VERSI E PROSE
DI
DIAMANTE MEDAGLIA FAINI
CON ALTRI COMPONIMENTI DI DIVERSI
AUTORI
E COLLA VITA DELL' AUTRICE
Il tutto insieme raccolto, e dato alla luce
DA GIUSEPPE PONTARA

Docla lyr&ecedil; digitis percurrere fila Canebat
Carmen, quod totidem numeris Gardeque, Saloque
reddebant Petrus Bembus in Benaco

In Salò MDCCLXXIV
PRESSO BARTOLOMEO RIGHETTI
Colla facoltà dè Superiori


A protezione delle opere ingegnose d' una celebre Donna quale si fu la Signora Diamante Medaglia Faini, non può meglio convenire che ad una Dama per tutti i riguardi ammirabile, e grande come l' E. V. Alla umilissima offerta m' invita quel profondo rispetto, che deriva dalla cognizione delle nobilissime doti, che l' adornano; come sarà effetto d' un cuore magnanimo nell' E. V. l' accolglierne il tributo, ed il padrocinio. Un tale onorevolissimo fregio le farà con maggior sicurezza comparire alla luce, e recherà nuovo splendore alla chiara memoria di una Donna, che fu, e sarà il decoro della Patria di chi con sincerissimo ossequio si dichiara.

Dell' Eccell. Vostra

Umiliss. Dev. Obblig. Servidore
Giuseppe Pontara.

ECco, Lettor benevolo, che io son giunto la Dio mercè ad esporre alla pubblica luce in questo volume raccolte le prose, e le rime di Diamante Medaglia Faini. Con ciò io penso di aver in parte almeno soddisfatto al merito di lei, e tutto insieme alle vostre brame. Se al tempo stesso soddisfatto avessi ancora alle mie, certo d'assai voi lo avreste più copioso. Mio desiderio era d' averle tutte, e a ciò sin da principio rivolsi le mie premure più attente e travagliose. La morte invidiosa sempre dell' altrui gloria avendoci tolti alcuni ragguardevoli Personaggi d'ogni nostra lode maggiori, ora ci fa piangere sulla perdita di tante opere che ella con carteggio letterario assoggettava alle loro saggie riflessioni. Miseri noi qualora l' ignoranza monta in trono, e vuol decidere dell' altrui merito al pari della giustizia! Monumenti così illustri passati forse alle mani d' indotte persone, parmi vederli destinati al foco. Certo che per quante ricerche io abbia fatte non giunsi che ad ottenerne pochissimi; parte de' quali sono anche stati impressi terminata l'opera, ed aggiunti dippoi all' opera stessa, perchè tardi pervenutimi. Questi voi li avrete uniti a non pochi Componimenti de' più chiari soggetti, che scrissero alla Faini, ed a' quali essa rispose. I primi impressi saranno in carattere rotondo, gli altri in corsivo, essendo in carattere rotondo ancora quelli, che cantarono le lodi della nostra Poetessa, e che sono registrati in fine dell' opera stessa. Voi così dall' autorità di uomini per dottrina tanto singolari argomentar potrete il merito sommo di questa valorosa Donna. Ritrovati poi avendo fra i suoi manoscritti i versi sciolti di Placido Bordoni indirizzati a Lodovico Ricci, ho pensato di non far cosa affatto inutile, o spiacevole l'unirli alle sue opere. Da non pochi versi si comprende in quale stima avesse egli una tal Poetessa. L'averli ella conservati ci fa conoscere essere questo un tratto d' Italiana Poesìa, che non merita viver sepolto, ma che a lui pure si deve l'onor della stampa. Per vostro comodo ho arrichito il libro di quattro indici separati, l'uno degli argomenti delle composizioni poetiche che troverete in principio, l'altro de'primi versi delle composizioni medesime, il terzo delle prose, e l' ultimo delle rime dirette alla Faini, e scritte in sua lode. Così crederò d'aver pienamente corrisposto anzi vinto ancora quanto vi promisi nel mio manifesto. Se il libro impresso sia in buona carta, con vivi caratteri e chiari, se abbia un margine conveniente, e spazioso, se fregiato veggasi e adorno con rami i più distinti, io rimetto tutto ciò al vostro disappassionato giudizio. Vivete felice.

ANima grande, che di stella in stella, In mezzo a rari pregi, al ciel salisti, E l'armonia soave, e 'l canto udisti, Cui non turba fragor d'atra procella; Tu, che beata in questa parte e in quella Come rotin le sfere, e come acquisti Ogni astro e moto, e forza, appien scopristi, E fra l'eterne idèe splendi si bella; Dall' alta empirea sede i lumi inchina Sul tuo Benaco, ove da Battro a Tile S' apre a' tuoi versi nuova luce, e fama. Gioisci, e umìl in tanta gloria esclama: Quanto somiglia del mio vago stile Il dolce suon all' armonìa divina! CArmina in apricum dum se proferre parabant; Quæ lusit facili docta Faina lyra, Ecce caput lauro viridi, cedroque revinctum Summo Benacus gurgite tollit ovans. Vestra, ait, baud periit Nisæa: applaudite mecum; Najades Ausoniæ, Cœnomanumque Dii. Illa suo vestros etiamnum carmine lucos Mulcet, & æternùm vincere fata docet.

DAlla parte quasi Settentrionale a questa Riviera si apre tra Monti, che la circondano, popolosa, e lunga Valle comunemente detta Valle di Sabbio, ricca d'armenti, copiosa di pascoli, e lungo le rive del Clisi che l' attraversa abbondante d'Edifizj, ne' quali si fonde, e si lavora ferro in più guise da buona parte di quei popolani per farne commercio in più parti d' Italia. Quasi nel centro della Valle medesima sopra il pendìo di alta montagna stendesi in molte, ma picciole Ville divisa l' antica, e spaziosa Parrocchia di S. Maria di Savallo che sul cominciamento di questo secolo reggevasi dal Sacerdote Antonio Medaglia Bresciano, uomo di raro ingegno, e studioso del pari, che per dottrina colto, e per saggie erudizioni. Erano nell' anno 1724. a diporto in Savallo Antonio Medaglia suo Nipote con Annunziata Gnecchi nativa di Casto sua Consorte, quando alli 28. di Agosto di detto anno nacque di loro Diamante, la quale poi alli 4. Settembre fu per mano del Zio battezzata siccome autenticamente rilevasi da'libri di detta Pieve Archipresbiterale(a) Dal Libro de' Battezzati, fu estratta la seguente partita per il Reverendissimo Sign. D. Jacopo Freddi ora Arciprete. Die 4. Septembris 1724. Diamantes Filia Domini Antonii Medaleæ Civis Brixie Nepotis mei Archibresbyteri, & D. Annuntiatæ Gnecchi ejus legittimæ Uxoris, nata die 28. Augusti nuper elapsi hora quinta noctis sequentis, in hac Plebana Ecclesia solemni fuit initiata baptismo, suscipiente admodum R. D. Angelo Scalmana nomine, ac vice Ex: D. Jacobi Bertanzini Vobarni, per me Antonium Medalea J. U. D. Archipresbyterum, Vicarium Foraneum, atque Patruum dicti D. Antonii.. Dopo poco tempo trasportata venne in una terra del Bresciano Territorio detta Castrojato, ove era trattenuto il Padre suo da quella rispettabile Comunità ad esercitarvi l'arte Medica, siccome uomo in quella di molto grido. Pare, che sotto una tal cura aspettar non si dovesse che una saggia, e ben regolata educazione; e tale certamente sarebbe stata, essendo egli di molta pietà, e assai perito nell' iscoprire l'indole, e le diverse qualità de' naturali. Pure la tenerezza, che le professava il Zio, dubitar gli fece, che troppo occupato nell' assistenza degl' infermi non avesse poi tempo a tutti compiere colla Figlia i paterni doveri. Pervenuta però a quell' età, in cui rinforzandosi la natura, i primi lampi appariscono dell' intendimento, seco la volle per coltivarne lo spirito, che anche tra li puerili affetti riconosciuto aveva delle più rare doti doviziosamente arricchito. Gl' insegnamenti primi furono quelli della religione, che nell' animo di lei restarono poi sempre altamente impressi sino al termine di sua vita; indi la Sacra Storia apprese, e gli elementi dell' Italiana, non meno che della Latina favella. Gli ameni studj per altro della Poesia per cui nata sembrava a tratto, a tratto la rapivano alle grammaticali asprezze, e le formavano ad un tempo il più giocondo trattenimento. Così fanciulla non sapeva saziarsi dall' apprendere i più bei passi de' Poeti Toscani, e senza precettore da se stessa imitandone l'armonìa del verso, la grazia dello stile, la forza del pensare, produceva composizioni, che per ciò erano assai ammirabili non che superiori alla sua età(a) Che non avesse maestro nella Poesìa, si raccoglie dalli due seguenti Sonetti. Sonet. CI. a car. 138.

Chi prima all' erto calle il piè ti volse? Chi ti fu guida al faticoso monte, Che sì alto poggia, ove con lieta fronte Benignamente Apollo in sen t' accolse? Chi al dolce canto la tua lingua sciolse, E a ber ti diè l' onde al Castalio fonte, Che suol destar fervide rime, e pronte In chi dal volgo in verde april si tolse? Altri non odo, che natura illustre Fu scorta al volo, che il bel genio tenne, Nè aita porse l' altrui cura industre. A te gloria è maggior, perchè s' avvenne D' esser nudrita in valle ima e palustre, Da dove t' alzi colle proprie penne. Sonet. CII. Risposta Faini, a carte 139.
Desìo d'eterna fama il piè mi volse A salir di Permesso il sagro monte, Per ivi ornar di verde allor la fronte. Con chi Febo tra' suoi più cari accolse; Ma colà giunta appena, i vanni sciolse Ver me il destriero del Castalio fonte, E tutto acceso di giust' ire, e pronte, Il mio canto sdegnando, indi mi tolse. Caddi, nè alcuno dell' Aonio illustre Coro d' aitarmi cura, o pensier tenne Nel gran periglio con sua possa industre, Non così a te nobil garzon, avvenne, Allorchè il suol lasciando imo e palustre, Poggiasti al ciel colle dorate penne.

. Così scorse ella parecchj anni collo Zio; ma più oltre soffrir non potendone l'amoroso Padre il distacco, a lui ritornar si dovette. Quivi senza omettere parte alcuna, che conviensi a giovane bennata, tutti adempiendo quegli uffizj, a cui l'umana società chiamato volle il debil sesso, seppe nulladimeno così attendere a'suoi studj, che in poco tempo obbietto divenne di universale ammirazione. Aliena di perder tempo in donnesche scempiaggini godeva del ritiro, e della solitudine; sapendo, che i versi non produconsi alla luce, se prima nella quiete non si conciliano, e nel riposo. In questa guisa non parrà strano, ch' ella senza direttore tant' oltre si avanzasse ne' poetici studj, che molti valenti uomini Bresciani al leggerne solo i primi suoi componimenti la incitassero con giusti elogj a proseguirne il vantaggioso coltivamento. Vero è che le deliberazioni del Genitore furono opposte al genio di lei. Vedevala egli crescere in età, e pensò a collocarla in matrimonio, siccome fece, dandole per compagno il Signor Pietro Antonio Faini d' onesta, e civile Famiglia di Salò. Ella riverente agli ordini del Padre vi acconsentì, e nell'anno 1748. alli 15. Novembre ne seguirono le Nozze.

Uno stato di tante cure poteva se non toglierla, almeno frastornarla nel corso letterario, pure si studiò ella di soddisfare ai doveri di una Moglie prudente, e sollecita pei domestici affari, e secondare ad un tempo il nobile suo genio(a) La lettura delli seguenti Sonetti ci ha dato motivo alla continuazione della Vita della Medaglia.

Sonet. CIII. Di Gio: Marenzi, a car. 140. Quanto più mi fu caro udir, che stretto T' abbia d' un laccio Imene il molle fianco, Laccio gentil, che tema, o rio sospetto Non faccia, o età men forte, e dolce unquanco; Tanto men poi vorrei, che quel tuo eletto Spirto, che già poggiò libero, e franco Inver Parnasso, nel soave affetto Di sposa, e madre ora venisse manco. Anzi il Benaco, e la sua riva ombrosa Nuovo destarti in sen estro dovrebbe, E Sirmion, che hai presso, e forse miri; Più di lui, che per Lesbia i suoi sospiri Quivi sparse, andrai tu conta, e famosa, Quanto più raro in gonna il valor crebbe.

Sonet. CIV. Risposta Faini, a car. 141. Benche da dolce nodo avvinto, e stretto Veggiami star gentil garzone a fianco, Non nasca in te, Signor, tema, o sospetto, Ch' io possa abbandonar le muse unquanco. Anzi vieppiù mercè il tuo carme eletto Fassi il mio spirto valoroso, e franco, Talchè di sposa nel soave affetto, O per volger d' età mai verrà manco. Carme leggiadro, che di quest' ombrosa Riva ne'lauri scriver si dovrebbe, Perchè ivi impresso il tuo valor si miri, E tragga il mio Benaco alti sospiri, Scorgendo quanto per la tua famosa Cetra in pregio maggiore il Brembo crebbe.

Ella non ebbe figliuoli, e potè più libera proseguire gli studj intrapresi. Ripigliò con più metodo quello della Storia, e perfezionossi nella Filosofia sotto la direzione del Reverendo D. Domenico Bonetti di Volciano, al quale fecesi poi ella al tempo medesimo maestra di lingua Francese. Sotto la disciplina del Co: Giambattista Soardi di Brescia studiò la matematica (a) Lettera IV., a carte 186. Per darle poi notizia de'miei studj, dirò, che sino dallo scorso autunno ho ultimato felicemente il mio corso matematico, sotto la direzione del Nob. e dottissimo Co: Giambattista Soardi, sendomi a tal fine trattenuta tre mesi presso di lui. per cui divenne così perfetta nel giusto pensare, così prudente estimatrice degli studj, che quanti seco lei ebbero a ragionare o delle lettere, o dell' utilità delle scienze, furono dalla verità convinti a farle elogj singolari. Il nome di lei portavalo con applauso in ogni parte la fama, e perciò gloriavansi molte Academie di poterla assocciare, siccome parte de' loro corpi. All' antica degli Unanimi in Salò, agli Orditi di Padova, agli Agiati di Roveredo, ed all' Arcadia di Roma sotto il nome di Nisèa Corcirense fu ella ascritta. Era di spesso visitata da' Forastieri, ed ogn' uno partiva di lei soddisfatto(b) A S. E. Angelo Contarini, che la visitò spedì sulle sue ricerche il seguente Sonetto XCIII. a car. 124.

Poichè nella mia rozza umil capanna Ti degnasti posare il nobil piede, Signor del sangue, e della gloria erede De' Contarini Eroi, che mai s' appanna; Riverente la lingua, e il cor s' affanna Per renderti d' onor degna mercede, Ma ad ispiegar quanto il dover richiede Non giunge il suon di mia silvestre canna Pur quella cortesìa, ch' oggi è sì rara Ne' pari tuoi, e in te risplende a segno, Che anco l' invidia ad ammirarti impara, Se lena porge all' abbattuto ingegno, Deh! non sia, priego, in aggradire avara Il picciol don, che a tributar ti vegno.

, e si pregiava d'aver de' suoi componimenti. Il Padre Pio Francesco Lucca di Pavia not alla Repubblica Letteraria la commendò in ogni tempo, e massime quando si intratenne seco, e gustò della sua dotta conversazione al tempo che predicò nella Chiesa Archipresbiterale in Salò. Non vi fu alcuno che non riguardasse in lei con istupore un unione quasi direi prodigiosa di grazia, di maniere affabili, di tratto soave, di degnazione amorosa; nè le scienze che possedeva giunsero mai a farla insuperbire, anzi le servirono di freno alle naturali passioni. A tanto la condusse, non v'ha dubbio, quello spirito, che in lei nacque così a distinguersi, e sollevarsi oltre l' umana condizione, che capace non sembra, che di nutrire affetti, e pensieri i più virtuosi. I suoi domestici dovettero innalzare con elogj la sua moderazione nelle cose prospere, e tutti videro quant' ella fosse constante, ed uniforme a' divini voleri nell' avversa fortuna. Ma l' arbitro dell' umana vita, che è superiore alle leggi del tempo, aveva segnato il fine de' giorni suoi. Ammalò nella Villa di Sojano dove soleva buona parte dell' anno passare tra gli studj; indi andata a Brescia per consultarne que' Medici, conobbe vicino il termine della sua vita. Scrisse al Signor D. Ermenegildo Federici Parroco allora di Sojano una lettera(a) Lettera XL. a carte 248. Giacchè per grazia di Dio la febbre, che unita ad un grave dolor di testa ho qui avuta sempre per compagna indivisibile, mi lascia in oggi godere un poco di respiro, colgo il fortunato momento di rispondere al grazioso foglio di V. S. Reverendissima. Comincio pertanto dal riprotestarle infinite obbligazioni di moltissimi favori impartitimi, e della somma premura, ch' ella ha di sentirmi ricuperata de' miei malori; ma questi sono ormai moltiplicati, e fatti giganti, onde v' è poco da sperare, e da temere assai. Prevedendo adunque a ragione, che atteso lo stato mio presente così minaccievole, e pericoloso, questa possa essere l'ultima fiata in cui le scrivo, prego lei stimatissimo Signor Arciprete, ed anche cotesti Reverendi Sacerdoti, per quanto debbo, di porger qualche preghiera all' Altissimo, acciò si degni concedermi la grazia di ricevere con egual indifferenza, e tranquillità d'animo dalle sue mani santissime la vita, o la morte in quel luogo, modo, e tempo, che più piace a sua Divina Maestà. Chieggo inoltre a lei primieramente, e per di lei mezzo in generale, ed a ciascheduno in particolare umile il perdono di qualunque mancamento, offesa, o scandolo, ch'io avessi loro recato nel tempo del mio soggiorno costì. Per fine non potendo più proseguire, co'piu vivi sentimenti di stima, e gratitudine passo a dichiararmi inalterabilmente sino alle ceneri.
Brescia li…… 1770.
, che ben dimostra quell' eletto constume, che la rese commendabile a tutti. Ricondottasi poi all' istesso luogo di Villa per compiacere il suo diletto Consorte, morì nel giorno 13. Giugno nell' anno 1770.

Il di lei cadavero fu tradotto in Salò per essere con tutto l'onore sepolto nella Chiesa di S. Giustina, dove giace il sepolcro de'suoi maggiori. La sua morte non fu solo accompagnata dalle lacrime di chi la conobbe, e ne sperimentò il cortese, e pulito suo costume, ma venne decorata dall' Accademia degli Unanimi, la quale avendo ad un Accademico dato il carico di dire in pubblico un Orazione funebre, volle con molti altri Componimenti dare alla bell' anima di lei l' ultima riprova della sua riconoscenza per sempre più perpetuare la memoria delle sue rare virtù, ed eccitarne nella posterità una lodevole imitazione.

Cogli Argomenti, e qualche breve annotazione
unita al Cattalogo delle stampe dalle quali
si sono tratte alcune Rime da lei
già date alla luce.

Il Numero indica le Composizioni.

I. II. III. IV. V. TRatta d'amore. Il primo stampato in Brescia per Pietro Pianta 1761.

VI Sulla ricerca di far un Sonetto amoroso.

VII. Sul primo argomento.

VIII. Per ottener la pace da una chiamata Rosa.

IX. Parla del nascimento del Eminentissimo Cardinale Querini. In Brescia per il Pianta 1761.

X. All'istesso Eminentissimo Cardinale per li studj nelli quali giovanetto si esercitava nel Collegio di S. Antonio di Brescia.

Canzone I. Loda le opere dello stesso.

XI. XII. XIII. XIV. Per Nozze. In Parma per Giuseppe Rosatti 1752.

XV. Per altre illustre Nozze

XVI. Sull'istesso argomento.

XVII. Per Nozze. In Brescia per Giammaria Rizzardi 1761.

XVIII. Per Nozze.

XIX. Sull'istesso argomento. Questo Sonetto allude alle opere del Conte Gio: Maria Mazzucchelli, e fu ad esso spedito in occasione, che una sua figlia contrasse Matrimonio con uno della Nobile Famiglia Monti di Brescia. In Brescia per il Pianta 1761.

XX. Siegue l'istesso argomento. In Padova per li Conzatti 1763.

XXI. Per Nozze. In Bologna nella stamperia di Lelio dalla Volpe 1752. Questo Sonetto fu tradotto in veri latini dal Sig. Gio: Battista Chiaramonti Bresciano. Eccone la versione.

Benaci ad ripas recubans sub tegmine fagi Armenta aspicio carpere læta cibum. Et subito (mirum) sonitus immittit ad aures Agrestis calamus, fistula, arundo meas. Gestantem binc video pulcherima serta cohortem Nympharum, & saltant concelebrant que choros. Ecce dies albo vere signanda lapillo, Pastores clamant, fitque chorea manu. Ut solet obstupui visu, causamque requiro; Hic ne Pales colitur, quæro, vel alma Ceres! Vix hæc quæsivi Genius cum subdit amicus: Ex parvo Rheno causa sonora venit; Felsina solemni accendit connubia tæda; Hæc una ut scribat quilibet atque canat.

XXII. Siegue l'argomento di Nozze. In Verona per Dionisio Ramanzini 1745.

XXIII. Per Nozze. In Brescia per Giambattista Bossini 1752. Canzone II. Sull'istesso argomento. In Brescia per Pietro Pianta 1759.

XXIV. Per Nozze. In Padova per li Conzatti 1763.

XXV. In lode di bella Giovanetta.

XXVI. Sull'argomento di Nozze. In Brescia per Gio. Battista Bossini 1752.

XXVII. Sull'istesso argomento. Per li Nobili Signori Alessandro Ugoni, e Contessa Giulia Soardi. In Brescia per Giammaria Rizzardi 1764.

XXVIII. Siegue l'istesso argomento. In Brescia per il suddetto 1745.

XXIX. Per Nozze. Tratto dalle citate stampe.

XXX. XXXI. Sull'istesso argomento. In Brescia per Marco Vendramino 1748.

Canzone III. Siegue l'istesso argomento.

XXXII. Per Nozze.

XXXIII. Sull'istesso argomento.

XXXIV. Siegue l'istesso argomento.

XXXV. Per altre Nozze.

XXXVI. Sull'istesso argomento.

XXXVII. Per l'elezione di un Parroco.

XXXVIII. Nel ritorno in Brescia del Nobile Signor Conte Durante Duranti Cavaliere. Alla Nobile Signora Contessa Cecilia Ugeri Duranti sua Consorte. In Brescia per il Pianta 1761.

XXXIX. Per altre illustri Nozze.

XL. Sull'istesso argomento.

XLI. Siegue l'istesso argomento. In Brescia dalle stampe Rizzardi 1745.

XLII. Per la Beata Vergine Maria.

XLIII. Al Padre Francesco Lucca de' Predicatori fra gli Arcadi Rosauro Argolideo nel tempo, che la Faini fu aggregata all' Arcadia di Roma assumendo il nome di Nisèa Corcirense. In Brescia per il Pianta 1761.

LXIV. Del suddetto Padre per l'aggregazione suddetta. In Brescia per lo stesso Pianta, come li due seguenti.

XLV. Siegue la Faini l'istesso argomento.

XLVI. Sopra la Predica del Paradiso fatta dal detto Padre in Salò l'anno 1757. Osserva l'istesse rime del Sonetto 44.

XLVII. Ad Aglauro P. A. per l'adobbo di un Tempio.

XLVIII. Per Sacerdote, che celebra la prima Messa.

XLIX. Pel Venerdì Santo.

Canzone IV. Per un solenne Battesimo.

Madrigale a carte 69. Eccita un Poeta a palesar il proprio nome.

L. Per Monaca. In Brescia dalle stampe Rizzardi 1760.

LI. Sull'istesso argomento. Dall'istesse stampe.

LII. LIII. Siegue per Monache. Dalle stampe di Pietro Pianta 1760.

LIV. Per Monaca. Dalle stampe Rizzardi 1762.

LV. Sull'istesso argomento.

LVI. Siegue l'istesso argomento.

LVII. Sull istesso argomento. Per la professione.

LVIII. Siegue per Monaca.

LIX. Per la beatificazione di Suor Giovanna Francesca di Chantal. In Brescia per il Pianta 1768.

LX. Per Monaca. Sgrida i viziosi. Per l'istesso Pianta.

LXI. Pel Santissimo Natale.

LXII. Scoprendosi in Savallo di Valsabbia l'immagine di Maria Vergine. Rifletti, che Savallo è il luogo ove nacque la Poetessa. In Brescia per il Pianta 1761.

LXIII. Per primo Sacrificio. In Brescia per il Pianta 1761.

LXIV. Per la traslazione della reliquia di S. Luigi Gonzaga. In Brescia per il Rizzardi 1753.

LXV. In lode di S. Antonio.

LXVI. Per l'elezione, ed ingresso del Molto Rev. Signor Abbate Agostino Foresti eletto in Arciprete, e V. F. di Montecchiaro. Così il Madrigale seguente.

LXVII. Per la solenne consecrazione di Monsignor Alessandro Pappafava Vescovo di Famagosta, Vicario generale, e Canonico di Padova. In Padova per li Conzatti 1761.

LXVIII. Per S Filippo Neri,

LXIX. Ritrovandosi in Salò dell'anno 1757. il riferito Padre Lucca, e poeticamente improvisando ad una dotta adunanza gli propose la Faini, se a Saulle per gl' incantesimi della Fitonissa di Endor apparisse un ombra d'averno, o lo spirito veramente di Samuelle. Molti scrittori sostengono, che non altri fosse, che il demonio, che il personaggio allora fingesse di Samuelle; anzi pensarono alcuni, che oltre l ombra di Samuelle molti altri apparissero quasi a suo seguito decoroso, spiegando così liberamente il testo della nostra vulgata Deos vidi ascendentes de terra. Contro de'primi vi sono i Padri, che raccolti veder si possono presso il Lirano nel libro primo de' Re al Cap. 28., e certamente il pensar in altro modo sarebbe un far violenza al sacro Testo, che dopo aver presagita la morte a Saulle soggiunge: post hæc obdormivit: così nell Ecclesiastico dove la morte di questo Profeta sonno si appella. Cap. 46. N. 23. Contro degli altri rispondesi, che la nostra vulgata in questo luogo, siccome in altri, ha ritenuto l'idiotismo Ebreo, ciocchè vedesi chiaramente e dalla interrogazione fatta in singolare persona da Saulle, e dalla risposta, che le diede la Donna pingendole un vecchio venerabile: dixitque ei qualis est forma ejus, quæ ait, senex ascendit, & ipse amictus est palio. Lib. primo de' Rè Cap. 28. Ver. 14. Ove certo non parlasi d'altri, che dell' ombra di Samuelle. La scelta d' un tale argomento ci da a conoscere il valore del dotto Religioso, che sul punto istesso svolger lo dovea poetando, e ci avvisa ad un tempo, come la Faini fornita fosse a dovizia di profana non meno, che di sacra erudizione.

LXX. Per Monaca.

LXXI. Eccitamento ad una Giovane a far l'altrui volontà

LXXII. Questo Sonetto fu fatto full' istanze di D. Valerio Podestà acciò cantasse le lodi della Nobil Suor Rosa Valotti, che professò nel Monastero della Visitazione in Salò. In Brescia per il Bossini 1761. Si raccoglie da questo, che fino d' allora era dedita agli studj di Matematica.

LXXIII. Del Signor Giorgio Maria Podestà di Maderno in occasione che fu eletto in Arciprete, e V. F. di Montechiaro il Nobile Signor Abbate Agostino Foresti.

LXXIV. Risposta della Faini al suddetto.

LXXV. Del Nobile Signor Antonio Brognoli di Brescia per la Monaca Valotti.

LXXVI. Risposta della Faini.

Elegia a carte 98. Fu composta dal Conte Gio: Battista Soardi di Brescia, Poeta, e Matematico d' ogni maggior lode, sotto del quale si perfezionò la Faini negli studj Matematici, Fu pur tradotta da essa in verso sciolto. Se egregiamente è scritto l'originale, mi persuado che niente riuscirà inferiore la versione maneggiata con sincerità nelle espressioni, e condotta con gravità, e maestrìa.

LXXVII. In lode di Nobil Donna.

LXXVIII. Innalza le opere di un illustre Personaggio.

LXXIX. Per l'esaltazione al Trono di S E. Francesco Loredano. In Brescia per il Pianta 1761.

LXXX. Per un Eccellentissimo Savio Grande

LXXXI. Prega un Poeta a guidarla pel sentiero della virtù, ed a destarle spirito di sapienza.

Canzone V. Per la solenne visita fatta in Riviera dall' Eminentissimo Cardinale Giovanni Molini Vescovo di Brescia, che seguì nell'anno 1760. In Brescia per il Pianta 1761.

LXXXII Per la partenza da Salò di un Eccellentissimo Provveditor, e Capitanio.

LXXXIII. Sull'istesso argomento. In Brescia per il Pianra 1761.

LXXXIV. LXXXV. LXXXVI. Partendo da Salò S. E. Gianandrea Pasqualigo. In Verona per il Carettoni 1757.

LXXXVII. Di Valerio Podestà. Allude alla nascita della Faini, e la eccita a cantar le lodi di S. E. Bertuzzi Dolfin, nel tempo che si ritrovava in Maderno sulla Riviera.

LXXXVIII. Risposta della Faini.

LXXXIX. Per persona eletta a presiedere in Milano.

XC. Per S. Francesco di Paola.

XCI. Sonetto amoroso composto a richiesta di un giovine. onde offerirlo all' amata Donzella.

XCII. In lode della Cavaliera Eleonora Collalto Cappello.

XCIII. Ringrazia S. E. Angelo Contarini per la visita fattale alla Casa d' abitazione in Salò.

XCIV. In congratulazione col Marito per la ricuperata salute. Questo gli fu scritto da Fontanelle luogo sulla Bresciana di ragione della Nobile Famiglia Soardi, ove ritrovavasi essa Faini a compiere il suo corso Matematico insieme col Conte Giambattista. Vedi nelle prose la lettera 20. ove parla di questo Sonetto.

XCV. Innalza Ergasto P. A. avendo colla sua virtù superata l'invidia.

XCVI. Loda le bellezze di una donna tuttocchè in età avvanzata.

XCVII. Esorta le persone dotte della Riviera a seguire le Scienze, ed a combattere coll'invidia.

XCVIII. Per la morte di un Poeta.

XCIX. Per la carica di Savio grande ottenuta da Sua Eccellenza Sebastiano Venier.

Canzone IV. Canta le lodi del Nob. Conte Paolo Caprioli nel tempo che ancor Giovanetto era Vicario Pretorio in Salò. In Brescia per Giammaria Rizzardi.

C. Parla di Sojano villa tra Desenzano, e Salò, ove soleva la Faini andar a villeggiare col Marito. E situata sopra un' amena Collina, e gode della veduta del Lago, bensì in qualche distanza, ed ha molte ville vicine. E irrigata da un piccolo rivo, e la campagna in que' contorni è amena per la sua semplicità. Evvi pure un Castelletto alla foggia antica a somiglianza di molti altri, che si ritrovano fondati nella giurisdizione della Rìviera.

CI. Viene ricercata da Poeta Anonimo chi abbia avuto per maestro nella Poesìa.

CII. Risponde, che ha appresa tale scienza senza Precettore.

CIII. Con questo Sonetto l'Abbate Marenzi Bergamasco prega la Medaglia a non abbandonar le Muse sendosi maritata.

CIV. Risponde, che vieppiù sempre attenderà alla Poesìa.

CV. Con immagine poetica Altesio Cejense P. A. figura la Faini lodata da Apolline, e dalle Muse.

CVI. Risponde, che attese le lodi avute si sente accesa di foco poetico, e che il suo nome viverà per Altesio immortale.

CVII. Lodovico Ricci rinomato Poeta mette in vista gli studj, alli quali era dedita la Faini.

CVIII. Ed ella risponde, che fino da' suoi primi anni attese alla Poesìa, d' indi a'più gravi studj; ma che invece di captivarsi con ciò l' amore, riceve continui danni, ed ingiurie.

CIX. In lode del Signor Abbate Gio. Marenzi Nobile Bergamasco.

CX. Risposta del Marenzi, in cui loda la Faini.

CXI. Del Signor Gio: Maria Fontana per la partenza da Salò di Sue Eccellenze Pierantonio, e Faustina Trevisani. In Salò per Bartolommeo Righetti. 1766.

CXII. Della Faini in risposta.

CXIII. Dell'istesso Fontana per il suddetto motivo.

CXIV. Della Faini in risposta.

CXX. Dice, che farà ogni sforzo per acquistarsi l' immortalità.

Inno a carte 153. In occasione d'aver terminato il suo Reggimento S. E. Pierantonio Trevisani, che seguì nell' anno 1766.

CXVI. Ricercata qual di due illustri Donzelle meritasse più lode, pulitamente risponde lodandole entrambo. In Piacenza per Filippo Gio: Giacopazzi anno 1750.

CXVII. Per Nozze. Dell' Abbatte Anton Maria Patrini.

CXVIII. Risposta della Faini sull'istesso argomento.

CXIX. Del Nobile Signor Antonio Brognoli Bresciano. Scherza sul nome della nostra Poetessa lodandola.

CXX. Ed ella risponde lodando lui.

CXXI. Dice di non aver virtù bastanti per esser annoverata tra' Poeti di fama.

CXXII. Protesta di non voler più componere in Poesìa, ma che vuol attendere con Euclide a studj più serj.

QUanto è lodevole il divisamento di lei di conservare alla memoria de' posteri le belle fatiche della Signora Diamante, altrettanto io mi terrei fortunato, se potessi in qualche parte contribuire a questo nobile suo disegno. Io mi pregierei di poter ciò fare e pel desiderio di servir lei, e per soddisfare ai molti doveri ch'io ho incontrati con quella chiarissima anima, di sempre onorata memoria. E vero, quanto ella si è immaginata, ch'io tengo parecchie composizioni, e molte lettere eziandìo da essa scrittemi; ma quanto a'componimenti consistono questi in alcuni Sonetti, e Canzoni, ch' io trassi da manoscritti della Signora Diamante, i quali stettero gran tempo nelle mie mani; poichè, siccome a lei non sarà ignoto, troppo bassamente pensava quella Signora di se medesima, e faceva maggior conto, che non sarebbesi dovuto, de' giudizj altrui. Mi spedì poscia in parecchie occasioni varj altri Sonetti fatti per Provveditori, che partivano di costà, per l'Eccellentissimo Contarini Capitanio di Verona, sopra la solitudine di Sojano, una Canzone pel Co: Paolo Capriolo, e la versione in Italiano di una Elegìa latina del Co: Giambattista Suardo. Ma tutto ciò sarà pure presso lei, come non dubito, che siavi parimenti una Dissertazione dalla stessa recitata in Salò sopra gli studj delle Donne, ch'io tengo trascritta di propria sua mano. Pensando adunque, che tutto ciò non le sia per servire di alcun uso, sospendo di trasmetterle o tutto, o parte, se diversamente non mi venga da lei accennato. Rispetto alle lettere poi ingenuamente le dirò ciò in che pure ella meco converrà; cioè, che per lo più si scrivono con pensiero assai lontano dalla stampa, e che assai spesso non si scriverebbero, se nello Scrittore cadesse dubbio, che si fossero per pubblicare. Per questo è che anche di dotti uomini, e de' più circospetti lettere sovente si leggono con gran negligenza dettate con libertà di espressioni, e con molta confidenza di sentimenti; il che fassi da essi perchè pensano, che non abbiano le loro lettere ad essere divulgate. Poche lettere però delle molte, ch'io mi trovo avere della Signora Diamante io crederei per diversi riguardi che si potessero stampare. Ella sa, come quella valorosa Donna, oltre a tante altre rare virtù, possedeva un' eroica schiettezza di animo, e teneva un cuore sensibilissimo, e capace della più virtuosa tenerezza. Non ho mai conosciuto persona, che s' interessasse, e prendesse parte ne'beni, e ne' mali degli amici, come la Signora Medaglia faceva. Degli amici lontani faceva ella egual conto che de' vicini; cosa rara negli uomini, ma singolare in una femmina. Io credo, che la cristiana carità in essa si accostasse per qualche modo all' eroico. Voglio con ciò inferire, che la libertà, onde spiegava i proprj sentimenti non permette, che tutte le di lei lettere si divulghino. Se io sapessi qual genere di lettere ella pensi di pubblicare, e se altre in qualche numero, oltre alle mie poche, n'abbia ella raccolto, io mi determinerei a servirla di alcune. Se vi fossero solamente le mie, potrei essere accusato di vanità; e per altra parte mi riesce di troppo onore l'aver avuta servitù, ed amicizia con una Signora di tante virtù fornita, e di sì raro valore. In somma io sentirò il pensiero di lei sopra di ciò, e mi farò in qualche modo a servirla. Non vedendo, che nel manifesto dello Stampatore si parli di alcun elogio, o di notizie spettanti alla Vita della nostra illustre letterata, ardisco di ricercarnela, parendomi quasi impossibile, ch'ella voglia lasciar priva l' edizione del più illustre ornamento, e non appagare la giusta curiosità degli amatori della Storia Letteraria sopra di questo punto. Rispetto agli studj della Signora Dimante alcuna lettera fra le mie potrà servire di documento. Ella intanto mi continui la sua pregiatissima grazia, mentre col desiderio di attestarle la mia vera divozione, e la costante mia stima, rispettosamente mi confermo.

Belluno 23. Giugno 1773.

IO ho avuto ne'giorni scorsi tali occupazioni, che mi hanno impedito di satisfare al debito di rispondere al suo foglio pregiatissimo; della quale tardanza non vorrà la gentilezza di lei farmi un delitto. Le invio intanto la copia del Sonetto ricercatomi, che stava unito alla Elegìa del Co: Suardo, e alla versione Italiana fattane dalla Signora Diamante. Quanto alle lettere, fra le molte ch'io ho, ne ho scelte una dozzina, che potrebbero stamparsi senza scomparire, essendo con molta nettezza di stile, e con buoni sentimenti dettate; come in verità era solita di far sempre quella Signora, in questa parte specialmente impareggiabile. Gliele spedirò anche nel venturo ordinario, due cose per altro da lei desiderando, che facilmente ella sarà per accordarmi; cioè, che favorisca di rispedirmi gli originali, i quali da me le saranno trasmessi, e che alcun piccolo cambiamento si faccia in qualche espressione. Ciò veramente potrà parerle strano; ma tuttavia io credo, che tale arbitrio si possa prendere nelle opre postume di qualunque Scrittore, e massimamente nelle Lettere, le quali niuno scrive col pensiero, che sieno date alle stampe, onde qualche segno di negligenza, o qualche avvanzata espressione in esse si trova, la quale può interpretarsi da chi legge in sentimento molto diverso da chi scriveva; e però penso, che il fare agli scritti altrui qualche lieve correzione la quale non alteri la cosa, sia provvedere alla fama degli Scrittori anzi che un violare la fede pubblica. Io mi rimetterò non ostante al parer suo essendo sicuro, ch' ella non ha maggior premura, che promuovere la fama, e l' onore di sì valorosa Donna.

Non so poi renderle bastevoli grazie della troppo cortese opinione, ch' ella tiene di me; nella qual cosa io bramerei veramente ch'ella non s'ingannasse. Ma in qualunque modo, io le ne debbo saper sommo grado, e obbligatissimo me le professo.

S'io avessi qualche notizia particolare intorno alla Vita della Signora Diamante gliela comunicherei ben volentieri; ma io non saprò cosa, che non sia alla cognizione egualmente di lei; ed io veramente mi consolo, ch' ella siasi preso il carico di stendere l' elogio della stessa, poichè meglio di molti ha potuto comprendere quanta umiltà, quanta pazienza, quanta cristiana carità, quale chiarezza d'intelletto adornassero quella bell'anima, per la lunga amicizia, che seco lei tenne.

Io finisco, benchè non finirei mai di parlare delle lodi dovute ad una femmina assai rara nell' età nostra. Mi raccomando alla pregiatissima grazia di lei; e mi confermo con pienissima stima e divozione.

Belluno 16, Luglio 1773.

QUando fece ritorno al suol natìo Tirsi, che unico al mondo amo, ed adoro Appena in flebil suon gli dissi: io moro, Io moro al tuo partir, diletto mio; Ben vieppiù il labro spinto dal desìo Sfogar volea del sen l' aspro martoro, Ma rotti fur gli accenti a mezzo il loro Corso dal pianto, che per gl' occhi uscìo. Ond' egli allor con un sospir d' amore Prese la mia colla sua man di neve, E dolcemente se la strinse al core. Poi disse; io so che m' ami, e so che greve Ti è il mio partir, pur frena il tuo dolore, Che di mia lontananza il tempo è breve. TU parti, almo mio Sol, tu parti, ed io Lassa! qui resto abbandonata, e sola, Priva del cor, perchè teco sen vola, E teco di restar sempre ha desìo. Ahi! questo colpo dispietato, e rio Ogni allegrezza, ogni piacer m' invola, E lo spirto mi manca, e la parola, Adorato mio ben, nel dirti: addìo. Legata io resto, e tu sciolto ten vai Dall' amoroso laccio, onde sereno Volto mostri al partir, e non ti struggi; Ma poichè del mio duol pietà non hai, Tua vittoria compisci, e mira almeno, Barbaro, la mia morte, e poscia fuggi. TIranno amor, crudo bendato arciero, Che di ferir non se' mai sazio, e stanco, A che piagarmi acerbamente il fianco Con dardo oime! troppo pungente, e fero? Da lui, che ha sul mio cor libero impero, Non sai, che lunge io sono? e vengo manco, Ancorchè serbi ognora ardito, e franco La sua gentile immago il mio pensiero? Più non respiro, ahi lassa! aura tranquilla, E fin che non riveggio il sol, che adoro, Verserà pianto l' egra mia pupilla. Dunque o risana amor l'aspra ferita, Rendendomi il mio Sposo, il mio tesoro, O fia che ceda al duol l' alma smarrita. ALfin piacque al mio dolce, empio Signore, Che pietoso or si mostra, ed or tiranno D' alleviar in parte il duro affanno, Che m' ha quasi de' sensi tratto fuore, Allorchè mi celaste lo splendore De' bei vostr' occhi, che piagato m' anno, E per sì lungo tempo in vostro core Pensate solo a farmi ingiuria, e danno: Or lo ringrazio, poichè far poteo, Che alfin deposto il vostro orgoglio antico Ascoltaste i sospir di chi vi adora. E caldi voti porgo al Nume amico, Acciò tosto il richiesto almo imeneo Meco v' ispiri a celebrare ancora. DUnque passar dovranno i mesi, e gl' anni, Prima, ch' io vi rivegga, o Sposo amato? Si fiero colpo a un core innamorato Ancor mancava a raddoppiar gl' affanni? Ben posso ora chiamar gli astri tiranni, Ed iniquo, crudel, rapace il fato, Ch' invidia avendo al mio felice stato Pensano solo a farmi oltraggi, e danni. Ahi! che pensando al fatal giorno, in cui Partir dovrete, o mio dolce Signore, Par che mi si divida l' alma in dui; E per strano miracolo d' amore, D' essa una parte sen' venga con voi, L' altra rimanga a dar soccorso al core. SE vuoi, ch'io canti quel che in mezzo al petto, Tirsi gentil, nutri amoroso ardore, Che pria mi sveli, impaziente aspetto, La soave cagion del tuo dolore. Dimmi quante di Lilla il vago aspetto Vibrò saette a penetrarti il core, Onde a languir fosti sovente astretto Quasi tocco da gel tenero fiore. E dimmi ancor, se a te fosche, o serene Volge sue luci, e se vicino sei Ad ottener mercè delle tue pene; Che poscia allor col suon de' versi miei Far noto udranmi queste spiagge amene Tuo dolce foco, e la beltà di lei. CHe mai ti feci, cieca empia fortuna, Che mai ti feci, crudo amor bendato, Che m' ange l' un di voi sin dalla cuna, L' altro ad amar mi sforza un core ingrato? Forse perchè tra mille io son quell' una, Che a voi mercè del misero mio stato Non chieggo umil con supplica importuna, Come dell' alme imbelli è stile usato? Sin che virtù mi volge amica i lumi, Per me non fieno i sagri fochi accensi Sull' are vostre, o sparsi arabi fumi. A lei sola vuò offrir voti, ed incensi, E voi quel culto avrete, ingiusti numi, Che ad isprezzate Deità conviensi. ROsa, che sul mattin de' tuoi prim' anni Vezzosa spunti dal materno stelo, A che sotto le foglie acuto telo Tieni, per cospirar sempre a miei danni? Ah' non esser si cruda, e tanti affanni Non mi recar colle tue spine; il cielo Bella ti fece, è ver, ma il dio di delo Tarperà tosto a tua bellezza i vanni. Ceda, ceda l' orgoglio, e a chi ti giace Umile a piè non muover guerra, e regni Pietade in te pari al tuo bel vivace. L' ulivo a te vicino ormai t' insegni (Ch' è simbol di vittoria, e d' alma pace) A non usar co' vinti arme, ne sdegni. QUando, o Signor, d' antico sangue, e chiaro All' Adria in seno tuo natal traesti, Gli astri maligni al nostro bene infesti I torvi aspetti lor tosto celaro: E nel sembiante più giocondo, e caro Febo comparve in sulle vie celesti; E l' alme dee del mar con fregi intesti Di gemme, e d' or l' auguste fasce ornaro. Sorse Proteo dall' onde, e altrui fe' conte Con fatidici accenti le future Tue grandi imprese dell' invidia a scorno. Nè l' ostro ei tacque, che l' altera fronte Ti cinge, e quai felici alte venture Per te Brenno aspettar dovesse un giorno. QUesti, che a riparar l' ingiurie, e i danni Del tempo, e dell' obblìo fu sempre inteso, Ch' angelo sembra dagli eterei scanni Meraviglie ad oprar tra noi disceso: Quasi duo lustri pur ne' suoi verd' anni, Non già di vili insane voglie acceso, Ma sol dietro a virtù spiegar i vanni, Brescia, il vedesti, ond' immortal si è reso. Poi l' ammirasti allor, che la nativa Grandezza per coprir sotto umil manto A Dio sacrossi del bell' Arno in riva. Nè il paterno dolor, nè i prieghi, o quanto Di più vago a suoi sguardi il mondo offriva, Di vincer sua costanza ebbero il vanto. NO non fia ver, ch' io ascolti In questo lieto avventuroso giorno L' aspro tenor del mio destin crudele; Stiansi nel sen sepolti, Ne ardiscan far sul labbro unqua ritorno Gli usati alti sospiri, e le querele; Febo l' asperga sol del dolce mele In Ascra colto, si che al gran soggetto, Che deggio celebrar, s' agguagli il canto: Da queste ciglia il pianto Tergasi dunque, e l' agitato petto Di fero duol ricetto Or mai s' accheti, ond' io con aurei modi Intrecci al gran Querin serto di lodi. Non perchè d' Adria in riva All' ombra illustre degli aviti allori Crebbe, nè avara de' suoi don fortuna A lui mostrossi, o schiva, Chiaro sen' va dall' una all' altra Dori, E dove muore, e dove il sole ha cuna. Ma perchè tanti in se medesmo aduna Eccelsi pregi, e tante opre ammirande Figlie di sua pietade in ogni parte Con larga mano ha sparte, Che saran sempre insigni, e memorande, Egli è già sacro, e grande, E alto di lui gli armoniosi carmi Parlan non men, che i sculti bronzi, e i marmi. Parlan…. ma più, che altrove Oggi ridire in maestevol tuono L' alme muse di Brenno odonsi a gara Le glorie antiche, e nuove, E le virtudi ch' han nell' alma il trono Di lui, che 'l secol nostro orna, e rischiara. Oh più d' ogn' altra al ciel diletta, e cara Greggia, cui tal Pastor diedero i numi! Chi giammai vide in tanta dignitade Più profonda umiltade? Chi più alta mente, e più santi costumi? Chi d' eloquenza fiumi Versò, com' ei d' inessicabil vena, Talchè lingua mortal rassembra appena? Ben da remoto lido, Fin d' Israello entro la reggia augusta, Trasse Donna real ne' prischi tempi Di Salomone il grido; Ma questa nostra etade alla vetusta Invidiar non dee gl' illustri esempi; Che tu d' altro stupor tutta riempi, L' Europa, o Prence, co' tuoi fatti egregi, Tu, che già mille con pensier celesti E templi, ed are ergesti, Altri adornasti di superbi fregi, Non per accrescer pregi Al nome tuo, perchè ovunque splenda Il divin culto, e si propaghi, e stenda. Sull' Aventin pur ora Oh come il pellegrino inarca il ciglio Su quel, che a nuovo onor per te risorse Gran tempio, ove s' adora D' Eufemiano il glorioso figlio, Che dal patrio splendor il piè ritorse; Stupida Roma a vagheggiarlo accorse Dando a te lodi in dolci modi, e bei, Che ne suonaro intorno i sette colli. O Tu, dicea, ch' estolli D' alta pietade ogn' or nuovi trofei, Oh quanto degno sei D' eterno vanto, che co' genj tuoi Or mai vincesti i più famosi Eroi. Aureo colosso illustre Ben a ragion quindi innalzar volea Sagro stuolo, o Signor, che il Tempio ha in cura, In cui da fabro industre Fosse impresa di te la bella idea Ad onta di colei, che i miglior fura; Ma tua virtù, che in se paga non cura Cotanto onor, si oppose al bel pensiero, Anzi ella volle (e fu maggior tua gloria) All' immortal memoria Sagrar del grande Orsino il marmo altero, Che sul soglio di Piero Sedendo, te fra suoi più cari accolse, E al degno crin l' ostro latino avvolse. Ed or dalle supreme Parti del ciel a te non men giocondo Rivolge il guardo, ed ammirando i frutti, Che dal celeste seme, Ch' ei sparse nel tuo cuor, quasi in fecondo Ben disposto terren furon produtti; Per te, o Querini, esclama, alfin distrutti Fian gl' empj mostri di veleno infetti, Che alla Sposa di Dio turban la pace, Onde poi non fugace Gioja, ed immenso premio avvien, che aspetti; Ma pria, che tra gli eletti Tu salga, è scritto ne' decreti eterni, Che l' orbe intier dal Vatican governi. Se fia, che ti condanni Taluno di rozzezza, o mia canzone, Digli, che sol cagione Son del diffetto tuo gl' astri tiranni, Che di placar in vece il lor furore, Come indarno sperai, Più fieri anzi che mai In strane guise al misero mio core Or radoppian gli affanni. NE mai sì vaga in alcun tempo sorse Da l' ocean, nè sì ridente aurora; Nè sì giulivi mai, Favonio, e Flora Scherzar su 'l lido, il Po superbo scorse; Nè l' etereo sentier febo trascorse Lucido sì, qualor le piagge indora; Forse ne men tal ei rifulse allora, Che Teti al gran Pelèo la destra porse; Com' oggi, che immortal gloria, e virtude Vostre bell' alme, o Sposi, altere, e sole Stringon del par con aureo nodo adorno. L' urna de' fausti eventi il fato schiude, Onde Italia s' allegri, or che il ciel vuole, Che per voi faccia al prisco onor ritorno. DOnna immortal, che per sua gloria, e vanto Al Cenomano suolo il Cielo diede, Donna, in cui di virtù splender si vede, E di bellezza un doppio raggio, e santo; Se avvien, che lungi a garzon prode accanto Dal patrio augusto tetto or volga il piede L' eccelsa inclita figlia, che possiede Alma sì bella in sì leggiadro ammanto; Deh! non t' incresca: e rammentando quale Venir ne deve al secol nostro onore Da questa coppia quasi a' Numi eguale, Sol di lieti pensier riempi 'l core; Poichè uscir vedrai prole eletta, e tale, Ch' emulerà l' avito almo splendore. QUeste, che miri in lungo ordin distinte, E d' aurea stanza alle pareti appese, Le Immagin son de' grandi Eroi dipinte, Onde l' illustre tuo Sposo discese. Altri di palme, altri di lauro han cinte Le chiome, e del furor di Marte accese Mostran le gote, ne' giammai fur vinte Dal nero obblìo lor gloriose imprese. Simili ad essi pur saran gli egregi Figli, e nipoti, che da voi verranno, Delizia un dì d' Imperadori, e Regi. Per lor di nuova gioja a Teti in seno Ricolmi, e d' alta meraviglia andranno Il Po, il Tebro, il Ticin, la Parma, e 'l Reno. DEh! perchè ai plausi, ai voti, e al suon de' carmi, Onde tutta l' Italia oggi rimbomba, Lasciar non puote la funerea tomba Quei, che dolce cantò d' amori, e d' armi? E lui, che in Sirmio in duri tronchi, e marmi Di Lesbia il nome incise, e qual colomba All' etra alzollò con la chiara tromba, Contro cui fia che 'l tempo indarno s' armi? E quel d' Etruria onore inclito vate, Che 'n riva a Sorga un tempo i rari pregi Cantò di Laura, e la gentil beltade? Che alto suonar farian non pur tra noi Del Martinengo, e Rosso sangue i fregi, Ma oltre gli esperi ancora, e i lidi eoi. CHe fai? che pensi? a che pur anco tardi, O Donzella, a bear lo Sposo amante? Vanne; a celar la bella fiamma, ond' ardi, Tuo modesto rossor non è bastante. Troppo i furtivi languidetti sguardi, E 'l vezzoso pallor del tuo sembiante Altrui palesa, che gli acuti dardi Fitti porti nel sen del cieco Infante. Vanne: sull' aureo talamo il diletto Sposo t' attende impaziente, e teco Venere, e delle Grazie il coro eletto. Già Brenno esulta rivolgendo in mente Gli Eroi futuri, e a plausi suoi far eco Ogni lido dell' Adria ancor si sente. SAggio Signor, che co' tuoi fatti egregi Le avite agguagli gloriose imprese, E in regger questo illustre almo paese Vinci il valor de' prischi Duci, e Regi; Tu, che l' itale Muse onori, e pregi, Degna d' un tuo gentil guardo cortese Queste mie rime a celebrare intese Della coppia immortal le doti, e i fregi. Ben so, che a paragon del gran suggetto Troppo ardita inalzar povero stile Io rozza Pastorella invan m' ingegno: Pur lieta andrò, se quel che chiudo in petto Vivo desir non men, che il canto umìle, L' alta coppia gentil non prende a sdegno. SAgro furor, tu, che invocato scendi De' bei pensieri infra l' alate schiere Talor quaggiù dalle celesti sfere, E al maggior uopo altrui fausto ti rendi, Deh! in questo giorno il sen m' agita, e accendi, Ond' io di due bennate Anime altere Canti con degno stil le virtù vere, Il santo nodo, e gli amorosi incendi. Ambe trasser dal sangue egual splendore, Ambe freggiate son d' alto talento, Una dell' Adria, una del Mela onore. Ambe de' nostri carmi ampio argomento Fansi or, che unite a noi le mostra amore Di cento ornate eccelsi pregi, e cento. FOrse credevi, o nobile vezzosa Donzella ognor tra sagre elette mura, Qual gemma in grembo al mar, startene ascosa, E dai guardi d' amor viver sicura? Non sai, che troppo in te mostra pomposa Fanno del Cielo i doni, e di natura, E vieppiù quell' altera, e luminosa Virtù, che adorna tua bell' alma, e pura? Mira lui, che obbliando i studi suoi, L' alte cure d' onor, e i pensier gravi, Struggesi allo splendor degli occhi tuoi. E lieto Imene i lacci aurei soavi Ci appresta, e dice; oh qual verrà da voi Prole eccelsa immortal simile agli Avi! SE l' Elisio beato almo soggiorno, Ove sgombri dal fral terreno ammanto Stan que' spirti, o Signor, cui fama, e vanto Crescendo vai coll' aureo stile adorno, Potessero lasciare in questo giorno Sì fausto a Brenno, e memorabil tanto, Oh di quale s' udrian festevol canto Le Valli, e i monti risuonare intorno! Chi i costumi innocenti, e la beltate Dell' alma Sposa, e le maniere accorte Chiare farebbe ad ogni tarda etate: Chi il valor dello Sposo illustre, e forte: Ma tutti poscia te ornerian di grate Rime, che i nomi lor ritogli a morte. NOn cieco Arcier, nè favoloso Imene, Incliti Sposi, oggi dal ciel discende, Nemmen pronuba a voi colei sen' viene, Che il terzo cerchio luminoso rende. Ma quel, che sovra gli Astri il seggio tiene Sommo Nume immortal vostr' Alme accende; Ei ci appresta le dolci auree catene, E stringe il santo nodo, e in guardia il prende. Così avverà, che ognor ne' vostri cori Pace soggiorni, e il talamo beato Governi Amor, feconditade infiori; E vedrà il bel Ticino in ogni lato Sorger d' Adda il buon sangue a nuovi onori D' alta virtude, e vera gloria ornato. STavami jeri assissa appiè d' un orno Lungo il Benaco a pascere l' Armento, Quando di flauti, e cetre udii concento Dolce suonare, e risuonare intorno. E vidi di bei serti il crine adorno, Muover danzando il piede or presto, or lento Le Ninfe, e ogni Pastor lieto, e contento Segnar con bianca pietra il fausto giorno. Piena richiesi allor d' alto stupore; Forse Cerere, Pale, od altra Diva Avvien, che tra le selve oggi s' onore? No, disse un Genio, al picciol Reno in riva Due chiare anime eccelse accoppia Amore, Degne, che ognun di lor sol canti, e scriva. ECco, che viene d' Adige alla sponda Di verde fronda ornato il casto Imene, Colle serene sue luci a far l' onda Più chiara, e monda, e le campagne amene: Ecco che viene. Per mano ei tiene a suoi desir seconda Pace gioconda, e quelle auree catene, Con cui ritiene i cori, e li circonda, E i lor profonda in Lete affanni, e pene: Ecco che viene. Tosto accorrete, o Ninfe alme, e Pastori, E vaghi fiori alla gran coppia intorno, Che il Nume adorno unisce, omai spargete: Tosto accorrete. Voi ben vedete quai novelli onori Gli alati amori, dell' invidia a scorno, Fanno al bel giorno per nozze sì liete: Tosto accorrete. NObil Donzella, che il bel volto e 'l nome Hai simile a colei, che feo sul Xanto Co' rai lucenti, e colle bionde chiome Al Frigio rapitor soave incanto; Se quella, che ti siede altera accanto, Virtù nudrìa l' infida Greca, oh come Cangiato in gioja avrebbe d' Ilio il pianto, Onde avvien, che impudica ancor si nome! Ma se giacque per lei di Priamo il regno Distrutto, ed arso dall' ostil furore De' Greci allor, d' alta vendetta in segno: Nuovo alla patria tua crescer onore Per te vedrassi or, che ad illustre, e degno Garzon ti stringe in dolce nodo Amore. IO, che d' amare lagrime, E di sospiri pascomi Ognor, che così vogliono Gli astri maligni, e rigidi, Che al mio natal rifulsero; Come de' duo magnanimi Sposi, che il buon Valesio Stringe con santo vincolo, Potrò gli affetti teneri Ornar d' inni festevoli? Giace negletta, e mutola Al suol mia rozza cetera; Nè da gran tempo Apolline, Nè le Castalie Vergini Sacro furor m' ispirano. Solo tristezza indonnasi D' esto mio cor, nè bastano A rallegrarlo, a scuoterlo Tutte l' alme delizie, Che in queste rive albergano. Pur or mi volsi al celebre Vate di Sirmio, e chiesigli Que' modi suoi dolcissimi, Co' quai cantò le Veneri, Le Grazie, ed i Cupidini; Ma non ascolta i fervidi Voti, che dell' Elisio Alle fresch' ombre, e placide Sedendo, alla sua Lesbia L' antico amor rammemora; E gode anco di tergere Alla Fanciulla gli umidi Bei lumi, che lo accessero, Qualor del morto Passero Ella s' affligge, e lagnasi. E dunque forza, o nobile Coppia, ch' io taccia gl' incliti Tuoi pregi, e le chiarissime Gesta de' tuoi grand Avoli, E col silenzio onoriti. Mentre in disparte attonita Stommi ad udir tue laudi, Che i Cigni almi Cenomani, Eco facendo all' Adria, Soavemente cantano. O come al vivo pingono Essi tua vaga immagine, Chiara donzella, e l' intime Doti più assai pregievoli, Che tua bell' alma adornano! Oh come dell' egregio Garzone sin' all' etera Il valor vero innalzano! Intanto l' atra invidia Di duol si rode, e macera. Nè inonorate lasciano Le porpore, e i paciferi Ulivi, e 'l doppio lauro, Che all' uno, e all' altro stipite Tanto splendor accrebbero. Ma d' improviso veggioli Starsen pensosi, e taciti, Che in tutto rassomigliano Ad uom, che cose altissime Fra se ravvolge, e medita. O Sposi, alla fatidica Lor mente ora presentasi Schiera d' illustri spiriti, Che in breve da voi deggiono Leggiadra forma prendere. Perciò colmi di giubilo Alle future glorie De' figli nuovi cantici Ebri del Nume Delfico, I vati ancor preparano. Io pur, se non me 'l vietano I fatti, un giorno serbomi L' altere fronti a cingere D' ascrei fiori odoriferi, Che ria stagion non temono. Ah Giove! ah! fa che adempiansi Mie brame, e questo cangisi Tenor di vita flebile Pria, che io divenga ahi misera! Nud' ombra, e freddo cenere. ADria del mar Reina, esulta, e godi, E dal bel seggio, u' ti locaro i Dei Volgi l' altera augusta fronte, ed odi Il suon verace de' presagi miei. Da questa, che oggi Amor con aurei nodi Strigne, coppia gentil di Semidei Oh quai figli verranno illustri, e prodi L' avite a rinovar glorie, e trofei! Di loro altri coll' opre, e col consiglio Verran di senno, e di gran core armati Per tua difesa ad incontrar periglio. Altri vedrai dalla Città Latina Rieder a te di lucid' ostro ornati. Esulta, e godi, Adria del mar Reina. SI' leggiadro non si move Colassù qualor dispensa Dolce ambrosia alla gran mensa Il Coppier del sommo Giove, Come tu, sovra cui piove Di sue grazie copia immensa Ciel benigno, e sempre pensa Farti vaga in forme nuove. Molto dir dell' agil fianco Si potrebbe, o Verginella, Del bel viso, e del sen bianco; Se non che d' Alma più bella Sei fregiata, onde vien manco Ogni lode, ogni favella. SQuarciato il denso tenebroso velo Fugge la notte, e l' amorosa stella Nunzia del nuovo giorno or sorge in cielo Più dell' usato rilucente, e bella. Amor pria, che l' estingua il Dio di Delo, Del bel lume di lei s' orna, ed abbella, Indi deposto l' arco, e l' aureo telo Riede giulivo in sulle sponde al Mella. E seco, illustri Sposi, a voi sen viene Cinto di fiori il crin, la sacra face Lieto in aria scuotendo, il casto Imene. Per lui fia pago quel che v' arde, e sface Desir, che non fu mai d'affanni, e pene Apportator, ma di diletto, e pace. QUant'è ch'io ti mirava in fasce avvolta Schiuder tue luci, o Giulia, a' rai del Sole, E che t' udiva poi, da quelle sciolta, Indistinte formar voci, e parole? Quant'è, che spesso tra le braccia accolta Io ti mostrava, come Dio si cole Su gli esempj materni, e quanto stolta La mente sia, ch' ama sol ciance, e fole? Jeri mi sembra, e pur tre lustri sono: E tu crescendo in sacro albergo intanto, Ornasti l'alma de' più rari pregi. Ed or, mentre di te canto, e ragiono, Lieta t' ammiro a Sposo illustre accanto Le glorie rinovar degli Avi egregi. BEn cento illustri Eroi non nati ancora (Che pur verran dai chiari incliti Sposi) Febo m' addita entro de' fati ascosi, E l' egra debil vista mi avvalora. Miro alcuni di lor, che in guerra ognora Sudando accerteran gli altrui riposi: Altri Palla seguendo esser famosi Dall' occidente ai regni dell'aurora. Ed altri cinti ancor di sacro ammanto L' orme seguir di lui, che adorno d' ostro Splende sul Tebro, ed è sua gloria, e vanto: Altri… ma troppo ardita ormai mi mostro, Mentre il narrar le insigni opre cotanto Impresa fia di più purgato inchiostro. DAlla terza del ciel lucente sfera Col fianco d' arco armato, e di saetta, Vidi quaggiù calarsi a volo in fretta Il figlio della Dea, che in Cipro impera; E voi mirando, o nobil pregio, o vera Gloria di Brenno, ei disse: or che s' aspetta? Costei dal ciel a propagar fu eletta De' Bevilacque Eroi la stirpe altera. Tacque, e piagovvi il casto petto allora, Gentil Donzella, con un dardo aurato Per l' illustre Garzon, ch' Adige onora. Indi partissi; ed ora a compier viene Con folto stuol di lieti auguri a lato La bell' opra d' Amor festoso Imene. COppia d' illustri Sposi, in cui s' aduna Quanto di valor vero, e di bellezza Fu in Argo, e in Pella, e quanto di ricchezza Può altrui donare a larga man fortuna; Di cantar vostre lodi ad una ad una Oh qual mi sento al cor nascer vaghezza! Ma questa cetra di febèa dolcezza (Misera!) da gran tempo è omai digiuna. Altri però, cui son le muse amiche, Dirà la bella fiamma, e 'l fortunato Nodo, che a voi gli eterni Numi ordiro. Udrete ancor rammemorar l' antiche Glorie degli avi, e disvelar del fato Ciò, ch' io confusa col silenzio ammiro. QUei, ch' io confusa col silenzio ammiro, Lieti presagi ben dall' Indo al Moro (Quali 'n Tessaglia a prischi dì s' udiro) Porta la fama colla tromba d' oro; L' odon fin negli Elisi, ove sortiro Felice albergo, e allegransi tra loro I duo, che al tuo gran sangue, o Sposa, uniro Fregi di palme, e di guerriero alloro. Nè d' essi men se ne compiace, e gode Quei, che di Palla ai dolci studj intento Immortale acquistossi eccelsa lode: L' Eroe, per cui tanto attristossi, e dolse Partenope real nel fier momento, Che a lei di grembo cruda morte il tolse. QUell' aurata eburnea cetra Che dall' etra Mi recò di Cirra il Dio, E per grande illustre impresa Serbo appesa, Deh! m' appresta, amabil Clio. Ora, che d' Adria le sponde Di gioconde Voci suonan d' ogn' intorno, In me accendesi il desire Di seguire L' altrui canto in sì bel giorno. Questo è il dì, che compie Amore La maggiore Delle sue mirabil opre, Contro cui fia, che il fugace Veglio edace Sempre in van sua possa adopre. Due grand' alme illustri, e conte Lieto in fronte Stringer dee con laccio d' oro, Che in se chiudon d' alti pregi, E d' egregi Bei costumi ampio tesoro. Non di Tetide, e Peleo L' Imeneo In Tessaglia insigne tanto, Nè se d' altro antica storia Fa memoria Have a questo eguale il vanto. Anco Venere dal Polo. Con lo stuolo Delle Grazie in terra scende, E all' eccelsa alma Donzella Di sua stella Col bel lume il volto accende. Ch' esser ella germe vero Dell' altero Nobil ceppo le sovviene, Onde nacque l' Eroina, Che Reina Ebber già le Ciprie arene. Mira d' ambe il Faretrato Nume alato Le fattezze alme leggiadre, E confuso all' egual merto Pende incerto Tra la Sposa, e tra la Madre. Se non che l' alta vezzosa Gentil Sposa Si distingue dalla Dea D' onestade a' chiari rai, Che non mai Splender vide in Citerea. Questi fur, che a poco a poco Di bel foco Infiammaro il Garzon saggio; Che di rado il sol sembiante Rende amante Uom, che intende, ed ha coraggio. Que' soavi, e dolci sguardi, Che quai dardi Vibra in volto alla diletta, Voglion dire, che la vampa, Onde avvampa Più non cape in sen ristretta. Dunque amor, che tardi ancora? Ecco l' ora Di bear la coppia altera: Da tal nodo inclito, e degno Suo sostegno Non in van l' Italia spera. Col valore, e co' consigli Verran figli, Che armeransi in sua difesa; Già da' fatti in nuova guisa Li ravvisa Senza vel mia mente accesa. Chi le gesta alte de' suoi Chiari Eroi Segnerà su dotte carte; Chi fra mille schiere, e mille Nuovo Achille Seguirà Bellona, e Marte; E chi ancor verrà laudato In Senato Per gran mente, e bel costume; E chi d' ostro ornato, e d' auro Al Camauro Fia, ch' accresca gloria, e lume. Ma qui, o musa, i detti audaci Frena, e taci; Meglio assai, che in rozzi carmi, L' alte loro opre onorate Nostra etate Vedrà sculte in bronzi, e in marmi. Vè qual prende il cielo amico Del pudico Dolce letto alto governo, Onde giunga a' dì remoti Ne' Nipoti De' grand' Avi il nome eterno. Sposi, intanto ah! senza affanni I lunghi anni Di Nestorre anco vi dia; E turbar vostri riposi Mai non osi Rea discordia, o gelosia. DOnne, che col gentil vago sembiante Più bel rendete questo ameno loco, Cui di fregiar con sì diverse, e tante Doti a natura, e al ciel calse non poco; Mirate Tirsi, quel, che altero innante La possanza d' amor prendeasi a gioco, Di straniera bellezza or fatto amante Tal, che tutt' arde d' amoroso foco. Se poi l' udiste trar dal petto fuore, Fra lagrime, e singulti, alti sospiri, Non vi muova pietà del suo dolore: Poichè ben tosto rasciuago il pianto, Far lo vedrete i caldi suoi desiri Paghi, e contenti alla sua Diva accanto. ME pur vedrai sovra destriero alato, Coppia immortal, correr le vie de' venti, E de' futuri tuoi felici eventi ,, Sin dentro i nembi ragionar col Fato. Ma non dirò, che t' abbia il sen piagato Il cieco Dio co' suoi strali pungenti; Che ispirar puri affetti, ed innocenti Mal può chi d' ozio, e di lascivia è nato. L' alta virtude, o Sposi, il sommo, e raro Valor, di cui vostr' alma avvien si fregi, Sì ardenti, e belle in voi fiamme destaro. Onde il ciel, che vi ornò di tanti pregi, Quanto nodo sì illustre a lui sia caro, Ben tosto mostrerà ne' figli egregi. ILlustre Donna, che ornamento sei Del nostro sesso, e del bel suol natìo Gloria, ed amor, scesa tra noi cred' io Dallo stellato regno degli Dei. Se il tuo merto immortal co' carmi miei Laudar potessi sì, come desio, Dall' ingiurie del tempo, e dell' obblìo Come tu, pur sicura anch' io vivrei. Ma poichè non mi diede il Fato avaro Per salir l' erto Pindo agili vanni, Temo di doppia morte il colpo amaro. Felice te, che insiem col gran Giovanni D' ogni bella virtute esempio raro Andrai famosa oltre il confin degli anni. QUal cercando il suo ben per l' ampie, e belle Vie di Sionne ebra d' amor solèa Irsen la sagra Sposa allor che ardèa Più Febo in cielo, o risplendean le stelle; E a quante rivenìa Donne, e Donzelle Del caro oggetto in mesto suon chiedèa; Deh! a lui narrate il mio dolor, dicèa, Se il ritrovaste in queste parti, o in quelle. Così, o Signor, l'avventurosa eletta Sposa, che teco in santo nodo unìo Il Bragadin, te sospirando aspetta. Che tardi? ah vanne e appaga il suo desìo, Poichè al tuo zelo, a tua virtù perfetta L' alta cura di lei commise Dio. QUeste chiar' alme, cui benchè con roco Canto cerco donar lode novella, Di santo, puro, ed iscambievol foco Arsero ancor nella natìa lor stella. Discese poi da quel celeste loco Ambe vestir fra noi leggiadra, e bella Spoglia, onde in lor destossi a poco a poco L' antico amor per la beltà di quella. Nel crescer poscia gli anni il dolce ardore Vasto incendio divenne, e affanni, e pene Provaro unite al bel corporeo velo. Ma in questo dì per farle liete Amore Le stringe con tenaci auree catene Per man de' Numi fabbricate in cielo. NAve che senza guida e senza stella, Errando và sul liquido elemento Scherzo è de' venti, e ogni legger procella D' assalir la meschina ave ardimento. Che, se al governo poi siede di quella Ben esperto Nocchier saggio, ed attento, Nè gli urti di feroce onda rubella, Nè di Borea il furor le fa spavento. Così, o Signor, poichè morte rapio L' inclito tuo German discordia prese Contro noi l' armi in fier sembiante, e rio. Ma tosto, che spirar vide d' intorno A noi del tuo favor l' aura cortefe Fece fremendo al carcer suo ritorno. RAsciuga il pianto, e i lunghi alti sospiri Frena deh frena, illustre Donna: assai Tetra nube sin or d' aspri martiri Turbò il sereno de' tuoi vaghi rai. Se ad appagar gli ardenti altrui desiri Sorse dal Gange più bell' Alba mai E questa incontro a cui fia che tu miri, Fuggir la schiera de' tuoi stenti e guai. Arrise il Cielo a i commun voti; oh quanto Lo Sposo tuo dal volontario esiglio Or glorioso fa ritorno a noi? Teco veste la Patria allegro manto, Che mal soffria veder lungi, e in periglio Un de' più chiari incliti Figli suoi. D' amaraco festivo il crine intorno Cinto, scuotendo l' ignea face, e viva, Scendi, Imeneo, dall' alto tuo soggiorno Dell' Adriaco Mare in sulla riva. E ivi Jole, cui la Cipria diva Cede al bel viso d' onestade adorno, Al vezzoso Mirtillo unisci, e avviva Del casto Amor la fiamma in questo giorno. Nè guari andrà, che di sì caro nodo Vieppiù godrai, scorgendo a pro di noi Nascer figli da lor famosi, e chiari. Poichè in valore con mirabil modo, Ed in ogni virtude i nuovi Eroi Crescer vedrem de' lor grand' Avi al pari. GArzone illustre, che degli Avi tuoi Tutto racchiudi in sen l' alto valore, E ratto corri di tua età sul fiore Il sentier luminoso degli Eroi; E tu, o Donzella, che emular ben puoi L' Idalia Dea del volto allo splendore, Ambo venite, ove v' attende amore, Quel che vi punse il cor co' strali suoi. Già del bel nodo, ch' ei nel Ciel ci ordìo, Pur gode l' alto Eroe, cui libertate Il regio serto, non ha guari, offrìo. E l' Adria spera ancor con lieta sorte Per voi veder l' eccelse opre onorate Di Jacopo, e Giovanni un dì risorte. SE nobil pianta nel natìo terreno Cresce infeconda, onde sperar da lei Non può il cultor frutti soavi, e bei, Che rendan lieti i suoi desiri appieno; La svelle, e la trapianta in altro ameno Fertile suol, u' col favor de' Dei Fiorisce sì, che non par quella ch' ei Staccò poch' anzi dal materno seno. Così da accorto giardiniero Amore Oggi fa con cotesta alma donzella Dell' Adige, e del sesso alto splendore. Perchè sa, qual d' Eroi schiera novella Deve produr, che 'l secol nostro onore, E sia per lei l'Italia ancor più bella. QUando la prima Madre al lusinghiero Detto dell' Angue ingannator si arrese, Ed al vietato pomo incauta stese La man, che armò d' un Dio lo sdegno fiero; L' empio sen gìa di sua vittoria altero, Che il grave danno universal comprese, E così ancor di vendicar pretese I propri scorni, e 'l già perduto impero. E se a spezzar nostra servil catena Nata non fosti al mondo, o dell' eterno Verbo gran Madre d' ogni grazia piena; Del germe uman tutto furore Averno, Chi potrìa dire, o immaginarsi appena, Qual mai crudo farebbe aspro governo! NO non credea del più pregiato lauro, Che dell' Arcade Alfeo crebbe alla sponda, Ornar la giovanil mia chioma bionda, Meglio assai che di gemme, o lucid' auro. Pur l' onor del Tesino, il buon Rosauro, Che di grazie Febee contanto abbonda, Dica, se il don dell' onorata fronda Ebb' io, che vince ogni più bel tesauro. Presente ei fu quando mi festi degna, O Arcadia delle muse almo ricetto, D' ogni famosa tua leggiadra insegna: Ei pria l' illustre serto al crin m' avvolse, Poi di sagro furor ricolmo il petto Dolcemente così la lingua sciolse: QUesto serto d' alloro, e questa molle Spoglia d' agnel, e questo dardo Eleo A te d' Arcadia manda il buon Mireo, Che tien di Pindo l' uno, e l' altro colle. L' agresti canne d' alto suon satolle, Che in Menalo, in Eurota, ed in Liceo Si sparse, manda il favoloso Alfeo, Se il bel desio di Pan nel sen ti bolle. Ma pria che di Corcira le beate Selve t' odan cantar gregge, ed amori, Strigni quel dardo, che a ferir t' affretta. Colla mentita lana, e coll' ornate Fronti d' ingiusto allor ninfe, e pastori Quanti, o Nisea, vedrai, pungi, e saetta. TAcque; e tali al suo dir feroci, e presti Sentii nascermi in cor spirti guerrieri, Che dissi: Arcadia, de' tuoi torti fieri Per me non fia che invendicata resti: Indi per l' atra Stige, e per gli agresti Numi, e pe' pregi tuoi sublimi, e veri Giurai recare agl' invidi, ed alteri Emuli di tua gloria i dì funesti. E perchè lor di scampo, e di difesa Nella dura tenzon manchi ogni spene, Meco verrà Rosauro all' ardua impresa. Poscia ne'tronchi, ad immortal memoria, Io di Corcira, ed ei d' Argo, e Micene, Impressa mostrerem l' alta vittoria. SE fia che cessi il rio malor, che il molle Fianco mi strazia più che strale Elco, Tra me dicèa poc' anzi, allor Mireo Salir vedrammi al bel Pierio colle. E l' ire mie di sangue ostil satolle Vedrà il chiaro d' Arcadia almo liceo, Indi cantar m' udrà di lei, che Alfeo Accese sì, che ancor ne avvampa, e bolle. Ma poichè favellar delle beate Sedi te intesi, altro che folli amori Questa mia cetra a celebrar s' affretta. L' aureo tuo stile, e le parole ornate Sì mi rapiro, che gregge, e pastori Tosto obbliai, ghirlanda, arco, e saetta. QUesto Tempio, che a noi sì adorno e vago Mostrasi, e l' oro al Sol raddoppia i rai, Aglauro di virtù verace immago, Tal in gran parte è mercè tua: nol sai? Per far il tuo desir contento e pago Di larghi doni tu arricchito l' hai, Perciò, fin che il Ciel muova, al Gange, al Tago Per insigne pietà chiara n' andrai. Ma che dirò di tua istancabil cura In apprestare altrui soavi, e lieti Cibi, onde si sostenta il nostro frale? Ah! lodinti que' chiari almi Poeti, Che beon da Pindo la fresch' onda, e pura, Perchè tant' alto il mio cantar non sale. TU che del senso per le vie fallaci, O stolta Gioventù muovi le piante, E sprezzando del Ciel le dolci, e tante Interne voci in pigro ozio ten' giaci; Vieni oggi al Tempio, e tra lucenti faci, Ed odori sabei l' opere sante Vedrai di Lui, ch' intrepido, e costante I vili calpestò piacer fugaci. Vieni, e vedrailo con immoto ciglio Al primo grande Sagrificio intento Starsi, d' alta letizia il cor ripieno. Vieni, ed apprendi con miglior consiglio A domar le ree voglie, e a cento, e cento Ciechi mal nati affetti a porre il freno. QUesto è il giorno di lutto, e di terrore Pieno, e di nuovi insoliti portenti; Giorno, in cui per pietà del lor Fattore Si sconvolsero i Cieli, e gli Elementi: Del gran misfatto il Sol pel sommo orrore Avvolse d' atra nube i rai lucenti; L' ampio suo sen squarciò la Terra, e fuore Uscir mugghiando furiosi i venti: Si spalancar le Tombe; e in duo partissi Del Tempio il velo; e disperate strida Mettean gli spirti rei da' ciechi abissi. E intanto l' Uom del fero orrido scempio Sola cagion par che trionfi, e rida Nel duol comune: ahi mostro ingrato, ed empio! CIngetemi d' alloro Le tempia, o muse amiche, E mi recate bella cetra d' oro; Oggi tesser convienmi alto lavoro, Che l' invide nemiche Etadi a scherno prenda, e il cieco obblìo. Del Mella pure alteri Cigni pronti, e leggieri S' alzan sull' ali di gentil desìo Per eternar ne' carmi Un nome augusto più che in bronzi, e marmi. Io senza voi non oso Muover mie fide scorte Inver l' Aonie cime il piè dubbioso. E qual sarà mai stil tanto animoso, Alla Real Consorte Dell' invito Amedeo che s' assicuri Vaga intrecciar corona Lunge dall' Elicona, Che poi chiara risplenda ai dì venturi? Saria folle argomento Sciolger senza nocchier le vele al vento. Ma di foco Febèo Ormai m' avvampa il petto, Già d' aganippe al divin fonte bèo, E dietro il volo dell' Augel dircèo A te venir m' affretto Dora felice, a gran raggion superba, Di lei che tutti i pregi, De' Barbonici Regi Sì chiari al mondo, in sè rinchiude, e serba, Per porger d' umil canto Picciol tributo all' immortal suo vanto. Quanto a lei d' aurea Cetra Sia l' armonìa gradita, Dolce armonìa, che i cor più duri spetra E qual d' onor bel guiderdone impetra, Sennarte a dir m' invita Sennarte, che sugl' erti gioghi il piede, (Germe d' illustri Eroi) Pose dell' alpi, a noi Carco tornò di non volgar mercede, Allor, che rime asperse D' eterna gloria al tuo Signore offerse. Tra le sovrane doti, Tra le doti divine, Per cui l' eccelsa Donna a gran Nepoti Speglio ancor fia ne' secoli remoti, Trasvola ogni confine Affabil cortesia laccio de' cori, Onde i sublimi ingegni Fa di sua grazia degni, Nati in Pindo a nutrir palme, ed allori, Godendo a' nostri tempi D' Augusto rinovar gli antichi esempi. Questa assai più s' apprezza, Perchè s' accoppia meno Con lo splendore di real grandezza, Questa più cara rende alma bellezza A meraviglia in seno. Brenno, o Reina, ammira in te tal fregio, Ora che estolli al sacro Di salute lavacro La Nobil prole di Sennarte egregio, Che novo un giorno onore Fia, che alla Patria cresca, e al Genitore Che questa non pareggia Altra pompa dir lece, Pur se non movi dall' augusta reggia In cui virtute più che oro fiammeggia Degnamente tua vece Chi sosterrà? ma veggio, o gran Maria, Il merto, che dimostra La prima gloria nostra Molin, che degli Eroi segna la via, E dietro alla tua luce Lungo stuol di seguaci ancor adduce. Ei, tuo desire scorto, Lieto l' adempie. Or m' odi, Diva, e m' aita a ritornare in porto; Mira mio debil legno quasi assorto Nel mar delle tue lodi. Deh! volgi a me benigna il bel sembiante; E a far, ch' io spieghi il volo Dall' uno all' altro polo, L' aura del tuo favor sarà bastante. Perdon del basso inchiostro, Ti chieggio intanto, e al regio piè mi prostro. CHiaro spirto gentile, Che m' onori cotanto Col tuo sublime canto, Di celarti alle genti Perchè pur brami, e tenti? Non sai, che alto il tuo nome ormai risuona In Pindo, e in Elicona, E famoso sen và da Battro a Tile? Vani perciò fien sempre i studi tuoi Di nasconderlo a noi, Che viver non potrai noto a te solo, Se pria non fermi alla tua fama il volo. DOnzella, se per te la lingua, e il canto Cinti di verdi, ed immortali allori Sciolsero rinomati alti cantori Cari alle muse, e cari a Febo tanto, Quando chiuse l' orecchie al dolce incanto Del mondo lusinghiero, e i suoi tesori Sprezzando, ed i mortai caduchi onori, Vestisti il sacro religioso ammanto. Quai non udransi in questo lieto giorno, In cui giuri a Gesù perpetua fede, Dolci concenti risuonare intorno? Già ogn' uno la deposta eburnea cetra Ripiglia, e come il tuo gran merto chiede Il tuo valor fa noto al mondo, all' etra. VAghe leggiadre Ninfe, e perchè siete Oltre l' usato meste, e lagrimose? Qual doglia trista, e quall' affanno avete E perchè state tra le fratte ascose? Sono pur queste selve, e valli erbose Dolce albergo di pace, e di quiete? Qui spiran fresche aurette, ed amorose, E bell' ombra vi fa il mirto, e l' abete? Ma se, perchè vivete fuor di spene Di riveder più Clori al prato, al rio, L' alta cagion, che a lacrimar v' apella; Fate le luci omai liete, e serene Poichè Ninfa sì vaga, e tanto bella Non alle selve, a se serbolla Dio. QUesto non è, Donzella, il dì primiero, Che i fugaci diletti a scherno prendi, E che l' alta del ciel favella intendi, Che i cor molce, e li guida in grembo al vero. Sino da tuoi prim' anni il bel sentiero Di virtute segnasti, ed oggi rendi Palesi a noi tue caste voglie, e stendi La destra a lui, che ha sovra gli astri impero. Oh! qual t' ammiro intrepida, e sicura Chiuderti in faccia a' ciechi affetti, ed empi Del gran Salesio entro le sagre mura! E di quella seguendo i santi esempi, Di cui dolce tu sei delizia, e cura, Il tuo desire, e i suoi bei voti adempi. SE noi veggiam fuor dell' auguste soglie Di questo tempio, ove sant' aura spira, Starsene amor pien di dispetto, e d' ira, I rei piaceri, e le malnate voglie. E se Imeneo tra crudi affanni, e doglie Spegner sua chiara face ancor si mira, E se il mondo non men per lei sospira, Cui sprezza altera, ed agi, e ricche spoglie; Qual fia stupor? mal ponno in erma cella (Stolti?) soffrir, che agli occhi altrui nasconda Per sempre sua gentil vaga sembianza. Ma si ride di lor la vergin bella, E alla grazia di Dio, che la circonda, Lieta inalza trofeo di sua costanza. DOnzelle semplicette, e mal accorte, Che a suono lusinghier l' orecchio aprite, E cieche, un cieco condottier seguite Per strade ahi! quanto perigliose, e torte; Di Vergin saggia, generosa, e forte, Voi meco ad ammirar oggi venite Il solenne trionfo, e poscia dite, Se dessi invidiar sua bella sorte. Eccola come armata di virtute, Ogni cosa mortal sprezzando, i passi Muove velocemente inver salute: E par che dica: aspro per dumi, e sassi Non è qual a voi sembra, o irresolute Donzelle, il bel cammino, onde al ciel vassi. RItorni pure al ciel onde discese Col dolce, alato amore, il casto Imene, E spegna l' ignea face, e le catene Spezzi, con cui mill' alme avvinse, e prese; Che sol del divin Nume alfin si accese La saggia Clori, e solo a lui serene Volge sue luci, da che le terrene Grandezze ad isprezzar nel chiostro apprese. Or che del sol eterno ella è invaghita, I caldi affetti, che nutrìa nel core, Per obbietto mortal fero partita. E vaga ormai di starsi a tutte l'ore Col celeste suo Sposo in pace unita, Altro nodo non cura, od altro onore. DUnque vorrà per sempre a noi celarsi Questa, che in se con nova foggia, e rara Rinchiude tutti i pregi in altre sparsi, Vergine eccelsa al patrio suol sì cara? Dunque obbliando sua vetusta, e chiara Magion, e l' oro di cui suole ornarsi, A vestir rozze lane si prepara, E perpetuo ricetto il chiostro farsi? Ah sì! tanta virtute ebbe in retaggio Da' Giustiniani Eroi, e dal materno Avo, cui Brenno anco rammenta, Così, o donzella, l' aspro duolo interno Sfogan l' adriache ninfe, or che t' invole A lor, seguendo il bel celeste raggio. UN anno è già, che in queste sagre mura Cangiar ti piacque il patrio illustre tetto I piacer molli in aspra vita, e dura, E i ricchi fregi in manto umile, e schietto Offristi allora generosa, e pura Te stessa in dono al ver dell' alme obbietto, Che i caldi voti tuoi prendendo in cura T' accese il cor di dolce, e casto affetto. Ed oggi, che di palme, e di trofei Onusta, e ferma nel tuo buon desìo Dai compimento a i bei trionfi tuo Di gioja al cielo alta cagion tu sei, Di sdegno al mondo, ed al infesto, e rìo Angue infernal, di santa invidia a noi. SIgnor, se fin da' più verd' anni suoi La tua gentil nipote il fior cogliea De' bei costumi, e i saggi detti tuoi Fida custode entro suo cor chiudea; Qual fia stupor, se pria se stessa, e poi De' mondani piacer la turba rea Vincendo, accesa oggi si mostra a noi Di quel foco divin, che incende, e bea! Ecco qual viene generosa in atto, La grand' opra a compir di dolce, e santo Diletto piena, e di celeste speme: Già al sommo amor dona suo core intatto, Ed in mirando fue vittorie intanto L' empio mostro infernal s' adira, e freme. DOlce l' udir questa, che pur chiudea De' suoi bell' anni il primo lustro appena, Qualor sua lingua d' alto zelo piena Contro del folle error franca movea. Dolce il mirarla poichè invida, e rea, Morte spezzò sua nuzial catena, L' orme seguir con instancabil lena, Che il gran Salesio pria segnate avea. Dolce…. ma indarno sue virtuti anelo Altrui ridire, e le soavi, e liete Gioje, che sente sua bell' alma in cielo. Vergini eccelse sol dir lo potete Voi, che pure angiolette in uman velo Di sue sant' opre imitatrici siete. UOm giunge appena pellegrino in questa Valle di pianto, e di miserie piena, Che di vil servitute aspra catena, E duri ceppi il senso reo le appresta. Eppur (chi 'l crederebbe?) in sì funesta Schiavitù v' ha chi lieto i giorni mena, Nè mai col trapassar di pena in pena Desìo di libertate in lui si desta. Ma tu, che nutri generosa in petto Vera virtù, o donzella, oh come altera, Or volgi il tergo ad ogni basso affetto! E qual fiamma, che s' erge alla sua sfera, Il tuo cor salda pace, almo diletto In Dio ricerca, e in lui trovar sol spera. VErbo divin, che con un guardo solo Il ciel, la terra, il mar orni, e ricrei, E d' alme elette numeroso stuolo In te stesso beato allegri, e bei; Perchè scendesti mai dal sommo polo A cinger mortal spoglia tu, che sei Gran Re di gloria, quì tra il pianto, e il duolo Misto, e confuso co' rubelli, e rei? Ah! tu venisti a riparare il danno Dell' uman germe, che gemèa cattivo Tra i lacci, ahime! dell' infernal tiranno. Oh eccesso di bontà? mio duro core, Che fia di te, che del patir sì schivo Mal corrispondi ingrato a tanto amore? ECco il tempio, ecco l' ara, ecco di quella L' immago, che è del ciel arbitra, e dea, Cui con tenera mano anch' io porgèa Serti di fior nell' età mia novella. A lei con pompa in un divota, e bella Correr suplice stuolo io pur vedèa Nel maggior uopo, nè favor chiedèa Indarno mai da sì benigna stella. Così d' atro velen poc' anzi armato Videsi appena crudel morbo ardito In te, o popol, rotar suo dente irato; Ch' ella accinta al tuo scampo, aflitto, e carco Di ferrei lacci al regno di Cocito Precipitollo, e ruppe a morte l' arco. ALl' ara intorno, che per faci ardenti, E per arabi incensi odora, e splende, Oh quale alata schiera in alto pende Di puri spirti al gran mistero intenti! E l' alma fede alle divote genti Lui, che il cielo di se beato rende, Addita ancor, che impaziente attende Il suon de' primi tuoi sacrati accenti. Che tardi dunque? ah! dal tuo cor discaccia Ogni timor, cui riverenza imprime, Sacro Ministro, e il sacrifizio adempi. Già il divin Nume a te con lieta faccia Sen viene, e fia che l' opra tua sublime A pro de' giusti accolga, e a pro degli empi. SE oggi tra l' aspre cure, e i duri affanni, Onde fassi oramai nojosa, e grave A me la vita in sul fiorir degl' anni, Quand' esser suole più cara, e soave, Questa cetra, che suono altro non ave, Che di pianti, e sospir, ripiglio, e i vanni Ver Pindo sciolgo, nè par che m' aggrave La rimembranza de' sofferti danni; E tua mercè, o Luigi, che valore Doni al mio spirto sì, che acceso ai rai Di tue virtudi il tuo gran merto onore. Ed al mirar tua sagra spoglia, oh quai Nascer sento improvisi entro del core Devoti affetti non più intesi mai! CHi in questo giorno al tardo ingegno mio, Che tue laudi cantar pur brama, e vole, O grande Antonio, darà lena, ond' io Possa formar degne di te parole? Deh! tu dal seggio, ove l' eterno Sole Stai vagheggiando appaga il mio desìo, E fa, ch' egual facondia a me sen vole, Qual dal tuo labro un dì Felsina udìo. Di queste amene rive amica cura Deh prendi ancor, e sienti accette, e care Non men delle felici Euganee mura. Ne fia, che nieghi a pro de' tuoi devoti Oprar prodigi, e mera viglie rare, Qualor t' offrono umili e pianti, e voti. OH quale in questo dì m' innonda il seno Vera allegrezza! O gregge fortunato, Tu pur gioisci; alfin arrise appieno A' nostri ardenti voti amico il fato. Da lui, del cui gran nome il mondo è pieno, Poichè protetto veggioti, e guidato Fra le selve, del ciel l' occhio sereno Gregge non scorge più di te beato. Pasci pur lieto, pasci alla fresch' ombra L' erbette tenerelle, che timore Or de' perigli tuoi più non m' ingombra. Già d' Eranisto il sommo alto valore Da fieri lupi il monte, e il piano sgombra, Ne paventa il lor cieco empio furore. O Sagro almo Pastore, Di zelo, e di pietade inclito lume, S' oggi dei per felice altrui ventura Lasciar l' amata greggia, e il patrio lido, Non ti prenda dolore. Voler del divin Nume E che a pascer tu vada in altro lido Greggia più numerosa, Che un tempo fu dolce delizia, e cura Del tuo german, che or su nel ciel riposa. Deh! la consola, e il tuo partir affretta; Te impaziente aspetta. CHi di virtute il pregio alto immortale Appieno non conosce, e non comprende, E d' oro, o di piacer vago non stende Oltre lo sguardo, e d' altro a lui non cale; Ben ha ragion, se a sostener non vale Il suo raggio divin, che in te risplende, Signor, e s' anco maraviglia il prende Perchè il tuo nome in tanto grido sale, Ma il saggio oh! quanto gode oggi de' tuoi Novi onori, e de' vati il caldo ingegno Questi a te volge bei presagi suoi: Chi tien le chiavi del celeste Regno, Sagro serto or t' invìa, ma l'ostro poi Sarà del merto tuo premio più degno. EQual vegg' io di bianca stola ornato Sfavillante d' insolito splendore Apparir tra le nubi Eroe beato, Che m' empie in un di gioia, e di stupore! Ah! che questo è il gran Neri; all' infiammato Volto de' raggi del divino Amore Io lo ravviso, ed all' aperto lato, Onde gli entrò la sacra fiamma al core. Egli con gaudio, che ogni gaudio eccede, L' augusta mole al suo gran nome eretta Or sta mirando dall' Empirea sede: Ed alla schiera avventurosa eletta, Che alzò sì nobil tempio, oh qual mercede Giulivo di lassù par ch' ei prometta! VEde Saulle ad assalir vicina L' oste de' Filistei le proprie mura; Ei teme, e quasi della sua ruina Presago, in suo valor non s' assicura. D' Endor la maga a' prieghi suoi s' inchina, Suscita Samuele in notte oscura, Da cui con fronte il Rege umile, e china S' ode annunziar fatale aspra sciagura. Ora intender da te mio core è vago Se chi la forma del Profeta, e il manto Prese, fu spirto vero, o finta immago. Tu pur, cui nulla è in sue cagioni ascoso, Se ver, di, qual potèo forza d' incanto Turbar d' un' alma eletta il bel riposo? VOi, che di lauri adorni all' alta vetta D' Elicona con piè franco poggiate Vati famosi, onor di questa etate, Che mercè vostra eterno grido aspetta. Voi della saggia Nice al ciel diletta Le virtudi, e il valor meco cantate, Che ne' verd' anni suoi d' amor l' aurate Quadrella spezza altiera, e sdegnosetta. E sol di puro accesa, e santo ardore, Tra i confini d' un chiostro oggi si serra Di pudichi pensier armata il core. Nè di lasciar le cale agi, e ricchezze Vaga di contemplare ancor quì in terra Del celeste suo ben l' alte bellezze. TU che in cella a tutte l' ore Stai rinchiusa contemplando Dolcemente, e raggionando Col divin eterno Amore, Forse ad opra assai migliore Ti richiama alto comando, Tosto l' odi, e manda in bando, L' altre idèe del mesto core. Ma tu pronta, e nell' aspetto Lieta n' esci, e l' altrui voglia Fai tua pace, e tuo diletto; Perchè sai, quale raccoglia Frutto dolce, frutto eletto, Chi del proprio amor si spoglia. LAscia, Vate gentil, che polveroso, E taciturno al suol giaccia negletto Il plettro, ch' ebbi di temprar diletto Sovente appiè di verde faggio ombroso. Già di colei, che all' immortal suo Sposo Oggi si unisce, il sacro nodo eletto Fatto de' carmi tuoi nobil soggetto Abbastanza n' andrà chiaro, e famoso. Perciò mentre il valor, gli accesi spirti Di santo fuoco, ch' ella in sen racchiude, Lodi, e mill' altri suoi pregi sovrani; Lascia, ch' io lungi omai da lauri, e mirti, Soltanto a penetrar m' affanni, e sude Della natura i più riposti arcani. NOn ascolti, Diamante, a mille alzarsi Voci di gioia in sì festivo giorno? Non odi il popol tutto d' ogni intorno Lieto al novo Pastor intorno farsi? E lui non vedi suoi tesori scarsi Far con prodiga man d' inferno a scorno? Ed in abito mesto, e disadrono Altri non odi al suo partir lagnarsi? Se i' miro, e ascolto, e taccio, ahi! ch' è il suggetto Sublime troppo, ed alto il calle, ed irto Sì, che non può poggiar mio ingegno tanto; Ma tu perchè tacer, che sola in petto Vanti a sì grandi imprese egual lo spirto, Allo spirto lo stile, al stile il canto? SUll' ale della fama a volo alzarsi Giorgio ben veggio in questo lieto giorno Il nome d' Agostino, e l' aere intorno Più puro, e lieve al chiaro monte farsi. Se di nettare ascreo non fosser scarsi Miei versi, io vorrei pur del tempo a scorno Suoi pregi celebrar, ma il disadorno Mio stile, e che altro può, se non lagnarsi? Percìò mi sproni in van pel gran suggetto D' Elicona a salir l' augusto, ed erto Sentiero alla tua musa agèvol tanto. Tu quell' alte virtù, ch' ei chiude in petto Lauda; ed io lunge l' immortal tuo merto Ammirerò nel tuo sublime canto. AL fin riveggio il vago viso adorno, Il dolce alfin leggiadro canto ascolto, In cui d' ogni beltade è il fior raccolto. O per me lieto, ed onorato giorno! Quando al Benaco tuo farai ritorno, Donna gentil, di lei, che al mondo stolto, E alle vane lusinghe il tergo ha volto, Fa che risuoni il chiaro nome intorno. Tu di serto immortal cingi le tempie A quell' invita trionfal donzella, Che lo splendore de' begli occhi asconde. Così di doppio onor quelle tue sponde Superbe andran; perchè oggi l' una adempie, E perchè l' altra canta opra sì bella. L' aureo tuo stile d' ogni grazia adorno, Cui pari in riva d' Arno appena ascolto, A compiere il bel serto insiem raccolto, Sol mancava, o Signor, in questo giorno. Io pria di fare al patrio suol ritorno Cantai ad onta dell' ignaro, e stolto Volgo i pregi di lei, che ha il pensier volto Ad opre eccelse, ond' è famosa intorno. Cinger d' Aonii fior per noi le tempie Non sdegni intanto l' inclita donzella, Che oggi sì lieta in sagro orror s' asconde, Che del suo Sposo alle beate sponde Poi giunta allor, che il vital corso adempie; Corona avrà più rilucente, e bella. O Mihi tunc oculis, uxor, dum luce fruebar, Carior, o vita dulcior usque mea; Horrida pallentes cum mors nunc occupat artus, Incusare fidem desinis ipsa viri. Nec queis me obiurges, teque excrutiare solebas, Mendax jam præbet crimina suspicio. Oscula nec dantur, nec collo brachia circum; Per fatum subeunt omnia jura tori; Nec teneros natos…. heu quo feroi? inclita coniux, Heu! tecum hæc nostri pignora amoris habe. Hæc tibi commendo; levis haud cura altera matris Est, æquum, utque fidem cum pietate colant. Post ego si quidquam merui, quod reddere possis, Per teneros natos, per geniumque rogo, Lumina sustollens multa manantia fletu Pro noxis ventam tu mihi posce Deum. In sanctos superum que choros, Sionque beatam Perpetuam orato spiritui requiem. Funeris & recte postremo munere functa Tergora da tumulo; vive diu, atque vale. O Più degli occhi miei, mentr' io la luce Godèa del giorno, o più della mia vita, Sposa, a me dolce, e cara; or che s' indonna Di mie pallide membra orrida morte, Del marito accusar cessi la fede; Nè il mendace sospetto or ti dipinga Que' falli, onde già un tempo rinfacciarme, E crucciar te medesma anco solevi; Non si porgono più baci, nè amplessi, Poichè morte crudel tutte disciolge Del marital amor le sacre leggi; Nè i tenerelli figli…. ahi! chi rammento? Inclita sposa, ah! restino pur teco Questi del nostro amor veraci pegni; A te li raccomando: altro non lieve Materno incarco è lo instillar ne' figli Fè, giustizia, e pietà: Poscia se cosa Io meritai, che tu render mi possi, Per la tenera prole, e pel buon genio Nostro, deh! sollevando tue pupille A Dio di largo pianto asperse, e molli, Perdono a me delle mie colpe implora, E tra i cori dell' alme elette, e dive Lassù nella beata alta Sionne Priega allo spirto mio riposo eterno; Poi compiuti i pietosi uffici estremi, Alla tomba fatal volgi le tergi, E lungamente ti conserva, e vivi. PRia, che lasciasti dell' Adriaco mare, Per bear questo suolo, il dolce nido, A noi ben tosto, immortal donna, il grido Precorse di tue doti eccelse, e chiare. Dicèa la fama: opre sublimi, e care Di clemenza, e pietade il vostro lido Vedrà mercè di lei, ch' è albergo fido Delle virtù più luminose, e rare. Così dicèa; ma alfin tu giunta poi Con gioia scorge Brenno, e meraviglia D' ogni vanto maggiori i merti tuoi, E attonite fissando in te le ciglia, Sclama sovente; oh quanto invidio a voi Lidi dell' Adria una sì illustre Figlia! INvitto Eroe, non sol tuo illustre, e chiaro Sangue, e l' alte virtù de' tuoi maggiori, Che già di palme, e trionfali allori Tanto l' altera tua prosapia ornaro, Furo, che te quasi per man guidaro, A quei, che l' Adria or t' offre, eccelsi onori, Ma i pregi ancor, onde te stesso infiori, E per cui vai de' più sublimi al paro. Corri pure di gloria il bel sentiero, Che omai con franco piè le tue grand' orme Siegue veloce il pargoletto figlio. Ne guari andrà, che lo splendor primiero Del patrio lido, e a' tuoi desir conforme Ei sarà per valore, e per consiglio. OH! come lieta il manto, e il crin di fiori La diletta mia Patria ornar si scerse Quel giorno, o Prence, che la bella Dori Il reggio scettro alla tua destra offerse. Virtute fu, che a sì sublimi onori All' Eroe Loredano il calle aperse: Ella dicea, virtute, che ai furori Me pur sottrasse di mie sorti avverse. E ben me chiamo avventurosa appieno, Or che lo miro in regal soglio assiso Della donna del mar regger il freno. Poichè tra mille eccelsi pregi unito (Come nel gran Lionardo) in lui ravviso Di Cesare al valore il cor di Tito. CHI follemente dice, in questa etade Non darsi al merto altrui degna mercede, E virtude raminga il nudo piede Volger per solitarie erme contrade, Venga a mirar l'eccelsa dignitade, Che a un chiaro Figlio suo l' Adria concede A un Figlio suo, che ognor gran prove diede D' alto valor, di senno, e di pietade. E lo vedrà del meritato adorno Purpureo manto al regal soglio appresso Starsi, e lo stuol de' Padri a lui d' intorno. Dicendo: a tanto onor, d' invidia rea A scorno, questi egual solo a se stesso Ben a ragion trascelto esser dovea. SPerai pur dianzi, ah mal fondata spene! Cinger cantando il crin di verde alloro, E mercè delle dotte alme Camene Chiaro il mio nome far dall' Indo al Moro. Sperai che questi colli, e queste amene Rive beate, che cotanto onoro, E queste aurette placide, e serene Destasser novo in me spirto canoro. Ma scorgo (ahimè!) che invan mio core aspira A' bei frutti d'onor, mentre sol colgo Lappole, e stecchi, e sono a Febo in ira. A te perciò, che vai poggiando all' etra Coll' aureo stile, almo Signor, mi volgo, Deh! dolce rendi tu mia rauca cetra. O Febo, il tuo favore, Qualor t' invoco, a me negar non dei, Che non mai van desìo, bellezza frale Esca d' insano ardore, Suonaro, o cieche voglie, i versi miei: Ma sempre essi drizzar le candid ale Ver l' alte gesta, come al segno strale. Al puro fonte di Castalia l' acque Ognor mio labro attinse; Nè in me giammai s'estinse Quella brama gentil, che meco nacque Di far note agli Esperj, ed agli Eoi Solo l' imprese de' più degni Eroi. Di fama non mendace, Che festosa sen va di lido in lido Del Molin esaltando i pregi, oh come Ora seguir mi piace Colle mie rime, il glorioso grido! Nel pian d' Engaddi per ornar sue chiome Vuò coglier fiori eletti, e al sagro nome Di lui divota offrir versi, e ghirlande. Traluce, come suole Tra nube, e nube il Sole, Fuor del corporeo vel quell' alma grande, Che a cose oprar meravigliose eccelse Tra mille altre benigno il ciel trascelse. La dotta Grecia il vanto Taccia del suo sì rinomato Alcide, Per cui giacquer di Neme i mostri estinti, Di Lerna, e d' Erimanto. Con raro esempio il secol nostro vide Di Giovanni per man fugaci, e vinti Mostri più fieri, a predar alme accinti, Precipitar nella tartarea foce: Nè il buon fabbro di Lenno Al gran pastor di Brenno L' armi, come di Tetide al feroce Figlio, temprò su favolosa incude, Che a lui dal ciel le porge alma virtude. O caro amabil giorno, Che a noi bear l' inclito Eroe guidasti. Andrai mercè delle Pierie dive D' eterna gloria adorno, Nè a te fia mai che il cieco obblìo sovrasti. Qui di Benaco al suo apparir giulive S' ingemmaro di fior l' amene rive, Cheta era l' onda, e il popolo le gote Di lieto pianto asperse, Quando venir lo scerse; E in lui tenea l' avide ciglia immote, Qual se dall' alta region del Polo, Angiol di pace a noi spiegasse il volo. Bella pompa a mirarsi Di Sacerdoti, e Cittadini illustri In vago ordin distinte elette schiere A lui incontro farsi, Recando onor con mille gare industri? Dolce l'udire il suon delle sue vere Lodi innalzarsi alle superne sfere. Ma più dolce il veder com' ei benigno Il guardo a noi rivoglie, E i nostri plausi accoglie. Ruoti or l' invidia il dente suo maligno; Che lampi di virtù sì vivi, e chiari Fia che per forza a riverire impari. Su quell' umano volto Oh come bella maestà risplende! Che non il serto alla sua fronte augusta Sì degnamente avvolto Lo fa superbo, o men gentile il rende, Nè lo splendor di sua stirpe vetusta, Che di bell' opre, e di trionfi onusta Tanto l Adriaca Dori ama, ed apprezza, Nè quel saper profondo, Per cui sì noto è al mondo. Che non fasto orgoglioso, od alterezza, Ma cortesia, ma dolci atti soavi Di magnanimo cor tengon le chiavi. E quai tesori immensi D' alme grazie celesti ei non ci aprìo? Qual non ci diè d' alta pietade esempio? O se tra faci, e incensi Ei la grand' Ostia al divin Padre offrìo? O se con santo zelo il costume empio Dolcemente riprese? o se nel tempio Unse col santo Crisma altrui la fronte? E se sparse la bella Aurea del ciel favella, Cupide ognun porgèa l' orecchie pronte, Ognun i detti suoi nel cor chiudèa, Come rugiada suol conca eritrèa. Ma che? del mar l' arene Spera contar chi ad uno ad un presume Ridir suoi vanti, e i pastorali affanni, Che intrepido sostiene Per l' amata sua greggia. Un sì bel lume Involver tenta invan l' orror degli anni. In ogni età dell' immortal Giovanni, Udransi celebrar cetre felici L' alto valor sublime Di Pindo in sulle cime. Io stanca all' ombra de' suoi grandi auspici Riposo. Ma non ha tregua, o ristoro La vigil cura del Signor, che onoro. SE della bella Astrea per te ritorno Fero all' antico onor le vilipese Leggi, e se al comun ben tue voglie intese Mai sempre fur dell' atra invidia a scorno; Qual fia stupor, se mesto a te d' intorno Fa il popol tutto il suo dolor palese Or che questo lasciando almo paese, Signor, ten riedi al tuo natìo soggiorno? Odi quelle meschine, afflite genti, Che tua mercè godean giorni tranquilli, L' aere turbar co' lagrimosi accenti. Quelle ben tu lo sai, son tutte squadre D' abbandonate vedove, e pupilli, De' quai tu fosti difensore, e Padre. DEh! perchè forza di destino irato Da gran tempo mi toglie all' alta vetta Salir di Pindo, e vuol che al suol negletta Giaccia mia cetra, e lasci il canto usato. Che direi, qual deposto l' onorato Incarco, cui fu a sostenere eletta Tua gran mente, o Signor, dalla diletta Patria ti sia novello onor serbato. Sebben chi altrui narrar potrà giammai Gli eccelsi merti tuoi, che l' oro, e l' ostro, E ogn' altro fregio tuo vincon d' assai. Saggio Signor, tanto le stelle amiche Ti son, che in breve per te il secol nostro Aureo vedrassi, e pien dell' opre antiche. OR che la mercè vostra mi vegg' io, Incliti vati, al vostro coro unita, Spero averanno i miei carmi eterna vita Ad onta della morte, e dell' obblìo. In me s' accende già nobil desìo, Ch' ora a cantar con voi dolce m' invita, E perchè io poggi, il calle anco m' addita Là ve salir non mai vil core ardìo. Prendo dunque la cetra, e sol di lui Sì di pietade, e d' altri pregi adorno, Che pareggiar si dee co' più perfetti, Canterò pria, ch' egli si tolga a nui, Poichè (ahi!) Febo a condur il fatal giorno Sembra che oltre l' usato il corso affretti. SOl lieti plausi intorno, e lieti gridi S' udiro risuonar quel dì primiero, In cui de' Benacensi ameni lidi, Signor, venisti a sostener l'impero. Di tue virtudi al chiaro lume io vidi Fuggir de' vizi allor lo stuolo intiero, E i sparsi loro desolati nidi L' arti, e le muse a ricompor si diero. Così finor sotto i tuoi grandi auspici, Noi pur godemmo a bella pace in seno Dell' aurea antica etate i dì felici. Oh dolce Padre! oh invitto Eroe! Ma intanto Tu parti, e n' abbandoni? ah! mira almeno, Mira de' figli tuoi l' affanno, e il pianto. DEh! perchè forza egual le mie parole Non hanno a quelle, onde il gran duce ebrèo Con prodigio stupendo immobil feo Nel ciel restarsi a mezzo corso il Sole? Che qui eternar vorrei, pria che s' invole Il Pasqualigo Eroe, per cui cadèo Estinto ogni costume opposto, e reo All' auree leggi, che tant' ama, e cole. Pur se portenti oprar non m' è concesso, Ch' io porti almen, non toglierammi il fato Sempre nell' alma il suo gran nome impresso. Nè spero invan di lucid' ostro ornato Tosto vederlo al regal soglio appresso Starsen col merto, e colla gloria a lato. SE di lei, che sul Mella in dolce canto Sciolse prima sua voce al sagro coro Cara quant' altre, e del Castalio alloro Cinta s' asside al biondo Nume accanto; Poscia lasciati i patrii lidi in pianto Nostra divenne, altro che d' ostro, ed oro Verace a noi recando almo tesoro, Del Benacense suol delizia, e vanto. Indi tanta al Romano Arcade chiostro Gloria accrebbe, ed onor; il canto altero, Le scelte rime avessi, e il puro inchiostro; Di voi, Signor, l' alto divino impero Cantar vorrei, lo senno, e il valor vostro, E il bel di lei, che vince ogni cor fiero. COme mai celebrar potrà il mio canto Lui, che d' Eroi fra questo nobil coro Siede, cui d' altro, che di verde alloro Serto si dee, tant' ha virtude accanto? Finchè piace al destin, che sol di pianto Le carte io bagni, e taccia il plettro d' oro D' offrire a sì gran merto alto tesoro Di carmi è van desire, inutil vanto. Pur se il mio duol riede al tartareo chiostro, Del Reggitor di Brenno il nome altero Fia, che rischiari questo basso inchiostro; E voi non men, che del suo grave impero Siete dolce sollievo, ed ogni vostro Pregio non toglie il veglio edace, e fero. LEvommi il mio pensier ove lontano Temi il regal suo soglio ave da nui, E vidi te, che il merto a lei per mano Lieto adducèa, narrando i pregi tui. La bella diva in atto dolce umano T' accolse, e disse; ecco l' Eroe, per cuì Avrò difesa, e l' inclita Milano Non fia che invidii a Roma i Tulli suoi. Deponi or l' aureo plettro, e poichè sei Dell' avito valor si degno erede, Vendica col mio brando i torti miei; Che almen di sole frondi i tuoi trofei Non avranno da me scarsa mercede, Da Febo al certo altro sperar non dei. MEraviglie ad oprar solo, e portenti Nacque l' Eroe che adori, o Patria mia; Ai tronchi impera, ai sassi, agli elementi, E ognun di lor l' antiche leggi obblìa. Mentr' ei vivea, qual Serafino, ardenti Di caritade in sen fiamme nutrìa, E cogli umili suoi soavi accenti Un cor di felce intenerito avrìa. E benchè scevro dalle terree some Or di gloria immortal s' ammanti, e fregi, Quaggiù pur anco il dolce sguardo intende, Lieto mirando il sagro culto, e come Oggi sull' ara sua ne' nuovi fregi L' alta pietà del Soderin risplende. LA prima fiata che l' onesta, e bella Vostra sembianza, o Fillide, mirai, E il folgorar de' duo lucenti rai, E l' angelica udii dolce favella; Scoccò ver me l' acute sue quadrella Amore, onde in un punto arsi, gelai, Nè timido amator scoprirvi osai Questa, che m' arde il sen, fiamma novella. Ma scorgendo (ahi tenor d' iniqua sorte!) Ch' altri beate col soave sguardo, Che sol de' miei martir gioco si prende; Temo se più vostro soccorso è tardo Non giunga alfine a darmi in preda a morte L' ardente foco, che per voi m' accende. DOnna immortal, che tanto onori, e pregi Le sacre muse, e con giocondo aspetto E le bell' arti, e gl' intelletti egregi Chiami, ed accogli entro al tuo nobil tetto; Oggi, che il Mella ha d' emular diletto Il gran Tebro, il Tamigi, e l' Istro, i fregi Ecclsi, e le virtù, che chiudi in petto, Lieto adornando d' apollinei fregi, Anch' io vorrei in sulle corde aurate, Collalto illustre, almen lodar in parte Tuo sublime saper, tua gran beltate. Ma che! devrian le mal vergate carte Ceder al paragon delle tue ornate Rime, e giacer d' eterno obblìo cosparte. POichè nella mia rozza umil capanna Ti degnasti posare il nobil piede, Signor del sangue, e della gloria erede De' Contarini Eroi, che mai s' appanna; Riverente la lingua, e il cor s' affanna Per renderti d' onor degna mercede, Ma ad ispiegar quanto il dover richiede Non giunge il suon di mia silvestre canna. Pur quella cortesìa, ch' oggi è sì rara Ne' pari tuoi, e in te risplende a segno, Che anco l' invidia ad ammirarti impara, Se lena porge all'abbattuto ingegno, Deh! non sia, priego, in aggradire avara Il picciol don, che a tributar ti vegno. SE della tua, se di mia dura sorte Mi dolsi, e amare lacrime versai, E se in tua aita il ciel tutto chiamai Con voce umil, quand' eri in braccio a morte; Per me tel dica amor caro consorte, Che gl' interni scoprìo miei tristi guai, Ed anco intese il suon de' mesti lai Spesso, e mi vide colle guance smorte. E te, credo, l' amante anima mia Vinta dal duolo nel fatal passaggio, Del pigro Lete preceduto avrìa; Ma quel d' alma salute amabil raggio, Che in te rifulse, a lei chiuse la via, E nuova le ispirò lena, e coraggio. PAllida, smunta, e viperin veleno Spumante il labro intumidito, e nero Vidi un giorno l' invidia col cerviero Occhio intorno guatar di livor pieno. Poi fissarsi la vidi in un baleno Nel saggio Ergasto, che i migliori invero L' obbietto sono, in cui suol essa il fiero Dente arrotar, ed isfogarsi appieno. Ma appena alzò ver lui l' ardita fronte, Che al lume de' suoi pregi l' infelice Cadde abbagliata, e di vergogna tinta. Ed ahi! gridò, dunque così son vinta? Dunque d' ir contro lui più a me non lice? O forza grande di virtù sì conte! DOnna gentil, benchè il fugace, e fiero Veglio, che eccelse moli strugge, e atterra Incominci con gli anni a mover guerra Al vostro volto ov' ha bellezza impero; E qualche parte ancor del bel primiero V' abbia furato, pur (nè il mio dir erra) Tanto ven resta, e tal, che quivi in terra Appena lo comprende uman pensiero. Quella, che in voi ognor più si rinverde Chiara virtù, che fa l' animo adorno Ammiro, e l' altre doti sovrumane. Perchè di giovinezza il fiore, e il verde Tosto trapassa al trapassar d' un giorno, Ma l' interna beltà sempre rimane. SPirti cari a Minerva, a Febo cari, In cui vera virtude ha dolce nido, E per cui fia che il Benacense lido, Sen vada un dì de' più famosi al pari: Lasciam pur ch' altri tra i sanguigni acciari, Del fiero Marte acquisti immortal grido, Altri cerchi saziar sul mare infido Tra vortici, e procelle i geni avari; Che noi scevri da stenti, e da timori Sedendo in pace all' ombra a cento a cento Coglieremo altre palme, ed altri allori. Ma che vegg' io compagni? Ahi qual s' insidia Orribil mostro! ah! non perdiam momento, Su combattiam da forti, ecco l' invidia. BEnchè lunge da questo amaro esiglio Scevra dall' aspre cure, anima bella, Riposi in grembo alla natìa tua stella, Volgi, deh! volgi all' Adria aflitta il ciglio; Mira, se pianse mai tenero figlio Sovra l' estinto genitor, com' ella Per te si dole, e morte ingiusta appella, Che a lei ti tolse con crudel consiglio. E seco ancor di chiari spirti un degno Industre stuol odi lodar con mesti Versi te suo perduto alto sostegno. Perciò se in terra i dolci carmi festi Tua gran delizia, ah! non gli avere a sdegno Orchè se' avvezza all' armonìe celesti. ORchè si mira di purpuree spoglie Cinto il gran Sebastian della Veniera Stirpe immortal con nobil pompa altera Premer le sacre a Marco auguste soglie, Non arrechi stupor, perchè s' accoglie, Adria, nel grembo tuo sì folta schiera D' Eroi, se in te valor, se virtù vera Dolce dell' opre tue frutto raccoglie. A vulgar merto premio, o dignitate Tu saggia, e accorta non comparti, o pasci Di vane laude sol l' alme bennate; E in ciò la prisca Roma addietro lasci, Che a men degni offrìa spesso l' onorate Curuli insegne, ed i temuti fasci. CHI me vedrà le piume Spiegar veloci ver l' Aonie cime, Nuova impresa sublime Dirà ch' io tento, nè dirallo invano; Che mai non ebbi di cantar costume Oro, o piacer, cui prezza il vulgo insano; Sol a virtù, che in nobil alma splende Tributo offrir di armoniosi versi Gentil desìo mi accende, Di vera gloria aspersi. Saggio Signor, e prode, Del Capriolo sangue antico, e chiaro, I cui grand' Avi ornaro Brenno, anzi Italia co' lor fatti egregi, Apremi in oggi ampio cammin di lode. Ma quale dirò pria de' suoi bei pregi? Dirò, che d' ozio schivo, e in un de' vani Amor, pose cercando ogni pensiero Fra i più riposti arcani Della natura il vero. Poi della Brenta in riva Sacrò, pur vago di giovare altrui, A Temi i studi sui, Ed agli aviti marziali allori Unir godèo la sempre verde uliva. Oh ben spese fatiche, oh bei sudori! Voi l'uguagliaste a quanti a' prischi giorni Vider de' figli suoi la bionda chioma Di civil serto adorni Atene, Sparta, e Roma. Delle temute leggi La Dea sovente se gli asside a fianco, E Minerva pur anco Gli addita di eloquenza i dolci modi: E tu, che il van desìo dell' uom correggi, Gl' insegnasti a scoprir inganni, e frodi, Talchè menzogna sotto finte larve Innanzi a lui, nodrendo ingiuste brame, Mai non ignota apparve, O d' oro avida fame. E ben lo sanno queste Del mio Benaco fortunate genti, Che tolti indugi, e stenti, Giudice esperto, ogni civil contesa Franco sciolse, e decise: il san le meste Vedove oppresse, ch' ei per lor difesa Incontro a forza di ragion l' oltraggio Vendicando, sottrasse a dura sorte, Se questo è oprar da saggio, Se questo è oprar da sorte. Nell' aurea antica storia E' scritto, come il regnator di Pella Eccelsa lode, e bella Al suo gran nome accrebbe allora quando Sciolse il nodo Gordian; ma d' altra gloria Costui fia degno, che d' Astrèa col brando Nodi più forti, e avviluppati assai Ruppe, e disperse di proterve liti Ad accrescere i guai Di povertate orditi. Nè con dono, o preghiera Fu chi osasse tentar quel nobil core Sol di verace onore, E di candida fede almo ricetto: Che vulgar alma sostener di vera Virtù mal puote il luminoso aspetto; E a cotal vista il temerario ardire Vinto si arretra, e si confonde, e insieme Fra le vergogne, e l' ire Ed arrossisce, e freme. Di così illustri prove Del suo Campion pur giunse il chiaro grido Al Cenomano lido Di non mendace fama in su le penne: Lieto Brenno l' intese, e gravi, e nuove Cure a lui di affidar consiglio tenne. Ma prima, disse, ei faccia a me ritorno, Poichè tanto valor, sì nobil fede A far grand' opre un giorno Più largo campo chiede. E il tempo desiato Da lui cotanto, e al Benacense suolo Cagion di acerbo duolo Ah! non è lunge; e la novella luce, Che sorgerà dall' Oriente aurato, Quella sarà, che il fatal dì ne adduce. Ahi! che al partir di chi giustizia, e pace Condusse a soggiornar su queste sponde, Egra letizia giace, E gemon l' aure, e l' onde. Ma tu alla Patria amata, Signor, che riedi con sereno ciglio, Quasi tenero figlio, Che lieto corre a cara madre in seno, Il canto umil, che riverente, e grata T' offre mia musa, non sdegnare almeno; Che faranno a tue gesta alte onorate Assai più schermo gli apollinei carmi Contro l' ingorda etate, Che i sculti bronzi, e i marmi. COn ricco tetto, e di bei marmi adorno, O di superbo Re con l' auree mura Non cangierei di questa umile oscura Ma fertil collinetta il bel soggiorno. Quì il vicin rio, quando più ferve il giorno, Offre al mio labro sua fresch' onda, e pura; La rimiro tra i fiori, e la verzura L' aure scherzar placidamente intorno. E in ogni parte il vario dolce canto Degli augei, che pur qui fermano il volo, Forma all' orecchio mio soave incanto. Sol movemi a pietade l' usignolo Qualor con voci tronche, e lungo pianto Rammenta altrui l' antico strazio, e il duolo. CHi prima all' erto calle il piè ti volse? Chi ti fu guida al faticoso monte, Che sì alto poggia, ove con lieta fronte Benignamente Apollo in sen t' accolse? Chi al dolce canto la tua lingua sciolse, E a ber ti diè l' onde al Castalio fonte, Che suol destar fervide rime, e pronte In chi dal volgo in verde april si tolse? Altri non odo, che natura illustre Fu scorta al volo, che il bel genio tenne, Nè aita porse l' altrui cura industre. A te gloria è maggior, perchè s' avvenne D' esser nudrita in valle ima, e palustre, Da dove t' alzi colle proprie penne. DEsìo d' eterna fama il piè mi volse A salir di Permesso il sagro monte, Per ivi ornar di verde allor la fronte, Con chi Febo tra' suoi più cari accolse; Ma colà giunta appena, i vanni sciolse Ver me il destriero del Castalio fonte, E tutto acceso di giust' ire, e pronte, Il mio canto sdegnando, indi mi tolse. Caddi, nè alcuno dell' Aonio illustre Coro d' aitarmi cura, o pensier tenne Nel gran periglio con sua possa industre. Non così a te, nobil garzon, avvenne, Allorchè il suol lasciando imo, e palustre Poggiasti al ciel colle dorate penne. QUanto più mi fu caro udir, che stretto T' abbia d' un laccio Imene il molle fianco, Laccio gentil, che tema, o rio sospetto Non faccia, o età men forte, e dolce unquanco; Tanto men poi vorrei, che quel tuo eletto Spirto, che già poggiò libero, e franco Inver Parnasso, nel soave affetto Di sposa, e madre ora venisse manco. Anzi il Benaco, e la sua riva ombrosa Nuovo destarti in sen estro dovrebbe, E Sirmion, che hai presso, e forse miri; Più di lui, che per Lesbia i suoi sospiri Quivi sparse, andrai tu conta, e famosa, Quanto più raro in gonna il valor crebbe. BEnchè da dolce nodo avvinto, e stretto Veggiami star gentil garzone a fianco, Non nasca in te, Signor, tema, o sospetto, Ch' io possa abbandonar le muse unquanco. Anzi vieppiù mercè il tuo carme eletto Fassi il mio spirto valoroso, e franco, Talchè di sposa nel soave affetto, O per volger d' età mai verrà manco. Carme leggiadro, che di quest' ombrosa Riva ne' lauri scriver si dovrebbe, Perchè ivi impresso il tuo valor si miri, E tragga il mio Benaco alti sospiri, Scorgendo quanto per la tua famosa Cetra in pregio maggiore il Brembo crebbe. SUll' ali del pensier un giorno alzato Veder sembrommi con la cetra accanto, Cinto di vago luminoso ammanto Assiso il Dio di Delo in trono aurato; E a lui d'intorno in dolce stile, e grato D' alternare godean le muse il canto, E lieti risuonar s'udiano intanto La valle, il bosco, il monte, il colle, e'l prato. Ben è che d' arcadia i vanti sien resi A quelle donna di sublime idea, Che nutre di virtù bei spirti accesi. Sia or la gloria de'carmi, sia Nisèa Del Parnaso l' onor; se io ben intesi, Così l' aonia turba ripetèa. POichè a sublime onor mio stil è alzato, Passerò altera a quel rio mostro accanto, Che suol bieco guatar chi'n molle ammanto Tratta dell'ago invece il plettro aurato. Ma più sarammi, Altesio, dolce, e grato L'udir sovente il tuo felice canto, E coll' arcade stuol condurre intanto Le semplicette agnelle al colle, al prato. Or che, gentil pastor, per te non resi Paghi i miei voti, m'agitan l' idèa Nuovi di gloria bei desiri accesi. Per te al mondo immortal sarà Nisèa; Così tra me medesma, allorchè intesi D'arcadia il fausto annunzio, ripetèa. POichè scevra, o Nisèa, dei torti inganni, Ond' è lo stuolo femminil avvolto, Posasti ad Ascra in riva i destri vanni, E i più bei fior di Poesìa v' hai colto, Ora l' ingegno ai gravi studi hai volto, Per cui non vien ch' uman pensar s' inganni, E perchè il velo di natura sciolto, E sgombro siati, sudi anco, e t' affanni. Per te l' onor, che al Mella in altri tempi Dier la Cereta, e le Gambare, farsi Scorgo maggiore, e rai spander più vivi. Per te, che quei restauri incliti esempi, Lieta filosofia degli aurei ornarsi Carmi vedrem, che poetando scrivi. PErchè ebbi a Febo sin da miei prim' anni, Poscia a' più gravi studi il cor rivolto, Forse per rio voler d' astri tiranni, Favola son del volgo ignaro, e stolto; Anzi da tal, che pur dovriami molto Di ciò lodar, ricevo ingiurie, e danni, Onde spesso, Valsinio, io bagno il volto D' amaro pianto, e pascomi d' affanni. Così fa di virtute orridi scempi Cieca ignoranza, e in sua diffesa armarsi Non v' è chi ardisca, e il suo bel lume avvivi. Valsinio, ah tu l' altrui diffetto adempi! L'empia persegua senza mai stancarsi L'aureo tuo stil, sin che a fiaccarla arrivi. IO vidi un giorno il luminoso dio, Che del suo lauro all' ombra si sedèa, E di quell' alma fronde egli tessèa Ghirlanda al mormorar del vicin rio; Spinta gli chiesi allor d' alto desìo, Qual fronte il nobil serto ornar dovèa? Ed ei con suon, ch' anco mi allegra, e bea, Lieto così rispose al parlar mio: Questo è di lui, che nacque a immortal vanto Dell' Orobia Cittade, e i più famosi Cigni, che in queste rive fan soggiorno, O vince, o adegua al paragon del canto. Giovanni è il nome suo, che in grembo posi D' eternitade d' alta gloria adorno; Tacque, ed a lui d' intorno Far eco udii le nove alme sorelle, Che il Merenzi innalzar fino alle stelle. QUella, che a me d' allor mai non ordìo Nobil corona su la piaggia ascrèa, A te, che del bel colle e ninfa, e dea Un dì sarai, prepara Apollo, e Clio. Che non Saffo, o qual altra il nero obblìo Vinse cantando, di bell' estro ardèa, E in verde età rapido il piè movèa Come tu, che già bevi al divin rio. Così le piume, e'l pigro ozio non osi Vile argin porti, e qual spron sempre accanto Siati desìo d' onor, onta di scorno: Come avrai tu per quel sì ornato canto Il serto, in cui mia spene indarno io posi, D' eterno grido incontro morte adorno. GEntil Nisèa, s' io ti potessi in parte Svelar la doglia, che il mio cor assale, Allorchè penso al dì per noi fatale, Non andrian queste rime al vento sparte. Ma invan m' affanno di ritrarre in carte Ciò, che mai dir saprà lingua mortale, E per sì gran cagion io sò che male Lo sforzo adopro di poetic' arte. Solo dirò, che nel suo seno or chiama Il Trevisan la gloriosa Madre, E che vera il precede eterna fama. Intanto sulle chiare opre leggiadre Piange il Benaco, e invan sospira, e chiama Il giusto, il saggio, il generoso, il padre. COsì l' augel di Febo in erma parte Sfoga col canto il duol, ch' entro l' assale, Come tu piangi sul destin fatale, Che nostre gioie ha dissipate, e sparte; E come al vivo ancor ne pingi in carte L' alta virtù, che sovra uso mortale Splende nel Signor nostro, e il grave male Che ne sovrasta, con mirabil arte. Or mentre ei dove impaziente il chiama A se l' adriaca, invitta, augusta Madre, Sen va maggiore d' ogni merto, e fama, Seguilo con tue rime alme leggiadre, Che ben vedi qual nutre intensa brama D' esserci sempre diffensore, e Padre. DEh! non tardar, dotta, gentil Nisèa, Deh! torna a riveder l' amiche sponde, Ove al suon di tua cetra un dì vedèa Resi placidi i venti, e chete l' onde. Quì versa in seno dell' Adriaca dea L' auree degli inni ascrei vene feconde, Ma leggi prima nell' augusta idèa La sublime virtù, che in petto asconde. Allor vedrai quella, che Saloe adora, Divina luce, sfolgorarti avanti Su questo lido non veduta ancora. Ma non vedrai quanto sia grande, e quanti All' apparir della funesta aurora A noi debba costar sospiri, e pianti. SEbben di picciol rio vive Nisèa, Non del Benaco sull' amene sponde, Là dove te, saggio Nerin, vedèa Tender insidie a' pesci in su quell' onde; Pur i bei pregi dall' alata dea A queste d' erbe, e fior valli feconde Narrar intese, e quell' eccelsa idèa, Ch' indarno altrui l' illustre donna asconde. E se nel lume, che da lungi adora Come desìa non può bearsi avanti, Che torni a folgorar sull' Adria ancora, Non fia però, che non incida in quanti Tronchi ha la selva, qual la nuova aurora Cagion ne apporti di querele, e pianti. SE miro te, che guerra al cieco obblìo Muovi con aurei carmi, in me repente, Signor, si desta gentil brama ardente Di gloria, e tento superarlo anch' io. Vorrei dunque mercè del canto mio, D' allor, ch'orna la dotta Aonia gente, Serto acquistarmi; ma la debil mente Valor non ha, che agguagli il bel desìo Perciò a poggiar d' onore al bel confine Deh! tu m aita, e nuova lena al fianco Porgi co' detti tuoi saggi, ed umani. Così lassuso a incoronarmi il crine Fia che salga con piè veloce, e franco Dietro tua fida scorta, o gran Gaetani. AL grand' Eroe, che sul bel disegno Di Tito, e di Trajano a noi sen venne, Onde sì dolce, e saggio L' impero poi sostenne Di quest' amena, e al ciel diletta parte, Orchè da noi si parte E porta altrove di sua luce il raggio, Noi qui lasciando in tenebroso orrore Preda d'aspro dolore; Di riverenza in segno lo pastorella umile Consacro e lingua, e stile. I monti, e le foreste Ei disgombrò dalle voraci fere, Al Gregge ahi! tanto, ed a pastori infeste, Restando a popolar l'annose selve Per dar a lui piacere Son le innocenti belve. E alla fredda stagione Senza temer il velenoso fiato Di rigido aquilone Vidersi fresch' erbette, e novi fiori Per lui, fuor dell' usato, Sparger lor grati odori. Per lui la cruda fame, orribil mostro, Che con furor insano Minacciò bieca il bel paese nostro, Fuggìo repente, e con vergogna, e scorno Fece fremendo al caucaso ritorno. O di padre, e Signor provvida cura; Che per noi di vegliar unqua non cessa! Ei con pietosa mano Solleva ognor da dura Necessità la povertade oppressa, Che paventando le sventure estreme Squallida il volto a lui ricorre, e geme; E il buon Pastor intanto La riconforta, e le rasciuga il pianto. Ma tutte in ciel annoverar le stelle, E le minute arene, E l'erbe, e i fior potrei, pria che dir quelle Varie virtù, che in altri il ciel diffuse, E a lui nel sen mirabilmente chiuse: Per lui vedemmo i patri lari, i tempi, Le leggi, i mutui cittadini uffici, L'arti, e le muse amene Con gloriosi esempi Tutte d'intorno rifiorir felici; Ne mai sì lieto il capo alzò dall' onde Benaco, e rimirò sù queste sponde, Che di bagnar gli piace, Tanta gloria sedersi, e tanta pace. Inno, se'rozzo, ed hai Debili l'ale. In questi boschi resta, Che per te fora assai, Se Adria t'udisse, e la Cignea foresta. VOlsi, Prienugio, i pensier poco accorti Là ve di lauro un dotto crin si adorna; Ma fui qual uom, che duri inciampi scorti Nel cammino intrapreso, indietro torna. Non così tu, che con veloci, e forti Piume a volo t'ergesti, ove soggiorna Apollo con le Muse; ond'è che porti Dell'alme frondi sue la fronte adorna. Perciò meglio di me potrai tu ancora Altrui ridir, se più vicina scorgi Luisa, o pur Faustina ai monti ascrei. Io sol esclamo: indarno, Grecia, ognora Vanti Saffo, e Corinna; ah! non t'accorgi, Che dall'Itale donne or vinta sei? PRendi tua cetra, e colle corde aurate Deh! tempra il crudo suon de' versi miei, Saggia gentil Diamante, tu che sei Onor del sesso, onor di nostra etate. Tu che n' agguagli il più sublime vate, Canta quello, che ordiro in ciel li dei, Illustre nodo de' due sposi, e i bei Rari suoi pregi, e l' alta nobiltate: Degli avi lor le gloriose imprese Canta, e qual nella pace, e qual nell' armi Chiaro per senno, e per valor si rese. Quindi avverr à, che in carte, in bronzi, in marmi Il loro, e 'l nome tuo resti palese Coll' aureo suon de' tuoi divini carmi. CHE d'Imenèo la face, e che l'aurate Catene io canti? Ah! senza i versi miei, Anton, basta il tuo stile, onde già sei Celebre tanto in questa nostra etate. Ve' che t' ammira qual suo primo vate L'altera coppia, e cara ai sommi dei, Perchè ne pingi in dolci modi i bei Suoi pregi illustri, e l'alta nobiltate. Tua musa nacque per sì grandi imprese, E qualora cantò d'amori, e d'armi, Degna d'eterna lode ella si rese. Perciò assai più, che in duri bronzi, e marmi De' sposi eccelsi ognor sarà palese L'alma virtù ne'tuoi sublimi carmi. NObil Diamante d' ogni macchia puro, Ch'apri libero il varco al lume ardente, E lo trasmetti più chiaro, e lucente Di quanti mai politi, e tersi furo; Tu nel notturno orrore, e loco oscuro, Ove giaccio frà il volgo, e ignota gente, Alla mia fiacca vista, e debil mente Risplende sì, ch'altro mirar non curo. Raro Diamante, in cui saldo s' intaglia Alto valor con sì forte scalpello, Ch è ben dover, che in tanto pregio saglia. Non sarà già, che incude, nè martello, Od altra forza mai contro te vaglia; Ma fia il tuo onore eternamente bello. TU, che fin dove gira il pigro arturo Spandi d alta virtù raggio lucente, Garzon egregio, e coll'eccelsa mente Mostri in tenera età senno maturo. Col dolce canto tuo lodato, e puro, Cui del Mella ad udir stannosi intente Spesso le Ninfe, hai tolto di repente Mio nome a Lete, ove giaceasi oscuro. Muovan pure a suoi danni aspra battaglia L'obblìo, la morte, e il tempo edace, e fello, Che a nulla, credo, lor furore or vaglia, Sparso da carmi tuoi d'onor novello, Spero che anch'esso tua mercè ne saglia Teco al tempio d'onor sublime, e bello. SE come a voi, concesso fosse ancora A me, Signor, d' erger all' etra il volo, Non provarei quel fiero immenso duolo, Che turba de' miei dì la vaga aurora. Ma perchè Febo mi si mostra ognora Avverso, mi convien rader il suolo, E in tal sciagura altro non ho, che il solo Conforto di sperarlo amico un' ora. Felice voi, che eguali al bel desìo Le forze avete, sicchè in Elicona Poggiate a dissetarvi al divin rio. E al vostro merto, che fra noi risuona, Prepara (il che ottener già non poss' io) Apollo colle muse aurea corona: IO che finor tanti ad altrui richiesta Fatti ho sonetti, stanze, e madrigali Per medici, per sposi, per legali, E per chi cinse velo, o sagra vesta: Nò più non voglio rompermi la testa Senza profitto, e dietro a cose tali Gettar il tempo; che di mover l' ali A più alto segno in me desìo si desta. Lunge da Febo sull' Euclidee carte Or sudo, ed anco d' ispiar mi piace Che fa Giove lassù, Saturno, e Marte. Chi dunque di raccolte si compiace, (Grazia, che a molti il ciel largo comparte) Non osi unqua turbar mia bella pace.

ALfin piacque al mio dolce, empio Signore pag. 4

Adria del mar Reina esulta, e godi 33

All' ara intorno, che per faci ardenti 83

Al grande Eroe, che sul bel dissegno 153

Ben cento illustri Eroi non nati ancora 37

Benchè lunge da questo amaro esiglio 129

Benchè da dolce nodo avvinto, e stretto 141

Che mai ti feci, cieca empia fortuna 7

Che fai? che pensi? a che pur anco tardi 20

Coppia d' illustri Sposi, in cui s' aduna 39

Cingetemi d' alloro 65

Chiaro spirto gentile 69

Chi in questo giorno al tardo ingegno mio 85

Chi di virtute il pregio alto immortale 88

Chi follemente dice in questa etade 105

Come mai celebrar potrà il mio canto 119

Chi me vedrà le piume 131

Con ricco tetto, e di bei marmi adorno 137

Così l' augel di Febo in erma parte 149

Che d' Imenèo la face, e che l' aurate 159

Dunque passar dovranno i mesi, e gli anni 5

Donna immortal, che per sua gloria, e vanto 17

Deh? perchè ai plausi, ai voti, e al suon de' carmi 19

Dalla terza del Ciel lucente sfera 38

Donne che col gentil vago sembiante 47

D' amaraco festivo il crine intorno 54

Donzella se per te la lingua, e il canto 70

Donzelle semplicette, e malaccorte 74

Dunque vorrà per sempre a noi celarsi 76

Dolce l' udir questa, che pur chiudea 79

Deh! perchè forza di destin irato 114

Deh! perchè forza egual le mie parole 117

Donna immortal, che tanto onori, e pregi 123

Donna gentil, benchè il fugace, e fiero 127

Desìo d' eterna fama il piè mi volse 139

Ecco che viene d' Adige alla sponda 27

Ecco il tempio, ecco l' ara, ecco di quella 82

E qual vegg' io di bianca stola ornato 89

Forse credevi, o nobile vezzosa 23

Gli Angeli ammiran dal celeste albergo 308

Garzone illustre, che degli avi tuoi 55

Io che d' amare lagrime 29

Illustre Donna, che ornamento sei 49

Invitto Eroe, non sol tuo illustre, e chiaro 103

Io vidi un giorno il luminoso dio 146

Io che finor tanti ad altrui richiesta 163

Lascia, Vate gentil, che polveroso 93

L' aureo tuo stile d' ogni grazia adorno 97

Levommi il mio pensier ove lontano 120

La prima fiata che l' onesta, e bella 122

Me pur vedrai sovra destriero alato 48

Meraviglie ad oprar solo, e portenti 121

Mentre calcar credea del bel Permesso 307

No non fia ver, ch' io ascolti 11

Ne mai sì vaga in alcun tempo sorse 16

Non cieco arcier, nè favoloso Imene 25

Nobil Donzella che il bel volto, e il nome 28

Nave che senza guida, e senza stella 52

No non credea del più pregiato lauro 58

O quale in questo dì m' innondo il seno 86

O sagro almo Pastore 87

O più degli occhi miei, mentr' io la luce 99

O come lieta il manto, e il crin di fiori 104

O Febo il tuo favore 107

Or che la mercè vostra mi vegg' io 115

Or che si mira di purpuree spoglie 130

Pria che lasciasti dell' Adriaco mare 102

Poichè nella mia rozza umil capanna 124

Pallida, smunta, e viperin veleno 126

Per lodar lei, che col suo detto umìle 306

Poichè a sublime onor mio stil è alzato 143

Perchè ebbi a Febo sin da miei prim anni 145

Quando fece ritorno al suol natìo 1

Quando o Signor d' antico sangue, e chiaro 9

Questi che a riparar l' ingiurie, e i danni 10

Queste che miri in lungo ordin distinte 18

Quand' è ch' io ti mirava in fasce avvolta 36

Quei ch' io confusa col silenzio ammiro 40

Quell' aurata eburnea cetra 41

Qual cercando il suo ben per l' ampie, e belle 50

Queste chiar' alme, cui benchè con roco 51

Quando la prima madre al lusinghiero 57

Questo tempio che a noi si adorno, e vago 62

Questo è il giorno di lutto, e di terrore 64

Questo non è, Donzella, il dì primiero 72

Rosa che sul mattin de tuoi prim' anni 8

Rasciuga il pianto, e i lungi alti sospiri 53

Ritorni pure al ciel onde discese 75

Se vuoi ch' io canti quel che in mezzo al petto 6

Saggio Signor, che co' tuoi fatti egregi 21

Sagro furor, tu, che invocato scendi 22

Se l' elisio beato almo soggiorno 24

Stavami jeri assissa appiè d' un orno 26

Sì leggiadro non si move 34

Squarciato il denso tenebroso velo 35

Se fia che cessi il rio malor, che il molle 61

Se noi veggiam fuor dell' auguste soglie 73

Signor se fin da' più verd' anni suoi 78

Se oggi fra l' aspre cure, e i duri affannì 84

Sull' ale della fama a volo alzarsi 95

Sperai pur dianzi, ah mal fondata spene 106

Se della bella Astrea per te ritorno 113

Sol lieti plausi intorno, e lieti gridi 116

Se della tua, se di mia dura sorte 125

Spirti cari a Minerva, a Febo cari 128

Sebben di picciol rio vive Nisèa 151

Se miro te, che guerra al cieco obblìo 152

Se come a voi, concesso fosse ancora 162

Tu parti almo mio sol, tu parti, ed io 2

Tiranno amor, crudo bendato arciero 3

Tacque, e tali al tuo dir feroci, e presti 60

Tu che del senso per le vie fallaci 63

Tu che in cella a tutte l' ore 92

Tu che fin dove gira il pigro arturo 161

Vaghe leggiadre Ninfe, e perchè siete 71

Un anno è già, che in queste sagre mura 77

Uom giunge appena pellegrino in questa 80

Verbo divin, che con un guardo solo 81

Vede Saulle ad assalir vicina 90

Voi che di lauri adorni all' alta vetta 91

Volsi, Prienugio, i pensier poco accorti 157