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Diodata Saluzzo Roero
"Carteggio di Alessandro Manzoni"
Carteggio di Alessandro Manzoni. Parte seconda. 1822-1831
Edited by Giovanni Sforza and Giuseppe Gallavresi
Milano: U. Hoepli, 1921

Lettere di Alessandro Manzoni alla contessa Diodata Roero Saluzzo

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363. Alla contessa Diodata Roero Saluzzo, a Torino.

Dalla Villa di Brusuglio, presso a Milano, il 30 luglio 1824.

Illustre Signora,

La lettera colla quale Ella si era degnata di giustificare, anzi di premiare la libertà da me presa di
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farle presentare una copia dell'Adelchi, non m'e altrimenti pervenuta; e la seconda, data fino dai 9 di gennaio, e destinata a procurarmi l'onore d'inchinare una sua degna Nipote ed amica,[155-1] mi perviene ora soltanto, per la via della posta. Del che bisognava pure ch'io le parlassi prima d'ogni altra cosa, perchè fra i tanti sentimenti che questa preziosa sua lettera ha eccitati nell'animo mio, vivissima è la confusione che provo in pensare ch'Ella ha dovuto credere ch'io abbia potuto lasciare una lettera di Lei senza risposta. Ma come potrò io degnamente spiegarle la mia riconoscenza per le tanto benigne espressioni di che ridonda questa che ho pure avuto la fortuna di ricevere? Già non saprei abbastanza significarle di quanta fui compreso tempo fa al trovare in una cortese lettera del signor Marchese d'Azeglio[155-2] un cenno tanto prezioso quanto inaspettato di codesta sua benignità: io, devoto fino dall'adolescenza allo splendido e puro nome di Lei, e che non avrei potuto senza vanità darmi a credere che il mio potesse essere presso di Lei in qualche stima. Ad ogni volta ch'io passai per Torino, mi son contentato di desiderare che la mia buona sorte mi facesse abbattere sul passo della illustre Donna, tanto che altri potesse additarla alla mia antica e riverente curiosità. Ormai, se questa buona sorte mi conducesse così vicino a Lei, nè il timore di farla ricredere della sua troppo indulgente opinione, nè molte altre cagioni che mi spaventano dal cercar la presenza anche delle persone che pur tengo nel più alto conto, non potrebbero essere d'ostacolo
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al mio desiderio di conoscerla, e di umiliarle a voce i sensi del mio profondo affetto: poichè un tal desiderio è stato così gentilmente incoraggiato. Si degni Ella intanto di gradire la sincera espressione di questi sensi, e di accordarmi d'ora in poi l'onore di professarmele

Divot.mo aff.mo Servitore
ALESSANDRO MANZONI.

Ardisco pregarla di ricordarmi al signor Marchese d'Azeglio, il quale, spero, mi avrà perdonata la noja ch'io gli diedi con una indiscretissima tiritera[156-1].

DALL'AUTOGRAFOTECA DEL CAV. ERCOLE GNECCHI, A MILANO.

[p. 271]
437. Alla contessa Diodata Saluzzo Roero, a Torino

Alla contessa Diodata Saluzzo Roero, a Torino.

Milano, il 12 marzo 1827.

L'onore che mi viene da una così graziosa domanda mi tornerebbe, a dir vero, troppo in rimprovero, se, dopo l'accoglienza da Lei fatta a' miei poveri lavori, dopo d'essere io medesimo stato favorito del dono dei nobilissimi suoi, avessi veramente dato fuori qualche cosa senza valermi tosto del vantaggio, già acquistato, di poter farlene omaggio. La filastrocca[271-1] della quale Ella ha la bontà di richiederne, è bensì stampata in gran parte, ma nulla ne è ancor pubblicato, nè sarà che ad opera compiuta. Del quando, non posso fare alcuna congettura un po' precisa; perchè di quel che manca alla stampa, una parte manca ancora allo scritto; e il compimento di questo dipende da una salute incerta e bisbetica, la quale spesso mi fa andare assai lento, e talvolta cessare affatto per buon numero di giorni. Dell'essersi poi, come Ella mi accenna, veduto costì il già stampato, io non so che mi dire nè che pensare, non ve ne avendo io spedita certamente copia, nè in altra parte d'Italia. Mi vergognerei di stendermi in questi particolari, e di averla trattenuta sopra un tale argomento, se dall'essere toccato da Lei non avesse acquistata una certa importanza, e preso, per dir così, un abito gentile. Nè anche posso tacere che, siccome l'aspettazione di alcuni mi aveva già posto in gran pensiero, così in grandissimo mi pone codesta, ch'Ella si degna mostrarmi: chè, riguardando al mio lavoro, sento troppo vivamente, quanto poco sia meritevole di una sua curiosità; e troppo certamente
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prevedo, quanto questa sia per essere mal soddisfatta. Ma, ad ogni modo, la prova non sarà terribile che per la vanità; e io confido ch'Ella si contenterà di dimenticare il libro noioso, senza cacciar per questo l'autore dal posto accordatogli nella sua benevolenza. Colla quale spero che intanto Ella vorrà accogliere i sensi del mio profondo rispetto e della antica mia ammirazione, e consentire che io abbia l'onore di professarmele …

DA MINUTA, COMUNICATA DAL COMM. NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI
SFORZA.

438. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Milano, il 19 aprile 1827.

Disperando di potere, non dico degnamente, che questa era speranza da non concepire, non che da dimettere, ma in modo che, pare a me, venisse a parer comportabile, risponder con versi ai bellissimi, dei quali Ella s'è degnata farmi non solo parte, ma speciale e solenne dono; convien pure ch'io mi risolva a contestarle comunque l'umile mia riconoscenza per un tanto favore. E insieme con ciò, Ella non mi potrà disdire, ch'io tocchi un motto dell'ammirazione e del diletto da me provati in leggendo e rileggendo la splendida ode, dove, al solito di Lei, sagaci e sapienti pensieri escono in forma d'immagini vive e varie e pellegrine. A Lei, certo, conveniva, a Lei competeva di farsi interprete della nuova poesia, o (a dir rozzamente ciò ch'Ella ha figurato con tantafelicità) del nuovo modo della poesia. Se non che s'è Ella trovata nella singolar condizione di passar sotto silenzio cosa appunto, che ad altri viene così naturalmente al pensiero di un tale argomento; voglio dire
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la bella e nobile parte ch' Ella ha in questo nuovo modo, fin da quando, ancor quasi fanciulla, destava la meraviglia di Parini canuto[273-1].

Ma di colui che, in una tale ode, è posto tanto in alto, oserò io dirle quello che penso? Gli auguro, lo confesso, d'ignorare un tale onore, onde evitare una tentazione d'invanimento troppo delicata e troppo potente.Nè, per verità, ho troppa paura che questo dire abbia a parere strano a Lei; chè, lasciando stare la squisita similitudine, con che in questa ode stessa è rappresentata la gloria, io credo pure di aver compresi e sentiti i molti tratti delle sue poesie, dove essa è rappresentata sempre come una cara fallacia,come un dolore superbo, come cosa che non tiene mai quanto promette, e che, tenendolo pure, ingannerebbe; che, perfetta e non contrastata quanto uom possa immaginarsela, dee pure avere in sè un vuoto, un amaro, un inquieto, che ne accusa e insieme ne castiga la vanità.

DA MINUTA, COMUNICATA DAL COMM. NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI
SFORZA.

[p. 358]
491. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Milano, 16 novembre 1827.

Chiarissima Signora,

S'io dicessi che la mia assenza da Milano, le brighe inevitabili che tengon dietro al ritorno, altre piccole gite, dei troppo lunghi momenti d'assoluta inabilitàallo scrivere, furon tutte cagioni del così tardo adempiere, ch'io fo, un ufficio impostomi egualmente dall'ammirazion della mente e dalla riconoscenza del cuore; direi vero, ma non direi tutto. La cagione più forte e la più continua fu la soggezione, che mi prese ogni volta ch'io volli farmi a parlarle dell'egregio suo poema; e per vincere la quale finalmente, non trovo miglior mezzo che il confessarla. Le varie impressioni di maraviglia e di diletto che ha fatte in me, ora il sublime, ora il patetico, ora l'inspirato, il profondo, il pellegrino, il nobile dell'Ipazia, son buone per me;
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ma da tali impressioni alle parole che possono significarlein un modo più particolare, c'è, per me almeno, un immenso intervallo; lasciando anche stare la difficoltà speciale di trovar le parole degne d'essere adoperate con Lei. Pensi adunque, illustre signora Contessa, che effetto abbian dovuto produrre sull'animo mio quelle troppo cortesi espressioni, colle quali Ella mostra degnarsi di aspettar da me un giudizio. Me pover uomo! mi permetta ch'io Le dica, al modo un po' di costì[359-1]. Lasciando star pure che invertimento di parti, e che strana mutazione di posti sarebbe cotesta, Le dirò, che il giudizio d'un componimento, tanto più quanto più questo sia esteso, originale, bello, ha aessere, com'io lo sento, niente meno d'una poetica. Io sono profondamente persuaso della verità di quel principio espresso la prima volta, ch'io sappia, dal signor A. G. Schlegel[359-2], che la forma de' componimenti vuol essere organica e non meccanica, risultante dalla natura del soggetto, dal suo svolgimento interiore, dalle relazioni delle sue parti, e dal loro, per dir così, andare a luogo; e non dall'improntamento d'una stampa esteriore, estranea: principio fondamentale e fecondo, il quale, quando sia trattato, particolareggiato, applicato, e lo sarà tosto o tardi, inevitabilmente, può, anzi dee, s'io non m'inganno, rinnovare essenzialmente la critica di diritto e di fatto. Ammesso, o piuttosto riconosciuto questo principio, s'è condotti o costretti a riconoscer pure, che ogni componimento, come ha, o dee avere la sua natura propria individuale, le ragioni speciali della sua esistenza e del suo modo, così richiede d'esser giudicato con regole sue proprie, che son poi il medesimo. Non già ch'io sia così cieco da non vedere delle leggi universalissime, applicabili a
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tutti i componimenti, e delle più particolari, applicabili soltanto a questo e a quel genere; ma mi pare anche di vedere che le veramente tali sieno così ovvie, così semplici, alcune quasi così necessarie, che, a trasandarle o a violarle considerabilmente nel fatto ci voglia una cortezza d'ingegno, o un pervertimento di giudizio, incompatibili l'uno e l'altro colla possibilità di produrre un'opera degna d'esame: mi pare insomma che siano piuttosto una condizione, che un pregio de' componimenti, e che non possano quindi divenir materia d'un giudizio, come, a stimare l'abilità d'un uomo per qualche negozio importante, non si metterà in conto ch'egli non sia un insensato. I fatti poi, com'io li posso scorgere, mi confermano sempre più in questo avviso, o piuttosto sono i fatti stessi che me lo suggeriscono. Perchè, raffrontando i migliori componimenti, e, dirò specialmente, i poemi, mi pare che quello che hanno di simile fra loro, e fra loro soli, sia una loro eccellenza, un grado di perfezione,un ben pensato, un bene scelto, un ben detto, non riducibile a regole; e quello che vi si può ridurre a regole, dico comuni, buone per ogni altro soggetto, lo abbiano simile non solo fra loro, ma coi componimenti d'inferiore eccellenza, coi mediocri, e colla più parte degli assolutamente cattivi. Il valor vero d'ognuno mi par che stia in ciò che ognuno ha di suo, di proprio, di esclusivo: nel soggetto, il quale abbia in sè e dimostri le ragioni sue di essere, si presenti, per dir così, alla contemplazione come un vero individuo morale: nei modi d'essere convenienti al soggetto, dalle parti principali fino, direi quasi, agli ultimi accessorii, nell'applicazione stessa di quelle regole universali, che in ogni soggetto prendono, o hanno a prendere, un carattere speciale. Ognuno mi pare, che abbia, o debba avere un ordine, un progresso,
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un'unità, una espressione sua propria: tanto che fra le tante, mi sembra singolar lode dell'Ipazia questa: ch' Ella non abbia potuto darle un nome, se non generico, e volendo individuarne la specie, abbia dovuto ricorrere ad una definizione, non trovando un vocabolo bell'e fatto. Certo, le sincere impressioni, che si provano alla lettura d' un componimento, sono prodotte da quelle stesse qualità speciali, che dovrebbero servir di materia ad un giudizio fondato; ma tra quel sentire e questo spiegare, l'intervallo è immenso; quello stesso che tra il dir bello un volto, bella una musica, e il render ragione della loro bellezza. Ma queste ciarle, che, riguardo alla cosa, son peggio che poche, son già troppe a spiegare, quanto io mi sentaragionatamente lontano dal poter giudicare l'Ipazia; mentre m'è così facile di poter dire ch'essa mi sembra degna di Lei, voglio dire d'un alto intelletto, d'una ricca e potente fantasia, e d'un cuor generoso. Gradisca Ella dunque il semplice omaggio della mia ammirazione, e quello insieme dell'assente amico mio Grossi, che mi lasciò l'incarico di presentarglielo,e che sente vivamente l'onor che gli viene d'un tal dono. Gradisca pur di nuovo le mie scuse. Oggi medesimo mi vien consegnata la sua lettera dei 10 del corrente, e la vista di quel celebre e da me così riverito nome, in uno coll'affettuoso ossequio che m'inspira, m'ha dato non poca confusione, e m'ha fatto crescere il cruccio contro cento grandi e piccoli incidentiche tante volte m'hanno impedito di pigliar la penna, o me l'hanno tolta di mano. Ora, quantunque io veggia che questa lettera così lunga e così confusa vorrebbe esser rifatta piuttosto che spedita, e spedita ad una Diodata (tolleri dalla celebrità, e condoni alla ammirazione la famigliarità del modo); pure amo meglio incorrer giustamente la taccia di rozzo, che sostener
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più a lungo la troppo falsa apparenza di negligente.Si degni conservarmi la bontà, alla quale Le è piaciuto di avvezzarmi senza alcun mio merito, e che potrei dire d'aver meritata da lungo tempo, e di meritare ora più che mai, se questa avesse ad essere un contraccambio della ammirazione. Gradisca l'attestato di questo cresciuto sentimento e insieme quello del solito profondo ossequio con che ho l'onore di rassegnarmele, ecc.

DALL'AUTOGRAFO, NELLA BIBLIOTECA BRAIDENSE, A MILANO (MINUTA).

[p. 386]
508. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Milano, l'11 del 1828.

Una cosa spiacevole che mi fosse comunicata da Lei, avrebbe da ciò raddolcimento e compenso; ma cose così graziose, e da tal parte, in una sua lettera, e sopraggiuntovi l'assicurazione dell'essermi continuata la sua bontà, sto per dire che è troppo. I sentimenti prodotti in me dall'articolo di lettera del signor Abate de la Mennais, che Ella ha favorito di parteciparmi, sono di quelli che amano di esprimersi, quando si trovi chi sia fatto per comprenderli, e non isdegni d'intenderli; ed io trovo l'uno e l'altro nel cuor di Lei. Sapere d'aver ottenuta l'attenzione di un grande ingegno, vedere il proprio nome scritto con favore da chi ne porta uno celeberrimo, è cosa
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certamente che commuove la vanità; ma una miglior parte dell'animo, se a Dio piace, è commossa, e più dolcemente dalla benevolenza cristiana. Già si adorava, e si sperava insieme: il saperlo da ambe le parti, par che renda la comunione più viva e più piena. Io provo assai di tutto questo; ma vi è in quell'articolo una lode magnifica, che mi confonde e mi spaventa, il est religieux, et catholique jusqu'au fond de l'âme. Egli è vero, che l'evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa. Le verità stesse, che pur si trovano senza la sua scorta, non mi sembrano intere, fondate, inconcusse, se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua dottrina. Un tale convincimento dee trasparire naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro, perciocchè, scrivendo, si vorrebbe esser forti, e una tale forza non si trova che nella propria persuasione. Ma l'espressione sincera di questa può, nel mio caso, indurre un'ideapur troppo falsa, l'idea d'una fede custodita sempre con amore, e in cui l'aumento sia un premio di una continua riconoscenza; mentre invece questa fede io l'ho altre volte ripudiata, e contraddetta col pensiero, coi discorsi, colla condotta; e dappoichè, per un eccesso di misericordia, mi fu restituita, troppo ci manca che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio raziocinio. E non vorrei avere a confessare di non sentirla mai così vivamente, come quando si tratta di cavarne delle frasi; ma almeno non ho il proposito d'ingannare: e col dubbio d'aver potuto anche involontariamente dar di me un concetto non giusto, mi nasce un timore cristiano di essere stato ipocrita, e un timore mondano di comparire tale agli occhi di chi mi conosce meglio.

[p. 388]

Dal timore d'offendere (almeno colpevolmente) la religione, introducendola ne' miei poveri lavori, mi rassicura la coscienza intima, non dico del mio rispetto per essa, ma dell'unica fiducia che ripongo in essa, e nella Chiesa che l'insegna. Ma in ogni testimonianza che appunto mi si renda di ciò, sento, insieme colla lode, un rimprovero, e in un colla voce benevola mi par d'intenderne una severa che mi dica: A che tu vai ragionando delle mie giustizie?[388-1].

Le ho troppo parlato di me; e veggo di dover di nuovo ricorrere per la scusa alla bontà sua. La cortese disposizione, che Ella mostra, a concedere a me e alla mia famiglia l'onore della sua personale conoscenza,anima il vivissimo desiderio che io ne tengo; ma troppe circostanze si oppongono per me all'adempimento. Non potrò avere mai la presunzione di credere, che noi possiamo essere per qualche cosa nella determinazione, che Ella prendesse di visitare queste parti; ma se mai nella buona stagione qualche altra causa portasse loro una tale ventura, noi potremmo con tutta facilità approfittarne, giacchè alla campagna dove abitiamo in quel tempo, non è dalla città che un breve tragitto.

DA COPIA COMUNICATA DAL COMM. NICOMEDE BIANCHI.

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601. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

30 ottobre 1829.

La lettera che Ella mi ha fatto l' onore di scrivermi il 17 del corrente, dovendo venire a trovarmi in luogo dove non v' è uffizio postale[563-1], mi è pervenuta ieri soltanto, ad ora avanzata.

Mi affretto di rispondere alla domanda, che Ella mi fa, s' io abbia rimesso il manoscritto, senza leggerlo allo stampatore; e provo una momentanea mortificazione nel non poter dire un no intero ed assoluto, come a prima vista pare che potrebbe richiedere il tenore dell' ultima mia; ma confido pure, che dopo avere inteso in particolare come stia la cosa, Ella vedrà non ci essere contraddizione tra l' uno e l' altro dire. Prima, però, d' intendere il fatto, bisogna che Ella abbia la sofferenza d' intendere alcnue notizie generali del mio modo di sentire, e di operare nei fatti di questo genere.

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Della noia che son per darle con esse, io chieggo scusa alla bontà sua; del parlare di me mi scuserà la necessità della cosa medesima, essendo ciò indispensabile all' intelligenza di un fatto nel quale sono io l' attore. Ella deve dunque sapere, che io ho un' avversione estrema, come una specie di terrore[564-1], all' esprimere giudizio su cose letterarie, massime in iscritto; e, a ridurre in breve i motivi, questa avversione nasce in me dall' incertezza, o, dirò meglio, dalla improbabilità di farlo bene, e dalla difficoltà del farlo comunque. Il giudizio di una parola può essere, ed è sovente, derivato da principii di una grande generalità; di modo che non sia possibile motivarlo, nè quasi esprimerlo, senza espor quelli, cioè senza scarabocchiar molte pagine. Nel che sovente il lavoro materiale sarebbe ancora la più piccola faccenda; vi è questo di più che tali principii ponno essere, e sono sovente (parlo del fatto mio), tutt' altro che connessi, che certi, che distinti, puri, e riducibili a formole precise e invariabili; e l' applicazione che pur se ne fa, è un tal quale intravvedimento; è quel che Dio vuole; ma pur la si fa. E siccome questa incertezza o confusione è anche, per men male, riconosciuta sovente dall' intelletto in cui è; così dove si vorrebbe un giudizio, spesso non si presenta che un dubbio, più difficile assai a mettere in parole, che non un giudizio. Queste difficoltà, e altre congeneri (giacchè non voglio abusar troppo della licenza, che Le ho chiesta, di riuscirle seccatore), si trovano a cento doppi più nello scritto che nella conversazione. Qui hanno luogo le espressioni più indeterminate,
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i periodi non formati, le parole in aria, formole cioè proporzionate a quella incertitudine ed imperfezione d' idee; e tali formole hanno però un effetto; giacchè la parte stessa, che si degna volere il giudizio altrui, viene in aiuto a chi ha da formarlo, dando mezzo, colle spiegazioni, colle risposte, a porre in forma il dubbio, a svolgere il giudizio, che non era, nella mente del giudicante, che un germe confuso. Questa parolona di giudicante basta, poi, a farle ricordare gli altri motivi di avversione che ha, e dee avere, per un tale uffizio chi conosce la propria debolezza. Contuttociò non voglio dire che io non mi conduca a farlo qualche volta a viva voce con persone, a cui mi lega una vecchia famigliarità; nè ch' io non ardisca pur di farlo, comandato, con persona, per cui sento la più rispettosa stima; dandomi animo da una parte questa stima medesima, che dall' altra mi tratterrebbe; che, quanto al pericolo di dire spropositi, o di non saper bene cosa si dica, è poca cosa per chi protesta, e avvisa innanzi tratto, che probabilmente gli accadrà l' uno e l' altro. Ma per mettere in iscritto il mio sentimento con un pochin di perchè (il mio sentimento, dico, intorno a venti versi, o ad una pagina di prosa), avrei a domandare un tempo indefinito, che sarebbe lungo, e colla quasi certezza di riuscirvi malissimo.

Ora, quando io ebbi in mano il manoscritto delle Novelle, una curiosità ben naturale non mi diè tempo di pensare, alla prima, che leggendolo io veniva, per la troppa umiltà dell' autore, a trovarmi impegnato a far quello, che nè vorrei nè saprei. Lo apersi dunque senz' altra considerazione: ma, letta una parte della prima novella, mi risovvenne delle troppo cortesi espressioni, colle quali Ella aveva significato di voler che questa lettura dovesse essere per me non un puro
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diletto, ma un mezzo per fare avvertenze. Chiusi tosto il manoscritto, volendo, come credo d' averle detto nell' ultima mia, godermi il diletto puro; pensando che strana cosa le parrebbe (non conoscendo Ella quanto possono in me le difficoltà, di cui ora ho dovuto parlarle, e delle quali voleva risparmiarle la noiosa esposizione), se io le avessi lette, e non avessi nulla da dirci sopra, quando Ella m' aveva comandato di dire. Non ho peranco avuto nuove dello stampatore[566-1]; ma, essendo io per tornare fra quattro di in Milano, e per dimorarvi, rimetto ad intendermi con lui di presenza. Ora, poichè Ella non può più stupirsi del mio leggere senza fare il critico, La avverto, che non mi ratterrò dall' approfittare dell' occasione delle prove di stampa per leggere le Novelle il più presto. Voleva troncare addirittura questa troppo indiscreta lungheria; ma, venendomi in mente che una delle ragioni, per cui Ella desidera il parere altrui, è anche quella di presentire il giudizio dei lettori, non posso a meno di aggiungere, che questa poi è la parte dove avrei più timore di proferire il menomo che; giacchè non credo nulla più incerto, più imprevedibile, e più bisbetico del giudizio del pubblico.

Le chiedo di nuovo scusa dell' averla tanto trattenuta, e con tali miserie; e La supplico di continuarmi la sua bontà in contraccambio dell' alta stima e dell' affettuoso ossequio, col quale ho l' onore di rassegnarmele….

DA COPIA, COMUNICATA DA NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI SFORZA.

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671. Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Alla contessa Diodata Saluzzo, a Torino.

Milano, 17 dicembre 1830.

Ben prima d'ora io le avrei espresso il doppio mio dispiacere, e dell'essermi stata tolta la consolazione e l'onore di riverirla di presenza, e dell'incomodo che ne fu cagione, se una sciagura consimile, anzi di un genere più grave, non fosse venuta a visitare pure la mia famiglia, e a tenermi più giorni in affanno.
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Quando io ricevetti la cortesissima sua lettera, mia moglie era stata presa da un'infiammazione tracheale, la quale non potè esser vinta che dalla sesta cacciata di sangue. Ora, grazie al cielo, la malattia è finita, e con essa ogni timore, e non resta che l'incomodo di una lunga e penosa convalescenza. Posso adunque a cuor largo esprimerle, in un col rammarico della perduta ventura, il piacere che ho provato leggendo e rileggendo i bei versi che Ella si è degnata comunicarmi, e renderle grazie speciali dell'onore che le è piaciuto fare al mio nome. Spero però che quel senso d'increscimento, che è troppo bene espresso nel componimento appunto che troppo lusinga la mia vanità, sarà stato cosa passeggera; e tanto più lo spero, che questo senso medesimo, con una contraddizione di buon augurio, non ha saputo esprimersi che in vivissima e, dirò così, vaghissima poesia[658-1]. Quanto alla cagione, che Ella mi accenna averlo prodotto in lei, non so se io le parrò un uomo dell'altro mondo, ma le debbo dire, che io ne ero affatto al buio, non leggendo mai, da gran tempo, critiche letterarie italiane, nè sopra i miei scarabocchi, nè sugli scritti altrui, e ciò appunto per fuggire occasioni di patimenti dolorosi, e per non perdere anche quella poca voglia di scarabocchiare, che pur m' è lasciata da' miei incomodi[658-2].

Mi figuro che bei giorni Ella ha dovuto passare in Toscana. Se non foss'altro che la lingua, non è ella
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una gran cosa per noi nati e vissuti nelle altre parti d'Italia, e avvezzi a sentir parlare e a parlare o un dialetto alterato o un linguaggio mancante di una più o men grande, ma sempre grandissima quantità di termini proprii e di locuzioni fisse e solenni; avvezzi a sentire e a parlare il piemontese, il milanese, o un toscano scemo di una buona parte del fatto suo, e incerto anche in parte di quel che gli resta; non è ella, dico, una gran cosa il trovarsi in mezzo, lo sguazzare, dirò così, in quel linguaggio, che ha tutta la vita, tutta la ricchezza dei dialetti, e tutta la cultura, e (se vogliamo una volta ragionare secondo i principii e secondo i fatti di tutte le lingue) tutta l'autorità di una lingua? E di che lingua! Ma io entro senza avvedermene in un argomento, che non troverei la via ad uscirne[659-1]; e se, lasciando anche star le lingue, prendessi da qualunque altro lato a parlare di quella cara Firenze, mi avverrebbe il medesimo; sicchè mi ristringerò a dire che, pensando alla gentilezza dei fiorentini, e pensando insieme che, ad onorar Lei, non è mestieri di gentilezza, m'immagino e mi godo l'accoglimento che Ella vi ha avuto. Bene a gentilezza, anzi a degnazione, debbo ascrivere l'onorevolissimo saluto che, per mezzo di Lei, mi viene dal signor
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conte Prospero Balbo[660-1], al nome del quale, già da gran tempo, ho consacrata la venerazione, che gli è dovuta da chiunque ami le lettere, e tenga in onore la virtù. La prego di voler partecipargli la mia viva ed umile riconoscenza, e di far pure gradire i distinti miei complimenti al sig. conte di Bagnolo. Ho in casa le due copie del ritratto in litografia, che Ella desidera; se ne desidera di più, credo si potranno avere. La prego di indicarmi il numero preciso, e il mezzo di fargliele pervenire costì. Mi conservi la preziosa sua benevolenza, e gradisca l'omaggio dell'inalterabile ossequio, e della viva ammirazione, con che ho l'onore di rassegnarmele.…..

DA COPIA, COMUNICATA DA NICOMEDE BIANCHI A GIOVANNI SFORZA.


NOTES

155-1. Giulietta de Colbert (1785-1864) moglie di Tancredi Faletti marchese di Barolo. Accolse in casa come segretario Silvio Pellico, dopo che fu escito dallo Spielberg. Cfr. A. DE MELUN, La marquise de Barol, Paris 1869.

155-2. Cesare Taparelli d'Azeglio. Cfr. la parte I, p. 493 n. 1.

156-1. La Lettera sul romanticismo.

271-1. I Promessi Sposi.

273-1. Allude alla lettera indirizzata dal Parini alla Saluzzo il 12 febbraio 1797 e pubblicata dal Reina a p. 196 del IV volume delle opere pariniane.

359-1. Allude all'intercalare vernacolo piemontese: Mi, povr'omm.

359-2. Cfr. la lett. 201a, nella la parte del carteggio.

388-1. Dal verso 16 del salmo XLIX.

563-1. Cioè a Copreno.

564-1. Queste riluttanze, delle quali si hanno altri esempi nel presente carteggio, contrasterebbero alla allegata « olimpieità » del Manzoni, lumeggiata ultimamente da ULISSE FRESCO,Intenzioni e intuizioni di artisti nella critica di Francesco De Sanctis (Giornale storico della letteratura italiana a. XXXVII, vol. LXXIV).

566-1. Vincenzo Ferrario.

658-1. A proposito di questo giudizio del Manzoni che implica un suo concetto della genesi della poesia, potrà essere utile il riferimento al saggio di F. LO PARCO, Lo stile poetico e la lingua poetica, secondo il Manzoni in Studi manzoniani di critica, lingua e stile, Messina 1909.

658-2. Questa confessione rafforza l'ipotesi suggerita al d' Ovidio dalla lettera 413a a Giuseppe Visconti, che cioè nella ritrosia del Manzoni dagli elogi avesser parte certe sue suscettibilità (F. D' OVIDIO, Nuovi studi manzoniani cit. pp. 266 e seg.).

659-1. Il Manzoni non doveva in realtà escir più da quest' argomento, della preminenza del toscano, che divenne la sua costante preoccupazione nei quarant' anni che gli rimasero da vivere. Vedansi, a cagion d'esempio, fra i molti scritti intorno all' evoluzione delle idee manzoniane in tale materia, LUIGI MORANDI, Le correzioni ai Promessi Sposi e l'unità della lingua, Parma 1879; FRANCESCO D' OVIDIO, La lingua dei Promessi Sposi nella prima e nella seconda edizione, Napoli 1880; GIOVANNI SFORZA, La risciacquatura in Arno de' Promessi Sposi in Scritti postumi di A. Manzoni, vol. I, Milano 1900. Di capitale importanza al riguardo è, s'intende, il quinto volume delle Opere inedite o rare di A. Manzoni cit. Si legga infine, a mo' d'epigrafe, lo sguardo retrospettivo che dà a tutta l'arena di quelle dispute il CROCE, Alessandro Manzoni e la questione della lingua in La Critica, vol. XI.

660-1. Il conte Prospero Balbo (1762-1837) era stato ambasciatore del re Carlo Emanuele IV presso il Direttorio della repubblica francese dopo la pace di Cherasco e dai francesi non aveva voluto accettare altra carica che quella di rettore dell'accademia napoleonica ed ispettore generale dell' università di Torino. Vittorio Emanuele I reduce in Piemonte lo volle suo ministro a Madrid, poi ministro dell' interno fino all' abdicazione provocata dai moti del 1821. Cfr. NICOMEDE BIANCHI, Storia della monarchia piemontese dal 1813 al 1861, Torino 1877, vol. II; DOMENICO CARUTTI, Storia della Corte di Savoia durante la rivoluzione francese e l' impero, Torino 1892; G. OTTOLENGHI, Reminiscenze della propria vila del conte Ludovico Sauli d' Igliano, Roma 1908; M. DEGLI ALBERTI, Lettere inedite di Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I, Carlo Felice, Carlo Alberto, Torino 1909. Vedansi alcuni tratti ironici consacratigli da Camillo di Cavour nel suo diario (D. BERTI, Diario inedito con note autobiografiche del Conte di Cavour, Roma 1888 pp. 66-67).


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