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Volpi, Giovanni Antonio (1686-1766?)
Protesta del Signor Gio. Antonio Volpi intorno al suo Discorso Accademico sopra gli Studi delle Donne
(A Response to Apologia in favore degli Studi delle Donne contra il Discorso del Signor Volpi, scritta dalla Signora Aretefila Savini de' Rossi)
Discorsi accademici di varj autori viventi intorno agli studj delle donne: la maggior parte recitati nell'Accademia de' ricovrati di Padova
Padova: Nella Stamperia del seminario, presso Giovanni Manfrè, 1729

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PROTESTA DEL SIGNOR GIO: ANTONIO VOLPI
Intorno al suo Discorso Accademico sopra gli Studj delle Donne

ACciocchè in avvenire niuna Donna erudita, o vogliosa di darsi agli Studj delle Scienze, e delle ottime Lettere, abbia mai a dolersi di me, come se io avessi voluto provare nel mio Discorso Accademico, non potere, assolutamente le Donne far profitto in tal genere di applicazioni; io stimo esser cosa necessaria il dichiarare apertamente, qual sia stata la mia intenzione, allorachè io parlai sopra gli Studj delle Donne nell' Accademia de' Ricovrati. Dico adunque, ch' io fui condotto a trattar quella parte del proposto Problema, non da sdegno alcuno, o da avversione conceputa contra il Sesso Donnesco; quorum causas procul habeo; per valermi delle parole di Cornelio Tacito da lui usate nel principio de' suoi Annali; ma da sola ubbidienza, e per altro di mala voglia; ben conoscendo il manifesto pericolo, a cui mi esponeva, di cadere in disgrazia se non di tutte le Donne, almeno di alcune, e peravventura delle più degne di stima. fummi forza perciò l'ubbidire, e il trattar la mia causa colla maggior' efficacia,
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per fuggire in tal guisa ogni sospetto di collusione. Io presi a dimostrare, non esser' utile agli umani interessi, che le Donne siano generalmente ammesse a studiare nelle Accademie, e nelle Scuole; in quel senso appunto, che fu posto sul tappeto il Problema dal dottissimo Signor Vallisneri; rendendo per altro una ben giusta testimonianza al merito, e al valor singolare di quelle Donne segnalatissime, che negli antichi tempi, e ne' moderni altresì, dal vulgo dell' altre si distinsero per credito di sapere. Leggasi attentamente, per cortesia, il mio Discorso da capo a fondo; e toccherassi con mano ch' io dico vero. Parmi che ciò potrebbe bastare alle Donne Letterate che adornano il nostro secolo; anzi dovrebbono, s'io non erro, sapermene grado; posciachè lo studio e la dottrina rimarrà in loro tanto più ammirabile, quanto sarà men comune. Ho lodato più volte le Gentildonne ch' eran presenti alla recitazione del mio Discorso, non già per lusingarle, come vengo accusato, ma perchè io le credetti allora, e seguo a crederle tuttavia, dotate di raro talento: e parimente per usare un' atto di dovuta civiltà: altrimenti avrebbero forse potuto recarsi ad onta le mie parole. Tra gli argomenti da me adoperati ne sono de' più, e de' men forti: non tutti certamente d' un peso, nè di ventiquattro carati: tale è il costume, s' io non erro, d' ogni Oratore, anzi d' ogni Avvocato: e nelle Accademie possono benissimo aver luogo gli argomenti probabili; nè ogni cosa vi si tratta a punta di schietta Filosofia. Così fanno pure i Condottieri d'eserciti, che soglion valersi di soldati più, e
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men valorosi, per ottener la vittoria. E a questo proposito ben disse Messer Giovanni Boccacci nella Conclusione delle sue dieci giornate, che Carlo Magno, che fu il primo facitore de' paladini, non ne seppe tanti creare, che esso di lor soli potesse far' oste. e che niun campo fu mai sì ben cultivato, che in esso, o ortica, o triboli, o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l' erbe migliori. Vinca nondimeno in questa Causa chi ha la ragione dalla sua parte: io non mi oppongo, nè potrei oppormi, anche volendo, ad un nuovo costume, che venisse introdotto dal consenso de' savj. Molte delle ragioni da me addotte, non sono di mia invenzione; ma derivano da più alto fonte, essendo state trattate molti secoli prima da Filosofi sapientissimi, che furono i Maestri di coloro che sanno. Nè tampoco io mi do a credere d' aver detto tutto ciò chè si potrebbe dire sopra un tal soggetto: la materia è troppo ampia, e feconda. Ma Dio mi guardi da più stuzzicare il vespajo, e tutt' altro mi comandi in avvenire chi può disporre di me a voglia sua. Il Signor Vallisneri ha deciso da suo pari, quando ha distinto le Donne in due classi, secondo le loro differenti inclinazioni. Permettasi adunque lo studiare a quelle Donne che ne son vaghe, e che pajon fatte dalla Natura per tal mestiere. Crudeltà sarebbe, e tirannia manifesta l' invidiar loro cotanto bene. Ma lascinsi vivere in pace, e attendere a' lor lavori l' altre men generose, a cui non cale di divenir letterate. Se il numero delle prime abbia ad esser sì grande, la sperienza, e'l tempo cel mostreranno. Ecco benissimo accordate le parti, chiuse
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le bocche a' lamenti, e giustificata insieme la mia condotta. Ma perchè le virtuose Donne appieno si persuadano della vera stima ch' io fo di loro, io mi sottoscrivo ben volentieri al sentimento di Messer Lodovico Ariosto, da lui espresso sul bel principio del Canto ventesimo del suo Furioso con questi bellissimi versi:

Le Donne antiche hanno mirabil cose
   Fatto nell' arme, e nelle sacre Muse;
   E di lor' opre belle, e gloriose
   Gran lume in tutto il mondo si diffuse.
   Arpalice, e Camilla son famose,
   Perchè in battaglia erano esperte, ed use:
   Saffo, e Corinna, perchè furon dotte
   Splendono illustri, e mai non veggon notte.
Le Donne son venute in eccellenza
   Di ciascun' arte ove hanno posto cura,
   E qualunque all' istoria abbia avvertenza,
   Ne sente ancor la fama non oscura.
   Se 'l mondo n' è gran tempo stato senza,
   Non però sempre il mal' influsso dura;
   E forse ascosi han lor debiti onori
   L'invidia, o 'l non saper degli scrittori.
Ben mi par di veder che al secol nostro
   Tanta virtù fra belle Donne emerga,
   Che può dar' opra a carte, & ad inchiostro
   Perchè ne i futuri anni si disperga.

potendosi affermare dell' età nostra senza menzogna, ciò che l' Ariosto affermò della sua. Benchè, quando si dice le Donne, ciò vuolsi intendere non già de singulis generum, ma de generibus singularum; per usare una frase degli Scolastici. Io ammiro, e venero, quanto altri si faccia, o si
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facesse giammai, la vera virtù, e la soda dottrina, in qualunque suggetto ella si ritrovi; sia Uomo, sia Donna: anzi più nella Donna, come cosa in essa più pellegrina, e più rara. E certamente una Donna, che diasi agli Studj, non per vanità di comparir dotta, o di litigar senza fine sopra ogni baja, ma piuttosto per migliorare sè stessa, e la sua famiglia, e per camminare più speditamente verso il beato suo fine: che stampando, stampi del suo, e non ami di adornarsi coll'altrui piume: merita d' esser tenuta in conto di una gioja inestimabile. E benchè io non pretenda di negare alle belle il pregio della letteratura, dirò nondimeno candidamente, che le Donne erudite, quanto meno avranno di bellezza, e di grazia, tanto più agevolmente si manterranno presso le persone accorte in riputazion di dottrina. Ora è tempo ch' io spieghi brevemente alcuni luoghi del mio Discorso Accademico, che l' Illustrissima Signora Aretafila Savini de' Rossi, illustre e virtuosa Dama Sanese, dimorante in Firenze, si è compiaciuta di onorare colle sue acute riflessioni.

Io dissi nel mio Discorso Accademico, che dolce cosa sarebbe il vedere, alla foggia dell' antica Sparta, andare a prender lezione nelle Accademie, e nelle Scuole più basse, insieme co' garzonetti le verginelle. Forse non mi sono spiegato abbastanza in ciò che s' aspetta alla consuetudine degli Spartani. Ho qui voluto alludere al costume antico introdotto da Licurgo Legislatore nella Città di Sparta, di allevar le fanciulle insieme co' giovinetti in ogni più faticoso esercizio, e di corso, e di lotta, e di nuoto, e di fare alle pugna, e di
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lanciare il disco, e d' altri moltissimi; per così prepararle alla tolleranza de' disagi, e perchè a suo tempo divenissero madri d'uomini forti. La quale usanza vien celebrata dall' amoroso poeta Properzio nella 12. Elegia del 3. Libro, co' seguenti versi:

Multa tuæ, Sparte, miramur jura palæstrae,
   Sed mage virginei tot bona gymnasii.
Quod non infames exercet corpore ludos
   Inter luctantes nuda puella viros.
Cum pila veloei fallit per brachia jactu,
   Increpat & versi clavis adunca trochi.
Pulverulentaque ad extremas stat femina metas,
   Et patitur duro vulnera pancratio.
Nunc ligat ad cestum gaudentia brachia loris,
   Missile nunc disci pondus in orbe rotat.
Gyrum pulsat equis, niveum latus ense revincit,
   Virgineumque cavo protegit are caput.
Et modo Taygeti crines aspersa pruina
   Sectatur patrios per juga longa canes.

e ne fa menzione anche M. Tullio nel secondo libro delle Quistioni Tusculane; per tacere di tant' altri.

Quanto alle noje che darebbe al marito una moglie troppo saccente, io camminai dietro la scorta di Giovenale, che nella Satira sesta a questo proposito così cantò: (v. 433.)

Illa tamen gravior, quæ cum discumbere cæpit,
Laudat Virgilium, perituræ ignoscit Elisæ,
Committit vates & comparat: inde Maronem,
Atque alia parte in trutina suspendit Homerum.
Cedunt grammatici, vincuntur rhetores, omnis
Turba tacet. nec caussidicus, nec præco loquatur,
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Altera nec mulier: verborum tanta cadit vis;
Tot pariter pelves, tot tintinnabula dicas
Pulsari. jam nemo tubas, nemo æra fatiget;
Una laboranti poterit fuccurrere Lunæ.

e più sotto, disconsigliando l' amico dal prender moglie troppo erudita, così soggiugne: (v. 447.).

Non habeat matrona, tibi quæ juncta recumbit,
Dicendi genus, aut curvum fermone rotato
Torqueat enthymema, nec historias sciat omnes;
Sed quædam ex libris & non intelligat odi
Hanc ego, quærepetit, volvitque Palæmonis artem
Servata semper lege, & ratione loquendi,
Ignotosque mihi tenet antiquaria versus,
Nec curanda viris opicæ castigat amicæ
Verba. solæcismum licæt fecisse marito.

Asserisce la suddetta virtuosissima Dama, che quando i Romani soggiogarono i Greci, non erano più i mal pettinati, e i mal parlanti, quali io gli ho fatti. Io per confessarla schiettamente, mi era lasciato ingannare all' autorità di Orazio, il quale nell' Epistola prima del secondo Libro, vuole che gli studj dell'eloquenza, e della poesia, e di tutte insieme l' arti liberali fossero trasportati a Roma, come altrettante spoglie della Grecia già soggiogata. Addurrò le sue precise parole: (v. 156.)

Græcia capta ferum victorem cepit, & artes
Intulit agresti Latio.
Anzi di Lucio Mummio, gran Generale de' Romani, che domò i popoli dell' Achaja, provincia principalissima della Grecia, espugnando la ricchissima e famosissima città di Corinto, racconta Vellejo Patercolo nel primo libro della sua Storia al capo tredecimo, un fatto ridicolo, che dà chiaramente
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a vedere, quanta fosse in que' tempi la rozzezza d' alcuni Romani intorno all' arti coltivate da' Greci. Udiamo lo stesso Vellejo. Mummius tam rudis fuit, ut capta Corintho, cum maximorum artificum perfectas manibus tabulas ac statuas in Italiam portandas locaret, juberet prædici conducentibus, si eas perdidissent, novas eos reddituros.


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