COMPONIMENTI
POETICI
DELLE PIV' ILLVSTRI
RIMATRICI
D' OGNI SECOLO,
RACCOLTI
DA
LUISA BERGALLI.
PARTE SECONDA,
Che contiene le Rimatrici dell' Anno
1575. fino al presente.

IN VENEZIA, M.DCC.XXVI.
Appresso Antonio Mora
Con Licenza de' Superiori, e Privilegio.


1576

QVando io movo la mente a invocar voi, Alma mia Duce, e scorta al vero amore Sempre mi vien da voi forza, e valore, Che al suon mi porta degli accenti suoi. Se il Sol degli occhi vostri io miro poi, Tutta m' infiammo di celeste ardore, Ancor che io senta dirmi; il farle onore E' d' altri omeri soma, che da' tuoi. Pur a seguir quel sommo ben m' insegna, La voce istessa, e fa, che ognor voi chiami, O d' ogni riverenza, e d' onor degna. Così chiamarvi ogn' altro non si sdegna, Anzi sua speme appoggia a' vostri rami Come a sola Avvocata, che in Ciel regna.

LA gola, e il sonno, e l' oziose piume Tanto han dal mondo ogni virtù sbandita, Che nel suo corso timida, e smarrita Va l' alma nostra vinta dal costume. E se non fosse quel benigno lume Del Ciel, che pur n' informa a vera vita, Come la stessa prova a dir m' invita, Forse indarno s' andrebbe al sagro fiume. In favole s' adopra il lauro, e il mirto, Mancando và l' alta filosofia, Così la turba a vil guadagno intesa. O felice, chi lascia ogn' altra via, E volge al suo Fattor l' acceso spirto! Questa è la vera, e necessaria improsa. SE la mia vita dall' aspro tormento Potrà tanto schermirsi, e dagli inganni, Che dir io possa, almen negli ultim' anni: Signor, quel vano affetto in tutto è spento. Allor ne andrà il mio cor lieto, e contento Per via sicura a vita senza affanni, Ricompensando i suoi passati danni, d' esser stato al suo ben sì tardo, e lento. E ben m' avveggo quanto è grave errore, Menar sua vita in tenebre, e martiri, Spendendo inutilmente, e gli anni, e l' ore. E se il tempo fia poco ai bei desiri, Soccorso mi si porge a tal dolore, Che al Ciel non fur gia mai tardi i sospiri.

Sl' mi sprona il desir, che più non taccia, Vergine eccelsa, tua bellezza in rima, E dica, come simil non fu prima A te, ne sarà mai, che tanto piaccia. Ma tal peso non è da umane braccia, Ne opra da pulir con nostra lima, E chi per te lodar sua forza estima, Nell' operazion tutto si agghiaccia. Però, se a dir di Te mie labbra apersi Fu, perchè tanto abbondi nel mio petto, Non che per me salir possa tant' alto; Se la mano alla penna in scriver versi Porrò, dal tuo bel lume il mio intelletto Sarà soccorso con benigno assalto. SE ben mirando il crine in parte bianco, Indizio scorgi dell' età fornita, Non voglio, anima mia, che sbigottita Perciò ti trovi, e di speranza al manco. Ferma pur gl' occhi in quel aperto fianco, ch' ivi ritroverai conforto, e vita, E chiedi al tuo Signor soccorso, e aita, Prima, che lasci il corpo infermo, e stanco. Leva pur sempre in alto il tuo desìo, Mirando la sembianza di colui, Che riveder nel Ciel si brama, e spera. Con tal speranza travagliando anch' io, Fuggir vorrei me stessa, non che altrui, Poichè questa è del Ciel la strada vera.

AMor mi tenta, e prega alcuna volta, Che da' suoi passi ancor non mi allontani Con dir; pari non son gli effetti, e strani, Nè gentil alma è da miei nodi sciolta. Ma poichè al ver cammin l' hà Dio rivolta, Dico, levando al Cielo ambe le mani, Seguir io voglio quel, che i preghi umani Benignamente, e con pietate ascolta. E se passando in questa mortal vita, Per farci al bel desìo volger le spalle, Si trovan per la via fossati, o poggi; Amor, Speranza, e Fede il dritto calle Può far soave, e dolce la salita, Onde al suo vero fin si levi, e poggi. SOlo sperando, i suoi fecondi campi Solca l' agricoltore a passi lenti, E gli occhi fermi tien, mirando intenti, Come l' aratro suo la terra stampi: Così del mio bel Sole i chiari lampi Miro, bench' io mi trovi tra le genti; E tanto sono i miei sensi contenti, Che il cor d' un dolce foco par, che avvampi. Onde per tal diletto, e monti, e piaggie, E fiumi, e selve, e le più chiare tempre Seguir mi piace, e quanto sprezza altrui. E quelle vie stimate aspre, e selvaggie, Soavi, e piane mi si mostran sempre, Che il mio Lume stia meco, ed io con Lui.

O Gloriosa, e splendida finestra Ond' escono d' amor dorati strali, Che ci fan sani dagli interni mali, E ci mostran del Ciel la strada destra. Or stando quì nella prigion terrestra. E nel secol nojoso de' mortali, Dogliomi al bel desir non aver l' ali, Per uscir fuor di questa valle alpestra. Oimè! quanto dovreimi esser accorta, Che nè varia stagion, nè loco, o tempo Fanno, che il senso io sciolga, o che l' affreni. Spesso mi dice la mia fida scorta: Levati, anima mia, mentre, che hai tempo Al vero Sole, ai lumi almi, e sereni. IO amo sì di quel lume l' assalto, Ove il mio ben, e la mia vita alberga, Che non come fanciul timido a verga, Ma corro ardita a lui, qual Curzio al salto. Nè fia già mai, che faticoso, ed alto Loco mi stanchi, e il mio voler non s' erga, Acciò che grazia tal non si disperga, Ond' io rimanga poi qual freddo smalto. Già capir non potei, nè creder volsi, Or m' avveggio, che quanto il cor si strugge, A questo foco è più beato, e degno. Se per altezza alcun timido fugge Da tanta impresa, io per me non mi sciolsi Dal mondo, ma per fede io n' hò tal pegno.

QUanto più mi avvicino al giorno estremo, Più veggio al ben oprar il tempo breve, E nel suo corso più veloce, e leve, E' il mio sperar in lui fallace, e scemo. Io dico all' Alma allor; noi se n' andremo D' altro pensando, che di guerra, o tregue, Perchè or ti agghiacci, or come fresca neve, Strugger ti lasci, onde mai pace avremo. Volgiti pur a quell' alta speranza, Da cui troppo sviata abbiam la mente, Tra pena, e pianto, tra paura, ed ira. Ben chiaro puoi veder, come sovente Per piacer breve gran danno si avanza, E come spesso indarno si sospira. COme a forte destrier si può ben porre Sì duro fren, che dal suo corso il volga; Così legar convien, che non si sciolga Il cor, che virtù brama, e il vizio aborre. Ne perciò libertà gli si può torre, Benchè alla volontà spesso si tolga, Che come fama pubblica divolga, Ov' egli vuole andar, nulla il precorre. Ma ben vestir, come guerrier al campo Si dee dell' onorate, e lucid' arme, Onde alfin vinca quel mortifer angue Pensando, or d' un gentil desire avvampo, Ma lenti sono i sensi a seguitarme, Onde l' alma di ciò si strugge, e langue.

O Quante degne, ed onorate prede Di noi fa quella, che a null' uom perdona, O quanto d' improviso n' abbandona L' umana speme, e manca di sua fede! O quanto egra del Mondo è la mercede, E pur l' ultimo dì d' intorno tuona; Per tutto questo, Amor non mi sprigiona, E l' usato tributo il senso chiede. Sò come i dì, come i momenti, e l' ore Fuggon, com' ombra, pur l' antico inganno Mi sforza, e l' uso più che l' arti maghe. Questi con la ragion combattut' hanno Sette, e sett' anni, e vincerà il migliore, Per quanto son nel Ciel Stelle presaghe. QUando il crudel Arcier talor mi assale, Scoccando pur suoi dardi a mille, a mille, a mille, Ritorno a quelle angeliche faville, Che il foco del mio cor fanno immortale. Ivi scopro bellezza tanta, e tale, Che a nona, a vespro, all' alba, ed alle squille, Fa le pene al mio cuor dolci, e tranquille, Talchè null' altro mi rimembra, o cale. Non vide il Sol già mai sì chiaro viso, Nè il dolce suon delle parole accorte Si udì tra noi, ma sol nell' alma spira. Sua vera stanza è posta in Paradiso: Ma perchè il cor fedel si riconforta, Benignamente quì siede, e respira.

PErseguendomi Amor più dell' usato, Disposto a farmi un' improvisa guerra, Tolse la chiave, che quell' arme serra, In che stà il cor per sua difesa armato. Allor volsi la mente in ogni lato, Se pur potessi ritrovar in terra, Quella, che se il giudizio mio non erra, E' degna del celeste immortal stato. Fra me stessa dicea: perchè paventi? Ma non fu prima dentro il pensier giunto, Che i lumi, in ch' io sperava eran presenti. Come col balenar tuona in un punto, Così fu il cuor da quei raggi lucenti, E da un dolce conforto insieme aggiunto. REal natura, e sublime intelletto In Donna, che fu assunta al degno impero, Di somma Providenza alto pensiero, Eternamente impr esse nel suo petto. Quel puro chiostro al santo Padre eletto, Poichè oppresse, e scacciò l' angelo altero; E il frutto virginal conservò intero. Per dar dell' amor suo segno perfetto. Quì grandezza di stato, o di fortuna Non mira, poichè il tutto è in la sua mano, Ma d' umiltà raccolse a sè quell' una. Piena di grazia, e d' ogni affetto umano Abbracciò l' alme, e rallegrò ciascuna; Or me conforta in atto dolce, e piano.

SE ponno dimostrar valor alcuno Celesti influssi, a chi più degni furo; Se sgombran della notte il manto oscuro Di Febo i raggi, e scaccian l' aer bruno; Non men quel sacro illustre Cómenduno In me destò colei, che al mondo curo: Che se fortuna fe il mio viver duro, Bassi pensier però già non aduno. Questi imitando quel supremo Sole, Che con tanta umiltà nel mondo venne, d' altrui giovar mai non si sdegna, o duole. Ma s' egli aggiunge all intelletto penne, Forse avverrà; che ancor tant' alto vole, Onde saetta eletta il corso tenne. PErchè l' umana speme è lunga troppo, E della vita il trapassar sì corto, Dovrebbe pur ciascun esser accorto, E fuggir quella, più che di galoppo. Tratto n' hò il cor, benchè debile, e zoppo, Dal lato, onde il desir cieco l' ha storto: Ma fu colei, che nella mente porto. Che mi disciolse ogni amoroso intoppo. Tornate indietro, o voi, che siete in via, Che questa ascosa pannia assai n' avvampa. Nè v' indugiate su l' estremo ardore. Da un tal incendio di mille un non scampa Pur ti confida, e spera, anima mia; Che Dio non sprezza un ben contrito core.

Se rea fortuna non dà qualche stroppio Alla tela novella, ch' ora ordisco, Mentre mi svolvo dal tenace visco, E che il falso col ver più non accoppio; Farò un legame al cor sì saldo, e doppio, Che più non tornerà nell' error prisco: E di speranza piena dir ardisco, Non temerò di morte il duro scoppio. Ben è ver, che mi manca a fornir l' opra Gran parte delle fila benedette, Che avanzaro a quel mio diletto Padre. Deh perchè tien ver me le man sì strette Contra sua usanza? e pur giovar s' adora Alle gentili imprese, alte, e leggiadra* Original has "leggiadrp". MIra quel legno, o stanco mio cor vago, Ivi si pose quel, che tanto n' ebbe In pregio, e stima, e sì di noi gl' increbbe, Che fece del suo sangue aperto lago. Entra tu là, ch' io d' esser quì m' appago, E come vuol ragion tempo sarebbe, Di pianger nostro error, che tanto crebbe, Quanto fosti partecipe, e presago. Ate, Donna, convien porre in obblìo L' ambizion, che spesso porti teco, Dic' egli, e tuoi disdegni vani, e sciocchi. Così ti accender ai d' un bel desìo, Con quella, che dal Ciel ne invita seco, Se tanto ti dilettan suoi begli occhi.

LAssa me, che pur troppo, ov' io non voglio Il senso mi trasporta, e al fondo varca, Onde a quel sommo mio, vero monarca, Proterva, e ingrata son, più, ch' io non soglio. Conosco, e pur non fuggo il duro scoglio, Ove fiaccar si può mia debil barca, E perciò ognor ti fa di error più carca, Talchè i nemici miei mostran l' orgoglio. Signor, che reggi il Cielo, il Mare, e i Venti, Ed hai del Serpe fier la voglia spinta, Deh! sgombra ancor da me l' orribii verno. E quell' ardor, che dà noja, e tormenti. Rimovi, sicchè io più non resti vinta, Ma salda, e ferma al tuo fido governo. O Come sparge la sua coda, e vibra Crudo serpente, e mi ravvoglie, e tesse Fraudi, ed inganni, e con le fraudi istesse Lega il cor vago, e le speranze cribra. Tremar sento la mente, e il sangue in fibra, Qualor avvien, che troppo a me si appresse, A tal, che morte, e vita insieme spesse Volte, fra le bilancie appende, e libra. Ma in te mirando, o mio Signor, accendo Lo spirto lasso in grave affanno preso, E l' alma torna in se, che venia manco. Dir non posso, Signor, che nol comprendo: Ben vedi quanto è l' intelletto offeso, Però soccorri al cor debile, e stanco.

SPiegar mai non potrìa prosa, nè versi, Quant' è il dolor, che in questa anima chiudo, Poich' è stato il mio cor spietato, e crudo, Mentre udj il mio Signor così dolersi: Anima ingrata, or vedi s' io soffersi, Che di me stesso a te feci elmo, e scudo, E vedi anco il mio cor aperto, e nudo, E i merti tuoi all' amor mio diversi. In queste piaghe il desir mio risplende, Più, che non splende il Sol nel puro vetro, Chiaro pur vedi, e amor fa, ch' ìo tel dica. Perchè dunque non fai, come già Pietro, Che abbandonò ogni cosa a me nimica? Così ogni cor umil da me s' intende. O Tu, che alla sinistra parte pieghi, La speme tua tradita tante volte, Ove non è chi con pietate ascolte Spargendo vai tanti angosciosi prieghi: Ma se brami, che il Ciel non ti si nieghi, Cerca il tuo vero fine, E voi luci meschine, Fate, che Dio per voi si riprieghi; E là dove in soavi ameni fiori Si canta de' suoi santi, e casti amori. O che bella armonìa, che dolci canti S' odon là sù, che non li turba il tempo, Però levati omai, che n' è ben tempo, Ch' hai speso gl' anni tuoi con error tanti: Ma pur sempre pietosi hà gl' occhi santi,

E si prende diletto Di star, siccome ha detto, Con gli umili contriti, e veri amanti: E di più ti dirò senza mentire, ch' egli ti chiama, e par non vogli udire. Donna gentil, che cosi passo, passo, Scorto m' avete a rimirar tant' alto, Spezzate ancor questo mio cor di smalto Sì forte, ch' io per me dentro nol passo; Questo la mente mia ritien al basso, Che le sante parole Non ode, e ben mi dole, Sicchè fa il viver mio timido, e lasso: E se contra di lui m' induro, e inaspro, Egli si volta a me protervo, ed aspro. O ciechi, non vedete, come inganna Il proprio amor, e il desiar soverchio? E trascorrendo il Ciel di cerchio in cerchio Andate, fin che morte vi condanna: Se mortal vista il veder vostro appanna, Che colpa è delle Stelle, O delle cose belle? Cercando quel, che dì, e notte v' affanna; O se del peso suo vi fa gir grave La falsa vista, e il finto stil soave? Tutte le cose, di che il mondo è adorno Uscir buone di man del mastro eterno; Ma senza il vostro ajuto io non discerno, Anzi si adombra il bel, che mi stà intorno E se al vero splendor già mai ritorno, l' occhio non può star fermo, Così l' hà fatto infermo La colpa mia, ch' io piango notte, e giorno: Pur mi conforta vostra alma beltade, Per ristorar la mia perduta etade.

NOvo desir invita al santo monte l' anima mia, ch' ogni segnato calle Turba il riposo, e il lume di sua vita. Di sete accesa non ritrova il fonte In questa lagrimosa, e cieca valle, E così resta inquieta, e sbigottita; Se alcun piacer la invita, Or ride, or piange, or teme, or s' assicura: E' l volto, che lei segue, ov' ella il mena, Si oscura, e rasserena, Ed in un esser picciol tempo dura, Onde alla vista, uom di tal vita esperto Diria: fuggi del mondo il stato incerto. Nei monti dice, e non per selve trovo Qualche riposo, e ogni abitato loco E' nimico mortal de' sensi miei. A ciascun passo nasce un pensier novo, E la compagna mia sovente in gioco Gira il tormento, ch' io porto per lei, Onde perciò vorrei Ritrarmi fuor del viver nostro amaro; Poichè m' infiamma quel celeste amore Ad un stato migliore, Che forse anco potrebbe esserti caro: Allor rispondo, e dico sospirando, Or potrebbe esser vero? or come? or quando? Come porge ombra un pino alto, od un colle, Così m' adombro, e quasi immobil sasso Resto miran lo il suo pallido viso: Poi mi risveglio, e dico al core: ahi lasso Dove sei giunto, e da chi sei diviso? Ma mentre tener fiso Posso al primo pensier lamente vaga,

Pur di vederla io sento a un punto stesso Un tal calor dappresso, Che d' ogni suo desir il cor s' appaga; In tante parti, e sì bella la veggio, Che se il pensier durasse altro non chieggio: Questo non dico, perchè alcun mai creda, Che vaneggiando su per l' erba verde, Che stando in terra all' ombra d' un bel faggio Pingendo in carte la figlia di Leda, Perchè a tal modo l' opra, e il tempo perde; Nè in tal si ferma quel celeste raggio, E quanto in più selvaggio Loco si trova, e in più riposto lido, Tanto più il van desir l' alma mi adombra; Ne mai da me si sgombra Quel grave orror, mentre nel mondo assido: Però levarmi al Ciel con fede viva Prega l' alma, ch' io pensi, e pianga, e scriva. E perchè il Serpe fier dentro non tocchi, Portò già il Signor mio quel grave giogo, Onde mi assale un desiderio intenso, Che l' aspre pene a misurar con gl' occhi Comincio, e in tanto lagrimando sfogo Di dolorosa nebbia il cor condenso: E così miro, e penso Quant' aria da quel lume mi diparte, E chi quel sommo ben mi tien lontano: Poscia fra me pian, piano Dico: che sai, se forse in quella parte, Or per te in caritate si sospira; Ed in questo pensier l' alma respira. Canzon, sopra quell' alpe, Là dove il Cielo è più sereno, e lieto Volando andrai per quel ruscel corrente, E là dove si sente Soave canto, che fa il cor quieto;

Ivi udrai, che da te l' alma s' invola, Quando resterà quì l' immagin sola. PAce, che si converte in aspra guerra, Ardor, falso sperar, timor, e ghiaccio Dona a' suoi servi Amor, finchè sotterra Li vede estinti, e a crudel morte in braccio. Misero è ben chi in tal prigion si serra, E inavvedutamente è preso al laccio; Che senza suo gran danno non si sferra, Anzi la propria vita gl' è d' impaccio. Or pensando a me stessa io taccio, e grido: Ma indarno già gridai chiedendo aita, Quando ogni mio voler posi in altrui. Che mi lusinghi Amor? di te mi rido; Poichè malgrado tuo mi trovo in vita. Nè son, nè sarò più, come già fui. QUando l' alma mia Duce a terra inchina I santi lumi, in un sol sguardo accoglie I vaghi spirti, e me da me discioglie, Con la sua vista angelica, e divina. Sentomi far del cor dolce rapina, E tutti in me cangiar pensieri, e voglie, E nulla estimo le terrene spoglie, S' io veggio, che a tal ben l' alma s' inclina. Se non che la ragione i sensi lega Col gran desir, che udendo, esser beata, Partir vorrebbe, e con dolor si affrena. Così soavemente, e volge, e spiega Lo stame della vita, che m' è data, Questa benigna mia Stella serena.

1578

OVer del secol nostro onore, e gloria; Divin Bonardo, che con tanta cura, Del Ciel gli alti segreti, e di Natura, Scopri in sì dolce, e sì purgata istoria; Se tien l' eternità viva memoria Di chi s' erge scrivendo all' aspra, e dura Salita di virtute, avrai sicura Tu contra morte, e il tempo alta vittoria Che leggendo, e scrivendo ognor dimostri, Quanto in farsi immortal si tremi, e sudi, E s' alzi sovra il Ciel senza aver l' ali. E sempre in voce, e con lodati inchiostri Dispensi il tempo, e l' ore in quegli studj, Che fan per fama gli Uomini immortali. MEntre lontana sol contemplo quella Vostra rara virtù degna di rima, Spinge ad alzarmi all' alta cagion prima Un non sò che divin, ch' io scorgo in ella. Quinci s' apre la via diritta, e bella, Onde il mio nome poggi in ogni clima, Nè il bagni obblìo di Lete, o il roda lima D' invidia, o il furi mai proterva stella. Quinci l' alma produce un pensier saggio, Che mi cerca innalzar con bianche piume, E portar dagli Esperj ai lidi Eoi. Se dunque luce in me benigno raggio, O si scopre virtù del di vin lume, Tutto, Bonardo, sol nasce da voi.

1578

SE la mia intenzion saggia, e perfetta Mirate, ho gran ragione, Ardo gentil, di non amar Damone; Si perch' egli non merta il nostro amore, Sì perchè mentre dire Vuol la mia asprezza, e i danni* Original has "danui". del suo core, Al Mondo in vario suon si fa sentire; Pur mi potrei pentire, E dargli un guardo, e nol lasciar morire; Ma se di me non può goder lo sguardo, Di me si duole a torto il suo Bonardo.

O Quanto per voi meglio si farìa, Se quel, che il Ciel ingegno alto vi diede Riconosceste con più cortesìa. Sicchè a impiegarlo in quel, che più si chiede Veniste, disdegnando il Mondo frale, Che quei più inganna, che gli tien più fede. E se lodaste pur cosa mortale, Lasciando sol quel, ch' è del senso oggetto, Lodar quel, che al giudizio ancor poi vale. Lodar d' Adria il felice, almo ricetto, Che benchè sia terreno hà forma vera Di Ciel in Terra, a Dio caro, e diletto. Questa, materia del vostro ingegno era, E non gir poetando vanamente, Obbliando la via del ver primiera. Senza discorrer poeticamente,


Senza usar l' iperbolica figura, ch' e pur troppo bugiarda apertamente; Si poteva impiegar la vostra cura, In lodando Vinegia singolare, Meraviglia, e stupor della Natura. Questa Dominatrice alta del Mare, Regal Vergine pura, inviolata, Nel Mondo senza esempio, e senza pare; Questa da voi doveva esser lodata, Vostra Patria gentile, in cuì nasceste, E dove anch' io, la Dio mercè, son nata. Ma voi le meraviglie raccoglieste d' altro Paese, e della mia persona, Quel, che Amor cieco vi dettò, diceste. Una in vero è, qual dite voi Verona, Per le qualità proprie di se stessa, E non per quel, che da voi si ragiona. Ma tanto più Vinegia è bella d' essa, Quanto è più bel del Mondo il Paradìso, La qual beltà fu a Vinegia concessa. In modo dal mondan tutto diviso Fabbricata è Vinegia sopra l' acque, Per sopranatural celeste avviso. In questa il Re del Cielo si compiacque* Original has "comipiacque". Di fondar il sicuro eterno nido Della sua Fè, che altrove oppressa giacque. E pose a suo diletto in questo Lido Tutto quel bel, tutta quella dolcezza, Che sia di maggior vanto, e maggior grido. Gioja non darsi altrove al Mondo avvezza, In tal copia in Vinegia il Ciel ripose, Che chi non la conosce, non l' apprezza. Questo al vostro giudizio non s' ascose, Che delle cose più eccellenti ha gusto, Ma poi la benda agl' occhi Amor vi pose. Dal costui foco il vostro cuor combusto,

Vi mandò agl' occhi della mente il fumo, Che vi fece veder falso, e non giusto. Ne d' io di me tai menzogne presumo, Quai voi spiegaste ben con tai maniere, Che dal modo del dir diletto assumo. Ma non perciò conosco per non vere, Le trascendenti lodi, che mi date, Sicchè mi son con noja di piacere. Ma se pur tal di me concetto fate, Perche al Nido, ch' io nacqui non si pensa Da voi, e in ciò perchè ognor non lodate? Perche ad altra opra il pensier si dispensa, Se per voi deve un loco esser lodato, Che dia al mio spirto posa, e ricompensa? Ricercando del Ciel per ogni lato, Sebben discorre in molte parti il Sole, Però vien l' Oriente più stimato; Perchè quasi dal fonte Febo suole, Quindi spiegare il suo divino raggio, Quando aprir ai mortali il giorno vuole, Così anch' io in questo, e in ogni altro viaggio, Senza però col Sol paragonarmi, Per mio Oriente, alma Venegia, t' haggio. Questa, se in piacer v' era dilettarmi, Dovevate lodare, e con tal modo, Al mio usato soggiorno richiamarmi. Lunge da lei di null' altro ben godo, Se non, ch' io spero, che la lontananza, Dal mio vi sciolga, e leghi all' altrui nodo. Continuando in cotal mia speranza, Prolungherò più, che potrò il ritorno; Talchè mi amiate hà lo sdegno possanza. Così vuol chi nel cor mi fà soggiorno Amor di tal, che per vostra vendetta Forse non meno il mio riceve a scorno: Ma come sia non ritornerò in fretta.

SOvente occorre, ch' altri il suo parere Dice, stimando fatte alcune cose, Che non successer, nè fur punto vere. Di queste, che pur son dubbie, e nascose, In noi un certo istinto la Natura, Che rende al peggio, ed a biasmarle, pose, Benchè null' opra è di quà giù sicura, E di quel, che men par, che avvenir possa, Stiasi con più sospetto, e più paura. Del Mondo ingannator questa è la possa, Che quel, più contrario al ver succeda, Per cagion torta occultamente mossa. La ragion vuol, ch' ogni ben di voi creda, Ma poi del verisimile l' effetto Fa, che quel, che credei prima, discreda. Comunque sia, egli m' e stato detto, Se falso, o ver non importa, ch' io dica, s' io son risolta, o se ne ho alcun sospetto. Basta, che mi teniate per amica, Come in fatti vi son, sicchè in giovarvi, Non sarei scarsa d' opra, o di fatica. Ed or, ch' io mi conduco a ragionarvi Di quanto intenderete, a quel m' accosto. Che dee chi fa profession d' amarvi. Dunque alla mia presenza vi fu opposto, ch' una Donna innocente abbiate offesa Con lingua acuta, e con cuor mal disposto. E che moltiplicando nell' offesa, Quant' è stata colei più paciente, In voi l' ira si sia tanto più accesa. Sicchè spinto da sdegno impaciente, Le man posto le avreste addosso ancora, Se nol vietava alcun, ch' era presente. Ma voi la minacciaste forte allora, E giuraste voler tagliarle il viso, Osservando del farlo il tempo, e l' ora.

Strano mi parve udir d' un uom diviso Dai fecciosi costumi del vil volgo, Un cotal nuovo inaspettato* Original has "inaspettaoo". avviso. E mentre col pensiero a voi mi volgo, Della virtude amico, e dell' onesto, La fede a quel, che mi fu detto tolgo. Dall' altra parte sò quanto è molesto Lo spron dell' ira, e come spesso ei mena A quel, ch' è vergognoso, ed inonesto. Nè sempre la ragion, che i sensi affrena, A stringer pronto in man si trova il morso, E il gran soverchio rompe ogni catena: Se per impeto d' ira il fallo è occorso, Non durate nel mal, ma conoscete, Quanto fuor del dover siate trascorso. Gl' occhi del vostro senno rivogliete, E quanto ingiuriar Donne vi sia Disdicevole, voi stesso vedete. Povero sesso con fortuna ria Sempre prodotto, perchè ognor soggetto, E senza libertà sempre si stia. Nè però di noi fù certo il difetto, Che se ben, come l' uom non sem' forzute, Come l' uom mente avemo, ed intelletto. Nè in forza corporal sta la virtute, Ma nel vigor dell' alma, e dell' ingegno, Da cui tute le cose son sapute. E certa son, che in ciò loco men degno Non han le Donne, ma d' esser maggiori Degli uomini dato hanno più d' un segno. Ma se di voi si riputiam minori, Fors' è perchè in modestia, ed in sapere, Di voi siamo più facili, e migliori. E che sia il ver voletelo vedere? Che il più savio ancor sia più paziente, Par che alla ragion quadri, ed al dovere.

Del pazzo è proprio l' esser insolente; Ma quel sasso dal Pozzo il savio traggie, ch' altri a gettarlo fu vano, e imprudente. E così noi, che siam di voi più saggie, Per non contender vi portiamo in spalla, Come anco chi hà buon piè porta chi caggie. Ma la copia degl' uomini in cio falla; E la Donna, perchè non segua il male. S' accomoda, e sostien d' esser vassalla. Che se mostrar volesse quanto vale, In quanto alla ragion dell' uom sarìa Di gran lunga maggior, e non che eguale. Ma l' umana progenie mancherìa, Se la Donna ostinata in sul duello, Fosse all' uom, come ei merta acerba, e ria. Per non guastar il Mondo, ch' è sì bello, Per la specie di noi la Donna tace, E si sommette all' uom tiranno, e fello. Che poi del regnar tanto si compiace, Siccome fanno il più quei, che non sanno, (Che il mondan peso a chi più sà più spiace) Che gli uomini perciò grand' onor fanno Alle Donne, perchè cessero a loro l' impero, e sempre a lor serbato l' hanno, Quinci sete, ricami, argento, ed oro Gemme, porpore, e quelle di più pregio, Si pon in adornarne alto tesoro. E qual conviensi al nostro senno egregio, Non sol son ricchi i nostri adornamenti D' ogni pomposo, e più prezzato fregio; Ma gl' uomini a noi vengon riverenti, E ne cedono il loco in Casa, e in strada, In ciò non punto tardi, o negligenti. Per questo anco è, che a lor portar accada Beretta in testa, per trarla di noi A qualunque dinanzi se ne vada.

E se ancor son tra lor nemici poi, Non lascian d' onorar sempre, che occorre, l' istesse Donne de' nemici suoi. Da questo argomentando si discorre, Quanto l' offesa fatta al nostro sesso La civiltà dell' uom civile abborre. Ne, ch' io parli così crediate adesso Con altro fin, che di mostrarvi quanto l' offender Donne sia peccato espresso. Informata ancor son dall' altro canto, Chi sia colei, di cui mi fu affermato, Che ingiuriaste, e minacciaste tanto. Certo questo non merita il suo stato, E l' avervi il suo amore a tanti segni, In tante occasion manifestato. Cessin l' offese omai, cessin gli sdegni; E tanto più, che d' uom nato gentile, Questi non sono portamenti degni: Ma è profession d' uom basso, e vile, Pugnar con chi non hà difesa, o schermo, Se non di ciancie, e d' ingegno sottile. Perdonatemi in ciò, ch' io troppo affermo Le colpe vostre; poiche io non intendo Comprender voi più d' alcun' altro al fermo. Ma quel, che vado adesso discorrendo, E quanto ad onta sua colui s' inganni, Che vada con le Donne contendendo. Perchè al sicur di lui son tutti i danni, Se vince mal, e peggio se vien vinto, Il rischio è certo, e infiniti gl' affanni. Col viso di rossore infuso, e tinto. d' essere stato ogn' uom d' onor s' accorge Di far ingiuria a Donne unqua in procinto. E quanto più il valor vivo risorge, Tanto più l' armi fuor dall' ira tratte, Vergognando al suo loco altri riporge.

E si pentisce delle cose fatte, In via, che se potesse frastornarle, Le ridurria dall' esser primo intatte, Ma perchè non puo indietro ritornarle, Con dolci modi all' offese ripara, E quanto puo si sforza d' annullarle. Ritorna ancor l' amata al doppio cara Nel rifar della pace, e per turbarsi, Più d' ogni parte l' alma si rischiara. Così nel ben vien a moltiplicarsi; E così certa son, che voi farete. Siccome suol da ogni par vostro farsi: E colei certo offesa, o non avete, O se vinto da sdegno trascorreste, l' error di voi non degno emendarete, Ed io di ciò vi prego in fin di queste. ALla tua ceda ogni regale insegna, Che delle sante leggi in man tenesti Così bene il governo, onde reggesti Di dotta gioventù scola sì degna. Ad inchinarsi a te tutta ne vegna D' Antenor la Città, che a tanto ergesti Col tuo valor, che in terra un Ciel la festi, Dove il bel senza noja eterno regna. Tu di religion santa, e verace Sei rilucente specchio, al cui bel raggio Ogni spirto gentil si strugge, e sface. Che da te fatto antiveduto, e saggio, Dietro sen' vola alla divina pace, Per destro, e sicurissimo viaggio.

ECco del tuo fallir degna mercede, Magnanima, e vilissima Regina: Come Fortuna ogni tua altezza inchina Per le tue gravi colpe, or pur si vede. Ecco d' assiria l' onorata Sede Di tanti Regi all' ultima rovina: Che il tempo faccia pur crudel rapina Delle maggior grandezze or pur si crede. Tu l' onor, tu l' impero, e tu la vita Misera perdi in un sol giorno; è colpa Sol di te stessa, e l' altrui gloria esalti. Muzio ne hà gloria, e pregi eterni, ed alti; E mentre ei te d' ogni brutezza incolpa, Acquista al nome suo loda infinita.

1578

ERa tranquillo il Mare, e l' aere chiaro, E Zefiro spirava, e di viole Carca più, che non suole Sorgea l' aurora, e frutti, e frondi, e fiori Produceva la Terra, ed era il Sole, Nel suo cammino del Leone a paro, Ne fea nube riparo Al volto suo, quando tra verdi allori Coronata di palma apparve fuori Questa franc' Orsa, che col vago lume De' suo begli occhi ogni uman core accende d' onesta fiamma, e tende Sì cari lacci, e in sì gentil costume, Che chiunque è da lei arso, e legato.

Stima il foco soave, e il giogo grato. Tal valor piove in noi dalla sa luce, Benchè sempre saette avventi, e strali, Che sgombra tutti i mali Dai nostri petti, se talor si mostra A noi benigna, ond' è, ch' oggi i mortali Non curan morte, fin che nostro Duce E' il lume, che conduce A sommo onore i suoi seguaci: O nostra Propizia Stella, o s' io la virtù vostra Ridir potessi, come dentro al core La porto impressa, o pur ergermi a volo; Sicchè al contrario Polo Per me s' udisse il vostro altero onore, Tal fora all' ali mie baldanza nova Data, che oserei star coi Cigni a prova. Ma sebbene al mio vol son tronchi i vanni, E le sue grazie mal meco comparte Febo, e l' ingegno, e l' arte Lunge assai van du sì gradita impresa; Certo il desìo fia almen lodato in parte Cui vien, che con sì dolci, e novi inganni, Nebbia d' amore appanni, Voi bella, e vaga, e d' onestade accesa Fera gentil, se pur venite offesa Dall' ardir mio, non vi movete a sdegno, Che gran beltà ragion non tiene a freno: Come è chiaro, e sereno Il vostro lume, e più d' ogn' altro degno, Così maggior d' ogn' altro è l' ardor mio; Ne contrastar mi lice al gran desìo. Dunque, se il mio pensier tant' alto poggia, Non vien in lui da sua virtù tal lena, Ma sol dalla serena Vostra luce, ch' ogn' altra cura a vile Tener mi face, e solo a lei mi mena.

Occhi beati, in cui splendor alloggia, Talche, se strali, o pioggia Giove minaccia, e che voi in atto umile A lui volgiate il bel raggio gentile, Egli abbagliato dal divino lampo, Gia tutto acceso il cor d' onesto foco, A voi tremante, e fioco S' inchina, e scaccia dal celeste campo Folgori, e tuoni, e già d' orgoglio, e d' ira Voto, in vostra beltà si specchia, e mira. Nè punto a gelosìa Giunon si move, La qual ben sa, che vil pensier non puote Nascere, ove percuote De' bei vostr' occhi la gentil facella: Ed al vostro saper son tutte note Le fraudi, ch' egli usò, le indegne prove. Già sotto forme nove, Luce, per cui riman l' antica stella Tenebrosa, nè più lucente, e bella, Si mostra, come pria, che il vivo raggio Vostro, lo suo splendor vince d' assai: A lei ricopre irai Poca nebbia, ed a voi non face oltraggio O nube, o notte, e sempre a mille, a mille Lampeggian vostre angeliche faville. Canzon, vanne a quell' orsa, che l' impero Ha di vera virtute, e di beltate, E con quella umiltà, che a lei si deve; In parlar dolce, e breve, Le dì; siccome ell' è di nostra etate Gloria, e splendor, così seco mia voglia Amor legò, nè sia, ch' indi mi sciolga.

COrtese Donna, i cui soavi accenti, Quel, che non fer già d' eco le parole, Potrian Narciso anco invaghire, e il Sole Fermar dal corso, e ritenere i venti; Veggo le grazie, e in van gli amori intenti A rimirarvi ognor, com' altri suole Celeste cosa, che s' ammira, e cole, A cui devoto il cor brami, e paventi. Ben sono i vostri Monti alti, se il Cielo Feriscono, e ben degno il vostro Alloro, Che vago, e colto orna il celeste velo. O di vera virtude ampio tesoro, Se tanto io vaglio, pria, ch' io cangi il pelo, Chiaro vedrete ancor quanto v' adoro.

1579

COlei, che dianzi ebbe di te vittoria, Mentre in mia sigurtà lieto ti stavi, E che del mio splendor lucido andavi, Come in bel stil ne fai cantando istoria; Ben d' ogni impresa tale aver può gloria Senza in suo ajuto trar cavalli, e navi: Poichè hà parole, e sì sguardi soavi, Che quindi Amor del suo poter si gloria. Ond' io per te, che a così degno giogo Contento umile il collo abbassi, godo, E ten' prego dal Ciel felice sorte. Non già mi piace, e in nobil cor non lodo, Che a novo obbietto il tuo pensier s' inchine Inguisa, che il primier non abbia luogo.

DIsoverchio desìo, d' ardir si spoglie Cui sì dispiace il giusto mio rigore; Chi troppo ardisce avrà da me sol foglie; Che a' saggi sol si deve il frutto, e il fiore. Degno è, che amante quella speme invoglie, Che sia fuor di travaglio, e di disnore: Chi si nutre d' error pena raccoglie, E d' ira si fa preda, e di furore. Ragion, senno, prudenza hanno ricetto Nel mio regno, ed offende alfin se stesso, Chi ne và lunge, e vive ore meschine. Perchè dunque m' incolpi se sì spesso Conturbi mie bellezze alte, e divine? Tanto non può abbracciar sì picciol petto.

1580

SE al soggetto l' ingegno, al desìo l' arte Corrispondesse, e all' animo lo stile, Corrado mio, farei da Idaspe a Tile Il nome vostro noto, e le mie carte. Ma cantar le gran doti, che comparte A voi sì largo il Ciel, non lice a umile Augel nato in terren palustre, e vile, Che da Castaglia sol voli in disparte. Se di Cesare invitto al nome, all' armi, Al senno, amica Stella vi fa eguale, Dicano i vostri onori, i vostri carmi. Cantate dunque, o bel Cigno canoro Vostre glorie, che s' ei si fe immortale, Anco a voi serbò Febo eterno alloro.

ETernar col suo nome mille carte Può il nuovo Massinissa, e mille marmi, Poscia, che tanto nel mestier dell' armi Fè, che vinse i mortali, agguagliò Marte. E s' io dell' opre sue la minor parte Narrar potessi cò miei rozzi carmi, Spererei da l' un Polo all' altro farmi Nota, ma tanto il Ciel non mi comparte. Ch' Angel celeste nel mortal suo velo, E Pallade nel senno, e nell' ardita Destra, sembrava il Domator de' Mostri. Empia saetta a lui tolse la vita, Ma di due vive; l' una in chiari inchiostri, l' altra beata, e sempiterna in Cielo. HAi pur disciolto, o dispietata Morte, Non solo il nodo, che di sua man strinse Amor, quando la nobil Coppia avvinse Nelle asprissime tue dolci ritorte; Ma con la curva falce ancora il forte Legame hai tronco, onde Imeneo la cinse; E le vermiglie rose, onde si pinse Il volto hai rese impallidite, e smorte. Pur se all' antico Padre hai la diletta Figliuola ancisa, e la consorte amata Al giovin sposo, e già canuto amante; E la figlia, e la sposa nel sembiante Rimiro della bella pargoletta, In guisa di Fenice rinovata.

DOnna real, che angelica, e romita Vita lieta vivesti in questi nostri Sagrati alberghi, e ne' superni chiostri Vivi or beata al sommo Sole unita; Gradisci in vece d' opra; l' infinita Brama, che ho di lodarti in questi inchiostri: E poichè d' immortal gloria t' inostri, Porgi benigna a me dal Cielo aita. Che sembro senza te nocchier senz' arte; E in tempestoso Mar, vicina a scoglio Nave sdruscita senza vele, e sarte: Ma se discopri a me tua chiara luce, Non temerò dell' onde il fiero orgoglio. E sarai mio Castore, e mio Polluce. PAssò d' un anno il terzo lustro appunto, Il tempo, ch' io durai Nella fiera battaglia del tuo core. Contra il paterno, e contro il tuo rigore: La vittoria, e il trionfo alfin cantai, E non vorrai, che il faticoso acquisto, Di dolce amaro misto Io canti, ovunque porti i versi miei? Ah ben sciocca sarei; Qual di lode mi resta altra speranza? Rara è al Mondo costanza.

AMor non fia già mai, Che salda nel mio core La bella immago scolpita non resti, Che di tua man vi festi; Nè più, benchè tu sia divin scultore, Di novella beltà l' intaglierai, Che ben sai tu, che Natura ha disdetto, Che stian due forme intere in un soggetto. FEce da voi partita Questa dolente vita, Ma per opra d' amore, Nel vostro petto rimase il mio core, E se alcun dice, come avvien, che viva Essendo di lui priva, Dite lor, ch' agli amanti è dato in sorte, Di viver, e morir di doppia morte, STassi mai sempre al varco Il pargoletto Amore Dei vostri lumi, o bella Livia d' arco, Quivi attende gli schivi, E i superbi, egli audaci, e i fuggitivi, E lor avventa in vece dei suoi dardi, De' bei vostr' occhi i guardi.

1580

TU, che sì ben d' amor l' arco, e la face Cantavi, ond' eri, e sei trafitto, ed arso, Perch' entro a stil sì dolce, amaro hai sparso Di tragico furor malvagio, audace? E perchè turbi a te la cara pace, Il tempo essendo al proprio ben sì scarso? A qual tessala maga, a qual' uom marso Di trattarti sì mal diletta, e piace? T' era più lieta, e più sicura gloria, Il lodar una, non che cento donne, E Parnaso ti fosse il bel Corrinto. La fiera Babilonia, oimè, qual ponne Ajuto dar, per coronarti in Cinto, Se sol d' infamia, e disonor si gloria?

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D' Impudica Reina, e scellerata Canti, Manfredi, amor posto in obblìo, E tante donne, e quel gentil desìo, Onde splendevi, e la bellezza amata. Nè sò perchè, se alcuna avesti ingrata, Debba esser danno di molt' altre, e mio: Fra le tue cento, se non fossi anch' io, Men dolorosa, e men sarei sdegnata. Poscia, che celebrar Donna gueriera Pur volevi, e real, deh perchè prima Semiramis d' ippolita eleggesti? Lieto, a questa prigion già ti rendesti, E quella chi non odia, e chi sublima? Or torna prego all' amorosa schiera.

1580"

QUesti, che porger può care, e devote Preci con sì pietoso, e santo zelo, Non è dal Ciel mandato a noi? del Cielo Non son le sue purgate, e chiare note? Questi, che al suon delle celesti rote Tempra il suo canto accolto in sì bel velo, Ben certo appare il biondo Dio di Delo; Ma, nè tanto egli sà, nè tanto puote. Angelo dunque è certo, ed a Maria Sì caro, a cui votò già l' alma, e il core, Che in vece n' ebbe casta mente, e pura; E s' ella aspira in lui divino ardore, Onde si stempre ogni vil voglia impura, Sol ella oggetto alla sua penna sia. Dite, anime felici: siam pur vinte, Siam pur tue, sommo ben, lasciati i nodi, E le catene d' or, che a dolci modi Mille vi tengon in sua pace avvinte, d' umiltà gloriosa ornate, e cinte, Gridate intorno al cor le immense lodi, Di chi da tanti danni e tante frodi V' ha sopra il merto vostro, e voglia spinte. Beata gente, in cui l' eterno Amore Elesse di mostrar, quanto più vaglia Del peccar nostro sua grazia e bontade. Vivete liete, e fattemi favore; Che presa, e morta anch' io di tal battaglia, Canti sempre con voi sua gran pietade.

1580

QUesto ramo d' alloro Le tempie ambe mi cinse, Mentre vago desir il cor mi strinse Di discender al sacro, e vivo fonte, E di poggiar per erto calle al Monte, Ove si giace delle Muse il Coro: Ma, lassa, or ben m' avveggio, Che più tener nol deggio, Perch' egli nacque a coronar il crine Vostro gentil, che face invidia all' oro, Angela mia, del Ciel ricco tesoro. QUesto crin, ch' io deposi, Quel dì, ch' io mi disposi, Lieta al Mondo morir, viver a Dio, Fu serbato da me sol con desìo, Che le due parti estreme Della vostra ghirlanda or leghi insieme, E insieme il laccio mostri, Che lega, e in un ristringe ambi i cor nostri.

1586

COn quai concenti, o quai lamenti al Cielo Spiegherò 'l gran dolor; ch' oggi, oimè, sento Poichè il Figlio di Dio per me vien spento, E l' aria lieta adombra oscuro gelo. Del tempio santo veggo aprirsi il velo, E si spezzan le pietre al gran tormento Del mio Signor, ov' io pur pigro, e lento Avrò lo spirto mio senz' alcun zelo? Ah non sarà; ma fuor mostri il suo duolo Quant' è grave, di pianto un largo rio, E per pietà dentro si spezzi il core. Poichè anche il Sol s' oscura a un tanto orrore, Misera, e sol cagion n' è l' error mio, E quello cancellar puote egli solo. SIgnor, se per amor, per pianger molto, E aver non sol d' odori un vaso pieno, Ma il cor di doglia, il cor, che visse involto Nel tenace mondan visco terreno, Fur rimesse a colei le colpe appieno, Che coll' umor, che le piovea dal volto Lavò i tuoi piedi, e se li strinse al seno, Poi gli asciugò col crin sparso, e disciolto: Oggi, che fosti al duro legno affisso, Per dar con la tua morte eterna vita A ogn' alma, che in te sol si fida, e crede. d' un' altra Maddalena, ch' or ti chiede Perdono, assorba iniquità infinita, Dell' alta tua bontà l' immenso abbisso.

PAsso l' aurata soglia, e troppo ardita Pongo nel tempio, ove un terrestre Nume S' onora, umile anch' io languido lume, Perchè eroica virtù sia riverita. Se il dono è indegno, venga almen gradita l' alma, che l' accompagna, ond' ella impiume l' ali sovra l' usato suo costume Dietro la fama in ogni parte udita. Fiaccola ei fia tra mille lampe accese Di virtù innanzi a un Sole il cui splendore, Farà, ch' eternamente ella fors' arda. Ecco, mentre ad offrir la mano tarda, Che piegò, alto Michiele, il gentil core, E il Cielo arride al mio desir cortese. ALme felici, ora nel Ciel godete Doppiamente beate, se di voi Degno scrittor con chiari carmi suoi, Canta la gloria, onde la sù splendete. O qual per brevi noje lunghi avete Diletti immensi, ch' ora fine, o poi Già non avranno, o divi, o santi Eroi, Qual degne lodi al merto vostro udrete. Fortunate memorie, onde in leggendo l' uom, che a prender s' avvisa il dritto, e vero Della salute sua porto, e cammino. Tu nel sentier di gloria erto, leggero Intanto, o Baldo, vai spirto divino, Del tempo i fieri morsi a sdegno a vendo.

MUzio, che già d' Amor l' armi cantasti, Che a te fan dolce, e sempiterna guerra E cento Donne col tuo stil, da terra, Per una sublimarne, al Cielo alzasti; Deh come, e dove mai carmi trovasti Da segnar con la man, che mai non erra,* Original has "erar". Opra di mostro, che rabbioso atterra d' onor le leggi, e le ragioni, e i fasti? Meglio era pur della tua Donna il bello, E il buon cantando, e i tuoi diletti, e i pianti, Scaldar d' onesto ardor Parnaso, e Cinto. Che di Regina il foco indegno, e fello Scoprendo, far, che poi Babel si vanti Dìgrido tal, che ceda a lui Corrinto. OCchi, che chiusi osaste Fiso mirar il Sol, che benchè lunge Ancor sì v' abbarbaglia, e sì vi punge; Di voi sol, che miraste Ardente troppo il vago suo splendore Doletevi, e d' Amore.

1580

DAl ben composto, e splendido suo Tempio, Di dorici archi, e di dorati fregi Mosso era Amor, superbo in vista, ed empio, Onusto, e altier d' almi trionfi egregi; Poichè nel Ciel più non trovava esempio, Che cedea Giove a' suoi più rari pregi, Con maggior faciltà prese speranza, Che alla sua quì cedesse ogni possanza. Sparse, e spiegò le ventilanti penne, E scese, e venne a innamorar la terra, E com' era il desio l' effetto ottenne, Con dolce interna, e faticosa guerra: Ogni cosa creata amar convenne, Gl' uomini, gl' animai, l' acqua, la terra: E mentre vince Amor queste, e quell' alme, Orna il bel Tempio suo d' illustri palme. Non v' era cor di qualità sì dura, Che al suo possente stral non desse loco, Nè petto di sì rigida natura, Che non ardesse al suo cocente foco: Però accadea, che una gentil figura, Quantunque fosse il suo merito poco, Avea tal forza in mente alta, e proterva, Che il Rè sposava, e il Principe la serva. Inganno, falsità, villan pensiero Nell' animo de' giovani non era; Il lor affetto ardente era, e sincero, E la lor servitù costante, e vera: Beata, chi patìa sotto il suo impero, Già riputava ogni pena aspra, e fiera: Nè l' uom restava mai d' esser fedele, Benchè la Donna fosse empia, e crudele. Questo, perchè l' aurato, acuto dardo

Lor trafiggea profondameote il core, E il dolor della piaga era gagliardo, Nè mai scemava, anzi crescea l' ardore: Era poi mercè degna un dolce sguardo d' un lungo, ardente, e ben provato amore, O mio fiero destin malvagio, e rio, Perchè non nacqui a sì bel tempo anch' io? Quei, che aveano il desìo corrispondente Al desiato suo giungeano tosto: Ma ad alcuno accadea d' amar sovente Tal, che avea in altri il suo dissegno posto, E perch' era l' amor vero, e fervente, E il dolor rendea l' animo disposto, I rivali venian con dura sorte, Spesso ad arme, a ferite, a sangue, a morte. Quivi occorrea, che Amor, siccome il Sole, Penetrando co' rai dentro il terreno, Gli dà virtù, che concepir vi suole Fior delicati, e fresche erbette appieno: Tal egli con sue fiamme interne, e sole, Penetrando degl' uomini nel seno, Lor porgea tal valor, che d' onor degni Fea germogliar mille felici ingegni. Questi s' udian con chiari, e dolci stili, Del cor gli affetti esprimere diversi: Fiorian da questi l' opere gentili, Le dolci rime, e i leggiadretti versi. Lontani da pensieri ingrati, e vili. Gl' intelleti purgati erano, e tersi, Che ciascun per gradire a chi più amava, A gara onori, e meriti acquistava. Per le floride piaggie, e nell' erbose Rive dei chiari, e liquidi cristalli, Al cantar delle Najadi amorose, Guidavan le Napee vezzosi halli; Queste di gigli, e d' odorate rose,

Quelle ornate di perle, e di coralli, Ciprigna bella in mezzo lor si serra, Che cò begli occhi fa fiorir la terra. Sempre in lor compagnia star si vedea Dei pastorelli una ridente schiera; Chi canta, chi contempla la sua Dea, Chi fior le dona, e chi la chiama altera. V' era Aci, e la fugace Galatea, Che del crudel Ciclope si dispera. V' era Mopso, e Tirrenia, e Tirsi, e Filli, E Titiro, e le sua dolce Amarilli. Se le forze amorose in piani, e monti Eran possenti, e sviscerate a pieno; E così nelle selve, e nelle fonti, Fra Satirelli, e Ninfe albergo avieno: Per la Città volar veloci, e pronti I dardi suoi vedevansi non meno, E trapassar de' molli giovinetti, E delle Donne i delicati petti. Da cagion sì gagliarda, e sì possente Spinta la gioventù degna, e reale; Non guardava nè a dote, nè a parente, Che a sua condizion non fosse eguale: Ma per dar loco alla sua fiamma ardente, Celebrava Imeneo santo, e leale: Tanto, ch' in breve, Amor scacciò dal Mondo l' ambizion, e l' avarizia al fondo. Quell' altier, che i suoi dì tutti avea spesi In mercar dignità, gradi, ed onori; E per gara di ciò molti avea offesi, Nè pur mirar degnava i suoi maggiori; Trafitto a mezzo il cor da' strali accesi Di questo Rè, per mitigar gli ardori Una vil Donna, ancor, che bella prende Per consorte legitima, e si rende. Quell' altro avaro ingordo di tesoro,

Tutta la vita sua strazia, e patisce, Non veste mai, non si dà alcun ristoro, A pena di scacciar la fame ardisce; Poi tocco dallo stral di costui d' oro, Le sue ricchezze in pochi dì finisce, O contradote, o spesa altra, che importa, Per goder la sua Dea di far comporta. Felici voi, che con sì caldi amanti, Donne, vi ritrovaste a quella etade, Dove per non aver doti bastanti, Non invecchiava mai vostra beltade: Nè con false lusinghe, e finti pianti Vi cercavan por macchia all' onestade: Ma con debito mezzo onesto, e grato, Godeano il fior da lor tanto bramato. Già dall' orto all' occaso Amor lasciava, Del suo invitto valor chiari trofei; Sull' Are il foco pio morto restava, E la religion degli altri Dei: La vittima a lui sol si consacrava, E l' odorato incenso de' Sabei; Ed era ancor per dilatar più il regno, s' alla gelosa Dea non venìa a sdegno. Giunon d' invidia, e di superbia piena, Di rabbia, di furor, di geloìa, Veggendo Amor condotto alla terrena, E prima alla celeste Monarchìa; Tal cordoglio ne sente, e sì gran pena, Che ad implacabil sdegno apre la via; E perchè vendicarsi alfin conchiude, Nella segreta camera si chiude. Iri seco ha, la sua fedele amica, Con cui si sfoga, e seco parla, e dice: Dunque preposta è Venere impudica A me, che son del Cielo imperatrice? Dunque la Stella a me crudel nemica

Mi vuol far sempre vivere infelice? Dunque per sempre Amor preso ha partito Di far, ch' altra si goda il mio marito? Non per una cagion, per mille deggio Vendicarmi di lui, che sì mi offende: La Terra, e il Ciel soggetti essergli veggio, Ubbedienza ogni mortal li rende: Il nostro culto va di male in peggio; La fiamma al nostro altar più non risplende; Che più voglio aspettar? ch' un dì s' opponga, E me di questo mio seggio deponga? Poichè ebbe dato loco al gran lamento, Con lunga, ed acerbissima querela, Per isfogar il suo fiero tormento, In fosca nebbia il chiaro aspetto cela: Sempre ad alta vendetta ha il core intento, Nè pur ad Iri il suo pensier rivela: In terra scende sconsolata, e mesta; Ed Iri in Ciel Locotenente resta. Per aspra, incolta, e disusata via, Con gran dolor la Dea và camminando; E la Superbia incontra, che fuggìa, A cui dal Mondo avea dato Amor bando, E l' Avarizia era in sua compagnia; La Diva se le venne approssimando, E dove elle di gir s' avean proposto Lor fè dimanda; onde le fu risposto. Dannate siam, disse, in eterno esiglio l' empia Superbia all' adirata Dea, Dal maledetto, e scellerato figlio Della malvagia, e brutta Citerea, Il qual con certo suo soave artiglio Gli animi tira alla sua voglia rea, E se 'l Mondo terrà troppo il suo stile, In breve diverrà povero, e vile. Come, che gravi sian nostri dolori,

Che tenevamo in terra il primo loco, Estavam nelle corti de' Signori, Anzi, nel cor più che in ogn' altro loco; Via più c' incresce de' nostri maggiori, ch' ad Amor, come veggio a poco, a poco Giove ubbidisce, e le sant' alme, vinte Da certe sue dolcezze amare, e finte. A questo dir Giunon di rabbia accesa Negli occhi, e più nel cor sfavilla, ed arde, E le risponde: Son d' ogni mia offesa Le vendette maggior più che son tarde: Gran tempo ho sopportato esser offesa, Non, che le forze mie non sian gagliarde, Ma mi parea viltà d' usarle seco, Essendo vil fanciullo* Original has "funciullo". ignudo, e cieco. Ma poich' è divenuto sì arrogante, Che voi discaccia, ed osa offender noi, Per noi tre insieme, ancor che sia bastante Io sola a far quel, che farete voi: Vada all' ingiuria la vendetta innante, Sieno tutti spuntati i strali suoi, Il parer della Dea fu a tutti caro, E subito nel mondo ritornaro. l' assunto all' Avarizia ne fu dato Di condur ad effetto il lor pensiero; Ella, ch' hà il tempo commodo appostato, Ritrova Amor di sue vittorie altero; Col sembiante di Venere a lui grato Se gli appresenta, e copre il volto fiero, E l' invita a posar, com ella suole Nel suo perfido sen con tai parole. Dolce mia speme, in così fervid' ora, Che 'l Sol ci offende, e sei sudato, e stanco, Cessa di saettar, vieni a quest' ora, E nel mio sen riposa il tuo bel fianco: Le consente l' incauto, e in grembo a Flora

Getta il bel corpo suo tenero, e bianco: E nel sen di chi offenderlo propone La bionda testa, e inannellata pone. Il sonno entrò ne' begli occhi amorosi; Che la fatica fa il riposo grato; La brutta Arpìa, che i strali luminosi, Nella faretra ha visti al manco lato; Perchè 'l dolce Cupido ai suoi famosi Nomi dia fine, e più non sia pregiato; Con l' empia ingorda man, ch' egli non sente, Gli la dislaccia, e leva pianamente. La gelosa Giunon tutta contenta, Con la Superbia allor si fece innante, E perchè sia d' Amor la gloria spenta, Fè nascer ivi un Monte di diamante, In cui l' empia Superbia s' argomenta Di spuntar le saette invitte, e sante; E poichè ben l' effetto lor successe, Fur al loco, ove tolte ancor rimesse. Sparir poi tutte, e solo il bel Cupido, Lasciar tra fiori a canto alle fresch' onde; Che poi svegliossi, e con vezzoso grido Chiama la Madre sua, che non risponde: Stimando, che sia gita in Pafo, o in Gnido, O in altro loco; più non si diffonde, Ma spiega l' ali al Ciel di più colori, E torna ad impiagar mill' altri cuori. Il suo gran danno il misero non vede, Che chiusi gl' occhi tien d' un velo schietto; E perchè acuti i suoi strali esser crede, Spera, che debbian far l' usato effetto. Incurva l' arco, e com' hò detto, riede A ferir, come suol, questo, e quel petto; Ma, non che penetrar possan nell' osse, Appena i panni segnan le percosse. Da questo avvien, ch' al mondo or non si puote

Nè vera fè, nè ver' Amor trovarsi: Nè un vero par di fide alme divote, Che d' interno fervor possa vantarsi; Poichè Cupido in van fere, e percuote, E sono i colpi suoi deboli, e scarsi; Egli, che la cagion non può sapere, In van si duol, che manca il suo potere. Per questo cade ogni gentil costume, Ogni pregiato, e generoso gesto: Un leggiadro pensier più non presume Di far suo nido in petto, che sia onesto, Le preclare virtù col lor bel lume Escon dal Mondo, e il lascian cieco, e mesto: Quelle al Ciel si ritornano, e in lor vece, Moltiplicano i vizj a diece, a diece. Però voi, Donne, a questi, che sapete, Che vi chiamano ingrate, empie, e crudeli, gl' occhi, gli orecchi, e 'l cor sempre chiudete, Poichè non son più gl' uomini fedeli; Cercan di farvi cader nella rete, E di voi si lamentano, e de' cieli: E quando pur gli usate alcun favore, Per tutta la Città s' ode il rumore. E poichè nè virtù, nè gentilezza Può del misero Amor scontar i danni; Nè vostra grazia, e natural bellezza Può crear ne' lor petti altro, che inganni; Cingete il vostro cuor d' aspra durezza, Sicchè lor falsità mai non v' inganni, Che son del vero Amor le forze dome, E sol riman d' Amor nel Mondo il nome. Per non far dunque error, sicchè a pentire Non ve ne abbiate poi con danno, e scorno; Sdegnate il loro instabile servire, Nè la pietà con voi faccia soggiorno: E rivogliendo il vostro alto desire,

A miglior opre, e a più bei studj intorno Ornatevi d' un nome eterno, e chiaro, Ad onta d' ogni cor superbo, e avaro. LIbero cor nel petto mio soggiorna, Non servo alcun, nè d' altri son, che mia, Pascomi di modestia, e cortesìa, Virtù m' esalta, e castità m' adorna. Quest' alma a Dio sol cede, e a lui ritorna, Benchè nel velo uman s' avvolga, e stia, Esprezza il Mondo, e sua perfidia ria, Che le semplici menti inganna, e scorna. Bellezza, gioventù, piaceri, e pompe Nulla stimo se non, che i pensier puri Son trofeo per mia voglia, e non per sorte. Così negli anni verdi, e nei maturi; Poichè fallacia d' uom non m' interromp e, Fama, e gloria n' attendo in vita, e in morte. SPlendea nel regal Pò chiarezza tanta, Che ogn' altro fiume alle sue egregie sponde Cedea di ricche palme, e di feconde, E grate olive, onde si pregia, e vanta: Ma poichè or presta ombra più lieta, e santa Anco il bel lauro alle sue lucid' onde; Puo sì il valor dell' onorata fronde, Che insino il Mar l' alte sue lodi canta. Se fu virtù, se fu bellezza rara Nell' arbor già, che al gran Toscano piacque, Tutto in questa è via più pregiata, e chiara:

Poichè, se quella in picciol borgo nacque, Questa Mantoa creò, nutre or Ferrara, Degno ornamento alle sue nobil acque. QUesta leggiadra giovanetta, accorta, Ch'or esce in luce, e appar sposa novella, Col suo bel viso, e sua dolce favella, Al Mondo gaudio, e meraviglia apporta. Ogni cor mesto in lei si riconforta, Ogni virtù per lei si rinovella, Ogni Donna, ogni Ninfa, ed ogni Stella Le cede, e riverenza, e onor le porta. Degna è tanta beltà d'alteri onori, Che onestà tenne in se chiusa, qual suole Gemma in or, Sol in nube, e fiore in cespo; Benchè a' begl'occhi suoi cede oggi il Sole, Ed alle guance i più leggiadri fiori, E l'oro agguaglia il crin lucido, e crespo. DI sì pronto, vivace, alto intelletto, Che novella virtù spiega, ed esprime, Di spirto sì profondo, e sì sublime, Certo era indegno uman senso, e soggetto. Maria bellezza eterna, onor perfetto, Della prima cagion delizie prime, Sol degno scopo è a sue celesti rime; Poichè d'Angelo ha stil, voce, e concetto. Non mai chiaro pittor d'ombre, e colori Pinse un volto sì ben, com'ei cantando L'alma figura, in cui Dio sì compiacque.

Degno è perciò d'alti immortali onori; Che il suo ingegno altamente al Ciel sagrando, Molto ardì, molto seppe, e molto piacque. BEn va più, ch'altro altero Or di Sarmazia il Regno, Cui tanto amica sorte arrider piacque; Che il più invitto, e il più degno Re, capitan, guerriero Contempla in te, cui par già mai non nacque Così potessi un dì fuor di quest'acque Mandar ritratto in carte un tal desìo, Ch'ho d'esaltar l'alto, e regal suo spirto: E all'ombra di sue palme, armi, e trofei Dar vita ai versi miei, Ricchi di affetto, e poveri di spirto: Ma poco oso, men spero, e assai desìo; Ch'il suo chiaro splendor dall' Austro all'Orse In vel fosco apparir disdegna forse. E tanto più, che pregio Celeste non patisce, Che il mondo tutto sol l'intenda, e onori; Che il valor, che fiorisce Nel sagro animo regio Vuol, che avanzin le stelle i suoi splendori. Io, che fresch'erbe sol, teneri fiori, Prati, valli, ruscei quasi umil mergo, Usa in semplici versi a rader sono, Come posso alla parte alma, e sublime Erger, con basse rime Scettro, ostro, maestà, corona, e trono, Spada, scudo, alto cor, lancia, ed usbergo? Ciò, che ingegni non pon caduchi, e frali,

Dive imprese cantar, gesti immortali. Chiari trionfi, e spoglie Gloriose, ed eccelse Il Sol pari alle sue non vide unquanco; Ne d' uom saggio ancor scelse Miglior pensieri, e voglie Piu degne unqua non ebbe, e cor piu franco. Se in pace il miro, ecco, nol trovo stanco Mai di dar sante leggi, onesti esempj; E il gran nome adornar d'alti costumi Se in guerra, ecco, ch'ei doma, Ercol novello, L'indomito, e rubello Moscovita, e debella, e Monti, e fiumi; E famoso si fa per tutti i tempi: E il gran senno, e l'ardir, che in esso giace L'altier riduce a' suoi voleri in pace. Io mi confondo solo Immaginando i tanti Pregi, onde il grido suo mirabil suona; E quei superbi vanti, Ch'alzan sua fama a volo Fanno, che piu, che d'uom parla, e ragiona. Cinto, Pindo, Parnaso, ed Elicona, Quando vedeste voi germinar mai Tronco di tanti, e sì bei fregi onusto? E tu casa di Marte, inclita Roma, Quando cinse la chioma In te guerrier, che vincitor augusto Meglio splendesse in fregi adorni, e gai? O gloriosa nostra Età, cui lice Principe aver sì raro, e sì felice. Passo di verso, in verso, Di lode in lode, e varco Un mar di meraviglie alte, e divine, E il mio dir rozzo, e parco Volgo a quest'ampio, e terso

Sol senz'ombra, e principio senza fine; Sperando almen, che in sua virtù, rapine Di me non possa far tempo, nè morte; E che il mio nome, aggiunto al nome eterno Di tanto Eroe con tanta gloria viva: Poichè quantunque io scriva, E scriva ogn'altro stil, per quanto io scerno, Dir non si può, che più splendor gli apporte. Quest'è de cori umili, e l'amo, e il visco, E questa è la cagion, che tanto ardisco. Almo, e beato giorno; Felice il ventre appieno, Onde sì caro parto in luce venne: Avventuroso il seno, Che nutrillo, ed intorno Spendergli il latte, il tempo, e l'opra ottenne. Quel dì del suo natal chiaro, e solenne Splendean Giove, e Ciprigna a mezzo il Cielo, E Zefiro con fresche aure, lascive Scherzando gia coll'erbe, e i fior novelli: L'aria, l'acque, e gli uccelli Vaghi ridean per colli, e prati, e rive. Piovea intanto sui fior manna ogni stelo: E favorìa l'alta vaghezza, e il canto, Di Stefano il gran nome, il Regno, e il vanto. Alma felice, e bella, Che sì bel velo informi, E sontuosa vai d'onor supremi; Il Ciel, premj conformi, Lunga età presti a quella Dignitade, onde ogn'altra abbassi, e premi: Nè sol grazie a te porga onori, e premj; Ma del divo tuo sangue escan felici Mill'altri chiari, e generosi Eroi, Che l'immagine tua mostrin presente. Lieta sorte ridente

Favorisca ogni tempo i desir tuoi E s'hanno onesti voti i Cieli amici, L'alta tua fama, e il seme tuo fecondo, Spero, che a prova durerà col mondo. Fra tanto, tu nelle tue glorie assiso, Non ti sdegnar, che i tuoi leggiadri, ed alti, Pregj alzando talor, me stessa esalti.

1590

TRoppo, Angelo, mi alzate, e penna, ed ago Tratto infelicemente, e in tele, e in carte; Ma voi per mostrar più l'ingegno, e l'arte, Siete or d'alzar la mia bassezza vago. Ben riconosco nel gran stil l'immago Dei vostri alti desir; nè da me parte, Ch'io la serbo nel core, e in rime sparte Ne canterei, ma non è il canto vago. Che a degnamente dirne mi dovea Chiuder Apollo nel terrestre velo La sua Divinità sì bella, e cara; Ma privilegio vostro è così rara Grazia, e tant'altre, che fan scala al Cielo. E ne' carmi spiegar vostr'alta idea.

1590

MEntre trattavi l'armi, Guerriero invitto, e forte, Con le parti dell'animo tranquille, Senza timor di morte, Contro l'infido Belga iniquo, e rio Ti chiamò il Cielo alle sue sante parti; Dopo ben mille imprese, e prove mille, Sol per beato farti: E tu sprezzato questo lungo obblìo, Cagion, che Reggio t'erga e bronzi, e marmi, Al tuo Fattor lieto rendesti l'alma, Portando teco al Ciel vittrice palma.

1590

OR che dal vero l'ombra; Nobil guerrier di Marte, Scorgi, levato agl'occhi il terren velo Là, vè divina è l'arte; E come sol vano pensiero ingombra Noi miseri mortali, Involti in mille mali, Vestito d'un ardente, e santo zelo, Prega per noi, che quì miseri in terra Abbiam continua guerra.

1590

DOnna, di tue virtù celesti, e belle Foran degna corona Le sette ardenti stelle; Ma poichè a te si porge Qua giu sol cosa, che da terra sorge, Ecco, a piè d'Elicona Colta spica di Cerere, i cui cento Grani son tue virtuti, or ti presento.

1590

ANgel del vostro chiaro, alto intelletto. Cui dà la luce chi dà luce al Sole Son frutti i versi miei; che spesso ei suole Mandar suoi raggi eterni entro il mio petto. Eì mi feconda, e senza lui non detto Altro, che rime incolte, e di tal prole, Più che di grazie abbondo uniche, e sole; Ma parla in voi troppo cortese affetto. A' carmi vostri eccelsi, e gloriosi, Cui sol tributo col silenzio io pago; Che non posso lor dar piu degni fregi, Sua corona dà Apollo; e ch'io mi pregi Di lor, di voi ben è ragion, ch'è vago Sempre il mio cor d'ingegni alti, e famosi.

1590

EUro d'ogni altro vento a me più grato, Che dalle ricche parti d'Oriente, Esci veloce, e verso il bel Ponente, Or vai soffiando non qual Austro irato; Del mio Signor Leandro al fortunato Albergo te n'andrai velocemente, Ove spirando poi soavemente Alle onorate orecchie un dolce fiato; Dirai, l'onor le lodi, e gl'alti fregi, Che a sua virtù infinita, al suo valore Si danno or quì, non a' suoi merti eguali. Poscia fede farai, che a tutte l'ore Di lui ragiono, e de' suoi fatti egregi, E ch'a lui del pensier volo coll'ali.

1590

NObilissima Pianta, Cedi, cedi a costei, Che per lo suo valor ceder ben dei; Perchè, se in ogni loco Tu desti estinto il foco, Ella di santo zelo ogn'alma accende: Se tu stai sempre verde, Questa le sue bellezze mai non perde: Se non temi del fulmine il furore, Nulla stima ella il saettar d'Amore: Sei segno di trionfo, e di vittoria, Questa del mio bel sesso è intera gloria.

1590

OR, che sotto l'insegna D'Angel, che in terra vive, Lieto Amore, ed Onore in petto regna; Io di una onesta, ed amorosa schiera Di Donne messaggiera Vengo, e di verdi olive Tra frutti, e fiori altrui le intreccio fronde. Ditel, venti, alla Terra, al Cielo, all'onde. SE intero, o mio Signor, fra le tue sparte Membra serbasti il core, Nido d'immenso amore, Che la tua gran pietà ver noi comparte; Come chiamar potesti Donna, e non Madre, quella, Onde l'umanitade, e il latte avesti? Dunque tanto rubella Del cor la lingua fu? dunque volesti Torti a lei, darla altrui, se d'altro figlio Madre la chiami? o pietoso consiglio, Che così farla vuoi, Come Madre di te, Madre di noi.

1591

DI queste vaghe, ed odorate rose, Angela scesa a noi dagl'alti chiostri, Le vaghezze nascose Nella fiorita tua ricca ghirlanda Non sien; che Amor le manda Del terzo Ciel dal bel Giardin celeste, Anzi fioriscon queste In su le guancie, in su i bei labbri tuoi, Per far eterna Primavera a noi. S'Io fossi, Muzio mio, qual mi dipingi Nelle tue rime, illustre, ed immortale, Render potrei l'amata tua Vittoria, Di cui 'l Mondo si gloria; Ma tant'alto non sale Mio stile, onde acquistar potessi onore A lei d'ogn'altra piu bella, e gentile: Più tosto il suo valore Scemar potrei, col mio dir rozzo umile.

1591

VIeni, vieni Imeneo, Vieni, che d'aureo velo S'ammanta il Cielo, e la nascente Luna Sparge notturno gelo, Mentre, che l'aria al tuo venir s'imbruna. Teco dolci facelle Arreca, e dolci nodi, E con bei modi accendi, e lega i cori; E con tue caste frodi Fa rapina dell'alme ai santi ardori. Vieni, fanciullo ignudo, Ma di fiammelle armato, In te beato; poichè inerme, e solo, Un cor freddo, e gelato Infiammi, vago, sol scherzando a volo. Di verdi ghirlandette T'ornarem l'aureo crine, E con divine voci il sacro Nume, Canterem pellegrine, Insin, che il foco tuo s'arda, e consume. Tu con Virginio amante La bella Flavia amata Deh! tien legata in amoroso laccio: E con la face aurata Arder fa d'onestà l'interno ghiaccio. Mira l'alta bellezza, E la grazia del viso, Che un paradiso asconde entro le rose: Dove chi mira fiso, Vedrà le stelle ardenti, e graziose. Mira l'or crespo, e vago Del crin tra gemme accolto,

Che dal bel volto folgorar si vede, Ove con laccio accolto, Stan sempre unite, e caritade, e fede. A che pur temi, e tardi, Fanciullo amorosetto, E in te ristretto stai? vieni Imeneo, Vieni con casto affetto; Imeneo, Imeneo, vieni, Imeneo.

1591

A Che, Plinio, ti duoli, e ti lamenti, Con interrotti accenti? E che pianti di Cigni, e che funeste Insegne, oimè, son queste? Forse il tuo Brefcia è morto, e i tuoi contenti? Con infelice sorte, Quasi Cigno ei cantò vicino a morte, E fu la Morte ingrata, E più, che mai spietata, S'have la nostra gioja e spenta, e cassa: Sembrò ei celeste in Terra, Ed or fa al tempo guerra: Ah non è morto, dorme, il pianto lassa Per non destarlo, e taci, e mira, e passa.

1592

IO vò cantar ognor per queste rive, E l'aure, e l' erbe, e 'l fior d' Amor cantando D' amorose faville accender, dando Polso alle pietre morte, ed umor prive. Vò con nove leggiadre rime vive Compor gli scogli intorno, e lagrimando, E lusingando insieme, e sospirando Piegar le quercie, e intenerir le olive. E gia sento infiammar gl' arbori, e i rami, E risuonar il Ciel, l' ombre, e le valli Al suon delle mie note, e del mio stile. Sia benedetto il nodo, l' arme, e gl' ami Con che Amor gia mi prese, Amor gentile, Tra i freschi chiari, e lucidi cristalli.

1592

FElicissime voi, Donne beate, Che cercando il Signore, Morto per vostro amore Vivo il trovaste, e benchè nol vedeste, All' Angelo il credeste: E in vece di unger lui, Ristorate, ed allegre foste vui; E con ragion s'ei vi promise ancora La vista sua poco più là d'allora: Or dite pur, com'ei vi disse agl'altri; E fatti Uomini sien da Donne scaltri.

1593

S'Avverrà mai, che ad alcun pregio arrive L'amoroso mio stil, nato di pianto, Sarà vostra la lode, e vostro il vanto, O dell'anima mia luci alme, e dive. Voi le fiamme d'amor nel sen più vive Rinovellando, in me destate il canto, Sol voi dettate, in voi sol leggo quanto Suona la lingua, e la mia penna scrive. Ma perchè più dolce uso un giorno prenda L'amaro suon de' lagrimosi accenti, Bella pietate in voi fiammeggi, e splenda; Che se un dì fien men gravi i miei tormenti, Farò, che il valor vostro allor s'intenda Dalle rive gelate ai lidi ardenti. TU che de' più famosi, e de' più chiari E i corpi, e i nomi ancor chiudi sotterra, E le torri superbe all'ima terra Adegui, e secchi i fonti, e fiumi, e mari; Tu che de' sette colli illustri, e rari, Che un tempo a te fer sì onorata guerra, Vittorioso alfin mandasti a terra Ponti, Colossi, Terme, Archi, ed Altari; Tu, che l'opre non pur di man mortale, Ma d'altissimo ingegno, a Febo grato Ogni nobil fatica alfin distruggi; Alato veglio, che volando fuggi, Al Tempio tuo di tanti fregi ornato, Fra tante spoglie, appendi anche il mio male.

ECco l'Alba rugiadosa, Come rosa, Sen di neve, e piè d'argento, Che la chioma innanellata, D' or fregiata, Vezzosetta sparge al vento. I ligustri, e i gelsomini, Da i bei crini, E dal petto alabastrino Van cadendo, e la dolc' aura Ne ristaura, Coll' odor grato, divino. Febo anch' ei la chioma bionda Fuor dell' onda, A gran passi ne discopre, E sferzando i suoi destrieri, I pensieri Desta in noi delle usate opre. Parte il sonno, fugge l' ombra, Che disgombra Febo già col chiaro lume La caligine d' intorno; Ecco il giorno, Onde anch'io lascio le piume; E infiammar mi sento il petto Dal diletto, Che in me spiran le tue Muse; Cui seguir bramo, e s'io caggio Nel viaggio, Bel desir teco mi scuse. Ma se avvien, ch' opra gentile Dal mio stile

L'alma Clio già mai risuone, Si dirà, sì nobil vanto Dessi al canto Del Ligustico Anfione. SE formasser le Stelle umani accenti, Dirian, che quanto avean bellezza in loro Sparsero in questa, che più, ch'altra onoro, Per mostrarsi quaggiù ricche, e possenti. Ma non ragionan le due stelle ardenti Di quel bel volto, e quella chioma d'oro? Non dice il riso, dal celeste Coro Venni, a bear le pellegrine genti? Fortunati mortali, aprite il seno, E l'alma voli entro la nobil luce Degl'occhi, ond'anco esser fenice io spero. Di Marfisa l'angelico sereno Sgombra la mortal nebbia, e qual sentiero D'alta bellezza, al sommo bel conduce. MEntre, quasi liquor tutto bollente, Il liquefatto vetro alla man cede, Qual più brama l'artefice prudente Forma vaga, e gentil prender si vede; Così mentre vivesti, entro l'ardente Fiamma, ch'io gia destai, forma ti diede Amor, più, ch'altro mai fabbro possente, Della tanto da lui gradita fede. Ma come perde ogni calor in breve Il fragil vetro, e di legger si spezza,

Spargendo alfin le sue fatiche a terra: Così della tua fè l'ardor fu lieve; Debil percossa poi d'altra bellezza Spezzolla, e il mio sperar chiuse sotterra. AMor, d'amor ardea Per la vezzosa, e bella Amorosa Nigella, Ed a lei, come a riverita Dea, Lasso, fe sagrifizio del mio core: Ah sorte iniqua, e rea, Di Nigella è l'onore, Di Cupìdo è la gloria, e mio il dolore. STandomi a piè d'un orno, Vidi la bella mia, leggiadra Clori, In un prato di fiori, Che per farsene adorno E l'aureo crine, e il delicato seno, Ne avea già il grembo pieno; Ma dir già non saprei, Se la mano di lei più ne tolgea, O se il pie vago più ne producea. DI beltà, di valor sei, Clori mia, Adorna sì; ma vaga a noi risplendi Col l'altrui doti. Ah, che se altrui le rendi Non hai di tuo, che ferità natia.

Il riso, il moto altier, la leggiadria Rendi alle Grazie; il foco, onde m'accendi Ad Amor; al Sol l'oro, onde mi prendi, E degli accenti il suon rendi a Talìa: Gl'occhi alle Stelle, e dell'amato volto Le fresche rose, e i gigli a Primamera, Ed a Ciprigna il bel, le perle al Mare: Le parole a Mercurio e dolci, e care, Ed a me rendi il cor, che tu m'hai tolto; E resta a voglia tua crudele, e fiera. ONor de' miei sospir, luci serene, Ch'ancor da lungi il sen m'ardete, quando Fia, che l'avido sguardo in voi girando Soavemente ogni mia voglia affrene? Celesti rai, s'unqua da voi mi viene Mercè di quel dolor, che lagrimando L'alma sostien, sarà diletto amando, Che pareggi il piacer delle mie pene? Folle, che spero? oimè, benchè vi piaccia Far le oneste mie voglie un giorno liete, Come potrò gioir se non hò core? Deh s'avvien mai, che Amor giunger mi faccia Là vè Febo ha per voi luce maggiore, Almen per breve spazio il mi rendete. QUel volto, ch'io sospiro, quel bel volto, Che fa de' cori altrui quant'egli vuole, E che me stesso a me medesmo ha tolto Oggi vedrò pria, che tramonti il Sole.

Vedrò colei, ch'ha nelle guancie accolto Misto color di gigli, e di viole, Quella, cui sempre il mio pensiero è volto, E per cui d'avvampar nulla mi duole. Vedrò le chiare, e folgoranti Stelle Sfavillar delle grazie alte, e divine, Che fan, con lor piacer l'anime ancelle: E queste a lei sì care tortorelle Porterò lieto, e queste mattutine Rose, di cui non ha l' Alba più belle. A Che più tardi, a che non sorgi Aurora? Bella Ninfa del Ciel recane il die: Invida forse delle gioje mie, Fai collo sposo tuo tanta dimora? Pietoso il Sol brama dal Gange fuora Uscir, e tu crudel l'usate vie Ancor non segni? ah queste voci pie Destin la nuncia tua, la tua dolce Ora. Nisa bearmi al novo giorno intende, E tu pur giaci, e il mio pregar, dal seno Dell'antico Titon mai non ti svelle? Ma se il giorno costei pur mi contende, Sorgi tu Nisa; e vedrem poi, non meno Al Sol degl'occhi tuoi sparir le Stelle. SE pur è ver, che sfavillando fuori Escan dagl'occhi miei fiamme cocenti, E ch'io da lunge folgorando, avventi Sguardi amorosi, ond' ardo, e struggo i cori

Già non puoi tu di vie più gravi ardori Temer così, che di bear non tenti Me di tua vista, e dei soavi accenti, Onde l'aure addolcisci, e il Mondo onori. Nei giorni estivi tra notturni erranti, Splende vaga Lampiri, e il foco stesso Rassembra, e nulla scalda, e tal son io. Ma se per me lontano arde il desìo, Or non è privilegio degli amanti L'arder da lungi, e l'agghiacciar dappresso? COme spero trovar riparo, o schermi Contro l'ardente, ed ostinata voglia, Che in me raddoppia l'angosciosa doglia, Mentr'io non oso del mio mal dolermi? Deh, sana tu questi miei sensi infermi, Signor, e dei pensier frali mi spoglia; E pria, ch'io lasci la terrena spoglia, Scaccia dal cor questi amorosi vermi. Io, qual folle Narciso un sogno un'ombra Piangendo seguo, e son vicina a morte, Se a venir troppo il tuo soccorso tarda. Deh, cangia in lieta la mia trista sorte, Ogni affetto mortal da me disgombra, E l' alma per te nata in te solo arda. QUal ruscello veggiam d' acque sovente Povero scaturir d' alpestre vena, Sicche temprar pon le sue stille appena Di stanco pellegrin la sete ardente;

Ricco di pioggia poi, farsi repente, Superbo sì, che nulla il corso affrena Di lui, che imperioso il tutto mena Ampio tributo, all' Ocean possente. Tal da principio avea debil possanza A danno mio questo tiranno Amore, E chiese in van de' miei pensier la palma; Ora sovra il mio cor tanto s' avanza, Che rapido ne porta il suo furore A morte il senso, e la ragione, e l' alma. D'Amor, di lui, che il cor mi strugge, e sface Doler mi voglio con pietosi accenti, Or, che il Cielo, la terra, il vento tace. Alato Arciero, oimè, perchè consenti, Che quel, che in terra adono unqua non degni Gl' alti pensieri, e miei sospiri ardenti? Se di lagrime son bagnati, e pregni Quest' occhi miei, anzi due vivi fonti, Tu il vedi, Amor, che tal' arte m'insegni. Sola tra queste valli, e questi monti Scorro vagando, e sospirando dico, O passi sparsi, o pensier vaghi, e pronti! Io chiamo l'empio mio dolce nemico, E gli rimembro ad alta voce, come Proverbio ama, chi t'ama è fatto antico. Per lui, le cui maniere, il viso, e il nome Porto nel core, ho tanti affanni, ch'io Non ho tanti capelli in queste chiome. Nel procelloso mar del pianto mio, Spinta dal vento di caldi sospiri, Passa la Nave mia colma d'obblio. Deh! quando avranno fine i miei martiri,

Se a schiera a schiera, oimè, nascer li veggio, Ove, ch'io posi gl'occhi lassi, o giri? Così corro al mio fin, nè me ne avveggio, E perchè i giorni miei sien crudi, e rei, Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio. Quanto io v'ami, o mio Sol, mostrar vorrei, Ma senza prove, o spirto di mia vita, Non vedete voi il cor negl'occhi miei? O miseria d'amor sola, e infinita, Fuggo me stessa per seguir altrui, E bramo di perire, e chieggo aita. Conosco ben, ch'io non son più qual fui; Languisco, e moro, e sol questo mi avviene, Per mirar la sembianza di colui. Ei non mi danna, e non mi trae di pene, Nè si mostra al mio mal crudo, o pietoso, Ma pur, come suol far, tra due mi tiene. Così lo stato mio sempre è dubbioso, E se scoprirgli il mio pensier mai bramo, Tanto gli hò a dir, che incominciar non oso. Io pur son presta come pesce all'amo, O come Dam ma da veloci cani, O come novo uccello al visco in ramo. Quanto sieno i suoi colpi acerbi, e strani, E quanto ardenti sien le sue facelle, Amore, io il so, che il provo alle tue mani. Nemica destra il cor mi sparte, e svelle, S'avvien, ch'io vegga, per mia fiera sorte Torcer da me le mie fatali stelle. Romita valle del mio mal consorte, E voi frondate selve, e cavi sassi, Quante volte m'udiste a chiamar morte? Qual aspe al mio parlar quel crudo stassi, E pur lo prego, e vado notte, e giorno Perdendo inutilmente tanti passi. Io doverei fuggir quel viso adorno,

Ma seguon gli occhi il lor vivace lume, Ed io, che son di cera al foco torno. Avrai, fera crudel, sol per costume Di goder del mio duolo, e trarmi sempre Dagl'occhi tristi un doloroso fiume. Sostener de' miei guai le dure tempre, E l'alterezza tua soffrir tacendo, Per me non basto, e par, ch'io me ne stempre. Ahi, che convien, ch'io mi disfaccia ardendo, Seguendo ognor l'incominciata impresa, Ond'ho già molto amore, e più ne attendo. Da un amoroso tarlo ho l'alma offesa, E mi sento a morire, e non mi giova Nasconder, nè fuggir, nè far difesa. Non è chi al pianto mio si pieghi, o smova, Ed agli affanni miei son congiurate Le stelle, il Cielo, e gli elementi a prova. O chiare luci, che le mie infiammate: O de' pensieri miei porto felice, Di me vi dolga, e vincavi pietate. Vivrò, misera, me sempre infelice, Sicchè sperare altro non posso amando: Tal frutto nasce da cotal radice. Ma mentre vado, oimè, pace gridando, Non m'ascoltano fuor, che i boschi, e l'onde, In tristo umor vo gli occhi consumando. Ahi pria, che sieno al mio voler seconde Le indurate sue voglie, mancheranno All'aere i venti, alla terra erbe, e fronde. Amor crudele aggiunge danno a danno, Perchè nel regno suo mai sempre viva, Pascendomi di duol, d'ira, e di affanno. Così d'ogni speranza in tutto priva, Di pene sazia, e di piacer digiuna, Sempre convien, che combattendo viva. Ma spariscon le stelle ad una, ad una,

Convien, che aspetti a disfogar miei guai, Che il Sol si parta, e dia loco alla Luna. Disprezzato mio cor fa tregua omai Con le miserie tue nojose tanto; Non pianger più, non hai tu pianto assai? O sia quì fine all'amoroso canto. IO vi prego, begli occhi, Occhi, per cui soavemente io ardo, Che solo nel mio petto, Nel mio cor solo scocchi L'acuto strale del bel vostro sguardo: Ecco lieto io l'aspetto; Deh! non volgete altrove Quei colpi, onde il mio ben sì largo piove; Affin, ch'altri non sia A parte meco della gioja mia. DImmi, lasso mio core; Quando avrà fine il mio sì lungo errore. Incauta, come vuoi, Ch'abbiano fine i miei martiri, e i tuoi, Se di me ti privasti, Ed a chi non mi vuole m'inviasti? Ei non mi vuol, tu mi ricusi, ond'io Odio lo stato mio: Dunque non avrà fin sì dura sorte? Non avrà fin già mai, se non per morte.

AMor, empio tiranno, Che in tanto affanno m'hai tenuto avvolta Dalla Ragion guerriera Dopo lungo contrasto in fuga spinto Alfin sei stato, e vinto. Son dai lacci disciolta, Che mi trassero un tempo prigioniera; La ingiusta mano, e fiera Di te non regge di mia vita il freno: L'amaro tuo veleno, Ond'ebbi il cor infetto Sgombro ho dal petto; or in altr' alma tenta Nuovi trofei; che in me tua fiamma è spenta. Monarca de' martiri, Che de' sospiri altrui sempre ti pasci, E ridi all' altrui pianto, E tal fai guerra all' agitato core, Che nell' aspro dolore Mai respirar nol lasci; Pur or malgrado tuo gioisco, e canto; E pur mi pregio, e vanto Della mia dolce libertà gradita: Quella mortal ferita, Cagion d'ogni mio male, Che col tuo strale aurato mi facesti, Cangiata in cicatrice già vedesti. Cammin pieno d'orrori, Mostro d'errori, padre di bugìa Nemico di pietate; Sola cagion d'ogni tormento nostro: Di Natura empio mostro, Spietata frenesìa,

Tempio di falsità, di crudeltate; Ricetto d'empietate, Mar procelloso, ch'entro a fragil barca, Misero amante varca: Mentitor inumano, Fanciullo insano, d'ogni mal radice, Furor, che rendi l'uom sempre infelice. Si comincia a seguirti Gl'egri suoi spirti in cruda guerra mette: Perde sua libertade, In chiuso laberinto il core intrica, Ad inutil fatica Il collo sottomette; Negl' ampj abissi di miseria cade. Per mendace beltade, Ai singulti, ai lamenti apre la strada; Niente più gli aggrada; Se stesso in bando pone, Odia ragione, e stolto il ben disprezza, Cotanto è l'alma al suo contrario avvezza. Nel seguirti imparai A tragger guai dolente, anzi a morire, Per monti, selve, e piaggie Andai, misera me, sempre piangendo, L'orme di lui seguendo, Che già mi fe languire; E nudrendo nel cor voglie non saggie, Delle fere selvaggie Divenni, àhi crudo Amor, fida compagna: All'aperta campagna Errai la notte, e il giorno, Ogni mio scorno, e doglia ai sassi io dissi, E in mille piante la mia pena scrissi. Così sperai dolente Spegner l'ardente fiamma, indi sottrarmi A morte in simil guisa,

Nè fu perciò, ch'io respirassi unquanco. Che non ti vidi stanco Già mai dal saettarmi; Anzi dall'alma mia sempre divisa, Fui schernita, e derisa. Il mal ebbi sicuro, il bene incerto, E di mia pena il merto, Spietato Arcier, fu solo Tormento, e duolo, e morte: e ch'altro puoi Donar, fabbro d'insidie, ai servi tuoi? Il premio, ch'uom riceve Della sua grave doglia nel tuo regno, Regno solo d'inganni, E' di saper, che la sua pura fede, Non abbia mai mercede Sotto il tuo giogo indegno, Tragonsi inutilmente i mesi, e gl'anni In così gravi affanni, Che impossibil sarà, ch'io gli descriva: L'uom va di riva, in riva Accusando le stelle Empie, e rubelle, e intanto i sordi venti, Se ne portan per l'aria i mesti accenti. Amor, chiunque* Original has "chiunque". disse, Chiunque scrisse, che dal grembo uscisti Della confusa mole Fusaggio in tutto, e disse appieno il vero; Poscia, che nel tuo impero Pensier confusi, e tristi Reggon l'amante; ond'ei si affligge, e duole: Altro nelle tue scole, Ch'una confusion d'amare doglie Non s'impara, o raccoglie: Nelle confuse pene Confusa viene ogn'alma, e dove sei, Empiamente confondi uomini, e Dei.

Taci, Canzon; che ogn'un per sè conosce, Che agl'affanni, e all'angosce, Ad ogni estrema sorte, Anzi a morte sen corre lagrimando Chiunque vive mortal cosa amando.

1594

COme talor le parti levi, e pure Il gran Pianeta fiammeggiante suole Nell'aria alzar dalla terrestre mole, L'altre nel basso rimanendo oscure; Tal dal Mondo fallace, e dalle cure, Che tormentano ognor l'umana prole Alza l'anime belle il sommo Sole Alla parte del Ciel liete, e sicure. Virginia, or poi che dal bel lume eterno Tratta nel vago April de' tuoi verd'anni; Godi là su tra più beatì amori; In me più cari, e più felici ardori Desta, e salir m'impetra agl'alti scanni, Pria, che sul biondo crin mi fiocchi il verno./l> L'Invidia, ch'odioso, e vil tesauro Fassi del mal altrui, vide il valore D'Orazio, che rendea fama, ed onore A queste verdi rive del Metauro; E disse; o fiume, che del vinto Mauro Ti gloriasti, di novo splendore T'adorni, di cipresso nel dolore Ti cingerai, e non di lieto Lauro. A spegner lui mosse però la Parca,

Dicendole, sarà qual Amaranta Sopra di te s'oltre vivendo varca: Ma del torrente, e di quell'alma santa Cresce la gloria non sepolta in arca, Che viva, e bella fra di noi si canta.

1594

RIcciuol, vite feconda Sei tu, che dolce stilli Nettare, e mele nel cantar gli ardori Delle vezzose Ninfe, e dei Pastori; E i fiumi rendi, e il Mar chiari, e tranquilli: T'arrida Bacco, e Giove a tutte l'ore, In compagnia d'Amore.

1596

OFferendo Maria l'Agnel celeste Al sacro Altar, diceva: o Padre eterno, Eccoti il tuo figliol, che nell'interno Del cor mio prese la terrena veste: E benchè ognor sia teco, pur per queste Leggi osservar, che con la mente io scerno, Che desti al gran Profeta, che il superno Ordine tuo seguì con voglie pronte, Tel riconsacro, e con pensier divoti Grazie ti rendo, che il vergineo fiore, E' in mè qual era pria, ch'io fossi Madre. Giuseppe intanto porse ai sacerdoti I bianchi augelli, e tutta con leggiadre Voci, rendevan lode al primo Amore.

RInchiudete le lagrime, serbate, Donne, quel pianto amaro, A più dolente, e lagrimosa etate: Resti il pianto per me, per voi piangete, E per i figli vostri, Che col tempo direte; Beate ben voi siete Già morte, e fuori dei corperei chiostri; E voi, che non portaste Figli nell' alvo od infeconde, o caste. Sì dicea del Signor l'afflitta voce, Portando, ahi lassa, al suo morir la Croce.

1595

QUesto vermiglio fiore. Della Terra, e del Sol pompa, ed onore Dedico, alma gentile, al vostro crine, D' Amor gloria, e splendore: Vive egli in fra le spine, Destando col suo odor l'aure d'intorno, E fate voi soggiorno Fra le cure mortali, Destando altri a spiegar verso il Ciel l'ali.

1596

ERa vicino ad appressarsi il Sole, Al bel Monton, di cui le corna indora, Nella stagion, che il Mondo s'innamora, E la Terra rinova erbe, e viole; Quando le altere luci uniche, e sole, Le luci, che Natura, e il Mondo onora, Lieto ver me voi rivolgeste, allora, Che fiammeggiar sorgendo Espero suole. E quindi avvien, che il core ancor trabocchi Di soverchia dolcezza, e il pianto, e il duolo Fuggon da me perpetuamente in bando Or se tanta virtute hanno i vostri occhi, O gentil Bovarino, e un guardo solo, Perch'arder non degg'io voi sempre amando? QUal Veltro, che le fauci ha già sul dorso D'altera Cerva errante, e fuggitiva, Cui, se rio sterpo se gli oppone, il priva Del desiato suo felice morso; Tal io nel fin dell'amoroso corso, Quando alla speme il cor lieto s'apriva, Mentre prender credea vostr' alma schiva, Trovai vil tronco, che a voi diè soccorso. Ond'or ne prego Amore, e nel riprego, Che dal suo campo omai sterpa, e divella La steril pianta, che gli amanti offende. Voi, Bovarin, mentre io mi sciolgo, e slego Di nuovo al corso, o gentil fera, e bella, Frenate il passo, che a fuggire intende.

1596

QUal da Corinto in Babilonia sdegno Ti spinse, o forza, onde a cantar di morte Abbi, e d'incesti, o d'altro mal più forte, D'estinto Re, di desolato Regno? Prima cantavi ardor lecito, e degno, Soave riso, e parolette accorte, Repulse, e voglie or infiammate, or morte, E quale ha vero amor termine, e segno. Deh, torna, o Muzio, alle primiere imprese; Loda d'oneste, e belle Donne il nome: Tragico stil non ha maestro Amore. Quinci trarrai più grazioso onore, E cento t'orneran d'allor le chiome, Ch'hai tu dal tempo, e dall'obblìo difese.

1596

NEll'orror, nelle tenebre, nel pianto Riman senza splendore L'alma Città del Vero, Che di Chiara ha goduto il lume santo; E sì grave è il dolore, Che di vederla più lieta non spero, Sin, che con nuovo Impero A noi non torni quella, Spinta dal Cielo, e da benigna Stella: Ahimè, qual crudo Nume, o qual destino La toglie al nostro suolo, La rende al patrio lido, Per bear lui col suo lume divino?

O almen per minor duolo, Poichè tornar dovea nel suo bel nido, Deh perchè il tempo infido Non ha per nostra aita Più differito il dì della partita? Langue Verona, ed i suoi mesti lumi Ad or, ad or volgendo Par di sua vita incerta, E che a mirarla più, più si consumi, Ed io seco piangendo, Ammiro quel, che meraviglia merta; Com'io non mi converta, E liquefaccia in onda, Quasi Aretusa a questa età seconda? O pur mentre formar flebili accenti Con interrotte voci Per un dolor sì grave M'affanno, ed odon molti i miei lamenti Non prenda ale veloci, Qual Filomena, ed il cantar, ch'ell'have, E in suon mesto, e soave Agenti, a fiere, a foglie Non spieghi amaramente le mie doglie. Ahi Patria già felice, or infelice, Quanto di te mi pesa, Poichè il tuo ben si parte, Anzi ciò, che di bello ogn'uno dice Sotto la face accesa Del Pianeta maggior, che il dì comparte, Trovarsi in ogni parte: E quel non è tuo figlio, Che non piange il partir di sì bel Giglio. Canzon, poich'io non posso, Va tu con quella Dea, Che Chiara con più lumi il Mondo bea.

1597

GL'occhi, che al Sol tolgon la gloria, il crine Onde suol tesser le sue reti amore, La guancia, il cui natio puro colore Vince le rose colte in dure spine; La bocca, onde parole peregrine Con suprema dolcezza escono fuore: La man, dove per farsi eterno onore, Pose grazie Natura, alme, e divine; L'andar, lo star, che fa stupir la gente, La cortesìa, che posto il duolo in bando, D'empir l'alme di gaudio han per costume Sono l'alta cagion, che in voi mirando, Lodovica gentil, terrestre Nume, Del cibo degli Dei pasco la mente. BEnchè il vostro gentil, caro consorte Deposto ha in Terra il fral, terreno manto, Pur voi, di senno albergo, al duolo, e al pianto Dovreste, Emilia, omai chiuder le porte. Perch'egli or più, che mai lunge da morte, Là dove sempiterno è il riso, e il canto Il frutto del suo oprar perfetto, e santo Prende dal Re della superna Corte. Indi parmi d'udir, ch'egli a voi dica: Sotraggi, o Moglie, il core a quella noja, Che il tuo ver me discopre acceso affetto: Poichè io tornando alla gran Madre antica L'alta gloria fruisco, e l'alta gioja, A cui l'uom giusto è sol per grazia eletto.

S'Io il feci mai, ch'io venga in odio al Cielo, Sicchè mi sien contrarj Uomini, e Dei; S'io il feci, le mie luci i raggi bei Unqua non veggian del Signor di Delo; S'io il feci di Vulcan l'orribil telo L'estremo fine apporti a' giorni miei; S'io il feci, tra gl'inferni spirti rei Coll'alma scenda il mio corporeo velo: Ma s'io nol feci, il Rè dell'Universo Tosto m'accolga nel suo santo albergo, E a te perdoni il fallo empio, e perverso. Così al Consorte Margherita disse, Quand'egli ogni pietà lasciando a tergo, Il bel petto pudico a lei trafisse.

1597

ITe, spirti divini, ove son l'ali Al tempo incise, ed alla morte i denti, Che già sovra il confin degli elementi Lampeggian l'opre vostre alte, immortali: Già vi vede, e v'ammira, e con fatali Lumi vi cinge nella gloria ardenti Apollo, e al Ciel vi scorge, ove gl'accenti Vostri, a quei di là su s'odono eguali. Già le Muse col Turro il lor soggiorno Cangiaro; e son da voi più dolci rese Quell'armonìe, di che suonò Parnaso. Così, disse la Fama e il grido intese, Pien di gioja, e stupor l'Orto, e l'Occaso. E restò il Mondo al vostro nome adorno.

1598

SE del sereno Ciel divino ardore D'alcun mortale accese il petto, e l'alma Acantar mai d'altrui l'eccelse lodi; Ora benigno in me sagro furore Spiri, perch'io riporti illustre palma, Mentre, ch'in chiari, ed in sonori modi Spiegar del Contarini i nobil gesti Io tento, e di sua gloria il chiaro lume: Stenda per me le piume L'alta Fama immortale, onde non resti Loco alla trista invidia, onde l'infesti. Quest'un col suo saper contempra, e adegua In concorde voler menti diverse, Scaccia dall'alme altrui sdegni, e rancori; Colà; dove odio fu, vuol, che amor segua, E l'empie voglie altrui resti disperse, E cedan l'ire, e i pravi ostil furori: Rara virtù degna d'eterni fregi Al bell'animo suo sola conforme, Cui vien, che santo informe Pacifico desìo: sovrani pregi Sole glorie di lui, bei privilegi. Come in torbido Ciel raggi spargendo Di chiaro lume Apollo intorno sgombra Nebbie, e vapori, e un bel sereno adduce: Questi così fugando, e dispergendo Anoi del Vizio reo d'intorno l'ombra Porta col suo valor candida luce; Dell'Itatica Atene il quieto impero Gode or per lui questa beata gente; Nè gl'empj danni sente D'una mano rapace, e d'un cor fiero; Gode stato più bello or del primiero. Pietà, Giustizia, e Providenza, l'opre

Son di sì chiaro Duce, ond'ei risplende, Onde varca il suo nome Abila, e Calpe; L'ignudo poverel pasce, e ricopre; A ciascun ciò, ch'è suo comparte, e rende: Il gonsio Mar, l'inaccessibil Alpe, E' fral intoppo alle sue voglie accese, Che provide elle fan Cavalli, e Navi, Onde l'arche sian gravi, Nè sian la biada, e l'esca altrui contese, Tanto ei del ben altrui cura si prese. Ben mi sprona un desìo candido, e puro, Perch'io canti sì degno alto soggetto, Ma il poter al voler non corrisponde: L'ingegno mio cinto è d'un velo oscuro; Anzi per troppa luce ora è imperfetto Il suo lume, e s'abbaglia, e si confonde: Ma di pronto desire, anima grande S'appaga; e il Mar, che tanti fiumi accoglie L'acque da un rivo toglie Ed ei ciò gradirà fra memorande Lodi, che varia vena a lui ne spande. Canzon, povera, e rozza tu ti mostri A lui, che tanto intende, e tanto vede; Suo valor molto chiede; Ma se non hai le gemme, gli ori, e gl'ostri Ti sian fregio non vil tuoi puri inchiostri. Pianta chiara, e feconda, Ceppo d'illustri Eroi, Che inviti ogn'uno a' tuoi celesti ardori; Co' tuoi sovrani onori, Chi fia, che i pregi tuoi Possa cantando celebrar in rime? Qual fia stil sì sublime, Che tanto osi levarsi, Se sono i versi alle tue glorie scarsi?
QUanti son del tuo Sposo i pregi illustri, Onde eroico valor lo rende adorno Tante son le tue lodi, i merti tuoi; E se nel tramontar di questo giorno, Immergendo nel Mare i giorni suoi, Promette a noi più luminosa Aurora, Da tue virtuti ancora Ne trae gloria, ed onore Il Mare, il Mondo, la Natura, e Amore. O de' tuoi cari, ed amorosi spirti, Almo Padre, e fecondo, Se resse Alcide le celesti sfere, Oggi s'inchini il Mondo Alle tue glorie altere: Febo i lauri ti cede, e la tua cetra Tanto fra noi vera virtute impetra, E tanto puote il tuo divin furore, Che ne ha fiamme il cor mio, la penna onore.

1600

SE di lagrime triste, e di sospiri Rendono i sensi l' anima dolente, Onde avvien poi, che noi così sovente In seguir lor volgiam nostri desiri? Di doglia ognor si pasce, e di sospiri, Chi far le voglie vuol paghe, e contente Di terrena beltà, che il ben presente Convien, che in van si cerchi, e si sospiri, Dunque accesi d'amor santo, e di fede, S'aspiri al Ciel, mentre abbiam tempo ancora, A ricever de' falli alta mercede. E se il caduco, e fral nostro n'accora, Non si celi a colui, che il tutto vede; Che peccò il gran Profeta, e in Ciel s'adora.

1600

MEntre risuona il Ciel fin sovra l'Orse Gli alteri nomi, il senno, e la beltade Di chi la fama tor cerca all'obblìo; Alto, e nobil pensier per alte strade Oggi guida a cantar le non più forse Udite pompe l'intelletto mio: Se il soggetto sovrano, al gran desìo Non rompe il corso, e non ammorza il lume, Che di Parnaso m'apre il bel sentiero, Farò tal fede al vero Sovra l'uman costume, Che l'udiranno ancora i Persi, e gl'Indi. Pur dianzi irato Marte, e quinci, e quindi

Scorrendo della Gallia il vasto seno, Il bel Paese ameno Coll'armi offese; ed ora il Ciel risplende, Che a rifar largo il commun danno intende. Questa scesa dal Ciel beata, e bella A darne saggio dell'eterna vita, E lieto il Mondo far della sua vista; Nell'età sua più verde, e più fiorita, Simile a cui, nè Sol vide, nè Stella Donna, che ha in sè pietà con rigor mista, Quel, che in molt'anni a gran pena s'acquista Oggi in brev'ora in real nodo avvinta, De' più chiari scrittor si rende oggetto. Nel giovanile aspetto Da saggia man dipinta Leggiadra maestà si scorge, e vaga, Onde non sol di veder lei s'appaga, Ma d'onorarla, e di servirla il Mondo; E l'onestà, che al fondo Cadde, e la cortesìa risorgon, donde Ogni viltà per lei si fugge, e asconde. Immensa, ed infinita potestate Dio mostrar volle allor, che in un raccolse Quel, ch'egli in cinque dì creato avea, E l'Uom formò, dov'egli insieme accolse Intelletto, memoria, e volontate, Che n'appresentan la sua santa idea; Nè quì formò, che Donna, o immortal Dea Nell'alta mente sua stampar dispose Per farne il secol nostro appien beato: Onde l'occhio voltato Alle più gloriose Sue rare meraviglie, e le più eccelse, In fra le belle la più bella scelse; E senza offesa delle più perfette Alme sante, ed elette

Ne adornò lei, che a tanto onore elesse, E l'uno, e l'altro Mondo in quella espresse. Formò il sommo Fattor tanto eccellente D'alma, e di corpo il nobile composto Di questa al Regno della Francia eletta, Che all'intelletto mai non è proposto Oggetto alcun, che non erga la mente A contemplar in Dio cosa perfetta: L'alta memoria sua in sè ristretta Riserva ogni suo dono alto, stupendo, E grata a lui dal cor mai non la svelle. L'opre sue grandi, e belle In sè stessa scorgendo Sormonta, e coi pensier senili, e santi Al gran dispensator si ferma innanti: Indi, poichè ha compreso il sommo bene Torna, e quello ritiene Nel cor più tempo, e si ricorda a gara D'esser fattura al suo Fattor sì cara: Quindi è, che come l'intelletto brama Il vero, ed altro a quel più non conviensi Così la volontà ricerca il buono; Il buono ella desìa, del buono i sensi Saziar vorrebbe, e il ben più ch'altro ell'ama Di cui ripieni in Ciel gli spirti sono: Onde levata nel più alto trono La Giovane reale, ama in sè stessa Del nostro Creator l'alma sembianza, E nell'amor s'avanza; Che in sè conosce espressa Dell' altre cose pur l'immagin vera; E perchè la beltà si vegga intera, Natura ogn'arte usò per formar lei, Che gli Uomini, e gli Dei Con la bellezza infiamma, e bella sola A quante oggi son belle il pregio invola.

Questa è la figlia dell'antica Flora, Madre di quegli Eroi, che in pace, e in guerra Han de' Regi maggior seguite l'orme: Eroi, che al vasto Mar, all'ampia terra Vedere han fatto, e veder fanno ancora Degli Augusti, e dei Titi in sè le forme. L'armate schiere, e le superbe torme, E gli scettri, le statue, e le corone Fan di ciò fede, e le Cittadi, é i Tempj. Nè solo in questi esempj Par, che rimbombi, e suone Di lei il gran nome, e la real grandezza, Che ancor illustra imperial grandezza, Cui dal ventre materno apportò seco: Nè il Latin vede, o il Greco Donna, a cui più si mostri a ciascun atto Della gran Caterina il ver ritratto. Quel, che a Donna sì bella è fatto sposo E' quel gran Rè, quel grande in cui si scorge Di grandezza, e virtù lo vero esempio. Già si rallegra Francia, e già s'accorge, Che a Semideo sì caro, e glorioso Porrà la nostra età la statua, e il tempio. Questi è quel Rè, ch'a' barbari fatto empio, Pietoso a' buoni allarga all'onor l'ali, E col valor gli accresce ognor le penne: Nè mentre si sostenne Dedalo in aria, tali Piume innalzò, che il Re non si sia visto Con più alti pensier volare a Cristo: Onde gran Cavalier dentro al Mar corra, E la terra discorra. Se il Cielo a' santi suoi desiri arride, Altro Ulisse il vedremo, ed altro Alcide. Un Re, che trae dal nono Lodovico L'origin, di cui fur l'opere vere,

Degne del Cielo; un Re, che con la lancia Fatt'ha gran prove in mezzo a armate schiere; E riponendo nel suo onore antico I Gigli d'oro ha esaltato Francia; Ferita con la spada a' rei la pancia, L'un tempestoso Mar tra l'onde, e i scogli, Di due corone ornato ha le sue chiome: Ed insegnato, come Si raffrenin gli orgogli Di chi col folle ardir vien poi pentito: Un Re il più generoso, ed il più ardito, Che da Cesare in quà vestendo maglia Andasse mai in battaglia: Un Re sempre invittissimo, oggi piega Il collo al giogo, ove Imeneo lo lega. La real cortesìa, la pietà grande, Il magnanimo cor, l'armi e la fede, Che a' Franchi già apportar le vere glorie, Rinovellan in lui quel, che si vede Degli Avi antichi suoi, di cui si spande Il nome impresso in marmi, in bronzi, in storie. Alti gesti, alte imprese, alte victorie De' Clodovei, de' Carli, e de' Luigi Illustran Francia, e tutto il Mondo insieme; Le cui provincie, estreme L'alma Roma, e Parigi L'han visto, e sanno, che già venne manco Per le man degli Eroi del regno Franco Il Longobardo, ed altri a Dio rubelli Fur più volte da quelli Difesi i buoni, e ne mostrar, che costi Aver gli oppressi in libertà riposti. Questi son gli splendor, queste le pompe, Alle quali aspirato ha il saggio, e forte Enrico, riserbato all'età nostra, Per far oltraggio alla seconda morte,

E contra il tempo; che il mortal corrompe Conservar quel, che l'alme imperla, e innostra A far di sè pomposa, e bella mostra. Già venne in campo cavalier, là dove L'onore, e la pietà chiaman gl'Eroi: Già volto ha i pensier suoi A far di sè gran prove, Per santa Chiesa, e contra il Re de' Traci; Onde con non più forse udite faci Al suo valore appender più d'un voto Lieto, pronto, e divoto Nostro secol vedrem, nel sacro ardore Delle sue laudi acceso, e dell'onore. Coppia gentil, magnanima, e reale, Da cui s'attendon gloriosi gesti, Che splendan chiari a paragon del Sole: Ruotin le stelle, e i bei segni celesti In aspetti felici, onde immortale Nasca di voi serena, inclita prole: Già quel, che a pochi dar Natura suole; Qual dal Caval Trojan da voi s'aspetta Uscir di Semidei schiera famosa. Già è nostra età bramosa Di veder gente eletta, Che trionfi per Cristo in Vaticano, E a noi ritorni il buon Saturno, e Giano; E se non mente il Cielo, e il valor vostro Ricco di perle, ed' ostro Fia reso al secol nostro il sagro alloro, E rivedrem la bella età dell'oro. Dunque un sol foco i due cor vostri incenda I due voleri un solo nodo stringa, E le due alme alloggi una sol carne; I due volti un colore orni, e dipinga A voi, Signori; e sol da voi s'apprenda Quanto un celeste amor di buon può darne.

Quel, che felici a suo voler puo farne N'accenna già, che questa union santa Fia, come in terra fertile piantata, Da man saggia allevata, Fecondissima pianta, Che germogliando ad ora, ad ora, illustri Rami ne produrrà per tutti i lustri, Che ne' marmi lasciando, e negli scritti Nomi d'Eroi invitti, Sempre udirsi faran per ogni lido D'Enrico, e di Maria la fama, e il grido. Canzon, mentre per l'alto Mare delle lor lodi Spieghi le vele, il nome lor gentile Offendi col tuo basso, e rozzo stile: Basti sol dir, che nel desìo di gloria Avanzin la memoria Di quegli antichi, che di sè lasciaro Un nome sempre illustre, e sempre chiaro. MEntre alla gloria i pensier vostri alzate, Per più illustrar di nome, e di splendore La Senna, e l' Arno, al vostro alto splendore Eterni scritti dee la nostra etate. Fra l'altre vostre alme virtù lodate, Un campo franco è fatto il vostro core, Gondi gentile, v' per cagion d'onore Son due guerriere alteramente armate. Prudenza, e cortesìa, l'una coll'armi, Che difendon il Ben, l' altra con quelle Per cui le grazie se ne vanno altere; Gran contesa è fra lor, gran prove, e belle, Le forze eguali, onde ne fan vedere, Che degne son di pari prose, e carmi.

1605

IN molte cose il Ciel mi fu cortese; E sempre il dissi, e son per dirlo ancora, Ma più nella stagion, che ornata Flora A inghirlandar di nuovo il Tauro prese: Che gli Uomini, e gli Dei stupidi rese Il parto mio, che diedi in luce allora; Per cui d' Adon, la Dea, che Cipro onora Lasciò la traccia, e al mio bel Sole attese. Non d' Aci Galatea più si ricorda, Ma allo splendor d'un crespo, e biondo crine Spera lieta asciugar la chioma, e il ciglio. Febo omai di Giacinto il duol si scorda, E bellezze più rare, e pellegrine Mira: di Giove sol temo l'artiglio. O Quante volte i limpidi ruscelli, Per cristallo servito han questa chioma; O quante volte ai fior varj novelli Furo le membra mie gravosa soma; O quante volte ad emular gli augelli Ornai la lingua mia d'altro idioma: Ahi! di man non m'avea tratto i capelli Fortuna ancor, nè la mia forza doma. Allor, se avena, o pastorale flauto L'orecchio in qualche bosco mi feriva, Giva coll'occhio ad incontrarlo cauto. Or godea di veder sopra una riva Farsi Ninfe, e Pastor: un cibo lauto D'erbe, e d'un dolce vin d' un' acqua viva.

DAppoi, che morte in sì leggiadre membra, E di sì bei color tinse lo strale, E il mio ben di mortal, fatto immortale, Il faretrato Dio nel Ciel rassembra; Io temo ancor, qualor me ne rimembra: (Ahi troppo aspra memoria) e il cor m'assale Grave martir, che m'ha condotta a tale, Che il tutto cieco, ed orrido mi sembra. Pur tra sì dubbie vie senza consiglio, Sugli orecchj del cor m' intuona morte: Ecco già per ferirti il colpo sferzo. In questa rassereno il core, e il ciglio; Bramosa ad or ad or, che l' alte porte M'apra il mio vago, e salga al cerchio terzo. PRestami i Draghi, o Dea, prestami i Pini Tu, che provasti la medesma rabbia, Ond'io non cerchi sol la ferma sabbia, Ma del Ciel, e del Mar tutti i confini. Ma non so, che il destin di lui destini; Temo, che quel cinghial ferito l'abbia; Conoscogli il mio sangue in sulle labbia, E par, che il mesto cor se la indovini. Ah, che il mio bello Adon disteso langue, E Morte ha gli occhi suoi di morte aspersi, E già in bianche viole il viso involve. E queste amare lagrime, che io verso Oprato han sì, ch' io più non veggo il sangue, Ma sembra agl'occhi miei sol poca polve.

COlei, che fra splendori azzurri, e aranzi, Con le membra di rose, e co' piè d'oro Fa scorta a lui, che vide il primo alloro, E sforza Eto, e Piroo cogl'altri innanzi; Mostra a me quel, che al Ciel salì pur dianzi Per ornar col tuo bel l'etereo coro, E in quella acerba vista il mio tesoro Veggo fatto ombra, e fola di romanzi. Com'orba del mio Sol cieca rimasi Io il so, che il provo, e n'ebbi i pensier colmi D'un funesto* Original has "fnnesto". desìo d'uscir di vita; E di sì avversi, e dolorosi casi Mi dolse allora, ognor dorrammi, or duolmi, Nè volsi, nè vorrò, nè voglio aita. OCchi, Regno d'Amor, dov'ebbe, ed ave Mia vita il cibo, ed il mio cor la stanza: Occhi del vero Dio lume, e sembianza, E degl'Angeli suoi specchio soave: Gloria, e pompa del Ciel, lucida chiave Del mio tesor, ch'ogni ricchezza avanza, Ond'io più volte, ahi dura rimembranza, Il feci al collo mio peso non grave. O rose rubiconde, e pellegrine, Cassa alle perle, e sopravesta aigigli Del viso bel, che fu nel Mondo un Sole. O rete di quest'alma, aurato crine, Qual luce fia, che il tuo splendor somigli? O bramate bellezze uniche, e sole!

COme sarà mai ver, che allegra io canti Con muta lingua, e con le labbra chiuse, Senza il viso, ove Dio tal grazia infuse, Che n' arrossir le rose, egli amaranti? Mai non farebbe Orfeo questi occhi amanti, E non l' ardente Duca delle muse; E chi è cagion, del non poter mi scuse; Che se la vita ha fin l'avranno i pianti. Ma fugge il tempo, e approssima il periglio Del giorno, che vedesti al suon di tromba, Onde morte morrà, ma per me tardi. Ma tu fammi una veste di colomba, E vagliami quel dì, che mi sij figlio, Per placar Dio co' tuoi pietosi sguardi. DAppoi, che morte in morte ebbe conversi I miei pensier sempre morendo vissi; Ed accusando il Ciel più volte dissi: Maledetto sia il dì, che gl'occhi apersi. E d'un freddo liquor, quel viso aspersi, Che adombrò gl'occhi miei d'oscure eclissi; E il mio sperar con lui morendo unissi, E tenebrose notti i miei dì fersi. E da disperazion fatta sicura, Più cose fei deliberata, e franca, Per tor la vita a questo novo inferno. E fu Signor tua providenza, e cura, Che in porto io sia, benche dogliosa, e stanca, Disarmata di vele, e di governo

L'Oro, l'azuro, il bel vermiglio, il bianco Dio tolse al Cielo, e di sua man compose Quelle membra divine, ed amorose, I chiari occhi, il bel crine, il viso, il fianco. Poi fatta l'opra esterior, volse anco La bell' alma crear; l' alma gl' impose Pura, casta, innocente, ove ripose Quanto han gl'Angeli in Cielo, e nulla manco. Ma da tante eccellenze insieme unite, Che dell'opra divina ha noi fan fede, Gran gloria al Ciel, gran danno a noi ritorna; Se la tanto da me difesa lite Vinto ha morte, e ne ha il Ciel sì ricche prede; E con quel, che fu mio sè stesso adorna. AHi, che fui ben d'ogni pestifer angue Più cruda, nè giova or, che me ne incresca; Poiche io perdei nella stagion più fresca Mia speme, ed il mio cor sempre non langue. Nè a par di questo petto, il capo esangue, Onde Perseo trattò l' orribil tresca, E tolse al fiero ceto il lume, e l' esca Altrui non indurò la carne, e il sangue. Nè per me vò, che il Ciel morte impedisca, Che in me non vibri i colpi acuti, ed irti, Per l' alma trar d'ogni salute incerta. Nè da alcun vò pietà, nè alcuno ardisca Di consolar questi affannati spirti; Che nè il mio cor, nè il mio dolor lo merta.

AHi mondo reo più dell' Inferno infido, Fallace mondo assai più dell' Inferno; Ahi Ciel, che tu non odi, o prendi a scherno Gran martir, caldo pianto, e flebil grido. O del tartareo, e tenebroso lido Re, che tieni de' rei scettro, e governo, Pur il caro suo cor dall' imo averno Trasse chi in Tracia ebbe la tomba, e il nido. Ed io col mio pregar non trovo guisa Di poter far ciò, ch' altri far poteo Per ricovrar colui, che piansi tanto? Ebbene il suo sperare Alcide, Orfeo, L' Itaco Duce, e il traditor d' Elisa; Contra il pianto io non spero altro, che il pianto. IN Traccia, e in Colchi un memorabil segno Cogl' Argonauti suoi lasciò Giasone, Nè men fu quel di lui, ch' arsa Didone, Vide, e turbò a Latin l' antico Regno: Ma memoria maggior, segno più degno, O grand'Ortensia, il tuo bel viso pone, Che tragge il cor dal petto alle persone, E collo sguardo sol fa stare al segno. Tu feri mortalmente, nè ferita, Nè sangue appar, nè segno alcun di piaga; E il ferito da te sen loda poi. Ah! che mille darei non, che una vita, Talmente son di tue ferite vaga. Gran miracoli, Amor, son pur i tuoi.

SOpra il carro stellato altera scopre Cintia a' mortai l'inargentato corno, E d' un freddo pallore il viso adorno Cogl' umidi suoi rai la Terra copre: Torna il vago all' amata, e le discopre Le fiamme, che tenea sopite il giorno, E mentre Cintia tien la notte intorno Gode a tanto favor le furtive opre. Ma come appar nel Ciel l' alba novella Altra Cintia veggiam sopra un Coll'Alto Sparger viole anzi rubini, e perle. D' opre caste ministra ardente, e bella; Ma le virtù, che nel mio core esalto Occhio basso, mortal non può vederle. SOpra il candido dorso il vecchio Moro Erga un sì gran soggetto, un stil sì raro, E ben col vasto Ciel può gire a paro Chi uguaglia d'armonia l'empireo Coro. Di smorto salce, e non di verde alloro Coronommi il destino invido a varo; Ed or del tuo bel Sol lume sì chiaro Mi nasconde in un vel candido, e d'oro. Ma tu pennuta Dea, che in ogni parte Spieghii suoi lucidissimi sembianti, Dille, come da me s' asconde in darno. O bella metamorfosi, o bell' arte, Or veggio, or so, che non sarian bastanti D' uguagliar le Sirene i Cigni d'Arno.

1605

LUchesia illustre, vai dall' Indo al Moro Collo tuo stil così leggiadro, e raro, Che ad Omero, e a Maron puoi gire a paro, E ancor decima star nel sacro coro. Cingi pur il bel crin di verde alloro, Che al dispetto d' un velo invido a varo, Traspar di fuor così lucente, e chiaro Che merta un cinto ancor di gemme, e d'oro. E s' io vorrò lodar, almeno in parte, Le leggiadre fattezze, e i bei sembianti, Spenderò l'opra, e le parole in darno; Che vinci la Natura, e vinci l' arte, Ch' anco a lodarti non sarian bastanti I tre famosi nati in riva d' Arno.

1600

IN qual vago giardin colse Natura Le fresche rose, e i bei candidi fiori, Che a' giorni ardenti, ed a' gelati algori Servan la luce lor serena, e pura? Da qual vena ebbe, e da qual ricca cura Quel lucid' or, che in mille vaghi errori Ondeggia sì, che i più selvaggi cori A viva forza lega, e il Sole oscura? Da chi le perle, e i bei rubini ardenti, Che vincer ponno al lampeggiar d' un riso Mille odorati, e lucidi orienti? Ma che dico? il gran Re del Paradiso, De' suoi tesor più ricchi, e più lucenti Formò quel vago, e delicato viso.

SOn questi quei crin d'oro al mondo soli, Ch'empion di luce la terrena mole? Son questi quei begl' occhi, anzi quei soli, Che di lor fanno invidioso il Sole? E questa quella bocca, onde uscir suole, Amor, il suono, onde mill' alme involi? E questo il petto, onde sovente voli Scherzando fra i ligustri, e le viole? E' questa quella bella, e bianca mano Non di Donna mortal, ma di divina, Che a quanto cinge il mar devria porfreno? O quanto è quel pensier fallace, e vano, Celeste Dea, che tua beltà destina, Con natural color ritrarne a pieno. SE miri, o biondo Apollo, Questa bella fugace Dell' amorosa face, Dafne, non è, che al tuo candido collo Pose l'aspra catena, Se ben la luce in Ciel sei più serena; Ma Castità, che già nuda, e smarrita Pel mondo cieco, errante, E del suo vero amante, Di semplice bellezza rivestita, La vera strada addita, e l' opre sante.

MEntre davanti al Re, che il tutto move Diceva umil la bella Citarea; Omai l' Italia al mio buon figlio Enea Concedi, alto tonante, o sommo Giove Dopo tante fatiche acerbe, e nove Vinta sia di Giunon la voglia rea: Giove rispose all' amorosa Dea, Che un mar di pianto da' begl' occhi piove: Non solo tua progenie alta, e divina Terrà d' Italia il fortunato impero, E di quanto il mar cinge, e scalda il Sole; Ma del grande Antenor l' eccelsa prole, Scesa per tante età dal tronco altero Fia de' bei Lidi toschi alta Regina. MEntre del mio bel Sol le lodi intendo Cantar, o musa, a regal merto indegna, La divina virtù sua pur m' insegna, Che solo onorar lui poss' io tacendo. Onde la man ritiro, e il tempo spendo In altr' opre; ma il cor, che questo sdegna Nei pensier mi ragiona: all' alma degna Grato un giorno sarà, se ben comprendo. Non ritrar dunque dalla bella impresa Il destro pie, che al glorioso monte Poggiar suol l' alma, in nobil foco accesa. A questo dir di novo a te la fronte Rivolgo, o Diva; e sto dubbia, e sospesa, Zoppe le forze, e nel desio sol pronte.

POiche le inferne, e le celesti squadre Ebbe quel grande Dio, che ha nome Amore Fatte soggette al suo possente impero; Sen gia superbo, altero Ove il Sol nasce, e more, Delle sue tante glorie, alme, e leggiadre: E con la bella madre Ridea d' aver sotto terrena veste Fatto scendere in terra il Re celeste: Talor schernia lo Dio, che apporta il giorno, Talor Marte feroce, Quando il vecchio Saturno, Quando di Delia il bel lume notturno: E con altera voce, Madre, dicea, chi più ne farà scorno, Se omai la Terra, e il Cielo Giaccion soggetti al mio tremendo telo? ODi quanto il Sol gira, e bagna il mare, E serra nel gran sen l' ottava spera, Più bella, più felice, e più cincera Alma, e di virtù adorna eterne, e chiare. Sì dal bel velo ognor chiara traspare La pura luce tua celeste, e vera, Che d'un divin ardor la mente altera S' accende, e poggia al Ciel per vie più rare. Ivi del suo mortal già fatta schiva, Ode delle tue glorie illustri, e sole Suonar ogni bel colle, ogn' alma riva. Ivi qual' ampio Ciel, che gl' altri move Vede, ma in vista breve, e fuggitiva, Che quanto ha di valor, tanto in te piove.

CHi dalla neve mai candida, e bella Nascer vide le rose, e le viole? Chi sotto ai rai del più cocente Sole Restar intatta, e risplendente quella? Chi d' un pulito ghiaccio alta facella Tragger l'alato Dio, che il mondo cole? Angeliche bellezze al mondo sole, Ben avete del Ciel propizia stella. Non è il vostro, non è poter mortale: Ben lo conobbi un dì, che in voi mirando Punger mi sentì 'l cor d'acuto strale. Ben vidi allor, che di me stessa in bando Potei da questa spoglia oscura, e frale Girne, al più chiaro Ciel la mente alzando. IN dubbio di mia vita or meste, or liete Rime spargendo vo per questi boschi, Siccome tema, o speme, chiusi, o foschi M' apportan giorni, ed ore aspre, o quiete. Ma se vorrà mai 'l Ciel, che il duol s' acquete Col raggio di quel Sol, che illustra i Toschi; E che d' amari, e velenosi toschi Cinta la tema mia s' affondi in Lete; Farò con chiaro stil risuonar queste Ombrose valli, e il solitario lido, E in mille piante scriverò il bel nome. Ma se pur piace al gran poter celeste Ritornar la bell' alma al divin nido, Scarchi a me prima le terrene some.

ECco la fama vostra, almo Signore, Dall' una all' altra piu gelata zona, Volando cinta d' immortal corona Stupir fa l' Indo, e il Mauro abitatore. Ecco di luce adorna, e di candore Sovra il più alto Ciel chiara risuona, Non che in Parnaso, in Pindo, e in Elicona, Sicura omai dal variar dell' ore. Nell' eclitica appena ha il Re di Delo Trenta sei volte in tutto scorso ancora, Dal dì, che un più bel Sol ne apriste al Cielo. Oh, che sia quando giungerà quell' ora, Che quanto di bellezza il terren velo Perde, di tanta più l'alma s' onora? DAll' alto seggio suo, che il maggior seno Appena cape, il superno Motore Volgendo il guardo, che fin dentro al core Scorge ogni affetto più nascosto appieno; Vide il mondo, che pria chiaro, e sereno Giva spregiando il variar dell' ore, Selva d' inganni alto mar di dolore Di mille mostri rei cinto, e ripieno. Onde dell' opra sua gradita, e bella Presolo alta pietà, pensò mandare Chi pronto soccoresse a tanto duolo. E tra mille, e mill' alme a lui più care, Sotto benigna, e graziosa stella Scelse di Ferdinando il lume solo.

PIcciol legnetto, che i tranquilli umori Solchi del tosco mio gran Rege carco, Non pria quel, che solcò l'istabil varco, Che ha luce tra i celesti, almi splendori; Puote alla gloria de' tuoi chiari onori Giunger, nè l'altro, che di tema scarco. Fuor del termin d' Abila angusto, e parco Scoperse degli antichi i lunghi errori. Carchi d' uomin terreni, aspre procelle Solcaron quei, tu di celeste Dio Ricco, ten vai per chiare, e lucid' onde. Onde involarti al sempiterno obblio, E l' aver loco in Ciel fra l' altre stelle Fia poco alle tue glorie alte, e profonde. SE alla chiara virtù, se al gran valore, Ferdinando real, che in sì bel velo Cinta di puro acceso, e fido zelo, Inchina il mondo umile a farvi onore; Volesse Imperio egual l'alto Motore Darvi; la terra, l'acqua, l'aere, il Cielo, Che illustra il chiaro Dio Signor di Delo, Dacche a noi nasce, e ad altra gente more. Picciol certo saria; ne tanto appena, Se tanti mondi in più bel magistero Formasse, quanti grani ha il mar d'arena. Onde, poiche non puote al merto intero Giunger pregio, che il tempo al suo fin mena, Vi diè (ch' il crederia?) d'ogn'alma impero.

DAl Gange, ond' esce il Sole, All' onde Ibere, ove i corsieri affrena, E dalla Licaonia eterna Prole Di cinque stelle alla croce serena, Fra quanto copre il Cielo, Fra quanto cinge il mare, Carchi di fede, e zelo Cantin del nostro Eroe le lodi chiare, Coronati di fiori Le belle Ninfe, e i cortesi Pastori. I pargoletti figli Di lei, che onora il Ciel, non Cipri, o Gnido, Spargan non pur di rose, e bianchi gigli, Ove calca il terren quel Nume fido; Ma d' ogni arabo odore, D' ogni licor pregiato Facciano offerta, e onore, A lui, che solo al Mondo il Ciel ne ha dato Per farne in Terra fede Del sommo bel, che mortal vista eccede. Dall' une, all' altre arene Cercan di puro nettar le chiar' onde; E nelle dolci, non più salse vene Mirin sicuri i pesci l' alte sponde; Nè del gran Tago d'oro Sia sol l' arena mista, Ma d' ogni alto tesoro Dall' Indo al Mauro sia ricca commista; Nè brami avara mano Farne pur un sol gran da lei lontano. D' un sempiterno aprile S'orni, e rivesta il bello, almo terreno,

Sudino mel le quercie, e in dolce stile Lodi ogni augello, il dì chiaro, e sereno Nè velenoso tosco Più nel gran sen s' accoglia; Ma la campagna, e il bosco Sol giovar brami a nostra umana spoglia; E senza altra fatica Produca il frutto a noi, la terra amica. D un temperato raggio Scaldi la terra, il bel Rettor del giorno; Non soffi vento usato, a farne oltraggio; Ma sol lievi aure spirin d' ogni intorno; Nè veli l' aer puro Nube, nè ingombri i poggi; Onde lieto, e sicuro Sotto il gran Cielo, ogni animale alloggi, E in disusate tempre Rotin benigni i Cieli, a noi mai sempre. Il dispietato ferro, Ch'anzi il suo tempo l'Uom spoglia di vita, Solo alla quercia, all'olmo, al faggio, al cerro Dia per uso dell' uomo aspra ferita. Fuggan coll' odio, e l' ira Da noi l' avide brame; E mentre il Ciel s' aggira Cinga l' un l' altro, di santo legame: Onde quel tuo, e mio Più non si dica, che fa l' uom sì rio. Poiche speranza, e pace, E fede, e grazia, e gioja unite insieme, Giustizia, e carità, che tanto piace, E quanto puo bear più l' uman seme, Oggi con Ferdinando, Se per nome mortale Lice l'alto, ammirando Tesor nomar del Rege, alto immortale,

Tornan per dare al Mondo Quel bel secolo d' or lieto, e giocondo. O fortunate genti, Che Appenin parte, e il bel Tireno innonda, Bene avemmo del Ciel gl' alti, e lucenti Aspetti grati, e fortuna seconda: Ben sovra ogn' altro siamo Tenuti al vero amante, Che dacche venne Adamo Non scorse luci il Sol più chiare, e sante; Nè con più fide duci Aperse al Sol già mai mortal le luci. Vattene, rozza, e vile, Timida pargoletta, Vergognosetta, umile, Sol per sentieri incogniti soletta; Nè dell' altera luce, Cerca il favor del tuo sovrano duce. SE le offerte, che a Dio pure, ed umili Porgon l' alme devote Gradisce ei, nè fa gir di speme vote; E pur quest' ampio tondo Impera, e poco è a lui dir Re del Mondo: Questi de' merti vostri alti, e gentili Adorni umili inchiostri Gradite, o solo onor degl' anni nostri; Che con più fido a Dio Cor non s' offrisce dono umile, e pio.

1605

DOnna real, nel cui pudico seno Sol regna alto pensier d' eterno onore, Cui non fe la virtù del forte core Venir morte, o fortuna unquanco meno: Tu sola in questo sì del Mondo pieno Di perigli, e fatiche in certo errore Drizzi i miei torti passi, e il cieco orrore Mio sgombri, col tuo Sol puro, e sereno. Deh ognor benigna al mio desire aspira, Che forse mi vedrai l' altero Monte Poggiar, dove rado orma oggi si mira. E al dolce mormorio del sagro fonte Temprar le corde alla mia rauca lira, E far tue lode, e mie venture conte. DOnna real, nel cui divin sembiante Quanto di ben può darne il Ciel traluce, Onde nasce virtù, ch' erge, e produce Alti pensieri, e voglie oneste, e sante; Ben delle grazie tue sì rare, e tante Il sovran pregio a celebrar m' induce Nobil desir, ma tua divina luce Mal soffre la mia vista offesa, errante. Ond' io pur sembro augel, che incontro il Sole Vacilli infermo, o che poc' alto s' erga Spiegando il vol, con non sicure piume. Ma pur l' alto desir, che il core alberga Lodato fia; che lode anco aver suole Pensier, che ardito oltre il poter presume.

MUzio, che novo Artofilate l'Orsa Nostra della celeste assai più vaga Con fermo passo siegui, ed in ciò paga Tua mente unqua non è, più oltre scorsa; Me il dolce invito tuo sospende, e inforsa, Mentre il desio, che lo mio core invaga Col merto di lei stringo, e ben presaga Son di cader, quand' io non sia soccorsa. Ma se a cantar di lei, pur mi vuoi teco, Da lei m' impetra sì benigno il lume, Che franca in sì gran Mar, mio legno io mova. Se questo fia, senz'altra aita meco Spero solcarlo in guisa, che le spume Contrario vento in van, turbi, e commova.

1609

IO canto, Arloti, e giovanetta ancorà Delle muse m' invoglia alto diletto; Ma della cetra mia suono imperfetto Non osò da quest' aria anco uscir fuora. Nè di fama immortal tromba canora Gode il nome esaltar d' umil soggetto; Di te ridice, e porta il grido eletto Ai confin dell' Occaso, e dell' Aurora. Pur se mai contemplar da presso imparo Di regal Donna il merito gentile Quando, che sia giorno felice, e caro; Che s' oda il canto mio da Batro, a Tile Spero in virtù di lei; che talor chiaro Rende chiara materia un roco stile.

1611

Silano, Uranio.

OVe sì ratto vai, chi tanto affrettati? Ti spinge certo Amor con pensier varj, Che ne canto, o Sampogna più dilettati Cercando vo pe' campi solitarj Del mio bel Sole i raggi lucidissimi, Gli Dei chiamando, a' miei desir contrarj. Perche io spero tra fiere, e monti asprissimi Questa fiera trovar, che non rispondemi, Fingendo non udir miei gridi altissimi? La crudel fugge, e il bel volto nascondemi, Che mi potrebbe in Ciel, fra Dei riponere, E fa, che il pianto ognor negl'occhi abbondemi. Non lascia Amor all'uom di se disponere Or lo lega, or lo scioglie, or l'arde, e agghiaccia; Nè può ragione a' sensi legge imponere. Perduto ho quasi del ben far la traccia; Poiche bella più ch' altra, al core offersemi Della mia Ninfa la celeste faccia. Fillide mia sì dentro il core apersemi, Quando di lei mirai la guancia florida, Che quasi in muto sasso Amor conversemi.

Sil. Piu crudo Amor, che fiera alpestre, ed orrida, Come da gran ragion già spinti dissero Ennio, ed Opilio alla sdegnata Corida. Fuggi lui, vivi tal, quai lieti vissero Senocrate famoso, e il casto Ippolito, Ch' ad Amor co' suoi strali il cor traffissero. Egli qual cauto cacciatore è solito Di tender mille reti, e mille insidie, A puro, cor poi farne strazio insolito. Sotto un manto di ben pianti, e perfidie Sotto un poco di mel, fele, ed Aconito


Cela, e questo è l' oprar nelle sue accidie. S' io nel vederti rimanessi attonito Tel dica questo cor sforzato a piangere Tue pene; or fuggi Amor, prendi 'l mio ammonito

Ura. La grandine vedrassi prima a frangere. L' alte cime de' monti, e oscuro il lilio, E le Tigri il mio duol meco compiangere; Ch' io fugga i lacci suoi, ch' al fero artilio. Tolga il mio core; e l'ammonire è insania; Ch' Amor non vuol d'uom saggio aver consilio Il mio cor dentro al sen s'affligge, e smania Per desio di vedere il volto affabile, Ch' a me fu, incauto augel nascosa pania. Lume degl' occhi miei caro, ed amabile Dov' io troverò te, che puoi accendere Il ghiaccio, e un lupo far dolce, e amicabile. Dove debb' io, Sillano, i passi stendere, Per trovare il mio ben, che ride, e struggemi, Nè per se vuolmi, ne'l mio cor vuol rendere? Quanto la seguo più, tanto ella fuggemi, Nè parlar vuolmi, nè mirarmi (ahi rigida) Ond' Amor sin dal cuore il sangue suggemi. E più assai, ch' orsa cruda, e ghiaccio frigida, Qual sasso a' prieghi miei la vedi movere; E ognor speme, e timor m' arde, ed infrigida.

Sil. Cerca, amico Pastor, l' alma rimovere Dagli amorosi lacci, e saggio acquietela; Che in lei vedrai celesti grazie piovere. Con tuoi versi, e col suono ormai dilettela Della mia lira, al cui suon dolce saltano Le capre, or tu la prendi, e cauto accettela. Non sì lieti i Pastor, le Ninfe esaltano, Non tanto lieto il pian d' erbette tenere S' orna, nè i campi di bei fior sì smaltano; Quanto io sarò, se sprezzerai di Venere Le lusinghe, e d' Amore il grave incendio,


Ch' ha nel tuo petto il cor converso in cenere. O grande insania, o insano vilipendio Amar chi t' arde, chi t' infama, e strazia; Che vergogna è d' Amor vero stipendio Tu Dea, che 'l primo Ciel colmi digrazia, E piena di beltà casta, e piacevole Fai co' tuoi doni ai buon la mente sazia; D' Uranio il mesto affetto irragionevole Scaccia dal core, e del tuo santo vivere, E de' tuoi riti fallo ricordevole:

Ura. Quante volte fanciul tentai di scrivere Di tanta Dea nel pìe di un' alto frassino La gran virtù, che non si puo descrivere; Ma non potei, perche parean, che andassino. Gli spiriti a cercar d' Amor il gemito, E presi anzi d' Amor, d' Amor amassino. Allor, come d' un Lupo udiva il fremito Sol con un dardo, senza altri sussidj Facea sentirli d' aspra morte il tremito.

Sil. Non cerchi or, con ardir con tali eccidj Tua virtù dal gran sonno oppressa scuotere, Ma par, ch' agl' onor tuoi tu stesso invidj. Cerca il perduto senno or mai riscutere Dall' empia man d' Amor, cerca al Ciel sorgere Con l' ali di virtude, e amor percuotere, Canta Pastor; poiche l' aspetto scorgere Di chi resse di Roma il regio incarico Possiamo, e lodi alle sue glorie porgere. Cantiam, ch' uopo non è pianto, o rammarico; Poiche ride l' Arcadia, e il Cielo a ridere Miri, e 'l suo grembo d' auree stelle carico. E già la notte vien pronta a decidere Questa lite tra noi tu al nostro ospizio Vien, ch' io vò dal tuo seno Amor dividere.

Ura. Sarà di amico ver lodato uffizio Me nella tua magion pietoso accogliere,


E por in me virtù, spogliarne il vizio, Ch' onor fia de' tuoi detti il seme accogliere.* Original has "accoglierere".

O Boschi, o piaggie apriche, O d' Austri oscuri orrori, O voi aure, che in aria errando andate, O Cielo, o genti amiche, O voi correnti umori, Che il tesoro di perle al Mar portate; Deh almen qualche pietate Di me vi mova, e a questi estremi accenti Porgete orrecchie, e a questi Pianti, e sospiri mesti, Alle pene, alle note, a' miei tormenti, Ch' or fa del mio morire, Anzi morte l'essequie il mio martire. Or che si mira intorno Di purpurea bellezza, Tinta la rosa, e di candore il giglio, E ride il Cielo adorno Con celeste vaghezza Di novello color bianco, e vermiglio, Più crudo il ferro artiglio Sento d' Amore, e fiamme, e lacci, e strali Ferirmi, ardermi il petto: E pur qualche diletto Proverei fra tant' aspri, e duri mali, Se d' Amor dolce un raggio, Spiegasse nel mio volto il cor selvaggio. Più, che del Sole i lampi, E delle stelle il lume Splendon le ricche chiome, e gl' occhi amati: Nè rosa in questi campi,

Si vede, o in Cigno piume, Che uguagli del bel viso, i fior beati; Non di pietate ornati, Ma d' alta crudeltà, di fiero orgoglio; Ond' io per ogni riva, O mia terrena diva, Dura ti chiamo, e me ne affliggo, e doglio; Onde alla pena mia Vien molle il marmo, e ogn'aspra Tigre pia. O vaga, o lieta, o bella Più, che sorgente Aurora, E più ferma, che scoglio a' miei sospiri; Vera d' Amor rubella, Non ami chi t' adora, Ingrata Jole, e perche in me non giri Le tue luci, e non spiri Di mansueto Amor fiamma celeste, Ch' io poi, più che mai lieto Da tale stato inquieto Passerei a' piaceri, a' risi, à feste; E come a Dea conviensi Il cor ti sacreria tabelle, e incensi. S' io ardo, oimè, s' io moro Dicanlo que' begl' occhi, Quai fur le mie faville, anzi il mio foco: Io, qual Cigno canoro Moro cantando (e scocchj Amor quanto vuol strali) il tempo, e il loco Ov' arsi, e il riso, e il gioco Di lei, che me fuggendo Amor offende; Ma s' egli quel bel seno Tocca di sdegno pieno, Con foco di pietà, ch' arde, ed accende, Tardi delle mie doglie Te ne dorrai, crudel, fra nere spoglie. Itene al cor di ghiaccio

O mie calde querele, Rotte dal vento de' sospiri accesi, E quel foco, e quel laccio Narrate al cor crudele, Che mi stringe, arde, infiamma, e come offesi; Me per amarla, e ascesi, A scelger sue bellezze peregrine, Accioche fosser scorte Certe di quella morte, Che faean queste membra egre, e meschine; E ciò pur vedranno oggi Questi monti, este valli, e questi poggi. Poich' io rimarrò estinto, Canzon, nata di pianto Tu farai noto all' uno, e all' altro Polo, Come io vinto da duolo, Lasciando il carnal manto, Volai spirito ignudo in fra bei mirti, Ch' ombrano i vaghi, e innamorati spirti. DAi campi Elisi, ove son l'erbe, e i fiori Di ridente beltà, d' eterna vita, Ove co' fonti, e l' aura, e l' ombra invita Prender i lieti spirti ampj ristori; Ove ha l' aere seren vaghi candori, Ove ognor splende il Sol, l' alba è fiorita; Te sol Virgilio, fra mill' altri addita Degni di chiaro suon, Cigni canori. E il proprio alloro, a te, grand' Ercol, porge, Perche più assai la tua toscana tromba Altamente suonò, che la sua cetra. Mentre tua gloria al Ciel mirabil sorge Gioisce il pio Trojan; poiche rimbomba Per te al suo nome 'l Mar, la Terra, e l'Etra

TRionfante Signor, cinto, ed adorno, E di gloria, e di lampi eterno sorge Dall' atra tomba, e luce, e stupor porge Al terreno, al celeste almo soggiorno. O felice ora, o fortunato giorno, Che tante pompe, e meraviglie scorge: Il morto a vita eterna, ecco risorge, Per farne al Padre, e al Ciel dolce ritorno. Ed or Maria, che fra di pianti un nembo Stava, qual fra le nubi oscure il Sole, Scacciando il duolo, accoglie gioja intera. Tal' è qual esce fuor dal freddo grembo Del verno rio ridente primavera, Coronata di rose, e di viole. S'Oscura intorno il Ciel, l' onda sonante Con formidabil moto abbatte il lido, Stridon le selve, freme il vento infido, E il flusso s'alza al Ciel bianco, e spumante. In periglio è la nave, che le sante Persone accoglie, quai con alto grido Chiaman Cristo, che posa, o Signor fido, Salva, che puoi la stanca nave, errante. L' aere inquieto, il Ciel nero, e l' irate onde Far chiaro, queto, e dolce puoi, col detto D' amor, di pietà, e d' alto poter pieno. Surse chi a' pieghi nostri ognor risponde, E imperò a' venti, e fe col divo aspetto L' aere dolce, il mar queto, il Ciel sereno.

SOtto puri accidenti, o spirto ingiusto, Sta, come il Sol da chiara nube involto Del mio Dio, del mio Re l' anima, e il volto. La bellezza il poter divo, ed augusto. Tu di ben voto, e d' empie colpe onusto, A tanta maestà ne vieni, ah stolto? E non tremi? e non geli? e non è sciolto Da te per gl' occhi il core in pianto giusto? Degna, o somma pietade, in questo petto Nido d' ogn' empietà d' orgogli, e d' ire, Venire ad acquetar moti, e procelle. Paradiso è il mio sen; poiche è ricetto Di te; s' io te mirai, fa, che ancor mire L' alta sembianza tua sopra le stelle. NOn disdegnar, Signor, quest'empia questa Nemica di pietà, che ha ferro il core, Diamante il petto, sol d' odio, e furore Si pasce, e sempre è al mal vigile, e desta. Che se medesma sdegna, e fera appresta, Ad altrui di spavento, e di timore Folgori de' suoi detti odio, ed amore La rendono a vicenda or lieta, or mesta. Tu, che puoi, Signor mio, col dolce detto Rasserena, e tranquilla il Ciel turbato Di questa mente istabile, ed inquieta. Rendi il cor molle, e molle carne il petto, Cangia le sue tempeste in dolce stato, Falla nel buon oprare ardente, lieta.

TAci, e tacendo parli, e le parole Non odo, ond'io mi sfaccio ai muti suoni? Se taci, perche a me par che ragioni? Se parli, che non t' odo, o divin Sole? Parli, e non taci, onde il mio cor si duole, Perche grazia d' udirti a me non doni; Che sei celeste, e in Ciel fai, che risuoni Tua voce, e dolce gl' Angeli console. Sono i divini accenti a fragil senso Contrarj affatto, e non conformi oggetti: Senso terren voce mortale intende. Tu, perche tempri il desiderio immenso Lo spirto coll' udir tuoi santi detti, Struggi 'l mortal, che a un tanto ben contendi. PArea sparso di pianto il bel pallore Del tuo leggiadro volto, e casto petto Candida rosa, o bianco avorio eletto Di vivo apperso, e cristallino umore, Mentre cinto di gloria il gran Motore Ti ferì coll' ardor del sacro aspetto; Tu lieta d' un tal don, col dolce detto Rendesti al feritor lode, ed onore. Che non posso, Signor, mirar in esse Tue belle piaghe, e farle col mio pianto Sciolto dal cor, bagnate, e rugiadose? E in lui stamparle sì, ch' io poi potesse Vagheggiarle coll' alma, e col mio canto Lodar tai di tua mano opre pietose.

QUel, che nelle man sacre a noi dimostri Soave giglio d' albe nevi asperso Dal tuo amor, dal tuo cor non è diverso Nel suo candor, sì caro agl' occhi nostri. Tu fra casti, a te cari, e santi chiostri Sacra vivesti a Cristo, e in lui converso Lo spirto, e l' alma avesti, e il Re perverso Fu da te vinto de' tartarei mostri. E fra doglie, e digiun pianti, e sospiri Lieta, e felice fosti, e in Dio vivendo Il dolce del suo ben mortal godesti. E con mill' occhi i luminosi giri Miravan te; per te donna tessendo Corona eterna di bei rai celesti. O Bellezza del Cielo, Luce dell' alma mia, perche ti mostri Sì afflitta a gl' occhi nostri? E il tuo bel lume santo, Per cui l' eterna reggia D' un' eterno splendor, ride, e fiammeggia, Grave nembo di pianto Ha fatto oscuro, e tenebroso tanto? Vuoi, che la colpa mia Sia l' empia, che a te dia Pene non giuste, accioche salva io sia.

COgli spirti dell' arte Umile, e dolce spira Sacra Colomba nell' accesa Pira; Sprezza il foco, che ha fuore, Che di più ardente foco ha caldo il core. MEntre amò del bel viso, or nevi, or ostri La bella Maddalena Caro nido si fe, d' infernai mostri; Ma come fu ripiena Di celeste giojr, di santo amore Opra del gran Motore, Sprezzando uman diletto, Straccio il crin, cangiò il volto, e battè il petto. MAgnanimo Leone, In Cielo, in Terra, e in Mare Tua virtù, tuo poter, tua forza appare Tu con santi ruggiti, E giusti sdegni, e invitti, La Vergine difendi, Che d' Adria siede, in mezzo i salsi umori. Se le gran zampe stendi Trema il Mare, e la Terra, E il nemico furor fugge, e s' atterra.

1611

NOn sopra il Trono eccelso, Cui fan corona, i Serafini ardenti; Ma ben fra due giumenti Nato fanciullo il Re del Ciel t' è mostro. Di propria man l' avvolse In panni rozzi, e collocarlo volse Maria nel fieno, in vece d' oro, e d' ostro. Deh, vieni, e adora riverente, e pio L' impicciolito Dio.

1612

TItoli di corone, umani fregi Vanti non sien della mia gloria bella; Son i tuoi servi Imperadori, e Regi, Io son Regina allor, che son tua Ancella. Sieno i servigi tuoi, sol i miei pregi; Che più m'onora assai, chi tal m' appella. Or sei Regina tu d' eterni lumi, Ma noi mortali d' ombre sogni, e fumi.

1612

LA bella Ebrea, che con devoti accenti Grazia impetrò, da' più sublimi cori; Sicche fra stelle in Ciel nei sacri ardori Felice gode le superne menti; Al suon, che l' alme, dai maggior tormenti Sotragge, Ansaldo, onde te stesso onori Spiegar sentendo i suoi più casti amori, I mondi tiene alle tue rime intenti. Quindi l' immortal Dio, che nacque in Delo Alla tua gloria, la sua gloria acheta; Nè la consumerà caldo, nè gelo. Colei ancor, che già ti fe Poeta, Reggendo questa, dall' empireo Cielo Porrà per sempre, ai carmi tuoi la meta SE mover a pietà Stige, ed Averno Poteo con mesto suon famosa lira, La tua, Signor, che a maggior gloria aspira Puo l' alme anco ritrar, dal Ciel superno. Fermar veggio ogni sfera il moto eterno, Che i grati accenti del suo pianto ammira, Per l' estinto Germano, ed ei sospira, Che tornar teme a soffrir caldo, e verno. Teme, che al tuo languir pietoso il fato Renda il suo spirto, alle mortali spoglie, E ponga indugio al viver suo beato. Deh, frena il pianto, e il duol, che in te si accoglie: Odi, ch' ei dice in sì felice stato, Che il pianger tuo, dal suo giojr lo toglie.

L'Immago è questa di colei, che al core Porta l' immago tua sola scolpita, Che con la mano al seno al Mondo addita, Qui porto l' Idol mio, ciascun lo adore. Sostien con la sinistra arme d' amore, Che fur tuoi carmi, il loco, ov' è ferita La destra accenna, e pallida, e smarrita Dice, Ansaldo, il mio cor per te sen more. Prigioniera sen viene a te davante, Chiedendo aita, ed a te porge quella Catena, ond' è il mio amor, fido, e costante. Deh, l' ombra accolgi di tua fida ancella, E goda almeno, il finto mio sembiante, Quel, che nega a quest' occhi, iniqua stella.

1613

DEgno Campion, che il trionfante segno Di chi col suo morir vinse la morte Porti nel petto, e valoroso, e forte Sei di tal Capitan cavalier degno; S' ove vola il desìo, salir l'ingegno Legger potesse, e disserrar le porte Alle gran lodi tue, ben foran scorte Di mia divozion dovuto pegno. Ma se Caliope, e Clio con l' altre sette In dolce stil canoro le tue lodi Spiegasser, credo sarian basse, e vili. Come dunque ardirò pregj gentili, Quasi rauca cornice, d' imperfette Note macchiar, mentre la lingua io snodi?

NInfe di queste linfe Venite a pianger meco; Poiche il Cielo ci priva Della cortese, ed alma nostra diva. Ahi, che il mio cor va seco Lassa, deh! chi più fia, Che a noi sì grata, e sì benigna sia? Ma felicissima Adria, ove ritorna, Che fia del suo splendor gran tempo adorna. A Che badi, Verona, a che più tardi, V' sono le corone, v' son le palme, Che arrechi, ingrata, a chi cotante salme Per giovarti portò, se ben riguardi? A che stai fredda, e di desir non ardi D' ergerli statue, e simulacri, e l' alme Più degne, le virtù pregiate, ed alme Non cantan del gran Giulio, a che più tardi? Quei di tal nome altier, che vinse il Mondo, Ebbe sorte miglior, non più sapere; Che questo in merto, a null' altro è secondo. Ahi, che appena ci fu dato a vedere Sì bel tesor, che ogni ben nostro in fondo Trae col partir, nè lo possiam tenere.

FRa tutte le bell' alme Il gran Motor, la più bell' alma elesse, Per far il vel perfetto, Che Natura al più eletto, Nè al più gentil da forma sotto il Sole: Cesar di cor più altero Di chi dettò l' impero, Di grazie uniche, e sole Volle indi, che facesse Miracol novo di regger il Mondo Sol per virtù, senza d' impero il pondo. I Biondi, e crespi crin, ch' altera fanno, Nobil corona ai candidi ligustri, Ed alle rose del bel viso illustri, Di che Natura, e Amor superbi vanno; A Delia, ed al Fratello involato hanno I rai lucenti, onde per molti lustri Portati a volo da' più ingegni industri D' Ottavia i merti fien, nè obblio vedranno. Sola degna, per cui dorato strale Punga di Mario il core, e gentil fiamma Gli accenda il petto, e caro nodo stringa. Ben raro paragon, ben coppia eguale, Cui di beltà, e valor non manca dramma; Dunque fama a esplicarlo omai s' accinga.

BEltà, s' è pur beltate In Donna sì sfacciata, E beltà dispregiata; Ma perche dico Donna, se chi priva E' d' onestà ne Donna è più, nè viva? Pur, se chi la lodò preso è d' amore, Scusa l' ardor l' errore; Che questo in modo altrui la vista appanna, Ch' anco gl' occhi lincei vince, ed inganna. NOn mai sì vago, e bello Vide Cintia l' amato Endimione, Nè sì leggiadro Venere il suo Adone, Com' io nel tuo bel viso Di grazie scorgo quasi un Paradiso; Che avrian non sol lasciato Cipro, e Delo, Ma risalite non sarian più al Cielo. DImmi, altero mio cor, che ti lamenti Se preda sei, di chi è poco fedele? Non ti soviene, che pianti, e querele Di molti avesti a gioco, e i lor tormenti? Or se questo non neghi, ma consenti, Che fosti a chi t' amò sempre crudele; Giustissimo mi par, ch' anco infedele, Quel, che ti è dato in sorte provi, e senti. Che far dunque dobbiam; poiche il Ciel vuole, Che ritroviamo ugual la pena al merto, Per tor in pace questo odioso laccio?

Miriamo il Cielo, ivi ogni ben si suole Unito ritrovar sicuro, e certo, Libero, e sciolto da mondan impaccio. COrtese, almo Signore, Di sapienza, e valor specchio verace, Se ben mia lingua tace, E' perche il Sol di tue virtudi abbaglia Le luci, onde non saglia Tant' alto il cor, che rinovi l' esempio. Di chi fe il Pò di sè sepolcro, e tempio, Or se cortese alle tue voglie aspire Il Cielo, onde tu mire De' successori tuoi felici i figli; Di te fa, che s' appigli La bell' anima al ver, che falsa asconde Lingua, che forse uscì dalle strigje onde. STassi anelante, e di dolor oppresso Mio spirto afflitto, o mio Signor, e Dio; Temo, che non patisca il figlio mio Pena d' ogni error mio, ver te commesso. Onde con flebil suon, sospir sommesso Mando pentita d' ogni fallo rio: Ed ho di farne emenda anco desìo, Se dalla grazia tua mi fia concesso. Volgi, prego, pietoso, almo Motore, Ver me lo sguardo, e se fui troppo altera, Fa, che sol d' umiltà mio cor si vesta. Ecco, ne ho doglia, ed è mia mente presta A te servir, d' ogni mio ben autore, Miei voti adempj, nè mia speme pera.

1614

GRida semplice Donna Fra le turbe al Signore, e lieta dice O beate mammelle, alvo felice, Che portò, che lattaro Te, del gran Re del Ciel Figlio superno Per cui tremea l' inferno: Anzi beato quel, risponde a lei, Che ascolta, ed eseguisce i detti miei.

1614

FU sì ardente la fiamma del tuo amore Verso di noi, Signore, Che nel ventre reale ancor rinchiuso Dell' umil Verginella, Nè volesti dar segno, Quando facesti di tua grazia degno, Chi pur nel materno alvo era ancor chiuso Della pia vecchiarella: Onde fatto Profeta, anzi beato Prima, che fosse nato Tutto lieto esultava Nel ventre della Madre: ella gridava Dunque di Dio la Madre, ed in lei Dio Visita me, ed in me il parto mio?

1614

NEga l' ingrata Donna al Re del Cielo L' acqua vil, ch' ella attinse, E che sete mortal, mai non estinse: Ma punta poi da quel celeste lume, Tutta infiammata d' amoroso zelo, Grida: dammi, Signore, La tua sant' acqua viva, Dammi quest' acqua, onde ogni ben deriva; Che s' io berrò questo divin liquore, Vestirò nove piume, E spegnerò questa mia sete interna, E volerò là dove il ben s' eterna.

1614

LAuta mensa prepara Marta con gran sudore, Tutta intenta a onorar il suo Signore: Maria fra tanto impara Da maestro sincero Servir a Dio con altro ministero. Cibo soverchio l' una, Ove il bisogno è poco insieme aduna, Ond' è tenuta l' altra Ministra assai più scaltra, Che mentre i santi detti ode in disparte Esca d' eterna gioja a Dio comparte.

1614

S' Avea per cella un Cielo Fatto entro al sacro tempio Anna pudica all' ebraismo esempio; E in vedovile velo Già per sedeci lustri Del pargoletto nato Predicea in avvenire i fatti illustri. E tu, stuolo ostinato, Non vedi in tanto lume Il tuo umanato Nume? Sol casta Tortorella Lo mira, e ammira, e Redentor lo appella.

1619

SE nel tempo de' fiori Cose produce il tuo fecondo ingegno, Onde tu arrivi al segno Di vera gloria, e d' immortali onori; Sicche Roma t' ammiri, e lodi il Franco, E coll' Ibero audace T' innalzi al Ciel, chi con pudica face T' accese il lato manco; Paolo a bastanza non lodate mai, Nella stagion de' frutti, e che farai?

1635

VAlerio, il cui valor chiaro si scopre Per le rare virtù, che il Ciel v'impresse Del vostro eccelso onor segni fien l' opre Dall' altrui bocca in lodi degne espresse. Pregio di vostra fama è, ch' ella adopre L' ali, e le vostre alte virtuti istesse Innalzi in verde eta, nè obblio le copre, E lauri 'l biondo Apollo al crin v' intesse. Onde ben si puo dir, ch' oggi fiorendo Sembrate in bel giardino un fior novello, Ed un canoro augello appresso l'onde. Fra le Muse a me pure emol vivendo Fia il vostro canto, a cui Pindo risponde Tanto gradito, quanto è amor più bello.

1638

PAdre celeste, che dal tuo gran Trono Giacer qui morto il tuo figlio rimiri, E delle meste voci il flebil suono Della dolente Madre odi i sospiri; Come ver me, che sola causa sono Di tanto mal il tuo furor non spiri? Come non vibri avvelenato strale, Che dalla terra levi un mostro tale? Io con i gravi miei, sozzi peccati La bellissima faccia ho deformata; Io gl' occhi vaghi ho di splendor privati, E la carne gentil tutta squarciata. Ah traditrice, io questi piè forati Ho con le man divine, e spalancata

Nel delicato petto la gran porta, Che tanta doglia alla sua madre apporta. Qual dunque a tanto mal condegna pena A peccatrice tal potrà mai darsi? Ah, che se quanti ha il mar grani d' arena Tanti fosser gl' inferni, onde cruciarsi Dovesse un' Alma sì d'inganni piena, Nulla sarebbe, e se in me sol sfogarsi Tutto s' avesse di Satan lo sdegno Non giungeria de' miei demerti al segno. Dunque meglio sia pur, Padre amoroso, Che cessi l' ira tua, cessi 'l furore: E per questo squarciato, e sanguinoso Petto del mio Gesù, nido d' amore; Rivogli verso me l' occhio pietoso, E benigno perdona un tanto errore; Che maggior lode al tuo gran nome fia Salvar, che condannar quest' empia, e ria. Or, che l' anima mia stringe al suo seno Avventurata, e fra le braccia serra Quella gran maestà, che di sè pieno, Tien il cerchio del Cielo, e della Terra; O come vien per troppo gaudio meno: A ogni cosa mortal le luci serra, Mai più stimando, che vil fango immondo, Quanto ha di bene, e prezioso il mondo. O felice Alma mia, che a tanto bene Dal tuo sommo Fattor sei stata eletta: Già fosti schiava, vile, e fra catene, Ti tenne empio Signor legata, e stretta; Or de' regi 'l gran Re nel sen ti viene, E in te sì dolcemente si diletta, Che tutti ha posti i divin gusti suoi Sol nel goder gl' abbracciamenti tuoi. Stupite pur, Angeli santi, e lodi Cantate eterne a così gran bontade,

Mentre mirate unita in dolci nodi Con serva vil tant' alta maestade, E che di star fra le sue braccia godi Più che nelle celesti alme contrade, E tra le eterne lodi in voci liete Al mio Signor per me grazie rendete. E tu, anima mia, che fai, che pensi? Come stai fredda in mezzo a tanto fuoco, Come non manca in te lo spirto, e i sensi, Per meglio dare a tanto gaudio loco? E quanto mai a tai favori immensi Corrisponder potrai molto, nè poco? Ahi, che non ha, che dar tua povertate A così eccelsa, e viva maestate. Sotto te stessa puoi donargli 'l core Voto d' ogni mondan terreno affetto, E questo vuol il tuo dolce Signore, Nè fia, che in altro don trovi diletto: Donagli dunque omai tutto il tuo amore, Daglilo nelle mani, aprigli 'l petto: E da te stessa sciolta, a lui legata Vivi contenta ognor lieta, e beata.

1639

CHi vuol veder Maria salir al Cielo, Appoggiata a Colui, che il Ciel governa Lo sguardo fiso al Paradiso Volga senza tardar. O come leggiadretta, e graziosa, Quasi nascente Aurora in alto sale: Il puro seno di grazie ha pieno Per spanderle qua giù. Bello più della Luna è il suo bel volto, Del Sol più eletta, e di maggior splendore

Lo sguardo è tale, ch' occhio mortale Non lo puo sofferir. Di gloria, e di beltade, è adorna in guifa Più di niun altra pura creatura, Che il divin core ha del suo amore Fatto dolce prigion. La corona real, che il biondo crine Le adorna, e cinge la verginea fronte Fatta di stelle assai più belle, Che non è il Sol qua giù. L' imperial veste, e di sì chiara luce, Che umano sguardo in lei non puo fissarsi Se pria purgato, e confortato Non è dal Creator. Di tante gemme adorno il suo bel volto La testa il petto, e la verginea gola, Che ognun s' ammira, e l' occhio gira Lieto verso di Lei. Così piena di grazie al Ciel sen vola, Per pigliar di quel Regno il gran possesso, Che preparato dal figlio amato Le fu con gran ragion. O come ad incontrarla in mille schiere Vengon dal Cielo Cittadini eletti Sciascun l' onora lieto, e l' adora, Come Madre di Dio. Con mille applausi, e con celeste onore, Con canti, e suoni, e con letizia, e festa Grida ognun viva, viva la diva Madre del nostro Re. Viva, viva pur sempre, e regni in Cielo Regni, e domini ancor sopra l' Abisso La riverisca, e l' ubbedisca Ciò, che creato ha Dio. Con tai voci d' onori, e di allegrezza Alla destra del Figlio, e collocata

Ove risiede, e fa mercede A chi richiede a Lei. Noi dunque a Lei, come a Signora nostra Corriam con fede umiliate, e chine Chiediamle in dono ampio perdono D' ogni nostro fallir.

1640

IO vorrei, mia dolce vita, Far un canto per tuo amore, E in te voglio far salita, E abissarmi in tuo splendore. Io ti prego porgi aita Con brucciar questo mio core. Canterò al mio Signore, Canzonette d' Amore, Qual ferito ha il mio core Co' suoi dardi d'amore. Per certo l' alma unita Vive più dell' Amor, che di sua vita: Dirò dolce mio Dio, Che sei il viver mio, E in glorioso trono Risiedi, a te mi dono; E con giocondo core, e grande ardire Chiederotti d' Amor tosto morire.

1643

MUsa non tu, che altera Là tra l' ombre di Pindo Armoniosi accenti al plettro accorde; Non tu, ch' alta, e guerriera Per fin dal Mauro all' Indo Al suon d'immortal Tromba il Cielo assorde: Tu le canore corde, Dogliosa Erato, appresta: Tu meco a pianger resta Nova istoria dolente; e taccia intanto D' ogni dolce concerto il suono, e il canto. Ma se pur al gran nome, Che a dispiegar m' appresto, Al flebil canto, ai dolorosi accenti Vorrà la fama, come Nuncia del caso mesto, Vorran Febo, e le suore esser presenti; Concedasi, che intenti Prestino ai nostri umori Non volgari favori; E dell' opre famose ai chiari gesti Ogn'un poscia la tromba, e il grido appresti. Sopra l' Urna fatale, V' giace immobil pondo Il gran Gioseffo il chiaro il saggio, e il forte; Al cui nome immortale Fu picciol giro un mondo, Che qual folgor volante il vide in sorte; Fatto trofeo di morte Allor; che ambiziosa Alla destra famosa, Apprestava in trofeo la Terra umile

Tutte le glorie sue dal Batro al Tile. Sovra l' urna superba, Ai cui famosi marmi Fan pomposa corona i maggior Dei, Ove i suoi fasti serba Il fero Dio dell' armi, V' Pallade vagheggia i suoi trofei; V' ne dogliosi omei Empia la morte ancora Pentita s' addolora, Da forza al suon, che le memorie illustri Spieghi a mille avvenir famosi lustri. Questi, cui gia nel fiore Dell' età più novella Ebe ornò delle grazie, ond' è più rara; Nacque gloria, e splendore Di quella Patria, quella, Per cui sen va la Gallia altera, e chiara; Ma prodiga, ed avara La stella, che l' accolse In un gliel diede, e tolse; Che bambin lo nutrì fra i gigli, e poi Il volle emulo altrove, agl' Avi Eroi. Di pur tu, che il mirasti, Chiaro, e famoso Reno, Di quelle glorie, onde fu ricco a parte; Tu d' accorlo vantasti Nel glorioso seno, Felsina bella, ad imitar quell' arte, Che di Minerva, e Marte Emulator seguace Gli fece in guerra, e in pace, Or fra l' ombre d' Atene, ed or fra l' armi, Erger mille trionfi in carte, e in marmi. Teco il gran Tebro appresso, Ammirator famoso,

Scopra gli eccessi, onde mirollo adorno; Ei, che pria di se stesso, Sì superbo, e fastoso Gareggiò di splendor col Ciel, col giorno; Ei, che al suo nome intorno Divoto il Mondo intero Girò l' immenso impero: Ei, che mostri di gloria espose al Mondo, E pose il maggior figlio a lui secondo. Tu qual vanto ne porte, Generosa Turrena, Tu, che vaga non men quinci il vedesti; Chiaro terror di morte, Dalla fronte serena Spirar d' ardir, d' onor raggi celesti; Tu, che pur l' accogliesti Tuo difensor prescritto Folgor di Marte invitto? Ahi, che colma di gioja, e di pietate Vanterai sol le ceneri onorate. Tu sol nelle memorie De' tuoi famosi annali Porrai quel dì, che miserabil tanto L' antiche, e nove Istorie De' volumi immortali Vince, e la fama eccelsa oscura, e il vanto: Quel dì, che sotto il manto Del zafiro celeste Coprì l'aspre tempeste. V' tra i nembi dell' arme, e fato, e sorte Fero il fanciullo Eroe scherzo alla morte. Memorabil di fatti, Quel dì mortale in cui Il Duce etrusco, e il Principe latino In fera pugna tratti, Colpa de' giochi sui,

Provò quest' empio, e crudo il suo destino: E fu il già Mongovino Umil di nome, or chiaro, Spettator non ignaro Della sorte infelice, ond' ebbe appresso V' la palma il nemico, egli il cipresso. Qui stupidi ammiraro Il sovran semideo Invido Marte, attonita Bellona; Che emulator più chiaro Del lor valor poteo Cingersi il crin d' una immortal corona, E là vè il campo intuona Sanguigno, e folgorante Fuggì la turba errante; A cui sembrò la valorosa destra Fatta di Morte, e di colpir maestra. Nè tu, garrula fama, Sapresti appien narrarmi Quanti la costui man ne oppresse estinti; Che v' il suo valor ti chiama Tu sì confusa parmi, Che i tuoi racconti i suoi gran gesti han vinti. Pur di vergogna tinti Ardir, forza, e valore Mirar del suo gran core Nelle prove immortai tali gli eccessi, Che chiamar domi, e vinti ancor sè stessi. Potea, s' emulo altero Avesse alcun mirato Della fulminea spada il tuono, e il lampo Coll' esempio guerriero Di quel valore innato Racquistar con le palme ei solo il campo: Potea senz' altro inciampo; Col sanguinoso brando

Cacciar di vita in bando Qual alzò più famoso allor sorgente La nemica vittoria, e fraudolente. Ma pur tra mille, ei solo Vago dell' alte spoglie, Dai fuggitivi suoi resta negletto, Contra il superbo stuolo, Che intorno empio gli accoglie Cent' aste, e cento spade al tergo, al petto; Che più di tempra eletto Quel cor mostrar potea? Segno, che più temea Il ceder, che il morir, se chi per vinto Chieder l' osò distese in terra estinto. Pur di tant' armi, e tanti Armati egli fu segno; Nè fu chi desse a tanto ardir soccorso: E pur voi Sfere erranti Miraste al fine indegno Giunger tal vita, e non fermaste il corso? Il tempo, e tu precorso, Crudel Parca, soffristi, Nè raggropparlo ardisti, Che il fil più bel, che per tua man passasse Ferro spietato, e cruda man troncasse. Cadde, e cadde non vinto Il valoroso, il forte Dopo ostinata pugna, ahi destin fiero! E dal tuo braccio estinto, Inesorabil morte, Preme col petto invitto il suol, che fero La destra, e il brando altero Letto de' membri suoi Mill' altri estinti Eroi, Onde avria tolto il Sol mesto, e dolente Fermarsi inorridito all' Oriente.

L' Alma invitta, e guerriera Rapida il Ciel trascorse, Ove bel premio di sua gloria or gode: Ma tu la spada altera Potrai locar fra l' Orse, Del Firmamento immortal fregio, e lode. Giove altier, che sè prode In quella man fu tanto Le si diè maggior vanto, Che alla famosa Clava, onde si vide Onusto in terra, e in Cielo il forte Alcide. Voi, che alle belle spoglie Del funeral cipresso Cinto il crin, degne esequie or celebrate Ben quanto Arabia accoglie Incenso, e Mirra appresso, Quante puo dar Sabea pompe odorate Farà vil don l' etate Più tosto, o Cigni illustri, Contra l'armi de' lustri Sagrate il canto, e voi viverete, e questi Egli nel vostro stìl, voi ne' suoi gesti. Canzon, dell' Urna altera, Che cella in sen la gloriosa spoglia, Tu non toccar la soglia; Tanto non lice a così bassa, e vile: Stanne appesa in disparte in voto umile.

1643

VOlesse il Ciel, che in me fosse virtute Tanta, come tu a dirlo pronto sei, Perche far ancor io forse potrei Dei sfacciati restar, le lingue mute. Pur à tue lodi tanto saggie, e argute Mi sforzerò con l' ajuto de' Dei, Senza cui nulla oprar, e dir saprei, Render cortese le grazie dovute. Mi ti rendo obbligata dell' affetto Adunque, e dell' amor puro, e sincero, Che tu mi porti, e di più ti prometto, Che col favor del Cielo, nel qual spero, Farò vedere con verace effetto, Che la vera virtù merita impero.

1646

COn il dito alle labbra a me rivolto Arpocrate il silenzio mi commisse. Nè le stridule canne mi permisse Toccar del Dio Silvan poco, nè molto: Onde la Musa mia con mesto volto Volendosi sottrar da oltraggi, e risse, Entro l' opache selve il pie rimisse, Ove il suo antico ovil giace sepolto. E l' alme Tespie unite a danno mio Rinchiuse han tutte l' appollinee balze, Che guidan di Parnaso al Campidoglio. E la famosa tua diletta Clio Sommerso ha in Lete del mio nome il foglio, Perche il crin cinto ho sol di smorto salze.

DEl vostro nome al suon di rozza canna Sull' Ale andrò, Signor, in Elicona, Dissi, ed avrò d' allor nobil corona; Così credea, ma il creder mio s' inganna, E la Silvestre Musa, in van s' affanna, Con la voce stemprata, e poco buona; Che al mio desir lo stil, ben non consona, E Arpocrate a star cheta mi condanna. E mi toglie l' ardir d' ergermi in alto, Ove de' vostri merti è il laberinto, E d' Icaro sovienmi, e di Fetonte. E a entrar nel lucidissimo recinto Potrei gir da Aganippe in Acheronte; Che non ho pie gagliardo a sì gran salto. APollo sol per voi la porta d' oro Del gabinetto suo, sempre ha dischiusa; Nè l' eroica Polinia vi ricusa Il da voi cesso a lei legno canoro: Onde Signor, nell' Aganippeo coro Non fia ammessa sicur la di voi scusa; Che ammetter non si dee, perche non s' usa Ciò far nel sagro Aonio concistoro. E benche star fingete con saturno, Tritonia con le Tespie tutte nove V' addattano la cetra, e il pletro eburno. Che in Claro, in Delo, in Cinto, ed in Parnaso Potete far mera vigliose prove, Con la lancia d' alloro in sul Pegaso.

DAgli affari domestici sì oppressa Mi ritrovo, Signor, che a gran fatica Tempo ho talor d' alimentar me stessa: Perche se rimaner non vo mendica, Acquistar mi con vien col mio lavoro, (Che fortuna pur sempre m' è nemica) Per dar agli Avocati argento, ed oro, Acciò studino i testi a favor mio, Per far udir le mie ragioni al foro. E queste le cagion son state, ch' io Ho tralasciato a scriverle fin ora; Che aver vorrei lo stil pari al desìo. Pur per non far più lunga la dimora, Le mando in fretta questi miei rerzetti, Non dall' inchiostro ben asciutti ancora: E li accompagno con questi sonetti, Degno il tutto del soco aver la luce, D' error colmo ogni cosa, e di difetti. Ma fuor di strada gia non mi conduce La Musa in far sì lunga diceria, Che i Collalti a memoria mi ridusse. Dico i.…. De' quali non saprei dirle parola, Perche han con me più poca simpatia. Solo, ch' essendo io quì rimasa sola, Ed ammalata per undeci mesi Il posso dir con la morte alla gola; Lor tutti carità, tutti cortesi Mai si han degnato pur di visitarmi, Nè la loro conscienza li ha ripresi. Pur per questo con lor non vengo all' armi, Ma li tengo qual pria per buoni, e cari,

Benche tal' azion impropria parmi. Pur sarà ben, che alle mie spese impari; Ma vo finir questo mio lungo imbroglio, Per quì non discoprir tutti gli altari. Nè più d' inchiostro vo imbrattar il foglio, E per non l' attediar voglio dar fine, Mentr' io qual sempre fui, tale esser voglio. Onde, per non uscir fuor del confine, Le annuncio buone le pascali Feste Col capo umile, e le ginocchia chine; E per molt' anni molte altre con queste. Non ho stil, non ho lingua, e non ho inchiostro Da parlar, da esplicar, da por in carte Gl' obblighi, Signor mio, ch' ho al valor vostro. E perche mai de' complimenti l' arte Io non appresi, or sol vi fo un' inchino, Acciò supplisca a' miei difetti in parte: Che a esplicar vostri merti m' indovino, L' eloquente facondia venir meno, Di quel grande Orator nato in Arpino. Pur quì col cor di riverenza pieno Vi supplico, Signor, che a nome mio, Non sdegnate un servizio far almeno: E questo sol sarà quanto desìo, Di render grazie a quel gran Cavaliero, Per cui sol d' Ipocrene è chiaro il rio. A quel Signor degnissimo d' impero, Per cui la fama sua, senza alcun pari, Sen va da questo, a quell' altro emisfero. A quel, che puo con carmi almi, e preclari Alla morte, all' obblìo li nomi altrui Levar, per farli al Mondo illustri, e chiari. E se grave non v' è, direte a lui, Che scapito di me, non fan le Muse;

Poiche da lor sbandita sempre io fui. Nè mi bastar parole, o valser scuse, Per aver grazia alcuna appo di loro, Ma ognor da quelle fur mie rime escluse. Sicche s' io fui dal sagro aonio coro Da' miei primi anni spinta, e discacciata, E cinta il crin di salze, e non d' alloro; Dir ei non dee, Signor, perche passata Sia a novo voto, che restata sia La rima esercitar d' altro occupata: Che, o Signor Silvio, se la poesia Il sagro Apollo m' avesse concessa, Per tutto il Mondo non la lascieria. Ma per finirla omai, fate, ch' espressa Sia l' ambasciata, e non vi sia in comando, Che in voi solo, Signor, questa ho rimessa. E s' anch' io vaglio, e per voi posso, quando Non ubbidisco ad ogni suo mandato, Datemi pur da voi perpetuo bando. E se ben avrò l' animo implicato, Ad altri affari, io pur sempre sarovi, Qual sempre fui d affetto sviscerato. E per non più attediarvi io quì farovi Di novo riverenza, e a quel Signore, E all' illustrè sua casa pregherovi, Servitrice, offerirmegli di core.

1650

LA mia Musa è svegliata, e gia ripiglia Il pletro ruginoso, e la zampogna, E non la posso ritener in briglia. E vorrebbe dir mal fin della togna,

Della Mea, della Nana, e della Cice; E gratarli la schiena senza rogna. Grida, s' abbacchia, stride, e maledice; E priega, ch' io le lassi dir il vero, E varie cose in testa mi predice. Ed io, che uscir non voglio dal sentiero, Tiro la briglia, e le do bastonate, E stimo la sua furia quanto un zero. Però, se i versi miei ben riguardate, Non vi parranno datili, o spondei, Ma scartacci da cuocer le frittate: Siano ancor zoppi; ch' io figlia dei Dei, Non sono, nè di stil tanto perfetto, Che possa soddisfare a quattro, o a sei. A me basta poter star sola in letto, A paragone col mio biondo Apollo, Senza lima di rosso, o di belletto. In quanto a me non vo rompermi il collo, Per andare in Parnaso, o per la strada Faticosa, per bere a quel rampollo. Leggeteli così, se pur v' aggrada; Che altrimenti non voglio astrologare, Per cibarvi di Nettare, o rugiada. Io vi so dir, ch' avrei troppo da fare, Se col parlare in punta di forchetta Volessi sù le dita calcolare. Già tengo dalla Musa una ricetta, Di non mutar un verso, che rissuona, Nè toglier allo stil na paroletta. La Musa mia, che si chiama Simona, Non figlia di Minerva, nè di Giove, Ma guardiana del bosco d' Elicona; Ella è astrologa, e dice quando piove, Che vuol guastarsi il tempo, a se vien Sole Dice, ch' è concio, e fa dell' altre prove. Ella si stà da sè, e lascia Sole

Clio, Euterpe, Erato, e Melpomene, Nè con esse ella mai conversar vuole. Il susiego Spagnolo non mantiene, Come Polinia, Urania, e Terpsicore; Nè con grave parlare alcun trattiene; Se di Caliope poi, sente l' odore Le fugge dall' aspetto, e si rinselva; Che di starle a martello non ha core. Nella faccia è pelosa, come belva; Non perche gusti con lingua francese Parlar con quei Poeti in quella selva. E' magra, che non ha le buone spese Da chi tien la sua cura tutelare; Che il vitto Sol le da di mese in mese. Ha l' ale, e piume, ma non puo volare; Non perche fosse con quel Perineo, Coll' altre Muse fatta risserrare: Ma per voler amare un Semideo Le fur tarpate così corte l' ale, Che non vola più alta d' un Pigmeo. E se potesse gir saria men male, Ma se l' incontra qualche creditore La saluta col libro del giornale. E se non si trovasse un buon priore D' animo fiero, e core rubicondo Da Parnaso saria cacciata fuore. E forse le faria per altro Mondo Andar cercando nova cortesia, Da poter star con l' animo giocondo. Che star la sù, con tal malinconia, E' cosa, che non puo troppo durare; Ch' è viver d' una Cagna, o d' una Arpia. Or non voglio più star a contrastare, Voglio cantar d' amor casi seguiti, E in Parnaso vi stia chi vi vuol stare. I miei versi son schietti, e mal vestiti,

Ricchi d' errori, e poveri di merto, Di rozzo stile, e poco ripoliti. Ma sia, che vuole, appresi in un deserto, A dispor con le rime i miei pensieri, Nè mai libro per studio tenni aperto. Vi dico ben, che canto casi veri, E non empio gli fogli d' impostura, Nè rubo versi, o dico vituperj. Donna son io, che sol per emonsura Mi diletto spiegare in queste rime, In varie forme l' amorosa arsura. Ne fia, che mai Poeta alcun mi stime, Mentre per scherzo mi diletto anch' io Far versi, che han bisogno delle lime. Con la Musa farommi il fatto mio; Nè delli fatti altrui prenderò cura, Nè dirò contro il Mondo, o contro Dio. Canterò dunque senza aver paura, Che il Mondo, il Ciel, l' Inferno, o i Fati rei Facciano contro me mala congiura. Ma so, che vi saranno più di sei, E le dozine intere, che diranno, Che, se i versi son buoni non son miei. Ed io, che dal principio al fin dell' Anno Tengo lesta la Musa, e su le dita Ho il verseggiar, non me ne prend'affanno. Ed or, che la Chitara ho gia finita Darò principio a un suono di Liuto, Con più voce sonora, e più gradita. Questa senz' arte, e faticoso ajuto, Sol perche ciascun veda, ch' io son viva Di dar fuora alla luce ho rissoluto. E tanto più, che v' è chi mi tien priva, Con la sua mala lingua del cervello, Vo far veder, che il mio cervel raviva. E se non ho poetico penello

Mi basta, che non sieno le mie rime Di stile stiracchiato un paralello. Ogni poca virtù gl'errori opprime In Donna, anzi, ch' è dono di Natura, S' altro, che d' esser bella fia, che stime, Ond' io, che alla beltà mai posi cura, Mi diedi volentieri con le Muse; E se non ho poetica figura, L' esser Donna con voi facci mie scuse. O Miei vaghi sorisi, o dolci sguardi, O Dolci pene mie, dolce tormento, O mia gioja, o mio bene, o mio tormento, O fiamma, che ad un punto agghiacci, ed ardi: Deh, come a me giungesti così tardi, Ed or così ti perdo in un momento? Come, ahi lassa, così feriro il vento Del faretrato Dio gl' aurati dardi? Parti crudel, senza prenderti cura Di chi così t' adora, e tanto t' ama, E puoi lasciarmi in così ria sventura? E puoi partir spietato? hai tanta brama Di vedermi morir, nell' empia arsura, Mentre nel tuo partir morte mi chiama? LAsciatemi morire; E chi volete più, che mi dia vita S' ho perso la mia vita, il mio ristoro, La mia speme, il mio core, il mio tesoro?

Dove, dove ten vai, O dell' anima mia pietosa cura? Dove ti porta il crudo Ciel nemico? Dove, dove t' asconde L' empio Fato a mio danno; A mio sol danno volto, Dimmi, bell' Idol mio, chi mi t' ha tolto? Forse novella arsura il cor t' alletta, Di caduca beltade? Forse, forse crudele, Sazio delle mie pene, Volgi da me le piante? Ito ne sei, ed io quì resto, ahi lassa, In preda ai miei tormenti, In cura ai miei martiri, Cibo sol di lamenti, Ricetto di sospiri. Dunque così schernita, In preda a tanto duolo, Quì mi lasci delusa in abbandono? O degli orror più crudi, Furie amiche al mio pianto, Quì, quì venite a volo; Consolate il mio duolo, Riportate vi prego Nel mio seno il mio core: Nel mio petto il mio bene; O con la vita almeno Finite le mie pene. Quì taccio, e omai do loco, Con la morte al languire; Lasciatemi morire: E resti al Mondo esempio La mia fede, il mio amore, L' ingiuria il tradimento Di questo ingrato, ed empio.

1651

SErvo fedele al tuo Signor, e Dio, Che zelo avesti del tesor dell' alma, Delle sante opre tue porti la palma; Ma più tua carità, che accese il seno Veggio rapirti al Ciel di gioja pieno; Spiegar lingua non puo, capir concetti Della gloria, che in Cielo hanno gl' eletti.

1657

DI', canzon mia, le lodi dell' amore, Racconta le mirabili prodezze, Che in Ciel, e in terra egl' opra a tutte l'ore. Egli comparte infinite ricchezze Di grazia, e gloria all' alme, che prigioni Si fanno di sue rare gentilezze. Ei rinova le tempre, e le stagioni; E fa goder eterna primavera A chi dimora in sue degne magioni. Appresso lui pace sicura, e vera, E letizia perfetta ognun ritrova, Serenità di mente, e vita intera. Egli è maestro di sapienza nova, Dalli Savi del Mondo non intesa, Che di vera virtù non san far prova, L' alma, che ne' suoi santi nodi è presa

Da' raggi del divino Sole è Cinta, E di divina caritade accesa. E mentre in sua balìa si dona avvinta Possede una gioconda libertade, Restando ogni nemica forza estinta. Poi scoprendole ancor le occulte strade, E i bei sentieri della vita interna, La conduce alla prima veritade. Per essa assorta nella vita eterna, Il puro sguardo in sua beltà fissando, Più non gusta veruna cosa esterna. Ogni ora più in Dio va transformando Suo spirto acceso di divino foco, E a tutto quel, che non è Dio da bando. Quivi facendo Amore un dolco gioco Inebbria l' Alma di divin piacere, Ond' ella s' addormenta a poco, a poco Così dormendo si lascia cadere Nel mar immenso della deitade, Dove solo l' amor la puo vedere. Perche è inghiottita in quella immensitade Alla qual non arriva occhio creato, Ed altri, che l' amor non sa sue strade. Da sì giocondo, e sì felice stato, Come potrà veruna cosa dire, Che in nessun modo mai l' avrà provato? Lasciamo pur la diletta fruire Quel dolce sonno, che il nostro intelletto Non può con ogni sua forza coprire. Ed attendiamo con tutto l' affetto, A preparar con umiltà profonda Stanza grata a Gesù nel nostro petto. Egli benigno ognor di grazie innonda I cori umili, e ai superbi resiste, Nei guai ogni miseria soprabbonda. Suo puro amor rifiuta l' opre miste,

Di vanità, o di proprio interesse, Ed a' cori distratti non assiste. Non gusta di suo amor chi di sè stesse, E di tutte le cose non si spoglia, Per star con Gesù Cristo in Croce annesse. Amor brama posseder nostra voglia, Per trarci al sommo ben pure, ed intere, Acciò nel divin seno suo s' accoglia. Amor di grazie doni, e virtù vere Desidera arricchirsi, acciò che in pace Possi anche il regno eterno possedere. Ei nell' eterna, amorosa fornace Sospinge i pensier nostri, e i nostri affetti, E li converte in sua fiamma vivace. Egli nel mar di divini diletti Sommergendo lo spirto in casti amplessi, L' unisce a Dio con legami perfetti. Nell' increato, e sommo amor annessi. Ani. COme ti veggo, oimè, di sangue asperso, E tutto immerso in gran pallor di morte? O Guerrier forte, chi t'ha sì piagato? Ben crudo è stato: ahi troppo crudo è stato. Ges. Mi tradì fiero, e disleale amico, Piangendo il dico, e gl'altri mi lasciaro, Che pur giuraro di seguir mia sorte Tra ceppi, e morte. Ah tra ceppi, e morte. Io corsi, come Agnello alla tonsura, Tra gente dura, e per altrui delitto; Or quì trafitto son, come mi vedi, Il capo, e mani, e piedi, e mani, e piedi. Acute spine, e durissimi chiodi Constrani modi m' hanno perforato,

E pur dico, piagato m' ha l' Amore, Che m'arde il core. Oh come m'arde il core! E non gia per cittadi, o per castella, Ma per te, bella, e dolce anima mia, Acciò sposa mi sia, con tal martoro Languisco, e moro. Aimè languisco, e moro. Ani. O come tarditi conosco, Amore: Fenditi core in mille, e mille parti, Vo consumarti, in dolorose tempre. Vo pianger sempre. Ah Dio, vo pianger sempre. AMor vuol tutto il cor posseder solo; Amore non sostiene compagnia; Amore precedendo il nobil stuolo Di tutte le virtudi al Ciel s' invia; Amor trascende con leggiadro volo Ogni umana, e celeste Gerarchia; In Dio solo s' acqueta, e trova pace, Parlo d' amor celeste, ch' è verace. Anima mia, se brami far acquisto Di così santo, e salutar amore, La sacra passion di Gesù Cristo Sforzati di portar sempre nel core; Vogli esser crocifissa al mondo tristo, E così egli a te sia per onore Degli improperj, e delle acerbe pene, Ch' esso Gesu per amor tuo sostiene.

NObil spirto, che il Cielo adorni, cinto Di bella luce, e in ardenti facelle Giojendo trasformato sei per quelle Nel sommo Ben, per cui te stesso hai vinto: Tu già di grazia, e di virtù precinto, Or coronato di lucenti stelle, Le serafiche schiere fai più belle; Perche tutto in amor fosti convinto. O buon Antonio, o mio Dottor, o Duce, Scorta mia fida, che tra tanti lacci Per sicuro cammin al Ciel mi scorgi; Impetrami da Dio, che di sua luce Voglia illustrarmi, e che in amor mi sfacci, E in seguir tue virtù forza mi porgi.

1659

VErbo increato, Ed incarnato Con infinito amore, Che posso farti, Se non lodarti Con umiltà di core? Beato oggetto D' ogni diletto, E di per petua gioja, Da me che brami, Se non ch' io t' ami, E per te viva, e moja? Tu gran Signore,

E Creatore Dell' universo tutto, Vieni a diporto In picciol' orto A cor selvaggio frutto. Ti acclaman santo Con dolce canto I serafini amanti. In me trovare Non puoi sperare; Se non miserie, e pianti. Eccelso siedi; E tutto vedi, Nella suprema altezza: Da me, che aspetti; Se non difetti In questa vil bassezza? Godi, e riposi Ne' luoghi ascosi Dentro il paterno petto; Quì nel mio seno, V' è paglia, e fieno, E duro, e freddo letto. Dolce mia vita, Bontà infinita; Poiche così ti piace, Vieni a salvarmi, E consolarmi, E darmi eterna pace.

1665

DRitto era ben, che al tuo saver soprano, O degli Eroi Borghesi alto splendore, Fortuna offrisse con novello onore Fido il cor, fermo il pie, pronta la mano: Che vedea ben, che sovra il suol toscano, Ove t' elesse il Ciel Padre, e Pastore, Alla tua gran virtute, al tuo valore Il vizio altrui contrasterebbe in vano. Vanne dunque felice, ove di Piero Il successor t' invia; vanne giocondo Il freno a sostener del novo impero. Lieve al tuo spirto, e di tal greggia il pondo; Ma coll' esempio di tal greggia, spero, Che un dì per suo Pastor t' acclami 'l Mondo

1665

IO sono il tempo alato Gran ministro del Fato; Giacerà l'Universo Sugl' orribil momenti Nel gran nulla converso: Sol per unico dono Della mia ferita lasciar perfissi Le tenebre, e gli abissi. Senti 'l tuo fato, senti, O tu, che tanto minacciando vai; Ancor tu spirerai.

1665

TU, che col sangue a eterne glorie il volo Da barbarica man spieghi ferita, Con la morte risorgi a nova vita, Sovra campi dell' etra ascendi al Polo. A vasti pregj tuoi del Mondo il suolo Troppo angusto già fu, anima ardita; Spazio de' tuoi trofei bella tradita, Campidoglio a' tuoi canti 'l Ciel fia solo. Vaghi al tuo bel splendor, che l' alme bea Cantan cigni celesti i tuoi gran pregj, Tratti dal proprio sangue immortai fregj, Nè formò in te mano sicaria, e ria. Te, che al cader sorgesti assai più viva, Donna più, che terrena il mondo appella: Fenice, che al morir nasce più bella Sol, che all'occaso i rai più vaghi avviva.

1670

DElla prisca Romana Tacete, lingue, e non stupite, o menti, Che la Fama per lei tarpati ha i vanni: Di barbarie inumana Sopra coteste ceneri innocenti Piangete i scampi, e deplorate i danni. Che si ramembri affanni D' Istoria men funesta, e molto antica, Nè si pianga la nova, ahi! non si dica. Il mirar questi marmi Funestati di morte a' foschi orrori, Desio pudico, ad incontrar la alletta; E feroce tra l'armi Invita un cor a superar più cori,

Se morir pria, che soggiacer diletta: Gia la Fama s' affretta Salir al Ciel di gloria assai più ratta, Per potervi passar Lucrezia intatta! Giaccia in obblio la morte Dell' antica Romana, e rediviva Sorga in questa, con cui gemello io nacqui; Dalle stellate porte Del Ciel scenda la vita, e immortal viva In lei per cui nel morir suo rinacqui. In quella non soggiacqui; Che soggiacer non può casto desio, Ma del costei morir figlio son io. Dalle ceneri intatte Rogo d' empio livor sorsi Fenice, Morto all' obblio, ed immortal rinato, Quando per via di latte Nell' ascender al Ciel vita felice Costei concesse a me celeste nato: E il suo spirto beato Gode in quella indivisa alta unione La sovrana cagion d' ogni cagione. Così di morte, e vita Fulle autor chi la uccise a un punto stesso, Com' io sarò per lui d' odio, e d' orrore: L'innocenza m' invita Da supremo poter ciò m' è permesso, M' affretta l' onestissimo pudore, M' inspira il casto amore Immutabil pensiero, e pertinace D' essergli a tergo ogn' or con ferro, e face. Crudo infernal ministro Di fere voglie, ferro empio, e nocente, Anima ardita, e casto sen trafitto, Cigno del bel Caistro. Con metro funeral canti dolente,

Che destino infallibile ha prescritto Al nobil spirto invitto, Lungi dal guado dello stigio obblio, Un esser immortal vicino a Dio. Con sacrilego scempio Profan violator di leggi sante Tentò (di foco reo l'animo acceso) Ferocissimo, ed empio Macchiar il casto sen puro, e costante, Ma l' inostrò del nobil sangue offeso E stinto pria, che reso? E fu immolata (o sacrifizio strano) Vittima umana ad un furor insano. Stromento infame, e rio D' un barbaro uccisor fè, ch' immortale Lucrezia diventò casta morendo. Ma che? non gia morìò, Martire del Pudor da morte tale Vita acquistò, qual non sortì nascendo: Così lieta ridendo, Velocissima al Ciel spiegate ha l' ali; E l' ossa giaccion quì caduche, e frali. La man, ch' empia divelse Dalla salma gentil la nobil alma, Tosto in rigida selce Aletto cangi, ed abbia D' infamia, e crudeltà titolo, e palma: E il barbaro uccisor colmo di rabbia, Co' fieri mostri intorno, S' aggiri notte, e giorno A lochi solitarj orridi, e cupi, A balze, ed a dirupi, Ove la faccia il Sol sempre ascosa; Senza trovar mai posa, E di sè stesso eternamente ei sia Carnefice immortal, perpetua Arpia.

TEntai palustre augello ergermi a volo Ove in Parnaso i sagri cigni han nido, Ma conobbi al desio l' ingegno infido, Quando nell' innalzarmi io caddi al suolo. Risuona ben dall' uno all' altro Polo Del gran Vate ascolan la fama, e il grido; E gli consacra al suo bel Tronto fido Del caistro i pennuti a stuolo, a stuolo. Potess' io almen di tante glorie al lume, Come vicin al Sol l' arabo Augello, Godendo gl' occhi incenerir le piume. Ma s'ho al pensiero il proprio stil rubello, Sorga Omero, ed Apelle, e al nome, e al nume Sagrin di Sebastian penna, e pennello.

1675

O Belle Donne, o voi, che incauto il piede Su la pania d' amor ponete ognora, Cercate di ritrarlo, oimè, che fuora Trar non si puo, se Amor l' invesca, e fiede. Presso al suo Trono, e del dolor la sede, E col dolce di lui l' aspro dimora, Per un breve piacer l' anime accora, Quanto colmo d' ardor, privo di fede. Fuggite dunque, e con amor fuggite Chi vi esorta ad amar; che troppo è corto Quel van piacer, che si vi rende ardite. Non troverete amando alcun diporto, E specialmente essendo ad uomo unite Di capo acuto, e ciò non dico a torto.

1678

SIgnor, per tua pietà non mi punire, Come gl' irati, ma tua santa mano Faccia di me, siccome Padre umano Far suol di caro figlio in suo fallire. Abbi misericordia de' miei mali, Che gia son penetrati insino all' ossa; E perciò l' alma mia tutta commossa, Discopre a te le sue piaghe mortali. In ogni parte afflitta mi ritrovo, E li malori miei si avanzan sempre; Se ti giuro, o Signor, di mutar tempre, Deh, perche tardi alla pietà ti movo? Per tua bontà non per mio proprio merto Libera l' alma mia, che non perisca; E il mio dolor la faccia tua lenisca, Rivolta a me, di cui giojr mi accerto. Poiche qual gloria dalla eterna morte Ti darà l' alma mia da te creata? E dalla turba rea la giù dannata Qual lode ascende alle celesti porte? Io del peccato mio sì afflitta sono, Che struggendo mi vo in sospiri, e pianto; Nè fia, che mi rammenti ardir cotanto D' averti offeso, e non chiegga perdono. Empj spirti, infernali, omai partite Da me, se al mal vostro parlar m'inchina; Giunte son le mie preci alla divina Orecchia, e già pietade halle esaudite. Ha egli, qual incenso i miei sospiri, E le mie calde, e umili preci accolto; Ch' egli dar suole a chi si è a lui rivolto

Gioja in vece di tema, e di martiri. Perciò fuggano tosto i miei nemici Spirti d' averno svergognati, e sia Il loro scorno questa gloria mia, Mentre essi peneran sempre infelici. E a lor malgrado diano gloria eterna Col lor penar a tua giustizia, o Dio; E siano queste lodi tue, che anch' io Ti darò onor, e gloria* Original has "glo ia". sempiterna. IO mi confido in Dio, dunque a qual fine, Ch' ali mi metta al piede agili, e pronte Mi consigliate, e come augello al monte Passi a menar solingo ore meschine? E ver, che i miei nemici han teso l' arco, E preparate le saete acute, Ma ancora io so, che non avran salute L' alme, che di mal far prendon l' incarco. Vedi, mio Dio, che quel, che a me donasti Tentato hanno rapir contro tua legge; E pur sanno, che v'è chi il tutto regge, E durano in voler liti, e contrasti. Ma io per questo sol mi acheto, e taccio, Se dico in Ciel sta Dio quasi in suo tempio, Di là de' miei nemici orribil scempio Farà col suo possente armato braccio. So, che con occhio di pietà rimira L'oppresso a torto, e che a lui volge il core; E che col solo sguardo il peccatore Audace strugger puo, quando si adira. Render conto si fa del reo convinto, E dal giusto non men dell' opre loro, E a questo premio dona, a quel martoro,

Onde il mortal sta in suo poter avvinto. Piove sovra de' rei possenti lacci Di turbini di solfo, e di facelle; E calice lor porge di procelle, La di cui feccia son le pene, e i straccj. Tutto perche giustissimo è il mio Dio, E come tale giustamente regge, E qual fido pastor al proprio gregge Non vuol, che il giusto si metta in obblio. La gloria dunque sia della giustizia, Che eterna esser dovria, se Dio è eterno; E tale si vedrà sin nell' inferno, Ove l' empio discerne sua malizia. EGri mortali, Volgete l' ali Di vostra speme Col cor insieme; E con amore, Sperate la salute dal Signore. MIo supremo Monarca, o qual eccesso D' amor mi dimostrate, Mentre di dar cercate La vostra stessa gloria in mio possesso. Indegna mi confesso; E benche tal' io sia Pure quest' alma mia, Tratta da quel desio, che fu divino, Brama sempre goder Dio solo, e trino.

1680

S' Ottenebra la Terra, il Sol s' oscura E dal corso primier rivolto ei riede; Vedova sta la sede, Ove egli pria solea varcar l' Empiro, Nè per questo io m' ammiro; Che se in Croce sospeso è un Dio, che muore, Convien, che mora ancor il Dio dell' ore. L' infinito, umanato omai finisce, Si risente perciò quel, ch' è finito, E se il maggior ferito Cadde, giust' è, ch' anche il minor ne pera, E dentro fosca sera Il Mondo stia di tenebre corrotte, Fatto Fabbro da sè d' eterna notte Lagrimate tutte, o Genti; Del fattor, che vi creò, Il figliuolo fra tormenti, Per voi morte sopportò, E pur ingrato l' Uomo al Redentore L' offende co' peccati a tutte l' ore. O del Genere Umano iniqua sorte, Abbandonna la vita, e corre a morte

1685

CEsare, tu vincesti; omai dappresso Fuggì il campo Agareno, e più non torna; Trema la Luna, e l' argentate corna D' orrori avvolge all' Oriente appresso. Il superbo Visir vinto, ed oppresso Del Bosforo alle sponde, ecco ritorna, Ma la gloria maggior, che in te soggiorna, E' tra le glorie tue vincer te stesso. T' opprime il tradimento, e allor, che morta La tua pietà credea l' Ungaro rio, Di cristiana virtù segui la scorta. E per serbarti il titolo di Pio L' Acquila tua real s' innalza, e porta A te gli allori, e le saette a Dio.

1695

CIgno gentile, il tuo canoro ingegno Della Terra, e del Ciel gl' angoli empio; E rintuzzando a Lete il fosco sdegno, Trasse raggi d' onor dal biondo Dio. Tu nutrendo nell' alma alto dissegno, Ergesti sulle nubi il gran desìo; E passando col segno, oltre ogni segno Recasti invidia al Mincio, invidia a Clio. Ornamento tu sei del secol nostro, Alla cui penna omai non è disdetto Trar dalla eternità, lume d' inchiostro. O dell' Arcadi avene inclito oggetto,

Mentre ne' carmi tuoi, tu mi sei mostro, I tuoi carmi ad altrui son di soggetto. QUesto è l' Eroe, cui dal destin fu dato Quanto dar di magnanimo potea L' Eroe, che de' gran Principi è, l' idea, Che'n petto ha un cor, ch'alto contra sta al fato. Sul fior degl' anni suoi fuor dell' usato Lo spirto negl' altrui fogli ricrea, E nel salire in Pindo, ov' io credea, Che penasse ogni mente egli è beato. All' oppressa virtute ei porge il braccio, E onde vero valor soglio non gode Parte severo, e non fa più ritorno. Io più direi, ma tal' ei d' ogni lode Maggior s' è reso, e tal di gloria è adorno, Che al folgor de' suoi rai, m'abbaglio, e taccio,

1704

SElve incognite al Sol, torbide fonti, Cimosi stagni, antri profondi, oscuri, Fiere, balze, erme, rupi, alpestri monti: Fidi ricetti sol d' angui, e sicuri Nidi di belve, in voi mi poso, e spero, Che in breve 'l giorno agl'occhi miei s'oscuri. Più non alberghi in me lieto pensiero Di lusinghiera ingannatrice spene, Ma l'arve, che il mio duol faccian più fiero.


Che d' Ission, di Tantalo le pene Son' ombre in paragon di fe tradita, E d' un' alma, che perda il caro bene. Miglior sorte mi fora uscir di vita, Che vivendo ad ognor sentirmi al core, D' amor, di gelosia doppia ferita. Ma ne pur morte puo tormi il dolore; Che nel doppio sentier l' alma confusa, Non sa donde dal seno uscirsen fuore. Lasso! al dolce parlar, mia fe delusa Rimase, ed al celeste almo sembiante; Che una Dea non credeva a tradir usa. Ben, fu pietà d' Amor farla incostante; Che se tanto ne avvampo, e m' e rubella Qual saria l' ardor mio, se fosse amante? Pur t' incolpo, o tenor d' iniqua stella; Perche farla gentil, quand' e' s' ingrata; Perche farla infedel, quand' è sì bella? Ma pari al suo fallir la dispietata Prova il martir, che se nega il giojre, A me, che l' amo, altrui ama ingannata. E mentre empia ella gode al mio martire, Schernita si riman la sua incostanza, Che pena è il fallo stesso al suo fallire. Amor, se sei tu giusto a mia costanza Or devi il premio, e se non puoi far Clori Fida, togli al mio cor la sua sembianza. Ah no, solo al mio cor pene maggiori Aggiungi, e fiamme all'avvampato petto; Ella lieta sen viva ai novi amori. Poiche del mio penar gradito effetto Almen trarrò, s' alla tiranna mia, E' ministro il mio duol di bel diletto. Forse avverrà, che un dì resa più pia. Fedel ritorni, e sgombri dal mio seno Col sol degl' occhi, il gel di gelosia.


Onde sanato dal mortal veleno, Famelico, e digiun lo sguardo torni Il cibo a tor del volto suo sereno. Allor … ma, speme vana, ancor soggiorni Nel petto, e lusingar tenti il cor mio, Perche bersaglio all' onte tue ritorni? Andranno i monti, e starà il fiume e il rio Pria, ch'io miri quel volto. Ah troppo omai. Troppo intesi, e soffrj, troppo vid' io. Anzi, occhi miei, se v' incontraste mai In quella menzognera, e al rio splendore Pur vi fidaste de' suoi crudi rai, Vi ricopra in quel punto eterno orrore

1708

CH' io torni a ricader nel primo laccio Lo pensa, ma s' inganna il mio pensiero; Sempre, o mia fida, ti scopersi il vero, Ed è ver, ch' io non temo alcun impaccio. Sia Fileno di foco, o sia di ghiaccio, Sia quall' usa mendace, o pur sincero Nulla a me cale, or che al tiranno impero Del faretrato Dio, più non soggiaccio. Negartelo non posso, io l' adorai, Ei fu de' pensier miei, l' unico segno, Ma poiche mi tradì, più non lo amai. L' amor però, non s' è cangiato in sdegno; Indifferente io son, perche stimai D' odio, e d' affetto il traditor indegno.

1712

OCchi, il Sol vostro a voi non da più lume, Non vi rischiara più, più non v'accende: Per altri, non per voi fervido splende, E vuol, che fredda notte vi consume. Tempo fu, ma ben presto ebbe le piume, Che di voi si compiacque, or se ne offende; Rigido un picciol raggio vi contende, Cangiato affatto il solito costume. Ma non vi turbi gia la sua incostanza, Siate clizie fedeli, e resti in voi Il pregio dell' amar senza speranza. Tra le tenebre vostre dite poi, Adorando la luce in rimembranza, Spunta l' Alba, esce il Sol, ma non per noi. NOn fu di morte lo spietato strale, Che al Mondo tolse la bell'alma altera, Dolce sonno la trasse all'alta sfera, A goder colà su gloria immortale. S' ella appena vestio manto mortale D' ogni pondo terren sciolta, e leggera, E tutta accesa di se pura, e vera Pur sempre visse a sè medesma eguale. Mal potea d' empia Parca il crudo telo. Mover ver lei in aspra usata forma, E addurre oltraggio in così nobil velo. Iddio prescrisse al suo partir la norma, Onde si lascia il Mondo, e ratta al Cielo Passa la bella Donna, e par che dorma.

1712

CRedei degl' anni sul più verde aprile, Che il render vinto, e prigioniero Amore Fosse di saggio, e ben temprato core La più illustre fatica, e più civile. Credei, che il non dar loco a timor vile Allor, che ferve il Marzial ardore, Fosse virtù da grande, e la maggiore Prova di Eroe magnanimo, e gentile. Credei … ma folle, e non vid'io, ch' assale, Il timore ben sì, ma non da morte, Ed Amor con chi fugge è imbelle, e frale? Ahi, che il pugnare, e il debellar la sorte, E' sol d' invitto cor fregio immortale; Ed è impresa da saggio, opra da forte.

1720

SIgnor, che sul fiorir de' tuoi begl' anni Torni degl' Avi, ai gloriosi Imperi, O qual dalla beltà de' tuoi pensieri Prendono maestà que' patrj Scanni! Ricchi de' tuoi sì generosi affanni, Spiran terrori luminosi, e fieri, E sull' orme de' tuoi genj guerrieri Gia ruotan l' armi a debellar tiranni. Parmi veder dal sito degl' Eroi Stupirsi il tuo gran Padre alle tue glorie,

E portar dolce invidia a' fregj tuoi. E dir, poste in obblìo le mie memorie, Famose ancor dopo mill' anni, e poi, Avrò vita immortal da tue vittorie. ALlor, che in questa vita a noi discese L'alta Eroina, che all' Austrasia impera, Le furo intorno i Numi a schiera, a schiera, Con cento fra di lor varie contese. Giove, questa, diceva ad alte imprese Spedj qua giù, dalla superna sfera; Giuno a più scettri, io destinai l' altera Palla, di mie virtù l' anima accese. Venere, allora con un dolce riso Disse, addittando quel divin fulgore; Ecco di vostre gare il fin deciso. Io tanta le donai grazia, ed ardore, Che in noi due sole agl' atti, ai vezzi, al viso Non sa più dir, chi gli sia Madre Amore. MAnd'al Cielo i sospir mio grave affanno, Perche m'aiti, e pur mi trovo in guerra; Ma'l lor volo Amor turba, e con inganno Gli rompe in aria, e a mezza via gli atterra. Ei sa, che a torto il suo rigor disserra, Con barbara empietà sempre a mio danno, Quindi è, che i miei sospir rispinge a terra, Nè vuol si dica in Ciel, ch' ei sia tiranno: Nè vuol si sappia, che gli amanti affida, Nel dolce calle, e poi nell' aspro, ed erto

Senza speme gli lascia, e senza guida. Ei, ch' è dell' alme ingannatore esperto, Sa, che un semplice cor, che non diffida, Mal può fuggir da traditor coperto. LAssa, ben so, che mortalmente fiede Quegli, che fà di noi ciò, che a lui piace, So, che il nostro sperar spesso è fallace, E che per picciol tempo ei ne tien fede; So, che a un fido servir niega mercede, So che allor, che ci alletta, ei toglie pace E pure amor non spegne in me sua face Anzi il tributo usato ai lumi chiede. So, come i dì, come i momenti, e l' ore Men' passo senza speme in duro affanno E veggio il mal, nè so fuggir l' errore: Che il volto, il riso, i gesti, che mi stanno Altamente scolpiti in mezzo al core, Fan, che languendo adori il proprio danno. AHi dolce libertà, come tu m' hai Partendoti da me, lasciata in pene! Pur mi è sì caro il loco, ove tu stai, Che di cercarti a me, voglia non viene. Un parlar dolce, e due vezzosi rai, Mi t' involaro, e Amor colà ti tiene, Ed io invaghita son, sì de' miei guai, Che fo decoro mio le mie catene. Che tanta è la beltà, che dammi affanno, Che fa, che dell' ardor, che in me si annida,

Adori la cagion, nè pensi al danno. Amor in altra parte non mi guida, E gli occhi altrove volgersi non sanno; Tanto ell' è bella, e tanto ho l' alma fida. SPeme, che riposar mai non mi lasci, E sproni, e sforzi le mie voglie, e il core, Cote di Amor, di cure, e di rancore, Che sei vita, e sei morte allorche nasci; Perche nel mezzo del mio sen rinasci, Se te ne svelse già l' altrui rigore? Se d' averti creduto or ho dolore, Perche di tue lusinghe ancor mi pasci? Deh, vanne a' lieti cori, e fortunati, E quei lusinga, e me lascia ne' pianti, Che tu non hai virtù su i disperati: Poiche i miei guai son tali, e i dolor tanti, Che in ben soffrir tanti martir spietati, Son fatta esempio a' più infelici amanti.

1724

MEsta sen corre in questa parte, e in quella Ogni bianca, agnelletta, ogni Pastore. Ed ogni Ninfa alla trista novella. Sfoga in caldi sospiri il fier dolore. Che Laurimbo si porta a far più bella Quella Città, che il nome ebbe dal fiore; E gli fa luce la benigna stella, Che dell' alba ha più chiaro il suo splendore. Egli però con core invitto, e altero Non cede al vano duol d' afflitta greggia,

E si avanza di gloria oltre il sentiero. Vada dunque là dove egli pareggia Ogni fior di virtù del tutto intero, E la capanna sua si muti in reggia. LAscia, Signor, che pianga or l'alma mia Sue tante colpe a' piedi tuoi contrita, Vogliendo il guardo alla passata vita, In cui lunge ne andai dalla tua via. E se fin' or non piansi, or pena sia Il pianger sempre, e in te sperar pentita, Sperar, che al fin di tua bontà infinita M' inebbri il dolce, e pace al cor mi dia. Sì, in te sperar vogl' io, che grand' errore Dubitar pur saria di tua clemente Pietà con troppa offesa al santo amore. Così sperando l' alma il dolor sente Dell' ingiurie a te fatte, alto Signore, E fassi puro il desiderio ardente.

IO non t' invidio, o Donna grande, i venti Lustri, e quei più, ch'è per donarti il Cielo; Avess' io pure a rinovarti il velo Mo tale i succhi di Medea possenti; Ma ben la tua virtute, e quegli accenti, Che ti rendon sì cara al Dio di Delo T' invidio, che di morte dopo il gelo Viva ti serberanno in fra le genti. Alfonso, in te, se coll' illustre sangue Di rama l'estro, che si fa sì chiaro, E dove sorge il Sole, e dove cade; Fassi il vigor, che in l' Ava tua non langue Dopo un secolo ancora, e vada a paro La eredità del genio, e dell' etade.

SCorno dell'altre stelle in Ciel lampeggia Con insolito lume Astro ridente; E di tre Re, che han soglio in Oriente, Quel novello fulgor l' occhio vagheggia. Parton co' doni della propria Reggia, Seguendo i rai di quella scorta ardente, Che ad adorar li guida il Sol nascente, Per cui la Terra, e il Ciel ride, e festeggia. O saggi, o invitti, o avventurati Eroi! Se il Ciel le cifre sue con mente chiara D' intender così ben concede a voi. E saggio sia chi una virtù sì rara Seguendo al Re de' Regi i doni suoi Ad offerir dal grand' esempio impara. NElle procelle sì, non nella calma L'onda s'innalz' allor, che il mar più freme E quanto più s'aggrava, e più si preme Più le sue frondi al Ciel drizza la Palma. Ha le procelle il Mondo, ove pio l' Alma Alzarsi al Ciel, e nelle angoscie estreme Drizziar a Dio il pensier, che porge insieme Speme, e conforto a tormentata salma. Quei, che pria per la Fe donò la vita, E il Cielo aperto a vagheggiar fu ammesso, L' onda, e la Palma coraggiosa imita. Poiche percosso egli è, ma non depresso, Ed in que' duri sassi il Ciel gli addita La vera via, per innalzar sè stesso.

SI, ch' io t' amo, Fibeno, e mi do vanto Di non amar quello, che il Mondo apprezza, D' illustre nobiltade, o di ricchezza, E di beltade fragile cotanto. Questi don di fortuna, che altrettanto Essa dispensa a chi più la disprezza Non amo, perche in sè non han fermezza; Ne i pregj suoi ponn' invitarmi al canto. Amo in te la prudenza, amo il coraggio, L' umiltà la pietade, e quel dì grande, Che alberga nel tuo cor onesto, e saggio. Desio poi, che tu imiti le ammirande Opre de' grandi Eroi, acciò in omaggio Dian gl' Allori al tuo crin doppie ghirlande. DEl pio Gregorio alla grand' Urna accanto (Strania cosa nel ver) Morte piangea; Colà s' appressa il veglio alato intanto, Che tutto in polve quel ridur volea. Morte lo vide, e disse; o amico alquanto Deh ti sofferma, e poiche l'empia, e rea Falce ver lui rotai, tu almeno a tanto Eroe perdona, ch' io serbar dovea. Il veglio allor, che a fine non condusse L' audace intento, alle preghiere arreso, E l'Urna, e il manto in cenere ridusse. Tigre così, che offendere non abbia Potuto alcuno in alta pianta asceso, Sfoga contr' essa la crudel sua rabbia.

DUnque quella famosa, inclita Dama, Onor d' Arcadia in questo avello giace? Dunque spenta è del brio la bella face, Che al Mondo tutto aggiunse lume, e fama? Per sue rare virtù, che ognuno acclama In lagrime di duolo il cor si sface; Ma il pensier, ch' abbia in Cielo eterna pace L' invola al pianto, ed alla gioja il chiama. No, che ad alma gentil degl' anni 'l fiore Non recise empio ferro; anzi 'l raviso Spuntar più bello in un col suo Signore: Che se Parca crudele ha pur diviso Dal nostro suol quel Giglio, il santo Amore Nel giardin l' innestò del Paradiso. SUl tuo verde il vermiglio io vo girando Sol per espormi a più sublime segno, E mentre co' miei fiori io t' inghirlando Rendo pomposo il tuo silvestre legno. Silvestre tronco io son, nè pongo in bando, Che sol di mesta forma idea ritegno, Ma val più assai di te mia forza, quando Contra il soffio degl' Euri io mi sostegno. Se Poeta, o Pittore il guardo errante Fissa talora in me, nel più bel loco D' eterno onor ripone il mio sembiante. Mostri 'l tuo bello è ver, ma sol per poco, Ma nel mio verdeggiar sempre costante, E vento, e verno, e nevi io prendo a gioco.

APpena io vidi, o Filli, il tuo bel volto, Donde pare, che ai cor dia legge Amore, Che tosto entrommi in seno un certo ardore, Che piacere sentia d' averlo accolto. Quando m' avvidi poi, che m'avea tolto In breve tempo, o Dio! la pace al core, Dell' amorosa frode ebbi dolore, E volea sciorre i lacci, onde io fui colto. Ma troppo il crudo Amor fabbricò sodi I ceppi, in che egli strinse i mei desiri, Onde in darno tentai frangere i nodi. E pur superbo andrei de' miei martiri, Se tu, che i miei sospir, Filli, non odi Godessi, al suon de' miei caldi sospiri. TU, che pur spiri amore, e amor non senti, Cara cagion del mio penoso ardore, Dimmi, s'esser puo mai, che i miei tormenti Destino in te pietà, se non amore. Se miro gl' occhi tuoi vaghi, e ridenti, Sento un raggio di speme entrarmi in core; Ma quando avvien, che il tuo rigor rammenti, La non ben nata ancor speranza more. Onde costretto io son d' amor sì strano Tutto a celar nel core il rio martoro, Ma celarlo, e scoprirlo, e tutto in vano. Così vivo alle pene, e ai gaudj moro, E martire d' amor tanto inumano, Odio la fiamma, e chi l'accende adoro.

SFoga pur contro me, Cielo adirato, Quanto più sai tuo crudo, aspro furore, Che indarno tenti di fierezza armato Spegner favilla al mio cocente ardore. Puoi ben tormi, ch' io possa in su l' amato Volto nutrir questo affanato core; Ma sveller non puoi già dal manco lato Il dolce stral, con cui ferimmi Amore. Sia mi pur sorte rea, ognor più infesta; Viva pur l'alma in pianto, ed in cordoglio, Che il mio fermo desir ciò non arresta. Io son di vera fede immobil scoglio, Cui di continuo il vento, e il mar tempesta, Ma non si frange al lor feroce orgoglio. ALfonso, i due cinquanta son passati, Che sento profferire io non ardisco; Perche se il bene, e il male insieme unisco, Non trovo il viver mio, se non peccati. Non ho per questo i spirti consumati, Che sempre ai Numi 'l mio pensier spedisco; E de' doni del Cielo anch' io stupisco, Che a tante meritevoli ha negati. Alfonso, è giunto il fin della mia vita; Che più di cento vivere non lice, Sento la voce, che di là m' invita. Oh fosse ella una voce appien felice, Che al gran passaggio mi porgesse aita, E non andassi ove ne andò Euridice; Ma come in Terra in Ciel fossi Beatrice.

IL mio nemico Amor vuota di strali Ave a già la faretra, e a poco, a poco Alla face mortal mancava il foco, E cadevangli al suol spennate l' ali. Ed io, vedendo allor tanti suoi mali Andava altrui narrando in ogni loco, Com' io lo vinsi, e mi prendeva a gioco Le sconfitte di lui gravi, e fatali. Quando ei per far di me, qualche vendetta Investe gl' occhi di un fanciullo, e il core Ad amar l' innocente invita, e alletta. Io che l' arte conobbi, il giusto ardore Non ricusai, e in quella età imperfetta Amo il vago fanciullo, ed odio Amore. QUeste, che fuor per gl' occhi amare stille Mandò poc' anzi angoscioso il core Non son, mostro inuman, pegni di amore, Ma del mio giusto sdegno alte faville. Ben mille volte, ahi rimembranza! e mille Quando più acceso in te vidi l' ardore Disciolsi in dolce lagrimoso umore Per gioja, e per pietà le mie pupille. Ma poiche senza core, e senza fede, Spergiuro traditor, mi torni avanti In me ragion si avanza, e il senso cede. Quindi t' abborro, e le catene infrante, Che mi legar, piango, che Amor ti diede, Empio, indegno, crudel, si fida amante.

LA Tortorella, che riman soletta, Qualora errando al bosco, o alla campagna, Perde la sua fedel, dolce compagna, Quanto si attrista mai, quanto l'aspetta! E se avvien, ch' ella torni, eccola in fretta Le vola incontro, nè di lei si lagna, Ma se le pone accanto, e l' accompagna Al caro nido seco unita, e stretta. Tal oggi, voi gentil, vaga Donzella, Tornando a questo umil nostro soggiorno, Sembrate la smarrita Tortorella Noi tutti allegri vi corriam d' intorno; E chi per man vi prende, e chi vi appella Bacia ciascuna il caro viso adorno. QUando in più verde età vid' io nascose L'alme vostre sembianze in questa parte Crescer di grazie, e di virtù cosparte, Come in vago giardin ben culte rose. Di voi mi disse il cor molte, e gran cose, Che un dì saranno, e che già sono in parte; Ma rozza Donna io non ho ingegno, od arte, Di altrui ridirle quai le veggio ascose. Talche muta fra due chiedo al mio core, S' ei puote Uom ritrovar qua giù di vui Degno, e del vostro primo illustre amore. Poi Francesco mirando, e i pregi sui Grido, ch'egli fia eletto a un tanto onore, E che voi siete sol degna di lui.

DElla mia gioventù nel primo fiore Fu mia cura maggior, mio maggior vanto Pascer la greggia al bel Panaro accanto, E superba sprezzar lo stral d'Amore. Si sdegnò dell' offesa il rio Signore, M' attese al varco, e al fin mi prese. Ahi quanto Ne fe acerba vendetta! al duolo al pianto Dannò per sempre gl'occhi afflitti, e il core In oscura prigion tra lacci avvolto, Misero, ei soffre ancor tormenti, e pene, Nè sente la ragion, che il vuol disciolto E in vano il tempo a risvegliarlo viene Dal letargo fatale, ove è sepolto; Che sol morte puo scior le sue catene. SIllo, nol niego la dolente, e cara Nemoria di Filen porto scolpita Nel core ancora, e la sua morte amara Io sempre piangerò, finche avrò vita. L' avena tua, che così dolce, e chiara Risuona in ogni colle, a non più udita Costanza applauda, e all' alta fede, e rara, Che a un estinto Pastor pur tienmi unita. E s'avverrà, che un giorno tu riveggia Il bel Sassuolo, e che sereno, e grato Fecondi il Ciel la tua novella greggia. Ripiglia si, ripiglia il canto usato; Che là, dove più vago il suol verdeggia, Verrà ad udirti quello spirto amato.

TRa duri sterpi, e tra silvestri ortiche Passo felici, e fortunati i giorni; Quì dove solitarj almi soggiorni Goder mi fan le sorde selve, amiche. Fecondi il Ciel la tua novella greggia. Se per piacer le spente fiamme, antiche Fo, che il pensiero a rammentar ritorni, Non v' è, ch' il mio pensar turbi, o distorni, Se mute son queste mie piaggie apriche. Fecondi il Ciel la tua novella greggia. Non s' ode quì d' ambiziose* Original has "d ambiziose". genti Il vaneggiar, ma degli Augelli 'l canto, Misto col suon di pastorali accenti. Fecondi il Ciel la tua novella greggia. Quì soggiornan le Muse, e al dolce incanto Ferman nell'aria il loro corso i venti, E cede Pindo a queste selve il vanto. OImè, lo sposo, oimè, la fida scorta; Oimè, il sostegno della vita, e il lume Gito è sotterra; oimè, il real costume, Oimè, l' alma virtù con seco è morta! Oimè, la pace mia fu breve, e corta, E restò il duol, che m'arda, e mi consume E già son gl'occhi miei fatti un sol fiume E grido, e piango, oimè, chi mi conforta? Ah ch' opra fu dell' aspre stelle infeste Questa si rea, che ognora il cor mi fiede, E delle mie miserie il corso affretta. Che parlo, o che vaneggio? empio, e chi crede, Che l'ajuto divino altrui s'arreste; E l'alma mia dal Ciel* Original has "Clel". soccorso aspetta.

COme esser puo, che in così amene, e belle Selve tu viva in libertà penosa, Se il core hai teco dell' amata sposa Ovunque vada o in queste parti, o in quelle? Non potran far maligne, avverse stelle, Ch' ei non ti segua, e che non tenga ascosa In sè l' immago del tuo ben gelosa, E non sparga segrete, alte facelle. Fu dunque vano quel pensiero, o inganno, Ma no, ch' egli è che seco parla, e trema A ogni incontro* Original has "incont o".di fiera o passo umano. Che se parte con te gioja, ed affanno, A ragion teme di quell' ora estrema; Che due vite in un filo ha la sua mano. ARmato di rigor l' augusto ciglio, A me sempre crudel, Principe amato, Sordo a' miei preghi, e al mio desire ingrato, Mai non torrete da pietà consiglio? Soffrirò pur il doloroso esiglio, Sosterrò pur vostra fierezza, e irato Mai non fia questo cor, benchè ostinato Ad adorare in voi 'l suo periglio. Pria, che mutar pensiero io morir voglio: Voi foste infido, io lassa, troppo amante: Sia il pentimento eguale al nostro orgoglio. Ed ambi al Dio d' Amor prostrati avante, Quali cose di voi narrar gli voglio; Voi non di me, che fui fida, e costante.

MEntre all'orror de' lunghi affanni miei L'anima fra sè stessa stà pensosa, E tenta di fuggir quei crudi, e rei Occhi cagion di sua fiamma amorosa: Volgendo allor lo sguardo ai dolci, e bei Lumi dell' Idol mio, l' alma paurosa Raffrena il suo desire, e più da quei Crudi tiranni di scampar non osa. Poi ripensando alla cagion primiera, Che sul Reno, e sul Tebro ogni speranza Le tolse, e a quella fe spergiura, e nera; Torna a pentirsi, ma più non s' avanza; Che basta a raffrenar sua voglia altera, Di quel volto gentil la rimembranza. STrugge l' ardir, e tien l' Alma legata, E in mille crucci rei tormenta il core Quel pensier crudo, quell' aspro dolore, Senza cui troppo ognor sarei beata. Perfida Gelosia, sorella ingrata Di quel soave ben, ch' è detto Amore. Paura,* Original has "ura". che il piacer scaccia, e vil timore Del proprio merto, e della cosa amata. Gentil cosa l' amar da lei diviso Fora, ed io certa, d' ogni cruccio fuori Paga vivrei mirando quel bel viso. Quanto contente dei lor dolci amori Ardon l' Alme là su nel Paradiso, S' è ver, che senza lei s' ami, e s'adori.

D' Alpe romita in cima ov' or mi celo S' aggira il piè non s'avvilisce il core; Che in van s' oppone al mio fedele amore Ampio mar, vasti monti, irato Cielo. Certo sciolta n' andrà dal mortal velo Quest alma pria, che mai spenga il mio ardore; Che non puote, e non vuol cangiar tenore La mia costanza; e fia colui di gelo. S' avanzi pure empia fortuna, e al guardo Orribil mi presenti i suoi trofei; Nè il crudo aspetto il piè farà più tardo: Io son costante, e in mille modi rei Vibri Amor pure il velenoso dardo: Sol morte aspetto, e non soccorso, o Dei. O Di Stirpe reale alma Donzella, Del vasto Ciel di Francia inclita figlia, Qual novo appar nel tuo bel volto riso? Tali vibran di amor lampi tue ciglia, Che assai men vaga è l' amorosa stella, Ad ogni occhio mortal, che in te sia fiso. Ecco Imeneo, quasi in suo trono assiso Sul nobil petto, e nella fronte altera L' aure catene al tuo gran sposo ostenta; E tu lieta, e contenta Porti nel cor la chiara face intera; Onde forza è, che senta L' amante sposo del desir le spine, Sin che sien del giojr l'ore vicine.

e di, come scacciando i gravi affanni Italia, del Panaro in sulle sponde S'alza fastosa, e tien la speme a lato, Che sien tue nozze a lei tanto seconde, Sicchè in grembo all'obblìo restin suoi danni; L'augusto nome tuo ridir al Fato, E Fama intanto dell'eterno fiato Empie sua tromba, e fa che s'oda intorno Delle gioje d'Italia il certo suono: Giunge su Pindo il tuono Dell'alto grido, e nel divin soggiorno Fatte per ampio dono Già le Muse presaghe, e feste, e canti Preparan liete ai gloriosi amanti. Spargon fra noi l'almo sussurro, i venti, Che fan le Dive dell' Aonio Coro, Ed Eco il rende ai più lontan ritiri; Quinci una fronda del pregiato alloro Toglie ognuna festosa ai crin lucenti, E l'intrecciano a gara in varj giri, E fatto il serto, i nobili desiri Destan esse nel cor de' suoi divoti, Ch'ardon per brama già del premio eletto. Allora in dolce aspetto Una esclamò; de' vostri giusti voti E' ben degno il soggetto, Però le vostre Cetre alto accordate, Ed il grande Imeneo nosco cantate. O degl'Itali vati illustre gente, Soggiunse poscia in grave dir la Diva, E qual vi fu d'onor più aperto calle Di quel, che in oggi i vostri genj avviva? Empie d' Apollo ancor l'eterna mente L'Estense Fama, e dalla sagra Valle Clio la diffonde, e immortal gloria dalle. Segue il divin voler l'avaro Veglio

E dell'empie sue offese ad onta, e scorno D'avite palme adorno Stassi il Rampollo, che d'onore è speglio, Ed in questo gran giorno, Per appagar di sì bel sangue il lume Al suo le innesta delle Gallie il Nume. Quel* Original has "Q el". Nume, ch'ebbe a ristorar dai mali Francia, dei Fati per sovran consiglio, Che d'Augusto, e Trajan gli anni felici Ridusse a noi da sì rimoto esiglio; Contro i quai tende in vano invidia i strali, Per trionfar qual suol degl'infelici: Spins'ei la frode in fuga, ed agli amici D'una chiara virtù diè stabil seggio Per esso la pietà, la fè s'onora, E giustizia s'adora: Gli fan Giustizia, e Maestà corteggio, Onestà s'avvalora; E la bella dell'oro età risorta, Dovizia, e pace a questo Regno apporta. Tacque, e concordi, e pronube le Muse Fra molli rose in vago nembo accolte Sovra il letto genial guidano Amore: Ei tra bei vezzi, e dolci risi avvolte Le care insidie entro quei fior diffuse; Onde alfin paghe le Castalie suore Chiamano le bell'Arti a far onore Al nodo augusto, a cui son esse amiche: Col ferro industre al gran lavoro intento Suda il fabbro contento Di chiari eterni carmi, e le fatiche, Alto grida, non sento: E degli illustri Sposi i nomi, e i pregi Siedon fra gl' Inni, e le ghirlande, e i fregi.

ALma di libertade inclita Sede, D'Italia onor, che alla discorde Roma Rinfacci gl'odj, onde fu vinta, e doma, E te fai de' suoi fregi eterna erede. Gloria del Mar, che altier ti bagna il piede, E il dorso incurva a maestosa soma, Se di Lauri vie più s'orni tua chioma, Benigna arrida a ciò, che il cor ti chiede. Poichè per ondeggiar di varia sorte Dal nobile tuo Cielo erro, oimè, lunge, Tuo amor mi segua a ristorar miei danni. E nel riedere in onta ancor degl'anni, Se la vita al suo fin prima non giunge, Ver me non venga questo Amor men forte. DEl nascente mio Lauro alla brev' ombra, Tutta lieta nel core, umil m'assido, Nè del ricovro suo punto diffido, Se ben tenero ancor poc'aria ingombra. Altro più farse maestoso adombra Sicuro, e grande a suoi seguaci il nido; Pur non meno di questo altera io grido; De' fulmini anche il mio la tema sgombra. Lunge però ne sta la vampa ardita; Che Giove istesso l'alma fronda onora, Indi ad Amor, che le rispetti addita. E quì fissando i miei pensieri ogn'ora L'alma difendo, in sicurtà gradita Da quelle fiamme, ond'io non arsi ancora.

DA umile Donna a te, Signor, ancella Non isdegnar, che sien tuoi vanti espressi; E le tue doti, e gli meriti stessi, Onde ne appar l' anima tua sì bella. I rai godevi di tua amica stella, Pria, che dal Ciel per nostro ben scendessi, E acciò virtute interna indi ne avessi, Lungamente il Motor ti strinse in quella. Or tanto ben, che di là su traesti, Fa che ne speri l' Adria a cui sei Figlio Rinati in te de' suoi gran Padri i gesti, E che con grave, ed amoroso ciglio Ti additi a Gioventù, perchè si desti, E del tuo esempio a se faccia consiglio. UN pensiero talor alto mi mena A cercar di virtude il divin raggio, Poi tentando salir l' alto viaggio, Se ben pronto è il desir, manca la lena; Quinci mentre il timor le forze affrena Per voi drappel canoro illustre, e saggio Tanto rinasce in me nobil coraggio, Che del soverchio ardir sovviemmi appena. Sulle vostr' orme il mio pensiero intento, Segue l' ardor, che mi sospinge, e fiede, E mi riempie il cor d'alto ardimento E per l'ampio cammin così già crede, Di gir spiegando in cento carmi, e cento, Quanto di gloria in voi splender si vede.

AMore e un Dio; tutto che cieco vede L'intimo delle Sfere, e della Terra; Hà regno in ogni parte, e non concede, Che una affannosa pace in dolce guerra. Mira il cor di Maria, che altero cede Ai colpi, ma lo stral già non l' atterra; Si rende impaziente, ove risiede; A' tempi, ed a Natura il corso afferra Amor, che in mezzo ai moti immobil giace Nel gran sen, nel gran core ardito, impera, Che in grembo delle nevi arda sua face. Amor, non più, che il Mondo non dispera; Ma se amando Maria si strugge, e sface, D'uopo sarà, che volontario ei pera. REgger il fren con man soave, e forte Della mia Patria, e sostener l' Impero, Giudice amato, e Padre; a' rei severo Minacciar sì, per non voler la morte; TEMI ritrar dalle celesti porte, Calcar d' ogni Virtù l' erto sentiero; Cinger d' alloro il crin, ma non guerriero, Rapir la Gloria, e dispensar la Sorte; Spirare amore in maestosa luce; Con magnanimo cor sparger tesori; Esser del commun ben custode, e Duce; Sono de' fregi tuoi questi i minori, Onde la tua grand' Alma a noi traluce, Onde merta il tuo nome eterni onori.

M'Arde talor nel sen nobil desìo, Vedendo il vil di ciò, che al senso piace, Di calcar con piè franco un più verace, Fido sentier, nè pur a quel m'invio; Che alla parte miglior il fragil mio, Lusinghiero promette, e gioja, e pace; Onde avvinta mi tien con sì tenace, E sorte nodo un piacer falso, e rio. Ben vede l' alma, ch'ombra è sol di bene, Anzi amaro velen, crudo, e mortale, Ciò, che porge esca a nostra fragil spene. Ma il conoscer l'error poscia, che vale, Se le gravi non frange aspre catene Per spiegar verso il Ciel più pronte l'ale? NOcchier, che vede dal furor de' venti Rotti del suo naviglio arbori, e sarte, E che vano è l'usare ingegno, ed arte Non spera al viver suo lunghi momenti. Onde il miser fra quei certi, e presenti Perigli suoi, già s'abbandona in parte; Ma poi pensando, che dal Ciel si parte Nostra fortuna, ivi ha suoi lumi intenti. Or mentre a mia virtù, fiero s'oppone Turbin mosso da' sensi in notte oscura, Che tutto il suo vigore a terra pone; Io perchè no, fra tanto acerba, e dura Sorte, non chieggo al Ciel forza, e ragione, S'ei sol può trarmi dalla rea ventura?

IN dolce, e lieto volto, al cor l'infida Speme mostra, che lungi è il dì fatale, In cui sciolta dal carcere mortale Fia l' alma, ed ei le crede, e a lei si fida. Nè ode Ragion, che del suo error lo sgrida, E la Parca gli addita, e il teso strale; A indomito d'estrier fattosi eguale, Che il freno sprezza, e al guidatore è guida. In tal inganno all' improviso colto, Da lei, che i regi alla vil turba agguaglia, Come fora il suo riso in pianto volto? Che fia di me se alla final battaglia Sì poco esperto egli sarà? Deh, stolto, Di mia salvezza, e del tuo mal ti caglia. COsì tenaci, e tanto acerbe, e dure Le reti fur, che di tua man tendesti, Come io pur volli, e un nodo tal ne festi, Ch'or fia, ch'io in van mia libertà procure. Prendi del servir mio le usate cure, E tanto di pietade in te si desti, Che a disnodarmi la tua man si appresti, Ond'io del carcer esca, e mi assicure. Ma dove fia per me sicuro loco De' lacci tuoi dal mio fatale inciampo, Se allor mia libertà tal venne in gioco; Che sì de' miei pensier cinsermi il campo, E tal l' andar stringendo a poco, a poco, Che mai nè pur dentro la mente ho scampo.

SPira da te con invidiabil luce La bella verità sì disascosa, Che a me per entro passa, e al cor si posa Un gran suo raggio, e al ben oprar m'è duce; Ed a sorger tant' oltre mi conduce, Che di bramar la brama mia non osa, Se non l' alta virtù, che disdegnosa Del volgo vil dall'opre tue traluce; E per l' orme di lei si presto il piede Ne poggia al vero ben, che non più omai Fosco pensier fra miei pensier si vede. Onde se a tanto ben mi sollevai, Gloria è di te, che me n'hai fatta erede, Vibrando in me del tuo valore i rai. ODio, Invidia, Vendetta avete vinto, Io getto l' armi, e mi sottraggo al Campo; Non perch'io speri, e nè pur brami scampo Da sì fieri nemici, ond'io son cinto. Io vedo il Carro, a cui verronne avvinto, E del rogo feral m' arrendo al lampo; Che l' aspro duol per cui gelo, ed avvampo A morte il core, e non a guerra ha spinto. Tempo già fu, che d' Archi, e di Bandiere Temer non seppi, e di baldanza armato Risimi a fronte di nemiche schiere: Che un Nume altier, ben sallo Amore, a lato Stavami sempre, e mi fea franco: ahi fere Stelle, che il feste omai ver me sdegnato.

LInco, l'innamorarsi è gran follia; Si stringe l' onda, e si va dietro al vento. Ah Linco, Linco, se m' ascolti attento Ti dirò quest' Amor, che cosa sia. Figurati un Pastor, ch'oggi ti dia L' Agnel più caro del suo fido armento, Cui di cane rabbioso un morso lento Avesse infusa già la peste ria. Tu lo prendi, lo baci, e stringi al seno, Ei rende all' amor tuo segni d'amore Fino al dì, che stà occulto il suo veleno. Ma poi, che quel si scopre ira, e furore Divien l' affetto, e nel ferir vien meno, Così arrabbiato ognun di voi si muore. AMor, m'invita, ma il mio cor, che infido Il sa, gl'inviti suoi cauto disprezza: Ei mi segue, e or mi sgrida, or mi accarezza; Io resisto costante, e me ne rido. Egli, che fa più guerra a chi è più fido, Freme, e giura domar la mia fortezza; Agl'inganni si volge, e sicurezza Mi giura, e parte; ond'io sciocca m'affido. Ma riede, e mentre in cheto sonno involta Giaccio, deposto ogni primier timore, Voci dolenti infinge, e grida ascolta; Donna, deh ascolta, e per pietade il core Apri a Pietà, che langue: io sorgo, e stolta A Pietade apro il seno, e v'entra Amore.

QUal per l'alto etereo Campo Scorre lampo D'improvvisa nova luce, Che il bel sen sparsa di fiori, E di odori Primavera a noi conduce? Pria che giunga il lieto Maggio, Vedi, il Faggio Veste Leta, e verde fronda Colorito, e vago il fiore Spunta fuore; Ride il Prato, e scherza l'onda. Ah, ch' Eurilla, amorosetta, Leggiadretta Coglie fiori, e il crin ne adorna: Cara Eurilla, tu sei quella, Per cui bella Primavera a noi ritorna. Per te il Rio mormora, e il Prato Pria spogliato Si riveste di suo velo; Per te il crin di lampi adorno Sale il giorno, E in sua gioja applaude il Cielo. Pastorelle, al canto, al canto, Mentre in tanto Di bei fior cinge le chiome, Soavissima tranquilla, Cara Eurilla, Salga al Ciel il suo bel nome.

FUggi via, sciocco pensiero, Nulla io voglio da te: Pazzarello, insolentello Vanne pur lungi da me. Sei farfalla da bambini, Che pigliar già non ti vo Mai per me tu l'indovini: Saggia sol se ti discaccio Qual prudente diverrò: Se ti seguo, e se t' abbraccio Solo il vento stringerò. Se tu fingi le grandezze, Se ne alletti, e se diletti, Sono larve, e vanità: Tu m'insegni a tutte l'ore, Fabbro sciocco, e scioperato A formar castelli in aria; Teco parlo, e perdo il fiato, Oh, che mie stolte dimore! Sei qual mosca, che nojosa La si posa su la faccia, Se la mano la discaccia Tosto torna fastidiosa, Nè si parte l'importuna. Ma se pur vuoi esser mio, Togli via ciò, ch'è terreno, Spoglia omai l'ombre fallaci, Le fantasme, e le chimere. Attivo Spiritello, e sempre agente, Se incorporeo tu sei, deh lascia il frale, Che allor sarai del mio voler più fida, Se diverrai celeste unica guida.

PIangi, o Sion, le tue perdute glorie Ne' tuoi perduti figli ognor dinoti, Fatta materia a lagrimose storie, Il fallo enorme, e gli esecrandi moti. Misera, dove son le gran memorie? E le grandezze immense, e le gran doti, Regi, Palme, Trionfi, alte Vittorie, Profeti, Duci, e Tempio, e Sacerdoti? Ingrata, in vece, a chi di latte, e miele La messe diede, al popol tuo promessa, Rendesti, sconoscente, amaro fiele. Giusta del tuo fallir, dunque confessa L'ira del Ciel, sì, sì piangi, crudele, Con l'eccidio d'un Dio, quel di te stessa. ANima degna d'immortal memoria, Non so, se cruda, o pia chiamar conviene La Parca, che spezzò le tue catene, Per farti una regina oggi di gloria. So ben, che tua virtù degna è d'istoria, E che solcando il Mar di queste pene, Riportasti, passando al sommo Bene, Sicura in porto alfin di lei vittoria. Come la fiamma, che sdegnando il suolo Sol per godere alla sua sfera unita Da quel s'innalza, ed oltrepassa il Polo; Così dal velo uman pronta, e spedita Qual Fenice d'Amor ergesti il volo, Anima grande, a rinovar la vita.

IL Mondo, che cos' è? Gabbia di stolti. Quali son le lor vie? Son fatte a scale. I Vecchi? son nell' avarizia involti. I più prudenti? Mancano di sale. I Giovani? Nel Vizio son sepolti. D' onor son così privi? E' il minor male. Gli amici poi? Son con due faccie accolti. I più fedeli? Alcun non ve n'è tale. E la Virtù? vestita l'han da Sfinge. A che s'attende? A ogni più cupo inganno. Chi dunque pregio avrà? Sol quel, che finge. Il zelo? Tu ti pigli troppo affanno. La Verità? Ciascuno la dipinge. Ond'io piango; ed io rido al commun danno. SOvra di te, da gran dolor ferito, O Città disleal, mira ostinata, Che a tua cagion, con la pietade usata Lagrime versa il tuo Signor tradito. Qual aspide all'incanto, empia l'udito Serri per non sentir, perfida, ingrata, Il colpo rio della giustizia irata, Che iniqua proverai sotto di Tito. Poichè gli occhi tu serri al divin Sole, Nelle tenebre tue, da te diviso Egli ti lascia, e del tuo mal si duole. Con viscere d'amor mesto, e conquiso Piange sopra di te, qual pianger suole Vedova Madre unico figlio ucciso.

NOn ti vidi, o Gesu, quando nell'Ortò Sudasti sangue, e che ministro alato Il calice t'offrì, ti diè conforto, Nè meno ti mirai preso, e legato; D'amarissima pace in mare assorto, Nè quando al popol ti mostrò Pilato, Nè sulla Croce crocifisso, e morto Oppresso ti mirai nel duro stato. Io lo credo, e t' adoro, amato mio Gesù, senza toccar l' alma lo crede, E ti confessa, e suo Signore, e Dio. O che bel pregio della viva fede, Onde pago d' amor rende il desìo, E quanto è cieca più, tanto più vede. QUest'è il Faggio, Amarilli, e questo è il rio, Ove Tirsi il mio ben, lieto solea Venire alle fresch'ombre allor, che ardea Con maggior fiamma il luminoso Dio. Quì, di quest'onde al dolce mormorìo, Mentre l' armento suo l' erbe pascea, Steso sul molle praticel, tessea Belle ghirlande al suon del canto mio. Quà vinse Alessi al dardo; ivi per gioco Sciolgea le danze, e quì dove pur ora Nascer si vede, e la viola, e il croco. Quì, disse, io t'amo, e il volto, che innamora Uomini, e Dei tinse d'un sì bel foco, Che dir non so, qual mi restassi allora.

DOlce sollievo delle umane cure, Amor, nel tuo bel Regno io posi il piede; E qual per calle incerto uom, che non vede Temei l' incontro delle mie sventure. Ma tu l' oggetto di mie voglie pure Hai collocato in così nobil sede, E tal prometti al cor bella mercede, Ch' io v'imprimo contenta orme sicure Soave cortesìa, vezzosi accenti, Virtù, senno, valor d'alma gentile Spogliato hanno il mio cor d'ogni timore Or tu gl' affetti miei puri, innocenti Pasci cortese, e non cangiar tuo stile, Dolce sollievo de' miei mali, Amore. MUse, poichè il mio Sol gode, e desìa Legger miei carmi, ed ascoltar mie rime, Fate voi, che di Pindo all' alte cime Felice io giunga per l' alpestre via. Fate, che dolce io canti, e l' aspra, e ria Sorte, e mia fera doglia il cor non lime; Ma ch' io colga per voi le glorie prime, E l' alma torni al bel piacer di pria. Me fortunata, se con nobil canto Cinger potrò di rai, sparger d' onore, E render degno il nome suo d' Istoria. Vegga egli poi qual puro lume, e santo Sfavilla in me di non mortale ardore, E legga con la mia l'alta sua gloria.

DOnna, che tanto al mio bel Sol piacesti, Che ancor de' pregi tuoi parla so vente, Lodando, ora il bel crine, ora il ridente Tuo labbro, ed ora i saggi detti onesti; Dimmi, quando le luci a lui volgesti Tacque egli mai, qual uom, che nulla sente? O le turbate luci alteramente, Come a me volge, a te volger vedesti? De' tuoi bei lumi alle due chiare faci Io so, ch' egli arse un tempo, e so, che allora … Ma tu declini al suol gl' occhi vivaci? Veggo il rossor, che le tue guancie infiora; Parla, rispondi. Ah non risponder, taci, Taci, se mi vuoi dir, ch' ei t'ama ancora. PRese per vendicar l' onta, e l' esiglio, Marzio de' vinti Volsci il sommo Impero, E impaziente, inesorabil, fero Cinse la Patria di mortal periglio: E ben potea sotto l' irato ciglio Servo mirar lo stuol de' Padri intero, Ma si oppose Vetturia al rio pensiero, E andò sola, ed inerme incontro al Figlio. Quando a baciarla ei corse, allor costei Ferma, che figlio tu di rupi alpine, E non di Roma, o di Vetturia fei. Egli allor diè la pace al Campidoglio, E quel, che non potean l' armi latine, Fe d' una Donna il glorioso orgoglio.

PEr non veder del vincitor la sorte Caton, squarciossi il già trafitto lato; Gli piacque di morir libero, e forte Della Romana libertà col fato. E Porzia allor, che Bruto il fier consorte Il fio pagò del suo misfatto ingrato, Inghiottì il foco, e riunissi in morte Col cener freddo del Consorte amato. Or chi dovrà destar più meraviglia Col suo crudel, ma glorioso scempio, L' atroce Padre, e l' amorosa Figlia? La figlia più: prese Catone allora Da molti, e a molti diede il forte esempio, Ma la morte di Porzia, e sola ancora. POichè narrò la mal sofferta offesa Lugrezia, al fido stuol, che avea d'intorno. E col suo sangue di bell'ira accesa Lavò la non sua colpa, e il proprio scorno* Original has "scorno i". Sorse vendetta, e nella gran contesa Fugò i superbi dal regal soggiorno; E il giorno, o Roma di sì bella impresa Fu di tua servitù l' ultimo giorno. Bruto ebbe allora eccelse lodi, e grate, Ma più si denno alla femminea gonna, Per la grand'opra inusitata, e nova: Che il ferro acquistator di libertate Fu la prima a snudar l'inclita Donna, Col farne in sè la memorabil prova.

IO non sò, come a questa età condotte Reggan quest'ossa ancor carne, e figura, A così acerba estremità ridotte Furon dall'ostinata mia sventura. Qual empio pellegrin, che in buja notte Tolto ai perigli della strada oscura, Le sante leggi d' amicizia rotte, Oro, ed argento al buon Ospite fura: Tal l' altrui rea nequizia, e il fier livore Mi si fe incontro d' amistà col manto, Che la maschera poi tolse al furore. Sicchè talor su la mia sorte ho pianto, Ma pur sovente empiendol di rossore Passai superba al mio nemico accanto. PEnsier, che vuoi, che in così torvo aspetto All' agitata mente ti appresenti? Perchè le pene all' alma accrescer tenti, E pormi in seno, oimè, nuovo sospetto? Già sento il gelo, che mi scorre in petto, E in parte i rai di mia ragione ha spenti; Già sento intorno al cor roder Serpenti, Svelti dal crine orribile d' Aletto. Dimmi, e qual fallo in me conosci, Amore, Che a un così rio martire or mi condanni, Me, che si fida il tuo bel foco accese? Contro un ingrato cor mostra rigore, E dell' alta ira tua sol provi i danni Quel, che tue giuste, e dolci leggi offese.

QUal ora il tempo alla mia mente riede, In cui la cara libertà perdei, E volse i lieti giorni in tristi, e rei Amor, che nel mio sen tiranno siede. Tento disciorre allor dai lacci il piede, E trar d'affanni l' alma mia vorrei, Ripensando all' orror de' pianti miei, E quale ho del servir cruda mercede. Così quando ragion l' armi riprende Meco risolvo, e di giust'ira accesa, Sveller tento lo stral, che il sen m'offende. Ma il tento invan; poichè quel ben, che ha resa Serva l'anima mia, se un guardo tende, Vinta rimango, e non ho più difesa. AHi, che si turba, ahi, che s'innalza, e cresce Il Mar, che irato la mia Nave porta, E un vento rio l'incalza, e la trasporta Fra scogli, ove a sè stesso il flutto incresce. E più la pena all' alma, e il duol s'accresce, Ch' io perder temo l' Astro, che mi è scorta, Che ben splende da lungi, e mi conforta, Ma il Ciel s'oscura, e in un confonde, e mesce Lampi, e saette; ahi quanto, ahi quanto è grave L' aspro periglio, e non ho chi m' invola Al fier naufragio, alla spietata sorte; E meco il mio nemico ho su la Nave, Egli col ferro, io disarmata, e sola; Or come potrò mai scampar da morte?

SE è ver, che a un cenno del crudel Caronte, In un con noi su la funesta Barca La rimembranza degli affanni varca Di là dell' altra sponda d' Acheronte, Credo, che allor, che il ferro, e la man pronte Avrà contro il mio fil la terza Parca, E vedrà l' alma di sue spoglie scarca Starle de' mali la memoria a fronte. Passerà forse il nudo spirto mio Là negl' Elisj, ov' Innocenza è duce. Lieto a goder tranquilla aura serena. Ma a por su tanti, e tanti affanni obblìo, Temo, che quante pigre acque conduce Il negro Lete basteranno appena. OR qual mai darem lode al pregio vostro Noi dell' Arcadia poveri Pastori? Serto noi ti farem di Rose, e Fiori? No, che cinto vai tu di Lauri, e d'Ostro. Forse a suon di Sampogna, o con inchiostro Diremo al tuo gran nome Inni canori? No, ch'hai tu d' Elicona i primi onori, E perde appo il tuo canto, il canto nostro. Tu, che di Costantino i pregi, e il vanto Fai risorger sul Tebro, e gli dai palma, Sotto il Vessillo glorioso, e santo; Tu, ch'hai maggior il cor d'ogni pensiero, Tu solo puoi cantar di tua grand' alma, Alma immortal, degnissima d'impero.

AL lume d'immortal splendida face, Che si fa scorta al fosco mio pensiero, Ben veggio, che non fu trionfo intero, Quel, che vantò l'invida Parca audace. Questa d' ogni virtù specchio verace, Inclito onor del suo Legnaggio altero, Schivare, ahi, non potè l'atroce, e fero Colpo di morte, ond' ora estinta giace. Ma come Febo allor, che a noi s'asconde, E par sepolto in sen de' flutti amari, Riluce alle remote opposte sponde: Così costei sembrò da' fati avari Immersa in mar d'obblìo, mentre diffonde Raggi vie più, che il Sole eterni, e chiari. CAsoni, lascia la deserta sponda Del tempestoso Pò, dove già Marte Empie di sangue i campi in ogni parte, Qual gran diluvio, che Provincie innonda. E quà ne vieni v' lieta aura gioconda, E la vaghezza di Natura, e d' arte, Dal vulgo ignaro n' allontana, e parte, Con pace eterna, e gloja alta, e profonda. Quì verdeggia la terra, e il bel sereno Dell' aria, mai non turba nembo oscuro; Ma il Sol vi splende d'aurea luce adorno. E, o me felice, e avventurata appieno, Se udir potrò nel dolce mio soggiorno I pensier gravi, e il parlar saggio, e puro.

BEn ampio spazio, e grave illustre impresa Sono alle rime tue famose, e rare Degli Avi tuoi l'alte virtuti, e chiare, Che sin nell' Asia hanno lor gloria stesa, Spirto gentil, ch'hai la grand' alma accesa Sol di vero valore, e a cui sì care Son le nove Sorelle, che puoi fare Co' versi tuoi contro l' obblìo difesa. Tu canta i pregi loro, e l' onorate Fatiche, e l' armi, e l'opre alte, e leggiadre, Acciochè esempio sieno a questa etate. Tu lodar puoi della tua saggia Madre Il prudente consiglio, e l'onestate, E lascia me tra nubi oscure, ed adre. COme d' Arcadia il Ciel copre, e circonda Gli ameni campi intorbidato, e nero! Come, non più di sua chiarezza altero Oscura, e trista Alfeo muove al mar l'onda! L' erba in vece, e di fior, di pruni abbonda Colle, e prato in aspetto orrido, e fero! L'arbor di Apollo, e nostro onor primiero Da folgor tocco inaridì sua fronda! Gemono armenti, e fere; in urli, in pianto Volto è d' uomini, e belve ogni contento, E degli augelli, e de' Pastori il canto; E fosco intorno suonar l' aere io sento, Cadde Nicori, e seco il lume, il vanto, L'onor, la gioja, il ben d' Arcadia è spento.

ECco, che il Sol ne riconduce il giorno, Nel quale il Mondo ebbe sì grave oltraggi Poichè morte oscurò quel chiaro raggio, Onde sen' giva alteramente adorno. Visibilmente ogn' uom vide d'intorno Quel dì, benchè nel più fiorito Maggio, Inaridirsi il suolo, e il suo viaggio Torcer Febo dal Ciel pien d'ira, e scorno. Troncar le Ninfe i leggiadretti balli, E si tolser dal crin quei, che l' ornaro Fiori persi, vermigli, azzurri, e gialli. Caso cotanto orribil lagrimaro, I Colli, i Monti, i Boschi, e l'ime Valli: O giorno più d' assenzio, e tosco amaro! MEntre ridente il Sol dall' onde uscìa, E i Monti iva a ferir col primo raggio, E l' Augellin di ramo in ramo gia, Dolce cantando all' apparir di Maggio: Sì dolce, e soavissima armonìa Scioglieva Urania assiso a piè d'un Faggio, Che il Sole intento al suo cammino pria, Arrestò per udirlo, il suo viaggio. Fermossi attento, e curioso il Rio, Si libraron su l' ali in aria i venti, E di udirlo o gai Belva ebbe desìo. Ma chi potrà ridir, come contenti Linco, ed Olimpio, i miei germani, ed io Alla dolce armonìa stavamo intenti?

VEdesti il mio Agnellin ieri, o Licori, Come con quei bei nastri porporini Parea goder, pascendo erbette, e fiori, Che il mirassero ognor gli altri Agnellini? L' osservaro con me gli altri Pastori, Che alla mia mandra allora eran vicini, Ed io fin vi chiamai la bella Dori, Che là tessea ghirlande infra quei Pini; E sen' compiacque sì, che un dardo d' oro Volea per esso darmi, e un bel carcasso, Fatto di strano, e pellegrin lavoro: Ma le risposi; sì di senno casso Non ho il cervel; questo, ch'è il mio tesoro Per sì poca mercede io non ti lasso. AUgellin, che a lento volo, Te ne vai dal Faggio al Pino, E ti godi solo solo Il tuo canto mattutino. Tu m'insegni il mio gran duolo A sfogare in sul mattino, Quando altrui cheta m'involo, Te non posso al mio destino. Deh! mi porta se tu puoi, Con la forza de' tuoi vanni Dagl' Esperj ai lidi Eoi. Porterai teco i miei danni, E saranno incarchi tuoi Le mie pene, e i miei affanni

STava un dì Clori soletta D' un bel Rivo in sulla sponda, Ammirando orgogliosetta Il suo bello entro quell' onda; Quand' un' Aura lascivetta Portò a lei di fronda, in fronda Una vaga violetta Su la crespa chioma bionda. Questo fiore, a gli altri fiori Disse allor di gioja pieno: Io morrò sul crine a Clori. Spero ancor morirle in seno; E voi intanto de' Pastori Sotto il piè verrete meno. FRa l' erba molle, e i fiori, Un dì Filli, e Licori Tesi aveano più lacci, E insidiosi impacci, Per far cadere in quelli I trascurati Augelli, Ma il fanciullin di Gnido L' arciero Dio Cupido Stanco, quì per suo male, Venne a raccoglier l' Ale; Ed in un laccio teso Egli in cauto fu preso. Le vaghe Pastorelle Liete allor, quanto belle Gli svelsero le penne, Con cui volando ei venne,

E poi vollero sciorlo, E in liberta riporlo, Per vender, come fare Ei voleva a volare. Allor quel fanciulletto Pien d' ira, e di dispetto Si vibrò lor nel seno Ratto più, che baleno, Poi disse lor: nel core Or conoscete Amore. DI desiderio ardea La vezzosa Nicea, Di togliere un bel fiore Di pellegrino odore, Che in mezzo all' erba molle Stava sovra d' un colle; Onde il Gregge lasciato A pascolar nel Prato, Lieta, e veloce gìo, Seguendo il suo desìo, Ma in quell' istante un Lupo, Uscendo da un dirupo, Si prese un' Agnelletta, E via portolla in fretta. VEspina desiosa, Di cogliere una Rosa, Fu da un Ape spietata In una man piagata Allor la semplicetta La ritirò con fretta;

E credendo, che il fiore Desse a lei quel dolore, Prese tosto a sgridarlo Dell' aspra villania, Che seco usata avia: E per fargli onta, e scorno, Tanto cercò quel giorno, Che un Giglio ritrovando, E in quel luogo tornando, Con alta voce disse. Acciò la Rosa udisse: Ecco, che ho ritrovato Un più bel fior nel Prato, Che si è lasciato corre, E nel mio sen riporre; Or miralo quant' è Vie più gentil di te SE il prato, il bosco, il vicin fonte, il rio Sapesser donde nasce il mio dolore, Il prato non avrebbe erbetta, o fiore, Che non piangesse meco al pianger mio. E si entrò il bosco a lagrimar giss' io, D' ogni belva vedrei pietà nel core Pietà, che al fonte, e al rio per lo stupore Arresterebbe il corso, e il mormorio, Ed udirei in questa parte, e il quella Dirmi il rio, dirmi il fonte il bosco, e il prato Piangi, che n' hai ben donde, o Pastorella E piangi sì, fin che al tuo pianto è dato Togliere un dì, dall' alma tua rubella La cagion del tuo pianto, il tuo peccato.

VIdi sfrondati i mirti, arsi gli allori, E la sacra d' Alfeo terra famosa Vidi non, come pria lieta, e fastosa, Ma tutta ingombra di funesti orrori; Udj la valle sospirar Nicori, Nicori il monte, e la spelonca ombrosa, Vidi piangere i tronchi, i sassi, i fiori, Piangere il bosco, e la campagna erbosa, E sarsi in volto scolorita, e smorta Ogni sacra di Pindo alma sorella, Quando gridar s' udio: Nicori è morta, E il plettro d' or, che li pendea dal collo, Infranto a sì fatale aspra novella Io vidi, io vidi lacrimare Apollo. VAghe figlie di Giove, Temprate voi con erudita mano Di Pimpla il più canoro, Eburneo plettro; E il Dio, che in Pindo ha scettro Sposi la voce al vostro suon sovrano; E col suo canto il mio tripudio approve, Or che letizie nove Brillano in sen della Trinacria bella Lieta ci arrida in Ciel, propizia stella. Dopo varie vicende Di speranza, e timor di guerra, e pace Triquetra abbraccia il suo Signor invitto: Nel marzial conflitto Al Germano valor l' Ispan soggiace,

Nè più d' ira guerriera i spirti accende In van l' oste pretende Al gran Carlo usurpar l' avito Regno, Se a mantenerlo è di sua man l' impegno. Chi nacque solo in terra Per mieter palme, e soggettar corone, Di nemico furor sprezza l' orgoglio, Del lazio Campidoglio L' Austriaco Rege in bellica tenzone, Le prische rimembranze a noi disserra; Onde il pensier non erra Se trasmigrato Alcide in Carlo scorge, Mentre il valor d' Alcide in Carlo sorge. Spunta Carlo alla luce, Come nell' Orizonte il Re del giorno Appar, per abbollir l' ombra importuna: Solo alla traccia Luna Ingombra i rai del luminoso corno, Che vaga più nell' orbe suo non luce, Ma si bel Sole adduce Mestizie ombrose a chi ne spregia il lume, Non a chi il vuol per suo Monarca, e Nume O cento volte, e cento Trinacria bella avventurata, e fida, Mentre l' Augel del novo Giove accogli: Imprimi or su tuoi fogli, Che giunse omai quel tempo, in cui s' annida Quegli dentro il tuo sen con fausto evento: Con soave contento Narri le gioje tue l' arcier di Pindo, E ne' trionfi il Mauritanno, e l' Indo, Che fia l' audace insano, Che non adori umil l' alto Regnante, A cui primo ubbidisce ancora il Fato? Egli solo ha fissato Della volubil Dea la ruota errante,

Che gira al moto sol di sua gran mano. Lo zoppo fabbro, invano Suda in vestir, petto nemico ignudo, S' a difesa di Carlo, il Cielo è scudo. Di Oreto il molle argento Fuor dell' usato stil, lieto sen corre, A ingravidar di gioje il grembo a' Teti; E quei flussi inquieti Il Dio, che della Terra, il seno abborre Placido incalma al lubrico elemento. Per lo Sican contento Brilli con quizzi il popolo squamoso, Nè muto più, stia nel silenzio ascoso. Dove fervido bolle L' incendio Etneo, che ha per sua base il gelo Fassi di rauca voce udir il suono, Del suo lugubre trono Il Dio di Dite, il reo fellon del Cielo Stupido ancora il nero cape estolle, In su l' ombroso colle, E così dice; anch'io nel mio tormento. Dell' invitto Campion, le glorie sento. Dalle superne sfere Di Latonia il figliuol, di Delo il lume Si adopra anch' egli, a consolar Triquetra: Eto, e Piroo dall' Etra Sciolge con strano, insolito costume, Sovra il dorso a portar l' Austriache schiere: Nell' invitte bandiere Così di propria man, la Sorte scrisse: Le glorie a Carlo il Ciel mai non prescrisse. Del gran Signor di Pella Calamo adulator, più non rammenti Nell' imprese ammirande il regio core; Altro eroico valore Carlo ci svela in marziai cimenti,

Che forzata è la Dea più saggia, e bella A palesare anch' ella, Che al Teutonico Rege, Eroe simile Non iscoprì gia mai, tra Batro, e Tile. Tu, che dal Reno al Tago, Inclito Eroe, le glorie tue diffondi, Mira cortese, il Regno tuo reale; Il feroce rivale Non fia, che del mio sangue il suolo innondi, Se in marzio Agone, a disetarsi è vago; Ed or, che la tua immago Porto, Signor, nel petto mio scolpita, Qual destra insana a fulminarmi è ardita? Vide la quarta volta Giano le porte sue da te serrate, Per goder io di pace un bel sereno; Ecco, che del mio seno Le più occulte latebre io t' ho svelate, Per esser dal tuo braccio, e presa, e accolta; Or che ver me rivolta, E la tua faccia augusta il secol d' oro Rinasca in me, mentre io fedel t' adoro.

POiche colui, che ne' suoi raggi ascosto Ste gl' anni eterni, e che solo è possente, Coll' opra del voler trasse dal niente La massa d' un contrario all' altro opposto; Per render poscia adorno alteramente, Qual si mostra a' nostri occhi il bel composto, Sorga, dice, la Luce, ed ella tosto La bella porta aprì nell' Oriente. Indi soggiunse: All' atra notte, e ria Mai non si accoppi, e sovra l' alta mole Del maggior astro, e pregio, e veste sia. Ecco espresso di Dio nelle parole L' alto Mistero, onde adoriam Maria, Senz' ombre eletta Madre al vero Sole. NOn il Pastor della marina torma, Che fa di sè mille sembianze, e mille; Non in fornace lucide faville, Che vanno, e dietro lor non lascian orma; Non cera, che a sugello si conforma, E non rugiada sparsa in lievi stille, Non mare, ch' ora irate, ed or tranquille, Mostra l' onde così, che par che dorma; Non lampo in Ciel, o immago in fonti chiari, Non colomba qualor al Sole avanti Forma al collo monil di color varj. Non quanti affetti in giovanetti amanti Fan guerra al cor, son delle Donne al pari Lievi, vani, fallaci, ed incostanti.

SOlitaria vagando, ad un gradito Rustico albergo mi portò il cammino, Ove l' ombra d' un alto annoso pino Ad arrestar il piè, porgeva invito. Quivi mi assido, e lo sguardo rapito Dalle bell' opre del Fator divino, Un prato scorro, e un bel fonte vicino, E di colli una scena intorno un lito. Quindi dal Cielo in me raggio discende, Onde il pensier si leva, e chiaro vede, Quel, che fra se ristretto non comprende: Che se in questa prigion tanto concede, Il buon Padre ad un reo, che ognor l' offende, Quale agli amici in Ciel darà mercede? SAi tu, mia Clori, l' altro giorno quando Mi divisi da te, che fece Amore? Ascolta; venne mentre io già intrecciando Fiori, tessendo insidie il traditore, Donna, mi disse, per chi vai formando Così bella ghirlanda? al tuo Pastore? Bianca fe, viva speme va mostrando Del giglio, e della rosa il bel candore. Risposi; ogni Pastor pongo in obblìo Per bella Ninfa, che l' Euganea onora, E almen coi fior cerco onorare anch' io. Ah nemica d' Amor; proruppe allora, Vo vendicar l' offeso culto mio; Di suo sdegno però mi rido ancora.

AMor, che nella prima, dolce etade, Quall' angue ascoso sotto i fiori, e l' erba Queto si stese, che al più cauto avrebbe Celato il come egli s' appiatta, e serba; Tempo ben diemmi a prender sicurtade Della sua forza, e dappoi noja n' ebbe, E di mia prima libertà gl' increbbe, Onde dall' ira sua tosto n' avvenne Di me quel duro, e memorabil scempio, Ch' esser potrebbe esempio A mille, se fia mai, ch' altrui l' accenne. Ma mi convien per lo segnato calle Dell' altre trar i gravi miei martiri; Se vo fede acquistar di saggia vita, Che col solo tacer spesso s' aita: Ma se disdice omai, che il cor sospiri Questo desir, che tanta angoscia dalle, E ch' ad ogn' altro fa volger le spalle, O farà in polve la cangiata scorza, O griderà 'l suo mal, con maggior forza. E già, ch'io temo ragionar troppo alto Dell' affetto, ch' ho in cor, fin or Se dall' affanno non isgombro 'l petto; In carte almen dirò, come passato Il giorno fu di quel primiero assalto; E qual novella speme, e qual sospetto Mi giunse al sen, col non usato affetto, Che tutta mi cangiò da quella, ch' era; E quel, ch' appena io mi credea in altrui, Lassa, or provo; e se fui Ritrosa a seguitar la cieca schiera, Or indarno pietà chiedo, e perdono; Che scoccò il primo colpo aspro mortale Contro cui forza di virtù non giova,

Che del suo gran poter l' estrema prova Fece il crudel, a cui di me non cale, Di cui solo or tra me penso, or ragiono. Qual un giorno mi vide, e quale or sono? Che se cerco al mio mal sano consiglio Il buon conosco, ed al peggior m' appiglio. Ben sdegnossi ragion, quando s' accorse, Ch' io cangiava la prima mia persona, E scoprì 'l danno, che il crudel nasconde: Ma pel desìo, che dolce mi ragiona, E Che speme da prima anche mi porse, Nè mia voglia ode ben, nè ben risponde Non saprei dir perche, non come, o d' onde La brama in me si muti, ed il costume, Sicche il proprio suo mal par, che le piaccia E per gridar, che faccia Volger non puomi al consueto lume; Che quel novo pensier, che l' alma impresa Il mio primo veder così m' appanna, E così i primi oggetti va cangiando, Ch' i non dovrei più gir omai pensando, Perche mi fur sì cari, e se m' affanna, Che lor voci da me non sieno intese, Un parlar dolce, un ragionar cortese, Così m' inganna, e il cor fa sì contento, Ch' anco nel lungo error non mi sgomento. Così a languir da prima, io m' avezzai, E a soffrire l' amorose tempre; Che non chiesi mercè con sguardi, o voce; Ed anzi, che parlar io piansi sempre, Onde mia piaga non risana mai, Che il palesarla altrui troppo mi nuoce Così il tempo si fugge, e sol mi coce, Ch' io non sostenni, e ben poteva innanzi Trarmi di doglia, e s' io non tosto dica La mia pena, e nemica

S' avvien, che mia stagion poco s' avanzi Io perderò la dolce mia ventura, Ed allor griderò per sempre in vano. Nell' amorosa, inalterabil scola Col tempo, che non torna anche sen vola La mercè; che sperar troppo lontano L' incerto ben il cor mal' assicura: Or s' io giungo all' età meno sicura, Tempo fia bene, ed a ragion conviensi, Che in me ritorni, ed a me sola pensi. Ma se il perduto tempo non s' acquista, E il mio tacer pietade non impetra, A che tanta baldanza all' alma diedi? Quasi ammollir un cor di smalto, o pietra Potesse il mio voler, che nella trista Mia vita stassi sempre saldo in piedi. Alma, dunque che pensi? e perche chiedi? Quel, che sia dato, o tolto è mal inteso, Negando al senso, o alla ragion conforto. Non veggio unquanco il porto, Se scuoto l' un sottentro, all' altro peso, Onde le cose nella mente scritte, Se le soffro pensando, e se non parlo Maraviglia non fia, s' anche una volta L' alma sen gisse interamente sciolta Per poter qual è il male a se ritrarlo, E le potenze mie meste, ed afflitte Per le voci, ch' ancor sono interditte Gisser cantando con più terso inchiostro La libertade, e non il danno nostro. Canzon, agl' occhi altrui sempre ti cela, Fin, che muti ragion la doglia mia, Che s' ella il dritto tiene, e mi da aita, E un giorno vada mia guerra finita, Tu potrai palesar il mio dolore; Io la cagion, per cui riebbi il core.

PIena d' un bel desìo, ch' ogn' altro toglie Ad or, ad or mi trovo, e il manda Amore, Che radoppia all' impresa il suo valore; Poiche vuole di me l' estreme spoglie. Pur quegl' è inganno, ed il veder non scioglie L' alma del già riconosciuto errore; Ma l' affetto gentil, che nutre il core Cangia della ragion, le sane voglie. E dico fra mio cor, perche pavento, Perche viene la speme in me mancando? Non è un dolce piacer questo, ch' io sento? Or s' egli andasse poi così avanzando, Che fosse il mal, che provo in tutto spento, Felice me ma come sia? ma quando? S'Amor mi rivelasse il come, o il quando, Sicche vedessi il fin del rio penare, Le tempre del mio stil vorrei cangiare, Nè passar questo tempo sospirando. All' or vivrei contenta ripensando Alle future gioje; e scarse, e rare; Carte dell' amor mio vorrei vergare; Ma lieta gir, l' angoscie altrui cantando. Ed oh come ai momenti, ai giorni, all' ore, Di speme armata, vorrei far inganno, E trar il cor d' ambascia, e l' alma fuore Caro mi fora Amor, e lui, che m'hanno Ferita sì, ma intanto al dubbio core Manca il rimedio, e cresce sol l' affanno.

DIsperata dell' empia mia fortuna Dopo aver chiesto del mio gran affanno Aita al Cielo, et ad Amor più spesso, Noja mi prese di sì lungo danno, E del fuggir le vie cercai, ma ognuna Erta pareami allor, ch' io v' era appresso, E il duro acerbo passo a forza impresso Movea dal carcer dolce ove era chiusa; Ma la ragion, ch' ogn'erto vince, e spiana Fa, ch' ogni forza umana Adopri, e il senso, or sprona, ed or accusa, Se tardo, o indietro mira il suo soggiorno; Nè pietade le dona, o ammette scusa; Veggendo, che sarebbe il suo ritorno Di peggior danno, e di maggior mio scorno. Io corro, e in la salita aita chieggio Ben spesso ove ho dubbioso, e scarso lume. Che ad ora, ad ora il piè si riconduce Ove lo trae l' antico suo costume; Pur ragion pronta al gran bisogno veggio, Che mi precede quasi scorta, e duce, E dal periglio a buon cammin m' induce: Io che molto mi credo allor sicura, Come colui, che d' alcun mal non teme, Se il solleva la speme Nel troppo ardire spegno ogni paura, E il calle angusto con baldanza premo, Nè vedo amor, che con estrema cura Mi segue, e allor che più di lui non temo Mi giunge, e ponmi nel periglio estremo. M' assale, e l'armi sue sono i begl' occhi Da quali vibra quel possente foco,

Che, ad accendere il cor, già fatto un' esca Dal mio passato ardor, si prese a gioco, Ivi fa poscia, che un velen trabocchi, Per cui 'l mio non sia qual su, ma cresca, E si leggiadramente in quel m' invesca, Che mi da morte, ed io temo scapare, Nè perche so gia dir, che nol comprendo; So solo, che vedendo Amor due fonti di due lumi fare, Meraviglia, e sospetto il pose in forse, Se maggior fiamma il cor potea bruciare, Ed attizola sì, che nol soccorse Tutto il vitale umore, e in vano accorse. Restò tutto consunto, e più, che prima Mi prese il foco, che talora strugge, Talor di vana, e inutil speme pasce. Ben vedo, che costui la vita sugge, Ma son qual' uom, che il dritto vede, e stima, Non però avvien, che il torto calle lasce: Di me talora ben pietà mi nasce, Per un pensier, che alla mia mente dice, Che sempre vaneggiar nulla rileva, S' alto il cor non si leva Dal luogo, ove mai puote esser felice, Tardato avendo più, ch' io non vorrei Ad obbliar quel, che seguir disdice; Ma per alto levarmi, qual devrei, Troppo cari mi son gl' inganni miei. Tempo era allora contrastare, ahi lassa, Quando prima mi scrisse alla sua schiera, Amor donde io credea delizia, e pace, Dovendo più conoscer qual egli era Allora, e pensar come il tempo passa, Curando più me stessa, e quel, che piace, Veder, che allo sperar torna fallace: Non ora, che nutrita a me la doglia

Fin dalla fresca mia primiera etade, Quantunque or questa cade Non la saggia, che surge or me ne spoglia; Si da me stessa ammaliata fui, Per quel crudel, che ognora più m'invoglia, Che miracol saria novo fra nui, Se un di non fossi in prigionia di lui. Alcun non sa qualmente io vissi sempre Dal dì, che lagrimar quegl' occhi vidi; Tosto aspetto cangiai, voglia, e costumi, E empito ho il Ciel di dolorosi stridi; Nè del destin, nè del desio le tempre Mutarsi mai; che piaggie, e valli, e fiumi, E monti, e colli 'l sanno, e selve, e dumi Quanto occulta gridai e piansi, ed arsi: Ma mentre cauta ad altri non increbbi Di me pietà non ebbi. Quanti sospiri ho vanamente sparsi, Ed or, che al gran bisogno vorrei aitarne, Trovo l' ingegno, e i spirti miei sì scarsi, E me sguernita sì delle buon arme, Che vana impresa, ed impossibil parme. Canzon, perche mi guidi Oltre il costume a dir quel, che non voglio? Mentre così mi doglio Parmi qualche trovar, o pace, o tregua; Ma timor, e dover non vuol, ch' io segua.

NIsa matura Ninfa o al prato, o al fonte Tirsi Pastore a vagheggiar scendea, Quand' egli si venia dal vicin monte, E gl' armenti all' ovil riconducea. Gli disse un dì, se liete sieno, e pronte A' tuoi voler le stelle, e ognor la rea Sorte lungi da te volga la fronte, Perche cara io non son, come solea? Io udito ho il suon de' dolci accenti tuoi Allor, che prima il labbro tuo sorise, E t' insegnai fermar i passi poi. Allor m' accarezzavi in mille guise, Ed or Clizia accarezzi, e me non vuoi? Quivi mirolla il Pastorello, e rise. COme potrò cantar, com' io solea In dolci rime il viver mio beato, Se omai deggio partir dal ben, che avea, E lasciare il Pastor col gregge amato? Lieti prati, fresch' erbe, in cui godea Gir vagheggiando i fiori in ogni lato, Cari mi foste sì, che mi parea D' esser felice in sì innocente stato: Udite or le mie voci, e quando all' erba I leggiadri Pastor guidan gli armenti, Ridite allora la mia pena acerba. Dite il mio pianto, e i gravi miei lamenti, E quanto affanno al cor mi si riserba, S' or non spero, che dì tristi, e dolenti.

PEr mia ventura a rivedervi io torno; Limpidi fonti, e verde piaggia aprica, E colli, e selve, e placid' aura amica, Ove lieto gran tempo ebbi soggiorno. Odo ancor l'Usignuol, che su quel Orno, Col dolce cantar suo par, che mi dica; Prendi l' umil zampogna, ed all' antica, Soave rima fa grato ritorno. Però la mente mia tal valor prende, Che a sol cercar dell' alme Muse il coro, D' un novello desir tutta si accende. E già poste in obblìo le gemme, e l'oro, Ed ogni vil pensier, più non pretende, Che ornare il crin di un' immortale alloro. ENtra per gl'occhi Amore, e a poco, a poco Serpe dolce velen, sicche incatena L'alma co' sensi, e pur languendo al foco Ha caro il suo martir, dolce la pena. Bella coppia d'Eroi voi foste il gioco, Nè disegni d' Amor, che l' Istro, e il Sena, Nè il Tebro, nè il Caistro, od altro loco Apprestò mai più varia, e nobil scena. De' sguardi vostri ai rai la face accese, Indi del doppio foco il fianco ardendo Il languir, e il morir comun vi rese. O bel trionfo (esclama, soridendo Amor) dal foco mio le salme offese, Mentre a stringer in Ciel l'anime attendo.

SUdate, o Plettri dell' Aonio coro, E dell' estinta gloriosa Prole Traete i nomi dall' Eufrate al Moro, Da dove ha culla a dove ha tomba il Sole. Voi, sante Dive, che di sagro alloro Coronate le tempia, eccelsa mole Ergete, e poscia con le penne d' oro Così scrivete (Delio nostro il vuole) A questi sagri, e fortunati marmi, Peregrino, ti ferma, e con stupore Leggi Istoria dolente in questi carmi. Quì giace di due sposi un solo core; Quì ciò, che morte coll' orribil' armi Troncò, congiunse eternamente Amore. DEsta dal mortal sonno, ecco ten riedi, Anima bella, al tuo primier soggiorno; E del sol di giustizia al vero giorno Le tue glorie, e'l mio pianto or godi, e vedi. Tu fra l' anime elette allora siedi, Che fan corona al tuo Fattor d' intorno; Io fra mesti sospir pur, lassa, aggiorno, Veri del mio natal seguaci eredi. Se de' tuoi bei desir giunta alle mete Non obbliasti lo mio antico amore, Prega il Signor, che le mie voglie acchete: E faccia si, che questo infermo core, Dopo le fosche notti, ore più liete Teco venga a goder fuor di ogni errore.

O Vago Rusignuol, che i tuoi lamenti Di bosco in bosco, e di uno in altro faggio, E giorno, e notte, in tuo gentil linguaggio Ridir ti ascolto con soavi accenti; Se il mio duol tu sapessi, e i miei tormenti, Come le Driadi il sanno, e il Dio selvaggio, Lieve ti fora dell' antico oltraggio L' aspra cagion, che sì nojosa or senti. Che non vi ha speco, ed antro in selva, o rio, Che stanchi di ridir mia doglia acerba, Non si langnin con meco al fato mio. Tu piangi, ma talor tra i fiori, e l' erba Gradito pasci 'l dolce tuo desio; Io piango, e in vita odio, e dolor mi serba, LA notte, che succede al fausto giorno, In cui s' adora il Redentor risorto, Mentre ogni senso era nel sonno assorto, Che l' umid' ali a me spandeva intorno; Pareami di veder l'alto soggiorno Del divo Apollo atro, dolente, e smorto, E mesto ei dir; non più bramo conforto, Dotte Muse, da voi col canto adorno. Stupida allor chinando al suolo i rai, Dissi con fievol voce: altero Nume, Qual rea cagion si ti confonde, e attrista? Ed ei: destati, Elinda, e lo saprai. Sorgo, ed odo piangendo: e spento il lume, Che al saver ne scorgea, morta è Batista.

QUel vago ameno, giovanetto Alloro, Nice, ch' alto fra noi teste sorgea, Che mentre i verdi rami al Ciel stendea, Gloria di queste selve era, e decoro; Alla cui ombra coll' Aonio coro Sovente Apollo per cantar sedea, E con le Ninfe sue la casta Dea Dal cacciar stanca ricercò ristoro. Quel Lauro, o Dio! delle cui frondi altera Arcadia nostra, e ogni Pastor sen gio, Che amore accese di virtù sincera; Quel Lauro in cui tutti i suoi pregj unìo Arte, e Natura, atra procella, e nera, Nice, quel Lauro, oimè! svelse, e rapìo. SOn miei, diceva Amor, quei lumi, e quella Neve del viso, e quelle chiome, e quanto Di grazia, e di beltade altero vanto Trasse un giorno costei dalla sua stella. E i fregj di quel sangue illustre, ond' ella Sua gloria, e sua virtute alza cotanto, Son miei, dicea, d' Adria felice, e bella L'eccelso Genio all' altro Amore accanto. Ella in faccia ad entrambi 'l bel desio Non piega ai fasti, e sotto umile, e abbietta Spoglia sua beltà copre, e corre a Dio. Spezzò sdegnato Amore ogni saetta, E disse l' altro: Anima bella, addio: Celesti fregj or il tuo sangue aspetta.

CErto, ch'io non varcai questo, e quel clima, Nè come al bel Trojano, o come Appelle Fu a me dinanzi accolto il fior di quelle, Che di altera bellezza ebber la cima; Nè men credo ad Amor, che pur estima Beltà sì poco, e giura per le stelle, Che delle vostre o più vaghe, o più belle Figlie non vide ai nostri dì, nè prima: Ma bensì fede io presto a chi non guata Del viso il lume, e sovra le leggiadre, E saggie, e rare più da loro il vanto. Onde chiamo a ragion voi fortunata Più che de' Gracchi la famosa madre, O se d' altra sì gloria il Tebro, e il Xanto. SE quando avrò maggior da Febo aita, Talun alzar udrammi in rime sparte I pregi, che a noi Donne il Ciel comparte Non sprezzi me, qual femminella ardita, Che senza ricercar, qual più fiorita Cittade ha grido in questa, o in quella parte, Tali ne mostrerò, che in tele, e in carte Danno ad altri, e a lor stesse eterna vita. Voi, che spregiate il gentil sesso, voi D' Angela di Rosalba, e di Giovanna Venite a mirar l'opre, e dite poi. Dite pur s' io mentisco; e se m' inganna La passione, e dite pur se noi Donne all' ago, ed al fuso il Ciel condanna

PErche altri più fra cieco obblìo nascosti Miseramente non traesser gl' anni, Ma, ch' anzi a' nomi lor fama tai vanni Desse, onde alzarsi a' gloriosi posti; A chi l' altera culla in cui tu fosti, A chi tuo cor gentil vuoto d'inganni, A chi la mente, che non teme i danni D' error, ma tiene i buon pensier disposti; Ed a chi basterebbe il dolce, e adorno Tuo stil: pur questi, ed infiniti poi Altri fregj fan teco almo soggiorno. Così mentre di gloria i vivi tuoi Raggi ti fan corona, e lume intorno Non so, come Uom mortal ti crediam noi. DEll' anno la stagion dolce, e primiera Menava il terzo Sole a questa etate, Quand' io prima spirai di libertate L' aure nella Città, che al mare impera Vero è, che non mi stanno in lunga schiera Servi, ed Ancelle intorno all' opre usate; Nè raggio splende in me d'alta beltate, Misero pregio, onde va Donna altera. Gelosa di mia pace a' folli amanti Il cor non piego, e non a sete d'oro, Ma spirti vanto al suon di gloria desti. Le mie cure, il mio amor voi siete, o santi Studj d' Apollo, e tu sei 'l mio decoro, Alto Colle, che amica ombra mi presti.

ORche sereno è il Cielo oltre l' usato, E che dolci aure intorno L'acque increspando van soavemente, E che odoroso fiato Portan dalle contrade ove esce il giorno, Talche dal Trono adorno L' alta Donna del mar letizia sente; Certo, che a riveder suoi lidi arriva L' Eroe, ch' ogni virtù tien fra noi viva. Deh, poiche manca l' arte almen di queste Cose liete, e tranquille, Potesse la vaghezza entro il mio petto Far sì le voglie deste, Ch'io sciolgessi un bel canto in mille, e in mille Guise, e l' alte faville Fuori mostrar di mio sommo diletto Potendo, ecco, dicesse ognun, colei, Che più già non invidia Uomini, e Dei. Ed oh chi poscia immaginar sapria, Non, che spiegar in parte Quale di gioja in me farei tesoro, Se come il cor desia Suoi pregj, che stancar sogliono l' arte Narrar potessi in carte, E tal fosse di rime il bel lavoro, Ch' ei mi dicesse: Or va, che non indegno Loco avrai dove i Vati han sede, e regno. E poichè l'alma generosa aspetta Da sè medesma solo L' opra, onde farsi sovra l'altre altera, Non perchè in rima eletta Sua virtute portar vedesse a volo Dall' uno all' altro Polo

Godrebbe in farmi don di laude vera; Ma lo faria per quel piacer, che prova Allor che ai chiari spirti attende, e giova. O fosco ingegno mio, che non t'accende Ora si vivo lume, E presso al bel desir non porti il canto? Questi è colui, che attende In ogni glorioso almo costume, Tal di levar le piume, Ch' egli, mercè dell' alta mente, o accanto Stassi d'Augusto, o in riva alle sagr' onde Febo l' invita ad onorar sua fronde. In somma, o pensi, o parli, o scriva, altrui Di Poema, e di storia Chiari porge argomenti; e s'io pur taccio, O non degne di lui Detto le rime, e di sua immortal gloria, Me ne punge memoria, Ed odio sempre or l'uno, or l'altro impaccio, Che mel contende, e per libera andarmi, Ahi, che spender non so, nè so, che farmi. Canzon, tu sai, che mitigar mia pena Non potrei già, se il caro Raggio d' alma gentile in lui sì chiaro Non fosse; or rasserena Dunque la fronte, e l' onorata mano Baciagli in atto riverente, e piano.

AVrei già volto il piè di speme casso, Qual chi per calle ignoto andar presume. Nè farei giunta, ove dal duro sasso Diè l' alato destriero il sagro fiume; Che quanto del desio m' ergean le piume Tanto rea sorte mi traeva al basso, Se voi, Signor, non mi davate il lume Dei miglior Duci, ond' io drizzassi il passo. Ed or che, mercè vostra, io tengo parte Tra le rare di Febo, amanti Ancelle, Dovrò di lodi a voi tesser lavoro. Ed oh sien queste, allor quando le carte Vedran, degne d' aver loco fra quelle Bell' opre, di cui fate ampio tesoro. NOn così i due, che Leda ebbe da Giove Lumi, quando per nembo il mar più freme, Porgono lena al buon nocchier, che teme, Se dall' alto la lor fiamma si move; Siccome i due Fratei, per tante prove Chiari, spiraro in me conforto, e speme Di non restar sepolta in fra l' estreme Donne, di cui fama non suona altrove Che del Monte a salir difficil tanto; Poich' essi mi segnar l' alto sentiero, Mia mente sfavillar sento di luce: E dico a me: giovane umil, qual vanto Maggior sperar potevi in tuo pensiero? Se pur bramar non osi Apollo in duce.

DA quel nobil desio, che puo cotanto Quando in un cor gentil pianta suo trono, Tocca mi sento anch' io, qualor do suono Alla mia cetra, e le altrui gesta canto E a un vaneggiar sì dolce io m' abbandono Che gia parmi veder la Fama accanto Starmi, ed udir quall'avrò plauso, e vanto; Poiche un' altra sarò da quella or sono. Ma vien in mezzo altro pensier, che a fronte Mi por quanta mi deste, e cura, ed opra Voi due, per avanzarmi al sagro Monte E dir mi fa, ch' io merto ben, che copra Mio nome eterno, obblio s' alle più conte Vittoria, ed Anassilla io non sto sopra. TAnta non ebbe il bel Giovin d' Abido Invidia al Mar, che Europa, ed Asia siede Quanta io ne porto a quel terren, che siede Fra l' Istro altero, e il ricco d' Adria Lido. Poiche contende a me qual dentro annido Desio mostrarvi fuor, com' altri il vede, E di ciò tento farvi in vano fede, Che a troppo sie vol dir mie voglie affido. Ond' or, che il buon costume altrui da modo D' erger lo stile, e pregar pace, e fama Tra me medesma per desio mi rodo. Ma se pur cale a voi saper mia brama, Porgete mente a quel di grazie nodo, Che a voi mi lega, e a voi sempre mi chiama.

NUll' altro no, che quei troppo freschi anni O de' miei studj lume, e duce fido Sforza gentil, ritien nel nostro nido Fama, sicche per voi non spieghi i vanni; E quai fate alla morte illustri inganni Narri da questo al più rimoto lido; Ma presto verrà il dì, che in alto grido Udranla di voi dire Indi, e Britanni. E questo Apollo, ed i seguaci suoi Bramano, ed io, che n'ho tanta ragione Sovra il loro desio m'innalzo spesso. Allor qual' alta idea formo di voi Mostrerò fuor, qual buon Pittor, che espone Il da lui finto volto al vivo appresso. IO veggo Amor, che la severa faccia, E il ciglio ha tinto del color dell' ira; E torvo guata, e altero più minaccia A guisa di Leon, quando s' adira. Poi di stral più pungente mi minaccia Il pon sull' arco, e alla vendetta aspira, Ma per dolor si batte ambe le braccia, Che privo il dardo di poter rimira. Talche già il cor da subita paura Oppresso teme il mal, che non l'offende; Poiche di sua ragion non s' assicura. Ma poi pentito nuova forza prende, Nè più paventa la fatal sciagura, Se il suo destin dal mio voler dipende.

QUel dì, ch' Amor il bel nodo compose, Che già virtude, e ugual merto stringea La speranza d' Italia in lui ripose, Che il Ciel serbata a i Germi eccelsi avea Talche invidia fremendo, le sdegnose Livide labbia per livor mordea, Che le chiare degl' Avi opre famose Nelle bell' Alme rinovar vedea. Quindi pel suono, che ne porta altero Fama sull' ali delle genti ai voti, Nè paventa da lungi il popol nero; Ond' Adria spera, ch' i lor pregj noti, Far la vendetta del perduto impero, Con la gloria dei Figli, e dei Nipoti. GIva Febo di sè fastoso un giorno Per l' arti sue sì rinomate, e rare, Per cui, coll' una fa l' Alme sì chiare, Coll' altra scaccia i rei malor d' intorno; Quand' ei mirando dal gran carro adorno, Là vè corre il bell' Arno al Tosco Mare, Vide l' istesse sue virtù preclare Splender nel Redi, e n'ebbe invidia, e scorno. Di sdegno allora, e di livor dipinto Il volto ei disse: e che dirà mai Delo, Se un mortal mi pareggia, e forse ha vinto? E preso a un tempo il più terribil telo A lui vibrollo, e il pose a terra estinto. Ma poi pietoso lo ripose in Cielo,

STringe lieto Imeneo col cinto d' oro La vergine Luisa all' Arno in riva, Acciocche nobil Prole al Mondo viva, Che sia, com' ella, onor, pregio, e ristoro. D' alta virtute l' immortal tesoro Giacea sepolto, onde ogni cor languiva, E sospirava il tempo, in cui fioriva Del sesso nostro ogni più bel decoro. Quand' ecco in Alma così chiara, e bella, Sorta piu vaga ogni passata gloria, Ad onta di maligna, e fiera stella. Di Saffo il dolce verso alta memoria Potè d' essa lasciar; ma più di quella Questa è ben degna di Poema, e Storia. L'Alma, che scese dall' eterne sfere, A vestir questa mia mortal terrena, Spoglia in sen si trovò Castalia vena, Che la trasse a seguir l' Aonie schiere. Quindi avanzossi a investigar le vere Delle cose cagioni, e l' ampia scena Scorse del Mondo, e pien di doglia, e pena Esser vide, col saggio anco il piacere. Onde come colomba alzando il volo, Per non trovar dove fermar le piume, Sen riede all' arca del natio suo Polo. E gli occhi arditi, oltre l' uman costume, Aquila di grand' ale affisa solo, Nè gli alti rai del sempiterno Lume.

AStri fieri, Che severi Sempre a me vibrate i rai; Finirà, finirà mai Quel rigore Quel sì perfido, sì crudo Aspro duol di pietà nudo? Ission sempre il mio core Fu degli empi vostri giri, Su la ruota de' martiri. Chiedo pace Alla face, Del furor, che m' arde in seno: Pace chiedo, o tregua almeno Tutta lassa, Di soffrir, senza aver calma Gia vacilla, oime, quest' alma; Gia languisce, e gia sen passa: Ogni cosa è quì mutabile; Il mio duolo è sempre stabile. Presso il Gange L' Alba piange Sul mattin gravida, e stanca; E nel prato sviene, e manca; Ma dappoi Mira intorno e perle, e fiori, E ristora i suoi dolori: Sorge il Sol dai lidi Eoi, E con lei scherza, e gioisce, E il martir tosto finisce. Anche Flora S' addolora, E si schianta il biondo crine,

Perche il giel crude rapine Fe de' fiori; Ma sen riede April festivo, E con stuol nuovo odoroso, Vegetabili tesori A lei dona, ond' ella acqueta L' aspra doglia, e torna lieta Corre, e batte Via di latte Con piè d' or di Delfo il Nume; Al fin poi, come ha costume, Fatto stanco, Per posarsi, il manto vago Spoglia, e il getta in grembo al Tago; Stringe il crine, adagia il fianco, Chiude i lumi, e dolci, e lieti Sonni dorme in seno a Teti. Il mar solo Sempre in duolo, Sempre in duol, sempre agitato Mai non posa sventurato; I naufragi, Che di Borea son delitti, Son a lui, misero, ascritti: Quant' ei da di pregio, ed agi Nons' apprezza, e copron l' onde Quei tesor, che in seno asconde. Sorte uguale, Per mio male Il destin mi porse in cuna; Come ha il mar, sia sua fortuna Disse, e diede Anco il nome a me del Mare, Perche note così chiare De' mei guai facesser fede. Sarà dunque, in fiere tempre,

Il mio cor misero sempre Or se pure Con sì dure Leggi' l Cielo ha sol prescritto, Che il mio seno ognor trafitto, Sino a morte Sia da duol acerbo, e rio, Senza udire il pianto mio; Soffrirò costante, e forte, E del Fato il fiero orgoglio Vincerò con cor di scoglio. COme poss' io sperar felice sorte, Se di rigido Ciel provo il tenore, Come puo lunge star da me la morte, Se la vita contrasta un rio dolore? Chiudo dentro del seno un cor sì sorte, Che sprezzo del mio fato ogni rigore, Ma non resta però, che non apporte A questa miser' alma alto timore. Gira la ruota sua Fortuna altera, Cangia il Sole nel Cielo i vaghi rai, Ed ha il suo moto ancor la prima sfera; Cangia il mare, ei dì ombrosi in lieti, egai, Ma della sorte mia troppo severa L' aspro rigor per me non cangia mai.

ODi giorno felice Gentile Aurora, e bella, Che a noi ravvivi le memorie andate Della gran Genitrice, E di Dio fida Ancella, Che ascese in questo giorno alle beate Region, che sol di lei fur degna sede; E ancor che cieco l' Uom lo scorge, e vede. Onorata Regina, Sovra stellato trono, Chi sia, che non v' inchini, e non v'adori? Voi, che invitta eroina Il prezioso dono Porgeste, onde uscì l' Uom dai ciechi orrori: E così dolce figlio a tante pene Qual Madre espose mai, per l' altrui bene? A ragion dunque aurata Alma sede, e celeste Vi si debbe, Maria; che ogn' altra avanza La memoria beata Della vita, che deste All' Uom, che solo in voi tenea speranza: E gode, che di gemme auree, e di stelle Mille abbiate corone altere, e belle. Ed ecco a cento, a cento Le angeliche alte schiere Scenden in Terra, mentre n' esce l' Alma; E in soave concento D' eterne lodi, e vere, Portano in Ciel la bella, e nobil salma: Scorgendo ben, che questa bassa mole D' avere è indegna il novo, immortal Sole. Ma, oimè, voi ci rapite,

Almi spirti celesti, La nostra scorta, e nostra fida duce; Contro il Mostro di Dite Or chi fia, che ne appresti Soccorso, e aita, se di lei la luce, È per noi spenta, e fin l' umano velo Di lei tolto è alla Terra, e posto in Ciclo? Frenano i dolci accenti I vaghi augelli, e il volo, E sembra ogni animal di freddo sasso; Par, che gemano i venti, E t' onde sopra il suolo Quà e là portando van l' errante passo; Cadon le foglie, e de' bei fior si perde Nelle rive, e nei prati il vago, e il verde. E noi solcando l' onde Di questo Mare infido, Come tro verem porto, anime erranti? La stella si nasconde, Che scorge al natio lido La prora de' mortali naviganti: Fra tempeste, e perigli or male accorti Resterem senza voi sommersi, e morti. Ma, folle, ove trascorre Mia mente? ahi tanto afflitta, Ell' è, che non sà più quel, che si dica; Anzi, che al Cielo or corre L' alma Vergine, invitta Per esser piu di nostro bene amica; E preparar la sede a chi desia Viver unito appresso di Maria O vita de' mortali, Regina di clemenza, Tesoriera di grazie, anzi ristoro; O rimedio de' mali, O fonte di sapienza,

Gloria, ed onor dell' alto empireo coro; In mezzo a tante glorie, e fregi tuoi Rimembrati, Maria, spesso di noi, Ecco, queste divote Serve, che co' sospiri Implorano da te pace, e salute; Non sien di merto vote Le preci, e i lor desiri Governa, e reggi tu con tua virtute. E se per lor son nostri preghi indegni Ci guidi tua bontate ai santi Regni. MAi non penso di voi, che in me non scenda Con quel pensier de' vostri pregi un raggio, E non ravvisi in lui, come risplenda Qual pianeta maggior l' alma del saggio. Quindi ne avvien, che bel desir mi prenda Di dar co' versi al vostro merto omaggio; Sicch' io di voi cantando in altri accenda, L' esempio ad imitar, gentil coraggio. Ma non è, ben lo so, pari al cimento L' ingegno mio, che di valor sfornito Mal presume cantar l' alto argomento. Pur mi piace lo sforzo ancor, che ardito; Che bello in grandi imprese è l' ardimento, E se all' opra non basto almen l' addito.

QUando il tempo, ed il loco ove perdei Dolcemente me stessa vienmi avante Ed il nodo col quale in un istante, M' avvinse Amore, a cui servir dovei Divengon tutti ardor questi occhi miei, Tramandando faville, e l' alma amante, Dentro n' avvampa, e sempre più costante Nell' incendio d' Amor par, che si bei. E tu, Sole, che sol chiaro riluci Al guardo mio, coi vaghi raggi tuoi M' ardi sicche m'accendi, e non m'abbruci. Ed ancor di lontan m' allumi, e vuoi, Ch'ogn'or pensi a quel tempo, e a quelle luci, E al loco, ove Amor tese i lacci suoi. QUal breve rosa, o qual caduco fiore, Che nato in bel giardino, o in prato ameno Va fastoso di fronde, e appena il seno Rispiega a' rai del Sol, che manca, e more; Tal di beltate il pregio, ed il valore Cede al corso degli anni, e ne vien meno: Ahi di quante sciagure il Mondo è pieno, Per oscurarle il bel natio splendore. Non gia così virtù, che ha tal baldanza, Di sovrastar al tempo, e la rea sorte. Non ha di superarla unqua possanza; Che se tenta d' opprimerla, più forte D' Anteo risorge, e vince sua costanza I rigori del Fato, e della Morte.

BEgl'occhi, o Dio, begl'occhi, o che gran piaga M'aprono in sen que' sguardi, e pur v'adoro, Nè ardisce di spiegarvi il mio martoro, Benche l' alma di voi tanto sia vaga. Quando m' affisso in voi io son sì paga, Ch' io non chiedo soccorso, nè ristoro, E mentre in voi mi struggo, e per voi moro D' una morte sì bella il cor s' appaga. Deh miratemi sì, luci adorate, E si consumi il cor nel suo martire; Che son dolci le pene, anzi bramate. Qual contento saria per voi morire, Se mirandovi allora, o luci amate, Care, moro per voi potess' io dire. FRa i contrasti del core io sol pavento Di nove cure un tormentoso affanno, Nè ben comprende il mio pensier l' inganno D' un rio piacer, che maschera il tormento. Or mi lusinga dolcemente intento All' impero del core un rio tiranno, Or mi dispera il gia temuto inganno D' un gelo rio, che risvegliarsi io sento. Mie difidenze, e mie speranze antiche, O espugnate del cor la speme omai, O la speme del cor più non tradite. Ma voi mi dite, e m' accrescete i guai, Che speranze, e timori andranno unite, Sol per schernir, chi non godra gia maì.

QUal forza io sento, e qual'ignoto foco Su la mia libertà tenta l' impero, Che ora tutto lusinghe, or tutto fiero Mi consiglia le fiamme a poco, a poco? Folle, ch' io son, questo è d' amore un gioco, Per contrastar contra mio genio altero, E vendicare il nobil mio pensiero Che sdegnò sempre a vezzi suoi dar loco. Su tutti, o spirti miei, v' armo in difesa, E non sia mai, che insuperbito Amore Vanti, che in me sia la sua fiamma accesa. Ma che tante difese? ho sì gran core, Che unito alla ragion non teme offesa, É puo ben dar, ma non sentir l' ardore. AMiche selve, o come in voi soave, E fido spiega il venticel le piume Come nel seno vostro il picciol fiume Limpido corre, e di velen non pave. Dell' empie cure, onde va infermo, e grave L'uomo in voi di spogliarsi ha per costume, Che gl' occhi aprendo a più verace lume Di speme, e di timor guerra non have. Come nocchier, che su la patria sponda Già del Mar sazio, e fastidito giace Non si move al saffiar d' aurea seconda. Nè allor, che il vento lusinghier fallace Si cangia, e turba la gia placid' onda Perde la dolce racquistata pace.

ABito eletto, e sovra ogn' altro altero, Che l' interna bellezza orni, e non celi, In cui par, che Natura altrui riveli Dell' eterno soggiorno il bello intero, S' io rivolgo talor l' occhio, e il pensiero In ciò, che in te ripose il Re de' Cieli, Veggo, come a mortai chiaro si sveli Del gran poter di lui l' immenso, e il vero. Onde se un dì fia, che l' età ventura, In carte legga quanto ha il Ciel raccolto, Nella tua rara angelica figura: Dira colma di duol; misero, e stolto Mortale, or chi ti guida, e t' assicura Se a te vedere il vero lume è tolto? AH, che mie non son già le gemme, e i fiori, Che ne' carmi, ch io fei sparsi vegg' io, Mentre non puo dentro a' nativi orrori Tai vaghezze produr l' ingegno mio. Sol la tua cortesia questi tesori A me, Signor, benignamente aprio, Perch' io così mia povert à ristori Con quel d' altrui, poiche non ho del mio. Ma poi s' egli avverrà, ch' io vada un giorno Al gran Re di Permesso, e chiegga a lui Pregio, e mercè, nè avrò vergogna, e scorno. Ch' egli forse dirammi: oh non son tui. Questi fregi, che a te splendono intorno, Usurpatrice degli onori altrui.

ALlor, che dalle sfere il gran Fattore La su crear la tua grand' alma volse, Dalla più bella idea la forma tolse, Di cui vista non fu pria la migliore. Di celeste beltà, che mai non muore Ricca la fece, ed in lei sola accolse, Quanto ad altrui, che in chiare membra avvolse Die d' eccelso, e di santo il suo valore. Indi un' abito eletto, oltre il mortale Uso, di regio sangue, e di maniere; Degno compose, e non gli diede eguale. E quella ne vestì; poi dalle sfere Qua giù vogliendo il guardo in opra tale, Vide quant' era grande il suo potere. COme al nascer del dì tutto riluce Di novi raggi, e s' abbellisce il Cielo, E sgombrato alla Terra il pigro velo Il primiero vigor vi riconduce; Così dappoi, che dall' eterna luce Discese l' alma tua nel suo bel velo, Tolto ogni cieco orror, di santo zelo Si vestì il Mondo, ed ebbe guida, e duce. Risorse allor virtude, e bella, e cara. Si fe la vita, che il vil senso, e frale Gravata aveva, ahi di che indegne some. Onde tu sovra ogn' altra, e bella, e chiara Ne andrai, e ne' suoi voti ogni mortale Invocherà divoto il tuo gran nome.

QUal chi per selva, allor, che tace il giorno, Vedesi aver la dritta via smarrita, Nè perche ei faccia al buon cammin ritorno, Ha chi lo guidi, o chi gli porga aita; Onde sospeso il passo, e il guardo intorno Volge, ma invano a ricercar l' uscita, E per entro l' incognito soggiorno Ogni luce del Sole è gia sparita: Sicche ei s' arresta, c il mattutino raggio, Che del suo vivo lume il dì colora, Chiama, che a lui sicuro apre il viaggio: E intanto ascolta e gli Augelletti, e l' Ora Destarsi, quale al cominciar di Maggio, E vede in Ciel la sospirata Aurora.\ POvero d' ogni pregio il mio pensiero Dal suo picciolo albergo ascoso invio, A voi, Signor, per arricchirlo anch' io Dell' alma vostra al folgorare altero. E mentre là per entro al gran sentiero, Volo sull' ali del mio bel desio, E va spargendo d' immortale obblio La povertà dell' esser suo primiero. Io non so come in lui gli occhi volgete, Ed al lume, onde in voi mai sempre aggiorna Per figlio del mio cuor lo conoscete. Onde qual vile usurpator, che adorna Se di pregio non suo, lo rispingete, Ed egli meco a mendicar ritorna.

SCendea da un' erto, e luminoso Monte Di spirti eletta schiera, e signorile, Cui gemmata corona, aureo monile Fregio giungeano al petto, ed alla fronte: Ciascun l' opere sue sublimi, e conte Lieto additava alteramente umile, O i Templi alzati, o della forza ostile Il depresso furor, le piaghe, e l' onte. Stupida dissi allora; e quai fian questi Eroi sì grandi? e suon chiaro s' udio. Questi saran de' regi Sposi i Figli: Che degl' Avi i trofei chiari, e celesti Col valor, col saper, col genio pio Uguaglieran nell' armi, e nei consigli. UScite fuor dai liquidi cristalli, Leggiadre Ninfe, e a piena man spargete Tenere erbette, e fior vermigli, e gialli; E il bel trionfo ad onorar correte: Qui la spoglia mortal di lui vedrete, Che guarda queste vostre immense valli, E le rie forze in placida quiete Volve, che turban vostri umidi calli. Pregate pur, ch' altra gia mai le piante Tra le vostre non volga onda straniera, Nè il bel diletto a lui Paese infeste: Che reti, e pesci andrian sovra le piante, E voi disperse in lagrimosa schiera, Preda ai Tritoni per lo Mar ne andreste.

ERa all' estremo in sulla balza Ebrea Il dolor di Gesù ne' suoi tormenti; Onde cercò nel cor nuovi alimenti E il dolor di dolor così crescea: Quando il Gaudio, che in parte vi sedea, Trovò per discacciarlo alti argomenti: Visto lo stuol delle salvate Genti, Lieto verso il dolor così dicea: Gia muore il nostro Re, come potrai Viver dappoi nello squarciato core? Prendi nuovo consiglio, o pur morrai Io più grande dite, col mio Signore Al Ciel n' andrò, tu bella vita avrai, Entro il pentito cor del peccatore. DAl patrio albergo, a me già reso vile, Ove trago solinga infausti i giorni, A te scrivo, Almerinda mia gentile. Dal dì, che tu prendesti altri soggiorni, Più soggiorno non ebbe in me il gioire, Nè gioirò gia più, se non ritorni. Al tuo partir io vidi scolorire Del dì la luce, e finche splendi altrove Notte oscura di duol deggio soffrire. Sto qual Agna smarrita, a cui non giove Passeggiar verdi colli, e prati ameni, E cosa, onde s' allegri, in lor non trove. Deh, ritornino un dì quei dì serreni, Che adduce vano a me tue luci amate,

Amata luce mia, torna, deh vieni. Torna, e vedrai l' erbette ravvivate, Liete lambire, i preziosi umori, Se imperlan loro il sen tue luci grate. Torna, e vedrai su i leggiadretti fiori, Passeggiar molle il riso, e il vago Acanto, L' aria riempir di più soavi odori. I garrulli augelletti udrai col canto Formar gli applausi al tuo ritorno amato, Voleran l' aure a carolarti accanto. L' acque limpide assai più dell' usato, Per tributar i liquefatti argenti, T' incontreran col mormorio più grato. Non più all' Eco pietosa i miei lamenti S' udran ridir; che al tuo gradito arrivo, Farò l' aria suonar di lieti accenti Torna, ma no, che il cor di senso privo Ah! fin or vaneggio; tratienti, o bella, Che coll' alma ne' carmi io già t' arrivo. Ecco dunque il mio core a te, mia stella, Che t' inchina divoto; or tu concedi, L' onor de' tuoi comandi alla tua Ancella, Che in vita mi terran, sin che ne riedi.

TEmpo gia fu, che in solitario tetto, Ove di Vesta s' adorava il Nume Stuolo nutrir di Verginelle eletto Inestinguibil foco ebbe in costume. Or io la fiamma, che nascondo in petto, In cui pudico Amore arde le piume, Conservo sì, che l' infocato affetto, A tutto il bel de' miei pensier sa lume. Simpatica favilla in sen l' accese Figlia del merto, e di bell' opre erede, Che sempre in cor gentil ratta s' accese: Virtute al fin forza, e virtù le diede, Febo coi raggi ad illustrarla intese, E la rende immortal costanza, e fede. SDegna Clorinda a' femminili ufficj Chinar la destra, e sotto l' elmo accoglie I biondi crini, e con guerriere voglie Fa del proprio valor pompa a' nemici. Così gl' alti natali, e i lieti auspici, E gl' aurei tetti, e le regali spoglie Nulla curando, Amalasunta coglie De' fecondi Licei lauri felici. Mente capace d' ogni nobil cura Ha il nostro sesso, or qual possente inganno Dall' imprese d' onor l' alme ne fura? So ben, che i Fati a noi guerra non fanno, Nè i suoi doni contende a noi Natura, Sol del nostro voler l' uomo è tiranno.

SIn da quel primo istante, Che uscir di mano del gran Fabbro eterno I Cieli, il Sole, e le minute stelle, Sciolse Amor l' ali, e di tant' opre, e tante Per comando di lui prese il governo, E il Mondo empì dell' alte cose belle. Ei d' onesto rossore Sparse le guancie della prima Aurora, Per lui tutta candore Girò del Ciel la luminosa suora, Dai Poli opposti nelle parti estreme Si vagheggiano insieme Gl' astri cogl' astri, e del suo fuoco pieno La Terra ornò di mille fiori il seno. Amor, che sempre intento Al primiero suo fine il soglio aurato Tien di ragione, e i bassi sensi affrena, Che nulla ha parte dell' infausto evento, Per cui piangon le selve Adon svenato, E d' Oreste, e Medea piange la scena: Amor non quel, ch' ha infetta D' un velen dolce, che piacendo ancida Mortifera saetta Per chi dolce ragioni, e dolce rida, Ma quel, che vola oltre il confin d'un riso, E nato in Paradiso Stringe in nodo di fede i servi suoi, Padre fecondo di famosi Eroi. Or presto i santi Chiostri Scorse del Cielo in poco men, che il lampo Non esce dalle nubi, e vidi intorno, Incliti Sposi, che degl' Avi vostri Famosi in pace, e gloriosi in campo

L' alme splendean nell'immortal soggiorno: Oh di che gloria vide Il seggio empir della natia sua stella Non favoloso Alcide, Per cui Roma si fee più chiara, e bella. Mill' altri vide in veste d' oro, e d' ostro Lumi del secol nostro De' quai non langue, e perdesi memoria, Di Poemi dignissimi, e d' Istoria. E fra se disse, or quale Donna sarà fra le tant' altre elette, Che rinovi di loro il Germe augusto? E quì tentò la punta al maggior strale, Che scelse fra mill' altre aure saette Di cui va sempre il destro fianco onusto, E come al Ciel sereno Momentaneo vapor vibra sè stesso, E fugge in un baleno, Quasi tema degl' Astri il bel rifflesso; T al ei spiccò dagl' alti giri il volo, E rise a destra il Polo, Quando il mirò di rose, e d' oro ornato Starsi nascosto di Vittoria a lato. Ivi com' Uom, che aspetti, E luogo, e tempo all' onorata impresa Invisibile altrui venne, e rivenne: Sassel colei, che in generosi affetti Sentì talor l' onesta mente accesa Al moto alter delle battute penne, Egli d' ambrosia asperse Le soavi parole, e per consiglio Di lui, che vi si immerse Si regolò la maestà del ciglio. Se mai per gli odoriferi Mirteti Mosse ella i passi lieti Della paterna Villa, Amor le apparve

Coll'ombra grande d' Alessandro, e sparve Pur venne il dì, che l' Arco Riprese, e voi foste, Fermano, il segno, E n' andò poi per tutta Italia il grido: Oh quante volte egli vi attese al varco, Come il più saggio Cavalier, e degno, Là ve l' Aquila vostra ha reggio il nido; Nel magnanimo core Tutte s'uniro le virtudi, e fero Al bel concetto ardore, Con presagio di gloria un plauso altero, E vi dipinser nella pura mente, Con piacere innocente I dolci frutti, che ne andran sicuri Di ramo in ramo ai secoli futuri Chi potrà dir con quanto Gaudio, e con quanta gioja a voi conversa La Vergine sublime, il volto, e il petto Ornossi, e lieta delle grazie accanto Dall' aurea chioma innanellata, e tersa, Sciolse il bel velo, e Amor n'ebbe diletto? Come i caldi desiri Pasceste voi ne' vaghi occhi sereni; Che agli onesti sospiri Splendean d' un non so che celeste pieni? Non vide mai per le toscane strade L'altera alma Cittade, In cui valore, e cortesia s'apprezza, Più nobil foco per maggior bellezza. Godete, Alme felici, Ecco, Imeneo scuote la face, e porge Materia illustre ai più famosi Allori, Ciò, che maggior di te Febo predice, Ove il lume tuo manca, ove risorge E poco premio ai fortunati amori; E voi su i Ghisi Monti

Spiegate pur al Ciel volo indefesso, Cigni dell' Adria, e conti La nostra etade in lor più d' un Permesso, Di penna in penna, più che geme, ed oro Vadano i nomi loro, Come ne andrà la desiata Prole, Per quanto stende il suo cammino il Sole. Canzon, che nata in solitario loco Men culta andrai d' altre più belle in schiera. A miglior Cielo, e in più tranquilla stanza, Se t' invaghìo speranza Di farti serva della Donna altera, Non sarà scarso premio al basso, e tardo Ufficio tuo, delle sue luci un guardo. POiche lo stato suo l' alma comprende, E vede il mal, che sì l' alletta, e piace, E conosce i suoi danni, e di sua pace Scorge, chi 'l bel seren turba, ed offende, Ed ode il Cielo, e la ragione intende Nè i suoi deliri a sè medesma tace, Perche il ver non appone al ben fallace, E del suo vaneggiar sdegno non prende? Forse perche dispera or non s' aita, E mentre cieca di viltà si veste I suoi nemici a soggiogarla invita. A sciorsi da catene empie, e funeste Armi il proprio valore, e volga ardita In sè lo sguardo, e in sua beltà celeste.

GIacobbe allor, che in lunga notte oscura Dal braccio onnipotente avvinto, e stretto Fe la gran lutta, e oppose petto a petto Con meraviglia d' ogni età ventura; Intese dirsi, ecco la bella, e pura Alba, che ascende, ecco il gran giorno eletto Lasciami hai vinto, avranno un' altro aspetto La mia qual brami, e la mortal Natura. Questa, che sorge così vaga Aurora Ombra è di lei, che nell' eterno ammanto Concepirà, chi su nel Ciel s' adora. Per amor suo ti cedo, ella col santo Suo bel lume m' abbaglia, e m' innamora; E tutto è suo di tua vittoria il vanto. O Genti, o voi, che le create cose, Tutte a mirare il vostro ingegno ascende, Scorgendo, come ben, chi tutto intende, Un' ordine ammirando in essa pose; Come l' Orbe primier con virtù ascose, Gira ogni sfera, e gli Astri il Sole accende; E come il variar di Cintia rende Sì mobili nel Mar l' onde spumose: Come si mostra ognor delle sue forme Avida la Materia, e con gran cura Fa, che ogni esser produca a sè conforme. Dite quale stupore ebbe Natura, Quando scorse, che contro alle sue norme Diè vita al Creator la Creatura?

NEl bel seren della tua fronte, Amore Pose due stelle, che d'ogn' altra a scorno Ruotan qual Sole i vaghi raggi attorno, Seco volgendo il mio destin migliore. Girin ver l' Adria pur l'almo splendore, O a questo basso Ciel facciam ritorno, A te i desiri miei sempre d'intorno Traggono, e seco ancor fido il mio core. Ch'entro del sen di tattenerlo in vano Io tento,, che a seguirti ognor lo induci, A un giro sol del guardo tuo sovrano. E non men dolcemente a te riduci Gli affetti, che pur gir vorrian lontano; Tanto d'impero han sovra me tue luci. SE da nembo talora il Ciel turbato, Del Sole il vago raggio a noi contenda, Par, che fuoco vibrando il Mondo incenda, E già si accinga al di lui estremo fato: Ma se in pioggia disciolto innondi il prato, E sotto il fosco Ciel Febo risplenda, Giunon, fa l'arco suo ch'Iride stenda, Di certa luce apportator pacato. Furibondo così d'ira sfavilla Nel cor di bella Donna Amor sdegnoso, Ultrice guerra minacciando audace: S' arma negli occhi suoi, ma s'indi stilla In pianto, allora Amor vie più vezzoso Fa balenar dal ciglio arco di pace.

SE il crudo Arcier le sue quadrella tese Alla di te più nobil parte ascosa, In vano l' Alma altera, e disdegnosa Da Parca contra lui, cerca difese: Che se a chiuder il varco, onde ne scese Il colpo ella fu tarda, e neghittosa, Or ne begli occhi tuoi Morte non osa, Estinguere d' Amor le faci accese. Egli, che arder destina più d' un core, Col dibatter de' vanni suoi ravviva Più lo splendor, e al foco accresce ardore; Onde convien, che di conforto priva Non resti l' alma, quando il rio dolore Dagli occhi tuoi, più che da Amor deriva. CAnti il Signor, che fa il tuo stato ameno D' Arcadia, e dica al Mond'io son quell' io Di cui dovunque splende il biondo Dio Il gran nome immortale è noto appieno. Dica di più, son' io colui, che meno Unqua stimò periglio, e il valor mio Vinse sempre di stuol nemico, e rio L' inique voglie, e gli traffisse il seno. Dica son' io l' invitto Re, che d' auro Non vo corona, e quale i grandi Eroi La vo di quercia, o Mirto, o pur di Lauro. Dica son quello, e dirà men del vero, E dirà l' Orbe tutto, e direm noi, Che merta, e avrà di tutto il Mondo impero.

O Possente di speme, o dolce aspetto, Che il gelido timor dilegui, e scacci, Per te l' alma vigore acquista in petto, E sai d' Amor far cari i fieri lacci. Qual tel pinge il desio, porgi l' oggetto, E benche nulla in ver stringi, ed abbracci, Più puro nel pensier fassi il diletto, Che col ben non avvien, che il male allacci. Tu del periglio, e della morte a scorno Armi l' ardire, e il tutto reggi, e movi, E rendi il Mondo di virtute adorno. E tanto ancor col valor tuo ne giovi, Che spandendo il tuo ardore al core intorno. Il sommo ben fai, che qua giù si provi. GRavan l' alma così cure, ed affanni, Che braccio chiedo di pietà non parco, Che me pur salvi dal penoso incarco, Per cui pavento omai gli ultimi danni. Ma, con finto soccorso, ah non m' inganni Speme, ed Amor di crudeltate scarco, Ch' essi fur, che a mia morte apriro il varco, Con finti vezzi, e con fallaci inganni. Ragion tu sola il puoi: deh tu m' aita; Toglimi all' aspro duolo, ed ogni affetto Tranquillamente a posar teco in vita. Ma scaltra ogni pensier rendi soggetto; Poiche tu ancor potresti esser tradita, L' un di lor vola al lusinghiero oggetto.

O Di virtude amica luce, e bella, Che siedi al fren della mia mente, o rendi Ogni mia voglia alla ragione ancella, O parti, e lascia il cor, se nol difendi; Che se ben tu, quasi benigna stella, Sul desir cieco i vivi raggi stendi, Pur crescendo l' interna aspra procella, Col tuo don non mi giovi, anzi m' offendi. Men grave fora all' alma mia smarrita Tra fosco avvolta, e periglioso orrore; In contrar morte, e non conoscer vita. Che valmi il tuo splendor senz' altra aita, Se tratta pur dal mal usato ardore, Seguo il mio error dell' error mio pentita? RAgion se Amor dal tuo poter m'ha tolta E lunge guida il franco correr mio, Lascia, deh lascia omai l' aspro desio, Di porre il freno all' alma mia già sciolta. Ah tu mi siegui, e ogni tua forza accolta, Tenti assalirmi, e fare il piè restìo; O svegliarmi un pensier torbido, e rio, Che tormenti il piacer d' andar disciolta. Ma il lieto calle a proseguir m' invita Amor, che sempre a mia ruina è desto, E di mia pena, e del timor s' irrita. Pur stanca di seguirlo al fin m' arresto, E chieggio per riposo essere unita, A te, ch' hai reso il dolce errar molesto.

STanchi, ed oppressi i miei pensier non sanno Più ragionar di mia dolente sorte, Confusi allor, che vedon trarmi a morte Da un caro acerbo, e sempre nuovo affanno. Il sospetto, e l' Amor tal guerra fanno, Che non v' è chi fra loro audace, e forte S' opponga, mi soccorra, e riconforte La mente, che già cede al lungo danno. Un giusto sdegno al mio crudel tormento Tregua in vano promette, e in vano a lato Stammi per fare il mio dolor più lento. Incostanza potria sul cor turbato Provar sua forza, e far mio foco spento; Ma pure ho in odio il variar mio stato. SEdea all'ombra d'un faggio, e in seno a' fiori Pastorella gentile al greggie accanto; Qualor sciogliea la voce in dolce canto, Rapiva l' Alma, ed infiammava i Cori. Qui vi schiera di Ninfe, e di Pastori Era concorsa; e chi 'l leggiadro Acanto, Chi la Rosa cogliea, chi l' Amaranto, E serto ne formava al crin di Clori. Inosservata io miro il scherzo, e il gioco, E tanto ad amar presi i fiori, e 'l serto, Che quasi l' esser mio a sdegno prendo: Sicche strugger mi sento a poco, a poco, Ed in fiamma d' Amor io mi converto, Nè qual sia la cagione ancor comprendo.

QUella son io, che con immoto ciglio, Arso poteo veder l' amato ovile, E d' Aquila Germana, il gregge umile, Rotto su gli occhi miei dal fiero artiglio Io vidi di Rosano il bel vermiglio, Impallidir su 'l volto suo gentile, E pur volsi a cantar con rozzo stile, Il timore di lui, e il mio periglio; E meditar in questa bassa scena, Con quai non note arti ingegnose, e sante Cruda passion la Pastorella frena. Ma or, che parte Fileno a me incostante, Sento l' istesso cor, muta l' avena, Che tanto di virtude io sono amante. ALma, quella non sei, non sei tu quella, Alma figlia immortal del divin fiato; Che in te vanti d' un Dio l' immagin bella, Che nata sei per un sublime stato? Se prole sei d' un Dio, perche rubella Ti mostri al Padre tuo? s' ei t' ha creato Bella, e Regina, perche dunque ancella, E deforme ti fai col tuo peccato? Sì parla Ormindo. Alle sue voci desta Scuotesi l' Alma, e grida; ah Signor mio, La giusta man dal fulminarmi arresta. Poi le sozzure d' ogni fallo rio Col pianto lava, e sì purgata resta, Che torna in lei l' immagine di Dio.

STa la capanna mia sovra di un Fonte, Che va tra sassi, e Cavallin s' appella, Che il Poggio al fianco, ed ha Bologna a fronte, Dov' io guido la fresca età novella. Mietisi a me fertil pianura, e il monte Mi si vendemmia, e ho folta greggia ancella, Onde vien, che molt' oro in man mi conte, Tratto dalla Città la Villanella. Vivo, alta invidia a stuol di Ninfe allora, Che mentre altra ricama, ed altra è vaga Di tesser bissi, ed altra il crin s' infiora; Canto la dolce, ed onorata piaga; Ma ciò, che val? se in agi tanti ancora Non valmi erba a salute, od arte maga. DI quattro lustri, e come son disciolta Dai Genitori miei, che terra or sono, Posso a mia voglia, o saggia siasi, o stolta O pietade impetrare, o almen perdono. Piacemi la mia rete, a ch' io son colta, Garzon di viso ognor modesto, e prono, E chiamo il Cicl, che i giuramenti ascolta, Che s'ei sposa mi accetta, a lui mi dono. Che l' invidia dirà? fumosi, e chiari Avi ei non vanta al par di me; ma nacque Tal, che dovria di me vantarli al pari; E poi sacro ha l'ingegno; e poi dell' acque; Bee d'Elicona, e poi d'onesti, erari, Atti adorno m'apparve, e poi mi piacque.

FIori, che fate ridere il terreno, Nella stagion, che fa ridere i fiori, E quasi Iride pinta a più colori, Del suol verde mi fate un Ciel sereno; Siate pur d' altro petto ai molli avori Fregio, e d'altro crin d'or vaghezza, e freno; Nè vi dispiaccia, o miei diletti odori, Ch' io vi ricusi in ornamento al seno; Da che, quel tristo un bel mazzetto adorno Di voi rapimmi, e non gli fei ritegno; Ma intricata ne' veli al petto intorno, Fosse ardir, fosse caso, o fosse ingegno, Sbagliò sua mano, e n' ebbi sdegno, e scorno. Fu poi ver, che ne a vessi, e scorno, e sdegno? SIgnor, che la serena amabil fronte, Chini all'acqua, che stagna, e morde il freno, Onde ignoto a Nettun si torce il Reno, Maravigliando ogn' altro fiume, al Fonte; Se, tua mercè, libero alfin dall' onte, Verserà l'Urna al Pò soggetto in seno, Che in Adria il guidi, e'l pian disgombri appieno Ch'or l'alghe, e i pesci suoi minaccia al monte; Vo statua porti io Verginella, a cui L' avite doti impinguerà il lavoro De' campi, or sotto l'acque incolti, e bui E sposo tal mi comprerò coll' oro, Che tua immago a baciar trarrem con nui De' Figli i Figli, e chi verrà da loro

CHiudesti i lumi, ed al paterno Cielo, Caro Germano, i vanni tuoi spiegasti, Ch'avean sede men degna al caldo, e al gielo L' alme virtuti, i pensier saggi, e casti. Quello, che appella il volgo acerbo telo Di morte, oh con qual cor lieto sprezzasti! E ripien d' amoroso ardente zelo, De' tuoi pregi l' Empiro innamorasti. Spirto felice, or che riposi in Dio Non piango no, la tua beata sorte; Sol do sfogo piangendo al dolor mio. E se unita con te non mi ha la morte, Si piacque al Ciel, perche provar degg' io Mille, e più volte il dì doglia più forte. DEl nobìl Colle, a cui Cigno sublime, Per farvi 'l Mondo eterno, ed immortale Spiegar sapete alteramente l' ale, Gia mi veggio tener l' eccelse cime. Onde questo crudel, che abbatte, e opprime I rami altrui, contro di voi non vale; Armi non ha sì forti, o forze eguale; Quanto han pregio, e virtù le vostre rime. Mirando il grand' esempio io da lontano, Per giungere colà, dove voi siete, Debile all' alta impresa alzo la mano. Ma temo, oimè, ch' al fine assorta in Lete, Quanto, quanto, è mai folle ardire umano! Nella caduta mia ridere udrete.

Con una breve notizia intorno ad esse

ALba Danieli Padovana vivente pag. 180

Andriana Trevisana, Contarini nobile Veneziana nelle Rime fatte in lode della Semiramide, Tragedia di Muzio Manfredi, si legge un suo Sonetto, per il quale si conosce quanto ella sia stata di buon gusto nella Poesia fiorì circa il 1580. pag 34

Angela Bulgarini Negrisoli Mantovana vivente. pag. 181

Angela Carminati Cossali Cittadina Veneziana fiorì del 1678. in circa; non diede, ch' io sappia mai alcuna cosa del suo alle stampe, e pure tradusse tutti i Salmi, e fece altre opere ancora. Il saggio è tratto dal M˙ S˙ Originale


esistente presso S˙ E˙ la Sig˙ Baronessa Felicita Tassis. pag. 166

Angela Maria Fabbreschi Gentildonna Senese vivente. pag. 182

Anna Giuditta Febei da Orvieto vivente fra gl'Arcadi Erminda Alicea. pag. 183

Anna Mantova Padovana vivente. pag. 183

Anna Rosalia Caruso Baronessa, un suo Sonetto sta nelle Poesie degli Accademici Infecondi in occasione di Vienna difesa presso Giacomo Ertz. 1585. pag. 170

Antonia Doni, altro non posso riferire, se non, che ella ha un gentile componimento nel Tempio di Flavia Orsina Peretta, Roma presso Gio. Martinelli 1591. pag. 59

Antonia Vertova Colleoni Bergamasca vivente fra gl'Arcadi Elcinda Efireana. pag. 184

Aurora Sanseverina Gaetani, Principessa di Bisignano, vivente fra gl' Arcadi Lucinda Coritesia. pag. 185

Barbera Cavalletta figliuola di Padre, e Madre Poeti, cioè di Ercole, e di Orsina: ebbe in Marito il Cav˙ Paolo Losti Ravennate, e oltre le rime, che tiene, nelle scelte de' Ferraresi vanno impressi molti suoi Madrigali Sonetti, e Canzoni, del 1599. in circa lasciò di vivere in Ferrara sua Patria. pag. 61

Barbera Torella Benedetti Parmegiana fiorì circa il 1596. il saggio è tolto dalle Rime in lode della Semiramide del Manfredi: compose ella anche una Favola intitolata la Partenia, che fu celebrata da molti Autori. pag. 80

Battista Vitelleschi di nobilissima Famiglia di Fuligno, fioriva questa leggiadra, giovane Dama, quando in età d'anni 26. nel mese di Aprile l'anno 1725. lasciò di vivere con rincrescimento


di quanti la conoscevano, fu pianta la sua morte con un libro di Poesie d'Uomini e di Donne Illustri. pag. 178

Beatrice Papafava Cittadella Illustre Dama Padovana vivente, quantunque conti un Secolo, e non so, che mesi; ma il più mirabile è che il Sonetto da me riportato fù da lei composto dopo compiuti i cent' anni, avendo Ella preso da questo la materia. pag. 185

Benedetta Gamberini Monaca nell'Ordine delle Capuccine di Ferrara sua Patria, dove essendo santamente vissuta con nome di venerabile del 1658. rese lo spirito a Dio in età d'anni 68. il saggio è tolto dalle Rime scelte de' Ferraresi. pag. 138

D˙ N˙ Castiglioni ha rime in quelle composte in occasione della morte di Lucrezia degl' Obizzi, ed impresse del 1664. in Padova per Paolo Frambotto. pag. 162

Catella Marchesi nobile Udinese, scrisse del 1597. tempo in cui Giacomo Bratteolo diede in luce una Raccolta di Autori della Città di Udine. pag. 82

Caterina degl' Obizzi Calcagnini Ferrarese vivente. pag. 186

Caterina Rusca Ferrarese vivente. pag. 186

Cavina dal Cortivo Gentildonna Padovana maritata in Domenico parimenti di Casa Cortivo fiorì del 1675. in circa: si leggono sue Rime in quelle date in luce nella morte di Lucrezia degli Obizzi, ed in quelle di Sebastian Audreantonelli; lasciò di vivere in assai vecchia età del 1711. pag. 162

Cecilia Capece Minutola Enriquez Napolitana, Principessa di Sguinzano vivente. pag. 189

Cherubina Ferro, altra cosa non potrei dire


intorno a questa, se non che fiorì del 1614. come appare dalla Vita e Azioni di Dio Umanato uscita in luce a questo tempo, e dove tien ella un suo componimento. pag. 131

Chiara Fontanelli Zoboli Reggiana scrisse un Sonetto al C˙ Valerio Malguzzi riportato dal Guasco nel libro V˙ della sua Storia literaria fiorì del 1635. pag. 134

Clarina Rangoni da Castelbarco Modonese vivente fra gl' Arcadi Idalia Elisiana. pag. 188

Cristina di Notumbria Paleotti Bolognese vivente. pag. 190

Cristina Regina di Svezia degna di eterna lode, e per il suo Nobile talento, e per il favore, che prestò a chiunque alle belle lettere si applicava, visse dunque, e morì gloriosa del 1689. fra gl' Arcadi si distinse col nome di Basilissa. pag. 161. Il Crescimbeni rapporta il saggio ne' suoi Comentarj. pag. 16

Domicilla Silvi Reggiana ha rime nel IV. libro della Storia Letteraria del Guasco, fiorì circa il 1590. pag. 54

Elena Balletti Riccoboni Ferrarese, vivente famosissima Comica, fra gl' Arcadi Mirtinda Parasside, ed Accademica de' Difettosi di Bologna. pag. 192

Elena Bianca Stanchi ha Rime nella Ghirlanda della C˙ Beccaria che vuol dire fiorì circa il 1595. pag. 78

Elena Lucrezia Cornaro Piscopia Gentildonna Veneziana, Figliuola di Gio. Battista Procurator di S˙ Marco è tanto chiara per il peregrino talento, quanto altra sia stata: fu ella versatissima nelle filosofie, e ne disputo co' primi professori, intese la lingua Greca, e la Latina mirabilmente,


e molte altre ancora. Il saggio di Poesia mi venne favorito da S˙ E˙ il Sig. Gerolamo di lei degnissimo Fratello, ch'egli ritrovo ne' M˙ S˙ dell' Autrice: morì ella sul fior dell'eta sua del 1684. e in sua morte fù impressa una Raccolta di Rime, il P˙ Benedetto Bacchinì diede in luce l'Opere sue, e diffusamente scrive la di lei vita. pag. 169

Elena Maria Cavassi Traccanelli Udinese vivente. pag. 197

Elisabetta Credi Fortini Senese, fra gl' Arcadi Alinda Panichia vivente. pag. 198

Elisabetta Gerolami Ambra Fiorentina vivente fra gl' Arcadi Idalba Corinnetta. pag. 199

Emilia Ballati Orlandini Senese vivente fra gl'Arcadi Eurinda Anodimia. pag. 201

Ersilia Spolverina fiorì circa il 1590. ha Rime nel libro intitolato. Ad Illustrissimam Claram Corneliam Poemata duo. Verona fù sua Patria. pag. 80

Eutorpia Tosini Ferrarese vivente. pag. 201

Faustina degl'Azzi ne' Forti Aretina fra gl' Arcadi Selvaggia Eurinomia e ne' Forzati d' Arezzo la Confusa vivente vanno alle stampe delle sue Rime intitolate Serto Poetico. pag. 203

Faustina Maratti Zappi Romana fra gl' Arcadi Aglaura Cidonia, vivente; sono date in luce le sue Rime unite, a quelle di Gio: Battista Zappi che fu suo marito. pag. 206

Fidalma Maria Vagnucci da Cortona Monaca Cisterciense, fra gl' Arcadi Eurilla Arcneja vivente. pag. 213

Flaminia Borghesi Romana vivente. pag. 213

Flavia Spanocchi Nobile da Jesi fiorì del 1590. in circa, il saggio è tratto dalla Ghirlanda della Co: Angela Beccaria in, morte d' Alessandro


Piccolomini compose ella molte belle stanze. pag. 55

Francesca Farnese chiamata comunemente Suor Francesca del Gesù Maria, ed al Secolo Isabella, fù Figliuola di D˙ Mario de' Duchi di Latera, Donna di Santa vita, e fondatrice del Monistero di Santa Maria delle Grazie in Terra Farnese, e della Santissima Concezione di Albano, e della Concezione in Roma sua Patria dove del 1651. passo a miglior vita. Le sue Poesie spirituali vanno impresse per Giacomo Hertz 1679. pag. 134

Francesca Gallone Castromediana da Napoli Duchessa di Margiano vivente, fra gl' Arcadi Lusilda Chermaria. pag. 214

Francesca Turina Bufalina da Città di Castello, diede alle stampe un Volume di Rime sopra i Misterj del Santissimo Rosario in Roma 1595. tempo in cui ella fioriva: il saggio è tolto dal Rosario di tutti i Poeti, e da altre Raccolte. pag. 77

Gaetana Passarini da Spello vivente fra gl' Arcadi Silvia Licoatide. pag. 215

Gerolama Gori Tolomei da Siena vivente. pag. 220

Gerolama Lorefice Grimaldi Genovese vivente. pag. 220

Gerolama Castagna fiorì circa il 1514. ha Rime nella Vita, Azioni di Dio umanato: altra notizia non mi venne fatto d'avere. pag. 135

Geronda Cerini il Sig. Abate Giacinto Vincioli nelle Rime de'Perugini rapporta una Canzone di questa Donna, che fù da Perugia, fiorì ella del 1643. pag. 139

Giovanna Ascarelli Cittadina Veneziana nelle Rime di suo Padre, che fu Giacomo Ascarelli


stampate del 1643. si legge un suo Sonetto. p. 145

Giovanna Caracciolo nacque in Napoli di D˙ Giuseppe Caracciolo Principe della Torrella e di Donna Costanza di Capua, e non che nella Poesia, fu versata nelle filosofiche materie, e nella Storia sacra, e profana; ebbe in marito D˙ Marino Carracciolo Principe di Santobuono venne annoverata in molte Accademie, fra gl' Arcadi col nome di Nosside Eccalia in età d'anni 64. del 1715. lascio di vivere nella Città di Roma. pag. 174

Giovanna Carriera Veneziana vivente, Donna in molte lingue, e nelle sagre storie versatissima, degna sorella della celeberrima Pittrice Rosalba Carriera. pag. 224

Gineura Albiosa Maggi ha Rime nella Vita, e Azioni di Dio Umanato, fiorì dunque del 1614. e questa pure va con quelle, delle quali m' e ignota la Patria. pag. 132

Giulia Cappellari Padovana vivente. p. 225

Giulia Lama Veneziana vivente fra gl' Arcadi Lisalba molto erudita nelle filosofie, ed assai valorosa Pittrice, cosicche le principali Chiese cercano avere delle opere sue, ed in particolar qualche Palla, nella cui maniera di dipingere acquistossi ella grandissimo onore. p. 226

Giulia Serega Pellegrini Veronese vivente fra gl' Arcadi Erminia Meladia. pag. 233

Incerta. Dalla gentilezza dell' Illustrissimo Sig. Orazio Amalteo di Uderzo mi fu trasmesso un M˙ S˙ Originale di questa Autrice, il quale è una Parafrasi delle Rime del Petrarca in argomenti sagri ridotte, e come appare dal saggio, ch' io ne do assai piu felicemente, che non fece Salvatorino, e il Malipiero; avea ella corrispondenza col Cardinal Comenduno Veneziano,


e da più d' un loco delle sue Rime sembra ch' ella pur fosse Veneziana, fiorì del 1578. in circa, tempo in cui seguirono le nozze di Bianca Cappello col. Duca di Firenze, ed alla quale avea intenzione l' Autrice di dedicar l'Opera sua, come si rileva dalla dedicatoria scritta in principio delle Rime. pag. 1

Incerta. Nelle Rime fatte in lode della Semirami del Manfredi si legge un Sonetto di questa, fiorì ella circa il 1580. pag. 34

Incerta, il saggio e tolto dai Complimenti di Paulo Filippi, di cui ella fu amante, fiorì del 1619. pag. 133

Incerta Contessa Milanese moderna ha Rime nell' Aniversario dei due Eccel. Sposi Giovanni Morosini, e Elisabetta Maria Trevisana. p. 234

Incerta Genovese moderna il saggio è tratto dal sudetto Anniversario. pag. 235

Innocenza Carrari di Patria Trevigiana, fiorì del 1591. tempo in cui si diede alle stampe delle Poesie funebri di diversi ingegni Trevigiani in morte dall' Illustrissim. Sign. Francesco Brescia. pag. 60

Ippolita Benegni moglie di Muzio Manfredi ha Rime nella Vita, e Azioni di Dio umanato, fiorì del 1592. pag. 61

Ippolita Cantelmi Carrafa Napolitana vivente fra gl' Arcadi Elpina Aroate. pag. 235

Isabella Andreini moglie di Francesco Andreini famoso Comico, ed ella pure una delle più celebri Comiche, che mai sieno state: compose una Favola Pastorale intitolata Mirtilla ed un Volume di Rime, che tutto và impresso, come ancora molte graziosissime lettere. Nacque ella in Padova del 1562. ed in sua morte, che da un' Aborto seguì in Leone del 1604. si


diede alle stampe una Raccolta di Rime intitolata; Pianto d'Apollo. pag. 62

Isabella Cervoni da Colle si leggono del suo Tre Canzoni in Laude dei Cristianissimi Re, e Regina di Francia Enrico IV. e Maria de' Medici. In Firenze 1600. tempo in cui fioriva. p. 87

Isabella Farnese le sue Rime vanno unite con quelle di Suor Francesca del Gesu Maria sua Sorella, Questa fu parimenti religiosa, ed al secolo si chiamò Vittoria. Lascio ella di vivere del 1658. pag. 236

Isabella Mastrilli da Napoli Duch. di Marigliano vivente fra gl'Arcadi Olinda Zelea. pag. 236

Isicratea Monte da Rovigo fiorì del 1578. in circa; ha Rime nei Madrigali di Gio: Maria Bonardo, ed in altre Opere dello stesso Autore. pag. 17

Laura Beatrice Cappello Gentildonna Veneziana, versatissima in ogni scienza, siccome dicono gl' Autori. Fu Monaca nel Monistero della Pusterla, fiorì circa il 1580. il saggio è tratto dalla Ghirlanda della Contessa Angela Beccaria, pag. 36

Laura Felice Ghirardelli si legge un suo Sonetto nel Compendio della Cefalogia Fisonomica di rime diverse impressa del 1675. p. 165

Laura Grossi Sacchi, ha rime nella Vita di Dio umanato, fiorì dunque del 1514. pag. 131

Laura Guidiccioni Lucchesini nobile Dama Lucchese, compose molte belle Favole Pastorali cioè, il Satiro, la Disperazion di Fileno, e il Gioco della cieca, che furono delle prime che in musica si recitassero, fiorì del 1680. in circa il Crescimbeni ne' Commentarj rapporta un suo Sonetto. pag. 87


Laura Spinola gran Dama Genovese, fiorì del 1590. Il saggio è tolto dalle Rime di D˙ Angelo Grillo. pag. 55

Leonora Bellati Bernardi, fiorì del 1580. il Tasso, e il Grillo fanno di essa assai degna menzione, ed appunto nelle Rime del Grillo in Bergamo per Comin Ventura tien ella de' componimenti, ed in altre Raccolte ancora. p. 35

Leonora Gonzaga di gloriossima memoria Principessa di Mantova, e moglie di Ferdinando Ill. Imperatore: fu ella, che introdusse nella Germania il gusto della nostra Poesia, fiorì circa il 1651. il saggio è tratto dai Commentarj del Crescimbeni. pag. 155

Leonora Montalvo dei Signori della Sassetta una delle Famiglie più cospicue della Castiglia vecchia fu da fanciulla condotta a Firenze, e quivi allevata, fiorì del 1659. ha ella parimenti Rime nei Commentarj del Crescimbeni. p. 159

Lisabetta Dalla Valle Cosentina, fiorì del 1614. si legge un suo componimento nella Vita, e Azioni di Dio umanato. pag. 132

Livia Spinola moglie di Alessandro Spinola, cugina di D˙ Angelo Grillo nelle Rime del quale si legge il saggio, fiorì del 1590. pag. 53

Lodovica Sbarra Collalto ha un Sonetto nelle Rime di Lucchesia Sbarra impresse del 1610 pag. 101

Lucchesia Sbarra nell' anno 1576. ai 6. di Maggio nacque ella in Conegliano di Pietro Sbarra, e di Maria Tranquilla Taccolo, fu maritata in Casa Coderta, ed in secondo voto in Casa Rota. Le sue Rime dalle quali ho tratto. il saggio furono impresse del 1610., Dedicate al Signor Co: Giacomo Collalto qualche tempo prima nè diede in maggior copia alle stampe.


Morì in età d'anni 86. e mesi 7 pag. 94

Lucida Nalli ha Rime in quelle per Donne Romane raccolte da Muzio Manfredi, fiorì del 1579. in circa. pag. 29

Lucrezia Marcelli, il saggio di questa è tolto parimenti dalla suddetta Raccolta, che vuol dire scrisse ella nel tempo istesso di Lucida Nalli pag. 26

Lucrezia Marinella Veneziana figliuola di Gio: Marinello famosissimo medico, fiorì circa il 1610.; Dicesi, che in età di anni 27. avesse ella scritti molti libri, cioè la vita di S˙ Francesco in ottava Rima, la vita di Santa Colomba, la vita della Vergine in Versi, ed in prosa la Nobiltà, ed Eccellenza delle Donne, e di più l' Arcadia Felice, un Poema Eroico intitolato l' Enrico; l' Amore impazzato, la vita di Santa Giustina, e le Rime Sagre, che tutto và impresso; per lè quali opere riportò ella grandissimo onore; riuscì ancora mirabilmente nel canto, e nel suono. pag. 6.

Lucrezia Sergardi Buonsignori Senese vivente fra gl' Arcadi Coralba Anfiliochia. pag. 237

Luisa Bergalli Veneziana fra gl' Arcadi Irminda. pag. 237

Maddalena Campiglia Gentildonna Vicentina; compose una Favola intitolata la Flori ed un' Egloga intitolata la Calisa, che dedicò a Curzio Gonzaga il quale ebbe per lei moltissima stima, ed il Tasso, ed il Muzio ancora ne parlano con assai lode dalle Rime di Onofrio Zarrabini in Venezia presso Nicolò Moretti 1586. tempo in cui ella fioriva, si è tratto il saggio, e da altri libri ancora. pag. 37

Maddalena Massimi, fiorì del 1590. in circa si legge un suo Sonetto nelle Rime di Leandro


Bovarini.> pag. 56

Maddalena Salvetti nacque in Firenze, ed ebbe in marito Zenobio Acciajoli Cavaliere di Santo Stefano; vanno impressi due libri primo, e secondo delle sue Rime Toscane lascio imperfetto un Poema intitolato il Davide Perseguitato, che dopo la sua morte, che seguì del 1610. il solo cominciamento venne stimato degno di darsi in luce. pag. 101

Margherita Costa oltre le sue Rime Amorose scrisse il Martirio di S˙ Cecilia, e diversi Drammi a uso di Teatro salì in pregio presso il gran Duca Ferdinando II. il Cardinal Mazarino, e Papa Alessandro VII. Roma fu sua Patria, e fiorì del 1650. pag. 149

Margherita Malescoti Sign. Senese scrisse del 1590. in circa, il saggio e tolto dalla Ghirlanda della Contessa Beccaria. pag. 57

Margherita Ottini Romana vivente. p. 244

Margherita Sarocchi Napolitana, fiorì del 1600. in circa, e conservò il buon gusto della Poesia, quantunque al suo tempo così poco incominciava a essere considerato. Compose un Poema di Scanderbec dal quale e tolto il saggio. pag. 111

Maria Alberghetti Cittadina Veneziana moltissime cose del suo vanno impresse fra le quali il Paradiso d' esercizj spirituali, e il Giardino di Poesie Spirituali. Scrisse del 1657 in circa e meno ella vita esemplare nella compagnia delle Dimesse di Padova. pag. 155

Maria Ardoini Lodovisia. Principessa di Piombino fu di alto talento, e in età di poco più di dieci anni diede alle stampe un volume di latine Poesie. Nacque in Messina, e la sua morte seguì in Napoli ai 29. Decembre 1700. fra gli


Arcadi si chiamò Getilde Faresia. pag. 170

Maria Buonaccorsi Alessandri Fiorentina vivente, fra gl' Arcadi Leucride Ionide. p. 245

Maria Costanza Pavina Veneziana vivente Monaca in S˙ Gerolamo dove entrò d'anni 5., e senza studio tolto, che di una semplice lettura scrisse ella moltissimo. pag. 249

Maria Elena Lusignani vivente Genovese. pag. 252

Maria Elisabetta Strozzi Odaldi Fiorentina vivente. pag. 253

Maria Felice Alessi Vicentina vivente. p. 254

Maria Medici Fiorentina, e moglie di Enrico IV. Re di Francia, fu ella per ogni qualità assai famosa Principessa, fiorì del 1612. il saggio è tolto dal Rosario di tutti i Poeti. p. 224

Maria Pellegrina Viali Rivaruoli Genovese vivente, fra gl' Arcadi Dafne Euripea. p. 254

Maria Porzia Vignoli nacque in Roma del 1532. fu versatisissima nell' Aritmetica, e nella Astronomia, e non che nella volgare nella latina Poesia: vesti l'abito di San Domenico in Viterbo, dove del 1658. lasciò di vivere. Il Crescimbeni nei Commentarj riporta delle sue Rime. pag. 161

Maria Selvaggia Borghini Pisana vivente fra gl' Arcadi Filotima Innia. pag. 255

Maria Settimia Tolomei nacque l'anno 1659 del Caval. Marcello dell' antica illustre famiglia di Siena, e di Margherita del Cotone; fu versata negli studj, e fra gl' Arcadi si chiamò Dorinda Parasside, ebbe in marito Alfonso Marescotti dei Sig. di Montalbano lascio ella di vivere del 1715. in Cerbaja sua Villa. Il saggio vien riportato dal Crescimbeni. pag. 175

Maria Vittoria Delfini Dosi Bolognese vivente.


pag. 259

Metilde Bentivoglio Calcagnini Ferrarese fiorì del 1710. tradusse molte cose dal Francese, ha Rime in quelle dei Poeti Ferraresi essendo stata Ferrara sua patria. pag. 173

Minerva Bartoli Urbinate diversi suoi Sonetti si leggono nel Parnaso di Alessandro Scajoli fiorì circa il 1594. pag. 76

Modesta Pozzo de' Zorzi detta communemente Moderata Fonte; perche sotto tal nome diede in luce l'opere sue. Il giorno di S˙ Vito, e Modesto del 1555. nacque in Venezia di Gerolamo Pozzo illustre per la Cittadinanza; fu versata in molte scienze acquisto grandissima fama compose un Poema intitolato il Floridoro, un' altro Libro del Merito delle Donne, ed altre cose ancora; morì finalmente del 1592., e fu sepolta con onoratissimo Epitafio nel Claustro de' Minori Conventuali di Venezia. pag. 40

Olimpia Rambelli Napolit. vivente. p. 259

Orsina Bertolaja moglie di Ercole Cavaletto poeta scrisse molto, e in diverse Raccolte vanno sparse le sue Rime, in particolare in quelle di Diversi Autori stampate per Comin Ventura; fu brava filosofa, e disputò pubblicamente contro i Dialoghi del Tasso il quale le dedico poi quello della poesia. Ferrara fu sua patria, e del 1592. lasciò ella di vivere. pag. 30

Orsola Maria Troni Poggiolini Imolese vivente. pag. 260

M. Perfetta da Reggio fiorì del 1578. in circa ha un componimento nei Madrigali del Bonardo. pag. 18

Petronilla Paulini Massimi Romana vivente fra gl' Arcadi Fidalma Partenide. pag. 262

Prudenza Gabrieli Capizucchi nipote del


Cardinal Giulio Gabrieli nacque del 1654. e solo d'anni 40. cominciò a componere nella nostra poesia con molta gentilezza: lasciò di vive del 1709. in Roma sua patria. pag. 171

Rosa Agnese Bruni da Forli vivente. p. 267

Sarra Coppia Ebrea Veneziana, che fiorì del 1613. Il saggio è tolto dalle lettere di Ansaldo Cebà, di cuì ella si fece amante in leggendo il Poema di questo Autore intitolato l' Ester. pag. 225

Silvia Bendinella Piacentina ha Rime nella Ghirlanda della Contessa Beccaria fiorì dunque del 1590. pag. 56

Silvia Silvi Reggiana scrisse del 1590. Il Guasco ne rapporta il saggio presso a quello di Domicilla sua sorella. pag. 54

Silvestra di Collalto. Il saggio è tolto da un M˙ S˙ di Gerolamo Aleandri il giovane esistente presso l'Illustrss. Sig. Orazio Amalteo, nacque ella ai 3. di Settembre del 1610. di Giulio, e Lodovica, ebbe in marito Giovanni Sebanelli Gentiluomo da Conegliano, e nel mese di Settemb. del 1674. lasciò di vivere. p. 145

Stratonica Fabbra ha Rime nel Sacro Museo impresso del 1611. altro non potrei riferire. pag. 124

Tarquinia Molza Modonese figliuola di Camillo, e nipote del famoso Francesc. fiorì ella del 1591. e a tanto salì il suo merito, che fu creata Cittadina Romana, ed altri grandissimì onori fatti gli vennero, il saggio è tolto dalle Rime per Donne Romane del Manfredi, e da altro libro. pag. 58

Teresa Balletti Ferrarese vivente. pag. 268

Teresa Francesca Lopes Napolitana vivente fra gl' Arcadi Sebetina Gileja. pag. 269


Teresa Grillo Panfilia Genovese vivente fra gl'Arcadi Irene Pamisia. pag. 270

Teresa Nicolini Veronese vivente. p. 272

Teresa Zani Bolognese vivente. pag. 274

Valeria Miani Padovana figliuola di Acchille Professor di legge scrisse un volume di Rime, ed una Tragedia intitolata la Celinda, ed una Fauola intitolata l' Amorosa Speranza; fiorì circa il 1598. pag. 84

Veneranda Bragadina Cavalli Gentildonna Veneziana le sue Rime furono impresse per il Crivellari in Padova del 1613. tempo in cui fioriva. pag. 126

Verginia Bazzani Cavazzoni Mantovana Accademica Gelata morì ella 4. o sei anni sono. Le sue Rime furono stampate dall' Albrizzi in Venezia. pag. 175

Verginia Catelani Livornese vivente. p. 276

Verginia N˙ ha Rime in quelle di Aleandro Bovarini fiorì del 1596. in circa. pag. 79

Veronica Franco Donna di gran talento Veneziana, fiorì del 1578. le sue Terze Rime vanno impresse senza nome di Stampatore. pag. 18.

Vittoria Galli nacque in Urbino d' Antonio pur bravo Rimatore, e fu moglie di Aurispa Aurispi nobile Urbinate fiorì ella circa il 1594. Bernardino Baldi le dedicò le sue Rime varie. pag. 77

Vittoria Telea Noci il saggio è tolto dal Parnaso di Alessandro Scajoli, fiorì dunque circa il 1609. ne potei sapere di qual Patria ella fosse. pag. 112

IL FINE.