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Tullia d' Aragona
Le rime di Tullia d'Aragona, cortigiana del secolo XVI
Edited by Enrico Celani
Bologna: Romagnoli Dall'Acqua, 1891

Introduction by Enrico Celani

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Poichè la carità del natìo loco
mi strinse, raunai le fronde sparte…

(Dante, Inf. XIV).

Uno dei fatti più notevoli al principio del decimosesto secolo è senza dubbio l'apparire della cortigiana; figura degna di considerazione e di esame non ebbe pur anco uno storico che di lei si occupasse scrupolosamente e gelosamente, e, diseppellendo dalle biblioteche ed archivii i numerosi documenti che la riguardano, dasse compiuta questa pagina di storia che non è tra le ultime del nostro rinascimento. Il nome di cortigiana si collega certamente alla storia dell'umanesimo, ma quando, dove e come ebbe principio? Tale quesito non ha ancora risposta sicura. Arturo Graf [III-1], che
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si occupò ultimo della questione con quell' acume di critica ed abbondanza di erudizione ben note, esita a dare giudizio decisivo, attendendo pur lui che nuovi studî e documenti traccino via più ampia e sicura per definire tale punto.

Lo sviluppo della cortigiana prodotto dalla rivoluzione sociale che si svolgeva nel rinascimento, adattato al nuovo regime di vita che rese allora meno dure e servili le leggi sul costume, viene certamente a smentire l'asserzione che il cinquecento fosse l'età più feconda di turpi vizii, e l'amor patico, nato nelle epoche di maggior coltura e diffuso su larga scala nel medio evo, trova a combatterlo questo sviluppo della cortigianeria e le leggi civili di quasi tutti gli stati italiani, mentre dal pergamo tuona aspra e minacciosa la voce di S. Bernardino[IV-1] e del
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Savonarola[V-1]; l'Ariosto stesso che non ne fu immune dichiara che nel 1518 il vizio si restringeva a pochi umanisti. Ed allora si disputa sulla teorica dell'amore che ha forti e strenui campioni; dell'amore libero tra liberi discorre Speron Speroni nel Dialogo d'amore ove introduce a parlare la Tullia d'Aragona e Bernardo Tasso, innamorati, e costretti a separarsi dovendo quest'ultimo andare a Salerno; dell'amor platonico, primi il Bembo e il Castiglione, il Piccolomini poi, che lo definisce « un desiderio di possedere con perfetta unione l'animo bello della cosa amata[V-2] » contrastando all'amore che anela il solo possesso del corpo. All' amore assolutamente libero, per il quale era inutile insistere dopo il lavorìo dell' Aretino, sono infirmate quasi tutte
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le liriche di cortigiane del cinquecento; rispecchiano quelle l'ambiente nel quale furono create, queste la cortigianeria nei luoghi ove la coltura era più vasta e diffusa: dalla corte pontificia a quella dei Medici, da Venezia a Siena.

Il rinascimento, rotti gli argini che opponevansi nel medio evo alla coltura della donna, condusse a due estremi sostanzialmente diversi che si disputarono il campo per quasi tutto il secolo decimosesto: la coltura seria e positiva da un lato, la licenza dall'altro: prodotta quest' ultima da male intesa libertà, condusse poi per inevitabile antitesi all'educazione claustrale. Di tale antitesi tramandarono documenti il Castiglione e il Garzoni; il primo, attribuendo al Bembo la dichiarazione poetica dell'amore e trasportando il lettore nella Corte di Urbino, ove le lettere e le arti erano tradizione, appalesa per bocca di Giuliano de' Medici, la cui consorte Filiberta fu cantata modello di femminili virtù, che « la coltura della donna deve rassomigliare a quella dell'uomo, cui ella è pari. Nei diversi rami della scienza e dell' arte essa deve possedere la conoscenza necessaria per parlarne con intelligenza e con senno anche quando queste non sono professate. La donna deve essere versata in letteratura, aver conoscenza di belle arti, essere esperta nella danza e nell' arte del vestire.
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saper evitare non meno ciò da cui si può supporre vanità e leggerezza, che quanto palesa mancanza di gusto. Il suo conversare, serio e faceto, dev' essere adatto alla convenienza de' casi, essa non deve mai parlare ad alta voce e con iscostumatezza, nè con malizia ed in modo da offendere, deve corrisponspondere alla sua condizione con modestia e con modi convenienti, a cui è obbligata, verso quelli che costituiscono abitualmente la sua compagnia. Nel suo presentarsi e nel contegno sia aggraziata senz' affettazione. Le sue qualita morali, l' onestà e le virtù domestiche devono essere d' accordo con le intellettuali. Debb' esser casta, ma cortese: arguta ma discreta; ad ogni parola libera non dee fare un volto troppo severo. Sappia governar la casa e la sostanza e guidar l' educazione de' figliuoli. Non tenti d'imitar l' uomo negli esercizi del corpo, che a lui sono adatti ed a lui si richieggono. In tutto il suo essere, nel portamento, nell'andare e stare, nel parlare, mostri grazia, dolcezza femminile e non rassomigli all' uomo ». E questi ammaestramenti seguirono donne d' illustre casata, quali Eleonora d' Aragona, Isabella d' Este, Ippolita Sforza, Elisabetta Gonzaga, e delle città ove l' elemento borghese ottenne spesso la supremazia ed il potere, resta il ricordo di Antonia Di Pulci e Lorenza Tornabuoni.
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L'ambiente elevato e colto nel quale visse la cortigiana nel cinquecento non poteva non influire su di essa e spingerla a gareggiare con le donne oneste, spesso coltissime; troviamo infatti in tutte le nostre storie letterarie, vicino ai nomi di quelle due grandi che furono Vittoria Colonna e Veronica Gambara, due cortigiane: Veronica Franco e Tullia d'Aragona; e se tra loro molto lungi per costumi, non certo per meriti letterarii. Data questa coltura nella donna onesta doveva alla cortigiana richiedersi necessariamente di esserle pari se non superiore, avere vivace ingegno, voce bella e gradita, essere esperta nel suono e nella danza, maestra insomma in tutte quelle arti che, bramate o volute, erano poi, strano a considerarsi, altamente biasimate da uomini come l' Aretino e il Garzoni, che definiscono tali doti atte solo a sedurre ed attrarre. « Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i concerti, i diporti loro, se non da quell' intento di aver l' applauso, il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratte da quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti e in quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi sfarzevoli, rilegrati in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine, immersi
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in quei conviti di Venere, di Bacco, morti nel mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso amore?[IX-1] » E dacchè siamo col Garzoni, che lasciò della cortigianeria la migliore delle testimonianze, non possiamo esimerci dal citare un altro particolare degno di nota che egli ci offre e riguarda il mezzano, che, dovendo esser in tutto degno della cortigiana che l' aveva prescelto, serve a gettare luce in quell' ambiente triste e tuttora oscuro. « Imita il grammatico nel scrivere le lettere amorose tanto ben messe, e tanto ben apuntate che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente, nell' esprimer secretamente il suo pensiero… appare un poeta nel descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo di cuore… porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del Cieco d' Ascoli, l' Arcadia del Sannazaro, i madrigali del Parabosco, il Furioso, l' Amadigi, l' Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra tutto i strambotti d' Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i suoi divoti per ogni occasione… Si reca dietro qualche sonetto in seno, un madrigale in
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mano, una sestina galante, una canzone polita, con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar fecondo, con tropi eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato, che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gorellini l' abbiano fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d' oro, con caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si dichiara con modo, si scopre l' intenzione, si manifesta il senso, e si palesa il fine del poeta… Con la musica diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica l' animo d'ogni lascivia, ruina i costumi, disperde l' onestà, infiamma l'alma di cocente amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una moresca graziosa, e pian piano s'invita ai balli e alle danze, dove i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole secrete…[X-1] ». Questo procuratore di amore non è egli un tipo abbastanza curioso e interessante?

La cortigiana apparisce in Roma alcuni
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anni prima del 1500[XI-1] e come tale è ufficialmente, se così è lecito dire, riconosciuta in documenti autentici della curia papale. In un censimento[XI-2] compilato d' ordine della
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suprema autorità di Roma, redatto certamente nel settennio corso dal 1511 al 1518, ove trovansi numerate case, botteghe, proprietari ed inquilini, e di tutti o quasi tutti si nota la patria, condizione ed arte, le cortigiane sono notate in numero esorbitante, spagnuole e veneziane in massima parte, e distinte in cortesane honeste, cortesane putane, cortesane da candella, da lume, e de la minor sorte. Una sola voita, e forse senza alcuna malizia, il compilatore della statistica dimentica l'aridità del suo lavoro e nota: « La casa di Leonardo Bertini habita Madonna Smeralda cum 3 figlie piacevoli cortegiane ».

Il tipo dell'elegante cortigiana, dell'Aspasia del cinquecento, è l' Imperia, morta in Roma nel 1511 a soli ventisei anni, [XII-1] ricordata egualmente
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con ardore da storici e romanzieri, amata da Angelo del Bufalo e da Agostino Chigi il
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famoso banchiere[XIV-1]: celebrata da poeti e letterati, e presso la quale adunavasi il fiore della romana aristocrazia e convenivano uomini quali il Sadoleto, il Campani, il Colocci. Ebbe per maestro Domenico Campana detto Strascino. Di altre citansi le doti singolari: « Lucrezia Porzia, dice l' Aretino, pare un Tullio, e sa tutto il Petrarca e il Boccaccio a memoria ed infiniti e bei versi di Virgilio, d' Orazio e d' Ovidio e di molti altri autori[XIV-2] »: la Squarcina conosceva benissimo il greco: la Nicolosa leggeva i salmi in ebraico, e molte ancora che sarebbe ozioso il ricordare.

Malgrado tutto ciò la cortigiana del cinquecento era pur sempre quella del medio evo:
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tolta dall' ambiente che l' avvinceva, costringendola a piegarsi al rinascimento classico, rimaneva di essa la donna nella quale si alternavano tutti quei bassi sentimenti che erano diretta conseguenza della vita che conduceva. Però qualche barlume di affetto vero, potente, trovasi pur nella storia della cortigianeria: il Molza ed il Bandello non erano alieni dal credere che la cortigiana potesse veramente amare: noi, più scettici, crediamo con riserva a questo amore che poteva esser cagionato da interessi troppo palesi e reali, dubitiamo che la cortigiana avesse il cuore al di sopra della ragione, mentre accettiamo senza dubbio alcuno il fatto che nella prostituta di più bassa specie si rinvenisse l' amore nelle più forti sue manifestazioni. È questo un fatto che si ripete continuamente anche ai nostri giorni, e se discutibile dal lato psicologico, non cessa per questo di essere men vero. Ricordasi l'Aragona innamorata del Varchi e del Manelli: Camilla pisana dello Strozzi; Marietta Mirtilla del Brocardo, ed una certa Medea che in morte di Ludovico dell' Armi veniva consolata per lettera dall' Aretino; ma vogliamo proprio credere sul serio all' amore ispirato alla cortigiana da letterati? Questi erano allora come adesso, e come forse disgraziatamente lo saranno sempre, più ricchi d' ingegno, di madrigali, di epistole che di quattrini.
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esaltavano le cortigiane, dedicavano loro libri e capitoli e col sacrificio dell' amor proprio ricambiavano i favori lor concessi: Antonio Brocardo scrisse un' orazione in lode loro, il Muzio, il Tasso, il Varchi esaltarono l' Aragona: il Molza, Beatrice spagnola: Michelangelo Buonarroti, Faustina Mancina: Niccolò Martelli l' onorata madonna Salterella; e le cortigiane si abbarbicavano a questi letterati perchè da essi dipendeva in massima parte la rinomanza loro[XVI-1]. La Tullia d' Aragona è quella che nelle sue rime lascia maggiormente scorgere l'influenza dei letterati, sino a dubitare che alcune di esse siano opera del Varchi stesso, e dà in pari tempo la figura spiccata della strisciante cortigianeria che avviluppava anche allora i più minuscoli principi. L'antitesi
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è in Veronica Franco, della quale daremo in breve le rime, divenute di meravigliosa rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero, orgoglio di alcuni pochissimi più venturati[XVI-1]: essa è l' incarnazione della donna libera del cinquecento ed è l' unica che canti liberamente i suoi amori: non s' informa a platonismo o castità irrisoria, ama per amare e soddisfare i sensi, e i suoi liberi amplessi, dice il buon P. Giovanni degli Agostini « con tal' arte seppe dipingerli e con tal frase adornarli che servono agl' incauti di vigoroso solletico alla concupiscenza[XVII-2] ». Tale non può essere oggi il parere di coloro che si occupano seriamente della nostra letteratura: ogni pagina, bella o brutta, sana o impura, che venga a chiarire la nostra rinascenza, non è che contributo a lavoro maggiore, e come tale spero vorrà essere accolta questa mia debole fatica.

Della Tullia d' Aragona parecchi si occuparono in questi ultimi tempi: forse ne parlerà ancora il Bongi nel seguito de' suoi Annali del Giolito de' Ferrari, editi dal Ministero
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della Pubblica Istruzione; certamente poi il Biagi in altra edizione di un suo scritto apparso nella Nuova Antologia del 1886; ma stimo che la biogratia della poetessa poco abbia più da offrire a così insistenti e dotti ricercatori, perchè la sua vita è quasi tutta delineata, e molto nettamente per l' epoca nella quale visse e la vita nomade che ebbe a condurre. In ogni modo augurando sempre nuova luce, basta al mio assunto ritrarre in poche linee la vita della Tullia, servendomi anche di documenti finora non messi a profitto dai due egregi scrittori.

Il Crescimbeni[XVIII-1], il Quadrio[xvIII-2], il Mazzuchelli[xVIII-3], il Tafurri[xVIII-4], e ultimo ancora Pietro Vigo[XVIII-5] credettero la Tullia napolitana; lo Zilioli[XVIII-6] seguito dal
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Canestrini[XIX-1] e dal Labruzzi[XIX-2] la dissero romana a ciò confortati, prima che altre testimonianze venissero a luce, dalle precise dichiarazioni che Girolamo Muzio fa nell' egloga Tirrenia a lei dedicata[XIX-3]. Infatti la Tullia nacque in Roma da Giulia Campana ferrarese[XIX-4] e dal cardinale Luigi d' Aragona[XIX-5]. L' anno di sua nascita è ignoto:
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il Labruzzi e poi il Biagi[XX-1] considerando che nel 1519 il padre di lei era già morto e che nel 1527 ella era già nota nel mondo galante, pongono la nascita circa il 1505, basando anche tale congettura sulla novella VII degli Ecatommiti di Giovanni Battista Giraldi. Sta infatti che il Giraldi finge sia raccontata la novella di Nana e Saulo nel 1527 al tempo del sacco di Roma, ma vuolsi proprio accettare quella data senza dubbio alcuno
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e su di essa basare deduzioni storiche, quando nella stessa opera rinvengonsi altri episodi che forse non reggerebbero ad una severa critica e sono falsati nelle date come quelli di Celio Calcagnini e del Giovio? Non potrebbe il Giraldi aver fatto risalire la partenza della Tullia al 1527 per acconciarvi quella pur strana e sudicia novella, scritta molti e molti anni dopo il sacco di Roma e che vide la luce, se non erriamo, solo nel 1565? A noi il Giraldi non prova nulla; più fiduciosi in un passo dei Ragionamenti dell'Aretino che rivelano come l' anno 1519 la Giulia ferrarese partisse da Roma per Siena con la sua picciola figliuola, siamo stimolati a credere essere la Tullia nata sullo scorcio del primo decennio del decimosesto secolo.

Della giovinezza della nostra poetessa poche notizie giunsero sino a noi; forse visse in Firenze circa il 1517 e 1518[XXI-1], indi a Siena, ove « imparò a parlare sanese » poi « vedendo la madre che costei haveva di virtù principio grande considerò che Roma è terra da donne, e massime che ella sapea l' usanza della corte
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e così l' ha fatta cortigiana[XXII-1] ». E questo principio grande di virtù era infatti posseduto dalla Tullia, alla quale gli agî procuratile dal cardinale d'Aragona avevano permesso di addestrarsi in tutte le arti della seduzione, vivendo tra le delizie e le comodità d' una onorata fortuna che l' amorevolezza del padre le aveva lasciata tendendo agli studi nei quali fece tanto profitto che non senza stupore degli uomini dotti fu sentita in età ancor fanciullesca disputare e scrivere nel latino e nell' italiano cose degne di ogni maggior letterato, onde arrivando al fine dell' età e accompagnando alla sapienza e virtù sua un' isquisita delicatezza di maniere e di costumi, si acquistò il nome di compitissima sopra ogni altra donna del tempo suo. Compariva con tanta leggiadria in pubblico e con tanta venustà ed affabilità d' aspetto che aggiungendovisi la pompa e l' adornamento degli abiti lascivi, pareva non potersi ritrovare cosa nè più gentile nè più polita di lei. Toccava gli strumenti musicali con dolcezza tale e maneggiava la voce cantando così soavemente che i primi professori degli esercizi ne restavano meravigliati. Parlava con grazia ed eloquenza rarissime, sì che o scherzando o trattando davvero, allettava e rapiva a sè, come un'altra
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Cleopatra, gli animi degli ascoltanti e non mancavano sul volto suo sempre vago e sempre giocondo quelle grazie maggiori che in un bel viso per lusingar gli occhi degli uomini sensevoli sogliono essere desiderate[XXIII-1].

La Tullia tornata in Roma certamente poco dopo la morte del padre vi rimase, secondo ogni probabilità, e magari contro il malevolo Giraldi, sino al 1531: e in questo stesso anno si recò a Ferrara ove conobbe Girolamo Muzio. L' autore degli Ecatommiti dà alla partenza da Roma della Tullia, una ragione abbastanza disonorevole. Egli narra, come convenendo in casa dell' Aragona parecchi giovani romani, uno di questi, che chiama Saulo, invaghitosene al sommo, molto
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spendesse e si adoperasse perchè a lei nulla venisse a mancare delle agiatezze nelle quali era cresciuta. Dimorava nella stessa epoca in Roma un tedesco, detto Gianni, uomo ricchissimo, ma così sudicio e pieno di lordura che faceva nausea a solo vederlo; costui innamorato della Tullia, tanto insistette che ottenne di essere compiaciuto di lei per una settimana di seguito al prezzo di cento scudi per notte. La Tullia acconsentì; non resse però che una sola notte tanto era il puzzo che esalava quel ricco tedesco. Risaputosi ciò da Saulo e da' suoi amici, ne furono sdegnati, e mai più vollero metter piede in casa dell'Aragona: talchè ella vedendosi disprezzata e sfuggita, se ne partì da Roma. Il Tiraboschi cita una satira
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di Pasquino contro di lei[XXV-1], dalla quale parrebbe che si fosse diretta a Bologna, ma se veramente vi andasse, e certo dopo il 1531, non si conosce, come del pari rimase sinora ignota la satira summentovata.

Che l' Aragona fosse in Roma nell' anno suddetto è chiaramente provato da una lettera che Francesco Vettori scriveva da Firenze a Filippo Strozzi li 14 Febbraio 1531. Questi chiamato in Roma da Clemente VII sotto pretesto di rivedere alcuni conti, ma in realtà per aiutarlo a introdurre in Firenze « un governo o vogliamo chiamarlo stato, nel quale i magistrati della città governino in nome suo, in fatti il Duca governò in tutto,[XXV-2] » scriveva al Vettori richiamandolo di aiuto e consiglio: e questi rispondendo conchiudeva:
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« E perchè mi scrivete con la Tullia accanto, non vorrei la leggessi similmente con essa accanto, perchè amandola voi come femmina che ha spirito, perchè per bellezza non lo merita, non vorrei mi potesse nuocere con qualcuno di quelli ch' io nomino. Io non sono per ammonire Filippo Strozzi, ancorachè, se le ammonizioni ricorregghino, non avete aver per male essere ammonito, ma ho inteso di non so che cartelli e di sfide andate a torno che mi hanno dato fastidio pensando che un par vostro, uomo di 43 anni, voglia combattere per una femmina, e benchè io creda sareste così atto all' arme come siete alle lettere ed a ogni altra cosa dove ponete la fantasia, non vorrei di presente vi metteste a questo pericolo di voler combattere per causa tanto leggiera; e vi ricordo che degli uomini come voi ne nascono pochi per secolo; e questo non dico per adulazione. Assettate le faccende vostre e poi tornate a rivederci ». Pare che il consiglio del Vettori riuscisse caro e salutare allo Strozzi: in un cartello di sfida che conservasi in un codice Rinucciniano, ed è di quell' anno stesso in vano si cercherebbe il suo nome tra i sei campioni della Tullia[XXVI-1].
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Partita da Roma, la Tullia si recò certamente a Ferrara, ed ivi reduce di Francia capitava poco dopo il Muzio; nel 1535 era a
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Venezia ove nacque la sorella Penelope[XXVIII-1], e nel 1537 nuovamente a Ferrara seguendo di pochi giorni l' arrivo in questa città della
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marchesa di Pescara. Conobbe certamente allora il sanese Bernardo Ochino che appunto nella quaresima avea predicato ivi con mirabile fervore, e gli diresse il sonetto XXXV trattandolo poco cortesemente, e chiamandolo arrogante, perchè avea dal pergamo fulminato « le finte apparenze, e il ballo, e il suono », dono fatto da Dio agli uomini « ne la primiera stanza ». Nello stesso anno le accadde una strana avventura, narrata da un Apollo novellista alla marchesa Isabella d' Este con lettera dei 13 giugno[XXIX-1], e tale avventura
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servì mirabilmente per porla in buona vista, formarle quella reputazione di onestà che la fama e le pasquinate avevano molto deteriorata, radunarle intorno un' eletta schiera di poeti e gentiluomini che adulandola, corteggiandola, facessero dimenticare il suo passato poco onorevole per riconoscere solo in lei la poetessa, la letterata, la discendente di sangue reale: e riuscì in massima parte; il Muzio e il Bentivoglio le profusero lodi e adulazioni in rima e in prosa, e la Tullia era posta al di sopra di Vittoria Colonna. Ancora una volta la cortigiana trionfava.

Da Ferrara la Tullia ritornò forse a Venezia; almeno così il Dialogo dello Speroni fa credere; poi a Siena ove si accasò nel
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1543[XXXI-1]. I documenti senesi che riguardano la Tullia dànno a conoscere una circostanza abbastanza seria per non essere lasciata senza esame e cioè che ella era, legalmente almeno, figlia di Costanzo Palmieri d' Aragona; ed infatti nell' atto di matrimonio è detta Tullia Palmeria de Aragonia, ed in altro documento ancor più chiaramente « Filia quondam Constantii de Palmeriis de Aragona ». In base a tali documenti, eliminando del tutto l' ipotesi che ella fosse stata adottata da un Palmieri, conviene credere ad un matrimonio della Giulia Ferrarese, al qua'e non possiamo dare, neppure per approssimazione, una data qualsiasi. L' Aretino, il Domenichi, il Franco che citano la Giulia e ne parlano spesso diffusamente, mentre dànno particolari su altri amanti tacciono affatto di tale matrimonio; neppure un barlume ne apparisce nelle rime
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della Tullia e nelle lettere che di lei ci pervennero; parlando della propria famiglia dice mia madre, mia sorella, ed io; tace il Muzio, che, pur dando la paternità del cardinale d' Aragona alla Tullia, nulla impediva potesse parlarne nell'egloga dedicata alla Penelope nata molti anni dopo; ne tacciono assolutamente tutti i biografi. Ed apparisce del pari per la prima volta, almeno così ci consta, una casata Palmieri che abbia aggiunto il nome d' Aragona al proprio; rimangono tracce dei Piccolomini-Aragona, dei Tagliavia-Aragonia, dei de Aragonia, romani, ma nessuna dei Palmieri-Aragona. Questa casata non viene poi più a luce nè sulla tomba della Penelope che porta solo il nome di Aragona, nè nel testamento della Tullia ove non sono più mentovati nè padre, nè madre, nè marito. Una volta ancora, innanzi all' arida autenticità dei documenti, si oppone la tradizione, ferma, costante; essa vuole la Tullia figlia del cardinale d' Aragona e nel fatto nulla varrà a scemarla. Su questo padre più o meno putativo, che apparisce quasi per suà disgrazia, molte sarebbero le supposizioni a farsi; era forse un familiare del cardinale d' Aragona che acconsentì a sposare la Giulia Campana a prezzo d' oro, o qualche vanitoso che a scapito del suo amor proprio con l' acquisto della Tullia aggiunse al suo il casato degli Aragonesi?
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in ogni modo è assolutamente da escludere che quel de Aragonia stia lì per fissar il luogo natio di quel buon Palmieri. Non ci peritiamo rispondere a quesìti così ardui ed anche inutili; bastano per noi tutte le testimonianze dei contemporanei a stabilire che la poetessa fu, pure illegittimamente, del sangue d' Aragona.

Sembra che in Siena ella fosse perseguita da malevoli che l' accusarono agli Esecutori Generali di Gabella di vestire e portare ornamenti vietati alle meretrici dagli statuti del Comune; fu agitato per ciò un processo nel febbraio del 1541, dal quale constando la vita onesta e morigerata della Tullia, le fu permesso di vestire ed abitare al pari di altre persone nobili ed oneste[XXXIII-1]. Non cessò per
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questo la malevolenza contro la Tullia e nell'
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agosto dello stesso anno[XXXV-1] fu ancora denunziata per aver portato la sbernia il giorno di Pasqua, e tra i denunziatori apparisce Ottaviano
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Tondi, novesco, causa di torbidi in Siena per avere ucciso uno di parte popolare[XXXVI-1], e che la Tullia pianse morto un anno appresso in un sonetto diretto al fratello Emilio[XXXVI-2]. Certo ella ignorava il servizio che il buon novesco aveva tentato di renderle.

Sullo scorcio del 1545 la Tullia se ne venne a Firenze ove contrasse stretta amicizia col Varchi, col Martelli e parecchi altri, dei quali ci rimasero testimonianze nelle rime e nelle lettere di lui edite dal Biagi e dal Bongi[XXXVI-3]. E qui ancora doveva essere perseguitata dalle severe leggi sui costumi e sugli ornamenti et habiti degli huomini e delle donne. Il 19 ottobre
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1546 il Duca Cosimo promulgava una di quelle leggi[XXXVII-1], ma la Tullia che credeva oramai per la fama di poetessa di non essere più compresa nel ruolo delle cortigiane, non se ne diè per intesa, sin che nell' aprile dell' anno appresso fu invitata dal Magistrato ad ottemperare alla legge mettendo sul vestito qual cosa di giallo che doveva servire a distinguerla dalle oneste gentildonne. La Tullia ricorse a D. Pietro di Toledo nipote della duchessa Eleonora, che la consigliò presentare alla Duchessa una supplica unita ai sonetti a lei scritti da illustri letterati, a significare
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l' errore del magistrato di giustizia nell'annoverarla tra le cortigiane. Per correggere la supplica, se non per averla bell' e fatta ricorse la Tullia al Varchi[XXXVIII-1], ed il dabben uomo volentieri si prestò a tanto urgente favore, e della Tullia non è forse nel seguente documento che il nome solamente.

« Ill.ma ed Ecc.ma Sig.ra Duchessa.

« Tullia Aragona, umilissima servitrice di V. E. Ill.ma, essendo rifugiata a Firenze per l' ultima mutazione di Siena, e non facendo i portamenti che l'altre fanno anzi non uscendo quasi mai da una camera non che di casa, per trovarsi male disposta così dell' animo come del corpo, prega V. E. affine che non sia costretta a partirsi, che si degni d' impretrare tanto di grazia dall' Eccell.mo ed Ill.mo S.or Duca suo consorte, che ella possa se non servirsi di quei pochi panni che le sono rimasi per suo uso, come supplica nel suo capitolo, almeno che non sia tenuta all' osservanza del velo giallo. Ed ella, ponendo questo con gli altri obblighi molti e grandissimi che ha con S. E., pregherà Dio che la conservi sana e felice ».
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La cortigiana ottenne favore presso la duchessa; Cosimo scrisse di suo pugno sull'istanza « Fasseli gratia per poetessa »; e queste parole sono autenticate dalla soscrizione di Lelio Torelli, ministro del granduca. I luogotenenti del duca rilasciarono quindi all' Aragona, in data 1 maggio 1547, copia della deliberazione nella quale riconoscendo « la rara scientia di poesia e filosofia che si ritrova con piacere di pregiati ingegni la detta Tullia Aragona venga fatta esente da tutto quello a che ell' è obbligata quanto al suo abito, vestire e portamento[XXXIX-1] ». Un anno appresso, e precisamente nell'ottobre, scriveva al Varchi annunziandogli la sua partenza, gli mandava in dono un paio di colombi, due fiaschi d' acqua ed uno di malvagia, una saliera di alabastro, e da lui toglieva commiato per sempre con lettera che il Varchi avrà certamente preso per buona moneta; partiva quindi per Roma, dove il primo di febbraio del 1547 veniva a morte la sorella Penelope, seguita poco appresso dalla madre. La Tullia abitava in Campo Marzio nel palazzo Carpi, e nel libro della Tassa fatta alle cortigiane per la reparatione
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del ponte
(Rotto)[XL-1] consta che ella pagava di pigione 40 scudi (in ragione tassata per scudi quattro) ed è una delle cortigiane che pagava di più; poche giungono ai cinquanta scudi, rare quelle che superano tal somma: evidentemente le condizioni finanziarie della Tullia non erano troppo rilassate, e non crediamo, come dubita il Bongi, che il poco profitto da lei ritratto in Firenze ed il desiderio di far esordire la Penelope nella più vasta e ricca scena di Roma fosse causa della sua dipartita di colà; nulla accenna pertanto avere la Penelope esordito nella triste carriera, anzi l' essere ella morta non ancora quattordicenne fa credere, magari con un poco d' ottimismo, che il desiderio della Giulia Campana forse più che della Tullia, se esistito, non rimase che semplice desiderio.

La Tullia visse certamente in Roma sino all' epoca di sua morte, che avvenne il 12 o 13 marzo del 1556. Era andata ad abitare nel rione Trastevere, in casa dell' oste Matteo Moretti da Parma, ed ivi il 2 marzo dello stesso anno dettava le sue ultime volontà al
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notaio Virgilio Grandinelli[XLI-1]. Morta la Tullia ed apertone il testamento alli 14 di marzo, Pietro Ciocca in suo nome e per gli esecutori testamentari mons. Antonio Trivulzio vescovo di Tolone e Mario Frangipane, chiese all'auditore della Camera Apostolica un tutore per il giovinetto Celio. Tale ufficio fu conferito a
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D. Orazio Marchiani chierico pistoiese. Redatto l'inventario della roba lasciata dalla Tullia si procedè alla vendita secondo le sue volontà; gli ori e le gioie furono acquistati dagli orafi Pompeo Fanetti a Santa Lucia della Chiavica, Maurizio Grana piemontese e Francesco Alarçon spagnolo al Pellegrino; la mobilia da Giovanni
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Battista della Valle fiorentino e Francino Francini d' Arezzo rigattiere a Monte Giordano. A quest' ultimo toccò in un con gli arnesi di cucina « una cassa vecchia nella quale c' erano trentacinque libri tra volgari e latini di più et diverse sorte, et tredici di musica tra usati, vecci, et stracciati et diverse altre carte et libri
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già stracciati ». Ai singoli legati fu adempiuto con rogiti speciali; in uno di questi Celio non solo herede della Tullia ma figliuolo è chiamato. Di questo Celio e del Marchiani nessuna notizia giunse sino a noi; forse lasciarono Roma, ed il tutore, pistoiese, riedendo alla nativa città, avrà menato seco il fanciullo;
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è certo che di essi perdesi la traccia dopo la morte della Tullia, nè le carte dell' archivio romano, esaminate dal cav. Corvisieri, ci possono dire quale sia stata la sorte del fanciullo. Che il padre fosse lo stesso Ciocca come altri supposero, non crediamo, parendoci allora superflua la nomina di un tutore, e dovendo in tal caso ammettere che il Celio fosse nato in Roma dopo il 1547, cosa molto improbabile e per le condizioni fisiche della Tullia e per l' appellativo di giovinetto che viene dato al Celio, come ancora non lo supponiamo figliuolo del Guicciardi. L' Aragona conobbe forse il Ciocca in Venezia, essendo questo al servizio del Cornaro, ma a tale epoca non può risalire la nascita di Celio; dubitiamo anzi, sempre però su deduzioni, che la nascita di questo fanciullo fosse causa della dipartita dell' Aragona da Firenze.

La Tullia era di alta statura, non bella ma piacevole[XLV-1], gli occhi bellissimi e splendidissimi, e « nei movimenti loro una certa
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forza vivace che parea gittassero fuoco negli altrui cuori », forza provata dal Muzio che cantava:

….. occhi belli,
occhi leggiadri, occhi amorosi e cari,
più che le stelle belli e più che il sole, i capelli finissimi di un biondo oro, esaltati spesso da' suoi ammiratori, tra i quali il cardinale lppolito de' Medici, al quale la porpora non impediva di bruciare innanzi alla bella Aragonese il suo granello d'incenso cantando:

se 'l dolce folgorar de i bei crini d' oro,
e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
e 'l far dolce acquetar per l' aria i venti
co 'l riso, ond' io m' incendio e mi scoloro… Nella pinacoteca Tosio di Brescia è conservato il ritratto della poetessa dipinto da Alessandro Bonvicino detto il Moretto, altri due veggonsi nell' edizione delle Rime fatta dal Bolifon e nel vol. XII del Parnaso italiano. Di questi ultimi quale sia il valore non possiamo certo dire.

Tra i molti adoratori che ebbe a vantare la Tullia, Girolamo Muzio fu certo uno dei più costanti e veritieri, e benchè quando fu preso d'amore avesse oltrepassati i quarant'anni, si sente dalle sue rime che quell' affetto era
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serio e sincero, e che i versi esprimevano molto meno di quel che il cuore sentiva; dedica alla Tullia le sue egloghe Amorose che in realtà parlano assolutamente di lei sola, e del suo amore non cela nè gli ardenti desideri nè le bramate conquiste. Con un verismo poco desiato certo da qualsiasi donna, anche abituata alla rilassatezza della vita di Ferrara, egli diceva alla Tullia:

Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia
raccogli quel che con le braccia aperte,
disioso t' aspetta, e nel tuo grembo
ricevi lieta l' infocato amante;
stringi e 'l bramoso amante, e strette aggiungi
le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto
suggi de l' alma amata, e del tuo spirto
il vivo fiore ispira a le sue brame.
Le belle membra tue, morbide e bianche,
ad Amor le consacra; ed al tuo amante,
qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,
con lui cogli d' amore i dolci frutti.

Ma ben presto il Muzio recatosi a Milano in missione per il Duca Ercole d' Este, fu obliato, almeno per del tempo, e sostituito dal Bentivoglio; passata poi la Tullia da Ferrara a Venezia, Bernardo Tasso prese il posto dei precedenti, almeno così ci lascia credere lo Speroni che nel suo Dialogo la introduce « a far l'amore con lui, presenti ed
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accettanti Nicolò Grazia e un altro spasimante Francesco Maria Molza »; indi a Firenze variò tra il Varchi, lppolito de' Medici, il Tolomei, il Fracastoro, il Martelli, il Lasca, il Mannelli e lo Strozzi.

Vario e non sempre imparziale fu il giudizio dei contemporanei e dei posteri verso l' Aragona; aspro e satirico spesso sino a dare diritto di vilipenderla all' Aretino[XLVIII-1] e al Razzi [XLVIII-2]; buono e cortese ancora, come
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le testimonianze del Nardi e del Muzio. Il Nardi, tradotta in lingua toscana un' orazione di M. T. Cicerone (Venezia 1536) ne indirizzava un esemplare a Gian Francesco della Stufa con incarico di presentarlo alla Tullia che per sè stessa oggi dirittamente da ogni uomo è giudicata unica e vera erede così del nome e di tutta la tulliana eloquenza; Girolamo Muzio che si consolò del matrimonio della Tullia sposando circa il 1550 una damigella d' onore di Vittoria Farnese duchessa d' Urbino, nella lettera dedicatoria premessa al Trattato del matrimonio, scriveva: Già avviso di vedere in voi quella donna la grazia della cui vergogna, come si legge nell' Ecclesiastico[XLIX-1], è più che oro preciosa …
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Tale avviso che dovete esser voi facendo in tal guisa al mondo manifesto che della vostra passata vita ne è stata cagione necessità, et di questa la vostra libera volontà: che nel passato vi ha trasportato fortuna e che hor vi governa la vostra virtù.

Frutto d'amore, ella visse sacra all'amore e nulla varrebbe a scusarla della poca onestà della sua vita; ma se è pur vero che gli abbietti trionfando della loro caduta trovano i buoni che li ricoprono, concediamo a lei le attenuanti dell' esempio: e di esempio ne ebbe a sufficienza, e per l'ambiente viziato nel quale nacque e visse, e nella stessa madre che allegramente dava alla luce figliuoli sino al 1535 e con la massima indifferenza li intitolava d' Aragona dopo sedici anni che il povero cardinale era andato all' altro mondo.

Tenuto conto delle condizioni in cui svolgevasi la poesia nel XVI secolo, le rime dell'Aragona non mancano certo di pregio; quantunque ancor essa che « volle avere il suo canzoniere[L-1] » non eviti quella freddezza
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che nasce da ogni ripetizione, quella noia che s'ingenera dalla descrizione di una passione misurata su i precetti rettorici e smentita dal fatto e dai costumi. La Tullia fu petrarchista della miglior acqua, e non poteva certo essere altrimenti; il Petrarca era l' idolo al quale si prostesero quasi tutti i rimatori del cinquecento ed il modello su cui si formarono, ricavando stima maggiore chi imitasse più servilmente il cantore di Laura, rubandone al tempo stesso il pensiero e la forma. Tutte le cortigiane letterate del cinquecento furono petrarchiste, se per altri il Petrarca era l' oracolo del purismo, per esse non rappresentava che la teorica dell' amore; quest' amore ideale o platonico, di Venere celeste, era cantato su tutti i toni, salvo poi ad avere, di altro amore, una più ampia e sicura conoscenza, e tale influenza, per donne quali l'Aragona, la Franco, la Stampa è spiegata dalla stessa relazione del petrarchismo con la cortigianeria. Un Petrarchino di piccolo formato, di edizione elegante era indispensabile al cortigiano effeminato e strisciante, i leggiadri cavalieri di Roma mostravansi per via « andando soavi soavi co' loro famigli a la staffa, su la quale tenevano solamente la punta del piede, col Petrarchino in
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mano, cantando con vezzi[LII-1] », ed i vagheggini più aridi e stucchevoli, appena ricevuto un sorriso della donna amata correvano « a casa a comporre una sestina, un madrigaletto, dove il cieco d' Adria non s' accorge che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere discoverta da nessuno ». Dell'amore teoretico il Petrarca era il gran maestro per pratica e per scienza; il suo canzoniere si allontana da quell' amore pratico del cinquecento che si svolge in brutale sensualità, e in una brama di appetiti animali trascinarono la società nella più completa dissolutezza, nelle forme più sozze delle aberrazioni e del vizio; esso risponde all' amore intellettuale, richiesto dall' umanesimo, che veniva considerato quale anello di congiunzione con l' amore divino, e della cui infinità tratta l' Aragona in un suo dialogo [LII-2].

Al contrario della Franco che canta l' amore dei sensi, l' Aragona è tutto ideale, tutto spiritualismo; i suoi affetti vogliono rasentare il cielo, e solo raramente trovasi qualche
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accenno alla triste sua vita; è invasa dalla manìa di passare ai posteri insieme ai letterati che ella canta, cerca ogni maniera di ricoprire la cortigiana con la poetessa, ed eleva i suoi canti indistintamente a tutti, principi e cardinali, letterati e soldati, uomini serii e burloni quali il Lasca; per lei l'uomo, essere animato, è nulla: la fama di un uomo, il tutto; il solo affetto per il giovane Mannelli si può credere sincero, tutte le altre proteste che infiorano le rime e quei sonetti che cambiato indirizzo, giravano d' adoratore in adoratore in edizioni stereotipe e consolavano tanto il Muzio che il Martelli[LIII-1], fanno a buon diritto dubitare di tutte queste espansioni cantate così altamente e serenamente. E la manìa dell' Aragona è anche spiegabile in altro senso. Cessate le seduzioni della bellezza tentava con l' arte di riunire la compagine di quegli adoratori che si venivano allontanando, e con la musica, il canto, le lettere cercare di sostenere i bisogni della casa: le sue rime sono spesso forzate. e la eco dell' onda classica da Orazio a Virgilio, da Dante a Petrarca viene spesso ad alimentare l' agonia di una vita finita.
[p. LIV]

Delle imitazioni al Petrarca, evidentissime e nel pensiero e nello stile, ne citeremo solo alcune poche a titolo di saggio[LIV-1].

Sonetto X, v. 12-15:

E se quassù giungesser gli occhi vostri,
   vedendo fatto me novo angeletto
   qui bramareste, e non vedermi in terra.

(PETRARCA, Madrigale III, v. 1-2).

Sonetto XXXI, v. 7-9:

E l' alto Iddio lodar ben spesso suole,
   dopo l' aspra fortuna,
   spaventato nocchiero al porto intorno.

(PETRARCA, Sonetto C, v. 1-2).

Sonetto XXXVIII, v. 12-14:

Non contenda rea sorte il bel desio,
   che pria che l' alma del corporeo velo
   si scioglia, sazierò forse mia brama.

(PETRARCA, Sonetto IX, v. 12-14).
[p. LV]

Sonetto XLII.

S' io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva
   l' interno duol, che il cuor lasso sostiene;
   s' io 'l feci, che perduta ogni mia spene,
   in guerra eterna di vostr' occhi vi va.

(PETRARCA, Canzone XV)

Sonetto XLIV, v 13-14:

… volgendo a Roma 'l viso e a lei le spalle,
   se vuol l' alma trovar col corpo unita.

(PETRARCA, Sonetto LXXXI, v. 3-4).

Sonetto LI, v. 12-14:

Benchè vostro valor eterna fama
   per sè vi acquisti, caro mio signore,
   quanto 'l sole gira e Battro abbraccia e Tile.

(PETRARCA, Sonetto XCVI, v. 9-11).

Della Tullia giunsero a noi un Dialogo dell' infinità di amore[LV-1], giudicato « uno dei dialoghi più vivi che noi abbiamo, nell' ordine più basso degli scritti letterari del secolo decimosesto….. per una certa franchezza
[p. LVI]
e disinvoltura, e anche talvolta per una certa saporita fiorentinità ch' ella attinse per avventura dal suo consorzio coi fiorentini e singolarmente col Varchi », ed un poema in ottava rima: il Meschino e il Guerino[LVI-1]. Il Crescimbeni fa di questo poema elogi sperticati, dicendo che « nella tessitura può paragonarsi all'Odissea di Omero[LVI-2] », esso però è così inverosimile e contrario tanto alla storia, alla cronologia, alla geografia, e con buona pace dell' ottimo abate, anche al buon senso, che non sappiamo invero trovarvi alcuna analogia con l' opera dell' Omero; lo stile ne è trascurato, e spesso conviene lavorare di serio proposito per raccapezzare il senso di qualche ottava, i canti, trentasei in tutto, appaiono disordinati e spesso senza nesso tra loro. La Tullia avverte che trasse il poema da un vecchio romanzo spagnuolo in prosa, ma certamente ella si servì di una traduzione e non del testo originale che vuolsi scritto in italiano[LVI-3]. L'Aragona nella prefazione di questo
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poema si scaglia contro il Boccaccio, e mentre lo compassiona perchè non seppe eleggere il verso a forma del Decamerone, lo accusa che tante sue scellerate novelle scritte con altrettante scellerate parole, servendo solo a demoralizzare e rendere ridicoli i più santi vincoli dclla società, siano impossibili a leggersi, senza frutti nocivi, da maritate e nubili, vedove e monache, e persino cortigiane. Questi scrupoli che parrebbero curiosi nella Tullia, sono da ella medesima spiegati, non essendo cosa nuova che ad una donna per necessità o per altra mala ventura sua sia avvenuto di cadere in errore del corpo suo e tuttavia si disconvenga non men forse a lei che alle altre l'essere disoneste e sconcie nel parlare e nelle altre cose; ed ella, contrariamente al Boccaccio, vuole scrivere per tutti, il suo poema potrà essere dato in mano alla più pudica donzella senza alcun pericolo, volendo con esso porre un debole argine a quell' invadente corruttela che ogni dì spandeasi con maggior forza e brutalità, e pur sempre per opera dei letterati ed anche degli umanisti. L' idea della Tullia, se togliesi quella sfuriata contro l' umanismo che proprio
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non aveva a che fare, non era cattiva e sinceramente credette averla attuata col suo Guerino; dichiarandosi di tutto debitrice a Dio solo « dal quale solo viene ogni bene e da cui solo io riconosco questa gran grazia d' avermi in questa mia età non ancor soverchiamente matura, ma giovenile e fresca, dato lume di ridurmi col cuore a lui e di desiderare e operare quanto posso che il medesimo facciano tutti gli altri così uomini e donne ». Ma Dio non aveva proprio nulla a che vedere col Guerino, ed è proprio il caso di ripetere che quantunque il diavolo si vesta da frate, quattro dita di coda gli spuntano sempre sotto la tonaca; infatti ciò che la Tullia narra del cavaliere di Durazzo, di Brandisio e della figlia dell' albergatore nel canto VIII[LVIII-1], e di Pacifero
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innamorato di Guerino nel canto X[LIX-1]
E poi la sera volse ch' egli andasse

….. abbraccia al Meschin suo la gola
, non è roba atta a far mettere il poema vicino al libro di devozione di una vergine o dl una monaca. E pur tale era lo scopo.

In produzioni di uno stesso autore, apparse anche a distanza di molti anni l' una dall' altra, ritrovasi sempre qualche analogia, qualche difetto, alcun che di speciale, quasi direbbesi di proprio, che le riavvicina e riunisce; nulla di ciò tra il Guerino e le Rime, anzi una succinta critica forse allontanerebbe molto l' uno dalle altre. Quantunque non sia il caso ora di formare tale confronto ed esaminare a fondo il Guerino, non possiamo
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esimerci dal notare come la prefazione posta innanzi al poema ci abbia fatto triste impressione, fino a crederla apocrifa per ragioni che crediamo buone od almeno meritevoli di esame. Il Ranieri che pubblicò il poema nel 1560 dicendo di averne curato l' edizione sul manoscritto originale già da parecchi anni da lui posseduto, non fa parola dell' Aragona che era morta nel 1556, e si profonde solo in ampie ed ampollose proteste cercando di formare una dedica alla quale, per essere di qualche valore, manca solo un poco di senso comune. E quel parecchi, posto lì per indicare un lasso di tempo non superiore ai tre
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anni è per lo meno superfluo; nè più lungo spazio di tempo crederemmo possibile ammettere perchè è abbastanza ragionevole il supporre che l' Aragona avesse sino alla morte conservato presso di sè quel lavoro. Il ricordo ancora che i libri e le carte andarono in mano di un modesto rigattiere, non è privo di valore; se il manoscritto del Guerino era tra la roba acquistata da Francino Francini, uomo probabilmente ignorante e privo di criterio letterario, la sorte del manoscritto era assicurata: finiva in qualche bottega di droghiere o salumaio. Converrebbe adunque credere che o il manoscritto fosse tra le carte devolute a Celio figliuolo dell' Aragona o che la Tullia ne avesse fatto un dono al Ranieri qualche anno prima; ma ancora queste due supposizioni rasentano l' assurdo. Il testamento della Tullia che pure è tanto minuzioso e preciso nei lasciti e legati, non accenna a carte ed altri documenti spettanti al Celio; nè la Tullia poteva donare il manoscritto al Ranieri o ad altri che a lui lo passassero, perchè dal momento che ne aveva condotto a termine anche la prefazione, era certo desiderio suo di darlo alle stampe, e per il nome che godeva e l'appoggio dei letterati che facevanle corona non sarebbe stato difficile trovare un tipografo che ne assumesse l' edizione. Se dobbiamo pur credere alla dichiarazione della Tullia di
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avere composto il poema « in età ancor giovenile e fresca », quando erasi decisa di darsi a Dio, conviene di necessità ammettere che ella l'avesse scritto in Siena poco appresso il suo matrimonio col Guicciardi, o in Firenze; mai in Roma ove tornando per l'ultima volta nel 1547 non era più in età giovenile e fresca, e l' essere ascritta nel ruolo delle cortigiane pubbliche non era il migliore indizio dell' essersi data a Dio. Anche a questa ipotesi si oppone una seria obbiezione. Era possibile all' Aragona dare ad intendere agli eruditi, massime fiorentini, di aver tratto il Guerino da un romanzo in prosa spagnuolo? Pure ciò afferma nella prefazione, e se il poema non corrisponde esattamente al Guerino, in prosa, romanzo cavalleresco del ciclo della Tavola Rotonda, è indiscutibile che da questo ne trasse in massima parte le idee. Nessuno ignora la rinomanza che il Guerino ebbe nei secoli XV e XVI; all'epoca dell'Aragona ne erano già state fatte sei edizioni[LXII-1], ed
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è certo sopra una di queste che fu condotta la riduzione in rima. In conclusione non rifiutiamo al Guerino la maternità dell' Aragona, la sua differenza con le Rime non è prova sufficiente a porre dei dubbi; respingiamo però assolutamente quella prefazione che non è, nè poteva essere della Tullia.

Per la ristampa delle rime abbiamo usato l' edizione prima, Venezia 1547 (A) servendoci per le varianti delle edizioni di Venezia, 1549, (B): ivi, 1560 (C): Napoli, 1593 (D): e delle Rime raccolte dalla Bergalli-Gozzi (E): le abbiamo fedelmente riprodotte, salvo allorchè gli errori erano evidenti, respingendo allora in nota la lezione originale; quando le varianti assumevano importanza assoluta, come per i componimenti tratti dai codici vaticano e magliabecchiano, abbiamo stimato necessario riprodurre entrambe le lezioni avvertendo di collocarle l' una a lato dell' altra.

Dalla R. Biblioteca Vallicelliana, maggio 1891.

ENRICO CELANI


Notes

III-1. Graf. A. Attraverso il cinquecento. Torino, Loescher, 1888, pag. 215 e seg. -- Nell' Hermaphroditus del Panormitano (1471) (Quinque illustrium poetarum, Antonii Panormitani, etc. lusus in Venerem, Parigi, 1791), la cortigiana non apparisce ancora, come neppure ne è parola in Giano Pannonio (1472) Poemata. Trajecti ad Rhenum, 1784.

IV-1. « Avetemi inteso voi donne? Che alla barba di tutti i sodomiti io voglio tenere colle donne, e dico che la donna è più pulita e preziosa della carne sua che non è l'uomo; e dico, che se egli tiene il contrario, egli mente per la gola » (S. Bernardino, Prediche volgari, ed. Bongi, pag. 380).

V-1. Le opere fatte da lui circa la osservanza dei buoni costumi furono santissime e mirabili, nè mai in Firenze fu tanta bontà e religione quanta a tempo suo … la sodomia era spenta e mortificata assai; le donne in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi; i fanciulli quasi tutti lavati da molte disonestà e ridutti ad uno vivere santo e costumato … portavano i capelli corti e perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti e giocatori e le donne di abiti troppo lascivi. (Guicciardini, Storia fiorentina, cap. XVII).

V-2. Piccolomini A. Istituzione di tutta la vita dell' uomo nato nobile et in città libera. Venezia, 1552.

IX-1. Garzoni T. La piazza universale di tutte le professioni del mondo. Venezia, 1587, discorso LXXIV, pag. 597.

X-1. Garzoni T. Op. cit., discorso LXXV, pag. 605.

XI-1. Giovanni Burchkardt maestro di cerimonie di Alessandro VI narra come l'ultimo d' ottobre 1501 cenarono nel palazzo apostolico, col Valentino, cinquanta cortigiane, le quali dopo cena danzarono ignude e diedero altre prove di valentia in presenza di Alessandro VI e della Lucrezia Borgia. « In sero fecerunt cenam cum duce Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta meretrices honeste cortegiane nuncupate, que post cenam coreaverunt cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo in vestibus suis, denique nude. Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et projecte ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus; unde, candelabra pertranseuntes, colligebant, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et aspicientibus. Tandem exposita dona ultima, diploides de serico, paria caligarum, bireta, et alia pro illis qui pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in aula publice carnaliter tractate arbitrio praesentium, dona distributa victoribus ». Diarium sive rerum urbanarum commentarii, Parisiis, 1883-1885, tom. II, pag. 443, tom. III, pag. 167).

XI-2. Armellini M. Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X tratto da un codice inedito dell' Archivio Vaticano. Roma, Befani, 1887.

XII-1. Cfr. Bandello, Novelle, parte III, nov. XLII; Valery, Curiosités et anecdotes italiennes, Paris, 1842; Giovio P., De piscibus romanis, cap. V; Forcella V., Iscrizioni delle chiese di Roma, Roma, 1878. Per l' epitafio che dicesi posto sulla sua tomba crediamo siasi troppo facilmente accettata la tradizione che fosse in S. Gregorio; oltre la stranezza della lapide che certo non faceva bella figura in una chiesa, è oramai accertato che se pure l' epitafio fu composto non fu mai elevato sulla tomba dell' Imperia.
Di lei scrive il Bandello (op. cit., nov. XLIII): « Tra gli altri che quella (Imperia) sommamente amarono fu il signor Angelo del Bufalo, nomo della persona valente, umano, gentile e ricchissimo. Egli molti anni in suo poter la tenne, e fu da lei ferventissimamente amato, come la fine di lei dimostrò. E perciò che egli è molto liberale e cortese, tenne quella in una casa onoratissimamente apparata con molti servidori, uomini e donne, che al servizio di quella continovamente attendevano. Era la casa apparata e in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in quella entrava, veduto l' apparato ed ordine de' servidori, credeva che ivi una principessa abitasse. Era tra l' altre cose una sala e una camera sì pomposamente adornate, che altro non v' era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. Nel camerino, ov' ella si riduceva, quand' era da qualche gran personaggio visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di drappi d' oro, riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi colori. Eravi poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltremarino, maestrevolmente fatto, sovra la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e mille altre specie. Vedevansi poi attorno molti cofani e forzieri riccamente intagliati, e tali che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino, il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre era o liuto o cetra con libri di musica, ed altri istromenti musici. V' erano poi parecchi libretti volgari e latini riccamente adornati. Ella non mezzanamente si dilettava delle rime volgari, essendole stato in ciò esortatore, e come maestro il nostro piacevolissimo messer Domenico Campana detto Strascino; e già tanto di profitto fatto ci aveva che ella non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale ». Ed a proposito del celebre camerino seguita narrando come essendo andato a farle visita l' ambasciatore di Spagna, e avendo bisogno di sputare, trovò che il luogo meno improprio a ciò fare era il viso del servitore che gli stava alle spalle

XIV-1. Cugnoni G. Agostino Chigi il Magnifico. Livorno, Vigo, 1879.

XIV-2. Aretino P. Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere, Cosmopoli, 1660, pag. 442.

XVI-1. E poeti e letterati non isdegnavano la compagnia della cortigiana (Burchkardt. Diarium etc., ediz. cit. tom. III, pag. 209); Marco Bracci in una lettera ad Ugolino Grifoni segretario di Cosimo I scrive nel novembre 1557 che giunto in Perugia il cardinale Caraffa nipote di Paolo IV e il cardinai Vitelli « dopo cena pubblicamente fece andare in palazo tutte le putane che a quelli tempi se trovavano in Perugia quale furono in tutte quattordici; e presene per sè una e una per el cardinale Vitello el resto acomodoli a la sua famiglia. (Fabretti, La prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV, Torino, 1885, pag. 46).

XVII-1. Graf. A. op. cit. pag. 350.

XVII-2. Theatro delle donne letterate, pag. 296.

XVIII-1. Istoria della volgar poesia, vol. IV, pag. 67.

XVIII-2. Storia e ragione d' ogni poesia, vol. II, pag. 235.

XVIII-3. Gli scrittori d' Italia, vol. I, par. I.

XVIII-4. Gli scrittori del regno di Napoli, tomo III, parte I.

XVIII-5. Il Vigo pubblicava nel 1885 per nozze Grassi-Rinaldi il sonetto della Tullia all' Ochino (nella nostra edizione a pag. 39), e nella breve prefazione la dice napoletana.

XVIII-6. Presso il Mazzuchelli, loc. cit.

XIX-1. Dell' infinità d' amore di Tullia Aragona, edito dal Canestrini, Milano, Daelli, 1867.

XIX-2. Bibliografia romana, Roma, Botta, 1880, vol. I, pag. 13.

XIX-3. Vedi a pag. 189, versi 27 e seg.

XIX-4. La Jole dell' egloga del Muzio è la Giulia ferrarese, anch' essa etèra famosa e della quale il Domenichi (Facezie, motti e burle, Venezia, 1558, pag. 28) ricorda un motto arguto e mordace. Papa Leone X aveva fatto aprire una nuova strada in Roma lastricata dai tributi che le puttane pagavano, nella quale scontrando la Giulia ferrarese una gentildonna l' urtò un poco. Allora la gentildonna adirata cominciò a dirle villania. Rispose la Giulia: « Madonna, perdonatemi, ch' io so bene che voi avete più ragione in questa via che non ho io ». Nel citato censimento di Roma (pag. 42) ella apparisce come abitante nel rione Campo Marzio, in una casa sotto la parrocchia di S. Trifone di proprietà dell' Ordine Agostiniano.

XIX-5. Lo Zilioli che fu il più diffuso biografo dell' Aragonese le assegna per padre Pictro Tagliavia di Aragona, arcivescovo di Palermo e cardinale di Santa Chiesa; e tale versione venne accolta dal Mazzuchelli, dal Tiraboschi, dal Cinguenè e dal Camerini. Ora nè quando il Muzio scrisse l' egloga alla Tullia nè quando l' Aretino nel dialogo tra il Zoppino e Ludovico, dialogo scritto certo prima del 1539, dice cardinale l' amante della Giulia ferrarese, il Tagliavia era stato assunto alla porpora. Lo fu solo sotto Giulio III l'anno 1553: in tal guisa viene esonerato di nua paternità poco lodevole. Escluso costui, l' unico cardinale che cronologicamente può dirsi padre della Tullia è Luigi d' Aragona, ascritto al sacro Collegio da Alessandro VI nel 1493, promulgato solo nel 1497. Nato in Napoli nel 1474 morì in Roma l' anno 1519 e fu tumulato nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, ove vedesi tuttora il suo sepolcro con iscrizione fattagli fare dal cardinale Franciotto Orsini suo esecutore testamentario.

XX-1. Biagi G. Un' etèra romana, Tullia d'Aragona. (Nuova Antologia. Serie III, vol. IV, 16 agosto 1886).

XXI-1. Dice il Muzio:
Visse in tenera etate presso a l' onde
del più bel fiume che Toscana onori.

(Sonetto 1, v. 12-13, pag. 69).

XXII-1. Aretino P. Ragionamenti. loc. cit.

XXIII-1. Zilioli, in Mazzucchelli, loc. cit. Molto diverso è però il ritratto che ne fa il Giraldi, e dall' odio che palesa parlando della Tullia fa se non credere, almeno dubitare che invano abbia picchiato alla porta della bella cortigiana. « Non è alcuno di voi, per quanto io stimo, egli dice, il quale non habbia conosciuto Nana, così detta non perchè ella sia piccola della persona, ma per mostrare la sua sconvenevole et non proportionata grandezza, con voce di contrario sentimento. Questa di casa Aragona si fa chiamare quantunque io intenda che di madre vilissima e di quella medesima vita che ella è in alcune paludi sie nata senza che la madre le habbia mai saputo dire'chi suo padre si fosse. Venuta adunque nella nostra città, ove hora le pari a lei, per lo mal costume del nostro secolo, sono in più abondanza che non si converrebbe, si diè a fare guadagno di sè disonestamente, allettando i giovani con quegli adombrati colori di virtù, di che innanzi dicemmo. Et non pure traheva costei a sè i giovani con simili arti, i quali per lo più sono di poca levatura, ma così toglieva ella il senno ad alcuni huomini maturi e scientiati, che col promettere loro di lasciarli godere di lei, qualunque volta danzassero mentre ella toccava il leuto, facevano scalzi la rosina, o la pavana, o quale altra sorta di ballo più l' era grato et poscia beffandoli li lasciava del promesso scherniti. (Ecatommiti, nov. VII).

XXV-1. Passione d' amore di mastro Pasquino per la partita della signora Tullia e martello di amore delle povere cortigiane di Roma con le allegrezze delle bolognesi. (Tiraboschi, Stor. letter. ital. vol. VII, pag. 1172). Di pasquinate alla Tullia o nelle quali ella sia mentovata non ci consta che il Trionfo della lussuria di mastro Pasquino stampato nel 1537, ove però è ricordata la Tullia solo come molto favorita. Il Biagi ricorda ancora lo sconcio sonetto: « Mentre alla Tullia la madre ragiona » firmato F. C. che conservasi in due codici Magliabecchiani.

XXV-2. Biagi G. op. cit.

XXVI-1. « Considerando gli infrascritti cavalieri la virtù solamente esser quella che concede immortalità ad ogni animo generoso, liberandolo con la eterna fama da ogni oblivion che ne la labile e caduca memoria de li uomini aver loco possa, e che quella da ciascuno meritamente deve esser amata, reverita ed a quel sommo grado che per le umane forze sia possibile esaltata e tanto più quanto ella in persona si ritruovi di ogni altra grazia, e dono di fortuna e natura dotata; per tanto come veri fautori ed amatori di quella e per la verità della quale ogni nobil core deve sempre prender la protezione, e, quando in parte alcuna celarsi e occulta restarsi la veda, produrla in luce e qual chiaro sole farla a tutti risplendere ed apparire: non da alcuna altra passione o fine mossi ed indotti, si offeriscono non pregiudicando alle onorate leggi de la militar disciplina, a tutto il mondo, per un giorno valorosamente sostenere che la loro signora e padrona la III.ma S.ra Tullia de Aragonia per le infinite virtù quali in lei risplendono è quella che più merita che tutte le altre donne de la preterita, presente e futura etate; ed acciò che qualunque, de la sua immortal gloria invidioso, diversamente o parlasse o sentisse, possa presto certificarsi e risolversi; declarono detto sostenimento, doversi intendere totalmente secondo l' ordine de torniamenti de li antiqui e gloriosi cavalieri; e così gli inestimabili meriti de la prefata signora, se pure non fussino a sufficenza noti e chiari, secondo il dovere si manifesteranno a lo ardire e valor de li suoi servitori, similmente per tale occasione più celebri e palesi saranno, onde ciascuno poi non dubitano che confessare sarà costretto, sì come a loro non ritrovarsi cavalier di virtù superiori, così a la prefata signora pari o simile non esser mai stata o potere essere nei secoli futuri ». I sostenitori del valore della Tullia erano Paolo Emilio Orsini, Accursio Mattei, Brunoro Neccia, Alberto Rippe, Marco da Urbino, e Bernardo Rinuccini.

XXVIII-1. Il Muzio nell' egloga VI del IV libro intitolata Argia, dice che la Penelope ebbe per patria
L' orribil Adria e que' secreti stagni
che le palustri lor superbe canne
cercan di pareggiar ai nostri allori.
Là per quelle contrade umide e salse
a la dolce e vezzosa fanciulletta
i lascivi delfin festosi giri
tessean saltando intorno; a la sua culla
le Nereidi portavano e i Tritoni
conche da i marin liti e fresche perle.

E più sotto lo stesso Muzio ci fa sapere come da Venezia muovesse con la madre e la Tullia per Ferrara.
Indi pargoleggiar, su per le rive
fu vista un tempo del gran re de' fiumi;
poi come la guidava il suo destino
varcati d' Apennino i duri gioghi
tenne lunga stagione adorni e lieti
i poggi d' Arbia e le campagne d' Arno.

La sorella della Tullia morì di 13 anni ed 11 mesi nel febbraio del 1549 e fu sepolta nella chiesa di S. Agostino, innanzi all' altar maggiore. L' iscrizione sepolcrale è riportata dal Galletti e dal Forcella; in essa è chiamata Penelope Aragona, quasi la Giulia ferrarese per essere un tempo stata l' amante di un cardinale di casa Aragona avesse il diritto di chiamare Aragonesi anche i figliuoli nati parecchi lustri dopo che il buon cardinale aveva reso l' anima a Dio.

XXIX-1. Riportiamo per brevità solamente il brano della lettera alla Isabella d' Este che più particolarmente riguarda la Tullia. « V. Ecc. intenderà come gli è sorta in questa terra una gentil cortegiana di Roma, nominata la S.ra Tullia la quale è venuta per istare qui qualche mese per quanto s' intende. Questa è molto gentile, discreta, accorta et di ottimi et divini costumi dotata; sa cantare al libro ogni motetto et canzone, per rasone di canto figurato; ne li discorsi del suo parlare è unica, et tanto accomodatamente si porta che non c' è homo nè donna in questa terra che la paregi, anchora che la Ill.ma S.ra Marchesa di Pescara sia ecc.ma, la quale è qui, come sa V. Ecc. Mostra costei sapere de ogni cosa, et parla pur sieco di che materia te aggrada. Sempre ha piena la casa di virtuosi et sempre si puol visitarla, et è riccha de denari, zoie, colanne, anella et altre cose notabile, et in fine è ben accomodata in ogni cosa….. (Un' avventura di Tullia d' Aragona, nella Rivista storica mantovana, vol. I, fasc. I, fasc. 1-2, 1885).

XXXI-1. Anno Domini M.D.XLIII. indictione secunda die vero martis VIII mensis ianuarii. Silvester olim….. de Guicciardis ferrariensis contraxit matrimonium cum D. Tullia Palmeria de Aragonia per verba de presenti et anuli dationem et receptionem respective in forma iuris et sacrorum canonum et omni meliori modo, etc. Rogantes, etc. Actum Senis. -- Ego Sigismundus Mannius Ugolinius notarius rogatus. (R. Archivio di Stato in Siena, Scritture concistoriali, ad annum).

XXXIII-1. 1544. Die dicto (5 februarii) de sero.
Hieronymus de Ballatis Prior.
D. Achilles Orlandinus
Conterius de Sansedoniis
Franciscus Arongherius

….. et deliberaverunt declarare et declaraverunt D. Tulliam de Aragona Sen. habitantem, non esse comprehensam in statuto meretricium, dantes licentiam omnibus et quibuscumque personis locandi domos dicte domine Tullie, et absque aliqua pena, et mandaverunt fieri decretum dicte declarationis et licentie in forma. Et fuit factum infrascripti tenoris:
Spectatissimi Domini Executores Generalis Cabelle Magnifici Comunis Sen., convocati et congregati solemniter, etc., audito pluries Domino Aurelio Manno Ugolino procuratore et eo nomine Nobilis domine Tullie filie quondam Constantii de Palmeriis de Aragona et uxoris domini Silvestri de Guicciardis ferrariensis, producente eius mandatum manu Ser Sigismundi Manni notarii, etc., exponente qualiter praefata Domina Tullia ob novam compilationem Statutorum Reipublicae Sen., a nonnullis videlicet indebite et iniuste reputatur et diffamatur, eidem non licuisse nec licere deferre nec portare vestes et alia ornamenta muliebra que licite sunt et conveniunt personis honestis et nobilibus, et commorari et habitare in locis civitatis in quibus licitum est habitare omnibus personis honestis et nobilibus; et quia rei veritas est, quod praefata D. Tullia ducet vitam honestissimam et propterea ea que supradicta sunt sibi non debent quoquo modo esse prohibita, producente ad iustificationem predictum processum in Curia Domini Capitanei lustitie Civitatis Sen., manu ser Lactantii Lucarini notarii publici Sen., nec non decretum magnificorum D. Secretorum Officialium Balie manu Ser Alexandri Boninsegni Notarii publici Sen., et petente in, de ut super predictis de opportuno iuris remedio providero et pro iustitia consulente indemnitati prefate Domine Tullie, servatis servandis, omni meliori modo;
Habita plena notitia et clara informatione de omnibus supra narratis de vita, moribus et honestate et qualitate dicte Domine Tullie, visu processu predicto et summa inde lata, testibus in eo examinatis decreto predicto, et omnibus denique visis, auditis et consideratis que videnda et consideranda erant, vigore auctoritatis eisdem concesse a Statutis Reipublicae Sen., servatis servandis et omni meliori modo, etc., Solemniter deliberaverunt prefatam D. Tulliam minime comprehendi in Statuto de meretricibus et questus sui corporis facentibus desponente, sibique licuisse et licere commorare et habitare in quibuscumque locis civitatis ad suum libitum, et vestes ac habitum deferre prout et sicut et in omnibus et per omnia licuit et licet personis et mulieribus honestis et nobilibus, et ita sibi licentiam et facultatem concesserunt, mandantes de predictis sibi publicum fieri decretum, et illud inviolabiliter osservari a quibuscumque personis tam publicis quam privatis sub pena comminationis arbitri quibuscumque in contrarium non obstantibus, et omni meliori modo, rebus tamen stantibus pro ut stant et non aliter nec alio modo. (Archivio di Stato in Siena, Buste degli esecutori di Gabella, 1544 gennaio 1, 1545 giugno 30, c. 12-13).

XXXV-1. Die 23 augusti (1544).
Operta la cassa fu retrovata una politia et acusa del tenore susseguente, cioè:
La Signora Tullia de Aragona per la pascha di Spirito Santo portò la sbernia contro li statuti.
Ottaviano Tondi, Horatio Pecci, Il Signor Gaspare servitore del Signor D. Giovanni.
Vide in filo processum agitatum super vita causa ex quo apparet de sententia per quam fuit declaratum sibi licere portare sberniam istantibus omnibus, etc., (K. Archivio di Stato in Siena, Decreti, polizze, ecc. del Capitano di Giustizia del 1544, luglio-dicembre, c. 53).
I documenti da noi riportati a pag. XXXI-XXXVI furono rinvenuti nell' Archivio di Stato di Siena dal compianto Luciano Banchi.

XXXVI-1. Pecci G. A. Continuazione delle memorie storico-critiche della città, di Siena fino all' anno M.D.LII. Siena, Bindi, 1758, vol. III, pag. 143.

XXXVI-2. Sonetto XXXVI.

XXXVI-3. Biagi G. op. cit. -- Bongi S. Il velo giallo di Tullia d' Aragona. Estratto dalla Rivista critica della letteratura italiana, anno III, n. 3, marzo 1886.

XXXVII-1. « Le meretrici non possino portare vesti di drappo e seta d' alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse vorranno, et sia tenuta portare un velo, o vero sciugatoio o fazzoletto o altra peza in capo che habbi una lista larga un dito d' oro o di seta o d' altra materia gialla e in luogo che ella possa essere veduta da ciascuno; et tal segno debbia portare a fine che elle sien conosciute dalle donne da bene e di honesta vita, sotto pena se la ne mancheranno di scudi dieci in oro di oro di sole per ciascheduna volta che le trasgrediranno e sian sottoposte al Magistrato delli spettabili Otto di Balìa, alli spettabili Conservatori di Legge, et alli Offitiali dell' Honestà intra li quali magistrati habbi luogo la preventione da distribuirsi come l'altre pene che di sotto si dichiareranno. (Contini. Legislazione toscana, vol. I, pag. 332).

XXXVIII-1. Edita dal Bongi, op. cit., ed ancora dal Biagi.

XXXIX-1. Archivio di Stato in Firenze. Luogotenenti e Consiglieri di S. E. il Duca di Firenze. Deliberazioni, ad annum.

XL-1. « La S.ra Tulja d'Araona a fronte alle dette dee dar per sua tassa imposta come di sopra S.40--4 ». Archivio di Stato in Roma, Fabbriche camerali.

XLI-1. Il testamento fu rinvenuto nell'Archivio di Stato di Roma dall' archivista Cav. Costantino Corvisieri. --« Del 1556 a dì 2 de marzo. Al nome di Dio, &. Io Tulia de aragona sana per gratia di Dio de mente et intelletto benchè inferma del corpo volendo disporre dei miei beni acciò che doppo morte mia non ne nasca ad alcuno lite o scandalo, ordino et faccio il mio ultimo testamento et mia ultima volontà in questo modo che seguita, cioè: In prima racomando l'anima mia all'altissimo Dio et alla sua gloriosa Madre Vergine Maria et a tutta la corte del cielo. Lasso alla Lucretia mia creata moglie di Matteo hoste questo fornimento di camera cioè queste spalliere verde et questo letto ove io ora giaccio con suoi matarazzi, lenzuoli para uno et una coperta, fuorchè lo sparviere, et più una vesta di rascia negra usata aperta denanzi;
Item un roverso rosso nuovo, cioè una sottana de roverso, una saia biancha listata de pagonazo et una lionata, una montatura a la romana, cioè panno listato et lenzolo, dieci scudi d'oro et sia pagata del vino che io ho havuto da lei;
Item lasso alla putta Christofora mia serva sia vestita di panno ordinario negro et datole dieci scudi d' oro: item lasso alle povere orfanelle cinque scudi d' oro; item lasso alle monache convertite quella parte chelli viene in rigore della bolla: item lasso alla compagnia del crocifisso un paramento di taffetà negro leggiero semplice.
Item lasso a Santo Agostino un mezo scudo di cera ogni anno per ardere il dì de' morti a la mia sepoltura la quale se non serrà arsa alla mia sepoltura da i frati non sia obligato l' herede a darla più. Item lasso che ogni anno si dia mezo scudo per far dir la messa di San Gregorio per l' anima mia. Item lasso a mastro Panuntio medico una veste di rascia negra da medico che gli sia fatta nuova.
Item in tutti gli altri miei beni et in tutte le mie ragioni et attioni tanto presenti come d' avenire dovunque siano o saranno io instituisco e faccio e con la mia propria bocca nomino Celio che è in protettione de Messer Pietro Cioccha scalco del cardinale Cornaro, istituisco dicio et faccio detto Celio herede universale al quale lascio tutti i miei beni ragioni et attioni per ragione et causa de universale institutione con patto et conditione che detti miei beni siano venduti et fattone dinari siano posti in luogo chelli fructino nè possi disporre Cerlo nè altri della principal somma di detti dinari sinchè detto herede non sia all' età di anni venticinque, ma dell' entrata senne nutrisca et serva pep impa[ra]re littere et altre virtù. Et se detto herede (che Dio non voglia) mancasse inanzi all' età di venticinque lascio et substituisco herede in vita sua Messer Pietro Chiocca suo protettore con condittione che ogni anno dia dicci scudi a una povera orfana da maritarsi, il restante senne serva messer Pietro per i suoi alimenti et dopo la morte di messer Pietro Chiocca si stribuisca ogni cosa ad opere pie et queste debbiano essere le mie ultime volontà, et mio ultimo testamento li quali voglio che vaglino in virtù et forza di testamento et ultime volontà et se in tal modo per alcun rispetto non potesse valere, voglio che vaglia in virtù et forza di codicillo et di donatione infra vivi o per causa di morte et in quel meglior modo che di ragione può e potrà valere e sostenersi. Et per essere io impedita ho fatto scrivere questo da persona a me fedele et io l' ho sottoscritto di mia propria mano in fede della verità questo di 20 di marzo 1556.
Item lasso di essere sepelita in Santo Agostino e nella sepoltura di mia madre et mia et alle mie esequie non voglio altro che i frati di Santo Agostino et la compagnia del Crocifisso della quale io sonno, et sia sepulta a ventiquattro hore senza cerimonie, semplicemente.
Et lasso et instituisco con ogni miglior modo et forma che fare et instituire se puote esecutori di questo mio testamento il Reverendo vescovo di Tolone e Messer Mario Fregapane, i quali supplico per l' amor de Dio et per la fede che ho in loro signorie che vogliano doppo la mia morte fare eseguire a puntino queste mie ultime volontà per magior dechiaratione della quale io come di sopra ho detto mi sottoscrivo di mia propia mano.
Io Tullia Aragona affermo quanto sopra et instituisco herede universale Celio come di sopra ho detto. A tergo autem, ecc. L'entroacluso è il testamento di me Tullia Aragona il quale ho sottoscritto de mia propria mano et ligatolo con el filo et sigillatolo sopra esso filo il quale consegno a M. Virgilio Grandinelli notario pubblico presenti li testimonii sottoscritti da me rogati et non voglio sia aperto se non doppo la morte mia, et in fede di ciò mi sottoscrivo di mia propria mano. Io Tullia Aragona manu propria. Quorum testium etc. (Archivio di Stato in Roma, Not. A. C. vol. 6298, num. 69).

XLV-1. Il malevolo Giraldi scriveva di lei che aveva il viso non bello nè piacevole « il quale oltre la bocca larga et le labbra sottili era disordinato da un naso lungo, gibbuto et nella estrema parte grosso et atto a porre sommo difetto in ogni bella faccia s' egli tra le guancie vi fosse posto. (Ecatommiti, loc. cit.)

XLVIII-1. In una lettera datata di Venezia li 6 giugno 1537 e scritta allo Speroni esaltandogli il suo Dialogo egli diceva: La Tullia ha guadagnato un tesoro che per sempre spenderlo mai non iscemerà, e l' impudicitia sua per sì fatto onore può meritamente essere invidiata dalle più pudiche e dalle più fortunate.

XLVIII-2. Nella commedia del Razzi intitolata la Balia (Firenze 1560) in fine della scena VII dell' atto III leggesi:
LIVIO (padrone). Io non conobbi mai giovane di più alto animo di lei e di più elevato spirito.
BROZZI (famiglio). O degli uomini inferma e instabil mente! Pur ora la chiamaste puttana e femmina di mondo, ed ora per contrario dite tanto ben di lei?
LIVIO. Sarebbe forse la prima nobile e d' animo grande che è stata puttana? Che è stata la Tullia d' Aragona, Isabella di Luna e altre?
Anche il Lasca che pure si atteggia, benchè un po' tardi, ad amante della Tullia, nel XXII madrigale lagnandosi che la sua donna, anch' essa cortigiana
lodata ancor non sia
con dolce stile e soave armonia,


dice che celebrar si sente ognora
con gloria alta e divina
e Tullia e Totta e Fioretta e Nannina
che, bench' elle sieno oggi al mondo rare,
non si ponno agguagliare
alla Cecca gentil che m' innamora.

XLIX-1. Noli discedere a muliere sensata et bona, quam sortitus es in timore Domini: gratia enim verecundiae illius super aurum. (Eccl. VII, 21).

L-1. Cereseto G. B. Storia della poesia in ltalia. Milano, Silvestri, 1857. vol. I.

LII-1. Aretino P. Ragionamenti. Cosmopoli, 1660; parte I, giornata III. -- Graf. A. op. cit. pag. 19 e seg.

LII-2. Il Domenichi nelle sue Facetie, ecc. pag. 32, ricorda una disputa che alcuni cortigiani ebbero in casa dell'Aragona sui pregi del Petrarca.

LIII-1. Vedi nota a pag. 29.

LIV-1. Per i riscontri usiamo delle Rime di F. Petrarca con l' interpretazione di G. Leopardi e con note inedite di F. Ambrosoli. Firenze, Barbèra, 1879.

LV-1. Questo dialogo fu edito in Venezia dal Giolito nel 1547 in-8 e ristampato in Milano nel 1864 dal Daelli nella sua Biblioteca rara con prefazione di Eugenio Camerini (Carlo Téoli).

LVI-1. Il Meschino e il Guerino. Poema. In Venezia, per Gio. Battista Melchior Sessa, 1560, in-4.

LVI-2. Crescimbeni, op. cit., vol. I, c. 341.

LVI-3. Gordon di Percel. Biblioth. des Romans, tom. II, pag. 193. -- Crescimbeni, op. cit., vol. I, carte 331. -- Fontanini G. Dell' eloquenza italiana, lib. I, cap. XXVI. Zambrini F. Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV ecc. Bologna, Zanichelli, 1878. -- Melzi. Bibliografia dei romanzi di cavalleria in versi e in prosa italiani. Milano, Daelli, 1865.

LVIII-1. Produciamo a saggio del nostro asserto due sole ottave:

A Ma de l' ostier l' innamorata figlia
non potendo frenar l' accesa voglia,
ch' ognun dorma per casa il tempo piglia
e poi d' ogni timor lieta si spoglia:
disiando il camin di molte miglia,
non pensa che 'l Meschin se ne distoglia:
ponglisi a canto ignuda, e gli si accosta
nè fu pari a la voglia la risposta.

Sveglia messer Brandisio, e fagli offerta
de la da lui già ricusata preda,
de la qual poi che 'l francioso s' accerta
non sa s' ancor ben chiaramente creda
s' ei non esce a battaglia più aperta
dicendo: E basta che mi si conceda,
ridendo seco, e franco s' appresenta
di sorta tal che la mandò contenta.

LIX-1. Mentre il Meschino è condotto alla corte di Pacifero le guide ammirandone il femmineo volto gli chieggono se egli sia uomo o donna: inteso essere uomo gli manifestano l' uso del paese, che ricordava quello di Sodoma. Il Meschino si sdegna, e vorrebbe non entrare in tal corte, ma il re gli fa promettere che sarebbe rispettato, e l' accolse benignamente con ogni onore.

E poi la sera volse ch' egli andasse
a cena seco e fu sopra un tappeto
disteso in terra, e tal fu la sua asse;
ma quel lussurioso ed indiscreto
senza aspettar che più 'l Meschin cenasse,
per mano il piglia e con atto inquieto
lo sfrenato desir gli fa palese
onde 'l Meschin di collera s' accese.

Rinchiuso in prigione per non aver voluto soddisfare Pacifero, vien salvato dalla figliuola del re, che innamoratasi di lui va continuamente a trovarlo ove spesso.

….. abbraccia al Meschin suo la gola
ma ben che freddamente fosse centa
da lui nel mezzo con le braccia, fece
quel che stimar si può, ma dir non lece.

E dopo due sole altre ottave l' innamorata donzella apparisce gravida.

LXII-1. Cf. Rajna P. Richerche intorno ai Reali di Francia. Bologna, Romagnoli, 1872. -- Il Zambrini e il Melzi citano le edizione del Guerino nell'ordine seguente: Venezia 1473, Bologna 1475, Venezia 1477, ivi 1480, Milano 1480, ivi 1482. L' Aragona ignorava forse l' autore di esso che il Rajna afferma essere Maestro Andrea de' Magnabotti da Barbarino di Valdelsa maestro di canto.


RIME A TULLIA D' ARAGONA
[p. [69]]

1. Di Girolamo Muzio

Amor nel cor mi siede e vuol ch'io dica
   di qual esca racceso a l' alma mia
   sia 'l novo ardor, qual il suggetto sia
   ch' è de l' animo mio dolce fatica.

Alma gentil d' alti pensieri amica,
   lumi amorosi, angelica armonia,
   fan ch' ogni mio disir lieto s' invia
   per le vestigia de la fiamma antica.

Colei ch' io canto, nacque in su le sponde
   del chiaro fiume che d' eterni allori
   ben mille volte ornò le verdi chiome;

visse in tenera etate presso a l' onde
   del più bel fonte che Toscana onori:
   la sua stirpe è Aragon: Tullia il suo nome.

[p. 70]

2. Dello stesso

Donna che sete in terra il primo oggetto
   a l' anime amorose e ai gentil cori,
   e i cui gloriosi e alteri onori
   sono al mio stile altissimo soggetto;

in voi stessa si volga il chiaro aspetto
   de l' alma vostra, in cui degli alti cori
   risplende il bel, e 'n tutti i vostri ardori
   fiammeggiar si vedrà celeste affetto.

Vedrete in voi mirando l' alma mia,
   ch' in voi sempre si specchia e si fa bella,
   per infiammarvi in me del vostro lume.

E 'l farà sì, per quel che mi favella
   nel petto amor, se rio mortal costume
   dietro a bassi pensier non vi disvia.

[p. 71]

3. Dello stesso

Anima bella, che da gli alti chiostri
   fosti mandata in questo cieco inferno
   a consumar nel suggetto ampio e eterno,
   i più famosì e più purgati inchiostri;

mentre s' affannan gl' intelletti nostri
   a contemplar il tuo valore interno,
   con la voce e con gli occhi al ben superno
   gl' inalzi, e d' ire al ciel la via ne mostri.

Quincì è che quale ha in terra alma più rara,
   infiammata dal sol, ch' in te riluce,
   più lieta a te rivolge ogni pensero.

Ed io, poi che tua fiamma in me traluce,
   forse più ch' in altri soave e chiara,
   ne porto 'l cor d' eterna gloria altero.

[p. 72]

4. Dello stesso

Quando 'l raggio del bel, ch' in voi risplende,
   per l' orecchie e per gli occhi al mio mortale
   trapassa, o Donna, un chiaro ardor m' assale,
   che d' eterno disio tutto m' incende.

L' anima allor, che 'l novo affetto intende
   mover d' alta cagione, ogni mortale
   piacer schernendo, e al ciel battendo l' ale,
   verso l' amato lume il camin prende:

e com' aquila al sol drizzando gli occhi
   al foco vostro s' erge a la salita,
   dove alfin pace le promette amore.

Deh! siate larga a lei del bel splendore,
   e porgete al suo volo pronta aita,
   acciocchè inferma e cieca non trabocchi.

[p. 73]

5. Dello stesso

Mentre le fiamme più che 'l sol lucenti,
   onde amor m' arde e già gran tempo m' arse,
   vaghi occhi miei non vi si mostran scarse,
   mandate nel mio core i raggi ardenti;

orecchi miei, mentre bramosi e intenti
   notate 'l suon, che di su in terra apparse,
   e ne van le sue voci all' aura sparse,
   inviate a la mente i sacri accenti;

anima mia, mentre in mortale oggetto
   scorgi ch' eterno è quel che dentro avampa,
   allarga il seno al sempiterno zelo:

e vi rimembri che sì chiara lampa,
   sì soave tenor, spirto sì chiaro,
   sono a voi scala da salire al cielo.

[p. 74]

6. Dello stesso

Amore ad ora ad or battendo l' ale
   dal grave incarco leva il mio pensero,
   e nel conduce per erto sentero
   a gir in parte, ove uom per sè non sale.

E quivi ne l' oggetto alto e immortale
   gli dimostra l' esempio vivo e vero,
   onde discese il nostro spirto altero
   a dover informar cosa mortale.

L' anima accesa a l' eterna vaghezza,
   tutta s' accende a far novo disegno
   del bel, ch' entro dipinge il divo aspetto.

Ma come poi si move il basso ingegno,
   donna mia, per salire a tanta altezza,
   cade lo stile, e manca l' intelletto.

[p. 75]

7. Dello stesso

Superbo Po, ch' a la tua manca riva
   tutto lieto ti volgi d' ora in ora,
   per mirar lei, che le tue piaggie infiora,
   e ti fa in mezzo l' onde fiamma viva;

che fa la nostra, ho da dir Donna, o Diva,
   lei, che del ben del ciel l' alme innamora?
   Oh fosse lunga a lei la mia dimora!
   Pensa ella almen ch' io di lei pensi o scriva?

Deh! com' io dico ognor: foss' io con lei
   così fosse talora il suo pensiero,
   or che dee far di me privo il meschino;

oh vedesse ella aperti i dolor miei,
   ch' io so che di pietà quel spirto altero
   porteria gli occhi molli, e 'l viso chino.

[p. 76]

8. Dello stesso

Or di là se ne vien questa dolce ora,
   ov' è colei che col suo divo aspetto,
   mette dentro al mio cor l' ardente affetto,
   ond' ancor la sua vista mi ristora.

Oh se così potesse a ciascun ora
   essere a lei presente il mio imperfetto,
   come sempre la scorge il mio intelletto
   io sarei pur d' ogni tormento fora.

Che se dal mover di quest' aura io sento
   per sua virtù conforto a i miei martìri,
   ben dovrei seco sempre esser contento.

Battete l' ale o vaghi miei sospiri,
   e colà andando onde si parte il vento,
   a lei portate i miei caldi disiri.

[p. 77]

9. Dello stesso

Lasso, onde avvien che qui non fa ritorno
   il chiaro dì, sì come altrove sole?
   Non ci risplende il lume di quel sole
   che solo suole a gli occhi tuoi far giorno

Iu questo altrui sì placido soggiorno,
   perchè son le campagne ignude e sole?
   Non cì spira il favor de le parole
   che fanno a sè fiorir le piaggie intorno.

Poi ch' a te chiuse sono ambe le porte
   de gli occhi e de l' orecchie, anima mia,
   ond' esser può che più letizia speri?

Pensa misero a te, chi ti conforte
   che me al mio bene ad ora ad or n' invia
   il santo amor con l' ale de i pensieri.

[p. 78]

10. Dello stesso

Oh se tra queste ombrose e fresche rive,
   ch' or cercan solitarii i passi miei,
   meco ne fosse e con amor con lei,
   di cui 'l cor sempre parla e la man scrive;

ella a seder qui presso a l' acque vive
   si porria in grembo a l' erba, io in grembo a lei,
   e da i boschi trarriano i semidei
   al sacro aspetto e le silvestre dive.

lo lei mirando, a dir del suo valore
   snoderei la mia lingua, e alcun di loro
   segneria per li tronchi il chiaro nome;

ella gioìosa e umile in tanto onore
   forse di varii fior, forse d' alloro,
   tesseria una ghirlanda a le mie chiome.

[p. 79]

11. Dello stesso

Spirto gentile in cui sì chiaramente
   e ne la mortal parte e ne l' eterna,
   fiammeggia il sol de la bontà superna,
   ch' altro non è fra noi lume sì ardente;

mentre io con gli occhi e con l' orecchie intente
   raccolgo il doppio bel, che mi governa,
   sì vivo foco in me da voi s' interna
   che tutta illuminar l' alma si sente;

poi, non capendo in me l' immensa fiamma,
   convien ch' in alcun modo esca di fore,
   mostrando i raggi de la vostra luce.

Così da voi ne vien lo mio splendore,
   ch' ogni mio bel disio da voi s' infiamma,
   come 'l lume de' lumi in voi traluce.

[p. 80]

12. Dello stesso

Fiamma che chiaramente il mio cor ardi:
   aura che dolcemente mi ristori:
   spirto che alteramente m' innamori
   col valor, con la voce, con gli sguardi;

quante volte avvien ch' in voi riguardi,
   ch' io v' ascolti e ch' io pensi i vostri onori,
   tante mi sforzo a i sempiterni cori;
   ma 'l mio mortal fa poi che 'l gir ritardi.

O beata alma, angelica armonia,
   o vivo lume, che degli alti chiostri
   mostrate esempio a l' anìme terrene,

poi ch' a i sensi e nel cor m' avete mostri
   la bellezza e 'l piacer del sommo bene,
   aiutatemi ancor a l' alta via.

[p. 81]

13. Dello stesso

Spirto felice, in cui sì rare e tante
   grazie e virtuti il ciel largo comparte,
   che non so se si trovi in altra parte
   che d' andar teco a paro alma si vante:

s' a me facesser le sorelle sante
   del bramato lor don così gran parte,
   ch' io fossi degno di ritrarre in carte
   de la tua chiara effigie il bel sembiante:

so ch' io fare' un disegno sì perfetto,
   che saria specchio a la futura gente
   di quanto ben di su tra noi discende.

Ma, lasso, a tanto onor non mi consente
   il sacro coro: e da sè il mio intelletto
   sopra i fuochi celesti non ascende.

[p. 82]

14. Dello stesso

Donna se mai vedeste in verde prato
   surger felicemente un aureo fiore,
   cui porge nutrimento dolce umore,
   e vivace calor dal ciel gli è dato;

non altramente lieto e consolato
   fiorir si vede un' amoroso core,
   perchè 'l suo sole è 'l grazioso ardore,
   e la fonte è 'l favor del viso amato.

E come quel, se manca la rugiada,
   perduto il bel de le purpuree fronde
   convien ch' in breve spazio a terra cada:

così se rio voler o caso indegno,
   i suoi disiri altrui fura e nasconde,
   seccasi il fior d' ogni felice ingegno.

[p. 83]

15. Dello stesso

Il valor vostro, Donna, il cor m' incende,
   lega ogni mio disir, m' impiaga il petto;
   e l' alma del suo mal sente diletto,
   dal ben ch' ella in voi vede, ode e intende.

M' infiamma il divo raggio onde risplende
   il chiaro vostro angelico intelletto;
   da i novi accenti è avvinto ogni mio affetto,
   e da' begli occhi il colpo al cor discende.

E non ha Amor in tutta la sua corte,
   m' oda chi vol, sì graziosi sguardi,
   sì chiara voce, o sì vivace lume.

Perch' io pur prego lui, ch' ognor più forte
   con tal foco, in tai lacci e con tai dardi
   mi trafigga, m' annodi e mi consume.

[p. 84]

16. Dello stesso

O novo esempio de l' eterna luce,
   alma gentile, ond' ogni alma più rara
   mirando la beltà ch' in te riluce,
   del vero amore i veri effetti impara;

se del lume ch' in te dal ciel traluce,
   a l' alma mia non sarai punto avara,
   spero col raggio di sì altera duce
   farmi fiamma di fama al mondo chiara.

Te canteran mie rime in ogni parte:
   e diran que' ch' avran più vivo ingegno:
   qual fu quel foco onde tal lampo uscìo?

Amor promette a te ne le mie carte
   nome immortale. O così fosse degno
   ne le tue d' aver vita il nome mio!

[p. 85]

17. Dello stesso

In su le rive del superbo fiume
   ch' altrui già die' sepolcro in mezzo l' onde:
   ond' altri mutò il crine in verdi fronde,
   e altri si vestì di bianche piume;

invaghito del dolce altero lume,
   lo qual di cielo in cielo in voi s' infonde,
   e con sua luce ogni altra luce asconde,
   arse 'l mio cor oltra mortal costume;

poi sendo privo de gli amati rai,
   non so dove si chiuse il grande ardore,
   come fuoco ch' in cener si ricopra.

Or rivedendo il vostro almo splendore,
   l' antica fiamma, chiara più che mai,
   convien ch' in riva d' Arno si discopra.

[p. 86]

18. Dello stesso

Sogni chi vuol di riportar corona
   da gli alti gioghi del sacrato monte;
   altri s' attuffi nel famoso fonte
   che fa più chiaro e 'l nome d' Elicona;

sia gloria altrui se la sua lira suona
   aver le sacre Muse al cantar pronte;
   cinga altrui Febo la felice fronte
   de la fronde, che mai non l' abbandona;

altri si vanti che benigna e lieta
   stella, a lui rivolgendo il suo splendore,
   a questa luce il fece uscir poeta;

il mio Parnaso, il mio perpetuo umore,
   le mie Dive, il mio Apollo e 'l mio pianeta,
   è 'l valor vostro impresso nel mio core.

[p. 87]

19. Dello stesso

Donna gentile, i cui beati ardori
   del celeste splendore e del mortale,
   spargon virtù che mentre i cori assale,
   ne l' alme accende mille eterni amori;

se 'l vostro sole interno e 'l bel di fuori,
   a voi da me n' han tratto il mio immortale:
   e se Amore al mio stile impenna l' ale
   da gir portando al Cielo i vostri onori;

se cara sete a me più di me stesso;
   s' a voi ne volar tutti i miei sospiri;
   se con voi vivo e senza voi son morto;

se mi vedete 'l cor ne gli occhi espresso,
   e le mie pene, e i miei caldi disiri,
   ben dovreste pensare al mio conforto.

[p. 88]

20. Dello stesso

Quando, com' Amor vuol, la donna mia,
   tra soavi sospiri e dolci accenti,
   move la lingua a angelici concenti,
   e l' aura del bel petto a l' aere invia;

al suon de la dolcissima armonia
   ferman le penne i tempestos iventi;
   stanno i giri del ciel taciti e intenti;
   e non ch' altri, ma Febo il corso oblìa.

E qual alma mortal la mira e ascolta,
   ad ogni uman disìo tutta si toglie
   e con tutti i pensieri al cielo aspira.

La mia, che mai da lei non si discioglie,
   col vago spirto suo da Amore accolta
   a quel si stringe, e 'ntorno a lei s' aggira.

[p. 89]

21. Dello stesso

Ebbe la favolosa antica etade
   chi co 'l tenor di feri e dolci canti
   e con novo splendor di rea beltade,
   allettando affogava i naviganti:

e or donata ci ha l' alta bontade
   donna, che con l' ardor de gli occhi santi
   e con note d' amor e di pietade,
   rende porto e salute a l' alme erranti.

Voi, Donna mia, voi sete alma sirena
   voi, voi Tullia gentil, che fido lume
   nel mar d' amor porgete e placid' aura.

La vista vostra angelica, serena,
   fa ch' in voi l' altrui vita ognor s' allume,
   e 'l cantar d' ogni affanno ci restaura.

[p. 90]

22. Dello stesso

Già vide alle sue sponde il gelid' Ebro
   Orfeo cantare, e tacite ascoltarlo
   varie fere e augelli, e seguitarlo
   quercia, popolo, abete, olmo e ginebro.

Vista ha 'l gran Po, veduta ha 'l chiaro Tebro,
   vede 'l bel Arno, a cui sovente parlo
   quel che mi detta l' amoroso tarlo,
   cantar la donna, ch' io sempre celebro;

ma se colui seguiano e sassi e sterpi,
   questa ogni alma più dura e più silvestra
   trae dal grave suo incarco, e al ciel la scorge.

Beata voce, che dal cor mi sterpi
   ogni vil cura, onde per te s' addestra
   l' alma a salir ove per sè non sorge.

[p. 91]

23. Dello stesso

Donna, a cui 'l santo coro ognor s' aggira
   de l' alme Muse e la cui chiara fronte
   verdeggia de l' onor del sacro Monte,
   ove chi s' erge eterna vita spira:

qual anima gentil v' ascolta e mira
   brama far vostre grazie al mondo conte;
   poi non trovando rime al cantar pronte
   com' è la voglia, duolsi e ne sospira.

Di così bello, raro e alto suggetto,
   dal vostro infuori, ogni altro stile è indegno;
   quel sol n' è degno e altro non v' arriva.

Io per molto provar, vero disegno
   di voi non feci mai; ma dentro 'l petto
   ben vi porto scolpita, bella e viva.

[p. 92]

24. Dello stesso

La sembianza di Dio che 'n noi risplende
   di cielo in cielo e c' ha nome beltade
   e move Amor, per perigliose strade
   de l' orecchie e de gli occhi al cor discende;

perchè dal senso il senso il bello apprende,
   e 'n la natura nostra è qualitade
   ch' in mortal disiderio il mortal cade,
   e così bassa voglia il senso accende.

Ond' è ch' ingombro di piacer terreno
   entrando il mal fidato messaggero
   fa ne l' alma sentir del suo veleno.

Quinci è che talor cade il mio pensero;
   ma voi, ch' avete in man la verga e 'l freno,
   ne 'l ridrizzate per erto sentero.

[p. 93]

25. Dello stesso

Dal mio mortal co 'l mio immortal m' involo
   sovente o Donna; e da me stesso sciolto,
   al bel vostro splendor tutto rivolto,
   l' ali battendo al ciel mi levo a volo.

E lontanato dal terrestre suolo
   giungo a l' esempio de l' amato volto,
   donde è tutto quel bello in voi raccolto,
   che fa 'l mio amor fra gli altri in terra solo.

Deh! vi priegh' io per le bellezze vostre,
   Tullia, ch' al bel camin compagna eterna
   mi siate, senza mai voltarvi a dietro.

Ch' amor, s' ancor da voi tal grazia impetro,
   promette a noi tranquilla pace interna,
   e certa gloria a i nomi e a l' alme nostre.

[p. 94]

26. Dello stesso

Donna, più volte m' ha già detto Amore
   che nell' anima vostra i miei pensieri
   son tutti espressi così vivi e veri
   com' io voi, viva, ho impressa in mezzo 'l core;

e ch' accesi del vostro alto splendore
   ne van vostri disir cotanto alteri,
   ch' a mortal non convien che da voi speri
   altra mercede ch' immortal dolore.

Così dice egli, e io per prova il sento,
   che quant' uom più vi serve e più v' adora,
   voi del suo mal più vi mostrate vaga;

per tutto ciò d' amarvi io non mi pento:
   anzi bramo ch' in me più d' ora in ora
   veder possiate quel che più v' appaga.

[p. 95]

27. Dello stesso

Se ben gli occhi e l' orecchie alcuna volta
   vi mostran tale a i miei bassi disiri,
   che surgon dal mio core agri sospiri
   ond' è ch' al lamentar la lingua è sciolta;

tosto che l' alma in sè stessa raccolta,
   a l' alma vostra avvien che si raggiri,
   in diletto si cangiano i martiri
   e la mia lingua a ringraziar si volta.

Che la pena, che par che sì mi prema
   non passa oltra 'l mortal; ma la dolcezza
   acqueta i sensi e pasce lo intelletto.

Donna sia benedetta quella asprezza,
   ch' anzi 'l chiuder de gli occhi all' ora estrema,
   morire insegna al mio terreno affetto.

[p. 96]

28. Dello stesso

Donna, l' onor de' i cui be' raggi ardenti
   m' infiamma 'l core e a ragionar m' invita,
   perchè sia nostra penna mal gradita,
   l' alto nostro sperar non si sgomenti.

Rabbiosa invidia i velenosi denti
   adopra in noi mentre 'l mortal è in vita;
   ma sentirem sanarsi ogni ferita
   come diam luogo a le future genti.

Vedransi allor questi intelletti foschi
   in tenebre sepolti, e 'l nostro onore
   viverà chiaro e eterno in ogni parte.

E si vedrà che non i flumi Toschi,
   ma 'l ciel, l' arte, lo studio e 'l santo amore,
   dan spirto e vita ai nomi e a le carte.

[p. 97]

29. Dello stesso

Donna, il cui grazioso e altero aspetto
   e 'l parlar pien d' angelica armonia,
   scorgon qual alma presso a lor s' invia
   a contemplar il ben de l' intelletto;

deh, così amor non mai m' ingombri 'l petto
   d' umil disir, nè mai di gelosia
   gustiate 'l tosco: e sempre intenta sia
   a l' interna beltate il vostro affetto.

Date, vi prego a me vera novella
   de l' alma mia che del mio cor uscita,
   voi seguendo, è venuta a farsi bella:

che se da voi la misera è sbandita,
   ella senza voi stando e io senz' ella,
   non ritrovo al mio scampo alcuna aita.

[p. 98]

30. Dello stesso

Quai d' eloquenza fien sì chiari fiumi
   luce che d' alto ardor mio core incendi,
   ch' aguagli tua virtù? Se la' ve splendi
   a superno desio l' anime impiumi?

Come dinanzi a Borea nebbie e fumi,
   così di là, dove tu i raggi stendi,
   fugge ogni vil pensier, sì ch' a noi rendi
   la vita in terra de i celesti numi.

E poi ch' a me non son tuoi lumi scarsi
   di quel splendor, che da l' eterno regno
   in te disceso, tu fra noi comparti;

di quel c' ho dentro e fuor non può mostrarsi,
   faranno al mondo manifesto segno
   l' amarti, il celebrarti e l' onorarti.

Risposta al sonetto della Tullia; Fiamma gentil che da gl' interni lumi.
[p. 99]

31. Di Benedetto Varchi

Quando doveva, ohimè, l' arco e la face,
   l' una spenta del tutto e l' altro stanco,
   a questo ardito e tormentoso fianco
   per suo gran danno e mio, troppo vivace,

non breve tregua pur, ma eterna pace
   donar, poi che nel lato destro e manco
   per le nevi del capo omai vien bianco
   il crin fatto d' argento, che sì spiace;

più che mai fresco e più che mai cocente,
   mi saetta lo stral, m' accende il foco
   di tal ferite e così caldo ardore,

ch' ogni salute a mio soccorso è poco:
   anzi cresce la piaga e fa maggiore
   incendio, ch' al suo mal l' alma consente.

[p. 100]

32. Dello stesso

Donna, che di bellezza e di virtude
   e d' ogni alto valor gran tempo in cima,
   sola fra tutte l' altre non che prima,
   piovete ne' miglior senno e salute;

ben so ch' a dir di voi sarebber mute
   le lingue tutte: e qual prosa nè rima
   poria cose aguagliar, che poscia o prima
   non furon mai, nè saran mai vedute?

Tacciomi dunque fuor gelato e fioco,
   per tema di scemar sì chiare lodi;
   ma dentro infino al ciel notte e dì grido;

ringraziando le stelle, il tempo e 'l loco,
   gli sguardi, gli atti, le parole e i modi,
   che mi donaro a cor gentile e fido.

[p. 101]

33. Dello stesso

Io non miro giammai cosa nessuna,
   o in terra, o in ciel, ov' io non veggia quella,
   ch' amor in sorte e mia benigna stella,
   da le fasce mi diero e da la cuna.

Ogni nube m' assembra e sole e luna
   la mia donna gentil più d' altra bella;
   monte o valle non veggio, o poggio, ov' ella
   per lo mio ben non sia, ch' è nel mondo una.

L' erbe, gli alberi, i fior, le frondi, i sassi,
   mi rappresentan sempre, e l' onde, e l' ora,
   quel viso dopo il qual nulla mi piacque.

U' gli occhi giro, ovunque movo i passi,
   nulla non scorgo, o penso, o sento fuora
   di lei, che per bearmi in terra nacque.

[p. 102]

34. Dello stesso

Se di così selvaggio e così duro
   legno sì aspro frutto, ohimè, v' aggrada:
   chi fia ch' unqua vi miri e poscia vada
   di non sempre penar, Donna, securo?

Bench' io, poi ch' ognor più m' inaspro e induro
   del duol, cui lungo a voi fo larga strada
   de la mia pena sola, non pur rada
   fra quante sono al mondo e quante furo,

dovrei trovar pietà, ch' asprezza eguale
   o più selvaggia e solitaria vita,
   non sentì mai e visse alcun mortale.

Fera legge d' amor, sperar aita
   del dolor che n' ancide, e del suo male
   pascer l' alma, via più che saggia, ardita

[p. 103]

35. Dello stesso

Per non sentir la turba iniqua e fella
   così larga al mal dir, come al ben parca,
   da lei, che nel mio cuor siede monarca,
   non men cortese che leggiadra e bella;

non mio voler seguendo ma mia stella,
   parto col corpo sol, che l' alma scarca
   de la soma mortal meco non varca,
   ma riman seco obediente ancella.

E se quel, che fra me tacito e solo
   cantando vo' con più di mille insieme,
   per la Garza, e Forcella, e Tavaiano,

udisse pur un dì l' invido stuolo
   ben morria di dolor veggendo vano
   tornar l' empio ardir suo, ch' indarno freme.

[p. 104]

36. Dello stesso

Se da i bassi pensier talor m' involo
   e me medesmo in me stesso ritorno;
   s' al ciel, lasciato ogni terren soggiorno,
   sopra l' ali d' amor poggiando volo:

quest' è sol don di voi, Tullia, al cui solo
   lume mi specchio e quanto posso adorno
   la' ve sempre con voi lieto soggiorno,
   da santo e bel disio levato a volo.

E se quel che entro 'l cor ragiono e scrivo,
   del vostro alto valor Donna gentile,
   ch' avete quanto può bramarsi a pieno

ridir potessi, o beato, anzi Divo
   me, per me proprio tutto oscuro e vile
   se non quant' ho da voi pregio e sereno.

Risposta al sonetto della Tullia; Quel che 'l mondo d' invidia empie e di duolo.
[p. 105]

37. Dello stesso

Ninfa, di cui per boschi, o fonti, o prati,
   non vide mai più bella alcun pastore
   ver di Diana e de le Muse onore,
   cui più inchinano sempre i più pregiati:

così siano a Damon men feri i fati
   nè gli renda mai Filli il dato core;
   e ella arda per lui di santo amore
   più ch' altri fosser mai lieti e beati:

com' alma esser non può sì cruda e vile,
   la quale essendo veramente amata
   non ami un cor gentil già presso a morte.

Dunque s' a dotto no, ma fido stile
   credi, ama e non dubbiar, che ben pagata
   sarà d' alta mercè tua dolce sorte.

Risposta al sonetto della Tullia; Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati.
[p. 106]

38. Di Giulio Camillo

Tullia gentile, a le cui tempie intorno
   verdeggia avvolta l' onorata fronde,
   e la cui voce a l' armonia risponde
   di chi fa in Elicon dolce soggiorno;

qualora a voi fo col pensier ritorno
   e ritrovo semenze sì profonde
   in sì leggiadro stil, sì mi confonde
   novello orror, ch' in me più non soggiorno.

Vostra Musa di me cantando canta
   d' uno sterpo silvestro, a cui nemica
   stata è natura e 'l ciel, e io no 'l celo.

Ben è la vostra fortunata pianta,
   che lieto il Re de' fiumi la nutrica,
   e la rinforza il gran Signor di Delo.

[p. 107]

39. Dello stesso

Poi ch' a la vostra tanto alma beltade,
   onde pregiata d' onorate e rare
   spoglie di tante elette anime chiare
   n' andate altero specchio ad ogni etade;

piace ch' io ancor per le medesme strade
   seguir vostre amorose insegne impare;
   non siano almen vostre alme luci avare
   di quel raggio, ond' io scorgo ogni bontade.

E nel bel petto vostro Amor ispiri
   pietà e mercede al mio dolore eguale,
   e a gli ardenti intensi miei disiri;

poi se le aggrada il mio destin fatale,
   versi in me pur ognor doglie e martiri,
   che dolce mi fia sempre ogni altro male.

[p. 108]

40. Dello stesso

Ben fu tra gli altri avventuroso il giorno,
   quando l' eterno e gran re de le stelle
   fece, per fare il fior de l' altre belle,
   di voi, Tullia divina, il mondo adornc

Le grazie tutte e le virtuti intorno
   vi fur quasi devote e fide ancelle;
   e 'l ciel lasciaro per seguitarvi quelle
   in questo nostro umil, basso soggiorno;

però ripiena di celeste ardore,
   di gloria accesa e colma di mercede;
   vaga di bello e di perpetuo amore;

di grazia albergo e di bellezza erede,
   sola fra noi vivete in dolce amore,
   del ben del Ciel facendo in terra fede.

[p. 109]

41. Del Cardinale Ippolito De' Medici

Anima bella, che nel bel tuo lume
   divino interno ti rivolgi e giri,
   e indi in voce dolcemente spiri
   il suon ch' avanza ogni mortal costume;

onde la mia poi d' amorose piume
   coverta avien che al ciel volando aspiri,
   e nel tuo chiaro raggio aperto miri
   com' amor sani, ancida, arda e consume;

deh! se l' alta bellezza e 'l dolce canto
   ond' in te stessa sol beata sei:
   e s' amor punto mai ti piacque o piace:

prego volgendo in me 'l bel viso santo,
   al lungo penar mio dia qualche pace,
   e qualche tregua a gli aspri dolor miei.

[p. 110]

42. Dello stesso

Se 'l dolce folgorar de i bei crini d' oro,
   e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
   e 'l far dolce acquetar per l' aria i venti
   co 'l riso, ond' io m' incendo e mi scoloro,

son le cagion che per voi vivo e moro,
   piango e m' adiro e fo restar contenti
   gli spirti afflitti in mezzo i miei lamenti,
   e mi par dolce il grave aspro martoro;

non voi sì bella, io non così bramoso;
   voi non sì dura, io non sì frale almeno
   fossi; non voi d' amor rubella, io servo;

ch' io sperarei nel stato mio gioioso
   goder un giorno almen lieto e sereno,
   piegando alquanto il core empio e protervo.

[p. 111]

43. Di Bernardo Molza

Spirto gentil, che riccamente adorno
   de i più pregiati e cari don del cielo,
   cortesemente nel corporeo velo
   con tue virtuti fai lieto soggiorno;

deh! s' amor sempre a te faccia ritorno,
   di nove spoglie ornando, al caldo e al gelo,
   d' uomini e Dei il tuo onorato stelo,
   e cresca il valor tuo di giorno in giorno;

fa che 'l nobile tuo chiaro intelletto,
   sempre guardando a la più bella parte
   di sè, giammai non si rivolga a terra.

Ch' allor vedrai come natura ed arte,
   soavemente in te rinchiude e serra
   d' ogni bell' opra il seme e 'l bel perfetto.

[p. 112]

44. Dello stesso

Se 'l pensier mio, ov' altamente amore,
   Tullia gentil, vostra sembianza impresse,
   tutto altamente in sè voi tutta espresse
   dal piacer vinto, che mi strinse il core;

e tutta or vi risembra e a tutte l' ore,
   trasformando pur sempre in quelle stesse
   virtù, grazia c beltà, che vi concesse
   Dio, ch' in voi tutto intese a farsi onore:

non dovete voi dir ch' io sia deforme,
   ch' io son quello che son fatto voi
   bello, e non questa rozza e fragil scorza.

E spero ancor, seguendo ognor vostr' orme,
   essere appresso Dio 'l secondo poi,
   se 'l bello a trarre il bello sempre ha forza.

[p. 113]

45. Di Ercole Bentivoglio

Poi che lasciando i sette colli e l' acque
   del Tebro oscure e le campagne meste,
   d' illustrar queste piagge e premer queste
   rive del Po col piè Tullia vi piacque;

ogni basso pensier spento in noi giacque,
   e un dolce foco, e un bel disio celeste,
   quel primo di ch' a noi gli occhi volgeste,
   ne le nostre alme alteramente nacque.

Fortunate sorelle di Fetonte,
   ch' udir potranno a le lor ombre liete,
   i dotti accenti che vi ispira Euterpe!

Potess' io pur con rime ornate e pronte
   com' è 'l disio, dir le virtù ch' avete!
   Ma troppo a terra il mio stil basso serpe.

[p. 114]

46. Dello stesso

Vaghe sorelle, che di treccie bionde
   ornò natura e di fattezze conte;
   poi la pietà del misero Fetonte
   vi volse in duri tronchi e 'n verdi fronde;

or sotto l' ombre tremule e gioconde
   vostre sedendo, fo palesi e conte
   le gran beltà de la celeste fronte
   di Tullia mia, cantando a l' aure e a l' onde.

Così già sotto i vostri ombrosi rami
   cantò d' Onfale sua gli occhi e le chiome
   il vincitor de' più superbi mostri.

priego il ciel, che sì v' esalti e v' ami,
   ch' eterno sia con voi sempre il bel nome
   di Tullia scritto in tutti i tronchi vostri.

[p. 115]

47. Di Filippo Strozzi

Alma gentile, ove ogni studio pose
   natura in darvi a pieno ogni eccellenza,
   e fece il ciel quasi restarne senza
   per dar a voi quel bel, ch' a ogni altra ascose;

voi fra leggiadre donne e gloriose
   elesse sola; e per esperienza
   si vede altera andarne oggi Fiorenza
   de le belle opre vostre alte e famose.

Ma non solo Arno oggi vi loda e canta,
   ma dove ancora l' inesperto auriga
   cadde, di voi terrà memoria eterna.

Il Tever lascio, che tenera pianta
   vi nutrì, dolce essendo ogni fatiga
   a chi co 'l spirto e 'l core in voi s' interna

[p. 116]

48. Dello stesso

Uscendo 'l spirto mio per seguir voi,
   Donna gentile, in voi vera pietade
   spinse l' anima vostra a le contrade
   ond' egli uscìo, con che vivessi io poi;

tal che 'l splendor, che dite uscir tra noi
   di me, è propria vostra qualitade,
   concessavi da l' alta e gran bontade,
   per sembianza de i chiari raggi suoi.

Dove scorger si puote un dolce inganno
   veggendovi in me vaga di voi stessa;
   nè v' accorgete ch' io v' appago a punto.

Che se mi vi toglieste allora il danno
   mortal mio vedreste, e fora espressa
   la colpa vostra, send' io a morte giunto.

[p. 117]

49. Di Alessandro Arrighi

L' aspetto sacro e la bellezza rara,
   eguale a cui non ebbe il mondo ancora;
   il folgorar de gli occhi ch' innamora
   il mondo tutto, e quasi sol lo schiara;

il parlar saggio, onde la via s' impara
   di gir al chiaro e uscir dal fosco fora;
   e l' alto sangue, lo cui ammira e onora
   chiunque adorno è più di stirpe chiara;

i bei costumi, e 'l portamento adorno;
   e col dolce cantare il dolce suono
   che fan di marmo una persona viva,

fur le cagioni o donna, ch' in quel giorno
   stetti a mirare il bello, a udire il buono,
   in guisa d' uom che pensi, parli e scriva.

[p. 118]

50. Dello stesso

Come di dolce più che d' agro parte,
   Donna mi feste il dì, ch 'l colpo caro
   di voi impiagommi, onde sì ardente e chiaro
   foco poscia avampommi a parte a parte,

così men d' agro, che di dolce parte
   da me per guiderdon del dono raro;
   e giunge a voi per addolcir l' amaro
   vostro languir del tutto non che 'n parte;

il foco ch' io dovrei mandarvi ancora
   per render merce pari al degno merto,
   meco si sta, nè vuol partirsi un' ora.

Selva chiusa non è, nè campo aperto,
nè giardin culto, o poggio aspro o deserto,
che non sappian com' ei m' arde e divora.

[p. 119]

51. Dello stesso

S' il dissi mai ch' io venga in odio a voi,
   Donna, ch' io tanto pregio, ed è ben degno;
   s' il dissi che mai sempre ira e disdegno
   portiate in seno, e sol me stesso annoi;

s' il dissi che 'l mortale eterno muoi
   di me non mai giungendo al santo regno;
   s' il dissi sia d' amor prigione e segno
   de l' acuto suo strale, e preda poi.

Ma s' io nol dissi chi si dolce aprìo
   a me lo cor chiudendovi entro i raggi,
   non mai rivolga altronde il lume chiaro.

Io no 'l dissi giammai, nè dir disìo:
   vinca 'l ver dunque, e 'l falso a terra caggi,
   e 'n dolce amor ritorni l' odio amaro.

[p. 120]

52. Dello stesso

S' un medesimo stral duo petti aprìo:
   s' arse due cor d' amor un foco santo:
   se nascendo 'l piacer morì cotanto
   martir, che l' uno e l' altro già sentìo,

Donna, e s' insomma nudrì ambo un disio,
   ond' è ch' in me del dir vostro altrettanto
   non rivolgete sì, ch' io mi dia vanto
   d' esser d' uom fatto un' immortale Dio?

Forse si come sempre ebbi nimica
   la stella a i miei disir, così avien ora
   ch' io non goda e non sorti una tale brama.

O pur ch' ad alma sì saggia e pudica
   parlar di me basso suggetto fora:
   come che sia il bel vostro a sè mi chiama.

[p. 121]

53. Di Benedetto Arrighi

Voi che volgete il vostro alto disio
   a la chiara virtù, donde si coglie
   quelle onorate, sacre, sante spoglie,
   di che va altera e Calliope e Clio;

voi che schernite al tempo quell' oblio,
   che la fama immortale al nome toglie,
   colpa e vergogna de l' umane voglie,
   che non son come voi rivolte a Dio;

voi sol vi sete fabricato un tempio
   di glorie tal, che gli onori e trofei
   non pon lasciar di lui più chiaro esempio;

deh! così potess' io com' io vorrei
   le virtuti cantar, ch' in voi contempio
   memoria eterna a gli uomini e a li Dei.

[p. 122]

54. Dello stesso

Alma gentile che già foste al paro
   de l' alta e gran colonna, oggi si mostra
   in voi tutto l' onor de l' età nostra;
   in voi lo stil più che 'l suo dolce e caro;

al vostro stil, dov' io ch' al mondo imparo
   a riverir la chiara virtù vostra,
   ch' oggi solinga l' universo giostra
   non trovando di lei pregio più chiaro;

sì come un picciol lume alta chiarezza
   vince, così con vostre lodi sole
   lei vincete in virtute e in bellezza;

l' alto motor come 'l ciel ornar vole
   la terra, piacque a sua reale altezza
   Far Vittoria una Luna e Tullia un Sole.[122-1]

[p. 123]

55. Di Lattanzio De' Benucci

Se per lodarvi e dir quanto s' onora
   di voi natura e 'l ciel, Tullia gentile,
   fosse eguale al soggetto in me lo stile,
   e 'l saper pari a l' alta voglia ancora;

forse non tanto il secol nostro indora
   vostra virtute, e non dal Gange al Tile
   fate voi co' i begli occhi eterno aprile,
   quant' io n' avrei grazie e favori ognora.

Non può ingegno mortal tante divine
   virtù ritrar; nè può basso disìo
   scolpir parti sì eccelse e pellegrine,

che 'n voi il valor del vago petto e pio
   avanza ogni pensier, passa ogni fine,
   non che l' aguagli altrui parlare, o mio.

[p. 124]

56. Dello stesso

O fiumicel se 'l più cocente ardore
   estivo il lento tuo correr affrena,
   e la tua profonda umile arena
   incende e fa restar priva d' umore;

ecco a le rive tue novo splendore
   che l' aer d' ogni intorno rasserena:
   di colei, che cantando in dolce vena
   a le nove sorelle aggiunge onore.

Onde il vecchio Arno ormai d' invidia pieno
   lascia l' usato corso e a te rivolto,
   quivi perde le chiare e lucid' onde;

godi, or che vedi entro il tuo ricco seno
   la imagin bella del leggiadro volto:
   e Tullia odi sonar ambe le sponde.

[p. 125]

57. Dello stesso

Deh, non volgete altrove il dotto stile
   altera donna, ch' a voi stessa, poi
   che scorge il mondo esser accolto in voi
   quant' ha del pellegrino e del gentile.

Appo questo suggetto incolto e vile
   divien qual più pregiato oggi è tra noi:
   e co 'l splendor de' vivi raggi suoi
   chiaro si mostra ognor da Battro a Tile.

Voi dunque di voi sola alzare il nome
   dovete, poi ch' a sì pregiato segno
   giunger non puote il più purgato inchiostro.

Quindi vedrassi apertamente come
   non è di lode altri di voi più degno;
   nè stil che giunga al dolce cantar vostro.

[p. 126]

58. Di Latino Giovenale

Vide già la famosa antica etade
   nel palazzo reale alto di Roma
   donna empia sì, che fe' del carro soma
   al padre anciso, e spense ogni pietade.

Vede or donna real di tal beltade
   la nostra, e Roma, e da colei si noma;
   che chi mira i begli occhi e l' aurea chioma
   di piacer, d' amor empie e d' umiltade.

Questa sol per mio ben, per mio sostegno
   al mio imperfetto, a la fortuna avversa
   diede natura, e 'l ciel cortese e largo.

O gloria de le donne, o ricco pegno
   d' onor, d' ogni virtù ch' oggi è dispersa:
   deh! perchè non ho io gli occhi ch' ebbe Argo?

[p. 127]

59. Di Ludovico Martelli

Voi, che lieti pascete ad Arno intorno
   il vostro gregge fra leggiadri fiori,
   godete, poi che da i superni cori
   discesa è Tullia a far con voi soggiorno

sforzisi ognun co 'l crin d' alloro adorno
   gli altari empir de i più soavi odori;
   che per costei vostri tanti alti onori
   faranno ancor a voi degno ritorno.

Quest' è la vaga pastorella, ch' ebbe
   fra i più degni pastor del Tebro il vanto;
   del cui partir restar sì afflitti e mesti;

e poi che per voi sol non le rincrebbe
   lasciar le rive ove fu in pregio tanto,
   siate a cantarla e a riverirla presti.

[p. 128]

60. Di Simone Dalla Volta

Tullia, mostrò (?), miracolo, Sibilla,
   di cui si maraviglia il mondo e gode:
   mar di saver, che non ha fondo o prode,
   e mena l' onda sua lieta e tranquilla.

Da cui sì dolce umor, sì chiaro stilla
   di virtù vera ch' oggi rado s' ode:
   cui non guasta fortuna, o 'l tempo rode;
   men che quelle di Saffo e di Camilla.

Ma che dico io? Il vostro alto valore
   non si può comparare a cosa alcuna:
   perchè non che 'l poter, passa il disio.

Chi vuol vivo vedere in terra amore,
   divin, pien di virtù, miri quest' una,
   vera amica de gli angioli e di Dio.

[p. 129]

61. Di Camillo Da Monte Varchi

Mosso da l' alta vostra chiara fama,
   di cui per tutto il mondo il grido suona,
   vengo cantarvi anch' io Tullia Aragona,
   cui chi più sa, più sempre ammira e ama.

E s' adempir potessi ardente brama
   di salir l' alto monte d' Elicona,
   qual voi n' arrecherei degna corona,
   ch' al ciel vi porta, che vi aspetta e chiama.

Or voi più d' altra saggia e più gentile,
   degnate di pigliar quanto vi porge
   un ch' a voi consacrato ha ingegno e stile.

Ben so, vostra mercè, ch' altera e vile
   alma tanto non è, che quando scorge
   d' essere amata non divenga umile.

[p. 130]

62. Di Claudio Tolomei

Quando la Tullia mia che vien dal cielo,
   che d' altronde non può sì bella cosa,
   umilemente altera e disdegnosa,
   toglie al mondo 'l suo sol con un bel velo;

allora agghiaccia 'l fuoco ed arde 'l gelo,
   e Amor tremando l' armi in terra posa,
   vertù si fugge e cortesia sta ascosa,
   e spegnesi ogni ardente onesto zelo.

Ma s' avvien poi che a le tranquille ciglia
   ridendo levi il velo, allor più incende
   il foco e 'l ghiaccio è freddo in ogni parte;

virtù ritorna e Amor l' armi riprende
   ch' ella governa, e non è meraviglia
   ciò che può far 'l ciel, natura ed arte.

Sta nel: Libro quarto delle rime di diversi eccellentissimi autori nella lingua volgare nuovamente raccolte. In Bologna, presso A. Ciccarelli 1551, pag. 217.
[p. 131]

63. Di Antonio Grazzini (Lasca)

Se 'l vostro alto valor, Donna gentile,
   esser lodato pur dovesse in parte,
   uopo sarebbe al fin vergar le carte
   col vostro altero e glorioso stile.

Dunque voi sola a voi stessa simile,
   a cui s' inchina la natura e l' arte,
   fate di voi cantando in ogni parte
   Tullia, Tullia, suonar da Gange a Tile.

Si vedrem poi di gioia e maraviglia
   e di gloria e d' onore il mondo pieno,
   drizzare al vostro nome altare e tempï;

cosa che mai con l' ardenti sue ciglia
   non vide il sol rotando il ciel sereno,
   o ne' gli antichi o ne' moderni tempi.

[p. 132]

64. Di Nicolò Martelli

Se 'l mondo diede allor la gloria a Arpino
   d' eloquenza immortale alta e profonda,
   la vostra al nome egual gli vien seconda
   Tullia di sangue illustre e pellegrino;

il cui spirto reale almo e divino,
   sovra l' uso mortal di grazie abonda,
   in guisa tal che l' onorata sponda
   De l' Arbia, infino al ciel tocca il confino.

E 'l bel chiaro Arno ora di voi s' onora,
   l' antico fuor traendo umido crine,
   forma con l' acque in suon cotai parole:

qual luce è questa o beltà senza fine,
   che col sommo valor le rive infiora
   al gel, come d' april nel mezzo il sole?

[p. 133]

65. Di Ugolino Martelli

Se bella voi così le Grazie fero,
   che pari al mondo non fu mai nè fia;
   e se le muse con pietà natìa
   il dolcissimo latte ancor vi diero:

qual piena voce e qual giudicio intero,
   il valor giunto a somma leggiadria,
   e scorgere e cantar sì ben potria,
   ch' almen di lunge ne apparisse il vero?

Questi che vostri sono alteri onori,
   e fanno altrui veracemente adorno,
   scemar non può fortuna aspra e nimica.

E questa spero che di giorno in giorno
   averete con doti assai maggiori,
   di fosca e trista, omai lieta e aprica.

Risposta al sonetto della Tullia: I iù volte, Ugolin mio, mossi il pensiero.
[p. 134]

66. Dello stesso

Se lodando di voi quel che palese
   di fuor si mostra a le più strane genti,
   rare bellezze e disusati accenti,
   degne parole a ciò mi son contese:

com' esser vi potrà larga e cortese
   la lingua a dir, che non tema o paventi
   di tante ascoste in voi virtuti ardenti,
   Tullia, ch' amor divino al cor v' accese?

Bontà, senno, valor e cortesia,
   con l' altre mille insieme in voi cosparte,
   rozzamente contar forse potria;[134-1]

ma come rara e eccellente sia
   ciascuna d' esse in voi, con mille carte
   Mantova e Smirna a dir non basteria.

[p. 135]

67. Di Simone Porzio

Or qual penna d' ingegno m' assecura
   di poter appressarmi al gran valore
   di quella che di pregio alto e d' onore,
   ornarmi con sue rime ha tanta cura?

La debil pianta mia da sè non dura,
   e se prende crescendo alcun vigore,
   nutrita è dal fecondo vostro umore,
   che tal frutto non vien d' altra coltura.

Ma se di quella vostra le semente
   sempre mi trovo al petto, nè più spero
   sentir d' essa giammai cosa più degna,

scorgete adunque col giudicio interno
   che tutte l' altre voglie in me son spente,
   e vive quel ch' amor di voi m' insegna.

Risposta al sonetto della Tullia: Porzio gentile a cui l' alma natura.


LE AMOROSE Egloghe del Muzio Giustinopolitano alla signora Tullia d' Aragona

I. MOPSO

Mopso, solo.

Canti chi vuol le sanguinose imprese
   del fiero Marte, e d' onorati allori
   cinto le tempie a suon di chiara tromba
   desti i bianchi destrier, ch' in Campidoglio
   han da condur i purpurei trionfi;
   a me, cui 'l ciel non diè sì altero spirto,
   basta parlar tra le fontane e i boschi
   de gli onori di Pan; e che la fronte
   m' ornin le Ninfe d' edere e di mirti,
   mentre ch' al suon de le incerate canne
   fo risonar quella virtù che move
   dal vivo ardor de i lor splendenti lumi.

E or darà al mio dir ampio suggetto
   l' amor del pastor Mopso; di quel Mopso
   lo qual sacrato ha infin da i teneri anni
   i sensi e l' alma al tempio di Parnaso.

[p. 137]

Il buon pastor, cercando le pendici
   de i santi gioghi, ha con novella cura
   novo oggetto trovato ai suoi pensieri;
   nova materia ha data a le sue rime:
   che l' interno splendore e 'l chiaro viso
   de la bella Tirrenia il petto ingombro
   gli ha sì del suo piacer, che la sua lingua
   d' altro non sa parlar, nè può, nè vuole
   che di lei, ch' or gli siede in mezzo l' alma.
   Ei non potendo un dì 'l soverchio ardore
   chiuder dentro al suo cor, in tali accenti
   la strada aperse a la vivace fiamma.

MOPSO. Bella Tirrenia mia, che di bellezza
   avanzi i più bei fior di primavera,
   morbida più che tenera vitella,
   ch' ancor non ha gustato erba nè fonte;
   e delicata più ch' i bianchi velli
   di non tonduto pargoletto agnello;
   e più schiva d' amor e più fugace
   ch' innanzi a cacciator timida cerva:
   odi, bella Tirrenia: a queste ombrette
   meco t' assidi, e i miei sospiri ascolta.

Era ne la stagion ch' i verdi prati
   d' ogni intorno fiorian; fiorian le rose,
   e cantavan gli augei tra i novi fiori,
   quando prima ti vidi; e come prima
   ti vidi, così ratto al cor mi corse,
   mosso da la virtù de' tuoi bei lumi,
   con gelato timor caldo disìo.
   Da quel dì innanzi entro 'l mio petto chiuso
   ho continuo portato il foco e 'l ghiaccio.
   E già due volte le campagne aperte
   visto han d' intorno biondeggiar le spighe:

[p. 138]

   e due volte han veduto i salci e gli olmi
   le non lor uve su per li lor rami
   quai d' oro divenir, e quai vermiglie:
   e tu nel duro cor, ghiaccio nè foco
   crudel non senti, e non senti pietade.

Sappi, ninfa gentil, che dal suo giro
   Venere bella per ciascuna parte
   rimira aperte l' opre de' mortali;
   e qual pastor, qual satiro e qual ninfa,
   contra chi l' ama è disdegnosa e schiva,
   la santa Dea ne sente altero sdegno,
   e dimostrar ne suole agre vendette,
   arder facendo i lor gelati cori
   d' amor di tal, che gli disprezza e fugge.
   Che doglia, che tormento, alma mia cara,
   credi che sia l' amar chi te non prezza?
   O tolga Dio, ch' in così amaro stato
   i' ti vegga giammai; Tirrenia intendi:
   non voler contra te l' ira de' Dei
   mover sì leggiermente: ama chi t' ama.
   Ama il tuo Mopso, il quale lode immortali
   va cantando di te mattina e sera;
   e va segnando intorno i sassi e i tronchi
   del nome tuo per farti eterna e chiara.
   Ama 'l tuo Mopso, il qual e giorno e notte,
   o vegghi, o dorma, di te pensa e sogna:
   te rimira, te cerca e te disìa.
   Braman le pecchie gli odorati fiori:
   le molli gregge i rugiadosi paschi;
   brama 'l cervo assetato i chiari fonti;
   e te, Tirrenia, l' infiammato Mopso.

Mostra, ninfa gentil, il bel sereno
   de la lucida tua tranquilla fronte;

[p. 139]

de la cui vista l' aere e 'l ciel d' intorno
   d' ogni parte s' allegra e si rischiara.

Rivolgi a me i begli occhi: o occhi belli,
   occhi leggiadri, occhi amorosi e cari;
   più che le stelle belli e più che 'l sole:
   e a me cari più che armenti e gregge:
   più che la vita cari e più che l' alma.
   Occhi miei belli e cari, il chiaro lume
   volgete a me benigni: e non vi annoi,
   ch' arda del vostro ardor: e non v' incresca
   mirar talor com' io mi struggo e ardo.
   Oh ti fosse, Tirrenia, un giorno a grado
   di fermar così presso e così fisso
   que' tuoi begli occhi dentr' a gli occhi miei,
   ch' ogniun di noi facendo a l' altro specchio,
   con gli occhi suoi vedesse ne gli altri occhi
   il suo stesso ritratto e l' alma altrui.

Volgi a me gli occhi: volgi gli occhi e volgi
   il chiaro viso e le polite guance,
   le molli guance ad ogni aura tremanti,
   che fan tremar in me l' anima e i sensi
   di diletto, di voglia e di dolcezza.

Ma qual' è quel diletto e quella voglia?
   Qual la dolcezza che sentir mi face
   il veder e l' udir le dolci labbra?
   Quelle labbra amorose, dolci e care,
   or dolcemente chiuse, or dolce aperte,
   spirar per gli occhi e per l' orecchie mie
   a l' alma mia dolcissimo veleno?
   O misti insieme fior vermigli e bianchi:
   o sparso tra be' fior soave odore:
   o bramose mie labbra: o spirto ardente:
   o anima mia accesa: e qual desire

[p. 140]

   tutto m' infiamma? E qual' è quel conforto
   che mi promette il bel, che s' ode e vede?
   Apri, Tirrenia, le rosate porte:
   mostra, Tirrenia, i candidi ligustri:
   spargi, Tirrenia, in graziosi accenti
   l' ambrosia e 'l mel de l' amorosa lingua.
   Di', Tirrenia, una volta: te solo amo,
   al fedel Mopso tuo, che te sola ama.
   Dillo, Tirrenia, e scopri il caro seno,
   apri 'l giardin d' amor, dimostra al sole
   i dolci pomi e gli odorati gigli.
   Leva, Tirrenia, l' inimico velo
   ch' a te 'l tuo bel, a me 'l mio ben nasconde.
   Invido avaro velo: avara mano,
   crudo velo; man cruda e crudo core,
   che tanto bene a gli occhi miei contendi.

Ninfa crudele, e perchè con tant' arte
   sì fieramente a' miei desir contrasti?
   Ninfa crudele infin a gli occhi miei,
   a gli occhi miei, crudele, hai posto 'l freno.
   Deh, leva 'l velo omai, levane i nodi;
   leva la crudeltà del natio petto:
   lascia andar gli occhi vaghi al lor diporto
   tra i diletti di Flora e di Pomona,
   là' ve vaga beltà, bella vaghezza
   movon d' intorno le purpuree penne,
   e fan festa ad Amor, che la sua fede
   ha locata tra 'l bel de i cari pomi.
   Man bella, cara man disciogli il laccio,
   allarga il velo, o mano: a la man mia
   sii cortese man cara: a la mia sete
   porgi alcun refrigerio poi ch' invano
   prego 'l petto crudel, e 'nvano aspiro

[p. 141]

   a la beltà de le purpuree gote,
   invano al bel de le rosate labbra.

Ninfa bella e crudele, in cui combatte
   bellezza e crudeltà, come non hai
   qualche pietà di me? Le selve e gli antri
   piangono al pianto mio; meco si lagna
   eco non men del mio che del suo duolo:
   e sovente gli augei su per li rami
   muti si fanno a le mie doglie intenti:
   e le gregge rivolte a i miei sospiri,
   i paschi e i fonti mandano in oblio.
   E tu sola se' nuda di pietade.

Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia
   raccogli quel, che con le braccia aperte
   disioso t' aspetta; e nel tuo grembo
   ricevi lieta l' infocato amante;
   stringi 'l bramoso amante, e strette aggiungi
   le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto
   suggi de l' alma amata, e del tuo spirto
   il vivo fiore ispira a le sue brame.
   Giungansi insieme gli amorosi petti:
   premer si sentan le vezzose poppe,
   le belle poppe delicate e sode,
   dal petto ad amor sacro e sacro a Febo,
   non si ritengan più celate o chiuse;
   le belle membra tue morbide e bianche
   più che 'l cacio novello e più che 'l latte,
   ad amor le consacra: e al tuo amante
   qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,
   con lui cogli d' amore i dolci frutti.

[p. 142]

II. IL SOLE

Mopso, solo.

Già fiammeggiava presso a l' aurea Aurora
   il pianeta maggior nell' orïente,
   inargentando i nuviletti d' oro:
   quand' io, ch' avea col fischio e con la verga
   scorta mia greggia a i rugiadosi paschi,
   posto a seder sott' una antica quercia,
   notava intento il dilettevol suono,
   che d' intorno facean le pecorelle
   tondendo il verde de l' erboso suolo.
   Ed ecco l' armonia d' una zampogna
   sonar non lunge. Io da le dolci note
   tratto, e lasciando il mio maggior pensiero,
   in piè risorto, cheto, passo passo,
   ver là mi mossi, e vidi a piè d' un faggio
   sedersi un solo. E quanto gli occhi miei
   scorger potero in quella incerta luce
   mi parve Mopso; Mopso a cui le selve
   son testimonie quanto a l' alme Muse,
   e quanto ei sia ad Amor fedele amico.

[p. 143]

   E quale in pria mi parve, tal la voce
   e 'l chiaro giorno poi mostrolmi aperto.
   Quivi vago d' udir suoi dolci accenti
   dietro una macchia stretto mi raccolsi.
   E egli omai spuntando il primo raggio
   del novo giorno, al dir la lingua mosse,
   accompagnando il suon con tai parole:

MOPSO. Sorgi omai chiaro sole, e 'l ciel aprendo
   l' aer rischiara; e 'l mare intorno imbianca;
   la terra alluma; e 'l desiato giorno
   riporta a gli animali e ai pastori.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Se non hai sole e se colei non ave
   cosa simil, ben posso dir di voi,
   che tu se' a lei, ed ella a te simile.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Solo se' sol, ch' in tutti gli alti giri
   lume non è ch' al tuo lume s' aguagli,
   nè lassù fuoco v' ha che t' assimigli.
   E sola è sol in acque, in selve e in monti:
   la bella ninfa mia, ch' è così sola,
   che beltà non si mira a lei sembiante.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Quando cinto di raggi il capo biondo
   a noi ti mostri, fugge d' ogni intorno
   la cieca notte da l' ombrosa terra:
   e s' allegrano in piani, in poggi e in boschi
   le solitarie fiere, i vaghi augelli,
   e con gli armenti, pecore e bifolchi.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E quando 'l lampeggiar del divo lume
   a me si scopre, del mio tristo core
   si scuote intorno il tenebroso velo:

[p. 144]

   gioiscon gli occhi miei: l' anima mia
   tutta s' allegra e seco i miei pensieri;
   e meco gode il mio cornuto armento.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Poi come le montagne d' occidente
   ingombran la tua luce, e tu t' invii
   al tuo riposo là nei bassi liti,
   la fosca notte entro a l' oscuro manto
   involve 'l cielo, e involve gli animali,
   tenendo il mondo in tenebre sepolto.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E come del mio sol l' amata vista
   da me si parte, al dipartir di lei
   a me in un punto ogni mia luce è tolta.
   Il giorno mio sen va verso l' occaso
   e son sepolti in tenebrosa notte
   i miei pensier, il cor, l' animo e l' alma.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Da che tolta è dal ciel tua ardente fiamma,
   perchè 'l superno chiostro intorno splenda
   di mille ardori, non però ritorna
   il giorno al mondo infin che non ritorni
   tu, la cui luce ogni altra luce asconde.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E da ch' io de' begli occhi ho gli occhi privi
   perchè da mille belle e vaghe ninfe
   cinto mi vegga, non però s' aggiorna
   dentro al mio cor fin che colei non riede,
   il cui bel lume ogni altro lume adombra.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Qualor avvien ch' a la tua accesa face
   occhio mortal s' arrischi alzar i rai
   per ritrar forse l' alma tua figura,

[p. 145]

   la soverchia virtù del tuo splendore
   sì l' abbarbaglia, che smarrito e vinto
   ad ogni aspetto uman si trova infermo.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E io qualor a la mia ardente lampa
   mi riprovo d' alzar gli occhi e la mente,
   per farne poi ne i tronchi alcun disegno,
   il divo onor del rilucente oggetto
   sì mi confonde, che perduti i sensi
   non sento quel, che di me stesso io senta.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Poi quando più 'l tuo lume s' avvicina
   al mondo nostro, occhio del mondo eterno,
   e più drizzi i tuoi raggi sopra noi,
   arde la terra, e arde ogni vivente;
   e de la sete per colli e per piani
   mancar si veggon gli alberi e l' erbette.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E quando a me 'l mio amato sol s' appressa
   (il sol ch' è solo il sol de la mia vita)
   e fiammeggiando in me 'l suo lampo vibra,
   arde in me 'l cor, ardon miei accesi spirti,
   e 'n me s' infiamma un sì caldo disire
   ch' a me stesso mi sento venir manco.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Tu con la tua virtù non solo allumi,
   non solo incendi quel che fuor si scorge,
   ma dove umana vista non discende,
   dentro passando, fai pregno il terreno
   di tal semenza ch' i terrestri germi
   producon d' ogni intorno e fronde e fiori,
   onde si veston le campagne e i poggi.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

[p. 146]

E la virtù di lei non sol rischiara,
   non sol infiamma la mortal mia scorza,
   ma dove altro non passa che 'l suo sguardo,
   in me varcando, in me fa tal radice
   che poi germoglia in graziosa pianta,
   in cui fiorendo i miei gentil concetti
   fanno 'l mio col suo nome eterno adorni.
   Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Ma che parl' io? che fo? dormo o vaneggio?
   sì son col core al mio bel sole intento,
   ch' ad alta voce ancor chiamo e richiamo,
   e pur or sommi accorto ch' è tant' alto
   sorto 'l sol del mio sol sola sembianza.

Oh così fosse ai miei bramosi lumi
   sorto il lor sol. Tornato è 'l giorno al mondo
   non (lasso) a me, ch' a me non luce il sole,
   non s' apre il giorno a me se non si scopre
   colei, ch' è sola il sol de l' alma mia.
   Oh me infelice sovra ogni vivente!
   Sa l' universo, sanno gli elementi,
   san le ninfe e i pastor, sanno i bifolchi,
   san le fiere e gli augelli, e san le gregge
   che da tornare ha il sole e 'l giorno e quando;
   e sol io solo senza sole e senza
   alcun lume, di giorno in cieca notte
   vo brancolando: e non so quando o come
   mi ritorni a veder l' amato raggio.
   Ahi, lasso me dolente: or fosse almeno
   la notte mia tal notte, qual' è quella
   ch' al cader del suo sole al mondo sorge,
   ch' in quella dolce notte in ogni verso
   si posa in pace! Rive, prati e poggi
   valli, monti, campagne, selve e fonti

[p. 147]

   han dolce requie, e i miseri mortali
   quetan le stanche membra e ogni affanno,
   ogni fatica, mandano in oblio.
   Ma non è tal la mia, che cieco e solo
   vo intorno errando. E non han pace o tregua
   gli occhi miei, non i piedi e non la lingua;
   no 'l pensier, no 'l desir, non i sospiri.
   E s' alcun è che turbi l' altrui pace,
   io son quel desso; che son sol colui
   che col continuo suon de' miei lamenti
   ho già stancate le campagne e i colli.
   Almo mio caro sol, sarà giammai
   ch' io ti rivegga un giorno, un giorno intero?
   Un giorno che giammai non giunga a sera,
   e gli occhi affisi in te quant' io vorrei?

Ahi, lasso me: perchè, perchè non lice
   mostrar aperto il cor? perchè disdetto
   m' è 'l dir ch' io t' ami, se cotanto t' amo?
   Perchè disdetto a te l' amar chi t' ama?

Cotai parole, e altre sospirando
   e lagrimando, il doloroso Mopso
   spargeva a l' aura; e io che senza scorta
   lasciata avea la greggia e tuttavia
   sentia montando il sol montar il caldo,
   lui lasciai pur dolersi: il dolce canto
   fra me stesso membrando, e 'l petto pieno
   non di minor pietà che di dolcezza.

[p. 148]

III. IL FURORE

Mopso, solo.

Dive, ch'al suon de la dorata cetra
   del sacro Apollo, al glorioso fonte
   fate dintorno mille dolci giri,
   premendo il verde del fiorito suolo
   liete alternando le vezzose piante
   non senza l'armonia d'eterni versi:
   quella, ch'è Donna de le Donne, e Donna
   è del mio cor, o sante Donne, o Dive,
   vuol pur ch'io canti: e vuol che 'l canto s'erga
   sopra ogni bosco. Adunque perchè 'l canto
   sia canto degno di Donna sì cara
   movete insieme e con voi mova Apollo:
   mova tutto Elicona e si raccolga
   tutto lo spirto vostro entro al mio petto.

Oh de la mente mia lucido specchio,
   alma gentil fra le belle alme bella,
   in cui fiso mirando d' ora in ora,
   si fan dentr' al mio cor novi concetti,
   da partorir scrivendo in nove carte:

[p. 149]

   lietamente ricevi il novo frutto,
   che prodotto ha 'l germoglio del tuo seme;
   e mentre io fo sonar la mia zampogna
   al furor del tuo Mopso porgi orecchie,
   e nel furor di Mopso al furor mio.

Salita era la notte al sommo cielo
   e rilucea nel mezzo del suo cerchio
   la sorella di Febo, il bianco volto
   tutta splendente del fraterno lume.
   Taceva il mondo, in sè pe' lor vestigi
   tacite si volgean l' eterne spere;
   taceano i venti e 'l mar; tacea la terra
   e con lei piani e colli, e monti, e valli.
   Sol nel silenzio d' ogni alma vivente
   non tacea Mopso: e non taceva amore
   dentro al suo petto. Ei per deserte piagge
   da furor trasportato, solo e vago,
   errava intorno pur con gli occhi fissi
   ne la cornuta diva. E'n quello stato
   disse de l'amor suo cose sì nove,
   che ne suonano ancor le selve e gli antri.

MOPSO. Dove, dicea, mi scorge or la tua luce,
   candida luna, per solinghe strade?
   Tirar mi sento ove per gli erti gioghi
   rara di piede umano orma si scorge.
   Qual novo aspetto e qual novo desire
   verdeggia nel mio cor? La folta selva
   de l'odorate, verdi, ombrose piante,
   tutto m' empie d' orror e di diletto.
   E quel dolce ruscel, che mormorando
   fugge tra l'erbe e i fiori, a sè mi chiama.
   Ma donde viene il canto? E donde il suono
   che sì dolce lusinga l' aere intorno?

[p. 150]

   E così è dolce, che simil dolcezza
   non porge a me 'l belar de le mie gregge,
   nè sì soave è 'l suon de le mie canne.

Or ecco là che giovinette donne
   cinte le tempie di fronduti rami
   fan la nova armonia: ma che vegg' io?
   Non è tra lor, non è colei la mia?
   Ahi! m' è tolta la voce. Or chi l' ha scorta
   di mezza notte senza fida scorta
   da le rive del Po fra questi boschi?
   E che fa qui l'altero giovinetto
   c' ha la lira dorata e d' or le chiome
   e d' ogni vello ancor le guancie ha nude:
   misero: adunque? Adunque in cotal guisa?
   Or dove sono? E che fo? Vegghio o dormo?
   Non so ove sia: non so se vegghi o dorma.
   E s'io vegghio, è ella dessa o altra? Ahi, lasso,
   non conosco io la ninfa mia? La voce
   piena di melodia, gli ardenti lumi,
   il vago aspetto, il grazioso viso:
   gli atti soavi, i movimenti alteri:
   l'andar, lo star: la mano, i piedi, i panni,
   far la dovrian pur conta a gli occhi miei.
   E s'altro a me non la facesse conta,
   si la farìa quell' amoroso orrore
   ch'a l'apparir di lei m'ha l'alma ingombra,
   e quel desìo, che qui condotto m'have,
   u'condur non poteami altro desìo.
   Ma ch' è quel ch'odo, che da l'altre l'odo
   chiamar sorella e nominar Talia?
   Questo bosco di lauri e quella fonte:
   le donne coronate: il bel concento:
   l'aspetto più ch'umano? Or una, e due,

[p. 151]

   tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e nove,
   il numero conviensi…questo è 'l giogo
   de l'alme Muse: e queste son le Muse.
   E una n'è la mia. È la mia ninfa
   dunque una Musa, o son le Muse ninfe?
   O mia, come dir debbo, alma mia Diva,
   con quanto amor, con quanto studio ed arte,
   fra mortali discesa dentro a l'alma
   m'accendesti l'ardor; presso al cui raggio
   movendo i passi, a questo santo giogo
   mi trovo aggiunto. O mano, amata mano,
   tu mi tien, tu mi guida: o caro dono,
   bramato don, così ne foss' io degno.
   Tu con la tua sorella le mie tempie
   fai verdeggiar de l'onorata fronde
   perch' ogni mio pensier tutto verdeggia.

O sacri, vivi e lucidi cristalli,
   onde s' inaffian così rare piante,
   qual radice ha sentito il vostro umore
   e' ha virtù di produr pianta sì ferma
   che non le nuoce il più cocente sole:
   non la molesta grandine nè pioggia:
   non la crolla il furor di Borea o d'Austro,
   e non la tocca il folgorar di Giove?
   Qual radice ha sentito il vostro umore?
   Ne la sua pianta il verde eterno vive;
   vivono eterni i fior, vivono i frutti:
   nè muta vista per mutar stagione.
   Beato, eterno umor che liete e chiare
   fai le piante, le fronde, i frutti e i fiori;
   i' pur spengo di te mia lunga sete:
   e 'n te s' attuffan mie bramose labbra.
   O che veggio? O che intendo? Il cieco velo

[p. 152]

   tolt' è da gli occhi miei: m' è fatto amico
   il sacro coro, amico il santo Apollo.
   Pur or conosco io te fedel compagna,
   fedel mia guida e mia fedel maestra;
   Erato bella. Tu fin da la culla
   mi fosti a lato; tu la tua sorella
   fra le genti mertali in forma umana
   mi scorgesti a mlrar. Tu mi dimostri
   com' io lei segua, cui più sempre amando
   l'alma mia più verdeggia e più s'infiora.

Ma che novo desir mi punge il core
   di levarmi da terra? Oh, ch'i' mi sento
   mutar di fuori e farmi un bianco augello:
   le man, gli omeri, il capo, il collo, il petto
   tutti si veston di novelle piume;
   già comincio a cantar, già batto l' ali….
   non mi lasciar Talia, levati a volo;..
   Erato spiega al ciel l'aurate penne…
   date forza al mio ardir, che senza voi
   ogni mio sforzo alfin sarebbe invano.
   Già lasciato ho 'l terreno: altero e lieve
   sopra i nuvoli m' alzo e sopra i venti:
   già mi sì fa minor e terra e mare.
   Alma sorella del compagno e Dio
   de la mia Dea benigna, a te raccogli
   colui, cui la tua luce ha mostro il calle
   di gir al monte ove la via s'impara,
   che l'alme altrui conduce a più bel monte.

I' veggio aperte le dorate porte
   del gran giardin, ch' i muri ha di zaffiro;
   qui n'accoglie Diana; e qui n'envia
   per la verdura del suo bel verziero;
   qui la fiorita e verde primavera

[p. 153]

   move d'intorno, e va pascendo il verde
   del santo umor de la rugiada eterna;
   qui l' alma Clori e 'l suo diletto sposo
   spargendo a l'aere ognor novelli odori
   van dipingendo il variato suolo;
   qui non arde la state e qui non sfronda
   l'autunno i rami e non gli imbianca il verno;
   qui vive il verde eterno; eterni rivi
   di liquidi smeraldi i verdi prati
   van compartendo; al mormorar de l' acque,
   al soave spirar de le dolci aure,
   al tremolar de i verdeggianti rami,
   suonano in dolci e 'n dilettosi accenti
   mille amorosi eterni rosignoli.
   Qui s' odon risonar cetre e zampogne;
   immortai cetre e immortai zampogne;
   oh dolce vista, ed oh soavi note;
   oh tra 'l veder e udir dolci pensieri;
   qui, santissime Muse: qui Talia,
   qui, qui sia, Diva, eterno il nostro albergo.

Così diceva il forsennato Mopso:
   e così detto, muto e sbigottito
   stette buon spazio; e 'n sè fatto ritorno
   e raccolto lo spirto, alti sospiri
   dal cor traendo, intorno al molle tronco
   d'un tenero olmo tai parole scrisse:

Udite selve, udite Dei silvestri,
   odan le ninfe, oda ogni pastore.
   Ho veduto Elicona e 'l sacro bosco;
   ho veduto 'l licor ch' i nomi avviva;
   veduto ho Febo e le dotte sorelle,
   e Tirrenia fra loro; una di loro
   è la bella Tirrenia: ella m' ha tratto

[p. 154]

   al sacro bosco, e dal bosco a la fonte,
   e da la fonte al cielo: ella è colei
   che m' arde 'l cor; ella e colei ch' io canto;
   ella è il mio sole: ella è la mia Talia.
   Ed io sen Mopso. Pianta eterna vivi:
   e i nomi nostri eternamente serva.

[p. 155]

IV. TALIA

Mopso, solo.

Già risalito sopra l' orizzonte
   il pianeta d'amor dal terzo cielo
   fiammeggiando spargea l' aer sereno,
   il tempestoso mare, il duro suolo
   di chiari raggi e di virtute ardente:
   e destando le selve e le campagne,
   richiamava pastor, gregge e bifolchi
   a le zampogne, a i paschi e a gli aratri.
   Quando Mopso d'ardor l'anima acceso,
   posto a seder in una erbosa riva,
   al dolce mormorio di lucid' onde
   in sè raccolto, immobile e pensoso
   si stette alquanto; indi a sue dolci note
   rispondendo gli augei, le selve e l' acque,
   ruppe 'l silenzio in così nuovi accenti,
   che n'han fatto conserva i Dei silvestri,
   per dar lor vita in più ch' in una etade.

Or qual fosse 'l suo canto, a lei che desta
   ti tiene ognor a gli amorosi canti

[p. 156]

   fa che 'l ritorni a dir rozza zampogna;
   e sia tale il tuo suon, che degno sia
   de materia maggior che di zampogne.

MOPSO. Alme sorelle, che d' eterno grido
   rendete onor a chi col cor v' onora,
   se mai liete porgeste alcuna aita
   al suon de gli amorosi miei sospiri,
   or, che d'amor cantando è 'l mio pensiero
   cantar voi insieme (che di voi cantando
   canto 'l mio amor) a l'incerate canne
   ispirate sì dolce e chiaro suono,
   che sia 'l mio amor co' i vostri nomi eterno.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

E tu, mio santo e mio soave ardore,
   dotta e bella Talia, mentr' io m' affanno
   per voler dir di te, ne l' alta impresa
   porgi soccorso a la mia fioca voce:
   dammi ardir, dammi forza; alza 'l mio ingegno
   e con la cara mano un novo ramo
   fresco, verde, odorato, or ora colto
   dal sacro monte a la mia fronte avvolgi.
   Movi Talia, movete sante Dive.
   Movete o sante Dive a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Sorge in Boezia e non molto lontano
   dal gran Parnaso un onorato giogo
   che d'altezza e d'onor con lui contende;
   quest' è 'l santo Elicona, in cui verdeggia
   l' eterna selva sacra al sacro Apollo,
   d' uno e d'altro valor degna corona.
   Qui si monta per luoghi alpestri ed ermi;
   raro sentier v'appar, rari vestigi;

[p. 157]

   nè v' ascende uom mortal, cui 'l ciel non chiama.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Quest' è quel poggio, che fra gli altri poggi
   è de le Muse il più diletto poggio:
   qui 'l grande Apollo ispira entro a'lor petti
   quella virtù ch' a lui 'l gran padre ispira;
   ed elle l' alme elette a i Dei più care,
   chiamano al verde de l' amate piante;
   e chiamanle al licor del chiaro fonte;
   chiamanle al chiaro fonte d'Ippocrene,
   eterno onor del sangue di Medusa.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d'odorati allori.

Scritto è nel sasso antico, onde si versa
   la dolce vena, in ben limati versi,
   ch' un giovinetto che di pioggia d'oro
   fu conceputo, alzato un giorno a volo
   uccise lei, che con l'orribil vista
   rivolgea l'uomo in insensibil marmo:
   e che del sangue suo, mille veleni
   fur sparsi in terra; e fra i diversi mostri
   un'alato destrier subito apparve.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Questi nitrendo e dibattendo l' ale
   si levò in aere, e dopo un lungo corso
   pervenuto al bel giogo ond' io favello,
   volando tuttavia, nel duro masso
   percosse un' unghia, e quei ratto s'aperse
   larghi versando e liquidi cristalli.
   Apollo il vide, e 'l vider seco insieme
   tutte le nove Muse, ed egli, ed elle,

[p. 158]

   fede ne fanno a chi con lor ragiona.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

E quest' è 'l fonte in cui, cui 'l ciel non nega
   di poter pur bagnar le somme labbra,
   cantar si sente al par de i bianchi cigni.
   Qui conducon le Dive a cui interdetto
   non è 'l bel monte, e 'ncoronati e molli
   del santo rio gli rendono a'mortali,
   perchè rendano a ogniun degna mercede
   de le fatiche lor, de le bell' opre
   qual ornando di lauri e qual di mirti.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d'odorati allori.

Quinci discesi quegli spirti eletti
   sopra tutt' altri, con eterne lode
   or del fier Marte, or del soave Amore,
   cantano il sudor d'un, d'altro i sospiri.
   E per memoria de l' amato albergo
   aman le ninfe i poggi, i fonti e i boschi.
   Ed è ragion, ch'ancor quelle chiare alme,
   in rimembranza del lor nascimento,
   godon di luoghi solitarii ed erti.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Fra le selve Pierie il Dio dei Dei,
   quel ch' ad un cenno il ciel move e governa,
   d'amor acceso, in forma di pastore
   con la bella Nemosine si giacque.
   Era costei la più vezzosa ninfa,
   ch' in quella o in altra età, ninfe e silvani,
   tenesse al suon de le sue dolei note
   dolce cantando le memorie antiche,

[p. 159]

   e gli occhi avea stellanti e d' or le chiome.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Giacquesi con lei Giove, e tante notti
   giacque con lei, quante del santo coro
   son le dotte sorelle. E poi che Febo
   nove volte ebbe visto l'auree corna
   rifarsi al lume suo rotondo specchio,
   tante chiamò Lucina al suo soccorso
   la bella ninfa, e d'altrettanti parti
   madre divenne. O ben felice madre
   il mondo adorno ha il tuo fecondo ventre.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Venute in luce le felici piante,
   de' cui be' fiori e de' cui dolci frutti
   dovea goder il cielo e 'l nostro mondo,
   il sommo padre di sì bella stirpe
   tutto gioioso i teneretti germi
   degni intendendo di più degno suolo,
   che di suolo terren, fece pensiero
   di voler trapiantar la nova selva
   ne le splendenti sue felici piaggie.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

De' cieli d' uno in uno il re de' cieli
   donò loro il governo ad una ad una;
   e d' una in una a loro i nomi impose.
   Quella cui diede il cerchio in cui si mira
   errar d'intorno con cangiati aspetti,
   la dea de la cornuta e bianca fronte,
   fu la bella Talia, la cui virtute
   fa verdeggiando germogliar gl' ingegni

[p. 160]

   di verdura immortal di fiori eterni.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Toccò a Mercurio seguitar l' impero
   de la placida Euterpe, a la cui voce
   s' empion l' alme di gioia e di diletto.
   S' accompagnò con l' alma dea di Cipri
   Erato bella, che ne l' alme inesta
   quel caro germe ch' è chiamato Amore;
   e Melpomene ascese al quarto lume,
   e la spera di lui tempra e rivolve
   col canto suo, ch' è pien d' ogni dolcezza.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

L'ardente spirto del superbo Marte
   ogni orgoglio deposto, non rifiuta
   di dar orecchie a la famosa Clio.
   A Tersicore diede il re superno
   che de la stella sua fosse compagna,
   tutto invaghito di sua allegra vista;
   e di Polinnia gode il padre antico
   notando l'armonia del vario suono
   e la memoria de le cose belle.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d' odorati allori.

Urania su volando altera salse
   fra mille lumi, ed or in or s'aggira
   lieta del suo bel ciel cantando intorno.
   Calliope non ebbe proprio nido
   dal sommo padre: ei volle ch' in ciascuna,
   de l'altrui stanze fosse la sua stanza:
   e le buone sorelle a la sorella
   congiunte in dolce amor, in dolci accenti

[p. 161]

   cantando insieme fan dolce armonia.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Signoreggiano in cielo, e 'n su la terra
   han signoria quell' anime celesti:
   e ciascuna di lor da la sua spera,
   Calliope da tutte il lor valore
   spargon quaggiù ne i più chiari intelletti.
   E qual del divo spirto ha l' alma ingombra
   a lui s' apre Elicona: a lui le chiome
   cingono i lauri: a lui non si disdice
   spenger la sete al fonte d' Aganippe.
   Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
   cinte le tempie d' odorati allori.

Ma che novo furor m' ha 'l petto ingombro
   di voler col mio calamo palustre
   sonar di lor, ch'a i sempiterni Divi
   rotando tuttavia l' eterne spere,
   de le lor voci fan dolce concento?
   Mercè dive, mercè del novo ardire
   non vi chiamai nimico, e non mi vanto
   di cantar vosco a prova. Anzi 'l desio
   onde 'l vostro valor m' ha l' alma accesa
   mi mosse a ragionar de i vostri onori.
   Tornate, o sante Dive, a i vostri allori.

Tornate Dive; tornin l' altre e meco
   rimanga la dolcissima Talia;
   rimanti, o Diva, con colui che sempre
   teco è col core. O Musa a le mie rime
   basta la tua virtù. Tu 'l mio Elicona,
   tu 'l mio Parnaso se': tu se' 'l mio Apollo:
   tu con l' ardor de' begli occhi sereni
   accendi entro 'l mio cor sì chiaro foco,

[p. 162]

   che l' invidia del tempo in alcun tempo
   non potrà spegner mai la nostra luce.
   Tu con la soavissima favella,
   col dolce suon, con le celesti note
   e con la leggiadria del chiaro stile,
   me togliendo a me stesso, a dir m'invii
   cose, ch' i' spero, che fra questi boschi
   si serveranno ancor dopo mill' anni.
   E trovando Talia per mille tronchi
   scritto per la mia man, trovando Mopso
   scritto per la man tua, n'avranno ancora
   diletto e invidia la futura gente.

O che parlo? Il tuo aspetto a dir m'ispira
   quantunque io parlo; tu mia lingna movi,
   tu mi porgi i concetti e le parole.
   O mia musa, o mio amor. E qual fu mai
   più glorioso amor che la mia Musa
   è'l mio amor, e 'l mi' amor è la mia musa?
   Dolce amor, dolce musa: e non vaneggio:
   non è 'l mio sogno; no, che viva e vera
   ti veggio alma mia diva; e tal ti scorgo
   qual ti scorgono e Febo e tue sorelle
   a l' onde di Permesso; e qual ti scorge
   la sorella di Febo entro al suo giro.

Quant' è la gioia mia? Con voi ragiono
   riposti orrori e solitaria riva:
   e prego che fra voi si stian sepolte
   le mie parole: e voi piacevoli aure
   fermate l'ali e eco non risponda:
   non risponda eco a me, che la sua doglia
   mal si conface al mio gioioso stato.
   Chieggio silenzio, acciochè fuor non s' oda
   per la mia bocca l' alta mia ventura,

[p. 163]

   che d' invidia potria colmare altrui,
   Quella, ch' un tempo per l'erbose sponde
   de l' ampio laco de l' antica Manto
   fece tenor cantando al gran Menalca:
   quella, quella or risponde al vostro Mopso.

Volgi a me i lumi o diva, ch' in que' lumi
   godo del ben del ciel: la lingua snoda
   dolce mio santo amore; da quella lingua
   sente'l mio cor dolcezza più ch' umana.
   O dolce il veder mio s' eternamente
   gli occhi affisassi dentro a tuoi begl' occhi,
   e tu gli occhi affisassi a gl' occhi miei:
   o dolce udir, se 'l suon dolce e soave
   sonasse eterno dentro a le mie orecchie,
   dentro al cor penetrando, e dentr' a l' alma.
   O dolci i miei pensier, se al mio desire
   s'unisse il tuo desir con tanto affetto
   che fosse una la mia con la tua voglia.

O mia Diva, o mio amor, se del tuo amore
   e se del tuo favor tanto cortese
   sarai a l' alma mia, che le mie rime
   s' ergan sopra l'invidia, e i miei pensieri
   sian pensier di letizia, in su la foce
   del Formion, là dove il bel Sermino
   quinci le dolci e quindi le salse onde
   bagnan d' intorno, un venerabil tempio
   sorgeà al nome tuo; quivi i pastori
   soneran sempre a te cetre e zampogne:
   e di fior sempre, e sempre di verdura
   si trecceranno a te ghirlande fresche.
   E da i colli e da l' onde i Dei silvestri
   e le ninfe e i tritoni, incoronati
   di liete frondi, a te festosi giri

[p. 164]

   faran dolce iterando il tuo bel nome;
   e fra gli altri la bella, la più bella
   ninfa ch'abbia tutt'Adria in alcun scoglio
   Egida bella l' onorate tempie
   cinta di rami di felice oliva,
   Talia cantando, e 'l nome di Talia
   risonando d' intorno, e poggi e valli,
   sopra i sacrati altari in fochi eterni
   spargerà lieta a te con larga mano
   in sacrificio gli odorati incensi.
   Te col divo splendor de i lumi santi,
   col dolce riso e con la chiara voce,
   ferma o Diva, e col cuore il mio bel voto.

[p. 165]

V. LA LONTANANZA

Mopso, solo.

È glà gran tempo o Muse il mio suggetto
   l'amor di Mopso, e voi beate Dive
   sete 'l suo amore. Or il dolente Mopso
   dal dolce amato nido e dal suo bene
   fatto lontan, va empiendo selve e campi
   di dolor, di sospiri e di querele.
   Contan le ninfe che fra gli altri un giorno
   lungo la riva, su verso le fonti
   del vago Po salendo, a tali accenti,
   a sì pietosi, a sì dogliosi accenti
   allargò 'l fren, facendo in ogni verso
   gemer le sponde al nome di Talia;
   che le triste sorelle di Fetonte
   obliando 'l lor duol, al suo dolore
   porsero orecchie, e vinte di pietate
   largaro il corso a non usati pianti.
   Or qual fosse il suo pianto o santo coro
   ditelo a' boschi nostri, e non vi annoi
   di por le dotte e dilicate labbra

[p. 166]

   a le mal culte mie silvestre canne.
   E tu mio dolce duol, mia amara gioia,
   mio solo eterno amor, mia prima Musa,
   mentr' io cantando lacrimo e sospiro
   con pietate raccogli il triste canto.
   Incominciate o Dee: le selve e gli antri
   daran risposta al lacrimabil suono.

MOPSO. Lasso; quest' è ben dura dipartita;
   dura, crudel, amara dipartita,
   via più ch' assenzio amara e più che morte.
   Ed è ragion, ch' estremamente amaro
   mi sia 'l partir da lei che m' è più cara
   che la zampogna mia, più che l' armento:
   più che la vita cara e più che l'alma.
   Ahi, ahi! protervo amore di te mi doglio,
   protervo, iniquo e dispietato amore.
   Tu con fredde paure in van sospetti
   mi tenesti gran tempo, mentre ch' io
   lei per Tirrenia e per ninfa del Tebro
   amai languendo, ardendo e lacrimando.
   Poi che 'l favor de' più benigni divi
   salir mi fece il glorioso monte,
   e mi fece veder fra i sacri allori
   l' alto mio santo e dolce amore: e poi
   che tolto via il furor di gelosia
   alti e dolci pensier battendo l' ali
   m' inalzavano al cielo altero e lieto;
   hai tronco 'l volo a' miei gentil desiri.

Ahi lasso me dolente, e qual furore
   mi conduce ad oprar la rabbia e i denti,
   contro il benigno mio soave Iddio?
   Mercè Signor, dolce Signor perdona
   al soverchio martir che mi trasporta.

[p. 167]

   Tu la mia scorta se', tu 'l mio maestro;
   tu se' 'l mio onor e tu se' la mia palma;
   tu con la face tua m' hai mostro il calle
   d' ir al bel monte: tu con l' auree penne
   impenni i miei pensier; tu nel mio petto
   scolpita hai la dolcissima Talia.

Per tante grazie a te di sacro sangue
   spargerei d' or in or i santi altari,
   a te arderei gl' interi sacrifici,
   se non che tu (qual' è 'l tuo cor pietoso)
   di crudeltà nimico, il sangue aborri.
   Ma di quel, checchesia, che non rifiuti,
   di fior, di iode, e d' odorati fumi,
   la mia man, la mia lingua e la mia mente
   a te non sieno in alcun tempo avare.

Da dolermi ho di mia crudel fortuna,
   anzi di lui, che fa la mia fortuna.
   Di te m' ho da doler, di te Tirinto,
   crudel Tirinto, or se mai 'l petto caldo
   ti sentisti d' amor: se punto amico
   se' de le dotte Muse, il petto caldo
   pur ti senti talor, e eterno amico
   se' de l' amate Muse, ahi crudo, e come
   puoi scurar dal suo amor l' acceso amante?
   Come tòrre a la Musa il suo poeta?
   Ben ti dovria Tirinto esser a grado
   d' udir al suon di Mopso e di Talia
   risponder Eco: e l' una e l' altra sponda
   del tuo bel fiume: il tuo bel fiume e Eco
   ti pon far fede che da le pendici
   de l'alto giogo, onde 'l Dio del tuo fiume
   da l' ampio vaso versa i larghi rivi
   insin là dove, per diverse foci,

[p. 168]

   si scorga in Adria, in tutte le sue rive
   non ha 'l più santo ardor, nè 'l più gentile.
   E tu cerchi d' opporti a tale amore.
   O Tirinto crudel, se non ti move
   il mio dolore e 'l mio cocente affetto,
   di lei ti mova il grazioso sguardo,
   ch' acceso di desir tacendo grida,
   e per pietà pregando a te s' inchina.
   Movati 'l suon di que' pietosi versi
   in ch' ella amaramente sospirando
   riprega te per l' amorosa face,
   che 'l suo diletto Mopso a lei ritorni:
   sia pietoso Tirinto e sia sicuro
   che qual pastor, qual ninfa e qual bifolco
   non ha pietade a chi d' amor sospira,
   non gli ha pietade amor, quand' ei sospira.

Misero me, i' mi dolgo, e tuttavia
   dilungando mi vo dal mio desio,
   e per molto desio piango e languisco;
   e fo col pianto mio col mio languire
   pianger gli sterpi e fo pietosi i sassi.
   Fera ventura, veramente fera,
   che tu diva gentile e 'l tuo fedele
   esser debbiate eternamente insieme
   fermo suggetto a dolorose note.

Or il vago pensier va rimembrando
   quelle parole tue; quelle parole,
   quelle, quelle, quell' ultime parole
   che mi sterparo il cor, mi svelser l' alma.
   Ben è ragion ch' eternamente t' ami,
   e se verace amore, se ferma fede
   merta cambio d'amor, ragion è ancora
   che tu, mia vita, eternamente m' ami.

[p. 169]

Non sia mai luogo o tempo che disgiunga
   da me 'l tuo amor, che mai per luogo o tempo
   non sarà l'amor mio dal tuo disgiunto;
   meco sia 'l tuo pensier, che'l mio pensiero
   sempre è con te. Con me sia 'l tuo desire,
   che teco è 'l mio desir: sia l' alma tua
   sempre con me, che teco è l' alma mia.
   Così ci ricongiunga un giorno amore:
   e ricongiunga con felice sorte
   i pensieri, i desiri e l'alme nostre.

Lasso che 'l ragionar il pensier segue
   e ragionando ognor cresce la voglia,
   e crescendo la voglia il duol sormonta.
   Vago fiume, alte rive, ombrose piante,
   passò mai quinci, o qui mai si ritenne
   pastor alcun a cui sì tristi lai,
   sì cocenti sospir, sì largo pianto
   facesser fede del dolor suo interno?
   Ma degno è ben che mia lingua si dolga,
   e che sospiri il core e piangan gli occhi.
   È tolto agli occhi il sol de gli occhi santi;
   il sol, ch' è solo il sol de gli occhi miei,
   il sol, ch' oltre per gli occhi al cor passando
   tutto l'empiea di vivi ardenti spirti;
   di spirti che mia lingua a ta' suggetti
   movea sovente, che per avventura
   non son suggetti da ciascuna lingua.
   Or sendo privo di sì altero oggetto
   ragion è ben che 'l mio dolor sia solo;
   e che sia la mia lingua, il cor e gli occhi,
   lingua fioca, cor tristo e occhi molli.

l' vo dolente, e pur convien ch' io vada;
   misero Mopso ov' è la tua Talia?

[p. 170]

   Cara Talia, ov' è il tuo fido Mopso?
   O duro fato, o cruda dipartita.

Lasso, che importa a poverel pastore
   quel che facciano i ricchi, empii tiranni?
   Che tocca a me cercar l'armate squadre?
   Inique stelle: veramente i cieli
   contra me son giurati; e 'l fiero Marte
   ha tant' arme commosse e tanti sdegni
   per dipartirmi dal maggior mio bene.

O fortunati, a cui 'l terren natìo
   è fermo seggio e certa sepoltura:
   fortunati bifolchi voi se 'l giorno
   i buoi giungete e col gravoso aratro
   sottosopra voltate i duri campi,
   non v' è negato almen tornar la sera
   a le capanne vostre, a i dolci alberghi,
   a le dilette vostre compagnie.
   Voi non arate il periglioso suolo
   del tempestoso mar: voi gli alti gioghi
   non varcate giammai de l' orrid' alpi;
   voi non bevete le straniere fonti.
   È 'l lungo cammin vostro a la cittade,
   a la città, al mercato; e quindi il sole
   che v' ha condotti ancor vi riconduce.
   Voi fortunati e sfortunato Mopso:
   ei da quel dì ch' al sol pria gli occhi aperse
   non ha potuto ancor pur una volta
   dir: qui sarà domane il mio soggiorno.
   Ma da la patria ad estrani paesi
   dal Tebro a l' lstro e dal Po alla Garonna,
   d' oltre il Carnaio a l' ultimo Oceano,
   e dal Vesuvio a gli alti Pirenei

[p. 171]

   errando ognor, è stato a tutte l' ore
   perpetuo strale a l' arco di fortuna.

Misero Mopso! O patria, o patria cara;
   o grande Antiniano, o bel Sermino,
   o vago Formione, o scoglio amato
   quando sarà ch' io vi rivegga e dica:
   quel poco omai di vita che m' avanza
   mi vivrò pur tra voi, ch' è quel ch' io bramo?
   Il grande Antiniano, il bel Sermino
   il vago Formion, l' amato scoglio
   a me è Talia. Talia mi renda 'l cielo
   ch' è Talia la mia patria e 'l mio riposo.

[p. 172]

VI. LA SCONCIATURA

Mopso, solo.

Torniamo, o Muse, ai pianti e ai sospiri:
   nostro soggetto or son sospiri e pianti.
   Il vostro Mopso si consuma e strugge.
   Or mentre io ch' io con lui mi lagno e ploro
   seguite o dive le dolenti note.

FEDEL mio, se 'l mio Mopso men fedele
   fosse in amor, i' vi so dir per vero
   che fora la sua vita men dolente;
   ma suo costante amor sua ferma fede
   di vento di dolor, d' amaro umore
   gli tien ognor il petto e gli occhi pregni;
   e voi il sapete pur, ch' alcuna volta
   gli occhi affissate in lui tutto pietoso.
   Or se la vista del suo aspetto solo
   può pietade inestar ne gli altrui cori,
   che dovran far i dolorosi lai?

Il miserel ad or ad or s' invola
   al vulgo e ai pastori; e in qualche bosco
   in qualche antrc riposto si raccoglie;
   quivi s' asside, e quivi s' accompagna
   or con un tronco antico, or con un sasso:

[p. 173]

   e di sè privo, col pensier dipigne
   il dolce amato viso; in quel ritratto
   gli occhi e l' animo affisa: in quel si specchia;
   con quel ragiona; e quel tanto ha di pace
   quanto 'l ritiene il dilettoso inganno.
   Poi ch'in sè è ritornato, il duolo immenso
   non capendo ne l'alma, si disgombra
   per lo petto, per gli occhi e per la lingua
   in spirti accesi, in lacrimosi rivi,
   in fiochi, rotti ed angosciosi accenti.

I'pascea un dì 'l mio armento per le piagge
   del bel Tesin: e così passo passo
   per la sua riva errando, il piè mi scorse
   là ov'io sentì dolersi quel meschino
   con le fere, con l'acque e con gli sterpi.
   E quanto con la mano ir seguitando
   potei 'l suo dir, le triste sue querele
   diedi a serbar ad una antiqua quercia.
   Or a voi di ridirle è'l mio pensiero:
   e voi cui talor visto ho'l petto caldo
   di caldo amore, e che di vera fede
   portate il nome, con pietate udite
   gli acri lamenti del fedele amante.

MOPSO. O mia cara Talia, m' ha dunque il cielo
   disposto ad amarti perch' amando i' pera?
   Ben poss'io dir che quanto gira il sole
   non ha la nostra età più ardente foco:
   non più gentil, non più lodevol foco
   che sia 'l mio foco, e posso dir ancora
   che non ha 'l mondo e non ha 'l secol nostro
   alcun del mio più sventurato amore.

Bella, vaga, gentil, dolce Talia,
   vaga e dolce Talia, ma non men cruda

[p. 174]

   che vaga e bella e che dolce e gentile:
   perchè crudel? Perchè se tante voci
   e se tanti sospir, se tanti pianti
   ti mando d' or in or giù per quest' acque,
   alcun tuo accento a me non mai ritorna?
   Perchè s' ami 'l tuo Mopso, a le sue pene
   non hai pietate? E se pietà ti move,
   chè non porgi al dolente alcun conforto?

Misero Mopso, e sarà dunque il vero
   quel, che per tutti i boschi ognor ribomba
   del breve amor, de' mal fermi pensieri
   del sesso feminil? Ahi! dunque lasso
   avrò senza 'l suo amor da stare in vita?
   Non sarà il ver, sebbene e pastorelle
   e Ninfe, e Driadi e Naiadi, e Napee
   son di mobil voler; però non voglio
   dir che sia 'l suo così mutabil core.
   Non è la mia non è cosa mortale,
   non Naiada, non Driada od altra Ninfa;
   ma de l' eccelse eterne abitatrici
   de le spere celesti, una di loro
   è la mia diva: e col suo divo spirto
   nel cor mi spira l' alte cose belle.

O pur non sia fallace il creder mio.
   Or mi sovvien, ch' ancor de l'alte dive
   son mal stabili i cori. E quante volte
   mutò voglia e amor la dea di Cipri,
   la dea del terzo ciel? Di lei mi taccio.
   Ma la bianca, la fredda e casta luna
   come fu fida, lasso, al fido amante?
   Il sanno gli alti boschi, ch' alcun tempo
   vider Pan lieto e tristo Endimione.
   Mal fida luna, avara luna; e troppo

[p. 175]

   grande argomento de l' incerta fede
   de le mutabil, de l' avare voglie
   del femineo desir. Chi mi conforta
   in sì novo dolor? Su per le rive
   del vago Po non mancano i pastori:
   non mancano i leggiadri e bei pastori,
   non i ricchi pastor di grassi armenti.

Ma non di gregge mai, non mai d' armenti
   vidi vago 'l suo cor. Gli umil disiri
   sdegna quell' alma sopra ogni alma altera.
   Non per fior giovenil, non per tesoro
   apron le sante Dive il santo monte.
   Nè per fior giovenil, nè per tesoro
   dee la mia Diva altrui largare il petto.
   Caro a Talia di Mopso è il dolce canto
   pien d' alti spirti e di gentili ardori.

Or non ha 'l Po di più soavi note?
   Di più gentil, di più leggiadri spirti?
   Dolente me: di quanti or mi sovviene
   chiari pastor ch' alberghin per le sponde
   dov' alberga 'l mio ben, tante punture
   mi sento al cor. Ahi! ch' ella non rivolga
   gli occhi altrove e l' orecchie e i pensieri.

Chiari pastor, deh! no, deh! no per Dio,
   tant' oltraggio al buon Mopso. O Musa, o Diva:
   o mia Musa, o mia Diva, il tuo buon Mopso,
   il tuo devoto il tuo costante Mopso,
   il tuo sincero il tuo verace amante,
   il tuo fedel pastor il tuo poeta,
   vive egli, o Diva, caro e solo albergo
   de la sua vita? Ei vive, s' in te vive
   la memoria di lui, s' a l' alma sua
   dal petto amato non hai dato il bando.

[p. 176]

Ahi, qual fora 'l mio stato o triste core,
   (tolga Iddio tale augurio) quale stato
   fora 'l mio s' a la mia dolce Talia
   fosse a grado d' udir ch' altri che Mopso,
   mia le dicesse. O pria fra questi boschi
   aspra, selvaggia fera, e l' unghie, e i denti
   contro me adopre: l' affamate voglie
   di mie tremanti membra e del mio sangue
   sbramando fiera e pia, finisca a un punto
   il mio amor, il mio duolo e la mia vita.

[p. 177]

VII. TIRRENIA

Cosa propria d' amante è, Nobilissima signora mia, desiderare di esser sempre e interamente unito con la persona amata, e di qui è che oltra il desiderio il quale io ho che l' anima mia sia con la vostra indissolubilmente congiunta, bramo ancora che i nomi nostri insieme siano eternamente letti e che insieme vivano chiari e immortali. E per tanto, oltra le molte altre rime alle quali l'amor vostro m'è stato Elicona e voi stata mi sete Musa favorevole, mi è novamente venuto fatta una mia composizione per avventura più affettuosa che artificiosa, nella quale ingegnato mi sono di far un disegno di voi più particolare che altro il quale insino ad ora io abbia visto che sia stato fatto da altrui. E se io non ho così dotta mano che di voi possa fare un vero ritratto, penso avervi almeno ombreggiata in maniera che siccome
[p. 178]
dalle ombre delle bellezze superiori gli animi nostri di grado in grado al disio della vera bellezza sono tirati, così da questa ombra da me fatta di voi, i più gentili spiriti potranno salire alla considerazione di quel vero ch'è in voi; or quale che ella si sia, tale la vi mando nè altro vi dirò se non che se un altra figura poteste vedere con gli occhi corporali la quale io porto già gran tempo nell' animo e di quella farne comparazione con voi stessa, sono securo che voi medesima non sapreste discernere se in voi o in me sia più vera l' imagine di quella forma ab eterno conceputa nella mente di Dio, alla cui simiglianza vi fabricò natura quando ella volse

Mostrar quaggiù quanto lassù potea.
[p. 179]

Interlocutori: DAMETA e TIRSE

L'erboso prato e i verdeggianti allori,
   l' aura soave e 'l bel rivo corrente,
   m' invitan seco a far lieto soggiorno
   e ragionar del mio soave foco.
   Muse, Muse, mentr' io di lei favello,[179-1]
   avvolgetemi alcun di questi rami
   intorno al crine, e non mi siate avare
   del favor vostro: i' canto il vostro onore.
   E tu, Titiro mio, mentr' io ricorro
   quel che mi detta Amor, le mie parole
   va ricogliendo, e 'n quel surgente tronco[179-2]
   le ripon di tua man; col tronco insieme
   surgeranno il suo nome e i nostri amori.

T. Dunque avrò da lodar la mia fortuna,
   che qui a quest'ora ha volto il mio camino;[179-3]
   che, se brami Dameta ch' el suo nome
   per le piante si legga, non ti dee
   noiar che Tirse, tuo fedele amico,
   l' oda sonar ancor per la tua lingua.

[p. 180]

D. Tu se' qui Tirse? Anzi a me è caro assai[180-1]
   che tu ci sia, che con la tua zampogna
   porger potrai soccorso a le mie note.

T. Ciò ch' a te piace. Ma saper disìo[180-2]
   qual sia quella beata a cul tu intendi[180-3]
   d' acquistar lode con tue eterne rime.[180-4]

D. Anzi sarian beate le mie rime
   se pareggiasser le sue eterne lode.
   Di Tirrenia cantar è 'l mio pensiero.

T. Di TIRRENIA? Ho più volte in queste selve
   il bel nome sentito; ma di lei
   non ho particolare altra contezza.

D. Gran danno a lei, ch' un sì gentile spirto
   non le sia in tempo alcun stato soggetto:
   a te, che del suo chiaro e vivo lume
   ancor non t' hai sentita l' alma accesa.

T. Nova querela, udir ch' altri si doglia
   ch'altri non arda del medesmo foco.

D. Da diverse cagion diversi effetti
   nascon, mio Tirse, e altramente s' ama
   cosa pura mortale, altri disiri
   son quei che movon da cose divine.
   Come, perchè dal sole il lume prenda
   una copia infinita d' animanti
   non perciò il suo splendore alcuno è scemo;[180-5]
   così qual uom si sente l' alma piena
   de' diletti de l'alma, non si sente
   scemar il ben perch' altri ancor ne goda.

[p. 181]

   Anzi gode quel cor, ch'oggetto eterno
   ha in se scolpito, che per molti cori[181-1]
   cresca la gloria del superno raggio.
   E di quel ch'io ti dico, chiara luce
   di Tirrenia ne porge il divo lume.

T. Bramo di quel che di' saperne il come.

D. Tirse, non ha veduto il secol nostro
   pastor ch'io creda alcun, che d'alcun pregio
   abbia colto ghirlanda in Elicona,
   che s'ha lei vista, e se gli accenti suoi
   ha ne l'alma raccolti, tale ardore
   non abbia conceputo, che'l suo ingegno
   n'ha poi fuor dimostrati ardenti lampi.[181-2]
   Nè tra color giammai si vide o udìo
   che ne nascesse invidia o gelosia;
   anzi di lodar lei fa ognuno a gara,[181-3]
   e ne l'udir di lei ciascun si gode
   de le sue laudi, e l'un l'altro n'invita
   a dir del bel suggetto. E'n lei n'avviene
   quel ch'avvien de le cose rare e nove
   e ch'avverria se sopra l'orizzonte
   cominciasse a scoprirsi un nuovo sole
   a gli occhi nostri: che com'altri scorto
   prima l'avesse, così immantenente
   si volgerebbe a dimostrarlo altrui.
   E ciò n'avvien perochè al suo focile
   non s'accende altro che gentil disire.

T. Nuovo ben, nuove grazie e santi amori.
   Ma bram'io da te, se non t'annoia,[181-4]

[p. 182]

   Dameta mio, che tu mi scopri ancora
   que' pastor onorati che pur dianzi
   hai detto c' han per lei cantato e arso.

D. E questo, Tirse, ancor farò di grado,
   nè penso ch'altri altra più chiara fede
   possa altrui far del suo valor soprano
   che con sì gloriosi testimoni.
   Dirò di loro, e dirò con tal legge,
   che senza servar legge, di quel prima
   ch'a la mia mente pria farà ritorno,
   m'udirai favellar. Nè creder dei
   ch'io sia per ricordargli tutti a pieno;
   che lungo fora, e poi non m'assicuro
   di tutti aver memoria o conoscenza.

T. Com'a te aggrada: io ad ascoltare intendo.

D. Fra i primi che cantaro in riva al Tebro
   de la bella Tirrenia fu un pastore
   d' antico sangue e di gente Latina,
   e nel cui nome suona la sua gente
   e del cui canto ancor, e del cui suono,
   suonan le trionfali e altere sponde.
   Arse colui per lei lunga stagione:
   e ancor dolcemente ne sospira.

E per lei sospirò quel chiaro spirto
   che morendo lasciò dubbiosi i boschi
   tra le Muse di Lazio e di Toscana
   quali al suo dir sian state più benigne.
   Dico di quel che per li sette colli
   abbandonò le piaggie di Panara.

E un altro di patria a lui vicino
   per li paschi del Po ne 'l bel soggetto
   affaticò sovente le sue canne.
   Tirinto dico, a costui 'l nostro Reno

[p. 183]

   diè 'l patrio albergo; e poi, come 'l ciel volse,
   fu costretto a lasciare i dolci gioghi
   e pascer le sue gregge per le valli
   che 'l fiume, che detto ho, parte e abbraccia.

Che dirò del pastor che l' Arbia onora?
   Di quel dotto pastore i cui vestigi
   van seguitando e pastorelli e ninfe,
   non altramente che lasciva greggia
   la lanuta sua guida? Ei le sue rime
   del bel nome ch'io canto ha fatte adorne.

T. Tu di', s'io non m' inganno, di colui
   ch' un tempo parlar feo le nostre Muse
   con quelle leggi e con quelle misure,
   che già servò 'l Permesso, il Mincio e 'l Tebro.

D. Di' pur che dir di lui mia lingua intese.
   E di lei cantò ancor un' altro Tosco,
   un giovin pastor, ch' in riva d' Arno
   mentre ch' a lui spargeano il novo fiore[183-1]
   le molli guance, con si dolci note[183-2]
   tenne le ninfe, i satiri e i silvani,
   de le donne cantando i pregi eterni,
   che ne parlano ancor per questi poggi
   le quercie e gli olmi; e se da morte acerba
   non era tolto, a lui nel secol nostro
   si convenia l' onor de i primi allori.

Nè ci mancano ancor tra queste rive
   di quei che van segnando il chiaro nome
   in piante e in sassi. E sopra gli altri s' ode

[p. 184]

   risonar Batto: Batto, che per l' erta
   del sacro monte sale a' sì gran varchi,
   che fatica è notar le sue pedate.
   Ei d' or in or a lei volgendo gli occhi
   prende virtute a gli alti e bei suggetti.

Per lei fatto anco ha risonare i boschi
   colui, che sceso da gli alpestri gioghi
   onde discendon l' acque a i lieti paschi,
   de' pastor d' Insubria, in su le sponde
   del Re de' fiumi fe 'l suo nome chiaro[184-1]
   cantando a l' ombra d' un gentil ginebro.

Fu cantata costei da l' aurea cetra
   d' un ben dotto pastore, a cui Parnaso
   concedette non sol tener le Ninfe
   al dolce suon de le palustri canne,
   ma gli mostrò i secreti di natura,
   e render la salute a i membri infermi.

T. Forse di lui vuoi dir, che già discese
   dal chiaro sangue di quel gran bifolco,
   che fuggendo l'incendio e la ruina
   de la sua patria, penetrando i seni
   de l'aspra Illiria e di Liburni e d' lstri,
   non lunge d' Adria pose la sua mandra?

D. Di lui dir volli. E dir ti voglio ancora
   che 'l ricordar de gl' Istri a la mia mente
   tornato ha MOPSO; MOPSO, in cui contende
   il favor de le Muse e lo intelletto
   del terminar le sanguinose liti
   de' più audaci pastor. Or quanto e dove

[p. 185]

   ei sia per Tirrenia arso e quanto egli arda,
   e quanto abbia per lei cantato e canti,
   fan chiara fede il Po, il Ticino e l' Arno
   che mille piante han di sue rime impresse.

Ma dove lascio, lasso, il buono Iola,
   IOLA che col dotto e nuovo suono;
   de ben temprati calami, a' pastori
   solea far corto e agevole sentiero[185-1]
   di gir al fonte che fa i nomi eterni?
   Questi venuto da gli aperti campi
   che bagna l' uno e l' altro Tagliamento,
   sè di gloria colmò, d' invidia altrui.
   Ei col vivace lume del suo ingegno
   solea in Tirrenia, come aquila in sole,
   gli occhi affissare e da' suoi chiari raggi
   formar lo stile, e le parole, e 'l canto.
   Morte pose silenzio a le sue note.

Invida morte, a lei rapisti ancora
   e al mondo insieme un' altra chiara luce
   d' un gran pastor, che nato in queste piagge
   fu cultor nel giardin de' pomi d' oro.
   Poi trapassando a le ricche pasture
   e a gli orti di Celio e d' Aventino,
   si trovò non pur d' edere e di mirti,
   ma di purpurei fior cinte le tempie.
   Fior di gloria mortal com' è caduco!
   Ne sospirano ancor i sette colli
   del caso acerbo; e Virbio nei sospiri
   suona d' intorno. Virbio almo pastore

[p. 186]

   e poeta e materia de' poeti;
   viverà in mille versi il pastor sacro
   e 'l pregio di Tirrenia ne'suoi versi.

Non patisce la gloria di costui
   ch' altri d' altro pastor, d'altro poeta,
   faccia memoria: e a te bastar ben puote[186-1]
   d' aver sentito come tali e tanti,
   e poeti, e pastori, i loro ingegni
   abbian stancati intorno al caro oggetto.

T. Come sollecita ape per li prati
   suol la novella state errando intorno
   di fior in fior gustare il dolce succo:
   o come innamorata pastorella
   di varii fiori al suo diletto amante
   trecciar si vede una ghirlanda fresca,
   così visto ho Dameta la tua lingua
   andar cogliendo il fior de i chiari spirti,
   onde composto è 'l mel di quelle lode,
   che rese ha 'l mondo a la tua cara amata,
   e coronata d' immortal corona.

D. Ma non men gloriosa è la corona
   ch' ella tesse a sè stessa: ch' oltra quelle
   rime che d'ella col favor suo ispira
   a chi del suo amor arde, che da lei
   non men provengon che da l' altre Muse
   le rime e i versi de gli altri poeti.
   Ella suol d' or in or con le sue rime
   destare i boschi intorno; e ad ora ad ora,[186-2]
   co' i più rari pastor cantando a prova
   tiene intenti al suo dir Fauni e Napee.

[p. 187]

   Già sono impressi in più ch' in una pianta
   gli alti suoi amori; e la virtù d' amore
   quanto sia grande e come sia infinita,
   si legge da lei scritta in nuove scorze:[187-1]
   e suggetti altri, che felicemente
   viveran col suo nome chiari e eterni.[187-2]

T. Ragion è adunque che sì altero spirto
   cantato sia da gli spirti più chiari.

D. Tirse, non vo' lasciare ancor di dirti
   che se di lei scorgessi il divo aspetto,
   e le dolci maniere e i bei sembianti:
   s' udissi il suon de l' alte sue parole,
   e le sentenze de'profondi detti,
   protesti dir, non quel che di Medusa
   si favoleggia che sua fiera vista
   altrui mutava in insensibil pietra;
   ma c' ha virtute a l' insensibil pietre
   d' ispirar sentimento e intelletto.
   O s' udissi talor quando accompagna
   la voce al suon de la soave cetra:
   o quando assisa tra Ninfe e Pastori
   move tra lor la lingua a dolci note:
   s' udissi, dico, come in nuovi accenti,
   e come in soavissimi sospiri
   l' aria intorno addolcisca, e i vaghi augelli[187-3]
   tra le frondi si stiano intenti e muti,
   e come i colli, e gli alberi, e le grotte
   mandin cantando al ciel novelle voci,
   so che non chiederiano i tuoi disiri
   altre Muse, altro Apollo, altro Elicona.

[p. 188]

T. Grazie son queste così belle e care,
   ch' in lei racconti, che fan dubbio altrui
   se sia da dir ch' essa sia rara, o sola.
   Ma perchè spesso avvien ai nostri cori[188-1]
   che da l' un bel disio l' altro risorge,[188-2]
   poi che m' hai di Tirrenia il gran valore
   fatto sì aperto, ancor saper disio
   qual sia di lei la stirpe e 'l patrio suolo;
   salvo se del parlar già non se' stanco.

D. Di ragionar di lei sazio nè stanco
   esser non poss' io mai; poi vizio fora
   non sodisfare a sì giusti disiri.
   Or porgi orecchie al chiaro nascimento.

In quelle parti ove si corca il sole,
   si stende un' onorato ampio paese,
   lo qual da l' oceano e dal mar nostro
   è cinto d' ogni intorno, se non quanto
   lunga costa di gioghi s' attraversa:
   e questi son chiamati i Pirenei.
   Da questi monti un gran fiume discende,
   il qual porta tributo al sale interno,
   e Ibero è 'l suo nome: or quanto serra
   il giogo, e l' acque dolci, e l' acque salse,
   vien nomato Aragon. In quel paese
   già surse un' onorata e chiara stirpe
   ch' in tutti que' confin co 'l suo vincastro
   diede legge a' pastori ed a' bifolchi;
   e questa dal paese il' nome tolse.
   Poi co 'l girar del ciel volgendo gli anni

[p. 189]

   passò l' alto legnaggio a i nostri liti,
   a gl' italici liti; e s'alcun nome
   ci fu mai chiaro o altero, sopra gli altri[189-1]
   questo gran tempo risonar s' udìo.[189-2]
   Che donde di là in Adria il fiume Aterno,
   e di quà passa il Liri al gran Tirreno,
   quanto circonda 'l mar fin là ove frange
   l' orribil Scilla i legni a i duri scogli,
   e quanto ara Peloro e Lilibeo,
   solea già tutto a la famosa verga
   del generoso sangue esser soggetto.

Or fra molti altri uscìo del chiaro sangue
   un gran pastor, che di purpuree bende
   ornato il crine e la sacrata fronte,
   com'amor volle, un giorno per le rive
   del vago Tebro errando, a gli occhi suoi
   corse l' aspetto grazioso e novo
   de la bella Iole. Questa tra le sponde
   nata del Re de' fiumi, ove si parte
   l' acqua del suo gran fiume in molti fiumi,
   avea cangiato 'l Po coi sette poggi;
   e di questa 'l pastor, di ch'io ragiono,
   caldo di dolce amore fe' 'l grande acquisto
   di lei, ch' or m' arde il cor d' eterno amore.

T. Già non si convenìa men chiaro seme
   per dare al mondo pianta sì gentile.

D. E non si convenìa men chiaro loco
   al gran concetto e al glorioso parto[189-3]
   che l' onorate piaggie trionfali

[p. 190]

   de l' almo Tebro, il quale andar si vede
   non men superbo che tra le sue arene
   sia germogliata pianta sì felice,
   che di solenne alcun altro trionfo.

T. Dunque felice il luogo, e 'l seme, e 'l ventre,
   onde frutto sì eletto al mondo nacque:
   e più felice a cui dal cielo è dato
   gli occhi affissar nel lume de' begl'occhi,
   ai dolci accenti aver l' orecchie intente,
   e aver de gli occhi e de gli orecchi aperte
   le porte a l' alma e aver l' alma rivolta
   a la beltà del doppio eterno oggetto
   da salir sopra 'l cielo. E sopra ogn' altro
   felicissima lei, ch 'l gran legnaggio
   e l' alto onor del bel nido natìo
   vinto ha col pregio del valore interno.

Ma mentre abbiam la lingua e 'l cor rivolti
   al tuo bel Sole, è gia 'l celeste sole
   presso che giunto a l' ultimo orizzonte:
   perchè buon sia che diam luogo a la sera.

D. Vanne felice. Io pria che 'l vago piede
   rivolga altrove, questa bella pianta
   sacrare intendo a lei, cui 'l petto ho sacro,
   con la memoria de l' amato nome.

Notes

122-1. Vittoria Colonna.

134-1. Rozzamente cantar forse potria.

179-1. O sante Dee.

179-2. raccogliendo.

179-3. ch' a quest' ora qui volto ho 'l

180-1. m' è.

180-2 Eccomi presto.

180-3. il cui valore.

180-4. cerchi inalzar con le tue.

180-5. Non è in alcuno il suo splendore scemo.

181-1. Nel core ha impresso.

181-2. eterni lampi.

181-3. fan tutti.

181-4. ben da te.

183-1. Nel tempo che.

183-2. Sue molli.

184-1. Del real fiume.

185-1. Agevolar solea l' aspro sentiero.

186-1. Bastar ben ti puote.

186-2. e d' or in ora.

187-1. Leggesi.

187-2. col suo nome eterna vita.

187-3. L' aria addolcisca donde i vaghi augelli.

188-1. Ma perchè avvenir suol ne i nostri cuori.

188-2. Che spesso l' un disio dall' altro sorge.

189-1. chiaro sopra gli altri nomi.

189-2. Questo oltra gli altri risuonar s' è udito.

189-3. beato parto.


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