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Vittoria Aganoor Pompilj
Poesie complete
Edited by Luigi Grilli
Firenze: F. Le Monnier, 1912

Introduction by Luigi Grilli

[p. III]


Vittoria, a te, quando cadean le nevi
   E tu pensosa al davanzal sedevi,
L'aurora diede un bacio e l' Orïente,
   Culla de' tuoi, t' irradiò la mente…. ZANELLA, Alla Cont.ssa Giuseppina Aganoor.

I.

La notte dal 7 all' 8 di maggio del 1910 si spegneva a Roma, in una casa di salute, Vittoria Aganoor. La inattesa e immatura sua fine e il tragico suicidio del marito, [1] avvenuto poche ore dopo,
[p. IV]
levarono unanime compianto nella Capitale e fuori; onde, per più giorni, il caso pietoso occupò le menti e i cuori di tutti. Niuno che l'avesse anche per poco avvicinata, poteva sottrarsi al fascino irresistibile che emanava da quella sua piccola persona tutta grazia e leggiadria; da que' suoi grandi occhi neri e profondi, lampeggianti passione, velati di malinconia; dalla sua schietta e signorile affabilità. Chi poi ebbe la fortuna di essere con lei in familiare consuetudine, non ignora quale tesoro di bontà s' accogliesse nell' anima sua, pronta così a inebriarsi di luce e a correr dietro ai fantasmi della mente come a infervorarsi in ogni opera di carità e di giustizia, di pubblico e di privato interesse. Signora della poesia e della gentilezza insieme, non amò che il bello, non seppe che il bene. Tal che non vi fu, io credo, chi, conoscendola, non l'amasse, e chi, sentendone parlare, non desiderasse di conoscerla:


Tal fu, che a molti il ricordarla è pianto;
Tal fu, che a tutti nel suo canto vive. [1]

E vivrà, s' io non m' inganno, nell' ammirazione dei contemporanei e dei posteri come la più perfetta e genuina incarnazione di quella femminilità poetica che altre snaturano in isteriche convulsioni di pensiero e di forma.
[p. V]

«Il dì che si spense Vittoria Aganoor», ha scritto Arturo Graf, «tacque all'orecchio degl' Italiani una voce di schietta, pensosa, nobil poesia; voce che scaturiva dal profondo di un'anima eletta e dell'anima cercava il profondo». [1]

E chi sa quali altri canti di alta e delicata ispirazione avrebbe quella sua voce saputo modulare, se la vita ch' ella amava intensamente, e più soave, più vera, più sua, le rigerminava nell'intimo


   in segrete battaglie, in ambasce
segrete, siccome dentro arida chiostra
di ruderi un fiore; se la vita, dico, non le fosse venuta a mancare proprio quando maggiormente dintorno le sorridevano le lusinghe dell'arte, della gloria, dell'amore.

Ahimè! io l' ho presente ancora quale la vidi l' ultima volta sul bianco letticciuolo non suo, composta nella pace suprema, affollato l'esanime corpo di fiori; fiore ella stessa di singolare candore. Le sue fattezze, quasi trasumanate, erano quelle di giovinetta dormente. Reggeva tra le dita ceree il crocifisso; e, abbassate le palpebre, sembrava rapita nella visione paradisiaca delle più belle immagini che da lei, viva, ebbero riso e splendore. Intanto da le finestre, prospicenti sul piccolo giardino, una voce pareva cantare:


   …. O genti dolorose,
io vengo, io vengo! Aprite alle speranze
il core, aprite le rinchiuse stanze
alla giungente carica di rose.
[p. VI]

Io vengo, io vengo! Ogni deserto ed ogni
rupe fiorisce, levate la testa
e sorridete, io vengo per la festa
meravigliosa, carica di sogni. [1]

La Primavera cantava le speranze e la vita: ella era morta!

II.

Armena di stirpe, e nobilissima, la famiglia degli Aganoor. Trapiantata nel 1605 da Sciahapass I, il Grande, dalla provincia di Nakhicevan in Persia, passò poi nelle Indie, donde, due secoli più tardi, cioè nel 1835, un discendente, Abramo, uomo ricchissimo e molto amante delle lettere, [2] emigrò in Europa con tre figli, stabilendosi successivamente a Parigi, Venezia e Padova. Quivi il 26 di maggio del 1855 da uno di essi, Edoardo, [3] e da Giuseppina Pacini nacque Vittoria nella casa detta anche oggi degli Armeni, in Via del Prato della Valle, attualmente Piazza Vittorio Emanuele. [4]
[p. VII]
Ad essa allude l' Aganoor in una delle sue liriche più belle che s' intitola appunto: Casa natale: [1]


Vecchia casa lontana,
aperta su quel prato
che il fiumicel chiudea come monile
tremulo, rispecchiante
statue brune dal muscoso plinto;
e di là dal recinto,
di pennuti cantor reggia felice,
le folte, antiche piante,
verdi asili romiti,
per me già sognatrice,
di pensieri, di fascini, d' inviti….

Di puro sangue armeno dunque Vittoria, non Indiana o Persiana come altri la disse. E alla sua origine ella teneva moltissimo; Sì che, scrivendo in proposito a un dotto Padre Mechitarista dell' Isola di S. Lazzaro, [2] si rammaricava con lui d' ignorare la lingua della sua nazione: «Quanto mi dolgo anch' io di non sapere l' armeno! Non me lo dica, che davvero ne piangerei, pensando che sarebbe costato così poco al mio papà caro d' insegnarmelo da bambina!».

In quella casa di Padova la poetessa trascorse la
[p. VIII]
sua infanzia prima, «fiorita quasi in un sogno orientale, com'ella ebbe a scrivere, [1] ascoltando per ore, muta, coi grandi occhi intenti, le descrizioni nostalgiche del padre, venuto dall'Asia fanciullo, e che ben ricordava la sua fulgida villa di Rayapatà (villa del Re), dai colonnati di tempio, dal parco sconfinato e superbo, dove le palme si levano eccelse sul topazio dei vesperi e gli aquilotti roteavano alto nella trasparenza dei cieli. E dell' aria cristallina e purissima, delle selve intatte da secoli, dell'urlo e della selvaggia bellezza dell'Oceano Indiano, diceva con ardore, accendendosi, esaltandosi a mano a mano nella maravigliosa visione. Tutto mi sembra oscuro ed angusto qui, ripeteva spesso….».

Rievocazione assai dolce all'anima di Vittoria, che trova riscontro nei versi nobilissimi di lei, intitolati appunto al padre, e che su tutti gli altri le furono cari:


…. cercare ti rivedo, inchino
sul cembalo, dei dolci anni tuoi primi
le semplici canzoni, udite all' ombra
delle palme e nei bei vesperi d' oro;
or le feste, le preci, il luminoso
sogno non mai dimenticato, io t' odo
dell' infanzia narrar, fiorita al sole
dell' Asia, là, tra i bianchi intercolonni
della superba tua dimora, al vento
[p. IX]

del tuo selvaggio mar, dentro le intatte
selve, o t' ascolto con solenni accenti
parlar di Dio…. [1]

Perchè il conte Edoardo, dalla bianca testa di pofeta, era uomo molto religioso, mistico quasi, e aborrente, come anche la figliuola, da ogni ostentazione di fasto e dalla vita ipocrita così detta di società. Fra le mura di quella vecchia casa quanto albergò fulgor di primavere!


I primi studi, il primo amore, il primo
schianto e il tesoro opimo
delle speranze…. [2]

I primi studi, il primo amore! Due cose che pare assai per tempo occupassero l'animo di Vittoria, la quale, sebbene la famiglia si fosse trasferita a Venezia, passava nondimeno buona parte dell'anno a Padova, presso i nonni. Al sano odor dell'erbe e dei fiori, mentre con la sorella Maria assisteva nella cappella di famiglia al rito domenicale, ella sentiva tutta l'anima fremere, anelante al sole e al turchino del cielo. Tu, dice a lei,


         molto amavi i fiori,
Maria: le ciocche oscure dei fraganti
sicomori, e la glicine, che aveva
per te parole e canti, e una segreta
parentela co' tuoi sogni e le mute
estasi de' tuoi dolci occhi pensosi.
Quanto sognammo e quanto abbiamo pianto!
Ti ricordi l' odor del caprifoglio
[p. X]

là nel giardino, delle sere estive
sotto le stelle che pioveano raggi
e promesse e sospiri? e i plenilunii
che ci videro unite, allegre e belle
giovinette, laggiù, dentro la lenta
gondola, via per la Laguna; e i canti
e del vecchio poeta [1] (a cui diletta
eri fra tutte noi) la voce e il verso
sonante, che alle pronte anime nostre
scendea svegliando visïoni e accesi
palpiti? Ti ricordi i primi studi,
e i sereni trionfi, e la gioconda
luce, e le mani a noi protese, a noi
che andavamo, la fronte erta e precinta
della regale giovinezza, incontro
all' avvenire? [2]

Primo maestro di Vittoria fu Giacomo Zanella, il quale dal 63 al 66, non ancora in fama di poeta nuovo, dai sentimenti moderni e dalla classica forma, che le sue rime furono pubblicate dal Barbèra nel 1868, era a Padova direttore del Ginnasio liceale; e poi, ricongiunto il Veneto all' Italia, professore di letteratura nazionale in quell' Università.

Di lui, che conobbe la famiglia Aganoor per mezzo di Andrea Maffei, della sua prima educazione letteraria e de' suoi tentativi ella stessa così parla: «Lo Zanella molto e a lungo leggeva a me ed alle mie sorelle [3] i classici italiani, latini e greci.
[p. XI]
Rammento che, non concedendo egli a noi nessun lavoruccio manuale durante quelle letture, che per lo più ci faceva la sera, io spesso venivo presa da uno di quegl' invincibili assopimenti, propri della prima età, che mi costringevano allo sforzo torturatore di tenere schiuse le palpebre (non la mente) e fingere l'attenzione, mentre gli eroi d'Omero o le anime purganti Dantesche mi danzavano mostruosi balli davanti, empiendomi gli orecchi di un ronzio strano e molestissimo. Ed ecco, dunque, una confessione che mi fa ben poco onore e depone male sulla mia «disposizione poetica».

Eschilo aveva la potenza di tenermi desta «sempre»; e m'andavo, poi, ripetendo brani interi delle sue tragedie, con una fiamma d' entusiasmo vivissimo….

Ricordo anche come lo Zanella, pur sempre largo d' incoraggiamento, non era punto contento del mio modo di trattare l'endecasillabo e nel suo buon dialetto vicentino, che assai di rado abbandonava, [1] mi ripeteva:

--Vittoria, la me 'scolta mi; la lassa star i versi sciolti; no la xe ancora fatta per quell' osso duro. La se tegna alle quartine; la rima tien su; la me 'scolta mi.--

Naturalmente, il mio carattere un po'ribelle, mi spronava, di rimando, a provarmi e riprovarmi anzi e sempre più negli sciolti. Eran prove « segrete »,
[p. XII]
che non presentavo al maestro; ma picchiavo e ripicchiavo testardamente l'endecasillabo, finchè mi parve di averci preso una certa pratica disinvolta; e quando avendomi egli dato per tèma: La grotta di Camoens, [1] gli presentai la mia composizioncella appunto nel metro «proibito», il mio viso era di bragia, un po' per la paura del rimbrotto, un po' per la tumultuosa speranza del successo, ed il mio piccolo cuore palpitava come si dice che palpiti nell' attesa d' un primo convegno d'amore.

Lo Zanella lesse in silenzio; poi levò gli occhi e mi guardò. Depose il foglio, vi scrisse in margine alcune parole in gran fretta; poi mi diede la mano dicendomi solo:--Brava!--e andò via.

Quello che scrisse sul foglio me lo scrisse poi, due dì dopo, avendomi ridomandato il manoscritto per rileggerlo e, rimandandomelo tutto ricopiato di sua mano, con a capo questa lettera:

«Ottima e carissima Vittoria, Padova, 18 aprile 1872.

«Quando io lessi la prima volta questi suoi versi, scrissi in margine del suo foglio queste parole: Oara Vittoria, mi faccia la carità di continuare nello studio; lo dico per lei, per la sua famiglia,
[p. XIII]
per me, per l' Italia.
Ora che li ho riletti, non solo confermo quel mio giudicio; ma la prego di lasciarmi il manoscritto, che io terrò come dolce e prezioso ricordo de' nostri studi.

Di Lei dev. mo
GIACOMO ZANELLA».

Fu il mio primo e grandioso successo! [1]

Primo, non primissimo, soggiungiamo noi. Perchè la piccola Vittoria si era già fatta conoscere e ammirare, dirò così, in famiglia, per certe strofette: Alla Luna, musicate subito dal Bazzini. Dicevano:


Luna, i bei tempi andati
sempre mi stanno in cor
quando al tuo dolce albor
gli occhi volgea.


Laghi, montagne e prati
diffusi di seren
nel candido tuo sen
scorger credea.


Scorger credea la danza
d' alati abitator.
Oh come sogna il cor
quando è contento!
[p. XIV]


Triste, deserta stanza,
cupo cinereo mar
ora quel tuo m' appar
disco d' argento.


Ed or coi rai bagnati
di memore dolor,
Luna, il tuo mesto albor
seguo pel cielo. [1]

Quando codeste strofe furono scritte? L'Aganoor stessa non sapeva dirlo con precisione. «Rammento solo, ebbe a dichiarare, [2] che fu quando mi dissero che la Luna era una terra spenta, simile alla nostra, ma senza abitatori, senza mari e fiumi, senza alberi, senza vita. Fu un grande dolore per me e scrissi questi versi che fecero impressione (perchè i miei primi) alla mamma e al papà e ai maestri, e anche ridere, perchè io parlavo di tempi andati, quasi fossi una persona grande; ma per i giovanetti e i fanciulli anche l' anno finito è il tempo andato; e per me i tempi andati erano quelli nei quali credevo ancora la Luna una specie di paradiso argenteo popolato d'augelli».

Se non che più largo campo alla meditazione e allo studio s'aprì alla giovine poetessa a Napoli dove la troviamo intorno al 76. La famiglia vi si era trasferita da Venezia e abitava, nota il Ciàmpoli, [1]
[p. XV]
che ve la conobbe verso il 1881, «al palazzo Caputo, nel Corso Vittorio Emanuele. Da' veroni scorgevasi tutto l' incantevole golfo partenopeo, dalla punta di Posilippo al promontorio di Sorrento, da Nisida a Capri».

Vittoria aveva allora intorno ai venticinque anni, negli occhi pensosa, pallida e sana. «Rideva volentieri, a scatti, disinvolta, ma con il pensiero a qualcosa di lontano. Parlava poco e diceva cose originali; ma di sè, de' suoi versi non una sillaba. Era come un campo chiuso. Ma a poco a poco le confidenze vennero». Oltre ad aver letto i nostri lirici maggiori e aver gustato (non senza qualche sbadiglio, diceva lei) quelli dei primi secoli, non aveva trascurato lo studio dei poeti stranieri: de Musset, Platen, Leconte de Lisle, Goethe, Baudelaire, Hamerling, e, s' intende, Shakespeare, Shelley, Klopstock, l' Hugo, e via dicendo. Al quale studio è da credere fosse ella iniziata più particolarmente da Enrico Nencioni che si onorò di avere a guida preziosa dopo il poeta di Chiampo e che fu da lei definito con grande acutezza: «mago della parola e del sentimento, prodigioso rivelatore d'immensità che ebbe tutte le comprensioni, le intuizioni,
[p. XVI]
le divinazioni del bello. [1] Dei nostri moderni amava il Carducci, il De Sanctis, il Fogazzaro, e si recava volentieri a udire le conferenze del Bonghi, del Persico», del De Zerbi, del D'Ovidio. «In quello stesso tempo, sono parole del Ciàmpoli, «Si faceva da Sè una educazione estetica…, cercava idee, forme novelle: soleva dire che quasi tutta la letteratura, chi ben guardi, aggiravasi su due o tre situazioni, su due o tre sentimenti; e pero talora trovava più interessante l'autore che il dramma, più il poeta che la poesia. Nella lotta di quel che lei chiamava l'infinito del sentimento che si rinnovella sempre e il finito della forma stabile che cinge quell' infinito senza limitarlo, vedeva qualcosa d' ignoto, d' inafferrabile, di tormentoso che non le dava requie».

Ma il tormento dell' anima sua non doveva certo consistere soltanto in questo: la giovinezza destava in lei sentimenti e passioni che avevano bisogno di erompere, di espandersi. Ella amava e soffriva. E tracce di codesto suo stato d'animo si
[p. XVII]
hanno in tutte le poesie di quel tempo, specie in una Ribellione, [1] piena di vigoria:


Orgoglio mio, dunque a sopir non vali
Questo che il cor tormenta
Pensier, cui serva io torno?
Dunque non sai più vincere?
Dunqe ogni possa è spenta?
E tanto forte io t' ho creduto un giorno!…


Un superbo mortal, che te non cura
Nè sa quanto m' ha offeso;
Ecco a chi ceder sai!
E soffri ch'ei mi soffochi
Sotto l' ingiusto peso
D'una pietà che non gli ho chiesta mai?

Nè minore strazio è nell'altra bellissima lirica, una senza dubbio delle più sentite dell' Aganoor, sebbene anch'essa degli anni giovanili: Quando me porteranno…; [2] la quale, osserva con ragione lo stesso Ciàmpoli, è «una terribile pagina di vita vissuta, quando la giovinezza sente la dolcezza angosciosa dell'amore, l'acerbo e malinconico desiderio di morire».

Ma chi amò Vittoria Aganoor con tanta veemenza di affetto? Raffaello Barbiera, in un suo studio su Leggenda Eterna, [3] vagamente accenna a un «idolo antico» che «per ischerno del destino
[p. XVIII]
scendeva avvolto nella notte di una spaventevole sventura». Ed ella stessa allude a un caro scomparso in alcune pagine di quel suo Diario [1] che è tutto un fervore di passione dolorosa:


Piove. Certo laggiù, povero morto,
è freddo e buio, ma più freddo e buio
è qui, qui sulla terra….
…. È quassù l'algore, in quest' immenso
deserto, dove sola una smarrita
anima va, senza più mèta, incontro
a un' infinita tenebra….:

e più specialmente là dove con disperata concitazione interroga:


…. Potrà mai la terra
fendersi e scoperchiarsi un' inchiodata
bara, e di nuovo accendersi due spenti
occhi e una bocca suggellata ancora
aprirsi alle parole? Quelle rigide
mani, potranno mai come una volta
le mie stringere ancora?….

A noi non giova spingere oltre l' indagine.

Per intendere tutta la magica potenza del suo amore e del suo dolore, bastano le sue liriche.

Io la conobbi di persona nel 1897. La famiglia si era di nuovo e da tempo stabilita a Venezia, e la poetessa aveva levata già bella fama di sè.

Il grato ricordo di quella visita non mi si partì più dall' anima, ed è in me ancora sì fresco ch'io ho presente e rivivo il dolce mattino d' estate in cui
[p. XIX]
m' incamminai col cuore in tumulto verso Ponte dei Greci, al palazzo degli Aganoor. E riveggo la sala, magnifica di mobili e quadri, dove m' intrattenne con tanta affabilità conversando, la nobile poetessa: riveggo lei, bruna, il volto incorniciato di folta e nera capigliatura, con due occhi che nella vaga penombra riscintillavano come diamanti. Di tante cose si parlò e anche, rammento, d'un quadro molto suggestivo, da lei acquistato alla Biennale, del norvegese Müller: Luna nascente, ch'io avevo ammirato il giorno innanzi nella sala della Esposizione. E quel quadro dovevo poi rivedere tante volte nel suo studio a Perugia!

Il padre era morto e posava,


di pompe schivo, lunge dall' urbano
fasto, in campestre cimitero; [1]

la madre, malferma in salute, s'inoltrava a grandi passi verso l' ultima vecchiaia. Vittoria l'adorava, e tutta a lei, con nobile slancio d' amor filiale, si era consacrata.


Alla sua porta giunse un cavaliero
e disse: Le tue guance hanno il colore
dei ceri; hai l'occhio spento;
e fra le attorte ciocche del tuo nero
crine lampeggia qualche fil d' argento.
Che attendi ormai? Senti che scoccan l' ore?…
Scendi, fuggi con me che son l'Amore.
Tutta la gioia e tutta la bellezza
del mondo finalmente
conoscerai….
[p. XX]


Ella rispose:--Io son qui sola, o Amore,
con la mia vecchia madre. Il Paradiso
nè spero, nè l' Inferno
temo, ma di lasciarla io non ho core,
io, caldo raggio del suo freddo inverno,
io, cui prima nel mondo ella ha sorriso…. [1]

Nè infatti la lasciò finchè visse, occupando il suo tempo a comporre versi che più largamente dava alle migliori Riviste, e interessandosi a l'arte e a quanto valesse a saziare il suo spirito assetato del bello; ricercata, ammirata, festeggiata dovunque.

Non andò molto, peraltro, che la notte scese sull'anima di lei: le morì anche la madre, ed ella ne fu inconsolabile. [2] E la rievoca, e la rivede aggirarsi nelle note stanze, e le grida passionatamente:


         O mamma,
mamma mia: non mi vedi? non mi vedi?
son io, volgiti, parlami, pronuncia
il mio nome! oh il mio nome ancora io l' oda
dalla tua voce!

Ma l'ombra vien tosto ad avvolgere il fantasma diletto; è già sparito; e invano, invano grida per trattenerlo la figlia desolata:


         --O mamma, ancora
non ripartire! ascolta! ascolta!
      Invano! [3]

E come, a rileggerle, sono strazianti le sue lettere di quel tempo!
[p. XXI]

Se non che, assai spesso dal dolore rigermoglia la speranza; e l' anima, oppressa dalla solitudine, bisognosa di teneri sensi, si riscote, risorge, e, fidente s' avvia per nuovo cammino:


Così dalla cener sopita
dei giorni sepolti, talora,
un lume improvviso d' aurora
raccende il fervor della vita. [1]

E Vittoria Aganoor, fatta forza alla propria ambascia, cedette alle nuove lusinghe d' amore; e, fidanzatasi all' onorevole Guido Pompilj, divenne sua sposa il 28 di novembre del 1901. Letterati ed artisti bene auspicarono alle nozze della poetessa; primo il Carducci, che le indirizzò soavissime parole: «Vola l'augurio mio fidente dalla piena anima su lei, sull' avvenire; affronti ormai le lotte della vita appoggiata sur un nobile e forte braccio; ben lo meritava; le Muse serbano pur qualche premio. Ave et salve, anima dulcissima!».

E venne a Perugia, dove conquistò d'un tratto le simpatie e l'ammirazione di tutti.

Viveva ancora, in quei giorni, sebbene già irremissibilmente colpita da paralisi, Maria Alinda Brunamonti, che alla gloriosa allieva del suo abate Zanella non mancò di fare le più liete ed oneste accoglienze. E l' Aganoor ripagò sempre di riverente affetto la sua maggiore sorella. La nobile capitale dell' Umbria accoglieva così entro le sue mura le due più grandi poetesse d' Italia; e giustamente andò poi orgogliosa della nuova cittadina, quando
[p. XXII]
la Brunamonti dopo non molto tempo venne a mancare. Nella quale dolorosa circostanza scrisse l'Aganoor poche strofe, ma veramente ispirate:


Vedi? è il trionfo. I sonori
inni odi tu? Pel sepolto
tuo corpo stanco hanno còlto
tutte le rose e gli allori… [1]

Sollecitata, tuttavia, a tesserne l' elogio nella magnifica sala dei Notari, la qual cosa avrebbe potuto fare meglio d' ogni altro, non vi si indusse per la solita invincibile sua ripugnanza di parlare in pubblico, com' ebbe poi a dichiarare qualche anno appresso, quando accolse l'invito, insistentemente rivoltole, di leggere le sue nuove liriche al Collegio Romano: «Io, disse allora, preludendo in prosa, ho ed ebbi un vivo e grande terrore del pubblico, onde fin qui risposi invariabilmente con un irremovibile rifiuto ogni qualvolta venni invitata a tenere discorsi o letture in pubbliche adunanze…». [2]

A quel modo che Perugia a lei, così ella si affezionò alla sua patria di adozione, com' era solita
[p. XXIII]
chiamarla, e alla incantevole regione umbra. E io rammento con quanto calore me ne parlava, allorchè ne contemplavamo insieme lembi stupendi dalla finestra del suo studiolo, alta sul versante orientale della taciturna città, «dove non mancano mai aliti refrigeranti e gioia di rondini e di augusta quiete»; [1] aperta alla vista ampia e maravigliosa di Assisi, Spello, Foligno, Montefalco…; e dei monti Subasio, Sibillini, Maggiore…; e dei fiumi Tevere, Topino, Chiascio…: rammento con quale slancio magnificava le sue gite ai Murelli (una villa deliziosa dei conti Faina poco discosta dall'abitato), o rievocava le nostre passeggiate serotine per qualche strada solitaria suburbana infervorati a parlar d'arte e di letteratura. Che dire poi dell'amore di lei pel selvaggio Trasimeno, «specchio d'acqua solilario», dai «tramonti augusti, tutti a grandi e fastosi padiglioni di porpora riflessi dal lago», a cui Guido Pompilj aveva dato tanto della sua giovanile energia, risanandolo? E del suo nido di fate, Monte del Lago, dove soleva trascorrere qualche mese in tranquilla e beata solitudine? «Quanto mi tratterrò in campagna? Credo più di quel che pensassi, scrive ella. Non vedrei difficile che mi fosse necessario di starmene qui anche a Natale…. A me, Io confesso, non dispiacerebbe mica fuggire così le visite ufficiali, le noiose raccomandazioni, gl' importuni e tutta la processione delle noie cittadine a fin d'anno. Qui andrei alla messa di Natale
[p. XXIV]
nella piccola chiesa, ufficiata da un buon pretino di 88 anni, magro, e ancora vivo di mente come a 20!, e in questa pace agreste ritroverei le visioni di lontani Natali, dolcissimi nella memoria!…» [1]

E a una sua amica illustre di codesto nido dava ragguaglio come di un luogo di delizie; «La nostra casa è dinanzi al Trasimeno, tutta circondata da colline folte, e sul lago tre isolette di sogno, verdi verdi, sdraiate come in abbandono d'estasi sul loro lago. Facciamo lunghe passeggiate nella freschezza della sera, sotto la prima luna bianca, e torniamo a casa in barca, tacendo, tenuti dall'incanto della bellezza attorniante e dell'ora. Ieri visitammo un podere di mio marito, che io amo molto per un grande fantasma di vecchio maniero che vi è incluso. Più che un maniero è un vero castello murato che doveva essere immenso un tempo. Quasi tutte le muraglie di cinta sono ancora in piedi, con forti merli, tutti coperti di scura e folta e tenace edera, e così i torrioni ruinosi e tragici nella loro maestà di giganti debellati dal tempo… Sotto la luna, le ombre facendosi più misteriose tra gli aggrovigliamenti del verde e i solchi delle muraglie, tutto assunse un aspetto di così alta bellezza da legare là gli occhi e lo spirito come in un incanto d'immobilità». [2]
[p. XXV]

La vita di lei a Perugia fu vita nuova di affetti e di cure: il marito l' occupava tutta; e, quand' egli cadde due volte malato, non si sa dire a quali prove di sacrificio e di abnegazione ella si sottoponesse: non volle allontanarsi un momento dal suo capezzale, nè per parecchie notti si coricò. Un giorno fu tutta lieta di mostrarmi una grande cornice entro cui il marito aveva per lei, pel suo dì natale, con pensiero delicatissimo, raccolti e ordinati i propri ritratti a cominciare da quelli della prima infanzia fino all' ultimo di uomo di governo. [1] Se poi il Pompilj era assente, il che accadeva assai spesso e per lunghi periodi di tempo, ella tosto si tramutava, come per incanto, nella più savia ed operosa massaia; e a tutto pensava, provvedeva a tutto, sacrificando l' arte alle cure domestiche che non le consentivano un minuto di requie. Dalle quali non sapeva disgiungere le altre che si riferivano al maggior decoro cittadino: e
[p. XXVI]
tutti sanno a Perugia quanto zelo ella ponesse nel curare il buon andamento e il fiorire degl' istituti femminili di educazione e della rinata Ars Umbra il cui scopo è quello della riproduzione degli antichi tessuti bianchi ad occhio di pernice con bordo azzurro. [1]

A tal riguardo è caratteristico l' aneddoto seguente.

Quando la regina Margherita si recò a visitare l'esposizione di Antica Arte Umbra, l'Aganoor, deputata con altra dama ad accompagnare l'augusta Donna, indossò una blouse tutta adorna dei caratteristici tessuti. Appena la regina la vide, notò l'originale indumento e se ne congratulò. Al che pronta ella rispose: «Maestà, è l'insegna della nostra Ars Umbra»! [2]

Ricca, senza fasto; nobile, senza boria; cólta, senza ostentazione, si può dire che ella fu a tutti larga di aiuto e di consiglio. Onde bene a ragione fu notato che «molte lacrime seppe rasciugare con un sorriso e molta forza infondere con una parola.
[p. XXVII]
Tutti ricorrevano a lei; tutti i deboli, tutti gli sventurati, tutti i timidi, tutti gli afflitti, tutti quelli che abbisognavano d'incoraggiamento e di sprone…: nessuna voce implorante si rivolse a lei indarno; solo contro una cosa ella fu inesorabile: contro l' inganno. La frode, sotto qualsiasi veste si nascondesse, moveva a sdegno l'animo suo nobilissimo; nè accadde mai che l'occhio suo indagatore non la discoprisse, che non ne rimanesse lungamente e profondamente turbato il suo spirito». [1]

E felice ella sembrava nel suo nuovo stato. Se non che, in qualche momento di sconforto a cui niuno nella vita può sottrarsi, e che tanto è più intenso quanto maggiore è la sensibilità di chi n' è preso, parve di nuovo ridestarsi nell'animo di lei la tempesta di una volta. Onde la vediamo anelare alla pace:


Ditemi, ditemi, dove
è? come posso trovarla?… [2]

e l' udiamo gridare:


Mare, l' ultimo canto
è per te; dico a te l' ultima mia
parola disperata senza pianto,
mare, infinito come il mio dolore.
Questo mio folle amore,
e l' impeto, e la sete,
furono vani. È questa, è questa, è questa
la verità… [3]
[p. XXVIII]

E, rievocando nell' accesa fantasia la bella bimba dai capelli neri che là sul prato e parla e gioca al sole; la fanciulla bruna, gli occhi sognanti al ciel notturno fisi, ella si sente stanca e la man preme sulle ciglia nere, [1] in affanno per le primavere che ha veduto sfiorire, non certo presaga della trista, immatura fine che l'attendeva.

III.

Vittoria Aganoor sia per naturale modestia o per soverchia incontentabilità rispetto all' opera propria, sia per repugnanza antica, invincibile a mandare in giro il suo cuore, chè il pubblico, come soleva dire, le faceva ribrezzo, tardi si decise a raccogliere i versi scritti nel pieno rigoglio della sua giovinezza fatta di palpiti, circonfusa di sogni: aveva quarantacinque anni! Ma di essi non pochi erano apparsi nelle nostre migliori riviste; e lo Zanella, fin dal 1876, ne aveva data una primizia nella Nuova Antologia; [2] altri erano noti ai più intimi,
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tra cui il Maffei e il Nencioni; tutti, communque, avuti in gran pregio. Onde un'assidua e dolce violenza all'animo della poetessa da parte di amici e di ammiratori, e, caso raro, anche di editori, perchè non indugiasse più lungamente a dar fuori in volume il meglio della sua produzione poetica, attesa con tanta impazienza. Primo, e pubblicamente, lo Zanella, il quale, raccogliendo di nuovo nel 1885 quelle tra le sue liriche che avevano levato più grido e dedicando il libro alla sua alunna, già venuta in così bella fama di poeta, le scriveva: «… Vorrei che questo le fosse non solamente un ricordo; ma un invito a raccogliere e pubblicare i suoi lavori poetici di cui l' Italia ha già veduti tanti bei saggi». [1] Intutile: Vittoria non si decise nè per questo nè per altri autorevoli inviti; e forse non avrebbe presa mai una risoluzione, se la madre, dama di alto sentire e di nobile intelletto, non l'avesse pregata ella stessa con tre parole, che per la figliola valevano più di un comando: Fallo per me! [2]

E Leggenda Eterna apparve, quando, per altro,
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nessuno dei vecchi e cari sollecitatori poteva vederla: scomparsi da tempo il Maffei e lo Zanella, da poco il Nencioni, di recente la madre, la quale portò con sè nel sepolcro un desiderio così ardentemente nutrito.

Rammento come nella febbre che le cagionava allora la pubblicazione imminente trovasse cómpito malagevole perfino la correzione delle bozze di stampa, e come, certo più del ragionevole, si preoccupasse del bagliore che già andava spandendo intorno a sè, prima ancor di apparire, per lo strombettìo servile dei gazzettieri, il Fuoco di Gabriele D'Annunzio. «Penso anche, mi scriveva, che il mio libretto esce in un cattivo momento. Chi potrà avvedersi di lui mentre divampa magnifico all'orizzonte il Fuoco trionfante del D'Annunzio e occupa e attira e affascina le turbe ammirate? Povera me! Sarà un naufragio, temo». [1]

Fu invece un trionfo; e un trionfo genuino: in pochissimo tempo si esaurì la prima edizione. [2] Non giornale o periodico o rivista che non parlasse con grande lode della poetessa e della sua Leggenda Eterna, che era tanta parte dell'anima di lei, anzi l' anima sua stessa, cui due prepotenti e gigantesche passioni alimentavano: l'amore e il dolore. Ciò che Enrico Nencioni, giudicando da par suo alcuni anni avanti, prima che si raccogliesse in volume, la poesia dell'Aganoor, aveva rilevato scrivendo:
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«In alcune sue liriche, la nota della passione vibra sì acuta, dolorosa e intensa che subito vi riconosciamo la donna». Sebbene, pare a me, non tutta la poesia di donne va nutrita, oggi in special modo, di sentimento così profondo; derivando essa, in gran parte, più da sentimentalismo che da sentimento, più da riflessione che da intimo impulso; essendo, in altri termini, più il risultato della volontà che della commozione, e, per questo appunto, manchevole di quel profumo di sana e schietta e propria femminilità che è invece la caratteristica della lirica di Vittoria Aganoor. D'accordo in ciò Benedetto Croce che nel suo recente pregevolissimo saggio a lei dedicato nella Critica [1] così si esprime: «Il suo breve Canzoniere d'amore è certamente il più bello che sia stato mai composto da donna italiana. Non ha situazioni complicate e romanzesche, sentimenti straordinarii o morbosamente raffinati. È l'amore senz'altro, l'amore normale, la «leggenda eterna», come la chiama l'autrice. Ma è l'amore; cosa assai più rara che non si creda, non solo in poesia ma anche nella realtà; perchè, come in quella è soffocato dalla letteratura dell' amore, così in questa dal precoce viziamento dei sensi e dell' immaginazione, o dal prevalere dell'analisi mentale». Onde più innanzi è tratto ad esclamare: «Ah, quella nobile anima amò davvero! Amò nel modo stesso che qualsiasi essere umano e non potè nè sorridere, nè ragionare sulla sua passione, come non si sorride nè si ragiona sulla malattia che ci accende o ci abbatte e che perciò
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stesso è cosa seria, attaccando le radici di ogni attività, dominando ogni nostra attività». [1] Di qui il dolore, che insieme con l'amore pervade tutta, vivificandola, la fervida poesia di Leggenda Eterna: un accorato rimpianto delle ore che invitarono indarno alla letizia e al gaudio, onde più acerbo e scuro volge alla poetessa il suo giorno fatto d'angoscia; una rassegnazione pacata cui lo sconforto alimenta e niuna speranza illumina:


È tardi, è tardi! rassegnata muori,
nè pensar che ti salvi ira o lamento;
[p. XXXIII]

è la tua sorte la sorte dei fiori
nati di foglie sotto avaro velo,
di fior cresciuti in triste isolamento…; [1] una impassibile fierezza che comprime lo spasimo e rompe in una sfida:


Io colle mani strette,
senza pianto e parole,
tranquillissima in volto,
nel cor ferita, che piegar non vuole,
l' imperversar della tua voce ascolto.


E una superbia viva
io provo, io che più forte
di te mi sento, o amore
dei martiri, o fratello della morte.
o divino carnefice, o dolore! [2]

Io vedo, scrive il Ciàmpoli, uno tra quelli che con maggior competenza e acume si occuparono di Leggenda Eterna, io vedo nel buio due grandi occhi dolorosi, che sorridono tristamente; due piccole labbra pallide che tremano; occhi che penetrano l'anima umana nella più remota lontananza di tempo, negli stati anteriori alla nascita terrena, nei presenti, negli avvenire; labbra che paiono dire arcani, parole di folle che ragiona; tenerezze segrete, che pochi comprendono, che nessuno sa rivelare, che tutti sentono vaghe e misteriose, come voci d' un' altra esistenza. Il suo amore è come
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una divina malattia che strugge e purifica, ma vibra solo in esseri privilegiati: lei ce ne scopre le più sottili evanescenze, gli spasimi più disperati, le ebrezze e le agonie più accorate, dandoci la deliziosa sorpresa di farci ritrovar nel verso quel che proviamo nel palpito… Onde di poesia che in un'ora fan rivivere una vita intera. E fan vivere la nostra vita moderna, intensa, complessa, nervosa, tormentata e tormentatrice, fan vivere nel passato, nel presente e nell'avvenire, sempre come fiamma al vento, senza riposo «mai!».

Così la Leggenda Eterna è, ben dice Raffaello Barbiera, «leggenda che le anime, i fiori, le stelle, gli atomi scrivono da millennii e che mai è finita, e sembra donata quaggiù per consolarci del dolore, laddove è sovente un dolore essa stessa. Vittoria Aganoor vi coglie le voci misteriose delle notti e le interpreta con uno spirito la cui sensibilità arriva al grado più sopraffino. Nella Leggenda Eterna freme ardore di anime, passa un fuoco». [1]

Ardore e fuoco che con la medesima veemenza non pare, s'io ben veggo, si sprigionino dalle Nuove Liriche. [2] Le quali, appunto perchè
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scritte la maggior parte (alcune rimontano a tempi anteriori) nell' Umbria dov'ella, come si è detto, quietato finalmente lo spirito bisognoso di amore, aveva raccolto il volo e costrutto il suo nido tranquillo, rivelano, in generale, nella rinnovata materia, anche una maniera nuova, una nuova fisonomia.

L' Umbria, senza dubbio, è una plaga che, come giustamente osserva Giulio Urbini, [1] «ha virtù di elevare lo spirito alle più alte contemplazioni poetiche». E, in vero, così ricca com'è di tradizioni e di memorie, così bella e fascinante nel molle ondeggiare dei colli vestiti quasi perennemente d' un verde fresco e vellutato dalle tonalità più delicate,


nel roseo lume placidi sorgenti; così varia a ogni passo di viste incantevoli, di prospetti maravigliosi che ti rapiscono, allargandosi e sfumando


entro vapori di vïola e d'oro;
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l' Umbria, dico, ben può avere «accresciuta la tendenza in Vittoria Aganoor alla meditazione e alla contemplazione dei grandi spettacoli della natura…»; la poesia di lei ben può essersi «volta di preferenza verso più alti ideali sociali ed umani e il suo verso risonare di accenti più liberi e, nella loro dolcezza, più fieri»; [1] ma io non oserei del pari affermare che il suo temperamento poetico non ne sia uscito snervato e snaturato. [2] Venuta meno in lei la ragione prima e più vitale del canto, l'amore come passione, la quale non può certo trovar esca nel possesso incontrastato e nel desiderio soddisfatto, la lirica dell' Aganoor fu più che altro volitiva e riflessa. Non che, a tratti, qua e là non sprizzino scintille, non guizzino lampi che illuminano ed abbagliano; ma sono scintille e lampi che non hanno la virtù d' un tempo di suscitare fiamme, di propagare incendi. È in quelle scintille e in quei lampi la vecchia anima fremente che tenta, direi così, di sopraffare la nuova, ma non vi riesce per manco d'energia. Quello che su per giù può affermarsi di Ada
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Negri, La quale, se più composta e nitida nel pensiero e nelle immagini, oltre che nella forma, ha tuttavia, dopo il nuovo suo stato e le mutate abitudini e gli affetti e i sentimenti diversi, troppo perduto del primitivo calore e colore, di quell'impeto quasi selvaggio, onde, libera plebea, sorgeva dalle angustie della vita e dello spirito, vendicatrice


      dei miseri, vissuti
oscuramente col destino in guerra.

Ed era lei, tutta lei, l'Ada Negri, in quei versi concitati, ruggenti sdegno e squillanti battaglia.

Quanto ho detto circa l'Aganoor delle Nuove Liriche, trova rispondenza in ciò che il Croce stesso notava nel saggio dianzi citato: [1] «I versi ch'ella compose di soggetto storico, patriottico, filosofico, umanitario (i più notabili delle Nuove Liriche) sono sempre opera di una mente cólta e di uno spirito delicato; ma non hanno il vigore degli altri nei quali mette tutta se stessa. Vengono più dalla testa che dal cuore; si sente che ella (come si dice) «si è fatta una ragione», e vuole inculcare a se stessa e agli altri la gioia, la pace, l'amore reciproco… Ma la sua vera poesia nasce quando non sa farsi nessuna ragione, quando è tutta presa dalla sua irragionevolezza e batte nervosamente i piedi a terra e contrae il volto e rompe in lacrime»

Se non che, in ultimo, parrebbe ch' Ella si fosse fatta una ragione anche del dolore, intorno al quale si lasciava andare a considerazioni filosofiche
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di questa specie: «Noi passiamo subito e subito passeranno i nostri dolori. Perchè stimarli insopportabili e immensi? Noi passiamo subito. Perchè farcene un paludamento di sovranità e un piedistallo d'irrisoria potenza? Siamo miseri e piccoli, e miseri e piccoli son essi; siamo caduchi e chimerici ed essi anche sono chimerici e caduchi…». [1]

Ma, comunque, questo parmi si possa, in conclusione, con ragionevolezza affermare: che la poesia di Vittoria Aganoor, sebbene non possa propriamente dirsi delle grandi cose, è pur nondimeno grande ed eloquente; come quando, a cagion d'esempio, assurge a dignità epica nei Cavalli di San Marco, (tèma trattato con minore ampiezza e, direi, con minor nerbo anche dallo Zanella); [2] allorchè si lancia ardita nei regni fantastici della notte a cogliere le voci profonde e misteriose del Silenzio, [3] in quella lirica di fattura squisita che giustamente fu detta tra le più ispirate e belle dei tempi nostri. E in tanto più grande ed eloquente a me pare la poesia di lei in quanto ha radice nella sincerità e mira in alto; nella sincerità di cui ella vivamente si compiaceva e che rinveniva nel suo «piccolo mondo interiore così in opposizione con quello esteriore», e dov'era felice di rifugiarsi nel «libero raccoglimento di certi sicuri silenzi». Là ritroviamo, sono sue parole, vero e integro lo spirito nostro, che, spesso imprigionato
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e nascosto, talora a un tratto, per súbite ribellioni, per contingenze fatali, spezza audacemente i legami ed esce all' aria e al sole con una parola che fa impallidire i legittimisti delle tradizioni, con una nota che rompe i ritmi classificati dei retori. Vi balenano le sembianze di chi libero canta il suo dolore o il suo giubilo, la disfatta o il trionfo, disgusti o sogni, ardimenti e paure, di chi, vinte e scrollate le piccole cure quotidiane, i piccoli consueti doveri, si leva su solitario e selvaggio a foggiarsi visioni di bellezza tra i ricordi e le idee, si leva sul tedio e la polvere di vie frequenti e sonore, sulle tiranniche imposizioni della comunanza mondana e non sa che la gioia del volo suo libero e l' ebbrezza del canto e la voce sua vera. E ancora voi sentite nel verso un fremito che non è d' artificio; un palpito che veramente viene da un fervido sangue pulsante in festa di libertà; una parola che l'anima dice con voluttà di coraggio, sfidando ogni divieto e ogni monito, ogni piccola menzogna…».

«Che importa», prosegue la poetessa, «se il mondo suol giudicare goffo e grottesco l'estasiarsi dinanzi a una notte stellata o lunare? Fortunatamente la luna e le stelle non sanno d'uomini e superuomini: il poeta ha pur bisogno dell'ineffabile godimento e delle contemplazioni giudicate inutili da le così dette menti pratiche e posate. Io farò ridere, ma debbo pur confessare che, stesa in una lunga poltrona nel perfetto riposo, e quasi oblio delle membra, dalla stanza buia e tranquilla me ne sto, per ore, dinanzi alla finestra spalancata sulla notte estiva, gustando il più profondo e pieno
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godimento che gustato abbia mai nel comunicare con la loro anima di eternità e di mistero…:


e vinto d' ogni cura
corroditrice il tarlo,
io con le stelle parlo,
parlano a me le stelle. [1]

Solo lassù è la vera grandezza, il vero incommensurabile, lassù è veramente l' augusta maestà della vita…». [2]

Parole queste in cui è, senza dubbio, il più degno commento all' opera di lei che rifugge da tutto ciò che sa di artificioso, d' astruso, di contorto, non soltanto nel pensiero, ma sì anche nella forma che oggi mi pare, per usare una espressione della stessa Aganoor, rappresenti in modo trionfale l' ideale anarchico. A proposito della quale, dirò come a me sembri ch' ella abbia dal suo maestro ereditata quella finitezza e trasparenza, quella plasticità ed eleganza che fanno dell'autore della Conchiglia, anche per questo, uno dei poeti più simpatici del secolo scorso.

Nè si creda, come taluno ha pensato, che l'Aganoor sia stata compiutamente digiuna di lingue classiche: non certo in lei la padronanza che potè vantarne la Brunamonti; ma di latino seppe quanto basta alla intelligenza di un testo: di greco ebbe qualche non trascurabile nozione. In compenso, molta dimestichezza potè vantare con le lingue moderne,
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e ampia conoscenza possedeva delle letterature straniere, onde le derivarono spesso felicissimi atteggiamenti di pensiero e non comune efficacia rappresentativa.

D' ingegno versatilissimo, di pronta e vivace immaginazione, di potente e acuto intuito, ella avrebbe, certo, potuto lasciare durevoli impronte anche nel teatro e nella prosa narrativa se dell'uno e dell'altra avesse preso ad allargare e a perfezionare i tentativi che ci sono dati da una novella sceneggiata, Prova, [1] e da due bozzetti: La Madonna e Dal Vero, [2] l'una e gli altri di eccellente fattura.

Al teatro, anzi, aveva fermo il proposito di dedicarsi; e con calore me ne parlava pochi mesi prima del suo triste fato: dalla prosa narrativa la distolse forse l'avversione che sempre dimostrò allo scrivere sciolta da ritmo. E pure quanta grazia e snellezza e disinvoltura in quelle poche pagine che ci ha lasciato! Non parlo delle sue lettere, disseminate a profusione in ogni angolo d' Italia, dovunque aveva amici e ammiratori, le quali sono di una semplicità e disinvoltura singolari. [3]

Non tacerò, da ultimo, che molte delle poesie dell' Aganoor ebbero l' onore d' essere tradotte
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in inglese, francese e spagnuolo, [1] alcune anche in greco e latino; e che di Leggenda Eterna si hanno due versioni integre, una in armeno, dovuta all'infaticabile Padre Arsenio Gazikian che ha pur tradotte di recente le Nuove Liriche; [2] l'altra in tedesco, condotta con molta accuratezza, secondo che mi assicurano gl'intelligenti, da Otto Haendler. [3]

IV.

E ora poche parole intorno ai criteri che mi guidarono nel preparare la presente ristampa.

Allorchè la Casa Le Monnier me ne affidò il gradito incarico, stetti in forse, anche per consiglio d' amici, se ripubblicare intera l' opera dell'Aganoor, o non piuttosto divenire a una scelta, sia pur larga, delle migliori cose di lei, di quelle cioè più originali e sentite. È risaputo che uno scittore non varca alla posterità con tutto il suo bagaglio più o meno pasante; e, se ben si consideri, poche sono le poesie onde oggi restano in fama anche gli autori più celebrati: il rimanente ha vita riflessa, direi parassitaria, quale di edera abbarbicata al tronco. Ma, oltre che ciò sarebbe stata una multilazione poco reverente alla memoria della
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insigne poetessa e avrebbe scontentati i più, come presumere di aver mano felice e sicura nella scelta? Si sa: quel che piace a uno, non sempre contenta l'altro, e i gusti sono difficili e diversi. E poi, come salvarsi dalla inevitabile obiezione: Perchè questo e non quello? Mi parve quindi miglior partito il dare intera nel nuovo volume la produzione poetica dell'Aganoor; anche perchè, in tal modo, la figura di lei, come donna e come artista, ne sarebbe uscita più compiuta e caratteristica. D'altra parte, quando trattasi specialmente di poesia, qual'è questa, tutta intessuta di sentimento e vibrante di passione, una strofa, un emistichio bastano, a volte, per rivelarci nuovi e ignorati sensi, nuovi e singolari atteggiamenti dell'anima del poeta.

È vero che negli ultimi anni Vittoria Aganoor fu troppo incline ad assecondare le richieste di versi che, quasi giornalmente, le piovevano da ogni parte d'Italia; tutti i nuovi periodici e i numeri unici e gli albums, non ultima afflizione del genere umano, volendosi far belli del nome di lei: ma è vero altresì ch' ella non annetteva grande importanza a quei parti quasi improvvisi, a quegli scampoli, chiamiamoli così, della sua Musa. Nè ve l'annetterò io, che, a titolo più che altro di curiosità, in un libro di Rime sparse, ho raccolto un saggio di quei lavori, insieme con liriche della prima gioventù, o ignorate o rare, piene però sempre di calore e di vita, che la famiglia custodisce e un amico cortesemente mi offre, [1] e altre
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poche composte dopo la pubblicazione delle Nuove Liriche.

Pel rimanente, non mi è parso di dover modificare nè i titoli delle raccolte, nè la disposizione delle poesie in esse contenute, ben sapendo quanto l' Aganoor fosse in ciò scrupolosa ed assoluta; e come, vivente, mi darebbe ora sulla voce se ardissi manomettere l'opera sua. E nessuno saprebbe, in sostanza, darle torto. Rammento, a questo proposito, che una volta mi richiese di un titolo per una lirica cui non riusciva a trovarne uno appropriato: accondiscesi; ma non oserei affermare che ella ne rimanesse interamente soddisfatta.

Così non ho creduto di modificare la punteggiatura, che è tanta parte del pensiero d' uno scrittore e del suo modo di sentire e di significare, se non là dove m' è sembrato o che il concetto non ne uscisse chiaro abbastanza, o che si trattasse evidentemente di una svista. [1] Ho soppresso qualche puntino di reticenza…; ma quei puntini, che sono un debole nella più parte delle donne scrittrici, non piacevano più tanto neppure a lei, poi che il Fogazzaro vi ebbe un po' celiato sopra con una frase saporitissima.

Dopo ciò, sarei ben lieto se la mia modesta fatica non soltanto riuscisse a meritare il favore di quanti amano il buono e il bello nella lirica
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nostra; ma più ancora l' assentimento benevolo dello spirito grande di Lei a cui l'anima mia è pur sempre legata col doppio vincolo, e indissolubile, della devozione e della gratitudine.

Roma, ottobre 1911.

LUIGI GRILLI.



Notes

Note from page [III]: 1 Guido Pompilj, mente eletta di statista e amatore delle buone lettere. Deputato di Perugia per varie legislature, fu due volte sottosegretario alle Finanze e agli Esteri e rappresentante dell' Italia nel congresso internazionale per la pace, all'Aja. Il suo nome è particolarmente legato alla grande opera di risanamento del Trasimeno; opera che vittoria Aganoor nobilmente esalta nei versi bellissimi che le ispirò la prima visita fatta al lago in compagnia del Pompilj medesimo--il forte soldato del bene--pochi giorni prima di fidanzarsi con lui, nel novembre del 1901. Era nato nel 1856. Oltre a molti discorsi politici (Città di Castello, Lapi edit., 1911; voll. 2) ne lasciò vari d'indole storica e letteraria, come: L' Italia nella repubblica e nel regno napoleonico; Leone Tolstoi, ecc.

Note from page IV: 1 GUIDO MAZZONI: Tal fu…, in La Favilla di Perugia, fasc. ill. in onore di V. A., luglio-agosto 1910.

Note from page V: 1 In La Favilla, fasc. cit.

Note from page VI: 1 Canto d'aprile, pag. 57 di questo volume.

Note from page VI: 2 La Congregazione dei Mechitaristi dell'Isola di S. Lazzaro ha parecchie opere stampate per conto di Abramo.

Note from page VI: 3 Edoardo nato a Madras, quando venne in Europa aveva 12 anni e si sposò alla Pacini il 1847.

Note from page VI: 4 L'atto di nascita procurato a La Favilla di Perugia (fasc. cit.) da Ciro Trabalza dice così: «A dì 3 giugno pred.#0 (cioè 1855)--Vittoria, Antonia, Maria Aganoor di Odoardo e di Giuseppa Pacini coniugati in questa Parrocchia, fu oggi battezzata dal m. r. don Giuseppe Putter p. P. co. Madrina fu la sig. Maria Teresa Moorat, vedova del fu Abramo Aganoor. Nacque il 26 p. p. maggio, alle ore 8 1/2 ant.».

Note from page VII: 1 Pag. 311 del presente volume.

Note from page VII: 2 Arsenio Gazikian, molto affezionato all' Aganoor, e al quale io devo, oltre che la gradita amicizia, non poche notizie intorno alla poetessa. Egli è noto quale traduttore in lingua armena di Dante, Leopardi, Virgilio e Omero.

Note from page VIII: 1 In un cenno autobiografico che si fece precedere alla lettura dei versi dell'A., fatta dal conte G. L. Passerini a Firenze alla Leonardo il 10 aprile 1905, presente l'autrice.

Note from page IX: 1 Pag. 130 di questo volume.

Note from page IX: 2 Casa natale, già citata.

Note from page X: 1 Andrea Maffei, che fu pure guida preziosissima all'Aganoor ne' suoi studi.

Note from page X: 2 Pag. 315 di questo volume.

Note from page X: 3 Angelica, Virginia, ora duchessa Mirelli, Maria ed Elena.

Note from page XI: 1 Strano: mi diceva l'Aganoor che lo Zanella, così corretto e fluido quando scriveva versi, non sapeva poi, parlando, esprimersi neppure con esattezza sintattica; onde usava sempre, o quasi sempre, il dialetto.

Note from page XII: 1 La grotta famosa di Patane dove il grande poeta portoghese compose i Lusiadi.--V. questo componimento inedito, e finora perfettamente sconosciuto, a pag. 333 del presente volume.

Note from page XIII: 1 Da una lettera autobiografica, in data 12 genn. 1905, indirizzata da Perugia a Onorato Roux e inserita da questo nel vol. I, p. II dell'Opera: Infanzia e Giovinezza di illustri italiani contemporanei. Firenze, Bemporad e figlio, 1909, pp. 233--36.
Ho restituita la lettera dello Zanella alla dizione originale, confrontandola con l'autografo.

Note from page XIV: 1 L'originale è posseduto dal Padre Gazikian, che me lo ha gentilmente comunicato.

Note from page XIV: 2 In una lettera allo stesso p. Gazikian.

Note from page XIV: 1 In uno studio assai bello e affettuoso: L'Aganoor giovinetta (Roma Lett., giugno 1910), dal quale, col permesso dell'A., spigolo qualche notizia. Il Ciàmpoli fu allora, per alcun tempo, quasi il confidente preferito dell' Aganoor di cui conserva memorie numerose e interessanti, oltre che lettere e poesie inedite in quantità, alcune delle quali mi consente di riprodurre in questo volume, ond' io ringrazio di tutto pubblicamente l'amico earissimo.

Note from page XVI: 1 Angiolo Orvieto nel Marzocco del 20 maggio del 1900, parlando del pellegrinaggio pietoso al nuovo tumulo di Enrico Nencioni, nota che «una donna di squisita eleganza, di nobile e leggiadra persona, dai neri occhi profondi, ardenti e soavi, religiosamente assorti nella contemplazione di tutto quel verde e di tutti quei fiori, disposti come ghirlanda di vita dintorno al rinnovellato sepolcro del grande animatore» era venuta apposta da lontano «per ritrovarsi, una volta ancora, vicino a quell' indimenticabile amico che, con il gesto sicuro della mano fraterna aveva a lei additata la via della bellezza e del bene». Quella dama era Vittoria Aganoor.

Note from page XVII: 1 Pag. 350 di questo volume.

Note from page XVII: 2 Pag. 352 di questo volume.

Note from page XVII: 3 Cfr.: Grandi e piccole memorie. Firenze, Le Monnier, 1910.

Note from page XVIII: 1 Pag. 36 di questo volume.

Note from page XIX: 1 A mio padre, pag. 130 di questo volume.

Note from page XX: 1 Rinuncia, pag. 83 di questo volume.

Note from page XX: 2 La contessa Giuseppina Aganoor morì nel 1899.

Note from page XX: 3 Allucinazione?, pag. 298 di questo volume.

Note from page XXI: 1 Trasimeno, pag. 200 di questo volume.

Note from page XXII: 1 Pag. 222 di questo volume

Note from page XXII: 2 Ms. comunicatomi, insieme con altri, dalla nobile signorina Ada Palmucci, sorella uterina dell'on. Guido Pompilj e sua erede universale, alla quale rendo qui grazie vivissime per tutti gli aiuti fornitimi a meglio condurre il presente lavoro.--V. anche «Il Giornale d' Italia», che riprodusse in parte la conferenza, a. VI, n. 61, 2 marzo 1906, e parlò del trionfo ottenuto dalla poetessa, con cui la Regina fu di una amabilità singolare.

Note from page XXIII: 1 Da una lettera a una sua cara amica, la prof. Anna Manis, del 7 febb. 1905, alla quale devo essere pur grato di alcuni versi inediti dell'A. che volle favorirmi.

Note from page XXIV: 1 Lettera alla Manis predetta.

Note from page XXIV: 2 Allude a Castel di Zocco ch'ella fece poi rivivere con tanta ala di fantasia nei versi che sotto quel titolo si leggono a pag. 219 di questo volume. La lettera è pubblicata sul più volte citato fasc. della Favilla di Perugia, a pag. 349, dalla M.sa Maria Plattis (Iolanda), la fine scrittrice di Cento.

Note from page XXV: 1 La dedica appostavi dice: Sono stato contento di poter raccogliere da varie parti questi ritratti, già dispersi e dimenticati, per offrirli a te, mia Vittoria teneramente amata, in ricordo della faticosa, spinosa, solitaria giornata di tuo marito. Il quale è ora così fortunato e felice d'avere in te acquistato un' impareggiabile compagna piena di tutte le più alte, delicate e rare virtù dell'intelletto e dell'anima. Gli auguri che in questo giorno ricordevole della tua nascita, e quindi per me sovra tutti caro, a te volano ardenti d'affetto dal mio cuore, sono auguri che faccio a me stesso, essendo oramai la nostra vita, nel senso più schietto e squisito, comune. Il Cielo ti cuopra d'ogni bene e ti salvi da ogni male per te e per il tuo Guido.--Perugia, 25 maggio 903.

Note from page XXVI: 1 Intorno a questa industria, di antichissima origine Perugina (risale al 1300 circa), che aveva sede al Borgo Sant'Angelo, è interessante leggere la pregevole monografia inserita a pag. 165 del volume: Le Industrie femminili Italiane, edito a Milano da Pilade Rocco e Comp.

Note from page XXVI: 2 È raccontato dalla march. Alessandrina Torelli Faina, distinta signora di Perugia, in una sua bella e affettuosa commemorazione della diletta amica, tenuta alle alunne del R. Educatorio di Sant'Anna di cui la poetessa era ispettrice. V.: In memoria di Vittoria Aganoor Pompilj. Perugia, Stab. tip. Donnini, 1910, pag. 8.

Note from page XXVII: 1 Nella commemorazione sopra citata, pag. 9.

Note from page XXVII: 2 Momenti, pag. 307 di questo volume.

Note from page XXVII: 3 L' Ultimo canto di Saffo, pag. 411 di questo volume.

Note from page XXVIII: 1 La bella bimba dai capelli neri, pag. 314 di questo volume.

Note from page XXVIII: 2 Insieme con alcuni versi: Melanconia della sorella Elena, ricca di poetica vena anch'essa, non so perchè, lasciata inaridire. Si hanno di questa, a stampa: Una lampada in Poesie di autori contemporanei, raccolte da G. L. Patuzzi, Drucker, 1882, pag. 388, e inoltre una collana di sonetti su Venezia, illustrati dal pittore Mainella. La poesia di Vittoria s' intitola: A una bolla di sapone (pag. 340 di questo volume), e, dice il Ciàmpoli, era spesso sulle labbra dello Zanella che la prediligeva. Ai versi delle due sorelle precede il Sermone dello Zanella: Ad Elena e Vittoria Aganoor (Poesie di G. Z. con pref. di Arturo Graf; nuova edizione, vol. II, pag. 19), V. Nuora Antologia, fasc. di agosto, a. XI, s. 2a, vol. II, pag. 850.

Note from page XXIX: 1 Firenze, Suce. Le Monnier, 1889, sesta impressione; e nuova edizione in due voll., con prefazione di Arturo Graf, 1910, pag. LXXV.

Note from page XXIX: 2 Lettera dedicatoria. premessa a Leggenda Eterna. V. pag. 3 di questo volume.

Note from page XXX: 1 Lettera del 17 marzo 1900, da Venezia.

Note from page XXX: 2 Leggenda Eterna. Milano, Treves, 1900: 2a ediz., Torino, Casa edit. Naz. Roux e Viarengo, 1903.

Note from page XXXI: 1 A. IX, fasc. I, 20 genn. 1911, pp. 10 e 13.

Note from page XXXII: 1 E che cosa fosse in realtà l'amore per Vittoria Aganoor ci è dato rilevare da una bella lettera ch' ella indirizzava alla sua giovine amica e sorella nelle muse Maria Stella. «È giunta, cara, la primavera d'amore? Ne hai diritto e tu hai anima di gustarne tutte le sublimi estasi. Sempre va unita a fremiti, a folate, a baleni d' uragano, però; ma non importa; quando torna il sereno e l' anima si placa, nessuna dolcezza eguaglia quella dolcezza. Oh rammenta bene! e rammenta che quando l'amore ha preso tutto il tirannico dominio di noi, ci domandiamo:--Come mai potevo prima vivere senza di lui! Come poteva avere la vita per me significato e bellezza? Come possono vivere quelli che non conoscono l'amore o ne sono privi o l'hanno perduto?… Io ti auguro che venga prestissimo e sia terribilmente autocrate e ti prenda tutta e ti dia la magnifica ebrezza che dà ai poeti, e nessuna tua idea piú, vada scompagnata da lui e nessuna tua speranza o proposito o progetto o lavoro sorga nel tuo spirito, isolato dal suo pensiero e tutti i tuoi sogni, tutti, tutti, tutti, siano pieni di lui, di lui, di lui, per la vita e piú in la. Ecco, la memoria mi ha fatto rivedere il passato…--V. La Donna, A. VI, fasc. 130, 20 maggio 1910.

Note from page XXXIII: 1 Nel bosco, pag. 153 di questo volume.

Note from page XXXIII: 2 Trionfo, pag. 152 di questo volume.

Note from page XXXIV: 1 Cfr. R. BARBIERA, op. cit.

Note from page XXXIV: 2 Roma, Nuova Antologia, 1908. Del resto, ch'ella stessa fosse in certo modo di ciò convinta, appare chiaro da una lettera scritta, subito dopo pubblicate le Nuove Liriche, alla Manis, in cui, tra l'altro, si legge: «Hai anche ragione quando dici che più «giovane» era Leggenda Eterna». Infatti vi erano raccolti i canti della giovinezza mia esuberante ed appassionata. Qui forse la forma si è ingagliardita e qualche più profondo atteggiamento di pensiero vi è; ma certo la passione dei venti anni e dei trenta, l' impeto di quei tumulti lontani, non si ritrovano più. Sera estiva e Pace, e La bella bimba dicono molte cose, sincere e appassionate a loro modo, ma di una passione malinconica di tramonto, anzi di sera. Una delle liriche che a me paiono fra le migliori di questo volume è Primavera, quella che comincia: «E ancora l'aspettata, ecco discende». Ma nessun critico, ch'io mi sappia, vi si è soffermato. (Leggesi a pag. 204 di questo volume).

Note from page XXXV: 1 In Nuova Antologia: VITTORIA AGANOOR POMPILJ; 10 ottobre 1908.

Note from page XXXVI: 1 Anche in Leggenda Eterna non mancano, del resto poesie d' intonazione sociale e umanitaria.

Note from page XXXVI: 2 Sebbene ella ben altro si ripromettesse. «Vedrai, scriveva alla Manis, col procedere nella vita che magnifici risvegli, talora, che maraviglioso rispalancarsi di certi cancelli, che parevano arrugginiti per sempre! Un soffio caldo e vivo di speranze, lieve come la brezza, portante fragranze di non so quali fiori, compie talora il miracolo, e cadono le forti sbarre, e improvvisa si schiude novellamente la meraviglia del sogno». (Lett. del 15 agosto 1905).

Note from page XXXVII: 1 Critica, fasc. cit., pag. 13.

Note from page XXXVIII: 1 Ms. citato.

Note from page XXXVIII: 2 Pag. 116 di questo volume. Pel carme dello Zanella, v. le Poesie, già citate, vol. II, pag. 30.

Note from page XXXVIII: 3 Pag. 184 di questo volume.

Note from page XL: 1 Leggende e fantasie norvegesi, pag. 261 di questo volume.

Note from page XL: 2 Ms. cit.: passim.

Note from page XLI: 1 Pag. 373 di questo volume.

Note from page XLI: 2 Cfr. il mio articolo: V. A. novellatrice, in: La Favilla; fasc. cit., pag. 397, segg.--«Alla prosa», scriveva alla Manis, «ho pensato tante volte, e anche a scrivere una commedia. Ma il tempo?!»

Note from page XLI: 3 Se ne potesse mettere insieme una raccolta! Sarebbe un epistolario veramente prezioso: e io ne formo l'augurio.

Note from page XLII: 1 Ne tradussero i miei ottimi amici F. Diaz Plaza e Juan Luis Estelrich, il più popolare, questo, dei poeti che oggi vanti la Spagna.

Note from page XLII: 2 Venezia, S. Lazzaro, 1905 e 1910.

Note from page XLII: 3 Dresda, Carlo Reissner, 1910.

Note from page XLIII: 1 Il Ciàmpoli che ho sopra nominato.

Note from page XLIV: 1 L'Aganoor segue, a volte, criteri tutti suoi particolari nella interpunzione, e non sempre uguali in casi identici: lo stesso dicasi della dieresi che ora segna ora no.


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