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Cicci, Maria Luisa
"Poesie di Maria Luisa Cicci tra gli Arcadi Erminia Tindaride"
Parma: Tipi Bodoniani, 1796


ELOGIO STORICO DI MARIA LUISA CICCI TRA GLI ARCADI ERMINIA TINDARIDE SCRITTO DAL DOTTORE GIOVANNI ANGUILLESI PISANO

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Nel presentare per la prima volta al pubblico italiano i componimenti di una giovane poetessa rapita poco fa alle Muse ed alla crescente sua fama, mi è sembrato che alcune notizie della sua vita benchè semplicissima avriano potuto interessare coloro che con piacere leggeranno i di lei versi. Ecco il motivo del presente Elogio non comandato dall'adulazione o dall'interesse, ma dettato dalla verità, e dal sentimento della più pura amicizia.

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Nacque Maria Luisa Cicci in Pisa il dì 14 Settembre dell'anno 1760 da Domenico Alessandro Cicci nobile Pisano e dottore dell'una e dell'altra legge, e da Maria Anna figlia di Gio: Gaetano Pagnini Capitano Comandante dei Cavalleggieri di Rosignano. All'età di due anni ebbe la disavventura di perdere la tenera sua genitrice, disavventura fatale talvolta al di lei sesso, allorquando chi veglia al governo della famiglia non sa a certi riguardi vestirsi opportunamente del carattere di madre. Luisa fu in ciò appunto assai fortunata. Il suo buon genitore si addossò dell'intero la cura di educarla coerentemente alla di lei nascita fino all'età di otto anni. Subì allora Luisa il destino comune in Italia alle fanciulle civili, e prima nel monastero di Santa Marta, indi in quello di San Bernardo, ambedue in Pisa, passò i teneri anni di sua giovinezza. Questa sorta di educazione, che ha contro di sè le teoríe più celebri de' moderni scrittori; che sembra contraria ai dettami della natura; che adulando l'ozio
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indolente de'genitori, gli determina ad allontanar da sè stessi delle creature innocenti che hanno i più sacri diritti all'affettuosa lor vigilanza, per affidarle a persone straniere, alle quali ben poco o nulla interessar dee la futura sorte dei pegni che lor si confidano; questa foggia di educazione, io dico, potrà sempre vittoriosamente rispondere alle incessanti querele della filosofia, quand'anche oppor non sapesse che il solo esempio di Luisa all'autorità dei moderni sistemi. Ella infatti nel sacro ritiro in cui passò la prima sua fanciullezza attinse i germi felici delle belle virtù, che tanto poi ammirar la fecero nel mondo; ivi acquistò la dolcezza, l'affabilità, la sommissione a' suoi maggiori, il profondo rispetto alla Religione; ivi formossi quel suo cuore tenero, docile, compassionevole, per cui divenne ben presto l'amore delle compagne, la delizia delle superiore, ed il più dolce e squisito trattenimento del padre.

Era questi uno di quegli onesti e savj cittadini, che stimano dover consistere tutta
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la gloria d'una femmina nell'esatto esercizio delle domestiche virtù, indipendentemente da ogni ornamento di scienza e d'erudizione. Versato fino dalla sua gioventù nella bella letteratura non meno che nella giurisprudenza, ma felicemente imbevuto delle antiche massime e dei sensati pregiudizj de' nostri maggiori in fatto di femminile educazione, egli era intimamente persuaso che una donna ha dei doveri troppo sacri ed importanti da adempire, per poter con serietà applicarsi allo studio, incompatibile sempre colle domestiche faccende e colle moltiplici incombenze di una buona madre di famiglia. Vietò quindi a sua figlia ogni sorta di applicazione, che non avesse relazione immediata coll'arte del cucire, del ricamare e di tali altri donneschi esercizj; e spinse le sue cautele fino al segno di far da lei allontanare nel monastero ogni mezzo onde esercitarsi a scrivere. Non potea il buon padre fino d'allora prevedere di che saria un giorno stata capace Luisa, e quanto splendore aggiunto
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avrebbe alla patria ed alla famiglia; ei la credè una donna di spiriti ordinarj, e geloso della purità dei costumi e del cuore, temè d'infonderle il veleno della letteratura, la pedantería della dottrina, e l'orgoglio insolente della filosofia.

Ma i timidi provvedimenti dell'umana prudenza sono ritegni troppo fragili all'urto irresistibile della natura e del genio. Ei si fa strada attraverso gli ostacoli; e chi è destinato ad essere un Ovidio, un Tasso, un Boileau, ad onta di ogni autorità e violenza paterna farà dei versi immortali, e i tardi posteri inebriati dalla lettura delle divine produzioni del figlio, perdoneran di buon grado agli sforzi impotenti del genitore.

Malgrado qualunque ostacolo era nata Luisa per essere la Saffo della Toscana. Aveva potuto legger di furto qualcuno de' nostri poeti, ed erasi sentita poetessa. La scrupolosa vigilanza del Padre potea bensì toglierle i mezzi ordinarj di scrivere, ma quella imperiosa necessità che sente il vero
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genio di sfogarsi e di spandersi, suggerille mezzi straordinarj ed impensati onde soddisfare alla mal repressa sua inclinazione. Un nero grano di uva le tenea luogo talvolta di calamajo e d'inchiostro, e tuttociò che poteavi più comodamente intingere formava la sua penna. In tal guisa scrisse ella i primi suoi versi nel monastero in un' età in cui altri appena s'accorge che havvi una differenza tra il verso e la prosa. Coloro che non ignorano con quai lenti passi sia dato agli uomini d'attinger la meta della perfezione in ogni facoltà, coloro che si rammentano i lunghi disagi dell'incerta e scabrosa via di Parnasso, e quanti sudori sia loro costato il possedimento di qualche fronda d'alloro, immagineranno facilmente quali esser dovettero le poetiche primizie di una tenera donzella, che avea compiuti appena i due lustri. Vero è nondimeno che in alcuno di quegl'informi componimenti da me a caso veduti, comecchè sfuggiti alle fiamme, a cui ella stessa aveali condannati in età più matura, brillavano
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de'lampi non rari di quel bello eminente che dovea un giorno campeggiar da per tutto nelle sue poesie.

Richiamata alla casa paterna all'età di anni quindici trovossi Luisa in istato di concedere un più libero sfogo alla propria inclinazione. Il genio qualunque siasi più elevato e felice ha d'uopo d'esser educato. Sentivasi ben essa il genio poetico, e sentì pure il bisogno di questa educazione. Ma come educare il genio poetico? Chi può dar precetti al talento creatore, all'ardente immaginazione? Chi insegna ad esser grande, delicato, e sublime? La natura ci dispone a divenir tali, ma tali non ci fa. Lo studio adunque de' poeti grandi esser deve il primo precettor dei poeti, se vero è che più insegnano una statua greca, un quadro di Raffaello ben considerati, che un lungo tirocinio nelle più astruse e ricercate teorie dell'arte.

Fu il Dante uno de' primi poeti, che richiamassero la seria attenzione di Luisa, e fu quello che sempre più amò, più studiò,
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e più spesso si compiacque citare che qualunque altro. Dante, l'inimitabile Dante, forte, energico, maestoso, pittoresco, talvolta per altro più oscuro che sublime, più basso che semplice, più fantastico che immaginoso, più sfrenato che libero, fu il modello primo, fu il maestro della più gentile, della più tenera, della più castigata fra tutte le poetesse. Allorquando i di lei versi avranno il conio dell' antichità, quando il suo nome esigerà dai nostri discendenti la venerazione che ora esigono da noi quelli di Corinna e di Saffo, un qualche dotto ed acuto commentatore si applaudirà forse d'aver potuto scoprire qualche segreta affinità tra i versi del gran padre dell'italiana poesia, e quelli della egregia nostra concittadina. Niuno intanto dei moderni lettori saprà per avventura ravvisarvene alcuna, se non che, essendo essi pur certi che dallo stile ruvido ed incolto della divina Commedia trasse Luisa i primi germi del suo poetare delicato e gentile, si affaccerà facilmente alla loro immaginazione
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l'amabile Dea delle grazie scaturita già dai torbidi e spumosi flutti del mare.

Comunque ciò siasi, la nostra poetessa fu sempre in grado estremo sensibile alle bellezze di Dante, godeva recitarne a memoria i più celebri squarci, ed anche ne' luoghi più reconditi e meno lodati della divina Commedia sapea scoprire colla più fina penetrazione tutto quel bello che sfugge facilmente alla debole vista de' leggitori ordinarj. Ella non ne ignorava, nè sapea dissimularne i difetti, che cercò sempre ad ogni costo di sfuggire ne' suoi componimenti, ne' quali parimente si guardò bene d' imitar troppo da presso il favorito Alighieri laddove è veramente grande e sublime, laddove è veramente immaginoso ed energico, laddove è inimitabile. Ella ben conoscea le proprie sue forze, e la caduta lacrimevole di qualche moderno poeta, che troppo da vicino ha osato misurarsi con quel pericoloso originale, l'avvertì di buon' ora ad aprirsi una strada del tutto diversa per giungere al tempio della immortalità.
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Nella sua foggia per altro di poetare non perdè mai di vista il suo primo maestro; cercò di dipinger vivamente, d'imitar la natura, di parlare al cuore ad esempio di lui, servendosi di mezzi affatto differenti. In questa guisa soltanto sa esser imitatore il vero genio, quel genio franco e generoso, che proponendosi nel cammin della gloria una scorta di sè degna, non oblía le proprie sue forze, che sentesi grande ed originale da sè, e che è ben sicuro che altri un giorno renderà a lui l'omaggio stesso, che egli si è gloriato di rendere all' anteriorità ed al merito.

Malgrado tutto lo sforzo di sua prevenzione in favore del prediletto Alighieri, alla prima lettura del Petrarca sentì Luisa farsi la più forte violenza al suo cuore dal dolce incanto che ispirano i celestiali concenti di quel poeta passionato e sublime. Niuno degl' infiniti di lui imitatori le fu ignoto, nè v'ha scrittore di qualche nome nel cinquecento, che ella non volesse leggere e gustare. Ammirò ne' due nostri grandi
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Epici il genio redivivo di Marone e d'Omero; e quantunque per certa segreta simpatía nata forse dall'amore che essa nutriva per tutto ciò che avea l'aria di più esatto, di più corretto, e di più ordinato, ella inclinasse alcun poco all'altissimo Cantor di Goffredo, non sapea risolversi a dargli nel suo cuore una decisa preferenza sopra il divin Ferrarese. Gustando perfettamente ambedue, e considerando il troppo diverso sentiero da essi scelto per giunger, come fecero, all'apice della gloria, ridevasi degl' inutili e inadeguati paragoni dal cieco spirito di partito e dalla erudita ciarlatanería istituiti a loro riguardo, e sdegnavasi più ancora delle sciocche ed inette critiche contro l'uno o l'altro dei due grandi epici, critiche impotenti e spregevoli, che dopo poche ore di vita sono condannate ad ingrossare delle oscure miscellanee, ed a nascondersi fra le polveri di una biblioteca, per ivi attendere dopo qualche secolo la mano benefica di un pedante editore, che stoltamente applaudendosi di sua scoperta,
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le tragga anche una volta per pochi istanti alla luce, onde rientrar poi irrevocabilmente nel loro nulla.

Lesse parimente i traviati scrittori del seicento, e compianse in essi, e molto più nel Cavalier Marino primo loro esemplare, un abuso lagrimevole d' immaginazione e di stile. Dalla folla di questi seppe distinguer per altro il Conte Fulvio Testi imitator felice d' Orazio e di Pindaro, degno di un miglior secolo e di un fine più fortunato. Ma i componimenti anacreontici dei due Liguri immortali Chiabrera e Frugoni fissarono più che altri l' attenzione della nostra poetessa. Conobbe che un tal genere di poesia in Italia assai meno comune degli altri era quello a cui richiamavala il naturale suo genio, e pensò che in quel genere restasse ancora da coglier qualche fronda di lauro non vile, e da arricchire di qualche nuova gemma il Parnasso italiano.

Intanto ben considerando che mal può giungere ad un grado distinto nella poesia chi, dandosi a spaziar perpetuamente nel
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regno della fantasia e dell'immaginazione, trascura di arricchir l'intelletto con lo studio delle severe dottrine, ed avvezza ella stessa a non poter apprezzare, malgrado tutta la pompa degli ornamenti esteriori, quei vuoti componimenti chiamati da Orazio "Versus inopes rerum nugaeque canorae" si applicò per tempo alla buona filosofia, ed apprese a conversare con i Locke ed i Newton, anche prima di familiarizzarsi con i Milton ed i Shakespeare. Fece un completo corso di fisica; volle apprendere col mezzo della Storia i costumi e le vicende delle antiche e moderne nazioni, s'internò nel misterioso laberinto della mitología, e seriamente occupossi ad ottenere la più profonda cognizione e la maggior purità della lingua nativa[1].

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Non fu dato a Luisa di legger ne'loro fonti i classici greci e lantini. Versata profondamente nella francese non meno che nella propria lingua, mancavale il soccorso delle antiche lingue di Atene, e di Roma. Seppe almeno fare scelta delle migliori versioni, per mezzo delle quali potè spaziare assai francamente tra gl'immensi tesori della antichità, e venerare i primi esemplari di ogni bello poetico. In tal guisa, se le fu permesso soltanto di vagheggiare, per dir così, i ritratti di Virgilio e d'Orazio, ebbe agio di contemplar più da presso le originali bellezze del principe di tutti i poeti con la sicura e dilettevole scorta del principe di tutti i traduttori, l'immortal Cesarotti. In tal guisa ella potè riconoscer sè stessa nel delicato Anacreonte e nel tenero
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ed ameno Catullo, il genio riunito de' quali spiccava già chiaramente in qualche sua leggiadrissima Anacreontica, che incominciò a girare per le mani degli amatori della poesia in tempo in cui appena conosceasi il nome della modesta e timida autrice: così un gruppo di viole nascenti giace inosservato e nascosto tra l'erbe, mentre all' intorno diffondendosi la sua grata fragranza ricrea gli spiriti dello stanco agricoltore, ed annunzia il bramato ritorno di primavera.

Ben poco trovò l'invidia da mordere in queste prime produzioni di Luisa; ma l'invidia è ingegnosa, e ricorse perciò ad un, accusa, che d'ordinario accogliesi con trasporto da certa classe di persone, la di cui inerzia e dappocaggine soffre un continuo rimprovero dall'altrui merito. Paragonabile pe'suoi talenti e pel genere stesso di poesia da lei scelto alla celebre Deshoulieres, ebbe Luisa di comune con la poetessa francese anche il destino di non esser creduta autrice de' primi suoi componimenti.
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Consideraronsi come opera di qualche parziale suo amico, e si osò perfino indicar la persona a cui voleasi attribuirne l'onore. Fortunatamente deluse furono ben presto la diffidenza e l'invidia, e gli amici della verità, gli uomini sensati e di gusto conobbero apertamente l'insussistenza di tale accusa, e ben convinti che di rado trovansi uomini abbastanza generosi per rinunziar tranquillamente ad altrui tutto il possesso di una gloria eminente, di cui potrebbero ornarsi eglino stessi, rendettero giustizia a chi si dovea, e la Colonia degli Arcadi Alfei si affrettò di annoverare tra le sue pastorelle la nostra gentil poetessa[1].

Se i vecchi pastori della nostra Colonia, che si pregia d'esser figlia primogenita dell'Arcadia di Roma, credettero per avventura
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di accrescer lustro alla fama nascente della giovane alunna, ammettendola tra i sacri loro boschi pieni ancora dei canti immortali dei Venerosi, dei Filicaja[1], degli Zucchetti, dei Poggesi e delle Borghini, ella ricambiò ben con usura l'onore che riceveane, rendendo famoso per sempre ne' fasti della poesia insieme col suo nome arcadico di Erminia Tindaride quello ancora della illustre accademia cui piacque così nominarla.

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Non fu Erminia una pastorella oziosa. Soleva immancabilmente assistere alle pubbliche adunanze degli Arcadi, dei quali formava la più squisita delizia ed il principale ornamento. Era questo il vero campo della sua gloria. Qui recitava essa i leggiadri suoi componimenti, e rapiva gli animi degli uditori non meno coll'intrinseca eccellenza dei versi, che con l'incanto della sua voce armoniosa ed insinuante, del suo gesto insieme animato e composto, de' suoi sguardi scintillanti di vero fuoco poetico. Pareva che quell'estro medesimo, che nel domestico silenzio aveale ispirato le pellegrine immagini e il bello stile che tanto onor le facea, si ripetesse in lei mentre pronunziava in pubblico le cose sue, e violentava, per dir così, l'ammirazione e gli applausi universali e sinceri de' suoi concittadini, in quella guisa, che Corinna traeva a sè i gloriosi suffragj degli olimpici spettatori ed ecclissava il gran Cigno di Tebe.

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Ma non sempre l'orecchio sedotto dalla segreta magía di una imponente artifiziosa declamazione è atto a giudicar rettamente del merito di una poesia; e l'uomo di gusto trovasi bene spesso ad arrossire del proprio inganno, allorchè una riflessiva ed attenta lettura gli scuopre l'ingiustizia di quegli encomj, che si è lasciato carpire come di furto da un accorto e baldanzoso recitante. Non così avveniva a coloro che poteano aver agio di legger successivamente le poesie d'Erminia già da lei recitate. I più severi ed accigliati aristarchi, coloro che amano per ogni dove di trovar da riprendere, e, simili a' que' vili insetti, che si posano soltanto sulle immondizie, sfuggono bruscamente tutto quel bello che lor si fa incontro, per deliziarsi poi a sfogar la dotta lor bile su quei difetti, quos humana parum cavit natura, costoro, io dico, si trovarono bene spesso delusi nelle loro scrupolose indagini, e sentirono a loro dispetto che tutto il possente antidoto del pregiudizio e della pedanterìa non era bastante a didifenderli
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dall' ammirazione e dal piacere che loro ispiravano i componimenti d'Erminia.

Quantunque pressochè in ogni genere di lirica esercitasse ella il suo talento versatile e fecondo, quantunque di essa rimanganci tuttavia Sonetti e Canzoni, che avrian dato nome ad un poeta del cinquecento, il genere anacreontico ebbe costantemente il suo più deciso favore. Questa sorte di poesia che potè render tra i greci uguale a quella di Pindaro la celebrità del buon vecchio di Teo, se si eccettuano i due gran Lirici Chiabrera e Frugoni, e pochi altri prima e dopo di essi, non vantava fino ai dì nostri in Italia[1] un corredo di
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seguaci degno della nobiltà di essa, é proporzionato alla fortunata indole di nostra lingua, che possiede più che altra mai le grazie e la delicatezza della greca, e lo stesso esterior meccanismo dei metri d'Anacreonte. Se non havvi luogo di credere che la schiera dei Lirici italiani datasi prima a pianger con Petrarca, poi a volar con Pindaro e Flacco, abbia sdegnato di scherzar delicatamente con Anacreonte
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e Catullo; se è vero altronde che le grazie semplici del Correggio sieno più difficilmente imitabili che i forti e vigorosi tratti di Paolo Veronese, non potrebb'egli sospettarsi che per un motivo poco dissimile sia stata più comunemente coltivata la sublime canzone che la tenera anacreontica? Questo ameno componimento che esige una squisitezza superiore a quella d'ogni altra specie di poesia, una fluidità, una facilità, per cui l'arte si nasconda, e comparisca in tutto il suo candore la bella e semplice natura; che aver dee una condotta piana e disinvolta ove campeggi una certa vivezza che tutto esprima in vaghe e spiritose maniere; che rigetta ogni pompa di sfoggiati ornamenti, vestendosi soltanto di quella grazia e dolcezza che deriva dalle scelte parole bene insieme congiunte, e dalle ingenue e delicate sentenze; che si offende del più lieve difetto, della più insensibile negligenza, e perfino di certa struttura di verso alquanto ingrata ad un orecchio musicale; che non soffrendo uno stile pomposo
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e sublime, ma tenendosi costantemente nel difficil sentiero della nobile mediocrità, sdegna al contrario tutto ciò che sente alcun poco di basso e volgare; questo componimento, io dico, questo genere di lirica che io chiamerò popolare, non sarà mai il più frequentato da coloro che temono il giudizio severo e difficile della moltitudine, dal quale credono disimpegnarsi, ricoprendosi della sacra caligine pindarica, e correndo a spaziar tra le nuvole. Oltredichè è da riflettersi che havvi in ogni scrittore certa particolare organizzazione, certa determinata tessitura di nervi, certa disposizione in una parola per uno piuttosto che per un altro genere di componimento; e chi possiede un estro atto ai gran voli, vivo, impetuoso, fantastico, ma non sentesi altronde un cuore tenero, affettuoso, sensibile alle dolci e delicate passioni, innalzerà bensì fino agli Dei immortali coi suoi canti sublimi i fortunati vincitori di Elide, ma non si vedrà mai svolazzar sopra il capo la colomba di Venere, nè addormentata
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la troverà placidamente tra le corde della sua lira[1].

Il carattere di Erminia era appunto, siami permesso così esprimermi, tutto quanto anacreontico. Purissimi erano i di lei costumi, castissimi i di lei pensieri, sensibilissimo e delicatissimo il di lei cuore. Possedeva ella nel più alto grado quel candore ingenuo, quella toccante semplicità che rendono la virtù stessa più amabile ed interessante, ed ispirano insieme la tenerezza e il rispetto. Saggia senza ostentazione e senza vanità non facevasi nè una pena nè un merito dell'adempimento de' proprj doveri. Era il suo spirito naturalmente gajo e piacevole, ed essa mai non cercava di diminuirne la giocondità ed il brio, non curando d'ispirar negli altri la venerazione e il rispetto col debole e fallace mezzo di una nojosa affettata serietà.

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Dopo la morte del di lei Genitore il Fratello della nostra poetessa[1], Cavaliere non meno apprezzabile pel suo rango, che per la coltura del suo spirito e per le ottime qualità del suo cuore, si era fatto il più scrupoloso impegno di secondare il genio di sì degna sorella che egli amava teneramente; talchè la loro casa divenne, per dir così, il tempio d'Apolline, ove una vera Musa presedeva, e quanto eravi di più culto nella Città concorreva ad ammirare le amabili e rare qualità d'Erminia, ed a trar piacere insieme e profitto dalla di lei soavissima ed istruttiva conversazione, ricercata ancora con avidità da tutti i letterati stranieri, che tratto tratto capitavano in Pisa. Pronta sempre a rilevare i meriti di ciascuno dei circostanti, come a dissimularne
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i difetti, o a dar loro un aspetto meno spiacevole o più degno di scusa, sapea cattivarsi l'ammirazione e la riconoscenza degl'ignoranti e dei dotti. Con questi mostrava sempre d'apprender qualche cosa da loro anche quando gl'istruiva, come non di rado accadeva, talchè partivansi contenti di sè stessi non meno che di lei; con quelli sapea nasconder la propria dottrina ed i suoi lumi, e adattavasi alla loro intelligenza, quasi fosse più gelosa del loro amor proprio, che della propria sua gloria. Le sue amiche conversando con lei nulla accorgeansi della superiorità del suo spirito; poichè con quell'istessa modestia, con quella graziosa disinvoltura con cui parlava di storia, di poesia, di letteratura, di critica, si piegava a ragionar seriamente di faccende donnesche, della moda del giorno, nè mai trovavasi fuori della sua sfera. Suole la letteratura, la somma abilità render anche involontariamente orgogliosi coloro che le posseggono. Il confronto che fanno di sè stessi con tanta moltitudine a
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loro inferiore in talento e dottrina gli assuefà insensibilmente a disprezzarla. Non così accadeva ad Erminia. Con tante ragioni d'insuperbirsi, era dotata di altrettanta umiltà; il suo buon cuore le facea sempre supporre in altri più merito che in sè stessa; i versi altrui ottenevano da lei quelle lodi sincere, che si doveano ai suoi; in somma la dotta Erminia, l'onore della patria, era insieme la più modesta donzella, la più affabile, la più gentile.

Professando il più tenero attaccamento alla propria famiglia, di cui avea ella formato sempre la delizia e l'amore, non potè mai determinarsi per lo stato conjugale. Non per questo le riuscì sempre sfuggire alla dolce violenza di una passione deliziosa insieme e fatale, familiare troppo ai seguaci d'Apollo. Amore, quella sorgente inesausta di piaceri e di pene, di tormento e di gioja, è bene spesso il solo, il vero Apollo de'poeti. Chi non si è sentito mai tocco dal suo fuoco animatore, chi non conosce i suoi delirj, i suoi palpiti,
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lasci pure di strascinarsi inutilmente pel sentiero di Pindo; indegno del divino consorzio delle Muse, egli non sarà mai un poeta; i suoi versi nati in ira ad Apollo non trarranno mai una lagrima, ed il cuore de' suoi leggitori risentirà perpetuamente l'insipida e nojosa calma del suo. Erminia era però troppo tenera e sensibile, perch'ella non avesse più volte motivo di lagnarsi seco stessa dell' inclemenza d'Amore. Di tali lamenti facea spesso risonar la sua cetra, e la di lei bell'anima amareggiata soverchiamente da questa passione, riduceasi perfino a far degl'inutili voti alla Indifferenza[1] dietro l'orme del gran tragico dell'Inghilterra.

Ma un sentimento più tranquillo e pacifico, l'amicizia, formò costantemente la più deliziosa occupazione d'Erminia. Ella avea degli amici; e chi più d'essa meritava d'averne!

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A questi era sempre aperto il suo cuore; prendeva, quanto eglino stessi, interesse nelle cose loro. Premurosa al sommo del loro ben essere e della lor gloria, nulla trascuravasi per parte sua di quanto poteva contribuirvi, nulla di quanto potea consolarli ne' loro infortunj. Si saria detto che ella non sapea vivere che per l'amicizia; e purtroppo la repentina perdita di due amiche a lei carissime diede per avventura la prima scossa fatale alla sua tenue costituzione. Da quel tempo, che precedè di pochi mesi la sua morte, parve che il di lei spirito andasse ogni giorno perdendo di quella piacevole e graziosa giocondità, che rendea sì desiderabile la sua compagnia. Le sopravvennero tratto tratto alcune leggere indisposizioni di salute che essa trascurò contro il parere de'suoi parenti ed amici. Tuttavolta parevane affatto ristabilita, allorquando fu assalita repentinamente da un attacco fierissimo di petto, che nel breve spazio di cinque giorni, ad onta di tutti i tentativi dell'arte
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medica, la rapì per sempre alle speranze degli amici e della patria il dì 8 Marzo dell'anno 1794 nella sua fresca età di anni trentaquattro. Nei momenti ultimi della vita non ismentì Erminia il proprio carattere. Imbevuta fino dalla sua infanzia dei principj della più pura morale cristiana, e penetrata profondamente dalle auguste verità della religione, avendo nel breve corso di sua vita procurato sempre di adempiere colla più scrupolosa osservanza i doveri che essa prescrive, rassegnò umilmente il suo spirito ai decreti imperscrutabili della provvidenza, e morì invocando il Dio delle misericordie, e lasciando nella più trista desolazione una famiglia che l'adorava. Poco prima di sua morte aveva ella mostrato ardentissimo desiderio che fossero dati alle fiamme tutti i suoi scritti. I di lei amici inconsolabili per la perdita della illustre Erminia si adoprarono premurosamente onde impedirne l'esecuzione, e vi riuscirono. La culta Italia, per la quale si sono conservate, e presentemente
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si pubblicano le di lei elegantissime poesie, saprà forse buon grado alle cure di essi, per quel motivo stesso per cui la posterità ha colmato d'applausi la memoria di quel gran Principe, a cui si dèe la conservazion dell'Eneide.

NOTES:

P. XIII (1) Parlava la propria lingua con indicibile eleganza e facilità, e la scriveva eccellentemente anche in prosa. Qualora si pubblicasse una raccolta di sue lettere, si vedrebbe forse che nulla hanno esse da invidiare a quelle della immortal Sevigné, come le di lei poesìe non cedono in nulla a quelle dell'amabile Deshoulieres.

P. XVI (1) Ciò fu nel 1783, l' anno ventesimo terzo di sua età. Nel seguente anno fu ascritta all' accademia fiorentina; e quindi nel 1786 a quella degl' Intronati di Siena.

P. XIII (1) Il celebre Senatore da Filicaja, essendo Commissario di Pisa, interveniva costantemente alle adunanze degli Arcadi Alfei. Tutti gli altri qui nominati sono poeti illustri pisani, le opere dei quali sono ai letterati note abbastanza. Tra questi parimente può annoverarsi Francesco Catelani, di cui abbiamo una traduzione moltiplice delle Odi di Anacreonte molto stimabile, che egli pubblicò sotto il nome arcadico di Cidalmo Orio.

P. XX (1) Le bellissime Canzonette del Rolli e del Metastasio non sembrano appartenere propriamente al genere anacreontico, che è stato trattato con felicità da alcuni de'nostri poeti viventi. Assai maggior numero di seguaci conta questa poesia tra i Francesi; quantunque e per l'indole della loro lingua, e pel genio stesso della nazione portata naturalmente allo spirito ed alla vivacità, siansi meno avvicinati alla ingenua semplicità e delicatezza della greca anacreontica. Contuttociò i componimenti in questo genere di Voiture, di Chapelle, di Chaulieu, di la Motthe, di Voltaire, di Gresset, di Bernard, di Dorat, e di varj altri, sono deliziosissimi, pieni di grazia, di gentilezza e d'immagini graziose e brillanti.

P. XXIV (1) Anacr. Ode IX.

P. XXV (1) A questo degnissimo Cavaliere (Signor Paolo Cicci) deve il pubblico l'edizione presente delle poesie d'Erminia, che egli fa a sue spese per dispensarla a'suoi amici.

P. XXVIII (1) Ved. Sciolti all'Indifferenza tradotti da Shakespeare.


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