RIME
DI
VITTORIA COLONNA

Marchesana di Pescara
Corrette ed illustrate.

Colla VITA della Medesima
scritta da
GIAMBATISTA ROTA
Accademico Eccitato.

In Bergamo appresso Pietro Lancellotti.
1760.

Con licenza de' Superiori.



PAreva conveniente, che dopo la produzione da questi torchi delle Opere Poetiche di tanti Uomini illustri, si desse il luogo anche ad alcune di Donne, che nella medesima facoltà si segnalarono; e siccome Vittoria Colonna tiene tra queste il primo luogo, così avesse anche l' anzianità delle nostre fatiche. Sono già alcuni anni, che n' era preparata l' edizione, ma non so per qual fatalità, gli originali si smarrirono in Venezia, e l' Autore della Vita, che non n' avea conservata copia, ha dovuto ritessere la tela, e fare doppia fatica. Ecco per tanto l' edizione ora compita. La tardanza tuttavia non è stata senza il suo frutto. Il tempo ha dato luogo al diligente e pulito Scrittore della Vita a far nuove scoperte, onde riuscisse più accurata e



copiosa. Vi è pure stata aggiunta una scelta Raccolta di giudiziose Testimonianze. Abbiamo in oltre procurato il Ritratto col benefizio di una Medaglia favoritaci dall' incomparabile gentilezza del Signor Conte Jacopo Carrara, sagace Raccoglitore di simili supellettili Letterarie, giacchè il Ritratto del Bulifon è ideale, e di sua invenzione. Ci siamo serviti per testo della sua edizione, ed abbiamo del tutto separate le Rime spirituali dalle altre, cosa non osservata da lui esattamente. Finalmente abbiamo usata la maggiore diligenza, che ci fu possibile, per renderla singolarmente corretta, e degna del pubblico favore, e compatimento per que' falli, che dalla nostra umanità sono inseparabili.



SCRITTA DA GIAMBATISTA ROTA. ACCADEMICO ECCITATO.

Vittoria Colonna(1) Di un' altra Vittoria Colonna trovasi menzione in due Lettere di Annibal Caro scritte nel Febbrajo del 1551., la quale di quel tempo ancor giovinetta scrivea in versi non senza lode; ma niuna delle sue Poesie ci è stata conservata dalle stampe. Lett. del Caro Vol. 1. num. 197. 198. dell' edizion Comin. Giannantonio Serone in una sua Lettera a Dionigi Atanagi a pag. 251. delle Lettere Facete raccolte da Francesco Turchi, Venez. 1575. la chiama degna Nipote di sì gran Zia; quindi è manifesto, che ella fosse nipote della nostra Poetessa. Marchesana di Pescara, la più illustre tra le Donne, che segnalarono il sedicesimo Secolo, nacque, non già in Roma, come hassi da alcuni Scrittori; ma nel Castello di Marino



(2) Errano senza dubbio Giammatteo Toscano Pepl. Ital. ed Antonio Bulifon Cronic. affermando, che Vittoria nascesse in Roma, perciocchè dalla seguente Oda di Marcantonio Flaminio suo contemporaneo è manifesto, essere lei uscita alla luce nel Castello di Marino suo Feudo, dodici miglia discosto da Roma.
Ad Villam Marianam de Vict. Columna.
Salve magna domus, meae Columnae
Natalis, domus o beata Salve,
HiCne vagiit illa Musa, doctis
Quam Phœbus decimam addidit Camœnis?
Cœli lumina vidit hicne primum
Cœlo fœmina digna? digna celsis
Nasci, & vivere in aedibus deorum:
Supra sidera sidus ipsa clarum?
O fœlix domus!
Carm. lib. 1.
l' anno 1490.(3) Paolo Giovio nel lib. 1. della Vita del Marchese di Pescara, di cui la nostra Vittoria divenne moglie; afferma, che questi due illustri Sposi fossero eguali d'età, e che il Marchese fosse di sedici anni allorchè Ferrante Re di Spagna passò a Napoli, il che per testimonianza del Guicciardini lib. 7. Stor. Ital. essendo avvenuto l' anno 1506. egli è fuor d' ogni dubbio, che Vittoria venisse alla luce l'anno 1490. di Fabrizio Colonna gran Conestabile del Regno di Napoli, uno de' più saggi Capitani, di cui facciano menzione le Storie di que' tempi, e di Anna di Montefeltro(4) Di questa Principessa ebbe Fabrizio sei figliuoli. Federico, Ascanio, Ferdinando, Camillo, Sciarra, e Vittoria. figlia di Federico Duca d' Urbino. Si ammirarono in lei, ancora fanciulla, accoppiate ad una rara bellezza di corpo alcune di quelle doti dell' animo, le quali furono poscia la meraviglia del suo Secolo, di guisa che venuta al quarto anno dell'



età sua(5) Bullart. Academie des Sciences, & des Arts contenant les Vies & les Eloges historiques des Hommes illustres. a Paris 1682. fol. Tom. 2. lib. 5. pag. 336. Giovio loc. cit. Pare, che ella alluda a questa promessa di matrimonio in età sì tenera con quel Sonetto, che comincia:
A pena avean gli spirti intiera vita,
Quando il mio cor proscrisse ogn' altro oggetto.
Don Alfonso d' Avalo Marchese di Pescara, chiaro per le sue militari imprese (6) Egli fu ucciso nel 1496. per tradimento di uno Schiavo, mentre comandava gli Aragonesi nell'assedio di Napoli. Giovio Vita del March. di Pesc. Lib. 1. la chiese per isposa di suo figliuolo Ferdinando Francesco, fanciullo di altrettanta età, cui dal Colonna venne promessa, mosso dalle istanze di Ferdinando il giovine Re d' Aragona(7) Giovio loc. cit., e dal desiderio di unire il vincolo del parentado a quello dell' amicizia, per cui a Don Alfonso egli era strettamente congiunto.

Posero ogni cura i genitori di Vittoria nel coltivare il di lei animo, indirizzandola, per quanto l' età sua il sostenea, nella via delle Lettere, ed all' acquisto delle morali virtù, cui essendo ella per natura disposta, vi riusciva con gran lode, ed oltre l' aspettazione d' ogn' uno. Venne frattanto crescendo in costumi, in sapere, ed in bellezza, non meno che in persona, ed in età, di guisa che in lei vedeasi raccolto quanto



di pregevole appena ritruovasi sparso fra molte altre.

A tali prerogative molto aggiugnea di pregio la chiarezza del sangue, e sì in lei risplendeano venuta nell' età da marito, che trassero ad amarla, ed a desiderare le sue nozze i Duchi di Savoja e di Braganza,(8) Di questa concorrenza fa cenno il Giovio in una sua Lettera a Stefano Colonna. Il maritaggio della Sig. Vittoria batte tra il Duca di Braganza, Duchino di Savoja, ed il Marchese di Pescara; l' uno è troppo lontano, l' altro è troppo fuoruscito, e l' altro è troppo tenerello. Dio inspirerà Sua Santità nel manco male. Di Roma a' 22 di Novembre 1512. Leggesi questa a pag. 109. dell' edizione delle Lettere di quest' Autore fatta in Venezia nel 1560. dai Fratelli Sessa; ma senza dubbio v' è errore nella data, perciocchè ella è cosa certa, che Vittoria era moglie del Marchese di Pescara d' alcuni anni, allorchè egli rimase prigioniero nella battaglia di Ravenna, seguita, sicome è noto per molte Storie, appunto nel 1512. ed oltre a ciò il Giovio non lo averebbe chiamato tenerello in quest' anno, che era il ventesimosecondo dell' erà sua., allora appunto, che il giovine Marchese di Pescara si apparecchiava a darle l' anello; ma fosse, che il Papa(9) Giulio Secondo, siccome raccogliesi dall' addotta Lettera del Giovio., il quale si era frammesso nell' affare, si mostrasse parziale dello Sposo; o non isperassero, che Vittoria ad altri rivolgesse l' amore, che sino dalla prima e tenera sua giovinezza ella avea al Marchese, giovine avvenente, ed il meglio costumato che fosse; da ciò si ritrassero, e questi lieto d' essere venuto a fine del suo intento,



celebrò con isplendido apparecchio e con gran festa le nozze, da amendue gli Sposi desiderate, correndo l' anno diciassettesimo (10) Giovio nella Vita del March. Lib. 1. dell' età loro.

Questa ragguardevole Coppia non ebbe forse pari in Italia di que' tempi, perciocchè siccome Vittoria per le accennate sue doti sollevavasi sopra tutte l' altre del suo sesso; così il Marchese suo Sposo, oltre che in costumi, ed in ogni maniera di buone Lettere(11) Giovio ibid. Bullart ibid. avea pochi eguali tra' suoi coetanei; datosi ne' primi suoi anni all' esercizio dell' armi, diede sì certe e belle speranze del suo valore, che ancor giovinetto ascese ai supremi gradi nella milizia(12) Di ventun anno fu eletto alla carica di Capitan Generale de' Cavalleggieri V. la nota (15)., ed allorchè morte lo colse nella sua più bella età, era già salito in riputazione del più saggio, e prode Capitano del suo tempo.

La sua generosa natura, che lo inclinava a sì fatti esercizj, non lo lasciò lungamente in riposo dopo le sue nozze, dalle quali per qualche tempo avea indarno aspettato d' aver figliuoli; poichè svegliatasi in Italia la guerra Francese, non volle trascurare sì bella occasione, onde dar saggio del suo valore,



nè mancare in sì grave urgenza al debito di fedele Vassallo verso il suo Re(13) Giovio nella sua Vita Lib. 1.. Benchè a Vittoria dolesse oltre modo di dover vivere lontana da lui, pure, oltre al costume delle femmine, non cercò mezzi di ritrarlo da così fatta risoluzione: ricordogli soltanto, che così non si lasciasse accendere dal desiderio della gloria, e dalla speranza dell' immortalità, che si scordasse della propria salute. Come fu vicina l' ora, che da lui dividere la dovea, gli fe dono di un superbo Padiglione, e di un Camerino ornato di ricamo, sopra la cui porta leggevasi ciò, che giustamente fu detto di Vespasiano. Nunquam minus otiosus, quam cum otiosus erat ille: utilissimo avvertimento spezialmente ad un Capitano, e poichè ella ebbegli presentato alcune palme in segno di felice augurio, preso da lei congedo assai onorevolmente in famiglia, in cavalli, ed in arnesi trasserissi all' esercito(14) Bulifon loc. cit..

Se ciò le fosse cagione di dolore, certamente non è da chiedersi. Tuttavia ben presto ebbe di che rallegrarsi, poichè il Marchese appena arrivato al campo avea di se date tali speranze, che quantunque giovinetto d'anni



ventuno(15) Abbiamo già osservato not. (8) essere seguita la famosa battaglia di Ravenna nel 1512 ventesimo secondo dell' età sua, e la carica di Capitan Generale de' Cavalleggieri eragli stata conferita qualche tempo prima. Giovio nella sua Vita Lib. 1., venne scelto alla carica importante di Capitan Generale de' Cavalleggieri.

Pochi mesi appresso ebbe Vittoria nuova cagione di attristarsi, perciocchè il Marchese coraggiosamente combattendo nella giornata di Ravenna, soverchiato da' nemici venne in loro potere. Fu poscia condotto a Milano, ed ivi guardato in assai onesta prigione, donde fu tratto dopo breve tempo per intercessione del Triulzi suo Zio materno (16) Giovio ibid.. In questo mezzo egli scrisse un piacevolissimo Dialogo d' Amore, ed indirizzollo alla Marchesana sua Sposa, nel quale molto vivamente espresse l' amore, che le portava, e quanto gli dolesse l' essere da lei lontano; dal che ella prese motivo di farne una divisa, racchiudendo un amorino in un cerchio formato da un serpente, con questo verso:

Quem peperit virtus, prudentia servet amorem. volendo in tal guisa mostrare, che la prudenza dovea rendere indissolubile il bel nodo, che stretto avea la virtù(17) Bullart loc. cit..



Rimasa sola del marito, come abborriva sommamente il di lei genio dallo starsi in darno, e dal passar la vita tra' vani sollazzi, nè avea cosa, che la dilettasse quanto lo studio delle buone lettere; così i disegni e pensieri suoi erano allora, più che mai fossero, volti alle medesime, ed a fine di potervisi applicare con tutto l' agio, venne a Napoli da Ischia(18) Bulifon loc. cit., dove trovavasi col marito, allorchè questi lasciolla per passare al campo, e dove usavano di portarsi sovente (19) In più luoghi delle sue Rime sotto nome di Scoglio ella fa menzione dell' Isola d' Ischia, come d' un luogo, che molto le andasse a genio, e dove usasse di far lungo soggiorno col marito, il che spezialmente si osserva nel Sonetto:
Sperai, che 'l tempo i caldi alti desiri,
e nell' altro:
Donna secura accesa, e dall' errante
Descrive quest' Isola Luca Contile a pag. 129 del Vol. primo delle sue Lettere stampate in Pavia nel 1564.
a godere in riposo le delizie della campagna.

Venuta a Napoli ella si dimorava quasi sempre in casa, per non isviarsi dallo studio uscendone, mettendo a conto di vita quel tempo solamente, che in esso spendeva. Oggetti principali de' suoi studj erano l' erudizione antica(20) Bullart loc. cit., e l' Italiana Poesia, nella quale versò ella gran parte del suo sapere, e per la quale era già salita in grandissima



riputazione. Le imprese di suo marito erano l' ordinario argomento de' suoi poetici componimenti, e secondo che scrive il Bullart(21) Ibid., Elle chantoit ses Victoires par des vers Toscans si relevez, & si dignes de leur sujet, qu' elle sembloit être une nouvelle Muse destinée pour publier la renomée de ce gran Capitaine, & pour inspirer les louvanges, que l' on doit a la vertu guerriere.

Da sì fatti studj ella volgeasi spesso allo scrivere sensate, ed affettuose lettere al marito (22) Bulifon loc. cit., il quale non ostante che fosse tutto nelle cose della guerra, aveala sempre tra' suoi pensieri, nè per che che si fosse dimenticò giammai l' amor suo, e perciò soleva visitarla (23) V. il Sonetto:
Qui fece il mio bel Sole a noi ritorno.
benchè lontana, quando egli si vedea tempo di farlo, senza mancare ai doveri dell' importante sua carica.

Lontana dall' ardor della gloria, quella soltanto riputava essere onesta ed immortale, che da lodevoli e virtuose azioni suol nascere. Di questa sua virtù diede assai chiaro argomento allora quando, dopo la battaglia di Pavia, memorabile per la prigionia di Francesco I. Re di Francia, nella quale



il Marchese di Pescara rimase ferito in molte parti della persona, ed ebbe quasi tutta la gloria de' considerabili vantaggi dagl' Imperiali riportati sopra de' Francesi; ella intese, che varj Principi uniti in lega contro Cesare, tentavano di farvi entrare ancora suo marito, offerendogli il Regno di Napoli in ricompensa della sua infedeltà; poichè temendo non forse egli abbagliato dallo splendore del Diadema accettasse l' offertà; scrissegli che volesse ricordarsi della solita sua virtù, con la cui riputazione e lode egli avanzava la fortuna e la gloria di molti Re. Perciocchè non con la grandezza de' Regni e de' titoli, ma per la via della virtù l' onore s' acquista, il quale sempre con chiara lode arriva a' Discendenti; che ella non desiderava d' esser moglie di Re, bensì di quel gran Capitano, il quale non solamente in guerra col valore; ma ancora in pace con la magnanimità avea saputo vincere i Re più grandi(24) Giovio nella Vita di lui. Lib. 7.. Questa lettera svegliò tali pensieri nell' animo del marito, che rinunziò apertamente alle speranze del trono, anzichè far cosa contraria alla virtù, in cui al primo invito de' Collegati parea, che egli cominciasse a vacillare.

Non molto dopo la giornata di Pavia, seguita nel Febbrajo del 1525., ella conobbe



non avere la fortuna cangiato verso di lei il suo costume, e la sua natura, avendole costei apparecchiato nuove sciagure. Ritrovavasi il Marchese in Milano assai debole, e disagiato della persona per il soverchio bere d' acqua, non meno che per i molti disastri e fatiche in guerra sostenute, a cura della quale infermità nè consiglio di medico, nè virtù di medicina alcuna pareva che valesse, anzi ogni giorno più andava scemando di forze. Di tale malattia tenendosi egli spacciato, ne diede avviso alla moglie, perchè senza indugio si portasse a Milano, bramoso di vederla prima di morire(25) Giovio ibid.. In pochi giorni così egli andò di cattivo in peggiore stato, che venne sfidato da' Medici, e sentendosi venir meno lo spirito, e vicino alla morte, fatto chiamare a se il Marchese del Vasto suo cugino, gli raccomandò con quell' affetto, che potè maggiore, l' amatissima sua Moglie, di cui non avendo avuto figliuoli(26) Giovio ibid. Ella fa cenno di questa sua sterilità nel Sonetto, che comincia:
Quande morte tra noi disciolse il nodo
e poco sotto:
Sterili i corpi fur, l' alme feconde.
in diciannove anni di matrimonio(27) L'anno 1525., in cui il Marchese di Pescara venne a morte, dee certamente riputarsi il diciannovesimo del suo matrimonio, seguito verso il fine del 1506. o nel cominciare del 1507. veggasi il Giovio nella Vita di lui Lib. 7. dichiarollo erede



delle ricchissime sue facoltà. Vittoria non sì tosto intese il marito essere preso da grave infermità, che partitasi da Napoli con onorevole seguito passò a Roma, dove fu accolta con istraordinarj onori, e continuando poscia con ogni sollecitudine il suo viaggio alla volta di Milano, come fu giunta a Viterbo, ebbe la nuova funestissima della di lui morte(28) Bullart loc. cit. Fu sepolto in Milano con assai onorate esequie a' 30. di Novembre del 1525., e poco appresso accompagnato da buon numero d' amici e domestici vestiti a bruno, fu portato a Napoli, e posto nella Chiesa di S. Domenico, dove con magnificenza rinnovate le esequie, fu con molta eleganza lodato in pubblico per Gualtiero Corbetta Milanese. Giovio nella Vita di lui Lib. 7..

Non poteva certamente la fortuna percuoterla di maggior colpo, e parve, che in questo suo gran bisogno ella venisse abbandonata ancora dalla propria virtù, perciocchè non dando luogo a' conforti, in guisa si abbandonò al dolore, che ne perdè i sensi. Ritornati poscia ai loro ufficj il sentimento e gli spiriti, allargò il freno alle lagrime, le quali non si rasciugarono se non dopo parecchi anni(29) Prese quindi argomento di lodarla l' Ariosto con un suo Epigramma, in cui la innalza sopra la Figlia di Catone Uticense, la quale non ebbe cuore per sopravviver al marito.
Non vivam fine te, mi Brute, exterrita dixit
Portia, & ardentes sorbuit ore faces;
Avale, te extincto, dixit Victoria, vivam
Perpetuo mœstas sic dolitura dies.
Utraque Romana est, sed in hoc Victoria major,
Nulla dolere potest mortua, viva dolet.
V' ha chi attribuisce questo Epigramma a M. A. Flaminio: Flamin. Carm. ediz. Comin. pag. 89. nè manca chi lo ascriva a Tommaso Mosconi; parmi tuttavia da seguire l' opinione del Corso pag. 381. il quale inclina a credere esserne Autore l' Ariosto. Sopra lo stesso argomento scrisse Vittoria la quarta Stanza della prima Canzone, siccome pure il Sonetto:
Veggio al mio danno acceso, e largo il Cielo.
, e ne nacquero le più eleganti ed affettuose poesie, che di questa eccellente Rimatrice ci siano rimase.



Potrei con lungo catalogo ricordare molti Scrittori, i quali con grave errore affermarono, che Vittoria poco dopo la morte del marito, accaduta nel Novembre del 1525., si ritirasse in un Monistero, ed ivi finisse i suoi giorni(30) V. la nota (76).; ma ciò esser falso appar manifestamente e dalle di lei Opere rimasteci, e dalle Lettere da varj personaggi ad essa scritte a Ferrara, a Roma, a Napoli, e ad Ischia nel corso di parecchi anni dopo tale epoca, come più sotto osserverassi.

Tornata a Napoli di Viterbo si ritirò nuovamente a' suoi studj, l' unico conforto, che le fosse rimaso dopo la morte del marito. Era allora Vittoria giovine d' anni trentacinque, di fresche bellezze, e celebre per la sua letteratura; aspiravano perciò varj Principi alle sue nozze(31) Bullart loc. cit., cui cercavano



di disporla ancora i proprj fratelli(32) Alessandro Zilioli, Istor. delle Vite de' Poeti Italiani a pag. 198. del M. S. posseduto dal celebre Letterato il Sig. Conte Giammaria Mazzucchelli, cui mi professo debitore di questa, e di alcune altre notizie spettanti a questa Vita., i quali si aspettavano di far di lei alcun gran parentado; ma ella ben lontana dal darci orecchio, a chiunque di ciò le faceva parole usava di rispondere, che il suo Sole (33) Con questo nome ella usò di chiamare il marito in tutte le sue Rime., quantunque dagli altri fosse riputato morto, appresso di Lei sempre vivea(34) Veggasi la Sposizione di Rinaldo Corso sopra il Sonetto di Vittoria:
D' ogni sua gloria fu largo al mio Sole.
a pag. 170. dell' ediz. delle sue Rime fatta in Venezia nel 1558 dai Fratelli Sessa.
: sopra di che ella scrisse un Sonetto sì ingegnoso e leggiadro(35) Questo è il Sonetto che comincia:
Di così nobil fiamma amor mi cinse.
, che da Alessandro Zilioli(36) Zilioli loc. cit. venne trascelto per dar saggio della sua eccellenza nell' Italiana Poesia. Conviene in fatti, che altamente avesse fisso nel cuore il Marchese suo marito, se nel corso de' primi sette anni(37) V. la nota (58). della sua vedovanza non seppe colle sue Rime, se non piagnere la morte di lui. Certamente ella lasciò a' posteri un raro esempio di costanza e fedeltà conjugale.



Soleva dire, che anzi avrebbe scelto di morire, che sopravvivere al marito; invidiare perciò la sorte di Lodovico e Bartolommea genitori di Francescomaria Molza, i quali si morirono nel medesimo giorno(38) Nella Vita del Molza molto eruditamente scritta dal celebre Sig. Ab. Pierantonio Serassi, posta in principio del primo Vol. delle Opere di questo Poeta, raccolte novellamente ed illustrate dal medesimo. Bergamo 1747. appo Pietro Lancellotto., intorno a che abbiamo di lei tre elegantissimi Sonetti, che ella inviò a questo celebre Poeta(39) Leggasi la Sposizione del Corso sopra questi tre Sonetti a pag. 339. dell' accennata edizione. Il primo comincia:
Quanta invidia al mio Cor felici e rare.
l'altro
Alta fiamma amorosa, e ben nate alme
ed il terzo
Al bel leggiadro stil soggetto eguale.
a questo ultimo il Molza rispose ripigliando le stesse rime col Sonetto:
Ben fu nemico il mio destin fatale
. Erale oltre modo grato ancora il soggiorno d' Ischia, perocchè quivi ebbe già in costume di trattenersi con esso lui gran parte dell' anno; andava perciò ella dicendo di voler passare in quest' Isola il rimanente de' suoi giorni (40) V. il Sonetto:
Quand' io dal caro scoglio miro intorno
e gli altri due citati nella nota (19), intorno al primo de' quali parmi necessario avvertire l' errore di Rinaldo Corso nella Sposizione dell' ultimo terzetto a pag. 165. supponendo che Vittoria colla voce scoglio abbia voluto significare la propria costanza, non l' Isola d' Ischia, di cui sotto lo stesso nome ella parla in più luoghi delle sue Rime, siccome è chiaro dagli stessi comenti del Corso a pag. 269. e 468. senzachè in questo luogo, se per lo scoglio s'intenda quest' Isola, il senso è per se chiaro e facile da intendersi; dove se vogliasi sottintendere la di lei costanza, avviene il contrario, e converrebbe dire, che ella non avesse espresso il suo pensiero colla solita sua eleganza.
, dove mille oggetti ad ogn' ora le ricordavano le passate sue felicità.



Questi ed altri sì fatti pensieri ella esprimeva nella più affettuosa maniera colle sue Rime, ingegnosamente spargendole delle lodi di suo marito(43) Se si eccettuino le sue Rime sacre, pochissime sono quelle, nelle quali ella non abbia preso a lodare il marito, il cui nome desiderava di rendere immortale, siccome osserva il Corso a pag. 403. nella Sposizione del Sonetto:
L' alto Signor, dal cui saver congiunte
, il cui nome desiderava di rendere immortale(44) Dell' aver lei colle sue Rime reso immortale il nome del marito fu con molta eleganza lodata da Pierio Valeriano nella dedica del ventesimo secondo Libro de' suoi Geroglifici.; e perciò ebbe a dire un erudito Scrittore, che colle sue rare, e meravigliose Rime ella fece un Sepolcro così onorevole al nome di suo marito, che finchè il mondo duri, sarà perciò sempre celebrato ed illustre tra noi(45) Francesco Agostino Della Chiesa nel Teatro delle Donne Letterate a pag. 296. dell' ediz. di Mondovì del 1620.. Le molte Poesie, che la nostra Marchesana compose intorno a sì fatti argomenti ne' primi anni di sua vedovanza esprimono sì vivamente gli affetti del di lei animo, che potè dir



giustamente il Quadrio(46) Storia e ragione d' ogni Poesia Tom. II. pag. 332. che ella non pure andò del pari con ogni più rinomato Poeta, ma nel maneggio degli affetti tolse per avventura a' contemporanei la palma.

Ella perciò in quel tempo, che era il fiore della sua giovinezza, acquistossi l' amicizia, e l' applauso di quanti in Italia facevano professione di belle lettere, fra' quali, per tacere di parecchi altri, sono spezialmente da annoverarsi Paolo Giovio, da cui le vennero indirizzati i sette Libri della Vita e Fatti del Marchese di Pescara suo marito(47) Dell' aver lui scritto la Vita del Marchese di Pescara, e dell' averla a lei indirizzata, fu ringraziato e lodato nel Sonetto:
Di quella cara tua serbata fronde.
, e Lodovico Martelli, il quale in morte del medesimo le inviò alcune Stanze consolatorie (48) Queste si leggono tra le Rime del Martelli a car. 193. dell ediz. di Lucca del 1730.. Ebbe commerzio di Lettere e di Rime con Lodovico Dolce(49) Lett. del Dolce Lib. 1. pag. 124. della Raccolta di Paolo Manuzio., e con Veronica Gambara(50) Due Sonetti ritrovansi fra quelli di Veronica Gambara in lode di Vittoria, de' quali uno comincia:
O della nostra etade unica gloria.
e l' altro:
Mentre de' vaghi e giovanil pensieri.
cui ella rispose ripigliando le stesse rime; a questo col Sonetto:
Lasciar non posso i miei dolci pensieri.
ed al primo con quello:
Di nuovo il Cielo dell' antica gloria.
intorno ai quali veggasi ciò, che scrisse il Corso a pag. 224. e 330.
, ed ebbe altresì stretta



amicizia con Marcantonio Flaminio, da cui mentre ella vivea, ed anche in morte fu encomiata nelle sue Poesie latine(51) V. le note (2), (78), e la Vita di questo Poeta latinamente scritta dal Canonico Francesco Maria Mancurti, premessa alle edizioni Cominiane delle di lui Poesie.. Ancora il Castiglione si pose a scrivere i quattro Libri del Cortigiano(52) Ciò comprendesi da una Lettera del Castiglione scritta da Madrid alla nostra Marchesana nel 1525., che leggesi tra le Opere di quest'Autore a pag. 292. dell' ediz. Comin. per far cosa grata a lei, non meno che per soddisfare ai voleri di Luigi XII. Re di Francia, e di Alfonso Ariosto suo carissimo amico(53) Bernardino Marliani nella Vita del Castiglione, premessa alle sue Opere novellamente stampate dal Comino.. Tra i principali amici ed ammiratori di questa eccellentissima Donna debbono pure aver luogo Giovanni Guidiccioni Vescovo di Fossombrone, ed il Cardinal Pietro Bembo, ai quali soleva ella di quando in quando inviare le sue Rime(54) Ciò si rileva dalla Lettera del Guidiccioni addotta nella nota (56), e da un' altra del Bembo a lei del Luglio 1532., che si legge a pag. 334. del terzo Volume delle sue Opere stampate in Venezia nel 1729. in fol., da loro avute in grandissimo pregio(55) Non solamente le loro Lettere, ma ancora le loro Poesie rendono testimonianza della stima, che eglino facevano delle Rime di lei. Veggasi il Sonetto del Bembo:
Alta Colonna, e ferma alle tempeste.
e quell' altro:
Caro e sovran dell' età nostra onore.
come pure:
Cingi le costei tempie dell' amato
con cui egli rispose a quello di Vittoria in lode di lui:
Ahi quanto fu al mio Sole contrario il fato.
Piacque sì fattamente questo Sonetto al Bembo, che in una sua Lettera al Giovio a pag. 64. Vol. 3. dell' accennata edizione delle sue Opere, chiamollo grave, gentile, ingegnoso, eccellentemente e pensato e disposto e dettato. In lode del medesimo ella compose quell' altro Sonetto:
Spirto gentil, dal cui gran nome altero.
al quale il Bembo non rispose, nè so se mai la Marchesana gliel' abbia mandato. Tre Sonetti compose ancora il Guidiccioni in lode della medesima, in uno de' quali allude al suo valore nel poetare, e principia:
Se'l vostro Sol, che nel più ardente vero.
degli altri due uno comincia:
Quanto a' begli occhi vostri, e quanto manca.
e l' altro:
Se ben s' erge talor lieto il pensiero.
V. ancora la Vita di questo celebre Poeta da me scritta, e premessa all' edizion delle sue Rime in Bergamo 1753.
, ed a' quali ella mandò ancora



il proprio ritratto, di cui l' aveano richiesta (56) La ringrazia il Guidiccioni, che gli sia stata liberale del suo Ritratto, in una Lettera, che leggesi senza data a pag. 164. Vol. 1. delle Opere di questo Autore in Genova 1749. nella Stamperia Lerziana. Lo stesso fa il Bembo in quella a car. 334. Vol. 3. delle sue Op. del l' accennata edizione.. Il Bembo spezialmente ebbe di lei grandissima opinione, come può agevolmente comprendersi, se si osservi, essersi lui riputato a gloria, che ella avesse dato onorevole giudizio delle sue Poesie, sopra le quali ragionando ella in una sua Lettera, diede tale saggio di dottrina e d' ingegno, che questo



dottissimo Uomo così ebbe a scriverne al Giovio. Ella a me pare vie più sodo, e più fondato giudizio avere, e più particolare e minuto discorso far sopra le mie Rime, di quello che io veggo a questi dì avere e saper fare gran parte de' più scienziati, e maggiori maestri di queste medesime cose. E se io fossi fuori del giuoco, sicchè non si paresse, che io dicessi a favor mio, direi ancora molto più avanti che io non dico. Ella è sicuramente quella gran Donna, che voi avete ed al mondo più d' una volta dipinta con l' onorato inchiostro delle vostre prose, ed a me molte fiate disegnata con le parole. Nè penso giammai d' aver cotanto guadagnato quanto ora, poichè ella così onoratamente di me scrive(57) Op. Bemb. Vol. 3. pag. 65..

Era il settimo anno(58) Che questa riforma della sua vita non debba porsi oltre al settimo anno della sua vedovanza, è manifesto dal Trionfo della Croce da lei composto, allorachè dopo la morte del marito
Già sette volte avea girato intorno
I segni, ove ne fa cangiar stagione
Chi porta seco in ogni parte il giorno.
Che poi ciò non seguisse prima di questo tempo, chiaramente appare dal Sonetto:
Sperai, che 'l tempo i caldi alti desiri
Temprasse alquanto, o dal mortal' affanno
Fosse il cor vinto sì, che 'l settimo anno
Non s' udisser sì lunge i miei sospiri.
nel quale continua a piagnere la morte del marito, ed a favellare del terreno amore, che ella pose del tutto in oblio, da che si fu applicata alla vita spirituale.
da che il Marchese di Pescara era salito a miglior vita,



quando Vittoria avendo sperimentato vano ogni mezzo per isgombrare dal proprio animo la tristezza ed il dolore, conobbe assai chiaro, essere troppo misera la condizione di chi vive secondo le inclinazioni della guasta natura, ed essere i beni di questa terra simili alla rosa, con cui nascono e crescono, e cui stanno inseparabilmente congiunte le spine; si pose perciò in animo di alzarsi colla mente sopra le cose terrene, e di fissarla nelle divine, certa, che questa fosse la sola maniera di scioglier l' anima da quegli affetti, onde hanno cagione le mondane amarezze. In fatti ella adoperò per modo nella via dello spirito, e così accostossi coll' intelletto alle cose celesti, che interamente dimentica del terreno amore tutta si accese del divino, e da quel tempo innanzi ella si pose a scrivere sopra argomenti sacri, lasciando quasi del tutto le Rime profane, le quali erano state per l' addietro l' ordinario soggetto de' suoi componimenti(59) In qual guisa e con quali ajuti lasciando i terreni affetti ella si sollevasse alla contemplazione delle cose celesti, può vedersi nelle sue Rime Sacre, ma spezialmente nel Trionfi della Croce, sopra il quale vedi ciò, che scrisse il Corso.. Applicatasi con fervore alla vita spirituale ed all' esercizio delle



virtù, il suo esempio era altrui di eccitamento alla pietà, e ben può dirsi, che sossero i suoi costumi un raro modello di vita cristiana, se persone di buona vita richiedevan la di consiglio, intorno alla maniera di ben incamminarsi all' eterna salute; siccome fecero la Regina di Navarra(60) V. la Lettera di Vittoria alla Regina di Navarra, e l' altra della Regina a lei, fra quelle raccolte da Bernardino Pino Lib. 1. pag. 149. 151. in Venezia 1574., la Duchessa d' Amalfi(61) Lettere della Machesana alla Duchessa d' Amalfi Lib. 2. pag. 113. 115. 119. dell' accennata Raccolta del Pino., e Bernardo Tasso, il quale nella risposta ad una Lettera di lei piena d' amore e di carità, che gli aveva destato nell' animo spiriti di virtù e di religione, le dice: Voi, che siete in grazia di Dio, continuando in quest' ufficio, mostratemi la strada, per la quale così secura camminate all' eterna salute; e pregate Colui, che vi scorge per questo cammino, che con la voce della sua pietà mi chiami; e non vi sdegnate se per l' orme della vostra virtù, seguitando i vostri passi, vi verrò dietro(62) Lett. del Tasso Vol. 1. pag. 134. ediz. Comin..

Nella primavera del 1537. ella fece una gita a Lucca, e quindi passò a Ferrara con disegno di trattenervisi lungamente(63) Ciò accertano due Lettere della Marchesana scritte da Ferrara a Pietro Aretino, la prima del Settembre, l' altra del Novembre 1537., che leggonsi a pag. 18. Vol. 2. della Raccolta di Lettere scritte a quest' Autore, e benchè la seconda trovisi colla data del 1539.; la stretta relazione, che questa ha con la prima, scopre agevolmente l' errore di stampa, e ci dà a conoscere essere stata scritta del pari che l' altra nel 1537. Si ha di ciò più chiara notizia da quattro Lettere del Molza scritte di Roma nei mesi di Maggio, Giugno, e Settembre dello stesso anno a suo figliuolo Camillo a Bologna, le quali si leggono a pag. 65. 67. 71. 75. del Vol. 3. delle Opere di questo Poeta, raccolte ed illustrate dal chiarissimo Sig. Ab. Serassi. Bergamo 1747..



In quale stima e riputazione fosse quivi la nostra Marchesana, può agevolmente comprendersi da ciò, che il Molza scrive di Roma a Camillo suo figliuolo a Bologna a' 24. di Maggio di quest' anno. Io credo, che molto faccia al proposito nostro la venuta della Signora Marchesa di Pescara in Ferrara, nè saprei io immaginarmi persona, che in questa nostra causa ci potesse essere di maggior giovamento cagione: ella con l' autorità sua, e con la buona volontà, che sempre mi ha dimostrato, potrà forse quello che io penso, che nè Lettere di Papa, nè di Cardinali abbiano potuto a quest' ora(64) Ciò si legge nella prima delle quattro Lettere del Molza accennate nella nota antecedente.. Mentre ella dimoravasi in Ferrara, andava rivolgendo tra se di fare un viaggio a Gerusalemme, mossa dal desiderio di visitare que' santi luoghi, e certamente sarebbe ella venuta all' effetto, se il Marchese del Vasto, cui non sofferiva l' animo di vederla esporsi ai pericoli di sì lungo viaggio, non



avesse cercato di ritrarla da sì fatto proponimento, e di disporla a passare a Roma(65) Tutto ciò si rileva dalle due Lettere di lei all' Aretino addotte nella nota (63)., siccome ella fece verso il fine di quest' anno (66) Nell' Aprile del 1538. le scrive il Bembo a Roma, e perciò è da credersi, che o nella Primavera di quest' anno, o verso il fine dell' anno antecedente ella entrasse in cammino alla volta di Roma. Op. Bemb. Vol. 3. pag. 334..

Soggiornando ella in questa Città, di que' tempi fioritissima di buone lettere e d' ingegni, riceveva spesse visite da' primi Letterati, da varj Principi, e da' Cardinali, tratti dal desiderio di conoscere, e conversare con questa gran Donna(67) Ciò si ha nel ristretto della sua Vita, che fra quelle di Giovanna d' Aragona, del Marchese di Pescara, di Giulia Gonzaga, e di molt' altre illustri persone leggesi in un Codice a penna della famosa Libreria del Sig. Valletta in Napoli. Quali Vite contenga questo Volume, veggasi nel Giornale de' Letterati d' Italia. Tom. 24. pag. 92., tenuta la più dotta(68) Che ella avesse il primo grido in Italia, ne rende testimonianza il Bembo in una sua Lettera scritta di Padova nel Gennajo 1534. a Francesco Maria Malchiavello a Vicenza, in cui volendo lodare la Sig. Caterina da Piovene di valorosa in poesia, la pareggia a Vittoria così: Ella non può esser se non valorosissima, se quel Sonetto è suo, come V. S. afferma. Il quale nel vero è tanto bello, che mi fa maravigliare grandemente. E parmi, che la Marchesa di Pescara sia non solamente a Napoli, ma eziandio nella vostra Città. Dissi Marchesa di Pescara, perciocchè è quella, che ha ora il primo grido. Op. Bemb. Vol. 3. pag. 270., e meglio costumata dell' età sua. Tra i molti il Cardinal Polo, ed il Cardinal



Contarini, amendue non meno pii che dotti, la ebbero in grandissima stima, così per la sua insigne pietà, che per l' universale sua letteratura, dalla qual simiglianza di costumi e di genio nacque una sì perfetta e santa amicizia(69) Veggansi le Lettere del Cardinal Polo a lei, ed al Cardinal Contarini, nel Vol. terzo della Raccolta delle sue Lettere, e la Prefazione del Cardinal Querini allo stesso Vol. Vedi pure la Lettera di lei a Suor Serafina Contarini fra quelle raccolte dal Manuzio., che da altro caso che da morte non fu separata. Certamente è da credersi, che Vittoria si avesse acquistata la stima e benevolenza ancora del Papa, se ella fu in gran parte cagione che questi innalzasse il Bembo al Cardinalato, siccome raccogliesi da una Lettera di lui, scrittale da Venezia nell' Aprile del 1539.(70) In tal guisa le scrive il Bembo. Vostra Illustriss. Sig. ha più da rallegrarsi della nuova dignità e grado datomi da nostro Signor perciò, che ella ne è stata in buona parte cagione, che per alcun mio merito, di che ella per sua molta cortesia ragiona meco nelle sue Lettere. Op. Bemb. Vol. 3. pag. 335.. Quivi ella attese spezialmente a sollevare molti dotti Uomini dall' indigenza, ordinaria disgrazia de' Letterati. Furono di questo numero Bernardo Tasso(71) Sue Lettere Vol. 1. pag. 130 ediz. Comin., Marco Cavallo, Luigi Alamanni, ed il Molza(72) Ciò si legge nel Manoscritto accennato nella nota (67). già suo maestro nella Poesia.



Tanti e sì fatti motivi di distrazione non ebbero forza di sviarla giammai dalla contemplazione delle cose celesti, alle quali sempre più colla mente accostandosi, venne in deliberazione di togliersi interamente alle brighe del Secolo, del quale abbastanza conosciute avea le vanità e gl' inganni. Nel Marzo del 1541. ella mise ad effetto sì saggia risoluzione, ritirandosi in un Monistero di Suore in Orvieto(73) Che di questo tempo ella si rittirasse nell' accennato Monistero, ne fa fede una Lettera del Cardinal Polo al Card. Contarini del dì 11. Aprile 1541. della raccolta mentovata not. (69), nella quale gliene dà contezza. Quod ad Illustrissimam Marchionissam Piscariae attinet….. Orvietum se recepit, ibique in Cœnobium Monacharum se abdidit, quarum institut is & conversatione ita delectatur, ut cum tot Angelis se versari existimet, quae nullum ferme sermonem admittunt, nisi de Deo. Deesi perciò credere ciò essere accaduto nel Marzo precedente., e di questo ivi a pochi mesi passò a quello di S. Caterina di Viterbo(74) Da due Lettere del Bembo scrittele a Viterbo nei mesi d'Ottobre e Novembre del 1541. Op. Bemb. Vol. 3. pag. 335. 336. e dalla mentovata Lettera di lei not. (69) a Suor Serafina Contarini., dove menando esemplare e santa vita, era altrui di eccitamento e di norma alla cristiana perfezione.

Del tempo, in cui ella lasciasse questo ritiro, non si trova indizio tra le memorie di quel secolo; egli è certo soltanto, che nell' Agosto del 1542. ella fosse tuttavia tra quelle



Religiose, siccome è chiaro da una Lettera di lei, scritta da S. Caterina di Viterbo, ed indirizzata a Suor Serafina Contarini a Venezia, in cui piagne la morte del Cardinal Contarini di lei fratello, di questo tempo accaduta(75) Secondo il Panvinio morì il Cardinal Contarini nell' Agosto 1542. in Bologna essendo Legato.. Egli è certo altresì, che ella ritornasse a Roma, dove sul cominciare dell' anno 1547. cinquantesimottavo dell' età sua, nel Palazzo Cesarini detto Argentina, infermò gravemente. Sfidata da' Medici, veggendosi venir alla morte, fece il suo testamento a' 15. di Febbrajo, verso il fine del quale(76) Sono in disparere gli Scrittori intorno al tempo ed al luogo della di lei morte. Tengono il Bullart, ed il Bulifon loc. cit. che ella finisse di vivere l' anno 1541. nel Monistero di S. Maria di Milano. Che ella venisse a morte in questo Monistero si ha ancora dal Crescimbeni Stor. della Vol. Poesia Vol. 1. Lib. 3. c. 16., ma egli crede ciò essere accaduto nel 1546. Ancora l' eruditissima Sig. Contessa Lovisa Bergalli Gozzi nella sua Raccolta di componimenti poetici delle più illustri Rimatrici Vol. 1. pag. 269. seguì la medesima opinione riguardo al luogo, poichè rispetto al tempo dubita ella se debba credersi morta nel 1541. o nel 1549. Egli è però certissimo, che e quanto al luogo e quanto al tempo tutti sono in errore; perciocchè ci è rimasto il suo testamento fatto in Roma a' 15. di Febbrajo del 1547. nel Palazzo Cesarini chiamato Argentina, ov' ella giaceva inferma, della quale infermità poco tempo dopo morì, come si ha nel Catalogo della Libreria Capponi pag. 126. in Roma 1747. Ancora dal MS. accennato not. (67) del Signor Valletta abbiamo, che ella morisse in Roma, ma non ci dà contezza del tempo, intorno al quale toglie ogni dubbio Lodovico Beccatelli Arcivescovo di Ragusi nella Vita del Bembo, di cui fu contemporaneo ed amico, perciocchè venendo egli a favellare della morte di lui accaduta a' 20. di Gennajo del 1547. così scrive: Parve appunto, che quell' anno si sforzasse di estinguere gli chiari ingegni di Roma, perchè dopo la morte del Reverendissimo Bembo fra termine di un mese ne privò della Sig. Vittoria Colonna Marchesa di Pescara, che a' giorni nostri in versi è stata un' altra Saffo, ed in opere sante e di carità una S. Elisabetta. Leggesi questa Vita nel Vol. secondo degli Storici delle cose Veneziane, i quasi hanno scritto per pubblico Decreto. Da quanto si è detto intorno al tempo della morte di questa illustre Donna, è manifesto esservi errore di stampa nella data dell' Ottobre 1548., colla quale leggesi la Lettera di Vincenzo Martelli a lei a pag. 45. delle Lettere di quest' Autore stampate in Venezia nel 1561. da' Bolognino Zaltieri dopo quelle dell' Atanagi, e lo stesso certamente dee credersi della Lettera del Cardinal Polo colla data del Marzo 1548. Epist. Card. Regin. Poli. Tom. 4., nella quale piagne la morte di Vittoria come di fresco accaduta., spargendo di se odore di santità,



(77) Non sono mancati de' maligni, i quali abbiano tentato di macchiare la fama di questa piissima Dama, raro esemplare di vita cristiana, per la stima in cui ella ebbe Fra Bernardino Ochino, tacendo costoro non a caso, che ciò riguardi solamente quel tempo, in cui egli facevasi da tutti ammirare, come un vero modello di vita penitente, ed in cui aveva grido di zelantissimo predicatore, pieno dello spirito di Dio; dovendosi certamente dire tutto in contrario rispetto al tempo che venne, dopo aver lui empiamente abbandonato l' Ordine di S. Francesco e la Religione Cattolica. Da due Lettere del Bembo a lei dei mesi di Febbrajo e Marzo del 1539. Op. Bemb. Vol. 3. pag. 334. 335. nelle quali egli favella dell' Ochino, può agevolmente comprendersi qual fosse costui prima della sua caduta. Nella prima: Confesso di non aver mai udito predicare più utilmente, nè più santamente di lui; nè mi maraviglio se V. S. l' ama tanto, quanto ella fa. Ragiona molto diversamente e più cristianamente di tutti gli altri, che in pergamo sian saliti a' giorni miei, e con più viva carità ed amore, e migliori, e più giovevoli cose. E stimo che egli sia per portarsene, quando egli si partirà, il cuore di tutta questa Città seco; e nella seconda: Ragiono con V. S. come ho ragionato questa mattina col R. P. F. Bernardino, a cui ho aperto tutto il cuore e pensier mio, come arei aperto a Gesù Cristo, a cui stimo lui essere graziosissimo e carissimo, nè a me pare aver giammai parlato col più Santo Uomo di lui. Lo stesso dee dirsi rispetto alla stima, in cui ella ebbe il Vergerio, prima che egli si partisse dalla vera Religione. Ancora l' amicizia tra essa e Marcantonio Flaminio tacciato a torto di falsa credenza, parve a taluno fondamento sufficiente, onde poter dubitare, non forse anch' ella avesse aderito alle altrui false opinioni. Quanto scrisse il Cardinal Querini in discolpa dell' uno e dell' altra pref. alla Vita del Card. Contar. pag. 38. e seg., basti a far tacere tutti costoro, secondo i cui principi vacillerebbe la riputazione di mille altre innocentissime persone., venne a quel passo, al quale ogn' uno una volta perviene(78) In morte di lei compose due Ode Marcantonio Flaminio, delle quali una ne indirizzò a Marcantonio Faita; l' altra a Girolamo Torriano. Di questa piacemi di trascriverne alcuni pochi versi, ne' quali l' Autore seppe ingegnosamente raccogliere molte sue lodi.
Cui mens candida, candidique mores,
Virtus vivida, comitasque sancta,
Caeleste ingenium, eruditioque
Rara, nectare dulciora verba,
Summa nobilitas, decora vultus
Majestas, opulenta, sed bonorum
Et res, & domus usque aperta ad usus,
Illa carminibus sais poetas,
Quotquot saecula multa protuler unt,
Longe vicerat…
Carm. Lib. 5.
.

Salì questa illustre Donna a tale grado di riputazione colle elegantissime sue Poesie,



e così le ebbero in pregio i Dotti dell' età sua, che nella prima edizione fattane in Parma nel 1538. le diedero il titolo di Divina (79) Divina la chiama spesso il Corso nella Sposizione delle sue Rime, e lo stesso fece Fausto da Longiano in una sua Lettera tra quelle scritte all' Aretino Vol. 1. pag. 202. Divine altresì furono dette le sue Poesie dal Giraldi nel secondo Dialogo de Poet. nostr. tempor. e come tali diceva di venerale Irene Castriotta Principessa di Bassignano Ruscell. Impr. Lib. 2. Chiama Divina la di lei virtù ancora il Castiglione nella sua Lettera a Michel de Silva Vescovo di Viseo. Op. Cast. pag. 7. ediz. Comin., e nella seconda fatta in Venezia nel



1540.(80) Per Comin da Trino. quello di Diva; titoli, che di que' tempi non solevano dispensarsi, che a uomini eccellentissimi. Non v' ha dubbio, che lo stile giudizioso ed affettuoso delle sue Rime, e la dottrina e l' erudizione, di cui sono sparse, non solamente superano d' assai la condizion femminile; ma tolgono per avventura il vanto alla maggior parte de' Poeti, che in gran copia fiorirono in quel felicissimo secolo, di guisa che Giammatteo Toscano non ebbe difficoltà d' affermare, che ella fosse nulli post Petrarcam secunda(81) Peplus Italiae Lib. 4. cap. 153.. Il Crescimbeni assai ritenuto nel lodare la pareggia ai migliori seguaci di quello, dicendo, che ella adoperò con tanta felicità e dottrina nel maneggio delle liriche Muse, che innalzossi sopra tutte le Donne, e potè gloriarsi di camminare a paro co' maggiori seguaci del Petrarca, da' quali ricevè il titolo di Divina(82) Ne' suoi Commentarj intorno alla Storia della volgar Poesia. Vol. 2. pag. 361. Venezia 1730..

Il guardarsi, siccome ella fece in tutte le sue Rime, da ogni detto o parola, che



onestissima non fosse; egli è costume tanto più da commendarsi, quanto è meno seguito da' Poeti, perciò il sopra mentovato Giammatteo Toscano prese argomento di lodarla spezialmente da questa sua virtù, e di biasimare il brutto vizio, che a questa si oppone (83) Dopo le lodi di Saffo e di Corinna passa a quelle di Vittoria così:
Huic ego te obiiciam faustum Victoria nomen:
Quae non prisca tuis tantum muliebria plectris
Plectra silere jubes, Romanaque Graecaque Tuscis:
Sed (tua quae virtus propria est) lascivia versus
Commaculat dum nulla tuos…
Tantum sola decus casto fers carmine, quantum
Dedecus obsceno Sapphoque, Corinnaque versu.
Pep'. Ital. Lib. 4. cap. 153.
.

Oltre all' esser soverchio, sarebbe ancora troppo lungo l' annoverare le molte lodi, colle quali da parecchi Scrittori venne encomiata la nostra Eroina, così per la sua erudizione, dottrina, ed ingegnosa maniera di poetare, che per l' integrità de' suoi costumi, e meravigliosa fermezza nell' amor del marito; perciocchè, siccome afferma Francesco Agostino della Chiesa nel suo Teatro delle Donne letterate, non v' è Scrittor Italiano di quel tempo, che in prosa o in verso non l' abbia celebrata e commendata sopra tutto il sesso donnesco(84) Pag. 296. ediz. cit., intorno a che è spezialmente degno di esser letto ciò, che con



molta eleganza scrissero Agostino Bevazzano (85) O decus Italidum Virgo Victoria, castas
Dignior Aonias inter babenda Deas,
Quaenam fama tui rendet tibi praemia facti?
Quis, caelo qui te laudibus aequet, erit?
Conjugis extincti cineres, manesque sepultos
Corde geris, luges carmine, mente colis.
Hajus & egregiam virtutem, animasque viriles,
Factaque, non hominis femina voce sonas.
Pro quibus insigni Phœbus tua tempora lauru
Cinxit, & aeternum nomen habere dedit.
Credo equidem: pereat Caelum, mare, terra, priusquam
Gloria deficiat nominis ista tui.
Jam valeant: jam fama sile, quascumque vetustas
Rettulit, amissis indoluisse viris.
Quid, tibi se ut conferre queant, fecisse videmus?
Omnes feminei signa doloris habent.
Defunctos luxere diu, aut periere; maritum
Ipsa tuum invita vivere morte facis.
Verso il fine delle sue Poesie latine.
, e l' Ariosto(86) Nel Furioso Canto 37. così:
Sceglieronne una, e sceglierolla tale,
Che superato avrà l' invidia in modo,
Che nessun' altra potrà avere a male,
Se l' altre taccio, e se lei sola lodo.
Quest' una ha non pur se fatta immortale
Col dolce stil, di che il miglior non odo;
Ma può qualunque; di cui parli, o scriva,
Trar del sepolcro, e far che eterno viva.
Come Febo la candida Sorella
Fà più di luce adorna, e più la mira,
Che Venere, o che Maja, o che altra stella,
Che va col Cielo, o che da se si gira,
Così facondia più che all' altre, a quella,
Di che io vi parlo, e più dolcezza spira;
E dà tal forza all' alte sue parole,
Che orna a' dì nostri il Ciel d' un altro Sole.
Vittoria è il nome; e ben conviensi a nata
Fra le vittorie; e a chi o vada, o stanzi
Di trofei sempre, e di trionfi ornata
La vittoria abbia seco o dietro, o innanzi;
Questa è un' altra Artemisia, che lodata
Fu di pietà verso il suo Mausolo; anzi
Tanto maggior, quanto è più assai bell' opra,
Che por sotterra un Uom, trarlo di sopra.
Se Laodomia, se la moglier di Bruto,
S' Arria, s' Argia, s' Evadne, e se altre mo.
Meritar laude per aver voluto,
Morti i mariti, esser con lor sepolte;
Quanto onore a Vittoria è più dovuto,
Che di Lete, e del Rio, che nove volte
L' Ombre circonda, ha tratto il suo consorte
Malgrado delle Parche, e della Morte?
Se al fiero Achille invidia della chiara
Meonia tromba il Macedonico ebbe,
Quanto invitto Francesco di Pescara
Maggiore a te, se vivesse or, l' avrebbe;
Che sì casta mogliere, e a te sì cara
Canti l' eterno onor, che ti si debbe;
E che per lei sì il nome tuo rimbombe,
Che da bramar non hai più chiare trombe.
Se quanto dir se ne potrebbe, o quanto
Io n' ho desir, volessi porre in carte,
Ne direi lungamente; ma non tanto,
Che a dir non ne restasse anco gran parte ecc.
La celebrò altresì in quasi tutte le sue Rime Galeazzo di Tarsia, il quale, siccome scrive il Basile Pref. alle Rime del medesimo, fu di lei castissimo amante.
suoi principali ammiratori.



Il Cardinal Pompeo Colonna, volendo anch' esso onorare questa sua parente, le dedicò un Volume de Laudibus Mulierum, che egli scrisse a tale oggetto, e che a multis priscae virtutis exemplis atque orationis jucunditate est eruditorum lectione dignissimum(87) Così il Giovio nella Vita di questo Cardinale a car. 203. dell' ediz. del. Torrentino 1551. fol. Il M. S. originale della sua Opera de Laudibus Mulierum trovasi ora nella Biblioteca del Re Cristianissimo. Bayle Dict. Critiq. Art. Colonna (Pompe'e).. Ancora



il Cardinal Gasparo Contarini le indirizzò il suo Trattato del Libero Arbitrio(88) Veggasi la Vita di lui scritta dal Casa, stampata dai Giunti nel 1564. pag. 361., Adamo Fumano fece lo stesso degli Scritti morali ed ascetici di S. Basilio traslatati da lui dal greco nel latino idioma(89) Ciò si ha nella Vita del Cardinal Contarini scritta dal Card. Querini pag. 41., e così fece ancora il Giovio de' sette Libri della Vita e Fatti del Marchese suo marito, siccome di sopra abbiamo osservato(90) Vedi la nota (47)..

Attese non solamente alla Poesia, ma alle scienze tutte(91) Crescimbeni loc. cit., e scrisse non senza lode intorno a varie materie(92) Pietro Paolo Ribera nella sua Opera delle Glorie immortali delle Donne Illustri. pag. 301. Venezia 1609. presso Evangelista Deuchino.. Pochi de' suoi componimenti però sono arrivati sino a noi, benchè per avventura i migliori; cioè buon numero di Sonetti, parte sopra la morte di suo marito, e parte sacri, se si eccettuino alcuni pochi in lode degli amici; due Canzoni, ed il Trionfo della Croce in elegantissimi terzetti, che ella compose il settimo anno della sua vedovanza(93) Vedi la nota (58)., allorachè applicatasi alla vita spirituale, il suo amor verso Dio divenne il soggetto de' suoi poetici componimenti(94) Sono pure avanzate al tempo alcune delle sue Lettere, le quali leggonsi tra quelle di varj Uomini illustri di quel Secolo, raccolte dal Pino, dal Manuzio, e da altri..



PAOLO GIOVIO nella Vita di Ferrando d' Avalos
Marchese di Pescara.

Quasi che fino allora al Pescara, che vagiva in culla, avendo egli ad essere col favor delle stelle unico Capitano dell' età sua, la fortuna promettesse tal moglie, la quale come dono dotale portasse in casa del marito il nome fatale di Vittoria, ed essa Donna fra tutte le altre elettissima di Religione, di bellezza, di Lettere, e di Nobiltà, con certa rara felicità di scambievole sorte si avesse a congiungere a invittissimo marito.

Ludovico Dolce nel suo * Original has "sno". Dialogo della Instituzion delle
Donna a pag.
15. V.n. per Gabriel Giolito 1547. in 8.

E se egli si convenisse dopo le Reine nominar le private non vorrei tacere Cassandra Fedele della mia Città, la quale pudica Donna fu talmente dotta, che più volte disputò pubblicamente con grandissimo onore, e fra le Epistole del Poliziano una ve ne ho già letta scritta a lei…. ma che mi bisogna discendere alle private avendo innanzi due illustri esempj l'uno della Signora Vittoria Colonna Marchesa di Pescara, l' altro della Signora Veronica Gambara Contessa di Correggio, ambedue dotte nelle umane, e nelle Divine lettere, ed ambedue esemplari di Religione, e di castità insieme.

Alessandro Zilioli nell' Istoria delle Vite de' Poeti Italiani
MS. esistente presso al Sig. Conte Gian - Maria Mazzucchelli
a carte
198 così scrive di Vittoria Colonna.

Questa nobilissima Donna, che è stata in ammirazione appresso i dotti del suo tempo, così degnamente ha poetato nella nostra lingua, che le sue Rime sono stimate al pari di



quelle de' primi compositori della passata età; e Rinaldo Corso da Correggio vi fece sopra il Commento, e lo stile suo giudizioso, ed affettuoso, e con ornamenti tali di dottrina, e di erudizione, che superano d' assai la condizione femminile.

Pietro Paolo Ribera nelle Glorie immortali delle Donne
illustri. pag.
301. edizion di Venezia per Evangelista
Deuchino in
4.

Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara fu virtuosissima in lettere; compose alquante opere in varie materie, tra le quali il Trionfo della Croce in elegantissimi Terzetti.

Gilasco Eutelidense cioè il P. Mariano Ruele Carmelitano
nella sua Biblioteca Volante dell' edizion di Roma
Scan. XXIII.

In tanta stima quest' eccellente Donna salì all' età sua, che nella prima edizione delle sue Rime fatta in Parma 1538. in 8. le fu dato il titolo di Divina, e nella seconda seguita in Venezia per Comin da Trino nel 1540. in 8. quello di Diva, titoli, che ne' tempi andati si dispensavano ad Uomini eccellentissimi in qualunque genere.

Gio: Mario Crescimbeni nella Storia della Volgar
Poesia Lib.
II. pag. 119.

Io non credo che la barbarie dell' antecedente secolo avesse maggior colpo, e più sensibile di quello che una valorosa Donna le diede, nella quale non solamente le Muse, ma le Scienze tutte parve, che il Cielo trasfondesse, e come in proporzionato, e sicuro luogo ponesse in serbo i suoi più singolari tesori. Egli è questa maravigliosa Donna, Vittoria figliuola di Fabbrizio Colonna, di cui Roma, anzi il Mondo tutto vide, e vede rarissime pari, e nella chiarezza de' natali, e nella bellezza del corpo, e in quella dell' animo. Ma se unica non seppe appellarla il Mondo in queste cose, ben tale la riconobbe la Toscana Poesia nel maneggio delle sue Liriche Muse, nelle quali con tanta felicità, e dottrina adoperò, che innalzossi sopra tutte le Donne, e potè gloriarsi di camminare a paro à paro co' maggiori seguaci del Petrarca, dai quali ricevè il titolo di Divina, che poi le fu confermato universalmente. Nè senza ragione; perciocchè nelle sue Rime sparse, e nascose tai semi di Scienze, che il Canzoniere, che produsse,



può dirsi miniera inesausta di finissimo oro, e di gemme più preziose; allo scoprimento del qual tesoro intese con grande studio, e fatica il dottissimo Vescovo di Strongoli Rinaldo Corso, che stimò sua fortuna di ornar con pienissimi Commentarj le Rime di sì gran Donna.

Ludovico Antonio Muratori nel Trattato della Perfetta
Poesia Italiana Vol. II. pag.
336. parlando del Sonetto scritto
al Bembo nella morte del suo marito, così dice:

Basterebbe questo Sonetto per farci fede, se già non ne fossimo certi, del felice ingegno della Marchesana di Pescara. Certo che noi possiamo quì ammirare una sodissima architettura, che ingegnosamente lega insieme l' encomio sì del Bembo, come del defunto Marchese. Lo stile è nobilmente chiaro, modestamente acuto, ed il componimento tutto sì giudiziosamente condotto, che gli ingegni mezzani un somigliante non ne farebbero, e i sublimi si pregierebbero d' averlo fatto.

Francesco Saverio Quadrio nella sua Storia e Ragione
d' ogni Poesia Tom. II. pag.
332.

Vittoria figliuola di Fabbrizio Colonna, e moglie di Ferdinando Francesco Marchese di Pescara non pure andò del pari con ogni più rinomato Poeta, ma nel maneggio degli affetti tolse per avventura a' coetanei la palma. Tutti gli Scrittori, che di queste materie favellano, hanno fatta giustizia al merito di questa castissima, e gloriosissima Poetessa. Noi non sapremmo come meglio lodarla, che dicendo col Gesuita Possevino, che le Rime di essa spirano universalmente dignità, religione, e grandezza.

Lucrezia Marinella nel suo Trattato della Nobiltà ed Eccellenza
delle Donne. Venezia
1601. per il Ciotti pag. 41.

Vittoria Colonna fu dottissima, e compose molti Sonetti bellissimi.

Agostino Bevazzano nelle sue volgari, e latine cose pubblicate
in Venezia per Bartolomeo Zanetti. in
8. l' anno 1538.

O di pudico amor esempio chiaro, Donna, che al nome egual valore avete, Onde senza esser vinta mai, vincete, Quanto il servo desir ha dolce e caro.



Il proprio Sol, il divin Spirto, il raro Sposo vostro, di cui morto anco ardete, In puro stile or dolce voi piangete, Sovra quanti altamente già cantaro. Ben cortese destin, che udir ne diede Sì chiara tromba, e sì lodato canto; Dove amor vivo, e morto arder si vede. Beata voi; e lui per voi; ch' ei quanto Dura il Ciel, fia di vera gloria erede, E voi viva terrà la fiamma, e il pianto. Se ben il vostro Sol del Cielo in parte Debita a lui risplende presso a Giove; Pur più amarlo che mai, par che vi giove, Che dal cor morte un vero amor non parte. E se questo Sol vostro, onor di Marte Vive tra noi per le mostrate prove, Voi col color, che non si trova altrove, Che in Parnaso il pingete vivo in carte. Felice voi; felice ben; che a tale Congiunta vi trovaste al tempo nostro Di qual si voglia spirto antico eguale, Ma più felice voi; che nel cor vostro Fu vivo, e morto vive; onde immortale Si vede far del solo eterno inchiostro.

Il Cav. Giambatista Marini nella sua Galleria pag. 287.

Sovra il mio stabil marmo, invitta Donna, Diedi appoggio fedele al gran Consorte. Ne' vivi intagli della mia Colonna Spuntai lo stral, ruppi la falce a morte. Ingegno con beltà, plettro con gonna Congiunsi insieme, ed agguagliai di sorte, Che altri per me contando esser conchiuse Due Vener, quattro Grazie, dieci Muse.

Pierius Valerianus Hieroglyfic. in Dedicatione Fenicis
ad Victoriam Columnam.

Magni omnino ponderis est Pindari Lyricorum Principis dictum illud, alio quamvis numero in hanc certe sententiam: Carmine res vivunt, carmina rebus egent. Nam Scriptor quamtumlibet elegans, & eximius, si vana, & inania mandare litteris



aggrediatur, puta purpura simiam vestiat, nihil aliud assequatur, nisi ut omnibus sir derisui, atque ludibrio. Si vero facta inclyta, praeclaraque ab inepto, imperitoque Scriptore celebrentur, neglecta statim turpiter exolescent. Haec dum mecum reputo, honoratissima Victoria, tuamque erga desideratissimum Conjugem pietatem considero, illiusque res praeclare gestas Musarum tuarum elegantia decorari conspicio, fortunatissimum Principem appello, qui cum tot ante annos e vita migrarit, per te quotidie reviviscat, clariorque & illustrior evadat. Te autem non minus beatam, quae materiam susceperis tam insignem, tam celebrari dignam, quae immortalem gloriam tam illi sit, quam tibi sine dubio paritura; ideoque vestrae plurimum gratulor felicitati. An non ille egregie felix, qui virtutibus omnibus heroicis ornatissimus, rebus tot, tantisque sapientissime procuratis, gloriosissimeque confectis post optima illa spolia tam praeclara ad Ticinum parta, quasi splendidius nihil imposterum expectare posset e vita migrans uxorem te reliquerit tam piam, tam pudicam, tam doctam, tali praestantem ingenio, eaque facundia, & arte scribendi praeditam, ut quantum ille rerum gestarum splendore illustris est, tantum tu scribendo, & unum illud celebrando clarissima passim habearis, in ambiguoque posueris, utrum ille res illas prudentius feliciusve fecerit; an tu ea doctius, & elegantius victurae memoriae commendaris? &c.

M. Antonius Flaminius ad Villam Marianam. De Victoria
Columna inter Carmina quinque illustrium Poetarum edita
Venetiis.
1558. apud Hieronymum Lilium. in 8. pag. 65.

Salve magna domus, meae Columnae Natalis, domus o beata salve. Hic ne vagiit illa Musa, doctis Quam Phebus decimam addidit Camœnis? Cœli lumina vidit hic ne primum Cœlo fœmina digna? digna celsis Nasci, & vivere in aedibus Deorum Supra sidera sidus ipse clarum. O felix domus! hic Minerva pulchras Artes edocuit meam Columnam, Hic illi citharam dedit canorus Apollo, superaque, dixit, omnes, O Victoria, feminas canendo, Quotquot magna tulit, feretque tellus, At te ne superent novem sorores,



Jovis progenies novem sorores. Fortunata domus, domus beata Audisti toties meae Columnae Illa carmina, quae movere mentes, Quae vim sistere fluminum solebant. Tibi Cynthia silva saepe, saepe Invidit tibi Cyrrha, & antra Pindi, Et fontes Heliconii recessus. Jactat Creta Jovem, suam Dianam Delos inclyta, tu tua Columna Gloriare domus beata, pace Et Jovis liceat loqui, & Dianae, Non Delo minor es, minorve Creta.

Idem ad Hieronymum Turrianum de Morte Victoriæ
Columnae in iisdem Carminibus pag.
87.

Cur desiderio modum, & dolori Me vis ponere Turriane? acerbo Cui Victoria fato adempta, quae me Non minus quam oculos suos amabat, Qua nihil veniens ab ultimo Indo Clarius, meliusve Sol videbat, Cui mens candida, candidique mores, Virtus vivida, comitasque sancta, Caeleste ingenium, eruditioque Rara, nectare dulciora verba, Summa nobilitas, decora vultus Majestas, opulenta, sed bonorum Et res, & domus usque aperta ad usus. Illa carminibus suis poetas, Quotquot saecula multa protulerunt, Longe vicerat, illa vincit omnes, Sive flebilibus modis maritum Extinctum decorans sepulcro ab imo Summa ducit in astra, sive Regi Caelitum, unigenaeve Regis hymnos Filio canit, illa vel canendo Ventos sistere, fluminum morari Impetus, poteratque leniores Tigres reddere mitibus columbis. &c.



Paulus Jovius in Vita Pompeii Columnae pag. 383.

Scripsit demum graviore consilio, laboreque justum volumen De Laudibus Mulierum a multis priscae virtutis exemplis, atque orationis jucunditate eruditorum lectione dignissimum; quod se in honorem Victoriae Columnae gentilis suae composuisse dicebat, cui & non pari studio ob excelsam nobilissimi, eruditissimique ingenii virtutem, eximiamque Christiani animi pietatem septem libros de Vita, & rebus gestis Piscarii Mariti ipsius invictissimi Ducis dicavimus.

Joannes Casa in Vita Gasparis Contareni inter ejus Latina
Monumenta Florentiae
1707. in 4. pag. 133.

Eum vero librum (De Libero Arbitrio) misit ad Victoriam Columnam feminam lectissimam, & quae ob eximium amorem erga virum mortuum, admirabilemque ingenii laudem in condendo carmine, maximo quoque honore digna est.

Jacobus Sadoletus in Epistola ad Reginaldum Polum inter
illas hujus Cardinalis editas Brixiae Part. II. pag.
9.

Legi sanctissimae, & prudentissimae feminae Piscariae Dominae ad te litteras, in quibus illa mei mentionem facit, videturque nostram hic stationem approbare; quod ego incredibiliter gaudeo, mea consilia tantae esse & virtuti, & sapientiae adprobata.

In Vita Reginaldi Poli latine edita Brixiae in II. Volumine
Epistolarum ejusdem Cardinalis. in
4.

Victoria Columna Marchionis Piscariae Conjux, ejus, qui ob rerum gestarum magnitudinem bellica gloria maximae flòruit, magni ingenii, & summae pietatis femina, plurimi eum faciebat.

Angelus Maria Card. Quirinus in Diatriba Vol. II. pag.
39 Epist. Riginaldi Poli. Brixiae. apud Rizzardum.

Egregia autem Victoriae Columnae, Ferdinadi Francisci d' Avalos Marchionis Piscariae conjugis decora, scilicet non poetica tantum in arte excellentiam, sed pietatem, omnigenamque sacram praesertim doctrinam, quampluries ejus aetatis Scriptores mirifice collaudant.



Benedictus Lampridius Victoriae Columnae Avalae. Inter Carmina
Illustrium Poetarum Italorum edita a Joanne Matthaeo
Toschano Lutetiae anno
1576. apud aegidium Gorbinum
in
16. Tom. I. pag. 138.

………. sed ego Quid haec persequor Tibi? cui repostam Phoebus recludere solet Benignus Aoniam: Plectroque caram ambrosio beat? Unde tanta es, ut verear, an Dearum una dulci Facile sis addita Choro decima Musa, an (pater Quod maximus dictus est Fabricius, ille Ore egregius omnia Qui sui laude nominis replebat Vir attamen, gentiumque habitus & ipse nostrarum) Hominum potius in grege Te collocem, nobili Sed in grege hominum, quos Pater Cœlitum, Quosque Delius amat;

Francisci Franchini in obitum Victoriae Columnae; inter
Carmina illustrium Poetarum Italorum edita Florentiae.
Tom. V. pag.
134.

Te licet innumerae ornarint Victoria laudes; Attamen ante alias clarior una fuit. Talia condebas nam carmina, qualia condunt Ad sacra Permessi flumina Pierides. Quin Dea Musarum mater mirata leporem. Hanc etiam, dixit, me peperisse velim.

Ludovici Fenaroli De Victoria Columna. Inter eadem Carmina
Tom. VI. pag.
253.

Musarum, & Christi, & rerum Victoria, donec Nobis defuerat gloria, rara fuit. Musarum, & Christi, & rerum Victoria postquam Nobis adfuerat, gloria summa fuit. Donec erit victrix vitii haec Victoria; rebus Et Christo, & Musis gloria semper erit.



Francisci Vinthae Victoriae Columnae Aragoniae tumulus,
Inter eadem Carmina Tom. XI. pag.
235.

Miraris tumulo praeclara trophaea sub ipso Effigies sedet ut mœsta Pudicitiae? De sine mirari, hic vitii Victoria, virtus Vera animi pietas, nobilitasque jacet. Piscarj Conjux haec est Victoria magni, Una soror Musis addita & ipsa novem.

Berardinus Rota in II. Parte Carminum suorum edita
Neapoli anno
1737. in 8. apud Ruspolum.

Sat tibi, sat Davalus debet, Victoria: vicit Te Duce tot populos, te Duce totque Duces. An tibi plus Davalus debet, Victoria conjux, Carmine si potuit vincere fata tuo? Utraque sat tribuit: dedit at plus carmine conjux, Haec dedit ut mortem vinceret, illa Duces.



1538. Rime della Divina Vittoria Colonna Marchesana di Pescara. In Parma. in 8.

1539. Rime della Divina Vittoria Colonna Marchesana di Pescara, di nuovo ristampate, aggiuntovi le sue Stanze, e con diligenza corrette. in 8. senza nota di luogo e nome dello Stampatore, le pubblicò Filippo Pirogallo.

1540. In Venezia per Comin da Trino in 8. ibid.

1544. Rime de la Diva Vettoria Colonna da Pescara inclita Marchesana, nuovamente aggiuntovi XXIIII. Sonetti Spirituali, e le sue Stanze, & uno Trionpho della Croce di Cristo non più stampato con la sua Tavola. In Vineg. per Bartolom. detto l' Imperador, in 8.

1548. Le Rime Spirituali della Illustrissima Signora Vittoria Colonna Marchesana di Pescara. Non più stampate da pochissime in fuori, le quali altrove corrotte, e qui corrette si leggono. In Vinegia al segno di S. Giorgio. per Comin da Trino di Monferrato in 8.

— Rime Spirituali di Vittoria Colonna. In Venezia presso Vincenzo Valgrisio in 4.

1552. Le Rime della Sig. Vittoria Colonna Marchesana Illustriss. di Pescara. Corrette per M. Lodovico Dolce. In Vineg. appr. Gabriel Giol. de' Ferrari & Fratelli. in 12.

1558. Tutte le Rime della Illustriss. & Eccellentiss. Signora Vittoria Colonna, Marchesana di Pescara. Con l' esposizione del Signor Rinaldo Corso, nuovamente mandate in luce da Girolamo Ruscelli. In Venezia per Gio: Battista & Melchior Sessa Fratelli. in 8.

1559. Rime della Sig. Vittoria Colonna Marchesana Illustr. di Pescara con l' aggiunta delle Rime Spirit. di nuovo ricorrette per M. Lod. Dolce. In Vineg. app. Gabr. Giol. 12.

1586. Rime Spirituali della Sig. Vittoria Colonna Marchesana Ill. di Pescara. In Verona appr. Girol. Discepoli. in 8.

1692. Rime di M. Vittoria Colonna d' Avalo Marchesana di Pescara, di nuovo date in luce da Antonio Bulifon. In Napoli a spese d' Antonio Bulifon. in 12.

1693. Rime Spirituali di M. Vittoria Colonna d' Avalos Marchesana di Pescara, di nuovo date in luce da Antonio Bulifon. In Napoli presso Antonio Bulifon. in 12.



SCrivo sol per sfogar l' interna doglia, Ch' al cor mandar le luci al mondo sole; E non per giunger luce al mio bel Sole, Al chiaro spirto, all' onorata spoglia. Giusta cagione a lamentar m' invoglia, Ch' io scemi la sua gloria assai mi dole; Per altra lingua, e più saggie parole, Convien ch' a Morte il gran nome si toglia. La pura fè, l' ardor, l' intensa pena Mi scusi appo ciascun, che 'l grave pianto E' tal, che tempo, nè ragion l' affrena. Amaro lagrimar, non dolce canto, Foschi sospiri, e non voce serena, Di stil no, ma di duol mi danno il vanto.



PEr cagion d' un profondo alto pensiero Scorgo il mio vago oggetto ognor presente, Scolpito il tiene il cor, vivo la mente, Tal che l' occhio il vedea quasi men vero. Lo spirto acceso poi, veloce, altiero Con la scorta gentil del raggio ardente Sciolto dal mondo al Ciel vola sovente, D' ogni cura mortal scarco e leggiero. Quel colpo, che troncò lo stame degno, Ch' attorcea insieme l' una e l' altra vita, In lui l' oprar, in me gli affetti estinse. Fu al desir primo; e fia l' ultimo segno La bella luce al sommo Sol gradita, Che sovra i sensi la ragion sospinse. QUella superba insegna, e quell' ardire, Che per la tua vittoriosa mano Fece ogni sforzo, ogni disegno vano, Mostra il vigor, sfoga gli sdegni e l' ire. Spense l' ardor del già folle desire L' invitto tuo valor via più che umano; Che già chiuse a cittadi, a monti, a piano I passi, con suo grave aspro martire. Non fortuna d' altrui, non propria stella: Virtù, celerità, forza, ed ingegno Diero all' imprese tue felice fine. La chiara fama tua, la gloria bella Nel Ciel eterno ti dà il merto degno, Ch' uman tesor non paga opre divine.



S'Alla mia bella fiamma ardente speme Fu sempre dolce nodrimento ed esca, Ond' avvien, ch' ella spenta l' ardor cresca, E in mezzo 'l foco l' alma afflitta treme? La speranza e 'l piacer fuggiro insieme, Con qual arte la piaga si rinfresca? Chi mi lusinga, o qual cibo m' inesca, Se Morte svelse il frutto, i fiori, e 'l seme? Ma forse il foco, che 'l mio petto accende, Da così pura face tolse Amore, Che l' immortal principio eterno il rende. Vive in se stesso il mio divino ardore, E se nodrir si vuol, dentro s' estende Nell' alma, cibo degno al suo valore. ALle vittorie tue, mio lume eterno, Non diede il tempo, o la stagion favore, La spada, la virtù, l' invitto core Fur li ministri tuoi la state e 'l verno. Prudente antiveder, divin governo Vinser le forze avverse in sì brev' ore, Che 'l modo all' alte imprese accrebbe onore, Non men che l' opre al grande animo interno. Viva gente, reali animi altieri, Larghi fiumi, alti monti, alme Cittadi, Dall' ardir tuo fur debellate e vinte. Salisti al mondo i più pregiati gradi; Or godi in Ciel d' altri trionfi veri, D' altre frondi le tempie ornate o cinte.



O Che tranquillo mar, che placid' onde Solcava un tempo in bel spalmata barca, Di bei favori, e d' util merci carca, L' aer sereno avea, l' aure seconde. Il Ciel, ch' or suoi benigni lumi asconde, Dava luce di nebbia e d' ombra scarca; Non dee creder alcun, che sicur varca, Mentre al principio il fin non corrisponde. L' avversa stella mia, l' empia fortuna Scoperser poi l' irate inique fronti, Dal cui furor cruda procella insorge. Venti, pioggia, saette il Cielo aduna, Mostri d' intorno a divorarmi pronti; Ma l' alma ancor sua tramontana scorge. CHi può troncar quel laccio, che m' avvinse, Se ragion diè lo stame, Amor l' avvolse; Nè sdegno, o Morte l' allentò, nè sciolse; La fede l' annodò, tempo lo strinse? In prima il cor, poi l' alma intorno cinse, Chi più conobbe il ben, più se ne tolse; L' indissolubil nodo in pregio volse, Per esser vinta da chi tutto vinse. Convenne al ricco bel legame eterno Spiegar questa mortal caduca spoglia Per annodarmi in più leggiadro modo. Onde tanto legò lo spirto interno, Ch' a cangiar vita io fermerò la voglia Soave in terra, e 'n Ciel felice nodo.



PErchè del Tauro l' infiammato corno Mandi virtù, che con novei colori Orni la terra de' suoi vaghi fiori, E più bello rimeni Apollo il giorno; E perch' io veggia fonte, o prato adorno Di leggiadre alme, e pargoletti Amori, O dotti spirti a' piè de' sacri allori Con chiare note aprir l' aer d' intorno; Non s' allegra il cor tristo, o punto sgombra Della cura mortal, che sempre il preme, Sì le mie pene son tenaci e sole; Che quanta gioia i lieti amanti ingombra, E quanto quì diletta, il mio bel Sole Con l' alma luce sua m' asconde insieme. MEntre io vissi quì in voi, lume beato, E meco voi, vostra mercede, unita Teneste l' alma; era la nostra vita Morta in noi stessi, e viva nell' amato. Poichè per l' alto e divin vostro stato Non son più a tanto ben qua giù gradita, Non manchi al cor fedel la vostra aita Contro il mondo ver noi nemico armato. Sgombri le spesse nebbie d' ogn' intorno Sì, ch' io trovi a volar spedite l' ali Nel già preso da voi destro sentiero. Vostro onor fia, ch' io chiuda ai pensier frali Gli occhi in questo mortal fallace giorno Per aprirgli nell' alto eterno e vero.


A Che miseria Amor mio stato induce, Che 'l proprio Sol ancor tenebre rende? Non pria il veggio apparir, che mi raccende Desio di riveder mia vaga luce. Quanto più gemma, ed or tra noi riluce, L' inferma vista mia più se n' offende; E se dolce armonia l' orecchia intende, Pianti e sospiri al fin nel cor produce. S' io verde prato scorgo, trema l' alma Priva di speme: e se fior varii miro, Si rinverde il desio del mio bel frutto, Che Morte svelse, ed a lui grave salma Tolse in un breve e placido sospiro, Coprendo il mondo, e me d' eterno lutto. MEntre scaldò 'l mio Sol nostro emispero, Qual occhio da soverchia luce offeso, E qual da cieca invidia tinto e preso, Non scorser del gran lume il raggio intero. Or c' ha lasciato il mondo freddo e nero, Di bella voglia ogn' alto spirto acceso L' adora, e molti han con lor danno inteso, Che 'l proprio error non li scoperse il vero Valor, a cui la Morte fama aggiunge; E se 'l tempo vorace i nomi asconde, Sua gloria a questa legge non si strinse. L' opre chiare d' altrui non ben seconde Seguon le sue tant' alto, e sì da lunge Lo scorge quei, che più l' ardir sospinse.


NEl mio bel Sol la vostra Aquila altiera Fermò già gli occhi; onde superba e lieta Volava al Ciel, ch' ogn' altra indegna meta Era alla gloria sua fondata e vera. Or che la chiara luce, alma, e sincera Oscura nebbia la nasconde e vieta; Umile impaccio il bel corso inquieta, Che l' audace suo vol non è qual era. Le vittorie, i trofei, le belle imprese, Tante penne real sparse d' intorno, Le grand' ali, e gli Augei legati all' ombra, Fur da quei raggi circondate e accese, Che all' alta via fer luminoso giorno; Or tetra notte il suo valor ingombra. GLi alti trofei, le gloriose imprese, Le ricche prede, i trionfali onori Ornar le tempie d' immortali Allori, Facean le voglie altrui di laude accese. Poichè l' eterno Sol ne fè palese Altra vita immortal; di santi ardori S' infiamman l' alme; e ne' più saggi cori Le vere glorie fur più certo intese. Ma il mio bel lume in un soggetto solo Di viva fiamma ornò la bella spoglia, E di foco divino accese l' alma. Che quì tra noi dall' uno all' altro polo Con chiare opre adempì l' altiera voglia, Or gode in Ciel la più gradita palma.


MEntre il pensier dall' altre Cure sciolto Con l' alma del comun danno si lagna, Sì largo pianto il tristo sen mi bagna, Che forma un fonte il vivo umor raccolto. Ed ivi insieme il mio col suo bel volto Scorge l' occhio e 'l pensier; onde ristagna Il piacer nuovo, e 'l pianto mi scompagna Dal ben, che quasi il mal avea già tolto. La grata vista il lagrimar affrena, E rimangon sì caldi i miei sospiri, Ch' asciugan del già scorso pianto l' onde. Se ciò non fusse, per la dolce vena Delle lagrime mie, gli alti desiri Avrian le stelle avverse quì seconde. CAra union, che con mirabil modo Per nostra pace fu ordinata in Cielo, Che lo spirto divino, e 'l mortal velo Legan con santo ed amoroso nodo; Io la bell' opra, e 'l grande Autor ne lodo; Ma d' altra speme mossa, e d' altro zelo, Riveder la vorrei, prima che 'l pelo Cangiassi, poi che d' essa io quì non godo. L' alma rinchiusa in questo carcer rio, Come nemico l' odia: onde smarrita Nè vive quì, nè vola ov' i' desio. Vera gloria saria vedermi unita Col lume, che dà luce al corso mio; Poi sol nel viver suo conobbi vita.


COme non depos' io la mortal salma Al miglior tempo? da chi fu impedita, Per non volar in quella eterna vita L' alma al partir dell' altra mia ver' alma? Con la sua bella scorta altiera ed alma Nascosi gli error miei nell' infinita Sua gloria, e seco all' altra strada unita Aria col merto suo ben ricca palma; Che qua giù lieta, e poi là su beata Soavemente dal mondo disciolta Coi raggi del mio Sol tutta coverta, Al dubbio passo er' io da lui guidata In terra, e 'n Ciel nel suo lume raccolta; Ma tanto ben appena il pensier merta. QUand' io dal caro scoglio miro intorno La terra, e 'l Ciel nella vermiglia Aurora, Quante nebbie nel cor son nate allora, Scaccia la vaga vista, e 'l chiaro giorno. S' erge il pensier col Sole, ond' io ritorno Al mio, che 'l ciel di maggior luce onora, E da quest' altro par, ch' ad ora ad ora Richiami l' alma al suo dolce soggiorno. Per l' esempio d' Elia, non con l' ardente Celeste carro, ma col proprio aurato Venir se 'l finge l' amorosa mente A cangiarne l' umil doglioso stato Con l' alto eterno; e in quel momento sente Lo spirto un raggio dell' ardor beato.


DI così nobil fiamma Amor mi cinse, Ch' essendo spenta, in me vive l' ardore; Nè temo nuovo caldo, che 'l vigore Del primo foco mio tutt' altri estinse. Ricco legame a bel giogo m' avvinse, Tal che disdegna umil catena il core; Nè più speranza vuol, nè più timore; Ch' un sol incendio l' arse, un nodo strinse. Un sol dardo pungente il petto offese Sì, ch' ei riserba la piaga immortale Per schermo contra ogni amoroso impaccio. Amor le faci spense, ove l' accese, L' arco spezzò all' avventar d' un strale, Sciolse ogni nodo all' annodar d' un laccio. AMor tu sai, che mai non torsi il piede Dal carcer tuo soave, nè disciolsi Dal dolce giogo il collo, nè ti tolsi Quanto dal primo dì l' alma ti diede. Tempo non cangiò mai l' antica fede; Il nodo è stretto ancor, com' io l' avvolsi; Nè per l' amaro frutto, ch' ognor colsi, L' alta cagion men cara al cor mi riede. Visto hai quanto in un petto fido, ardente Può far quel caro tuo più acuto dardo, Contro del cui poter Morte non valse. Fa omai da te, che 'l nodo si rallente, Che a me di libertà già mai non calse, Anzi di ricovrarla or mi par tardo.


QUanto s' interna al cor più d' anno in anno L' amorosa mia vista, men m' offende; La salute mi tolse, e al fin la rende Quel bel principio, ch' è rimedio e danno. Dilettosa fatica, utile inganno, Ch' accorta d' esso l' alma si raccende A girle dietro; e dell' error, ch' intende, Si vive lieta, e del suo grave affanno. Una viva ragion prima raffrena Il duol, poi lega i sensi; ed ella sciolta Con l' alto mio pensier volano insieme. E mentre in grembo a lor men vo raccolta, Sì poco il mortal peso l' alma preme, Che se durasse, io sarei fuor di pena. DE' gravosi pensier la turba infesta Signoreggia sì 'l cor, la mente, e l' alma, Che questa vita, e la noiosa salma, L' una m' è grave omai, l' altra molesta. E la cogion, ch' al mio scampo si presta Fu già, che d' ogni guerra intera palma Mi porse; or nella luce altera ed alma Si vive, e lascia me dogliosa e mesta. Tempo ben fora, che dal martir vinta, O dal soccorso suo chiamata al Cielo, Avesser fin sì lunghi e amari giorni. La propria man dal duol più volte spinta Fatto l' aria; ma quell' ardente zelo Di trovar lui fa pur, ch' a dietro io torni.


QUando Morte tra noi disciolse il nodo, Che prima avvinse il Ciel, Natura e Amore, Tolse agli occhi l' oggetto, il cibo al core, L' alme congiunse in più congiunto modo. Quest' è il legame bel, ch' io pregio e lodo, Dal qual sol nasce eterna gloria e onore; Non può il frutto cader, nè langue il core Del bel giardin, ov' io piangendo godo. Sterili i corpi fur, l' alme feconde, E 'l suo valor quì col mio nome unito Mi fa pur madre di sua chiara prole, La qual vive immortal, ed io nell' onde Del pianto son, perch' ei nel Ciel salito Vinse il duol la Vittoria, ed egli il Sole. OR sei pur giunto al fine, o spirto degno, Del tuo sempre d' onor desire acceso; T' era il viver tra noi gravoso peso, Che 'l Ciel del grande ardir fa vero il segno. Tutte le cure basse avesti a sdegno Per grado di valor in alto asceso; L' altiera mente avea qua giù compreso Quel, ch' or gode là su nel santo regno. Non ebbe loco in te basso pensiero, Con sproni alla ragion, con freno ai sensi Calcasti con lo spirto il mortal velo. Col lume di virtù nel lume vero Scorgesti gli occhi, or nell' eterno accensi, Dov' io spero venir, pria cangi il pelo.


QUal nuova gemma, o qual ricco lavoro Di bel Smeraldo, o lucido Diamante Fia tal, Signor, ch' esser degna si vante Tener del cener tuo l' alto tesoro? L' anima gloriosa al primo coro Degli Angioli gradita or vede quante Lagrime io spargo; che le membra sante Non chiudo almen con puro argento ed oro. Ma i chiari spirti, e i nobili intelletti Seguiran l' orme belle, e i degni esempi, Mentre i mortali avran gloria ed onore. L' istorie lor perpetue, e i saggi petti Saran del nome tuo sacrato Tempio, Ch' altr' urna è breve a sì largo valore. MEntre l' aura amorosa, e 'l mio bel lume Fean vago il giorno, e l' aer chiaro e puro Con largo volo, e nel cammin securo Mossi già l' onorate altiere piume. La luce sparve, e 'l placido costume Mutò il caso infelice, acerbo, e duro, Che 'l sentier intricato, e 'l Cielo oscuro Dimostra ascoso il mio celeste lume. Morto, il vigor, che pria sostenne l' ale, S' estinse; onde alla strada eccelsa e sola Fa che 'l desir bramoso indarno s' erga. Rimane il nome in me sì, che 'l mortale Dolor vincendo, io vivo; e 'l pensier vola Privo d' effetto, ove il mio Sole alberga.


QUanti dolci pensieri, alti desiri Nodriva in me quel Sol, che d' ogn' intorno Sgombrò le nubi, e fè qui chiaro il giorno, Mentre appagò sua vista i miei martiri! Soave il lagrimar, grati i sospiri Mi rendeva il sereno sguardo adorno, Mio vago lume, e mio sì bel soggiorno, Ch' or scorgo tenebroso, ove ch' io miri. Veggio spento il valor, morte e smarrite L' alme virtuti; e le più nobil menti Per lo danno comun cieche e confuse. Al suo sparir dal mondo son fuggite Di quello antico onor le voglie ardenti; E le mie d' ogni ben per sempre escluse. FIammeggiavano i vivi lumi chiari, Ch' accendon di valor gli alti intelletti, L' anime sante, e i chiari spirti eletti Davan ciascun a prova i don più cari. Non fur le Grazie parche, o i Cieli avari, Gli almi Pianeti in propria sede eretti Mostravan lieti quei benigni aspetti, Che instillan le virtù nei corpi rari. Più chiaro giorno non aperse il Sole, S' udian per l' aere angelici concenti, Quanto volse Natura, all' opra ottenne. Col sen carco di gigli e di viole Stava la terra, e 'l mar tranquillo e i venti, Quando 'l bel lume mio nel mondo venne.


PRimo sacro splendor, ch' unito insieme Del vero Sol l' esempio a noi dimostri; Chi ti contempla nei beati chiostri, Giunto al fin del desio lascia la speme. Nè laccio il lega più, nè duolo il preme, Fuor della rete degl' inganni nostri; E tu, ch' a par del più bel lume giostri, Spirto, ch' ancora il mondo adora e teme, Qual grado eccelso, o pur qual gloria immensa All' alta tua virtù destina il Cielo? E godi ognor nella divina luce. Giusta man degni premii quì dispensa; Fu vera guida agli altri il mortal velo; Or dell' alme lo spirto è onor e duce. LE meraviglie, che tra noi comparte Il Cielo, allor che con benigni aspetti Suoi lumi accende a produr tali effetti, Che 'l poter suo maggior ne mostri in parte, D' intorno lampeggiar chiare consparte Al mio Sole vid' io; Voi spirti eletti, Ch' adornate sì rari alti concetti, Onorate di lui le vostre carte. E fuora d' ogni oggetto i sacri inchiostri, E dal lume divin più larga vita Avranno i bei felici studj vostri. Se breve caldo qui, beltà finita Vi sprona tanto or; dagli eterni chiostri Quanto accender vi dè luce infinita?


QUella stessa ragion, che pria raccolse All' altiera mia luce i miei pensieri, Dovria cangiarli di fallaci in veri, E ridurmi nel grado, onde mi tolse. Ella d' un saldo laccio il cor m' avvolse, Non fur li sensi semplici o leggieri; Ella sostiene ancor quei nodi intieri Sì, che 'l colpo mortal non li disciolse. Ella mi fe seguir gli ardenti lumi, Spregiando libertate, e 'n quel bel stato, Passar con dolce speme i giorni amari. Ma di speranza io priva, quei costumi Dovria mutar in più securi e rari Desiri omai, vincendo il Cielo irato. SE dal dolce pensier riscuoto l' alma Per bassi effetti dell' umana vita, Riman dal corso suo, quasi smarrita Nave, ch' affretta in perigliosa calma. Or come avvien, che questa fragil salma Di mortal gonna, per mio danno ordita, La tiri in terra, essendo in ciel salita Con la sua luce gloriosa ed alma? Ivi s' appaga, si nodrisce e vive, E l' abitar in questo carcer sempre Le saria grave, anzi pur viva morte. Com' è, che minor nostro maggior prive Del vero oggetto, e cangi l' alta sorte L' alma, per star fra sì dubbiose tempre?


A Che sempre chiamar la sorda Morte? E far pietoso il ciel col pianger mio, Se vincer meco stessa il gran desio Sarà un por fine al duol per vie più corte? A che girne all' altrui sì chiuse porte? Se 'n me con aprirne una al proprio oblio, E chiuder l' altra al mio voler, poss' io Spregiar l' avversa stella, e l' empia sorte? Quante difese, quante vie discopre L' anima, per uscir del carcer cieco, Di sì grave dolor tentate in vano. Riman solo a provar, se vive meco Tanta ragion, ch' io volga questo insano Desir fuor di speranza a miglior opre. RIman la gloria tua larga e infinita, Signor; se fur del viver corte l' ore, Tal virtù diè la fama al tuo vigore Ch' uno si spense, e l' altra fu nodrita. A mezzo il giusto corso era la vita, Quando al fin glorioso dell' onore L' animo giunse, per lo cui valore Non fu dal tempo la virtù impedita. Scarco de' nostri mali all' altra meta Leggier volasti sì, che nulla cura Ti strinse qui dell' onorata spoglia. Questo il mio duol ristringe, e fa che lieta Chiami la Morte: dolce, alta ventura, E felice gioir, l' interna doglia.


QUesto Sol, ch' oggi agli occhi nostri splende, Di grave ingiuria carco, e d' alto scorno Io vidi un tempo; or di se il mondo adorno, Fertil la terra, e 'l ciel lucido rende. Perchè con l' altro mio più non contende, Ch' or lampeggiando nel divin soggiorno D' un ardor santo, e d' un perpetuo giorno Dinanzi al vero Sol s' alluma e accende. Quei raggi, quel calor, quell' alma luce M' infiammar sì, che questo or sento e scorgo, Discolorata, mesta, afflitta e nera. Caduchi effetti il vostro al fin produce, Fa il mio beata l' alma; ond' io m' accorgo Di spregiar l' uno, e gir all' altro altera. PRima ne' chiari, or negli oscuri panni Imperio al cor dimostra Amor sincero; Io pur col tempo mitigarlo spero, E s' egli avanza col girar degli anni; Parmi che i lunghi miei gravosi danni Or ricompensi un dolce alto pensiero, Che sol pensando al bel sembiante altero, Rinforza in me l' amor, sgombra gli affanni. Immaginata luce arde e consuma, Sostiene in pace l' alma, e 'l foco antico Con vigor nuovo soffia, e avviva e accende. Il chiaro suo valor, che 'l mondo alluma, Di belli esempi mi fa il duol sì amico, Che assai mi giova più, che non m' offende.


MOrte col fiero stral se stessa offese, Quando oscurar pensò quel lume chiaro; Ch' oggi è più vivo in Ciel, fra noi più raro, Ma al bel morir l' immortal gloria accese. Onde irata ver me l' arco riprese, Poi vide essermi dolce il colpo amaro, Nè 'l diè; ma col morir vivendo imparo Cruda guerra con lei, strane contese. S' io cerco darle in man la mortal vita, Perchè di sue vittorie resti altera, Ed io del mio finir lieta e felice. Per far nova* Original has "n va". vendetta, empia, inaudita, Mi lascia viva in questa morte vera, S' ella mi sdegna, or che sperar mi lice? APpena avean gli spirti intera vita; Quando il mio cor prescrisse ogn' altro oggetto, E sol m' apparve il bel celeste aspetto, Della cui luce io fui sempre nodrita. Qual dura legge ha poi l' alma sbandita Dal grato albergo, anzi divin ricetto? La scorta, il lume, e 'l giorno l' è interdetto; Ond' or cammina in cieco error smarrita. Soli Natura, e 'l Ciel con pari voglia Ne legò insieme; Ahi quale invido ardire, Quale inimica forza ne disciolse? Se 'l viver suo nodrì mia frale spoglia, Per lui nacqui, era sua, per se mi tolse; Nella sua morte ancor dovea morire.


QUanta invidia al mio cor felici e rare Anime porge il vostro ardente e forte Nodo, che l' ultime ore a voi di morte Fe dolci, che son sempre agli altri amare. Non furo ai bei desir le Parche avare In filar, nè più larghe, nè più corte Le vostre vite; ond' or con egual sorte Sete vive nel Ciel, nel mondo chiare. Se 'l fuoco sol d' Amor legar può tanto Due voglie; or quanto a voi Natura e Amore, I corpi quella, e questo l' alme cinse D' immortal fiamma? O benedette l' ore Del viver vostro; e più quel lume santo, Che sì bel nodo indissolubil strinse. ALta fiamma amorosa, e ben nate alme, Cui nodo avvinse sì tenace e forte, Che romper poi nol potè Invidia, o Morte, Spargendo a terra le corporee salme. Ben dovria il mondo con dorate palme, Con cerchj, e mete di sì lieta sorte Rendervi onor, mentre le rime accorte Dal dolor non impetro, e di me calme. Di voi non già, che fuor d' umil soggiorno Nel Ciel godete, accolte e Cittadine Del regno u' spesso col pensier ritorno. Parmi veder d' elette e pellegrine Alme girarsi un nembo a voi d' intorno, E vinta restar più ciascuna al fine.


AL bel leggiadro stil soggetto uguale Porge ora il Ciel, che 'l glorioso e santo Nome de' vostri genitori, al canto Vostr' alto, lice sol farsi immortale. Al vol del merto lor conformi l' ale Veggio a voi solo, ed essi sol di tanto Frutto ben degni, al qual pur dieder quanto Pon dar le stelle a chi più in pregio sale. Opra è da voi con l' armonia celeste Del vostro altero suon, che nostra etade Già dell' antico onor lieta riveste. Dir com' ebber quest' alme libertade Insieme a un tempo, e come insieme preste Volar nelle divine alte contrade. AMor, se morta è la mia propria speme, Nel primo foco ancor pur vivo ed ardo; Il desir, ch' ebbi pria col primo sguardo Ne' dì miei primi, avrò nell' ore estreme. La vita, e 'l bel pensier morranno insieme, E presto fia per l' un, per l' altra tardo, L' ultima piaga fece il primo dardo, N' altro ben spera il cor, nè altro mal teme. Ma se l' alma fedel languendo tace, E per lei gridan mille aperte prove, Dammi per lunga guerra or breve pace. Non vo, che libertà vie più si trove Nel mio voler; ma che l' ardente face S' intepidisca sì, che 'l viver giove.


SI; large vi fu il ciel, che 'l tempo avaro, Bench' ognor più s' affretti, men divora L' opre vostre, Signor, ma d' ora in ora Scorge cagion di farvi eterno e raro. Posto il contrario suo col bianco a paro Si manifestan più gli estremi all' ora; Così i fatti d' altrui men belli ancora Fanno il vostro valor sempre più chiaro. Si scorge un error quasi in ogni effetto D' ingegno, o forza in altri, che raccende Nei saggi petti ognor la vostra gloria. Per proprio onor ciascun alto intelletto Farà dell' opre vostre eterna istoria; Perchè chi men le loda, men l' intende. PArmi, che 'l Sol non porga il lume usato, Nè che lo dia sì chiaro a sua sorella, Nè veggio almo pianeta, o vaga stella Rotar lieto i be' rai nel cerchio ornato. Non veggio cor più di valore armato: Fuggito è il vero onor, la gloria bella, Nascosa è la virtù giunta con ella, Nè vive in arbor fronda, o fiore in prato: Veggio torbide l' acque, e l' aer nero, Non scalda il fuoco, nè rinfresca il vento, Tutti an smarrito la lor propria cura. D' allor che 'l mio bel Sol fu in terra spento: O che confuso è l' ordin di Natura, O il duol agli occhi miei nasconde il vero.


ALzata al Ciel da quel solingo e raro Pensier, che sopra il corso uman mi spinge Veder mi parve il volto, che depinge Amor al cor, ma più splendente e chiaro. E di veder sopra quei cerchi imparo, Come un solo voler li muove e cinge, Come una sola mano allarga e stringe Quanto piove fra noi di dolce e amaro. L' intelletto tra 'l lume, e le parole D' un' alta meraviglia sopragiunto, Fiso nel mio, non scorse il maggior Sole: Perchè già al fin del desiderio giunto, Non sofferse la gloria, onde mi duole, Che 'l giunger, e 'l sparir fosse in un punto. QUando già stanco il mio dolce pensiero Del suo felice corso giunge a riva, Dimostra il sonno poi l' immagin viva Con altro inganno più simile al vero. Quel fa, ch' io segni bianco il giorno nero, Questo d' oscurità la notte priva, E se già l' aprir gli occhi mi nodriva, Il chiudergli ora è cagion, ch' io non pero. E se col tempo il gran martir s' avanza, Più salda ognor nella memoria siede Col sonno, e col pensier l' alma sembianza. E 'l proprio ardor rinova la mercede, Che se fuggì il piacere, e la speranza, Con maggior forza allor s' armò la fede.


QUanto è tolto al desio rende un pensiero Di dolce frutto a tanta mia fatica, L' un mi consuma il cor, l' altro il nodrica; Questo fa il viver grave, e quel leggiero. Scorge falso il pensier, quanto per vero Dimostrò il mondo, ond' or la pena antica Con nuovo freno allenta, e fammi amica Del ben, ch' ei gode; io per suoi pregi spero. L' altro con sproni ardenti s' appresenta Vago dell' alme luci, e del gioire, Che nodria l' alma, mentre ei visse in terra. Quel fa la gloria viva, e questo spenta, L' un guarda alla cagion, l' altro al martire, Ma al fin l' alto pensier vince la guerra. SE 'l mio bel Sol, e l' altre chiare stelle, Che 'l natio nido mio, l' almo paese Adornan sì, che dell' antiche imprese Le moderne opre lor non fur men belle. Mi vedess' io d' intorno; e queste, e quelle, Formerian vago Ciel, largo e cortese, Contra quest' altro irato, e l' empie accese Sue luci a' miei desir sempre rubelle. Con ciascuna lor vita, invide Parche, Mill' altre ne trovaste, ed anzi tempo, Che al chiaro stame suo viveano avvolte. Ond' io non vivo già, ma sol m' attempo Per la dolce memoria, ch' elle scarche Del mondo, al Ciel volar libere e sciolte.


QUesto nodo gentil, che l' alma stringe; Poichè l' alta cagion si fè immortale, Discacciò dal mio cor tutto quel male, Che gli amanti a furor spesso costringe. Tanto l' immagin false or non depinge Amor nella mia mente, nè m' assale Timor; neè l' aureo, nè 'l piombato strale Tra freni, e sproni or mi ritiene, or spinge. Con salda fede in quell' immobil stato M' appresenta il mio lume un bel pensiero Sopra le stelle, la fortuna, e 'l fato. Nè men sdegnoso un giorno, nè più altero L' altro; ma sempre stabile e beato, Questo Amor, ch' ora è il fermo, il buono, e 'l vero. PEr soggetto alla nobil fiamma vera Atto a serbar il suo lume fulgente, Diede il ciel da' primi anni la mia mente, Che la ritien ancor viva ed intera. Come a saldo sigillo molle cera Fu il cor all' opre chiare; e 'l petto ardente Segreto, e fido albergo, ove sovente Depose i bei pensier l' anima altera. Nè di Morte l' acerbe invide offese Mi fan restar del gran tesor mendica, Che vivo di sue glorie al mondo sole. La mente il raggio bel, che pria l' accese, E 'l cor l' impresso ben lieto nodrica, E 'l petto il conservar l' alte parole.


GIà desiai, che fusse il mio bel Sole Certo della mia salda, e pura fede, Or vive in parte pur che sa, non crede, L' opre, i pensier, le voglie, e le parole. Vede, che quanto ei volse, or segue e vuole L' alma, che 'l sente ognor, gli parla, il vede: Sa che non mai nella memoria riede, Perchè continuo il cor l' adora e cole. Vede le glorie sue, che gli altri onori Vincon sì, che nè nuove, nè seconde Parran nell' altra età, ma prime e antiche. Così il bel lume de' suoi santi ardori Scorga mia nave fra sì torbide onde Fra scogli, e fra Sirene empie nemiche. NE' più costante cor, nè meno ardente, Più dolce suono, o men vivo desire, Potran darmi giammai cotanto ardire, Che a sì dubbia speranza erga la mente. Nè men convien tra la perduta gente Cercar rimedio al mio grave martire, Nè tranquillar là giù gli sdegni e l' ire; Molto è il mio Sol da lor tenebre assente. Ma se giova sperar in debil' arte; Di Fetonte l' ardir, d' Icar le piume, Instrumenti sarieno al mio mal degni. Da condurmi vicino a quella parte, Ove soggiorna il mio fulgente lume, Perch' ei d' alzarmi a miglior vol m' insegni.


SPerando di veder là su 'l mio Sole, Mi parea in terra far lunga dimora, Non per esser nel Ciel seconda Aurora, Come l' amico nostro pensier vuole. Ma s' ei scacciar l' oscure nubi suole, Potria fugar le mie tenebre allora; E far l' alma sì chiara, ch' ella ancora S' allegri più di quel ch' or più si duole. Gloria mi fu vederlo cinto intorno Di mille nodi, e con l' invitta mano Scioglierli tutti, ed annodarne altrui: Che saria rivederlo sopr' umano? Ei di me lieto, ed io beata in lui Accompagnarlo a rimenare il giorno? NEl fido petto un' altra Primavera D' altri be' fiori, e d' altre frondi adorna Produce quel mio Sol, che sempre aggiorna Dentro 'l mio cor dalla più alta spera. Non cangia il tempo sua luce sincera, Nè la notte s' asconde, il dì ritorna; Ma in quello, e 'n questo albergo ognor soggiorna: Qui co' be' rai, là con sua forma vera. Sono i soavi fior gli alti pensieri, Ch' odoran lieti per quell' alma luce, Che sol gli crea, nodrisce, apre e sostiene. Le frondi, che fan vive i lumi veri, E' la fondata in lor mia certa spene Di gir felice, ov' ei lieto riluce.


VIvo mio Sol, molto dell' altro eccede I grandi effetti il tuo divin valore; Porge ei col moto qui luce e calore, Tu allumi noi dalla tua stabil sede. Per l' ombra della notte ei non si vede, Nè allor sente ogni clima il suo vigore, A te l' ombra di morte accrebbe onore; Siccome gli alti spirti oggi fan fede. Picciola nube a quello i raggi ardenti Asconde, ma d' invidia, guerre e affanni Un folto nembo a' tuoi raccese i lumi. Quel dà luce alle stelle, agli elementi; Ma tu i Beati nei siderei scanni Con più vivo splendor rallegri e allumi. QUel giorno, che l' amata immagin corse Al cor, come ch' in pace star dovea Molt' anni in caro albergo, tal parea, Che l' amano, e 'l divin mi pose in forse. In un momento allor l' alma le porse La dolce libertà, ch' io mi godea; E se stessa obliando lieta ardea In lei, dal cui voler mai non si torse. Mille accese virtuti a quella intorno Scintillar vidi, e mille chiari rai Far di nova beltate il volto adorno. Ahi con che affetto Amore, e 'l Ciel pregai, Che fosse eterno sì dolce soggiorno? Ma fu la speme al ver lunge d' assai.


ASsai lunge a provar nel petto il gelo De' nojosi pensier, ch' apportan gli anni Allor er' io, che in tenebre, e 'n affanni Mi lasciasti, mio Sol, tornando al Cielo. Indegna forse fui del caldo zelo, Onde tu acceso apristi altero i vanni, Infiammando a schivar l' ire, e gl' inganni Del mondo, e spiegar teco il mortal velo. Tu volasti leggiero, i' sotto l' ali, Che tu spiegavi, avrei ben preso ardire Salir con te lontana ai nostri mali. Lassa, ch' io non fui teco al tuo partire; E le mie forze senza te son tali, Ch' or mi si toglie, e vivere, e morire. DAl vivo fonte del mio pianto eterno Con maggior vena un largo rivo insorge, Quando lieta stagion d' intorno scorge L' alma, c' ha dentro un lagrimoso verno. Quanto più luminoso il Ciel discerno, Ricca la terra, e adorno il mondo porge Le sue vaghezze; il cor via più s' accorge, Che 'l bel di fuor raddoppia il duolo interno. Ristretta in luogo oscuro, orrido e solo, Ascosa, e cinta dal proprio martire, Legati i sensi tutti al bel pensiero. Con veloce, spedito, e fiero volo Venir la mente al mio sommo desire, Oggi è quanto di ben nel mondo spero.


D'Ogni sua gloria fu largo al mio sole Il Ciel, che di virtù l' animo cinse, Il volto di color vaghi dipinse, E diede alto concento alle parole. Di qui nacque il desio, com' Amor vuole, Che dal veder, e dall' udir costrinse La mente, in cui qual lume non estinse, Ma serba ancor le forme intere e sole. Gli altri semplici sensi, che non fanno Concordia, ove beltà nasce, ed il vero Foco divin di gentil alma accende; Non mi fur mai cagion di gioja, o danno, Che 'l chiaro foco mio fa 'l cor sì altero, Ch' ogni basso pensier sempre l' offende. NOdriva il cor d' una speranza viva, Fondata, e colta in sì nobil terreno, Che 'l frutto producea giocondo e ameno; Morte la svelse allor, ch' ella fioriva. Giunsero insieme i bei pensieri a riva, Mutossi in notte oscura il dì sereno, Il nettar dolce in amaro veneno, Sol di tal ben non è la mente priva. Ond' io dintorno, Amor, sovente avvampo, Parmi udir l' alto suon delle parole Giunger concento all' armonia celeste. E vedo il folgorar del chiaro lampo, Che dentro al mio pensier avanza il Sole, Che fia vederlo fuor d' umana veste?


OCchi miei oscurato è il nostro Sole, Così l' alta mia luce a me sparita, E' per quel, ch' io ne speri, al Ciel salita, Ma miracol non è, da tal si vuole. E se pietà ancor può, com' ella suole, Ch' indi per Lete esser non può sbandita, E mia giornata ho co' suoi piè fornita, Forse (o che spero) il mio tardar le duole. Piagner l' aere, e la terra, e 'l mar dovrebbe L' abito onesto, e 'l ragionar cortese; Quando un cor tante in se virtuti accolse? Quanto la nuova libertà m' increbbe, Poichè morto è colui, che tutto intese, Che sol ne mostrò il Ciel, poi se 'l ritolse. QUanto di bel Natura al mondo diede Nell' opra sua più cara, e più gradita; Quanto discopre il Sol, quanto si addita, Che del poter divin ne faccia fede. Dispregia il Ciel, poi ch' altamente riede Quella luce immortale ed infinita, Per nostra indegnitate a noi sparita, Che 'n Cielo ha paragon, qui tutto eccede. Or il chiamarlo ognor, nè 'l piagner sempre, Fa minor' il dolor, maggior la speme, Morto è il rimedio allor che nacque il danno. E s' avvien, che 'l martir non mi distempre, La cagion s' appresenta, e 'l danno insieme, Ond' il rifugio istesso apporta inganno.


SE in Oro, in Cigno, in Tauro il sommo Giove Converso fu da cieco error sospinto Dal divin seggio al terren Labirinto, E mosse quel che gli altri ferma e move. Amor, s' appregi sol mirabil prove Da gloria vana, e stran desir convinto, Portami ov' or dal valor proprio spinto Riluce il mio bel Sol con luci nove. Maggior miracol fia, più chiara impresa Di trasportarmi al Ciel col mortal velo, Che indur con umil forma in terra i Dei. Ma se d' alto desir la mente accesa Vaneggia astretta d' amoroso zelo, Porgi tua forza, e ardir ai pensier miei. SPirto gentil, del cui gran nome, altero Se 'n va il Leon, c' ha in mar l' una superba Man, l' altra in terra, e sol tra noi riserba L' antica libertate, e 'l giusto impero. Per chiara scorta, anzi per lume vero De' nostri incerti passi il Ciel vi serba, E nell' età matura, e nell' acerba V' ha mostro della gloria il ver sentiero. Al par di Sorga, con le ricche sponde Di lucidi smeraldi in letto d' oro, Veggio correr di latte il bel Metauro. Fortunata colei, cui tal lavoro Rende immortal, ch' all' alme eterne fronde Non avrà invidia del ben colto lauro.


VEggio portarvi in man del mondo il freno, Fortuna sempre al vostro ardir seconda, Onde tosto si spera in terra, e 'n onda Pace più ferma, e viver più sereno. Che non solo il paese, u' 'l Tago, e 'l Reno, L' Istro, il Rodano, il Pò superbo inonda, Treman di voi, ma quanto apre e circonda Il gran Padre Ocean col vasto seno. Vedete come allo spuntar d' un raggio Della vostra virtù, qual nebbia vile, Sparve del crudo Scita il fiero stuolo, Seguite l' alto a voi degno viaggio, Che 'l ver Pastor Clemente per voi solo Guida lo sparto gregge ad un ovile. SEnto per gran timor con alto grido, Al venir d' un' eccelsa Aquila altera, Fuggir tutti gli augelli in varia schiera, Nè ben fidarsi ancor nel proprio nido. Ella secura col presidio fido Dei Cieli, e della sua virtù sincera, Con nuovo onor, con maggior gloria spera Volar superba in ogni estremo lido. Ma il mio bel Sol, che per aprir il volo Tante nubi scacciò col suo gran lume, Gode nell' opre delle sue fatiche. E prega il Ciel, che stenda in ciascun polo L' ali, e che tanto abbia le stelle amiche, Ch' alzando il vol rinforzi ognor le piume.


IL parlar saggio, e quel bel lume ardente, Che nè Morte, nè Tempo avaro ammorza, Onde s' accese, amò di tanta forza Il mio cor, quant' ha poi mostro sovente. Ascolto sempre, veggio ognor presente, Che non me 'l vieta la terrena scorza, La quale spesso di poter ne sforza A sciorre, e alzar sopra di lei la mente, Celesti luci, ed armonia soave, Che col chiaro splendore, e dolce suono, Gli occhi e l' orecchie m' han velati e chiuse. L' esser meco talor non ti fia grave, Spirto beato, che quì in terra sono, U' son le glorre tue larghe e diffuse. MOsso d' alta pietà non move tardo Il Sol, che seco in Ciel mi ricongiunge; Ma viene ognor più lieto, e sempre aggiunge Al maggior uopo, ond' io pur vivo ed ardo. Quant' egli può, dal primo acuto dardo Risana il cor, e con più saldo il punge, Ora che col pensier fido da lunge A quel, ch' esser solea, felice il guardo. Gli occhi, che Morte mi nasconde e cela, Ond' uscì 'l foco, ch' ancor l' alma accende, Fur chiari specchi in terra al viver mio. Or quel raggio, che 'l Ciel non mi contende, Mi mostra, ove drizzar convien la vela Per questo mar del nostro secol rio.


DAl breve sogno, e dal fragil pensiero Soccorso attende la mia debol vita; Quando interrotti son, riman smarrita Sì, ch' io peno in ridurla al cammin vero. Vero non già per me, ch' altro sentiero Mi suol mostrar la mia luce infinita, E dice: meco in Ciel sarai gradita, Se raffrena il dolor lo spirto altiero. Martir, Avversità, Fortuna, e Morte Non diviser le voglie insieme accese, Ch' Amor, Fede, e Ragion legar sì forte. Rispondo: l' alte tue parole intese, E servate da me, son fide scorte Per vincer quì del mondo empie contese. L'Alte virtù d' Enea superbe e sole Fan risonar quel chiaro almo intelletto; Ma se 'l Ciel dava al canto egual soggetto, Propria luce a quest' occhi era 'l mio Sole. Questo lume, che 'l mondo onora e cole, Dava cagion d' alzar suo grand' effetto; Nè tal splendor or cape in minor petto, Onde ciascun della sua età si dole. Non già, che la materia il nome eterno Toglia a sì degno Autor, nè a tali effetti Merto e ragion non faccian chiara istoria; Ma condur quest' in Ciel, non nell' inferno, Lodar vera virtù, non saggi detti Farian più chiara l' una e l' altra gloria.


ALma felice, se 'l valor, ch' eccede Nel mondo ogn' altro, ancor nel Ciel sublima, Come avesti tra noi la palma prima, Esser de' tua la più pregiata sede. Fin che l' immagin viva, e l' occhio riede, La bella tua memoria in alta cima Di quei chiari pensier, ch' an vera stima, Farà dell' opre degne immortal fede. Che nè invidia qua giù, nè là su merto Di fam' al mondo, e al Ciel di gaudio eterno, Il primo pregio la tua gloria tolse. Ragion l' afferra, e Amor lo mostra aperto, Che 'l tuo vivo splendor riluce interno Nel petto, ov' ogni error prima disciolse. MIser, che debbo altro, che pianger sempre? S' io miro la beltà, ch' in terra adoro, Le stelle, i bei rubin, le perle, e l' oro, Perchè la vaga luce il duol contempre; Raddoppia il mio martir, non par che 'l tempre, Ch' io senza speme miro 'l bel tesoro, Onde n' acquisto danno, e non ristoro, Sicchè convien piangendo io mi distempre. L' oro il laccio nel cor, i rubin fiamma, Lagrime amar le perle, e i dolci lumi Strali, ch' al petto anno infallibil segno: Sicchè 'l novo mirar di nuovo infiamma, E mirando convien, che mi consumi: Morir non posso, e tal viver disdegno.


AHi quanto fu al mio Sol contrario il Fato, Che con l' alta virtù dei raggi suoi, Pria non v' accese, che mill' anni e poi Voi sareste più chiaro, ei più lodato? Il nome suo col vostro stile ornato, Che dà scorno agli antichi, invidia a noi, A mal grado del tempo avreste voi Dal secondo morir sempre guardato. Potess' io almen mandar nel vostro petto L' ardor, ch' io sento, e voi nel mio l' ingegno, Per far la rima a quel gran merto eguale. Che così temo 'l Ciel non prenda a sdegno Voi, perchè preso avete altro soggetto; Me, ch' ardisco parlar d' un lume tale. QUanto invidio al pensier, ch' al Ciel invio, L' ali sì preste, ch' a lui non contende, Lo spazio, il giunger tosto al Sol, ch' accende Fra le vane speranze il voler mio. Potess' io almen tuffar nel cieco oblio La memoria del bene, ond' ora prende Tal forza 'l duol, che 'l cor non sempre intende, Quanto lunge dal ver vola il desio. Che pur qui va cercando i chiari raggi Negli occhi amati, nè ragion l' appaga, Che le dimostra più lucenti il Cielo. Ma 'l primo oggetto segue, e quei viaggi Son troppo erti al mio piè, finchè la vaga Aura vital sostien quest' uman velo.


SPerai, che 'l tempo i caldi alti desiri Temprasse alquanto, o da mortal affanno Fosse il cor vinto sì, che 'l settimo anno Non s' udisser sì, lungi i miei sospiri. Ma perchè 'l mal s' avanzi, o perchè giri Senza intervallo il Sole, ancor non fanno Più vile il core, o men gravoso 'l danno, Che 'l mio duol spregia tempo, ed io martiri. D' arder sempre piangendo non mi doglio; Forse avrò di fedele il titol vero, Caro a me sopra ogn' altro eterno onore. Non cambierò la fè, nè questo scoglio, Ch' al mio Sol piacque, ove fornire spero, Come le dolci già, quest' amare ore. ANima eletta, ch' anzi tempo spinta Dal propio merto, lieta al Ciel volasti, Se conforme al valor luce portasti, Ogn' altra stella fu adombrata e vinta. Ivi ti godi, e quì larga e distinta L' alta strada d' onor chiara mostrasti; Nè sol l' esempio raro a noi lasciasti, Ma l' immagin tua bella al cor depinta. Felice oggi è colui, che per l' altiere Orme s' invia, che sì lodata cura, S' ei ben non giunge al segno, eterno il rende. Mostrò il Ciel maggior forza, e la Natura Nuovo disegno, ch' oggi non comprende Petto mortal quelle tue glorie vere.


SOlco tra duri scogli e fiero vento L' onde di questa vita in fragil legno; L' alto favor, e 'l mio fido sostegno Tolse l' acerba morte in un momento. Veggio il mal grave, e 'l mio rimedio spento, E 'l mar turbato, e l' aere d' ira pregno, D' atra tempesta uno infallibil segno, E 'l valor proprio al mio soccorso lento. Non che sommerga le commosse arene Temo, nè rompa in perigliose sponde; Ma duolmi il navigar priva di spene. Almen, se Morte il vero porto asconde, Mostrimi il falso suo, che chiare e amene Mi saran le sue irate e torbid' onde. NEl dolce stato mio da molti amari Sospetti cinta, fra dubbiose spene E certo affanno, fra diletto e pene Sempre avean qualche nebbia i dì più chiari. Non fur sì larghi allor, ch' or tant' avari Deggian mostrarsi i Cieli, onde sostiene Intiero mal per l' imperfetto bene, Che già godeva il cor negli anni cari. Sotto sì fiera legge quel Signore Del danno liberal, dell' util parco, Che fa i giorni infelici, e liete l' ore, Al crudo regno suo per dolce varco Con frode ascosa, e sicurtà di fuore, M' indusse di fe nudo, e insidie carco.


QUand' io son tutta col pensier rivolta Ai raggi, al caldo del mio vivo Sole, A quelle chiare luci ardenti e sole, Ch' apparver qui tra noi sol' una volta; L' alma vede la sua sì bella, e ascolta Sì vere le divine alte parole, Che del legame suo s' affligge e dole, Non che sia quella dal suo nodo sciolta. Non piango, che 'l valor, l' alma virtute Degna scala del Ciel l' abbian gradito, Ove dell' alta speme il frutto coglie; Ma che tardi a venir la mia salute, Sicch' io vegga 'l bel loco, ov' egli è gito, E di vita, e di duol Morte mi spoglie. QUi fece il mio bel Sole a noi ritorno Di Regie spoglie carco, e ricche prede: Ahi con quanto dolor l' occhio rivede Quei lochi, ov' ei mi fea già chiaro il giorno! Di mille glorie allor cinto d' intorno, E d' onor vero alla più altiera Sede, Facean dell' opre udite intera fede L' ardito volto, il parlar saggio adorno. Vinto da' prieghi miei poi mi mostrava Le belle cicatrici, e 'l tempo, e 'l modo Delle vittorie sue tante, e sì chiare. Quanta pena or mi dà, gioja mi dava, E in questo, e in quel pensier piangendo godo Tra poche dolci, e assai lagrime amare.


PRia d' esser giunta in mezzo della strada Del nostro uman viaggio, il fin pavento, Ma sì soave alla memoria sento L' entrata, che quest' aspro ancor mi aggrada. E se dal peso avvien, ch' io pieghi, o cada, Lume mi scorge tal, che non men pento, Nè 'l desir, nè la forza unqua rallento, Anzi dietro al splendor convien, ch' io vada. Seco vissi io felice, ei mi scoperse I dubbj passi, ed or dal Ciel m' insegna Il sentier dritto coi vestigj chiari. Ei mi mostrò il principio, e 'l fin m' offerse Della vera salute, ei farà degna L' alma, che là su goda, e qua giù impari. QUal sacro don giammai, qual voler pio, Qual prego umil con pura fede offerto Potrà mostrarsi uguale al vostro merto, Signor, in parte, o almeno al pensier mio? Vittima è il proprio core, il qual sempr' io Purgo col pianto, a voi nudo ed aperto D' intorno; e dentro poi cinto e coperto Di fuoco acceso in fervido desio. Fuggì la verde speme, e 'l secco legno Dentro le fiamme si nodrisce in modo, Che senza incenerirsi arde ad ognora. M' accorgo ben, che 'l sacrificio è indegno A voi, Spirto divin, ma pur mi godo, Che con quanto più può l' alma v' onora.


ONde avvien, che di lagrime distilla Senza nuova cagion per gli occhi Amore Sì spessa pioggia, ed onde il tristo core Oggi più dell' usato arde e sfavilla? L' antica piaga Amor sì larga aprilla, Che non la fa maggior novel dolore; Nè puote tempo il mio gravoso ardore Accrescer dramma, nè scemar scintilla. Non ti sovvien l' antico mio pensiero, Rispose, che si compie oggi il quart' anno, Che ti coperse un doloroso manto? Conobbi allor, che la passion il vero Mostrava ai sensi, ond' era mio l' inganno, E rinforzai con più ragione il pianto. LAsciar non posso i miei saldi pensieri, Ch' un tempo mi nudrir, felice amando; Or mi consuman, misera cercando Pur quel mio Sol per strani alti sentieri. Ma tra falsi pensieri, e pianti veri, La cagion immortal vuol che obliando Ogn' altra cura, io viva al fin sperando Un giorno chiaro dopo tanti neri. Onde l' alto dolor, le basse rime Muove, e quella ragion la colpa toglie, Che fa viva la fede, e 'l duolo eterno. Infin all' ultim' ora quelle voglie Saran sole nel cor, che furon prime, Sfogando il foco onesto, e 'l duol interno.


QUel fior d' ogni virtute in un bel prato Con l' aura della mia gioiosa speme, Tal' odor mi diè già, che 'l dolce seme Fa il frutto amaro ancor soave e grato. Se n' è benigno, o pur contrario il Fato, Non si discerne infin all' ore estreme, Che se l' un mal s' allenta, l' altro preme, Sempre è dubbioso il nostro miser stato. Ma per cangiar di tempo, o di Fortuna Non fia cangiato in me l' alto pensiero Di lodar la cagion, piangere il danno. Dall' antica passion nacque sol' una Fede al mio petto, che non men sincero Del primo giorno sarà l' ultim' anno. PEnso per addolcire i giorni amari All' amata cagion far degna stima, Che viva in Cielo, e 'n terra ancor la prima Luce, che 'l secol nostro orni e rischiari. Tento i gravi martir, dogliosi e cari, Narrar piangendo, e disfogargli in rima; Prendo consiglio da color, che 'n cima D' alto saper son' oggi eccelsi e rari. Veggio, ch' una volubil ruota move L' instabil Dea, che per vie lunghe, o corte, Chi più lusinga, a maggior mal riserba: Ma non trovando al fin ragion, che giove All' alma, nel suo duol sempre proterva, Prego, che 'l pianto mio finisca Morte.


QUando 'l gran lume appar nell' Oriente, Che 'l negro manto della notte sgombra, E dalla terra il gelo, e la fredd' ombra Dissolve, e scaccia col suo raggio ardente; Dell' usate mie pene alquanto lente, Per l' inganno del sonno, allor m' ingombra, Ond' ogni mio piacer risolve in ombra, Quando da ciascun lato ha l' altre spente. O viver mio nojoso, o avversa sorte! Cerco l' oscurità, fuggo la luce, Odio la vita ognor, bramo la morte. Quel, ch' agli occhi altrui nuoce, a' miei riluce, Perchè chiudendo lor, s' apron le porte Alla cagion, ch' al mio Sol mi conduce. OCchi l' usanza par, che vi sospinga Al pianger vostro, ed all' altrui dolore; Mirando la cagion, cresce il vigore, Non la mirando voi, che vi lusinga? Anzi scorger ne par, che non la finga, Ma sempre interna ne dimostra Amore L' immagin bella, e di mandarla al core Sì bella, e viva a forza ne costringa. Anzi del veder vostro cieco insano Per una immagin finta il cor s' infiamma All' usato desir con falsa speme. Forse il cor crede, e noi miriamo in vano, Ma questa è colpa ugual, ei nella fiamma, E noi nel pianto la purghiamo insieme.


VOi, che miraste in terra il mio bel Sole, Deh fate agli altri che nol vider fede, Che, come il suo valor ogn' altro eccede, Così son le mie pene al mondo sole. Quanto ei valse, e non men l' alma si duole, Chi la sua vita vide, or la mia vede; Chi quella gloria, or questa pena crede, Che 'l Ciel senz' altr' eguali ambe le vuole. Ond' ei m' appar sovente in sonno, e dice: Nasce un miracol novo dal tuo danno, Che spesso in Ciel mi può far men felice. Più novo è assai, dich' io, ch' al breve inganno D' un nostro sguardo, che è nel sonno, lice, Tenermi viva in sì mortal affanno. POichè tornata sei, anima bella, Alla porta celeste, onde partisti, Quanto lasciati hai noi miseri e tristi, Tanto lieta hai nel Ciel fatt' ogni stella. Non piango già il tuo ben, ma l' empia e fella Sorte del mondo, il qual, mentre vivesti, Col dotto stil così onorato festi, Che non fu ugual in questa etade, o in quella. Rimaso è senza te povero, e privo D' ogni sua gloria, e per disdegno e doglia Sommerso ha quasi Roma il Tebro altiero. Sol per te ha fatto quel, che per lo Divo Cesar già fece, e a par di quella spoglia Pianto ha la tua beato almo sincero.


LE tante opre divine, e 'l sacro impero In terra, e 'n Ciel del nostro eterno Sole Scrisser quei santi in semplici parole, Per non giunger con arte forza al vero. Mossa da simil fede io scrivo; e spero, Che se le lodi vostre rare e sole, Qual posso, io canto, o come 'l ver le vuole, Non se ne sdegni il vostro animo altero. Che quasi perla candida, ch' in oro Sottil s' appoggia sì, ch' altra vaghezza Non può impedir la sua più chiara luce; La vostra vera gloria in quell' altezza, Che merta cosi ricco e bel tesoro, Dentro al mio basso stil sola riluce. S' Io non depingo in carte il sopr' umano Del Roman nostro Padre almo valore, Interna carità, pietoso amore, Fa mancar il pensier, cader la mano. Poscia alle glorie sue l' umil e piano Mio stil non giunge, e 'l casto amico ardore Richiama l' alma accesa, e i giorni e l' ore Vuol, ch' io consumi lagrimando in vano. Toglie all' amato Sol la luce altera Il canto mio, ma l' amorosa forza Contra ragion la cieca voglia spinge. Diversa passion per l' un rinforza, E per l' altro il desio raffrena e stringe, Ma questa e quella fiamma io serbo intera.


QUal uom, cui folta nebbia al viso ha spente L' orme del chiaro suo noto viaggio; Ma dal piè avvezzo, e dal giudizio saggio, Quasi cieco condur dritto si sente; Tal io già alfin della mia voglia ardente, Vidi asconder da Morte il fido raggio, Scorta del viver mio; ma pur sempre aggio Dell' alto esempio suo chiara la mente. Atra notte di fuor, dentro bel giorno Scorgo, onde l' alma desiosa e lieta Sempre si volge al mio celeste segno. Così senza girar gli occhi d' intorno, Quanto posso leggera, all' alta meta, Chi mi scuopre il mio Sol, correr m' ingegno. DI quella cara tua serbata fronde, Che a rari antichi, Apollo, ampia corona Donasti, allor che all' almo tuo Elicona Gustar l' acque più chiare e più profonde. Or che 'l gran Giovio nell' estreme sponde Del patrio Oceano all' Indio mar risuona Con le luci d' onor, che si ragiona, Le prime glorie altrui girli seconde; Orna di propria man la fronte altiera, Che la sua dotta Musa oggi è sol quella, Che rende il secol nostro adorno e chiaro. Questo al Sol vivo mio sua luce intiera Serberà sempre, e quel soggetto raro Arà sì degna istoria, eterna e bella.


SE ben a tante gloriose e chiare Doti di quello invitto animo altiero Volgo la mente ognor, fermo il pensiero, Non fur l' altre di fuor men belle e rare. Pur perchè quelle son, queste n' appare, Che sian più grate, il casto nostro e vero Parrebbe fusse Amor falso e leggiero, Se non fusser l' interne al cor più care. Ma quanto mai di buon visse fra noi, Quanto di bel per occhio uman si scorse, Anzi la virtù vera, e la beltade; In lui rifulse sì, che tutti voi, Che lo miraste, or più vivete in forse, S' ebbe tal gloria la più chiara etade. LA mia divina luce, e doppia scorta Dell' alma in questa, ed in quell' altra vita, Qui con l' esempio al vero onor m' invita, E là col bel pensier sempre la porta. All' una, e l' altra gloria apre la porta, E se dai passi miei fosse seguita, Io goderei là su quell' infinita, E questa al fin mortal saria men corta. S' ella scorgeva un intelletto uguale Al lume suo, l' avria condotto in parte, Che saria là beata, e quà felice. Ma 'l Ciel sì largamente non comparte Le grazie sue, nè al mio 'mperfetto lice Aver per guida un Sol, per volar l' ale.


SE i chiari spiriti, ove mostrò Natura L' ultima forza sì, che inteser quanto Circonda il Ciel col suo stellato manto, L' ordine d' esso, il moto, e la misura, E gli altri poi, che con la mente pura Alzan sopra di se se stessi tanto, Ch' ebber la vera fede, e 'l lume santo Senza dar punto al viver basso cura; Avessin del mio Sol mirato i rai, Quei primi avrian da sue grand' opre inteso, Che reggeva il bel corpo alma immortale: Questi del ver con maggior fiamma acceso Il cor, veggendo un tal miracol, quale Fra gli umani qua giù non fu giammai. S' Io potessi sottrar dal giogo alquanto, Madonna, il collo, e volger i pensieri Dalla mia luce altrove sciolti e 'ntieri, Gli porrei in voi, volgendo in riso il pianto. Farei dolce lo stil, soave il canto, Per dir de' vostri onori i pregi altieri, Che l' alte sue virtù son regni veri, Non corona, nè scettro, o Real manto. Ma a voi fu 'l Ciel sì largo, e a me la stella Sì parca, che s' oppon tosto il mio Sole Tra 'l vostro Paradiso, e gli occhi miei. Ei ritien la mia vista, e come suole L' affrena in lui, per non veder men bella La vostra lode, e torme i cari omei.


SPense il dolor la voce, e poi non ebbe Per sì bella cagion lo stile accorto, Ma dell' error palese ascosa porto La cagion, poscia al cor tanto ne increbbe. E 'l tristo canto, che col tempo crebbe, Più noja altrui, ch' a me stessa conforto Credo, che porga, ed al vero vien corto, Che per lo suo miglior tacer dovrebbe. Nè giova a me, nè a quel mio lume santo, Che al suo valor, ed al tormento è poco, Quanto può dir chi più Elicona onora. Tempo è, ch' ardendo dentro ascoso il foco, Mai sempre sì di fuor rasciughi il pianto, Che sol d' intorno al cor rinasca e mora. QUal Tigre, dietro a cui le invola e toglie Il caro pegno (o mia dogliosa sorte!) Cors' io seguendo l' empia e dura Morte Ricca allor dell' amate e care spoglie. Ma per colmarmi il cor d' interne doglie, Sdegnosa all' entrar mio chiuse le porte, Che con far nostre vite manche e corte, Non empia le bramose ingorde voglie. Vuol troncar l' ali ai bei nostri desiri, Quand' han preso spedito e largo volo, Per gir del cader loro alta e superba. Uopo non l' è, ch' a numer grande aspiri Certa d' averne tutti; elegge solo L' ore più dolci per parer più acerba.


QUando del suo tormento il cor si duole, Sicch' io bramo il mio fin, timor m' assale, E dice: il morir tosto a che ti vale, Se forse lungi vai dal tuo bel Sole? Da questa fredda tema nascer suole Un caldo ardir, che pon d' intorno l' ale All' alma, onde disgombra il mio mortale, Quanto ella può da quel, che 'l mondo vuole. Così lo spirto mio s' asconde e copre Quì dal piacer uman, non già per fama, O van grido, o pregiar troppo se stesso. Ma sente 'l lumo suo, che ognor lo chiama, E vede il volto, ovunque mira, impresso, Che gli misura i passi, e scorge l' opre. Spirti felici, ch' or lieti sedete Tra l' alme Muse, e di quel sacro monte V' è noto il fondo, e son le voglie pronte Venute alfin dell' onorata sete; D' un bel desir pietosi omai porgete Le vostre destre a me, ch' intorno al monte Cercando vo con vergognosa fronte L' alma, che scorge il ben, ch' or vi godete. Non ch' io pensi dar luce al chiaro Sole, In cui mi specchio, nè ch' un marmo breve Non chiuda il nome mio col corpo insieme; Ma che innanzi a que' rai non sian di neve Tante amorose mie basse parole, Mentre sfogo il dolor, che 'l cor mi preme.


VId' io la cima, il grembo, e l' ampie falde Del monte altier, che 'l gran Tifeo nasconde, Fiammeggiar liete, e le vezzose sponde Del lito bel, di lumi ornate e calde. Per le tue glorie, che fien chiare e salde, Mentre stabil la terra, e mobil l' onde Vedran, senza timor d' esser seconde, Sicchè tal piaga il mondo unqua risalde. Ovunque mi volgea, trionfo novo Scorgea per l' opre degne, e tutt' intorno Dell' alto tuo valor lodi immortali. Nè questo, Signor mio, fu solo un giorno, Ma gli anni tuoi sì ben disposti io trovo, Che nel gran merto i dì fur tutti uguali. RAmi d' un alber santo, e una radice Ne diede al mondo; ma son chiare e intere L' alme tue frondi, e le mie manche e nere, Onde diversi frutti Amor n' elice. Ben fuora a par di lor suo stil felice, S' io per lui degna scorta all' alte spere Fuss' io a Parnaso, l' altre glorie vere, Come agli amanti Laura e Beatrice. Sicchè per far eterna qui memoria Di lui, volga il purgato e raro stile A tal, ch' allarghi il volo ai bei pensieri. Che poggiando ognor più sua immortal gloria, Cader non può la mia depressa e umile, Poi del suo onor vanno i miei spirti altieri.


SE l' empia invidia asconder pensa al vostro Lume, mio Sol, un raggio, allora allora Di sette altri maggior v' adorna e onora, Quasi nova Idra, e bella al secol nostro. Con chiare voci, e con purgato inchiostro Ogni spirto gentil, finchè l' Aurora, Dove 'l Sol cade, il lume eterno adora, Com' idol sacro, o divin raro mostro. E quel cieco voler, che non intende L' altiera luce, u' più celar la crede, Più la discopre, e se medesmo offende. L' occhio all' oggetto bel conforme il vede Sempre più chiaro; onde per voi s' accende A virtù il buono, e 'l suo contrario cede. SE quel superbo dorso il monte sempre Sostien, perch' aspirare al Ciel gli piacque, Da peso e fuoco oppresso, e cinto d' acque Arde, piange, e sospira in varie tempre; E' degno, che 'l passato duol contempre Il presente gioir; che Tifeo nacque Per alte imprese, e a forza in terra giacque: Non convien bel desir morte distempre. Or gli dà il frutto la smarrita speme, Da cui può aver sì lunga e chiara istoria, Che compensi il piacer l' avute pene. Non cede il carco, che felice il preme, (Se nei spirti divini è vera gloria) A quel, che 'l vecchio Atlante ancor sostiene.


DI vaga Primavera i più bei fiori; Di rare gemme il più ricco tesoro; Delle pregiate vene il più fin oro Perdono col bel volto i proprj onori. Che al chiaro lampeggiar di quei colori, Par di celeste man l' alto lavoro, Là dove gravità, e l' umil decoro Empion gli uomini, e i Dei d' intensi ardori. Io miser, che mirarla osai per farmi Immortal col morir, l' audace impresa, Nè più grave martir toglie il timore. Nè posso, o voglio di speranza aitarmi, Anzi ognor giungo foco all' alma accesa, Che bel fin fa, chi bene amando more. DI lagrime, e di foco nutrir l' alma, Con secca speme rinverdir la voglia, Legar di nuovo il cor, quando discioglia Segno maggior la vista altiera ed alma, M' insegna Amor, e agevolar la salma, Mentre più alto il bel pensier m' invoglia, E nel dolce cader scemar la doglia, Perch' abbia altrui del mio languir la palma. Soave cibo mi è il pianto, e l' ardore, Le perdute speranze un giusto freno, Che indietro volge il già corso desire. Il tormento m' apporta largo onore, Che per virtù del bel lume sereno Di pari alla mercè piace il martire.


PEnsier nell' alto volo, ove tu stendi L' audaci penne, il mio valor non sale; Onde perder l' imprese, ed arder l' ale Saria il fin del principio, ch' ora intendi. Poi con l' ardito vaneggiar m' accendi Sì, ch' io consento il bel lume immortale Mirar con l' occhio mio debole e frale, Che 'l vigor perde, ove tu solo ascendi. Desio non ho, ch' aspiri al gran disegno, Che da radice è svelta mia speranza, Volto è in contrario ogni benigno lume. Arda il cor pur senza mostrarmi un* Original has "nn". segno, Ascondasi il martir, ch' ogn' altro avanza, Alma taci, ed adora il sacro Nume. SE all' alto vol mancar l' ardite penne D' altro conteste, che di fragil cera, Colui, ch' accende in Ciel la quinta sfera, Dal sommo Padre tal decreto ottenne. Quel cerchio invidia tal mai non sostenne, Che di fama e virtù gloria sì vera Accolta in un soggetto fosse intera, Miracol solo, ch' ai dì nostri avvenne. Nè l' un fu ardito in guerra armato opporse, Tanto lume divin scorger gli parve, Nè l' altro irato in lui folgor contorse. Morte mandar con sì fallaci larve, Che lieta e inerme all' incontra gli corse: Non cadde già, ma dal mondo disparve.


QUando più stringe il cor la fiamma ardente, Corro all' alme faville, ond' esce il foco, Ivi più ognor m' accendo, ivi m' alloco, E per sì dolce ardor l' alma il consente. D' appressarsi al suo mal rimedio sente; Spregia il martir per appregiar il loco; Alla cagion si volge, e prende in gioco Il grave duol dell' affannata mente. Nasce dal vivo lume un raggio tale, Che di ricca speranza ognor m' adorna, E poi mia fede in lieto fin predice. Chi non adora un valor senza uguale? Chi non contempla un Sol, che sempre aggiorna? Chi non ammira sì nuova Fenice? AMor mi sprona, e in un tempo m' affrena, Lo star mi strugge, e 'l fuggir non m' aita, Ugualmente mi spiace morte e vita, Giusto duol certo a lamentar mi mena. Questa nuova tra noi del Ciel Sirena, Che per cosa mirabile s' addita, Qual io la vidi in su l' età fiorita, Sempre m' è innanzi per mia dolce pena. La divina incredibile bellezza Raddoppia all' alta impresa il mio valore, Che il fren della ragion Amor non prezza. E dolendo addolcisce il mio dolore, Nè l' alma mia punto di sdegno sprezza, Che tal fin fa, chi ben amando more.


VEggio al mio danno acceso e largo il Cielo, E al mio giusto desio sdegnoso e parco, E del gran mal, c' ho sempre il petto carco, Mostro la minor parte, e l' altre celo. Nè spero omai, ch' al variar del pelo, Girando il dì, ch' a mio mal grado varco, Cangi l' alma lo stile, o 'l grave incarco, Men nojoso sopporti il mortal velo. Beata lei, che con un fuoco estinse L' altro più interno, e dall' ardita Morte Fu 'l martir lungo in sì brev' ora spento. Ma timor dell' eterne fè più corte Le pene sue; lo mio furor distrinse Maggior paura, e non minor tormento. NElla dolce stagion non s' incolora Di tanti fior, ovver frondi novelle La terra, nè sparir fa tante stelle Nel più sereno Ciel la vaga Aurora; Con quanti alti pensier s' erge ed onora L' anima accesa, ricca ancor di quelle Grazie del lume mio, ch' altiere e belle Mostra ardente memoria d' ora in ora. Tal potess' io ritrarle in queste carte, Qual impresse l' ho in cor, che mille amanti Infiammerei di casti fuochi eterni. Ma chi potria narrar l' alme cosparte Luci del mortal velo, e quelli interni Raggi della virtù sì vivi e santi?


FElice Donna, a cui l' animo vinse Grave dolor, ch' al gentil petto escluse Desio di vita, e le speranze infuse Nel cieco oblio d' ogni timor ti cinse; Del sangue altrui il sposo amato tinse Il manto allor, che dal martir confuse Fur le ragioni in te, le voci chiuse, Ch' Amor nell' alma il maggior mal depinse; Quante morti ti tolse, e lunghe e vere, Quell' una, che ti diede in un momento Per fuggir grave mal piume leggiere? Ma io, che maggior danno or provo, or sento, Non dò al mio chiaro Sol voglie sì altiere, Ch' a mio mal grado il cor vince il tormento. COn far le glorie tue, Signor, più conte Sei or del nostro nome ampio ristoro, Di lode ornando noi, d' eterno alloro Cingi a te stesso l' onorata fronte. L' animo invitto, e l' alte forze pronte Sempr' al maggior periglio, e gemme ed oro Spregiar non ti bastò, ch' altro tesoro Trovasti con Apollo al sacro fonte. Ben ti rende sicuro il tuo valore, E di gran lunga avanzi ogni mortale, Ond' umiltà d' invidia scarco esalti. Riserbato t' ha 'l Ciel per nostro onore Tanti, e tant' anni, ch' un soggetto tale Conviensi a' tuoi pensier felici ed alti.


QUel Sol, che su dal Ciel l' alma innamora, Tosto per l' onorata angusta strada Corse, per far del mondo ogni contrada Ricca della sua gloria in sì breve ora. Non era in mezzo l' emisperio ancora Il suo bel giorno, e dell' invitta spada Ermo tremava e Nilo: abi come aggrada A morte, ch anzi tempo ogni ben mora! Occaso non gli diè, che sempre in Orto Vivra la luce sua, per cui rinasce Virtude al cor, se dal martir è spenta. Giunse ei qui dell' onor al vero porto, Or gode il Ciel in Dio l' alma contenta, E la mia quì del suo valor si pasce. DOnna secura, accesa, e dall' errante Volgo lontana in solitario albergo, Lieta mi par veder lasciando a tergo Quanto non piace al primo eterno amante. E fermar col desio le sacre piante Sovra un gran monte, ond' io mi specchio e tergo Nel bell' esempio, e 'l pensier drizzo ed ergo Dietro l' orme beate, e l' opre sante. L' alpestre rupe sua, quest' aspro scoglio M' appresenta talor, ma lungi il Sole, Che vicin l' infiammava, il cor mi scalda. Pur fermo in lei la speme, come soglio, Che de' bei crin nella dorata falda Copra le colpe mie, quand' ella vuole.


QUel bel Ginebro, cui d' intorno cinge Irato vento, nè perciò le foglie Sparge, nè disunisce, anzi raccoglie La cima, e i rami, e 'n se stesso si stringe; L' animo stabil mio, Donna, depinge Combattuto ad ognor; ma se discioglie Fortuna l' ira, ei la raffrena e toglie, Sol vincendo il dolor, che la sospinge, Con chiudersi, e coprir nei gran pensieri Del Sol amato, nel cui lume involta Dall' aspra guerra altiera l' alma riede. A quell' arbor Natura insegna a' fieri Nemici contrastare, e a me la molta Ragion vuol, che nel mal cresca la fede. QUante virtuti qui fra noi comparte Il Ciel, allor che con benigni aspetti Suoi lumi accende a far sì degni effetti, Che 'l poter suo divin dimostra in parte; D' intorno lampeggiar chiare consparte Al mio Signor vid' io; voi Spirti eletti, Che formate sì bei rari concetti, Onorate di lui le vostre carte. Ei sia degno soggetto ai sacri inchiostri, Che dal lume divin più larga vita Avran i bei famosi studi vostri. Che se poca mortal luce finita Vi sprona or tanto da' superni chiostri, Quanto accender vi de' luce infinita?


ITe, Signor, per l' orme belle, ond' io Rivegga intero in voi quel lume chiaro Del mio Sol vivo; e questo parco e avaro Ciel venga a forza largo al voler mio. Spregiato ha 'l vostro ardir l' acerbo e rio Fato de' vostri, e con l' invitto e raro Valor, a chi più il vede ognor più caro Tolto ha di maggior luce ogni desio. Or che quel Sol, che solo in voi risplende, Non mostra in terra i divin raggi ardenti, Ma con lume maggior là su contende; Odo, che 'l vostro core avendo spenti I contrasti e l' insidie, s' erge e accende Di sempre farsi conto all' alte menti. TRalucer dentro al mortal vel consparte, Quasi lampo, cui serra un chiaro vetro, Mille luci vid' io, ma non mi spetro Dal mondo sì, ch' io le depinga in carte. Amor nell' alma accesa a parte a parte Vere l' impresse già molt' anni a dietro, Ond' ei spinge il desio, ed io m' arretro Dall' opra, ch' ogni ardir da se diparte. E s' avvien pur, ch' io ombreggi un picciol raggio Del mio gran Sol, da lagrime e sospiri, Quasi da pioggia, o nebbia par velato. Se in amarlo fu audace, in tacer saggio Sia almeno il cor, che omai sdegna il beato Spirto, che mortal lingua a tanto aspiri.


ALma cortese, che con dolci accenti Lungi da Lete il tuo bel Sole onori, E di ogni sua vittoria eterni allori Consacri in carte alle future genti; Per sparger, questi di virtute ardenti Tutti i suoi raggi, e fur di lui minori Destin, Fato, momento, umani errori, E ciò ch' apporta di fortuna i venti. Sol una nube amato lume infesta, Par che contrasti, e gir non lasci intiero Là dove il porta il tuo leggiadro stile. Ciò fu, che 'l bel paese, u' se di questa Terrena cinse, e d' un bel nodo altiero Troppo ebbe (mentr' ei ne fe giorno) a vile. SIccome augelli semplicetti e puri, Lungi dal suo natio almo ricetto Volano al Ciel cercando a lor diletto Piagge più verdi, e fonti più sicuri; Così lasciando gli altri giorni oscuri Dopo le spalle, e ogni mortal difetto, Con pari passo a fido albergo eletto Moveste, che non Tempo, o Morte furi. Ed a se perseguitarvi anch' io già mosso, Ma inviaia n' ebbe il mio destin nemico; In tanto vi perdei miser di vista. Lasso, che penso! del mortal mio scosso Sol fui, perch' io restassi più mendico, Menando vita tenebrosa e trista.


I Nove cori, e non le nove altere Sorelle, il pensier scorge, e in mezzo ardente Sol, che gli alluma intorno, apre la mente Umile alle scienze eterne e vere. Accolta poi fra le divine schiere Tanto alzar sovra se l' alma si sente, Che fuor del natural corso sovente Segue quel Sol con piume alte e leggiere. E se non ch' ella pellegrina e indegna Del ben di tanta patria, forse Amore Potrebbe farla quì chiara e felice. Ben fa quel foco, che pien d' ogni onore, O vaghezza mortal, si duole e sdegna Quasi arbor, che non vien da sua radice. MOlza, ch' al Ciel quest' altra tua Beatrice Scorgi per disusate strade altiere, Tali esser den l' immortal glorie vere, Gran frutto eterno trar d' umil radice. Lieve fora a cantar, ch' una Fenice Viva, e ch' an lume le celesti sfere; Far bianchi i corvi, e le colombe nere, Opre son del tuo stil chiaro e felice. Più onor dell' altro avrai, che quella al Cielo Tirò l' amante, e fuor d' umana scorza Condusse l' opra santa, e 'l bel desio. Ma a te convien di casto ardente zelo Infiammar l' oste tuo, e quasi a forza Poscia condurlo fuor d' eterno oblio.


SPirto gentil, che sei nel terzo giro Del Ciel fra le beate Anime asceso, Scarco del mortal peso, Dove premio si rende a chi con fede Vivendo fu d' onesto amore acceso; A me, che del tuo ben non già sospiro, Ma di me, ch' ancor spiro; Poichè al dolor, che nella mente siede Sopra ogn' altro crudel non si concede Di metter fine all' angosciosa vita; Gli occhi, che già mi fur benigni tanto, Volgi ora ai miei, ch' al pianto Apron sì larga, e sì continua uscita: Vedi, come mutati son da quelli, Che ti solean parer già così belli. L' Infinita ineffabile bellezza, Che sempre miri in Ciel, non ti distorni, Che gli occhi a me non torni, A me, che già mirando ti credesti Di spender ben tutte le notti e i giorni; E se 'l levarli alla superna altezza Ti leva ogni vaghezza, Di quanto mai qua giù più caro avesti; La pietà almen cortese mi ti presti, Ch' in terra unqua non fu da te lontana: Ed ora io n' ho d' aver più chiaro segno, Quando nel divin Regno Dove senza me sei, n' è la fontana. S' Amor non può, dunque pietà ti pieghi D' inchinar il bel sguardo alli miei preghi.


Io sono, io son ben dessa; or vedi come M' ha cangiato il dolor fiero ed atroce, Ch' a fatica la voce Può di me dar la conoscenza vera. Lassa, ch' al tuo partir, partì veloce Dalle guancie, dagli occhi, e dalle chiome Questa, a cui davi nome Tu di beltate, ed io n' andava altera, Che me 'l credea, poichè in tal pregio t' era. Ch' ella da me partisse allora, ed anco Non tornasse mai più, non mi dà noja, Poichè tu, a cui sol gioja Di lei dar intendea, mi venne manco, Non voglio, no, s' anch' io non vengo, dove Tu sei, che questo, od altro ben mi giove. Come possibil è, quando sovviemme Del bel guardo soave ad ora ad ora, Che spento ha sì breve ora; Ond' è quel dolce e lieto riso estinto, Che mille volte non sia morta, o muora? Perchè pensando all' ostro, ed alle gemme, Ch' avara tomba tiemme, Di ch' era il viso Angelico distinto, Non scoppia il duro cor dal dolor cinto? Com' è ch' io viva, quando mi rimembra, Ch' empio sepolcro, e invidiosa polve Contamina e dissolve Le delicate alabastrine membra? Dura condizion, che Morte è peggio, Patir di morte, e insieme viver deggio.


Io sperai ben di questo carcer tetro, Che qua giù serra ignuda anima sciorme, E correr dietro all' orme Degli tuoi santi piedi, e teco farmi Delle belle una in Ciel beate forme, Ch' io crederei, quando ti fossi dietro, E insieme udisse Pietro, E di fede, e d' amor di te lodarmi, Che le sue porte non potria negarmi. Deh perchè tanto è questo corpo forte, Che nè la lunga febbre, nè 'l tormento, Che maggior nel cor sento, Potesse trarlo a destinata morte? Sicchè lasciato avessi il mondo teco, Che senza te, ch' eri suo lume, è cieco. La cortesia, e 'l valor; che stati ascosi Non so in qual antri, e latebrosi lustri Eran molt' anni e lustri; E che poi teco apparvero, e la speme, Che in più matura etade all' opre illustri Pareggiassi de' Publij quei famosi Tuoi fatti gloriosi Sicch' a sentire avessino l' estreme Genti, ch' ancor viva di Marte il seme; Non pur non veggio, nè da quella notte, Che agli occhi miei lasciasti un lume oscuro; Non più veduti furo, Che ritornaro a loro antiche grotte; E per disdegno congiuraron, quando Del mondo uscir, torne perpetuo bando.


Del danno suo Roma infelice accorta Dice: poichè costui Morte mi tolli, Non mai più i sette colli Duce vedrà, che trionfando possa Per Sacra via trar catenati i colli. Dell' altre piaghe, ond' io son quasi morta, Forse sarei risorta; Ma questa è in mezzo 'l cor quella percossa, Che da me ogni speranza ne ha rimossa. Turbato corse il Tebro alla marina; E ne diè annuncio ad Ilia sua, che mesta Gridò piangendo: or questa Di mia progenie è l' ultima ruina. Le sante Ninfe, e i boscherecci Dei Trassen il grido a lagrimar con lei. E si sentir nell' una e l' altra riva Pianger Donne e Donzelle, e figlie e matri, E da' purpurei Patri Alla più bassa plebe il popol tutto, E dire: o patria questo dì fra gli atri D' Allia, e di Canne ai posteri si scriva; Quei giorni, che cattiva Restasti, e che 'l tuo Imperio fu distrutto, Nè più di questo son degni di lutto; E 'l desiderio, Signor mio, e 'l ricordo, Che di te in tutti gli animi è rimaso, Non trarrà già all' Occaso Di questo il violente Fato ingordo; Nè potrà far, mentre che voce, o lingua Forman parole, il tuo nome s' estingua.


Pon questa appresso all' altre pene mie, Che di salir al mio Signor, Canzone, Sì ch' oda tua ragione, D' ogn' intorno ti son chiuse le vie. Piacesse a' venti almen di rapportarli, Ch' io di lui sempre pensi, e pianga, e parli. MEntre la nave mia lunge dal Porto Priva del suo Nocchier, che vive in Cielo, Fugge l' onde turbate in questo scoglio, Per dare al lungo mal breve conforto, Vorrei narrar con puro acceso zelo Parte della cagione, ond' io mi doglio; E 'l peso di color, che dall' orgoglio Di Fortuna il valore in alto vola, Uguagliando al mortal mio grave affanno, Veder, se maggior danno Diletto, e libertade ad altra invola, O s' io son nel tormento al mondo sola. Penelope, e Laodomia un casto ardente Pensier mi rappresenta, e veggio l' una Aspettar molto in dolorose tempre, E l' altra aver con le speranze spente Il desir vivo, e d' ogni ben digiuna Convenirle di mal nodrirsi sempre, Ma par la speme a quella il duol contempre, Questa il fin lieto fa beata; ond' io Non veggio il danno lor mostrarsi eterno: E 'l mio tormento interno Non raffrena sperar, nè toglie oblio, Ma cel tempo il mio duol cresce, e 'l desio.


Ariadna, e Medea dogliose, erranti Sento di molto ardir, di poca fede Dolersi, in van biasmando il proprio errore; Ma se il volubil Ciel gl' infidi amanti Diero a tanto servir aspra mercede; Disdegno, e crudeltà tolse il dolore; E 'l mio bel Sol continua pena e ardore Manda dal Ciel co' rai nel miser petto Di fiamma oggi, e di fede albergo vero, Nè sdegno unqua il pensiero, Nè speranza, o timor, pena, o diletto, Volse dal primo mio divino oggetto. Porzia sopra ad ogni altra mi rivolse Tanto al suo danno, che sovente insieme Piansi l' acerbo martir nostro uguale. Ma se breve ora forse ella si dolse, Quant' io sempre mi doglio, poca speme D' altra vita miglior le diede altr' ale; E 'l mio grave dolor vivo e immortale Siede nel core, e dell' alma serena Vita immortal questa speranza toglie Forza all' ardite voglie; Nè pur questo timor d' eterna pena, Ma d' ir lunge al mio Sol la man raffrena. Poscia accese di veri e falsi amori Ir ne veggio mill' altre in varia schiera, Ch' a miglior tempo lor fuggì la spene; Ma basti vincer questi alti e maggiori, Ch' a tanti pareggiar mia fiamma altera Forse sdegnò quel Sol, che la sostiene; Che quante io leggo indegne, o giuste pene Da mobil fede, o impetuosa Morte, Tutte spente le scorgo in tempo breve; Animo fiero, o leve Aprì allo sdegno, od al furor le porte, E fè le vite alle lor voglie corte.


Onde a che volger più l' antiche carte De' mali altrui, nè far dell' infelice Schiera moderna paragone ancora, Se inferior nell' altra chiara parte, E 'n questa del dolor, quasi Fenice Mi sento rinnovar nel foco ogn' ora? Perchè 'l mio vivo Sol dentro innamora L' anima accesa, e la cuopre, e rinforza D' un schermo tal, che minor luce sdegna, E su dal Ciel m' insegna D' amare, e sofferir, ond' ella a forza In sì gran mal sostien quest umil scorza. Canzon tra' vivi quì fuor di speranza Va sola, e dì, ch' avanza Mia pena ogn' altra; e la cagion può tanto, Che m' è Nettare il foco, Ambrosia il pianto.


QUando miro la terra ornata e bella Di mille vaghi e odoriferi fiori; E siccome nel Ciel luce ogni stella, Così splendono in lui vari colori; Ed ogni fiera solitaria e snella Mossa da natural instinto, fuori De' boschi uscendo, e delle antiche grotte Va cercando il compagno giorno e notte; E quando miro le vestite piante Pur di bei fiori, e di novelle fronde, E degli uccelli le diverse, e tante Odo voci cantar dolci e gioconde; E con grato romor ogni sonante Fiume bagnar le sue fiorite sponde; Talchè di se invaghita la Natura Gode in mirar la bella sua fattura; Dico, fra me pensando: quanto è breve Questa nostra mortal misera vita; Pur dianzi tutta piena era di neve Questa piaggia or sì verde, e sì fiorita; E d' un' aer turbato, oscuro e greve La bellezza del Ciel era impedita; E queste fiere vaghe ed amorose Stavan sole fra monti, e boschi ascose.


Nè s' udivan cantar dolci concenti Per le tenere piante i vaghi uccelli; Che dal soffiar di più rabbiosi venti S' atterran secche queste, e muti quelli: E si veggion fermar i più correnti Fiumi dal ghiaccio, e piccioli ruscelli: E quanto ora si mostra e bello e allegro, Era per la stagion languido ed egro. Così si fugge il tempo, e col fuggire Ne porta gli anni, e 'l viver nostro insieme; Che a noi (colpa del Ciel!) di più fiorire, Come queste faran, manca la speme. Certi non d' altro mai, che di morire, O d' alto sangue nati, o di vil seme; Nè quanto può donar benigna sorte Farà verso di noi pietosa morte. Anzi quella crudel ha per usanza I più famosi, e trionfanti Regi, Allor ch' anno di vincere speranza, Privar di vita, e degli ornati fregi; Nè lor giova la regia alta possanza, Nè gli avuti trofei, nè i fatti egregi; Che tutti uguali in suo poter n' andiamo, Nè più di ritornar speranza abbiamo. E pur con tutto ciò miseri e stolti, Del nostro ben nemici, e di noi stessi In questo grave error fermi e sepolti Cerchiamo il nostro male, e i danni espressi; E con molte fatiche, e affanni molti, Rari* Original has "R r". avendo i piacer, i dolor* Original has "do or". spessi, Procacciamo ai far noiosa e greve La vita, che troppo è misera e breve.


Quello per aver fama in ogni parte Nella sua più fiorita e verde etade Seguendo il periguioso e fiero Marte, Or fra mille saette, e mille spade Animoso si caccia, e con nuova arte, Mentre spera di farsi alle contrade Più remote da noi altri immortale, Casca assai più, ch' un fragil vetro e frale. Quell' altro ingordo d' acquistar tesori Si commette al poter del mare infido; E di paura pieno, e di dolori Trapassa or questo, ora quell' altro lido: E spesso dell' irate onde i rumori Gli fan mercè chiamar con alto grido; E quando ha d' arricchir più certa speme, La vita perde, e la speranza insieme. Altri nelle gran Corti consumando Il più bel fior de' suoi giovanil anni; Mentre utile ed onor vanno cercando, Sol ritrovano invidia, oltraggi, e danni: Mercè d' ingrati Principi, che in bando Post' hanno ogni virtù, e sol d' inganni, E di brutta avarizia han pieno il core, Publico danno al mondo, e disonore. Altri poi vaghi sol d' esser pregiati, E di tener fra tutti il primo loco; E per vestirsi d' oro, e gire ornati Delle più care gemme, a poco a poco Tiranni della patria odiosi e ingrati Si fanno, ora col ferro, ora col foco; Ma al fin di vita indegni, e di memoria Son morti, e col morir muor la lor gloria.


Quanti son poi, che divenuti amanti Di due begli occhi, e d' un leggiadro viso, Si pascon sol di dolorosi pianti, Da se stesso tenendo il cor diviso: Nè gioja, nè piacer sono bastanti Trarli dal petto, se non finto riso; E se lieti talor si mostran fuori, Anno per un piacer mille dolori. Chi vive senza mai sentir riposo Lontano dalla dolce amata vista; Chi a se stesso divien grave e nojoso, Sol per un sguardo, o una parola trista. Chi da un nuovo rival fatto geloso, Quasi appresso al morir si duol, s' attrista. Chi si consuma in altre varie pene, Più spesse assai, che le minute arene. E così senza mai stringere il seno Con la ragion a questi van desiri, Dietro al senso correndo, il viver pieno Traggono d' infiniti aspri martiri; Che tranquillo saria, puro, e sereno, Se senza passion, senza sospiri Lieti godendo quanto il Ciel n' ha dato, Vivessono in modesto, ed umil stato. Come nella felice antica etate, Quando di bianco latte, e verdi ghiande Si pascevan quell' anime ben nate, Contente sol di povere vivande. E non s' udiva infra le genti armate Delle sonore trombe il rumor grande. Nè per far l' armi gli Ciclopi ignudi, Battendo risonar facean gl' incudi.


Nè lor porgeva la speranza ardire Di poter acquistar fama ed onore; Nè per dargli dopoi grave martire Con dubbiosi pensier davan timore. Nè per mutarsi i Regni, o per desire, Per soggiogare altrui, gioja e dolore Sentivano giammai sciolti di queste Umane passion gravi e moleste. Ma senza altri pensier stavan contenti Con l' aratro a voltar la dura terra, Ed a mirar i suoi più cari armenti Pascendo insieme far piacevol guerra: Or con allegri, e boscherecci accenti Scacciavano il dolor, che spesso atterra Chi in se l' accoglie, fra l' erbette e fiori Cantando or con le Ninfe, or co' Pastori. E spesso a' piè d' un olmo, ovver d' un pino Era una meta, o termine appoggiato: E chi col dardo al segno più vicino Veloce dava, era di frondi ornato. A Cerer poi le spiche, a Bacco il vino Offerivan divoti; e in tale stato Passando i giorni lor serena e chiara Questa vita facean misera e amara. Questa è la vita, che contanto piacque Al gran padre Saturno, e che seguita Fu dai pastori suoi, mentre che giacque Nelle lor menti ambizion sopita. Ma come poi questa ria peste nacque, Nacque con lei l'invidia sempre unita: E misero divenne a un tratto il mondo, Prima così felice e sì giocondo.


Perchè dolce più assai era fra l' erba Sotto l' ombre dormir queto e sicuro, Che ne' dorati letti, e di superba Porpora ornati: e forse più ogn' oscuro Pensier discaccia, ed ogni doglia acerba, Sentir col cor tranquillo, allegro, e puro Nell' apparir del Sol mugghiar gli armenti, Che l' armonia de' più soavi accenti. Beato dunque, se beato lice Chiamar, mentre che vive, uomo mortale; E se vivendo si può dir felice, Parmi esser quel che vive in vita tale; Ma esser più desia, qual la Fenice, E cerca dì mortal farsi immortale: Anzi quella, che l' uom eterno serba Dolce nel fine, e nel principio acerba. La virtù dico, che volando al Cielo Cinta di bella e inestinguibil luce, Se ben vestita è del corporeo velo, Con le fort' ali sue porta e conduce Chi l' ama, e segue: nè di Marte il zelo Teme giammai, che questo invitto Duce Spregiato il tempo, e suoi infiniti danni Fa viver tal, che morto è già mill' anni. Di così bel desio l' anima accende Questa felice e gloriosa scorta, Che alle cose celesti spesso ascende, E l' intelletto nostro spesso porta, Tal che del Cielo, e di Natura intende Gli alti segreti: onde poi fatta accorta, Quanto ogn' altro piacer men bello sia, Sol segue quella, e tutti gli altri oblia.


Quanti Principi grandi, amati, e cari Insieme con la vita han perso il nome! Quanti poi vivon gloriosi e chiari, Poveri nati; sol perchè le chiome Di sacri Lauri, alteri doni, e rari S' ornarono felici: ed ora come Chiare stelle nel Ciel splendon beati, Mentre il mondo starà, sempre onorati! Molti esempi potrei venir cercando, De' quali piene son tutte le carte, Ch' il Ciel prodotto ha in ogni tempo ornando Non sempre avaro or questa, or quella parte. Ma quanti ne fur mai dietro lasciando, E quanti oggi ne son posti da parte, Un ne dirò, che tal fra gli altri luce, Qual tra ogn' altro splendor di Sol la luce. Dico di voi, e dell' altera pianta, Felice ramo del ben nato Lauro, In cui mirando sol si vede quanta Virtù risplende dal mare Indo al Mauro; E sotto l' ombra gloriosa e santa Non s' impara a pregiar le gemme, o l' auro; Ma le grandezze ornar con la virtute, Cosa da far tutte le lingue mute. Dietro all' orme di voi dunque venendo, Ogni basso pensier posto in oblio, Seguirò la virtù, chiaro vedendo Essere in lei seguir caro desio, Fallace ogn' altro è: così non temendo, O nemica Fortuna, o destin rio, Starò con questa, ogn' altro ben lasciando L' anima, e lei, mentre ch' io vivo, amando.

FINE.





RIME SPIRITUALI DI VITTORIA COLONNA

POichè 'l mio casto amor gran tempo tenne L' alma di fama accesa, ed ella un angue In sen nudrio, per cui dolente or langue; Volta al Signor, onde il rimedio venne, I santi chiodi omai sieno mie penne; E puro inchiostro il prezioso sangue; Vergata carta il sacro corpo esangue, Sicch' io scriva per me quel, ch' ei sostenne. Chiamar qui non convien Parnaso, o Delo; Ch' ad altra acqua s' aspira, ad altro monte Si poggia, u' piede uman per se non sale. Quel Sol, ch' alluma gli elementi e 'l cielo, Prego, ch' aprendo il suo lucido fonte Mi porga umore alla gran sete uguale.


L Alto Signor, del cui valor congionte Tien due varie nature un sol subietto, Prego che sia il mio Apollo; e gli occhi e'l petto Mi bagni omai del suo celeste fonte; Sicchè scopra altre Muse, ed altro monte La vera fede al mio basso intelletto; E spiri l' aura sacra alto concetto, Che renda al cor l' eterne grazie conte. Non cerco ornar le tempie mie d' alloro, Nè con Icaro alzarmi; onde poi d' alto Abbia a cader nel mio morir secondo. Spero viver mai sempre, e d' altro ch' oro Aver corona, se con leggier salto Saprò in tutto fuggir dal falso mondo. PArrà forse ad alcun, che non ben sano Sia il mio parlar di quelle eterne cose, Tanto all' occhio mortal lontane, ascose, Che son sovra l' ingegno, e corso umano. Non an, credo, costor guardato al piano Dell' umiltate, e quante ella pompose Spoglie riporti, e che delle ventose Glorie del mondo ha l' uom diletto in vano. La Fè mostra al disio gli eterni e grandi Oblighi, che mi stanno in mille modi Altamente scolpiti in mezzo 'l core. Lui, che solo il può far, prego, che mandi Virtù, che scioglia e spezzi i duri nodi Alla mia lingua, onde gli renda onore.


S'In man prender non soglio unqua la lima Del buon giudicio, e ricercando intorno Con occhio disdegnoso, io non adorno, Nè tergo la mia rozza incolta rima; Nasce, perchè non è mia cura prima, Procacciar di ciò lode, o fuggir scorno; Nè che, dopo il mio lieto al ciel ritorno, Viva ella al mondo in più onorata stima. Ma dal foco divin, che 'l mio intelletto, (Sua mercè) infiamma, convien ch' escan fuore, Mal mio grado, talor queste faville. E s' alcuna di loro un gentil core Avvien che scaldi; mille volte e mille Ringraziar debbo il mio felice errore. COn la Croce a gran passi ir vorrei dietro Al Signor per angusto erto sentiero, Sicch' io scorgessi in parte il lume vero, Ch' altro, che 'l senso, aperse al fedel Pietro. E se tanta mercede or non impetro, Non è, ch' ei non si mostri almo e sincero; (Lassa) ma non scorgo io con l' occhio intero Questa umana speranza esser di vetro: Che s' io lo cor umil, puro, e mendico Appresentassi alla divina mensa, Ove con dolci ed ordinate tempre L' Angel di Dio, nostro verace amico, Se stesso in cibo per amor dispensa; Ne sarei forse un dì sazia per sempre.


PEnde l' alto Signor sul duro legno Per le nostre empie colpe; e 'l tristo core Non prende tal virtù da quel valore, Che pender sol da lui diventi degno. Con divine parole il bel disegno Fece ei del viver vero; e poi colore Gli diè col sangue: e che dell' opra amore Fusse cagion, ne dà se stesso in pegno. Viva di fiamma l' alma, e l' intelletto Di luci appaghi; e con questa, e con quella Erga e rinforzi il purgato desire. Vengano a mille in me calde quadrella Dall' aspre piaghe; ond' io con vero effetto Prenda vita immortal dal suo morire. DA Dio mandata angelica mia scorta Guida per dritto calle al ciel la mente; E qualor l' alma al suo cader consente, Riprende il freno, e 'l piè lasso conforta: Sicch' alle nozze eterne non sia morta Ogni mia luce; ma con lampa ardente Chiamata dal Signor saggia, prudente, Aperta al giunger mio trovi la porta. E perchè 'l cor l' aspetti a ciascun' ora Per girgli incontro lietamente armato Di puro santo amor, di viva fede; Poic' hai di me la cura, ch' ei ti crede, Mostrami i segni; quasi interna aurora, Del venir del mio Sol chiaro e beato.


TEmpo è pur, ch' io con la precinta vesta, Con l' orecchie e con gli occhi avidi intenti, E con le faci in man vive ed ardenti Aspetti il caro Sposo e lieta e presta; Per onorarlo riverente onesta, Avendo al cor gli altri desiri spenti; E brami l' amor suo, l' ira paventi; Sicch' ei mi trovi al gran bisogno desta. Non ch' io sol prezzi i suo doni infiniti, E le soavi sue alte parole; Onde vita immortal lieto m' offerse; Ma perchè la man santa non m' additi, Dicendo: Ecco la cieca, che non scerse Fra tanti chiari raggi il suo bel Sole. QUando dal lume, il cui vivo splendore Rende 'l petto fedel lieto e sicuro, Si dissolve per grazia il ghìaccio duro, Che sovente si gela intorno 'l core; Sento ai bei lampi del possente ardore Cader delle mie colpe il manto oscuro, E vestirmi in quel punto il chiaro e puro Della prima innocenzia, e primo amore. E se ben con secreta e fida chiave Serro quel raggio; egli è schivo e sottile, Sicch' un basso pensier lo scaccia e sdegna. Ond' ei ratto sen vola; io mesta e grave Rimango; e prego 'l, che d' ogni ombra vile Mi spogli, acciò più presto a me sen vegna.


SPiego ver voi, Signore, indarno l' ale, Prima che 'l vostro caldo interno vento M' apra l' aria d' intorno, qualor sento Vincer da nuovo ardor l' antico male. Che giunga all' infinito opra mortale, Vostro dono è, però che in un momento La può far degna; ch' io da me pavento Di cader col pensier, quand' ei più sale. Bramo quel raggio, di che 'l ciel s' alluma, Che scaccia dense nebbie; e quella accesa Secreta fiamma, ch' ogni giel consuma: Perchè poi lieve al caldo, ed alla bruma, Tutta al divino onor l' anima intesa, Si mova al volo altero in altra piuma. OGni elemento testimon ne vende Della prima cagione; e che superna Virtù ne vegge, acciò che l' uom discerna, Che 'l valor di là su tutto comprende. Quì solo mira il saggio, e non s' accende Al vero ardor con la sua parte interna; Ma sol l' infiamma quella umile eterna Pietà, che 'n croce sol se stessa offende. Questa può far prigion l' alto intelletto, Legar l' altera voglia, e questa insieme Discioglie i nodi a ciascuna alma intorno; Questa ogni van desio sgombra del petto, E lo riempie di verace speme, Che gli promette un sempiterno giorno.


PAdre eterno del ciel, se (tua mercede) Vivo ramo son' io nell' ampia e vera Vite, ch' abbraccia il mondo, e seco intera Vuol la nostra virtù solo per fede; L' occhio divino tuo languir mi vede Per l' ombra intorno alle mie frondi nera; S' alla soave eterna Primavera Il quasi secco umor verde non riede: Purgami sì, che rimanendo io teco Mi cibi ognor della rugiada santa, E rinfreschi col pianto la radice. Verità sei, dicesti d' esser meco: Vien dunque omai, sicch' io frutto felice Faccia in te degno di sì cara pianta. DUo lumi porge all' uomo il vero Sole; L' un per condurre a fin caduco e frale Un pensier breve, un' opra egra e mortale; Col qual pensa, discerne, intende, e vuole: L' altro, per cui sol Dio s' onora e cole, Ne scorge al ciel per disusate scale; Ed indi poggian poi più su quell' ale, Ch' egli (sua gran mercè) conceder suole. Col primo natural la voglia indegna Vince quel cor gentil, che sproni e freno Dona all' alta ragion d' ogni desio: Con l' altro il mondo, e se medesmo sdegna Colui, che chiude all' ombra, ed apre il seno Al raggio puro, che 'l trasforma in Dio.


VEggio di mille ornati veli avvolto Il chiaro e puro vero, e poi con mille Finte di carità vive faville Coprir l' amaro petto un dolce volto. Mille false Sirene intorno ascolto; E so, che la lusinga, o il ciel sortille A gradi indegni; ed odo e trombe e squille Sonar per tal, che in vita è già sepolto. Secol maligno, e maledette arpie! Che pur l' occhio ne dà, mentre il cor toglie, L' onor, la vita, il tempo, e la ricchezza. Se Dio con l' armi sempre giuste e pie Tanti intricati nodi omai non sprezza, La santa mano sua più non gli scioglie. DEh potess' io veder per viva fede (Lassa) con quanto amor n' ha Dio creati; Con che pena riscossi; e come ingrati Semo a così benigna, alta mercede: E come ei ne sostien; come concede Con larga mano i suoi ricchi e pregiati Tesori; e come figli, in lui rinati, Ne cura; e più quel, che più l' ama e crede: E com' ei nel suo grande eterno impero Di nova carità s' arma ed accende; Quando un forte guerrier pregia e corona. Ma poichè per mia colpa non si stende A tanta altezza il mio basso pensiero; Provar potess' io almen, com' ei perdona.


QUando vedrò di questa mortal luce L' occaso, e di quell' altra eterna l' orto; Sarà pur giunta al desiato porto L' alma, cui speme ora fra via conduce: E scorgerò quel raggio, che traluce Sin dal ciel nel mio cor, del cui conforto Vivo, con occhio più di questo accorto, Com' arde, come pasce, e come luce. Soave fia il morir per viver sempre; E chiuder gli occhi per aprirgli ognora In quel sì chiaro e lucido soggiorno: Dolce il cangiar di queste varie tempre Col fermo stato. O quando fia l' aurora Di così chiaro avventuroso giorno? QUando quell' empio tradimento aperse Gesù contra se ordito al caro amato Discepol, che in sembiante sì turbato, Tacendo, quasi agli altri il discoverse; Per me' celarlo il bel grembo gli offerse; Ma pria che fusse il duolo oltrapassato Dal core, e 'l viso avesse anco bagnato, Il sonne chiuse gli occhi, e 'l duol coverse. Ond' ei cadde nel dolce letto, e volo Non fece augel giammai tant alto, quanto Volò, cadendo, allor l' Aquila altera. Alzata al cielo, ivi di sfera in sfera Le stelle tutte, e l' uno e l' altro polo Vide. O riposo glorioso e santo!


CIbo, del cui maraviglioso effetto L' alma con l' occhio interno chiaro vede L' alta prima cagione, e prende fede, Che sei Dio vero, e mio verace obietto: Nutrita del tuo ardor con umil petto, Quasi del ciel secura indegna erede, Vorrei là su far gloriose prede, Per forza d' un sol puro acceso affetto. Ch' a te furar si possa il tuo bel regno Con violenta man, ne mostri; e poi Ne dai te stesso in grazioso pegno. Tutto, sol per far noi divenir tuoi, Facesti; e pur da noi s' usa ogn' ingegno, Ed ogni poter nostro incontro a noi. ANima, il Signor viene, omai disgombra Le folte nebbie intorno dal tuo core; Acciocchè l' ugge del terreno amore All' alta luce sua non faccian ombra. E perchè 'l fallir nostro spesso ingombra La vista sì, ch' a quel chiaro splendore Passar non può; da te scaccia l' errore, Ch' agli occhi tuoi cotanto bene adombra. Ei volentier vien nosco, e festa e gioia Sente, e le vere sue delizie, quando Con noi parte i divini alti tesori: Onde metter convien noi stessi in bando Del cieco mondo, sicchè qui si moia, E 'n Dio si viva, e lui s' ami ed onori.


RIverenza m' affrena, e grande amore Mi sprona spesso al glorioso effetto Di dare albergo a Dio dentro 'l mio petto, Gradito (sua mercede) a tanto onore: Il giel delle mie colpe, e 'l vivo ardore Suo verso noi, fan dubbio all' intelletto; Questo l' accende, e quel spegne l' affetto; L' uno alla speme va, l' altro al timore. Ma la fede fra i dubbi ardita e franca, Chiede il cibo dell' alma; onde si sforza D' accostarsi a quel Sol candida e bianca. Perchè, mentr' ella vive in questa scorza Terrena, ha la virtù debile e stanca, Se 'l nudrimento suo non la rinforza. QUi non è il loco umil, nè le pietose Braccia della gran Madre, nè i Pastori, Nè del pietoso Vecchio i dolci amori, Nè l' Angeliche voci alte e gioiose; Nè dei Re sapienti le pompose Offerte, fatte con soavi ardori: Ma ci sei tu, che te medesmo onori, Signor, cagion di tutte l' altre cose. So che quel vero, che nasceti, Dio Sei qui, nè invidio altrui, ma ben pietade Ho sol di me; non ch' io giungessi tardo: Non è il tempo infelice, ma son' io Misera, che per fede ancor non ardo, Come essi per vederti in quella etade.


FElice giorno a noi festo e giocondo, Quando offerse il Signor del sacro e puro Corpo nudrirne, e render l' uom sicuro Di star sempre con lui nel cieco mondo: E che per tal virtù leggiero il pondo Fora de' nostri mali, e 'l popol duro Quel divino parlar velato oscuro Intese mal col cor empio ed immondo! Onde sol maraviglia, e grande orrore Diede al superbo quell' alta mercede, Di dar per nostro cibo a noi se stesso. E solo a quei, che l' odio con l' amore Avean vinto, e la legge con la fede, Il dono, che dà vita, al cor fu impresso. APrasi il cielo, e di sue grazie tante Faccia che 'l mondo in ogni parte abbonde; Sicchè l' anime poi liete e feconde Sien tutte di virtute amiche e sante. Soave Primavera orni ed ammante La terra, e corran puro nettar l' onde; Copra di gemme il mar l' altere sponde; Ed ogni scoglio sia ricco diamante; Per adornare il giorno avventuroso, Che ne diè il parto eternamente eletto, Per apportar vera salute a noi; A cantar, come in veste umana ascoso Venne il figliuol di Dio, discenda poi Dall' angeliche squadre il più perfetto.


GLi Angeli eletti al gran bene infinito Braman oggi soffrir penosa morte; Acciò nella celeste empirea corte Non sia più il servo, che 'l Signor, gradito. Piange l' antica madre il gusto ardito, Ch' a' figli suoi del ciel chiuse le porte; E le due man piagate or sono scorte Da ridurne al cammin per lei smarrito. Asconde il Sol la sua lucida chioma; Spezzansi i sassi vivi; apronsi i monti; Trema la terra e 'l ciel; turbansi l' acque: Piangon gli spiriti, al nostro mal sì pronti, Delle catene lor l' aggiunta soma; Non piange l' uom, che pur piangendo nacque. PUri Innocenti, il vostro invitto e forte Duca parte, e vi lascia soli inermi; E vuol, che i vostri petti siano schermi Alle sue spalle. O benedetta sorte! Erode con le voglie inique e torte Incide, e spezza i bei teneri germi: Ed ei ne rende a voi gli eterni e fermi Frutti; e vita immortal per breve morte. Tolti dal latte, deste il pianto solo Per parole ai martiri: ed egli ornati V' ha di celesti palme e santi allori. Appena eran sugli omer vostri nati I vanni, o cari e pargoletti amori, Ch' alzaste infin al cielo il primo volo.


VEggo oggi nel pensier sotto la mano Di Batista il figliuol di Dio lavarsi Al sacro fiume, non già per purgarsi, Ma lavar seco tutto 'l seme umano. Quanto pur fe! ma il nostro folle insano Voler cerca di novo rimachiarsi Nel sangue vile, e poi macchiato, farsi Del chiaro fonte suo schivo e lontano. Il gran Padre ad udirlo oggi ne 'nvita; E 'l divin Figlio poi ne dona il pegno Con la Colomba, ed ei con l' opra umile. Ubbidir dessi al suon dell' infinita Virtute, e creder sempre a sì segno; Seguendo poi l' esempio alto e gentile. SE 'l breve suon, che sol quest' aer frale Circonda e move, e l' aura, che raccoglie Lo spirto dentro, e poi l' apre e discioglie, Soavemente in voce egra e mortale; Con tal dolcezza il cor sovente assale; Che d' ogni cura vil s' erge e ritoglie, Sprona, accende 'l pensier, drizza le voglie Per gir volando al Ciel con leggiere ale, Che fia, quand' udirà con vivo zelo La celeste armonia l' anima pura Sol con l' orecchia interna intenta al vero Dinanzi al suo Fattor nel sommo Cielo, U' non si perde mai tuono, o misura, Nè si discorda il bel concento altero?


VOrrei l' orecchia aver qui chiusa e sorda Per udir coi pensier più fermi e intenti L' alte angeliche voci, e i dolci accenti, Che vera pace in vero amor concorda. Spira un aer vital tra corda e corda, Divino e puro in quei vivi stromenti; E sì move ad un fine i lor concenti, Che l' eterna armonia mai non discorda. Amor alza le voci, Amor le abbassa; Ordina, e batte ugual l' ampla misura, Che non mai fuor del segno in van percote; Sempre è più dolce il suon, se ben ei passa Per le mutanze in più diverse note; Che chi compone il canto ivi n' ha cura. VOrrei, che sempre un grido alto e possente Risonasse Gesù dentro 'l mio core; E l' opre e le parole anco di fore Mostrassor fede viva, e speme ardente. L' anima eletta, che i bei semi sente In se medesma del celeste ardore, Gesù vede, ode, e 'ntende; il cui valore Alluma, infiamma, purga, apre la mente. E dal chiamarlo assai, fermo, ed ornato Abito acquista, tal che la natura Per vero cibo suo mai sempre il chiama: Onde all' ultima guerra, a noi sì dura, Dell' oste antico, sol di fede armato Già per lungo uso il cor da se lo chiama.


VEdea l' alto Signor, ch' ardendo langue Del nostro amor, tutti i rimedj scarsi Per noi, s' ei non scendea qui in terra a farsi Uomo, e donarci in croce il proprio sangue. Ivi si vede aver nudo ed esangue Disarmati i nimici, e rotti e sparsi Lor fieri artigli; e non può più vantarsi Del primo inganno il rio pestifero angue. Novo trionfo, e in novo modo nota Vittoria, che morendo ei vinse e sciolse Legato e preso i suoi contrarj nodi. Ben fu d' ogni superbo orgoglio vota Questa alta gloria, onde in se stesso volse Insegnarne umiltate in tutti i modi. QUella, che 'l bene e 'l male in sì poche ore Contra il divin precetto intender volse, Col pomo i lunghi affanni insieme colse; Onde si piange ancor l' antico errore; Ma l' alma sacra vite al grand' odore Del salutar suo frutto ne raccolse; E i secchi rami al verde tronco involse, Che serba eterno il bel vivo colore. Seco ne inesta or la ben nata pianta; Onde vita si coglie, e l' arbor prima Vietata, crudel morte al mondo diede. A che salir, per ricader da cima Di questa, se di quella all' ombra santa Scorger si può, quanto s' intende e vede?


MOssi dai grandi effetti alzaron l' ali Alla prima cagion quei primi ingegni; Ed a noi tanti, e sì possenti segni Della bontà di Dio son nudi e frali. Ma se non puote gli occhi egri e mortali Aprir nostra natura, almen si degni Mirar se stessa, e converrà, che sdegni Di sentirsi intricata in sì gran mali. Vedrà come il Signor n' aspetta, e sempre Tiene al nostro girar più salda e ferma La stabil pietra della sua bontade; E scorge l' opre nostre con l' inferma Natura insieme, e vuol, che la pietade Sua dolce il nostro amaro error contempre. VEdremmo, se piovesse argento ed oro, Ir con le mani pronte, e i grembi aperti Color, che son dell' altra vita incerti, A raccor lieti il vil breve tesoro: E sì cieco guadagno, e van lavoro Esser più caro a quei, che son più esperti; Che le ricchezze danno, e non i merti Oggi le chiare palme, e 'l verde alloro. Ma non si corre a Dio, che dal ciel porta Dentro la piaga del suo destro lato D' infinito tesor perpetua pioggia. E se spirito alcun gli apre la porta; Dicon, che inganna il mondo, o ch' è ingannato Dal suo pensier, che troppo in alto poggia.


PArmi veder con la sua face accesa Ir lo Spirto divino, e ovunque trova Esca, l' accende; e già purga e rinnova Dal lezzo antico l' alma vera Chiesa. E i saggi Cavalieri ban già compresa La lor pace futura; e a ciascun giova, Che la guerra cominci, e s' arma, e prova Mostrarsi ardito a sì felice impresa. Già la tromba celeste intorno grida; E lor, che della gola e delle piume S' han fatto idolo in terra, a morte sfida. Celar non ponno il vizio a quel gran lume, Che dentro al cor penetra, ov' egli annida; Ma cangiar lor convien vita e costume. BEatà l' alma, che le voglie ha schive Del mondo, e del suo vil breve soggiorno: Misera quella, a cui sembra ei sì adorno, Ch' a uopo suo non l' usa; anzi a lui vive. Tutte al Padre celeste andremo prive Del manto, che ne copre il vero intorno Quel primo amaro, o dolce ultimo giorno, Che morte, o vita eterna a noi prescrive. O quanti piangeran le perdute ore, Avute in pregio per la breve gioia, Che gli lusingha a lor perpetuo danno! Poichè 'l mal per natura non gli annoia, E del ben per ragion piacer non hanno; Abbian almen di Dio giusto timore.


PArea più certa prova al manco lato Tentar, se 'l Signor nostro avea più vita, Allor che fece al destro ampia ferita Sul morto corpo in croce il braccio irato. Ma perchè sempre intero il cor serbato Esser devea per quei, ch' an seco unita L' anima, errò la man cieca smarrita, Torcendol dal cammin dagli altri usato. Onde or per cari figli entro i suoi nidi Col dolce sangue suo ne ciba sempre; E dal fero angue n' assecura e asconde. Oimè! ch' a tal pensier del pianto l' onde Devriano alzarsi fuor dei nostri lidi Sovra tutte le basse umane tempre. CHiari raggi d' amor, scintille accese Di pietà viva escon del sacro lato, Scudo divin contra 'l gran Padre irato, La cui gran forza il nostro error difese. Fur sempre all' altrui ben sue voglie accese, Nudo per se, per noi di gloria armato; Parco nel viver suo chiaro e beato, Ma nell' aspro morir chiaro e cortese. Porge l' aperta piaga, alta e secura Letizia, anzi arrà dell' eterno riso; E con lume divin ferma la fede. Bella cagion, che in terra l' uom diviso Rende a se stesso; e fuor d' ogni altra cura, Vuol che del pianto il pianto sia mercede.


L' Occhio divin, che sempre il tutto vede, Nulla vide qua giuso in terra eguale All' alma (sua mercè) fatta immortale, Onde per proprio obietto il ciel le diede, Sponsandola con pura, ardente fede, E di ricche, amorose, e leggiere ale Di speme ornando, acciò per cotai scale Lieta salisse alla celeste sede. Poi, quasi forma del suo segno impressa, Guardandola, le accese intorno intorno Di viva carità mille fiammelle; Ond' ella rimirando in quello adorno Suo ben, Fattor del cielo, e delle stelle, Spregia ricchezza, e 'l mondo, e più se stessa. NOn de' temer del mondo affanni, o guerra Colui, ch' ave col ciel tranquilla pace, Che nuoce il gielo a quel, ch' entro la face, Del calor vero si rinchiude e serra; Non preme il grave peso della terra Lo spirito, che vola alto e vivace; Nè fan biasmo l' ingiurie all' uom, che tace, E prega più per chi più pecca ed erra; Non giova saettar presso, o lontano Torre fondata in quella viva pietra, Ch' ogni edificio uman rende securo; Nè tender reti con accorta mano Fra l' aer basso, paludoso, e scuro Contra l' augel, che sopra 'l ciel penetra.


COn vomer d' umiltà larghe e profonde Fosse conviemmi far dentro al mio core, Sgombrando il mal terreno, e 'l tristo umore, Pria che l' aggravi quel, questo l' inonde. Tal ch' altra poi miglior terra il circonde, E più fresca del ciel pioggia lo irrore; Onde la vite del divino amore Germini frutti, non labrusca e fronde. Ma pria che l' ombra in tutto la ricopra, E poscia indarno fra le vane foglie Aspetti il caldo del celeste raggio; Lui, che fu solo umil, prego, che scopra Se stesso al cor, poichè da me sempre aggio Tenebrosi pensier, superbe voglie. L'Invitto Re del ciel, sol d' amor vero, E d' alta pura ubbidienza armato In mezzo del superbo mondo ingrato, E del popolo suo malvagio e fero, Tolse lo scritto, ov' era il primo altero Uomo all' eterno duol sempre obbligato, Miser, tristo, prigion, servo, legato, Sotto la dura legge, e l' aspro impero; Spogliando i gran tiranni a campo aperto, Prese di terra in croce un picciol volo, Ivi l' affisse, e lo dannò col sangue: Indi carco di spoglie, il cammin erto Salio del ciel. Questo è il trionfo solo, La cui gloria per tempo unqua non langue.


QUando in se stesso il pensier nostro riede, E poi sopra di se s' erge la mente Sì, che d' altra virtù fatta possente Vivo nell' aspra croce il Signor vede; Sale a cotanto ardir, che non pur crede Esser suo caro membro, anzi allor sente Le spine, i chiodi, il fele, e quella ardente Sua fiamma in parte sol per viva fede. Son queste grazie sue, non nostre, ond' anno Per regola, e per guida quel di sopra Spirto, che dove più gli piace spira. E s' alcun si confida in fragil opra Mortal, col primo padre indarno aspira Ad altro, ch' a ricever nuovo inganno. QUando di sangne tinte in cima al monte Le belle membra in croce al ciel scoverse Colui, che con la vita al Padre offerse Le voglie al suo voler sempre congiunte; Il salutifer sacro divin fonte, Anzi il mar delle grazie allor s' aperse, E furo entro 'l gran sen l' ire disperse Già nell' antica legge aperte e conte. Gli Angeli ardendo insieme di morire Mostrar desio; ma carità maggiore Fu giusto freno a sì pietoso ardire, Dicendo: ristorar non può mio onore Altri; nè per amor tanto patire; Nè lavar altro sangue un tanto errore.


S'Io guardo al mio Signor, la cui grandezza Non cape il primo suo più largo cielo; Qui in terra chiuso in picciol mortal velo Per far capace noi di tanta altezza; Il mondo, i suoi tesori, e la vaghezza, Ch' ei scopre agli occhi nostri al caldo e al gelo, Quant' ho più lume ognor cangiando 'l pelo, Più il mio cor (sua mercè) l' odia e disprezza. O come breve par quel che circonda Apollo, all' alma, che già illustra e scalda Il vero Sol con luci alme e divine. Quanto contiene in se l' alta e rotonda Palla celeste con la mente salda, Ella usa sol per mezzo al suo bel fine. SPero che mandi omai quel saggio eterno Signor, ver noi sol per pietade irato, Il santo fulgor suo dal ciel turbato In questo cieco lagrimoso verno: E percota la pietra, u' per governo Del mondo ha 'l sacro suo tempio fondato: E sparga poi d' intorno in ciascun lato Fiamme divine il suo bel foco interno. E dal gran colpo quei, che non ben saldi Su vi s' appoggian, forse allor cadranno Nel mar de' lor desii, freddo ed oscuro: E gli altri, che vi son già fermi e caldi Del vivo ardor, che non consuma, avranno Modo d' arder più chiaro, e più securo.


VAnno i pensier talor carchi di vera Fede al gran figlio in croce; ed indi quella Luce, ch' ei porge lor serena e bella, Gli guida al Padre in gloriosa schiera: Nè questo almo favor rende più altera L' alma fedel, poichè fatta è rubella Del mondo, e di se stessa, anzi rende ella A Dio dell' onor suo la gloria intera. Non giungon l' umane ali all' alto segno, Senza il vento divin, nè l' occhio scopre Il bel destro sentier senza 'l gran lume. Cieco è 'l nostro voler; vane son l' opre; Cadono al primo vol le mortai piume Senza quel di Gesù fermo sostegno. QUal digiuno augellin, che vede ed ode Batter l' ali alla madre intorno, quando Gli reca il nutrimento, ond' egli amando Il cibo, e quella, si rallegra e gode; E dentro al nido suo si strugge e rode Per desio di seguirla anch' ei volando; E la ringrazia, in tal modo cantando, Che par ch' oltra il poter la lingua snode; Tal' io, qualor il caldo raggio e vivo Del divin Sole, onde nudrisco il core, Più dell' usato lucido lampeggia; Movo la penna, mossa dall' amore Interno; e senza ch' io stessa m' avveggia Di quel, che io dico, le sue lodi scrivo.


QUando la croce al Signor mio coverse Gli omeri santi, ed ei dal peso grave Fu costretto a cader; or con qual chiave Era allor chiuso il ciel, che non s' aperse? Sol per pietà di noi quanta sofferse Contra se crudeltade! oimè il soave Sangue innocente pur convien, che lave Le macchie intorno al reo mondo cosperse. Nasce il nostro riposo dalla guerra Dell' autor della pace, e viene a noi Lume dal chiuder gli occhi al vero Sole. Il divin Padre i gran secreti suoi Cela e discopre, quando, e com' ei vole; E basti a noi saper, ch' egli non erra. PErchè la vista, e più la mente adombra Della propria eccellenza il van desio, Nel regno lucidissimo di Dio Gli invidi spirti rei vider sol' ombra. Dunque, se da colui, che 'l falso sgombra, Per torcer gli occhi a se stessi, in oblio Mandar gli angeli il vero; oimè quant' io Debbo temer, cui terren peso ingombra! Il troppo amar noi stessi dalla prima Madre all' ultimo figlio sempre fia L' arma, ch' usa il nimico a' nostri danni. Chi vola al ciel, per non cader tra via Preghi il Signor, senza di se far stima, Che gli apra l' aria intorno, e mova i vanni.


DI gioia in gioia, d' una in altra schiera Di dolci e bei pensier l' Amor superno Mi guida fuor del freddo arido verno Alla sua verde, e calda primavera. Forse il Signor, fin che di molle cera Mi vegga il petto, onde 'l sigillo eterno M' imprima dentro nel più vivo interno Del cor la fede sua fondata e vera; Non vuol con l' aspra croce al sentier' erto, Ma col giogo soave, e peso lieve Condurmi al porto per la via men dura: O forse ancor, come benigno esperto Padre e maestro, in questa pace breve A lunga guerra m' arma e m' assecura. QUando (mercè del ciel) quasi presente Scorge per viva fede ad una ad una L' alme grazie divine, e poi le aduna Tutte in un punto il cor licto ed ardente; Tirar da tanta gioia allor si sente; Che quanto giace quì sotto la luna, La morte, il mondo, e buona, e rea fortuna Riman poi sotto l' amorosa mente. E mentre servon l' ali al gran pensero, Or sul mare, or sul fiume, or sovr' al monte Veggio il Sol di là su splender fra noi: E quando Dio, quando uom, far qua giù conte L' eterne glorie, ed a' bei raggi suoi Disparir l' ombre, e dimostrarsi il vero.


SE ne diè lampa il ciel chiara e lucente, Per metter foco in terra, acciò ch' egli arda Per nostro ben; qual ghiaccio ne ritarda, Che non s' infiammi ogni gelata mente? E' forte la virtù, l' esca possente, Largo il Signor, che con dritto occhio guarda: Qual alma è più veloce, e qual più tarda A correr per purgarsi al lume ardente? Guerra, disunion la viva face Minaccia e sfida a morte, ed a martiri, Per riunirne poscia alla sua pace. Accende il pianto in noi; move i sospiri; Consuma in terra quanto al senso piace, Per adempire in ciel nostri desiri. DEbile e inferma alla salute vera Ricorro, e cieca al Sol, cui sempre adoro, Mi volgo, e nuda bramo il celeste oro, E vo al suo foco fredda in pura cera: E quanto in se disfida, tanto spera L' alma in quel d' ogni ben ricco tesoro, Che la può far con largo ampio ristoro Sana, ricca, al suo caldo arder sincera. Onde con questi doni, e questo ardire Lo veggia, non col mio, ma col suo lume, E lo ringrazi col suo stesso amore. Non sarò carca allor di van desire, Ma lieve, armata di celesti piume Per rivolare al ciel col mio Signore.


VOrrei, che 'l vero Sol, cui sempre invoco, Mandasse un lampo eterno entro la mente, E non sì breve raggio, che sovente Leva girando intorno a poco a poco; Ma riscaldasse il cor col santo foco, Che serba dentro in se viva ed ardente Fiamma; e queste faville tarde e lente M' ardesser molto in ogni tempo e loco. Lo spirto è ben dal caldo ardor compunto, E sereno dal bel lume il desio; Ma non ho da me forza all' alta impresa. Deh fa, Signor, con un miracol, ch' io Mi veggia intorno lucida in un punto, E tutta dentro in ogni parte accesa. QUel pietoso miracol grande, ond' io Sento (la sua mercè) due parti estreme Il divino e l' uman sì giunte insieme, Ch' è Dio vero uomo, e l' uom è vero Dio; Erge tant' alto il mio basso desio, E scalda, in guisa la mia fredda speme, Che 'l cor libero e franco più non geme Sotto l' incarco periglioso e rio. Con la piagata man dolce e soave Giogo m' ha posto al collo; e lieve il peso Sembrar mi face col suo lume chiaro. All' alme umili con secreta chiave Apre il tesoro suo; del qual è avaro Ad ogni cor d' altere voglie acceso.


COn che saggio consiglio, e sottil cura Dee l' uom d' intorno, e dentro e lungi e presso Guardar, ornar, e pulir l' alma spesso Con severo occhio, e con giusta misura, Sapendo, che di Dio con la man pura Del santo amor v' è sempre il volto impresso, Sicchè, acciò ch' egli in noi veggia se stesso, Non macchi fallo uman la sua figura! Lontan da se l' immagin falsa sgombri; E mentre può, s' adorni della vera, Chiunque al vero onor l' anima invia: E del divino amor tanto s' ingombri, Che si purghi e rinnovi, onde l' altera Luce non scorga in lui più cosa vile. IL buon Pastor con opre e voci pronte Al nostro ben molt' anni ha richiamato Il gregge suo dal periglioso prato, U' smarrito era, al bel securo monte. Poi le colpe di lui, per far ben conte L' accese voglie, in croce n' ha portato; Ove di chiodi e spine insieme ornato, Sparso ha d' acqua e di sangue un vivo fonte; Ond' ei si pasca, e riverisca insieme Il Padre eterno; e con un pianto breve Lavi e mandi in oblio ben lungo errore. Gran nebbia copre un cor, gran sasso il preme, S' a un raggio sol di così vivo ardore Non si consuma, come cera, o neve.


S' Io piena con Zacheo d' inteso affetto Per mirar quel gran Sol; ch' a noi fa giorno; M' alzassi tanto, che le turbe intorno Non fesser' ombra al mio basso intelletto; Sperar potrei, che questo indegno petto Gli fosse albergo; e 'n quel breve soggiorno Sì mi scaldasse il suò bel lume adorno, Ch' io gustassi altro, che mondan diletto: E che poi lieta umil nel gran convito Gli appresentassi una candida fede Per mensa, e poi per cibo l' alma e 'l core: Tal ch' ei ver me dicesse: omai sbandito Fia da te il vizio; e larga ampia mercede Serberà il cielo al tuo verace amore. SE con l' armi celesti avess' io vinto Me stessa, i sensi, e la ragione umana, Andrei con alto spirto alta e lontana Dal mondo, e dal suo onor falso dipinto. Sull' ali della fede il pensier cinto Di speme omai non più caduca e vana, Sarebbe fuor di questa valle insana Da verace virtute alzato e spinto. Ben ho già fermo l' occhio al miglier fine Del nostro corso; ma non volo ancora Per lo destro sentier salda e leggiera. Veggio i segni del Sol, scorgo l' aurora; Ma per li sacri giri alle divine Stanze non entro in quella luce vera.


L'Innocenzia da noi per nostro errore Veggio punire; e 'l ricco Signor degno Pien d' infamia morir nudo sul legno, Per tornar noi nel già perduto onore. Veggio offender con odio il vero amore, E ferir l' umiltà con fiero sdegno; Usar di crudeltade ogni aspro segno Contra colui, che sol per pietà more. Allor l' alta bontà di Dio si stese In parte al mondo, ond' ogni fedel petto Si fè più forte alle più acerbe offese. Paolo, Dionisio, ed ogni alto intelletto Sì diè prigione al vero, allor ch' intese La mirabil cagion di tanto effetto. FIdo pensier, se intrar non puoi sovente Entro 'l cor di Gesù; bacia di fore Il sacro lembo; o pur senti il suo odore; Volagli intorno ognor vivo ed ardente. S' altro non miri, avrai sempre presente Il suo bel lume, che 'l tuo proprio errore Sol t' allontana, e perde ogni valore L' alma, se non lo scorge, ascolta e sente. Non ti smarrir, raddoppia il vago volo; Che quando ei dà il desio, non molto tarda A dar virtù, per giunger forza all' opra. Vuol la nostra salute, e bada e guarda L' animoso guerrier, come s' adopra, S' ei si vede al periglio inerme e solo.


POichè la vera ed invisibil luce N' apparve chiara in Cristo, ond' or per fede L' eterna eredità, l' ampia mercede Fra l' aperte sue piaghe a noi traluce; Qual scorta infida, e vano error ne 'nduce A por su l' alta gloriosa sede Dell' alma il senso, che sol ombra vede, Lasciando il vero Sol, ch' al ciel conduce? La cui virtù con l' orma, e con l' esempio, Con la moderna istoria, e con l' antica Ne chiama e sprona al destro, ed erto calle. Ma questo labirinto obliquo ed empio, Che porta sempre in più profonda valle, Il cieco veder nostro ognora intrica. SE le dolcezze, che dal vivo fonte Divino stillan dentro un gentil core, Apparissero al mondo ancor di fuore Con bella pace in puro amor congionte; Forse sarebbon più palesi e conte Le cagion da sdegnar ricchezza e onore: Onde i più saggi lieti, ebbri d' amore, Andrebbon con la croce all' erto monte; Per sentir con la morte dolce vita Non solo eternamente, ma in quel punto, Ch' agli altri di lasciar quest' ombre spiace, Quando lo spirto vivo è a Dio congiunto Con umil voglia al suo volere unita, L' aperta guerra gli è secreta pace.


PEr le vittorie qui rimangon spente Talor le virtù prime, perch' altera Contra dell' altra la vittrice schiera Mostra il superbo sdegno, e l' ira ardente. Scintilla allor di carità non sente, Nè dell' alta umiltà la gloria vera: Sempre le par, che 'l ciel le rida, e spera Con l' altrui sangue assecurar la mente. Ma nel Signor, quand' ei fatt' uom qui vinse Lo inferno, e 'l mondo, di luce infinita Lampeggiar sempre le virtù divine. L' umiltà lo spogliò; l' amor lo avvinse Di laccio; e in croce con chiodi e con spine Diede a lui morte, a tutti gli altri vita. IN forma di musaico un alto muro D' animate scintille alate e preste Con catene d' amor sì ben conteste, Che l' una porge all' altra il lume puro, Senza ombra, che vi formi il chiaro e scuro, Ma pur vivo splendor del Sol celeste, Che le adorna, incolora, ordina, e veste, D' intorno a Dio col mio pensier figuro: E quella poi, che in velo uman per gloria Seconda onora il ciel, più presso al vero Lume del figlio, ed alla luce prima; La cui beltà non mai vivo pensero Ombrar poteo, non che ritrar memoria In carte, e men lodarla ingegno in rima.


QUasi rotonda palla accesa intorno Di mille stelle veggio, e un Sol, che splende Fra lor con tal virtù, ch' ognor le accende, Non come il nostro, che le spegne il giorno. Or quando fia, che l' alma in quel soggiorno Segua il pensier, che tanto in su s' estende, Che spesso quel, che 'n ciel piglia, non rende Alla memoria poi nel suo ritorno? Ond' io dipingo in carte una fosca ombra Per quel Sol vivo, e delle cose eterne Parlo fra noi con voci roche e frali. Quant' ei si vuol talor mostrar, discerne La mente, e sol quand' ei le presta l' ali; Vola, e mentre le nebbie apre e disgombra. TAlor l' umana mente alzata a volo Con l' ali della speme e della fede (Mercè di lui, che 'l fa) sotto si vede L' aere e la terra; e l' uno e l' altro polo. Poi sormontando e questo, e quello stuolo Degli Angeli abbandona; perchè crede Esser di Dio figliuola, e vera erede; Onde vola a parlargli a solo a solo. Egli pietoso non risguarda il merto, Nè l' indegna natura, e solo scorge L' amor, ch' a tanto ardir l' accende e sprona. Talchè i secreti suoi nel lato aperto Le mostra, e la piagata man le porge Soavemente, e poi seco ragiona.


GIà si rinverde la gioiosa speme, Che quasi secca era da me sbandita, Di veder l' alma, e mal da noi gradita, Terra, che 'l gran sepolcro adorna e preme. Odo ch' or gente intrepida non teme Tormenti e morte; anzi è contanto ardita Alla fede fra noi quasi smarrita, Che 'l sangue loro agli altri è vivo seme Sì fecondo, che sol ben pochi eletti Fan da molti chiamar ad alta voce Il verace Signor già loro ignoto: Ed a scorno di noi, con vivi effetti Il segno ancor dell' onorata croce Faran con maggior gloria al mondo noto. NEll' alta cima, dove l' infinita Providenza si mostra, mi parea Veder l' insegna di quell' aspra e rea Morte, che diede a noi sì dolce vita. Era lucida, e chiara, e sì gradita, Ch' io lieta del suo onor meco godea; Quando udì voce in ciel, che si dolea, Ch' ella fosse da noi quasi schernita. E che le mura, e i panni, ed ogni fronte S' onorasse di lei; ma nella mente Pur ombreggiasse il glorioso segno. Pregar dunque si dè con le man gionte, Che sopra noi non cada il giusto sdegno, Dandone in preda a men devota gente.


OVunque giro gli occhi, o fermo il core In questa oscura luce, e viver morto Nostro, dove i sentier dritto dal torto Mal si discerne infin all' ultime ore; Sento or per falsa speme, or per timore Mancare all alma il suo vital conforto, S' ella non entra in quel securo porto Della piaga, ch' in croce aperse Amore. Ivi s' appaga, e vive; ivi s' onora Per umil fede; ivi tutta si strugge Per rinnovarsi all' altra miglior vita. Tanto ella queste fosche e mondane ugge Schifa, e del vero Sol gode l' aurora, Quanto più dentro a lei si sta romita. SE 'l Sol, che i raggi suoi fra noi comparte Sempre con non men pia, che giusta voglia; Ne veste di virtù, di vizii spoglia, Per sua dolce mercè, non per nostra arte; In vece di voltar volumi e carte Preghiamo lui, che d' ogni error ne scioglia; Che quanto l' alma più d' altro s' invoglia, Tanto più dal cammin dritto si parte. L' occhio sinistro chiuso, e 'l destro aperto, L' ali della speranza e della fede Alzan sopra di se ciascuna mente. Per verace umiltà più si fa certo Dei sacri detti, e più a dentro gli sente Colui, che poco legge, e molto crede.


S' In me questa fallace e breve speme Terrena è spenta; nè si cangia il core Per minaccie, lusinghe, odio, od amore; Nè brama d' acquistar, nè perder teme; A che con quel, che ride, e quel che geme De' varii affetti suoi, perdo pur l' ore, Mossa da natural mondano errore, Che in forma di pietà m' assale e preme? Non è della rea pianta il primo amaro Frutto in me secco: ond' anco il mortal germe Mette languido il fior, nera la fronde. Ma spero omai, che 'l sempre vivo e chiaro Foco divino arda il malvagio verme, Che dentro la radice mia s' asconde. D'Oscuro illustre, e di falso verace; D' iniquo giusto, e di nimico erede; Ardito per amor, forte per fede; Imperioso in guerra, umile in pace, Render può l' uom la viva eterna face, Quand' ella signoreggia l' alta sede Dell' alma; ed indi poi fa ricche prede Del tesoro, ch' al senso infermo piace. Apre la calda e sempiterna luce Cinta de' raggi, lampeggiando intorno, Le nostre folte nebbie, e scioglie il ghiaccio. E mentre ch' ella infiamma, e ch' ella luce, Securo altri cammina in sì bel giorno, Che gli discopre ogni nascosto laccio.


QUando nel cor dalla superna sede Giunge il raggio divin; prima l' invoglia A lasciar la bramosa indegna voglia Di faticar per vil breve mercede. Poi se purgato, e fatto umile il vede: Pentito del suo error con grave doglia, Lo raccende, e rinnova in tutto, e spoglia Del mondo, e l' arma di celeste fede. E poi gli mostra questo anco esser ombra Del vero lume, ed arra della pace, Che legar puote i chiari spirti insieme. Si vede l' alma allor, poi che si sgombra, Nella porta del ciel, di fede e speme Entrar ardendo nell' eterna pace. TIra su l' alma al ciel col suo d' amore Laccio attorto il gran Padre; e stringe il nodo Per man del caro figlio; e sì bel modo, Non men che l' opra stessa, appaga il core: Tal ch' io sento sottil vivace ardore Benetrar dentro sì, ch' ardendo godo, E chiaro, ed alto grido ascolto ed odo, Che mi richiama a più verace onore; Gradi di fede, e caritate e speme, E di quella umiltà, che l' uom sublima, Ne fanno scala in fino al ciel superno; Ove l' alme beate unite insieme Di mano in man dall' ultima alla prima Si miran tutte nel gran specchio eterno.


CHi temerà giammai nell' estreme ore Della sua vita il mortal colpo e fero, S' ei con perfetta fede erge il pensiero A quel di Cristo in croce aspro dolore? Chi del suo vaneggiar vedrà l' orrore, Che ci si avventa quasi oscuro e nero Nembo in quel punto, pur ch' al lume vero Volga la vista del contrito core? Con queste armi si può l' ultima guerra Vincer sicuro, e la celeste pace Lieto acquistar dopo 'l terrestre affanno. Non si dè con tal guida, e sì verace; Che per guidarne al ciel discese in terra; Temer dell' antico oste novo inganno. VEggio turbato il ciel d' un nembo oscuro, Che cinge l' aere intorno, e ne promette Con tempeste, con tuoni, e con saette Far caldo e molle il terren freddo e duro. Forse l' alto Motor vuol or con puro Foco le sterili erbe ed imperfette Arder sì, ch' abbian poi l' alme e perfette Il vago suo giardin lieto e securo: Pria che dalle radici in tutto svelli Questa di verdi, e ben composte frondi Ricca, e di vero onor povera pianta; Perchè più che mai lieta rinnovelli Germi cospersi di rugiada santa, Che sian di frutti e fior sempre fecondi.


SE per serbar la in notte il vivo ardore Dei carboni da noi la sera accensi Nel legno incenerito, arso, conviensi Coprirgli si, che non si mostrin fuore; Quanto più si conviene a tutte l' ore Chiudere in modo d' ognintorno i sensi, Che sian ministri a serbar vivi e intensi I bei spirti divini entro del core? Se s' apre in questa fredda notte oscura Per noi la porta all' inimico vento, Le scintille del cor dureran poco. Ordinar ne convien con sottil cura Il senso; onde non sia dell' alma spento Per le insidie di fuor l' interno foco. VEggio in croce il Signor nudo e disteso Coi piedi, e man chiodate; e 'l destro lato Aperto, e 'l capo sol di spine ornato; E da vil gente d' ogni parte offeso; Avendo su le spalle il grave peso Delle colpe del mondo; e 'n tale stato La morte, e l' avversario stuolo irato Vincer solo col cor d' amore acceso. Pazienza, umiltà, vero ubbidire, Con l' altre alme virtù furon le stelle, Ch' ornaro il Sol della sua caritade: Onde nell' aspra pugna e queste e quelle Fecer più chiara dopo 'l bel morire La gloria dell' eterna sua bontade.


QUesto ver noi maraviglioso effetto Di morir Dio su l' aspra croce eccede Ogni umano pensier, onde nol vede Con tutto il valor suo nostro intelletto. Ma se del bel misterio in mortal petto Entra quel vivo raggio, che procede Da soprannatural divina fede, Immantinente il tutto avrà cencetto. Que', ch' avrà sol in lui le luci fisse, Non que, ch intese meglio, o che più lesse Volumi in terra, in ciel sarà beato. In carte questa legge non si scrisse; Ma con la stampa sua nel cor purgato Col foco dell' amor Gesù l' impresse. SE 'l fedel servo, a cui per vero affetto Si scopra il mar della bontà di Dio, Non avesse per grazia in lungo oblio Del viver suo tuffato l' intelletto; Avria con tal ragione odio e dispetto Al vaneggiar passato obliquo e rio; Ch' impedirgli potria quel lume pio, Che purga ed empie ogni mortal difetto: Il quale in queste onde tranquille vuole, Che s' immerga e si sazii, e non si volga A mirar le già corse e torbide acque: Acciò mentre è ancor debil, non ritolga Il pensier da colui, ch' accender suole La speme, in cui 'l gran Padre si compiacque.


L'Occhio grande e divino, il cui valore Non vide, nè vedrà; ma sempre vede, Toglie dal petto ardente (sua mercede) I dubbi del servil freddo timore: Sapendo che i momenti tutti e l' ore, Le parole, i pensier, l' opre, e la fede Discerne; nè velare altrui concede Per inganni, o per forza un puro core. Securi del suo dolce e giusto impero, Non come il primo Padre, e la sua donna, Debbiam del nostro error biasmare altrui; Ma con la speme accesa, e dolor vero Aprir dentro, passando oltra la gonna, I falli nostri a solo a sol con lui. FUggendo i Re gentili il crudo impero D' Erode per divina alta cagione Fuor dell' umana lor cieca ragione Entrar del natio regno al cammin vero: Così conviene a noi fuggir dal fero Mondo nemico, e con più acuto sprone Trovar la nostra eterna regione Per altro più solingo e bel sentero. Altera voglia, e rio disubbidire Ne fè cader dal cielo in questa valle; U' purga un lungo esilio un breve errore. Ma per grazia di Dio può risalire L' uomo alla patria vera, al primo onore Per quel dell' umiltà securo calle.


QUando il turbato mar s' alza e circonda Con impeto e furor ben fermo scoglio; Se saldo il trova, il procelloso orgoglio Si frange, e cade in se medesma l' onda; Tal io, s' incontra me vien la profonda Acqua mondana irata, come soglio, Levo al ciel gli occhi; e tanto più la spoglio Del suo vigor, quanto più forte abonda. E se talor il vento del desio Ritenta nova guerra, io corro al lido, E d' un laccio d' amor con fede attorto Lego il mio legno a quella, in cui mi fido, Viva pietra Gesù; si che quand' io Voglio, posso ad ognor ritrarmi in porto. SE quanto è inferma, e da se vil, con sano Occhio mirasse l' uom nostra natura; Ch' al crescere e scemar della misura Prescritta al corpo altri s' adopra in vano; Delle bisogne sue l' ingegno umano Al Padre eterno con la mente pura; Che veste i gigli, e degli augelli ha cura; Porrebbe lieto ogni pensiero in mano. Che s' ei tutto 'l ben nostro ha in se raccolto; Ami solo pur lui; sol prenda a sdegno Volger le luci altrove un gentil core. Col lato aperto su dal santo legno Ne chiama sempre colmo il petto e 'l volto, D' infinita pietà, d' immenso amore.


TRa gielo e nebbia corro a Dio sovente Per foco e lume, onde i ghiacci disciolti Siano, e gli ombrosi veli aperti e tolti Dalla divina luce, e fiamma ardente. E se fredda ed oscura è ancor la mente, Pur sono i pensier tutti al ciel rivolti: E par, che dentro in gran silenzio ascolti Un suon, che sol nell' anima si sente, E dice: non temer, che venne al mondo Gesù d' eterno ben largo ampio mare, Per far leggiero ogni gravoso pondo. Sempre son l' onde sue più dolci e chiare A chi con umil barca nel gran fondo Dell' alta sua bontà si lascia andare. SE del mio Sol divino lo splendente Lume nel mezzo giorno puro altero Rappresentasse ogni ora il bel pensero Fuor d' ogni nube all' amorosa mente; Uopo non fora mai la cieca gente Cercare in questo, o in quell' altro emispero Nell' amate sue stelle un raggio vero, Che ne mostrasse il suo bel lume ardente. Ma la nebbia dei sensi a noi sì spesso L' asconde, che l' interna vista inferma Quel folgor cerca in altra minor luce. Che se ben, come debil, non è ferma; Fermo è il desio, ch' ad un fin la conduce Or nelle stelle, ed or nel Sole istesso.


MIra l' alto principio, onde deriva, Anima, l' esser nostro; e vedrai bene, Ch' ei qua giù ti mandò con quella spene, Del cui gran frutto il proprio error ti priva. Sei presso, ove si passa all' altra riva D' eterna gloria, ovver d' eterne pene; Come qui sarai stata, alle sirene Volta del mondo, del lor canto schiva, Deh fa, che non ti volgan le seconde Dalla prima cagione, onde 'l disegno Divin s' offenda da mortai colori. Non sottragge la grazia, nè ci asconde La bella luce l' immortal sostegno, Quando emenda il pentire i nostri errori. ALma, poichè di vivo e dolce umore Ti pasce il caro Padre, ergi sovente La speme a lui, c' ha dileguate e spente Le 'nsidie ascose in noi dal proprio amore. Con la croce, col sangue, e col sudore, Con lo spirto al periglio ognor più ardente, E non con voglie pigre, ed opre lente Dee l' uom servire al suo vero Signore. Ogni fatica è dolce a quelle membra, Che vivon sempre unite (sua mercede) Al capo lor, che visse in tanto amaro. E 'l mio fido pensier pur mi rimembra, Ch' ei d' ogni ben fu per se stesso avaro, Quant' or è largo a chi l' ama con fede.


SIgnor, che 'n quella inaccessibil luce, Quasi in alta caligine, t' ascondi; Ma viva grazia, è chiari rai diffondi Dall' alto specchio, ond' ogni ben traluce; Genera il tutto; ed a fine il conduce Un solo cenno tuo; che puri e mondi Far può gli affetti altrui di sozzi immondi; Pur che l' uom segua te suo vero duce: Risguarda me, ti prego, in questo centro Terrestre afflitta; e come sempre sole, La tua pietade al mio scampo proveggia. Tirami omai tanto al tuo regno dentro, Ch' almen lontan mi scaldi il tuo gran Sole; E poi vicin il picciol mio riveggia. DImmi, lume del mondo, e chiaro onore Del cielo, or che 'n te stesso il tuo ben godi, Qual virtù ti sostenne; o pur quai nodi T' avvinser nudo in croce cotant' ore? Io sol ti scorgo afflitto, e dentro e fore Offeso, e grave pender da tre chiodi. Risponde; io legato era in mille modi Dal mio sempre ver voi sì dolce amore. Lo quale al morir mio fu schermo degno Con l' alta ubbidienza; ma l' ingrato Spirto d' altrui più, che 'l mio mal m' offese. Ond' io non prendo il cor pentito a sdegno Già caldo è mollè; ma il freddo indurato, Ch' a tanto foco mio mai non s' accese.


QUando fia il dì, Signor, che 'l mio pensero Intento e fisso in voi sempre vi veggia, Che mentre fra le nebbie erra e vaneggia: Mal si puote fermar nel lume vero. Scorgo sovente un bel disegno altero; Ch' entro 'l mio cor lo spirto vostro ombreggia, Ma quel vivo color, se ben lampeggia, Pur non si mostra mai chiaro ed intero. Deh squarci omai la man piagata il velo, Che 'n questo cieco error già quattro lustri Fra varie tempre ancor mi tiene involta. Onde non più da' rai foschi od illustri S' affreni, o sproni l' alma, ma disciolta Miri il gran Sol nel più beato cielo. CEleste Imperador, saggio, prudente, Sacerdote divin, pastore e padre, Muovi ver noi dalle tue invitte squadre Un sol dei raggi tuoi chiaro, lucente; Ch' allumi, e purghi omai l' oscura gente Della tua sposa nostra, vera madre: Rinnova in lei l' antiche opre leggiadre, Che nacquer sol di caritade ardente. Va il gregge sparso per cibarsi, e trova I paschi amari; ond' ei sen torna, ed ode Risonar l' arme altrui nel proprio ovile. E s' alcun (tua mercede) in pace gode Sì, che la guerra sprezzi, e tenga a vile, Per disturbarlo il mondo ogn' arte prova.


DEl mondo, e del nemico folle e vano Gir trionfando, e dell' iniqua morte, Signor, chiudendo le tartaree porte Pur con la nuda tua piagata mano; L' erto obliquo sentiero e dritto e piano Farne del cielo; e le tue luci scorte Essere a' santi Padri a quella corte, U' lor condusse il valor più che umano, Grand' opra fu di Re saggio, prudente; Ma raccorre i dispersi miei pensieri, Aprir per forza l' indurato petto, Far ch' in me sian l' altere voglie spente, Raccendendo i disiri umili e veri, Sol della tua pietà fia degno effetto. DI vero lume abisso immenso e puro Con l' alta tua pietà le luci amiche Rivolgi a questi, quasi vil formiche, Saggi del mondo, ch' anno il cor sì duro. Rompi dell' ignoranza il grosso muro, Ch' ancor gli copre; e quelle nebbie antiche Del vecchio Adamo scaccia, empie nemiche Al divin raggio tuo caldo e securo. Tal che rendendo al pastor santo onore, Vestiti sol di pura fede viva, Portin la legge tua scritta nel core: Sicchè dei poprii affetti ogni alma schiva, Voli con l' ali del verace amore Alla beata tua celeste riva.


LE braccia aprendo in croce, e l' alme e pure Piaghe, largo, Signore, apristi il cielo, Il limbo, i sassi, i monumenti, e 'l velo Del tempio antico, e l' ombre, e le figure. Le menti umane infin' allora oscure Illuminasti, e dileguando il gielo, Le riempiesti d' un ardente zelo, Ch' aperse poi le sacre tue scritture. Mostrossi il dolce imperio, e la bontade, Che parve ascosa in quei tanti precetti Dell' aspra e giusta legge del timore. O desiata pace, o benedetti Giorni felici, o liberal pietade, Che ne scoperse grazia, lume, amore! PAdre nostro e del ciel con quanto amore, Con quanta grazia, e in quanti vari modi Dal mondo, e da se stesso l' uomo snodi, Acciò libero a te rivolga il core. Rivolto poi di puro interno ardore L' accendi e leghi con possenti nodi: Indi lo fermi con sì saldi chiodi, Ch' ogni aspra morte gli par dolce onore. Dal fermo stato poi nasce la fede, Dalla fè lume, e dal lume la speme, E dal vero sperar fochi più vivi; Perchè non più rubello il senso cede Allo spirto, onde al ciel volano insieme, D' ogni cura mortal ritrosi e schivi.


PEr fede io so, che 'l tuo possente e forte Braccio creò quest' alma, e che venisti A dare ordine al mondo; onde vestisti Alto e divino bassa umana sorte: E che su l' aspra croce acerba morte, Per l' altrui colpa, umile e pio soffristi: E chiudesti lo inferno, ed indi apristi Per me del ciel le gloriose porte. Nè però t' amo; quant' io debbo, ond' io, Signor, del mio fallir meco mi doglio, Che forse allunga il fil della mia vita. Non ardisco allentar, nè men discioglio Il nodo, che legò la tua infinita Bontà, ma scopro il giusto desir mio. NEgar non posso, o mio fido conforto, Che non sia destro il luogo, e 'l tempo, e l' ore Per far voi certo dell' interno ardore, Che cotant' anni dentro acceso porto. E perchè questo, o quell' altro diporto Sottraggia al sempre procurarvi onore I sensi, è pur omai fermato il core Di non mai volger vela ad altro porto. M' avveggio or ben, che 'l mondo, e sterpi, e spine Torcer non ponno il destro e saggio piede Dal cammin dritto, s' ei risguarda al fine; Ma il proprio amore, e la non certa fede Delle cose invisibili divine Ne ritardano il corso alla mercede.


DI breve povertà larga ricchezza Esempio a' servi tuoi, Signor, mostrasti Con l' opre; e poi con le parole usasti Semplice gravitate, umile altezza: E d' ambedue con pura, alma dolcezza Sì vivo del tuo Sol raggio mandasti; Ch' essi ebber con desii purgati e casti D' aspramente morir somma vaghezza. Acciocchè 'l grido tuo grande per loro Fosse dal sordo e falso mondo inteso; Grido; che dal ciel chiama a vera vita: Onde spirando il santo foco acceso Ne mostra la via dritta al bel tesoro, Da te serbato a noi, ch' era smarrita. LE nostre colpe an mosso il tuo furore Guistamente, Signor, nei nostri danni; Ma se l' offese avanzano gli affanni, D' assai la tua bontà vince ogni errore. Chiede mercè ciascun carco d' orrore, Deposta la superbia; e i ricchi panni; Non fè ragione in lungo volger d' anni Quel, che 'l divin giudicio ha in sì poche ore. Vede 'l passato mal, piange 'l presente, Teme 'l futuro, e più il supplicio eterno. Che tal vita tal pregio al fine apporta. Scorga il bel raggio tuo la cieca gente; Senta il rimedio del tuo amor superno; Aprasi di pieta l' immensa porta.


RInasca in te mio cor questo almo giorno, Che nacque a noi colei, di cui nascesti, L' animo eccelso suo, l' ali ne presti Per gir volando al vero alto soggiorno. Di molti rai da pria cosperso intorno Era il suo mortal velo, e mille desti Sempre al ben far pensier divini, onesti; Poi dentro il fer di maggior lume adorno. So ch' ella prega te per noi, ma o pio Signor, prega tu lei, che preghi in modo, Ch' io senta oprare in me sua vital forza: Ond' io sciogliendo, anzi spezzando il nodo, Che qui mi lega, questa umana scorza Serva allo spirto, e sol lo spirto a Dio. VErgine pura, che dai raggi ardenti Del vero Sol ti godi eterno giorno; Il cui bel lume in questo vil soggiorno Tenne i begli occhi tuoi paghi e contenti; Uomo il vedesti, e Dio, quando i lucenti Suoi spirti fer l' albergo umile, adorno Di chiari lumi, e timidi d' intorno I tuoi ministri al grand' ufficio intenti. Immortal Dio nascosto in mortal velo L' adorasti Signor; Figlio il nudristi; L' amasti Sposo; e l' onorasti Padre. Prega lui dunque, che i miei giorni tristi Ritorni in lieti; e tu Donna del cielo Vogli in questo desio mostrarti Madre.


STella del nostro mar chiara e secura, Che 'l Sol del paradiso in terra ornasti Del mortal sacro manto, anzi adombrasti Col vel virgineo tuo sua luce pura; Chi guarda al gran miracol, più non cura Del mondo vile, e i vani empi contrasti Sdegna dell' oste antico, poi ch' armasti D' invitta alta virtù nostra natura. Veggio il figliuol di Dio nudrirsi al seno D' una vergine madre, ed ora insieme Risplender con la veste umana in cielo. Onde là su nel sempre bel sereno Al beato s' accende il vivo zelo; Al fedel servo quì la cara speme. QUando senza spezzar, nè aprir la porta Del bel cristallo, ov' era chiuso intorno, Volse uscir fuor per fare al mondo giorno Quel Sol, che sempre gli è fidata scorta; La Castità, benchè si fosse accorta, Che l' era onore, e non vergogna o scorno Il suo venir, pur timida al ritorno Le si fè incontro pallidetta e smorta; Ma la Fede la tenne, e disse, ch' ella Guardasse Apollo, il cui raggio lucente Rende col suo passar ciascuna stella: E che questo più chiaro e più possente, Mentre toccherà lei, sempre più bella Risplender la farà di gente in gente.


DOnna dal ciel gradita a tanto onore, Che 'l tuo latte il figliuol di Dio nudriva; Or com' ei non t' ardeva, e non t' apriva Con la divina bocca il petto e 'l core? O non si sciolse l' alma? e dentro e fore La virtù, i sensi, ed ogni parte viva Col latte insieme a un punto non s' univa, Per gir tosto a nudrir l' alto Signore? Ma non convien con gli imperfetti umani Termini misurar gli ordini vostri, Troppo al nostro veder erti e lontani. Dio morì in terra; or ne' superni chiostri L' uom mortal vive; ma debili e vani Sono a saperne il modo i pensier nostri. UN foco sol la Donna nostra accese Divino in terra, e quello in ciel l' accende: Quella stessa bontà chiara or comprende L' intelletto, ch' in parte già comprese. Le parole, che pria l' orecchia intese, Per celeste armonia l' anima intende; Con Dio immortal quel grado ora in ciel prende Di Madre, che con l' uom quì mortal prese. Cangiare obietto, o variar pensiero Uopo non le fu mai, perchè i bei sensi Fosser dalla ragion ripresi o vinti; Ch' infin dal primo giorno solo al vero Aperse gli occhi; e gli spirti ebbe accensi Sempre d' un solo ardor purgati e cinti.


COn che pietosa carità sovente Apria il gran figlio i bei secreti a voi, Madre divina; e con qual fè ne' suoi Precetti andaste voi più sempre ardente. Il vostro santo amor prima fu in mente Di Dio formato, e in carne quì fra noi Ristretto, e 'n ciel con maggior nodo poi Rinnovato più saldo e più possente. S' ei nacque, s' ei morì, s' ei salio al cielo, Per compagna, rifugio, ancella, e Madre Seco vi scorgo con umile affetto: Ed ora il dolce Sposo, e l' alto Padre Col caro Figlio a voi rendon perfetto Guiderdon dell' acceso vostro zelo. L' Alto consiglio, allor che elegger volse Madre a Dio in terra, con divina cura Vedendo già cader nostra natura, Lei sola tenne, e 'n grembo a se l' accolse. Dal giusto sdegno suo colui la tolse, Che sol forma le leggi, e 'l ciel misura; E fuor d' ombra d' error candida e pura Dal nodo universal non mai la sciolse; Perchè non la legò, nè meno in forse La lasciò di cader; ma caro in mano Sempre serbò quel bel cristallo intero. E por far l' ordin suo più dritto, il torse Per altro solo a lui noto sentero; E lo condusse al cammin nostro umane.


QUando vedeste, Madre, a poco a poco Al Figliuol vostro il vivo almo splendore Fuggir dagli occhi, e 'n sua vece l' amore Sfavillar d' ogn' intorno ardente foco; Credo, che i vostri spirti andar nel loco Dei suoi, per riportarne al vostro core Quei, che v' eran più cari, ma brevi ore Furon concesse al doloroso gioco; Che la morte gli chiuse, onde s' aperse La strada a noi del ciel, prima serrata Mille e più lustri dalla colpa antica. Lo scudo della fede in voi sofferse Il mortal colpo, onde ogni alma ben nata Nel favor vostro sua speme nudrica. MEntre la Madre il suo Figlio diletto Morto abbracciava, nel fido pensero Scorgea la gloria del trionfo altero, Ch' ei riportava d' ogni spirto eletto. L' aspre sue piaghe, e 'l variato aspetto L' accresceva il tormento acerbo e fero; Ma la vittoria dell' eterno impero Portava all' alma novo alto diletto. E 'l sommo Padre il secreto le aprio Di non lasciare il Figlio, anzi aver cura Di ritornarlo gloriso e vivo. Ma perchè vera madre il partorio, Certo è, che infino alla sua sepoltura Sempre ebbe il cor d' ogni conforto privo.


CHi desia di veder pura ed altera Fiamma del ciel, che senza ardere accende; Candida neve, e un bel Sol, che la rende Tal, che falda di lei unqua non pera; Miri la Vergin sacra, Madre vera Di Dio col santo Spirto, che discende Oggi al suo petto; e 'l Sol, che la comprende Dentro e d' intorno con l' eterna spera: E vedrà il chiaro suo raggio celeste Nel candor già dal foco sì ordinato, Che le tesse d' intorno ornata veste: Onde, quando Gesù fia a noi rinato, Le parti insieme si vedran conteste Divine umane in quel parto beato. ETerna Luna, allor che fra 'l Sol vero, E gli occhi nostri il tuo mortal ponesti, Lui non macchiasti, e specchio a noi porgesti, Da mirar fiso nel suo lume altero: Non l' adombrasti, ma quel denso e nero Velo del primo error coi santi onesti Tuoi prieghi, e i vivi suoi raggi rendesti D' ombroso e grave, candido e leggiero. Col chiaro, che da lui prendi, l' oscuro Delle notti ne togli, e la serena Tua luce il calor suo tempra sovente; Che sopra il mondo errante il latte puro, Che qui 'l nudrì, quasi rugiada, affrena Della giusta ira sua l' affetto ardente.


PAdre Noè, del cui buon seme piacque A Dio rinnovellar l' antico mondo, Allor che nel gran pelago profondo Colmo di grave error sommerso giacque: S' al puro occhio divin cotanto spiacque Quel secolo vie men di questo immondo; Con giusta ira minaccia or del secondo Diluvio d' uman sangue, e non pur d' acque; Prega che 'n quel furor umile e pura Io la mente aggia, e sì del suo onor carca, Che non si volga a men pregiata cura; Ma chiusa internamente dentro all' arca Viva la fede mia chiara e secura D' ogni nebbia mortal, d' ogni ombra scarca. IL porvi Dio nell' Arca, e farvi poi Padre di miglior gente, già non sono Cagione, ond' io, Noè, di voi ragiono; Nè il fido aprirvi i gran secreti suoi; Ma che fra tanto numero sol voi Risguardasse dal ciel per giusto e buono, E 'n voce e 'n opra lo mostrasse, è un dono, Che d' invidia e d' amor infiamma or noi. Quando l' odio e lo sdegno discoverse Al mondo, che nell' ira sua si giacque; Con dolce amor e pace a voi s' offerse: E mentre ch' allargò del furor l' acque; Con l' onde della grazia vi coverse: Cotanto il vostro ben oprar gli piacque.


POtess' io in questa acerba atra tempestae Del travagliato mondo entrar nell' arca Col caro a Dio Noè; poi ch' altra barca Non giova all' acqua perigliosa, infesta: O con la schiera Ebrea, ch' ardita e presta L' aperto Rosso mar secura varca; E poi sul lito del gran peso scarca Ringrazia Dio, cantando in gioia e festa: O con Pietro il mio core, allor ch' io sento Cader la fede al sollevar dell' onde, Dalla divina man sentisse alzarsi: E s' al lor l' esser mio non corrisponde; Non è il favor del ciel scemato e spento; Nè quei soccorsi fur mai lenti o scarsi. L' Antiche offerte al primo tempio il pondo Sgravar del nostro error; ma non s' offerse L' ostia divina al Padre, anzi ei sofferse Sol per un segno il sacrificio immondo: Oggi di novo onor s' orna il secondo Tempio felice; oggi il Signor scoverse E l' ombre e le figure; oggi s' aperse Con pura offerta il vero lume al mondo: Il quale a Simeone sì addentro giunse, Che pregò di serrar gli occhi per sempre, Per sempre aprirgli in quello eterno Sole. E se non che alla Vergin le parole Drizzò, perchè 'l morir di Cristo il punse, Sarebbe morto in quelle dolci tempre.


L' Aura vital di Cristo in mezzo il petto Spirava a Simeon sì vera vita, Che con la propria sua da se sbandita Stava in quella di Dio chiuso e ristretto; Pregando con interno, ardente affetto, Ch' essendo or l' alma a tanto onor gradita D' abbracciar con virtù breve e finita L' infinito di Dio Verbo concetto; Andasse a' Padri santi a dir, che 'l core L' aderò in terra Dio, che 'l cinse il braccio Fanciullo umil, sol di vil fascia adorno. Il qual, poi che di lume, grazia, e ardore Fatto avria chiaro il mondo, a far lor giorno Andrebbe, e a sciorli dell' antico laccio. VEggio d' alga e di fango omai sì carca, Pietro, la rete tua, che se qualche onda Di fuor l' assale, o intorno la circonda, Potria spezzarsi, e a rischio andar la barca; La qual, non come suol leggiera e scarca, Sovra 'l turbato mar corre a seconda; Ma in poppa e'n prora, all' una e all' altra sponda E' grave sì, ch' a gran periglio varca. Il tuo buon successor, ch' alta cagione Dirittamente elesse, e cor e mano Move sovente per condurla a porto; Ma contra il voler suo ratto s' oppone L' altrui malizia, onde ciascun s' è accorto, Ch' egli senza 'l tuo aiuto adopra in vano.


QUante dolcezze Andrea Dio ti scoverse, Allor che salutandol di lontano, Adorasti il supplicio empio inumano, Ove al Padre il Figliuol per noi s' offerse. Col santo foco suo lo cor t' aperse, E vi raccolse con la forte mano Dentro l' altre virtù, che 'l nostro insano Voler manda di for vaghe e disperse. Onde nell' aspra croce il dolce e 'l chiaro Del ciel vedesti, e quella dolce vita, Che parve agli altri ciechi dura morte. La tua fortezza celere e spedita Vittoria elesse per vie dritte e corte, Che fanno il viver bello, e 'l morir caro. ALla durezza di Tommaso offerse Il buon Signor la piaga, e tai gli diede Ardenti rai, ch' a vera ed umil fede L' indurato suo cor tosto converse. L' antica, e nova legge gli scoverse In un momento, ond' ei si vide erede Del ciel, dicendo: è mio ciò, ch' ei possede, Se quell' è mio, che tanto ben m' aperse! Ond' ei gli disse poi: maggior è 'l merto Di creder l' invisibile per quella Virtù, che non ha in se ragione umana. Il ciel fu a lui col bel costato aperto; A noi la strada assai più corta e piana Per fede di trovar l' orma sua bella.


NOn sol per la sua mente e pura e retta Il Martir primo in Dio le luci fisse Tenne, pregando sì, ch al ciel prescrisse Il far del suo morir degna vendetta; Anzi ogni pietra a lui, quasi saetta Parea, che 'l ciel più largamente aprisse: Ed ei più pronto, e più lieto sen gisse Verso la gloria al suo martir eletta. Per suoi nemici orò: nè mercè impetra Madre con tal desio per figlio caro; Quant' ei pregò per lor con dolce pieta. Nè mai lucida gemma ad uomo avaro Fu in pregio sì, come a lui quella pietra, Che più dritto gli giunse in mezzo 'l core. QUel chiaro spirto, in cui vivo ed ardente Foco celeste dentro in modo ardea, Che le fiamme mortai, ch' intorno avea Sì accese, a lui parean gelate e spente; Non ebbe il desir parco, o le man lente Al tesoro donar, perch' ei godea Dell' alto eterno; u' già ricca vivea Lungi dal corpo suo l' accesa mente. E disse: la sua notte all' empio duce Non era oscura, però che 'l gran Sole L' avea dei raggi suoi cinto ed armato. Con l' opra, coi pensier, con le parole Mostrò che possedea l' almo e beato Ardor, l' oro immortal, la vera luce.


DOnna accesa, animosa, e dell' errante Vulgo lontana in solitario albergo Parmi lieta veder, lasciando a tergo Quanto non piace al vero eterno amante: E fermato il desio, fermar le piante Sovra un gran monte, ond' io mi specchio e tergo Nel bello esempio, e l' alma drizzo ed ergo Dietro l' orme beate, e l' opre sante. L' alta spelunca sua questo alto scoglio Mi rassembra, e 'l gran Sole il suo gran foco, Ch' ogni animo gentil anco riscalda. In tal pensier da vil nodo mi scioglio, Pregando lei con voce ardita e balda M' impetri dal Signore appo se loco. NEll' alta eterna rota il piè fermasti, Donna immortal, quando col santo ardire Quella della fortuna, e del martire Contra i nimici tuoi lieta girasti. Aprio il ferro tuo cor, e nol piegasti A minaccie, o lusinghe; anzi il desire Corse al suo fin per me gli sdegni e l' ire, Trovando pace in sì fieri contrasti. L' alma nel divin monte altera siede, U' Dio pasce gli eletti; e 'l mortal velo Nell' altro, ov' ei la legge al popol diede. Caterina, se in terra il tuo gran zelo Tant' alme trasse alla verace fede; Prega per me il Signor, poichè se 'n cielo.


FRancesco, in cui, siccome in umil cera, Con sigillo d' amor sì vive impresse Gesù l' aspre sue piaghe, e sol t' elesse A mostrarne di se l' immagin vera; Quanto ti strinse, ed a te quanto intera Diè la sua forma, e le virtuti stesse, Onde fra noi per la sua Sposa eresse Il tempio, il seggio, e l' alma insegna altera. Povertate, umil vita, e l' altre tante Grazie t' alzaro al più sublime stato, Quanto più ti tenesti e basso e vile. L' amasti in terra, or prega in ciel beato Spirto, ch' io segua la bell' orma umile, I pensieri, i desiri, e l' opre sante. DIetro al divino tuo gran Capitano Seguendo l' orma bella, ardito entrasti Fra perigliose insidie, aspri contrasti Con l' arme sol dell' umiltade in mano. Mentre il mondo sprezzando e nudo e piano Solo della tua croce ricco andasti Per deserti selvaggi, a noi mostrasti Quanto arda il divin raggio un cor umano, Divo Francesco, a cui l' alto Signore Nel cor l' istoria di sua man dipinse Del divin suo ver noi sì grande amore: Poi seco t' abbracciò tanto e distrinse, Che scolpio dentro sì, ch' apparver fore Le piaghe, ond' ei la morte, e 'l mondo vinse.


SE 'l nome sol di Cristo in cor dipinto Basta a far forte, e pien d' alto valore Un fedel servo sì, ch' ogni vigore Ha sempre in guerra di vittorie cinto; Quanto più arditamente Ignazio spinto Fu al tormento, alle bestie, ed al dolore, Avendol sculto in lettre d' oro al core Securo allor di più non esser vinto? Che nè foco, nè venti, nè saetta Poteano entrar fra cotal scudo, e lui; Sì forte e interna fu la sua difesa. Il mortal velo era in potere altrui, Ma l' alma invitta già secura eletta Stava col suo Gesù d' amore accesa. LUme del ciel, che ne' superni giri Ten porti il cor per non vedute scale, Ove nostro sperar per se non sale, Nè dassi ad uom mortal, che a tanto aspiri; Tu porgi agli affannati bei desiri Virtù da non spiegare indarno l' ale; Tu sol far puoi, ch' un' alma inferma e frale Al tuo vivo splendor s' erga e respiri. O benedetta luce, a cui d' intorno Fuggon queste false ombre, e nudo il vero, Quant' occhio mirar può, chiaro si scopre. Benedetto colui, ch' ogni pensero Ferma a' bei raggi, e benedette l' opre, Che fien lodate in quello eterno giorno.


DEh manda Santo Spirto al mio intelletto Quel chiaro raggio, da cui fugge ogn' ombra, Onde la fiamma sua, che scaccia e sgombra Ben indurato, giel, m' accenda il petto. L' occhio al ciel s' erge, ma con l' imperfetto Fosco lume mortal spesso s' adombra; Cerca l' alma il suo bene, e poi s' ingombra, Se stessa amando più, che 'l vero obietto. Non può la mia finita egra virtute Scorgere i raggi, nè sentir l' ardore Dell' infinito Sol senza il tuo lume. Dammi, ti prego, o mia viva salute; Ch' omai, vestita di celesti piume, Voli alla vera luce, al vero amore. DI cento invitti scudi armato intorno Mi parve avere il cor, quand' ebbi letti I chiari nomi, e quei sì veri detti, Che an ciascun d' essi d' alta gloria adorno. Onde spinta d' amor sovente torno Là su con l' alma, ove i bei spirti eletti Lodano i nomi, e sentono gli effetti Del Sol, che sempre lor fa chiaro giorno. E così spesso il prego, che ogni nome Di questi l' ora mille e mille volte Mandi entro il vostro cor nove dolcezze, Tal ch' io impari a sentir da voi, siccome Vivono al dolce suon tutte raccolte L' alme, a tanta armonia mai sempre avvezze.* Original has semicolon instead of period.


SPirti del ciel, che con soavi canti La gloria del Signor la su lodate, E con via maggior forza dimostrate I bei concetti ripurgati e santi; Che noi quì lungi fra miserie e pianti Coi pensier bassi, e con le voglie ingrate, Perch' ad un fin le nostre alme create Pur sono, e vivon d' uno obietto amanti; Di propria man, con quel divino ardore, Che pasce noi quì peregrini in terra, E sazia in patria voi bei fochi eletti; Legate la preghiera, che non erra, Vostra con questa mia carca d' errore, Ond' ei (vostra mercè) lieto l' accetti. UDir vorrei con puri alti pensieri La vostra guerra in ciel, Spirti beati, Non di ferro, o d' orgoglio, o d' ira armati, Ma di concetti in Dio stabili e veri Contra i nemici, che in se stessi alteri, Insuperbir, dal proprio amor legati, Contra il principio lor ciechi ed ingrati, Sol per immagin false arditi e fieri; Ma se ben per la patria, e per l' onore Di Dio v' armaste, e per la pace eterna, D' altra maggior virtù fu la vittoria; Voi v' inchinaste all' infinito amore Di Gesù dolce, onde 'l Padre superna Grazia concesse a voi per la sua gloria.


BEati voi, cui tempo, nè fatica Far può lo spirto vostro afflitto o stanco; Nè per la notte il dì viene a voi manco, Nè copre nebbia il Sol, che vi nutrica! Per labirinti, o reti non s' intrica Il vostro piè, ma sta securo e franco In porto; nè vi rende il pelo bianco Vecchiezza, al vaneggiar nostro nemica. Un sol foco il desio nudrisce e incende, E 'l dolce desiar non ange il core, Nè la sazietà fastidio rende. Gradito a maggior gloria è chi più amore Ebbe a Dio in terra, nè l' invidia offende L' un, perchè l' altro abbia più grande onore. ANgel beato, a cui il gran Padre espresse L' antico patto, e poi con noi quel nodo, Che diè la pace, e la salute, e 'l modo D' osservar l' alme sue larghe promesse; Lui, ch' al pietoso ufficio pria t' elesse, Con l' alma inchino, e con la mente lodo, E dell' alta ambasciata ancora io godo, Che 'n quel virgineo cor sì ben s' impresse; Ma vorrei mi mostrasti il volto e i gesti, L' umil risposta, e quel casto timore, L' ardente carità, la fede viva Della Donna del cielo, e con che onesti Desiri ascolti, accetti, onori, e scriva I divini precetti entro nel core.


DAltro, che di diamante, o duro smalto Ebbe lo scudo, allor che l' empie e fere Del superbo nemico invide schiere Mossero in ciel quell' orgoglioso assalto, L' Angel, per la cui forza ella il mal salto Fer dalla luce chiara all' ombre nere, Il cui bel pregio fu grazia e podere Di non peccare. O raro dono ed alto! Cagion di gloria all' onorate squadre Fostu Signor Gesù, viva mia luce, Ch' accendesti a Michel l' ardire invitto, Lo qual vide allo specchio del gran Padre, Come sareste sempre in quel conflitto Dell' Angelo, e dell' uom difesa e duce. QUanta gioia tu segno e stella ardente, Allor che i vivi bei raggi fermaste Sul tugurio felice, al cor mandaste Dei saggi Re del bel ricco Oriente! E voi quanto più basso il Re possente Fasciato, picciolin, pover trovaste, Più grande alto il vedeste, e più l' amaste, Ch' al ciel tanta umiltà v' alzò la mente. Il loco, gli animali, e 'l freddo, e 'l fieno Davano, e i panni vili, e 'l duro letto Dell' alta sua bontà securo segno. E per la stella, e per lo chiaro aspetto Della possanza, avendo in mano il pegno, L' adoraste col cor di gioia pieno.


ALta umiltade, e sopra l' altre cara Virtuti a Dio, le cui parole ed opre Dimostran quanti bei secreti scopre La sua mercede, chi da lui t' impara; Se tu sei dolce, è ben più tanto amara La tua avversaria, ch' ogni ben ricopre, E più fiera mai sempre par ch' adopre Contra di te, che sei virtù sì rara. Tu combatti per pace, ella per ira: Ella cerca il suo onor, e tu la gloria Del Signor, che concede il campo e l' armi. Non può fallir la tua secura mira, Perchè 'l piede erri, o la man si disarmi, Che vive entro 'l tuo cor la tua vittoria. SPirto felice, il cui chiaro ed altero Sguardo lunge discerne, e quanto intorno Circonda gli elementi, e quanto il giorno Discopre, è basso al vostro alto pensero: S' alzate puro e vivo al lume vero, Che v' ha del suo splendor fatto sì adorno, L' occhio immortal, vedrete in quel soggiorno L' alto destin del vostro sacro impero; Onde poi non sarete o stanco o scarso Di rinnovar fra noi l' antico seme, Ch' a frutto eterno alfin l' alma conduce. Allor le regal voglie unite insieme Daran la verga in man del gregge sparso A voi padre, pastor, maestro, e duce.


QUanto intender qui puote umano ingegno Per lungo studio con la scorta cara Del ciel, dal cui bel lume il ver s' impara, Credo ch' intenda il vostro spirto degno: Sicch' io non già per dar luce o sostegno Al raggio della vostra e salda e rara Fede, per l' opre al mondo omai sì chiara, Ch' a noi dell' altro è ben securo pegno: L' immagin di colui v' envio, ch' offerse Al ferro in croce il petto, onde in voi piove Dell' acqua sacra sua sì largo rivo; Ma sol perchè il Signor qua giuso altrove Più dotto libro mai non vi s' aperse, Per la su farvi in sempiterno vivo. DIletta un' acqua viva a piè d' un monte, Quando senza arte la bell' onda move: O quando in marmi, ed oro immagin nove Sculte dimostra un ricco ornato fonte; Ma 'l vostro vago stil fa al mondo conte Ambe le glorie non vedute altrove; Della natura l' alte ultime prove Con la forza dell' arte insieme aggionte: La qual raccoglie così ben d' intorno L' acqua, e sì pura, che vi lascia intero Della sua vena il naturale onore. Bembo mio chiaro, or ch' è venuto il giorno, Ch' avete sol a Dio rivolto il core, Volgete ancor la bella Musa al vero.


POi che nell' alta vostra accorta mente, Dove gran tempo han fatto albergo in pace L' alme virtuti, entrò la viva face Del vero Sol, più che in ogni altra ardente; Dal puro foco acceso, e dal possente Raggio illustrato, quel vostro vivace Spirto, cui per natura il vizio spiace, Altra luce vagheggia, altro ardor sente. Sen vanno al sommo omai le belle e vive Grazie vostre, Signor, col sovra umano Valor, che da se scaccia ogni opra vile. Ond' or Gesù col suo più caro stile I gran secreti di sua propria mano Entro 'l purgato cor vostro descrive L'Opre divine, e 'l glorioso impero In terra, e 'n ciel del chiaro eterno Sole Scrisser quei Santi in semplici parole, Che non giunser con arte forza al vero. Mossa da simil fede io scrivo, e spero, Che se le lode vostre, al mondo sole, Qual posso, canto, e come il ver le vole, Non se ne sdegni il vostro animo altero. E quasi gemma, cui poco lavoro D' intorno fregia sì, ch' altra vaghezza Non può impedir la sua più viva luce; Il vostro onor, salito a tanta altezza, Ch' uopo non ha di più ricco tesoro, Dentro 'l mio basso stil nudo riluce.


IL nobil vostro spirto non s' è involto Fra l' ombre in terra, ma col chiaro stuolo Delle Grazie del Ciel salendo a volo Quasi alla vista nostra omai s' è tolto: E già del nodo uman vive disciolto Per man celeste, sicchè 'l divin Polo, Che va sopra le stelle altero e solo, Lo sguardo suo ver voi lieto ha rivolto. Immortal Federico, onde all' amate Vostre luci l' esempio di quel Sole Manda, il cui raggio in ambedue risplende Sì vivo, che son rare, o forse sole L' alte e vere virtù, ch' allumina e incende* Original is obscured, but the phrase is most likely "illumina e incende". Nelle vostre gradite alme ben nate. FIglio e Signor, se la tua prima e vera Madre vive prigion, non l' è già tolto L' anima saggia, o 'l chiaro spirto sciolto, Nè di tante virtù l' invitta schiera. A me, che sembro andar scarca e leggiera, E 'n poca terra ho il cor chiuso e sepolto, Convien, ch' abbi talor l' occhio rivolto, Che la novella tua madre non pera. Tu per gli aperti spaziosi campi Del Ciel cammini, e non più nebbia o pietra Ritarda, o ingombra il tuo spedito corso. Io grave d' anni agghiaccio; or tu, ch' avvampi D' alma fiamma celeste, umil m' impetra Dal comun Padre eterno omai soccorso.


PErchè la mente vostra ornata e cinta D' eterno lume, serbi la sembianza Del gran Motor nella più interna stanza, Ove albergar non puote immagin finta; Forse da quella ardente voglia spinta, Che mai non s' empie, anzi ad ognor s' avanza, Com' esser suol de' veri amanti usanza, Aggradir le potrebbe anco dipinta. Ciò pensando, Signor, la vostra umile Nova Madre e ancella, ora v' invia L' opra, ch' in voi miglior mastro scolpio; Pregandovi, ch' a dir grave non sia, Se questa in parte a quell' altra è simile, Cui sempre mira il vostro alto desio. QUesta immagin, Signor, quei raggi ardenti, Che mostra spesso al vostro acceso core, Mentre infiammato voi d' eterno ardore, Gli spirti avete in lei paghi e contenti; Serba ancor sì vivaci e sì lucenti, Ch' io mirando sovente il bel splendore, Tremo, ardo, piango, e bramo a tutte l' ore Di tener gli occhi in lei fissi ed intenti; Dicendo: o vedess' io, quando il gran Sole, Quasi in chiaro cristallo arde e risplende Nella lucida vostra alma beata; Ed ella le faville ardenti e sole Ricevute da lui lieta gli rende, E ne riman via più, che prima, ornata.


NOn può meco parlar dell' infinita Bontà, Donna fedel, la vostra mente, Ch' entrando in quel gran pelago, si sente Tirar con dolce forza all' altra vita. Non ha discorso allor, mentre gradita Sovra l' uso mondan l' alma consente, Che se non si discioglia, almen s' allente Il nodo, che la tien col corpo unita. Nel cospetto divino il nostro indegno Voler s' asconde sì, ch' ella non vede, Nè sente altro, ch' ardor, diletto, e luce: E porta poi, quando a se stessa riede, Impresso del gran lume un sì bel segno, Che dal cor vostro agli occhi miei traluce. ODo, ch' avete speso omai gran parte De' migliori anni dietro al van lavoro D' aver la pietra, che i metalli in oro Par che converta sol per forza d' arte; E che 'l vivo Mercurio, e 'l ferreo Marte Col vostro falso Sol, sono il ristoro Del già smarrito onor, per quel tesoro, Ch' or questo idolo, or quel con voi comparte. Correte a Cristo, la cui vera pietra Il piombo dell' error nostro converte Col Sol della sua grazia in oro eterno. Soffiate al foco suo, che sol ne spetra Dal duro ghiaccio umano, e per le certe Ricchezze andate al gran tesor superno.


S'Io potessi sfrondar dall empia e folta Selva amorosa i rami, u' più s' intrica L' alma, del suo piacer fatta sì amica, Che lieta l' ombra lor si sta raccolta; Con l' opre, e con la mente umil rivolta, Al gran Principio nostro aspra nemica, Di sì obliquo sentier util fatica Forse avria, ch' il mio duol pietoso ascolta; Ch' io l' occhio destro all' alta luce prima Fermar sempre vorrei, ma questa ardente, Benchè sia onesta, voglia indi lo svia; Potria purgar lo stil con altra lima, Scorta da maggior lume allor la mente, E volare al suo fin per miglior via. OR veggio, che 'l gran Sol vivo e possente, Fuor del cui lume a' buon nulla riluce, Col mortal casto amor l' alma conduce Alla divina sua fiamma lucente. E ch' ei volle sgombrar pria la mia mente Con quel picciol mio Sol, ch' ancor mi luce, Per entrarv' egli poi suprema luce, E farla del suo foco eterno ardente. Parea pur raggio qui dal Ciel mandato, Quasi favilla, che si mostra in segno, Che ne vien dopo lei fiamma maggiore; Però sempre l' amai, senza disegno Da colorirsi in terra, ond' ei beato So, ch' or prega per me l' alto Signore.


SE 'l comun Padre, or del suo Cielo avaro, M' asconde voi miei lumi, e lui mio Sole; L' altro immortal, cui l' alma adora e cole, Scorge ella più che mai lucente e chiaro; E del suo vivo raggio ardendo, imparo, Che non quel dolce, che quì il senso vole, E' buon cibo per noi, ma quel, che sole Essere al gusto più noioso e amaro; Perchè dell' alta luce oggi un bel lampo Venne lieto, e sgombrò quante al mio core Erano folte nebbie avvolte intorno. E mentre ei splende, io di desire avvampo D' aver pur notte agli occhi altrui di fore, Per veder dentro in me lucido giorno. QUanto è più vile il nostro ingordo frale Senso terren della ragione umana, Tanto ella poi riman bassa, lontana Dallo Spirto divin, che sempre sale. Non han principio, fin, nè mezzo eguale: La ragion par col senso infermo sana; Ma con lo Spirto eterno è un' ombra vana, Che con quel lume il suo poder non vale. Ben puote ella abbracciar la breve terra, Signoreggiando il senso, ma non mira Il superbo disio, ch' entro allor serra. E quando giunge a quanto il mondo aspira, Trova pace di fuor, ma dentro guerra, Onde del proprio error seco s' adira.


DUe chiari effetti dell' eterno Sole Oggi il suo tempio in vari modi onora; Per la prima, che venne, e poi per l' ora Ultima, che partì, l' adora e cole: Onde non quanto deve, o quanto vuole, Ma quanto può, s' accende e s' innamora (Sua mercè) il cor, bench' ei rinasca e mora, Mentre del vario oprar s' allegra e duole: E corre per soccorso a quella stella, Ch' è sempre seco, e s' egli in Oriente Lieto la scorge, lieto l' accompagna. Ma se dolente poi discerne, ch ella Guarda i bei raggi ascosti all' Occidente, Del suo grave dolor seco si lagna. DIvina fiamma allor più all' alma amica, Quando più la consuma ardente e pura Virtù, che m' arde insieme ed assecura, Che mentre strugge fuor, dentro nutrica; Invisibil vigor, che non s' intrica Con materia, con forma, o con figura, Vive in se stesso, e di tutt' altri cura Prende senza sentir noia o fatica; Foco immortal, che dalla viva pietra Sfavilla in noi sì chiaro e sì beato, Ch' ogni gelato petto alluma e accende; Ed in breve ora caldo e molle rende Quel, ch' ama e crede; e quel superbo ingrato, Che gli contrasta, lo raffredda e impetra.


QUando 'l Signor nell' orto al Padre volto Pregò per lo mortal suo chiaro velo; D' intorno al cor gli corse un freddo gielo, Volgendo a' cari amici il mesto volto; E trovò ciascun d' essi esser sepolto Nel sonno, ch' ogni vero ardente zelo Dormiva in terra, e desto tutto in cielo S' era al suo danno, e nostro ben raccolto: Ond' allor per destar la pigra terra, E quetar là su il ciel, riprese ardire, Com' uom, ch' a grande ed alta impresa aspira; E intrando in mezzo la spietata guerra, Tolse agli amici in quel sì bel morire Il grave sonno, ed al gran Padre l' ira. FErmo al Ciel sempre col fedel pensiero L' uomo, quì peregrino esser devria; S' all' altra Patria vuol per dritta via Col favor di là su correr leggiero; Onde lo spirto acceso al lume vero Di quanto quì di buono opra o desia, Renda grazie al gran Padre, e quanto invia Riceva lieto dal suo giusto impero. Allor la fede mostra in quella face Del divin Figlio la beata speme Dell' infallibil sue promesse eterne: E perchè ancor con le promesse insieme La bontà, che le dona il cor, discerne, D' amor ardendo vive, e lieta pace.


SEntiva l' alma questa grave e nera Prigion terrestre, ove si vede involta, Indebilirsi, ond' ella lieta e sciolta Volar sperava alla sua patria vera; Ma la sempre ribella voglia altera, Che sol se stessa, e i suoi pensieri ascolta, Dall' alta sua ragion l' ha indietro volta, Perch' ella teme quel, che l' altra spera: E l' ha condotta a tal, ch' omai consente A questa sua avversaria ardita e forte, Rifare il carcer suo, com' era in prima. Romper non lice a noi le chiuse porte Per liberarne, nè men con ardente Cura impedir quella celeste lima. MEntre l' aura del Ciel calda e soave eletto, (Sua mercè) spira in questo e quello I più secreti alberghi apre del petto Con l' invisibil sua divina chiave; Di speme acceso più timor non ave, Ch' arde il bel foco, gielo, ombra, e sospetto: Non vuol sì grande, e sì possente obietto, Che 'l mortal manto allor punto l' aggrave: Onde secura e ben tranquilla pace, Se pur brevissima ora l' alma sente, Serve per arra qui dell' altra eterna; Ma non quanto in se stessa si compiace, Di grazia acquista, ma quanto consente Al raggio dell' ardor, che la governa.


VEggio la vite gloriosa, eterna Nel suo giardin, sovra ogni stima adorno, Cinta di mille e mille rami intorno, E quel più verde, che più in lei s' interna, Tenergli con virtute alta superna Felici all' ombra del suo bel soggiorno; E vuol, che seco al Ciel faccian ritorno, Onde gli ciba, purga, erge, e governa: E s' alcun ne produce frutti e fiori, Che sian di sua radice, ella ne onora Il grande agricoltor di gloria intera; E perch' ei sparga più soavi odori, Con la celeste sua rugiada vera Di nuovo lo rinfresca, apre, e incolora. LA bella donna, a cui dolente preme Quel gran desio, che sgombra ogni paura, Di notte sola, inerme, umile, e pura, Armata sol di viva ardente speme Entra dentro 'l Sepolcro, e piange e geme; Gli Angeli lascia, e più di se non cura; Ma a' piedi del Signor cade secura, Che 'l cor, ch' arde d' amor, di nulla teme. Ed agli uomini, eletti a grazie tante, Forti, insieme rinchiusi, il lume vero Per timor parve nudo spirto ed ombra. Onde se 'l ver dal falso non s' adombra, Convien dare alle donne il pregio intero D' avere il cor più acceso, e più costante.


SE l' imperio terren con mano armata Batte la mia Colonna entro e d' intorno; La notte in foco, e in chiara nube il giorno Veggio quella celeste alta e beata (Sua mercè) con la mente, onde portata Sono in parte talor, che se in me torno Dal natural amor, che fa soggiorno Dentr' al mio cor, ben spesso richiamata, Mi par per lungo spazio e queto e puro, Quanto discerno, e quanto sento, caro. Non so se l' alma per suo ben vaneggia, O pur se 'l largo mio Signor, che avaro Di fuor si mostra al tempo freddo oscuro, Dentro più dell' usato arde e lampeggia. DIvino spirto, il cui soave ardore Ne infiamma, e col gran Padre in dolce modo Per mezzo del Signor nostro ad un nodo Lega l' alme ben nate in vero amore; Tante grazie, e non più può darti il core, Quanto lume riceve, e quel sol lodo, Che (tua mercede) intendo, e mentre godo Del foco sacro tuo, ti rendo onore. Io per me sono un' ombra indegna e vile, Sol per virtù dell' alme piaghe sante Del mio Signor, non per mio merto, viva; Egli giusta mi rende, sciolta e priva Del vecchio Adamo; e tu mio caro Amante Rendimi ognor più accesa, ognor più umile.


O Quanto il nostro infermo lume appanna La nebbia rea delle speranze insane! Non ebbe mai, mentre durò 'l suo pane, La gente Ebrea dal ciel divina manna. Il simil, mentre l' uom si strugge e affanna In cercar le ricchezze e glorie umane, Fermando l' occhio in queste luci vane, Col suo proprio desir se stesso inganna. Convien, qual peregrin sciolto e leggiero, Gir con l' opre amorose, e con la mente Fedele e salda al glorioso albergo. Allor luce verrà, che non consente, A cui la scorge, unqua volgersi a tergo, Ma andar innanzi, ov' è giunto il pensiero. QUand' io riguardo il mio sì grave errore, Confusa al Padre eterno il volto indegno Non ergo allor, ma a te, che sovra il legno Per noi moristi, volgo il fedel core. Scudo delle tue piaghe, e del tuo amore Mi fo contra l' antico e novo sdegno; Tu sei mio vero prezioso pegno, Che volgi in speme e gioia, ansia e timore. Per noi su l' ore estreme umil pregasti, Dicendo: io voglio, o Padre, unito in cielo, Chi crede in me sì, ch' or l' alma non teme. Crede ella, e scorge (tua mercè) quel zelo, Del quale ardesti sì, che consumasti Te stesso in croce, e le mie colpe insieme.


VEggio in mezzo del mondo oggi fulgente Lampa, che sol per noi se stessa offende, Con due fochi, che a tor ciascuno attende Il nutrimento suo chiaro lucente. L' un è l' amor del Padre, a cui il possente Raggio la gloria in prima offesa rende; L' altro è 'l zelo per noi, col quale accende Contra di se la viva luce ardente. Arsa da corai fochi, la infinita Sua virtù parve spenta, allor che cinse D' altri raggi più chiari il mondo intorno. Che quando agli occhi umani ella s' estinse, Con l' immortal sua gloriosa vita Diede a' suoi eletti in Ciel perpetuo giorno. NOn si può aver, credo io, speme vivace Delle promesse eterne, se un timore Qual fredda nebbia intorno al nostro core S' oppon sovente all' alta ardente face; Nè fede, per la cui luce in verace Gioia si vive, ed opra per amore, Sentendo spesso un vil grave dolore, Che ne perturba ogni amorosa pace. Queste umane virtuti, e voglie, ed opre Fanno simil a lor, che sono un' ombra, Che per varia cagion varia l' effetto; Ma se lume del Ciel chiaro si scopre, Arma di fede e speme in modo il petto, Che dubbio, tema, e duol da noi disgombra.


QUanto di bel, di dritto, e buon si vede, Si vide, o si vedrà nel mondo errante Produr dalle ben nate elette piante, Son frutti d' una viva accesa fede; Mentre l' alma gentil per grazia siede Sovra gli affetti umani, o quali e quante Glorie le scopre il caro eterno amante, Serbate sol, per cui più l' ama e crede! O benedetto Sol, ch' apre e rischiara L' occhio immortal sì, ch' ei scorge per ombra Quel, che in prima scorgea per luce chiara: Onde l' alma s' umilia e si disgombra Dalle sue immagin false, perchè impara, Che 'l suo stesso veder la inganna e adombra. ANima chiara, or pur larga e spedita Strada prendesti al Ciel da questa oscura Valle mondana, in su volando pura, Più ch' io non posso dir, bella e gradita: Era di ricco stame intorno ordita La tua veste mortal con tal misura, Che 'l fin di questa tua fragil figura Ti fu principio all' altra miglior vita. Beato Federico, or son disciolti I legami del sangue, e quel più caro Nodo è ristretto, ch' a ben far mi spinse. Or convien, ch' io riguardi, e non ch' io ascolti Da te le grazie, onde il Signor ti strinse A ricever per dolce il giorno amaro.


IL Sol, che i raggi suoi fra noi comparte, Sempre con non men pia, che giusta voglia, Ne veste di virtù, di vizii spoglia, Solo per sua mercè, non per nostra arte. Che giova il volger di cotante carte? Preghiamo lui, che d' ogni error ne scioglia, Che quanto l' alma in se stessa s' invoglia, Tanto dal vero suo lume si parte. L' occhio sinistro chiuso, il destro aperto, L' ale della speranza e della fede Fan volar alto l' amorosa mente. Per verace umiltà si rende certo De' sacri detti, anzi col cor gli sente Colui, che poco studia, e molto crede. DUe modi abbiam da veder l' alte e care Grazie del ciel, l' uno è guardando spesso Le sacre carte, ov' è quel lume espresso, Ch' all' occhio vivo sì lucente appare; L' altro è, alzando del cor le luci chiare Al libro della croce, ov' egli stesso Si mostra a noi sì vivo e sì dappresso, Che l' alma allor non può per l' occhio errare; Con quella scorta ella sen va sospesa Sì, che se giunge al disiato fine, Passa per lungo e dubbioso sentero; Ma con questa sovente da divine Luci illustrata, e di bel foco accesa Corre certa e veloce al segno vero.


SOvente un caro figlio il sommo duce Lascia avvolger fra noi qui d' ombra in ombra, Perchè più chiaro allor, quand' ei le sgombra, Vada l' occhio immortal di luce in luce; Ma poi che (sua mercè) seco il conduce, Ove peso terren più non l' ingombra, Passando il vel, che 'l cinge, e che lo adombra, Col raggio bel sin dentro al cor traluce. Ond' ei visto il sentier sinistro e torto, Al destro piè rivolge, e non consuma Se stesso, e 'l tempo in labirinto vano; Ma sempre fiso al Sol, che arde ed alluma, Con l' aura eterna vola alto lontano Da' perigliosi scogli al fido porto. PAr che voli talor l' alma rivolta Tutta al raggio immortal, sicch' ombra e luce Passa con quanto qui fra noi riluce, Nel vero obietto suo chiusa e raccolta; Ma non sì nuda ancor, che spesso involta Non sia fra immagin varie, che conduce Seco dal mondo, se ben scorta e duce Gli è quel, che la fa andar leggiera e sciolta. Brev' ora avvien, ch' ardendo umile e pura, Entri nel Sol divino, ond' ei consumi Le nebbie e l' ombre, che le van d' intorno. Poco vive là su, ma son quei lumi Sì chiari, che riporta arra secura Di viver sempre in quell' eterno giorno.


AL buon Padre del Ciel per vario effetto Corrono i figli suoi, tal perchè vede L' antico serpe a se d' intorno, e crede Viver secur sotto 'l paterno affetto; Tal perchè gran speranza alto diletto Gli promette là su, rivolge il piede Dall' ombre vane al bel raggio di fede, Ch' a più chiaro sentier gli accende il petto; Ma non per nostra tema, o nostra speme Ei ne raccolse mai, nè mai converse Per tal cagion ver noi sua vera luce; Sol guarda in croce lui, che 'l Ciel ne aperse, Vinse il serpente, ed è quì nostro duce, E con quel capo abbraccia i membri insieme. STelle del Ciel, che scintillando intorno Al vero Sol, col lume, ch' ei vi dona, A lui fate di voi cerchio e corona, Ed egli a voi di se fa eterno giorno; Se ben acceso un spirto al suo ritorno Là su sente il desir, ch' ivi lo sprona, Securo in pace allor con voi ragiona, Com' uom, che vive lieto in quel soggiorno, Dicendo: almen pregate il suo bel raggio, Che se a voi in patria appare ardente e puro, A me lampeggi in queste selve ombrose: Onde se al mondo par torto ed oscuro, Sia per me dritto e chiaro il mio viaggio Con luci ferme agli occhi infermi ascose.


QUal uom, che dentro afflitto, e intorno avvolto Di gravissimo peso, or tace, or geme; Di se stesso non fida, e d' altri teme, Perchè già insino il respirar gli è tolto; Tal lo spirto più umil, tutto rivolto A quella di là su beata speme, Mostra tremando il giusto duol, che 'l preme A lui, che in croce ogni suo nodo ha sciolto; Ed indi poi prendendo ardir s' accende Di tanta fede, che gridando dice Non con la lingua più, ma sol col core: Abba Pater, deh manda or quel favore, Che un fido petto quì tua mercè rende Nel tormento maggior via più felice. SE pura fede all' alma quasi aurora Discopre il Sol, che la tien seco unita, Onde si sente in lui chiara e gradita, Benchè 'l velo mortal la cinga ancora; Quanto dolce le fia quell' ultim' ora, Che sarà prima all' altra miglior vita; Non già secura in se, nè punto ardita In altri, che in colui, che 'l Ciel onora; La cui luce l' intrata in modo serra All' ombra ed al timor, che dentro ha pace Un ver fedel, bench' abbia intorno guerra. Purchè s' adempia in lui l' alto verace Voler di quel Signor, che sol non erra, E morte e vita egualmente gli piace.


MOsso 'l pensier talor da un grande ardore Nudrito in noi per fede e speme ardente, Vola con tanto ardir, ch' entra sovente, Ove scorger nol puote altro, ch' amore. Ivi in colui s' interna, il cui valore Arma di tal virtù l' accesa mente, Che vede l' orma, ode la voce, e sente L' alto suo aiuto in questo cieco errore. E se ben trae dolcezze e brevi e rare Dal fonte sacro, o qual porge virtute Una sol stilla in noi del suo gran mare! Son poi tutte le lingue a narrar mute, Come quel dolce infra quest' onde amare Manda all' infermo cor vera salute. COrsi in fede con semplice securo Animo, e voglie risolute e pronte A ber dell' acqua viva, o eterna fonte, In questo vaso tuo sì eletto e puro. Tu dici, ch' ei mi purga in te l' oscuro Antico velo, e ch' ei mi guida al monte, Ove tu sorgi, e fa palesi e conte Le stille da far molle ogni cor duro: Ei dice essere a me qual vil cisterna Aperta, e ch' io con falsa sete sempre Del tuo sì largo mar per lei mi privo: Ond' io prego ed aspetto in varie tempre Qui sola, e peregrina, o fonte vivo Di pietà vera, e lui, e me governa.


PEr far col seme suo buon frutto in noi, E bagnar del mio cor l' arida terra, Dona dei rivi suoi, ch' or apre, or serra, La chiave il fonte eterno a un sol di voi. Ei guarda prima, e ben distingue poi, Qual fango il sacro germe in me sotterra, E quel purga e dissolve, e mai non erra La fede umil, che regge i pensier suoi. Con tanta esperienzia, e con si grave Modo rivolge l' acqua, e sì a misura, Che ove la macchia è impressa, ivi si stende, Diede per quasi disperata cura L' aspro mio petto al suo spirto soave Colui, che solo i gran secreti intende. IO non sento, che in ciel, dove è verace Tesoro, e pieno ben, piena allegrezza, S' abbia di dominar sete, o vaghezza, Ma d' amar e di viver sempre in pace. Piacque al Signor eternamente, e piace Un amoroso cor, che somma altezza Trovi nell' umiltà, vera ricchezza In quella povertà, ch' al mondo spiace; E lui sol miri in cielo, e in terra i degni Specchi a noi della sua sempre maggiore, E sopra ogni altra gloriosa luce. Non stan pensieri oscuri, obietti indegni Nell' alma, in cui scintilla arde d' amore: Sì puro, e di tal Sol raggio riluce.


NOn si scusa il mio cor, quand' ei t' offende, Nè per sempre, Signor, vuoi, ch' io il condanni; Tuo Figlio in croce l' un di questi affanni Mi tolse, e l' altro in Ciel continuo prende; Ei quì ti satisfece, ivi ti rende Contro dei tanti miei sì mal spesi anni, Mostrando i lacci antichi, e i novi inganni, Che 'l mondo ordisce, e l' avversario tende: Ei degno e giusto agli occhi tuoi ricopre Me ingiusta e indegna con quel largo manto, Col quale me nasconde, e se stesso opre; Con lui mostro il mio duol, con lui fo il pianto Delle mie colpe, non armata d' opre, Ma d' un scudo di fede invitto e santo. PAr, che 'l celeste Sol sì forte allume Alcune anime elette, e sì dappresso, Che 'l raggio bel sin dentro il core impresso Splenda di fuor nel chiaro lor costume. E 'l mio pensier per lor con nuove piume S' erge (mercè del Ciel) sovra se stesso; E dice: o quanto è quel, ch' in queste ha espresso Breve scintilla del suo eterno lume. E pur lampeggian sì, che fan quest' ombre Del sentier, ove l' alma oggi cammina, Mal grado suo, men spesse, e meno oscure; Perchè fede fan quì della divina Luce là su, che d' ogn' intorno sgombre Le nostre tenebrose umane cure.


QUando dal proprio lume, e dall' ingrato Secol vivo lontana, allor ripiglio Virtù d' alzar al Ciel la mente e 'l ciglio, E pregar sol per voi spirto beato; Dicendo: purga, alluma, ardi l' amato Per nome mio, ma tuo per opre figlio, Ricco del vero onor, candido giglio Fra tutti i fior del verde eterno prato; I più bei raggi, e le più lucid' onde Del chiaro Sol, e della grazia viva Manda nel sempre suo fertil terreno: Sicchè 'l soave odor, ch' ei dentro asconde, Per l' acqua pura, e 'l bel lume sereno Senta del mondo la più lunga riva. TEmo, che 'l laccio, ond' io molt' anni presi Tenni gli spirti, ordisca or la mia rima Sol per usanza, e non per quella prima Cagion d' avergli in Dio volti ed accesi; Temo, che sian lacciuoli intorno tesi Da colui, ch' opra mal con sorda lima; E mi faccia parer da falsa stima Utili i giorni forse indarno spesi. Di giovar poca, ma di nocer molta Ragion vi scorgo, ond' io prego 'l mio foco, Ch' entro in silenzio il petto abbracci ed arda. Interrotto dal duol, dal pianger fioco Esser de' il canto ver colui, ch' ascolta Dal Ciel, e al cor, non allo stil risguarda.


S' Una scintilla sol di luce pura Vedeste in quel gran specchio in croce aperto, Mentre affannata in questo aspro deserto Vi veggio intenta a vana, inutil cura; Forse fuggir vedrei la nebbia oscura, Che sì chiaro splendor vi tien coperto, Poi quanto il mondo infin ad or v' ha offerto, Vi rende men felice, e men secura. Vedreste allor le reti, il vischio, e gli ami Del reo avversario, onde il pensier disciolto Dal basso e grave, andrebbe alto e leggiero. La divina ragion supremo impero Avendo al core, i fieri aspri legami Scioglier potrebbe, ove or si trova involto. S' Una scintilla in voi l' alto superno Fonte mandasse della sacra viva Acqua, che ben gustata in tutto priva Di sete temporal l' alma in eterno; Dell' opre e de' pensier cura e governo Lasciando al Signor vero e sciolta e schiva, Senza cercar più questa, o quella riva, Vi fora albergo il Ciel la state e 'l verno. Empie questa acqua santa il cor di gioia Sì, che per gli occhi (sua mercè) gli rende Di dolce pianto pura e larga pioggia: Onde l' ardor divin non porge noia, Ch' or si rinfresca l' alma, or si raccende, E per l' uno e per l' altra in alto poggia.


QUal arbor dalla pia madre natura Fondata in buon terren con sì profonde Radici, che 'l bel bel frutto, il fior, la fronde Mostran, ch' è culto con mirabil cura, Cui poi malvagio verme entro la pura Midolla, la consuma, ov' ei s' asconde, E fa le sue virtudi egre infeconde, E la vaghezza sua, languida, oscura; Tal l' alma bella, se in se stessa fermo Asconde un grave error, la macchia, e strugge L' immagin prima dell' eterna luce, S' ella pentita e umil tosto non fugge Al fonte di Gesù, che sol riduce Sano col merto suo l' animo infermo. QUal lampa, a cui già manca il caldo umore, Che la nudriva, onde ella ancor si sente Mancar sì, che virtù vivace ardente Mostra e s' avvampa forte all' ultime ore; Tal tu buon Federico invitto, il core Sempre mostrasti, ma più assai possente Apparve, e la tua fede alta lucente Nel fin sospinto dal divino onore. L' ire, gli sdegni, e mille insidie intorno, Correndo sol con l' occhio fiso al vero, Per lo destro sentier lieto spregiasti. Or godi sotto il giusto, largo Impero L' alta giustizia, della qual t' armasti, Quando il gran Sol t' aperse il suo bel giorno.


QUando in terra il gran Sol venne dal Cielo, Per farne agli altri fede, elesse, e volse Quel primo Gaspar saggio, ond ei disciolse A molti poi dell' ignoranzia il velo. L' alto suo esempio, il vivo ardente zelo, Col qual corse a vederlo, erse, e rivolse Gli occhi nostri al bel raggio, ch' allor tolse Da' petti umani ogn' indurato gelo. Or che rinasce in noi, di novo ha eletto Questo Gaspar secondo a far qui fede, Ch' ei sol può render l' uom giusto e perfetto. L' uno il vide mortal, ma l' altro il vede Glorioso, e su in Ciel col vero affetto Della mente e del cor l' adora e crede. QUand' io riguardo il nobil raggio ardente Della grazia divina, e quel valore, Ch' illustra l' intelletto, infiamma il core, Con virtu sopr' umana, alta, e possente; L' alma le voglie allor fisse ed intente Raccoglie tutte insieme a fargli onore; Ma tanto ha di poter, quant' è 'l favore, Che dal lume, e dal foco intende e sente. Ond' ella può ben far certa, efficace L' alta sua elezion, ma insino al segno, Ch' all' Autor d' ogni ben (sua mercè piace; Non sprona il corso nostro industria o ingegno: Quel corre più sicuro e più vivace, C' ha dal favor del Ciel maggior sostegno.


QUant' è dolce l' amaro, allor che 'l prende Per medicina l' alma, e per futura Salute, e se a lei par troppo aspra cura, Vien, ch' ella inferma ancor non ben l' intende! Mentr' è nel lume tuo, non guarda, o attende Altra luce minor, ma lieta e pura Fissa in te sol la mente, sol si cura Quando in te sol di te solo s' accende. Di te solo, Signor, sol dolce sempre, Il cui giogo soave, e peso lieve Nel porto dell' amor per fede induce. Giova dunque l' andar per varie tempre A tanta pace, e passar quì per breve Nebbia, correndo all' alta eterna luce. DAl fonte bel dell' infinito amore Nacque l' altro di grazia, u' l' alma vede La sua salute, ed indi arma di fede, Di speme purga, e di foco arde il core. Da cotai fonti allor dentro e di fore Purgata, anzi nutrita, altro non chiede, Che gir per sempre, ove sovente riede Al natio lido suo, colma d' ardore. Per breve stilla di quel largo mare Si gusta, come in breve ne fia tolta, Anzi pur sazia questa ardente sete Di veder poi la su pura, disciolta La prima vena di quest' acque chiare, Che fan le voglie eternamente liete.


S' E' ver, com' egli dice, ch' io sospinta D' alto infinito ardor viva di fede Sì, che lo spirto, allor che troppo eccede, Lassa basso la carne inferma e vinta; Com' esser può, che essendo intorno cinta Del bel raggio immortal, che ogni ombra vede, Non scorga questo error, s' ei pur non crede Esser la luce in me morta e dipinta? Ma s' ella è viva, io so, che con soave Voce lo sposo chiama, e vuol s' aspetti Opra e valor quì d' arte e di natura: Ond' a quei, ch' anno in lui di me la cura, Di fuor la lascio, e dentro i puri affetti Volgo al Signor, c' ha del mio cor la chiave. SImile all' alta immagin sua la mente Del Padre eterno, mosso sol da amore, Formò la mia, ch' al primo antico onore Di fede in fede or rinnovar si sente: Onde l' effigie sua viva e possente Sculta esser de' nell' alma, al cui valore Sempre s' inchini, e la dipinta fore Esser de' ogni or al veder mio presente. Quella allo spirto, e questa agli occhi obietto Essendo, avvien che l' un si ciba, e serra Agli altri intorno ogni mondana luce; Nè la vista di fuor turba il diletto Del sentimento, e dentro se conduce E l' una, e l' altro il lume, che non erra.


VEggio rilucer sol di armate squadre I miei sì larghi campi, ed odo il canto Rivolto in grido, e 'l dolce riso in pianto Là, 'vè io prima toccai l' antica Madre. Deh mostrate con l' opre alte e leggiadre Le voglie umili, o Pastor saggio e santo, Vestite il sacro glorioso manto, Come buon successor del primo Padre. Semo (se 'l vero in voi non copre, o adombra Lo sdegno) pur di quei più antichi vostri Figli, e da' buoni per lungo uso amati. Sotto un sol Cielo, entro un sol grembo nati Sono, e nudriti insieme alla dolce ombra D' una sola Città gli avoli nostri. PRego il Padre divin, che tanta fiamma Mandi del foco suo nel vostro core, Padre nostro terren, che dell' ardore Dell' ira umana in voi non resti dramma. Non mai da fier Leone inerme damma Fuggì, come da voi l' indegno amore Fuggirà del mortal caduco onore, Se di quel di là su l' alma s' infiamma. Vedransi allor venir gli armenti lieti Al santo grembo caldo della face, Che 'l gran lume del Ciel gli accese in terra. Così le sacre gloriose reti Saran già colme, e con la verga in pace Si rese il mondo, e non con l' arme in guerra.


MEntre che l' uom mortal freddo ed esangue Tra l' ombre e le figure intorno cinto Da mille lacci in cieco labirinto Fuor del frutto divin del sacro sangue, Vive sempre temendo, infermo langue, Dal primo inganno ancor legato e vinto; Ma s' a mirar sarà dal vero spinto In croce quel celeste eneo dolce angue: La cui chiara virtù la nostra guerra Vinse, allor si vedrà securo e sciolto Sovra le stelle, il Cielo, e gli elementi: Onde senza abbassar più gli occhi in terra, Ai raggi del gran Sol tutto rivolto, Andrà ver lui coi bei pensieri ardenti. AGno puro di Dio, che gli alti campi Del Ciel lasciando, in questo basso ovile Mondan nostro scendesti, e in vista umile Celasti e nascondesti i chiari lampi; Chi verrà mai, che 'l miser cor mio stampi Dell' immagine tua alma e gentile Sì, ch' io risorga del mio stato vile, E fuor di man degli avversari campi? E canti poi con più lodato inchiostro, Come, sol di pietate ardendo, a scherno Avesti il mondo allor cieco ed infausto: E come per portar il fallir nostro, Festi di te medesmo al Padre eterno Quello ineffabil tuo vero olocausto.


SE guarda il picciol spazio della terra L' alma (mercè del Ciel) grande e immortale, Non scorge obietto al suo desire uguale, Nè trova pace in sì continua guerra. Del vero albergo a se medesma serra La porta, e tanto scende, quanto sale, Mentre fra le fallaci inutil scale Del labirinto uman uaneggia ed erra: Non ha del fil di questa vita il fine, E pur trama ed ordisce, apre e raccoglie, Tira e rallenta la sua fragil tela; Ma solo il voler nostro erge e ritoglie Dalla nebbia mortal, ch' intorno il vela, La fede delle cose alte e divine. OGgi la santa Sposa or gode, or geme Del principio, e del fin di quella vita, Ch' eterna a noi la diede, onde ne 'nvita A dolce gaudio, e amaro pianto insieme. Oggi la Virgin pura ascolta e teme L' alto messo di Dio, che seco unita Le dice esser in Madre; oggi l' ardita Morte il gran Figlio in croce affligge e preme. Per lungo volger d' anni in un sol giorno, Per sì maravigliose estremo effetto, Vario grave pensier l' alma trista ange; E gode pur, che ricercando intorno L' opre diverse, non convien che cange Il sempre fermo suo divino obietto.


FElice il cieco nato, a cui s' aperse La luce al tempo del gran lume vero; E la virtù divina al core altero Altro splendor maggior dentro scoverse! Mentre natura il giorno a lui coverse, Il nostro tenebroso aspro sentero, Era, come gli parve, ombroso e nero, Sin che 'l Sol vivo ad ambidue s' offerse. Di quei si scrive gloriosa istoria, Che coi gravi martiri, e con la vita Fer chiaro il nome del superno Duce; E questi fè del Ciel nota la gloria, E la sua fama quì fra noi gradita, Sol con ricever luna e l' altra luce. QUal edera, a cui sono e rotti ed arsi Gli usati suoi sostegni, onde ritira Il vigor dentro, intorno si raggira, Nè cosa trova, u' possa in alto alzarsi; Tal l' alma, c' ha i pensier quì in terra sparsi, Sempre s' avvolge fuor, dentro s' adira, Perch' al bel segno, u' per natura aspira, Sono gli appoggi umani e bassi e scarsi. Mentre non corre al glorioso legno Della nostra salute, ove erga e annodi Le sue radici insin all' alta cima; Avvolta, unita a quel sacro sostegno Vuol rivederla il Padre, ove egli in pirma L' avea legata con sì dolci nodi.


DEh manda oggi, Signor, novello e chiaro Raggio al mio cor di quella ardent fede, Ch' opra sol per amor, non per mercede, Onde ugualmente il tuo voler gli è caro. Dal dolce fonte tuo pensa, che amaro Nascer non possa, anzi riceve e crede Per buon quant' ode, e per bel quanto vede, Per largo il Ciel, quand' ei si mostra avaro. Se chieder grazia all' umil servo lice, Questa fede vorrei, che illustra, accende, E pasce l' alma sol di lume vero: Con questa in parte il gran valor s' intende, Che pianta, e ferma in noi l' alta radice, Qual rende i frutti a lui tutti d' amore. FOrse il foco divino in lingue accese Venne per dar silenzio all' intelletto, Sicchè l' alte sue voci in vivo affetto D' ardente amor fosser dal mondo intese. Onde i suoi servi in quelle ardite imprese Non di saper, ma sol di fede il petto Armaro, intenti al grande eterno obietto, Che quanto aveano a dir, lor fea palese. Simil vorrei, che i nosti egri desiri, Tacendo, non spargesser pur di errore Qual seme, che non mai frutto raccoglie; Ma formando con lagrime e sospiri Di fede e speme bei pensieri e voglie Lasciasser sol parlar sempre all' amore.


IMposto fine a tutti i rei contrasti Del viaggio terren, mio sacro Nume, Portato dalle istesse altere piume, Glorioso e felice al Ciel volasti; Prima di fede e amor gli amici armasti, Per dar lor poi celeste alto costume, Quando lo Spirto eterno in foco e lume Pien di divino ardor lieto mandasti. Aver lo scettro dell' eterno Impero, Dare a noi la salute, al Padre onore, Fur degni pregi di cotanto erede. Godo della tua gloria sol per fede In questo esilio, e (mercè vostra) spero Goder la pace in patria per amore. QUando (mercè del Ciel) per tante prove, E sì bei lumi l' alma acquista fede, Che quanta grazia il gran Padre concede, Per mezzo del Figliuol nel mondo piove; Ivi si purga e sazia, ivi di nove Acque si lava, ivi si specchia e vede, Che tanto ha di valor, quant' ella crede A lui, che l' ama, la governa, e move: Onde da sì abbondante e largo fonte Aspettar ne convien quei sacri rivi, Che son più dolci al cor, c' ha maggior sete: E non sol fan le lor dolcezze conte A noi, ma nostre voglie e forti e liete, E gli spirti al periglio accesi e vivi.


BEata speme, or che (mercè d' Amore) Ti mostri assai più dell' usato accesa, Se tua radice nova forza ha presa Nel mal culto terren del miser core; Prego l' eterno ed amoroso ardore, Che sia la tua virtute in modo intesa Dall' alma, che non sente unqua l' offesa, Che fa nel petto infido il reo timore. Contra speranza in te divina speme Credette quel, che per verace fede Fu specchio, esempio, e padre agli altri eletti: Te credette per detti, essendo in seme Nella croce previsa; or per gli effetti Chi te riguarda in frutto al Ciel ti vede. DI nova ardente sete i miei più vivi Spirti accesi sentii, cotanto piacque All' alma di veder raccolte l' acque Del sacro fonte eterno in cento rivi: Ed or lungo i bei liti alteri e schivi Van salendo a trovar, onde pria nacque La bella vena, e quando a noi rinacque, E come in tanti suoi vasi derivi: E quanto una sua stilla, empiendo il core Di fede, il guidi per l' irato e torto Guado del nostro pelago securo; Scorgendo dentro il tenebroso orrore Del fremito del mar, dell' aere oscuro Sempre più chiaro, e più dappresso il porto.


CHi ritien l' alma omai, che non sia sgombra Dal carcer tetro, che l' annoda e stringe? L' amata Luce al ciel la chiama e spinge; Folta nebbia d' error qua giù l' ingombra: E se l' immagin, che 'l pensiero adombra, Anzi Amor di sua man nel cor dipinge, Frena il martir, l' acerba piaga linge; Che fia di là, se qui l' appaga l' ombra? Ma se timor del crudo pianto eterno Tronca l' audaci penne al bel desire; Questo non è minor, che 'l proprio inferno. La patria, la ragion desti l' ardire, Mostrisi in opra al mio tormento interno, Che ben può nulla, chi non può morire. PAdre eterno del Ciel, con quanto amore Grazia, lume, dolcezza in vari modi L' uomo dal mondo, e da se stesso snodi, Perchè libero a te rivolga il core! Rivolto poi di puro interno ardore L' accendi e leghi con più saldi nodi; Poscia l' affermi con sì forti chiodi, Ch' ogni aspra morte gli par vivo onore; Dal pensier ferma nasce in lui la fede; Dalla fè lume, e dalla luce speme; E dal vero sperar fochi più vivi. Onde non più rubello il desir cede Allo spirto, anzi al Ciel volano insieme D' ogni cura mortal sdegnosi e schivi.


GRazie a te, Signor mio, che allor verace Sento la tua promessa, allor la fede Si fa più forte, allor (tua gran mercede) Nel maggior duol la speme è più vivace: E se ben per brev' ora afflitta giace La carne inferma quasi in propria sede, Lo spirto principal, che la possiede, Dona arra al cor della sua eterna pace. Al qual parea d' avere un nembo nero Entro e d' intorno, non ch' ei fosse oppresso, Anzi nel tuo valor fatto più altero; Quand' io mi vidi più che mai dappresso, Da te mandato a me, colui, che 'l vero M' ha sempre così ben nell' alma impresso: Onde 'l celeste messo Scacciò le nebbie, e di pietate adorno Rese al core ed agli occhi un puro giorno.


POichè 'l mio Sol, d' eterni raggi cinto, Nel bel cerchio di latte fè ritorno, Dalla propria virtute alzato e spinto; Già sette volte avea girato intorno I segni, ove ne fa cangiar stagione, Chi porta seco in ogni parte il giorno; E lasciando 'l nemico d' Orione, Spronando i suoi corsier, leggier entrava Ad albergar col suo saggio Chirone. Tutta ornata di rose allor alzava Gli occhi a licenziar l' ultime stelle L' aurora, e i bei crin d' or larga mostrava; Quand' io le voglie alla ragion rubelle Conobbi, essendo 'l dì, che 'l duolo antico Fa, che con maggior forza io rinnovelle. Allor del pianto amaro al dolce amico Pensier, che mi consola, e ben può darmi Tutto quel bene, onde 'l mio cor nutrico, Stanca mi volsi, e ricordar pur parmi, Ch' egli allor preso avea l' usate penne Per poter poi da terra alta levarmi; Ma più che nettar dolce un sonno venne, E l' alma, quasi del suo carcer fuore, Quel, che dall' un volea, dall' altro ottenne: E tanto ad alto, ove la scorse Amore, Volò, ch' io vidi la mia luce ardente Mostrar più vivo il suo divin splendore. Era ancor lungi sì, ch' un' altra mente Non la vedria, che 'l piacer falso in terra Contra 'l dritto voler cieco consente;


Ma colui, ch' in un punto pace e guerra Può darmi e tor, tanto al suo dolce lume M' avvezza, che non sempre il desio erra: Onde strada al mio andar fece il costume Di seguir l' orme chiare, e fuggir l' ombra, E diede al mio volar veloci piume: E giunsi al Sol, ch' agli occhi miei disgombra Quel d' ignoranza, nel che a noi mortali Spesso 'l veder intorno appanna e adombra. Ed udì dir: perchè tra tanti mali T' intrichi ognor? vien meco, acciò là scorga Spirti, ch' al merto tuo non sono uguali. Ma pria convien, che tutta umil mi porga Gli occhi, e intenti sì, che di quel poco Raggio, che in me lampeggia, almen t' accorga: Onde la vista accesa a poco a poco Acquisti tal vigor, che non l' offenda Maggior di questo assai più puro foco: Convien, che 'l modo e la ragion tu intenda, Come a chi quà su vien dolor si tolga, E di vero piacer la veste prenda; E che sappi tra noi quanto si dolga, Che in terra vegga alcun, ch' abbia già amato; Ch' in ver gli scogli la sua barca volga. Che se s' appaga e gode ogni Beato Nel mirar solo il primo eterno Amante, Il natural desio non è cangiato D' amar chi ama, anzi è ferma e costante Carità vera quì, che non si scema Pel variar dell' opre, o del sembiante. Tu scorgi allor, diss' io, com' arde e trema Dinanzi ai raggi tuoi la mia virtute; E qual speme e timor l' ingombri e prema. Di fiamme vive, e di saette acute Arso e punto fu il core il giorno, ch' io Posi nelle tue man la mia salute.


Vorrei gli umani error porre in oblio, Ch' essendomi tu guida, a maggior cose, Ch' a mio stato non lice, ergo 'l desio. Per man lieto mi prese, e non rispose Ai detti miei, ma allor seco mi strinse Sì, che nel suo splendor tutta m' ascose: Ond' io potea (sì del suo bel mi cinse) Veder quasi in un specchio quel, che 'l Cielo Sol per suoi prieghi agli occhi miei dipinse; Ma pria sentì, com' un squarciar di velo A me d' intorno, e caldo e puro vento Tutta infiammarmi d' amoroso gielo. Fa, ch' io possa ridir quel, che pavento, Tu che lo stato, e la salute al mondo Amor donasti, e sei di te contento. Io vidi allor un carro tal, ch' a tondo Il Ciel, la terra, il mar cinger parea Col suo chiaro splendor vago e giocondo; Sovra l' Imperador del Cielo avea Quel, che scese fra noi per noi scampare Del servir grave, e della morte rea. E come molti empir l' invidie avare De' beni altrui, superbi trionfando, Vil voglie d' un ingordo empio regnare; Costui vinse e donò 'l suo Regno, quando In sacrificio se medesmo diede, Col puro sangue il nostro error lavando. Sua la vittoria, e nostra è la mercede: Fece, che vita abbiam del suo morire Noi, ch' eravam del gran nemico prede. Io avea già di tanto aspro martire Da mille inteso, e in mille carte letto; E con sospir di quel solea gioire: Però dinanzi a sì novo cospetto Non mi fu dunque la mia scorta presta A trar d' errore e dubbio l' intelletto.


Io vedea l' onorata e sacra testa, Che suole aver di stelle ampia corona, Di spine averla acute ora contesta: E piagata la man, che toglie e dona Al Ciel corso, al Sol luce, ai mortal vita, Qui virtù, là su gloria eterna e buona. Su gli omer santi, acciò ch' al Ciel gradita Sia l' umil nostra spoglia, io vidi 'l legno, Ch' a pianger sempre il primo error m' invita; Quel del nostro gioir securo pegno, Ch' adorar con le man giunte si deve, Perch' ei sostenne il nostro ver sostegno. Non fu alle sante spalle il peso greve, Quanto dovrebbe, oimè, del nostro affanno Tal rimembranza farne spesso lieve! Sul carro, alla man destra, in real scanno La Vergin era d' ogni virtù esempio, Per cui possiam fuggir l' eterno danno. Costei fu innanzi a tutti i tempi Tempio A Dio sacrato, e vidi, e sapea come Con umiltà calcò 'l superbo e l' empio. Ai santi piè colei, che simil nome Onora, vidi ardendo d' amor lieta Risplender cinta dell' aurate chiome; La mosse a pianger qui ben degna pieta; Onde 'l Ciel vuol, che con egual misura In vece del dolor la gloria or mieta: Poi ch' ella resse la sua fe secura, Non volse 'l piè fedel, nè strinse 'l pianto; Ma con cor fermo, e con pietosa cura Sola rimase, e dentro al suo bel manto Mille chiare virtù davan conforto All' alta voglia, al grande animo santo. Al sepolcro cercando il Signor nostro, L' apparve vivo, e diede alto e felice Al gran mar delle sue lagrime porto.


Beata lei, che 'l frutto e la radice Sprezzò del mondo, e del suo Signor ora Altra dolcezza e sempiterna elice. Io che da un altro Sol più vaga aurora Illustrata vedea, con altro caldo Di quel, che i nostri fiori apre e 'ncolora, Tenni qui gli occhi fisi, e 'l pensier saldo.

FINE.



A.

A Che miseria Amor mio stato induce Pag. 6

A che sempre chiamar la dolce Morte 17

Agno puro di Dio, che gli alti campi 180

Ahi quanto fu al mio Sol contrario il Fato 37

Al bel leggiadro stil suggetto uguale 21

Al buon Padre del Ciel per vario effetto 168

Alla durezza di Tommaso offerse 141

Alle vittorie tue, mio lume eterno 3

Alma cortese, che con dolci accenti 62

Alma felice, se 'l valor, ch' eccede 36

Alma, poichè di vivo e dolce umore 125

Alta fiamma amorosa, e ben nate Alme 20

Alta umiltade, e sopra l' altre cara 150

Alzata al Ciel da quel solingo e raro 23

Amor mi sprona, e in un tempo m' affrena 56

Amor, se morta è la mia propria speme 21

Amor, tu sai, che mai non torsi il piede 10

Angel beato, a cui il gran Padre espresse 148

Anima chiara, or pur large e spedita 165

Anima eletta, ch' anzi tempo spinta 38

Anima, il Signor viene, omai disgombra 90

Appena avean gli spirti intiera vita 19

Aprasi il Cielo, e di sue grazie tante 92

Assai lunge a provar nel petto il gelo 29

B.

BEata l' alma, che le voglie ha schive 98

Beata speme, or che (mercè d' Amore 185

Beati voi, cui tempo nè fatica 148



C.

CAra union, che con mirabil modo 8

Celeste Imperador, saggio, prudente 127

Chiari raggi d' amor, scintille accese 99

Chi desia di veder pura ed altera 137

Chi può trovar quel laccio, che m' avvinse 4

Chi ritien l' alma omai, che non sia sgombra 186

Chi temerà giammai nell' estreme ore 119

Cibo, del cui meraviglioso effetto 90

Come non depos' io la mortal salma 9

Con che pietosa carità sovente 135

Con che saggio consiglio, e sottil cura 109

Con far le glorie tue, Signor, più conte 58

Con la Croce a gran passi ir vorrei dietro 83

Con vomer d' umiltà larghe e profonde 101

Corsi in fede con semplice, securo 170

D.

DA Dio mandata, Angelica mia scorta 84

Dal breve sogno, e dal fragil pensiero 35

Dal fonte bel dell' infinito amore 177

D' altro, che di diamante, o duro smalto 149

Dal vivo fonte del mio pianto eterno 29

Debile e inferma alla salute vera 107

De' gravosi pensier la turba infesta 11

Deh manda santo Spirto al mio intelletto 146

Deh manda oggi Signor novello e chiaro 183

Deh potess' io veder per viva fede 88

Del mondo e del nemico folle e vano 128

Di breve povertà larga ricchezza 131

Di cento invitti scudi armati intorno 146

Di così nobil fiamma Amor mi cinse 10

Dietro al Divino tuo gran Capitano 144

Di gioia in gioia, e d' una in altra schiera 106

Di lagrime e di foco nutrir l' alma 54

Diletta, un acqua viva a piè d' un monte 151

Dimmi, lume del mondo, e chiaro onore 126

Di nova ardente sete i miei più vivi 185

Di quella cara tua serbata fronde 47

Di vaga Primavera i più bei fiori 54

Di vero lume abisso immenso e puro 128



Divina fiamma allor più all' alma amica 158

Divino spirto, il cui soave ardore 162

Donna accesa, animosa, e dall' errante 143

Donna del Ciel gradita a tanto onore 134

D' ogni sua gloria fu largo al mio Sole 30

Donna secura, accesa, e dall' errante 59

D' oscuro illustre, e di falso verace 117

Due chiari effetti dell' eterno Sole 158

Due modi abbiam da veder l' alte e care 166

Duo lumi porge all' uomo il vero Sole 87

E.

ETerna Laura, allor che fra 'l Sol vero. 137

F.

FElice Donna, a cui l' animo vinse 58

Felice giorno a noi festo e giocondo 92

Felice il Cieco nato, a cui s' aperse 182

Fermo il Ciel sempre col fedel pensiero 159

Fiammeggiavano i vivi lumi chiari 14

Fido pensier, se intrar non puoi sovente 111

Figlio e Signor, se la tua prima e vera 153

Forse il fuoco divino in lingue accese 183

Francesco, in cui, siccome in umil cera 144

Fuggendo i Re Gentili il crudo impero 122

G.

GIà desiai, che fosse il mio bel Sole 26

Già si rinverde la gioiosa speme 115

Gli alti trofei, e le gloriose imprese 7

Gli Angeli eletti al gran bene infinito 93

Grazie a te, Signor mio, che allor verace 187

I.

IL buon Pastor con opre e voci pronte 109

Il nobil vostro spirto non s' è involto 153

Il parlar saggio, e quel bel lume ardente 34



Il porvi Dio nell' arca, e farvi poi 138

Il Sol, che i raggi suoi fra noi comparte 166

Imposto fine a tutti i rei contrasti 184

In forma di musaico an altro muro 113

I nove Cori, e non le nove altere 63

Io non sento, che in Ciel dove è verace 171

Ite, Signor, per l' orme belle, ond' io 61

L.

LA bella Donna, a cui dolente preme 161

L' alte virtù d' Enea superbe e sole 35

L' altezza dell' oggetto, onde a me lice ivi.

L' alto consiglio, allorch' elegger volse 135

L' alto Signor, del cui valor congiunte 82

La mia Divina luce e doppia scorta 48

L' antiche offerte al primo Tempio il pondo 139

Lasciar non posso i miei saldi pensieri 42

L' aura vital di Cristo in mezzo 'l petto 140

Le braccia aprendo in Croce, e l' alpe, e pure 129

Le meraviglie, che tra noi comparte 15

Le nostre colpe han mosso il tuo furore 131

Le tante opre Divine, e 'l sacro Impero 46

L' innocenzia da noi per nostro errore 111

L' invitto Re del Ciel, sol d' amor vero 101

L' occhio Divin, che sempre il tutto vede 100

L' occhio grande e Divino, il cui valore 122

L' opre Divine, e 'l glorioso impero 152

Lume del Ciel, che ne' superni giri 145

M.

MEntre che l' uom mortal freddo ed esangue 180

Mentre io vissi qui in voi, lume beato 5

Mentre il pensier dall' altre cure sciolto 8

Mentre l' aura amorosa, e il mio bel lume 13

Mentre l' aura del Ciel calda e soave 160

Mentre la Madre il suo Figlio diletto 136

Mentre scaldò 'l mio Sol nostro emispero 6

Mira l' alto principio, onde deriva 125

Miser, che debbo altro, che pianger sempre 36

Molza, ch' al Ciel quest' altra Beatrice 63

Morte col fiero stral se stessa offese 19

Mossi dai grandi effetti alzaron l' ali 97



Mosso d' alta pietà non move tardo 34

Mosso 'l pensier talor da un grande ardore 170

N.

NEgar non posso, o mio fido conforto 130

Nel dolce stato mio da molti amari 39

Nel fido petto un' altra Primavera 27

Nella dolce stagion non s' incolora 57

Nell' alta cima; dove l' infinita 115

Nell' alta eterna rota il piè fermasti 143

Nel mio bel Sol la vostra Aquila altiera 7

Nè più costante cor, nè meno ardente 26

Nodriva il cor d' una speranza viva 30

Non de' temer del mondo, affanni, o guerra 100

Non può meco parlar dell' infinita 155

Non si può aver, cred' io, speme vivace 164

Non si scusa il mio cor, quand' ei t' offende 172

Non sol per la sua mente e pura e retta 142

O.

OCchi, l' usanza par, che vi sospinga 44

Occhi miei, oscurato è il nostro Sole 31

O che tranquillo mar, che placid' onde 4

Odo, ch' avete spesso omai gran parte 155

Ogni elemento testimon ne rende 86

Onde avvien, che di lagrime distilla 42

O quanto il nostro infermo lume appanna 163

Or sei pur giunto al fin, o Spirto degno 12

Or veggio, che 'l gran Sol vivo e possente 156

Ovunque giro gli occhi, o fermo il core 116

P.

PAdre eterno del Ciel, con quanto amore 186

Padre eterno del Ciel, se (tua mercede) 87

Padre Noè, del cui buon seme piacque 138

Padre nostro e del Ciel con quanto amore 129

Par che 'l celeste Sol sì forte allume 172

Par che voli talor l' alma rivolta 167

Parea più certa prova al manco lato 99

Parmi che 'l Sol non porga il lume usato 22



Parmi veder con la sua face acecsa 98

Parrà forse ad alcun, che non ben sano 82

Penae l' alto Signor sul duro legno 84

Pensier nell' altro volo, ove tu stendi 55

Penso per addolcire i giorni amari 43

Per cagion d' un profondo alto pensiero 2

Perchè dei Tauro l' infiammato corno 5

Perchè la mente vostra ornata e cinta 154

Perchè la vista, e più la mente adombra 105

Per far col seme suo buon frutto in noi 171

Per fede io so, che 'l tuo possente e forte 130

Per le vittorie qui rimangon spente 113

Per soggetto alla nobil fiamma vera 25

Poichè la vera ed invisibil luce 112

Poichè 'l mio casto Amor gran tempo tenne 81

Poichè nell' alta vostra accorta mente 152

Poichè tornata sei, Anima bella 45

Potessi io in questa acerba atra tempesta 139

Prego il Padre Divin, che tanta fiamma 179

Pria d' esser giunta in mezzo della strada 41

Prima ne' chiari, or negli oscuri panni, 18

Primo sacro splendor, ch' unito insieme 15

Puri Innocenti il vostro invitto e forte 93

Q.

QUal arbor dalla pia Madre natura 175

Qual digiuno augellin, che vede ed ode 104

Qual edera, a cui sono e rotti ed arsi 182

Qual lampa, a cui già manca il caldo umore 175

Qual nuova gemma, o qual ricco lavoro 13

Qual sacro don giammai, qual voler pio 41

Qual tigre, dietro a cui le invola e toglie 50

Qual uom, che dentro afflitto, e intorno avvolto 169

Qual uom, cui folta nebbia al viso ha spente 47

Quando dal lume, il cui vivo splendore 85

Quando dal proprio lume, e dall' ingrato 173

Quando del suo tormento il cor si duole 51

Quando di sangue tinte in cima al monte 102

Quando fia il dì, Signor, che 'l mio pensero 127

Quando già stanco il mio dolce pensiero 23

Quando il turbato mar s' alza e circonda 123

Quando in se stesso il pensier nostro riede 102

Quando in terra il gran Sol venne dal Cielo 175

Quand' io dal caro scoglio miro intorno 9



Quando io riguardo il mio sì grave errore 163

Quando io riguardo il nobil raggio ardente 176

Quand' io son tutta col pensier rivolta 40

Quando la Croce al mio Signor coverse 105

Quando 'l gran lume appar nell' Oriente 44

Quando il Signor nell' orto al Padre volto 159

Quando (mercè del Ciel) per tante prove 184

Quando (mercè del Ciel) quasi presente 106

Quando morte tra noi disciolse il nodo 12

Quando nel cor dalla superna sede 118

Quando più stringe il cuor la fiamma ardente 56

Quando quell' empio tradimento aperse 89

Quando senza spezzar, nè aprir la porta 133

Quando vedeste, Madre, a poco a poco 136

Quando vedrò di questa mortal luce 89

Quanta gioia tu segno e stella ardente 149

Quanta invidia al mio cor, felici e rare 20

Quante dolcezze, Andrea, Dio ti scoverse 141

Quante virtuti qui fra noi comparte 60

Quanti dolci pensieri, alti desiri 14

Quanto di bel, di dritto, e buon si vede 165

Quanto di bel Natura al Mondo diede 31

Quanto è dolce l' amaro, allor che 'l prende 177

Quanto è più vile il nostro ingordo e frale 157

Quanto è tolto al desio, rende un pensiero 24

Quanto intender qui puote umano ingegno 151

Quanto invidio al pensier, ch' al Ciel invio 37

Quanto s' interna al cor più d' anno in anno 11

Quasi rotonda palla accesa intorno 114

Quel bel Ginebro, cui d' intorno cinge 60

Quel chiaro Spirto, in cui vivo ed ardente 142

Quel fior d' ogni virtute in un bel prato 43

Quel giorno, che l' amata immagin corse 28

Quella, che 'l bene e 'l male in sì poche ore 96

Quella stessa ragion, che pria disciolse 16

Quella superba insegna, e quell' ardire 2

Quel pietoso miracol grande, ond' io 108

Quel Sol, che fu dal Ciel l' alma innamora 59

Questa immagin, Signor, quei raggi ardenti 154

Questo nodo gentil, che l' alma stringe 25

Questo Sol, ch' oggi agli occhi nostri splende 18

Questo ver noi maraviglioso effetto, 121

Qui fece il mio bel Sole a noi ritorno 40

Qui non è il loco umil, nè le pietose 91



R.

RAmi d' un alber santo, e una radice 52

Riman la gloria tua larga è infinita 17

Riverenza m' affrena, e grande amore 91

Rinasca in te mio cor quest' almo giorno 132

S.

S'Alla mia bella fiamma ardente speme 3

Scrivo sol per sfogar l' interna doglia 1

Se all' alto vol mancar le ardite penne 55

Sebben a tante e gloriose imprese 48

Se con l' armi celesti avess' io vinto 110

Se dal dolce pensier riscuoto l' alma 16

Se del mio Sol divino lo splendente 124

Se guarda il picciol spazio della terra 181

Se i chiari Spirti ove mostrò Natura 49

Se 'l breve suon, che sol quest' aer frale 94

Se 'l comun Padre or del suo Cielo avaro 157

Se le dolcezze, che dal vivo fonte 112

Se l' empia invidia ascender possa al vostro 55

Se 'l fedel servo, a cui per vero affetto 121

Se l' Imperio terren con mano armata 162

Se 'l mio bel Sol, e l' altre chiare stelle 24

Se 'l nome sol di Cristo in cor dipinto 145

Se 'l Sol, che i raggi suoi fra noi comparte 116

Se ne diè lampa il Ciel chiara e lucente 107

Se in Oro, in Cigno, in Tauro il sommo Giove 32

Sentiva l' alma questa grave e nera 160

Sento per gran timor con alto grido 33

Se per serbar la notte il vivo ardore 120

Se pura fede alla mia quasi aurora 169

Se quanto è inferma, e da se vil, con sano 123

Se quel superbo dorso il monte sempre 53

S' è ver come egli dice, ch' io sospinta 178

Siccome augelli semplicetti e puri 62

Signor, ch' in quell' inaccessibil luce 126

Sì largo vi fu il Ciel, che 'l tempo avaro 22

Simile all' alta immagin sua la mente 178

S' in man prender non soglio unqua la lima 83

S' in me questa fallaee e breve speme 117

S' io guardo al mio Signor, la cui grandezza 103

S' io non depingo in carte il soprumano 46

S' io piena con Zaccheo d' intenso affetto 110



S' io potessi sfrondar dall' empia e folta 156

S' io potessi sottrar dal giogo alquanto 49

Solco tra duri scogli, e fiero vento 39

Sovente un caro figlio il sommo Duce 167

Spense il dolor la voce, e poi non ebbe 50

Sperai, che tempo i caldi alti desiri 38

Sperando di veder la su il mio Sole 27

Spero, che mandi omai quel saggio eterno 103

Spiego ver voi, Signore, indarno l' ale 86

Spirti del Ciel, che con soavi canti 147

Spirti felici, ch' or lieti sedete 51

Spirto felice, del cui chiaro ed altero 150

Spirto gentil, del cui chiar nome altero 32

Stella del nostro mar chiara e secura 133

Stelle del Ciel, che scintillando intorno 168

S' una scintilla in voi l' alto superno 174

S' una scintilla sol di luce pura ivi.

T.

TAlor l' umana mente alzata a volo 114

Temo, che 'l laccio, ond' io molt' anni presi 173

Tempo è pur, ch' io con la precinta vesta 85

Tira su l' alma al Ciel col suo d' amore 118

Tra gelo e nebbia corro a Dio sovente 124

Tralucer dentro al mortal vel consparte 61

V.

VAnno i pensier talor carchi di vera 104

Udir vorrei con puri alti pensieri 147

Vedea l' alto Signor, ch' ardendo langue 96

Vedremmo, se provesse argento ed oro 97

Veggio a mio danno acceso e largo il Cielo 57

Veggio d' alga e di fango, omai sì carca 140

Veggio di mille ornati veli avvolto 88

Veggio in croce il Signor nudo e disteso 120

Veggio in mezzo del mondo oggi fulgente 164

Veggio la vite gloriosa eterna 161

Veggio portarvi in man del mondo il freno 33

Veggio rilucer sol d' armate squadre 179

Veggio turbato il Ciel d' un nembo oscuro 119

Veggo oggi nel pensier sotto la mano 94

Vergine pura, che dai raggi ardenti 132



Vid' io la cima, il grembo, e l' ampie falde 52

Vivo mio Sol, molto dell' altro eccede 28

Un foco sol la Donna nostra accese 134

Voi, che miraste in terra il mio bel Sole 45

Vorrei, che 'l vero Sol, cui sempre invoco 108

Vorrei, che sempre un grido alto e possente 95

Vorrei l' orecchia aver qui chiusa e sorda ivi.

Spirto gentil, che sei nel terzo giro 64

Mentre la nave mia lunge dal Porto 68

Quando miro la terra ornata e bella 71

Poichè 'l mio Sol d' eterni raggi cinto 188

FINE.



AVendo veduto per la fede di Revisione ed Approvazione del P. F. Gio: Paolo Zapparella Inquisitor Generale del Sant' Officio di Venezia nel libro intolato: Rime di M. Vittoria Colonna d' Avalos Marchesana di Pescara; non v' esser cosa alcuna contro la Santa Fede Cattolica, e parimente per Attestato del Segretario Nostro, niente contro Principi, e buoni costumi; concediamo licenza a Pietro Lancellotti Stampator di Bergamo, che possa essere stampato, osservando gli ordini in materia di Stampe, e presentando le solite Copie alle Pubbliche Librerie di Venezia, e di Padova.

Dat. li 13. Lulio 1759.

(Gio: Emo Proc. Rif.

(Alvise Mocenigo Proc. Rif.

(Marco Foscarini Cav. Proc. Rif.

Registrato in Libro a Carte 13. al Num. 79.

Girolamo Zuccato Segr.



BERGAMO,
APPRESSO PIETRO LANCELLOTTI.
ADI' 19. SETTEMBRE
1760.

CON LIC. DE' SUP.