COMPONIMENTI
POETICI
DELLE PIV' ILLVSTRI
RIMATRICI
D' OGNI SECOLO,
RACCOLTI
DA
LUISA BERGALLI.
PARTE SECONDA,
Che contiene le Rimatrici dell' Anno
1575. fino al presente.

IN VENEZIA, M.DCC.XXVI.
Appresso Antonio Mora
Con Licenza de' Superiori, e Privilegio.


1576

QVando io movo la mente a invocar voi, Alma mia Duce, e scorta al vero amore Sempre mi vien da voi forza, e valore, Che al suon mi porta degli accenti suoi. Se il Sol degli occhi vostri io miro poi, Tutta m' infiammo di celeste ardore, Ancor che io senta dirmi; il farle onore E' d' altri omeri soma, che da' tuoi. Pur a seguir quel sommo ben m' insegna, La voce istessa, e fa, che ognor voi chiami, O d' ogni riverenza, e d' onor degna. Così chiamarvi ogn' altro non si sdegna, Anzi sua speme appoggia a' vostri rami Come a sola Avvocata, che in Ciel regna.

LA gola, e il sonno, e l' oziose piume Tanto han dal mondo ogni virtù sbandita, Che nel suo corso timida, e smarrita Va l' alma nostra vinta dal costume. E se non fosse quel benigno lume Del Ciel, che pur n' informa a vera vita, Come la stessa prova a dir m' invita, Forse indarno s' andrebbe al sagro fiume. In favole s' adopra il lauro, e il mirto, Mancando và l' alta filosofia, Così la turba a vil guadagno intesa. O felice, chi lascia ogn' altra via, E volge al suo Fattor l' acceso spirto! Questa è la vera, e necessaria improsa. SE la mia vita dall' aspro tormento Potrà tanto schermirsi, e dagli inganni, Che dir io possa, almen negli ultim' anni: Signor, quel vano affetto in tutto è spento. Allor ne andrà il mio cor lieto, e contento Per via sicura a vita senza affanni, Ricompensando i suoi passati danni, d' esser stato al suo ben sì tardo, e lento. E ben m' avveggo quanto è grave errore, Menar sua vita in tenebre, e martiri, Spendendo inutilmente, e gli anni, e l' ore. E se il tempo fia poco ai bei desiri, Soccorso mi si porge a tal dolore, Che al Ciel non fur gia mai tardi i sospiri.

Sl' mi sprona il desir, che più non taccia, Vergine eccelsa, tua bellezza in rima, E dica, come simil non fu prima A te, ne sarà mai, che tanto piaccia. Ma tal peso non è da umane braccia, Ne opra da pulir con nostra lima, E chi per te lodar sua forza estima, Nell' operazion tutto si agghiaccia. Però, se a dir di Te mie labbra apersi Fu, perchè tanto abbondi nel mio petto, Non che per me salir possa tant' alto; Se la mano alla penna in scriver versi Porrò, dal tuo bel lume il mio intelletto Sarà soccorso con benigno assalto. SE ben mirando il crine in parte bianco, Indizio scorgi dell' età fornita, Non voglio, anima mia, che sbigottita Perciò ti trovi, e di speranza al manco. Ferma pur gl' occhi in quel aperto fianco, ch' ivi ritroverai conforto, e vita, E chiedi al tuo Signor soccorso, e aita, Prima, che lasci il corpo infermo, e stanco. Leva pur sempre in alto il tuo desìo, Mirando la sembianza di colui, Che riveder nel Ciel si brama, e spera. Con tal speranza travagliando anch' io, Fuggir vorrei me stessa, non che altrui, Poichè questa è del Ciel la strada vera.

AMor mi tenta, e prega alcuna volta, Che da' suoi passi ancor non mi allontani Con dir; pari non son gli effetti, e strani, Nè gentil alma è da miei nodi sciolta. Ma poichè al ver cammin l' hà Dio rivolta, Dico, levando al Cielo ambe le mani, Seguir io voglio quel, che i preghi umani Benignamente, e con pietate ascolta. E se passando in questa mortal vita, Per farci al bel desìo volger le spalle, Si trovan per la via fossati, o poggi; Amor, Speranza, e Fede il dritto calle Può far soave, e dolce la salita, Onde al suo vero fin si levi, e poggi. SOlo sperando, i suoi fecondi campi Solca l' agricoltore a passi lenti, E gli occhi fermi tien, mirando intenti, Come l' aratro suo la terra stampi: Così del mio bel Sole i chiari lampi Miro, bench' io mi trovi tra le genti; E tanto sono i miei sensi contenti, Che il cor d' un dolce foco par, che avvampi. Onde per tal diletto, e monti, e piaggie, E fiumi, e selve, e le più chiare tempre Seguir mi piace, e quanto sprezza altrui. E quelle vie stimate aspre, e selvaggie, Soavi, e piane mi si mostran sempre, Che il mio Lume stia meco, ed io con Lui.

O Gloriosa, e splendida finestra Ond' escono d' amor dorati strali, Che ci fan sani dagli interni mali, E ci mostran del Ciel la strada destra. Or stando quì nella prigion terrestra. E nel secol nojoso de' mortali, Dogliomi al bel desir non aver l' ali, Per uscir fuor di questa valle alpestra. Oimè! quanto dovreimi esser accorta, Che nè varia stagion, nè loco, o tempo Fanno, che il senso io sciolga, o che l' affreni. Spesso mi dice la mia fida scorta: Levati, anima mia, mentre, che hai tempo Al vero Sole, ai lumi almi, e sereni. IO amo sì di quel lume l' assalto, Ove il mio ben, e la mia vita alberga, Che non come fanciul timido a verga, Ma corro ardita a lui, qual Curzio al salto. Nè fia già mai, che faticoso, ed alto Loco mi stanchi, e il mio voler non s' erga, Acciò che grazia tal non si disperga, Ond' io rimanga poi qual freddo smalto. Già capir non potei, nè creder volsi, Or m' avveggio, che quanto il cor si strugge, A questo foco è più beato, e degno. Se per altezza alcun timido fugge Da tanta impresa, io per me non mi sciolsi Dal mondo, ma per fede io n' hò tal pegno.

QUãto più mi avvicino al giorno estremo, Più veggio al ben oprar il t&etilde;po breve, E nel suo corso più veloce, e leve, E' il mio sperar in lui fallace, e scemo. Io dico all' Alma allor; noi se n' andremo D' altro pensando, che di guerra, o tregue, Perchè or ti agghiacci, or come fresca neve, Strugger ti lasci, onde mai pace avremo. Volgiti pur a quell' alta speranza, Da cui troppo sviata abbiam la mente, Tra pena, e pianto, tra paura, ed ira. Ben chiaro puoi veder, come sovente Per piacer breve gran danno si avanza, E come spesso indarno si sospira. COme a forte destrier si può ben porre Sì duro fren, che dal suo corso il volga; Così legar convien, che non si sciolga Il cor, che virtù brama, e il vizio aborre. Ne perciò libertà gli si può torre, Benchè alla volontà spesso si tolga, Che come fama pubblica divolga, Ov' egli vuole andar, nulla il precorre. Ma ben vestir, come guerrier al campo Si dee dell' onorate, e lucid' arme, Onde alfin vinca quel mortifer angue Pensando, or d' un gentil desire avvampo, Ma lenti sono i sensi a seguitarme, Onde l' alma di ciò si strugge, e langue.

O Quante degne, ed onorate prede Di noi fa quella, che a null' uom perdona, O quanto d' improviso n' abbandona L' umana speme, e manca di sua fede! O quanto egra del Mondo è la mercede, E pur l' ultimo dì d' intorno tuona; Per tutto questo, Amor non mi sprigiona, E l' usato tributo il senso chiede. Sò come i dì, come i momenti, e l' ore Fuggon, com' ombra, pur l' antico inganno Mi sforza, e l' uso più che l' arti maghe. Questi con la ragion combattut' hanno Sette, e sett' anni, e vincerà il migliore, Per quanto son nel Ciel Stelle presaghe. QUando il crudel Arcier talor mi assale, Scoccando pur suoi dardi a mille, a mille, a mille, Ritorno a quelle angeliche faville, Che il foco del mio cor fanno immortale. Ivi scopro bellezza tanta, e tale, Che a nona, a vespro, all' alba, ed alle squille, Fa le pene al mio cuor dolci, e tranquille, Talchè null' altro mi rimembra, o cale. Non vide il Sol già mai sì chiaro viso, Nè il dolce suon delle parole accorte Si udì tra noi, ma sol nell' alma spira. Sua vera stanza è posta in Paradiso: Ma perchè il cor fedel si riconforta, Benignamente quì siede, e respira.

PErseguendomi Amor più dell' usato, Disposto a farmi un' improvisa guerra, Tolse la chiave, che quell' arme serra, In che stà il cor per sua difesa armato. Allor volsi la mente in ogni lato, Se pur potessi ritrovar in terra, Quella, che se il giudizio mio non erra, E' degna del celeste immortal stato. Fra me stessa dicea: perchè paventi? Ma non fu prima dentro il pensier giunto, Che i lumi, in ch' io sperava eran presenti. Come col balenar tuona in un punto, Così fu il cuor da quei raggi lucenti, E da un dolce conforto insieme aggiunto. REal natura, e sublime intelletto In Donna, che fu assunta al degno impero, Di somma Providenza alto pensiero, Eternamente impr esse nel suo petto. Quel puro chiostro al santo Padre eletto, Poichè oppresse, e scacciò l' angelo altero; E il frutto virginal conservò intero. Per dar dell' amor suo segno perfetto. Quì grandezza di stato, o di fortuna Non mira, poichè il tutto è in la sua mano, Ma d' umiltà raccolse a sè quell' una. Piena di grazia, e d' ogni affetto umano Abbracciò l' alme, e rallegrò ciascuna; Or me conforta in atto dolce, e piano.

SE ponno dimostrar valor alcuno Celesti influssi, a chi più degni furo; Se sgombran della notte il manto oscuro Di Febo i raggi, e scaccian l' aer bruno; Non men quel sacro illustre Cómenduno In me destò colei, che al mondo curo: Che se fortuna fe il mio viver duro, Bassi pensier però già non aduno. Questi imitando quel supremo Sole, Che con tanta umiltà nel mondo venne, d' altrui giovar mai non si sdegna, o duole. Ma s' egli aggiunge all intelletto penne, Forse avverrà; che ancor tant' alto vole, Onde saetta eletta il corso tenne. PErchè l' umana speme è lunga troppo, E della vita il trapassar sì corto, Dovrebbe pur ciascun esser accorto, E fuggir quella, più che di galoppo. Tratto n' hò il cor, benchè debile, e zoppo, Dal lato, onde il desir cieco l' ha storto: Ma fu colei, che nella mente porto. Che mi disciolse ogni amoroso intoppo. Tornate indietro, o voi, che siete in via, Che questa ascosa pannia assai n' avvampa. Nè v' indugiate su l' estremo ardore. Da un tal incendio di mille un non scampa Pur ti confida, e spera, anima mia; Che Dio non sprezza un ben contrito core.

Se rea fortuna non dà qualche stroppio Alla tela novella, ch' ora ordisco, Mentre mi svolvo dal tenace visco, E che il falso col ver più non accoppio; Farò un legame al cor sì saldo, e doppio, Che più non tornerà nell' error prisco: E di speranza piena dir ardisco, Non temerò di morte il duro scoppio. Ben è ver, che mi manca a fornir l' opra Gran parte delle fila benedette, Che avanzaro a quel mio diletto Padre. Deh perchè tien ver me le man sì strette Contra sua usanza? e pur giovar s' adora Alle gentili imprese, alte, e leggiadra* Original has "leggiadrp". MIra quel legno, o stanco mio cor vago, Ivi si pose quel, che tanto n' ebbe In pregio, e stima, e sì di noi gl' increbbe, Che fece del suo sangue aperto lago. Entra tu là, ch' io d' esser quì m' appago, E come vuol ragion tempo sarebbe, Di pianger nostro error, che tanto crebbe, Quanto fosti partecipe, e presago. Ate, Donna, convien porre in obblìo L' ambizion, che spesso porti teco, Dic' egli, e tuoi disdegni vani, e sciocchi. Così ti accender ai d' un bel desìo, Con quella, che dal Ciel ne invita seco, Se tanto ti dilettan suoi begli occhi.

LAssa me, che pur troppo, ov' io non voglio Il senso mi trasporta, e al fondo varca, Onde a quel sommo mio, vero monarca, Proterva, e ingrata son, più, ch' io non soglio. Conosco, e pur non fuggo il duro scoglio, Ove fiaccar si può mia debil barca, E perciò ognor ti fa di error più carca, Talchè i nemici miei mostran l' orgoglio. Signor, che reggi il Cielo, il Mare, e i Venti, Ed hai del Serpe fier la voglia spinta, Deh! sgombra ancor da me l' orribii verno. E quell' ardor, che dà noja, e tormenti. Rimovi, sicchè io più non resti vinta, Ma salda, e ferma al tuo fido governo. O Come sparge la sua coda, e vibra Crudo serpente, e mi ravvoglie, e tesse Fraudi, ed inganni, e con le fraudi istesse Lega il cor vago, e le speranze cribra. Tremar sento la mente, e il sangue in fibra, Qualor avvien, che troppo a me si appresse, A tal, che morte, e vita insieme spesse Volte, fra le bilancie appende, e libra. Ma in te mirando, o mio Signor, accendo Lo spirto lasso in grave affanno preso, E l' alma torna in se, che venia manco. Dir non posso, Signor, che nol comprendo: Ben vedi quanto è l' intelletto offeso, Però soccorri al cor debile, e stanco.

SPiegar mai non potrìa prosa, nè versi, Quant' è il dolor, che in questa anima chiudo, Poich' è stato il mio cor spietato, e crudo, Mentre udj il mio Signor così dolersi: Anima ingrata, or vedi s' io soffersi, Che di me stesso a te feci elmo, e scudo, E vedi anco il mio cor aperto, e nudo, E i merti tuoi all' amor mio diversi. In queste piaghe il desir mio risplende, Più, che non splende il Sol nel puro vetro, Chiaro pur vedi, e amor fa, ch' ìo tel dica. Perchè dunque non fai, come già Pietro, Che abbandonò ogni cosa a me nimica? Così ogni cor umil da me s' intende. O Tu, che alla sinistra parte pieghi, La speme tua tradita tante volte, Ove non è chi con pietate ascolte Spargendo vai tanti angosciosi prieghi: Ma se brami, che il Ciel non ti si nieghi, Cerca il tuo vero fine, E voi luci meschine, Fate, che Dio per voi si riprieghi; E là dove in soavi ameni fiori Si canta de' suoi santi, e casti amori. O che bella armonìa, che dolci canti S' odon là sù, che non li turba il tempo, Però levati omai, che n' è ben tempo, Ch' hai speso gl' anni tuoi con error tanti: Ma pur sempre pietosi hà gl' occhi santi,

E si prende diletto Di star, siccome ha detto, Con gli umili contriti, e veri amanti: E di più ti dirò senza mentire, ch' egli ti chiama, e par non vogli udire. Donna gentil, che cosi passo, passo, Scorto m' avete a rimirar tant' alto, Spezzate ancor questo mio cor di smalto Sì forte, ch' io per me dentro nol passo; Questo la mente mia ritien al basso, Che le sante parole Non ode, e ben mi dole, Sicchè fa il viver mio timido, e lasso: E se contra di lui m' induro, e inaspro, Egli si volta a me protervo, ed aspro. O ciechi, non vedete, come inganna Il proprio amor, e il desiar soverchio? E trascorrendo il Ciel di cerchio in cerchio Andate, fin che morte vi condanna: Se mortal vista il veder vostro appanna, Che colpa è delle Stelle, O delle cose belle? Cercando quel, che dì, e notte v' affanna; O se del peso suo vi fa gir grave La falsa vista, e il finto stil soave? Tutte le cose, di che il mondo è adorno Uscir buone di man del mastro eterno; Ma senza il vostro ajuto io non discerno, Anzi si adombra il bel, che mi stà intorno E se al vero splendor già mai ritorno, l' occhio non può star fermo, Così l' hà fatto infermo La colpa mia, ch' io piango notte, e giorno: Pur mi conforta vostra alma beltade, Per ristorar la mia perduta etade.

NOvo desir invita al santo monte l' anima mia, ch' ogni segnato calle Turba il riposo, e il lume di sua vita. Di sete accesa non ritrova il fonte In questa lagrimosa, e cieca valle, E così resta inquieta, e sbigottita; Se alcun piacer la invita, Or ride, or piange, or teme, or s' assicura: E' l volto, che lei segue, ov' ella il mena, Si oscura, e rasserena, Ed in un esser picciol tempo dura, Onde alla vista, uom di tal vita esperto Diria: fuggi del mondo il stato incerto. Nei monti dice, e non per selve trovo Qualche riposo, e ogni abitato loco E' nimico mortal de' sensi miei. A ciascun passo nasce un pensier novo, E la compagna mia sovente in gioco Gira il tormento, ch' io porto per lei, Onde perciò vorrei Ritrarmi fuor del viver nostro amaro; Poichè m' infiamma quel celeste amore Ad un stato migliore, Che forse anco potrebbe esserti caro: Allor rispondo, e dico sospirando, Or potrebbe esser vero? or come? or quando? Come porge ombra un pino alto, od un colle, Così m' adombro, e quasi immobil sasso Resto miran lo il suo pallido viso: Poi mi risveglio, e dico al core: ahi lasso Dove sei giunto, e da chi sei diviso? Ma mentre tener fiso Posso al primo pensier lamente vaga,

Pur di vederla io sento a un punto stesso Un tal calor dappresso, Che d' ogni suo desir il cor s' appaga; In tante parti, e sì bella la veggio, Che se il pensier durasse altro non chieggio: Questo non dico, perchè alcun mai creda, Che vaneggiando su per l' erba verde, Che stãdo in terra all' ombra d' un bel faggio Pingendo in carte la figlia di Leda, Perchè a tal modo l' opra, e il tempo perde; Nè in tal si ferma quel celeste raggio, E quanto in più selvaggio Loco si trova, e in più riposto lido, Tanto più il van desir l' alma mi adombra; Ne mai da me si sgombra Quel grave orror, mentre nel mondo assido: Però levarmi al Ciel con fede viva Prega l' alma, ch' io pensi, e pianga, e scriva. E perchè il Serpe fier dentro non tocchi, Portò già il Signor mio quel grave giogo, Onde mi assale un desiderio intenso, Che l' aspre pene a misurar con gl' occhi Comincio, e in tanto lagrimando sfogo Di dolorosa nebbia il cor condenso: E così miro, e penso Quant' aria da quel lume mi diparte, E chi quel sommo ben mi tien lontano: Poscia fra me pian, piano Dico: che sai, se forse in quella parte, Or per te in caritate si sospira; Ed in questo pensier l' alma respira. Canzon, sopra quell' alpe, Là dove il Cielo è più sereno, e lieto Volando andrai per quel ruscel corrente, E là dove si sente Soave canto, che fa il cor quieto;

Ivi udrai, che da te l' alma s' invola, Quando resterà quì l' immagin sola. Ardor, falso sperar, timor, e ghiaccio Dona a' suoi servi Amor, finchè sotterra Li vede estinti, e a crudel morte in braccio. Misero è ben chi in tal prigion si serra, E inavvedutamente è preso al laccio; Che senza suo gran danno non si sferra, Anzi la propria vita gl' è d' impaccio. Or pensando a me stessa io taccio, e grido: Ma indarno già gridai chiedendo aita, Quando ogni mio voler posi in altrui. Che mi lusinghi Amor? di te mi rido; Poichè malgrado tuo mi trovo in vita. Nè son, nè sarò più, come già fui. QUando l' alma mia Duce a terra inchina I santi lumi, in un sol sguardo accoglie I vaghi spirti, e me da me discioglie, Con la sua vista angelica, e divina. Sentomi far del cor dolce rapina, E tutti in me cangiar pensieri, e voglie, E nulla estimo le terrene spoglie, S' io veggio, che a tal ben l' alma s' inclina. Se non che la ragione i sensi lega Col gran desir, che udendo, esser beata, Partir vorrebbe, e con dolor si affrena. Così soavemente, e volge, e spiega Lo stame della vita, che m' è data, Questa benigna mia Stella serena.

1578

OVer del secol nostro onore, e gloria; Divin Bonardo, che con tanta cura, Del Ciel gli alti segreti, e di Natura, Scopri in sì dolce, e sì purgata istoria; Se tien l' eternità viva memoria Di chi s' erge scrivendo all' aspra, e dura Salita di virtute, avrai sicura Tu contra morte, e il tempo alta vittoria Che leggendo, e scrivendo ognor dimostri, Quanto in farsi immortal si tremi, e sudi, E s' alzi sovra il Ciel senza aver l' ali. E sempre in voce, e con lodati inchiostri Dispensi il tempo, e l' ore in quegli studj, Che fan per fama gli Uomini immortali. MEntre lontana sol contemplo quella Vostra rara virtù degna di rima, Spinge ad alzarmi all' alta cagion prima Un non sò che divin, ch' io scorgo in ella. Quinci s' apre la via diritta, e bella, Onde il mio nome poggi in ogni clima, Nè il bagni obblìo di Lete, o il roda lima D' invidia, o il furi mai proterva stella. Quinci l' alma produce un pensier saggio, Che mi cerca innalzar con bianche piume, E portar dagli Esperj ai lidi Eoi. Se dunque luce in me benigno raggio, O si scopre virtù del di vin lume, Tutto, Bonardo, sol nasce da voi.

1578

SE la mia intenzion saggia, e perfetta Mirate, ho gran ragione, Ardo gentil, di non amar Damone; Si perch' egli non merta il nostro amore, Sì perchè mentre dire Vuol la mia asprezza, e i danni* Original has "danui". del suo core, Al Mondo in vario suon si fa sentire; Pur mi potrei pentire, E dargli un guardo, e nol lasciar morire; Ma se di me non può goder lo sguardo, Di me si duole a torto il suo Bonardo.

O Quanto per voi meglio si farìa, Se quel, che il Ciel ingegno alto vi diede Riconosceste con più cortesìa. Sicchè a impiegarlo in quel, che più si chiede Veniste, disdegnando il Mondo frale, Che quei più inganna, che gli tien più fede. E se lodaste pur cosa mortale, Lasciando sol quel, ch' è del senso oggetto, Lodar quel, che al giudizio ancor poi vale. Lodar d' Adria il felice, almo ricetto, Che benchè sia terreno hà forma vera Di Ciel in Terra, a Dio caro, e diletto. Questa, materia del vostro ingegno era, E non gir poetando vanamente, Obbliando la via del ver primiera. Senza discorrer poeticamente,


Senza usar l' iperbolica figura, ch' e pur troppo bugiarda apertamente; Si poteva impiegar la vostra cura, In lodando Vinegia singolare, Meraviglia, e stupor della Natura. Questa Dominatrice alta del Mare, Regal Vergine pura, inviolata, Nel Mondo senza esempio, e senza pare; Questa da voi doveva esser lodata, Vostra Patria gentile, in cuì nasceste, E dove anch' io, la Dio mercè, son nata. Ma voi le meraviglie raccoglieste d' altro Paese, e della mia persona, Quel, che Amor cieco vi dettò, diceste. Una in vero è, qual dite voi Verona, Per le qualità proprie di se stessa, E non per quel, che da voi si ragiona. Ma tanto più Vinegia è bella d' essa, Quanto è più bel del Mondo il Paradìso, La qual beltà fu a Vinegia concessa. In modo dal mondan tutto diviso Fabbricata è Vinegia sopra l' acque, Per sopranatural celeste avviso. In questa il Re del Cielo si compiacque* Original has "comipiacque". Di fondar il sicuro eterno nido Della sua Fè, che altrove oppressa giacque. E pose a suo diletto in questo Lido Tutto quel bel, tutta quella dolcezza, Che sia di maggior vanto, e maggior grido. Gioja non darsi altrove al Mondo avvezza, In tal copia in Vinegia il Ciel ripose, Che chi non la conosce, non l' apprezza. Questo al vostro giudizio non s' ascose, Che delle cose più eccellenti ha gusto, Ma poi la benda agl' occhi Amor vi pose. Dal costui foco il vostro cuor combusto,

Vi mandò agl' occhi della mente il fumo, Che vi fece veder falso, e non giusto. Ne d' io di me tai menzogne presumo, Quai voi spiegaste ben con tai maniere, Che dal modo del dir diletto assumo. Ma non perciò conosco per non vere, Le trascendenti lodi, che mi date, Sicchè mi son con noja di piacere. Ma se pur tal di me concetto fate, Perche al Nido, ch' io nacqui non si pensa Da voi, e in ciò perchè ognor non lodate? Perche ad altra opra il pensier si dispensa, Se per voi deve un loco esser lodato, Che dia al mio spirto posa, e ricompensa? Ricercando del Ciel per ogni lato, Sebben discorre in molte parti il Sole, Però vien l' Oriente più stimato; Perchè quasi dal fonte Febo suole, Quindi spiegare il suo divino raggio, Quando aprir ai mortali il giorno vuole, Così anch' io in questo, e in ogni altro viaggio, Senza però col Sol paragonarmi, Per mio Oriente, alma Venegia, t' haggio. Questa, se in piacer v' era dilettarmi, Dovevate lodare, e con tal modo, Al mio usato soggiorno richiamarmi. Lunge da lei di null' altro ben godo, Se non, ch' io spero, che la lontananza, Dal mio vi sciolga, e leghi all' altrui nodo. Continuando in cotal mia speranza, Prolungherò più, che potrò il ritorno; Talchè mi amiate hà lo sdegno possanza. Così vuol chi nel cor mi fà soggiorno Amor di tal, che per vostra vendetta Forse non meno il mio riceve a scorno: Ma come sia non ritornerò in fretta.

SOvente occorre, ch' altri il suo parere Dice, stimando fatte alcune cose, Che non successer, nè fur punto vere. Di queste, che pur son dubbie, e nascose, In noi un certo istinto la Natura, Che rende al peggio, ed a biasmarle, pose, Benchè null' opra è di quà giù sicura, E di quel, che men par, che avvenir possa, Stiasi con più sospetto, e più paura. Del Mondo ingannator questa è la possa, Che quel, più contrario al ver succeda, Per cagion torta occultamente mossa. La ragion vuol, ch' ogni ben di voi creda, Ma poi del verisimile l' effetto Fa, che quel, che credei prima, discreda. Comunque sia, egli m' e stato detto, Se falso, o ver non importa, ch' io dica, s' io son risolta, o se ne ho alcun sospetto. Basta, che mi teniate per amica, Come in fatti vi son, sicchè in giovarvi, Non sarei scarsa d' opra, o di fatica. Ed or, ch' io mi conduco a ragionarvi Di quanto intenderete, a quel m' accosto. Che dee chi fa profession d' amarvi. Dunque alla mia presenza vi fu opposto, ch' una Donna innocente abbiate offesa Con lingua acuta, e con cuor mal disposto. E che moltiplicando nell' offesa, Quant' è stata colei più paciente, In voi l' ira si sia tanto più accesa. Sicchè spinto da sdegno impaciente, Le man posto le avreste addosso ancora, Se nol vietava alcun, ch' era presente. Ma voi la minacciaste forte allora, E giuraste voler tagliarle il viso, Osservando del farlo il tempo, e l' ora.

Strano mi parve udir d' un uom diviso Dai fecciosi costumi del vil volgo, Un cotal nuovo inaspettato* Original has "inaspettaoo". avviso. E mentre col pensiero a voi mi volgo, Della virtude amico, e dell' onesto, La fede a quel, che mi fu detto tolgo. Dall' altra parte sò quanto è molesto Lo spron dell' ira, e come spesso ei mena A quel, ch' è vergognoso, ed inonesto. Nè sempre la ragion, che i sensi affrena, A stringer pronto in man si trova il morso, E il gran soverchio rompe ogni catena: Se per impeto d' ira il fallo è occorso, Non durate nel mal, ma conoscete, Quanto fuor del dover siate trascorso. Gl' occhi del vostro senno rivogliete, E quanto ingiuriar Donne vi sia Disdicevole, voi stesso vedete. Povero sesso con fortuna ria Sempre prodotto, perchè ognor soggetto, E senza libertà sempre si stia. Nè però di noi fù certo il difetto, Che se ben, come l' uom non sem' forzute, Come l' uom mente avemo, ed intelletto. Nè in forza corporal sta la virtute, Ma nel vigor dell' alma, e dell' ingegno, Da cui tute le cose son sapute. E certa son, che in ciò loco men degno Non han le Donne, ma d' esser maggiori Degli uomini dato hanno più d' un segno. Ma se di voi si riputiam minori, Fors' è perchè in modestia, ed in sapere, Di voi siamo più facili, e migliori. E che sia il ver voletelo vedere? Che il più savio ancor sia più paziente, Par che alla ragion quadri, ed al dovere.

Del pazzo è proprio l' esser insolente; Ma quel sasso dal Pozzo il savio traggie, ch' altri a gettarlo fu vano, e imprudente. E così noi, che siam di voi più saggie, Per non contender vi portiamo in spalla, Come anco chi hà buon piè porta chi caggie. Ma la copia degl' uomini in cio falla; E la Donna, perchè non segua il male. S' accomoda, e sostien d' esser vassalla. Che se mostrar volesse quanto vale, In quanto alla ragion dell' uom sarìa Di gran lunga maggior, e non che eguale. Ma l' umana progenie mancherìa, Se la Donna ostinata in sul duello, Fosse all' uom, come ei merta acerba, e ria. Per non guastar il Mondo, ch' è sì bello, Per la specie di noi la Donna tace, E si sommette all' uom tiranno, e fello. Che poi del regnar tanto si compiace, Siccome fanno il più quei, che non sanno, (Che il mondan peso a chi più sà più spiace) Che gli uomini perciò grand' onor fanno Alle Donne, perchè cessero a loro l' impero, e sempre a lor serbato l' hanno, Quinci sete, ricami, argento, ed oro Gemme, porpore, e quelle di più pregio, Si pon in adornarne alto tesoro. E qual conviensi al nostro senno egregio, Non sol son ricchi i nostri adornamenti D' ogni pomposo, e più prezzato fregio; Ma gl' uomini a noi vengon riverenti, E ne cedono il loco in Casa, e in strada, In ciò non punto tardi, o negligenti. Per questo anco è, che a lor portar accada Beretta in testa, per trarla di noi A qualunque dinanzi se ne vada.

E se ancor son tra lor nemici poi, Non lascian d' onorar sempre, che occorre, l' istesse Donne de' nemici suoi. Da questo argomentando si discorre, Quanto l' offesa fatta al nostro sesso La civiltà dell' uom civile abborre. Ne, ch' io parli così crediate adesso Con altro fin, che di mostrarvi quanto l' offender Donne sia peccato espresso. Informata ancor son dall' altro canto, Chi sia colei, di cui mi fu affermato, Che ingiuriaste, e minacciaste tanto. Certo questo non merita il suo stato, E l' avervi il suo amore a tanti segni, In tante occasion manifestato. Cessin l' offese omai, cessin gli sdegni; E tanto più, che d' uom nato gentile, Questi non sono portamenti degni: Ma è profession d' uom basso, e vile, Pugnar con chi non hà difesa, o schermo, Se non di ciancie, e d' ingegno sottile. Perdonatemi in ciò, ch' io troppo affermo Le colpe vostre; poiche io non intendo Comprender voi più d' alcun' altro al fermo. Ma quel, che vado adesso discorrendo, E quanto ad onta sua colui s' inganni, Che vada con le Donne contendendo. Perchè al sicur di lui son tutti i danni, Se vince mal, e peggio se vien vinto, Il rischio è certo, e infiniti gl' affanni. Col viso di rossore infuso, e tinto. d' essere stato ogn' uom d' onor s' accorge Di far ingiuria a Donne unqua in procinto. E quanto più il valor vivo risorge, Tanto più l' armi fuor dall' ira tratte, Vergognando al suo loco altri riporge.

E si pentisce delle cose fatte, In via, che se potesse frastornarle, Le ridurria dall' esser primo intatte, Ma perchè non puo indietro ritornarle, Con dolci modi all' offese ripara, E quanto puo si sforza d' annullarle. Ritorna ancor l' amata al doppio cara Nel rifar della pace, e per turbarsi, Più d' ogni parte l' alma si rischiara. Così nel ben vien a moltiplicarsi; E così certa son, che voi farete. Siccome suol da ogni par vostro farsi: E colei certo offesa, o non avete, O se vinto da sdegno trascorreste, l' error di voi non degno emendarete, Ed io di ciò vi prego in fin di queste. ALla tua ceda ogni regale insegna, Che delle sante leggi in man tenesti Così bene il governo, onde reggesti Di dotta gioventù scola sì degna. Ad inchinarsi a te tutta ne vegna D' Antenor la Città, che a tanto ergesti Col tuo valor, che in terra un Ciel la festi, Dove il bel senza noja eterno regna. Tu di religion santa, e verace Sei rilucente specchio, al cui bel raggio Ogni spirto gentil si strugge, e sface. Che da te fatto antiveduto, e saggio, Dietro sen' vola alla divina pace, Per destro, e sicurissimo viaggio.

ECco del tuo fallir degna mercede, Magnanima, e vilissima Regina: Come Fortuna ogni tua altezza inchina Per le tue gravi colpe, or pur si vede. Ecco d' assiria l' onorata Sede Di tanti Regi all' ultima rovina: Che il tempo faccia pur crudel rapina Delle maggior grandezze or pur si crede. Tu l' onor, tu l' impero, e tu la vita Misera perdi in un sol giorno; è colpa Sol di te stessa, e l' altrui gloria esalti. Muzio ne hà gloria, e pregi eterni, ed alti; E mentre ei te d' ogni brutezza incolpa, Acquista al nome suo loda infinita.

ERa tranquillo il Mare, e l' aere chiaro, E Zefiro spirava, e di viole Carca più, che non suole Sorgea l' aurora, e frutti, e frondi, e fiori Produceva la Terra, ed era il Sole, Nel suo cammino del Leone a paro, Ne fea nube riparo Al volto suo, quando tra verdi allori Coronata di palma apparve fuori Questa franc' Orsa, che col vago lume De' suo begli occhi ogni uman core accende d' onesta fiamma, e tende Sì cari lacci, e in sì gentil costume, Che chiunque è da lei arso, e legato.


Stima il foco soave, e il giogo grato. Tal valor piove in noi dalla sa luce, Benchè sempre saette avventi, e strali, Che sgombra tutti i mali Dai nostri petti, se talor si mostra A noi benigna, ond' è, ch' oggi i mortali Non curan morte, fin che nostro Duce E' il lume, che conduce A sommo onore i suoi seguaci: O nostra Propizia Stella, o s' io la virtù vostra Ridir potessi, come dentro al core La porto impressa, o pur ergermi a volo; Sicchè al contrario Polo Per me s' udisse il vostro altero onore, Tal fora all' ali mie baldanza nova Data, che oserei star coi Cigni a prova. Ma sebbene al mio vol son tronchi i vanni, E le sue grazie mal meco comparte Febo, e l' ingegno, e l' arte Lunge assai van du sì gradita impresa; Certo il desìo fia almen lodato in parte Cui vien, che con sì dolci, e novi inganni, Nebbia d' amore appanni, Voi bella, e vaga, e d' onestade accesa Fera gentil, se pur venite offesa Dall' ardir mio, non vi movete a sdegno, Che gran beltà ragion non tiene a freno: Come è chiaro, e sereno Il vostro lume, e più d' ogn' altro degno, Così maggior d' ogn' altro è l' ardor mio; Ne contrastar mi lice al gran desìo. Dunque, se il mio pensier tant' alto poggia, Non vien in lui da sua virtù tal lena, Ma sol dalla serena Vostra luce, ch' ogn' altra cura a vile Tener mi face, e solo a lei mi mena.

Occhi beati, in cui splendor alloggia, Talche, se strali, o pioggia Giove minaccia, e che voi in atto umile A lui volgiate il bel raggio gentile, Egli abbagliato dal divino lampo, Gia tutto acceso il cor d' onesto foco, A voi tremante, e fioco S' inchina, e scaccia dal celeste campo Folgori, e tuoni, e già d' orgoglio, e d' ira Voto, in vostra beltà si specchia, e mira. Nè punto a gelosìa Giunon si move, La qual ben sa, che vil pensier non puote Nascere, ove percuote De' bei vostr' occhi la gentil facella: Ed al vostro saper son tutte note Le fraudi, ch' egli usò, le indegne prove. Già sotto forme nove, Luce, per cui riman l' antica stella Tenebrosa, nè più lucente, e bella, Si mostra, come pria, che il vivo raggio Vostro, lo suo splendor vince d' assai: A lei ricopre irai Poca nebbia, ed a voi non face oltraggio O nube, o notte, e sempre a mille, a mille Lampeggian vostre angeliche faville. Canzon, vanne a quell' orsa, che l' impero Ha di vera virtute, e di beltate, E con quella umiltà, che a lei si deve; In parlar dolce, e breve, Le dì; siccome ell' è di nostra etate Gloria, e splendor, così seco mia voglia Amor legò, nè sia, ch' indi mi sciolga.

COrtese Donna, i cui soavi accenti, Quel, che non fer già d' eco le parole, Potrian Narciso anco invaghire, e il Sole Fermar dal corso, e ritenere i venti; Veggo le grazie, e in van gli amori intenti A rimirarvi ognor, com' altri suole Celeste cosa, che s' ammira, e cole, A cui devoto il cor brami, e paventi. Ben sono i vostri Monti alti, se il Cielo Feriscono, e ben degno il vostro Alloro, Che vago, e colto orna il celeste velo. O di vera virtude ampio tesoro, Se tanto io vaglio, pria, ch' io cangi il pelo, Chiaro vedrete ancor quanto v' adoro.

1579

COlei, che dianzi ebbe di te vittoria, Mentre in mia sigurtà lieto ti stavi, E che del mio splendor lucido andavi, Come in bel stil ne fai cantando istoria; Ben d' ogni impresa tale aver può gloria Senza in suo ajuto trar cavalli, e navi: Poichè hà parole, e sì sguardi soavi, Che quindi Amor del suo poter si gloria. Ond' io per te, che a così degno giogo Contento umile il collo abbassi, godo, E ten' prego dal Ciel felice sorte. Non già mi piace, e in nobil cor non lodo, Che a novo obbietto il tuo pensier s' inchine Inguisa, che il primier non abbia luogo.

DIsoverchio desìo, d' ardir si spoglie Cui sì dispiace il giusto mio rigore; Chi troppo ardisce avrà da me sol foglie; Che a' saggi sol si deve il frutto, e il fiore. Degno è, che amante quella speme invoglie, Che sia fuor di travaglio, e di disnore: Chi si nutre d' error pena raccoglie, E d' ira si fa preda, e di furore. Ragion, senno, prudenza hanno ricetto Nel mio regno, ed offende alfin se stesso, Chi ne và lunge, e vive ore meschine. Perchè dunque m' incolpi se sì spesso Conturbi mie bellezze alte, e divine? Tanto non può abbracciar sì picciol petto.

1580

SE al soggetto l' ingegno, al desìo l' arte Corrispondesse, e all' animo lo stile, Corrado mio, farei da Idaspe a Tile Il nome vostro noto, e le mie carte. Ma cantar le gran doti, che comparte A voi sì largo il Ciel, non lice a umile Augel nato in terren palustre, e vile, Che da Castaglia sol voli in disparte. Se di Cesare invitto al nome, all' armi, Al senno, amica Stella vi fa eguale, Dicano i vostri onori, i vostri carmi. Cantate dunque, o bel Cigno canoro Vostre glorie, che s' ei si fe immortale, Anco a voi serbò Febo eterno alloro.

ETernar col suo nome mille carte Può il nuovo Massinissa, e mille marmi, Poscia, che tanto nel mestier dell' armi Fè, che vinse i mortali, agguagliò Marte. E s' io dell' opre sue la minor parte Narrar potessi cò miei rozzi carmi, Spererei da l' un Polo all' altro farmi Nota, ma tanto il Ciel non mi comparte. Ch' Angel celeste nel mortal suo velo, E Pallade nel senno, e nell' ardita Destra, sembrava il Domator de' Mostri. Empia saetta a lui tolse la vita, Ma di due vive; l' una in chiari inchiostri, l' altra beata, e sempiterna in Cielo. HAi pur disciolto, o dispietata Morte, Non solo il nodo, che di sua man strinse Amor, quando la nobil Coppia avvinse Nelle asprissime tue dolci ritorte; Ma con la curva falce ancora il forte Legame hai tronco, onde Imeneo la cinse; E le vermiglie rose, onde si pinse Il volto hai rese impallidite, e smorte. Pur se all' antico Padre hai la diletta Figliuola ancisa, e la consorte amata Al giovin sposo, e già canuto amante; E la figlia, e la sposa nel sembiante Rimiro della bella pargoletta, In guisa di Fenice rinovata.

DOnna real, che angelica, e romita Vita lieta vivesti in questi nostri Sagrati alberghi, e ne' superni chiostri Vivi or beata al sommo Sole unita; Gradisci in vece d' opra; l' infinita Brama, che ho di lodarti in questi inchiostri: E poichè d' immortal gloria t' inostri, Porgi benigna a me dal Cielo aita. Che sembro senza te nocchier senz' arte; E in tempestoso Mar, vicina a scoglio Nave sdruscita senza vele, e sarte: Ma se discopri a me tua chiara luce, Non temerò dell' onde il fiero orgoglio. E sarai mio Castore, e mio Polluce. PAssò d' un anno il terzo lustro appunto, Il tempo, ch' io durai Nella fiera battaglia del tuo core. Contra il paterno, e contro il tuo rigore: La vittoria, e il trionfo alfin cantai, E non vorrai, che il faticoso acquisto, Di dolce amaro misto Io canti, ovunque porti i versi miei? Ah ben sciocca sarei; Qual di lode mi resta altra speranza? Rara è al Mondo costanza.

AMor non fia già mai, Che salda nel mio core La bella immago scolpita non resti, Che di tua man vi festi; Nè più, benchè tu sia divin scultore, Di novella beltà l' intaglierai, Che ben sai tu, che Natura ha disdetto, Che stian due forme intere in un soggetto. FEce da voi partita Questa dolente vita, Ma per opra d' amore, Nel vostro petto rimase il mio core, E se alcun dice, come avvien, che viva Essendo di lui priva, Dite lor, ch' agli amanti è dato in sorte, Di viver, e morir di doppia morte, STassi mai sempre al varco Il pargoletto Amore Dei vostri lumi, o bella Livia d' arco, Quivi attende gli schivi, E i superbi, egli audaci, e i fuggitivi, E lor avventa in vece dei suoi dardi, De' bei vostr' occhi i guardi.

1580

TU, che sì ben d' amor l' arco, e la face Cantavi, ond' eri, e sei trafitto, ed arso, Perch' entro a stil sì dolce, amaro hai sparso Di tragico furor malvagio, audace? E perchè turbi a te la cara pace, Il tempo essendo al proprio ben sì scarso? A qual tessala maga, a qual' uom marso Di trattarti sì mal diletta, e piace? T' era più lieta, e più sicura gloria, Il lodar una, non che cento donne, E Parnaso ti fosse il bel Corrinto. La fiera Babilonia, oimè, qual ponne Ajuto dar, per coronarti in Cinto, Se sol d' infamia, e disonor si gloria?

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D' Impudica Reina, e scellerata Canti, Manfredi, amor posto in obblìo, E tante donne, e quel gentil desìo, Onde splendevi, e la bellezza amata. Nè sò perchè, se alcuna avesti ingrata, Debba esser danno di molt' altre, e mio: Fra le tue cento, se non fossi anch' io, Men dolorosa, e men sarei sdegnata. Poscia, che celebrar Donna gueriera Pur volevi, e real, deh perchè prima Semiramis d' ippolita eleggesti? Lieto, a questa prigion già ti rendesti, E quella chi non odia, e chi sublima? Or torna prego all' amorosa schiera.

1580"

QUesti, che porger può care, e devote Preci con sì pietoso, e santo zelo, Non è dal Ciel mandato a noi? del Cielo Non son le sue purgate, e chiare note? Questi, che al suon delle celesti rote Tempra il suo canto accolto in sì bel velo, Ben certo appare il biondo Dio di Delo; Ma, nè tanto egli sà, nè tanto puote. Angelo dunque è certo, ed a Maria Sì caro, a cui votò già l' alma, e il core, Che in vece n' ebbe casta mente, e pura; E s' ella aspira in lui divino ardore, Onde si stempre ogni vil voglia impura, Sol ella oggetto alla sua penna sia. Dite, anime felici: siam pur vinte, Siam pur tue, sommo ben, lasciati i nodi, E le catene d' or, che a dolci modi Mille vi tengon in sua pace avvinte, d' umiltà gloriosa ornate, e cinte, Gridate intorno al cor le immense lodi, Di chi da tanti danni e tante frodi V' ha sopra il merto vostro, e voglia spinte. Beata gente, in cui l' eterno Amore Elesse di mostrar, quanto più vaglia Del peccar nostro sua grazia e bontade. Vivete liete, e fattemi favore; Che presa, e morta anch' io di tal battaglia, Canti sempre con voi sua gran pietade.

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QUesto ramo d' alloro Le tempie ambe mi cinse, Mentre vago desir il cor mi strinse Di discender al sacro, e vivo fonte, E di poggiar per erto calle al Monte, Ove si giace delle Muse il Coro: Ma, lassa, or ben m' avveggio, Che più tener nol deggio, Perch' egli nacque a coronar il crine Vostro gentil, che face invidia all' oro, Angela mia, del Ciel ricco tesoro. QUesto crin, ch' io deposi, Quel dì, ch' io mi disposi, Lieta al Mondo morir, viver a Dio, Fu serbato da me sol con desìo, Che le due parti estreme Della vostra ghirlanda or leghi insieme, E insieme il laccio mostri, Che lega, e in un ristringe ambi i cor nostri.

1586

COn quai concenti, o quai lamenti al Cielo Spiegherò 'l gran dolor; ch' oggi, oimè, sento Poichè il Figlio di Dio per me vien spento, E l' aria lieta adombra oscuro gelo. Del tempio santo veggo aprirsi il velo, E si spezzan le pietre al gran tormento Del mio Signor, ov' io pur pigro, e lento Avrò lo spirto mio senz' alcun zelo? Ah non sarà; ma fuor mostri il suo duolo Quant' è grave, di pianto un largo rio, E per pietà dentro si spezzi il core. Poichè anche il Sol s' oscura a un tanto orrore, Misera, e sol cagion n' è l' error mio, E quello cancellar puote egli solo. SIgnor, se per amor, per pianger molto, E aver non sol d' odori un vaso pieno, Ma il cor di doglia, il cor, che visse involto Nel tenace mondan visco terreno, Fur rimesse a colei le colpe appieno, Che coll' umor, che le piovea dal volto Lavò i tuoi piedi, e se li strinse al seno, Poi gli asciugò col crin sparso, e disciolto: Oggi, che fosti al duro legno affisso, Per dar con la tua morte eterna vita A ogn' alma, che in te sol si fida, e crede. d' un' altra Maddalena, ch' or ti chiede Perdono, assorba iniquità infinita, Dell' alta tua bontà l' immenso abbisso.

PAsso l' aurata soglia, e troppo ardita Pongo nel tempio, ove un terrestre Nume S' onora, umile anch' io languido lume, Perchè eroica virtù sia riverita. Se il dono è indegno, venga almen gradita l' alma, che l' accompagna, ond' ella impiume l' ali sovra l' usato suo costume Dietro la fama in ogni parte udita. Fiaccola ei fia tra mille lampe accese Di virtù innanzi a un Sole il cui splendore, Farà, ch' eternamente ella fors' arda. Ecco, mentre ad offrir la mano tarda, Che piegò, alto Michiele, il gentil core, E il Cielo arride al mio desir cortese. ALme felici, ora nel Ciel godete Doppiamente beate, se di voi Degno scrittor con chiari carmi suoi, Canta la gloria, onde la sù splendete. O qual per brevi noje lunghi avete Diletti immensi, ch' ora fine, o poi Già non avranno, o divi, o santi Eroi, Qual degne lodi al merto vostro udrete. Fortunate memorie, onde in leggendo l' uom, che a prender s' avvisa il dritto, e vero Della salute sua porto, e cammino. Tu nel sentier di gloria erto, leggero Intanto, o Baldo, vai spirto divino, Del tempo i fieri morsi a sdegno a vendo.

MUzio, che già d' Amor l' armi cantasti, Che a te fan dolce, e sempiterna guerra E cento Donne col tuo stil, da terra, Per una sublimarne, al Cielo alzasti; Deh come, e dove mai carmi trovasti Da segnar con la man, che mai non erra,* Original has "erar". Opra di mostro, che rabbioso atterra d' onor le leggi, e le ragioni, e i fasti? Meglio era pur della tua Donna il bello, E il buon cantando, e i tuoi diletti, e i pianti, Scaldar d' onesto ardor Parnaso, e Cinto. Che di Regina il foco indegno, e fello Scoprendo, far, che poi Babel si vanti Dìgrido tal, che ceda a lui Corrinto. OCchi, che chiusi osaste Fiso mirar il Sol, che benchè lunge Ancor sì v' abbarbaglia, e sì vi punge; Di voi sol, che miraste Ardente troppo il vago suo splendore Doletevi, e d' Amore.

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DAl ben composto, e splendido suo Tempio, Di dorici archi, e di dorati fregi Mosso era Amor, superbo in vista, ed empio, Onusto, e altier d' almi trionfi egregi; Poichè nel Ciel più non trovava esempio, Che cedea Giove a' suoi più rari pregi, Con maggior faciltà prese speranza, Che alla sua quì cedesse ogni possanza. Sparse, e spiegò le ventilanti penne, E scese, e venne a innamorar la terra, E com' era il desio l' effetto ottenne, Con dolce interna, e faticosa guerra: Ogni cosa creata amar convenne, Gl' uomini, gl' animai, l' acqua, la terra: E mentre vince Amor queste, e quell' alme, Orna il bel Tempio suo d' illustri palme. Non v' era cor di qualità sì dura, Che al suo possente stral non desse loco, Nè petto di sì rigida natura, Che non ardesse al suo cocente foco: Però accadea, che una gentil figura, Quantunque fosse il suo merito poco, Avea tal forza in mente alta, e proterva, Che il Rè sposava, e il Principe la serva. Inganno, falsità, villan pensiero Nell' animo de' giovani non era; Il lor affetto ardente era, e sincero, E la lor servitù costante, e vera: Beata, chi patìa sotto il suo impero, Già riputava ogni pena aspra, e fiera: Nè l' uom restava mai d' esser fedele, Benchè la Donna fosse empia, e crudele. Questo, perchè l' aurato, acuto dardo

Lor trafiggea profondameote il core, E il dolor della piaga era gagliardo, Nè mai scemava, anzi crescea l' ardore: Era poi mercè degna un dolce sguardo d' un lungo, ardente, e ben provato amore, O mio fiero destin malvagio, e rio, Perchè non nacqui a sì bel tempo anch' io? Quei, che aveano il desìo corrispondente Al desiato suo giungeano tosto: Ma ad alcuno accadea d' amar sovente Tal, che avea in altri il suo dissegno posto, E perch' era l' amor vero, e fervente, E il dolor rendea l' animo disposto, I rivali venian con dura sorte, Spesso ad arme, a ferite, a sangue, a morte. Quivi occorrea, che Amor, siccome il Sole, Penetrando co' rai dentro il terreno, Gli dà virtù, che concepir vi suole Fior delicati, e fresche erbette appieno: Tal egli con sue fiamme interne, e sole, Penetrando degl' uomini nel seno, Lor porgea tal valor, che d' onor degni Fea germogliar mille felici ingegni. Questi s' udian con chiari, e dolci stili, Del cor gli affetti esprimere diversi: Fiorian da questi l' opere gentili, Le dolci rime, e i leggiadretti versi. Lontani da pensieri ingrati, e vili. Gl' intelleti purgati erano, e tersi, Che ciascun per gradire a chi più amava, A gara onori, e meriti acquistava. Per le floride piaggie, e nell' erbose Rive dei chiari, e liquidi cristalli, Al cantar delle Najadi amorose, Guidavan le Napee vezzosi halli; Queste di gigli, e d' odorate rose,

Quelle ornate di perle, e di coralli, Ciprigna bella in mezzo lor si serra, Che cò begli occhi fa fiorir la terra. Sempre in lor compagnia star si vedea Dei pastorelli una ridente schiera; Chi canta, chi contempla la sua Dea, Chi fior le dona, e chi la chiama altera. V' era Aci, e la fugace Galatea, Che del crudel Ciclope si dispera. V' era Mopso, e Tirrenia, e Tirsi, e Filli, E Titiro, e le sua dolce Amarilli. Se le forze amorose in piani, e monti Eran possenti, e sviscerate a pieno; E così nelle selve, e nelle fonti, Fra Satirelli, e Ninfe albergo avieno: Per la Città volar veloci, e pronti I dardi suoi vedevansi non meno, E trapassar de' molli giovinetti, E delle Donne i delicati petti. Da cagion sì gagliarda, e sì possente Spinta la gioventù degna, e reale; Non guardava nè a dote, nè a parente, Che a sua condizion non fosse eguale: Ma per dar loco alla sua fiamma ardente, Celebrava Imeneo santo, e leale: Tanto, ch' in breve, Amor scacciò dal Mondo l' ambizion, e l' avarizia al fondo. Quell' altier, che i suoi dì tutti avea spesi In mercar dignità, gradi, ed onori; E per gara di ciò molti avea offesi, Nè pur mirar degnava i suoi maggiori; Trafitto a mezzo il cor da' strali accesi Di questo Rè, per mitigar gli ardori Una vil Donna, ancor, che bella prende Per consorte legitima, e si rende. Quell' altro avaro ingordo di tesoro,

Tutta la vita sua strazia, e patisce, Non veste mai, non si dà alcun ristoro, A pena di scacciar la fame ardisce; Poi tocco dallo stral di costui d' oro, Le sue ricchezze in pochi dì finisce, O contradote, o spesa altra, che importa, Per goder la sua Dea di far comporta. Felici voi, che con sì caldi amanti, Donne, vi ritrovaste a quella etade, Dove per non aver doti bastanti, Non invecchiava mai vostra beltade: Nè con false lusinghe, e finti pianti Vi cercavan por macchia all' onestade: Ma con debito mezzo onesto, e grato, Godeano il fior da lor tanto bramato. Già dall' orto all' occaso Amor lasciava, Del suo invitto valor chiari trofei; Sull' Are il foco pio morto restava, E la religion degli altri Dei: La vittima a lui sol si consacrava, E l' odorato incenso de' Sabei; Ed era ancor per dilatar più il regno, s' alla gelosa Dea non venìa a sdegno. Giunon d' invidia, e di superbia piena, Di rabbia, di furor, di geloìa, Veggendo Amor condotto alla terrena, E prima alla celeste Monarchìa; Tal cordoglio ne sente, e sì gran pena, Che ad implacabil sdegno apre la via; E perchè vendicarsi alfin conchiude, Nella segreta camera si chiude. Iri seco ha, la sua fedele amica, Con cui si sfoga, e seco parla, e dice: Dunque preposta è Venere impudica A me, che son del Cielo imperatrice? Dunque la Stella a me crudel nemica

Mi vuol far sempre vivere infelice? Dunque per sempre Amor preso ha partito Di far, ch' altra si goda il mio marito? Non per una cagion, per mille deggio Vendicarmi di lui, che sì mi offende: La Terra, e il Ciel soggetti essergli veggio, Ubbedienza ogni mortal li rende: Il nostro culto va di male in peggio; La fiamma al nostro altar più non risplende; Che più voglio aspettar? ch' un dì s' opponga, E me di questo mio seggio deponga? Poichè ebbe dato loco al gran lamento, Con lunga, ed acerbissima querela, Per isfogar il suo fiero tormento, In fosca nebbia il chiaro aspetto cela: Sempre ad alta vendetta ha il core intento, Nè pur ad Iri il suo pensier rivela: In terra scende sconsolata, e mesta; Ed Iri in Ciel Locotenente resta. Per aspra, incolta, e disusata via, Con gran dolor la Dea và camminando; E la Superbia incontra, che fuggìa, A cui dal Mondo avea dato Amor bando, E l' Avarizia era in sua compagnia; La Diva se le venne approssimando, E dove elle di gir s' avean proposto Lor fè dimanda; onde le fu risposto. Dannate siam, disse, in eterno esiglio l' empia Superbia all' adirata Dea, Dal maledetto, e scellerato figlio Della malvagia, e brutta Citerea, Il qual con certo suo soave artiglio Gli animi tira alla sua voglia rea, E se 'l Mondo terrà troppo il suo stile, In breve diverrà povero, e vile. Come, che gravi sian nostri dolori,

Che tenevamo in terra il primo loco, Estavam nelle corti de' Signori, Anzi, nel cor più che in ogn' altro loco; Via più c' incresce de' nostri maggiori, ch' ad Amor, come veggio a poco, a poco Giove ubbidisce, e le sant' alme, vinte Da certe sue dolcezze amare, e finte. A questo dir Giunon di rabbia accesa Negli occhi, e più nel cor sfavilla, ed arde, E le risponde: Son d' ogni mia offesa Le vendette maggior più che son tarde: Gran tempo ho sopportato esser offesa, Non, che le forze mie non sian gagliarde, Ma mi parea viltà d' usarle seco, Essendo vil fanciullo* Original has "funciullo". ignudo, e cieco. Ma poich' è divenuto sì arrogante, Che voi discaccia, ed osa offender noi, Per noi tre insieme, ancor che sia bastante Io sola a far quel, che farete voi: Vada all' ingiuria la vendetta innante, Sieno tutti spuntati i strali suoi, Il parer della Dea fu a tutti caro, E subito nel mondo ritornaro. l' assunto all' Avarizia ne fu dato Di condur ad effetto il lor pensiero; Ella, ch' hà il tempo commodo appostato, Ritrova Amor di sue vittorie altero; Col sembiante di Venere a lui grato Se gli appresenta, e copre il volto fiero, E l' invita a posar, com ella suole Nel suo perfido sen con tai parole. Dolce mia speme, in così fervid' ora, Che 'l Sol ci offende, e sei sudato, e stanco, Cessa di saettar, vieni a quest' ora, E nel mio sen riposa il tuo bel fianco: Le consente l' incauto, e in grembo a Flora

Getta il bel corpo suo tenero, e bianco: E nel sen di chi offenderlo propone La bionda testa, e inannellata pone. Il sonno entrò ne' begli occhi amorosi; Che la fatica fa il riposo grato; La brutta Arpìa, che i strali luminosi, Nella faretra ha visti al manco lato; Perchè 'l dolce Cupido ai suoi famosi Nomi dia fine, e più non sia pregiato; Con l' empia ingorda man, ch' egli non sente, Gli la dislaccia, e leva pianamente. La gelosa Giunon tutta contenta, Con la Superbia allor si fece innante, E perchè sia d' Amor la gloria spenta, Fè nascer ivi un Monte di diamante, In cui l' empia Superbia s' argomenta Di spuntar le saette invitte, e sante; E poichè ben l' effetto lor successe, Fur al loco, ove tolte ancor rimesse. Sparir poi tutte, e solo il bel Cupido, Lasciar tra fiori a canto alle fresch' onde; Che poi svegliossi, e con vezzoso grido Chiama la Madre sua, che non risponde: Stimando, che sia gita in Pafo, o in Gnido, O in altro loco; più non si diffonde, Ma spiega l' ali al Ciel di più colori, E torna ad impiagar mill' altri cuori. Il suo gran danno il misero non vede, Che chiusi gl' occhi tien d' un velo schietto; E perchè acuti i suoi strali esser crede, Spera, che debbian far l' usato effetto. Incurva l' arco, e com' hò detto, riede A ferir, come suol, questo, e quel petto; Ma, non che penetrar possan nell' osse, Appena i panni segnan le percosse. Da questo avvien, ch' al mondo or non si puote

Nè vera fè, nè ver' Amor trovarsi: Nè un vero par di fide alme divote, Che d' interno fervor possa vantarsi; Poichè Cupido in van fere, e percuote, E sono i colpi suoi deboli, e scarsi; Egli, che la cagion non può sapere, In van si duol, che manca il suo potere. Per questo cade ogni gentil costume, Ogni pregiato, e generoso gesto: Un leggiadro pensier più non presume Di far suo nido in petto, che sia onesto, Le preclare virtù col lor bel lume Escon dal Mondo, e il lascian cieco, e mesto: Quelle al Ciel si ritornano, e in lor vece, Moltiplicano i vizj a diece, a diece. Però voi, Donne, a questi, che sapete, Che vi chiamano ingrate, empie, e crudeli, gl' occhi, gli orecchi, e 'l cor sempre chiudete, Poichè non son più gl' uomini fedeli; Cercan di farvi cader nella rete, E di voi si lamentano, e de' cieli: E quando pur gli usate alcun favore, Per tutta la Città s' ode il rumore. E poichè nè virtù, nè gentilezza Può del misero Amor scontar i danni; Nè vostra grazia, e natural bellezza Può crear ne' lor petti altro, che inganni; Cingete il vostro cuor d' aspra durezza, Sicchè lor falsità mai non v' inganni, Che son del vero Amor le forze dome, E sol riman d' Amor nel Mondo il nome. Per non far dunque error, sicchè a pentire Non ve ne abbiate poi con danno, e scorno; Sdegnate il loro instabile servire, Nè la pietà con voi faccia soggiorno: E rivogliendo il vostro alto desire,

A miglior opre, e a più bei studj intorno Ornatevi d' un nome eterno, e chiaro, Ad onta d' ogni cor superbo, e avaro. LIbero cor nel petto mio soggiorna, Non servo alcun, nè d' altri son, che mia, Pascomi di modestia, e cortesìa, Virtù m' esalta, e castità m' adorna. Quest' alma a Dio sol cede, e a lui ritorna, Benchè nel velo uman s' avvolga, e stia, Esprezza il Mondo, e sua perfidia ria, Che le semplici menti inganna, e scorna. Bellezza, gioventù, piaceri, e pompe Nulla stimo se non, che i pensier puri Son trofeo per mia voglia, e non per sorte. Così negli anni verdi, e nei maturi; Poichè fallacia d' uom non m' interromp e, Fama, e gloria n' attendo in vita, e in morte. SPlendea nel regal Pò chiarezza tanta, Che ogn' altro fiume alle sue egregie sponde Cedea di ricche palme, e di feconde, E grate olive, onde si pregia, e vanta: Ma poichè or presta ombra più lieta, e santa Anco il bel lauro alle sue lucid' onde; Puo sì il valor dell' onorata fronde, Che insino il Mar l' alte sue lodi canta. Se fu virtù, se fu bellezza rara Nell' arbor già, che al gran Toscano piacque, Tutto in questa è via più pregiata, e chiara:

E si sentir nell' una, e l' altra riva Pianger donne, donzelle, e figlie, e matri: E da purpurei Patri Alla più bassa plebe il popol tutto: E dire; o Patria, questo dì fra gl' altri D' Allia, e di Canne ai posteri si scriva: Quei giorni, che cattiva Restasti, e che il tuo impero fu distrutto, Nè più di questo son degni di lutto. E il desiderio, Signor mio, e il ricordo, Che di te in tutti gl' animi è rimaso, Non trarrà già all' occaso Di questo il violente fato ingordo: Ne potrà far, mentre, che voce, e lingua Forman parole, il tuo nome sì estingua. Pon questa appresso all' altre pene mie; Che di salir al mio Signor, canzone, Sicche oda tua ragione D' ogni intorno ti son chiuse le vie: Piacesse ai venti almen di raportarli, ch' io di lui sempre pensi, e pianga, e parli. MEntre la nave mia lunge dal porto, Priva del suo nocchier, che vive in Cielo Fugge l' õde turbate in questo scoglio Per dare al lungo mal breve conforto; Vorrei narrar con puro acceso zelo Parte della cagion, ond' io mi doglio; E il peso di color, che dall' orgoglio Di fortuna il valore in alto vola Agguagliando al mortal mio grave affanno, Veder, se maggior danno Diletto, e libertate ad altra invola, O s' io son nel tormento al Mondo sola.

Penelope, e Laudomia un casto, ardente Pensier mi rappresenta, e veggo l' una Aspettar molto in dolorose tempre, E l' altra aver con le speranze spente Il desir vivo, e d' ogni ben digiuna, Convenirle di mal nodrirsi sempre; Ma par la speme a quella il duol contempre, Questa il fin lieto fà beata, ond' io Non veggo il danno lor mostrarsi eterno: E il mio tormento interno Non raffrena sperar, ne toglie obblio; Ma col tempo il mio duol cresce, e il desio. Adriana, e Medea dogliose, erranti Sento di molto ardir, di molta fede Dolersi in van, biasmando il proprio errore; Ma, se il volubil Ciel, gl' infidi amanti Diero a tanto servire aspra mercede, Disdegno, e crudeltà tolse il dolore: E il mio bel Sol continua pena, e ardore Manda dal Ciel co' rai nel miser petto, Di fiamma oggi, e di fede albergo vero: Ne sdegno unqua il pensiero, Ne speranza, o timor pena, o diletto Volse dal primo mio, divino obbietto. Porzia sopra d' ogn' altra mi rivolse Tanto al suo danno, che sovente insieme Piansi l' acerbo martir nostro eguale; Ma, se breve Ella forse ora sì dolse, Quanto sempre io mi doglio, poca speme D' altra vita miglior le diede altre ale: E il mio grave dolor vivo, e immortale Siede nel core, e dell' alma serena Vita immortal giusta speranza toglie Forza all' ardite voglie: Ne pur questo timor d' eterna pena, Ma d' ir lunge al mio Sol la mano affrena.

Poscia accese di veri, e falsi amori, Ir ne veggio mill' altre in varia schiera. Che a miglior tempo lor fuggì la spene: Ma basti vincer questi alti maggiori; Che a tanti pareggiar mia fiamma altera Forse sdegnò quel Sol, che la sostiene; Che quante io leggo indegne, o ingiuste pene Da mobil fede, o impetuosa morte Tutte spente le scorgo in tempo breve: Animo fero, o lieve Aprì allo sdegno, od al furor le porte, E fe le vite alle lor voglie corte. Onde a che voglier più le antiche carte De' mali altrui, ne far dell' infelice Schiera moderna paragone ancora, Se inferior nell' altra chiara parte, E in questa del dolor quasi fenice Mi sento rinovar nel foco ognora? Perche il vivo mio Sol dentro innamora L' anima accesa, e la copre, e rinforza Dischermo tal, che minor luce sdegna: E su dal Ciel m' insegna D' amar, e sofferire, ond' ella a forza In sì gran mal sostien questa umil scorza. Canzon, tra vivi quì fuor di speranza Va sola, e dì che avanza Mia pena ogn' altra, e la cagion può tanto, Che m' è nettare il foco, ambrosia il pianto.

COn la Croce a gran passi ir vorrei dietro Al Signor per angusto, erto sentiero, Sicch' io scorgessi in parte il lume vero, ch' altro, che 'l senso aperse al fedel Pietro. Ma se tanta mercede or non impetro, Non è ch' ei non si mostri almo, e sincero; Ma non scorgo ancor io coll' occhio altero Ogni umana speranza esser di vetro. Che s' io l' umil mio cor puro, e mendico Rappresentassi alla divina mensa, Ove con dolci, ed ordinate lempre, L' Agnel di Dio nostro fidato amico, Con man sì larga il suo cibo dispensa, Ne sarei forse un dì sazia per sempre. SIgnor, che in quella inacessibil luce Quasi in alta caligine t' ascondi, Ma viva grazia, e chiari rai diffondi Dal lume eterno, ove ogni ben riluce; Principia il tutto, ed a un sol fin conduce Un sol tuo cenno, che infiniti Mondi Porria far, e disfar; che nei profondi Abissi in Terra, e in Ciel sei vero Duce. Risguardami, ti prego, in questo centro Terrestre afflitta, e coll' ardor, che suole, La tua bontate al mio martir proveggia. Pon l' alma omai tanto al tuo Regno dentro, Che alm&etilde; lontan la scalde 'l tuo gran Sole, E da vicin quel picciol mío riveggia

DUe lumi porge all' Uomo il vero Sole, L' un per condurre al fin caduco, e frale, Un sperar breve, un' opra egra, e mortale Col qual pensa discerne intende, e vuole. l' altro per cui sol Dio s' onora, e cole, Ne scorge al Ciel per disusate scale; Ed indi poggia poi più in sù quell' ale, Ch' egli la sua mercè conceder suole. Col primo natural la voglia indegna Vince quel cor gentil, che sproni, e freno Dona all' alta cagion d' ogni desio: Coll' altro il Mondo, e se medesmo sdegna Colui, che chiude all' ombra, ed apre il seno Al raggio bel, che lo trasforma in Dio. VErgine pura, che dai raggi ardenti Del vero Sol ti godi eterno giorno, Il cui bel lume in questo vil soggiorno Tenne i begl' occhj tuoi paghi, e contenti; Uomo il vedesti, e Dio quando i lucenti Spirti facean l' albergo umile adorno Di chiari lumi, e timidi d' intorno Stavano lieti al grande uffizio intenti. Immortal Dio nascosto in uman velo L' adorasti Signor, Figlio il nutristi, L' amasti Sposo, ed onorasti Padre: Prega lui dunque, che i miei giorni tristi Ritornin lieti; e tu Donna del Cielo, Vogli in questo desio mostrarti Madre.

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PAdre eterno del Ciel, che brami, e vuoi, Che a te tutti torniam, donde noi siamo Partiti ancora, e del fallir di Adamo Portasti pena per far salvi noi; Guidami a te, che ciò far solo puoi; Che da me non vagl' io, se ben ciò bramo: Mercè sol grido, e in te mio scãpo chiamo, Perche il nemico mio più non m' annoj. Vano è il mio faticar, faccia, ch' io voglio, Sò, che inutile io son per mai salvarmi; Che cercando fuggir romperò in scoglio. Sol nel tuo sangue spero, e sol coll' armi Della fe m' assicuro, e con cordoglio Ti prego, che ti piaccia a te tirarmi. FElice voi, che cogli spirti ardenti Avete il core al mio Signor rivolto, Ed accendete ogn' uno a star raccolto In lui, che verso noi tien gl' occhj intenti; Misera mè, che a passi infermi, e lenti Seguito ho lui, che me sprezzato ha molto; Ond' or del van desio fallace, e stolto L' alma si pente, e trae sospir cocenti. Priegate voi, che degli eletti siete, Per me de' Cieli il Rè, che la sua mano Mi tenga sopra, e mi raccolga in seno: E poiche scorto il vero lume avete, Fate, che ancor non sia per gl' altri vano; Ma, che il provi ciascun chiaro, e sereno.

VOi Donna, che domate i fieri mostri, Che la terra produce, e il gran serpente, Sopra voi stessa alzata con la mente Pura salita agli superni chiostri; Quanto avran da imitare i giorni nostri, Ed invidiarli la futura gente, Che al fuggir chiamerà l' ore sue lente, Goder bramosa in Ciel degli onor vostri. Voi nel volto divin gl' occhj pascendo, Viverete là sù spirito eletto, Nella celeste, dolce fiamma ardendo. Coglierà il frutto allor vostro intelletto Del seme sparso, il sommo ben godendo, ch' è delle nostre menti il vero oggetto. GIà desiai di far al Mondo conte Le grazie, che dal Cielo, e non d' altronde Piovvero in voi, e d' onorata fronde Nel bel Parnaso cingermi la fronte: Or mi spaventa il caso di Fetonte, Che per troppo poggiar cadè nell' onde, Mentre del Pò lunge le verdi sponde Vo pensando salire al sagro Monte. Ma col vostro favor la vostra gloria Poggierà per le mie vergate carte, Io salirò per non segnato calle. E per me griderà ciascun Vittoria, Risponderà Vittoria in ogni parte Ogn' alto Monte, ogni profonda valle.

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NElla secreta, e piu profonda parte Del cor, là dove in schiera armati stãno I pensieri, e i desiri, e guerra fanno Sì rea, che la ragion spesso si parte; l' uomo interno ragiona, ed usa ogn' arte Per rivocarla, e farle noto il danno: Ma dietro all' altro esterno i sensi vanno, Senza al spirto di lor punto far parte. Di carne sono, e però infermi, e gravi Capir non ponno i belli alti concetti, Che manda il spirto, a chi di spirto vive. Guidà dunque, Signor, pria, che s' aggravi D' error più l' alma, alle sacrate rive I miei, senza il tuo ajuto, iniqui affetti. LA dove or d' erbe adorna ambe le sponde Il bel Sebeto, e le campagne infiora, Amarilli gentil, che v' ama, e adora, Tal spesso dice al mormorar dell' onde: Deh! perche, lassa, agl' occhj miei s' asconde L' altero sguardo, ch' oggi il Mondo onora, E perche il fier desio, che m' innamora Cresce coi fiori, e con le nove fronde? E il mio Davalo forse intento sempre Coll' arme, e coll' ingegno a render vano Il nemico furor, di me non cura. Così piena d' amor, e di paura La bella donna, in disusate tempre, Si strugge del star vostro a lei lontano.

RIser gli spirti angelici, e celesti, E più luce mostrò ciascuna stella, Quando dal grave incarco, anima bella, Sciolta dinanzi al tuo Fattor giungesti; E tutta umile, ecco, Signor, dicesti, La tua devota ubbediente ancella Ti rende, al tuo voler non mai rubella, Doppj i talenti tuoi, che già le desti. Ed ei rispose. O mia fedele, e cara, Entra a godere il mio beato regno, Anzi, che il Mondo fosse, a te promesso. Tal' ebbe fin la gloriosa, e chiara Tua vita, o Bembo, e sì com' eri degno, Ti fu pregio immortal, la sù concesso. QUel nodo, in cui la mia beata sorte, Per ordine del Ciel legommi, e strinse Con mio grave dolor sciolse, e discinse Quella crudel, ch' il Mondo chiama Morte. E fu l' affanno sì gravoso, e forte, Che i miei piacer tutti in un punto estinse: E se non, che ragione al fin pur vinse, Fatte avrei mie giornate assai più corte. Ma il timor sol di non andar in parte Troppo lontana a quella, ove il bel viso Risplende sopra ogni lucente stella, Mitigato ha il furor: (che ingegno, od arte Far nol potea) sperando in Paradiso L' alma vedere oltra le belle bella.

VInca gli sdegni, e l' odio vostro antico, Carlo, e Francesco, il nome sacro, e sãto Di Cristo, e di sua fe vi caglia tanto, Quanto a voi più d' ogn' altro è stato amico. l' arme vostre a domar l' empio nemico Di lui sian pronte, e non tenete in pianto Non pur l' italia, ma l' Europa, e quanto Bagna il mar; cinge valle, o colle aprico. Il gran Pastor, a cui le chiavi date Furon del Cielo, a voi si volge, e prega, Che delle greggi sue pietà vi prenda. Possa più dello sdegno in voi pietate, Coppia reale, e un sol desio v' accenda Di vendicar chi Christo sprezza, e nega. DAl veder voi, occhj sereni, e chiari, Nasce un piacer nell' alma, ungaudio tale, Ch' ogni pena, ogni affanno, ogni gran male Soavi tengo, e chiamo dolci, e cari. Dal non vedervi poi soavi, e rari Lumi, del viver mio, segno fatale, In sì fiero dolor quest' alma sale, Che i giorni miei son più, ch' ass&etilde;zio amari. Quanto contemplo voi sol vivo tanto, Limpide stelle mie soavi, e liete; E il resto della vita è affanni, e pianto. Però, se di vedervi ho sì gran sete, Non v' ammirate; ch' ogn' un fugge quanto Più può, 'l morir, del qual voi schermo siete

SE stan più ad apparir quei due bei lumi, Che pon rasserenar mia vita oscura, E d' ogni oltraggio uman farla sicura, Temo, ch' anzi il suo dì non si consumi. E pria senz' acqua correranno i fiumi, Ne il Mondo avrà piu di Morte paura, E la legge del Ciel, ch' eterna dura Si romperà, qual nebbia al vento, o fumi: Ch' io possa senza lor viver un' ora; Che pur son la mia scorta, e per lor soli La via di gir al Ciel scorgo, ed imparo. O Stella, o fato del mio mal sì avaro, Che il mio ben m' allontani, anzi m' involi, Fia mai quel dì, ch' io lo rivegga, o mora? POscia, che il mio destin fermo, e fatale Vuol, ch' io pur v' ami, e che per voi sospiri; Quella pietà nel petto Amor v' ispiri, Che convien al mio duol grave, e mortale. E faccia, che il voler vostro sia eguale Agl' amorosi ardenti miei desiri: Poi cresca quanto vuol doglia, e martiri; Che più d' ogn' altro ben dolce fia il male. E se tal grazia impetro, almo mio Sole, Nessun più lieto, e glorioso stato Diede Amor, o Fortuna al Mondo mai. E quanti per adietro affanni, e guai Patito ha il core; ond' ei si dolse, e duole, Chiamerà dolci, e lui sempre beato.

SCelse da tutta la futura gente Gl' eletti suoi l' alta Bontà infinita, Predestinati alla futura vita, Sol per voler della divina mente. Questi tali poi chiama, e dolcemente Seco gli unisce, ed a ben far gl' invita; Non per opra di lor saggia, o gradita, Ma per voler di lui troppo clemente. Chiamando gli fa giusti, e giusti poi Gli esalta sì, che all' unico suo figlio Li fa conformi, e poco men, ch' eguali. Qual dunque potrà mai danno, o periglio, Nell' ultimo degl' alti estremi mali, Da Cristo separar gl' eletti suoi? POiche per mia ventura a veder torno Voi dolci colli, voi chiare, e fresch' acque, E te, che tanto alla Natura piacque Farti, sito gentil, vago, ed adorno: Ben posso dire, avventuroso il giorno, E lodar sempre quel desio, che nacque In me di rivedervi, che pria giacque Morto nel cor di dolor cinto intorno. Vi veggo dunque, e tal dolcezza sento, Che quante mai dalla fortuna offese Ricevute ho fin quì pongo in obblio. Così sempre vi sia largo, e cortese, Lochi beati, il Ciel, come in me spento, E' , se non di voi soli, ogni desio.

OCchj lucenti, e belli, Come esser può, che in un medesmo istante Nascan da voi sì nove forme, e tante? Lieti, onesti, superbi, umili, alteri. Vi mostrate in un punto, onde di speme, E di timor mi empiete; E tanti effetti dolci, acerbi, e fieri Nel cor arso per voi vengono insieme Ad ognor, che volete. Or poi, che voi mia vita, e morte siete, Occhj felici, occhj beati, e cari, State sempre sereni, allegri, e chiari. SCiolgi le treccie d' oro, e d' ogni intorno Cingi le tempia de' tuoi mirti, e allori, Venere bella, e teco i santi Amori Faccian concordi un dolce almo soggiorno. E tu, sacro Imeneo, cantando intorno, Di vaghe rose, e di purpurei fiori Col pletro d' oro in versi alti, e sonori Rendi onorato questo altero giorno. E voi tutti, ogran Dei, che de' mortali Siete al governo, a man piena spargete Gioja, pace, dolcezza, amor, e fede; Acciò, che i casti baci, e l' ore liete Spese tra due siano felici, e tali, Che dar non possa il Cielo altra mercede.

TU, che mostrasti al rozzo Mondo prima Mutar le dure ghiande in belle spiche, E festi sì coll' utili fatiche, Che Dea ti chiama ogni abitato clima; E tu del cui valor canta ogni rima, Primo a insegnare a quelle genti antiche Piantar le viti in quelle piagge apriche, Per trarne poi liquor di tanta stima: Se con occhj pietosi, e voglia umile Guarderete ambidue quel, che fin' ora (Vostra dolce mercè) dato ci avete: Di sangue eletto al più fiorito Aprile Con vino, e farro i vostri altari ognora Da me onorar con puro cor vedrete. COn quel caldo desio, che nascer suole In petto di chi torna amando assente, Gl' occhj vaghi a veder, e le parole Dolci ascoltar del suo bel foco ardente; Con quel proprio voi, piagge, al Mondo sole Fresch' acque, ombrosi colli, e te possente Più d' altre, che il Sol miri andãdo intorno, Bella, e lieta Cittade, a veder torno. Salve, mia bella Patria, e tu felice Tanto amato dal Ciel ricco Paese, Che in guisa di leggiadra alma fenice Mostri l' alto valor chiaro, e palese. Natura a te sol Madre, e pia nutrice, Ha fatto agli altri mille gravi offese.

Spogliandoli di quanto avean di buono, Per farne a te cortese, e largo dono. Non tigri, non leoni, e non serpenti Nascono in te, nemici all' uman seme; Non erbe venenose a dar possenti L' acerba morte, allor che non si teme; Ma mansuete fiere, e lieti armenti Scherzar si veggon per li campi insieme, Pieni d' erbe gentili, e vaghi fiori Spargendo i graziosi, e cari odori. Ma perche a dir di voi, lochi beati, Ogn' alto stile saria roco, e basso; L' incarco d' onorarvi a più pregiati Sublimi ingegni, e gloriosi lasso. Da me sarete col pensier lodati, E coll' anima sempre ad ogni passo: Con la memoria vostra in mezzo il core, Quanto sia il mio poter farovi onore. LA dove più con le sue lucid' onde La picciol Mela le campagne infiora Della mia Patria, e che girando onora Di verd' erbe, e di fiori ambe le sponde; Al gran nome real, che copre, e asconde Le nostre glorie, e quelle antiche ancora, Farò un T&etilde;pio d' avorio, e dentro, e fuora Mille cose vedransi alme, e gioconde. Starà nel mezzo una gran statua doro; E dirà il titol: Questo è Carlo augusto Maggior di quanti mai ebber tal nome. D' intorno i vinti regi, e al par di loro Fuggir vedrassi il Turco empio, ed ingiusto, Giungendo a' suoi trionfi altere some.

IN giovenile etate il Mondo vinse Quello di cui il glorioso nome Degno tenete, e l' onorate chiome D' altera gloria eternamente cinse. Simil desio per far lieta vi spinse La gran sposa di Cristo, avendo dome Le genti a lei nemiche, e fatto come Fece già mai chi grave incendio estinse. Così nel più bel fior degl' anni vostri Col senno, e col valor mostrato avete, Che il secõdo Alessandro è al primo eguale. Stanchi dunque saran penne, ed inchiostri Anzi, che possan dir quel, che voi siete; Pur vi faranno eterno, ed immortale. SE quando per Adone, over per Marte. Arse venere bella Stato fossi, Signor visto da lei; Quell' ardente facella Sol per te, che di lor più degno sei, Arsa, e accesa l' avrebbe in ogni parte: Perche nell' armi il bellicoso Marte Vinci d' assai, e di bellezza Adone Cede al tuo paragone: Dunque se il Ciel t' aspira, e fa immortale, Meraviglia non è, poiche sei tale.

MEntre di vaghi, o giovenil pensieri Fui nodrita or temendo, ed or sperãdo, Piangendo or trista, ed or lieta cantando, Da desir combattuta or falsi, or veri; Con accenti sfogai pietosi, efieri I concetti del cor, che spesso amando Il suo male assai più, che il ben cercando, Consumava dogliosa i giorni intieri: Or che d' altri pensieri, e d' altre voglie Pasco la mente, alle già care rime Ho posto, ed allo stil silenzio eterno. E se allor vaneggiando a quelle prime Sciocchezze intesi, or il pensier mi toglie La colpa, palesando il duolo interno.

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OR si vedrà chi più fedele amore A questa chiara stella avrà portato; Or non deve egli più restar celato, Ne dir, dentro hò rinchiuso il fero ardore. Or tempo è ben di palesar il core, E risponder ancor, che non chiamato; E quel, dirò, cincero, e innamorato, Non già chi d' arder dice a tutte l' ore. Ne per mostrar, che in un sì mora, e viva, Mai chiamerassi alcun perfetto amante, Ne men per dir; tu sei mia Donna, e Diva: Ma a' casi avversi allor chi stà costante, Da lui dirò, che vero amor deriva; E quel sarà, che verrà primo innante.

SE la figlia di Leda ebbe già il vanto Di quante furon mai leggiadre, e belle, Voi sol saggia Maria, siete di quelle Da non le invidiar tanto, ne quanto: Che il bel vostro leggiadro unico, e santo Volto s' alza per fama oltre le stelle; Ne credo tal mai ne pingesse Apelle, O Prasitelle, o s' altri sepper tanto. Che le rose vermiglie infra la neve Son sì ben poste agli amorosi lampi, Che fanno invidia al Padre di Fetonte. O beltà sovrumane altere, e pronte, Chi sarà quel, che a rimirarvi scampi, E non resti d' Amor soggetto in breve?

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MOrte m' hà tolto, e sol può darmi morte Colei, che guida fu della mia nave, E nel turbato mar fidate scorte. O partenza per me dogliosa, e grave Nell' ultim' ora, ch' ogni ben lasciai; Onde questo mio cor, s' affligge, e pave. Inique Parche, e più crudeli assai D' ogni qual Tigre, che troncaste il filo Di lei, per cui viv' io fra tanti guai. O non usato, e pien d' inganni stilo, ch' usaste a scior di lei l' alma celeste; Per cui degli occhi miei fò un Gange, e un Nilo. Son le lagrime mie sì oscure, e meste, Che più la morte, che la vita bramo, Pensando all' alte sue parole oneste.

E sol quel dolce suon sospiro, e chiamo, Ch' a se m' inviti con parlar giocondo; Poiche qual viva ãcor l' apprezzo, ed amo. Che s' io giungo ov' è lei, non più del mondo Temo gl' inganni, e dritto è ciò, ch' io vissi Con fede in quella, e il viver mio fu mõdo. Non pensai già, che fuor di questi abissi Sì tosto gisse alla superna Madre; O giorni, che nel cor sempre avrò fissi. O mondane speranze inferme, e ladre, Che tardi ho conosciuto, e con mio danno; E molte son di queste afflitte squadre. Sò, che tù vedi dal superno scanno, Spirto beato, ch' a quel sacro seggio Bramo d' unirmi, e uscir fuori d' affanno. Sò pur quel, ch' ancor io pensando veggio, Come da terra sù nel Ciel mi brami, Parendo a te, ch' il più tardar sia peggio. Però con tal pensier, che tù mi chiami, E d' esser teco il duol si fà minore; E sol cerco di scior questi legami. Sol desio di seguirti a tutte l' ore; Ma non piacque a colui, che ci governa, Ch' esca quest' alma dal mio corpo fore. Onde convengo sopportar l' interna Doglia con pace insin, ch' a faccia a faccia Possa goder tua carità materna. Fra tanto in spirto entro l' amate braccia Di te respiro, e porgo al cor letizia, Che con questo sperar suo duol discaccia, Che per altro vivrei sempre in mestizia.

INiquo Fato, e rio destin mi spinge Fuor della bella Patria v' lieta giacqui, E lascio il nido, ove felice nacqui, Onde strano pensier quest' alma cinge. Talor speranza il gran timor respinge Per far, che un dolce il molto amaro innacqui; Ed a me stessa in ciò punto non spiacqui, Ch' hò sol fede in colui, che il tutto stringe. Egli fia guida di mia fragil barca, E spero ancor, che la conduca in porto; Benche fia d' ogni error ripiena, e carca. Nella bontà di lui piglio conforto, Di quì l' alma riman di dubbio scarca, E già quanto desia parle aver scorto.

1536

VEggio coperte sotto un chiaro velo Quante virtuti il Ciel può mai donare; Meravigliomi ben, come illustrare S' abbia la Terra, e farsi oscuro il Cielo. Amor, fede, bellezza, e d' onor zelo Chiusi in voi sono, a noi per dimostrare La vera gloria, che nel Cielo appare, Senza temer già mai caldo, ne gelo. E quando diverrà il bel corpo terra Oscuri lumi avrem; la sù fia chiaro; O giorno spaventoso a chi quì resta! Ond' io prego il Signor, che gli sia caro l' alma discior, che la mia spoglia serra, Prima, ch' io dopo voi sia sola, e mesta.

O Vivo Sol, che di sì bei desiri m' accendi il cor, mentre tua luce aspetto, Non fia omai tempo ãcor, che nel mio petto Nascer ti vegga, e in te viva, e respiri. Felice lagrimar, dolci sospiri, Mentre ti chiamo, e cerco il tuo cospetto, Vieni, Signore, al caro obbietto eletto, Per cui soffristi già tanti martiri. Entra, regna, possedi, opra, disponi; Che ad altrui non convien l' esser Signore; Poiche congrazia tal di me ti degni. Fà, che tragl' altri incomprensibil doni, Con che ricca mi fai, tutto il mio amore In te sol posi, ed ogni altro mi sdegni.

1540

ILlustre alto Signore, il cui splendore Oscura ogn' altro di beltade adorno, E l' alta fama vola d' ogn' intorno Ove siede virtù gloria, e valore; Nel petto Marte, e ne' begl' occhj Amore Ognor si vede far dolce soggiorno, Per esaltarvi al Ciel con altrui scorno, Crescendo al nome vostro eterno onore. E con gran rimbombar s' ode Vicino Nomarsi omai dall' uno all' altro Polo, Qual spirto sacro, angelico, divino: Ond' io, che v' amo riverisco, e colo, Come raggio del Sol v' adoro, e inchino, Prendendo per alzarvi un' alto volo.

BEn conforme vi die nome al valore, Camillo, il Cielo, e di spoglia, e statura Arricchito poi v' hà l' alma Natura, Nell' armi essendo insolito splendore. Onde il gran Marte pien di gloria, e onore In voi fido riposa, e ogn' aspra cura Lascia or, che l' arte sua vive sicura In così ardito, e valoroso core. Talche il mondo può dir, che un Marte in terra, E un' altro in Cielo sia; ma voi più degno, E più pregiato assai senza aver pari. Felice il gran Rangone, in cui si serra Desio d' onor, che fra gli spirti rari Seco hà di bel valor l' alto sostegno. COsì tosto vi vegga in alto, e degno Seggio posto, Rangon, dal Rè cristiano, Come farete voi debile, e vano L' ardir de' suoi nemici, e il fiero sdegno. E se il gran Guido coll' ardito ingegno Fu insolito splendor dell' armi, e in vano Squadra non mosse mai, con veder sano, Voi sarete dei Gigli alto sostegno. Ne men di lui col cor grave, ed ardito Meraviglia darete al secol nostro, Del gran vostro valor chiaro, e gradito: Talche dirassi: ecco di gloria un mostro, Ecco un d' eterno onor vie più arricchito, ch' altro non fu già mai di gemme, ed ostro.

1540

DOve stà il tuo valor, Patria mia cara; Poichè il giogo servil misera scordi, E solo nutri in sen pensier discordi Prodiga del tuo mal, del bene avara? All' altrui spese, poco accorta impara, Che fa la civil gara, e in te rimordi gl' animi falsi, e rei fatti, concordi A tuo sol danno, e a servitute amara. Fa de le membra sparse un corpo solo, Ed un giusto voler sia legge a tutti, Che allora io ti dirò di valor degna. Così tem' io, anzi vegg' io, che in duolo Vivrai misera ognor piena di lutti; Che così avvien, dove discordia regna.

1540

FLora, Ninfa superba, Che di Diana sprezzi L' arco, le reti, le fontane, e l' erba; Non viver tanto in vezzi, Che a te stessa increscendo Cangi la propria forma in strani lezzi; Già, se il vero io comprendo, Poco stimi i Pastor, che t' ebber cara, Poco la libertà, che ogn' uno apprezza; Talche la tua bellezza, Pigliando nova forma, or non più rara Sarai, ne altrui sì cara: Di ciò mi doglio, e il mio doler sia vano; Che l' amaro tuo fin non è lontano.

1540

QUesto è quel lieto, e doloroso giorno, Che a Gesù tolse, e a noi donò lá vita; Giorno, che la sua faccia scolorita Fa l' alto Ciel di nova luce adorno. Dolcezza, e gioja, e speme, e tema intorno Stanno all' alma gioconda, e sbigottita, Qual vinta dalla sua pietà infinita, Mille lacci d' amor lieta legorno. Non si conviene a te men caldo amore, Non più estremo bisogno a tua pietade, Non minor la miseria alla tua doglia. Anzi non mia miseria, anzi sua gloria, Ne gloria fu, ma fu la sua bontade, Ne bontà fu, ma fu l' immenso amore.

1540

PEr quelle dolci rime anch' io m' accorsi Del desir vostro pien d' ardente affetto; Onde per trarvi fuor di rio sospetto A la penna la man veloce porsi Com' a' destrieri a me son sproni, e morsi I vostri cenni, ond' ubbidir aspetto; E col cor fatto a voi sido ricetto Non resto punto a' voler vostri in forsi. E se non v' hò versi soavi scritto, Nasce dal timor rio, ch' è meco ancora, Che non v' annoj il viver mio prescritto. Qual fu di Creso quella felice ora, Che Ciro il liberò dal fuoco afflitto, Chiedend' io tal mercè; mio cor v' onora.

1540

BEn ti puoi dir felice, e al mondo sola Patria, che nel tuo nido alberghi tale Maria d' ingegno, e di beltà immortale Di cui sù in Ciel l' eterna fama vola. Talch' a Minerva il seggio, e il nome invola, A lei d' ogni virtute essendo uguale; Ne lume di Cupido arco, ne strale; Che pudicizia in lei tien norma, e scola. Questa è degna di lode, e di trofei, Che la sua grazia è 'l chiaro suo splendore Gli uomini vince al Mondo; e in Ciel gli Dei. E però fide mie compagne, e sore, Rallegrianci con Flora per costei, Del sesso femminil gloria, ed onore.

1540

A Che d' onor mondani, oimè, cercare Più grave incarco, e più mentita lode, Se ogni gloria mortal rio tempo rode, E son le stelle ai bei disegni avare? Misere noi, che quasi un sogno appare Nostra vita quà giù, ne appien si gode Cosa, che vota sia d' amara frode, E son le guerre assai, le paci rare. Felice spirto è quel, che in se rinchiuso Discerne sol del Fattor sommo l' opre, Ne si lascia ingannar da mortal' uso. Breve è il nostro mortal; tosto ci copre Umida terra, e tronca Parca il fuso, E quali state siam tempo discopre.

1545

DAlle tenebre oscure al lume chiaro Col puro alto pensier, che dolcemente Acqueta l' alma, e fa lieta la mente M' invio, lasciando il peso, e il cibo amaro. Ivi l' ardente mio celeste, e caro Divino Amor mi pasce sì sovente Delle delizie sue, che leggermente Volo dal Mondo d' ogni bene avaro. Non pon turbarmi sì felice stato Turbini, o venti, che girando intorno Dimostran vana forza in dar tempesta: Che il mio tranquillo Ciel vien dall' amato Raggio del vivo Sol del vero giorno, Ch' ogni sereno, ogni bell' aurea desta. SE il vero Sol coverto d' uman velo Volle patir tormenti, e crudel Morte Sol per aprir le già serrate porte, Che vietavano a noi l' entrare al Cielo; Perche son io con vivo, e mortal zelo Sì pronta a desiar per vie distorte Di prolungar la vita in duol sì forte, Che se di fuori appar più dentro il celo? Ora che il divin foco accende il core, Intepidisca, e mora ogn' altra voglia, E la sua fiamma purghi il vano errore. E mi dimostri, che con pianto, e doglia Si corre al Ciel s' acquista il vivo amore, Vinto il Mõdo, il Nemico, e la sua spoglia.

ETerno Lume, in cui si vede, e intende Dal basso ingegno la superna altezza Del gran Fattor, la cui somma grandezza Non cape il Mõdo, e quãto il Ciel s' estende; Vivace amor, da cui sì lieta scende La fiãma tua, che ogn' altra in lei si sprezza, E ognor s' acc&etilde;de in sua propria bellezza, Ove il ben sempiterno si comprende: Se il primo alto pensiero in te difuse Tal potestà, sgombra la nube densa, Con che il nemico il mio veder confuse. Guida al vero cammin della via immensa l' alma misera, errante; e fà che s' usi A seguirti, e a mirar tua luce intensa. ALle tenebre mie non spero il Sole, Se tu vera sua Luna, e fida scorta, Non mostri il cãmin dritto, ove più accorta Si drizzi l' alma, e non come ella vuole. E che senti la voce, che far suole Il senso lunge, e la ragione apporta, Che fa la speme viva, ch' ora morta Si mostra dentro, e fuor nelle parole. Talche leggera, e sgombra d' ogni affetto Terren, giunga all' altezza del gran lume, Che scopra il velo degli umani errori: E con purgata fiamma accenda il petto Sì vivamente de' suoi casti ardori, Che dagl' occhj distilli un largo fiume.

1545

CHi vuol conoscer, Donne, il mio Signore, Miri un Signor di vago, e dolce aspetto, Giovane d' anni, e vecchio d' intelletto, Immagin della gloria, e del valore: Di pelo biondo, e di vivo colore, Di persona alta, e spazioso petto; E finalmente in ogni opra perfetto, Fuor, che un poco (oimè lassa) empio in amore. E chi vuol poi conoscer me, rimiri Una Donna in effetti, ed in sembiante Immagin della morte, e dei martiri. Un' albergo di fè salda, e costante, Una, che perche pianga, arda, e sospiri, Non fà pietoso il suo crudele amante. S' Io, che son Dio, ed hò meco tant' armi Non posso star col tuo Signore a prova, Ed è la sua bellezza unica, e nova Pronta mai sempre a tãte ingiurie farmi; Come a tuo prò posso ora consigliarmi, E darti modo con cui tu rimova Quel saldo ghiaccio, che nel cor si trova, Per via di preghi, di consigli, o carmi? Ti bisogna aspettar tempo, e fortuna, Che ti guidino a questo; ed altra via Non ti posso mostrar, se non quest' una. Così mi dice, e poi si vola via; Ed io mi resto al Sole, ed alla Luna Piangendo sempre la sventura mia.

1547

SPirto gentil, che l' onde fresche, e chiare Del bel Montone illustri, e le tue chiome Inlauri, e fai così famoso il nome Di Cavalieri, e Donne alme, e preclare; Ond' ei felice, poiche l' acque amare D' obblio lor levi coll' alte tue some, E te beato, poich' essi san come Son le tue rime sì leggiadre, e rare. E se le debil ali del mio ingegno Atte fosser per un sì grande oggetto, Ti farei, come tu fai gl' altri, degno. Ma poiche ciò dal Cielo nel mio petto Non sorge, e fallo al bel pensiero indegno, Biasma non me, ma il grãde mio disdetto.

1548

Che meraviglia fu, se al primo assalto Giovane, e sola io restai presa al varco, Stando Amor quindi cogli strali, e l' arco, E ferendo per mezzo, or basso, or alto; Indi il Signor, che in rime orno, ed esalto, Quanto più posso, e il mio dir resta parco, Con due occhj, anzi strai, che spesso incarco Han fatto al Sole, e con un cor di smalto; Ed essendo da lato anche imboscate, Sicche a modo nessun foss' io difesa, Alta virtute, e chiara nobiltate? Da tanti, e tai nemici restai presa; Ne mi duol, pur che l' alma mia beltate, Or, che m' ha vinta, nõ faccia altra impresa.

CHi vuol conoscer, Donne, il mio Signore, Miri un Signor di vago, e dolce aspetto, Giovane d' anni, e vecchio d' intelletto, Immagin della gloria, e del valore: Di pelo biondo, e di vivo colore, Di persona alta, e spazioso petto; E finalmente in ogni opra perfetto, Fuor, che un poco (oimè lassa) empio in amore. E chi vuol poi conoscer me, rimiri Una Donna in effetti, ed in sembiante Immagin della morte, e dei martiri. Un' albergo di fè salda, e costante, Una, che perche pianga, arda, e sospiri, Non fà pietoso il suo crudele amante. S' Io, che son Dio, ed hò meco tant' armi Non posso star col tuo Signore a prova, Ed è la sua bellezza unica, e nova Pronta mai sempre a tãte ingiurie farmi; Come a tuo prò posso ora consigliarmi, E darti modo con cui tu rimova Quel saldo ghiaccio, che nel cor si trova, Per via di preghi, di consigli, o carmi? Ti bisogna aspettar tempo, e fortuna, Che ti guidino a questo; ed altra via Non ti posso mostrar, se non quest' una. Così mi dice, e poi si vola via; Ed io mi resto al Sole, ed alla Luna Piangendo sempre la sventura mia.

IL bel, che fuor per gl' occhj appare, e il vago Del mio Signor, e del suo dolce viso, E' tanto, e tal che fa restar conquiso Ogn' un, che il mira di gran lunga, e pago. Ma se, qual' è un cerviero occhio, e mago Potesse altrui mirare intento, e fiso Quel, che fuor non si mostra, un Paradiso Di meraviglie vi vedrebbe, un lago. E le Donne non pur, ma gl' animali L' erbe le piante, l' onde, i venti, i sassi Farian arder d' amor gl' occhj fatali. Quest' una grazia agl' occhj miei sol dassi, In guiderdon di tanti, e tanti mali, Per onde a tanto ben poggiando vassi. SAi tu perche ti mise in mano, Amore, Gli strai tua Madre, ed agl' occhj la benda? Perche con quei saetti, impiaghi, e fenda Il cor di questo, e quel fido amatore; E con questa non possi veder fuore De' colpi tuoi la crudeltà stupenda; Sicche pietoso affatto non ti renda, O almen non tempri l' empio tuo furore. Che se vedessi un dì la piaga mia O non saresti Dio, ma cruda fera, O pietoso, o men' aspro ti faria. Non vorrei già, che tù vedessi in ciera I raggi del mio Sol; che ti parria Forse all' incontro picciola, e leggera.

ACcogliete benigni, o Colle, o fiume, Albergo delle Grazie alme, e d' amore, Quella, ch' arde del vostro alto Signore, E vive sol dei raggi del suo lume. E se fate, che amando sì consume Men aspramente il mio infiammato core, Pregherò, che vi sieno amiche l' ore; Ogni Ninfa silvestre, ed ogni Nume. E lascierò scolpito in qualche scorza La memoria di tanta cortesia, Quando di lasciar voi mi sarà forza. Ma, lassa, io sento, che la fiamma mia, Che devrebbe scemar, più si rinforza, E più, che altrove quì s' ama, e desia. QUal sempre a' miei desir contraria sorte Fra la spiga, e la man mi s' è tramessa, Sicche la gioja, che mi su promessa Tarda tanto a venir per darmi morte? Le mie due vive, due fidate scorte Il Signor mio, anzi l' anima stessa, l' immagin, che nel cor m' è sempre impressa, Perche non batte omai, lassa, alle porte? l' alma allargata a questa nova speme, Che ristretta nel duol prendea vigore, Mancherà tosto certo, se non viene. E sarà de' miracoli d' Amore, Che un' ombra breve di sperato bene Tolga altrui vita, e dia vita il dolore.

VIeni, Amor, a veder la gloria mia, E poi la tua; che l' opra de' tuoi strali Ha fatto ambi due noi chiari, e immortali Ovunque per amor s' ama, e desia. Chiara fè me; poiche non fui restia Ad accettar i tuoi colpi mortali, Essendo gl' occhj, onde fui presa quali Natura non fè mai poscia, ne pria. Chiaro fe te, perche a lodarti vegno Quanto più posso in rime, ed in parole Con quella, che m' hai dato vena, e ingegno. Ora a te si convien far, che quel Sole, Che mi desti per guida, e per sostegno, Non lassi oscure queste luci, e sole. NOvo, e raro miracol di Natura, Ma non novo, ne raro a quel Signore, Che il Mondo tutto và chiamando Amore, Che il tutto adopra fuor d' ogni misura; Il valor, che degl' altri il pregio fura Del mio Signor, che vince ogni valore, E vinto, lassa, sol dal mio dolore, Dolor a petto a cui null' altro dura. Quant' ei tutt' altri Cavalieri eccede In esser bello, nobile, ed ardito. Tanto è vinto da me, dalla mia fede. Miracol fuor d' amor mai non udito, Dolor, che chi nol prova non lo crede: Lassa, ch' io sola vinco l' infinito.

QUinci Amor, quindi cruda, empia fortuna m' affligon sì, ch' io nõ sò come possa Riparar questa, e quell' altra percossa, Che mi danno a vicenda or l' altro, or l' una. Aere, mar, terra, ciel, sol, stelle, luna, Con quanto ha più ciascun' orgoglio, e possa A danno mio, a mia rovina mossa, Lassa, mi si mostrò sin dalla cuna. E quel, ch' è solo il mio fido sostegno, Per accrescermi duol fra sì brev' ora Partirassi da me senza ritegno. Almen venisse acerba morte ancora, Mentr' io dolente mi lamento, e sdegno, Dalle man di tant' oste a trarmi fuora. VOrrei, che mi dicessi un poco, Amore, Che ho da far io con queste tue sorelle Temenza, e gelosia? e donde è, ch' elle Non sanno star, se non dentro il mio core? Tu hai mill' altre Donne, che il valore Provan, com' io dell' empie tue facelle, Or manda dunque queste a star con quelle; Fà, che un dì n' escan dal mio petto fuore. Io ho ben, mi dice ei, mille persone A cui mandarle, ma nessuna d' esse Ha qual tù da temere alta cagione: Le luci, ch' ami son le luci istesse, Che per dar gelosia, e passione A tutto il Mondo la mia Madre elesse.

DEh, se vi fu già mai dolce, e soave La vostra fedelissima Anassilla, Mentre serrata sì che nullo aprilla, Teneste del suo cor, Conte, la chiave; Leggendo in queste carte il lungo, e grave Pianto, a cui Amor per voi, lassa, sortilla, Mostrar almen di pietà una favilla In premio di sua fè non vi sia grave. Accompagnate almen con un sospiro La schiera immensa de' sospiri suoi, Che mille volte i Ciel pietosi udiro. Così sia sempre Amor benigno a voi, Quanto a lei fu per voi spietato, e diro; Così non sia mai cosa, che v' annoj. SIccome tu m' insegni a sospirare, d' arder di fiamma tal, ch' etna pareggia, Pianger di pianto tal, che se ne avveggia Omai quest' onde, e cresca questo mare; Insegnami anche, Amor, tu, che il puoi fare, Come men duro il mio Signor far deggia; Come quando adivien, che pietà chieggia Possa placarlo al suon del mio pregare: ch' io ti perdono e danni, e strazi, e torti, Che tu m' hai fatto, e fai tanti, e sì gravi, Che non sò come il Ciel te lo comporti. Perche non fia più pena, che m' aggravi, Pur ch' io faccia pietosi, e faccia accorti Gl' occhj, che del mio core hanno le chiavi.

S' Avvi&etilde;, che un giorno Amore a me mi r&etilde;da, E mi ritolga a questo empio Signore, Di che paventa, e non vorrebbe il core, Tal gioja del penar suo par, che prenda; Voi chiamerete in van la mia stupenda Fede, e l' immenso, e smisurato amore; Di vostra crudeltà, di vostro errore Tardi pentito, ove non è ch' intenda. Ed io cantando la mia libertade, Da così duri lacci, e crudi sciolta, Passerò lieta alla futura etade. E se giusto pregar nel Ciel s' ascolta, Vedrò fors' anche in man di crudeltade La vostra vita, a mia vendetta involta. IO accuso talora Amore, e lui, ch' io amo; Amor, che mi legò sì forte, Lui, che mi può dar vita, e darmi morte, Cercando torsi a me, per darsi altrui. Ma meglio avvista poi, scuso ambidui, Ed accuso me sol della mia sorte, E le mie voglie al voler poco accorte; Ch' io delle pene mie ministra fui. Perche vedendo la mia indignitade. Dovea mirar in men gradito loco, Per poterne sperar maggior pietade: Fetonte, Icaro, ed io per poter poco, Ed osar molto, in questa, e in quella etade Restiamo estinti da tropp' alto foco.

O Beata, o dolcissima novella, O caro annuncio, che mi promettete, Che tosto rivedrò le care, e liete Luci, e la faccia graziosa, e bella. O mia ventura, o mia propizia stella, Che a tanto ben serbata ancor m' avete; O fede, o speme, che a me sempre siete State compagne in dura, aspra procella. O cangiato in un punto viver mio Di mesto in lieto, o queto almo, e sereno Fatto or di verno tenebroso, e rio; Quando potrò già mai lodarvi appieno, Come dir, qual nel core haggio desio, Di che letizia io l' abbia ingombro, e pieno? SOn pur quest' i begl' occhj, e quelle, ch' hanno Vinto il Sol tante volte alme bellezze, Son pur queste le grazie, e le vaghezze Che luce, e vita alla mia morte danno? E tutta via son sì pronte all' affanno Le voglie mie, ed ai tormenti avvezze Di tanta assenzia omai, che le allegrezze Ritornar a star meco più non sanno. Quasi il gran Re, che di sospetto pieno, Fuggendo il crudo Zio, per lunga usanza Si fece natural cibo il veleno. Quì fà bisogno, Amor, la tua possanza, Che del primo dolor mi sgombri il seno, Sicche tanta mia gioja or v' abbia stanza.

BAstavan, Conte, quei bei lumi quelli, Che al Sol raggi, a Ciprigna alma beltate, Ad Amor armi, a me la libertate Furar da prima, che mirai in elli; A far, ch' arda per voi sempre, e favelli, Sicche l' intenda la futura etate; Senza cercar con pure rime, ornate D' aggiunger nove al cor piaghe, e flagelli. Che col vostro alto procacciarmi onore Si stringeria, se si potesse il laccio, Si accresceria, se si potesse ardore, Ma di questo, e di quel son fuor d' impaccio; Che quanto arder, e stringer puote Amore, Io son stretta per voi, Conte, e mi sfaccio. POmmi, ov' il mar irato geme, e frãge, Ov' ha l' acqua più queta, e più tranquilla, Pommi, ove il Sol più arde, e più sfavilla, O dove il ghiaccio altrui trafigge, ed ange, Pommi al Tanai gelato, al freddo Gange, Ove dolce rugiada, e manna stilla, Ove per l' aria empio velen scintilla, O dove per Amor si ride, e piange: Pommi, ove il crudo Scita, ed empio fere, O dove, e queta gente, e riposata O dove tosto, o tardi Uom vive, e pere: Vivrò qual vissi, e sarò qual son stata; Pur che le fide mie, due luci vere Non rivolgan da me la luce usata.

CHe fia di me, dico ad Amor talora, Poiche del mio Signor gl' occhj sereni Lasser an questi miei di pianto pieni, Fatto esso d' altri in fino all' ultim' ora? Che fia di me, mi rispond' Egli allora, Ch' arco saette, e faci, e teme, e speni Tengo in quegl' occhj; e tutti altri miei beni, Ne mai ritrarli io ho potuto ancora? D' indi soglio infiammar, d' indiferire, Or, se come tu dì, ce li ritoglie Caduta è la mia gloria, e il nostro ardire. In queste amare, e dispietate voglie Restiam noi due, ed ei segue di gire Carco, e superbo delle nostre spoglie. SE voi vedete a mille chiari segni, Che tanto ho cara, e non più questa vita, Quanto è con voi, quanto è da voi gradita, Ultimo fin de tutti i miei dissegni; A che pur con nov' arte, e novi ingegni Darmi qualche novella, aspra ferita, Tramando or questa, or quella dipartita, Quasi ogni pace mia da voi si sdegni? Se volete, ch' io mora, un colpo solo M' uccida, sicche omai si ponga fine Al dispiacervi, al vivere, ed al duolo: Perche così stà sempre sul confine Di Morte l' alma, e mai non prende il volo, Pensando pur a voi, luci divine.

QUelle rime onorate, e quell' ingegno Pari alla beltà vostra, al gran valore, Rivolgete a voi stesso in farvi onore, Conte, come di lor soggetto degno: O trovate di me più altero pegno, Se pur uscir da voi volete fuore; Perche a sì larga vena, a tanto umore Son per me troppo frale, e secco legno. E non ho parte in me d' esser cantata, Se non perch' amo, e riverisco voi Oltra ogn' umana, oltra ogni forma usata. Sì chiara fiamma merta i pregj suoi, In questa parte io deggio esser lodata Fin, ch' io sia viva, eternamente, e poi. MIlle volte, Sign[or] movo la penna Per mostrar fuor, qual chiudo entro il p&etilde;siero Il valor vostro, e il bel sembiante altero Ove Amor, e la gloria l' ali impenna: Ma perche chi cantò Sorga, e Gebenna, E seco il gran Virgilio, e il grande Omero, Non basteriano a raccontarne il vero, Ragion, ch' io taccia alla memoria accenna. Però mi volgo a scriver solamente l' istoria delle mie giojose pene, Che mi fan singolar tra l' altra gente. E come Amor ne' bei vostri occhj tiene Il seggio suo, e come indi sovente Sì dolce l' alma, a tormentar mi viene.

O Mia sventura, o mio perverso Fato, O sentenza nemica del mio bene; Poiche senza mia colpa mi conviene Portar la pena dell' altrui peccato. Quando si vide mai reo condannato Alla morte, all' esiglio, alle catene, Per l' altrui fallo, e per maggior sue pene, Senza esser dal suo giudice ascoltato? Io griderò; Signor, tanto, e sì forte, Che se non li vorrete ascoltar voi, Udranno i gridi miei Amore, o Morte. E forse alcun pietoso dirà poi: Questa locò per sua contraria sorte In troppo crudo luogo i pensier suoi. CH' il crederia? felice era il mio stato, Quando a vicenda or doglia, ed or diletto Or tema, or speme m' ingõbrava 'l petto, E m' era il Cielo or chiaro, ed or turbato. Perche questo d' amor fiorito prato Non è, a mio giudicio, appien perfetto, Se non è misto di contrario effetto, Quando la noja fa il piacer più grato. Ma or l' han pieno sì di spine, e sterpi Chi lo può fare, e svelti i fiori, e l' erba, Che sol v' albergan velenosi serpi. O sè cangiata, o mia fortuna acerba, Tu le speranze mie recidi, e sterpi; La cagion dentro al petto mio si serba.

DI che ti lagni, o mio diletto, e fido, Sovra questo famoso, e chiaro lido Ove fan nido tante onorate alme, Felici, ed alme? Io mi lagno, Signor, di due begl' occhj, Onde eterna dolcezza avvien, che fiocchj, Ne par, che tocchi a lor, ne dia lor noja, Perch' io mi moja. Per le saette mie, per la mia face, Che il languir tuo a gran torto mi spiace; Ma s' egli piace a chi vuol, che ti sfaccia, Che vuoi, ch' io faccia? Vò, che tu, che sol puoi soccorso darmi, Tu, che sei nostro Dio, tu, ch' hai fort' armi, Onde aitarmi, o tempri il duro core, O il mio dolore. Mille fiate, e mille mi son messo Per saettar quegl' occhj, e gir lor presso, Ma il lume stesso si m' ingomhra, ch' io Non son più Dio. Or se tanto essi, e tu sì poco vali, Perche non cedi lor l' arco, e gli strali, E faci, ed ali, e il tuo carro, e il tuo regno, Come a più degno? Io cederei di grado, pur che loco Mi desser que' begli occhj, e strali, e foco, Ond' apro, e cuoco; ma lor non aggrada, Che seco io vada. Com' esser può, che Amor voglia legarse, E farsi servo altrui, ne possa farse, E son sì scarse quelle vive stelle, Che stj con elle? Elle hanno a schivo, che di lor vittoria Abbia io, stando con lor, parte di gloria;

Perche d' istoria è men degno colui, ch' è con altrui. Dunque senza speranza, e senza vita; Poiche è la deitate tua finita, Sarà la vita il tempo, che m' avanza In desianza. Così fia, lasso, ed io la face, e l' arco, E le saette mie gitto ad un varco; Poiche son scarco, mercè di quel lume, D' ogni mio nume. Piangiamo insieme l' un la deitade, L' altro la sua perduta libertade, Senza pietade di colei, che sola Tutto m' invola. Io volo al Cielo, io resto fra quest' onde, Io Giove; io chiamerò, chi non risponde. Aure seconde, fate al Mondo chiara Cosa sì rara. VOi ne andaste, Signor, senza me, dove Il gran Trojan fermò le schiere erranti, Ove io nacqui, ove luce io vidi innanti Dolce sì che lo star mi spiace altrove. Ivi vedrete vaghe feste, e nove, Schiere di Donne, e di cortesi amanti; Tanti, che ad onorar vengono, e tanti Un degli Dei più cari, al sommo Giove. Ed io, rimasa quì, dove Adria regna, Seguo pur voi, e il mio natio Paese Col pensier, che non è chi lo ritegna. Venir col resto il mio Signor contese, Che senza ordine suo, ch' io vada, o vegna Non vuole Amor; poiche di lui m' accese.

SOranzo, dell' immenso valor vostro, E dell' alte virtù tante, e sì nove Raggio sì vivo, e sì possente move, E di sì chiaro lume il secol nostro; Che volend' io vergar carta, ed inchiostro, Siccome sono or quì sien note altrove, La grandezza dell' opra mi rimove, E ritarda lo stil quel, che m' è mostro. Io vinco ben tutt' altre di desio In amarvi, e onorarvi, come deggio, Ma l' opra è tal, che vince il poter mio. Onde maggior virtute a chi può chieggio Da pagar tanto, e sì devuto fio, O vò tacer di voi per non far peggio. DOnne, voi, che fin quì libere, e sciolte Degli amorosi lacci vi trovate, Onde son io, e son tant' altre avvolte; Se di saper, che cosa sia bramate, Questo Amor, che Signore ha fatto, e Dio Non pur la nostra, ma l' antica etate: E un affetto ardente, un van desio D' ombre fallaci, un volontario inganno, Un por sè stesso, e il suo bene in obblio. Un cercar suo mal grado con affanno Quel, che mai non si trova, o se pur viene Auto arreca penitenza, e danno. Un nutrir la sua vita sol di pene, Un aver sempre mai pensieri, e voglie Di fredda gelosia, di dubbj piene. Un laccio, che s' allaccia, e non si sciolge.

Quando altrui piace, un gir spargendo seme Di cui buõ frutto mai non si raccoglie. Una cura mordace, che il cor preme; Un la sua libertate, e la sua gioja, E la sua pace andar perdendo insieme. Un morir, ne sentir perche si moja, Un arder dentro d' un vivace ardore, Un esser mesta, e non sentir la noja. Un mostrar quel, ch' uom chiude dentro, e fuore Un esser sempre pallido, e tremante, Un errar sempre, e non veder l' errore. Un avvilirsi al viso amato innante, Un esser fuor di lui franca, ed ardita, Un non saper tener ferme le piante. Un aver spesso in odio la sua vita, Ed amar più l' altrui, un' esser spesso Or mesta, e sosca, or lieta, e colorita. Un ogni studio in non cale aver messo, Un fuggir il commercio delle genti, Un esser da sè lunge, ed altrui presso. Un far seco ragioni, ed argomenti, E disegni, ed immagini, che poi Tutti, qual polve via portano i venti. Un non dormire appieno i sonni suoi, Un destarsi sdegnosa, ed un sognarsi Sempre cosa contraria a quel, che vuoi. Un aver doglia, e non voler lagnarsi. Di chi n' offende, anzi rivolger l' ira Contra sè stesso, e sol seco sdegnarsi. Un veder solo un viso, ove si mira, Un in esso affissarsi, benche lunge, Un gioir l' alma, quando si sospira; E finalmente un mal, che unge, e punge.

DEttata dal dolor cieco, ed insano, Vattene al mio Signor, lettera amica, Baciando a lui la generosa mano: E digli, che dal dì, che la nimica Mia stella me lo tolse, il cibo mio E' sol noja, dolor, pianto, e fatica. Ben fu il Cielo al mio ben contrario, e rio, Che appena mi mostrò l' amato obbietto, Che misera, da me lo dipartio. O brevi gioje, o frale uman diletto, O nel regno d' Amor tesor fugace, Subito mostro, e subito intercetto! Il bel Paese, che superbo giace Tra il Rodano, e la Mosa or mi contende La suprema cagion d' ogni mia pace. Mentre ivi il mio Signor, gradito intende All' onorate giostre, a' pregj, a' ludi, Di cui sì chiara a noi, fama s' estende; Io misera, che in lui tutti i miei studi, Tutte le voglie ho poste, essendo lunge, Convien, che desiando agghiacci, e sudi. E sì fiero martir m' assale, e punge, ch' io mi vivo sol d' esso, e vivrommi anco, Fin che il Ciel, Conte, a me vi ricongiungo. Voi, qual guerrier vittorioso, e franco Ferite altrui, coll' onorata lancia, Io son ferita quì dal lato manco. O per me poco avventurosa Francia, O bel Paese avverso a' miei desiri, Che impallidir mi fai spesso la guancia. Dovunque avvien, che gl' occhj volga, e giri Non vi trovando voi, Conte, mi resto Senza speranza preda de' sospiri.

Voi prometteste ben di scriver presto, Non possendo tornar, per porger esca Fra tanto al mio desire atro, e funesto: E poichè non lo fate, temo, ch' esca Dalla memoria vostra la mia fede, E che del mio dolor, poco v' incresca. E questa dell' amor mio la mercede? E della vostra fede è questo il pegno? Misera Donna, che ad amante crede. Credetti amar un Cavalier più degno. E il più bel, che mai fosse, ed or m' avveggio, Che la credenza mia, non giugne al segno? Empia fortuna, or che mi puoi far peggio, Rottemi le promesse di colui, Senza cui, d' ogni mal preda, vaneggio? Io non spero già mai, che come fui Vostra, Conte, una volta non sia sempre, Così non foste voi, Conte, d' altrui. Non sò, perche la vita non si stempre, Non sò, com' or con voi ragioni, e scriva, Afflitta sì dell' amorose tempre. Ma, lassa, che dich' io? perche mi priva Sì 'l duol del vero mio conoscimento, Ch' io tema d' una fe tenace, e viva? Non siete voi quel pieno d' ardimento, Di senno, di valor, che a mille prove Trovato ho fido, cento volte, e cento? Perche debb' io temer, ch' essendo altrove Da me partito appena in voi si deste Novo amor a' miei danni, e si rinove? Deh, dolce Conte mio, per quelle, e queste Fra noi ore lietissime passate, Ond' io mi piacqui, e voi vi compiaceste; Più lungamente omai non indugiate A scrivermi due versi solamente, Se il mio diletto, e la mia vita amate.

Che non potendo veder voi presente, Il veder vostre carte darà certo Qualche soccorso all' affannata mente. Questo al mio grande amore è picciol merto, Ma sarà nondimeno ampio ristoro Al faticoso mio poggiare, ed erto. Ben felice è lo stato di coloro, Che per buona fortuna, e destro fato Han sempre presso il lor caro tesoro. Misera me, che m' è il mio ben vietato Allor, che più bramava, e più devea, Essergli caramente ognor a lato. La mia fortuna istabilmente rea Mi vi die tosto, e tosto mi vi tolse, Che maggior danno far non mi potea. Ma voi, se dentro il vostro cor s' accolse Già mai vera pietà di chi v' adora, Di chi più voi, che la sua vita volse; Non fate, come ho detto, più dimora Di scrivermi, e poi far tosto ritorno Se non volete comportar, ch' io mora: Come stò per morir, di giorno, in giorno.

TU, che agli antichi spirti vai di paro, E con le dotte, ed onorate rime Rischiari l' acque, e fai fiorir le cime Del colle, ove si scende oggi sì raro; Movi il canto, Molin, canoro, e chiaro, Se mai movesti, e il mio Colle sublime Fà fiorir fra le cose al Mondo prime; Poichè a me il Ciel di farlo è stato avaro. A me die solo amarlo, e l' amo quanto Si puote amar; ma il celebrarlo poi E' d' altro stil l' incarco, che di Donna. Quì convien sol la tua cetra, e il tuo canto, Chiaro Signor, tu sol descriver puoi. Questa del viver mio, salda colonna. COsì m' impresse al core La beltà vostra Amor co' raggi suoi, Che di me fuor mi trasse, e pose in voi: Or che son voi fatta io, Voi meco una medesma cosa siete, Onde al ben, al mal mio, Come al vostro pensar sempre dovete: Ma pur, se al fin volete, Che il vostro orgoglio la mia vita uccida, Pensate, che di voi siete omicida.

L' Empio tuo strale, Amore, E' più crudo, e più forte Assai, che quel di morte: Che per morte una volta sol si more, E tù col tuo colpire Uccidi mille, e non si può morire: Dunque, Amore, è men male La morte, che il tuo strale. SE il cibo, onde i suoi servi nudre Amore E' il dolore, e il martire, Come poss' io morire Nodrita dal dolore? Il semplicetto pesce, Che solo nell' umor vive, e respira, In un momento spira Tosto, che dell' acqua esce: E l' animal, che vive in fiamma, e in foco, Muor, come cangia loco. Or, se tu vuoi, ch' io moja, Amor, trammi di guai, e pommi in gioja, Perche col pianto mio, cibo vitale, Tù non mi puoi far male. ALma celeste, e pura, Che casta verginella

Stata tanto fra noi, sei gita al Cielo; Dov' or sovra misura Ti stai lucente, e bella Di più perfetto accesa, e maggior zelo: Perche nel mortal velo Rade volte altrui lice Unir perfettamente Al suo Fattor la mente, Sì trista è del nostro arbor, la radice, E sì forte n' atterra Questa del senso, perigliosa guerra. Tù vagheggi or beata Quell' infinito Sole, Di cui quest' altro Sole è picciol raggio, E la voglia appagata Hai sì, ch' altro non vuole Giunta all' ultimo fin, di suo viaggio: E la noja, e l' oltraggio, E l' ombra di quel male, Che sostenesti in vita, E per sempre sbandita, Salita in parte, ove dolor non Sale; Ove si vive sempre: Col primo Amore, in dilettose tempre. Ben può gradirsi altero Il nostro sesso omai Per tanta Donna, e tanto a Cristo amica Che mancato il primiero Valor, spenti quei rai, Che illustrar già la santa schiera antica, In questa età nemica, Dove il vizio governa, Sia stata una di noi, Che tutti i pensier suoi Abbia rivolto, a quella luce eterna; E quì fra queste rive,

Sia vissa sempre, come in Ciel si vive. Adria si lagna parte Del suo da lei partire, Parte s' allegra; poi che al Ciel sei gita: Che, se udirte, e parlarte Le hà tolto il tuo morire, Or che sei sempre, al sommo bene unita, Potrai chiederle aita, Quando il bisogno fia; Certo soccorso, e fido Per lo tuo chiaro nido, Sicche sicuro, e glorioso sia: E sin quanto il Sol giri Ciascun lo tema riverisca, e ammiri. Da quei superni Chiostri, Ove or sicura siedi Tutta raccolta in chi di fe ti prese; Gl' ardenti sospir nostri A temprar talor riedi, Con le voglie d' Amor, più vive, e accese. Mira, Madre cortese, I tuoi diletti figli, E la lor mesta casa Or senza te rimasa Alle terrene noje, ed ai perigli, E siale ancor lontana Scorta, e più che mai fida tramontana. Se in te, quanto è desio fosse valore Potresti leggermente Alzarti al Ciel, fra quella santa gente.

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O Signor, che di sopra Reggete con un cenno, Ed i mortai col prezioso sangue Degnaste, con quell' opra, Empia, che i Giudei fenno, Levar di man del crudo, e mortal angue; Il qual si duole, e langue, Non potendo a sue voglie Franger le meschinelle Anime, fatte ancelle Di voi, Signor, che dall' infernal spoglie Le toglieste di morte, D' eterna vita aprendo lor le porte. Deh! ver me rivogliete, O sommo Dio, le vaghe, Amate luci, e impenetrabil lumi; E da me non togliete, Quel, che mi dier le piaghe Pure, innocenti, e i sanguinosi fiumi: E volontà, e costumi Celesti, in me create: In me, che già pentita Son di sì amara vita, E il viver vano, e le cose passate Non rimembrar, Signore, E fa, che solo te porti nel core. Dammi, Signor, tal grazia, Che possa col tuo raggio, Senza cui nulla vale umana forza, L' alma, che te ringrazia Far libero passaggio, Lasciando La sua frale, immonda scorza;

La qual tutta rinforza Ripensando al tuo regno, Ove drizza il desio Bramoso il pensier mio, Per far al Mondo ignaro scherno, e sdegno; Volando a quel cammino, Ch' ogni mortal fa poi, santo, e divino. O sola scorta, e guida Di chi si duole, e pente De' suoi errori, e con divoto core Ne viene, ove s' annida Il ben, che può innocente Fare ogn' alma sleal col suo favore, Deh! fammi nel tuo ardore, Arder sì, che la mente Non ardisca più mai, Ne la vista altri rai Mirar, Signor, che i tuoi umilemente; E dona tosto fine, Alle pene del mio corpo meschine. Non voler, sommo bene, Risguardar, che io sia stata Proterva, e pertinace negl' errori; E l' anima di pene Abbia, e di duol colmata Trà vana speme, e frali, e vani amori; E i tuoi santi sudori Abbia sì mal pagati, Ch' io son pur tua fattura, Mostrami via sicura, Signor, ch' io possa fra gli tuoi beati, Scarca d' ogni bisbiglio, Servir tuo Padre, e tuo celeste Figlio. Piena di riverenza, e di timore, Prega l' eterno Padre, Ch' accolga me, fra le celesti squadre.

NEl mezzo son del terzo decim' anno, Ch' Amor mi prese, e tiemmi strett' ancora; E più rivigoriscon d' ora in ora Quelle piaghe, che insino al cor mi vanno. Dolce fu il dardo, e dolce fu l' inganno, Dolce quel foco, ch' indi uscì poi fuora; Dolce l' alto desio, che m' innamora, Dolce la pena mia, dolce l' affanno. Ben sò, che l' amoroso dolce foco, Nel qual Amor, mia libertade spinse, M' arde più or, che il primo giorno assai: E trovo, che il bel nodo, ove si strinse Ogni mia voglia, ogni mia pace, e gioco Mi stringe, e stringerà fra speme, e guai.

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MIsera, in vã mi dolgo, e mi lamento, In vã chieggio soccorso al mio grã male; Ogni ajuto, ogni bene è per me spento, Aspetto sol di morte il fiero strale. Già quel vital umor, mancar mi sento, E mancandomi 'l duol fass' immortale; E se ben resto di mia vita priva, Hà tanta forza il duol, che mi tien viva. In vita mi terrà con doppia morte, Sol perche io veggio quel; che più mi spiace; Saran le mie speranze sempre corte, Darammi certa guerra, e dubbia pace: Vedrò serrate del mio ben le porte, E vietarmisi quel, che più mi piace:

Altri vedrò goder del caro bene, Per darmi eterne, e dolorose pene. Ahi, lassa, vivrò dunque in tal martire, Martire eterno per contento altrui? Debbo veder quel, che fu mio fruire Ad altri, ed esser sua, quale io gia sui? Debbo, lassa di me, come soffrire Dicendo, questo vuole, e piace a lui? O pur debb' io con la tremante mano Fare ogni mio dolor, debile, e vano? Debbo morir, se pria non fo vendetta Di chi tolto me l' hà con frodi, e inganni, E con ragion mostrar, che a me s' aspetta Goder quel, ch' acquistai con tanti affanni? Anzi che mano, al crudo ferro io metta, E ch' io vada a provar gl' eterni danni; Dirò: Malvagia, a me tocca costui; Che a me s' è dato, e non può darsi altrui. Faccian fede gli Dei delle parole, Ch' ei disse a me con gravi giuramenti; Prima sarà di fredda neve il Sole, Ardenti fiamme spargeranno i venti: E prima mancherà l' umana prole, Che nuovo ardor per altra mi tormenti: Pria si vedrà di stelle ignudo il Cielo, Che al cor mi senta nuova fiamma, o gelo. Un pensier, lassa, mi si mostra, e dice, Giudica il tempo avanti a te passato; Come sua sorte vuol dice, e disdice, E qual fortuna cangia, e voglia, e stato: Ancor, che di ragione altrui non lice Ingannar quei, che per tempo hanno amato; Che un cor gentil pria morte vuole, e chiede, Che mai per tempo alcun, mancar di fede. Quanti son corsi a manifesta morte Pria, che mancar della promessa fede.

Sol perche questa gloria si riporte, Che di gran lunga ogni altra lode eccede. Non si governa per destino, o sorte, Ma saldo stà, fin che la morte vede, Colui, che chiuso nel corporeo velo, Solo ha gl' occhi all' onore, e al Rè del Cielo. Se il Ciel, Signor mio caro, hà posto in voi Tante bellezze quì sole, e immortali, E v' hà adornato de' bei raggi suoi, Perche di gire al Ciel, ne diate l' ali, Non dovete manchare a questa poi, E far tante virtù caducche, e frali; Che se fermate il vostro bel desio, Certo simil sarete in terra a Dio. Non variar di tempo, o di fortuna, Non costumi variar, non cangiar loco, Non ricchezze, o beltà, non cosa alcuna Spender potran l' accesa fè nel foco. Perche salda fermezza in me s' aduna, Ed ogn' altro appo voi mi prendo in gioco, E quanto durerà la state, e 'l verno, Fia l' amor mio per voi, chiaro, ed eterno. Come la fronte dimostrarvi il core Vorrei per farvi sol, certo del vero; Perche ivi di sua man v' impresse Amore, E tal, ch' altri che voi, non bramo, e spero. Ivi ogni mio desio rinasce, e muore, Ivi si posa il mio fermo pensiero; Ivi ogn' or moro, ed ivi ogn' or rinasco, Ivi quest' Alma afflitta, e trista pasco. Che farò dunque, se di voi son priva, Come mi mostra la mia dura sorte? Deh, se bramate, vita mia, ch' io viva Fate le lunghe mie speranze corte: Tornate i dolci miei pensieri a riva, Pria, che agl' affanni miei rechi fin morte.

Deh ritornate a me, mio caro lume, Pria, che l' aura vital mi si consume. Amor mi mostra il mal molto maggiore; Così mi nasce in cor, nova paura, Sento nell' Alma, un gelido timore, Che da me tutti i sensi acerbo fura: Ma poiche io penso al vostro alto valore La tema fugge, e 'l gaudio s' assicura; E dice; non temer, che d' altri sia, Che te sol' ama, ed altri non desia. O se questo pensier durasse alquanto, Che spesso col desio, nel cor s' infonde Non versarian quest' occhj amaro pianto; Venendo ognor, da vene più profonde: Ne saria volto in doglia ogni mio canto, Mercè di chi il mio ben, mi toglie, e asconde; Ma darei fine, alle dogliose pene; Fermando al cor la desiata spene. Ahimè, ch' io temo pur nò 'l vago volto, Rimanga ad altri, e nel suo cor stia impresso E conosciuto il merto vostro, e il molto Vostro valor, vi voglia, ogn' or dappresso; E ch' io vi veggia mio malgrado tolto A me; ch' ad altri il Ciel v' abbia concesso. Questo mi toglie le speranze prime; Questo m' affligge il cor, questo m' opprime Deh torna a me mio ben, torna, e rimena. Teco la desiata primavera: Le folte, e scure nubi rasserena, Rischiara la mia mente oscura, e nera, Che la verde campagna, e già ripiena Di vaghi fiori, e verdeggiando spera, Che tu ritorni a lei, caro mio bene, Pria, che quest' alma passi ad altre arene.

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LUce del sommo Sol vera, e serena, Ch' allumi, e fai tuo grazioso tempio Questa magion, che con suo grave scempio Di nubi era pur dianzi, e d' orror piena; Scorgi tu col tuo lume, e rasserena l' alma avvezz' a sentir fallace, ed empio; Ond' io quanto dovrei non bene, adempio: Deb spezza omai la sua ferrea catena. Ne sia nuovo desio caduco, e frale, Signor, che turbi questa nuova vita Sicche l' albergo mio, non ti sia a sdegno: Ma posa l' alma sopra il suo mortale, Siccome è degna, onde al celeste regno Ritorni lieta; e à te ne chieggio aita.

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RUggier la man ti bacio, ma salute Non aspettar da me, ch' io ne son priva, E son senza vigor, senza virtute. Ne saprei dir se sia morta, ne viva Dal dì, ch' io ti lasciai dogliosa, e mesta, E fu la mia della tua luce schiva. Che maledetto sia chi mi molesta Di viver senza te, e per più danno Un altra doglia aggiunge appresso questa. Sappi, che per più grave, e acerbo affanno La mia Madre crudele, e i rei parenti Ordiscono al ben nostro un doppio inganno. Mi cercan condur quei fra strane genti, Da te lontan; però, se mai mi amasti,

Non far, che i miei martir restin scontenti. E se ardir, e valor già mai mostrasti, Or il dimostra, che ne fà mestieri; Che a te serbo mia vita, e i pensier casti. In altri fuor di tè, non è, ch' io speri; Però m' ajuta, e non lasciar, ch' io vada Là dove eternamente io mi disperi. Fà, che ben punga, e tagli la tua spada; Che pur, ch' io teco sia, mi sarà lieve Ogni insolito mal, che ad altra accada. Più non ti scrivo, perche il tempo è breve, E la debil mia man, più non si muove, Ne lo consente il dolor aspro, e greve. S' io non ti veggio, per le prime nuove, Aspetta udir di me, stragge empia, e cruda; Che forza al fin sar à, ch' il ferro io prove. E s' io resto di spirto, e d' alma ignuda, Fà, che ti dolga almen, della mia sorte, E che tarda pietà nel cor tu chiuda. E per mercè dell' esser giunta a Morte, Sopra dell' urna mia, fa al men, ti prego; Da tutti sian queste parole scorte: Quì amando corse quella, a cui fè niego Sorte, ed Amor del desiato amante, Ch' udir di lei non volle, unqua alcun prego E per esser fedel troppo, e costante Giunse anzi tempo, a fin si miseranda, Però in amor non fia chi più si vante. Questo solo vogl' io di me si spanda Del resto, se a te par; di me ti doglia Così con pianto a te si raccomanda Colei, che hà di morir, sol sete, e voglia.

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O Di lagrime mie; fida fontana, Come nodrisci 'l desiato alloro, Se di caldi sospiri il bel lavoro D' ogni sua pianta il tuo calore spiana? Che tua benigna stella, orrenda, e strana Spenta giacque per te; ne suoi fior d' oro Sparger mai volse, ne quel bel tesoro, Che suol felice altrui fare una grana. Minerva al nascer tuo farti felice Promise, e Cerer giunse a te in quell' ora, Le cui vestiggia a te cercar pur lice. Pianta felice, desiata ancora Al novo Augel, che cerca tua pendice, Spargi tuoi rami verdeggianti ognora.

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O Legno, o duro legno, ove da fera Gente piagato, e sanguinoso pende Chi move, e tempra ogni celeste sfera. Piacque il tuo dolce all' empio Adamo, offende Cristo l' amaro tuo, giojoso quello, E questo afflitto in te le braccia estende. Popolo al tuo Fattor crudo, e rubello, Mira cogl' occhi di pietade ardenti, Com' oggi il Rè del Ciel s' è fatto Agnello. Mira, come di spine aspre, e pungenti E' coronato, acciò negl' alti chiostri Coroni noi di raggi alti, e lucenti. Mira quel lato, come par, che mostri Letizia, anzi ara dell' eterno riso; Cavandoci per quel dagl' error nostri, E aprendoci per sempre il Paradiso.

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NOvo Numa toscan, che le chiare onde Del tuo bel fiume innalzi a quegl' onori, Ch' ebbe già il Tebro; e le stelle migliori Girano tutte al gran valor seconde: Le tue virtuti a null' altre seconde, Alto suggetto ai più famosi cori Dall' Arbia, ond' oggi ogni bell' alma infiori Mi trasser d' Arno alle felici sponde. Ed al primo desio novo desire M' accende ognor la tua bontà natia; Talche miglior non spero, o bramo albergo. Così potess' io un dì farmi sentire Cortese nò, ma grata con la mia Zampogna, che a te sol, b&etilde;che indegna ergo. NE vostro impero ancor, che degno, e raro, Ne d' argento, e di g&etilde;me ãpia ricchezza, Che men da chi più sà si brama, e prezza, Vi fanno al Mondo sì famoso, e chiaro; Quanto l' aver, Signor pregiato, e caro, La ben nata, e gentile anima avvezza Con severa pietate, e dolce asprezza Perdonar, e punir, ch' oggi è s` raro. Queste vi fanno tal lunge, e d' appresso, Che al grido sol del vostro nome altero, l' alma s' inchina, e come può v' onora. E se al caldo desio fia mai concesso Stile al soggetto egual, ritrarne spero Fama immortal dopo la morte ancora.

ANima bella, che dal Padre eterno Creata prima in Ciel nuda, e immortale Or vestita di vel caduco, e frale Mostri quà giuso il gran valore interno; Dagl' alti chiostri in questo basso inferno V' si n' aggrava il rio peso mortale Scendesti a torne noja, e darne l' ale Al sommo bello, al sommo ben superno. Chiunque te sol una volta mira Sente sgombrar dall' alma ogni vil voglia, E d' arder tutto di celeste amore. Dunque ver me col divin raggio spira Del desiato tuo santo favore, ch' io voli al Ciel con la terrena spoglia. BEmbo, io, che fino a quì da grave sonno Oppressa vissi, anzi dormj la vita, Or dalla luce vostra alma infinita, O sol d' ogni saper maestro, e donno; Desta apro gl' occhj, si che aperti ponno Scorger la strada di virtù smarrita; Ond' io lasciato ove il pensier m' invita Della parte miglior per voi m' indonno. E quanto posso il più mi sforzo anch' io Scaldarmi al lume di sì chiaro foco. Per lasciar del mio nome eterno segno. Ed oh, non pur da voi sì prenda a sdegno Mio folle ardir; che se il saper è poco, Non è poco, Signor, l' alto desio.

LA nobil valorosa antica gente, Che di nuovo i fratelli ancisi vede, Ed in acerbo esilio a pianger riede, Signore, a te s' inchina umilemente: E potendo vendetta arditamente Gridar de' morti, e piaghe, e mille prede, Mercè sola, e pietate a te richiede Di comune voler pietosamente. sanator delle ferite nostre, Mira la velenosa, e cruda rabbia, Che il sangue giusto ingiustament sugge. Così tosto avverrà, che in te si mostre, Come a gran torto tanti danni or abbia La gente cui pietate, e doglia strugge. POiche rea sorte ingiustamente preme Voi, ch' alto albergo siete di valore, Sento, spirto gentile, un tal dolore, Che con voi l' alma mia ne giace insieme. L' anima mia ne giace, e il petto geme Di non poter mostrar nel viso il core A voi, cui bramo con perpetuo onore Piacer servendo in fino all' ore estreme. Il desio d' ora in ora a voi mi porta, Quindi rispetto onesto mi ritiene, E disvoler convienmi quel, ch' io voglio. In sì dubbioso stato mi conforta, Che ben v' è noto quel, che si conviene; E questo fa minore il mio cordoglio.

VArchi, il cui raro, ed immortal valore Ogn' anima gentil subito invoglia, Deh perche non poss' io, come hò la voglia Del vostro alto saper colmarmi il core? Che con tal guida sò, che uscirei fuore Delle man di fortuna, che mi spoglia D' ogni usato conforto; e ogni mia doglia Cangerei in dolce canto, e in miglior ore. Ahi lassa, io veggo ben, che la mia sorte Contrasta a così onesto, e bel desire, Sol perch' io manchi sotto l' aspre some. Ma se a me pur così convien finire, La penna vostra almen levi 'l mio nome Fuor degli artigli d' importuna morte. VOi, che avete fortuna sì nemica, Come animo, valor, e cortesia, Qual benigno destino oggi v' invia A riveder la vostra fiamma antica? Muzio gentile, un' alma così amica, E' soave valore all' alma mia Ben duolmi della dura, alpestra via, Con tanta non di voi degna fatica. Visse gran tempo l' onorato amore, Che al Pò già per me v' arse, e non cred' io, Che sia sì chiara fiamma in tutto spenta: Ese nel volto altrui si legge il core, Spero, che in riva all' Arno il nome mio Alto per voi suonare ancor si senta.

SE il Ciel sempre sereno, e verdi i prati Sieno al bel gregge tuo, dolce pastore, Vero d' Arcadia, e di Toscana onore Più chiaro frà i più chiari, e più pregiati; Se tanto in tuo favor girino i Fati, Che mai tor non ti possa il dato core Filli, ne tu a lei tuo casto amore, Onde vi gridi ogn' uom saggi, è beati: Dimmi, caro Damon, s' alma sì vile, E sì cruda esser può, ch' essendo amata Renda in vece d' amor tormenti, e morte: Ch' io temo lassa, se il tuo dotto stile Non mi leva il dubbiar, d' esser pagata Di tal mercede, sì dura è mia sorte. FIamma gentil, che dagl' interni lumi Con dolce folgorare in me discendi, Mio intenso affetto lietamente prendi, Come è usanza a' tuoi santi costumi: Poiche coll' alta tua luce m' allumi, E sì soavemente 'l cor m' accendi, Che ardendo lieto vive, e lo difendi, Che forza di vil foco lo consumi. Econ la lingua fai, che il rozzo ingegno Caldo dal caldo tuo cerchi innalzarsi, Per cantar tue virtuti in mille parti. Io spero ancor all' età tarda farsi Noto, che fosti tal, che stil più degno Vopo era, e che mi fu gloria d' amarti.

PIù volte, Ugolin mio, movo il pensiero Per risuonar con la zampogna mia Vostra rara virtute, e cortesia, Poggiando al Ciel col bel suggetto altero; Ma, lassa, in van m' affanno (o destin fero,) Che roco il suono; e la mia sorte ria Sì dietro ai miei dolor tutta m' invia, Che levarmi da terra unqua non spero. Cantin' altri di voi tanti pastori, Che pascon le lor greggi all' Arno intorno, A cui le Muse, a cui Fortuna è amica. Io s' unqua al mio felice stato torno, Non pur non tacerò mie santi ardori, Ma voi sarete mia maggior fatica. AMore un tempo in così lento foco Arse mia vita, e sì colmo di doglia Struggeasi 'l cor, che qual' altro si voglia Martir fora ver lor dolcezza, e gioco. Poscia sdegno, e pietate a poco a poco Spenser la fiamma, ond' io più, ch' altra soglia Libera da sì lunga, e fera voglia Giva lieta cantando in ciascun loco. Ma il Ciel ne sazio ancor, lassa, ne stanco De' danni miei, perche sempre sospiri Mi riconduce alla mia antica sorte: E con sì acuto spron mi punge il fianco, ch' io temo sotto i primi empj martiri Cadere, e per men mal bramar la morte.

SPirto gentil, che vero, e raro oggetto Sei di quel bel, che più l' alma desia, E di cui brama ognor la mente mia Essere al tuo cantar caro soggetto; Se di pari si andasse in me l' effetto Con le tue lodi, onor render potria Mia penna a te; ma poi mia sorte ria M' ha sì bramato onor tutto interdetto. Sol dirò, che seguendo la sua stella, L' anima tua da te fece partita, Venendo in me, come in sua propria cella; E la mia, ch' ora è teco insieme unita Ten può far chiara fede, come quella, Che con la tua sì mosse a cangiar vita. BEn fu felice vostro alto destino, Poiche vena vi die tanto feconda, Che il vostro Apollo il vostro dir feconda Più, che non fece al suo diletto Lino. Il coro delle Muse a capo chino Lieto v' onora, e il bel crin vi circonda Di vaghi fiori, e d' odorata fronda; Quindi ragione, è ben se a voi m' inchino. Il cantar vostro l' anime innamora, E le fà da sè stesse pellegrine; Che celeste virtù fa ciò, che vuole. E in voi mirando grazie sì divine, Chi hà più gentile spirto più v' onora, Altri d' invidia si lamenta, e duole.

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SPirto gentil, tu ben aperto mostri, Che quanto il Ciel può dar largo ti diede, Quando d' un sì bel stil ti fece erede, Con cui sì vil soggetto indori, e innostri. Onde sol degno sei, che teco giostri Quel, che arrestò più volte all' Arno il piede, Col dir, che il tuo pareggia, e ogn' altro eccede, Non essendo di voi più alteri mostri. E s' io, come devrei punto non celo, Quanto in me sian poco vivaci spirti, E rozze rime, e mal purgate carte; Fò per squarciarti d' ignoranza il velo, In che ti tien cortese affetto, e aprirti, Che in me mãca il saper, l' ingegno, e l' arte. VAghi pensier, che a sì novo diletto Scorgete l' alma dove amor l' invoglia, Lunge dalla sua fral, caduca spoglia, A fruir lieta un più beato oggetto; Pensier cui lece al sagro Monte eletto Desiosi volar v' vuol s' accoglia Il gran Padre del Ciel, quanto mai soglia Darne quà giù di raro, e di perfetto: Gitegli a piede, e ditegli umilmente, Com' io l' inchino, e adoro, e per lui l' alma Mi sento ognor di vera gioja ingombra. Perche omai con la sua gradita palma Trionfar spera Italia d' Oriente, E goder de' suoi rami eterna l' ombra.

PEnsier, che pur mi desti all' alta impresa Così tacitamente, E la mia voglia accesa Alletti ove l' ingegno nol consente; E vuoi, che in basso stile Canti, e in rozze parole Le lodi al Mondo sole Di Renea Estense, e il pregio alto, e gentile. Tu sai, ch' io mossa da cortesi affetti, E da tuoi sproni ardenti, Piu volte hò in sè ristretti Con le forze maggior gli spirti intenti; E per far pago in parte Il mio desire ardente Vergai carte sovente, E indarno ognor tentai la penna, e l' arte. Pur mi rammenti il suo bel viso adorno, Mentre in questa umil stanza Facea dolce soggiorno, E verde ancor nutrisci la speranza, Ch' hò di vederla, e intanto Nel cor mi stanno fisse Le parole, che disse Quando al partir lascione in doglia, e in pianto, Da indi in quà le feste il gioco, e 'l riso, E la gioja, e il diletto, E il novo Paradiso, Che si godea nel suo gradito aspetto Seco disparve, ond' io Di morte il viso impressa Vivo in odio a me stessa, Troppo lontana al caro Idolo mio. Or se vicino a quella viva, e pura

Di virtù fiamma accesa, Che il ghiaccio, e la paura Spesso dal cor, che mi tenea sospesa Sgombrò, quel, che m' insegna Amor dir non potei, Come lungi da lei Dirò di quanti lodi ella sia degna? Pensier, dunque ti prego omai quietarmi Lascia, e se brami in parte Qualche soccorso darmi, Vanne ove sempre vola in quella parte Ogn' altro mio pensiero: E di quel, che nel core Mi tien chiuso timore Scopri a madonna interamente il vero. Poscia al cortese suo Signor rinvolto, Fa riverenza umile, E al bel numero accolto Dell' onorata sua schiera gentile, Di; che al lor puro, e lungo Servir, ch' ogn' altro eccede Di lealtade; e fede Anch' io con tutto 'l cor lieta m' aggiungo. Canzon, s' ove s' aggira Il mio pensier n' andrai, Nova beltà vedrai, Che mirandola gode il Mondo, e

PArgolette beate, alme innocenti, Che fuor del nostro tenebroso orrore, Or vi godete il sempiterno onore, Quasi stelle nel Ciel chiare, e lucenti; Per quei, ch' oggi di morte aspri tormenti Sentiste, quando al crudo, empio Signore Col sangue l' ira acquetaste, e il furore, Uscite in braccio alle madri dolenti: Di me, che vie più fiero, ed orgoglioso Tiranno opprime, e con più lunga guerra Affligge ognor, vi stringa il cor pietade. Pregando l' infinita alta bontade, Che anch' io lasci 'l mio fral, sciolta da terra, E venga a goder vosco il mio riposo. ALma, tù pensi, e fra mille pensieri Questo sol trovi, il qual ti riconforta, Che di questa mortal nojosa, e corta Vita sciolta l' eterna veder speri. Ben hai donde a ragion mai sempre in fieri Pianti ti dolga, or che madonna è morta; Che viva al Ciel con sì fidata scorta Ti conducea per dritti alti sentieri. Morta non già ma lieta in sè raccolta, E' salita a più fermi, almi soggiorni, Ed hà dal Mondo ogni vaghezza tolta. Dunque i tuoi brevi oscuri, e pochi giorni Anzi atre notti, prega a lei ti volta, ch' impetri omai, che il lume eterno aggiorni.

DOnna reale, al vostro alto valore Opra non poggia di terreno stile; Ond' io qual pigro augel notturno, e vile M' abbaglio al vostro vivo almo splendore. Ma l' alma accesa di vivace ardore, Sen vien col bel desio vago, e gentile, Ch' ha di lodarvi riverente, e umile, Dal suo frale disciolta a farvi onore. Accolgetela prego, or che nascosa Le ha morte la sua cara, e fida duce, Che un raggio fu della gran stirpe vostra. Che s' or vita sostien fosca, e dogliosa, Scorta da vostra nova altera luce, Farà ancor chiara, e dilettosa mostra. VErgine pura, che in sì caro affetto Il tuo parto divino umile adori, Mentre sciolgon dal Ciel gl' eletti Cori Voci colme di gioja, e di diletto; Siccome Egli cui inchina ognor soggetto Il Ciel, la Terra, e gl' infernali orrori Volle per cancellare i nostri errori Nascer oggi in sì vil loco, e negletto: Così per quella stessa caritade, Vergine, il prega, che i suoi lumi vivi Di sè nel core, e nell' alma n' accenda: Acciò per queste oscure, oblique strade Lieto ciascuno al suo riposo arrivi, E il rio nemico indarno i lacci tenda.

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ALzando il mio pensier, sovra l' usato, In parte, ove del ver scorge l' effetto, E contemplando il nostro proprio oggetto, Ben riconosco il mio infelice stato. Che veggo ciò, che il core ha sempre amato, Ciò, che mirato han gl' occhi, e quale affetto E' nato dall' error, che nel difetto Sempre ritenne il voler mio legato. Del proprio danno è stato il mio cor vago; Mirato han gl' occhi il capo di Medusa Sì fiso, che il vigor quasi han perduto: Ond' è, che tutta in me stessa confusa, Talor mi sfido, ma tosto m' appago, Sperando in chi sol può donarmi ajuto. LAssa, che da quel lungo, e grave errore, Dove già cotant' anni ho l' alma involta, Trar non la posso omai; che vana, e stolta, E cieca ha quasi spento il suo vigore. Eh pur vorrei, ma il male avvezzo core Contrasta a' bei principj, e non ascolta Voce dal Ciel, che non pure una volta, Ma benigna lo chiama a tutte l' ore. Che più dolce le par dietro a' pensieri Varj, e vani desir spendere i passi, Contento del suo mal, ch' esso non vede. Tu, gran Dator, de' beni eterni, e veri, Fà, che a più degno corso i miei piè lassi Drizzi la tua clemenza, e la mia fede.

L' Alto desir della bellezza vera Talor m' innalza l' alma accesa al Cielo, Ove spedita dal corporeo velo, Già scorge il ver di quel, che brama, e spera. Poi quì tornata, e di tal dono altera, Ahi lassa, il foco si converte in gelo: E tosto manca quell' ardente zelo, Che l' avea scorta alla più degna sfera. Tal da troppo timor sè stessa coglie Amaro frutto; onde qual solea prima Vive infelice in odioso fango. E rotto il freno alle sue proprie voglie, Va in quelle errando, ne il suo ben più stima; Ond' io dell' error suo patisco, e piango. GIunta l' ora felice eletta, e chiara, Che cõ la palma in man dovea dal Cielo Girsene al Regno, suor del terren velo La Vergin saggia, gloriosa, e rara; Venne a ricever la sua santa, e cara Madre coi santi d' amoroso zelo Ripieni, il vero Dio, che caldo, e gelo Avea per noi sofferto, e morte amara. E dicendo; Maria da chi privata De' nostri dolci abbracciamenti or fia? E lieto rispondea; vieni beata. Vien colma d' inefabil leggiadria, Ad ogn' atto santissimo adornata; Vieni a goder nella tua Patria, e mia.

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BEn hò del caro oggetto i sensi privi, Ma il veggio, e sento, ed hò nell' alma impresso; Come suol egro, che da sete oppresso, Ha sempre nel pensier fontane, e rivi. E s' io quì mi consumo, e il mio sol ivi Altrove splende, Amor, digli tu stesso; Poiche non hò di te più fido messo, La mia gioja il mio duolo, ove derivi. Digli la mia speranza, e il mio desio, Com' io l' aspetto ognor, come l' invoco, E come senza lui più non son' io. Digli, che non fia mai tempo, ne loco, Che spenga, e scemi più l' incendio mio; Poiche ardo più, quant' è più lunge il foco. VIva forma d' amor, quando fia l' ora, Che a te sol stesso, in te lãguir mi veggia, Che pari (ahi qual tu a me) s&etilde;pre ti chieggia, Chinando il capo alle tue voglie ognora? Quando fia, che per te contento mora, Ne sazio d' esser morto in Croce seggia, Pregando, amando chi m' offende, e spreggia, Bramando esser per te ferito ancora. Deh fa, che il spirto, ch' or da te si parte Con suo vivo spirar tal foco accenda, Che d&etilde;tro, è fuor m' infiammi in ogni parte. Poi liquefato in lui tua man mi prenda, E in te m' infonda con tua grazia, ed arte; Talche in amarti ogni tua forma prenda.

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TEmerario pensiero, Che t' innalzasti al Ciel pronto, e leggero, Non per bearmi in alto, Ma per farmi cader di mortal salto. Tu nel mio volo audace Mi promettesti una tranquilla pace, Poi, lasciandomi a terra, Mi desti in sorte una perpetua guerra. Ahi, che l' altrui morire Fu sol cagion del mio soverchio ardire; Che s' io penso sovente Al ben passato accresco il mal presente. Dunque, se il mio pensiero Fu sol cagion del precipizio fiero; Occhi dolenti miei, piangete tanto, Fin, che la vita si distilli in pianto.

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MIsera me, che deggio far più omai, Se non pianger mai sempre, e sospirare, Perche d' ogni mio male, e de' miei guai Fui cagion sola, e di mie pene amare. Ohimè dove ora son quei dolci rai, E l' altre sue bellezze a me sì care? Deh perche senza me, dolce mia vita, Te ne sei gito? ahi dura dipartita. A cui più domandar, occhi miei lassi, Dobbiam del pianger nostro omai mercede; Poiche colui, che quì piovosi, e bassi Vi tiene, ohimè, lungi da noi si vede? Che fia di noi per questi monti, e sassi Senza quel caro ben, che 'l Ciel ne diede?

Ahi mio fero destin, che far più deggio, Che pianger sempre, e ognor temer di peggio? Pianger dunque poss' io la notte, e il giorno; Poiche co' dolci raggi il mio bel Sole Risplende in altra parte, e il cielo adorno Fà con le sue bellezze al mondo sole. Qual fera stella il mio dolce soggiorno Tolto m' ha, chi il mio cor tanto ama, e cole? Ohimè, dove òra sei, caro il mio bene, Senza colei, che per te vive in pene? Che sia di te, mio ben, mio amor, mia gioja, Lassa, non sò, sò ben, che sei lontano; Sò ben, ch' io non ti veggio, e che m' annoja La vita senza te; sò ben, che invano Ognor ti chiamo, ohimè, che amara noja Mi sento al cor senza il bel viso umano: Ohimè, che 'l tristo cor s' affligge, e duole, Senza la vista del suo chiaro Sole. Quanto di ben, di gioja, e di dolcezza Mi diede già ne' primi giorni Amore, Quanta consolazion, quanta allegrezza Ebbe già questo mio angoscioso core; E quanto cara mi fu la bellezza Del mio bel Sol, ch' io chiamo a tutte l' ore; Rivolto ha in doglia, in tristo pianto amaro l' empia fortuna, e' l' mio destino avaro. Qual donna visse più di me felice Fra queste valli, e intorno a questi monti, Dican per me, perche a me dir non lice, Le fronde, e i fiori, e le campagne, e i fonti; Qual vide più di me trista, e infelice Oggidì al mondo, ed omai al fin gionti Sono i miei dì, dappoi, che abbandonata Da lui mi veggio, a cui, fui gia sì grata?

COme esser può già mai, Damone ingrato, Con tanta crudeltà spietata, e ria Togliendo agl' occhi quel, che il cor desia, Mi celi il volto tuo cotanto amato? Come puoi far, che avendomi donato Te stesso, e in cambio avuto l' alma mia, Io non ne porti sempre ovunque io sia Il tuo sembiante a me sì dolce, e grato? Qual sia Amarille tua, volesse Dio, Che tu vedessi almen, che te sol brama, E tua mercede, ha di morir desio. Torna, crudele amante, ov' è chi t' ama Piu che la propria vita, e sia più pio A chi dì, e notte il tuo bel nome chiama

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DOve tra fresche, e rugiadose erbette Corre un più chiaro, e più limpido fiume, Ivi lieta mi stò, del chiaro lume Cantando le leggiadre parolette. Amor, che in l' alma il bel desio mi mette, Meco si stà, con le sue lievi piume, Facendomi, per suo dolce costume, Cercar l' ombre, e le piante leggiadrette. Non però spero mai l' aura soave Spenga, col chiaro fiume il crudel fuoco Ove mai sempre mi ritrovo accesa: Ma sottopposta a così duro gioco, Dato ad Amor de' pensier miei la chiave, Lieta mi stò, senza più far contesa.

COme effer può, che quel, ch' io più vorrei, Quel, ch' io più bramo, e via più ch' altro ho caro, Ove ogni bene imparo Da me discacci? o miei fati empi, e rei; Dunque pensate vui, Ch' io non sia sempre in lui? Deh nò per Dio, più tosto senza vita Viver potrei; ma se talor mi sforza Una onesta partita, Resta seco il pensier con maggior forza. O Felici erbe, o fior, riva gradita, O più d' ogn' altro chiar limpido fiume, Poiche vicino avete il più bel lume, Chè mai formasse il Cielo in mortal vita; Io pur ritorno a voi; che 'l Ciel m' invita L' orme cercar d' ogni gentil costume Deh avess' io, come il pensier le piume, Ch' or non vivrei lontan dalla mia vita. Quivi il bel ragionare onesto, e accorto Udj sedendo l' onorate sponde, Che 'l corso tuo facea restar sovente. Or mi giova in voi, care, amate frondi, l' immagin sua cercar; ma il tempo è corto, Fia dunque il bel desio mai sempre in m&etilde;te.

ALmo mio Sol, che in quelle luci sante Ne mostri il vero bel, che Dio ti diede Per farne a chi ' n lor mira chiara fede Delle perfette in lui sol gratie tante; Io bramo pur di tue onorate piante Le belle orme seguir; ma nol concede Il mio debole ingegno, e ben s' avvede, Che troppo col desir cerco ire innante. Perche io vorrei talor, tue chiare, e belle Lodi cantar, che 'l lume, che in te luce Mi porge al core un così bel desio. Ma tosto, ch' io non veggio la tua luce, Manca valore, e speme, e sol in quelle Resta mai sempre fermo il pensier mio. SE il Cielo adempia ogni vostro disegno, E favorisca vostre degne imprese, E sia la donna vostra a voi cortese, E fra gli altri d' onor vi faccia degno; Deh ditemi per Dio, qual fu lo sdegno, Che si tosto nel cor vostro s' accese? Che se emendar si possono l' offese, Qual maggior pena a voi piaccia nõ sdegno. Deh non tenete più vostro odio ascoso; Che troppo disconviensi a un cor gentile, Ma vinca corte sia gli altrui difetti. E tornate, qual pria col chiaro stile A farne parte de' bei vostri detti, Se non che più con voi parlar non oso.

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GIà per morir del mortal lume intorno Il picciolo animal con l' ali tese Sen già lieto, e sovrano, Ove Natura, e suo destino il prese, Allor, che di mia Dea poco lontano Scorto il volto, la man, l' ardenti luci, Ch' alle strade del Ciel fur sempre duci, Cangiò vicino a lei subito loco, Bramando ivi morir in più bel foco, O con forte miglior nelle sue mani: Ma fur tai desir vani; Che prender più chiare alme ha per costume Sì bianca mano, e quel celeste lume.

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DEl grande Augusto, al cui valor sovrano Ogni memoria antica inchina, e cede, Tempio d' alta pietà, nido di fede, Onde a ragion del Mondo ha il freno in mano; Ben siete voi col bel sembiante umano, Margherita, verace, e degna erede; Poiche cinta di mille altere prede, Rendete il pregio altrui caduco, e vano. Deh come io scorgo appien quel vivo lume, Che del bell' operare in voi si move, E l' una, e l' altra Esperia oggi rischiara; Potess' io ancor con gloriose piume, Eguali al merto vostro, alzarvi dove Giunger non puote il tempo, e morte avara.

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PIù chiara luce mai non rende il giorno, Ne più possenti manda i raggi Apollo, Che quando col bel seno, e il bianco collo, E il ben formato corpo il fate adorno. Che ciò sia ver si sente d' ogn' intorno Nessun spirto gentil stanco, e satolle Di celebrarvi, onde di tempo il crollo Non avete a temere, o d' altro scorno. Se il leggiadro, e snello piè movete, Seguendo il suon, ch' or china, or voglie, e st&etilde;de Il pregio a ogn' un di leggiadria togliete; Se il cortese parlare alcun intende Tosto divien qual' uom, ch' è immerso in lete, Se la luce da voi luce non prende.

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MEntre verso la valle, ove il Signore Già detto avea, che fosse in nova tõba Posta la vaga sua, vaga colomba Iva la schiera pia con puro amore. Quei del Paese udendo il tanto onore, Che si facea dall' Angelica tromba, E che tal suono in gloria sol rimbomba Di Maria colma del divin favore. Subito a ritrovar lor Sacerdote Primiero andar, dicendo, i giusti eletti La Madre sepelir del morto Cristo. Ei, ch' era nulla d' intelletto avvisto Raccesi d' odio i rei sensi, imperfetti, Con furor corse a quelle parti vote.

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SCiolto da tutte qualitati umane, E della terra, il mio Signor sen gia Verso il Cielo, e del Sol gia si vestia Il bel corpo, e di stelle alte, e sovrane. E salendo pian pian, dalle lontane Genti già si vedea la Gerarchia Prima venire, e l' altre esser in via Con desiose voglie, e sovrumane. Da queste furon certi Angeli eletti, Che innanzi al Carro trionfale in mano Portasser Croci, spine, e acuti chiodi: E lancie, e sponghe, e dure sferze, e nodi; Per mostrar con quali armi 'l Mondo insano Ei vinse, ed espugnò gli stigj Tetti. QUella chiara virtù, che da' primi anni In voi destò leggiadri, e vaghi fiori Rende frutti or, ch' a più pregiati allori Non pure invidia fan, ma scorni, e danni. Onde spiegando al Ciel, sicura i vanni Fate, che lieto ogn' un v' ami, ed onori; Così fregiata de' più degni onori Far procacciate a morte oltraggi, e inganni. Già non posso arrivare al vostro volo; Che troppo adombra questa bassa spoglia Quel bel, che l' alma in Ciel conobbe prima. Pur coll' esempio vostro io mi consolo, E cerco alzarmi all' alta cagion prima; Ma il sapere uguagliar non può la voglia.

SE dove io bramo il Ciel tornar mi vieta, Non fia però, che il bel vostro sembiante Scolpito nel pensier, non abbia innante, Ovunque io sia, ch' ogni mia doglia acqueta. E di sì bel pensier ne vivo lieta; Purche in voi fede sia, ferma, e costante, Eguale all' altre vostre virtù sante, In cui mia vita è dolce, e mansueta. Tal veggio, onor nell' onorate chiome Rendervi del bel stil, ch' ogn' altro onora; Che felice può fare ogni mia sorte. Dunque felice il giorno chiamo ognora, Che in voi scorsi il pensier, ch' io scorsi, come Viver si può sicur dall' empia morte.

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DAl Rè de' fiumi è forse oggi risorto, Per meraviglia, con la forma intera Quel, ch' arse quasi la mondana sfera, Declinando il cammin dal dritto al torto? Io pur odo il cantar vago, ed accorto Dell' istesso mio Cigno, e pur la vera Sua voce questa a noi, ch' insordita era, Dacche il miser Fetonte in Pò fu morto? O che soave dolce, almo concento, Che sembrar fammi l' armonia del Cielo, Novamente al mio lido, oggi risponde? Così Triton, dalle Ligustich' onde, Fuor tratto il capo, ad ascoltarvi intento, Disse, Rocchetta, e cose altre, ch' io celo.

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VAga Angeletta, in cui grazia, e Natura Pose ogn' ingegno, industria, ogni bell' arte, Indutta al Mondo in quella nobil parte Per la qual vana è in voi ogn' altra cura; La cui celeste al Mondo, alma figura, Le virtù rare in tutto il Mondo hà sparte, Alte divine, ornate in mille carte In grazia al Ciel, che quì virtù non dura. Alma diletta al Ciel benigna, e pia Qual degna servitute in te risiede, Se di sue mille una virtù tua fia? Ben degno ancora il tuo stato richiede, Che sol non manca di cercar la via Di gire al Ciel, che lei sol brama, e chiede.

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I Fieri assalti di crudel fortuna Scrivo piangendo, e la mia fresca etate; Me, che in sì vili, ed orride contrate Spendo il mio tempo senza loda alcuna. Degno il sepolcro, se fu vil la cuna Vò procacciando con le Muse amate; E spero ritrovar qualche pietate, Malgrado della cieca, aspra, importuna. E col favor delle sagrate dive, Se non col corpo, almen coll' alma sciolta, Esser in pregio a più felici rive. Questa spoglia dov' or mi trovo involta, Forse tale alto Rè nel Mondo vive, Che in saldi marmi la terrà sepolta.

SAcra Giunone, se i volgari amori Son dell' alto tuo cor tanto nemici, I giorni, e gl' anni miei, chiari, e felici Fa con tuoi casti, e ben concetti ardori. A te consacro i miei verginei fiori, A te, o Dea, ed ai tuoi pensieri amici, O delle cose sola alme beatrici, Che colmi il Ciel de' tuoi soavi odori. Cingimi al collo un bel dorato laccio De' tuoi più cari, ed umili soggetti; Che di servir a te solo procaccio. Guida Imeneo con sì cortesi affetti; E fà sì caro il nodo, ond' io m' allaccio, Che una sol alma regga i nostri petti. QUello, che i giorni adietro Nojava questa mia gravosa salma Di star fra queste selve erme, ed oscure; Or sol diletta l' alma, Che da Dio, sua mercè, tal grazia impetro, Che scorger ben mi fà le vie sicure Di gir a lui, fuor delle inique cure: Or rivolta la mente alla Regina Del Ciel, con vera, altissima umiltade, Per le solinghe strade, Senza intrico mortal, l' alma cammina Già verso il suo riposo, Che ad altra parte il pensier non inchina, Fuggendo il tristo Secol sì nojoso

Lieta, e contenta, in questo bosco ombroso. Quando dall' Oriente Spunta l' Aurora, col vermiglio raggio, E se n' annunzia dalle squille il giorno; Allora al gran messaggio Della nostra salute, alzo la mente, E lo contemplo d' alte glorie adorno, Nel basso tetto, dove fea soggiorno La gran Madre di Dio, ch' or regna in Cielo: Così godendo nel mio petto umile, A lei drizzo il mio stile, E il fral mio vel di rozze vesti velo: E sol di servir lei, Non d' altra cura, al cor mi giugne zelo; Seguendo le vestiggia di colei, Che dal diserto accolta, fu dai Bei. Quando da poi fuor sorge Febo, che fà nel Mar la strada d' oro, Tutta m' interno all' allegrezza immensa; Ch' ebbe del suo tesoro Quella, che tanta grazia, ora a me porge, Ch' io la riveggio con la mente intensa Mirar il figlio, in caritate accensa, Nato fra gl' animai con pio sembiante: E del sangue, che manda al petto il core Nodrire il suo Signore; E scerno il duce dell' eterno amante. Sotto povere veste Spregiar le pompe del vulgo arrogante; Colui, che sol pregiò l' aspre foreste, E fu fatto da Dio, tromba celeste; Poiche il suo chiaro volto, Alzando dalle valli, scaccia l' ombra Il biondo Apollo, col suo altero sguardo, Un bel pensier m' ingombra; Parmi veder Gesù, nel Tempio in volto,

Fra saggi disputar; con parlar tardo, E lei per, ch' io d' amor m' infiammo, ed ardo Versar dagl' occhi, per letizia pianto: Questi conforti incontro ai duri oltraggi M' apportan questi faggi, Lungi schivando, di Sirene il canto, Che per solinghe vie Il bel giovane a Dio, diletto tanto Con le sue caste voglie, e sante, e pie Vide il sentier dell' alte Gerarchie. Alzato a mezzo il Polo Il gran Pianeta con bollenti rai, Che uccide i fiori in grembo a Primavera. S' alcuno vide mai Crucciato il Padre, contro il rio figliuolo, Così contemplo Cristo in voce altera Predicando ammonir la gente fera: E col cenno, del qual l' Inferno pave, Romper le porte d' ogni duro core, Cacciando il vizio fuore. Quanto ti fu a vedere, alma, soave Gl' error conversi in cenere Dal caro figlio, in abito sì grave; Quanto beata fu, chi le sue tenere Membra a Dio consagrò, sagrate a Venere. E se l' eterno foco Giugne tant' alto, che al calar rimira, Ti scorgo, Signor mio, fra i tuoi fratelli Senza minaccie, od ira, Del tuo amor infiammarli a poco, a poco; E con leggiadri detti, e gravi, e belli Render beati, e pien di grazia quelli: Lor rammentando pur la santa pace. La gioja del mio cor, ch' amo, et adoro Contemplo fra coloro, Che i santi esempj tuoi, raccoglie, e tace.

O via dolce, e spedita, Trovata già nel vil secol fallace, E che il primiero fin dal Ciel m' addita Sol dell' eremo la tranquilla vita. Per voi, grotta felice, Boschi intricati, e rovinati sassi, Sinno veloce, e chiare fonti, e rivi, Erbe, che d' altrui passi Segnate a me vedere unqua non lice; Compagna son di quegli spirti divi, Ch' or la sù stanno in sempiterno vivi, E nel solare, e glorioso lembo Della Madre, del Padre, e del suo Dio Spero vedermi anch' io, Sgombrata tutta dal terrestre nembo; E fra l' alme beate Ogni mio bel pensier riporle in grembo. O mie rimote, e fortunate strate Dove adopra il Signor la sua pietate. Quanto discovre, e scalda il chiaro Sole, Canzon, è nulla ad un guardo sì pio; ch' è Regina del Ciel, Madre di Dio.

QUanto pregiar ti puoi, Siri mio amato, Della tua ricca, e fortunata riva, E della terra, cui da te deriva Il nome, che al mio core oggi è sì grato; S' ivi alberga colei, che il Cielo irato Può far tranquillo, e la mia speme viva, Malgrado dell' acerba, e cruda Diva, Ch' ognor s' esalta del mio basso stato. Non men l' odor della vermiglia rosa Di dolce aura vital nodrisce l' alma, Che soglion farsi i sacri Gigli d' oro. Sarà per lei la vita mia giojosa, De' gravi affanni deporrò la salma, E queste chiome cingerò d' alloro. ECco, che un altra volta, o valle inferma, O fiume alpestre, o rovinati sassi, O ignudi spirti di virtute cassi, Udrete il pianto, e la mia doglia eterna. Ogni monte udirammi, ogni caverna Ovunque arresti, ovunque io mova i passi; Che fortuna, che mai salda non stassi Cresce ognora il mio male, ognor l' eterna. Deh mentre, ch' io mi lagno, e giorno, e notte, O fere, o sassi, o orride rovine, O selve incolte, o solitarie grotte; Ulule, e voi del mal nostro indovine, Piangete meco, a voci alte interrotte Il mio più d' altro miserando fine.

TOrbido Siri, del mio mal superbo, Or, ch' io sento da presso il fine amaro; Fa tu noto il mio duolo, al Padre caro, Se mai quì il torna il suo destino acerbo. Digli, come morendo disacerbo L' aspra fortuna, e lo mio Fato avaro, E con esempio miserando, e raro Nome infelice, alle tue Onde serbo. Tosto, ch' ei giunga alla sassosa riva, (A' che pensar m' adduci, o fiera stella) Come d' ogni mio ben, son cassa, e priva; Inqueta l' onde, con crudel procella, E dì: me accrebber sì, mentre fu viva Non gl' occhi nò, ma i fiumi d' Isabella.

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NOn potrà, Tirsi mio, novo Pastore, Quantunque ricco di terreno, o gregge, Turbar con nova asprezza, e fiera legge Della tua cara Gemma il dolce ardore. Ne mai sarà, che del mio chiuso core Esca il tuo nome, che lo guida, e regge. Questo scolpito, e bello ivi si legge, Dal dì, ch' ogn' altro egli ne trasse fuore. Indarno dunque, a contrastar mi viene Fortuna; che ricchezze alte, e superbe Son pregio al desir mio, pur troppo indegno. Sol nella tua virtute hò ferma spene, Ed ella vuol, che sempre io la riserbe Vicina al cor di nostro amore in pegno.

USo a vani sospir, misero core, Or t' ingombra di gioja alta, infinita, Ch' oggi il Signor morì, per darci vita, E lava col suo sangue il nostro errore. L' antica servitù, l' empio timore Tolto n' hà l' un, l' altra da noi sbandita. Questa è sola la vittima gradita, Che offrì pei figli suoi, l' eterno Amore. Volgiti a lui, che glorioso siede Alla destra del Padre, ove m' attende, Ove de' suoi tesor m' hà fatto erede. E pien di fe, che di la sù discende, Ivi alza il volto tuo; che senza fede In vano uom s' affatica, e i passi stende. QUando vedeste, Madre, a poco, a poco Al Figliuol vostro 'l vivo almo splendore Fuggir dagl' occhj, ed in sua vece Amore Sfavillar d' ogn' intorno ardente foco; Credo, che i vostri spirti andar nel loco Dei suoi, per riportarne al vostro core Quei, che v' eran più cari, ma brevi ore Furon concesse al doloroso gioco: Che la morte gli chiuse, onde s' aperse La strada a noi del Ciel, prima serrata Mille, e più lustri dalla colpa antica. Lo scudo della fede in voi sofferse Il mortal colpo, ond' ogn' alma ben nata Nel favor vostro sua speme nuarica.

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QUel primo Lauro, che ha perpetua aurora, Cogl' aurei crini lucidi infiammati, Non vuol tra dotti, e spiriti lodati Il rozzo ingegno mio si ponga ancora: Che s' ei ben s' affatica, e suda ognora A formar versi incolti, e poco ornati, Nol fo per lode, ne per farli amati; Ma per dar tempo al tempo, che m' accora. Ma se pur di virtu breve scintilla In me si mostra, e di valor un segno, Grazia dal Ciel benigno in cor mi stilla. Come Donna, ch' io son di poco ingegno Non chiamo mio, ma dell' amor favilla, Che la bontà di Dio ne da per pegno. NOn bisogna, Signor, pormi tant' alto, Perch' il mio basso nome aggiunga Apollo; Ch' io non son Dafne, e temo sù lo smalto Cadendo da me stessa dar un crollo. Col valor proprio punto non m' esalto, Ne mi circonda allor capo, ne collo: Son certa, che non piaccio altrui, ne giovo, Ch' altro diletto, che imparar non provo. Voi, che siete gentil, dotto, e cortese, E vedete il rimar donnesco, e frale, Non m' abbiate di lodi insidie tese, Perch' io v' inveschi d' ignoranza l' ale. Duolmi, ch' io m' abbia altrui fatta palese Con la risposta mia, che nulla vale.

Forbite il verso mio, mondatel tutto, Come buon giardinier rinova frutto. Se più vi scrivo non mi date udienza, Ch' io conosco il mio stile infermo, e stolto: E quando io sono in me mi trovo senza Ogni ajuto, e cantar poco, ne molto. Di quanto scrivo, e parlo io n' hò temenza, E la man trema, e impallidisce il volto, E quanto da me stessa incarno, e faccio Tutto in un tempo vi dimostro, e taccio. Voi fonte di Parnaso, e di Natura, S crivete pur, che scriver v' è concesso: Io Donna priva d' arte, e di misura Lo stame, che in me tengo ordisco, e tesso. Ed è ragion, se il mio ingegno hà paura, Perche non tiene ardir femmineo sesso. Se non vi scrivo più, non m' incolpate, Ma la modestia mia, prego, lodate. VEggio il Mondo fallir, veggiolo stolto, E veggio la virtute in abbandono; E che le Muse a vil tenute sono, Talcbe l' ingegno mio quasi è sepolto. Veggio in odio, ed invidia tutto volto Il pensier degl' amici, e in falso tuono, Veggio tradito il Malvagio dal buono, E tutto a' nostri danni il Ciel rivolto. Nessun al ben comun tien fermo segno, Anzi al suo proprio ogn' un discorre seco, Mentre hà di varj affetti il petto pregno. Io veggo, e nel veder tengo odio meco; Talche vorrei vedere per disdegno O me senz' occhi, o tutto il Mondo cieco.

ECco le Muse mute, ecco il bel fonte d' ogni suo dolce umor privo, ed asciutto; E la cetra d' Apollo in grave lutto, E senza le sue piante il sacro monte. Ecco ben mille lingue, a biasmar pronte Morte, che spoglia il Mondo d' ogni frutto, E prival del più degno onor in tutto, Ch' espresso si vedea del Bembo in fronte. Odo voce del Ciel, che scende a basso, Vedendo ogn' un sì mesto, e in tanto orrore; Ogni vostro ornamento è sotto un sasso: Dico il mortal, che fu del Mondo onore; Però, che l' alma con maturo passo, E' ritornata in grembo al suo Fattore. QUando sento destar, più d' un' Augello, E col suo canto salutar l' Aurora, Tanto più cresce il duol, più fiamma accora L' ingordo mio desio, caduco, e fello. Perche conosco ben, che il gran flagello Più m' invita a dolermi, ora per ora: E per lo meglio vorrei esser fuora Di questo Mondo tanto a me rubello. Così dolente in sì gran pena mia Trapasso il giorno con angoscie, ed onte In molesti sospir di gelosia: Vorrei allor, ch' è il Sol sull' Orizonte Rubargli il carro, e non m' incresceria Cader con quel, come cadeo Fetonte.

ASsai provide male a questo loco La matrigna Natura, Che se formò nel Mondo tal bellezza, Per avanzar ogn' altra sua figura, Non dovea, per pigliar del Mondo gioco, Coprir tanta amarezza, Coll' ombra della vostra gran beltade; Ma per vincer e Sole, e Luna, e Stelle Non pur tutte le belle, Le dovea dar scintilla di pietade, Acciò che si dicesse, ecco quel viso, Che fa vergogna a Cupido, e a Narciso: QUel tenace pensier, che l' alma accora Pur mi conduce a sospirar mai sempre, E in dubbio di mio stato vuol, ch' io mora. Ma spero ben, che in queste calde tempre, Se pianeta contrario mi corregge, Nell' ultimo languir l' alma si stempre. Se nel giorno d' altrui vista si regge, In questo carcer mio nojoso, e tetro Fuggir vedrolla ancor mondano gregge. Deh, se grazia cotal dal Cielo impetro, Amor sarà con quella, ed io contento Poiche morte mi vien seguendo dietro. Il cor m' affligge poi solo un tormento, Che dir non oso, a chi 'l mio mal non crede, Ne passar senza affanno ogni momento.

Ma della pena mia, ch' ogn' altra eccede, E delle occulte mie calde faville Il volto ne farà notizia, e fede. Così convien, che il cor pianto distille, E gl' occhi, per cagion del lor fallire Versin lagrime sempre, a mille, a mille. O sfrenato voler, caldo desire; Poiche colpa di voi, punito sono, E non mi giova il poi tardo pentire. Se parlando di lei, meco ragiono, Spesso all' orrecchio, risentir mi sento Della tromba mortal, l' orribil suono. Così tra bene, e mal porto tormento, E mi consumo in lagrime, e in sospiri, Come tenero fior, dinanzi al vento. Se voglier gl' occhi in amorosi giri Madonna veggio, e far novo pensiero, Crescono al viver mio, novi martiri. Questo produce Amor, costante, e vero. Nella continua guerra, ahi dura sorte; Ma pace ritrovar, poi morte spero. Lasso, temo morir, che poi la morte, Mancandole il gioir del mio penare, Il viver le sarà, molesto, e forte. Temo dunque il mio mal veder mancare Non curando, che i pianti, e le querele Facciano la mia vita terminare, Ma, ch' ella acquisti nome di crudele, SE Amor, fortuna, sorte, e mio pianeta, Misero, incominciar tant' alta impresa Senza darmi dolore, e farmi offesa, Anzi con stella avventurosa, e lieta;

Non sò, come questa or mi scema, e vieta L' aura vital, che m' è quasi contesa; Che il viver mio non possa far difesa, Contra l' orgoglio altrui, che non s' acqueta. Perche quanto mi fugge, e mi disprezza, Tanto più ardente foco al cor s' apprende, Che più veleno dammi, e più dolcezza: Ne sò pensar, come il cor non s' arrende, Se non al duolo, almeno alla vaghezza, Che l' uno, e l' altro egualmente m' incende. MOlte volte hò pres' io penna, ed inchiostro Per cantar la bellezza, e il valor vostro, Ma quanto più mi sforzo di ben dire, Più mi sento morire. Perche mi vince sì vostra bellezza, E gusto tal dolcezza, Che in me medesmo son, quasi smarrito; E dalla vostra luce, alta stordito, Perdo ingegno, la lingua, e le parole. E conosco di vero, Che di viso sì altero; Non bastano a parlar tutte le rime Di tutti quei, che mai le fecer prime. E così indarno il mio ingegno s' affanna, Poi nulla gli è concesso, Anzi vi dico espresso, Che il vostro viso il Paradiso inganna, Questo è il premio d' amore, E questa è la mercè del mio dolore. Non pensava quest' io, Anzi pensava al fin dell' arder mio Aver alcun conforto, o qualche aita,

Poiche ho servito mesi, giorni, ed anni, Ed or son più, che mai in gravi affanni. E questo è più dolore, Che mi trapassa il core; Che s' io penso lasciarla, o farne effetto, Il mio laccio diventa, allor più stretto. NOn posso più soffrir tanto tormento, Tanto dolore, e sparger tanti al vento Sospiri; e certo indarno mi confido, E indarno io grido. Indarno grido, ahi lasso, egli è palese, Che Amor tien l' empie corde all' arco tese, Spesso porgendo offese al core, e al petto, In gran dispetto. In gran dispetto io vivo, e in gran dolore, Ma colpa è stato, sol di quel splendore, Che passò al core, e per gl' occhi ebbe via, Per morte mia. Per morte mia, ebbe egli possanza, Che schermo non giovò d' antica usanza, E con una speranza pur mi tiene In vita, e in pene. In vita in pene, ed io fra questi monti, Avendo sempre gl' occhi al pianto pronti, Fatti gli hò fonti di perpetua vena, Ch' ognor è piena. Ch' ognor è piena, e benche io pur m' ingegni, Ch' ella conosca a mille chiari segni I miei pensieri degni, ella pur dura, Di me non cura. Di me non cura questa mia nemica, E quanto più la cerco farmi amica

Più perdo la fatica, e più vaneggio: Or che far deggio? Or che far deggio, s' ella vuol, ch' io mora, E con lei congiurato è il Cielo ancora, Perch' io esca fuora di sì trista vita, Altrui gradita. Altrui gradita, a mè, certo nojosa, Quant' esser possa più spiace vol cosa. O vita dolorosa, ch' io pur vivo, Di speme privo. Di speme privo mi nutrisco in foco, E d' altrui, e di me, mi cal sì poco, Ch' io stimo gioco morte, e corro a lei, Ch' io pur vorrei. Ch' io pur vorrei, com' ella fugge in fretta Poter seguirla, a guisa di saetta, E far d' amor vendetta, e di me stesso, Dal duolo oppresso. Dal duolo oppresso ancora, ch' io ritrovi, Senza aver cosa, che diletti, o giovi, Con pensier novi pur vado reggendo Il peso orrendo. Il peso orrendo è certo, che mi preme Della mia vita giunta all' ore estreme, Che spera, e teme, e vince ogni languire Il mio martire. POiche è sparito, e non veggio, ne sento Del mio bel Sol l' alte parole, e il viso Leggiadro, pensa quanto io son conquiso Dal pianto, dalla pena, e dal tormento. Morte già diede a lui, solo un spavento; Io son da mille morti, il giorno ucciso;

Egli è gradito, e caro in Paradiso, Io nell' Inferno afflitto, ed in lamento. Ahi morte iniqua, ahi crudeltà infinita, Fà pur contra di lui l' estremo vanto, Ch' ei vive in Ciel felice eterna vita. A me non duol, ch' ei sia felice, e santo; Ma sol mi preme, che la mia partita, A ritornar a lui s' indugi tanto. VErgine santa immaculata, e pura, Solo rifugio, al misero mortale, Onde l' anima dubbia s' assicura. Vergine eccelsa, eterna, ed immortale; Esauditrice de' prieghi innocenti Rimedio d' ogn' affanno, e d' ogni male. Vergine sacra, a cui de' miei tormenti l' innumerabil numero io dispiego Con pianti gravi, e con mesti lamenti. Vergine adorna, in cui l' umano prego Trova mercede, e pietate, e salute, A te mi volgo umilemente, e piego. Vergine, colma d' ogn' alta virtute, Le cui degn' opre son negl' alti chiostri, E gradite, e lodate, e conosciute. Vergin pietosa, agl' umil preghi nostri; Fermo sostegno alla miseria umana, A cui sempre benigna ti dimostri. Vergine incomprensibile, e sovrana, Che dal Rè eterno fosti incoronata, Per dar luce alla vita cieca, e vana. Vergine saggia, e di splendore ornata; Vergine in parto, dopo il parto, e avante; Tu sola fra le Donne avventurata.

Vergine di pietà, vera abbondante, La cui bontate al Ciel ne riconduce, Cacciando il traditor fermo, e costante. Vergine piena d' infinita luce, Soccorri al mio fallir, ti priego omai, Ch' altri, che te non bramo aver per duce. Spiega nel cosco core i chiari rai; Mostrati pia, come sei sempre, e grata, Acciò ch' io scampi dagli eterni guai. Sò, Che al pregar altrui non sè indurata; Anzi avocata ognor dell' uman seme Fosti, e sempre sarai, Vergin beata. Soccorri al cor, che contrito si geme; Raccogli in te benigna il mio desire, Per quanto il tuo Figliuol ci diede speme Trova rimedio all' eterno martire. QUalunque sia, che per caso, o per forza Legga già mai queste mie incolte rime, Benche l' onore, e il giudicio lo sforza, Sicche convien, che assai poco le stime; Pur lo prego io, che non passi la scorza, Che l' ignoranza mia dentro s' imprime; E se giovane indotta, e Donna io sono, Ne principio, ne fin, posso aver buono.

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O Mio bel Sol, per quell' interno ardore, Che l' alma mia sì dolcemente avviva, Per quella vera gioja, che nodriva Quando in voi pria mirai l' afflitto core; Per quei caldi sospir, che a tutte l' ore Passano della Tressa, oltra la riva, Per ritrovar, chi d' ogni ben mi priva, E la vera cagion del mio dolore; Per le lagrime triste, e pei martiri, Che m' ancidano ogn' or presso, e lontano, Onde non sò, com' io lassa respiri; Per gl' occhi vaghi, e per l' amata mano, Che m' empie il petto d' alti, e bei desiri Deh, non rendete il mio sperare or vano. SIccome è senza par l' oggetto mio, E fra mill' altri belli, ei solo splende, Onde la nostra età beata rende, L' alme ingombrando d' immortal desio; Così privo d' eguale è l' ardor, ch' io Sento di lui, e s' egli nol comprende La colpa è sua; che il mio cor fido attende, Finire ivi il suo corso; ed io il desio. Ne puote sua mercè, basso pensiero; Far nido in me; che l' alta, alma bellezza Sua lo percuote, e indietro lo discaccia. Talch' io felice vivo, ed egli altero, Di ciò sen va, che se ben me non prezza, Quel ch' hò di lui forz' è, che pur gli piaccia.

SI' bella è la cagion, che a amar m' accende, Che col pensiero appago il mio desio; Beata, e altera poi, così mi rende, Ch' ogni oggetto mortal pongo in obblio: E fà, che sua mercè, quest' alma intende L' eterno amor dell' immortale Iddio; Onde nasce quel lume, in cui già mai Non si sazian mirare i nostri rai. Ivi la gran beltà lieta rivolse, Per mostrar sè fra noi; suoi lumi santi: E d' ogni bello, e buono il meglio tolse, Per farne esempio, a tutti gl' altri amanti: Ivi Natura, ogni poter raccolse Dando cagione altrui di gravi pianti; Perche concesse a un sol, tutto quel bene, Ch' esser potea, di mille interaspene. Ardo, gioisco, ed ivi il cor s' infiamma, Ne m' ancide a star lunge empio timore; Che tanto puote in me, l' ardente fiamma, Che il pensier porta, ove è di me il migliore; Ond' avvivar mi sento, a dramma, a dramma; E di questa dolcezza io pasco il core; Ma l' alma, che il suo fin solo desia, Alla prima cagion, ratta s' invia. Ma questa spoglia del suo danno accorta, Non previsto il suo fine, a se la chiama, E garisce il desio, veloce scorta, Che troppo ratto, quel, ch' ell' odia, ei brama. Vorrebbe a' suoi pensier, chiuder la porta, Ma non puote il mortal, che il divin ama Privar l' alma di quanto ella possede, Mercè del vero ben, che tutto vede.

Come la mente angelica a Dio volta, Gode quanto per sè, goder le lice, Ed ivi tiene appien sazia la molta Sua voglia, che il desio non le disdice; Tal' io verso il mio Sol tutta rivolta Godo quella beltà, dove felice M' alzo coll' ali del pensiero, e poi, Vivo al chiaro splendor de' lumi suoi. E perche questo mio basso intelletto Del suo valor, non cape il merto intero, Ei coll' ingegno suo, raro, e perfetto; M' alza vicino al ben celeste, e vero, E colmo di divino ardente affetto, Mi toglie a questo oscuro, e basso impero, Ed ei con meco in parte poi s' estende, Che fino il vero ben, vede, e comprende. Sia dunque eterno il mio sì nobil foco, Ne per sdegno già mai lo senta offeso; Stringa Amor il bel laccio, e a poco a poco, Morir mi faccia in così dolce peso: Ch' io provo ogni martir diletto, e gioco, Si puote la cagion, che il cor m' ha acceso, Ch' è più dolce morir mirando i suoi Lumi, che goder quì quanto è frà noi. S' io potessi ridir quanto, ch' io veggo Il bell' animo suo di lode degno, Mi saria forza il basso, e terren seggio Lasciar volando a più felice regno. Ma tal qual io mi son con ragion deggio Fermar lo stil di sì bell' opra indegno, E restar col pensier dove vorrei Finire amando tutt' i pensier miei.

DOlci sdegni, e dolc' ire, Soavi tregue, e paci, Che dolce fate ogni aspro, e rio martire: O d' Amor liete faci, Che ad ambi il petto ardete, Con così grato foco, Che m' è caro il penar, la morte gioco. Frutto raro, che miete Un breve sdegno: o più d' altro beato, Se mai fin non avesse un tale stato. Se in sogno ciò sentire, Dolce cor mio, mi fate, E moro senza mai di vita uscire; Ditemi, se m' amate, Qual pena esser potria, Che fuor del sonno poi Agguagliar si potesse a questa mia? Deh non vi piaccia, dacche io moro in voi, Darmi la morte, e ne' bei vostri lumi Dolcemente lasciar, ch' io mi consumi. AFflitti, e mesti intorno all' alte sponde Del Tebro altero, i cari figli vanno, Della mia Patria il grave, acerbo affanno Ciascun nel petto suo dolente asconde. Miran lungi il bel colle, ove s' infonde Ira, sdegno, furor, rapina, e danno Del famelico augello, in cui si stanno Ingorde voglie, a null' altre seconde.

Spargon per l' aria alti sospiri, ardenti, Versan dagl' occhi largo pianto ognora, Movono i sassi, ai lor giusti lamenti. Piagne, Regina mia, la vostra Flora Più di tutt' altre mesta, e son possenti I vostri rai far si, ch' ella non mora. ALma, per qual ragion meco t' adiri? Nõ sai, che 'l primo dì, che agl' occhi piacque Quel Sol, che fra noi nacque Ci fu promessa eterna, e vera pace? E quanto ogn' altro appo quel bel ci piacque Lo sanno i miei sofferti, aspri martiri, Che co' gravi sospiri Mostrar quel, ch' entro a te con duol si tace; Ma se tanto il penar nostro ti spiace, Va, chiedi aita, a chi del primo errore Fu la cagion; ch' io teco ardo, e pavento, E col pensiero accresco il mio tormento: Che se non troverai pietà minore Del suo chiaro valore, Non credo di finir, così mia vita; Ma così dolce aita Ci promette la speme, e sua virtute, Che del nostro martir fia poi salute. A che paventi, se il mio dolce oggetto Puote adolcir le nostre amare pene, Ed avvivar la spene, Che n' alza al Ciel, per raro erto sentiero? Ivi ti ferma, e spera in lui, che tiene La mente volta, e il suo puro intelletto; Che non c' è più perfetto Ben per condurci a quel celeste, e vero,

Ch' ei bear puote il nostro alto pensiero, E tenerci lontani al volgo rio, Da cui si miete non sperata morte, Guidando il bel desio per strade torte Al cieco, e da noi tanto odiato obblio; Che dov' è il pensier mio Altro non scorgerai, che virtù rara, Per cui solo s' impara Di farsi eterno al Mondo, e in Ciel beato, Sprezzando morte, e il tempo avaro, e ingrato. Alma, non ti lagnar, ma spera, e taci; Che la bella cagion compensa il danno: Lascia a quei, che non sanno Veder nel caro bene, opra lodata Dolersi con sdegnoso, e grave affanno: Che del nostro bel Sol, l' ardenti faci Le guerre in dolci paci Divengon sì, che tu sola beata Fra mille anime belle sei chiamata: E di vaga ghirlanda la mia testa Cinge pur con invidia di coloro; Che han posta la lor speme in gemme, e in oro. Lascia dunque il dolor, non viver mesta; Che s' or tanto t' infesta Il rimembrarti i nostri acerbi guai, Tempo verrà, che avrai Del tuo penar così dolce mercede, Ch' alma beata, quì più non possede. Intenta l' alma al mio predetto fine, Scossa d' a un' alto, e profondo desiro, Dice, se ben m' adiro Teco talor, non è però, ch' io voglia Privarmi di quel bel, che sempre miro; Ch' omai forz' è, che in tal sentier cammine Benche d' acute spine Sia punto il pronto piè, che a gir c' invoglia,

Ma vince sempre il mio desir la doglia, E quel, che più m' affligge, e piu m' ancide, E' l' aspro freddo, e rio timor, che il seno M' ingombra d' amarissimo veleno. Questo spesso da te, lassa, divide Gli spirti, ed ei si ride Del nostro danno, ond' io dico talora A te; se ci addolora Tanto il timor d' una tal pena ria, Dunque provando il ver, ch' esser devria? l' ascoltar poi le dolci sue parole Piene di varj effetti, il fren ritira Al desio, che non gira, Se non dove il suo ben fermo risplende; E se nol trova a se volto s' adira, E meco piange, si lamenta, e duole; E ingrato il suo bel Sole Chiama, che giusto merto non le rende; Poiche il suo amore, e la sua fede offende. Nulla a te par, dacche, com io non senti I timori, i martir, le morti gravi, E quei pensier, ch' han del mio ben le chiavi, Che fan gli spirti miei mesti, e dolenti. Non bastan quegli ardenti Lumi mirar s' egli si mostra poi Tutti gli effetti suoi Lunge dal nostro fin, che solo brama Tor l' armi a morte, e al Cielo alzar la fama. Sai ben, che passan gli anni, i mesi, e i giorni, E con essi il pensier fallace, e vano Sen vola, e poscia in vano Ten p&etilde;ti, e ingombri il cor di duolo estremo: Che il porger larga al senso fral la mano Non merta lode; e lunge al ben soggiorni; Onde, se non ritorni La vela a miglior vento, io sò, che avremo

Dalla tempesta fracassato il remo. Adunque meco i perigliosi scogli Fuggi, e ti ferma in piu sicuro porto, E segui il bel cammin, che il ver t' ha scort. Togli consiglio, sconsolata, togli; E tua salute vogli; Poiche la ti dimostro, acciò che meco In tenebroso speco Non resti; che pur sempre un desio vive Di lasciar l' opre nostre al mondo vive. Vogliti meco a più lodata impresa, Se ben sei nata quì caduca, e frale; Prendi ratta quell' ale, Che t' ergeranno in più sicura parte: E dal soggetto tuo faranti eguale; Che t' ei d' un tal desio vedratti accesa, Mai non faratti offesa, E vista la sua lode in mille carte, Fin, ch' ei vivrà non resterà d' amarte. E farai quì del tuo bel Sole il nome, A scorno della morte, eterno, e chiaro, Se come mostri t' è cotanto caro. E dalle gravi insoportabil some, Ond' hai tue spalle dome Resterai scarca, e questo fragil velo Sciolto dal terren zelo Lieto, e felice, s' alzerà da terra, E godrà il bel, che il Ciel beato serra. Canzon, del Tebro intorno all' alte sponde lieta ten và, mirando i sette colli, Ove il mio chiaro, e vago Sol s' annida. Ivi piangendo, ad alta voce grida, Pietà del duol, che ci tien gl' occhi molli, E dì: dal dì, ch' io volli Fermar in lui la desiata speme, La vita, e l' alma insieme

Diedi al suo merto, che in lui solo asconde Lodate voglie a null' altre seconde. SCema il tempo fugace ogni martire, Così può ravivar la morta speme, E far minore il mal, che l' alma preme, Per cui s' appaga poi l' altrui desire. Con maggior forza in me prende suo ardire Il grave duol, che con la vita insieme Sen và, ne pria, che giunga all' ore estreme Spero, ch' abbia a scemar, non che a finire. Che se di giorno in giorno più risplende La virtù del mio Sol senz' altra eguale, Ne voglier d' ore, o morte pur l' offende; Come può il tempo far minore il male Nel cor mio, che d' amarlo ognor s' accende, Sperando col suo Sol farsi immortale? FErma il corso or dolente, o Tebro altero, Ne render più tributo al mar tireno; Che il tuo pregiato onor sen porta in seno Quel, che da luce a questo basso impero. S' attrista il Vatican, che il suo Sol vero Non vedrà qual' ei suol chiaro, e sereno: Vien d' ogni vaga Ninfa il riso meno, E ciascun piange il tolto bene intero. Chi darà il bello ai fior chi' l verde all' erbe, Chi' l chiaro all' acque, e chi alla pena onore, Se lunge a noi sen và chi tutto hà seco? Dunque fia sempre un tenebroso speco V' non vedrassi ' l chiaro suo splendore, Un' albergo di pene empie, ed acerbe.

MEntre, che intenta i sette colli miro Gl' antichi onori, e le grãdezze att&etilde;do, Dov' io pur lieta vissi, e l' ale estendo In voi, mio ben, per cui piango, e sospiro; Gl' occhi per ritrovarvi in vano giro, Onde m' attristo, e se talora intendo Nova di voi, alla mia speme rendo La vita, e dolcemente in voi respiro. L' altere sponde del bel Tebro intorno D' altri vaghi Pastori ornate veggio, Che con le Ninfe amate fan soggiorno: Io sola, dico, dal Pastor mio deggio Star lunge senza speme, che ritorno Faccia a me? E così meco vaneggio.

1552

TEbro, che tra l' idaspe, e il grande Ibero Il più famoso, e riverito sei, Come progenitor d' Uomini, e Dei, E luce dell' oscur nostro Emisfero; Più gloriar ti dei, e gire altero Delle virtù, e bellezze di costei, Che di quante vittorie, archi, trofei Avesti già nel più fiorito impero. Vantisi Inaco d' Io, vantisi ancora Pento di quella, le cui membra belle Furon converse in sempre verde alloro. Tu di Livia ti vanta, e questa onora Per cui sarà con canto alto, e sonoro Alzata la tua fama oltra le stelle.

COn tanta maestà del chiaro volto Venia, premendo al bel Tarpeo la fronte Quella, ch' è il fior delle più vaghe, e conte Ninfe, che il Tebro abbia nel sen raccolto; E con le luci, che alle stelle han tolto I primi onor, così infiammava il monte, Ch' egli con voci d' allegrezza pronte Sciolse il concetto in queste rime accolto: Vantisi Olimpio aver perpetuo giorno, Appenin biancheggiar d' eterna neve, E di fior sempre ridere Elicona: Che mentre peso avrò sì dolce, e lieve Ceder mi den; ch' or le mie tempie intorno Di raggi, neve, e fior Livia incorona.

1554

QUando vedrò di questa mortal luce L' Ocaso, e di quell' altra eterna l' orto, Sarà pur giunta al desiato porto l' alma, cui speme ora tra via conduce. E scorgerò quel raggio, che traluce Sin dal Ciel nel mio cor, del cui conforto Vivo con occhio più di questo accorto, Com' arde, come pasce, e come luce. Soave fia il morir per viver sempre, E chiuder gl' occhi per aprirli ognora In quel sì chiaro, e lucido soggiorno. Dolce il cangiar di queste varje tempre Col fermo stato. O quando fia l' aurora Di così chiaro, avventuroso giorno?

VIdi nell' alto mar dubbioso un legno, Che di ragione avea l' albero schietto, E di pensier le vele: e d' intelletto Era il timone, e i remi eran d' ingegno. E mirando lontan, vidi ' l più degno Splendor, che mai facesse umano aspetto, E il più pregiato, e più divino obbietto, Che facesse Natura entro il suo regno. Ond' ei pensando, che quel lume solo Lo potesse condur sicuro al porto, Ratto senza pensar mosse le piante. Ma fu quel suo sperar fallace, e corto; Che pensando trovarci un nuovo Polo, Trovò, ch' era uno scoglio di diamante.

1554

DOlor, che non m' ancidi, anzi, ch' io scriva Per memoria, che sia breve, o diurna, Di quella nube ria, densa, e notturna, Che fatta m' ha d' ogni letizia priva? me soffri pietà, ch' io resti viva, Se chiuso ogni mio bene è in picciol urna? E se polve oggi mai fassi l' eburna Fronte, ch' esser dovea d' infamia schiva? Delle viscere mie la miglior parte, Morte crudel m' hai tolto, anzi me stessa Hai morto, ch' ombra son di cui ragiono. Quel solo innesto; le cui frondi sparte Dovean ritrovar me grave, ed oppressa Hai svelto, e me lasciata in abbandono.

MIlle fiate a Dio chiest' hò quell' ale Da potermi levar leggiera al Cielo, Ma così grave è il mio caduco velo, Che uscir non sò da questo mondo frale. Forse non piace a lui, ch' io del mortale Ancor mi spogli, e cangi abito, e pelo Ne patito fors' hò quel caldo, e gelo, Che soffrir de' chi a tanta gloria sale. Faccia, che piace a lui, discerno almeno Dal falso il vero, e dal diritto il torto: E veggio, che quà giù poco è sereno. In mare errando andrò con sperar porto, E sarà ' l porto, ch' ei m' accolga in seno; Che per zelo di me sò pur, ch' è morto. POiche per guida il bel sereno lume Del degno, e raro mio Betussi avete; Chiaro vegg' io ch' al Ciel in vita andrete, Fuor di mortale, e solito costume. Ben porgeravi altr' ale, ed altre piume, Che non furon l' ardite, poco liete, Che ad Icaro diè il Padre, e non sarete Per gir sì tosto dell' obblio nel fiume. Seguite dunque il cominciato stile, Che siccom' io quì di lontan v' inchino, Altre ancor fien, che non v' avranno a vile. Ne v' incresca, Rocchetta, or che vicino Avete lui sì saggio, e sì gentile Dirgli, che pianga vosco il mio distino.

1555

PRoprio lume non è della mia stella Quello, onde così chiara al mondo splende; Ma da voi ' l tutto prende, Da voi, che fate lei sì ardente, e bella. Però chiunque sotto il Ciel desia Saper vostra virtute almeno in parte, Contempli ' l raggio della stella mia, Fatta novello Sol da vostre carte: E dirà poi, che l' arte, E il saper, e l' ingegno, è in voi perfetto Di far eterno ogni mortal sogetto. D' Alzar il Sole alle dorate corna Di quel Tauro sovran, che poi dal Cielo Scalda la Terra a strugger neve, e gelo, Onde l' april con nova spoglia torna; In me non è virtù, che solo adorna Vo di tal nome in mortal forma, e pelo. Tanto potrei, se il mio caduto velo Ornasse quel valor, che il vostro adorna. Però che stando il Sole in Pesce, o in Tauro, Con quell' accento, ch' alto si risuona, Eterno fate il fiore, eterno il lauro. Dunque a voi sol si dee l' alma corona, Che non appagan gemme, argento, ed auro; O spirto primo onor dell' Elicona.

1555

VOrrei l' orrecchia aver quì chiusa, e sorda Per udir coi pensier più fermi, e intenti l' alte angeliche voci, e i dolci accenti; Che vera pace in vero amor concorda. Spira un' aere vital tra corda, e corda Divino, e puro in quei vivi stromenti, E movonsi ad un fine i lor concenti, Che l' eterna armonia mai non discorda. Amor alza le voci, Amor le abbassa, Ordina, e batte ugual l' ampia misura, Che non mai fuor del segno in un percuote. Sempre è più dolce il suon, se ben ei passa Per le mutanze in più diverse note, Che chi compone il canto ivi ne ha cura.

1555

DRamma non pur del suo nojoso affetto l' alta cagion, ch' ha miei p&etilde;sieri in mano Dimostra altrui del molto empio inumano, Che mi tien chiuso in questo afflitto petto. Onde, se fra gli sterpi in umil tetto Vivo solinga, e mesta non è in vano, Che i sassi, e gl' antri, il ferro, il monte, e il piano Sono conformi al mio fiero concetto. Tranquillo mar, bei colli, ampio contorno V' ride il Ciel, l' isauro innonda, accade Goder à Donne liete, e a' cori alteri. Quì balzi alpestri, ed orridi sentieri Mi dan degn' esca, e non vien da viltade; Che il Sol benigno ãcor quì m' apre il giorno.

SAcro Pastor, che avventurato reggi l' incauto Armento or al Giordano intorno, Ora al Tebro, ora all' erimanto, e giorno, E notte ir sazio il fai di sante Leggi; Me smarrita Agna, fra montani greggi, Troppo, oimè, fuor del mio natio soggiorno, Che non scorgi a quel ver perpetuo adorno? Ben sò io quanto acutamente veggi. Tuo voler, tuo valor, tua sapienza, Tuo sagace giudicio, tuo consiglio Han quanto aver si può somma eccellenza. Volgi dunque ver me l' acuto ciglio, E mostrami con qual mia providenza, Possa schivar del mòndo il crudo artiglio.

1555

QUanti dolci pensieri alti, e felici Son' esca oggi al bel foco, che nel seno Nodrisce il cor d' alte speranze pieno Di trar frutto immortal da sue radici. Oggi i campi apparir lieti, ed aprici Veggio, ed al mio sperar chiaro, e sereno Rendersi il Cielo oltre l' usato ameno, Per far del viver mio l' ore beatrici. O immenso Sol, che co' tuoi raggi puoi Alma scura, e mortal far bella, e diva, E trarla in Cielo a più beata parte; Se giusto odi mortal prego fra noi, Fà, che il caro desir mio giunga a riva, Anzi, che gli sien tronhi arbori, e sarte.

SIccome il Ciel velocemente gira All' alma intelligenza sua d' intorno, Per seguir il suo fin di gloria adorno, E l' eterno desio, dond' ella il tira; Così il mio bel pensier sempre, che aspira A far con la virtù vostra soggiorno, A lei si voglie pur di giorno in giorno La ve' sol vita, e grazia eterna spira. E siccome dal Sol chiaro discende Sua mirabil virtù negli elementi, Che dal lume, e calor gl' apre, e comparte; Cosi da voi, mio Sol, vivo risplende Virtute in me, ch' ogni' lodata parte Vien dai bei raggi vostri almi, e lucenti. SMarrissi ' l cor, gelossi ' l sangue quando Dipinto di pietà l' almo mio Sole Udì con dolci, ed umili parole Dirmi, e con un sospiro, o mio sostegno, Mesto men vo, ma il cor ti lascio impegno. In questo l' aspro suo dolore accolto Sfogò per gl' occhi, e impallidì il bel volto; Quel, ch' io divenni allor sasselo Amote, E sallo bene ogni invescato core, Che quasi morta, in voce rotta, e frale A gran pena formai: Signor mio, vale: E più non potei dire, Che mi sent morire.

FEra son' io, di questo ombroso loco, Che vo con la saetta in mezzo il core Fuggendo, lassa, il fin del mio dolore, E cerco chi mi strugge a poco a poco. E come augel, che fra le penne il foco Si sente acceso, onde volando fuore Dal dolce nido suo, mentre l' ardore Fugge coll' ali, piu racconde il foco; Tal' io fra queste frondi, all' aura estiva Coll' ali del desio, volando in alto Cerco il foco fuggir, che meco porto: Ma quanto vado piu, di riva, in riva, Per fuggir il mio mal con fiero assalto Lunga morte procaccio, al viver corto. CHiara eterna, felice, e gentil alma, Che fornito il tuo corso a mezzo gl' anni, Volata sei fra l' anime beate; Volgi la vista or, da' superni scanni, Che mostrar mi solei sì chiara, ed alma, E mira, in quanto duol l' alta pietate Di te m' ha posto; e quelle luci amate Da te, colme vedrai di pianto amaro Bagnar il fido mio dolente petto; Però, ch' ogni diletto Ogni mia gioja, e viver dolce, e caro Tolto mi fu, quando da me partita Facesti, fida mia benigna scorta; Da indi in qua, non passo un' ora sola;

Mai senza pianto, nè altro mi consola, Se non la speme sol, che mi conforta, Viva mia forte, ardente calamita, Di rivederti in Cielo, a miglior vita: Però, che senza te, ch' ogni mia gioja Fosti, lassa, non sò, come io non moja. Linanzi al tuo apparir, doglia, e tormento Spariva, come al Sol sparisce ogn' ombra, E rallegravi ' l cor, siccome ei suole Far dopo pioggia; or fosca nebbia imgombra Di nojosi pensieri ogni momento L' alma, che senza te, null' altro vuole: E quel, ch' ognor via piu, m' affligge, e duole, E' ch' io non posso, o debbo ancor morire, Dubbitando da te farmi piu lunge; Così mi frena, e punge, Or la ragione, ed ora il mio desire Pur mi sospinge, e tu di me non curi, Come sia spento in te quel caro affetto, Qual non vide mai Sol pari, ne stella. Per questa aspra del Mondo, atra procella Ne' tuoi saggi consigli, ogni perfetto Giudicio intesi, e vidi esser sicuri Tutti i miei passi; e per monti alti, e duri Rendermi lieve, e in mar dai fieri venti Tormi, e dalle sirene, e lor concenti. Tu m' hai lasciata quì senz' alma in vita, La notte senza stelle, e Sole i giorni, Steril la Terra, e il Ciel turbato, e negro; E pien di mille oltraggi, e mille scorni Veggio ove io miri, e la virtù sbandita, E quanto scorsi già bello, ed al legro Veggio al tuo dipartir, languido, ed egro Valore, e cortesia, per terra giacque Quel dì, che mi lasciast' in doglia, e in pianto; Ne mai più riso, o canto

S' udio, ma ciascun mesto, afflitto tacque; Con pianti, che potean rompere i sassi, Per la pietade, e gravi alti sospiri; Nè più sereno giorno, il Cielo aperse: Parnaso un nembo oscuro ricoperse, E fiumi, e fonti da lor propri giri Voltarsi a dietro adolorati, e lassi, Per ascosi sentieri orridi, e bassi Nella tua morte, e voci alte, e funeste S' udir fra l' ombre lagrimose, e meste. Or quanto a me, non ha piu bene il Mondo Senza te, la mia stella, e il mio conforto, Che fosti all' alma travagliata, e stanca: Tu il sai, ch' essendo a me celato, e morto, Nullo vegg' io piu chiaro, o piu giocondo In questa vita lagrimosa, e manca; Nè vedrò fin, che questa chioma bianca Non sia ancor tutta, e il vital nodo sciolto, Che mi ritien in questo basso incarco. Ahi Cielo invido, e parco, Ciel oggi a impoverirmi, in tutto volto, Perche non festi in un medesmo punto, Che uno stesso sepolcro ambi chiudesse, Dovendo in tanto mal rimaner viva, E del morto mio ben, spogliata, e priva? Forse per far, che a' suoi gran merti avesse Eguale il pianto, e mai da me disgiunto Non fosse il duol, che al cor, morendo, impresse; Per ch' io non resterò di piagner mai, Ma tanto il piagnerò, quanto l' amai. Deh, se come ti calse, ora ti cale Di me, che vivo in tenebre, e in martiri, Porgimi la tua casta, e fida mano; E trami dalle lagrime, e sospiri, Ond' io mi sfaccio, che ben vedi quale; Poiche ti festi, oimè, da me lontano,

Sia qui il mio stato, ed ogni pensier vano Del mio morir, ch' io bramo, e ch' io vorrei: Nè d' altro non aver più mi rincresce, Fuor di te solo, ond' esce Dal cor ogn' altra voglia, e desir miei: Nè fera è in selva, o pesce in acqua, o in ramo Augello, o in arbor fronde, ovvero in terra, Erba o pietra si giace entro l' arena, Che testimon non sia della mia pena. Tu Rè del Cielo, a cui nulla si serra Prego, che mandi l' alma, che tanto amo Pietosa a ricondurmi al fin, ch' io bramo, Dove m' aspetti, ad esser teco unita, Omai lasciando questa mortal vita. Canzon, colma di pianto, in veste oscura Fra le pompe funebri, e meste andrai, Là vè spento è il mio Sole, ingegno, ed arte; Ed a lui, che ha di me la miglior parte Con parole di duol grave dirai: Mentre il bel nome tuo, che ogn' altro oscura Vivrà nel Mondo, e questa pietra dura, Che ti cinge sarà, colei, che tanto T' amò col spirto avrà sospiri, e pianto. Poi sopra il lembo, e suoi begl' occhi spenti, E la bocca, onde uscian note sì care, Versa d' immenso duol, lagrime amare, Fin che di questa spoglia io mi disarme, E dolce l'oda, e lieto a sè chiamarme. IO pur ascolto, e non odo novella Della mia fida scorta, che nel Cielo, Fuor del suo chiaro, e bel corporeo velo Si gode, assisa in grembo alla sua stella.

Io pur ascolto se mi chiami, e ch' ella Tutta accesa di puro ardente zelo Volga a me suoi begl' occhi, ove ancor celo La casta fiamma mia lucente, e bella, E disse a me pietosa, omai ti chiamo A sentir del mio eterno almo diletto, E consolar le tue notti dolenti. O felice quel dì, se al fin, ch' io bramo Mi trarrà seco al desiato aspetto Là vè si fanno gl' Angeli contenti. SE l' aver per altrui sè stesso a vile, E far d' una bell' alma, e d' un bel volto Idolo al suo, nè mai da lui rivolto Star col pensier divotamente umile; S' arder dì, e notte a un foco almo, e gentile Fra mille cari, e forti lacci avvolto, E voler poco, desiando molto, Nè per pioggia, o per Sol cangiar mai stile, Se languir dolce, e gioja ogni tormento, E provar, come in un crudele, e pio Spesso si mostra a' suoi seguaci Amore: Fede può far d' un saldo, acceso core, Fede insieme, ed amor s' acquisti il mio, Che ardendo in voi si è, di vita spento. MEntre di voi, con Amor parlo, o scrivo S' erge l' alma, e la mente in tanta altezza, Colme ambe di ineffabile dolcezza Che ratta al terzo Ciel, beata arrivo.

Ivi scorgo nel ver, quantunque a schivo Tener si deve quel, che il volgo apprezza, Che la virtute ornar con la grandezza Insegnate pur voi, spirito divo: Ma poiche io torno al mio misero stato, Dove superba l' orgogliosa fronte Fortuna scopre ne' miei certi danni; Veggio al fin senza voi, mio lume amato, Di Fetonte l' ardir, d' Icaro i vanni Aver secco l' alloro in vivo fonte. VIva mia bella, e dolce calamita, Che partendo con si mirabil modo Stringeste l' alma in quel tenace nodo, Che a voi sol la terrà, per sempre unita; Non è la mente mia da voi smarrita, Che ben lontana a voi, di voi non godo L' amata vista; anzi via piu sempre odo Da voi chiamarmi, ove il desio m' invita. Per voi sì ricco laccio Amor mi avvinse, Di salda, e pura fede, al collo intorno, Che ogn' altra umil catena, sdegna; il core. Sciolse ogni nodo, quando questo strinse, E ruppe l' arco con Vittoria il giorno, Che in me fè eterno l' ultimo suo ardore. SPirti felici, che nel terzo giro Volgete il Ciel con sempiterna pace, Togliete omai, con più benigna face, Le ardenti fiamme, all' alto mio desiro.

E da i bei raggi santi, ond' io respiro Virtù mandate interna, e sì vivace, Che mirar possa il Sol, che mi disface Oggi nel foco, senza alcun martiro. Ma se dal proprio, a più divino Polo Salendo l' alma, il nettar dolce, e puro Gustasse, cibo degli eterni Dei; E per bearsi in quello, alzata a volo L' aura vital lasciasse, e il velo oscuro, Fate indi eterni, almen gli spirti miei. QUalor da questo grave, e basso incarco l' anima, ch' è da Dio fatta immortale, Dal suo primo splendor, con l' altro sale, A ricercar il ver, d' ogn' ombra scarco; Destasi allora in quel felice varco In lei sì bel desir, ch' ogni mortale Ardor disprezza, nè del corpo frale Cura ha lei del suo bene invido, e parco: Ma quasi a Dio congiunta, va in disparte Da sogni, ed ombre, e si avvicina al vero, ch' è d' ogn' altro bel ver, la cagion prima. Così mentre di quì lieta si parte, Benche il suo gir non sia lasciato intero, Pur de' più bei pensier si siede in cima. QUei raggi, Signor mio, chiari immortali Della beltà, di che Dio in sè si accende, E la virtù di voi, dove Amor prende L' esca in cui accende i più beati strali,

M' hanno di Dio mostrato immagin tali, Che per unirsi là, dond' ella scende, L' alma, che ad altro fin mai, non intende, Si è alzata a volo quì, da pensier frali. Talche or sen va, sopra de' larghi campi Della speranza, e già contempla, e mira Quanto fia il sommo ben, se questo è tanto. E prega ognor, che sì felici vampi Non estingua del Ciel stagion, od ira, Mentre il mio foco, e i vostri pregi io canto.

1555

SE del sangue purissimo di questa Vergine si fermò quel corpo santo Di chi dal Mondo, il doloroso pianto Sgombrando, fè tranquilla ogni tempesta, Come pensar si può, che l' alma vesta Di tal, che fu di Cristo eletto manto, Sia cener fatta, o risoluta alquanto, O spenti i lumi di sì nobil testa? Creder non dessi; che se l' acqua è viva, Che corre, vivo ancor rimane il fonte: Dunque viva è Maria col corpo in Cielo. Poiche è ver, che Gesù col divin velo Ivi regna, e cantar fa ognor la diva Madre nel Tempio suo, con voglie pronte. A Questo eterno, e glorioso Tempio Fatto per man celeste entro, e di fuore, Ove i piu chiari Lauri a fargli onore Moversi a prova ognor scorgo, e contempio;

Accesa, e spinta dal divino esempio Anch' io quest' umil fior, quest' alto core Porgo devota; e in ciò ben sallo Amore, Il suo gran merto, e il mio dover non empio. Sò, che più lode a me, fora tacendo; E qual chi riverisce teme, ed ama, In silenzio adorar l' Idolo mio. Lassa, che poss' io far, s' altri mi chiama Dentro sì forte, che il mio stato obblio, Queste imperfette voci fuor traendo?

1556

SE la parte miglior vicina al vero Fuor delle mortal voglie mi sospinge, E quanto il debil senso al cor dipinge Gli mostra vano, e fuor d' ogni sentiero; Dond' è mio, sommo Dio, perfetto, e intero, Che il duro laccio, che quest' alma cinge A sua voglia mi sforza, voglie, e stringe; Talche l' effetto poi, siegue al pensiero? E ben vegg' io, che i santi lumi tuoi Non mi lece mirar, mentre, che intenti Sono a cosa mortale i miei desiri. Non posso io nulla oprar; ma se tu vuoi Volger nell' alma, i puri raggi ardenti, Felici al Ciel giranno i miei sospiri. MIra vero Signor, mira quest' alma Involta nella fral terrena scorza, Come afflitta si duol poscia, che a forza, Vede al basso desio spettar la palma.

E la chiara virtù celeste, ed alma, Che tu le desti piu non si rinforza; Poiche sì picciol vento abbatte, e smorza Sua luce, lunge alla bramata salma. Senza l' aita tua, ben temo, ch' ella Non resti priva de' tuoi santi lumi; E pur se a te non piace, esser non puote. Adunque, Signor mio, volgi in me quella Pietate ardente, che mio cor consumi, Nè sien le preci mie di merto vote.

1556

PUra, candida Ninfa, tra bei fiori Di virtù, d' onestà, di leggiadria, Com' alma assai bramosa, e che desia, Aver fra l' altre i più sublimi onori, M' apparve in bei sembianti alti, e decori Con una dolce angelica armonia, Talche d' ogn' altra impresa mi desvia, Per odorar i suoi soavi odori. Felice stella, e ben culto terreno, Che spingesti a produr sì nobil pianta, Che fa di gloria il Mondo, e il Ciel gir pieno. Natura intenta a questa opra fua santa, Ogn' altra impresa invola, e vota il seno, E sol di questa si gradisce, e vanta.

1558

SIgnor, che al raro stil dolce, e giocondo Mista con arte insieme grazia aggiungi, Onde le nove, e tre dive congiungi De' lor fonti a scoprirti il chiaro fondo; Veggiamo in te quel, che ne cape il Mondo Di bello, e di gentil, con che tu pungi Ben mille cor, che a riverir compungi Sovente il tuo valore alto, e profondo. Com' esser può, che un sì sublime ingegno Vil cosa onori, e ne ragioni, e pensi, E ne pigli travagli, e liti insieme? Beata quella, a cui i pensieri intensi Ognor rivolgi, che non pave, o teme Di morte, o di fortuna oltraggio indegno. FEbo, se mai calde preghiere, umane, Ebber forza nel Ciel, pietoso or mira, E del buon Lucio mio, che in van sospira Rendi, che puoi, l' afflitte membra sane. S' ei langue è pur tuo biasmo, e dette vane Fien le speranze di chi sol t' ammira, Con quell' alta virtù, che ogn' erba spira In Ponto, o in Colcho o in quai rive piùstrane Così raddoppin tuoi sovrani onori Mille novi Chironi, e mille Omeri, E lungo il gran Penco l' amata pianta. Mentr' io volta a bei rai votivi odori D' incenso, e tutti i miei cari pensieri Consacro in vece d' Agna opima, e santa.

1558

QUella, che co' soavi almi concenti, Onde fermar potea dal corso i fiumi, E render queto il mar, placidi i venti, Dolci far spesso alpestri, aspri costumi, Quella, che co' suoi chiari, e santi lumi Tosto liete facea le afflitte menti, E spargea grazie tali infra le genti, Che di Terra fean Ciel, d' uomini Numi, Quella, che con la man; piu ch' altra mai Leggiadra, Apelle, e Pallade vincea, E con la dotta penna ogn' alto ingegno; Morte ne invola. Ahi Ciel come tu il fai, Che Donna tal, anzi verace Dea Di quell' empia soggiacia al fero sdegno?

1558

COcenti sospir miei, devreste omai Le lagrime asciugar, che versa il core, O ver devrebbe il micidial dolore Con un solo morir, trarmi di guai. Ma veggio, oimè, che cresce più d' assai Per sempre sospirar mio fero ardore; Nè questo rende, o quel mio duol minore, Nè giorno, o notte io mi riposo mai. Cure dogliose, ed aspri acerbi fati, Che versate il mio cor, sicche ei non trova Lunga pace non pur, ma breve tregua; Che sarà poi crudeli, ed ostinati Fatta, che sia di me l' ultima prova? Se così piace a voi, cosi pur segua.

VErgine Madre, del tuo parto figlia, Al Mondo, al Cielo, a Dio divota, e cara, Che rendi l' alta reggia illustre, e chiara Col giro sol delle serene ciglia; Sovrano onor della tua gran famiglia Di cui nacque colui, che il Sol rischiara, Difesa d' ogni gente empia, ed avara Qualor si pente, e il cammin dritto piglia: Mentre le stelle, ond' hai la fronte adorna Contemplo, e i raggi suoi mostro alle genti, Perche l' alme ti fien devote ancelle: Coll' almo spirto tuo sovente torna A raccender i miei gelati, e spenti, Vivo esempio dell' opre altere, e belle.

1559

OVe due sono, o tre, che sotto il santo Nome congiunti sian del mio Signore Ivi egli è in mezzo, ivi il suo vivo ardore Si scorge, ivi è il suo degno immortal mãto. Così due degli eletti dopo il pianto, Che della morte fer del Redentore, Dalla Città partiti a un Castel fuore Sen gian parlando di mistero tanto: Quando di Pellegrin loro egli apparve In forma, e disse lor; voi state in forse Di quel, che detto han già tanti Profeti? E il tutto loro aperse, ond' essi lieti Seco il ritenner; poscia ognun s' accorse, ch' era il Signor mangiando, ed ei disparve.

PAri non ebbe mai fede alla mia La Greca, che vent' anni Ulisse attese; Nè a più bel fin, nè piu lodato intese La chiara Evadne, o la fedele Argia; Quant' io, che dove avvien, che tu non sia, Parmi non solo aver l' ore mal spese, Ma, che mi sian tutte l' ingiurie tese, E ch' io provi ogni stella ingrata, e ria. Torna sposo fedel, torna mia vita; Che se non vieni a me, vedrai tu quello, Che forse non pensaro i due vivendo. Morrò prima di te, ch' a tal m' invita Il tuo cor verso me troppo rubello; Ch' ognor bramosa un simil fine attendo. ONde superbe, altere, e fortunate, Che foste mentre il mio celeste Sole Eguale ebbe il pensiero alle parole, Ch' uscian dal petto suo da Amor dettate. Or siete pur compagne mie restate, Sole al gran duolo, ed al martirio sole, Ch' altri non ho, che voi, che mi console, Non poco umili, basse, e sfortunate. Secche omai son le fronde, i frutti, e i fiori Della languida pianta in queste arene, Preda rimasta de' rabbiosi venti. Talch' i soavi, e preziosi odori Mancheran tosto; e con acerbe pene Saranno ancora i suoi bei pregi spenti.

ALma mia luce; deh, perche sì spesso Manca l' usata aita al debil legno, ch' esser nel mar dovea saldo sostegno Del mio languire a tutto il mondo espresso Mira, come alla Pianta il vento, e messo Per porla a terra, e tutto è pien di sdegno, Vedila posta, come a strali un segno, E che misero fin porta d' appresso. Fà ch' un' aura spirar possa sovente A rinforzar l' amato, e caro suono, Che senza il lume tuo fugge repente: Almo mio Sol, omai vedi, ch' io sono Con le faville delle luci spente, E ch' ombra son di cui scrivo, e ragiono. BEttussi, il mio terren natio cangiai Con quel, cui piacque al Ciel donarmi in sorte; Il feci volentier, per trovar scorte E salde, e fide a questi lunghi guai, Ma or che poco lieta, e mesta assai Muto patria ogni dì, dove alle porte Or Francia, or Spagna ci minaccia morte, Vivo di me medesma in ira omai. Felice tu; ch' almen, se cangi ' l Cielo, Vai dove regna Amor, gioisce pace, E per tutto fiorir fai Delfo, e Delo. Goder non poss' io gia quel, che mi piace; Che tra barbara gente invecchio il pelo, E veggio sol quel, che m' annoja, e spiace.

NOn ti distrugger piu, mostro crudele, Che mentre lieta fui tanto m' odiasti, Che per ira, e per duol te divorasti; Poiche il mio dolce è pien d' assenzio, e fele. Or son di rea fortuna in man le vele Della mia nave; ma nè angusti, o vasti Gorghi sommerger pon miei pensier casti, Che in ciò teco non faccio agre querele. Solo mi duol, che dove in mortal cosa Unqua speme non misi à tuoi seguaci Parve, ch' io posta avessi ogni mia cura. Ma l' alma non fu mai tarpata, o rosa Da sì ciechi desiri, e sì fallaci, Ch' io mi fondassi in quel, che un giorno fura.

1559

TU, che gl' Angeli fai lieti, e contenti, Ed apri à cari tuoi del Ciel le porte Esangue giaci, e ben fu cruda morte, Che far poteo sì chiari lumi spenti: Tu che dai legge al Cielo, e agl' elementi, E torni in vita l' alme estinte, e morte, Le sante membra impallidite, e smorte Pur hai lasciato, e tu Padre il consenti? Tu mio Signor, che mille ciechi, e sordi Veder festi, ed udire or sordo, e cieco Hai fatto il tuo mortal per mia salute. Ed io misera, e fredda ai sensi ingordi Pur viver bramo ancor, nè voglio teco Gustar del tuo morir l' alta virtute.

ALma beata, che già al Mondo involta Nel tuo bel, ma mortal corporeo velo Mi fosti un tempo, or mi sei guida in Cielo, Dal terren nodo innanzi tempo sciolta; Mentre, che al sommo Sol tutta sei volta Piena di ardente, e di verace zelo Odi i sospir, ch' io spargo, e il duol, ch' io celo Rimira in lui, che il tutto e vede, e ascolta. Deh! il mio gran male ora il tuo ben nõ sceme, Ma ti mova a pietà, che sol me sdegna Morte, per non por fine alla mia guerra. E s' anche m' ami in Ciel, come già in terra, Impetra dal Signor (bench' io sia indegna) Ch' io goda l' uno, e l' altro volto insieme.

1559

CIgno gentil, che fra le verdi rive D' Arno cantando vai con dolci accenti Del tuo gran Duce i don rari, eccellenti, ch' eterni il Cielo al suo valor prescrive; Ond' ei, la tua mercè, sicuro vive Contra i colpi del tempo aspri, e pungenti, E il grã Crispo, e il gran Livio ãbidue intenti Stanno a mirar dove il tuo volo arrive; Poiche siccome a te non m' è concesso D' avere stile a' tuoi gran merti degno Per farmi col tuo nome eterno onore; Non ti spiaccia, se il mio debole ingegno Altro non sa cantar, che di te stesso; Che ben suplisce in riverirti ' l core.

SE il vostro vago, e bel sembiante adorno, Donna gentil, l' altr' jeri avesse visto Quel, che in Tessaglia fè di fronde acquisto, Di che ei s' adorna ancor la fronte intorno; Non avrebbe sofferto affanno, e scorno Per lor con cor dolente afflitto, e tristo; Ma il suo splendor col vostro avrebbe misto Per darne a noi mortai più chiaro giorno. Però talora alcun, che poco intende Mi mette al par di voi gentile, e bella A me fa scorno, a voi sol gloria sorge: Perche ben chiaramente si comprende Al volto, agl' occhi, al viso alla favella, ch' io non pareggio il bel, che in voi si scorge. COlui, che alla gran maga il core avvinse Per l' acquistato bel vello dell' auro Lieto non fu, nè per Europa il Tauro, Nè Cesar per lo dono, onde duol finse; Quant' io, se il bel Castel, che Giove vinse Di chiaro vetro, o di sacrato Lauro, Alla mia guerra desse alcun ristauro Con la fermezza sua, ch' ogn' altra vinse. Chi contra me potrà se mai avviene, Che un Castel fabbricato in Elicona Scudo mi sia coll' ombra sua immortale? Deh tu Minerva, il cui gran scettro tiene, Pregal per me; che innanzia sua corona Cadrei, qual Donna, che troppo alto sale.

OR Musa mia lieta, e sicura andrai Per folti boschi, e per ameni colli Cogl' occhi asciutti, che gia furon molli Al chiaro fonte ove mercè trovai. Quivi con le sorelle canterai I miei pensieri per letizia folli; Poiche i desiri miei fatti hà satolli Questo Aristarco, e me tratta di guai. Ed al gran Castel vetro in atto umile Dirai, se il Ciel mi da tanto valore, Degno di voi, ed al gran mrto eguale: Che posta avrai mai sempre, e lingua, e stile In celebrar questo chiaro splendore, Onde mifarai forse anche immortale. SE chi vive nell' alto empireo chiostro Di qua giù rimirar talor s' appaga, Deh! mirate, Signor, l' alta mia piaga, Che m' ange il cor del ratto partir vostro. E m&etilde;tre io spargo in van lagrime, e inchiostro Con mente accesa, e di seguirvi vaga, l' alma vostra del ben sempre presaga, Già di terren vestita, or divin' ostro; S' ella è pietosa più, come era tanto Quando accesa vivea di mortal face, Fatela lagrimar del mio gran pianto: ch' è ben ragion, dappoi, ch' ella ne face Non pur a me, ma il mondo tutto quanto Cercando gir onor, bontade, e pace.

DAmon, che all' ombra di pregiato alloro Assiso or stai fra vaghi fiori, e frondi, Fra limpide acque, e suon d' augei facondi, Porgendo à membri tuoi dolce ristoro; Sendo tu dei Pastor pompa, e decoro, Che di quei verdi rami ' l crin circondi, Che al maggior Tosco sì chiari, e giocondi Furo, e pregio maggior, che gemme, ed oro: La vaga, e dotta tua leggiadra musa Non piu per Filli (a te Ninfa non degna) Canti sfidando in Mincio, ed Aretusa; Ch' ella soffrire, e non amar t' insegna: Ben sallo Alcippo tuo, che da sè esclusa Al tutto l' ave, e l' odia oggi, e disdegna.

1560

CAntava il Pastor chiaro in dolci accenti, Cintosi 'l biondo crin de' più bei fiori, Ch' abbiano in riva a Sorga i degni allori, I chiari lampi di due lumi ardenti; Quando vide al suo dir fermarsi i venti, Le piante aprire i lor più chiusi onori, Ivi dimostrar chiari i suoi colori, E i Cieli chiari al dolce canto intenti. Ecco chiara rispose ai detti suoi, E mentre chiaramente ella risponde Loda ogni cigno così chiare some. L' udir Lambro, e Tesino, e voller poi, Che chiare al Rè de' fiumi andasser l' onde, Del Pastor chiaro replicando il nome.

1560

COme potrò Regina alta, immortale, Del dono ringraziarti a me concesso; Che si fu grande, e appien non mai espresso, Ed io son terra vil misera, e frale? Ma il mio poter piu in alto ove non sale, Come io posso col cor puro, e dimesso Te lodo: e l' avrò sempre all' alma impresso, Liberatrice pia d' ogni mio male. Sol da' tuoi merti grazia m' impetrasti, E sì la fu màggior, che a chi t' offese, Tanto benigna, e pia piu ti mostrasti. Ecco tal note il cor t' hà in voto rese, Che da mal tu pietosa la salvasti, Nè teme or piu sotto le tue disese.

1560

ODi casta bellezza esempio vero, E di rara virtude ardente raggio, Donna, che in questo uman cieco viaggio Ne mostrate del Ciel l' erto sentiero; Voi sola il nostro verno ingrato, e nero Cangiate in chiaro, e grazioso maggio; Voi sola col parlar cortese, e saggio Rendete umile ogn' aspro ingegno, e fero. Talch' io, che vagason del vostro lume, Coll' ali del pensier tant' alto ascendo, Quanto, che in bianco augel basta a cãgiarme: Indi fuor d' ogni mio vecchio costume, Da voi, dalla stagion novella prendo Tanto vigor, ch' io sento eterna farme.

DEl Coro eterno, e delle eterne Genti Son queste voci angeliche, e gioconde, E il suon, che tanta in noi dolcezza infonde, Donna, mercè de' tuoi celesti accenti. E non pur noi, ma le tempeste, e i venti E le fere, e gli Augelli, e i pesci, e l' onde Stanno, e gl' Angeli istessi, e i cerchj, donde Qua giù scendesti, ad ascoltarti intenti. Per te Sebeto d' alta gloria adorno, Nè il Tebro invidia, nè il suo grãde impero, Con quanti trionfar dall' Indo, al Mauro: E di frutti, e di fiori empiendo il corno Va di te sola, e del tuo nome altero, D' edera cinto il petto, e il crin di Lauro. SUperbi, e sacri colli Sotto il cui glorioso, e grande impero Tennero i figli vostri ' l Mondo intero, Così fioriti, e molli Vi serbi largo, e temperato Cielo, Nè vi offenda piu mai caldo, nè gelo, tu vago corrente, e chiaro fiume, Che fai più adorna Roma, Così tua verde chioma, Del Sol non secchi troppo ardente lume; Fate, che mai non sia quel crudo giorno, Ch' io lasci ' l vostro dolce, almo soggiorno.

DI cerchio in cerchio, e d' una in altra stella, Come rapita al Cielo anima riede, Con la parte miglior, che intende, e vede Quanto s' orna da Dio quanto si crea; Salendo vidi un' alma, che sedea In grembo a lui da cui tutto procede, d' eterni rai di sua bellezza erede, Che quale in terra Donna, ivi era Dea. Riconobbi al leggiadro, altero aspetto, Che tal' era fra noi Livia amorosa, Di cui l' esempio di la su si tolse. Poi la rividi, e con divoto affetto Gridai: non siete voi celeste cosa? Ris' ella; e dolcemente a se m' accolse. SIccome il Sol, che del suo lume porge Al Ciel piu vago, alle piu erranti, e belle Spere superne, all' altre dense stelle, A quanto in alto, a quanto in basso scorge. Scalda, e luce mai sempre, e quando sorge E quando cade, e in queste parti, e in quelle Lassa nel suo partir tante fiammelle, Quãto è immenso il valor, che in lui risorge: Tal' è, d' Ortensia il vivo raggio ardente, Che ovunque mira scopre chiaro giorno, E dolce infiamma ogni gelata mente. E se come pietosa il lume adorno Rivolge altrove, in quel girar l' uom sente Mille accesi desir nascer d' intorno.

SAnta luce immortal, che il primo Cielo Movi, e ristoro al Mondo, e vitaspiri, A te rivolgo i miei gravi sospiri, E scopro l' alta doglia, che mal celo: Or che i costumi ho variati, e il pelo Mercè dell' aspre cure, e dei martiri, Che il tempo apporta, accogli i miei desiri Alla dolc' ombra del tuo casto velo. Ti priego, o Dea, per le tue bianche corna, E per colui, che il suo splendor ti dona, Che a me cara ti mostri, alma sorella. Così Clori, di gigli ampia corona Tessendo, a Cintia disse: or te ne adorna, Sicche invidia te n' abbia ogn' altra stella. QUando dagl' alti monti umida, e bruna Da noi partendo il Sol l' ombra discende, E che l' umane cure ad una, ad una Sgombra chi i petti altrui tranquilli rende, Di nojosi pensier morte, e fortuna M' empie, e riposo al cor lasso contende: Onde dentro col cor per gli occhi fuore, Piangendo spendo le mie notti, e l' ore. Nel tempo poi, che l' alte stelle erranti Sparir fa il Sol, che in Oriente appare, Cinto il crin d' or de' suoi bei raggi santi, Sicche la Terra si rallegra, e il mare; E gli Augei per le frondi alte, e tremanti S' odon dolce garrir, dolce cantare; Sola al Mondo son' io, che piango allora; Che mie tenebre mai non sgombra Aurora.

Che mi val, lassa, se l' aurate corna Scalda del tauro il gran Pianeta ardente, E quinci, e quindi di bel verde adorna Fa la terra fiorir, giojr la gente, E la schiera pennuta, quando aggiorna, Dolci note d' amor cantar sovente Se la mia speme morta unqua non sorge, Nè la nova stagion gioja mi porge? S' io miro, oimè! di sior di frutti pieno Di copia il corno, aver le fide amiche; Cerare, e Flora l' una carca il seno Di rose, e l' altra di mature spiche: E il villanel, che dal colto terreno Riporta il premio delle sue fatiche; Dico cogl' occhi molli: or danno, e lutto Dunque del mio b&etilde; far, sempre Sia il frutto? E perche nel parlar mi sfogo alquanto, Veggo Febo da noi farsi lontano, E le frondi cangiar colori, e intanto Farsi del cader lor piu carco il piano; Misera, ch' or piu allargo il freno al pianto; Al pianto, che mai sempre spargo, e in vano; Che del seme di mia speme non coglio Altro frutto, che lacrime, e cordoglio. Quanto si veggon le campagne intorno In vece d' erba, e di fior bianchi, e gialli Sparse di brina, e tempestoso il gioro Girsene, e breve, e che nell' ime valli La neve, e il ghiaccio fa lungo soggiorno, E s' indurano i liquidi cristalli; Sento in me fare un freddo, umido verno, Nebbia di duol, pioggia di pianto eterno.

ERgiti infin sovra le nubi in alto, O sacro, e bene avventuroso monte; Cingi di verde allor l' antica fronte, E molle rendi il tuo sì duro smalto; Corri Mensola al Mar, con legger salto Raddoppia forza all' onde chiare, e pronte, Mai sempre a quelle del tuo sposo aggionte, Scorrendo il piano, o giu cadendo d' alto; Rivesti, almo Majano, i duri campi Di verde spoglia, e di novelle fronde Orna le piante tue felici, e liete; Non piu venti contrarj; aure seconde Spirate sì, ch' ogn' uom d' amore avvampi; Poiche tanto al gran Varchi oggi piacete. TEmprato aere sereno, Che si tranquilla infondi, e lunga vita, Vago, dolce, soave colle ameno, Ove Amor l' alme, a poetar invita; E tu verde, e fiorita Piaggia, che vedi ognora L' alto Pastor, che i toschi lidi onora; Felici erbette, e voi, Che ascoltate i soavi accenti suoi; Ahi quante volte il giorno, A voi col pensier torno.

PRia, che la chioma, che mi die Natura, E quel vigor, che ancor riserbo intero Si cangi, e scemi al trapassar leggero Di lui, che il men ne lascia, e il piu ne fura. Spero quest' acqua, e sì chiara, e sì pura, E questa ombrosa valle, e questo altero Monte tanto cantar, quanto il pensiero Per lor posto ha in non cale ogn' altra cura. L' altrui volere, e cruda invida stella, Usi a' giusti desir far danno, e scorno, Non mi vietin fornire opra sì bella. Apollo tu, che a queste piaggia intorno Sai, che ombreggia la fronde tua novella, Scendi talor nel dolce mio soggiorno. QUalor, lontan da stato indegno, e vile, Movo il pensiero a ragionar di voi, Tanto sopra il mortal men volo poi, Che l' alma fassi al vostro bel simile. E tanto nell' oggetto almo, e gentile Prendon forza, e vigor gli spirti suoi, Che quanto piu di caro oggi è fra noi Tutt' odia, e sprezza per antico stile. E s' egli avvien, che mal mio grado l' ali Raccolga, vinte dal soverchio ardore, Qual Icaro dal Ciel cade nell' onde. Ben spera un giorno, e vostro fia l' onore, Tanto innalzarsi verso l' aurea fronde, Che fien le penne al grand' ardire eguali.

NOn cria, Cecero, mio pietre, nè fronde Sì dure, e tante il tuo canuto seno, Quanto il mio verde, ancor di calda pieno Speme, alte, e salde voglie entro ne asconde. Ne tante piaghe sì larghe, e profonde Ha il fianco tuo, che mai non verrà meno, Quante al mio sento; e non ne vorrei meno Pur una, tanto son dolci, e gioconde. Se poggia in alto la tua antica fronte, Il Ciel sormonta il mio novo desire, Se tu stai fermo, io sempre immobil sono: Tu del fiero Aquilon sprezzi l' ardire, Io quel del volgo audace, o sia chi conte Quel, che teco, e fra me, taccio, e ragiono. SOnno, che al duolo mio puoi sol dar pace, Sonno, onde attendo, e spero ogni mio bene, Sonno, che dolce obblio d' amare pene Porti per gl' occhi al cor (quando a te piace) Al mio, ch' or senza te languido giace; Omai deh! porgi aita; che altraspene Non ha, se il tuo soccorso a lui non viene, Altronde, al martir suo duro, tenace. Dalle cimerie valli, e dall' antico Antro ti sveglia, o Sonno, e in questi miei Occhi t' annida, o pur per poco tona: Ed io per Lete giuro, a te sì amico, Ogni luce odiar, che il Mondo adorna, E drizzar al tuo nome archi, e trofei.

DI fredda speme, e calda tema cinta, In dubbia pace, e in certa guerra io vivo, Me stessa a morte tolgo, e tolta privo Di vita, a un tempo vincitrice, e vinta. Or mifermo, or m' arretro, or risospinta Cammino innanzi, or lento, or fuggitivo Il passo movo, or quanto in carta scrivo Dispergo; or vera mi dimostro, or finta. Piango, e rido; or m' arosso, or mi scoloro; Or vo cara a me stessa, or vile; or giaccio In Terra, or sovra il Ciel poggiando volo. Talor quel, ch' io vorrei disvoglio, e scaccio; Me stessa affliggo, e me stessa consolo; In tale stato ognor vivendo, moro. GRande, e sovran del picciol Reno onore, Vero di Marte, e di Minerva figlio, Che di prodezza ornato, e di consiglio Tal date or frutto, qual gia deste fiore; Deh! se benigno Ciel vostro valore Secondi sì, ch' ogni mondan periglio Da voi stia lungi, e lieta amico il ciglio Vi dimostri Fortuna a tutte l' ore: A quel Signor, che per mio Sole in terra Devota inchino, e umilemente adoro, Fate talor del ver, ch' io parlo fede. Ei Sol di roco Augel, cigno canoro Puo farmi, pur, che il gel, che il cor mi serra. Strugga, col lume suo, ch' ivi entro fiede.

TUrbarsi l' acque del Castalio fonte, Seccarsi l' erbe, e dileguarsi i fiori, Cader le frondi de' sacrati allori, Tutto oscurarsi d' atra nube il Monte: Spezzar la cetra, e velarsi la fronte, Sparger a terra i suoi ricchi tesori Dolente Apollo, e in tenebrosi orrori Vagar le Muse, e a lacrimar sol pronte; Si vide allor, che invidiosa, e rea, Perche piu lungamente omai non gisse Superbo il Mincio del maggior suo vanto, Morte estinse il buon Lelio; a cui non visse Simile in Terra. Or, che far più potea Fra noi l' empia, e crudel, se fece tanto? RIcordati, Signor, di quel, che a noi Miseri, avvenne, e guarda, e vedi' l grave Obbrobrio nostro con santi occhi tuoi. La nostra eredità cara, e soave, E rivoltata a gente strana, ed hanno Di casa nostra i forastier la chiave. Pupilli fatti sian con pianto, e danno Privi de' nostri genitori, e a torno, Quai vedov' erbe le pie madri vanno. L' acqua stessa del nostro almo soggiorno Con la pecunia abbiam bevuto, quando Le legne nostre si vendean per scorno. Sopra de colli nostri il miserando, E duro giogo abbiam, lasse, portato

D' ogni riposo, e d ogni pace in bando. All' Egitto, all' Assirio abbiam portato Per aver pan da saziarsi, onde privi Eravam, la man nostra, e aita dato: Inostri Padri hanno peccato, e vivi Non sono, e noi delle iniquità loro Portiam le pene, al Mondo odiosi, e schivi. Signoreggiati n' han quei, che già foro Nostri soggetti, e non fu chi porgesse La mano a trarsi da sìgran martoro. Con periglio di vita andammo spesse Volte per lo coltello del deserto, Portando il pan, che Dio già ne concesse. Or se fame, e se sete abbiam sofferto, Dicanlo pur per noi le nostre oscure Carni, che sembran nero forno, e aperto. Hanno afflitto le Donne mal sicure In Sion, e le Vergini di Iuda Provarono le strane, e rie venture. I Principi da man di pietà nuda Fur sospesi nel legno, e a vecchi stanchi Non diero onor, qual gente alpestra, e cruda. Quei, che la fresca età rendea piu franchi In cattiv' uso furo oprati, e quelli, In cui saldo giudicio par, che manchi. Semplicetti fanciulli, e tenerelli Inciamparon nel legno, e tosto allora Cessaro i canti giovanilli, e belli. E i vecchj della porta usciro fuora: Del cor nostro mancata è l' allegrezza, E il bello in pianto volto ognor n' accora. La corona real, ch' alta bellezza Porgeva al capo uostro oggi è per terra, E noi caduti in infima bassezza. Miseri noi, che solo affanno, e guerra Proacciato ne abbiam peccando tanto,

Che grave angoscià, e duol ne preme, e atterra. E però gl' occhi nostri, usati al pianto, Sono a perpetue tenebre dannati; E perche disolato è il Monte santo, Di Sion hanno i fraudolenti aguati Posto le volpi in quello, e tu, Signore, Nel Secol rimarrai fra piu lodati, l saggio tuo d' infinito valore Sarà di giorno in giorno, ognor piu chiaro, Perche ti scorderai del nostro amore? Dunque per lunghi giorni in pianto amaro Ne lascierai? deh! a te, Signor clemente, Fa, che conversi siamo, e ne fia caro Di convertirci, e a te venir sovente; Rinova i giorni nostri amari, erei, Siccome dal principio dolcemente. Ma tu provando quatro volte, e sei N' andasti, e sempre a noi crebbe malizia; Talche con gran ragione irato sei, Signor, controla nostra empia nequizia. VErace Apollo, a cui ben vero amore Ebbe giusto Signor da te perdono, Perdono avrò, ch' io più dolente sono, ch' altra ancor mai d' ogni mio grav' errore. Mira quest' occhi, che di caldo umore Queste guancie irrigar stanchi non sono: Guarda lo stile, in cui piu non ragiono Del finto altrui, ma del tuo vero onore. E come, oimè, le man, che offeso t' hanno Or a battere il petto, or giunte insieme A chiederti mercè supplici stanno. Signor, ciò possa il duol, che m' ange, e fiede

Per la gran tema dell' eterno danno Scemar, crescendo in me non dubbia speme. COme Padre pietoso, che l' amato Figlio vagando d' uno in aitro errore Gir vede pur del cammin dritto fuore, Ch' ei lungo tempo gia l' abbia segnato; Ch' or con volto benigno, or con turbato, Or lo minaccia, or prega a tutte l' ore, Per ritornarlo al piu vero, e migliore Sentier nel primo suo felice stato: Così tu vero, e piu d' ogn' altro pio, Supremo Padre, me tua figlia errante, Che a tua viva sembianza in Ciel creasti, Perche quest' alma torni, ond' ella uscio, Con dolci, ed amarissimi contrasti Tenti ridurla alle tue leggi sante: COme chi da mortal, certo periglio Si vede oppresso sbigottito, e smorto, In tempestoso mar, lungi dal porto, Alza divoto a Dio la mente, eil ciglio; E se ridotto mai dal grave esiglio L' ha il Ciel (poiche non fu dall' onde assorto) Al caro albergo, piu che prima accorto, Cerca del viver suo novo consiglio: Si nel fallace mar del Mondo insido, Fra l' onde incerte di pensier non saggi, Da Dio lontana, e con la morte appresso, Mi trovo, ahi lassa, e giorno, e notte grido;

Signor deh! drizza i miei torti viaggi; Ma il lito ancor veder non m' concesso. CEleste scorta mia, con cui sì spesso I miei pensier dispenso, e parto l' ore, Vedi, com' or speranza, ed or timore L' alma perturba, onde ne pate espresso. Speme le dice; se il suo volto impresso Ha in te l' immenso tuo, sommo Fattore, Come creder potrai, che umano errore Castigando in altrui, noccia a sè stesso? Tema, quant' ella lesse in mille carte Di divina giustizia, e di vendetta Le porge innanzi, e di perpetua morte. Talche dubbiosa or questa, or quella parte Rimira, e intanto, a guisa di saetta. Questa vita sparisce, e vola a morte. DA questo alto, e profondo, E tenebroso inferno Di miserie, Signore alto, e superno, Te chiamo, e il fallir mio non ti nascondo; Ma prego ognora in lacrimoso stile Che degni d' esaudir mia voce umile. Alla voce dolente De' miei preghi divoti, De' miei cinceri voti, Sien le tue sante orrecchie ognora intente; Che se le nostre colpe osservar vuoi, Chi sosterrà gl' alti castighi tuoi?

Ma teco sempre regna Pieta vera, e clemenza; Ond' io con riverenza, E con timor la tua sì giusta, e degna Legge, Signore, e i tuoi precetti santi Ubbidir cerco in opre, ed in sembianti. Nelle sante parole Del suo Signor quest' alma Si confida; e la salma Per lui depor di sue miserie suole. Ha sperato quest' alma, e mai non cessa Lieta sperar nell' alta sua promessa. Dal mattutino albore, In si , ch' espero riede D' amor colmo, e di fede Speri Israel diletto nel Signore; Perche appresso alla sua pietà infinita Mercè si trova, e sempiterna vita. Ei sol fia, che l' amato Popolo d' Israelle Di turbate procelle Fuor trarrà salvo ognor benigno, e grato. Grato, e benigno il Signor nostro sempre Fia, che pietoso i danni suoi contempre. E la dov' è, per sue nequizie immondo, Purgar vedremlo, e far lieto, e giocondo. DUnque umano fallir, pietà divina, E voglie inique, e rie di falsa gent Vincerne deve? e il crudo, empio serpente Farà dell' alme nostre al fin rapina? Non già, Signore, ecco, che a te s' inchina La mesta Chiesa tua Sposa innocente;

Cui preme, ed ange ognor danno presente, E spaventa futura alta rovina. Tu promettesi pur riparo, e schermo Sin all' ultimo dì del mortal corso Essermi contra le nemiche offese? Dic' ella; indi soggiugne il tuo soccorso Attendo sol; ch' ogn' altro è vano, e infermo: Tu spegner dei l' empie faville accese.

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MEntre, Sign. ch' al Cielo, ed a voi piacque Che avesse il mio languir qualche mercede, E che pietà gelata in voi non giacque, Ma desta fu dal mio servir con sede; Vissimi lieta ardeudo, e non mi spiacque Perder per voi quel ben, ch' ogn' altro eccede; Quel ben, che libertà la gente chiama, E sopra ogn' altro riverisce, ed ama. Non sol contenta fui d' ogni mia voglia Darvi umilmente nelle mani il freno, Che al piacer vostro, come vento foglia La voglieste in un punto, in un baleno; Ma trassi ancor me stessa dalla soglia Della memoria, e a voi la posi in seno: V' ebbi voi sempre, e me posi in obblio, E' con me insieme ancora uomini, e Dio. Così conversa in voi, mio lume, intanto, E fattovi di me tempio, ed altare, Preso di riverenza il sagro manto, Onde fosser mie preci a voi più care,

V' offersi umile i sensi, e l' alma, e quanto Per me mai si potesse o dire, ofare Non arrivai (ben sollo) al vostro merto, Ma piu non puoti: io ben di ciò v' accerto. Tutt' i tormenti allor, tutte le pene Mi furo a soportar lieti, e soavi; Che essendo caro a voi, dolce mio bene, Che tenevate del mio cuor le chiavi, Con dolce rimembrar con bella speme, Mitigava i pensier nojosi, e gravi; I pensiér, che di tenebre, e d' orrore Empion sovente il bel regno d' amore. Ma or che voler vostro, o mia fortuna Privata a torto m' ha d' ogni contento, E, che le mie preghiere ad una, ad una Quante ne porgo se le porta il vento; Non vive alcun mortal sotto la Luna, Che senta a par di me doglia, e tormento; A par di me la cui perdita eccede Ogn' altra di grã lunga, e ogn' uom sel vede. Via pi, che neve ho sempre il cor gelato, Che perdè al tutto il natural calore, Quando da voi sentissi abbandonato, E del duol fatto preda, e del timore: Perche ogni spirto allor sì tristo stlato Avendo oltre misura in grave orrore Dietro a voi, vita sua, mosse le piante, Ond' io, lassa, restai, fredda, e tremante. l' anima ancor non ben certa, e sicura Di poter senza voi viver un giorno, Per far men grave la sua pena dura, Seguì de' bei vostr' occhi il lume adorno: Qninci nascostamente or questo fura, Ed or quel guardo, mentre a lor d' intorno Errando vanne desiosa, e intenta; Nè par, che del mio male affanno senta.

Poco dappoi fuggissi anco la speme, Che molle fe parermi ogni durezza; Fuggì ella non sol, ma seco insieme Ogni gioja, ogni pace, ogni dolcezza: Che senza lei sempre sospira, e geme Un' alma innamorata, e nulla apprezza: Di nulla cura, e sol la morte chiama, Così sperando di venir men grama. Credo, che ancb' io me stessa avrei tradito, E venutane allor cogl' altri in schiera, Se non fosse il desio stato impedito Dal non esser con essi sì leggera. Non potei adunque; e sentone infinito Dolor; che se ben grata a voi non era, Avrebbe almen scemato il mio martire l' esservi appresso, e innanzi a voi morire. Così senz' alma, e senza spirti, fuore D' ogni speranza, e d' ogni bene io vivo; Che vivo dissi? anzipur nò, che il core Al partir vostro fu di vita privo: E se ben serbo il natural calore, E giorno, e notte penso, e piango, e scrivo E' miracol d' amor, che spesso in vita Tiene un, benche sia l' anima partita. In tal maniera i giorni vo menando, Pensosa sempre, e pallida in aspetto: Pallida pel vigor, che consumando Si viene a poco a poco dentro il petto. Sospiro, e gemo, e posto al tutto ho in bado Ogni riso, ogni canto, ogni diletto: E ciò, ch' io veggo, o sento mi dispiace, E sol nel lagrimar ho qualche pace. Nè però accuso voi, occhi lucenti, Che non mio merto, ma bont à natia Vi fece già ver me pietosi, e intenti, Quando il vostro splendor serimmi pria.

Onde, se avete or queg li affetti spenti, Nè più vi cal dell' alta piaga mia, Or dee più, che vi piaccia il vostro dono Legarvi? tenuta io di quel vi sono. Tenuta sonvi; e mentre adorno il Cielo Andrà di luminose, e vaghe stelle, E squarciano il notturno umido velo Scoprirà il Sole or queste parti, or quelle; Mentre sij caldo il fuoco, e freddo il gelo, E d' amor nido l' alme pure, e belle, Terrò di ciò memoria in sempiterno, E sarò vostra ancor giù nell' inferno. DOnna, la cui divina alma bellezza, Con cortesia congiunta, ed onestate Fan, che il fior siete in questa nostra etate Di senno, di valor, i gentilezza: E virtù rara, e sua santa ricchezza, Nobiltà vera, e celeste umiltate, Fra quante furon mai belle, e pregiate V' hanno fatto poggiare asomma altezza. Meraviglia non è dunque, se il mondo Tanto v' onora, e ingegno sì sublime Con le sue carte riverisce, e cole. Onde piu chiara, e lucida, che il Sole Vifaran questi inchiostri, e queste rime Viver eterna, e lui lieto, e giocondo.

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MOrte si lagna, che troncar pensando Lo stame della bella, e casta Irene, Lei già, senza aspettar sue dure pene, Vede girsene al Ciel lieta volando. Si lagna il tempo, che dove girando, Sepolti in Lete gl' alti nomi tiene, La mira, che immortal fatta ne viene, Più ad alto ognora il bel volo spiegando. Nè meno il Mondo si lamenta, e duole, Che al Paradiso ancor farsi simile, Sol per costei, non poca speme avea. Sola fra Dei ti godi, alma gentile, Teco spoglie portando altere, e sole, Il mondo, il tempo vinto, e morte rea. QUella, che contemplando al Ciel solea Poggiar sì spesso con la mente altera, Onde a noi col pennel mostrò; quant' era Di perfetta beltà nella sua idea; E col cantar pura, celeste dea Sembrando, facea fede della vera Angelica armonia, che in alta spera Si cria, membrando il bel, che l' alme bea; Poscia, che le bellezze ebbe gustate Ben mille volte dell' eterno amante, Quanto più gustar puote alma ben nata: Dice sdegnando: a che piu la beata Sede lascio, per gire al mondo errante? Così fermossi in quel felice stato.

S' Unqua permette il Ciel, per mia ventura, Che scoprir possa con dogliosi accenti, l' aspre mie pene, e i miei gravi tormenti A chi cagion fu di mia sorte dura; E ch' io vegga la luce chiara, e pura Dei due begl' occhi piu, che il Sol lucenti, Che furo nel mio cor strali pungenti, Pietosa farsi di mia gran sciagura; Di quanto per amor già mai soffersi Paga terrommi; e sopra ogn' altra amante, Mi chiamerò felice, e fortunata. Ma, lassa, io temo di vedere innante l' onde in che sono, i pensier nostri immersi, Che il Sole apporti a me luce sì grata.

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DEh, perche non son' io d' onori, e fregi Ornata si, ch' io possa gire al segno Del valor, dello stil, dell' alto ingegno Di quel, che a Laura diede eterni pregj? A ciò potessi in rima i vostri egregj Costumi alzare, è non prendeste a sdegno I bassi accenti miei, e il dire indegno, Cui par, ch' altro soggetto, odi, e dispregj. Ma poscia, che al desio la strada manca Di poggiare a virtù; che il fragil velo Troppo si mostra a lei crudel nemico; Unqua non fia però mia mente stanca, Spiegar la fama vostra in sino al Cielo Con semplice voler giusto, e pudico.

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QUando venir da luoghi sì lontani Vider gl' eletti la nostr' alma stella, Così repente reser grazie a quella Virtù, che alberga nei cerchj sovrani; Poi lor disse; o famosi capitani Del mio sommo figliuol, per cui la bella Fede cotanto s' erge, e la rubella Gente al lavacro vien per vostre mani: Il Signor io pregai, che innanzi al fine Mio, che sarà ben tosto unir vi fesse, Perche potessi ragionarvi alquanto. E che per voi, come convien, si desse La sepoltura al mio terrestre manto; Poiche rinchiuse in sè membra divine. QUantunque abbia di noi colei, che gira Per non punto fermar cosa mortale Fatto ogni suo poter, talche non vale Virtù contra di lei pur troppo dira; Non però rilasciate il freno all' ira, Se ben quel, che men sa piu in alto sale, Nè sospirate ancor, che doppjo male Prema la Patria, e noi, che il Ciel ben mira. Mira il Signor, che il tutto regge, e guida L' innocente languir, e i duri strazj, Che gridano mercè, chiaman vendetta. Non sarà mai del nostro mal, che rida Barbaragente in lungo, o che noi strazj; Ma non è il tempo ancor, com' egli aspetta.

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OGgi, se non m' ing anno, è giunto il giorno. In cui dee Porzia mia co' raj lucenti Rischiarar l' aria, e rallegrar le genti, E forse empiere il Ciel d' invidia, e scorno. Già nel suo piu leggiadro abito adorno Veggiola uscir dal nido, e i fiumi, e i venti Fermar col viso a rimirarla intenti, E insieme or questi, or quei stupirle intorn. Veggiola poi nel sacro tempio assisa, Diva devota il Fattor santo adora, Poscia i bei lumi onesti intorno gira. Ahi! che pur scorgo il suo pensiero ancora; Duolsi, che mentre or quinci, or quindi affisa Gl' occhi, fra tante me con lei non mira. TUdunque, o gloria della nostra etate, Degl' uomini stupor, pregjo di noi, Sei morta Irene? tu, che gl' onor tuoi Contro morte spiegavi in tele, e in carte? Ahi quãdo ebbe Adria mai, quãdo altra parte Donna sì degna a cui prima, nè poi Egual fu, nè sarà? deh ditel voi, Cigni, che avete le sue lodi sparte. Dite, con quanta gioja intorno, il Cielo Stava ad udire i novi, alti concenti, E mirava i dipinti, e bei colori: E come, acceso d' amoroso zelo, A se la trasse in un con mille cori, Ond' or mesta è Natura, e gl' elementi.

LIeto cantava i suoi graditi amori Con tal dolcezza tra i bei siori, e l' erba, Che fatto umile avria l' alma superba, Hatto gentile, onor dei sacri allori. E sì soa vemente i dolci errori Ripetea della verde etade acerba, Che ancor l' alta memoria al cor ne serba, E serberà, mentre, che viva Clori. Ne meraviglia fia; poiche ogni colle, Ed ogni riva al chiaro suon, ch' io esalto, Veste le spalle, e il sen di grato umore. Così gli ispiri ' l Ciel largo favore, Senza temer di tempo, o morte assalto, Come agl' altri Pastori ' l pregio tolle.

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QUando primier ardendo il dolce lume, Nato da quel vivo occhio sfavillante, Carità sempiterna, ed opre sante Scese nel petto, e in quel si fece Nume. Cangiossi allor l' alpestre mio costume, E di odioso a sè mi fece amante, Duro trafisse il cor, come diamante, Indi di giusto pianto nacque unfiume. Dentro una fiamma, ch' arde folgorando, Con impeto d' amore i caldi raggi D' un invisibil foco l' alma, e il core. Talche mie forme umane van mancando, E i spirti nel Signor diventar saggi, Fuggendo l' infernale, eterno onore.

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DOve le più gentil di nostra etate Alme al gran Tempio van divote intorno; Oggi, che il Sol ne adduce un sì bel giorno, E scopre il Ciel quante mai fur poggiate; Con sante voglie a somma gloria alzate, Volo contenta, e dove or fa soggiorno Lascio la frale spoglia, a cui sia un giorno Chiara dell' Idol suo l' alta beltate. Apransi omai le avventurose porte, E s' oda sì leggiadra compagnia Cantar, quanto il cor dtta allegra, e forte. Indi fatta a' suoi altari immortal via, Arda l' anima pura, e in sì alta sorte, Vegga prima d' ogn' altra arder la mia. NOn teme, o Dea, di questa età gentile La fabbrica immortal del T&etilde;pio vostro, Quanto offende la nostra, e ogni simile Ad altrui danno, e per esempio nostro, Folgori, tuoni, e l' immutabil stile Det tempo crudo, e dispietato mostro; Sendo i beati suoi fabbricatori Alme eccellenti, e gloriosi cori. ieda gelato Borea, e fiero Noto, E crolli ' l Mõdo in questa parte, e in quella; Si vedano i mortai far piu d' un voto Al foco atroce alla crudel procella; Vadano i Tempi all' aria, i Colli a nuoto, Spinti da iniqua immitigabil stella.

ch' esso non cura, ch' hà il bel pie nel Cielo Venti, fiamme, onde, tuoni, e caldo, e gelo. Anzi quanto piu il tempo innanzi vola, E lascia ogn' opra consumata a dietro, Tanto piu questa in ogni parte sola Si stabilisce, e più non guarda indietro: S' aggira il Cielo, e seco tira, e invola l' opre nostre, e i pensier di fragil vetro, Questo, che non s' intende a prima vista, Da l' altrui fine il suo bel stato acquista. Sono le mura di pensieri eletti, Nei bei desir dell' Anima fondate; E le fenestre d' atti sì perfetti, Ch' empiono il tutto d' alta claritate; Il tetto ricco sopra gl' altri tetti, Sante speranze a sempre amarvi nate; E le porte, onde s' entra a' santi altari Saggi concetti, e dolci accenti rari. Questa è la via, che all' Idol nostro interno Ci scorge lieti, e a voi ci sa presenti; Dove la calda state, e il freddo verno, Con le campagne stan mai sempre intenti; E come sosser del nostro governo, Mandan lungi da quei le nubi, e i venti; Mostrando dal mutar della Natura, Ch' altro, che voi nulla diletta, e dura. Vengano dunque, o veramente degna D' eterne lodi, e d' immortali onori, Dovunque splende il Sol, dovunque regna Desir di gloria, e di piacer migliori, Tutte le genti; e dietro a questa insegna, Ch' erge nell' aria, cinta il crin di fiori, Fii al raggio divin del vostro viso, Ad inchinarvi nel lor Paradiso.

1560

SIgnor, se nel cantar d' Irene eguale Gisse al merto di lei l' ingegno mio, O pur di gradir voi pari al desio, Fora ella anco per me chiara, e immortale. Ma perche ir non puo al Ciel grav' uom senzale, Fassi da tanta impresa il cor restio; Temendo un troppo ardir gravoso, e rio; Che a cader va chi troppo in alto sale. Cantin pur lei que' savi cigni, e voi, Cui diede il Ciel con sì soave canto, d' acquila il fermo lume, e i vanni alteri. La bassa mente mia gl' alti onor suoi Immaginar non può, non ch' io mi speri Ornarli col mio stil di degno vanto.

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L' Alma sua luce Dio nel puro, e netto Cristallo del cor vostro imprimer volse; E bontate, e valor gli cinse, e avvolse, Per farlo di sè in terra albergo eletto. Ed ora il chiaro, e lucido intelletto Tal porge frutti, qual nel Ciel pria tolse Il gentil seme, allor, che il pie già volse, Per tornar poi piu vago a quel ricetto. Dove, come un bel Sol di vivi ardenti Rai, di virtù spiegando alto splendore, Alle tenebre altrui porgesse lume. E là, dove n' attende il gran Motore, Levandovi consalde, e ferme piume, Fate di voi stupir, Signor, le genti.

AVoi Donna divina, e in piu secondo Favor nata del Cielo, è ben permesso Poggiar l' alto Aganippe, e il bel Permesso, Pregio acquistando a null' altro secondo. Che se qual in diamante puro, e mondo Natura ha in voi sì saldamente impresso Ogni suo ricco don chi fia, che appresso S' erga all' altero dir vostro facondo? Ma, lassa me, che qualor più chiamando Vo le castalie dive al mio riparo, Vie piu sprezzata da lor vivo in bando. Dunque del vostro alto splendor sì raro Spiegate un raggio in me, che allor cangiãdo Si verrà in dolce aprile il mio genaro. QUanto lontan mio basso ingegno varca Dal mar profondo di quel saper vero, Che l' uom quantunque chiuso in picciol' arca Tien vivo in questo, e in quell' altro emisfero; Tanto alla fragil mia spalmata barca Nettun si mostrò piu sdegnato, e fero; Onde di gioja priva, e di duol carca, Il porto rivedere omai dispero. Ma se tu, sacro Apollo, un vivo raggio Mi porgi, spero col tuo chiaro lume Volger in dritto il torto mio viaggio. E suor del pigro usato mio costume, Cantando, a pie d' un bel lauro, o d' un faggio, Ergermi lieta v' l' alma or non presume.

GIovane illustre, da celesti cori Quì tra noi scesa sì leggiadra, e bella, Di virtù ornata, e carca di tesori, Che alluma il Mondo, come viva stella. Ne più si vide in questa etade, o in quella Bellezza senza par, divin splendori, Onesti sguardi, angelica favella, Porser le grazie in lei tutti gl' onori. Cogl' altri morte a tanta gloria attenta, Mirò l' andar celeste, e disse; mai Cosa rara qua giù durar non suole. Così detto, avventò colpo, che spenta Fe l' alma luce di quei chiari rai, E privò il Mondo del suo vivo Sole. POiche quella crudel, che il Mondo atterra, Vittoriosa fè da noi partita, Rimase quella faccia scolorita, Che ornò già il Mondo, or picciol sasso serra, Di doglia oscurò il Sol, tremò la Terra, Restò Natura mesta, e sbigottita; Mostrossi l' aria, e la Luna smarrita, E ogni splendor, che il Cielo a noi disserra. Virtù, grazia, bellezza, e leggiadria Con onestate, ove le belle membra Giacean, s' assiser lagrimose, e meste; O luce, a cui non fu mai par, nè fia; Triste fra se diceano; Or chi si smembra Dal nostro albergo angelico, e celeste?

MEntre il corso fatal non cessa ancora, Come sperar poss' io tranquillo ' l Mare, Se fatta son qual scoglio all' onde amare, Che d' ogn' intorno, è più percosso ognora. Se l' istabil variar mi discolora, Che piu luce non scorgo, e non appare Segno, ove Morte non abbia a troncare Lo stame, che s' è saldo piu m' accora. Abiti dunque, antica Madre, il velo, E tu, vero Signor, se il prego è degno, Prendi lo spirto, che venir desia: E se d' errori carco, al tuo bel regno Varcar non puo, rammentati, che al Cielo Slisti, per aprire a noi la via. L' Aria soave, ove famosa siede Dell' antico suo Padre in grembo quella Alma Vergine illustre, altera, e bella, Colma d' alta bontà la fronte, e il piede; Parmisentir sovente, e sì, che il crede Il mio fèrmo pensier, che accolto in ella, Mira l' ornate reggie, ivi favella, Ma nel maggior piacer, l' alma in sè riede. Città felice, per favor del Cielo Fondata, e per salute de' mortali, Porto, e rifugio, a quanto scalda il Sole; Tua luce ancor, che non nascesse in Delo, Sparge sì chiari raggi, e tanti, e tali, Che infin le ignote parti allegrar suole.

D' Un lustro un terzo è gia passato intero, Che da te lungi, e mesta ognor soggiorno, Vinegia mia, ne mai visto ho più giorno Da indi in qua, se non malvagio, e fero. Come affannato in mar, stanco nocchiero, Cui stringa oscura notte d' ogn' intorno, Brama di pigliar porto, e far ritorno Al desiato suo, dolce emisfero: Tal' io vorrei l' altrui lido lasciare, E il dubbio navigar delle trist' onde, Ed in te, amata patria, il cor posare. Onde mai sempre liete aure seconde, Prego, mi scorgan fide al dolce mare, Che selice ti cinge ambe le sponde. SE ratta da noi fugge ogni bellezza, E passa ogni piacere, ogni contento, E se, qual balenar in un momento Nasce, e sparisce quanto quì s' apprezza; Se nostra verde etade alla vecchiezza Giugne in un punto, e come polve al vento Volano i giorni, e gl' anni; onde tormento Sol resta all' alma, che' l ben far disprezza: Che fia di noi, se coll' orribil vista Morte grave dolor, de' mal spesi anni Sveglierà al fin, che talor poco giova? Leva dunque, intelletto, e ai nostri danni Provediam, mentre ancor pietà si trova; Che il Ciel per vanità, mai non s' acquista.

POscia, che a me si mostra iniqua tanto Malvagia sorte, e ria, Che l' alma Patria mia Mi cela, e in vece ognor di riso, e canto Verso sì grave pianto, Ch' io spero nel sereno Empireo ei s' erga al mio Signore in seno; Onde pietà gli tocchi, Prima, che morte a me chiuda quest' occhi. VEri lumi del Ciel, nuovo splendore Scorgo nel volto, e nelle luci sante; Tal virtù poi nel saggio petto, e tante, Che n' ha l' Etruria, e il Mondo alto stupore. Nella fronte real l' invitto core Si scopre, e nell' angelico sembiante Siede grazia, onestà, bellezza, e quante Eccellenze fur mai, gloria, ed onore. Ne monti s' ode, e nella verde riva D' Arno Ninfe cantar, e al canto loro Risponde l' aria, il Ciel, la terra, i venti. E l' un figlia al gran Cosmo invitta, e diva Dire, e gl' altri Isabella, che al primo oro Torner à il Mondo, e i di lieti, e contenti.

DEl sommo eterno Re la fida Sposa, Deposta ogni letizia, e canti, e feste, Umile oggi si mostra in brune veste, E ver noi dice con voce pietosa: Mirate, figli miei, come ogni cosa Passa, quasi ombra, e più non si riveste, Abbiate al Ciel le voglie attente, e preste, Ove ogni vero ben ferma, e riposa. Nè v' inganni mortal gloria caduca, Non regni, non tesor, pompe, o bellezza, O finti brevi, fuggitivi onori. A levarvi da terra omai v' induca, Che in questa si risolve ogni grandezza; Ch' io segno in fronte, e voi segnate i cori. LA real Donna, in cui beata siede Grazia, virtu, bellezza, ed onestate, Per cui sì chiaro in questa nostra etate L' antico onor, ch' era già spento riede; Quella, che all' alma, e gloriosa sede S' alza sovente dll' eternitate, Ove l' altre fra noi cose create, Come in puro cristallo intende, e vede. Cantino d' Adria i cigni alteri, e voi, Sacro figlio d' apollo, e al dolce canto Geronima risuoni ogni emisfero. Io quasi augel notturno i pregi suoi, Vinta dal chiaro, e vivo lume santo, Taccio pria, che scemar cantando il vero.

DUnque son pur d' Irene i lumi spenti, Che accendevano l' alme all' alte imprese? Dunque n' è il riso, il canto, e quel cortese Parlar tolto? empia stella, a che il consenti? Dunque son svelti i crin crespi, e lucenti, E alla terra i rubin, le perle rese? Dunque, morte crudel, le insidie hai tese A lei per lasciar noi mesti, e dolenti? Ahi, che ben scorsi questa alma beata, Dove l' immortal gloria era nascosta, Non poter abitar, molto fra noi. Che Dio la volle, e ne' bei regni suoi, De' rai del Sol, di stelle incoronata, Donde dianzi la trasse, or l' ha riposta.

1560

DOnna, cui Febo tra le rare al Mondo Scelse per gloria Sol del nostro sesso, E vi diè il canto, e in Cirra il seggio stesso, Perche di lui quì sosteneste il pondo: Qual fora ingegno, atto a toccare il fondo Del valor vostro? o qual volo indefesso, A salir, l' erto s' egli è vero espresso Un' Occeano, un' Olimpo alto, e profondo? Felice voi, che in verde età cantando, Coi due gran Toschi, lungo l' Arno a paro, Sovra di voi v' andate ognor piu alzando, E me felice, che del grido chiaro Vinta di voi, vo il mio destin pregando, Che non mi sia del vostro lume avaro.

1562

FEbo nell' Occean tuffato avendo Il biondo crine, e i bei raggi lucenti, Mesta sen giva, lacrimando, e ardendo Filli lungi ' l chiar' Arno in foschi accenti. E gl' umid' occhi, al vago Ciel vogliendo, Or che taccion, dicea, tutti i viventi, Dal basso cerchio tuo, Cintia serena, Degnati d' ascoltar l' alta mia pena. Mentre, che intorno le più ardonti stelle T' inchinan riverenti, e fan corona, E che per te quest' onde chiare, e belle Splendon più, che pel Sol fra l' alba, e Nona. E se per Endimion vive fiammelle T' arsero il cor, ficcome si ragiona, Pietosa ferma il luminoso viso, Fin che in te gl' occhi lamentando affiso. Or, che in te queste luci oscure, e meste Volgo, o del Ciel maggior lampa notturna, E ch' io piu spargo lagrime per queste Rive, che d' Arno onde non versa l' urna, Deh, fa che il mio lamento impresso reste Nella tua fronte lucida, ed eburna; Sicche la Donna onor del Mar Tireno Scorga lontan da lei, qual foco ho in seno. Mostra nel volto tuo, candida Luna, Al mio bel Sol, che, poiche il suo splendore A quest' occhi contese empia fortuna, Altro non scorser mai, ch' ombra, ed orrore. E che, dacche il di nasce, a ch' ei s' imbruna Sempre ov' ella il pie volga io volgo il core: Il cor, che sol con lei da lei disgiunto Non fu per altro cor trafitto, e punto.

Ma com' è, ch' ogni accento, ogni parola Più della lingua il cor pronunzia, e dice, S' ei meco non alberga, e s' ella sola L' ha servo, e tiensi libero, e felice? Miracolo è d' Amor, che da lui invola, Quel, ch' ei dir brama, e in me, per me il ridice; Così dimostra a chi mi ascolta, e mira, Com' ei fa, che senz' alma, un alma spira. Così pare ad Amor, ch' io viva assente Dalla mia vita (ahi dura lontananza) Senz' alma, e senza cor? Martir possente, Che quando altri ha più di morir speranza, Quando mie luci esser dovriano spente, Da viver troppo, e da penar gli avanza. Questa ben dir sì dee dogliosa vita Viver sempre in dolor, senza aver vita. Ma sia, che puo, quel, ch' ad Amor più aggrada Segua, ch' io ' l soffro umile, e me ne appago; S' ei vuol, che senza cor io pera, e cada, Viviam in guai, facciam degl' occhi lago: Purche, per chi convien, che lungi vada, Per chi sol l' alma, e il cor servire è vago, Che il mio pensier figura, ovunque io guardo Non geli sciolta, or ch' io più legata ardo. Non possa tanta terra, e tanto Cielo, Che s' interpon fra noi, Virginia bella, Spegner quel, che mostrasti ardente zelo, Mentre teco mi strinse amica stella. Io pria, che te non ami, esser di gelo Vedrassi il foco, e Amor senza quadrella, L' edra dritta, e spedita, e torto il pino, E caso uman, frenar voler divino. Crederò io, che il suon delle querele Meste, ch' io spargo quì fra morta, e viva, Aggiunga al seno illustre, e alla fedele Orecchia sua, che già grata mi diva?

Deh, sì, ' esser non puo desir crudele Dove somma virtù nasce, e deriva; Renditi dunque tanto spaccio mia, Quanto il Ciel fa, che da te lungi io stia. Che come a tua beltà farmi vicina; Mi si concede, e dir mio duol profondo, Se di rigido Cerro in piaggia alpina, O d' Elce nata in cupo ombroso fondo Fosti, o di scoglio in seno alla marina, D' impetrar non tem' io viver giocondo Da te; che gli angosciosi miei tormenti Tigri pietosi far ponno, e serpenti. Sovvengati del dì, che le ostinate Mie luci non sapean da te partire; Delle mie guance pallide, e bagnate, Di me, che volli, e non potei morire: Di quelle brevi parolette grate, Che pur scemano alquanto il mio martire: Va, Filli, che restando io vengo teco. O dì, che sempre alla memoria arreco. Ma deh, perche sì tosto i bianchi rai Dopo l' alpestre Golfolina ascondi, O sorella del Sol, mentre i miei guai Narrando all' ombra vo di queste frondi? Ciò forse avvien per la pietade, che hai, Che un petto sol, tanto martir circondi, O pur da lunghi miei lamenti offesa, Sei piu veloce, oltre quei monti scesa? Vatene ornata, d' argentato arnese Più queta parte, e più lieta illustrando; E il tuo drappel d' eterne fiamme accese Teco sen venga, e me quì lasci in bando. Quest' alma lasci, oimè, lassa, che scese Qui sol per gir, miseramente amando: Che chi vive, com' io senza il suo bene Mal fa, se un sol momento è senza pene.

MEntre sovra l' erbose, umide sponde Del mio chiar' Arno, e del mio bel Mugnone, Dal cui novo, e chiarissimo Anfione Esce armonia, non mai sentita altronde; Le lodi vostre, a null' altro seconde, Sì dolcemente a me narra, e compone Le Spina, de' cui fior vaghe corone Tesse Apollo vie più, che di sua fronde. Ch' io giovane inesperta, ignota, e oscura Di voi sola Colonna al sacro Tempio Di virtute immortal cantar sol bramo. Ceda a sì nobil Marmo, e Smirna, e Samo; Che ha d' or coperta la sua immensa altura, E di tempnon teme ira, ne scempio. SIccome con gentil, vago lavoro, Fa di gemma talor perita mano Maggior la beltà sua presso, e lontano, Ornandola di vario smalto, e d' oro; Così voi, che sì caro al santo Coro Siete dell' alme Suore, al cui sovrano Canto stil non aggiugne, o ingegno umano, E Febo tien per suo maggior tesoro; Poter vorrei con chiare, e dotte rime Piu chiaro far nelle mie oscure carte, Il nome vostro, a meraviglia adorno; Ma s' io non posso, il buon voler si estime: Non ha colpa il desio; difetto è d' arte; E talor gioja ha piombo vil d' intorno.

1562

NE' il Ciel sereno mai girando intorno Stella sì vaga, e di bei raggi ardente Mostronne, e Cintia mai cosi lucente, Quando congiunto ha l' un coll' altro corno. Nè mai sì lieto avventuroso giorno Dalle belle contrade d' Oriente N' aperse il Sol, poiche d' umana gente. Questo globo terren far vide adorno; Come spuntando a noi questa divina Luce d' Irene, che col dolce canto Dolce partia dal corpo a ciascun l' alma. Ma che? tal gioja in tristo amaro pianto Cangiato ha morte, e di sì chiara, ed alma Luce, anzi tempo ha fatto empia rapina.

1562

QUel di vostre virtù sì gran splendore, Che a voi stesso voi sol face simile, E ogn' altra luce sì negletta, e vile, Che all' apparir di lui sì oscura, e more. Sgombra dal petto mio quel grave errore, Che in questo di mia et à si verde aprile, Con stil del mio più grave, e più sottile Di potervi imitar mi dava il core: Ond' or fia meglio, che a tacere impari, Che troppo col desire il freno allargo, A quegli accenti, onde lodar vi voglio: Che quel di voi, che nelle carte spargo, Non trovo poi al gran soggetto pari, E del mio troppo ardir meco mi doglio.

1563

DUn chiaro eccels' oggetto &etilde;tro al cor move l' alto pensier, ch' or pur mi guida in parte, Che il bello umil Sebeto irriga in parte, Là vè ha più fortunato il Ciel, che altrove; Ivi forme celesti, altere, e nove, Che in un foggetto ogni stella comparte Ammiro; e ben vorrei ritrarle in carte, Ma l' ingegno paventa à sì gran prove. Che al bel divin, che l' altrui canto induce A riverir quell' una alta Colonna, Il mio basso intelletto non s' agguaglia. E quel vago gentil, che di fuor luce, Ond' ella intanto anzi par Dea, che Donna Vince ogni stil, siccome ogn' occhio abbaglia,

1565

DOlce s' acqueta ogn' irat' onda amara, Immobil stassi il figlio di Latona, Spargon nembi di fior Clori, e Pomona Fuggon le nubi, e il Ciel s' ona, e rischiara, Al canto vostro, onde ' l cammin s' impara, Che conduce, ov' eterna, alta corona Promette all' uom, se mai non l' abbandona Quella, che dal morir sola il ripara. Onde a sì strane mera viglie nove, Quasi desto da cieco oscuro obblio, Il basso ingegno mio ratto si move, Per alzarsi là, dove Euterpe, e Clio Fan risuonar l' altrui famose prove, Ma ' l peso ' ignoranza il fa restio.

VOi, voi del bel sen d' Adria eterno vanto, Cui Febo amico a' primi onori elesse, E le frondi Sagrate in don concesse, Che già Dafne coprir di verde manto; Ornate il mondo con l' altere tanto, Leggiadre rime, che sì dolce tesse L' ingegno vostro, onde già chiare espresse L' odon l' Istro, l' ibero, il Nilo, e il Xanto. Ma io pur col pensier voi non arrivo Là dove giunto, e in alta parte assiso Mostrate altrui, com' uom si faccia divo; Che mi tien, lassa, il bel cammin preciso Iniquo fato, ond' io negletta vivo: Pur co' piũ saggi in voi talor m' affiso.

1565

AVoi, cui diede il Ciel senno, e valore, E cortesia, che non ha pari al mondo, Quel, che con tãto studio a ogn' altro ascondo, Scopro la piaga del mio afflitto core. Come poss' io cercar fama, ed onore Se nata son delle miserie al fondo, E quei, che l' altrui stato fa giocondo, Incomparabil rende, il mio dolore? Ben è ver, ch' io ci nacqui e donna, e priva d' ogni saper, ma per maggior mio danno Ho compagnia d' ingegno, e bontà schiva. Ditemi voi, s' eterno fia il mio danno; Che soffrir nol potrò gran tempo viva, Se a conoscer me stessa io non m' inganno.

1565

IO vo cercando, se lo stesso amore, Che m' arde in petto consua ardente face, Sia quel, che ad ogni altr' alma sua seguace, Con tanta tirannia distrugge il core. Perch' io mi sento ben sì un vivo ardore, Che mi fa piu dell' uso mio vivace, Ma nulla poi sento turbar mia pace, Qual, se fosse altra cosa, che calore. E dico, onde avvien mai sì vario effetto? O Amor non è, o piu benign' è meco, O d' altra tempra esto mio core è fatto. Temo però; che il faniul crudo, e cieco Così non mi lusinghi, e placidetto Incominci, e poi scoppj tutto a un tratto.

1565

COme tra noi felice, e chiaro esempio Di senno, e di bontà pura, e cincera, Di valor d' onestà perfetta, e vera Già fosti, Irene, in questo secol' empio; Così piangendo il tuo crudele scempio, Anzi pur nostra sorte iniqua, e fera, Che t' addusse, oimè, notte innanzi sera, Ergiamo al nome tuo questo bel tempio. Ed io, che fra le tue devote, e tante Illustri Donne (ed oh non si a già in vano) Vengo seguendo tue vestigia sante: Questo umil cor ti sacro, e questa mano, Che su v' ha scritto: A lei, ch' ebbe di quante Vergini furo il pregio alto, e sovrano.

1565

SPiriti illustri, a cui l' Italia nostra Fa sommo onor, per tante belle rime Da voi composte, in celebrar le prime Donne, che sieno in questa mortal chiostra; S' ora la gran Colonna a voi dimostra D' Elicon le superbe, ed alte cime, Perche ne' vostri petti non s' imprime Desio d' alzar per lei la musa vostra? Cantate di coster, spiriti adorni Di saver, di prudenza, e di bontate, Fin che la notte addõbri, e il Sole aggiorni. E mentre noi con pari ardir siam nate, A cantar di noi stesse e l' ore, e i giorni, Perche di superare non tentate?

1565

AL sagro Tempio vostro, immortal Donna, Che il mondo inchina, e riverente adora, Quasi novella Dea dal Ciel pur ora Scesa, ergo anch' io questa breve colonna. Amor, che già gran tempo in me s' indonna, A voi m' ha spinto, il qual non vuol, ch' io mora, Senza l' interna fede mia di fuora Mostrarvi, o gloriosa alta colonna. Ben prego voi, che il mio fatal difetto Emendi il valor vostro alto, e gentile, Degno di quel celeste, e saggio petto: Sicche il mio dono ancor, che basso, e vile Gradir vi piaccia con benigno affetto, Ma piu il cor, ond' io il fo divoto, e umile.

1568

NOvo desio, che ogni bell' alma ingombra Mi spinge a dir di voi, Donna gentile, A cui dovunque il Sol la notte sgombra Non appar di beltate altra simile. Ma chi d' alto saper la mente ingombra Mostrar farà? chi al mal purgato stile Prester à sì leggiadra, e colta rima, Che del bel nome vostro empia ogni clima? Di voi dir voglio, e voi, bench' ei sia indegno Di lodar vostr' alma beltà infinita, Assicurando il mio smarrito ingegno, A sì basso cantar darete aita: Che per render lo stil celebre, e degno Indarno Apollo in Elicon m' invita; Poiche da voi con disusate prove, senza fine e valore, e grazia piove. Credo, che vi formasse la Natura, Donna real, per dar saggio alla gente, Che quando in opra pon l' estrema cura Non è mastro di lei più diligente: E che il falso insegnar colui procura, Che chi ama più di lei l' arte eccellente; Per questo ogni suo studio, e ingegno pose Quando il vostro bel volto ella compose. Prima spogliò de' lor pregiati onori E l' ambra, e l' oro, e ne adornò la chioma, Dove scherzando i pargoletti Amori, Chiaman l' anime scarche a dolce soma: Indi sparsi in vermiglio i bei colori Dalfior, che per Ciprigna ancor si noma, Colse, e ne rese ambe le guance illustri, Quai fra vaghi amaranti albi ligustri.

Quindi i più bei coralli andò scegliendo, Che l' india avesse, o il tuo bel mar, Siciglia, E le labbra formonne, in cui ridendo, Destan le grazie eterna maraviglia: Poi la bell' opra a miglior fin seguendo, D' avorio il mento, e d' ebano le ciglia Fe; le ciglia d' Amor sostegno, ed Archi, Non mai disaetar l' anime parchi. Ma che dirò di quelle perle elette, Che nel sen d' Oriente ella raccolse, Onde gli spiriti vaghi, in aria stette Amor, che sol di voi l' impero volse? Che dirò delle luci benedette, Che su del terzo Ciel di sua man tolse, Che per legge immutabile, ed eterna La bella Citarea regge, e governa? Queste le luci son le stelle ardenti, In cui rifulge ognor lo spirto interno, Ch' ai giri di là sù chiari, e lucenti Tornar vorrebbe, e al vero Sol superno; Le luci, a cui s' allegran gl' elementi, E non provan le piaggie state, o verno; Ma con soave, e con perpetuo stile, Eterna primavera, eterno aprile, Non così vide già l' Ebro, o il Peneo Di mille fior dipinte le sue sponde, Quegli all' alta armonia del Tracio Orfeo, E questi allo spirar d' aure seconde, Come, poiche di voi mirar poteo gl' occhi sereni, e l' aure chiome bionde, Nel freddo verno, e all' alte fiamme estive Vide ornarsi il Sebeto le sue rive. Che ovunque il vago, e leggiadretto piede Movendo gite, il Ciel s' allegra, e gode: Si dileguano l' ombre, e il giorno riede, Dolce l' aere suonar d' intorno s' ode:

Fassi la terra di bei fiori erede, Cupo altrui ritesse inganni, e frode: E in somma all' apparir del dolce viso s' apre in terra à mortali 'l Paradiso. Ma che vo io, per disusato calle Solcando il mar degl' ampj merti vostri, Se in così tenebrosa, e chiusa valle Non è chi via all' uscir m' apra, o dimostri? E se peso non è dalle mie spalle A dir di voi, che i piu lodati inchiostri, In dispregio del fato empio, e di Lete, Oggi oscurati eternamente avete. Nè pur Saffo, o Corinna, onde si gloria l' antica età, ch' in lei sua fama accrebbe, Cedano airaggi della vostra gloria, Siccome nebbia al Sol vinta farebbe: Ma quei piu degni d' immortal memoria, Che spegner morte ria forza non ebbe, E non a vr à finche concorde zelo Le stelle in giro andrà movendo il Cielo Questi, che a voi fur già di pregio innante, E nome ai merti loro ebber conforme, Se fosser tali or quì, quai furo innante, Dietro a voi ne verrian per le vostr' orme, E spiegherà il mio stile opre cotante? Avrò anco ardire a tant' impresa porme? Ah no, per Dio, non più, ch' io veggo quanto D' onor vi scema la mia lingua, e il canto.

1565

AMava il Mondo una sicura base, Onde potesse in piedi sostenere Il nostro onor, che stava per cadere Da noi, che sole eravam quì rimase; Quando alle nostre a Dio divote case Una sola colonna il suo potere Sommise, e noi fè in piedi rimanere, A ben far col suo esempio persuase. Godi, almosesso nostro, e vanne altero Sopra il viril, che questa donna vale Più di quel, più di noi, più di sè stessa. Alma scesa dal Ciel, Donna immortale, Degna di questo, e di piu grande impero, Al tuo sì gran valor chi mai s' appressa?

1570

ORasi, che adornarsi ambe le sponde Brenta ben si potrà di Mirto, o Lauro; Poiche di novo a lei, almo tesauro Così largo, e soave or si diffonde. E dove il Tebro, e il gran Tarpeo risponde Sentirem, cinte omai di gemme, e d' auro, Con voce da far mite il Trace, eil Mauro Cantar le muse, e l' alme Grazie all' onde. Toi questo' caro mio, felice nato, Felice, e caro fra tutti gli Dei, Che del mio ventre usciro alto, e beato. Ecco i tuoi carmi non pur Lazj, o Ebrei, Diss' Adria, un Tasso no, ma il piu lodato Cigno omai in seno aver creder ti dei.

1570

DIricche gemme, e bel fiorito lauro, Di cui cinte portò le chiome bionde Un tempo Febo alle Tessalich' onde, Quando in quel trasformossi l suo tesauro; Tesson, de fiori mille, e forbit' auro Ghirlanda, Tasso, a voi l' alme, e gioconde Muse, per far volar la fama donde Principio ha l' indo, e fine il vecchio Mauro, Benche sien gl' onor vostri, e pregj tali, Che bisogno non han di lingue, o carte, Con cui uomo mortal qui parli, e scriva. Perche sol voi le lodi alte, e immortali Fate già rimbombar in ogni parte, E quì giù, e in Ciel la fama eterna, e viva.

1570

FElice Tasso, a cui girando intorno Vola scherzando il cieco, e ignudo Dio, Per far poi pien di gioja, e di desio Nel vostro cor gentil chiaro soggiorno. O lieto, o fortunato, osanto giorno, Quando, che a noi vi diede il sommo Iddio; Poiche si vede al suo patrio natio Far il secolo d' oro almo ritorno. Onde all' ombra di voi vive contento, Tasso gentil, degno di sommo impero, Il Ciel, le Stelle, il Mondo, il Firmamento. Ed io per far quindi all' altro Emisfero Chiaro suonar il suo bel nascimento, Chieggo ad Apollo il dir del greco Omero.

1570

ANgiol sceso fra noi dal Paradiso Con quelle grazie, che là sù si danno, Or che l' altrui sospetto, e il nostro affanno Cessati sono, anzi tornati in riso; Per voi si scriva, come mai deriso Non fu dritto pregar nell' alto scanno: Non cessò l altrui tema, e il proprio danno Quel dì, che il vostro, e mio Signor assiso. In loco sagro, e dinanzi a colei Stava, che partorì nostra salute, Pregando il fin di tanti indegni mali. O dagli uomini amato, e dagli Dei, Ben sei tu solo, e con ragion vertute, Che il tutto in Cielo, e il tutto in Terra vali.

1570

AVea già sparsi all' aria i bei crin d' oro La vaga Aurora, e con spedito corso In verso il Ciel salia l' aurato Apollo, Seguendo nel suo antico alto lavoro; Quando allor, che la mente in sè ritorna, Sciolta d' ogni terreno uman discorso, Donna vid' io fuor, che il bel viso, e il collo Tutta di varj fior cinta, ed adorna, Cui cantando facean lieta corona Ninfe leggiadre, e pargoletti Amori: Tra quei soavi fiori, Come l' api volando, ogni persona Empian di non usato, alto diletto l' abito vago in mille guise, eschietto.

Vaga d' udir sua condizion qual' era, Oltra mi trassi, e di veder s' alcuna Riconoscessi della bella schiera, D' amoroso piacer non mai digiuna; Ma poco ancor del suo divin comprese Il mio mortal, cui troppo lume offese. Così di desir colma, e di dolcezza, Volgo dal proprio fin gl' incerti passi, Ove il mio bel piacer misprona, e inchina. Indi costei, la cui vaga bellezza, Or tien l' uman voler cieco, ed oppresso, Or lo solleva al Ciel da pensier bassi, Dissemi in voce angelica, e divina: Tu, che seguendo il ben, ch' è quì da presso, Onde il mortal affetto ignudo, e infermo Cerchi' l principio, e il fin della mia sorte, Sotto mie fide scorte Seguil' erto pensier solingo, ed ermo, Ch' uom scorge al vero fin d' ognisua gloria. E perche forse a te sarà gran noja Il consumar molt' anni, e giorni, ed ore Dietro a' miei passi, questi sagri vanni, Che di Dedalo fur, con alto core Spiega felice, che a sì dolci affanni Te, favor chiamà di benigna stella, Disposta a farti ancor beata, e bella. Come il timido augel, che il primo volo Tenta, dubbioso ancor del proprio peso, Scossi le nove piume, e il corso presi, Che dietro al Sol, tra l' uno, e l' altro Polo Tenea questa gentil Donna, che sciolse. Ver me novo parlar da pochi inteso. Prima, che il Sol girasse, e gl' anni, e i mesi In ombra oscura, come il Fattor volse, Ignuda nacqui, e di bellezza priva; Ma desiando il bel raggio divino,

Seguendo il mio destino, Mi volsi, e la sua luce altiera, e diva S' impresse nel mio sen la varia forma, Che il concavo del Ciel dipinge, e informà. Questo è del vero ben la minor parte: Vedrailo appien, se le vestigie sante Di quelle, a cui n' andiam, tu segui, e l' arte. Così dicendo, i termini d' Atlante Lasciamo adietro, i novi regni, e il Gange, Scendendo v' l' Ipocren mormora, e frange. Poscia, che del Monton l' aurate spoglia Da Colchi riportò il superbo legno, Tra l' Idra, e il maggior Can di stelle adorno l' affisse Giove in Cielo, alla sol voglia Delle Muse or si move. Ivi entro allora Pellegrina m' accolser nel suo regno, Preste a condurmi al bell' alto soggiorno, V' l' alma in sè giojendo s' innamora; Quivi obbliando la primiera scorza, Poggiamo verso il Ciel con lunghi giri, E alzando i miei desiri, Così del proprio ben la mente accorta Feron con divin canto, e con parole Le Dive, cui Parnaso onora, e cole: E riguardando dall' ardente giro Il picciol globo v' il Sol si chiude, e serra Terrena gloria, e folle uman desiro, Il lungo affaticar sdegnai, che in terra Ne afflige, e dove è il Sol più freddo, e basso Si mostra, entrammo in Ciel con lieto passo. Mentre, che presa d' alta meraviglia, Miro gli eccelsi lumi, e dal suo moto Raro, e divin concento uscir mi accorgo, A cui nullo mortal canto simiglia, d' una delle mie nobili compagne Udì: Quì non s' arresti ' l tuo devoto

Desio di gir al bene ov' io ti scorgo, Ma amando il lor F' attor nell' opre mgne Con noi sino al supremo giro aspira, Così di cerchio in cerchio, il Ciel salendo Lo spirto mio, perdendo Giva i terreni affetti, ond' or si adira Contro l' impeto lor superbo, e fiero: Del calle obliquo, onde cadeo Fetonte, Per l' orribil' aspetto de' suoi mostri, E donde Apol comparte o salga, o smonte. A più lontani, ed à Paesi nostri Eguali i raggi suoi per tutto sparsi, Stupid sopra il Ciel m' alzai, ed arsi. Or voi stillate in me, cortesi Dive, l' almo liquor, che già il destrier alat Trasse dal monte avventuroso, e santo; Acciò dell' alto obbietto, che prescrie Il saper nostro quella parte io canti, Che già compresi, mentre in quello stato Vidi, vostra mercè, l' eterno manto Di lui, che infonde in voi concetti santi. Nove cerchj di vive fiamme ardenti Cingean qual proprio cerchio, qual grã lume, Che come fonte, o fiume Senza arrestarsi mai chiari, e lucenti, Roando i raggi suoi trà spirti eletti, Rischiara il lume loro, onde perfetti Scorgon nel prop io sin la bella stampa Dell' ineffabil Re, che solo è eterno: Al cui possente sguardo, ch' anco avvampa Nel mio pensiero ogni vigor interno Si sciolse, e mi cadei, bramando sempre Starmi in sì care, e sì felici tempre. Canzon, che al santo obbietto umana forza Senti mancar ardendo, benche io torne, Qual novella fenice all' alta prova;

Se gran fiamma d' amor mercè ritrova Nel Ciel, m' impetra, che mie luci adorne Dello splendor, che alla primiera scorza Die lume, ond' or il suo poter si sforza Veggan nel mio pensier con chiaro esempio Il vero Dio abitar, che è pur suo tempio. L' Alto pensier, ch' ogn' altro mio pensiero Dal cor mi sgombra ogn' or, come far suole Oscura nube chiaro, e ardente Sole, Di gir al Ciel mi mostra il cammin vero. Questo sol tien del petto mio l' impero, Ed in me cria desir, forma parole, Come suol vago april rose, e viole Con la virtù del Re de' lumi altero. Dunque, se il Ciel concorde alla Natura Consente, e vuol, che sol ei meco stia, Chi fia possente indi levarlo mai? Siami pur quanto puo fortuna ria Contraria ognor; che alla celeste cura Non potrà contrastare ella gia mai.

1571

FRa il candido, gentil canoro stuolo De' cigni, che con lor grati concenti Ferman le lucid' onde, Che van d' Adria bagnando il viso, e il seno; Levati ancor tu a volo, E i graziosi tuoi leggiadri accenti Con loro accorda, e canta le gioconde Glorie, di cui questo Trionfo è pieno. Vienti a posar su questa verde palma Da Dio piantata in Mar novellamente, Che la campagna mia lieta, eridente Su quest' acque fermata in dolce calma T' aspetta; e cantar teco s' apparecchia. Io con attenta orrecchia, Sedendo all' ombra della palma amena, Starò ascoltando un cigno, e una sirena. p>1571

NOn più desire omai l' alma vi cinga Di cantar questa fral bellezza nostra, Che non d' occhi splendor proprio mi mostra, Ma lingua altrui convien, che vi dipinga? Lasciate di cantar, che il cor vi stringa, E se la faccia mia s' imperla, e innostra, Quali ho le traccie, e gl' occhi; ma la vostra Musa a maggior soggetto omai si spinga. Cantate la Vittoria, che Dio diede Contro la Tracia invitta, e bellicosa Ai veri adorator della sua fede. Cio vi consiglia vergine amorosa; Che al vostro altero stil più si richiede D' una palma cantar, che d' una Rosa.

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CEda pur, ceda Apelle Con ogn' altro Pitore A voi, Maggi gentil, il primo onore, Come cedono al Sol tutte le stelle; Poiche non pur dipinta, Ma viva, viva mostra La bella Canzon vostra La Reina dell' acque Chieder a Dio piet à de' suoi martiri, Tra lagrime, e sospiri: E quando a Dio pur piacque Mirarla col pietoso volto santo, Subito rivoltaste il gaudio in pianto. Lieto ben lieto giorno, Onde giacque sconfitto L' empio Dragon, che gia sembrava invitto Or ti si mostri doppiamente adorno Nella Vittoria illustre, E di palme, e di alori, Mentre i sacrati cori Delle Muse, e di Apollo Cantan le lodi dei novelli Eroi, I chiari gesti suoi; Sicche all' ultimo crollo Sicuri sian d' aver avuto in sorte Di non esser soggetti all' altra morte. Da voi cigno gentile, Voi felice Sirena, Che co la vostra Musa vaga, e amena, E col dotto leggiadro, e dolce stile Ad or, ad or potete, Con le saggie parole

Aggiunger lume al Sole; In sì felice impresa, Ond' or Vinegia gloriosa sorge: La vostra Musa porge Dubbio, l' alma è sospesa, Se tra l' arme è maggior sì gran Vittoria, O fra le penne pur la vostra gloria. Ma donde avvien, che or tace Il vostro gran Cugino, Spirto celeste il Marcellin divino? Perche il suo fiume sol senz' onda or giace? Se come con la lingua, Onde i cor frena, e sprona, E come illustre suona Sua prosa al Mondo sola, Onde in et à fiorita Addolcì morte, e la fe parer vita. Così famoso vola, Perche talor gradì Parnaso, e Pindo Dal Borea all' Austro, e dal Mar Moro all' Indo. Gentil Maggi, a voi lice, Solo avete potere Mostrar a lui, come non dee tacere, In così gran Vittoria, e sì felice. Ben felice, e dolce ora, Che a tal gloria ne scorse, E tanto ben ne porse: Ora gioconda, e lieta, Ch' oggi rimeni il dì lieto, e sereno, E fortunato appieno Senza fin, senza meta Ora cara felice, e dolce, e amata, Che nulla esprime il te chiamar beata. Vanne, Canzon, che in darno Non anderai; che il Maggi dolce, eumano Ti porgerà la mano.

1571

O Me beata; poiche in sì verdi anni Il Ciel mi da per voi, spirto gentile, Sentir in così raro altero stile La Vittoria di Cristo, e gl' altrui danni. Felice lor, che ne' beati scanni Godon senza timore un lieto aprile; Questa vita mortal tenendo a vile, Sicuri de' terrestri, eterni affanni: Avventurati spirti, appieno in vero Innalzati da voi, che l' opre chiare Di quei fate apparir, qual vivo Sole. Deh, perche non poss' io l' animo altero Vostro goder, come or lungi le rare Virtù l' anima mia comprende, e gode? MUzio, che in fresca et à sotto i più fieri Colpi d' empia fortuna altero ornate Di nova, e più bell' Orsa il Cielo, e date Altrui materia, ond' alta gloria speri; Se vi sien meno i Ciei crudi, e severi, Nel vostro raro stil la donna alzate, Ond' ha più fama il Lambro, onde fregiate Sue rive son di tutti gli onor veri. Sicche il Visconti mio, cui tanto onoro Vegga la sua Artemisia in carte accolta, Quel, che le mie non pon da farla eterna. Ed io quanto il mio debole lavoro Potrà seguirvi; tutta a lei rivolta Canterò almen la sua bellezza esterna.

DEh perche, Muzio, alla Franc' Orsa gloria Nostra, e del Cielo il tuo bel stile hai tolto, Se a prova in lei tutte le stelle accolto Hanno il bello, ond' Amor di noi si gloria? Ben possente ebbe, oimè, di te Vittoria La Donna, a cui te stesso, e' l canto hai volto, E tale ha grazia, e tal valore, e volto, Che stancar puote ogni poema, e istoria. Pure è più degno in Ciel, che in una valle Starsi a cantar, bench' ivi erbette, e fiori Mova ad ogn' or, per tuo diletto l' aura. E l' abbia il Tebro fra suoi primi onori, E il Sol non vegga dal suo obbliquo calle, Pari a lei quinci all' estrem' onda maura.

1573

PAdre ererno celeste, ed immortale, Che il Ciel, la Terra, il Mar reggi, e governi, E sino i bassi averni, Che al tuo poter non è possanza eguale, Onde ogni cosa al tuo voler s' acqueta A te, Signor, devota, umil, o lieta Rende grazie Venezia, Italia, e Roma E la Spagna, che doma Hai la superba fronte al fiero mostro E rotto il duro rostro Tal che d' ira, e di dnol si strugge, e langue, Che vede tinto il Mar del proprio sangue. Del crudel suo spietato, e fiero artiglio Ne traesti, Signor, clemente, e pio,

Quando porre in obblio Nostra antica virtue era in periglio, Tu il vel dagl' offuscati occhi levasti, E i disuniti petti in un legasti Quindi di tua piet à m' apristi il fonte, La vè con forze pronte Con Piero corse, e con l' Aquila, il Leo, E strinser l' empio Anteo, E perche non gli dia la terra lena Sotto l' acqua il tuffar di sangue piena. Col gran Vessillo dell' invitta Croce Il nostro Redentor l' Inferno vinse, E di catene avvinse Pluto nel centro orribile, e feroce, E sopra il Ciel vittorioso salse, Così or nelle campagne umide, e salse All' apparir della beata insegna, Sola di gloria degna, Tacquero i venti, e il Mar nulla si mosse; Che il cor ne' petti scosse A Sciti indizio di lor doglie amare, E d' aver per sepolcro un' ampio Mare. Qual ora il Re del Cielo afflitto scorge Il fedel popol suo gli dona aita, Per sua bontà infinita, Da cui sempre ogni bene, e grazia sorge, Purche ferma sia in noi speranza, e fede: Com' or, che il nuovo Xerse altero ei vede Del Mondo disegnar monarca farsi, E con gran stuolo armarsi A' danni nostri, e il Mar coprir di legni, Scelge tosto pria degni Temistocli, e ver lui pronto diserra Da quei vien rotto, e vinto in breve guerra. Vista dal sommo Dio la strage orrenda, Che quel gran Filisteo de' suoi facea,

E qual tutto struggea, Come rapido fiume, che già scenda Diede del poter suo stupendo segno; Ch' un fanciul con le pietre, e con un legno L' atterra ratto, e con man pronta, e presta Troncò l' orribil testa, Di che fece Giudea giubili, e canti: Tal i sospi, e i pianti, E il sangue nostro giunto al divin trono, Diè a noi de' Traci alta vittoria in dono. Volse nel gran convito il Re Caldeo Dar ber ne' santi vasi il vino a' suoi, Ma tosto apparve poi Scritto da man celeste il suo fin reo: Tal dianzi l' oriental Tiranno i tempi Profanò in Cipro sagri, e fe tai scempi, Che dalla non più udita crudeltade Fu il Ciel mosso a pietade, Onde nell' Ionio mar fur viste impresse Di sangue in note espresse: Per immutabil volonta divina, Fia l' impero Ottoman posto in rovina. E chi scoprir l' eterna providenza Non scerne effetti mirabili al mondo, Con quel alto, e profondo Giudicio, e l' infinita sua sapienza, Miri' l gran Vecchio sì canuto, e bianco, Come a gran vopo trae l' antico fianco, E coll' ardita fronte, e col valore Giugne forza, e vigore A magnanimi capi, ed alle membra, Che non mortal rassembra, E come con virtute invitta mostra All' antica non ceder l' età no stra. Ma semino in arena, e indarno tento Narrar del Ciel le maraviglie immense,

Che troppo disconviense Alta cima salir piè zoppo, e lento, E la mano, e la lingua, e l' intelletto Restan vinti, e abbagliati dall' oggetto; Ma chi calca le stelle, e al Ciel da luce Nostra sol speme, e Duce Sgombri ogni vil timor s' armi d' ardire Sua mercè, onde il seguire La bella impresa a noi sia sì felice, Che a si rea pianta svelli ogni radice. Canzon, primieramente incensi, e voti Diansi all' eterno Dio, da cui ne avviene Ogni grazia, e ogni bene, E cantiam laude a lui di tal Vittoria, Degna d' eterna gloria: Poi corone, trofei, trionfi, allori Sian premio di virtute ai Vincitori.

1575

QUanto illustre valore oggidì regni, Quante chiare virtuti in uom mortale, Soggiorni si, ch' egli divenga eguale A quegli antichi Eroi famosi, e degni; Si scopre in voi, Signor, che agl' alti segni Di vera gloria virimiro tale, Che il nome vostro sia sempre immortale Tra più pregiati, ed elevati ingegni. Onde s avvien, che d' ogni intorno suone L' altere vostre lodi alme, e perfette, E sian piene di voi tutte le carte: Meraviglia non è; ch' una sol parte De' rari vostri merti vi promette Archi, imperi, trofei, scettri, e corone.

1575

SE la Brenta s' innalza oltre il costume Sovra le verdisue fiorite sponde, E non tributan le sue verdi sponde Con dritto corso d' Adria al sacro Nume; E ben ragion; poiche qel chiaro lume A cui le luci altrui restan seconde, Oggi s' adorna della sagra fronde, Che non attinge l' obblivioso siume. Onde di Castel franco il buon Musone Alzando il capo suo del lido fuori Le Mura abbraccia del vicin Musile: Felice augurio, che anderan gl' onori Del suo Spinelli senza paragone Dall' Orse all' Austro, e dal mar d' India a Tile.

1575

ILlustre, e glorioso Castel Franc, Per tai felici, e virtuosi esempi, Onde le sagre Div ergono Tempi Del buon Muson dall' uno, e l' altro sianco. Ed ogni Cigno valoroso, e bianco, Lodando questi fortunati tempi, Qual novo Atlante non si ved stanco, Perche l' altera famaunqua s' attempi. Che come l' ombra all' apparir del giorno Da questo ciaro Clima si na sconde, E a noi limpido il Ciel scoprir si suole. Così l' antiche glorie d' ogni intorno Veggio oscurarsi, e rimaner seconde All' apparir di questo novo Sole.

ALda Torrella Nobile Dama Pavese, e quanto nobile altrettanto saggia, ed erudita: ebbe in marito Gio: Mario Lunato. Moltissimi Letterati della età sua in di lei lode composero. Il saggio, che delle sue rime io ne do, è tratto dalle Rime di cinquanta Poetesse ristampate dal Bulifone 1695. e da quelle del Rainiero presso Gabriel Giolito nel 1554. e da me poste pag. 165.

Andromeda Felice, di qual patria ella foe, rinvenire non ho potto. Il saggio è tolto dal Panegirico nel felice Dottorato di Giuseppe Spinelli. Padova per il Pasquati 1575. tempo, in cui ella fioriva pag. 249

Anna Golfarini. Nè men di questa, quantunque letterata Donna memoria ci resto, che


o sappia della sua Patria. Scrie del 1555. Il aggio è preso dal Rosario delle stampe di tutt' i Poeti, di Frà Maurizio di Gregorio Napoli senz' anno, e senza Stampatore; e si vede pure un suo Madrigale nel Tempio di D˙ Giovanna di Aragona. pag. 166

Atalanta Sanese: il Domenichi, che raccolle le sue Poesie, nè meno seppe, a mio credee, il di lei cognome; impercioccliè lo tacque. Penso, ch' ella fiorie nel tempo, in cui fiorì la maggior parte delle cinquanta Poetesse. pag. 162

Aurelia Petrucci di nobile Famiglia Sanese, coltivò le belle arti; e di anni 31. del 1542. lascio di vivere, e fu sepolta in S˙ Agostino della a Patria. Il faggio è dalle cinquanta Poetesse. pag. 71

Aurelia Roverella, moglie del Co: Girolamo Ferrarese ha rime nella Raccolta per Lucrezia Gonzaga, ed in molte altre ancora, e nella raccolta de' Poeti Ferraresi, dalle quali o ne hò tratto il saggio. Fioriva ella del 1565. pag. 230

Barbara Torrella u maritata in ErcoleStrozzi Gentiluomo Ferrarese, con cui visse solo tredeci giorni, essendole stato da un Rivale ucciso. Scrisse del 1509. Dalla Raccolta sopraddetta tratte sono le rime. pag. 33

Bartolomea Costanza, di cui si trovano composizioni nel Panegirico del mentovato Spinelli, perciò da me posta del 1575. pag. 250

Bartolomea da Matuglia no Bolognese, fiorì circa il 1406. Fu questa leggiadra, ed erudita Donna caldamente amata da Carlo Cavalcabue Signor di Cremona, alle di cui a morose richieste saggiamente rispose con la lettera da me riferita,


e tratta dalla Cremona letterata dell' Arisi. pag. 7

Batista da Monte Feltro, figliuola del Conte Federigo, e consorte di Galeazzo di Malatesta Malatesti Signor di Pesaro, con cui si maritò del 1405. Rimasta Vedova entrò Monaca dell' Ordine di S˙ Chiara col nome di Suor Girolama, e passo al Signore con fama di venerabile. Valorosamente si esercitò nella Poesia, e nel bel dire; onde fece pubbliche dispute, e molte orazioni disse innanzi Martino V˙, Sigismondo Imperadore, ed altri Principi, e Signori, Scrisun libro della Fragilità umana, ed un' altro della Religione. Il saggio è tratto dalle Laudi di diversi Autori 1485. Firenze per Francesco Bonaccorsi, ed in Venezia pel Rampazzetto 1563. pag. 16

La Beata Batista Varana de' Principi di Camerino, nacque adì 9. Aprile 1458. Vestì l' abito di S˙ Chiara, e senza studio di lettere umane accesa dallo amore Divino, molte, e divote Laudi compose, che stanno nel terzo libro delle Rime spirituali al segno del Pozzo 1572. se non che nella laude O Tu, che fatta sei religiosa, servita mi sono per regolarla del terzo libro de' Comentarj dell' Eruditiss. Sig˙ Canonico Crescimbeni. pag. 25

Beatrice Salvi, figliuola di Verginia, di cui ne fò onorata menzione. Abbiamo di questa poesie nelle rime per Donne Romane del Manfredi, e presso u na lettera, e Sonetti di Verginia Salti. Venezia 1571. tempo, in cui ella fioriva. pag. 245

Berenice G˙ arguisco, che fiorisse circa il 1550 poichè il saggio è tratto dalle Rime delle cinquanta Poetesse, la maggior parte delle quali


in quel tempo, o in circa fioriva. pag. 103

Bianca Aurora da Este, moglie di Tommaso Porcacchj Scrittor di buon nome, e del quale ella invidia non ebbe. Fiorì del 1560. Il saggio sta uelle rime in morte d' Irene del Spilimbergo. pag. 215

Camilla Scarampa, nipòte di un Vescovo di Mantova, siccome io ne trassi da un raro M˙ S˙ dell' Illustrissimo Sig˙ Apostolo Zeno, il quale contiene una raccolta d' illustri rimatori. Appresso le rime di quest' autrice vi si veggono de' Sonetti di Gio: Mozzarello Mantovano a lei scritti; onde convien dire, che vivesse circa il 1520. tempo, in cui il Mozzarello fioriva. p. 34

Candida Gattesca nativa di Pistoja, maritata in Andrea degl' Illuminati. Scrisse circa il 1560. Il saggio è tratto dalle rime di cinquanta Poetesse. pag. 209

Cassandra Giovia, moglie di Girolamo Magnacavallo Sig˙ di Gravedona, ha rime in quelle di diversi in morte d' Irene di Spilimbergo, e nel Tempio di D˙ Geronima Colonna d' aragona. Padova 1568. pag. 230

Cassandra Petrucci, della stessa illustre Famiglia di Aurelia, e com' e credibile sua concittadina, e congiunta. Diede rime nella raccolta delle cinquanta Poetesse. Fiorì circa il 1550. pag. 127

La Beata Caterina Fieschi Adorni Genovese, nacque del 1447. di Giacomo Fieschi discendente da Ruberto fratello di Papa Innoc. IV. Per solo dono di Dio scrisse due eloquentiss. trattati, l' uno del Purgatorio, e l' altro intitolato Dialogo del Corpo, e dell' Anima. A' 14. Settembre d' anni 75. rese a Dio lo spirito. Il saggio stà ne' Coment. del Crescimbeni. pag. 29


Caterina Pellegrina Nogarola, Napolita na. Ha due Sonetti nel libro intitolato il Ritatto del Governo di Lucio Paolo Rosello al segno del Pozzo, 1552. al qual tempo ella fioriva. pag. 161

S. Caterina da Siena, figliuola di Boncossa da Siena, e come vogliono alcuni della Famiglia Borghesi, Monaca di S˙ Domenico, e di alta santita, e dottrina nota a tutto il mondo cristiano. I trattati spirituali, e le ante lettere, ch' ella scrisse, come pure le fatiche, ch' ella spese per ridurre, come fece Gregorio XI. a trasportare d' avignone a Roma la Sede, rendono stupore, com' ella tanto si avanzasse nello spirito; poichè d' anni 33. del 1380. passò gloriosamente nel Signore. Il saggio delle rime è rapportato ne' Coment. del Crescimbeni. pag. 5

S. Caterina Vegri, nata in Bologna di Padre Ferra ree per nome Gio: Vegri, o Vigri, si esercitda per sè negli studj, e ne ritrasse molta laude. Scrisse un libro intitolato Le 7. Armi spirituali, in cui veramente si scuopre lo spirito Divino, di che era ricca. Compose un poema latino di versi 1610. che tutti finiscono nella sillaba is. e in questo canta i Misterj della Redenzione, ed appresso un libro di poesie volgari, che M˙ S˙ nel di lei Convento si conserva. Edificò il Monistero del Corpus Domini in Bologna, dove nel 1463. rese l' anima a Dio˙ Il saggio è tratto dalle rime de' oeti Ferraresi. pag. 19

Celia Romana, ha rime nel Tempio di D˙ Geronima Colonna d' aragona. Fior circa il 1565. pag. 235.

Chiara Matraini, Gentildonna Lucchese, molto versata nella Filosofia, e nella Storia, ed


ebbe letteraria corrispondenza co' più famosi della età sua. Scrisse un libro di Poesie, una Parafrasi in verso, ed in prosa di diversi Salmi, ed un' altro libricciuolo della V. ta di Maria Vergine. Fiorì circa il 1555. Il saggio è trato dalle rime dell' Autrice. pag. 167

Cintia dalla Fratta fiorì del 1575. come appare dal già citato Panegirico dello Spinelli, donde abbiamo tratto il saggio. pag. 25

Clarice Medici di Fiorenza, figliuola di Pietro Medici, e di Alfonsina Orsina, e moglie di Filippo Strozzi. Fiorì circa il 1540. Il saggio si legge nelle rime delle 50. Poetesse. pag. 71

Cornelia Brunozzi de' Villani, da Pistoja Scrisse circa il 1535. Il saggio è preso dalle 50. Poetesse. pag. 65

Cornelia Cotta, nonchè nella Poesia, fu valorosa eziandio nell' arte Oratoria. Il saggio si vede nel Tempio di D˙ Geronima Colonna. Fiorì del 1565. in circa. pag. 231

Costanza d' avalo Napolitana, figliuola d' In. nico d' avalo, e di Laura Sanseverina, moglie di Federico Duca d' amalfi, e rimasta vedova in giovan' età senza figliuoli, visse di modo, che celeberima donna fu riputata, e meritò, che l' imperadore le desse il titolo di Principessa. Fiorì del 1550. Il saggio è tratto dalle sue rime, che vanno unite a quelle della Marchese di Pescara. pag. 74

Diamante Dolfi Bolognese, compose di belle lodi in onore di Lucrezia Gonzaga, le quali sparse vanno in molte raccolte. Fiorì circa il 1560. pag. 211

Diana N˙, fiorì questa al tempo di Gio: Battista Filippi, a cui ella risponde con un Sonetto, come si vede nelle rime di quell' Autore;


onde io la pongo circa il 1562. tempo del suddetto Filippi. pag. 227

Dianora, o Leonora Sanseverina, figliuo la di Pietro Antonio Sanseverino Principe di Bisignano, e di Giulia Orsina, moglie del Marchese della Valle Ciciliana, riuscì mirabilmente nella volgare Poesia circa il 1560., e del 1581. lascio di vivere in Napoli sua patria. Il saggio è tratto dalle rime in morte d' Irene di Spilimbergo. pag. 227

Egeria Canossa, uscì dalla illustre famiglia de' Conti di Canossa Reggiani, e di questa valorosa Donna, che fiorì circa il 1560. abbiamo rime nella raccolta delle 50. Poetesse. pag. 204

Emilia Brembata, moglie di Ezechiel Solza, ebbe in Bergamo i natali da illustre famiglia di quella Città; e non solo della poesia, ma della eloquenz' ancora fu così ornata, che innanzi il più illustre tribunale di Venezia orò intorno la miserabile uccisione di Achille di lei fratello. Scrisse circa il 1563. Il saggio sta nel Tempio di Geronima Colonna. pag. 228

Ermelina Aringhieri de' Ceretani Sanese, diede rime alla raccolta delle 50. Poetesse, e fiorì circa il 1550. pag. 130

Ersilia Cortese, moglie di Gio: Batista de' Monti nipote di Papa Giulio Ill. ai quali carissima si rese, per le rare sue qualità. Rimasta vedova in etá fresca, e dello appoggio pure del Zio privata, per non voler condiscendere alle seconde nozze di un prepotente, e indegno Signore, fu tirannicamente de' proprj beni spogliata, ed astretta a menare fuori, di Roma una vita solitaria, e privata. In segno però della sua costanza portar soleva pe impresa un Palagio, che arde, col motto: Opes non animum.


Fiorì circa il 1555. Saggi della sua buona vena in poesia si veggono nella raccolta del Manfredi per Donne Romane. pag. 166

Fausta Tacita, fiorì circa il 1540. Il saggio è tratto dalle rime delle 50 Poetesse. pag. 213

Faustina Valentina, hà sue rime nel 4. libro di diversi autori. Bologna, presso il Giaccarello 1551. pag. 131

Fia mmetta Malespina, una delle più illustri Dame di Firenze, moglie di Alessandro Soderini, mancò di vita l' anno 1571. Oltre le sue polite volgari poesie lasciò M˙S˙ un volgarizamento di Terenzio. Il saggio è tolto dalle stanze del Firentilli, dalle rime di Mario Colonna, e da quelle di Curzio Gonaga. pag. 223

Fiorenza Piemontele, scrisse circa il 1549. e lasciò rime nella raccolta di 50. Poetesse; ma non lasciò altra notizia di sè. pag. 107

Francesca Baffa Veneziana d' illustre famig, del 1540. diede di sè gran fama appresso i letterati; cosicchè asserisce il Chiesa, che molti, e degni soggetti da' paesi loro si partirono, a solo motivo di visitarla. Il saggio è tratto dalle rime diverse di molti autori, raccolte dal Domenichi, e dai Sonetti del Betussi. pag. 69

Francesca B˙ Sanese, fiorì del 1560. Così di questa Donna vien ripportato il nome, e le rime nel Rosario delle stampe di tutt' i Poeti. p. 212

Gaspara Stampa. Fu veramente impareggiabile per la vivacità dell' ingegno, per la franchezza, e dolcezza dello stile poetico. Amò teneramente Collaltino de' Conti di Collalto, Cavaliere per le armi, per le lettere, e per ogni altra qualità uno de' più famosi dell' età sua; ed in lode del quale le di lei rime compose. Nacque in Padova, ed abitò per lo più in Venezia,


ove giovane lasciò di vivere circa il 1550. e sua sorella Cassandra dei 1554. diede in luce le opere sue, e dedicolle a Monsignor della Casa allora Nunzio Apostolico in Venezia. Si chiamò ella nelle sue rime col nome di Anassilla dal fiume Anasso, detto comunemente la Piave, che bagna, e cinge le antichiime Giurisdizioni della Casa Collalto nella Marca Trevigiana. pag. 77

Gentile Dotta, ha rime nella raccolta delle 50. Poetesse, e fioriva circa il 1550. pag. 107

Girolama Castellana nipote di Tommaso Poeta di qualche grido, fu Monaca in S˙ Gio: Battista a Porta Pia di Bologna sua patria. Il saggio è preso dal 4. libro delle rime di diversi, e della mentovata raccolta del Bulifoni. pag. 117

Gianetta Tron Nobile Veneziana, e protettrice di Luigi Grotto cieco d' adria, come appare dal Trofeo della Vittoria sagra raccolto dallo stesso Luigi, e dato in luce in Venez. 1571. nel qual tempo ella fioriva. pag. 242

Giovanna Bianchetti, oltre della poesia professò molte scienze, e versatissima fu nella lingua Latina, Greca, Polacca, ed Alemànna, ed altre ancora; sicchè meritò, che molte Principesse altamente la distinguessero. Nacque in Bologna di Matteo Bianchetti, ed ebbe in marito Buonfignor de' Buonfignori accreditato Girisconsulto. Un saggio delle sue poesie viene rapportato nel Rosario delle stampe di tutt' i Poeti. pag. 4

Giulia Aragona, mi lasciò il desiderio d' averne maggiori di lei notizie, mentre null' altro io trovo, che alcune rime nel 4. libro di diversi autori, perciò da me posta nel fior del buon secolo. pag. 130


Giulia Bracalli de' Ricciardi, fu ella amica di Cornelia Brunozzi, che fiorì del 1535. Si può dunque credere, che anche questa nel medesi mo tempo scrivesse. Sta il saggio nelle rime di 50. Poetesse. pag 68

Giulia Cavalcanti Gentildonna da Gaeta, riportata con molta lode dall' Atanaggi nel 2. libro della sua raccolta; fiorì circa il 1565. p. 231

Gregoria Gentildonna Romana. Stà il saggio di questa nelle rime leggiadre degl' Accademìci nuovi. In Venezia senz' anno; allo stile però sembra, ch' ella fiorisse del 500. pag. 178

Giustina Lievi Perotti, ai detti del Menagio da Sassoferrato, e della nobile famiglia di Levi Francese: fiorì circa il 1350. e secondo la maggior parte de' Scrittori fu veramente ella, che scrisse al Petrarca il Sonetto:

Io vorrei pur drizzar queste mie piume.

il quale io hò tratto dai Coment. del Crescimbeni, ed a cui il Petrarca risponde con quello:

La gola, il sònno, e l' ociose piume. pag. 2

Incerta, hà loco nelle 50. Poetesse, le cui rime la prima volta furono impresse del 1559. nel qual tempo mi parve proprio di metterla. pag. 179

Incerta, è tratta dal 2. libro della Raccolta dell' Atanaggi, dov' ella risponde a qualche Sonetto di Orsatto Giustiniano; fiorì dunqne del 1565. pag. 228

Incerta Gentildonna Veneziana: per quanto riferisce Marziale Avanzo, che raccolse, e diede in luce una di lei Canzone presso Domenico Farri 1573. e tal Canzone ella compose per la famosa Vittoria de' Curzolari. pag. 246

Ippolita Gonzaga Mantovana, figliuola di D˙ Fernando, e moglie di D˙ Antonio Caraffa


Duca di Mondragone. Vi sono di molto belle medaglie col di lei ritratto dal Cav. Leone Aretino scolpite, e Antonio Securo raccolse molte Composizioni in di lei morte, che seguì del 1563 ai 9. di Marzo. Il saggio è tratto dalle 50. Poetesse. pag. 180

Ippolita Mirtilla. Molti credono, che questo fosse nn nome supposto; fu molto amica di Gaspara Stampa, e fiorì a' suoi tempi, che fu del 1548. Hà rime in d. Raccolta. pag. 101

Isabella Capece, figliuola di Girolamo Baron Napolitano. Del 1500. scrisse ella alcuni libri pii. Il Sonetto da me riportato si legge nel Rosario delle stampe di tutt' i Poeti. pag. 33

Isabella di Morra, una delle più colte Rimatrici del buon secolo. Napoli fu sua patria, e le sue Rime vanno impresse con quelle di Veronica Gambera, e di Lucrezia Marinella. p. 134

Isabella Pepoli dell' illustre famiglia Bolognese, moglie di Giulio Riario Senatore, e madre di Alessandro, che fu il terzo Cardinale della chiara sua Casá. Hà rime nel Tempio di D˙ Giovanna d' aragona, ed in altre Raccolte. pag. 176

Isotta Brembata. In molte scienze spiccò l' ingegno di questa, che fu Gentildonna Bergamasca, e moglie di Girolamo Grumello: intese ancora molte lingue, ed in particolare la Spagnuola, nella quale asseriscono gli Autori, che ella componeva al pari di ogni più bravo Poeta di quella nazione. In occasione di sua morte, che seguì circa il 1587. fu stampata una Raccolta di Poesie per Comino Ventura, e nella quale stanno anche delle sue Rime. pag. 237

Laudomia Forteguerri Dama Sanese, moglie di Petruccio Petrucci. Alessandro Piccolomini,


che le tenne un Puttino al Battesimo, indirizzò a lei il libro dell' Istituzione della vita dell' Uomo nobile. Fiorì ella circa il 1545. Il saggio è tratto dal 1. libro delle Rime di diversi Autori. pag. 76

Laudomia da S˙ Gallo ha Rime in quelle di 50. Poetesse, e iorì ella 1565. in circa pag. 129

Laura Battifera da Urbino Figliuola di Antonio, e moglie di Bartolameo deg l' Amanati famosissimo scultore, ed architetto Fiorentino: fu ella celebre Donna, e veramente d' ogni onor degna. Del 1560. ì Giunti di Firenze impressero le sue Poesie, e del 1566. i sette Salmi Penitenziali da lei tradotti in età d' anni 67. del 1589. lasciò di vivere nella Città di Firenze. pag. 189

Laura Gabrielli degli Alciati Contessa di Bellone, fiorì circa il 1568. ha Rime in quelle di Faustino Tasso. pag. 235

Laura Serratone, il saggio è tolto dal Rosario di tutti i Poeti, ed allo stile io credo, ch' ella fiorisce del 500. pag. 189

Laura Terracina Napolitana fiorì del 1551. in circa, e fu in gran pregio presso i letterati dell' età sua. Vanno impressi 4. volumi delle sue Rime, ed altre ancora in lode delle Signore Vedove Napolirane, ed un discorso in ottava rima sopra tutte le prime ottave dell' Ariosto. p. 142

Leonora Cibo de Vitelli fiorì circa il 1568. il saggio sta nelle Rime di Faustino Tasso. p. 237

Leonora de' Conti dalla Genca da Fabriano, degna di eterna lode, come una di quelle, che a' tempi del Petrarca seppe farsi conoscere vera di lui seguace, ciò che non fecero tant' altri all' indietro rimasti. M' Andrea Gilio rapporta nella sua Topica de' suoi sonetti. pag 4

Leonora Falletta, quantunque vivendo ella, furono


le sue Rime impresse del 1519. il saggio è tratto da quelle di 50. Poetesse, e dal Rosario di tutti i Poeti - Savona fu sua Patria ed ebbe in marito il Principe di Melazzo, e di villa Falletta. pag. 181

Leonora Maltraversa Moglie di Papafava Carrarese non che nella Poesia fu ella versatassima nella legge è nella medecina. Nacque in Padova, e fiorì del 1568. lasciando di vivere in età d' anni 72 ha Rime nel tempio di Geronima Colonna d' aragona. pag. 232

Liona Aldobrandina. Si legge un suo Sonetto nel Poema intitolato la morte di Ruggiero, opera di Gio: Battista Pescatore del qual visse ella amante, fiorì del 1547. pag. 77

Lisabetta da Cepperello di Patria Fiorentina, e benche stia il saggio nelle Rime di 50. Poetesse impresse del 1559. siorì ella del 1535. in circa. pag. 66

Lisabetta Trebiani Gentildonna Ascolana moglie di Paolino Grisanti. Il Crescimbeni raporta neí Comentarj un suo sonetto di assai buona idea. Fu di alto coraggio, e armata di notte tempo andava in compagnia del marito a cui molto piacevano l' armi, fiorì del 1397. in circa. pag. 7

Livia del Chiavello così chiamata perche moglie di Chiavello Chiavelli Signor di Fa briano prima Capitano di Filippo Maria Duca di Milano poi Colaterale della Serenissima Repubblica di Venezia ebbe ella vivace spirito, e pu gato stile fiorì del 1380. e visse fino 1410. sta sepolta nel luogo della Romita di Fabriano il saggio è tratto dalla Topica di M˙ Andre Gilio. pag. 6

Livia Pia di Patria. Bolognese A' essandro Poe


ti famoso Capitano fu suo marito, fiorè circa il 1559. ha Rime in quelle di 50. Poetesse, e nel Rosario di tutti ì Poeti. pag. 184

Livia Torniela Milanese, o Novarese figlivola del Conte Filippo, e Moglie del Conte Dionigio Boromeo, fiorì del 1554. in circa. Morì giovane si legge il saggio nelle Rime di 50. Poetesse. pag. 163

Lucia Albana il Ruscelli pose delle sue Rime in quelle di diversi Autori Bresciani per questo che ella fu maritata in Brescia nella Casa Avogadra; nacque per altro in Bergamo del Conte Gerolamo Generale della Screnissima Repubblica di Venezia, fiori circa il 1560. oltre l' altre sue cose a due gentilissimì Sonetti in morte d' Irene di Spilimbergo. pag. 208

Lucia Bertana Gerona di Pattía Modonese fiorì circa il 1559. il saggio è tratto dalle 50. Poetesse, e dal 4., e 9. libro delle Rime di diversi Autori. pag. 185

Lucrezia Figliucci ha Rime in quelle di 50. Poetesse, e nel Rosario di tutti i Poeti: scrisse circa il 1550. nè mi venne fatto di sapere, qual Patria ella a vesse. pag. 132

Lucrezia di Raimondo nè meno di questa potei rinvenire il Paese, fiori del 1540. in circa: in più d' una Raccolta vanno sparsi dei suoi componimenti; quello da me riportato è tolto dal Rosario di tutti i Poeti. pag. 72

Lucrezia Torna buoni, nacque questa chiarissima Donna in Firenze di Francesco; ebbe in marito Pietro di Cosimo di medici, è fu madre del famoso Lorenzo, ridusse in versi volgari molte sagre storìe, come sa rebbe a dire la vita di S˙ Gio: Battista in ottava Rima, e cosi quella di Giuditta, ed in terza Rima quella di Ester, e


quella di Susanna moglie dì Gioachin Ebreo, La vita di Tobia, e la vita di Maria Vergine, e molte altre cose ancora: Fu gran Protetrice de' letterati, ed il Pulci a sua richiesta compose il Morgante, fiorì del 1540. e lasciando di sè gloriosissima fama, lascio di vivere del 1482. ai 25 - di Marzo. Il saggio è tratto da varj componimenti di molti soggetti della Famiglia Me. dici, e dai Commentarj del Crescimbeni. p. 20.

Maddalena allavicina; il Bettussi, la dice di Patria Pavese; ma secondo i più Autori, ella fu di Genova, e moglie di un Marchese di Ceva, fiorì del 1560. ha Rime in quelle di 50. Poetesse, e nel Rosario di tutti i Poeti. p. 210

Margherita di Valoi nacque ai 11. di Aprile del 1492. di Carlo Duca d' orleans, e di Angolemme, e di Luisa di Savoja ebbe in marito Carlo Duca d' Alansone, ed in secondo voto Enrico di Albret Re di Navarra andò così adorna di prudenza, e di sapere, che fu creata da tutti gli Stati di Francia, Ambasciatrice a Carlo V˙ ond' ella ottene la liberazione del Re suo fratelo, e concluse la pace, che si chiedeva. Vien riferito, che nella nosta lingua oltre i Sonetti che vanno sparsi per le Raccolte ella abbia composto un Poema Eroico: uscì di vita in Bretagna del 1540. ai 21. di Decembre. p. 54

Maria de Ferrari altro di questo non poo dire se non, che fiorì del 1560. in circa, e che un suo Sonetto stà nelle Rime piacevoli del Caporali; in Milano 1585. pag. 188.

Maria Langosca Solera Pavese fiorì del 1550. il saggio è tratto dalle 50. Poetesse. pag. 135

Maria Martellì, de' Panciatichi questa parimenti ha Rime in quelle di 50. Poetesse nacque ella in Firenze di nobile Famiglia, e fiorì del


1540. pag. 72

Maria Spinola della chiara Famiglia Genovese, e di secondo cognome Porrara, per quanto riferisce il Ruscelli, fiorì del 1550. in circa; fi leggono dei suoi componimenti nel 7. libro delle Rime di diversi Autori, ed in altre Raccolte ancora. pag. 122

Narda Fior il saggio è tolto dalle Rime di 50. Poetesse, scrisse del 1550. in circa, e Firenza fu ua Patria.

Niccoltta Celsa fiorì del 1568. in circa; si legge un suo Sonetto nelle Rime di Faustin Tasso. 236

Nina Ciciliana, chiamata ancora Nina di Dante da Majano, per l' amore, che le venne da lui portato; fi fa di essa onorata menzione, come di quella, che fu la prima, che in nostra lingua scrivesse, e ne riuscì mira bilmente per quanto permettevano i rozzi suoi tempi un suo Sonetto col quale risponde al sopra mentovato Autore va impresso nel libro intitola Sonetti, Canzoni di Diversi Antichi Autori Toscani. In Firenze per gl' Eredi del Giunta. pag. 1

Olimpia Caraffa non trovo altro, che un suo Sonetto nel Rosario di tutti i Poeti, ed allo stile par che fiorisse nel buon secolo. pag. 131

Olimpia Malipiera Gentildonna Veneziana Figliuola di Leonardo, fiorì del 1560. in circa fu di Ottimo gusto nella Poesia, come apparisce, Da suoi componimenti sparsi in tante Raccolte, e per i quali riportò ella grandissimo onore. pag. 215

Onorata Peci nacque in Siena di nobile Famiglia, forì circa il 1556. il saggio è tolto dalle Rime di 50. Poetesse. pag. 177

Ortensia Aliprandi, fiorì ella del 1571. poiche


che si legge una ' sua Canzone nel Trofeo della vittoria sacra impresso nel medesimo anno. pag. 243

Ortensia di Guglielmo Signora di Fabrian fiorì del 1350. ai tempi del Petrarca, e per la nobiltà dello stile fu degna di moltissima ode. Si leggono dei suoi Sonetti nella Topica di M˙ Andrea Gilio. pag. 5

Ortensia Lomelina de' Fieschi illustre Dama Genovese scrisse del 1588. in circa - Il saggio è tratto dalle Rime di Faustin Tasso. p. 236

Ortensia Scarpi ho ricercato in vano di qual Patria ella fosse, fiorì del 1550. in circa, ed ha Rime in quelle di cinquanta Poetesse - p. 134.

Pia Bichi nobile Dama Senese riportata parimenti dal Domenichi nella sua Raccolta di Donne, fiorì del 1550. in circa. pag. 109

Ricciarda de Selvaggi fu teneramente amata da Cino da Pistoja, a cui ella corispose, mancò di vita circa il 1312. in circa, la sua morte fu pianta dal suddetto Cino, e mentre questa chiara Donna viveva egli indirizzò a lei tutte le sue Rime. Il Petrarca nel Trionfo d' amore misela al pari di Beatrice di Dante. Un suo Madrigale viene riportato dal Crescimbeni nei Comentarj. pag. 2

Rosa Levi Ebrea di Venezia, si convertì questa saggia Donna alla fede, e Luigi Grotto ne fa molto onorata menzione, fiorì del 1571. un suo Sonetto vien riportato dal suddetto Autore nel Trofeo della vittoria sacra. p. 242

Selvaggia Braccalli de' Bracciolini della stes. sa famiglia di Giulia Braccalli, fiorì del 1540. Il saggio è tratto dalle Rime di 50. Poetesse. pag. 73

La Sra fina, scrisse questa del 1500. in circa,


e fu di Patria Senese. Le stanze da me riportate si leggono nel Dispregio del Mondo di Agostin Colonna, Venezia 1524. pag. 30

Silvia Piccolomini Marchesa Senese, fiorì circa il 1550. ha Rime nel Rosario di tutti i Poeti, e nella Raccolta di Donne del Domenichi. pag. 124

Silvia di Somma Contessa di Bagno Napolitana; il saggio di questa e tratto parimenti dalle Rime di 50. Poetesse, fiorì ella del 1540. Annibal Tosso compose molte belle stanze in sua lode. pag. 73

Tullia d' aragona Donna di regàl fangue, e di Patria Napolitana, fiorì con molto onore del 1550., e fu ella amante di Girolamo Muzio. Oltre le sue Poesie impresse del 1560. appresso Gabriel Giolito compose un Poema intitolato il Meschino, ed altre cose ancora. p. 110

Veronica Gambera Illustre. Dama Bresciana moglie di Gisberto VIII. Signor di Coreggiol, fiorì ella del 1530. e salì meritamente in pregio appresso di Carlo V˙ e di Clemente VII. Morto che le fu il marito menò vita ritirata, e si diede allo studio delle sagre lettere le sue Rime vanno impresse con quelle di. Lucrezia Marinella, e d' Isabella di Morra, e sparse poi per moltissime Raccolte. pag. 56

Viginia Gemma de Zuccheri da Orvieto non a vendo io più sicura notizia del tempo in cui ella fioriva, mi parve proprio il metterla del 1550. poiche essendo ella nel numero di quelle Donne dal Domenichi raccolte facil cosa è che in tal tempo ella scrivesse; ha Rime ancora nel Rosario di tutti ì Poeri pag. 140.

Verginia Martini Salvi nacque in Siena, ed abitò con la propria famiglia molto tempo in


Roma, fiorì del 1561. in circa, e fu ella Donna assai stimata, si veggono de' suoi componimenti nel. 9. libro di diversi Autori, ed in altre Raccolte. pag. 152

Verginia Papa il saggio è tratto dal Rosario delle stampe di tutti ì Poeti, ed allo stile par che fiorisse del 100. pag. 109.

Vittoria Colonna Figliuola di Fabrizio Colonna uno dei più valorosi Capitani dell' età sua e moglie del parimenti fa moso in armi ed in lettere Ferdinando Francesco Marchese di Pescara, che amo ella quanto amar si possa cosa mortale, e ne fu secondo il merito corrisposta fiorì circa il 1525. e stette al pari d' ogni più rinomato Poeta dell' eta sua, e forse nel maneggio dei teneri affetti particolare si rese; rimasta che fu vedova si ritirò nel Monistero di Santa Maria di Milano. Finalmente del 1541., o 1549. lasciando di se la tanto gloriosa me moria, uscì di vita. Il saggio è tratto dalle sue Rime. p. 36

Vittoria Corombana il componimento che di questa io riporto è tolto da un M˙ S˙ di Francesco Melchiori esistente presso l' illustrissim. Sign. Orazio Amalteo di Uderzo, fiorì ella del 1510. pag. 125

IL FINE.