalchi l'Almansore Che in piazza il dì seguente uscisser fuore. Ma perch'ei uide il Meschin forestiero E con poco fauor, tosto compose Ch'un suo gran Siniscalco molto fiero Gli desse ogni fauor, di quelle cose Ch'à la presente giostra sean mestiero Costui seco menollo, e se lo pose In camera à dormir con fe la notte Che l'imprese al giostrar non gli sien rotte. Fe far la notte in piazza lo steccato Il gran Soldan, per ueder quella festa Il Meschin dormì molto consolato Poi ch'accettata fu la sua richiesta Che per quanto egli hauea considerato La sera nel cenar la gente mesta Pel dir di Tenaur, ueder gli parse Ch'ogn'un contr'à quel d'odio in segret'arse Tenaur haue a nome quel Barone Per chi nata era questa noua lite Fur l'armi del Meschin (quãtunche buone) Se niente ui mancò, tutte guernite. Ponedas, che gli parue esser cagione De le parole, che fur poi seguite Per hauerlo condotto a l'Almansore Quel che far gli potè, gli fe d'onore. Il gentil Siniscalco giunto il giorno Con quant' amor, quanto possibil gliera A uestir gli aitò l'armi dintorno Tal facea Ponedas, tal'una schiera Di quei di Corte, ch'egli hauea d'intorno Però che Tenaur poco amato era In Corte, per l'acerba sua natura Che d'amicitia altrui non tenea cura Non fu sì tosto il buon Meschino armato Che galoppando un messo era uenuto A dir, che l'ordin'era in piazza dato E che già l'Almansor l'hauea saputo Con l'Argaliffo, sì che d'ogni lato De la piazza, di grosso, e di minuto Popol s'empiua, & hauean già sentito Chiarini, e squille al martiale inuito. Fu menato il caual, che con un salto Destro montouui, e sì facil, che quanti Lo uider, giudicar ch'assai più alto Andrebbe, ancor che l'armi sien pesanti. Il nemico con aspro cor di smalto Salse in arcion, con orribil sembianti E giunse accompagnato ne la piazza Con Caualieri assai di buona razza. Da l'altra parte Guerrin seco haueua Cinquecento à cauallo, huomin ualenti Che'l Siscalco gentil fatti gli haueua Venir, che fur di ciò molto contenti E giunti in piazza, colui che doueua L'ordine dar, fe ritirar le genti E dare à i due guerrier le lance in mano Poi feior di trombe il suono, à mano à mano Il sonar de le trombe, e dato il corso A i ueloci destrier, non fu disuaro Dando disproni, & allentando il morso Sì bene à un tempo, insieme s'accordare, Onde, senz'aspettare altro soccorso Due forbe mal matture s'attaccaro, E ancor che fusser le lor lance dure Non furo di non rompersi sicure. Fu l'uno, e l'altro colpo, aspero e crudo Pur la uisiera resse del Pagano E non toccogli il ferro il uiso nudo Restò la lancia à Guerrin rotta in mano A lui la ruppe il Pagan ne lo scudo Poser le groppe i caualli su'l piano Rimase Tenaur tutto inuilito E del capo, (pel colpo) sbalordito. Lassarono i tronconi, e riuoltati I caualli, e dal corso ritenuti Cominciar con le spade, più serrati Colpi, e più strani, con aspri saluti Fur quei di Tenaur più temperati Da tutti i circostanti già tenuti Perche non poco l'orgoglioso core Daua segnali espressi di timore. Pure, spinge'l caual, che la uergogna Audace il fa, che hauer conosce eterna E se stesso uil chiama, ú gli bisogna La gran uirtute usar del core interna Sol il caual, c'habbia uiltà rampogna Cosi di farlo alto rizzar, disegna Per urtar con un lancio Guerrin poi Ma furon uan questi disegni suoi. Perche Guerrin, che i colpi non aguaglia Non resta spesseggiar doue il disegno Il tira à guadagnar quella battaglia, Però senza rimedio, ò far ritegno Con un colpo crudel fendendo taglia Ben ch'egli nol drizzasse à cotal segno Che'l caual ne restò del Pagan morto Et increbbe à Guerrin sì fatto torto. Con un subito urtar col suo cauallo Potea uincendo seguitar l'impresa; Ma gli pareua à l'onor suo far fallo E men gloria acquistar de la contesa Però senza più porui altro interuallo Del suo cauallo scese, e con accesa Prontezza al suo nemico giunse in terra Che s'acconciaua à far pedon la guerra. Che bisogna più d'orsi, e di leoni O d'altre fiere orribili, e feroci Far de gli assalti lor comparationi Per graffi ò morsi, ò sbattimenti atroci? Costor non già con morsi, ò con ugnoni Nè con fiati di draghi, che lor cuoci Ma con l'onor contendon, che gli preme Più quel, che tutt'il mal del mondo insieme. Sì che non sol le forze, ma gl'ingegni Vniscon per offendersi prezzando Più quell'onor, che cento milia regni, L'esperienza estrema, c'hà nel brando Il buon Meschin, fa che mai non disegni Colpo ch'ei meni qual'hor uien calando, In uan, però c'hauea molta destrezza Che quanto forza in casi tai s'apprezza. Il destro, e spesso, & al suo tempo porre Il colpo il buon Meschin, fa che'l Pagano Si uorria con suo onor di quiui torre Conoscendo men dotta hauer la mano Vedesi rabbuffare, e sempre porre Ogni difesa, ch'ei u'adopra, in uano Ne al suo scampo uedendo altra uia Disse uers'il Meschin tal diceria. Vedi, (diss'egli) Caualier, ch'io serbo La forza al fin, che per tuo danno unita In me non mostro ancor, nè il forte nerbo Di queste braccia, per torti la uita Ma non uoglio esser teco tanto acerbo Per la uirtù, ch'in te ueggo gradita Però se render mi ti uuoi prigione D'una bella cìttà ti fo padrone. Non solo una città, ma tutto insieme Il mondo non uoglio io, ma lite e guerra, Gli rispose Guerrin, però la speme Habbi in quel gran ua'or, che in te si serra. Ma Tenaur, che dentro a l'armi geme Già cascato era ginocchione in terra E resesi prigione, e si disdisse Di quanto innanzi a l'Almansor già disse. L'Almansore il ue deua, & il uedeua L'Argaliffa con tutti i circonstanti Baroni loro, onde ciascun diceua Questi d'Apollo son miracol santi. Il pazzo Tenaur, che non credeua Tutti ha gia persi i suoi fieri sembianti Ecco ch'ei dà la spada, e ch'ei si rende Prigione, e il santo pellegrin la prende. O sagro Apollo, ò relucente sole Gridaua il popol, benedetto sia Poi che domasti le crude parole Di Tenaur, e la sua gran pazzia Però, diceua ogn'un, creder si uuole Ch'ei non suol comportar falsa bugia Poi mise un grido ogn'un grande e piccino Apollo uiua, e il santo Pellegrino. Prese di questo, Tenaur conforto Poi che quel fu miracolo tenuto E ch's Apollo al Meschino hauesse porto Sì come ogn'un diceua, il suo aiuto Che gli pareua esserne meno scorto Per uil da tutti, e ch' Apol fusse suto E non il buon Meschin, di tale acquisto Cagion; ma Guerrin tien uenir da Cristo. E Cristo ringratiò, ma non contento Di quel che per color ueduto s'era Diss'al Pagan, non basta il pentimento Nè domata esser la tua mente altiera Ma uo che tu ti chiami al tutto uento Dinanzi a l'Almansore, e poi che uera Dica ogni mia proposta essere stata E la risposta tua falsa, e sfacciata. Mossesi Tenaur per obbedire Et à piedi n'andò de l'Almansore Così de l'Argaliffo, e disse, Sire Et uoi santo Argaliffo, il mio ualore Vinto si rende, & à uoi torno à dire Di quant'to dissi, esserne mentitore Incontro à questo Pellegrin ualente Che come uuole Apol, resta uincente. Allor disse il Meschino, ei si conuiene Questo onore à uo i sol degna Corona Et al santo Argaliffo, ch'ogni bene Mio, stane l'alta gratia nostra e buona Molte parole poi, d'essempi piene Trascorse Tenaur, che la persona Mai non deue tentar l'occulte cose E quanto sieno à l'huom pericolose L'onor, che'l Soldan fece al Meschin poi, Fu grande, e uolse ch'ai piè gli fedesse Più basso un grado, più uicin ch'i suoi Baron, senza ch'alcun se ne dolesse. Disse Guerrin, che i desiderij suoi Eran, quando al Soldano così piacesse Nè sia da l'Argaliffo anche disdetlo Di ueder l'arca del gran Macometto. Fugli risposto, che di buona uoglia Eran parati, gratiosamente, E perche'l tempo lungo non si toglia L'altra mattina si faccia seguente, Il Meschin, ch'altro non ha, che gli doglia Più che l'indugio, ringratia umilmente Lor de l'offerta, e de le gratie tante Per non parere in tal caso ignorante. Tutta si rallegrò la Baronia Dipoi che l'arca mostrar si doueua L'altra mattina poi la compagnia De i sacerdoti lor, che ui teneua E l'Argaliffo, presero la uia Dal palazzo Real, doue s'haueua Ne la Moschea à mostrar l'arca; quella C'ha tanto in deuotion la gente fella. Da la sinistra man uolse il Soldano Che seco al pari il buon Meschino andasse Hauendol prima preso per la mano Acciò ch'egli più oltre s'accostasse Seguendo i sacerdoti à mano à mano Con l'Argaliffo, che con uoci basse Le lor preci cantauan, che i somari Miglior musica fan ne i lor cantari. A la Moschea giunser, ch'è ritonda Si com'il Panteon d'Agrippa in Roma Ma così larga in torno non circonda Nè tanto in alto s'alsa con la chioma Per la calca del popol, che u'abbonda Chi s'urta, chi si stroppia, e chi giù toma Corre ogni Mamalucco, & ogni razza Di gente, à quella scempia festa pazza. Di sua mano il Soldan prese à scalzarsi Sù l'entrata del Tempio, e così tutti Glialtri Baroni; e giunse à inginocchiarsi Il Soldan ne la porta, & à i ridutti Baroni il simigliante uide farsi Così fece Guerrin, se bene i frutti Al tutto tien, com'eran, falsi e uani. Ma finger gli conuien, tra tanti cani. Erano entrati i sacerdoti ornati Di ricchi drappi, e per molto or pesanti, Gli smiraldi, i zaffiri & i pregiati Carbonchi, i chiari e forti Diamanti Nel dosso a l'Argaliffa seminati Si uedean fiammeggiar da tutti i canti Seguì poi dopo quel con grande onore (Col Meschin seco) il Soldano Almansore. Quiui tre uolte, l'Almansor gittossi Col uiso in terra, e disse, io non son degno Veder questa sant'arca, e poi fermossi Sù le ginocchia, com'un'huom di legno Il Meschino ancor'egli inginocchiossi Dando di deuotione un finto segno Et come quel, che n'hauea dispiacere Voltò la schiena per ciò non uedere. Poi chinò il uiso alzando l'anche bene Per più dispregio de la lor credenza. Gran castigo di ciò ti si conuiene Dar, disse ogn'un che u'era à la presenza Grande stupor di questo al Soldan uiene Veggendo quella falsa riuerenza Che atto è questo? turbato gli disse E come à far sì grand'error uenisse. Giustitia (ogn'un gridò,) sia preso e morto E di che cosa? senza alcun timore (Disse Guerrin) son'accusato à torto, Dunque chiamate il mio uoltare errore? Ma son contento, ben che mi sta porto Mal, per far bene, & à quell'arca onore, Morrò martire almen, se m'uccidete Se del sangue innocente hauete sete. Nessun s'accosti, ch'io nòn uo morire Prima che la ragion mia non s'intenda Poi siemi preparato quel martire Ch'à uoi par giusto, e pch'ogn'un cõprenda Mi parea fuor di modo allor fallire S'ad una diuotion tanto stupenda Io uerme uile, e ne i peccati inuolto Hauesse ardir mai di uoltargli il uolto. Per mia gran diuotion questo à far tolsi Com'indegno ch'io son uoltar la fronte, Gli arbori anche del Sole onorar uolsi In questa forma, anzi lor feci un ponte De la mia schiena, quand'io poi mi tolsi Di terra, e con le man dipoi congionte In terra, & con i piedi caminai Del Tempio fuore, e così mi drizzai. Di questo il sacerdote poi d'Apollo Molto mi commendò, tennel ben fatto Che l'huom mai douerebbe esser satollo Vno Dio d'onorare in ciascun' atto Il Soldan, molto à questo dir pregollo Ch'egli li perdonasse, poi che tratto S'era à l'opinion falsa di farlo D'un tanto bene à torto castigarlo. Piansero tutti, per gran tenerezza Poi che falsa stimaron sua bontade Volendo dargli pena con asprezza, Tenendolo huomo di gran santitade Tra se disse Guerrin, questa sciocchezza Ch'io ui fo creder, mi fia sanitade Ma bene à uoi fia danno sempiterno Ch'adorate un condennato à l'Inferno. Or perch'io piglio à narrar quelle cose Per ordin, che'l Meschin uedute haueua Pel mondo; cio è quelle più famose Dirò come quell'arca si reggeua In aria, e come quiui si compose, Il che, per gran miracol si teneua Da la gente ignorante, e tiensi ancora Che sotto quella se falsa dimora. Dal mezo in sù, la cappella è composta Di Calamita, ch'è piètra marina Tra nera e bigia, che se ui s'accosta Il ferro, ouer s'ella gli s'auuicina Per la frigidità c'ha in se riposta Tiralo à se, la cui bontà diuina I Nauiganti san, ch'in la procella Fa lor trouar la Tramontana stella. Com'ho detto di sopra, è Calamita Dal mezo in giuso, e tutta bianca poi Quella Cappella, e doue uiene unita Cioè tra'l nero, e'l bianco, per li suoi Termini, ha una lista circuita Rossa, senz'altro color che l'annoi. Ha due finestre tonde solamente Ch'una à Leuante sta, l'altra à Ponente. Nel mezo hà uno altar ritondo, ilquale Vn cerchio d'oro in torno lo circonda Sopra hà l'arca sospesa, ch'è d'acciale O pur di ferro, d'ornamenti monda Che non è lunga un braccio naturale E qualche cosa men par che risponda A guisa sta di uaso lauorata Ben ch'ella mostri sua forma quadrata. Mentre Guerrino à rimirar si staua Attento à quelle cerimonie loro Con la bocca pian seco mormoraua (Mentre che i sacerdoti intorno al Coro Ad alta uoce ciaschedun cantaua, In uerso l'arca, Dio ti dia ristoro Dicea'l Meschino, ò falso ingannatore E d'ogni tristo error seminatore. Tu hai guidati tanti, e guidi ancora Con tua falsa credenza al cieco Inferno Che ben giusta cagione hai data ogn'hora Di prouar tutto il mal del tristo Auerno, Ma poi che di fornir su giunta l'hora Vscir del Tempio, pur sotto il gouerno De l'Argaliffa, ù uider certi sciocchi. Che s'eran fatti allor cauare gli occhi. Per deuotione il fer, perche uedere Cosamai non pensar più degna, e santa Secondo il falso lor sciocco parere Seco ridea Guerrino à ueder tanta Stultitia, ben c'hauea gran dispiacere Veder sì tristamente persa quanta Vedea generation, ch'è pure umana Per fede sì bestiale & sì uillana. Fugli anche detto, che l'anno, che fanno Il giubileo lor, molti insensati Per una falsa credenza che gli hanno Certi lor carri apposta preparati Tirare addosso subito si fanno. Così morendo, si tengon beati Sono i lor corpi con sommo decoro Poi riportati ne le patrie loro. Santi son detti poi di Macometto I quai la sciocca gente stima e crede Che seco in cìel si godan con diletto E stien ne i primi seggi per mercede Pensando hauer purgato ogni difetto Or riuolgendo al nostro intento il piede Com'al palazzo il Soldan fu tornato Principio al magno desinar fu dato Erasi posto à tauola à sedere Che sopra un fin tappeto in terra staua Con ogni suo Barone, e Caualiere Altroue l'Argaliffa sol mangiaua Quando dolente si fece uedere Vna fanciulla, che l'accompagnaua Due Caualieri, e due Donzelle meste. Di bello aspetto, e di maniere oneste. A l'abito Reale, à l'eccellenza A la beltà del uiso, à l'aureo crino Al pietoso languir, la sua presenza S'empì d'amore, e di pietà Guerrino Nel rimembrarsi il duol, lei restò senza Poter parlar del suo fiero destino Ogn'un pregò'l Soldan, non potendo ella Ch'altri narrasse la sua sorte fella. Fu detto ad un di quei due Caualieri Chè la cagion del suo dolor mostrasse. Ilqual prese à narrarla uolentieri Furon fatte seder le Donne lasse, In questo mezo, da certi scudieri Come parue che'l Sir loro accennasse. Maestà santa, incominciò colui, Io dirò quel, dou'to presente fui. Di Presopoli è questa Giouinetta Del Re figliuola fu, che nouàmente E' stato morto, senza sua uendetta. E presa sua citta da Turca gente; Trecento mila, essendo di tal setta Re Galismarte feroce e potente, Dopo molte battaglie, al fin la uinse Et il Re con due figliuoi di uita estinse. Finistor l'infelice Re chiamossi Ch'à la tua Maestà fu noto forse, Tolte molte città prima trouossi Che mal prouiste il suo Signor soccorse Presole il Re Galismarte, accampossi Con tanta gente che seco ui corse, Che non ui fu rimedio di soccorso Hauendo à l'altre terre poste il morso. Le città furon queste, in Persia poste Dal Tigre, fin al gran fiume Ilione Zenzafra, Indica, Arbare, et altre accoste E seminate per tal regione Merauiglia non è, se sottoposte Son'or da tante migliar di persone Nè che sia Galismarte sì potente Nè c'habbia al suo comando tanta gente. Costui ha di Damasco signoria D'Assiria, di Giudea, & Palestina D' Cospidam ancor, ch'è in Soria Media, Armenia, e Cilitia si declina Sott'il suo Imperio, e la Panftagonia Di Isauria, di Panfilia ha monarchia Iocadia, e Trabisonda, e non ha meno Vn suo fratello, spatio di terreno. L'altro fratello Astilador si chiama Che'l resto di Turchia tien sottoposta Bossina tien, la quale è di gran fama Tien Polana, tien Vesqua à quell'accosta; Con più regni, nè bastangli, ch'ei brama Gli altrui paesi, & hauui già composta Aspra battaglia, se ben l'ha condotta In dietro al fine, e con la testa rotta Or noi, poi che i figliuoli, e'l miser padre Vedemmo morti, pur con l'armi in mano Che fummo Caualier de le sue squadre E ch'ogni contrastar uedemmo uano Questa fanciulla, ch'era senza madre Al palazzo, e'haueam poco lontano Poi che debol contrasto hauea la guerra Guidammo fuor del sangue, e de la terra. Condotta à braccia più morta chè uiua Ci fu sì fauoreuole la sorte Mutando insegna, che l'habbiamo schiua Da seruitù, da uituperio, e morte Sperando noi, s'ella di uita priua Non fusse, à quàlche t&etilde;po, à qualc huõ sorte Chiedendo aita, ò seco apparentarsi Potere un dì quel Regno racquistarsi. Nè ci essendo altri, à chi la uicinanza Trista de i Turchi più far danno possa Ch'à uoi santa Corona, e più possanza Habbia, però la nostra prima mossa E stata quì, però che l'arroganza De i Turchi non si frena in una scossa Persia felice haran, s'altro riparo Non ci è, che domi Galismarte auaro. Poi per pietate, e per somma giustitia Per l'età giouenil, per lo sprezzato Sangue Real, per l'orribil malitia Del Turco Re, crudele, e scelerato Piacciaui consolar tanta mestitia E la miseria grande del suo stato Che se nel uostro fauor non rimane Conuien che uada a mendicar'il pane. Come scacciata, e come uilipesa A uoi ricorre, e ui si raccomanda Che tor uogliate la pietosa impresa Poi la ragione in parte lo comanda Sendo nostro Soldan di Persia offesa Come si uede già da una banda Del uostro fauor dunque habbiam mestiero Quì pose al parlar fine il Caualiero. Allora il buon Meschin, ch'ardea di uoglia Di fare opera degna del suo core E conuien (disse) ch'io la lingua scioglia Inginocchiato innanzi à l' Almansore Se fate che'l poter non mi si toglia, Diss'il Soldano io son per farti onore Dì pur senza temer, ciò che dir uuoi Che'l parlar non si niega à i pari tuoi. Noi siamo in questo mondo fragil posti Diss'egli, tutti in simiglianza uguale In quanto à la natura, e sottoposti In preda à la fortuna, al bene, e al male Nè d'altra differentia siam composti Se non qual più, e qual men si preuale O'di forza, ò d'ingegno, ò di ricchezza Laqual, sol gode men, chi più la prezza. Non diede il gran Motor, se ben si pensa, Lo scettro in mano ài Re, se non per segno Di ministrar pari Giustitia immensa E ch'à tutti color, sott'al cui Regno Saran, sian solrefugio d'ogni offensa Et finalmente il uer porto e sostegno Di chi ui corre, e il suo Re giustamente Deue esser guida à la smarrita gente. Oltre che'l uiuèr senz'opre, che sieno Degne del Regno, in che l'huomo si troua Merita per ragion d'esser dameno Se di se non sa far più degna proua Al uil Sardanapal fu posto il freno Anzi al suo Regno, al qual or poco gioua Che mille, cento, e sessanta anni sia Con buon difenditor stata Soria. Aiutando costei tu fai non sola Star la giustitia in piè, che far il dei, Essendo tanto più di Re figliuola, Mafreni il corso à gli auuersarij rei, Che Dio uoglia, ch'io menta per la gola Che s'ostinato à por rimedio sei I Turchi in superbiti da l'acquisto T'assalteranno un di qui mal prouisto Io ti prometto per quel Macon santo, Risposegli il Soldan, ch'à Galisinarte Del mio tesor prometto dargli quanto Basti à sarlo tornare in quella parte Dond'ei si mosse, e di questo mi uanto Se per tesor uoler, seguita Marte Così lasser à il Regno, & ogni terra C'hà presa di Presopoli per guerra Questo saria (disse Guerrino) un farsi Tributario d'accordo, senz'hauere Ardir di mai poter più liberarsi Et un gran segno espresso di temere Però questi partiti sono scarsi Dunque ascoltisi in questo il mio parere Il tesor, che gettar uolete uia Sarà buono à cauargli la pazzia. Et io, se guerra far ui risoluete, M'obligo, e tanto l'animo mi dice Se nel mio far, punto ui fiderete Spero seco uittoria hauer felice. Spegner fia graue in questo la tua sete Disse il Soldan, ben che non si disdice Che non si speri ne la uirtù c'hai, Ma la forza de i Turchi ancor non sai. Poi uolto al Caualier, c'hauea parlato, Domandò quanto tempo guerreggiando Hauea, che Galismarte era accampato A Presopol, del qual son ora in bando, Disse quel Caualier, ch'ei u'era stato D'allora in quà, che'l suo fratel tornando Da una guerra senza frutto uenne. Anzi lasciouui le maestre penne. Astiladoro il suo fratel si chiama Che se ui piace udir, non lo sapendo, Dirò l'origin per quanto la fama N'ha dato inditio, da laqual l'intendo Poi che fortuna sopra noi si sfama Con nostro duolo, e uituperio orrendo L'Imperador Cristiano, ò Almansore Che di Costantinopoli è Signore, Hebbe una figlia, non forse men bella Quì de la sfortunata mia Reina Ma se uantaggio ci è, lei passa quella Pur fu tenuta in quel tempo diuina, Volsela maritare, & acciò ch'ella Fusse onorata à la festa uicina Fe fare un bando, che ciascun potesse Andarui di qual fede si uolesse, Ordinar fece una giostra superba Et un pregio fe por conueniente, Ilquale ancora al uincitor si serba Che tal causa allor restò pendente. Di quì nacque una guerra molto acerba Che fece Astilador, con la sua gente A quell'Imperador, ma com'ho detto, Fu di tornar col campo adietro stretto. Con undici figliuoli men, che morti Gli fur per man d'un chiamato Meschino, Che fu già schiauo uenduto in quei porti Chel rubbaro i Corsar da piccolino, E per gli inditij, che mi furon porti Costui è molto più che Paladino E fu di seruo in libertà tornato Da Alessandro, alqual fu già donato. Il ualor, la uirtù d'un'huomo solo Diede a l'Imperador uinta la guerra Conuenne Astilador tutto lo stuolo Leuar'e lasciar libera la terra Per non restar priuo d'ogni figliuolo E non sol dar le sue ragioni à terra Ma gli conuenne giurar nel partire Mai non hauer di ritornarui ardire Veduto questo, il fratel Galismarte Di rabbia acceso, e d'acerbo furore Fe presto gente, e uenne ne la parte Di Presopoli, addosso al mio Signore E tanto hebbe poter, tanta fu l'arte Ch'al fin pur causò'l nostro dolore Et euui morta la trista, e la buona Gente del Re, con l'istessa persona. Or se potessi hauer mezo nessuno Per amicitia ò forza di tesoro Di condur quel Meschin, che da ciascuno Tanto è temuto, e cotal forza ha l'oro Che'l suo uago colore abbaglia ogn'uno O sia Cristiano, ò sia Turco, ò sia Moro Hauendo lui, tu puoi ardir d'auere Ciò che uuoi col nemico, e possedere. Disse il Meschin, (che non è conosciuto) A me non par, che si debbia far questo Perch'io ho inteso per chi l'ha ueduto Che la uita, e'l ualor, porria piu presto In opre di giustitia, oue saputo Da'lui fuss'il bisogno, e sia richiesto E in questo assai mi piacque la sua fama Poi ch'egli il dritto, e non il tesoro ama. Ma se dal cielo, e da la buona sorte Mi sarà dato (com'io spero) aita Spero imitarlo, sì costante, e forte Ch'io farò opra, forse à uoi gradita Valti prima di noi, che tieni in corte E se l'opera nostra, uien fallita Posponci à glialtri ò poi dà questo onore A chi è più di noi con più ualore. Per noi colui faria, diss il Soldano Poi ch'è sì fiero, e de i Turchi nemico Pur se uolete à tal guerra por mano Gente non mancherà, però ui dico Che far bisogna uno sforzo sourano E di gente richiedere ogni amico In India, in Babilonia Ambasciadori Mandar bisogna, & à molti Signori, Saluando il tuo giuditio, ò sommo Sire (Il Meschin disse) e la tua mente buona A me per or non parue di uenire A l'estremo poter, che la persona Ne la guerra non può di certo dire Così farà quantunche si propona Alto ualor, non ti metter sì presto A mettere à la prima del tuo resto Io m'obligo Signor, s'io ne son degno Per la pietà del torto che riceue Questa fanciulla, metter sì l'ingegno Con poca gente (nè ti paia lieue) Che in poco tempo acquisterò quel Regno Ch'ogni fatica non mi parrà greue Nè il pigliar uolentier sì gran tenzone Per mantenere il dritto, e la ragione. Diss il Soldan, per quanto ne uediamo Siam certi che nessun di te migliore A quest'impresa accomodar possiamo Però di questa sala uscirai fuore Acciò che co i Baron ci consigliamo Circa al far gente; e darti questo onore Con quest'ordin si piglia ogni partito Esce il Meschino, e'l mio Canto è finito,

IL FINE DEL CANTO TERZODECIMO.

TRascorreva nel dir, Vergine sagra, Qvando l'umil Giouan ni tuo Battista. Disse, ricorri lieto à chi de l'agra Morte ti può saluar pietoso in uista, Ricorri al sonte, che'l tempo ti smagra Ilqual perduto, mai più non s'acquista Te Vergine mostrommi, sotto un manto Il Padre, il figlio, e lo spirito santo. Però mi uolto à te, che preghi lui Che m'inspiri ch'io segua in modo, ch'io Caui chi legge, e me da i Regni bui Del fiume scuro de l'eterno oblio Nè miri quel ch'io son, nè quel ch'io ui Ma solo al puro & acceso desio Del buono amor, ch'io porto à la tua fede Et à chi l'ama, & à quel che gli crede. Or'io lasciai, che'l Soldan nel consiglio Entrò coi suoi Baron, ne l'altro canto Per consultar la guerra, che dal figlio Di Milon, comendata gli fu tanto, Quiui non fu tra lor nessun bisbiglio Tenendo il buon Meschin per huomo santo Dicendo ogn'un, per qualche segno forse Il sagro Apollo in fauor ce lo porse. E già ci ha mostro quanto in arme uaglia Con Tenaur, ch'è de i più franchi, e forti Che sia buono in tua Corte da battaglia Sì che Signore, haresti tutti i torti, A non uoler che Galismarte assaglia Con l'ordin, ch'ei ti dà, con quei conforti Ben si conosce à l'animo suo fiero Quant'ei sia saggio, e forte Caualiero Ogni Signor d'un medesmo parere Il consigliar, che guidar li lasciasse La guerra, e far secondo il suo parere E che'l Soldan la gente gli trouasse E molti ancor secondo il lor potere Gli offerser genti quante si trouasse Da portare arme ne i paesi loro E per condur de l'altra anche tesoro. Più di cento Signori s'obligaro Di fare armati al Meschin compagnia Questo al Soldan fu sommamente caro Poi che contenta era la Baronia E cosi dentro Guerrin richiamaro. Diss'il Soldan, gliè uinto che tu sia Campion de la fanciulla, e quella gente Che uuoi condur si faccia incontinente. E per seguir co i detti ancor l'effetto Manda per tutta Persia commissari Che gente d'arme mettano in assetto Non risparmiando spesa nè denari Nè sol la fama corse pel distretto Di Persia, ma di quindi non ste guari Che molti amici del Soldan uicini Vi uenner, presso e lontan dai confini. E tra la gente trista, e tra la buona Si condusse à la Meca in tempo corto Quattrocento mila huomin con persona Da guerra, e da sperarne buon conforto Tra i quai tredici Re fur di Corona Ch'amauano il Soldan, mostrando scorto. Due Re d'Arabia ui furon tra questi Con cento mila Arabi, arditi e presti. Disse il Soldano à Guerrin, tu sarai Di tutta questa gente Capitano E s'altretanta anche condur uorrai Coprirotti ogni monte, & ogni piano Allor disse Guerrin, mi piace assai Veder tanto potente e tanto umano Il mio Signor; ma per la prima mossa Non uoglio ordir battaglia così grossa. Il terzo dì, ch'i Capitan fu fatto Volse ueder la moltitudin tutta E far rassegna, per ueder chi atto Fusse, e qual gente ne la guerra instrutta Presso à quindici dì u'hauea disfatto Di tempo, e con buon'ordine ridutta Tre battaglie ne fe con lunghe fila Furono ne la prima ottanta mila. Cento mila ordinò ne la seconda E ne la terza tutt'il resto pose Che di due tanti più di gente abonda Poi elesse la prima, ch'ei compose Questa, disse al Soldan, per me risponda Ch'erano genti assai più bellicose Vn'altro sia col resto dal suo canto Ch'io romperlo con questi mi do uanto. Non basterebbon trenta carte ancora S'io uolessi narrar l'ordine intero, Che'l Meschin fe di quelle genti allora Mostrãdo esser'huom degno d'alto impero, Tanto ch'ogni Signor sen'innamora Veggendolo cosi destro e leggiero Di quà, di là, sopr'il cauallo armato E di guerra esser tanto ammaestrato. Tende, e trabacche, e carriaggi porre In ordin fece, e con le uettouaglie Molti Camelli seco uolse torre E l'ordin, che si suol de le bagaglie, Poì fece il suon de l'alte trombe sciorre Et d'altri suoni usati in le battaglie E fe gli ottantamila mouer uerso Persopoli, nel sangue ancora immerso. Et lassò nel partir, che bisognando I centomila, il Soldan gli mandasse In due partite, tuttauia sperando Che tal soccorso non gli bisognasse Pur il Soldano il ueniua essortando Che seco tutti allor ne gli menasse Ma lodata gli fu tal prouidenza, Si da ciascun, ch'ei non fe resistenza. Or, se mai ualse il buon Guerrino in guerra A questa uolta farà cose estreme Ch'Amor lo sprona ad acquistar la terra Di quella ch'ama, riuerisce, e teme Q uanto d'Amor il dolce artiglio afferra Già proua sì, che di dolcezza geme, Ella men lui non ama nel segreto Poi ch'ei si moue in suo fauor sì lieto. Antinisca hauea nome la donzella Di somma gentilezza adorna ancora, Quel dolore aspro, la sua faccia bella Le scolorisce, per ch'egli scolora Faccia più fiera che non hauea quella Or'il Meschin, non sol così l'onora Ma il Soldan prega, che le faccia onore Come pietoso, e cortese Signore. Hauea'l Soldan dugento donne elette Tra le più belle per sue mogli come Da la sua legge non gli son disdette Ma una sola ha di Reina'l nome A la qual sol la corona si mette De la cui s'orna la testa e le chiome In compagnia di questa, egli la messe Che sol di farle onor la cura hauesse. Da la Mecha à Presopol quattro cento Miglia era, & à la uolta di Leuante Fece tornar le guide ogn'un contento Per non gli fare star giornate tante, Seco Guerrino, e di poì non fu lento D'auisar Cariscopo ancor di quante Fortune buone, e trist'habbia incontrate Così n'andar di denar contentate. Il fiume Palisado con l'armata Passò Guerrino, il qual correndo ancora Fa prima per la Mecha sua passata Poi Coronassa trouò, che dimora, Sopra'l fiume Prisona, assai pregiata Cittade, e trouo'l fiume Rocomora Ne la cui sponda anch è la città posta Di Tarbaì, e quiui giunse apposta. Giunseui apposta, & alloggio la notte L'esercito, non gia ne la campagna Ma parte per le case, e per le grotte Senza far danno, ò alcuna magagna, Che'l Capitan, che tai genti ha condotte Gli ammaestrò, che poco si guadagna Ne le città del suo Signor, che quella Del Soldano era, popolata, e bella. E tra le terre triste, e tra le buone Che poi per molti dì prima passaro Giunsero aduna su'l fiume Vlione Attinus detta, un'altra ne trouaro Grande, abitata da molte persone Chiamata Barbian, poi caminaro Molte giornate, e fece al fin posata A Darida città, tutta l'armata. A Presopol cinquanta mila è presso Questa cittade, e quiui rinfrescati Alquanti dì senza mandar più messo A i Turchi à dir, perche quì sieno andati, Seppe per certe stirpe, c'haue a commesso, Così Guerrin, ch'à Galismarte stati Molti eran, e'hauean dato inditio intero Di quante genti egli haueua l'Impero. E come Galismarte poco conto Haue a fatto di loro, e ch'ei commesse, Che si mettesse ad un suo figlio in ponto Con centomila, e romper gli douesse Finistauro ancor non era gionto Con le sue genti in ordin quando messe In ordin da Guerrin le sue già furo Per esser dai nemici più sicuro. In questo mezo giuns'un messo, ilquale Portaua un breue da Presopol, doue Scritto era, come i Cittadin, che male Eran contenti di tai genti noue A Guerrin danno inditio, e chiar segnale, Che tutte le sue forze, e le sue proue Faccia per dare à i centomila drento, Senon, che le migliar saranno cento. Che come Finistauro inuiato (Che così'l nome era del suo figliuolo) Fu caldamente il Re poi consigliato Ch'ei lo seguisse con tutto lo stuolo Che'l dubbio de le guerre, d'ogni lato Può riportarne in allegrezza, e duolo, Doue che hauendo unita lo sua gente Potrà romper quei pochi facilmente. Per tali auisi se Guerrin raccorre Tutti i Signori, che'l seguiro in campo, E disse lor, che si douesse porre Ordine à la uittoria, & à lo scampo De le lor genti, prima che comporre Possa il nemico il disegnato uampo Perche se quei, ch'appresso habbiam, rõpiamo De glialtri (disse) manco dubitiamo. E già gli Dei e'l sagro Apol per darci Di lor uittoria, disunir gli han fatti, Et (come per noi fa) poco stimarci Pensando hauerci con cenni disfatti, Con ordine or conuiene innanzi farci, Per ueder se n'haran così buon patti. Al cui dir, tutti i Baron Persiani Dissero, ueniam pur tosto à le mani. Così di Darida uscir fuor, mettendo Il campo in ordin posto in cinque schiere, Venne Guerrin la prima commettendo A Tenaur, ch'era quel Caualiere Con cui già combattè, però ch'essendo Forte, uolse mostrarlo in conto hauere Due Re pose con esso, e le sue genti Furon quindici mila combattenti. Quindicimila ancora à due Re diede D'Arabia, Aginapar l'uno chiamossi L'altro Arabismos, che questo possiede Huomini forti, ualorosi, e grossi. Al Re Daredin l'altra poi concede Con tre Re più, che s'eran seco mossi Quindicimila ancora furon questi Caualier tutti ne l'imprese desti. La quarta per se tenne, che fur pure Quindicimila, e l'ultima fe torre Al nipote al Soldan, che di sicure Genti, gli uolse la schiera comporre. Fur tutte l'altre con uguai misure Partite; ma sol questa non concorre Con l'altre, perche uentimila sono E de i membri del campo anco il più buono Il giouine, à chi data fu tal cura, Nipote è del Soldan, per nome detto Personico, & è fiero di natura, Pur'il Meschin gliordinò per rispetto Di seguir la battaglia più sicura, Ch'egli stesse al suo luogo attento e stretto Fin ch'ei gli desse il segno, ch'ei mouesse Le genti, e che soccorso à glialtri desse. La scolta in questo gli fece sapere Il modo, ch'erano i Turchi ordinati E come di lor fatte hauean due schiere Con quattro Re la prima incoronati Cinquantamila son di genti fiere In ogni schiera, così separati E non può lor ne l'animo capire Che i Persian gli debbiano assalire. Ma quando il poluerin ueggono alzarsi In alto, e Tenaur già quiui gionto E fieramente in prouiso assaltarsi Ne fecer, più che non faceuan, conto Già cominciaua l'arme a in sanguinarsi Con intricato, e terribile affronto, Intanto era Guerrino innanzi corso Per dare ardire à le squadre, e soccorso. La gente in dietro sua lasciò correndo, Da cento buon caualli accompagnato, Ei passò gli altri, sempre mai mettendo Ordine, e cor, com'huomo alto e prègiato, Et andò tanto, or quà, or là scorrendo, Ch'al Re Aginapar era arriuato E gli ordinò, che destramente andasse E che co i suoi ne la battaglia entrasse. Ma egli prima e il Re diuotamente Smontaro in terra, e cor parole sante, Il Meschin pregò Cristo onnipotente Per esser di tal guerra trionfantè Era col uiso uoltosi à Ponente, Quando adorando il Reuerso Leuante, Disse, ò Guerrin, tu non adori bene, Ch'adorare à Leuante si conuiene. O'Leuante, ò Ponente, ò doue io sia Volto, per tutto sente, e'l tutto uede Colui che creò'l tutto, e monarchia Di quà, di là, d'ogni cosa possiede Non l'intese quel Re; ma tuttauia Per seguir l'opra si drizzaro in piede Co i cento Caualieri Guerrin corse Ne la battaglia, e n più parti trascorse. E uide che serrata nel mezo era E circondata da i nemici intorno Di Tenaur la ualorosa schiera, Ond'egli uolto à quei, che'l seguitorno Quì disse è da mostrar la uirtù uera Per uoi celebrerassi questo giorno Disse, se ui da il cor di seguitarmi, E di far strada quì per forza d'armi. Per uoi nel foco, non solo in battaglia Vogliamo entrar, dissero i Caualieri, Ond'il Meschin con gran furia si scaglia Innanzi con orrendi colpi, e fieri Sù presto, grida, addosso à la canaglia E spesso taglia più giù che i cimieri, Gli ordini rompe, e fassi far la uia Ben che di luogo ui sia carestia. Dal primo entrare al mezo era due uolte Corso di quà, di là per fare il passo Ampio, allargando le genti più folte Mostrandosi ogni uolta manco lasso. Prima che i suoi compagni à briglie sciolte Potesser seguitarlo di buon passo A tal quel uarco in un tratto ridusse Ch'Aginapar ne la guerra à condusse. Da quella banda entrò con quella gente, Perche Guerrin, c'ha de la guerra l'arte Fece una di due schiere immantinente E rinfrescò di Tenaur la parte Le cui genti un buon terzo erano spente Poi (fatto questo) subito si parte Et à la terza à Daridan commesse Che sù gli auissi à dar soccorso stesse. Poi à la sua (ch'era la quarta) gionto Per ordinargli, non gli fu bisogno, Che da le stessi s'eran messi in ponto Poi che la guerra non giua da sogno, De l'ultima bisogna anche far conto Da che l'ordine dir per tutto agogno, Quiui cors'il Meschin con grand'amore Atutti i Caualier mettendo core. Finistauro entrò, poi che'l soccorso Si fiero uide esser de i Persiani Coi soi cinquanta mila al primo corso E col Re Aginapar uenne à le mani Il miser Re tant'oltre era trascorso Ch'ei restò morto da quei Turchi ca ni Nè su gran fatto, che nel primo affronto Da più di uenti lance ui fu gìonto Quell'impeto primier diè gran fracasso A i Persiani, e ne cascaron molti Tanto che Tenaur, già passo passo Al meglio ch'ei poteua i suoi raccolti, Per non trouarsi del soccorso in asso Gli haueua già à ritirarsi uolti; Ma giunse Daridano in sua presenza E fece à i Turchi una gran resistenza. Et unissi con glialtri francamente Facendo testa, e grand'uccisione Or prima che fue genti fusser uente Di Personico l'ultimo squadrone, Guerrin partillo in due parti ugualmente E questo fatto, subito compone Con Personico, ch'egli in mezo metta La Turca gente da due parti in fretta. Grande de i Turchi fu la merauiglia Sentendosi assalir da tanti lati Di quà, di la, la gente si scompiglia Son tutti gliordin già disordinati Quì l'arme bianca diuenta uermiglia Quì si sentono i colpi dispietati Ogn'un s'aita, ogn'un si fa uedere Con l'arme in man ualente Caualiere. Finistaur di quà, di là si uede Tenaur, e Personico feroci De i lor percossi restan pochi in piede Gridano i Persian con alta uoci, Apollo or la uittoria ci concede Contra uoi Turchi crudelmente atroci; Ma quel dir nõ iscema à i Turchi il uampo Anzi acquistauan sempre più del campo. Il Meschino, che pender là bilancia De i suoi uedeua, à la sua schiera corre, E chi uuol, dice, si gratti la pancia Ch'ànoi conuiene altro esercito torre E presa in mano una gagliarda lancia Con la sua schiera in la battaglia à porre S'andò, e fe far testa à i rifugiti Hauendoli co i suoi per ale uniti. Poi gli strumenti tutti de la guerra Fece sonar con accento tremendo Non è sì forte cosa, ch'egli atterra Doue s'adopra col braccio stupendo Beato chi de le sue man si sferra Or io tenerui à tedio non intendo, Veggendo nel Meschin sì grand'ardire Preser partito i Turchi di fuggire. Così, chi quà, chi là di timor pieno A coppie, à diece, à uenti, à squadre intere Si diedero à cercare altro terreno Poi che per tutto si ueggono hauere Nemici intorno, e tanto più che sieno Guidati da sì franco Caualiere Che come quiui Guerrin su sentito Venne ogni Persian per quattro ardito Finastaùro, poi che spauentata In fuga la sua gente fuggir uede E la battaglia quasi abbandonata Anch'egli à i Persiani il campo cede E perche fuga in lui non sia notata Verso il fiume Vlione à gir si diede Mostrando quiui andar, com'altri uanno A rinfrescarsi per sete, & affanno. In preda à i Persiani il campo resta E son già de i nemici al padiglione, Onde assai spinti da la disonesta Voglia di preda, pigliauan prigioni E roba, in modo già, che di far testa Dauano à i lor nemici ampie cagioni Quando il Meschin tal'ordine in lor mira Non potè contener la stizza, e l'ira. E fe tosto pel campo bandi andare A pena de la uita, che nessuno Ardisca la uittoria abbandonare E sia à tutti tal bando communo Perche l'ingorda uoglia del rubare Spesso di bianco fa diuentar bruno, Chi per rubar lascia l'armi dà canto Fa spesso ritornare il riso in pianto. Fu da un Mamalucco à Guerrin detto La uia che Finistauro faceua Fe porgersi una lancia ad un ualletto Perche assoluto lasciar nol uoleua Dipoi disse à Personico, s'io metto Tempo à tornar, di quiui il campo leua Ma non più tosto, che per monte, ò piano Vegga à Turchi tener quì l'arme in mano. Spronò poi, detto questo, il buon Guerrino A la uolta del gran fiume Vlione Andando sempre in giuso uers'il chino Doue la strada mostraua un Vallone Tanto, ch'al fin le pedate e'l camino Trouò di Finistauro, e quì si pone L'orme à seguir, ch'eran d'un sol cauallo Che'l feron certo di non gire in fallo In questo mezo i Persian Baroni D'allegrezza ripieni, e di stupore Del campo al tutto restaron padroni Godendo insieme la preda, e l'onore, A raccolta fer dar del campo i suoni Il cui raccor non fu senza dolore Però che'l Capitan maggior mancaua Nè con tanta uittoria si trouaua. E mentre ch'aspettandolo si staua Scorreuan di tal guerra ogni successo E del lor Capitan si raccontaua Ogni bello ordin, ch'in loro hauea messo E con quanta uirtute ammaestraua I Capitani nel proprio interesso E com'or quinci, or quindi prouedeua A'tempo, doue il bisogno accadeua. Vedeste uoi, (diceua un gran Signore) Come con cento sol caualli diede A' Tenaur serrato gran fauore? Et egli, ch'è presente ne fa fede. Vedeste uoi poi con quanto ualore Temporeggiando fin ch'à l'Ostro riede Il Sol, ch'à i Turchi abbagliaua la uista Entrò con la sua squadra ben prouista? Di quì nacque la fuga de i nemici Questa l'origin fu de la uittoria Che più di diece mila d'infelici Turchi, nel primo assalto, con sua gloria, Vccise con sua squadra, & à gli amici Porgendo cor , Ma qual distesa istoria Potria narrar quantì da sue man fortì Si potrebbon contar nel campo morti? Gli Dei infusa gli han tanta uirtute (Dicendo) e noi da ringratiar gli habbiamo Che ce lo dieder per nostra salute Così gratia ci dien, che'l ritrouiamo Sien le genti ferite prouedute In questo mezo che noi l'aspettiamo. Così dicendo in Daridà n'entraro Gran parte, e gli altri di fuor s'accamparo Lasciamgli stare, & à Guerrin ritorno Farem, che seguitaua le pedate, Già male attese nel passato giorno Pur da lui fur di sorte seguitate Ch'andando poco de la riua intorno Del fiume, oue le sponde eran mangiate Dal crescere, e'l discrescer di quell'acque Ch'ei trouò quel, che di trouar gli piacque. Doue restato un bel pianetto u'era Trououui Finistauro fermato Che si dolea de la sua sorte fiera Di sudor pieno, e di sete scalmato Che per ber, l'elmo già cauato s'era. Guerrin gli domandò, s'era passato Finistauro quiui, dubitando Ch'egli non fusse quel, ch'ei gia cercando. Chi sei tu? (disse) che cercando il figlio Del gran Re Galismarte così uai? Che pur ora è scampato da l'artiglio De la crudel fortuna, dillo omai, Che più non uale aiuto, nè consiglio S'in te per suo conforto tal cura hai Piglia dunque il camin per altro uerso Che uoler consolarlo, è tempo perso. Io uo per dargli l'ultimo flagello Disse Guerrin, nõper pietà ch'io n'habbia, Ma tu chi sei, che porti elmo si bello? Certo tu non mi scappi de la gabbia Se tu uolassi ben com'un'uccello, Che or'or sarà frenata la tua rabbia Tu sei quel desso, ponti l'elmo in testa Ch'altri che te cercan più non mi resta. M'incresce che tu sia tanto cortese, Finistauro disse, e basterebbe A quel che fa tremar questo paese Guerrin chiamato, e forse non direbbe Che l'armi prima al luogo suo sien rese. Disse guerrin, de l'onor mio m'increbbe Che s'io credessi hauer meza Turchia Non ti farei senz elmo uillania. Vediam se tu riesci à l'altra parte Diss egli; ma pregar prima ti uoglio Che tu mi dica s'è figliuol di Marte, Q uel uostro Capitan, c'ha tanto orgoglio, Che ha già mezo disfatto Galismarte. Io, che sia uiuo e tu e lui mi doglio Rispose, e per non far parole in uano Io son mortale, e son quel Capitano, Sì, ch'à tua posta quì del campo piglia Chi miglior sorte haurà, quel uiuo resti Colui senza parlar girò la briglia Tanto gli fur quelli auisi molesti Et di morir più tosto si consiglia Che comodi fuggir come son questi Di uenire à le man con chi più grato Huomo non gli poteua esser mandato. Non ch'ei sperasse già d'hauerne onore, Ancor ch'ei fusse animoso, e gagliardo; Ma teneua per certo che'l ualore C'hauea Guerrin, facesse ogn'huõ codardo, Perche quel dì sentito hauea'l romore Allor ch'egli abbatteua ogni stendardo Fuggasi ogn'un, tirateui da parte Che non si può contr'al figliuol di Marte. Ma perch'è disperato, e uuol morire Posesi l'elmo, e la sua lancia prese E poi contr'à Guerrin uenne à ferire Ch'à dargli in quel buona risposta attese Si ruppero le lance nel colpire Perche ben resse l'uno e l'altro arnese Sì, ch'à far proua uenner de le spade Qual d'esse meglio punge, e meglio rade. Il Pagano parlò prima ch'appresso Potesse colpo far da corre à pieno, Mi merauiglio ben, che ti sia messo A fauorir gente che sì uil sieno Disse à Guerrin, poi che si uede espresso C'hauendo te non posson far dimeno, Ma se tu uuoi di Galismarte farti Campion, del tutto farò perdonarti. Oltre che tu sarai suo Capitano Egli è tanto benigno, e sì pietoso Ch'io farò porti il gran bastone in mano D'uno essercito grande, e poderoso Tu parli (allor disse Guerrino) in uano Non più ciarlar, non più tanto riposo Ma per leuarti ogni speranza uia Io Cristo adoro, figliuol di Maria, Io son Cristiano, e per distrugger nato. (Come tu uedi) di Macon la setta E son stato due uolte battezato Sotto la fede Cristiana perfetta E per dir chiaro, il Meschino son chiamato Ch'à undici figliuoli dei la stretta D'Astilador, già tuoi cugin fratelli Or sì, ch'in uano al padre tuo m'appelli. Così di te farò, così ancora Spero de tuoi fratelli far non meno, Non men tuo padre forse anche trar fuora Di questo temperato aer sereno, Finistauro allor, non se dimora Di gran colera armato, e di ueleno Spinse il cauallo, e con la spada in alto Con Guerrin diè principio al fiero assalto. Ecco risponde in questa, e'n quella ualle Al crudo martellar de i colpi orrendi Sù gli elmi, sù le braccia, e su le spalle Che fan chi più forza hà, più ue ne spendi Nè tempra u'è di piastra, ch'ancor falle Ancor che colpi sien più che stupendi, Ma si fiaccan le membra, al cui furore S'allarga l'uno, e l'altro corridore. Quell'odio, che douea bastar tra loro N'auanzò da far parte anco a i caualli Che mentre che si dauano martoro Lasciandosi il terren senz'interualli, De la fatica lor dier mal ristoro E gli fecer fornire i tristi balli, Vccisero i destrier, ch'eran leuati In alto, con due colpi dispietati. Co i piè dinanzi s'eran ritti in alto Liberi, da le mani c'hanno il freno A custodir, che con due man l'assalto Fanno, per far che i colpi doppi sieno I lor Signori, & con un cor di smalto Menan le spade, e tinti di ueleno, E mentre al colpeggiar nessuno cede Di sella si trouar restati à piede. Rinforzaua Guerrino i colpi crudi Quand'era Finistauro già lasso, Non domandar se la fronte gli sudi E quant'ha di tal giuoco poco spasso, Haueane l'armi assai migliori studi Fatti Guerrino, e gito passo passo Col suo temporeggiare, or uede chiaro Che poco u'ha Finistaur riparo. Perch'ei tentar conla spada non puote Più, perche l'arme in penetrabil troua. Poi che Guerrin si fiero lui percuote, Vuol tentar s'altro rimedio gli gioua Piglialo à braccia, & quà e là lo scuote Ma non può far ch'egli si torca ò moua, Era Guerrino nel lottar più dotto Ond'il nemico suo si cacciò sotto. Sciolseli l'elmo, e la spada riprese E gli segò le uene de la gola Poi che leuate gli hauea le difese De le braccia, gli tolse la parola La testa li tagliò, dipoi la prese, E gittola nel fiume così sola Cauò prima de l'elmo due rubini Ouer Carbon di gran ualuta e fini. Tosto che morto l'hebbe, inginocchione Dio ringratiò de la uittoria hauuta Et il pregò con pietosa oratione Che oltre à la uittoria riceuuta Gli desse appresso buona ispiratione Al seguir l'opra, ancor non ben compiuta Che dar potesse ad Antinisca il Regno Suo, come fatto haueua già disegno. Haueuala nel cor sempre scolpita E s'hebbè mai ualore, or desiaua Opra spupenda far, non che gradita Che di feruente amor la Donna amaua, Quando al suo Regno sia restituita Per le sue man, di farsela pensaua Sua moglie, e il sottoposto stuol Pagano Ridurre à Cristo, e farlo far Cristiano. E per uenire al desiato segno Pensa, che quiui non bisogna meno Vsarui de la forza anche l'ingegno, Ma si nasconde il suo pensier nel seno, E per seguire il già fatto disegno A piedi misurar prese il terreno Poi ch'à piedi trouossi, e ne la prima Hora di notte, il che, poco egli stima. Le lodi, chio dourei sparger cantando Del suo cor generoso, inuitto, e franco Lettor tu stesso gli darai, pensando Che quando egli dourebbe esser più stanco. A più fatica si uenia uoltando Nè forza nè uigor mostraua manco Quand'ei doueua andar uerso gliamici Egli tolse il camin uerso i nemici. Verso Presopol se n'andò soletto Di notte à piedi, per tentar più cose Senz'hauer de'nemici alcun sospetto L'elmo sopra un troncon di lancia pose Poi ne la spalla, ad uso di barletto In frotta con le genti dolorose Ch'eran fuggite de le squadre rotte Si mise à caminar tutta la notte. E Macon Triuigante, & Apollino Sentendo maledir da questo, e quello Chi la fortuna, chi'l fiero destino, Chi piangeua l'amico, e chi'l fratello, Van'è à pensar, diceua altri, diuino Capitan uincer un di Dio flagello Mandato à castigarci in questa parte Del semenato de l'inuitto Marte. Et è ben dritto, dipoi, chel Re nostro Senza ragione in Persia hauere alcuna Che Macon gli habbia l'error suo dimostro Pensando hauer nel crin l'empia fortuna, Fors'anche u'è rimaso il figliuol uostro O' Galismarte; onde la ueste bruna In sì uani trionfi porterete Così spenta sarà la uostra sete. L'orme seguì de la fuggita gente Fin ch'à Presopol sù la meza notte Giunse, là doue gran tumulto sente Di genti che giongean del giorno rotte, Rimprouerate da gli altri uilmente E risponder sentiua poi le frotte Di quei suggiri, quando prouerete Di Marte il figlio, ancor uoi fuggirete. Ancor per uoi ci resta del ualore Che Maconeha concesso à i Persiani Nel Capitano loro, ira, e furore Del fiero Marte; e questi & altri strani Lamenti pien di scusa, e di dolore Spargendo, udì Guerrino, e gli fur piani Ma non potè entrar dentro à la terra Che'l passo armata gente guarda e serra. In un borgo di fuore, ad uno ostiere Giunse, e gli domandò s'hauea ricetto Rispose l'oste, tu puoi ben uedere Se quì ci fia dauanzo nessun letto, Beato è quel, che pur possa giacere Sù'l mattonato in terra puro e netto Che non sol quì ci fia comoditate Ma non supplisce pur la gran Cittate. In cortesia (disse Guerrin) ti piaccia Per fin al dì darmi luogo coperto Io ueggo ben la gente, che t'impaccia Ma più di me non son per darti merto. L'oste, che'l uide signorile in faccia Poi che'l lume c'hauea gliel fece certo, Se già la uista (disse) non m'abbaglia Voi non parete di questa canaglia. E sel condusse in camera, di tante Stanze restata sol per suo ricetto E de la moglie senza seruo, ò fante Con una figlia di leggiadro aspetto Quiui carezze gli fur fatte quante Comportaua quel luogo sì sospetto L'oste tenedo in lui le luci fisse Voi uon parete Turco al fin gli disse. E che la moglie, e la figlia in disparte Andassero accennò, poi gli replica S'ei uien di uerso il campo, ò di qual parte E s'ei ne uien, lo prega ch'ei gli dica Se è uer, come si dice, figlio à Marte Il Capitan de la gente nemica E che di Finastaur stato sia Ch'era figliuol del Re, nato in Turchia. Disse Guerrin, da quella guerra uegno, E quel gran Capitan ben'ho ueduto Sappi, ch'egli è mortal, se bene è degno De la persona, è qual son'io compiuto. Di Finistaur, fe con le spalle segno Stringendole, e si stè del resto muto In questo, da la figlia l'oste fatto Hauea portar da cena in un gran piatto. Prese riposo, e cenò ragionando Con l'oste in un pensiero ambi fermati, Il ber, zibello fu, che i uini in bando Hanno costor, perche gli son uietati, Da la lor legge, ilqual zibello quando Si fa, empiono i uasi deputati D'acqua, e con quella metton macinate Vue fecche, con spetie mescolate. L'oste da lor presentia fe la figlia Partir, che molto il Meschin uagheggiaua E seco destramente poi bisbiglia Però ch'assicur arsi non tentaua, E cominciò, non ti sia merauiglia, Se d'accettarui mal m'assicuraua Che questi Turchi, in poco più d'un mese Hanno disfatto già questo paese. Nè gioua, che le stanze sien partite A discretion d'insoportabil gente; Ma dico cose da uoi forse udite, Pur il dolor mi fa parlar souente Anzi di ciò cosa noua mi dite Disse Guerrino, e pensai certamente, Che del nouo Signor fuste contenti, Nè ch'ei facesse tristi portamenti. Anzi (diss'egli) non bastando ch'io Fussi prima dal campo ruinato, Che quando Finistaur fuore uscio In contro à i Persian, sendo rubato, Seco mi lamentai del danno mio, Et indietro tornai da lui beffato Così non si potesse ritrouarlo Più uiuo, com'il uero è quel ch'io parlo. Poi si uide temer, quasi mostrando D'hauer mal detto, e s'arrossì un poco Ma Guerrino lo uenne assicurando Dicendo, e mi dispiace questo gioco. L'oste si diede al pianto al fine in bando Poi che da consolarsi troua poco, Tra se disse Guerrin, questo dolore Mi sar à ne l'impresa mia fauore. E confortollo, e tiratol da canto Disse, ritieni in te quel ch'io ti dico, Finistauro è morto, frena'l pianto Ch'egli non ti sarà mai più nemico Io'l uidi senza testa, piglia in tanto Quì questa gioia, e siemi buono amico, E così gliela diè, dicendo, questa Ne l'elmo haueua Finistauro in testa. L'oste, che uede in sì piccola cosa Ristorarsi la perdita del tutto, Anzi tre uolte più, la sua dogliosa Vita lasciò, facendo l'occhio asciutto Che stimò quella gioia luminosa Di gran ualuta, e da trarne gran frutto, Non han le gioie prezzi terminati; Ma men non ual d'otto mila ducati. Gittossi inginocchioni, & umil fatto Rende le gratie debite del dono. Trouogli da dormir poscia in un tratto, In un suo letto assai comodo, e buono, Al dì poi quando s'hebbe il sonno tratto Diss'à l'ostiere, io resoluto sono Andar ne la città, s'haì qualche uesta Da Turco, fin ch'io torni me la presta. L'oste trouò la uesta e un cappello Aguzzo à la Turchesca, e glie lo diede, E si mutò, che non parea più quello, Poi uerso la cittade ei mosse il piede Vols'andar l'oste insieme ancor con ello, Per dare ombra à la cosa, e maggior fede, E giunti à la città, uider la corte Tutta del Re, che non si tenea porte. Per una strada andando rincontraro Vn gentil'huomo amico de l'ostiere, Quest'era un Cittadin per sangue chiaro Paruidas detto, c'hauea dispiacere Che la città, ch'era suo nido caro, Fusse stratiata da tai gente fiere, E fu quel, se l'hauete bene à mente, Che'l breue gli mandò sègretamente. Con quello à casa andaro ragionando E quando furon dentro, Guerrin disse, Io uo mostrarui gentil'huomo, quando Il tempo, e il luogo ciò mi consentisse, Ch'io ui son buono amico, e uo cercando Far cosa, che piacer ue ne uenisse, L'abito non mirate, ou'io m'inuoglio, Che fuor di quì, portar questo non soglio. Nè dubitate, io lessi un uostro breue Mandato al Capitan de i Persiani, Che contenea, perch'il tempo era brèue Ch'ei cercasse uenir tosto à le mani, Però che Galismarte uenir deue Con l'altro stuol di questi Turchi cani E cetera. quì basti à saper ch'io So quel ch'io dico, e uoi, & egli, e Dio. Oimè (Paruidas gli disse) come Et in qual luogo fe questo palese? Io mi fidai del suo famoso nome, Pensando hauerlo segreto, e cortese; Per questo, infido da uoi non si nome, Disse Guerrin, che in tutte le sue imprese, E'sempre proueduto, e molto accorto Nè u'ha fatt'egli in questo caso, torto. Io son tanto suo stretto amico caro Che differentia non ci disaguaglia, Nè ci suole auenir mai, non che raro O sia ne gli agi, ò sia ne la battaglia, Che d'un uoler non siam sempre di paro. Pericol per suo amor non mi trauaglia, Poi che da lui à posta son mandato Per informarmi del presente stato. A uoi mi manda, acciò che mi mostriate Il tutto, e che la Turca Baronia, Con destro modo ueder mi facciate, E che del tutto raguagliato io sia, Sentendo Paruidas queste ambasciate Tutto ripien d'amore, e cortesia, L'abbraciò con gran festa, e fegli onore Seruo (dicendo) son del tuo Signore. Al qual mi raccomando mille uolte, Quando al cospetto suo ti trouerai Disse queste parole, & altre molte Che souerchio di scriuerle pensai Di segrete faccende in se raccolte Tutte in sostanza, nè quì le notai, Perche parlauan piano, e non l'intese, Quel ch'à compor questa cronica attese. Con Paruidas mangiò quella mattina Così l'ostiere, e desinato poi, Per seguir l'opra degna, e pellegrina, Nè ueggendosi dubbio, che l'annoi Disse Guerrin, per far la medicina D'un mal, bisogna conoscere i suoi Difetti, e riparar secondo doue Il tristo umor più la materia moue. Sì, che squadrar la Corte ci bisogna E intender qualche cosa à noi celata, Che'l danno mena seco la uergogna, Così n'andaro tutti di brigata Nè Paruidas in questa impresa sogna Fin che tutta la Corte gli hà mostrata, Laqual per quella rotta, trauagliaua, E per far gran uendetta s'ordinaua. Tra molti Re, che giuraron la morte Sopra à Guerrin, uen'eran cinque ancora, Che si trouar ne la battaglia forte Et n'erano tornati pur allora. Tutta era sottosopra quella Corte, Et uidero ordinare in men d'un'hora Le squadre, e fare i Capitani loro, Per dare à i Persian nouo martoro. In questo, senza testa fu portato Finistauro morto, oue gran pianto Dal padre, e da i fratei fu cominciato, E poi sopra à tal corpo si dier uanto Insieme tutti, e ciascun separato Con giuramento espresso di far quanto Si potea far contra del Capitano De i Persiani, con armata mano. Senza punto indugiar'ordine dette Galismarte sospinto da furore La prima squadra à Grandonio commette Et à Pantaleon, ch'era minore Ch'eran suoi figli, e tre Re con lor mette Di gran riputatione, e gran ualore Cinquantamila Turchi fu la prima Squadra, laqual non fu di poca stima. A glialtri due figliuoli fu commessa (Che furo Vtinifar, e Milidonio) L'altra, e tre Re uolse metter non essa Che fu maggior di quella di Grandonio Settantamila furo, e poi l'istessa Persona anche del Re, per testimonio Di tutte, l'altre genti, che in finita Caualleria haueua seco unita. La città disfornita per la fretta Del caualcar lassò, che la mattina Seguente, per far tosto sua uendetta Con l'essercito tutto suo declina Verso'l fiume Vlion, ch'era più retta Strada, & à Daridà uia più uicina Ma perche più seguire or non mi uanto Tornate, ch'io u'aspetto à l'altro Canto.

IL FINE DEL
CANTO QVARTODECIMO.

QVella pietà Signor, ch' al santo legno Ti diede in preda, p sal uar chi t'ama, Gratia m'infonda ancor nel basso ingegno Ch'io torni à chi, per sentir dir mi chiama Al cominciato mio fatto disegno E spanda ancor del tuo Campion la fama, Che staua attento, sì com'io già dissi, A quel che'l campo de i Turchi uenissi. Com'egli intese, che quel Re doueua La mattina seguente andar con fretta E che ne la città non rimaneua A guardia gente, ma per far uendetta Più ch'à pensare ad altro, s'attendeua Pensò quasi tornarsene à staffetta, E pregò Paruidas, che gli trouasse Vn buon caual, ch'à Darida'l portasse. Dicendo come in battaglia era morto Il suo, e gli fe don de l'altra gioia. Prese del don Paruidas gran conforto, Ben che senz'esso con poca sua noia Poteua accomodarlo, c'hauria torto Dipoi che'l suo tirate hauea le cuoia, Non il facendo, e diegli un de' migliori Cauai, che fosser tra i buon corridori. La propria sera in ordine si messe Per caualcar poi la seguente notte; Ma prima ch' egli in ordin si mettesse, Seppe da Paruidas, che se condotte Il suo buon Capitan le genti hauesse Verso Presopol, che l'imprese rotte Farian di Galismarte, e che uedere Del Soldan gli farebber le bandiere. Io sarò, disse Guerrin, forse ancora Mouer sì presto il nostro Capitano Ch'egli uerrà con la sua gente ad hora Attrauersando ogni monte, ogni piano, Con largo giro, e sì queto, che fuora A' Galismarte scapperà dì mano E far à due effetti in un sol tratto Scopr&etilde;do à Turchi un nuouo scacco matto Saluerà se, torragli questa terra, Pur che l'entrata dar gli promettiate, Che se quel resta fuor, più d'hauer guerra Che ui possa far mal non dubitate Se m'aiuti Macon, che dirade erra, (Paruidas gli rispose) la cittate S'una bandiera del Soldan pur uede Tristo quel Turco, che restar ci crede. Dì pure al tuo Signor, che quì si brama E ch'ei non ponga tempo à l'opra degna, Per c'habbiam tanto in pregio la sua fama, Che pur che sol se ne uegga un'insegna Il popol, che'l Soldan Persiano ama Si uolterà, perch'altro non disegna. State pur (disse il buon Guerrino) attenti Ch'io oprarò di faruene contenti. Ma come potrò (disse) al mio Signore (Senz'esser impedito) far ritorno Ch'altra strada non so, da quella in fuore Ch'al gran fiume Vlion camina intorno? Disse l'ostier, non n'habbiate dolore C'huomo non ua di notte, nè di giorno Che meglio sappia ogni coperta uia Quant'un mio figlio, ch'è ne l'osteria. Da lui farò guidarui di tal sorte, Ch'altro che Dio rincontrar non ui puote Moretto ha nome, & è giouene, e forte E se ben l'opre sue son poco note Non u'abbandoner à fino à la morte Se bisognasse, in strade sì remote Piacque à Guerrino, & accettò l'offerta Per far l'andata più sicura, e certa. Vestissi l'armi, che s'era cauate Allor, ch'ei si parti de l'osteria Per entrar poi da Turco in la cittate, E'posto in ordin, presero la uia Ch' eran sei hore di notte'passate Sì, che'l dormir conuien ch'adietro stia Il giorno poi trouar la cune, e boschi Con passi strani, assai diserti, e foschi. La notte che seguì, seppe il Meschino Esser fuor di pericolo uenuto, Confortando la guida, per camino Dicendo, frate non m'hai conosciuto Fin quì, ma come tu sarai uicino A Daridà con meco peruenuto Ristorerotti de la tua fatica, Et uo che tal uiaggio benedica. A' diece miglia, ne la meza notte A' Daridà uicini si trouorno. I Saccomanni hauean le strade rotte Del campo Persian, per gire attorno Per trouar strami e fieni, onde ridotti Di tal gentaglia, si uidero in torno Molti di loro, che uolean far presa Nè lasciarli passar senza contesa. Ma quando uider ch'era il Capitano, Prima s'inginocchiaro umilemente, Dipoi correndo, ogni monte, ogni piano, Di uoci, e grida tutti allegramente Empir di sorte, che di mano in mano Fin tutta la città tal grido sente, Sentillo ogni Barone, & ogni Duca, Ogni Re per uederlo fuore sbuca. Empissi tutt'il Campo d'allegrezza Beato chi può salutarlo prima, A lui s'inchina ogni superba altezza, E quant' è più gran Re, più ne fa stima, Il non hauer, dou'ei fusse, certezza Lor rodea'l cor, sì come ferro lima. Or, che'l ueggon tornar quando più caro Gliera, lasciaro ogni dolore amaro. Moretto nel ueder tantì Signori, Et ogni Re uenirgli incontro, e poi Smontar per fargli onor de i corridori Non sa s'ei si dia fede à gli occhi suoi, Mira come balordo, e di se fuori Cosa non sente più, che più l'annoi, Che non saper chi fusse, ma poi certo Ne fu, quando sentì suo nome aperto. Il uedersi onorar di pompe altiere Da Re, Baron, Duchi, Marchesi, e Conti, Non fa, che con il figlio de l'ostiere Il debito Guerrino non isconti. Fecelo in mezo à tutti Caualiere Carcollo di tesoro, e disse, ponti A caminar, ch'à Presopol ritorni E dì, ch'io sarò là tra cinque giorni. In questo mezo trouò, che uenuti Eran cinquantamila più soldati, Che dal Soldan di quei già proueduti Gli furono in fauore anche mandati, Quei che tra l'armi morti eran caduti Seppe che diecemila erano stati Quaranta quattromila de la setta Turca morir, nè fu poca uendetta. Fe la rassegna, e centomila prese Che condur seco uuole i rimanenti, Lassò ne la città per sue difese, Ch'à quel ch'ei comandò, furon contenti Con glialtri caminò per quel paese Ch'era uenuto, nè fece altrimenti Noto il camino, e doue andar uolesse Nè quel, che fuor di lor già fatto hauesse, Caminaron tre dì, con gran fatica Per boschi, per lacune, e per buroni La gente del disagio già nemica Cominciaron con uarie opinioni A disfidarsi, e creder, ch' ei non dica Il Capitan de l'andar le cagioni Per non saper che opera si faccia E ch'ei seguiti in uan qualche sua traccia. E con aperte uoci à lamentarsi Cominciaron, con dir, che gliera meglio Indietro uerso Daridà tornarsi E che uedeuan, com'in chiaro speglio Tante tra laghi e selue auilupparsi Che senza aiuto poterui ò conseglio Non potrian poi saluarsi à posta loro Di disagio morendo, e di martoro. Venne à l'orecchie di Guerrino il dire Che fan costor, la poca fe, che gli hanno E ueggendo il disordine uenire Senza aspettar che ne nascesse danno Ogni Re, ogni Duca fe uenire Al suo cospetto, per cessar l'affanno, E fe'l campo fermare, e poi bandire Che nessuno habbia à drizzar tende ardire Incominciò di poi, Signori io sono Datoui dal Soldan per capo e guida Se fino à quì capo son stato buono S'odono ancor de' nemici le grida Or, che'l mio buon pensier non ui ragiono Ogn'un di me si duole, e si disfida Et io mi doglio, che'l premio ch'aspetto Del mio seruire, è l'esserui io sospetto. Debb'io dunque un pensier far noto à tutti? Io lo farò, se uoi mi fate certo Che non sia chi'l disegno nostro brutti E che nol faccia à Galismarte certo, Per farui più sicur quì u'ho condutti Segretamente per darui buon merto Chi sa? che in questo campo per più uie, Non possano ire à Galismarte spie? Si ch'attendete al camin ch'io ui meno Che ricchi ui farà, se saggi siete, Nè pensate per fame uenir meno Che per dì sette, uettouaglia hauete Et io due giorni sol uo che ui siéno Ancor fastidio, é poi bon porto haurete Però non mormorar siate pregati E non mi siate di tant'opra ingrati. Tutta si confortò la gente allora, Et ogn'un s'offeri di seguitarlo Senza dolersi più, nè far dimora, E per mostrar più certo d'osseruarlo Faceuan più camin sol'in un'hora, Che prima in tre, per mostrar di stimarlo In questo uenne un messo, e portò noua Dou'il nemico campo si ritroua. E auisò sì come à sacco, e fuoco Il paese di Daridà era posto Da l'essercito Turco, & ogni loco Disfare affatto haueuano disposto, Che per uendetta del figliuol far poco Pareua al Re, e la città discosto Il tiene, e ch'ella scaramuccia spesso, Perche già l'antiguarda u'era appresso. Nulla ne palesò, sempre aspir ando Al suo camin, tacitamente, e presto, Senza che trombe, ò che tambur sonando Facesser, doue fusser manifesto Si, ch'à Presopol si uenne appressando; Ma come la città conobbe questo, Et uider le bandiere del Soldano Diedero à l'arme, con tumulto strano. Da ottomila Turchi, che trouaro Per la città, senza remissione Sopra lor le lor arme insanguinaro C'hauean di far uendetta gran ragione, Però che male i Turchi gli trattaro Et alzar del Soldano un confalone E Guerrino fu dentro ricettato Con tutto il campo, ch'egli hauea guidato. E perch intese, che quella mattina Le uettouaglie, e i carriaggi mossi S'eran de i Turchi per più lor ruina. E perche migliore opra far non puossi Mandò gente Guerrin per la collina, Vers'il fiume Vlion, doue inuiossi Ogni bagaglia, e gli fece impedire, E per forza à Presopol riuenire, Fur uintimila Persiani arditi, Che corsero à caual, ueloci, e pronti, E i carriaggi che erano infiniti, Fur, com'ho detto, da costor raggionti, Rimaser troppo i Turchi sbigottiti, Quando lor furon quest i casi conti, Nè poteuan pensar come sì presto Possa Guerrino hauere oprato questo. Sì che se mai timor gliassalì prima, Or senza più sperar cresce lor tema E se mai di Guerrin ferono stima Or treman de la sua uirtute estrema. I Persian son d'allegrezza in cima, Nè u'è nessun, che di gaudio non gema, Nè che Guerrin per un Dio non adori Sì gli huomini uil, com'i maggior Signori. La preda si partì tra tutti uguale Secondo il grado, che fu gran ristoro, D'ogni disagio del passato male, Là doue fu del Re molto tesoro, Dico di Galismarte, e'l trionfale Suo Padiglion, carco di gemme e d'oro, Al Capitan Guerrin fu posto in mano Et egli poì mandollo al gran Soldano. La notte, che la noua trista porta Fu nel campo Turchesco, si fuggiro Più di sessantamila senza scorta, Che di sì tristi auisi impauriro Galismartè, che uede quanto importa Il danno, co i Signori, che'l seguiro, A Presopol tornò senza por mente Con che ordine guidasse la sua gente. Ma Guerrino, sì tosto non l'intese Ch' ei fece un'oration molto benigna A i suoi Signori, dicendo l'imprese In lor fauor, incontr'à la maligna Setta de i Turchi, e se mai gli difese, O con l'ingegno, ò sotto la ferrigna Scorza, or è il tempo à mostrarlo di corto Però nessun dee lamentarsi à torto. Or'ì segreti miei uo far palesi Perche la guerra si guida scoperta Voi sì com'io sapete quanto offesi Già si tengano i Turchi, or state à l'erta Che dal furore, e non da l'ordin presi Vengono i Turchi, con la guerra aperta, A darci in mano ogni palma, ogni gloria, Et arricchir de l'ultima uittoria. Or se m'amate, anzi uo dir s'amate Il Soldan uostro, e le case c'hauete, Per uenir quà con li uostri lasciate A i quai per sangue congiunti ui siete, Et s'ornarui la patria, e la cittate, D'eterne spoglie de' Turchi uorrete, L'usato ardire in uoi non uenga meno Or che felici, e ricchi à far ui meno. Detto questo, e che quegli esser contenti Vide d'ogni sua uoglia, e proueduti, Lasciò de la città gli alloggiamenti, Et in campagna giunse, oue uenuti Furo i soldati, e per due dì presenti Di uettouaglie uuol che sien pasciuti, E fe serrare à i Cittadin le porte De la città, per far ciascun più sorte. E perche ne la fuga non si spere, Fecesi à i Cittadin fuor de le mura Gettar le chiaui, e presso à le bandiere Le fe portar per cosa più sicura, Dicendo, questo fò per ch'à uolere Sperar ritrarsi da la guerra dura, Non si possa saluar nessun, se prima Ritornar con uittoria non si stima. Ma senza inuidìa, sua gloria non puote Passar, che Tenaur (credo che fosse Per non hauer le colere remote; Quando per uinto seco abbandonosse) Hebbe ardir di uantarsi in chiare note C'harebbe fatte le campagne rosse, Come il Meschin, de le nimiche schiere S'egli guidate hauesse le bandiere. E che con là metà di quella gente Farebbe à i Turchi anche sudar le tempie, Nè sì tosto Guerrin tal cosa sente (Per ricorregger sue parole scempie Sperando nella uirtù sua possente) Più che non dice Tenaur adempie Dagli cinquantamila, e dice, quest Saran boni à seguir quanto dicesti, Questa schiera mise egli per perduta, A Personico diede l'altra appresso De l' Almansor nepote, e fu compiuta Trentamila, & in questa haueua messo Due altri Rè, de i quai nessun rifiuta, Arabismonte fu'l primo, e con esso Re Doridano; e la terza con uenti Mila, tenne per se de i più ualenti. De i Turchi se tre schiere Galismarte, Settantamila ne la prima pose In questa due de figli suoi comparte L'autore i nomi lor non ci nascose Grandonio il primo, c'hebbe à la sua parte Pantaleon, poi l'altra, ch'ei compose, Due altri figli, Vtinifar in questa E Milidonio pose, or l'altra resta. L'altra rimase con il resto tutto Per esso, & in ciascuna de le schiere Haueua cinque Re, de' quai buon frutto Speraua sopra à questa guerra hauere Ma perche l'utile, ò'l dannoso lutto Senza indugiar ne uoleua uedere Diede ordin', ch'ogni schiera seguitasse Di mano in mano, e ne la guerra entrasse. Perch'era forza ò seguitar mostrando Vn'animo feroce, ò per timore Di peggio, altroue andarsi ritirando, Ma prima uuol cercar se con onore Può la fortuna sua uenir tentando Che fuggirsi con tanto disonore Per mancamento ancor di uettouaglia Gliè forza presto uenire à battaglia. Dier dentro con grand'impeto, di modo Che Tenaur si spauentò, mostrando Timor nel core, e douendo star sodo S'andaua à poco à poco ritirando, Ahi, disse un Persian, quest'è gran frodo, Che poco innanzi t' andaui uantando, Questi modi non son da dimostrare Di Guerrin meglio la guerra guidare. Tenaur, che sentì rimprouerarsi, Da uergogna spronato, si rimosse E consortando di douer portarsi, I suoi, ualentemente, riuoltossi, Cominciando nel sangue à mescolarsi, E far per le ferite gli huomin rossi La calca era crudele, i colpi spessi, E molti membri già si uedean fessi. Cascauan d'ogni parte gli huomin morti D'ogni parte s'odian le strida orrende Di tutti i Capitani anche i conforti, Et ogni Capitano à l' arme attende Tenaur non può far, ch' ei non si porti Bene, e non mostri l' opre sue stupende Grandonio, che lo uide da lontano Tennel de i Persiani Capitano. Tols'una lancia, con simil pensiero, Che in tutti i modi uol torgli la uita, Più destro, ch'ei potè giunse, e leggiero, E perche l'opra non fuss' impedita, Andò da parte per tanto sentiero Senza cercar far con onor partita, E per fianco gli diè senz'altro dire Passollo tutto, & uidelo morire Il grido corse, e l'allegrezza grande Trai Turchi, come morto era Guerrino Per questo i Turchi da tutte le bande Era ogn'un diuentato un Paladino Poi che tal nome per tutto si spande Galismarte si fece più uicino, E con superbia dar se tutti drento A i Turchi, tutto giocondo e contento. E ne fe certo grande occisione Ma Personico allor mandò con fretta Vno à cauallo nel terzo squadrone Ch'à Guerrin disse di loro la stretta, E poi che u'era giusta occasione Se gli par che in battaglia ancor si metta, Disse Guerrin, che nò; ma ch'egli stia Attento, acciò che bene in punto sia. E ch ei s'ingegni dar qualche conforto A i primi à sostener quanto si possa, Perche soccorso gli darien di corto Fe Personico allor uerso lor mossa, Nè gli potendo dar più sicur porto, Diede da una banda gran percossa, Con mille Caualier che se co haueua, Là doue miglior frutto far credeua. Così ritenne quell'impeto un poco, Ma Guerrin, che uedeua tutto il fatto, E l'abondar de i Turchi in ogni loco Et ogni Persian quasi disfatto, Fece accostar la squadra à poco à poco Di Personico, e dar quasi in un tratto Da due bande l' assalto, & egli poi Nel mezo tutto à un tempo entrò co i suoi. Allor con ogni sforzo Galismarte Si fece innanzi doue le bandiere Di Guerrin uide, egli, che in quella parte Si faceua con l'opre sue uedere, Mentre che Galismarte pensa l'arte Con che Guerrin giù possa far cadere, Abboccossi con esso, che Guerrino Andaua innanzi per dritto camino. Si, che fu forza uenire à le mani Là doue non ui fu molto contrasto, Non fer due colpi i condottier sourani, Che l'un di lor già morto n'è rimasto, Con la testa in due parti sopra i piani Galismarte cascò, seguinne il guasto Di tutta la sua gente, & il terrore D'ogni Re Turco, e d'ogni gran Signore. E atterrò per forza le bandiere Guerrino, come far presto cercaua L'ardire aperto si potea uedere, Che'l campo Persian di ciò pigliaua Non parue à i Turchi quiui di potere Stare à uedere, ond'ogn'un s'auiaua, Di lasciar tutt'il campo al uincitore, Poi che in lui cresce ogn'hor l' alto ualore. Le bandiere Personico, e Guerrino, De l'una, e l' altra squadra si cacciaro In mezo, e quà, e là d'ogni confino, Insieme le lor genti ragunaro, E fer tutt'una squadra, ou'il poluino Del miser sangue Turco rinzupparo, Quando Grandonio, disperato al tutto Già s'era contra al buon Guerrin condutto. La lancia, c'hauea in man, gli ruppe addosso, Onde s'auicinar poi con le spade, Grandonio era membruto, grande, e grosso Quant'huom, che fusse per quelle cõtrade Haueua un forte scudo tutto d'osso, Con una scimitarra in man, che rade, Et resse si ne la prima difesa Ch'ugual parea partita la contesa. Personico gridò su tutti innanzi, Date fauore al uostro Capitano, Chi ci uerrà, ci far à pochi auanzi, Disse Guerrino, ogn'un si stia lontano, Io uel dico or, s'io non uel dissi dianzi, Ch'a quest'impresa basta la mia mano Attendete à seguir pur la uittoria, Nè si ritardi più la uostra gloria. Personico seguì di dare il resto De la gran rotta, à la nemica gente, Dicendo, che dormir non era onesto, Nè si guadagna oprandosi uilmente. Pantaleone hauea ueduto in questo Molto affannarsi, e poco patiente, Che la sua gente in rotta se ne uada, Facendo opre stupende con la spada. Se'l mio S'gnor (dicendo) mi dimostra Con l'opre degne, che uenir si debbe Co i più gagliardi sempre in cãpo, e in gio stra Ch'io debba uccider la ragiõ sarebbe Vn di Re figlio, che impedir la nostra Vittoria cerca; e far' anco potrebbe Gran danno, e uoltosi à Pantaleone Cominciò seco terribil tenzone. Guerrino in questo mezo con Grandonio Si daua assai da fare, al fine il uinse, Perche'l segnò ne la testa d'un conio Che'l corpo esangue, al fin in terra spinse L'anima à Belzebù maggior Demonio Mandãdo in fretta, e poi molti altri estinse, E de le pagane alme oscure, e sozze Fece il dì far nel tristo Abisso nozze. Diedesi al fine à trascorrere il campo Oue Personico, e Pantaleone Cercauan per la morte, oue lo scampo Correuan per trouar l'altre persone, L'acciar percosso spesso rendea lampo Di fuoco, ma nel far tal paragone Personico mancò, per dire il uero, E gittato restò fuor del destriero. Nè più Pantaleon, poi che caduto Il uide, seguitò seco la guerra; Ma ueggendo Guerrin quiui uenuto Con lui s'attacca, per mandarlo in terra; Ma trouollo di braccio più nerbuto, E ben s'accorge quanto di lungo erra, Perche sendo Guerrin prima percosso, Contra gli s'era fieramente mosso. E tanto più l'ira, e la forza adopra, Quant'ei uide il compagno mal condotto; Menogli un de i suoi colpi usati, sopra La spalla, e li cacciò la spada sotto La manca poppa, acciò ch'ei non si copra Più de lo scudo, ilqual cascò di botto Sott'il cauallo, e così aperto, e guasto. Pantaleone al fin morto è rimasto. Morto lui, chi facesse resistenza Non ui restò, nè chine la difesa Sperasse più, che l'alta esperienza Hauean, mal grado lor, chiara compresa, C'hauea Guerrino, onde senza licenza Tor, se l'haueua Vtinifar già presa, E Milidonio, che lasciaro il campo A i Persian, per procacciarsi scampo. Di Galismarte, e de i suoi figli, questi Due sol camparo, e tutta l'altra gente Che restò uiua, à fuggirsi fur presti Lasciando il campo Persian uincente. Veduto che non ci è chi più ui resti, Il buon Guerrin diede liberamente Licentia al corre i frutti de la preda, Poi che par che l'onesto lo conceda Le spoglie innumerabili, il tesoro De i Turchi, fu con gran trionfo posto In preda, e innanzi al Capitano loro, Ne la città'l condusser, d'onde tosto I Cittadini uscir, che'l gran martoro De i Turchi haueuan ueduto discosto E con isforzo quanto si può grande S'ornauano d'oliuie di ghirlande. Poi ch'egli entrato fu ne la cittate, Si feron i feriti medicare, Dipoi tutte le prede fur portate A Guerrino dinanzi, doue appare Molto tesoro, con le più pregiate Cose di Galismarte, al mondo rare, Quando uide Guerrin tanto tesoro Fe raccorre i Signori à concistoro. E domandogli, à chi peruenir debbe Tanta ricchezza, dissero i Signori Ch'era il suo tutto, ne si conuerrebbe Ad altri tal ricchezza di tesori Disse Guerrino, à me dunque starebbe La cura tutta secondo i tenori, Che uoi mi dite, & io uo che sia data A chi e'stato ne la nostra armata. Risposegli un, non l'accettando uoi, Meglio sarebbe mandarlo al Soldano, Che farne tante parti quì tra noi, Disse Guerrin, questo parlare è uano, Perch'io l'accetto, e lo ridono poi A i miei soldati, di mia propria mano, Al Soldano non manca oro, ò argento, Sì, ch'egli fia del uoler mio contento. Fur dodici cameli caricati D'oro coniato, e fu partito tutto, E dato in premio tra tutti i soldati Così gustar di lor fatiche il frutto, Questi segni d' amor, lor fur sì grati, E l'atto liberal fe tal costrutto, Ch'ogn'un le lodi sue giua cantando, E che è figliuol di Marte confermando. Et à Moretto, & à l'ostier suo padre, Ch'era Amigran chiamato, fe tal dono, Che non sol quei; ma la figlia e la madrè, Per farne gaudio eterno tra lor sono. Sopr'i portichi à lettre tonde, e quadre Scritta, fu la memoria, con gran suono Di molte uoci, de la liberata Città, da chi, e'l dì de la giornata. L'ambasciata Real sì come l'empio Re era estinto, e la sua gente rotta, Mandò Guerrin, de i ualorosi essempio Al gran Soldan, con pregar, che condotta Fusse Antinisca, oue con duro scempio Il padre, & i fratei perse ad un'otta, Et uoglia dare il Regno a l'innocente Figlia, e suo sia l'Imperio di sua gente. E che cinquantamila gli piacesse Huomin mandargli, con li quai uoleua Ciò che Soria fino à Damasco hauesse Pigliare, à i quali Ambasciadori haueua Dato un manto Real, dou'er an messe Si degne gioìe, ch'un mondo ualeua, Ch'era di Galismarte, e'l padiglione, E d'or massicio un Idol di Macone. E fece ornar di Regia sepoltura Di Galismarte il corpo, e glialtri seco Che furo Re, non ui ponendo cura S'eran nemici, che da l'odio cieco Non erasì, che con pari misura, Non uolesse onorar nel cauo speco Come gli amici, i suoi nemici insieme Ch' apparentia di morti non si teme. Glialtri, di più uil pregio, à le uoraci Fiamme fe consumare, acciò che pasto Non fusser de le fiere empie, e rapaci, O che da la lor puzza l'aer guasto Non ui restasse, nè mancar seguaci Nè chi i fuggenti Turchi di contrasto Accompagnasse, che per quei paesi Ne fur per molti dì poi morti, e presi. Nè si partì Guerrin, fin che tornata L'ambasceria gli fu, con gente noua, C'haueuan seco la Donna menata, Ond, à Guerrin la fiamma si rinoua, Nel contemplar sua faccia delicata Nè prouò mai dolcezza com'or proua, E tanto più, che prima non fu gionta Ch'ella, per fargli onore, in terra smonta. E l'era ito il Meschin da diece miglia Incontra, da i migliori accompagnato Cittadin de la terra, per famiglia, E da molti Baroni seguitato. Or la bella Antinisca il tempo pìglia, Veggendosi per lui reso lo stato, Dismontar (com'hò detto) in terra uolse Simil fece Guerrin, che poi si dolse. Dolsesi seco, e disse, il seruo debbe Vsar questa umiltà, non tu mia diua. L'huomo è tenuto, poi ch'al cielo increbbe De l'innocentia, à far la ragion uiua. S'opra per uoi ho satta, chi potrebbe Negarla, poi ch'in sorte mi ueniua Dal ciel di farla? il fe perch'ei sapeua C'huom con più uolontà far nol poteua. Or bisogna, Lettor, senza ch'io dica Cosa per cosa, c'harei lunga fine, Che tu ti stimi, che la gente amica De la città, poi facesse diuine Feste, se ben de la sua sedia antica Il padre Re cadde ne le rouine Vltime de i nemici, ma il pensiero De la uendetta, fe'l duol più leggiero. Fu dunque posta in la sedia paterna, E perch'ell'era ancor di tredici anni Il Meschino ordinò, ch'ancor gouerna Col Regno fusse, e tratta fuor d'affanni E di pensier, da gente che discerna Lontana da nemici, e falsi inganni. Questò offitio commise à tre maggiori Amici, ch'eran del Regno amatori. E prima Paruidas gli diè per padre, De i primi furon glialtri, per ricchezza, E disse lor, che con tutte le squadre Volea ridur quel Regno in più grandezza E de i Turchi domar le uoglie ladre, Facendoglì depor l'aspra fierezza, Dipoi uerso Ponente andar disegna Doue ei deue trouar sua stirpe degna. Paruidas gli rispose, Signor mio Che stirpe mai più degna trouerete, Che questa, e c'habbia più di uoi desio Che quì con la Reina acquisterete? Il Regno è uostro, & ella, e sallo Dio Se meglio nel cercar per hauer siete Già la bella Antinisca tien d'hauere Voi per marito, e con uoi sol godere. La fiamma raddoppiò, crebbe l'ardore Nel sentir dir d'esser desiderato, Da la sua Donna, e tutti per Signore, Ma uennegli dolor da l'altro lato Non potendo restarui con onore, Così da più pensieri trauagliato, Lo star, rispose, fia danno e uergogua, Però ch'un uoto osseruar mi bisogna. Sentendolo Antinisca, c'hauea fatto Il conto senza l'oste, à se lo fece Venir, dicendo, Signor mio, qual patto Oscura il mio pensier con nera pece? Il Regno è uostro, che l'hauete tratto Diman de i Turchi, or come in uostra uece Volete ad altri darlo? e me che u'amo? Però prendetel uoi, che uoi sol bramo. Bramo che come tolto, sia difeso Sotto la uostra spada, ch'altrimenti Non uo rimaner sola à tanto peso, Ch'ancor ch'assai nemici habbiate spentì Senza uoi sempre mi sarà conteso Il Regno, e la persona, da più genti. Et io nè il Regno, nè la mia persona Vo senza uoi tener, nè la Corona. Disse Guerrino, io domarò di sorte I Turchi, prima ch'io lassi l'impresa E di mia mano à tanti darò morte Che per molti anni, non n'haurete offesa. Io uorrei dimostrar quanto m'inporte, Questo partire, e quant'al cor mi pesa Ma non uel posso dir, ben sallo Amore, Che se'l corpo sen ua, rimane il core. Ma se mai trouerò quel c'hò promesso A glialberi del Sol, che m'hanno detto, Ch'io ne uada in Ponente, (oue l'istesso Mio padre trouar debbo, à me diletto E la mia madre con lui anche appresso) Ritornar senza frode io ui prometto E non andando, io fo gran mancamento Oltre che poco ne sarei contento. S'io trouo quel ch'io cerco, ò mia Signora; Mi riuedrete quà, pur ch'à Dio piaccia, Antinisca al suo dir rispose allora (Alquanto mesta, e con languida faccia) Poi che'l partir crudel, che sì m'accora Conuien Signor mio car, ch'io ui cõpiaccia Vo, se la stirpe uostra ritrouate, Che di tornar quì certo mi giuriate. Et io ui giurerò d'aspettar tanto Che sarete tornato. Eh non per Dio Disse Guerrin, lasciam questo da canto Ben di tornar prometto giurar'io; Ma uoi sarete uecchia, s'io sto quanto Dubito star, perche'l uiaggio mio E di cercare il mondo mezo ancora Si, ch'al tornar sarebbe tarda l 'hora, Tra quanto tempo, (diss'ella) credete Cercar tanto paese? Guerrin disse, Diece anni credo star, sì che potete Pensar, che poco ben ciò ui uenisse. A uostra posta dunque giurerete Diss'ella, perche prima ch'io patisse Torre altri, eleggerei la morte prima, Così ui giuro, e così fate stima. Conuenne confermar con giuramento Pur'à Guerrino, e darle la sua fede, Meglio ch'ei può, reprimendo il tormento De la partita, & ella anco lo diede, Per colui, disse, che fe il firmamento, E formò il tutto, & ogni cosa uede Giuro io Guerrin di nõ torre altra moglie Che Antinisca, nè cangiar mai uoglie. Ella giurò non torre altro marito, Nel termine di diece anni seguenti Sopra à tutti gli Dei, così'l partito Fu confermato da gli huomin presenti. Or, perche'l Canto già mi par finito Siate Signori à la tornata intenti, Tornate ad ascoltar, ch'io ui prometto Di darui (s'io potrò) maggior diletto.

IL FINE DEL CANTO QVINTODECIMO.

NOn so, ne uoglio, alto Signor, seguire Le ciance di Parnaso, e d'Elicona, Per tuo mezo sol cerco di uenire La, doue il fin desiato misprona A te sagro le rime, à te il mio dire, Tu solmi guida, e mostrami la buona Strada, doue drizzar debbo la penna, Che caminare à la tua Croce accenna. Pen che Guerrino dal paterno amore Fusse spronato, e dai più gran pensieri Non solo ad Antinisca il suo fauore Diede, ma se l'offerse uolentieri D'esser suo sposo, e di tenerla in core E se da casi inopinati e fieri Impedito non fusse, far ritorno, E celebrar le nozze, e il dolce giorno. Era grande l'ardor, ma non già tale Ch'egli non fusse à maggior opra intorno, Pensando à la salute uniuersale, E quel popol ridurre à saluamento Sotto la santa Croce trionfale, Per questo confermando il giuramento Baciolla in bocca, come piacque à certi Buon testimoni, in simil casi esperti. Appresso, itre che s'erano obligati De la Donna al gouerno, e di quel Regno Giuraro d'esser sempre apparecchiati Con tutte le lor forze, e con l'ingegno Fin, che diece anni fussero passati, De la Donna esser sempre buon sostegno E tra quel tempo, ordinaron costoro Che non portasse ancor Corona d'oro. La sconsolata fanciulla rimase D'Amor (con poca sua, uentura) presa Ad aspettar ne le paterne case Di stinguer tardi la sua uoglia accesa. Il Meschin poi la gente persuase, Che stesser pronti à seguitar l'impresa, Che di molte città sott' à quel Regno Cacciare i Turchi fatt'hauea disegno. Con centomila huomin da guerra prese, Partendo da Presoli, il camino A la città di Trata si distese, E il terzo dì l'hebbe nel suo domino, Et ogni Turco, che gliela contese Fece morir, poi entrò nel confino D'una città Gresofonea chiamata, Che si rende con gente disarmata. Vn'altra, detta Arabia, prese ancora Poi passò'l fiume Coronel con fretta E Canepolis, che'di là dimora Prese, con Arbalis, senz'interdetta, Poi passò'l Tigre, guadagnando ogn' hora, E in una regione entrò, ch'è detta Presopotamia, e Iubbilis oppresse Per forza, & Vatiuoria sottomesse. E passò'l fiume Serafalis, doue Prese poi la città di Parabola, Ch'era sù'l lago d'Ascala, poi moue L'essercito, e Samesca quasi sola Rimasa, prese, perch'i Turchi altroue Eran fuggiti, nè sì tosto uola La fama di Guerrrin, ch'ei nettan uia, Che'l uolersi tener tengon pazzia. Da Samesca partito, uerso'l monte Statalia il camin prese, e racquistata La città d' Alessandria, la fronte Voltò uerso Damasco, con l'armata, E tre altre città, che saran conte Da me, fu l'una Antiochia pregiata, Tolosa, con Solon, giunse in Soria, E di Tripoli prese Signoria. Ste diece giorni à Tripoli, e partito Prese Baruti, e Damasco, la quale Le chiaui gli mandò, senz'altro inuito Aspettare, e di guerra oltraggio, ò male Elsiar, Acre, al medesmo partito, Si diedero anche loro al trionfale Guerrino, & in Cesaria peruenuto In Bettelem fu anche riceuuto, Rama, e Gerusalem anco acquistaro. Quiui fece Guerrin, fermar la gente Là doue tutti ben si rinfrescaro La notte poi Guerrin segretamente, Al diuino Sepolcro, à noi sì caro Vegliando sempre ste diuotamente, Orando al Re dei Re, chiedeno aita Per suo padre trouare essendo in uita. Lassò Gerusalemme, e uide ancora Il monte Libano, e'l monte Caluario, Palestina, e Scalona, ch'era allora Vna bella città, or'è il contrario, Prese la Rasa, nè ui fe dimora Perch'ei uoleua far poi camin uario. Brofetta anco acquistò subitamente Quiui poi licentiò tutta la gente. Attoniti restar tutti pensando Douer solo lasciare huomo sì degno, Fecero sconsolati il suo comando, Poi ch'à seguirlo non u'era disegno. Il buon Guerrin gli uenne confortando, Veggendo in tutti di dolor gran segno Et i Baron pregò con molto amore D'esser raccomandato à l'Almansore. Nè poteron le lagrime frenarsi Da quei Baroni, poi che tanto umile Il uider sì soletto separarsi Da lor, con atto benigno, e gentile E di gran Capitan, priuato farsi, Et io non posso accomodar lo stile Poi ch'io debbo seguir con esso solo Ch'ei non meni pur'un dì tanto stuolo. Andonne solo al monte Sinai, E stè cinque giornate nel uiaggio Doue gran carestia d'acqua pati, E gli costaua caro il suo lignaggio, Trouonne pure al fine, il quinto dì In un Vallone, doue appena il raggio Del Sol vi penetraua, e quand'ei crede Rinfrescarsi, impedirsi il passo uede. Vide un, uestito di corame cotto, Là doue usciua l'acqua desiata Gridando, qui conuien pagar lo scotto, Prima che pur si gusti l'insalata Guerrino, che'l disegno uede rotto E farsi da colui tanta brauata Strinse la lancia, & imbracciò lo scudo Ch'à combatter non hà con huomo ignudo, Colui, con un bastone smisurato Si fece innanzi, e con lo scudo forte, Ch'e s'era in sua difesa preparato Per dar (s'ei puote) al buõ Guerrin la morte. Il colpo de la lancia andò fallato Perche colui con lucifiere, e storte Mena con quel baston con tal destrezza, Che'l colpo schifa, e la forte asta spezza. Voglio dir ch'ei spezzò l'asta, che s'era Ferma col ferro ne lo scudo fitto, Poi menò col baston botta sì fiera, Che bene era crudel, se gliera dritto, Con destrezza Guerrin molto leggiera Indietrò si tirò, sì che trafitto Funne il terreno, û si ficcò'l bastone Valse à Guerrin di scrima hauer ragione. Ma come franco e degno Caualiere Fecesi innanzi per quel colpo uano, E con la spada gli fece uedere Se di core e uirtute era soprano, Ch'in terra quel baston fece cadere, E con un colpo l'una e l'altra mano Gli spiccò da le braccia, onde il Gigante Vn urlo mise, con fiero sembiante. Voltossi per fuggir, ma nel uoltarsi Guerrino gli tagliò quasi una coscia Sì, che di quiui non potè mutarsi, Ma in terra cascò per grande angoscia, Guerrin di nouo poi uide assaltarsi Da un'altro Gigante, ch'uscì poscia Di quel uallone, ond'era uscito quello E uenia minacciando alpestro e fello. Ne la man manca haueua una gran mazza Ferrata, e forte, & hauea ne la destra Due dardi, da passare ogni corazza, E in ogni usbergo fare ampia finestra, Lanciolli un dardo quella bestia pazza. Ma Guerrin, ch'à difendersi s'addestra Parò lo scudo, e fu pur tanto forte Ben che'l passasse, che'l campò da morte. Colui riprese in mano l'altro dardo Gridando allor, se tutti glialti Dei Ti uolesser campar tristo bastardo A lor dispetto per campar non sei. E tirò' l dardo col braccio gagliardo Perche Guerrino era smontato à piei Ne l'assalto de l'altro, con disegno Di tagliarli la testa il Campion degno. Sì, che quel colpo fuor di modo crudo Gli colse à pieno, perch'ei gliera appresso E conficcolli nel petto lo scudo Ma non restò tanto l'usbergo fesso Che gli andasse à trouare il petto ignudo, Poi col baston s'era con furia messo Innanzi, e lo menò con gran tempesta Per infragnerli l'elmo ne la testa. Benche Guerrino il dardo uia tagliasse, E si coprisse con lo scudo presto Far non potè, ch'ei non s'inginocchiasse Per quel colpo terribile, e molesto A dire il uer, ch'ei non s'abbandonasse Vi mancò poco, e facesse del resto, Il Gigante, che'l uide inginocchione Disse, à tua posta mi ti dà prigione. A dagio un poco, allor disse Guerrino, Non tanta fretta, che da far ci fia Ancor non m'hai tu preso al tuo domino Il rendersi si tosto fia pazzia, Ma colui, come piacque al suo destino, Gli corse addosso con la fantasia Di farselo prigione, & abbracciarlo, E com'un'huom di legno via portarlo Guerrina, che si uide la gran salma Addosso andar, uoltò tosto la punta De la sua spada che gli diè la palma De la uittoria che nel mezo giunta Del petto, il fianco aprì de la trista alma Ch'era à quel busto disutil congiunta, Cascò nel ritirarsi l'huom bestiale, Pensando di fuggire il giunto male, Volea fuggir, ma non fu caminato Via diece passi, che giù cadde morto, Era Guerrino ancor mezo intronato Da la percossa, e uendicato il torto In piedi s'era pure al fin drizzato, E prese di tal morte gran conforto, E tagliolli la testa, e rinfrescossi Salse à cauallo, & al monte inuiossi. Temendo tuttauia ch'altri Giganti Il camin non gliandassero à uietare Sù'l monte Sinaì salendo innanti E quel passato si uenne appressare A l' Arabia felice, che di quanti Regni si troua, quelle singolare Giunse à Malartia, città ch'era posta A' le montagne de l'Arabia accosta. Quiui tre giorni prese di riposo V' son le genti grandi, e Donnè belle Gran barbe portan gli huomini, e peloso Il petto, duri i denti, e le mascelle, Partissi da Malartia, disioso Veder d'Arabia queste partie quelle, Giunto in Arabia, fu l'anno fornito, Ch'ei s'era da Presopoli partito. Nè sì tosto ui fu, ch'andò pensando De là Reina Sabba profetessa Che fu d'Arabia, e de tre Magi, quando Seguitàron la stella, che da essa Guidati, venner il fanciul trouando De la Vergine nato, che confessa, Chi crede il vero, oue pensaua hauere Qualche notitia, e del padre sapere. Passate l'Alpe, trouò uille piene Di poche case, che gli abitatori Cominciato di poco abitar bene Haueuan quiui, che i lor genitori Non abitauan case e stanze amene; Ma per le Tane à caso senz'onori Cercare, eran pastori la più parte Nè si uedeua in lor più famosa arte. Rincontrò per camin molte brigate Carchi di pane, e di minestra e carne, Veggendole Guerrin così carcate, Si fece dir quel ch'e' uoleuan farne Perche le uide molto accomodate In bei uasi di terra, e senza starne Ad un, ne domandò molt'altra gente Che gli rispose ogn'un cortesemente. Che quella roba, il mese si raguna, Poi la danno à mangiare à i morti loro, Che fanno un bel conuito ad ogni Luna Nè senton per quel di pena, ò martoro, E fassi lor l'aria chiara di bruna E danno lor tal uolta, anche tesoro Gettan la roba in certe spaccature De le montagne, in giù profonde e scure. Da certe bande, oue più batte il Sole Fanno questa lor festa scempia, e sciocca, Guerrino disioso ueder uuole Come questa lor roba giù trabocca, Conobbe il creder uan di ciance e fole, Che uenian serpi con aperta bocca, A diuorar la preda a lor donata, Da sì falsa credenza, e scelerata. Quelle diceuan gli sciocchi, e insensati L'anime de i lor morti, essere in modi Diuersi, in quelle forme tramutati Secondo i gradi, non sapendo i frodi, Che dal Demonio gli eran preparati Credendo, ch'altrila roba non godi. Tal'ordin tengon dunque questi genti Gettando roba ad ingrassar serpenti. Quattro giorni à passar quei monti pose Poi giunse à Rama, e tre dì di riposo Vi prese, per tante opre faticose, Ancor che d'andar fusse desioso Quiui si prouedè di quelle cose Ch'ei si uedeua esser più bisognoso, Fe ferrare il cauallo, e nel partire Per Arabia il camin tolse à seguire. Passò per molti giorni assai paese Et anco il fiume Arabito, ilqual uiene, De la montagna Ziames, ch'intese Ch'appresso una città seggio ui tiene, Clafar chiamata, il cui fiume comprese, Ch'Arabia attrauersaua, e poi l'arene Del mar rosso ritroua, e ui si tuffa, E con l'onde marine si rabbuffa. A la città Badeiron uicino Entra quel fiume, poi uolse uedere Doue nasce la Mirra, in quel confino, Ch'è la più fina, che si possia hauere. Surge d'un'arbor, com'à noi dal Pino La Ragia, e uolse l'altezza sapere Cinque braccia è il più alto, e uerde tutto, E de la buccia esce sì nobil frutto. E' questa Mirra un'ontion, che uale A conseruare un corpo umano schietto. Senza marcire, ò fare alcun segnale Di corromper si mai per suo difetto, Nasce in due monti, l'uno e l'altro uguale Cramus è l'uno, e l'altro Elimas detto Molte cittadi ancor trouò di poi, Che troppo è a dir di tutte i nomi suoi. Vide poi la grande Arbia, e'l porto bello A merauiglia, e la sua regione, Merifica si chiama, e questo, e quello, E' del color de i Greci in paragone, Oprò natura il suo miglior pennello In far de le sue donnè le persone, Entrò nel Regno d'Abbora partito E giunse à Sabba il Caualiero ardito, Di questa Sabba, uennero i tre Magi Gasparre, Baldassarre, e Melchiorre A uisitar quel che fuor de i palagi Al nascere il suo nido uolse torre, Per frenar la superbia de i maluagi Sotto un'umil cappanna uenne à porre L'unica deita uera e compiuta, Che fu da questi Magi conosciuta. Risiede sopra al mar questa cittate Vna giornata, & hàtre'poggi intorno L'un uers'il mar tien le spalle uoltate, Chiamato Pòssidon; da mezo giorno, L'altro è Cabubatras; uerso la state, Che fa Leuante, nel solar soggiorno Euui il monte Oselisi; e uer Ponente Vna giornata sta da Sabba assente. Lontan da glialtri, è sol meza giornata, Dipoi trouò Busar, e Menabrosa Bifar è degna d'esser nominata, Qual è per un bel porto assai famosa. Di Turbin ne lo stretto, oue passata Fa l'acqua del mar Indus, che si posa Dentr'al mar Rosso, il loco doue passa Dugento miglia di larghezza lassa. Poi (com'hò detto) genera il Mar rosso I quale, è lungo miglìa settecento Ne le piazze d'Egitto si fa grosso Là doue ei diede à Faraon tormento. E ua, (per quanto ben comprender posso) Appresso à cinque miglia, ben che lento A Babilonia, & i suoi liti bagna, E spesso inonda più la sua campagna. Per quello stretto mar le spetierie Passan di Persia, Arabia, India maggiore Di poi si parton per diuerse uie Di quì Guerrino andò ne la minore India, e ui uide strane fantasie Non senza sua fatica, e suo dolore, E ne i trauagli inuolto, e ne gli affanni Ne le terre passò del Prete Ianni. E prese porto à la città d'Ancona Terra del Prete Ianni, di gran conto Di tesor ricca, popolata, e buona. Nel porto pien di naui essendo gionto, Che in quel paese di esse il nome suona Argon, & Atizo, che vuol dir pronto Grandi e piccole naui, e dismontato Si riposò dal camino affannato. Q uiui si paga il passo da i mercanti, Che uan per quello stretto, al rosso mare Tre porti sonvi, e son tutti abandonati, E fassi il passo à tutti tre pagare Mosia si chiama l'un, che passa innanti, Ne l'entrar del mar Rosso, e l'altro appare Al mezo de lo stretto, quest'e quello Chiamato Ancona, di tutti il più bello. Ancona è su'l mar Melo, in questo Regno; Di quiui caua un Tesor senza fine, Il Prete Ianni, per gran fama degno; Molte Isole hauui, lontane, e uicine. Ora Guerrino con l'usato ingegno, In certe stanze si ridusse al fine, Ch'eran d'un Ammiraglio gran Signore, Che gli fe gran carezze, e grande onore. Parlò per Turcimani, e domandollo Doue era nato, e che fede teneua, Parlando il uer Guerrino contentollo, E del paese che cercato haueua, Sentendo esser Cristian, molto onorollo, Che in quel paese in Cristo si credeua, E son sei region d'India minore, Che tutti adoran Gesũ per Signore. Il fiume Astapo ua uerso Leuante Zinamon tiene uolto all' Ostra calda. Gente ha questo paese, che di quante Ne gli altri sono, e più fiera, e più salda Son d'Etiopia questi, c'hanno innante Vn'altra region ch'il Sol la scalda, Azania è detta quest'è la maggiore Del Prete Ianni, e de I'India minore. L'altra e l'Isola Mercon, & è posta In mezo al Ni'o, e questo è il uero sito, E parte al Prete Ianni sottoposta, Che tiene in estimabil circuito, Ogni cittate, che quiui è riposta, Seppe Guerrino, prima che partito Fusse da quelle, e tuttauia ragiona, Con l'Ammiraglio del porto d'Ancona. E' questa Ancona molto popolata, Son gente nera, & han corti i capelli Veste cilestro quella più pregiata Di pannilani, di perfetti agnelli, Va la uil plebe sol di tela ornata Di lino fatta, e paion monacelli, A l'Ammiraglio hauea detto Guerrino, Com'era al Prete Ianni il suo camino. Diegli due guide quel Signor cortese, Ch'er ano ricche di più d'un linguaggio Quei caminando poi per quel paese, Parlaron molte cose pel uiaggio, Non note à Guerrino anco, appresso intese, Doue che si poteua far passaggio, E doue non; e d'Ancona passaro Il Regno, doue à Ponor dia arriuaro. E da Ponordia, à Cologna arriuati, La gran città di Sardaim trouorno, Di quindi à Bramaì eran passati Quand'al gran mõte Garbastano andorno Sonui assai uille, e castei seminati Spillan buone acque à la mõtagna intorno Sonui bestiami assai come tra noi Capre, uacabe, caualli, asini, ebuoi. Camelli u'è, pecore non uedute Ne l'al reparti de l'India minore, Perche le guide nò istesser mute, Volse Guerrin da quelle hauer sentore Di molte cose da lui non sapute, Lequai gli rispondean con amore E domandò se in Africa, d'Egitto Si potesse arriuar s'andasser dritto. Riser le guide e disser non potete Di quì passare al Cairo, & à la grande Babilonia d'Egitto, che uoi sietè Al dritto quì doue Libia si spande, Ethiopia arenosa trouerete E il gran mar del sabbion, per queste bãde Poco paese u'è uerso Ponente, Che ui possa abitare umana gente. Euui il mar de l'arena, questo dura Dal Nilo, fin'al gran mare Oceano, Quiui è la spera grande, che tien cura Da l' Atalante, e se ne ua lontano, Fino al Marocco, per dritta misura, Parue à Guerrino questo auiso strano, Che maggior crescer si uede afatica, Ch'era del suo spèdir, fiera nemica. Caminauano sempre innanzi; e quando A Palestina fur le guide, allora (Seguendo sempre pel camin parlando) Disser, che per la Libia surgon fuora Lioni, draghi, e serpenti, soffiando Aliti tristi, che portano ogn'hora La morte seco, e la ruuina espressa Di chi per tai paesi lor s'appressa. Trouasi ancor, che molti hanno passato (Dissero) il Nilo, e di qua capitati Son dou'or siamo, & con orribil fiato Hanno questi paesi auuelenati. Or se da noi ne fusse alcun trouato Andian pe i fatti nostri disegnati; Che'l mal'non uenga per nostro difetto, Perche di ciò che veggono han sospetto. Poscia, del Prete Iandi à dire entraro Che dimoraua nel Regno Tioco Nè la città d'Eriponda, che raro L'abbandonaua; E già l'ultimo loco E fin de là montagna terminaro, E caminati per un piano un poco Nel passar d'uno scuro e gran uallone, Venne gli incontra un terribil Dragone. Voltarono i caualli spauentati Col peso addosso, che ue lo guidaua; Gli interpreti al sicur s' eran saluati Volse ueder Guerrin la bestia braua Laqual due lanci smisurati, Poi che'l Guerrier per uederla aspettaua, Al secondo fermossi in se ràccolta Per far' il lancio ancor laterza uolta. Guerrino, che fuggir non era usato Volse uedere il fin di questa cosa; Essendo già del cauallo smontato, Che gli pareua cosa faticosa. Il cauallo campare, & imbracciato Lo scudo contra à quella uèlenosa Fiera si mosse, ou'ella al uarco staua, Ch'assalire il Campion si preparaua. Lanciossi al fin, poi che lo uide in terra, Guerrino con la spada la saluta, Ma il taglio il duro cuoio non afferra, Il drago che la guerra non rifiuta, Co i denti l'elmo subito gli serra, Lo scudo con le branche, ne si muta Che con la coda intorno poi l'auinse, E fieramente legato lo strinse. Gratia dal ciel, misericordia Dio Mostrò, doue non era molta speme, Che se le braccia quell'animal rio, Gli hauesse prese con le forze estreme De le sue branche, hauria pagato il fio, Di questa, e d'ogni pugna fece insieme Piacque à Dio ch'egli uccise l'animale Ficcandoli nel uentre il suo pugnale. Ficcolli tra le scaglie essendo stretto Da non potere adoperar la spada (Com ho detto) nel uentre il suo stilletto Quattro e sei uolte, ch'ei trouò la strada Di trargli il fiato del rabbioso petto Colse la spada senza stare à bada, E tagliossi i legami insieme auuolti De la gran coda, e così furo sciolti. Ma nel partirsi fu tanta la forza Del uelenoso fiato, e tanto fiero L'assalto, che stordito à poggia & orza Voltaua i passi il miser Caualiero E tuttauolta il uigor gli si smorza Nè fa cinquanta passi in quel sentiero, Ch'ei casca in terra, e pian tra se parlando Gesù, disse, lo spirto t'accomando. Pensò senz'alcun dubbio, hauer forniti Gli ultimi dì de la sua degna uita. In questo i Turcimani impauriti, C'haueuan fatta fuggendo partita; Videro da lontano, à che partiti, Era Guerrino, e prima la gradita Vittoria, e ritornaron con dolore Dou'era tramortito il lor Signore. Nè ueggendol ferito, il disarmaro Conoscendo la forza del ueleno, Dipoi ad una uilla presso andaro D'onde un certo uasetto portar pieno, D'un' unto, da tenerlo molto caro Contr'à simil uelen, che si faciéno Gli abitator di tutti quei paesi, Che da tai fiati erano spesso offesi. E uenner de la uilla forse trenta Per allegrezza de la morta fiera Ch'ancor che morta sia, pure spauenta La uista orribil di sua testa altiera Vedutala ciascun poi s'appresenta, A dare aiuto dou'il bisogno era, Vngongli i polsi, e la persona tutta, Che sì faceua già liuida e brutta. Cauando la camicia uider quella Crocetta d'or, che'l campaua da morte Al collo gli pendea lucente e bella Che nel partir ch'ei si fece di corte Prima che per cercar montasse in sella, Tante uie per il mondo dritte e torte, Gli diè l'Imperador Greco Cristiano, Sol per camparlo d'ogni caso strano. Non prima uista fu la Croce santa, Che tutti s' assettaro inginocchione Quei de la uilla, e dimostraron quanta Si possa dimostrar mai diuotione Nè fia gran merauiglia, ch'abbian tanta A sì giocondo segno diuotione, Perch'erano Cristiani, com'io dissi, Quando questi lor Regni ui descrissi. Come da graue sonno scioglie spesso Il sensitiuo spirto l'huom legato, Così uenne Guerrin tutto in se stesso, Per la uirtù de l'unto à lui portato. Il popol si faceua intanto spesso, Che s'era d'ogni sorte ragunato Tratti à le grida del morto serpente, Che diuoraua il bestiame e la gente. D'altri uillaggi corse gente, quando Giunti fur quelli de la uilla prima Di Guerrin tutti l'opera mostrando Hauer in pregio, e farne molta stima. Vennegli in tanto il uigor ritornando, E così unto da i piedi, à la cima Del capo, fu portato poi di peso Ne la primiera uilla, e meglio atteso. Quiui, unto, e medicato con amore Fu tanto, che'l uelen si spinse al tutto Beato chi più potea fargli onore; Dipoi che da lui uien sì nobil frutto Fu presentato da real Signore Poscia da l'animale orrendo, e brutto Spiccarono la testa, e fer memoria Del dì, c'hebbe Guerrin di lui uittoria. Del Tempio de la uilla sù la porta Sospeser del Dragon l'orribil testa, E serui un' epitaffio da chi morta La bestia fu, la sostanza fu questa, A questa uilla fu salute porta Da Guerrin, ch'ammazzò ne la foresta Questo dragon, pel quale abbandonata Era già la contrada, e disolata. Ne glianni di Gesù più d'ottocento Trenta, passò di quì quel Caualiero, Cercando il mondo con intendimento Di saper di suo padre il fatto uero, E de la madre. Questo fu'l concento De le parole, or uoltando il pensiero In capo d'otto giorni fu guarito Il buon Meschin, ma mezo intiepedito. Pensando ai casi auuersi, al gran uiaggio C'haueua fatto, e ch'ancor far douea Stando pensoso un sacerdete saggio, Che così mal contento lo uedea, Pigliollo per la man, c'hauea linguaggio Greco, e gli domandò che lo premea, Disse Guerrin, dirouui la cagione, Ma ui domando la confessione, Da lui si confessò dicendo il tutto Ciò c'hauea fatto, e ciò c'hauea promesso, Per quel'uiaggio, sperando far frutto Or staua in dubbio con pensier dismesso, Il degno sacerdote, ch'era instrutto Ben ne la fede, hauendolo confesso, Or odi (disse) ò nobile Guerrino Quel, che mi par sopra à questo camino. Quell'huomo, il qual comincia un alta impresa Dãdole un bel principio, e ua seguendo Infino al mezo con la uoglia accesa E non uiene à la fin poi aggiugnendo, Non merta ei già, che gli sia gloria resa, Che'l tempo habbia perduto quello int&etilde;do; Ma chi de l'opre buone arriua al fine Merita gratie hauer dal ciel diuine. Sai tu (gli domandò) che cosa è fede? Disse Guerrino, una ferma speranza, Che s'ha in quel, che tutto regge'e uede, Ilquale è trino, in una sol sostanza, E ch'à la destra il figlio al padre siede Nè l'uno ò l'altro mai si troui sanza Lo Spirto santo, nè il padre dal figlio, Ma sieno in una essentia, un sol consiglio. E finalmente un solo Dio, fattore Del Cielo, e de la Terra, e d'Elementi E fede è creder con perfetto amore Ne i ueri diece suoi comandamenti Et osseruargli ancor con puro core Et ne idodici articoli seguenti Sopra la Fede, e creder altrettanto Ne i sette don de lo Spirito Santo. Et osseruar le sette opre pietose De la misericordia, e così credo, Che cosa è caritade allor rispose Il Sacerdote? Questa ui concedo Disse Guerrin, sopra tutte le cose Che è il prossimo àmare & io lo cedo Rispose il Sacerdote, or chi più presso Per natura ti sia che il Padre stesso? Or non sai tu, ch'onora padre, e madre De i diece è'l primo tal comandamento Niente fin qui hai fatto per tuo padre Lassandoti occupar dal pentimento Ruban la gloria queste uogliè ladre Ch'oscuran la ragione, è'l sentimento La qual gloria non s'ha senza fatica Che sò ch'è grande, senza che mel dica. Pur l' Asia hai cerca, con l'India maggiore Che di tutt'il gran giro de la Terra Non u'è luogo di quello più peggiore Et chi pensa altramente, non poco erra V non sol la natura ha posto fuore Le bestie di sua forma, ma fa guerra A l'uman seme, che'n più uariato Modo in più parti il troui tramutato. Et gli ha fatti saluatichi, e bestiali, Et abitar grotte, cauerne, e boschi, Or i miglior paesi, e naturali Restan, e luoghi men seluaggi, e foschi Se ben la Libia u'ha molti animali, Di pessimi ueleni, pieni di toschi Non u'è, sì com'in India, e in Tartaria, Tanta Canaglia monstruosa e ria. Ecci l'Europa, e l'Africa, che sono Ben'abitate, e nuocere, e giouarti Ti può quì'l tuo gouerno ò tristo ò buono, Secondo che tu stesso uuoi guidarti. Chiedi à Dio dunque d'ogni error perdono E pregal, che non uoglia abbandonarti Che ben t'aiuterà la sua clemenza Per ch'egli è il sommo d'ogni prouidenza. Allora il Caualier con diuotione Promise di seguir la tolta impresa Et umilmente stando in ginocchione Baciolli i piedi con la uoglia accesa Diedeli il Confessor l'assolutione Dopo la penitentia d'ogni offesa C'hauesse fatta à Dio, d'indi leuossi Guerrino, e per partirsi rassettossi. L'arme uestissi, e le due guide in ponto Si posero, e menarongli il cauallo Ei per parer di sar di tutti conto Tolse comiato senz'altro interuallo Da gli huomin de la Villa, or'io son gionto Al fin del Canto, se'l termin non fallo E perche de l'istoria uiene il meglio Per poi seguir, riposar mi conseglio.

IL FINE DEL
CANTO SESTODECIMO.

DEh Qvanto alto Signore, obligo tengo A qvel de la tua fe buon sacerdote; Quant'à te prima, poi che per te uengo A far più che l'ingegno mio non puote. Più uolte il camin aspro, ch'or mantengo (Trouandomi le forze hauer rimote) Pensai di non seguire, or mi rimuto Acciò che'l tempo in uan non sia perduto. Ripiglierò la cronica, seguendo Come Guerrin da la uilla partito Andasse pel uiaggio discorrendo Quant'errore era l'essersi pentito, De l'alta impresa, al fin uenne rompendo Con parlar con le guide assai gradito Sol per fare il camin fuo più leggiero, In questa forma disse il Caualiero. Vedete cari amici ciò ch'è l'huomo, Il qual composto di quattro elementi Terra, aria, fuoco, & acqua, al fin'è domo Da morte, nè si può far'altrimenti Natura tosto gli fa far'il tomo, L'anima resta, che da i portamenti Del corpo, si fa salua, ouer dannata, Per quella libertà che Dio le ha data. Quest'e'l quinto elemento di salute Da Dio donata, pur che la uogliamo Le uie, dond'ella uien, mal conosciute Son dal nostro pensar, nè le sappiamo, Senon che'l giusto Dio per sua uirtute Vuol ch'in eterno poi celo teniamo; Ma come à noi lo dà, ce l'ha diuieto Perche dipende dal suo gran segreto. La santa Chiesa ben ci mostra come Senz'alcun dubbio saluare il possiamo. Anima uien chiamato per un nome, Non come i corpi, che diuersi habbiamo, I nomi, e carchi di diuerse some E con uile atto generati siamo, Però terreno è il corpo, e l'alma tiene Spirto impalpabil, sì come à noi uiene. Nasceci dunque l'huomo, e quand'è nato De gli elementi uien sottil gouerno Da i quali à poco à poco è nutricato, Sì come piace al Signor nostro eterno. Ma sarei troppo lungo se lo stato Nostro uolesse dir quant'io discerno E come un resta uil, l'altro s'innalsa La cui cagion molti interpetran falsa. Seguirò sol di me, che s'io pensasse Al beneficio, al don, che m'è concesso Dal Ciel, non sò con qual opra arriuasse Con dargli merto, ch'esca di me stesso, Che quando util maggior non si mostrasse Hauer da Dio, sol questo ch'io son messo Tra gli huomini, & m'ha fatto creatura Di niente, ch'era, per uia di natura. Padre poi diemmi, e la madre, diletta, Che per me sopportar tanta fatica Per darmi questa forma, c'ho perfetta Ch' amor com'à Dio piace si nutrica, Perche mentre ch'inuita, ancor uien retta Mi deue esser la uoglia sì nemica, Ch'io non metta per lor, quel che da loro E da Dio uenne Rè del sommo Coro? Qual beneficio & obligo maggiore Si può mostrare? e perche non si deue Spender la uita pel suo genitore. Perch'esser non mi deue dolce e lieue? E per mia madre, che con tant'amore Mi diede à nutricare, e'l uentre greue Di me già tenne, onde pensar dobbiamo, Che giusto è che per lor ci affatichiamo. E quando ingrato à tanto ben si resti, Se Dio è, come egliè, somma giustitia, Perche non si dè creder, ch'ei si desti A castigarsi di tanta nequitia? Sì, ch'in lui mi rimetto: Egli mi presti Gratia, e fauor ne l'andata propitia, E se meglio gli par che per me sia, Faccia ch'io troui la progenie mia. Così fin'à la morte si dispose Seguir l'impresa; & eran caminati Cinque giornate; quando lor s'oppose Innanzi una Cittate; e dentro entrati Essendo quelle genti disiose Di ueder quel, che non erano usati Correuan per le strade, per uedere Sì bene armato, e nobil Caualiere. Era questa Cittate in un bel piano V' la montagna di Gabusta è posta, Appresso al Nilo à due tratti di mano Dou'è la sedia del Regno riposta Or, per uedere il Caualier soprano Beato chi più presso gli s'accosta, Parlan tra loro, e Guerrin non gli intende. Et ogni Guida à rider solo attende. Di che ridesser uols'egli sapere, Noi ridiam (disser) che tutti costoro Dicon, ch' a ueder uoi lor par uedere Gran merauiglia, e ne parlan tra loro, D'un'huom sì ben'armato sù'l destriere Stimando l'armi uostre un gran tesoro. Neri son tutti, e ueston panno lino Ma i ricchi portan drappo Alessandrino Di panno lano cilestro i mezani Fondachi assai, per la Città si troua. D'ogni sorte mercanti, sonui e strani D'abiti, e di parlàre; Al Guerrin gioua Veder tele sottili, che fan uani Velami à quelle donne, e fanno proua Mostrar le carni ignude, che tal tela Poco, ciò ch'ella copre, à l'occhio cela. Motteggiando le Guide, seco entraro Ne la gran piazza, u uider gente armata D'archi, e di mazze, & era quell'huõ raro C'hauesse spada, e quella mal temprata. Da l'uno e l'altro era poco disuaro Di preminenza, ma disordinata Correa la gente in piazza, e facea testa Perche di mano in man chi giugne resta. Da le Guide Guerrin si fece dire, La cagion di tal fatto, e chi gli manda, Quei risposer, perche debbon uenire I Cinnamonij, mossi da la banda Australe, e qua li uengon assalire Presi da la superbia lor nefanda Han contr'al Prete Ianni l'arme prese Da l'ultimo confin del suo paese. E che causa gli moue? Guerrin disse, Non altro (gli risposer) che il sentirsi Troppo abbondanti, causa tai risse E son pastori, c'hanno in cambio à i Tirsi Prese le lance, con le uoglie fisse D'allargarsi il paese, è'l passo aprirsi Son huomin grandi di corpo, e bestiali Vsi ne i boschi à star tra gli animali. Se ui fermate, più chiaro il uedrete, Or bisogna al palazzo appresentarui, E come glialtri fan, così farete Che innanzi à i forestier bisogna farsi, Dal Prete Ianni la cagion saprete Non che'l solito sia questo d'usarsi Ma per simil sospetto usar si suole Com'il Signor di questi Regni uuole. Però che la sua tema è che non vada Qualche buon Capitano à l'arme auezzo A' i Cinnamonij, perche d'altra strada Non può passar gente di molto prezzo Ch'altro non manca lor, se non ch'accada Chi l'ordin de le Guerre per un pezzo Gli insegni, che s'hauesser di guerra arte Occuper ebber tutta questa parte. Giunsero al bel Palazzo ragionando E dismontati dentro al gran Cortile Il Meschin giua intorno rimirando Ogni sua parte ben fatta e gentile, Et assai merauiglia prese quando D'argento anelli come cosa uile Vide murati, e non d' altri metalli Per legar (com'è solito) i Caualli. Stupisce nel salir poi de la scala Ch'era sol d'Alabastro chiaro e schietto, Di quà di là ogni sponda, et ogni ala Di brunito or, riluce puro e netto L'aria soaue, che nel muro esala Mostra un degno lauor, senza difetto Di musaico fatto, con grand'arte Et uede Azurro, & Oro in ogni parte. Da capo pur d'Azurro oltramarino E stelle d'oro, in ogni stella è messo In mezo un'infocato e bel Rubino, Che ne uacilla chi gli mira spesso Allor le Guide uoltesi à Guerrino Veggendolo mirar fuor di se stesso. Dissero, non ui paia cosa noua Se qui tanta ricchezza ci si troua. Quattro cose lo fan, la prima è questa Non hauer guerra, e non pagar soldati, La causa seconda manifesta Sono i tributi grandi e smisurati De i Saracin, che non sia lor molesta L'acqua del Nil. la terza i frequentati Tre Porti nominati, or l'altra uiene Che manco tai ricchezze non mantiene. Et quest'è, ch'ogni mercantia cauata Di questi Regni, à la Camera deue Pagare un certo Censo, ch'un'entrata Innumerabil di questo riceue. Or pensa quanta molti anni sia stata La cosa grassa, e la sua spesa breue Et è tal parte par la sua bontate Terra chiamata de la ueritate. Così salendo de la sala in cima Trouarono una porta di smiraldo Dal piè d'oro fregiata, in fin la cima Ben ch'à lui dice forse con piu saldo Giuditio di Cristallo, perche stima, Ch'essendo quel paese molto caldo Et il Cristallo freddo, par credibile Molto più, che non par quell'impossibile. Ben che possibile era maggior cosa In simil luogo, e ne faceua fede L'entrata d'una sala luminosa Per molte Gioie, & Or, che ui si uede Lunga sessanta braccia, e spatiosa Quaranta per il largo, e doue il piede Camina, è d'alabastro, & altrettanto Composto è de la sala ogni suo canto. Di massiccio Oro ha due colonne in mezo E da la parte uerso Tramontana Cinque finestre son, dou'entra il rezo Intorno tutte d'or, ne la soprana Parte di santimona un dolce lezo Surge, nè ui si tratta opera uana Euui da capo un degno tribunale Di gioie ricco sì, ch'un mondo uale. La ricca sedia d'oro in alto staua Disopra à sette gradi, in fronte à i quali Per ciascuno il suo breue si mostraua, D'effetti uarij, e diuersi segnali Nel grado, che da piedi cominciaua, Di nera stampa è scritto, & à i mortali Dice, fuggi auaritia, & il tesoro, Et era questo primo scalon d'oro. D'argento er'il secondo, oue diceua Accidia fuggi, & il terzo di rame Questo bel motto scritto si uedeua, Non seguir de l'inuidia il rio legame Di ferro è il quarto, che ui si leggeua Fuggasi l'ira bestiale, & infame Il quinto era di piombo, e, fuggi gola Dicea la prima, e seconda parola. Il sesto era di legno intarsiato Con certe fiamme com'arder uolesse, E questo breue u'era accomodato Le fiamme di lussuria sien dismesse. Il settimo di terra lauorato Doue il Meschino ancor dentro ui lesse Fuggi superbia. E uide gli occhi alzando Su quella sedia, un uecchio uenerando. Di sacro abito ornato con papale Mitria in testa, e da ciascun de i lati Sei sedie, c'hann'in mezo il tribunale Doue sedeuan dodici prelati Che ciascun rappresenta un Cardinale Che sono per gli Apostoli onorati Quattro scaloni ogni sedia teneua Di marmo, per li quai ui s'ascendeua. Entro à le cui cornici scritto u'era Sette parole, e l'una era fortezza Primiera, e temperanza, e la seuera Giustitia, che da i buoni sol s'apprezza V'era fede, prudenza, e la sincera Caritade, e speranza sempre auezza Di risguardare il Ciel, d'onde le gratie Vengon, che fan le nostre uoglie satie. Sopra del capo al sommo sacerdote Ch'era nel tribunal di mezo assiso V'eran d'un Crocifisso le deuote Membra, mostrand'esser per noi diuiso Di uita, sol per farci sì gran dote Quai son l'aprirci l'alto Paradiso Quiui eran gioie di tanto splendore Che stimar non si puote il lor ualore. Dietro à la sedia, una uite surgeua D'Oro, e d'Argento, e di Smalto contesta Che co i tralci pel palco si spandeua De le cui uue, e pampanine resta L'occhio ingannato, sì chiara pareua L'uue eran gioie, in quella parte, e'n questa E ben che gioie sien, paion si uere Che dan di lor, speranza à poter bere. Sopra à quella eminente sedia ancora, Son de lo Spirto Santo i sette doni. Diceua il primo, Dio temete ogn'ora Perche chi'l teme fa ch'ei si disponi, Scaccia da se la superbia di fuora, Et à uincer gl'inganni de i Demoni, Dice il secondo, Pietosi sarete Al prossimo; e l'inuidia fuggirete. Siate al uoler di Dio obedienti, Il terzo dice, e si disprezza l'ira. Il quarto, siate pronti, e diligenti Di Dio ne la fortezza, che ui spira A' disprezzar l'accidia & siate intenti Consigliarui con Dio, ilche ui tira A fuggir l'auaritia; quest'è'l quinto, Or dirò com'il sesto era distinto. A Dio uolta il pensiero, e la tua uoglia, E fuggirai di gola il brutto uitio. Il settimo, à uoler che tu ti scioglia Da la lussuria, fa che sia propitio A' la gran sapientia, e la raccoglia Da Dio, che ne sà dar sol chiaro inditio. Questi sono i rimedij naturali Contrari à i sette peccati mortali. I quai, (com'hò già detto) eran notati Ne i sette gradi di uarie misture, Fatti secondo i modi de peccati Per c'hanno uariate lor nature: Il più basso è quel d'Or de gl'insensati Auari, i quai fan le lor uite scure E bramare il terreno uiuer frale, Quest'era'l primo peccato mortale. Per l'accia d'ariento figurato Er'il secondo, à la Luna simile, Vmido e freddo; Così tal peccato Fa l'huomo umido, e freddo, abietto, e uile Che d'ogni tempo pare adolorato Di rame è il terzo, c'ha d'inuidia stile, E tra'l pouero, e'l ricco si nutrica E l'uno e l'altro col pensier nimica. Per la ricchezza l'un, per sanitade L'altro, e col suo color par ch'egli ardisca L'Oro imitar, per dolcezza e bontade: Poi che non par che natura il patisca, Per farsi Argento per diuerse strade L'Alchimia cerca, che lo raffinisca, La ruggin uerde fa, ch'ancora spera Satiar l'inuida uoglia, ingorda, e fiera. De l'ira è quel di ferro, che s'adatta Vccidere, e sprezzar ciò ch'egli arriua. Così fa l'ira dal suo furor tratta Ch'ogni conseglio, ogni ragione schiua. Vien la gola nel quinto, simil fatta Al piombo, che sempr'hà la uoglia uiua, D'aggrauar ciò ch'ei tocca, così'l pasto Il corpo aggraua, fin che'l uede guasto. Et fallo pigro, sonnacchioso, e lento: Saturno ha per signor questo metallo, Ch'è zoppo, contrafatto, e macilento, Si che l'anima, e'l corpo senza fallo Ella dannata n'è, presto egli spento E' il detto del Filosofo entra in ballo. Il qual ci dice, che maggior flagello De gli huomin fa la gola, che'l coltello. Il sesto è legno, con le fiamme ardenti Che mostra ben, che nè il fuoco, nè il legno Puote molto durare, ecco i cocenti Effetti di lussuria, che l'ingegno Consuma, stempra'l corpo, & fa le menti Lungi da Cristo, e senz'altro ritegno, L'anima, c'hauut'ha sì mal gouerno Casca tra le gran fiamme al foco eterno. Resta'l settimo & ultimo di terra, Che la superbia rappresenta in uista, Laqual come la terra anch'ella afferra, Ciò che da terra di lode s'acquista Questa col gran pensier uacilla & erra Fa'l corpo al fine odioso, e l'alma attrista, E cieco fumo, e uan'ombra riporta E in terra, ond'ella uien, poi resta mortà. Il uecchio (com'io dissi) che sedeua Ne l'alto tribunal, ch'ogni Barone Ne la gran sala, adoraua, e temeua Che u'eran di più d'una regione Era il buon Prete Ianni, che faceua A tutti dritta, e sommaria ragione. Nel giugner di Guerrin, torse le ciglia Ciascuno, e lo mirò per merauiglia. Con umil riuerentia inginocchiossi Egli tre uolte, prima ch'ei giugnesse A i santi piedi, e inginocchiato alzossi Sù i rileuati gradi, e con dismesse Luci, con bocca sù'l piede inchinossi Come fu ammaestrato ch'ei facesse Così baciando l'un de i santi piei Tre uolte disse, miserere mei. Benedillo egli con l'inuitto segno De la trionfal Croce, à noi sì caro E poi fe cenno ad un suo Baron degno Dopo quello ad un'altro, che'l menaro Seco in un'altra stanza con disegno Di fargli onor, perche si suol di raro Veder huomin. com'egli in quel paese E pargli obligo usargli atto cortese. Questa seconda stanza, ricca e bella Non era men che la primiera fosse Fu fatto à i lor Caualli trar la sella E ristorar de le perdute posse Le guide ancor furon menati in quella Stanza, non sendo ancor di sala mosse E fe lor far l'uno e l'altro Barone A tutti un'onorata colatione. Dicendo lor che'l suo Signor da tante Faccende er'occupato, sì ch'allora Non era d'impedirgli l'opre sante Ch'ei uà trattando con più gente ogn'ora Rinfrescossi Guerrino in quell'instante Nè fece appresso poi molta dimora, Che l'audienza era calata al tutto, Allora al Prete Ianni fu condutto. Trouò che da seder leuato s'era Et passeggiaua per la sala intorno Inginocchiossi armato com'egli era. Chi sei tu (disse) Caualiere adorno? Il Prete Ianni, con benigna cera Et perche porti sì quest'armi intorno? Guerrino, che sua lingua non sapeua, Già fatto cenno à gli interpreti haueua. Il Prete Ianni hauea Greco, e Latino Onde prese à parlar senza mezani Gran merauiglia ne prese Guerrino, Essendo egli in paesi sì lontani E' ben dritto (dicendo) che domino Sì grande ad un tant'huomo sia ne le mani Et disse in Greco tutta la sua uita Dal dì, ch'ei fè d'Alessandro partita. Allora, il Prete Ianni à se uenire Fece i dodici suoi gran consiglieri, E in lor presentia gli fece ridire, Quel ch'ei cercaua, & i molti sentieri C'haueua cerchi, e feceli stupire De' passi strani, spauentosi e fieri Costui (disser parlando in suo fauore Merta che gli sia fatto eterno onore. Le guide à l' Ammiraglio ritornaro Poi che Guerrrin fù quiui riceuuto, Che quei Signori assai l'accarezzaro, E fu per cinque giorni ritenuto A mangiar sempre con quei che mangiaro Col Prete Ianni, or poi ch'io son uenuto A questo passo, l'ordine saprete Et come mangia il santo Ianni Prete. Vanne in un'altra sala di grandezza Di quella prima. ma più ricca molto E risplendente di maggior bellezza Però che u'era più tesoro accolto Con una sedia in capo, che l'altezza Era di tre scaloni, e d'or poi colto In massa un quadro, ch'inuanzi gli staua Et quiui il seruo di Gesù mangiaua. Otto tauole poi accomodate V'eran di marmo molto basse poste Da destra tre, da sinistra acconciate Pur tre, e l'altre due eran composte Da capo, e queste sole eran lasciate Pe i Consiglieri al Prete Ianni accoste A la sua d'oro, ond'ella in mezzo appare Stauan ne l'altre i Baroni à mangiare. Basse eran tutte, e quest'è la cagione, Che quel paese è caldo per natura, E poco nel girar d'altra stagione Vi mutano quei cieli tanta arsura; Ma l'arte à la natura s'antepono, Che son gli spazzi di fredda mistura, Dunque chi per mangiar quiui sedeua, Le gambe in terra distese teneua. Quel che trinciaua, staua inginocchioni; Guerrin mangiaua in un tempo medesimo Col Pontefice insieme, e co i Baroni, Però che tutti haueuano il battesimo. Il Prete Ianni gran consolationi Prendeua à ragionar del Cristianesimo, Con Guerrin, d'Europa, & ogni giorno Volea parlar col Caualiero adorno. Eraui stato cinque giorni, quando Venne à Dragonda assai male nouelle, Che i Cinnamonij andauan rouinando Già di quel Regno molte parti belle, E il fiume Stapo hauean'passato, dando Il guasto, e per superbia anco le Stelle Minacciauan, non tanto quei paesi, Che son di quà, ch'ancor non hauean presi. Perche di quà dal fiume assediata La città d'Agriconia haueano al tutto; Vdita'l Prete Ianni l'ambasciata, E sentendo, che male era condutto Il suo paese, da potente armata Ad un suo Capitan', ch'era condutto Fin d'Europa, à quel tosto commesse, Ch'assaltare i nemici suoi douesse. Con cento mila, che s'eran raccolti Di più paesi, e trecento elefanti; Ma di tal Capitan non parean molti Gli ordini buoni, ancora che di quanti Esser poteansi à tal'impresa tolti, Non u'è chi meglio condurli si uanti, Guerrin per seco andar chiese licentia; Ma non hebbe di ciò grata udientia. Dal dì, che quella gente fe partita, Corser uint'otto giorni, che nouella Venne, che'l Capitan priuo di uita Era, e la gente rotta, e che di quella Vna quantità mort'era infinita; L'altra è fuggita in questa parte e in quella Dopo questa ne giunse una peggiore, C'hauea mutato Agriconia signore. C'han presa la città, morta la gente, Senza guardar'ordin, sesso, ò etate, Et un signor n'han fatto, il più potente, Che sia tra le lor genti dispietate; Ond'un timor cominciò sì dolente, Essendo le speranze abbandonate, Che non sol la uil plebe hauea terrore; Ma non fu senza il cor d'ogni Signore. Staua affannato il Prete Ianni ancora, Per non hauer gente nel'arme usata, E quel che più l'afflige, e più l'accora E' ueder la città sì spauentata; Sì che Guerrin ui sar à giunto ad hora, E daragli speranza non pensata, Andonne al Prete Ianni, e confortollo, E che dolor non si desse, pregollo. Mandate (disse) per li uostri Regni A trarne quella gente che si puote, Che s'hanno à guerra far grossi gl'ingegni Forse l'opere nostre non son note; Or non e'l primo dì, ch'à guerra uegni. In Dio sol spero, & anco à le deuote Vostre orationi, & in quella uirtute. Che Dio m'ha data per nostra salute. Sì, ch'à i nemici più temer bisognà, Chè maggior bestie; ho già dome di loro Ma chi si uanta senza l'opre sogna, Io m'offro à farle senza premio d'oro. Allor con faccia tinta di uergogna, Il santo padre disse, il mio tesoro Niente mi ual, poi che'l bisogno mio Consiste in un tuo pari, e prima in Dio. Non ti merauigliar s'un tal timore, Ho preso, e n'arrossisco fra me stesso, Che de tanto paese so Signore, Nè ho spedito mandato nè messo Ancor, che mi uenisse alcun fauore; Che poco io ui speraua, e lo confesso Non è usata à guerra questa gente, Sì come sono i uostri di Ponente. Puossi bene sperar, che se uerranno, Con un tuo pari, e che tu ue li meni, Che l'ordin che darai, lor seguiranno, Che son robusti, e di gran forze pieni; I messi manderò, che spediranno, Di quà, di là, per tutti i miei Terreni, E scrisse prima in Asianilis, doue Genti terribil son, da far gran proue. Ch'abitan le montagne nominate, Di Camerata, ò pur monti Camestri Le chiaman', doue sono le ferrate Porte, che chiudon i passi maestri Del Nilo, le cui genti sono usate Ben'à far guerra, e son gagliardi e destri, Ma non son use in ordin di battaglia Doue sol par, che la militia uaglia. Mando à Tralian, Caeuol'detto, E ne la region di Succentare, A l'Isola Morcone, e pel distretto Del Regno Barbaris, il quale appare In Asia, e presto fu messo in assetto Vn' esercito bello e singolare, Onde la tema s'erà già partita, Et la Città di uil, fattasi ardita. E tanto più, che'l Prete Ianni uolse In presentia di tutti i Capitani, Poi ch'uno anello di dito si tolse, Darlo per segno à Guerrin ne le mani; Dicendo, poi che Dio uide e raccolse I casi, che douean uenire strani, La sua gran prouidentia u'ha mandato Vn Capitano, & io l'ho confermato. Voglio, e comando à uoi (disse) signori Che qui'l Guerrin sia uostro generale Capitano, e gli usiate quegli onori, Ch'à me fareste in un'impresa tale. A la cui uoce s'alzaro i romori, Facendo d'allegrezza gran segnale Accettando l'di gratia c'han sentito Quanto ualesse il Caualiero ardito, E secondo l'usanza del paese, Accio ch'ei fusse onorato e temuto, L'esercito à furore à braccia il prese, E sopra un carro d'or, ch'era tenuto A posta quando fan simili imprese Il fer salir, accio fusse ueduto, E fu menato per quella cittate, Accompagnato da le genti armate. Del campo lo stendardo innanzi andaua E intorno al carro le bandiere tutte, E i bellici strumenti si sonaua; Ma poi ch'al fin fur le feste ridutte, Il Meschin, che spedir gli bisognaua; Mirando prima le genti condutte, Smontò del Carro, e diede ordine e forma, Douendosi seguir, che non si dorma. Ma prima s'informo del tutto appieno, Che genti sieno i Cinnamonij, e'l modo, Ch'in campo uanno, e quanto numer sieno, Per castigarli de l'usato frodo, Vuol' che prouiste le sue genti stieno; Di poi secondo che si dè star sodo Ne la battaglia mostrin la rassegna Di tutti, e il modo d'assaltar gl'insegna. Furon dugento mila, nè tra essi Più che due mila à cauallo ue n'era. Quei c'haueano archi et frezze, erano spessi Et maggior parte armati à la leggiera, Vols'il Meschin, ch'in ordin si ponessi Del medicame, in ogni acuta e fiera Saetta, acciò non habbia alcuno scampo Chi fia ferito nel nemico Campo. Quattro mila Camelli, e quattrocento Elefanti feroci, e bene armati Haueuan seco, ma'l Meschin contento Non fu d'hauer tant'huomini menatì. Perche poteuan fare impedimento Però uolse che fusser dimezati Cento mila migliori insieme messe, E quelli à'condur seco soli elesse. De le montagne eran di Camerata La maggior parte, e son più frãchi molto. Con la benedittion che gli fu data Dal Prete Ianni, con buon passo sciolto, Fè da Dragonda partir uia l'armata Hauendo sù la riua il camin tolto, Del fiume Nilo, & in cinque giornate Ad Antonana giunse, gran Cittate. In questa il Prete Ianni stà gran parte Del tempo, per ch'è bella oltr'à misura, Grandi edificij sonui, con grand'arte Fattiui, & hà bel sito per natura Non puoi di tal Città Grecia uantarte, Disse il Meschino, e stattene sicura Nè sol non n'è ne l'Imperio tuo solo Ma quanto stende l'uno e l'altro polo. Nè altroue gente più ricca si uede Di tesor, nè più giusta, e più uerace Nè che meglio conserui nostra fede, A cui sol la uirtù diletta e piace, Et di quì uien che Gesù gli concede, Che non sieno or per perder la lor pace, Nè com'à noi Eretici si troua Che cerchino ogni dì per legge nova. Di tal Città partiti, costeggiaro Di Carbesten le montagne, & in molte Giornate al fiume Atapus capitaro, Quiui fer massa, e fur le genti colte Insieme, ch'al Meschin fu fatto chiaro, Come le genti nemiche eran uolte Per affrontar l'essercito Cristiano Et eran sol tre giornate lontano. Fecesi dir com'erano ordinati, Fugli risposto, à caso, e' senza freno, Andando à branchi, quà e là spezzati, Et che le lor speranze pur che sieno In trecento Elefanti bene armati, Che poco tempo innanzi, tolti hauieno, Al rotto Capitan del Prete Ianni, Così ne uanno altier de l'altrui danni. Han mill'altri Elefanti appresso à questi Ma male armati, e di poco momento E che si sforzan quanto posson presti, Di uenirne con impeto à dar drento, Quest'esercito ancor pensan che resti, Come quell'altro superato, e uento. Or come à uoi par meglio u'ordinate, Ch'ei sono appresso à quì già tre giornate. Guerrino per tal noua uuol sapere Quanti arcieri habbia, e ne fa la raccolta, E truoua che fra tutte le sue schiere, Son quattordici mila, e gente sciolta Da far co ineruuti archi il lor douere Di che si prese egli letitia molta. Poi raccolse à consiglio i Capitani, Con tutti gli altri signori Indiani. E così disse, habbiam per fermo inteso Quant'è sfrenata la nemica gente, E quanto pessimo ordin' habbian preso, Per uenirci assalire incontinente. Ma Dio, che per più resta offeso Da loro, non sara più patiente, Sì come quì m'hà riferito un messo Per il brutto peccar con ogni sesso. Per abondanza de la preda tolta Da la cieca superbia, che n'han presa; Hanno Dio disprezzato, e posto inuolta, Ciò che comanda lor la santa Chiesa Con le stesse lor carni à briglia sciolta, Con opra brutta di lussuria accesa; Seguon lo stil'di Sodoma e Gomorra, Sì, che conuien'che la giustitia corra. Queste per Turcimanni, & altre assai Parole disse, come per certezza; Referito gli fu, quali stimai Nel raccontarle far troppa lunghezza, Perche'l facesse lettore or saprai, Per armare i lor cuor'd'alta fortezza; Accio che combattesser con desio D'hauer per loro la giustitia e Dio. E fe leuar subitamente il campo Contr'i nemici, in ordinanza posto Tanto, ch'un miglio u'era sol'di campo, Et le scolte mandouui molto accosto Che se spie passan'non habbiano scampo Imperò che'l buõ Meschino hauea disposto Che'l nemico non fusse anco auisato Come egli hauesse il suo campo ordinato. In questo mezo uettouaglia abonda, Che ui giugneua per diuerse uie; Qual'ne i Nauili il gran Fiume seconda; Qual'sù i Camelli, con più salmarie. Sì, ch'ogni lito è pieno, & ogni sponda; Però fa far gran guardie per le spie I Cinnamonij, quel medesmo giorno Con l'oste à i nostri s'appressaro intorno. Sì, che presso à la sera il romor grande Nel campo si leuò, perche sentiro, Che la nemica gente quelle bande Vicine, con ueloce corso empiro; Doue la uoce orribile si spande In fino al Ciel'già con superbo giro; Ond'il Meschino à pena de la uita, Fa bandir, che nessun faccia partita. Che nessun dal suo ordine si moua Per affrontar, ma che sol si difenda; Rinforza l'antiguardie, e le rinoua Spesso, che uuol'che l'altra gente attenda A rinfrescarsi, chi debil si troua; C'hauea con prouidentia già stupenda; Fatte tre schiere, e in ogni schiera pose, Degli elefanti il terzo, e gli compose. Impone à tutti che'l giorno che uiene, Nessun per far battaglia si mouesse; Ma se'l nemico uuol, comandò bene? Che francamente gli si rispondesse; Quest'ordin dunque il Meschino mantiene Che uolea, che l'assalto si facesse, Passata poi la notte, à la prim'hora, Che comincia apparir la bella Aurora. Et così ordinò, che stesse in ponto, Per la mattina ogni suo Capitano; Sì, ch'à quell'hora ciascuno fu pronto, A nemici assaltar, ch'eran pel piano; Spartiti à caso, non facendo conto, Che da altri uenisse à metter mano; Parendo lor, che lo star stretti insieme, Sol fusse segno di gente che teme. Fur colti sonnacchiosi e sproueduti, Ne l'ombre ancor de la passata notte, Et assaltati da gliaspri saluti, De le saette auelenate, in frotte; Sì, ch'in uano aggirauan per perduti, Trouando al fuggir lor, le strade rotte; Onde la lor superbia e forza estrema, D'ogni poter tosto rimase scema. Al Meschin par uergogna insanguinarse In sì uil sangue, ma la forza il tira; Che doue ei uede gente ripararse. Gli urta, gli spezza, e quà e là gli aggira, E sempre mira con quello attaccarse; Che de li suoi uccide, ò ne martira; La strage fu crudel, nè fu dì chiaro, Che più di cento mila n'ammazzaro. Del Meschin sol ducento morti furo, Da suoi medesmi la parte maggiore, Et hebber ne le man quasi al sicuro Da i lor nemici la robba migliore; Chi si caccio per qualche luogo scuro Sol ui campò, che poi usciuan fuore Lontani de le tane, e ne fur molti, Che furono in prouiso rotti e colti. Mille e sei cento elefanti trouaro C'haueuan'i nemici, de li quali Quattrocento i miglior si riserbaro, Glialtri, il Meschin con tutti i caporali Al Prete Ianni à Dragonda mandaro; Per segno d'esser stati trionfali. Medicati i feriti, e rinfrescata La gente, si posar quella giornata. La notte che seguì, prese la uia, Verso Giaconia, sempre lungo il fiume, Che non hebber di lume carestia; Lucea la Luna com'è suo costume, Che di tre dì per la solita uia, Dal Sole in Taur gli era dato lume; Giunti à quella Città poser l'assedio Intorno, che nessun ui fe rimedio. Fece il Meschin far buona guardia, e prese Il Fiume, che di là non uenga aita, Che quel nouo Signore esserui intese Il qual'era persona accorta, e ardita, Chiamato Galafar, ma sien distese; Nel'altro canto de l'opra gradita Le rime, che diran quel che facesse Il campo, & come la Città s'hauesse.

IL FINE DEL
CANTO DECIMOSETTIMO.

Felice si può dir chi uie ne al mondo, Alto signor nel numer de i Cristiani; Ma più felice assai, e più giocondo, Chi domar puote gl'infidei profani, E discacciare l'opre false al fondo; E trar fuor di timor di casi strani Quel che ti crede, perch'e segno chiaro, Quanto ne la tua gratia si stia caro. Non Regni, non Città, non Pompe altiere; Tira'l Meschino à tal'impresa certo, Per le cui opre chiar si può uedere; Ma sol'acquistar press'à Dio merto. Or'ritornando à le lassate schiere, Et doue à la città già s'era offerto, Che come l'hauea (dissi) assediata Per terra, e per quel fiume con l'armata. Eraui stato cinque dì l'assedio; Allor che Galafar signor nouello. (Non trouand'al suo scãpo altro rimedio) Poi che presso uedeua il suo flagello, Deliberò d'uscir di questo tedio. El Meschino fe chieder di duello, Et ch'ei non nieghi se'l nome sia uero. Ch'ei sia sì franco e forte Caualiero. Non tanto lo facea, ch'egli credesse Mostrar d'esser più franco e più ualente; Nè che quand'il Meschino pur uincesse, Sperasse di cacciarne uia la gente; Ma'l fe, che quando ben gli succedesse. (Sapendo il Prete lanni esser clemente) Qual'ch'accordo speraua hauer migliore, E punito esser con manco rigore. Pur sperando nel corpo suo robusto, Che ceder forse gli par incredibile; Mirandosi anche Porro il fiero busto, Si uergognò, ne gli parea credibile Ch'Alessandro il uincesse, nè men giusto Di farglisi prigion, ch'era terribile; Combatter uolse, e rimase al fin uento, Per non restar d'esser signor contento. Priamo ancor da tal superbia preso; Troia e se stesso, ui pose in rouina. Accettollo il Meschin di uoglia acceso; Ma l'altra gente, od altra uoglia inclina, Dicendo poi c'hauiano il laccio teso, Et che Dio la uittoria ci destina Al tutto, e tu Signor combatter uuoi, Non ben gustando i tristi pensier suoi. Si che meglio e pigliar quel che Dio dona, Senza cercar di tua uirtù far proua; Galafar di gigante ha la persona, Et disperato appresso anche si troua; Vostra ragion (diss'il Meschino) è buona Et à mia sicurtate molto giuoua; Ma'l perder tempo a me molto piu nuoce, Che combatter con huom tanto feroce. Et fe tornare il messo, e dir che gliera Di ciò contento, e ch'armato uenisse Seco à combatter la seguente sera, Et per più sicurtade, in man'gli misse Vna carta piegata, ove scritto era Il suo saluo condotto, accio seguisse L'ordin senza sospetto, ò tema alcuna, Et esca fuore al lume de la Luna. Il combatter di notte, era cagione Il Sol, che scalda fuor d'ogni misura, (Quand'egli è fuor,) tutta la Regione, Nè si potria combatter, per l'arsura. Fatto questo, il Meschino ogni barone, Et ogni Capitan, ch'à quelle mura, Intorno staua, fece chiamar presto, Et gli fece un parlare, ilqual fu questo. Io ueggo ben'ch'à uoi Signor'Cristiani, Parrà fuor di proposito, il uenire Con Galafar così presto à le mani, E ch'io di ciò, dimostri troppo ardire; E che senza cercar casi sì strani, Si poteua à l'acquisto differire Qualche di più, senza arrischiar sì presto La uita, e far del nostro onor del resto. Ma quand' à ciò, pensiate; ou'è la fede, Che con costantia à Cristo hauer douete? Se Galafar senza battaglia cede, Voi fenza patti non l'accetterete, Che se daccordo ui si dà, si crede Ch'almen la uita gli perdonerete. Ad altro patto non puote accostarsi, Se nò prima morir ch'abbandonarsi. Nè può sì poca uettouaglia hauere, Che drento non si tenga almeno un mese; Quando uoi siate di questo parere Di perdonargli le passate offese, Ben chiaramente potete uedere, Che per la trista fede sua palese, Riuolterassi un'altra uolta ancora, Nè con uoi me già trouerete ogn'hora. Quand'assediato ancora un mese resti; Chi sa che come disperato poi Veggendosi i suo danni manifesti; Che con quei pochi, c'ha seco de suoi Non bruci la Città, perche non resti Vittoria allegra, qual pensate uoi? Vccida i Cittadini, e poi se stesso? Questo sarebbe un crudo danno espresso. Poniam'ch'egli pur resti ò preso, ò morto Dopoi che stati sarem molti giorni, Non puote questo tempo esser sì corto, Che poca gloria poi non ce ne torni. Al Signor uostro prolunga'l conforto, Et fallo anche temer di nuoui scorni. Che'l beneficio ch'è desiderato Facendo'l tardi, non è poi sì grato. Auenga, ch'io perdessi la battaglia, E ch'io ui resti morto, ouer prigione, Gente dentro non ha, con che u'assaglia, Nè d'assediar ui manca occasione, C'habbiam distrutta già la sua canaglia, E posta in preda ogni sua munitione, Sì che'l caso di me saria leggiero, A Dio si lasci di questo il pensiero. Nel qual si dee sperar, che non ci uoglia Abbandonar, la ragione aiutando, E ch'egli in odio i superbi si toglia, Come a Lucifer già uenne mostrando, Et à Nembrotto, e perch'ancor germoglia Del brutto uitio, e peccato nefando Contr'à natura, il suo diuin giuditio Gli ha forse preparato il precipitio. Pel cui peccato, & Sodoma, e Gomorra Per fuoco consumò, per questo ancora (Accio ch'in uno esempio chiar' si corra) Mandò'l diluuio, trattone sol fuora Noè con pochi; tanto par ch'abborra Iddio questo peccato. Or perche l'hora S'appressa, questo solo or ui replico S'io perdo, allor più serrate il nemico. Rinforzato le guardie, ne lasciate Vscir nessun, che non sia morto, ò preso Fin che le uettouaglie sien mancate; Quest'esser deue il uostro maggior peso. In questo l'armi gli furon portate, Che da nessuno gli fu più conteso, E ciò ch'ei disse, ogni cosa hauea detto Vn'interprete lor, molto perfetto. Preser conforto, che con tant'amore Haueua egli mostrate le ragioni, Che ricusar senza lor disonore, Non potea d'un'huom sol le rie tenzoni, Già luceua la Luna, quando fuore Accompagnato sol da due pedoni, Giunto era Galafar al fiero ballo Armato tutto, sopra un gran cauallo. Col suono orribil d'ùn tremendo corno Si fe sentire, il cui rimbombo altiero S'allargò piu di uenti miglia intorno, E tremar fece tutto quel sentiero; Ma per tema'l Meschin di qualche scorno (Sentendosi un'inuito tanto fiero) Mille buon Caualieri insieme messe, Per seruisi di lor, se gliaccadesse. E disse lor, che s'altra gente armata Vscisse fuor de la città, che sieno Pronti al soccorso à bandiera spiegata; Ma s'un sol uien, ch'al segno saldi stieno, Tolse una lancia gagliarda, e fidata, E la strada seguì sù'l palafreno, E giunto dentro al disegnato piano, La corsa tolse il Caualier uillano. Senza parlar, senza aspettar più segno, Venne incontro al Meschin col ferro basso, Et era con iganno il suo disegno, Perche'l Meschin ueniua sol di passo; Ma egli non fu sì grosso d'ingegno, Che ueggendo uenir tanto fracasso; Non corrrsse ancor'egli con tempesta, Contr'al nemico, con la lancia in resta. L'uno, e l'altro scontrar fu fiero, e crudo Ruppesi l'una e l'altra lancia ancora; Galafar al Meschin diè ne lo scudo, Che resse à la percossa per allora, Ritrouogli il Meschino il petto nudo, Tal che'l sangue apparir fece di fuora; Ma gli fe poco mal, che l'armadura Meglio, che può, da morte l'assicura. Trasse il Meschin la spada, e colui prese Vna sua scimitarra à la turchesca Molto pesante, e di stizza s'accese, E perche la uittoria gli riesca Sù l'elmo furiando la distese Al buon Meschin, che ui mancaua l'esca A'le fauille, che ne trasse; in modo, Che mai prouò'l Meschin colpo sì sodo. Alzò la scimitarra un'altra uolta Per dargli l'altro, nè fu tanto presto, Perche'l Meschin, c'haue a destrezza molta Gli diede una stoccata à punto à sest o In mezo de la gola, & non fe colta Quanto'l bisogno u'harebbe richiesto. Pur non andò sì la punta fallita, Ch'ei non facesse un poca di ferita. In questo il colpo calò quel Fellone, Che se'l Meschin sotto ui rimaneua L'harebbe fesso fino in sù l'arcione; Ma con destrezza cazzato l'haueua Colui poco di schirma hauea ragione Sol d'una estrema forza si ualeua, Si che calò la scimitarra in uano, Che diede con la punta sopra il piano. Il Meschin che quel colpo uano ha uisto, Spingesi innanzi, e Galafar allora Per esser tosto à l'offesa prouisto, Alzò la spada un'altra uolta ancora Trasse il Meschin, sempre inuocãdo Cristo, Di Galafar ne la medesim'hora; A'tal ch'insieme s'affrontar le spade, Si che l'una saprà se l'altra rade. Quella di Galafar restò tagliata Infino al mezo per trauerso, ch'era Carca di ferro, ma mal temperata, Galafar aueduto non se n'era, E menò una punta disperata Cogliendo del caual ne la frontiera, Che portaua il Meschin; talche stordito, Col suo Signor cascò sopra quel sito. La scimitarra, non usa à dar ponte, E tanto più, ch'intaccata trouossi, Si ruppe à quel Cauallo in sù la fronte; Il Meschin del cauallo liberossi, E così à piedi, per uendicar l'onte Del suo cauallo, subito assettossi Lo scudo in braccio, e trouandosi à piede. Vn fiero colpo à l'altro caual diede. Gli tagliò una gamba, e il fe cadere. In quell'instante Galafar feroce Rizzossi sù le staffe per potere Tirargli quel troncon, col braccio atroce, Che ne lo scudo orribilmente fere Al buon Meschin, che non poco gli nuoce, E quello fesse, e fu'l colpo sì fiero, Che stordì'l braccio e'l petto al Caualiero. Volsegli spinger'il cauallo addosso; Ma non gli riuscì, che sottosopra Sù quell'altro cascò dal furor mosso; Si che uano restò l'auiso, e l'opra. Il Meschin si cansò, che'l corpo grosso, Per uoler stare à bada, non lo copra, E l'harebbe ben subito ferito; Ma (com'io u'ho già detto) era stordito. Colui, come il caual suo uede morto, Drizzossi in piedi, e de l'arcion gli trasse Vn mazzafrusto, c'hauea, come accorto Quiui portato, se gli bisognasse; Con questo pensa al Meschino far torto, C'ha tre catene, e nelle parti basse, Tre palle di metallo di gran peso, Col qual s'arrosta di collera acceso. Il Meschin si raggira quanto puote, Per far gingnere in fallo le percosse, Che non giugneuan mai di colpo uote, Ch'in terra non facessero tre fosse; Attento sta Guerrino, e con deuote Preci Dio prega (quando meglio fosse) Che gli dia tal uittoria ne le mani, Per campar da tal bestia i suoi Cristiani. Nè potè sì schiuar con la destrezza, Ch'una di quelle palle pur lo colse In mezo à l'elmo, che la sua durezza Lo spirto quasi del petto gli sciolse; Ma Dio, ch'egli tant'ama, e tanto prezza, Abbandonarlo in tal punto non uolse, Che pur riuenne presto, e non fe segno Di perder l'ardir solito, e l'ingegno. Quel mazzafrusto tanto distendea Le fiere braccia, che senza riparo; Troppo lontano il Meschino tenea; Poiche i disegni tutti gli fallaro, D'usar uirtù de liberato hauea, E fare un'atto coraggioso, e chiaro, E quando in alto uide quelle palle; Coprì di scudo la testa, e le spalle. Spinsesi innanzi con un dritto presto, E diè sopra al ginocchio del Gigante, Che u'era disarmato; ond'egli presto Vn'urlo messe con fiero sembiante, Perche la gamba cascò senza'l resto, Et ei col mazzafrusto in un'instante Maladicendo il Cielo, i Santi, e Dio, Come pessimo Can, maluagio, e rio. Il Meschino parlogli per uedere Di conuertirlo in quell'ultimo passo, Come di Cristo uero Caualiere; Ma colui più faceua il cor dì sasso, Erasi dritto, che staua a giacere, A' seder, benche quasi fusse lasso, Pel sangue, che ua fuor senza misura, E quanto Guerrin dice, più s'indura. Ma quand'ei uede ch'egli pur riplica Tutto in uoce rabbioso, al fin chinossi, E prese il mazzafrusto con fatica, Ch'ancor uèder uuol se uendicar puossi, Che gli parea la morte manco ostica; Ma'l Meschino al caual suo ritornossi, Ch'era in se ritornato, e sù salito, Lasciollo, già pel sangue indebolito. Riman (dicendo) ò maladetto Cane, Nemico al Cielo, al mondo, e à la naturà, Dò l'infame tuo corpo à fiere strane, Che non merta più degna sepoltura; L'anima per ragion uiene, e rimane A' Satanasso, & egli n'habbia cura, Et io non resto render gratie à Dio, Poi c'ho tratto del mondo un'huom sì rio. Grand' allegrezza i mille Caualieri Fer quand'il Meschin giunse con onore, Perche stauan sospesi, con pensieri Diuersi presi, che più di tre hore Durò la guerra, e de'gran colpi fieri, Da lontano sentiuano'l romore; Et era da temer, perch'era forte Quello, e bastaua un colpo à darglimorte. Ou'era Galafar, andar con festa, Di tal uittoria, ch'era uiuo ancora, E dal corpo tagliar l'orribil testa, Ch'ancor minaccia, ch'è di spirto fuora. Giunser nel campo, che l'arena pesta Del fiume, essendo ritirato allora, Come uolse il Meschin, per far sicuro Il nemico, à l'uscir fuor di quel muro. Al tornar di Guerrin uittorioso, Fu colmo d'allegrezza il Campo tutto; Che era fin'all'or stato dobbioso, E lodar Cristo, che l'haue a condutto In quel paese per dar lor riposo, E goder de la pace il nobil frutto. La testa fu mandata al Prete lanni, Perch'era il fin de' suoi passati danni. La cittade anco si teneua forte Da li seguaci di quel maladetto, Pur molto ardir gli tolse la sua morte. Fece Guerrin l'essercito più stretto (Come fu morto) accostare à le porte, E fecegli auisar per un Trombetto, Che fra tre dì, debbian dar la cittade, Da indi in là, n'andranno à fil di spade. I propri Cittadin sentendo'l fatto, Con tumulto s'armar contr'à coloro, E uolean la cittade ad ogni patto' Aprir per forza, e dargli aspro martoro; Ma tutti s'accordaro al primo tratto Senza tor guerra più con esso loro, E dentro, e fuor chieser la uita in dono, Domandando del fallo lor perdono. Il Meschìn non mancò de la promessa, Fu perdonato à tutti fuor ch'à pochi Capi de la congiura, e che commessa Hauean la sedittione, accesi i fuochi Ne i petti altrui, e lor persona stessa Messa in far ribellar tutti quei luochi, Quali eron sotto al Prete Ianni posti, Tanto lontan, come uicini accosti. Mandò al Prete Ianni à saper poi Guerrin sel suo uoler era, ch'entrasse De Cinnamonij ne paesi suoi, E che con più rigor gli castigasse, Accio ch'alcun di lor più non l'annoi. Rispose il Prete Ianni, ch'ei guidasse La cosa, com'à lui pareua meglio, Ch'altro non uuol, che l'istesso conseglio. Non parue à lui d'entrare à dare il guasto Più là, perch'era troppo bel paese. Quando si possa hauer senza contrasto, Perche de le città gli furon rese Le chiaui in man, che non u'era rimasto, Chi più uolesse pigliarui contese, E Guerrin ui mandò nuoui Rettori, Che gli purgasser de passati umori. Questi la testa fer tagliare, à quelli Capi del male, acciò non dien matera Di dar orrigin di nuoui ribelli, Con giustitia, e ragion molto seuera. Del Prete Ianni questi eron più belli Paesi, e'nuero appresso non impera Regno di questo maggior, nè più grasso, Nè di sua condition parlar ui lasso. Sol'ha cinque città, ma il Regno è grande, Quanto del Prete Ianni il resto'sia, E lanto da quel lato in là si spande Tra lagumi, tra boschi, e prateria, Che non mostra hauer fin da quelle bande La terra, se gliè uero, ò sia bugia, Ch'il sà lo dica, loro afferman questo, Che'l Nil non u'ha principio manifesto. Quel ch'impedisce lor questa certezza I laghi, i fiumi, le montagne in copia, I molti boschi, la cruda fierezza De serpenti, e de draghi, & euui in copia D'ogni comodità, che più s'apprezza; Ma seluaggi elefanti de la propria Forma de glialtri u'è, u'è uelenosi Tigri, con altri mostri spauentosi. Illusteri, Mustiferi, e leoni, Arpie ui sono, scimie, e babbuini, Et leopardi ancor di più ragioni, Che fanno tristi termini, e confini. Le ribellate fur due regioni, Cinnomonij fu l'una, & i uicini Del Regno Agama, e sonui ne la prima Queste città, di più pregio, e più stima. La prima è Agriconia, poi passato Il fiume, è Mastius la seconda; or uiene Per la terza Arapin, nel mar chiamato Indicon, l'altro Regno si mantiene Ne la sua spiaggia con un porto ornato, La città Rapia ancor ui si contiene, Et infra terra Asiria si uede, Et più uillaggi tal Regno possiede. Infiniti bestiami han questa gente, Grandi di corpo son; ma molto grossi D'ingegno, e i loro studi, e la lor mente E domar leosanti; hann'occhi rossi, La pelle han nera, e bianchissimi'l dente, Habitan molto uolentier pei fossi, Per rispetto del Caldo, e son forzuti; Ma disadatti, ignoranti, e neruuti. E com'io dico, la lor mercantia E' domar leofanti, i quai domati, Gli uan uendendo per diuersa uia. Dirouui il termin nel domargli usati Vanno ne i boschi, oue san, che ne sia, E perche nel dormir ritti appoggiati A'gli arbori si stanno, segan quelli Il dì, quai san che hanno per ostelli. Seganli, ma non tanto che non resti, Il segato anco in piedi, doue poi Che gli elefanti si senton richiesti Dal sonno, trouan tutti gli albor suoi, Et cascan ne gli inganni manifesti Cascan gli alberi, e loro i duri cuori Battono in terra, nè posson rizzarsi, Che ginocchia non han doue appoggiarsi. Ritti usano dormir, che le gambe hanno D'un pezzo tutte, e uolendo chinarsi Col grugno in terra ruffolando uanno, Et nel dormir sol' usano appoggiarsi; Di poi che i Cinnamonij in poter gli hanno Per poter meglio seco assicurarsi; Gli legan prima, e poi gli fan rizzare, Quest'ordin tengon'ora nel domare. Gouernalo uno un mese, e innanzi pasto Il finocchio gli dà con un bastone, Sera e mattina, senz'alcun contrasto, Perch'è sbandita la compassione; Quãd'è (come allor par) lacero e guasto; Vn'altro ua poi di più discretione, Che lo gouerna un'altro mese intero, Nè il batte quel, come fece il primiero. Anzi gli dà mangiare, e l'accarezza Con larga man, mostrandosi pietoso; Tal uolta giugne l'altro con fierezza, Et fa uoce con suono spauentoso; Mostra, l'altro cacciarlo con prestezza, L'animal, ch'è del primo pauroso, Veggendolo cacciar uia con furore, A quel secondo porta molto amore. Et seco s'addomestica, e da esso Si lassa maneggiare à suo piacere; E fuor menarsi, lontano e dappresso, E caualcarsi ad ogni suo uolere; A questo modo fann'ancora istesso, Quando lontan gli menano à le fiere Gli fanno ingiuria per parecchi giorni; Accio ch'umil con quel che'l cõpra torni. Et per questo interuien ne le battaglie; Che se sia morto quel che n'ha la cura; Nessun gli può guidar, nè far puntaglie; Però che con ognun la lor natura Non si lassa guidar ne le serraglie, Et fan poi la battaglia men sicura; In Agriconia ste guerrin due mesi, E solidò gli stati de i paesi. Poi con trionfo à Dragonda tornaro, Con incredibil festa fu raccolto Dal Prete Ianni, da Signor pregiato; Non sol da capitan benigno in uolto Ogni Signor, che con esso era stato Ne l'entrar d&etilde;tro, in mezo l'hauea colto; Gente correan da queste strade e quelle, Cantando al modo lor, donne e Donzelle. Troppo sarebbe à dir ciò che fu fatto, Per fargli onor così minutamente. Or per rimunerarlo del riscato Di tanto bel Paese, in continente, Tre di passati, indi comodo & atto; Il Prete Ianni con ogni eccellente Signor, sopra à Guerrin feron conseglio Quel ch'a remunerarlo fusse meglio. Variati pensier furon tra loro, E tratto da l'inuidia, anco qualcuno Volea che si pagasse con tesoro, Et poi mandato uia, senza nessuno Segno di uoler dargli ugual ristoro, Nè era pari il consegliar d'ogn'uno; Altri diceua, che signor si faccia Là di qualche Città, quando gli piaccia. Dice altri ancor, che la sua forza teme; Non si faccia Signor, ch'è troppo fiero, Perche potrebbe con sue forze estreme; Occupar forse un dì poi quest'impero, Carcategli una naue, e due insieme, Prima di quel ch'allui fa più mestiero, Et con salui condotti, al gran Soldano, Il guidi in Alessandria saluo è sano. O'mandisi per terra, con camelli Carichi di tesoro, un'altro dice Con priuilegij, e con uostri suggelli Per il passaggio, e terrassi felice, Quei che non son poi del parer di quelli Dicono, ogn'altra cosa'si disdice Bene è, che Capitan fermato sia, E che difenditor sempre ne stia. Con buona prouisione, e si possegga Palazzi, serui, con uille, e bestiami, E quinci moglie à suo uoler s'elegga, E cittadin di Dragonda si chiami, Per quello, il Prete Ianni, ch'io ne uegga. Disse, mi par, ch'essaltarlo si brami; Ma non come conuiensi à sua uirtute, Essendo l'opre sue mal conosciute. Ditemi un poco, se ui ricordate De la necessità, che ui premeua? E che speranza, che ne gli altri hauiate? Cioè nel Capitan, che si teneua, Per far, che fusser le forze domate Del fiero Galafar, che ci premeua, Che opre mai fur fatte, ò che speranza Haueste mai contr'à la sua possanza? Vltimamente poi ch'ei fu mandato, Che senza più saper uenne à le mani Co i Cinnamonij, dou'è ritornato? Pur restò morto, e fur suoi pensier uani, E del campo, che seco haue à menato, Morì quarantamila de Cristiani, E fece Dio, che'l nostro mal gli spiacque, Che'l Meschin uenne quì, uolò, e nacquè. Egli ha spenti color, che senza speme Contra lor forze inutili stauamo; Egli ha stinto colui ancora insieme, La cui gran forza tanto temauamo, E che di ricordarlo ancor si teme, E il partito, che già preso haueuamo; Pur il sapete. Or come tanto presto V'è de la mente uscito tutto questo? Ricordasi nessun de i carri presi, E de i cametti in quantità raccolti? Che con sommo dolor, tanto difesi Voleuate fuggir, fatti già stolti Dal duolo, & ritrouare altri paesi, Ad abitar co i uostri tesor colti, Parendoui difficil di potere L'impeto de nemici sostenere? A lui dunque conuiene esser Signore, E riceuer da lui ciò, che ci resta, Non che uoler con questo disonore Fargli una parte tanto disonesta; Però mi par, che sia poco fauore Se meza l'India ne le sue man resta, E se tutta la uuol, gli sià lassata, Che noi persa l'habbiam, lui racquistatta. E gliè tanto gentil, sì giusto, e santo; Sì fedele à Giesù, che se'l facciamo Signor, per noi sol riseruando'l manto Diuin, ch'indegnamente ci uestiamo, Ch'ei farà porre à gli Infidei da canto (Dai quali, in parte circondati siamo) La superbia, e l'ardire, e similmente Far à tremare ogni nemica gente. Sia fatto (ognun gridò) com'à uoi piace, O' padre santo, in uoi rimesso sia, Egli ama la uirtute, & è uerace, Per noi si fa, c'habbia tal gagliardia, Per nostro più riposo, e nostra pace Date ciò che ui pare in sua balia; Così dentro al conseglio fu chiamato, Per dirgli quant'haueuan consultato. Come à Signore, ne l'entrare ognuno, Leuati da federe il riceuiro; Il Prete Ianni di parer commune, Fece, che due Baron primi gli giro Incontro, il uolean porre al pari in uno Seggio col Prete Ianni; ond'egli in giro Voltando gliocchi à tutti, disse questa Vsanza, non m'è stata manifesta. Qual'ordine, ò qual legge ui comanda, Che'l seruo à par del suo Signor sia posto? E riuolgendo il uiso in altra banda, Da quel pensier mostrossi assai discosto; Dipoi à la persona ueneranda (Ad onorarlo in sè tutto disposto) Inginocchiossi, & egli ritto poi, Sel se porre à sedere à i piedi suoi. Quiui il preso conseglio gli fu detto, Alquale in questa forma, egli rispose; Padre santo, e Signore, il mio concetto Non tira à posseder tante gran cose, A' me basta, che Cristo benedetto, A' cui non son nostre menti nascose, Mi rimeriti in ciel de l'opre buone; Se queste sono, di quella ragione. Perche per la mia fede ho combattuto, E già u'ho detta qual sia la mia uoglia, E la cagion perch'io son quà uenuto; Or conuien, che de l'obligo mi scioglia, E replicò ciò che gliera accaduto Più pienamente, che narrarlo soglia, E de l'andare à gli arbori del Sole, Ch'ogn'un per pietà pianse à tai parole. Ma ben seguì, ui prego Padre santo, A'Dio pregar ne le uostre orationi, Il padre, il figlio, e lo spirito santo, Vn sol monarca, acciò ch'ei mi perdoni I miei peccati, & esaudisca quanto Sempre lo prego in tutti i miei sermoni, E dopo gran uiaggi, e grandi impacci, La mia sanguinità trouar mi facci. Leuossi in piedi allora il santo padre, E presel per la mano, e fece entrarlo. Ne le sue stanze, per molto or leggiadre, Che pure ha uoglia di remunerarlo; Quiui gli aprì cassoni posti à squadre, E lo pregò, che non debbia negarlo, Ch'ei si pigli il tesor, che u'era drento, Ch'era tutto oro, & i casson d'argento. L'argento staua pei canti raccolto Di quelle stanze in diuersi lauori Formato, e quel che parea bello molto, E quel che rifioriua i fuoi tesori Era molto oro in arbori riuolto Con begli smalti di uarij colori, Con foglie, e frutti di ua ga mistura, Che fan uergogna à l'istessa natura. Ringratiollo il Meschin con quello ornato Parlar, che quiui far si conueniua, Pel merto (disse) ch'io ho acquistato, Altro tesor non cerco, che la uiua Confession, che far sono obligato Da uostra santita, poi con la diua Sacra communion, da uer Cristiano, E la benedittion di uostra mano. Fu contentato, e commendato assai De la feruente fe, ch'egli usar uolse, Nè gente seco, nè tesor già mai Volse accettare, e sol due guide tolse, Non te mendo fatiche à i lunghi guai; Molto di sua partita ogn'un si dolse. Cento à caual pur gli fer compagnia, Fin doue il Prete Ianni ha monarchia. La sobria, e casta sua partenza fece, Che non sol chi l'amaua, ma coloro, Che per inuidia il cor di negra pece Haueuan tinto, patiran martoro Del suo partire, e chi non sodisfece A' sè, d'offerte, di gente, e tesoro. Da l'inuidia tornato à penitentia. Si dolse poi fuor de la sua presentia. Però ch'ei disse, signori, e fratelli, Innanzi al suo partir, pregate Dio, Che mi dia gratia, ch'io ritroui quelli, Che generato m'han, com'ho desio Godete in pace i uostri regni belli, E l'affanno, e'l dolor sia tutto mio, E so gliè chi da me per ignoranza Offeso fusse, chieggo perdonanza. Partito da Dragonda in compagnia Caminar molti dì, sempre passando Per Castelli, e per uille, che la uia Gli facean dolce, gran piacer pigliando; Che à gara ognun gli facea cortesta, Per ch'erano informati del mirando Trionfo hauuto, e quant'era ualente, Nè si satiaua alcun di porgli mente. Or, caminati per molte giornate, Giunsero al fin dou'il gran fiume detto Stapo si diuideua per metate; L'una parte ne ua per camin retto, Verso'l Mar de la rena e fa passate, Tra due Reami con più stretto letto; Europa tra'l fiume l'un si chiama, L'isola Mercon l'altro di gran fama. Il bipartito fiume la circonda, Doue Guerrino con glialtri passaro Del mezo fiume l'una e l'altra sponda; Tanto che dentr' à l'isola arriuaro, La qual di ricchi casamenti abbonda, E quattro gran Cittadi ui trouaro Che sono, Esser, Darone, Maor, e Mago, D'aer benigno, temperato, e uago. Il diletto e'l piacer, che Guerrin prese, Fu grande spasso à suoi lunghi pensieri, Et à pigliar costrutto del paese; Parecchi giorni gli facea mestieri Questa passando, di là si distese In Asia Nili con quei Caualieri, Et uide Caboon, di quindi mosso, Giunse cõ gran piacer sopra al mar Rosso. Sù la cui riua, entrar ne la Cittade Protolomea, e uidero'l suo Porto Toronas detto, e dopo altre giornate S'appressaro à l'Egitto pel più corto Camino, e le Montagne haue an trouate Di Camasor, com'al Meschin su detto Da quelli del paese, & in Egitto, Camarata gli dan per nome dritto. Diuidè il Nil queste montagne, e passa In Egitto di quiui, e quiui sono Le porte, oue si tiene, e u si lassa Passar correndo con orribil suono. E sopra tai Montagne una gran massa D'un muro fatto sì gagliardo e buono, Che cala uers'il fiume d'ogni parte Che ne stupisce la natura, e l'Arte. A questo si congiugne un'altro muro, Ch'attrauerso è fondato del gran fiume, Due mila passi lungo è per sicuro Sostegno tà larghezza si presume Dugento braccia, oue in arcate furo Cento gran porte, che sono il cocchiume Dond'esce l'acqua ch'in Egitto uarca, Or seguirem come si chiude l'arca. Ad ogni porta, con forti catene, Vna saracinesca si sospende, Di ferro di gran peso, e quando uiene Che mai l'Egitto con l'India contende, O pel tributo che dar s'appertiene A l'India da l'Egittò ne gli rende L'entrata, che gli uien, si cala abbasso Le gran Saracinesche, e uolta'l passo. Volta il passo il gran fiume, e gira intorno A le montagne, e nel mar rosso sbocc E parte gira da l'altro contorno, Et al Mar del sabbion tal parte tocca, Il qual, uerso Ponente fa soggiorno, Che dou'è Libia correndo trabocca, Sì che l'Egitto per questa cagione Riman senz'acque, che sien per lui buone. Settanta due Reami Egitto serra, Doue mai pioue, e sol due uolte l'anno, Il Nilo inonda tutta la sua Terra, Così le lor semente uigore hanno; Però non fan col Prete Ianni guerra, E gran tributo per questo gli danno Quiui Guerrin ringratiò quella gente, Et poi gli licentiò cortesemente. E menò seco le due prese scorte, E le montagne à salir prese in suso; Ma benche quel camin fusse aspro, e forte Per due giornate, e di passi confuso Non gli par che la cosa tanto importe, Perche'l passo era abitato con uso Di gente assai dimestica, e cortese, Sì che la fera là riposo prese. Ma ne la sommità de le montagne Ben u'abitaua gente più bestiale, Pien di scelesti uitij, e di magagne; Ma non ne riceuero oltraggio, ò male, Passati poi calar ne le campagne D'Egitto in sei giornate, oue segnale Di Scinafi città uider lontano, Doue arriuar, passati un lungo piano. Ragionando le guide haueuan detto, Che uerso Libia, à le montagne al fine Son genti, ò per natura, ò per difetto D'umor, che cali da quelle colline, Che tra'l busto, le gambe, e'l capo, e'l petto Son mezo braccio, e forse più piccine, E perch'è cosa strana da sentire, Dò fine al canto, & or non uò più dire.

IL FINE DEL
CANTO DECIMOOTTAVO.

Armato d'vm ltà, pien di disio D'amor, di carità, ferma speranza. Piglio la penna, pur per tentar s'io Posso nel poco tempo, che m'auanza, Seguir col tuo fauore, eterno Dio, C'hauendol, penso hauer'altra abondanza Di quel, c'hauer per inuocar potrei Le fauole cercando de gli Dei. Or'io lasciai Guerrin, ch'era passato, Scesi i monti Camestri, ne l'Egitto, E ne la città Scinafi er'entrato; Dipoi messo in camin seguitò dritto Sù la riua del Nil, qual'è chiamato Variato da quel, che ora ho ditto, Non più Nilo, ma Cailes s'appella Ne la lor propria Egittica fauella. Per rispetto del Cairo gli danno Tal nome, e questo Cairo è congionto Con Babillonia, in tal paese fanno Grã guardie, e stãno à l'erta sempre ĩ põto; Sì che da i forastieri, che ui uanno, Voglion sapere, e doue, e perche conto; Onde à Guerrino inanzi gli si fece Vn'Ammiraglio, & egli il sodisfece. Mostrossi seco l'Ammiraglio umano, E lo tenne à posar con sè la sera, Però ch'ei disse, ch'andaua al Soldano, E che dal Prete Ianni uenuto era; Le lettere del qual gli pose in mano Mostrogli l'Ammiraglio buona cera, Che molto l'arme, e'l suo caual gli piacque, Benche simil pensier, seco si tacque. Guerrin con le sue guide per seguire', L'altra mattina a cauallo montaro, Nè uider l' Ammiraglio comparire, Nondimeno al camin lor s'inuiaro; Ma fu lor detto, che suol spesso uscire Del Nil (da certe genti, ch'incontraro) Gran cocodrilli, e di certi ualloni, Vi sogliono apparir spesso leoni. Sì che per tal cagione in sù l'auiso Andaua, e con pensier di far difesa, Accioche colto non fusse in prouiso Semplicemante, e per scampar l'offesa; E conforta le guide, che con uiso Pien di sospetto temeuan l'impresa Di quel camin, benche senza sospetto Poteuan uia passar per tal rispetto. Pur, perche la fortuna non concede, Di lassargli passar senz'hauer lite, Poi ch'altro impedimento non gli uede, Cerca tesser le tele sue ordite, Perche quell'Ammiraglio, la sua fede Finta scoprì, e le sue troppo ardite Voglie, di rubar l'armi, e'l suo destriere Al buon Guerrin, gli si fece uedere. Perch'à l'entrar, ch'ei fece d'un uallone, Ilqual duraua forse diece miglia, Fù colto in mezo da molte persone, Che l'Ammiraglio era, e la sua famiglia; Ilqual tosto gridò; Tu sei prigione Volto à Guerrino, & allentò la briglia Del suo cauallo, & altri diece ancora Chinar le lancie à la medesim'hora. Guerrin, che con sospetto innanzi giua, Voltossi, & abbassò la lancia presto, E quanto puote gli altri colpi schiua, Che con la mano, e con l'occhio era desto; La lancia, ch'abbassò, non andò priua D'un colpo, che non uolse aiuto questo A'traboccarne l'Ammiraglio in terra, Onde Guerrino addosso à glialtri serra. E come quel, che non fece mai fallo, Resse à lo scontro, e fu certo gran sorte, Ch'ei non fece pur mossa del cauallo, Nè di lui stette il suo caual men forte; Or con la spada entrò nel crudo ballo, E diè con essa à sette, od otto morte, In questo mezo le guide assaltate Furon, da altre genti separate. Nè facendo difesa, fur prigioni, E gli menauan uia per altra strada, Quando Guerrino à quei pochi poltroni, Hauea fatta assaggiar la fida spada E pochi ne campar, per quei ualloni Sapendo à l'altrui spese, quanto rada; Restossi l'Ammiraglio abbandonato In terra, e tra quei morti inuiluppato. E perche morte aspettaua ancor'esso, Tutto tremante, e di sospetto pieno, Inginocchioni à pregar s'era messo, Che perdonate sue colpe gli sieno; Disse Guerrin, l'error ti fia dismesso, Purche le guide in mio poter si dieno, Che se i tuoi mascalzon l'hãno ammazzate Con la tua morte saran uendicate. Et à cauallo il fece montar tosto, Senz'alcun'arme, & egli con la spada In man, dinanzi se l'haueua posto, Perche le guide seco à trouar uada. Nè per il bosco andar molto discosto, Che si trouò de i malandrin la strada, E li trouar c'haueuano legate Le guide, e già di morte minacciate. Onde Guerrin le fe subito sciorre, Tenendo in man la sanguinosa spada; Il giel de la paura al cor gli corre, Sì che le guide, senza stare à bada Furono sciolte, e gli s'andò à porre Inginocchion tutta quella masnada, Chiedendo al Caualiero, umil perdono, E ch'ei lor dia l'indegna uita in dono. Ma se pure al Soldan facea pensiero Accusargli, più tosto son contenti Morir per le sue mani, in quel sentiero, Nè si curan di uiuer'altrimenti. L'ucciderui sarà caso leggiero, Disse Guerrino, e spegner sì uil genti. Perdoni la uendetta, disse Cristo. Chi uuol de la mia gratia fare acquisto. Et io con questi patti ui perdono, Ch'attendiate a seruire il Signor uostro, E far l'offitio più perferto, e buono, Sì comè dal Soldan u'è stato mostro, A'uoi la uita torre, io ue la dono Poiche n'usciam senz'alcun danno nostro Di quel, che scarsi siete stati à noi, Liberamente io uò donare à uoi. Così del gran pericolo campati, Per uirtù di Guerrino oltre seguiro Il uiaggio, doue erano inuiati, E per due giorni disagio patiro Del uiuer, che trouar disabitati Tutti ipaesi, il terzo dì poi giro Verso Libia à man manca, e ritornaro Sù'l Nilo, e quiui il camin seguitaro. Trouarono acque dolci, in quel contorno, E infinite mandre di bestiami, C'hauean gran quantità di cani intorno, Acciò che il lupo di lor non si sfami, E questì cani il Meschino assaltorno, E senza, ch'altro soccorso si brami Da i lor pastor in a stavano a uedere Mostrando di tal festa hauer piacere. Vccisero il cauallo ad una guida Così de gli altri hebbero fatto ancora; Ma Guerrin, perchè'l suo non gli succida, Smontò piedi à la medesim'hora, E fe l'altro smontar, di poi la fida Spada per rifrenar gli trasse fuora, Poi fe che i due destrier, ch'eran campati, Fusser da l'altra guida uia menati. E che con essi dentro à l'acqua entrasse Del Nil, per fargli da queì can sicuri, E (com'ho detto) egli la spada trasse, Acciò che quell'assalto poco duri, Benche forse quaranta n'ammazzasse, E desse à gli altri colpi mal maturi; Non però cala la lor rabbia fiera, Che più d'ottanta ancor rimasi n'era. E con fatica l'atterrata scorta Da l'empito lor trasse, e da gli unghioni, Che per ogni altro indugio saria morta, Ch'eran gagliardi i can, come leoni I lor pastor, com'à chi non importa Si stauano à ueder, perche i ladroni Hauien uerso Guerrin l'animo tristo, Pensando far de le sue spoglie acquisto. Gittato hauea Guerrin lo scudo in terra, E con due man tagliaua e nerui, & osssa A i Can, ch'ogn'or la rabbia più gli serra Quanto più di lor fa la terra rossa; Al fine pur d'intorno se gli sferra, Che can non u'è, che più durar gli possa; N'uccise forse cento, e glialtri furo Feriti, e si ritrassero al sicuro. Fuggiron tra i bestiami, scompigliando I greggi tutti, e con orrende strida Le ferite s'andauano leccando; Guerrin colse lo scudo, e con la fida Spada si pose tra i pastori in bando, Che non uuol, che nessun di lui si rida, Non tirsi, ò mazze sero, ò chiauerine, Che di lor molti non ue desse il fine, Poi che difesa non gioua, ò trar sassi, Nè le grida mandar fino à le stelle. Cominciaro à fuggir, mouendo i passi Di quà, di là, in queste parti, c'a quelle; Non uuol Guerrin, che la uendetta lassi Di quei (che giugner può) sana la pelle, Et era già sopra al caual montato, E gli perseguitaua in ogni lato. Il bestiame era con gran spauento Per tal romor, grosso e minuto insieme Mescolato, aggirando, sempre intento Di uia fuggir, ma d'ogni banda teme; Quattro miglia era l'auuiluppamento, Chi salta in alto, chi s'urta, e si preme, Fuggian gridando i pastor pel paese, Perche le grida lor fussero intese. Mirabil cosa fu, (forse) e diuina, Che i can così feriti, si cacciaro Tra i lor pastori, e con molta rouina Di quei parecchi di uita priuaro; Sì, che per ogni pian, ualle, e collina, Come nemici lor li seguitaro, Che fu degno castigo, à l'aspra uoglia; Per pigliarsi piacer de l'altrui doglia. Scompigliata Guerrin questa canaglia, A le Guide tornossi, Dio lodando; Poi dice à l'un, ch'in su'l cauallo saglia De l'altro, seco la cura pigliando; Ch'era ferito, & appar quanto uaglia La carità, che sempre andò usando; Tolselo in groppa medicato un poco, Sì come il tempo richiedeua, e il loco. E poco caminar, che d'huomin uote Trouaron le cappanne de'pastori, Ch'ancor fuggiuan ne le più remote Parti, doue empion di strida, e romori. Deronsi à rinsrescar quanto si puote, Per racquistare i perduti uigori, Con buona carne, e pan che ui trouaro, Con acqua chiara, e presto caualcaro. Portando seco pane, e carne cotta, Caminaron quel dì fino à la sera, Che parue lor di riposarsi l'otta; Ma teneuan di qualche ciurma altiera, Che la quiete lor non fusse rotta; Però passar à un'Isoletta, ch'era Nel Nil, chiamata Tacia, tutta ornata Di casamenti, e ben tutta abitata. Non fur sì tosto ne l'Isola entrati, Che di pastori, e genti del paese Ch'eran più di trecento, infuriati; Sentì Guerrino il gran romor palese, Andauansene al Rè, com'insensati, A lamentarsi de l'hauute offese; Parendo lor d'hauer ogni ragione, Et d'incolpar Guerrin piena cagione. A' lui ben detto fu, ch'era sicuro Ne l'Isola doue era, che coloro Sempre de gli Isolan nemici furo, Et ch'era gran discordia fra di loro La mattina Guerrin, che gli par duro Stare assediato, e uia maggior martoro, Che l'esser tra inemici fino à gli occhi, Tenendo l'indugiar cosa da sciocchi. De l'Isola uscì fuore, e senne uscire, (Come fu dì) poi seco ancor le guide; Ma non ueggendo più gente apparire, Pensò che fusser fornite le gride, Nè pensò, che i pastor douesser ire A là Città, quando le scorte fide Scoperser di lontan certi altri armati, E dubitaron di maggiori aguati. Rassettossi Guerrin lo scudo in braccio, E fe restar le guide à dietro un poco, Accio che lor non facessero impaccio; Ch'à lui le zuffe pareuano un gioco, E per dare al suo dubbio tosto spaccio, Andogli in contro per auanzar loco, E giunto à lor, disse, che gente siete? E che uiaggio far pensato hauete? Rispose un Caporal, gliè bene onesto Che ui sia detto, che l'alta presenza Merita di sapere altro che questo, Se non m'inganna già falsa credenza, Noi siam mandati, che non sia molesto Questo paese, per in auuertenza Dal nostro Rè, però che ci è sospetto Di guerra, e così sta'l paese netto. Però, non ui dispiaccia in cortesia, Poi ch'al Re nostro obedienti siamo, D'accettarci in la uostra compagnia; Fin ch'à la Città dentro ui uediamo. Che'l Re, che con tutti ha la mente pia, N'hà comandato che così facciamo, Ch'è giusto uecchio, e più degno, e cortese Chuom che reggesse mai questo paese. Se gliè cortese, & io non son uillano, Rispose egli, & andianne à uostra posta; Tra se dicendo, pur che questa mano Possa far (bisognando) la risposta, Crescea la gente più di mano in mano, Quanto più sempre à la Città s'accosta, Tolse licentia poi tutta la scorta, Come fu uisto entrar dentro à la porta. Disse Guerrino à le sue guide, quando Furo ne la Cittate, io mi credeua Che mi uolesser fare oltraggio, stando A'l'erta, che deliberato haueua D'insanguinarui tanto questo brando, Che uiuo star più nessun ui uedeua; Chi sa, che forse poi che siam qua drento Non pensino ancor farci tradimento? Ma pel mio Dio, che'l cor sì mi conforta Che mentr'addosso haurò quest'armatura, Farò tremar da l'una à l'altra porta; Se di lor stessi hauran sì poca cura, Che tanta gente ha questa spada morta, Che non staria dentro à queste mura In quattro uolte, e spesso si castiga Chi senza altro pensar cerca la briga. Con questo ragionar tutta la strada Videro prima di molte osterie, Et quanto più da lor ben ui si bada; Non u'è trafichi d'altre mercantie, Quiui (disser le Guide) ogni contrada Ha le sue arti, secondo le uie, E doue l'una sta, l'altra non fassi, E ciascuna al suo luogo, à trouar uassi. Presero albergo dunque ne la prima Strada, e si rinfrescaro, e riposati Forse due hore, con intento e stima Di ristorarsi de'giorni passati; Ma non fur ne la terra giunti prima Che fur di lor gli auisi al Re portati Il qual, mandò tre suoi messi à cauallo; A dir ch'à lui ne uadan senza fallo. Per ch'egli si terrebbe mal contento Non gli onorando, com'è sua usanza, Però ch'à lui pareua un tradimento; Non prouedere à i forestier di stanza, Però non uoglia il buon proponimento Romper, s'in lui era buona creanza; Guerrin rispose, uolentier ne uengo, E uolentier tal'ordine mantengo. Così giro al palazzo, e lor fu data Vna stanza real da gran signori, E fu lor buona cena apparecchiata; E custoditi appresso i corridori, Vna ueste à Guerrin fu poi portata, Acciò che l'armi si traesse fuori Di dosso, che dipoi così n'andasse Al Rè, che de l'andar suo l'informasse. Fecegli il Re buon uiso, e domandollo Del suo uiaggio, e s'egliera Cristiano, A pien del tutto Guerrino informollo D'ogni uiaggio da presso e lontano; Il che sentendo il Re, molto onorollo, Ben ch'ei mostrasse sotto uiso umano Variato pensier da quel ch'aueua, Di che tradito Guerrin rimaneua. Nè lettere giouar del Prete Ianni Nè l'innocentia sua, che da i uillani Male informato, sotto falsi inganni, Hauendolo con atti molto umani Seco fatto cenare, e de gli affanni, (Ch'egli narrati hauea) hauuti strani, Doltosi seco, per questo fu colto Guerrino à non temer più di lui molto. Cenato c'hebbe, e passeggiato un pezzo, Ragionando col Re, di molte cose, Da lui fu licentiato poi da sezzo, Nè prima in letto per dormir si pose; Ch'ei uolse far, sì come gliera auezzo, O fusse in uille, ò in Citta famose; Veder s'al suo caual nulla mancasse, E s'hauea buon gouerno, e spese grasse. Fe medicar la guida ancor ferita Da i cani, & à dormir prese la uia In una bella camera fornita Di uaghi drappi, e di tappezzaria; Fu sua persona da signor seruita Ne lo spogliare, e senza fantasia Porre à sospetto, tosto addormentossi, E sol la spada in compagnia serbossi. Perche le guide sue furon menate In altra stanza, à posarsi uicina A quella, e furon le porte serrate; Pensando starui fino à la mattina, Ma ui corser gran ciurme infuriate, Nel primo sonno, con molta rouina, Eran costor tutti uillan pastori D'arme forniti, ma più di romori. Dicendo, ammazza, piglia, para, e serra, E uogliono il Meschino ne le mani; Il Re, ch'intesa da lor ha la guerra, E tanta uccision d'huomini e cani, Sapendo l'incolpato ne la terra Esser, sotto i suoi gesti tanto umani; Tradillo, e fello uenir nel Palagio, Per poterlo pigliar con più suo agio. Che ben intese quant'egli ualeua; Prima da quei pastori, e dando fede A quanto ogn'uno incolpandol diceua; Diede licentia senz'altra mercede, Che ne facessin quel ch'a lor pareua; Or, poi che'l Re licentia lor concede, L'han colto al primo sonno disarmato Per dargli il non supplitio meritato. Guerrin, ch'al suon dì quelle uoci orrende, Smarrito ha'l dolce sonno, salta in piede Così in camicia, e la sua spada prende; Ma, come altre armi può pigliar, non uede Perche l'uscio da lor mal si difende; E già l'entrata larga gli concede, Non era nel Meschino il sonno spento Ancor, che n'era già gran parte drento. Sì che'l campion, che se gli uede sopra, Con mazze, e lance intenti per ferire; Ne mandò più di uenti sotto sopra, Che spento ancor non era in lui l'ardire; Poi che scudo non hà, con che si copra, Tagliò molte aste nel primo colpire, Vn ne sbudella, e gli altri adietro caccia, Tagliando à chi le gambe, à chi le braccia. Ancor (dicendo) in camicia, e serrato Il uiso so mostrar, brutta canaglia; Si com'io ue l'ho mostro tutto armato A la campagna, à la canal battaglia. Lo stuol s'è fuor de l'uscio ritirato, Veggendo che Guerrin così li taglia Attrauerso à la porta egli ne pone Vn di lor morto, e se ne fa bastione. Color non fanno altro di se uedere Dentro à la porta, che l'acute lance; Ma s'era posto il franco Caualiere In luogo, che l'offenderlo eran ciance, Stassi da canto, e sopra l'aste fere, Pel cui timor fa impallidir le guance A i suoi nemici, e spesso saglie addosso Al morto, e fa qualcun di sangue rosso. Questa zuffa durò forse tre hore, Sentendo il Re, che i pastor non fan frutto. Cominciaua à temer già de l'errore, In che l'haueua il suo creder condutto; Fece pigliar le Guide à gran furore, Facendo esaminarle ben del tutto Ciascuna separata, e riscontrando Il lor parlar, uenn'il uer ritrouando, Seppe come l'assalto consentiro, De lor cani ì pastori, attento ch'essi Si stauano à uedere, e che patiro Veder, senza dir nulla, tai successi Trasse seco pensando un gran sospiro, E perche'l uer più chiar gli si confessi, Fece pigliar quei che furon presenti A ueder questi strani portamenti. Per sua famiglia fece incontinente, Dire à Guerrin, che per un falso inganno, Patito hà quell'assalto sì repente, Che tutti quei Pastori usato gli hanno, E gli fe ritirar subitamente Perche più non tirassero al suo danno; Questo inteso Guerrin, non diede fede, Dite al Re, disse, che Guerrin nol crede. Et disse ancor, quand'ei fusse reale Secondo il nome, che di questo fatto Che m'ha incolpato la gente bestiale; Ch'io sarei sempre à render buon cõto atto Di me, con la ragione aperta quale Si debba usare, e non tanto in un tratto Esser giudice e parte, perch'è cosa Da tiranni, e in un Rè uituperosa. Vengane egli in persona, & ei mi giuri Di castigar chi prima errato hauesse, E poi co' suoi giudicij più maturi, Faccia che le pietadi sien dismesse Altramente, i partiti sarien duri, Che à cento gaglioffi io mi arrendesse; E spero così ignudo con la spada Farmi à uscir di qua patente strada. Fu detto al Rè, ch'indugio non ui pose; Andouui, e gli giurò sopra al suo petto Che quel, ch'ei fece, fu perche le cose Gli furon riferite con difetto Vinto da l'alte grida lagrimose, Che quello stuol di uillan maledetto, Intorno gli hauea fatto, e maggiormente, Mostrand'anco ogni piaga sanguinente. Per concluder, Guerrino fu contento, Che'l Reuedesse essaminando chiaro Da chi uenisse questo mancamento, E fece quel che solea far di raro; Porse la spada al Re, non come uento; Ma come quel, ch'à quel tempo era raro Di gentilezza, e come quel c'haueua In fronte la giustitia, e la uoleua. Stessi come prigion forse due mesi, Che gli fu molto scomodo e disagio; Da l'altra parte i Pastor furon presi Prigioni, e fur tenuti in più trist'ago, Et bisognò che tenendosi offesi; Il Rè mandasse à l'Imperial palagio Mandasse in Babillonia al suo Signore Di Soria e d'Egitto Imperadore. Ch'altro non potea far, per ch'avea cento Per gran malignità contr'al Meschino; Testimoni, nè altro assegnamento Di proue hauendo; che di quel confino Era più tosto ciascheduno intento Di dargli contra, & era già uicino A la sentenza, quando il Rè temendo Di maggior mal, s'andaua trattenendo. Di fauore le lettere hauea lette Del Prete Ianni, e nol uuol far nemico, Che sa quanto in periglio grande mette Tutto l'Egitto, e'l Soldan, ch'era amico Con India allora, e di nouo ristrette Le conuentioni, gli pareua ostico Et ben uedea del Meschin le ragioni, Ma mal può darle senza testimoni. Però per più suo scarico gli parue Al Soldano mandar per la parola; Sì tosto il messo al Cair non comparue Che una trista noua al Soldan uola Laqual fe che del cor uia gli disparue Ogni allegrezza, onde per questa sola Cagione, il messo tre dì si trattenne Tanto ch'à dir l'ambasciata sua uenne. La nuoua, ch'al Soldan trista fu data, Fu, che gli hauean gli Arabi mossa guerra, E che rotta gli haueuano l'armata, Che'l Soldan contra gli mando per terra, E che la Rissa, c'hauean'assediata, Haueuan presa, e se non gia si serra Il passo presto, e si uieti tal'opra, Manderan tutto Egitto sotto sopra. Per questo il Soldan fe far sacrifitio A un Idol suo per domandar conseglio Di quella guerra. Ei disse, ch'ogni offitio Era gittato, e non farebbe meglio De glialtri, che sono iti in precipitio; Ma disse, s'al uostro utile ui sueglio, Facciasi senza fallo, ch'altrimenti Sarete sempre disfatti, e perdenti. Il Re Polinador di Palismagna, Ch'è sott'al uostro Imperio, tien prigione Vn caualier, che gli diè ne la ragna, Perche ha co suoi pastor certa quistione, Che'l lassaro assaltare à la campagna Da i cani, ond'hanno il torto, ei la ragione, E per malignità resta incolpato Da tutti, & à la morte condennato. Hauui mandato un messo per sapere Il Re se deue à morte condennarlo O mandarlo prigion, per non hauere A'torsi questa impresa lui di farlo; L'India ha campata questo caualiere Al prete Ianni, e uolse incoronarlo Di mezo il suo paese, e ricusollo E senza uoler premio, al fin lassollo. Del tempio uscito, il Soldan si ritrasse Al palazzo real, per tale inditio, Et ordinò, che presto si mandasse A' Polismagna per suo benefitio, E fe, che'l messo à dichiarar gli andasse Dal Re Polinadoro il dato offitio, E confrontando il uer, fu molto lieto, Mandando presto la risposta in drieto. Il breue de la noua elettione, Gli diè, dou'era nel principio scritto La già concessa sua liberatione; Poi com'è fatto Capitan d'Egitto, Giunto'l breue, fu tratto di prigione, Hauendogli ogni cosa il Re già ditto, Posegli il breue di fauore in mano, Che gli haueua mandato il gran Soldane. Di che ringratiò Cristo sommamente, Al qual con l'oration sempre era corso; Giustitiaro i pastori incontinente, Poi che per testimon u'era concorso, Sì come il buon Guerrino era innocente, Il loro Dio Amon, doue han ricorso In quel paese, ilquale è sopra'l uino Bacco anco detto, ò uero Dio diuino. Il breue comandaua al Re ancora, Ch'ancora in punto sua gente mettesse, Sì dentro à la città, come di fuora, E ch'à Guerrin la cura di quei desse, Poi senza porre interuallo, ò dimora, A' Babillonia trottando giugnesse; Colse quarantamila il Re de' suoi, Co i quali à Babillonia andaron poi. Di Polismagna, e da Sensiraccolti, Da Polisberde, e da Tropol ue n'era, De l'Isola dì Tacia furon molti, Ch'erano tutti insieme in una schiera, Co i quali essendo uerso il Cair uolti, Dopo più giorni giunsero una sera A'la citta di Cartis, che è posta A' piè del monte Libici, & accosta. Cinquanta miglia al Cairo, e quì uolse Di se l'esperientia far uedere Guerrino, e strinse le genti, e raccolse Insieme, poi ne fece quattro schiere, E pose in ordinanza, e il passo sciolse, Ponendo à tutti in mezo le bandiere; E sì ben gli comparte, e gli compila, Che nessun moue il piè de la sua fila. Stupisce il Re dì tal compartimento, Due giorni poi passaron di campagna, Stando sempre Guerrin con l'occhio int&etilde;to Se nessun del suo ordin si scompagna; Passaro una città, senz'entrar drento, Al Cair presso, detta Mompias magna, Doue il Soldan, che tal uenuta sente, Fuor del Cairo uscì con molta gente. Vennegli in contra forse diece miglia; Ciò sapendo Guerrin sollecitaua Intorno à quelle squadre à tutta briglia, Per ueder se de l'ordin si mancaua; Appressato il Soldan per merauiglia, Vn'ordine sì bello rimiraua, Co suoi dicendo, ecco'l figliuol di Marte, Mai uidi ordinar gente con tant'arte. Per l'andare ordinati, assai più bella Gente gli parue, che non solea prima, E mentre, che'l Soldano ai suoi fauella, E da la somma parte infin da l'ima, Sendo corso Guerrin saltò di sella, Per dimostrar, che gliè da fare stima De la sua maestade, e'nginocchiossi; Onde il Soldan con la testa chinossi. Fello poi rimontar sopra'l destriere, Che ui saltò, com'uno suelto pardo; Poi come franco, e nobil Caualiere Non fu di ringratiar il Soldan tardo, Che per sua gratia si uedeua hauere La libertade insieme, e lo stendardo De la sua gente, ancor ch'ei conoscesse, Che per necessità quiui l'elesse. Di Polismagna il Re si fe uenire Dinanzi il gran Soldano, e così disse, Sempre t'ho conosciuto un saggio Sire, Questa uolta non sò, come fallisse, Tu mi mandasti per un messo à dire (E non sò come il cor te ne patisse) S'io uoleua prigion, che tu mandassi Questo Guerriero, ò che tu'l giustitiassi Dicendo, ch'era posto in contumace, Per essere assassin de tuoi pastori; Ma'l nostro Dio Amon saggio, e uerace, Disse, che lor furo assassinatori; Ma senza hauere inditio sì capace, Non sai tu, che i pastor tutti i migliori Sono assassini, e ladri; or che sien quelli, Che son mezani, e che fieno i più felli? Parti, che l'apparenza del suo uolto, E'l discorso diuin, ch'in lui si uede, Mostri d'esser ladrone ò poco, ò molto? Ilche per me già non si pensa, ò crede; E detto questo, à Guerrin poi riuolto, Del nome si fa dir, ch'egli possiede, Guerrin (diss'egli) sendo à la presenza I Baron più pregiati d'eccellenza. In presentia à costor, disse, Guerrino (Fattasi dare un pezzo d'asta in mano) Sopra l'armata, ch'è nel mio domino, Ti dò'l bastone, e ti fo Capitano Mio generale, e comando, e destino, Che sia seguito e per monte, e per piano E questo anello tien per più segnale, Che sia secondo à me, tu principale. Così comando à tutti, sotto pena De la mia gran disgratia, che si faccia Tutto quel, che sua uoglia à fare il mena, E che l'ordin seguiate, e la sua traccia; Allor con uoce chiara, alta, e serena, Mostrando, che tal'obligo gli piaccia, Capitan Capitano, udì gridarsi, E uidesi quell'oste rallegrarsi. Di uoce in uoce andò, di suono in suono, Per fino à Babillonia la nouella, Senza mandar più bando, oue con buono Studio, ogni gente da piedi, e da sella, Per ueder à chi dati à guidar sono, Veniuan uia da questa parte, e quella, Di tanto onore Guerrin non ingrato, D'ogni cosa il Soldano ha ringratiato. Allora uerso il Cairo se n'andaro, Con molta pompa, & allegrezza grande, Il suon dì trombe risonante, e chiaro, Già s'allargaua da tutte le bande; Due dì le genti à passare indugiaro Il ponte, che su'l Nil lungo si spande Tra Babillonia e'l Cair, per lunghezza Vn miglio, e più, dice chi n'ha certezza. Per mezo Babillonia in ordinanza, Fece passar l'essercito Guerrino, In certi borghi poi gli diede stanza, Nè per tre giorni fece altro camino, Seppe à pieno del Cairo, che sanza Le uille, ò ricercare altro confino, Fece a d'huomin migliaia quattrocento, Da portare arme, e stare in guarnimento. Altretanti il dintorno ne faceua, E Babilonia n'hauea poco meno; Ma tal gente à Guerrino non piaceua, Perc'hauean d'ogni uitio pieno il seno Più gentilhuomin Babillonia haueua Alquanto più onesti, nondimeno Sporchi, e lussuriosi erano tutti, Con altri uitij scelerati, e brutti, Or il Meschin fe più d'una rassegna, Per far di tutti esperienza uera, E saper qual natione è la più degna, Sì come usato in tai casi à far'era, E quanto può d'addestrarli s'ingegna, E chi non sà, metter ne la maniera De le battaglie, con somma uirtute, Acciò ne traggan uittrice salute. L'essercito poi mosse à poco à poco, Con quella munition, che bisognaua Tra diece dì gli condusse con poco Disagio, oue Damiata dimoraua, Che sù'l mare Ocean possiede loco De la cui parte Guerrino bramaua Sapere i suoi confini, e fugli ditto Nel modo, che da me quì sarà scritto. Detto gli fu, ch'à tre confini sono In mezo de la terra, & al mar presso Di Soria, deliquali era ii più buono L'Egitto, e Palestina appresso ad esso, Poi Arabia Petrea ha nome, e suono L'altro, ch'è il terzo, & euui à canto messo Il lago Solis, che nel mezo giace Di questi mari, come al Motor piace. Di quà il mar rosso, e di là di Soria Che è l'Egittio pelago chiamato, Per aspettar la gente, che uenia Di mano in man, s'era Guerrin fermato, Che uolea tanto prolungar la uia, Che l'essercito fusse ragunato; Ma troppo al suo parer gente ui uenne, Per otto dì, ch'aspettar si trattenne. Di paesi diuersi del Soldano, Vi si raccolse ottocento migliaia D'huomin, la maggior parte da por mano A' zappe, e uanghe, e batter grano à l'aia A' some, à remi, e se più rozo, e strano Essercitio conuien, ch'in terra appaia Sette Re furui, co i uassalli loro Ornati tutti di corona d'oro. Di Dragondasca Sandor, fu prima A'glialtri, Balisarca il secondo era, Di Renoica Re di molta stima Albanico anco di persona fiera Re fu de la Morea, & era cima Di superba alterezza, e d'aspra cera, Bench'à dirchiara quì la sua ragione, Fu ben gran uantator; ma non poltrone. Galapidas il quarto si chiamaua Da monte Libici, il quinto seguiua Libarisi, Lenor, poi seguitaua Polinador, che Guerrino obediua, E in Polismagna pur dianzi pensaua La uita torgli, dopo esso appariua Polinodos per settimo, c'hauea Il suo poter ne l'Arabia Petrea. Del costui Regno, gli Arabi leuate Gli haueuan tre città, Bostra era l'una, Malauria, & Alberor l'altre lasciate, Pigliauan senza ritenentia alcuna; Ma furono ora à tempo assicurate, Che l'essercito grande si raguna; Et oltre a i sette Re, u'eran uenuti Cinquantacinque Duchi proueduti. D'arme, e dì genti, da quai s'aspettaua Regia corona, scettro, e maestade, Che se tal guerra in ben gli terminaua, Fornita quella, le lance, e le spade Poste in riposo, gran parte bramaua Giugner subito à questa dignitade; Guerrin per questi lor fatti disegni, Del Soldano conobbe i mòlti Regni. Con Babillonia, e'l Cair possedeua Tre gran Reami, e glialtri numerati Regni, che nel su'Imperio si godeua, Settantacinque fur, uenti pregiati Porti di mar, ch'ogn'un cittade haueua In diuersi paesi situati, Sei nel mar Rosso, il resto sopra il grande Mare Ocean, che da Soria si spande. Da Cabeltaur uà uerso Soria, Tra terra d'Asia, d'Europa, & doue In Africa tien seggio, e monarchia; Ma l'Arabo scemar la uuol, che moue Ribellione, e guerra tuttauia; Or quì si lassa, e seguirassi altroue, Cioe ne l'altro canto, e la rassegna, Che fe Guerrin de la gente più degna.

IL FINEDEL
CANTO DECIMONONO.

Vaso del Padre eletto, eletto uaso, Incorrotto, purissimo, e pudico; Tu la mia Elicona, e'l mio Parnaso Sia col tuo figlio tu, sia con l'amico, Sia tu col Re de l'orto, e de l'occaso, Accio che quel ch'io p&etilde;so, e quel ch'io dico, Col suo uoler sia conformato à pieno, Ben che l'opere mie mal degne sieno. Risguarda alta Regina, mira Madre, Quanti spirti gentil posson sentire Mia debil uoce; che tra molte squadre, Penetrar poco può, se nel mio dire Non s'infonde per te dal sommo padre Gratia, che'l Canto mi faccia seguire Il qual sia tal, che i cori infiammi, e prema, Si ch'ognun sua bontade adori, e tema. Ecco per luì saluato il suo Campione, Non uolse egli mancare à l'innocenza, Ecco c'ha essaudita l'oratione De la sua pura & umil conscienza, L'ha fatto conduttier già, di prigione, Perch'è somma bontà, somma clemenza; Ecco per lui si fa sua uirtù chiara, Et buon per chi d'essergli seruo impara. Guerrin (com'io narrai) fece far presto Più ch'ei potè la bramata rassegna De l'essercito grande, che richiesto Fu per pòter seguir l'impresa degna; Trasse dugento mila, e tutto il resto Lasciare in dietro subito disegna La quarta parte sol con seco elesse Che più gli parue, che per lui facesse. Et à chi più mancaua fornimento D'arme supplì, ma ben tutti i Signori Et Re di menar seco fu contento, Perche secondo il grado ognun s'onori; Tornossene il Soldan poco contento In Babilonia, e di speranza fuori, Perch'ogni sua speranza era fondata Ne l'assai gente, ben che male armata. Passò con quei Guerrino in Palestina, Dou'era il campo de'nemici appresso, Nè sì tosto à tal parte s'auicina, Che da gli Arabi fu mandato un messo Ch'era usat'à sonar la naccherina; Per più dispregio, alquale hauean cõmesso Che portasse una lettera' à Guerrino, Non di Greco uergata, ò di Latino. Fece Guerrin chiamare un gran uecchione Di resonante uoce, e bello aspetto, E quanto scritto u'è subito impone Che legger debba senza alcun difetto, In presentia di tutte le persone, Il cui tenor gli diè molto sospetto, Perche'l tenor fu questo, à te Guerrino Ladron, perfido, falso, & assassino, Gli Arabi fan saper, ch'un, che sia uso A star prigione, e condennato à morte, Per la sua trista uita, e suo mal' uso, Non puo mostrarsi sì potente e forte, Che da noi anco non resti confuso; E che Dio l'ha, non già suo caso ò sorte, A lor mandato, perche s'appartiene, A lor far la giustitia, e dargli pene. Come Signori nouamente eletti, Di quanto Egitto circonda e possiede, Perche con gli altri Signori ei si metti Ciascuno in croce, c'hanno uolto il piede Contra à lor, per purgarsi de i difetti; Il che fatto sarà senza mercede, Di qui nacque un terror, ch'ogni Signore Non hebbe, nè prouò fors'il maggiore. Guerrino, poi ch'ognun uide temere, Al messo disse, in presentia di tutti, Va à gli Arabi, e di, che con le schiere In ordin son per dar lor giusti frutti De le parole che scriuono altiere. Et che con l'arme siamo qui condutti Per dar lor la risposta meritata; Sì, che'l messo uolò con l'ambasciata. Dal'interprete stesso fece esporre A suoi Guerrin, c'haueua fatto al messo Et domandar, se quando si ricorre A lo Dio lor, per un tanto interesso, Se la risposta sua da lor s'abborre; O danno fede à quel che gliè promesso Da esso Dio? Risposer d'hauer fede, E che quanto quel dice gli si crede. Donde uien dunque, (Guerrin lor rispose) Che uoi ui disfidate del suo detto? Non diss'ei, che à seguir le liti ombrose Che uano ui uerrebbe ogni altro effetto, Non facendo guidar le uostre cose, A un seruo di Cristo benedetto; Io son Cristiano, e son'uso in battaglia; Dunque perche'l timor tanto u'abbaglia. Non s'hanno le uittorie con parole, Nè con brauate d'ombre, e brutti uisi; Noi gli risponderem con l'arme sole, Stando ben proueduti sù gli auisi. Vostra ragione indubitata uuole Che due tiranni da ragion diuisi, Che'l campo guidan de i nemici nostri, Non sieno uguali à gli alti ualor uostri. Qual rio destin uorrebbe (dite) quale Instabil sorte harebbe uigor tanto, Che di sì degno sangue, e si reale, Che tiene in uoi ogni gran pregio e uãto, Ne hauesser due tiranni trionfale Vittoria, e d'un ualor sì chiaro, quanto In uoi risplende? & io poi doue resto? Ben che uantarmi non sia molto onesto. Non ho io uinto con gente peggiore, E manco, un'oste di più crudo aspetto? Ma uoi mostrate per ueder s'ho core D'hauer di tal canaglia alcun sospetto; Scoprite pur di fuor l'alto ualore Ch'in me mai di uiltà non fu difetto; Mise lor tanto ardir questa ragione, Ch'ognun bramò uenire al paragone. Menaci, disse ogni Signore, e Sire; Guidaci Capitano à la battaglia, Ch'à noi non preme terror di morire, Più che l'onor, sì che presto s'assaglia. Guerrin fece tre schiere à questo dire; La prima per metà tutti raguaglia, Che furo centomila, e fenne guida Due Re, del cui ualor molto si fida. De la Morea Albanico il primiero, L'altro Polinados d'Arabia seco Fu pel secondo Re giusto e seuero, E fuor di rio timor dannoso, e cieco; Molti altri Duchi, e con animo fiero Gli seguiro; cacciando il pensier bieco, Che preso hauean; de la seconda poi Guida fece Guerrin due altri Eroi. Che di cinquantamila fu partita; E quanti questi la terza rimase Per esso, ne la qual seco u'inuita Tre Regi, e con tal dir poi persuase A'i degni Duchi, con la fronte ardita, (Comesei fusse à le paterne case) Ognun stia questa notte bene in ponto Ch'abbiamo à far con li nemici conto. Di Polismagna il Re Polinadoro, E Balisarca fu de la sua schiera, Di Dragondasca anche il Re Sanadoro Con la sua gente ualorosa e fiera, Scoprì Guerrino; il suo pensier con loro, E l'ordin, ch'egli imaginato s'era; Il qual fu questo, che tre hore al meno Innanzi giorno à la battaglia sieno. Vn numero infinito di bandiere, Pose Guerrin ne la squadra dinanzi, Perche da creder s'hauesse, e tenere Che lo sforzo maggiore andasse innanzi; Quando sien de'nemici à le frontiere, Non dimen uolse che ne gli altri auanzi; Cioè de le squadre ultime serbate Fusser l'insegne da lui più pregiate. Ordinò poi, ch'Albanico e'l compagno, Co i centomila rompesser la guerra, Che i nemici tirati dal guadagno De la uittoria, come chi spesso erra, Ingannando il loro animo mascagno, Con ogni sforzo guadagnando terra Dessersi in preda del sanguigno caso, Senza guardar s'indietro altri è rimaso. Poi ordinò, che se la schiera prima De suoi, hauesse forza inferiore; La seconda dia dentro, e faccia stima Porgere à quella quanto può fauore, E quando di ualor pur fusse infima, E l'una e l'altra di speranza fuore; La terza supplirà, che su diuisa Da esso per metate, in questa guisa. Dice à Polinadoro, e à gli altri due Regi, ch'ei pensata ha la lor salute, Che quando ueggan che le genti sue Sieno à l'estremo del uigor uenute, Che con l'ingegno faccian, che puo piu&etilde;, Che quante forze furon mai uedute; Il quale ingegno, disse, sarà questo, Che con poco parlar fia manifesto. Con questa meza schiera tutta notte Disse, caminar uoglio, e l'altra resti, Et accio che non sien le strade rotte, Anderò per inditij manifesti. Di sentinelle del paese dotte, Con largo giro, e perche non si desti Alcun de li nemici con aguato, Tacito n'anderò da l'altro lato. Onde nel cominciar de la battaglia; Hauendo l'inimico il pensier uolto Al grande assalto, tutta la puntaglia Terranno hauer dinanzi, ond'io, che uolto In mezo gli corrò, non ch'io l'assaglia S'io non ueggo il bisogno, che raccolto E stretto mi starò, ueggendo il segno, Poi si uedrà quanto possa l'ingegno. E questo sia, ò Re Polinadoro; Che se uedrete pender nostra gente, Et esser carca con troppo martoro; Fate pel Campo fare incontinente Gran quantità di fuochi, che da loro Compresi non saran subitamente, E di poi col restante date drento Et io starò da l'altra banda attento. E così diero effetto, e confermaro L'ordine, onde Guerrin prese la uia Passata meza notte, s'ordinaro Il Signor de la squadra, che douia Prima attaccare il crudo affronto amaro Con incredibil forza, e gagliardia Nel che à gli Arabi nel primo furore, Comincio à tremar nel petto il core. Tra'l pasto, e'l sonno, e la lussuria inuolti Poco stimando che'l nemico fosse Ardito tanto, in prouiso fur colti A suon d'acute lance, e di percosse; Furne in quel primo assalto morti molti, Pur il bisogno à tor l'arme gli mosse, Sotto la guida di due Capitani Cominciar fieri à insanguinar le mani. Sostenne il forte Albanico, e con esso Polinados quell'empito gagliardo; Contra à Nabar, e Falisar, che messo Haueano in mezo l'Arabo stendardo, Vedeuasi ondeggiar la gente spesso Innanzi e in dietro, al fin con passo tardo Si ritirar gli Egittij à poco, à poco, Che di gente non era part il gioco. Presero forza gli Arabi di sorte Che la gente d'Egitto in fuga andaua, E molti ne sostennero empia morte Chi men libero il passo ritrouaua La schiera allor seconda con un forte Assalto, che'l bisogno procuraua; Diede soccorso, e fa uoltar la faccia A i fuggitiui, contr' à chi gli caccia. Or, qui si fer gran fatti, per un'hora E più, senza discernerui uantaggio, Ben che gran sangue si spargesse ogn'hora, E che s'aprisse à Caronte il uiaggio Nabar, con uoce, e con fatti rincuora, Gli Arabi, ch'era ualoroso, e saggio; E tra la gente più folta si caccia, Diuidendo da gli huomin teste, e braccia. Da l'altra banda Falisar non meno, Fa, che Nabar si faccia, del nemico, Erasi fitto de la Guerra in seno, Et à Galapidas diede uno ostico Colpo, che'l mandò morto in su'l terreno, Et ogni suo seguace, & ogni amico Fe spauentar poi che lo uider morto; Nè più cercan uendetta di tal torto. In questo instante, hauea Nabar tagliato Anco Al Re Libarisi un braccio netto; Che ne rimase diuita priuato, Non essendo uso portar braccialetto; Del resto andaua sempre bene armato; Dunque fu'l caso sol per suo difetto Morti questi due Re, non potrei dire Quanto gli Arabi ne pigliaro ardire. L'uccision fu d'ogni banda cruda; Pur gli Egittij nel fin dieder le spalle, Del cui sangue la terra e l'aria suda E ne fa lago ogni propinqua ualle. La cruda turba d'ogni pieta nuda, D'umane membra ueste il uicin calle, E nel sangue tuffati in fino à gli occhi, Beato al primo ch'à spogliare un tocchi. Poi, che'l nemico non resiste, e fugge La maggior parte à la rapina intenti, Si diedero à predar, chi ancor mugge Vscendogli lo spirito tra i denti; Altri ancor qua è là, chi fuggè strugge, Ma per la preda carchi, giuan lenti; Non aspettando, ch'altra gente resti, Che l'hauuta uittoria lor molesti. Polinador, che d'un uicin uallone Vide la cruda rotta, diede il segno De i fumi, e la sua gente in ordin pone Con Sanador, e Balisarca degno, E aggiunse per ale al suo squadrone Molti suggiti, facendo ritegno Di quanti puote, per fargli far teste, Poi uscì à battaglia manifesta. Contr'ogni creder de gli Arabi immersi Ne le spoglie de i morti, e ne la molta Superbia, con disordine, e dispersi, Di quà di la giostrando à briglia sciolta, Parue la nouità grande il uedersi In un tratto assaltare, e porre in uolta Dal fier Polinador di Polismagna, Che tristo è quel, che gli dà ne la ra gna. In quel primo apparir n'uccise tanti, Che saria cosa incredibile à dire; Nabar, e Falisar si fero auanti, Lor genti raccogliendo con ardire, Pur fan gli Egittij uendetta di quanti Di lor gli Arabi hauean fatti morire. Se'l fatto d'arme grande fu da prima, Maggior molto fu questo e di più stima. Già francamente l'uno e l'altro campo Contrastaua con dubbio di uittoria, Quando Guerrin, come cel ste lampo Arriuò, per ornar di se l'istoria Con la sua gente, or quì perso è lo scampo, Ormai gli Arabi perdono ogni gloria, Poiche per fianco arriua gente noua La più fiorita, e che meglio si proua. Giunto Guerrin con la fiera asta bassa Infilza il primo Caualier, ch'intoppa Poi con la spada in mano innanzi passa, Con la gente, che dietro gli galoppa, Ognun l'impresa à contrastargli lassa, Nè più difesa fan, ch'al fuoco stoppa; A le nemiche insegne il buon Guerrino, Con la sua spada in man prende il camino. E seco inuita chi lo seguitaua Per forzaaprendo ou'il passo è men buono, Ad ogni colpo al meno un n'atterraua, Nè troua chi resista al crudo suono Tanto, ch'à le bandiere s'appressaua Dè suoi nemici, quando in aria un suono Sali di uoci, soccorso gridando A' le bandiere, e sempre riparando. Corse Nabar tutto confuso in uista, Pensando ou'il disordine sia nato; Ma poi ch' ei seppe la nouella trista Com'un'altro squadrone era arriuato Da l'altra banda, e ch'alcun non resista, Veggendo tutt'il campo sbaragliato: Fecesi innanzi ad affrontar sua guida, S'ei può far sì, che'l suo ualor l'uccida. Ma mirando da presso i colpi crudi Vn'huom sì bene armato, e sì robusto Harebbe uolentier uolti gli studi, Per saluar se, se fusse stato giusto; Ma pur con quegli Arabi manco ignudi (Che gran parte eran disarmati il busto) Il Meschino assalì con grand'ardire; Il qual uoltossi, ueggendol uenire. Così senza por tempo di parole, Si serrarono addosso francamente, L'un con la spada, e l'altro come suole Con una scimitarra assai presente; Ma'l Re del Ciel, ch'indugiar più nõ uuole Ancor che molto il Pagan sia possente, Fe tosto di uittoria Guerrin degno, Contr'à Nabar, com'era il suo disegno. Morto quel Capitan, doue la speme Era fondata de seguaci suoi, Esso perdendo, persero anco insieme Il cor, la scrima, e tutti gli ordin poi; Allora il buõ Guerrin d&etilde;tro urta, e preme, Nè u'è senon chi di lontan l'annoi, Tirano lance, e dardi da lontano; Ma l'offender, che fanno, è tutto uano. Le frezze, che pioueuan' à migliaia Da gli archi uscite, e da robuste braccia; Non fanno sì, che qualche segno appaia Di dãno, ch'oltre à l'armi à Guerrin faccia Sì ch'egli il saettar tiene una baia, Quanti ne giugne uccide, il resto caccia Togliendo i suoi dal suo ualore essempio, Faceuan de'nemici un crudo scempio, Hauea Guerrin sei bandiere atterrate, E messo infuga più di mezo'l campo; Quando fur l'altre genti sbaragliate Mentre, che Falisar, per dare scampo A' le sue genti l'haueà riparate, Dal furor de i tre Re, dal fiero uampo Del Re Polinador, da Balisarca, Da Sanador, ch'innanzi à glialtri uarca. Essendo Falisar dunque à le mani Col buon Polinador mez hora stato, E datisi l'un t'altro colpi strani; Restò pur Falisar poi superato, Perche stordito allargò piedi, e mani D'un colpo, che quel Re gli haueua dato Diegli poi d'urto, e fello andare in terra; Così fornita fu seco la guerra. Fecelo poi menar presto prigione, D'arme spogliato, e priuo d'ogni onore, Da certi mamaluchi, al padiglione, Ch'era tre miglia di quel campo fuore; Gli Arabi posti in gran confusione, Lasciaro il campo al fine al uincitore, E non han cosa, in che meglio si speri. Che lo studiarsi d'esser buon corrieri. Guerrin poi che'l disegno de l'altiera Vittoria, uide in suo fauor riuolta, E del nemico presa ogni bandiera, E quei, che restar uiui, andare in uolta; La preda, di che ricca quel campo era, Lasciolla à i uincitor goder con molta Lor allegrezza; essendo in questo stato, Fugli menato Falisar legato. Fecelo il Re Polinador uenire, Perche Guerrin ne faccia il suo parere; Alqual Guerrino incominciò à dire, O' Falisar, le tue parole altiere, Che ci scriuesti, or ti faran morire, In presentia di tutte le mie schiere, Perche tra loro andò sparsa la uoce, Come tu metter mi uoleui in croce. Io non uò tanto indugiar la tua morte, Nè farti il uituperio, che tu merti; Ma la tua testa mandar uoglio in corte; Con quella di Napar, perche s'accert i Al gran Soldan, ch'io son stato più forte, E acciò che più chiaro io te ne accerti; Ecco quì in punto l'opra manifesta, Ecco quel, che tagliar ti dè la testa, E presentogli un naccherino, assai Più storto, e più mal fatto del suo messo. Dicendo, à fare scorni imparerai; Ilqual gliela tagliò, poiche commesso Da Guerrino gli fu, nè parlò mai Falisar, fin, che morto in terra messo Fu, nè dipoi, com'huom, ch'è senza scusa, Ch'à chi gli parla tien la bocca chiusa. Le due teste mandaronsi al Soldano, Messoui prima dentro molto sale; A'i due Re morti se poi con soprano Onor, fare l'essequie funerale, E fegli imbalsimare, e nel lontano Paese poi portar lor, per segnale De la sua carità uerso gli amici, De lor casi dolendosi infelici. Di quindi il campo fe partir, seguendo Innanzi ad acquistar le ribellate Città, che nominar per nome intendo, Secondo, che da lui furo acquistate, Ne la Petrea Arabia, mettendo Vennero il piè le sue genti armate; Preser Bostra città tra pochi dì, Laquale è presso al monte Sinaì Sol due giornate, e da Bostra arriuaro A'Marlanzone, à Bardona, e Torcassa, E Timalutte con quelle acquistaro, Là doue il fiume Armasolis si passa; Fa questo fiume partimento chiaro, Da l'una parte Arabia Petrea lassa, Caldea da l'altra; e tre città ui sono, I nomi de lequai disotto sono. La prima è doue fece l'alta mole Il superbo Nembrotto, con pensiero Di passar Marte, e Gioue sopra il Sole, E torre al suo Fattor di lor l'impero, Là doue si cangiaro le parole, Prima essendo un linguaggio solo e uero Babillonia la uecchia, posta parte Sù'l Tigre, in Armasolis l'altra parte. Bembribae fu l'altra, e Barlindana, Si resero d'accordo; appresso à queste Molte per far la guerra a più lontana, Non aspettando pur d'esser richieste; Mandaro Ambasciador, per la più piana, A'rendersi al Soldan, poi che fur meste Per forza prese, e tolte al lor Signore, Da l'indomito Arabo, empio furore. Che fur Filanaredo, e Trefa, e doppo Caramaura, e molte seminate Per l'Arabia felice, oue d'intoppo, Hauea dato Guerrino, e già passate Quell'anno innanzi, quasi di galoppo, Che sono intorno à le già nominate Montagne Arabe; poi per altra uia, L'armata riuoltò uerso Soria. E di Giudea, e Palestina parte Soggiogò, e di Licia il Regno insieme, Qual con ingegno, e qual per forza d'arte Di guerra, doue il brauar non si teme; Giunse al fiume Giordano, ou'in disparte, Chiamò tre messi, e con pietosa speme, Mandolli ad Antinisca à raffermare Quant'hauea già promesso d'osseruare. Quiui per sua cagion fe, che'l Soldano, Contento fu di ciò che preso s'era, E dal far guerra ritrasse la mano, E fe fare una pace salda, e uera; In Egitto tornò, doue un soprano Trionfo (ilquale apparecchiato gliera) Fatto gli fu, & à tutta l'armata, Venne incontra il Soldan, fino à Damiata. Vn numero infinito di tesoro, Presentogli Guerrin, c'hauea portato, Et acquistato ne' trionfi loro. D'ogni Regno, ogni terra, & ogni stato; Piacque al Soldan, che poi tutto quell'oro. Fusse tosto à Guerrin riconsegnato, Et egli uolse, ch'à tutta la gente, Che seco fu, si partisse ugualmente. Acquistossi un'amore uniuersale. Poi ch'ei mostrò con sì splendida uoglia, Non esser men, che forte, liberale, Da che di tanto gran tesor si spoglia; Or de la festa fatta, non mi cale Narrar passo per passo, e ch'io mi stoglia Di ciò curar lettor già non ti dei, Perche lasciui fatti ti direi. Poi che'l campo in Egitto fu tornato, E che Guerrin con la gratia di tutti S'era parecchi dì quiui posato; I messi d'Antinisca bene instrutti Di lei, che se gli serba col suo stato, A'Guerrin dieder questi auisi tutti A' bocca, & poi con più segreta norma Di lei per la sua lettera s'informa. Hauea Guerrin grande amistà contratta Col Re Polinadoro, alqual palesa Ogni secreto, e col fidar s'adatta Seco, che gliè fedele in ogni impresa, Dipoi che la certezza gli hebbe fatta De la sua promession d'amore accesa, E ch'ella si douea far Cristiana, Con tutta l'altra gente sua pagana. Venne desio à questo Re gentile Farsi Cristian, considerando certo Esser la fede sua al tutto uile, E nel più modo, che potè, coperto Si fece battezar, fattosi umile, Parendogli uedere il Cielo aperto, Per la ueracità di nostra fede, E per la gran uirtù, ch'in Guerrin uede. Così secretamente seruì poi A'Cristo fedelmente, nè fu sanza Timor, che ciò non sapessero i suoi, Perc'haueua il Soldan troppa possanza. Or per tornar lettori oue già uoi Intendeste di prima la sembianza De le gran feste, lequai terminate Furon le genti d'arme licentiate. Fece il Soldan poi di trenta Signori Vn conseglio real, per trouar uia, Che'l Meschin sia premiato, e che s'onori, Secondo il merto, che si conuenia; Chiamato ei non ui fu, ma stè di fuori, Acciò ch'ognun la sua sententia dia Senza timore, e parli ognun sicuro, I quai consegli in questo modo furo. De la Morea Albanico fu prima, Ch'à la proposta del Soldan rispose Poniam (disse) che sia da fare stima De l'acquistate uittorie dubbiose, Per le cui opre, il uoler porlo in cima, Considerar ci bisogna più cose. La prima, ch'è Cristiano, e non conuiene Il farlo grande, à nostra logge bene. Potrebbe insuperbir di troppa altezza, E per poca cagion poi farci danno, Troppo è l'ingegno, e la sua grã prodezza Ancor che le buone opre, che se n'hanno Non mertassero in cambio poi tristezza; Pur da gli Dei sol tali opre s'hanno, Vogliam dunque patir, ch'egli si uanti, Che dal suo Cristo uenga, e da suoi Santi? Bandirlo sarà buon, ma s'ei si fida, E partesi sdegnato, forse un giorno La fortuna uolubile, & infida, Ce ne potrebbe far' hauere scorno, Però meglio mi par, ch'egli s'uccida, E leuarsi un Cristian simil d'intorno, Leuossi poi il Re Bouoricone, E fu de la medesma opinione. Chi sà (dicendo) che non sia uenuto In queste parti per far tradimento, E, che con qualche Re sia conuenuto, Per seguir qualche loro intendimento? Raffermò Sanador, così l'astuto Re Balisarca, c'han d'inuidia tento Il cor crudel, che non gli par douere, Ch'un sol tanta uirtute debbia hauere. D'Arabia Petra in piè dipoi leuossi Re Calimon nouellamente eletto Dicendo, maggior mal pensar non puossi, Nè fare à gli Dei nostri più dispetto, Iquai per lor pietate essendo mossi, Veggendo il nostro dannoso sospetto, Disser, ch'ei s'eleggesse, nè ci uenne Secondo il dir, che Balisarca tenne. Anzi pensar si deue d'altra sorte, E non come l'inuidia ui fa dire, Che dargli in premio cercate la morte, Non riguardando al suo fedel seruire; Vede Polinador quanto gl'importe, S'ei uuole il suo conseglio differire; Leuossi anco egli in piedi, e così disse Pensando, ch'altri più non contradisse. O'Soldan nobilissimo, la legge Nostra comanda, che non sia tenuta La sua fatica à chi l'opra corregge Fin ch'al termine buon sia peruenuta, Poi che la legge in tai casi ci regge, Et che chi di pagare anche rifiuta Il mercennario, deue esser battuto, Con le uerghette, con aspro saluto. Come suol farsi anco à chi beue uino, Che in una fossa d'acqua poi si getti; Or non e questo il Caualier Guerrino, C'hà riparati i uostri gran difetti, Qual sì grande sciochezza, ò rio destino, Empie di tanta inuidia i uostri petti, Che non sol di tanta opra lo pagate; Ma d'ucciderlo ancor ui consigliate? Deh guardate Signori al grand' amore Ch'egli mostrato u'hà, ueggasi l'opra; Torniui à mente con quanto ualore Metteua quegli Arabi sotto sopra, Guardate che di sopra anche il furore De gli Dei con uendetta non ui copra, Poi che gli hauete già dimenticati, Et siete à tanto bene al tutto ingrato. Leuossi un'altro à questo Re contrario, Che presentò la lettera mandata Da Guerrin, con le teste, in tenor uario Da la lor dignità tanto osseruata, Fu del Soldan questo un referendario Che in seno à posta l'haueua serbata Così la lesse, & il tenor fu questo Che nel seguir ui sarà manifesto. Significhiamo (disse) al Re d'Egitto, E de sette Reami principali, Del suo nemico l'acerbo conflitto, E l'opre fatte per uoi trionfali De l'uno, e l'altro Capitano uitto, Et mandansi le teste per segnali Che'l campo de gli Arabi habbiã distrutto, Godete dunque di nostre opre il frutto. Questo improuiso ben ui dè piacere Molto più, poi che nel nostro partire V'addolareste de le poche schiere Che mi uedeste da l'altre partire; A questo ben potete chiar uedere Che Cristo mio Signor leua l'ardire A chi contra i suo serui l'armi piglia; Ben che non siate de la sua famiglia. Noi dunque seguitiam l'alta uittoria, E ne l'Arabia petra entrar uogliamo, Et far sì, ch'à la uostra somma gloria, Tutti i paesi uicini aggiugniamo Che fia eterna à gli Arabi memoria De la uendetta che per uoi facciamo. E procurando in suo poco fauore, Questo fu de la lettera'l tenore. Sopra laqual parlaro gli auuersarij, Ch'auendo detto Re, e non Soldano Che suona Imperador, non sol contrarij Gli furo à questo, ma fendo Cristiano; Mostrandosi esaltare in modi uarij, Attribuendo ogni alto onor sourano Solda Cristo uenire, e che per questo, Mostraua di sprezzare ogn'altro testo. Et hauea contra à gli Dei lor parlato Onde per questo, & ancor per cagione Ch'era d'hauere il Soldano sprezzato, Meritaua per morte punitione, Sia dunque à morte, disse, condannato Colui che lesse; e su più d'un barone, Che per inuidia raffermaro ancora, Che'l Soldan faccia sì, che Guerrin mora. Allora il Re fedel di Polismagna Mezo adirato, incominciò, Signori, Non uo che senza difesa rimagna La ragion che non cape in uostri cuori, S'egli la morte appresso uoi guadagna, Non hauendo osseruati quegli onori Al nostro Imperador conuenienti, Sopra à questo rispondo, state attenti. Costui, (com'ognun sa) tenni prigione, (D'India sendo uenuto,) ben tre mesi; Non già per assassino, ò per ladrone, Com'i pastor, che glieran contro accesi, M'haueuan data salsa relatione; Che l'offenderon senz'esser offesi Co i cani loro, per falsi guadagni De le sue spoglie, e quelle de compagni. Or come piacque à la sua buona sorte; Anzi al Ciel, che non uolse l'ingiustitia, Fè chel Dio uostro lo campò da morte Per darui aiuto à la guerra propitia; Il rammentar non mi par che glinporte; Ma per mostrar che non scrisse à malitia, Come potea del gran Soldano il degno Titol saper, ditemi à questo segno? Ch'essendo forestiero, & in tre giorni Capitan fatto, e dal Cair partito Per riparare à i nostri graui scorni, Non haueua anche impreso il nostro rito; Or che del nome del suo Dio s'adorni, Fa come franco Caualiero ardito A 'tener la sua fede immaculata, Nè per questo la nostra ha disprezzata. Altro Dio non conosce per signore, Però ricorre à quel, mostrando chiaro Esser uerace, e non simulatore, Sì che frenate il uostro animo auaro; Ci è chi dice per torgli questo onore, Come se n'è senti i più d'un paro Che senz'esso la guerra harebbe uenta, Nè de la sua buon'opra si contenta. Se'l uostro Dio ui disse esser perduto Il tempo, s'un Cristian non pigliauate; Dunque del suo parlar fate rifiuto, Et quel ch'egli ordinò non apprezzate, Nè uede alcun l'error, doue è caduto, Et un ch'è giusto à morte condennate; Se Marte nessun odiar deue, uoi f te Che disprezzato ogni suo detto hauete. E'qui nessun, che si ricordi ancora Da gli Arabì la lettera mandata, Al cui gran minacciar non fu chi fuora Non uscisse di se, sendo ordinata Si poca gente e sbigottiste allora; Ma questo Caualier, ch'auea pensata La cosa ben, con tant'ardir rispose Che l'animo perduto, in cor ui pose. Lassiam le proue di spauento piene Che gli si uider far contr'al nemico, L'ingegno ancor, che lodar si conuiene A chi del bene oprar si troui amico. Ancor se'l uostro dire ho'nteso bene? Il che mi par più d'altra cosa ostico A creder (come dite) ch'egli sia Venuto qui de li Cristiani spia. Quand'egli uien da gli arbori d'Apollo, E pur hieri arriuò d'India minore, Et io molto più chiar de glialtri sollo, C'hò letto de le lettere il tenore, Et come il Prete Ianni già mandollo Incontro a i Cinnamonij in suo fauore, E che campion di Tigliaffa era stato, E fu de i Persian duce pregiato. Fu Capitano lor, contra la rabbia De i Turchi, uostri perfidi nemici; Nè mai si troua che uinto non habbia, E poi lassati queì Signor felici, Ch'egli ha seruiti, e netti d'ogni scabbia De gli auersarij, e fin da le radici Sbarbate le zizanie, il che mai fatto Non ha per guadagnare in nessun'atto. Fauorisce egli la Giustitia sola, Come i salui condotti ne fan fede; Ma uoi Referendario, che la scuola De l'Inuidia seguite, s'ei si crede Il contrario qui d'ogni mia parola, La ragion sempre deue star'in piede; Nè à uoi s'aspetta far giuditio in questo Che presente non siete stato al resto. Lassate dire à chi'l sangue e'l sudore Ci hà messo, e uoi tacete, che uenite A cose fatte, e siete stato in fiore A posar ne le camere pulite, Pero conseglio il nostro alto Signore; Di poi che le ragion sue hà udite Che del douer la mente sua ricopra, E che gli dia ristor secondo l'opra. Però se dar gli uolete ristoro, Io tengo certo che uoi penserete Che non si troui in Egitto tanto Oro Che del merito il paghi, che douete, Et se contra la uoglia di costoro, Per uostro Capitano il fermerete, Glià la persona in tal ualor ridutta, Che ui sommetterà l'Affrica tutta. Et l'Asia appresso, se uoglia ui tira D'esserne imperador, com'hò desio, Et uoi altri Signor lassate l'ira, Se pur u'hauesse offeso il parlar mio. Et se miglior conseglio ancor ui spira Che sia miglior di quel, che ho fatt'io, Sia dichiarato pur, perche mi piace Ch'à l'utile si pensi, e nostra pace. Quiui ognun tacque, ne si fe più segno Di contradire à questo Re cortese; Nè fu nessun, che dimostrasse segno De le parole con ragion riprese, Tacque sempre il Soldã, c'hauea ingegno, Et poi ch'ei uide il uer fatto palese, Fe Guerrin chiamar dentro, e lo raccolse Con grand' onor, com'il debito uolse. Di poi, uolse ch'appresso gli sedesse; Onde Guerrin ch'era uso à quelle cose, Quell'onor rifiutò, nè ui si messe; Ma inginocchiato a i suoi piedi si pose. Fe'l Soldan che di terra si togliesse, Et fattolo seder di poi gli espose Come suo Capitan l'hà confermato Per iscudo, e difesa del suo stato. Ringratiollo Guerrino, & umilmente Gli domandò licentia, e disse come Douea per uoto cercar di che gente Sia nato, e che gli diè l'essere e'l nome, Ripregollo il Soldan pietosamente Mostrando come ha prese graui some Di guerre, è non ben ferme; non di manco Preualse la ragion del guerrier franco. Ma per non esser del seruigio ingrato C'ha riceuuto, insieme gli raccolse Molto tesoro, per segno più grato Di grand'amor, ma Guerrin niente tolse; Vero è, per ch'era male accomodato Di Guide, per camino due ne uolse, E rimandò quell'altre al Prete Ianni Con buon ristor, de i riceuuti affanni. Fegli dar tanto, che n'andar contenti. Et perche al monte Atlante andar uoleua, Per inditio saper de suoi parenti, Nè senza sicurta passar poteua. Volse un saluo condotto per le genti, Doue il Soldan la signoria teneua, Et le Guide eran dotte de la uia, E del parlar, per fino in Barbaria. In capo di tre dì tolse licenza. Non senza dispiacer d'assai baroni: Dolse a Polinador la sua partenza, Et in segreto fè molti sermoni Seco, sopra'l fondar de la scienza De la Cristiana fe, poi certi doni Tolse Guerrin da questo buon Re saggio, Che uide hauer bisogno pel uiaggio. Ma prima seppe del crudo conseglio Tutto il tenor da esso, per ch'ei possa Guardarsi de l'insidie molto meglio, Poi con gran comitiua fece mossa Ch'ogni giouin signor gli fece, e ueglio Compagnia, fino al Nil doue una grossa Naue era apparecchiata, e sù montouui; Ne l'altro canto ou'ando seguirouui.

IL FINE DEL CANTO VENTESIMO. Cc 2

ECco ch'io torno, alto Signor, pur doue La mia temerità mi sprona, come Fussero i merti miei degni di proue, D'ornarsi del tuo sacro santo nome; Mase speranza à questo pur mi moue, So ch'ancor che color mutin le chiome; Debbo sperar, che con tè mai si perde, Però che la tua gratia è sempre uerde. Io spero, ancor che'l mio camin sia longo Che la tua destra mel farà men forte; Però di nouo à seguitar mi pongo, Accio che'l tutto non ne meni morte, Mentre che ancora il bõ meschin raggiõgo Che nauica pel Nil, poi che la sorte Sua buona, già de l'India l'hà cauato Dal crudo stuol de i Re pagani ingrato. Nauica per lo Nil, uerso la degna D'Alessandria città, ma ne le sponde Del fiume, prima che à tal citt à uegna, Molte uille e palazzi trouò, donde Trasse molto piacer, quiui s'ingegna; (Perche'l camino tal uolta confonde) Saper da le sue guide à bocca ancora Quanto di Libia il mar lontan dimora. Del lito, oue noi siam, di terra fassi Disser le Guide, dal mar del sabbione Dugento miglia, dou'abita e uassi Secondo che conuiene à le persone; Quel, ch'è in abitato, e steril stassi Cento gran miglia di spatio si pone, Il cui paese serra in se l'Egitto, Come fa l'altro, che ui sarà ditto. Euui la Region di Media posta, Et Europa libis; e quell'anco Di Dragondasca, e Libiconia accosta, Che stan de le montagne quasi al fianco; Le quai montagne, ancor che faccian sosta Al mar renoso, e lo rendano stanco, Son queste region da lor difese, Meze perdute, e son tristo paese. Altre cose narrar le guide tutte Di tai paesi, e d'ogni sua cittade; Quai noue, & quali da i tempi distrutte, Che i nomi poco qui narrare accade, Che quelle genti, che ne sono instrutte, Sarien confuse, per la uarietade De i nomi lor, non sol chi ne sà meno, Ch'assai poco costrutto ne trarrieno. Non mancherò già dir passo per passo, Che Guerrin fece in questo suo uiaggio, Sì, ch'assai so, se i suoi fatti non lasso, Che ci sarà da dir ben di uantaggio; Ora nel fin del Nilo in sù'l mar passo, Doue Guerrino ha fatto anco passaggio, E giunto in Alessandria al camin dritto, Che l'ha scoperta sopra al mar d'Egitto. Nel primo ramo, ou'il fiume è diuiso, E nel secondo à cento migl'a appresso Damiata uien, uerso Asia per auiso, Che'l Nilo in otto parti mostra spesso Isole sparte, e uien da lor deciso; Dipoi che in tanti rami resta fesso, E cade in mar con otto capi poi; Restan dunque in tal modo i termin suoi. Di Francia, Spagna, e Prouenza mercanti Vide Guerrino, e di Cicilia, e molti D'Alemagna, e d'Italia con tanti Forestieri in tal terra esser raccolti, E tanti passaggieri, e uiandanti D'abiti uarij, d'effigie, e di uolti, Ch'assai gli piacque, massime i Cristiani, Che u'eran Franchi, Grechi, e Italiani. Son gente i paesani dissoluta, Senza fren di ragione, e disonesti; La terra è tutta in plano conuenuta, Non molto grande, ben ch'adorna resti Di borghi in torno, ne la qual si muta Vno Ammiraglio, per domar gl'infesti Saracin del paese, perche fanno A'i forestier quanto più posson, danno. Son la notte i Cristian tutti serrati In una strada per più sicurezza, Però che molto son perseguitati Da quella gente, ch'ogni fede sprezza, E n'han di notte più uolte ammazzati, Prima che si ponessero in fortezza; Tra quai trouò Guerrin, ch'era Epidonio Già suo compagno, e figliuol d'Enidonio. Questo Enidonio, se l'hauete à mente, Fu quel mercante, che diede il Meschino Ad Alessandro, e fegline presente, Che già compro l'hauea da piccolino; Epidonio fu'l figlio, che souente Insieme s'alleuaro, ù Costantino Mutò'l nome à Bizantio, or son trouati Insieme quiui, e molto accarezzati. I dolci prieghi con fraterno amore Epidonio gliusò, quai si conuiene Vsare à chi suol'amarsi di core, Et à chi in sommo credito si tiene De la sera passar gran parte l'hore, Nel ragionar com'in tai casi auiene, Di Grecia intesi i fatti; il Meschin poi, Narrò per ordin'i uiaggi suoi. E di quel, ch'egli allor cercando andaua, Da gli arbori del Sol saputo ha solo Di sua generation, ch'egli cercaua, Ch'era Cristiano, e di Cristian figliuolo, E di sangue Reale, e non portaua Altro inditio, se non affanno, e duolo, Ma ben ch'era due uolte battezato, E ch'in Ponente Apol l'hauea mandato. Però seguì, ch'andare hauea pensiero In Europa, e se in tanto auenisse, Che di Costantinopoli l'impero Sia molestato, e'l Turco l'assalisse, Ch'in Ponente si mandi, e di leggiero Potrà uenirui, & appresso poi scrisse Vna lettera al degno Imperadore, Et al figlio Alessandro suo Signore. Scrisse il uiaggio particolarmente Con le guerre, e per chi fatte l'hauea, Dando notitia d'ogni strana gente, D'ogni animal, ch'in mente ritenea, E come in Europa ora al presente Vuole ir tirato, là doue credea Sapere à pieno, e ritrouar conseglio, Che per trouare il padre suo sia meglio. Soggiunse appresso, quell offerte à ponto, Ch'à bocca ad Epidonio fece prima, Et al giouin la diede; ma lui conto Di suolgerlo hauea fatto, con istima Di porre una sua naue tosto in ponto, E trascorrendo da i piedi à la cima, I disagi, i pericoli, e gliaffanni Volea fargli por fine à tanti danni. Et in Costantinopoli dicendo Quant'era amato, e che tornar doue a A'goder con ragion, però ch'essendo Quiui nutrito, gli si richiedea Al cui rammemorar quasi piangendo Il buon Meschino ascoltato l'hauea; Ma pargli assai mãcar s'ei manca in questo Non cercando Ponente, come il resto. Niente fatto harei (disse) e sarebbe Persa'ogni mia fatica s'io restassi, Di cercar'anco, e mi s'imputerebbe, Come s'io de la fe propria mancassi; Ne riposo pigliar mi conuerrebbe, Però, che s'altro inditio non trouassi, Del proprio sangue, non mi godereste, Che sempre afflitto star poi mi uedreste. Piacciaui dunque per mio amor far tanto, Che gli amici per me dien preghi à Dio, Che col suo proueder pietoso, e santo Mi faccia ritrouare il padre mio, Che se non basta il mondo tutto quanto, Nel centro andrò, se tanto può il desio, Per ritrouar la mia generatione, Com'il debito uuole, e la ragione. Enidomio, che'l uide duro à quello, Che uietar non potè, non fe disdetta; Ma gli promise più che da fratello, E fare esser sua scusa à tutti accetta, E di raccomandarlo à questo, e quello Amico, come à un fratel s'aspetta; Così'l Meschin lasciollo, & à seguire Per il camin, là doue hauea desire. D'Alessandria partì mouendo i passi Con le due guide, uerso Libia uolto; Benche per tal camin mal ui si passi, S'era di quiui in Africa risolto Passar; ma ben narrare il tutto fassi Da le due guide, e fu molto distolto Da lor, mostrando il pericolo aperto, E, che u'è grande ispatio di diserto. Disser de i crudi, e uelenosi toschi, De feroci animai le spetie loro, Ch'abitan per li fiumi, e per li boschi, Tutti atti à dar di morte aspro martoro, E prima, ch'in camin tal si conoschi Terra abitata per uman lauoro, Trecento miglia u'è di strada rea, E mal passar poteuano in Morea. Meglio è (disser) per mare, e più sicura Parte, da tai pericoli, e sì strani; A'me (disse Guerrino) il porui cura, Non si conuien, quand'il mar più lontani Paesi, spesso per fortuna dura, Ne fa cercar, nè ual menar le mani, Spesso inghiottisce altrui, nè ual difesa Sì, ch'io uo prima la terrestre impresa. Già mi ricordo, che quand'io partij Per andar dritto à l'Isola Blabana, Quarantacinque dì l'ira patij Del mare, e fu pur cosa molta strana; Quando fra tanto tempo dir sentij, Cinquanta miglia sole esser lontana L'Isola, donde facemmo partita, E fur tolti quei giorni à la mia uita. Dunque (disse à le guide) mi guidate Per terra, doue s'adopera la spada E del mare il pensiero andar lasciate, E sia quanto uuol' aspra la contrada; (Disser le guide) se ciò desiate, Noi sappiam ben per terra anco la strada, E guiderenui per la più sicura; Ma non però senza nostra paura. Di trè dì già passata una semmana, Trottando innanzi, giunsero à la fine, Sopra il gran Lago di Meridiana; Ne le cui riue sopra due colline Vn forte, e bel Castello, e di soprana Vista, ui siede, e ne le sue uicine Parti alloggiaro, & à posarsi attese, Il Meschino con certi del paese. Da quali intese, che quiui è d'Egitto, Et Lenoica insieme, ultima parte, E che dugento miglia à quel diritto, Vn lago u'è, là doue era per arte Vmana, una città, che dal conflitto, Alta à saluarsi, è fatta, oue di Marte, Non solo à i mouimenti aspri resiste; Mal a furor de le fiere orride, e triste. Maratis tal cittate è nominata Sopra un lago copioso di ueleni; Fontesolis chiamato, e circondata E'da deserti, e boschi, che son pieni D'orribili animali, ù principiata Libia deserta uien da quei terreni, Ilqual'è un braccio, che poi più lontano Risponde, e giugne nel mar'Oceano. Tra la Morea, & Alessandria uiene E quiui è doue già Lucano scrisse, Che Catone passò, s'ho inteso bene, O s'egli il uer di questa parte disse, Ghiacciata tutt'il giorno si mantiene, Come se caldo alcun mai non sentisse; La notte poi bollir si uede, e sente, Questo gran lago, e si mantien cocente, Vn'altra città u'è poi più di sotto, Chiamasi Amontes, che tra l'altra, e questa Dal monte Grasmos, e'l camino rotto Cento miglia dal mare il lago resta Lontano, à chi è del paese dotto, Vna città sù'l mar poi u'è contesta (Et quiui è di Morea la prima parte) Buona per la natura, e più per l'arte. Chiamasi Porto Peronas, dal quale Et Alessandria son miglia trecento, Ben che tra l'una, e l'altra u'è segnale, D'altri porti, e non han prouedimento D'alcuna abitation, perilche male, Chi nauica può farui fondamento; Questo auiso al Meschin le guide diero, E color del castel fede ne fero. L'altra mattina, à lo spuntar del giorno, Del bisogno prouisti al uiuer loro; Egli con le sue guide caualcorno Senza più di roposo tor ristoro Nel mezo dì andando al lago intorno Rumor sentiro orribile, e sonoro Dai Pastor causato del paese, Ch'usauano per fuga le difese. Da gran frotte assaliti di leoni, Nè per fuggir sarebbero campati Da i fieri morsi loro, e da gli unghioni, Perch'erano in amore, e infuriati; Ma da le Donne, ch'à simil cagioni; I pastor seco tran, fur rifrenati, Fuggonsi da le donne gli animali, Nè fanno maì di nuocer lor segnali. L'inuitto animo lor, la uirtù casta, Gli fa temer di uincer cosa uile, Sì che la Donna à rifrenargli basta, Che natura lor par molle, & umile, E perche l'ordin tra lor non si guasta, Per tener saldo l'onorato stile, S'alcun lor leoncin pur cerca opporsi, Caccianlo al bosco, con graffi, e co i morsi. Poi che i pastori si uider sicuri, E che Guerrin si fece lor uicino, Volentieri il menaro à i lor tuguri, Quantunque non u'hauesser pane, ò uino, Per rinfrescarlo, ma di latti puri, E secondo'l costume del domino, Di carne, e gran bollito fergli onore, Perche pasto non fan quiui migliore. Co i pastori alloggiaron quella sera. E per ristor de la lor cortesia, Il buon Guerrino, che ingrato non era Poi la mattina nel seguir la uia, Diè lor molta moneta; ma la uera Intentione, e la lor fantasia, Non era di tal cosa, esser pagati, E così dal Meschin furon lasciati. A'la sinistra man piegaro i passi, E per sei dì passarono il diserto, Che già passò Catone, & eran lassi, Perch'eran' alloggiati a lo scoperto, E caminati tra burroni, e sassi, Veggendo sempre il pericolo aperto, E ben trouaron leoni, e serpenti; Ma non cercaron nuocergli altrimenti. D'Auena la città sù'l mar trouaro, In capo à sette dì, che ha un porto Sù'l mar di Maselonia, degno e raro; Quiui riposo presero, e conforto Del già passato lor camino amaro; Informossi Guerrin, com'huomo accorto Di quei paesi, e di tal parte ancora, Ch'Africa è detta, fauellando ogn'hora. Dangli inditio le guide, come esperti, Quant'Africa circonda, e come quella Parte passati, di là da i deserti, Et il mar Libicano, era la bella Grecia à rimpetto loro, e ne gli aperti Di Tramontana, era l'Italia anch'ella, E di Cicilia l'Isola u'è posta, Et Corsica, e Sardigna ancora accosta, Segue Prouenza, Francia, e l'Aragona, Il golfo di Liscante, e segue Spagna, Il Regno di Granata, e doue suona Lo stretto ancor, che l'Inghilterra bagna, Et ogni Isola, e terra degna e buona, Con ciascun lito, che poi s'accompagna Con Europa uerso quella banda, Oue più par, che l'Africa si spanda. Guerrino poi che tanta roba intese, Tante città nomar, e tanti Regni, E douendo ei cercare ogni paese Già nominato; con nuoui dissegni A'predicare à le sue guide prese, E mostrò lor per euidenti segni, Ch'è male à creder, che Macon sia tale, Ch'ei sia appresso à Dio fatto immortale. E narrò lor, com'egli fu Cristiano, E Cardinale, e per isdegno preso D'un beneficio, si fece Pagano, E per meglio sfogar l'animo acceso, Si pose à predicare il rito strano, Che poi da i Turchi è stato sempre atteso; Ma s'egli disse questo di Macone Lettore, io n'ho contraria opinione. Penso, che l'autor, che questo scrisse, Male informato fusse di tal fatto, E potrebbe esser'anco, ch'io fallisse Perch'io non fo già di giurarlo patto, Dirò ben, ch'altri in altro modo disse, E quel, che m'ha per farlo noto tratto, E', ch'à chi sono l'altrui istorie amiche, Non tenga perse quì le mie fatiche. Perch'altri dice esser d'Arabia nato, Di sangue oscuro, e d'essercitio uile, Non dimeno d'ingegno rileuato, E di giuditio profondo, e sottile, E l'andar co i camelli era il suo stato; Nel cui tempo in Egitto hauean lo stile E la uita Cristiana, e fu lasciata, Dopo la costui uita scelerata. Però che dicon, che una, di molte Volte, passando per certo diserto D'Arabia com'era uso l'altre uolte; Dio per mostrare un'infinito merto, Quiui doue eran l'oration raccolte; D'un deuoto Eremita, fece aperto Per il miracol, che sotto fia detto, Quant'esser grande douea Macometto. Vna piccola porta, ch'era entrata D'una Cappella, ou'il Romito staua, Ch'appena era capace à la passata D'un huom, quando n'usciua, ò che uũtraua; A l'entrar di Macon fu allargata; Quest' è quanto d'inditio se ne caua, Ben che, per confermar queste ragioni, Possono addurne magri testimoni. Per questa autoritade, e perch'in uero Fu scaltro, crebbe in credito maggiore, E acquistò ricchezze di leggiero, Tanto, ch'al fin fu poi gouernatore; Doue di Corondaria hauea l'Impero La principal Cittate, il cui Signore Poi morto, fugli data la sua moglie Per donna, e s'arricchì de l'altrui spoglie. Ma, perche poi si dolse la mogliere D'hauerlo preso, e di chi glielo diede, Però che spesso egli solea cadere Del brutto male, alquale ogn'altro cede, Vsò l'astutia, che douea parere Sciocchezza à chi le sciocchezze nò crede, Disse à la moglie, che'l cader sì spesso Era per sua bontà da Dio permesso. E ogni uolta, ch'ella uedrà quello Disse, che ringratiar douesse Dio, Perch'ei mandaua dal fanto drappello, Per emendar qualche peccato rio, A parlar seco l'Angel Gabriello; E concludendo (disse) harei desio Di star sempre così, che questo male Non è (come son glialtri,) egli mortale. Nè si conuien, che la presente uita Di tanto ben partecipi, e per questo Dal senso uman fa l'anima partita, Che sarebbe à corromper'il ben presto; Onde fe che la Donna scimunita, Diè fede à tutto questo, e diella al resto De l'altre falsità, uiuendo lieta, Poi ch'era detta moglie del profeta. Ma, per narrar le più chiare ragioni, E per serrare il passo à i morsi crudi; Di quelli, che co i denti, e con gli unghioni Cercan laniare i Cristiani studi; Dirò quel che da ueri testimoni Traggo, senza più ch'altri indarno sudi A cercar di Macon l'origin uera, Che fu del centro un'orribil chimera. Ne la felice Arabia nacque l'empio, Ne la Città di Mecha, e fu figliuolo D'un Cittadin de i primi, che nel tempio Di Mecha, un'Idolo adoraua solo Con tutta la Cittate, il cui essempio, Noue fratelli suoi, con l'altro stuolo Seguiuan, e sol due moriron Mori. D'undici, ch'eran, ma non già migliori. Di Macometto il padre prima morto Fù, ch'ei nascesse, e la madre poi nato, Visse due anni soli, & à gran torto, Fu quest'huomo peruerso nutricato, Da una sua Nutrice fino al porto Di sedici anni, e per l'indiauolato Suo ingegno, poi crescendo uenne tale, Ch'alcun d'astutia allor non gliera uguale. Noue zij (com'ho detto) capitali Nemici, poi gli furo, non seguendo Il suo uolere, e tra lor molti mali Seguiro con aperto Marte orrendo. Qui mi si potria dir, con quai segnali Concludi quel, che se ito dicendo Di sopra, che non par che ben s'affronti, Che molto uario modo à quel racconti. Et io rispondo, che l'opinioni D'altri racconto, ma questo è ben uero Ch'innanzi à le predette fattioni Di mercatante egli segui'l mestiero, Che co i Camelli in molte regioni Andò, e puossi creder di leggiero Che lo menaua un mercante famoso, D'una cugina sua fratello, e sposo. E questo cominciò di sedici anni, E poi ch'ei n'hebbe uenticinque, morse Questo mercante, ond'ei ueggendo i danni, Che del suo molto hauer gli cadean forse; La cugina sposò, di qui gli'nganni Contra à suoi cominciò, che di poi corse Con l'astutia sua perfida, à seguire Quel c'ha fatte tant'anime perire. Perche tra gente roza la sua noua Fede, si pose à predicar di sorte Che per la faciltà, che ui si troua, Molti lo fauoriro in sino à morte, E con chi contradiua, uenne in proua De l'armi, e riusciuui molto forte; Hebbe in ciò sette Capitani suoi Seguaci, ch'ampliar gliordini poi. E però trouo, che di Macometto, A le guide Guerrin disse la uita; Nel modo, che nel fin di sopra ho detto. Per ridurle à la fede sua gradita, E per mostrar de'Pagani il difetto; Nè qui restò la diceria fornita, Ma lor narrò appresso la cagione Perche uietasse il uino à le persone. Molte altre cose fatte similmente Ne la sua uita lor narrò, sì come, Con grand'astutia gabbaua la gente, Per'acquistarsi di Profeta il nome, Disse de gli Idolatri d'Oriente, Che credono in el Sol, che per cognome Chiamasi Apol, gli dierõ &qtilde;l uãtaggio, Ch'ũ tal tra gli huomin grossi fu'l più saggio. L'altro fu Belzebù, questo fu quello Ch'in Niniue adorar ui fece Nino, Che fu suo padre, chiamato Re bello, Sopra'l qual uenne, per uoler Diuino Poi tante mosche, che non sol uedello; Ma non poteua starsi in quel confino, Però disse à le Guide, or ui uoltate Al creator de le cose create. Vno Dio uero in Trinitade eterna Senza corruttion degno, e uerace; Quel si deue adorar, che ci gouerna, E uenne in terrasol per darci pace, E liberarci da la ualle inferna; Vmile, & mansueto, e non audace, E che per noi patì morte uillana E però prese in terra carne umana. Fecelo per mostrar che si doueua Per la uia dirizzar, che già tant'anni, Sol per adorar gli Idoli s'haueua L'huom messo de Demoni negli'nganni, Perche enumerare i buon uoleua, E del Ciel riempir gli etterni scanni, Che i seguaci lasciar di Lucibello Per più sua doglia, e maggior suo flagello. E disse de miracoli, e di tanti Segni, e de morti già resuscitati, E de Vangeli scritti da suoi santi Che furo sempre per ueri approuati, E prouo lor la ueritade in quanti Modi si può prouar, che son dannati A non credere in Cristo, che si uede Quant'è uan dare à l'altre ciance fede. E seguitò con quelle altre parole, Di feruente desire & uoglia accese; Per fargli credere al rettor del Sole, Per più dì, che passar molto paese. Ma l'indurata lor mente non uuole Che sue parole sien con frutto spese, Così col lor proposito ostinato, Hauean di Libia il deserto passato. A la Città di Mescla fer posata Per tre dì, qui la lettra del Soldano Che'da Guerrin ui fu appresentata; Fu ubbidita, con animo umano. Buon camin per due dì, poi che lassata Hebbero la Città, trouaro e piano Sù la riua del mar, doue eran molti Pastori, à pascolare il gregge accolti. Indi à due dì sentiro un gran romore Ne la marina spiaggia, e i paesani Fatto l'hauean con impeto e furore, Contr'una naue rotta di Cristiani; Ma una de le guide per timore Che non uoltasser sopra lor le mani, Fecesi innanzi accennando con mano, Che messi eran mandati dal Soldano. Ma pure ò per sospetto, ò per trouarsi Da l'impeto acciecati, ò non hauere Intesa la proposta, furo scarsi I suoi disegni, perche rimanere Morto gli bisognò, ueggendo farsi Allor Guerrino tanto dispiacere, Strinse la lancia, e'l forte scudo al braccio, Per dar lor di tal morte un'aspro impaccio. L'altra guida gridò non far non fare, Che questi del Soldan son sottoposti; Poi contr'à lor cominciò à gridare, Allor che meglio gli furono accosti, E il saluo condotto à presentare Gli cominciò, di che color disposti Ad obbedirlo, si scusaro assai D'hauer quel fatto, che non soglion mai. Guerrino si fe dir, per qual cagione Vien, c'han con tal furor l'arme pigliata, E da che nasca questa lor quistione, Fugli risposto, per ch'era arriuata Per fortuna una naue sù'l sabbione Di quella spiaggia, & era fracassata, E che correuan per far preda à quella, Poi che mandata gliè da la procella. Perche quell'era di Cristiane gentì Che tutti morti son, da uno in fuore, Che è sommerso in mar già fin'à i denti; Nè si uuol dar per forza, ò per amore, Nè sol combatte contr'à l'acque e i uenti; Ma si difende con molto uigore, Contr'al gran saettar che gli facciamo, Nè hauer onore ancor di lui possiamo. Già quattro, ò sei ch' à nuoto s'eron posti, Per pigliarlo n'ha morti con la spada, Sì ch'or d'hauerlo uiuo sian disposti, Accio di questo impunito non uada, Disse Guerrino allor'ognun si scosti, Che quì tempo non è di star à bada; Fecesi innanzi per saper il uero, E uide in mez'all onde il Caualiero. Vidi'l miser, ch'un legno hauea per seggio De la naue ricisa, e si schermiua Da l'onde, e sempre temeua di peggio, Ch'ognuno à i danni suo franco ueniua; Dicea Guerrin'allor, ch'è quel ch'io ueggio Gente d'ogni intelletto e ragion priua? Come di tanto error non hai uergogna D'opprimer un ch'aiuto gli bisogna? S'egli ha de uostri morti, per difesa, Nè s'ha tenute le sue mani al fianco, Tanto più or la sua morte mi pesa, Perch'egli ha fatto da Caualiero franco; Allor la gente di furore accesa, Accio, che'l pensier lor non resti bianco; Guerrino minacciar di mala sorte, Cominciando à parlar di dargli morte. Spinge allora il caual, che l'inuitaro Al giuoco, ch'e gli era uso, e diede drento; Ma quelli mascalzoni il circundaro, Pensando dargli di morte tormento; Or tant'ardir ben gli costaro amaro, Che n'ammazzò forse trenta di cento, O più, e pose in rotta quei restati, Che sparsi'si fuggir da tutti i lati. Poi ch'altri à contrastar non u'era, uenne Doue era il Caualier ne l'acqua inuolto, Nè per pietà di pianger si ritenne, Pensando al gran pericol, ch'era inuolto, E parte à se, che mai fortuna il tenne Da l'insidie sue crude, un giorno assolto, E chiamollo à la riua, e degli aita, Con quanto può rimedio à la sua uita. Pensando il Caualiero esser prigione, Disse, io ringratio Dio, poi ch'io mi ueggio Prigion d'un Cauàlier di discretione, Per uoi dunque la uita tener deggio, Quant' à uoi par; dite pur la cagione (Disse Guerrin) nè temete di peggio, Che quì mandato u'ha, e chi uoi siete, Perche d' altri, che uostro non sarete, Diss'egli, io son Cristiano, e'l mio camino, Era al Santo Sepolcro, e son chiamato Nel mio paese messer Dinoino, Ch'è in Ponente, & è Regno pregiato, Vicino à Francia, che stende il confino Con terra ferma, e fu già nominato Brettagna, che fu poi detta Inghilterra, Isola è, perche'l mar la cinge, e serra. Norgales la cittade, e patria mia Si chiama; e poi che Guerrin glihebbe detto D'adorar Cristo figliuol di Maria, Tosto da lui partissi ogni sospetto, E disse, come al Sepolcro ne gia; Ma fu impedito, per il gran difetto De i Nauiganti, e per loro è sommersa La naue con la gente insieme persa. Tre uoltè la borasca procellosa, Minacciò quella naue, e due saluossi, Per l'oration, che si facea pietosa; Ma non sì presto la gratia acquistossi, Che i marinari scordato ogni cosa, Al bestemmiar furon presto rimossi, Disgratiando nel giuoco, che gliè schermo Dio, e la Madre, e'l pietoso Sant'Ermo. Gittaro in mare un Pellegrin deuoto, Per hauerli ripresi, nè stè guari, Che pria la calma, e'l tempestoso noto, Poi diè che far gran pezzo à i marinari, Il mare al fin con un subito moto, Ruppe il timon, che la teneua pari, E ne le spiagge, che uedi uicine, Sbattella si, che fe del resto al fine. In questo ragionar senton lontano Di gente gran romor, che facea testa D'ogni monte correndo, e d'ogni piano Che uengon de'fuggiti à la richiesta Disse Guerrino, ò Caualier sourano Per noi si pone in ordin questa festa, Però quì ci conuien mostrarci franchi, Nè tenersi per or le mani à i fianchi. L'esser senza cauallo, e male armato, Rispose il Caualier, sarà cagione Ch'io ui farò poco profitto a lato, Pur'io m'aiterò così pedone. A questo sarà tosto riparato, Disse Guerrino, e gliè quì un ronzone D'una mia guida, che lor m'hanno morta, Che sarà nel bisogno buona scorta. Toltolo, il Caualier ui salì sopra, Ch'era uso armato star sopra la naue, Però non fu bisogno di molt'opra Per farsi innanzi à la battaglia graue, Và tutto quel paese sottosopra; La Guida poi che'l tutto ueduto haue, Disse à Guerrin, ch'aueua fatto errore, A concitare un così gran furore. E ch'era pregiuditio del Soldano, Però non esser tenuto à seguirlo. I primi furon'essi à por la mano Sopra la guida, e non è da patirlo, Disse Guerrin, sì che tu parli in uano, Non si curò la guida più d'udirlo; Ma uolto il passo ritornossi à drieto Il capo rimenando, e stando queto. Poca cura hebbe Guerrino di questo, Attendendo à la gente, che ueniua Con archi, e lance, e senz'ardir del resto, Come gente, che mangia, perch'è uiua, Giunse Guerrino à dar dentro più presto, Però che'l suo caual meglio il sentiua, E con certi à caual diede d'intoppo, Che prima à glialtri uenner di galoppo. Vccise il primo con la lancia bassa, E diè luogo al secondo à morir' anco Il terzo, e'l quarto, e dopo il quinto passa Nel modo, ch'ei suol far gagliardo, e franco E messer Dinoino ardito lassa, Ilquale, ancor che dal mar fusse stanco, Faceua con la spapa opre stupende, Ad ogni colpo un Caualier distende. La calca ogn'or si facea più folta, Onde Guerrin luogo fermo non tiene, Per non si fare addosso la raccotta, Consuma, chi più cerca dargli pene, Per ueder del compagno à dietro uolta La fronte, e s'egli si portaua bene, Videl ferir con tanta forza, & arte, Che bene il giudicò Campion di Marte. Rallegrossi aspettandolo, facendo Sempre sentir la ben temprata spada, Il romor de la gente era stupendo, Et intronaua tutta la contrada; Con messer Dinoino unito essendo Si cominciaro à far dar larga strada; Era la zuffa à i piè d'una montagna Cinta da grande spatio di campagna. Sopra laqual montagna uider posti Due castelli assai forti, donde usciro Molti huomin meglio armati, e più disposti Ch'erano usciti al romor, che sentiro; Quì ben bisognerà, ch'altri s'arrosti (Disse Guerrin) uolgendo gliocchi in giro, Per ueder doue il ritirarsi è meglio, Perche forza non ual senza conseglio. A'messer Dinoin, disse, non posso Giudicar come uccider mai possiamo Qui tanta gente, che ci uiene addosso, Però che quella, che calar uediamo Molto forte squadron mi pare, e grosso Disse il Guerrier, poi ch'à morir'habbiamo A'noi fare ogni sforzo in ciò s'aspetta, Acciò che non moriam senza uendetta. Disse Guerrino, al nome sia di Dio, Assai mi piace il uostro animo inuitto, Poi che mostrate hauer sì buon disio, Vengane tutta Libia, e tutto Egitto, Ch'io non mi partirò da l'ordin mio, E tenendo il pensier uerso lor dritto, Vider la gente, di che hauean timore, Riuoltarglisi tutta in lor fauore. Non sì tosto calò la gente il monte, Che diede addosso à la turba bestiale; Allora il buon Guerrin, con le man gionte, Gratie rendendo al Re Celestiale, Voltò con tant' ardir l'arme, e la fronte, Che mai forza à la sua fu uista uguale; E messer Dinoin faceua cose, Da giudicarle ognun merauigliose. Il Capitan di quei de le castella, Che Guerrin uede da lontan ferire, Stupisce, e tra se stesso ne fauella Dicendo, Marte è uoluto uenire Oggi in nostro fauor sopra la sella; Ilche diede à sua gente tanto ardire, Che poser tutta in rotta da quel canto, La gente, ch'abondata u'era tanto. Da l'altra banda uccisi n'ha'l Meschino, Tanti, che sbigottiti glialtri uanno Di quà di là cercando quel camino, Che gli può sicurar con manco danno, Gran cose ha fatte messer Dinoino, Ancor che fusse carico d'affanno; Tanto che dal pericol furo sciolti, Che poco fa s'eran trouati inuolti. Poscia, che non restaro altri contrasti, A'messer Dinoino Guerrin disse; Or che fuor de l'impaccio siam rimasti, A'me parrebbe, ch'altri si partisse; Rispose il Caualier, non par, che basti Quinci partir, se pria non si uenisse A'render gratie à chi n'ha dato aita, Che ingratitudin sarebbe infinita. Guerrino, che tentar uolea se gliera Di quella nobiltà dentro, che stato Gli parue à l'opre, e mostraua à la cera Mostrò senz'altro uoler tor comiato; Ma poi, ch'ei uide sua nobiltà uera Paruegli un buon fratello hauer trouato, E disse, poi che tal parere hauete, Esser'altro, che nobil non potete. E così passo passo s'inuiaro, Per sodisfare il debito, e sapere, Chi ha lor fatto seruitio sì raro; Ma come quèsto uider quelle schiere Pian piano uerso il monte si tiraro Per esser più sicuri, e per uedere Di non restare in qualche inganno inuolti, Perche forse altre uolte ui fur colti. Ma più de glialtri, un Caualier sourano, Che di tutti esser mostrà capo, e guida, Calò giù uerso loro appresso al piano, E disse à i caualier, chi non si fida Con amicheuol uista, pare strano Starsi al uoler de la fortuna infida; Però ui domandiam, pria che sagliate Il monte, chi uoi siete, e che cercate? Noi (Guerrin disse) Caualier cortese, Come amici ueniam, se ci uolete, Et uenuti siam qui di stran paese; Ma per l'aiuto, che dato n'hauete Veniam, perche da noi ui sieno rese Quelle debite gratie, che douete Hauere, & proferirci anco per uoi, Se'l contracambio dar ui possiam noi. Sotto il saluo condotto del Soldano (Che d'Egitto uengh'io) fummo assaltati, Però, che del Soldan fui Capitano, I premij questi son, che mi son dati, Poich'io l'ho tratto d'ogni caso strano, E con l'aiuto del mio Dio cacciati I suoi nemici; or costor senza fede Mi dan del mio seruir questa mercede. Tutto il successo poi per ordin disse, Del suo uiaggio ancor succintamente, Finito c'hebbe, il Caualier si misse La sua uita à narrar, fin'al presente; Poi la cagion, perche quelli assalisse In suo fauor, con quell'armata gente; Ma non posso per or seguitar tanto, Però mi serbo à dirlo à l'altro Canto.

IL FINE DEL CANTO
VENTESIMOPRIMO.

S'Io leggo, e scriuo tanti essempi rari, Mostrati à i tuoi Cristiã benigna madre Per campagne, città, per uille, e mari, Tant'opre pellegrine, alte, e leggiadre, Che per mezo di Cristo eterno impari A'quei, che son de le Cristiane squadre; A'chi debbo ricorrer con man gionte, Se non à te, d'ogni gratia alma, e fonte? A'uoi, ch'ad ascoltar pur ritornate La bella istoria, io già ritorno à dire, Là doue le parole cominciate Fur da quel Capitan pieno d'ardire, A'Guerrino, e'l compagno, or m'ascoltate (Diss'egli) e la cagion, la qual uenire M'ha fatto à darui aiuto; eranmi quelli Crudi nemici, e più ch'à uoi, ribelli. Et udite perche, nel fin di questa Montagna, un lago u'è, che ui si troua Due gran città; ma perche'l lago resta Caldo la notte, e'l giorno poi rinoua Ordine, e uien ghiacciato, e ne la sesta Hora del dì, stà come un sasso à proua, Chiamasi Fonte solis; la cittate, Taracos, & Amanis son chiamate. Mille anni son, che ne furon Signori Come si sà, per le memorie fatte) Color, che mi son stati antecessori, Or son diece anni, che mi furon tratte Di man, da due uicini traditori, Che parecchie castella ne han disfatte, Di uenticinque, che n'haueuan prese, Insieme col Contado del paese. Sotto certo color d'apparentarsi, Inuitaron mio padre à casa loro Dentro ad una Città, che fuol chiamarsi Filopida, la quale ha popol Moro. Quiui il mio padre senza piu guardarsi, Fù tristamente morto, da costoro, E fatto questo, uenner prestamente A le nostre Citta, con molta gente. Doue gli hauemmo prima in sù le porti (Perche senza sospetto si uiuea) Che noi del fatto ci fussimo accorti; E quei, da chi riparar si oredea, Furono in uno istante, tutti morti; Ond'io, che allor sol dodici anni hauea, Fui trafugato da gli amici nostri, A i Castelli quà sù, che ui sien mostri. Fui qui condotto, che luogo sicuro Quest'era più de glialtri circostanti; I due tiranni, ch'occupa'i furo Gran tempo à solidar da tutti i canti Tutt'il paese, e porgli il giogo duro, Non ricercaron qui uenire innanti; Pur da due anni in quà hanno temuto Di me alquanto, poi ch io son cresciuto. Tengonmi in Guerra, & ogni forza fanno Di priuarmi del resto, e de la uita; Ma s'io non resto colto à qualche inganno, Verrà lor forse ogn'opera fallita. Or perch'io feci à quellà gente danno Che de'suoi son, la cosa hauete udita L'opra ringratio de le uostre mani, Per cui mezo habbiam rotti quei uillani. Però ui prego, qualunque uoi siate, Poi che nemici siete di lor setta, Che con meco à posar ue ne ueniate. Or, ch'à i nemici habbiam data la stretta Per ristorarui le membra affannate; Fece Guerrino nel primo disdetta, Ringratiando il cortese suo conseglio, Ben che d'ogn'altro quel paresse meglio. Ma tanto seppe dir quest'huom cortese, Giurando sicurtà quanto far puote, Che d'alloggiarui al fin partito prese; Vinto da le piaceuoli sue note, Ben ch'eran le parole solo intese Per mezo d'un, che le lingue remote Hauea di molte genti, & hauea quella Di Guerrin principal Greca fauella. L'Inglese mal sicuro, e sospettoso; Ostaua, & uolea pur che Guerrino anco Restasse à dietro, ancor che di riposo Hauea bisogno, & era molto stanco, Che dubitaua d'inganno nascoso, Stando sopra di se, pur non di manco, Veduto che Guerrin di quel fidossi, Ch'abbandonar nol uol, seco inuiossi. Imperò che Guerrin, com'huomo accorto Gli accennò destramente, ch'egli andasse, Dandoli in tutti i modi buon conforto, Che quandò tradimento u'accascasse, Sarebbe, ch'il facesse, prima morto; Onde che senza più si replicasse Con Artilafo andar, che così detto Fù quel, che gli meno sott'il suo tetto. Quiui carezze gli fur fatte quante Si possa imaginar, che possa farsi, A nessun forestiero ò uiandante, E vi steron tre giorni à riposarsi, Poscia con amoreuole sembiante; Preser partito al fin d'accommiatarsi, Artilafo due Guide hauea trouate Per mandarle con essi, assai fidate. Ma la notte, che'l giorno poi partire Pensaro, fur da gente circondati, Che come l'alba si uide apparire, Vider intorno i nemici accampati; Vn de li due fratei di molto ardire, V'hauea uentimila huomini guidati, Almonides chiamato, che con fretta Mandò suso al Castello un suo trombetta. Ilmio Signor, che di quel campo è sire (Disse) m'ha qui mandato accio che io, Chi è Guerrin da uoi mi faccia dire, Perche debbo far seco il parlar mio; Artilafo, che uenne per udire, Come quel che d'intendere ha desio; Disse Guerrin, questo non tocca a noi, Risponda s'alcuno è Guerrin di uoi. Com'il mio nome ha'l tuo Signor saputo? Io son quel, disse, & io per me rispondo Diss'il trombetta, egliè un là uenuto Che fu tua guida, auenga che secondo Ch'ei dice, dal Soldano hauete hauuto Saluo condotto, e per nol dare al fondo; Il mio Signor uuol liberar uoi solo, E poi uccider tutto l'altro stuolo. Caso che ne uegnate incontinente Con me, ma se più indugio ui ponete Da oggi in là, la morte hauer presente, Come questi altri per certo tenete Disse Guerrin, di pur sicuramente Al tuo Signore, or che m'ha ne la rete, Che Guerrin anco non si uuol partire Fin che di testa non gli trae l'ardire. E fin che le sue terre ritornate, Non sono ad Artilafo, che gli furo Già tanto tempo da lui usurpate, Nel modo ch'egli sa, cotanto scuro; Diss'il trombetta, mal ui consigliate, E ciò fate da huom poco maturo, E diede à dietro uolta à dar la noua, In che disposition Guerrin si troua. Non fu sì tosto in campo l'ambasciata Che lo strepito andò de l'arme in uolta; Il romor crebbe per tutta l'armata, Ch'Artilafo Cristiana fede ha tolta, E quella di Macone hauea lassata; Però che nel castel fatt'ha raccolta Di due Cristiani, e chiaman traditore Artilafo, e del mondo disonore. Minacciando non sol per opra loro Farne uendetta, ma la Libia tutta Fargli addosso uenire, & ogni Moro, E l'Africa anco, fin che sia distrutta Tal setta con lor ultimo martoro, Incolpandol d'infamia, tra lor brutta; Ben che poi che Guerrin non uscì fuore, Tutti quei dentro scemaro il timore. Dassi da far Guerrin, poi ch'egli aspetta La guerra, à riueder doue bisogna, Che quel Castello in sicurtà si metta, C'hauer non uuol de l'impresa uergogna; E beltresche, e bastioni con gran fretta, Accio che'l Campo improuiso nol giogna, Fa fare, & Artilafo poi rincora, Perch'ei non resti di speranza fuora. Era forte il Castel per sua natura, Et ora inespugnabile diuenta, Poi che Guerrin se n'ha presa la cura; Di che molto Artilafo si contenta, Poscià con buone guardie l'assicura, E più dou'il pericol s'appresenta, L'altro Castel, ch'à tre miglia era à lato. A quel, fu dentro molto ben guardato. Con messer Dinoino ogni mattina, Prima che l'armi fussero uestite, Guerrino uerso la bontà Diuina, Le preci lor diceuano gradite; Volti à le spade lor con testa china, Perche neglielsi eran Croci scolpite, Il che ueggendo Artilafo, desire Gli uenne di saper che ciò uuol dire. Imperò ch'ei pensaua, che la spada Adorasser per fare à Marte onore, Non li tenne Guerrin di questo à bada, E disse come Cristo, suo signore, Di saluatione hauea dritta la strada De la qual fu già tutto il mondo fuore, Sopra una Croce trionfal di legno, Per questo adoran lor quel santo segno. Disse di Cristo molte belle cose Che nel giusto uangel da noi son lette Che sono à lor, per nol cercare, ascose Et à chi'l uer saper più non si mette. Sentendole Artilafo si dispose Poi che conobbe le ragion perfette Di battezarsi per l'istessa mano Di Guerrino, e così uiuer Cristiano. Così segretamente battezollo, Ch'aglialtri predicar tempo non era, E con fraterno amor poi confortollo, Che mai di là per partirsi non era; O ch'egli ui darà l'ultimo crollo, O'l suo nemico crudo, ch'al campo era, Caccerà, dando testimon di molte Maggior guerre di quella hauer disciolte. E messer Dinoino ancor promesse, Quanto promesso Guerrin prima hauea, Cinque dì ste, prima ch'altro facesse Almonidos di fuor, perche uolea Che'l fratello Artilaro ui giugnesse, Che di gigante persona tenea, Perche del tutto gli hauea dato auiso, Et de due Caualier giunti in prouiso. S'era ad una finestra Guerrin posto Il quinto dì, ch'ogni cosa scopriua, Così lontan del campo, come accosto, E quasi ognun, ch'andaua e che ueniua; Egliel parue ueder tanto indisposto, Che quasi seco d'affrontarlo ardiua, Io crederei con dugento Cristiani, (Disse al compagno,) rõper quei Pagani. Voglio che domattina in ogni modo, L'andiamo à uisitar con l'arme in dosso, E mentre che'l pensier posero in sodo, Giunse Artilafo, & disse, à quel ch'io posso Per una spia saper, poco mi lodo De la Fortuna, che ci uiene addosso, Qua mezo il mondo, col crudo Artilaro Bestial di corpo, e di tristitia raro. Poi che per fede, di nouo ci siamo, Disse il Meschin cõgiunti, io uoglio ancora, Ch'in questa impresa tant'in Dio speriamo, Che ci trarrà d'ogni pericol fuora, E uolentier per la sua fe moriamo Quando gli paia, che sia giunta l'hora; Noi domattina, à sua laude & onore Vo ch'usciam, per trouarli, un poco fuore. Non de l'afflitto, per nessuna cosa Abbandonar sine l'impresa mai; Ancor che uegga esser pericolosa, Perche succede de le uolte assai, Che quando par la cosa faticosa Sopra chi'l pensa, men cadono i guai, Tanto più presto riparar si deue, Quanto men danno del mal si riceue. Se'l campo (come dite) assalir parui Disse Artilafo, al far del nouo giorno, Io uoglio in tale impresa accompagnarui Con dugento sbanditi del contorno I quai son meco, e potrete fidarui, Perche riceuut'han più d'uno scorno, Da Almonidos empio, e dal fratello Si, che costor ne faran gran macello. Con l'ordin, che restati eran la sera, Del Castello s'uscir l'altra mattina, Poi che buon'oration fatta à Dio s'era. Come quei, c'han di guerra disciplina, S'armarono l'un l'altro, con la uera Bontà, laquale ogni buon cor raffina, Poi montati à caual, disse Guerrino, Con me sol uenga messer Dinoino. Ad Artilafo, ch'in ordine stesse, A souuenir coi dugento sbanditi Lassò, quando bisogno esser uedesse Senza aspettar, ch'altro segno l'inuiti, Poi con l'Inglese à caminar si messe, Calando il monte di discoperti siti, Non gli apprezzaron gli accampati stuoli, Venir uedendo dui Caualier soli. Da una parte il Caualiere eletto, Dico Artilafo, scese la montagna, Che faceua à quel campo parapetto, Per ridursi più facil'in campagna, Saliro i due Guerrier certo poggietto Sopra'l quale un pianetto s'accompagna, La doue per sapere i lor pensieri, S'accostar da dugento Caualieri. Col nome di Giesù, disse, sù uia, Il buon Guerrin, diam dentro francamente, L'Inglese caldo di gran fantasia C'ha di mostrar quanto fusse ualente, Accennato non l'hebbe Guerrin pria Ch'egli abbassò la lancia incontinente, E Guerrin la calò, in contr' à forse Venti, ch'ognun'il ferro innanzi porse. Fù di tal gente prima il Capitano Che Guerrino affrontò, con l'asta bassa, Pensando traboccarlo sopra'l piano; Ma la lancia nel petto gli fracassa, Diede Guerrino à lui colpo più strano, Che l'arme con la carne insieme passa, Passagli dietro il ferro de la lancia, Essendo prima entrato per la pancia. Era costui sopra'un caual bestiale, Grasso e feroce, e d'estrema fortezza Che segui'l corso, come hauesse l'ale; Ma Guerrino cansò la sua fierezza, Perche l'urtata di quell'animale Che non ha fren che'l regga, nè cauezza, Non facesse cader quel, c'hauea sotto, Ch'ogni disegno suo sarebbe rotto. Ma messer Dinoin, ch'accanto gliera, Che de le lance lo scontro attendeua, Vrtata riceuè da quel sì fiera, Che'l suo caual, che poco spirto haueua, Bisogna al fin che de l'urtata pera, E à l'Inglese ogni possanza leua Di far più con la lancia alcuna guerra, E ritrouossi tra i Caualli in terra. La caccia in questo mezo haueua data Co suoi dugento Artilafo & uccisi Hauea parecchi, di gente sbandata, Ch'andauan per far preda sù gli auisi, E uide de l'Inglese la cascata, E il paio, in che speraua, esser diuisi, Vid'il fiero Caual, fello pigliare Per far chi n'hà bisogno sù montare. Il suon di tauolacci, e di targoni, Di Corni, & altri semplici strumenti, Eran di noua zuffa testimoni A le uicine, e le remote genti; Mentre Guerrino à uotar molti arcioni Attende; coi dugento suoi ualenti, Artilafo arriuò, per cui ualore, L'Inglese rimontò su'l corridore. Erasi à piedi con la spada in mano, Vn cerchio fatto d'huomin morti intorno, Apri la gente Artilafo soprano Per forza d'arme, con loro onta e scorno, E gli diede il caual del Capitano C'hauea uisso quel dì, l'ultimo giorno, Nè più uoleua stare à dar soccorso A Guerrino, ch'innanzi era trascorso. Era trascorso, fin di padiglioni, Che l'insegne real uuole assalire E dato à i Caualieri, e à i pedoni Che'l uolsero impedire, aspro martire Almonidos, in questo co i più buoni Del campo, andaua per farlo morire, E già prendeua seco gran ribrezo Di sì fiero huomo, à la sua gente in mezo. Doue il suo Signor ua, seguonlo quelli Che lontano lo scorgono, e dappresso, Dietro à i lor Capitani, e colonnelli, Non ha Guerrino altro fauore appresso, Che la sua destra, contr'à tanti felli, E ueggendo lo stuol tanto, e sì spesso, E corsi in mezo, hauea satto disegno Combattendo ritrarsi, il campion degno. E tanto più, ch'ancor ch'ei non ponesse Ben mente à la caduta del compagno, Pensò, che nel principio rimanesse Di quello affronto, con mortal guadagno; Così per forza à diuider si messe La gente, che con animo mascagno Diserran frezze, e lance à più potere, Per farlo morto da lontan cadere. Egli n'uccide innumerabil frotte, E fassi, lor mal grado, il passo dare, Artilafo, che uede essergli rotte Le strade, e pur gli uuole suiluppare Le poche genti, che u'hauea condotte Con messer Dinoin, ch'un Leon pare, Ristrigne seco, e poi con esso insieme, Innanzi à glialtri il nemico urta e preme. Per forza apriro le serrate genti, Da quella banda, e ne l'istesso giro Ch'era Guerrino, i dugento ualenti, Con le lor franche guide, ancor s'uniro, Là, doue cominciaro à far dolenti Color, ch'erano intenti al lor martiro, Almonidos, quiui anco era condotto Per dargli in tal conuito amaro scotto. Fangli ageuole il passo, ou'egli arriua I suoi, come sicura e buona scorta Troua Guerrin, che sempre compariua Tra la piu gente, e dou'il caso importa, E uide, che quegli huomini partiua Come se fusser di ricotta, ò torta A me si disdirebbe, tra se dice L'hauer sì fiera mano, e sì uitrice. A me c'ho forma di gigante, troppo Sarebbe, à far quel, ch'un nano si uede Rispetto à me oprar, poi di galoppo Fa mouere al caual suo fiero il piede; Al fin seco s'affronta, e dà d'intoppo, Cercando porlo con la lancia à piede; Ma Guerrino sì destro il brando gira, Ch'ei taglia l'asta, e leuagli la mira. Gitto'l troncone Almonido, e dal fianco, La scimitarra si trasse, pesante, Non bisognaua ingegno, nè cor manco A Guerrin, per frenar questo gigante Cominciaron l'assalto, in questo il franco Inglese, affrontato haue uno Ammirante Con suo pericol grande, perche molti Gli s'eran per ucciderlo riuolti. Ma lo soccorse Artilafo, ueggendo Quanto'l biasmo d'onor poco lor caglia; Quiui l'assalto cominciò stupendo, E più che mai sanguigna la battaglia, Fero i dugento un'assalto tremendo; Ma l'esser pochi fa che poco uaglia, Che non sien colti in mezo, e malamente Offesi intorno da tutta la gente. Artilafo lassò, che del castello Vscisse, quando il bisogno uenisse Vn Capitan, ch'à guardia era di quello Con trecento huomin, e con quei ferisse, Doue potesse far maggior macello De lor nemici, accio che'l passo aprisse Quand'impedito fusse; ond'egli tosto Nel campo giunse, com'era composto. Giunse, e per forza apri doue serrati Erano in mezo i tre guerrier perfetti, Ch'eran del sangue nemico imbrattati Da i piedi, fino in cima de glielmetti, E per seguir doue erano attaccati Almonido, e Guerrin; dopo glieffetti Di molti colpi, Almonido trouossi A piedi, e'l mal lui stesso causossi. Nel distender la man, d'un colpo crudo Strumento; e dato con la torta spada Del prouisto Guerrin, sopra lo scudo, Senza guardar doue la man si uada, Coglie al proprio caual, c'ha'l capo ignudo Col suo ferrato guanto, e stando à bada, Tramortitogli sotto casca in terra, Ond'ei lassò bestemmiando tal guerra. In questo il romor nouo si scoperse, Dopo le spalle di sì gran canaglia, E di uerso il castel tosto s'aperse, Com'i trecento dier ne la battaglia; I tre Cristian, com'il fauor s'offerse Mostrar ciascun come sua spada taglia, Vnendosi con glialtri, poscia usciro Del mezo, ou'i nemici lor fer giro. E combattendo tutta uolta, e dando Di lor buon conto si uenian pian piano Vers'il castello stretti ritirando, Che'l uoler seguitar tutt'era uano, Ch'ancor, ch'assai di uita erano in bando, Vscir non si poteua à salua mano, Che da le genti de' nemici spesse Di lor gran parte al fin non s'uccidesse. Artilafo, e Guerrino, s'inuiaro, E messer Dinoino, e tutti quelli Combattenti, sù'l monte e'si saluaro, Benche li seguitassero quei felli, Scornacchiati à la fin pur ne restaro Ch'à gran disauantaggio i lor coltelli Poteano oprar trouandosi di sotto, Sì che'l disegno lor pur restò rotto. Era al castel uicina un'erta alzata Fuor de l'altro terren, da diece braccia, Che u'era stata con arte tagliata, Perche'l castel più sicuro si faccia, E stretta da quel canto è la montata, Sì, ch'in uan di salirui si procaccia, Chi'l passo troua preso, iui montati Furon d'ogni sospetto assicurati. Di sotto il grande essercito restossi Parte sù'l pian, parte sù la salita Prima del monte, & alquanto fermossi, A'rimirar doui'l dolor gl'inuita; La gente d'Artilafo anco arrestossi Sù l'alta ripa, fieramente ardita, Nè di guerra facendosi altro segno, Almonido pensier mosse, e disegno. Poiche del fiero busto assai maggiore Il temerario ardir lo spinge, e sprona Fecesi innanzi pieno di furore, E in cotal modo co i nostri ragiona; Euui nessun costì di sì gran core. Che uoglia à corpo con la mia persona Combattere, ò più d'un? ch'io gli prometto, Che da me in fuor, può star senza sospetto. Tutti (disse Guerrin) siam buoni à questo Ad un per un; ma prima sarò io, Poi ch'io son stato à risponder più presto, Così fia sodisfatto il tuo desio, E per dare al combatter miglior sesto, Et esser fuor d'ogni sospetto rio, S'assicurar da glialtri d'ogni parte, Come suol farsi tra i Campion di Marte. Ciascun trouata una lancia perfetta, In un piano calaro, assai remoto, Quiui senza più suon de la trombetta Principio diero, ognun di timor uoto, Al crudo assalto, à la spietata stretta; Ma'l Pagan, che Guerrin mal gliera noto, Chi gliera il domandò, egli nol tacque; Ma di tal uoglia tosto lo compiacque. Te sol desideraua, gli rispose Il Saracin, mostrandosi contento, Scostossi, e l'uno, e l'altro in resta pose La lancia, scelta per miglior tra cento, Le quai furon sì grosse, e sì neruose, Che con iscontro di strano concento, L'una riuerso il Pagan fe cadere, E l'altra di Guerrino anco il destriere. Sopra'l terren ritrouossi il Pagano Fuor de l'arcion, ma Guerrin pur ui staua, Benche'l caual cadesse sopra il piano, Però, che molto debil si trouaua, Drizzatosi il Pagano pose mano A'la gran Scimitarra, che pensaua Vendicar la cascata, e fare acquisto Del franco Caualier di Gesù Cristo. Ma Guerrino sferrato da l'arcione, In piedi era saltato, e con lo scudo Al braccio, per seguir la ria tenzone, Tosto contr'al Pagan si uolse crudo, Et gli giouò di scrima hauer ragione, Che'l feroce Pagan di pietà nudo Ha le mani al ferir sì fiere, e pronte, C'harebbe sfesso ad ogni colpo un monte. Or quà, or là, saltando si ritira Guerrino con destrezza, e con ingegno, E'ntorno al fier Colosso si raggira, Che quella scimitarra lassa il segno; Il Pagan, che sù'l colmo era de l'ira, Poi ch'ogni colpo schiua il guerrier degno Menonne un con due man dicendo questo, Varrà ben sol, per tutto quanto il resto. Spicca un salto Guerrin tenendo spinto Sempre innanzi lo scudo per difesa, Dal colpo del Pagan, che non fu finto, Restò lo terra d'un gran taglio offesa, Fù'l sesto colpo questo, ò uero il quinto, Nè gli haueua Guerrin l'offerta resa; Or non sia più così, ficcossi otto, Nè gli uenne il disegno punto rotto. Menogli un gran riuerso sù la coscia Diritta, e perche l'era male armata, Tagliolla sì, che non potè più poscia Seguir sì fier, la lite cominciata, Ancor che'l gran dolor gli desse angoscia, Sua fronte di uiltà non fu segnata, Nè s'accorgeua (il miser) che del sangue, Ch'usciua, il corpo suo ueniua essangue. Temporeggia Guerrin, che'l tutto uede Giragli intorno, ond'ogni colpo al uento Mena il Pagan, che sopra il destro piede, Mouer passo non può senza tormento; Il braccio al fine al debil spirto cede, Che nel menare i colpi era assai lento; Guerrino per fornir pur la questione, La spada gli ficcò nel pettignone. Al trarla fuor, ne trasse l'alma ancora, Che più di meza fitta ue l'haueua; Guerrin pose da canto ogni dimora, Veduto, che'l Pagan più non si leua, E poi che di salir mal si rincora, Sù'l suo caual, che fiacco ancor giaceua, Tolse quel del Pagan, ch'era il migliore Che si trouasse nel suo campo, e fuore. O quanto sua uirtù farà più certa, Poi che'l fren regge di sì buon destriere, Seco la fama accompagnossi aperta, Ch'à la sua gente si fece sapere, Per quel caual, che più chiaro gliaccerta, Di quel, che mal concesso di uedere Lor fu, che (com'io dissi) fu'l Duello In uno assai remoto praticello. Ogni dubbio temere, il rio sospetto Sgombrò da i petti loro; onde la fronte Si fe serena nel suo primo aspetto, Pria, che le proue altissime sien conte, Tanto, che del castel sotto ogni petto, Le communi allegrezze son congionte, E per la uittrice opra di quel giorno, Fer la sera al castel gran fuochi intorno. Tanto fu più'l dolor, tanta tristezza Maggior nel campo fuor, tanta più pena, Rese ne i petti loro, e più asprezza; La cui noua à temer seco gli mena, Perche la gente, laquale era auezza, Viuer sicura, e di speranza piena, Per il gran busto di sì fi r Signore; Or preda fatti son già del timore. Spedir l'istessa notte messaggieri Ad Artilaro, suo fratel carnale, De i casi loro sconsolati, e fieri, E com'il campo si reggeua male Egli, che Re fu de Giganti altieri; La noua udendo à dispiegare l'ale De la stolta superbia, & isfrenata, Incominciò, con gran rabbia infocata. Ciel non ha sopra, nè sotto terreno, Ch'ei non minacci, incomparabilmente, E fe sì lento à la superbia il freno, Ch'uccise per furor molta sua gente, E guai à quel, che'l pensier del suo seno Non indouina, e non sa di presente Quel che'l pensier gli ditta, & è sì uscito Del senno, ch'ei non cura esser seguito. Era allor per uiaggio à la richiesta D'Almonido uenuto, & era presso A'due giornate, quando de l'infesta Noua seppe il tenor da più d'un messo, Sì che con furia quanto potè presta Giunse nel campo l'altro giorno appresso Ch'à suo detto, bruciar uuole il castello, E far di tutti un'orrendo macello. La notte innanzi, fuggiron dugento, (Che nel castello entrar) del campo fuore, Che contr'ogni lor uoglia il frate spento, Chi per forza seguir, chi per timore; Fur poi più di due mila il sopplimento, Che si fuggir, c'haueuan poco amore, Ad Almonido, allegri del suo danno, Com'i troppo suggetti spesso fanno. Ma come seppe Artilaro, che tanti Eran fuggiti, giurò poi che tutti I'lor parenti con amari pianti Corran, per colpa loro, amari frutti, E ne fece seguir da tutti i canti, Doue inditio hebbe, che n'eran condutti; Poi fece in arme porre appresso al giorno Ognuno, e strigner chi sparso era intorno. Con proposito, c'ha ne l'Aurora Di sfidar quanti ad uno ad un sono atti D'uscire à corpo à corpo seco fuore, E comandò, che nè in detti, nè in fatti, Nessun gli dia fauor, se non allora, Che uedranno esser più del castel tratti; Ma contr'un sol non sieno arditi opporsi, Che uuol'ei sol simil'impresa torsi. Trema ognun, che lo mira, ò ch'ode il suono Di quella uoce orrenda, e spauentosa, Nè u'era cor sì forte, nè sì buono, Nè persona di guerra sì famosa, Che fusse per hauer seco perdono, Contrafacendo ogni minima cosa, E passata la notte, ch'à lui parue Vn'anno, armato al castello comparue. Et con orribil fiato un corno suona, Di che tutti'l castel tremò, qual suole, Far terremoto, e più, perch'egli introna Ognun poi con le fiere sue parole, Disse, se gliè costà dentro persona (Sì come traditori esser ci suole) Che giostrar uoglia, pel mio Dio li giuro Che d'ogn'altro che me arà sicuro, Artilafo, e Guerrino, con l'Inglese Vsciro à quell'inuito fuor del muro, Con settecento armati d'ogni arnese, Che i dugento fuggiti anco ui furo; Ma messer Dinoino il primo scese, Che l'impetrò da glialtri, e con sicuro Animo l'affrontò, con l'asta forte, Pensando al rio Gigante dar la morte. Ma Antilaro, che tenea per certo, Ch'egli quel fusse, ch'Almonido messe A'morte, per donargli pari merto, Con ogni forza il buon Cristiano oppresse; Onde gli fe l'arcion lasciar scoperto, E bisognò ch'al Pagan s'arrendesse Artilaro menandolo prigione, Vide esser falsa la su'opinione. Visto non esser quel, ch'egli pensaua, Disse, tornar conuiensi in dietro presto, Come s'egli l'hauesse, così braua, Dicendo, qui ci manca l'altro resto, Che non l'abbatter già non dubitaua; In tanto fe trouare un gran capresto, E porlo al collo à messer Dinoino, Poscia menarlo ad un arbor uicino. Indi ad un ramo accomodar la corda Fece, e ch'ancor tirar non si douesse, Fin che Guerrino à impiccar nõ s'accorda Con esso, e chi giostrare anco uolesse L'Inglese in tanto con Dio si ricorda Di tutte le sue colpe, c'ha commesse, Ch'ancor, ch'ei pensi, che Guerrin l'uccida, Però nessun de la sua uita il fida. Tornò'l Pagano, e domandò di quello Cristiano, ilquale haueua ardito porre L'indegna man nel sangue del fratello, Perche tosto si uuol dal uoto sciorre, C'hauea fatto di farne à i corui un bello Pendolo; al cui parlar contra gli corre Artilafo, che uuol prima morire, Che Guerrin uegga (mercè sua) perire. Dicendo, io non uedrò sì sconsolati I miei morendo; come far potrei Veggendo i miei sussidij esser mancati In tutti ì modi dunque perirei; Ma se, ch'io sia prigion, uogliono i Fati A'sorte uia peggior più mi terrei, Quand'io restassi solo, e così detto, Del monte calò giù pel passo stretto. Molto il chiamò Guerrin, ch'andar uolea Doue richieder s'haueua sentito; Ma poco frutto nel chiamar facea, Sì ch'Artilaso giunse tutto ardito; Ma perche manco forza possedea, Giostrando anch'egli cascò sbalordito, E fu nel modo acconcio, che l'Inglese, Onde Guerrin gran dispiacer ne prese. Nè ui pose interuallo à calar giuso Sù'l cauallo d'Almonido, che fede Fa, ch'era quel, che de la uita escluso Haueua il suo fratel, ma quando il uede Vn Sacerdote del Pagan, ch'era uso A'indouinar, gridò deh ferma il piede, Ferma il piede Artilaro, c'ho da dirti Cosa, che forse oggi farà stupirti. Colui fermato, incominciò dicendo; Questo sogno stà notte mi s'aperse, Il Sol uidi io, di trino aspetto essendo Con la Luna in contesa, che d'asperse Stelle era accompagnata, e con orrendo Assalto sopra'l mare ella sommerse I due Soli minor, quasi ne l'onde, Doue non si uedea argin, nè sponde. Onde à la fine il terzo Sol rimasto Quasi tuffato anch'egli; surse poi Con gran uigore, e sì fiero contrasto, Che la Luna affogò, e gli astri suoi Tutti disperse, e dato loro il guasto, Nè trouando più cosa, che l'annoi, Fe surger seco glialtri Soli insieme, Con forze pronte, e più, che mai estreme. Non cercai più di ciò significato, Se non or, ch'io lo ueggo troppo aperto; L'un Sole, e l'altro è stato superato Da te, che sei quella gran Luna certo; Il terzo Sole, è il Caualier restato, Dal qual sarai, se combatti, diserto, Per mio conseglio seco farai pace, E impicca i due prigion, come ti piace. Il furibondo, e insuperbito drago, Sorrise di tal fatto, e disse presto, Và dì d'Apol l'offitio, ch'io son uago D'altro, che di tue ciance, io uoglio il resto Di questi tre Cristian, ch'io son presago Meglio di te, ch'io uidi manifesto, In sogno anch'io da tre capestri impesi, Questi ladroni insieme, e uilipesi, E de la gente uscì, doue aspettaua Il buon Guerrin, che nel pian si tornasse, E u'andò tosto con sembianza braua, E non com'huom, che punto dubitasse. Guerrino, che co i grandi sempre usaua Di salutar, prima ch'ei s'affrontasse Diegli il saluto, e'l Pagan non rispose; Ma sollecito l'asta in resta pose. Abbassolla Guerrin senza interuallo, L'urtate furon tai, che quel Pagano Cascò riuerso, fuor del suo cauallo, Con gran fracasso d'arme sopra'l piano; Ben che Guerrin non fesse simil fallo, Pur il tenersi sù, fu tutto uano, Perche del suo cauallo il pettorale Rotto e le cigne, non hebbe men male. Onde trouossi à caualcar la terra, Tolse il Pagano un suo baston ferrato, Poi che bisogna à piedi far la guerra, E fuor di modo s'è merauigliato; Ma il giusto uuol, e non già chi fuor n'erra, Che ogni Caualier, che sia cacciato Dì sella, sia prigione, il che toccaua A quel Pagan, ma non si disputaua. Quando che de le cignie fu'l difetto, E non del Caualiero il ritrouarsi Così Guerrino il cauallo interdetto, Pur cominciar dapresso à salutarsi; D'un noderoso sorbo grosso, e schietto, E ben ferrato bastone, ad armarsi Venne il Pagan, ch'à l'arcion gli pendea, Che semper in guerra seco hauer solea. Guerrin la fida spada sua s'assetta In man, lo scudo al braccio, e'si fa pari In capo l'elmo, nè punto s'aspetta, A cominciar gli orrendi, colpi amari; Mena il Pagano assai con maggior fretta I colpi; iquai Guerrin con salti uari Schifaua or quà, or là, più sempre intento A ripararsi, & à ferir più lento. Colpo fatto non hà per nuocer'anco Il suo nemico, perch'al tempo aspira. Artilaro, ch'à i danni suoi uien franco, Con tanta uoglia un sì fiero ne tira, Che tutto il fa piegar, nulla di manco; Il Meschino sì destro si raggira Ch'egli si salua; e ueggendolo basso, Pose con gran prestezza innanzi il passo. Menagli al collo un dritto, disegnando La gran testa spiccar dal fiero busto; Ma non fece altro male il forte brando, Che le fibbie tagliar, che tenean giusto L'elmo del rio Pagan; pur'egli quando Dislacciato si uide, in se robusto, Con inganno pensò pur fare in modo, Che Guerrin proui se'l bastone è sodo. Finto un colpo menò, poi lo ritenne, Rìtirossi Guerrin, ma poi crescendo Il passo, pure il capo à corlo uenne, Che fu d'ogn'altro colpo, il più stupendo C'hauesse mai Guerrino, onde conuenne Quell'ingegno operar, che in sì orrendo Caso si può pensar; che con l'unite Man trasse il fello, per uincer la lite. A lo scudo la spada innanzi pose, E l'elmo se posar sopra le spalle, Che se di quelle braccia poderose, Senz'intoppo il baston trouaua'l calle; Mal per Guerrin passauano le cose, Che non solo la testa andaua à ualle Fiaccata, ma col busto il resto tutto, E ne restaua il Caualier distrutto. Campollo, che'l baston uenne sù'l taglio A cor de la sua spada, appresso doue Da le man confinaua un bel tramaglio Di ferro, da star forte à tutte proue, Scampollo dunque da mortal trauaglio Che tagliato restò, sì come à Gioue Piacque; doue il fiero huõ crudo e rubesto, Non potendo addoppiar, gittò uia'l resto. Et abbracciò Guerrin, ch'era stordito, E la spada cadutali di mano, E così pel trauaglio tramortito Sel pose in spalla con atto uillano, Quel Sacerdote dal sogno auuertito, Gridaua quant'un possa da lontano, Vccidilo Artilaro, uccidil dico; Nè far sì poco conto del nemico. Ma lo strepito fatto da la gente, De la uittoria allegra, causaua Che'l suo gridar non era inteso niente; Sì che, per questo in uan s'affaticaua, Tra queste grida Guerrin si risente, Che già per tutti morto s'aspettaua; Or com'egli campasse intenderete, S'à l'altro mio Cantar m'ascolterete.

Il fine del canto ventesimosecondo.

Chi ti e' fedel, temer già mai non deue, Vita cangiare à miglior uita e salda; Nè d'abbruciar con un sol sospir breue, Quella di zelo patria, e d'amor calda, Altissimo Signor; ch'à me sol greue Deue parere ogn'hor, che l'empia falda Non depongo de uitij, e non mi appello Pronto persecutor del tuo ribello. Non boria di uirtù, non gloria d'armi, Non pompe di grandezze, e sete d'oro, Moue il cor di Guerrin, perch'egli s'armi Contra'l nemico in premio di tesoro; Ma quel, che merta memorabil marmi, Ornar d'un'huom con eterno lauoro, Di scolpita memoria, una sol fede In Cristo un tal desir pronto gli diede. Oprò quel ben, sì come Dio spirollo, Per la giustitia, e per questo non piacque A lui, ch'ei desse ancor l'ultimo crollo, Se ben com'huomo tramortito giacque, E nel portaua quel pagano in collo; Tornato in se, la giustitia compiacque, Che uolea spegner quel tiranno crudo, Che l'offerse à Guerrino il collo ignudo. Come già dissi, risentito s'era, E ueggendo il partito, in ch'era messo, Trasse il pugnal, ch'ancora accato gliera, E del dislacciato elmo per il fesso Porse la punta tanto pronta e fiera Che uia tagliò là doue era commesso, Il canal de la gola à l'empio cane, E per quella gli aprì la uia del pane. Lassò del carco à chi uiue la cura, Quand'aperto Artilaro il passo sente De lo spirto, che più del corpo dura Salma tener non può, che con più lente Vigor si regge, quanto più gli fura La calamita di Stigie repente, In terra al fin cascò per grand'angoscia, Dando à la terra le sue ragion poscia. Morto Artilaro, il campo, che lo uede Cascarsi merauiglia, e pensa come Sì tosto giace l'uno, e l'altro in piede Mostra sue forze assai men uinte e dome; La uecchia tema, al nuouo gaudio cede Di chi fedel ad Artilar di nome Solo era; e chi per forza l'obbediua La qual tema chi serue d'amor priua. Molti, ch'in odio hauean tant'arroganza, E che prouato hauean più d'uno scorno, Preser de la sua morte gran baldanza, E fuor la dimostrar quel proprio giorno, Mostrando seruitute, & amistanza Ad Artilafo, e fur quei, che restorno In seruitù de le sue terre allora Che'l padre fu di uita tratto fuora. Gli altri, che de l'antico suo paese, Eran, uedendo tanto preso ardire Di quella parte, con maligne imprese Gli cominciaro con ira assalire; La gente d'Artilafo il monte scese, Poi ch'Artilaro uidero morire, E la guerra appicciata tra sua gente, Andaro à souuenir la men potente. Pur con disegno ne la prima gionta, Viuendo il Signor lor di liberarlo; Ma'l buon Guerrin tosto à cauallo monta, Hauendo prima ben fatto cigniarlo, E più che mai robusto, quelli affronta C'hann'ardir de l'impresa sua ritrarlo, E tosto l'uno e l'altro de prigioni Fe liberi salir sopra gli arcioni. Al sacerdote, c'haueua predetto Ad Artilaro il male, e c'hauea fatto Ogni suo sforzo per porre ad effetto, Di fargli presto dar l'ultimo tratto, Tagliò l'Inglese da le spalle netto Il capo, accio che mai più non fusse atto A indouinare, & oltraggiar nessuno, Nè sia, com'à lor fu, tant'importuno. Tal fu'l ualor di questi tre Guerrieri, Sì grande fu l'ardir de i settecento Venuti dal castel; furon sì fieri Quei che si rallegrar del Pagan spe nt C'hauea nel campo quasi prigioneri, Contr'Artilafo con poco contento, Condotti quel gigante; che del resto Fur trionfanti, e gli scacciaron presto. Nè fosso ui restò, nè ualle, ò piano Di quà, di là, per lungo, ò per trauerso; Doue de i corpi loro, e sangue umano Non fusse intorno orribilmente asperso. Artilafo, or che libera ha la mano Spronato da ragion, nel'odio immerso, N'uccìse tanti, e ne stroppiò quel giorno, Che ben uendetta fè d'ogni suo scorno. Rotti gliauuersi, Artilaso raccolse. Sotto'l gouerno di Guerrin coloro; Da chi la guerra in suo fauor si tolse, Per ricondurgli ne le patrie loro, Commendandoli poi, la lingua sciolse, Come non cape in huom più bel tesoro Che l'alta fedeltà, che di lor uede, Sendo dal Regno loro, ei uero erede. Nouemila contati furon questi, Che de le terre antiche di suo padre Eran uassalli, e senz'esser richiesti, Si feron uolentier de le sue squadre; Ma perche qui la uittoria non resti, Per ritorsila Patria, antica madre De'suoi progenitori, il camin prese Con questi, àriconoscer'il paese. Ma capo de la gente, e conduttiere, Com il debito uolse, Guerrin fece Che per suo conto sapeua d'hauere La uita, poi che con sua man disfece I duci altier de le nemiche schiere, E non pure à tal parte sodisfece; Ma con la sua uirtù, ch'era infinita, Gli prolungo (com'à Dio piacque) uita. Parue à Guerrin di non porui interuallo, E seguir la uittoria incontinente Fe rinfrescare, & montare à cauallo Quei, c'haueuan caual fin'al presente; Ben che nel crudo e sanguinoso ballo, Più d'un caual restò, morta la gente; Sì, ch'assai de pedon, d'arme leggieri, Armati furo, & fatti Caualieri. Andarò à le città su'l lago poste, Seggio de gli Aui d'Artilafo saggio; Ne le quai sendo le gran noue esposte, E d'Artilafo il uend cato oltraggio, Senza far di difesa altre proposte, Feron tumulto contr'ogni lignaggio, Et ogni setta di quei rei tiranni, Che per morte pagar gli usati inganni. Dieron, quant'ampia potean dar, l'entrata A i tre Cristiani, & à le genti tutte Mostrand'un allegrezza smisurata, Poi che le genti nemiche han distrutte Quiui fur riceuuti, oue l'armata Non hauendo altre genti allor condutte, Si riempì di tanti del paese, Ch'à trentamila tal numero ascese. De nemici, trabacche, e padiglioni Et altri arnesi, e strumenti da guerra Eran forniti, che restar padroni, Di ciò che per fuggir rimase in terra, Sì, che tolte Artilafo le ragioni De le Cittadi, e quant'intorno serra Il lago fonte Solis; poscia andaro Al monte Gramus, e quello acquistaro. E à Moscla, sù'l mar posta, mandati Ambasciadori accioche s'arrendesse Daccordo; andaro i lor pensier fallati, Che non solo impetrar, che segli desse; Ma tutti i Cittadin trouar parati A uendicare l'opere commesse In uerso i due fratelli, e la lor morte, E che presto uscirien fuor de le porte. Spinse tosto Guerrin, per tal risposta, Le genti innanzi, poi ch' à lui sol tocca, E la città con tal pensier disposta, Presto trattò da temeraria, e sciocca, Prouò quant'il uoler risponder costa, E senza fren tener l'ardita bocca In cinque di fu con gran furor presa La gente uccisa, ella di fiamme accesa. Da l'essempio di quella, l'altre tutte Si dieron, senza fare alcun contrasto, Et essendo à man salua al fin ridutte Sotto Artilafo, non patiron guasto, Furon le genti d'arme poi condutte Vers'il paese, sterile rimasto Per le fiere di Libia, à gli huomini rea, E di quiui passarono in Morea. Per la città di Peronù seguiro A'l'Alpe di Parisi, andaro al monte Agamapiro poi, dopo il cui giro Preser Candelo con l'altre congionte Prouincie, che Guerrin tosto ubbidiro Lasciando il monte Agisma, la cui fronte Di Libia mira l'orribil diserto, Che'l mar poi de la rena mostra aperto. Da Babillonia tien, fino al Marocco Questo diserto, e mare empio arenoso, Che l'Europa mira, oue uien tocco Dal caldo sì, uers'ostro fastidiofo, Che chi cerca'l confin, si tiene sciocco, Però, chà'l saper nostro uiene ascoso, Sì, ch'al mar Libicon tornar conuenne, Et seguendo à Filofila peruenne. Questa città si diè senza battaglia A' Contropoli il campo guidar doppo; Quest era gran città, ma di gentaglia Molto ripiena, e trouar grande intoppo; La cui noua Artilafo assai trauaglia, Ch'un'essercito quasi di galoppo Veniua di uerso Africa, guidato Dal più frãco huõ, ch'in tal parte sia nato. Quattro centomila huomin seco mena; Ma quel, che più Artilafo sgomenta, Che'suoi cinquantamila sono à pena, Nè ue n'eran fidati, senon trenta; Guerrin, ch'uso non è uoltar la schiena Artilafo conforta, e gli appresenta Tutte le grandi imprese, per lui fatte Con mãco gente, e peggio à l'arme adatte. Io sol m'obbligo, disse, d'affrontarne Dugento mila, per mettergli core, E messer Dinoin, disse, io uò farne Centomila uoltar del caminfuore; Artilaso senz'altro dubitarne Tutto si confortò nel lor ualore, E disse, io uscirei ben de l'onesto, Non affrontando con mia gente il resto. Guerrino poscia ad Artilafo uolto, Del nome domandò di chi gli mena, Per quanto, disse, di uero ho raccolto Chiamasi Validor, che ne l'arena Del fiume Dastisi dal uentre sciolto, Nacque ne la città Dornesca, piena Di forte gente, & egli è ualoroso, Quant'huom, che per fortezza sia famoso. Prudenza, e sapienza à l'huomo forte, Disse Guerrin, bisogna usar, del resto La quantità non par, che molto importe Altro, ch'ordin confuso manifesto, Di quai paesi, disse, ha egli scorte Sì gran genti, e condotte tanto presto? Costui Tripoli tien di Barbaria, In Calis, e in Sauier tien Signoria. E fino al monte Girgidis si stende, Gli rispose Artilafo; doue Inusa Gran fiume n'esce, che'l camino prende, Diuerso le cittadi, ù resta inclusa La già detta montagna, e quì comprende Dond'ha tal gente, ch'à far guerra or'usa; Oltra le dette, l'altre terre ascolta Donde può far d'huomini gran raccolta. De la città Tarcomana, e Dispera, E di Baldrada, e d'Ascheri ha cauata Gente, di lor persona molto fiera, E donde fino al lago si dilata Detto Anarseb, ogni sua parte uera; Che da la città Caspi è dominata La Signoria del qual si uede aperta, Fin ne la parte, ou'Africa è diserta. Prese Guerrin non poca merauiglia Di tanta ubidienza, e Signoria; Ma di Pompeio al detto si consiglia D'Africa quì le bestie han monarchia, Con iquai combattiamo à sciolta briglia; Poscia fece narrar da una spia, Che la noua portò, ch'era uenuto Di là, di tutto quel, c'haueà ueduto. A'la presenza replicò di quanti Poteano udirlo, che'lnemico campo, Ancor che d'assai gente hauer si uanti, Ordin non u'ha, che sia per dargli scampo, Che seminati uan caualli, e fanti, Senza timor d'hauere alcuno inciampo; Ma solo il loro ardir ne l'assai gente, Consiste, ad altro poco pongon mente. Disse Guerrin, s'altri Principi u'era, Che quel fier Validor, da farne conto. Di nò, rispose, che sua mente altiera Con amistadi non s'è mai congionto. Di più Signori, però, ch'egli spera, Com'habbia d'Artilafo il Regno aggionto Al suo, poter distruggere i Signori Di Libia tutta, acciò sol lui s'onori. Di contrario uoler la sua sorella Rampilla detta, che la uostra fama L'ha fatta seco sol montare in sella, E già se ne bisbiglia, ch'ella u'ama, Ch'allora il dimostrò, che la nouella Giunse, che'l campo addosso ora ui chiama, Che fu la morte de due frati uinti, Ch'eran sì fier, da uostre mani estinti. Stima la Donna dunque, che uoi siate Vn'huom, che di beltate, e di fortezza Com'inteso ha, che pochi pari habbiate, E già quel campo più uoi solo apprezza, E uoi più teme assai, che cento armate; Questo dir causò tanta fierezza Ad Artilafo, e la sua gente insieme, Che sol l'indugio al combatter gli preme. Spedi presto Guerrin due altre spie, E tra i nemici gli mandò secreti, E separati per diuerse uie, Che col mostrarsi di quel campo lieti, Fingano esser fuggiti il proprio die, Per una tema lor, taciti, e queti, C'hauendo lor contr'à Guerrin parlato, Di cruda morte ognun fu minacciato. Così dieron color à quest'impresa, Che fu lor data facilmente fede; Laqual lor fuga, da tal gente intesa, Chi gli parlaua à domandar si diede, Come Guerrin fusse atto à far difesa, Poi ch'esser lor sì gran numero uede; Risposer, come fu lor ordinato, Che tristo quel, che l'aspettaua armato. Aggiugnendo, che s'era dato uanto Dugento mila affrontarne egli solo, E c'haueua un compagno ardito tanto, Cristian com'egli, e di Cristian figliuolo, Che cento mila uuol da l'alto canto In uolta por di tutto quello stuolo; Or questa fu la noua, e fu'l terrore, Che senza ardir lasciolli, e senza core. Di Validor la sorella infocata Dal cieco arcier, dal disugual fantino, Da questi ancor uuol'esser'informata De' modi, e gesti, & esser di Guerrino, Fatta una spia da l'altra separata, Dipoi che poste l'hebbe in suo domino, Seppe senza fallar d'alcuna cosa, Ogn'or più la sua fama gloriosa. L'ultimo di costor, poi che s'accorse Nel replicar, che fe spesso Rampilla, Ch'Amor la face sfrenata le porse Verso Guerrin, che non potè coprilla, Disse, non state nobil Donna in forse, Ch'Amor per Donne il cor ben gli distilla, Se ben'è fier nel Martiale stile, Con le Donne è mansueto, e gentile. Diss'ella, dal desir spronata al tutto, S'io credessi, ch'amandolo potesse Far, ch'egli amasse me, per far buon frutto, Di quanto Regno il mio fratel tenesse (S'io lo douessi far restar distrutto, Pur ch'egli me per moglie poi prendesse) Ne lo farei Signore, e senza guerra, Padron sarebbe d'ogni nostra terra. Prese di quel parlar la spia sospetto, Ancor che chiar d'Amor uedesse segno, E per non iscoprire il suo difetto, Fideltà finse, & usò magro ingegno Oimè (dicendo) che hauete detto; Allora ella s'accorse con isdegno, E dal sospetto spinta, come ardita, Altro fingendo, gli fe tor la uita. Poi con lusinghe, e gran promesse mosse L'auaro cor d'un suo seruo secreto, Che prima che'informato d'altro fosse, Fello giurar, che nè prima, nè drieto S'udrebbe, che da lui fussero mosse Le parole da quel, che per decreto Stabile glimporrebbe, e poi gli espose, Cose orribil da fiere, e spauentose. Voglio (disse) che tu ne uada in fretta A'ritrouar Guerrin doue si sia, E digli se mi uuol per sposa eletta, E tener grata la fedelta mia, Cha'l mio fratel darò mortale stretta, Che leuarmel dinanzi ho fantasia, Pur ch'egli accetti dopo la sua morte, Il Regno, e me, per sua cara consorte. Il messo auido, e ingordo d'aricchire Lieto promise far l'osceno offitio, Aggiunsegli ella, sappili ben dire, Ch'appresso à tanto e sì gran beneficio Di farlo di Morea unico sire, Con Africa, c'harà per chiaro inditio La mia uirginità, ch'à lui si serba, Come nouello fior tra tener'erba. E per dirti lettor di sua statura Grande, e formata bene era d'aspetto; Ma tutta nera, e di capellatura, Come la lana d'un puro agnelletto Gran labri, denti bianchi, e guardatura Fiera con occhi rossi, or'in effetto, Il messo andò, e fece l'ambasciata Di questa figuraccia innamorata. L'espose dico, ma ben prese errore, Che ueggendo Artilafo andar con gente Pel campo, e fargli da ciascuno onore A' lui s'inginocchiò subitamente, E disse, à glialti gesti, al gran ualore A' me parete il Capitan ualente, Cioè quel buon Guerrin, se quello siete. Da me segrete, e gran noue oggi harete. Artilafo da parte se lo trasse, E si fece narrar quel, ch'ei doueua A' Guerrino narrar; nè ch'ei fallasse, Per simile presenza già credeua Artilafo pensò, ch'egli n'andasse A' Guerrino à parlar, com'egli haueua A'lui parlato, e non saria contento D'acconsentire un tanto tradimento. Poi disse al messo, attendi bene amico, Artilafo son'io; primier di tutti, Per ben che col gouerno mi nutrico Di quel Guerrino, e ne traggo buon frutti, Ilqual, per ch'è gentil, terrebbe ostico, Se la sua fama nel sangue si brutti Di Validor, per simil modo; pure Vò, che facciam queste cose sicure. Però, di à Rampilla, c'hai parlato A' Guerrino, e che'l tutto con piacere Grande, & amor, con te ha confermato, Et io prometto, e credolo potere Di dargliel per marito, e fiegli grato, Il suo util facendo, e'l mio uolere, E ti prometto, se n'habbiamo onore D'una bella città farti Signore. Et acciò che tu possi riferire Di Guerrino ogni forma, e gentilezza, Vò che tel possa in la mente scolpire, Sì come non ha par qui di bellezza, Ti uoglio al padiglion suo far uenire; Ma com'ho detto, il giouin tanto apprezza L'onor, che se gli parli innanzi al fatto, Fia guasto ogni disegno in un sol tratto. Saragli accetto, poi che fatto sia, E tu potrai à Rampilla di certo, Dir d'hauer fatta la sua fantasia, Nè perderati ogni promesso merto, Confermando egli, presero la uia Al padiglion di Guerrin, doue aperto Vide esser uero, e molto più di quello, Che dipigner non puote uman pennello, L'hora già de la cena era assai presso, E tostos'ordinò, l'acqua fu data A'le mani, in disparte stando il messo Vide ogni cosa, e l'amistade grata, Ch'era tra loro, & Artilafo stesso Mostraua una fidanza smisurata, Et abbracciando dicea, fratel mio, In uoi sol credo dopo il nostro Dio. Se la uittoria habbiam, sì com'io spero, E che quel Validoro empio s'uccida, Io uò farui padron di quello Impero Ch'amicitia di uoi non ho più fida, Rendeua gratie il nobil Caualiero, Non sapendo il pensier, ch'in lui s'annida, E fornito il cenar poi si ritrasse Artilafo, acciò'l messo uia mandasse. Di dito trattasi una gioia eletta A'quel la diede, e raffermando poi Le gran promesse, il mandò uia con fretta Per sodisfare à li disegni suoi. Che più saluar sua gente gli diletta, Ch'aspettare il nemico, che l'annoi, Pensando, che Guerrino accetterebbe, Vn tal partito, ne sà quel, ch'ei debbe. Non sà, ch'ad Antinisca osseruar prima La promessa uorrà, ch'esser Signore Di tutto il ben, che di quà giù si stima, Rampilla al messo fece molto onore, Poi che le disse, che di gratia in cima A' Guerrino sarà, s'un tal fauore. Gli fa, & ch'era assai più degno molto Di quel, che per inditio hauea raccolto. Molto più s'accese ella, e de l'officio Il messo per molto oro fece lieto Promettendogli grande il beneficto; Quando con fedeltà tenga segreto Vn tanto abomineuol maleficio, E così con pensier tacito, e queto, Si diede à imaginar, come à morire Habbia il fratel, che nõ s'habbia à scoprire. Riuolgendo tre dì ui stè sospesa, Tanto, che Validoro ordine prese Di far giornata, & attaccar l'impresa, Ond'ella dimostrò con lui palese Di temer, che'l fratel non habbia offesa, Poi ch'ella il suo pensiero al fine intese, E richiedel per sua consolatione, Ch'un tratto mangi seco al padiglione. Egli, che la domanda onesta tiene Contentossi d'andare, il cui conuito Per lui non passerà già molto bene; Quiui il superbo Signor fia tradito; Ma per finger cagione à le sue pene Nel pasto, ch'ordinò molto polito, Beuande, e uini ordinò sì potenti, Che i sensi di più d'un restaron uenti. Nè fe restar quest'infelice festa Da balli, e suoni accompagnata, e canti Che ridando anco bere, empì la testa, Di quei fumi à più d'un, sì uacillanti, Ch'à Sileno più gloria omai no resta. Tra i Satiri di Bacco trionfanti, E Validoro già sì ne uacilla, Che de l'onor richiede al fin Rampilla. E con cenni mostrò uoler por mano A quel, che mai pensier non hebbe pria, Spiacque à chi era in se quell'atto strano, Spinselo ella da se con uillania, Validor quasi diuentato insano Per molto uin, ch'in petto gli bollia, Et conoscendo in parte il suo difetto, Di Rampilla gittossi sopra il letto. Quiui s'addormentò; fece ella uscire Del padiglione ognun, dicendo à i suoi, Che fin che'l uin si possa digerire, Non uoler gente, che dattorno il noi Fu dubbio, ch'ella hauesse à consentire A l'atto sporco, e si pentisse poi; Ma perche scusa u'è, c'habbia à posarsi, Non fu chi non uolesse allontanarsi. Fornito il pasto, la notte era gionta; Quiui restar conuenne al dormiente; Ella per si bel comodo, s'affronta Con quattro, ch'eran d'Artilafo gente; Co iquali haueua conferita l'onta, E quiui poi condotti chetamente; Fegli tagliar la testa, egliela diede Ch'ad Artilafo la portar per fede. Con contrasegni del campo sicuri; Accio non sien da le guardie impediti, Nè fino à la mattina, i casi duri, Del suo Signor furon pel campo uditi; Ma quel, che glieli fece esser più scuri Fù, ch'in quel tempo furono assaliti, Per ch'Artilafo, hauuto il rio presente, Innanzi spinse in ordine la gente. Nè disse altro à Guerrin, se non, c'hauendo Hauuto inditio de l'ordin cattiuo De i lor nemici, uolea con stupendo Assalto dimostrar, ch'ei fusse uiuo, Nè per questo (gli disse) punto intendo Del solito onor uostro farui priuo; Ma per più mio contento, mi porrete Trai primi di due schiere, che farete. E tral sonno passato de la notte; Ancora inuolti, daremo improuiso Dentro; e s'auien, che mie gente sien rotte E che per mala sorte io resti ucciso, Seguite pure, e date in quelle frotte, Ben ch'è souerchio darui tale auiso, Rallegrasi Guerrin di tanto ardire, Nè sà, nè cerca, onde debbia uenire. Ma commendollo, e diede à tutti core, Con quell'animo fier, che sempre usaua, Quindici miglia fecero in sei hore, Doue il nemico campo si trouaua; Giunse Artilafo appunto, che'l romore, Sù'l far del dì, per tutto si leuaua Pel busto senza capo, che trouaro Di Validor, che'l uin gli costò caro. In questo, fuor d'ogni pensier d'assalto, Giunse Artilafo, c'hauea fatta porre, Di Validor sopr'una una lancia in alto La testa, nè diè tempo allor d'esporre, Come quiui facesse sì gran salto, E poca gente à l'arme anche ricorre Sì, che la moltitudin senza guida Altro ripar non ha, che fuga e grida. Viua Guerrin, uiua Artilafo, uiua Tutti i nemici di questa canaglia, Gridare ad alta uoce si sentiua Da suoi, mentre Artilafo fier si scaglia Sopra la trista gente, che periua, Senza mostrare un'ordin di battaglia, Che'l lor duca non uolse à tanta gente Hauer pur seco un sol luogotenente. Poi che Guerrin altr'ordine non uede E che più risparmiar debba sua schiera, Diè dentro anch'egli, senza hauer mercede Che tanta gente sì uilmente pera; Ma solo ad assalir quelli si diede, Che difesa facean con fronte altiera, Non si tien Dinoin le mani al fianco, Ben che in tal festa non n'habbia dett'anco Ma che bisogna più raccontar proue? Tempo è, che la uittoria gli si dia, Poi che nessuno incontro gli si moue, Qui (se l'istoria non dice bugia) Quei che moriron fur nouantanoue Migliaia, e poi di cento un tratto uia, Nouanta noue più s'aggiugne à questi Che fa, ch'à cento mila un uiuo resti. Manco un di centomila, e fu gran sorte; Ma credo, ch'aggiugnendo Validoro, A cui la traditrice fe dar morte; Era quel numer giusto quanto l'oro, Rampilla al padiglion sempre ste forte Fin che morto e fuggito era ogni Moro, Et raccolte Guerrin poi le sue schiere Vscigli ncontra, e si fece uedere. Sia ben uenuto il mio signore, e sposo, Gli disse inginocchiata, e riuerente, Il cor dicendo, che non fu pietoso Al suo fratel, pur'or gran gioia sente Oggi io beata, e'l Regno auenturoso Per te si fa; sì, che benignamente Tua sposa abbraccia, abbracia il Regno ancora Che colei, che tel da, per Dio t'adora. Era Guerrin da cauallo smontato Poi c'hebbe ognun ritratta l'arme cruda Con Artilafo, e Dinoino entrato Nel padiglion, ch'ancor di sangue suda, Pel tradito Signor suo sfortunato Da la seguace di Sinone, e Giuda; L'elmo tratto s'hauea, sì, che Rampilla Vedutol d'abbracciarlo si distilla. Guerrino de la cosa nouo al tutto, Voltosi ad Artilafo ne ridea, Artilafo pensando ancor far frutto, Narrogli tutto quel, che fatto hauea Disse Guerrin, poi ch'io so qui condutto, Non si può diuiar tal'opra rea, Che sapendol, non sol non l'harei fatto; Ma uoi di tal pensier fuore haurei tratto. E uoltosi à Rampilla, ancor che sia, Disse, lupa maluagia, mancamento, Parlar con bestia sì maluagia e ria, Bastimi ch'auilirmi non consento Di castigarti in altro; uanne uia Ch'io non ti do di uita saluamento, Perche tu'l merti, ma ti lasso uiua Che sì uil sangue chi s'apprezza schiua. Va sta nel numer di Malertia cagna, Che'l padre uccise, pel Greco minore, Vanne doue con quella s'accompagna Di Medea cruda, ancor l'empio furore, Va troua Tullia, & à imparar guadagna, Com'ella fe di Tarquinio l'amore Che'l carro sopra al morto padre trasse, Accio del Regno quel s'incoronasse. Vedendosi scacciar lei che credeua Esser come nouella imperadrice Raccolta, anzi per fermo lo tenea, Qui del tradir conobbe la radice; Non sì tosto dinanzi gli si leua, Del padiglione uscendo l'infelice, Che d'una spada in terra il pomo pose, Poi sù la punta il petto ui compose. E in uoce alta gridò, disperata; O Artilafo traditor, tal faccia Macometto di te, e tu scacciata Alma di Validor presto pracaccia, Giù da Satan pel mio spirto l'entrata, Che'l gran cõmesso error dietro la caccia, E così detto, la poppa si fere Sinistra, e sù ui si lassò cadere. Cader sopra la punta de la spada Lassossi; e u'infilzò la uita, e'l core, Il rio ferro mortal fece la strada Dietro à la schiena, onde passò di fuore; Non dica più chi molto non ui bada, Che non sia più l'amaro, che l'amore; Il corpo di Rampilla, e del fratello, Furo abbruciati in un sol cappannello. Daccordo poi Contropoli si dette, Che in fumo uide andar campo sì grande; Poscia Guerrin con le gente ristrette, Voltossi come parue in altre bande Ad Artilafo, che le sue uendette Vuol far per tutto quel, doue si spande, Lo stato, ch'era già de due fratelli Che sopra al padre uoltaro i coltelli. Andaro à l'alpe Calmidi, là onde Gran disagio sostenne l'oste tutto; In otto giorni arriuar sù le sponde D'un lago, nel cui orlo in luogo asciutto V'è la città di Brisna, fuor de l'onde, E perche sia lettor del luogo instrutto, Calido si chiamaua il lago; e presa Fu da lor tal città senza difesa. Presero Altranga, Crispini, e con esse Calenodis; & altre città molte, E quelle hauendo nel lor poter messe, Furon le genti tutte poi raccolte Che s'eran fatte il doppio assai più spesse, Però ch'assai n'haueua Guerrin tolte, Nel regno Zinanformi, poi n'andaro Ascaneticco, e Timati pigliaro. Appresso la montagna detta Argita Eran queste città, Zenifa poi Fu con le sopradette ancora unita, Che hà al fiume Tifai i termin suoi; Là doue giunse la gente fiorita; Ma perche par che'l caldo assai l'annoi, Fella Guerrin uoltar pel fiume Gine Verso doue Africa ha salse marine. Vscir del fiume molti rei serpenti, Ch'uccisero assai gente pel uiaggio; De le dì stero à giugner più di uenti, Da la montagna Argita fine u'l saggio, Guerrino gli guidò da camin uenti; Nè de la fame patir meno oltraggio, In capo à questo tempo capitaro A la città Tarondi, e la pigliaro. Due di la combattero, al fin si prese, Doue pigliar uenti dì di riposo, Da Artilafo, e Guerrin poi s'intese, Ch'uno esercito molto bellicoso, Gli uenia contra con bandiere stese; Sì che lassando stare il tempo otioso, Gli usciro incontra; e seppero tra uia Che gente era del Rè di Barbaria. Di quella d'Artilafo assai meglio atta, E usa ne le guerre; è ch'era gionta, Di là dal fiume Zirro, e quiui adatta Ciò che bisogna pel combatter pronta, Sù l'altra sponda hauea Guerrino tratta La gente, doue l'altra parte affronta De' Barbari il confin; col Regno, stato D'Artilaro, e d'Almonido insensato. Il Re fe passar certi per sapere D'Artilafo e Guerrin tutto l'intento, Et se con arme cercauan uolere Passare il fiume, e se l'intendimento E per amico, o nemico tenere Lui, che non è per sua difesa lento, Disse Artilafo, ch'à far non haueua Di là dal fiume, e ch'amico'l teneua. Ma che fin quiui e'far guerra era steso, Per far de due fratei giusta uendetta, Che non solo hanno il morto padre offeso; Ma quella eredità, ch'à lui s'aspetta, Gli hauean tolta in modo, e uilipeso. Ch'à sua uita cercauan dar la stretta. E che se'l simil a lor fatto hauea; Ha fatto quel, che segli richiedea. Fù'l Re contento di quella risposta, E de la morte de superbi frati, E fecero amistà sì ben composta Che prima che dal fiume separati Fusser, per far più l'amicitia accosta Ambasciador mandaronsi onorati, Che fer con Artilafo di tal sorte, Ch'una figlia del Re tolse in consorte. A Tunisi il Re poscia fe ritorno, Guerrino ch'esseguita ha la giustitia, Fece partita quell'istesso giorno; Di che prese Artilafo gran mestitia Che uolea farlo di corona adorno, Per collegarsi in eterna amicitia; Ma non potè, sapendo il suo disegno Oprar, perch'ei restasse, alcuno ingegno. Al fin, con occhi di lagrime pregni, Abbracciollo col cor, con braccia il cinse, Mostrò Guerrin di doglia aperti segni, E messer Dinoin pianse, e non finse, Spiccaronsi à la fine i campion degni, Poi che l'amor più uolte gli ristrinse, Gran doni haueua Artilafo ordinati, Che da Guerrin non furono accettati. Certi pochi denar sol per le spese, Che far doueua insieme col compagno, Per quel uiaggio il buon Caualier prese, Che nessun seruiua egli per guadagno; Ma prima gli auisò, che da l'offese Si difendesse del Dimon mascagno, Et che la fe di Cristo hauesse à mente Che l'hauea fatto in tal guerra uincente. Partiti d' Artilafo i Caualieri, Vider molte città, che fu la prima Britina, poi Simolla, ne i sentieri Medesmi; un'altra ancor di molta stima Detta Relemambecche, ne i primieri Liti del mar, sott'à l'istesso clima, Caprisa ancora, & Africa, e Fusare, Et Tunisi trouar su'l morto mare. Quiui dal Re raccolti si posaro Forse sei giorni, e nel partirsi à certi, S'in quel paese u'era, domandaro Nessun, che sia per dargli inditij certi Chi'l padre fusse, e suo lignaggio caro, O ne'luoghi abitati, ò ne i diserti, D'un negromante solo gli fu detto Nel monte Zina star, sotto uil tetto. Et che Galagabacho si chiamaua, Di pelo irsuto, e d'anni carco molto, Ond'egli, che parlargli desiaua, Due guide tolse, e uerso il monte uolto, Il uecchio ritrouò, che disegnaua, Ilqual, poi che Guerrino hebbe raccolto, E inteso il suo uoler, gli disse, figlio In questo non so darti alcun consiglio. Guerrino domando, s'al monte Atlante Vi fusse indouini atti à tale officio Costì, disse il uecchion, la turba errante De filosofi u'hanno solo inditio, Del corso natural, che passa innante Secondo i ciel, per cui fanno giuditio De le cose auenir, ma non di certo, Ch'ad un solo Motor'è il tutto aperto. Ma, perche parmi Caualier gradito, Per camin manderotti, che'l saprai, Pur che tu sia di capitarui ardito, Noi qui per uero habbiam se tu nol sai, Chel Re de Cieli ha certo stabilito, Ch'una Sibilla non dè morir mai Cumana detta, in fino al di prescritto, Ch'ogni ben giudicar deue, e delitto. Sta dentro à la montagna d'Apennino D'Italia in mezo nel cauato speco, Ella può dir, soggiunse l'indouino, Ciò che si fa qua giù nel mondo cieco, E'quanto è fatto, saluo che'l camino Di quel c'ha da uenir, perche l'ha seco Nel suò secreto chi dè uiuer sempre, Et sempre uisse con immobil tempre. Allegrossi Guerrin, per tale auiso Tolse (tornato à Tunisi) licentia Dal Re, non sendo però mai diuiso Di messer Dinoino à la presentia, Montati in naue giunser d'improuiso Al porto Guingercon con prouidentia Come in Cicilia fur, senza tor posa Andar per terra fino à Saragosa. In quella giunti, e capitati al porto, Per passaggio trouar, u'era una naue, Ch'al sepolcro n'andaua in tempo corto Di pellegrin diuoti fatta graue; Onde il buon Dinoin già fatto accorto, Che per uoto d'ãdarui anch'ei preso haue, E fu interrotto da la ria tempesta, Ora scusa non ha, se d'andar resta. Sì che saputo dal padron di quella, Se portar'il uoleua, e riceuuta La risposta del sì, tutt'hora, ch'ella Non sia da la fortuna ritenuta; Però che qualche segno di procella Di pochi di passati hauea ueduta, E gliel faria sapere incontinente, Che partir si uolesse il dì seguente. Al fin di tre dì più prese partito D'uscir del porto, e'glielo fe sapere Innanzi un dì, ch'ei partisse del lito; Onde l'Inglese con gran dispiacere Di ciò non sendo Guerrino auuertito, Tornossene à la casa de l'ostiere, E glielo disse, che far nulla uolse, Senza lui, e cosi la lingua sciolse, Qual mai uerso potrò pigliar, che sia Conforme à quel, ch'esprimer uuole il core, E che noua può darmisi più ria, Che da te separarmi, ò mio Signore, Poi che per te sol'ho la uita mia? Nè'l debito anco il uuol, nol uuol l'amore, Ma la religion, la fede, e'l uoto, Comanda, e uuol pur ch'io gli sia deuoto, A' qual tempo il farò, s'or non mi mouo, Ch'accetto mi sia più? che la partita, Sì malageuolmente pato, e prouo Per una fratellanza sì gradita? Ma poi che per te salua mi ritrouo La Dio mercede, e libertate, & uita, A'te licentia umilmente domando Nè partir uoglio senza il tuo comando. Tai parole esprimendo con fatica Dicea piangendo l'Inglese à Guerrino, Parea non men questa partenza ostica A'lui, ma dimostrando, che'l diuino Amor, si dee mostrar ne la fatica Consenti uolentieri à tal cammo, In questo conto, dicendo, non posso, Nè uò lasciarti tal'obligo addosso. Và, che sia benedetto, uà fratello, Ricordati pregar per me, che resto A'cercare anco questo luogo, e quello Per mio padre, acciò'ldebbia trouar presto E se ne inspiri in modo il mio ceruello (Se pur glipar ch'io faccia error'in questo) Ch'io faccia per sua gloria, e per mia pace Quel, che meglio gli par, quelch'à lui piace Promise Dinoin, come obligato A'maggior cosa, di far più assai, Che sopra à ciò non hauea domandato, Pur ch'à Dio piaccia, ch'ei ui giunga mai, Et egli à lui pregò da l'altro lato, Dicendo Signor mio s'arriuerai In Inghilterra, io uò, che mi prometta Visitare anco la mia terra eletta. Chiamasi Norgales la mia cittate, Che se dai di me noua, io sò di certo, Che ti sien fatte accoglienze onorate. E poi, ch'ognuno ha quel che puote offerto Fur cominciate le strette abbracciate, E l'amor de i lor cor mostrato aperto, Sì ch'à la naue l'un dipoi s'inuia, E l'altro ritornossi à l'osteria. Partissi l'altro dì da Saragosa Sconsolato Guerrin restato alquanto, E senza tor per certi giorni posa, A'Messina per terra giunse, e quanto Più tosto la passata faticosa Potè del Faro passò egli, intanto Giunse in Calabria, che in Italia, ancilla De'Barbari, cercaua la Sibilla. Giunse oue la rouina di Risana Da gli African d'Agolante fu fatta, Che de le sue rigaglie un'altra sana, Come si può ueder, fu poi rifatta Chiamata Reggio, quiui una semmana Stessi Guerrin, perch'era à sapere atta De la Sibilla la diritta strada; Ma giusto è già, ch'à riposar mi uada;

IL FINE DEL CANTO VENTE SIMOTERZO.

Aganippe riuolgi l'onde altroue, Che qvi' si chiama il rettor de le stelle, Colui, che'l uostro Apollo, e Muse muoue A'dar ragion di tante cose belle. Più sù sta, che Saturno il uero Gioue, Che non si pasce di nostre nouelle; Dunque lui chiamo, il fauor suo mi uaglia, Che la sua luce ogn'altro lume abbaglia. Maggior lume cõuiemmi, à quel ch'io ueggio Doue l'istoria à caminar m'induce Già ne l'istesso mio pensier uaneggio Se non m'aita la Diuina luce, Poi che trouar quella Sibilla deggio, Doue raggio d'Apol mai non riluce, Manda l'Angel Signor dato à Tobia, Ilqual mi scorga, e mostrimi la uia. Rimaso era Guerrin, com'ho già detto, A'inuestigar dentr'à Reggio l'entrata De la Sibilla, & in piazza ristretto De la cittate con molta brigata Vn uecchio gli portò certo libretto Molto antico, doue era disegnata La strada per figure, e per parole Di chi andare à la Sibilla uuole. Fu un proprio di quelli lo Scrittore, Ch'in persona u'andò con un compagno, Ilquale entrato dentro, ei restò fuore Più perdita uedendo, che guadagno; Quest'era à punto del libro il tenore Quant'in sostanza di quell'accompagno. Pigliando io col compagno il mio camino Dentro in Italia, ou'è'l monte Apennino. Trouammo intorno à sei miglia lontano Diserta la montagna, e spauentosa, Con parte insieme del uicino piano Strada da indi in là molto noiosa Senza sentier fatto da piede umano, Nè più uicina à tal monte si posa Città di Norcia, & è questa montagna Sì alta, ch'ogni uento l'accompagna. Già ui stauan grifon, ma il teremoto, Che sì spesso la scosse, gli ha cacciati, Ilqual, facendo il suo gran fondo uoto, Ha fatti i luoghi, ch'or sono abitati Da la Sibilla, che per lungo moto De i Ciel non sien da quella abbandonati; Le cui cagioni non fo io quì note, Vuolsi così colà, doue si puote. Quel, che'l libro notò tra scaglie, e scogli Del dirupato & orrido uallone, Soggiunse, dunque nessun sia, che uogli Là giuso andar, per fare opere buone, Che chi non può scemare i suoi cordogli, Mal quelli scemerà d'altre persone, Le sponde già uid'io da tutti i lati, Oue il mio socio andò tra i desperati. Tornai pentito, ch'osseruar non uolsi Di fede obligo alcun nel danno aperto, Nè del sito più basso altro raccolsi, Ch'io ne potessi dare inditio certo, In questo piccol libro à scriuer tolsi, Nè altro ti sarà lettore offerto, Non sapendo io narrarti altro, che questo, Il compagno saprà, s'ei torna, il resto. Non parue poco auiso tale inditio A'Guerrin, che non pose tempo alcuno, Per ritrouar l'udito precipitio, Et or, che'l tempo gli pare opportuno Giudica andarui, esser pietoso offitio, Perch'ei non uà, come u'andò più d'uno, O'per lasciuo amore, ò per tesoro, Senza speranza hauer nel uiuer loro. E Reggio di Calabria à dietro lassa, E le montagne poscia d'Aspramonte, Tanto ch'à la città di Norcia passa D'Apennin posta ne la prima fronte Sott'à la terra un'osteria più bassa, Prima, che dentro à la cittate monte, Smontò quiui fermossi quella sera, Là doue un'oste molto da ben'era. Era egli un'huom di bello aspetto, e saggio, Ilqual poi che smontar sì tosto ha uisto, Sì d'arme carco il degno personaggio, E che di rinfrescar l'hebbe prouisto, Domandogli qual fatto hauea uiaggio, A'cui rispose il buon campion di Cristo, Per tutt'il mondo ho già fatta la strada, Nè sò la donde io uenga, ò doue io uada. Huomo non è, disse l'ostier, colui, Che sempre stando, ou'egli nacque, assiso, Non sà dar conto'de paesi altrui, Et ha de'l'uman uiuer poco auiso; Io la mia parte in giouentute fui Da la mia patria gran tempo diuiso Cercai Soria, in Romania son stato, Spagna, Inghilterra, e Francia in ogni lato, Disse Guerrin, sapetemi uoi dire Quanto quì la Sibilla presso sia, Sollo, disse l'ostier, per quanto udire Si può per chi lo sà, perche tal uia Di fare à me non uenne mai desire, E uoi hauendo simil fantasia, Vi consiglio à cacciarla, ch'à sei miglia Presso nessun abitar si consiglia. Da la città, che qui ueder potete Dodici miglia a la Sibilla fassi Lontana, à meza strada trouerete Vna fortezza, che ui mostra i passi D'andarui, se d'andar disposto siete, Ch'altro di là non è, che sterpi, e sassi, Aquile, corui, e seluaggi falconi Fama è, che già ui stauano i grifoni. La sera il ragionar uoltaro altroue, Poi che l'auiso più là non si stende De la Sibilla, e d'altre cose noue Entraro à dire, e di uarie faccende; Ma poi che Febo à gli Antipodi moue L'ombre, & à noi al solito le rende, Andonne à prender Guerrino riposo, Fin che l'orto uenisse luminoso. Chiese un famiglio à l'oste la mattina, Che fin ne la città l'accompagnasse, Che men d'un quarto miglio era uicina, Non parue à l'oste, che altri u'andasse, Ch'un suo figliuol di molta disciplina A'l'arme anco uso, quando bisognasse, Ch'ancor, ch'egli attendesse à l'osteria A'più d'uno hauea tratta la pazzia. E giunto in Norcia il buon Guerrin deuoto La santa Messa udi, poi si raccolse In piazza, e quiui gli fu fatto noto Ciò, che de la Sibillà intender uolse Parlò con certi, ma nel primo moto Altro ragionamento con lor tolse, E per non far la sua uoglia palese, Posesi à ragionar d'altro paese. Gente era, à chi parlaua, forestiera A' cui piaceua il ragionar del mondo, Entrò Guerrin poi con bella maniera De gli Idoli à parlare, e poi secondo, Che gli par, che richiegga la matera D'incantamenti il uaneggiar profondo; Onde un, c'haueua simil fatto à mente De la Sibilla disse in continente. Ch'era in quelle montagne giudicata, E fu al tempo de l'incarnatione Di Cristo, ne la Vergine beata, Per cagion, che la sua opinione, Fu, ch'essendo ella uergin conseruata Senza peccato di corrottione Tenea per certo, com'hauea desio, Ch'in lei uenisse il gran figliuol di Dio. Ella, poi che fallò sì gran pensiero Rimase disperata, e di se fuore, Allor colui, che del ciel tien l'impero Per farla rauueder di tanto errore L'ha giudicata in questo luogo nero, E per più suo dispregio, e più dolore Fà ch'ella sà del mondo ogn'altro stato, Benche tristo, esser del suo, più beato. Chi è colui, disse Guerrin, che puote Questo sapere? e chi ce ne fa fede? Vn, che di bianca lana hauea le gote Crespe ripiena, ch'ad udir si diede Quel ragionar, disse le costui note, Non son da disprezzar, perche si crede Tutto esser uero in questa nostra terra, Et erran glialtri ancor, se costui erra. Et io, che uecchio son, già mi ricordo Tre giouani uenir quà, che u'andaro, Che s'eran data la fede d'accordo; Ma uno sol restò, gli altri tornaro Staua attento Guerrin, nè parla à sordo Il uecchio, che segui, sol capitaro A'certo Romitorio i due, uicino, Ch'è de l'entrata quasi in sù'l confino. Ma che i dirupamenti spauentosi, E'l consigliar di quei santi eremiti, Gli rese de l'andar si paurosi, Ch'à dietro ne tornaro sbigottiti, Et appresso anco i romiti pietosi, Gli mostraro un ricordo di quei siti, Che lassò quiui un messer Lionello, Di Francia, ricco giouanetto, e bello. Vel fece ire l'amor d'una donzella, Che d'andarui, con essa si diè uanto, Ma trouando l'entrata assai più fella Che scriuer non si può, lassò da canto Per forza tale impresa; e diè nouella Come dal foro orribile esce tanto Gran uento, che non sol gli staua à fronte; Ma non ui stan le pietre di quel monte. Dal romitorio esser di uia coperta, Vn miglio lunge (disse) d'alto à basso, Vn braccio larga ua sol per quell'erta; Mal trita, e pare uno spaccato sasso, Sassi sospesi ha la roccia deserta; D'onde assai serpi son, che uanno à spasso, Et spesso nel passar di questo in quello, Qualcun ne casca, e fa di lor macello. Il colle aspro salito, s'appresenta Vna Montagna asprissima spaccata, Per mezo, ne laqual chi d'andar tenta A la Sibilla, conuien far l'entrata, Vn'altro miglio u'è d'andata lenta; Però ch'e da rouine tramezata, Qui l'huom canuto tacque, e licentiossi Ognuno, & à l'albergo suo tornossi. Assai di quell'inditio sodisfatto Guerrino ritornossi à l'osteria; Doue l'assalse gran pensiero in fatto, Pensando douer far sì dubbia uia; Erasi ne la camera ritratto, Là doue l'oste facea tuttauia Il pranzo apparecchiare, il cui sapore, A sua bocca nascoso hauea'l dolore. Ben s'accorse l'ostier del suo pensiero; Ma con pietoso affetto, seco tacque, Per ch'à la nobilta del Caualiero, Qualche rispetto usar prima gli piacque; Ma poi ch'ei vide il duol farsi seuero, Fino à la sera, che nel letto giacque, Entrò poi ne la camera, ov'egliera, Et così disse, con bella maniera. Da quell'hora, ch'entraste in casa nostra, Tanto mi piacque il uostro alto sembiante E la grata, e gentil presentia uostra, Quant'habbia Cauallero ò uiandante; Che da questa mattina, ch'ella mostra Il petto d'allegrozza hauer uacante; M'è forza domandar ui la cagione, Ben ch'io conosca esser presuntione. Perche se di conseglio, se d'aiuto; Ouer d'allegerire il mal cercate Col farne ad altrui parte, io son uenuto, E s'in me sarà fede, or mi prouate, Poi che Guerrino alquanto hebbe taciuto, Cominciò con parole addolorate A dir dal dì, ch'Epidonio comprollo, E ch'in Constantinopoli portollo. Fin'al presente; e di poi la cagione Perche si mosse andar pel mondo errando, E replicò con ferma opinione D'andar fino à la morte seguitando. Piangeua l'oste per compassione De la fatica fatta, e che cercando Andaua per esporsi anche à maggiore Da porre, à chi pur sol l'ode, terrore. S'offer se appresso, (poi che pur fermato Il pensiero haue) di mettersi al tutto, De la Sibilla al luogo disperato Pensando cor di tal fatica frutto) Di far quanto da lui sia ricercato Fin ch'in tal luogo lo uedrà condutto; Ma ben lo prega con pietose note, Perch'ei non uada, quanto pregar puote. Accetto, Guerrin disse, quest'offerta Che mi amoreuole, e cortese, Et à l'umanita, ch'usate aperta; Da me faran debite gratie rese; S'auien, ch'à l'aria ritorni scoperta E che le forze non mi sien contese, Accetto sol, che'l caual mi teniate Vn'anno, e l'armi, da me si pregiate. E pel gouerno del cauallo haurete Da me tant'oro, e tante gioie care, Che per un'anno tener il potrete, Et un garzon potrete anche pagare; Il qual gli attenda, ma se uoi uedete Che per due anni io non sia per tornare, Memoria fate pure aperta e chiara; Che buõ per quel, ch'ale mie spese impara. Sol una guida, se possibil fia, Che mi conduca al romitorio santo Indi uicino, e mi mostri la uia Vorrei, s'alcun d'andarui si dà uanto Disse l'ostier, con la persona mia Là u'offero à guidar, facendo quanto Poi del cauallo, e de l'armi mi dite, Da uoi tanto pregiate, e sì gradite. E tre anni s'offerse d'aspettarlo, Et quattro, e cinque, pur che tanto uoglia, Volse Guerrin per sua guida accettarlo, E al primo albor, che l'Aurora scioglia, Volsesi confessar d'ogn altro tarlo, Che l'anima di uitio in se raccoglia; Ma domandando esser communicato, Il prete al tutto gli l'hauea uietato. Con dir, che mentre che'l pensiero hauea D'andar tra gente, ch'è del ciel ribella, Communicarlo gia mai non potea; Ma Guerrin prega, e così gli fauella, Che sol per caritate, che gli ardea Di saper chi per suo padre s'appella, Et onorarlo quand'ancor sia uiuo; Lo fa gir pronto in luogo sì cattiuo. Communicollo il Sacerdote al fine; Non trouando pensier maluagio in esso Lassò, ch'offici, e che messe diuine Per lui si celebrasse ancora appresso; In manco poi di due hore uicine, Con Anuello à caual si fu messo, Che così l'oste haueua nome, e prese Con seco quel, ch'al suo bisogno intese. E prima l'armi, e'l cauallo, e la spesa Gli consegnò, che per più di due anni Poteua largamente con attesa, Di quanto egli promesse senza danni De la sua borsa torsi quell'impresa; Così principio diede à i noui affanni, Et portò (com intese esser mestieri) L'accialin, l'esca, solfo, & due doppieri. Vna tasca, un barletto di uin pieno, E cacio, e pan per mangiar ne la grotta, Due ronzin tolse l'oste, accio che meno Gli rincresca, trouando le uie rotte, Passaro tosto l'amico terreno; E la rocca trouar doue son dotte Guardie del passo da Norcini messe, Per saper chi passar d'indi uolesse. Da Norcia sei miglia è quella distante, Eraui un castellano molto ardito Sol per uietare il passo ad ogni errante Ch'andare à la Sibilla habbia appetito Al giugner lor, le guardie fatte auante; Non so, diss'un, s'ancora hauete udito, Che chi uuole al castello auicinarsi, Conuiene al castellano appresentarsi. Disse Guerrin, d'ogni cosa auisati Fummo, quand'à uenir quà fummo uolti. Così d'accordo à quel furo menati Perche san ben, che denno esser distolti; Et ricerchi à che far ui sieno andati; Così dentro à le mura furo tolti, A quai quel castellan feroce in uolto, Ch'animo quà ui guida (disse) stolto? L'ostier disse, Signor à me non dite, Ch'io son uenuto per tornare indrieto; Ma questo caualier qui solo udite, Che non terrauui il suo pensier segretto. Tutte due, disse il castellan, fallite, A che fin dunque tu gli uieni drieto? Per mostrarmi, Signor (disse Guerrino) Qual sia de la Sibilla il buon camino. L'alma (diss'egli) e'l corpo iui uolete Perder, senza speranza d'uscir mai, Conosco gentil huom, che ui mouete, Dicea Guerrin per carità, ch'errai A tormelo in pensier; ma se saprete Vna minima parte de'miei guai; I quai, mi fanno al mal pronto uenire, So che non biasmerete il mio desire. E dice, poi che replicar gli accade L'inquieta sua uita; ch'egli il caro Padre suo per diuerse e strane strade, Non perdonando al greue duolo amaro, Cercando è ito; sì, che di pietade Deue esser degno, poi ch'egli discaro Suo affanno non hà; per simil conto, Per gire à la Sibilla è quiui gionto. Però c'hauendo l'Asia circondata Con l'India maggiore, e la minore, E d'Africa la parte, doue data In Barbaria mi fu (disse) sentore, Ch'altri che la Sibilla condennata In questì monti, dal sommo Motore; Non mi può dar notttia, ò mostrar uia; Là donde uenga la progenie mia. Sì, che per me, degno Rettor, pregate Dio sol, che de l'andar saluo mi renda; Nè sendo io disperato, ir mi lassate, E del mio indugio sol pietà ui prenda; Poi che d'andarui pur deliberate; Rispose l'offitiale; e ch'altra menda; Là non ui tira, sol per nostro onore, Vo che parliate col mio confessore. Et il suo confessore, e cappellano, Gli diede, accio che ben l'essaminasse Il qual, trouandol de la mente sano; Ancor che molto l'andar gli uietasse, Riferi pure al fine al castellano, Che quand'ei uoglia andare, ir si lasciasse Perch'era huom giusto; e nel timor di Dio Visso era sempre, e c'hauea buon desio. Fecegli onore il castellan per questo, Concessegli l'andata, e gli promesse Dio di pregar, come l'hauea richiesto; Così Guerrino à caminar si messe Col suo fidato ostiero, e tutto il resto Si ste del dì, prima che si facesse; Da lor sol quattro miglia, nel salire L'aspra montagna con lor gran martire. E grand'affanno, à chi cerca calcando I crudi & erti sassi, passeggiare; Però che più pericolo era quando A quei ronzin si facesser portare, Che non han man, con che attaccarsi, stãdo Loro à caual, sì ch'assai meglio pare, E più sicuro assai salir pedoni, Per precipitio fuggir de i ualloni. Tra inculti passi, e tra pungenti spine, Tra precipitij, e laberiniti strani, Tra'l mancar de la luce, e'l giorno, al fine Son giunti col fauor di piedi, e mani, Doue le solitarie discipline Per purgare i pensier lasciui e uani, Dauan tre romiti opra, giusti e santi, Pe i peccatori orando al mondo erranti. Tra due cime di monti, il lor deuoto Romitorio era posto, per ilquale Conueniua passar, ne più remoto Luogo, d'andarui daua alcun segnale, Fecero il lor uenir bussando noto, A la porta del passo naturale, Doue un Romito di spauento pieno Cristo, disse, ci aiti Nazareno. Da l'alto Impero, il prego nostro intende Signor, seguiron glialtri à cantar'anco Spirti maligni, qual pensier ui rende; O qual sì rio destino in uoi sì franco, Disse il primiero à rouinarui attende, Ch'al Dimon dato hauete il soglio bianco, Se sì uilmente de la uostra uita Gli lassate dispor senz'altra aita? Guerrin rispose, santo padre quello Che qua mi manda, non è pensier vano, Nè di Dio son, come dite, ribello, Ma credo in esso da fedel cristiano. Hauendo aperto il frate uno sportello De l'uscio, e'nteso quel parlar umano. Aprì la porta, e si se meglio dire La cagion, che gli se quiui uenire. Molti anni son, (disse Guerrin) ch'io uado Pel mondo, ch'à cercar poco mi resta, Per saper noua del mio parentado, Or sieui mia uenuta manifesta, Ch'à la Sibilla uengo, mio mal grado; Ma l'impresa mi sforza tanto onesta, Che da l'amor tirato, qui in'inuio Per saperlo or, pur che'l permetta Dio. Vdendo la cagion, ch'era lontana, Dal creder loro i benigni eremiti Che guida il buon Guerrino à quella tana, La porta aprir con gratiosi inuiti, Per ch'essendo la notte prossimana, E lor de la fatica indebiliti; Mosse quei la ragione, e la pietade Di dentro accorli con gran caritade. Poi ch'accettati co i caualli furo, Di cibo e di riposo ristorati; Con bel sermone il pericol futuro Gli dimostrar questi deuoti fratì Dicendo, se per suo mal caso duro Auien, che i corsi lor uital mancati In fra quell'anno sien, che gusteranno De l'anima e del corpo eterno danno. Oltre che chi ui ua, di Cristo amico Esser non puote; e molt'altre ragioni Belle allegaro, che tutte non dico A quai benigni e pietosi sermoni Guerrin rispose, io sol nel luogo ostico, Cerco d'andar, sì, che de'uostri buoni Consegli qui l'ostier non ha mestiero, Et io per me dirè, che dite il uero. Ma quando à uoglia uil non acconsenta, La quale in me non è nè sia lontano De la speranza, ch'io non tengo lenta, Che sol depende dal Motor soprano; Spero che la potentia, ch'altri tenta, In me non ponga, nè potrà por mano, Ch'altro non cerco di tanta fatica, Che sol chi fu mio padre ella mi dica. L'opra di carità potrà scusarmi Appresso à chi uede i nostri pensieri, Che del medesmo ho uoluto informarmi, In diuersi del mondo, e stran sentieri; Nè ho potuto d'altro contentarmi, Che da certi indouin, ben che leggieri Mandato son, che qui posso sapere Quanto u'ho detto; e quant'è'l mio uolere. Sì, che per carità, piaccia anco à uoi Acconsentire, e consigliarmi quanto Far debbo, che'l pericol non mi annoi, Che (come dite) è prossimano tanto; A cui disse il più uecchio padre, poi Che uoi ci promettete por da canto Ogn'altra uoglia, e l'opera seguire, Di caritade, ascoltate il mio dire. Ben che non sia ragion mai più capace, Che'n Dio sperar, nè lo tentar più innanzi Che quel, ch'oprar per sua bontà gli piace; Ma perche'l quarto precetto dinanzi Hauete dal Rettor di nostra pace, Che par che qualchedun de glialtri auanzi, Che onora padre, e madre; e non sia lento, Questo fa ch'io ui cedo, e son contento. Ma ui conuiene armar del nome degno Di Cristo, in ogni uostro detto, efatto, Cristo m'aiti col suo santo segno, Direte sempre, e così sarete atto Ad uscir fuor di quel perduto regno, Appresso, per decreto, e per contratto L'armi, che porterete per diffesa, Sette uirtù sien de la santa Chiesa. Le quattro Cardinal, che son Fortezza, Giustitia, con Prudentia, e Temperanza De la Teologia, che sì s'apprezza, Torrete Carità, Fede, e Speranza De i sette Vitij ancor la mia tristezza Fuggite, c'hanno per maligna usanza, L'alma precipitar di chi gli segue, E perche son mortai, non san mai tregue. La Superbia, con Ira discacciate, L'Accidia, e l'Auaritia sitibonda, Che cose false assai ui fien mostrate Di che quel luogo in ospitale abbonda Nel petto anco l'Inuidia non serrate, La Gola nel mangiar non ui confonda, Però che cibi molto eletti haurete, Nè, che quei falsi sien u'accorgerete. Ma quel d'onde ritrar non ui potreste In modo alcun, se dentro ui cascaste, Però che con lasciuie disoneste, S'ingegneran di far, che seco usaste Ha tanta forza quest'oscura peste, Che s'in lussuria con lor ui lasciaste Cader, sareste legato in eterno Dopo tal luogo giù nel cieco inferno. Il nostro peso è di farui fuggire I pericoli, iquai siamo obbligati, Quei che uogliono andarui d'auuertire, Nè colpa habbiam se son poi smemorati, In uno instante uedrete apparire I lor sì gentil uisi, tramutati, In sì putride forme, e brutti aspetti, Ch'ogni uoglia trarranui i lor difetti. Fra quanto tempo uscir mi fia concesso? Disse Guerrin ; risposegli il Romito, Fin che'l Sol nel suo uolger sia rimesso Nel luogo onde allor sarà partito, Quando tu ne la tomba ti sia messo, Tosto disse Guerrin, sarò spedito, Perche in uentiquattro hore il Sole arriua Donde quel tempo innanzi si partiua. Non, disse quel Romito esperto, e saggio; Quella non è del Sol uolta perfetta; Ma uia più lungo suol far suo uiaggio, Prima, che donde si parte si metta Trecensessanta sei dì di uantaggio, Et hore sei, à ritornare aspetta, Prima ch'ei torni al suo lasciato segno, Aspetta ch'ora il modo ti disegno. Nel sopra detto tempo cerca tutti Del zodiaco i dodici gran segni, Comincia in Ariete, che di frutti Nel mezo Marzo gli arbori fa pregni, Tal segno è de li tre caldi, & asciutti, Et per ch'à gli altri, c'ho da dir si uegni Infino à dì quattordici, e uent'hore, E meza, d'Aprile è questo Signore. A' quindeci di Maggio dura il Toro, Et hore noue, e Gemini uien poi, Ch'à quattordici di uà suo lauoro Di Giugno, e diciotto hore i termin suoi Comincia Cancer, e prende ristoro In fin ch'à giorni quindici siam noi, Et hore sei di Luglio, e fino Agosto A'quattordici dì Leon u'è posto. Et ha più hore noue il fier Leone, La Vergine poi segue il suo camino A'quattordici dì questa si pone Di Settembre, e tre hore ha suo domino, La Libra uien, che cangia la stagione, Che pure à dì quattordeci ha confino D'Ottobre, & hore dicisette appresso Scorpion dopo tal tempo poi u'è messo. Di Nouembre à quattordici anco arriua, E di Decembre à quattordici pure Sagittario, e diece hore, che nel priua Poi Capricorno, c'ha le sue misure Fin di Gennaio à tredici; nè schiua Dopo sette hore più di tai figure Aquario dar ricetto à questo Sole, Che di Febraio al mezo durar suole. Cioè, à di quattordici, hore sette Entra ne i Pesci, e dà poi fine al corso, Il cui segno à dì quindeci si mette, E' dodici hore, e poi riuolta il morso Al medesimo caminn; diece perfette Hore più dì trenta uiene in corso In ciascun segno, e la uolta, c'ho detta, E di tal tempo naturale, e retta. Sì, che in quell'hora riuoltato l'anno, In quel medesimo punto che'l Sol torna Doue tu entri, l'ostetrici sanno, De lequai n'è quell'empia stanza adorna, Quãdo tu debbi uscir per men tuo danno, Et à mente l'uscita ti si torna Da loro, & elle faranti auisato, Ch'à lor mal grado l'ha Dio ordinato. Tre giorni innanzi l'hora a ti fia detta, E ricordata fino al punto estremo, Nè posson con inganno, ò conuendetta Vietar l'obligo lor, che l'han supremo, Guarda tu stesso pur, che non ti metta A' peccarui, che d'altro error non temo Sol che uolendo uscir questo ti basti, Che là sarai menato, donde entrasti. Seguitò l'Eremita quella sera, E poi de l'altro di gran pezzo ancora Di consigliarlo con bella maniera, Nè l'ostier si parti, per fin che fuora Non lo uide inuiare, allor con uera Carità pianse, e Guerrin poi che l'hora Vedea del dì passar, prese partito, E così disse, al deuoto Romito. Assai gratie ui rendo, e più sicuro N'andrò del ritornar, poiche forzate Son le ministre di quel luogo scuro A' rimostrarmi le fatte pedate; Pregate Dio per me, perch'io ui giuro, Che da me non saran mai contentate, E tanto mostrerò là giù buon uiso, Quanto mi serua ad hauer qualch'auiso. Da lui si confessò di nouo, e presa Benedittion da glialtri due con quello Voltossi con pietà di doglia accesa Ad Anuelo, e disse, car fratello, Ti raccomando la già tolta impresa De l'armie del Caual, mentr'io ribello, Mi fo di questa luce, e con quel duolo, Si partì, che dal padre fa il figliuolo. Dolse à i Romiti, dolse à l'oste quanto Si puote imaginare, allor, che mosso Lo uider, nè poter frenare il pianto E forse ottanta passi sopra il dosso L'accompagnar del monte, c'ha da canto Profondissime ualli, e in cima è grosso Vn braccio e mezo, doue si camina, E spesso qualche sponda ne rouina. Ma Guerrin dilungandosi trouollo Sempre più stretto, e più pericoloso, Di sorte; che più uolte riguardollo Sopr'un piè fermo, e stauasi dubbioso D'andare, ò del tornar; ma confortollo L'animo, che riprese ualoroso, La spada, c'hauea seco, tenea'n mano, E sopr'essa appaggiauasi pian piano. Da l'altra mano il barlotto tenea La tasca, ou'era'l pan, l'acciaio, e l'esca Dopo le spalle legato s'hauea. Così, perche la cosa gli riesca Con due canne legati gli pendea I due doppieri, accio che l'ombra gliesca Dinanzi à gliocchi, ne la tana scura Ch'altramente l'andata è mal sicura. Vn miglio lungo fu lo strano passo, Che più terribil non formò natura, Ch'ora d'un rozo, e dilauato sasso, Tutto crepato, di strana mistura, In capo al qual già dal pensiero lasso Giunse Guerrin, non sì, che la paura Non lo faccia auuertir doue egli sia, E doue ancor debbia pigliar la uia. Forni quel passo al piè d'una montagna Per mezo sfessa da la cima al fondo, La cui altezza i nuuoli accompagna, Guerrin si mise in quel suo gran profondo, Che poca luce del Sol ui guadagna, Et ha d'una grossa aria greue pondo, Il quale oscuro, e tenebroso uelo, Cela lo stretto fesso, à gli occhi il cielo, Poca luce del dì quel uarco uede, Perche da capo uien quasi congionta L'alta montagna, e uien largo da piede, Doue il passo Guerrin calcando affronta, Al qual molto impedisce il passo, e'l piede, Assai rouina, che da l'alto smonta, Di dì in dì, onde quella uia chiusa A' Guerrino è faticosa, e confusa. Pur più sicura assai, che la primiera Prima, che dentro entrasse esser pareua, Che precipitij di ualli non v'era, Onde sicuro il passo ui faceua. Di quindi uscì, ch'era appresso la sera, E quando gliocchi in giro, e in alto leua In una piazza si trouo quadrata, Da altissime ripe circondata. Per ogni uerso cento braccia resta Larga la piazza, quantunche ripiena D'assai rouine, che fan manifesta Da serpi stanza, e senza fin ne mena Guerrin dicea tra se, quest'è la testa D'un gran dragone, che l'ale, e la schiena Ho già passate, e prima la gran coda, Che per passo, à chi uiene, in prima snoda. Coda chiamaua egli lo stretto passo Del poggio, il qual da Romiti partiua Tutto d'un crudo, e dirupato sasso, Ogn'ala del dragon, ch in alto giua La spaccata montagna d'alto à basso, Per testa, ne la piazza alta appariua Vna montagna d'ogn'altra maggiore Da spauentar sua uista ogn'aspro core. Quant'è, dicea, la coda uelenosa, Quanto son l'ale di spauento piene, Quant'inculta la schiena aspra, e rugosa; Ma del uentre maggiore, e de le schiene Assai mi par la testa più ombrosa, Ne le cui caue entrare or mi conuiene, Di quattro entrate la uide capace, Nel piano stesso, oue la piazza giace. Quiui doueua entrar, ma differire Volse, poi che la notte soprauenne, Per fin che'l nouo albor debbia apparire, E in mezo à certisassi si conuenne A' giacer, ben che con poco dormire, Che molto albergo non u'era solenne; Leuato il Sol, pria che d'indi partisse, Diuotamente i sette Salmi disse. Dette le sante preci, la uia prese Fattosi prima de la Croce il segno, Verso le bocche, & un doppiero accese, Per l'ombra discacciar dal luogo indegno, Ma prima alquanto à l'entrar si sospese, In qual di quattro buche il Cãpion degno Douesse entrare, e di sospetto pieno Raccomandossi à Cristo Nazareno. Quindi si mise in una de l'entrate, Che poco innanzi in una capo fanno, E da lui cominciaro esser cantate Preci diuote, per fuggir l'inganno, Che usan di Lucifer le brigate; Ma per non darui più tedioso affanno, Lasciamlo andar, che se tornate poi Al mio cantar, non andrà senza uoi.

IL FINE DEL CANTO VENTESIMO QVARTO.

Dal'alto ciel, Signor, mio priego intendi, dammigor nel terror de i disperati, Ne la mia mente la tua luce accendi, Ch'io non lassi Guerrino in fra i dannati. Tu gran Signor, che d'ogn'intorno splendi Aiutalo à tornare, oue più grati Ti son gli amici, e per questo ti piaccia, Che com'ei si saluò, noto anch'io faccia. Trinità santà, e solo Dio uerace Ne l'eterno tuo nome, uà cantando Il buon Guerrin, saluami, se ti piace, Ne le mani il doppier tenendo, e'l brando; La diuina speranza fallo audace, E tra sassi spaccati caminando. Trouò la grotta in più parti diuisa, Nè segno alcun del uer camin l'auisa. Andauasi auolgendo stranamente, E per tre uolte gli parue uedere Vno spiraglio, che da l'eminente Parte de la montagna può cadere; Ma perche'l fesso è si da gli occhi assente, In forse stassi, e pargli trauedere; Ma quel che più gli par di tutto strano, Che uedeua'l doppier lograrsi in uano Nè più tornare à dietro hauria saputo, Che ben guardaua ma'l tempo era perso Per riconoscer donde era uenuto, E già si giudicaua mezo sperso Deh Cristo Nazareno il tuo aiuto, Dammi, diceua, con pietoso uerso Non mi lasciar sì uilmente perire, Onde à Dio piacque, che riprese ardire. Riprese ardire, e se mente sicura Spinsesi in una buca, ch'era fatta D'una profonda, & ampia spaccatura. Ch'andauain giù, com'una Cataratta, Vanne Guerrin calando a la uentura, E col doppier meglio che può s'adatta A'farsi lume, e ne l'oscura tomba Sente, che gran romor d'acqua rimbomba. D'un'eminente altezza, à piombo giua Vn'acqua chiara, che'l Cristallo auanza, E quiui al basso in un bel rio ueniua; N'altro ha di buõ quell'epiae brutta stãza; Quãdo Guerrino à la fresca acqua arriua, E ch'esser lasso si uede a bastanza, Del pessimo camin quiui posossi, Mangiò, prese riposo, e rifrescossi. Spense appresso il doppier, dormiui un poco Racceselo, drizzossi, e passò il Rio; C'hauendo esca et acciaio, haueua il fuoco A'sua postà, è ricorse al sommo Dio, Che lo rendesse libero in quel luoco, Et gli faccia trouar quel c'ha desio, Nè molto stè, poi che in camin si messe, Ch'in solito capriccio il cor gli oppresse. Nel passo, oue l'andata era men piana Mouendo il piè, sentillo acconsentire, Come se stata una balla di lana Fusse, e parlando così prese à dire Con l'istesso formar di uoce umana; Non ti par, disse, ancora il mio martire, Tanto che basti? e c'hauer peggio posso, Poi ch'ancor tu mi poni i piedi addosso? Ancor che sicurissimo per tutto Pusse Guerrin, la chioma à questa uolta Driazandosegli in testa, l'ha condutto Pur'à tener la sua andata stolta, Ben ch'al fin per ueder l'animal brutto, Essendo già passato, diede uolta Col lume innanzi, e con la spada in mano, Per ueder s'egliè bestia, ò corpo umano. Dicendo, chi è quel? subitamente, Che si lamenta, e m'attrauersa il passo? Di quattro braccia un terribil serpente Vide giacere addoloratò e lasso, Ilquale à lui rispose in continente. Sappi, che qui già non mi stò per spasso, Ma sonui à mio mal grado condannato, E d'uman corpo in serpe tramutato. Condannato son qui doue tu uedi, Qui star conuiemmi fino al gran giuditio, Ne posso un dito pur mouere i piedi, Disse Guerrin, chi fusti, dammi inditio? A'cui l'animal brutto, in darno credi, Se pensi ch'io ti ceda in questo offitio, Dimmi i tuoi fatti prima, e chi tu sei, Et io poi seguirò dicendo i miei. Il desio di saper, fe che Guerrino Narrò prima chi gliera, appresso come E qual cagion gli fa tor quel camino, Che gli dourebbe far drizzar le chiome. Sia maledetto il mio crudel destino, Seguì poi l'animal, Malcho hebbi nome, Che fin da picciolin sempre hebbi à schiuo Ogni ben fare, e d'ogni ben son priuo. Piacquemi ueder male, & oprar peggio, Nè mi parue mai sana la fatica, Sbarbare ogni uirtù cercai del seggio, Et rouinare ognun, che la nutrica. In odio hebbi quel ciel, ch'or io non ueggio; Ma che bisogna, che tant'oltre dica? Non portai solo à tutto l'uman sesso Odio, ma non uolea ueder me stesso. Quest'inuidia crudel tanto mi uinse, Che di trentatre anni uenni à tale, Che'l tossico, e la rabbia quà mi spinse, Con desio d'acquistare ordin fatale, Come più uolte qualcun mi dipinse Di poter far nel mondo estremo male Inuisibil andando in ogni terra Incitando rapine, incendij, e guerra. Ma quando à la Sibilla entrar pensai, Ch'à forse cento braccia è quì l'entrata Doue una porticella trouerai, La quale è di metallo lauorata, Io non sì tosto, per entrar picchiai, Ch'entrarui non poteua mi fu data Risposta, per la mia pessima uita, E di dispetto pien feci partita. E tutte quante le cose create Mi posi à bestemmiare, e chi ancora, Così l'haueua da prima ordinate Doue in quel punto, non solo in quell'hora, Fur l'umane mie membra tramutate In questa forma, che tu mi uedi ora Il gran di del giudtio solo aspetto, Ch'anderò poi nel centro maledetto. E così maledetto ti rimani, Disse Guerrin, serpente scelerato, Che tutti i preghi à Dio per te son uani, Se uerso lui sì mal ti sei portato; Giusta fu la sentenza à gli empi, e strani Tuoi fatti; allora il serpe infuriato, Disse, così tù fussi in tal tormento, Come ci n'è qui intorno più di cento. Io sono accompagnato, e tal si dice Al mondo, ch'egli à la sauia Sibilla Si gode, e forse tornerà felice, Che meco nel gran duol quì si distilla, Nè partirassi del luogo infelice Fino al sonar de la diuina squilla, Allor sien condannati lor con meco Nel più basso camin del regno cieco. De la croce Guerrin si fece il segno, E chiamò Giesù Cristo Nazareno, Lasciando il brutto rio serpente indegno, Imperò che'l doppier ueniua meno; Giunse poi tosto al Sibillino regno, Di deuoto feruor tutto ripieno, La porta di metal trouò serrata, Ch'era tutta à demoni figurata. Erauene un tra glialtri pronto in uista, Che parea uiuò, con un breue in mano, E con un dito mostraua la lista, Che diceua, tu ch'entri spirto umano, Chiun'anno dentro passa, uita acquista, Mentre che questo mondò starà sano; Ma quando il disfarà, chi n'ha il gouerno, L'anima, e'l corpo tuo fia de l'inferno. Letto il breue Guerrin, tre uolte disse, Tu Cristo Nazaren saluo mi rende, Poi picchiò, che la porta gli s'aprisse, Tre damigelle arriuaron stupende, Apriro, e prima, ch'ei dentro apparisse, Con quel dolce parlar, che l'huomo acc&etilde;de Disser con quanto può mostrarsi amore, Ben ne uenga Guerrin nostro Signore. Più dì son, ch'aspettiam la uostra grata, E benigna presenza, perche quella Da noi fusse seruita, & onorata, Acciò possiate goder la più bella Donna, ch'al mondo sotto il ciel sia nata, E che di uoi contenta resti anch'ella, Tra se dicea Guerrin, presto date opra, Per metter la mia impresa sottosopra. Poi l'incantata stanza appar sì chiara, Con sì splendente Sol, sì uago cielo, Che star dubbioso un pezzo si prepara, Ch'ordin sia quello d'incantato uelo, Menato e in un giardino, ù sono à gara Carchi di frutti il fico, il pero, e'l melo, E quant'altri quà sù mai fe Natura La giù son carchi fuor d'ogni misura. L'aure suaui, i uaghi fior, le rose V'abbondan, perche sempre è sua stagione In simil luogo; là giù sono ascose Le tempeste, le neui, e l'Aquilone, La cui uaghezza, quasi in oblio pose Al buon Guerrin la prima intentione, A'non uoler, che'l uan disio gli scocchi, Gli conuerrebbe andato esser senz occhi. Pur ueggendo l'errore, in che cadere Potrebbe, ne la mente sua ricorre A'Cristo Nazareno, ond'ha potere Quel nome sì, che quell'incanto aborre. Guidanlo le tre belle messaggere In certe logge adorne, donde corre D'ogni frutto si può, che del giardino, Vi surgon sì, che fan uago confino. Ma prima gli leuar d'attorno il peso Del doppier, del barletto, e de la tasca Fu in mezo ne la loggia dipoi preso Da più uaghe donzelle, acciò si pasca De l'amor lor, fin che'l ueggano acceso, Là doue l'huomo facilmente intasca Queste, dinanzi ad una lo menaro. C'hauea di tutte più bel uiso, e chiaro. Lo menar per la loggia, ne la quale In mezo à due colonne di zaffiro Era una porta, entrata principale Del bel palazzo, che mai compartiro Simile il gran Vitruuio, ò l'Immortale Baldassare da Siena, donde usciro Molte altre damigelle, e con lor quella Saggia Sibilla, quant'ornata, bella. Con quel riso l'accolse, e quella gratia, Ch'in bella donna imaginar si possa, Ella di contentezza, intorno satia, Ciò ch'ella mira, e doue ella fa mossa Col picciol piede, che leggiadro spatia Il figurato spazzo, e con la possa, Che più può sua uirtù, sì bella appare, Che'l costante Guerrin fa uacillare, Disse ella allor, che sel uide appressato Ben uenga il mio gentil Signor Guerrino Da me già molti dì desiderato, Che doueuate far questo camino, Il buon Guarrino à quella inginocchiato, Disse con reuerentia à capo chino, Quella uirtute, che più ui s'attaglia, Ne la qual più sperate, più ui uaglìa. Poco men, che cascato ne'l'inganno Da la soauità de la bellezza, Era Guerrin, quand'al uicino danno Con Cristo in cor si ritrasse in fortezza, Tra se dicendo, il tempo perderanno, Et à soffrir quanto più può s'auezza Gli assalti del diletto uano, e finto D'inganno, e d'ombra scolpito e dipinto. Per dar di se la Sibilla speranza Cominciogli à contar ciò c'hauea fatto Dal dì Guerrin, poiche lasciò la stanza Del bel Costantinopoli, con patto Di suo padre trouar, nè tornar sanza Nè mouimento fece, nè fece atto Nel gran uiaggio, ch'ella non sapesse Dire, e poi come quiui andar elesse. Ne le stanze il menò poi del palagio, Doue in un batter d'occhio, in una sala Fu messo in punto da mangiar con agio, Ne la cui mensa tanti odori cala Di rose, e fior, che'l già preso disagio Del petto di Guerrin di fuore essala Le stanze in somma, le uiuande, e'l uiso Gentil, di tutte forma un paradiso. Sì che le stanze, le uiuande, e'l uolto Di tutte, se non fusse incanto certo Douean piacere al caualier più molto, Ch'in questo nostro Emispero scoperto, Non hauea di piacer già mai raccolto. Et ogni cibo innanzi gliera offerto Per man di donzellette, che nel fiore, De i lor uerdi anni, s&etilde;pre scherza Amore. Fecegli la Sibilla compagnia, Seco mangiando, e fornito il ristoro Del corpo, per mostrargli poi s'inuia Del palazzo stupendo il bel lauoro. Io uò mostrarti la ricchezza mia, Dicendo, es'egliè tanto il mio tesoro, Di quanto iu tutto il mondo se ne uede, Se'l prete Ianni tanto ne possiede. Quiui officio non è di portinari, Nè porta u'è, che ui si uolti chiaue, Dice ella, come sù tra i uostri pari Signor, che fanno l'uman uiuer graue, Perche i sudditi miei tutti son pari, Padroni, nè l'un l'altro inuidia s'haue, Nè u'ho chi'l ben fuor di me stessa prezzi, Nè quì si compra, ò uende, ò si fan prezzi. Vanne seco Guerrin, che ben si stima Veder cose stupende, e per dir meglio Di trauedere in questa parte infima Come ueder figure ne lo speglio, Che del tutto auisato uenne prima Da quei Romiti, e con il lor conseglio Nulla dà fede à quel, ch'ei uegga ò senta, Chi di lasciuia, ò d'auaritia il tenta. Stanze mostrolli di tant'hauer piene, Sì rilucenti gemme, e uariate, Che quant'il mondo nel suo cerchio tiene Con le cose, ch'in terra son create, La terza parte à quel ualor non uiene, Quando cose non fussero incantate, Ne gli smaltati spazzi a monti stanno, Com'à noi quì, de le biade si fanno. Ma quel, ch'accompagnò di merauiglia, Ciò che di dentro uide, fu'l uedere, Che fuor d'una gran loggia molte miglia Eran palazzi bellissimi à schiere, E quanto si potea fissar le ciglia, Fiumi, uerdure, laghi, con peschiere Ornauano la terra, e d'ogni foggia D'animai da cacciar dentro u'alloggia. Di quindi sceser certe scale, messe Ad uso del giardin, nelquale entraro, E tra uerdi spalliere, uarie, e spesse Di fiori ornate, à passar cominciaro; Non u'era arbor, che carco non pendesse Di frutti, per il che Guerrin fu chiaro Tutta esser questa finta fatagione, Ch'eran fuore à quel tempo di stagione. E se non tutte, la parte maggiore Ch' à di sette di Giugno u'era entrato, Ch'eran del giorno à punto dodici hore, E'l ceriegio col nespolo carcato V'era di frutti con degno sapore, Con il sorbo, e'l castagno, e'd'ogni stato, E d'ogni tempo si mostrauan quiui Gli arbor, non mai di frutti ò di fior priui. Guerrin gli prese passeggiando à dire Deh saggia Donna, com' hauer potesti Contr'al tuo Creator, crucciarti ardire, E come, ch'incarnasse in te, credesti. Non ti bastò, s'ei uolse acconsentire, Che tu mostrassi i bei costumi onesti A la Vergin, ch'elesse ad incarnarsi; Onde uedesti i tuoi disegni scarsi? Rispose la Sibilla, in quest o caso Poco esperto mi pari, & anco peggio Informato, e chi t'ha ciò persuaso, Non se n'intende, e nessun anco ueggio, Che chiaro il mostri, se non parla à caso, E poi che ragionar con teco deggio, Il mio nome dirotti; io son Cumana, Detta così da la città Romana. Di Cuma di Campagna sono io nata, E mille e dugento anni al mondo uissi Pria ch'io fussi in tal luogo giudicata, E molte belle cose già predissi. Quand'Enea in Italia fe passata, Io ne l'inferno lo guidai, e fissi. Haueano i cieli dal mio a ascimento, Anni d'intorno à punto à settecento. Ne l'Isola di Delfo uissi poi Cinquecento anni, nel Tempio d'Apollo, E spesi quelli ne i seruigi suoi, Infino al Re, c'hebbe sì mortal crollo Prisco Tarquino de Romani Eroi, Et io, che fui richiesta allor, ben sollo Di donar leggi à i Romani costumi, Scritti n'hebber da me noue uolumi. Chiesi per merto poi di mia uirtute Di stare in uita fin cha'l gran giuditio Saranno nostre colpe conosciute, La bontà separando dal rio uitio, Quel giudice, che dar deue salute Al giusto, e preparare il precipitio A'l'empio, con giuditio alto è uerace, Dando à ch'il merta, gloria eterna e pace. Così quel dì tremendo e glorioso, Che l'uno, e l'altro si può dirgli, aspetto; In questo luogo pien d'ogni riposo Come tu uedi, per me sola eletto, Et per quel che ne fia auenturoso, Com'esser ne puoi tu, s'io qui t'accetto. E questa alma beltà, che sempre dura, Dal ciel data mi uien sopra natura. Ma del tuo error io non mì merauiglio, Nè di chi crede che già morta io sia, Come pel mondo n'è stato bisbiglio, Che già feci io ben far per parte mia, Sepoltura in Cicilia, se l'artiglio Mai m'afferrasse de la morte ria; Ma poi non bisognò, che gratia ottenni, Ch'in questo luogo à prolungar mi uenni. Per questo, ch'io sia quella che dicesti, Si pensan molti, ma sono ignoranti, E non son chiari ben de'nostri gesti, Et io (disse Guerrino) errai tra tanti; Però saggia Sibilla, accio ch'io resti Da uoi contento ben da tutti i canti, Ditemi, se'l saper non u'è celato, Qual padre m'habbia al mondo generato. So del padre (diss'ella) e so di quale Madre sei nato, i quai uiuono ancora, E so il nome, e se stanno bene, ò male; Ma non so già per d rt l così ora, Tu ci hai à stare un'anno naturale, Ben m'auedrò se tra questa dimora Tu lo uorrai sapere, e quanto presto Ch'io penso farti maggior ben di questo. Deh se la nobiltà, se l'eccellenza Vostra, u'è punto grata, e se stimate Che qual è, sia tenuta l'apparenza Disse Guerrin, dì che uoi stessa ornate; Fate che più di qui non istia senza Saper di lor, fe tener mi cercate Contento questo tempo, che uoi dite, E tal segreto à la mia mente aprite, Rise allor la Sibilla, e per la mano Il prese, e con isguardo d'amor caldo, Cominciolli à parlar d'amor pian piano, Con sollazzeuol uolto, allegro, e baldo; Sì che'l pensier rendeua à Guerrin uano, Nè farà poco s'egli si tien saldo. Che le due stelle, c'ha sotto le ciglia La donna, ogni disegno gli scompiglia. Il bianco, il rosso, col soaue misto, I coralli, le perle orientali, L'eben, l'auorio, l'alabastro ha uisto, Che ne i labbri, e ne i denti fan segnali Nel ciglio, e ne la gola, gia d'acquisto (Se Guerrin cede) d'infiniti mali; Il canto, il suon de le donzelle chiaro, Traboccante d'amor già uel tuffaro. Affissa ella i begli occhi à i uaneggianti Gia di Guerrino, e gli passa nel core, Passanui dentro anco i celesti canti, A l'arco tira il neruo, e ponui Amore Suso lo stral, per tirarlo tra quanti Saggi ha impazzati con sommo stupore Del mondo, e far à ben più d'altri forte, S'ei campa stratio, uituperio, e morte. Ahi quanto duro sei, se non ti pieghi Guerrin, ne scusa ci è, ch'incanto sia Questo, che di seguir ritroso nieghi, Ch'altro è ch'incanto, amore e frenesia? Non è, non è per certo quel che leghi L'huomo, com'alcun dice, la pazzia; Ma l'incanto d'amor, d'amor l'incanto Ci dà sì breue riso, e lungo pianto. E spiritati son tutti gli amanti, Come si uede à gli andamenti loro, Che Dio per amor lasciano, e suoi santi; Dunque Guerrin non uuol sì bel tesoro Perdere or per uedersi in tuttii canti Cinto da la uaghezza di coloro, Spuntaglisi nel cor lo stral, ch'arriua D'amor, e l'incantato spirto schiua. Rifassi scudo del dìuino nome, Di che senz'arme il cor liber si rende, Da sì dannose e sì maligne fome, Come quelle ch' Amor nè cori accende; Ben'èuer, che da l'auree crespe chiome, Già legato era di colei, che splende, Et eraui cascato col desio, Quando nel cor trouossi scritto Dio. Ma per non disturbare il suo disegno Mostra di fuor l'opposito di quanto Dentro in cor si propone, e le fa segno Per lei deporre ogni pensier da canto Ella ciò crede, e con astuto ingegno Lassa'l giardino, e menal seco intanto Nel palazzo real, c'ha la sua corte Tutta di belle damigelle accorte. Che gli giuano innanzi ad ogni passo, Sonando col cantar cose amorose; Così con questo dilettoso spasso Del palazzo à le parti più nascose, In camera n'andar, qui'l corpo lasso, (Tra degni odor di uiolette e rose;) Diss'ella al buon Guerrin, ui poserete, Ch'io ueggo ben, che bisogno n'hauete. Le damigelle allor, che furo entrati Ne la camera, l'uscio à se tiraro. Come Guerrin si uide negli aguati, Et appresso quel corpo unico e raro; Fu per pigliarsi i dolci don pregiati; Ma nel pensar, che douea costar caro, Abbassò gli occhi, dal timor percosso, E palido diuenne, essendo rosso. La Sibilla di se fa bella mostra, E nel letto ricchissimo si stende, Pensando indurlo à l'amorosa giostra, E Guerrino indugiando si difende. Se fusse, Amanti in libertate uostra Di goderui bellezze sì stupende, Forse terreste Guerrin sciocco e lieue, Non p&etilde;sando al grã dãno, e'l piacer breue. Accostossi egli à l'uscio chetamente, E bellamente di camera uscissi, Ella, che'l uede uscir senza dir niente, Pensò che tosto dentro riuenissi; Ma poi ch'ella gran pezzo pose mente, Non sapendo il partir dond'auenissi, Scese del letto, e ritrouollo solo Per una sala andar, mostrando duolo. Chiese ella la cagion, che sì soletto Lo facea passeggiar, e perche conto Non s'era posto à giacere in sù'l letto A prendersi piacer da l'amor ponto; Diss'egli, ch'una doglia dentro al petto, L'hauea à l'improuiso sopragionto; Ella gli diede fede, & egli lieto Che uide non sapersi il suo segreto. Per questo uide, ch'ella non sapeua Il segreto del cor, come non sallo Altro spirto nessun, che l'huom solleua, Per fargli far contr'al Signor suo fallo, E ch'à Dio sol, questo s'apparteneua, Che dentro al cor se fusse di metallo, Non sol quel che u'è dentro aperto uede; Ma quel, ch'esser ui deue, anco preuede. Poco ste la Sibilla, che ritorno In quel Giardino fece, accompagnata Col bel collegio di sue Fate adorno; Però ch'essendo la sera appressata, Quiui la cena splendida ordinorno, Che mai fu fatta la più dilicata Con quel piacer, ch'al mondo puote farsi, E con quanto mai possa imaginarsi. Fronte chiara Guerrin mostraua à quanti Motti e giuochi d'amor far ui uedea, Ch'altramente non sa come si uanti Poter saper quel che saper uolea, Et co i più belli modi, e bei sembianti A la Sibilla, che mostrar potea, Pregala dolcemente, e la ritocca S'alcuno auiso trar le può di bocca. Ella gli raffermò per cosa certa, Che con la madre il padre uiue ancora; Ma non dirotti, dicea, cosa certa, Se tu non fai con me qualche dimora, E perche la speranza, ch'ora offerta Tè qui da me, non paia al tutto fuora Del mio saper, farotti manifesto Tant'oltre, che terrai ch'io sappia il resto. Tu fusti in guardia piccolin lassato Ad una gentil donna de la terra, Che'l nome di Bisantio ha tramutato; La qual poi per cagion di certa guerra, Per mar t'haueua, donde fusti nato, Fuggito, ma colei, laqual atterra Glialtrui disegni, fe che tutti fuste In mar tosto pigliati da tre Fuste. Haueua nome Seffera costei Ch'io dico, e quella ancor che t'allattaua In mano giunta de'pirati rei, Tanto con quella usar lussuria praua, Che'l terzo dì, non arriuando à sei, Morta restò, di che Seffera staua Con pianto, e pel dolor, che sì l'assalse, I crudi la gettar ne l'onde salse. Gettarui un seruo ancor, ch'ella u'haueuà; Ma prima uccisi l'uno e l'altra furo, Or la turba crudel, che ti teneua De la uita te sol lasciò sicuro, E ti condusser doue si faceua Da mercanti baratto più maturo, Cioè ne l'Arcipelago, e uenduto Fusti, e poi da un sol per suo tenuto. Enidonio fu quel, che ti condusse Dentro in Costantinopoli, e col figlio, Ad alleuare insieme ti ridusse, Hauendo prima preso per consiglio Di battezarti, e non sapea che fusse Più battezato, onde diede di piglio Al nome di Meschino, e quel ti messe, Pensando al modo c'hauuto t'hauesse. Ascoltaua Guerrin di doglia acceso, Vdendo quel medesmo raffermare, Che già da Epidonio haueua inteso, E poi di nouo si pose à pregare, Ch'ella dal cor gli leui un tanto peso, E fornisca anco il resto di contare, Di speranza il pasce ella, e dice, ancora Ci sarà tempo, nè si fugge l'hora. Menollo in una camera la sera, A dormir, de la prima assai più degna, Due gran carbonchi u'eran per lumiera, Il cui lume ogni parte ascosa insegna, Ch'officio non ha quiui cameriera D'accender lumi, nè che ue li spegna, Fe por nel letto il Caualiero intanto, Et ella ignuda gli si pose à canto. Se sarai buon guerrier, se sarai forte, Contr'à i colpi mortali, or fia mestiero Guerrin, se uuoi campar l'eterna morte, Pur sei di carne, e d'ossa Caualiero; Eccoti le bellezze accanto scorte, Rimira il uiso bello, e non altiero, La luce quel bel petto ti dimostra, Doue di pari Amor con gli occhi giostra. Ecco le suelte e pure braccia, doue Vena non macchia il terso auorio puro, Nessuna de le tonde poppe moue Ordin dal luogo suo, come sì duro Quiui ti tien? tu puoi cercare altroue, Che mai non trouerai quel, ch'al sicuro Or ti si dona; ahi fatagion crudele Come sei sotto un ben, tant'infidele? Il Meschin si disface, e ne sospira; Nè pure ardisce alzar gliocchi à la preda, Ma con il segno de la croce aspira, Il suo senso frenar, sì, ch'al fin ceda Pel cui segno, ella già non si ritira, Anzi più gli s'appressa, e par che creda, Ch'egli sia preso allaccio, & era preso Tanto di gran desio caldo era acceso. Quando che tra se disse, ò mie fatiche, Puote esser che in un punto siate casse Da queste ardenti uoglie, & impudiche, Come sareste s'io u'abbandonasse? O uoglie d'ogni mio bene inimiche, Chi saria quel che non ui contentasse? Se sotto a questo dilicato uelo Non si mostrasse poi turbato il Cielo. Ella, ch'à gli occhi il debito tributo Ha dato di Guerrin, per fare à pieno, Che'l piacer sia dapresso conosciuto, Accosta il petto del Meschino al seno, E comincia il carnal dolce saluto; Il Caualier si strugge, e si uien meno Com'à uno, à chi beuanda auelenata, In una sete estrema gli sia data. Nè sa com'in un caso tal s'aiti, Sa ben, che s'ei si mostra al tutto schiuo; I primi suoi pensier saran falliti S'ei cede, ancor di quel disegno è priuo. Tornagli à mente il dir di quei romiti, E disse al fin, per non restar cattiuo; Tù uia, e ueritade, & somma uita, Tu Cristo Nazareno ora m'aita. Tre uolte nel suo cor tacito disse, Queste di sacro pien sante parole C'hebbero forza far, ch'ella partisse Del letto, se ben uuole, ò che non uuole, E che de l'uscio di camera uscisse; Nè la cagion di questo intender puole Così restaro l'imprese sue rotte, Nè ui potè tornar per quella notte. Guerrin (che n'ha bisogno) addormentossi, Et fece un sonno de la notte tutta, E la mattina, dipoi che leuossi, La Sibilla pur s'era ricondutta; Là, donde suo mal grado dileguessi, Nè essendo de la gran cagione instrutta, Che la fece partir, giunta à Guerrino Salutollo, e gli fece umile inchino. Quasi tenendo il suo partir à fallo, Et fe li appresentar da le donzelle Vn sì degno uestir, che senza fallo Mai non si uide un tal sotto le stelle; Sceso il palazzo diedegli un cauallo Per caualcar per le contrade belle, Vn'altro ella ne tolse, & infinite, Poi caualcaro donzelle gradite. D'altr'huomo in luogo tal, non appare orma Che per incanto la Sibilla asconde Del rio sesso uirile una gran torma, Che'l fallo lor passato gli confonde, Ella gli cela, accio che la lor forma Non faccia ricercare e quando, e donde La cagione à Guerrin di lor uenuta, Accio non sappia esser gente perduta. Perche l'essempio di quelli nol faccia Più cauto à seguitar la frode ascosa, Con tali inganni, chi u'arriua allaccia; Quantunche pur tal gente è disiosa; Ch'altri del numer lor segua la traccia, Come de l'altrui bene inuidiosa, Volentier dunque à suo poter si cela; Nè il teso inganno à chi ui uien riuela. Or, com'io dissi, senz'huomin uedere, Caualcar per un'ampia e gran pianura Ornata d'ogni cosa da piacere, Aria temprata u'è, uiua uerdura Sonui correnti riui, hauui peschiere, Quanti animali e pesci la natura Può fare, e quanti uccei spiegano l'ali, In quelle parti si ueggon fatali. I uaghi uolti, gli abiti legiadri Se nulla manca, de le donne fanno, Che più perfetta ogni cosa ui quadri, I dolci accenti che lor uoci danno, E parlando & cantando, son quei ladri, Che à più amanti i cor già rubat'hanno; Ma s'à Guerrin pur'ogni cosa piace, Con esse già peccar non le compiace. Ben sapeua egli, ch'in luogo sì stretto De la montagna capir non potea Sì spatioso luogo, e sì perfetto, E che niente era, quel ch'assai parea, Et che di man di mondano architetto, I castelli, e i palazzi che uedea Non eran fabbricati, anzi è sicuro, Che quei sassacci sien del luogo scuro. Ma tanto può l'incanto di colei, E la uirtù, che Dio forse permette Per aggirar la gran turba de'rei, Che paian cose certe, e tutte elette; Dicegli la Sibilla, il tutto dei Posseder tu, ne le tue man si mette Cio che tu uedi, e te ne fo Signore, Se qui goder ti piace il nostro amore. Tornar la sera, e si godero in festa, Al primiero palazzo in fino à notte, Al dormir poi, per non hauer molesta, Nè farsi preda à quelle scure grotte, L'oration disse contra à la richiesta De la Sibilla, e di quell'altre dotte In far cader ne la lussurìa cieca Guerrin, che tanto danno seco reca. Fecela stare l'oration lontana, Et uia partir, nè sa da quel che nasca Tanto indugiar le parea cosa strana, Poi che Guerrin ne la rete non casca, Entrouui il mezo de la settimana, Cioè mercoledì, nè pur u'intasca, Son fuor due giorni, ch'ancor non ui resta, E già s'appressa la lor trista festa. Il sabbato, chi u'è, che peccato habbia, In prima la Sibilla si trasforma In brutta fiera, in repentina rabbia, E'l medesimo auien de l'altra torma, E nessun può celarsi in quella gabbia, Che fino al lunedi, ò uegli, ò dorma, Non sia ueduto in un brutto animale, Ch'allor l'incanto à celarli non uale. Anco in pace dormi la notte appresso. Per la uirtù di Cristo Nazareno, Ilqual s'hauea sì nel suo core impresso. Ch'à la Sibilla ogni forza uien meno, Seguita il Venerdi, ch'era quel messo Che d'estremo dolor lempiua'l seno A pensar, che poi'l Sabbato douea Di sì bella, uenir forma sì rea. Sì, che le feste si lasciar da canto, Per la pessima noua, ch'è uicina Ad un tormento, e uituperio tanto, Onde Guerrin più libero camina Da le lasciuie loro, & ecco intanto Che'l giorno di quel Venere declina Allor dal danno lor tutti citati, Si scopersero al fin quei condannati. Manca la forza de la fatagione, Chi quà, chi là s'andaua raggirando La notte, che seguì, d'ammiratione Il Caualier ripien, sentì gridando, Et lamentando andar molte persone, Femine e maschi, d'ogni sesso, e quando Il sabbato arriuò, uede la turba Che si dispera, bestemmia, e si turba. In una loggia grande arriuò, doue Er'una moltitudine infinita, Che par, che per dolor luogo non troue Palidi in uolto, e mostran poca uita. Egli, al fine uno à domandar si moue Ch'innanzi gli passò, che s'ha le dita In bocca per dolor, ch'anni quaranta Mostra, qual sia cagion di doglia tanta. Allora il miser disse, ahi crudo fato, Tu aggiugni al mio mal più doppia pena, S'io non pensaua, che fussi informato Di quel, ch'intanta doglia qui ci mena, Così dinanzi non t'haurei passato Forz'è, ch'io dica, come la gran piena Di tanto mal qui ci trabocca addosso, Ch'il negherei, ma negar non tel posso. Ma dimmi tu, che questo uuoi sapere Che dì è oggi, prima ch'io lo spiani Disse Guerrin, questo sarà douere, Sabbato è oggi; e quel, qui noi profani, Allor ci tramutiamo in brutte fiere, Che'l Papa ha detta Messa, de'cristiani Che così uuol la sententia diuina, Perche la nostra colpa à cio ne'nclina. Maschio e femina allor, chi drago resta, Chi botta, chi scorpione, e chi serpente, Secondo la sua colpa manifesta; Ma tu di tanto mal sol resti assente, Che non ci hai commessa opra manifesta Io fino al lunedi, con l'altra gente A quel modo staremo, & in quel male, Fin che sia detta la messa papale. In questo mezo tu, se fame haurai Vattene al luogo solito, & in quello Da mangiare à tuo modo trouerai, Ch'à te non appartiene alcun flagello Et Guerrin, se non fusse detta mai Talmessa, hareste, disse, un tal flagello? Prescritto, e'l termin, nè si può fuggire, Se ben non s'ha, disse, la messa à dire. Ben'è uer, che dicendosi più presto Ouer più tardi, che spesso interuiene Che'l mal ritarda, ouer s'affretta in questo, Secondo il modo, che'l Papa mantiene; Guerrino che saper uoleua il resto; Or c'ha saputo l'esser di lor pene, La nation di costui saper uoleua, Ilqual non lo negaua, e lo diceua. Ma sbandigliando trasse un gran sospiro Maledicendo il dì, che nacque al mondo, Che per camparlo da sì rio martiro Non l'hauea satto ò sterpo, ò sasso in mõdo E riuoltando i suoi pazzi occhi in giro Cominciò à sentire il greue pondo, Cauasi i uestimenti, e dietro snoda Di serpente una lunga grossa coda. E rientrar nel uentre e gambe, e braccia Si uede, e dopo quelle, ancor la testa Di serpente diuenne con la faccia Tanto, ch'al fine un brutto animal resta, Nè più se stesso, ne più il ciel minaccia; Ma come cosa uil lo spazzo pesta, E giù col capo, e col uentre si serra, Nè più si moue, e resta come terra. Dunque questo è disse Guerrin, l'acquisto Del bene, e del diletto, ilqual si para Dinãzi à gli occhi? e mi basta hauer uisto Qual merto s'ha da bellezza sì rara Da tè sol dice ho questo scampo, Christo Et tristo è quel, ch'à uiuer non impara Quel che seguì, se Dio uorrà saprete. Ne l'altro Canto, se ritornarete.

Il fine del canto ventesimoqvinto.

Perdonami Signor, se'l bel decoro Non osseruo, qualdebbo, in ringratiarti, Poi che l'insidie, quante e quali furo, Ch'io habbia detto hai uoluto degnarti, Scãpando il tuo campion da tal martoro, Perche tutto ho'l ceruello in quelle parti Che mi par se più indugio à ritrouarlo, Troppo mãcargli, e troppo abbãdonarlo. Poscia che per le logge, e per le sale Vide Guerrin di questi animai brutti, Per ueder s'altri n'è, scende le scale Trouane seminati i luoghi tutti, Massime abbasso sotto un porticale Che s'eran al coperto iui ridutti, Tra iquali ne uide un, ch'aueua testa Di Cane, e d'abbaiar punto non resta. Il busto, e coda haueua di serpente; Ma tutto è bigio, e la coda si morde, Pareua ogni occhio suo di bragia ardente, Le labbra hauea di schiuma intorno lorde; Ma quando il Caualier più gli pon mente, Vede à tal forma de gli altri concorde, Nè altra differentia gli si uede Se non, ch'un, di grandezza, à l'altro cede. E questo auien, che si mostran secondo La grandezza, ch'un più de l'altro suole Così uedersi di chi nasce al mondo; Poi ch'è fatto sicuro, il resto uuole Vedere, e di che forma porta il pondo; Ma prima corse à le sante parole, Poi uide certe botte sterminate, Con quattro zampe, e di uelen gonfiate. L'un piè dinanzi à l'altro han sopra posto, Et quei di dietro dopo s'han distesi, Con ciascuno occhio guercio, e mal cõposto Schizzangli in fuor, come se di gran pesi Fussero carche, e ueggendosi accosto Il Caualier, che guarda i loro arnesi, Per l'inuidia che n'hanno, e che le preme Si ristringon gonfiando tutte insieme. Grossi scorpioni uide appresso à quelle C'han da morder tre bocche apparecchiate Che seruono per denti, e per mascelle, Vn'altra n'ha ciascun tra le narrate, Bramosa di mangiar, per che la pelle Col uentre, ha molte crespe seminate, Et non di men per auaritia espressa, S'hauer può da mãgiar non gli s'appressa. I corpi han di statura d'huomo ò donna Di chi gliè conferente à la grandezza. Del portical passato una colonna Vide Guerrino un'altra gran bruttezza Di scorpion neri, la cui forma assonna Tra la terra, e tra'l fango sempre auezza, Fatt'han de i corpi ruota, & ogni testa Di ficcarsi nel loto mai non resta. Molti draghi crestuti han questi à canto C'hanno scaglie sù'l dosso, & han la coda Verde, la testa rossa, & anche quanto Il collo stende, ch'al busto s'annoda, Quest'è quell'animal nociuo tanto Che per quanto di certo di lui s'oda Col guardo l'huomo uccide, e con il fisco Volgarmente chiamato il Basilisco. Vide altri uermi noiosi à la uista, Et ritornando nel palazzo poi, Trouò piu forme de la torma trista, Di serpi, e nessun'è ch'unqua l'annoi, Qual nera, ò gialla, qual bigia e qual mista Di più forme, che quante ueggiam noi Dipinte à i ciurmator sù per le fiere, In quelle tante filze di bandiere. Al mangiare, e dormir sempre ricorse Al luogo usato, nè patinne in opia, Poscia che'l tempo terminato corse; La Sibilla acquistò la forma propia, E ben del tutto il Caualier s'accorse, Che n'hauea uisti surgerne gran copia De gli altri, e cominciare allegri segni, Per fin che l'altro sabbato ne uegni. Con la solita uaga compagnia Vennegli innanzi la Sibilla, hauuta L'estrema sua bellezza, c'hauea pria; Et con un falso riso lo saluta, Verso laquale il buon Guerrin s'inuia, Pensai, dicendo, d'hauerui perduta, Saluiui quel secondo uostra usanza, O nobil Fata, ou'hauete speranza. Io tutto pien del solito piacere De le delitie, di che'l luogo è pieno, Venuto son da uoi sol per sapere De segreti, ond'hauete ricco il seno, Però se ui è, saggia donna, in piacere, Vorrei da uoi saper, chi color sieno, Ch'io uidi tramutare in uarie forme Di uermi, e qual peccato il uoglia enorme? Tu uuoi (ella rispose) ch'io ti dica I fatti nostri, & io ne son contenta; Ma se tu uuoi ch'io pigli tal fatica Di quel domanda, che ti si rãmenta, Nè pensar ch'altro io cerchi dirti mica, Che quel che più m'afflige, e mi tormenta E che coprir non posso à gli occhi tuoi Quel, che nostro mal grado auien di noi. Dite (se dir si puote) la cagione, Ei seguitò, ch'io uidi un bello aspetto D'huom, diuentare un terribil dragone, Testa, e gambe mutando, braccìa, e petto, Con sette corna in testa, à paragone Ciascun come l'ha'l padre del capretto Di corpo brutto, e uile, e fessi tale, Che parea fango in forma d'animale. Fu un piccol Signor, diss'ella, ilquale Nacque in Calabria, in questi nostri monti, Et fu superbo, indiscreto, e bestiale, E uisse in guerra con Baroni, e Conti, Non pensando, ch'alcun gli fusse uguale; Ma i suoi uicin, per tal cagion congionti Insieme, non potendo'l sopportare, Gli fer lo stato per sorza lasciare. Veggendosi ei per sua superbia fuore Di stato, in odio al cielo, e tutto il mondo, Sendo de i sette uitij peccatore, Che l'alma caccian nel tartareo fondo Disperatosi al fin d'ogni fauore, E di se, e di Dio, con tutto il pondo De' suoi peccati, uenne à ritrouarmi, Pensando in suo ristoro adoperarmi. Non è lecito dirti il nome, & ogni Cosa, ch'io tel direi, ancor che molti Ragionando tra lor s'empion di sogni Dicendo, ch'egli morse (come stolti) In una zuffa. Or s'auien che bisogni, Ch'in altri, che di questo il parlar uolti, Dimmi quel che uedesti, & io dirotti Di lor tanto ch'in quel sodisfarotti. I sette corni, dunque sono i sette Mortai peccati; allor disse Guerrino, E l'altre parti ancor del corpo infette Son di superbia l'ultimo domino? Rispose la Sibilla, tu l'hai dette, Et egli, or riuoltando il mio camino A glialtri, io uidi à quei tal non distanti, Altri serpenti di strani sembianti. Tre braccia hauean'il corpo, e poca testa; Ma larga, occhi di fuoco, e di corallo Parea la coda, che co i denti pesta, Chi di lor'entra in quello strano ballo. Tutt'il resto del corpo, bigio resta; A' cui rispose, questi senza fallo Fecero al mondo ogni cosa con Ira, E tal peccato à star così gli tira. Vidi botte, ouer rospi sterminati, Ancor (diss'egli) di brutta statura, Che stauan per scoppiar, tanto gonfiati Eran, & ella, quei di tal figura, Erano Inuidiosi al mondo stati, Qui uenner per tentar maggior uentura De gli altri, e tal'Inuidia quà gli tiene E'l guadagno ch'or fan, son quelle pene. Ei disse, io uidi ancor molti scorpioni, Com'huomin grandi, e tre bocche mordaci Haueuan' una da far gran bocconi Senza quell'altre, & ancor che uoraci Si mostrin, stanno là secchi e lordoni; Ella rispose, questi fur seguaci De l'Auaritia, e patiuan'innanzi, Starsi affamati, che non fare auanzi; Ma per che'l nome del mio gran tesoro Sentiro, giudicar per far più presto Grande accumulation di gioie, e d'oro Venir per esso in tal luogo riposto; Ecco dunque, ch'è degno il lor martoro. Io ne uidi de glialtri ancora accosto A' quelli (seguitò Guerrin) che tutti Eran di fango carchi, neri, e brutti. Feron del corpo ruota, e le lor teste Sotto il loto hauean fitte stranamente Questi (diss'ella) seguir la gran peste De l'Accidia, nemica de la gente, E ribella del cielo, e de le feste, Però che sempre si uiue dolente, E di lor disperati, persi al tutto N'è molti quì, che non fecer ma, frutto. E Guerrin disse, io uidi allor serpenti Che gettauan gran puzza, e fastidiosa A' bocca aperta si stauano attenti Se da mangiar u'entraua alcuna cosa Questi, che sì digrignauano i denti, Diss'ella, gente fu tutta golosa, Et quì ne uenne per empirsi il sacco, Intendendo che ci era roba à macco. Ancor disse Guerrino, io ci ho ueduti, Vermin con coda di serpenti, & ale, E come galli la testa crestuti Verdi la coda, e ne gli occhi han segnale Di fuoco, i piè di becco conuenuti Sorridendo, diss'ella, questo male, Han per lussuria, che qui gli han guidati L'odor de i nostri uolti delicati. Da questi auisi Guerrino auuertito, Ricorse à ringratiar la maestade Diuina, ch'egli al medesmo partito De glialtri non è corso, e non ui cade Deh Cristo Nazareno alto, e gradito, Campami, dice, da tanta uiltade, E il tempo ch egli in quel rio luogo misse I sette Salmi ogni mattina disse. L'altro sabbato giunse in questo spatio, Et uide un'altra uolta tramutarli, E ritornare in quel noioso stratio, Et riuide di nouo ritornarli, Sì che di tanta lor miseria satio A la Sibilla era impossibil farli Consentire à le sue instigationi. Nè uuol che d'amor più gli si ragioni. Ben che prima tentato in quelle uie Fu di Lussuria, che tentar si possa, E grande stimol di carne patie; Pur d'Amore stè saldo alla percossa, Or (com'io dissi) giunse il lunedie, Che da gli orridi corpi feron mossa; Allor da capo à ricercar si messe, Se del padre saper nulla potesse. Veggendola Sibilla il suo pensiero Tutto riuolto à quei uestigij onesti, Risposse al fin, se uuoi saper l'intero, Io tel dirò, con patto, che tu resti A' posseder questo mio bello Impero, E perciò ch'altramente non potresti Farlo, usa meco in prima quel diletto, Che suol due amanti congiugner nel letto. Tacque Guerrin, nè diè risposta alcuna; Ella, che disprezzata esser gli parue, E fin'allora ogn'opra star digiuna, Che u'hanno usata le sue finte larue, E ch'egli ha uista la lor ria fortuna Del trasmutarsi, adirata disparue, Nè per tutto quell'anno, ch'ei ui stette, Gli fur del padre altre parole dette. Et uolentieri la ministra ria, D'ogni uitio là giù s'in suo potere Fusse l'haria di là cacciato uia, Veggendo ogni suo sforzo in uano hauere Oprato, acciò ch'egli legato sia In quel, che d'altri doueua uedere, Tutto quel tempe, e quel, ch'andaua innãzi Potea far manco in sua costantia auanzi, Venuto il tempo à tre giornate appresso, Ch'egli douea ritrarsi da quel fondo, Et ritornar, come s'haueua impresso La luce à riueder di questo mondo, Glì parea molto strano essersi messo Ad un tempo, e pericol di tal pondo, E tornar senza inditio, e senza effetto Dal fantastico luogo, e maledetto. In quello, che de l'animo patiua Gran doglia, era la turba tramutata, E de l'umana forma tutta priua, E fe resolution, come lasciata La Sibilla habbia, sua forma cattiua, Far che di nouo fusse ripregata, E se'l pregar non gioua, scongiurarla, E in quante uie far puote ricercarla. Com'ei la uide al suo stato tornata Trouolla, & à dir prese in uoce umile Donna sapientissima, e pregiata, Sì come siete bella, e di gentile Gratia, e di gran uirtute anco dotata Vi prego, ancor che mi teniate uile, Che con l'altre uirtuti da uoi sia Pietade accompagnata, e cortesia. Io pouer Caualier, come uedete, Non perdonando à tempo, nè fatica, Acciò da uoi, ch'ogni cosa sapete, Di quel, ch'io cerco, il uero mi si dica, Venni à trouarui quì ne le segrete Parti, pensando, come donna amica Di chi u'apprezza, di saper del padre Mio, che ne sia, e'l simil di mia madre. Rispose la Sibilla, à me sol duole Quel poco, ch'io t'ho detto huomo uillano Nè punto t'assomigli à la tua prole, Sì che quel che tu cerchi, il cerchi in uano; Onde Guerrin turbato à tai parole, Disse, quì ci bisogna mutar mano, E cominciò scongiurando à uedere S'in altra uia il potesse sapere. Disse, per la uirtute, che soleuano Hauer le foglie sopra l'altra messe, Che d'Eolo à le forze si reggeuano Immobil con mostrar, che tu dicesse Il uer, di quanto à gli huomin prediceuano Per la tua bocca, come Dio permesse, Fa che mi dica chi m'ha ingenerato Con chi m'ha nel suo uentre anco portato. Fallace è il tuo pensiero, ella rispose, Che tu non merti quell'onor gradito, Ch'io feci al Duca Enea, ilqual si pose Meco à uenir giù nel tartareo sito, Et fecigli ueder quelle famose Persone, che son'or mostrate à dito Quelle dich'io, c'han tante genti dome, Quelle di cui si trema sol del nome. Mostraili il padre Anchise nell inferno, Et gli profetizai di Roma altiera, Il principio, e'l seguir, quel che poi ferno I nati suoi figliuol, come la uera Profetessa Carmenta, de l'eterno D'Ercole nome, sua fama seuera, Così nel trassi fuore à saluamento; Ma tu ben getti ogni pensiero al uento. Tre giorni ancor di starci termin'hai, Et se tu ci riman, quelli passati In fino ad or, trista parte ci haurai, Nè fra questi tre dì ti saran dati, Nè da me, nè da altri, auisi mai Di quel, che cerchi, sì che son gettati I dì, che spesi ci hai, e persi ancora Quelli, che tu ci debbi far dimora. Vinse Guerrin se medesimo, e disse, L'ira m'ha tratto fuor di strada alquanto, Che'l petto in simil modo mi trafisse, Però se uoi mi fate por da canto Quel dubbio, ch'à parlare altier mi misse, S'io torno al mondo spargerassi il uanto Del uostro alto ualor, per la mia bocca, Del piacer'e del ben, che quì trabocca. Et ui prometto celar tutto il danno Del uostro tramutarui, e la bruttezza; Queste cose, diss'ella, non mi danno Molta satisfation, manco tristezza, Per ch'à noi donne ci dà poco affanno, O' uergogna, ò onor; ma sol s'apprezza Il contentar gli appetiti, c'habbiamo, E chi cel uieta nemici gli siamo. Veggendola egli sì ritrosa, e dura, Et indarno sperar, riuoltò uerso, E cominciò, peruersa creatura, Iniquissima à Dio, e l'uniuerso, Falsa nemica, e monstro di natura, Animo indiauolato, empio, e trauerso Per la Trinità santa, io tì scongiuro, Che i miei parenti mi dica quai furo. Tanto temessi, gli diss'ella quello, Ch'io prouo ogn'otto di, e cosi uano Fusse il giudicio del mio gran flagello, Com'il tuo scongiurar, falso Cristiano, Ch'ancor che questo corpo sia ribello Del ciel, pur nõ son'ombra, ò altro strano, E fantastico spirto, ou'ha possanza Lo scongiurar, nè uà d'effetto sanza. Và scongiura i demoni, ò altri immondi Spirti, ch'in me non si puote far frutto; Ma se tu uai ne gli ultimi profondi D'abisso, innanzi ti sarà condutto Senza, cha'l domandar ti si rispondi La forma di tuo padre, & anco sotto Il medesimo uel, tua madre insieme, Nè saperlo altramente habbi già speme. Gli entrò per l'ossa il giel, sentendo dire Guerrin, che nell'inferno gli uedrebbe Pensando morto solo hauerui à gire, Nè ch'altrimenti più ueder gli debbe Dopo il pensar, prese l'usato ardire Stimando, ch'ella sol quel che uorrebbe Dica, ma non pensaua che'l pensiero Suo profetando, prediceua il uero. Ancor (dicendo) spero confessarmi D'ogni mia colpa, e restare assoluto, E dal tuo rio giuditio ripararmi, Essendo à penitentia peruenuto; Or perch'io possa di quà dileguarui, Fà ch'ogni cosa qui mi sia renduto, Cioè la tasca, i doppieri, e'l barletto, Ch'io portai in tal luogo maledetto. La spada, l'accildino, e li due pani, Il solfo, l'esca, la pietra da fuoco Ch'io non uò più tuoi incanti scempie uani Ella fe segno à le messagge, e poco Stè, ch'ogni cosa gli dier ne le mani Di colera Guerrin non troua loco; La Sibilla conobbe il suo dolore, E cominciolli à dire in tal tenore. Non pensar già, che l'animo tuo tristo Verso di me possa per modo alcuno Di male, ò ben creare alcuno acquisto, Che'l Giudice giustissimo, ch'ognuno Giudicar deue, ha già di me prouisto, Quel che ritrar non lo puote nessuno, E uia sparì, nè più la uide poi Facendo aperti quì gli sdegni suoi. Passati quei tre dì, che star douea, Poi che da gliocchi colei gli si tolse, Cercaua il passo, perch uscir credea; Ma poi, ch'indarno molto si rauuolse, E che nel laberinto s'auolgea Con gran timor del suo error si dolse, Era quel luogo ritornato scuro, Nè troua passo al suo uscir sicuro. In tre giorni sei uolte haueua detti I sette salmi; & altre assai diuote Orationi, accioche Dio lo metti A' saluation, fuor de le grotte uote, Ma nel girar faceua qu lli effetti, Che gia faceua, ò imaginar si puote, Chi era messo in Creta al Mino tauro Dato à Minos in tributo, e restauro. Ben ch'allor, che'l timor si sea più fiero, Giunse una Damigella, e disse presto Piglia le tue bagaglie Caualiero, Nè ti fia stato il ritardar molesto, Però che quel che regge il sommo impero Vuol che da noi à tempo sia richiesto S'uscir ti piace, e ti mostriam la strada, Acciò, ch'à tuo piacer quì resti, ò uada. Vien meco dunque, ch'io ti sarò scorta, Che l'hora, ch'uscir deui, già s'appressa, Et da me mostra ti sarà la porta Se bene hai cerco indarno assai per essa; Al cui parlar Guerrin si riconforta E quella segue doue s'era messa, Per un cortile, che fu conosciuto Dal caualier, che d'iui era uenuto. E ben l'hauea tenuto sempre in mente Tutto quall'anno, che ui ste racchiuso Et haueua più uolte posto mente Per riuederlo, e restaua confuso Tant'era quell'incanto rio, potente. Ma poi ch'un'anno fu da lui deluso In fumo si conuerse, onde la guida Fu suo mal grado à farlo uscir uia fida. E mostrogli la porta, e disse, or puoi A tua posta uscir fuore, ma se pure Restar da la Sibilla nostra uuoi In queste parti da morte sicure Ti promettiam, che tanto farem noi Sue Damigelle, che quelle uenture Harai, che ti promise, e se ti piace M'obligo seco farti far la pace. Prima, disse Guerrin, la morte uoglio Che seco star, sì, ch'apri pure il passo, Che d'esser stato tanto qui mi doglio A tua posta, diss'ella andar ti lasso Ma la pietade, ch'io sempre hauer soglio Fa ch'ancor io t'auisi d'un mal passo, E per questo ti tengo un poco à bada Acciò ch'in qualche error maggior nõ cada Sappi, che s'in quest'anno, che ci sei Stato, fussi douuto stando al mondo Morire, ò di tua morte, ò com i rei Fati, ti potean far morir secondo Di casi uiolenti, tu non dei Viscir di questo inuiolabil fondo Però, ch'uscendo, morto giù cadrai Se simil punto qua giù passat'hai. Fanne la proua, metti un dito fuore Sol de la porta, e se morir doueui Il dito sol con poco tuo dolore Cener diuenterà, ma se ti leui Di quì con tutto'l corpo, à gran furore Morto resterai là doue poteui Saluarti, or la pietà, c'ho di te presa Fa ch'io t'auiso sol per tua difesa. Di me, disse Guerrin, più non ti caglia Aprimi pur, se tu mi deui aprire, Che poco tal pensier quì mi trauaglia In Dio rimetto il uiuere, e'l morire Più tosto uo, che sua gratia mi uaglia, Che fuor di quella quì sempre gioire Ben che se bene è quel, ch'io ci ho ueduto La morte per fuggirlo non rifiuto Soprastette anco un poco, aprilla poi, Deh proua prima, disse, ch'esca tutto, Col dito, se sicuro uiuer uuoi. Chi uuol resti nel luogo orrido e brutto, Disse Guerrin, ch'affaticar ti puoi Ch'in parlar meco farai poco frutto E saltò fuor, mostrando d'hauer fretta Dicendo, io so, che Malco già m'aspetta. E quel Salmo cantò, Signor dicendo Non mi uoler riprender con furore, Nè mi corregga con ira il tremendo Tuo santo nome, habbi del mio dolore Misericordia, onde colei ueggendo Ch'egli era saluo di quel luogo fuore Disse, ua che non possi saper nuoua Chi sia tua schiatta, e dou'ella si troua. Vanne, disse Guerrino, à la Sibilla E di ch'io son sicur d'ogni sospetto Fuor del suo stato, e d'ogni finta uilla E de l'inganno d'ogni suo diletto E d'onde si tramuta, e si distilla Donde si cangia in spauentoso aspetto. E ch'io saluar mi posso, & ella al tutto E' condennata in sempiterno lutto. La Damigella riserrò la porta Et orando Guerrin fece partita, Che l'acceso doppier gli fa la scorta E come presso fu doue la uita E morte à Malco; e doue dolor porta, Disse gridando con uoce spedita, O Malco, io me ne uado, al cui tenore Mugghiò egli, e fe segno di dolore E più di cento si feron sentire Strider per grande inuidia del suo scampo. Ma Guerrino di nuouo prese à dire A Malco, poi ch'innanzi porse il lampo De l'acceso doppier; poi che uenire Non puoi à più scoperto e largo campo. Poi ch à la tua Città penso tornare Dimmi, che nuoua debbo di te dare? Non dir nè ben, nè mal, Malco rispose; Che nuocer, nè giouar non mi puoi certo. Che quel Giudice giusto, che mi pose In questo luogo, e mi dà questo merto In fin che fine hauran tutte le cose, Create in terra, uuol che sia sofferto Da me questo gran mal, per la pigritia Ch'io hebbi al mondo, e per ogni malitia. E così detto, per dolore in terra Si percoteua; e glialtri tutti seco. Poi seguitò, uia più dolor mi serra Perche tu scampi tu, del luogo cieco. Per darti più dolore, e maggior guerra Disse Guerrin, non sol del brutto speco Mi parto, ma ne uado al Papa à Roma, Che di mie colpe mi sgraui la soma. Et uoi qui maledetti, rimanete Poi che concessa non u'è più speranza. Et passo'l Fiumicel, doue la sete Già si cauò, quand'entrò ne la stanza Poscia salì senza più tor quiete, Che restar per camin non uolea sanza Lume; e peruenne in capo di quel fesso Doue già s'era in giuso à scender messo. Salita c'hebbe la noiosa gola, Di quello spauentoso orrido fondo, Tosto di quindi uscir col desio uola Nè hauer ne puote onor, che'l luogo immõdo; Non mostra al caminare una uia sola, Ma molte glien' appare, e più secondo Ch'egli camina, in più parti cauata, Essendo la montagna, e dirupata. Or'una bocca troua ampia, e capace Che par che mostri l'uscita sicura, Et or la troua al riuscir mendace, Che'l camin lo schernisce, e poco dura. Passi assai troua, ma nessun uerace Sì che quindi restare hebbe paura. Abruciaua il doppier, c'haueua in mano Ch'era il secondo, e pur s'aggira in uano. Onde pietoso prego à Cristo mosse Fammi Giesv, dicendo, tula scorta, Perch'io non resti perso in queste fosse, Tra quella gente, ch'è peggio che morta. Parue à quel dir, ch'egli inspirato fosse, Tanto sperando in Dio si riconforta. Che l'uscita trouò dou'era entrato, Vennegli ben, che'l lume era mancato. Per le tenebre scure de la notte, Staua anche in dubbio, e non potea sapere. Se fuor si fusse de le cupe grotte, Ma gliocchi alzando poteua uedere, Al termin sù de le montagne rotte, Qualche Stelluzza in Ciel, che le lumiere Maggior, gli erano occulte da la terra, Che la uista di lor gliasconde e serra. La Luna in Scorpio, e bassa si trouaua Più che mai soglia, e similmente il Sole Era nel Granchio, e nel Ciel caminaua De gli Antipodi allor, come far suole In simil tempo, sì, che generaua Molto scura la notte, onde non puole Veder dou'il camin si uolga ancora, Ch'egli si troui de le grotte fuora. Da pruni, sterpi, e sassi rouinati, Er'impedito intorno il uer sentiero. E col tener, ch'ei fa, de gliocchi alzati; De l'ale l'ombra di quel Dragon fiero. Discerne appena, ancor che fisso guati, Sì, che gli bisognò mutar sentiero. Et aspettar, ch'Apol faccia ritorno, A scoprirgli il sentier, col nuouo giorno. Tra due gran sassi si posò la notte, Che faceuan cappanna insieme chiusi Che uengon giù da le montagne rotte Molti, la donde quelli erano esclusi. Quiui le membra posò già dirotte, Dormiuui alquanto, dapoi che confusi Furo i disegni di poter seguire, Tanto che uide il Sol fuor comparire. Venuto il dì, tra l'ale del Dragone Si pose à caminar, ma'l passo pieno Di sassi, fanui gran confusione, Come quell'anno cascati ne sieno. Più che non n'era prima, pur si pone Ancor ch'impedimento assai gli dieno, Ad accordar co i piedi, e mani, e braccia, Fin che pur fuor del rio camin si saccia. L'altezza, ch'à le nuuole s'appressa, La lontananza, ch'è del fondo basso De la montagna, d'alto à basso fessa, Dà poco albore à l'intricato passo. Pur già conosce quell'entrata stessa, Ch'ei fece; e fuor n'uscì, ch'era già lasso. Giunto à la coda del Dragon, discese Con più satica che già non l'ascese, E tanto à calar giù stè, ch'à Garbino, Il Sol uoltaua, lasciando distanti, Le parti Oriental, sì, che uicino, A l'abitacol de i Romiti santi. A cento braccia uide per camino, Sei persone uenirsi al passo auanti. I tre Romiti, l'oste, e'due seruenti, I quai sapendo il dì, stauano attenti. Le palme al Cielo alzarono i Romiti; Rendendo gratie debite al Signore, Che nel deuoto orar gli habbia essauditi, E l'abbracciaro con sommo feruore. L'oste, senza aspettar, chi ue l'inuiti Anch'egli l'abbracciò con molto amore Ent ar nel Romitorio, e con più agio Si diè riposo à sì lungo disagio. Però che da quell'hora, che partita Fece da la Sibilla, fin che gionto Al Romitorio fu, per la mal trita Via, indugiò dicesette hore à ponto. E tra lo stare in forse de la uita, E di sassi, e di sterpi il crudo affronto. E tra'l dolor di quel tempo perduto Creder si puote, ch'ei fusse sbattuto. A seder posto il Caualier, la prima Cosa, dimandò l'oste del Cauallo E de l'armi, c'haueua in molta stima, Che mai gli fero in difenderlo fallo Disse l'ostier, da che per quella infima Parte m'andaste, e Dio questo ben sallo, Che saluo il tutto u'ho, con quell' amore Che fatto haureste uoi, di lor Signore. Fu da la carità de i tre Romiti Deuoti, in punto messo da mangiare. Sì, che Guerrin mangiò senz'altri inuiti Che n'ha bisogno, e non si fa pregare. Di due sorti di uini assai graditi Gli derono, che l'oste se portare Da suoi garzoni; e poi mangiato appresso Narrò lor de l'andar tutto il successo. De la Sibilla tutti i fatti disse De la miseria di Malto, e di quanti I cuor pel suo tornar di duol trafisse, Poscia uoltato à quei Romiti santi. I lor buoni consegli benedisse Per liquali egli è campato tra tanti Che dannati ui sono; e riposato Da un di lor uols'esser confessato. Ilqual dipoi gli disse, figlio, io posso Ben confessarti, ma gir ti conuiene Per trarti de le branche di Minosso Al Santo Papa, e perche intendi bene. Tu se scommunicato; essendo mosso Contr'à la fede; & egli di tai pene Assoluer sol ti può, che ogn'un, ch'ei scioglie E da colpa, e da pena l'alma toglie. Con pensier d'ire al Papa fe partita Di quindi tolta la benedittione Da ciascun saggio e deuoto Eremita E con l'ostiere à caminar si pone, Ilqual sopra un ronzin salir l'inuita Che'l se menar con quella intentione. Per se condotto un'altro ancor n'hauea Sì, ch'ancor egli à cauallo ir potea. La sera à quel castel di meza strada Detto Sabina, inuiati alloggiaro, Poi la mattina non istero à bada, Che tosto uerso Norcia s'inuiaro, Ste con l'oste tre dì, di tal contrada Guerrin, poi si partì, nè fu auaro In ringratiarlo de l'atto cortese E sodisfarlo de le fatte spese. L'oro, e l'argento, che gli hauea lasciato, Che buona somma fu; cortesemente Con qualche gioia gli hauea confermato Poi salendo à caual subitamente Com'andar già soleua tutto armato Partissi, e senza più posarsi niente A Roma giunse, com'andar'in poste, Et un dì quiui riposossi à l'oste. Andonne in corte poi, pensando presto Spedirsi, e gire ai piè del Padre Santo, Il passo ne l'entrar gli fu molesto E fu fatto due giorni star da canto Da tutti i portinar, ueggendo questo Il Caualier, & appresso lor quanto Poco credito u'hà, si pone in core, D'entrarui un dì per forza, ò per amore. Il terzo dì, ch'entrarui si dispose Veggendo entrarui certi Ambasciadori, Tra quelli à caminar tosto si pose Gridando i portinar, che stia di fuori Innanzi cacciossi egli, e non rispose, E comincìò con subiti romori Misericorda à dir, padre beato D'un'huom, ch'al mondo ha fortemente errato. Il Papa, che'l sentì, fessel uenire Innanzi, e come inginocchion fu posto Quel ch'ei uoleua dir si fece dire Ond'egli disse quant'hauea disposto, E come hauea al falso Apollo ardire Hauuto, andar, Idol tanto discosto Contrà la fede; per dargli credenza, E perdon chiese di tanta licenza. Misericordia (disse) che pur'ora Ne uien da la Sibilla, onde si troua Scommunicato, e de la gratia suora Dì Gesu Cristo, ond'ei, ch'à l'alme gioua Di sua benedittion qual Dio s'onora Non gli sia scarso. Parue cosa noua Al Papa, e tutti che quiui ascoltaro Le sue parole, e'l mesto pianto amaro. Sua santitade uolse, ch'ei narrasse Chi gliera, è la cagìon del suo uiaggio In presentia di tutti, e non guardasse A la lunghezza, ond'il Caualier saggio Prima narrò, come desio lo trasse Pel mondo, per cercare il suo lignaggio, Et poi de le uenture strane e fiere Che'l camin lungo gli hauea fatto hauere. Narrato il tutto, gli disse il Pastore Qual'e'l tuo nome, & ei Meschin rispose Sei forse quello, di sì gran ualore, Il Papa disse, ch'à Bisantio pose Al Re Astilador tanto terrore E in fauor de la fe, se sì gran cose Beatissimo Padre, son quell'io Disse Guerrin, com'è piaciuto à Dio. Rispose un Cardinal, non ti uergogni A la presentia quì del Padre santo Venir con queste tue menzogne e sogni? Che pel mondo esser ito attorno tanto Ti uanti, e credo certo, che tu sogni Così ti dai per truffar questo uanto Disse Guerrin, Monsignore, io non sono Truffatore, & è uer ciò ch'io ragiono. Eccoui qui la fede de i Romiti Com'io son stato à la Sibilla un'anno Perche indarno ho cercati tutti i liti Per saper come i miei parenti stanno E trasse fuor la carta, à questi inuiti Fu dato fede, sì, che d'ogni inganno Il Papa fu sicuro, e i Cardinali Gli Ambasciadori, con gli altri offitiali. Letta che fu la lettera per mano Scritta di quei Romiti, che narraua I fatti del Meschin di mano in mano, Sicur si fece ognun, che dubitaua. Fattosi il Papa pietoso, & umano Di sua fatica si merauigliaua E del mal fatto, à buona intentione Gli diede al fin la sua benedittione. Ma per l'andare à gli Arbori del Sole A' la Sibilla ancor, contr'a la legge Diuina, dargli penitentia uuole Che sia conforme à l'ardir che lo regge Si come ardir cercando la tua prole Hauesti, disse, un tal mal si corregge Con un ben pari; anzi esser de maggiore, Et chi non può con l'opre, il fa col core. Or tu, c'hauesti ardir fin da l'estrema Parte, arriuare à quelli Arbori uani, E giù à la Sibilla hauer più tema Non ti conuien d'andare in luoghi strani. Giace d'Irlanda l'Isola suprema Sotto il gouerno de le sante mani Di quel d'Ibernia, Arciuescouo degno La ti conuiene usar' ardire e'ngegno. Il Purgatorio u'è di san Patritio, Quiui ti do d'entrar, per penitentia; Ma prima ti commetto per offitio Acciò che purghi ben la coscientia Ch'à l'Apostol ne uada, il cui ospitio, Galitia onora, e quiui habbi auuertentia Quella strada nettar di malandrini, Ch'assaltano i deuoti pellegrini. E se del purgatorio poi quì uieni Harò car; che ritorni à darmi nuoua Di quel c'haurai trouato, ma ciò tieni Nel tuo arbitrio; & egli, io farò proua Di far che i uostri precetti sien pieni D'effetto, s'in me'l tempo tanto troua Di uita, e di poter ma il mal palese E', che denar non hò, da far le spese. Trecento fiorin d'or per tale effetto Fegli il Papa donare, e fu ne l'anno Ottocento, di Cristo benedetto Et uentiquattro, com'inditio danno Le Croniche, e fu Papa Benedetto Terzo; e reggea l'Imperiale scanno Il uecchio Carlo Magno. Or fin quì basti Ch'al suon non trouo più corde ne tasti.

IL FINE DEL CANTO
Ventesimosesto.

Qvand'io pensaua, ò sommo, alto rettore Posar la stanca mano, è dal poco uso C'ho nel cantar, ritrarre il mio ualore Gia stanca nel camin cieco, e confuso, Io pur mi trouo in obligo maggiore, Sì, che pur mi conuien uoltarmi in suso, Verso l'alto tuo Polo, e nouamente Cercar fauore in ciò da la tua mente. Già tutta baldanzosa, di gioconda Gioia m'empiua m nel pensar d'hauere Tratto Guerrin da la Sibilla immonda Pensando seco in pace di potere L'istoria sua trattar che non confonda Di terrore e pietà, chi di piacere Più si diletta; or tuo Vicario santo Maggior spauento aggiugne al nouo cãto. Et è ben dritto, poi che da l'ardire Contr'à la legge il Caualier lasciossi Tirar'à gli Idol falsi douer gire E come poco error, maggior far possi, Volse il Pastor, ch'ei douesse patire Noua fatica, acciò saluar si possi Di quà facendo penitentia in modo Che di là sciolga d'altra pena il nodo. Ond'io m'accordo à narrar come, & esso Ne ua contento ad ubidir deuoto Fin che nel Purgatorio si sia messo Di San Patritio, il cui uiaggio noto Fatte gli fu dal Papa, che commesso L'haueua, & obligatolo per uoto Ond'ei partissi, e da Roma la uia Tolse in Toscana; e poscia in Lombardia. In Piemonte, in Sauoia, e fe passaggio Nel Delfinato, à Sant' Anton di Vienna, In Prouenza n'andò, fece il uiaggio In Auignone, & poi di quindi accenna Il passo à Monpolier, il Baron saggio Vanne à Tolosa, e sì' l desio gl'impenna L'ale, che senza posar, passò tosto In Guascogna, sì com'hauea disposto. Giunto à la fin sopra il gran fiume Ibero Vn'albergo trouò mezo dismesso, Là doue da mangiar chiese à l'ostiero Rispose l'oste, quà ci uiene spesso Chi mangia à scocco, sì, ch'a dirti il uero Da certi malandrin, che sono appresso Comparsi in queste selue; e pane e uino, E robba quà ci mettono à bottino Quà giustitia non regna, e non ci è parte, Che non si dolga àì lor' empie mani Robanoi Pellegrini, & hanno sparte Le membra loro in preda à lupi, e cani, E perch'io guidi loro, usano ogn'arte Con inganno chi passa; e perche uani Veggono i lor pensieri, e ch'io più tosto Gli auiso, d'ammazzarmi hanno disposto. Pur se mangiar uolete, uolentieri Di quel poco che ci è ui sara dato Smontò Guerrin, dicendo, io n'ho mestieri L'oste ueggendol così bene armato, Per mia fe, disse, per questi sentieri Pericolo portate smisurato, Che troppo adorno gite, e ui conseglio Tornare in dietro, che per uoi fia meglio. Consiglierenci dopo pasto poì, Disse Guerrin, poi ch'à mangiar si pose, Nè il pensiero di me punto ui annoi, Ch'io son bene anco auezzo à queste cose L'oste tornò sù l'uscio, e disse, uoi Forse non date fede à mie pietose Parole; e uengon già battendo l'ale Tre mascalzon, per uostro danno e male. Disse Guerrin, lasciateli uenire, Vedete quel che uogliono, ch'ancora Non mi uoglio da tauola partire, Voi nol credete, sia ne la buon'hora Seguitò l'oste. Et ei uide apparire I tre ladroni, à la porta di fuora I quai, come Guerrino hanno ueduto Ciascun si stette à rimirarlo muto. Niente à Guerrin parlan, ma uoltatì A l'oste, disser, recaci da bere Allora da Guerrin furo inuitati A mangiar seco, e bere à lor piacere Non si fur quelli sì tosto accostati Che disser, se non u'è noia messere Che buõ uiaggio è il uostro? il mio camino (Diss'egli) è in Galitia pellegrino. A San Giacomo uado benedetto, Da Roma uengo, & harei molto caro Trouar compagno per due dì perfetto Vno, ò più d'un, ben che ne sia di raro, Perche la uia non so, non più che detto Con gran proferta quei s'apparentaro D'essergli in tal camino scorte fide, Disse Guerrino, io u'accetto per guide. L'oste accennaua dietro stando, e cheto, Il Caualier, che non s'accompagnasse, Fa'l semplice Guerrino, e nel segreto Pargli che gran perdono n'acquistasse Quando sicuro il paese, e quieto Da questi ladron pessimi lasciasse, Pagò l'oste, e fe mostra di denari Per corre al uisco i mascalzoni auari. Si fan d'occhio, e s'accennano i briganti, E ben Guerrino al camino s'accorse Che fuor di strada il guidaro, e ch'innanti A' gli occhi una gran selua gli si porse Ma per trouar de lor compagni quanti Più può trouar, del camin non si torse, Drizzossi l'elmo intesta bellamente, Prima ch'egli s'intoppi in altra gente, Nè fu nel bosco anco una lega intera Ch'ègli trouossi circondato intorno Da quaranta ladron in una schiera, E quei tre, ch'à la mazza lo menorno L'umana uista riuoltaro in fiera, E per la briglia subito il pigliorno, Dicendo, smonta se saluar ti uuoi Ch'andar uoglia mo à cauallo ancor noi. Parmi à fe, disse Guerrin, che uoi siate Tristi compagni, e parmi à gliatti certo Che uoi, ch'io smontì, da senno diciate; Ma poi ch'ei uide il fiero assalto aperto Fe sentire al caual le speronate, E d'un'urto un ne fe restar diserto, Spingesi innanzi, e la forte aste abbassa, Che due n'infilza al primo scontro, e passa. Trasse di poi la spada, e diede drento Chiamando la giustitia seco, e Dio, Onde più d'un se tosto mal contento Che fieramente quella folta aprio Poco fer testa quei, che lo spauento Il pensier di rubbar porre in oblio Lor se, che chi s'oppone al suo potere Glie forza morto in terra rimanere. Com'ho già detto, di forse quaranta Ladri, n'uccise quiui uentidue, Glialtri di quà, di là, fuggon con quanta Prestezzà posson con le gambe sue De la più folta selua ogn'un s'ammanta Facendo uoto di non rubar piue Scampando questa uolta dal feroce Guerrin, che quanto può gli segue e nuoce. Diè lor la caccia, fin che giunto fuore Del bosco, presso almare ad un castello Fu, Monser detto, e sentendo il romore E la cagion sapendo; uscir di quello Huomin per dare aiuto al gran ualore Del Caualiero,e contra ogni ribello Assassino, e con armi, e con gran cani Cercan hauerne qualch'un ne le mani. Valle non è, nè sì riposta grotta Che da le uoci, e dal latrar sagace De i cani, non sia subito interrotta Del suo silentio; ond'ogn'empio e rapace, Assassino che u'era, in poca dotta Vi fu colto à purgar sua contumace Settantacinque ne furo impiccati Tre sol fur quei, che non furon trouati. Piacque al Rettor di quel castel, che l'uno A l'altro si facesse il crudo offitio E così s'impiccaro ad uno ad uno Per loro stessi, per diuin giuditio Nettaro quel paese, di communo Parer, senza hauer d'altri alcuno inditio, Fer grand'onor per tal'opra à Guerrino E l'appellaro il santo pellegrino. Contento di tal'opra, egli inuiossi Verso Galitia, à Compostella, e stette Cinque giorni à l'Apostol, poi uoltossi Per far le parti tutte intorno nette Vdendo dir, che nouamente mossi (Verso quel mar doue Europa mette Fine à la terra,) pirati infiniti, Che dipredando uan tutti quei liti. E menò seco gente del pàese A la Madonna, ou'è'l fin de la terra Due Galeazze quiui nel mar prese Non però senza oprarui mortal guerra, Che la gente, che u'era, si difese, Et auido ciascuno l'arme afferra Tenendosi di certo, ch'in tal parte Non sta chi di guerra habbia la uer'arte. Ma l'inuitto Guerrin, non mai perdente N'uccise forse trenta, e fece tanto Che prigiona hebbe tutta l'altra gente, Che furon cento dodici, e di quanto Sopr'i legni trouò, cortesemente Distribui à chi fu dal suo canto Fece impiccare i ladron tutti poi Che cinque uccisi haueuano de suoi. Le Galeazze abbruciar fece, e fatto Questo, tornò di nuouo à quel mar sopra L'ultima terra; e tutto umile fatto Quiui s'inginocchiò, dando d'ogn'opra Gratie al suo creator, che l'hauea tratto, (Pria che'l uelo mortal gli occhi gli copra) A ueder d'Europa il fin, sì come Vide Tamista, che'l fin d' Asia ha nome. Di Leuante è Tamista il fin chiamato, E questo di Ponente, oue deuoto S'era à dar gratie à Dio inginocchiato, Santa Maria il dolce nome noto Del fine de la terra, e nominato, E poscia per dar fine al suo gran uoto A l'Apostol tornossi di Galitia Hauendo satisfatto à la giustitia. Tolse il perdono, & à Lerdus tornato Per la Guascogna, indi si pose in naue, E per mar uerso Inghilterra uoltato Giunseui; ancor che per fortuna graue Di uenti il mar fusse alquanto turbato, La punta Nisalofa pur uist'haue, Vide Patras, e Peronea, & anco Arcamo, e porto Prisco il giouin franco. E costeggiando nel porto d'Antona Smontò, pagò la naue; e caualcando Verso Londra per gir tosto sperona Di uerso Irlanda; e passò seguitando Londra, ch'era sua strada corta e buona, A' Norgales di quì uenne arriuando, Che più comodo porto non si troua Per chi d'andare in Irlanda fa proua. Di qui cercò passaggio, e fugli detto Ch'alcuna naue non u'era al presente; Ma ben, che una postasi in assetto, Tra pochi dì doueua certamente Ire in Irlanda; ou'egli fu costretto, Quiui fermarsi, e ritornogli à mente Che quest'era la terra, e quel confino D'onde disse esser messer Dinoino. E domandò, s'alcuno il conosceua, Fugli risposto, egli è nostro Signore. Ei domandò, se saper si poteua Doue egli fusse; disser, non è fuore Di questa terra; e Guerrin, quant'haueua Disse, che dal Sepolcro del Rettore De cieli era tornato? e quelli un'anno Disser, che diede fine al lungo affanno. Guerrino domandò, quanti de'suoi Compagni eran tornati? e quei, nessuno Se non ei solo, e già saremmo noi In abito per lui oscuro, e bruno; Ma un Caualier degno come uoi In Africa'l campo da l'importuno Stuol' d'infideli; & è detto Guerrino A lui mandato, per uoler diuino. Non si scoprì Guerrino; e dimostrando Nulla saper, tra se n'hauea piacere Certi gli disser, se ben rimirando Andiam uostre fattezze; e le maniere Vn tale il Signor nostro figurando Ci uenne, per ilqual disse d'hauere La uita; e forse quel che diciam siete Disse Guerrin, chi son, tosto saprete. Ma non è tempo ancora, in quello istante Corse al Palagio del Signore un d'essi E peruenuto al suo Signore innante Disse, quel che ueduto al porto hauessi, Dicendo, un Caualiero è giunto errante Che di uoi mostra hauere inditij espressi, Di uoi domanda, e non dice chi sia E pare un'huom di somma gagliardia. Le Palme al cielo messer Dinoino Alzò, dicendo, ò Dio uolesse ch'esso Fusse il mio caro e diletto Guerrino, Poscia senz'aspettar più chiaro messo Al porto à pìedi si pose in camino, E molti gentil'huomin seco appresso, E di lontan senza molto interuallo Di Guerrino conobbe il buon cauallo. E disse con uoce alta, quest'è'l mio Signor, che che mi campò da morte amara, In Africa, sì come piacque à Dio, Nel qual risplende una uirtute rara Guerrino, che da lunga il calpestio Vide, e sentì di nobiltà sì chiara Di Caualìeri, e ben uide palese Dinoin, tosto da cauallo scese. Gittossi Dinoino inginocchione Per glialtri quel, che fece il lor Signore, Poi che Guerrin lassò uoto l'arcione, Chinossi in terra anch'egli, e con amore S'abbracciaro, che tutte le persone Intorno stanti, si sentiro il core Rintenerire, e dopo i gran saluti D'amor restaro, e carità pasciuti. Tutti i primi pregiati Cittadini, Per la gran fama, che data lor n'haue Il lor Signor, con beniuoli inchini Il salutaro; e così d'ogni naue Del porto, e in terra grandi, e piccolini Corron da cotal nuoua à lor soaue, Per ueder quel, c'ha pochi pari in terra Per pace umile, e fierissimo in guerra. Fatti gli abbraciamenti, che portaro Lagrime d'allegrezza à gli occhi loro, Verso il palagio pian pian s'inuiaro A piedi con sì nobil concistoro De gli altri cittadini, e fatto chiaro A quella, ch'ancor ueste l'ostro e l'oro, Mercè del buon Meschin, pel suo marito Andogli incontro con onesto inuito. Andogli incontra nel salir le scale Del bel palagio la moglie gradita Di messer Dinoin, con un segnale D'un'allegrezza subita infinita, Sapendo ben, che del passato male Campò'l marito; e per suo mezo in uita Come Dio uolse, lo tenne il Barone Sì, ch'à fargli carezze hauea ragione. Riccamente alloggiar ne le più belle Stanze di quel palagio, il fer la sera, Però che uoglion, che Signor s'appelle. Il Meschino, di quanto per lor u'era. Ma poi ch'egli lor diede le nouelle Come ei doueua far l'andata fiera Nel Purgatorio del gran san Patritio Trouarono ingannato il lor giuditio. Però che Dinoin dicendo, io uoglio Che tu ti resti meco à tor riposo, Ne cerchi più di fortuna l'orgoglio, Ei disse, il Papa, troppo faticoso Peso m'ha posto; & io ch'osseruar soglio Ciò ch'io prometto, ancor che sia noioso, Questo uiaggio, mancar non intendo Per purgare il fallir mio si stupendo. E narrò come dopo la partita, Che fer d'insieme, oltre che gliera stato A gli Idol prima di colpa infinita S'era l'anima trista caricato, E disse come per uia sì mal trita Era à l'empia Sibilla un anno stato, E per purgare l'uno e l'altro errore Tolto haueua quest'obligo maggiore. Diss'allor Dinoino, io mi pensaua, Che tu douessi un dì pur riposarti, E farti quì restare imaginaua, E per moglie una mia sorella darti Con questo stato, e cio che mi restaua Per potere l'amor, c'hò, dimostrarti Nè questo, disse Guerrin, far potrei Quand'io fin dessi à tanti affanni miei Non sai tu dunque, ò non ti torna à mente, Ch'ad Antinisca obligato mi sono? Sì, che non sarebbe atto d'huom prudente Lasciare indietro quel, che far piu buono Offitio non si può, che la sua gente Condur di Cristo, à l'eterno perdono, Però ch'io spero battezarli tutti, Acciò ch'io mostri di mia uita i frutti. Poi che così conuien che far dobbiate Senza me non andrete Signor mio, Gli disse Dinoin, che le pedate Vostre intendo seguir, se piace à Dio, Disse Guerrin, uo che mi perdoniate, Che quest'obligo tolto e tutto mio A me conuien seguir quantto u'ho detto Sì, ch'à tanta fatica non u'accetto. Fin' in Irlanda, Dinoin rispose, Almen ui seguirò, nè contradisse A quello il buon Meschino, onde si pose, In ordine una naue, che ui gisse Il terzo giorno tra l'onde spumose Entrar, ma prima che Guerrin partisse Grato comiato tolse da la moglie Di Dinoin, poi di quindi si toglie. Tolsesi da le lagrime di tutti Di quel paese, à i quali doleua forte Ch'egli uolesse per luoghi sì brutti In aperto pericolo di morte Entrare, or nauigaro indi trà i flutti Del mar, & hebber' assai buona sorte, Vider d'Inanid l'Isola, & in poco Tempo, d'Irlanda anco il primiero loco. Giunser d'indi à Venech, e poi passaro A la città d'Ibernia, ver Ponente, Oue assai nobil gente ritrouaro, Bella era ancora, e di forza potente, E di bontade, e di bellezza raro Vn paese ha d'intorno, similmente Cinquanta miglia largo, il più fecondo, Ch'imaginar si possa in tutto il mondo. Forti luoghi ui son, sempre parati Francamente à difender da corsari. Insieme Preti, Secolari, e Frati Han quiui moglie; e son di uirtù rari Stannosi à l'Arciuescouo obligati, Ne sono in obbedirlo, punto auari Q uiui Guerrin senza più far tardanza Trouò de l'Arciuescouo la stanza. E giuntogli dinanzi, prima chiese, Ch'egli lo confessasse, e ciò fu fatto. Onde poi ch'egla suoi peccati intese, Gli disse, figlio io resto stupefatto, C'huom non fu mai in questo mio paese Più pien d'errore, e c'habbia più contratto Contr'à la fè Cristiana, poi che sede Desti à quell Idol del Demonio erede. Vn'anno ancor contr'à la legge stesti A la Sibilla giù scommunicato, Sì, che da Dio ogni perdon perdesti. Che s'in quel tempo tu fussi passato Di uita, ne l'inferno giù saresti, E del corpo, e de l'anima dannato. Il Meschin pianse il fallo amaramente Onde quel l'assoluè benignamente. Ma perche intese che quiui andat'era Per ir nel pozzo giù di san Patritio, Ouer nel purgatorio; con maniera Piena di carità, del precipitio Tutta gli raccontò l'andata fiera, E lo distolse di simile offitio, Dicendo, di saluar ti darai uanto Se qui ti resti, e facci un uiuer santo. Allor mostrò la lettera Papale Lettala l'Arciuescouo gli disse, Il tenor, ch'è in questa principale, E che quando là entro tu non gisse Far'altra penitentia non ti uale, Perche dunque tu prima che in'aprisse Il tuo pensier non mi mostrasti questa Cagion di tua uenuta manifesta? Ciò detto, di sua mano al Rettor presto Che ne l'Isola di san Patritio, Con una lettra fece manifesto Il mandato Papale, e'l dato offitio Al Caualiero; & fatto c'hebbe questo, Diegli una guida, che gli desse inditio Del laogo appũto, e diegli una grã chiaue Così montaron tosto in una naue. Passato il poco stretto, che diuide Irlanda da la santa Isola, detta Così già per antico, doue ride L'aria temprata, incorrotta, e perfetta, E genti benedette, sante, e fide, Doue mai morte ui scoccò saetta, Entraro in un gran bosco, che nel mezo Sentir d'un monistero il santo lezo. Or che ne la sant'Isola è condotto Dirò quel che l'istoria di lei dice Ch'à quell'aria animal di uenen, sotto Star non ui può, nè u'è luogo ò pendice, Che da lupi, ò da uolpi sia corrotto, Perche non uiuon nel luogò felice L'huom che ui nasce, ò donna, nõ ui muore; Ma gli rincrescon per uecchiezza l'hore. Per questo, hanno per ordine & usanza, Che chi da li molti anni è fastidito Di confessarsi d'ogni sua fallanza, E poi si fan portar fuor di quel lito Da i lor parenti, e nel mutare stanza Rendon lo spirto al cielo, e seppellito E' il corpo; e questo auien sempre in Irlãda Doue ogni uecchio à seppellir si manda. Da i Sacerdoti è tal'ordin concesso Per caritade, e non per rio pensiero, Ancor che i marinari un graue eccesso Il tengan'; e'l carnefice sentiero, L'isola chiamin, di poi che dismesso E'il uiuer per lor mani; e magistero De i padri lor medesmi. Ma tal gente Temono Dio, e uiuon santamente. Or com io dissi, Guerrino giunt'era Nel bosco, ilqual è posto in mezo à questa Isola, ch'io ui dico; oue di uera Santità uide in mezo à la foresta Vn monestier di frati; & una schiera Di case intorno à quello, che d'onestà mente eran abitate Il Caualiero Quiuì smontò senza cercar d'ostiero. Appresentossi al Prior del conuento, C'hauea dodici Monaci in custode Il quale tosto che intese il suo concento. E che lesse la letcera, e ch'egli ode Da la sua bocca il uer proponimento, Mirollo, e sospirò; poi gli disse, ode Prima il uiaggio, che la giù far dei, E s'ir ui uuoi, ben di te crudo sei. E trascorse di molti il buon progresso. Che già u'andaro, e riusciro fuore, Poi di più d'un, che dentro s'era messo, Che senza mai morire, eterno muore. Senza sperar di ritornar dond'esso Già era entrato, Mostrando il terrore Che ui si troua, con glialti perigli Di chi ua de domini tra gli artigli Dicendo appresso, noi licentia habbiamo Dal Padre santò, che simili uoti O penitentie riuo'ltar possiamo In altri purgamenti più deuoti. A questo ufficio (segui) messi siamo. Si che questo pensier dal petto scuoti. Che altra penitentia posso darti E sarà tal, che tu potrai saluarti. Padre (disse Guerrino) in ogni modo Io debbo andarui, e però spero in Dio. Che liber mi trarrà di tanto frodo Nè altra penitentia tor uogl'io. Dissegli il frate, poi che sì chiaro odo Il fermo tuo uolere, e'l tuo desio Stattì tre dì quì sempre in orationi E come Dio ti spira poi disponi.) Questo accettô Guerrin benignamente In questo tempo, ogni Padre deuoto L'ammaestraua con la uoglia ardente, Acciò gli fusse ogni pericol noto. Egli stà saldo, e di ciò non si pente, Poi che'l Prior uid'il suo pensier uoto D'effetto, ordine diede à quelle cose Ch'eran per tale entrata bisognose. E ben l'ammaestrò passo per passo De l'ordin, che tener douea là giuso. Disse Guerrin, uorrei sapere un passo, Che mi fa stare l'animo confuso. Chi fu'l primo à trouare il luogo basso, Che poi da glialtri è stato posto in uso? Disse il Prior, l'istoria il manifesta Di san Patritio chiar; da quale è questa. La Isola d'Irlanda, come quella Ch'era uerso Ponente la più bassa. Sendo di fe catolica ribella. E d'ogni natural bontade cassa. Poi che la fe che Cristiana s'appella, In Inghilterra fè congrega e massa. In quei principij non fu però tale Che desser d'ampliarla alcun segnale. Però questa si staua, che persona Non cercò trarla à quella fede santa. Ma san Patritio per far opra buona Vi uenne, e'predicò solo tra quanta Gente qua era, ou'anco il nome suona; Ma far mai non potè opera tanta, Che gli piegasse à fargli creder cosa, Che gli esplicasse con uoce pietosa. Ma pur continuando à dir che Cristo, Del quale ei predicaua, in premio daua Il Paradiso al buon, l'Inferno al tristo, Secondo che nel mondo s'operaua. Nel replicarlo, il popol s'era auisto, Che qualche senso a quel dir sotto staua. Al fin gli disser, noi ti crederemo Se queste cose, che dici, uedremo. Mostraci quest Inferno, e'l Paradiso, E promettianti di farci Cristiani. Et ei diceua, allor n'haurete auiso, Che di Morte sarete ne le mani. Onde quel popol si moueua à riso; Tenendo i suoi precetti al tutto uani. E seguiuan, non siam per creder mai, Se quel, che dici, non ci mostrerai. Il Santo, tutto pien di uoglia, e sete C'haueua di condurgli à saluamento. Vedendo in uan tes'ogni laccio, e rete, Et ogni suo parlar gettato al uento. In parte si ritrasse di quiete, E stè un'anno à l'oratione intento, Acciò che Cristo gli spirasse come Far gli potesse serui del suo nome. Fornito l'anno, che in cilicio stato Sempre era à carne ignuda; ne la fine Stè noue giorni tanto inferuorato, Ch'altro mai non gustò, che discipline. Hauendo il cibo già dimenticato, Sempre piangeua de l'altrui rouine. Tal che Gesù gli apparue, e'l menò seco, E gli mostrò questo profondo speco. L'Isola santa, ò l'Isola de l'Oro E' detta questa; oue Cristo menollo In mezo a questo bosco, e'l Purgatoro Che gli mostrò, e quiui anco auisollo. Del luogo de l'eterno, e rio martoro, E del Regno del cielo ammaestrollo. Dicendo, s'un quì entra, & esce saluo; Se più non pecca poi, resterà saluo. Pur che ben confessato, e ben contrito Sia quando u'entra, d'ogni colpa e pena. De l'anima sarà alleggerito, S'egli sarà di sì costante uena, Ch'al Demonio, che stà nel cauò sito, Non serua in cosa alcuna che lo mena. Con fraude ad ubidire; acciò che sia, Etertna preda de la Valle ria. Predica à quelli tu, ch'al mondo sono, Che se per ignorantia alcuno errasse, Ei da miei confessori hauer perdono Potra, ma quand'alcun pur seguitasse. Per uolontà, contr'al precetto buono, E che'l uoler del Diauolo osseruasse. Nel duol sarà dannato seco eterno, Giù nel profonde abisso de l'Inferno. Quando mostrate, e dette queste cose Glihebbe; soggiunse, pertanto ciascuno Che deniro u'entra, non gli sieno ascose Le cose dette; pur che stia digiuno D'ogni peccato; appresso, in man gli pose Vn libro, a nostra fe solo opportuno. Doue i sagri Vangeli, oue le sante E pistole eran poste tutte quante. Dico di Paol l'Epistole elette, L'Appocalissi ancor di san Giouanni. De gli Apostol le cose bene dette, Con questo, disse, caccerai gli inganni, De l'empio transgressore, E perche rette Le Pecorelle, e cauate d'affanni Sien, questa mazza tien, così gli diede. La mazza Pastoral, che ne fa fede. Il cui libro, e la mazza apprisso tiene D'Ibernia l'Arciuescouo, e si troua Fino al dì d'hoggi, e salua si mantiene. A san Patritio disse Dio, fa proua In Ibernia passare, e quiui uiene, E dar ai lor predicando, tal noua. Che non solo al tuo dir fede daranno Ma capo loro, e guida ti faranno. Farannoti Arciuescouo; ma come Sei fatto, poi lasse ordin; che secondo Glialtri che piglieranno cotai some, Espongan del Vangelo il sagro pondo. Così predical tu; ma perche'l nome, Non basta d'Arciuescouo nel mondo. Fagli giurar sopra la mazza, e sopra L'Euangel, d'osservare il nome, ed'opra. Così sparì quel gran Rettor de i Cieli Il redentor de l'umana natura. Il Santo non sì tosto quei Vangeli Predicò loro, e la santa scrittura, Che tutti à Cristo gli fece fedeli, Et fu fatto Arciuescouo, che dura Ancora il successore. Ordinò poi Qui questa Chiesa; ou'ora abitiam noi. Hauendo prima fatta una solenne Procession con gli Iberni; questa parte A salutar diuotamente uenne, E fe la bocca murar con grand'arte Di quel profondo, e poscia si ritenne, Di tal porta una chiaue, e fenne parte D'unaltra à questo luogo, nè può l'una Senza l'altra scoprir la caua bruna. Questo fece egli, acciò senza saputa Alcun de l'Arciuescouo non possa Entrarui, e dia ragion di sua uenuta, Or questa fu l'origin di tal fossa. Al tempò suo uí s'è gente perduta, Perche senza licentia feron mossa. Altri ui fur, che licentia pigliaro, Che da lui bene auuertiti tornaro. Per li quai noi sappiam quanto gli accade Oprare, à chì ui uà, perche da quelli Hauendo inditio de la ueritade Scrissesi il tutto, perche da i flagelli Si potesse auuertir chi per bontade A purgar uoglia andare i uitij felli, E per tal uia à te daremo inditio, S'entrar pur pensi in questo precipitio. Poi che fermo lo uide in tal pensiero, E che d'entrarui al tutto si dispone. Fegli il digiun di noue mesi intero In chiesa far con somma diuotione, Per memoria di quel digiun seuero, Che san Patritio fece inginocchiare. Die degli un piccol pan, che'l tenga in seno Quando la giù uenga per fame meno. Di san Patritio, disse, è questo pane, Ancor che picciol sia, non ne torrai Sì poco in bocca in quelle triste Tane, Che subito la fame scaccerai. Perche non u'hanno luogo opere umane, Ma sol la buona fede, se l'haurai. Volle portar Guerrin la spada à canto, Di che sorrise quel Fraticel santo. L'arme (diss'egli) è Cristo Nazareno, Ch'in cor debbi tener, dicendo appresso Del tuo aiuto non mi uenir meno, E questo dillo quanto puoi più spesso. Che se quant' armi al mondo furo, ò sieno A portar teco ui ti fussi messo. Non sarien per giouarti, ò darti aita, Che la giù non ha forza umana uita. Dunque (disse Guerrin) ui raccomando L'armatura e'l caual, fin ch'io ritorni, Et lassoli per l'anima mia, quando Auenga che per forza io ui soggiorni. Quel frate il uenne allora ammaestrando, Acciò campasse de i Demon gli scorni, E pria ch'entrasse, gli fe noto il tutto Perch'egli non perdesse ogni suo frutto. Dicendo, ne l'entrare, il trionfante Segno di Croce fatti; e con le mani Volte al Ciel dì queste parole sante, Nel nome tuo, ò Lume de' Cristiani. La giù mi salua da l'insidie tante, Et ogni uolta, ch'i Demon uillani Ti comandan. Per forza ò per amore, Non gli ubidire, e tien Gesù nel core. Se ti dicon camina, e tu t'arresta Se dicono, stà fermo, e tu ti muoue. E se ti desser qnalche pena infesta, Non ti turbar, ma stà costante doue Per forza ti portassero, che questa E' la uia di saluarti, nè altroue Ti uolgi in tuo soccorso, che nel dire Saluami Cristo d'ogni rio martire. Deh fammi Gesù Cristo Nazareno, Nel tuo gran nome saluo, queste sono Le parole, di che la lingua, e pieno Il cor debbi tener; sol questo è buono, A spegner del nemico ogni ueleno, Così haurai del uicin mal perdono. E ne lo scender de la tomba tetra Per un miglio una scala u'è di pietra. Il quale spatio è seuro, e tenebroso, Al piè di quella ui si uede poi Vn prato molto chiaro, e luminoso, In mez'al quale, in un T&etilde;pio entrar puoi, Diuoto tutto, iui torrai riposo, E farai oration pe i casi tuoi. Due, uestiti di bianco, à te uerranno, Questi ciò c'hai da far t'insegneranno. Tra questo ragionar, queglialtri frati Cn salmi, & orationi dauan'opra, Che Guerrin non restasse tra i dannati, E cosi giunser'à l'entrata sopra Del pozzo, e quiui sendosi fermati Diss'il Prior, pria che la bocca scopra. Pensaci Caualiero, e ti rammenti Di nouo i già narratiti tormenti. Così parlando tuttauia uoltaua La chiaue, che d'Irlanda era uenuta. Voltata quella, l'altra poi pigliaua, Stand'à ueder se Guerrino si muta. Ma poi ueduto, ch'entrar disiaua, Disse, auuertisci, che s'altri rifiuta L'andar, poi ch'altri è d&etilde;tro, in uã s'adopra, Che seguitar conuien la pigliata opra. Esser uorrei, dice egli, à piè le scale, Sì, ch'apritemi pur sicuramente. Il frate l'uscio apri, poi che non uale Il ridurgli i pericoli à la mente. Egli tre uolte si fece il segnale De la Croce, & entrouui incontinente. Serrò'l Prior la porta, & egli entrato Vada pur giù, ch'io uò raccorre il fiato.

Il fine del canto ventesimosettimo.

Del Profondo chiamar cõui&etilde;, Signore, Essavdi ora la uoce del Meschino. Che nel duro calar pien di terrore, Chiama che'l regghi tu, per quel camino. Nel tuo nome (dice egli) alto rettore; Reggimi e fammi saluo, che uicino Senza te uado ne l'eterno duolo, Così costante scende attento, e solo. A scender quella scala tenebrosa, D'un migliò lunga, stè meza giornata, Che ne la prima entrata era nascosa; Ma nel gir molti passi, fu trouata Da esso, ilqual già di calar non posa, E come quella al fine hebbe calata. In una bocca entrò, d'andata piana, Ma d'ogni luce priuata, e lontana. L'andito scuro al caminar pareua, Che rigirando à dietro ritornasse. E come un laberinto si uolgeua; Vn'hora stè, pria che la fin trouasse. La Tomba, ch'à la luce il conduceua; Pur uia passò, ben ch'alquanto indugiasse. Trouò la luce, e uide un prato bello. Et uide una gran chiesa posta in quello. Dio ringratiando; à far sua oratione In chiesa entrò, nè fu sì tosto posto Ad un deuoto altare inginocchione, Col core umiliato, e ben disposto. Che in chiesa entrar due deuote persone, In bianche uesti, e fattiglisi accosto, Parue à Guerrin ueder la santitade, Ne i uolti lor pieni di caritade. Drizzossi à riuerire i risplendenti Lor uolti e giunti quelli, il salutaro Gesù Cristo (dicendo) ti contenti, Et ei ti scampi d'ogni duolo amaro. Porgendoti fermezza ne i tormenti, Perche senza fatica il ben di raro S'acquista, & acciò sappi chi noi siamo, Da Dio siam qui mandati, e lui seruiamo. E debbiamo ammonir tutti coloro Che uoglion salui ritornare al mondo. Poi ch'à purgar quà giuso i uitij loro Vengono, & à leuarsi il greue pondo D'ogni peccato, che dal sommo coro Ben Dio discerne in ogni ascoso fondo, Il Meschin disse, à i lor piè genuflesso, Fate di me quanto Dio u'ha commesso. Diritto il fer leuare, e poi sedere In mezo à loro, i messaggi di Dio, Disse un di lor, poi ti conuiene hauere In core umil pensiero, e buon disio De l'Abbate il precetto anche tenere Sempre in te fermo, contra il Demon rio. Dicendo, nel tuo nome fammi Cristo Saluo da l'empio tuo ribello, e tristo. Perche costor, con chi dei hauer guerra, D'India non son le fiere; nè gli armati D'Arabia, nè di Persia, nè di terra, Al mondo come quelli son creati. Ma son Demon, ch'indarno in mã s'afferra Il ferro, come quelli al mondo nati. Vincon questi empi sol, le forze sole C'hanno di Cristo le sante parole. E per questo, ogni uolta che dirai Quelle sante parole, per quel tratto Da le lor false infidie camperai, E se di nouo altroue sarai tratto, A gran pericol, ui ricorrerai, Che sarai liber d'ogni male in fatto, Nè dubitar, s'in aere, in acqua, ò in suoco, Ti portan, perche nuocer ti puon poco. Non ti faran perir, pur c'habbi in core Saluo mi rendi Cristo Nazareno, Nel tuo gran nome; e non ti dar dolore, Però che dati conuien che ti sieno Molti tormenti, iquai sol per amore Di Dio sostien, per ch'accetti gli fieno. Ma auuertisci di non gli ubidire, In cosa, che tu possigli seruire. Però che come tosto gli ubidisse, In cosa alcuna, conuerrebbe presto, Che ne le man lor pessime perisse. Et per sì poco faresti del resto. Questo tre uolte un di color gli disse, Acciò che'l tenga in mente, e se fai questo Disse, potrai da lor farti portare Per tutto, e come signor comandare. A lor mal grado, il Purgatorio tutto Ti mostreranno, e le pene infernali, De i buon parte la gloria, e'l degno frutto, E de gli ordini ancor celestiali. Or, perche presto debbi esser condutto Nel Purgatorio d'infiniti mali. Ti lasceremo, e stà costante, e forte, E se'l farai, non puoi temer di morte. Auuertisci, ch'ancor Demon uerranno. Per ingannarti, fingendosi buoni, Et mille lusinghette ti faranno; Ma non gli creder, che saran Demoni. Passato un ponte poi ti lasceranno; Quiui conuien che ciascun t'abbandoni. Di là spiriti buon potrai uedere Volti al tuo ben, nè ti conuien temere. E se i Demoni à tue domande sieno Ritrosi, e non uolesser nulla dire. Scongiurarli per Cristo Nazareno, Che ti diranno quel c'haurai desire. Detto ciò, dispariro in un baleno I santi spirti, e la chiesa à fremire Incominciò con terremoto orrendo, E fessi scura, alluminata essendo. Venti crudeli, e tempestosi sente, Caligin cala, e puzzolenti odori; Gran romor sente far d'armata gente, Tuoni, lampi, e balen, strida, e romori. Batter sopra la testa immantinente Sentissi il Caualier da i trasgressori. Molta arme insieme, il cui suon sì tempesta, Ch'esser gli par restato senza testa. In questo, gridar largo sente, uia Canaglia, e par che la turba s'accheti, E certi demon fingon uoce pia, Dicendo, maledetti, ogn'un s'arreti. E comincia un de la famiglia ria, Costui uien per saper fatti segreti. Ben ne uenga'l Meschino da Durazzo, Non temer punto questo popol pazzo. Non l'intese Guerrino ancor, che stato A Durazzo non era, il Diauol disse, Pon sù la mano, & egli, c'ha notato, Porgendogli la man, che l'ubidisse. Cortese con le man s'era recato; Dandola egli, era forza che perisse. Guarda che piccol punto era cagione, De l'eterno suo male; e dannatione. Non ti conuien, diss'un di lor, da noi Guardar, che siamo del Ciel creature. Ma di questi altri fidar non ti puoi, Perche son tristi, e genti mal sicure, Venuti siamo acciò nessun ti annoi, Et saluar ti uogliam da costor pure Che uolentieri accetti il nostro aiuto; Nè si potè Guerrin più tener muto. Come potreste aiutar me, uoi, quando Vostro mal grado, dal Coro superno. Per la uostra superbia posti in bando; Fatti da Dio ministri de l'Inferno, Siete, nel più uil stato, e miserando, Che si possa trouare, ed anno eterno? Omai uostre lusinghe à me son uane, E tristo à quel, che preso ui rimane. Allor la turba trista, il freno sciolse D'ogni modestia, e con empito tanto, A la nera aria intorno si rauuolse, Piena di strida, e d'angoscioso pianto, Et il miser Meschin di peso tolse, Il qual, quando portar sentissi; alquanto Oppresso dal timore uscì del sesto, Che mai non n'hebbe tal simile à questo. In tanto la ria turba lo portaro Sopra una gran uallata lampeggiante. D'ardentissime fiamme, e l'accostaro Tanto à quel fuoco in suso fulminante, Che cuocer si sentì senza riparo; Ma egli, ch' à l'impresa fu costante. S'empì con la memoria, e lingua, e seno, Del bel nome di Cristo Nazareno. Non sì tosto chiamò quel sacro santo Nome, che'n terra trouossi, & uscito, Di man di quei Demoni, e posto à canto De la Valle trouossi, doue udito Hauea cantar da molte anime, in tanto Vn bel salmo, secondo il Cristian rito. Miserere Signor, come la grande Misericordia tua sempre si spande. Così l'habbi di me; così sentiua Dir'egli; onde conobbe, che coloro Per cui sì dolcemente si languiua. Erano anime poste in Purgatoro; Non di meno, à la Turba, che gli giua Intorno sol per dargli empio martoro. Domandò scongiurando per uirtute Del Redentor de l'umana salute. Qual peccato, à tai pene conducesse Quiui tant'alme à cantar Salmi santi. Che crepate l'effigie loro, e fesse Mostrano, e sangue fuor da tutti i canti, Bisognò ch'un Demonio gli dicesse, Ch'era sopra di ciò, posto tra tanti. Accidiosi (disse) e negligenti Fur questi, c'han si pietosi lamenti. Ma si pentiro poi de i lor peccati, E così stanno quì fin che sia gionto Il tempo, che del tutto sien purgati, E con sì fatta pena fatto il conto Habbian; dipoi n'andranno tra i beati; Guerrino tutto da timor componto. A Dio raccomandossi, e ciò fornito, Da i Demoni di nouo fu rapito. Et in aria il portar sospeso ancora, Tra fuoco e solfo; tra tenebre, e lampi. Sì, che gli ha gran cagion di temer'ora, E ricorrere à Cristo, che lo scampi. A lui auenne, come suol tal'ora Il cerebro mancar doue si stampi Nel sonno alte chimere, e par che l'huomo Faccia d'un'alta Torre, ò balza un tomo. Sotto meschinamente anime afflitte Sentia languire, e tenendol sospeso. Potea ueder la giù l'anime dritte, Con uentre aperto, in mez'al foco acceso. Le turbe diaboliche, che fitte S'eran già quiui, portandol di peso. Disser, qui Caualier far ti conuiene, A nostro modo, ò gire in quelle pene. Quel che da te uogliamo, è che ueduto Il Purgatorio, più ueder l'inferno Non cerchi, e sol ti basti hauer saputo Questo, lasciando star lo scuro Auerno. Ma tornarati donde sei uenuto, Se non uuoi restar qui nel pianto eterno. Ritornerenti per le uie passate, Che ben la porta t'aprir à l'Abbate. O maladetti, & empi detrattori, Nemici al tutto de l'umana gente, Disse Guerrino, io non uoglio uscir fuori, Io ho già cerco il Leuante, e'l Ponente; Senza guardare à gli instabil furori De la fortuna; tanto maggiormente, Debbo à uoi comandar, che mi portiate Senza fatica de le mie pedate. A me diletta, che mi siate serui, E più oltre ui dico, che'l pensiero C'haueua prima, ò spiriti proterui, Era di non ueder l'abisso nero. Ma godo mal contenti di uederui, Però che senza uoi saluarmi spero. Io uò uederlo, nè ciò mi confonde, In cima, in mezo, in fondo, e ne le sponde. Allora, orribilmente fu percosso, E tra la puzzolente ombra infiammata; Lo lasciaron cadere a l'alme addosso La turba de' Demoni infuriata. Egli dal gran timor tutto commosso, Ricorse à l'oration tanto pregiata. E del pericol fuor trouossi in fatto, Che ne fu da color subito tratto. Non di manco sentì tra gli stridori, De i denti, tra'l ruggir, tra gl'interchiusi Rimordimenti lor pien di dolori, Inni cantar, ben che di suon confusi. Salue Regina de gli eterni cori, Molti diceuan nel uenire delusi. Con terribili squarci; e uide molte Anime uscir da tai pene disciolte. Osanna in excelsis, dicean questi, I cui corpi mostrauano infocati. Per saper questi fatti manifesti, Il Meschin de' Demon sciagurati. Scongiurò uno, acciò gli manifesti, Che sorti erano quelle di peccati. Disse il Demon costretto; inuidia è questa, Che sette rami seco manifesta. E ne i sette peccati tutti ha parte, E sette sorti d'inuidia contiene. Ad ogni parte il luogo si comparte, Secondo il uitio, ch' à purgar ci uiene. E molt'anime son, che sono sparte Di più peccati, à queste si conuiene. Purgato l'un, l'altro purgare ancora, In un male entra, e de l'altro esce fuora. Parlato il rio Demon, con furia alzato Da tutti fu Guerrin uerso Leuante, Poscia in un lago di draghi gittato, E senza mai posarsi sù le piante, Fu tra brutti serpenti strascinato; Ond'egli di timor uenne tremante Pe i serpi crudi, che gli abbondan sopra, Onde de l'Oration ricerca l'opra. E quella detta, sopra un ponte messo Si uide, stretto, debile, e sottile, Et uolendo il piè mouer, daua spesso Gran crolli, & ei tenendo il passo uile, Volse in dietro tornar, ma ne l'istesso Tempo, non uide ponte, e uolti umile Gli occhi à guardare in giuso, iui cadere Si uedea ne le bocche di gran fiere. E sterminati draghi à bocca aperta Vide aspettar, che la preda ui caschi, E parea ch'al Meschin stessino à l'erta, Acciò ch in le lor gole ingorde intaschi. Egli, che far di se non vuole offerta, Chiama Gesù, acciò ch'egli non paschi, Quelle bramose canne; in quell'istante Il ponte ritornò, che uide innante. Ma si se largo, forte, e spatioso, Et in parte passò men perigliosa. V' uide con un canto baldanzoso, Anime uscir de la pena dogliosa. Dicendo, gloria à l'eterno riposo; Guerrino, che la uoglia hauea bramosa. Vno spirto cercò, che gli dicesse Qual peccato dominio iui tenesse. Quiui si purga la superbia uana, Disse lo spirto, e Guerrin ricordossi Che simil draghine la trista tana De la Sibilla uide, enfiati e rossi. Per quel peccato, che lo spirto spiana, E poi seguì, dimmi se saper puossi, Quanti gradi ha questo peccato fiero, Che rouina del mondo ogn'alto Impero. Ogni mortal peccato in se contiene Tre gradi, e sette rami; ma sol questo La corona di tutti in se mantiene, Et è al sommo Coro il più molesto. E però son terribil le sue pene, Disse Guerrin, se non fia fuor d'onesto. Dimmi chi fusti al mondo, se'l puoi dire Lo spirto disse, io non tel uò disdire. Del Principe guerriero di Taranto Fui; e suo Capitano; ne l'acquisto Di Durazzo, ben ch'io non mi dei uanto. Di uiuer tanto, che non piacque à Cristo. Quel che m'uccise, io gli feci altrettanto. Ancor ch'ei fusse di forze prouisto. Fui da Pauia, e chiamato Lamberto, E fui superbo; e qui uenni per merto. Douea star dugento anni in questa pena, Ma'l morir combattendo per la fede, Fa che trent'un ci sono stato appena, Nè ciò fu poco acquisto di mercede. Voleua anche seguir, ma la gran piena Di Demoni à Guerrin subito diede Di piglio, e lo portar sopr'un gran monte, E lo battero, e fecergli mill'onte. Dicendo, ò tu ci adora, ò tu morrai Quì per le nostre mani, e cominciaro A bastonarlo; ond egli non fu mai Così mal concio, pel tormento amaro Tra se dicendo, dunque patirai Quel che patir già soleui di raro, E con le punua strette mena in torno, Per far difesa di sì graue scorno. Sì la colera il uinse, e tanto l'ira, Che le braccia distende disdegnoso Senza pensar, che gente lo martira. Onde cogliendo al uento dololoroso Tosto s'accorge, quanti'in darno aspira Esser de gli auuersari uittorioso Et à Cristo ricorse al fin pentito Hauendo à suoi messaggi trasgredito. L'oration detta, libero trouossi; Ma gli parue esser uia portato in fatto Duemila miglia, uerso i liti rossi De la secca Ethiopia, onde fu tratto In una ualle, piena di gran sossi Oscurissima, e nera; la giù ratto Giunse, ch'era di sterco, e puzza piena Oue sentiuui inestinguibil pena. Per l'aspre battiture era sì rotto, Che memoria non hà, nè più s'aita Fin che quasi era à quel fastidio sotto, Nè sa se sia passato à l'altra uita, Pur trà l'urlar de l'anime dirotto Di Demon uide una turba infinita, Che del fastidio à l'anime hauien' pieno La gola, e'l uentre, e di duol uenian meno. Diceuano i Demoni, ecco l'elette Viuande già, che trangugiaste al mondo, All'ora un con Guerrino à dir si mette Di come io dico, ò Caualier giocondo Colui passò, colui andò, e stette In mezo di coloro, e'l mondo è tondo Quel non disse Guerrin, ma l'oratione, Che gli insegnaro le sante persone. Trouossi fuor de la puzza già detta Dopo l'oration solita, & allora Qualch'anima uscir fuor ne uide netta, Et mentre che del loto usciuan fuore Questa prece era da lor bocche detta Dio gran padre de i cieli, or che sia l'hora Miserere di noi; e già uoleua Il Meschin domandar, ma non poteua. Volea saper del uitio de la Gola Di quai sorte di genti più ui uiene, Che ben conosce, che quiui si cola Quel fango pe i golosi e per lor pene; Ma tosto uia portato in aer uola, E in un uallon di ruote e di catene Pieno il tiraro, e non mai quelle ruote Vide d'anime afflitte, nette ò uote. Nel girarle i Demoni per metate Le faceuan partire, e per giuditio Diuino eran da capo ritornate Intere, e ritornate al duro offitio, Altre in più parti restano spezzate, Et molte, in cui maggior regnaua uitio, Così spezzate, in un monte diuise Stauan per mezo con istrane guise. Vna ruota maggior di poi giraua Di rasoi piena, ú si faceua il monte, E quelle tutte insieme minuzzaua L'alme da piedi eran di poi congionte Insieme, e di nouo anche si tornaua A quel supplicio con le uoglie pronte, Che la diuina Giustitia era tale, Che le spronaua à rinouare il male. Credo, diceuan, in un solo Dio, E conosciamo quel per uer Signore, Piene di speme, e con alto desio Di salui uscir di quella pena fuore, Trà tanto un'alma fuor de l'altre uscio, Et al Meschino disse, il Saluatore Sia tua guida, e per nome poi chiamollo Dapoi che gratamente salutollo, Merauigliato Guerrin, già credea Risponder, quando da Demon sentissi Pigliar, che la ria turba non uole à, Che alcuna noua più d'altro sentissi Egli, ch'altro rimedio non uedea A far, che la lor forza non seguissi, Ricorse à l'oratione, e fu lasciato, Tanto, ch' à quello Spirto hebbe parlato. E così domandò se la speranza Presto'l conduca nel beato Regno Che gli dicesse il nome, e qual fallanza Il faccia in quel supplitio stare à segno Rispose quel, già fusti à la mia stanza Al mondo, e quì per le tue opre uegno Ch'era dannato, e tu mi battezasti Allor, che pel Soldan guerra pigliasti. Polinador son'io, di Polismagna Già Re, e quel tormento, che tu uedi. Mill'anni à me si dà per la magagna, Per ch'io non cresi ben, come tu credi, E tutta quella turba, che si lagna Tutta dal uer camino torse i piedi, Eretichi siam tutti, ma pentiti Nel fine, e qua ne uien da tutti i liti. Detto c'hebbe fin quì l'anima mesta, Il Meschin pur fu da i Demon rapito, E parue à lui, tra'l uento e la tempesta Tra le fiamme uolanti esser basito In tal trauaglio trouandosi, e in questa Furia, un Demon allor gli disse ardito Caualier, uedi colà quella terra, Va là, se uoi campar da questa guerra. Il uiso il Caualier uoltando altronde Fe segno altutto di non l'ubbidire, E disse l'oration, laqual confonde Tutti i Demoni, che gli dan martire, E quella detta, trouossi à le sponde Di quella terra, oue potea sentire L'anime poste al tempestoso loco Trà tuon', uenti, tempesta, lãpi, e fuoco. Da uno spirto seppe domandando, Che quiui la Lussuria si purgaua, E dopo quella, andaua seguitando La uana gloria, che l'accompagnaua Noue rami hanno, che ne uien pigliando, Per se cinque Lussuria, & à la praua Compagna quattro resta; e sette gradi Hanno ciascuna, se ben tu ui badi, D'ogni peccato mortale n'hanno uno; Ma tre à la Lussuria se ne porge Da la superbia, e tre per il communo Vso, c'hà con la Gola, e da lor sorge, A lussuria sei più, gradi, ch'ogn'uno A l'empia dannation l'anima scorge S'ella prima nel corpo non si pente, E quì sparì lo spirto immantinente. Certo fu dunque, che l'istesse pene Han l'alme de l'inferno, che costoro; Ma il non isperar mai d'hauere bene Gli raddoppia tre tanti il lor martoro, Gli auuersari dal lito, oue l'arene Arse eran, lo leuaro, e uia con loro Lo portar sopra un mar d'acqua bollente, Che fino al ciel salta il bollor cocente. Questo mar circondaua un'alto monte, La sommità del qual toccaua il cielo. Quiui in aer non è da saluar ponte, Per la cocente broda il cuoio e'l pelo I demoni il lasciar con uoglie pronte, In mezo à quel cadere, acciò che'l gelo Gliesca de l'ossa, & egli, che ciò uede Ricorre a l'oration, doue hauea fede. La fede c'hauea in quella, fuore il trasse, Et ritrouossi al pie de la montagna Laqual mirando da le parti basse, Vede dal mezo in sù, che l'accompagna Luci diuine d'ogni dolor casse, Qual che spirto anco, che più non si bagna La giù uede salir di gaudio pieno Come fornite le sue pene sieno. Tra i quali un che mostraua pure allotta Vscir del mar di dolorosa angoscia, Disse al Meschin, tu che di nostra frotta Non par, se ben auien, ch'io ti conoscia Tu se'l Meschino, e con uoce interrotta Da l'allegrezza, mostrò desio poscia Di uolerlo abbracciar, ma l'esser' ombra Ogni poter di tal opra gli sgombra. Chiese Guerrin chi gliera? Et egli, io sono L'anima di Branditio, ilqual facesti Di Media Re. Disse Guerrin, qual buono Fato, ti fe, che la uita perdesti? Non hebbe, disse, da i Medi perdono La mia grand'auaritia, ond'essi presti Perch'io non peggiorassi, à gran furore Di popol de la uita mi fer fuore. Il terzo anno fui morto, che tu data M'hauesti la corona di quel Regno, Pur l'auaritia sarebbe passata; Ma quest'odio gli aggiũsi al primo sdegno, Che due figli hebbi da la mia pregiata Moglie, a i quai uolsi dar battesmo degno, E tal' opra commisi à i Sacerdoti Lor, ma fur tutti i miei disegni uoti. Voti d'effetto furo i miei disegni, Che'l popol comportar questo non uolse, Et aggiugnendo furori à gli sdegni Come tu uedi, del corpo mi sciolse In quella bollene acqua, spirti degni Vi son, ma l'auaritia gli distolse Alquanto dal buon uiuere e la drento Purgano le lor colpe, in quel tormento. Io, perche l'alma à Dio raccomandai, Per sua misericordia, hò già purgato L'error sì grande, là doue io fallai Or, mi conuien cent'anni esser tardato A salir questo monte, oue tu stai Al piè, se'l ben, ch'è per noi ordinato Nel mondo, questo tempo non mi scorta, Che sol questa speranza mi conforta. Dunque ui gioua il ben, ch'al mondo fassi Disse Guerrin? Sì quando (egli rispose) Vn tale aiuto in genere à noi dassi; Ma quell'anime sono auenturose, Per uia di chi d'aiutarle cercassi Sole in particolar; e gloriose Si tengon l'altre, s'una è aitata Fin ch'ella saglia à la gloria beata. A tutte l'altre par men graue il male, Per la certezza de l'alta speranza Disse Guerrin, chi ha purgato sale Subito al ciel fuor di si trista stanza? Disse lo spirto, chi n'esce, gli uale Ch'in lui non hanno i Demoni possanza, Come tu uedi in me, ma nel salire Thi tosto può, e chi poco può ire Messer Branditio, allor seguì Guerrino, Poi che la caritate, e l'oratione, Ch'al mondo fassi, ui scorta'l camino Di questo monte, se l'opinione C'ho di tornare al mondo per diuino Voler non mi si toglie, e con lo sprone Di morte non mi punge, io ui prometto Far che tosto sagliate, buono effetto. Pur ch'io troui però, quel ch'al primiero Voto m'offersi, cioè il padre mio Dunque colui che regge l'alto Impero Puote il bisogno uostro, e'l mio desio Aiutar, per ch'in lui sol credo e spero Allor, messer Branditio, piaccia à Dio Di noi far cosa, ch'in onor suo sia Doue consiste la speranza mia. Verso le parti Oriental gli auersi Guerrin poi strascinar, per lo rouente Sabbion, prima che tempo habbia à potersi A lo spirto dir'altro, onde di mente Conuien ch'ogn'altra cosa di fuor uersi. Quand'esser giunto in un gran piã si sente Dal cui fesso terreno, e uerdi, e gialle Fiãm'escon, che di puzza empiõ quel calle. Fumi fastidiosi, e d'ogni sorte Pestilentiali odor di solfo accesi, Neri, rossi, ferrigni, che la morte Farian fuggir con tutti i suoi arnesi. In questo rio terren, uid'egli sorte D'anime fitte, d huomin d'ira presi, Chi mostra'l capo sol chi'l petto e'l busto Chi i fianchi, chi le cosce, e tutto'l fusto, Fero in tanto i Demoni una gran fossa E presero'l Meschin per trarlo giuso Egli, che già la mente hauea riscossa, Ancor che dal terror fusse confuso Da le lor man saluossi per la possa De l'oration, che non ui fusse chiuso, Così campò dal luogo, che martira Quei, che del uitio son tinti de l'Ira. Orsù, diss'un Demonio, egli ha ragione D'aitarsi, e fuggir tanto dolore, Com'egli fa, con dir l'oratione, Voglio che lo traggiam d'ogni mal fuore, Et lo portar uers'il Settentrione In un gran piano, e paruegli il maggiore Ch'ancor ueduto hauvsse, e spirti eletti Vide, che d'ogni duol pareuan netti. O Padre onnipotente, eterno Dio Ne i sempiterni secoli il tuo nome Laudato sia, Guerrin cantare udio, E de'nostri auuersar le forze dome A quelli Spirti, da speme, e desio Spinti di scarcar presto le rie some De i lor peccati, e mostrandosi lieti Teneuan' i martir molto segreti, Mostrauan senza pena allegri segni Di balli e canti, e di bei drappi adorni, Onde Guerrino à i nostri terren regni Paruegli esser tornato, sì gli scorni Da quei uede lontani, e uede degni Principi stare in piaceuol soggiorni Allor disse un Demonio, ora t'accosta A quella gente, e uattene à tua posta. Il Meschin, ch'obedir punto non uolse Tornossi in dietro, allor gli spirti lieti, Mostraron rallegrarsi, un che non puole Patir, che quei Demon tanto indiscreti L'offendan, con le false lor parole Disse, or è'l tempo che buon frutto mieti, Non l'obbedir, che da noi non uerresti; Ma nel Centro infernal, perduto andresti. Quella dannosa turba, iniqua, e strana Nol lasciaro più star, ma lo portaro In un gran monte uerso Tramontana Di ghiaccio carco, rilucente, e chiaro Nel mezo al quale, à guisa d'una tana Era un gran pozzo, che con suono amaro Partoriua un sì freddo e tempestoso Vento, che'l sol ne uenia pauroso. Al freddo estremo, & al soffiar crudele Del Cauo monte, per tutte le uene Trascorse al Caualier di Dio fedele Il giel, paruero i nerui aspre catene Che l'ossa gli auuinchiassero; ma de le Mascelle il batter con tal forza uiene Che l'esser denti con denti percossi Parglieli hauer fuor tutti, non che smossi. Non può raccomandarsi à Dio, uolendo, Che'l fiato gli mancaua, è la parola Fuor non puote esplicar, ma uien morendo C'hauer non puo il concento da la gola Allor la turba con furore orrendo Per far del resto à questa uolta sola Nel tempestoso pozzo a capo in giuso Lo gittaron, di giel tutto confuso. Il core, ancor che'l resto perso sia, Viueua, e così disse rouinando O' Cristo Nazareno, e uer Messia Saluami tu, ch' à te mi raccomando Trouossi à questo dir sopra la riua D'un pian, ch'a un Lago intorno ua girãdo Pien d'acqua nò, che l'acqua fatta s'era Chiaro cristallo pel freddo, che u'era. In mez'al qual meschine anime afflitte Stauan, chi fino al mento, & alcun meno, Chi'l corpo u'hà, chi sol le gambe fitte E quali par che tutti di fuor sieno Ben che pe i piedi stessero confitte Et al gridar che usciua lor di seno Pieno di motti crudi e disperati Conobbe esser nel Regno de' dannati. Le triste il cielo, gli elementi e Dio Bestemmiauano e i Santi, e l'uman seme, E'l primo dì, ch'ognuna al mondo uscio, E chi gl'ingenerò, e chi Dio teme. A quest'alto ululato e mormorio, A quest'empie parole, e doglie insieme, Il Meschin chiamò Cristo orand'à quello, Che'l renda saluo da tanto flagello, Per uia de l'oration, com'à Dio piacque Non s'auide, senon, ch'egli trouossi Press'à la riua de le gelate acque, E nel mirar gli sterminati, e grossi Membri di quel, che tant'à Dio dispiacque, Poi che ne l'empia superbia tuffossi Pargli uedere una gran torre dritta In guisa d'animal nel ghiaccio fitta. Quel, dal bellico in sù, potea uedersi Del ghiaccio fuor, e in mez'al corpo hauea Vna gran hocca, e peli poi diuersi Il duro cuoio intorno sospendea; Ma Guerrin dritto non pote a tenersi Nè meno anche la uista gli reggea Da lo spauento uinto, e duolo essendo, Per lo spettacol di quel monstro orrendo. Di color nero hauea sei ale, e tinte Di macchie rosse, e gialle, e le menaua Non d'ordinate pennè già distinte; Ma d'una pelle, laquale imitaua Lo spiritel notturno, quasi finte Vele di naui, ma più s'allargaua Ciascuna, e le dibatte, e mena assai Come uolasse, e uolar non può mai. Sette corna ha la testa, & ha tre uolti Con tre bocche grandissime, e di quelle Escon gran zanne ò denti, in sù riuolti, Et ogni bocca tien trà le mascelle Vn'anima, & al collo haueua auolti Sette serpenti, & haueua la pelle De i uisi, un nero, un'altro giallo e nero, Il terzo tutto giallo, e ciascun fiero. Di color bigio, un gran serpente cinto Tien, che ha in testa sette corne ancora Di uarie macchie ha lo scaglion dipinto Di spauenteuol uista, e manda fuora De la gran bocca un'alito, che tinto D'ogni uelen, che le uite diuora, La calca de' Demon, che sotto e sopra Intorno ua, par che'l rio fondo copra. Anime disperate tra gli unghioni Tengono, e fitte nel dur ghiaccio, c'hanno Vers'il ciel uolte, amare esclamationi Di dispietato ardir piene, e d'affanno Di quindi lo tirarono i Demoni In altra parte di poco men danno; Ma prima, ch'egli uscir d'indi uolesse La turba à scongiurar tosto si messe. I Demon tosto da parte di Dio Scongiura, che nessun gli dia molesta, Per fin ch'inteso habbia del luogo rio Più particolar noua, e manifesta Quei, che uietar non posson, che'l desio Suo non adempia, in tal domanda onesta, Ne la riua del lago il lasciaro anche, Che Dio lor frena le rapaci branche. Quindi uno spirto à scongiurar si pose C'hauea forma di donna, e tutta nera, E prima ch'ei cercasse l'altre cose Gli domandò, chi al mondo stato era Rampilla mi chiamai, ella rispose Posta quà giu nel centro de la sfera, Per conto d'un Cristiano traditore, Detto Guerrin, che così uolse Amore. Guerrin, che l'era incognito, gli disse, Chi è quel gran Dimon, del crudo uerno Satan diss'ella; quel che contradisse L'umiltà grata al suo fattore eterno. Colui, ch'in ciel fu mouitor di risse, E tor di quello à Dio uols'il gouerno, Ond'i pie uolti tien, doue la testa Teneua, & in eterno così resta. Dì più bello, il più uile; e dal più alto Seggio il più basso tiene; e per l'ardire Di uoler mouer contra Dio l'assalto Pate co' suoi seguaci ogni martire, Poi ch'egli ha fatto assai più basso salto Di quanti giù nel suo Regno ue d'ire, E tanto e'l corpo brutto più crucciato Quanto degli altri anch'è'l più sterminato Il Meschin domandò, chi fur coloro Di chi gli spirti con tre bocche preme, Giuda, diss'ella, e l'uno, ilqual per oro Cristo tradì, ne l'altra Cassio geme, Che Cesare tradì, Dario e tra loro Di Persia Re; ma quell'altro, che freme In quella bocca in luogo di bellico Fu di Dio anche un pessimo nimico. L'anima d'Amalecche, che fu figlio Di Gedeon giudice d'Israelle. L'altr'alme, prese da mortale artiglio Indegne di mirar uerso le stelle, C'han tuffata la testa, il fronte, e'l ciglio Nel duro ghiaccio sotto, & han la pelle Tutta crepata per lor'empia sorte, Con l'istesse lor man si dieder morte. Or perche non sei tu, disse Guerrino, Col capo fitta in giù? che uccidesti Validor tuo fratello, onde il diuino Giudicio fe, che'l simile facesti A te, di che douresti à capo chino Star tu, se per il conto che dicesti Stan gli altri; & ella, Ben ui sarò messa Presto, che'l tempo mio forse s'appressa Ma non ui sarò fitta, fin'à tanto, Ch'io non uegga Guerrino in questo fondo, Però che quì mi dè uenire accanto A star, allor che morte il trà del mondo Acciò conosca ueggendomi, quanto Fuss'il suo tradimento di gran pondo. Ond'io sarò contenta s'ei ci uiene D'esser giù uolta, e stare in maggior pene. Diss'un Demonio, quest'è quel, ch aspetti, Faccian tosto due fosse, ò miei compagni, Acciò che l'uno e l'altro in giù si metti In questi tempestosi, e freddi stagni, Al dir di quei Demoni maledetti, Ella alzò'l uiso, con gli occhi grifagni, E disse, or son contenta, or mi mettete Col capo in giù, se pur desio n'hauete. Et à Guerrin, pur (disse) traditore Ci sei (com'io speraua) capitato Io non mi curo più del mio dolore, Pur, ch'in eterno sia quì condannato, Per ch'io ho ogni mal per lo tuo amore Disse Guerrin, come l'hebbe parlato, Anzi doppio dolor t'aspetta pure, Ch'io ternar deggio in parti più sicure. Io ho speranza di uedere il cielo, Per la gratia di Cristo Nazareno Pien di feruor, di caritade, e zelo Sì, ch'arrabbiati pur nel tuo ueleno. Allor fu fitta ne l'eterno gelo Col capo in giuso, onde di furor pieno Quell'empio stuolo, il buõ Meschino alzaro Et à capo di sotto lo uoltaro. Dicendo, ò tu ne l'altra fossa andrai, O tu di l'oration, che t'assicuri; Maggior timor non hebbe Guerrin mai Che scarsi uede i suoi partiti, e duri, A che, dicea tra se, t'attaccherai? S'io dico l'oration, questi sì scuri Nemici ubbidirò, s'io non la dico Io resto in man quì d'ogni mio nimico. Ma Dio, che tanto mal gli pesa, fece, Che col cor sol la disse, e non palese, Con bocca a i suoi nemici, e sodisfece A se, nè la cagion la turba intese, Che'l cor non uede, che solo disfece Le lor forze crudel di furia accese. Il segreto del cor Dio solo uede, Alquale ogn'altra cosa inchina e cede Libero da quel cerchio ultimo fondo, Per questo fu Guerrino e pria che posto Fusse poscia ne l'altro, ch'è secondo Il tutto uide (com'io hauea disposto,) Le strida, gli urli, il bastemmiar del mõdo Del cielo, e chi lo regge, e l'ha composto Il suon diuerso, & uariate pene Di se lo caua, & in dolor lo tiene. Merauiglia del mal, ch'à ciò gli'nduce, Nonè, che quiui ogni duol si raccoglie, Ogni peccato mortal si conduce Quiui, e tutte lor pene & empie uoglie, Ch'à uoler occupar l'empirea luce Lucifero superbo, il premio coglie Qual merta, e i suoi seguaci traditori, Ch'angeli fur di tutt'e noue i cori. Da i traditori ne l'ira condotto, Ne l'altro cerchio su, e nel salire Vide da un gran muro il passorotto Dinanzi e da man destra, il cui fornire Ne l'alta cima si uedeua cotto Da lampi, e fuochi; ma non può scolpire, S'è quel fuoco, e quel ciel sotto la Luna, Ouer sol nasca ne la ualle bruna. Già dubbiaua Guerrin da sì gran muro, Che'l più alto salir fuss'impedito Quand'inforzato l'animo sicuro, Gli occhi uoltò, dou'er'il manco sito, Et uide un passo erto, roccioso, e duro, Quiui da altri Demon fu rapito, E posto dou'è gran turba infelice D'anime de la gent' adulatrice. Di scabbia e lebra piene assai ue n'era Press'al fondo d'Abisso, a' quai cadeua Di fiamme addoss'un'orribil lumiera, Et questa pioggia ogn'alma distruggeua. E sempre ritornaua poi com'era Il Demon poi co i graffi le batteua Più oltre uide altr'anime dannate, Ch'erano à pezzi da i Demon tagliate. Così tagliate à pezzi date à fiere Crude infernali, à diuorare in modo, Ch'à Guerrin uenne uoglia di sapere, Che le conduca à pagar sì gran frodo Domandonne un Demonio, e nel tacere, Ch'ei fece, ben s'auide, ch'altro modo Douea tenere, e da parte di Dio Posesi à scongiurar il Demon rio. Questi posti à macello, e dati à pezzi A satiar di quei uermi l'empie strozze Son disse adulator, che sono auezzi Sotto uaghi color, far' opre sozze, Et ingannare i lor Signor con prezzi Facendo l'opre degne al tutto mozze Ai giusti, e discordar le paci care Le dolci uite, mutando in amare. Questo diss'il Demonio, poi passaro Doue in un gran uallone eran serpenti Terribili, che senz'alcun riparo Tra gli unghion tengon'anime, e tra i denti Alcuni spirti gli s'appre sentaro, Che da lui furon superati, e uenti Del Maccabeo gigante, uide quella Trist alma, e de la moglie non men fella. Vide Artilaro, ch'uccise in Morea, Per ilche scongiurò da capo ancora Vn de la turba de l'Inferno rea, Che gli dica qual fallo gli diuora, Et che condotte in tal pena l'hauea? Questi assassini fur (rispose allora Il Demon) e ladroni in grotte, e boschi Luoghi da fiere, & or prouan lor toschi. Fu condotto più sù, doue girando Vn gran lago di fuoco andaua intorno D'anime d'ogni sesso pieno ansando, Per gran dolore, e di quest'altro scorno La cagion uenne Guerrin domandando Fugli risposto, questi tali oprorno False lusinghe al mondo, e sotto pace Tiraro à morte chigliera uerace. Del lago eran le ripe tutte fuoco E Guerrin scongiurando gli fu detto, Che l'auaritia possiede quel loco, E che'l Dimon sì grande e maladetto Prodigo si chiamaua, e più la poco Anime, che di bronzo hann'il farsetto Trouar, doue Guerrin fattosi ardito Vn di quelli toccar uolse col dito. Non sì tosto hebbe l'acceso metallo Tocco, che ritirando à se la mano S'accorse, ch'attoccar fatt'hauea fallo, Perche la polpa del dito già sano Spiccossi sì, che nol difese callo Di che sentinne un dolor molto strano, E i Demon si riser del suo male, Poi ch'ei gustò quella pena infernale. Cristo (disse Guerrino) Nazareno, Fa ch'io sia nel tuo nome liberato; Così dicendo, il dolor uenne meno, E liberato fu tosto, e santo Quiui era già girato il tondo pieno Di quel secondo cerchio à l'altro lato, E uolendo nel terzo andare in suso Trouaro il passo da man manca chiuso. Il nero muro, che fa cerchio in giro, Dal manco lato era congiunto doue N'era un, che passa per ogni martiro, Che da l'Abisso in sù dritto si moue I Demoni, il Meschin portando giro Nel terzo cerchio, oue gli dieron nuoue, (Poi ch'ei gli scongiurò) del sito appunto, Come tutto l'Inferno era congiunto. Dicendo, l'alme quà giù condannate Secondo i uitij uengono à patire; Per sette rei peccati son dannate; E un sol d'essi cele fa uenire. Quelle, ch'al ghiaccio in fondo son mãdate Per tutti e sette i cerchi debbon' ire, Che d'altro luogo non potrien passare, Che d'onde à te ti conuien' anco andare. Poscia rettori, e giudici, e dottori Consumatori de le uite umane Ingordi di pelar gli altrui tesori Le buone leggi, tramutando in uane, Vide di frati, e emonaci martori, Appresso à quelli; e ruffiani e ruffiane In quel medesmo stretto stan tuffati, Nel fango inuolti, da fiamme assaltati. V'erano anc'i Golosi, sempre pieni Del fastidio crudel dentro, e di fuore Da luogo, à luogo uan come baleni I Demoni, e ne portan con furore Il Meschino; e con atti e modi osceni Gli dan quanto più possono dolore Girando à l'altro cerchio, e ritrouato Il muro, si uoltar dal manco lato. Qui uide moltitudine infinita D'anime intorn' auolte di serpenti, Con luci storte, e faccia impallidita, Che bestemmiaua'l cielo, e gli elementi. Scongiurando Guerrin, con fronte ardita Disse à i Demon, dite chi fur tai genti? Risposer; fraudo lenti furon questi Del ciel ribelli, & al mondo molesti. Passati quelli, uide in'cima à molti Pali di ferro star anime impese, Che sù le punte i sanguinosi uolti Tenean fitti; e pel collo dipoi prese Con catene, e nel mezo i membri stolti Hauean legati; e per maggiori offese Da uccelli infernali diuorate Eran, e crudelmente tormentate, Lo scongiurato Diauolo uoltato Al Meschin disse, questa ria canaglia Furon tutti artegian, c'hauean lassato Il lor mestier, per andar' in battaglia; Et à robbar s'era poi ciascun dato Viuendo di rapina, e in sù la paglia, Stentando uolser poi morir più presto, Che tornand'al buon uiuere, & onesto. Vn gran piano trouar di là, che staua D'anime carco, sù la cener, piena D'una minuta bragia, e lor calaua Di sopra molta fiamma, ch'ogni uena. Per la furia del fuoco gli scoppiaua; Questi (diss'il Demon,) di questa pena. Fur sodomitti, e fer contra natura, Que uitio, che nel mondo tanto dura. Questi passati, i uanaglariosi Trouaro, e poi più oltre i disperati, Che fitti in giù col capo, i uolti ascosi, Tenean' à tutti glialtri iui dannati. Poscia trouaron uenti furiosi, Con tuoni, e lampi, e fuochi mescolati. Che spingeuan per forz'anime assai, In fuochi orrendi, e non n'usciuan mai. Del sesso feminil copia maggiore, Ve n'irà che de maschi, e la lussuria, Si martoriaua in tant'aspro dolore, Così cacciati lor, da tanta furia Di uenti, si trouaron quasifuore Del quarto cerchio, oue con molt'ingiuria Da gliauuersarij suoi Guerrin trouossi Percosso, e sol con l'oration saluossi. Non dimen giunto al mur, che i cerchi serra, Lo strascinaron con gran furia drento. Al quinto giro, dou'era la terra Di sangue tinta, e giunser'al tormento. Doue la turba di gran Principi erra, Però che assai Signori infin'al mento. In un lago di sangue, che bolliua Stauan, che n'era pien fin' à la riua. Molti haueuan in capo le corone, E da molti Demon spess'assaliti. Le crudeltà qui son senza ragione, E gli omicidij falsi anche puniti. Disse lo scongiurato, or tu ti pone Tra questi, accetta i lor benigni inuiti. E detto questo Guerrino fu preso, E in mez'al Lago portato di peso. Il miser chiamò Cristo, e tosto posto, Si ritrouò d'un Castello à la porta. Il qual tutto di fuoco era composto; Poselo dentro la crudele scorta. In quest'il Troian seme era riposto, E facea guerra, ch'armatura porta Tutt'infocata, e la superbia loro Gli faceua patir questo martoro. Accampati di fuor del caldo muro, I crudi Greci pur con l'arme indosso Di fuoco, e questo martoro sì scuro Era lor dato, acciò non sia rimosso L'esercitio, nel qual nel mondo furo. Di là da lor, di sepolture un fosso Pieno trouaro; Eretici eran questi, Che tant' à l'alma Chiesa fur molesti. Anime gli fur mostre, che per Dei, Si fecer'adorare, in Croce messe, Fitte in gran brage, col capo, e co piei, Erano uolte in sù, crepate, e fesse. Ch'ancor memoria ha'l mondo di quei rei, Et son tali Idolatrie ancor impresse. Tra li Pagani, e passar'anco loro, Doue Guerrin uid'un'alto martore. Vn putrido, e bollente fango scuro; Di uermini pieno, e di serpenti strani. Dal mezo cerchio andaua fin'al muro; Tutte eran laghi, gran fossi, e pantani. Tutti color ch'inuidiosi furo, L'anime u'hanno, e mordonsi le mani. D'uomin, e donne, u'abondauan tanto, Che mez'il cerchio tengon d'ogni canto. Chi di lor tira pesi smisurati, Chi s'affatica in uoltar qualche sasso. Part'in sù'l dosso n'erano carcati, E chi s'infragne, affaticato, e lasso. Che poirestauan nel fango affogati, E rinasceuan per più crudo spasso. Maledicendo ogni cosa creata, E chi l'haueua nel mondo ordinata. Di brutte, e nere serpi erano auuolti, E molti ancor nel loto uerminoso Teneuan fitti in giù coperti i uolti Questi fur quelli, il cui cor inuidioso. Con tal malignità uedeuano molti, In ricchezze, e piacer, pompe, e riposo. Senza sperar per nessuno accidente, Poter goder il ben d'altrui presente. E d'altre spetie inuidia in uarie uie, Second'il grado u'era castigata. E pene hauien'ugual' à l'opre rie; Veduto questo cerchio, fu trouata Dal buon Meschino, e da le turbe in pie, La gran muraglia dou'era lassata; L'ascura Cataratta che saliua In sù, ch'al sommo de l'inferno arriua. Il cerchio de l'inuida, ch'era il sesto, Lasciaro, e sù nel settimo passati. Da la man destra, qui uider'il resto, Di quanti hauea ueduti martoriati. Vn'alta ruota con un mouer presto Giraua, che con gran denti appuntati. Di ferro, l'alma del rio Macometto Stratiaua, e le squarciaua il fiãco e'l petto. Più di cento Demon la furiosa Ruota uolgean, e lo metteuan sopra Fin che strappata, e rotta era ogni cosa, Che stagli a le budella sott'è sopra. E per seguir la pena doloroso, Di nouo san restaua, e sotto, e sopra. Da capo ancora era rimesso, e fia Eternalmente in questa penaria. Passato questo, uide armate genti, C'hauean di fuoco l'armi in tutti i lati. Che lor faceuan aspri uestimenti; Questi ogni dì tre uolte sententiati. Son' à combatter pronti insieme intenti, Che son gli antichi Albani, e i sì pregia i. Romani, e per superbia, e uanagloria, E per inuidia, fan tanta memoria. Poco più oltre, i gran Cartaginesi, Per simili peccati, simil'opra Facean pur con gli arnesi in dosso accesi, E metteuan quel sito sottosopra. Vn Castel poi trouar, dou'eran presi. I filosofi antichi, e poco sopra; Doue fu il Limbo mostraro a Guerrino. I Demoni, con ogni suo confino. Dal dì (disser color) che fu spogliato, De i santi Padri dal tremendo Dio. Il Limbo, non s'è più Limbo chiamato. E così detto, di quel luogo uscio. Guerrino. e fu da lor di poi portato Per un gran fiume affumicato, e rio. Pieno di serpi, di uespe, e tafani, Ch'anime u'ha, che si mordon le mani. Sanguinan tutte, per gli acuti morsi, De gli importuni uermi, e fastidiosi, Di lor pria domandò, che uegga torsi Di là Guerrin, chi sono i dolorosi? Fugli risposto, questi, pria ch'esporsi Al ben uolesser, sempre accidiosi. Steron nel mondo tristi, e negligenti Di Dio nemici, e noia de le genti. Di quindi in aer lo leuaro à uolo, Doue una porta fu da lor trouata. Con quattro torri, poi che giù dal polo, Gli parue far grandissima cascata. Quiui in un prato lo condusser solo Di giunchi pieno, e con furia spietata. Ve'l batterono tanto, e di tal sorte, Ch'ei tramortiuui, e fu uicino à morte. Trouossi risentito in sù la riua D'un grandissimo Fiume, oue fu tanta La furia de grandi urli, che sentiua, Che suoi nemici fan, perche si uanta. Che già i loro artigli fieri schiua, Ch'ancor di nouo sua persona infranta. Ritramorti, e risentiro ancora Dinouo il trasser de lo spirto fuora. Le strane forme, il fulminar rabbioso, Il dibatter de l'alt, il fuoco acceso De gli occhi, il fiato orribil uelenoso, D'affanno già sì pien l'haueuan reso. Il grido sì diuerso, e spauentoso, Tant'il rendero stordito, e offeso. Che poi nel risentir la terza volta, L'alma dal corpo pargli hauer difciolta. Ma'l cor, che non ha persa mai uirtute, L'oration disse, che non può la bocca; Replicolla tre uolte, nè compiute Sì tosto son, ch'ogni forza trabocca, A suoi nemici, e fu la sua salute, Più che saluarsi dentr' à muro ò rocca; Ma uolendo leuarsi in piè non puote C'hauea le membra d'ogni uigor uote. Per la uirtù de l'oration quetate, Eran le triste uoci de' Demoni: Egli alzando le luci abbandonate, Vide di là dal fiume spirti buoni. In bianche uesti, e sente che cantate Laudi diuine, e diuote orationi. Eran da quelli, e prese gran baldanza, Perche d'andar lor presso hauea speranza: Fessi de l'alma Croce il fanto segno, Pel cui ualore, attrauerso al gran Fiume Vn ponticello stretto non di legno, Nascerui sopra uide, nè presume Già poterlo passar con lo suo ingegno; Ma in Dio speraua, com' è suo costume: I Demon si lasciar l'Inferno dietro, E'n sù'l ponte il portar, ch'era di uetro. Sottile era di uetro, e trasparente Il ponte, e stretto sì, ch'appena il piede Vi cape, e'l peso regger non consente Di Guerrino, ch'in mezo ui si uede; Ma disse l'oration diuotamente. E tanto piacque in Ciel sua chiara fede. Che'l ponte si fe largo in uno instante, E forte, quant'un saldo diamante. Quiui i Demon non haueuan potere Di seguitarlo più; ma da la riua Partir ueggendol con lor dispiacere. Tirauan sassi, e ciò che lor ueniua A l'empie man, non potendone hauere Altra uittoria, e già Guerrin sentiua. Glialti urli da lontan, e già passato Il ponte, era del Fiume à l'altro lato. Due uenerandi uecchi in bianca ueste, Che di là uide, gli si fero innanzi Insino al ponte, & accoglienze oneste Gli fero, & egli, che uede gli auanzi; De le forze diaboliche, & infeste Non gli poter più nocer come dianzi. Inginocchiossi à i padri, e d'allegrezza Pianse, e giù cadde per gran debolezza. Te Dio laudiamo, cantando i deuoti, Gli fer'il segno de la Croce, e poi Per far tutti i martir da lui remoti; Calaro al Fiume, e de gli umori suoi, Nel uiso gli schizzar, dicendo i uoti Son sodisfatti, & i peccati tuoi Tutti purgati, sì, che sù ti leua, Acciò'l tuo corpo sua uirtù riceua. Come da greue sonno sciolto ritto, Leuossi in piè d'ogni dolore scarco. Dio ringratiando di tanto profitto, Che gli ha mostrato di saluarsi'l uarco. E fuor del diabolico conflitto, Prima che morte gli scoccasse l'arco. L'ha tratto, e in un'instante ha riceuuto, Quant'hauea di uigor prima perduto. Tu dicendo (Signor) pietoso m'hai Fatto costante, & à te gratie rendo. Tu sol m'hai posto fin'a tanti guai, Come motor d'ogni fatto stupendo. In un momento tu fai, e disfai; De i buon pietoso, e de tristì tremendo. E però reggi il mio conoscer frale. Ch'io segua le buon opre, e fugga il male. Et oltr'à le due alme benedette, Ch'io dissi, ch'egli gia trouat'hauea. Vestite à bianco altr'angeliche elette Persone, ccm'al sommo Dio piacea. Eran quiui uemute, e con perfette Voci laudando quel, che'l Ciel reggea. Cantauan piene di somm'allegrezza, De la data à Guerrin di Dio fortezza. Egli, che tanto stratio in sì soaue Stato cangiar si uide, pargli certo Hauer sognato il rio uiaggio graue, E non l'hauer, come l'hauea, sofferto. Or poi che l'alte laudi cantat'haue, La cara compagnia, à più scoperto Aere, e più temprato, lo guidaro, Che'l più bel nõ ha'l mõdo, nè'l più chiaro. Vicino è quì d'Adamo il perso nido, Donde discese à coltiuar terreni. Per esser stat'al suo Signore infido; Ma prima che la fida scorta il meni, Press'al terrestre Paradiso fido, I Torrion di fuor uide, che pieni Eran di gemme luminose, e'l muro Intorno, di Rubin massiccio e puro. La porta, oue s'entraua al Paradiso, Aperta fu, e con l'odor soaue; Diede anco insieme al Caualier nel uiso, Vn lucido splendor, che tutto l'haue Già fuora di se tratto à l'improuiso; Ma quella bianca coppia, poi ch'ei paue. Vn pomo in mã gli dier, ch'ei l'assaggiasse, La cui uirtute d'ogni tema il trasse. Nel santo luogo entrati, al primo giro, Ch'aura soaue, e grati odori spira. Con benigno comiato si partiro Gli spirti santi, oue l'amor gli tira. Del diuino splendor con alto giro; Onde Guerrin, che'l gran desio l'aspira. Voltand' à i due uecchion primier'il uiso, Domandò se quiui era il Paradiso. Non disser'i deuoti, ch'à nessnno Corpo terreno è dal Signor concesso; Poterui andar, da che'l Padre communo, Dal suo gran Creator ne fu dismesso. Ma uicini ui siamo quant'alcuno Luogo del mondo, anzi ben'assai presso. Terra santa quest'è, degna e feconda, Che'l Paradiso terrestre circonda, Deh (rispose Guerrin) s'onesto sia, Ditemi se ui uiue, (com'il mondo Crede) il beato Enoc, e'l giust'Elia? Il Vangelista, d'ogni uitio mondo. San Giouanni, de' buoni aperta uia? Dissero i Padri, Caualier giocondo. Noi siamo i due primier, che nominasti, Per il cui mezo, in questo luogo entrasti. San Giouanni euui, che nel gran segreto Di Dio si stà, nè di là partiremo. Come la sù n'è dato per decreto Fin'al Giudicio, e fin del mondo estremo. Or se ti par questo sol luogo lieto, Pensa quanto sia bel quel più supremo. E se'l terrestre è bel, quanto maggiore, Ben, poi si senta in quel superiore. Veduti hai de l'inserno i tristi lai, E sai ben come rimediar si possa. Per non u'andare, e se ti guarderai, Tenendo la cagion da te rimossa. Del far peccati, eterno goderai Non solo i Ciel, che sotto fanno mossa. Ma quell'insieme, e la gran maestate Del suo rettor de l'anime beate. Indi Guerrin uide poco lontano Vna Città, c'hauer parea le mura; Di fuoco ardente, il cui lume sourano, Il sol'auanza fuor d'ogni misura. Ma che si può scriuendone por mano, Poi ch'uscir non si può fuor di natura? Perche la gloria che Guerrin sentiua, A nostr'intelligentia non arriua. Satiauasi'l ueder, si contentaua L'udir, quant'udir suon dolce si possa, L'odor con tal'ampiezz'il confortaua, Ch'ei non uorria pensar far di là mossa. Sì, che li due Profeti domandaua, S'iui à fuggir la gran mortal percossa; Potesse star con loro ei peccatore, A pascersi del lieto alto splendore. Non si puote goder tanta eccellenza, Risposero gli eletti, in spatio breue. Nè senza lunga e molta penitenza, Ch'un gran ben, senza duol non si riceue. Ma ben'in parte la diuina essenza, Ti sarà mostra, e non ti paia greue, Tornar'al mondo, oue dar debbi inditio, Del uisto Purgator di san Patritio. E così de l'Inferno, e poi di questa Gloria; e perche tu uegga quanta sia. Vedraila in parte, ma di uenir resta, Ch'à noi sol resta il resto de la uia. E questo detto, à simile richiesta S'aprì con una angelica armonia, Vna gran porta con sì fulminanti Rai, che Guerrin empir di pensier santi. Per l'improuiso assalimento fiero De iraggi de la luce alma celeste. Di quella inebbriato il Caualiero; In terra cadde, onde le guide oneste Sù lo leuaro, e nel proprio sentiero, Disser conuien, che tu di fuora reste. Ch'entrar non t'è concesso à quella porta, Nè noi più là possiamo esserti scorta. E lo fermaro, essendoui assai presso, Dicendogli, qui quanto puoi rimira. Ei uide sù la porta, un'Angel messo, Ch'una spada di fuoco intorno gira; Dicend'à tutti entrar non u'è concesso. Ma'l souerchio desir, che Guerrin tira, Dentr'al beato sito il fe uedere Cose, che stupor n'hebbe, e gran piacere. L'Imperador de' Cieli in mezo uide Passar con alta front'i cori tutti; De l'Angeliche squadre, umili, e fide, Il qual mostraua del suo figlio i frutti. Con braccia aperte, il cui corpo diuide, Il seggio col gran Padre, e tien ridutti, In fra l'istesse braccia i Cieli intorno La terra, e quanto d'acqua ha per cõtorno. Cantauan tutti, santo, santo, santo, Dominus Deus Sabaoth, e pieni Son tutti i Ciel de la tua gloria, e quanto La terra tien, sì, ch'i lor canti ameni, Il Meschino di gaudio empieron tanto, Che gli par che tal uista gli assereni Gli occhi; ma quando più ui si conforta, Fugli innanzi serrata la gran porta. Rimase tanto sconsolato allora, Che se'l deuoto Enoch, e'l giust'Elia Nol confortauan, di se stesso fuora Sarebbe uscito, e de la dritta uia. Perch'egli tanto i due profeti onora, Ch'ei uoltò tutta la sua fantasia A lodar loro, e ringratiare Dio, Che degn'il fe ueder luogo sì pio. Posto era in punto il Caualier sourano, Di dimandargli con la uoglia accesa D'alcune cose dubbie, ma fu uano Il suo pensier, però c'hauendo scesa Alquanta spiaggia, giunser'in un piano, In mez'al qual, eruna bella chiesa. Disser i Padri, or qui t'habbiam guidato Saluo, doue già fusti ammaestrato. La chies'è questa, doue tu scendesti Prima nel pozzo del buon san Patritio. Sì, che conuien, che tu senza noi resti, Che più là non si stende il nostro offitio. Guerrin si pose inginocchioni à questi Detti; e li ringratiò del benifitio. Benedisserlo quelli, e sparir uia, E Guerrin n'hebbe gran malinconia. E per pietà di se, non si ritenne, Ch'ei non piangesse, nè però stè guari; Che de la Chiesa à salutar lo uenne, La coppia di quei spirti, almi, e preclari. Per il cui mezo, sicuro peruenne Fuor de le mani di tant'auuersari; Dio sia laudato, disser, che costante T'ha fatto, onde lodiam sue opre sante. Nè temer, seguitar, che quelli siamo Che nel calar del pozzo, che facesti Giugnendo, ammaestrato già t'habbiamo, Che saluo dà i Demoni ti rendesti. In luogo saluo metter ti uogliamo, Acciò ch'al mondo il tutto manifesti. E ben sappiam, che quella compagnia Ch'or ti lasciar, fur'Enoch, & Elia. E ben contento ti potrai tenere, Ch'alcun'altro che tu, mai non fu degno, Seco sì santa compagnia d'hauere; Or noi, che siam restati al tuo sostegno. Sù l'entrata porrenti à tuo piacere, Donde uenir quì facesti disegno. Ma prima uien per la benedittione In Chiesa, come chiede la ragione. In Chiesa giunti, disser cert'officio, E fatto questo, Guerrin benediro. E come quel, c'ha purgato ogni uitio L'ordin, per trarlo di là, poì seguiro. Ma Guerrin, che saper cercaua inditio Sù de le cose del celeste giro, Disse, di Dio deuoti, pria, ch'io n'esca, Finir di contentarmi non ui incresca. Poi che in protettion preso m'hauete, Dirmi ui piaccia, chi sia'l padre mio; Che uoi serui di Dio ben lo sapete. Nè mi negate sì giusto desio, Che com'ancor uoi ben saper douete. Io nè disagio, nè pericol rio Lasciato ho indietro per saperne noua, In che parte del mondo si ritroua. Ben sappiamo (un di lor rispose) quali Fur i tuoi genitori, e che son uiui. Ma doue sieno i luoghi principali; Dir non possiam, s'à caso non u'arriui. Ma ben ti mostreremo i lor segnali, Che non essend'ancor di uita priui, Potrai saper se l'effigie uedrai, Chi sien, tutt'hor che gli ritrouerai. Poi de la Chiesa fuore in un cortile Lo menaro, uicino ad una porta. De la qual fuor'uscir d'abito uile; Due persone senz'altra guida, ò scorta. Er'un canuto uecchio, & una umile Donna, che pel disagio, ch'ella porta Stracciat'indosso hauea la ueste, e lorda, E quasi cieca diuenuta, e sorda. Pelose hauea le gambe, e de le mani L'unghìe hauea lũghe, e piena era di rogna Di quest'abiti brutti, e così strani. Er'anche l'huomo, e con molta uergogna; Parte mostraua de' suoi membri umani, Pe i rotti panni, e se più gli bisogna. Scarpe non ha, ma lunga e rabbuffata Barba, che par per l'unto insauonata. La chioma folta, & il pel'aspro e bianco, Onde pareua cosa contrafatta, Disser'i santi, qui Caualier franco Mira ben, come lor figura è fatta. Nè ti mostrar'in rimirargli stanco, Però che questa mostra à punto è tratta. Da tuo padre, e tua madre, e questi dei, Trouar'al mondo, in abiti sì rei. Dinanz'è dietro Guerrin rimirolli, Acciò l'effigie non gli esca di mente. Poscia, com'hauien nome, domandolli; Ma uia sparir, senza risponder niente. Di che già faceu'egli gli occhi molli Per gran dolor, pensando di uil gente Esser disceso, ond'i Santi, ch'accorti S'eran del tutto, gli dieron conforti. Dicendo, non conuien che ti sgomenti, Che di sangue Real certo sei nato. Et non guardar gli strani portamenti Di lor, che'l dir più oltre ci è uietato Da quel, che'l Cielo regge, e gli elementi; Non già perche'l saper ti sia celato, Ma per alcuno scandol, che potrebbe Nascer da questo, che t'impedirebbe. D'Italia nascerà larga cagione. Che di trouarli al fin sarai contento. In ordin dunque, per uscir ti pone, Che noi ti guideremo à saluamento. Allora consolossi il buon Campione, Et inuiossi per uscire intento. E ripassar per chiesa, & uscir poi Nel prato; e passar'anco i termin suoi. Arriuar'à la tomba, e passar quella, Salir la scala, in cima de la quale Trouar la porta, allor la buona e bella Compagnia disse, più sù che le scale; Non uerrem teco, prendi la nouella Nostra benedittion, ch'assai ti uale. E benedettol, si tornaro in drieto, Et ei battè la porta tutto lieto. Perche nel batter'ei sentì la uoce Del degno Abbate, ch'aprì tosto, e fuore Vscì Guerrin col segno de la Croce; Di caritate pieno, e grande amore. La compagnia de' monaci ueloce; Poi giuns'in Chiesa, e renderono onore, A l'altar sagro, e con accenti graui Cantaron, De profundi ad te clamani. Rendendo somme gratie à Gesù Cristo, Di tanta gratia fatta al suo deuoto. Con l'oration gli purgar'ogni tristo Vmor, ch'ei colt'hauesse, ancor che uoto Fusse d'ogni sua colpa, poi prouisto, Ch'egli si confortasse in più remoto Luogo il menaro in casa de l'Abbate, A riposar le membra affaticate. Dierongli da mangiare, e dopo alquanto Riposo, narrò quanto hauea ueduto. Scriuer facea l'Abbate il tutto in tanto; Guerrino già gagliardo diuenuto, Si fe dar l'armi, e'l suo cauallo, e quanto V'hauea lasciato, e fece il suo douuto Nel tor comiato; & in Iberia andato Del tutt'ha l'Arciuescouo informato. Tolta licentia, al porto fe ritorno V'messer Dinoin poco contento Staua, temendo che Guerrino scorno Hauess'hauuto de l'entrar là dentro. Che da ch'egli partissi, il terzo giorno Era, sì, che sommando il sopplimento; Che stè Guerrin nel Purgator trent'hore, Il rest'hauea consumato di fuore. E questo termin giusto, e consueto, Per quelli, che ui uanno, & escon fuora; Perche s'osserua per giusto decreto, Che quello Dio, che da i Cristian s'onora. Stè quel medesmo tempo à noi segreto, Quand'ei uolse morir, fin'à quell'hora, Ch'egli risuscitò per nostra pace; Ond'à lui far simil memoria piace. Fu grande, & infinita l'allegrezza, Che fece Dinoin di sua tornata. Impero ch'egli più Guerrino apprezza, Che la Città, ch'è da lui soggiogata. Montar'in naue, ma per la fierezza De la burasca, che s'era leuata, Fu forz'in mar, prima ch'in Inghilterra Giugnesser, procacciar di pigliar terra. Ne l'Isola d'Ibernia tre dì stero, Ou'hebbe Guerrin tempo à narrar tutto, A Dinoin, di quel pozzo l'intero; Cessato il quarto dì, del mare il flutto. Fecero uela, & à l'acqua si diero, E tosto il legno fu saluo condutto In porto à Norgales, poi che smontaro, Al gran palagio à riposar n'andaro. Fece fest'incredibil la Cittade Di lor tornata, corrend'à uedere Gente, ch'abonda da tutte le strade, Per la fama, che han del Caualiere. Narrar punto per punto non accade, Quel che di Dinoin fe la mogliere Di festa, e tre giornate riposossi Il buon Guerrino, e poscia accommiatosi. Fe proua Dinoin, che la sorella, Guerrin per moglie si togliesse, e stesse A goder la Cittade, e le Castella Fin ch'è la gran bontà di Dio piacesse. Veduto ch'egli al fin se ne ribella, Piacque à lui quel, ch'al Caualier piacesse. Ma gir uolend'à Londra, Dinoino L'accompagnò per tutto quel camino. Tornar'à Londra, poi che d'Inghilterra Vider le terre, e dal Re licentiati Si separò in quella propria terra Guerrin da Dinoino, indi passati Al fin di Francia i monti, ha l'alma terra D'Italia inanzi, e uolse i piu pregiati Luoghi di Lombardia uedere, e auiso Gli fu ueder un nuouo Paradiso. Milan uide, e Piacenza, e nel seguire Parma, e Bologna, Fiorenza, e poi Siena, Indi giunse à Bolsena, e di là gire A Sutri uolse, per la uia che mena Dal bel Viterbo, e poscia nel fornire Del mese, à Roma giunse, doue appena Posato, per dar capo al suo effetto Andò dinanzi à Papa Benedetto. Il qual poi c'hebbe ogni suo fatto inteso, E ch'adempiut'ha la commissione; Non fu senza pietade, e con acceso Voler gli diede la benedittione. Appresso gli narrò com'haue inteso Dal Re di Puglia la preparatione; Che facea contr'i Turchi, per antico Odio, e per più cagion gli era nimico. E gli narrò, che fors'eran trent'anni, Ch'un suo fratel, ch'era molto gagliardo Principe di Tarento, mosso à i danni De i Turchi, pose il Cristian stendardo In Albania, e tenne i primi scanni Vn'anno di Durazzo, da Guicciardo Fauorito di gente, poi passato Vn'anno, à tradimento fu priuato. Quel che di lui seguì, non s'è saputo, Ben ch'egli tien per uer, che fusse ucciso; Poi che d'allor in quà non s'è ueduto Or, ben che'l Re Guicciardo preso auiso, Molte uolte habbia di far'il douuto, Contr'al nemico, che lo tien deriso, Non ha potuto con tempo migliore Com'or, ch'io gli ho promesso dar fauore. Egli ha già post'in ordin'ogni cosa, Ne gli manc'altro, ch'un buon Capitano C'ha buona gente, & è uolonterosa Di por nel sangue de' nemici mano. Or, se tu cerchi far'opra famosa Conuenient'à perfetto Cristiano. A trouar questo Re saggio n'andrai, Doue suo Capitan fatto sarai. Di cento Caualieri in compagnia, Ti manderò con lettre di fauore. Testimon dando di tua gagliardia Al Re Guicciardo, che faratti onore. Dandoti de le genti signoria; Guerrin sentiua gran piacer nel core. Perch'altr'offitio non desideraua, Che quand'ir contr'à i Turchi si parlaua. E tanto più gli piaceu'ora, quanto Quel paese cercar'hauea pensiero. Et è mandat'ancor dal padre santo, Sì, ch'accettò l'impresa il Caualiero. Ma per ch'io son già giunt'al fin del canto, Posarmi fin'à tanto fò pensiero; Ch'io rinfreschi la uoce, e corde al suono, Poi di dir seguirò, com'uso sono.

Il fine del canto ventesimoottavo.

ATe sien rese gratie, e te laudiamo Te sol benediciã, Dio signor nostro, Te sol' onnipotente conosciamo Sempiterno motor, del diuin chiostro, Qualhor costanti il tuo uoler facciamo, E quel camin seguiam, che tu n'hai mostro Che è la penitentia, per purgarci Che possiam qual Guerrin anche saluarci. Il gran fauor hauer de la tua destra, Il lume de la gratia, or potrà tanto, Che Guerrin saluerã d'ogni sinestra Fortuna, e gli dar a cagione in tanto, Per non pensata uia, e per più destra Che far si possa, il desiato tanto Padre trouar, gli darà di potere La madre seco in potestate hauere. Ne le passate rime hauea narrato, Come Guerrin dal Papa essendo gionto Gli hauea del Re Guicciardo l'apparato Detto, che hauea cõtra de Turchi in ponto Mess', e poi come l'haueua esortato, Ch'egli u'andasse, e l'haria fatt'in conto Tener dal Re di Puglia, e da sua gente, E fattol far di se luogo tente. Di che Guerrin più che d'impres'alcuna Che mai togliesse, fu lieto e contento Quasi presago, che la sua fortuna Gli mostrerebbe buono auenimento, Diedegli'l Papa un'ampio breue, & una Compagnia di caualli, che fur cento I quai furon pagati dal Pastore, E ne fece Guerrin conducitore. E con questi, e col breue, e con la santa Benedittion partissi, e peruenuto A Napoli, dal Re ui fu con quanta Allegrezza poteua, riceuuto, La lettera Papale fece tanta Fede, al buon Re Guicciardo, (che uenuto A Napoli era) che senza certezza D'altro, gli basta che'l Papa l'apprezza. Ben che la lettra, Caualier di Dio Il chiamaua, per far testimonianza, Quant'egli fusse co i Cristiani pio, E gli died'anche più ferma speranza Il legger con che pronto e buon desio Gia à Costantiaopol l'arroganza D'Astilador frenasse, la cui fama Nota gli fu, però l'onora, & ama. La fama al uecchio Re di sessant'anni, Che suo zio era, e figliodel fratello, Era uenuta già che tanti danni A i Turchi fece con mortal'flagello Sapeu'il nome, sapeua gli affanni Che pel padre trouar presi hauea quello Ma non sapea, che fusse suo nipote Per le ragion', che non gli erano note. Poscia che data gli hebbe potestate Sopra l'armata, c'hauea posta in ponto Fur molte cose tra lor ragionate Doue Guerrin'al Re diede buon conto Di tutte le fortune sue passate Et come sempre fu dispost'e pronto Cercar del padr' e in ogni regione Tal ch'il Re pianse per compassione. Dicendò Caualier', gran tempo sono Stato con uolontade di uederti, Pel gran nome c'habbiamo di te buono Non sol per mio buon Duca possederti. Et fe bandir poi con publico suono Di trõbe, acciò che'ogni guerrier' s'accerti Come seguir & ubbidir si debbe Guerrin', com'à lui stesso si farebbe Di uoce in uoce andò sì, che la fama Tosto si sparse del campion di Cristo, Ciascun il riuerisce, ciascun l'ama, E fu prest'al bell'ordine prouisto De la rassegna, perche Guerrin brama Veder la gente, di c'hà fatto acquisto Fur' otto mila Caualieri buoni Dodici mila appress'anco i pedoni. E'tra due mesi al porto di Branditio Fur di caualli, uettouaglia, e gente, Carche dugento naui, à quell'offitio In ordin post'e con benigna mente Dal Re partissi Guerrino; propitio, Hauend'il uento, poscia incontinente Spiegar le uele fè uers'Albania, Per far uerso Durazzo la sua uia, Di Durazzo'l Signor, che chiamat'era Napar, poi ch'egli intese la nouella Di tanta armata, ualorosa, e fiera Huomini in poste mandò tosto in sella, Al suo frate Sadar, ch'ogni sua schiera Mandi in soccorso, e lo fece con quella Prestezza che potè, mandouui insteme Tre figli nati del suo proprio seme. Lasciamo star costor, ch'ordine danno A far contra Guerrin fiera difesa, Con molta gente, mentre i nostri uanno Innanzi con l'armata, à uela tesa I quai l'Adrian golfo ancor non hanno Passato, ch'interrottagli l'impresa Dal uento fu, ch'à Durazzo disegno Feron d'andar; e fur spinti à Dulcegno. Vicin'era Dulcigno à due giornate A Durazzo, e Madar il dominaua, Poi che Guerrin uide questa cittate, E che gente de Turchi l'abitaua Deliberò d'hauerla in potestate, E tanto più, c'hauer gli bisognaua In quell'impresa un luogo oue saluarsi Caso c'habbia bisogno di ritrarsi, Così fe de' suoi parte dar'à terra, E part'in mar, per espugnar' il porto. I terrazzan che non temean di guerra, Con le lor genti aiuto haueuan porto A Napar, or ueggendo che gli serra Il campo de' Cristiani in tempo corto Spedir due messi à Durazzo auisando, h' andasser con soccorso galoppando. Ma non sì tosto i messi de la porta Vscir, che presi furo da i Cristiani, Et al lor Capitan per la più corta Via, furon dati tosto ne le mani Il buon Meschin con prouidentia accorta Gli esaminò del tutto, e non fur uani I suoi pensier, però che da lor detto, Gli fu de la cittade ogni difetto. Seppe come Madar per dar soccorso A Napar, con prestezza l'ha sfornita Di gente per la fretta, altro discorso Non potè far, che restasse munita, Per quest'era Guerrino innanzi corso, Per terr', e mar, con sua gente fiorita, E da due parti in terra diè battaglia Per espugnar, s'ei puote la muraglia. Tratti hauea de le naui molti ingegni D'arieti, di machine, e di scale; Ma quei di dentro, con sassi e con legni A i nostri fan quanto più posson male, Onde mal riusciuano i disegni, E mentre che'l Cristian campo l'assale, In mar' e in terra, in compagnia di pochi Squadrando già Guerrin per tutti i lochi. La muraglia squadraua d'ogn'intorno Perche falland'il primo assalto, possa L'altro miglior seguir passato il giorno, Tanto, ch'ei uide una muraglia smossa Da una parte oue non s'accamporno I suoi Cristiani, ma da una gran fossa D'acqua era cinta, sì, che quei di drento In tal parte non fer prouedimento. Stimandola sicura, ma segreto Ogni disegno Guerrin' in se tiene La sera il campo fe tirare indrieto, Che s'era tutt'il di portato bene; Ma quei di dentro non lassaro à drieto Quant'in simili casi si conuiene, Ben che la maggior parte sur feriti Da le balestre, & erano inuiliti. Senza che moltine furon priuati Di uita, e si sarebbe in quell'assalto La città presa, se più presti stati Fusser' i nostri, al di, ch'era poc'alto; Ma più presto non u'erano arriuati Sendo notte, Guerrin fece far' alto, E far gli alloggiamenti, e ritirarsi, Et chi era affannato rinfrescarsi. Medicar'i feriti, hauendo il giorno Prima mandati tre mila caualli A discorrer per quei paesi intorno In tre partiti, acciò che non si falli, Che da gent'improuiso habbiano scorno, Però ch'er'uso, e pratico in quei balli. Del mar fe ritirar le naui ancora Trando, se u'er'alcun ferito, fuora. Fatto questo, ordinò ch'un Capuano Detto Manfredo, saggio e ualoroso Di due mila pedon sia Capitano Veggendol di uittoria disioso, Alqual commise, che del mar pian piano Le naui à meza notte nel riposo D'ognun, accosti à la muraglia sotto, E che fiera battaglia dia di botto. Et egli de le naui tutte trasse Da trenta carratelli, al uino usati. E fe che l'un con l'altro s'accoppiasse Tanto, ch'à due à due accomodati Si poteuan portare ù bisognasse Da certi buon trauicelli infilzati Pe i fondi, e da le teste i trauicelli Auanzauan due palmi fuor di quelli. Di poi fe tor due legni, ciascun grosso E lunghi, che da l'una e l'altra banda Potesser' à trauerso star del fosso, Et à le naui à meza notte manda Al ualente Manfredo, à dir che mosso Sia co i nauili, & il romore spanda De la battaglia, e ch'assalti le mura Co due mila pedon, de'quali ha cura, E se si puote insignorir, lo faccia De la muraglia, e non potendo, stia Fort' à seguir la cominciata traccia, Ch'egli s'ingegnerà per altra uia Pigliar la terra, non però ch'ei faccia A nessun nota la sua fantasia, Poi le genti di terra insieme pose Caualli, e fanti, e così gli compose. Che dou'il giorn hauean l'assalto dato Lo dien la notte, e scalino le mura, Con un pronto pensier deliberato Et ei promette uittoria sicura A meza notte l'ordin disegnato, Diede à le naui, à la battaglia dura; Ma non si poser sì taciti in guerra, Che ben sentiti furon ne la terra. Gagliardamente difeser la parte Di uerso il mar, e si teneuan forti; Ma sendo già le grid' in terra sparte, Che gli arieti innanzi haueuan porti E le scale inalzauan con ogn'arte; I guerrieri di dentro erano sorti A la difesa, & lasciando le gonne Giunser' con l'arm'in man fin'à le Donne. Mentre che fieramente eran le grida Leuate in fin' al ciel, Guerrin raccolse Di mille uno squadron di gente fida, E quetamente i carratelli tolse, Poi dou'è'l fosso pien d'acqua, gli guida Che come'l fato de la città uolse Non fu tal part'in sospetto tenuta Da quei di dentro, & era sproueduta. Altroue er'ogni cosa sotto sopra Sì, che Guerrin fece i due legni insieme Congiugner da le teste, e con ogn'opra Gli spinge al muro, doue non si teme Et al bisogno i carratelli adopra A coppie oltre gli spinge, e inanzi preme Sopr'ai due legni, ch'eran larghi tanto, Ch'i correnti ui posan d'ogni canto. Sì ch'un ponte formaro, ampio e capace, Gittando sopra stipa & altri legni, Il buon Guerrin, ch'è ne i bisogni audace Tosto fe chiari i segreti disegni Tolse una scala in braccio, che gli piace Esser il primo, e disse, meco uegni Chi uol uenir, ch'io uo salir la suso Per la uittoria hauer, com'io son'uso. A piedi con due salti il ponte passa Drizza la scala, e sale al muro in cima, Con gran destrezza, & à dietro si lassa Il ponte, e l'acqua, c'hauea egli prima Salito, la sua spada non tien bassa; Ma tien la punta innanzi, che fa stima Guardie trouar, ch'al mur faccian difesa, Nè uuol hauer uergogna de l'impresa. Or chi sarà colui? certo nessuno, Che uoglia ritirarsi à dietro un piede; Io dico allor, che de Cristiani ogn'uno Il suo buon Capitan là suso uede, Desia esser'il primo, nè quell'uno Ponte bastò; ma chi à far si diede De glialtri, e chi passò quell'acqua à nuoto Per non lasciar Guerrin da lor rimoto. Fur più di uenti scale al mur drizzate, Mentre Guerrin trà due merli hauea posta La punta de la spada, se brigate Vi fusser dentro, che uoglian far sosta; Ma poi che le difese abbandonate Troua, sicuramente là s'accosta, Salta sù merli, e dentr' al muro, e chiama Dentro altri, chi di seguitarlo brama, Ottocento salir, prima ch'accorti Sien quei di dentro del danno uicino. Gli auisi fur di mano in mano, porti Per tutto quanto il campo di Guerrino, Come da mille con esso eran sorti Dentro, e lo tenner ben Guerrier diuino Pensando, che'l ualente e fier Campione Non fusse fuor'ancor del padiglione. Riforzaron di fuor l'assalto orrendo. Il Capitan de la nauale armata, Il fatto di Guerrin inteso hauendo Con più ualor la muraglia assaltata Saliuui sopra, ma dentro il tremendo Caso saputo, haueuano lasciata Ogni difesa de le mura, e drento Di combatter, facean pensamento. Mentre che Guerrin dentro fa la zuffa, E che s'oppon, uccide, e rompe i passi Sopra le mura si leua la muffa, Da quei di fuori, à chi le riparassi, Cresce per tutto la mortal baruffa, Nè u'è chi più si difenda con sassi Tra i terrazzani, che le mura piene Son di Cristiani, e sempre più ne uiene. Guerrino in tanto dentro, à lor dispetto, Vna porta trouata, tosto aperse, Doue tutto l'essercito ristretto Entro riceue, che presto s'offerse; Gl'Infideli non fan miglior' effetto, Che uia fuggir, come persone perse; Nascondendosi in tane, fosse, e grotte Trà l'ombre dolorose de la notte. Tutti color, che fecero riparo Furon'uccisi, e non trouando intoppo I Cristiani la terra saccheggiaro La plebe poscia, senza negar troppo Come piacque à Guerrin si battezaro Fer'i Cristian grande allegrezza doppo Co tal uittoria, e Guerrin mandò nuoua Al Re Guicciardo de la prima proua. Madar, ch'era à Durazzo, il caso intese, Che lagrimando gli fu riferito Da certi suoi uassalli del paese Di che'l suo campo restò sbigottito, E col fratello al fin partito prese, Poi che'l suo oste di cacciarli ardito Non era, ricercar tutta Turchia, Perche soccorso miglior gli si dia. Spedir à i Signor Turchi in poste messi Auisando la presa di Dulcegno, E com'arditamente s'eran messi Tanti Cristian per tor loro ogni regno, Dicendo, prima che'l fuoco s'appressi A lor faccian di spegnerlo disegno E di quà da lo stretto d'Elesponto Scorsero tutti, che u'eran di conto. In fra tanto Guerrin s'apparecchiaua Di giorno in giorno, per farsi potente, E la presa città fortificaua, Per formar miglior nido à la sua gente. Però che'l Re Guicciardo gli mandaua Nuouo soccorso; che subitamente Hebbe dal buon Guerrino informatione De' Turchi l'ordinata prouisione. Ond'il mar fe passar'al suo primiero Figlio, detto Girardo, in compagnia Di gente franca, ch'era giouin fiero Fur quattro mila la sua fanteria, E tre mila caualli, il numer uero; Ma commesso gli ha il padre, ch'egli sia Obbediente, e in tutti i fatti umano Col ualoroso Guerrin Capitano. Giuns'à Dulcigno, che Guerrin ponea In ordine l'essercito, che prima, Che la gente uenisse, che douea Venir', à i Turchi, haueua fatto stima Far quel dann'à Durazzo che potea Senz'aspettar, che'l nemico l'opprima Ben che l'aiuto, che già s'era mosso Faceua ogn'hor, l'auuerso campo grosso. Fece de la uenuta di Girardo Guerrin gran festa, per la sì fiortia Gente, ch'aggiunse sotto il suo stendardo A'quai tre dà fe rinfrescar la uita, Poscia ueduto il campo assai gagliardo Seco à gir contr'al nimico gl'inuita, Et essortò Girardo, ch'ei guardasse Dulcigno, mentre ch'egli in guerra andasse Girardo gli rispose, che uenuto Non era à guardar terre, ma per conto Di dar' anch'egli à Turchi aspro saluto, E ch'à combatter s'era posto in ponto, Poi che Guerrin il uide proueduto Sì ben d'animo, disse, poi che gionto Per questo siete, il uostr'ardir m'aggrada, E com'à uoi diletta, così uada. Volti uerso Durazzo, il terzo giorno Vi furo appresso, e come giunti furo Il sole à l'Orizonte fea ritorno Vn'altra uolta, prima che'l futuro Suon de la guerra si spargesse intorno, Per che d'assalto non era sicuro Il campo de' Cristiani, e non mancaua Far buone guardie quanto bisognaua, La notte che seguì, fuggiron fuore De la città non pochi Cittadini, Che del principe loro hauean timore Parlato hauendo contr'à i Saracini Giunser nel campo, & à Guerrin sentore Dieron, che come la notte declini Doueuan di Durazzo in ordinanza Vscir fuor gente, e seguitar la danza. Diede ordine Guerrin per questo auiso, Che stien da meza notte in là, sellati Tutti i caualli, & acciò ch'improuiso Non fusse colto, fe da tutti i lati Il campo star con bell'ordin diuiso, Poscia disser color, se mescolati Entrar potesser de Cristiani drento Sarebbe de Pagan disfacimento. Perche de cittadini assai offesi Da la superbia del principe nostro Sono, per molti inusitati pesi Stati grauati, e part' ancor, che'l uostro Dio aman più, da lor ui sarien resi Tutti i fauor, che per carte, ò inchiostro Poteste domandar, sì che seguite, Ch'in uostro grande aiuto è questa lite. Il Meschin ben pensò se le parole Di costor eran finte, ma ueduto Tutt'esser uer, non per lor bocche sole Misesi in punto per far'il douuto Nel far del giorno à lo spuntar del sole L'essercito Pagano fu ueduto Vscir, ch'è con Arfineo mandato, E dal fratel Silonio anche guidato. Napar, diè lor diecem la Pagani Con liquali, in due parti fuor guidati, Assalisser il campo de' Cristiani, Et ei si tolse de li più pregiati Cinquemi' a, per esser'à le mani Co i primi, e poi lassò da tutt'i lati Guardie per la città, che furon tutti Suoi cittadin, e da Madar' instrutti. Madar lasciò Napar de la cittade Guardian, perche à disordine non uenga Da i muri, per le porte, e pèr le strade, Et ei che uuol, che'l nimico si spenga Ne l'alba l'assalì senza pietade, Nè pensa ch'auisato Guerrin tenga La sua gente prouista, e gli rispose Sì, che per tutti andaron mal le cose. Mandò Guerrin Girardo innanzi, & esso Con quattro mila franchi Caualieri; Mentre glialtri combatton, s'era messo A uolteggiar per coperti sentieri Tanto, che d'altra banda era già presso Al mur de la cittade con pensieri Di chiuder inemici, & à le spalle Giugner, per non pensato, & erto calle. Da l'altra parte Girardo col resto De suoi, i quali, di commun uolere Valentemente uolean far del resto O uincer, lo seguir, com'è douere E racquistar il perso campo presto, A disonor de le nimiche schiere Sì, che parue disposta la fortuna A mostrarsi à i Pagan feroce e bruna. Aggiugne à quest'ardir da l'altro lato Il buon Guerrin, la sua uirtute estrema, Co i Caualier, di ch'era accompagnato Sì, che molti nimici tosto scema; Ma, perche in tutto era deliberato Del nemico abbassar ogni suprema Forza, cercaua tutti i Capitani, Per ammazzar' i più franchi Pagani. Arfineo trouò, ch'una gran torma Di Cristiani cacciaua, et uccideua, E perch'un sonno sempiterno dorma Col suo brando à due mani in sù si leua Sopra le staffe, pria l'elmo è la forma Dopo gli aprì, che la spada radeua Aprillo con quel colpo fin'à gli occhi Si, che conuien che giù morto trabocchi. Morto che fu Arfineo, coloro Che lo seguiuan, tutti spauentati Fuggiro poi c'han perso il Campion loro Temendo i colpi di Guerrin spietati Prese Girardo allor tanto ristoro, E i suo Cristian'eran tanto infiammati, Per l'opre di Guerrin à la battaglia, Che'l Saracino campo si sbaraglia. Madar (da la città,) che uede, uolta In disfauor de' Turchi la fortuna Vscì con cinquemila à briglia sciolta Fuor de la porta, e più che può ragiona Chi quà, e là si sparge, de la molta Gente, che senza ritenentia alcuna Senza prezzar uoci di chi gli guida In altro ch'in fuggir non si confida. La testa che potè, rifece presto, E fu di tanta forza e tanto ardire, Che'l nostro campo hauea fatto del resto, Però ch'assai ne fecero morire, Se non hauesse proueduto in questo Il ualente Guerrin, che con l'ardire Vsato, à quel Madar si fece innanzi Per fargli far, come fe, pochi auanzi. Eragli andato in contro à posta fatta Con una lancia, ch'ad un Caualiero Nemico hauea per forza di man tratta, Et à Madar poi diede un colpo fiero Che'l ferro, e l'aste nel suo sangue imbratta Così infilzato cascò del destriero, Per la cui morte le Cristiane schiere Tutte atterrar le nemiche bandiere. Benche Silonio, c'ha di guerra l'arte A quelle uolto, le difese tanto, Che n'hauea fatte drizzar una parte E danneggiaua i Cristian dal suo canto Ilqual uide Girardo, ch'indisparte Si potea dar già di uittoria uanto, Perche uccision faceua grande Onde tosto si spinse in quelle bande. Tols'una lancia, e percosse Girardo E'l fe cader' à suo mal grado in terra Ancor che fosse il giouine gagliardo Perche sol con la spada facea guerra, Non fu l'auiso à farl'intender tardo Al Capitan Guerrino, ilqual si serra Addosso al fier Silonio, e con il brando Alto menogli un colpo fulminando. Calò la spada su la destra spalla, Che com'un drago hauea Guerrin menata La fina tempra al suo desir non falla, Si che col braccio ha la spalla spiccata, Il corpo da caual giù non s'auualla Di quel Pagan, ch'ancora separata Non n'e fuor la trist ombra, ma si uolta Il cauallo con esso à briglia sciolta. Per mezo la sua gente, senza braccio Fuggì Silonio, e à la città si messe; Ond'al padre lasciò tutto l'impaccio, Che de la guerr'egli sol cura hauesse; Ma Napar quando il uide, prese spaccio Di seguitarlo, e la cura commesse A la fortuna di sua gente tutta, Che da i Cristian fu cacciata, e distrutta. Chi per saluarsi dentro mescolato Co i Cristiani fuggì ne la cittade, Chi di fuor s'allargaua in altro lato, Ch'impedite uedeua esser le strade; Silonio innanzi al padre era cascato Già morto; onde Napar per questo cade In tal furor, che senza compagnia Torna à la porta à la battaglia ria. Girardo in questo medicato s'era De la ferita da Silonio hauuta, Et ritorno ne la battaglia fiera, Doue la gente' Turca era perduta, E rigittata in terra ogni bandiera, Guerrin poi troua, che pronto s'aiuta A' spigner i Cristian dentr' à la porta, Et el faceua uccidendo la scorta. Lo strepito de l'armi, e le dolenti Grida, e lamenti sopra il limitare De la gran porta, con istran concenti L'aer d'intorno facean risonare, La plebe uil de la cittade intenti, Ne' Tempi stan Macone ad adorare, Mentre che queste cose erano fatte, Troua Napar la porta, ù si combatte. E con un'asta in mano arriuò doue Guerrin per far più capace l'entrata, Fà con chi la contende estreme proue; Allor Napar con uoglia disperata, A' piedi smonta, e contra gli si moue, E con la lancia gli mena serrata; Ma Guerrin tàglia l'asta, & à l'inuito Si uoltò de la spada innanzi ardito. Ancor che Napar uecchio alquanto fosse, Era gagliardo, & or si mostra forte Ch'è disperato, e Guerrino percosse Desiando la sua, e l'altrui morte; Guerrino il piè da la staffa rimosse, Per uenir seco à le prese più corte, Che Napar ben conosce, e se l'ammazza, Sà che spenta sarà tutta sua razza. Diersi parecchi colpi de le spade Al fin'essendo da l'impeto stretti S'abbracciaro con gran ferocitade Stringendosi i ferrati odiosi petti; In quest'alto furor, s'empion le strade Di chi fugge, e chi caccia, e sù da i tetti Piouon tegole, e traui, e sassi, e fuoco, E chi uil si nasconde in qualche loco. Il uecchio disperato, e l'animoso Cristian, s'eran in terra già gittati; Ma perche Guerrin'è più ualoroso, Restò di sopra, e standosi abbracciati, Lo stuol pagan, ch'è di Napar pietoso, Per forza circondar da tutti i lati Il buon Guerrin, e l'harian tratto à morte, S'iui Girardo non giugneua à sorte. Giunse Girardo con possente scorta Di caualier Cristiani, e in un'istante S'insignorì al tutto de la porta, Là dou'era Guerrin poco distante, Ilqual la forte spada hauea risorta Col destro braccio, mentre che dauante Girardo ogni nemico si cacciaua, Con ciascun, che Guerrino circondaua. Ilqual'in tanto trae l'elmo di testa A' Napar, che non puote riauersi, Arrenditi, Guerrin gridar non resta; Ma Napar, che non cerca di uolersi Campar, stà queto, e non fa manifesta Altra parola, e per modi diuersi Cerca Guerrin pur riuoltar di sotto, Nè in uiso il guarda, non pur gli fa motto. Conoscendo l'empio anim'ostinato Guerrin'al fin col pomo de la spada, Ne la fronte gli diè fin ch'inuiato, Il uide d'Acheronte à la ria strada, Morto lui, gran romor si fu leuato Da i cittadin, ch'erano stati à bada A'ueder l'aspra pugna, e con le mani Gridar'alzate, uiuano i Cristiani. Viua Guerrino il caualier gagliardo, Posate omai, che la cittad'è uostra, Et uiua il franco giouine Girardo, Nè s'indugi omai più la pace nostra, De la Croce onorando lo stendardo Ciascuno d'umilità segno dimostra, Per questo facil fu pigliar la terra, Senza far'alcun più segno di guerra. Per questa uolontà buona mostrata Da cittadin, si diede termin poco, Che la cittade fusse saccheggiata, Nè altramente distrutta per fuoco Accompagnato da una brigata Di cittadin'il buon Guerrino al loco (Con Girardo) ù Napar il seggio hauea Menati furo, e doue sitenea. Doue Napar era tenuto in uita Ne l'istesso palazzo la congrega Di molti cittadin, Guerrino inuita, Facendo seco, & amistade, & lega, E per mostrar allegrezza infinita, E che nessun tal uittoria non niega, Furo spezzate tutte le prigioni, Per annullar le passate ragioni, Là, doue per miracolo ueduto Vi fu Milon Principe di Taranto, Che già uinticinque anni hauea tenuto Ogn'un che morto fusse, il qual'accanto Haueua anco Fenisia, che pasciuto S'era con essa, in continuo pianto Trenta due anni, da la fatal sorte, Mal grado de le Parche, e de la morte, De la prigione mezi ciechi, e sordi, Furon cauati, stracciati, e pelosi; Rognosi, rabuffati, tutti lordì, Iquai, dipoi che più non furo ascosi Fur domandati di tutti i ricordi Con dir ch'à dichiarar non sien ritrosi Del come, e quando, & quei dieder notitia Dal principio di lor empia tristitia. Da color che sapean, che la cagione Di quella guerra fu, che'l Re Pugliese Per uendicar la morte di Milone Suo fratel, contro à Napar si distese Con le forze, e sapendo che'l Barone Girardo, era suo figlio, sol s'attese A' correr con la noua buona à quello, Poiche Milon è del Padre fratello, Nessun sapeua che Guerrino stesso, Sia figlio di Milon, ch'a dargli noua, Non se gli moue mandato, nè messo Ben che presente al tutto si ritroua, Ode la noua, nè sà ch'interesso V'habbia egli ancor, ma b&etilde; molto gli gioua L'intenderl', e uederlo ha gran desio Poich'egli sà, che di Girardo è zìo. La miseranda coppia fu menata In sù la mastra sala del palazzo Da una gran brigata accompagnata, C'haueuan di simil noua gran solazzo; Ma per la luce, che non sono usata Vedere sbalorditi in sù lo spazzo Cascar gli scarcerati, onde serrate Fur le finestre, e le torce appicciate. E con rosato aceto, e con liquori, Per simil'uso fatti, riuenire Gli fero ne i lor soliti uigori; Allor Girardo à Milon prese à dire. Senza mostrar punto allegrezza fuori, O di saper chi sien, qual rio fallire, Vi condannò à stare abbandonati, Ne la prigion, uil mente disprezzati? E chi siete soggiunse? con altiera Fronte, acciò che raccontin senz'inganno. Dal dì, che fur prigion, l'istoria uera; Guerrin per esalar del dì l'affanno. Di testa l'elmo già cauato s'era, E la risposta attende, che quei danno, Ma nel rimirar ben la lor statura, Gl'intenerisce il cor senza misura. Videl Girardo lagrimare alquanto; Onde pria, ch'ascoltasse la risposta. Tirò Guerrino subito da un canto, Et à l'orecchie poscia se gli accosta, O franco Capitan, disse il tuo pianto, Ne la miglior felicità, che costa? Dimmel, nè mi celar questa tua pena, E qual cagion'à lagrimar ti mena. Sappi, disse Guerrin, che quei prigioni, L'un mio padre è, l'altra la madre mia. E già t'ho dette quante regioni, Ho per lor cerche, e quanta lunga uia, Io habbia fatta, nè mai testimoni, Hebbi di lor, che la mia fantasia; Di ciò fusse contenta, e sol parole Vane, hebbi già da gli alberi del Sole. Son stato à la Sibilla, e'l tempo persi, Nel Purgatorio ancor di san Patritio. Nè mai di uerita null'altro apersi, Che mi potesse dar più chiar'inditio; Che due ueder, nulla à costor diuersi, I quai, due santi spirti, che l'uffitio Fanno di carità, mi fer uedere, Che questi sono, ò mi si fan parere. I cui diuini spirti, disser, quando Due simili uedrai, tienti per certo, Che sien tuoi genitor, ch'ancora in bando Non son di uita, or'ecco il caso aperto; Che mi ti fa parlar, sì lagrimando, Allor'il buon Girardo, come esperto, Diss'à Guerrino, esaminal tu stesso, Per ueder (come dì) se gliè quel desso. Insieme à Milon poscia s'appressaro, Onde Guerrin per ritrouare il uero, Gli disse, (pur facendo uiso amaro, E nel parlar mostrandosegli altiero,) Chi sei tu, che ti uanti esser si chiaro Di sangue? allor Milon, come sincero; Volsesi inginocchiar, Guerrin non uolse, Et ei ritto così la lingua sciolse. Milon son'io, e sfortunato figlio Di Girardo di Frata, il qual discese Del sangue di Mongrana; origin piglio Da Costantino, e ben si sà palese, Che Carlo Magno, padre di consiglio, Allor che Puglia, e Calabria riprese, Di man de gli Africani, Io, e Guicciardo Mio fratel, fummo sotto il suo stendardo. Et io, & egli, in Aspramonte fatti Da lui Caualier fummo, & i Signori, Che di Puglia, e Calabria disfatti, Furon dal primo guerreggiar de' Mori. Eredi non hauendo lasciati atti, Fummo dal Re, noi posti in quegli onori, Principe di Tarento fui fatt'io, E Re di Puglia, appresso il fratel mio. Non content'io di questo, à gli Albanesi Poi guerra mossi, con sì buona sorte, Che questa terra in poco tempo presi, E di Napar, e Madar per consorte, Tolsi costei, lor suora, & à lei resi Di quì la Signoria, e ben la morte Harei cercata dare al fuggitiuo Suo fratel, ma per lei lo lasciai uiuo. Ma poi per tradimento, e per inganno, I due fratei la Città ripigliaro. E me deposer del già preso scanno; E la sorella, e me poi condannaro Ne la prigion, là doue trent'un'anno L'anno passato, ch'io ci fui, passaro. E non sò come con la donna mia, Mai tanto tempo uissuto ui sia. Haueste mai (disse Guerrin) figliuoli? Rispose egli, ch'un sol n'haueua hauuto. Ma ne l'incominciar di tanti duoli, Il perse, & altro non n'hauea saputo. Ma tenea ben, che tra Pagani stuoli, Morto ui fusse allor, 'non che perduto. Che di due mesi innanzi, era sol nato, Dal dì, ch'ei fu di Signoria priuato. Com'hauea nome? replicò Guerrino; Non senza lagrimar disse Milone. Nome al battesmo gli posi Guerrino, Miser, che nacque in sì trista stagione, E facea rotto pianto à capo chino, S'empie chi l'ode di compassione; Ancor disse Guerrin, come chiamaste La balia, ch'à nutrir lo il consegnaste? Tra i profondi singhiozzi non potea, Milon dar così pronta la risposta. Ma Fenisia in suo lnogo rispondea, E disse, quella balia hauea preposta, Che me lattò; perche fidanza hauea In lei, non ch'ella fusse già disposta Da poterlo allattar, ma perch'auesse Di lui sol cura, quanto si potesse. Seffera si chiamò, la qual nutrire, Il faceua ad un'altra balia eletta. Disse Girardo, se'l sapete dire, Quanto temp'è, c'hauete così retta La ria uita, in prigion pien di martire? Tutta la mia etate più perfetta. Disse Milon, trentadue anni sono Da morte odiato, odiato dal perdono. Ruppe omai la pietà, che più non puote Di Guerrin, star'ascosa dentro al petto. Ogni ritegno, e con aperte note, Incominciò pien di carnale affetto. Voce infingarda, perche non percuote L'orecchie omai del mio buõ padre eletto, Ahi padre tribolato, ahi miser padre, Ecco'l tuo figlio, ecco l'afflitta madre. Ecco'l uostro Guerrin, nato di uoi, Deh perche padre di fatica pieno, Volse fortuna sì, gl'inganni suoi Celar, che i uostri affanni non mi sieno Più presto fatti noti, acciò che poi Non ui uenissi di soccorso meno? Speso il tempo in cercarui non haurei, Doue son persi i uostri giorni, e i miei. E tuttauia, mentre che ciò dicea, Or il padre, or la madre, tutto pieno Di caritade, abbracciat itenea, E l'un, e l'altro quasi uenia meno, Per la souerchia allegrezza c'hauea. Nè guardaua Guerrin, che'l uiso, e'l seno Pien d'unto hauesser, e pelosi tutti Fusser'inculti, macilenti, e brutti. Piangea Guicciardo, lagrimaua ogn'uno Di tanta nouità, di pietà degna. Poi uoltosi à Guerrin Guicciardo, in uno Instante, disse, uoi la nostra insegna Dunque reggeste, non sapendo io, ch'uno Mio fratello era quello, nel qual regna Tanta, e sì gran uirtù? qual fu mai tanto Per souerchia allegrezza, allegro pianto? Ecco aggiunto un fratel, per uirtù raro Al nostro sangue, & ecco ritrouato, Ch'io già tenea per morto, un zio sì caro. Ecco una madre, e tenendo abbracciato, Or l'un, or l'altro, seguì, mondo auaro Perche teneui un tanto ben celato? Quanto di ciò fia'l padre mio contento, Quando saprà sì buono auenimento? Quante uolte hai pensato, padre eletto, (Seguì) di far passaggio per uendetta Del tuo fratel, che più uolte m'hai detto, Che trent'anni già son, che la ria setta L'haueua morto, or si uede l'effetto; Perche l'impresa non fu mai perfetta. Perche Dio solo, ch'antiuede il tutto, Volea che pria Guerrin fusse condutto. Omai, dicea Milon, uolto à la moglie, Quel che nel gran dolor non potè morte. Faccial ne l'allegrezza, ecco le spoglie Di questo corpo; e tu fida consorte, Se Dio di uiuer più ci uieta, e toglie; Non ci dè più parer, nè stran, nè forte. Che bramar non si puote in terra cosa Da noi, già più di questa auenturosa. Nel rinouar gli abbracciamenti ancora, Che fa Guerrin staccato da Girardo. Col desiato padre, quasi fuora Di se Milon, ch'era poco gagliardo. Cascò; che l'allegrezza sì l'accora, Che s'à lassarlo fusse stato tardo Il Caualier, sì traboccaua'l zelo, Che spirto sciolto l'hauria reso al Cielo. Accorti i circostanti de l'errore, Gli feron separare, & ordin porre Che si parlasser' à tempo migliore, E fu fatto poi subito comporre Vn bagno salutifer, pien d'odore Soaue, oue Milon potesse torre Vital ristoro, e Fenisia fu data In man di donne, e fu da lor curata. Lauati lietamente, e confortati Alquanto ne le piume, di perfetti Cibi, poi furo al tutto ristorati, Di uestir conueneuoli, & eletti. Furon adorni, e da tutti onorati, E perche questi casi erano detti Per la Città, dentr'al palazzo molti S'eran (di uedergli auidi,) raccolti. Nè mancar grati, e benigni uecchioni, Che come con Guerrin Seffera uia Se ne fuggisse, fusser testimoni, E poi com'ella, con la compagnia Fusse in mar presa da Corsar ladroni; Dissero hauer'inteso, e come sia Da lor poi stata morta, e la nutrice Propria stratiata misera, e infelice. Altri testimoniaro, hauer ueduto Guerrin far guerra contr' Astiladoro. Il qual, per soggiogare era uenuto, Il bel Costantinopoli, e'l martoro Ch'ei diede à i suoi figliuoli, e dal tributo Liberò tutti i Cristiani, & il loro Imperadore, onde de la trouata Prosapia sua, fu gran festa ordinata. Scrisse Girardo al padre l'ordin tutto Di quel successo, prima ch'ei uolesse Farsi curar, ch'era ferito, e brutto Tutto di sangue; e Guerrino si messe A scriuer, auisando del buon frutto C'ha fatto, ad Alessandro, al qual promesse, Dopo à Costantinopoli tornare, Tutt'or che'l padre potesse trouare. In Persia scrisse ancora, & à la bella Antinisca a Presopoli; e sapere Le fe, com'era uiuo, e tutta quella Vita, che fin'allor, con dispiacere Haueua fatta; che tornar ad ella Non gli era stato dato di potere. In Babilonia scrisse, in Barbaria Per fede far de la sua lunga uia. Scrisse in Morea, e scrisse in Inghilterra, A' messer Dinoin, come dipoi Dopo sì lunghi affanni, & aspra guerra Hauea trouati i genitori suoi. Le risposte per mar date, e per terra, Fecero fede da più degni Eroi. De suoi affanni; or mentre si fa festa, Per riposarsi alquanto il mio dir resta.

Il fine del canto ventesimonono.

COl solito chiamar, Signor, potente Sopr'a tvtti i Signor, tutti li Dei, Ti richiamo di nuouo, nel presente Cantar, di cui sei stato guida, e sei, Per l'alta tua mercè reggi la mente, Che non uadano scarsi i pensier miei. I quai son di seguire il tolt'impaccio, E mi fia dolce, e glorioso laccio. Guerrin felice hauendo già trouati, La madre, e'l padre, e posti in quell'onore; Donde già furo da Napar leuati, Alcuni (mal pensando,) hauean timore, Che dal fratel, non sarian confermati, Nel principato; ò d'essergli in fauore. Più presto hauean pensato, ch'altramente, Quant'eran quiui di Cristiana gente. Ma non fu di mestier, che non sì tosto La lettera Guicciardo, de l'auiso Hebbe dal figlio, che tutto disposto Mostrò nel cor, grand'allegrezza in uiso. E senza hauer'altr'ordine composto Di Napoli partissi à l'improuiso. Giunse à Branditio, e d'indi in Albania, Sopra un nauilio, in bella compagnia. Tosto giunse à Durazzo, ou'ordinata Trionfal festa fu di sua uenuta, Et egli allegro de la ritrouata Del fratel, dargli il tutto non rifiuta. Che gli s'apparteneua, e poi con grata Accoglienza, Guerrin prende, e saluta Come Nipote; e duolsi grandemente, C'ha inteso tardi, hauer sì gran parente. Tra questi dì, che la festa seguiua, Dal bel Costantinopoli, ordinata Ambasceria d'Alessandro u'arriua; La qual fece à Guerrin quest'ambasciata. Che'l Re Astilador con gente arriua, Ne' suoi paesi, e uolea far passata Sopra à Costantinopol, perche morto, Era gia'l padre, al qual fece anche torto. Per questo, e pel desir Guerrin, c'hauea Di seguitar contr'i Pagan la guerra, Disse à gli ambasciadori, ch'ei uolea Seguitar, fin che morte non l'atterra, I Turchi, acciò di Grecia, se potea, Gli leui, e renda liber'ogni terra. Così mandò gli ambasciador contenti, Che consolar d' Alessandro le genti. Il qual, poi ch'egli udì per simil uia, Quel che fu di Guerrin, poi ch'ei partissi Da esso, e di sì strana, e lunga uia, Et in che modo à ritrouar uenissi Dentr'à Durazzo sua genealogia, E com'andar'à la Sibilla ardissi, Così nel pozzo poi di san Patritio, Seco stupì di tanto fiero offitio. Molto gli piacque udir, che di reale Sangue anche fusse, e prese gran baldanza, Ch'ei con risposta sì benigna, e tale Di se gli desse sì buona speranza. Guerrino in tanto, per un Cardinale Del Papa, già uolendo mutar stanza. Fè battezar di Durazzo la gente, Laqual, ui s'arrecò diuotamente. Con le sue terre, tutto il principato Di Tarento fu reso al buon Milone, E di Durazzo Duca confermato, Fu dal fratello; e perch'ogni ragione Riconoscesse del primiero stato, Accompagnati da più d'un barone. Fur Milone, e Fenisia, insieme in tanto; Nel principato posti di Taranto. Guicciardo in Puglia poi fece ritorno, Ma Guerrino, e Girardo, di seguire La guerra contr' à i Turchi s'impalmorno, E non s'abbandonar fin'al morire, Quiui del Papa, il Cardinal lasciorno Al gouerino in Durazzo, acciò ch'aprire Douesse il passo di giustitia à tutti; E purghi i uitij, in lor nefandi, e brutti. Nè quattro, ò cinque giorni indi passaro, Che Guerrin seppe per uero messaggio, Ch'un'essercito eletto, e in arme raro Viene à seruirlo, seguitando il saggio Alessandro gentile, à lui più caro Che l'alma propria, ò del bel Sole il raggio Il qual poi giunse in breue, e il gaudio tãto Fu, che poter narrarlo io non mi uanto. Con lui poi senza indugio il camin prese, Essendo al monte Ascaron appressati, Tosto la nuoua fu fatta palese, Ch'era già molti Pagani accostati Di li dal monte, appresso anche s'intese, Che tre fier Capitan ue gli han guidati. Galabì di Palinia, era'l primiero, L'altro Falacco di Sautia, altiero. Artibar'era il terzo, assai più forte, Signor d'una prouincia di Turchia; Detta Liconia, e furono anche porte Nouelle, quanta quella gente sia, Che seguon queste tre sì fiere scorte; Ifanti à piedi, e la Caualleria Furon trentatre mila, à la cui noua Il Cristian campo in gran tema si troua. Pur la presentia di quel fiero uolto, C'hauea Guerrino in simil casi, tosto Fe che questo timor non durò molto, E come quel, c'ha di seguir disposto, Il suo primier camino in se raccolto L'essercito ordinò, di poi che posto In ordinanza l'hebbe, e tutta notte Fello tosto marciar tra selue, e grotte, E del monte Ascaron si fe Signore, Pria, che'l nimico ui ponesse il piede, Ch'er' atto à sostener meglio il furore, Chi u'era sopra, che chi staua al piede Di quest'accorti i Turchi con romore, Corser'intorno, dou'il monte siede. Ma comanda Guerrin, ch'ogn'uno attenda Quiui à tenersi, e'l monte non si scenda. Poserui assedio i Turchi, con pensiero D'hauergli per la fame à salua mano. E da due bande guardaro il sentiero, Dou'era facil à calar sù'l piano. Guerrin uolse ueder l'ordine intero Di lor, per non far opra alcuna in uano. Tre dì si stè senza far guerr'alcuna, Per non tentar senz'ordin la fortuna. Mandò egli di notte in una ualle A piè del monte, oue due altri monti, Vicini à quel mostrauano le spalle, Da quai sorgeuan d'acqua certe fonti, Questi mandando l'acqua al basso calle, Vi fann'un fiumicello, oue congionti Eran gran sassi; oue l'acqua interrotta, In un gran fosso poi uenia ridotta. Ertissime sorgeuan le pendici, Poi d'ogni parte, à questo fosso detto Di ciascun monte, di quindi i nemici, Stauan senza timor d'alcun difetto. Però, che di quei monti le radici, Non potean lor ueder senza sospetto. Di rouinar abbasso nel pantano, Che'l pensier d'uscir fuor tutt'era uano, Di là non poteua esser circondato Guerrin, dunque da gente che ueduto Potesse esser quel monte, d'ogni lato, Ma come quel che s'era proueduto; Del meglio aiuto, in ogni forte stato Mille huomini la notte com'astuto, Nel uallon fe calare, e leuar uia, Quei sassi, che rompeuano la uia. Fece il passo spianare, e'l gran pantano Sgorgar per uno stretto, e cupo fosso Ch'ei fece fare, e facile nel piano Potea passar, con ordinato e grosso Squadron, però che por uoleua mano Contr'al nemico, e leuarsi da dosso; Il crudo assedio; onde segretamente, Mandò Girardò in quel uallon con gente. Diedegli quattromila Caualieri, E dissegli ch'in guerra non entrasse Fin che'l segno non ha, che da i primieri Assalti, di ueder non aspettasse; Andò Girardo à gli occulti sentieri. E Guerrin, perche'l tempo non passasse De l'altra gente, che fe rimanere Fece due ordinate, e belle schiere. La prima fur quattromila pedoni, Con duo mila Caualli accompagnata. Diegli per guida due franchi baroni, Et ordinò, che ne la ritornata Del chiaro Apollo in quelle regioni, Fesser dal monte subita calata, E principiasser subito la guerra, Col pagan campo, ch'intorno gli serra. E come con grand'impeto rimossi, Gli hauesser da i lor ordini, e spezzati, Da quella banda si fusser riscossi Nel poggio, donde prima eran calati. E gli poi col restante accompagnossi, Che fur sei mila fanti uantaggiati, E duo mila caualli, e innanzi giorno Col bere, e col mangiar si rinfrescorno. Com'il giorno fu chiaro, la primiera Schiera assaltò, con l'ordin sopradetto I Turchi, e fu l'andata tanto fiera, Ch'ogn'un de l'antiguardia fu costretto, Voltarsi in fuga, perch'alcun non s'era Affatica anc'accorto, ond'il difetto Venisse, che la uita gli era tolta, A suo mal grado, ò rotto post'in uolta. Perdero l'arme i primi, e le difese, E già due mila Pagani eran morti, Quando Falac, e Galabì l'intese, I quai, per uendicar de loro i torti; Con menti altiere, e di furore accese, Tra molti armati ualorosi, e forti Sopra i Cristian con furor si cacciaro, Onde i nostri gran danno u'acquistaro. Quando uide Guerrin sì gran furore Di Mort, addosso à le sue genti, corse Al piè del monte, di sua squadra fuore, Hauendo sol menati seco forse Cento caualli, con tanto ualore, Che con somma uirtute, aiuto porse A suoi, e Galabì restò ferito In testa, onde diuenne manco ardito. E perch'i Mori, ogn'or eran più molti, E u'abbondauan fuor d'ogni misura. Guerrin tutti i Cristiani hauea raccolti, Quelli ch'eran calati à la pianura. E perche del pericol fusser sciolti, Nel monte gli tirò, parte sicura, Ond'i Pagan seguendo, fatti forti, Trouaro il danno di lor tanti morti. E incrudeliti più di far uendetta, Serraro il monte d'ogn'intorno, accesi Di grand'ira, e furor; doue interdetta Trouaron la salita, e tutti presi I passi, ma Guerrin, che uegli alletta, A suoi fece mostrar segni palesi Di tema, e fegli in sù tirar alquanto, Sì, che i Pagan seguiron d'ogni canto. Falae, e Galabì, stato abbattuto, Di quà, di là, per far uendetta fiera; Spingeuano le genti, che'l temuto Atto del buon Guerrin, per cosa uera Hauean tra lor senza dubbio creduto, Allor Guerrino prepose una schiera, A guardia de l'insegne sopra'l monte, Et ei col resto uoltò lor la fronte. I Pagani scontrò, ch'à mezo il corso, Del monte, erano già gran parte ascesi. Non dubitando già, ch'altro soccorso Si fesse, che i Cristian fosser difesi. Nè Drago, nè Leon, nè rabbioso Orso, Fu uisto ancor ne i Libici paesi. Quanto Guerrin, con la sua gente mosso Mostrossi allor, correndo loro addosso. La piena, che di sopra soprabonda De la Cristiana gente, i Mori oppresse; Con tal disauantaggio, ch'ogni sponda Del monte, de le lor armi s'impresse. Traboccan sottosopra à guisa d'onda, Che sproueduti in mar colti gli hauesse. E rouinauan caualli, e pedoni, Per balze, e fossi, per grotte, e ualloni. Furon disordinati in un momento, Che loro stessi urtandosi, fuggiro Fin à l'insegne, con tanto spauento, Che per man de' Cristian molti periro, Ma Galabì à la uendetta intento, Vide Guerrin, mouendo gliocchi in giro, Che l'haueua uicino, e ch'uccideua Quanti con la sua spada ne giugneua. La scimitarra con due mani prese, E sopra il Cauelier con un fendente, Con quanta forza haueua si distese. Ma l'elmo, ou'egli fere, non consente Al taglio, e ben temprato si difese; Guerrin, ch'altroue hauea uolta la mente, Quasi stordì, ma tosto gli s'accosta, E col brando gli dà fiera risposta. Diuide gli la testa fin' al mento, Onde cascando rimane attaccato Con un piede à la staffa, e di spauento, C'hebbe il caual, di quel colpo spietato Fu Galabi già de la uita spento Per mezo del suo campo strascinato, E doue Artiban era à le bandiere Per guardia, il fece quel caual uedere. Quand'il feroce Artibano ueduto Hebbe così'l fratel, che in uita amaua In estremo furore era uenuto, E diè segno à le genti che guidaua Che desser dentro, à far il lor douuto, Con tutto'l campo, che lui seguitaua Visto tal segno Guerrino, à raccolta Chiamò sue genti, e indietro diede uolta. Et il poggio à i Cristian facea salire Mentr'il feroce Artibano feriua Facendo molti Cristian morire, E per seguitar gli altri, già saliua Il monte, ma Guerrino', che uenire Il uede, il passo d'accordo gli apriua Mostrando fuga, allor' il Campion degno Diede à Girardo nel uallone il segno. Fe sonar gli strumenti poi nel monte A la battaglia, e ritornare arditi I suoi Cristiani, e ne la prima fronte Vrtar de' Mori, ch'erano saliti, Eran le genti à piè molto più pronte Per l'aspro sito, e molto più spediti, Però fece Guerrino i pedon fieri Cristiani urtar ne' Pagan Caualieri. Sì, che ne traboccaua d'ogni parte Giù uers'il pian, senza ritegno alcuno Girardo, in questo, del uallon si parte, Ch'ancor di tal battaglia era digiuno Non pensauan' i Mori à quella parte, Che sarieno iti con più opportuno Prouedimento, e così sotto sopra Restò lor uana, à difendersi ogn'opra, Meglio ordin di difesa in lor non fassi, Che di mettersi in fuga, in quella uia, Doue trouauan più aperti i passi Guerrino à piè del monte tuttauia Ferendo, uia gli caccia, e tutto dassi A dimostrar quant'è sua gagliardia Tanto che già si faceua uedere In mezo, ou'eran le nemiche schiere. Veduto da Artibano, c'hauea Vcciso quel, che sù insegna portaua, Fattosi innanzi uendicar credea Il danno, che da quello deriuaua; Ma'l campo de' Cristian, sì l'offendeua Ch'in uan contr'à Guerrin s'affaticaua; Ma Guerrin uolse ch'ogn'un si scostasse, E che tal pugna à lui solo lassasse. Dieronsi molti colpi dispietati, E fe gran proua Artiban', ch'era fiero Il resto de' Pagan furon cacciati, Come piacque à i Cristian ben di leggiero E de la preda tornaron carcati; Ma Guerrin, poi che uide il Gaualiero Solo, e far contr'à se, fiera difesa D'estinguer tal uirtù, forte gli pesa, E cominciò, deh Caualier sourano Non uoler quì, con tal disauantaggio, Contra di me, più tener l'arme in mano; Ma se tu sei, com'io mi stimo, saggio Me ti farai amico, e te Cristiano, Che quand'ancor di me prendi uantaggio, Non potrai riparar tu solamente Contr'al ualor de la mia franca gente. Artibano rispose, è molto meglio Morir, se dì morir mi dà la sorte, Che tor di chi non conosco il conseglio; Ma se tu dì chi sei, Caualier forte, Allor, ch'innanzi haurò di te lo speglio Potrò saper di me, quanto gl'importe Il difendersi, ò rendersi prigione Altramente pur segua la tenzone. Guerrino gli rispose, io son colui, Che contra Astilador già fui uincente Quel Meschino son'io, che già di cui Non m'era noto ch'io fussi parente, Poi che uincente di Durazzo fui Lo sò; al cui parlar subitamente Artibano rispose, io son contento, Poi che sei quel, da te chiamarmi uento, E tolta la sua spada per la punta Vmilmente à Guerrino in man la porse, E feglisi prigione, e come giunta La gente fu, che con Guicciardo corse, Quiui da la uittoria, essendo assunta La sera già, oue prima ricorse Con la gente nel monte, iui alloggiare Fegli; e fece i feriti medicare. Poi mandolli à Durazzo, e in quattro giorni Gli arriuaro più gente e carriaggi Di uettouaglie, pien di quei contorni Con uino, e pane, salami, e formaggi, Poi ordino ch'una squadra ritorni Di cento Caualieri arditi e saggi I quai menino Artibano à Milone, Che fin che sia Cristian resti prigione, Mandogli à dir, che gli facesse onore Perch'era franco e degno conduttiere De Turchi, e in pregio più d'ogni Signore Che si potesse in quel campo uedere, E libero lo faccia, tutte l'hore, Che fatto sia Cristian, com'è douere. Et ordinò poi di condur la guerra Sì, che di Grecia prendesse ogni terra. Egli, e Girardo, la gente ordinaro, E da quel mont' Ascaronne partiti Verso la Macedonia caualcaro, Tra molte terre, & in diuersi siti, Dou'eran Turchi, assai luoghi pigliaro, E d'un gran fiume passarono i liti Detto Albariche; e mossisi in battaglia Ampifali assediarono, in Tessaglia. Color de la città, che'l nome serba, Pur di Tessaglia, ch'erano Cristiani Gli der fauore contr'à la superba Setta Pagana, ch'è ne i prossimani Liti de l'Arcipelago, ù' l'acerba Romania siede post'in luoghi piani, Di uettouaglie e gente anco in aiuto Ma quel di Maronal fu proueduto, Girardo per desir grande, c'hauea Di far che'l padre sappia il tutto appieno Col uoler di Guerrino una galea Fe tosto armare, essendo il ciel sereno, E due buoni orator subito crea I quai, de fatti lor ben dotti sieno, E de l'onor ch'in Grecia fatto gliera Per l'amistà, che u'hauea Guerrin uera. E c'ha deliberato e fatto conto, Pria che l'impresa s'abbandoni ancora Purgar tutto lo stretto d'Elesponto Da i Turchi, e non sol trarli d'indi fuora; Ma tanto seguitar con fiero affronto, Che d'hauerli cacciati ueggan' l'hora Fin di là dal Danubio, e seguitando Andargli ancor di Bossina cacciando. Peruenuta in Italia la nouella Di tal uittoria, e'l numer de la gente, Ch'era de Pagan morta, ne la bella Puglia, e Calabria, fatti in mantinente, Fur fuochi, e feste, appresso in tutta quella Parte, che à l'Italia e continente A Durazzo, non meno, che in Tessaglia Festa si fe, de la uinta battaglia. Seguitò poi Guerrin, Girardo, e'l degno Alessandro, il pensier che haueano fatto E scorsero di Tracia tutt'il Regno Nè città, nè castel'ui trouar'atto A tenersi, ond'il tutto uenne al segno Di darsi senza guerra ad ogni patto La città preser di Pollonia poi E Monsabiar, ch'in mar', ha i termin suoi. Di Bossina anco il Re fu tributario Ad Alessandro, ch'egli così uolse Senz'esserne richiesto, uolontario, Et Alessandro per questo, si stolse Di far più guerra, poscia che contrario Nessun gli fu, quiui partito tolse Con Guerrino, e Girardo, non passare Il Danubio, & in dietro ritornare. In Grecia & à Pollonia ritorno Haueuan' fatto, quand'assai celato Vn messo giunse quel medesmo giorno Ilqual, poi che Guerrino ha salutato Da parte d'Antinisca un breue adorno D'auisi, di Presepoli gli ha dato Ilqual poi che da quel fu uisto e letto Caldi e graui sospir gli uscir del petto, E Girardo pregò che si tornasse Verso la Macedonia, e d'indi gisse Dritt'à Durazzo, e che lui star lasciasse Con Alessandro, fin ch'egli fornisse Certe faccende, e'l padre salutasse; Ma'l buon Girardo prima ch'ei partisse Si dolse assai di cor, poi che douea Lassarlo, che seguir sempre il credea. Guerrin, di nuouo il padre suo Milone Molto raccomandogli, in fino à tanto Ch'ei ritornasse, con intentione D'andar in Persia, & osseruar già quanto Promise ad Antinisca, che ragione Hauea, di por l'altre cose da canto Fra pochi dì, da lei un'altro messo Gli giunse, e diegli un'altro breue appresso Disposto di partirsi, pose in mano La lettra ad Alessandro, che ne prese Gran dispiacere, e gli parue assai strano, Poi ch'egli da Guerrino à bocca intese Com'in un luogo posto sì lontano S'era fatto Signor di stran paese E quel che poi ogn'altra cosa eccede, Ch'ad Antinisca hauea data la sede, Dipoi ch'era così, far gli promesse Tutto lo sforzo in fargli compagnia Di gente, e d'arme, che far si potesse, Rise Guerrin di simil fantasia, E disse, car fratel, se si mettesse Tutt'Europa in punto per tal uia Fare, e gir'à Presepoli passando Per forza in uan s'anderebb'aggirando. Però che quattrocento miglia giace Di là dal fiume Tigris, che diuide La Persia, da l'Arabia uerace Termin fra terra, onde bisogna fide Scorte à passare, e non armata audace, E più di mille miglia, e d'ond'asside Damasco al Tigre, sì che fratel mio Rimanti disse, ch'andar sol uogl'io. Senza me, diss' Alessandro, non mai Debbi partire, ò sia con gente, ò senza, Ch'ei restasse Guerrin pregollo assai; Ma ueduto, che'l dir suo poco auanza, Com'à te piace al fin, disse, farai, E fer far certi uestiti à l'usanza Turchesca, e Soriana, e prestamente Ne la città fer un luogo tenente. Armaro una galea, e trauestiro Sol due scudieri; e per il mar maggiore A Trabifonda tirati ne giro; Quiui smontaro, e pria, ch'uscisser fuore De la galea, il padrone ammoniro Ch'ei non desse à nessun, di lor sentore Nè di quel porto parta, fin che sieno Tornati, ò che auiso gliene dieno. Trauestiti di panni caualcaro, Poi uerso Armenia, per liquai paesi Come se Pagan fussero, passaro Tanto che da lor fur saliti, e scesi I monti d'Amascina, & arriuaro Dentr'à la grand' Armenia, ma discesi A la città Selan, molti diserti Di là passaro, e per paesi incerti. Così passati per molte giornate Vna città trouar, Burgigar detta Quiui due guide da lor fur pigliate Quattro dì stati in questa terra eletta Da quella seguitar le lor pedate Verso Darmandia, dou'era interdetta Dal gran fiume Eufrate, la lor uia, Quello passaro, e giunsero in Soria. Doue trouar di Mofar la cittate, I monti poscia Afaui nominati Con d sagie satiche smisurate Vider Niniue, e gli ordin suoi mancati, Trouar il Tigris, nè com'Eufrate Furo da essi i suoi letti passati; Ma caminando sù per la sua riua Vn fiume ui passar, che gl'impediua. Passaro il fiume Alisei, così detto, Di là passati fu lor dat' auiso, Che mal sicuro, e pien d'ogni sospetto Era il paese, in più parti diuiso Da tristi passi, oue si daua effetto D'assassinar chi passa à l'improuiso, E si suol spesso ne'boschi uedere Brutti animali, e più nociue fiere. Raccomandarsi i Caualieri à Dio, E di uerso Camopoli la uia Fecero, e in un uallone oscuro e rio Pur lungo il Tigre, ou'una turba ria D'assassin, gli assaltaro con desio D'ucciderli, e robbarli in compagnia Essendo circa à uenti, i cui ladroni Tesi haueuan nel pian due padiglioni. Quando Guerrin gli uide, disse questi Ad Alessandro, debbono uolere Di nostre merci, senz'esser richiesti, E noi ne darem loro, à lor piacere, E gli elmi in testa s'assettaro presti; Ma per mostrar uerso lor non tenere Animo tristo, uolsero stimarli Et in lingua Turchesca salutarli. Diss'un di lor, da cauallo scendete O uoi sarete in questo luogo morti Disse Guerrin, per certo, torto hauete A cominciare à farci questi torti Vn'altro disse, e così smonterete, Se assaggiate di questi conforti, E menò à Guerrin con un bastone Grosso, e ferrato, senza discretione. Non aspettò'l secondo allor Guerrino Trasse la spada, & à quel che gli diede Fattosi con un passo più uicino Il capo gli diuise per mercede, Alessandro fermato sù'l camino, Che la zuffa appiccata esser già uede Tenendo egli una lancia sotto mano Cosi tirando passò un Pagano. Nel primo assalto i miseri scudieri Di lor furono uccisi, e le guid'anco Via si fuggiro, sì che i due guerrieri Dinanzi, e dietro, d'intorno, e per fianco Furo assaliti, ma lor sempre fieri D'uccidere, e ferir non uenner manco Fin che di uenti, diciotto moriro Due ne camparo, perche si fuggiro. Questi derono auiso à i padiglioni A due giganti, ch'eran guide loro Di simil fatto, armaronsi i felloni Abbandonando il robato tesoro, Et i molti legati lor prigioni; Ma Alessandro e Guerin, poi che foro Vittoriosi, stauan sempre attenti Se giugneua ad offendergli altre genti. Vider uenir questi giganti crudi Nè gli aspettar, ma lor sì fero innanzi Con lo scudo imbracciato, e i brandi ignudi Per dar, se potran, morte à quelli auanzi; Ma conuerrà che lor la tempia sudi Che questi altri huomini sõ, che quei di diãzi L'un'affrontò Guerrino, e innanzi mise Vn gran baston, che'l cauallo gli uccise. L'altro, menò com'una mazza ancora, Molto pesante ad Alessandro, e questo In terra il fe de l'arcion cader fuora, Che mai colpo sentì simil'à questo Il gigante, che'l uide in terra, allora Presel' di peso, che uuol far del resto, E nel portaua, ch'era tramortito; Ma da Guerrin fu subito impedito Guerrin, ch'era restato à piè nel piano Subito à l'altro si cacciò sì sotto Che in terra gli mandò la dritta mano Poscia ch'ogni uigor gli uide rotto Gli menò tosto un'altro sopramano, Che una coscia gli tagliò di botto, Et chiama l'altro, ch' Alessandro porta Ch'ei torni à uendicar sua gente morta. Vedendo quel Gigante, ch à gran passo Guerrin gli correa dietro, e lo chiamaua, Che'l pensaua già morto, il corpo lasso D'Alessandro, ch'addosso si portaua, Gittò in terra ne l'istesso passo Dou'egli uerso il padiglion n'andaua Credendol morto, e con Guerrin l'assalto Incominciò, col suo bastone in alto. Guerrin da parte il colpo schifa, e resta Appresso tanto al Gigante bestiale, Che nel chinarsi col bastone in testa Gli diede un colpo col brando mortale; Dal sonn'in questo Alessandro si desta, E con la spada quel Gigante assale, E tagliolli una gamba, onde di corto Gli fu forza restare in terra morto. Morti costor, piaceuolmente allora Guerrino ad Alessandro disse, mai Più noi si uuol ne la medesim'hora Ferire un'huom, che sol con me uedrai. Fe sua scusa Alessandro, e disse, io fuora Era di me, che l'alma abbandonai; Nè guardai più se eri à le man seco, Ch'io era per la stizza mezo cieco. Poi sotterraro i lor morti scudieri Con molto dispiacer de la lor morte, Et sopportò Guerrin mal uolentieri La morte del caual suo, ch'era forte, De' ladri morti ben u'eran destrieri, Prese il miglior, che pel camino il porte, E del suo morto il fornimento tolse De quai, quell'altro preso ornar ne uolse. N'andaro poscia à li due padiglioni, Doue trouaron ben da rinfrescarsi; E quiui sciolser uentidue prigioni Legati, i cui partiti erano scarsi; E gli lasciar ne le lor regioni Liberi andar, da quai fer insegnarsi Qual uia d'ir'à Presepol fia migliore, Quei gli risposer di questo tenore, Di quì ancor ci è quindici giornate, Per infine à Presepoli, e tra uia Di mala gente è più d'una cittate, Abitata da gente iniqua e ria; Ma quando quelle ancor sieno passate Da uoi, e che di questo nulla sia, Per quant'inteso habbiam, u'è intorno g&etilde;te Armata del Soldan, molto potente. Del Soldan de l'Amech, il figlio e quello, Che fa guerra à Presepoli, c'haueua Voluto dare il maritale anello Ad Antinisca, e già fatto il teneua; Il uolto de la quale, il Sol più bello Non uede dal principio, onde si leua, Fin doue egli si colca, e questa donna Signora è di Presepoli, e madonna. Or'ella, à tal richiesta hauea disdetto, E uisto che'l figliuol del Soldan s'era Sdegnato, ilqual si chiama Lionetto, Per rifrenare l'ira sua sì fiera, Gli fece dir, che non poteua effetto Dar'à sua uoglia, per fin che non era Passato il quarto mese, che per uoto Ella hauea tolto con pensier deuoto. Passati quattro mesi gli promesse Di far il suo uoler, ma che più presto Hauerne copia già mai non credesse; Già son tre mesi fuor di tutto questo Tempo, ch'ella di termin seco elesse. Ma'l furibondo giouin, che molesto Glie l'aspettar, il furor non ammorza; Tienla assediata, che la uuol per forza. E già giurato ha farla strascinare A coda di cauallo, e d'ogni intorno Farla dal campo suo uituperare, Con eterna ignominia, danno, e scorno; E fatto questo la città bruciare, Poi ch'ella di nò disse il primo giorno; Disse Guerrin, come sai queste cose? E colui, che parlò, così rispose. Dal perdon de l' Amech, ritornaua io Con quattr'altri compagni, due ne furo Morti da ladri in certo passo rio; Che non u'è sempre uiaggio sicuro; Moriron gli altri come piacque à Dio Di morte loro, or se mi parue duro Solo restar, pensi'l tua Signoria. E che più? posto in quella prigionia. Dunque di là ne uengo, e là passai E ti dico del campo, di ueduta L'altre cose, à udir mi ritrouai Quãta certezza io n'habbia or'hai saputa Ma perche trenta dì prigion restai Di quella turba, ch'ora hai abbattuta Non so quel che seguito sia di poi Or'à te sta, se pur andar ui uuoi. Domandogli Guerrin, di che paese Er'egli; e quel di Tospidi rispose; De la città Resina. or poi ch'intese Guerrin da quello, tutte queste cose Licentiò tutti, ognun gratie gli rese; Poi ch'egli in libertade lor gli pose Fu da lor poscia il uiaggio seguito Ch'io ui dirò, che'l Canto è quì finito.

IL FINE DEL CANTO
Trentesimo.

MAdre gradita, imperadrice eterna E del rettor del ciel di uota ancella Alma beata, à noi chiara lucerna, Che ci mostri la sù patria sì bella In fino al porto tu guida, e gouerna La mia debile, e stanca nauicella. Al senso non mirar, che pur m'intrica Tra l'otio, e uuol ch'io fugga la fatica. Che Guerrin, dissi nel canto passato Haueua licentiati i liberati Prigioni, & il uiaggio cominciato Seguì con Alessandro, e caualcati, Per molti dì haueuano passato Più d'un deSerto, e luoghi inabitati, E spesso in boschi restaro la notte Pericolosi; e tra foreste, e grotte, Vccisero in più uolte di nociui Animali, due Musti, & un Leone, E due serpenti d'ogni pietà priui Due di Giganti orribili persone Sì, ch'hebber buona sorte à passar uiui Il fiume Capos, ne la regione Di Camopoli, poi ne la cittate Così chiamata, doppo più giornate. Grande è questa cittate, e spatiosa Di Camopoli detta, ou'arriuaro, Che sopr'il Lago d' Egrois si posa, Quiui ad un'osteria si scaualcaro Doue fortuna fe, (che tiene ascosa L'Insidia) che quei due ui capitaro, Quei due campati di uenti ladroni Che restar del lor mal sol testimoni. Non sì tosto arriuar, che da lontano Guardaro i due guerrier, taciti, e cheti Conobber l'un e l'altro buon Cristiano Esser quei, che gli feron poco lieti De la terra al Signor, che tenea mano Con quei ladroni, e li tenea segreti N'andaro; e gli narraro il caso tutto Com'il suo stuol fu da costor distrutto, Baraniffe crudele è quel Signore Chiamato, ilqual poi che la cosa intese De' suoi mandati, ristrinse il Furore In se, ne lo mostrò di fuor palese Fece insegnarsi il loro albergatore, E cinquanta caualli seco prese Mostrando andar per la terra à piacere, Passò dinanzi à l'uscio de l'ostiere. E uisti i due Guerrier, quiui fermossi Doue l'ostier conoscendo chi gliera A la sua giunta subit'inchinossi Baraniffe, mostrando buona cera A Guerrin domandò d'ond'egli fossi, E similmente Alessandro chi era. Guerrin, uedendo un parlar tanto umano A quel Signor non si mostrò uillano. Di Sauria, terra d' Antiochia siamo Disser' celand'il uero i Caualieri, Così pel mondo le guerre cerchiamo, Perche non sappiam fare altri mestieri I uostri par, Baraniffe disse, amo, E tanto più ui ueggo uolentieri, Ch'in Sauria, onde uoi dite esser uenuti, Son stato, e grandi onor u'hò riceuuti. E per questo, uogl'io, soggiunse poi, Che quegli onor, ch'à quelli far non posso Che ne fecero à me, l'habbiate uoi, Nè uoglio esser da l'obligo rimosso Sì ch'alloggiar ne uerrete con noi Non sol per torui la spesa da dosso; Ma perche se di quà non ui leuassi Parria ch'à l'onor mio troppo mancassi. Guerrino, & Alessandro, assai negollo Ma uinti al fin da l'umane preghiere Chinaro riuerenti il capo, e'l collo; Mostrando d'accettare il suo uolere Tenendo, ch'affatica il chiaro Apollo Douesse iui chi glierano sapere Andarono al palazzo, e lor fu data Vna stanza da Re, molto pregiata. De l'uno, e l'altro Caualier soprano A Baraniffe la statura piacque Sì, che uenuto nel pensiero, umano Il primo suo uoler, seco si tacque Nè l'atto più seguir uolea uillano Di quegli accusator, nè lor compiacque; Ma poi che cenar seco quella sera Gli fu parlato di questa maniera. Parlaro i due ladroni in questa forma Com' Alessandro, e Guerrino à dormire Furono andati, à quel Signor, la torma C'hanno de'tuoi, costor fatti morire Richiede, e uuol, che come ciascun dorma Sien presi in letto con aspro martire E morti crudelmente, e poi tagliati In pezzi, & à le fiere à mangiar dati. Non, disse Baraniffe, che costoro Non han fallato, à far con quei difesa Se fatto l'han, fatt'han l'obligo loro, Se ben de la lor morte assai mi pesa. Quest'è segnal, che quei, poltroni foro E uoi con essi, e che non ual la spesa Che due si ualenti huomini sien morti Poi che di uenti stati son più forti. E tanto più, che questi Caualieri, Secondo che dimostran, Turchi sono. Questi son de' Cristian nemici fieri, Sì, che sol d' onorarli farà buono. Tacquero à tal risposta uolentieri Color, ma giunse tosto un'alto suono A Baraniffe, e si grand'auuertenza, Che gli fece mutar tosto sentenza. In corte eran due Turchi, che la sera Seruendo ne la cena, hauean più uolte Alessandro squadrato ne la cera, E tutte sue fattezze ben raccolte. Sì, che ben chiari ch' Alessandro egli era Senza far sopra ciò parole molte, Conchiuser, come al letto andati sieno, Fuor uomitare il concetto ueleno. Mentre che Baraniffe licentiati, Hauea quegli altri, questi Turchi poi Innanzi gli eran subito arriuati, E dissero, Signor ueniamo à uoi Per palesarui certi nuoui aguati, I quali, ad altri forse che à noi, Noti non son de la gente di corte, E non si stima, e par che molto importe. Sappi, che quei duo forestier nouelli; L'un di Costantinopoli è Signore. Alessandro chiamato, e tu à quelli Hai mostro far sì splendido fauore, L'altro già non sappiam come s'appelli, Ma quanto conosciamone à l'odore, E' quel Guerrin Cristiano, il Re de' forti Quel ch'ad Astiladoro i figli ha morti. E' certo quà, con tramutati arnesi Venuti son, per potere à lor modo Spiare l'esser di questi paesi, Per usar qualch'ingãno, e qualche frodo Che come i uostri fatti habbiano intesi Se posson, torneranno, il che non lodo, Per gente in dietro, per farsi padroni, Di tutte quante queste Regioni. Sapete ben, che tutta Grecia han presa, E morto Astiladoro, amico uostro, Con tutti i figli, ora s'à tanta offesa Non negherete il buon consiglio nostro, Or che nel letto son senza difesa, Quel tempo che Fortuna u'ha dimostro Pigliate, e poi ch'in casa gli tenete, A man salua, prigion ue gli farete. Baraniffe di tal noua contento, Ne le notturne tenebre, e segreto Di gente armata colse quattrocento, Et andonne con questi tutto lieto; Doue Guerrino, & Alessandro uento Era dal sonno, è giunto l'inquieto Stuol, che di torce, e fiaccole la scorta Seguiua, fin che giunsero à la porta. Con furibondo assalto, e spauentoso Diedero in quella, e la gettaro in terra. E rotto à due Cristiani il bel riposo, Tosto del letto saltarono in guerra, Ignudi, e con le spade, ma il rabbioso Stuolo in un tratto gli circonda, e serra. Alessandro fu preso in un momento, Ma Guerrin non restò sì tosto uento. Cinque n'uccise con la spada in mano, Prima ch'alcun gli hauesse mano addosso. Al fine ogni difesa opraua in uano, Ch'era lo stuol Pagano troppo grosso. Nè poteua nessun tener lontano, Ch'ogn'un gli s'era armato in contro mosso. Trouandosi egli ignudo, e già ferito Prigion con Alessandro pur n'è gito. Subito strettamente fur legati, Che così ancor molti n'hauean timore, E come ne la sala fur menati, Baraniffe ui giunse, à gran furore Dicendo, dunque m'hauete celati I nomi uostri, sott'altro colore? Chi siete dunque? detto te l'habbiamo, Disse Guerrino, e quei medesmi siamo. Pregauano i due ladri, inginocchioni A Baraniffe, che per far uendetta De gli stati da lor morti ladroni, Gli faccia, (com'al debito s'aspetta) Da essi giustitiar, nè più prigioni Gli lassi uiui, allor, non tanta fretta, Rispose Baraniffe, che ben presta Parrà lor, quando uenga simil festa. Et uoltosi à i prigion, disse, io ui dico, Che uoi non siete Turchi, ecco le proue Allor disser quei Turchi, anzi nemico, Che noi ben u'habbiam uisti ancor'altroue. Et uolto ad Alessandro, il più antico Disse, tu che confessi fedi noue. Sei Alessandro di Cristiano, e quel uero, Che di Costantinopoli ha l'Impero. Anzì, tu non l'hai più, che sei suggetto A Baraniffe, e quest'altro è Guerrino. Nessun di lor rispose à questo detto, Allor seguì l'uno e l'altro assassino. Ringratiato sia dunque Macometto, Che noi u'habbiamo nel nostro domino. Voi uccideste diciotto di noi, Et or noi due impiccheremo uoi. Eben giusto, Guerrin rispose allora, Che'l ladro impicchi'l giusto, ì questa parte Pessima, l'ingiustitia ci s'onora, Poi che d'assassinar si premia l'arte. Ma se ti par, ch'cgn'un di noi quì mora, O Baraniffe, al manco onora Marte. Fa che moviam con l'arme, e co i Destrieri, In mezo à dicce mila Caualieri. Non diede à ciò Baraniffe risposta, Ma fa cenno à color, che l'han legato, Che dentr'una prigion, la più riposta Sien posti, e che ciascun sia ben quardato. In questo, la gran turba gli s'accosta Intorno, e fu l'uno e l'altro menato, In una prigionia molto ben forte, Doue son posti condannati à morte. E perch'erano ignudi, certi stracci Lor furon dati per coprirsi intorno, Ma Baraniffe, prima che ne facci Maggiore stratio, con mortale scorno. Non resta che gli auisi non ispacci, A molti amici quel seguente giorno. Domandando consiglio, e lor parere S'uccidere gli debba, ò ritenere. Per tutta Persia, e per tutta Soria, Per Media, per Arabia, à quelli tutti; Quasi c'hanno per Asia Signoria. Per dimostrar de l'amicitia i frutti, Scrisse, che non sapeua per qual uia Gli haueua il lor Macone in man condutti I due Cristiani, e chi risposta daua, Che tosto gli uccidesse, l'esortaua. E molti fur, che per più lor contento, Del buon Guerrin gli domandaro in dono, O testa, ò braccia, ò d'arme guarnimento, Tosto ch'auien, che fuor di uita sono. Di nouo i due ladron, con pregamento Mostraro à Baraniffe, ch'era buono Ch'à lor in mano à squartargli li desse, Il che uolentieri egli lor concesse. Quì conuien ch'ad Artibano torniamo, Che fu quel gran Signor, quel condottiere De i Turchi, che già detto à dietro habbiamo Di cui Guerrino atterrò le bandiere, Sott'al monte Astaron, e poi mostramo, Che d'accordo gli piacque rimanere, Prigione di Guerrin, che poi mandollo Al uecchio padre, che molto onorollo. Com'auisò Guerrin, fece Milone Ad Artibano onore, anzi, più molto. Nè mai trattare il uolse da prigione; Ma'l fece à suo piacer libero e sciolto. Tal cortesia uedendo quel Barone, Di farsi al fin Cristian s'era risolto. Piacque à Milon, ch'al Papa à Roma andasse E per sue sante man si battezasse. Cento à caual dignissimi Cristiani, Gli haueua dati, per più segno aperto; Ch'era già gran Signore tra i Pagani, E per ualore huomo di molto merto. E tenne gli in tesor larghe le mani, Oltr'à quel, che di più gli haueua offerto. Fedel franco a battesmo fu chiamato, Quand'egli fu dal Papa battezato. Poscia, à Milone à Tarento tornossi, E d'indi in Grecia uolea far passata, In fauor di Guerrin, ma informossi, Come da quello, era già acquistata, Et ad udir le lettere trouossi, De la gran rotta, ch'egli haueua data Al Re Astiladoro, e che Girardo Conduceua in Italia il suo stendardo. Quiui aspettò, fin che giunse à Taranto, Il qual; poi ch'à Milon la noua diede, Ch'ei non tornaua, diè principio al pianto. Così Fenisia, poi ch'ella nol uede Tornar, che desiato l'hauea tanto; Giurò Artiban, per la noua fede, Che pietà gliene uenne, non restarsi Fin che con esso possa accompagnarsi. Nè lo lasciar mai più, fin che condotto Ne la presentia loro ei non l'hauesse. Se pria da morte il disegro interrotto, Non gli uenisse, e uedendo le spesse Lagrime loro, à lagrimar ridotto S'era ancor egli, e di nouo promesse Sù la man dritta di Milone, effetto Dar'à quel tutto, c'ha promesso, e detto, Mostrando, che l'onor, c'ha riceuuto Meritasse, che quando non lo troui, Infin'à morte, sia da lui tenuto Per suo Signor, nè mai da quel si moui In fin che à casa non era uenuto, E perche quel conforto più lor gioui; Tost'una Galea tolse, e ui si pose, Ch'ire à Costantinopol si dispose. Giunto à Costantinopoli, l'onore Fatto gli fu, che si sarebbe fatto Ad Alessandro, lor proprio Signore, Di poi che sepper, con che grato patto Seruendo à Gesù Cristo Saluatore, S'era partito da Milone in fatto. Quì seppe Fedelfranco, qual camino Con Alessandro hauea fatto Guerrino. Quindi dal Vice Re fece partita, Et in Galea entrato, diede uolta In dietro, oue Turchia è circuita Verso Rodi, poi giunse à uela sciolta A Baruti, là doue hauendo unita La Galea, smontouui, e poi con molta Prestezza, a' caual posto, in compagnia Di due famigli, seguitò la uia. De la Galea al padron, prima disse Hauendolo accordato, che da Rodi In termine d'un'anno, non partisse Per ben, ch'egli pensaua, in tutti i modi. Che tre mesi di tempo non ui gisse, Pur che fortuna il desio non gli frodi. Ch'ei tornerebbe, e tal'ordin lassando, Andò fin à Damasco caualcando. Che la lingua, e la strada ben sapea, Che tre uolte u'è stato già con questa. Nè che Cristiano fusse, si sapea Ch' à pochi era la cosa manifesta, Poi che Damasco già passato hauea, In Soria giunse, e di quindi poi pesta Le montagne, che Dascon, son chiamate, Di Papolis trouò poi la Cittate. E costeggiando il Tigre, per due giorni Passò di quel due rami, onde nel Regno Di Topia arriuò, poi ne' con orni Del monte Ture, e come fe disegno. Passò Risino, con pochi soggiorni, Che è Città, uoltando il Campion degno Vers'Oriente, à Nebulis s'accosta, Ch'è in Mesopotamia Città posta. Passò quiui del Tigre l'altro ramo, Et al fiume arriuò, doue di pochi Dì, già Guerrino, come detto habbiamo Passò con Alessandro, e uide i lochi Doue la guerra fu, che dimostramo Co i uenti ladri, e con istrani giochi, I corpi uedea sparsi, e le ferite Vide, che fer le due persone ardite. Ben giudicò, che guerra stata fosse Aspra, e mortal; e per sapern'il uero, A domandarne alcun uillan si mosse; Ma nessun seppe narrargli l'intero. Bastogli sol ueder di sangue rosse Più parti, e l'uno, e l'altro busto fiero Di quei Giganti, e molt'aste spezzate, Con sopraueste, & armi fracassate. Di quiui à la Citt à prese la uia Di Camopoli, e prima che sia gionto, Prese per quel uiaggio compagnia Di messaggeri, i quai gli deron conto Come Guerrino imprigionato sia, Con Alessandro, e com'erano in ponto Le for che già, per far la gran uendetta, Che con sommo desir, tutt'Asia aspetta. E noi (dissero i messi) ne ueniamo D'Asia, c'habbiam portata la nouella, A tutti quei Signori, onde speriamo, Che i traditor sien morti proprio in quella Hora, che l'ambasciata riportiamo A Baraniffe, che così s'appella. Il Signor nostro, e saper'il douete Perche de' nostri, e Turco anche uoi siete. Artibano sentendo le parole, Di quei messaggi, n'hebbe gran martire, E se non che uedere il fin ne uuole; Harebbe fatti quei messi morire. Pur fuor mostra allegrezza, e poi si duole Di dentro, e si risolue di patire. Facendo seco di pensieri strani, Come liberar possa i due Cristiani. In Camopoli entrato, fu ueduto Da Baraniffe molto uolentieri. Imperò che per Turco è conosciuto, Senza segni mostrar di se più ueri. Artibano gli disse, io son uenuto, Sapendo che i più franchi Caualieri Prigion tenete, c'habbiano i Cristiani, Ma ben più traditori, e più uillani. Nè senza cagion giusta mi son messo, Per ueder la lor morte, à caualcare Sì lunga strada, e seguitò appresso, Come prigione gli conuenne andare Per opra di Guerrin, poi che con esso Fu uano in Macedonia il contrastare. E come fu in Italia mandato Da lui prigione, al padre suo legato. E come per uirtù di Macometto S'era fuggito, e per questa cagione, Sentendo (io disse) c'hauete à lo stretto, Guerrino, & Alessandro in la prigione, I quali ucciser, (ch'io non ue l'ho detto) Due miei fratelli, ogn'un degno Barone. Falach, e Galabì furon costoro, Veder uò la uendetta mia, e loro. Per questo Baraniffe lo raccolse Con lieta fronte, e per più fargli onore; Ch'egli seco alloggiar si stesse uolse, Però che'l conosceua gran Signore. Nè sì tosto alloggiar seco lo tolse, Che per più suo contento, e suo fauore, Le forche fe drizzar su'l Lago Agone, Per impiccar l'uno e l'altro Campione. Ma soprastette alquanti dì di poi, Aspettando certi altri suoi mandati, Indirizzati ad altri amici suoi, E già quindici giorni eran passati, Ch'Artiban u'era, e mostra che gli annoi Ch'Alessandro, e Guerrin, tanto campati Sieno, e nel suo segreto non uien meno, Il pensar, com'al fin campati sieno. A Baraniffe da più Turchi in questo Tempo fu detto, che'l tutt'era uero Et à tutta Turchia è manifesto, Come da Alessandro, e Guerrin fiero, Con impeto crudele, e disonesto Fur morti i frati di quel Caualiero, Artibano chiamato, & ei fu preso Prigione, e da i Cristiani molt'offeso. E che de la persona era ualente Sì, che l'amaua Baraniffe assai, Come se stato gli fusse parente, Nè senz'esso mangiaua, ò dormia mai, E per mostrarsi Artibano feruente, Signor, diceua, quando mi darai Tant'allegrezza, che si squartin quelli Prigioni, che m'uccisero i fratelli? Benignamente, fra tre dì, rispose Il crudo Baraniffe, per ch'aspetto Di Caldea ambasciate, acciò le cose Habbian co i nostri amici buono effetto Le mie uoglie parran presuntuose Artiban replicò, ma son costretto A dimandarti questa gratia almeno, Che i due prigioni à te menati sieno. Acciò, che in tua presentia io sfoghi alquãto L'odio, ch'io porto loro, che cagione Son, che per loro io staro sempre in pianto Pe i morti miei fratelli, e che prigione Di lor son stato, ma per torgli il uanto Lassami lor narrar la passione, Che fra sì poco tempo lor s'aspetta; Per mostrar ch'io uedrò la mia uendetta. Compiacque Baraniffe, à la sua uoglia, Perche desia in parte di sentire, Che scusa seco l'uno e l'altro toglia; Così dinanzi segli fe uenire. E Fedel franco, che tentargli ha uoglia, Sciolse la lingua, e cominciò à dire, Gliè pur uenuto il tempo, ò rei Cristiani, Che noi u'habbiamo hauuti ne le mani. Poi mirando Guerrino in faccia, disse Macometto in eterno sia laudato. Conoscimi tu perfido? e gli fisse Le luci addosso, con uiso crucciato; Guerrin, come se libero ne gisse, Con uolto altier, nè punto spauentato, Rispose, io ti conosco, or t'hauess'io Conosciuto quand'eri in poter mio. Ch'or simili parole non diresti; Ma son legato in man di gent'armata, Per uia di tradimenti manifesti; Che s'una man mi fusse pur lassata, Quanti quì sono, e tu, ti pentiresti D un'opra così brutta, e scelerata; Allora, il braccio Artibano distese, Et il naso à Guerrin con la man prese. E tirandolo forte, disse, crede Senon, ch'al mio Signor quì ho rispetto; Io te lo spiccherei senza mercede; Ma che'l boia l'officio faccia aspetto, E nel benigno Baraniffe ho fede, Che'l cor cauar mi ti lassi del petto, Quando fia tempo, che per uendicare Falach, e Galabi tel uo mangiare. E perche me al tuo padre mandasti Milon, sien maledetti i due Albani, Che lasciaron che piccolo campasti, E che tuo padre hauendo ne le mani E la tua madre, lassar che rimasti Furo in prigion sangui tanto uillani Vcciderli potendo, ma saluati Vi furo per purgar nostri peccati, Dal dì, ch'io fui menato là, mi messe In prigione à lo stretto, e mi uolea Mandare al Papa uostro, ma permesse Il contrario Macone, al qual facea Per mio scampo oration pietose, e spesse, Ond'egli, per mostrarmi, che potea Aiutarmi, e cauarmi di martire Mostrommi il modo da poterne uscire. Com'io fui liberato, hebbi nouella Come quì erauate presi al passo; Ond'io, hauendo noua tanto bella Son uenuto à ueder più che di passo Squartarui in pezzi, acciò ch'io possa ĩ quella Parte, là doue sono in freddo sasso, I miei fratelli, portar per memoria Qualche tuo m&etilde;bro, e farne eterna istoria. Lagrimaua Alessandro à simil sorte Vedendosi condotto, e per contento Di sì ria gente, à far nefanda morte; Il che daua à Guerrin maggior tormento: Che contr'al suo uoler, uolse sua Corte Lassar, per seguitarlo, che spauento Non ha di se, che uuol quel ch'à Dio piace, Pur ch'à l'anima impetri eterna pace. In prigion fur rimessi, onde la fede A Baraniffe in uer d'Artiban crebbe, E uolentieri appresso se lo uede, E mentre che quel termin passar debbe, Ch'ad uccidere i due Cristiani diede; Pargli ch'ingiuria grande gli farebbe, Se nol tenesse nel suo proprio letto, A dormir seco, senz'alcun sospetto. E per far'opre'con esso più grate D'Alessandro in quel tempo, e di Guerrino Le spade, e l'arme gli haueua mostrate, Che non ha tempra acciar, che sia più fino, Che ne l'istessa camera attaccate Se le teneua, per darne in domino Parte, à qualche signor suo car'amico, Ch'ogn'un de due Cristiani han per nemico. Venuto il termin di due dì passati, Ch'Alessandro, e Guerrino, con iscorno L'altro poi douean'esser giustitiati; La sera, che uenir douea quel giorno, Faceua Artiban segni smisurati, D'estremo gaudio, caminando intorno A proueder, che quell'empie brigate, Faccian sì, che le forche sian fidate. Poi pregò Baraniffe, che la notte In guardia gli lassasse i due Cristiani; Acciò l'imprese non sieno interrotte Da qualche inganno, che da altre mani Gli par sempre ueder, che sien corrotte Le guardie da promesse, ò pensier uani, Sorrise Baraniffe, e gli concesse Che le chiaui ei, de la prigion tenesse. Le chiaui accettò egli, allegramente E rinforzò le guardie à la prigione, Per quella notte, e molt'armata gente Vi pose, e quando la sospittione Mostrò lontana alquanto, di sua gente A Baraniffe torna, oue si pone A dormir seco, come soleu'ire, Et i serui à posarsi anche fe gire. Ma il buon Guerrino, et Alessandro in tanto, Ch'aspettauan la fin de la lor uita. Cominciaro tra lor dirotto pianto, Che'l mal de l'uno, à pianger l'altro inuita. E con deuoto core, umil e santo, Per far come Cristian la lor partita, L'un l'altro, le lor colpe confessaro, E poi con terra si communicaro. Volt'Alessandro à Guerrino, dicea, Che nuoua sarà questa al buon Milone? Trista, Guerrin piangendo rispondea, Pur io'l lasso Signor, fuor di prigione. Ma che dirà tua gente, che credea Ch'io ti guidassi senza lesione. Chi renderà sicura tua Cittate Da le Pagane genti dispietate? Ma il ualoroso Artiban, ch'era attento Con ogni ingegno, ben che fusse solo A liberar da quel mortal tormento, I due Cristian, da sì nemico stuolo Aiutar, non tenendo tradimento; Due, che i miglior da l'un à l'altro polo Non uede il Cielo, e tanto più, ch'ei crede In Cristo, obligato era à la sua fede. Stè quella notte sempre uigilante, Et al mezo di quella, hauendo uisto Inuolto Baraniffe ne l'errante Sonno, chiamando à quell'impresa Cristo. La spada tolse, già prouista innante, E taglio'l capo à l'empio Signor tristo. E poi ch'à morte Baraniffe mise Due camerieri, suoi segreti, uccise. Di due suoi serui poi molto fedeli, Che sapeuano il tutto, ad un commesse, Acciò che'l fatto fuor non si riueli, Ch'à guardia de la camera si stesse. Et egli andò tra quei guardian crudeli Ch'aspettauan, che'l giorno si facesse, Per condur presto i due prigioni à morte, E di quelle prigioni aprì le porte. E comandò, che stretti, e ben legati, A Baraniffe fuor d'ogni mercede, I due Cristiani fussero menati; Et à l'altro suo seruo uffitio diede, Che tosto i Cauai fussero sellati, Là onde ogni Pagano afferma, e crede, Che Baraniffe, uoglia innanzi giorno, A i due prigioni far uergogna, e scorno. Come de la prigion cauati furo Egli, con un baston, gli minacciaua; E dauagli anche qualche colpo duro, Guerrino, & Alessandro il comportaua In pace, che nel tempo poi futuro Premio sù in Ciel da Cristo n'aspettaua; A la camera giunti, oue dormiua Già Baraniffe, Artiban dentro arriua. E mandò dentro i due legati, e disse A le guardie, che fino à la mattina Ciascuno in pace à dormir se ne gisse; Che Baraniffe la notte destina Martoriarli, ma ch'ogn'un uenisse Nel dì, che dopo molta disciplina Vuol giustitiarli, e fusse ogn'uno in punto. Ma io son già nel fin del Canto giunto.

IL FINE DEL CANTO
TRENTES IMOPRIMO.

L'esserti amico, il riuerirti ogn'hora Quanto gioui à chi t'ama, come sempre Hai mostro, Gesù nostro mostral'ora; Fa che'l mio poco ingegno non si stempre. Che col tuo nome, quanto può lauora, Ben che degno non sia di miglior tempre. Acciò ch'à chi m'ascolta, sia capace Il tutto dichiarar, con la tua pace. Io detto hauea, come menati furo I due Cristiani, dal buon Fidel franco Di Baraniffe in camera al sicuro, Ben che tutti credeano non di manco Di quella corte, che martirio duro Gli desse Baraniffe, acciò che stanco, E non satio, à suo modo gli stratiasse; Non sapendo che morto ei già restasse. Hauendo in fin al dì, già licentiate Artibano le guardie, che pensaro, Che dentro fusser altre genti armate Da Baraniffe, nè più ui pensaro; Come fur dentro pien d'alta pietate Artiban con parlar basso, ma chiaro Posto il braccio à Guerrin nel collo, Dio Dicendo, ti dia pace, Signor mio. Deh quant'haurebbe il Padre tuo dolore S'ei sapesse lo stato, in che sei posto? Ma perch'egli m'ha fatto molto onore Alquala era il mio merto assai discosto. Nè potrò meritarlo, quanto il core Mio ui sarebbe ogn'hor pronto e disposto; Ma pur questo sol merto haurà per ora Ch'io ti trarrò d'ogni pericol fuora. Però ch'io gli promisi di trouartì Di tua assentia stando mal contento, Et infino à Taranto accompagnarti; Ma non pensaua à questo mancamento. Or potrai di tal dauno ristorarti. E tagliolli i legami in un momento. Sciogliendo anco Alessando, e per conforto Maggior, mostrogli Baraniffe morto. Mostrogli i camerieri ancor'uccisi, E menogli oue à guisa di Trofei Gli arnesi loro in più parti diuisi Eran, per farne dono à signor rei; Alessandro, e Guerrin, uoltando i uisi A l'arme lor, di cinque luoghi, ò sei, Le spiccar, di stupor ripieni al tutto Ch'Artiban' habbia fatto sì buon frutto. Or, mentre ch'ad armarsi sono intenti, Aiutando l'un l'altro, lieti e presti; Pel palazzo eran molti parlamenti Tra quelli, che ancor u'erano desti; Chi dicea, prima che di uita spenti I due Cristiani sien, tanto molesti; Gli uorrà Baraniffe essaminare Se tradimento alcun uoleuan fare. Altri, e i uorrà ch' Artibano s'elegga Qualche lor membro, per più suo cont&etilde;to; Et altri, ei farà sì, ch'egli possegga D'Alessandro l'Imperio, e in pagamento Lui sol saluare; e nessun' è, che uegga O' pensi quel, che ui si facea drento. E come i due guerrieri in punto furo D'arme, s'usciro à luogo più sicuro. Gli scudieri d'Artibano fidati Al suo Signor, com'egli lor commesse Ne la stalla fra tanto erano andati Non sen d'alcun, che mente ui ponesse; E i caualli migliori hauean sellati Acciò la fida compagnia potesse Tosto à caual salire, e far la strada Che far miglior per suo scãpo gli aggrada. De la camera tolle Artiban quelle Chiaui, che chiuggon, & apron la porta Che ua uerso Presopol, perche ad elle Hauea più uolte la mente risorta. Per non cangiarle, allor che l'empie e felle Guenti, ogni sera con armata scorta A Baraniffe l'hauean riportate Tosto c'haueuan le porte serrate. Perche sospetto di guerra non u'era Non ui si facean guardie, onde montati Sopra i caualli, la fideltà uera Dè tre gagliardi, e franchi battezati N'andar con gli scudier di tal maniera Che sicuri passar gli addormentati Alloggiamenti, e la porta passaro E uerso Rampa il camino pigliaro. Con poca tema, poi ch'armati sono Ne uanno, che nessun gli sopragionga; Ma uenut'il dì presso, e'l tempo buono Parendo quella notte stata longa Ne la città; cominciarono il suono Di corni, e tamburini, acciò si ponga L'empia giustitia in ordine, aspettando Che Baraniffe i prigion lor dia in bando. Gia col crin biondo, la bianca Aurora Appar da l'Ocean; ecco c'hauea Al nuouo corso Apol guidato fuora Ecco che l'Emispero risplendea E per tutto ogni piaggia s'incolora Quando la sozza turba si dolea Che Baraniffe troppo s'allontani A dare i due Cristian ne le lor mani. Ma poi c'hann' aspettato un pezzo in uano E che non fa Baraniffe alcun segno Gli sperati prigion dar loro in mano Cominciaro à cangiar nuouo disegno; E mandar certi ad ascoltar pian, piano, (Cõ gran destrezza, & aueduto ingegno;) Di Baraniffe à la camera, & iui Ascoltasser se fosser morti, ò uiui. E perch'era già terza, e non sentendo Voce d'alcuno, ò mossa di persone Deliberaro al fine, giunti essendo A quella nuoua già piu d'un Barone, Batter la porta, nè risposta hauendo L'apriro, e pieni di confusione Videro il lor Signore à morte messo, Con li due camerieri ancora appresso. E com'il fatto fu, tosto stimando Mettendo in ordin molti Caualieri, Se n'andarono i nostri seguitando Per li diritti lor presi sentieri, Perche la porta uennero trouando A perta d'onde usciro; e presti e fieri Più di mille à caual di fuore usciro, E le fatte pedate lor seguiro. I tre Cristiani, ch'eran bene armati, Et haueuan caualli al tutto eletti Senz'altra tema, s'erano posati Ad una uilla, e trattisi gli elmetti, Perche la notte in piè sempr'eran stati Senza dormir, senz'ingombrare i letti. Onde mangiaro de' cibi migliori, C'hauer potean da uillani, e Pastori. Che fu cagion di fargli trattenere, Per quel uiaggio, e'l giorn'un'altra uolta Ad un'ostier si fermarono à bere, Per rinfrescar la debolezza molta Acquistata in prigione, e'l dispiacere, Mentr'i lor serui faceuanla scolta I quai, poi ch'à cauallo i tre Cristiani Furo, scopriro i nemici lontani. D'Artiban'un famiglio, à Guerrin corse, E gli fece saper, come ueduti E scoperti i nemici hà senza forse. Or non ci corran loro sproueduti Rispose, e in quella parte gli occhi torse, E per meglio risponder à i saluti Tutti e tre gli elmi s'allacciaron tosto, Che d'aspettarli al passo hauean disposto. Artibano commesse à i suoi famigli, Ch'eran ben'à cauallo, che seguendo Il uiaggio, nessun la zuffa pigli, Perche morti non sieno, i quai uolendo Vbidirlo, pigliaro i suoi consigli, Poi tutti tre le lance prese hauendo Con intrepido core, arditi, e fieri; Vrtar ne i primi giunti Caualieri. Erasi fatto innanzi un fier Barone, C'haueua seco cento Caualieri Detto Malino, ilqual fuor de l'arcione Alessandro abbatte, che da i primieri, Che giunti fur, senz'intermissione Fu circondato; ma furo i pensieri Lor uani, che credendolo pigliare Prigion, non si poterono accostare. Però, che con lo scudo, e con la spada Drizzato in piè, fece franca difesa Fidel franco, e Guerrino in tanto à bada Non si stauan, ma fitti ne l'impresa Si faceuan tener larga la strada Artiban con Malino haueua presa La zuffa, acciò d'Alessandro il cadere Sia uendicato, e con due mani il fere. Ma mentre ch'egli à Malino attendea Gli fu da uno, il caual sotto ucciso Di color che Malin condorti hauea Alqual ben forse riuscia l'auiso Di farselo prigion, che già l'hauea Colui urtato tosto à l'improuiso Col suo destriere, & in terra abbattuto Quando fu il tutto da Guerrin ueduto. Era corso Guerrin, che dubitaua Di lor, pel gran romor c hauea sentito, Però ch'in altra parte adoperaua La sua fierezza il Caualiero ardito Visto'l pericol, che già soprastaua, Menò sopr'à Malino, hauendo unito L'un braccio, e l'altro, ad un colpo di spada Sì, che conuien, che'l Pagan morto cada. Fessegli l'elmo, e'l capo, e'l collo, e'l petto Ond' Artiban salì nel suo cauallo, Che del suo morto non fu men perfetto Sì, che Guerrino il campò senza fallo Tutti e due corser poi dou'era stretto Da nemici Alessandro, e di quel ballo Il trasser tosto, & à cauallo il fero Dipoi salire, e ne' nemici diero. Dieron con tant'ardire, insieme drento A i lor nemici, e n'uccideuan tanti, Che pe i gran colpi, presero spauento, E si fuggiuan già da tutti i canti; E tanto più, che colui era spento, Che gli guidaua, e così feron quanti Venian di mano in mano, essendo porto Lor che Malin d'Arabia era già morto. Nè si ritenne alcun, c'hauea già uisto I colpì orrendi lor, che non fuggisse In fin dentro in Camopoli, ch'acquisto Non ueggon poter far, che ben uenisse; I tre buon Caualier, rendendo à Cristo Debite gratie, poi ch'ognun si misse In fuga, ripigliaron lance noue, Per operarle, bisognando altroue. Rimbracciaro gli scudi, e rassettati Sopr'i caualli, il uiaggio seguiro In uerso Rampa, poi che liberati S'eran dal periglioso, e rio martiro; Là doue giunti in fra due dì passati, D'ogni pericol sicuri ne giro; Che Rampa à Baraniffe era nemica, Per odio uecchio, di contesa antica. L'altro dì, uerso Tinta andaro, e quella Passata, à la città giunser d'Arbana; Poi gir uerso Presepoli, ù' la bella Antinisca, da gente Persiana Era assediata, e seppero nouella, Che'l figlio del Soldan, con mente strana Chiamato Lionetto, far la uuole Misera più, che Donna sotto il Sole. E come già fu fatto à Guerrin noto, Così di nouo gli fu riferito; Che questo Lionetto ha fatto uoto Farla condure à pessimo partito; Poi che lui già ne l'amor suo deuoto, Ella non accettò per suo marito; Però che termin chiese quattro mesi, E quei passati, n'ha due altri presi. Però la uuol Lionetto per forza, Che schernito si troua, e uilipeso Sapendo ben'il fatto quant'importa Del termine che seco haueua preso. Per questo, il buon Guerrin si riconforta, Poi ch'ella gli ha cõ suo gran danno atteso Più là che non promise, che passato Il term'era da loro ordinato. Ad Alessandro disse, e Fedel franco A noi conuiene il passo seguir tosto, Per due cagioni, e la prim'è, ch'al fianco Di Camopoli haurem qualch'un disposto A palesar chi siam; l'altr'è non manco Pericolosa, e quest'è, che composto Non sia l'accordo, per miglior rispetto Tra Antinisca, e'l giouin Lionetto. Quel di queste due cose effetto hauesse Dubbio non ci è, che gran fatica hauremo Di passar salui tra tante, e sì spesse Nimicitie, ch'andando troueremo; Però la fida compagnia si elesse A caualcar, e giunti al fin'estremo Quel dì ad un castello si fermaro Spiro chiamato, per bellezza raro. Vna giornata à Presepoli presso Era questo castello, e quella sera Sepper minutamente, come messo Co i Persiani Lionetto s'era A Presepoli, e seppe come appresso, Per la memoria, che di Guerrin'era, Detto Meschin, Lionetto Meschino Chiamauan Lionetto in quel confino. Erasi attribuito tal cognome Quando Guerrino co suoi Persiani Combattend' in fauor de la ragione Ammazzò tanti Turchi, e de le mani, Presopoli gli tolse; onde si pone L'onor' à se, acciò che molti insani Pensin che quel sia stato il Meschin uero Che di Presepol racquistò l'impero. Rise Guerrin di questo, e si fe dire Che numero di gente Persiana Sieno in campagna, c'han preso à seguire Con Lionetto una guerra sì strana, Fugli risposto, che poco fallire Posson di centomila, ben che strana Fusse à Guerrin tal nuoua, dimostrossi Lontan da quel, che dentro immaginossi. Ora Guerrino, Fidelfranco, e'l degno Alessandro, ch'udiro simil nuoua Verso del campo andar feron disegno Per far d'entrare in Presepoli proua, Lassaro Spiro, e senz'altro ritegno Entrantra i Persiani, oue si troua Più grosso il campo, e per gli ordini dati Da Lionetto, fur'à lui menati. Di commune consenso parue à tutti Che prima Fidelfranco rispondesse Mostrandosi egli primo, e che condutti Al suo seruigio tutti gli altri hauesse, E ne gesti Guerrino, e modi tutti Mostrò, che poco de l'arme sapesse, E d'esser molto afflitto per fatica, Acciò nol prezzi la gente nemica. Nel real padiglion di Lionetto Entraro, oue i primi eran, suoi seguaci; Dico di quei Signor, di c'ho già detto, Al cui entrar uoltaro i uisi audaci. Di seta Lionetto, sopr'un letto Staua ridendo al dir di due mordaci, Buffoni suoi, & à uedere i giuochi, Che quà e là eran' in molti lochi. A due, à tre, à quattro i Signor sono, Sparsi sopr' i tappeti, à sua presenza E con giuochi diuersi, e uario suono Di uoci, stan, fuor d'ogni continenza Con gambe alzate, non dando perdono A lor grandezza, ò reale eccellenza, Ma mostran quelle parti, che dourieno Non porci essendo, esser uedute meno. Entrando Artiban, disse così armato A Lionetto, saluiti Macone Guerrino hauendo, & Alessandro à lato I quali, si fingean grosse persone, E già fu Lionetto consigliato, Che uedendo à costoro armi sì buone Gliele faccia spogliar, simil disegno Feron quei Rè, ch'eran di più d'un regno. Non diede orecchie Lionetto à questo, Ma domandò Artiban, d'onde sia Quiui uenuto? & ei rispose presto Ch'egli era Armeno, e uenia di Turchia, Et per farti il mio stato manifesto Son auanzato de la rottaria, C'hann' ad Astiladoro i Cristian data Là doue ho persa molta gente armata. Disse d'esser Armeno, che gli Armeni Son salui in ogni parte di Leuante Non di manco, i signor d'inuidia pieni Per quell'armi faceuano sembiante Maligno, (ch'eran pien di uitij osceni) A Lionetto, replicando innante; Che gliele debbia torre, ei sorridendo, Disse, all'onor mancar mio non intendo. Liberamente à me uenuti sono, Per questo intendo far, che franchi sieno Poscia diss'ad Artibano, qual buono Viaggio è'l uostro? e per questo terreno Ch'andate uoi cercando? à questo suono, Rispose Artiban, per non uenir meno De l'arte nostra, hauer soldo cerchiamo, E' a tè, che fai guerra, lo chiediamo. Quest' altri à me non fanno di mestieri Diss'allor Lionetto, e forse gli hai, Per tua pompa menati, e son scudieri Dunque tu solo, che soldo uorrai? Diss'egli, per dugento Caualieri Nè forse i tuoi denari getterrai, Che così m'era dato anco in Turchia Oltra il pagarmi ben la compagnia. Questi c'han sì buon'armi, e buon caualli Gli meno meco, che mi sono stati Sempre buon ferui, e fedeli uasalli, Ben che sien pel disagio sì mancati Quì puoi ueder se mia uirtute falli, C'hauendo molti Cristiani ammazzati Di molt' armi c'hàuean, sol queste elessi Et indosso à costor, c'ho quì, le messi. Quand' Artibano chiese la condotta Sì grande, quei Signori cominciaro A rider di tal fatto, tutti in frotta, E Lionetto disse, tanto caro Prezzo domandi? e si ritrasse allotta Sù'l letto, col mostrargli un uiso amaro Seguitaro i Signori tutti in questo, Saria tal soldo al Meschin disonesto. Colui, per cui, Signor, chiamato siate Meschino, che tal nome ui poneste Per l'opre del Meschin tanto pregiate, Non faria tai domande disoneste, Ancor, che queste parti liberate V'habbia, che fur già sì da Turchi infeste Non ui domandò pure un quattrin solo Nè al Soldan; del qual siete figliuolo. Lionetto seguì, s'io non guardassi Che tempo haurò poterui castigare. Non crediate che l'arme ui lasciassi; Ma dentr'à la città ui uo mandare Per gente persa, acciò che i uostri lassi Membri uoi ui possiate ristorare, E seruir la puttana d'Antinisca Acciò con uoi insieme ella perisca. Mostrossi allor più grosso à questo detto Guerrino, e s'era già posto à sedere, Mostrando che gli greui il corsaletto Allora Artiban, per meglio parere D'esser d'andar ne la città costretto Contr'à sua uoglia, mostrando temere Disse, Signor tal sententia rimuta Nè ci mandar ne la città perduta. Per l'ingorda domanda scempia, e stolta (Lionetto rispose,) che fatt'hai La mia sententia nè poca, nè molta Non uoglio alleggerir, sì che farai Quel ch'io t'ho detto, nè fo far che tolta Ti sian quest'arme ancor, che mi darai Insieme co i caualli, allor che presa Sarà la terra, c'ha poca difesa. E comandò, che da certi soldati, Ch'eran uicini, acciò ch'altro uiaggio Non faccian, sieno à la città menati; Mostrò gran dispiacere Artiban saggio, Ilqual, uedendo molti congregati, Per torgli l'armi pur per il uiaggio A Lionetto disse, fa ch'almeno L'armi robate tra uia non ci sieno. Al Re Nabuccarin, tosto commesse, Che gli facesse à cauallo la scorta; Ilqual à farlo uolentier si messe, Ch'era cortese, e guidollo à la porta; Ma Guerrin, prima che montar uolesse Sopr'il cauallo solito, che'l porta Per uccellar chi lo staua à uedere Mostrò, per quattro uolte, non potere. Fece quattro pontate, onde le risa S'eran leuate, ognun lo sbeffeggiaua, Quest'alzata di uoci à l'improuisa Fè Lionetto, che si riposaua Del padiglione uscir, che non s'auisa Donde simil materia deriuaua, Et ad Artiban disse, ond'hai pescato Vn Caualier sì pratico, e pregiato? Che non solo i caualli, ma non debbe Saper pur caualcare un'asinaccio; A' questo suo parlare, il rider crebbe; Ma Alessandro, per torsi d'impaccio Sapendo ch'à Guerrin grato sarebbe, E per dare à l'andata loro, spaccio Aiutollo à salire, e poi che gliera A' cauallo, pareua un'huom di cera. Nel prender'il camin, due, ò tre uolte; Fe mostra di cadere, ond'eran corse Con molte risa già le genti folte Vno scudier d' Artiban, poi gli porse Vna lancia, di tre che n'hauea tolte, Disse Guerrin trase, con questa forse, Rifiorirò la festa, e sù la spalla, Se l'attrauersa, e caualcando balla. Onde gridaua ogn'un, eccolo in terra, Rideua Lionetto, de la gente, Che gli par mandar trista ne la terra, E come liberale, il fraudolente, Tra se dice, Antinisca fammi guerra, Che di questi poltron ti fo presente; Il Re Nabuccarin guidolli in tanto, Con gente in fin'à la cittate à canto. E perche questo Re mezo pietoso Era uenuto, mostrando ciascuno De nostri esser rimaso uergognoso, E stimando ch'ogn'un fusse digiuno, Gli inuitò prima à tor cibo, e riposo Dentr'al suo padiglion, luogo opportuno; Ma disse Artiban, poi che siam cacciati, Neghiam l'inuito, come disperati, Giunti à la porta, le guardie gridaro, Che nessun s'appressasse, minacciando Artiban fe, che gli altri si scostaro, Et egli solo s'andò appressando A'la guardia dicendo, intendi chiaro, Che noi non siam del cãpo, anzi cercando Per soldo andiamo, e lo chiediamo à uoi, Ch'amici d'Antinisca siamo noi. Fegli fermar le guardie, e mandar tosto Ad Antinisca al palazzo à far dire, Come sono cinque à la sua terra à costo, E che domandan dentro di uenire Per pigliar da lei soldo ognun disposto, Ella; per cinque soli fece aprire; Senza sospetto, e mentre che s'appriua, Il Re Nabuccarin, uia si partiua. Non eran'anco entrati, che correndo Venner due à cauallo di lontano, Et à Nabuccarin uenian dicendo Forte con bocca, e cennando con mano, Che Lionetto, altro pensier facendo, Dice, che si rimeni ogni Cristiano In dietro, e non gli lasci andar per niente, Che d'hauerli mandati uia si pente. La cagione era, che due caualieri, Di quei, ch'ad Antinopol rotti furo, Gli hanean seguiti, e dati inditij ueri A Lionetto del lor caso duro, E come questi tre eran sì fieri, Che mal il campo suo farà sicuro, Se non gli ammazza, perche son Cristiani, Nè se gli lasci scampar de le mani. Nè più prest'esser uolea tal'auiso, Che restauan'inuolti ne la rete; Nabuccarin'haue a riuolto il uiso, E grido loro, ò la, non intendete? Pensando ritenerli à l'improuiso, E Guerrin disse, adagio or a direte, Che io uerrò domane in suo domino, E che l'andrà da Meschino, à Meschino. Così, la porta aperta essendo, entraro, Laqual fu riserrata in un momento, Non intese quel Re, quel dir suo chiaro, Non hauendo del fatto intendimento; Ma tosto tai parole si notaro, Quando le riferì, che dier spauento A tutt'il campo, che del Meschin certo, Il nome à i Persiani fu aperto. Guerrin, e suoi compagni intanto sono Giunti al real palazzo, & egli stesso Vide l'ostier, che diè già, come buono E fedel seruo, ad Antinisca appresso; Ma non gli disse di suo nome il suono, Nè manco conosciuto su da esso, Ben che Guerrin domandato gli hauesse Se nel palazzo alloggiar si potesse. Colui rispose, che'l palazzo er'atto A'ricettarli, giudicando bene, Ch'eran degne persone, ond'in un tratto Diegli una stanza, e come si conuiene Da mangiare, e da bere, e questo fatto Lasciagli riposare, e se ne uiene A' i lor caualli, acciò sien costoditi, Che seruir uolse i caualier arditi. Andonne ad Antinisca, e le fe nota La lor uenuta, & ella per sapere, Che gente sien, (d'ogni speranza uota Omai, che più Guerrin possa uedere) Mandò per lor, per saper qual remota Parte li mandi à star tra le sue schiere, Sì che'l medesim'oste à lor tornato, G'i riserì quel ch'ella ha domandato. Andaron dunque i tre buon Caualieri Ad ubbidir di quant'ella hauea chiesto, Et seco ne menaro i due scudieri; Ma Guerrin, per non farsi manifesto, Prima ch'intenda chiaro i suoi pensieri, Ordina che Artiban'anco in questo Lor Turcimanno sia, & ei rispose, A quel, che domandando ella prepose. Giuntile innanzi, inginocchiarsi tutti, A sua presenza, & ella domandolli, Di che paese eran quiui condutti, E chi fusser appresso, essaminolli. Artiban le narrò, come distrutti Eran'i Turchi, che in Grecia guidolli Astiladoro, il qual già s'era mosso Contr'i Cristiani, andando loro addosso. E come Astilador da i Cristian morto Era rimaso, e la sua gente rotta, E come haueuan poi in tempo corto; Già tutta Grecia in lor poter ridotta, E disse tutto quel, che già rapporto Haueua à Lionetto, e la condotta, Che gli hauea chiesta, acciò nõ gli accettasse, Perche ne la città uia gli mandasse. La cagion (seguitò) che rimanere Non uolsi nel suo campo, ch'io m'accorsi Douergli le nostr' arme assai piacere, E dubitando non restare incorsi In qualche pregiuditio, ò dispiacere, Che già conobbi quei Signor comporsi Per priuarci de l'arme, e de' caualli, Però son quì, con questi miei uassalli. In Turchia son d'una città Signore; Ma perche la mia gente mi fu morta, Laqual d'Astillador posi in fauore Sott'altro capitano, & altra scorta, Non uolsi per dar luogo al mio dolore Star ne la doglia, ch'io sentiua sorta, Per molti morti de la città mia, Però con questi, quà presi la uia. Questi due, che uedete, sempre suro Meco, di me fedeli, al mio seruitio In ogni caso, ò fusse chiaro, ò scuro, Et preparati per mio beneficio, Et io, che sempre mi tenni sicuro, Hauendo loro appresso, il cui seruitio Di lor ueder potrete, che migliori Huomin, non caualcar mai corridori. S'in Romania (diss'ella) usati siete, Per quel che ne dimostra il parlar uostro, Conoscer bene un caualier douete, Che combattè già per seruitio nostro, Guerrin chiamato, ch'io come uedete, E com'apertamente u'è dimostro, Per lui ho riceunta questa terra, Che i Turchi uostri ne cacciò per guerra. Er'in Costantinopoli alleuato Questo Guerrino, e per saper il padre A gli Arbori del Sole è già andato; Ma poscia ho inteso, che'l padre e la madre Hauea trouati, e n'haueva giurato Ritorno far, ma sono ò pigri ò ladre Le mie uenture, poi ch'in tanti affanni; Mi tengon, che prese ei termin diece anni. E l' ho aspettato diece, e mesi due Non mai pensando, ch'ei m'abbandonasse, Nè che mancasse à le parole sue Io, perche dal mio canto non mancasse Aspettati ho quest'altri mesi piue Nonostante che già mi domandasse Vn nipote, & appresso poi'l figliuolo De l'Almansor di Persia, unico, e solo. Personico hauea nome il suo nipote Ilqual, di me fu fieramente acceso Questo, fu con Guerrino, a le sue note Proue c'hauete contr'à Turchi inteso, E fors'e morto, e ritornar non puote, E fors'hauendo (com'intendo) preso Durazzo, è posto il padre in Signoria Non uorrà più, ch'egli fidel mi sia. Altra sposa daragli, & io uolendo Esser stata fedel, morrommi in pene. E Lionetto già pigliar potendo Per lui negailo, e'l conceputo bene Che m'hauea mostro, in grã furore orr&etilde;do S'è trasmutato, & il campo mi tiene Intorno, per quel conto, e uuole al tutto La mia città, e l'onor mio distrutto. Così la sconsolata, à capo chino Piangeua amaramente la sua sorte, Dentr'à l'elmo piangeua anche Guerrino, Per tenerezza, ma pure sta forte, Tra se dicendo, questo brando fino Far à fors'anche temer le tue porte A i Persiani, e Fidelfranco allora Disse, fermate il pianto, alta Signora, Ch'io ui so dir di certo, ch'egli è uiuo Questo Guerrin che dite, & ella à lui Dunque debb'esser di libertà priuo S'egliè prigione, ditemi di cui? Ch'egli era sìreal, sì sempre schiuo Di chi mancasse de gli oblighi sui, Che non haurebbe à me mai uiolata La fe, che nel partir m'haueua data. Dite (Artiban le disse) se uenisse Ad osseruarui la data promessa, Come uolete, che'l passo s'aprisse Venendo quì tra la gente sì spessa? E poi come pensate, che patisse La gente uostra, laqual non confessa La fe Cristiana, essendo lui Cristiano, Che nel fauor di lor ponga la mano? Rispose un gentil'huom ch'appresso gli era, (Costui fu Paruidas) ben sapeuamo, Quand'à i Turchi frenò la rabbia fiera, Per le cui opre le cittate habbiamo, Ch'egliera battezato, e Cristian'era, Nè per quest'è, che non ci ricordiamo Del beneficio, or fusseci al presente, Com'il desia ueder la nostra gente. E detto questo, lagrimaua insieme Con la bella Antinisca, in questo un messo Arriuò, mentre che'l dolor gli preme E disse, ò Paruidas, di fuor s'è messo Il campo tutto in arme, & ognun teme De la città, perche già sono appresso, Noi habbiam presa l'arme, or tu procura Com'à difender s'habbiano le mura. Macometto ci aiuti, egli rispose Che se ci fusse quel, di c'habbiam detto Via più sicure andrebbono le cose Disse Antinisca, non haurei sospetto, E poscia alzando le luci pietose Disse, per c'habbiam d'huomini difetto Per mio amore, ò degni Caualieri Non torrete uoi l'armi uolentieri? Non sarete uoì, ditemi, contenti, La mia città difender da' nemici, Insieme con le nostre armate genti, Adoperando le uostr'armi ultrici, Che minacciaron torui? Siamo intenti, Artiban disse, à far più che non dici Veniam pur, dice, à far l'esperienza, Nè uoi opprima più sì gran temenza. Guerrin, da tutti ancor celato staua, Ben che con più feruor de gli altri tutti, Per tal difesa l'armi sue pigliaua, E send'in piazza con glialtri condutti, V' Paruidas armato gli ordinaua In questo molti d'ogni cosa instrutti, Disser, com'in tre parti il campo fuore, Diuisi uengon con molto furore. Et da tre bande, di cose forniti, Per combatter muraglie, fan pensiero Assaltar la cittate, à questi inuiti, Guerrino per oprarsi al suo mestiero, Con Alessandro, & Artiban graditi A' Paruidas andato, tutto fiero, Il confortò, che di nulla temesse, Et che le mura intorno difendesse. E pregal, ch'uscir uuol fuor de la porta, Che gli lasci dugento caualieri, A' iquai lor tre saranno buona scorta, Paruidas gli concesse uolentieri; Allor di nuouo Guerrino l'essorta, Che'l restante conforti, acciò stien fieri, Dicendo, oggi di fuor temer uedrete, Tutti i nemici, che sì fier uedete. Il corraggioso Guerrin fuor'uscito, Con Alessandro, e con Artaban fiero, Con dugento caualli essendo unito, De' nemici notò prima il pensiero, Alquanto fuor de gli altri disunito; Onde fu conosciuto di leggiero Da molti Persiani, al suo cauallo, Et à quell'armi, che non fer mai fallo. Cominciaron à dire, ecco il uillano, Che non pensammo à caual più uedere, E tosto incontro gli uenne un'insano, Pensando facil uittoria ottenere, E spogliar l'arme al caualier soprano, Prende la lancia, e sprona'l suo destriere; Guerrin, che 'l uede, addosso gli si serra Tosto l'infilza, e giù morto l'atterra. Trasse la spada, e tra gli altri si caccia Alessandro, & Artiban rupper'anco Le lance, e seguitando la sua traccia, Le spade si leuar dipoi dal fianco; I Persiani con pallida faccia, Pria tenendo Guerrino assai men franco, Si sgomentaro à sì fatto ferire, Che fanno i tre pieni d'estremo ardire. I dugento, che fu or gli seguitaro, Veggendo in lor tanta uirtute rara, Sì grand'ardire, & animo pigliaro, Ch'ogn'un si spinge innanzi à l'altro à gara Da quella parte, in dietro si tiraro I Persiani, ogn'un fuggir prepara; Guerrin sì fieramente sprona, e fere, Ch'atterra già le nemiche bandiere. Quei Persian, che son da l'altra parte, Per'dar l'assalt' à la forte muraglia, Vedendo parte di lor genti sparte, Et press'à i padiglion far gran battaglia, Dubitando, che in quel fosse il Dio Marte, Che tanti ammazza de' loro, e sbaraglia, Per l'insegne campar, lasciar l'impresa, Per uendicar (potendo) tant'offesa. Guerrin, uedendo tutti'l campo mosso, Per non gli si trouare in mezo colto, Et non hauer tanti nemici addosso, Hauend'in sieme chi'l seguì raccolto, Diè uolta in dietro, tutto tinto, e rosso Del sangue Persiano, e fu con molto Gaudio da i cittadin dentr'accettato, Per quella porta, ond'era fuor passato. I dugento menar molti prigioni Oltr' al gran numer, che n'haueuan morti Due sol di lor restar tra i padiglioni Di uita priui, e quelli, che da i forti Tre Caualier restar fuor degli arcioni, Di uita priui, e non mai più risorti Fur cento ottanta, e uenti più di cento, N'uccisero anco i caualier dugento. Trecento furo il numero fra tutti, E forse più, secondo'che fu detto Da certi, che fur poi prigion condutti Ne la cittate, or uenend'à l'effetto L'opre famose, i generosi frutti Pel segno c'han di lor dato perfetto I tre Cristian, fur tanto commendati, Che sommi, e grati onor lor furon dati. La speranza fu grande, e l'alleggrezza, Che la città di Presepoli prese Vedendo in tre guerrier tanta fortezza Et improuisa, per le lor difese Lodando sopr' al tutto la prontezza Ch'in Guerrino da tutti si comprese Gran speranza Antinisca di lor tolse, E che molt'onorati fusser uolse. Mutolli Paruidas d'alloggiamento, Ilqual quasi ogni cosa gouernaua Che fu adorno di bel paramento, Com'à tanta uirtute s'aspettaua La sera poi, à fargli onor intento, Cenò con essi, e perche si pensaua Ch'Artiban (com'ei dìsse) Signor fusse De gli altri, à cant'à se; se lo ridusse. Paruidas s'era in capo de la mensa Posto, perche la cittate reggea, Glialtri à seder poi dopo sè dispensa L'ultimo fu Guerrin, che ciò uolea Alquale hauendo affettione immensa Paruidas di tal fatto si dolea E nel grardarlo, e ringratiarlo molto Del suo ualor, lo rimiraua in uolto. Pareuagli Guerrin, com'egli er'esso, Ma dubitaua non apporsi in uano In questo arriuò l'oste, al qual commesso Hauea Guerrin per mostrarsegli umano Che stesse anch'egli ad Antinisca appresso Quand'ei cacciò lo stuol Turco uillano, Ilqual facea proueder'ogni cosa Che bisognaua à la cena pomposa. E rimirando quest'e quello in uiso, Pur riuolto à Guerrino, haria giurato (Se non n'hauesse ancor più chiaro auiso Pur che lui fusse à Paruidas à lato, Com'era Artiban, send'ancor diuiso Da Alessandro,) ch'ei fusse tornato, E stanne ancor sospeso, e manda à uolo Vn, che faccia uenire il suo figliuolo. Pel figlio manda, perche uuol sapere S'egli è del suo parer, Trifalo detto Ilqual, già Guerrin fece Caualiere Costui, uenendo di tutti al cospetto Guerrin conobbe, e uedendol sedere Giù nel più basso luogo, e più abietto D'allegrezza, e di stizza insieme acceso, Così fu Paruidas da lui ripreso. Sta bene, ò Paruidas, che'l tuo Signore Sia tristamente in sì uil luogo messo? E tu nel primo seggio, con onore Ti stai, ou'egli haurebbe à stare, or tosto Pon mente bene, e guarda al tuo errore E detto ciò, fatt'à Guerrino accosto Gli s'inginocchia innanzi, e dice, come Celate, Signor nostro, il uostro nome? Non potete negar, che uoi non siate Il mio Signor, sì che più non bisogna, Ch'à noi, che ui ueggiam, ui nascondiate Drizzossi Paruidas, pien di uergogna, E disse, ò Signor nostro perdonate Al ueder nostro, pieno di menzogna, Che ci diè mal giudicio, e non tenete Celato più, quel che ci nascondete. Così dicendo Paruidas, in tanto Gli haueua i piedi Trifalo baciati, Ond'egli l'abbracciò, d'allegro pianto, Tutt'abbondante, & eran già andati I messi ad Antinisca, che di quanto Hanno ueduto, con sembianti grati L'informaro, intendend'ella tal cosa Tutt'allegra si mosse, e frettolosa. Da molte damigelle accompagnata Dentr'à la stanza entrò, doue Guerrino Con festa accolse l'allegra brigata, Ch'innanzi gliera corsa à capo chino, Com'ella innanzi gli fu arriuata Nol uolse salutar con un'inchino; Ma gittoglisi à i piedi inginocchioni, E così fer tutti gli altri Baroni. Ella poscia drizzata, disse, Sposo Tanto da me bramato, qual cagione Ti faceua à me star così nascoso Oramai mi fia data ampia cagione Di tor tra tanti affanni alcun riposo Ch'à difender se stesso ormai si pone La sua città, sua gente, e la sua sposa, Che ne la somma sua uirtù si posa. Tenendolo abbracciato tuttauolta E congiunto'l suo uiso al uolto d'esso Non poteua parlar già per la molta Allegrezza, ma egli à tal successo Diceua, ascolta, amata Donna, ascolta, Che troppo indugio ho posto, io tel cõfesso A mostrarmi più pront' al tuo cospetto, Ma nulla ho fatto senza buono effetto. Basta ch'io son uenuto forse in trista Hora de tuoi, e miei aspri, & ingrati, Nemici; e non ci manca chi resista A i lor inganni, ecco ch'io ho menati Quì due compagni, che di lor s'è uista Oggi qualch'opra, e furon palesati I nomi loro, e la città fe festa Di lor uenuta; & il cantar qui resta.

IL FINE DEL CANTO
Trentesimo secondo.

IO m'apparecchio, ò Muse, che solete Far Gl'ingegni fiorir, com'à Dio piace, A fornir di cauarmi quella sete, Ch'estinguer può Gesù fonte uerace Quel di Parnaso dunque serberete A chi prezza uoi sole, e u'è seguace Che quì non fauoleggia Ouidio uostro; Ma parla cose uere il nostro inchiostro. Come già narrat'ho; s'era scacciata Da quelli di Presepol la paura Pel buon Guerrin, de la nemica armata, Già s'era fatta, & allegra, e sicura, E la prima bellezza era tornata Ad Antinisca, essendo prima scura, Volse con lui cenar, dicendo, ormai La tua cittade e me gouernerai. Presa c'hebbe la cura, & ordinate Sicure guardie, la seguente sera Ad Alessandro diede potestate, Et al fedele Artiban, che seco era, Che comandasser à le genti armate, Come Signori, e capi d'ogni schiera, Così de la cittate, e di lui faccia Ciascun di lor quanto dispor gli piaccia, Ordinate le guardie, quella notte S'andaro à riposare, e'l dì seguente Le genti armate fur tutte condotte In piazza, tra lequai palesemente, Si seppe chiar tra le più folte frotte Com'era in lor fauor giunto il ualente Guerrino di Durazzo, lor Signore, Che non ha pari al mondo, di ualore. Chi Alessandro fu, chi Fidel franco Sepper'ancora, onde se l'ardir loro, Per l'adietro uenuto era pur manco L'animo, ripigliaro alto ristoro, I primi cittadin confermar'anco Con ordin molto solenne, e decoro, Di farselo Signore, e terminate Le guerre, far le nozze poi pregiate. Poich'egli l'importante cura prese, Ne la città de la gente da guerra, Acciò che'l numer gli fusse palese, Che si trouaua in ordin ne la terra A far rassegna, & ordinargli attese, E tal numer trouò, che di poco erra, Vndici mila furo i caualieri, Dodici mila fanti, & assai fieri. Trouò, che per tre mesi, era fornita Di uettouaglie in copia la cittate, Quantunque assai più prest'ha stabilita Di racquistar la propria libertate, O di mettersi à rischio de la uita; Ma prima uuol ueder fortificate Le mura intorno, e fatte queste cose, Ad uscir fuor con gente, ordine pose. Poi tre mila caualli, & altrettanti, Pedoni, à Fidelfranco à condur diede Fuor de la porta, la mattina auanti, Che'l dì chiaro si faccia, poi concede Ad Alessandr'ancor due mila fanti, Con due mila caualli, acciò che'l piede, Volgesse dopo à quelli; & ei si tolse Tre mila fanti, e questi condur uolse L'un dopo l'altro, uscir fuor de la porta, Taciti, e queti, innanzi al far del giorno; Doue staua nel sonno meza morta La gente Persiana d'ogn' intorno, Ciascun de tre, la sua gente conforta, Che sien pronti à ferir con onta, e scorno, De lor nemici, ogn'un lor sangue uersi, Poi ch'à mã salua gli han nel sonno immersi Da tre parti in un tempo, à l'improuiso A ferir cominciaro, onde nasceua, Che non potend'hauer più chiaro auiso, Il campo fuore, e chi quello reggeua Confusamente ognun di se diuiso Nel suo mal manifesto, s'auolgeua, Et se un'hora innanzi al dì pur era, Non si ponea di loro insieme schiera. Ma Lionetto, al qual s'appartenea Proueder al disordin di sua gente, A più potere in ordin la mettea, Pel nemico assaltar subitamente; Guerrin uedendo già, che'l dì lucea, E quanto il campo fuor si fa potente, Accio che tanto stuol nol circondasse, Inuerso la città co suoi si trasse. Presso la porta s'era ritirato, Quando dal Re Rafin di Coromana, Si uide, e da sua gente seguitato, La qual gente fu tutta Persiana, Ch'eran quarantamila, e fu mandato Da Lionetto, con l'impresa uana, Che uolean, se Guerrino staua forte, Vietargli il passo d'entrar ne le porte. Guerrino, ancor ch'al ueder tanta gente Doue a cacciarsi dentro al chiuso muro, Nondimeno d'entrar non acconsente; Ma guarda il tutto, e con ardir sicuro, I fanti dentro manda, incontinente, Ch'erano stanchi, e come dentro furo Alessandro mandò per gente fresca A cauallo, che fuor in aiuto esca. Et egli con Artibano accozzossi, In questo mezo, che di caualieri Hauean tre mila, e con questi accostossi Verso i nemici, e giunto ne i primieri, Per tante lance, che tanto abbassossi E per gli scontri, che si uider fieri, Da Marte in giù, mostrar tutti i ciel segno Del conceputo lor trem&etilde;do sdegno. Di Vener la beltà solita offese La lingua, e'l corso, il grã messaggio perse, La casta Luna, Apol più non attese In se stesso il gran fuoco si sommerse Di sanguigno color l'aer s'accese, La terra per timor'indi s'aperse, Solo i fier caualier erano intenti Di sfogar crudi le grand'ire ardenti. La percossa de gli urti, il gran fracasso De le rotte aste e'l disperato grido Di chi rende à la terra il corpo lasso, E de molti feriti l'alto strido, Facean tremare ogn'arbore, ogni sasso; Non sol le fiere, infin'al marin lido Del Re Rafin, Serperenos il figlio Guerrino urtò, ma con tristo consiglio. Fu ben Guerrin dal suo ferro percosso; Ma l'asta ui rimase fracassata, Che'l suo sbergo era ben temprato, e grosso La lancia di Guerrin fece passata Di quel Pagan dentr'à la carne e l'osso, E dietro uscì la punta in sanguinata, E cadde morto, e dolse à la sua gente, Che lo teneuan giouine ualente. Quando del figlio, il Re Rafin saputa Hebbe la morte, dal dolor sospinto, Da l'ordine con impeto si muta, Senza badar di che guardia sia cinto, E con la lancia Artibano saluta, Che s'era fieramente innanzi spinto; Ma prima dal fauor fatto potente, Vccise di Presepol molta gente. Ruppegli addosso l'aste, e posto mano A la sua scimitarra più da presso S'accosta per ferire il buon Cristiano, Che s'era con lo scudo innanzi messo Dieronsi insieme molti colpi in uano, Senza ferirsi, ben che rotto e fesso S'haueuan'ogni arnese, quando fuore De la cittate uscì nuouo furore. Era Alessandro, che con i primieri, Ch'erano usciti fuori innanzi giorno, Congiunse molti fresch i caualierl, Che sì gagliardamente si prouorno, Visti del buon Guerrino i colpi fieri, Che i Persiani con lor'onta e scorno, Posero in fuga; onde ui restò solo Fermo il lor Re Rafin, di tanto stuolo. Era ancor con Artibano à le mani, Nè l'un, nè l'altro hauea uantaggio ancora Benche si desser colpi assai uillani; Ma quelli di Presepoli, che fuora Veggono il Re Raffin de' Persiani Van per farlo prigione, e far che mora Artibano gridò, fate uoi'l resto, Et me lasciate far solo con questo. Aggiunse à le parole un colpo giusto A piè de l'elmo à quel Re dispietato, Che'l capo, e'l collo gli spiccò dal busto; Or' ecco ch'egli ha'l figlio uendicato Lion, chiamando Macometto ingiusto; Il campo tutto haueua apparecchiato, Per distrugger Presepoli, e Guerrino, E già si mosse il Re Nabuccarino. Se questo Re tosto non fusse corso, Con tutta la sua gente del suo regno, Non riteneua ancor Guerrino il morso De suoi caualli, ò fatto al restar segno; Ma perch'egli altro hauer nõ può soccorso E ch' al fin la sua forza, e'l chiaro ingegno, Conuenia ceder a sforzo sì grande, I suoi ristrinse da tutte le bande. Ritraendoli poscia, à poco à poco, Verso la terra, perche disuguale, Fuor di misura si mostraua il giuoco, Et ha fatta già guerra assai mortale, E d'intorno giaceano in ogni loco Morti, e feriti, benche poco male Rispetto à i Persiani, hanno i soldati, Che da nostri Cristian furon guidati. Dugento manco al numero trouorno, Di quei, che di Presepoli cauaro Sedicimila à i Persian mancorno, Nè se n'accorser fin'al giorno chiaro, Perche dodicimila, innanzi giorno, O più, sprouisti di uita priuaro, Sì ch'assai n'hanno morti questa uolta, E con gran gloria lor, pote andar uolta. Ne la cittade entraro, che ripiena Fu di somma allegrezza, per il danno Che'l campo Persiano di fuor mena; Si che ristoro preser d'ogn'affanno; Ma ben tanta maggiore era la pena Di fuor, perche col figlio perdut hanno, Il Re Raffino, ch 'eran de' primieri, C'hauesser fama tra i lor caualieri. E son sedicimila huomini meno Venuti, sol per non prezzar Guerrino, Perilche Lionetto uuol che sieno Riforzate le guardie, & i t camino Messi mandò, che la ria nuoua dieno Al Soldano, e gli mandi il suo cugino, Con gran numer di gente, & egli intanto Prouide à buone guardie d'ogni canto. L'altra mattina uscì Guerrino ancora, Con gente, e diede terribil intoppo, E molti uccise del campo di fuora, Poi si ritrasse, e non istè fuor troppo; Fè poi tre dì ne la città dimora, Il quarto uscì con grande sforzo doppo, Et egli fu primiero à dar l'assalto, Che la terra miniò di rosso smalto. Almacor ammazzò, ch'era nipote Del Re Nabuccarino, assai ualente, Tai cose essendo à Lionetto note, Andogli incontro con fiorita gente; Onde Guerrino riparar non puote, Che non sia colto in mezo incontinente, Et era per far male i fatti suoi, Se non ch'Artiban'il soccorse poi. Non sarebbe così stato serrato; Ma subito à le man con Lionetto, Era uenuto, ch'era circondato Dal più ualente, e per migliore eletto, Squadron, che fusse nel suo campo armato, Ne ritrar si potea per quest'effetto; Ma d'Artiban fu soccorso tosto, Con gente fresca, com'era composto. La moltitudin'infinita, e grande, Non potè riparar, ch'ei non aprisse, Il passo chiuso da tutte le bande, E molti à morte in quell'affronto misse Da ciascun canto alto romor si spande, E bisognò, ch'Artibano uenisse, Doue con Lionetto Guerrin'era, E intorno cinto da possente schiera. Quiui al fier Lionetto il caual sotto Nell'arriuar d'Artibano, fu morto, Ma i suoi uietar nel pignersi di botto Innanzi con indugio poco, e corto, Ch'egli non fusse prigione condotto, E ben fece fortuna e spresso torto, A Presepoli il dì, che s'ei n'andaua Prigione, ogni lor danno termina ua. Con lo sforzo maggior di tutto il campo, Quei di Guerrino in dietro spinti furo, E tosto al Signor lor diedero scampo, E'l ridussero in luogo più sicuro, Questo soccorso menò sì gran uampo, Et à quei di Presepol, fu sì duro, Che ne cascaro più di mille morti, Glialtri à ritrarsi hebbero i lor conforti. Cruccioso allor Guerrin di tanto danno Vn'infinita turba de' nemici Vccise, al fin già stanco, e pien d'affanno, Et essortato da più franchi amici, E dal suo fido Artibano, ne uanno Ne la città, doue per gli infelicì Morti, un commun dolor ciascun fa mesto; Ma Guerrino pensò proueder presto. Mandò à Lionetto un certo Araldo, Ilqual'era buffone, à dir s'egli era Ne l'armi ualoroso, ardito, e saldo, Come mostra al sembiante, & à la cera Di porre à rischio il suo natural caldo, A singolar battaglia seco, e fiera Voglia condursi, e chi di lor men uaglia A l'altro ceda, senz'altra battaglia. E se di dignità superiore Si tiene, e per tal caso rifiutasse, Per esser'ei figliuol de l'Almansore Di Persia, diss'al messo, che narrasse, Com'egli è di Presepoli Signore, E quando questo ancor non gli bastasse, Dì, che uietar non puote la mia lancia, Ch'io son disceso de' Real di Francia. Et ch'io tengo Durazzo, e di Taranto, Mi uien dopo mio padre, il principato, Che se di dignità pari mi uanto, Il padre lo sà ben, perfido ingrato, Che gli riscossi in un subito quanto Gli haueua il Re Galismarte leuato, Scacciando i Turchi fuor de suoi paesi, Benche meriti tristi or mì sien resi. Giunto con l'imbasciata à Lionetto Il messo, ei non potendo contenersi, Voltoglisi pien d'ira, e di dispetto, Dicendo, dunque un sir de'Regni Persi, Deue da uno schiauo esser costretto A far che sì uil sangue in terra uersi, E patirò, che la mia degna spada, Per far macello di tal'huomo rada? Nè potendogli far maggiore scorno; Al buffone fe rader la cotenna Del capo tutto, d'ogni pelo intorno, E che tal torni à Guerrino gli accenna. Se ben non s'usa fin à questo giorno, Nè l'ha fors'anco scritto alcuna penna, Quand'un Signor de l'altro radea'l messo, Segn'era allor di grand'oltraggio espresso. Quando raso così, ne la cittade Da i terrazzani il messo fu ueduto, Et ir uers'il palazzo; per le strade, Gran doglia il popol grosso, & il minuto Ne prese, e molto più per la pietade, C'han di Guerrin, che con sì rio saluto, E tal dispregio Lion gli risponda, Hauendo à quel buffon la zucca monda. Guerrin non sà l'usanza, e che sia scorno Vn simil fatto, sì che quando il uide, Voltandosi à gli amici, c'hauea'n torno, Con fronte chiara gli si uolge, e ride, Io, che son'uso à queste parti intorno Artiban disse allor, con poche guide, Sò quant'importi Signor questo segno, Che non uuol risa, ma profondo sdegno. Poi che Guerrino intese l'uso scempio, Et per suo disonore esser ciò fatto, E la risposta udita di quell'empio, Di mortal'odio uenne colmo in fatto, E giurò castigar si fatto essempio, Et il uenente dì mandò fuor ratto, Alessandro con molti caualieri, Perche assaltasse gli ordini primieri. Vscì fuor Alessandro la mattina, E diè l'assalto uers'i padiglioni, Doue gran danno fece, e gran rouina, Nel Primo assalto, ma per troppo buoni Prouedimenti, ch'eran, fuor declina, Che s'ei non uuol lasciar morti, ò prigioni, I suoi, menargli in dietro gli conuiene, Che troppa gente à danni sua ne uiene. Ma non si tosto Guerrino s'accorse, Che dentro staua attento riguardando, Ch'Alessandro perdente, ilqual, non forse; Ma senza forse conuenia uolando Poter fuggir, tanta gente gli corse Addosso, si ch' Artiban fulminando, Con mille caualier mandò di fuore, E fugli un'incredibile fauore. Ma l'animoso giouine gagliardo Tant'entro si cacciò ne' Persiani Che ritirarsi potrà forse tardo, Però ch'essendo con essi à le mani E'già uicino al reale stendardo Poi riuoltato, fur'i pensier uani Di ritornar, che'l fier Fauridone Il passo gli attrauersa, e gli s'oppone. Poscia Aspiran d'Arconia anco assaltollo Con molta gente, e qui si difendea Artiban quant'ei puote, e doppo il collo Il forte scudo gittato s'hauea Et tristo quel ch'adirato aspettollo Ch'ad ogni colpo un cader ne facea Menando con due mani il brando intorno, Ben che molt' Aspiran gli facea scorno. Affrontollo Aspiran ferocemente Tal che con esso Artibano, attaccossi E da fare hebbe, per ch'era ualente, Ma la gran moltitudine cacciossi Sopr'i suoi Caualieri, e prestamente Artiban'quiui soletto trouossi Questi auisi à Guerrino furon dati Da certi Caualieri di là campati. Guerrin sentendo, à che termin si staua Il suo fedele Artibano si pose Innanzi, e mille Caualier guidaua Le cui possenti braccia e poderose, Fuggiua chi i suoi colpi riguardaua, Perche quel dì fece assai maggior cose Che pria non hauea fatte, pel dispetto Che hauea fatto al suo messo Lionetto. Vccise Galafach, e ilqual cugino Era di Lionetto imprima gionta, Che lo mandò con l'asta à capo chino Poi con la spada in mano gli altri affronta Tal che quel di, fu stimato diuino, E non che fusse in corpo uman congionta, Tanta possanza fuor d'ogni misura, Onde ciascun di fuggirsi procura. Entro là doue Artibano più forte Si difendea, che far gli era concesso, Però che Fauridon per dargli morte Addosso anc'egli già gli s'era messo, Alzo'l brando, e gridò, uo che tu porte Il segno, uil fellon, del fallo espresso, A ferir sopr'un'huom, che s'affatiga Con altro Caualier uincer la briga. Menogli con due mani, è l'elmo rotto, Gli fe balzar di testa, ben che'l taglio Del brando s'era tanto entro condotto, Che feri'l capo, onde pien di trauaglio In terra se n'andò tra i morti sotto I uiui, e Guerrin cerca altro berzaglio Poi che Fauridon mostr'esser morto, Che i suoi gran dolor n'hebbero e scõforto. Per questo, fu Artiban' allargato, Ilqual, poi che Guerrin si uide accanto Hauea uigore, e conforto pigliato, E di se mostra esperienza, in tanto I Persian fuggiuan d'ogni lato, Poi che nessuno ueggon darsi uanto, Di restar uiuo contr'à questi due, Che Marte appress'à lor non faria piue. Sentiua da lontan Lion le grida Che suoi faceuan quiui, ond'al romore, Et perche poco in quelli si confida Il Re Nabuccarino in lor fauore Con sua gente mandò, ma con le strida Gli fu pronuntiato alto dolore, Detto glifu, che Fauridone il figlio Mort'era in terra, e di sangue uermiglio. Per questo, più ueloce indi s'affretta D'entrar ne la battaglia, acciò che presto Dal dolor caldo, faccia la uendetta, Che differir la non gli pare onesto, La lancia prende, & in man se l'assetta, Poi che ben gli fu fatto manifesto, Che quello Guerrin è, che l'ha ucciso, Ond'à scontrarlo staua sù l'auiso. Guerrin, che nuouo essercito ueduto Haueua, in dietro ritirato s'era Acciò non fusse colto sproueduto, E manda ad Alessandro, (che già era Ne la città per porger nuouo aiuto Entrato.) ch'egli giugnesse à la fiera Battaglia da quel canto, e ritornossi Indietro quasi là onde leuossi, Al Re Nabucarino diede segno, Vn de suoi Caualieri, e disse, quello (Mostrandogli Guerrino pien di sdegno) Il uostro figlio uccise, quello è'l fello Guerrino, allor quel Re, di rabbia pregno Corsegli addosso, ma Guerrino in quello Venegli incõtro anch'egli, à briglia sciolta C'haueua un'altra lancia in man gia tolta. E fieramente insieme si scontraro, E dieronsi due colpi assai possenti; Ma quello, c'hebb'il Re, fu più amaro, Che ferito cascò, tra quelle genti Non fu dal suo cascare alcun disuaro, Che da certe aste de' Pagan pungenti Fu ucciso à Guerrino il suo cauallo, E gli fu forza à piè seguire il ballo. Si come à pie trouossi saltò tosto Sopr'à quel Re, ch'egli abbattuto haueua E tenendo col brando ognun discosto Sopra la spalla subito se'l leua, Et al caual di quel, che gliera à costo E che Artiban per dargli teneua Fe di se soma, & à certi de' suoi Prigion menar fece quel Re dipoi. Fu dentro di Presepoli menato Il Re Nabuccarino con gran fretta. Or Guerrino, che in parte ha uendicato Del suo messo Buffon la mal'incetta Col suo fedele Artiban, s'è uoltato, E col buon' Alessandro, e con la stretta Sua gente dentro à la città si trasse Acciò che stuol maggior non l'occupasse. Fauridone intanto al padiglione Di Lionetto, ch'ognun crede morto Portato fu, fel disarmar Lione; Ma da la stordigion fu poi risorto, E medicato, e mentre che si pone Studio per dargli più uital conforto Fu portato Falacch'à Lionetto Morto, passato d'una lancia il petto. Quand'ei uide il cugino à tal partito Di core il pianse, che molto l'amaua Dicendo, come sarò io ardito Al padre tuo Re Margaras, ch'ostaua Al tuo uenire, or ecco c'ho tradito Il prego di tua madre, ch'à me daua, Che era questo (e scusa non mi uaglia) Di non lasciarti entrar ne la battaglia. Ma poi sapendo, ch'era prigion fatto Il Re Nabuccarin, battesi il petto Pel gran dolor, che n'hebbe, onde già tratto Fuor di speranza, di far buono effetto Al padre per più gente scrisse ratto Quel che facea Guerrino, & il difetto De la sua gente, e che gli mandi presto Soccorso, senon far potria del resto. Torniamo à la città, ch'allegri stanno Poi che con poca perdita de' suoi S'è fatto fuor nel campo tanto danno, Guerrin de l'armi scarco, fece poi In sala doue i primi huomini stanno, Venir Nabuccarin, già degli erroi Di Lionetto, e come fu uenuto Così gli disse senz'altro saluto. Huom non è quì, che con lecita offesa Non ui bramasse di uedere estinto. Però ch'à torto pigliaste l'impresa, Contra di lor, da uostra gente cinto; Ma per là cortesia, che mi fu resa Da uoi nel campo quando quà fui spinto Per disutil, dal uostro conduttore, Non uo che siate di speranza fuore. Fouuì sicur fin' ad hor, de la uita, Così con regio onor sempre lo tenne; Ma perche d'indi non faccia partita Porgli cinquanta à guardia gli conuenne Quindici dì poi senza fare uscita; Più à battaglia, dentro i suoi ritenne Fra questo tempo uenne quel soccorso Pel qual da la città s'era ricorso. Di Media diecemila Caualieri Eran uenuti, e pel fiume Vlione, Et grano, & carne, et quel che era mestieri Che non si potea far contentione, Perche uerso Leuante, i buon nocchieri Eran uenuti, e'l campo di Lione Era uerso Ponente, & impedire Per questo non poteua il suo uenire, Del Regno di Presepoli arriuate V'era altre uettouaglie, e gent'assai, Lequali eran di nouo comandate, Per far difesa à i minacciati guai, Il Capitan di tai genti narrate Cioè di Media, che sopra contai Arcomanos fu detto, e d'Agertonia Di Media fu, com'il uer testimonia. Giunse nel campo ancor de' Persiani Di Persia Margaras, ilqual è padre Di Falache, già morto per lè mani Di Guerrino, e per Duca d'altre squadre Personico con più Signor Pagani, Il cui spiegar de l'insegne leggiadre Faceua à la città superba mostra, Che centomila furo, huomin da giostra. Allegro Lionetto, e baldanzoso De l'essercito bello, à lui uenuto Spedisce un messo presto, e frettoloso Pensando esser di dentro più temuto; Ilqual giunse in Presepoli al famoso Guerrino, e degli un'amico saluto Da parte di Lione, e poi gli espose Quant'il Signor, che lo mandò, gl'impose. Il mio Signor, ancor ch'ei uegga aperto Voi non poter (disse) da lui campare; Ma sol per dare al ualor uostro merto S'à lui ui date, ui uuol liberare Non uuol però (che ui sia primo offerto Se non gli promettete imprima dare La puttana Antinisca, e la cittate Acciò ne possa far sua uolontate, Però che più dì sono, non pur' ora Ch'à tutt'il campo l'ha promessa in preda, Per questo uuol de l'obligo uscir fuora Da uoi gli basta, che per uoi si ceda, Però che gli huomin ualorosi onora, E tutt'hor, che da uoi ciò si conceda In Persia ui farà con molto pregio Signor, nel suo paterno e bel collegio. Per certo, Guerrin, disse, assai uantaggio Haurai da me, che'l tuo Signor non fece Quando mi mandò raso il mio messaggio, Si, ch'andar senza pelo anco à te lece, Fello spogliare ignudo il Baron saggio, E fe trouare di Rasoio in uece Fiaccole accese, & abbrustillo tutto, Poi ch'à farlo legar l'hebbe condutto. A una colonna le gar l'hauea fatto Così dal capo al piè fu abrustito Di quanti peli hauea pel corpo infatto Il capo, e'l mento, è fattolo pulito Disse, dir ai al tuo Signore, il patto, Che rispondend'hò seco stabilito Legga sopra di te, quel ch'io gli scriuo Così nudo mandonnelo, e mal uiuo. Tutti i Signori, che nouellamente Di Persia eran uenuti, quand'accorti Si fur del messo, e che lor fu presente Feron consiglio uendicar quei torti, Vniti con Lione, e finalmente Pensand'à i grandi aiuti, ch'eran porti Ne la città, di genti, e uettouaglie, E far poco profitto lor battaglie. Mandar di nouo in Persia àl'Almansore Ch'altr'esercito mandi uer Leuante, Di là dal fiume, per c'hauere onore, Non se ne può, che di quel uiene innante Ogni aiuto à Presepoli, e che fuore Da Ponente accampate sono quante Genti ui sono, onde per tanta armata, La città non può esser'assediata. In questo mezo i Turchi, che nemici Furono sempre, e contra i Persiani S'erano fatti di Lione amici, Per distrugger'al tutto i tre Cristiani, E Presepol disfar da le radici, Et già u'erano giunti due Germani Figli di Galismarte, e son uenuti Quiui per far uendetta, à spron battuti. Quindicimila Turchi hauean condutti, Vtinifar chiamato era il maggiore, E l'altro Milidonio, che fur rotti Da Guerrin, quando seruì l'Almansore, E da lui morto il Padre, & eran dotti, Al tutto ben de l'antico dolore, Et da Lion con tuttà la sua gente Raccolti fur molt' onoratamente. Presene la Cittade assai spauento, Ma la seguente notte, assai più grande Si fece, e ginne ogni speranza al uento Però, che gente nuoua ancor si spande Di là dal fiume, & è'l Soldano intento Venuto per serrar tutte le bande Son quattrocentomila, ò più, persone In campo già, da portar'arme buone. In fin'ad hor, quella parte assediata Dal fiume in là, non era stata ancora Doue à dispetto di tutta l'armata, Venia pel fiume uettouaglia ogn'hora, E gente dentro, ma poi, ch'arriuata V'è tutta Persia, non solo di fuora, Non ui potea uenir, ma non poteua Sicuro uscir, chi fuorè uscir uoleua. Guerrino, ch'ogni monte, ogni pianura Vede'piena di gente d'ogn'intorno, E dentro à la Città fuor di misura, Gli huomini sbigottiti andar'à torno, E ch'à lui s'aspettaua tanta cura, Acciò non si riceua ultimo scorno, Fece raccor la nobiltà migliore, Et à quelli parlò, di tal tenore. Padri, nessun non è sotto la Luna Per gran signore, e per nobil che sia, Ch'al uolubile moto di Fortuna, La dolce uita non si cangi in ria, Et dou'il ben'in altra parte aduna Conuien, quanto le piace, che ui stia, Per tanto, noi, che suggetti le siamo, Conuien, ch'à sopportarla ci auezziamo. Vdite le cagioni, che tre sono, Che ripigliar dobbiam l'animo perso La prim'è, che l'huom uil non ha perdona Dal nemico, si dà nel caso auerso Da poi che l'armi già prese si sono, Ma s'egli il cuor nõ mostra hauer cõuerso, In fin'al fin, del suo ualor passato Ogni patto, ogni accordo gli è usato. Mase pur, l'ostinata alta durezza Del nemico lo uuol ueder distrutto Non ha però la piena contentezza D'hauer lo senza suo danno condutto, Al desiato fine, nè bassezza Gli tolle il pregio de la fama, e'l frutto Or la seconda cagion piglieremo, E s'auilirci habbiam, chiaro uedremo. Credete uoi, se Cesare in Tessaglia Hauesse riguardato a l'infinito Numer, col qual douea far la battaglia, Et ei di quanti pochi era fornito, Che quel nome, oue par ch'alcun nõ saglia Si potesse mostrar, com'ora, à dito? Et pel Re di uittorie, e di trofei? Che d'huomin non fece opre, ma di Dei. E non sol quella, ma tante uittorie, Che con felice fin gli fur concesse Chiaro splendor de le Romane istorie Son'or, come credete che l'hauesse? Riduceteui bene à le memorie, Che sì poco non è, che si potesse Del uostro chiamar men, ch'à lui mostrossi E pur uittorioso conseruossi. Il discorrer le terre assediate Con presidio piu debile potremo Lungo tener, che poi fur liberate; Ma troppo tempo in questo perderemo, Poi la ragion, ch'ogn'alta deitate, In noi discerne, fa che nulla temo, Pur che da uoi s'abbracci, e che s'intenda, E come far si deue, si difenda. Ecco la terza ragion, che ui sprona, Che più de l'altre puote, à far uedere Valore estremo di uostra persona, E' che difender doureste uolere L'antica patria, che se s'abbandona, Non sol quì ui perdete il caro hauere; Ma'l sangue uostro, e l'onor sì pregiato, Che sopr'ogn'altra cosa à l'huomo è grato. Chi dourebbe di me combatter meno, Che ci son forestiero? e non di manco Offero il sangue mio, questo terreno Corpo, ecco questo petto, & ecco'l fianco, Accio difese uostre ragion sieno; Io sarò il primo à non mostrarmi stanco, Ripigliate l'ardir, pigliate core, E Dio pregate, che ui dia fauore. La città per un'anno è ben fornita Di uettouaglia, e di muraglia forte, La gente dentro, ad ogni proua ardita, E ben'armata, à uoi basta le porte Guardar'e queste mura à l'apparita Di fuore, & al pericol de la morte, Me lasciate ir, l'incarico sia mio, E di chi di uenir meco ha desio. Vedete quanto ben per opra mia, Già riceueron questi Persiani, Ch'uccisi già per lor meza Turchia, C'haueuan questa terra ne le mani, Et or gli hann'accettati in compagnia, Per ristorarmi d'atti empi, e uillani; Ma spero ancor, che non passer à l'anno, Che di tal amicitia piangeranno. Accesi d'un'ardir fuor di misura, Risposer tutti, difender uogliame Infino à morte la patria, e le mura, E del uostro uoler ui ringratiamo Di fuor sia uostra, e di dentro la cura, Che ciò ch'è nostro ne le man ui diamo; Per tal risposta benigna, e cortese, Guerrino ad ordinar le guardie attese. Attese molti giorni à far ripari, E compartir le guardie in ogniparte D'onde possan uenir gli aspri auersarij. Senz'uscir fuor più con aperto Marte Sempre ristretto con gli amici cari, Nè dal consiglio de' nobil si parte, Tanto, ch'una mattina, poiche messo S'era à mangiar, giunse di fuor'un messo. Ch'à Guerrin disse, Vtinifar mi manda, Et Milidonio Turchi, già figliuoli Di Galismarte Re, ch'in questa banda, Già uccidesti, con tanti suoi stuoli, A dirti, anzi da lor ti si comanda, Che prigione ti renda à lor due soli, E la città, con Antinisca dia, Del magno Lionetto in sua balia. Acciò che la bagascia d'Antinisca Per tutto il campo strascinata sia, E com'è'l suo pensiero, si punisca, Poi s'arda, e al uento la poluer si dia, Non aspetta Guerrin, ch'egli fornisca, E disse già fatt'ho la parte mia, Per il mio messo; onde or se cur tu sei, Ch'altramente la lingua io ti trarrei. Non prima d'Antinisca mi parlasti, Che d'esser arrostito uiuo uiuo, Senza remissione meritasti, Dipoi che de la lingua fusti priuo, Dissi'l messo, fornir non mi lasciasti, Vtinifar mi disse, che se schiuo, Di questo siete, ch'à morte ui sfida, E'l campo fuor, perche uegniate fida. Poi domandò qual Artibano fosse Di Liconia chiamato, e fugli detto In uerso'l qual così la lingua mosse; Di Baraniffe il figlio, di te stretto, Nemico à far mortali aspre percosse, Ti sfida seco, sol per giusto effetto, Che gli uccidesti il padre à tradimeno, Acciò non passi senza punimento, Se Baraniffe (Artibano rispose) Suo padre, fu già Re de' traditori, Di, ch'ei suo figlio, in tutte l'altre cose; Il può digenerar, da quello in fuori, Però che sotto se, poco è, mi pose Addosso tutto il campo, & egli fuori De le mie man, per tal modo si trasse, Or, come uuol, che di lui mi fidasse? Pur giuro per la fe, ch'io diedi prima Di Taranto al' gran Principe, che s'io Potessi far de la sua fede stima, Ch'io contenterei tosto il suo desio, Acciò, ch'à tradimento non ci opprima, Disse Guerrin, uàrispondi, che'l mio Pensier non è, che s'esca queste mura, Se con ostaggi pria non ci assicura. A la presenza di Lione espose, Il messo ritornato, l'ambasciata, Vdendo Vtinifar, quel che rispose Degli ostaggi Guerrino, in uiso guata, Milidonio il fratello, e poi si pose A pregarlo, ch'ei pigli quell'andata, E sia ostaggio fin che fuor del muro Venga Guerrino à combatter sicuro. Contradì Milidonio al primo tratto; Ma pur'Vtinifar tanto lo prega, Ch'ei fu contento, e mandaro uno infatto Per un saluo condotto, nè gliel nega Guerrin per sicurtà del suo riscatto, Dopo la pugna, ma già non si lega A questo Tarsidonio, che'l pensiero Haueua tristo, e d'empio caualiero. Or Milidonio in Presepoli entrato, Per la mattina, che douea uenire, Fu tra Guerrino l'assalto ordinato E'l detto Vtinifar, ma per seguire Guerrin con ordin, che sia onorato, Sì tosto il Sole non uide apparire In Oriente, ch'armato ne uenne Di fuor nel Campo, come si conuenne, Ma prima ad Alessandro ordine diede, Che Milidonio non fuggisse uia, Accioche rotta non gli sia la fede A Paruidas commette, che si dia A guardar la cittade, e perche ei crede, Ch'ancor che quello ostaggio dentro sia Potrebbe esser tradito, Artiban messe Con gente armato in punto, s'accadesse. Dicendo, io ti prometto, se tal festa, E' disturbata, ch'à l' ostaggio tosto Farò spiccar da le spalle la testa; Or, per tornar doue Guerrino posto Già s'era, senza più noua richiesta Dal franco Vtinifar gli fu risposto, Così giugnendo, Guerrin salutollo, Ma'l Turco dispettoso bestemmiollo. Sie'l mal uenuto, disse, tu c'hai morti Tanti del mio lignaggio; ma non uoglio, Che più questo trionfo te ne porti, C'hor ti trarrò la uita, con l'orgoglio. Disse Guerrin, tutti i miei dritti, e torti, Col mio nemico, con la lancia soglio Difender sempre, e così s'allargaro, E'l corso lungo à lor modo pigliaro. Vtinifar era buon caualiere, Sì ch'à lo scontro de le lance duro, Nè l'un, nè l'altro si uide cadere, E poi che rotte le forti aste furo, Fecer'a l'aer le spade uedere, Nè più che rocca si mouesse, ò muro Al crudo martellar mouensi loro, Intenti à darsi l'ultimo martoro. Vansene in pezzi l'armi, e le fauille Di qua, di là, per uariate uie Salgono uers'il cielo, à mille, à mille, Sfogansi in parte quì le liti rie, Quì l'armi suonan, là belliche squille. In Presepol si fanno preci pie, Pel buon Guerrino, e nel campo Macone Si chiama, accio che uinca il suo campione. Nè alcuno essend'ancor uittorioso, Affaticati, oue l'onor gli sprona, Si ritiraro, e presero riposo, E nel fermarsi, Vtinafar ragiona A Guerrino, dicendo, il tuo famoso Valore, e la uiriù di tua persona, Mi fa prender pietà del tuo martire, Nè t'uccidrò, se meco uuoi uenire. S'à me t'arrenda, ti prometto certo, Ch'ogni tuo fallo ti fia perdonato, Dal buon Lione, pur che poi per merto Vogli in difesa oprarti del suo stato. Non fretta, Guerrin disse, e già coperto Con lo scudo à seguire è preparato, E cominciossi la seconda uolta A menar colpi, con le spade in uolta. A mez'arcata, per ueder l'effetto Di quella pugna, con molti Signori Allor s'era appressato Lionetto, Alessandro, perche uedea di suori Da la cittade il tutto, hebbe sospetto Di quel, che soglion fare i traditori, E disse à Paruidas, ch'egli guardasse Milidonio, fin ch'egli ritornasse. Prese l'assunto Paruidas, e tosto, Egli a caual salito, uenne doue Con gente armata, er' Artiban accosto Dentr' à la porta, & à quel diede noue Di quel che'l Campo fuor parea dispost, Al cui parlare, Artibano si moue Con quattro mila caualieri armati, Per esser presto à discoprir gli aguati. Fuor de la porta usciro, à canto à i fossi, Et Alessandr'accompagnolli ancora Nè così tosto dentro ritornossi. I due Guerrieri attendono tutt'hora A menar colpi, che sien tinti rossi In questo, nouo fuoco entro lauora Ne la città, ma non posso dir tanto, In questo, ritornate à l'altro canto.

IL FINE DEL CANTO
TRENTESIMOTERZO.

Signore, i preghi ancor di nouo ascolta De l'importuna mia già stanca uoce, Se mai più bisognasti, questa uolta Non ci lasciar perir dal dente atroce Di chi la frezza in man, la cord'ha tolta Contra'l diuoto di tua santa Croce, Che per l'util, che n'ha, ch'è infinito, Consente, e uuol, che Guerrin sia tradito. Ne l'altro canto azzuffati lasciai Guerrino e'l Turco Vtinifar, insieme, E l'uscir fuor d'Artibano contai Con Alessandro, che da lor si teme D'inganno più, che si temesse mai, Per Lionetto, ilqual per grande speme, Che ha d'Vtinifar, innanzi tratto, Con gente s'era per uedere il fatto. E dissi ancor come Alessandro diede A Paruidas la cura de l'ostaggio, Imperò che Guerrin gli hauea gran fede; Ma questa uolta n'harà tristo saggio, Non ch'ei pensasse dargli ria mercede, O in gann'usargli, ò sargli alcun'oltraggio Ma Milidonio, poiche sol trouossi, Con esso, un sottil tratto imaginossi. Per altro tempo, Paruidas hauea Con Milidonio amicitia contratta Ilche forse Alessandro non sapea, Che certo miglior guardia n'haria fatta Milidonio, che'l comodo uedea Nel salir d'una scala molt'ad atto A Paruidas parlò, che pensiam noi Di questa Guerra? e che fine harà poi? Rispose Paruidas, con un sospiro Non so dicendo, e colui, mal conseglio, Pigliaste ad aspettare ogni martiro Ogni supplitio, essendo per uoi meglio, Disse, da che pur le guerre seguiro Lionetto ubbidire, & il suo ueglio Padre Almansore, e non hauer seguito D'una uil femminella l'appetito. Paruidas non risponde, ma sospira Et Milidonio seguitò dicendo, Quand'io placassi di Lione l'ira, Ei sarebbe miglior, se ben comprendo Di saluar la città, che chi ui tira A dinegarlo, perche non essendo Nè de la fe, ne de la patria uostra. Darl'à punir ne la potestà nostra. Mai (disse Paruidas) non tradirei La nobiltà d'un tanto Caualiero, Rispose Milidonio, tu non sei In questo molto saggio, à dir'il uero, Vdir da te qualche ragion uorrei, In che tu speri? poi ch'ogni sentiero, Donde possiate hauer soccorso, è chiuso E'l fiume, e i passi, seruon per nostr'uso. Assediati siete d'ogni intorno, Come si uede, or che pazzia u'induce Voi cittadini, à patir questo scorno, Per un Cristian, ch'à distrugger conduce La nostra fe, ma uedrete ogni giorno, Che tutto non è or, quel che riluce, Però c'hanno piacer quei tre Cristiani, Che d'ogni parte muoian de Pagani, Nostri nemici sono, or se uolete Che le figlie, e le mogli uadan male Voi, la città, la robba, e ciò ch'hauete; Lor fauorire è la uia naturale, Deh per Dio rimediate, or che potete Fate à quei tre Cristian tarpare l'ale, E dateli in poter di Lionetto, Che farui perdonar poi ui prometto. E s'Antinisca saluar desiate Io farò sì, che si salui ancor lei; Quando sì larghe Paruidas, e grate Sentì le sue proferte, io non uorrei, Disse, già farlo, e ueggo apparecchiate Morti, distruttioni, e casirei, Però m'attacco al uostro buon conseglio; Ma de modi che ciè ditem'il meglio. Com'in campo sarò, colui rispose, Al mio uoler uolterò l'Almansore, E com'egli ha ceduto à queste cose, Auuiserouui, che per uostr'onore De le casate uostre più famose; Mandiate diece cittadin di fuore A trattar questa pace, e fa che sia Tù di quell'onorata compagnia. E farem dire à i messi, astutamente, Che per memoria del seruitio antico, Quando Guerrin cacciò la Turca gente Mio padre uccise (à mio mal grado il dico) In questa parte, il Soldano acconsente, Che Guerrino sia saluo com'amico, E quel uiaggio pigli, con sua pace Co suoi compagnl, doue andar gli piace. Restò di questo Paruidas contento, E perc'hauesse quest'ordine effetto Insieme lo fermar con giuramento; Ma ritorniamo doue haueua detto Del Turco, e di Guerrin l'abbattimento, Che fu di crudo e terribile aspetto, Per tre hore, ò per più, tanta grand'arte Di scrima era da l'una à l'altra parte. Gli scudi eron'in pezzi; in sù'l terreno Omai cascati; al fin, si strinser tanto, Che'l colpeggiar di spade uenia meno, E'nsieme s'abbracciar da ogni canto Le forze han quasi ugual, nientedimeno Rupper le cigne à i lor destrieri, e quanto Era d'intorno à sostener le selle, E loro uscir de' caualli, e di quelle. Abbracciati cascar, ma la destrezza C'hauea Guerrin, lo fe restar di sopra, Ilqual tempo non perde, ma gli spezza Ciò ch'a l'elmo tener chiuso s'adopra Trattogli quello con molta prestezza, Col pomo de la spada gli da sopra Le tempie, e gli cauo tosto la uita Così la lite restò qui fornita. Pone al caual la sella, e molto presto Le cigne assetta, e montatoui suso Guerrin senza ch'alcun gli sia molesto Tornossi à la città, di che confuso Lionetto tirossi con il resto De suoi Signor, maladicendo l'uso Di quel combatter, che potendo fare Senza licentia dar, pur la uuol dare. De la citta nel palazzo reale Ognan s'allegra, Antin sca correndo Venia contr'a Guerrin, mentre le scale Smontato da caual, uenia salendo In quell'instante, uenn' un messo, ilquale Era uenuto le penne battendo, E domandò per parte di Lione L'ostaggio, e'l corpo del morto Barone A Milidonio diede, che tornasse Guerrin licentia, & al messo rispose, Che'l corpo morto Lion si pigliasse, Milidonio in camin tosto si pose Con maladir le guerre, c'hanno casse Di uita di sue genti dolorose La maggior parte, e'l suo lignaggio tutto Sia quasi da Guerrin stato distrutto. Così nel Padiglion suo ritornato Gran pianto fece, e la medesma sera Al Soldan disse l'ordito trattato, Ilqual rispose ben, che content'era, Ch'à i cittadini fusse perdonato, Perche città sì nobile non pera; Molti Signor fe chiamar à conseglio Per consultar di ciò che fuss'il meglio. Fuui anche Lionetto, e à tutti diede Il guiramento prima che segreto Il tutto si tenesse, onde si uede Di distrugger Guerrino ciascun lieto Al fin tal cura à tre sol si concede, Lion fu l primo, & à lui segui dietro Milidonio; e pel terzo, Margarasse, Per quest'impresa ad eseguir si trasse. Passati molti di, uenn in pensiero A Milidonio un modo d'eseguire Tal fatto, e c'habbia effetto di leggiero Non è da dubitar, e il uenne à dire A i suoi compagni, dicendo, è mestiero, Ch'in qualche modò s'habbia à colorire La cosa, sì che fede gli si dia, Or ascoltate la mia fantasia. Si darà nome, che'l Soldano uoglia Saluar Guerrino, e saluare i compagni, Acciò del beneficio non si doglia Antico, e Frigeremo che si lagni Di questo Lionetto, e lo distoglia; E'l Soldano ostinato pur rimagni, E non uoglia patir che sia distrutto Guerrin, nè dargli al ben seruir mal frutto. Da l'altra parte Milidonio unito Con Lionetto si dimostri, auenga Ch'ei uuol che dell'offesa sua punito Resti, e per simil conto al fin si uenga In gran discordia, e che di la dal lito Del fiume, l'Almansor forte si tenga Di quà con là sua gente disdegnoso Resti Lione, & al padre ritroso. E più uolte leuatosi à romore Mostrò l'un campo e l'altro segno chiaro Di poco accordo, e tra questo furore Due Mediani fuggiti ordinaro, Che de la uita mostrasser timore I quai ne la cittade dentro entraro, E mostrandosi tutti sbigottiti Mostraron per timore esser fuggiti. Affermauan di Media esser costoro Sbanditi, e ch'eran co i Turchi uenuti In campo, ma uedendo già tra loro, I Persiani star mal conuenuti Temeuano ch'un di con lor martoro I Turchi non restasser abbattuti, E lor seco morir; che Lionetto Fatt'han, ch'al padre l'accord'ha disdetto. Ne la città mandò poi dopo questi Il Soldan, due astuti Caualieri, Che prouasser per segni manifesti A tutti i cittadin, che uolentieri Perdona à la cittade, ma molesti Gli sono molti, iquali amici ueri Teneua, ch'accordati col suo figlio Fan ch'egli contradice al suo consiglio. Però (disser) il nostro Signor degno Vi manda à dire; in fin ch'accordo faccia Col suo figliuolo, non facciate segno Di guerra, acciò nessuno si dispiaccia, Che tutt'il suo pensiero, e lo suo ingegno, E d'usarui perdon, pur che ui piaccia, Et perdona à Guerrin, che in questa parte Per lui uccise il gran Re Galismarte. E dice, che Macone ancor preghiate Che l'accordo sia presto, senza male D'alcuno, e comè fatto gli mandiate Imbasciadori, per mostrar segnale Ch'umilmente la pace gli chediate, E fu lor dal minuto, al principale Popolo fede data, ognun fe festa, Et allegrezza di tanta richiesta. Grand'onor fero à i Caualieri ancora, Che paion nuntij di sì grand'offerta Paruidas, il disegno suo colora Sott'à quest'imbasciata à tutti aperta A i cittadin ne parla, e poi lauora, Per Guerrino tradir, sotto coperta, E conuertigli al suo uoler di sorte, Ch'à corteggiare il cominciaron forte. Guerrino à i Caualier così rispose, Per farsi grato al popolo, ch'al tutto Era contento à tutte quelle cose, Ch'eran per fare, à la città buon frutto, Non pensando à le reti già nascose Onde, poi che'l Soldano intese il tutto Per tre dì finse molti Ambasciadori, Che da l'un campo à l'altro andasser fuori. Da la cittade il tutto si uedea Di che molto lodauan'il Soldano, Ch'à quell'accordo sì ben prouedea Con Paruidas il popol tenea mano, E già tra i cittadini si sapea L'inganno, ch'à Guerrin s'usaua strano Ma tacito si tien, sol s'ubbidisce A quanto Paruidas se gli ammonisce. Il terzo giorno poi ch'entraro drento Quelli due Caualier de l'Almansore A far quel sì mendace parlamento, Leuossi in campo un subito romore, Che vi par nato un'allegro contento, Però che l'un e l'altro lor Signore Si mostraro accordati, sì che'l grande Romor di pace, in Presepol si spande. Pace si grida fuore, accordo, e uiua Il Soldano Almansor, uiua Lione Con la benigna insegna de l'oliua Attorno andaua questo, e quel Barone, Passa Lione l'un'e l'altra riua Del fiume, e innazi al padre inginocchione Si getta, e mostra chiedergli per dono In mezo, e doue i primi Baron sono. Poi con atto domestico, e cortese Con pochi accompagnato uerso i fossi De la cittate lento camin prese Si che di dentro il tutto ueder puossi Che per segno di pace sì palese Antinisca, e Guerrino immaginossi Che'l la fusse conchiusa, nè si resta Per lor, che non si mostri farne festa. Vennero dentro la medesma sera Due degni Ambasciatori, e peruenuti Nel palazzo reale, con seuera Maestà, diero i debiti saluti, Doue Antinisca, e doue Guerrin'era, E doue s'eran anche conuenuti I primi cittadini à rallegrarsi Di quanto fuor nel campo ueggon farsi. Quei cominciar quant à lodàr u'hauete (O Antinihca, ò nobile Guerrinò, Alessandro, & Artibano, che siete Seco, e tu Paruidas, buon cittadino; Voi altri tutti ch'intorno godete Di Presepol l'antico, e bel domino) Che Dio habbia spiratò il Signor nostro, A terminate ogni pericol uostro. L'una per la speranza di soccorso Vuole egli dimostrar come gentile Ch'ei sa tener di sua potentia il morso E chi era altramente in pensier uile Con il suo Figlio, & à disdirgli incorso Ha fatto al suo uoler tornare umile E questo fa per non esser ingrato Del beneficio da Guerrino usato. E per saluar Presepoli, gli piace Per esser pur sotto sua signoria Di dar salute à i cittadini, e pace E già la strana, e trista fantasia Che hauea già Lionetto, à lui soggiace Che mostro gli ha quanto uil cosa sia Con femine à pigliar uana uendetta A chi gran fatti, e non sì uil si aspetta. Non consiglia Guerrin, nè contradice Per non turbar la città consolata Che si tenea de l'accordo felice Quanto si dimostraua assai più ingrata Verso Guerrin, che per farlo infelice Tacita mena quell intemerata Gli Ambasciador contenti licentiaro E la mattina, que diece ordinaro. Ben che furono eletti quella sera Il principal fu Paruidas di tutti A' quai Guerrin parlò di'tal maniera Carissimi miei padri, che condutti Siete per torui da così seuera Guerra, molto mi piace, che da i lutti Vi liberiate, ma pur, sieui in mente Io, che fui capo de la uostra gente. Quante fatiche, e quante guerre ho prese Per uoi sapete ben senza chi'l dica Nè per pericol mai di graui imprese Per uoi, saluare, mi parue fatica Di che non uo che gratie mi sien rese Nè altro premio, ma sol che l'amica Pace da uoi ordita, sia poi tale Ch'ad Antinisca, e me, non torni male. Di me però ch'essendo in Grecia, uenni Fin qui, sentendo il gran bisogno uostro E per tal conto prigione diuenni Di Baraniffe, quell'orribil monstro Et io, che seco sicuro mi tenni Prigion fui preso dormendo col nostro Alessandro, del qual piu mi dolea Che del mio stesso mal, che mi premea. Or, per mercè d'Artiban, altrimenti Chiamato Fidelfranco, il quale Dio Guidò anch'egli negli alloggiamenti Di Camopoli, à quel traditor rio Tolse la uita, e noi fece contenti E come di uenire hauea desio Per uostro aiuto, così uenni poi Qui doue un'anno stato son con uoi. Quel, ch'abbiam fatto ora per uoi sapete; In questo tempo, che ui habbiam saluati, Di sorte, che i buon patti, ch'ora hauete. Non sò se per tal mezo sieno usati, Or saggi siete, e sò che m'intendete Sieno gli accordi di sorte ordinati, Com'hò già detto, cha'l manco possiamo Là ritornar, d'onde uenuti siamo. E' Antinisca ancor, uostra figliuola, Sì ch'io ui prego, che uoi ben fermiate La pace, acciò ch'abbandonata, e sola Non uada in man de le genti spietate, Altro non dico, perche'l tempo uola; Ma sol ui prego, che mi perdoniate S'hauesse diffidenza il parlar nostro In parte alcuna uerso uoi dimostro. A cui rispose Paruidas, l'amore De la patria, con quello de l'inclita Antinisca, farà che con onore Di tutti, fia la pace stabilita, Non sia conchiusa con altro tenore, Che quel c'habbia à saluar la uostra uita, E de i compagni uostri, e del conseglio Vi ringratiam, ch'à noi date per meglio. Nè si conchiuder à nessuna cosa, Che prima non si faccia à uoi sapere Con questa conclusion, fin che l'ombrosa Notte passasse, e cedesse al potere, Ch'à la sua fine ha da Titon la sposa Lassaro il degno, e franco caualiere Co i suoi compagni, e uenendo il di chiaro Nel campo à l'Almansor s'appresentaro. Giunti nel campo i diece Ambasciadori, Trifalo, che fu figlio de l'ostiero, Ilqual da Guerrino hebbe molti onori; E fu già da lui fatto caualiero, Ilqual sapea di tanti trasgressori Di fe, uerso Guerrino, il lor pensiero, A lui uenuto, disse, Signor mio. Com'un'inganno tal patirò io? Sappi, che Paruidas, che hai mandato Per primo Ambasciadore, à far la pace, T'ha tutto il popol contra congiurato, Mostrati il bene, e'l crudo inganno tace; Che da che Milidonio gli fu dato In guardia, ordinò seco, con tenace Accordo, il tradimento, che uedrai, S'al mio auiso non prouederai. A Dio non piaccia, per tua trista sorte, Che per l'onor, che m'hai fatto, io patisca Vederti à tradimento dar la morte, Et à la nostra Regina Antinisca, Perch'ella ancor'è messa à simil sorte, E che quanto io ho di bene, in uoi fornisca; Morse in battaglia il mio buon genitore, Or uoi sol'ho per padre, e per Signore. Quando Guerrin'intese le parole Di Trifalo fedele, e ripensando A certi cenni, & à l'astutie sole, Ch'egli hauea uiste di Paruidas, quando Il confortaua, pria di sè si duole, E del merto, che reso gliè, nefando, E se chiamarsi Alessandro, & il caro Artibano, & il tutto à lor fe chiaro. Artiban disse, datemi licenza, Che come Paruidas ritorna drento, Gli uò leuar la testa, à la presenza Di chi ha seco il tristo intendimento, Non (rispose Guerrin) habbi auuertenza, Che tutto'l popol n'harebbe spauento, Et non sol quei di fuor nemici haremo; Mai suoi seguaci dentro offenderemo. Che di dentro, e di fuore ognun s'intende Seco; ma lascia à me tutto l'affanno, E tu fratello, à tener l'armi attende In punto, se pur quà bisogneranno, Ch'io guiderò di sorte le facende, Che sopra il traditor, uerrà l'inganno, E noi farem di quì forse partita, E con ingegno camperem la uita. E Trifalo chiamato, ascolta, disse Quand'io insieme con la compagnia, E te nosco anco, insieme trauestisse Di sorte, che nessun di noi non sia Conosciuto, e di fuor di quì s'uscisse Senza, che'l campo fuor noia ci dia, Sapresti poi guidarci fuor di strada, Ch'in qualche impedimento non si cada? Per mia fe, disse Trifalo, se noi Vsciam del campo, e non siamo impediti, Che per cinque giornate guidar poi Vi uoglio in sì occulti, e strani siti, Ch'un'uccel non sarà, che pur ci annoi, Non c'huomini, che sien d'arme forniti, Allora s'impalmaro, e dier la fede Seguirsi, fin che uita in lor si uede. E d'aitarsi ancor con l'arme in mano L'un l'altro, e per se stesso fin'à morte Quand'accadesse qualche caso strano, Ch'in man de lor nemici pur gli porte Ma la risposta aspettar del Soldano Voglion prima à l'uscir fuor de le porte, E in questo mezo, starsi armati insieme, Per ogni caso, che da lor si teme. Ad Antinisca intender prestamente Fece Guerrino l'empio tradimento, Che Paruidas usaua, e la sua gente; Ond'ella tutta piena di spauento, A pianger cominciò amaramente, E poi con uolto di dolor dipento, Volta à Guerrino, disse, or che faremo E, che partito di noi pigliaremo? Pur ch'io saluassi uoi, Guerrin le disse, Di noi qualche partito potrei torre; Diss'ella, dunque credete io patisse, Che da uoi per saluarmim'habbia à sciorre A uoi douria bastar sol, ch'io morisse Vna sol uolta, e non uolermi porre A mille morti, che sarebbe s'io, Qui senza uoi restassi, Signor mio. Oime, ch'io prima uoglio un bosco, ò speco, Con uoi, dou'io mi faccia poi Cristiana, Che quant'io ho quà giù nel mondo cieco Da posseder tra questa gente uana Et io, disse Guerrin, d'hauerui meco, Sarei contento, nè terrei, che strana, Mi fusse la fortuna, e più mi preme' Voi qui lasciar, che tutto il mondo insteme. Ella, si raccomanda, e dice, fate Di me quanto ui piace, e sopra tutto Fate che di quà dentro mi cauiate, Se uedete à l'uscir poter far frutto, Disse Guerrino, in questo mezo, state Attenta bene, à sapere il construtto De l'accordo, allor quando sien tornati I diece Ambasciador di fuor mandati. Così fece ella, e per sapere il uero A la tornata, che feron coloro, Mostraua che del nostro caualiero Poco curasse, pur che'l suo martoro Restasse d'ogni effetto al fin leggiero; Ma ora di narrar fatt'ho pensiero, Quel che gli Ambasciador fecero in cãpo, E come sol fermaro il loro scampo. Eran giunti dinanzi à l'Almansore, Et d'ogni fallo chiestogli perdono, E poscia esposer come giunti fuore Eran per pace, e che parati sono, Fare ogni accordo, ma pregan di core, Per somma gratia, e per benigno dono, Ch'ad Antinisca perdonato sia, E per moglie à chi pare à lei si dia. E che Guerrin, co suoi compagni mossa Possa far uers'Armenia, acciò sicuro, In Grecia ritornare à dietro possa, Et il Soldan senza mostrarsi duro, Rispose loro, acciò non sia rimossa L'auttorità, che pel tempo futuro Dato ho di questa guerra à Lionetto, A lui ui mando, & à lui mi rimetto. Margaras, Milidonio, e'l mio figliuolo, Come capi allor diedi à questa pace, Che sò, che per men mal del nostro stuolo, Anc'à lor, che si faccia presto piace; Andaro i cittadin là doue solo La speranza gli guida, e doue face Lion la residenza, e gli altri due A iquali apriro le domande sue. Milidonio, che'l tutto hauea ordito Con licenza parlando di Lione, Diss, io son primo à la risposta ardito, Ne la dimanda che per uoi s'espose, Sì, c'huomin saggi, uedete il partito, Nel qual la forza del Soldan ui pose Vedete in che miseria siete incorsi, Per esser fuor de la ragion trascorsi. Dal nostro Imperador, non che noi siamo Degni di tant'onor, ma per la molta Magnificenza e sua bontà possiamo Col suo figlinol risponder questa uolta, Dal quale, autoritate piena habbiamo Sopra la gente, ch'ora è quì raccolta, E sopra il trattar pace, e far la guerra, Secondo à che ne'nciterà la terra. Or, non pensate che noi siamo certi De la calamità, ch'in uoi si uede, Nè il Signor nostro conuien, che s'accerti Di quel medesmo, che per noi si crede E ben in uoi si comprendono aperti Segni del gran bisogno di mercede, E quant'il gran pericol ui s'appressa, Nel qualla città uostra tutta è messa. Ond'i nostri soldati tutti intenti Al sacco, à la rouina, al ferro, al fuoco Di uostra roba, e Donne già contenti Sicuri stanno, e quest'habbian pel poco Timor uerso Macone, e di sue genti, Però parui egli onesto, udite un poco Tener là entro tre ladron Cristiani, A cagion, che distruggano i Pagani? Nemici son pur de la fede nostra Ben uedete, che'l nostro Macometto D'hauere sdegno contra à uoi dimostra, Or'io nel uostro creder mi rimetto, Se uoi pensate, ch'à la città uostra Guerrino & Alessandro habbin rispetto, O per esser Cristiani habbian piacere Le liti tra i Pagani mantenere? Del traditore Artiban non ui parlo, Che di Turco, Cristiano è diuenuto, Che Macon già offese col negarlo; Or'il persegue, come s'è ueduto; Ma io con queste man uoglio squartarlo, Or sia da uoi aperto conosciuto, Quanto rincresce al nostro Imperadore Il uostro mal, quanto ui porta amore? Che quando à l'auenir siate fedeli, Sudditi, come fuste nel passato, Dandogli in mano i tre Cristian crudeli, O morti, ò uiui, uuol che perdonato Vi sia, e testimon ne chiama i cieli, Ch'egli si duol di tutto quel, ch'è stato, E però mentre u'è da lui concesso, Pigliate il ben, che ui uedete appresso. Potrebbesi pentir, nè ui fidate Ne le forze di tre Cristiani soli, Che per amici tanto gli osseruate; Ma la speranza nostra ui consoli, Gli Ambasciadori udite l'infocate Parole, e lor, le mogli, e i lor figliuoli, Bastandogli saluar, furon contenti, Pur di tradire i tre Cristian ualenti. Perche restati attoniti, e pensando A la risposta, al fin deliberaro, Che Paruidas uenisse confermando I patti, nè più oltre ne parlaro, Ilqual, in tutto al fin dimenticando, Quanto gli fusse stato Guerrin caro; Tutto infocato, & à tradirlo intento Mosse la lingua con tal parlamento. O Signor Lionetto, e uoi elettì Sopra la pace, à noi tanto gradita, Dico che i nostri sempre fur soggetti Al gran Soldano, con cara, & unita Fedeltate, or, s'incorsi ne i difettti Siam, doue la Fortuna ria ne'ncita, Anzi, doue la fe c'habaiam himostra Ad Antinisca, ch'è Reina nostra. Noi l'ubbidimo, da l'obligo uinti, Che ben sapete, che tutti coloro, Che sien uassalli, & al seruigio spinti Di femina, ò di maschio Signor loro; Nè con ueri pensieri, nè con finti Posson distribuir, se'l bel tesoro De l'alma fideltà non uiene offeso; Onde mertiam, che perdon ne sia reso. O degno di castigo, ò pur di scusa, Che sia tal caso, ne chiediam perdono, Acciò per nostro dir, non sia confusa La nostra pace, e'l uostro uoler buono; Rispose Lionetto, l'è conchiusa Tutte le uolte, e sodisfatto sono, Che uoi giuriate darci i tre Cristiani, O uiui, ò morti, ne le nostre mani. E son contento, ch'Antinisca sia Data in poter del mio padre Almansore, E se gli pare, à suo modo le dia Per suo marito qualch'altro Signore, Ancor che fusse la sua fantasia Darle supplicio assai molto peggiore A lei non dà sicurta risoluta, Per fin che ne le man gli sia uenuta. Benche Paruidas dice, fia mercede Darla per moglie al nostro Milidonio, Ognun ride di questo, & egli cede, Et accetta con più d'un testimonio, Gli Ambasciador, giuraro poi per sede Di non falsar de la promessa il conio, Lion giurò di perdonare à tutti, Tutt'hor, che i tre Cristiani sieno distrutti. E perdonossi à i Mediani ancora, E così fu fermato il tradimento. Poi disse Paruidas, quì bisogn'ora Signor Lion, ch'al nostro mancamento Aiuto diate di gente di fuora, Che gran danno sarebbe di noi drento Voler per forza i tre prender prigioni, Tanto son franchi, e ualenti campioni. Appresso, promettemmo, à la tornata A Guerrino narrar tutto il successo, Come sarà questa pace ordinata, Però, poniamo quand'io son con esso Quel ch'io glidebba dir, che in quest ãdata Non si scopra con mio graue interesso; Ilche fu fermo, ch'à lui si dicesse, Ch'oue il camin gli piaccia, lo prendesse. E che Lione per l'onor paterno, Sol pel seruigio, che ne' tempi à drieto Gli hauea già satto, e per l'amore interno, Ch'ancor gli porta, del cor nel segreto Con compagnia, e sicuro gouerno, In Armenia sicur porrallo, e lieto Co suoi compagni, e cõ quel, ch'à lui piace Portarne fuora, e se ne uada in pace, E che per far manco confusione Queti, e di notte faranno l'entrata, E che tre dì di termine ancor pone, Per far la cosa con più pace, e grata, In questo mezo, diece altre persone, Oltr'à la compagnia, c'hauea menata Guerrin s'elegga co i caualli loro, Con tre some di roba, ò gioie, ò d'oro. Ancora aggiungerem, c'hauendo tolta Antinisca per moglie, e che la uoglia Via se la meni, pur ch'ella disciolta La città lassi, e che s'ella si spoglia Di Signoria, possa far raccolta Del tesoro ch'el l'habbia, e se lo toglia; Così se ne tornaro, & io fra tanto, Per riposarmi ho quì finito il canto.

IL FINE DEL CANTO
TRENTESIMO QVARTO.

Habbiam veduto, e di nouo ueggiamo, Re del superno ciel, rettor del tutto, Che qual hora ne gli huomin confidiamo Ogni bel pensier nostro si fa brutto Ne intender uuol questo seme d'Adamo, Ch'in te solo sperar si fa buon frutto, Ecco or, che Paruidas non è perfetto, Che da Guerrin fu per sì fido eletto. Ecco, che con quell'empia conclusione Va di tradir Guerrin ne la cittate, E secondo la loro intentione Pur'à Guerrin le cose raccontate Di ciò mostrò pigliar consolatione Co'suoi compagni, e che non poco grate Gli fussero tai nuoue, dimostrando Di non uenir d'inganno dubitando. Non biasimò Guerrino, che di notte Fusse l'entrata, ma ben disse, ò caro Paruidas, guarda poi, che non sien rotte Le fedi, che non torni il gaudio amaro, Perche tra tante genti, e tante frotte L'ordine buono s'osserua di raro Paruidas gli rispose, che sapeua, Che l'ordin dato mancar non poteua, Tra se disse Guerrin, se ti riesce Al tempo si uedrà, segui pur uia Di Trifalo or parliamo, alqual'incresce, Ch'à i tre Cristiani si faccia uillania Tacito ascolta ciò che di bocca esce Ad alcun che sia stato in compagnia Del falso Paruidas, e uolentieri Mostra biasmare i Cristian Caualieri. Tanto ch'un de li diece Ambasciadori Il tutto gli scoperse, per unirlo Anch egli, con quegli altri traditori Di che mostrossi allegro, e uenne à dirlo A Guerrino, ch'in cambio à i degni onori Si cercaua empiamente ora tradirlo, Dunque segretamente il tutto disse Per qual uia, e qual modo si tradisse. Al Alessaadro il disse, e Fidelfranco Guerrino, e disputaro per qual modo Venisse ben, per far d'effetto manco Di Paruidas, e l'ordinato frodo Accio che prima, che sia uenut'anco Il tempo, di sospetto sciolto il nodo Si troui, al fin pensaro, esser migliore Di quindi sconosciuti uscirsi fuore, Poi che di notte esser douea l'entrata Guerrino, come capo de la gente, Che dentro à la cittate era ferrata Parlò al traditor, che la sua mente Era, che quella notte disegnata Vscisse fuor molt onoratamente, Con trecento caualli, e ponga in mano De la citta le chiaui al gran Soldano. Acciò l'auttorità che gliè concessa Da tutta la città, ne dia segnale La bella caualcata che con essa Sarà de l'alma pace il principale A Paruidasse libertate espressa Parue tal cosa, e che Guerrin di male Più non temesse, & accettò l'inuito Come Guerrino hauea già stabilito. Tornossi à porr'in ordin per la sera, Ch'esser douea del crudo officio guida Artiban, di tal fatto si dispera Deh fa (dice à Guerrin) che questa fida Spada oprar possa sì, che quel rio pera Di Paruidas, deh lassa ch'io l'uccida A cui disse Guerrin, troppi nemici Vorremo hauer, facendo quel che dici. Haremo la cìttà tutta nemica Laqual seco s'intende, e tutto il campo, E noi quattro saremo à gran fatica Or, pensa com'hauer potremo scampo In questo tradimento ognun s'intrica Dannoci i Mediani ancora inciampo, Che son quà entro, e per questa ragione Lassò Artiban tale opinione. Venne la sera, e Paruidas intento A quel c'haueua à far, prouò Guerrino. Dicendo, dammi quel proue dimento, Che dar mi uuoi di gente, al mio domino, Ch'à sodisfar nostra promessa intento Muouer mi penso col fauor diuino Fu da Guerrino il traditor raccolto A questo fatto con allegro uolto. Dicendo ò Paruidas, caro fratello Fa i patti chiari, acciò non sia ingannato, Poscia segui, io mandero'l drappello Con te di gente, ilqual ho ordinato Trecento Caualier son posti à quello Effetto sol, che tu sia onorato, Monta à cauallo, e piglierai la scorta Poi uien quì per le chiaui d'ogni porta. Partissi à porsi in ordine, & in questo Mandò Guerrino ad Antinisca à dire Per Trifalo, ch'in ordin fusse presto (Se com'hann'ordinato) uuol feco ire Vestissi ella da maschio, e d'arme il resto Fuor che la testa, si uolse guarnire, E per parer Guerriero, un cappelletto Posesi in testa, in uece de l'elmetto. Tolse le gioie care, e quel ch'er'atto Più à portarsi, e'l buon Guerrin in tanto Co suoi compagni, sellare hauea fatto Cinque caualli, c'haueuano il uanto Tra i più perfetti, & aspettaro il tratto Del traditor, che si pensa dar uanto De la lor morte, e come quel fu gionto I trecento guerrier fe porre in ponto. In quel mezo gli disse molte ocse, Sopra di tal' accordo, rammentando L'opere fatte già per lui famose, E pensasse à tal pace, perche quando Sien del Soldan le proferte dubbiose Il pensier suo uiril non ponga in bando Ch'ancor gli basta l'animo à far proue Da far onore à Marte, e Stupir Gioue. Se uoi uolete, Paruidas dicea Farò uenire il Soldano in persona, A giurar quì la pace, tanto hauea Gran fede ne la degna sua persona, A cui disse Guerrin, che non uolea Sicurtà nè più trista nè più buona, Che esso stesso, e diegli i Caualieri, Mostrando farlo molto uolentieri. Dicendo, ecco le chiaui de la terra Teco le porta, & umil l'appresenta Al Soldano, e pon fine a tanta guerra, Che tant'il petto tutti ui tormenta Tu i patti allarga seco, e tu gli serra Sì come la tua mente si contenta, Perch io ho tanta fede nel Soldano, Che atto alcun non farebbe uillano. In tanto, proueder farò'l palagio Real per poter far l'officio mio Di ricettar sì gran Signor con agio, Et il piè baciargli, com'èl mio desio Di ciò contento, auisossi il maluagio, Che tant'inganno non uedesse Dio, E de la porta Rabia uscissi fuore Tutto gonfiato di sì scempio onore. Verso Damasco quella porta giua, Ma prima ch'ei giugnesse a quella porta, Quella fece serrar, la quale apriua Il palazzo dinanzi, e con la scorta Guerrino, nel giardin di dietro arriua Doue Antiniscà à caualcar conforta, Et Alessandro, Artibano, e'l fidato Trifalo, essendo ciascun bene armato. Tutti tolser le lance in mano, in fuore Sol Antinisca, che l'arme portaua Ch'usa portare il faretrato Amore L'arco, e'l circasso, & in parte l'armaua Armatura leggiera, ben che'l core Disarmato nel petto le tremaua, Non sol per sè, quanto per tutti insieme, Che scoperti non sien dubita, e teme. Insieme questi cinque si cacciaro Tra i Caualieri, liquali io ho gia detto, Che dietro à Paruidas sì s'inuiaro, E per leuarsi ben d'ogni sospetto Guerrino l'elmo che per gioie caro Solea portare, d'ogni sua pompa netto L'hauea, com'in tai casi proueduto Acciò non fusse per Signor tenuto. Così le sopraueste, e l'altre cose Di tutti in modo tramutate furo, Che de gli altri nessun, mente ui pose Celaua il tutto ancor' il tempo scuro Di quella notte, che ben gli nascose Come se fusser dopo monte ò muro Dugento Caualier, non eran fuora De la porta, ch'usciro i nostri ancora, Paruidas, come con la compagnia Si uide fuore, acciò ch'al suo uenire A l'arme per sospetto non si dia Co i caualier non si uolse scoprire; Ma tosto due suoi messi pose in uia Che à Lione n'andasser prima à dire Come egli è quello, ch'in uiaggio messo S'era, à far seco, quanto hauea promesso Vennegli incontro tosto Milidonio, E Drachin d'Artinis, uenneui insieme Di Baraniffe il figlio Tarsidonio, C'haueua, di ueder uendetta, speme Del padre, e non gli basta testimonio S'ei non la uede, stà in dubbio e teme Aspettauanlo armati questi à posta Essendo l'hora già promessa, accosta. Non solo in arme lor, ma il campo tutto Staua aspettando la sua data fede, Fu Paruidas da questi tre condotto Con grande onor, là doue Lion siede Nel padiglion, uolontoroso al tutto Del danno far ch'apparecchiato uede Ne itre Cristiani, e Paruidas seguiro I trecento cauai, che seco giro. Ma Guerrino, e' compagni insieme stretti Tra l'ombre tenebrose de la notte Cominciaro allargarsi da gli eletti Trecento, & à scansar le molte frotte, Ch'eran nel campo per luoghi diretti Ne gli fur da nessun l'imprese rotte, E pria che Paruidas giugnesse al figlio Del Soldano, eran lungi più d'un miglio Tuttauia uerso Media, da la gente Del campo si scostaro, ch'alcun mai Lor died'intoppo, nè ui pose mente; Ma ritorniamo ù'Paruidas lassai Ilqual giunto à Lion, diuotamente Disse, facciam quanto ti piace or mai Con grand'onor Lionetto il raccolse Nè ch'egli stesse inginochiato uolse. Ma ben, dopo breuissime parole Appresso à Paruidas mill'huomin messe Bene à cauallo, che con quelli uuole Far seguitar le genti poi più spesse, Prendon questi la porta, che si suole Vscir'al campo, acciò tanto si stesse Sù quella, ch'ei mettesse, chi uuol drento Per sicurarsi d'ogni impedimento. Presa che Paruidas hebbe la porta Di diece mila franchi Caualieri, Milidonio, e Drachino, essendo scorta E Tarsidonio, furono i primieri, Ch'entraron dentro, e per la uia più corta Nabuccarino, e Margaras due fieri Re, seguitaro, e trentamila armati Nè la città fur da costor guidati. Con tutto il resto de la gente doppo Seguitò Lionetto le pedate Tanto, che tosto senz'alcuno intoppo Empirono di gente la cittate, Entrati dentro, non ste Lion troppo, Che Paruidas chiamò senza pietate Essend'il giorno presso, ormai ne andiamo Disse, dou'è Guerrino, e lui prendiamo. Seguite me, rispose il traditore, E fe'l palazzo circondare intorno E con aperta guerra, à gran furore Il tradimento scopre, e'l grande scorno Nè sa, che co i compagni uscito è fuore Guerrino, & Antinisca, & assaltorno La porta, che serrata era di dentro, Pensando à qualche uan prouedimento Pensaro che Guerrin tener uolesse Co i compagni il palazzo, sì che tosto Lion per tutto un fier'assalto messe Nè da alcuno essendogli risposto Nè chi di dentro difesa facesse Rupper la porta, e fattiglisi accosto Entraro dentro, e da la cima al basso Tutto il cercaro ben di passo, in passo. Nè i compagni, ò Guerrin, nè la Reina Antinisca trouando, nè sapendo Chi di lor desse nuoua, con rouina, Et uoce cruda, & aspetto tremendo, Lione à Paruida, con qual dottrina N'hai ingannati, (disse) non essendo Nessun quà entro, doue son costoro? Dunque? rispondi, c'hai fatto di loro? Nel mio partir, quà entro li lassai Rispose Paruidas; che si ferraro Di dentro, e che quà fussero pensai; Lione seguitò con uiso amaro, E tu le pene di ciò, patirai, Che gli hai fatti fuggire, & uo che caro Ti costi tale scampo, e grido forte A suoi, date à quest empio orrenda morte. Fu'il misero tagliato in mille pezzi, E fu pagato questo traditore De la sua poca fe, con degni prezzi Quindi leuossi un profondo romore Tra i suoi soldati; nel far sangue auezzi, Che si sentiua de lor petti fuore, E sangue, e sacco, e fuoco, eran le note Loro, e d'ogni pietate al tutto uote. Ahi miserando popol scelerato Impara à consentir, ch'un caualiero, Che t'ha col core, e con l'opere amato Sia or tradito, ecco il giuditio uero, Meglio era hauer Guerrino seguitato, Che fe tremare il tuo nemico altiero Or sei tagliato à pezzi, e per più offesa, T'utt'è di fiamme la cittate accesa. Huom di Presepol non ui restò uiuo, In manco di tre hore, e'l feminile Sesso, stratiato, e d'ogni onor suo priuo Fu posto à fare ogni essercitio uile, Et appresso menatone cattiuo, Ch'assai più gliera la morte gentile Vedendosi le gioueni gradite Vituperate, e le uecchie schernite. Tal fu la fin d'una città sì degna Per pagare il seruir, uillanamente, De i tre Cristiani, e per seguir l'indegna Opra di Paruidas, ora l'ardente Fuoco ogni gran palazzo piaga e segna De la sua fiamma uorace, e repente, E càcciò fuor color, che prima furo Cagion di tanto incendio, mal fiouro. Quand'il Soldan, ch'era di fuore, intese De i cittadin la morte, e la rouina De la città, grand'affanno ne prese, Perche gran tempo fu degna Reina; Ma la ria turba, ch'à rubare attese, Et conducendo fuor la gran rapina Fur'in discordia i Turchi, e i Persiani, E cominciaron à menar le mani. Il terzo dì, ch'ella fu saccheggiata, Fu morto Milidonio, e i Turchi tutti, C'haueua seco da la grande armata De i Persiani, cotendendo i frutti De la gran preda, onde fu rinouata L'inimicitia antica, e gli odij brutti, Tra i Turchi, e Persiani, e molte guerre Tra lor seguiro, e rouine di terre. Disfatta la città, di merauiglia Ognun s'empì, d'hauer cercato in uano Guerrin, ch'era lontan parecchie miglia Nel suo paese tornossi il Soldano, Così tutto quel campo si scompiglia, Chi tien da destra, e chi sinistra mano, Che i Signor dal Soldan fur licentiati, E ne paesi lor tutti mandati. Ne la segreta, e taciturna notte Guerrin, con Alessando, e Fidelfranco, Et Antinisca; tra ualloni, e grotte Da Trifalo fedel, che non uien manco, Furon guidati, e fur le strade rotte Da lor più uolte, or dal dritto, or dal mãco Lato, sol per fuggir dou'ei pensaua, Che gente de' nimici dimoraua. Lasciò l'andata di uerso Soria, E uerso Media prese il suo uiaggio A i monti Sagron uolto tuttauia, Come quel, che'l camin sà di uantaggio Seguito sempre da la compagnia Di Guerrino, d'Artibano, e dal saggio Alessandro, ch'in mezo hanno l'inclita Antinisca, à Guerrin tanto gradita. Due giorni, com'ho detto, se n'andaro Verso i gran monti, che tra Media sono, E Persia Vlionea, nè ritrouaro Cibo, ch'à sostenergli fusse buono, Che tutti quei paesi saccheggiaro I Persiani, e parte udito il suono Di tanto danno, d'egli abitatori. Via si fuggir, con gli arnesi migliori. Onde gran fame, & estrema patiro Al fine entraro in una selua folta De' saluatichi frutti quiui giro Cercando, è ne trouauã qualche uolta, E quei mangiauan; ma con gran martiro Si reggeua Antinisca, per la molta Debolezza, pel cibo non usato, E Guerrin n'era mezo disperato. Nel terzo dì, sù'l uespero, à la fine Pregò Guerrino, che la battezasse, Che già mancauan soe membra meschine Venute per la fame al tutto casse Guerrin non sà che far, se le diuine Gratie non piouon, e poich'egli trasse Vn profondo sospiro, à Trifal uolto Così gli disse, con pietoso uolto. Caro fratello, che camin dobbiamo Far'anco per trouare abitatione? Acciò la tua Reina confortiamo, E che faremo in tanta afflittione? Vna giornata ancor lontani siamo Egli rispose, e grand'ammiratione Prendo, che per la Guerra, alcun pastore Non sia quà rifuggito, dal furore. Che dourebbono certo assai bestiami, Di Presepoli in questi boschi folti Esser fuggiti, quei che da i legami De le nemiche insidie son disciolti, Or poscia, ch'Antinisca, che tanto ami V'ha per necessitate i passi tolti, Per suo conforto, restate quì seco, Et Alessandro, e Artiban uenga meco. Che quanto à noi possibil fia più presto A uoi ritornerem con uettouaglia A tutti piacque, & affermaron questo Così ne giro i tre, per la boscaglia, Con pensier, che s'albergo manifesto Trouino, ò per preghiere, ò per battaglia Portarne preda, che per simil conti Giust'è mostrarsi ne i bisogni pronti. Aggiraro gran pezzo in molt'oscure Parti, senza trouare abitatione, Ch'eran ricetti sol di mal sicure Fiere, ma nel passar d'un gran uallone Fors'un miglio lontan, uidero pure D'una bella fortezza forti, e buone Muraglie, onde ne preser gran baldanza, Com'in tai casi suole esser'usanza. Et ancor che ciascun fosse assai lasso Pel disagio di loro, e de destrieri, Presero à caminar più che di passo, Trouar pensando qualche buono ostieri; La rocca era in un monte tutto fasso, La cui altezza, lontani sentieri Scopriua intorno, per due torri poste In cima, molto grandi, à ciò composte. N'era Signore un Saracin ualente Di sua persona, Sinogrante detto, Di Saragona, ilqual, quell'eminente Rocca fe far da perfetto architetto Poco temp'è, che uinto dal cocente Ardor d'amor, che gli era entrato in petto Rapì l'amata Donna, e quì la tiene, E per lei fe la rocca, e la mantiene. Era del Re di Saragona figlia, De laqual'era il nome; Dia Reina Costei, per molta tema si consiglia Seco ingozzarsi sì cruda rapina; Ella non l'ama, ma ben finge, e piglia Rimedio tal per miglior medicina Cinquanta caualier sonui anco armati, Che Sinogrante uegli tien pagati. Hauean preso costor per tutto intorno Tutti'l bestiame, e nel bosco ridotto Di Presepoli stato, che lo scorno Fuggì del campo, che poco di sotto A la rocca pascendo giua intorno, Quando Trifalo quiui fu condotto Di tal fortezza, stè molt' ammirato, Che già quiui ueder non era usato. Dal gran bisogno spinti, nondimeno Andaro innanzi, allor'un corno fiero D'una torre sonò, che fe'l terreno Tutt'intorno tremare à quel sentiero Quei cinquanta di dentro, allora il freno Misero tosto ad ogni lor destriero, Et montaronui suso, e il lor Signore Per quel suono anco riguardò di fuore. Visti i tre caualier, l'armi suo chiese, E'l suo fiero caual, ch'arriuò tosto La bella Dia Reina cura prese D'armarlo, & egli, ilquale haueua posto In quella ogni pensier, poscia la prese, Et abbracciolla, e tenendogli accosto Il uiso al uiso, disse, uostra fia La preda, ch'esser tosto deue mia. Sian chi uoglion color, che per prigioni Ve li darò, benche s'io pur non fallo, M'hanno la uista di tre gran ladroni, E detto questo, montò à cauallo, E fuor uscì, pungendol con gli sproni, Ch'andar gli pare à qualche festa, ò ballo I cinquanta caualli lo seguiro, E uerso i nostri à gran passo ne giro. Quand' Artibano tanti armati ha uisti Tu uedi, uolto ad Alessandro, disse, Costor per guerra far, si son prouisti, Che ti par quì di far'? ei, che si gisse, Rispose per Guerrino, acciò ch'à i tristi, O buoni auisi, anch'egli comparisse, Così Trifalo in dietro rimandaro, Che del tutto Guerrin si faccia chiaro. Per Guerrin torna Trifalo, & in tanto, I due buon caualier preser partito Di rassettarsi l'armi, e ueder quanto Hanno color di fare stabilito, Ad un tran d'arco Sinogrante à canto Hauendo già, fermossi, che l'inuito Veder uuol di lor prima, e per sapere, Chi sieno, manda tosto uno staffiere Giunt'il famiglio, disse, il mio Signore Sinogrante, padrondi quel castello, Che uoi uedete, essendo uscito fuore Armato, con sì degno, e bel drappello, Manda me, per saper, suo seruitore, Chiunque uoi siate, & appresso poi quello Ch'andiate uoi cercando? ch'al segnale, Non si puo dubitare altro, che male. Artiban disse, al tuo Signor dirai, Che per noi da mangiar gli domandiamo, Et un compagno ancor, ch'io temo omai, Che ritrouarlo più uiuo possiamo, Per la gran fame, che poco è lasciai Con questo mio compagno, e non uogliamo Altro da lui, e dì, che sol per questo Vogliam parlargli quanto si può presto. Vdita Sinogrante l'imbasciata, Il cauallo spronò, ma prima disse, Che stesse salda, à la sua gent'armata, Nè che punto di quindi si partisse Se non fusse da esso pria chiamata, E (com'ho detto) innanzi poi si misse E giunto à i nostri, disse, à me parlate, Io son colui, à chi parlar cercate. Siete uoi (diss'Artibano) il padrone Di quel castello? & egli disse, io sono; Spianolli allora Artiban la cagione, Ch'iui li guida, e Sinogrante il suono Vdendo, disse, per compassione, Io son contento, ma prima fia buono, Ch'un de i uostri elmi in pagamento sia A me concesso, per la cortesia. Altramente di quì mai non hareste Da bere, e da mangiare, e se'l negaste, Sarei cagion, che di fame morreste Artiban disse, troppo domandaste, Et un uillano ostier certo sareste; Ma poi che pagamento ricercaste, D'oro, e d'argento, uel faremo prima, Che da noi elmi hauer non fate stima. Poi ch'io ho l'elmo domandato in uano, Seguitò Sinogrante, io son contento, Che l'acquistiate con la lancia in mano, E mangereto poi, s'io resto uento; Ma s'io uoi uinco, allor sarò uillano, Come mi dite, e ui so giuramento Di prigion darui à la più bella Donna, Che là entr'è, che mai uestisse gonna. Laquale, ò che ui tenga, ò che u'uccida Dato ch'io ue le harò, non terrò conto; E detto questo, à morte gli disfida, Diss Alessandro, io uoglio il primo affronto E l'uno, e l'altro, con la lancia fida Pigliò del campo, per esser in ponto, E s'affrontaro con molta fierezza Sol d'Alessandro la lancia si spezza. Quella di Sinogrante, al colpo resta, Sì ch'Alessandro essendo debil molto Per l'aspra fame, fu forz'ei cadesse, E fu da i caualier subito colto; Comandò Sinogrante, che si desse Prigione à la sua Donna, il cui bel uolto Lo tien legato, & ella disarmarlo Il se, poscia si pose à domandarlo. Del nome, e qual fortuna iui menollo Diss'egli il nome con benigno uolto, Ch'a uederla cortese, non negollo, E dipoi disse, come quiui colto L'haueà la fame, e ch'à l ultimo crollo, Vicin, lasciat' hauea nel bosco folto Vn suo compagno; per simil cagione Ond'ella pianse per compassione. E fegli dar da mangiare, e da bere, E poi con amoreuole conforto, Per parer Sinogrante in conto hauere Mandollo in una camera, risorto, Ch'ella lo uide, in una de l'altiero Torli, e fello serrar da uno accorto Guardiano, in questo tempo Artiban'era Con Sinongrante à far battaglia fiera. Corse haueuan le lance, e rotte insieme Nè ancor ch'Artiban fusse indebilito Per la ria fame, del nemico teme A cui uoltato, Sinogrante ardito, Caualier disse, però che mi preme, Che de la lancia ti ueggo sfornito, Io te ne darò una, acciò tu possa Con meco far la seconda percossa. Vsanza è, disse di caualleria Artiban, che qual'hor le lance rotte Sien, con la spada principio si dia A rinouar più da presso le botte, Io ti concedo ben, che così sia, E buone le ragioni, c'hai prodotte; Rispose Sinogrante, ma pur uoglio, Che ne corriamo un'altra, com'io soglio. S'era accorto il fellon, che'l suo cauallo Per debolezza doueua al secondo Scontro di lancia far, come fe fallo, Che mal del primo colpo resse al pondo Artiban, per non por troppo interuallo, Non contradisse, sì che quell'immondo, Due lance se portarsi, molto sconce, E grosse, al suo disegno bene acconce. Ad Artibano l'una fece torre L'altra tolse per sè, poscia allargati, E tolto campo, l'uno, e l'altro à corre S'andaro di due colpi dispietati Tennesi quel Pagan, com'una torre, Ch'era da por tra gli huomin uantaggiati, Il cauallo d'Artiban uenne meno, Sì che pur lo distese nel terreno. Colsesi sotto il suo signor col peso, Che'l gran digiuno ancor gli concedea Da i caualier fu tosto Artiban preso, Che per la fame appena si reggea A la donzella fu quasi di peso Portato ne la rocca, e com'hauea Vers'Alessandro fatto, fece allora Ad Artibano, e posel seco ancora. La fame gli cauò, poselo appresso Ad Alessandro, ma'l fier Sinogrante Ch'i cauai fusser presi hauea commesso, Et gouernati, & egli, corse innante Pel bosco, doue uide essersi messo Trifalo, e fuui seguito da quante Genti hauea seco, ma non fu trouato, Perche tropp'era innanzi caminato. Ma or de la ragion mi trouo astretto Di tornare à Guerrino, e narrar quanto Fece, di poi che si trouò soletto, E de l'amata donna afflitta tanto, Che poi ch'assai sospir gli uscir del petto Ad Antinisca uolto, dicea, quanto T'era migliore à casa tua morire, Che farti io meco in tal parte uenire. Morir per man saria de'tuoi nemici Stato assai meglio, che morir di fame In questi luoghi diserti, e infelici, E quì troncare il tuo uitale stame, E per dintorno frutti, erbe, eradici Giua cogliendo, con le accese brame Di sostenerla con queste uiuande Fin che qualche soccorso Dio gli mande. In questo, per incognito sentiero D'un cauallo senti un calpestio, Et uide tutt'armato un Caualiero Venir, sì che gli fece d'altro rio Caso temere, & meglio che può, fiero Stà sù l'auiso, onde quel giunt' à Dio Disse, ti salui, e uentura ti dia Guerrino disse, il simil di te sia. E poi ueggendol guardare un che giace Tenendol maschio, che n'ha segnale, Disse, se Dio ti doni lieta pace Qual è di questo tuo compagno il male? Al suo cortese domandar non tace Guerrin, ma disse, ha un mal naturale Altro non ha, che fame, e gran digiuno Si, che m'insegna s'hai rimedio alcuno? Sappi, quel Caualier rispose allora Che son due dì, ch'io da mangiar non trouo Noi fummo tre compagni ad uscir fuora Per fuggir certo tradimento nouo Ch'in Presepol s'usaua, & ben m'accora Che altramente al tradito io non giouo, Che col partirmi, or de gli altri compagni Ho fatto pel camin pochi guadagni. A l'entrar quì del bosco, che facemmo Vsando tal camino à la uentura Tant aggirammo, che cirauolgemmo In una gran uallata molto scura Con un squadrone di pastor ci demmo Pensando gente esser per noi sicura; Ma non sì presto lor fummo appressati, Che da cento di lor fummo assaltati. Morti hanno i miei compagni, & io campai Pel buon cauallo, che sotto tenea Quanto camin, disse Guerrin, fatt'hai Poi che fu questo? & ei, che non credea Che due miglia i pastor sien lontan mai Et tuttauia uedergli li parea Allor, disse Guerrino, or megli insegna Perche'l fuggirli non è cosa degna. Deh, diss'il Caualliero, non ti caglia Cercarli, non per Dio, deh non uolere Con cento, ò più, tu sol prender battaglia Se tu non ui uuoi morto rimanere A cui disse Guerrin, più mi trauaglia Morir per non hauer mangiar nè bere Et à pena Antinisca à caual messe Fin che i pastori ritrouar potesse. Quel Caualiero gli mostrò la strada Doue lassati gli hà, nè steron guari Ch'i bestiami trouaro, e la masnada De pastori, di pace al tutto auari Chi d'arco, chi di lancia, e chi di spada, Corsero armati, e quasi tutti al pari Verso Guerrin che la sciò Antinisca A dietro, acciò ch'oltraggio non patisca. Fattosi loro incontro'salutando Cortesemente ognun, nessun rispose, Ma intorno lo giuan circondando Quell'altro Caualier non ui si pose, Ch'era già cieco, e per la fame in bando, Ma uedendo Guerrin, le lor dannose Insidie, trasse il brando, e gridò forte A tutti oggi ladron darò la morte. La spada di giustitia è questa mia, E fulminando si caccio tra essi, E in poco tempo de la turba ria Vccise più di trenta, sì, che messi Gli haueua in fuga, e pigliando la uia Gli altri per non restar tra i trenta fessi Gridauano tra lor, farebbe questo Al Meschin da Durazzo disonesto. Ei che la nostra cittate difese Di Presepoli, or non haria di noi Tante per sone in terra già distese, E dà partito si leuaron poi Spariti che uia fur, Guerrino attese A proueder sicuro à i casi suoi Tornò pel Caualiero, e per la Donna, Che tuttauolta per la fame assonna. Così n'andaro ne gli alloggiamenti Di quei Pastori, e ui trouaro assai Carne cotta, e del pane, onde contenti Di sì buona uentura, più che mai Ripigliaro i uigori, al tutto spenti, Guerrin da canto pon tutti i suoi guai Poi che la Donna da lui tanto amata Vide pel cibo, tutta ritornata. La gentil Damigiella, poi ch'ell'hebbe Mangiato, e rinfrescatasi beuendo Dio ringratiò, dicendo, à te si debbe Dare ogni lode, e te Signor commendo, Poi che di tanto nostro mal t'increbbe, Però farmi Cristiana al tutto intendo Allor, quel Caualier la uista alzando Venne tosto Guerrin raffigurando. Inginocchiossi à li suoi piedi innanzi, Dicendo, oimè Signor, non conoscea Per la gran fame, chi uoi fuste, dianzi Disse Guerrin, doue uisto l'hauea? E chi gliera, e quel disse, de gli auanzi Son'io di Media, e di quei che douea Esser con quei che la notte mandasti Con Paruidas, di cui tu ti fidasti. Ilqual com'hebbe data à Lionetto Quella misera terra, su tagliato In mille pezzi, senz'alcun rispetto, E questo il traditore ha guadagnato, E saccheggiata poi per più dispetto La terra, fuui ognun dentro ammazzato Sonui dei Median campati pochi, Che morti son tra i crudi ferri, e fuochi. Ver'è, che ne scampar forse dugento Di quei che'l traditore accompagnaro, Ch'à la città non si trouaron drento, Allor che i Persiani la pigliaro Fu di questo Guerrino assai contento Dicendo, ognun dourebbe uiuer chiaro Nè mancamento far, che la giustitia Occulta, sempre al tristo sta propitia. Scopresi poscia à l'improuiso, e fere Nè si dè lamentar chi si diletta Innanzi ad altri il mal sempre uedere Se'l cielo scocca la giusta uendetta, Che fu d'Artiban? disse il Caualiere E d'Alessandro, che eran sì perfetta Compagnia uostra? rispose Guerrino Poco è, che da me mossero il camino, Vanno à cercar, se da mangiar si troua Per questi boschi, & ho molto timore, Che l'impedisca qualche cosa nuoua O de la fame il subito dolore Trifalo intanto, ch'esser si ritroua<+/l> Giunto là, doue lassò'l suo signore, Et Antinisca, nè uegli uedendo Gran dolor n'hebbe, et uenne assai tem&etilde;do. E posto l'occhio doue le pedate Eran de lor caualli, tosto l'orme Furon da lui non lungi ritrouate, Et un pastor fuggir dietro à le torme De lor armati, iquai con disperate Grida intronauan Trifal, che non dorme, Ma sta attento, e come uider'esso I fuggiti pastor, uennergli appresso. Corsegli incontro tutti inueleniti Per uendicarsi de l'hauuto oltraggio; Ma non fur poi di dirgli nulla arditi, Perche dissero certi, questo è'l saggio Trifalo nostro, à questi tali inuiti Trifalo, lagrimoso nel uisaggio, Che ben gli conosceua, se m'amate Disse, or'è'l tempo, che uoi m'aitiate, Datemi da mangiar, ch'io uengo meno, Che tre dì son, ch'alloggiamento alcuno Non ho trouato, e'l mio caual non meno Di me si troua debile, e digiuno, Che quà paglia non è per lui nè fieno, E poch'erba ha pasciuta, à quest' alcuno Di lor, c'hauea del pane, gliene porse, E chi col fiasco al bisogno soccorse. Poscia gli domandaro che seguito A Presepoli fusse de la guerra Diss'egli, come Paruidas tradito Hauea Guerrino, & al Soldan la terra In poter data, e che Guerrin partito S'era, e com'egli ancor per quel bosco erra Almen dissero allor, qui stato fusse Poco è, c'hauute non haremmo busse. Che passate non sono ancor due hore, Che da due Caualier fummo assaltati, Et un famiglio, nè ci fu pastore, Che regger lor potesse à i crudi inuiti Son più di trenta de la uita fuore De' nostri posti, e noi impauriti Da sì grande spettacolo, e l'armento Andar lassiamo, & ogni alloggiamento. Crediam, c'habbian ciò fatto, perch'innanzi Da noi uccisi fur due Caualieri Ch'in man ci capitaro, e fu pur dianzi, Et un di questi d'or, fu de' primieri Che uia fuggissi, ond'or con pochi auanzi Da un sol rotti siamo, e uolentieri Faremmo seco pace, per potere Senza sospetto gli armenti tenere. Qual cagion fu, ch'i primieri uccideste? Trifalo disse, e lor, fu che pensamo, Che d'un castello, che in queste foreste Fussero genti, da lequali habbiamo Gran danno hauuto, e però sol per queste Cagion, insieme quà ci congreghiamo Pensier facendo poi d'uccider tutti Quei, che quà sien per robbarci condutti, Che tu fussi di quelli, fu creduto Da noi in prima, e ben t'haremmo morto Se tu non fossi stato conosciuto. Or, noi pensiamo sta notte al più corto Condurre in altro luogo sconosciuto Tutti i bestiami, acciò che tanto torto Non ne sia fatto; e quì fine si pose Al lor parlare, à quai Trifal rispose. Qui ui piaccia aspettar, fin ch'io da presso Vegga color, che u'han tal danno fatto, E spronando il caual uid'egli stesso Guerrino, più che mai ne l'armi adatto Rimontare à caual uidegli appresso, Quel Caualiero, e restò stupefatto; E quel, che più di tutto allegro fallo E ch'Antinisca ardita er'à cauallo. Tosto come Guerrin Trifalo uede Domanda de' compagni, & ei rispose, Come da uoi Signor mouemmo'l piede Mal son passate per loro le cose D'una nuoua fortezza, che quà siede A due miglia lontana, ci si pose Incontro da cinquanta huomini armati Bene à cauallo, e gli haranno assaltati. Quei come uider nemici sì forti Per uoi m hanno mandato, si che presto Venite, senon credo che fien morti Molto si dolse Guerrino di questo. In tanto due pastor s'erano accorti Come uidero chiaro e manifesto, Che di Trifalo amico è il Caualiero Ch'à i danni loro si mostrò sì fiero. Sotto sue spalle, s'accostaro à quello, E domandaro, il Caualier chi era, C'hauea fatto di lor tanto macello? E s'egli ha seco conoscenza uera Pace gli faccian far nel proprio ostello; Oue lor condurrien tutta la schiera Disse Trifalo, questo è buon conseglio E smontò in tanto, à rinfrescarsi meglio. Poi per seguir Guerrin, ricaualcato A lui disse, Signore, il pascol tutto C'hanno quà questi pastori guidato Di Presepoli fu, qui l'han condutto, Perche dal campo non sia lor pigliato Sì, che à me parrebbe assai buon frutto Far con lor pace, e so che lor fia caro, Come ben sappian, chi uoi siate chiaro. Di uoi m'han domandato, come quelli Che nulla sanno di uostra uenuta;— Che stati non sarebbonui ribelli Poi ch'io ho seco giocato à la muta Facciam pace, io gli uoglio per fratelli Disse Guerrino, e fie lor conceduta, E poi narrogli, com'er'ito il fatto Appresso, Trifal fe uenirgli in fatto. Fegli uenire, e chiedergli perdono, E poi sapendo, ch'egli era il Meschino, Tutti si rallegraro, e di tal dono Ringratiaro il Presidio diuino; Ma non lor parue già l'udir poi buono Da l'altro Caualiero, à che destino Er'ita la cittate, e le sue genti Sì, che di questo fur'assai dolenti. Nè seco caminaron molta uia, Che pel bosco sentiro un gran romore, E la furia crescendo tuttauia Si ristrinsero tutti à gran furore A Guerrino dintorno; quel che sia Stato ne l'altro canto, al uostro onore Dirassi, & uoi lettori lo saprete Se tornate ad udir, come solete.

IL FINE DEL CANTO
TRENTESIMO QVINTO.

Gratie piouono à mille, ormai benigno Nostro padre e Signor fuor d'ogni merto. Del mio uil stato, e de l'oprar maligno, Poi che già par uedermi il porto aperto; Onde mi fan sperar, che se di Cigno, Non è per me l'ultimo canto offerto Di quest'opera ancor porgere al Sole Con accenti più grati, altre parole. Ma per ch'intenta son per or, con quanto Vigor mi resta, l'istoria seguire; Darem principio à quest'ultimo canto, Acciò, ch'io possa il gran camin fornire. Lasciai ne l'altro la cagion di tanto Spauento, preso da' Pastori à dire; Dico or, che si fuggiro sgomentati Vedendo molti caualieri armati. Sinogrante era questo, che si mosse Co i caualieri, ch'io già ui contai, Acciò che Trifalo anco preso fosse; Ma non l'hauea potuto giugner mai; Guerrin, che ristorate hauea le posse, A Trifal disse, dimmi tu, se'l sai, Che han questi Pastor? che tema è questa? Ei per saperlo corre, e poi s'arresta. E torna in dietro, dicendo, à noi tocca Signor mio car, molt' à menar le mani; I caualier son questi de la Rocca, Dou'io lasciai i due nostri Cristiani, Iquali, pel bisogno de la bocca, O morti, ò impregionati quei uillani, Gli hã senza fallo; allor Guerrin crucciato Spinse innanzi il cauallo, infuriato. E tutti insieme ristrinse i Pastori Dicendogli di niente dubitate, Che nostri sieno oggi tutti gli onori, Se realmente meco ui portate Di quel castello ui farò Signori; Allor, noi farem quanto comandate, Tutti gridaro, e sol uoi seguiremo, E infino à morte ci difenderemo. In questo punto, il fiero Sinogrante Vedendo de'pastori il grand'armento, Disse fermato, senz' andare innante A la sua gente, oggi sarò contento, Che queste son ricchezze tali, e tante, Che spauentarle certo non mi tento, Poiche i pastor si son posti in battaglia, Sò, che'l fan per timor, ch'io nò gli assaglia. Meglio è, ch'io tenti il ueder se lor piace Per me d'accordo il bestiame tenere, Et ualermi di lor, godendo in pace Quel ben, senza fargli altro dispiacere, Poi mandò un suo seruo empio & audace Commettendogli tutto il suo parere, Il qual giunto à i pastori, salutolli, E quanto far doueua, poi narolli. Dicendo, Sinogrante, Signor degno De la Rocca saluatica, mi manda A salutarui prima, e poi per segno D'ubbidienza, appresso ui comanda, Che sotto il suo dominio stiate à segno, E'l bestiame quà sparso in ogni banda, Per lui teniate, che così starete, Ne la sua gratia, se star ui uorrete. E che se quì, questi tre caualieri Non son de' uostri, gli mandiate uia, Ch'à lor non pensa come forestìeri Voler'usare alcuna cortesia, Intender prima bisogna i pensieri; (Rispose de' pastor la compagnia) Quì del nostro Signor, uoi Signor nostro, A Guerrin disser, dite il pensier uostro. Guerrin prima di quel, di che più teme, Parlò dicendo, ò nobile messaggio, Per quella fede, che più il cor ti preme Due caualier, che mossero il uiaggio Vers'l uostro castel, cercando insieme Da mangiare, hanno riceuuto oltraggio Di morte? à cui rispose, essi son uiui; Ma ben prigioni, e di libertà priui. Furon dal mio Signor uiui abbattuti, E nel castel mandati mezi morti Di fame, ma son stati poi pasciuti, Di che prese Guerrino assai conforti, Poiche son uiui, ancor che sien tenuti Prigioni, e diss'al messo, tu puoi porti In uia, e dì al tuo Signor, che'l tutto Suo sarà quì, s'in arme fa buon frutto. Digli, che per amor de' due prigioni, C'ha fatti, ch'io Signor di questo gregge M'offero dargli quì le mie ragioni De l'armento, e di chi quello corregge S'à corpo à corpo meco tra gli arcioni, Combatter uuole, e sia di lui tal legge, S'egli m'abbatte, ma s'ei uinto resta, Dia'l suo castello à pastori in potesta. Et à me solo, i due prigioni renda Con l'armi loro, e co li due caualli; Credo, ch'ei loderà questa faccenda, Rispose il messo, e credo che non falli, Come suol far, che giù non ui distenda, Perch'egli mai non perde à questi balli E tornò presto, e fece l'ambasciata, Come Guerrino gli haueua ordinata. Macon, rispose Sinogrante, allora Più gratia assai mi fa, ch'io non domando Và dì, che uenga, ch'io non ueggo l'hora, Et à suoi disse, nessun dubitando Stia, ch'io nol tragga de la sella fuora, Sì c'haurem tosto nel nostro comando I pastori, gli armenti, e l'armadure Tra tanta roba, nostre sien sicure. E detto ciò, con una lancia grossa Si mise in punto, e Guerrino anco udito Il messo senz'indugio fece mossa Con la sua lancia, Sinogrante ardito, Che'l uide, acciò disturbar non si possa Per modo alcuno il preparato inuito, Disse à' suoi caualier, non ui mouete Se da me prima richiesti non siete. Spintosi poscia innanzi, s'accostaro, Sì che'l parlar d'ogni parte potea Esser'udito; onde sì salutaro; Gran merauiglia Sinogrante hauea, Che Guerrin mostrasse animo sì chiaro, Perche pastore ancor'esso tenea; Massime hauendo tra se conosciuto Il gentile atto usato del saluto. Guerrin, per tua fe, disse, caualiero Piacciati di narrar, quel che fatt'hai De i caualier, che per il tuo sentiero Cercauan da mangiare, io li pigliai, Rispose Sinogrante, à dirti il uero, Prigioni, e nel castello gli mandai; Ma chi sei tu? che mi domandi questo, C'hai à far seco, dimmel s'è onesto? Son miei compagni (soggiunse egli) cari E fummo sopragiunti in questo bosco Da la gran fame là, dou'i danari, Vaglion non più che terra, ò legno, ò tosco; Vn caualier, ch'à me uenne non guari Fa che questi pastori io quì conosco, Iquai m'han dato di mangiar aita, Sì ch'or per lor io debbo espor la uita. Disse à lui Sinogrante, questi morti (Che sparsi ueggo) da chi furo uccisi? Certi litigij quà di nuouo sorti; Guerrin rispose (secondo gli auisi, Che da questi pastor mi furon porti, Son stati, che di uita gli han diuisi) Con certi caualieri, che di poco Son quì passati, e giti in altro loco. Mentre che ciò Sinogrante diceua, Squadraua l'arme, e squadraua'l destriere Di Guerrino, che molto gli piaceua Poi cominciò, bisogna ò caualiere Sia chi tu uoglia, che nulla rilieua, Darmi l'armi, e'l cauallo in mio potere; Per Dio, disse Guerrino, molto strana E' questa tua domanda, empia, e uillana. Senza ch'io ponga indugio lo uedrai, A dirato, rispose Sinogrante; Guerrin, che non er'uso à temer mai Com'il uide in aspetto minacciante, In atto di giostrar, così uorrai, Disse, quest'armi, se tu sei bastante A guadagnarle, e con le lance insieme S'affrontaro, e mostrar lor forze estreme, Le lance come gambe di cicuta Si fiaccar tosto, ma de' due Guerrieri Nessun dal suo preso ordine si muta Gran merauiglia hebber'i caualieri Di Sinogrante, poi c'hebber ueduta Di Guerrin la destrezza, e gli atti fieri; Et à tempo sì ben cauar'il brando, Onde uennero forte dubitando, E tanto più, uedendo il fiero assalto, Ch'al lor Signor muoue Guerrin feroce, Nè men gagliardo alza la spada in alto Sinogrante però, ma poco nuoce L'armi, come se fusser d'aspro smalto, Cascano à pezzi, e tutta quella foce Rimbomba, Eco risponde à le percosse, Nè però l'armi ancor si fanno rosse. Merauiglia, e timor, insieme assale Sinogrante à i gran colpi di Guerrino Tra se dicendo, io la pensai pur male A nol lasciar andar pel suo camino; Guerrin poi che la forza non gli uale, Certo diceua, forse che'l diuino Marte è disceso quì, che mortal'huomo Non prouai più gagliardo, e manco domo. Nè cessa di uoltarsi à Dio, dicendo Tu per l'India, e per l'Asia mi campasti, Tu d'Africa, & appresso dal tremendo Inganno Sibillino mi guardasti Di san Patritio dal pozzo stupendo, Or fa, che questo corpo ancor mi basti Contr'à questo nemico de la Croce, E fa ch'io domi un'huom tanto feroce. Gran pezza essendo senz' alcun riposo Durato il graue assalto, per l'affanno Di loro, e de' destrieri, e disioso Ciascun di prender fiato, si ritranno Sinogrante mostrandosi pietoso A Guerrin disse, quest'è pur gran danno, Che morir uogli, per sì uile impresa Per pigliar tu di quei Pastor difesa, Non sol'il faccio per compassione (Disse Guerrin) di dare à quelli scampo, Quant'io fo per campar da un ladrone L'armi, e'l cauallo, e per l'onor del campo, E per uietare à mill'altre persone, Che in te assassin non dien d'inciampo; Allor crucciato il fier Pagano strinse La spada, e tutta la sua forza attinse. E sì forte ne l'elmo lo percosse, Che tutto lo stordi, e mancò poco, Che de la sella subito nol mosse; Ma Guerrin tinto del color del fuoco, Ben tosto de l'oltraggio si riscosse, E ne la spalla al suo scudo diè loco, Poi menò con due mani à quel Pagano La spada sì, ch'ogni ripar fu uano. Sù l'elmo gli calò quel fulmin crudo, Quel brando, che già tanti n'ha percossi, Quel brãdo, ilqual mai nõ trouossi ignudo, Ch'ei non facesse i suoi nemici rossi Sotto gli pose il Pagano lo scudo, Nè ancor che ben serrato tutto fosse Puote uietar, ch'in due parti nol fenda La spada, e poi sù l elmo non discenda. Il grosso spigol, che nel mezo è messo, Ch'era due dita di massiccio, e bene Temprato acciaio, pel trauerso fesso Restò, del cui gran colpo il Pagan uiene Tanto stordito, e fuora di se stesso, Che'l brando andar lasciò, nè più ritiene Briglia, non calca staffa, e s'abbandona Sopr'il caual con tutta la persona. Ma se Guerrin seguitaua il secondo Colpo, n'andaua Sinogrante à Pluto, A dar conto di se ne l'altro mondo; Ma uolse dimostrargli, che saputo Haueua esser cortese, allor che al fondo L'haueua, e non poteua darsi aiuto, Et ei, poi che già desto ritrouossi D'esser lasciato star merauigliossi. E ueduto'l pericolo, che corso Haueua, imaginossi non uolere Più rientrarui, e mostrossi rimosso D'hauer mai fatto à Guerrin dispiacere, Dicendo, caualier, fatt'ho discorso, Che ti parti di quà à tuo piacere; Ti so tal gratia, per mia cortesia, Perche sei huom di somma gagliardia. E ti concedo, che l'armi ne porti, E che t'habbi il caual, che già ti chiesi, E teco meni i tuoi compagni accorti, Che tra i pastori son co i loro arnesi, Et à me lascia tutti i dritti, e torti, Con quei pastor usar ne' miei paesi; Disse Guerrin, non poco mi contenta, Poiche tanta superbia umil diuenta. Ma s'ancor punto nel cor te ne resta In uan ricerchi, ch'io m'habbia à partire, Perch'io non uò lasciar questa foresta, Ch'io non ti uegga per mie man morire Questa deue ogni nostra ragion, questa Spada, innanzi al partir mio, dipartire Che'l castello, oue tieni i robatori, Ho già promesso dare à quei pastori. Non dir così sarà, ma dì potrebbe Esser, rispose Sinogrante allora Ma poi ch'in noi accordo esser non debbe Se gentilezza è in te, come di fuora Appar, e come non mai si saprebbe Da me negar per quel c'hai usat'ora E per lo Dio che riuerisci, & ami Dimmi d'onde tu sei, come ti chiami? Che mai haurei creduto, che'l Meschino Da Durazzo, che porta il pregio e'l uanto D'ogni huomo forte, d'ogni Paladino M'hauesse mai potuto durar tanto, Egli rispose, io mi chiamo Guerrino, E non disse Meschin, sì che per tanto Non l'intese il Pagan, ma quando disse Io son Cristiano, un forte grido misse. Dunque con un Cristian sono à le mani, Innanzi uoglio uscir morto di sella, E restar morto in preda à i lupi, e i cani Ch'io uoglia accordo, e se fortuna fella I miei disegni al tutto non fa uani Porterò la tua testa à la più bella Donna del mondo de la sua persona, Figliuola del gran Re di Saragona. Et io, disse Guerrin, per quella fede Ch'ad Antinisca ho già promessa, figlia Del gran Re di Presepoli, che siede Il suo regno qui presso à poche miglia Portarle la tua testa per mercede; Al cui dir Sinogrante si consiglia Di più non dir, ma com'hauea disposto Di rappiccarsi, & assaltollo tosto. Cristo (disse Guerrin) che mi facesti Mio padre, e madre ritrouar, fa ch'io Contr'à questo Pagan uincitor resti Che uerso i uiandanti è tanto rio, Et attaccossi seco, sì ch'à questi Segni, conobbe Sinogrante impio Che'l Meschino era, che la cosa intesa Hauea del padre, e la pietosa impresa. Quel Meschin disse, à questi segni, sei Di sì gran nome, che tremare in terra Gli huomini hai fatti, e sù nel ciel gli Dei? Io so'l Meschin, la tua mente non erra Dissegli, allor gridò colui, ò miei Soldati, tosto entrate in questa guerra Non indugiate à porgermi soccorso Ch'à troppo triste man mi ueggo corso. Diede opera à fuggir, uolto il fellone Il destrier, tuttauolta à se chiamando Soccorso, ma Guerrin tosto si pone A seguitarlo, e pur lo giunse quando A suoi fu presso, gridando, ladrone Sta forte, alzando con due mani il brando, E uennegli, oue l'elmo è rotto, messo Sì che'l capo restogli, e'l collo fesso, Sinogrante d'Armenia, il cui ualore Il Regno fe tremar di Saragona Posto sù'l Caspio mar, ne la maggiore Armenia, uerso Media, la persona Quiui lassò, per far sì poco onore A i forestieri, or poi c'hebbe sì buona Fin la battaglia, pensossi d'hauere Assai maggior battaglia à sostenere. Ma come i Caualier uidero, morto Sinogrante, si posero à fuggire, Doue uedeuan'il sentier più corto I pastori gli presero à seguire, Ch'à ciò lor daua Guerrino conforto, E perche presti sien, gli fe salire Sopra à certe giumente, e sopr'à certi Caualli solo à portar soma esperti. Così Guerrin più presto seguitaro, Che far poteron', e n'ucciser molti Chi quà, chi là, del resto si cacciaro Per camin lunghi, altri, per boschi folti Poi (come Guerrin uolse) si tiraro In dietro, e come gli uide raccolti Menogli à por l'assedio à quel castello, Ch'era à ciascun sì doloroso e fello. Gran merauiglia pigliaro coloro Che u'er an dentro, non sapendo il fatto Nè che morto restasse il Signor loro, Così mandaro un messo fuore in fatto Per intender che gente sien costoro Onde Guerrin lor fece saper ratto Che morto hà Sinogrante, laqual cosa Star fece Dia reina, assai dubbiosa. E mando à dir, quando mi sarà mostro Morto, senza dubbiar ui sia creduto, Questo sarà tosto l'ufficio nostro, Disse Guerrino, e presto fia ueduto E uoltosi à Pastor, lor disse il uostro Vfficio è d'aspettar, fin che uenuto Sia quì col morto corpò, e posto in uia, Andò per quel con poca compagnia. Fello portare, e per cio che notte era S'attese à buona guardia, fin'al giorno Doue s'accese più d'una lumiera, E fer più fossi à quel castello intorno Per riparar, ch'in prouiso non pera Qualch'un de loro, e far che senza scorno Nessun'armato del castel uenisse O ch'alcun per saluarsi, altroue uscisse. La mattina mandaro il corpo drento Di Sinogrante, di che Dia reina In cambio al far di tal morte lamento Nè ringratiò la potestà diuina Verso laqual parlò col cor contento Le mani alzand'al ciel, già sui meschina (Dicea) mentre che uisse il traditore Che mi rapi con tanto disonore. E mi teneua mentre che uiuea Hauere à tutte l'hor la morte in bocca, Per la gran crudeltà, ch'in se tenea; Ma non sapendo ancor, chi quella rocca Assediata tenesse, dubbio hauea E teme ancor, s'à sostener le tocca Altra soggettione, e perche meglio Ciò sappia, ripigliò nuouo conseglio. De la camera, doue eran prigioni Alessandro, & Artiban, tosto trasse, E disse lor, dignissimi Baroni Io penso, che per uoi s'imaginasse (Ancor che Sinogrante uoi per dono M'hauesse dati) che mi bisognasse Per non gli dar di me nessun sospetto (Com io ui tenni) tenerui à lo stretto. Di nuouò or è uenuto un Caualiero. Che può pel primo al mondo darsi uanto Perc'ha ucciso Sinogrante fiero Del qual null'altro si potè dar uanto Toccargli pur de l'elmo il bel cimiero, Ch'ei non ne guadagnasse eterno pianto Quel con molti pastor m'ha posto assedio Ora, à uoi chieggo consiglio, e rimedio. Che uoi siete Cristian, detto m'hauete, E però l'armi render ui prometto Con i caualli, se mi promettete Menarmi salua al mio padre diletto Ch'è Re di Saragona, e sel farete Mostrerauui egli quanto gli sia accetto D'esser reali i Caualier Cristiani Han nome, e però dommiui in le mani E seguitò, com'ella fu rapita Da Sinogrante, essendo Capitano Del padre, ond'era per diporto uscita De la cittate, ad un giardin soprano Ch'era del padre, essendo di sua uita Al quartodecimo anno; con uillano Sforzo la tolse à quaranta Donzelle, Come fier lupo tra le pecorelle. E poscia in compagnia di molti armati La condusse in quel bosco, ou'hauea fatto Far quel castello, & eran già passati Due anni, non pensando hauer riscatto Ch'ognun tremaua de suoi dispietati Modi, essendo crudele ogni suo atto Ora, poi ch'è de la ria uita in bando, Che m'aitiate, io mi ui raccomando. Fatelo per amor del uostro Dio Ch'egli ue'l merti, e tuttauia piangeua, Artiban disse, Donna, il tuo desio E giusto sì, tanto'l tuo mal ci greua, Che per la fe ti giuro, in che cred'io Per quell'amor, ch'ogn'altro amor mi leua Ch'al primo Caualier del mondo porto, Dar ti prometto d'aita conforto. Restituirti al padre tuo mi uanto, Però ti prego, che l'armi ne dia Con i caualli, e ci dia spatio tanto Che fuora usciamo, perch'in sù la uia Del bosco lasciammo ier di fame affranto Vn Caualier, c'haueua in compagnia Vn'altro, e dubitiam, che morti sieno Sì uenuti eran per la fame meno. E se lo fai, di nuouo ti giuriamo Di ritornar, nè mai ci partiremo, Che da' nemici non ti liberiamo, Che di fuor sono, e poi ti meneremo Al padre tuo, come promesso habbiamo; Ma Dia reina disse, di uoi temo Venite un poco meco, e da le mura Disse, or uedete la uia mal sicura. Vid'i pastori Artibano, & uoltossi Ridendo, e disse, Donna, se la fame Con laqual', Arme adoperar non puossi Non n'assaltaua, questo pastorame, Che con tanta arroganza si son mossi Attenderebber forse al lor bestiame; Che morto haremmo Sinogrante noi. Com'hauiam fatto de gli altri par suoi, Ella menolli, doue l'armi loro Haueua poste, e quelle lor concesse, E poscia che armati se ne foro Che i lor cauai, sien dati lor commesse; Quegli hebber buõ gouerno e buon ristoro Per quanto per quel tempo si potesse Far, e montati sopra i lor destrieri Tolser le lance in mano i Caualieri. Nè si tosto uscir fuore, ch'assaliro Il campo de pastori, onde fu morto Nel primo affronto che di fuore usciro Dal fiero Artiban, come mal accorto Quel Caualier di Media, poi seguiro Gli altri pastori, sì ch'in tempo corto N'ucciser quattro più, nè quì forniua, Ma Guerrin, tosto in quella parte arriua. E grida, ò miei carissimi fratelli Qual rio destino, ò qual sì fiera sorte, Consente, ò uuol, che mi siate ribelli, Poi che uoi date à la mia gente morte? La riuerita uoce udendo quelli, E ueggendolo, disser, non comporte Il ciel tal cosa, e scaualcaro in terra Per segno chiar, di non seguir la guerra. Artiban replicò, non piaccia à Dio Che mai quest'armi in tuo danno riuolti; Però perdona al fallo Signor mio, Che i miei pensieri eran' altroue uolti; Ben Guerrin disse, lo conosceua io E senza por tra loro, al fin, più molti Altri interualli, si narraro à pieno De i fatti lor, come passati sieno. Artibano soggiunse, il grande onore Che fatt'haueua loro Dia reina; Et che promesso gl'han, per quell'amore Al padre suo menarne la meschina. E poi seguì, come quel traditore Nè fe con uiolentia empia rapina; E ch'umilmente s'è raccomandata Acciò da lor non fusse abbandonata. Così daccordo, nel castello entraro Però, facendo restare i pastori Sol Antinisca, e Trifalo menaro; A'quai fe Dia reina, quegli onori Ch'ella potè, dipoi, con pianto amaro, Di Sinogrante replicò gli errori; E poi raccomandossi, ben che poco Stesse il suo prego à trouar' in lor loco, Giurò Guerrino, in Armenia menarla Quiui il dì stero, e la seguente notte, Ma non si tosto uidero passarla, Che Guerrin colse de' pastor le frotte A' quai in questa forma dice, e parla, Perche le mie promesse non sien rotte, Ecco'l castello, ch'io u'hauea promesso Che da me, e da tutti, u'è concesso. Fu Dia reina da maschio uestita Si come era Antinisca, che ne prese Di tal compagna, allegrezza infinita; Così lassaro indietro quel paese. Hauendo prima tolte à la partita Due guide, ch'oue ei gir, furon'intese Verso Media Guerrino andar non uolse Per quei di Media, che'n Presepol tolse. Però, ch'essendo stati tutti morti, Dell' esser conosciuto dubitaua; Per non hauere impedimenti e torti E per questo da lor si costeggiaua Di Sagron le montagne, e per più torti Viaggi molti di si caminaua; S'eran'al fine in Armenia distesi, E quiui anche passar molti paesi; Del monte Caspio il lago hauean'passato, Che tra la Media, e tra l'Assiria uiene; Vn'altro monte, Cordei chiamato Trouar, dond'esce il fiume, che mantiene Vers'Armenia minore, il temperato Corso, poi fa un lago, e nome tiene Tospito; e due giornate caminando Per una selua, la uenner passando. Trouaron poscia il gran fiume Eufrate Che tra la steril Media, e tra la Magna Armenia passa, & à l'estremitate Giunti di Pauardes, à la montagna Passaro il fiume, e uoltar le pedate Di Saragona, sù per la campagna Ad Artacan giunser' una mattina V' fu riconosciuta Dia reina. Questa cittate era del proprio regno A due giornate appress'à Mauria, doue Staua il Re Filicon, suo padre degno; Ella che'l fa, così la lingua muoue O Caualieri nobili, or far segno Ben d'allegrezza posso, più ch'altroue Da me sia stata fatta; questa terra A posta di mio padre s'apre e serra. Perche di mio padr'è, dunque ui piaccia Ch'à scaualcare à la corte n'andiamo, E dal Gouernator ueder mi faccia Acciò, che'l gran disagio, ristoriamo; Non è chi uolentier non le compiaccia; Tutti disser, di ciò ui consigliamo. Ella, giunta à la corte, in mantinente, Chi era domandò luogo tenente? Trouò ch'er'un suo balio, Arparo detto, Che uedutala, corse ad abbracciarla, Tolsela da caual, senza rispetto, E senza de compagni domandarla; Di pietosa allegrezza il uiso e'l petto Si bagna, nè si satia riguardarla, Ma ella disse, ò Arparo, farete L'onore à questi, ch'à me far douete. Balio, anzi padre, à questi Caualieri C'han morto il traditor di Sinogrante Conuiensi i ueri onor, conuiensi i ueri Ringratiamenti, e le carezze tante; Arparo allor, gli fece de i destrieri Tutii smontare, e tosto à più d'un fante Diè cura de' caualli, & ei si prese Di lor l'assunto, ad onorargli attese. Tanto che riccamente ritenuti Furono nel palazzo, ma la bella Antinisca, con grati, e bei saluti Con Dia reina fu raccolta anch'ella Huomin non gli eran in contro uenuti; Ma d'Arparo, la moglie, e la sorella; Con molte damigelle gratiose, Sagge, oneste, gentil, grate, e uezzosse. I Caualieri ancora disarmati Non fur, che l'allegro Arparo, gli auisi Di Dia reina al padre hauea mandati. Le Donne intanto con allegri uisi, I Caualieri haueuan salutati, Però che da le Donne eran diuisi, E fur portati ricchi uestimenti, Di che s'ornaro i caualier ualenti. Tutti ne la gran sala se ne giro Le Donne, e i Caualier, perch'era l'ho Già di mangiar, le mense si forniro; M a dentro uenia gran gente di fuora, Dico de la città, perche sentiro La noua, & per ueder, ne cresce ogn'hora La bella Dia Reina ritornata, Sì tristamente al padre suo robata. Fu raccontata da l'istessa bocca In presenza di tutti, essendo posta A tauola; sì come ne la rocca La tenea Sinogrante; satta à posta, Et poi per forza, che'l termin trabocca De la ragion; due anni, iui riposta Sposata fu, e d'Alessandro disse, E poi d'Artiban, come prigion gisse. Come Guerrin, Sinogrante hauea morto; Il modo non lassand'ancora in drieto, Com'à i due primi fu fatto gran torto, Per la gran fame da quell'indiscreto, E come poi le derono conforto, Di rimenarla al padre, sì che lieto L'udiua ognun, uedendola al presente; Ma pianser ben molto pietosamente. Dio ringratiando, che l'haueua tratta Da le man di quell'empio traditore; E fu molt' allegrezza dipoi fatta Per tutta la città, dentro ed fuore; Poi pel seguente giorno, al fin s'adatta D' Artacan uscir fuor, con molto onore Per prender uerso Armaura la uia Con molta bella, e nobil compagnia. Passò quel dì, la notte, e la mattina Venuta, Arparo un carro in ordin messe, Molto ben fatto, sù'l qual Dia Reina Con Antinisca, e l'altre Donne anch'esse Con la sua moglie posta (di diuina Beltate tutte) poi fe che'l douesse Tirar quattro caualli bianchi, eletti Di tutt'il Regno solo à tali effetti. Et egli con Guerrino, à par ueniua E glialtri tre, ma più di cento dopo In compagnia di loro ne seguiua La prima sera, diedero d'intoppo Ad un castel, ch'à meza strada arriua Detto Nefisso ilqual, se ben non troppo Era di ricchi alloggiamenti adorno Serui lor ben, fin'al seguente giorno. Venuta la mattina s'inuiaro Con l'ordine predetto à la cittate D'Armaura, ch'era del Re seggio caro Con gran piacer de le Donne pregiate; Quando Guerrino, e gli altri con Arparo Scopriro da lontano genti armate, Ilche gli diede non poco sospetto I Cristian, tosto si miser l'elmetto. S'eran le lance in sù le cosce messe Pensandosi battaglia hauer di corto; Ma poiche si scoprir l'insegne impresse Si fu Arparo, chi glier ano, accorto; A Guerrin disse, che nulla temesse, Che per auiso, ilqual'hauea porto Al Re de la sua figlia, & egli stesso, Che per uederla, in camin s'era messo. Quand'il Re Filicon uide la figlia Da lontan, cominciò dirotto pianto Di pietate ripieno, e merauiglia, Ch'ella ritorni, e pel desio c'ha tanto Di giugner, stringe gli sproni, e la briglia Allenta al suo cauallo, e pon da canto La grauita reale, e chi ueniua, Seco, à fatica à gran passi seguiua. Ma Dia Reina del carro smontata Con occhi lagrimosi, e mesto uolto S'era dinanzi al padre inginocchiata, E com'alcun singhiozzo, hebbe disciolto Chiese misericordia d'esser stata In man di Sinogrante, ond'egli molto Pietosamente perdonolle quello Non suo peccato, ma ben di quel fello. Perche doue forz'è, colpa non cade, Senon per chi la fa, però fu degna D'ogni remission, d'ogni pietade; Il Re la figlia à le Donne consegna, Poi ringratiar con molta umanitade Guerrino, e gli altri, à più poter s'ingegna, E tra Guerrino, & Alessandro uolse Andare in mezo, & à caminar tolse. E caualcando, ad Armaura arriuossi Doue si feron le feste pompose Fu molto allegro il Re, poi ch'informossi, Che quei, che fecer l'opere pietose Verso la figlia, eran Cristiani, mossi Senza premio a tai cose uirtuose, Far parentado con lor si consiglia, Che già richiesto ne l'hauea la figlia. Parlonne con Guerrino, & ei promesse, Che Dia Reina ad un de suoi darebbe Tutt'hor, ch'ella Cristiana si facesse, Che altremente far non lo potrebbe; Sopra questo à narrargli il Re si messe Per dimostrar che quello anco far debbe, Che Cristian furo già gli antichi suoi, E come fatti eran Pagani poi. Dal Re d'Armenia (disse) ci fu tolta Vna città, che Brizican ha nome, E che d'allora in quà fatt'hauea molta Guerra con esso, e suoi antichi; e come Perdero la città, diedero uolta A la fe, disperati di tai some Inusitate, e lo fecer ualersi De Pagani fauor, c'hauean già persi. Ma poi c'ho inteso, che Guerrino stete, E di Costantinopol l'altr'è Sire, E chi Artiban'è, come uorrete, Così farò, ne uel debbo disdire; Dia Reina ad Artibano potete Dar (s'egli à questo uorrà consentire) E d'Alessandro un'altra figlia mia Farem che sposa (se gli piace) sia, Ma uoglio ben, che uoi ui contentiate D'andare al Re d'Armenia, e che la pace Desiata da me, far mi facciate, Poi prenderem di Cristo la uerace Fè (come prima da noi ricercate) Laqual faccenda, molt'à Guerrin piace, E fur tutti contenti, & egli pronto D'andare Ambasciador si pose in ponto. E per far di tal fatto degna fede (Non essendo Guerrin di sua natione) Arparo saggio in compagnia gli diede, Ch'è conosciuto in quella regione Cinquanta Caualieri armati chiede Guerrin, per ogni loro occasione, Così n'andarò in Armenia maggiore Insieme l'un e l'altro Ambasciadore. Sepper'esser il Re d'Armenia andato Drent'ad una città sù'l fiume posta D'Arbo, & hauendo quel camin pigliato Iui arriuaro, e fecer lor proposta Hauendo sette giorni caminato La doue il Re gli diè grata risposta, Et à Guerrin fe molta cortesia Con tuttaquanta la sua compagnia. Quanta gratia hauer uolse, hebbe Guerrino E fermò doppia pace, ritornati Adietro, pel medesimo camino Fur trionfi maggiori apparecchiati; Quiui il Re con il grande, e piccolino Popolo, furon tutti battezati; Così le figlie, & Antinisca insieme, E d'estrema allegrezza ciascun geme. Dia reina ad Artibano fu data E Lauria appresso, l'altra sua sorella Alessandro si tolse, e gli fu grata C'hauea quattordici anni, & era bella; Fecero poscia una gran caualcata Menando le sue spose ognuno in quella E à uisitare il Re d'Armenia giro, Che per plù di gran feste ne seguiro. Fornite quelle, ciascuno inuiossi Con la sua sposa, ne' paesi loro; Artiban sol col suocero restossi, Che poi egli fu Re sommo, e decoro; E morto Filicone, incoronossi Di Saragona, e del suo tenitoro; Hebbe de la sua Donna due figliuoli Che furo in arme ualorosi, e soli. Filicon l'un chiamossi per il morto Suocer, Guerrino poi chiamò'l secondo Per amor di Guerrino, e suo conforto Che quell'amo più ch'altr'huomo del mõdo; I quai come fur grandi, in tempo corto Fur destri à maneggiar de l'arme il pondo Et acquistar Ierusalemme, e tutta Soria haueuan'in timor ridutta, Ma tempo è già per Guerrin prouedere, Et Alessandro di pace, e riposo E'l fidel Trisal anco in mente hauere, I quai poi che lasciaro il glorioso Re Filicon, che lor diè molto hauere Hebbero per l'Armenia un dilettoso Viaggio, e peruenuti al mar maggiore Trouaro un porto di tutti il migliore. Chiamasi il porto, Furis, che di quanti Son'in quei mari, è'l più buono, e'l più bello Quiui si diero in preda à i nauicanti, Che u'era ancora ad aspettarli quello; Con la Galea, ch'essi lasciaro innanti, Era tranquillo il mare, & ogni fello Vento tacea, e nauigaro in pace Fin doue il bel Costantinopol giace. Giunti à Costantinopoli fu fatta Per tutta la città grand'allegrezza Del loro Imperadore, e de la fatta Sua sposa, ognun lodaua la bellezza De l'una e l'altra Donna, ognun s'adatta Ad ogni sorte di piaceuolezza Ste due mesi à piacer quiui Guerrino Poi à Durazzo suo prese il camino, Ben ch'in quel tempo ingrauidò la moglie Prima ch'egli u'andasse, e per tal uia Alessandro, che mal da lui si scioglie Gli fe con due sue galee compagnia; Giunti à Durazzo, contentar le uoglie Di Milone, e Fenisia, ch'eran pria, Che Guerrin ritornasse, ch'ogni duolo, Et allegrezza hauean per quel figliuolo. Ma poco quiui stè, ch'egli, e'l suo caro Alessandro, secondo il lor disegno A uisitare il Re Guicciardo andaro Ilqual, di Puglia possideua il Regno Appresso poi Girardo uisitaro Andaro à Roma, oue per tutto segno D'allegrezza si fe di lor tornata Ch'à chi gli conosceua assai fu grata. E come fur poi tornati à Taranto Nacque a Guerrino il primo suo figliuolo Ilqual fu di bellezze adorno quanto Ne fusse allor da l'uno, à l'altro polo Fioramonte chiamollo, c'hebbe il uanto Tra gli altri caualieri d'esser solo Al tempo suo, assai battaglie uinse Anco Amor ne' suoi lacci assai lo strinse. Da Durazzo chiamossi Fioramonte, Et il degno Alessandro battezollo; Cioè lo tenne al sagrosanto fonte. In questo tempo diede mortal crollo, La Reina Fenisia, e le defonte Ossa, fur da Guerrin di lei (ch'amollo Quanto figliuol si possa amar) sepolte Con grande onore, e di balsamo inuolte. L'anno ch'ella mori, d'un'altro figlio Fu grauida Antinisca, & allor prese Alessandro d'andarsene consiglio E tornossi à godere il suo paese, Per tor da la sua gente ogni bisbiglio, La sua Donna anco, in quell'istesso mese Gli hauea fatto un figliuolo, e battezato Vols'egli, che Guerrin fusse chiamato. Nacqueli dopo quello, anco il secondo E di suo padre il nome egli li pose, Per sua memoria, e fu detto Raimondo, Nacquegli il terzo ancor, che per le cose Passate, e per memoria darne al mondo, Artibano il chiamò, dal qual famose Opere d'arme furon fatte poi; Così da glialtri due fratelli suoi. Or, morte hauendo usate sue ragioni Sopra Milone, in quel tempo medesimo Nacque un figlio à Guerrino, che Milone Volse che nome hauesse al suo battesimo; Gran diligentia in farlo nutrir pone Con Fioramonte, acciò ch'al Cristianesimo Facciano onore, il primo hauea diece anni Sette il secondo, & hebber nuoui danni, Ch'Antinisca mori, lor madre cara, Ch'era giouane ancor, per il cui conto Troppo essendo à Guerrin tal morte amara E gia pensando à se, disposto e pronto Per l'anima saluar sua, si prepara, Et à Dio render di sua uita conto Di farsi al fin romito si dispose Assettando ben prima le sue cose. Trifal per Balio à Fioramonte diede; E mandò per Girardo suo cugino, E gli raccomandò con molta fede Lo stato, e l'uno e l'altro fanciullino; A Trifal diede moglie per mercede Vna gran donna, d'aspetto diuino; Figliuola di Manfredo Capuano Che fu già di Guerrin gran Capitano. Guerrino andonne à Roma primamente, E tornato à Taranto, in gran riposo La città pose, con tutta la gente Del principato, ilqual con lagrimoso Aspetto, sopportaua amaramente Di perder'un Signor tanto famoso Et fu ben giusto se si lagrimaua Ch'egli il suo popol molto ben trattaua. Con tal disposition d'andare à l'Ermo Ben confessato, e ben purgato tolse Di Cristo il corpo; del Dimonio schermo, Il saggio Caualiero, e quand'ei uolse Il Cilicio pigliar, diuenne infermo E morte il ben uissuto spirto sciolse Per uman corso, dal corporeo uelo. E'l uide il popol tutto andare in cielo. Furon cinquantasette i bene spesi Anni, che'l corpo gli nutriro in terra. Girardo di Taranto, e suoi paesi Restò Signor, con ciò che ui si serra Fin che i figliuoli, à uiril grado ascesi Fusser da gouernare in pace e in guerra; E lungo tempo i discendenti suoi Fur detti Duchi di Durazzo poi.

IL FINE DEL CANTO TRENTESIMO
SESTO, ET VLTIMO.

IL REGISTRO.
ABCDEFGHIKLMNOPQRSTVXYZ,
Aa Bb Cc Dd Ee Ff Gg Hh Ii Kk Ll Mm Nn Oo
Pp Qq Rr Ss Tt Vu Xx Yy Zz,
AAA BBB CCC.
Tutti sono Duerni.

IN VENETIA
APPRESSO GIOVAN BATTISTA, ET
MELCHIOR SESSA FRATELLI.
M˙ D˙ L X˙