POESIE COMPLETE
DI
VITTORIA AGANOOR
A CURA E CON INTRODUZIONE
DI
LUIGI GRILLI

FIRENZE
SUCCESSORI LE MONNIER
1912

PROPRIETÀ DEGLI EDITORI

Firenze, 1912.—Sooietà Tipografica Fiorentina, Via S. Gallo 33.

Mamma Cara,

Tu hai vinto tutte le mie antiche e vivissime ripugnanze con tre parole: «Fallo per me».—Eccoti dunque il volume delle mie liriche. Chi seppe dei miei pertinaci rifiuti agli stimoli dei maestri e degli amici, e ai cortesi inviti degli editori, dirà ora con un sogghignetto beffardo:—«Oh finalmente, ecco dunque il famoso topo della leggendaria montagna!»—Ma io col pensiero vedo il mio volumetto nelle tue mani—la mia anima nelle tue mani—ti vedo sorridere…e mi basta.

Venezia '99.

Questa la dedica che ti destinavo, mamma, quando la notte di dolore non era ancora discesa sulla mia anima… Tu non vedesti la dedica, non vedesti il volume… «Ma soltanto adesso nella tua nuova vita (consentite Antonio Fogazzaro ch' io ripeta le vostre parole) «soltanto adesso con la tua potente visione di spirito» hai potuto leggere tutto il libro nel suo fondo oscuro, vedere gl' incerti pensieri, le varie fantasie, le passioni onde uscì verso a verso, lento e triste, portandone seco l'ombra; soltanto adesso che meglio mi sai e meglio mi ami, non curando lodi nè censure altrui, cingendoti, nella memoria, con le mie braccia, lo consacro a te.

Venezia, aprile 1900.

La tua VITTORIA.

MAI!

Sotto la luna i mille cavalieri, come a squillo che chiami alla raccolta, vanno, volano, ansanti, a briglia sciolta, curvi sul crine dei cavalli neri. Ciechi, folli, non vedono, sui vaghi poggi, il grappolo offrirsi dalle viti, nè i casolari lampeggiar gl'inviti di pace, in riva agli assopiti laghi. No, no, no! Solo, luminoso, alato, bello d' una terribile bellezza, con voce di comando e di carezza chiama il sogno da tanti anni sognato. Laggiù laggiù tenacemente chiama e laggiù l'orda turbinosa vola credula, dove una crudel parola spegnerà il foco dell'accesa brama. Sta l'orrenda parola nel profondo dell'abisso, che attira avido e inghiotte chi le malìe sfidando della notte corre ai miraggi che non son del mondo. Ma che val! me che importa!—il sogno mente; tutto è invano!—Che importa? Avanti! io sono con voi, fratelli! e sprono e sprono e sprono il mio cavallo disperatamente.
Può dunque una parola, una sommessa parola, detta da un labbro che trema balbettando, valer più d' un poema, prometter più d' ogni miglior promessa? Può levarsi, a quel suono, una dimessa fronte, raggiando, qual se un diadema la cinga, e può dar tanto di suprema gioia, che quasi ne rimanga oppressa l' anima?… Io credo svelga oggi dai cuori ogni ricordo d' amarezza, ormai sazio d' umane lagrime, il destino. È così certo! non mai tanti fiori ebbe la terra, e il cielo non fu mai nè così azzurro, nè così vicino !

Note1 Nella prima redazione questi versi, che s'intitolavano: Strimpellata, avevano la seguente strofa iniziale:
Voi, voi nel dubbio, onniveggente Iddio, Voi quest'anima chiama; Il perfido mio ben, l'idolo mio, Dite, già più non m'ama?

Tace nella notturna estasi il cielo: come d'oblìo profondo in un magico avvolto immenso velo cade nel sonno il mondo. —O luna! apporti al core, che le aspetta, le soavi novelle? Ancor m'ama?—Risponde:—È tardi, ho fretta: domandalo a le stelle.— Da le stelle qualcun par che mi guardi pietoso…—Oh dite! ancora m'ama?—E gli astri rispondono:—È già tardi, domandalo all'aurora.— Mesta l'aurora ecco dal mar salire velata insino ai piedi. —M'ama?—Chiedo. Risponde:—Io nol so dire; alle nubi lo chiedi.— E delle nubi alla crescente notte ecco il mio grido suona. Rispondono con lagrime dirotte: —Povero cor!… Perdona!—
Fugge al mar nelle fredde ombre del vespero una fanciulla dalle guance smorte. Non ha negli smarriti occhi più lagrime ma il gran proponimento della morte. Laggiù, tra lieti amici, allettan facili trionfi e vani amori un freddo core obblioso; laggiù di plausi eccheggiano le affollate per lui stanze sonore. Dagli abissi, improvviso, assorge un dèmone e passa nella notte alto gridando: —Possa tu come un disperato piangere, quella morta fanciulla indarno amando.— Quando t' ho conosciuto era d'aprile, quel mese traditore che nell'ebbrezza del nascente amore pinge ogni cosa d' un color gentile. Quando t' ho conosciuto era d'aprile! E al di là della siepe io t' ho veduto. Tornavi polveroso dalla caccia; eri solo, eri pensoso. Mi rivolgesti un timido saluto. Al di là della siepe io t' ho veduto. Tornavi dalla caccia; sul cappello, largo e bruno, un irsuto pennacchio; la giacchetta di velluto, lo schioppo a spalla e… mi sembrasti bello sotto la larga tesa del cappello. Io tornavo dal bosco ov' ero andata a coglier dei ciclami; del mio sentier fra gl' intrecciati rami ti sarò parsa una silvestre fata di quei freschi ciclami incoronata! Ed era, ben ricordo, era il tramonto; veniva su dai prati l'alito sano dei timi falciati, la fragranza che vince ogni confronto; ed era, ben ricordo, era il tramonto! Ma finì quella dolce primavera. Ti rividi soltanto l' inverno, in un salotto, ed eri tanto diverso, Dio! nell'abito da sera, coi solini alti e la cravatta nera! Io ripensai quei giorni spensierati e le campestri danze, quei sogni, quel desìo, quelle speranze di due giovani cori innamorati, e ripensai quei giorni spensierati! O fresco aprile, o sano odor di timo! Ridir t'udii, tra i crocchi, una volgare celia; ti vidi, ignobile giullare, di que' tuoi lazzi rider tu pel primo. O fresco aprile, o sano odor di timo! Tu, nuove arguzie rimestando in mente di me non t'eri accorto. Io tremai come se vedessi un morto, un caro morto amato inutilmente, tra quella folla gaia e indifferente. Sul cor mi cadde, come un velo fosco, un súbito sgomento. E a chi di te mi chiese in quel momento io rispondere osai:—Non lo conosco! Sul cor mi cadde come un velo fosco. Dunque domani! il bosco esulta al mite sole. Ho da dirvi tante cose, tante cose! Vi condurrò sotto le piante alte, con me; solo con me! Venite! Forse…—chi sa?—non vi potrò parlare subito. Forse, finalmente sola con voi, cercherò invano una parola. Ebbene! Noi staremo ad ascoltare. Staremo ad ascoltare i mormoranti rami, nello spavento dell'ebrezza; senza uno sguardo, senza una carezza, pallidi in volto come agonizzanti.

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Tutto quel che l'orgoglio avea dettato nei lunghi giorni dell'attesa al core, nei lunghi giorni dell'oblìo, nell'ore dell'odio (sì dell' odio!), oggi ho scordato. E di vane speranze e di dolore, per l'immenso tesor che m'hai costato, se un giorno io t'ho con tenerezza amato, t'adoro adesso con selvaggio ardore. Tu solo, tu mia gioia e mio tormento, che negli sguardi appassionati e mesti chiudi tanta d'impero alta malìa, tu che in ogni splendor vivere io sento, solo tu, solo tu, vincer sapesti questa non mai domata anima mia!
Alfine, alfine! ecco tutte le cose tacciono; il mondo tace. Regina o schiava qual mi vuoi abbimi! è questo il momento, per questo l'universo aspettava. Certo aspettava da cento secoli, e tutti chiedeano: —Che attende? E perchè questa tenace estasi, e tanto accendersi di stelle come faci a una festa? Ecco la febbre dell'ora, scote di palpiti novi le Pleiadi e nel vento passa l'annuncio… O mio amore, unico amore, udisti l' Ave del firmamento? O dolce notte, o notte chiara, ad un'altra somigliante, un'altra tanto lontana! O lunghi sguardi, o rotte parole, o gioia nel core compressa! Mi ripeteva:—Sempre! Sempre!—e l'anima bevea quella promessa. Bevea quel veleno benedicendo alla vita e all'amore; or egli, sotto il limpido sereno, a un altro cor che innammorato cede la bugiarda parola osa ripetere. E un altro cor gli crede. Al suo tornar nella solinga stanza chiesero l'ombre del nido romito: —Dunque mentiva la dolce speranza? dunque l'ultimo sogno anche è finito?— Ella sedette e immobile rimase con gli occhi persi in fantasmi lontani: poi finalmente, nascondendo il volto nelle piccole mani, scoppiò in singhiozzi. Oh se potessi ancora sognar! ridirmi ancora: —egli m'ama, egli pensa a me, sempre; egli guarda questi limpidi giorni e pensa a me; guarda queste serene notti, ed incontro sempre l'innamorato suo pensier mi viene! questa lucente vita non gli par bella se non per me sola, e con me sola; tutto l'altro ormai follia, follia, follia, e nessuna parola lo accende e lo consola se non gli viene dalla bocca mia. Quando verrà l'inverno coprendo il cielo d'una bigia trama di nuvole, e cadranno le lunghe piove e le melanconie sovra la terra; intorno a me, ch'egli ama, sarà il sole, una calda onda di sole, l'ardente soffio d'intensa brama, la viva vampa delle sue parole intorno a me, ch'egli ama! Ecco Novembre; s'aprono i cimiteri. Oh se potessi ancora sognar! L'inverno viene ed il sol ci abbandona. Oh se potessi ancora sognar! L'inverno viene ed il sol ci abbandona. Cadon le pioggie lente, s'aprono i cimiteri; una campana suona interminabilmente. O piccioletto morto, fu bene a te funesta la screziata vesta di smeraldo e rubino! Eri troppo giocondo, eri troppo felice; e se dà gioie al mondo le dà brevi il destino. A luminosi monti sovra l'abisso oscuro viaggiavi sicuro, e il cielo azzurro e il flutto credevi tuo, credevi eterno quell'immenso tripudio, e non sapevi che solo eterno è il lutto. Dimmi, piccolo ucciso, in quel tempo beato cui da Dio t'era dato il cielo ampio cercare sulle allucce tue pronte, che mai vedesti, oh dimini, di là di là dal monte, di là di là dal mare? L'ali aperte ancor tieni, povero amor! Volavi verso brezze soavi dietro un sogno gentile, quando un umano, un forte, ti precideva il volo saettandoti a morte. Oh l'uom, quanto è mai vile! Mio povero uccellino, un tempo anch'io, lo sai, per l'etere vagai libera, e m'eran ali —ali ardite e possenti— i miei giovani sogni, i miei palpiti ardenti, le speranze immortali. Anch'io con volo aperto dietro un sogno d'amore, dietro un amico albore che mi ridea lontano, anch' io fui còlta, e il dardo mi lanciava un nemico beu più del tuo galiardo che del mondo è sovrano. Tu, morto sei col sole negli occhi, in mezzo ai fiumi dei silvestri profumi, e a sospirar la festa perduta mancò l'ora. A me, per la tenace cura che mi divora tutta la vita resta. Se mi fossi vicino e ti potessi dir quello ch'io provo, o mio sospiro intenso; dirti che ormai non penso che a te, che ormai non vedo che te, dovunque; e i palpiti, e le pene dirti, tu pure io credo, o mio tormento, mi vorresti bene. La primavera viene e l'impeto del cor si ringagliarda. Una febbre si sente di fuggir dalla gente sotto l'amica Luna, stretti mano per man, l'occhio rivolto all'eterna del ciel cupola bruna, mentre l'aria d'April ci batte in volto. Rabbrividir d'amore… restar muti, così, senza guardarsi quant'è lungo il cammino in quel sogno divino, mentre le ardite brezze scambiano baci coi mandorli in fiore, baci fragranti e tepide carezze senz'ombra di sospetto e di rossore…

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Quando ti vidi per la prima volta, l'anima mia si chiese: —già non mi vinse il fascino di quello sguardo? e come? e quando? e in qual paese? Quando parlasti, dentro la memoria risonò l'affiochita eco d' un'altra voce e d'un'altra parola non so più dove udita. Chiara, precisa, del ricordo strano non una forma sola. Penso e ripenso invano: —di chi fu qualla voce? quale fu la parola?
Lui rideva… Con l'anima negli occhi, le mani l'una dentro l'altra stetta norvosamente e fisse sui ginocchi, ella parlava, a bassa voce in fretta, non curando gli altrui sguardi, gli sciocchi commenti, tutta in un desìo ristretta, assunta fuor degli attornianti crocchi come in un ciel d'ebbrezza maledetta. Lui rideva!… E la donna altera e ambita che per tanti anni, come ascoso tarlo, s'era tenuto in cor l'amore e aveva visto ai suoi piè la folla inesaudita, seguiva a dire, a fremere, a pregarlo spasimando d'angoscia…: e lui rideva!… Va nella notte l'anelante spettro tra le fragranze dei vigneti in fiore, va nella notte e da conquistatore schiavo il mio corpo si trascina dietro. Solo il mio corpo, l'inerte persona; ma dal possente che scintille esala ratto si sciolse con un colpo d'ala quel che laccio terren non imprigiona, ed a ritroso migra ad un alato fratel che incontro cupido gli viene; libere vie liberamente tiene sui vinti gioghi e il mar signoreggiato. Sì, lo spettro che torbido viaggia lunge si porti il frenito degli ebbri sensi, il tumulto, le maligne febbri, gl'impeti della mia fibra selvaggia; e a te venga, e di raggi e fior si valga a parlarti d'amor senza parola tutta l'anima mia, l'anima sola, e la tua cerchi, e le si stringa, e salga! Dormono i campi, non s'ode una voce. Solo un passo, che male discerno ove sia vòlto, un passo lieve, ritmico, veloce, io nel silenzio della notte ascolto. Va, va, va, quel notturno pellegrino, e benchè mai non resti, e benchè sempre a un modo segua rapido e uguale il suo cammino, io nella notte lontanar non l'odo. Va, va, va, come mi passasse accosto sempre, sempre, e fuggisse sempre un persecutore; va, va, il fantasma nell'ombre nascosto che cammina col ritmo del mio cuore. Io sento io sento che una qualche stilla di vita, egli, passando, mi beve; ai miei pensieri ruba un sogno, al mio sguardo una scintilla, lorda di polve i miei capelli neri. Io sento ch'egli porta a dei lontani cuori l'oblìo dei voti che travolse il destino, l'oblìo dei cari dì senza domani, l'oblìo di me che a ricordar m'ostino. Stelle chiare, voi ridete, nè sapete queste mie pene segrete, queste mie lagrime amare. In quel vostro di quïete curvo mare sono forse velate are su cui vivide spendete sempre liete, sempre ignare, come i ceri sull' altare? La vecchia anima sogna… Oh vieni! andremo come allor, di silenzio e d'ombre in traccia, stretti per man, nella tranquilla sera d'aprile, senza proferir parola. La mia pallida faccia chiuderò intorno come una spagnola nella mantiglia nera, nè tu vedrai le rughe del mio volto già sfiorito, nè i miei grigi capelli. E torneran giovanilmente belli questi occhi, nelle miti ombre dell' ora; l'anima mia per essi (oh mie velate, stanche pupille che piansero tanto!) manderà lampi ancora, e ancora evocheremo, nell' incanto d'aprile, le passate estasi e dolce invaderà lo spirito un bisogno di fede e di preghiera. Oh nella notte andar di primavera tra le fragranze delle prime rose e la solfa pacifica dei grilli! andar muti così, stretti per mano, nel sonno delle cose e il vivo fiotto dell'amor lontano, come onda che zampilli fresca improvvisa fuor da un'arsa rupe, erompere dal nostro arido euore! Non credi tu che il seppellito amore risorgerebbe? Oh ch' io riprovi un'ora sola d'ebbrezza, un attimo d'oblìo per le angosce dall'anima patite! Oh ch' io risenta ancora l' impeto nel mio cor di mille vite benedicenti Iddio, Dio che agli uomini diè la giovinezza e alla patria degli uomini l' aprile. Viene il vento recandomi un sottile odor di selva; annotta, e sui tranquilli campi l'ombre si stendono. Una nota limpida sale, si ripete, erompe in improvvisi trilli, in una frenesia di gioia, ignota a noi, fatti di fango e di menzogna. La notte ascolta e beve da quel canto l'estasi. La mia vecchia anima sogna.

I.

Eccomi finalmente sola!… ancora un altro giorno s' è compiuto; ancora io per ore e per ore ho trascinato il mio fantasma tra la gente; ho riso; detto parole; carezzato i bimbi altrui, con gesti lenti di persona tranquilla; ho passeggiato pei sentieri, ch'egli amava, con altri, e visto il velo della sera cader sovra i lontani monti, quei monti che con occhi accesi di gioia, contemplò, la mano stretta nella mia mano. Io feci anche presagi sul tempo, sulle messi e la vicina vendemmia e la raccolta, con sereno accento di serena anima! Alfine eccomi sola! Ancora un altro giorno. Fino a quando, o Signore!

II.

Oggi ho trovato, in un vecchio scaffale, della vecchia musica manoscritta; aveano i tarli ricamato di strani fregi il foglio duro e giallo, consunto un poco e un poco accartocciato ai margini. Lo posi sul leggìo; volli leggere. Le note erano a tratti svanite, ed io, tutta chinata inuanzi, decifravo a grande fatica. Ma dai primi accordi un' onda di angoscia parve s' avventasse incontro a me… Più forte io risentii la stretta delle memorie, a me dicea l'antica gavotta, solo due parole:—Mai più; mai più.—Solo quelle due parole dicean le note… Chiusi il foglio; gli occhi più non vedeano… In un lontano giorno, chi sa? qualcuno aprì questa ingiallita carta, sovra il leggìo d'una dipinta spinetta, tutto intorno istoriata a pastorelle inghirlandate, in rosea veste, su prati in fiore, in riva a laghi cilestrini… Chi sa? Rideva il sole quel giorno sulla terra ed era forse una fanciulla, gli occhi ed il pensiero tutti pieni di luce, assisa innanzi al cembalo… Le note altre parole certo dissero a lei, certo cantarono alla sua giovinezza ebbra una dolce lusinga, un inno, una promessa sola ma smisurata e perfida:—Domani!

III.

Domani!—Che avverrà domani? Quale miracolo potrebbe una speranza risuscitare? Potrà mai la terra fendersi e scoperchiarsi un' inchiodata bara, e di nuovo accendersi due spenti occhi, e una bocca suggellata ancora aprirsi alle parole? Quelle rigide mani, potrannno mai come una volta le mie stringere ancora? Ecco, domani io questo penserò, come oggi e ieri e sempre. Così i giorni, i mesi e gli anni passeranno, e dovrò, placida in volto, attendere ai doveri, ai modi, agli usi della vita; sorridere ai cortesi motti, pensare alle mie vesti, e dire parole… Sono tutte eguali ormai l'ore per me, solo la notte è forse più tormentosa. Io penso i riposanti profondi sonni dell' infanzia, i lunghi obblii di quelli abbandonati sonni.

IV.

Piove. Certo laggiù, povero morto, è freddo e buio, ma più freddo e buio è qui, qui sulla terra, ove le foglie son tutte gialle, e van col vento, e cadono, cadono, e il cielo copre una gramaglia fredda. È quassù l'algore, in questo immenso deserto, dove sola una smarrita anima va, senza più meta, incontro a un' infinita tenebra, sbattuta dalla tempesta che non posa, in questo inverno di dolore.

V.

Eccole, sono qui tutte le sue lettere! rivive qui la sua man nervosa e scrive in fretta qui sopra il nome mio, chiude, suggella… Non fu ieri? Son tutte entro la bianca copertina. Con quale ansia le apersi in quei giorni lontani, e con qual gioia! Ecco, a questa la stecca impaziente lacerò un canto. Per tre lunghi giorni l'attesi ogni ora, e, nella notte, i sogni eran pieni di lei: giungeva ed era diretta ad altri; o protendea la mano a ghermirla e vedea come in vapore svanire il foglio… Alfine giunse! Alcuni amici conversavano e rideano con me; ricordo che tranquilla in vista la presi, la posai, volsi la spalle alla luce, e più attenta anche mi finsi alle parole che non più la mente comprendea. Dentro, un palpito che tutta mi scoteva; nessun vide le labbra tremarmi? Certo io le costrinsi a un riso fine e pacato… Dopo… Oh finalmente sola, strappai la carta! Ormai finito è tutto, tutto è vano; e quasi adesso esito a trarne il foglio. Eccolo! steso dinanzi a me, ma gli occhi una parola soltanto posson leggere; una nebbia vela subito gli occhi… È la parola dolce e crudele come la memoria d'una carezza che più mai due morte mani potranno ridonarci:—Cara!

VI.

E tornerà la primavera! I vesperi sereni dell'Aprile torneranno ancora; tornerà l'aria impregnata d'odore, e in alto, in un clamor di gioia passeranno le rondini.

VII.

Leggiamo! E tutti i nostri torbidi pensieri siano travolti come dentro un gorgo dagli altrui. Qualche eccelsa anima prenda la nostra come in pugno e la costringa ad ascoltare la sua voce. Il libro intonso, invita. Forse una parola chiude consolatrice? Apriamo a caso. Ecco:—«Quello che fu pei nostri ingenui precursori l'assidua ricerca dell' ideale e della verità e della gloria, le correnti indocili del secol nostro han fatto ora un' industria patentata: l' industria del balocco verbale».— Vero e triste! Ma che importa a me, che importa dell'arte, del vero della parola? Unico e tremendo vero questa continua tortura dei ricordi. Potrò mai per un attimo dimenticare? potrò mai le nuvole bianche, come ali bianche, e il sole e i fiori e i prati e il mare, come un tempo, ancora guardar serena, senza udir l'amara domanda dentro:—«Perchè adesso ride la terra? Perchè tutto è ancora in festa? che vale ormai!…»

NEL VECCHIO PARCO.

O distese di prati, o sfumature molli di cilestrini colli dai vertici rosati; pia brezza vespertina, onde modeste e chete, l'anima mi rendete di quando ero bambina! Datemi per brevi ore quella vergine mente, quel gran core innocente tutto pieno d'amore; scordi l'anima mia, esperta di sventura, che spesso si spergiura e più spesso si obblìa. Oh fate che a una calda parola ancora io possa con l'anima commossa dar fede intera e salda! Pia brezza vespertina, onde modeste e chete, l'anima mi rendete di quando ero bambina!

UNA PROCESSIONE IN CANNAREGIO.

Passa lento il corteo. Forse le prore repubblicane ad acclamar vincenti, tonache e stole un dì non altrimenti moveano, al lume dell'adriache aurore. Sta sul ponte il corteo. Ma il giorno muore oggi nei flutti algosi e sonnolenti, ma una pace d'oblio tiene or le genti che fur della lontana Asia il terrore. Alto su tutti, nella luce spande il perdono del ciel sovra il felice gregge, il Pastor, col gran segno divino. Laggiù nelle lagune anche un più grande ostensorio balena, e benedice all'arte di Carpaccio e Giambellino.
La Luna rossa e tonda si leva su dai prati lontani, che di cenere la notte ha colorati. Dell' infinita landa la grigia tinta uguale solo rompe il fantasima d'un candido casale. Sorride il plenilunio a quel candor; sull'aia un nero cane immobile guarda la luna e abbaia. Qua e là per la campagna irti si drizzano al cielo i rami delle piante esauste. Piove; incombe sull'ampia solitudine desolata, il silenzio. Sulla deserta immensità dell'anima talor mute così piovon le lagrime; umane braccia così al ciel protendonsi talora, emunte e supplici. Sotto la fitta grandine pregano le campane desolate con la voce dei secoli: —Signor Signor, cessate! Cessate dal percuotere chi alla terra non chiede altro che il pane, cessate dal distruggere severamente le speranze umane. Son tanti anni che soffrono, tanti anni che v' implorano, o Signore; e stanchi omai si chiedono se Voi siete e da Voi viene il dolore, o piuttosto uno squallido deserto è il cielo che l' uman pensiero nell'angoscia si popola, sfuggendo al vuoto orror del cimitero!— Sotto la fitta grandine pregano desolate le campane con la voce dei secoli: —pietà, pietà delle sciagure umane!— E intanto ecco dall' ultimo orïente, la luna erge il suo pieno disco; sul mar di nuvole, ecco, intanto laggiù rompe il sereno. Mite sorride agli nomini la bianca luce e le campagne inonda, mite come un rimprovero materno, che ad accusa empia risponda. La gran voce dei secoli nel diffuso chiaror s'accheta e tace; ogni altro suono affondasi, lento, nel mar della notturna pace. Laggiù nei prati l'ombre s'allungano dei pioppi; assorta nel cheto vespero la verde pianura si stende incontro all'alto mar d'ametisto. Morì la lunga nota dell' ultima stornellatrice; tacque l'allodola nell'alto; non s'ode che un largo bisbiglio, all'erbe sotto e tra i rami, come talora vibran nel tempio, dopo i cantati salmi, de' monaci l'estreme preghiere sommesse rimormorate lasciando il coro. Salgon dall'erbe recisi effluvii di moribondi fiori. A me salgono dal core i ricordi, fragranze vostre, o morenti fior del passato! So d' un palazzo dalle mura antiche triste così ch' ha di sepolcro aspetto; bruno di muschi dagli sproni al tetto, ingombro l'atrio d'edere e d'ortiche. Dentro, un'ava grinzosa, in sè raccolta dinanzi al focolar deserto e spento, segue a narrar con infantile accento una leggenda che nessuno ascolta.

(TIROLO).

V' ha una valle beata, di vette incoronata eccelse e belle; dal suo cielo le stelle arcani lampi mandano ai verdi campi, e ai primi albori sbocciano fiori ch' han del cielo il riso. È un dolce paradiso che a Dio piacque d'ombre spargere e d'acque e di gioconde farfalle vagabonde, e pace eterna diresti che governa questa valle. Eppur, per ermo calle e dentro i foschi sentier dei boschi, talor s'ode il vento metter come un lamento o ruggir forte quasi nunzio di morte, e talor anche ti giungono le stanche ultime strida d' un augel, che l'infida aquila al petto vorace si tien stretto, e ad ogni speco torna e ritorna un'eco acerba e lunga che un giorno fia che giunga ultima al cielo.
Maligne vampe via per la pianura sterposa, l'erbe abbrustiano; lontano d' un acquedotto la ruina oscura par la vasta ombra d' un curvo titano. La cicala, il sopor meridïano sola rompe in una stridula misura; muggito non s'ascolta o canto umano in quell'immenso tedio di natura. Fugge il ramarro e va tra sasso e sasso, mentre nell'alto il crocidar si spande d' un corvo, in vetta alla cadente mole; più lunge ecco venir con tardo passo un bufalo solingo e far più grande quel gran deserto cui sovrasta il sole. Piovea; per le finestre spalancate a quella tregua d'ostinati ardori saliano dal giardin fresche folate d'erbe risorte e di risorti fiori. S'acchetava il tumulto dei colori sotto il vel delle gocciole implorate; e intorno ai pioppi, ai frassini, agli allori beveano ingorde le zolle assetate. —Esser pianta, esser foglia, essere stelo e nell'angoscia dell'ardor (pensavo) così largo ristoro aver dal cielo!— Sul davanzal protesa io gli arboscelli, i fiori, l'erbe, guardavo, guardavo… E mi battea la pioggia sui capelli. Canta una voce:—O genti dolorose io vengo, io vengo! Aprite alle speranze il core, aprite le rinchiuse stanze alla giungente carica di rose. Io vengo, io vengo! Ogni deserto ed ogni rupe fiorisce; levate la testa e sorridete; io vengo per la festa meravigliosa, carica di sogni. D' un più costante e luminoso Maggio la promessa vi reco. O contristati cuori, o negletti, o vinti, o disamati, o vacillante umanità, coraggio!— O ramoscel di pesco, alla sorella mia reca l'odore del vasto prato costellato e fresco, odor d'Aprile, odor di piante in fiore; alla sorella mia sveglia nel core immagini di gioia e di candore, o ramoscel di pesco! D' un fiumicello a lato laggiù nel prato la famigliuola ecco seduta a desco; intorno brilla il sole e ride Aprile, intorno è un pio tepore, un alito gentile d' innocenza e d'amore. Sovra il giocondo desco all'aria che lo move rosee corolle piove ebbro di sole un pesco. Questa mane è piovuto, e alla mia stanza sale dalle aperte finestre quell'odore autunnale dei boschi, che risuscita forme e sogni scordati: abbadie scure e mute; monaci incappucciati; vecchie selve, dimora favolosa di maghi dalla bacchetta d'oro; grotte profonde, e laghi tetri, dal fondo verde d'alighe lunghe e folte, forse chiome ribelli di naiadi, sepolte sotto quell'acque… A quando a quando il sol percote la parete di contro, e muta tinte e note a quel mobile mondo di fantasmi… È fuggita ogni strana sembianza; ecco il sole, la vita, la giovinezza, il vero! Che risi seduttori che inviti, in quel suo bianco raggio d'autunno! «Fuori!» —sembra dir—«I'aria è fresca, i prati sono ancora verdi, e Cerere amica d'auree messi colora i campi; oggi risplendo a festa, ma non giuro d'esser l'ugual, domani; lo sapete, è sicuro solo l'istante, l'ora fugge e i maligni fati v' invidiano le feste; dunque fuori! sui prati, alle colline! Avanti! che l' inverno è alle porte ed avrò un bel risplendere se le foglie sien morte e la neve distesa sulle zolle deserte di vita! » E intanto fulgida dalle finestre aperte entra un'ondata bianca e m'invade la stanza e spia per ogni dove come un bimbo in vacanza; fruga tra i libri, scherza sul minuto lavoro degli stipi; a ogni ninnolo dà una pagliuzza d'oro e ride… Io vorrei correre ai colli alti, al divino aer libero e fresco, ma… sovra il tavolino un nero volumone mi guarda, fa il cipiglio, m'ammonisce, borbotta. Come è ingrato il consiglio che mi dà quel maestro inflessibile e grave! il cielo è così bello! l'aria così soave! forse… è l'ultimo giorno di festa. O che mi serbi tu, libro tenebroso? forse dei veri acerbi e null'altro… No! meglio l'istante spensierato, il sogno, anche se breve, il fantasma, evocato da un raggio bianco e un ramo di gocciole coperto… Corriamo ai prati, ai colli, all'aperto, all'aperto! Nel gran sereno passan leggiere nuvole, lente nuvole pensose, come assorte in lontani ricordi di lontane primavere. Giù sulla terra sbocciano le rose, ma come stanche; pensano i sovrani fiori, d'un'altra remota stagione… I bianchi fior che il giovanetto Adone tinse di sangue, e le fanciulle greche ridenti al sole givano cogliendo su Ciprigna a profonder le corone. O bellissime vergini! le bieche parche, al mirarvi, trattenean l'orrendo ferro, pronto a recidere lo stame, e d' Afrodite pel vasto reame correva un ineffabile clamore fatto di risa, fatto di canzoni, voci improvvise d' improvvise brame, flutti di quell'oceano d'amore, e fra i roseti andavano i garzoni voi rintracciando, e il sol benedicea. Fumavan l'are sacre a Citerea, e su quel mar di vergini e di rose fissava immota i grandi occhi pagani bianca tra i fior l'effigie della Dea. Più non fumano adesso le corrose are, e polvere son le bianche mani ch'arder facean la vita ed il piacere… Tornano chiare e tepide le sere, torna l' Aprile, tornano le rose ed a sognar ritornano gli umani, ma nel sereno passano leggiere nuvole, lente nuvole pensose, come assorte in lontani ricordi di lontane primavere. Dicono l'erbe nove, dicon le siepi di virgulti piene: —Questa, che incerto move lo stanco passo e sospirando viene, certo smarrì la traccia; non sai che qui s'appresta la portentosa festa d' Aprile, o donna dalla smorta faccia? Noi vogliamo gioconde frotte di bimbe e garzonetti a mille, noi vogliam trecce bionde e risa e sguardi pieni di scintille; oggi, tra canti e danze, sotto i mandorli in fiore, passa il corteo d' Amore, il bel corteo di sogni e di speranze. Via, via! dà luogo! i suoni già non odi venir laggiù dai prati? non odi le canzoni rivelatrici degli innamorati? Oh quella faccia smorta vélati, e va' lontano; ogni lamento è vano quando la bella giovinezza è morta.— La mesta pellegrina, ch'ode lo scherno striderle a le spalle, s'affretta per la china che al burron mena dall'aperta valle; invano, invan mercede all'erbe, al sole, al vento, nel cupo smarrimento quella stanca ferita anima chiede. Con l'occhio innanzi fisso va dove oblio promette e fine ai guai la voce dell'abisso; va con alta la fronte e vinta ormai ogni codarda téma…— Dietro, sui prati in fiore, passa il corteo d' Amore, l'eco d' una canzon nell'aria trema… Ecco la cerula notte, la placida notte d'estate! Miti bisbigli, lucenti palpiti di stelle, tepide fragranze, entrate! Tutte ad accogliervi mi protendo avida sul davanzale; dolce sommergersi dentro la libera marea degli esseri che scende e sale! Pensose ascoltano l'ombre del memore parco; le stanze di sotto echeggiano aperte; cantano sul vecchio cembalo vecchie romanze. Ed ecco, svegliano le note un popolo d'ombre; la mente le vede in rapida fuga rincorrersi; il cor la mistica voce ne sente. Parole tornano che un dì si accolsero con disattento orecchio, e parvero scure; ora l' intimo foco sprigionasi dal freddo accento. Tornano supplici sorrisi e pallidi vólti scordati. Un'onda tremola nel plenilunio bianco, tra il placido sonno dei prati. Spettrali, d'edera avvolte, sorgono Certose, e strane ombre di monaci, sfilanti tacite ad un monotono suon di campane. Torna d' un ultimo sguardo, d' un avido sguardo d'addio, tutta la perfida dolcezza (o palpiti, o angosee, o lagrime date all'oblìo!) Nell'aria salgono le note a perdersi nell'ombra folta, narrando storie dolci e terribili. Muta ed immobile la Notte ascolta.

Note1 Fu pubblicata la prima volta col titolo: Sera d'estate.

Oh quanta pace intorno, oh come stellata è la notte! Non qui, stesa nell'ampia poltrona di giunchi, su questa loggia, aperta sull'alta vallata, dinanzi alle scure montagne; ma librata nell'aria, siccome una lieve spora, un vapore, un'ombra mi credo, e in eterno vorrei che durasse quest'ora; che sempre, in eterno, durasse questo celeste sonno dei sensi. O dolcissima notte! o notturna dolcezza! Mi guardan da presso, coi gialli occhi, le avviticchiate vitalbe. O guardate, guardate! ben è davvero un novo miracolo questo; guardate! guardate! una vivente felice!… Oh che sempre durasse, sempre, questo fugace riposo, o stupendo universo, per adorarti! Squilla uggiosa nell'alta quïete una tromba. Il silenzio, il sonno forzato, la grave afa dei cameroni gremiti, alla notte racconta lo squillo. Invano l'ora, o grami fratelli, v'invita sotto il libero cielo, all'aria, a quest'aria fragrante di caprifoglio in fiore, di glicine in fiore, dall'alito fresco, che dopo il lungo tripudio sotto i fiammanti baci del sole, sazie esalano l'erbe, le piante, mentre la notte, l'ala sovr'esse agitando, le induce alle tregue feconde. Invano invano, o rinchiusi nelle infette caserme, vi chiama la sera, quest'ampia bellezza, quasto immenso oceano d'atomi d'oro palpitanti, ove affonda in pace d'oblìo l' inquieto spirito. O miei fratelli, perchè vi è contesa la dolce ebbrezza di quest'ora? Perchè più tranquillo gioisca altri? Perchè non tema di gente nemica, indifeso, le superbe disfide, o rabbia di popolo, o pronto impeto d' invasori? Perchè, se lo vinca follìa, a sua volta, di nove conquiste, e più larghi dominii, a sua volta ne possa bandir la novella alle genti con parole di tuono, e pronti egli v'abbia. o fratelli, pronti a versarlo tutto il giovane sangue, e le vecchie madri piangano, e pianga la vostra fanciulla, e la terra tutta imprechi alla strage? O stelle innocenti, o serene stelle, dite:—non empio è questo? Non degno d' insane ferocissime belve pinttosto che d' uomini, d'alte menti, che la ragione rischiara traverso la notte terrena, rivelando che vano, che improvvido è tutto fuor che l' intimo, assiduo, magnifico sforzo al fatale ma faticoso ascendere umano, a più larghe correnti di pensiero, a più libere conscienze, a quel sempre velato ma onnipossente fascino che in ombra ci appare se dormono i sensi, e ci balena talora tra i lucidi abissi del cielo, e nella immensa bellezza di tutte le cose; e ci chiama, e ci attira, e pronti ci vuole al comando d'attingere per gli aspri innumeri gradi, le altezze arcane, dall'errore sciogliendoci e sempre affinando l'essenza nostra? È questo possibile, o stelle, se dura la notte dentro i cuori? O stelle purissime, voi ben sapete che senza quest'orda malvagia di stolte ambizioni, intesa da secoli a empir di follìa le menti,—questi umani incogniti abissi,—ciascuno aver potrebbe un pane, avere una goccia d'amore senza battaglie e senza malvage tirannidi e tristi schiavitù. Non è vasto il mondo? e non tutti riscalda il sole? e non per tutti matura le mèssi? d' un pane e d' un sorso d'amore sol bisogniamo in questo brevissimo esilio; da un'unica speranza scòrti, un solo ardor non dovrebbe lo spirito sospingere? una sola bellezza infiammarlo, una sola spronarci a segrete battaglie idea superba: Ascendere?—
Giorno limpido e triste! Ho dentro l'anima un' insolita voce che si lagna d' un male ignoto. Come una sonnambula io guardo il cielo, guardo la campagna e il decrepito sole e la decrepita terra, e qui noto e fermo questa mia ora di vita: aggiorna; i campi ridono, ma d' un sorriso di melanconia. La famiglia dell'erbe e delle piccole piante, dal gelo mattutin ferita, china, in atteggiamenti melanconici par che alle zolle mormori:—«È finita!»— E una foglia, sospesa a un' invisible fibra, tentenna senza vento, e dire sembra al suo triste ramo, con monotono ritmo:—«lo non voglio, io non voglio morire!»— Molto quest'autunnale ora somiglia la stanca anima mia, dove se splende qualche raggio di gioia, è il melanconico addio d' un vecchio sole che s'arrende vinto, all' inverno. Ma sospesa al tenue filo d' un sogno, un' ultima, appassita speranza, come quella foglia palpita e protesta se anch' io penso:—«È finita!»— È nel mio sogno un prato tutto verde solitario, tra due spalle di monte, e l'erba trema al soffio dell'ombra. Di là, nel sole, cantano, ma il canto va lontano e poi si perde. Più solitario resta e più silenzïoso, nel mio sogno, quel prato tutto verde.
Come sotto la neve dove l'erbe, sognando il ciel di maggio, dormono un sonno greve, talor penetra un raggio fervido come il bacio d'innamorata bocca e, tosto giunto, il ramoscel cui tocca giovanilmente avvivasi; così dal mio riposo la tua calda parola ecco mi desta, e dal tedio gravoso anch' io levo la testa come la pianticella già costretta dal gelo che mette foglia e leva il molle stelo sul pesante sudario. Ma se tenace orgoglio spiega l'inverno e nevi altre distende, quel novello germoglio l'ultima sera attende; lo serbava il letargo. ma la ridesta vita novamente ferita, dovrà per sempre cedere. Tal forse avrò destino, e se dopo il vital raggio cortese torni scuro il cammino e tornino le offese del nembo, e la suprema fede mi sia ritolta, il capo piegherò l'ultima volta nell'ultima battaglia. Noi vogliamo cantar liberi al sole come il gricciolo e come il capinero. Se il core piange, piangan le parole, ridano i canti se ride il pensiero. Ora il fiorito or l'arido sentiero eleggerem secondo il sogno vuole: oggi l'ortica e il cardo battagliero, doman… côrremo a monti le vïole. Ai freschi di natura aliti sani l' idea, libera e forte, aprirà l'ali svegliando un vivo fremito giocondo. Eco d' ignoti, augurio di lontani, non di sùbiti eroi nè d'immortali, ma di fratelli nomadi pel mondo. Vanno per l'aria in un clamor di gioia le rondini. Che dolce ora! Il volume, che attende aperto sui ginocchi, ha un brivido come d'ebbrezza, e volgonsi da sole le pagine viventi quasi con ritmi lenti di sommesse parole. Ascolto e intendo. Da che lunghi giorni, o brezza, io t'aspettavo! ora tu giungi come un tempo, recando i freschi odori, gli audaci inviti, e gl'inni e il riso eterno d'aprile; ma che giova quest'allegrezza nova se nel core ho l'inverno!—

La Brezza

—«Ignoro chi tu sii; le andate ignoro gioie che piangi. Se carezzo e bacio, non io farlo vorrei, nè indago i sogni di voi mortali. Come voi costretta ad obbedir l' ignoto, canto e passo nel vuoto avida di vendetta.»— O triste brezza! passa pur ma taci, taci il segreto e all'anima consenti il sogno. Troppo ci ammaestra il vero col suo sottile roditor veleno! dolce all'oppressa mente pensarti un' innocente figlia del ciel sereno.

La Brezza

—«Blandire, sugger le fragranze, e l'ali delle farfalle sostener, m' è grave tedio; più grave il non veder compresa la mia pena. Si sveli oggi il mio duro fato, e nessuno ignori che se m'amano i fiori non li amo io nè li curo. Vorrei… Vorrei, libera e forte, il volo possedere del vento, e l'alte chiome squassar dei cerri e svellere le immani querci, e dell'alpi inabissar le intente fronti superbe; anch' io esser dèmone o Dio, conscia, grande, volente!»—

Il Vento

—«Chi m'invidia laggiù? Stanco, le selve corro pur sempre e gl' imprecanti mari, per quel voler che, ignoto, mi s' impone; cader mi veggo le valanghe innanti, ville ingoiar le frane, seppellir carovane le sabbie turbinanti, e non val che mi colga una profonda pietà: m'incalza un crudel furore sempre il destino e la rovina, ovunque movo, mi segue. Quale spirto ignavo invidia la mia sorte? Non son io, perchè forte, più misero e più schiavo?»— Manda il tramonto un ultimo bagliore come d'incendio e tutto poi si vela e posa. Io chiudo il mio volume, e guardo lassù, la volta mistica, la bella sfinge azzurra, ove mite alle querele ardite, ride la prima stella.
Alla sua porta giunse un cavaliero e disse:—«Le tue guance hanno il colore dei ceri; hai l'occhio spento; e fra le attorte ciocche del tuo nero crine lampeggia qualche fil d'argento. Che attendi ormai? Senti che scoccan l'ore? Senti?… Son l'ore estreme dell'estrema tua giovinezza; un ultimo bagliore di vespero, e dirotte pioveran l'ombre; l'anima non trema dinanzi al dubbio dell'eterna notte?… T'offro l'ultimo sogno; io son l'Amore! Scendi, fuggi con me che son l'Amore. Tutta la gioia e tutta la bellezza del mondo, finalmente, conoscerai. Non senti? scoccan l'ore e forse la promessa ultima mente e morte la speranza ultima spezza.»— Ella rispose:—«Io son qui sola, o Amore, con la mia vecchia madre. Il Paradiso nè spero, nè l' Inferno temo, ma di lasciarla io non ho core, io, caldo raggio del suo freddo inverno, io, cui prima nel mondo ella ha sorriso.»— —«Una fiaba, una nova fiaba, finchè l' inferno si scatena! Non senti che turbini e che piova? Narra! vogliam sommergere nei sogni il pensiero e scordar che vien l'inverno. —«Narra! e la fiaba sia lieta. Vieni! il camino splende!»— —O fratello, è triste oggi l'anima mia e non ha sogni. Io ti dirò la vera storia (se pur vorrai) d'un pellegrino. —Giù nella spaccatura d'un gran monte è un sentiero; per quel sentiero ei va. Son le inaccesse mura di basalto, ed il sol raro balestra un lampo, giù per quell'abisso nero. Va, va, sperando un'erta improvvisa, assetato d'un vasto arco di cielo, della gran luce aperta, e ad ogni seno, ad ogni piega, ad ogni serpere dell'orribile burrato, la speranza si affranca di guadagnar le vette d'oro, per una chiara via libera, una bianca strada immersa nel sole, e attinger l'ebbro appagamento che il desìo promette. Egli così procede in quell'eterna sera; e il baratro si attorce assentendo alla fede in un vicino balenar di terre ridenti, ai raggi della primavera. Là, in fondo alla divisa rupe, un barlume appare; là certo un'ampia scena si schiuderà improvvisa con l'infinito delle lontananze, forse col mugghio e la magìa del mare. No; non ancor… Ma certo là, dietro a quello sprone, proromperà magnifica la gloria dell'aperto. Laggiù, laggiù…—Ma quivi una più tetra rupe suggella la fatal prigione… O mio fratello, il nome chiedi del pellegrino? Ei ben sapea che a mille, prima di lui, siccome rincorsi cervi, giunsero anelando alla sbarra del tragico cammino. Pur, temerario, ei volle sperar, sognar, che in fondo quelle rocce cadrebbero compiendosi il suo folle voto, il voto di lui, l' unico, il novo Siva, l'eletto a conquistare il mondo. E s'affrettò, dai sogni sospinto, a quel suggello formidabile, intento ad ogni svolta, ad ogni barlume, stolto e immemore! —«Ma il nome, Il suo nome?»— —Son io; sei tu, fratello!—

A M. M.

Non senti, non senti l'Aprile che viene? Non odi il galoppo dell'agile scorta? Non vedi le azzurre gualdrappe ai ginnetti, di candide piume i cimieri e d'oro corruschi gli elmetti sul capo dei bei cavalieri? Non vedi che a tutti, superbo, innanzi egli viene, e par dire col riso di gloria:—«Io son primo; io sono l'invitto?»—Un clamore d'osanna è nell'aria; le genti si prostrano liete al signore dei bei cavalieri vincenti. Tu sola non flettere! Ei giunga a te, bianca e bionda tra i fiori, sfidante! Vedrai che di sella precipita; e fisso negli occhi tuoi, laghi di luce azzurrina, umìle piegando i ginocchi dirà:—«Sono vinto, o regina!»—
Sotto il ciel, che d'un vago pallor tinge la sera, cinto dalla brughiera dorme tra l'alghe il lago; e sul lido, leggiera, sottile come un ago, —nido forse d'un mago— s'alza una guglia nera. Vieni! il paese arcano dei sogni è questo: Vieni! Laggiù l'ignoto invita. Andiam, stretti per mano, ai vesperi sereni per la landa infinita. Una voce, che certo, rotta da le procelle, non attinse le stelle, clamava nel deserto: —O Signor, dalle pure immensità, consola noi d' una tua parola; sana in noi, creature tue, nell'error cadute la follìa che ci tiene, e converti le pene in gioia di salute! Disperdi le malvage nubi della tempesta; laggiù muoiono, arresta, Signor, l'orrenda strage! Già troppi quei sanguigni cieli videro vólti bianchi e corpi travolti dell'Ambe tra i macigni! Già troppi gli avvoltoi famelici e gli astori divorarono cuori, rossi cuori d'eroi. Stendi, o Signor, la mano che placa, sulle accese ire, sulle contese di questo gregge umano; tuona che tutto è invano, tutto invano: i più lati dominii, i soggiogati eserciti, il sovrano trionfo; apri all'errore gli occhi che iniquo serra e intenda che la terra è assetata d'amore!— Fuor dalla selva, dove a spalto il monte s'allarga, in un miserrimo abituro, che l'edera pietosa abbraccia e veste, vive una donna, una povera vecchia che i boscaioli chiamano la Strega, tanto ha strano lo sguardo e tanto è scarna e pallida la sua faccia di spettro. Pur, questa miseranda ombra di vita ebbe un corpo di ninfa e un fresco e puro vólto; color del mare al sol d'estate gli occhi, e una gloria di capelli d'oro. Qual nembo di sventura o di peccato l'avvolse? Perchè mai da tanti e tanti anni vive là, sola, il dì, la notte, col suo grande segreto e le chimere che a lei suscita intorno la follìa? Son tante e tante le bizzarre istorie che narrano di lei! Rimane assorta (dicono) senza proferir parola per lunghi giorni e lunghe settimane; poi d'improvviso, vòlta all'assopita foresta—che par sogni, alta nel cielo— ritta nel vespro come una sibilla, le bianche ciocche libere nel vento, parla per ore all'erbe, ai vecchi abeti, alla Luna che ascende da la valle, alle nubi, alle lucciole, siccome a vecchi amici. Narra degli andati giorni—i giorni giocondi e fuggitivi dell'infanzia—; o ammonir di giovanette una schiera invisibile si finge. Una sera, non vista, io venni presso quella capanna, e sovra un sasso, dietro una quercia, alla luce delle stelle, me ne stetti per ore, affascinata da quella voce, che da prima un cheto sommesso mormorìo mi parve, e crebbe più viva e concitata, a mano mano che tornava il pensier sulle affannate vie del dolore antico. Io tutto, o quasi, ritenni; ella dicea: —Fanciulle, udite la parola che salva, e uccide i folli sogni che costan lagrime… Perchè fidate voi nell' uomo, e poi piangete, piangete? Ecco, io vi dico la parola ch' io stessa udii per un prodigio… È forse un secolo?… chi sa? chi si rammenta quando fu?… Me la dissero una chiara notte le stelle—e tutto l'universo ascoltava con me (per questo i fiori son tutti morti),—dissero: Egli mente! Egli mente!—Era vero… È vero: l'uomo mente e mentir non crede; a lui non basta —rammentate!—una sola anima schiava; e i sospiri, i sorrisi, i supplicanti sguardi mentono; i patti, i giuramenti mentono… Lento.., come un serpe, viene il dubbio, e vien l'accusa, e van lontane le anime… Così m'avvenne… Quando fu?… Non rammento, ma so ben che un giorno si scolorò quel volto per un'ombra, e parver ebbre quelle sue pupille e vidi le sue mani, arse di febbre, fremere di geloso impeto… Io vidi certo questo… Ma vinsi; io vinsi l'ira di quel superbo, ed egli pianse, e:—Alfine— io dissi—ha pianto, ha per me pianto; è dunque per la vita, oh dolcezza! è per la vita!— Io dissi questo… Bimbe! ha mai baciato la vostra mano? Impallidiste ai primi baci, leggeri, timidi, che appena sfiorarono le vostre dita?… Come tremavano le dita!… Oh voi non colga l'ebbrezza degli arditi ed improvvisi baci di labbra ingorde e deliranti quando il desìo trabocca!… Era d'autunno? era d'Aprile?… Io non ricordo… Il mondo certo fioriva in così gran vigore che le rose attingevano le stelle… Forse con lui nelle tranquille sere del maggio a camminar foste sui prati? O d'autunno con lui per una bionda selva? O udiste in un vespero d'Aprile sonar l'Ave, con lui?… L'aria portava ostinata una ciocca dei capelli vostri sulla sua bocca. Era leggera come una piuma quella ciocca… Andare non vi parve in un sogno, in quella pace dei sensi?… Non s'udì parola; e il patto fu chiuso… Tutto questo, un maledetto giorno (e sarà quel giorno tutta nera l'aria, e immobile, in gran silenzio, e i cuori agonizzanti), tutto questo un giorno diverrà fumo e vana ombra all'audace riso d'un'altra bocca, al blanditore suono d'un'altra voce, al muto invito d'un altro sguardo; e il vostro occhio fedele pregherà indarno, e la parola accesa di tenerezza, e i sogni, i patti, il pianto, le carezze, i ricordi, inabissato tutto e travolto sarà in fango!… in fango!… Chi piange dietro quella quercia? È stolto piangere; è stolto! Io non piansi! Io non piango!

A I. R. G.

Lei soltanto invocò, per lei s'impose dure vigilie, a lei rivolse il canto dall'ali audaci, effuso dall'ardito spirito; e finalmente venne, e tanto raggiavano le ciglia portentose, le immense ciglia piene d' infinito, che i colli intorno e le sopite lande risero come al lume d'un'aurora. Non sorrise il poeta, e con altero gesto scostando le febee ghirlande che a lui porgea la radiosa:—Il vero sei tu? (disse) il mio sogno era più grande.
Vivo, respiro, palpito; si libra baldo il pensiero in alte estasi immerso; la salute mi pulsa in ogni fibra e del mio core in ogni acceso fremito fremere sento il cor dell'universo. Domani… un soffio di rovaio; un vampo d'estivo sole; un piccioletto morso d'angue; il vapor d'un paludoso campo, mi prostrerà, questo di vive, libere forze arrestando portentoso corso. Pallida, muta, intorno al letto mio udrò bisbigliar preci, udrò singhiozzi spegnersi lontanando in mormorìo di lamenti; vorrò, ma invano, sorgere, stender le braccia e dire almeno:—Addio! Ma innanzi a queste mie pupille, assorte oggi in fantasmi di superbi amori, piene di sogni e piene di splendori, cadrà il nero sipario della morte. Ecco, la porta si spalanca ed entra mio padre coi bei doni. A stento ei tutti li regge (oh quanti!) e ride… Io dal mio letto tendo le braccia, e la gioia è nel sole che allaga la mia camera: è nel suono delle campane dindondanti a festa, nell'allegro vocìo che di fuor s'ode… —È nato! è nato!—esclamano le genti e per le vie s'abbracciano. La febbre questi sogni mi dà? sia benedetta! Vero; è Natale, ma mio padre immoto dorme laggiù presso la villa immersa tra gli abeti. È Natale… oh ma i fratelli non s'abbraccian per via!… Donami ancora un altro sogno, amica febbre! io veda svanir come ombra, al divampar d'un grande foco d'amore, l' indigenza, e il mondo finalmente placato in una fede sicura e forte come l'universo, in ogni terra, e per ognuno il sasso delle tombe non sia più che la porta dell'infinito. A quella soglia io forse m'approssimo?… chi sa? Forse il mio sogno s'avvera, e lieto il padre mio dischiude il valico per me, recando il vivo dono di luce?… Dagli oscuri abissi della vita, assorgiamo, anima! albeggia l'èrta, che attinge il vertice del vero. Inni si levano, piovono fiori, bandiere passano con l'ala al vento. L'effigie tua dal bianco monumento severa guarda. Di quanto perfido veleno un giorno t'abbeverarono codardi cuori!… Oggi mani plaudenti, incensi, allori, oggi l'osanna! Voi più non turbano, o morti, l' ire terrene, e il plauso più non v'accende; ma certo ancora una pietà vi prende guardando a noi; a noi che in tenebre smarriti, gli occhi tendiamo e l'avida tremante mano a voi, da voi sempre aspettando invano un cenno, un raggio. Ecco, io non cantici levo, alla festa non fiori e lauri reco o bandiera: strette le mani in atto di preghiera guardo nell'alto e dico: o liberi fratelli, o morti fratelli, i miseri viventi han sete d' una parola; voi, non la direte quella parola?

(da Baudelaire)

Angiolo pien di gioia, conosci tu l'angoscia, la vergogna, il rimorso, le lagrime, la noia, e il terror che ci prende in certe notti orrende quando il cor, come un foglio gualcito in pugno, scroscia? Angiolo pieu di gioia, conosci tu l'angoscia? Angiol di bontà pieno, conosci l'odio? i pugni stretti nell'ombra, e il piangere lagrime di veleno, quando la maledetta voce della vendetta —triste duce dell'anima— a comandarle sorse? Angiol di bontà pieno, l'odio conosci forse? Angiolo di salute, conosci tu le febbri che dell'ospizio lungo le muraglie, sparute com'esuli, sen vanno lente pel grave affanno cercando il sole e tremule le labbra a guisa d'ebbri? Angiolo di salute, conosci tu le febbri? Angiolo di bellezza, conosci tu le rughe? lo spavento degli anni, e il legger la gravezza dei sagrifici amari per entro ad occhi cari fatti a schivarci esperti con sapienti fughe? Angiolo di bellezza, conosci tu le rughe? O angiolo beato di salute e di luce, David morente avrebbe dal tuo corpo implorato un vitale ristoro. Io da te non imploro che delle tue preghiere la soave dolcezza, angiolo di salute, angiolo di bellezza.
O scapigliata crinni, che incontro pei campi stellati ci vieni, l' infocata chioma protesa ai venti; sai tu, stolta, sai forse qual mondo minacci, qual grande miracolo, qual patria di giganti? per secoli e secoli, il pensiero piegando all'assidua fatica della ricerca, avremmo portentose parole strappate al vero invano? e invano sospinto fin oltre le tenebre terrene lo avremmo, incontro ai lampi della mèta superba, cui l'anima nostra indovina— (l'anima irrequieta, l'anima impaziente)— fia che assorga?… T'è angusta carriera lo spazio infinito che la via nostra, o cieca gorgone, ci attraversi?— Ridono alla querela dei piccoli umani nell'alto di un gran riso di luce le legioni dei mondi; ride la rossa erinni che scote la chioma, e procede incontro a uno scuro atomo che divampa e scompare. Allor che sdegna investigar de' casi le cagioni segrete nè l'alma altrui comprende, biasima e ride il mondo; menestrello giocondo che spensierato applaude o vilipende. Di lui chi si lamenta? A lui chi chiede giustizia? Oh ma nel core ben più acerbo discende da labbro amico e caro anche un sogghigno amaro quando giusta cagion non lo difende. Sotto la pioggia, incontro al vento, passa una bara; la portano in fretta al camposanto, e la buffa ogni tanto il nero drappo irreverente squassa con derisorio sibilo. Ritti sul fango nero lungo le vie fuggenti croci i fanali sembrano, le case monumenti d'un lungo cimitero. Chi si ricorda più l'aprile, i prati verdi, e l'azzurro, e i mandorli rosei per la campagna? Giù la pioggia si lagna, in alto è un mar di nuvoli serrati e qui dentro una lugubre calma, e qui tutto tace come in vòta dimora; non risa, o canto, o fremito di scossa onda sonora; è dei chiostri la pace. Pace d'anime stanche e di languenti fibre, domate al fervido martellar dell'affanno, che più lottar non sanno ma sdegnano i lamenti; pace d'antico tumulo abbandonato e infranto su cui l'ortica crebbe; desolato silenzio cui men triste sarebbe uno scoppio di pianto. Egli ha già chiuso ogni spiraglio, acceso il braciere, e lo spia con ciglia intente di sonnambulo; affretta egli l'atteso sonno, l'oblio, la pace finalmente!… Chi parla?… Una sua nota solitaria là dalla gabbia espresse il cardellino obliato; di luce avido e d'aria, sogna forse il pian verde e il ciel turchino. Leva gli occhi ed ascolta, il morituro; poi barcollante e con la man già fiacca tentando l'ombre del cammino oscuro, la gabbia, là, dalla parete stacca. Lento apre l'uscio… Entra la luce bianca un'altra volta, e un'altra ultima volta la creatura della vita stanca, ebbra, le voci della vita ascolta… Poi torna il buio…—Ad altri il vago aspetto del mondo! Ad altri, a più gagliarde tempre l'amore! il forte, il dolce, il maledetto amore! Ah taccia il palpito, per sempre!— Eccola finalmente la sera! Io dal mio letto guardo con le pupille sonnolente un fil di luna, che traverso i vetri viene della malata solitaria la buia stanza a popolar di spetri. Viene, va, la veloce schiera dell'ombre, e tutte hanno forme diverse, hanno una voce diversa, e sveglia nel passar ciascuna ombra un pensiero, un sogno, una memoria, poi sfuma cheta al lume della Luna. Parlano, o nelle mani bianche stringono bianche carte. Io leggo i caratteri lontani senza schiuder le ciglia. È l'infinita schiera delle parole udite o lette palpitando, nel sogno o nella vita. Parole come impresse sul foglio con un ferro rovente; così a noi parve, e che ardesse quel foglio; e alzammo gli occhi e in ogni parte li volgemmo a veder se ancora i nostri compagni: i libri, i mobili, le carte, dinanzi, intorno, accosto a noi, fossero sempre impassibili, là, ciascuno al posto di prima, folla indifferente e ignava, mentre la nostra ultima fede in una oscura immensità precipitava. Parole dall'accento portentoso; parole che come una gagliarda ala di vento strapparon via le nebbie ad una nera giornata di dicembre e ai campi, e ai prati fulse improvviso il sol di primavera. Parole di preghiera, di tenerezza, un giorno non curate, e la cui voce sincera, da un vecchio foglio emersa, ora soltanto ci asseta d' un amor senza ritorno e ci gonfia i pentiti occhi di pianto! Parole di comando, di tuono, che i dispersi soldati, vinti dal terrore, quando la speranza è perduta, e dallo spalto nemico infuria il foco, arresta nella fuga, e rimena docili all'assalto. Parole dell'accusa; sottili, avvelenate come pugnali, che il pensier ricusa d' intendere, che il core sbigottito non frena, e fra due strette anime innalzano, rapidamente, un muro di granito. Parole dei morenti; rotti, misterïosi da bianche labbra balbettanti accenti, dove già parla come il sogno immenso d' un'altra vita, e noi lascian pensosi, finchè viviam, del loro occulto senso! Tutte, tutte io le sento venir, fuggir veloci, leggiere, e nel mio capo, sonnolento di febbre, sveglia nel passar, ciascuna ombra, un pensiero, un sogno, una memoria; poi sfuma cheta al lume della Luna. «Gloria nei cieli e pace agli nomini!»—Oh non sia la promessa, fallace! ah s'apra questa via angusta, ove una face non brilla, ove s'obblìa la mèta, in un tenace miraggio di follìa! Noi soffochiamo; il lezzo sale; si gonfia il core di sdegno e di ribrezzo… Non lasciarci, o Signore, a questo fango in mezzo, o la speranza muore! Sotto la mia finestra al mite sol d'Aprile spalancata rompe d'un tratto un suono di chitarra, una gaia strappata, preludio a una gioconda frenesia di note, quasi un urlo d'allegria, uno scoppio di balda giovanezza riboccante d'ardore, e d' impeti d'amore, e di gioia, e di forza, e di follìa. Dalla mia scrivania io levo gli occhi un po' stanchi e la testa grave… Oh, fa bene un palpito di vita gagliarda! Un po' di festa spensierata! Oh felice, o tu che vai certo a trovar la bella fidanzata che sulla soglia, nella blanda sera ti attende, inebriandosi all'ardore che porta il vento della primavera; e la pupilla nera splende al giunger del suono, e il piede batte al ritmo della musica gioconda, e sovra il collo d' un candor di latte come piume leggiere all'aria tremano le fini ciocche della chioma bionda. M'affaccio alla finestra… Il sonatore è sempre là, col mento all'aria; ha seco un cane; un can che con pietoso amore lo guarda… Il baldo chitarrista è cieco! Bianca, deserta stendesi la gran piazza al sopor meridïano; va d'un cantor girovago l' ultima nota a perdersi lontano. Di San Marco le cupole meravigliose avvolge un nimbo d'oro, ma nelle nicchie fulgide par che i santi sbadiglino tra loro. Son tanti anni che dormono i forti eroi distesi nella fossa! tanti anni che sparirono i cavalieri dalla toga rossa! Di Barbarossa il fremito, che a San Marco portò d' Illiria il vento, son più di sette secoli che dentro l'onda paludosa è spento. Non più giocondi ondeggiano, d' un tratto sciolti a sgominar la notte, sull'alta torre i vigili bronzi, saluto alle tornanti flotte; e invan quei santi attendono che un suono, cui li aveva il tempo avvezzi, che un urlo di vittoria di quel tedio infinito il gelo spezzi… La gloria fu; ma un torpido sonno San Marco e il suo popolo ha vinto; ma sovra gli archi fremere s'odon ora i cavalli di Corinto; i cavalli che al fervido sol della Grecia, nel clamor guerriero, baldi passar vedeano i rapsodi cantando inni d'Omero, passar d' Epiro i giovani che Arato incontro all'oppressor traea, passar rombando i plaustri vittoriosi della Lega Achea. O immane ala dei secoli, pulsar ti sento; e dagli umani inciampi teco sciolto lo spirito migra del tempo per gli aperti campi. Te vedo, o Roma, o torbida Roma, qual'eri. Il perfido dimone della follia destavasi torvo allora negli occhi di Nerone, e il forsennato Cesare s' udia ruggir:—Ciò che non piega, infrango!— E la palmata clamide ebbro vedeasi trascinar nel fango. Invan, Claudio, di porpora rivesti le corrose assi del soglio! Le forti romane aquile stridon ferite appiè del Campidoglio, e in pugno alto la fiaccola tra gli arsi templi e i portici crollanti, te vedran cupo assorgere i nipoti pigmei d'avi giganti. Io penso, io penso… Or passano bianchi veli e lucenti occhi d'almee, sui vespri d'oro assorgono nitidi i minareti e le moschee… Pur, così allora, o vecchia Tracia, il tuo ciel non ti vedea; la mano ne' templi tuoi sacrilega posto ancor non avea il musulmano. Nè sui delùbri l'aurea mezzaluna in quei dì; ma grande e tristo di libertà segnacolo, la terribil s'ergea croce di Cristo… Io vedo, io vedo… Incurvasi il mar tra verdi rive; ecco il giocondo sorriso aprir Bisanzio a un esulante vincitor del mondo. Giovanilmente destasi la ribelle d'un tempo or lieta e doma, e vince nel magnifico suo nuovo maggio la superba Roma… E tu passi, o de' secoli ala immane, e paesi e imperii morti spazzi, a novelli popoli maturando nel volo ampio le sorti!… Son giunte! eccole al Bosforo le gloriose! di novello alloro cinte, alle antenne attorconsi le rosse insegne dai rabeschi d'oro: le insegne che s'aprirono sulla terra e sul mar libero il varco, stemmate dell'aligero leon, levate al grido di: San Marco! Quante vedeste, o bronzei corsier, dagli erti scali ampie lanciare gallute navi e rapide galee pugnaci nell'Adriaco mare? Quanta echeggiò nel tempio onda di preci; e al puro etere immenso quanti volaron cantici e nubi di fragrante arabo incenso? Quanti osanna scoppiarono del Bucintoro al sùbito raggiare, e quante nozze strinsero in cospetto del sol Venezia e il mare, prima che voi, dal turbine dei fati, come lieve in aere penna, travolti foste e ai margini posati là della cruenta Senna? Anche laggiù, non tedio v'attendea di silenzi e sonni ignavi; sovra possente incudine là si battean dell'avvenir le chiavi, là posto avea, con vindice braccio, l'arguta libertà di Francia il diritto dei popoli e quel dei re, dentr' unica bilancia, e ancor bello e terribile stringea laggiù repubblicano saio il Côrso, e piovea folgori sul Direttorio al sole di Brumaio. Della vecchia basilica quando tornaste alle colonne, e quando de' Dogi i figli alzarono memori a voi le ciglia lagrimando. ucciso in Campoformio tacea l'alto Senato, e uno straniero vessillo ergeasi lugubre in San Marco, dipinto a giallo e nero. Ben le catene scotere volle, ruggì, di sangue i ferri tinse superbamente indomito il Leon, cui più forte il giogo avvinse, e un dì, coi gagliardi omeri levato il sasso dell'avel, rizzossi dinanzi al torvo austriaco lunga una schiera di fantasmi rossi: lo stuolo dei magnifici cui cantò il mare i funerali elogi, il grande, il forte, il libero, il glorïoso esercito dei dogi. Di Marghera tuonarono quel giorno a festa i fervidi cannoni; rotti precipitarono giù dall'aste con l'aquile i pennoni; scoppiò dai petti un unico evviva; sfavillò l'occhio dei forti; vibrar nell'aria limpida l'esultante s' intese inno dei morti. O d'adorati martiri inutile, ma santa opra! O possente d'eroi sospiro! Italia per voi più forte e più gentil si sente! Vano, vano d'un popolo alto valor! Voi li vedeste, o fieri cavalli, i nostri giovani far muraglia col petto agli stranieri: voi lo vedeste il funebre mattin ch'estenüate larve intorno a un vessillo si strinsero, voi lo vedeste il maledetto giorno, il giorno che famelici spettri, che agonizzanti anime in nera gramaglia ricoprirono un'altra volta la rossa bandiera; che le scarne mordendosi man, quegli eroi, dalla plebaglia folta degli alemanni videro la repubblica uccisa un'altra volta. O tuoni alti di giubilo, o voci di campane, o nel fulgore del meriggio svolgentesi alta nel vento insegna tricolore, per voi, per voi l'Adrìaca donna schiuse le ciglia semispente, per voi si colorarono un istante le gote alla morente. Poi sul deserto e tacito suo verde flutto dall'algoso fondo ricadde inerme e lacera quella che un giorno s'ebbe ai piedi il mondo. —Tardi giungesti!—in lagrime sclamò il fratello baciando il fratello. —Non siete vivi?—chiesero severamente i morti di Torcello. —Vivi, ma stanchi e torpidi, lo spirito infiacchito, il corpo affranto; le vostre gagliarde anime voi non ci déste, o chiusi in camposanto! —Per quasi un mezzo secolo fisso lo sguardo ad una mèta eccelsa, per quasi un mezzo secolo abbiam vegliato colla man sull'elsa; —ed or…, compiuto il libero voto d' Italia e ricomposte l' ire, or… pace consentiteci, siamo vecchi…, lasciateci morire.— Fremono i morti e fremono i bei cavalli di Corinto ardenti, sempre a protervi scalpiti pronti ed al corso i muscoli possenti; fremono i morti…; e al fremito dei loro morti, indifferenti o schivi, tenacemente dormono l'orrido sonno dell' ignavia i vivi.

«Il popolo che giaceva in tenebre
Ha veduta una grau luce».
S. Matteo, Cap IV, 16.

Un giorno tu dagli odorati poggi di Betania l' incredula fissavi Gerusalemme, e tutto intorno il vasto orizzonte splendea nei raggi obliqui del tramonto; laggiù gli alti obelischi dai lampi d'oro, i portici fuggenti e i delùbri di porfido, un superbo stuolo parean di taciti giganti che sfidassero il cielo. I tardi onori resi coi marmi prezïosi e l'oro agli scherniti un dì bianchi profeti sul tuo labbro di martire un sorriso suscitavano amaro, e il negro dramma dell' insano giudizio, e l'onte, e l'aspra via del Golgota infame, e il lungo strazio, tutto al tuo core onniveggente apparve. Che sospiri d'amore a te veniano, Tiberiade, dal divino petto del Nazareno! Che saluti ardenti all'azzurro tuo lago!… Ecco, alle rive s'accalcano le turbe; ecco, dall'onda giunge agli umili, ai miseri, agli oppressi la gran parola, e le convalli, e i monti e tutta quanta Galilea ne suona. Un inno immenso si levò dai cori senza speranza, una dolcezza nova allora entrò le solitarie case di chi spregiato e servo a ingiusti dommi scordato avea di chiudere nel petto un'anima, divin tempio di Dio; allor l'abietta peccatrice, a cui ogni varco negavan di salvezza il fariseo, lo scriba e il sacerdote, finalmente potè sorger dal fango e riveder l'azzurro e aver speranza di perdono; non più curve le teste all'insana superbia; un novo regno, nova legge verrà che spinga i grandi ai piccini allacciarsi, e il mondo, in vasto tempio mutato di fratelli, un'alba vedrà di feste immaginate in cielo. E la legge del cor quella, il gran regno quello sarà della giustizia… Eccelsa, divina visione! Oh, ma lontano è Magdado, Gesù; lunge i tranquilli boschi di Galilea, gli ameni laghi che aveano echi robusti ai forti accenti del tuo labbro ispirato; innanzi hai l'onda bruna d'Asfalte, desolata imago d'un'anima perduta e senza senso d'amore; innanzi hai la dorata tana delle giudaiche belve, sitibonde del sangue tuo… Pur così presso allora l'alba credevi, o Cristo! A noi che tanta dal tuo fulgido giorno età divide, a noi lontana ancor sembra la mèta che tu sognavi. Quanto sangue e quante cladi in tuo nome! che crudel vicenda di fugaci vittorie e di sconfitte immensurate! Or tu dagli alti cieli (come dai colli un dì Gerusalemme) guardi a questo ribelle ingrato mondo che, vivo, poco ti comprese, e spento, tosto risorto ti gridò, per farsi teco avaro di pianto… Un'altra schiera de' tuoi veri seguaci oggi combatte con l'arme del pensiero; oh, ma la nebbia è folta intorno ai cori; oh, ma crudeli più d'allora, o Gesù, sono i tuoi figli, nè ancor si cessa d' inchiodar sul legno infame del disprezzo i pochi e forti soldati tuoi che van gridando al mondo: —Guai a voi che ai fratelli impor sul dorso non esitate enormi pesi, al pondo de' quali inorridite; a voi sventura che negate le preci e il tetto umìle sottraete alle vedove! Insensati e ciechi; guai a voi che alzate cippi e monumenti ai grandi del pensiero, e dite: Oh noi macchiate non avremmo le nostre man nel loro sangue! e intanto sempre a chi s'alza con l' idea scagliate il vitupero e l' ignominia.— È presso l'alba, sorgete!—van gridando ancora gli apostoli di luce, e ancóra un premio s' hanno di beffe, e ancor seguono e vanno impavidi alla croce e soffron tutta l'agonia del veder tanta crudele umanità che non comprende; e vanno gridando sempre e ancor:—Prossima è l'ora dei conculcati e degli oppressi; ha grazia chi prima si ravvede!— E il mondo, cieco Epicureo, sorride, e sovra i drappi d'oro sdraiato, incredulo risponde, sbadigliando: —Quell'alba? Oh, è lungi ancora!—
Nel gran silenzio dell'attesa, intero sonò il comando, e un fremito di festa corse la folla; il fremito che desta ogni trionfo dell' uman pensiero. E, nel nome del grande condottiero, a quel comando obbedïente e presta, sollevando di flutti alta tempesta scende la nave ed ha sull'onde impero. Scoppian gli osanna; or poi quali oceàni (dir s'ode) fenderà? qual mai le arride portentosa vittoria ai dì lontani? —Dal ferreo fianco quando il tuon che uccide sprigioni, quanti fian gli eccidi umani?…— … E ritto sulla prua Satana ride. Vivo nella memoria, o amato, sempre mi stai. Cercare ti rivedo, inchino sul cembalo, dei dolci anni tuoi primi le semplici canzoni, udite all'ombra delle palme, e nei bei vesperi d'oro; or le feste, le preci, il luminoso sogno non mai dimenticato, io t'odo dell'infanzia narrar, fiorita al sole dell'Asia, là, tra i bianchi intercolonni della superba tua dimora, al vento del tuo selvaggio mar, dentro le intatte selve, o t'ascolto con solenni acccenti parlar di Dio… Quanto t' ho amato, e quanto t'amo, e quanto t'invoco! Ora è deserto il porticato della villa, un tempo tuo passeggio gradito, allor che il lume del dì morendo s'acchetava ogni opra ed intonava una campana l'Ave; tu allor scoprivi la tua testa bianca, quella tua testa bianca di profeta, e ti si udiva mormorar sommesso il saluto a Maria. Fermo, raccolto poi rimanevi per lunga ora, innanzi alla campagna addormentata, al vasto sipario d'ombre che stendea la sera, e guardavi lassù, lassù, perduto in quell'immensa pace, in quell' immensa innocenza del cielo… Ancóra io credo d'esserti presso, e come un tempo ancóra veramente vederlo, aperto e fisso quel tuo grande, ispirato occhio, a le stelle! o babbo mio! Poi con un gran sospiro ti scotevi d' un tratto e ritornavi accanto a noi tutto ridente in volto e tutto care celie, al modo istesso d' un, che il perdono guadagnar s'adopri di qualche errore. Oh come allora, e sempre di più t'amavo, e come il tuo gran core intendevo, o mio santo! Eri fuggito ben lontano da noi, da me, da tutte le umane cose; il gran mistero, il forte desiderio di Dio t'avean rapito lassù lassù; scordato avevi il nostro piccolo mondo, il nostro gran legame umano.—Istanti!—e pur te ne sentivi rimorder quasi, e a noi tornavi, acceso di nova tenerezza e pronto a offrirci un compenso d'affetto e di carezze anche per quella breve ora d'oblìo. Così scrollando dal pensier l'assidua brama del Cielo, eri divino, il bene de' tuoi, costante, anteponendo al grande tuo segreto sospiro, al sogno eterno dello spirito tuo… Come infelice eri, se alcuno de tuoi cari, assorto, crucciato, o solo, ti paresse, e come ne richiedevi la cagion con dolce premura! Sempre le parole avevi pronte al conforto, e che ogni cosa muta, tu ripetevi, e che i nebbiosi giorni non duran sempre e dell'angoscia l'ore dan luogo alle gioconde; e con allegri motti, e bamboleggiando, ancora il riso t'adopravi a chiamar sul renitente labbro di chi soffria. Com'eri esperto a indovinar sovra quel volto il primo diradarsi dell'ombre, e come allora, solo allora, anche il tuo brillava in festa! Se ti venìa di qualche atroce caso narrato, e fosse pur lunge ed ignoto a te l'oppresso dalla sorte, e buono o tristo fosse, acutamente, come d'un tuo dolore, d'un'angoscia tua n'eri commosso; e concitato, e tutto acceso in volto ripetendo andavi: meglio, oh meglio, Signor, non esser nato, e tanti strazi, e tanti obbrobri, e tante viltà, Signore, ignorerei!—Pentito poi di quelle parole e con dimessa fronte, aggiungevi:—sia compiuto il vostro voler, Signore! Io ti rivedo, io sento veracemente il concitato suono della tua voce, e dentro il cor tremante ancor la procellosa eco ne ascolto. Certo non fuvvi alcun che a te venuto domandando soccorso, insodisfatto partisse! E con che industre animo, il modo trovar sapevi di celar la santa opera tua! Ben chiaro era il comando divino pel tuo cor:—La destra ignori quel che dà l'altra!—; e sollevato e pago come d' un ceppo alle tue membra sciolto, vedevi il poverel girne contento. Quando nel tempio tu pregavi, tutta l'anima tua mandava lampi e vive scintille dai tuoi grandi occhi, bramosa di metter l'ale, e rattenevi a stento la voce, quasi bisognando il labbro pregante, di cantar alto le lodi che dal cor t'erompevano. Rammento che dalla chiesa uscendo all'aria, al sole, se talun la parola a te volgea, eri com' un che si risvegli in novo paese, e ancora non ben desto, invano fatichi a indovinar l'occulto senso di straniero linguaggio. Ora tu posi! Di pompe schivo, lunge dall'urbano fasto, in campestre cimitero, o buono, dormir volesti. Non opaca volta d'augusto mausoleo sul sasso incombe del tuo riposo, nè gli vieta il dolce sguardo del cielo che lo veglia. Intorno ha vivi fiori; nell'aprile il vento su vi passa fragrante e pia vi cala la luna tra notturne ombre, a baciarlo; e gli astri, i sospirati astri, dei lunghi tuoi sguardi e delle lunghe estasi tue memori, gli stan sopra e mandan lampi e messaggi divini incontro all'alta anima tua, che mai conscia e beata così non fu, sè palpitar sentendo, atomo vivo d'universo, in Dio. I passanti s' indugiano ai cancelli spiando delle verdi ombre i segreti; ma son l'ombre deserte, e i muschi e l'erbe parassite che allignan sugli avelli veston la villa immersa tra gli abeti. Io, qui seduta sotto il porticato dove sovente al vespero veniva il padre mio, guardo, e mi credo un'ombra. l'ombra d'un lontanissimo passato che solo ha forma di persona viva. S'affaccia della Luna il bianco viso tra pianta e pianta, ma la vaga scorta dei sogni, più non è con lei; somiglia un teschio adesso e con beffardo riso sembra dirmi:—«Non vedi? anch'io son morta!»— Ecco l'Ave, la squilla ch'egli udìa, lo stesso snono… e tornano dell'ore lontane le memorie: i giorni lieti, le dolci sere; un'intima agonia evocatrice che dilania il core. O morti, dite una parola, dite una parola!… Con l'orecchio io tendo tutta l'anima mia… Passa una nube e l'erba trema… Oh certo voi m'udite, mi parlate… e son io che non v'intendo. —Sorridi? Io ti leggo nel core: tu vedi nel futuro la gioia.— —T' inganni; io pensavo ad un mio vano amore antico,— —Sospiri? Io ti leggo nel core: quel ricordo attossica ogni tuo puro sogno.— —T' inganni! è scesa in me finalmente la pace. Pensavo… che lo spirito allora soltanto riposa quando ogni sogno tace.— —Ma pur sospiravi!— —O accanita ricercatrice! Il vano amor, le battaglie, le lagrime erano, ahimè! la vita; ma questo silenzio del core che ad ogni eco d'amore ha tutte sbarrate le porte, questo silenzio… è forse (poc' anzi pensavo) la morte?

Note1 Questa lirica da prima era intitolata: Non è amore, e fu poi corretta e ritoccata in vari luoghi. Ebbe una traduzione in latino di Antonio Rieppi e una in greco di Luigi Mucci.

E non saperlo dir ciò che nell' intimo di quest'anima mia s'agita e freme senza mai posa! e non poterti esprimere, febbre, mia gioia e mio tormento insieme! Non è amor, non è amore! Un tempo, il giovane cor l' ha creduto e sciolse inni alla Morte; ora ben sa che dell'amor, quest' impeto è più fiero, più nobile, più forte. Spesso nell'ora che s'accheta il fervido moto dell'opre e di lontano un canto vaga per la campagna al mite vespero, l' ignota forza m' ha strappato il pianto; dinanzi al mar che furïoso ai turbini commetteva battaglia e l'alte antenne giungea mugghiante, quell'arcano palpito ebbra, immota, per lunghe ore mi tenne; e quando in cielo s'accendeva il fulmine tra le negre montagne, e lunge il tuono ruggir parea strane minacce agli uomini, mi volle assorta ad ascoltarne il suono; e avrei voluto come il nibbio spingermi lassù lassù, tra quelle forze in guerra, cercar, strappare il gran mistero e chiuderlo nei forti artigli a trarlo sulla terra; avrei voluto, come il nembo, un libero volo discior da quest'angusto sito, per un istante le vaste ali stendere sul picciol mondo e stringer l' infinito.

I.

Non dai gelidi marmi in cimitero chiusi al lume dell'albe e dei tramonti; ma nell'aperta maestà dei monti, ma dell'oceano all'urlo battagliero, ecco gli spettri dalle ardite fronti cinte di sol, balenano al pensiero; ecco gli eroi, gli apostoli del vero, gli assetati di liberi orizzonti. O legioni di santi e cavalieri come a pensarvi l'animo s'accende, come il cor trema di superbo amore! Passano: a Omero, Achille in armi, splende; Michelangiol sorride all'Alighieri; Heine saluta il còrso imperatore.

II.

Passano i grandi in una luce accolti, passa dei forti la vincente schiera, e smisurata su quei mille volti turbina al vento un' unica bandiera. La gran parola che beffar gli stolti, sul làbaro divin rifulge altera. Santo Ideal! Chi la tua voce ascolti più superba dolcezza indarno spera! Passano i grandi e l' un dell'altro accanto, chè del tempo nel mar, di mille fiumi s'adegua il vario flutto e il color misto. Così stretti ad un solo ordine santo passan flamini e re, gregarii e numi, e, sovra tutti sfolgorante, Cristo.
Anima libera, vedi? placato spirito, guardi? qui del tuo sogno gli eredi, i tuoi figliuoli gagliardi, inni levandoti in coro l'effigie tua ricingono d'alloro: (tu menti o voce che mormori—«È tardi!»—) Alla divina pupilla del pensier libero e puro un novo adesso ti brilla sogno d' un novo futuro? e incontro ai trepidi umani oscuro sempre avanzerà il domani?… (tu menti, o voce, che rispondi:—«Oscuro!»—) Taccian, fratelli, le amare, le nostre vacue parole, tacciano innanzi alle chiare onde, parlanti nel sole, gl' inni degli uomini al bardo esule! Inno più degno e più gagliardo al redivivo sta ruggendo il mare. Per poco l' hai tu, o Morte, irrigidito sovra la croce! e in sindone ravvolto per poco dentro l'arca di granito, l' hai, cittadin d'Arimatea, sepolto! Donne, piangete invan! pianga lo stolto gregge, che l'ha di spine redimito: l' Emmanuele d' ogni ceppo è sciolto; non s'imprigiona, o donne, l' infinito! Ecco, Egli torna, Egli vi parla:—«È data a me la potestà del mondo, e l'orme segnerò tra i fedeli e tra i ribelli, sempre per la sequela interminata dei secoli, clamando in mille forme con mille voci:—Amatevi, o fratelli!— In un giorno lontano dentro la notte d' una cattedrale mi portarono a intridermi di sale la piccioletta bocca. Io torsi incollerita tutto increspando il porporino volto, e piansi tutto il pianto ormai raccolto in quei miei cinque o sei giorni di vita. Mel dissero; ma in me, nella memoria non mi si incise un segno, un' ombra, nulla!… Or, se alcun mi dicesse:—A te fu culla mill'anni fa la Grecia e fosti un de' suoi cento semidei; più tardi un paggio dell'ottavo Enrico, poscia un poeta lacero e mendico: perchè mai—dite—non lo crederei? Forse la buia chiesa rammento e quel disgusto allor provato? forse rammento il pianto disperato e il volto dell'orante sacerdote che alla grazia m'offriva? Pur m' hanno detto che guardavo intorno, m' han detto che tornata al chiaro giorno sorrisi; ero ben desta, ero ben viva! D' un arboscello io so debole nato che ad ogni novo sospirar di vento si piega all' altro lato senza gioia o tormento. Sotto le nevi e alla stagion fiorita nol move altro desio; così lo volle Iddio, così passa la vita. Non sa che sian le fiere resistenze dei forti e la vittoria, non sa che sia—volere. Non conosce la gloria del morir combattendo, e gli odi acuti non sa, non sa i dolori che ignoti gladiatori sopportan muti. Vive, e forse di vivere non sente. D' ebbrezze ignaro e d' impeti d'amore stende le braccia lente senza mettere un fiore. Tale al soffio gentil che lo accarezza nella mite stagione, tale al rude aquilone. Una palma lo guarda… e lo disprezza. Qui nella stanza solitaria, ov' entra del bigio cielo tenebroso il poco lume, e la vasta dell'estremo autunno melanconia: qui tutte le serene ore, le buone ore, che poco, ahimè! curai nei freddi bagliori assorta di bugiardi sogni; l'ore gioconde, fantasmi inafferrabili di morte ore, qui tutte s'adunaro, a farmi più acerbo e scuro questo scuro giorno fatto d'angoscia. —Ricordi?—una mi chiede—io venni prima coi ramoscelli di speranza, i dolci rami che pel tuo capo a me commise una pia sorte. Ti trovai rincorrente i vani fochi delle lucciole vane, e me degnando d' un breve sguardo, nel mister dell'ombre sparir ti vidi.— —Ricordi?—un'altra dice—io per te scesi le contrade del sol, recando i doni che la dea dai bendati occhi, fidati per te m'aveva; la pellegrina che alle tue dimore veniva d' Orïente, hai tu cortese accolta, o non piuttosto al triste occaso l'occhio volgesti?— —Di': rammenti? rammenti?—in coro l'ombre ripetono:—tu allor nulla curasti di noi, le luminose, e una malvagia follìa ti spinse delle chimere tra le nebbie e i veli a te accennanti di lontano; i canti di quelle malïarde erravan lenti fra le scogliere. Non dove al sol danzavano gioconde fanciulle, dietro abbandonando il capo nell'ebrezza del riso, ai polsi strette dai forti amanti, ma sola andavi, o grande e taciturna, sotto la Luna a cogliere nel vento di morte voci qualche eco perduta tra le ruine; e fuor dalle spezzate urne, e dai verdi talami di selvagge erbe e di muschi, ti sorgeano, legione avida, intorno le fantasie. le maghe che soltanto hanno soave il nome, ma per trista arte d' incanti fan torbidi gli umani occhi del vero alla bellezza; ed or ci guardi lungamente e intenso il desiderio nel tuo sguardo accende un foco, onde traspar l'anima tua per gli occhi orante, per gli occhi stanchi ove da tempo il pianto più non arriva. È tardi, è tardi, e invano supplichevol, a noi tendi le braccia; noi siamo spettri, noi siamo larve; i teneri virgulti avvizzîr; dalla sorte altro comando ormai pur troppo non abbiam che farti più triste l'ora.— O fantasmi, pietà! Sparite e l'anima possa scordarvi! È vero; alle sottili malìe create dal pensiero, l'impeto del cor soggiacque; l'ardor soggiacque della bella e forte mia giovinezza in inseguir con ansia mai paga la fuggente ala dei canti, l'ala dei sogni; ed ora stanca (oh come stanca!) io guardo di quei vaghi e malvagi elfi il migrante stuolo… Laggiù, nel gran deserto, l'ultimo ecco è scomparso. Ma voi, voi pure, ombre crudeli, inganni non siete del pensiero? un sogno? un vòto sogno voi pure?… Oh per pietà, sparite! forse non mai dall' orïente a me veniste, i rami verdi recando e i fior, forse non mai foste, voi pur, null'altro mai che larve belle ed inique. Via, dunque! via, fantasmi, ombre, chimere, via dunque velenose ecati, in nome di Dio, lasciate finalmente in pace l'agonizzante! Grazie, grazie, o nemico! Tutto quel che di frale, di basso e di mendace nutriva in me lo spirito del male, or dentro la percossa anima tace. Io colle mani strette, senza pianto e parole, tranquillissima in volto, nel cor ferito, che piegar non vuole, l' imperversar della tua voce ascolto. E una superbia viva io provo, io che più forte di te mi sento, o amore dei martiri, o fratello della morte, o divino carnefice, o dolore!

I.

Suona il bosco che Aprile agita; olezza l'aria; tra i rami la campagna aprica ride; e ancora mi parli, o giovanezza, e ancor t'ascolto, o mia morente amica. È tardi, è tardi! e vana è la fatica —o sola della vita alta dolcezza!— che il bisbigliarmi la lusinga antica ti costa. È triste l'ultima carezza! È tardi, è tardi! rassegnata muori, nè pensar che ti salvi ira o lamento; è la tua sorte la sorte dei fiori nati di foglie sotto avaro velo, di fior cresciuti in triste isolamento, che un sol non vider mai lembo di cielo.

II.

O Messer Lodovico, oblìo domando al gaio verso che la varia sorte narra ed il lungo vaneggiar d'Orlando, oblìo per tutte le mie gioie morte!… Ecco; per me del mio Ruggiero in bando cadon d'Atlante le incantate porte, libera anch' io, guerriera anch' io, col brando nuovo a tòrlo d'Alcina alle ritorte. Suona il bosco. Laggiù tra scure fratte è Angelica che fugge? O tempestosa di Baiardo che vien la zampa tuona? È Bradamante che sfidata abbatte il re di Circassìa, poi, non pensosa che dell' indugio, a tutta briglia sprona?

III.

Oh se mai di laggiù, dietro quel folto non d' Euro nato volator corsiero, non divina beltà, non cavaliero d'armi raggiante o in persi drappi avvolto; ma sulla fronte arruffatello e nero il crine, e dietro in lunghe trecce accolto: ridente il bruno ritondetto volto, sfavillante l'aperto occhio sincero, venir vedessi una fanciulla e intorno volger lo sguardo soddisfatto e buono quasi pensando:—Tutto il mondo è mio! E dir la udissi:—Vedi? a te ritorno, la tua risorta giovanezza io sono, guarda; non sogni, no; guarda, son io!—
Sul fragor del torrente protesi il capo dalla rupe scura, rósa da mille rivi, e pensai:—Che ideale sepoltura in quegli abissi, eternamente vivi di vive onde di voci e di tempeste! Così, così cantare con voce più possente dei turbini traverso alle foreste, con l' impeto del mare! Ma poi che invano cerca questa mia anima, per irrompere in superbo clamor, che scota i baratri e le cime, la sua dirotta via tra le scogliere altissime del verbo; poi che il varco sublime non s'apre, e in onde chiare e forti, non prorompono le rime ruggendo della gloria incontro al mare; della sonante roccia per le muscose spire meglio come una goccia cader nel fondo, perdersi, sparire!… Una donna velata e frettolosa giunse là dove un popolo ribelle un altro urgeva; e l'asta contro l'asta cozzava, e correa sangue, tenebrosa fiumana al lume delle rare stelle. Protese ella le mani e sclamò:—Basta! Da lungi allora, scarmigliate, a torme, venner le madri, e curve sul terreno tersero il sangue e i vulnerati forti sorressero… La notte sull'informe ruina, e delle fiaccole al baleno un volto esangue o un cumulo di morti. Non più, d' intorno agli stendardi eretti, squilli e ruggir d' inferocita gente. Solo qualche sospiro udiano i cieli muti, o l'ansar degli anelanti petti. Quando il dì sorse, vòlta ad orïente gittò la donna frettolosa i veli e apparve bianca e sorridente al sole. La parola che disse unica e pura echeggiò delle valli nel profondo, suscitò rose alle cruente aiole, mèssi ne' solchi, e dalla insania oscura della guerra, impetrò libero il mondo. Un uomo batte ad un' antica porta di bronzo, ma nessuno ode. La Luna appena mette una scintilla smorta sulle sfingi dei fregi e sulla bruna man di colui che batte a quella porta; non s'ode voce nè risposta alcuna. Sola l'eco dai cupi anditi porta il rimbombo dei colpi alla soggetta palude, intorno alla campagna morta, dove luccica a gore la costretta acqua livida e trema la ritorta vetrice alla pestifera belletta. Non trillo d'alati ospiti conforta quel deserto, nè strige a quelle in vetta nere torri giammai la Luna ha scorta. Chi sa da quanto il pellegrino aspetta? Chi sa da quanto batte a quella porta cinto dalla maremma maledetta? Dalle morte ninfee, che nella vasca del vecchio parco il gelo ha soffocate, tra poco un fiore portentoso nasca. Con la verghetta di malìe, vogliate il prodigio compir, dolce signora delle mie notti e delle mie giornate! Salga lo stelo, e in bel color d'aurora s'apra il calice, un calice d'opale immenso sopra la gelata gora; e intorno effonda come un boreale lume, e tra i bossi il bianco Erote rida, ridan l'erme al novissimo natale. L'Inverno creda April giunto, alla sfida superba, e avvolga i suoi tappeti bianchi, e fugga, e il grave carico lo uccida. L'egro dicea:—Perchè non viene? È troppo lunga l'attesa al mio tormento fiero!— S'udì nella notturna aria un galoppo e tutta bianca sul cavallo nero passò rapida innanzi a quelle porte spalancate. Protese egli le braccia e la chiamò per nome:—Morte! Morte! Ella rivolse un attimo la faccia, poi, come nulla avesse visto e nulla udito, sferzò via, verso la fonte donde attingea cantando una fanciulla; la ghermì lesta e sparve dietro il monte. Un altro squillo, un attimo, e fischiando, ansando, col fragor del tuono, è in fuga novellamente. Accorrono le genti, s'affrettano, s'accalcano, assaltando i carri. Lesti, via! chè non attende la vaporiera!… Senza annuncio e senza fragor, ben altra pellegrina in celere corsa pur viene, e noi dati ai letarghi accidïosi d' infecondi giorni non la vediamo nè l'udiamo, eterea giungere. Bene incontro a lei potremmo affrettarci, traendo opra e pensiero alle regioni dell'amore o della gloria; ma inerti a rimirar mutevoli forme di nubi, o qualche antico sogno risognando, indugiamo in folli attese di prodigi. Così, mentre si attarda fascinato da vane ombre lo spirito, ecco, una direttissima è passata tacitamente per l'eternità. Mi andava innanzi, curva, con un bimbo in collo, e il bimbo dietro a lei guardava, proteso il volto paffutello e il nimbo ricciuto, d' in su l'omero dell'ava. O fresco volto, o vecchio omero! Tale d'una muraglia antica e rovinosa ai merli, su dal chiuso parco sale e s'affaccia, ridente occhio, una rosa. Chieder che val s'altra ventura, un giorno lontano, ebbe Febea? Se aperse l'ale giammai l'aria nel tacito soggiorno cui spesso la sognante anima sale, e se dell'acque le sonanti stille risero dentro i chiari antri d'opale? Non forse è noto a noi che mille e mille occhi d'adolescenti e di vegliardi, pupille fosche e fulgide pupille, sguardi di donne innamorate, sguardi di asceti, accesi in foco di preghiere o di credenti negli Dei bugiardi si rivolsero a lei, lei di chimere popolando e di sogni? Alla superba umanità, che giova altro sapere? Ella è l' intatta pisside che serba il raggio di quei mille occhi, e il segreto dell'alta gioia o dell'angoscia acerba che quel raggio dicea; sa l' inquïeto attender dei fanciulli, l' indefesso rimpiangere dei vecchi il tempo lieto di giovinezza; nè mirarla adesso potremmo, senza che di là favelli a noi quel mondo di fantasmi, espresso dalle legioni dei morti fratelli che la videro anch'essi, nelle chiare notti, precinta in vaporosi anelli, o come specchio tersa, attraversare lenta gli azzurri pelaghi, nei suoi muti viaggi sovra l'alpi e il mare con immensa pietà guardando a noi. Vecchi manieri entro foreste fitte che mai che mai non attraversa il sole… Il mar lontano piange, e le fontane piangono, e paion pianto le parole di chi dimora in quelle regge strane. Sono spettri, e pur ardono le vene di quegli spettri in contenuto ardore. Un mistero di sogni e di dolore tutto avvolge, tutto empie e tutto tiene. Mentre si muore, là, dentro il castello oscuro e solitario, ove la Luna mette appena un sottil filo d'argento, s'odon, di là dalla selvosa duna, i marinari dar le vele al vento cantando i porti ove agile il lavoro ferve, e i liberi cieli, e le gioconde terre, ove ingemma il colibrì le fronde delle palme alte sui tramonti d'oro.

(da Dobrolinbow).

Morrò, va bene; il mio spirito è forte. Ma, confesso la santa verità, qualcosa io temo: io temo che la morte, sbarcandomi al di là, voglia giocarmi anch'essa un maledetto tiro, e lagrime ardenti cadan sopra la mia gelida spoglia, e il cataletto qualcun di fiori copra per vano zelo, e in amorosa folla traggan gli amici dietro alla mia bara. Temo—appena scomparso entro la zolla del camposanto—in cara ombra mutarmi, oggetto alto d'amore; e sul mio sasso fiocchi a tutto spiano tutto quel che da vivo avido il cuore chiese, ma sempre invano.
Io con scalzi piedi, o Damone, non vado ai campi, nè mai con braccia ignude, ed alto nella nodosa mano il vincastro, guidai la fulva giovenca al verde fonte, nè filo l'umile canape, nè mai sui tini salgo a pigiare l' uve, nei giorni alla vendemmia sacri e di canti lieti e d'amori. Io non conobbi mai la divina libertà; mai la gran dolcezza pur dei ritorni sul vespro estivo con lui che, tutto il dì fe' sempre balenar presso al mio falcetto, tra' solchi, il suo. Tornare sotto le stelle, stanca e pur beata, fra l'altre tante compagne, e pure sola con lui, tacendo e pure tante e amorose parole udendo, dicendo… Oh immenso sogno di gioia che me, rinchiusa qui tra le seriche pareti, accende d'un desiderio folle di vita! Noi parliamo, ma so io quel che pensate veramente? E voi sapete quello ch' io penso? Van le parole e un sottile velo di riso spesso ne maschera il senso. Noi parliamo… Ma d' un'altra voce voi certo udite il suono; d' un altro accento io pure credo ascoltare la strana eco… Ad entrambi parlano due sepolture. Noi ridiamo anche, ridiamo forte, e la gioia brilla negli occhi al baleno vivo d'un motto fine. In che abisso del core chi dunque intanto scoppia in un pianto dirotto? Abenèzer è un vecchio, un mesto e dolce vecchio dagli occhi azzurri, due strani occhi che forse han molto pianto (io dico: forse), ma in un tempo lontano; ora son limpidi come il ciel, dopo un lungo temporale. Abenèzer dinanzi alla sua nera scrivania, tra i volumi neri, e tutto coperto anch' egli d' una nera toga, oggi non è tranquillo, oggi non trova carta nè penna docili, gli cade di mano tutto, i suoi libri rifiutano d'aprirsi obbedienti… È forse l'aria troppo viva, Abenèzer?… Dalle aperte finestre entra un odore, un fresco odore di foglie nove e di cielo sereno… Ecco, ha smesso Abenèzer di cercare tra' i suoi volumi, e sulla sedia, inerte, con gli occhi alla campagna ampia, rimane perso in un sogno antico… —Eh via che l'ora È già in piedi, ad ogni libro toglie la polvere con cura e piega e ammonta le carte sparse; ad ogni oggetto assegna un posto novo e nella stanza, a mano a mano, tutto par sorrida e brilli… Abenèzer, chi aspetti? In festa frusciano le tende alle finestre, entra più forte l'odor del novo verde e dei nascenti fiori… Il cielo ha il color di quel lontano Aprile… ti ricordi?… Son passati tanti anni!… Ora Abenèzer si risiede; nessuno invero aspetta, e chi potrebbe rammentarsi di lui? Nessuno aspetta Abenèzer, nessuno! Un core amico non ebbe mai; tutti son morti i pochi parenti; tutti! Ed Abenèzer cerca da tanti anni, nei libri, una parola che gli riveli, perchè nacque e visse sempre infelice… Il bene? egli lo fece quanto e come potea, sempre; non ebbe mai conforto d'altrui. Ma spera, e crede, crede all'anima sua possente e viva oltre i secoli. Ancóra un breve esilio e ascenderà poi libera, all'ignota mèta per gradi… Come in festa tutto brilla d' intorno! un'ospite, un'attesa ospite certo dee venir… Più intenso nella tepida sera arriva il dolce odor dell'erbe e dei nascenti fiori. Abenèzer, sta pronto! Eccola, viene, viene!… Come gli palpita e sussulta il vecchio cor! come si velan gli occhi nell'attesa!… Ella viene! eccola! alfine qualcun lo cerca!… Nella rosea sera ella venne per lui, per lui traverso le praterie di mammole coperte, tutta impregnata di fragranze e il grembo pieno di rose. Bianca nella bianca veste; gli occhi sereni, il labbro schiuso a una parola come un soffio lieve, per man lo prende e gli bisbiglia:—Vieni! Vecchie piante, acqua corrente che volete voi da me? La parola onnipossente nel mio core più non è. I colori, le canzoni io vi diedi un dì, lo so; ma non tinte, ma non suoni io mai più darvi potrò. Or tu passi uggiosa e muta acqua, e il fine tu non sai; alla mèta sconosciuta docilmente te ne vai. Vecchie piante, voi crescete sotto il sole, sotto il vento, non più tristi, non più liete in un cieco assentimento. Tale adesso ormai sopporta il suo fato, indifferente, il mio core, dove è morta la parola onnipossente. In quale sera limpida? Da quale cielo migrando alle terrene porte discese questa pia che un immortale nimbo cinse alla morte di simboli, di sogni e di mistero; prisca Dea, che, d'ogni altra trionfante, lampi accese nei ciechi occhi d'Omero, fiamme nel cor di Dante? Per tutto vive, ed or sulle nivali cime dell' Alpi ride, ora s'ammanta di tenebre, fuggendo ebbra sull'ali dell' uragano e canta. Tutto a lei si rivela; e i rovi, e l'erbe umìli delle selve, ove non sole penetra, e i muschi, appiè delle superbe querci, han per lei parole. Lei che palpita e freme nel ruggito del mar; lei che nell'estasi d'amore svela passando un raggio d' infinito al nostro intento cuore… Sin fra le tombe ella consola il grande silenzio con la sua mistica voce; veste di raggi e cinge di ghirlande ogni povera croce. Nelle notti d'April, sparse le belle trecce sul peplo candido, il profondo sguardo rivolto alle tacenti stelle, passar la vede il mondo. O voi, che i vostri palpiti e i tormenti vostri, e l'ebbrezza dei segreti amori, nell' impeto febeo gettate ai venti come un pugno di fiori; ben la vedeste, o giovani poeti, bene udiste la Dea dirvi:—«La terra altri amori, altre angosce, altri segreti dei vostri, in grembo serra! Ecco preghiere, e gemiti, e feroci urla d'oppressi, d'egri, di ribelli. Non le udite? Son mille e mille voci, sono i vostri fratelli che implorano; son anime affannate gementi sotto il peso che le grava. Voi non sapete che cantar? Cantate! ma come Alceo cantava! E sia squillo di tromba ai combattenti la strofe; e il verso balenando cada sugli apostati, i vili, i prepotenti come colpo di spada. Ma non fomite all' ire e non veleno perfido scenda nei già gonfi cuori; ma l' inno assorga libero e sereno sui vinti e i vincitori.»— Non la udiste così cantarvi, o forti nostri figli, o suoi giovani soldati? E non vi giunse l'evviva dei morti al suo passar destati? Va la vittorïosa e novi ardori e più gagliardi palpiti raccende or d'ombre avvolta, or cinta di splendori le simboliche bende. Nelle notti d'April, sparse le belle trecce sul peplo candido, il profondo sguardo rivolto alle tacenti stelle, passar la vede il mondo. È Natale! o fratelli lontani, o creature chiuse dentro gli avelli, o fantasmi scomparsi dell'oblìo nelle immense sepolture: a voi tendo le braccia, a voi volgo smarrita la lagrimosa faccia, a voi, che me vedeste il limitare ascender della vita. Oh tornatemi intorno! oh ch' io da voi, siccome in quel lontano giorno, dir oda:—È l'ora, vieni, vieni!—e chiamarmi oda da voi per nome. La mia piccola mano teneramente presa —come in quel dì lontano— io senta dalle vostre, e sia notte, e laggiù brilli la chiesa. Così per l'ampia strada piena d'ombre e misteri da voi protetta io vada nulla temendo, e siano tutti pieni di luce i miei pensieri. Io non sappia che oscuro d' imminenti procelle ci sta sopra il futuro; io sogni come allora, in quella notte, un gran sogno di stelle. Nulla io sappia del folle mondo; di forsennate stragi per poche zolle, di madri che ai figliuoli tendono invan le braccia disperate; nulla io sappia e soltanto come allora, nel suono, o piuttosto nel canto delle campane, io senta una grande promessa e un gran perdono. La tenebra scende; che importa? il canto—sia d'astri o d'aurore. Assai fu nel tempo il dolore, assai ci pascemmo di pianto! Veloci precipitan gli anni? cantiamo—le rondini e il maggio: non trilla il decrepito faggio se un nido s'appende al suo ramo? Di sogni così nella prona mia testa—uno stormo annidò; di dove migrati non so, ma cantano e trillano a festa. I larghi tripudi del vento, i rivi—che il Maggio conduce com'ebbri di gioia e di luce tra un brivido d'erbe, pei clivi: le notti stellate sul sonno dei monti—al sereno albeggiare l'odor delle selve, e sul mare l'augusta deltà dei tramonti: le cose possenti, le cose gioconde—non altro essi sanno. Che importa se chiude un inganno l'azzurra innocenza dell'onde? che importan gli abissi e che il sole indori—ogni fango, e la fresca ninfea l'acqua putrida cresca, e strisci la biscia tra i fiori; se tutte improvvisa dischiude le porte—di luce, e il vitale segreto del bene e del male l'immensa bontà della morte?

La Serenata.

Le cose belle che volevo dirti se l'è bevute il mare; bisognava di perle a popolare le sue squallide sirti. Le parole più tenere e amorose che ti volevo dire se l'è rubate il lido per fiorire le sue siepi di rose. E quelle che il desio non dettò, quelle dell'anima, incorrotte…, o mia dolcezza, le ghermì le ghermì la notte per vestirsi di stelle.
Chi lo portava nude adesso e rigide tiene le mani in croce, e non le stende mai, nè più mai s'animeran d' un fremito. Or quell'anello sul mio dito splende. Splende al raggio del giorno e splende ai vividi doppieri, come quando egli, il giocondo capo d'adolescente erto, i miracoli tutti poteva interrogar del mondo. Va la mia mano sulla carta e sprizzano baleni dalla gemma. Anch' io, fornito il breve giorno, pregherò che cingasi di questo istesso anello un altro dito; e quando questo, ben di noi men fragile cerchietto, splenda sovra un'altra mano, anch' io sarò sotto la terra, immobile, indifferente ad ogni dramma umano. Dio!…Già mi vedo, come in sogno, chiudere nella bara, per sempre al buio, e un lento strisciar, succhiar d'animaletti gelidi sulla mia carne irrigidita io sento. Dio!… Forse intanto, al chiaro giorno, un libero vivente troverà questa ingiallita carta tra vecchie carte, questa pagina che calde adesso toccan le mie dita. Vedrà queste sottili aste che rapida traccio sul foglio, mentre pieno il senso della vita mi tiene, e pulsa il sangue, e vedo, odo, desìo, palpito, penso. Egli si chiederà:—Neri ebbe o cerulei occhi?…fu bella?… Ed io nella macabra mia prigione, laggiù, riderò l'orrido riso dei morti che non han più labra. Ei viene. In un istante ogni suono è caduto; viene con passo muto della notte l'amante. Di stelle una corona sul capo egli le allaccia: apre le immense braccia e tutta ella si dona. Non parole interrotte, non gemiti d'amore ode dal suo signore nell'estasi la Notte; ma ben per lei, che sola ne intende il dolce senso, egli canta un immenso inno senza parola: —«Ho mille regni, o mia unica, e tutta io voglio pel mio supremo orgoglio dirtene la magìa. Vedi? Dei sogni aperti al taciturno volo son miei l'algente polo e i torridi deserti; mie le città suberbe che strusse la divina ira; quella ruina veston licheni ed erbe; tra i portici dipinti s'aggira il gufo, assale l'erica sepolcrale delle colonne i plinti, e lesto il mandriano per quelle vie passando zufola sogguardando ed agita la mano. Ma solo, io solo, il forte palpito ancora ascolto del popolo sepolto sotto le città morte, e solo intera io sento la bellezza suprema dell'edera che trema sugli archi eccelsi al vento.»— La Notte ascolta, immersa nel sogno, e il modo tace. Ma occulta, nella pace come un'onda si versa continua, da ignote polle in marine ascose recando delle cose al silenzio devote la parola segreta; l' inno senza parola che tutto intende sola l'anima del poeta. —«Io sono l' Alba e t'amo. Per te le gemme io sento schiudersi, e il succo, lento salir dai ceppi al ramo. Mentre gli uccelli festa scoton l'ali, la spira snoda il serpe, e sospira il dolor che si desta, odo l'Alpi d' intorno dir nell'alto a lontani culmini di vulcani: Ancora un altro giorno! E al mar che flagellando le va, senza potere sbramarsi, le scogliere chiedere:—Fino a quando? Noi siamo le foreste, le foreste che degni eleggere a' tuoi regni nelle segrete feste. La tua malìa, sognanti ci tiene in un'attesa di prodigi, un'attesa di fantasmi giganti; e ben tornano a noi nelle tranquille sere l'ombre dolci e severe dei santi e degli eroi… Passano: è quei che cieco morì, ma dei pianeti i viaggi segreti spiò, vegliando teco. È quel meditabondo spirito di veggente che ad una ingrata gente dischiuse un novo mondo. È il tuo devoto, il forte Ghibellin fuggitivo, che potè scender vivo ai regni della Morte… Passano: agli alti veri cui tendevano, solo tu dirizzasti il volo degli erranti pensieri. Il cor dice:—«O figliuolo d' Iside, tu nell'ore del supremo dolore solo m'intendi, solo mi sei rifugio; e quando l'offesa eccede, e invano ad un accento umano la riscossa domando, tu, muto Iddio, che sdegni l'onta che non ti tocca, col dito sulla bocca la rampogna m'insegni.»— Tutte le cose in sordi bisbigli d'aromali atomi, e ritmi d'ali, ripetono concordi: —«Tu, che schiudi le porte dei fantasmi ai poeti, tu, che certo i segreti conosci della Morte; tu che imperi a le belle feste dell'Alba e tieni in tuo giogo i sereni pelaghi de le stelle; non mai, non mai sian rotte le magìe del tuo regno, o grande, o solo degno amante della Notte!»— Va il coro di segrete voci senza parola e, in mille forme, sola una lode ripete; va, come una profonda fiumana, a ignota foce, tranquillo, con la voce monotona dell'onda… O parole, che a frotte correte il mondo, eterne forme, nate con l' uomo, nella notte della sua patria torbida e lontana; lamento e prece, cantico e ruggito di questa prigioniera anima umana; o sfingi, che forniste le terribili vampe, e le pegole e i ghiacci delle triste cerchie infernali a Dante, e il gran sorriso di luce, onde la sua candida rosa irraggia l' infinito Paradiso; stelle non siete, o fiori; ma dei fior, de le stelle, tutti gl' incensi e tutti gli splendori noi vi sentiamo effondere, e cantare come usignuoli, o nello sdegno irrompere ed emular le collere del mare. Salve, salve, o sirene; o chimere; possenti maghe! da voi, solo da voi ci viene la dolcezza o l'amaro, il buio o il sole; voi la forza del mondo e la bellezza, voi la fiamma, voi l'anima, o parole! È un aspro di graniti orrido monte; ma, quando tace ne le valli il coro delle spigolatrici, ancor la fronte cinge d' una superba infula d'oro. Vi corre il volgo dalle voglie pronte, e non trovando in quella via ristoro d' una grotta muscosa o d' una fonte, all'ombra torna e al facile lavoro. Seguono alcuni, ma ben sa fiaccarne lo scarso ardir quell'erta, e a mezza costa s'arresta il più della pensosa schiera. Lasciando brani di vesti e di carne alle rocce taglienti, altri non sosta e sale e giunge e pianta una bandiera.

A Guido.

A te, che al lavoro e del lavoro mi dai costante incitamento ed esempio, dedico queste liriche col più tenero immutabile affetto.

La tua
VITTORIA
Novembre, 1908.

Se a te, larvata di fraterna fede, venga l'insidia; e su' tuoi campi mieta la frode; e compia sue viltà l'oblio; alla tua pena l'anima ripeta che ti resto io. Se la bufera schianterà i domìni del sogno, e lo squallore avrà sua stanza ove alto edificava il suo desìo; nuove regge di gioia e di speranza t'alzerò io. E se mai sulla traccia del destino la tenebra t'avvolga e in cieche parti d'abisso attiri, invoca il nome mio, e, col mio cor per fiaccola, a salvarti volerò io. Il dolce ricordo si perde nel sogno. Ecco siede la scorta a poppa, e la barca mi porta incontro ad un' insola verde che attira con taciti inviti di pace ai suoi ceruli seni. Intorno i bei colli sereni d' ulivi e di querci vestiti. Rivedo il raggiare supremo del giorno sui clivi pensosi; risento gli effluvi odorosi dell'acqua percossa dal remo, e assorta nel languido moto dell'onde, pur m'agita un vago ricordo: «Non io questo lago già vidi in un tempo remoto? non io già sentii questa ebrezza del cuore ammirante? non era il vespro e ridea primavera su questa sovrana bellezza come oggi?» Non mai paradisi più limpidi il sogno mi apriva. Chi passa laggiù sulla riva? è l'ombra del Santo d'Assisi? è l'ombra d' Aroldo? ai quieti sentieri, gli spiriti erranti ritornano ancóra dei santi, ritornano ancor dei poeti? E tu che alla torbida fama d'Annibale il danno perdoni, superbo dell'alte legioni che te vendicarono a Zama, o Lago, onde florida sale l'opima dei colli ghirlanda, in calva e pestifera landa converso, una gente venale e cieca t'avrebbe, se un forte soldato del bene, per lenti lunghi anni votato ai cimenti che serba ai tenaci la sorte, con l'alacri forze indefesse che amore nell'anima induce dei grandi, egli apostolo e duce lottato per te non avesse. A lui ben l'Aprile, sull'ale fragranti, recava la pace, la gioia; ma in alto, all'audace tenzon lo traea l' Ideale; nè mai sulla fulgida traccia pugnando che ai vertici mena, toccò del ginocchio l'arena o torse ai perigli la faccia. Tu d'ozii sdraiata in tranquilla vaghezza, o degenere prole, nel fango di cupide scuole affoghi l' eterna scintilla. Ma un dì se vedrai questa chiara beltà d'orizzonti, che il fiato di pallida Erinni esecrato or più non contamina, impara come apran gli spiriti alati del gregge le carceri oscure, e solo temprandosi a dure vigilie si domino i fati. Non più sotto gli archi vetusti obliqua la via si nasconde al palpito pigro dell'onde costrette entro gli aditi angusti; ma via tra le dighe sonore del Tevere Padre all'amplesso va il flutto, coll'impeto istesso che vibra da un giovine cuore. Dove anzi impregnavan le vive sue brezze i palustri veleni, la zappa giocondi baleni invia dalle uberrime rive; e dentro le povere stanze, già tetre di squallido stento, oggi entra col sole e col vento un coro d'allegre speranze. Così dalla cener sopita dei giorni sepolti, talora un lume improvviso d'aurora raccende il fervor della vita. Non meste io ti volsi parole, o Lago, in quel vespro di maggio?… Or sotto ai miei cigli arde un raggio, e dentro al mio spirito il sole.

Novembre 1901.

E ancora l'aspettata ecco discende, rotte le tende - alla caligin tarda, e svogliata sogguarda l'Alpi che tuttavia la neve imbianca. Levansi a lei voci imploranti e lieti cori, ma errando va pallida e stanca via dal tedio degl' inni consueti. Li sa, li sa, gli eterni madrigali di rose e d'ali-di trilli e di raggi, e i languidetti omaggi, che gli echi ristornellano alle brezze, dei vati innamorati e sospirosi. Sogna ella invece le superbe altezze e i fioriti di stelle ermi riposi d'onde scese alla vana aspra fatica dalla nemica-sorte a lei commessa; all'opera indefessa di schiuder gemme sugli aridi bronchi, d' infonder succhi e di sanar ferite; nei germi, nelle radiche e nei tronchi pigri, incitando le rideste vite. Da millenii e millennii ella sen viene alle terrene-noie l' Immortale, e dello stesso male trova il mondo intristito e sonnolento. Mette, a ridar le gagliardìe perdute, gioia nel sole e pòllini nel vento, ma sa che breve è il riso e la salute. Sa che il sonno ritorna. Ella il profondo morbo del mondo-non vince o consola che per un'ora sola. Poi di nuovo le febbri arse del cielo estivo, e l'agonia d'autunno, e il forte urlo dell'Aquilone, il buio, il gelo, e lo squallore, l'inverno, la morte. Da quando mi posi per via? d'aprile? di maggio? la messe di già verzicava; le siepi mettevano i fiori; eran canti nell'aria, nel sole promesse. Da quando mi posi per via? Ai campi, dal monte a la valle, sol restano i rovi; le canne stroncate ne' solchi; gli sterpi; le foglie degli alberi gialle; e a terra disciolte le viti che più sollevarsi non ponno— ghirlande appassite d' un'ora di festa—e per tutto la stanca inerzia che genera il sonno. Ma là, d' in tra l'eriche e l'alte ginestre, biancheggian le mura di un breve recinto che ride al roseo tramonto. La mèta! ben questa è la mèta sicura! Da quando partiti? da quando venuti, o fratelli, alla bianca dimora? ed agli ospiti quale solenne parola o solenne silenzio i cancelli spalanca? Un giorno, voi pur, della vita correste assetati alle foci? voi pur sotto un lume d'aurora? e siete qui giunti?… m' udite di sotto alle povere croci?



Bel cavaliero, lascia le vie traverse e che l'andare sia pur lento, ma sia diritto il sentiero; e in mente impresso tieni, che i fior sull'orlo degli abissi van guardati da lunge e non da presso. Anche rimembra questo: se trovi una capanna e un'ombra, non chieder altro per le stanche membra; e se in quell'ore trovi la pace dentro il casolare, non chieder altro pel tuo folle cuore. Saggio maestro, per rocce e forre, al sole e sotto gli astri io col volere le mie forze addestro; nè il piede ho avvezzo alle rupi ove saltan le camozze per sostare asolando al primo rezzo. Predica agli egri di coglier con la man tremula e magra sol dell'aiuole i boccioletti integri; tu certo ignori che sui baratri e non per i sentieri facili de la valle io cerco i fiori. Non la segreta pace dei casolari e non l' ingrato ozio, ma il rischio e i turbini il poeta ama; nè sgombra cerca la via di sassi e rovi; ha membra di combattente, e per seguire un'ombra, per inseguire un sogno, un'orma, un suon che lo innamora, affrontare egli sa gli scherni e l'ire del volgo, i roghi divampanti, le ingorde ugne dei draghi, e fin l'etica vostra, o pedagoghi! Una goccia, una sola goccia; orsù dunque! e tutte le vigliacche minacce de' tuoi perfidi fratelli, i ritegni codardi delle fiacche anime, che il superno gaudio, il pane quotidiano dell'eternità anelan di ghermire, e le tue nausee fiere pei loro torbidi ed imbelli pentimenti, e le loro miserabili fughe, e la loro ipocrita pietà, tutto verrà d' un tratto inabissato. Perchè non bevi, se l'oggi e il passato, che sul tuo cuore premon così grevi, e del dubbio il tormento, e il tedio, tarlo infaticato e lento, cenere diverran con te, se bevi? Con le tue membra inerti, cadran giù con te, per te, nel buio e nel silenzio eterno, tutte le maligne, insane, barbare leggi umane; le folli ire, gl'ignobili appetiti, le gioie avare e brevi; e la regina Morte, la proterva sovrana formidabile, tua serva diventerà, se bevi! Strepito di torrenti, divampare di cieli; l'ebrezza delle libere corse; il baleno e il sibilo dei tèli dietro belve fuggenti; e il mite riso delle stelle bionde; e le forre profonde piene di preci al nascer della luna; o sull'aurora, con le piante e l'erbe, nelle pianure sole, fremere in vegetale appagamento agli abbracci del vento, al mordere del sole, il sol che i volti imbruna e il mele infonde dentro le frutta acerbe; questo tu amavi, o candida anima di fanciullo, anima di poeta, viva d' un foco che non mai s'ammorza; questo suggean come onda che disseta il tuo cuore, il tuo sangue e la tua forza. La frode, con tigrini occhi, spiava. Ella spiava nel folto, là dove fervido in caccia traevi ignaro; spiava sull'arsa polve la traccia del tuo piè rapido, e il lungo sforzo; il mancar della lena; l'ansia. Per valli, per erte, e solitudini aperte, muta, invisibile, intesa a un segreto comando, ella tendea le sue trame, e ti colse, e ti vinse, indovinando, pronta, la tua fatica e la tua fame. Ben, quell'usura in eterno fu scola ai posteri; i pravi germi dier frutto! ma tu quale mai colpa espiavi fin dentro il seno materno? La mano fragile e molle del tuo fratel nascituro, dell' Israele futuro, l' invulnerabile duce delle fuggiasche figlie di Labano, non ti ghermì, non ti volle il diritto contendere e la luce? Io vedo un uomo coprirsi delle tue vesti odorose di selva, meditando il suo peccato; accostarsi a tuo padre cieco ed augusto per canute chiome, mentir la carne e il nome tuo, con parole ladre. E il vecchio, dalle omai languide posse, dagli spiriti domi, pensa:—Ben sento che i vivaci aromi stillò nella sua tunica il ginepro, e il terebinto dalle bacche rosse, e il mellifero timo. Ben io, ben io conosco l'agreste olire del figliol mio primo, che vien dalle felici ombre del bosco!— E credette, e la man tremula impose, quasi a fugare ogni virtù funesta, con infinito amore benedicendo a quella curva testa di traditore. Così le complici stelle diero mercede alla bieca menzogna! o forse che l'errore accieca il mio pensiero ribelle? Io vedo greggi sterminate incontro a fatidici albori, e, gravi di tesori sui piani solitari, lunghe file di lenti dromedari dalle villose gobbe, avviarsi alle floride regioni promesse, ove i suoi cento padiglioni stenderà tra fumanti are Giacobbe. Fior di sfortuna, quando nacqui la gioia era lontana, nessuna fata scese alla mia cuna con bei presenti. La vita mia fu di sospiri e pianto; la giovinezza mia gettata ai venti. Tra inedia e pene io vidi sparir tutti ad uno ad uno, e te, che mi volevi tanto bene, te, santo amore, madre mia, madre buona, mamma cara, e son rimasta sola col dolore. Avea perduto tutto, ma chiesi il pane a queste dita e all'ago, ad altri non cercando aiuto. Fu lui che venne a tentarmi, a pregarmi, e per un anno dissi no, dissi no, finchè m'ottenne. E quando poi fu sazio, e quando poi vennero i guai e il bisogno, coi figli (i figli suoi!), Dio gli perdoni! m' ha calpestata come uva nel tino; era un solo e parea cento demoni. Io non so quali ingiurie mi dicea, so che fu vile e che le sue parole eran pugnali. Chi di veleno m' inebriò? chi pose in questa mano un'arma? chi gliela confisse in seno? Madre, tu ignori, tu dormi; i morti scordano l'amara vita, e l'aprile li copre di fiori. Io… piango e canto; canto per non sentire ogni momento quell' urlo suo quando mi cadde accanto. Accostarsi all'oscuro mio letto, dalle porte raggianti, io vidi il puro angiolo della morte. Una dorata ciocca velava gli occhi suoi: rideva la sua bocca sorridendo:—Mi vuoi?— Rapita io nella bianca sua desiata faccia, io, di vane opre stanca, a lui tendo le braccia; e, mentre l'affannoso mio cor s'apre alla fede del perfetto riposo che solo egli concede; mi sibila vicina una maligna voce: «Dèstati; orsù, cammina, ripiglia la tua croce!». La barca mi portò fra le alte canne verdi, presso le mura ammantellate d'edera, cui piovea sogni l'intenta Luna. Io sentii levarsi ai primi passi il fresco odor del timo e della menta già dell'approdo tra la rena e i sassi. Pini rigidi e rari come scolte di là s'ergeano; qua dell'erta in cima l'adito, che opponea fiero ai certami ferree porte, or vaneggia. Andavan lente, alla brezza del Lago, ombre di rami penduli, giù dal rude arco possente. Una voce mi giunse non mai prima udita:—Alfine torni! (alcun non era da canto a me per la romita riva). Torni, e ben altra che non fossi allora; ma nell'anima avrai serbata viva la rimembranza della tua dimora e del tuo maggio e del tuo grande amore!— Tra sospetto e timor pensai tacendo: son io ben desta? e qual se in chiari accenti io proferito avessi le parole, replicare m' udii:—Non ti rammenti nemmen quel giorno di gioia e di sole che al tuo venir squillaron sugli spalti i cenni, e il falco azzurro sventolò lassù, nel mastio sulla vetta estrema? Agli osanna esulta vano i tuoi baldi occhi, fulgendo più del diadema che avevi in fronte d'oro e di smeraldi. Non ti ricordi? Non ricordi i fiori qui sparsi, e il paggio che reggea la lunga tua veste di broccato, e gli scudieri, e l'alabarde a questa porta vana? Ben riconosco i tuoi capelli neri e il tuo piccolo piede, o castellana!— Dalla barca mi giunse il suo richiamo, quello dell'amor mio, l'amor mio vero, la viva realtà cara e vicina, e tosto ogni altra immagine disparve. Più mi sentii superba e più regina che tra i clamor delle svanite larve; più mi sembrò la notte luminosa d' un sol di maggio e di trionfo, e pieno d'evviva e d' inni gloriosi il vento. Ridean nel plenilunio sereno l'isole, e il Lago pareva d'argento, il mio sel vaggio e dolce Trasimeno. Io certo scesi, come incoronata d'albore, incontro alla diletta voce che il mio nome dicea. Le rive intorno quella parola ripetean gioconda, quella parola ch' egli stesso un giorno gridò sul dominato alveo dell'onda. Levai gli occhi al miracolo del cielo, e ripensai:—Che sa? tutto è prodigio! Della luce talor sono i viaggi smisurati così, che al ciglio assorto forse giungono adesso orfani raggi d' un remoto astro da mille anni morto.— Vedi? è il trionfo. I sonori inni odi tu? Pel sepolto tuo corpo stanco han no colto tutte le rose e gli allori. Questa dei vati la sorte: l' uom non li cura o disama; sorge, comprende ed acclama solo al passar della Morte. Te, quando ancora nel sole le tue pupille eran fisse, segnò la Gloria, e ti disse le sue profonde parole. Ma dall'avel riconduce tra le sue braccia possenti te rediviva ai viventi incoronata di luce.

(alla Contessa M. M.)

Qui, sulla bianca pagina fermo quest'ora; un'ora della mia vita: risplende il sole, i campi ridono, ma d' un sorriso di malinconia. Cadon le foglie, cadono delle speranze i fragili tesori. Questa eterna vicenda di temperie, questo mutar di gioie e di dolori, quando avrà fine? dimmelo, Maria, tu che del grande occhio nel puro lampo racchiudi delle maghe il fascino, la virtù ch'ogni velo alza al futuro; o bionda Maria, dimmelo: che ti detta il profetico pensiero? dopo l'ultima neve e dopo l' ultima battaglia, dormiremo in cimitero per sempre, o sciolti spiriti per grado assunti agli splendori eterni, esulteremo finalmente in liberi cieli, senza uragani e senza inverni?

(a mia sorella Virginia).

Seduto di traverso tutto curvo di lato sulla spalliera, il capo sul braccio abbandonato, parea dormire. Il sole tra nuvoli leggieri, rideva su quegli orti, e pei verdi sentieri andavano con passo lento altri vecchi. Intorno era silenzio; un'alta pace, in quel primo giorno di primavera… Io tutta dominavo la vasta fuga dei clivi e il mare, dal colle che sovrasta l'ospizio; ma lui solo, quel vecchio, quel dolente vecchio, mi tenea ferma, là, con gli occhi e la mente verso lui, quell' ignoto, quel mio fratello. Assorto avea l'occhio ed immobile come quello d' un morto, ma non dormiva. L'alito d'aprile, quel benigno ciel, qui vapori candidi come ampie ali di cigno, quella gran giovanezza di natura, a quel core stanco non davan palpiti, ma un immenso stupore. Forse nella gran tenebra della memoria, adesso tornava, d' una istessa mattina, d' un istesso cielo il fantasma. Dove era ito il giocondo fanciullo che giocava a rimpiattarsi, in fondo a quel vasto cortile, sotto quel porticato tutto fresco nell'ombra?… non s'era più trovato quel fanciullo? dov'era ito? dove?—Il ricordo qui ti si abbuia, o vecchio! e quel giovane, ingordo di vita? e quella strana corsa, dietro più strani spettri, sempre fuggenti da lui, sempre lontani; e i rovi, le cadute e il dileggio, o i conforti bugiardi dei rivali, più vigliacchi o più forti di lui, che s'affannavano per la sua istessa via? E quell' ultima angoscia, quell' ultima agonia che lo prostrò, lì, a mezzo del cammino! Oh le mani pie, gli porgono adesso! adesso che il domani è ormai la morte; adesso che senza forze e senza volontà, sordo il core, muta l' intelligenza, più non potrà contendere ai pietosi fratelli del mondo i fiori, tanto perfidi, e tanto belli! No, questo tu non pensi; in te fermo rimane il ricordo ad immagini più gentili e lontane. È sempre il gran sereno di quel giorno; i bei rami di mandorlo, seccati in quel giorno; i richiami festosi d'altri bimbi, e le fragranze, e i cori che gli uccelli portavano, che cantavano i fiori. Quanti giuochi quel giorno!… ma poi, dov'era ito a nascondersi il forte fanciullo, il duce ardito della gaia legione?… Così lunge si perde la via dei campi! e certo da quell'immenso verde sedotto, quel fanciullo smarrì la via. Da allora mai più non lo trovarono, e l'aspettano ancóra certo quegli altri bimbi, non più dal porticato verde, là del cortile, ma disotto il sagrato freddo, dove le tenebre fanno eterni i momenti. Perchè dunque e tepori, e fragranze, e concenti ha il cielo ancóra? e il sole ride ancóra, e il sottile veleno ancor dissemina sulla terra l'aprile?…

Napoli, Rione Amedeo.

Appena le colline solatìe il vespero di miti ombre circonda, io vado, solitaria vagabonda, per le più verdi e più romite vie incontro ai miei fantastici e tranquilli amici, che aman gir per la campagna anch' essi, quando il sole in mar si bagna e cantan per le prode umide i grilli. Su pei dirupi e giù per la via piana van seguendo i miei taciti viaggi; li trovo fra le siepi e sotto i faggi o dentro i ciuffi della maggiorana; sulla porta di case abbandonate; negli orti ov'era un dì grave la vigna di grappoli, ed or cresce la gramigna e il cardo sotto i morsi dell' estate. Alcun veste di seta e dalle scale scende là della reggia in cotta e sproni. Ben si veggon da lunge i padiglioni di porpora sui cento archi d' opale. Altri vien su dalla brughiera, in grossa tela, e mi stende le callose mani; «Sappi—mi dice—sappi che domani comincerà la tacita riscossa!» Altri vi son che mutano la veste ogni giorno, assai docili al comando: l' han tutta nera s' io son triste, e quando sono lieta, han la tunica celeste. Così se nella pace, e di lavoro alacre, corre allegra la giornata, su per i clivi e giù per la vallata io li vado chiamando e dico loro: Venite, o voi, gli eterni adolescenti cui sempre intorno aleggia primavera, e, come un dì, la magica bandiera della speranza dispiegate ai venti; e, come un dì, sovra l' elmetto d'oro, annunzio e segno di vittoria, sia per la mia fede e per la gioia mia vivo e verace un ramoscel d' alloro.

(alla Principessa di Tricase).

Una dimora che ai convegni eletta certo avriano le Grazie; e accanto, i lieti trionfi delle palme, intorno avvinte dalla glicine in fiore, e i cedri insigni del Libano, e i metallici fulgori delle magnolie. Molli prati e vivide famiglie di verbene in mezzo al fresco idillio d'ombre, finchè poi non s'apre libero a piè della ridente china il velario magnifico del verde sulla gloria del mare. Ali di candide paranze vanno per l' azzurro, e insieme passano con veloce ala i ricordi, passano le veloci ombre dei sogni. Certo non mai la dolce estasi il core mio scorderà, della bellezza eterna fin che s' accenda. Minaccioso in fondo fuma il vulcano, ma da presso io sento fremere un lor segreto inno le rose alla gioia fuggente e l'aria intorno susurrarmi: «Non vedi? il giorno è breve; augurio del domani avida accogli per entro la rapita anima il vivo balsamo di quest'ora». Ecco si sfoglia una rosa, e laggiù distende i veli mesti il tramonto per le rive e i porti; mentre immutata, del silente golfo sovra il tremulo specchio, al cielo incontro, del Vesuvio l'estrema erta sfavilla.
Dalla sala a terreno passa ciarlando in festa la gioconda brigata delle fanciulle. Invitano fuori, i prati e il sereno maggio dalla vetrata. Siede in un canto il padre, il vecchio padre, e giunge le mani sui ginocchi come chi prega. Al garrulo passar delle leggiadre fanciulle leva gli occhi e sorride. Non esse lo videro; è la sala profonda, il giorno cade, e laggiù il canto tacito, che il vecchio padre elesse, rapida l'ombra invade. Di fuor l'azzurra tenda del cielo, ancóra sparsa di porpore raggianti, le volle. Esse non videro il padre, nè l'Orrenda che gli stava davanti. Oh l'avessero scorta! e fuggendo agli inviti della volta iridata al vaporante vespero di maggio, quella porta non avrebber varcata! Perchè, perchè non disse una parola? un'unica parola, un cenno? un solo cenno! e rapide, intorno a lui, le ciglia fisse in lui, le figlie, a volo accorse, della faccia esangue il gelo avrebbero vinto coi baci, e il petto oppresso, con le giovani e fortissime braccia sollevato e sorretto amorose, e a vicenda dolci, forti e sollecite ai cenni della brava loro anima, conteso e strappato, all'Orrenda che dinanzi gli stava. «Guarda là come splendono quegli orecchini d' oro! di' su, mio bel tesoro,—quanto t' hanno costato?» E un altro: «Sei tornata per far Pasqua al paese e pagare le spese—del tuo dolce peccato?» Con le man tra i ginocchi un villanel sghignazza e la bruna ragazza—sbircia in aria beffarda. Là sdraiato, un garzone, col fiero capo eretto, poggia sul pugno stretto—la fronte, e intento guarda dietro alla malïarda—con torbidi occhi, donde balenano profonde—ire dalla rovina d'ogni dolce speranza, e l'amore, il nemico amore, il sogno antico—a risognar s' ostina. Era tutto perduto. Una parola, una parola dell'antico amore invano avea la misera implorata, là, nella triste sera affranta, sola ripetea trasognata: «O Signore! o Signore!» Altro dir non poteva; altra parola non più sapea lo sbigottito core; con il singulto d' una assassinata che un laccio stringa perfido alla gola ripetea trasognata: «O Signore! o Signore!»

(Alla Contessa C. L.)

Bella contessa, a ben cantar di voi cavalieri e poeti a cento a cento hanno, ben lo sapete, e prima e poi pirateggiato tutto il firmamento, e i roseti del Libano, e i tesori iridescenti che ascondeva il mare. A me non resta… che starvi a guardare ripensando alle perle, agli astri, ai fiori.
Un po' d'argilla un po' d'acqua di fonte e la stecca s'avvia. Qual magistero nel fango induce il palpito del vero, v'apre degli anni e del dolor le impronte? È creta questa? ed agita un leggiero soffio le labbra alla parola pronte? Creta? e indovino sotto l'ampia fronte il prodigio operarsi del pensiero? O generoso, che il fiorente maggio déste alla patria, o mite cuore, ai vili tremendo, e saldo e impavido alla morte! Ben io qui veggo dei vostri occhi il raggio, gli sdegni santi, gli estri giovanili, e dell'eroe l'onesta anima forte. Dove siete? qual povera fossa—nel buio aduna l'ossa—vostre, o magnanimi figli della Laguna? Verso un raggio di pallida luce—andaste, e solo era duce—l'amor d'Italia l'idea sola bandiera. Andaste incontro a un tragico vento—d'eccidio, e intorno cento—agguati, nè un' unica speranza di ritorno. Ben sull'erta, un fantasima dalla—beffarda faccia gialla—scrollava l'indice in segno di minaccia: ma voi seguiste, o spiriti d'eroi,—sfidando i danni; ma voi—gettaste i palpiti vostri, i vostri vent'anni, l'avvenire, le indomite tempre—a quel lume infido, sempre—incitando al vertice, pur con l' ultimo grido i vivi, pur con l'ultimo gesto—di agonizzanti. Questo—sappiano i piccoli vostri eredi, o giganti! Questo l' oblìo non spegnere debbe.—Se in tanta possa crebbe—la messe d'odio e il fior della riscossa, fu perchè viva, fervida, monda—e ferace, scese l'onda—del sangue giovane sull'ausonio paese. Voi figli di Venezia dove—siete? Forse ora move—il villano a mietere sulla cieca dimora vostra, o dell'acque il rompere sulla—ghiaia d' un'erta brulla—udite, o i silenzii d' una forza deserta? Ignoro. Ma se al tumulo bianca—lapide o croce manca—a dirci: «Qui dormono,» chiara la vostra voce a noi favella: «Ovunque un giogo empio si spezza e il ciel sorride; ovunque sia forza e sia bellezza; rugga il mare, o l'allodola di voli alti gioconda, non meditati cantici ebbra di luce effonda; dove risponde un fremito degli oppressi al richiamo; ov' è una fiamma, un palpito, un sogno, ivi noi siamo!»

1903.

Non fu di fiele abbeverato? Il petto non gli squarciò l'ignobile scherano? Non fu percosso, irriso, e un'empia mano non lo inchiodò sul legno maledetto? Pur, quale mai più glorïoso e forte risorgere, se ancor tuona la voce dell'Osanna, e dovunque apre una croce le braccia, dall'idea vinta è la morte? Armenia, ed anche a te squarciato il seno vedo dai nuovi farisei. Raccolto hanno il fango a scagliartelo sul volto; per dissetarti apprestano il veleno. Ma se l' insazïata orda ferina sulle tue membra flagellate e grame oggi rinnova la tortura infame del Golgota, la tua Pasqua è vicina. Alla porta del cielo s'affacciò un'anima, ed un grande angiolo chiese: —Chi fosti? —Un peccator che si ravvide e spera e implora il premio. —Or dunque narra la colpa e il pentimento. —Amai chi tutta datasi a me con impeto d'ardore folle, con formidabile demenza d'abbandono, sfidava anche i divini gastighi nella torbida e superba frenesia dell'amore. Un giorno, io, colto da improvvise paure, e della eterna mia salvezza pensoso, altro non volli che ad un tratto respingere quell'ebbra anima innamorata e la dovetti, nell'ansia mia d'esserne mondo, svellere (ella a me s'avvinghiava con tenacia di delirante) a brani a brani, e farla stridere e sanguinare; ma fui salvo finalmente! Allontànati! (rispose grave l'angiolo). Orsù! vanne da questa pura soglia, però che in verità dico: tu la contamini restando.— Andavano. Roccioso era il sentiero e ripido. Veniva ella istigando soavemente al riso, alle carezze il suo compagno; ma un fugace riso, ma fugaci carezze egli alla bionda vergine concedea. Le ciglia intente alla vetta, d'altezze avido, acceso del suo voler, saliva. Era lontano il vertice, ma liete odi cantava, a incitarlo, a sorreggerlo, la forte fanciulla, e gli echi ripeteano il canto e i trilli del suo riso. Ella non orme parea segnar, così lieve movea su per quell'erta, i bei capelli al vento, fluttuanti le vesti, e fresca e allegra come l'aprile. Ed ecco il pellegrino vide presso la mèta, e, attinto il sommo, giunse là dove lo attendean le turbe impazïenti, sotto archi di fiori, e udì gli osanna e strinse il glorioso virgulto. Alfine! alfine! oh piena ebrezza del trionfo con lei, la frote e bella sua compagna! «Dov' è? dov' è, se adesso mi stava accanto? Ov' è ita?» Protende trasognato le braccia egli, e somiglia un cieco cui sfuggita all' improvviso la mano sia che lo guidava. Il cielo perchè s' infosca? e perchè gli inni adesso suonan beffardi? Un lampo, oh un lampo solo di quegli occhi; una nota, un cenno, un' eco di quel suo riso! rivederla ancora, oh ancora per un' altra ultima volta sentir l' invito alle carezze, ai folli giuochi, all'oblìo d' un'ora; e quei capelli veder liberi al vento, e la sua voce di nuovo udir levarsi alle parole meravigliose! Ma l'amica, un giorno negletta, è lunge. Su dal piano sale un clamor gaio: giovani e fanciulle cantano in danza. Ad altri la sua voce sorreggitrice adesso ella consente e dell'animatore occhio i baleni. Eccola! eretta sulla china erbosa, leva, ignara beltà, le braccia ignude come argiva canefora, e inghirlanda la sua fronte di rose. l'evviva «O giovinezza! o giovinezza!» Così la chiama disperatamente, e a lei tende le braccia, invano ormai, quell'amato d' un tempo. Ella non ode; più non l'ode nè cura, e via cantando in coro, pei fioriti orti scompare.

(a mia sorella Elena).

Nella penombra immobile delle arcate, sui tumuli vegliante un suono levasi che strana eco ridesta nella dimora santa. Sorgono i morti all' inusata festa; la chiesa è vota e libera, l'organo canta. Siede all'organo un vecchio. Suona e ripensa un vespero di primavera, un vergine volto, una gran parola che passò nella brezza della notte e che udì l'anima sola. O aprile! aprile! o palpiti primi, o superba ebrezza! E le note spalancano finestre ed entran aliti marini, entra l'effluvio della selva fiorita là dall'opposto monte; entra la giovinezza, entra la vita e s'affaccia il crepuscolo con una stella in fronte. Salgon ebbri gli scheletri trascinando il sudario, barcollanti, nell'ansia del suon che li seduce, ebbri di umani ardori. Passan le stelle e con severa luce dagli alti archi sogguardano quei funebri candori.

1904.

Qui, dinanzi al tranquillo lago, su questa riva lunge così dalla mondana mischia da consentirmi il sogno che il dolce stuol delle Napee riviva; qui dove salta il grillo e il merlo fischia e una limpida gioia empie ogni cosa; io qui, seduta sotto alle superbe querci, aspirando il sano odor dell'erbe, ripenso alla tua semplice grandezza, o Cimarosa. Per le campagne, per le marine passa una grande ala, una grande voce. Disperde l'ombre passando l'ala; la voce chiama nell'alto. Chiama ai meriggi sereni; ai vesperi miti; alla rosea salute, i deboli, gli egri, i vegliardi. Richiama all'opere neglette, ai lampi della battaglia gl' ignavi; e al popolo suo dei fecondi sogni, al suo popolo abbandonato nel tedio inerte, chiama il poeta. Il libro parla d'arte cosmopolita; di scuole e sistemi; d'archetipi e di dommi. Come è stanco il pensiero! Chiudiamo il libro: il cielo divampa tutto nell' ultimo raggio del giorno, e passa uno stridio di rondini improvviso, nel vespero di maggio. Si spalanchino tutte le finestre; entri l'aria, l'odorata aria che manda il palpito del mare. Questa non più ritorna ora di luce! O santa, onnipossente, unica scola, natura! quali mai parole d' uomini hanno gl'incanti d'una tua parola? O lunghe ore vissute inutilmente e faticosamente sovra annerite pagine, il pensiero in fiamme, il polso rapido, il respiro costretto; o canti pur dal vivo cuore espressi; quando uguaglierete un vespero, un'aurora, un marino alito, un fiore? Fantasimi esultanti ecco al memore appello balzano dall'avello sacro d'Italia ai vanti, come accorrendo in fretta a bellici convegni; sull'aste alzano i segni augusti di Barletta. Ma non d'ostil bandiera l'ala aperta nel vento rievoca al cimento la rediviva schiera; non impeto pugnace, non superbe disfide; oggi al mondo sorride l' idolo della Pace; se pur vil passione di lucro non richieda ad onestar la preda il giure del cannone. Solo il fedel dei carmi sospiro, alzasi a voi, o popoli d'eroi scolpito in bronzo e in marmi. In altro culto assorti, de' vostri lauri schivi, paiono morti i vivi, paiono vivi i morti. Per l'aria greve e fosca dei nostri aridi giorni, tu passi e non ritorni, Ettore Fieramosca. Per voi, gentile, che su questa pagina chinerete il soave occhio pensoso, dipingere vorrei scene di placida bellezza, isole d'ombra e di riposo; visïoni di selve, al tardo vespero di viola, che un lume ultimo accende; laghi dormenti su cui lente passano schiere di cigni e voli di leggende; tutto che placa l'affannosa e rapida vita, chiamando l'anime a raccolta, con le parole che non sanno gli uomini, ma che attenta l'umana anima ascolta. Parlan così le forre d'onde sgorgano tra felci e timi limpide fontane; il sentier che dal borgo alto s'arrampica a solitarie praterie montane; le dolci sere. Ecco: vedete? tacita cade la terra in lene assopimento, e improvvisa laggiù sul ciel diafano si libra con falcata ala d'argento la nova Luna. A quell'albor sorridono il mare, i porti, ogni deserto ed ogni ruina; ecco il silenzio; ecco per l'anima giunta la benedetta ora dei sogni e dei voli. La notte è sua! la interroga con parole non mai vergate, e cento voci han per lei che tutto ode nell'estasi, le tenebre, il mister, le stelle, il vento. Tutta nell'ombra, cui del vento l'ala sfiora, con un ronzìo di pascenti api, sale tra i secolari elci la scala che seppe le solenni orme dei papi. Il musco avvolge de' suoi cupi e molli velluti i marmi, oggi consunti e rotti; pur quivi un tempo di tripudi folli volò il clamor per le stellate notti del Cinquecento, e videro i viali, deserti adesso, le ondeggianti piume dei paggi, e gli aurei sciàmiti, e i ducali gigli, aggirarsi della luna al lume. Ora è silenzio; ma possenti e pure forme di vita e di dominio stanno gli alberi eccelsi, nè giammai la scure li minacciò dell'oltraggioso danno. Ahi, non così dove ridea la folta magnificenza che adombrò i giardini dei Ludovisi! Una selvaggia e stolta rabbia di lucro ai taciti confini del verde eremo spinse di civili barbari un'orda; e il sovvenir soltanto, altro non resta dei sereni asili, per cui nuovo aleggiò di Goethe il canto. Poi sovra il suolo, amico alla silvestre musa e all'oblio, levaron le magioni inclite, onde superbo alle finestre pende fregio di cenci, i gonfaloni della miseria. Chi affogò il concento di spirti alati e d'aure fuggitive tra le piante? O nel sol nate e nel vento mormoranti e frementi anime vive, non chi vi uccise, interrogò il divino sogno in voi chiuso, eppur le menti assorte tiene il passato, e ferve al Palatino la gran ricerca delle cose morte. Ma qui l'arte immortale a guardia siede d'ogni bellezza; il suo magico anello, dell'ideale nell'accesa fede, noi meglio stringe a un popolo fratello. Laggiù Roma, e le voci e la follia degli uomini; laggiù tronfio cammina il vizio che s'attarda in sulla via la basterna a inchinar di Messalina; e la superbia cieca, e la rapace sete dell'oro, e tutto il fango. Un mite alito qui di sospirosa pace, un esultar di vegetanti vite; qui del carcere urbano, afoso d'aria impura, franti i perfidi ritegni, via dal volgo fuggiasca solitaria l'anima migra ai vagheggiati regni di libertà. Risale ella a ritroso i secoli, passar vede e vanire le genti nell'anelito affannoso verso le combattute albe avvenire; poi tutte ruinar dentro il mistero degli abissi famelico e profondo, solchi lasciando e lampi di pensiero, nuove battaglie e nuove febbri al mondo. Ecco scende la sera, e par che un velo di rosa intorno a Monte Mario allacci. Torbido l'Aventin guarda nel cielo se il fantasma di Spartaco s'affacci; e intanto al basso, eterno adolescente, scherza il Tevere biondo, e tutto ignora. Quale il destino della nostra gente, rinnovellata in seno alla dimora vetusta? Inconscio fugge, e se alle mura ardue sente le sacre onde pulsare domate, la caduca onta non cura, e va bramoso a liberarsi in mare. Omai la luce d'ogni intorno è spenta; e le tenebre piombano dirotte, mentre la terra culla ed addormenta librata sulle fresche ali la notte. L'opre dell'oggi, e dei trionfi andati le ruine, tra i flutti e le procelle e dei fiumi e dei popoli e dei fati, guardan con disattento occhio le stelle. A lui ridiceva quell'ultimo sguardo: « Perchè non credi? perchè mentirei? tutta l'anima in questi occhi non vedi? Rimani! non far ch' io difendermi debba alle stolte accuse! » Così le pupille pregavano, ma il labbro non si schiuse.

(alla marchesa L. D. P.).

D'onde le rose e i gigli ebbe costei? (l'Aurora disse). Un dì m'erano ignote le sconfitte, or non più; cedono i miei colori innanzi alle sue fresche gote. Gridò il Sole:—Il più fiero degli oltraggi da lei mi venne; sciolse i suoi capelli di maga incontro ai miei divini raggi, e dei miei raggi apparvero più belli! Il Cielo sospirò:—Voi con i biondi capelli, e i fiori onde il suo viso è pinto; con l'azzurro dei grandi occhi profondi me pur questo terreno angiolo ha vinto.
Dall' onda, specchio d' elci e d' uliveti che li ricinge, ripiegando in molli giri pei seni, i perugini colli salgono incontro al sogno dei poeti. Talor quel flutto esercita i quïeti porti, con improvvisi impeti folli, quasi dall' imo alveo rampolli una furia d' antichi odî segreti. Laggiù, del nembo tra l' aerea mole ecco l'orde barbariche! e alla brama vindice, il Lago insorge, emulo al mare. Ma van le nebbie, e al balenar del sole che vide le romane aquile a Zama, d'Annibale la fosca ombra scompare.

Note1 Vide la luce la prima volta col titolo: All' Esposizione.

(Quadri di A. Munthe)

O politiche lotte e anarchici furori; corrotti e corruttori cinti d'alloro, o quasi; leggi fatte di gomma elastica, spedienti per chi le tiri o allenti a seconda dei casi; o perfidie mondane, cabale di salotto, sobillar galeotto per non giunger secondo; o giornali, o giornali che rimpastate il mondo con quintali e quintali d' articoli di fondo; disperdetevi al soffio dell' arte! Ella discende a noi, la pia, che intende dell'anima i bisogni. Vien con l'antica veste che cinse un' età morta, e spalanca la porta, la gran porta dei sogni. Del portentoso regno i magici splendori rivestono di fiori anche i roveti brulli; e passa e passa il popolo dei fantasimi lieti: le vergini e i poeti, gli arcangeli e i fanciulli. Che v' importa degli anni? La verghetta lucente d'un mago onnipossente la gioventù ridona. Che val se vi sepàra dal nostro amor la sorte? Più del destino è forte l' Idea, la fata buona. Tutti i dolori e tutte degli uomini le acerbe contese, i fiori e l' erbe del paese giocondo sanano, e l' occhio nostro terso d'ogni veleno contemplerà sereno la bellezza del mondo. Siccome in un lavacro d'oblìo, tuffo la mente dentro l'onda innocente delle favole belle; e vinto d'ogni cura corroditrice il tarlo, io con le stelle parlo, parlano a me le stelle.
Tragicamente protesa dal suo trono di nero marmo, alto nell'ombra dei padiglioni d'oro, ella con occhio di belva, guarda gli ammassati schiavi giù nella polve: i sudditi ribelli tratti là, come incatenata gregge da scannatoio. Un uomo in man solleva un'ascia,—una d'acciaio smisurata lamina che balena al rosso lume del vespero—e par chieda: « Quali? » Intorno, sul piano, sulle rupi e sull'eccelso trono, par piova sangue. Ecco, le labbra della sovrana un fremito percorre che non è di pietà: novera in fretta i morituri. E finalmente al cenno di colui che la interroga, improvvisa sorgendo, e aperta la sua man vibrante e violenta al gesto che discaccia ogni preghiera, con voce che l'odio fa roca, ella risponde avida: « Tutti! » Scinti i capelli, in uno scialle avvolta lacero, è là che aspetta. Lo speziale intanto, in un liquore dall' acre odore—stempera misterïose polveri. Guarda la poveretta con occhi aperti e fissi, giunta là disperata dalla stanza dove la sua figliuola unica muore, giunta là dagli abissi—del dolore, quello che è tutta ormai la sua speranza, il farmaco, che ancora e ancora aspetta. E da un alto scaffale fra barattoli e fiale ride in lettere d' oro un nome, e par ripetere: « Son io che do ristoro—e oblìo; prendi me, prendi me, non quel fallace intriso! Io solo, io solo, in poche stille chiudo il poter che a tutte le pupille stanche dà il sonno; a tutti i cuori pace ». Nulla più spera. È pallida, è malata, è stanca. Quanti furono i momenti di gioia? e n'ebbe mai? la sua giornata è forse presso al fine. Ma improvvisa passa l' aria d'aprile e dice: « Scnti? » O ricordi! Ma fu vera la festa di giovinezza? o una malìa bugiarda, una follìa ci tenne e nulla resta, nulla resta di amabile e giocondo? Ride l'azzurro e le risponde: « Guarda! » Ebbrezza d' inni, libertà di voli, noi pur, noi pur godemmo un giorno, ed era nostro dominio il mondo, e per noi soli la bellezza; ma in qual tempo fu mai! Una rondine trilla: « Primavera! »

(Pel terremoto delle Calabrie 1905)

E la speranza era nei vostri cuori, nella mente il pensier dell'avvenire; inconsci come l'erbe e come i fiori cui solo basta un raggio ad appassire. E la speranza era nei vostri cuori. Non siamo noi siccome fili d' erba per l' Universo? e il sole non sorride indifferente a nostra sorte acerba, pur misurando l' attimo che uccide? Non siamo noi siccome fili d' erba? Ridea la Luna sulle vostre case ieri; non cerca oggi, nè guarda, e move cheta pel ciel; nè un tetto erto rimase, e son ruine e cimiteri, dove ridea la Luna sulle vostre case.

(Imitazione)

—E se un giorno tornasse che dovrei dirgli? —Digli che lo si attese fino a morirne. —E se ancora interrogasse senza riconoscermi? —Parla a lui come farebbe una sorella; forse egli soffre. —E se chiede dove siete, che debbo dirgli? —Dàgli il mio anello d' oro senza parole. —E se vorrà sapere perchè la sala è vota? —Mostragli che la lampada è spenta e l' uscio aperto. —Ma se poi mi richiede…. dell' ultima ora? Digli che in quell' ora… ho sorriso per non far ch' egli pianga.
Non perchè della porpora regale v' abbia gravati gli omeri la sorte, salgo le vostre scale, batto alle vostre porte, e canto il madrigale. Ma bene io so che fuor dalle bassure livide d' acque morte, vi librate sull' ale dell' anima secure, dove non è chi plauda o chi rampogni; ai silenzi dell'estasi, alle plaghe dei sogni, verso il libero ciel dell' Ideale. So che i fasti terreni non v'hanno amica nè i mondani vanti, so che nei vostri canti sono raggi e baleni; ed ama e sa la lotta e la procella lo spirito, sdegnoso d' ogni voler mal desto. L' anima mia per questo ti saluta, o sorella. Passa la furia dei cavalli sotto la sferza del Destino, e via pei campi dell' Universo, imperversante fiotto suscita turbini e lampi. Levano ansando a lente orme gli umani cupole e guglie in loro angusta aiola, dir presumendo ai popoli lontani una sovrana parola. Ma l' auriga possente urge e disfrena i corsier, via per la fatal sua traccia, e quei sudati cumuli d' arena inconsapevole schiaccia. Madonna Laura dagli occhi celesti, come è lontano il giorno che faceste ritorno—in Paradiso! La terra mutò viso e mutarono gli abiti e le vesti. Le madonne son fatte proterve, e per le forre e per le fratte, e per ogni sentiere più scabro del sapere, s' inerpicando vanno, agili, ardenti, superbe di virili atteggiamenti, nè a loro più si flettono dinanti i novi cavalieri, nè più soavi e teneri pensieri svegliano in petto ai frettolosi amanti. Dai moderni messeri le « angiolette » senz' ali, non più « china la pia fronte modesta », ma di dritti e di vanti imperiosa, son trattate da uguali, sono amate alla lesta, e quasi tutte… in prosa. I tardi buoi dalle iridate corna che van pascendo i prati, e a quando a quando s'arrestano fiutando l' aria che va, che torna; e guatan la mite erba in sua balìa che tremando si china e risolleva, e il margine fiorito, e l' acqua che va via; l' orizzonte infinito; che peusano? che passa in quelle lente pupille sonnolente che mai non fende un lampo fuggitivo se immobili talora paiono starsi immemori dell' ora, del pascolo, del rivo, di tutte l' altre cose? Non forse nelle lunghe ore ozïose rampollan su dagli evi in quelle attonite caliginose menti ricordi d'altro tempo e d'altre genti?

Note1 Fu pubblicata la prima volta sotto il titolo: Per un umile conrerso.

Chi lo ricorda? chi più sa qual sanante sorgiva era al fratel che soffriva? Chiedono tutti: Chi fu? ». Povero, umìle, una sola ricchezza aveva; non dà tale ricchezza la scola di questa torbida età. Come il villano che miete al sole torrido, e al rio va con bramoso desìo, va con angoscia di sete; ardendo, ansando, così ei pur correva, assetato di bene, al cieco, al malato, a chi fortuna tradì. Nè in fresca fonte giammai labbra riarse han gioito più di quel dolce romito versando balsamo ai guai. Or nel tranquillo convento sull' alte rupi lassù, dorme, e le nuvole e il vento sanno ben essi chi fu.
Le nubi ripiegano l' ale al fresco alitar di Levante; sottili tra l'erbe e le piante oscillano ponti d' opàle. Laggiù non più livido e fosco color di melmose maremme, ma fra le radure del bosco il lago sfavilla di gemme. Risorgi, o mio spirito; imita il fior delle roride aiuole già prono dal nembo. La vita è bella; v' è ancora del sole! —Dove è mai?—sembreran dire i silenzi dell'alba—o lui cui rivelammo i nostri segreti e demmo accese estasi? —Dove ne andò?—cercando strideran le rondini via pel cielo di maggio nei sereni tramonti—o lui cui sentivamo l'anima venir con noi, salir con noi, sommergersi nell'infinito? E chiederan le rose: —Ov'è l'amato che intendea l'occulto nostro linguaggio?— E chiederà la sera: —Ei che adorava il lene oblìo ch' io verso dove fuggì?— Solo le stelle (io penso) taceran consapevoli in letizia. Cantiamo la gioia, fratelli, cantiamo la gioia! chi sè dall' ignavia redima per tutto la scopre. Guardate! quel ramo par secco, e una gemma vi luccica in cima. Guardate! là dietro quel gelo e quell'ombre d'effimere nebbie, costante, a sicura vittoria, va il sole. Nell'anima, ingombra di tedio, la luce d'un sogno perdura. È là, dentro il pugno del fabbro che sente la forza sua piena, nel vivo barbaglio che sprizza dal ferro, nel ritmo possente che vien dall'incude percossa dal maglio. È là col poeta, se l'ala del verso balena: se l'arte, la pallida sfinge, immagini dona; fugace universo di larve che in valide strofe egli stringe. Nè solo tra schiere vincenti, nè solo per selve di mille bandiere spiegate, o là sulle vette che attinge con volo superbo, la Gloria. fratelli, cercate. Modesta, in segrete battaglie, in ambasce segrete, siccome dentro arida chiostra di ruderi un fiore, rigermina e nasce in noi, più soave, più vera, più nostra. Sorride ella quando sferziamo con alta parola i superbi, volgiamo una mite parola agli umìli. C' infiamma, ci esalta, pur fatti bersaglio d' ingiuste ferite. E viva più splende, non già di vendetta nell'occhio feroce, ma dentro la buona pupilla dell'uomo che attende, che affretta il giorno in cui possa punire, e perdona. —« Son vòti sudari che porta il leggiero ponente? rapiti da qual cimitero? » T'ingannan le stanche tue ciglia, o tapino. Son nuvole bianche nel cielo turchino. —« Da quale dolore sgorgò mai lamento più triste e tenace di quello ch' io sento? » Nessun qui si duole. Son risa dei rivi che giù per i clivi fe' liberi il sole. —« Pur là, due fantasmi di vegli cadenti ben scerno, coi nivei capelli irti ai venti! » A un sogno tu cedi d'eterno squallore. Quei « vegli », non vedi?, son mandorli in fiore! Fosche rupi, dal tempo incise e rotte tragicamente, intorno a una fanghiglia d'acque morte, sogguardan nella notte sorger la luminosa meraviglia che ascenderà tra poco alta sui gioghi. Guardan, sentendo attingerle il portento che muterà le vette orride in roghi sacri, e gli stagni in puri occhi d'argento. Passa il vento con ala turbinosa, sul verde grigiastro ove agonizza la cicala, e l'estivo sopor rompe e disperde scompigliando le piante e gli arboscelli, qual vïolenta man che una nemica testa squassi con l' ugne entro i capelli. È mezzogiorno, balena il mare; sui colli e al piano un uniforme tedio. Alla vampa canicolare Napoli dorme. È mezzanotte, sovra il sereno golfo, alle rive tra pianta e pianta l'argento piove. La Luna è in pieno; Napoli canta.

(a Jeanne Barrère),

—Santo Francesco, un triste parmi udire fischiar di serpi sotto gli arboscelli. —« Io non odo che il placido stormire della pineta e l' inno degli uccelli ». —Santo Francesco, vien per la silvestre via, dallo stagno, un alito che pute. —« Io sento odor di timo e di ginestre; io bevo aria di gioia e di salute ». —Santo Francesco, qui si affonda, e ormai vien la sera e siam lunge da le celle. —« Leva gli occhi dal fango, uomo, e vedrai fiorire nei celesti orti le stelle ».
Una mattina (o fu sogno?) la Guerra trovò la Pace che in suo cheto andare con lento gesto sollevava i tralci disciolti, via pei campi senza gioia; e la riprese: —«O tu, la taciturna neghittosa, che fai? Me tu ben vedi madida, ansante, infaticata, in corsa la via m'aprendo con zagaglia e scure sempre e dovunque. Impara come io svelgo, e schianto e abbatto! Me non piega il vano garrir del volgo; e balde menti, e forti giovanezze, e pensieri trionfali a me cedono. Io passo ed ecco un vasto deserto s'apre a mio dominio; io vado su tappeti di porpora, a sovrane feste, e son roghi al mio passar le selve. Nè m'arresto, nè poso. Or tu che stai, triste infingarda? » —«Io ridonavo agli olmi vedovi queste fragili ghirlande cadute (a lei la Pace); e reco ad altre creature, in attesa e in pianto sole, le cadute speranze. Io non trionfi cerco, o soltanto contro il male, il fiero insonne. Io vidi là case e castella arse non so da quale mai ribalda fiaccola in mano vïolenta, e tutte risorgono al mio passo muto. Ignoro qual virtù sanatrice in me il destino pose, soltanto io so che da me viene nell'anime, da te scon volte, un lume di saggezza, e il sorriso, e la salute a chi strappasti dal lavoro ». —« O quanto valorosa! (ghignò con bieco riso a lei la Guerra) e come abile al vanto! ma nessun mai ti vide oprar, nessuno t'ode correre il mondo, o ascolta il grido di tue gesta! » —« Non io con rombi e tuoni di mitragli vïaggio! (alta la Pace rispose). Io vado e col silenzio a scorta del mio sentiero. Io non mi vanto, io noto, che al mio venir s'accende in lagrimose ciglia, improvvisa, una divina fiamma di gioia, e vedo, dentro il pugno stretta d'uomini forti e liberi, la stiva dell'aratro e la terra aprirsi in solchi al tesoro del seme. Io la costretta onda miro piegar l' impeto e l' ira su ferrei magli, e dove io sono avvampa l'ampia fornace, e turbina la rota dell'officina, e canta il fabbro. Ignoro da chi mi venga questo bene. Io reco obbedïente, al vigilante saggio l'ora della ricerca; e mani avvinco un dì nemiche. Altro non so. Te vedo erinni dall'immite anima, andare per le squallide arene insanguinate ansante e torva; e a te s' impreca. Io giungo senza clamor, per vie sparse di fiori, attesa e benedetta. O perchè tanto soave la mia sorte e così acerba la tua? spezzarne non potresti il giogo? Vieni con me, vieni con me! saprai la gran dolcezza dell'amor che allaccia straniere genti, e sugli scogli i fari vigila, e in vetta ai perfidi ghiacciai alza rifugi. Ascolta le parole! guarda l'aprirsi di materne braccia sui figli ritornanti ai focolari già deserti. Non vedi come il sole tutte le rose dell'aurora schiuse, tutte dei cieli le corolle d'oro a benedir chi d'ogni ceppo sciolse mani liberamente oggi al lavoro pronte; chi seppe ai vinti della vita ridar volere? Vieni! » Ella si volse a trarla seco, ma in segreti abissi era già quell'atroce ombra sparita. Come un titanico rostro di nave, che stia sugli ormeggi immersa in un mare di luce, l'aereo poggio, cui fiero il Grifo sull'arco incorona tra l' ilici antiche, protende la curva, incontro alla libera vallata; ai declivi, alle selve felici, che abbraccia il fecondo Tevere. Lieto il Subasio laggiù par vapori nel cielo un lume roseo d' incenso, e regalmente s'adagia sul piano. In grembo gli splende Assisi, nell'ultimo sole. Passan le rondini, e in alto e intorno diffondon clamori di gioia: Perugia sorride erta di là sulla cima del colle. Gode la mite ora e scorda le lotte fraterne d'età lontane. Un riposo diresti la tenga, il diletto dell'estasi, come se un novo vero improvviso si sveli a lei. Non è questo il tesoro, il vivo dominio, l'impero forte? Non suo, non sommesso a lei, questo gran paradiso dell' umbro orizzonte, che a cerchio le si apre a' piedi, magnifico, mutevole sempre? Ecco: innumeri come onde turchine, si affoltano in basso i colli, che un avido desìo par sospingere in gara a un segno lontano (oltre i gioghi è il Trasimeno); ecco glauchi olivi, alti frassini, e boschi di roveri neri sul cielo. Qua le muraglie allacciate dall'edera—etrusche parole di silice, fascinatrici e solenni come tombe di cui più non leggasi il nome; e là i paesi e le sparse ville, che in infule d'oro ricinge il tramonto; e le torri, e i bei campanili, e, su tutti trionfale, il tuo, San Pietro. Io muta qui siedo; e nell'aria serena del vespero, fremere sento come una segreta rampogna:—Che vuole la Terra? che vogliono gli uomini? quale febbre li accende? qual sete di stolte conquiste, di effimeri dominii? all'anima, agli occhi, questo prodigio del mondo non vale? o nel pugno costretto vogliono il raggio, il baleno, e la malìa delle selve, del mare?—O soave Francesco, non molti fiori la sementa eletta diede! Non molto tallire di spiche, a la tua speranza rispose! Ti esaltano tutti e san l'odio; i poemi dell'anima tua, con le labbra (con l'anima no!) ripetendo vanno, e contendonsi a rabbia gli onori, il fasto, il male. Agli egri non balsami danno! Agli afflitti non dan conforto! Agli ignari non luce! Ti esaltano: e all'oro van tutte le brame: o, larvate con nomi augusti, con nomi sacri: la Patria; il Vero; l'Arte, o, a viso scoperto, beffarde e immonde Menadi, un solo iddio proclamando: il Piacere! Ma tu, mia Perugia, sorridi come sicura, in attesa d'un'alba promessa. Una nova alba vedremo? un sovrumano fiotto d'amore pel mondo irromperà, fervido e forte siccome un giorno da lo spirito del tuo Santo? O sarà sempre invano! e i bei colli innocenti, i boschi, le valli, l'azzurro, le sere dolci, le notti stellate, a noi, sempre, e pur sempre invano, offriranno la pace?

(Leggendo il «Libro» e il giornale
durante la guerra Russo-Giapponese).

Passan le figlie di Sionne, altere di lor gioielli, eretto il capo, inviti balenando dai negri occhi lascivi. Passan gli ebbri di Sodoma e l'orgoglio degli Edomiti; i carri e le canzoni dei trionfi e dell'orgie. Intorno ai gravi idoli d'oro i timpani sonanti, e i ciurmadori, i filistei, gli schiavi. Sovra quel mare di peccato, un solo leva la fronte e la minaccia; un solo il terribile sdegno avventa ai troni (egli stirpe di re!), saetta il fasto inverecondo, e la viltà dei servi, e la superbia dei tiranni. Ai lampi del suo verbo s'illumina il viaggio di Lui che viene: «Sono aguzze tutte le sue quadrella e tutti in cocca gli archi; di selce l' ugne dei cavalli e i plaustri impetuosi come la bufera. A punir viene e rugge come un branco di giovani leoni, e forte avvinghia la preda, e svelle come sterpi i regni». Così grida alle genti. Ha colma il male la tazza ed egli tuona: «Basta!»; e piove cenere sovra Tiro e crescon rovi sulle torri di Ninive e la notte avvolge Babilonia. Ove le belle rose di Sàron? le fontane e l'ombre del Carmelo? la porpora e i tesori dei Damasceni? È la sua voce un vento d' uragano che sgomina i navigli di Tarso, abbatte l'Idumea, devasta Israele. Così vuole chi parla per la sua bocca. E invan muto il credette per sempre, il re carnefice che intese a salvarsi uccidendolo, nè vide l'Idea con liberate ali raggiare su quella spoglia irrigidita. Ed ecco vivo ancóra oltre i secoli, diritto ancóra e minaccioso sulla soglia dell'avvenire stai! Frema e sfavilli la tua parola anche una volta e spezzi le nebbie quella luce! Oggi, ben vedi, come a Sionne canta l'orgia, e novi idoli d'oro han gli uomini, e novelli filistei menan vanto. I corruttori spargon veleno, e ancor s'opprime, e ancóra mutila, uccide, estermina la guerra. Laggiù muoiono, a cento, a mille, a torme innumerate; eroi; martiri; il mare arde in rabbia di erratici vulcani sommergendo navigli e primavere, e cresce imperversando il forsennato delirio della strage. Una legione di donne scapigliate, urlanti, accesi gli sguardi di follìa, per rive e campi corrono, cadono, pregano invano, imprecano. Su noi tu dalle rupi eccelse dell'età, leva la voce di procella! ai fioriti orti lontani giunga e alle terre devastate: ognuno l'oda e l'intenda. Ancóra avventa il tuo sdegno ai voraci di conquista, al malo spirito di vertigine, che a morte affretta questi effimeri dementi in selvagge battaglie; apri le ciglia a quei ciechi, di sangue ebbri; ruggisci ancóra il tuo comando ultimo: «Basta!»
—No, non mai finira; no, le parole son vane. Unica luce, unico e grande conforto lo sdegnarlo, e la certezza che nessun mai potrà strapparmi a questa tortura, quest'angoscia che mi attorce nelle sue spire come una gigante vipera, ed io mi sto senza tentare difesa, perchè molto ama il mio petto l'atroce belva che lo strazia e l'arde e lo sbrana, così che tutto sente cader l'istinto della vita e solo un desiderio accenderlo, una sola avida sete, un'ebbra ansia: sparire! Il fantasma invocato ecco ritorna; entra le note stanze, e lento arriva a quella che fu sua, quella ove disse l'ultima sua parola. È tutto ancóra intatto; il sole, come allora, accende qua e là punti d'oro, e la Madonna sovra il letto sorride, e al posto antico sono tutti gli arredi. Apre con mano un po' tremante e pallida gli stipi ancóra pieni di fragranti lini, di vecchie trine, e ninnoli, e gioielli; e le lucide chiavi hanno un allegro tintinno finalmente! Io le sto presso e guardo, e guardo, e palpito, e non oso aprir le labbra, e trepidante aspetto una parola… Ella ha velati gli occhi e intenti; cerca; che mai cerca? O mamma, mamma mia: non mi vedi? non mi vedi? son io, volgiti, parlami, pronuncia il mio nome! oh il mio nome ancóra io l'oda dalla tua voce! Così penso, e invano tento dir le parole. Ella si volge lenta mi guarda; m'accarezza il viso col noto gesto e dolce mi sorride, ma non dischiude il labbro, e ancóra intenta ritorna alla ricerca, e fruga e svolge, rimove… Oh alfine! ella ha trovato alfine! Che sarà mai? quale amuleto o quale pegno, esser può. Non vedo. Entro una strana custodia è chiuso di trapunte sete e d'oro; è breve; io non lo vidi mai. Ecco lo stringe fra le mani e appare trasfigurata di contento; oh come brillan quegli occhi già velati e intenti! Adesso parlerà; certo ella adesso mi chiamerà per nome; e dell'ignoto formidabile, d'onde ella ritorna, saprò (sia pur con voce fioca e cuore agonizzante) chiederle. Ma quale nebbia scende e l'avvolge? —O mamma, ancóra non ripartire! ascolta! ascolta! Invano! Invano grido, invan tendo le braccia; ella dentro improvvise ombre scompare. Via! via! Salga con noi la vertigine del trionfo! voliamo all'ignoto malïoso dominio dei turbini, noi, signori del tempo e del moto. Dietro a noi, nella polve travolgasi dell'attesa e del tedio la trista ricordanza; via! via! no più limiti alla nostra sovrana conquista. Dietro a noi l'ore, lente di trepide ansie, i ciechi fantasmi dei pigri ozii, l'estasi vana. Via! l'anima del futuro oltre i pelaghi migri. La bufera ci sfida? Non timidi ci vedrà nell'impàri cimento. Vinceremo fuggendo più rapidi delle nubi, dell'ora, del vento. Su, più presto, più presto! c' inseguono spettrali ombre; io ne vedo le gialle mani adunche levarsi, protendersi sopra per noi per ghermirci alle spalle. Respingetele, olà! son le pallide cure, infeste alle valide tempre, che ogni baldo vigore c'invidiano: ne sarem gli schiavi per sempre? No, sataniche larve! e se a vincervi nostra possa non vale, la sorte scherniremo, con noi trascinandovi alla morte, alla morte, alla morte! Fratelli, vogliamo amarci? vogliamo bandire gli odî, bandire ogni forma d'insidia, d'invidia, di frode, e tutte le oscure passioni della nostra vanità sieno vinte, e parli sola alta, libera, schietta, quella voce che talora è coperta dalle grida d'un triste orgoglio, dall'atroce rabbia di Caino? Vogliamo amarci e amare il bene, e fare il bene, e salire con ali di forza sopra ogni scuro abisso, stretto tenendo nel pugno il nostro volere, lucente e acuto come affilata spada, contro il vigile nemico, il male? Vogliamo che tutti cadano i baluardi, e le catene sieno tutte spezzate, e con sereni occhi guardare questo inesplorato prodigioso universo di sovrane bellezze; questo piano, queste selve e quei monti, e quel mare? In un concorde atto le mani cerchino le mani per la stretta fraterna, e la parola commossa dica: Amiamoci! domani non più potremmo perdonarci, e all'ora fuggente, dare una speranza, un sogno, o un dono di pietà. Domani, o dolci fratelli, che con noi vedete il sole, e queste chiare notti, e questo eterno miracolo d'insonni astri, morremo! Eccomi, disse, vieni, entra le porte meravigliose, accedi alla sovrana luce, di quella cerula e gioconda domenica sui colli, ove cresceano le rose dell' infanzia. «È offerta vana: so che tutte le rose ormai son morte». Ebbene, inoltra, e troverai le belle sponde sonore ricingenti i fiumi favolosi; e le greche are, e le driadi danzanti al lume degli astri. «Le ninfe, per sempre imprigionate entro i volumi, più non danzano al lume de le stelle, nè offrir le inebrianti anfore ponno». —Vane liti! abbi dunque, abbi quei beni che cerchi, o cuore, più di nulla ormai vago, ove morta è la speranza e insieme il desiderio; al buio andito vieni!— E ne' suoi gorghi mi travolse il sonno. S' io vado assorta in un mio sogno vano per la selva del mondo e spesso a scernere perfidi rovi la pupilla è tarda, mamma, sei tu che assorgi dal lontano campo dei morti e mi sussurri: «Guarda»? Se d'oblìo sitibonda e presso a cogliere i venefici frutti io non domando se sonno o morte il tossico dispensa. mamma, sei tu che in suono di comando severamente m'ammonisci: «Pensa»? Se via per l'erta d' improvviso io sento cader la lena, e la speranza, l' ultima mia speranza, sostegno ultimo, piega, o mamma, è tuo quell'ansioso accento, che dice alla mia stanca anima: «Prega?» Andar per un sentiero nella pace dei campi, sotto una velata Luna, la millenaria amica; e l'aria a tratti portasse l'odore di viti in fiore—o di fiorite acace. Andare andare e non sentir fatica dietro i confusi inviti della fuggente brezza, senza un chiaro pensier, senza un ricordo chiaro, ma in mente pensieri infiniti e infiniti ricordi di dolcezza; scordar l'oggi e il domani: i sogni invan sognati; i sempiterni guai, mentre i grilli ricantano dai prati l'amor, la gioia, i palpiti lontani; e che il sentiero non finisse mai!

«I' vo cercando pace… »

Ditemi, ditemi, dove è? come posso trovarla? quanto tempo bisogna per gire ai monti ove nacque, alle fonti ove ride, alle selve ove sogna? Ditemi! ho fretta e mi tarda giungere prima che annotti. V' han biscie, e sassi, e sterpi per quel sentiero? Non temo selci acute, non temo rovi, non temo serpi. Ditemi! è là? perchè mai tanto indugiate a guidarmi? Quel che chiedo è sì poco! e son tanti anni che vado, e tanti anni che cerco, e tanti anni che invoco! Voi mi chiedete chi sono? E che v'importa? Sono una pellegrina, cui manca forse assai poco alla mèta. Una mendica, tanto povera, tanto stanca!

(a mia sorella Mary.)

Nel frastuono talor delle frequenti vie; nei conviti; negli odèi corruschi e sonori, mi vince un improvviso tedio e un'avida sete. O di grotte segrete giù dall' umida roccia lenta cader sui vellutati muschi silenzïosa goccia! O d'occulte vallette, intorno chiuse da rupi eccelse, dove non susurro di torrenti, nè rombo di valanghe, nè voce s'oda, e solo passi talora a volo la nera ombra superba d' un falco via per l'alto specchio azzurro, essere un fil d'erba!
Sonagliere tintinnanti nella notte, per voi penso gravi carri, odor di selva, alte paci cui non turba voce alcuna. Salgon curve ròzze, lente, per dirotte vie montane, tutte bianche nella Luna. Miti vengono pensieri e mansueti di rinuncia, nel mio spirito. Perchè le mondane cure, via migrano a frotte? Voi parlaste de le stelle coi poeti, sonagliere tintinnanti nella notte.

(a mia sorella Angelica).

Vecchia casa lontana, aperta su quel prato che il fiumicel chiudea come un monile tremulo, rispecchiante statue brune dal muscoso plinto; e di là dal recinto, di pennuti cantor reggia felice, le folte, antiche piante, verdi asili romiti, per me, già sognatrice, dispensieri di fascino e d' inviti; vecchia casa, non sai fra le tue mura, quanto albergasti fulgor di primavere! I primi studi, il primo amore, il primo schianto, e il tesoro opimo delle speranze, vergini immortali, nemiche d'ogni pianto, benedette chimere di bellezza sovrana che t'ornavan di fiori, e d'astri, e d'ali, vecchia casa lontana. Se talor voci o risa di fanciulli odo in festa, o d' usignoli canti nella notte; se d'alberi fragranze, o reca il vento dolce, velato, lento, come a quei vespri suono di campana: l'ore fuggite e rotte riedono a me, vivace si ridesta la memoria del mio primo soggiorno, e a te penso, te piango, a te ritorno, vecchia casa lontana.
Io me ne andrò nella notte quando saranno già tutti sopit andrò per l'aperta campagna, sotto le stelle, ed esse udranno la voce, la nota voce di giorni altri e lontani; per esse ritroverò le parole obliate, e l'obliato fremito, e l'impeto e il foco di giovinezza. In silenzio m'ascolteranno, siccome m'ascoltavano al tempo andato, nè del mio volto vedranno il pallore. Tutto, tutto, sarà come allora per esse. Dentro la mia anima, che avverrà mai? La bella bimba dai capelli neri è là sul prato e parla e gioca al sole. Io so quei giochi e so quelle parole; rido quel riso e penso quei pensieri. Son io la bimba dai capelli neri. Ed anche io vedo una fanciulla bruna, gli occhi sognanti al ciel notturno fisi. Quante chimere e quanti paradisi negli occhi suoi! Te li remmenti, o Luna, gli occhi febei della fauciulla bruna? Ora è stanca; la penna ecco depose e la man preme su le ciglia nere. Di quanti sogni e quante primavere vide sfiorir le immacolate rose? Ora è stanca; la penna ecco depose.

(Ricordi d'infanzia).

Penso e ripenso invan: quale gioiello le giungerà gradito, ella cui dolce è soltanto il donar? Forse più caro alla Vestale dei rieordi un canto sarà che parli del passato, e a lei provi che un altro cor serba vivace la memoria di tempi assai lontani, di giorni e d'ore morte. Il sacerdote là dentro la cappella nostra, il rito compiea domenicale, e dalle aperte finestre entrava il sano odor dell'erbe e dei fiori.—Oh, volar laggiù, pregare laggiù, libere, Dio benedicendo per la bellezza delle rose e il puro turchino, e il sole!—Questo pensavamo inginocchiate, là, mentre inquïete le nostre membra precorreano l'ora di libertà. Tu molto amavi i fiori, Maria: le ciocche oscure dei fragranti sicomori, e la glicine, che aveva per te parole e canti, e una segreta parentela co' tuoi sogni e le mute estasi de' tuoi dolci occhi pensosi. Quanto sognammo e quanto abbiamo pianto! Ti ricordi l'odor del caprifoglio là nel giardino, delle sere estive sotto le stelle che piovean raggi e promesse e sospiri? e i plenilunii che ci videro unite, allegre e belle giovinette, laggiù, dentro la lenta gondola, via per la Laguua; e i canti; e del vecchio poeta 1 Andrea Maffei. (a cui diletta eri fra tutte noi) la voce e il verso sonante, che alle pronte anime nostre scendea, svegliando visïoni e accesi palpiti? Ti ricordi i primi studi, e i sereni trionti, e la gioconda luce, e le mani a noi protese, a noi che andavamo, la fronte erta e precinta dalla regale giovinezza, incontro all'avvenire? Ti ricordi… Oh troppo è lacerante l'evocar defunte ore, ed è male rattristarti, o dolce sorella. Io volli solo dirti: Resta a noi l'affetto che ci lega in nodi sicuri e saldi; benedetta dunque la sorte! ancóra molto ella concede a noi, che siamo di quei dì perduti ormai solo i fantasmi; e la soave Vestale dei ricordi altro non veda che la mia tenerezza in queste brevi parole, che riaprono le porte della memoria, alle sepolte aurore del nostro maggio. Triste il ripensarlo! quasi un antico giardino cui l'erme vela il musco, e le piante attorce e affoga l'edera, e le fontane il tempo ha infranto. Quanti in quell'orto antico elfi e chimere! Quanto sognammo e quanto abbiamo pianto!

(da Sully Prudhomme)

Poche l'opere e tanta fatica, ed infinita l'uggia. Di cure sterili è la giornata piena; e c'insegnono, muta feroce, a tutta lena, ci avvinghian, ci divorano. L' ora buona è fuggita. Domani! andrò domani da quel malato; aìta gli porgerò domani. Quel libro aperto appena riprenderò. Domani dirò dove ti mena, anima, il mio volere; e sarai giusta e ardita domani. A quante visite, cure, faccende, invita l'oggi! e quale implacabile ciurmaglia parassita d'obblighi, intorno ai nostri thè fumanti si affretta! Resta inerte il pensiero, l'opera non fornita, e mentre ci affanniamo a differir la vita, la volontà s'indugia sempre, e il dovere aspetta,

(da Andersen).

La notte scorsa, attraversavo il limpido cielo dell'India (son parole queste della Luna), or mirandomi nell'acque del Gange, or trapassando i densi rami de' platani, così fra lor contesti a volta, da parermi l' arcuato dorso d'una testuggine. Un'indiana bella come Eva, e lieve più d'un'agile cerva, d'un balzo fuor dal bosco uscì. Aerea visione! e intanto quali ardite forme, pur di grazia avvolte! Lègger potevo il suo pensier traverso la pelle candidissima! Pungenti vitalbe laceravanle i calzari mentre correva, ma non ella il passo rattenne, Gli animali della selva ritornanti dal fiume ov'eran scesi a dissetarsi, sgomenti fuggiano innanzi a lei che una lucente lampana in man recava, e vivido il vermiglio sangue, io fluir vedea tra le sue dita, diafano riparo, a quella fiamma trepida, contro i fieri urti del vento. S'accostò al fiume, sovra l'onde pose la natante facella e in balìa l'ebbe la corrente. Per qualche attimo il lume vacillò, presso a spegnersi, cedendo, risorgendo, poi via proseguì ancóra mandando luce. I neri occhi ansiosi dalle morbide e nere eiglia, intenti lo spìano, perocchè (certo presagio) vivo è l'amor suo dolce, il suo lontano amore, se la fiamma arda e proceda finchè seguirla il suo veder consente; morto, se prima spengasi. Ma inoltra la navigante lampada lunghesso l'onde, vittoriosa, e sempre il lume balena, lontanando, e già remoto scorgesi ancora ripiegar con l' acque dietro la riva. Genuflessa cadde e pregò la fanciulla. A lei d' accanto, tra l' erbe, riluceva un serpe. Nulla vide quella pregante, e solo a Brama pensando e al suo diletto! «Ei vive» in alta gioia sclamò, sicura alfine; e l' eco ripetè a lei dalle montagne: «Vive!»

(da Elisa Poitevent Nicholson).

Vattene! perchè mai mi segui? Hai tu paura, che, fuggendo, le mie mani avide ti derubino? Qua! guarda! le mani ho vòte come ho vòto il core. Niente ti rubo! lungi dal serbarli, li gettai, calpestandoli, alla tua porta tutti i tuoi doni e tutti i tuoi gioielli; ancóra mi sarian qualcosa di te, di te che così mi discacci, e a me rammenterebbero nel mio lontano esilio, il tuo clemente sguardo, la generosa tua voce…, o mio dolce signore! o voi, che sulla via gittate con sulle spalle un otre d' acqua e un pane una povera donna innamorata!… Ritorna a Sara, o mio Signore, vanne lunge da me! Non vedi, ella ci spia con gli sguardi gelosi sotto al dattero in fiore. Colei vigila, ha paura che la mia man, troppo tenera, un troppo tenero addio non ti carpisca!… Dille ch' io la disprezzo la tua pietà… Dille che il core ho fiero come il suo, sebbene non così freddo, e che se pur si spezza, egli si spezza almeno senza il balsamo del pianto, senza il suono dei singhiozzi per assopir la sua ferita, e come quello del ferro, quando i cor s'infrangono lo schianto è lento ma sicuro… Se il mio labbro lanciando il suo sprezzante addio, chiedesse incouscio una parola pietosa, i denti miei lo morderebbero irosi, e a te, nel volto, sputerei quel mio disprezzo, tutto rosso e caldo di sangue!… Se di pianto si bagnassero le mie brucianti ciglia, io le pupille mi strapperei; se la mia man tremante, brancolando smarrita, si posasse sulla vostra… indugiandosi un momento… troppo lenta premendo,.. allora il mio Ismael mozzerebbe le mie mani, e a morire lontana io me ne andrei con lui per guida, io mutilata e cieca. Voi…, rimanete a Sara! l' amor suo vi chiama, inebbriatevi del nuovo amor!… Ma saprà mai l' altero aspetto piegar ella ai pie'vostri? saprà mai quanto me amarvi? O tu, tu ch'eri il solo mio Dio! tutto il mio core sussultava quando la mia premeva la tua mano, e quando tu parlavi, e fosse pure che ad altri tu parlassi, tutto il mio essere t' ascoltava… Io soffro ancora più che per me per tutto che ti tocca; non v' ha una vena tua, no,—dove entrato sia del tuo core il sangue—che il mio labbro non seguìto abbia nell' azzurro corso: e quando un giorno nel tuo letto oppresso il mal ti tenne, non un tozzo solo di pane, nè una stilla d' acqua, il mio labbro sfiorò. Là, stesa sulla soglia, tremante anch' io della tua stessa febbre, restai fino al mattino e nel mio canto, sola, misera, attesi che da te mi venisse un ricordo, una parola commossa… Ahimè, che invano attesi! Nulla mi venne!… E quando tu negavi al mio core il tuo core, e quando dalla mia anima la tua anima fuggiva, solo il vostro destrier comprese il mio dolore, e mentre lo baciavo, e il collo gli bagnavo di pianto, egli piegando carezzevole a me la testa, parve voler darmi conforto… Oh, ma da voi da voi, che amai, null' altro che l'oltraggio m'ebbi. La schiava, la povera schiava ora parte e non certo per un lieto viaggio. Va al deserto, e per morirvi, e al suo passar non le verran saluti di addio, carezze, tenere parole; nè d'animali ella bisogna a trarre il suo bagaglio; è sola! Ella trascina il suo figliuol per mano, ella partendo s'ebbe, presenti derisòri, un otre pieno d' acqua e del pane, per la sete e la fame traverso a oscure lande… Via! vattene! perchè mi segui? Adesso io non son che una grama schiava!… Eppure son donna, o mio signore, e sono senza coraggio, e sul mio cor che sta per frangersi i lontani ricordi graveranno per lungo tempo, e dura—oh quanto dura!— mi faranno la via!… Ma dimmi, dimmi chi mai t'ispirò, dimmi! in quei crudeli momenti? e il vostro Dio, vuol egli dunque che la schiava, l'amante, soffra questo martirio? Oh allor ben più pietosi sono gli egizii iddii! Ed Osiride il buono ed Iside benefica, non mai dato t' avrebber tal comando. Vieni! oh vieni ad adorarli e lascia i tuoi tesori a Sara, più che tutti noi avida di ricchezze! Ella molto ama che i ricamati drappi il suo carezzino bianco seno d' un serico fruscìo e che d'un cerchio d' oro la sua testa sia fregiata; ama risentir da lunge i grandi buoi muggire sul declivo dei colli o alle fontane, e delle greggi seguir la lenta marcia, quando passano per le lande… O signore, giacchè queste le sue delizie sono, a lei lasciate i beni ch'ella ambisce, le ricchezze che le son dolci, e voi con me venite, con me che nulla al mondo altro che voi non amo! Se vi coglierà la fame nel deserto o la sete, è la mia parte che il figliuol mio dividerà con voi… io… col licor soave dell' amore calmerò la mia febbre e sarà il cibo mio nutrïente, un bacio sulle tue labbra! O su me non volger quegli sguardi irosi!… più non m'ascoltare e vanne, e dici a quel tuo Dio—di cui la voce sovrana tanta crudeltà ti detta— ch'io non provo per lui che un infinito odio!… Ma è forse il suo voler soltanto che ti guida? ed è lui forse soltanto che tu temi? No! è Sara che t' istiga, è Sara che scacciar mi fa!… Se dunque al suo voler chinarsi è d' uopo, i miei singhiozzi frenerò, che alfin potrebbero tediarti… e più non ti darò il mio pianto di cui degno non siete e che da troppo tempo io verso. Ecco; io parto… io parto, o mio Signore! e fiera io son che nei perigli cui sto per cimentarmi, il vostro core m'abbia negata aìta, inter serbando il tuo tesoro, e m'abbia solamente— e per grazia—donato di che appena non morire!… Oh, ma senza questo mio Ismaele per cui temo la sete mortifera e l'atroce fame, io questo tozzo di pan calpesterei; quest' acqua spargerei sulla via, siccome a goccia a goccia se ne andò fuor dal mio core ciò tutto di che un tempo traboccava; or me ne vado… Per mio figlio… io fido che ne farò un guerriero, un forte e baldo guerrier di cui non fallirà la freccia; celere al corso; impererà le sue tribù, tremendo di regal possanza, ed odierà suo padre! Io, così, lungi ne andrò verso straniere terre e i miei iddii mi seguiranno anche pel novo cammin; ben essi delle atroci ingiurie vostre sapranno vendicarmi! e lunge pur dal paese dove il tuo feroce Iddio la legge sua superba impose tutte le vostre crudeltà, ridette dalle mie labbra, ricadran sui vostri tetti; e del triste pane dell'esilio e di miseria che tu m'hai gettato, la tua bocca a tua volta, fin nei dolci banchetti dell'amor saprà l'amaro sapore… Unica prova dello sdegno che suscitaste negli iddii benefici nostri—in cui fido—noi saremo grandi delle vostre ingiustizie e diverrete piccoli voi per la pazienza nostra!

VITTORIA AGANOOR (GIOVINETTA)

Note1 I molti ms. lasciati dall'A., mi avrebbero offerto mèsse più ampia per questo libro; ma, oltre che, come ho già avvertito nella prefazione, ho inteso di qui riunire soltanto qualche saggio delle poesie giovanili di lei e delle troppe rime qua e là disseminate nelle riviste, massime dopo la pubblicazione delle Nuove Liriche, o altrimenti donate; non era spesso agevole cosa ricostruire componimenti la cui redazione, cominciata in un quaderno, veniva ripresa in un altro o in altri, tra pentimenti e varianti non poche e non di rado indecifrabili. Basti dunque quanto è stato raccolto e che venne, fin che fu possibile, da me distribuito cronologicamente.
Alcune poesie, già rese di pubblica ragione per la stampa, ho corretto qua e là, secondo m' è parso opportuno, sugli originali messi a mia disposizione dalla cortesia della erede signorina Ada Palmucci, altrove già ricordata.—(L. G.).

Appiè del monte rugge altera l'onda; furïosa si frange alla tua grotta e tu non l'odi: armonïoso coro di muse ti circonda, e a lor soltanto l'orecchio accarezzato ascolto porge. Cantan l'ardito Lusitano e i mari ch' ei primiero solcò: l'atre procelle che la sua nave minacciar: le vinte col nemico elemento atroci lotte, e il forte cor, l' imperturbata fronte. L'africano fedele ognor solerte ecco ti reca della palma i frutti; a te si appressa e peritoso attende ch'abbia fin la pensosa estasi tua. Ei ti crede infelice e ti compiange, perchè sol nell'esiglio; i bianchi fogli che tu tieni dinnanzi, e il liquor nero con cui li tingi, egli non sa quai gioie, quale vita ti siano: ignora come popolato per te sia l'antro mesto ognor di cento Lusitani eroi: nè la sua mente immaginar potria che quel bruno volume, che dischiuso innanzi tieni e sovra cui tu scrivi. immortal ti farà di gloria un serto.

Padova. aprile 1872.

Marta, quando bambina tu mi baciavi, era il tuo bacio lieve, chè premer non osavi la piccina tenera fronte che parea di neve. Quando sedevi accanto la mia culla e cantavi, eran sommesse note, temevi che men dolce canto il mio sonno infantil turbar potesse. Nè dall' infanzia uscita. fui da te, o Marta, a duri detti avvezza, chè la rampogna scendea sempre unita a un tuo bacio, a un sorriso, a una carezza. Ma forte ora ti sembro… E le dolci d' un dì tenere cure io col pianto negli occhi oggi rimembro da dubbi oggi assalita e da paure. Ben è ver, de' tuoi canti più non ho d' uopo, e ai baci non t' invita più questa fronte che già n'ebbe tanti… ma l' infanzia del cor non è finita. nè mai finisce; il core oh il cor! fanciullo è sempre e v' hanno detti che attoscano di dubbio anche l'amore materno, il santo tra gli umani affetti. Marta, Marta, il rammenta! e come un dì sia dolce la parola, che il ben m' addita, come un dì ch' io senta con la rampogna il bacio che consola.

1875.

Maria m'andava rammentando i candidi giorni e le gioie della nostra infanzia: salire agli occhi io mi sentia le lagrime e agonizzarmi l'anima. Rilegger mi parea su antiche pagine fresche leggende d'alti amori e d'odii che a noi la sera una vecchietta tremula narrava in detti semplici. Su bassi scanni, stretti a lei, le piccole teste talora celavam nell'ampio grembiule suo, quando volgeano al tragico le stranissime storie. Ed io tremando (benchè spesso incredula), più stretta a lei, quasi gustando un' ultima voluttà di paura, alfin le ciglia scopria con gesto timido. E guardavo la luna. Oh mondi, oh rosee visïoni lucenti, oh danze, oh cantici! Poveri bimbi, quanti mai v'accendono sogni e speranze inutili! La buona vecchia riprendea monotona la storia: quanto era sereno e ingenuo il suo mondo talor! figlie di poveri pastori diventavano regine, sol perchè eran belle e savie e delle fate il magistero o d'abile strega il vibrar della bacchetta magica mutava i vecchi in giovani. Eran feste di re, banchetri olimpici, principessine che togliean per tunica lembi di firmamento e regge aveano di corallo e crisolito. Ascoltavo, ascoltavo attenta immobile. Oh! certo un giorno di quel gran tripudio proverei l'esultanza anch' io, di rondine sotto amabile spoglia, o mutata in un fior come le vergini di quei racconti; se regina o martire del regnar proverei la febbre o l'estasi del sagrificio; in nebbia poi perdeasi l'idea: fra raggi e nuvole dileguavan quei mondi e il ciglio indocile chiudeasi, oh, ma nei sogni ecco tornavano mille volte più splendidi!… Maria seguiva a raccontarmi i candidi giorni lontani della nostra infanzia; salire agli occhi io mi sentia le lagrime e agonizzarmi l' anima.

1875.

Dell'etere tu sali veloce in grembo, variopinta sfera; un soffio a te dà l'ali, ti spegne un soffio; illusïon leggera, nulla di te rimane. Larva gentile, immago sei tu de' sogni e de' pensati mondi, onde lo spirto è vago; anch'essi larve dai color giocondi allettatrici e vane. Tu dilegui non pianta; ma di quei sogni, che il pensier riveste, torna la speme infranta. Perchè, perchè più delle tue funeste volgon le sorti umane?

1876.

ad A. M.

Non più (mi dici), come un tempo, accenti melanconici e muti han le tue rime, e in vani del pensier vaneggiamenti mutato hai le pensose estasi prime. Sazia, o amico, di sogni e di lamenti scendo sfidata le inaccesse cime; gioie non ho, non ho fieri tormenti, vinta soggiaccio al tedio che m'opprime. Come un tempo talor levo gli sguardi e chiedo i canti alla tranquilla sera. a quei mille del ciel fochi superbi; ma veggo anche lassù ghigni beffardi e un' angoscia mi prende, e la preghiera mi rompe in nodo di singhiozzi acerbi.

1878?

Non di fiori fecondo non di profumi, forse inutile al mondo, la breve ora consumi sovra sponda romita, breve fil d'erba, breve fil di vita. Ti mandan le vïole l' olezzo loro, vedi splendere al sole le margherite d'oro; ma tu sei senza vezzo breve fil d'erba, e tu non mandi olezzo. Non sai per quale evento oggi bisbiglia questa fanciulla al vento; nè sai che a te somiglia il suo verso già nato di giovinezza e anch'ei figlio del prato Da un raggio, da una stilla nasci d'aprile, nè allegri una pupilla: oh quanto a te simìle è il mio verso negletto, da un sorriso e una lagrima concetto!

1880.

Questa foglia è la vita, noi siam quelle bestiole che la vanno succhiando, vaghe d'aria, di sole di speranze… La foglia si fa secca, il colore perde; così sbiadiscono i fantasmi d' amore che il pensier ci creava.—Povere bestioline tendiamo allora meste, affannate ad un fine ugual per tutti.—Resta il ricordo d' un' ora beata, d'una bella e brevissima aurora quando piena di succhio ci si offriva la foglia… Se però ci rimane chi sull'allegra soglia di primavera allora ci fu compagno, e il volto ne vediam sorridente d'affetto a noi rivolto e ne udiamo la varia confidente favella, oh, dirci non possiamo infelici, o sorella.

1880.

1 Scritta su di un cartoncino dove è dipinta una foglia succhiata da alcuni mosconi. È intitolata alla sorella Maria con queste parole: Alla cara Merotti la sua Vittoriaocio-drito.
Senti, mio cor, tu così strano parli che davver non t'intendo; vedo la Luna, sì, vedo lontano il vasto mare e sento passar sulla mia fronte umida il vento, ma quante sere somiglianti a questa non vidi! Or perchè tanto desiderio di pianto? Perchè questo tumulto e che novissime pene, mi vai dicendo? No, davvero, mio core, io non t'intendo. Son le fragranze delle viti in fiore che ti fan mesto, o i trilli del notturno uccellin, che tanti un giorno poeti ebbe, nè trova un che lo ascolti della scola nova? È un ricordo, un rimorso, una paura che i marini splendori e l'olezzo dei fiori o l'usignuol che canta inconsci destano? Tutto che vai dicendo, o mio core, io l'ascolto e non l'intendo. Forse vuoi dir che se vicin ti fosse quel tuo tormento, a lui narrar sapresti ciò che provi adesso? Certo par che una sola non t' udrebbe dettar chiara parola, chè, a sentirti vicin batter quel core, o resteresti muto nell'estasi perduto, o non più forte a trattener quest'impeto, già si a lungo costretto, mi scoppieresti in petto.

1880?

Quando passeggio in fondo a Mergellina e vedo i colli e gli aranceti in fiore, e la città che scende alla marina provocante di luce e di colore; e intorno, sparse per la dolce china, le ville tolte all'affannoso ardore da una verde di piante alta cortina, penso a Fiammetta e a le corti d'amore. E ancor veggo alle fresche ombre fiorenti garzoni e dame in liete accolte spesso…; ma mutarono gli usi e gli argomenti. E sotto il naso alle madonne adesso novi messeri in franchi atteggiamenti fumano, ragionando di progresso. Era scura la chiesa: ampio, monotono l' intercolonnio mi s'apriva innanzi; in fondo, un'alta smisurata croce. Non s' udia per que' lunghi archi una voce; solo un bisbiglio come un batter d'ale, dietro le grate del confessionale. Com'era bella quella bimba! Un candido volto di sedici anni! Io sol ne vidi l' infantile profilo e dietro il velo presentii gli occhi del color del cielo: ma… parlava parlava, e m'era nato il pensier che svelasse un gran peccato. Quale peccato mai? lei così timida, così bambina! Mi rivolsi allora al confessore: egli era un vecchio; acuto avea lo sguardo, e se ne stava muto, a udir, pallido pallido, congiunte sui ginocchi le mani, aride e smunte. Quale peccato mai? quale novissimo peccato ti dicea? Le ignote colpe tu che di mille cor' calmo ascoltavi, or che segreti mai tetri o soavi quella bimba svelò che a lei non doni pur un detto de' tuoi vecchi sermoni? Tace al fin la fanciulla; a mute lagrime forse ormai s' abbandona, attende, attende una parola di conforto, un suono che di pace le parli e di perdono; ma il bianco vecchio dallo sguardo acuto ben vorrebbe parlar, ma… resta muto. Le infantili paure, il dubbio, i palpiti anch'esso un tempo s'ebbe in cor! D'aprile gli torna un'aura e ancora trova e sente quella sua di fanciulla anima ardente… Quali effluvi di gigli e di vïole, bimba, chiudevi nelle tue parole? Al fin s'è desto il vecchio, al fin più tremulo s'è alzato, e barcollante ecco discende. L' umil fanciulla in nome del Signore benedisse con dolce occhio d'amore; poi balbettò con sembianza turbata: «Va'… Come sei, ti serba immacolata!» Orgoglio mio, dunque a sopir non vali questo che il cor tormenta pensier, cui serva io torno? dunque non sai più vincere? dunque ogni possa è spenta? e tanto forte io t' ho creduto un giorno? E ben forte eri tu! Ma chi, chi seppe muto far, neghittoso te, che frenar sapevi sul mio ciglio le lagrime, te, flamine sdegnoso, di quest'anima mia che ancella avevi? Un superbo mortal, che te non cura nè sa quanto m' ha offeso ecco a chi ceder sai!… e soffri ch'ei mi soffochi sotto l' ingiusto peso d' una pietà che non gli ho chiesta mai? Su, via, risorgi! e come un dì gagliardo che a vaneggiar non rieda tu imponi a questo core; e se non piega…, spezzzalo, ma non soffrir ch'ei ceda, se da lui chiede una viltà l'amore! E svelli omai dal tempio immacolato dell'anima il nemico ingrato iddio che adora! Dammi gli antichi fremiti, dammi lo sdegno antico, orgoglio mio, se non sei morto ancora Quando me porteranno al camposanto quelle funebri scorte dai lenti passi e dai larvati volti, che adusate alle tombe ed a' sepolti più non curan chi passa; quando dentro una cassa m'affideranno a quell'estranea gente, se ti ritorna in mente che t' ho serbata fede senza sperar mercede in questa terra, e se ti sorge in core un'ombra alfin d'amore—un sentimento di pietà pel mio povero destino, fa' d' essermi vicino! Voglio vederti piangere…: vederti pianger per me!… L'orgoglio mio vilipeso, onde sofferto ho tanto, e degli occhi e del core il lungo pianto, voglion questa vendetta: sereno il cor l'aspetta già da gran tempo e non lontana è l'ora… Che risplendente aurora m'appar questo tramonto! Come tranquillo e pronto l'attende e lo vagheggia il mio pensiero! Troppo già fosti altero—; or, se nel mondo mi fuggi, almen nell'ultimo cammino fa' d'essermi vicino. Non pensar che là chiusa, e fredda, e morta, io non ti abbia a sentire, e che i momenti tuoi vadan perduti. Chè, se i morti son quivi e freddi e muti, gli è che stanno ascoltando; e più, ben più di quando vedeano il sole intendono i lor cari. Quanti rimorsi amari, quanto postumo affetto dal loro umido letto Vedon quei muti! È il solo acre conforto che ad un core di morto—unico resta… Oh, rammenta, rammenta! E in quel mattino fa' d'essermi vicino. Moriam. Per l' infinita misterïosa eternità de' mondi, spicchiamo il volo, e una novella vita ci arrida via per l'etere. via tra le sfere de'cieli profondi. Di là venimmo; e come sprazzi splendidi, fra l'ombre della terra talor scende un' imagine, un ricordo lontano a torci dalla creta che ci serra. Son echi arcani di esistenze, elette a mutar forma; ed ora nell'angusta dell'uom salma costrette anelano, sospirano al ritorno di quel che fùro allora. Atomi accesi d'ignorate stelle. fragranze d'invisibili pianeti, sogni di geni, e belle fantasie di poeti, polline vivo di progenie arcana forse noi fummo, e nella veste umana col dolor, colle lagrime, del moto eterno seguitiam l'istinto. Morir! tornar nell'essere incorrotto dell'anima, e finalmente libero sentirsi eterno e poter dire: ho vinto! Negli occhi tuoi, fanciulla, nel fondo del tuo core è la dolcezza delle altre vite scorse; è la certezza che nel tempo esistemmo, e che nel nulla non tornerem giammai. Forse il tuo casto amore molto somiglia alla divina festa, all'alta ebbrezza che un tempo sognai, presagi d'un gioir che mai non resta. Dammi codesto amor, tu fa' che almeno tornando nel sereno regno dell'alme, un'unica memoria io serbi del terrestre inferno; unica e cara, se ti vien dal core, soave canto d' un poema eterno. Scendi, scendi sonoro e il monte, il prato, il rivo strappa al letargo estivo folgore d'oro; ch' io ti vegga guizzar tra i rotti nuvoli, che irrompa il tuono, e voi, ruscelli, accolti tutti in torrente indomito, ch' io tra i burroni strepitare ascolti! Scendi tu pur gagliardo nell'anima sopita e divina ferita v' incidi, o amore! Voglio sentirmi dentro il petto fremere tutte le tue tempeste, voglio, rotti gl' inciampi del tedio, a prova spingere come un tempo il pensier tra i raggi e i lampi. Non è non è la vita nel riposo infecondo che dell'anima in fondo agghiaccia il pianto! Tra scuri nembi e vigorosi turbini vive Natura; vive il cor di tormenti, e i moti suoi più liberi sempre ha la calma intorpiditi o spenti. Scendi, scendi sonoro e il monte, il prato, il rivo strappa al letargo estivo folgore d'oro; ch' io ti vegga guizzar tra i rotti nuvoli, che irrompa il tuono, e voi, ruscelli, accolti tutti in torrente indomito, ch' io tra i burroni strepitare ascolti! Nell'acqua scura, souo ancor riflessi tenui di stelle; ancor l'ultime voci i bisbigli sommessi pare udir della notte, e intanto l'alba ha rotte l'ombre, e diresti che sull'erbe passino lievi brividi; i veli tolgon leggieri a flessüosi steli ancóra umidi e chini gli aliti mattutini. Dove sen va la tacita corrente oltre quell'arco? e sulla via, qual mèta trae quella sparsa gente dall'assonnato andare? il fiume corre al mare alla battaglia degli irosi turbini, alla superbia de' scogli tenaci, e di quel flume i poveri seguaci non pur la lotta invita, la lotta del lavoro e della vita? Chi sulla tela quest'albor severo fermò, questo del ver rapida scena lucente di pensiero, quante volte nell'ora che precede l'aurora là stette, innanzi al fiume, all'aer gelido! Tutto tacea nel gran desio del sole, venne l'Arte e gli disse alte parole; pungea la brezza, era lontano il maggio, e l'Arte disse: scaldati al mio raggio! Quando ridea la bionda estate, un vivo baluardo di piante era contine al prato, ove nell'ore mattutine d'aria e di sogni a pascermi venivo. Di là dal folto gorgogliava un rivo, e il pensier mi fingea voci d'ondine, balli di ninfe, e freschi antri, e colline fiorite; un orizzonte ampio e giulivo. Or quelle piante ischeletrì l'algore dell' inverno, e laggiù l'aride braccia sul camposanto un'alta croce stende. Fermo, dietro caduche ombre d'amore, della speranza sulla rosea traccia sempre il fantasma della Morte attende. Voi sapete, o Signore, se ho patito voi sapete, o Signore, se tutte quante l'armi del dolore han questo cor ferito. Solo una tregua a ripigliar vigore onde resister poi a novi assalti, a Voi domando, a Voi che sapete, o Signore.

1883.

Note1 Scritta pel romanzo Diana di DOMENICO CIÀMPOLI (Milano, Treves, 1884) e firmata con lettere convenzionali (L. A. M.).

All is true.
SHAKESPEARE.

La storia è vera: dico che non è dalla mente sorta dello scrittore tutta codesta gente: ei la conobbe, e posso dirlo perchè m' è noto, come a lui quell'alpestre paesello remoto, dove lo vidi intendere con indefessa cura a ritrar quelle giovani forme della natura non solo quali l'occhio le vedeva, ma come le comprendeva l'anima. Torno alla storia: il nome, lo vedete, è Diana; proprio come l'antica bellissima e gagliarda, disdegnosa e pudica; ma… poi s' è risaputo ch' anco Limnea l'amore conobbe, e lasciò vincersi dagli occhi d' un pastore: figuratevi questa, non dea, non circondata da una corte di ninfe, fiera ma passionata, che incontra… Via, non voglio dirvi di più: volete saper che avvenne? Aprite il libro e lo saprete. Noto qui che l'autore ne scrisse tempo fa uno sui contadini e adesso in questo qua è un pochino salito fra que' del borgo, e poi… chi dice che non voglia giungere fino a voi signori di provincia? Aquila o pur farfalla l'arte è libera, e tanto co' critici si falla sempre. Le ho letto attenta tutte le tiritere che s' han degnato scrivere giusto su «Treccie nere» que' messeri: all'apologo pensai, subito dopo, «Del padre, il figlio e l'asino.» L' uno loda «lo scopo», ma vuol «maggiore analisi;» chiede invece un cotale «una feconda forma» senza «scopo sociale;» altri poi torce il muso perchè trova «le tinte troppo forti,» e vorrebbe pastorelle dipinte all'antica, lisciate, con le vite sottili e villani educati, pudibondi, gentili. come «i vaghi» d'Arcadia… Giacchè me ne rammento vi dirò alcune cose, proprio sull'argomento, come disse l'autore appunto quando s'era là fra que' greppi, e uniti quasi da mane a sera. «I montanari e il monte, il torrente ed il bosco io li dipingo come li vedo e li conosco, come li trovo e sono. Quella povera gente parla poco, di rado pensa e di rado sente; Ma percio appunto, e sembrami per ragione diretta, il pensiero è baleno, la parola è saetta, il sentimento scoppio: il nostro montanaro chiuder non sa lo sprezzo in un sogghigno amaro, o ne' sospiri ipocriti i desiderî audaci: ha una lama per l'odio, ha per l'amore i baci, e due braccia robuste per guadagnarsi il pane. Un curïoso bruto dalle sembianze umane che va studiato… I critici, non ignoro, su questo «genere» son discordi ne' giudizî, (e del resto quand' è mai che s'accordino?)… Ma se il cielo mi dia vita e forza, io comunque, seguirò questa via non ancóra battuta dalla folla, cui piace l'ampia strada maestra per cui girar in pace sempre all'ombra de' vecchi baluardi; e davvero che forse è meno agevole questo alpestre sentiero; or sale aspro, or s' imbosca, ora pende sui fianchi di franosi burroni e spesso par che manchi la lena; ma lontano ridono le speranze alte; ma ci accompagnano le selvagge fragranze, le selvagge bellezze cui limite non serra, audaci, rudi, libere della vergine terra; e se i rovi ci pungono, se l'affanno s'acerba, e più ci vince il fascino della mèta superba, pensiam che que' dirupi forse pochi han varcato, e che il mondo cui giungono è mondo inesplorato o quasi; e sempre l'arte benedetta gli sterpi ci allontana, ci affranca dai fischi delle serpi appiattate fra i pruni, ci lampeggia sul viso un comando, o ci regge col divino sorriso di forte innamorata. Sì, non tardano i gravi scoramenti a seguire le speranze soavi, e son giornate nere, e il cammino fornito par nulla, e quel che ancóra ci sta innanzi… infinito; ma tanto…. si procede….» Tu, critico, condanna o assolvi adesso, o critico, ch'ami «sedere a scranna», con la veduta lunga…. lunga che tira un miglio. Ma senti, in fondo, è inutile che tu faccia il cipiglio e t' inforchi gli occhiali: quante volte non hai giudicato d'un libro senza leggerlo? Ormai devi averci la mano…. Via, tira a sorte, e «vero» dillo, se t'esce il bianco; «falso» se tocchi il nero.

1884.

Quale un costretto. immobile stagno, appannato da un muscoso velo più non riflette tempestose nuvole, nè sorrisi di cielo; tale il mio cor, che il tedio d' un'ombra avvolge desolata e greve nè più fantasmi tenebrosi e fulgidi come un tempo riceve.

1887.

Non intreccio corone, io, no, pel novo anno; altri vegli, aspetti, e giunto appena gli confidi un voto. Che so di lui? m'è ignoto, Nè certo imploro che a venir s'affretti. Un pellegrin che batte alla mia porta, mendico o cavaliero, cortese accolgo; ma gli amari o lieti dell'anima segreti io non confido all'ospite straniero. Tu sol conosci, o vecchio anno, il sospiro che dal cor non m'uscia, fosti con me nei lunghi giorni, e t'ebbe quando a se stessa increbbe testimone fedel l'anima mia. Sai di quell'ora il disperato pianto, l'improvviso ritorno, della speranza e i súbiti splendori tu sai, l'azzurro e i fiori di quel non più dimenticato giorno. Or mentre, amico, a te chiedo presagi dell'avvenir mal fido, mezzanotte odo con angoscia strana battere una campana…. e tu sparisci in mar che non ha lido. Nella fredda, silente ombra la casa dorme; corrono fremiti nel bosco. La luna in fondo all'orizzonte ascende fra le nuvole grige, e come il lume di notturno ladron, fumoso e fosco, scompare a un tratto e più lontan s'accende. Dorme la casa, sovra il bianco letto un cadavere sta; repente il dito su quel giovane cor posò la morte, nè alcuno sa dell'ospite fatale, non ha prece o lamento alcuno udito; par che la pace vegli a quelle porte. Domani il sole splenderà; sul prato sarà un gioir di voci e di concenti, sarà un tripudio di gioconda vita; nella casa laggiù due vecchi intanto chiameran, scoteran, ciechi, dementi quella lor creatura irrigidita.

Note1 Questa poesia fu mandata dall'A. all'amico Tom (E˙ Checchi) del Faufulla, di gloriosa memoria, quando la quistione del simbolismo si agitava vivacemente anche tra di noi. Può mettersi da canto a l'altra di data molto posteriore (Parabola) che satireggia certe originali tendenze della poesia contemporanea.

Tu che a bisulco m'ecciti sciloma di tenzoni, tu che m'additi il logoro per uccellar gli alcioni, o anacolute Delio dal grifo iconoclasta, sordo alla palingenesi d'Acabbo e di Giocasta, eccoti il verbo! sfamati! disseta l' indigete, ridi!… ma poi rammentati la farsa di Narsete, rammenta che nel pronao dai vetrici sorretto non più starnuta Pegaso nè sputa Maometto; e mentre all'arsa polvere sale il vapor commisto ecco rovina l'epica barba di Tremegisto, ecco il pincerna levasi sul vernereccio tino e in perizoma recita Tersite scalabrino!… Cadrò, ma l'inconsutile Poseidon sprezzando; cadrò, ma la zagaglia sull'epinicio alzando; cadrò! ma gli essoterici avversi ai vili sgherri non me daranno al giolito d'un epicedio antropomorfo ai ferri!
Quando penso che stai forse parlando soavi cose ad altra donna, e l'ami, e la guardi negli occhi, e, sospirando, il Ciel dell'amor tuo giudice chiami; quando penso che trepido al comando d'un suo sguardo diventi, e indaghi e brami ciò ch'ella brama, e schiavo ad un suo blando sorriso, adori e baci i tuoi legami; senti, darei l'unico dì sereno che Iddio forse mi serba, il reo, ma certo gioir della vendetta ultimo e pieno, purchè, se avvenga che tu sii deserto da colei…, mai tu non ne soffra almeno quanto per te quest'anima ha sofferto.

1888?

Commedia in versi. Atto unico. Scena
unica. Personaggi: GIULIA DI VALDARENA,
Marchesa di Sorasco; SILVIO, conte d'Argante.

(La scena rappresenta un salotto elegante con una porta in fondo ed un'altra a mancina. Pesanti cortinaggi, alti vasi di Cina, sedili d'ogni forma: specchi, quadri tappeti turchi inuanzi ai divani, damaschi alle pareti e ninnoli per tutto. A destra, un caminetto. presso cui sta seduta la marchesa; ha l'aspetto stanco, annoiato. Il conte che prima le sedeva accanto, appena s'apre il sipario, si leva sdegnato, come in seguito a un contrasto. e misura a gran passi la stanza). IL CONTE. È troppo dura con me la vostra logica; io vi rispondo amando voi sola!… Dite pure che mento: ma sì! quando a un sentimento antico come il mio non si resta commossi; quando un briciolo di carità non desta un'angoscia profonda come la mia, si vede chiaro che ancor si dubita; peggio! che non si crede. (La Marchesa fa un atto di protesta, ma molto freddo, e a celare un perfido sbadiglio china il volto) IL CONTE (con sarcasmo).—Ma sì! Prestate fede a qualcuno voi? m' era troppo larga mercede la vostra indifferenza, era troppo alto sprezzo per questo schiavo, e adesso la mutate in disprezzo!… (Il conte cade affranto sovra un lettuccio in fondo alla scena, la fronte tra le mani. Profondo silenzio per alcuni secondi. La Marchesa che durante il discorso del conte avrà ripresa quell'aria di chi ascolta una lunga e noiosa fiaba, si mostra adesso, più che stanca, pensosa; guarda il conte: riflette; poi come s' afferrando a un decisivo e súbito proposito, parlando quasi a se stessa e lenta spiccando ogni parola, comincia): —Sono ricca.., sono vedova… e… sola..; io…. non chiedo di meglio che riprender marito… (Il conte leva il capo).

La Marchesa.—Ho finito…

(Il conte s' è alzato di scatto, par non regga per la gran gioia: Giulia gli fa segno che segga con certo malizioso sorriso come a dire: —Non l'avea messo il punto, lasciatemi finire! e seguita) —ho finito…. col decidere dunque che mi bisogna scegliere uno sposo. Chiunque sceglie (e concede a pochi di scegliere il destino), voi capirete bene che interroga un tantino il capriecio, ragione o gusto che si chiami; io, per esempio, voglio…. uno sposo che m'ami: e siccome fra i molti cortesi candidati tutti, è ver, m'han giurato d'esser innamorati…, ma, come voi, nessuno m'ha detto e ripetuto che ha «deciso di uccidersi se insisto nel rifiuto», io voglio, pur mettendo il mio cuore alla prova, usarvi preferenza…. Perchè un tantino giova sapere anche di me che cosa penso e sento e, a dir vero…, non so bene…. se il sentimento che ho per voi, sia proprio…. amore genuino, Credo che vi dovrei…. forse…. veder vicino a un pericolo grave…. per leggere sicura nel mio cuore; ché allora, sorgendo la paura di perdérvi, vedrei se v'amo, o se non v'amo…. Che ne dite di questa mia trovata? Sentiamo! (Il conte è un po'confuso, non sapendo a che strano cimento voglia metterlo quel corvello balzano della Giulia, ma, tanto, pensa che per uscire d' impaccio convien fingere ed esclama):

—Morire

per voi, Giulia, vel dissi, sarebbe dolce, e, certo, se voi non m'amerete…, morrò, Troppo sofferto ho già, Giulia, credetelo, e, per quanto sia forte un'anima!… Ma, basta: l' amor vostro o la morte! (Tutta questa tirata il conte l'avrà detta con enfasi drammatica, calda, ma poco schietta: si dovrà far capire che, mentre parla, pesa e studia la domanda della furba marchesa.) GIULIA. Dunque… vi credo! or non resta che un solo dubbio. Per voi, si sa: «o il mio amore o il lenzuolo funebre»; per me invece…. Proviamo. Là, vicino a quei libri…, guardate, là, su quel tavolino, v' è astuccio bislungo…. Sono armi di valore, sicure…, e fanno il cómpito loro senza rumore. (Il conte impallidisce, ma, simulando, vuole con atto disinvolto maneggiar le pistole), LA MARCHESA (fingendo commozione): Badate! sono cariche! Voglio ora che m' ascoltiate. (Il conte divien tosto più circospetto… e ascolta). GIULIA. Ora io mi propongo d' interrogar con molta cura il mio cuore. Io resto qui.., non vi guardo..; e voi rimanete là, in fondo…. Il momento è per noi solenne!… Voi, a lunghi intervalli, direte: Uno…, due…, tre…: Se al tre non parlo…, tirerete. (Il conte che sospetta, anzi capisce quale ha da esser la mira, resta piuttosto male). LA MARCHESA (in fiammandosi). Avrò il tempo di udire la voce del mio cuore! Se non v'ama, morire (me l'avete ben detto mille volte) volete; dunque… se v'amo…, v'amo; se non v'amo…, morrete! GIULIA. (Si sarà vòlta, dando le spalle al fondo dove sta ritto il conte con l'aspetto giocondo dei condannati a morte! Con aria birichina ogni tanto lo guarda di sfuggita: indovina lo stato del suo spirito dalle torbide occhiate ch' egli rivolge intorno):

Dunque…, via! cominciate!

IL CONTE (con accento malfermo):—Uno! vòlto al pubblico, Giulia mostrerà col sorriso col viso e i vari atteggiamenti l'ansia e insieme il piacere che le dà quella prova: resta sempre a sedere, ma talora si volge).

Silvio:—Du-e!

il conte agitatissimo con la faccia sconvolta questa volta attende invano un cenno della donna spietata quindi ripete):

—Du-e!

(La marchesa non fiata. Il conte che ha capito d' aver dato nel laccio, a veder se qualcuno venga a trarlo d' impaccio, fa un passo verso l' uscio; torna, sbuffa, ha posata l'arma, per far rumore. La marchesa non fiata. Silvio, sperando ancora in quel supremo istante, grida): —Tre!—(con accento iroso e supplicante, come chi la pazienza ha tutta consumata; ma questa volta ancora… la marchesa non fiata. Passano due minuti di silenzio…. Ad un tratto Giulia s' alza e si rolge: vede il conte disfatto. pallido, ancora ritto, in attesa…. e prorompe in una gran risata. Il conte la interrompe quasi urlando): —Ah ben vedo, ah ben vedo, ora, quale era lo scopo vostro!… mostrarmi ad un rivale ucciso ai vostri piedi; ma, no! vivrò, dovessi soffrir tutti i tormenti ai dannati promessi! LA MARCHESA (fra scoppi d'un riso indiavolato): Ma…. caro…. caro conte! la prova avrà giovato ad entrambi!… Ora proprio io so di non amarvi; voi…. che vivrete, s'anche io non voglio sposarvi… Vedete ben…, talora…. qualche…. prova ci vuole…; ma pur se, bravamente, voi aveste tirato dopo quel tre famoso…. giuro v' avrei sposato! A questo punto il pubblico (indifferente o attento, indulgente o severo secondo spira il vento e secondo che sentasi poco o molto gravare nel cor l'amore…. o sullo stomaco il desinare), a questo punto il pubblico, dicevo, con la grossa sua voce grida: bravo!. o fischia a tutta possa. L'autore…, se l'applaudono, si crede Achille, e se lo fischiano Tersite…. Ma lieto o triste che sia, pensando alla vita…, così breve…. che mena sempre ad un sine istesso…, va con gli attori a cena.

1895.

Mamma, lo vedi il sole? Il sole è nostro Senti garrir le rondini nell'alto? Inni sono alla vita, inni per noi! Finchè veggenti son questi occhi nostri, finchè a tutte del mondo le bellezze s'aprono estasïati e pulsa il sangue sincrono al palpitar dell' universo, noi, mamma, abbiamo (vuoi saperlo?) abbiamo ancóra sedici anni! Oh questa pace, quest'amor che ci lega così strette gustiamo, Dio benedicendo e i cari che di lassù pregan per noi! Contenti son del nostro sereno, e noi, securi di ritrovarli un giorno, a questa breve vita non domandiamo altro che un cheto seguirsi di tranquilli giorni, un mite ascendere alle sfere alte dal sogno nostro terreno alle divine aurore.

22 gingno 1895.

Resta, sì, resta, o forte anima, sola: meglio perenni tenebre che ingannevoli raggi; mai, mai non ti rivolgano un'amica parola piuttosto che la seguano ingenerosi oltraggi. L'ansie, l'ardor, la sete tormentosa d'alte bellezze, e gl' impeti d'amore, e la tua fede taci, o confida al turbine, all'erma alpe nevosa, alla scogliera livida che all'ocèan non cede. Volubil meno il vento; e de le intatte alpestri valli il candido abbandonato piano mille volte men gelido, e gli scogli, che batte invan l'onda, men rigidi saran d'un core umano.

1895.

Noi siamo i veggenti, gli apostoli, quando da noi «sursum corda!» si grida, al comando leva la fronte il popol sorridente, credendo improvviso veder, tra le rotte sue tenebre, l'astro che aprì nella notte tetra, il cammino ai magi d'Orïente. Su dunque! e ripetere udremo dai mondi antichi, quel grido con echi profondi. A tutto che brilla e sorride; all' Idea che porta corona immortale, la dea unica che la sua guida ci accorda: all'arte, all'alàcre scïenza, divine scintille sprizzanti, cui sono regine pietà, bontà, fratelli, «Sursum corda!»

1898.

Note1 Nell'albo offerto a Bice Brunamonti, figlia di Alinda, quando andò sposa.

O giovinetta, che non vidi mai, odi tu l' inno che festoso sale benedicente a te, la buona e bella figlia di Alinda; Alinda la sorella delle Pierie?—«Ti sia lunge il male adesso e sempre, o tu che allegra vai all'ignoto, per via fiorita e piana».— Così canta il giocondo inno augurale, e così scrive a te questa lontana, o giovinetta, che non vidi mai.

Vena d'oro, agosto 1898.

Le campane cantano come ai tempi andati: —Gioite! gioite!— l ricordi squarciano dentro i cor malati le vecchie ferite… Guarda il Ceppo splendere un fanciul felice coi larghi occhi ingordi. Nella chiesa un lacero vecchio, prega e dice: —Signore, fa' ch' io scordi!

1899.

Guarda con occhi smarriti la madre che giunge ai vani cordogli. La morte ha con le mani sue ladre tutte forzate le porte. Guarda ed eromper dai labri suoi chiusi par voglia un fiotto di biasimi amari. Che vorran dir quegli intrusi? che potran dir quegli ignari? —Avete chiara nell'anima, voi che a me venite, lasciando una culla forse, vegliata da voi, l' idea del nulla? del nulla!… —Certo fu ieri!… A compir le speranze, il himbo in uomo mutossi… Fu certo ieri!… Oggi vuote le stanze e tutto il mondo deserto… —Quali parole di forza o di pace a me recate se chiuso ho l' udito? se intorno a me tutto tace: se per me tutto è finito? —Sola! lasciatemi sola! Ch' io possa chiedere a Dio che lo sa, come ingoia la miserabile fossa un universo di gioia. così, d' un tratto, per sempre… Ha chiamato di là una voce? No? Pur… la parola —mamma—s'udi… L' ho sognato? …Sola! lasciatemi sola!

1899?

Note1 Nel Marzocco del 13 gennaio 1900, a. V, n. 19, dedicato alla memoria di Enrico Nencioni, dopo che gli era stato inaugurato un piecolo monumento nel cimitero di S. Felice a Ema, presente la poetessa.

Tacita, con mano che tremò, depose sulla tomba un fiore… Sull' erboso piano cumuli di rose còlte pel dolore si sfogliavan lente… Egli apparve, ed era su quel labbro un mesto riso di veggente. Disse:—«È primavera? qui l'aprile è questo…?» Voce non rispose… Egli con la mano lieve come un velo, disfiorò le rose, poi guardò lontano, dileguò nel cielo…

1900.

Io qui trovai della Venezia mia il silenzio d' un sogno secolare, dell'arte la malìa, donne gentili dal dolce parlare, bellezza e cortesia.

1903?

Dormiva; ed una mano ecco le sfiora i capelli, e una voce ordina:—Or via destati! vivi! ancóra credi: ancóra ama, e sia pur con l'avida follìa di chi certo amerà l'ultima volta!— La donna ode la voce, e sorge, e crede; ama, e perdutamente ama; è raccolta in quell' ultimo amor l' ultima fede. Ma tosto il gioco animator lasciando, la voce adesso la dileggia:—È insano l'amore e stolta la speranza, quando il sol dei giovanili anni è lontano!— E la donna sorride a quella voce ancóra. Vede (e sa che tutto è invano) la man che volle il suo risveglio atroce e ancor la donna bacia quella mano.

1904.

Note1 Nel Giornale d'Italia del 13 sett. 1906 comparvero anonimi questi versi preceduti dalle seguenti righe di Tom (EUGENIO CHECCHI).
Un ratto giornalistico:—È un vero e proprio ratto in piena regala; la illustre «rittima», almeno lo spero, vorrà perdonarmelo. La cronaca del rapimento, come tutte le cose davvero belle, è semplicissima.
Entrando recentemente nello studio di un insigne scrittore (uno di quelli il cui solo nome desta simpatia e ammirazione insieme), vidi sulla tarola ingombra di libri una pagina manoscritta. Era la poesia che si stampa qui sotto.
Chiesi ed ottenui il permesso di leggerla: la novità del pensiero, la vigoria del verso, la ricchezza delle immagini mi parrero così eridenti, che il mio entusiasmo non ebbe limili. Dissi subito:—Posso pubblicarla nel Giornale d'Italia?—La risposta fu negativa.—Questa mia «Parabola»—disse il poeta—suscitereble le ire dei versilibristi. Lasciamola lì.
Invece di lasciarla lì, intascai il breve prezioso manoscritto, col permesso di farlo leggere ad aleuni amici. Ma gli amici compongono una legione, perchè sono i lettori del Giornale d'Italia, ai quali la offro.
Leggano essi la stupenda «Parabola»: e chi ha «mente arguta e cor gentile» intuirà, credo, il nome dell'autore, che, per ora, mi è assolutamente impedito di rivolare. E se qualche lettore riescirà ad indovinarlo, vedrò di scioglicrmi dalla conregna…
Piovvero, com' è da immaginarsi, infinite lettere alla redazione del Giornale d' Italia: tutti facevano a gara per arrivare a scoprire l'autore dell'arguta Parabola, attribuendola a questo o a quello dei poeti più in voga. Pochissimi diedero nel segno. Finalmente il Checchi annunzio ch'essa era di Vittoria Aganoor.
E questa così ne scriveva da Perugia il 25 ott. 1905 alla sua amica Anna Manis: «Sì, quella Parabola ebbe un successo che io ero molto lontana dall'aspettarmi; ma questo prova che l'abilità giornalistica è spesso la determinante prima d'ogni insolita accoglienza del pubblico. Francamente, io credo d'aver scritto liriche assai superiori alla Parabola, ma nessuna mi attirò la quantità e la qualità della approvazioni e delle lodi che mi attirò questa. Forse perchè interpretava il pensiero di molti? Può darsi».

A Monsicur Verslibre.

Parea briaca; sui rari capelli sciolti da matta, un velo; ai piè, per calzari un sandalo e una ciabatta. Scendea sulle malsicure gambe, un goffo vestimento tutto immagini e figure spagnolesche del secento, mal celando della calza ricamata di fanghiglia i rattoppi; che la balza non giungeva alla caviglia. Poi che molto incespicato ebbe, giù per la scoscesa via, uel fango d' un fossato si sdraiò lunga distesa, dando voce:—O voi dal mento nitido, qui! Son l'amica che vi darà godimento e gloria senza fatica. Qui! al mio letto, al mio nido, al mio trono di regina liberissima! Io mi rido d' ogni vecchia disciplina; io son giovane! (e le braccia magre e gialle parean ceri); io son vergine!—(e la faccia dicea mille vituperi). —Chi (mi chiese un popolano) vuol gabbare, quell'arpia?— Gli risposi:—Dite piano! è la Nòva Poesia.
Sognavo di plaghe serene: ed ecco dal sonno mi storna di cento campane il clamore. È dunque Natale? ma viene ancora? ma sempre ritorna la festa che lacera il cuore? Sì, lacera il cuore, ma sana. Ne strappa il veleno degli anni l'ardor del pensiero ribelle; e puro, ad un' ora lontana lo rèvoca, ignaro di affanni, incontro alle vergini stelle.

Decembre. 1905.

Note1 Comunicatami dalla Signorina Anna Manis alla quale l'Aganoor la mandava dicendole d'averla scritta per un periodico di Milano.

E venne il Sapere: e all' esilio dannò creature dal serto di stelle. In celesti dominii divelse, schiantò; fu il deserto. Ma quando, al suo fine, con infule solenni il decembre si benda, e a noi le campane ricantano la loro divina leggenda, ritornano i vinti, per tramiti occulti, per tracce segrete di sogni, e il Sapere discacciano con fragili rami d'abete.

Decembre, 1906.

Ecco i cento, ecco i mille, ecco i milioni istigati da voi; da voi declamatori ed istrioni camuffati da eroi. Ecco l'orde che incontro al novo sole sorgono deliranti, ripetendo le vostre ebbre parole, cantando i vostri canti; e in attesa delle agapi future ecco fraterna gente irromper, con in man fiaccola e scure, come iroso torrente… Chi dagli stenti rotto e dai digiuni a voi soccorso chiede e in voi confida, in voi, falsi tribuni, militi senza fede, in voi che solo nell'accender l' ire esperti siete, invano aspetta che le vie dell'avvenire s'apran per vostra mano. Leva gli occhi! non vedi là il nemico che ghigna? lo straniero che attende l'ora? O roman sangue antico, popolo onesto e fiero, rinnega chi con perfida parola il ferro in man ti pone contro il fratello: l'arma, la tua sola arma, sia la ragione, e vincerai! Con te saranno i veri apostoli del bene; i probi, i giusti, i forti cavalieri dalle fronti serene. La terra non faran di sangue rossa, nè l'onta e la paura seco trascineranno alla riscossa dentro le patrie mura, ma con sicuro passo, a schiere, a frotte, n'andran pel mondo intero, alto levando nell' immensa notte la luce del pensiero.

Note1 Composto espressamente per la piccola Anna Gabrielli, perchè lo canti colla sua vocina di sogno e il suo accento più desolato in particolar modo nell' ultima strofa; giunta all' ultimo verso, passerà il suo indice della destra sull'occhio chiuso destro, come chi sta per rompere in pianto.—N. d. A. Pubblicato dal Giornalino della Domenica, A. II n. 28.

Ho fatto un sogno tanto cattivo, mamma! un sogno di paura. Andavo andavo nella notte scura, non una stella si vedeva più; ed io rompevo in pianto perchè lontano mi chiamavi tu. Portavo i miei balocchi sulle spalle, in un sacco tutti quanti; e s'eran fatti pesanti pesanti, perchè la strada andava sempre in su. Mi doleano i ginocchi e di lontano mi chiamavi tu. Alfine le tue vesti, sotto un filo di Luna, e la tua faccia ridente vidi; e spalancai le braccia e i balocchi mi cadder tutti giù!… Tu me li raccogliesti… Ma la bambola mia non c'era più.

Note1 Per una lotteria di beneficenza a Perugia.

Il trionfante alloro che mai foglia non perde, dall'alto guardando ironico l'effimero tesoro della bassura verde, chiese alla Margherita: «Come passi la vita?» Rispose il bianco fiore: «Io la dono all'amore: nella man dell'amante che mi sfoglia e tremando mi chiede s'altri gli serbi fede, muoio, e rispondo con l' ultima foglia…

Note1 L'originale è posseduto dalla signora Manis, cui la poesia fu mandata trascritta su di un libretto, in risposta alla sollecitazione dell'amica di dedicarsi all'Arte e di ribellarsi agli obblighi mondani. Nella lettera di accompagnamento era la chiosa: Ma la ribellione è ancora retorica. Sono oppressa da faccende e da doveri sociali…

Sì, rompere le catene, migrare a un sereno di schiette anime albergo! veder sere più dolci, albe più chiare, nè udir l' insidia sibilante a tergo! Sì, romper le catene ed ai tormenti di tirannici onor volger le spalle; non più dire al cor: «taci!», al labbro; «menti!», liberi andar come puledri a valle… Quando? non so. Ben so che darsi intero a te vorrebbe (nè il voler gli vale), Arte, o amata dai primi anni, il pensiero, assetato del tuo bacio immortale!
Autunno, tu non muti mai, anzi sei montono come le prediche di un vecchio prete. È sempre lo stesso cadere di foglie, di piogge: gli stessi súbiti brividi e lo stesso languore di sole, fra strappi di nuvole dense. E tu vai con grandi fardelli, per piani e monti, e fra l'erbe e le siepi e sulle piante e dentro i solchi vai spargendo misterïose e innumerevoli sementi amare di malinconia, perchè il poeta poi le trovi e ne faccia dei versi. Sonetti! è inutile; ormai sappiamo il tuo giuoco: tu vuoi passare per un ministro di tristezze e non sei altro che un giullare vestito a lutto. Non è vero che la foglia che cade, pianga e ripianga l'aprile. Segue ignara il suo cómpito, e ignara si svolse all'alito di maggio e indifferente, come oggi che scende rigida nel fango. Nè men falso è che il sole sia oggi diverso da ieri. Il sole nè di primavere sa, nè d'inverni e non conosce le nuvole, non il sereno, nè la nostra piccola Terra. (Quali mai vede sterminati oceani d'oro e di fiamme senza mai crepuscoli, e senza autunni, nè gelo, nè morte?) E le foreste, tutte bionde, non sono per gli occhi mortali miracolose e belle, come quando si rivestono lente, di brevi smeraldi in aprile? E la giovinezza che ama e che sogna, non è felice a un modo, sotto le tue nebbie uggiose, come al bel sereno? E più d'un tramonto d'ottobre non è triste un'alba di maggio alla vecchiaia che sospira?

1907.

O donne dai volti disfatti che alfin sorridete alla porta dei vostri abituri, che importa se larghi non furono i patti? Non colma l'abisso profondo di morte, che schiude la guerra, nè l'oro di tutta la terra nè tutte le terre del mondo. A voi che parlate agli estinti eroi, con parole di festa, è un nuovo trionfo pur questa vantata vittoria dei vinti. Oh ninna-nanna, bimbi! ninna-nanna! Genti d' Italia, dormite, dormite! tanto la nave è da parecchio in panna. L'opre son tutte (o quasi) già fornite, e gli avi nostri vegliarono assai per saldar tutte (o quasi) le partite. Dormite sodo, che incapaci ormai siete di sogni, e il correr dietro a larve, già lo sapete, non può dar che guai. Dormite! e se laggiù d' udir vi parve un rombo, non pensate ad uragani; son nubi sì, ma trasparenti e parve; vapori ancora sparsi, ancor lontani, vane minacce… Dormiamo, dormiamo, chè dormir forse non potrem domani. Non sulla verde spiaggia di Cuma sacra, nè dinanzi al Lago d'Averno, all'onde cupe; non dentro quella rupe dove la vecchia vergine sibilla chiedea veri allo spirito presago; ma qui, nella tranquilla prateria sola, sovra cui lo scuro ciel di novembre un'ombra umida piove; dinanzi ai monti onde Borea move nè cui maggio le bianche infule toglie; qui, fra le morte foglie, il labro e il cor sicuro, mi levo io predicante del non dubbio futuro la infallibil promessa, io nova pitonessa d'una immemore gente. Non sulle foglie io scrivo i fati, ma di là giungon segrete voci della foresta che perde la sua vesta di bronzo e d'oro; udite! è lei che dètta il vaticinio a me, lei che ripete il gran memento:—O voi che alla vendetta date l'ardor del vostro impeto vivo; la fede all'oro; alla bugiarda amica che appellan fama l'ansie e la fatica; alla gloria la gioia e la bellezza di vostra giovinezza, (tesoro fuggitivo) accesi da una sete che non estingue il rivo, e col piè malsicuro sempre vòlto al futuro; voi, tutti voi, morrete!

1908.

Se la noia, dai larghi occhi di fosforo, ti persegue ostinata nel fragor delle fólle e nei silenzii d'una inerte giornata; se il dolor cupo, disperato, assiduo, senti dal cor salire e allacciarti la mente in uno spasimo che somiglia il morire; se, implorando un rifugio, una fede ultima dalla Natura immensa, t' invade solo una codarda invidia perchè non sa, ne pensa: un giorno a te, mentre di fuori gravita un sopor d' uragano e dalla morsa del pensiero sciogliersi cerca la mente invano; verrà improvvisa e dolce, come in torrida landa la notte pia, sonno invocato o riposante tenebra, la morte o la follia. Han sorrisi di candide angiolette le dame in grazïosi atti sedute; voce han pacata, hanno parole elette vecchi mondani e giovani reclúte. Ma le perfidie, in apparenza mute, parlan dagli occhi a rapide saette; ma sotto il vel delle parole argute s'accendon l'ire e scoppian le vendette. Un vecchio, spia, con la malizia intensa de' vecchi, gli epigrammi, e, come a caso, ricalca i motti ad attizzar rancore. Una fanciulla guarda, ascolta, pensa; e una felce, li presso, in aureo vaso, assetata d'alpini aliti, muore. Di lontano paese dove amore non v' ha senza catene, vorrei venire con le braccia tese incontro a te, mio bene. Tu per nemboso mare solitario, volgendo a me la prua, verresti a dirmi: «Lasciati baciare». Io ti direi: «Son tua». Là sotto i cieli alati, dinanzi alla plaudente onda infinita, noi vivremmo, o mio re, soli, abbracciati in un' ora di vita. Poi, senza vani addio, chiudendo in cor l'ebbrezza sovrumana, tu torneresti alla tua nave, ed io alla terra lontana.

25 marzo 1908.

In cammino, in cammino! Apre l'Aurora le sue larghe, fiammanti, ali sul piano. Avanti! breve il dì, rapida è l'ora e il fine delle nostre opre, lontano. Laggiù qualcuno attende e la parola nostra d'amore non s' implori invano sia soccorso che incita e che consola come la stretta di fraterna mano; sia rampogna che i pigri urge alla lotta contro il fango entro cui l'anima affoga; clami ai dormienti in chiusa aria corrotta la gioia di chi vette aspre soggioga. All'aperto, all'aperto! Ecco guadagna vigore il petto ai soffi imbalsamati. O sano odor d'aprile e di campagna, freschezza d'acque, d'alberi, di prati! Troppo l'error ci avvinse nella rete malïosa, e il disgusto entro vi sta; non tormenta noi tutti oggi una sete di limpida bellezza e di bontà? In cammino, in cammino! Apre l'Aurora le sue larghe fiammanti ali sul piano. Avanti! breve il dì, rapida è l'ora, e il fine delle nostre opre lontano.

1909.

Mare, l' ultimo canto è per te; dico a te l' ultima mia parola disperata senza pianto, mare infinito come il mio dolore: Questo mio folle amore, e l'impeto, e la sete, furono vani. È questa, è questa, è questa la verità; furono vani; ed io inclamidata nell'orgoglio mio, serena in vista e non compresa mai, per la vita passai come un' ignota per ignoto lido, mordendo le mie mani a contenere il grido. Mare, son tua; m'abbraccia, mi stringi e chiudi come chiuso e stretto sull'adorato petto questo mi corpo non fu mai. L'ardente mia carne è tua; con mille spire avvinta sia da te, pòsi in te, giù finalmente cada, placata e vinta dal tuo bacio possente. Ben io vedo l'arcangelo adirato che allo squillar della celeste tromba appar nell'alto della spada armato e sulle schiere dei ribelli piomba. Nè già s'adopra a coglierli da lato, chi sa qual fine alla sua mano incomba; ma dritto ai cor bruttati dal peccato sospinge il ferro che per l'aria romba. Questi lo implora con le mani in croce tardi pentito; e quei leva la targa del capo a schermo, nel fuggir veloce. Altri, a sfida, in superbo atto sorride; e l'angiolo che i forti ama, più larga nei loro petti la ferita incide.

Note1 Nel volume: «In memoria di Alberto Bindi nell' VIII anniversario della morte di Enrico Bindi. Preghiere, lagrime e fiori». Napoli, stab. F. Giannini e figli. s. a.

E mai dunque non sapremo ciò che chiude quella porta di tenebre? E segreto dunque sempre resterà, per noi, quel dopo che ci attende tutti, in un giorno o vicino o lontano, ma sicuro e prefisso? O tu che ti sei portato tutta la luce gioconda di tua casa; tu che partendo hai lasciato nello smarrimento forse dei naufraghi i tuoi genitori, i tuoi màrtiri, gli abbandonati dal Destino; tu non potrai dire, Alberto una parola, una sola parola? Tu non potrai con il gagliardo volere tuo disserrare il mistero? Vedi? son pronti; l'orecchio e l'anima tési. Un solo lieve cenno, un soffio, un'ombra un tenue sfiorar d'ale, una nota pur sommessa ma tua, e certo sapranno intendere, e indovinarti; finalmente non più vegliare con arse ciglia, ma, sicuri, attendere forti in pace

Note1 Pel cinquantesimo anniversario delle stragi di Perugia.

Pet tutto quanto ancor suscita e crea d' immacolato e dà costanza e ardire; per tutti i santi sdegni e le sante ire che ci dona, divine armi, l' Idea; per la sua chiara lampada che reca alta sul volgo (il gracidante coro ignoto a lei; più ignota ella a costoro dai ciechi occhi e dall'anima più cieca): per tutto il sangue dato alla nemica gente di questa unica terra, questa nostra Italia, che un dì scinta la vesta e sanguinante il petto, egra e mendica sen giva, i polsi di catene stretti; per la sua fronte ch'oggi è redimita d'una sovranità che a voi la vita costò, fratelli, siate benedetti.
Cantavo a sedici anni in così lamentosi metri, e con voce tanto fioca e tarda che passando talun per la romita siepe, certo pensò:—Questa vegliarda canta, ed ha già fornita l'opra. Ha gioito ed ha sofferto; or pòsi.— Per quali imperïosi comandi, oggi la mia anima, pur sdegnosa d'ogni vanto effimero, che il tempo avido ingoia, vuole intonare un canto tutto pieno di gioia, dove un sano di vita impeto sia? Echeggi per la via oltre la chiusa aiuola lo squillar dei miei trilli agili e presti; e, a far vendetta dei feroci affanni, qualcuno m'oda, qualcuno s'arresti pensando:—Canta, sì, canta i begli anni tuoi, finchè ride april, gaia usignola!

Note1 Scritta su di una cartolina per una vendita che le signore di Trieste facevano a benefizio degli operai italiani.

Fratelli miei, non disperate! ancóra v' è chi soffre e per voi veglia e lavora. V' è chi sa che fra l'ore attese e liete una ne sorgerà… che voi sapete!

A. C. M.

Dunque, bimba, a domani!… Hai mai pensato, dimmi, quale mistero chiuda questa parola? nè il presente, nè il passato, pur se ridenti a un bel sole di festa, hanno il fascino, il non caduco e immenso fascino di quel verbo, o che prometta, o che minacci; perchè chiaro è il senso suo:—Chi sa? quale mai nuova ci aspetta avventura? parole amiche o agguati di traditori? azzurro od uragani? selvette alpestri, e dolci clivi e prati in fiore o rupi e baratri? Domani! Domani! il mago ignoto a cui mal finge la fantasia veste di gioia o lutto, perchè sempre delude; eterna sfinge cui tutto cede, e possibile è tutto. Tutto! capisci, o mia fanciulla? un raggio, inaspettato che dirada e spezza le nebbie, e torna l'allegria del maggio con le fragranze che porta la brezza. Tutto! e nel cuore ove piangea l'amara sfiducia, a un tratto, come Espero a sera, s'accende e ride una speranza cara, una promessa che fedel s'avvera. Tutto! e sovente più quando, siccome d'un serto, giovinezza orna di mille sogni una fronte carica di chiome, mette in due virginali occhi scintille.

1910.

Note1 Esaminando i mss. dell'A., mi venne fatto di rintracciare, oltre a queste, altre prose di una finezza singolare; ma riprodurle qui tutte sarebbe stato fuor di proposito. Spero che, prima o poi, non manchi occasion di raccoglierle.—Questo bozzetto fu tradotto in francese dal Ciàmpoli per la Revue Anglo-Americaine, Paris, 1895.

Era una bruna chiesetta di campagna, a grandi macchie verdastre sulle muraglie screpolate; una gran quiete intorno, un lento cadere d'ombre sulle praterie. Suonava l'Ave, e una gran voce di ricordi mi chiamò dentro.

Dapprima non vidi nulla; poi, fatto l'occhio a quel po'di barlume ch'entrava dalle due finestre laterali, scorsi un vecchietto, piuttosto curvo, coi capelli un po'lunghi e bianchi, che stava rifornendo d'olio le lampade. Egli mi guardò sorridendo un po' confuso (almeno mi parve), e da quel sorriso e dal suo abito indovinai che non era il sagrestano, ma lo stesso parroco, inteso a quell' umile bisogna. A sua volta, egli vide subito ch'io non ero uno de' suoi parrocchiani, e, smettendo lesto il lavoro, quasi obbedendo ad una súbita ispirazione, mi venne incontro, offrendosi di «farmi vedere la chiesa». Rimasi addirittura sbalordito a quella strana profferta. Che mai poteva essere di prezioso e d'occulto fra quelle quattro pareti bianche che davano posto ad un unico altare? Egli mi guardò con certo lampo di malizietta contenta, indovinando quel mio pensiero e rinnovò la domanda. Ormai, fatto curioso, accettai.

—Se permette—egli disse, accendendo uno dei ceri disposti sui gradini dell'altare—se permette finisco di preparare questi benedetti lumi che bevono l'olio come… come…—e, non trovando comparazione plausibile, mi lasciò sotto l'incubo di quella ricerea, e seguì:—Vede queste cose le fo da me perchè la chiesa è povera e gli altri non hanno una cura…—(asciugò con un pannolino una goccia d'olio che scendeva lenta lungo la lampada), poi:—non hanno una cura al mondo, e allora… capisce bene!…—

Io capiro benissimo, e quel vecchio mi destava come una tenerezza, un rispetto affettuoso, per quei suoi capelli bianchi, per quelle sue parole semplici, e perchè sentiva che non era gretteria ciò che lo muoveva; si vedea bene dall' espressione dolce ed aperta de' suoi occhi buoni, dal suo sorriso quasi infantile ed intelligente ad un tempo.

—Le ho detto che le mostrerei la chiesa, ma, per dire la verità…, per dire più esatto… avrei dovuto dire il quadro. La chiesa, come vede, è pulita ma poveretta… per ora—aggiunse con uno strano accento.

Mi credetti in obbligo di dire qualcosa a mia volta: —Se si tratta d'un quadro—risposi—tornerei piuttosto domani: sono pittore; innamorato dell'arte; e… al lume del sole, sa bene, si vede meglio ogni cosa.

—Torni pur domani, ma non la lascio andar via senza che l'abbia veduto intanto al lume d'una candela. È pittore? E tanto meglio! Avrà questa notte dei sogni d'oro, perchè io—soggiunse, abbassando la voce e togliendosi la papalina—perchè io le mostro una Madonna del Guercino.

—Oh!—esclamai io—davvero?—

Mi fece un gesto con la mano che voleva dire: vedrete, e s'incaminò alla sagrestia. La chiave che si tolse di tasca pareva fatta per qualche enorme forziere, tanto era grande, ma schiuse invece un umile armadio di abete, di dove, avvolto in una fitta stoffa nerastra, trasse il quadro famoso con un certo intervento anche della lingua, che aiutò lo sforzo delle sue mani tremanti, oltrepassando di lato i soliti suoi confini.

—Datemi la candela—dissi, vedendo che del quadro non voleva disfarsi, nè sapeva come rifarsi a svolgerlo dal suo involuero con tutte e due le mani occupate. Mela porse con un sorriso di compiacenza; e, scoperta la tela, me la pose innanzi.

Era una bella testa di madonna; non vi mancava la forza del colore che distinse il Barbieri, nè la sua imitazione larga del vero, ma non mi ci volle molto a capire che il quadro era apocrifo.

—È ben fatto—dissi—; ma è una copia.—

Alzò gli occhi che prima fissava con riverenza alla tela e mi guardò con aria di così desolato stupore ch'io ne rimasi commosso e confuso. Volle dire qualcosa; poi si trattenne ad un tratto: trasse di tasca una larga pezzuola e se la passò su la fronte, poi:—Non ho ben capito—mormorò con un filo di voce.

Non scorderò mai l'accento con cui sussurrò quelle quattro parole; vi era dentro una preghiera così fervida, un terrore così profondo, che, non so come, mi tornò a mente l'inesaudita domanda del Salvatore:— «Padre, s' è possibile allontanami questo calice!»

—Mi pareva—balbettai tutto rimescolato—dubitavo…, ma…

—Ma che cosa?—m'interruppe ansioso il buon vecchio, con voce più chiara, mentre s'appoggiava con una mano all'armadio.

—Ma potrei sbagliare—risposi deciso.

—Torni domani—supplicò egli, stringendomi la mano—torni domani!…—E la voce gli tremava, e gli vidi veramente delle lagrime negli occhi.

Promisi e me ne andai; ma, quando fui sul sagrato, mi volsi indietro; avevo lasciato quel povero vecchio solo, tremante, disperato…; chi sa? forse bisognoso d'aiuto per tornarsene a casa, forse… Ma no, dalla sagrestia si passava certo in canonica e adesso non lo troverei più. Tornai all'albergo.

Un povero albergo davvero, ma pulito, e la sera vi si riunivano le poche autorità del villaggio, perchè sotto v'era la farmacia. La grossa voce del dottore, col quale avevo fatto la conoscenza la sera innanzi, usciva intermittente dalle finestre a terreno; s'udivano le parole: raccolto; opere; semine; già! sicuro! il solfato di rame… una bella pagliacciata anche quella; altro ci volera!

—Buona sera!

—Buona sera!—

Ricambiai il saluto con un cenno collettivo del capo, strinsi la mano al dottore, e sedendomigli vicino:— Ho da chiedervi qualche cosa—gli sussurrai.

—Ai vostri comandi—rispose ringalluzzito quella buona pasta d'uomo.

—Ditemi del parroco e… del suo quadro.

—Se non volete altro!… La è una storia che la sanno tutti, e non ve la farò cascar d' alto, ma è trista—aggiunse facendosi serio.—Dovete sapere che il parroco avea qualcosa di suo; una ventina di mila lire, lasciategli da suo padre, ch'era conte o marchese, non so bene, ma un riccone, certo, che si mangiò tutto il suo e fece vestir da prete il figliuolo per toglierselo di fra i piedi. Ora, don Mario, ch'è il parroco, aveva pure un grande amore per l'arte, perchè da bimbo gli avevano insegnato a dipingere, a colorire, che so io, e s'era preso di quello studio; ma poi, fatto prete, non ci pensò più: solo, se gli parlavano di tele vecchie, di dipinti antichi, andava in visibilio, e una volta lo so io che fece scarpa scarpa non so quanti chilometri per vedere una pittura fatta non so da chi, ma da anni molti sopra una muraglia e scoperta per caso, restaurando una chiesa.

Un… vendibubbole, saputo non so come la manìa del pover'uomo, venne qui un giorno con quel quadro, che v'avrà mostrato, mi figuro, e tanto disse, e tanto fece, e tanto il parroco se ne innamorò che delle sue ventimila lire ne passò più di tre quarti nella tasca di quel brigante, e a don Mario… restò il quadro.

Da quel giorno il povero prete non ebbe più pace. Appena videro sull' altare la Madonna che seppero comprata a così caro prezzo, i cattivi (e non ne mancano in questo paese!) gli abbaiatori di mestiere, cominciarono a mormorare che un buon parroco avrebbe dovuto restaurare la chiesa con quei danari, o, meglio ancora, darli ai poveri, invece che comprar quadri, e che questo e che quello, e tante ne dissero e tante ne fecero che don Mario nascose la sua Madonna per far tacere la gente e far loro credere, mettiamo, d'averla rivenduta; ma a separarsene non pensava punto, e a me, perchè mi vuol bene, sapete! la mostrava ogni tanto, con un sorriso così contento che, vi assicuro, v'inteneriva.

Un mese fa tornava da una delle sue escursioni attraverso i campi, nelle quali trova sempre modo di far del bene, perchè è buono, sapete! ma buono proprio davvero; era appunto uscito dalla casa della Maria, una povera donna, sempre malata, moglie di Bista, il bottaio, un omaccio, e vi figurate se v'era andato a mani vuote! Tornava dunque a casa che il sole cadeva, col suo passo lento, guardando la campagna e godendosi il tramonto, che dice la più santa ora del giorno, quando Bista, che appunto rincasava, gli passa accosto e senza fermarsi gli butta in faccia queste parole:

—Sì, sì, i quadri, parrocaccio… (e lì un'infamia); gli altri che stentino il pane e i malati che crepino!… —Quando don Mario tornò in canonica, (io lo vidi pel primo, perchè stavo sulla porta ad aspettarlo) era più bianco d' un cero, gli occhi pieni di lagrime che tratteneva a forza, le labbra tremanti come un bimbo stremito; appena mi fu vicino mi gettò le braccia al collo, e uscì in un tale scoppio di pianto che gli sentivo sussultare il cuore sul mio petto.

Appena si riebbe un poco, mi raccontò alla meglio ogni cosa, giurandomi che avrebbe venduto il quadro appena trovasse il compratore.—Ma (ripeteva sempre) me lo pagheranno poi…. quello che mi costò? capiranno la sua bellezza? se non lo stimassero…, ripeteva tra un singhiozzo e l'altro. Pareva tormentato da un dubbio penoso, che non sapeva o non voleva aprirmi intero. Mi provai a confortarlo, dicendogli sperasse, e che ad ogni modo con quel danaro avrebbe appunto potuto rabberciare i muri della chiesetta; e tante altre cose. Egli mi confessò aver provato un gran rimorso sempre per non aver pensato alla chiesa tutta screpolata, ma che ora avrebbe deciso, avrebbe venduto… sì, avrebbe venduto il quadro; certo ormai voleva, e allora la sua chiesetta la vedrei… Ma il Bista non gli venisse più innanzi, perchè i suoi poverelli non li aveva… no, mai scordati, mai lasciati patire, e quel poco che gli era rimasto lo avea dato tutto per loro, e anche oggi, anche oggi… E ricominciava a piangere, e si pentiva a un tratto d' avermi svelato la sua carità in quel momento di passione, e voleva disdirsi, e mi supplicava a non dir nulla. Se aveste veduti quei suoi occhi, quei suoi capelli bianchi (continuava il dottore, più commosso di quanto non volesse parere), se aveste veduto in quel turbamento quella sua faccia buona e bella!… Basta; ora v' ho detto tutto.

Oh, io l' avevo veduto quel volto di santo, quei bei capelli candidi, quegli occhi velati di lagrime e ringraziavo il destino che m'avea condotto laggiù, in quel paesello tragico e caro, che non avrei più scordato.

—Insomma—dissi la mattina di poi, mentre don Mario mi stava innanzi con la Madonna del «Guercino» tra le braccia, mentre un bel raggio di sole baciava la sua bella testa bianca di martire; insomma, me la volete vendere?

—Ah! non è dunque una copia?—sorse a dire con un lampo di trionfo il buon vecchio.

—Forse… no—risposi, assumendo il fare brusco dei negozianti che spregiano per avere a buon patto—forse no, e… ad ogni modo… è un buon quadro; quanto vorreste?

—Sentite… non so fare io; vi dico la verità; io l'ho comprato per diecimila lire… Ma…

—Uhm!.. è un po'caro! pure… Via! accetto.—

Mi porse il quadro e volse il volto di lato; sorrideva, piangeva?… Volli saperlo, e presa la tela, feci un passo come per deporla sopra la panca, lì presso a lui: lo guardai… Aveva il volto come contratto da uno spasimo strano; negli occhi non aveva lagrime, ma qualcosa d'insolito che non avevo mai veduto in nessun altro occhio d' uomo; le labbra erano mosse da un tremito veloce.

—Sediamo!—dissi—ho qualche cosa da dirvi.—Avevo indovinata l'angoscia di quel vecchio nel separarsi da quella Madonna, ch'era diventata la sua vita, il suo amore, la sua fede; quella soave sembianza di donna ch'egli aveva comprata anche perchè risuscitava per lui, forse, un sogno di giovinezza, una speranza, una febbre, trasformata dal tempo, dal volere, dalle preghiere in un'ascetica tenerezza di parroco…, di buon vecchio parroco.

—Sediamo—dissi. Volevo trovar modo di dargli il danaro e lasciargli il quadro: chi sa? un' ispirazione mi sarebbe venuta…, avrei trovato… Ma intanto come fare, come fare?

—Senta—ripresi; e, vedendo che non rispondeva, lo scossi leggermente, ponendogli una mano sul braccio.

Egli s'era seduto, o piuttosto era caduto a sedere sopra una scranna lì presso, la testa sul petto, gli occhi chiusi… Ebbi paura; chiamai…

Venne il dottore, che stava in canonica, origliando, e la Perpetua, una buona donna, vecchietta, ma forte ancora.

Il dottore, appena lo vide abbandonato a quel modo, mi disse tosto:—aiutatemi a portarlo sul letto—e non fiatò più finchè non fummo giunti alla sua povera camera; là si riebbe un poco, si guardò intorno, si capiva che non poteva parlare. Il medico mise mano alla lancetta, e lo punse al braccio, ma non ne uscirono che poche goccie di sangue. Don Mario guardò ancora intorno con certa aria, con terrore crescente, e, raccolte le poche forze che ancora gli rimanevano per quell'estrema preghiera:—la mia Madonna! (bisbigliò ansando)—la mia Madonna!…—Corsi a prenderla e gliela posi innanzi. Ebbe un sorriso beato, un sorriso che divenne poi stanco subito, e il volto ridivenne composto e grave…: poi richiuse gli occhi di nuovo, per sempre… Sulla fronte larga una grande serenità si distese. Cessato ogni palpito umano, spenta ogni passione, l'anima visibilmente saliva, e il corpo, stanco, s'abbandonava pacato nella solenne immensità della morte…

Mentre scrivo, ho qui innanzi quella testa di Santa che mi guarda con occhi pieni d'amore, e ne' suoi capelli castani il sole sveglia dei riflessi dorati. Ma dietro a lei mi si affaccia la fronte di quel candido vecchio, gli occhi di quel martire oscuro, cui la ingiustizia degli uomini contese anche il terreno conforto di una immagine che, dopo la Fede, era la sua gioia unica, la sua tenerezza, il suo mondo, la sua Madonna!

—Senti—disse lei, sbarrandogli il passo, mentre lui pigliava il cappello per uscire—senti!… c'è stato un giorno che con Alberto di Crestelle ci siamo dati del tu.—

Lui alzò le spalle, incredulo, impazientito; voleva andar via.

—Senti—replicò lei con un tremito nella voce —ora va pure, ma ho voluto dirtelo, giacchè ora siamo pari.

Che gl'importava, a lui? Quell' altra lo aspettava, era tardi.

—Ah, sì?—chiese in atto di sfida, tanto per dire qualcosa; e, senza aspettare risposta, quasi ad esprimere: dunque ora lo vedrai! si chiuse dietro l' uscio del salotto con impeto. Commedie sciocche o verità, cui era meglio non replicare; più eloquente la dignità del silenzio. Stupida! Ora anche quell' ombra di rimorso che gli annebbiava le sue ore d'amore, con quell'altra, dileguerebbe per sempre. Stupida! Il solo ritegno a più libere gioie con quell'altra; il solo legame che ancora lo riconduceva, la sera, tardi, alla sua casa, la moglie lo aveva rotto con quelle parole sfacciate… Tanto meglio!… Che cosa mai poteva sperare di più comodo, di più delizioso?… Vero o no, d'ora in avanti, più nessun riguardo: non lo aveva tradito anche lei?… non s'era fatta sposare senz'amarlo… amandone un'altro?… E forse l'altro non l'aveva voluta sposare… E lui?… lui s'era lasciato illudere da quella sua aria di candore… e tutto era stato falso?… Che gl' importava?… Tanto meglio!…

Passò dinanzi un teatro: dalla gran porta uscivano e fluttuavano nell'aria fresca dell'aprile, tepide emanazioni di buon tabacco di Smirne e di Tabasco, miste ai mille profumi indefinibili che si lascian dietro le belle signore impellicciate e ridenti. Una folata fragrante passò sul volto di Guido, ma la scena che gli suscitò in mente di palchetti e di luce, di dame ingioiellate, di falsi sorrisi e di false parole, tutte le nauseanti commedie della commedia mondana, fu stranamente fuggevole, e lasciò subito il posto a una più dolce visione…

Là, tra quelle colline, in quell'angolo cheto dimondo, in quel viale di vecchie querce, s'eran dette le parole sante che il cuore non dimentica più. Non deliri, non ebbrezze spensierate, ma il forte, il serio sentimento di due cuori buoni, di due intelligenze robuste che s'incontrano, s'intendono, si stimano, e s'amano anche per questo. Quanti ostacoli avevan dovuto superare, quanti dubbi, quanti affanni, quante speranze rotte prima di raggiungere quella mèta cara! E lui, quando fuggendo dalla città, dal rumore, dalle leggerezze mondane, giungeva a quel cantuccio di paradiso, da lei, che lo attendeva in fondo al giardino, sotto le querce e lo accoglieva sempre con quelle parole così semplici e così innamorate, le parole che sapeva dire lei sola, con quegli sguardi ardenti e casti ad un tempo, e gli parlava seria di quel suo amore immenso, e gli baciava le mani con quella sua espressione altera del volto, che, anche inginocchiata innanzi a qualcuno, l'avrebbe fatta parere una regina o una santa, lui si sentiva rinascere, si sentiva felice; un'onda di fede, di tenerezza purissima lo avvolgeva tutto, una grande smania lo prendeva di ringraziare qualcuno, di conoscere Dio, di gridargli la sua gioia.

Erano sposi da tre anni. Si sa, il tempo… Ormai niente e nessuno più gliela contendeva; per tre anni s'erano amati liberamente, scambiando pensieri e carezze, racconti e baci, rimembranze e sospiri. Poi, si sa, seguitando pure ad amarla, un'altra gli era parsa desiderabile, gli era piaciuta, lo aveva amato, e lui, anche lui, si sa. Ma per questo si doveva insudiciargli quell'immacolato sogno di tanti anni? Così, era stato tutto falso? la passione, l'alterezza, il candore? Quei vesperi indimenticabili, quando tornavano silenziosi da una lunga passeggiata insieme agli altri, e a uno svolto di via, dietro un fosso, le ombre della sera facendolo audace, egli stringeva rapidamente alla vita la sua fanciulla, e la sentiva fremere d'amore e di sgomento? E quando la sera, prima di lasciarsi, si stringevan la mano, guardandosi negli occhi, vibranti d' un solo desiderio: rivedersi presto il domani! e quando poi, lontani, vivevano lunghi giorni, scambiandosi rari segni di ricordo d'amore, ma sempre sicuri, sempre tranquilli, fra dubbi passeggeri e passeggere paure, fidenti in fondo nel proprio carattere e forti del loro amore… Tutto era falso, tutto era falso? Certo, d'ora innanzi, la libertà sarebbe maggiore… Ma quando, uscendo dalla casa di quell'altra che per lui tradiva il marito, s'avvierebbe alla casa propria, quel senso indefinibile di sicurezza e di pace non l'avrebbe più ritrovato… Il suo mondo buono glielo avevano distrutto… E… se non fosso vero? se fosse soltanto smania di vendetta?… Pure era così sincero l'accento!… Ma… se il veleno che gli aveva messo in cuore ella lo avesse attinto dalla gelosia solamente? Ma, Dio! che doveve importare di quell'altra? lei, sua moglie, lei?!… Oh, non capiva dunque come l'amava? come era diverso l'amore per lei, la fiducia in lei, il bene immenso e alto che le voleva?! che le aveva voluto?… Adesso non più, s'intende, adesso era finita: tutto quel dolce passato infangato, non più un ricordo santo, non più una dolcezza vera da rigustare con la memoria, non più un'ora d' intimi colloqui da cuore a cuore, nella piena fede dell'intelletto che c' intende, dell'anima che ci ama… Che porta era quella? Ebbene, sì! giacchè senza avvedersene era tornato a casa, giacchè la sorte lo riconduceva da lei, saprebbe il vero finalmente; doveva, voleva sapere. Mise la chiave nella toppa ed entrò.

Mezz'ora innanzi, lei era corsa a rinchiudersi in camera sua, con la febbre. Pallida, le labbra tremanti, stretta la gola da un singhiozzo che l'orgoglio ricacciava indietro ostinatamente, andava ripetendo a bassa voce, con la concitazione dello smarrimento:—Infame!… Infame!…—e quasi ad inacerbire quell'augoscia intensa che già provava, rievocava il passato, le promesse, le carezze appassionate, le lunghe conversazioni piene di fiducioso abbandono, confessioni di pensieri segreti, di aspirazioni intime, d'idee strane e formulate appena, in nebbia, nella propria mente. Poi tutte le vanità ch'essa aveva saputo schiacciare, le seduzioni cui essa avevo potuto resistere, le battaglie della ragione, della logica, dell'orgoglio, della materna esperienza, ch'essa aveva dovuto combattere e vincere, per giungere ad esser sua, per potergli dare la sua anima vergine e i suoi primi baci, per chiudere in lui tutto il suo mondo e non aver altro padrone, altro sovrano, altro Dio che lui solo. No, non poteva più stare là; sarebbe tornata dalla sua mamma; solo allora, nella casa che l'aveva vista bambina, la casa cara e santa ch'essa aveva lasciata per correr dietro a quell' uomo; solo quando avesse potuto buttare le braccia al collo della sua mamma, solo con lei, strappata quella pesante maschera, avrebbe finalmente, potuto piangere, piangere dirottamente, con l'abbandono della disperazione lungamente nascosta e frenata da quel demone dell'orgoglio, del risentimento feroce, che adesso le serrava la gola e non le permetteva le lacrime.—No, no, lui non meritava di sapere quanto lei lo avesse amato! —E mentre il pianto le gonfiava ormai gli occhi, e mentre, con le mani tremanti, metteva alla rinfusa in una valigia oggetti disparati ed inutili, quasi a convincersi che la sua ragione l'aveva tutta, e una volta fermato un piano sapeva ad ogni costo seguirlo, la sua mente mutava pensiero. Bisognava lasciarlo, oh questa sì, me quel sospetto odioso non doveva restargli: e tolto da uno stipo, fra molte carte, una lettera, l'aveva portata correndo sulla scrivania del marito; poi era tornata nella sua camera a chiudere la valigia… singhiozzando.

Rientrando Guido nel salotto, lo trovò deserto. Meglio; avrebbe avuto il tempo di calmarsi prima di parlare con lei.

Il cameriere accorso all' impaziente squillare della soneria, stette invano paziente e rigido cinque buoni minuti sull' uscio. Il padrone stava evidentemente cercando un libro o un giornale, o forse chiedendosi perchè mai avesse chiamato quel servo. Finalmente, trovato quel che cercava, ordinò si accendesse la lampada dello studio. Quando fu solo e mentre si toglieva i guanti, pensando a ciò che avrebbe detto a sua moglie, vide la lettera e subito la prese e l' aprì. Era d' Alberto. —Una lettera un po' ingiallita e gualcita, che portava la data di tre anni innanzi, il venti d' aprile, la vigilia del matrimonio. Lesse.

« Signorina Bice,

Quando con la spavalda sicurezza che m' avevan dato molte turpi anime, e molti falsi e facili trionfi, vi offersi un nome, che, essendo illustre e glorioso, credevo allora dovesse bastare a rendermi glorioso ed illustre a mia volta, e vi offersi la mia fortuna, che, stupidamente colossale, credevo dovesse affascinarvi senz' altro; voi, senz' ombra di civetteria, senza beffardi sogghigni, senza ingenerosa crudeltà, nè per niente eccitata dalla vittoria che in certo modo riportavate sulla mia sciocca imprudenza, voi mi rispondeste, tranquilla e seria, franca e mitissima, che mi eravate grata della fiducia che riponero nel vostro carattere, offrendori la custodia di un nome così immacolato ed illustre, ma che voi… non m' amavate, e che per me non arreste sentito mai altro che amicizia costante, serena. Allora come un gran velo mi cadde dagli occhi: io scettico, nauseato, cattivo, io nel dolore di quella rovina di amore c di certezze, più che di speranze, provai come una forte gioia, un sentimento nuovo, che mi prese con la soavità di una carezza materna. Un sano alito di lealtà e d' innocenza mi passò nell' anima e vi suscitò un mondo di dolcezze sopite, di credenze buone; molte serene immagini viste e sognate da fanciullo mi si riaffacciarono alla memoria, molte parole profonde mi suonarono nel cuore con più chiaro senso. Un gran rivolgimento si fece nel mio carattere, nella mia indole non perversa, ma sviata, ma guasta dalle lusinghe e dalle bestemmie del volgo, oltre il quale non avevo pensato potesse essere un altro mondo, più intimo e vero, più sicuro ed onesto.

Da quel giorno è passato un anno. Ora so che domani andate sposa a Guido Alvieri che mi dicono degno di voi.

Invece di mandare alla sposa un sonetto, o un mazzo di fiori, io le mando questa mia dichiarazione di ravvedimento.

Parto domani per un lungo viaggio in Oriente; mi stabilirò in Inghilterra, tornando. A voi sarò grato sempre.

Pensate se non vi auguro di tutto cuore la gioia che meritate tanto.

ALBERTO di… »

Quando Guido entrò in camera di sua moglie, la trovò seduta innanzi al tavolino, col volto nascosto tra le mani e volto e mani come affondati tra i libri e le carte della scrivania. Aveva pianto lungamente come una bambina, e quel forte martellare delle tempie che segue il gran piangere, così doloroso e stupefacente, l' aveva finalmente immersa nel faticoso sopore, pieno di fantasmi affannosi, d' incubi e di sussulti, che riempie le brevi tregue delle forti angosce. Furono i baci di suo marito che la svegliarono. Sono scene che non si raccontano. La cessazione del dubbio e del dolore (s'è detto) è la vera e sola felicità. Lui ormai era sicuro, più sicuro di prima. Lei aveva ben visto, non è vero? che egli era tornato subito, pazzo di gelosia? E quanto aveva sofferto! Una eternità di spasimo in quell' ora. E credesse, lo giurava, quell' altra era stata un capriccio, un breve capriccio, una leggerezza che malediceva furiosamente, ma sapeva bene, lei era una cosa così diversa!… Ma come mai poteva essere gelosa? gelosa lei, lei il suo amore bello e santo, la sua vita e la sua fede unica, l' intelligenza e la bontà, la donna ideale? Ma, Dio buono, come mai, come mai?…

E tutte le parole di tre anni innanzi, le parole che trovava laggiù al cospetto del libero cielo, delle vecchie querce severe, le parole che gli erompevano calde dal cuore profondo, nell'abbandono innamorato di tutto il suo essere, tornavano adesso alle sue labbra felici, dalla sua anima rassicurata e alleggerita da quell' enorme valanga di vergogne ineffabili, che gli si era ingrossata dentro, nel breve giro di un' ora…

Fu un ringiovanimento di amore, un nuovo e forte rigoglio di perdono, d'espansioni, di sconfinata fiducia, come un largo appianarsi d' onde tempestose al soffio d' una primavera serena, un rifiorimento trionfale di felicità. E una sera, dopo un colloquio giocondo tutto intimità adorabili e adorabili confessioni, un colloquio in cui ciascuno avea messa la più sincera e viva parte della propria intelligenza e del proprio sentimento, lui, pascinto di sante gioie e di alte gioie, di sana tenerezza e di legittimo amore, lui più sicuro che mai, e più che mai pago del suo passato e del suo presente invidiabile, della sua donna e del suo domestico nido, lui provò come un senso delicatissimo di pietà profonda per chi era tanto, o tanto meno felice di lui, e… tornò da quell' altra che, poveretta, gli aveva scritto venti lettere invano; tornò… persuaso di non offendere, di non tradire niente affatto il suo amore bello e santo che lui amava in modo tanto diverso, oh più che mai, più che mai!… ch' egli adorava tanto più fortemente e nobilmente di quell' altra… di quell' altra cui « il suo amore bello e santo » non doveva pur confrontarsi in un pensiero, di cui non doveva, oh no, essere gelosa.

Dio buono! come mai? come mai?

Abenèzer è un vecchio, un mesto e dolce Pag. 170

Accostarsi all'oscuro 218

A lui ridiceva quell' ultino 258

Alla sua porta giunse un cavaliero 83

Al suo tornar nella solinga stanza 20

Alfine, alfine! ecco tutte 18

Alla porta del cielo s'affacciò 240

Allor che sdegna investigar de' casi 105

Andar per un sentiero nella pace 306

Andavano. Roccioso era il sentiero 242

Angiolo pien di gioia 102

Anima libera, vedi? 142

Appena le colline solatie 226

Appiè del monte rugge altera l'onda: 333

Autunno, tu non muti mai 400

Bel cavaliero; 208

Bella contessa, a ben cantar di voi 234

Ben io vedo l'arcangelo adirato 412

Bianca, deserta stendesi 116

Canta una voce:—O genti dolorose 57

Cantavo a sedici anni 416

Cantiamo la gioia, fratelli, cantiamo 278

Chieder che val s'altra ventura, un giorno 164

Chi lo portava nude adesso e rigide Pag. 182

Chi lo ricorda? chi più 274

Come sotto la neve 77

Come un titanico rostro 289

Dalla sala a terreno 230

Dalle morte ninfee, che nella vasca 160

Dall'onda, specchio d'elci e d'uliveti, 260

Da quando mi posi per via? 206

Dell'etere tu sali 340

Dicono l'erbe nove 63

Di lontano paese 408

Ditemi, ditemi, dove 307

Donde le rose e i gigli ebbe costei? 259

Dormiva ed una mano ecco le sfiora 388

Dormono i campi, non s' ode una voce 31

Dove siete? qual povera 236

Dov' è mai?—sembreran dire i silenzi 277

D'un arboscello io so debole nato 146

Dunque domani!… il bosco esulta al mite 16

Dunque, bimba, a domani!… Hai mai pensato 418

È mezzo giorno 284

È Natale! o fratelli 177

È nel mio sogno un prato tutto verde 74

È un aspro di graniti orrido monte 193

E ancóra l'aspettata ecco discende 204

E la speranza era nei vostri cuori 267

E mai dunque non sapremo 413

E non saperlo dir ciò che nell' intimo 138

E se un giorno tornasse 268

E venne il Sapere: e all'esilio 393

Ecco i cento, ecco i mille, ecco i milioni 394

Ecco la cerula notte, la placida 65

Ecco, la porta si spalanea ed entra 98

Eccola finalmente 110

Eccomi, disse, vieni, entra le porte 304

Eccomi finalmente sola…. ancora Pag. 36

Egli ha già chiuso ogni spiraglio, acceso 108

Ei viene. In un istante 184

Era scura la chiesa: ampio monotono 348

Era tutto perduto. Una parola, 233

Fantasmi esultanti 250

Fior di sfortuna 216

Fosche rupi, dal tempo incise e rotte 282

Fratelli miei, non disperate! ancora 417

Fratelli, vogliamo amarci? vogliamo 302

Fugge al mar nelle fredde ombre del vespero 12

Fuor dalla selva, dove a spalto il monte 92

Giorno limpido e triste!… ho dentro l'anima 72

Gloria nei cieli e pace 113

Grazie, grazie, o nemico! 152

Guarda con occhi smarriti la madre 384

Guarda là come splendono quegli orecchini d'oro!.. 232

Han sorrisi di candide angiolette 407

Ho fatto un sogno tanto 396

I passanti s'indugiano ai cancelli 135

I tardi buoi dalle iridate corna 273

Il dolce ricordo si perde 200

Il fantasma invocato ecco ritorna 298

Il libro parla d'arte 249

Il trionfante alloro 398

In cammino, in cammino! apre l'Aurora 409

Inni si levano 100

In quale sera limpida? da quale 174

In un giorno lontano 144

Io con iscalzi piedi, o Damone, 168

Io me ne andrò nella notte 313

Io qui trovai della Venezia mia 387

La barea mi portò fra le alte canne 219

La bella bimba dai capelli neri 314

Laggiù nei prati l' ombre s'allungano 52

La luna rossa e tonda Pag. 48

La notte scorsa attraversavo il limpido 322

La storia è vera: dico che non è dalla mente 362

La tenebra scende; che importa 179

La vecchia anima sogna…. Oh vieni! andremo 34

L'egro dicea!—Perchè non viene? è troppo 161

Le campane cantano 383

Le cose belle che volevo dirti 181

Lei soltanto invocò, per lei s'impose 96

Le nubi ripiegano l' ale 276

Lui rideva…. Con l'anima negli occhi 29

Madonna Laura dagli occhi celesti 272

Maligne vampe via per la pianura 55

Mamma, lo vedi il sole? Il sole e nostro 379

Mare, l'ultimo canto 411

Maria m'andava rammentando i candidi 337

Marta, quando bambina 335

Mi andava innanzi, curva, con un bimbo 163

Moriam. Per l'infinita 354

Morrò, va bene; il mio spirito è forte 167

Nel frastuono talor delle frequenti 309

Nel gran sereno passano leggiere 61

Nel gran silenzio dell'attesa, intero 129

Nell'acqua scura sono ancor riflessi 358

Nella fredda, silente ombra la casa 369

Nella penombra immobile 245

No, non mai finirà; no, le parole 297

Noi parliamo, ma so io 169

Noi siamo i veggenti, gli apostoli e quando 381

Noi vogliamo cantar liberi al sole 79

Non dai gelidi marmi in cimitero 140

Non di fiori fecondo 342

Non fu di fiele abbeverato? Il petto 239

Non intreccio corone, io, no, pel novo 367

Non perchè della porpora regale 270

Non più (mi dici), come un tempo, accenti Pag. 341

Non senti, non senti l'aprile 88

Non sulla verde spiaggia 404

Nulla più spera. È pallida, è malata, 266

O distese di prati 45

O dolce notte, o notte 19

O donne dai volti disfatti 402

O giovinetta, che non vidi mai 382

Oh ninna-nanna, bimbi! ninna nanna! 403

Oh quanta pace intorno 67

Oh se potessi ancóra 21

O parole che a frotte 191

O piccioletto morto 23

O politiche lotte 261

O ramoscel di pesco 58

Orgoglio mio, dunque a sopir non vali 350

O scapigliata erinni, che incontro pei campi stellati. 104

Parea briaca: sui rari 389

Passa il vento con ala 283

Passa la furia dei cavalli sotto 271

Passa lento il corteo. Forse le prore 47

Passan le figlie di Sionne, altere 284

Penso e ripenso invan: quale gioiello 315

Per le campagne, 248

Per poco l'hai tu, o Morte, irrigidito 143

Per tutto quanto ancor suscita e crea 415

Per voi, gentile, che su questa pagina 252

Piovea; per le finestre spalancate 56

Poche l'opere e tanta fatica, ed infinita 321

Prova. Commedia in versi. Atto unico. Scena 373

Può dunque una parola, una sommessa 9

Qua e là per la campagna irti si drizzano 49

Quale un costretto, immobile 366

Quando me porteranno al camposanto 352

Quando passeggio in fondo a Mergellina 347

Quando penso che stai forse parlando Pag. 372

Quando ridea la bionda estate, un vivo 360

Quando t' ho conosciuto era d'aprile 13

Quando ti vidi per la prima volta 28

Questa foglia è la vita, noi siamo quelle bestiole.. 344

Questa mane è piovuto, e alla mia stanza sale 59

Qui dinanzi al tranquillo 247

Qui nella stanza solitaria ov' entra 148

Qui, sulla bianca pagina 223

Resta, si, resta, o forte anima, sola! 380

Saggio maestro, 209

Santo Francesco, un triste parmi udire 285

Scendi, scendi sonoro 356

Scinti i capelli, in uno scialle avvolta 265

Se a te, larvata di fraterna fede 199

Seduto di traverso, tutto curvo di lato 224

Se la noia, dai larghi occhi di fosforo 406

Se mi fossi vicino 26

Senti, mio cor, tu così strano parli 345

S' io vado assorta in un mio sogno vano 305

Si, rompere le catene, migrare 399

So d'un palazzo dalle mura antiche 53

Sognavo di plaghe serene 392

Sonagliere tintinnanti nella notte 310

Son voti sudari 280

Sorridi? io ti leggo nel core 137

Sotto il ciel, che d' un vago 89

Sotto la luna i mille cavalieri 5

Sotto la fitta grandine 50

Sotto la pioggia, incontro al vento passa 106

Sotto la mia finestra 114

Stelle chiare, 33

Strepito di torrenti 213

Sul fragor del torrente 156

Suona il bosco che Aprile agita; olezza 153

Tace nella notturna estasi il cielo Pag. 10

Tacita con mano 386

Tragicamente protesa dal suo 264

Tu che a bisulco m'ecciti 370

Tutta nell'ombra, cui del vento l'ala 254

Tutto quel che l'orgoglio avea dettato 17

Una dimora che ai convegni eletta 228

Una donna velata e frettolosa 157

Una fiaba, ma nova 85

Una goccia, una sola 211

Un altro squillo, un attimo e fischiando 162

Una mattina (o fu sogno?) la Guerra 286

Una voce, che certo 90

Un giorno tu dagli odorati poggi 125

Un po' d'argilla, un po' d'acqua di fonte 235

Un nomo batte ad un' antica porta 159

Va nella notte l'anelante spetro 30

V' ha una valle beata 54

Vanno per l'aria in un clamor di gioia 80

Vattene! perchè mai mi segni? Hai tu 324

Vecchi manieri entro foreste fitte 166

Vecchia casa lontana, 311

Vecchie piante, acqua corrente 173

Vedi? è il trionfo. I sonori 222

Via! via! Salga con noi la vertigine 300

Vivo, respiro, palpito; si libra 97

Vivo nella memoria, o amato, sempre 130

Voi sapete, o Signore, se ho patito 361

Introduzione Pag. 111

LIBRO PRIMO.—LEGGENDA ETERNA.

A Giuseppina Pacini Aganoor 3

Mai! 5

Il canto dell' amore 9

Il canto del dubbio 10

Il canto dell' odio 12

Adolescentula 13

Finalmente 16

? (Tutto quel che l' orgoglio) 17

L'ave 18

O dolce notte 19

Ritorno 20

Due novembre 22

A un colibri imbalsamato 23

Aprile 24

? (Quando ti vidi per la prima volta) 28

Impressioni di salotto 29

In treno 30

Sotto le stelle 31

Stelle chiare 33

La vecchia anima sogna Pag. 34

Diario 36

Paesaggi 45

Una processione in Cannaregio 47

Schizzo 48

Dicembre 49

Grandinata 50

Vespero 52

Visione 53

Val di Sella 54

Paesaggio estivo 55

Pioggia 56

Canto d' aprile 57

Per mia sorella malata 58

Pioggia d' autunno 59

Nova primavera 61

L' ultima primavera 63

Notturno 65

Dalla terrazza 67

Pagina di diario 72

È nel mio sogno 74

Risveglio 77

Noi vogliamo 79

Vespero d' aprile 80

Rinuncia 83

Accanto al fuoco 85

Madrigale 88

Sotto il ciel 89

5 marzo 1896 90

La strega 92

Gloria 96

Domani 97

Febbre 98

Pel monumento a G. Zanella 100

Reversibilità 102

La cometa di Tempel Pag. 104

Biasimo 105

Ore tristi 106

Vento 108

Inferma 110

Natale 1894! 113

Sotto la mia finestra 114

I cavalli di San Marco 116

Alba 125

Varo 129

A mio padre 130

O morti 135

L' equivoco 137

? (E non saperlo dir) 138

Fantasmi di grandi 140

Pel monumento a Shelley 142

Pasqua di resurrezione 143

Mystica 144

Delibitas 146

Agonia 148

Trionfo 152

Nel bosco 153

Tentazione 156

Pax 157

La porta di bronzo 159

Fantasia 160

L' egro dicea 161

L' ora 162

Per via 163

Per la luna 164

Leggendo Maeterlinck 166

Che cosa io temo 167

Sogno 168

Dialogo 169

Abenèzer 170

Ancóra nel vecchio parco Pag. 173

Poiesis 174

Natale 1895 177

Il canto dell' ironia 179

Per le nozze di Donna Laura Ruspoli 181

L' anello del morto 182

Silenzio 184

O parole 191

Gloria 193

LIBRO SECONDO.—NUOVE LIRICHE.

A Guido 197

Il canto dell' amore 199

Trasimeno 200

Primavera 204

Autunno 206

Gli stornelli del maestro 208

Gli stornelli del poeta 209

La suggestione del veleno 211

Esaù 213

Gli stornelli del carcere 216

Io vidi 218

Castel di Zocco 219

Pei funerali di Alinda Brunamonti 222

Per Album 223

Ospizio 224

Sogni 226

Villa Moliterno 228

Tramonto 230

La figlia di Jorio 232

Nel sogno 233

Madrigale 234

Per il busto di L. Pastro 235

Ai fratelli Bandiera e D. Moro Pag. 236

Pasqua Armena 239

Il Giudizio 240

Tardi 242

Vecchio organista 245

A Cimarosa 247

Carità 249

Quando? 248

Pel IV centenario della disfida di Barletta 250

Per l'album della Contessa V. D. S. 252

Villa Medici 254

Orgoglio 258

Madrigale scicento 259

Le ire del lago 260

Leggende e fantasie norvegesi 261

Visione 264

Oppio 265

Rinascita 266

Ai fratelli lontani 267

Da Maeterlinck 268

A Carmen Sylva 270

Fato 271

A Madonna Laura 272

Anime ignare 273

A Gerardo Majella 274

Dopo la pioggia 276

In morte d' un poeta 277

Il canto della gioia 278

La primavera dei dolorosi 280

Magie lunari 282

Uragano estivo 283

Napoli-Piedigrotta 284

Passeggiata francescana 285

22 febbraio 1907 286

Dal frontone 289

Isaia Pag. 294

Mater dolorosa 297

Allucinazione? 298

In automobile 300

Fratelli, vogliamo amarci? 302

Il consolatore 304

Voci materne 305

Sera estiva 306

Momenti 307

Nel frastuono talor 309

Sonagliere 310

Casa Natale 311

Io me ne andrò nella notte 313

La bella bimba dai capelli neri 314

Per l' anniversario di mia sorella Maria 315

L' ora 321

I racconti della Luna 322

Agar 324

LIBRO TERZO.—RIME SPARSE.

La Grotta di Camoens 333

A una vecchia amica 335

Memorie d' infanzia 337

A una bolla di sapone 340

Scoramento 341

Fil d' erba 342

Sopra una foglia 344

Sera 345

A Mergellina 347

Impressioni di chiesa 348

Ribellione 350

Quando me porteranno 352

Moriam 354

Calma Pag. 356

Prima luce 358

Inverno 360

Preghiera 361

Prefazioue 362

Calma funebre 366

Notte di San Silvestro 367

Dramma notturno 369

Ribellione… ovvero sia del Simbolo 370

Quando penso 372

Prova 373

Mamma, tu vedi il sole? 379

Anima sola 380

Sursum corda 381

Per nozze 382

Il Natale dei dolorosi 383

Lasciatemi sola 384

Visione 386

Epigramma 387

Dormiva 388

Parabola 389

Natale 392

Ancóra il Natale 393

A certi agitatori 394

Notturno 396

Il trionfante alloro 398

Arte 399

Novembre 400

La Pace 402

Niuna-nanna 403

Memento 404

Consolatio afflictorum 406

Salotto 407

Per musica 408

Avanti! 409

L' ultimo canto di Saffo Pag. 411

Leggendo Baudelaire 412

Alla memoria di Alberto Bindi 413

XX Giugno 1909 415

Allora e oggi 416

Per Trieste 417

Domani 418

APPENDICE

La Madonna 423

Dal vero 433

Indice alfabetico dei capoversi 443