O Quanto per voi meglio si farìa,
Se quel, che il Ciel ingegno alto vi diede
Riconosceste con più cortesìa.
Sicchè a impiegarlo in quel, che più si chiede
Veniste, disdegnando il Mondo frale,
Che quei più inganna, che gli tien più fede.
E se lodaste pur cosa mortale,
Lasciando sol quel, ch' è del senso oggetto,
Lodar quel, che al giudizio ancor poi vale.
Lodar d' Adria il felice, almo ricetto,
Che benchè sia terreno hà forma vera
Di Ciel in Terra, a Dio caro, e diletto.
Questa, materia del vostro ingegno era,
E non gir poetando vanamente,
Obbliando la via del ver primiera.
Senza discorrer poeticamente,
Senza usar l' iperbolica figura,
ch' e pur troppo bugiarda apertamente;
Si poteva impiegar la vostra cura,
In lodando Vinegia singolare,
Meraviglia, e stupor della Natura.
Questa Dominatrice alta del Mare,
Regal Vergine pura, inviolata,
Nel Mondo senza esempio, e senza pare;
Questa da voi doveva esser lodata,
Vostra Patria gentile, in cuì nasceste,
E dove anch' io, la Dio mercè, son nata.
Ma voi le meraviglie raccoglieste
d' altro Paese, e della mia persona,
Quel, che Amor cieco vi dettò, diceste.
Una in vero è, qual dite voi Verona,
Per le qualità proprie di se stessa,
E non per quel, che da voi si ragiona.
Ma tanto più Vinegia è bella d' essa,
Quanto è più bel del Mondo il Paradìso,
La qual beltà fu a Vinegia concessa.
In modo dal mondan tutto diviso
Fabbricata è Vinegia sopra l' acque,
Per sopranatural celeste avviso.
In questa il Re del Cielo si compiacque* Original has "comipiacque".
Di fondar il sicuro eterno nido
Della sua Fè, che altrove oppressa giacque.
E pose a suo diletto in questo Lido
Tutto quel bel, tutta quella dolcezza,
Che sia di maggior vanto, e maggior grido.
Gioja non darsi altrove al Mondo avvezza,
In tal copia in Vinegia il Ciel ripose,
Che chi non la conosce, non l' apprezza.
Questo al vostro giudizio non s' ascose,
Che delle cose più eccellenti ha gusto,
Ma poi la benda agl' occhi Amor vi pose.
Dal costui foco il vostro cuor combusto,
Vi mandò agl' occhi della mente il fumo,
Che vi fece veder falso, e non giusto.
Ne d' io di me tai menzogne presumo,
Quai voi spiegaste ben con tai maniere,
Che dal modo del dir diletto assumo.
Ma non perciò conosco per non vere,
Le trascendenti lodi, che mi date,
Sicchè mi son con noja di piacere.
Ma se pur tal di me concetto fate,
Perche al Nido, ch' io nacqui non si pensa
Da voi, e in ciò perchè ognor non lodate?
Perche ad altra opra il pensier si dispensa,
Se per voi deve un loco esser lodato,
Che dia al mio spirto posa, e ricompensa?
Ricercando del Ciel per ogni lato,
Sebben discorre in molte parti il Sole,
Però vien l' Oriente più stimato;
Perchè quasi dal fonte Febo suole,
Quindi spiegare il suo divino raggio,
Quando aprir ai mortali il giorno vuole,
Così anch' io in questo, e in ogni altro viaggio,
Senza però col Sol paragonarmi,
Per mio Oriente, alma Venegia, t' haggio.
Questa, se in piacer v' era dilettarmi,
Dovevate lodare, e con tal modo,
Al mio usato soggiorno richiamarmi.
Lunge da lei di null' altro ben godo,
Se non, ch' io spero, che la lontananza,
Dal mio vi sciolga, e leghi all' altrui nodo.
Continuando in cotal mia speranza,
Prolungherò più, che potrò il ritorno;
Talchè mi amiate hà lo sdegno possanza.
Così vuol chi nel cor mi fà soggiorno
Amor di tal, che per vostra vendetta
Forse non meno il mio riceve a scorno:
Ma come sia non ritornerò in fretta.
SOvente occorre, ch' altri il suo parere
Dice, stimando fatte alcune cose,
Che non successer, nè fur punto vere.
Di queste, che pur son dubbie, e nascose,
In noi un certo istinto la Natura,
Che rende al peggio, ed a biasmarle, pose,
Benchè null' opra è di quà giù sicura,
E di quel, che men par, che avvenir possa,
Stiasi con più sospetto, e più paura.
Del Mondo ingannator questa è la possa,
Che quel, più contrario al ver succeda,
Per cagion torta occultamente mossa.
La ragion vuol, ch' ogni ben di voi creda,
Ma poi del verisimile l' effetto
Fa, che quel, che credei prima, discreda.
Comunque sia, egli m' e stato detto,
Se falso, o ver non importa, ch' io dica,
s' io son risolta, o se ne ho alcun sospetto.
Basta, che mi teniate per amica,
Come in fatti vi son, sicchè in giovarvi,
Non sarei scarsa d' opra, o di fatica.
Ed or, ch' io mi conduco a ragionarvi
Di quanto intenderete, a quel m' accosto.
Che dee chi fa profession d' amarvi.
Dunque alla mia presenza vi fu opposto,
ch' una Donna innocente abbiate offesa
Con lingua acuta, e con cuor mal disposto.
E che moltiplicando nell' offesa,
Quant' è stata colei più paciente,
In voi l' ira si sia tanto più accesa.
Sicchè spinto da sdegno impaciente,
Le man posto le avreste addosso ancora,
Se nol vietava alcun, ch' era presente.
Ma voi la minacciaste forte allora,
E giuraste voler tagliarle il viso,
Osservando del farlo il tempo, e l' ora.
Strano mi parve udir d' un uom diviso
Dai fecciosi costumi del vil volgo,
Un cotal nuovo inaspettato* Original has "inaspettaoo". avviso.
E mentre col pensiero a voi mi volgo,
Della virtude amico, e dell' onesto,
La fede a quel, che mi fu detto tolgo.
Dall' altra parte sò quanto è molesto
Lo spron dell' ira, e come spesso ei mena
A quel, ch' è vergognoso, ed inonesto.
Nè sempre la ragion, che i sensi affrena,
A stringer pronto in man si trova il morso,
E il gran soverchio rompe ogni catena:
Se per impeto d' ira il fallo è occorso,
Non durate nel mal, ma conoscete,
Quanto fuor del dover siate trascorso.
Gl' occhi del vostro senno rivogliete,
E quanto ingiuriar Donne vi sia
Disdicevole, voi stesso vedete.
Povero sesso con fortuna ria
Sempre prodotto, perchè ognor soggetto,
E senza libertà sempre si stia.
Nè però di noi fù certo il difetto,
Che se ben, come l' uom non sem' forzute,
Come l' uom mente avemo, ed intelletto.
Nè in forza corporal sta la virtute,
Ma nel vigor dell' alma, e dell' ingegno,
Da cui tute le cose son sapute.
E certa son, che in ciò loco men degno
Non han le Donne, ma d' esser maggiori
Degli uomini dato hanno più d' un segno.
Ma se di voi si riputiam minori,
Fors' è perchè in modestia, ed in sapere,
Di voi siamo più facili, e migliori.
E che sia il ver voletelo vedere?
Che il più savio ancor sia più paziente,
Par che alla ragion quadri, ed al dovere.
Del pazzo è proprio l' esser insolente;
Ma quel sasso dal Pozzo il savio traggie,
ch' altri a gettarlo fu vano, e imprudente.
E così noi, che siam di voi più saggie,
Per non contender vi portiamo in spalla,
Come anco chi hà buon piè porta chi caggie.
Ma la copia degl' uomini in cio falla;
E la Donna, perchè non segua il male.
S' accomoda, e sostien d' esser vassalla.
Che se mostrar volesse quanto vale,
In quanto alla ragion dell' uom sarìa
Di gran lunga maggior, e non che eguale.
Ma l' umana progenie mancherìa,
Se la Donna ostinata in sul duello,
Fosse all' uom, come ei merta acerba, e ria.
Per non guastar il Mondo, ch' è sì bello,
Per la specie di noi la Donna tace,
E si sommette all' uom tiranno, e fello.
Che poi del regnar tanto si compiace,
Siccome fanno il più quei, che non sanno,
(Che il mondan peso a chi più sà più spiace)
Che gli uomini perciò grand' onor fanno
Alle Donne, perchè cessero a loro
l' impero, e sempre a lor serbato l' hanno,
Quinci sete, ricami, argento, ed oro
Gemme, porpore, e quelle di più pregio,
Si pon in adornarne alto tesoro.
E qual conviensi al nostro senno egregio,
Non sol son ricchi i nostri adornamenti
D' ogni pomposo, e più prezzato fregio;
Ma gl' uomini a noi vengon riverenti,
E ne cedono il loco in Casa, e in strada,
In ciò non punto tardi, o negligenti.
Per questo anco è, che a lor portar accada
Beretta in testa, per trarla di noi
A qualunque dinanzi se ne vada.
E se ancor son tra lor nemici poi,
Non lascian d' onorar sempre, che occorre,
l' istesse Donne de' nemici suoi.
Da questo argomentando si discorre,
Quanto l' offesa fatta al nostro sesso
La civiltà dell' uom civile abborre.
Ne, ch' io parli così crediate adesso
Con altro fin, che di mostrarvi quanto
l' offender Donne sia peccato espresso.
Informata ancor son dall' altro canto,
Chi sia colei, di cui mi fu affermato,
Che ingiuriaste, e minacciaste tanto.
Certo questo non merita il suo stato,
E l' avervi il suo amore a tanti segni,
In tante occasion manifestato.
Cessin l' offese omai, cessin gli sdegni;
E tanto più, che d' uom nato gentile,
Questi non sono portamenti degni:
Ma è profession d' uom basso, e vile,
Pugnar con chi non hà difesa, o schermo,
Se non di ciancie, e d' ingegno sottile.
Perdonatemi in ciò, ch' io troppo affermo
Le colpe vostre; poiche io non intendo
Comprender voi più d' alcun' altro al fermo.
Ma quel, che vado adesso discorrendo,
E quanto ad onta sua colui s' inganni,
Che vada con le Donne contendendo.
Perchè al sicur di lui son tutti i danni,
Se vince mal, e peggio se vien vinto,
Il rischio è certo, e infiniti gl' affanni.
Col viso di rossore infuso, e tinto.
d' essere stato ogn' uom d' onor s' accorge
Di far ingiuria a Donne unqua in procinto.
E quanto più il valor vivo risorge,
Tanto più l' armi fuor dall' ira tratte,
Vergognando al suo loco altri riporge.
E si pentisce delle cose fatte,
In via, che se potesse frastornarle,
Le ridurria dall' esser primo intatte,
Ma perchè non puo indietro ritornarle,
Con dolci modi all' offese ripara,
E quanto puo si sforza d' annullarle.
Ritorna ancor l' amata al doppio cara
Nel rifar della pace, e per turbarsi,
Più d' ogni parte l' alma si rischiara.
Così nel ben vien a moltiplicarsi;
E così certa son, che voi farete.
Siccome suol da ogni par vostro farsi:
E colei certo offesa, o non avete,
O se vinto da sdegno trascorreste,
l' error di voi non degno emendarete,
Ed io di ciò vi prego in fin di queste.
ALla tua ceda ogni regale insegna,
Che delle sante leggi in man tenesti
Così bene il governo, onde reggesti
Di dotta gioventù scola sì degna.
Ad inchinarsi a te tutta ne vegna
D' Antenor la Città, che a tanto ergesti
Col tuo valor, che in terra un Ciel la festi,
Dove il bel senza noja eterno regna.
Tu di religion santa, e verace
Sei rilucente specchio, al cui bel raggio
Ogni spirto gentil si strugge, e sface.
Che da te fatto antiveduto, e saggio,
Dietro sen' vola alla divina pace,
Per destro, e sicurissimo viaggio.
ECco del tuo fallir degna mercede,
Magnanima, e vilissima Regina:
Come Fortuna ogni tua altezza inchina
Per le tue gravi colpe, or pur si vede.
Ecco d' assiria l' onorata Sede
Di tanti Regi all' ultima rovina:
Che il tempo faccia pur crudel rapina
Delle maggior grandezze or pur si crede.
Tu l' onor, tu l' impero, e tu la vita
Misera perdi in un sol giorno; è colpa
Sol di te stessa, e l' altrui gloria esalti.
Muzio ne hà gloria, e pregi eterni, ed alti;
E mentre ei te d' ogni brutezza incolpa,
Acquista al nome suo loda infinita.
ERa tranquillo il Mare, e l' aere chiaro,
E Zefiro spirava, e di viole
Carca più, che non suole
Sorgea l' aurora, e frutti, e frondi, e fiori
Produceva la Terra, ed era il Sole,
Nel suo cammino del Leone a paro,
Ne fea nube riparo
Al volto suo, quando tra verdi allori
Coronata di palma apparve fuori
Questa franc' Orsa, che col vago lume
De' suo begli occhi ogni uman core accende
d' onesta fiamma, e tende
Sì cari lacci, e in sì gentil costume,
Che chiunque è da lei arso, e legato.
Stima il foco soave, e il giogo grato.
Tal valor piove in noi dalla sa luce,
Benchè sempre saette avventi, e strali,
Che sgombra tutti i mali
Dai nostri petti, se talor si mostra
A noi benigna, ond' è, ch' oggi i mortali
Non curan morte, fin che nostro Duce
E' il lume, che conduce
A sommo onore i suoi seguaci: O nostra
Propizia Stella, o s' io la virtù vostra
Ridir potessi, come dentro al core
La porto impressa, o pur ergermi a volo;
Sicchè al contrario Polo
Per me s' udisse il vostro altero onore,
Tal fora all' ali mie baldanza nova
Data, che oserei star coi Cigni a prova.
Ma sebbene al mio vol son tronchi i vanni,
E le sue grazie mal meco comparte
Febo, e l' ingegno, e l' arte
Lunge assai van du sì gradita impresa;
Certo il desìo fia almen lodato in parte
Cui vien, che con sì dolci, e novi inganni,
Nebbia d' amore appanni,
Voi bella, e vaga, e d' onestade accesa
Fera gentil, se pur venite offesa
Dall' ardir mio, non vi movete a sdegno,
Che gran beltà ragion non tiene a freno:
Come è chiaro, e sereno
Il vostro lume, e più d' ogn' altro degno,
Così maggior d' ogn' altro è l' ardor mio;
Ne contrastar mi lice al gran desìo.
Dunque, se il mio pensier tant' alto poggia,
Non vien in lui da sua virtù tal lena,
Ma sol dalla serena
Vostra luce, ch' ogn' altra cura a vile
Tener mi face, e solo a lei mi mena.
Occhi beati, in cui splendor alloggia,
Talche, se strali, o pioggia
Giove minaccia, e che voi in atto umile
A lui volgiate il bel raggio gentile,
Egli abbagliato dal divino lampo,
Gia tutto acceso il cor d' onesto foco,
A voi tremante, e fioco
S' inchina, e scaccia dal celeste campo
Folgori, e tuoni, e già d' orgoglio, e d' ira
Voto, in vostra beltà si specchia, e mira.
Nè punto a gelosìa Giunon si move,
La qual ben sa, che vil pensier non puote
Nascere, ove percuote
De' bei vostr' occhi la gentil facella:
Ed al vostro saper son tutte note
Le fraudi, ch' egli usò, le indegne prove.
Già sotto forme nove,
Luce, per cui riman l' antica stella
Tenebrosa, nè più lucente, e bella,
Si mostra, come pria, che il vivo raggio
Vostro, lo suo splendor vince d' assai:
A lei ricopre irai
Poca nebbia, ed a voi non face oltraggio
O nube, o notte, e sempre a mille, a mille
Lampeggian vostre angeliche faville.
Canzon, vanne a quell' orsa, che l' impero
Ha di vera virtute, e di beltate,
E con quella umiltà, che a lei si deve;
In parlar dolce, e breve,
Le dì; siccome ell' è di nostra etate
Gloria, e splendor, così seco mia voglia
Amor legò, nè sia, ch' indi mi sciolga.
COrtese Donna, i cui soavi accenti,
Quel, che non fer già d' eco le parole,
Potrian Narciso anco invaghire, e il Sole
Fermar dal corso, e ritenere i venti;
Veggo le grazie, e in van gli amori intenti
A rimirarvi ognor, com' altri suole
Celeste cosa, che s' ammira, e cole,
A cui devoto il cor brami, e paventi.
Ben sono i vostri Monti alti, se il Cielo
Feriscono, e ben degno il vostro Alloro,
Che vago, e colto orna il celeste velo.
O di vera virtude ampio tesoro,
Se tanto io vaglio, pria, ch' io cangi il pelo,
Chiaro vedrete ancor quanto v' adoro.