Luigia Codemo

VENTICINQUE ANNI;
DAL 19 OTTOBRE 1866

VENEZIA
prem Stab. Tip. Fratelli Visentini
1891

Suona l' ora in cui si compiono 25 anni dal giorno in cui le milizie nazionali. già impossessate delle provincie entrarono a Venezia e stabilirono colla conquista della capitale quella del Veneto.

Una lapide fissa nell'arcata che chiude la Procuratia sul Molo porta questa iscrizione: «Venezia. dopo secoli di libertà e potenza, per LXX anni da stranieri dominata, non doma, nell' anno 1866, restituita a Italia, accolse a XIX Ottobre milizie nazionali e a dì VIII Novembre Vittorio Emanuele IL»

Questa iscrizione, dettata con laconicità spartana, che piace tanto più quanto si è stanchi di ampollosità rettoriche, dava brividi, appena fatta … e adesso … adesso che un quarto di secolo s' è aggiunto a quella data, adesso fa tremare ! …

Un quarto di secolo nella storia, pur che non sia descritta anno per anno, e particolareggiata, occupa una pagina o poco più. Leggendo si fa presto a voltar carta, specie quando, in quel periodo, non siano accaduti fatti decisivi, immensi, mondiali.

Ma quando si ha vissuto, e qui significa patito, vissuto nell' epoca tremenda che nota la lapide, allora si sente quel che narrano le sue brevi linee, e lo si sente quanto più si va allontanandosi dall' era memoranda.

Chi mai s' accorge della grandezza d'una montagna eccelsa o della maestà d' un monumento, standoci seduti sotto od accosto? Si vuol essere lontani dall' Antelao per veder torreggiare liberamente la sua callotta di ghiaccio nel bell' azzurro dell' aria. Bisogna camminare nella campagna romana per misurare coll' occhio la imponentissima cupola, che Michelangelo portò in alto, quasi scalando il cielo: solo chi va nelle pianure lombarde abbracia a prima vista quell' altro colosso dalle cento guglie. ch'è il Duomo di Milano.

Indescrivibilmente grande fu quell'ora in cui nella piazza di San Marco, dalle antenne simboliche, erette a guisa d'alberi di nave dinanzi alla basilica caddero davanti a mille spettatori, spettacolo miracoloso essi stessi, le bandiere coi colori della marina austriaca e furono issate le nostre.

Anni prima successe un fatto singolare, rimasto quasi ignoto, relativo alle bandiere di S˙ Marco. Pochi lo ricordano, tanto fu istantaneo, fiammella fatua, estinta appena nata.

Uno di qui, patriotta ardito e potente, fece questa. Era una notte invernale, scura, di tal nebbia fitta da tagliare col coltello. L' uomo, certo un marinaro, ebbe cuore di arrampicarsi in cima d' una delle guglie e piantarvi la bandiera tricolore, là sotto gli occhi delle guardie, fra i pie' delle sentinelle. Alla mattina, quando, schiarita la nebbia, si scorse l' amato segnale sventolare allegro e superbo all' aria mattutina, fu, pei pochi a cui il caro aspetto fu concesso, visione beata. E subito l' andarono ad annunziare ai fratelli patriotti — la bandiera italiana è issata a San Marco!

Breve gaudio! chè di là le mani grifagne degli sgherrì la tolsero rabbrividendo, come rabbrividirono i signori confusi e scherniti, aspettandosi qualche bel castigo, per aver lasciato compiere un atto di tal sorte.

Se l' er ico sconoscinto cadeva loro nelle ugne si può ben immaginarsi come avria scontato l' ardimento. Colla fortezza per lo meno ….. o colla morte, vigendo, credo, il giudizio statario. In alto di quella cuccagna ci trovava, probabilmente, il capestro.

E adesso, cioè la mattina del 19 Ottobre, non fra la nebbia e lo scuro, non fra l' odio e il sospetto, fra le guardie e il capestro ….. No! ma in piena luce d' un giorno sfolgorante, in mezzo al lieto frastuono d' una popolazione rapita, le salve dell' artiglieria e il battito del cuori, più forte s' è possibile delle artiglierie …. adesso si ammaina la bandiera comandata, si issa quella voluta, cara, benedetta.

Oh! che giorno, che ora, che momento sublime! Un avvenimento così vagheggiato, discusso, ora lontano tanto da credere di non arrivarci vivi, ora prossimo, per comparir di nuovo più discosto e remoto un momento dopo …. E poi trovarcisi in mezzo! son cose da non prestar fede ai propri occhi, cose da far credere desse volta al cervello.

Questo nell'ora dell' entusiasmo, perchè nell' ebbrezza nessuno riflette a ciò che porta un tal cambiamento. Essere o non essere nazione.

Gli obblighi che impone, la responsabilità, gli interessi che sposta, le mutazioni nella foggia del vivere, nelle idee, sopratutto nelle fortune. E il caso di adoperare la parola fortune in doppio senso, letizia e burrasea.

Fermarci su tale spinoso punto non ci resterebbe più spazio per parlare di quel giorno felice. È più bello voltarsi indietro guardare la strada fatta, nel periodo veramente storico, segnato da questi venticinque anni.

Corso fulmineo, che riassmne non un quarto, ma un secolo.

C' è stato di tutto. Dopo l' ingresso delle truppe e dei volontari garibaldini, quello di Vittorio: poi quello d' Umberto colla sposa. L' incontro di Francesco Giuseppe e di Vittorio, in Venezia. La guerra franco-prussiana, la caduta del potere temporale, il possesso di Roma, il congresso pedagogico, quello geografico e l' esposizione pure geografica. Quella artistica, il varo del Dandolo, della Morosini, della Sicilia, in questo stesso anno.

Ci fu (è un mesto e solenne ricordo) la visita di Vittorio all' Imperatrice Eugenia. Non avvenimento politico, ma da lasciare impressione per quello che significava allora e quello che ci si raffronta a pensarvi … Quando s' è scorto il nostro amato Re venir dalle Zattere (egli preferiva le grandi vie aperte) venir levando quella sua bella testa leonina, e guardar d' Aigle, dove lo aspettava la moglie di Napoleone, si fremette nello stesso tempo, che si esultava.

Ma, a cose finite, vedere come il più potente monarca proclamato, in quel giorni, fino, furbo sopratutti, è morto in esiglio; mentre il nostro, che avea nell' orribile Giugno del 59 dovuto subir Villatranea, mori grande, fra il compianto della Nazione, tutta una, coi figli suoi, proclamato invece col più gran titolo d' onore umano, ossia padre, allora si dice:

— Iddio c' è!

Tra i grandi avvenimenti di questi venticinque anni io tralascio il più memorando per Venezia, il trasporto delle ceneri di Manin. Lo tralascio perchè son cose che bisogna esserci in mezzo e non sentirle a raccontare. Nella Bibbia c' è un passo:

« ed esulteranno le ossa umiliate …. »

L' eterna metempsicosi dell' idea, la catena infinita delle umane cose, l' immortalltà dell' anima si manifestava in quel fèretro, tornato dal cimitero di Parigi, per restare in quel San Marco, dove coll' occhio del Profeta e coll' ambascia del martire, Manin, nelle ore estreme, disse l' ultime parole.

Certo chi potè restare indifferente al ritorno di quelle ceneri, e non senti risollevarsi, dal miraggio del passato, i grandi pensieri, i grandi affetti dell' era epica, questo era morto o nemico.

Di gravi lutti ebbimo pure: le esequie di Vittorio e quelle di Amedeo: essi resteranno fatti solenni non meno della nostra storia e dei loro nomi collegati a quella. Si obbietta: perchè rammemorare cose tristi? …. Ah! dove c' è amore c' è vita, anche nella tristezza di lutt, precoci.

Per la legge dei contrapposti s' affacciano all' anima a questo proposito le feste per le nozze dell' arciduca Massimiliano. dieci anni prima del 1866.

Quelle feste, che dovevano essere allegre, quelle feste comandate ci restano memorie di funerale, perchè subìte per forza; si rivede la folla, che silenziosa assisteva, e guardava piangendo il biondo arciduca, inquieto di regno. sbarcare con a fianco la figlia degli Orléans, affacciarsi e salutare da quella reggia, che dovea essere il primo gradino, all' uno del campo di Queretaro, all' altra del manicomio!

Infelici loro, infelici noi, in quel tempo: e intendo con ciò, che assai meno tetre, benchè dolenti, furono le esequie de' nostri amati principi, poichè, lo ridico, dov'è amore è luce, aria, vita che si mantiene fra il ghiaccio, e germina fra le tombe.

Voltandoci indietro, e continuando nella parte, che chiamerò plastica, è pur bello misurare di volo ciò che si fece in questi 25 anni a Venezia.

Entro subito in argomento dalla parte che più ci interessa; ossia dal gran canale di navigazione che fu scavato fra gli Alberoni e Venezia, onde permettere alle più grosse navi da guerra l' ingresso in porto e in Arsenale. L' Arsenale stesso fu addattato per le grandi costruzioni navali in ferro e si costruirono due bacini di carenaggio. In corso di costruzione stanno le dighe del porto di Lido. Opere ciclopiche, da redimere un porto non solo, ma una città, una regione.

Gli eterni piagnoni, che vantano il passato sapranno anche loro le condizioni del porto nostro al cadere della Repubblica: port sable lo chiama Thiers: udii da qualche vecchio marinaro raccontare, a questo proposito, una celia graziosa. Gli Inglesi che bloccavano Venezia si godeano a mandare ai francesi assediati, il disegno delle navi in lavoro all' Arsenale. Come non le si potevano armare e si dovea mandarle fuori incomplete, i lupi di mare brittannici le avrebbero prese subito: onde almen le ordinavano del tipo che piaceva a loro, posto che per loro si costruivano.

Se questa burla sia o no, è impossibile constatare. E anche assai difficile che fosse inventata, e dimostra, in ogni modo, in quale punto si trovasse il porto di Venezia, migliorato e vero sotto l'Austria, durante il governo dello stesso infelice arciduca Massimiliano, ma assai incompletamente, a segno che guai se non si opponeva un argine al male e alla minaccia di render Venezia maremma.

Tacerò delle strade aperte: Vittorio Emanuele, Ventidue Marzo, Due Aprile. La più gentile, più forte opera edilizia, il bacino Orseolo, che dovrebbe chiamarsi Torelli, s' è vero che il genio, il patriottismo e l' onestà modesta meritino venire immortalati con un nome, con una lapide.

Infiniti ristauri, infiniti miglioramenti. Più sublime quello della chiesa dei Miracoli, miracolo esso stesso d'arte e d' amore, di chi vi si dedicò per tanto tempo, e con tanto intelletto.

Fu scoperta l' abside della chiesa di S˙ Giovanni e Paolo, rinnovato il suolo di quella sala regale ch' è la piazza di S˙ Marco. e rifatti i musaici di quell' altra gemma unica al mondo ch' è la Basilica dello stesso santo. Poi il palazzo Ducale dove il genio rifulge a caratteri indelebili d' uno ch' è gloria di Treviso, e vera illustrazione d' Italia. Annibale Forcellini, il quale piangiamo da poco e ricorderemo a lungo.

Il Fondaco dei Turchi, rimesso a nuovo, con un museo insigne, così casa Foscari, dove fu creata una scuola di commercio, prima ed unica! Terminate le fabbriche di Rialto, la bellezza architettonica delle quali forma uno dei tesori del canalazzo, già tanto ricco.

Istessamente non artistiche, ma utili assai, noveriamo la stazione marittima, i magazzini generali: Santa Marta, il Cimitero, il Manicomio di S˙ Clemente; notevole, oltre che pel fabbricato, per i metodi iniziati di cura in ordine alla civiltà, alla carità, crediamo, insuperabili. Non tralascio l' Ospedale civile, la scuola Gaspare Gozzi, eretta con tali igieniche migliorie, con tal decoro, che nemmeno i figli dei Re nelle loro reggie hanno palazzi come le figlie del nostro popolo: Sant' Elena, ridotta officina, i Giardini un Eliso.

Tutto è impossibile ricordare, chè in un quarto di secolo, si compiè quanto in uno intiero, a cose quiete. Basterebbero i monumenti … Fu detto: una tregenda di statue sorse in questi anni. Uno che tornasse dal 1866 non riconoscerebbe più Venezia, tanto ei troyerebbe cose, nomi, personaggi tutti nuovi, tutti cambiati.

Chi è quel guerriero che, levato alto il brando, sta fermo sopra un cavallo focoso e par lo sollevi colle ginocchia, mentre, piantato sulle formidabili groppe, si slancia al corso? … È un Re! Il primo Re d' Italia e padre insieme Titoli di potenza e d' onore dati da Dio, dalla Nazione! E quest' altro nel bel piazzale dei Giardini, in pie' sopra una rupe da cui (non piu visto in Venezia) sgorga un zampillo d' acqua così fresca, che il leone di sotto par deva curvarsi a beverla? Nelle belle mattine la luce rosea filtra per mezzo dei verdi, battendo quell' acqua e forma i colori della nostra bandiera: Quei colori che l' eroe del monumento tenne in cuore con questa scritta:—Italia e Vittorio Emanuele: —Se lo aprissero, ce le troverebbero intatte. Un fiero garibaldino fa la guardia a retro; sentinella tremenda, benchè posi fermo, anela al fuoco, al fuoco vivo, per riprendere quello che col sublime obbedisco fu interrotto nel 1866 …

E quuel soldato che solleva una donna e un bambino, passando un acqua, premuroso e pacifico? … quello é un ricordo al nostro esercito che fece prodigi nelle inondazioni del 1882.

Un altro ancora vien giù da Rialto, ed ha due nomi. Uno greco-romano, uno veneziano, poichè è dolce e in un glorioso destino che Roma sia sempre con Venezia; Plauto con Goldoni …. Ecco la un pensatore, uomo d'azione a S˙ Stefano, sul grave capo del quale si posa spesso una colomba, come ad un ispirato …. e quello in Piazza Manin, la qual piàzza cosi si chiama appunto dalla statua del compagno di Tommasco, cervello di gigante e cuore d'eroe? …. e poi medaglioni, busti, lapidi ….

Cosa poteva essere fatto di più in un quarto di secolo? Opera romana un acquedotto, mai più stato, dacchè sui deserti marosi, Venezia cominciò a contarne quattordici, dei secoli. Tutto potè avere questa regina del mare tutto fuorchè aqua da bere. Se non romana, veneta, una Società di vapori che fa rotta per la città in breve, per poco mette il canalazzo a livello del regale Tamigi, e avvicina, coi Trams, la madre patria alla terra-ferma, lasciando incolume la Laguna ….

Non parlo delle opere di carità: ospizi marini, nuovi asili, scuole. L'istituzione dei merletti, importantissima, sebbene leggera; ma che accrebbe il lavoro, i cespiti di entrata e quindi il commercio.

Il qual commercio non ha certo perduto, se si confronta il tempo presente con quello di venticinque anni fa, quando il nostro povero, caro paese di giorno in giorno, d' ora in ora, cadea di marasmo! …

Per un' altra ragione lascio sotto silenzio i punti neri. Gli scioperi, importazione di fuori quanto strana, altrettanto passaggera; nomino solo il bene, e di questo n' ebbimo a dovizia.

Nemmen tocco dei giornali. Eppure anche questi vanno contati: perchè se accadde diffondano il male, son fatti per diffondere il bene: tutti se ne servono anche chi li maledice. Un solo foglio, squisitamente redatto, ma ufficiale si aveva, esso parlava pel governo e non si poteva rispondergli; tolta l' opposizione, l'attrito, quindi la scintilla. Non andava quasi fuori del Veneto! Ora i nostri giornali corrono più o meno tutta Italia, specie lungo la spiaggia dell' Adriatico: dove la sua antica regina torna ad esser nominata, non più, come pochi anni fa, estranea, ed oh! indicibile vergogna e dolore, disprezzata perfino dai suoi.

C' è chi domanda : — E dopo tante cose, siamo noi felici? È felice questa popolazione libera, anzi meglio, redenta?

L' aspettativa d' un bene, per quanto in mezzo al dolore, riesce più dolce, più cara che non sia il raggiungere lo stesso bene. Son misteri dell' anima! Nessun filosofo puo saperlo, solo Iddio, che l' ha creata così! Un altro paragone.

Voi scorgete, di lontano, dal mezzo d' una pianura, che vi pesa e vi incombe davanti, scorgete un bel bosco dalle linee soavi, morbide, una bella montagna dalle tinte celestine o di viola …. camminate ansiosi, ansiosi per la grave fatica di raggiungere quei nidi agognati di riposo, e di dolcezza. Arrivati su quelle balze, tanto belle da lungi, in mezzo a quelle splendide foreste, così mollemente contornate all' occhio, che le contemplava in distanza, voi trovate sterpi, sassi, spini, punte acute da insanguinare viso, piedi e mani.

Essere nelle mille difficoltà, fra i mille urti del vivere cotidiano a chi visse d' entusiasmo, e palpitò d' ebbrezza per anni ed anni …. grave compito!

Torno là dove ho cominciato: un cambiamento così radicale, un tale spostamento …. Chi a cose quiete, sebben tristi, pur si trovava un signore: al grido di ressurexit perde, senza colpa sua e di nessuno, per forza delle cose, tutto o quasi, come non alterare l' animo suo, come sostenerlo, pensando: — Italia c' è. — Altri dal rinnovato regno sperava fama, gloria, guadagni: è accaduto all' opposto. Nell'oscurità, era tenuto qualche cosa, e non è più niente, potrà da filosofo strascinarsi, come si dice, il core nella testa e parere felice, ma non resta meno deluso.

Di più l' azione dissolvente delle democrazie, mal intese e mal applicate. Lo strascico d' una rivoluzione d' indipendenza per lunghi anni, durante i quali il popolo si abituò a schernire l' autorità, il potere, a pascersi e a vivere delle orribili gioie dell'odio; tutto questo, aggiunto all' irruente corso della civiltà che va sfrenatamente in modo da non esservi profeta che sappia se e come si fermerà.

Fra le cause di rammarico vi è, per le anime, timorate, la stampa libera, in qualche caso un vero scandalo. Quelli che fecero Italia libera non tutti sapevano che avrebbe voluto dire: libertà di dir tutto e tutto stampare. I giovani, sebben più severi, poichè detta il proverbio che i giovani curati fanno i più fieri sermoni, i giovani in generale non intendono l' angoscia segreta dei padri, i quali vedono in mano delle loro creature carte, non dirò assolutamente pericolose: quelle si ha diritto di strapparle, sibbene altre di tenue insidia, ma di maggior danno. Ha da vietarle, metter in sospetto? Ha da lasciarle? … Vanno per le mani di tutti. Non c' è niente di male! Eppure è là il male.

Prima che irrompesse un realismo, qualche volta ributtante, regnò generalmente, specie da noi, una letteratura ed un' arte sentimentale, vaporosa, tutta medio-evo, quasi sdolcinata, che si manierizzava, di platonismo. Dolce, ma eminentemente italiana, quantunque s' ispirasse al gusto francese, dominante. Però da tutto traspariva il sentimento d' Italia, a segno che si può affermare di non essere stati tanto italiani come quando eravamo tedeschi. Ingenuo fin al ridicolo preparò i grandi, alti fatti. Questa a cosa ci condurrebbe? Eppur non è lo sconcio realismo il più pericoloso. Se è serio, non può recar grave danno, meno se è passionato, e se è bello, il bello difficilmente nuoce. Gli antichi adoravano le Veneri ignude non per brutalità, per idolatria: non la donna, ma il Nume. Il bello innalza, dà vita, il brutto è patimento mortale.

Quello che nuoce, distrae, snerva, attossica, senza che uno se ne' accorga è la sottile lascivia a tutto pasto, le parole soavi a doppio senso, l' abuso di brividi, fremiti, baci, sospiri sciupati: tocchi di voluttà leggeri, ma che pure seriscono e sviluppano, prima del tempo la fantasia, la eccitano, rilasciando la molla, delicata, da cui viene il palpito prezioso della vita, fin a paralizzare l' amore. Oh Dio! e cosa sarà il mondo senza amore? ….

Tutte queste cause dunque fanno sì che dai primi impeti di giubilo che divamparono all' aurora del nostro riscatto, succedano anni piú tepidi assai, ma non meno inquieti. Ahimè! la calma contenta sarebbe la felicità. La ebbrezza della febbre si sopporta, non l' atonia col dolore! ….

Oh! dove sono i nobili e grandi pensieri, gli alti sentimenti che ci sostennero in mezzo alla violenza ed alla disperazione, in un periodo eroico e tale che darà, veramente, nella storia del mondo, il nome al secolo? ….

Soffrire, per una grande causa, con un alto scopo, avendo tutta la civiltà che ci guarda e ci proclama eroi di patriottismo, questo è bello e, relativamente, facile, ma dopo? ….. Slanciarsi nella mischia, nel fervore della lotta, gridando un nome caro, premendone al core l' adorata immagine, sì …. ma stare, sentinella perduta fra la nebbia, nell' inerzia, collo spettro della fame, sopratutto della noia? Là ti voglio.

È questo quello che occorre. I nobili spiriti che comandano alle popolazioni colle lettere, colle arti, col mezzo potentissimo dei giornali, procurino di esser loro i freni di questa società giovine, e vecchia ad un tempo, giovine perchè nuova e vecchia perchè stanca.

La mantengano alta e ferma in una sana democrazia, che significhi amore al popolo e non odio ai ricchi.

Ma per conservare viva la fiamma dell' amore bisogna sacrificarsi con serio, continuato sacrifizio. È unicamente ai forti che Iddio concede l'ineffabile dolcezza d'amare, ossia di vivere. E la stilla dell' esule del deserto, quand' ha saputo raggiungere l'ardue cime, tanto più preziosa, quanto l'ha meritata. Sacrifizio e non egoismo. La storia oltre che quella degli individui ce lo insegni. Essa ci racconta: « che ci furono città como Venezia di duecentomila abitanti; ebbero grandi artisti, grandi capitani, colonie, conquiste, immense ricchezze, e la gloria. I monumenti sussistono, ma le città e i regni sono caduti, caduti rôsi dal verme dell' egoismo, intisichiti da passioni meschine, poichè è ancora le pagine della storia ch' io copio: « non furono più focolari d' espansione, sorgenti benefiche, ma, fattesi aristocratiche, attentavano le vite altrui, senza però darla, persi gli alti e generosi sentimenti, a cui doveano la primitiva gloria ».

Questo non ci accadrà non è vero? Noi ameremo sempre. Sarebbe rompere la sublime tradizione del passato. Far che siano còrsi, per niente, rivi di sangue, e più ancora di lagrime! ….. E sarebbe questo il luogo di ricordarli i nostri patimenti, ma una libreria intiera non li conterebbe. Noi ci lagniamo di piccole sofferenze, e coloro che ci danno il primo quarto di secolo ne passarono ben altre! I difensori del 18-49 e qui e fuori … giovani di buona famiglia, ché dormirono nelle brande sui forti, morendo di freddo, di fame, di angoscie, lontani dalle loro case, incerti sulle loro famiglie, divisi … senza saper quando si rivedrebbero … e senza certo immaginarsi che i loro patimenti darebbero l' impulso alla politica europea: chè l' aver dovuto l' Austria, allora attaccata da noi e dall' Ungheria, domandare l'aiuto della Russia, alla quale si voltò contro nel 1854, ne determinò l' odio e produsse il suo isolamento nel 1859. Ecco il grande risultato del memorando assedio di Venezia e de' suoi patimenti ….. Oh! non si vuol mai stancarsi dal ricordarlo …. mai! … Non parliamo dell' esiglio.

In un libro, che pare romanzo ed è storia, è raccontato di nostri veneti, che nel fiore dell' età, di buona condizione, educati, tenuti in istima nel loro paese, si rifugiarono in Francia coll' idea di chiedere aiuto per l' Italia, ritornata allora sotto il giogo …. Per aiuto s' ebbero la prigione, la dura prigione, e scarcerati, lasciati senza un pane, senza un centesimo dovettero, per non cadere estenuati dalla fame, stender la mano e domandar l' elemosina! ….

Ma le persecuzioni, il capestro, le fortezze son note, e non accade parlarne. Se ricordo fatti oscuri, fra i mille e mille noti, è per insistere che si vuol pazientare a mantener il conquistato. E in tale compito, più arduo del primo, tutti hanno a consacrarsi. Nei tutti, primi le intelligenze poiche è la mente che agita la mole, e in, questo caso le intelligenze giovani.

Certo è domandar contro natura che la gioventù conservi. L' ardente personalità è dei giovani, e di chi altri potrebbe essere? L' esorbitare lor è naturalissimo, è segno non di mancar di vita, ma d' averne troppa. E troppa n' ebbimo e se ne risentono i bilanci; ma un freno è già cominciato, ma non si vuol disperare. Oh che, siamo appena nati e s'ha a credersi morti?

Il giovane ama comparire, emergere, dominare, crede suo tutto il mondo. Ma il più delle volte i più fieri, i più arditi, quelli che con maggior ebbrezza si slanciarono e provarono la voluttà del trionfo, trovano poi immenso il disinganno. L' aquila più va in alto, più si isola, meno è vista. Sveglia l' odio di chi striscia di chi rampa.

Se invece di cercare una soddisfazione personale i giovani domanderanno all'arte la nobile compiacenza di scaldare alle grandi cose, ai nobili sentimenti, sarà, credo, tutto guadagnato per loro e per noi, perchè faran vibrare le corde dell' umanità e quelle della patria.

Il progresso è indefinito e la marcia dell'umanità nessuna forza può trattenerla. Il sistema democratico può scompaginare le societa momentaneamente ma è il solo che avanza. Le conquiste morali e fisiche non si possono distruggere, e fra queste è quella della patria. Verità sacrosante.

Le quali non tolgono di dover essere preparati, scrivere, parlare, dipingere sempre tenendo fisso l'occhio ad una stella, ad un polo; nobilitare le anime, elevare il sentimento, rafforzarlo nel bene.

È impossibile che un' antica stirpe, nella quale, se cambiarono le civiltà, ebbero tutte la loro gloria, è impossibile si rassegni a decadere, dopo essere mirabilmente risorta. Vera pietà, in tal caso, augurarle completa distruzione, e restassero nei ruderi, immensi, i divini resti della sua grandezza. Perchè ad un popolo decaduto nasce come agli individui. Le tristi radici dell' invidia pullulano in cuore di chi fu, e non è. Imita servile i potenti e li odia, li adula e li vitupera, consentaneo solo nella stupida alterezza, senza dignità, e nel disprezzo di sè stesso. Per restar buoni si vuol essere indipendenti.

Dall' altra parte è compiacenza anche all' umile, anche al povero, a meno che non depravato e rozzo, compiacenza il saper d'appartenere ad una nazione, andarne ambiziosi, e ammirare i segni della propria non dirò potenza, ma esistenza. Al popolo è cosa importantissima il sangue e le sue voci benedette; meno inforestierato dell'alta quindi più schietto, primitivo, senza che in lui gli stretti sensi di natura fiacchino quelli di fratellanza nell'umanità. Non è dunque sublime compito mantenere vivi questi preziosi focolari in tutti, ma più nel popolo?

Ciò se si vuole che di qua ad altri venticinque anni la popolazione, che sarà ancora fresca e vegeta a festeggiare il mezzo secolo d'un tanto avvenimento lo possa fare allegro; e in mezzo ad uomini depressi ed avviliti, non restino allo stesso posto, colla stessa attitudine di potenza e di gloria, le sole statue.

Venezia, 18-19 Ottobre 1891.

Luigia Codemo.