GRAZIA DELEDDA

CATTIVE
COMPAGNIE
NOVELLE

MILANO
Fratelli Treves, Editori
1921.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera, che non porti il timbro a secco della Società Italiana degli Autori.



Sebiu, il guardiano del carbone, sonnecchiava e sognava.

Gli pareva di essere a casa sua, nella piccola cucina oscura dalla cui porticina si scorgeva lo sfondo di un cortiletto umido e triste. Sua moglie, curva sul focolare, arrostiva sulla brage una focaccia di farina e di formaggio fresco. Sdraiato súlla bisaccia di lana grigia e nera morbida come un tappeto egli contemplava la donna con passione, e pensava che dunque la malattia di lei e l'ordine del dottore di star separati almeno per qualche mese, finchè lei non guariva, tutto era stato un brutto sogno.

Nel sogno ricordava di essere partito una sera, ai primi d'aprile, e d'aver accettato il posto di guardiano nella piccola baia Delunas, per obbedire all'ordine del medico. Come fosse ritornato a casa non ricordava. Si sentiva felice come nei primi giorni del suo matrimonio.

Ella era lì, davanti a lui, sana, fresca, amorosa: egli la guardava con desiderio e diceva:

— Pottoi, vieni qui.… Manda al diavolo quella focaccia! Vieni qui: ho da dirti una cosa….

Pottoi fingeva di non sentirlo: le premeva più la focaccia che l'invito di lui.

Egli cercò di sollevarsi, ma non potè; stese le braccia e gli parve che le sue dita, semi-paralizzate da un intenso formicolio vibrassero a un tratto come corde metalliche.

— Pottoi! Aiutami. Che ho?

Allora la donna parve spaventarsi. Lasciò la focaccia e gli si avvicinò: ma quando si accorse che egli aveva le mani e la faccia tinte di carbone non volle toccarlo. Egli rimase così, a lungo, supino, con le braccia tese e le mani e i piedi agitati da un formicolìo doloroso: la moglie, svelta e bella nel suo costume giallo e violaceo, lo guardava dall'alto coi suoi occhi grigi, carezzevoli, e rideva. Il suo viso bianco e rotondo pieno di fossette, le sue labbra sporgenti, i suoi occhi socchiusi e voluttuosi provocavano maggiormente il giovane marito. Egli fece uno sforzo estremo per sollevarsi e si svegliò. Davanti a lui nell'apertura della capanna biancheggiava il quadro melanconico di cala Delunas. La luna cadeva sul mare grigiastro; i mucchi del carbone si disegnavano come piccole piramidi nere sullo sfondo chiaro della spiaggia.

Del suo sogno non rimaneva che la bisaccia, filata e tessuta da Pottoi. Egli cercò di riaddormentarsi, ma ad un tratto, tra il fruscìo ininterrotto delle onde, sentì un grido, lamentoso. Da prima il grido parve venire dal mare; poi tacque, ricominciò dietro le piramidi nere, cessò di nuovo, risonò ancora in lontananza, fra le macchie e le paludi.

Sebiu trasalì; ma poi si ricordò che la primavera s'inoltrava.

— È il cuculo! — pensò.

Si riaddormentò e ricominciò a sognare. Gli pareva d'essere vicino alla stazione ferroviaria del suo paese; sentiva il rombo del treno in arrivo, e fischi prolungati, stridenti, suoni di campane, di martelli, rumori di catene, dei quali l'eco ripeteva la vibrazione metallica. Ma invece del treno arrivò il veliero che ogni lunedi caricava il carbone a cala Delunas. I marinai, neri come zingari, fissavano gli occhi lucenti sul volto del guardiano e facevano smorfie oscene. Egli si svegliò ancora di soprassalto.

La luna tramontava sul mare d'un grigio violaceo, rossa come una falce insanguinata.

Ancora stordito e disgustato dal sogno, il guardiano fissò gli occhi appannati davanti a sè, sulla distesa degli scogli rossastri alla luna.

Era sveglio, ma sentiva ancora, oltre il fruscio delle onde, i fischi, il rombo, le campane, il canto del cuculo. Gli pareva che un treno passasse di là delle macchie, nella strada provinciale.

Si portò i pollici alle orecchie, se le chiuse, e si accorse allora che i rumori erano dentro la sua testa.

— Sta a vedere, diavolo, che prendo le febbri. Mi manca solo quello! — disse a voce alta, mettendosi a sedere. E scosse le braccia, aprendo e chiudendo le mani ancora tormentate da un intenso formicolìo. Allora ebbe paura. Non era mai stato malato.

— Proprio adesso. No, no, Sant'Eusebio mio, no, no!

S'alzò e uscì fuori sulla spiaggia. La notte, dolce e tiepida, sembrava una notte di giugno.

Dietro la capanna si stendeva una landa rocciosa e paludosa, coperta di macchie selvagge, e chiusa, in lontananza, da una linea di colline grigie, che erano come le prealpi dei monti lontani.

Il mare selvaggio delle coste orientali dell'isola, agitato, verso la spiaggia, anche nelle notti serene come quella, si sbatteva contro le roccie della landa, non contento di coprire e sorpassare gli scogli lunghi e levigati che all'ultimo barlume della luna parevano grossi pesci neri e rossastri abbandonati sulla rena.

Sebiu, dopo aver fatto un giro intorno alle cataste del carbone, si fermò un momento sotto una specie di tettoia di frasche e di rami che sorgeva dietro la capanna. Gli pareva di sentire un passo d'uomo, rapido e furtivo. Egli non aveva paura che venissero a rubargli il carbone, merce di poco prezzo allora, ma sotto la tettoia s'ammucchiava una grande quantità di sacchi vuoti, e non era la prima volta che qualche ladro tentava di impadronirsene.

Stette dunque in ascolto, sporgendo la testa fra i rami della tettoia e aguzzando lo sguardo fattosi improvvisamente selvaggio. Dal suo posto vedeva un tratto di spiaggia dove le macchie della landa arrivavano fin quasi agli scogli. Sulle prime non vide altro: ma dopo qualche minuto gli parve di sognare ancora. Vedeva avanzarsi fra gli scogli un frate alto e magro, col capo scoperto, con la tonaca sollevata sulle gambe nude. Pareva che la strana figura uscisse dalle onde. La sua testa, circondata da una folta capigliatura arruffata si disegnava grossa e fantastica sullo sfondo del mare. Sebiu gli corse incontro; il frate si fermò e lasciò cader la tonaca sulle gambe nude: tremava e batteva i denti, e disse con voce debole e ansante:

— Dio sia lodato. Dov'è la strada?

Prima di rispondere Sebiu lo squadrò da capo a piedi.

A prima vista, al chiarore equivoco della luna, il frate sembrava un uomo ancora giovane e vigoroso; ma a guardarlo bene, fra il nero dei capelli abbondanti e il grigio della lunga barba, il poco di viso che si vedeva, vale a dire la fronte rugosa, gli occhi infossati e il naso schiacciato e molle, dava l'idea d'una maschera di cartapecora, gialla e pesta.

Sebiu, che aveva fatto molti mestieri e si credeva un giovinotto furbo, capì immediatamente che si trattava di un uomo travestito, forse un malfattore in fuga inseguìto dopo un crimine.

— Lodato sia Dio! — disse con voce ironica. — E che cercate da queste parti?

— Ho smarrito la strada. Sono andato giù fino al mare.… Cristiano.… cristiano.… dov'è la strada?…

— Eccola, dietro il carbone: è la strada dei carri, che va fino allo stradale di Siniscola.

Senza dir altro il frate, che invece di sandali calzava certe scarpette di feltro che Sebiu aveva veduto agli uomini di Oliena, fece alcuni passi: ma d'un tratto parve inciampare e cadde, lamentandosi con un gemito selvaggio. Il guardiano, vinto da un impeto di pietà, non pensò ad altro che ad aiutarlo.

Lo aiutò, lo sollevò; e sentì che la tonaca del frate era tutta umida. Istintivamente si guardò le mani e le vide macchiate di sangue.

— Uomo, siete ferito! Dove andate, che siete mezzo morto? — gridò, asciugandosi la mano con la falda della giacca. — Dove siete ferito? Qui, al fianco?

— Sono caduto.… No.… Là.… Uno sconosciuto mi ha ferito.… Venivo da Bitti.… Mi hanno rubato la bisaccia.… tutto.… Erano due.… no, tre….

— Abbiamo capito; siete frate come lo sono io. Be', non importa; siamo cristiani entrambi.

S'erano intanto riavvicinati alla capanna. Il guardiano sorreggeva il frate che batteva i denti e pareva dovesse di nuovo cadere: lo aiutò ad entrare, a sedersi sulla bisaccia di lana; poi diede fuoco ad alcune fronde di lentischio ammucchiate sopra la cenere del focolare. La fiamma crepitante illuminò la piccola capanna conica, tanto stretta che i due uomini ci stavano a mala pena, e il cui arredamento consisteva tutto nella bisaccia stesa per terra, in una brocca e in un cestino di canne deposto sopra una pietra.

Il ferito gemeva, con un lamento così rauco e ansante che Sebiu ne provava davvero pietà; tuttavia, quando ebbe finito di accendere il fuoco e si volse, questi non potè fare a meno di ridere. Il frate stringeva fra le mani la sua barba e i suoi capelli: pareva se li fosse strappati in un impeto di dolore, e ancor prima che l'altro si fosse rimesso dalla sorpresa, li buttò sul fuoco. Sotto il grosso batuffolo grigio e nero la fiamma s'abbassò, poi divampò più alta; un odore di peli bruciati si sparse fino alla spiaggia.

Sebiu rideva come un bambino. Il frate s'inginocchiò e cominciò a levarsi la tonaca.

— Aiutami, figlio mio.… Brucia anche questa: se no.… se no.… Sono un uomo morto, figlio mio….

— Malanno! Non ti vorrei per padre! — pensò il giovine: ma cessò di ridere, e lo aiutò a spogliarsi della tonaca, levandogliela su per la testa, come una camicia. Allora, al posto del misterioso frate apparve un paesano, vestito con un costume nero da vedovo. Era vecchio, sbarbato e calvo: la bocca livida e rientrante e le guancie infossate parevano quelle di un cadavere.

— Eccovi scorticato, buona lana! — disse Sebiu, e nonostante le preghiere del ferito, invece di bruciarla, attaccò la tonaca ad un piuolo, ricordandosi che quando era pastore faceva altrettanto con le pelli dei montoni appena scorticati. Poi si curvò di nuovo e aiutò l'uomo a slacciarsi le vesti macchiate di sangue.

— Su, coraggio! Un vecchio arzillo come voi non deve spaventarsi per così poco. Ne abbiamo viste, eh? E quegli uomini.… quei due o tre, dunque, son fuggiti? Di che colore avevano i baffi? Siete nuorese, buon uomo? Oh, ecco qui: avete la spalla tutta rovinata; è ferita di coltello? Brava gente i nuoresi, vero?…

— Di coltello.… di coltello, sì! Ahi, ahi, piano, cristiano! Sono un uomo morto! Piano! Sono morto!

— Se foste morto non gridereste così! Su, coraggio! Mettetevi giù: vi fascerò.

Fasciare, era presto detto: nella capanna non c'era uno straccio. Sebiu però non perdette tempo a guardarsi intorno. Si levò la giacca e il corpetto (egli aveva abbandonato il costume per economia) e si levò la camicia bìanca, abbastanza pulita. Il suo dorso bianco ed agile come quello di un adolescente, ebbe, al chiaror della fiamma, un riflesso di marmo. Per far presto, egli stracciò la camicia, aiutandosi coi denti; con una delle maniche formò una specie d'impacco sul quale versò l'acqua della brocca, e in pochi momenti lavò e fasciò la ferita che tagliava profondamente la carne intorno alla scapola sinistra del vecchio.

— Ora vi darò un po' d'acquavite — disse poi, estraendo un fiaschetto dal cestino. — State tranquillo, su, state allegro!

Nonostante questo consiglio il ferito batteva i denti e piangeva. Sebiu gli sollevò la testa e gli mise il fiaschetto sulle labbra.

— Su, su, coraggio! Domani mattina potrete andarvene: su!

Il vecchio singhiozzò e bevette: per un attimo parve rianimarsi; tentò anche di alzarsi, balbettando:

— Ora.… ora vado.… Ti manderò una camicia nuova.… Io non ho che camicie da paesano, ma.… mia figlia.… te ne cucirà una.… una….

Si sollevò alquanto, fissando il guardiano con le pupille dilatate; poi diede un lungo gemito e si piegò sul fianco.

— Ohè, ohè, uomo, che fate? Ora sto fresco! — gridò Sebiu.

L'uomo sembrava morto: dopo qualche tempo rinvenne, ma non parlò più, assalito da una febbre fortissima. Rassicurato alquanto, Sebiu gli si sdraiò a fianco, domandandosi che cosa doveva fare. L'indomani, lunedì, arrivava il veliero per il carico del carbone; egli non poteva abbandonare il suo posto, e d'altronde aveva paura di tradire il ferito, il cui scopo, evidentemente, era quello di nascondersi.

— E se muore qui? E se, come pare, ha commesso qualche mala azione, in seguito alla quale è stato ferito? Lo ricercheranno, lo troveranno qui, ed io passerò per complice! Proprio benissimo! — pensava: ma l'idea di denunziare il vecchio neppure gli sfiorava la mente.

All'alba vegliava ancora: gli pareva che il ferito, che ansava e gemeva, gli comunicasse la sua febbre. Stanco e assonnato, si alzò, e di nuovo andò a vagare intorno ai mucchi del carbone. Sul mare solitario si stendevano come dei grandi veli color rosa: alcune onde s'avanzarono ancora fino alle roccie, sotto il rialzo ove sorgeva la capanna, ma la spiaggia, intorno alla cala, appariva scoperta, scintillante di conchiglie e di perline. Sotto il cielo roseo la landa melanconica si svegliava; le paludi riflettevano il colore del cielo, sulle macchie umide svolazzavano gli uccelli ancora silenziosi. L'odore aspro del musco degli scogli si fondeva col profumo del mentastro.

Al sorgere del sole, sul cerchio infocato che univa il cielo al mare apparve un punto grigio. Era il veliero. Nello stesso tempo, sulla striscia bianca dello stradale apparve un punto nerastro: era il sorvegliante che veniva per la consegna del carbone.

Sebiu, inquieto e incerto, prese due sacchi dalla tettoia, rientrò nella capanna e coprì il ferito.

Mentre toglieva la tonaca dal piuolo, con l'intenzione di piegarla e nasconderla, da una delle maniche vide uscire e cadere al suolo una cartolina postale, piegata e sciupata. Si affrettò a raccoglierla, e la lesse; ma la cartolina conteneva poche frasi insignificanti, firmate da un nome di donna. L'indirizzo era chiaro, scritto a grossi caratteri:

Al signor Onofrio Sanna
possidente

Suelzi.

Per alcuni momenti egli tenne in mano la cartolina, guardandola con inquietudine e diffidenza. Un'idea gli passava in mente, ma il timore di commettere una cattiva azione lo rendeva incerto. D'altronde che fare? Egli era quasi sicuro che il vecchio dovesse morire da un momento all'altro.

E poichè già sentiva i passi del cavallo del sorvegliante si decise: con un lapis scrisse alcune parole sotto l'indirizzo della cartolina, la ripiegò, la chiuse entro una busta sgualcita e la indirizzò:

Alla famiglià del signor Onofrio Sanna

Suelzi.

Poi uscì e andò incontro al sorvegliante.

Il sorvegliante era un ometto calvo, rosso in viso; per un tic nervoso ammiccava continuamente con uno dei suoi occhietti verdi. Vestiva in costume, ma aveva modi signorili. Sebiu lo considerava come un uomo colto e furbo, tuttavia riuscì a distrarlo, tirandoselo appresso di qua e di là per la spiaggia, senza mai lasciarlo avvicinare alla capanna, mentre l'ometto si divertiva a stuzzicarlo, parlandogli di Pottoi e scherzando a proposito della loro forzata separazione.

— Ieri è stata a messa, — diceva, e col suo continuo ammiccare pareva accennasse a sottintesi maliziosi. — Sta molto meglio: è bella e fresca come un fiore. Persino il vicario, nel celebrare la messa, si volgeva a guardarla.

Sebiu sospirava.

— Ma sta meglio davvero?

— Ti dico, in mia coscienza, sta benone. Mi ha incaricato di dirti che se tu tardi a ritornare.… verrà lei da te!…

Sebiu non credeva a questo scherzo, ma per deferenza al sorvegliante fingeva di stizzirsi e protestava.

— Pottoi vuol venire qui? Che venga pure, se non è contenta del suo malanno. Si buscherà le febbri.

— Ma che febbri, ma che febbri! Se questo è un luogo sanissimo! Con l'aria del mare!…

— Intanto son varî giorni che io mi sento poco bene. Ho il capogiro, ho sonno: la mia testa è diventata un molino.

Il sorvegliante lo guardava, e ammiccava.

— Sai che male è il tuo? È il male dei gatti a primavera. Lascia venire tua moglie!

— Zio Efisè! Non dite questo — protestò di nuovo Sebiu, ma arrossì lievemente.

— Andiamo a tirar fuori i sacchi, — disse l'ometto, avviandosi alla tettoia.

— Due sono nella capanna: mi occorrono perchè la notte ho freddo.

— Tua moglie.… potrebbe riscaldarti.…—ripeteva il sorvegliante, smuovendo i sacchi.

Ma Sebiu non aveva voglia di scherzare. Col pensiero stava sempre là, accanto al suo pericoloso ospite: ogni tanto, mentre i marinai che servivano anche da facchini, caricavano il carbone sul veliero ancorato nella rada, entrava nella capanna e sollevava timidamente i lembi del sacco; e gli sembrava di veder morire il vecchio, che non si moveva nè si lamentava più.

Nel pomeriggio il sorvegliante partì. Sebiu gli consegnò la lettera “alla famiglia di Onofrio Sanna” pregandolo d'impostarla appena giunto in paese, e lo incaricò di dire a Pottoi che gli mandasse uova e latte.

Il veliero non partiva fino al tramonto; i marinai però non scendevano più a terra. Dalla spiaggia Sebiu li vedeva muoversi fra le corde, le vele, i sacchi del carbone, agili e selvaggi come negrieri, e li sentiva parlare con un linguaggio che non riusciva a capire. Quando prepararono la zuppa, il capitano, un vecchio ligure dal volto e i capelli color d'arancia, invitò coi gesti Sebiu a prender parte al pranzo. Il guardiano rispose di no; e si toccò la fronte e il polso, accennando che aveva la febbre.

Allora il capitano gli mandò con un marinaio una scodella di zuppa. Sebiu l'accettò con riconoscenza, ma pregò il marinaio di lasciargli la scodella: avrebbe mangiato più tardi.

Pensava sempre al ferito; voleva conservare la zuppa per lui. Rientrò e sollevò il sacco; e con meraviglia vide che il vecchio dormiva: la febbre era quasi cessata, il viso riprendeva il colorito naturale. Le ore passarono, il veliero partì verso sera, spinto dal vento favorevole; e il guardiano, rimasto di nuovo in compagnia del suo ospite misterioso, riuscì a fargli sorbire qualche cucchiaio del brodo dei marinai e qualche goccia d'acquavite. Durante la notte la febbre riassalì il ferito che delirando parlava del suo cavallo, di una bisaccia colma di frumento, e pregava una donna, Marianna, di bruciare la tonaca.

Il giorno dopo arrivarono i carri del carbone, e Sebiu rimase tutto il giorno sulla spiaggia. Un carrettiere gli consegnò, una bottiglia di latte e le uova mandate da Pottoi, e alcune pastiglie di chinino; egli prese il chinino ma continuò a sentire un ronzio e fischi entro le orecchie, e a momenti gli pareva che il mare e la landa avessero la stessa ondulazione e la capanna si movesse come una barca.

Il ferito migliorava. Al terzo giorno, verso sera, la febbre cessò, ed egli parlò d'andarsene. Pur dichiarando a Sebiu una viva riconoscenza, non gli disse chi era nè chi lo aveva ferito: pareva che un solo pensiero lo preoccupasse.

— La camicia.… te la rimanderò nuova.… La farò subito cucire.

— Da chi? Da Marianna? — domandò Sebiu.

— Che sai tu di Marianna?

— Non avete parlato che di lei!

— Ebbene, è mia figlia! Di chi dovevo parlare, povera orfana?

— Come, povera orfana? Ma se il padre ce l'ha, e che buona lana!

— Povera Mariannedda! — disse il ferito, scuotendo la testa e come parlando fra sè. — È peggio che orfana!

— È giovane?

— Ha trentatrè anni, ora a San Michele.

— L'età del Signore! Mi pare che possa anche prendersi un pezzo di pane senza che nessuno l'aiuti.

Ma il vecchio non finiva di scuoter la testa reclinata sul petto, e di mormorare con pietà:

— Povera orfana! Povera vedova!

— Anche vedova? Allora sta fresca! Avete altri figli?

— No. Non ho famiglia.

Sebiu allora giudicò opportuno di fargli sapere che aveva scritto alla famiglia di Onofrio Sanna, indicando dove si trovava il finto frate possessore della cartolina indirizzata a quel nome.

Il vecchio diventò livido in viso.

— Tu mi hai tradito! Io non sono Onofrio Sanna! Tu mi hai ucciso! Ora me ne vado, subito.

Tentò di camminare, ma le gambe gli si piegavano; una rabbia impotente lo assalì: si agitò, si battè un pugno sul viso, poi ricominciò a piangere come aveva pianto la prima sera. Sebiu cercò di calmarlo, di scusarsi.

— Eravate in uno stato grave. Che cosa dovevo fare? E se morivate qui? E se passavo per vostro complice?

Il ferito si offese.

— Complice di che? Ma tu credi ch'io sia un malfattore, tu? Sono stato ferito e derubato e tu invece.… e tu adesso.… immondezza, tu credi….

Lo coprì d'ingiurie; gli rinfacciò persino di aver abbandonato il costume per vestirsi di fustagno come un mendicante.

— Ebbene, pazienza! Fa del bene e va all'inferno, — disse il guardiano a sè stesso.

E per evitare una questione più seria se ne andò a girovagare intorno ai mucchi del carbone. Suo malgrado sentiva una sorda irritazione contro lo sconosciuto, che sempre più gli sembrava un vecchio malfattore, incosciente ed ingrato.

— Fa del bene, Sebiu, fa del bene, che poi andrai all'inferno! — ripetè a sè stesso avanzandosi fino allo stradale, deciso a passar la notte fuori della capanna. Sedette sul paracarri e a poco a poco si calmò e si distrasse.

Era quasi notte. La luna alta sul cielo chiaro illuminava il mare e la landa; soffiava un leggero vento di sud-ovest che portava l'odore delle macchie e dei giunchi di palude, e il lamento del cuculo che singhiozzava in lontananza. Senza volerlo e senza saperlo Sebiu sentiva la dolcezza un po' triste e un po' voluttuosa di quella sera primaverile: ricominciò a pensare a sua moglie come ad un'amante lontana, e il pensiero di rivederla, e il desiderio di lei gli riempirono il cuore di tristezza appassionata.

Un passo di cavallo, in lontananza, nello stradale solitario, lo scosse dai suoi sogni; e subito sentì il desiderio e nello stesso tempo il timore che qualcuno venisse a cercare il ferito.

— È Marianna, la figlia del vecchio, — disse a voce alta, quasi per convincersi che non s'illudeva.

La figura seduta a cavalcioni su un piccolo cavallo baio che si avanzava fra il nero delle macchie e il bianco dello stradale era infatti quella di una donna; d'una vedova, a giudicarne dalle vesti nere e dalla benda che le avvolgeva il capo e le nascondeva quasi completamente il viso.

Arrivata davanti a Sebiu ella tirò la briglia, fermò il cavallo e domandò:

— Buon uomo, è cala Delunas, questa?

— Sì. Sei Marianna Sanna?

— Sì, — ella disse con voce sicura.

Egli è qui; sono io che ho scritto.

— Dio ti rimeriti, — ella rispose e smontò agilmente, aiutata da lui.

Proseguirono la strada a piedi, fino alla spiaggia. Indolenzita dal lungo cavalcare, la donna zoppicava alquanto, e anche il cavallo fiutava la sabbia e si scuoteva tutto come per liberarsi dalla stanchezza del viaggio. Mentre le raccontava l'avventura del frate, Sebiu guardava la donna, ch'era alta e sottile, ma non riusciva che a vederne gli occhi dolci e chiari, il cui bianco, al riflesso della luna, sembrava di madreperla: e gli pareva di averla altra volta incontrata.

— Poco fail vecchio s'e inquietato, protestando la sua innocenza e accusandomi di averlo tradito e rovinato, con l'avvertirvi, — egli concluse, — ma che dovevo fare? Ho fatto male?

— Tu hai fatto bene: hai fatto quello che doveva fare un cristiano. E Dio solo potrà ricompensarti, — ella rispose commossa.

Arrivati davanti alla capanna, Sebiu disse sottovoce:

— Egli si spaventerà, nel vederti. Potrà fargli male….

— Lascia che si spaventi! — ella disse quasi con asprezza. E fece cadere il lembo della benda che le copriva metà del viso. Allora Sebiu provò un senso di sorpresa, quasi come quando il finto frate gli era apparso nel suo vero aspetto.

Marianna rassomigliava a Pottoi. Gli stessi occhi dolci e chiari, lo stesso pallore diafano, le stesse fossette agli angoli della bocca dalle labbra sporgenti.

Ella entrò nella capanna. Egli rimase fuori, dominato da un improvviso e quasi violento senso di tenerezza ardente verso la donna che veniva di lontano e gli appariva come sua moglie in sogno.

Senza abbandonare la briglia del cavallo, si avanzò fino all'apertura della capanna e si protese ad ascoltare; ma più che la curiosità lo spingeva il desiderio di sentire ancora la voce della donna.

Ella diceva, con accento vibrante di dolore e d'ira:

— Babbo, babbo! Che avete fatto? Avevate bisogno di questo? No, no, non ne avevate bisogno.… Vergogna!

Il ferito non rispose, e forse accennò alla donna di non farsi sentire dal guardiano, perchè ella tacque un momento, e poi, con voce mutata, domandò:

— Come vi sentite? Siete in grado di fare il viaggio?

— Sei venuta a cavallo?

— Sì, ho preso un cavallo a Siniscola: andremo fin là a cavallo; poi prenderemo la carrozza. Che vi pare?

Il vecchio non rispose.

— E il vostro cavallo? — ella domandò.

— Ma lo hanno preso.… Tutto.… tutto mi hanno preso.… Mi son saltati addosso come diavoli. Dovevano seguirmi da un pezzo.

— Quanti erano?

— Due.… Io non avevo un'arma. Ma mi son difeso col bastone: e allora m'hanno ferito….

— Eh, un frate non va armato! — disse Marianna con ironia.

Allora Sebiu si portò una mano alla bocca, per soffocare una risata. Capiva finalmente il mistero tragico e ridicolo dell'avventura. Il finto frate girava per i paesi questuando, truffando la povera gente. Due malfattori più arditi di lui, forse sapendo chi egli era, l'avevano derubato e ferito.

Marianna avrebbe voluto portarsi via sùbito il ferito; ma da Siniscola la vettura postale non partiva che alle tre del pomeriggio. Tanto valeva passare la notte nella capanna.

Sebiu, dopo aver condotto il cavallo a pascolare fra le macchie, rientrò dai suoi ospiti e pregò la donna di rimanere: il pensiero che ella dovesse andarsene via subito, sparire com'era venuta, quasi fantasticamente, lo riempiva di tristezza.

— Lascerò la capanna a vostra disposizione; dovrete considerarvi come in casa vostra. E tu hai bisogno di riposarti, povera donna. Rimani, ti dico!

Ella rimase, tanto più che le emozioni di quelle ultime ore avevano agitato il vecchio; durante la notte la febbre lo riassalì.

Marianna cominciò a disperarsi; aveva paura che il padre morisse in quel deserto, tanto lontano da casa sua, e che si venisse a conoscere la sua vergognosa avventura. Ella era una donna energica, che aveva conosciuto il dolore e la solitudine; ma si ribellava all'idea di esser derisa e disprezzata dal prossimo. D'altronde era pericoloso mettersi in viaggio prima che il vecchio avesse riacquistato un po' di forza.

Sebiu cedette il suo posto alla donna, e se ne andò a dormire sui mucchi di sacchi, nella tettoia. Ma non potè chiuder occhio. Aveva come delle allucinazioni. Vedeva Marianna accanto a lui, e provava un desiderio violento di possederla. La presenza di lei, in quel luogo dove non era mai passata una donna, pareva riempisse di vita la solitudine profonda della landa e della spiaggia. Il mare si sollevava ancor più del solito, e le onde coperte di schiuma parevano, al chiaro di luna, grosse capre saltellanti, desiderose di balzare fra le macchie per pascervi l'erba nascente; ma nonostante la loro forza e la loro agilità non riuscivano a oltrepassare le roccie, sulle cui sporgenze lasciavano come dei bioccoli di lana.

Il cuculo ripeteva il suo grido, in lontananza, fra le paludi che riflettevano la luna; il suo grido pareva il richiamo appassionato d'un fantasma, e destava un senso di pietà e il desiderio di cose inafferrabili.

Sebiu sentiva voglia di piangere e nello stesso tempo il desiderio selvaggio e insistente di prender la donna lo assaliva come le onde assalivano le roccie; s'ella non fosse stata sua ospite, non avrebbe esitato un momento a lasciarsi vincere dal suo istinto.

La notte passò, tormentosa per tutti. Marianna non dormiva: il ferito gemeva; Sebiu sognava strane cose. All'alba arrivarono i carri del carbone, ed egli avvertì Marianna di non uscire dalla capanna. Ella sperava sempre di veder da un momento all'altro suo padre sollevarsi ed essere in grado di partire; ma la febbre, nonchè diminuire, cresceva. Egli ricominciò a delirare.

Allora anche lei, come Sebiu nei primi momenti, perdette la testa: chiamò il guardiano e gli disse che voleva far venire il medico.

— Dirò che mentre io e mio padre viaggiavamo a cavallo per andare alla festa campestre di San Costantino ignoti malfattori ci hanno assalito.

— Ma il dottore riconoscerà che la ferita data da quattro giorni! — osservò il giovine.

— Il nostro medico è un uomo onesto, indiavolato: denunzierà il caso al pretore, non dubitarne.

Marianna cominciò a piangere.

— Ma non bisogna lasciarlo morire così! Gli verrà la cancrena. Egli morrà qui! Egli morrà qui!

Sebiu la guardava con pietà: e poichè ella continuava a disperarsi, le diede un consiglio:

— Senti. Conosco una donna del mio paese, una vecchia famosa per curare i feriti anche i più gravi. Ha curato anche dei banditi, e tutti la conoscono e l'apprezzano per la sua discrezione e la sua abilità. Io volevo chiamarla subito, ma a dire il vero il primo giorno ho creduto che non ci fosse più nulla da fare, e poi ho sempre sperato che del medico non ci fosse bisogno….

Marianna s'asciugò gli occhi e si alzò.

— Dimmi dove sta questa donna.

— Sta in una casetta dirimpetto alla parrocchia. Domanda di Maria Murru: la troverai subito.

Marianna montò a cavallo e andò in cerca della vecchia.

La vecchia, nel vedere una donna straniera e indovinando che l'avventura raccontata non era del tutto vera, credette si trattasse d'un latitante o di un malfattore ferito in qualche ardita impresa: si affrettò quindi a prendere un cofanetto d'asfodelo, e sedette in groppa al cavallino baio, alle spalle di Marianna. E via, dove la primavera spandeva donne ritornarono verso il mare. La vecchia era altissima, rigida, scura in viso; seduta in groppa al cavallino, dominava la figura graziosa e delicata di Marianna, e sembrava l'immagine della Morte accanto a quella della Vita.

Durante il viaggio raccontò che aveva curato più di venti feriti; e fra gli altri, alcuni latitanti. Non nascose che anche adesso credeva d'andar a far altrettanto, e che ne era orgogliosa.

Arrivata alla capanna aprì il cofanetto e tirò fuori una fascia, una chiave, un vasetto di balsamo. Ella curava ancora le ferite come al tempo delle Crociate; ma aveva la furberia d'un medico moderno. Si accorse che la ferita del vecchio non era grave; ma per darsi dell'importanza dichiarò che egli non doveva muoversi fino ad una sua nuova visita.

Fasciata la ferita, mise la chiave sotto l'ascella del vecchio; la lasciò finchè la sentì calda, poi la strinse nel pugno.

— Febbre non ce n'è quasi più — dichiarò, rimettendo nel cofanetto lo strano termometro. E sollevandosi vide che Sebiu guardava Marianna con uno sguardo quasi feroce.

Il ferito rimase altri cinque giorni nella capanna. Gli uomini che trasportavano il carbone dalla foresta alla spiaggia finirono con l'accorgersi della presenza del vecchio e della donna. Sebiu inventò una storiella, disse che il vecchio, ammalatosi in viaggio, gli aveva domandato ospitalità. Gli uomini sogghignavano. Essi venivano direttamente dalla foresta, senza fermarsi nei paesi: erano da lunghe settimane privi di compagne, di mogli, di amanti: nella spiaggia desolata Marianna rappresentava per loro ciò che v'è di più bello per l'uomo oppresso dalla solitudine: la Donna, fonte di vita. Al desiderio sempre più cupo di Sebiu cominciò quindi a mescolarsi un istinto di gelosia feroce. Egli rispettava Marianna, ma gli pareva che ella non dovesse appartenere a nessun altro degli uomini che potevano desiderarla.

Ella si accorgeva dell'ammirazione che gli destava, e a sua volta si mostrava gentile e buona con lui. Egli aveva abbandonato la capanna, lasciandola interamente a disposizione degli ospiti, e per ore ed ore rimaneva lontano. Marianna cucinava, curava il ferito, e contava le ore e i giorni che non passavano mai.

Finalmente la domenica mattina la vecchia medichessa trovò che il ferito stava molto meglio: il calore dell'ascella non riscaldava la chiave.

— Domani mattina potete mettervi in viaggio — ella annunziò.

Allora la giovine vedova l'accompagnò fino allo stradale e le chiese quanto le spettava per la cura. La vecchia esitò un momento, poi contò sulle dita e domandò:

— Dimmi la verità, tuo padre, il vecchio ferito, è un latitante?

Marianna negò recisamente.

— Uno scudo, allora! Se si fosse trattato di un “disgraziato” avrei potuto fare uno sconto, fare anche la cura gratis, ma per un privato non posso domandare di meno.

La vedova pagò lo scudo, e ritornò verso la capanna. La spiaggia era deserta, perchè nei giorni di festa i “carriolanti” non viaggiavano. Soffiava un forte vento di sud-est e il mare era agitato: più tardi cominciò a piovere, e Sebiu rimase nella capanna coi suoi ospiti.

Marianna, per sdebitarsi in qualche modo con lui, aveva fatto venire dal paese un fiasco di vino e una bottiglia d'acquavite. Egli non si fece pregare per bere, poi d'un tratto diventò melanconico, e senza che nessuno glielo domandasse cominciò a raccontare la storia della malattia di sua moglie.

Anche il ferito beveva come un uomo sano; per seguire l'esempio dell'ospite gli fece anche lui qualche confidenza. Fra le altre cose raccontò che Marianna aveva un ricco pretendente, un pastore non tanto giovane, ma ancora un bell'uomo, pacifico, semplice, padrone di duecento pecore: viveva quasi tutto l'anno in campagna, ed era un futuro marito ideale, insomma.

Marianna faceva dei cenni a suo padre perchè tacesse, ma i suoi dolci occhi sorridevano, e pareva ch'ella dicesse a Sebiu, con lo sguardo: “dopo tutto non sono una vedova disperata; lo vedi? Ho altri adoratori, più fortunati di te”.

Sebiu ascoltava, beveva e sospirava.

— E così domani dovrete andarvene, — ripeteva di tanto in tanto.

— Mi pare sia tempo, — disse Marianna.

— Dovresti mandarci via in malora!

Egli la guardò e arrossì. Il vecchio gli domandò scusa per averlo ingiuriato mentre avrebbe dovuto ringraziarlo come un santo, e aggiunse:

— Io mi ricorderò sempre di te. Anche se tu mi facessi la peggiore delle ingiurie, anche se tu tagliassi la lingua al mio cavallo, ti perdonerei.

Sebiu uscì fuori e si morsicò i pugni.

Verso il tramonto la pioggia cessò, ma il vento continuò a soffiare con violenza. Era un vento caldo, umido, che portava l'odore delle coste africane. Sull'orizzonte, sopra il mare tutto livido e sanguigno, il cielo rosso e le nuvole in color di fiamma e di fumo davano l'idea di un immenso incendio. La brughiera umida, gli scogli e la sabbia, quando le ondate si ritiravano, riflettevano la luce rossa dell'orizzonte.

Sebiu andò in cerca del cavallo dei suoi ospiti, e nella tettoia vide Marianna che cercava un sacco meno sporco degli altri per coprirsi durante la notte. Le si avvicinò: tremava tutto e i suoi occhi riflettevano la fiamma del tramonto.

— Stanotte farà freddo — disse lei, piegata sul mucchio dei sacchi.

— Se vuoi.… se vuoi, ti scalderò io….

Ella si sollevò e rise. Egli le afferrò i polsi, e gli parve di avere la stessa forza irrefrenabile delle onde che in quel momento arrivavano a sorpassare le roccie.

Durante la notte egli vagò lungo la spiaggia, si aggirò attorno alla capanna, cantò, rise e parlò ad alta voce, come se le cose tutte potessero ascoltarlo e partecipare alla sua ebbrezza. Gli pareva di esser tornato fanciullo. Non si pentiva di quello che aveva fatto, anzi ne era quasi orgoglioso. Rivedeva Marianna, che dopo essersi abbandonata lo guardava, umile e quasi riconoscente, e poi lo sfuggiva senza rivolgergli una parola di rimprovero o di promessa.

Per quanto la richiamasse, coi suoi fischi, i canti, i versi melanconici che si confondevano coi lamenti del cuculo, durante la notte ella non si lasciò più vedere. All'alba gli ospiti partirono: il vecchio sedette in sella e Marianna in groppa al cavallino baio.

— Verrò a trovarti.… per la festa.… — disse Sebiu. La sua voce tremava.

— Se tu vieni ed io avrò un pane te ne darò la metà, e se non lo avrò me lo presterò dal vicino, — promise il vecchio solennemente.

Sebiu fissava su Marianna i suoi occhi ardenti, ma ella evitava di guardarlo, e tagliò corto ai ringraziamenti e alle promesse enfatiche del padre, battendo il tacco sul ventre del cavallino. La bestia si mosse, avviandosi lungo il sentiero e di là nello stradale, come se avesse già fatto molte volte quel viaggio. In breve il gruppo sparve fra le macchie della landa, e Sebiu si trovò solo, un po' stordito come quando si svegliava dopo qualche sogno febbrile.

All'ebbrezza puerile e selvaggia della notte seguì una tristezza sentimentale. Gli venne il desiderio di slanciarsi attraverso la landa, d'inseguire i suoi ospiti; e sognò che il vecchio, riassalito dalle febbre, costringeva Marianna a ritornare indietro verso cala Delunas: poi si propose di andar a Suelzi al più presto possibile, e di trovar da lavorare in quel paesetto, per poter vivere accanto a Marianna: infine sedette sul mucchio dei sacchi, sotto la tettoia, con gli occhi fissi in lontananza, e le sue labbra si sporsero e tremarono come quelle di un bambino pronto a piangere.

I “carriolanti” lo trovarono addormentato, pallido in viso come un cadavere, e dovettero gridare e scuoterlo per svegliarlo.

Il sorvegliante gli portò il solito cestino di provviste e le notizie di Pottoi.

— Ieri, a messa, ho veduto che un forestiere, un continentale di passaggio, la guardava come un falco. Anche lei lo guardava. Eh, eh, non si lascia così la moglie sola!

— Ma state zitto, zìo Efisè! Queste cose non le dite neanche per ridere.

L'ometto ammiccava, e pareva gli accennasse che sapeva il suo segreto. E Sebiu arrossì, domandandosi suo malgrado che cosa avrebbe fatto se Pottoi lo avesse tradito, come egli aveva tradito lei.

I giorni passarono, lunghi e monotoni, ed egli dapprima smise il progetto di recarsi a lavorare al paese di Marianna, poi accettò di rimanere per altri due anni guardiano a cala Delunas; ma domandò, per il mese d'agosto, due settimane di permesso. Voleva andare a Suelzi. Ai “carriolanti” che potevano aver relazione con persone del paesetto di Marianna, domandava continuamente notizie di lei. Ma nessuno sapeva dirgli nulla. In giugno scrisse una cartolina al vecchio, lamentandosi di non aver più avuto sue notizie. I suoi ingrati ospiti neppure gli risposero. Di tanto in tanto egli provava qualche vaga inquietudine. E se Marianna fosse rimasta incinta? Il vecchio Sanna era capace ancora di vendicare l'onore della figlia. Nelle notti di luna, mentre vagava attorno ai mucchi del carbone, credeva di veder la strana figura del finto frate balzare dall'ombra delle macchie e saltargli addosso minacciosa.

Ma col passar del tempo le sue paure svanirono: a volte gli pareva d'aver sognato. La figura di Marianna si confondeva con quella di Pottoi, ed egli, ripreso dalle sue smanie, dal bisogno della compagnia di una donna, non sapeva quale gli sarebbe riuscita più piacevole: quella della moglie o quella della vedova. Una notte sognò le due donne che si azzuffavano per lui in riva al mare; Pottoi riuscì ad atterrare la sua rivale, e l'avrebbe buttata alle onde, s'egli non interveniva a tempo.

Il sorvegliante continuava, ogni lunedì, a portargli le provviste e i saluti di Pottoi. Pottoi migliorava davvero, e una mattina, verso i primi di luglio, Sebiu se la vide arrivare d'improvviso, in groppa al cavallo del sorvegliante, come la vedeva nei suoi sogni. Finse di arrabbiarsi per l'imprudenza di lei, ma l'ometto ammiccava e giurò sul suo onore che aveva prima domandato il parere ed il permesso del medico.

— Se no, finisco col trovarti sulla sabbia come un'aringa salata, consumato, stecchito, — disse, e chiudeva l'occhio, guardando Pottoi, come per dirle: siamo intesi, eh?

Poi se ne andò fra gli scogli, si spogliò e si buttò nudo nell'acqua.

Sebiu e Pottoi, rimasti soli sotto la tettoia, si guardavano confusi come due fidanzati, mentre chiacchieravano raccontandosi le vicende di quei lunghi mesi d'assenza. Egli, naturalmente, si guardò bene dal narrare la più interessante delle sue avventure.

Dopo quel giorno la figura di Marianna cominciò a sparire dietro quella di Pottoi; e come nel sogno, questa rimase vittoriosa. E in agosto, invece di recarsi a Suelzi, Sebiu passò i suoi giorni di vacanza in paese. Una sera, passando davanti alla parrocchia, vide la vecchia medichessa che col suo cofanetto nel grembiale, si recava a curare un ferito.

— Che nuove, zia Maria? Come vanno gli affari?

— Qualche volta bene e qualche volta male.

Fecero un tratto di strada assieme, e prima di entrare nella casa dove era aspettata, la vecchia disse:

— Ho poi saputo chi erano i tuoi ospiti di cala Delunas.

Suo malgrado egli trasalì, punto dal ricordo.

— Io non ho saputo più nulla di loro.

— Io sì!

— E come avete fatto?

— Cuoricino mio, — ella disse non senza ironia — ho un cavallo, io, sul quale viaggio senza esser veduta, e quando voglio sapere qualche cosa monto su e via!…

— E prestatemelo, allora! Vado immediatamente a trovare i più ricchi proprietari del circondario e rubo loro i denari, il formaggio, gli alveari….

— Cuoricino mio, la ricchezza val niente, quando manca la saviezza, — sentenziò la vecchia. — Vedi, quel tuo ospite? Era un uomo ricco: s' è mangiato tutto, anche i beni della figlia. Poi andava a questuare, vestito da frate, finchè una bella notte s' è preso la batosta che tu sai.

— Eh, perchè non aveva il vostro cavallo invisibile! E poichè state a raccontare, ditemi, e della vedova che ne è?

— Ti preme saperlo? Deve sposare un pastore, anzianotto, ma ricco.

— Buona fortuna!

Per quanto egli insistesse, la vecchia non volle dirgli come aveva avuto notizie dei Sanna. Egli pensò ancora qualche volta a Marianna, con un vago senso di gelosia per l'uomo che doveva sposarla; ma non mancava di dire a sè stesso, per consolarsi:

— Poteva succedere qualche guaio: meglio che sia andata così.

Una mattina, agli ultimi di gennaio, mentre usciva col suo cofanetto nel grembiale, chiamata d'urgenza presso un pastore ch'era caduto di cavallo, la medichessa senti raccontare dalle sue vicine una strana avventura accaduta nella notte.

— Un frate ha lasciato una bambina, in casa di comare Pottoi! Pare sia una bastarda, figlia di gente ricca: l'hanno portata di lontano, forse da Nuoro….

Nuoro, per quelle buone paesane, era come a dire Parigi, un luogo lontano, una grande città di misteri e di perdizione.

Mille supposizioni e commenti passavano di bocca in bocca: lei sola, la medichessa, taceva; e palpava il suo cofanetto, contando sulle dita nervose:

Maju, lampadas, triulas, agustu, capidanne, santu Gainu, santu Andrìa, Nadàle, jannarju1) Maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre, dicembre, gennaio.

— nove mesi giusti.

D'un tratto, vinta dalla curiosità, ma senza dimostrarlo, si diresse verso la casa di Pottoi.

Davanti al cortiletto gruppi di donnicciuole commentavano il fatto; nella cucina la giovine donna non finiva di raccontare l'avventura, mostrando a tutti la bambina che succhiava tranquillamente il latte dalle mammelle gonfie e livide di una cugina di Sebiu. Il guardiano era assente, e ciò che sopratutto preoccupava Pottoi era il dubbio che egli avesse ad accoglier di malanimo la piccola misteriosa ospite.

La medichessa si piegò a guardare la bambina che Pottoi e le sue parenti avevano già infagottato all'uso del villaggio, con fasce colorate, le manine dentro, la testina nuotante in una cuffia di broccato con frange dorate. Sembrava così una piccola mummia; il suo visetto, dai lineamenti già marcati, era pallido, d'un pallore malaticcio; e causa di meraviglia per tutti quelli che la guardavano era la sua strana rassomiglianza con Pottoi.

Qualche donnicciuola, per far stizzire la giovine donna, diceva:

— Mi pare che questa creaturina non venga poi tanto di lontano. Che tu l'abbia fatta ad insaputa di tuo marito, di', Pottoi?

Allora la giovine donna riprendeva a raccontare per la millesima volta la sua avventura.

— Saran state le nove, ieri sera; quando ho sentito battere alla porta. Credevo fosse Sebiu, anzi mi spaventai, pensando: che egli stia poco bene? Domando: chi è? Amici, risponde una voce alta e chiara. Apro, e chi vedo? Un frate, uno di quei frati che sovente passano da queste parti questuando. Egli si tirava dietro un cavallo carico di bisacce colme, ed io posso giurare che queste bisacce mi parvero piene di grano. Per non lasciare il portone aperto, credendo sempre che il frate domandasse la questua, io gli diedi una lira che tenevo in tasca. Egli prese la moneta, e mi disse:

“— Dio te ne rimeriti, buona donna; ma tu dovresti farmi un favore, per amor di Dio. Devi tenermi una di queste bisacce, fino a domani mattina. Ho paura che, dove vado a passar la notte, mi sottraggano un po' di grano. Domani mattina ripasserò e riprenderò la bisaccia.

“— Date pur qui, — dico io, un po' meravigliata — purchè non ripassiate prima dell'alba….

“— No, puoi star sicura, — egli risponde, e tira giù una bisaccia, se la carica sulle spalle, la depone in un angolo sotto la tettoia, lì nel cortile. Poi se ne va ed io chiudo il portone. Non vi nascondo che la cosa mi sembrava un po' strana: non sono una donna semplice, io! Mentre il frate scaricava la bisaccia, ebbi l'impressione che questa pesasse poco.

“Mi vennero in mente brutte idee. Pensai: qualche maligno, qualche individuo che vuol male a Sebiu può averci giocato un tiro. Se nella bisaccia, per esempio, ci fosse della carne rubata? Se domani mattina, invece del frate venisse il brigadiere e trovasse in casa mia, nella bisaccia, qualche refurtiva?

“Pensando così mi aggiravo per la cucina, indecisa se dovevo o no guardare dentro la bisaccia. Quando ad un tratto, — vedete, mi viene ancora la pelle d'oca al ricordarlo, — ecco, sento un vagito. Immediatamente ebbi l'intuizione della verità. Non sono una sempliciona, io. — Qui c' è una creaturina di Dio, — pensai — un figlio di Sant'Antonio!1) Un bastardo. Allora non esitai oltre. Prendo il lume e guardo dentro la bisaccia. Avvolta nella lana trovo la bambina! La tiro su, la guardo: mi pareva di sognare. Il particolare più curioso è questo: la creatura era avvolta in una camica da uomo, da borghese, nuova, non ancora lavata. Eccola qui”.

Pottoi spiegò la camicia, tenendola per le maniche: era di tela finissima, cucita a mano.

Tutte le donne presenti si avvicinarono a guardarla. Soltanto la medichessa rimase ferma al suo posto, accanto al focolare, e si degnò appena di gettare uno sguardo sullo strano indumento.

— È certo che il padre della creatura è un signore, dunque, — concluse Pottoi, — forse anche la madre è una signora. Ad ogni modo, questa camicia potrà servire a Sebiu.

La medichessa s'alzò per andarsene.

— Credete voi che Sebiu vorrà tenere la bambina? — le domandò Pottoi.

— Io credo di sì, — rispose con tono sicuro la vecchia.

— Dio lo voglia.

E la vecchia medichessa andò a visitare il pastore caduto di cavallo. Anche là, nonostante la disgrazia, si parlava dell'avventura di Pottoi.

Per cinque o sei giorni in tutto il paese non si parlò d'altro: molte donne assicuravano d'aver veduto il frate, e qualcuna disse che egli aveva picchiato anche alla porta di casa sua. Si rideva un pochino di Pottoi, e tutti erano sicuri che Sebiu avrebbe mandato la bambina dal Sindaco, perchè il Municipio s'incaricasse di allevarla.

Una sera, mentre usciva di casa col solito cofanetto, la medichessa incontrò una sua vicina, che tornava dalla casa di Pottoi.

— Sebiu è tornato, sapete. Si tiene la bambina! Che ne dite?

Ma la vecchia non rispose a tono.

— Ho dimenticato la chiave, — disse palpando il suo cofanetto.

E rigida, impassibile, da persona che non si meraviglia di niente, rientrò per cercare il suo termometro.

Notte stellata e cheta, piena di dolce incanto, perchè io pure lieta di sogni non ti avrò? Perchè laggiù i felici dormono amati, e intanto a me, notte, tu dici che qui io morir dovrò?

Un piccolo soldato bruno s'avvicinava al portone della caserma canticchiando questi versi su un'aria della Sonnambula. Suo malgrado Serafino si volse, stupito perchè in quel momento, come del resto gli accadeva spesso, pensava al suicidio. Bisogna dire subito però che quest'idea, terribile solo per coloro che non si uccideranno mai, era per Serafino una specie di sollievo.

— Perchè vivere? — pensava. — Ho vent'anni e sono povero, anemico, infelice. Non ho ingegno, nè volontà, nè fortuna. Una volta ho scritto una novella, ma il giornale a cui l'ho mandata me l'ha respinta senz'altro. Non ho mai avuto neppure la soddisfazione di avere un bel vestito nero. La mia famiglia è così povera che ha fatto sacrifizi enormi perchè io potessi nientemeno frequentare le scuole normali. Sono maestro, ora, e finito il servizio militare mi aspetta davvero un “brillante avvenire”. E moriamo, dunque!

Egli diceva a sè stesso: “e moriamo dunque!” come si dice: “e andiamocene” quando si vuol lasciare un luogo ove ci si annoia.

Eppure non era ambizioso nè orgoglioso, Serafino; buono in fondo e mansueto come uno di quei gattini maltrattati da bambini crudeli, aveva un ultimo sogno: compiere, prìma di morire, qualche atto di coraggio, o almeno dare alla sua morte volontaria un'apparenza di sacrifizio.

Però sognava anche d'innamorarsi d'una signorina bella e ricchissima o d'una grande artista maritata e onesta. Queste signore lo riamavano; ma tutti gli ostacoli del genere sorgevano fra lui e loro. Allora egli si suicidava. Avrebbe voluto innamorarsi di quelle signore, anche non riamato, tanto per dare alla sua morte l'apparenza d'un suicidio per amore. Ma dove trovarle?

Ciò che lo rendeva sopratutto melanconico era appunto la certezza che i suoi sogni poetici non si sarebbero mai avverati; la sorte dei poveri non permette che di morire di inedia o tutt'al più di disperazione.

Quella sera egli attraversava uno di questi periodi di tristezza sentimentale, durante i quali pensava alla morte come ad un sonno dolce di convalescente, ma lungo, profondo, in una notte senza confine d'aurora.

Il luogo dove si trovava da una settimana, non poteva che accrescere la sua melanconia: era una caserma, in un'isola montuosa sulla cui cima la casa bianca dei forzati dominava la distesa perlata d'uno dei più bei mari del mondo come l'idea della morte dominava la giovinezza di lui. Del resto la sera autunnale, limpida e sonora, rendeva triste ogni cosa: anche il mare deserto, tutto azzurro e oro nella luminosità del crepuscolo, rabbrividiva di freddo.

Fino al cortile della caserma giungeva il fruscìo delle canne e delle acacie scosse dal vento lungo i ciglioni dell'isola: nulla di più triste di quel lamentoso susurrìo. I soldati riuniti nel vasto cortile, davanti alle caserme bianche e basse che parevano le case di un villaggio, dovevano tutti sentire più o meno la tristezza e la nostalgia del vento autunnale perchè cantavano lunghe canzoni melanconiche.

Addio per sempre, albergo avventurato, Soave asilo di gioia e d'amor….

Dal portone Serafino dominava la strada in pendìo, lastricata, incassata fra due muri e in fondo alla quale si vedeva una porta spalancata e l'interno giallognolo d'un'osteria deserta. Un vecchio prete col viso grasso e pallido reclinato sul petto, saliva la strada respirando forte e tirandosi su la sottana. Giunto davanti al portone si fermò e salutò.

— Buona sera: il direttore è lassù?

— Sissignore, — rispose il piccolo soldato bruno, portandosi la mano alla fronte.

— C'è un condannato in agonia, è vero? Come va? Se stamattina stavano tutti bene?

— Sissignore. Una paralisi.

— Buona sera, — disse allora il vecchio prete, e riprese la salita frettoloso e sollevandosi ancor più la sottana sulle calze turchine.

Serafino e il compagno, che era uno studente musicomane, si misero a discutere, come usavano spesso. Serafino sfoderò questa questione: perchè i condannati a lunghe pene e i malati incurabili non capiscono che dovrebbero suicidarsi.

Il musicomane rispose che tanto gli uni come gli altri sperano di finir la pena o di guarire.

— Che vuoi, la vita è bella! — concluse, con gli occhioni neri scintillanti di gioia. — Basta vivere per vincere. E vedi, più si è malati, più si è condannati ad una pena grave, più si ama la vita.

— Parole! La vita, senza la salute, senza la libertà, senza la ricchezza, è una Vittoria con le ali spezzate, — disse poeticamente Serafino.

— Io godo poca salute, — ribattè l'altro, — sono spiantato, sono ora costretto al servizio militare; eppure, sono contento. Peggio per chi non lo è.

— Tu sei un incosciente.

Una voce rauca come il grido d'un gallo interruppe la discussione.

— Abate!

— Presente.

Era il sergente che cominciava l'appello.

La sera cadeva rapidamente: ad ovest il cielo prendeva un cupo splendore d'acciaio; e tra il ricamo tremulo delle acacie il mare violetto pareva splendesse di luce propria.

Un lume scintillava in fondo alla strada, nell'interno dell'osteria. A momenti il vento taceva, e allora vibravano più forti le voci diverse dei soldati che rispondevano all'appello: alcune fresche e ardite, altre aspre, ironiche; il musicomane pronunziò il suo “presente” con un grido cadenzato, e la voce di Serafino parve venire di lontano, col vento che portava il sospiro delle canne e degli olivi.

Dopo l'appello i soldati ripresero a cantare; e vibrava qualche cosa di dispettoso nel loro canto rozzo e quasi selvaggio. Pareva volessero dimenticare, urlando, la tristezza e il dispetto di trovarsi esiliati in quel luogo di castigo. Quelli che più urlavano erano i soldati che durante la notte dovevano montar la guardia lungo le coste dell'isola. Uno solo taceva: Serafino.

Verso mezzanotte egli si trovava di guardia in un punto dove la strada, fin là chiusa da muraglie, si apriva improvvisamente sopra un masso enorme precipitante sul mare.

Il vento era cessato; ma nella notte stellata l'aria quasi fredda profumata dall'odore del mare ricordava le belle notti invernali. L'occhio verde della lanterna, che vigilava come un occhio maligno davanti all'isola dei condannati, gettava un enorme ventaglio di luce vitrea sul mare oscuro.

Sotto lo scoglio Serafino vedeva un quadro fantastico: una barca nera illuminata ad acetilene, e dentro la barca un pescatore di ostriche (di quelli che hanno un permesso speciale per avvicinarsi all'isola) col corpo magro disegnato da una maglia rossa: sembrava un diavolo in un cerchio magico di luce cruda.

Null'altro, tranne i lumi lontani sul confine della terra buia e stelle sul cielo buio.

Come sempre quando montava la guardia, Serafino, che aveva letto Tolstoi, si domandava amaramente chi lo costringeva a far ciò, perchè obbediva ad una potenza illogica, mostruosa, rappresentata da uomini inferiori a lui, da un caporale contadino, da un sergente barbiere, che lo obbligavano a vegliare, incosciente e maligno come l'occhio della lanterna, sopra un precipizio contro il quale s'infrangeva il vano assalto delle onde.

Perchè si privava del sonno, unica dolcezza che la fortuna gli accordava facilmente, per vigilare la tomba di quegli uomini vivi che non gli avevano fatto del male? E chi lo sapeva? Era la stessa potenza illogica e mostruosa che lo costringeva a vivere una vita senza amore e senza dolore, i cui giorni, simili alle onde, andavano a battersi inutilmente contro lo scoglio del nulla.

Il pescatore portò di là dello scoglio la sua barca, e tutto tornò buio, d'un buio azzurrognolo, rotto appena dal chiarore della lanterna e da riflessi lontani.

Serafino aveva sonno: i suoi tristi pensieri lo cullavano stranamente, eguali, sempre eguali, monotoni e sonnolenti come il rumore delle onde. Ripensava ai versi del suicida ripetendoli fra di sè col motivo della Sonnambula.

Parevano fatti apposta per lui, quei versi: e quel motivo facile e dolce gli ricordava i vecchi motivi che avevano cullato i suoi primi sogni di studente. Adesso la notte era stellata e cheta, ma non più lieta di sogni. Un sogno solo, oramai attraversava per lui la pace della notte stellata: il sogno della morte. Essa era l'amica attesa e spesso egli credeva di sentirla vicina; ed anche quella notte gli parve che qualche cosa di soave passasse improvvisamente per l'aria: non soffio di vento, non profumo, non melodia, ma qualche cosa di più snervante, di più dolce. Era una carezza misteriosa, il soffio di lei che passava, sfiorandolo col suo vestito di velluto nero, accarezzandolo con le sue mani di piuma….

— Dev'esser morto il condannato. Si, ricordo, quando morì la mamma, mi parve che due mani invisibili, lievi come piume, mi sfiorassero il viso.

Passeggiava lentamente, dall'estremità del precipizio alla strada. Il sonno lo vinceva. Un bel momento non potè più camminare, e sedette, stanco, sulla sporgenza del masso che dominava il precipizio. Mise il fucile sulle ginocchia, e gli parve che una mano invisibile gli chiudesse gli occhi.

Così, per un attimo, ad occhi chiusi, vide egualmente, ma come attraverso il velo d'un incantesimo, il mare senza colore, i lumi, gialli sulla linea nera delle coste vicine, le stelle, il chiarore suggestivo del faro: e ai suoi piedi sentiva il respiro lamentoso delle onde, e gli pareva che l'isola fosse uno smisurato mandolino capovolto sulle acque entro le quali le sue corde vibravano con un gemito d'infinito dolore. Dormire, dormire! Mai come in quel momento aveva sentito lo spasimo del sonno non soddisfatto. Gli pareva di sentire passi furtivi e pensava sempre al condannato agonizzante, forse già morto: quello, almeno, s'era addormentato una buona volta! Egli lo conosceva; lo aveva spesso sorvegliato mentre riattava il lastrico della strada: era un muratore, uno dei tipi più miti del penitenziario, un uomo alto, magro, curvo, col viso dolce di vecchio biondo, con due piccoli occhi giallognoli sorridenti.

Eppure.… Eppure gli pareva di sentir davvero un fruscìo di passi misteriosi. Riaprì gli occhi, si scosse. Storie di forzati evasi gli tornarono in mente. Pochi mesi prima cinque condannati, fra i quali un vecchio di settant'anni, erano evasi con astuzia meravigliosa, profittando appunto della barca d'un pescatore d'ostriche; ma giunti alla riva opposta non avevano saputo nascondersi, vagando per otto giorni sulle colline troppo frequentate: così erano stati inseguiti come bestie feroci, e ripresi e inchiodati di nuovo, spoglie di avoltoi, sulla cima dell'isola del castigo.

Suggestione o realtà? Un passo furtivo. Senza dubbio, un uomo scendeva strisciando lungo il muro dietro la strada. Serafino sollevò con un moto istintivo il fucile. Una pietruzza rotolò dal muro giù per la strada: non c'era più dubbio.

— Chi va là?

La sua voce risonò stranamente, chiara e metallica; poi, per molto tempo, tutto ritornò nel silenzio di prima.

Credeva di essersi ancora ingannato, quando un uomo salto dall'alto del parapetto e scese rapidamente la strada.

— Chi va là?

Sebbene preparato a tutto, Serafino sentì un brivido salirgli dai piedi alla nuca.

— Stsss…, — soffiò l'uomo, avvicinandosi arditamente.

Nella penombra della notte si distinguevano le sue braccia protese in avanti, in atto di difesa e di supplica. Si fermò solo quando il fucile del soldato gli toccò una mano.

E dallo spavento passando alla meraviglia, Serafino riconobbe il condannato moribondo.

— Fermo o vi ammazzo!

Il condannato si piegò, s'inginocchiò, sempre con le braccia protese, in atto di preghiera e di difesa istintiva.

— Dove andate? — urlò Serafino.

— Non gridate così, — pregò allora il condannato, con voce sommessa ma ancora sicura. — Legatemi, ecco le mani, ma non gridate. Siete cristiano e dovete sapere i comandamenti: non ammazzare. Sono vecchio e potete legarmi.

— Silenzio! — gridò ancora l'altro, prendendo un'aria terribile. — Dite dove volevate andare.

— Volevo evadere — rispose il vecchio, semplicemente, abbassando le braccia.

E accorgendosi senza dubbio che il soldato, nonostante la sua aria terribile, era “un cristiano”, osò aggiungere:

— Lasciatemi andare: nessuno si accorgerà che sono passato di qui!

— Silenzio, o faccio fuoco! Adesso dò l'allarme.

Allora accadde una scena rapida, commovente. L'uomo curvò ancora di più le spalle, si trascinò un po' sulle ginocchia, e si rifugiò come un cane fra le gambe di Serafino, quasi cercando in lui una difesa contro gli altri che potevano da un momento all'altro sopraggiungere.

— No, no, figlio mio, cristiano, no, non chiamate, no, no — balbettava.

E poichè Serafino lo esaudiva, ardì sollevarsi alquanto e sovrappose l'una sull'altra le mani tremanti.

— Legatemi, legatemi, — supplicava, — ma non chiamate. Ho finto di essere malato per fuggire. C'è una donna, una vecchia, che mi aspetta da venti anni: è mia moglie. Ora mi ha scritto che sta male, tanto male, ma che morrebbe tranquilla se potesse vedermi ancora una volta. Le ho scritto che avrei fatto di tutto per contentarla, per darle questa gioia, dopo che per tutta la vita non le ho causato che dolori. Ora mi aspetta: bisogna che io tenga la parola, altrimenti quella muore disperata. Come farò se voi non avete pietà di me? Cristiano, abbiate pietà di me; no, di quella vecchia moribonda, che ha sempre sofferto. Se vostro padre si trovasse nelle mie condizioni, davanti a mio figlio soldato? Che direste voi? Lasciatemi andare, via; siamo tutti fratelli, nel mondo; chissà che un giorno non possa anch'io esservi utile. Ecco, — aggiunse, rianimato dal silenzio di Serafino, volgendosi con le ginocchia verso lo scoglio — io scendo giù qui: la roccia non serba traccie: voi non avete veduto niente di niente, e.… Dio vi ricompenserà….

Serafino credeva di sognare. Avrebbe voluto dare l'allarme, legare l'uomo, compiere infine quello che i suoi superiori chiamavano “dovere”, ma non poteva. Una forza misteriosa, come nei sogni, gli impediva quasi di muoversi. Il soffio ansante e supplichevole del condannato gli destava una profonda pietà, e quasi un senso di ammirazione per quel vecchio essere che dall'abisso della sua miseria anelava ancora alla vita con tanta fede e tanta passione.

Senza domandarsi se valeva più la sua o la vita del disgraziato, pensò che forse era giunta l'ora di morire. La sua morte poteva essere interpretata come un omaggio al dovere; no, non doveva lasciarsi sfuggire questa occasione.

— Andatevene — mormorò.

E rimise su il fucile e lo battè al suolo.

L'uomo allora gli abbracciò le ginocchia, in silenzio; poi mise una mano per terra, si sollevò gemendo. Alto, nero nella notte, mormorò una benedizione.

— Figlio mio, sarete ricco e felice; la vostra fortuna sarà grande quanto la vostra carità….

Con gli occhi velati di lagrime, Serafino vide la lunga figura nera scavalcare l'orlo dello scoglio; sentì qualche piccolo frammento di roccia cadere giù, giù. Poi la musica lamentosa delle onde tornò a interrompere il silenzio della notte.

— Ricco e felice! — pensava Serafino. — Nessuno invece sarà mai più misero e infelice di me.

E in quel momento supremo, invece di rievocare qualche ricordo solenne, ripensò con amarezza che non aveva mai mangiato un cibo fino, tranne qualche ostrica ora che si trovava lassù. Poi gli vennero in mente altri ricordi meschini: la lotta affannosa per conservare il più che poteva intatte le scarpe; il lungo e vano desiderio d'un abito nero; i sacrifizi relativamente gravi per metter da parte il tanto da potersi comprare delle maglie di lana per l'inverno. Miseria delle miserie! Tutto era stato vecchio, umile, consunto in lui; e forse così anche la sua anima s'era logorata e ripiegata come un panno vecchio. Ma adesso tutto era finito. Finita la lotta contro la sorte, alla quale si sentiva lieto di strappare nel medesimo tempo due vittime: sè e il vecchio recluso.

E come il vecchio recluso anche lui voleva evadere dal luogo della sua pena.

Ecco, rimette il fucile a terra, appoggia la gola alla fredda bocca dell'arma.

È il momento supremo. Addio. Egli muore senza amore, senza speranza, senza fede, ma con una misteriosa dolcezza di pietà nel cuore. Nessuno piangerà per lui; ma egli muore piangendo per tutti gli uomini che soffrono. Addio! Egli non vede più neppure la luce delle stelle e non sente più la voce del mare: il grande velo nero della Morte copre e oscura tutte le cose.

Addio. Ma mentre sta per premere il grilletto, il fucile scivola e cade per terra, producendo un rumore vibrante.

A quel rumore trasalì e si svegliò: rivide le stelle, sentì il susurro delle onde lievemente agitate. Il fucile gli era scivolato davvero dalle ginocchia; ed egli, per qualche momento, non potè muoversi neppure per riprenderlo tanto l'impressione del sogno lo irrigidiva.

Il giorno dopo venne a sapere che nell'ora precisa del suo sogno, il vecchio condannato era veramente evaso, fuggito per un varco dove nessuna sentinella poteva impedire il passo. Era morto.

La sera cadeva. Le acacie e le canne frusciavano come drappi di seta, sempre più nere sullo sfondo vitreo del cielo solcato di nuvole rosse. Le onde violacee e sanguigne s'increspavano appena contro il soffio già freddo del vento.

I soldati cantavano nel cortile, con urli melanconici di cani legati.

Serafino, invece di mettersi davanti al portone, profittava delle ore di libertà per scrivere una novella.

Il canto dei soldati, smorzato dal vento, gli dava la stessa impressione sonnolenta e nostalgica del coro monotono delle donne che nelle sere estive, lungo la spiaggia da Bagnoli a Pozzuoli, si riuniscono per cantare assieme una specie di preghiera lamentosa. E anche lui nello scrivere la novella sentiva un puerile desiderio di pregare, di maledire, di piangere. Gli pareva che attorno a lui le cose avessero misteriose significazioni; anche le più umili, anche la goccia d'acqua che sul legno bianco della tavola brillava al riflesso del tramonto come una goccia di rugiada. Un gatto nero con gli occhi gialli, posato sullo spigolo della tavola, guardava un po' curioso un po' nervoso, e ogni tanto allungava la zampina tentando di afferrare la penna del soldato scrittore.

A volte il soldato musicomane sedeva alla stessa tavola e componeva una romanza. Il gatto allora tentava lo stesso gioco con lui, ma un ohè senza repliche lo faceva indietreggiare dignitosamente.

Serafino scriveva, scriveva. Una sera il musicomane s'accorse che in fondo al foglietto lo scrittore metteva il suo nome e cognome.

— Mi fai leggere?

— Non posso, — disse sulle prime Serafino, ma dopo essersi fatto un po' pregare cedette il manoscritto.

La novella era in forma di diario. Un soldato, di servizio a Nisida per la custodia dei forzati, si lascia giorno per giorno vincere dalla pietà per un condannato che lo prega di aiutarlo ad evadere. Il condannato è un muratore, addetto ai lavori della strada che dal mare conduce al penitenziario: quindi ha spesso occasione di parlare col soldato e di raccontargli una lunga storia d'ingiustizie e di dolori. Il soldato che pure ha un fiero sentimento del suo dovere, finisce col lasciarsi convincere, e una notte, mentre è di guardia, vede passare il condannato e non osa dare l'allarme: poi si uccide.

Al musicomane la novella parve tanto commovente e umana, che la giudicò con la solita frase:

— Pare una novella russa!

— E perchè non americana, anche? Figurati che questo fatto sia accaduto a me, — gridò irritato Serafino.

— Tu sei ancora vivo!

— Eppure mi è accaduto.… in sogno!

— In sogno?

— In sogno, sì, o in quel periodo della nostra esistenza che noi chiamiamo sogno, e che invece potrebbe essere la realtà. Perchè, sappiamo forse noi dove comincia e dove finisce la realtà?

— Infatti, ascoltandoti mi par di sognare, — disse l'altro ironicamente.

E cominciarono una delle loro solite discussioni, dopo la quale si trovarono d'accordo solo nell'idea di risparmiare le spese di posta inviando nello stesso plico raccomandato, diretto a una Rivista di Milano, la romanza e la novella.

Per lungo tempo attesero invano la risposta.

Due anni erano trascorsi. Serafino, maestro di scuola in un piccolo paese meridionale, trascinava la vita melanconicamente. Aveva abbandonato ogni velleità letteraria, e gli pareva di cadere ogni giorno più in basso, in un luogo grigio e freddo. Nel paese ove abitava non si viveva che di pettegolezzi e d'ira. Persino lui, con tutta la sua mansuetudine, veniva torturato a colpi di spillo. Il suo maggior nemico era il corrispondente di un giornale settimanale, un letterato che da tutti gli intellettuali del paese veniva proclamato come il più grande fra i giovani scrittori moderni. Questa grandezza non gl'impediva di temere un rivale nell'umile maestro, che ingenuamente gli parlava delle sue novelle cestinate. Invano Serafino affermava che non ne avrebbe scritto più: il letterato non pensava ad altro che ad annientarlo. Serafino soffriva, non tanto per i torti che gli venivano fatti, quanto perchè ogni giorno di più si convinceva che l'amore e la carità non esistono nel mondo.

Anche lui, del resto, non amava nessuno: neppure i suoi trenta scolaretti monelli.

Una volta s'era proposto d'innamorarsi della più bella ed elegante signorina del paese, la figlia d'un ricco proprietario; una bruna che pareva una figurina di Zuloaga.

— Come l'amerei! — pensava. — Non sono così sciocco da pensare di sposarla, ma se popotessi baciarla ed esser baciato da lei una sola volta, se potessi sentire il suo cuore battere sul mio, mi parrebbe di rinascere.

Ma la figurina di Zuloaga sognava di sposare un segretario di Ministero e quando il maestro di scuola passava sotto la sua finestra ella gliela chiudeva rumorosamente in faccia.

Egli abitava in due stanze terrene riparate da un tetto provvisorio, in una vecchia casa, o meglio in una casa di cui erano stati appena costrutti i muri, abbandonata poi e quasi caduta in rovina. Una scala di granito, ritrovo di lucertole e di ragni, conduceva ai piani superiori, e qualche volta Serafino s'arrampicava lassù, e vagava come le lucertole, e si affacciava al vano delle finestre vuote e pensava che la vita, per lui, era come quella casa senza tetto e senza imposte, i cui muri invecchiavano inutilmente.

La montagna selvosa sorgeva dietro la casa; nelle notti di primavera egli sentiva l'odore dei ciclamini dei boschi. Un piccolo orto selvatico divideva la scuola dall'abitazione del maestro: nulla di più desolato e melanconico, specialmente nei giorni annuvolati d'autunno, di quel quadrato di terra coperto di solani neri, di vainiglie e di cespugli di ruta dall'aspro odore. Un giorno d'autunno, appunto in uno di quei giorni umidicci e cenerognoli, quando tutte le cose sfumano su uno sfondo opaco e uniforme, ma sembrano più vicine, più legate a noi da misteriose simpatie, e basta l'odore della ruta o dell'assenzio grigio o una bacca giallo-rossa di rosaio inselvatichito per richiamarci in cuore tutto un lontano passato, Serafino ricevette una lettera col francobollo olandese. Guardò a lungo, sorpreso, la busta azzurrognola trasparente, sulla quale il suo nome, scritto con caratteri rotondi, gli destava una strana impressione. Dove, quando aveva veduto il suo nome scritto così? Ricordò che nella sua adolescenza, quando scriveva la prima novella, aveva sognato di diventare un celebre scrittore e di ricevere ogni giorno lettere eleganti da paesi lontani.

E strappò la busta quasi tremando, preso da un senso di inquietudine angosciosa.

Signore,

Ho letto sulla Rivista di Milano la sua bellissima novella Pietà, e desidererei tanto, ove Lei non l'avesse ancora impegnata, tradurla in tedesco e olandese. Per la traduzione tedesca sarei già quasi sicura di collocarla nella Die Zeit, che, come Lei sa, è una delle più note riviste di Vienna. Io sono tedesca, ma i parenti di mia madre erano olandesi, ed io che vivo quasi sempre in questo paese, ne conosco perfettamente la lingua. Sono stata parecchie volte in Italia, ed a Firenze ho avuta la fortuna di frequentare la casa del prof. Rigutini. Conosco quindi abbastanza l'italiano, e Lei quindi può star sicuro d'una traduzione fedele. Durante un soggiorno a Napoli, dove conto di tornare quest'inverno, ho visitato l'isola di Nisida, ed anche per questa ragione la sua Pietà mi ha interessato.

Per le condizioni sarebbe facile intendersi, perchè io Le farei spedire direttamente dalla Die Zeit tutto il compenso della novella.

La pregherei inoltre di farmi sapere se ha pubblicato altre novelle, e Le sarei grata se volesse darmi qualche sua notizia biografica, per una nota con la quale desidero accompagnare la traduzione.

Con la speranza di ricevere presto una sua gradita risposta, la prego di credere ai sensi della mia sincera ammirazione.

Elisabeth Kerker.

Serafino aveva sempre creduto che la gloria e la fortuna portassero un soffio ardente di gioia. Perchè dunque la lettera di Elisabeth Kerker gli dava quasi un senso di terrore?

Sulle prime non ebbe neppure il coraggio di rileggerla. Era un sogno? Volle convincersi del contrario guardandosi attorno e pungendosi una mano con una spilla: poi rilesse timidamente e infine nascose la lettera, pauroso che qualche malevolo volesse rapirgli il suo tesoro.

Il primo pensiero, nel credersi già celebre, fu pur troppo la certezza che la gente invidiosa avrebbe fatto di tutto per avvelenare la sua gioia. Ma egli si sentiva più buono del solito; e compassionava la gente invidiosa che per lo più è invidiosa che per lo più è invidiosa perchè infelice. Ed egli, finalmente, si sentiva felice: tanto felice che aveva paura.

Aprì la finestra e sedette davanti al suo tavolino. Tutto era triste, grigio, silenzioso; ma per lui s'era spalancato un orizzonte immenso e fiammeggiante. Non dimenticò mai quell'ora di ebbrezza dolce e paurosa.

Gentilissima Signora,

Accetto la sua proposta, e la ringrazio con riconoscenza. Se sapesse il bene ch'Ella mi fa!…

Io non sono uno scrittore, ma poichè Lei desidera sapere qualche cosa di me, mi permetta di dirle che sono un umile maestro elementare, un povero giovane esiliato in un paese triste e selvaggio. Sono solo, così solo, così abbandonato in questo triste deserto che una voce amica, anche lontana, basta a rincorarmi e a farmi sperare. La sua lettera, gentile signora, mi è giunta in un momento grigio, quando l'idea della morte mi accarezzava con la soavità d'una carezza materna. Ignoravo persino la pubblicazione della mia novella. La scrissi in uno dei più tristi periodi della mia vita; ed è interessante perchè sentita: al posto del mio protagonista avrei fatto lo stesso. Anzi le dirò di più: ho sognato la mia novella. L'impressione di questo sogno fu così profonda in me, che per lungo tempo credetti di aver realmente vèduto la figura del condannato che implorava da me pietà. Ancora la rivedo, questa figura, che mi benedice e mi augura fortuna. Sempre che sono stato infelice e invano ho sognato un po' di affetto e di carità umana, la profezia del condannato mi è tornata amaramente alla memoria e mi è parsa una beffa del destino: ma oggi comincio a credere che il mio sentimento di pietà verso il prossimo non sia stato vano. Tutte le ore arrivano, ed anche per me è arrivata un'ora di gioia. Oggi comincio a vivere; mi pare d'essermi sve. gliato da un lungo sonno, e sento una forza misteriosa svìlupparsi in me. Credevo d'essere solo, esiliato nella vita; invece sento che la voce del mio spirito può attraversare, ha anzi attraversato lo spazio ed ha richiamato la risposta di altri spiriti fratelli; e basta quest'idea — più che l'orgoglio di sapere il mio modesto lavoro conosciuto in terre lontane — per farmi amare la vita.

Grazie, dunque, gentile! signora, del bene che Ella mi ha fatto, e mi creda il suo riconoscentissimo

Serafino Rossi.

Signore,

Ho ricevuto la sua lettera, e la ringrazio della sua confidenza verso di me. Lei ha un'anima veramente nobile, ed io sono felice di averla conosciuta. Spero di ricevere da lei altre lettere non meno deliziosamente sincere di questa sua prima. Sento che Lei è tanto giovane; io ho qualche anno di più; mi permetterà dunque di essere, oltre che la sua traduttrice, anche un po'la sua amica lontana. Lontana per modo di dire, poichè oramai non esistono più distanze, fanto che, come ho letto giorni fa in un grazioso articolo del Figaro, ci sono delle signore che si rendono visita dall'Europa all'America.

La sua lettera, egregio signore, mi ha interessato quanto e forse più della sua novella: mi ha fatto l'impressione d'una pagina di romanzo; ma chi non ha una pagina di romanzo più o meno bella, più o meno terribile, nella propria vita?

Nella sua Pietà, io avevo sentito appunto qualche cosa di vero che mi colpiva anche per una ragione speciale. Un vecchio amico della mia famiglia, che io amavo come un padre, venne, qualche anno fa, condannato per aver ucciso la sua seconda moglie che lo tradiva. Tentò di evadere e fu ucciso da un guardiano del penitenziario. La sua novella mi ha, come può figurarsi, profondamente colpito per questa ragione, ma anche per la sua forma semplice e suggestiva: io oserei consigliarla di proseguire a scrivere.

Ho scritto anch'io qualche novella, e tradotto poesie e romanzi italiani; anch'io, nei mesi che passo in questo paesetto dell'Olanda meridionale, faccio scuola a una trentina di bambine povere. Come vede, i nostri destini si rassomigliano; io, però, ho più di Lei fede nella vita; tanto che oso dirle: Lei ha torto a lamentarsi, La povertà è sovente una fortuna (scusi il paradosso). L'uomo povero ha meno occasione del ricco di logorare inutilmente la propria vita, ha più del ricco i mezzi di vivere la vera vita morale; e, se non altro, la vita del povero è più completa perchè egli la deve, anche materialmente, tutta a sè stesso. L'uomo d'ingegno, poi, con un po' di buona volontà arriva dove vuole. No, creda pure a me, la povertà è la minima delle sventure umane; del resto, la sorte è così capricciosa che spesso dà, spontaneamente e in un attimo, quanto per anni ed anni ha negato.

“Perdoni, egregio signore, se Le scrivo così malamente; vorrei possedere tutto il segreto armonioso della sua bella lingua per poterle esprimere meglio le mie idee e le mie opinioni; opinioni e idee che purtroppo sono maturate nel mio cervello a furia (si dice così?) di esperienze dolorose. Ma voglio sperare che la nostra relazione continui, e così non mancherà occasione di conoscerci meglio e di discutere, ecc., ecc., eccetera”.

L'ecc., ecc., eccetera, fu di Serafino, al quale l'ultima parte della lettera di Elisabeth Kerker parve poco sincera.

— Deve essere una di quelle straniere denarose, con gli occhiali: una persona ricca, insomma, di quelle che si beffano dei poveri prendendoli a proteggere e magari dicendo loro: beati voi.

Tuttavia scrisse ancora, per educazione, per noia, per il gusto di descrivere la propria casa, l'orto, la montagna, la scuola, i bambini, infine tutta la cornice che s'adattava così bene al quadro melanconico della sua vita.

Lettere che furono il primo capitolo di un romanzo epistolare, non più sciocco nè più interessante di mille altri romanzi del genere, che capitano regolarmente a quasi tutti i giovani scrittori e alle giovani scrittrici.

Impossibile riprodurre qui tutta la corrispondenza dei due maestri, che durò un anno e sei mesi.

Dunque, un anno e sei mesi passarono. Due autunni umidi e freddi, una primavera calda, un'estate ardente, e due inverni tiepidi e chiari come primavere. Serafino non ricordava la tristezza e lo splendore delle altre stagioni attraversate da lui come da un viandante cieco; ma non dimenticò mai l'ardore di quella primavera e la dolcezza di quei due ultimi inverni passati nel villaggio dove viveva il letterato suo nemico.

Mai nemico soffrì più di questo letterato. Tutto il paese oramai riveriva il maestro per la semplice ragione che l'Amministrazione della Die Zeit gli aveva spedito dieci copie del giornale, e settanta fiorini in lettera assicurata. Veramente Serafino non aveva cercato la celebrità, nel paese dove insegnava; ma il segreto della sua gloria e della sua fortuna era stato tradito dall'ufficio postale.

Anche la figurina di Zuloaga un giorno guardò il maestro con occhi benigni, un po'voluttuosi; ma il maestro non s'accorgeva più di lei.

Anche se l'inverno fosse stato rigido e triste, egli non avrebbe sofferto il freddo e la miseria. Tutto oramai era bello e chiaro intorno a lui. Egli si sentiva amato: egli amava! Veramente Elisabeth non gli aveva mai scritto che lo amava, nè lui a lei, ma certe cose non occorre spiegarle: si capiscono.

D'altronde Serafino amava come aveva sognato di amare: senza calcolo, senza speranza. Così, soltanto per amare. Elisabeth era molto ricca, molto più ricca della figurina di Zuloaga; ed anche orgogliosa, ma in modo diverso della signorina del paese. Una volta scrisse al suo amico queste parole:

“Io sono lieta che fra me e l'uomo che dirà di amarmi esista un grande ostacolo morale, uno di quegli ostacoli che non tutti hanno il coraggio di superare….”

Serafino non domandò neppure di che natura fosse quest'ostacolo. C'era una macchia nel passato di Elisabeth? Poco gl'importava, sicuro come era di non arrivare mai alla sua traduttrice e di mai chiederle amore. Però, sebbene si fosse avverato il suo antico sogno romantico, adesso non pensava più alla morte.

Arrivò così la seconda primavera: i muri rugginosi della casa abbandonata si coprirono di musco, di fiorellini gialli, e dalla montagna scese l'odore dei ciclamini.

Per le vacanze di Pasqua, Serafino andò a Napoli. A Napoli comprò una cravatta di raso color malva, e mettendoselá davanti allo specchio del negozio s'accorse che gli stava bene, che era un bel giovane; e ricordò una notizia letta pochi giorni prima sul Mattino, d'una ricca americana che aveva sposato un conduttore della funicolare sul Vesuvio semplicemente perchè questo conduttore era un bel giovane.

Dal negozio si recò all'Hôtel Cavour, dove lo aspettava Elisabeth, arrivata la sera prima da Roma.

Serafino si sentiva stranamente calmo, fermo nella volontà di mostrarsi dignitoso davanti alla ricca straniera; ma arrivato alla piazza della Stazione si fermò e si accorse che, suo malgrado, il cuore gli batteva forte.

Una folla pittoresca e multicolore animava la piazza; l'aria era tiepida, il cielo solcato di nuvole d'un bianco-perla luminoso che passavano rapide come dirette a un convegno.

Mentre sceglieva un mazzo di rose nel cestino di una fioraia, Serafino si sentì sfiorare da una capra rossa; guardò il capraro, un bellissimo giovanotto vestito con eleganza chiassosa, col colletto alto e le scarpe gialle, e arrossì: si vergognava di aver pensato alla ricca americana e al conduttore della funicolare.

Due ore dopo egli e la bella Elisabetta Kerker si trovavano sul piccolo molo di Bagnoli, in faccia a Nisida.

Elisabeth era bella quasi quanto un'italiana bella. Niente occhiali. Capelli e occhi neri, viso bruno colorito, bocca grande e rosea: e denti di perla. Ciò che non piaceva a Serafino era l'arricciare delle sue labbra quando ella pronunziava qualche parola italiana difficile.

Ma d'un tratto ella parlò in tedesco.

— Veda — aveva detto in italiano, guardando la riva luminosa dove il mare stendeva dolcemente il suo merletto di spuma azzurrognola — mi pare di leggere quella pagina meravigliosa delle Lettere che non lo raggiunsero, dove l'autrice racconta il suo sogno.

E in tedesco ripetè le frasi della “pagina meravigliosa”.

— Vedevo un mare liscio come uno specchio, sopra il quale il cielo si distendeva a un'altezza infinita. Presso la riva stavano sedute due persone.… sopra tutt'e due stava un infinito incanto di giovinezza, di alba, di cose primordiali….

Serafino non sapeva il tedesco, e non capì la significazione del ricordo di Elisabeth, ma parlando la sua lingua natìa le labbra di lei avevano una linea così soave che egli le guardò come un assetato guarda un frutto maturo. Ella rispose subito a quello sguardo: Serafino allora guardò lontano, deciso a non tradirsi più, a conservare tutta la sua dignità di povero. Però domandò innocentemente:

— Mi traduca in italiano quelle parole.

Elisabeth gliele tradusse.

Da quel momento egli cominciò a perdere la sua dignità di povero. Elisabeth dunque lo amava non solo, ma lo invitava ad amarla. E lui non era abbastanza ingenuo per non profittare dell'occasione, ma non sapeva come cominciare. Eppoi diffidava un poco.

Chi era Elisabeth? Donde veniva? Era libera? Era pura? Qual era l'ostacolo da lei una volta accennato?

Rimasero tutto il giorno a Bagnoli; assieme andarono a mangiare sotto il pergolato fiorito della piccola trattoria di Don Salvatore, davanti alla quale il vecchio stagnaro dal viso di bronzo, che vigilava il suo fornello primitivo, li salutò con tenerezza, credendoli due sposini; poi andarono a Nisida. La primavera mandava il suo dolce soffio anche sul mare: le onde parevano enormi ghirlande di fiori azzurri e dorati; un'aureola di nuvolette d'oro coronava i profili delle colline verdi e delle isole azzurre.

Ma Elisabeth, la cui figura snella si disegnava mirabilmente sull'azzurro del mare, era diventata triste, quasi cupa, col pensiero assente: pareva non accorgersi più di Serafino.

Nisida s'avvicinava, perdendo lentamente la sua forma di mandolino capovolto sul mare; apparivano sempre più vicine le sue case colorate, gli scogli turchini, le roccie, la casa bianca dei sepolti vivi….

Elisabeth guardava lassù; quando sbarcarono nell'isola, prese il braccio del compagno per attraversare il selciato livido del molo, e disse:

— In quasi tutti i romanzi c'è un capitolo, di prammatica, nel quale due innamorati.… o che stanno per diventarlo, fanno una gita, a un vecchio castello, o ad un museo, o ad una chiesa campestre. L'autore coglie l'occasione per sfoggiare la sua cultura artistica, e i due innamorati colgono l'occasione per.… spiegarsi. Credo però che nessuna coppia sia, come noi, andata a visitare un ergastolo!

— Ma davvero! — egli disse goffamente.

La voce gli tremava, però, il cuore gli batteva forte. Che voleva dire Elisabeth? Ch'era giunta l'ora di spiegarsi? La strada, fra le sue muraglie, di tanto in tanto interrotte da cancelli di ferro attraverso i quali si vedevano sfondi verdi e azzurri e lontananze di mare, era deserta, calda, coperta dal cielo luminoso.

Serafino non aveva che a stendere la mano per stringere a sè la straniera; e non aveva altro desiderio; ma non osava. Gli pareva che Elisabeth scherzasse: no, non era possibile che ella facesse sul serio. Lo stesso fruscìo delle vesti di lei metteva in guardia il povero maestro. Eppure egli aveva paura di esser ridicolo, con la sua goffa timidezza.

D'un tratto la strada svoltò, s'aprì sopra un precipizio roccioso, in fondo al quale il mare sospirava con un lieve lamento.

Elisabeth si ferma: guarda con occhi pensosi.

— Era un punto così? — domamda.

— Sì.

E non sa per quale misteriosa legge mnemonica Serafino ricorda tutto il suo passato, come durante il suo sogno. E adesso? Adesso è là, amante e forse amato, là, con la sua compagna bella e intelligente, che viene di Iontano, così, come le onde, come le nuvole e gli uccelli, e che forse aspetta solo una parola per offrirgli tutta la sua bellezza e la sua fortuna. E, con un impeto quasi disperato, egli l'abbracciò.

Elisabeth sollevò fieramente la testa, e allora egli s'accorse d'una cosa strana. Ella piangeva.

— Perchè? — egli domandò supplichevole. — Perdonatemi; sono pazzo. Ma ditemi una sola parola; ditemi che mi volete bene.… poi, se vorrete, non mi vedrete più.… Più, più.… — ripetè come un bimbo, desolato per il dolore di lei.

— Non è questo.… — ella disse, riavvicinando il viso al viso di lui. — Vi amo, ma piangevo per un'altra cosa.… Ebbene, sì, ve lo dico adesso, altrimenti non potrei dirvelo più. Ricordate? Il vecchio amico che tentò di fuggire dalla casa di pena e fu ucciso da un guardiano.… era mio padre….

— Elisabeth.… Elisabeth….

Egli era pallido come un malato e il suo labbro inferiore tremava convulso. Non sapeva dire altra parola.

— Elisabeth.… Elisabeth….

Elisabeth disse:

— Ecco perchè la voce della vostra anima lontana mi ha commosso. Voi avreste avuto pietà del mio babbo.… voi avrete pietà anche di me….

No, veramente, fu lei ad aver pietà di lui. Nel vederlo tremare come un bambino, avvinghiato a lei, pauroso che ella gli sfuggisse, sorrise, con gli occhi ancora umidi, e piegò un po'la testa per avvicinare meglio le labbra alle labbra di lui.

Due paesani, uno d'età avanzata, molto grasso, un po' abbandonato sulla sella del suo cavallo robusto, l'altro agile e bello, dritto come un centauro sul suo puledro grigio ancora allo stato selvatico, viaggiavano assieme attraverso la Serra.

L'uomo grasso, il cui viso colorito, gonfio e sorridente, dava allegria a guardarlo, fermava di tanto in tanto il cavallo, guardandosi attorno con soddisfazione, quasi come Carlo V quando attraversava i suoi regni.

— Quello è mio e quell'altro è mio! — diceva al compagno, additandogli ora un bosco di soveri ora un'estensione di terreno coperta di pascoli o di frumento. — Vedi quanto sughero, Juanne Pala? Se la scorza di quei soveri fosse d'argento, non varrebbe di più. Mi hanno offerto quattrocento scudi: ma io ne voglio il doppio.

Il giovinotto, che era appena tornato dal servizio militare e si credeva molto furbo, guardava di qua e di là coi suoi occhi neri vivacissimi, sorridendo un po' con ironia, un po' con invidia; e senza mai rallentare il freno al suo cavallo riottoso ascoltava le chiacchiere del compagno e rispondeva con arguzia.

A un tratto disse, socchiudendo un occhio:

— Siete ricco come il mare, ziu Pascà, ma mi vien rabbia quando penso che tutti i vostri beni andranno ai vostri cugini….

L'uomo grasso fermò il suo cavallo e si volse con aria minacciosa.

— Juanne Pala! Se tu pronunzi ancora il nome di quei diavoli, smonto e ti prendo a sassate!

— Pace, pace; non lo farò più! — disse l'altro ridendo.

— I cugini? I parenti? Il fuoco li accarezzi! — riprese il ricco paesano. — Essi non desiderano che la mia morte. Hanno anche tentato di farmi strangolare, di farmi avvelenare: hanno commesso contro di me tutti gli orrori possibili. Alla larga! Al diavolo!

E raccontò che per mezzo d'una serva i suoi parenti avevano tentato di avvelenarlo: adesso aveva paura persino delle serve, lui, Antonio Maria Pasquale Sotgiu, l'uomo più coraggioso del circondario. S'era dovuto procurare una serva straniera, e prometterle un lascito per mantenersela fedele.

— Voi dovreste riprender moglie, ziu Pasca! Una buona moglie, se volete, ve la cerco io.… Conosco una vedova.… ma una vedova!… Grassa e fiera come una puledra di due anni.… E ricca!…

L'uomo questa volta non rispose, e il giovanotto non insistè nel suo scherzo. L'argomento era troppo doloroso per ziu Pascale, vedovo di due mogli. Sterili entrambe, vecchia la prima, mentre lui era ancora giovane, giovane la seconda, mentre lui era già quasi vecchio, l'avevano reso tanto infelice, che egli si credeva perseguitato da qualche malìa.

Non rispose dunque allo scherzo del giovanotto, ma dovette risentirsene, perchè dopo qualche momento, mentre l'altro si lamentava dei suoi affari che andavano male, disse con aria beffarda:

— Allora è il caso di proporla a te la vedova ricca e grassa.

— Sì! Le donne ricche non mi vogliono, — ammise l'altro, modestamente. — Del resto mi basterebbe una donnina con qualche centinaio di scudi. E dove la trovo? Al nostro paese, voi lo sapete, vi sono poche donne ricche, e tutte pretendono di sposarsi con cavalieri: le altre sono povere in canna….

E continuò a lamentarsi. Ah, sì, egli era troppo magro per la vedova grassa! Sì, egli era troppo magro, mentre altri erano troppo grassi….

Ma ziu Pascale sbadigliava. Aveva paura che il giovinotto gli chiedesse denari in prestito.

— Ho ragione, ziu Pascà?

— Tu, piccola anima mia, tu hai torto, invece. Tu hai un tesoro che non tutti i grassi hanno: tu hai la giovinezza. È quello che dico sempre ad Oja1) Maria Antonia. .

— Chi è questa Oja?

— La mia serva.

— È bella?

— Bella? Sì.… cioè no! Non lo so, insomma. Chi ci ha mai badato?

— Ma se dite che è giovane.

— Questo lo so. Ha tutti i denti.

— Ahi, hai, ziu Pascà! — disse l'altro con malizia. — Avete detto che è straniera. Giovane, straniera, con tutti i denti! Ahi, ahi!…

Ma l'uomo grasso s'inquietò di nuovo. Egli non ammetteva certe malizie. Egli rispettava la sua casa.

— Se non comincia il padrone stesso, a rispettar la sua casa, chi gliela rispetta? Del resto, vale più il dito della mia serva che tutta la tua malizia, Juanne Pala! Oja è una santa. Se ha un difetto, anzi, è questo. Prega troppo. Digiuna continuamente e dice che vede i santi. Non apre mai la finestra. È buona massaia, ed io la terrò sempre con me. E se si sposa, il che è difficile, prenderò anche il marito al mio servizio. Ma Oja non guarderà mai un viso d'uomo.

— Ecco la donna che mi conviene, — pensò Juanne Pala. Ma si guardò bene dall'esprimere il suo pensiero.

Quando però giunsero al paese, invece di prendere la straducola che conduceva alla sua povera abitazione, egli seguì il suo compagno.

Voleva veder Oja; ma lo aspettava una delusione. La casa di ziu Pascale era chiusa, e invano il padrone battè cinque o sei volte alla porta, col calcio del fucile.

— La vostra santa è volata in cielo, — disse Juanne con ironia. — Addio.

E mentre l'altro arrossiva di stizza, egli si allontanò, ma dopo essersi ben guardato attorno.

Dietro la casa del Sotgiu si stendeva un cortile recinto di un muro assiepato; davanti s'allargava uno spiazzo dal quale si vedeva un vasto paesaggio: valli rocciose a destra e a manca, la montagna di fronte. Sullo sfondo della montagna, azzurrognola in quel sereno meriggio di primavera, di là dello spiazzo, in faccia alla casa del Sotgiu, sorgeva la chiesa parrocchiale, con la sua torre antica, la facciata nera, la porta gotica ombreggiata da due olmi secolari.

Sotto uno di questi olmi, su una panchina di pietra, sedevano costantemente due vecchi paesani: così immobili, così scuri nei vestiti, nel viso, nelle mani appoggiate ai bastoni, parevano due statue decorative collocate lì dai tempi della fondazione della chiesa.

Mentre Juanne passava davanti a loro, facendosi da buon cristiano il segno santissimo della croce, uno dei vecchi disse:

— Cerca la sua serva, Antonio Maria Pasquale? È in chiesa.

— Ah, eccola! — disse l'altro, subito dopo.

Il giovinotto si volse, sorridendo beffardo, pronto a dir qualche parola piccante alla giovane donna alta e sottile che usciva di chiesa in quel momento. Ella aveva una chiave in mano. Vestiva tutta di nero, col corpetto chiuso: il suo viso bianco, dal profilo purissimo, era così triste che il giovinotto non osò tirar fuori le sue parole piccanti. Solo disse:

— Il padrone ti aspetta da un'ora!

Oja si mise a correre, agitando la chiave. E Juanne, prima di svoltare dietro la chiesa, vide ziu Pascale calmarsi e salutare la serva.

Nel pomeriggio il giovinotto andò a picchiare alla porta del Sotgiu. Il viso pallido di Oja apparve alla finestra, fra due vasi di basilico. Nel riconoscere Juanne ella corrugò le alte sopracciglia nere e disse che il padrone era ripartito.

— È andato all'ovile e non tornerà fino alla vigilia di San Giovanni.

Egli guardava in su, tenendosi con una mano la berretta ferma sulla nuca; vedeva i bellissimi denti di Oja, i bellissimi occhi neri, e gli veniva un desiderio felino di arrampicarsi sul muro come un gatto.

— Oja, occhi di stella! Aprimi la porta. Di che paese sei? Voglio dirti….

Ma Oja chiuse la finestra con dispetto. Egli si volse e vide che i due vecchioni, seduti sotto l'olmo, lo guardavano e ridevano.

— Ma quella non è una donna: è un orso! Ma fa così con tutti? — domandò avvicinandosi a loro.

— Con tutti, — rispose uno dei vecchi: e l'altro aggiunse: — con uomini e donne.

Juanne sospirò.

— Ma è vero che è tanto religiosa?

— Sempre in chiesa! — disse uno dei vecchi, laconicamente, e l'altro, che sembrava più loquace, aggiunse: — si batte il petto, piange, prega. Una sera l'ho veduta inginocchiata sotto l'altare di San Giovanni: gemeva e diceva: che io vi veda, San Giovanni mio, che io vi veda!

— Ci vorrebbe un San Giovanni vivo. Ma se non si lascia avvicinare! — sospirò ancora il giovinotto.

— Non si lascia, — ripetè uno dei vecchi. Ma l'altro aggiunse.

— Il difficile è avvicinarla la prima volta. Se tu riesci ad avvicinarla non perdere il tempo in chiacchiere. Baciala. Dopo….

Dopo quel giorno Juanne cominciò a ritornare spesso in paese. Andava a picchiare alla porta del Sotgiu, o aspettava Oja davanti alla chiesa: ma ella passava senza vederlo.

Di notte egli cantava sotto le finestruole di lei, ma la sua voce di tenore, accompagnata dal coro vocale di altri giovani “cantadores”, echeggiava invano nella notte serena. La casa del Sotgiu sembrava disabitata.

Tutte le domeniche le ragazze e i paesani ballavano davanti alla chiesa: Juanne guardava le finestruole ornate di basilico, pur non trascurando di far la corte alle donne con le quali ballava, ma le finestruole rimanevano chiuse.

Una domenica però egli vide Oja uscire dalla chiesa e attraversare lo spiazzo senza guardarsi attorno, alta ed elegante nel suo bel costume scuro: un giovinotto dalla barba nera si staccò dal circolo del ballo e la seguì. Ella non si volse e chiuse la porta, ma poco dopo il suo viso bianco apparve per un attimo fra i due vasi di basilico. Juanne provò un impeto di gelosia e di timore.

— Qui bisogna muoversi, uomo, — disse a sè stesso.

E cominciò ad aggirarsi intorno alla casetta come la volpe intorno all'ovile. Come fare per penetrarvi? Il muro del cortile era alto, recinto di siepe: i rami d'un melagrano s'affacciavano sopra un vicolo deserto dietro la casa. Una notte egli pensò di gettare una corda ai rami del melagrano e di arrampicarsi fino a raggiungere una sporgenza del muro. Andò a prendere la corda che gli serviva per gettare il laccio ai puledri indomiti, e provò. Il laccio prese la cima dell'albero come una testa scapigliata e selvaggia. Egli s'attaccò alla corda e riuscì nel suo intento. La luna illuminava il cortile; dall'albero era facile scendere, penetrare nella cucina, sorprendere Oja; ma egli ebbe paura di spaventarla e preferì aspettare.

I giorni passavano. A poco a poco egli si sentiva preso dal desiderio di Oja e dimenticava i suoi calcoli per pensare al modo con cui ella lo avrebbe accolto. La vigilia di San Giovanni andò a picchiare alla porta di ziu Pasquale.

— Il padrone è tornato?

— No; verrà domani.

— Oja, apri: devo parlarti di lui.

— Puoi parlare stando lì.

— Senti: dirai al tuo padrone che io voglio sposarti. Non andartene! Se tu non mi apri la porta, entrerò per la finestra.

Ella intanto la chiuse. Egli andò a lamentarsi coi vecchioni, che oramai conoscevano i suoi progetti e si burlavano di lui.

— Puoi arrampicarti alla torre e baciare l'orologio, prima di baciare quella lì.

Egli sospirò, appoggiandosi come stanco al tronco dell'olmo. Tutti erano lieti intorno a lui: la folla si adunava nello spiazzo e preparava le cataste di legna per i fuochi di San Giovanni: i bambini portavano fronde di lentischio, e gli uomini le ammucchiavano intorno ad alti pali sulle cui punte sventolavano grandi nastri e fazzoletti rossi.

La sera cadeva glauca e luminosa. Nella chiesa il vecchio parroco dava la benedizione; le donne vestite come madonne bizantine, inginocchiate per terra, cantavano con voce appassionata i gosos di San Giovanni; e tutte tenevano in mano mazzolini di verbasco il cui odore si confondeva col profumo dell'incenso. Anche Oja attraversò lo spiazzo, ad occhi bassi, con un mazzolino di verbasco in una mano e la chiave di casa nell'altra. Juanne la salutò: ella non rispose neppure al saluto, ed entrò in chiesa. Allora egli si alzò, s'allontanò seguito da uno sguardo ironico dei vecchioni, e andò a prendere la corda. Pochi momenti dopo si trovava nel vicolo deserto e gettava il laccio al melagrano. Gli pareva di prendere al laccio la fortuna e l'amore: il cuore gli batteva forte; aveva paura che ziu Sotgiu tornasse e lo sorprendesse, o che Oja lo ricevesse male o avesse già un amante, ma non esitò ad arrampicarsi, a salire sul muro e di là saltare nel cortile. La porta della cucina era chiusa. Un grosso cane selvaggio, incatenato sotto la tettoia, cominciò ad abbaiare in modo spaventoso. Juanne non aveva preveduto questo. Come fare? Ricordò che sapeva i verbos, parole magiche per far tacere i cani; provò a recitarli, ma il cane raddoppiava i suoi urli selvaggi. Allora egli si levò le scarpe e si buttò per terra, dietro una catasta di legna, fingendosi morto. A poco a poco il cane parve calmarsi; abbaiava solo di tanto in tanto.

Juanne pensava ad Oja, sempre più turbato e sempre più deciso a tentare tutti i mezzi per averla.

Ogni minuto gli sembrava un'ora; fuori, nello spiazzo, la gente rideva e ballava; si sentivano grida e canti e il suono triste di una fisarmonica. All'ultimo splendore del crepuscolo si fuse il chiarore dei fuochi; nubi di fumo rossastro, scintille, foglie ardenti, lembi rossi di nastri e di fazzoletti che sembravano fiammelle arrivavano fino al cortile; e l'inquietudine del cane pareva causata da quest'insolito spettacolo.

Oja riaprì la porta della cucina, ma non uscì fuori; Juanne non si mosse.

Finalmente ella uscì e sedette sullo scalino della porta; trasse il rosario e cominciò a pregare; sulle prime bisbigliava, come parlando sottovoce a un essere invisibile, poi si esaltò, s'inginocchiò per terra e pregò a voce alta, battendosi il petto e gemendo. Pareva molto infelice; e Juanne sentiva un desiderio ardente di confortarla.

Un chiarore fantastico illuminava il cortile; le foglioline arse del lentischio volavano intorno al melagrano grigiastro come farfalline d'oro; si sentivano più acute le grida di ebbrezza selvaggia dei giovanotti che, per dimostrare la loro agilità alle fanciulle accorse a guardarli, saltavano attraverso i fuochi crepitanti. Juanne si alzò cautamente, e con un balzo fu accanto ad Oja; e gli parve di saltare anche lui attraverso un fuoco. Oja guardava con gli occhi spalancati: al chiarore dei fuochi, quel giovane vestito di velluto e di pelli, scalzo, coi capelli lunghi ricadenti intorno al viso pallido poteva sembrare il San Giovanni Battista di cui ella invocava l'apparizione. Ma San Giovanni Battista non avrebbe saltato così.

Allora si mise a gridare. Juanne l'afferrò per le braccia e provò a dirle qualche parola, ma anche lei come il cane non intendeva ragione. Fortunatamente le sue grida si confondevano col baccano generale; e d'un tratto, sebbene Juanne non parlasse più, cessarono. Egli s'era ricordato del consiglio del vecchio.

Quando lo spiazzo rimase deserto e i fuochi si spensero, egli uscì dalla porta della casa di ziu Sotgiu: aveva la corda attorno al braccio; e guardò istintivamente verso la panchina, con uno sguardo trionfante.

Ma a quell'ora, naturalmente, i due vecchioni non c'erano.

Dopo tre giorni di libeccio rabbioso il mare si calmò e parve addormentarsi, stanco.

Il balcone al primo piano della graziosa casetta sul molo fu riaperto, e sul balcone riapparve la sedia di vimini imbottita di cuscini rossi, e sul rosso dei cuscini spiccò nuovamente la figura bruna e pallida della signorina di città, che faceva la cura dell'aria di mare contro l'anemia.

— Bella giornata, eh, oggi, signurì? — disse la moglie del marinaio del porto, passando sotto il balcone e sollevando la testa scarmigliata.

— Oggi stai meglio, eh, signurina Barbara?

— Meglio, sì, grazie, — rispose la signorina Barbara, con voce un po' rauca.

— Ringraziato sia Dio! — gridò la moglie del marinaio.

Senza muoversi Barbara guardava il vastissimo golfo, chiuso, in faccia al molo, da una cornice di colline verdi solitarie. Quel verde primaverile si stendeva anche sul mare. L'acqua immobile e verde del porto dava l'idea d'un prato; e l'odore d'erba che veniva dalla collina pareva esalato dalle onde. Si aveva l'illusione che anche il mare fiorisse, sott'acqua, come tutto fiorisce in primavera.

Le barche, le paranze, i velieri e i barconi erano partiti al cessare del vento furioso: la punta del molo appariva bianca e rosea come una lingua uscente dal mucchio scuro delle casette dei pescatori: misere casette annerite dalla polvere del carbone e dalla salsedine del mare.

Sdraiato sulla banchina, un vecchio pescatore malato, pareva volesse morire guardando il mare: qualche cane, qualche gatto, e poche donne con secchie di rame sul capo, animavano la solitudine del molo. Il cielo era alto, d'un azzurro che dava al lilla, e in lontananza alcune nuvolette bianche pareva seguissero le paranze che si dileguavano all'orizzonte.

Il quadro era bello, ma Barbara lo conosceva troppo in tutti i suoi particolari: anche ad occhi chiusi vedeva la linea verde della collina, il semicerchio nero del villaggio, le figure delle donne dalle vesti discinte e i capelli arruffati scossi dalla brezza del mare. Tutto era pittoresco, ma a lungo andare anche noioso; e Barbara era una ragazza moderna, nostalgica e inquieta. Dacchè era al mare non faceva che sognar la montagna; in montagna avrebbe desiderato il mare. Nei primi giorni s'era divagata guardando le scene del porto; quelle figure che si movevano sullo sfondo verdognolo dell'acqua tranquilla, le piacevano, la interessarono: i facchini seminudi, coi calzoni turchini, il dorso rosso, il petto sviluppato come quello delle donne; gli scaricatori di carbone, neri come abissini, i marinai e i pescatori che parevano fatti dello stesso legno scuro dei loro barconi, tutta quella gente che parlava un linguaggio quasi incomprensibile, rozzo e privo d'armonia, le pareva appartenesse ad una razza inferiore, quasi bestiale, ma la interessava appunto per questo. Ella amava molto il colore, e tùtto ciò che era pittoresco. Era un'artista, in fondo, una di quelle artiste infeconde che non sanno o non vogliono coltivare il loro divino istinto. Aveva sognato, qualche volta anche tentato di mettersi a lavorare; ma il lavoro le sembrava un tormento o, peggio ancora, una volgarità. Avrebbe voluto produrre senza sforzo. Eppoi, senza esser ricca, non aveva bisogno di lavorare. Conosceva quindi tutti i vizi morali dell'ozio, e li praticava senza scrupoli, avida di godere l'attimo fuggente. Nei primi giorni dopo il suo arrivo, la sua attenzione fu presa da alcune figure d'uomini, che si distinguevano tra la piccola folla brutta dei pescatori e dei facchini del porto. Uno era appunto un facchino, un Ercole di una bellezza e di una forza ammirabili; un altro una guardia doganale, d'una bellezza femminea. Ma la guardia non vedeva che i velieri e le barche in arrivo, e il facchino, sotto il peso dei sacchi di grano che curvavano il suo dorso nudo, non badava che al punto dove metteva i piedi. Un giorno il veliero partì, e l'Ercole andò a caricar carbone in cima al molo; e anche la guardia fu cambiata.

Barbara si annoiava. Ella aveva condotto con sè una vecchia donna di servizio; suo padre veniva a trovarla solo la domenica: era un alto funzionario, un uomo grasso e calmo, d'umore gioviale; un vedovo che non si desolava più per la morte della moglie. Quando arrivava lui, tutto il villaggio lo sapeva. Egli cantava, scherzava con tutti, e si permetteva anche di abbracciare la marinaia e di invitarla a ballare. Ma partito lui, il silenzio, interrotto solo dal rumore delle onde, invadeva la casetta. E Barbara si annoiava a morte. Per distrarla alquanto venne la tempeste onde si sollevarono, e per tre giorni e tre notti ruggirono e assalirono i blocchi del molo come tigri affamate. Barbara andava da una finestra all'altra e guardava attraverso i vetri. Tutto il mare era livido, segnato, all'orizzonte, da una linea violetta, quasi nera: anche il cielo, senza essere annuvolato, era livido: pareva che la natura fosse malata.

Nel porto le barche e le paranze si stringevano le une contro le altre, come per proteggersi a vicenda; e se qualcuna, più ardita, osava allontanarsi, barcollava sulle onde e sembrava ubriaca. Fu in quei giorni che Barbara osservò di faccia al suo balcone una grande barca da pesca, tinta di verde e di viola, con due pescatori anziani, rossastri e vigorosi, che dovevano essere due fratelli e un giovinetto di sedici o diciassette anni. La barca si chiamava la Maria Anna. I due anziani lavoravano e s'agitavano continuamente; preparavano i pasti, lavavano i panni, camminavano sulle corde come scimmioni: a volte scendevano a terra e seduti sulla banchina o sotto il balcone di Barbara, rammendavano le vele e le reti, aiutandosi coi pollici dei piedi forti come uncini di ferro. Il vento scompigliava i loro capelli di rame, e portava via le loro cantilene monotone. Il pescatore più giovine attirò specialmente l'attenzione di Barbara: era bellissimo, con un viso puro ma accigliato: i suoi grandi occhi neri, foschi e bistrati pareva avessero veduto tutte le tempeste del mare e della vita. Appena la barca fu assicurata, egli si buttò in acqua e cominciò a nuotare e guizzare, fra un cerchio spumante; poi, fatto il bagno, saltò sulla banchina e stette immobile al sole.

Barbara lo guardava con ammirazione: le sembrava un efebo di bronzo. Vedendosi osservato, egli le voltò le spalle; saltò nella barca, si asciugò, indossò una maglia nera che aveva sul petto un'àncora rossa; mise sui capelli ricciuti un berrettino nero e se ne andò in paese, mentre i due vecchi pescatori accendevano il fuoco e tiravano le reti rossastre ammucchiandole sulla banchina soleggiata.

Un cagnolino nero saltò in cima alla scaletta della barca e cominciò ad abbaiare guardando verso il balcone; pareva gli desse fastidio l'insistente curiosità di Barbara. Ma ella gli sorrise, gli accennò di calmarsi e continuò a guardare.

Quella barca le sembrava diversa dalle altre; coi suoi colombi, il gatto, il cagnolino, un porcellino, pareva una casetta galleggiante, un'abitazione preistorica di gente che non avesse altro rifugio che quello.

Verso mezzogiorno il giovine tornò, e mentre i vecchi preparavano il pasto, sedette sulla banchina, fissò gli occhi in lontananza e si mise a fumare sigarette, con un bel bocchino d'ambra falsa: aveva gusti signorili! Barbara non cessava di guardarlo, ed egli, vedendosi osservato, le voltava le spalle. Quando i maccheroni furono pronti nella concula verde, intorno alla quale il porcellino il gatto e il cane si misero in adorazione, egli saltò nella barca, tirò una vela, e nascose la scena agli occhi curiosi della signorina.

Anche lei si ritirò. Nel pomeriggio tornò al suo posto, e vide che il giovine, ritto sulla banchina, s'era messo le calze e le scarpe e un altro berrettino a forma di conchiglia, rosso, giallo e nero: fumava sempre, mettendo in mostra il suo bocchino d'ambra. Nel veder Barbara, le volse le spalle; ma ella ebbe l'impressione che egli si fosse vestito bene per lei.

Maggio s'inoltrava, profumato e quasi ardente. Il sole batteva forte sulla banchina del porto, e già i ragazzetti figli di pescatori cominciavano a fare i bagni. Un giorno Barbara potè uscire. Naturalmente la sua prima idea fu di andare sulle colline a godersi un po' di verde, e si fece accompagnare dalla moglie del marinaio del porto.

La marinara aveva fama di donna maliziosa: tuttavia quando sapeva un segreto le riusciva difficile nasconderlo.

— Prenditi uno scialle, — disse a Barbara: — l'aria sulla collina è fresca e tu non devi fidarti troppo; l'aria fresca fa male ai malati di polmoni.

— Chi ha detto che io ho male ai polmoni?

— Me l'ha detto Pasquale; eccolo lì!

Mentre la donna andava a prendere lo scialle, Barbara salutò il vecchio marinaio malato. Egli sollevò il capo sul quale pareva fosse rimasto un po' della spuma del mare, e la guardò coi suoi occhi vitrei pieni di melanconia.

— Come state? — ella domandò accomodandosi il velo attorno al cappello. — Bel tempo, eh!

— Bello, ma non per noi, — egli rispose scuotendo il capo come per dirle: “tu ed io siamo spacciati, per noi non c'è più speranza!”

— Bello per tutti, anche per questi pulcini che girano qui come anime allegre; ma non per noi, figlia benedetta! — E appoggiò la testa al muro.

— Che avete? Che male è il vostro? State allegro; ora col bel tempo guarirete.

— Mai, figlia benedetta! Il mio male è qui — egli disse, toccandosi lo stomaco. — Son tre anni che non mangio; niente passa qui dentro, figlia benedetta. La porta della vita s'è chiusa. Il pane è per me come l'oro. L'oro è bello, non è vero? Ma non si può mangiare.

Chiuse gli occhi, sognando di mangiare un pezzo di pane; e Barbara per confortarlo disse:

— Pazienza: siamo nati per soffrire.

— Sì, figlia benedetta, Dio ti benedica. Anche te.… poveretta! Sì, Antoniotto lo diceva.… anche tu, povera, hai un brutto male….

— Chi è Antoniotto? — domandò Barbara alla marinara, mentre si avviavano fuor del paesetto.

— È il padrone della Maria Anna. Egli parla sempre di te; è innamorato cotto.

— Quel vecchio?

— No, il ragazzo; i vecchi sono al suo servizio.

Un fugace rossore animò il viso pallido di Barbara.

— Quel ragazzo che fuma sempre? Innamorato di me? Come lo sai? — domandò alla marinaia che la seguiva passo passo e rideva con malizia.

— Sì, sì, innamorato. Ebbene, signorina, ti voglio dire una cosa, per farti ridere. Dice che anche tu lo guardi! Dimmi la verità, non è uno sciocco?

Barbara rise; ma non sapeva se di piacere o di rabbia.

— Lo guardo! Certo, è un bel ragazzo, — disse, come a sè stessa. — E che, non ho gli occhi per guardare?

La marinaia abbassò la voce, avvicinò il suo al viso di Barbara.

— Senti, — disse, con quell'istinto di lenocinio che hanno molte donne del popolo — è un ragazzo istruito; ha studiato, sai; voleva farsi prete, poi suo padre, che era padrone della barca, è morto; anche la madre è morta nello stesso anno. Egli ha dovuto smettere; forse non aveva voglia di farsi prete! Io lo conosco da bambino: gli ho fatto un po' da madre. Viene sempre in casa mia; anche ieri è venuto, prima di partire. Se viene ancora vuoi che ti chiami? È curioso sentirlo parlare; parla bene, sai.… Sì, tante volte si trattiene ore ed ore, a casa mia; io tante volte lo lascio solo, mio marito non c'è, io devo andare ad attingere acqua….

Barbara finse di non capire, e cambiò discorso. Ma quando furono sulla collina, trasse dalla borsetta una lettera e si mise a leggerla attentamente. La donna la guardava con curiosità maliziosa.

— È del tuo fidanzato?

— Sì. Egli verrà a trovarmi fra una settimana, appena avrà il permesso dai superiori.

Il sole tramontava, rosso sull'orizzonte violetto. Le onde d'un azzurro denso, insanguinate dal riflesso del tramonto, venivano a lambire la spiaggia sotto la collina; pareva che il mare volesse avanzarsi, curioso, verso la terra immobile, ma arrivato ad un certo punto retrocedesse pentito, lasciandosi dietro qualche onda che si affrettava a raggiungere spaventata le compagne. E al ritirarsi dell'onda la spiaggia scintillava e pareva tutta di madreperla. I fiori della genziana odoravano sulla collina. E Barbara, infastidita dalle chiacchiere maliziose della donna, pensava:

— La natura è bella e sincera quanto noi, creature di Dio, siamo impure e maligne.

Passarono alcuni giorni. Il tempo era splendido, e Barbara si sentiva sempre meglio: ma a misura che le forze le ritornavano, cresceva in lei il tedio della solitudine. Una mattina si provò a lavorare; prese un foglio, sedette al balcone e disegnò una figura. Ma aveva appena abbozzato la testa, — una testa fine, scura, di efebo malinconico, — che già sentiva un principio di emicrania. No, non poteva lavorare.

— Il lavoro, dicono, è la gioia degli uomini. Non è vero: ne è il tormento, — pensò buttando il foglio per terra, dietro la tenda del balcone. E si mise a contemplare per la millesima volta il quadro del porto e del golfo. La, barca di Antoniotto era appena arrivata: i due pescatori anziani tirarono su un cestino pieno di pesci color d'argento; il giovine, ritto sulla scaletta della barca, con una scodella in mano, guardò il cestino, poi guardò Barbara.

Era la prima volta che osava rispondere allo sguardo di lei: pareva le dicesse: — guarda, non sono un pezzente: guarda che bella rendita ho io!

I loro sguardi s'incontrarono per un attimo.

Barbara gli sorrise: egli si turbò talmente che la scodella gli cadde di mano. Ella si domandò perchè gli aveva sorriso, e disse a sè stessa di averlo fatto istintivamente, come aveva sorriso al cagnolino; ma in fondo sentì che mentiva, che nascondeva a sè stessa una ragione inconfessabile.

La barca rimase tutto il giorno nel porto. I due pescatori anziani la volsero di fianco, la tirarono su coi cavi, ne lavarono la parte esterna. E lavorando cantavano:

Forza, giovani belli, forza! Forza, giovani forti, forza!

Ed erano brutti e vecchi entrambi! Ma pareva si suggestionassero e si lusingassero con la loro cantilena.

I colombi, i gatti, il porcellino, restarono tranquilli entro la barca reclinata: solo il cagnolino abbaiava protestando. La giornata era calda, quasi estiva: verso mezzogiorno tutti i bambini ed alcuni ragazzi di pescatori che abitavano lungo il molo si riunirono sulla draga ancorata vicino alla banchina, si spogliarono, e prima di buttarsi nell'acqua si misero a giuocare, a lottare, intrecciandosi gli uni con gli altri, agitando i loro corpi magri e scuri, e gridando come dannati; pareva una scena dantesca.

Anche Pasquale, il vecchio pescatore malaticcio, si avanzò fino alla banchina e stette a contemplare la scena. Poi si volse a Barbara e disse:

— Comincia presto l'estate per loro! E dire che stanotte pioverà!

— E come sono svelti! — ella disse con ammirazione. — Mi piacciono tanto.

Allora di dietro la vela della barca che i due pescatori anziani avevano tirato su, sbucò Antoniotto. Era seminudo. Il suo dorso luceva come il bronzo. Egli saltò di barca in barca, passando sulle corde come un saltimbanco, finchè arrivò sulla draga, dove cominciò a distribuire pugni e spintoni ai ragazzi più grandi. Soltanto uno di questi reagì, urlando e gettandosi addosso al pescatore. I loro corpi avviluppati si dibatterono alquanto sull'orlo della draga, finchè Antoniotto riuscì a prendere il ragazzo per la vita, la pancia in giù, e dopo averlo sollevato in alto, lo scaraventò nell'acqua che s'aprì e schizzò coprendosi di spuma. Il viso sbuffante e le braccia rosse del ragazzo riapparvero subito a fior d'acqua. Un urlo di gioia saliva dalla draga, immobile sull'acqua verde come una roccia rossastra. Antoniotto, dritto in equilibrio sulla sponda del legno, pareva una mirabile statua greca, un giovine Dio marino pieno di grazia e di agilità.

Barbara lo guardava con ammirazione e con gioia; egli non si volse mai verso di lei, ma cominciò a saltare nell'acqua, prima dalla sponda della draga, poi dalle spalle di un ragazzo. E più il salto era ardito, più svelto egli riappariva nell'acqua che si stendeva attorno a lui con cerchi luminosi, quasi circondandolo d'un'aureola di gloria.

Barbara si accorgeva benissimo che egli faceva tutto questo per dimostrarle la sua forza e la sua agilità; e osservava che, per piacere a lei, egli, senza saperlo, diventava bellissimo, come certi insetti che nel tempo del loro amore si coprono di splendidi colori.

Nel pomeriggio la marinara salì da Barbara per domandarle se voleva andare sulla collina.

— Non te lo consiglio però, — disse con la sua voce alta, che pareva volesse dominare il fragore delle onde. — Il tempo cambia: si fa umido. Vedi che nuvole?

Infatti il cielo si copriva di nuvole, e molte paranze e molti velieri stavano raccolti nel porto. Sotto il cielo annuvolato quella folla di alberi nudi dava l'idea d'una foresta autunnale: pareva che tutte le foglie cadute si fossero sciolte nell'acqua verde-giallastra del golfo.

Barbara decise di stare a casa. La marinaia se ne andò: passando accanto al balcone, vide per terra il foglio gettato da Barbara, con una testa appena abbozzata, ma già viva, piena di espressione, — la testa di Antoniotto; — e un sorriso malizioso brillò nei suoi piccoli occhi color del mare.

Più tardi Barbara vide che la barca s'apprestava alla partenza. Il tempo cambiava ancora; le nuvole erano scomparse, ma una nebbia biancastra ondulava sul mare quieto.

Molte paranze erano già partite e vagavano in quella nebbia come vascelli fantasmi.

Quando anche la barca di Antoniotto fu partita, una voce risonò:

— Addio, Barbara!

Ella trasalì: la barca dileguavasi tra la nebbia, e pareva che la voce venisse da un mondo lontano, fantastico.

Un giorno, assieme col padre di Barbara arrivò il fidanzato di lei: non era bello, ma alto, elegante, con una fisionomia intelligente e seria.

La moglie del marinario del porto, accorsa senza essere chiamata, non finiva di esaminarlo e di ammirarlo, toccandolo anche, come per assicurarsi che la sua presenza era reale.

— Ah, — gridava con la sua grossa voce, — dunque era vero? Io credeva che la signorina scherzasse! La signorina scherza sempre: non si può credere a quello che dice!

— Ma cos'ha questa donna? Perchè si permette di parlare così? — domandò il giovane.

— È una donna rozza e semplice — disse Barbara.

— Rozza, sì, ma non tanto semplice, — osservò il futuro suocero. I due fidanzati scesero poi a passeggiare sul molo. Era una domenica: le barche erano tutte in porto, i pescatori si lavavano, e si radevano la barba, guardandosi a lungo nei loro piccoli specchi primitivi. Qualcuno si pettinava persino le sopracciglia. Anche i pescatori anziani della Maria Anna si lavarono e si cambiarono: Antoniotto non c'era, ma d'un tratto Barbara lo vide uscire come un pazzo dalla casetta del marinaio del porto e mettersi a correre verso di lei, livido in viso, con le mani contratte come artigli.

Ebbe paura, e istintivamente si strinse al fidanzato, come per proteggerlo e per cercar nello stesso tempo difesa.

Il giovane si volse; vide Antoniotto che correva verso di loro, guardandoli con occhi da folle: capì che Barbara aveva paura, e domandò:

— È un pazzo?

Ma quando fu vicino a loro Antoniotto saltò sulla banchina, poi nella sua barca, e andò a nascondersi dietro la vela.

Rientrati in casa, mentre la vecchia serva finiva di apparecchiare la tavola, il fidanzato uscì sul balcone e chiamò Barbara che pareva avesse una certa ripugnanza ad affacciarsi.

Antoniotto seduto sopra un macchio di reti, dentro la sua barca, teneva gli occhi fissi al balcone, ed il suo sguardo era così geloso e disperato che Barbara si turbò.

— Come è bello questo portol — disse il fidanzato, cingendole con un braccio la vita. — È proprio come tu me lo hai descritto: guarda là in fondo, ai piedi della collina, quella linea verde che si riflette nitidamente nell'acqua.… Ma che cosa guardi? Che ha quel ragazzo che ti fissa così? Ma che fa, adesso?

Antoniotto s'era alzato, e balzava da una barca all'altra con agilità meravigliosa. Arrivò così fino alla draga, vi si arrampicò, stette un momento sospeso sulla ruota, poi si butto nell'acqua.

Sulle prime Barbara credette che egli lo facesse per richiamare l'attenzione di lei; ma passarono alcuni secondi e la testa di Antoniotto non ricompariva sulla superficie dell'acqua spumante.

Ella impallidì.

— Dio, Dio, egli vuol morire! — gridò sporgendosi dal balcone. — Pasquale, Antoniotto si è gettato nell'acqua! Salvatelo, salvatelo!

Il vecchio pescatore, che aveva veduto la manovra del giovine, guardò verso il balcone e disse tranquillamente:

— Si salverà da sè.

Infatti la testa di Antoniotto ricomparve, ma per un attimo. Scomparve, riapparì ancora. L'istinto della conservazione lo riportava a gala; ma Barbara non ebbe pace finchè uno dei pescatori anziani della Maria Anna non si buttò nell'acqua dirigendosi verso il punto ove Antoniotto appariva e scompariva.

Furono pochi istanti, ma ella credette di sognare un lungo sogno di terrore. Che disse, che fece in quei momenti d'incoscienza? Ella non lo sapeva; ma quando si calmò vide gli occhi del fidanzato fissi nei suoi con uno sguardo geloso e disperato, simile a quello con cui Antoniotto l'aveva guardata prima di buttarsi nell'acqua.

La famiglia Pintore, numerosissima, abitava una casetta fra le più antiche del villaggio, in cima ad un sentiero roccioso che pareva il letto d'un torrente. Quest'abitazione, che sorgeva in mezzo ad un cortile roccioso, cinto da un muro di macigni, ricordava i nuraghes, come i sette fratelli Pintore, soprannominati Predas Aspras1) Pietre aspre. per il loro carattere rudo e primitivo, ricordavano appunto i preistorici costruttori dei nuraghes. Solo il maggiore dei Predas Aspras era ammogliato, vedovo anzi, padre di una graziosa fanciulla, Ballòra, e di parecchi ragazzotti che promettevano di diventare alti e rudi come gli zii. Gli altri fratelli, tutti pastori, già uomini anziani, non avevano voluto saperne di prender moglie; anzi, ultimamente, Matteu, il più giovane, un bell'uomo sui quarantacinque anni, non s'era neppure accorto delle occhiate languide e insistenti della nipote Ballòra.

In quel tempo dell'anno, cioè verso la fine dell'inverno, in casa Pintore restavano solo le donne, i fanciulli e il fratello anziano, che soffriva d'un erpete incurabile. Gli altri fratelli svernavano con le loro greggie nelle pianure di là del Nuorese.

L'inverno era stato rigido e lungo: sull'altipiano e sulle montagne i venti cominciavano a placarsi, e le roccie buttavano via il loro mantello di neve. Si scorgeva l'Orthobene verde come uno smeraldo, e nella valle d'Oliena i mandorli fioriti parevano, in lontananza, sul nero delle vigne arate, macchie e cespugli ancora coperti di neve.

I Pintore, che erano in lutto per la morte della moglie del fratello anziano, durante quell'inverno vissero come selvaggi. Le donne non uscivano mai di casa, e anche Ballòre, il vedovo, tormentato dal suo erpete, stava sempre sdraiato su una stuoia, accanto al fuoco, divertendosi a raccontare storielle ai bambini.

Ballòra piangeva spesso, ricordando la madre morta, ma poi si confortava pensando allo zio Matteu, un Cristo gigante dalla barba bionda riccioluta e gli occhi neri melanconici. Zio Matteu aveva quasi trent'anni più di lei; ma a lei piaceva appunto per questo; e si sentiva attirata verso di lui forse per affinità di razza, e perchè realmente egli era l'uomo più bello del paese.

Quell'inverno, poi, ella viveva in completa solitudine. Tutti gli uomini giovani, pastori e contadini, erano fuori del paese; a trovar zio Ballòre, oltre qualche vecchio amico, non veniva che il Sindaco, uomo ancora giovane, simpatico, scapolo e benestante; ma Ballòra non aveva mai neppure osato di guardare in viso il Sindaco: egli era un uono civile, fine, caustico, qualche volta anche maligno; non diceva mai le cose come le pensava; era amante dei comodi, delle vesti pulite, dei buoni cibi; insomma d'una razza diversa di quella dei Predas Aspras. Spesso, anzi, egli faceva stizzire Ballòra: veniva tutto attillato, piccolo e svelto, con la cintura stretta, la berretta messa con arte sui capelli lunghi, un sorriso beffardo sulla bocca sottile; sedeva accanto al fuoco, cercando un posto ove non ci fosse fumo, guardava la ragazza e diceva:

— Ballòre Pintò; perchè te la tieni qui, questa pianticella? È tempo di innestarla, sai?

L'infermo, buttato sulla stuoia come un tronco abbattuto dal vento, guardava Ballòra con affetto selvaggio e sorrideva per lo scherzo del Sindaco. Scherzo che pronunziato da altri gli avrebbe recato offesa.

— È troppo giovane, — rispondeva.

— Dicono che tuo fratello Matteu sia un buon coltivatore….

Tiu Matteu è un pastore, non un contadino — rispondeva Ballòra con dispetto. E andava sul limitare della porta, e senza smetter di filare la seta cruda per una benda da testa, guardava in lontananza, verso l'orizzonte coperto di nuvole immobili, azzurrognole e rosee sullo sfondo grigio del cielo.

Quelle nuvole colorate, che s'indugiavano pigre e come assopite sul cielo melanconico di marzo annunziavano la fine dell'inverno: tutto taceva intorno, e i macigni, le roccie, i tetti lavati dalle pioggie e dal vento, fumavano nell'aria tiepida e vaporosa. Sì, l'inverno moriva; fra poco l'erba sarebbe spuntata anche sulle chine più alte della montagna, sotto le foreste ove non penetra il sole, e i pastori sarebbero ritornati alle terre natie.

Il Sindaco poteva scherzare quanto voleva; Ballòra aspettava la primavera, anzi la sentiva già, nell'aria, nel cielo, e sopratutto nel suo sangue giovane e ardente. Una mattina, agli ultimi di marzo, il Sindaco venne a trovare zio Ballòre, e gli disse:

— Tuo figlio Zoseppe ha oramai quindici anni, non è vero? Che pensi per lui?

— Seguirà i suoi zii, se il Signore non mi farà guarire, — rispose zio Ballore.

— Senti, Predas A', — riprese il Sindaco, guardandosi attorno, — devo domandarti un piacere. Tu conosci Miale Ghisu; tu sai che egli è uno dei più ricchi proprietari di Nuoro, e possiede terre anche dalle nostre parti. Egli m'ha scritto che verrà qui, in cerca d'un servetto pastore. Perchè non gli dai Zoseppe?

Il malato fece un gesto d'impazienza, poi rispose lentamente:

— I Pintore non sono stati mai servi: poveri sì, ma servi mai….

— Non adirarti, Ballòre Pintò. Se ti ho fatto la proposta, è segno che la credo conveniente per te. Miale Ghisu è un giovane ricco, che potrebbe farti qualche favore.

— Io non ho bisogno di favori.

— Ad ogni modo pensaci bene: stasera tornerò col Ghisu, se arriverà. E dov'è oggi sa bella manna?1) La bella grande, la molto bella. E andata in giro? M'han detto che l'hanno veduta scappare verso le pianure di Ozieri.

— Andare in giro! — rispose con voce lamentosa zia Franchisca Pintore senza smettere di scardassare con due pettini di ferro un mucchio di lana nera. — Ci vuol altro, cuore mio; con questi panni da lutto!

— Ho scherzato — rispose serio il Sindaco, che rispettava gli usi del paese.

— Dunque a stasera. Dite a Ballòra che si lasci vedere. Vedrà un uomo più bello ancora di Tiu Matteu.

Ballòra, che puliva la farina nella domo'e mola1) Casa della mola: locale ove c'è l'antica mola tirata dall'asinello. attigua alla cucina, sentì queste parole, e il suo viso bianco, quasi cereo come quello d'una madonna sciupata dall'umidore d'un luogo freddo e chiuso, si coprì d'un rossore fosco. Lagrime di rabbia e di desiderio le velarono i grandi occhi neri dalle lunghe ciglia.

— Ce l'ha con me, quell'avoltoio — disse alla zia, quando Franchisca entrò nella domo'e mola per ricolmare di frumento il moggio; — ma, vedrete, stasera lo faccio arrabbiare. Voglio guardare il forestiere.

— Una fanciulla ben nata non deve parlare così, — disse severa la zia; — non deve guardare gli uomini, tanto meno se stranieri.

— I miei zii non ci sono, per potermi osservare, — pensò Ballòra, senza rispondere alla zia. — Mi metterò in piedi, davanti al fuoco, perchè mio padre non mi veda.

E non sapeva se era ìl desiderio di far dispetto al Sindaco o l'ansia di veder “un uomo più bello di Tiu Matteu” che l'agitava tutta.

Il Sindaco tornò verso sera, accompagnato dal giovane nuorese.

I Pintore, donne, giovinetti, fanciulli, finivano di cenare, seduti per terra, intorno a un canestro colmo di pane d'orzo. Nel chiaroscuro della cucina piena di fumo, Miale Gisu non distinse sulle prime che un gruppo di figure quasi selvagge; donne col capò avvolto e il viso ombreggiato da bende nere e gialle, ragazzi dai capelli lunghi, bambini con gli occhioni luminosi, e un gigante sdraiato su una stuoia, accanto al fuoco.

E solo questo gigante, ch'era zio Ballòre, sollevò gli occhi, salutando lo straniero: le donne anch'esse salutarono, ma a testa china; poi si alzarono e sparecchiarono.

Il Ghisu sedette accanto al focolare e cominciò a chiacchierare col vedovo.

— Ho bisogno d'un servetto: ma d'un servetto fidato, docile, malleabile. Ne farei un abile pastore: gl'insegnerei a fare il formaggio come lo fanno in continente.

Zio Ballòre sorrise con disprezzo.

— Che bisogno abbiamo di fare il formaggio come lo fanno in continente? È forse mal fatto il nostro formaggio? Ad ognì modo, figlio mio, io non posso favorirti; i mie figli non sono docili, non sono nati per fare i servi….

Miale guardò verso il gruppo dei fanciulli, poi sollevò gli occhi e vide, nello sfondo della cucina, la figura alta e svelta di Ballòra.

Ella aveva ripreso il suo fuso e filava, e quando le zie non la guardavano, fissava avidamente gli occhi sul viso dello straniero.

Miale era bello e lo sapeva, ma non per questo gli sguardi di una donna, specialmente giovane e bella come Ballòra, lo lasciavano freddo. Inoltre egli sapeva che i compaesani di Ballòra pretendono che le loro donne non guardino gli uomini degli altri paesi: tanto più gli sguardi avidi e arditi della bella filatrice lo eccitavano. Anche lui cominciò a guardarla.

— No, — riprese zio Ballòre — non siamo nati per fare i servi. Poveri sì, ma padroni in casa nostra. Siamo sette fratelli, tu lo sai, otto con nostro cognato Bastianu Piras: io ora sono invalido, ma gli altri lavorano tutti. Siamo poveri, — ripetè con fierezza — ma siamo uniti, andiamo d'accordo e perciò siamo più ricchi e potenti del vicerè. Ci chiamano Predas Aspras, e davvero siamo rozzi, ma se non ci molestano non molestiamo nessuno.

— Sì, sì, lo so, — disse il Ghisu, per lusingare zio Ballòre — so che siete gente forte e onesta. Appunto per questo vi proponevo….

— Ebbene, non parliamo più della tua proposta: parliamo d'altro. Io ho conosciuto tuo padre, sai: ho preso in affitto le sue tancas, molti e molti anni or sono. Un uomo astuto, tuo padre, parlava bene come un avvocato. Diceva che i setti fratelli Pintore, come sos sette frades1) I Sette Fratelli: l'Orsa maggiore. del cielo, non si sarebbero separati mai. E fu così.

— Anche il figlio è un giovane astuto, — disse il Sindaco, che s'accorgeva degli sguardi sempre più insistenti di Ballòra e del nuorese, e ne provava dispetto. — Non sai, Predas A', che è riuscito a far innamorare di lui la ragazza più benestante di Nuoro?

Il fuso di Ballòra cadde per terra.

Miale abbassò la testa, sospirò e disse con tristezza:

— Io? Io non penso alle ricchezze, zio Ballo, sono i parenti che ci pensano!

— Diavolo, questo non t'impedisce di sposare una donna ricca, — osservò il Sindaco.

Ballòra raccolse il fuso, riattaccò il filo e riprese a filare. Era diventata pallidissima e il suo fuso tremolava lievemente, invece di scendere e salire rapido e sicuro come prima.

— Sposare, — disse il nuorese, guardandola — si fa presto a dirlo. Chissà? Il nostro destino è nelle mani di Dio, come il fuso e nelle mani di quella fanciulla.

— Speriamo non gli cada di mano, però, — rispose il Sindaco ridendo.

— Franchisca, portaci da bere. Tu vorrai del vino, non del miele, credo! — disse poi zio Ballòre, volendo distrarre Miale Ghisu che era diventato triste.

La donna portò il vino: zio Ballòre cominciò a raccontare storielle, le donne ripresero i loro fusi, i ragazzi s'avvicinarono al fuoco, Ballòra e il nuorese continuarono a guardarsi. E il Sindaco fingeva di non accorgersene, ma ogni tanto, contro la sua abitudine, diceva parole dispettose.

Ballòra aveva raggiunto il suo scopo, ma ormai ella non s'accorgeva più della stizza del Sindaco, e quando egli parlava di Tiu Matteu, ella non pensava più allo zio lontano.

Nei giorni seguenti accadde un fatto strano che interessò vivamente tutte le donnicciuole del villaggio.

Ballòra cadde ammalata. Accessi di febbre fortissima, delirî e convulsioni la tormentarono lungamente; poi cadde in una specie di sopore febbrile, dal quale non si scuoteva che per dire parole strane. E tentava sempre di scappare.

Zia Franchisca doveva vegliarla giorno e notte, e spesso chiamava le sorelle e i nipoti per farsi aiutare a tener ferma sul letto l'ammalata.

Nei suoi delirî Ballòra parlava sempre del giovane nuorese, lo chiamava per nome, gli diceva parole d'amore e lo scongiurava di ricordare i suoi giuramenti, e di ritornare, di portarla via, di farla sua.

Zia Franchisca finì col credere che fra Miale Ghisu e Ballòra fossero passate relazioni amorose. Ma quando la fanciulla riprendeva i sensi non rispondeva alle domande della zia, e piangeva silenziosamente.

In poco tempo ella si consumò, diventò magra, gialla, brutta. Sul suo volto deformato non si notavano che gli occhi e i denti sporgenti.

I Pintore decisero di chiamare il medico, ed egli esaminò a lungo la malata, ma non seppe definire la malattia, o meglio la definì con un nome incomprensibile: “isterismo”.

Voci strane si diffusero allora per il paese: molti affermarono che Ballòra era stregata, altri dissero che aveva bevuto un filtro amoroso.

Gli zii tornarono dalla pianura. Una bella mattina, verso la fine d'aprile, zio Matteu spinse l'uscio della camera ove Ballòra gemeva, e si fermò a guardar la nipote. Alto, biondastro, vestito di nero e di rosso, coi capelli lunghi, egli sembrava un eroe preistorico, e aveva negli occhi selvaggi qualche cosa di feroce e di melanconico assieme.

— Donnicciuola, — disse a zia Franchisca, — sai le voci che corrono per il paese? Si dice che la fanciulla pronunzi sempre il nome di un uomo, di un nuorese….

— Ebbene, sì, — rispose la donna. — Una sera venne da noi un giovane nuorese, Ballòra lo guardò, egli la guardò, così almeno afferma il Sindaco. Altro non so.

— E tu, vecchia, avevi gli occhi forati? Non vedevi quello che succedeva in casa tua?

Poi zio Matteu s'avvicinò al letto, ove Ballòra gemeva e vaneggiava. Ella non lo riconobbe ed egli s'allontanò asciugandosi gli occhi con una ciocca della lunga barba.

Il giorno dopo Miale Ghisu, mentre si trovava in una sua tanca, ricevette uno strano messaggio.

“— I fratelli Pintore vogliono sapere se è vero che tu hai promesso amore alla loro figlia e nipote Ballòra. Rispondi subito, se non vuoi ricevere qualche torto”.

Miale non si ricordava più di Ballòra, e avrebbe riso, ricevendo il messaggio, se in quel momento non fosse stato di cattivo umore. Rispose:

“— Dite ai fratelli Pintore che Miale Ghisu fa quello che gli pare e piace”.

Questa risposta, naturalmente, dispiacque ai Predas Aspras. Zio Matteu diventò furibondo.

— Ma è impossibile che Ballòra abbia avuto relazioni amorose: anzi non è uscita di casa durante tutto l'inverno — osservò zio Ballòre.

— La malattia ha indebolito anche la tua anima, — rispose zio Matteu; — tu sta'zitto. Le donne sono più agili e sottili dei rettili, e, come le lucertole, sanno passare attraverso i buchi più stretti.

Ma mentre egli parlava così male delle donne, ecco arrivò Miale Ghisu.

Il giovane sembrava triste, compunto. Domandò di vedere Ballòra; quando la vide, così gialla e cadaverica, fece una smorfia di disgusto, ma si avvicinò al letto, si piegò e domandò:

— E dunque, come stai, Balloredda?

La malata lo guardò, ma parve non riconoscerlo o non curarsi di lui. Egli rimase contento di quest'accoglienza, andò via e promise di tornare.

Infatti pochi giorni dopo ritornò: le sue visite diventarono frequenti, e subito si sparse la voce che egli aveva sedotto Ballòra e che Ballòra moriva d'amore per lui, e che i fratelli Predas Aspras avevano minacciato di ucciderlo se non sposava la ragazza.

Queste voci volarono, scesero fino a Nuoro, dispiacquero molto alla fidanzata del Ghisu. Questa, che era molto brutta, avrebbe volentieri perdonato; ma i parenti, gente boriosa e superba, non vollero più saperne di imparentarsi con uno che s'era abbassato a sedurre una paesana, una montanara selvaggia. Poco male una ragazza di città, una serva nuorese, ma una dei paesi!

Il Ghisu fu dunque “mandato via”, ed egli non parve addolorarsene molto. Di tanto in tanto continuava a recarsi al paese di Ballòra, e visitava i Pintore. Di matrimonio, naturalmente, non si parlava, perchè la fanciulla stava sempre male; ma verso la fine d'agosto, quando le prime pioggie rinfrescarono l'aria e ripulirono alquanto le strade immonde del villaggio, Ballòra si sentì meglio. Il suo viso cereo si colorì, i suoi occhi s'animarono. Un giorno ella vide presso il suo letto la figura alta e bella dello zio Matteu e s'accorse che egli la guardava fisso, con uno sguardo tenero e ardente. Anche lei lo guardò; egli uscì dalla camera senza pronunziar parola, e andò dal Sindaco.

Il Sindaco fumava la pipa, seduto sul gradino della sua porta, e leggeva una lettera del Sottoprefetto di Nuoro.

— Alzati, e vieni con me. Devo parlarti — disse Matteu Pintore.

Senza muoversi il Sindaco sollevò gli occhi beffardi, e disse con ironia:

— Vieni forse per domandare le pubblicazioni di matrimonio di tua nipote?

— Forse: alzati, — ripetè l'altro, quasi minaccioso.

— Oh, oh! Ha fatto la domanda, Mialeddu?

— Non l'ha fatta ancora.

— Ebbene, se non l'ha fatta ancora, non affrettarti, Predas A', perchè egli tarderà a farla.

— Che ne sai tu?

— Ebbene, — disse allora il Sindaco, alzandosi e ripiegando la lettera — voglio dirti una cosa, Matteo Pintò, poichè mi dispiace che i miei compaesani passino per gente stupida: credo che Miale Ghisu non abbia mai guardato Ballòra. Voi tutti avete sognato.

— Ma, allora, perchè viene da noi? Perchè s'è fatto mandar via dalla fidanzata? Ha forse paura di noi?

— Io non so nulla — rispose il Sindaco, so'levando le mani come per allontanare da sè ogni responsabilità.

Matteu Pintore stette alcuni giorni pensieroso e inquieto: infine decise d'interrogare Ballòra.

— Sì, è vero, — ella disse con la sua voce languida di convalescente — l'ho guardato io, per la prima: egli non mi guardava….

— Sfacciata, perchè l'hai fatto?

— Non mi sgridate: l'ho fatto per far stizzire il Sindaco, il quale si burlava sempre di me….

— Perchè si burlava sempre di te, quel nibbio senza artigli? Devi subito dirlo, Ballòra.

Ballòra arrossì, ma dovette rispondere.

— Egli diceva sempre che io.… pensavo a voi….

— Ah! ah! — Zìo Matteu s'alzò, s'avvicinò alla parete, prese un canestro che stava attaccato ad un chiodo, lo guardò, lo riattaccò, stette a fissare il muro. Poi uscì dalla camera senza pronunziar parola.

Miale Ghisu ricevette un altro messaggio: “i fratelli Pintore ti proibiscono di ritornare nella loro casa”.

— Salute a loro, — rispose il giovane, ridendo. E porse una zucca di vino all'uomo che aveva recato il messaggio. L'uomo bevette, e vedendo che il Ghisu accoglieva allegramente l'ambasciata, gli fece per conto suo, una confidenza:

— Pare che la ragazza abbia cambiato idea: non vuole uscire di famiglia, vuol sposare lo zio.

— E lo zio?

— Lo zio vuol sposare la nipote.

— Buona fortuna, allora. Bevi, uomo!

E quando l'uomo fu partito Miale Ghisu fu tutto contento di non pensar più al come liberarsi della seconda fidanzata che lo aveva liberato della prima.

È la notte di Natale, ma sembra una notte d'autunno, fresca e diafana. La luna illumina la pianura solitaria. Un corso d'acqua, qua largo, là stretto, serpeggia fra le stoppie nere, e sparisce luccicando all'orizzonte, ove pare che vada a gettarsi silenzioso in un mare di vapori azzurri.

Sono le prime ore della notte. Il pastore guarda le greggie pascolanti. Gialle e nere alla luna, le pecore assonnate vanno melanconicamente per la pianura cercando l'erba fredda sotto i cespugli, lungo le muricce coperte di musco; e i loro campanacci dondolano e suonano una strana musica, monotona come una cantilena, che va e viene e squilla e trema argentina e anima e nello stesso tempo rende più intenso il silenzio dei pascoli.

Il pastore guarda; e sogni selvaggi passano nei suoi occhi.

Egli è sceso dalle aspre montagne natìe, i cui freddi pascoli, odorosi di tirtillo e di timo nelle splendide primavere, ora son coperti di neve segnata dalle orme delle lepri e dei mufloni.

Il pastore ha lasciato gli alti pascoli ai primi soffi autunnali, ed è calato alla pianura con la sua greggia, i suoi cani, il suo sacco, — lungo mantello d'orbace ch'egli getta sul capo e allaccia sotto il mento — col suo cavallo, i suoi arnesi di sughero, i suoi cucchiai d'unghia di pecora, e con la sua provvista di pane d'orzo per tutto l'inverno.

Egli è un nomade, ma ha una numerosa famiglia stabilita nel villaggio delle montagne.

Mentre guarda le pecore al pascolo, egli ha negli occhi la visione della casetta dove i suoi cari passano il rude inverno; ecco, dietro i vapori luminosi della luna sorgono le vette argentee della montagna e sotto le candide conche abitate dal muflone splendono i lumi del piccolo paese. La casa del pastore è di pietra e di legno, e nell'ampia cucina fuma l'antico focolare di pietra, e sul fuoco di tronchi bolle una gran pentola nera.

La casa del pastore è ricca; v'è legna, lardo, patate, fagiuoli. Le donne del pastore hanno lavorato tutto l'anno negli orti, irrigando i solchi, hanno raccolto le castagne e le noci nei boschi, e sgranato i fagiuoli violetti tigrati di nero.

La casa è ricca, e la figliuola primogenita, grassa e rossa nel suo stretto costume di orbace, è fidanzata ad un uomo che a sua volta raccoglie molto orzo e frumento.

Tuttavia il maggiore, cioè il capo della famiglia, smarrito nella solitudine della pianura, sogna il giorno in cui sarà tanto ricco da avere un servo che gli custodisca le greggie.

Ah, egli allora non dovrà più perdere i capelli per salvare le sue pecore. S'arrangi il servo, e se una sola pecora va smarrita guai a lui!

Il pastore, allora davvero ricco, se ne starà seduto accanto al focolare, soffiando sul fuoco col suo bastone di sambuco, guardando ogni tanto entro la pentola, chiacchierando colle sue donne e sputando sulla cenere.

La sua barba sarà bianca e lunga; egli sarà grasso e rosso. Verrà il genero, ed entrambi si metteranno a cantare una gara estemporanea, bevendo ogni tanto vino e acquavite.

Ah, questa sarà la vera vita felice! Ma quanto tempo ancora occorrerà per arrivare alla realtà di questo sogno, quanti Natali ancora da passare lontano dalla famiglia, nella desolazione delle notti della pianura!

Non c'è mezzo per abbreviare la rude via? Ebbene, sì, sì, c'è un mezzo; egli lo sa, egli ci ha pensato tutto il giorno. Nel pascolo limitrofo al suo c'è un altro pastore che vuol darsi al commercio del grano, onde ha venduto quasi tutto il suo gregge, e fra pochi giorni venderà il resto e se ne andrà.

Adesso è laggiù, di là del fiume, e dorme entro la sua capanna, con la testa appoggiata ad una pietra, sotto la quale c'è una borsa di cuoio coi denari ricavati dalla vendita delle pecore.

Il nostro pastore pensa che sarebbe facile impresa andare laggiù e impadronirsi della borsa.

Ebbene, sì, egli andrà. La notte avanza: le pecore si ritirano una dietro l'altra nelle mandrie, e lentamente cessa il tintinnìo dei loro campanacci dondolanti.

Il pastore siede davanti all'apertura della sua capanna, e pensa.

La luna cade sul limpido arco del cielo; il fiume va sempre silenzioso attraverso la pianura che tace. Un solo punto rosso brilla di là del fiume; è il fuoco dal pastore che ha venduto le sue greggie. L'uomo delle montagne guarda quell'occhio di fuoco e pensa alla bella vita che potrà menare fra un anno, alle canzoni estemporanee, ai bicchierini d'acquavite, al servo che guiderà le sue greggie.

Ebbene, sì, egli andrà. È tempo di farla finita con questa vita nomade, è tempo di vivere in famiglia, di passare il Natale in paese.

Egli andrà; egli va; egli cammina silenzioso, senza lasciar traccie, come la volpe: guada il fiume, è presso la capanna del pastore, è sull'apertura della capanna. Il pastore dorme, con la testa appoggiata ad una pietra; sotto la pietra ci deve essere, c'è la borsa. Il nostro pastore ha un momento di esitazione: poi entra, si piega sul dormiente e lo soffoca; scosta il cadavere e solleva la pietra.

Orrore! Sotto la pietra, invece della borsa, c'è un mondo di vermi bianchi, schifosi, brulicanti sull'umida terra; i loro piccoli occhi maligni hanno uno strano bagliore verde.

Il pastore impallidisce, trema, fruga per tutta la capanna; la borsa non c'è, il suo delitto è stato inutile. Allora egli fugge attraverso la pianura, ma ha sempre davanti agli occhi la visione di quei vermi bianchi, brulicanti, con gli occhi verdi maligni.

Dopo lungo errare torna alla sua capanna; il suo cane rosso urla disperatamente alla luna, scuotendo la catena. Che è accaduto?

Il pastore corre alle mandrie, e le mandrie sono vuote. Egli ascolta, ma il silenzio della notte è turbato solo dal rauco urlare del cane. Un sudore di morte gli bagna la nuca: orrende imprecazioni gli escono dal petto ansante. Egli è rovinato: durante la sua assenza ignoti predoni gli hanno rubato il gregge, e sono spariti senza lasciare tracce, come la volpe.

Urlando di rabbia, il pastore si getta fra le macchie, e corre e corre, e attraversa la pianura cercando il punto ove i ladri hanno guadato il fiume.

Ecco, forse è qui; i giunchi sono calpestati, l'acqua scarsa brilla riflettendo il cielo sereno.

Il pastore si tuffa nell'acqua, ma l'acqua non è così scarsa come sembrava; più egli avanza, più affonda: ecco, fino alle coscie, fino alla cintola, fino al petto, fino alla gola. È perduto, affoga; i suoi occhi non vedono più che una distesa d'acque gorgoglianti, cosparsa di vermi bianchi con gli occhi verdi lucenti.

Allora prova una terribile impressione, gli sembra di esser morto, di non poter più rivedere i suoi cari, le sue montagne natie: gli sembra che per tutta l'eternità dei secoli debba restare palpitante e cosciente nella fredda profondità di quelle acque, fra quel mondo di vermi.

La disperazione lo vince; vuol muoversi e non può, vuol gridare e non può; fa uno sforzo supremo e si sveglia tremando, e si ritrova seduto sull'apertura della sua capanna, ove s'era addormentato pensando di andare a rubare la borsa del pastore vicino.

A lungo tremò in tutta la persona, ancora oppresso dall'incubo. Poi, lentamente, tornò alla realtà. Il suo gregge dormiva nelle mandrie: laggiù, di là del fiume, brillava rosso e tranquillo il fuoco del pastore. La luna cadeva nella notte serena.

Il pastore si alza, si scuote, ed una tristezza profonda gli copre il cuore. Gli sembra d'aver commesso davvero il delitto, e sente un grande rimorso, ed il presentimento di tristi cose.

Che farà per espiare? Come placherà l'ira del Bambino Gesù?

Ebbene, egli confesserà al pastore vicino la mostruosa idea e l'orribile sogno avuto: poi scannerà tre pecore e ne distribuirà le carni ai poveri del più vicino villaggio.

L'indomani, il pastore vicino viene a visitar l'amico. E l'amico gli racconta l'orribile sogno avuto; ma non ha il coraggio di confessargli che ha davvero pensato d'ammazzarlo. Il vicino ride, ride anche il nostro pastore, poi entrambi scannano una pecora (tre, ha pensato bene l'amico, sono veramente troppe) da distribuire ai poveri. Chiamati, i poveri vengono dal paese, si disputano le porzioni di carne, e dicono:

— Che buon uomo è quel pastore! Perchè ha sognato di ammazzare un cristiano, ha scannato una pecora e l'ha data a noi poveri? Nostro Signor Gesù lo rimeriti.

Intanto nella capanna i due pastori amici, che hanno tenuto per loro le carni più delicate della pecora, fanno girare sulla brage gli schidioni di legno, e cantano alcune strofe estemporanee, prendendo per argomento il sogno avuto, ma solamente il sogno.

In mezzo ad un'isoletta, che a sua volta emergeva in mezzo ad un fiume larghissimo, splendeva un piccolo lago d'argento verdognolo, o meglio uno stagno circondato di pioppi e di salici, di cespugli di gaggia selvatica, di erbe alte, carnose e vellutate, fiorite di strani girasoli violacei. Riflessa da questo piccolo stagno, la natura circostante pareva più bella e fantastica, come nell'opera di un artista.

Di giorno lo sfondo del cielo autunnale, con le sue tinte cangianti e le sue nuvole capricciose; di notte la grande luna rossastra, le stelle vivissime, i fantasmi tremuli dei pioppi, riprodotti dallo specchio profondo del lago, davano al luogo un aspetto romantico.

Il cacciatore che aveva lasciato il suo canotto sull'orlo fragile dell'isoletta deserta, e aveva segnato sulla sabbia vergine le sue orme di uomo primitivo, un sera vide appunto la luna grande e rosea affacciarsi tra i pioppi; la rivide, più bella, entro il piccolo stagno, e per un momento si fermò, con gli occhi fissi sul quadro luminoso dell'acqua, affascinato da quel mondo ignoto, da quel cielo lontano e misterioso che appariva come nel cuore della terra. Una vecchia lepre, che abitava fra le macchie di gaggia della riva, vide l'uomo nero, il nemico per lei mostruoso, e scappó agile e silenziosa, lunga e con le orecchie rigide e dritte come coltelli pronti alla difesa.

L'uomo rimase coi suoi sogni: la lepre perdette i suoi, ma si salvò. Arrivata nel più folto del bosco si raggomitolò sotto un cespuglio nero, e stette lungamente in ascolto, sporgendo e ritirando il musino tremante. Il suo cuore batteva forte, come da mesi e mesi non batteva più.

Sì, dopo le ultime inondazioni, durante le quali le lepri che abitavano l'isola erano completamente scomparse, o cacciate, o prese dai pescatori, o travolte dal fiume invasore, la vecchia lepre s'era creduta sola padrona del luogo, e aveva sognato di vivere tranquilla per tutto il resto dei suoi giorni. Era vecchia, stanca, sola. I suoi piccini l'avevano abbandonata; i leproni non la volevano più. Tanto valeva starsene tranquilla in un angolo solitario dell'isola, senza paure e senza pericoli.

Durante la primavera, nel tempo delle inondazioni, era vissuta fra alcuni tronchi che la corrente aveva trasportato sulla riva alta, sopra lo stagno. Nessuno si arrischiava ad attraversare il deserto paludoso dell'isola, e anche dopo, quando la sabbia s'era indurita e l'erba aveva ricoperto le rive dello stagno, i cacciatori e i pescatori non s'erano fatti più vivi.

Silenzio e solitudine. Gli usignuoli soltanto, dall'alto dei pioppi, accompagnavano col loro canto il tremolar delle foglie che salutavano l'acqua corrente. Dicevano le foglie, che pareva si fossero immerse in un bagno di luna:

— Addio, acqua: meglio correre che star fermi.

E l'acqua, che andava verso il mare, rispondeva:

— Addio; meglio star fermi che correre sempre.

La vecchia lepre ascoltava, e si sentiva allegra e credeva d'esser più forte dei pioppi e più agile dell'acqua, perchè aveva la soddisfazione di poter correre o star ferma a suo piacere.

I mesi passarono: gli usignuoli tacquero, le foglie dei pioppi cominciarono a cadere. La vecchia lepre si sentiva sicura e tranquilla come non lo era stata mai: ed ecco che improvvisamente il fantasma nero e terribile ricompariva! Che veniva a fare?

Raggomitolata sotto il cespuglio, coi grandi occhi immobili sotto le palpebre rossastre, essa scorgeva in lontananza un tratto di sabbia circondato di macchie e illuminato dalla luna: era una specie di piazza, dove anche lei, nei tempi felici della sua giovinezza, aveva saltato e corso dietro la propria ombra, o aveva atteso il suo amante, nelle notti di luna.

Un'ombra passò laggiù, poi un'altra: la vecchia lepre credette di sognare. Le ombre però ritornarono, si fermarono, ripresero la loro corsa fantastica. Non c'era da sbagliarsi: erano due lepri. La vecchia solitaria comprese allora perchè il nemico nero, il cacciatore notturno, era ricomparso nell'isola.

E una rabbia feroce, quanto può esserlo la rabbia d'una lepre, le agitò nuovamente il cuore. Invece di convincersi che ritenendosi oramai sola nell'isola si era ingannata, le parve che i suoi simili avessero ripreso possesso del luogo senza averne il diritto.

La vecchiaia e la solitudine l'avevano resa selvatica ed egoista: le dispiacque più la ricomparsa delle lepri che quella del nemico nero, e quando uscì dal suo nascondiglio per avanzarsi fino alla radura sabbiosa, e si accorse che le due lepri erano due amanti, il suo dolore si fece più acuto e più rabbioso.

Questo non impedì che le due lepri continuassero a divertirsi, a saltare, a correre. La femmina era grassa, con le orecchie quasi diafane, rosee all'interno, bionde al di fuori: era civetta, correva intorno al maschio fingendo di non vederlo, si sdraiava lunga sulla sabbia, saltava e scappava quando l'amante le si avvicinava. L'amante invece, magro e consunto di passione e di piacere, non vedeva che lei, non faceva altro che correrle dietro e saltarle addosso. Erano felici; allegri, incoscienti come tutti gli amanti felici.

La vecchia lepre non si saziava di guardarli, e anche quando la coppia graziosa, stanca di salti e di carezze, sparve dalla radura, lei rimase al suo posto di osservazione, raggomitolata, ma con le orecchie dritte, frementi come due foglie secche mosse dal vento.

I giorni e le notti passarono, la luna declinò, le sere si fecero buie.

La vecchia lepre non tornò in riva allo stagno. Aveva paura del cacciatore. Nascosta nel più folto del bosco, solo qualche notte si avanzava fino alla radura, dove i due amanti giocavano allegramente.

Un giorno, però, sentì un colpo di fucile, poi un altro, poi altri ancora, vaghi, lontani, come ripetuti dall'eco.

E quella notte, per quanto fosse una notte da innamorati, dolce, tiepida, e la luna nuova declinasse dietro i pioppi oramai spogli, i due amanti non ricomparvero.

Il nemico nero doveva averli presi. La vecchia ne provò tale gioia feroce, che si mise a saltare sulla sabbia ancora segnata dalle orme dei poveri amanti.

Ma il rumore d'un passo d'uomo la costrinse a fuggire: cieca, anelante, s'internò nel bosco, arrivò fin quasi all'altra riva del fiume, e rimase nascosta fino all'alba in un luogo dove prima non era mai stata.

All'alba si mosse. La nebbia velava il bosco, le macchie stillavano grosse goccie d'acqua gelata. La lepre fece un giro di perlustrazione, scese sino in fondo ad una specie di piccola valle, e scoprì una cosa che, nonostante tutta la sua cattiveria, la intenerì e la commosse. Trovò un nido di leprotti! Erano due, questi leprotti; grassolini, con le orecchie diafane, gli occhioni immobili e lucenti: dovevano essere i figli della coppia uccisa dal cacciatore.

Uno dei leprotti leccava le orecchie e la testa al fratellino, e quando vide la vecchia lepre la guardò e sporse e ritirò il musino con un po' di paura.

La vecchia passò oltre, ma più tardi ritornò ancora e rivide i due poveri leprotti che giocavano e si leccavano a vicenda.

Era una giornata triste, fredda: verso sera cominciò a piovere e la vecchia lepre ritornò al suo antico nido fra i tronchi, sulla riva alta dello stagno. Pioveva e pioveva. La vecchia lepre non si rattristava per questo. Anzi! La pioggia significava la fine della bella stagione, e quindi la solitudine e la sicurezza. La sabbia dell'isola si sarebbe presto rammollita: il cacciatore non s'arrischierebbe più ad attraversare il bosco umido e nudo.

E i poveri leprotti? Che ne sarebbe di loro, in fondo alla piccola valle? La vecchia solitaria ricordava i suoi piccini, il tepore del nido, le gioie materne? Non è facile saperlo; ma è certo che verso l'alba scese dal suo nascondiglio e andò a vedere i leprotti. Le povere bestiole dormivano, l'una sull'altra, ma anche nel sonno dovevano aspettare la madre, perchè quando la vecchia lepre si avvicinò allungarono il musino e scossero le orecchie.

E la vecchia li guardava, coi suoi grandi occhi umidi, e anch'essa sporgeva il muso come fiutando l'odore del nido.

Ricominciò a piovere. Per otto giorni e otto notti un velo grigio di nebbia e di pioggia avvolse e coprì l'isola. Lo stagno parve riempirsi di un inchiostro nero argenteo e l'acqua salì, salì, arrivò fin quasi al rifugio della lepre. Questa aveva tentato di ritornare ancora verso il nido dei leprotti, ma qua e là, intorno al suo rifugio, la sabbia si era spaccata e impregnata d'acqua. Impossibile arrivare fino alla piccola valle. E pioveva e pioveva: s'udiva un rumore lontano, pauroso, come il rombo di un esercito nemico che passasse invadendo e distruggendo ogni cosa.

La vecchia lepre conosceva bene quel rombo, che era la voce cupa del fiume vincitore, e non osava più muoversi dal suo rifugio, tormentata dal freddo e nutrendosi solo con qualche foglia secca. Un giorno dovette star digiuna perchè l'acqua arrivava proprio fino ai tronchi del rifugio, ed era pericoloso muoversi di lassù.

L'acqua saliva, saliva, grigiastra, cupa, silenziosa. Il cielo, la terra e l'aria, parevano oramai composti solo d'acqua fredda e sporca.

Ma la sera dell' ottavo giorno la pioggia cessò, e tutto d'un tratto le nuvole s'aprirono. Qua e là fra la nebbia cinerea apparve il cielo verdastro, e in una spaccatura di nuvola brillò, come nella profondità di una miniera, l'argento dorato della luna.

L'acqua calò, parve ritirarsi, stanca di conquista, trascinandosi dietro un bottino di fronde, di rami, di sabbia, di animaletti morti.

L'indomani il sole illuminò il luogo desolato, e la lepre, bagnata e affamata, uscì dal suo nascondiglio e potè riscaldarsi e guardarsi intorno.

Lo stagno era scomparso: un fiume lento e fangoso passava sotto la riva alta che aveva resistito come un argine: e l'acqua continuava a trasportare le sue vittime e il suo bottino.

Ed ecco che fra i rami nudi e le foglie secche e fra mille bollicine che parevano le perle d'una collana rotta, la lepre vide i due leprotti morti. Lunghi stecchiti, con gli occhi spalancati e le orecchie dritte, essi correvano, correvano sull'acqua, sempre l'uno accanto all'altro da buoni fratellini che anche dopo morti si volevano bene.

Oramai la vecchia lepre era proprio sola nell'isola.

A ventisei anni, completamente rovinato finanziariamente, ma ancora bello nonostante gli stravizi della sua prima gioventù, don Elia pensò di ammogliarsi.

Gl'indicarono la nipote di un vescovo, alla quale lo zio doveva lasciare una grossa eredità. Don Elia andò nella piccola città vescovile e riuscì a far innamorare di sè la ragazza. Si chiamava Pasqua: buona, intelligente ma ignorante, questa Pasqua si innamorò di Elia perchè era un nobile e aveva fatto il viaggio apposta per conoscerla.

Il vecchio vescovo adorava la nipote, ma dichiarò subito che il matrimonio sognato e voluto da lei non gli garbava. Perchè aveva sentito parlare di Elia.

Il giovine però si mostrava così pentito dei suoi trascorsi, così risoluto a cambiar vita, che il vecchio vescovo si domandò se non faceva opera meritoria concedendo la nipote in moglie ad un peccatore pentito. “Se rifiuto, pensò il buon vecchio, Elia può ricadere nei suoi eccessi: facendo un buon matrimonio, invece, egli si correggerà davvero.”

E cedette. Elia, del resto, era davvero pronto a cambiar vita e a diventare un buon marito. Il vescovo, tuttavia, non fece la dote a Pasqua: assegnò un tanto al mese alla giovine coppia, e disse francamente allo sposo che se non si comportava bene l'assegno verrebbe sospeso. I due sposi accettarono questa condizione, e partirono in viaggio di nozze.

Dovevano andare a Roma e a Napoli e poichè erano in quei paraggi lo zio li incaricò di fare un'offerta alla Madonna di Pompei.

A Roma i due giovani sposi scesero in un modesto albergo vicino alla stazione. E poichè pioveva dirottamente e la sposa soffriva ancora di mal di mare, si chiusero nella loro camera, decisi a non uscire finchè il tempo non si rasserenava.

Ma mentre chiacchieravano, in dialetto sardo, un cameriere bussò discretamente all'uscio.

Elia, alquanto seccato, aprì.

— Scusi, — disse il cameriere — c'è qui all'albergo, un vecchio sardignolo. Egli pretende di aver sentito parlare i signori in dialetto e domanda se può venire a vederli. È un vecchio, malato.

— Che venga pure — disse Elia.

Il vecchio entro subito dopo. Vestiva in borghese, ma invece del cappello aveva in testa la berretta sarda; il suo viso raso, fra i lunghi capelli grigi, la bocca rientrante, gli occhi verdognoli, avevano una espressione ironica e maliziosa.

— Salute, fratelli, — gridò entrando — perdonerete se mi son preso la libertà di disturbarvi. Ma quando ho sentito parlar sardo mi son rallegrato come se avessi veduto mio padre.

— Salute! — rispose Elia. — Anche noi siamo contenti di vedere un compatriota. Sedetevi. E di qual paese siete?

— Di Barunèi. Montanaro! Sono cugino di don Simone Decherchi.

Elia aveva sentito parlare dei Decherchi, anche loro nobili decaduti.

— E che fate, a Roma? — domandò al vecchio.

— Son venuto per curarmi di una otite, ed anche per soddisfare al mio antico desiderio di vedere il Papa!

— E l'avete veduto? — domandò Pasqua con viva curiosità.

— Non ancora! Ma c'è una persona che s'è incaricata di farmi ottenere un'udienza.

— Quanto mi piacerebbe di vederlo! Sono nipote del vescovo di Olbia, — ella disse con lo stesso accento con cui il vecchio aveva annunziata la sua parentela con don Simone Decherchi.

Intanto Elia ordinava il caffè e liquori.

— Liquori no! Liquori no! — ella disse spaventata. Ma Elia promise di non bere che il caffè.

Il vecchio sedette, e mentre fuori la pioggia scrosciava furiosa, quei tre isolani cominciaronó a parlare del loro paese e dei loro parenti, rievocando, in quella volgare cameruccia d'albergo, tutta la nostalgica poesia della loro terra lontana.

— Adesso mi ricordo, — disse il vecchio; — sì, una volta ho sentito parlare di lei. Ma, dico la verità, si raccontavano storielle curiose. Non si offenderà se dico questo?

— Oh no! Ero una buona lana davvero! Ma adesso son diventato bravo. Non è vero, Pasqua? Non ero cattivo neppure allora! Era il mio tutore che mi faceva disperare. Ero semplice, ingenuo: tutti mi derubavano. Commettevo mille sciocchezze per far dispetto al mio tutore. Adesso però son diventato serio…. Eppoi lo zio vescovo mi ha concesso la nipote a certe condizioni! Se farò ancora qualche sciocchezza lo zio mi riprenderà la sposa.

Egli scherzava, ma Pasqua aggiunse seria:

— Eh, mio zio è un uomo energico. Egli farà di peggio.… se tu non terrai le tue promesse!

— Qual peggior cosa di quella di togliere una bella sposa al proprio sposo? — domandò galantemente il vecchio, mentre beveva l'un dopo l'altro i bicchierini di liquore che Pasqua gli versava; poi aggiunse: — del resto, basta evitare le cattive compagnie. Sono queste che rovinano l'uomo. Tante volte pare sia il dia volo stesso a incarnarsi in un cattivo compagno: egli non ha pace finchè non vi ha rovinato. Io mi chiamo Andria Decherchi: son vecchio, sono sdentato, ma posso assicurarvi che non mi sono fatto mai imbrogliare dai cattivi compagni. Via! via! I cattivi compagni io li ho sempre allontanati da me come si allontana il diavolo.

Intanto s'avvicinava l'ora della colazione. I due giovani sposi vollero mangiare in camera, e invitarono il vecchio. Ma egli disse che aveva già pronta la sua colazione e domandò solo il permesso di far compagnia ai suoi nuovi amici.

— Ma con piacere!

Allora egli andò nella sua camera e ritornò con una piccola bisaccia sarda, dalla quale trasse del pane duro, formaggio e salsicce.

Egli s'era portato a Roma la sua provvista, come quando nella sua isola viaggiava a cavallo da un paese all'altro.

— Tutte le mattine devo andare alla Clinica, per curarmi l'orecchio, — disse, dopo aver inzuppato il suo pane nell'acqua, — ma il pomeriggio l'ho sempre libero. Qualche volta vado a far colazione fuori, ma sempre che posso mangio il mio pane e il mio companatico. Mi sono portato addietro due bisacce di provviste, io! Mia moglie, poi, oggi mi ha mandato un pacco di salsicce. Povera vecchia, essa crede che a Roma non si trovino salsicce! — Sì, sono qui, da una settimana, — prosegui, — ma mi pare di essere mille anni lontano dal mio paese. Questa Roma! Sembra un alveare! E quanti danari ci vogliono! Ma si vedono delle belle cose, però. E i palazzi? Come sono grandi! A mio giudizio, ci son palazzi che valgono centomila scudi. Sì, è un gran diavolo di città, questa, ma bisogna stare attenti per i ladri. Eppoi uno che viene da un piccolo paese, come me, può anche smarrirsi. Per fortuna io ho una buona guida. Ho trovato un amico, un brav'uomo, che è stato una volta in Sardegna, un ricco negoziante, il quale mi fa da guida. Ve lo farò conoscere. A mio giudizio, è il più brav'uomo del mondo. E deve essere anche molto ricco perchè spende come un diavolo.

— Eh, non sarà uno di quei cattivi compagni di cui diffidate tanto? — domandò Pasqua, un po' scherzando, un po' sul serio.

Ma il vecchio protestò; gli pareva un'offesa il dubbio che egli potesse farsi raggirare dal primo venuto.

Nel pomeriggio il tempo si rasserenò e Pasqua volle cominciare il suo giro col visitare la chiesa di Santa Maria degli Angeli.

Nell'atrio dell'albergo i due giovani trovarono il vecchio Andria che li aspettava col suo amico, un bell'uomo alto, vestito, se non con eleganza, con molta ricercatezza. Più che d'un negoziante di formaggi, aveva l'aria d'un commesso di negozio: i capelli neri divisi sulla fronte lucevano di pomata: sul viso paffuto, rosso, due baffi neri dritti mettevano una nota ardita, mentre gli occhi celesti esprimevano una grande mitezza di animo. Sulla sua cravatta brillava una grossa perla, e tre ricchi anelli scintillavano sulle sue dita grassocce e rosee.

Parve molto felice di conoscere altri sardi, e disse d'aver visitato anche il paese dove era nato Elia; infine si mise a disposizione dei giovani sposi.

Sulle prime Elia diffidava. Il sardo è diffidente per natura: il giovane sposo, inoltre, era stato troppo raggirato e sfruttato durante la sua prima gioventù, per lasciarsi abbindolare nuovamente da un furbo qualunque. Egli avrebbe volentieri fatto a meno della compagnia del negoziante; ma l'uomo degli anelli aveva così belle maniere che anche a Pasqua sembrò un perfetto gentiluomo.

— Cominciamo dunque col visitare tutti assieme la chiesa di Santa Maria degli Angeli.

L'uomo degli anelli doveva essere anche discretamente colto, perchè cominciò a far nomi di autori e a indicare le più belle figure dei quadri.

Il vecchio Andria trotterellava dietro i tre; e di tanto in tanto faceva qualche domanda interessante:

— E quanti metri può esser largo quel quadro?

— Quanto può costare questa statua?

— Tutta la chiesa quanto può costare?

Usciti di chiesa, si fermarono un momento nella piazza. Il lastrico ancora bagnato scintillava al sole, e lo zampillo della fontana si slanciava in alto, verso il cielo azzurro, con un impeto di gioia. Le nuvole scendevano verso oriente; tutta la via Nazionale brillava sotto il sole al declino, e nell'aria errava un profumo di crisantemi.

I nostri viaggiatori si fermaròno ad ammirare la fontana: e gli occhi di Elia si accesero, mentre l'uomo degli anelli spiegava il significato delle Najadi della fontana, e il vecchio Andria diceva:

— A mio giudizio, questa fontana costa ventimila lire. Quelle donne, però, potevano esser vestite almeno con la camicia!

L'uomo degli anelli propose di prendere una carrozza e di fare un rapido giro per la città. Prima, però, volle condurre al caffè i suoi nuovi amici, e regalò a Pasqua un pacchettino di caramelle. Tutte queste gentilezze finirono col conquistare l'animo dei giovani sposi.

Mentre attraversavano via Nazionale e il Corso, e si dirigevano al Pincio, il giovane negoziante riprese a raccontare dei suoi viaggi in Sardegna, interrompendosi per accennare i punti più interessanti della città, o per indicare i personaggi più importanti che si vedevano in carrozza o lungo i marciapiedi del Corso.

Dalla terrazza del Pincio il vecchio Andria misurò con gli occhi la vastità della piazza del Popolo e la lunghezza dei ponti sul Tevere.

Poi volse gli occhi maliziosi sul glorioso paesaggio, misurò l'altezza della cupola di San Pietro, e disse come fra sè:

— A mio giudizio, Roma vale cento milioni.

L'uomo degli anelli si rese indispensabile ai due giovani sposi: quasi tutti i giorni andava a prenderli all'albergo e li conduceva in giro, incaricandosi di pagare il cocchiere, e di dare la mancia ai custodi dei monumenti.

Egli aveva sempre il portafogli gonfio di biglietti di banca nuovi fiammanti. Un giorno condusse i suoi amici fuori porta San Giovanni e indicò loro le porte dei suoi magazzini.

Le porte erano chiuse, poichè egli era un negoziante all'ingrosso e trattava solo con sensali o con clienti i quali più o meno gli davano appuntamento quando si recavano da lui; ma su una delle porte si leggeva, su una targhetta, il suo nome e cognome.

Elia, pur convinto di aver a che fare con una persona agiata e distinta, diffidava ancora. Non capiva perchè il negoziante si mostrasse tanto premuroso con loro. Forse Pasqua cominciava a capire qualche cosa, ma si guardava bene dal dirlo. Ecco, le era parso che l'uomo le facesse un tantino la corte! Egli la guardava fisso, quando gli altri non lo osservavano, e coglieva tutte le occasioni per rivolgerle paroline galanti.

Sulle prime ella si spaventò, ricordandosi che era nipote d'un vescovo e sposa da dieci giorni appena.

Le pareva mostruoso che il giovane negoziante le dimostrasse tanta ammirazione: ma si guardò nello specchio, vide che era molto graziosa e pensò:

— Si vede che ai continentali piacciono molto le donne sarde.

D'altronde ella si credeva invulnerabile; e ricordava ciò che diceva spesso lo zio vescovo:

— Il merito del cristiano consiste nel resistere alle tentazioni.

Lasciamo dunque che il continentale guardi. I suoi occhi celesti, così miti e dolci, non incutono un soverchio terrore: se mai, egli è un adoratore timido e rispettoso. Inoltre, i due giovani sposi dovevano partire fra pochi giorni: forse non avrebbero più riveduto il loro amico.

Dal canto suo Elia incontrava gli occhi celesti ogni volta che sollevava i suoi dopo aver ammirato, lungo i marciapiedi, qualche bella figurina di donna. Egli ammirava specialmente le donne brune: con questo, forse, rendeva omaggio a sua moglie.

— Anche a me piacciono molto le brune: — pareva gli dicesse lo sguardo degli occhi celesti — Sono contento che i nostri gusti s'incontrino.

E il vecchio Andria, che quando non andava in Clinica seguiva fedelmente gli sposi, guardava dal canto suo le donne, fossero brune o bionde, e diceva:

— A mio giudizio, queste ragazze potrebbero benissimo stare a casa a lavorare: da noi le donne escono poco: qui invece si vedono sempre in giro come le volpi.

Tutte le mattine, svegliandosi, Pasqua diceva:

— Bisogna ricordarsi dell'offerta alla Madonna di Pompei!

Ed Elia contava i denari del suo portafogli.

A dire il vero, i denari sparivano in modo inquietante: una sera, facendo bene i conti, egli si accorse che gli rimaneva giusto il tanto d'andare per pochi giorni a Napoli e Pompei, come lo zio vescovo desiderava, e poi tornare in Sardegna. Il viaggio, andata e ritorno, era già pagato. I denari per l'offerta erano dentro una busta.

Decisero quindi di partire. Pasqua era do lentissima perchè nonostante tutte le raccomandazioni dello zio e le promesse del negoziante non riusciva a vedere il Papa: ma come fare? I denari se ne andavano: bisognava imitarli per forza!

L'ultimo giorno della loro permanenza in Roma gli sposi, accompagnati dal vecchio e dal negoziante, andarono a Sant'Agnese a visitare le catacombe.

Appena vide di che si trattava, il vecchio non volle andare avanti, gridando che di grotte ne aveva vedute abbastanza.

Il frate che li accompagnava dovette tornare indietro portandosi via la sua torcia. Il negoziante, Pasqua, ed Elia che teneva in mano un cerino, rimasero fermi davanti a una lapide umida di cui il frate aveva cominciato a spiegare i caratteri.

— E se il frate non tornasse? — disse Pasqua, ridendo. Ma il suo riso aveva una lieve vibrazione di paura.

Elia rispose, con la sua voce sempre alquanto ironica:

— Diventeremmo martiri anche noi! Nostro zio sarebbe contento. — E per far paura a sua moglie, spense il cerino.

E subito ella provò uno smarrimento profondo, un senso di paura, come se davvero il frate con la torcia li avesse abbandonati laggiù. Un uomo la baciava, al buio: e quest'uomo non era suo marito.

Elia riaccese il cerino: il frate ritornò, e con voce cadenzata ricominciò a spiegare il significato della lapide. Ma Pasqua non capiva più nulla. Le pareva di aver commesso un peccato enorme perchè non avea gridato nel sentirsi baciare da uno che non era suo marito. Ma nello stesso tempo provava un senso di vanità e pensava:

— Gli ho destato una ben forte passione, se egli non ha avuto paura di compromettersi!

Quando uscirono nel cortiletto ove rinasceva l'erba d'autunno, trovarono il vecchio Andria, che ancora tutto scombussolato e inquieto, borbottava:

— Che cosa dicono? Che in quelle grotte lì ci fossero dei santi? Diavoli, dico io, ci dovevano essere: è un luogo di diavoli, a mio giudizio.

Pasqua, un po' pallida in viso, pensò:

— Il vecchio ha ragione.

Per finir bene la gita, andarono tutti assieme al Ponte Nomentano. Arrivati sull'altura, il negoziante fece portare da una vicina osteria il vino ambrato dei Castelli romani. Ma Pasqua non volle bere. Seduta sull'erba, ella guardava il tramonto e sentiva un'acuta nostalgia. Il paesaggio dolce e tranquillo le ricordava la sua terra lontana, il suo mondo solitario, dove le donne vivono e muoiono senza essere tentate dal diavolo, come succede nelle grandi città.

E mentre ella contemplava il paesaggio roseo che si copriva di vapori violacei, e il sole che sembrava un grande rubino sull'anello d'oro dell'orizzonte, i tre uomini, seduti sotto il riparo di canne, in cima all'altura, bevevano allegramente e parlavano di cose che col tramonto non avevano relazione. Il negoziante proponeva di andare al Circo, ed Elia accettava con entusiasmo. Pasqua, interpellata, rifiutò. Lo zio vescovo diceva sempre che i teatri ed i circhi sono “luoghi infernali” pieni di tentazioni. E di tentazioni ella non voleva più combatterne.

Al ritorno dalla passeggiata, il vecchio Andria colse un momento in cui Elia e il negoziante non potevano sentirlo, per farle una confidenza:

— Fra giorni spero di vedere il Papa!

— Ma come? — ella domandò con invidia.

— Tutto si muove con questo.… — egli disse, facendo atto di contar denari. — Eh, io sono furbo: l'ho capito subito! Peccato che anche voi non l'abbiate capito!

— Ma come? — ella ripetè.

— Ecco, bisogna fare un'offerta! Io la farò; ma almeno, quando tornerò al mio paese, potrò dire a tutti: voi state zitti davanti a me! Io ho veduto il Papa e voi no. A mio giudizio, questo sarà il maggior vanto ch'io possa darmi.

Elia e il negoziante andarono al Circo; ma i primi due numeri furono così noiosi che l'amico disse:

— Ti ho offerto un bel divertimento! Andiamocene. Se vuoi, — aggiunse — ti conduco in un luogo più divertente. Hai mai veduto una casa da giuoco? Andiamoci, solo per vedere.

Elia accettò. Un tempo era stato un giocatore disperato. Dunque andarono. Era una casa di lusso, frequentata da uomini ben vestiti, eleganti, da artisti, da studenti; l'amico negoziante indicò ad Elia un signore alto e grosso, pallido ma impassibile, e un giovane biondo dai lunghi baffi: e gli disse che quei due erano un principe ed un ministro. Un uomo piccolo, coi capelli lunghi e con la barba a punta, che pareva un artista, s'avvicinò e salutò il negoziante.

— Non giochi? — gli domandò.

— Stasera no! Siamo venuti solo per vedere, con quest'amico forestiere.

— E che ha paura di giocare? Si può perdere, ma si può anche vincere, — disse lo sconosciuto con accento beffardo.

Elia ebbe vergogna dei suoi buoni propositi. L'antica passione lo vinse.

— Posso anche giocare — disse con disprezzo. — E se anche perdo non mi uccido! — E sedette al tavolo verde. Dapprima vinse, poi, come sempre accade, perdette il denaro vinto e il danaro suo, poi vinse ancora, perdette ancora. Rimase con dieci lire in moneta d'argento e con la busta che conteneva l'offerta per la Madonna di Pompei. Egli si ricordò di Pasqua che lo aspettava, sola, nell'albergo; vide davanti a sè la figura solenne del vescovo di Olbia. Che fare? Guardò con rabbia l'amico negoziante, che lo aveva condotto in quel luogo maledetto; ma gli parve di non riconoscerlo più. L'amico s'era trasformato in nemico: aveva gli occhi non più dolci e sereni ma verdi per la cupidigia e l'ansia del giocatore.

Elia si sentì perduto. Tutti i suoi cattivi istinti lo ripresero. Dimenticò Pasqua, dimenticò la figura del vescovo d'Olbia. Trasse dalla busta i biglietti che non erano suoi, e li giocò. E li perdette. Rimase con le dieci lire d'argento. Giocò; perdette ancora. Si alzò, livido di collera. Ma l'amico gli disse che poteva ancora giocare sulla parola. Egli giocò sulla parola e vinse: potè rimettere entro la busta, se non gli stessi biglietti che ne aveva levato, altrettanti per la stessa somma; e allora parve svegliarsi da un sogno. Si alzò e se ne andò. Il negoziante rimase nella casa da gioco, ed egli non lo rivide mai più.

Pasqua dormiva quando egli rientrò. Era già l'alba. Egli battè all'uscio del vecchio, e gli raccontò ogni cosa come ad un padre.

— Avevate ragione voi, — gli disse. — A volte il diavolo prende l'aspetto di un cattivo compagno. Come farò, adesso? Non m'è rimasto un centesimo, tranne i denari per l'offerta.

— Puoi telegrafare al vescovo, che ti mandi altri denari.

— Ah, no! Non voglio umiliarmi. Piuttosto riparto subito: il viaggio è pagato. E voi, voi state attento al vostro famoso amico.

Ma il vecchio sorrise, e ripetè che nessuno, neppure il diavolo in persona, poteva “imbrogliarlo”. Intanto Elia riusci a farsi prestare cento lire da lui. E con queste cento lire egli e Pasqua andarono a Pompei. L'amico non si lasciò più vedere e Pasqua ne fu contenta.

E un giorno il vescovo, che era tutto felice per il ritorno dei suoi cari nipoti, ricevette da Pompei una lettera raccomandata, con dentro i biglietti che i suoi cari nipoti avevano offerto alla Madonna. I biglietti erano falsi: imitati alla perfezione, ma falsi.

Il buon vescovo fu colto da un deliquio, tanto la cosa gli parve abbominevole.

Appena rinvenne chiamò Elia e gli domandò qualche spiegazione. Elia impallidì, si confuse, si contraddisse. Fra le altre cose raccontò di aver prestato la somma all'amico negoziante; l'amico negoziante gli doveva aver restituito i biglietti falsi.

Allora il vescovo chiamò Pasqua e le domandò notizie di questo amico negoziante, del quale i due sposi evitavano di parlare. Ella arrossì, si confuse, disse che l'amico era un riccone disinteressato e generoso. I due sposi finirono col bisticciarsi. E il buon vescovo vide torbido in tutta questa faccenda. Elia finì col confessare il suo errore: Pasqua tacque il suo. Ma lo zio mantenne la sua minaccia, e fu così che egli tolse l'assegno mensile ai due giovani sposi.

Il castigo durò per qualche mese. Pasqua l'accettò come una espiazione del suo peccato di vanità, ma Elia non potè rassegnarsi. Scrisse alla questura di Roma, ma gli risposero che il negoziante del quale egli faceva il nome era un'ottima persona e non aveva gli occhi celesti, nè anelli alle dita.

La sola soddisfazione che Elia potè avere, più tardi, fu di sapere che anche il vecchio Andria si era lasciato truffare. Egli aveva versato una discreta somma per ottenere l'udienza dal Papa, ma dopo la partenza degli sposi, l'amico era scomparso. E il vecchio non aveva dato querela per paura che venisse diminuita la sua fama di uomo furbo.

Il vecchio paesano fermò il suo cavallo davanti al portoncino corroso sul cui frontone biancheggiava una croce dipinta con la calce.

Non c'era da sbagliarsi. Il vecchio ricordava le parole del pastore di Burgos:

“La casa di Nanascia sa marghiargia (la fattucchiera) è vicina alla chiesa. Badate, ziu Tòmas, appena arrivato al paese vedrete una straducola solitaria, dove c'è un pozzo ombreggiato da un fico: proprio a fianco del pozzo c'è un portoncino corroso, con una croce bianca sul frontone. È la casa della maga. Non c'è da sbagliarsi. Io ci sono stato parecchie volte, ed ho avuto da Nanascia una medicina con la quale ho fatto innamorare una donna”.

No, non c'era da sbagliarsi: tuttavia ziu Tòmas esitava. E se c'era gente, in casa della maga? Egli non voleva esser veduto.

Nel suo paese lontano godeva fama d'uomo saggio e timorato di Dio; che avrebbe detto la gente sapendo che egli andava a consultare una fattucchiera, una donna del diavolo? Ma che volete? La disperazione fa impazzire anche l'uomo saggio.

La straducola, come aveva detto il pastore di Burgos, era solitaria, bianca di sole e di calce. Un silenzio di cimitero regnava sul villaggio tutto bianco, sopra il quale la montagna calcarea ínnalzava i suoi vertici d'un candore azzurrognolo, qua e là solcati come da vene d'ombra.

Anche il cielo era chiaro, metallico: allo zenit, sopra la testa di ziu Tòmas, il sole velato, senza raggi, pareva una grande luna misteriosa.

Il vecchio stava per smontare, quando un uomo, un borghese alto e grasso, vestito di nero e con una catena d'oro scintillante sul petto sporgente, uscì dal portoncino socchiuso della maga.

Ziu Tòmas lo guardò, e gli parve di aver altra volta veduto quel viso largo, giallognolo e cascante, del quale gli occhi e i baffi neri, il naso, la bocca, il mento rotondo, si notavano per la loro estrema piccolezza. Sì, altra volta.… dove, quando? Ziu Tòmas non ricordava bene; ma gli pareva d'aver altra volta veduto quel viso caratteristico, e di averlo trovato ridicolo. E fu contento nel vedere che il borghese si allontanava senza neppure guardarlo.

Smontato, picchiò forte con la mano aperta, ma nessuno apparve, e il rumore dei colpi battuti al portoncino si spense nel silenzio della strada.

Allora entrò tirandosi dietro il cavallo, e si trovò in un cortiletto desolato, che pareva scavato nella pietra calcarea: la casetta in fondo al cortile sembrava disabitata; la porta corrosa, e le due finestruole simili a feritoje, erano spalancate.

— Bella! Questa è la casa di Mossiù Nemmos1) Il signor Nessuno. — pensò il vecchio: poi gridò: — ohè, gente?

Nessuno.

Ziu Tòmas si guardò attorno, poi, dopo aver cacciato sotto una pietra l'estremità della cordicella del cavallo, entrò nella casetta; e si trovò in una vasta stanza affumicata, il cui mobilio consisteva tutto in una cassa nera scolpita, in una panca e in un recipiente di sughero colmo d'acqua sulla quale galleggiava una scodellina di sughero.

Una scala a piuoli conduceva, per una botola, alla stanza superiore.

Ziu Tòmas chiamò ancora “ohè, gente” e poichè nessuno rispondeva salì con diffidenza la scaletta e mise la testa entro la botola. Vide un'altra stanzaccia, non meno squallida della prima: dalle pareti, gialle per il fumo, pendevano molti quadretti con la cornice nera; fra due casse, una nera e l'altra rossiccia, scolpite con arte primitiva, sorgeva un letto di legno a baldacchino, privo di tende, e su questo letto, coperto da una coltre di lana gialla, giaceva una donna addormentata.

Sopra una cassa stava un cestino di canne colmo di lana nera scardassata; accanto al cestino un piatto di stagno con alcune monete di rame e d'argento.

Ziu Tòmas esitò ancora, prima di entrare. Era questa Nanascia, la famosa maga? Non sembrava vecchia, come gliel'avevano descritta: era pallidissima in viso, con gli occhi socchiusi, vitrei, le bocca stretta, i capelli grigi arruffati, uscenti da una cuffia nera che circondava come d'un'aureola funebre quel viso cadaverico: ma il suo corpo era quello d'una donna ancora giovane, col petto abbondante, il collo bianco, le mani, abbandonate sulla ruvida coperta gialla, piccole e grasse.

Il vecchio ricordò ch'era venerdì, e che erano circa le tre pomeridiane. Sì, era l'ora della morte di Nostro Signore Gesù. Verso quell'ora, tutti i venerdì, la donna veniva colta da un sonno profondo, durante il quale ella parlava tutte le lingue della terra, e indovinava ogni mistero e prediceva l'avvenire e indicava i rimedi per tutti i mali del corpo e dell'anima.

— Bella! Sono arrivato al momento giusto, — egli pensò avanzandosi in punta di piedi, per non svegliare la donna.

Ella non si mosse: pareva morta.

Ziu Tòmas si guardò ancora attorno; fissò gli occhi sul piatto delle monete e ricordò che il pastore di Burgos gli aveva detto:

“Ella non vuole denari; tuttavia coloro che vanno a consultarla le lasciano qualche moneta, secondo le loro forze”.

— Com'è vero Cristo, io le darò un marengo d'oro, se ella mi aiuta, — pensò il vecchio mettendo la mano sulla cintura dove teneva nascosti i denari. E subito trasalì, perchè la dormente, quasi indovinasse il pensiero di lui, diceva con voce monotona, agitando appena le labbra azzurrognole:

— Uomo mio, io non voglio nulla. Siedi, e dimmi cosa vuoi. Tu vieni di lontano, e sarai stanco. Siedi.

— Vengo di lontano, — rispose il vecchio, fissando i suoi occhi maliziosi sul viso della dormente.

— Che lingua vuoi che ti parli?

Saldu, saldu! E che siamo d'Oriente? — egli esclamò. — Parla sardo. Sono sardo e vecchio anche!

— Lo so. So tutto. Vedo tutto. Ti vedo; però se tu credi che io non dorma pungimi con una spilla. Vedrai: io dormo il sonno profondo di quelli che vanno all'altra vita e ne ritornano. Pungi, pungi, uomo.

Il vecchio fu tentato di pungerla davvero; poi disse con la sua voce sarcastica:

— Non ti pungo, non sono venuto per questo. Si pungono i pezzi di sughero e le foglie di fico d'India, per fare le magìe: i cristiani non si pungono. Se non avessi creduto non sarei venuto. Io vengo di lontano. Ho viaggiato due giorni e mezzo e due notti: sono vecchio e sono stanco. Facciamo presto.

— Facciamo presto, — ripetè la donna. — Sì, vedo che sei vecchio. Sei basso, ma sei robusto: hai il viso sbarbato, rosso come un'arancia: hai due riccioli bianchi sulle orecchie. I tuoi occhi sono maliziosi come quelli d'un giovinetto. Sei vecchio, ma sembri giovane. Sei vedovo: hai avuto molti figli: hai un segreto.

— Oh bella! Indovina, sì, indovina qualche cosa; ma non tutto. — pensò ziu Tòmas. E la donna indovinò il suo pensiero:

— Indovino qualche cosa? Potrei indovinar tutto, ma tu vuoi che io faccia presto. Per sapere, per indovinare, ho bisogno di lottare contro gli Angeli verdi che mi circondano e mi nascondono il libro della verità. Dimmi che cosa vuoi.

— Voglio una medicina, — disse ziu Tòmas, piegando tristemente il capo. — Voglio una medicina per una persona che da parecchi anni soffre orribilmente. Ho consultato per lei tutti i medici della Sardegna. Nessuno ha potuto guarirla. Ho consultato tutte le persone sapienti, tutti i sacerdoti, tutti i maghi e le fattucchiere dei nostri paesi. Nulla! Ora sono venuto da te. Aiutami, in nome di Nostro Signore, morto in quest'ora sulla croce! Aiutami, donna, farai un'opera meritoria. Non vengo a domandarti quello che ti domandano gli altri; non voglio dar filtri alle donne, non voglio far morire lentamente il mio nemico, non voglio ritrovare un tesoro o vincere una lite facendo la magìa ai giudici. Voglio soltanto che una persona a me cara, la più buona e la più bella della terra, finisca di soffrire. Aiutami, Sono ricco, ti darò quello che mi domanderai.

Parlando, egli s'era animato. Il suo viso roseo, sulle cui guancie i due riccioli argentei segnavano come due fedine, diventava livido: gli occhi maliziosi si velavano di lagrime.

— Puoi dirmi almeno la malattia? — domandò la donna. — Potrei indovinarla, ma tu hai fretta. Che malattia è?

— Non lo so! Non lo so! — disse il vecchio desolato. — Se l'avessi saputo non sarei venuto da te. È un male cattivo, un male orribile. Non venga neppure al nostro peggiore nemico!

— Bene, lasciami un po'vedere: lascia che io legga un momento nel libro della verità.

Passarono alcuni momenti. La donna sollevò tre volte le braccia, le protese in avanti con forza, quasi per respingere un ostacolo invisibile, poi le lasciò ricadere pesantemente sulla coltre gialla.

Il vecchio guardava e, nonostante il suo dolore e la sua fede, provava un senso di diffidenza: sentiva che la donna fingeva.

— Ritorna fra settantasette ore: ti darò la medicina. Va, ritorna.

— Sant'Eusebio mi aiuti! Che farò io in questi tre giorni? — esclamò ziu Tòmas, ed i suoi occhi maliziosi sorridevano ed il suo viso ritornava roseo e sarcastico.

Ma la donna non rispose oltre.

Che fare? Dove andare? Per un momento ziu Tòmas pensò di recarsi a Nuoro; ma poi ricordò che un viandante, incontrato quella mattina e col quale aveva fatto un buon tratto di strada, gli aveva detto:

— Vado alla festa della Madonna del Buon Cammino, che dura tre giorni: e conto di spassarmi molto.

E ziu Tòmas decise di recarsi alla festa del Buon Cammino. Non che avesse una gran voglia di divertirsi, ma non sapeva come passare quelle settantasette ore. Dopo aver chiesto qualche indicazione, si diresse verso la costa fra Orosei e Dorgali.

La chiesetta della Madonna del Buon Cammino sorge in mezzo ad una brughiera, fra i cisti e i lentischi il cui verde profilo si disegna sullo sfondo turchino del mare.

Oltre i paesani e i pastori di Dorgali e d'Oliena, ziu Tòmas vide intorno alla chiesetta una vera folla di mendicanti. I mendicanti sardi camminano molto, recandosi dall'una all'altra festa campestre; sono quindi devoti alla Madonna del Buon Cammino, che può dirsi la loro patrona.

E fra la turba di mendicanti il vecchio riconobbe con meraviglia una sua compaesana, una donna che nella sua infanzia aveva domandato l'elemosina, ma cresciuta poi e diventata una bella giovane era riuscita a farsi sposare da un uomo benestante, del quale era vedova.

— E cosa facciamo qui, Liè? Sei ricaduta in miseria? — le domandò sorpreso.

— State zitto, — disse Liedda, vergognosa e supplichevole. — Sono venuta per voto. Non lo dite a nessuno: non dite chi sono.

— Bella! — egli esclamò, e promise di star zitto.

E non sapendo che fare, sedette su una pietra, all'ombra delle macchie fra le quali si apriva il sentiero; e si divertì a veder con quale disinvoltura la finta mendicante chiedeva l'elemosina a tutti i passanti.

— Vedete, — ella gli diceva, — tutti i soldi che ricevo, li dò poi alla Madonna del Buon Cammino, benedetta Ella sia. I miei parenti credono ch'io sia andata a Nuoro per affari. Chi mai poteva credere che voi sareste venuto da così lontano, ziu Tòmas? Ah, voi non mi tradirete, vero? Come sta vostra nipote Maria? Senza dubbio anche voi siete venuto per un voto.… per lei….

Il vecchio non rispose: al ricordo della malata il suo viso si oscurò. Ma dopo un momento egli riprese a ridere ed a scherzare; e diceva di volersi mettere anche lui a chiedere l'elemosina, quando d'un tratto balzò in piedi, sorpreso, senza accorgersi che anche Liedda si turbava.

Un uomo vestito di nero, col viso giallognolo, s'avanzava a cavallo per il sentiero. Sì, era il borghese che ziu Tòmas aveva veduto uscir dalla casa della maga: e adesso il vecchio lo riconosceva, adesso ricordava benissimo di averlo veduto un'altra volta, in una triste circostanza. Liedda non domandò l'elemosina al nuovo arrivato, e questi passò oltre, sul suo cavallo nero, senza guardare il vecchio e la finta mendicante.

Ziu Tòmas tornò a sedersi.

— Mi sembra di conoscer quell'uomo — disse piano, quasi parlando fra sè. — È un medico, sì, un bravo dottore. Una volta egli venne al nostro paese ed io gli feci veder Maria.

— Sì, sì, e mi conosce, — disse l'altra, spaventata. — Dio, Dio, che vergogna! Voglio nascondermi. Dovevano capitare tutte a me quest'oggi.

— Ma se sei venuta per voto! Oh bella, e che, una persona non può fare il voto che le pare e piace?

— Oh no, oh no! — esclamava la finta mendicantè, raccogliendo la sua bisaccia. — Andiamocene, andiamocene, ziu Tòmas. Partiamo. Non voglio più restare.

— Figlia del cuor mio, io non posso partire: ho un affare….

Ella insistè, ma egli non volle muoversi.

— D'altronde, chi sa se ti ha riconosciuto? Per una volta che t'ha veduto.

— Ebbene, no, sentite, — confessò Liedda, — egli mi conosce molto bene. Egli si chiama dottor Suelzu: era amico di mio marito e conosce tutti i miei parenti. Se loro sapessero quello che io faccio, ora, mi lapiderebbero. Ed egli andrà certamente ad accusarmi: è uomo da farlo: un mezzo matto.

— Ma no, cristiana! Ti dico che, trattandosi di un voto, è anzi cosa meritoria. Senti, una volta ho sentito raccontare da un militare che è stato in continente, che le signore di là, le più ricche, fanno certe feste, dove va molta gente: e loro, quelle riccone, domandano l'elemosina, e poi, con quel denaro, fanno molte opere buone. È la stessa cosa.

— Oh no, oh no! È altro, è altro! — mormorava Liedda.

Ma infine si calmò e cominciò a parlar male del misterioso dottore.

— È matto, sapete. È stato medico condotto in parecchi paesi e da per tutto lo hanno cacciato via. È stato anche sotto processo perchè diede il veleno a un uomo che aveva un cancro inguaribile, e lo fece morire prima dell'ora. Così questo dottor Suelzu è caduto in miseria, ed ora ha una lite col suo fratellastro, col quale si odiano a morte.

— Ah, egli ha una lite? — domandò ziu Tòmas, pensieroso, spiegandosi la visita del medico alla maga.

— Sì, ha una lite. Pare che il fratellastro si sia impossessato di tutti i beni dei dottor Suelzu: dicono che, dopo questo fatto, il dottore sia diventato più matto di prima. Quando parla dice sempre cose stravaganti: non bisogna credere a quello che dice….

— Oh bella! oh bella! — mormorava ziu Tòmas. E ridiventò triste.

Verso mezzogiorno Liedda contò i soldi che i passanti avevano gettato nella sua bisaccia.

— Uno scudo, — disse, raccogliendoli in un fazzolettino bianco. — Non c'è male per mezza giornata.

— Eh, ti vedono vestita decentemente, giovane ancora: tutti credono che tu sii una vedova decaduta e tutti ti dànno il loro obolo. Ecco tutto, cristiana! Quasi quasi mi metto a chiedere anch'io, ripeto.

— Adesso vado e getto i soldi nella cassetta della Madonna: poi mi farò dar da mangiare, anche. Speriamo non mi veda il dottor Suelzu. — Disse la vedova, alzandosi ed accomodandosi la benda nera intorno al viso, in modo che si vedevano appena gli occhi e il naso. — Voi state qui?

— Vado in cerca del mio cavallo: ho fatto colazione tardi, ed ora ho più sonno che appetito.

Egli si alzò e cercò un posto per collocarsi, ma gira e rigira ritornò verso il sentiero, dietro la macchia di lentischio alla cui ombra poco prima stava seduto. E si gettò fra l'erba alta e folta, che quasi lo coprì interamente. Le mosche ronzavano fra gli alti papaveri, il cielo era chiaro, dolce, lontano. Scostando i ciuffi dell'erba il vecchio poteva vedere il suo cavallo a pascolare, e fra le gambe rossastre del cavallo, come in una bizzarra cornice, il quadro luminoso e melanconico del paesaggio, la linea verde della brughiera sulla linea violetta del mare tranquillo.

Dalla spianata davanti alla chiesetta, di là dal sentiero, arrivava il lamento di una fisarmonica, e una voce che cantava con infinita tristezza una canzone giocosa:

Da chi su mustaròlu appo toccadu, Tenzo a muzère mea filonzana…. Issa non biet abba' e funtana Si non binu nieddu isseperadu.1) Dopo che ho provato il mosto, - ho mia moglie filatrice, - che non beve più acqua di fonte, - ma solo vino nero scelto.

Il vecchio aveva sonno, era stanco e triste. Quella musica monotona gli diede un senso di nostalgia, gli ricordò la casa lontana, melanconica, la sua cara malata.

E gli vennero le lagrime agli occhi al pensare che egli così vecchio, così disgraziato, era partito della sua casa con tanta tristezza e spinto dalla disperazione, era capitato in quella festa come uno che vuole divertirsi.

Così si addormentò, con due lagrime tremolanti negli angoli degli occhi.

.…Sognava? No, era proprio la voce di Liedda, la finta mendicante.

— Dottore mio, per l'anima de' suoi morti, non dica niente. Missignoria,2) Mia Signoria. non mi rovini:

se lo sanno loro mi sotterrano viva come una tarantola. È stato proprio un voto, le dico: vada a vedere se ho portato i soldi a Nostra Signora, benedetta sia.

— Liè, è la terza volta che ti vedo a mendicare, — disse una voce rauca e triste, una voce che rimproverava e compativa. — Liedda! Liedda! È stato sempre per voto?

— Sempre, dottore mio bello, sempre!

— Ed io ti dico invece che non è per voto. Raccontalo alle galline il tuo voto, non a me. È una malattia la tua; tu sei stata mendicante da bambina, ed ora ritorni al tuo vizio, come altri ritornano al vizio del vino, al vizio del giuoco e delle donne. Vergognati; vergognati.

— È un voto, — insisteva la donna, con voce incerta. — Le dico, è un voto.

— No, bella mia, i denari te li porti a casa. Questo è il voto. Del resto, non importa nulla. Hai veduto, stamattina ho finto di non vederti. È una malattia la tua, ma non è dannosa per gli altri; così fossero tutte le altre malattie.

Per un momento le due voci tacquero, poi la voce rauca riprese:

— E quel vecchio, quel tuo compaesano, che ha?

— Lui, niente! È sano come un pesce È una sua nipote, che è malata, l'unica sua nipote, Maria Comita. Quella sì, è malata. È pazza inguaribile, e soffre anche del mal caduco, Dio ce ne scampi e liberi.

— Ah, sì, mi ricordo: una volta la visitai. È ricco quel vecchio?

— Ricco, sì, ricco come il mare. Ma a che gli serve? Tutti i suoi figli sono morti. Maria Comita è la sua unica, la sua ultima nipote, ed egli ha paura di morire prima di lei, perchè dopo, Dio sa che accadrà della disgraziata.

— Ma perchè non la manda al manicomio? Quelle sono malattie delle quali non si muore e non si guarisce.

— Dottore mio bello, se ziu Tòmas la sentisse! Le salterebbe addosso. Egli ama la nipotina di un amore sconfinato: preferirebbe ucciderla, piuttosto che mandarla al manicomio.

— È meglio che ella muoia, sì, — disse la voce rauca. — Tutti i pazzi, tutti i malati inguaribili come Maria Comita dovrebbero morire; l'opera più pietosa che uno possa fare è di ucciderli.

— Se tutti i pazzi morissero, — esclamò la donna con ironia, — pochi uomini resterebbero vivi!

L'altro non rispose. La donna sospirò.

— Che vita, che vita, la nostra!

Nell'ombra della macchia ziu Tòmas piangeva come un bambino, mettendosi un ciuffo d'erba in bocca per soffocare i suoi singhiozzi.

Il dottore e la donna continuavano a discorrere, Lia domandava al dottore della sua lite: e l'uomo si lamentava, dicendo che la sua lite andava male. E imprecava come un paesano, contro il fratellastro che lo aveva rovinato.

Ma ziu Tòmas non ascoltava più: ne aveva abbastanza dei suoi guai per potersi interessare a quelli degli altri.

Più tardi però rivide il dottor Suelzu, nella spianata della chiesa, dove i pastori ed i paesani ballavano il ballo sardo.

I due uomini si guardarono con diffidenza; poi ziu Tòmas s'avvicinò al borghese e lo salutò.

— Salute, signor dottore. Lei non mi riconosce, ma io mi ricordo bene di lei.

Il dottore lo guardava, coi suoi piccoli occhi timidi e quasi spaventati. Il vecchio lo pregò di accettare un “invito” al banco del liquorista lì vicino: il dottore accettò e bevette molto. Anche il vecchio bevette e cominciò a parlare di sua nipote, raccontandone con frasi pietose le atroci sofferenze.

— Perchè siamo nati? — domandava, prendendo fra le dita il lembo della giacca del dottore e scuotendolo. — Dica lei, che è dottore: perchè siamo nati? Per soffrire così? C'è Dio?

Il dottore sollevò un dito e fece cenno di no. E mentre ziu Tòmas continuava ad inveire contro Dio e contro la natura, il Suelzu lo guardava dall'alto; e non parlava, e pareva triste ed imbarazzato, quasi mortificato che Dio e la natura fossero così ingiusti e crudeli.

— Io sono stato sempre un uomo serio, — continuò il vecchio. — Allegro sì, ma non sciocco: il dolore mi ha ridotto come un bambino, adesso. Non credo più a nulla e credo a tutto! Credo persino alle cose che un tempo mi facevano ridere. Sì, lei ha veduto.… sono andato dalla fattucchiera.… sono andato per chiederle una medicina….

— Quella donna è furba, — disse allora il dottor Suelzu, animandosi. — Anch'io sono capitato da queste parti per un affare, e sono andato a vederla.… per curiosità: è furba, sì, è furba!

— Ma indovina, vero, qualche volta? me lo dica, dottore mio, me lo dica in sua coscienza; lei ci crede?

Il vecchio era diventato ansioso: aveva bisogno di credere. Il dottore lo guardò. Ebbe pietà di lui?

— Qualche volta sì, — disse sottovoce. — Ciò si spiega col fenomeno detto suggestione.

— Oh, bella! — sospirò ziu Tòmas, mentre il dottore gli spiegava alla meglio in che consisteva il fenomeno detto suggestione.

La domenica mattina i due uomini si rividero ancora, o meglio ziu Tòmas si riattaccò al dottor Suelzu e non lo lasciò più. E finì di raccontargli i suoi guai.

Il dottore l'ascoltava volontieri, ma parlava poco. Qualche volta diceva cose stravaganti, come Lia affermava, ma pareva un uomo timido, o peggio ancora uno scemo, e ziu Tòmas si domandava come mai un uomo simile s'era rimbambito innanzi tempo. Ma poi ricordava le parole di Liedda: le persecuzioni, i vizi, i dolori, fanno perdere la ragione anche ai più saggi: sì, egli purtroppo lo sapeva.

Poi il dottore partì: ziu Tòmas, che non poteva vivere senza chiacchierare, tornò da Lia, ed attese che le settantasette ore passassero.

E passarono. Il lunedì verso sera egli era di nuovo in casa della maga.

Questa volta la donna non dormiva: riconobbe subito il vecchio, e pareva lo aspettasse.

— Ecco la medicina — gli disse. — È una cartina di polvere bianca. La darai alla malata a mezzanotte precisa: altrimenti non farà l'effetto. Bada bene; e dirai un Credo nel dargliela.

— Le farà bene? — domandò ziu Tömas, avvolgendo la cartina nel suo fazzoletto e cacciandosi in seno il prezioso involtino. — Non è polvere di erba sardonica?

— Tutti i mali le passeranno. Va! — rispose la donna con enfasi. — Ti occorre altro?

— Oh, bella; vorrei ora una medicina per ringiovanire.

— Anche quella si potrebbe trovare — disse l'altra con serietà.

E pareva che nulla fosse per lei difficile; sapeva tutte le arti del diavolo.

— Allora arrivederci; tornerò quando sarò più vecchio; ora son giovane ancora: ho settantaquattro anni e nove mesi.

— Dio ti faccia arrivare a cento. Addio.

Ziu Tòmas si alzò, depose sul piatto di stagno una moneta e disse:

— Se la cosa riesce, ti porterò cento scudi. Addio.

Ma la donna finse di non veder la moneta e di non sentire la promessa.

Ed egli ritornò. Nanascia stava seduta sullo scalino della porta e mangiava tranquillamente un pezzo di pane d'orzo. quando vide entrare il vecchio dai riccioli. bianchi sulle guancie. Sulle prime non lo riconobbe, tanto era mutato e invecchiato: eppure solo tre settimane erano passate, dopo la sua ultima visita.

— Salute, lo straniero. Salute e benvenuto, — ella salutò, alzandosi.

Lo straniero non rispose: come l'altra volta, mise sotto una pietra l'estremità della cordicella del cavallo, si volse, si avanzò. Nanascia allora lo riconobbe, e ricordò con gioia la promessa dei cento scudi; ma guardandolo meglio, vide negli occhi infossati di lui tale un'espressione di angoscia disperata e minacciosa che lo credette impazzito.

— Salute, lo straniero, — ripetè, fingendo di non riconoscerlo. — Qual buon vento ti porta da queste parti? Vuoi entrare?

— Sicuro che voglio entrare! Abbiamo da aggiustare un conto, — egli disse, minaccioso, penetrando nella cucina desolata.

La donna, scalza e in cuffia, depose il pane sulla panca, bevette rapidamente un sorso d'acqua dalla scodellina di sughero, e si aggiustò i capelli attortigliati intorno alle orecchie.

— Siedi, siedi, — diceva, con la voce monotona. — Buon uomo mio, che cosa vuoi?

— Che cosa voglio? Ora te lo dirò. Andiamo là sopra.

Egli mise un piede sulla scaletta, ma la maga ritornò verso la porta, e disse:

— Non posso venir su: c'è gente. Possiamo parlare qui.

— Ah, tu hai paura? C'è gente? Ci sarà il diavolo, il tuo fratello il demonio. Ma senti: ti strangolerò oggi o un altro giorno. Ti accuserò alla giustizia: ma prima voglio chiederti perchè hai fatto così. Perchè hai fatto questo? Perchè, maledetta? Perchè?

E le andò addosso; ma era così debole, così tremante, che la donna, ancora forte e robusta, potè afferrargli le mani e tenerlo fermo.

— Che cosa ho fatto? Sei pazzo, buon uomo mio? Io non so che cosa vuoi dire.

— Perchè mi hai dato quella medicina?

— Ah, ricordo, quella medicina? Quella polvere bianca? Perchè me l'hai domandata! E che, non ha avuto effetto? Forse non l'avrai data a mezzanotte precisa: forse non avrai detto le preghiere. E per questo….

— Taci, taci, diavola. Dimmi perchè me l'hai data. Uno scopo avevi.… Parla: dopo vedrò quello che debbo fare.

— Gesù! Che è accaduto? Io ti giuro, uomo, ti giuro che io ti ho data la medicina per buona.

— La malata è morta. Tu l'hai uccisa: ed io, anch'io l'ho uccisa. Tu mi hai dato il veleno. Il cuore me lo diceva: tu mi hai dato l'erba sardonica, E i medici han detto che si è avvelenata da sè, povera creatura, piccola anima mia bella! Assassina maghiarja, perchè hai fatto questo?

Tentò di percuoterla, ed ella cadde in ginocchio sul gradino, si nascose il viso fra le mani, scosse la testa con disperazioné.

— Dio, Dio, Dio, Dio! Che sento, che sento! Che è accaduto? Signore, Signore, che io sia maledetta se sapevo niente: io ti ho dato il veleno? Io? Chè è accaduto?

La sua disperazione era sincera. Ziu Tòmas cominciò anche lui a scuoter la testa, e si calmò alquanto. Che fare? Egli si riteneva il maggior colpevole, egli che si era ridotto a credere alle arti diaboliche della maga. Il Signore lo aveva castigato. Ma non riusciva a spiegarsi perchè la donna gli avesse dato il veleno; e questo mistero lo tormentava, acuiva i suoi rimorsi, lo faceva impazzire.

— Perchè? Perchè? — disse, giungendo le mani. — Potevi darmi una medicina innocua. Perchè mi hai dato il veleno? Voglio saperlo, prima di denunziarti alla giustizia. Perchè voglio denunziarti, sai: perirò anch'io, ma tu devi morire nell'ergastolo.

La donna piangeva.

— Senti — disse infine alzandosi risoluta. — Voglio dirti tutto. Nei giorni in cui tu venivi per domandarmi la medicina, veniva da me un dottore per consultarmi circa una sua lite. Io gli parlai di te. Egli mi disse che ti conosceva e conosceva anche la tua malata. E diceva: “E meglio che quella disgraziata muoia: la sua morte è un bene per lei e per gli altri”. Io gli dissi: “Il vecchio vuole una medicina da me: mi dica lei qualche medicina efficace, così io, se la malata avrà giovamento acquisterò prestigio. Quel vecchio mi fa pena. Aiutiamolo”. “Fa pena anche a me, — disse il dottore. — Bene; ti procurerò io una medicina, ma non dirai mai che te l'ho data io”. Io promisi: egli mi diede la medicina che ti ho dato. Ecco tutto: ti giuro, è la verità, come è vero Dio, come è vero il sole, come è vero….

Il vecchio non l'ascoltava più: cadde a sedere sul gradino della porta e si strinse la testa fra le mani. Signore, Signore! Ecco, finalmente ricordava le parole del dottor. Suelzu a Lia:

“Tutti i malati come Maria Comita devono morire; l'opera più pietosa che uno possa fare è di ucciderli”.

E gliel'aveva uccisa, la sua povera creatura! Egli rivedeva la disgraziatissima fanciulla, pallida, con le palpebre azzurre e la bocca sorridente: senza dubbio la medicina data dal dottor Suelzu era la polvere dell'erba sardonica. Maledetto, maledetto! Che fare, adesso? Denunziarlo? Denunziare la fattucchiera? Denunziarsi? Andrebbero tutti e tre all'ergastolo o al manicomio. Quest'idea lo fece rabbrividire; aprì gli occhi, scosse la testa.

La donna gli posò una mano sulla spalla.

— Pazienza, vecchio. È stato un errore; ma tutta la nostra vita è un errore.

— Vattene! — egli urlò.

E chiuse di nuovo gli occhi e si mise a gemere:

— Povera, povera! Tu sorridevi, anima mia bella: ti hanno dato la polvere dell'erba sardonica che fa morire ridendo….

Poi, sembrandogli di vedere la figura strana del dottor Suelzu, gridò, stringendo i pugni:

— E a te, assassino, a te, pazzo, chi te lo dà il veleno?

Pag.
Solitudine1
Novella romantica45
L'apparizione83
Ozio97
Ballòra117
Il sogno del pastore135
La lepre143
Cattive compagnie153
La medicina173