GRAZIA DELEDDA

L'EDERA

ROMANZO

ROMA
NUOVA ANTOLOGIA

PROPRIETÀ LETTERARIA

I diritti di riproduzione sono riservati per tutti i paesi compresi gli Stati di Svezia, Norvegia e Danimarca.

Cromo-Tip. Carlo Colombo, Via della Missioe, 3 - Roma.

Era un sabato sera, la vigilia della festa di San Basilio, patrono del paese di Barunèi. In lontananza risuonavano confusi rumori; qualche scoppio di razzo, un rullo di tamburo, grida di fanciulli; ma nella straducola in pendio, selciata di grossi ciottoli, ancora illuminata dal crepuscolo roseo, s'udiva soltanto la voce nasale di don Simone Decherchi.

— Intanto il fanciullo è scomparso, — diceva il vecchio nobile, che stava seduto davanti alla porta della sua casa e discuteva con un altro vecchio, ziu Cosimu Damianu, suocero d'un nipote di don Simone. — Chi l'ha veduto? Dov'è andato? Nessuno lo sa. La gente dubita che l'abbia ucciso il padre… E tutto questo perchè non c'è più timor di Dio, più onestà… Ai miei tempi la gente non osava neppure figurarsi che un padre potesse uccidere il figlio…

— Timor di Dio, certo, la gente non ne ha più, — ribattè ziu Cosimu, la cui voce rassomigliava a quella di don Simone, — ma questo non vuol dire. sì, l'ho veduto: è servetto in uno stazzo della Gallura, — rispose il pastore. Allora Santus, rassicurato, se ne tornò in paese. Ed ecco che ora la gente stupida va dicendo delle cose orribili, e la giustizia dà retta ai pettegolezzi delle donnicciuole, e il povero padre è perseguitato da tutti. Ora dicono che è ripartito in cerca del figlio. Se v' è cosa più stupida di questa!

Don Simone scuoteva sempre la testa, e sorrideva un po' beffardo: ziu Cosimu era stato sempre un uomo ingenuo! Ma senza offendersi per l'evidente ironia del vecchio nobile, il paesano domandò. animandosi:

— Ma, figlio di Sant'Antonio, perchè ti ostini a pensar sempre male del prossimo?

L'altro cessò di sorridere: si fece serio, quasi cupo.

— I tempi son cattivi. Non c'è timor di Dio, e tutto è possibile, ora. I giovani non credono in Dio, e noi vecchi… noi siamo come la pasta frolla, vedi così… — con la mano accennava a tirare qualche cosa di molle, di frollo, — lasciamo correre trenta giorni per un mese, e… tutto va male…

— Questo, forse, è vero! — esclamò ziu Cosimu: e cominciò a battere il suo bastone su un ciottolo e non parlò più. Don Simone lo guardò e sorrise di nuovo.

— Io sono come la giustizia: penso sempre la peggio e spesso indovino… Ne vedremo, se vivremo, Cosimu Damià!

L'altro continuò a picchiare il bastone per terra: ed entrambi, uno triste, l'altro sorridente, pensarono alla stessa cosa, o meglio alla stessa persona.

Intanto una donna, piuttosto vecchia, vestita di nero, avvolta in un lungo scialle nero frangiato e ricamato, dopo aver salito il pendio della strada s'era fermata presso i due vecchi.

— Dov'è Rosa? — domandò, aprendo alquanto i lembi dello scialle.

— Dev'essere nel cortile, con Annesa, — rispose ziu Cosimu.

— Dio, che caldo: in chiesa si soffocava, — riprese la donna, che era alta e cerea in viso, col naso sottile, gli occhi neri cerchiati, le tempia coperte da due bende di capelli che parevano di raso grigio.

Ziu Cosimu la guardò e scosse la testa. Così alta e cerea, col suo scialle nero, la sua figliuola diletta gli sembrava la Madonna addolorata.

— In chiesa si soffocava? — egli ripetè, con lieve rimprovero. — È per questo che non tornavi più? Che frugavi ancora, laggiù?

— Mi confessavo: domani ci sarà la comunione generale, — rispose semplicemente la donna; poi s'avviò per entrare, ma giunta sulla porta si volse ancora e disse: — Paolo non è tornato? Non è tornato a quest'ora, non arriverà più, per stassera. Ora prepareremo la cena.

— Che abbiamo da mangiare, Rachele? — domandò il suocero sbadigliando.

— Abbiamo ancora le trote, babbai (1) Babbo., e poi friggeremo delle uova. Meno male, non abbiamo ospiti.

— Eh! possono arrivarne ancora! — esclamò ziu Cosimu, non senza amarezza. — L'albergo è povero, ma è ancora comodo per quelli che non vogliono pagare!

— Avevamo le trote e non ricordavo! — esclamò don Simone, rallegrandosi come un bambino all'idea della buona cenetta. — E se arrivano ospiti ce n'è anche per loro! Sì, ricordo, per la festa arrivavano molti ospiti; c'è stato un anno che ne abbiamo avuti persino dieci o dodici. Ora la gente non va più alle feste, non vuol sentire più a parlare di santi…

— La gente ora è povera, Simone mio; vive lo stesso, anche senza feste.

— Anche la lepre corre sempre, sebbene non vada in chiesa, — disse il vecchio nobile, cominciando a irritarsi per le contraddizioni di ziu Cosimu.

E mentre i due nonni continuavano la loro discussione, donna Rachele attraversò l'andito ed entrò nella camera in fondo, attigua alla cucina.

L'ultimo barlume del crepuscolo penetrava ancora dalla finestra che guardava sull'orto. Mentre donna Rachele si levava e piegava lo scialle, una voce dispettosa disse:

— Rachele, ma potresti accenderlo, un lume! Mi lasciate solo, mi lasciate al buio come un morto…

— Zio, è ancora giorno, e si sta più freschi senza lume — ella rispose con la sua voce dolce e le parole lente. — Ora però accendo subito. Annesa, — disse poi, affacciandosi all'uscio di cucina, — che stacci ancora la farina? Smetti, è tardi. E Rosa dov'è?

— Eccola lì, in cortile, — rispose una voce velata e quasi flebile. — Ora finisco.

Donna Rachele accese il lume, e lo depose sulla grande tavola di quercia che nereggiava in fondo alla stanza, tra l'uscio dell'andito e la finestra. E la vasta camera, alquanto bassa e affumicata, col soffitto di legno sostenuto da grosse travi, apparve ancora più triste alla luce giallognola del lume ad olio. Anche là dentro tutto era vecchio e cadente: ma il canapè antico, dalla stoffa lacerata, la tavola di quercia, il guardarobe tarlato, il guindalo, la cassapanca scolpita, e insomma tutti i mobili conservavano, nella loro miseria, nella loro vecchiaia, qualche cosa di nobile e distinto. Su un lettuccio, in fondo alla camera, stava seduto, appoggiato ai cuscini di cotonina a quadrati bianchi e rossi, un vecchio asmatico che respirava penosamente.

— Si sta freschi, sì, si sta freschi, — egli riprese a borbottare con voce ansante e dispettosa—; potessi star fresco almeno! Annesa, figlia del demonio, se tu mi portassi almeno un po' d'acqua!

— Annesa, porta un po' d'acqua a zio Zua, — pregò donna Rachele, attraversando la cucina ancora più vasta e affumicata della camera.

La donna, che aveva avvicinato alla porta il canestro della farina, s'alzò, si scosse le vesti, s'avvicinò alla brocca dell'acqua e ne versò un bicchiere.

— Annesa, la porti o no quest'acqua? — ripeteva il vecchio asmatico, con voce quasi stridente.

Annesa entrò, s'avvicinò al lettuccio. Il vecchio bevette, la donna lo guardò. Mai figure umane s'erano rassomigliate meno di quei due.

Ella era piccola e sottile; pareva una bambina. La luce del lume dava un tono di bronzo dorato al suo viso olivastro e rotondo, del quale la fossetta del mento accresceva la grazia quasi infantile. Ma la bocca un po' grande, dai denti bianchissimi, serrati, eguali, aveva una lieve espressione di beffa crudele. Gli occhi azzurri, invece, sotto le grandi palpebre livide, erano dolci e tristi. Qualche cosa di beffardo e di soave, un sorriso da vecchia cattiva e uno sguardo da bambina triste, erano in quel viso di serva taciturna e malaticcia, la cui testa si reclinava all'indietro, quasi abbandonandosi al peso d'una enorme treccia biondastra attortigliata sulla nuca. Il collo lungo e meno bruno del viso usciva nudo dalla camicia scollata: il corsetto paesano si chiudeva su un piccolo seno: e tutto era grazioso, agile, giovanile, attraente, in quella donna della quale soltanto le mani lunghe e scarne svelavano l'età matura.

La figura del vecchio asmatico ricordava invece qualche antico eremita moribondo in una caverna.

Il suo viso, raggrinzito da una sofferenza intensa, dava l'idea d'una maschera di cartapecora. Tutto era giallognolo e come affumicato, in quella figura triste e cupa: e il petto peloso e ansante, che la camicia slacciata lasciava scoperto, e i capelli aruffati, la barba giallastra, le mani nodose, e tutte le membra, che si disegnavano scheletrite sotto il lenzuolo, avevano un brivido di angoscia.

Egli lo diceva sempre:

— Io vivo solo per tremare di dolore.

Ogni cosa gli dava fastidio, ed egli era di grande fastidio a tutti, e pareva che vivesse solo per far pesare la sua sofferenza sugli altri.

— Annesa, — gemette, mentre la donna si allontanava col bicchiere vuoto in mano, — chiudi la finestra. Non vedi quante zanzare? Così possano pungerti i diavoli, come mi pungono le zanzare.

Ma Annesa non rispose, non chiuse la finestra; tornò in cucina, depose il bicchiere accanto alla brocca, poi uscì nel cortile, ed accese il fuoco in un angolo sotto la tettoia. D'estate, perchè il calore ed il fumo non penetrassero nella camera ove giaceva il vecchio asmatico, ella cucinava fuori, in quell'angolo di tettoia trasformato in cucina.

Un pace triste regnava nel cortile lungo e stretto, in gran parte ingombrato da una catasta di legna da ardere. La luna nuova, che cadeva sul cielo ancora biancastro, al di là del muro sgretolato del cortile, illuminava l'angolo della tettoja. S'udivano voci lontane, scoppi di razzi, e un suono di corno, rauco ed incerto, che tentava un motivo solenne:

Va, pensiero, sull'ali dorate…

Annesa mise il trepiede nero sul fuoco e mentre donna Rachele andava nella dispensa per riempire d'olio la padella, una bambina di sei o sette anni, con una enorme testa coperta di radi capelli biondastri, s'affacciò alla porticina socchiusa dell'orto.

— Annesa, Annesa, vieni; di qui si vedono bene i razzi, — gridò con una vocina di vecchia sdentata.

— Rientra tu, piuttosto, Rosa: è tardi, ti morsicherà le gambe qualche lucertola…

— Non è vero, — riprese la vocina, un po'tremula. — Vieni, Annesa, vieni…

— No, ti ho detto. Rientra. Ci sono anche le rane, lo sai bene…

La bambina entrò, s'avanzò paurosa fino alla tettoja. Un goffo vestitino rosso, guarnito di merletti gialli, rendeva più sgraziata la sua figurina deforme, e più brutto il suo visino scialbo di vecchietta senza denti, schiacciato dalla fronte idrocefala smisurata e sporgente.

— Siediti lì, — disse Annesa, — i razzi si vedono anche stando qui.

Qualche razzo, infatti, attraversava come un cordone d'oro il cielo pallido, e pareva volesse raggiunger la luna; poi ad un tratto scoppiava, dividendosi in mille scintille rosse, azzurre e violette.

Rosa, seduta su un carro sardo che stava in mezzo al cortile, fremeva di piacere e chinava la testa, temendo e sperando che quella pioggia meravigliosa cadesse su lei.

— Almeno una, di quelle scintille, — gridò, curvando la fronte enorme e stendendo la manina. — Ne vorrei una! Quella d'oro: deve essere una stella!

— Mattina! — disse la nonna, che ritornava con la padella colma d'olio.

Annesa mise la padella sul trepiede e la dama (1) Dama o cavalieve, titoli che si danno ai nobili sardi. rientrò per apparecchiare la tavola.

— Cadono molto lontano? — riprese la bambina. — Sì? Nel bosco? Dove sono le lucertole?

— Oh, più lontano, certo, — rispose la donna, che aveva cominciato a friggere le trote.

— Dove, più lontano? Nello stradale? Ti pare che qualcuna cada vicino al babbo mio? E se gli cade addosso, e se egli ora è in viaggio?

— Chi sa! — disse Annesa pensierosa. — Credi tu, Rosa, che egli possa tornare stasera?

— Io, sì, lo credo! — esclamò vivacemente la bambina. — E tu, Anna?

— Io non so, — disse la donna, già pentita d'aver parlato. — Egli torna quando vuole.

— Egli è il padrone, vero? Egli è tanto forte, egli può comandare a tutti, vero? — interrogò Rosa, ma con accento che non ammetteva una risposta negativa. — Egli può fare quello che vuole; può fare anche da cattivo, vero? Nessuno lo castiga, vero?

— Vero, vero, — ammise la donna con voce grave.

Poi entrambe, la bambina sul carro, Annesa davanti al fuoco, tacquero pensierose.

— Annesa, — gridò ad un tratto Rosa, — eccolo, viene! Sento il passo del cavallo.

Ma l'altra scosse la testa. No, non era il passo del cavallo di Paulu Decherchi. Ella lo conosceva bene, quel passo un po' cadenzato di cavallo che ritornava stanco dopo un lungo viaggio. Eppure il passo di cavallo, avvertito da Rosa, si fermò davanti al portone.

— Credo sia un ospite! — disse Annesa con dispetto. — Speriamo sia il primo e l'ultimo!

Ma donna Rachele uscì di nuovo nel cortile, porse ad Annesa alcune uova che teneva nel grembiale, e disse con gioia:

— Lo dicevo, che non era tempo da disperare. Ecco un ospite!

— Bella notizia! — rimbeccò l'altra.

— Apri il portone, Annesa. Non è bella una festa se non si hanno ospiti in casa.

La donna mise le uova accanto al fuoco, e andò ad aprire.

Un paesano basso e tarchiato, con una folta barba bruna, era smontato da cavallo e salutava i nonni ancora seduti davanti alla porta.

— Stanno bene, che Sant' Anna li conservi!

— Benissimo, — rispose don Simone. — Non vedi che sembriamo due giovincelli di primo pelo.

— E Paulu, Paulu, dov'è?

— Paulu tornerà forse domani mattina: è andato a Nuoro per affari.

— Donna Rachele, come sta? Annesa, sei tu? — disse poi l'ospite, entrando nel cortile e tirandosi dietro il cavallo. — Come, non hai ancora preso marito? Dove leghiamo il cavallo? Qui, sotto la tettoia?

— Sì, fa da te, — rispose donna Rachele. — Fa il tuo comodo, come se tu fossi in casa tua. Lega il cavallo qui sotto la tettoja, perchè la stalla è ingombra di sacchi di paglia.

Annesa provò quasi gusto al sentir donna Rachele mentire.

— Sì, — ella pensò con amarezza, — la festa non è bella senza ospiti, ma intanto anche i santi devono dire qualche bugia perchè il tetto della stalla è rovinato e non si trovano i soldi per accomodarlo…

— Le tue sorelle stanno bene? — domandò poi donna Rachele, aiutando l'ospite a legare il cavallo. — E la tua mamma?

— Tutti bene, tutte fresche come rose, — esclamò l'uomo, traendo un cestino dalla bisaccia. — Ecco, questo, appunto, lo manda mia madre.

— Oh, non occorreva disturbarvi, — disse la dama prendendo il cestino

E rientrò nella cucina, seguita dall'ospite, mentre Annesa, triste e beffarda, si curvava davanti al fuoco e batteva leggermente un uovo sulla pietra che serviva da focolare.

Rosa scese pesantemente dal carro e rientrò anche lei, curiosa di sapere cosa c'era dentro al cestino.

Nella camera del vecchio asmatico, che serviva anche da sala da pranzo, la tavola era apparecchiata per quattro: donna Rachele mise un'altra posata, e l'ospite si avvicinò a zio Zua.

— Come va, come va? — gli domandò, guardandolo curiosamente.

Il vecchio ansava e con una mano si palpava il petto, sul quale teneva, appesa ad un cordoncino unto, una medaglia al valor militare.

— Male, male — rispose, guardando fisso l'ospite, che non aveva subito riconosciuto. — Ah, sei tu, Ballore Spanu. Ti riconosco benissimo, ora. E le tue sorelle hanno preso marito?

— Finora no, — rispose l'uomo, un po' seccato per questa domanda.

In quel momento i due nouni rientrarono, trascinandosi dietro le sedie, e si misero a tavola, assieme con l'ospite, donna Rachele e la bimba.

— Questa è la figlia di Paulu? — domandò l'uomo, guardando Rosa. — Egli ha questa sola bambina? Non pensa a riprender moglie?

— Oh, no, — rispose donna Rachele, con un sorriso triste. — Egli è stato troppo sfortunato la prima volta; per ora non pensa affatto al matrimonio. Sì, questa è la sua unica bambina. Ma serviti, Ballore, tu non mangi niente? Prendi questa trota, vedi, questa.

— E il vostro parroco, quel vecchio prete che una volta subì una grassazione, è vivo ancora? — domandò ziu Cosimu.

— Altro se vive! È vegeto, anche…

Mentre così chiacchieravano, udirono picchiare al portone.

— Deve essere un altro ospite, — disse donna Rachele, — ho sentito un passo di cavallo.

— È forse babbai, — gridò Rosa, e scese dalla sedia e corse a vedere.

Un altro ospite parlamentava con Annesa davanti al portone. Era un uomo scarno e nero, miseramente vestito. La donna non lo conosceva e lo guardava con evidente ostilità.

— È questa la casa di don Simone Decherchi? — diceva l'ospite. — Io sono di Aritzu, mi chiamo Melchiorre Obinu e sono figlioccio di Pasquale Sole, grande amico di don Simone. Il mio padrino mi ha dato una lettera per il suo amico.

— L'osteria è aperta! — borbottò Annesa, ma andò ad avvertire don Simone che il figlioccio del suo amico domandava ospitalità, e il vecchio nobile per tutta risposta ordinò di mettere un'altra posata a tavola.

Ma il nuovo ospite volle restare in cucina, e appena Annesa gli mise davanti un canestro con pane, formaggio, lardo, egli cominci a mangiare con avidità. Doveva essere molto povero: era vestito quasi miseramente, e i suoi grandi occhi tristi parevano gli occhi stanchi di un malato. Annesa lo guardava e sentiva cadere il suo dispetto. Dopo tutto, poichè i Decherchi si ostinavano ad aprire la loro casa a tutti, meglio dar da mangiare ai poveri che ai ricchi scrocconi come quel Ballore Spanu.

— Ecco, mangia questa trota, — disse la donna, porgendo all'ospite povero una parte della sua cena. — Ora ti darò anche da bere.

— Dio te lo paghi, sorella mia, — rispose l'altro, sempre mangiando.

— Sei venuto per la festa?

— Sì, sono venuto per vendere sproni e briglie. L'altra gli versò da bere.

— Dio te lo paghi, sorella mia.

Egli bevette, la guardò, e parve vederla solo allora. I capelli di lei, soprattutto, attirarono i suoi sguardi.

— Sei la serva, tu? — domandò.

— Sì.

— Ma sei del paese, tu? Mi pare di no.

— Infatti non lo sono.

— Sei forestiera?

— Sì, sono forestiera.

— Di dove sei?

— D'un paese del mondo…

Ella andò nella camera attigua, poi uscì nel cortile, rientrò.

L'ospite povero profittò dell'assenza di lei per versarsi un altro bicchiere di vino, e diventò allegro, quasi insolente.

— Sei fidanzata? — chiese alla donna, quando essa tornò. — Se no, guarda se ti convengo. Son venuto per vendere sproni e briglie e per cercarmi una sposa.

Ma questo scherzo non garbò ad Annesa, che ridiventò triste e beffarda:

— Puoi mettere una delle tue briglie al collo di qualche donna, e così trascinartela dietro fino al tuo paese.

— No, davvero, — insistè l'altro — fammi sapere se hai o no un fidanzato. Dal modo aspro con cui mi parli, parebbe di no: o è molto brutto.

— E invece t'inganni, fratello caro: il mio sposo è molto più bello di te.

— Fammelo conoscere.

— Perchè no? Aspetta.

Ella rientrò nella sala da pranzo, e dopo le trote servì le uova fritte con cipolle, e in ultimo portò una focaccia di pasta e formaggio fresco.

— Non aspettavamo ospiti — si scusava donna Rachele, rivolgendosi con evidente umiliazione a Ballore Spanu. — Perdona dunque, Ballore, se ti trattiamo male.

— Voi mi trattate come un principe — rispondeva l'ospite, e mangiava e beveva allegramente.

Anche i due nonni scherzavano. Don Simone era, o sembrava, lieto e sereno come Ballore l'aveva sempre conosciuto: nel riso di ziu Cosimu si notava invece qualche nota triste; e anche il vecchio asmatico, che masticava lentamente la polpa rosea e grassa d'una trota, prendeva parte alla conversazione, e sogghignava quando l'ospite parlava di Paulu.

— Non c'è che dire, eravamo due testoline sventate, io e suo figlio, donna Rachè! — diceva Ballore Spanu. — Ricordo, una volta Paulu venne a trovarmi al mio paese, ed entrambi partimmo assieme, e per un mese le nostre famiglie non seppero nulla di noi. Andammo di festa in festa, di villaggio in villaggio, sempre a cavallo. Che teste, Dio mio! Come si è pazzi, in gioventù!

— Buone lane! — mormorò l'asmatico.

— Sì, ricordo — disse donna Rachele. — E che tormento! Credevamo vi avessero arrestati.

— Perchè arrestati? — gridò l'ospite quasi offeso. — Questo poi, no! Eravamo due teste matte, sì, ma due galantuomini! Questo possiamo dirlo ben forte! Però, bisogna confessarlo, abbiamo sprecato molti denari…

— Perciò … — cominciò il vecchio asmatico con la sua voce dispettosa; ma in quel momento Annesa gli porse da bere e lo guardò fisso, ed egli non osò proseguire. D'altronde Ballore Spanu sapeva bene che le pazzie giovanili di Paulu avevano finito di rovinare la famiglia: non occorreva ripeterlo.

Ma un'ombra passò sul viso cereo di donna Rachele, e ziu Cosimu disse:

— Paulu è buono, buono come il pane, ma è stato sempre un giovane troppo allegro e spregiudicato. Egli non ha mai avuto timore di Dio; si è sempre divertito, ha goduto la vita in tutti i modi.

— Si vede che non era destinato a farsi frate! — esclamò l'ospite. — Eppoi bisogna godere finchè si è giovani…

— Scusa, io godo anche ora che son vecchio— osservò don Simone, con accento beffardo. Egli non amava si parlasse male del nipote, con gli estranei, e cercò di cambiare discorso.

— Zua Dechè, — esclamò, rivolgendosi all'infermo — non è vero che i giovani devono essere più saggi dei vecchi?

Il vecchio ansò forte, cercò di sollevarsi, gridò adirandosi:

— La gioventù? Io sono stato giovane, ma sono stato sempre serio. In Crimea ho conosciuto un capitano francese che mi diceva sempre: voi avete cento anni, sardignolo!… E… e… La Marmora dopo la battaglia… e… e..

Un colpo di tosse non lo lasciò proseguire: donna Rachele gli andò vicino, gli sollevò il capo, gli accennò di calmarsi.

— Figlio di Sant'Antonio, — disse ziu Cosimu, sollevando le mani — perchè arrabbiarti così? Vedi che ti fa male?

Ma l'asmatico si ostinava a parlare, e non poteva, e solo qualche parola si distingueva fra i suoi gemiti sibilanti.

— Io… Vittorio Emanuele… la medaglia… Balaclava… Ho lavorato sempre… io… mentre gli altri…

Annesa andava e veniva. Era divenuta pallidissima, e guardava il vecchio con uno sguardo di odio, ma stringeva le labbra quasi per non gridare contro di lui.

Invano l'ospite povero, quando ella ritornava in cucina, cercava di scherzare e di farla chiacchierare: ella taceva, e ad un tratto uscì nel cortile e stette parecchio tempo fuori.

Egli allora si versò un altro bicchiere di vino e si guardò attorno cercando una stuoja su cui potersi coricare; poi gli parve di udire Annesa parlare con un uomo, nel cortile, e tese l'orecchio.

— Egli sparla di don Paulu, — diceva la donna — e gli altri lo lasciano dire…Ah, se potessi, lo butterei giù dal letto…

— Ma lascialo dire — rispose una voce d'uomo. — Chi non vede che egli è rimbambito?…

Poi le voci tacquero. L'ospite credette di sentire lo scoccar di un bacio, e fremette pensando alla bella bocca di Annesa.

Un giovane servo, coi capelli neri divisi sulla fronte, il viso scuro imberbe, gli occhi dolci e la bocca delicata, entrò in cucina.

— Salute, l'ospite — disse, sedendosi davanti al canestro delle vivande.

— Salute abbi — rispose l'altro, guardandolo maliziosamente. — Sei il servo, tu?

— Sì, sono il servo. Annesa, mi darai da mangiare? Sono tornato tardi, perchè sono stato a vedere i fuochi artificiali. Che cosa bella! Pareva che tutte le stelle del cielo cadessero giù sulla terra. Fossero state almeno buone da mangiare!

E rideva come un fanciullo, socchiudendo i begli occhi castanei, e mostrando due fila di denti minuti e bianchissimi.

Ma Annesa era di cattivo umore: gli porse da mangiare e tornò fuori.

— Che ragazza seria! — disse l'ospite seguendola con gli occhi. — Bella, ma seria.

— Ohè, è inutile che tu la guardi! — esclamò il servo, che era mezzo brillo. — Non fa per te.

— Lo so: è la tua fidanzata.

— Come lo sai?

— Me lo ha detto lei! E ho sentito che vi baciavate!…

— Ah, te lo ha detto lei? — domandò l'altro con gioia. — È vero; siamo fidanzati. Io e lei siamo qui, più che servi, figli di famigiia. Annesa anzi è figlia d' anima (1) Figlia adottiva. della famiglia Decherchi.

E siccome l'ospite povero s'interessava vivamente alle sue chiacchiere, il servo proseguì, con boria:

— Devi sapere che don Simone è stato quasi sempre sindaco di questo paese. Non si contano le opere buone che egli fece. Tutti i poveri potevano dirsi suoi figli, tanto egli li soccorreva e li amava. Ora avvenne che molti anni fa — io allora non masticavo ancora il pane — capitò alla festa un mendicante vecchio, vecchio, accompagnato da una bambina di tre anni. Un bel momento quest'uomo fu trovato morto, dietro la chiesa. La bambina piangeva, ma non sapeva dire chi era. Allora don Simone la prese con sè, la portò qui, la fece allevare in famiglia. Molti dicono che Annesa è continentale: altri credono che il vecchio mendicante l'abbia rubata…

L'ospite ascoltava con curiosità, ma le ultime parole del servo lo fecero sorridere…

— Chi sa, — disse beffardo — ella forse è figlia del re!

— Sta zitto! — pregò allora Gantine. — I miei tre vecchi padroni son chiamati i Tre Re.

— Perchè?

— Così, perchè son tre e son vecchi.

— Ce n'è uno malato, vero? È fratello di don Simone?

— Oh, no — protestò Gantine, sporgendo le labbra con disprezzo. — È un parente. È un uomo che è stato alla guerra ed ha tanti denari. Ma avaro! Vedi, muore così, coi pugni stretti. Sta qui da due anni, ed ha fatto testamento in favore di Rosa, la figlia di don Paulu.

— Don Paulu è figlio di don Simone?

— No, è suo nipote: è figlio di don Priamu, che ora è morto…

— I tuoi padroni son molto ricchi, vero?

— Sì, — mentì il servo, — sono ancora ricchi; prima lo erano molto di più.

Ma in quel momento rientrò Annesa, e il giovine chiacchierone cambiò discorso.

— Anna, pili brunda (1) Dai capelli biondi., costui non vuol credere che l'anno venturo noi due ci sposeremo. Non è vero che siamo cresciuti assieme in questa casa, come parenti?

— E allora beviamo alla vostra buona fortuna, — disse l'ospite, bevendo un po' di vino rimasto nel suo bicchiere.

— Tu ci porterai un'altra bottiglia, Annesa? Sì, portacela! — supplicò Gantine, tendendo alla donna la bottiglia vuota; ma Annesa gli voltò le spalle e volle rientrare nella stanza dove i vecchi padroni e l'ospite ricco chiacchieravano e ridevano.

Ma mentre ella scendeva lo scalino dell'uscio, un passo cadenzato di cavallo risuonò nella straducola deserta: ella si fermò, ascoltando, poi disse:

— È don Paulu! — e attraversò di corsa la cucina, dimenticandosi persino di deporre un piatto che teneva in mano.

Poco dopo entrò in cucina un uomo ancora giovane, alto e svelto, tutto vestito di nero, da borghese, con un cappello duro in testa.

Gantine balzò in piedi.

— No, — disse Paulu, dopo aver salutato l'ospite con un cenno del capo — non levar la sella al cavallo, che è tutto sudato. Lascialo un momento respirare; portalo poi da ziu Castigu e domani mattina all'alba conducilo al pascolo.

E mise un piede su uno sgabello e si curvò per levarsi lo sprone.

L'ospite povero guardava con curiosità: e gli pareva che servo e padrone si rassomigliassero. Lo stesso viso bruno, gli occhi lunghi e dolci, la stessa bocca dai labbri sporgenti, la fossetta sul mento. Senonchè Paulu sopravanzava di tutta la testa il servo, e aveva una aria triste e preoccupata, mentre Gantine sembrava allegro e spensierato. E la bocca del giovine servo era rossa e sorridente, mentre le labbra di Paulu, sotto i baffi neri, erano pallide, quasi grigie.

— Sì, — pensava il venditore di briglie, — ora ricordo: il mio padrino Pascale Sole mi diceva un giorno che i Decherchi avevano preso in casa, come servo, il figlio illegittimo d'uno di loro. Don Paulu e Gantine devono essere fratelli…

— Ecco, — disse il vedovo, dando lo sprone a Gantine, — attaccalo al muro.

Ed entrò nella camera attigua, dove l'ospite ricco lo accolse con una esclamazione di gioia. Paulu gli strinse la mano, e parve rallegrarsi nel rivedere il suo antico compagno di avventure; ma donna Rachele e i nonni guardarono il vedovo e si accorsero subito che egli non recava buone notizie.

Anche Annesa era diventata più triste e taciturna del solito.

Dopo cena Gantine invitò l'ospite povero ad uscire con lui.

— Ora condurremo il cavallo da ziu Castigu, dopo faremo un giro per il paese. Lascia il portone socchiuso, — disse ad Annesa.

— No, davvero! — ella rispose vivacemente.— Forse tu starai fuori tutta la notte! Io chiuderò il portone, e tu puoi prenderti benissimo la chiave.

— Va bene, addio, — disse Gantine, cingendole la vita con un braccio. — Tornerò presto, non dubitare.

— Fa quello che credi — ella rispose, respingendolo sgarbatamente.

Oltre il cavallo di Paulu i due giovani portarono via anche la giumenta del venditore di briglie, perchè sotto la tettoja non c'era posto che per un cavallo. E condussero le due bestie nella stalla di un pastore che era stato per molti anni servo dei Decherchi: poi andarono in una bettola e finirono di ubbriacarsi.

Anche Paulu uscì col suo amico; donna Rachele e la bimba andarono a letto, i due nonni chiacchierarono un altro po', Annesa finì di rimettere in ordine la stanza e la cucina, e preparò il suo lettuccio.

Ella dormiva sul canapè, nella stanza da pranzo, per esser pronta alle chiamate del vecchio asmatico: quando Gantine era in paese donna Rachele, per evitare ai due fidanzati l'occasione d'un pericoloso colloquio notturno, pregava. Paulu o ziu Cosimu di sostituire Annesa, e questa dormiva in una delle camere interne; ma quella notte l'ospite povero doveva dormire in cucina assieme con Gantine, e il pericolo era evitato.

La donna preparò le due stuoje per il servo e l'ospite, chiuse il portone, chiuse la porticina che dava sull'orto, e portò via la chiave; in ultimo chiuse col catenaccio l'uscio della camera. Se Gantine tornava non poteva penetrare nella casa al di là del cortile e della cucina.

I due nonni si ritirarono, zio Zua si assopi. Allora Annesa spense il lume, accese la lampadina da notte, ma non si coricò. Non aveva sonno, anzi pareva insolitamente eccitata, e i suoi occhi, ora che nessuno la osservava, brillavano d'una cupa fiamma, avidi e cerchiati.

Uscì nell'andito, spalancò la porta che dava sull'orto e sedette sullo scalino di pietra.

La notte era calda e tranquilla, rischiarata appena dal velo biancastro della via lattea e dalle stelle vivissime. Davanti ad Annesa stendevasi l'orto, nero e tacito, dal quale saliva un aspro odore di pomidoro e di erbe aromatiche: il profumo del rosmarino e della ruta ricordava la montagna, le distese selvagge, le valli primordiali, coperte di macchie e di arbusti, che circondavano il paese. In fondo all'orto cominciava il bosco, dal quale emergeva la montagna, col suo profilo enorme di dorso umano disteso sull'orizzonte stellato. I grandi alberi neri, in fondo all'orto, erano così immobili e gravi che parevano roccie scure.

Ma la pace, il silenzio, l'oscurità della notte, l'immobilità delle cose, pesavano come un mistero sul cuore di Annesa. Ecco, a momenti le pareva di soffocare, di respirare penosamente come il vecchio asmatico.

Anch'ella aveva capito: Paulu tornava da Nuoro senza i denari che da tre mesi egli cercava disperatamente per tutti i paesi del circondario. La rovina era imminente.

— La casa e l'orto, la tanca, il cavallo, i mobili, tutto sarà messo all'asta…— gemeva fra sè la donna, col busto curvo fin quasi sulle ginocchia. — Ci cacceranno via come cani affamati, e la famiglia Decherchi diventerà la più misera del paese. Bisognerà andarsene via… come i mendicanti che vanno di paese in paese… di festa in festa… Ah!

Sospirò profondamente, ricordando la sua origine.

— Era meglio che mi avessero lasciato proseguire la mia via… Ah, non avrei sofferto così, non avrei veduto quello che ho visto, quello che vedrò. Che cosa avverrà? Che accadrà di noi? Donna Rachele ne morrà di dolore. Egli… egli? … La sua fine… egli lo ha già detto, la sua fine… No, no: meglio…

Si sollevò, rabbrividì.

Paulu aveva minacciato di suicidarsi, e questo pensiero, questa ossessione, e l'idea che il vecchio asmatico teneva sotto il cuscino un fascio di cartelle di rendita e, per avarizia, per rancore contro il giovane vedovo, s'ostinava a non sborsare un soldo per salvare la famiglia dalla completa rovina, davano ad Annesa una febbre d'angoscia e di odio.

— Vecchio scorpione, — ella riprese, minacciando tra sè il vecchio asmatico, — io ti farò morire di rabbia; ti farò morire di fame e di sete. Guaj a te se ciò che prevedo s'avvera… guaj… guaj! Tu ci lasci agonizzare, ma io…

Non finì di formulare il suo pensiero: qualcuno apriva la porta di strada.

Ella balzò in piedi, si volse, attese, ansiosa. Paulu entrò, la vide, chiuse la porta, poi s'avanzò in punta di piedi e guardò dall'uscio nella camera appena illuminata dalla lampadina notturna. Il vecchio, sempre sollevato, e appoggiato ai cuscini, teneva gli occhi chiusi, il viso reclinato, e anche nel sonno respirava affannosamente.

Accertatosi che zio Zua dormiva, Paulu s'avvicinò ad Annesa e con un braccio le cinse le spalle, abbracciandola con impeto di desiderio. Ella tremò tutta: con le mani abbandonate lungo i fianchi, gli occhi chiusi, parve svenire, e si lasciò trascinare da Paulu che l'attirò in fondo all'orto, verso il bosco.

Ma quando furono laggiù, sotto l'albero nero ed immobile, la cui ombra conosceva il loro amore, ella si scosse, sollevò le braccia e si attaccò a Paulu con una stretta nervosa.

— Credevo che non tornassi, — gli mormorò sul viso, — ti ho veduto così cupo, così triste… Invece sei venuto… Sei venuto… Sei qui! Mi pare di sognare… Dimmi… dimmi… dimmi…

— Mi son liberato dell'ospite: l'ho lasciato in casa di prete Virdis, dove andrò a riprenderlo… Gantine ha la chiave?

— Sì; ho chiuso tutto, — disse Annesa, con voce velata. — Dimmi… dimmi?…

— Niente ancora! — egli disse. — Ma non peniamo a questo.

E la baciò. Le sue labbra scottavano, ma c'era nel suo bacio un ardore amaro, la disperazione dell'uomo che cerca sulle labbra della donna l'oblio delle sue cure e delle sue tristezze. Annesa era intelligente e capiva i sentimenti di Paulu: si lasciò baciare, senza insistere nelle sue domande, ma cominciò a piangere.

Un profumo come di pere mature fondevasi con l'odore umido dell'orto: in lontananza, nella profondità nera del bosco, una fiammella rossa brillava ogni tanto e pareva un occhio che si aprisse di tratto in tratto per spiare gli amanti. E una voce lontana, giovanile e sonora ma alquanto avvinazzata, — forse la voce di Gantine, — cantava una battorina (1) Battorina, quartina. amorosa:

Bona notte, donosa,
Comente ti la passas, riccu mare?… (2) Buona notte donosa (ricca di doti naturali) Come te la passi, ricco mare?

Ma Annesa non udiva, non vedeva nulla: sentiva soltanto d'esser vicina a Paulu, e piangeva d'angoscia e di piacere.

— Annesa, — egli disse alfine, quasi indispettito, — finiscila. Lo sai che non mi piace veder la gente triste.

— E tu sei forse allegro, tu?

— Non sono allegro, può darsi, ma non sono disperato! Dopo tutto, se i nostri beni saranno venduti come i beni d'un impiccato, la vergogna sarà più sua che nostra. Tutti sanno ch'egli potrebbe salvarci. Vecchio scorpione, maledetto avaro! Quando lo vedo sento il sangue montarmi alla testa. Se fossi un altro uomo lo soffocherei…

Paulu s'animò, s'agitò, strinse le mani, come per soffocare qualcuno. Annesa trasalì, s'asciugò le lagrime e disse con voce lamentosa:

— Morisse una buona volta, almeno! Ma non muore, non muore. Ha sette anime come i gatti…

— Sono stato a Nuoro, — raccontò poi il giovine. — Ho cercato denari in ogni buco. Mi avevano indicato uno strozzino, un vecchione nero e gonfio

come un otre. Mi sono umiliato, ho pregato, mi sono avvilito, io, sì, mi sono avvilito fino a pregare come un santo questo vecchio immondo, questo usuraio turpe e vigliacco … Niente! Egli mi ha chiesto la firma di Zua Decherchi … Poi andai da un proprietario nuorese, che mi guardò sorridendo e mi disse: « Ricordo quando tu eri nel seminario di Nuoro: eri un ragazzo che promettevi molto! » E mi mandò via senza i denari! Poi … Ma perchè ricordare queste cose? Ho subìto tutte le umiliazioni, inutilmente; io, io, Paulu Decherchi, io … E ho dovuto chinare il capo come un mendicante.

Annesa chinò il capo, anche lei umiliata e avvilita.

— Non hanno più fiducia in te, — disse timidamente. — Zio Zua ti ha anche screditato, spargendo la voce che tu sei stato la causa della rovina della tua famiglia. Ma se andasse don Simone … forse … troverebbe i denari …

Paulu non la lasciò proseguire. Le strinse la mano con violenza e disse a voce alta:

— Anna, ti perdono perchè non sai quello che dici! Finche vivrò io, nessun altro della mia famiglia dovrà abbassarsi …

Ella tacque ancora; cercò l'altra mano di Paulu, se la portò al viso, la baciò.

— Perchè … — mormorò, quasi parlando a quella mano ora inerte e fredda, - perchè … non cerchi ancora una volta di convincere zio Zua?

— È inutile, - egli rispose con voce accorata.—- Egli non farebbe che insultarmi ancora. Lo sai bene ciò che egli dice continuamente … Lo sai bene, Annesa. Egli dice, che vogliamo rovinarlo, che vogliamo assassinarlo.

— Ah, — ella sospirò, — tante volte ho avuto la tentazione di strappargli le cartelle di sotto al cuscino. Bisognerà fare così …

— Egli è capace di farci arrestare tutti, Anna! Eppoi io non sono un ladro! … Piuttosto mi uccido!

Ella si aggrappò nuovamenle a lui, spaventata e dolente:

— Ecco che torni a parlare così! Paulu, Paulu, non vedi come mi fai paura? Non dire così, non parlare come parlano i pazzi. Ecco come sei, tu! Lasciami parlare, ho diritto anch'io … Paulu, ricordati: tu hai dato tanti dispiaceri ai tuoi nonni ed alla tua santa madre, ed ora vuoi farli morire di vergogna e di spasimo … Non dirla più, sai, quella cosa terribile; non parlarne più …

— Ebbene, taci. Non parliamone più.

— Ascoltami bene, - ella proseguì, sempre più agitata. - Devo dirti una cosa. Ricordati, Paulu; ricordati quando i tuoi parenti volevano farti sposare Caderina Majule. Era ricca, era di buona famiglia: e tu non l'hai voluta perchè non era bella. Ora son passati molti anni; tu non sei più un ragazzo capriccioso. E Caderina Majule non ha preso marito e ti vuole ancora. Sposala, Paulu: tutto si accomoderà … Sposala, Paulu, sposala … Se io fossi in te la sposerai …

Ella parlava come in delirio, soffiandogli sul viso il suo alito ansante: ed egli, a sua volta, teneva le mani abbandonate sui fianchi, il capo chino, gli occhi bassi. Gli pareva di venir meno, di soffocare, di non dover mai più uscire dall'ombra nera e pesante che lo circondava.

— Rispondi, - ella proseguì, scuotendolo con le sue piccole braccia che parevano d'acciaio. - Dimmi di sì. Ci hai pensato, vero? Non aver paura di me, Paulu … Anch'io sposerò Gantine, se tu vorrai; e ce ne andremo lontani, io e lui, e con te non ci vedremo mai più. Tanto, vedi, lo so; io sono nata per seguire una via di sventura La sorte mi odia, e mi ha gettato nel mondo per ischerno, come una maschera ubbriaca getta uno straccio sulla via … Chi sono io? Uno straccio, una cosa che non serve a nulla … Non prenderti pensiero di me, Paulu … Chi sono io?

Paulu l'ascoltava e taceva. Ella gli destava compassione e dispetto. E ad un tratto egli la respinse e mormorò parole crudeli.

— Io non ho mai creduto che io fossi da vendere, Annesa! Ma forse ora è tempo di pensarci, poichè non c'è altro rimedio. Chi lo sa? può darsi che segua il tuo consiglio …

Allora ella tacque, spaventata. Egli la respingeva, ma ella si teneva aggrappata a lui, e solo quando egli ebbe pronunziate le ultime parole, ella aprì le braccia, e cadde a terra come una pianta rampicante priva di sostegno. Egli la credette svenuta e si curvò su lei.

— Che fai ora, Anna?

Ella gemette.

— Lo vedi? - egli disse, con rimprovero e sarcasmo, sollevandola e accarezzandola in viso come una bambina. - Tu stessa lo vedi, come sei sciocca a dirmi certe cose. Tu mi umilii sempre, e se non fossi te, a parlarmi così, non so cosa farei …

— Taci, taci, - ella riprese singhiozzando, - io lo faccio per il tuo bene. Io sono la tua serva, e non dovrei far altro che tacere e ascoltarti in ginocchio … Tu hai ragione, Paulu: sono sciocca … sono sciocca … sono pazza. Certe volte ho idee strane, come quando si ha la febbre: vorrei andare per il mondo, scalza, mendicante, in cerca di fortuna per te … per voi … Non sgridarmi, Paulu mio, cuore mio caro, non sgridarmi … tu l' hai già detto una volta, che io sono come l'edera; come l'edera che si attacca al muro e non se ne distacca più finchè non si secca …

— O finchè il muro non cade, - mormorò l'uomo, col suo accento doloroso e beffardo. - Basta, non parliamone più. Caderina Majule si sposi qualche vecchio mercante di porci, se non ha potuto trovare altri … Io mi tengo la mia piccola Anna e … basta … E ora vado a cercare Ballore Spanu. Egli è ricco, lo sai: forse mi presterà lui i denari per impedire l'asta dei nostri beni. Voglio tentare. Dammi un altro bacio e sta allegra …

Ella gli porse le labbra tremanti, bagnate di lacrime, ed egli le raccolse fra le sue, come un frutto umido di rugiada, e ancora per un attimo entrambi dimenticarono tutti gli affanni, le miserie, gli errori che li separavano.

Poi egli uscì ancora, ed ella sedette di nuovo sul limitare della porta.

Non aveva sonno, e l'idea di doversi chiudere nella camera dove ogni tanto s'udiva il gemito del vecchio asmatico, le dava quasi un senso di terrore. Ma alla sua inquietudine, al suo affanno, si mescolava ora una vaga ebbrezza: ella sentiva ancora il sapore delle labbra di Paulu, e davanti a sè non vedeva che la figura di lui, triste, beffarda e voluttuosa. Questa figura, d'altronde, le stava sempre davanti, la precedeva in tutti i suoi passi come la sua ombra.

Da anni ed anni ella viveva in compagnia di questo fantasma che solo la presenza reale di Paulu faceva dileguare. Ella non era una donna ignorante e incosciente: aveva studiato fino alla quarta elementare, e dopo aveva letto parecchi libri; tutti i libri che Paulu possedeva. Ed egli era stato il suo migliore e più suggestivo maestro. Le aveva insegnato tutto ciò che egli sapeva o credeva di sapere. Le aveva additato le costellazioni, le aveva spiegato l'origine dell'uomo, e il mistero del tuono e del fulmine, e l'aveva eccitata dandole da leggere romanzi d'amore, e infine l'aveva convinta che Dio non esiste.

Ella conservava due o tre dei romanzi letti nella sua prima gioventù: li teneva fra le sue cose più care, giallognoli e scuciti come libri sacri letti e riletti da molte generazioni. E sapeva quasi a memoria quelle storie d'amore e d'angoscia, come leggende famigliari.

Allora, nei tempi lontani della sua adolescenza, la famiglia era ricca e potente. Servi e serve, mendicanti, bambini poveri, donnicciuole, ospiti dei paesi vicini, cavalli, cani, cinghialetti e mufloni addomesticati animavano la casa. Un pescatore di trote veniva tutti i giorni a portare la sua pesca.

Regali andavano, regali venivano: qualche ospite s'indugiava in casa Decherchi persino quattro o cinque giorni, e la tavola era sempre imbandita. E mentre il cortile era sempre pieno di mendicanti, in cucina si nascondeva qualche povero vergognoso cioè qualche individuo che mendicava segretamente, e al quale donna Rachele era lieta di fare la carità.

Annesa, allora, era servita e riverita dalle persone di servizio, come una signorina: più che figlia d'anima era considerata come figlia vera di donna Rachele, ed ella teneva le chiavi in saccoccia, e apriva persino il cassetto ove don Simone riponeva i denari, allora abbondanti.

Ella ricordava bene. E quante volte si era pentita di non aver messo a parte qualche somma, con la quale ora avrebbe potuto ajutare i suoi benefattori caduti in miseria!

Ella aveva partecipato a tutte le vicende della famiglia, in quella casa dove il destino l'aveva gettata come il vento di marzo getta il seme sulla roccia, accanto all'albero cadente. Ed era cresciuta così, come l'edera, allacciandosi al vecchio tronco, lasciandosi travolgere dal turbine che lo schiantava.

Seduta sul limitare della porta, ombra nell'ombra, ella si lasciava avvincere dai ricordi: e questi ricordi erano tristi, e avevano uno sfondo incerto e melanconico come quel cielo notturno che finiva davanti a lei sopra la montagna addormentata.

Solo qualche ricordo, fra gli altri, brillava e si staccava da questo sfondo, simile alle stelle filanti che di tanto in tanto pareva si staccassero dal cielo, stanche di tanta altezza serena, per scendere sulla terra ove si ama e si muore.

Sì, una volta Paulu ritornò da Nuoro e Anna non lo riconobbe, tanto egli s'era fatto alto e bello. Durante quelle vacanze, un giorno, mentre infuriava un temporale, egli le spiegò, meglio che non l'avesse fatto la maestra di terza elementare, perchè l'aria rimbomba dopo che il fulmine l'ha attraversata.

— Io credevo che il tuono fosse la voce di Dio, - ella disse, un po' scherzando, un po' seria.

— Stupida, Dio non esiste! - egli disse, guardandosi attorno, pauroso d'essere udito dai suoi nonni.

— Paulu, che dici? - mormorò Annesa con terrore. - Se ti sente don Simone! Se ti sente prete Virdis!

— Prete Virdis è un chiacchierone, un peccatore come tutti gli altri uomini! Dio non esiste, no, Annesa. Se Dio esistesse - egli riprese - non permetterebbe che nel mondo accadessero certe cose. A parte la solita storia dei ricchi e dei poveri che nascono tali senza averne merito o colpa, ci sono tante altre ingiustizie nel mondo! Tu, per esempio … perchè sei senza padre e senza madre, perchè non sai neppure chi sei? Vedi, se io volessi sposarti non potrei …

Annesa impallidi, sebbene non avesse mai pensato, neppure in sogno, di sposare il figlio dei suoi benefattori.

Poi gli anni passarono. Un giorno in casa Decherchi accadde una cosa spaventosa. Il padre di don Paulu cadde nel cortile, come se avesse inciampato, e non si sollevò più. Le sue ultime parole furono rivolte alla moglie:

— Rachele, ti raccomando quel fanciullo.

E Gantine, il ragazzetto che la voce pubblica diceva figlio del morto, fu preso in casa come servetto. Gli altri servi, siccome Gantine era quasi ancora un bambino e non era neppure buono a scorticare un agnello, lo maltrattavano e lo deridevano; egli si lagnava con donna Rachele.

— Figliolino di Dio, - gli diceva la santa vedova - abbi pazienza. Di' loro che crescerai e diventerai più abile di loro.

E zio Cosimu Damianu, il padre di donna Rachele, aggiungeva:

— Figlio di Sant' Antonio, di' loro così:

Frati vanno e frati vengono
e il convento fermo resta;

voi siete frati randagi, andrete, verrete, ed io resterò sempre nel convento.

Donna Rachele sgridava suo padre perchè « figlio di Sant' Antonio » vuol dire bastardo, e perchè non voleva che i servi avessero a mormorare per la risposta significativa consigliata a Gantine.

Ma don Simone interveniva, sorridente e sereno come sempre:

— Lascia passare trenta giorni per un mese, lascia che dicano quel che vogliono, tanto il prossimo non è mai contento.

E la pace regnava nella famiglia.

Ma in quel tempo appunto cominciò l'esodo dei servi; prima uno, poi un altro, poi tutti. Rimasero soltanto Gantine e un servo pastore, chiamato zio Castigu perchè era un po' scemo. Poi anche questo fu licenziato. La famiglia cadeva in rovina, precipitava sempre più giù, più giù, in un vuoto spaventoso.

I debiti di tre generazioni, i trecento scudi che don Simone aveva preso dalla Banca agricola, le cambiali in bianco di don Pilimu, gli interessi del duecento per cento dei debiti di Paulu, divorarono in pochi anni le tancas, le vigne, le greggie e i cavalli dell'intera famiglia. Donna Rachele piangeva e diceva:

— Vedete, è stato come il fico d'India: da unifoglia ne son nate mille.

Sulle prime anche don Simone e zio Cosimu Damianu piangevano e si bisticciavano; ma col tempo si abituarono alla povertà e don Simone ritornò sereno e sorridente e ripetè il suo filosofico ritornello:

« Lascia passare trenta giorni per un mese ».

Paulu, dopo essere stato cacciato via dal Seminario di Nuoro, non aveva voluto proseguire gli studi: si divertiva, come si divertono molti piccoli proprietari sardi, correndo di villaggio in villaggio per le feste campestri. Tutti i mendicanti della Sardegna, che vanno appunto di festa in festa, lo conoscevano. Anche i ciechi dicevano: « È quel cavaliere di Barunei, don Paulu Decherchi, un riccone ispassiosu » (1) Che ama i divertimenti..

Nei villaggi egli prendeva denaro dagli usurai, nelle feste lo sprecava. Pareva pazzamente innamorato della vita. A giorni era buono e allegro, a giorni cattivo e violento.

Annesa ricordava. Ora Paulu era diventato docile e mansueto; gli anni e le sventure lo avevano domato come un puledro; ma allora! Quante volte l'aveva bastonata perchè ella faceva l'amore con Gantine!

— Vergognati, sfacciata; egli è un servo; è un bastardo.

— Ed io non sono una serva? - ella rispondeva piangendo. - Non sono anch'io figlia di nessuno?

— Egli ha dieci anni meno di te!

— Gli anni non contano; l'albero giovane intreccia i suoi rami con quelli dell'albero vecchio …

Gli occhi di Paulu splendevano come gli occhi di un gatto selvatico.

— Ingrata, sfacciata, mantenuta per l' anima (1) Allevata per carità..

Ella, che amava Gantine perchè rassomigliava a Paulu, così come si ama il fuoco perchè ricorda il sole, piangeva, taceva e lavorava. Era diventata davvero la serva di casa; ma anche donna Rachele lavorava, pregava e taceva.

In quel tempo Paulu si ammogliò. La sposa era una fanciulla nobile, bella, ma povera e malaticcia. Per un anno i due sposi vissero felici; donna Kallina era buona e rendeva buoni tutti quelli che l'avvicinavano. Il marito parve diventare un altro; ma dopo la nascita di una bambina dalla testa enorme, la giovine sposa ammalò gravemente.

Don Paulu la condusse a Cagliari, a Sassari, nel continente; ma donna Kallina morì e un'altra tanca fu venduta.

La casa divenne triste, solitaria; i mendicanti non insistevano più, come prima, per ottenere l'elemosina; gli ospiti si fecero rari.

Don Simone sorrideva sempre, ma con tristezza; e ripeteva che bisogna rassegnarsi a lasciar passare trenta giorni per un mese, ma borbottava perchè la gente non credeva più in Dio e perciò commetteva il male.

Zio Cosimu Damianu, con la piccola Rosa fra le braccia, conveniva che il timor di Dio è un gran freno contro il male, ma difendeva gli errori e le debolezze umane: gli uomini sono nati per il peccato. E la bimba, vivente risultato di molte debolezze e di molti errori umani, chinava la enorme testa sull' omero del vecchio e non protestava.

Intanto Annesa s'era fidanzata con Gantine, dopo aver chiesto il consentimento dei suoi benefattori. Ella aveva passato i trent'anni: che aspettava più? Gantine era povero ma buon lavoratore. Si sarebbero sposati appena i Decherchi avrebbero dato al giovine un po' del denaro che gli dovevano: ma il tempo passava, e il denaro non si vedeva.

Il giovane fidanzato era allegro, buono e sereno come don Simone. Chiamava Annesa con due nomignoli: Pili brunda quando ella si mostrava tenera e allegra, cosa molto rara; e mudòre (1) Che tace. quando ella taceva, triste e cupa, per intere giornate.

— Figlio di Sant' Antonio - diceva zio Cosimu Damianu, tu sai il proverbio sardo: ribu mudu tiradore (2) Fiume (che è) silenzioso (è) travolgente..

In quel tempo Annesa cominciò a non credere più in Dio perchè la famiglia dei suoi benefattori cadeva sempre più in rovina. Era mai possibile l'esistenza di un Dio così cattivo? I Decherchi non avevano fatto altro in vita loro che temerlo, adorarlo e seguirne i precetti, ed Egli li ricompensava mandando loro ogni peggiore sventura.

Ma d'un tratto il Signore parve muoversi a pietà della famiglia così a lungo e duramente provata. Zio Zua, un vecchio parente avaro, ch' era stato alla guerra di Crimea, dove aveva perduto una gamba, propose ai Decherchi di prenderlo in casa. Avrebbe dato un tanto al mese, e poi avrebbe fatto testamento in favore di Rosa. Egli era vecchio, soffriva d'asma, aveva paura di venir derubato. Paulu non amava il vecchio asmatico, al quale era spesso ricorso invano per farsi prestare denari; ma non si oppose a che egli venisse in casa. E ziu Zua venne e prese posto accanto ai due nonni, che usavano prendere il fresco seduti fuor della porta di strada, simili a due vecchi leoni vigilanti l'ingresso d'un palazzo incantato in rovina. La gente passava, ascoltava le discussioni e le chiacchiere dei tre vecchi e li chiamava « I tre re magi con cinque gambe ».

Zio Zua ansava e parlava male dei « giovani d'oggi » alludendo a Paulu; don Simone ammetteva che il nipote s'era rovinato perchè non aveva mai avuto timor di Dio, ma zio Cosimu Damianu, con Rosa sulle ginocchia, stringeva le labbra e difendeva i « giovani d'oggi ».

— Tutti siamo stati giovani ed abbiamo commesso i nostri errori. Il Signore disse: chi è senza peccato scagli la prima pietra …

— Per chi vuoi dire? - gridava il vecchio asmatico, tirando fuori dal petto velloso la medaglia al valor militare. - Guarda qui: la vedi o non la vedi questa medaglia? Guardati in essa come in uno specchio.

Don Simone fingeva di specchiarsi, si accomodava la berretta, poi diceva:

— Veramente non è molto pulito quello specchio. E zio Cosimu Damianu esclamava:

— Ma, figlio di Sant' Antonio, chi accenna a te, Zua Dechè? Però, vedi, è appunto chi è senza peccato che scaglia la prima pietra contro il peccatore. Chi è senza peccato non compatisce, non compatisce …

Poi zio Zua raccontava i suoi ricordi di guerra. La sua voce dispettosa si raddolciva, e spesso egli piangeva, ricordando che La Marmora gli aveva stretto la mano. Ma i suoi ricordi erano molto confusi: fra le altre cose egli si ostinava a dire che i Sardi avevano preso parte alla battaglia di Balaclava, e invano don Simone ripeteva:

— No, è stato alla battaglia della Cernaia.

— No, no, è stato a Bellaclava. Mi ricordo; era d'estate, d'agosto, ma c'era una nebbia che pareva d'inverno. Fin dalla notte noi eravamo sul colle, al comando di quel diavolo di maggiore Corpograndi. (1) Corporandi. Imparatelo questo nome Cor-po-gran-di. Non bisogna sbagliarne una sillaba perchè sarebbe una bestemmia, come sbagliare il nome di Dio.

Un giorno zio Zua cadde per terra come era caduto don Pilimu. Non morì, ma quando lo sollevarono la sua gamba destra era rigida e morta peggio del bastone ferrato che sostituiva l'altra gamba. Lo misero a letto e non si alzò più. Egli diventò insoffribile: nascose sotto il guanciale le sue cartelle di rendita e non le affidò ai parenti neppure per riscuoterne gli interessi. Di notte si svegliava, gridando che volevano derubarlo, e pretendeva che Annesa dormisse nella camera ove dormiva lui. Paulu cominciò ad odiarlo: e Annesa lo odiava perchè lo odava Paulu. E Gantine lo odiava perchè lo odiavano loro.

Fra le persone rimaste fedeli e affezionate alla disgraziata famiglia, c'era zio Castigu, il vecchio servo diventato pastore a solus, che cioè aveva acquistato un certo numero di pecore e le pascolava per conto proprio.

— Girate tutto il mondo, - diceva con ammirazione, parlando della famiglia presso la quale aveva servito per quarant'anni - provate pure a girarlo, se volete: non troverete una famiglia più nobile e buona. Don Simone? Ma se Dio morisse, gli angeli del cielo eleggerebbero don Simone a signore loro e nostro! Bisogna rispettare persino le scarpe di don Simone!

In paese lo deridevano per questo suo feticismo: il messo ogni volta che lo vedeva gli domandava:

— Ebbè, è morto il Signore?

Anche prete Virdis, il rettore, quando zio Castigu andò a confessarsi, lo trattò malamente.

Anghelos santos! (1) Angeli santi (prete Virdis usava quest' intercalare anche coi suoi penitenti). Non dire più queste cose, fratello mio. Il Signore è uno solo e non morrà mai, neppur dopo che avrà fatto morire tutti noi.

Ma zio Castigu non smetteva-di lodare la famiglia « più nobile del mondo ». Anche Annesa godeva tutta l'ammirazione e la confidenza di zio Castigu. Una volta egli le confidò di essere innamorato di una bella e ricca fanciulla del paese, e la pregò di un favore:

— Voglio mandarle una lettera: scrivemela tu, pili brunda: perchè ridi?

— Perchè io non so scrivere lettere!

— Non importa: non sei un avvocato tu! Basta che tu scriva così: « Maria Pasquala, anima mia, ti amo e se tu mi vuoi ti metterò entro una nicchia ». Va, Annesa, fammi questo piacere: per scrivere la lettera ti porterò un foglio di carta di amore che potrebbe essere mandato anche alla Corte reale.

Annesa promise di scrivere la lettera, e zio Castigu portò la famosa carta di amore ch'era poi uno di quei foglietti di carta traforati e adorni di un cuore ferito, usati dagli studentelli per le loro prime dichiarazioni amorose.

Ma la dichiarazione non ebbe l'esito desiderato; anzi un fratello di Maria Pasquala, un giorno, vedendo zio Castigu passare davanti a casa sua, lo rincorse col pungolo, e il pastore fuggi « come un cane a cui siasi messo il fuoco sul muso ».

Un giorno zio Castigu invitò al suo ovile i suoi amici e i suoi ex-padroni. Zio Cosimu Damianu, Paulu e Annesa accettarono l'invito. L'ovile era quasi in cima al monte Santu Juanne, una specie di prealpe al di là della quale il Gennargentu chiude l'orizzonte con le sue cime e i suoi profili argentei.

Enormi roccie di granito, sulle quali il musco disegnava un bizzarro mosaico nero e verde, si accavalcavano stranamente le une sopra le altre, formando piramidi, guglie, edifizi ciclopici e misteriosi. Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra queste roccie, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s'erano arrampicate sulle roccie, avevano anch'esse cercato di salire le une più su delle altre. Tutte le cose in quel luogo di grandezza e di mistero assumevano parvenze strane, e gli uomini solitari che dovevano vivere a contatto con le roccie-alcune delle quali avevano forma di mostri, di pesci giganteschi, d'animali antidiluviani - e comunicavano con l'anima della montagna sussurrante nei boschi, e capivano ciò che diceva il rombo del vento, e il fruscìo delle foglie cadute, questi uomini avevano naturalmente ripetuto mille leggende e le avevano collocate nei punti più orridi e più poetici della montagna.

Vicino all'ovile di zio Castigu, per esempio, poco lontano da una chiesetta medioevale, si scorgeva su una cima una lunga roccia in forma di bara, posata obliquamente su un enorme masso quadrato. Ebbene, là dentro, in quella tomba alta e solenne, che un imperatore poeta non avrebbe sdegnato, la fantasia popolare rinchiudeva un gigante, ucciso a tradimento dai nani astuti che un tempo popolavano la montagna.

Durante la colazione, gl'invitati di zio Castigu, seduti all' ombra di alberi millennarî che coi loro lunghi ciuffi di liane grigiastre parevano vecchi barbuti, non parlarono di altro che di queste leggende.

Due vecchi sposi, che dopo il giorno delle loro nozze avevano sempre mangiato nello stesso piatto, ricordarono il viaggio di nozze di un avo di Paulu.

— Egli sposò una dama di Aritzu. Da Aritzu a Barunei gli sposi furono accompagnati da ventisette parenti che montavano magnifici cavalli bai; solo gli sposi cavalcavano su una giumenta bianca. Attraversarono una montagna, e giunti qui, salirono sulla tomba del gigante, dalla quale si scorge il paese, e tutti spararono in aria i loro fucili … Sembrava una battaglia …

— Voglio salire lassù: chi viene? - domandò Paulu che aveva bevuto abbastanza e sembrava allegro e ringiovanito.

Ma gli altri erano quasi tutti vecchi o stanchi e preferirono sdrajarsi all'ombra degli alberi. Solo Annesa seguì il giovine vedovo, e nessuno mormorò: tutti erano abituati a considerare Paulu e Annesa come fratello e sorella.

Essi andarono: era di maggio, il sole del meriggio batteva sulle roccie, intorno alle quali florivano le rose di macchia: le foglie degli alberi scintillavano.

A un tratto il bosco s'aprì, e fra le due quercie dalle chiome riunite apparve, come nello sfondo di un arco grandioso, la piramide lontana di monte Gonare, azzurra sul cielo luminoso.

A destra del bosco sorgeva la cima rocciosa, sulla quale, nella sua tomba di pietra che il musco copriva d'un drappo di velluto verde, riposava il gigante. La salita era difficile: bisognava saltare di roccia in roccia.

Paulu precedeva, Annesa seguiva: più che altro ella desiderava vedere in lontananza il villaggio. Ad un tratto ella si trovò su alcune pietre che oscillavano: le parve di perdere l'equilibrio e diede un grido. Paulu si volse, tornò indietro, la guardò e le porse la mano.

Salirono più su, sedettero sulla sporgenza del masso, sotto la roccia del gigante: ai loro piedi il bosco precipitava come una grandiosa cascata verde, giù, giù, fino alla costa sul cui giallore le case del villaggio apparivano grigie e nerastre simili ad un mucchio di brage spente. Valli e montagne, valli e montagne si seguivano fino all'orizzonte: tutto era verde, giallo e celeste.

Gli avoltoi in amore stridevano e s'inseguivano, tra il sole ed il vento, nell'aria serena.

Annesa e Paulu non scambiarono una parola; egli era ridiventato triste, ma i suoi occhi ardenti, più che guardare il panorama, fissavano gli avoltoi in amore. Improvvisamente si alzò e Annesa lo seguì. Nel punto ove le pietre si muovevano egli si fermò, le porse ancora la mano e la guardò.

Annesa sentì quello sguardo insolito investirla come una vampa: e le parve di cadere e che tutte le roccie precipitassero sotto di lei. Ma Paulu la teneva sospesa nel cerchio delle sue braccia, e aveva unito le sue alle labbra di lei, in modo che pareva non dovessero staccarsi mai più.

— Annesa, Annesa! - chiamò il vecchio asmatico. La sua voce lontana, accompagnata da un gemito, svegliò Annesa dai suoi sogni: ella si scosse e rientrò nella camera.

Zio Zua, assalito da uno dei suoi frequenti accessi di soffocamento, cercava di sollevarsi e non poteva; le sue mani scarne si agitavano, come lottando penosamente contro un fantasma invisibile.

Annesa gli si avvicinò senza troppa premura, lo sollevò, gli mise un altro cuscino dietro le spalle. A poco a poco egli riprese a respirare meno penosamente e domandò da bere; e appena potè parlare, ricominciò a imprecare e a lamentarsi.

— Tu mi lasei sempre solo, - insisteva con voce ansante, - e le zanzare mi pungono, e il lume si spegne, che ti si spengano gli occhi! Chiamami prete Virdis, almeno: voglio confessarmi, non voglio morire scomunicato, come un moro. Mi date il veleno, voi: tutti mi date il veleno, voi … per farmi morire lentamente, che siate maledetti voi e che sia maledetto il latte delle vostre madri. Ma arriverà presto il momento che desiderate: sì, sì, presto, prestissimo. Mi troverete morto come un cane, e allora sarete contenti …

— Ma state zitto una buona volta, - disse Annesa, minacciosa. - Vergognatevi di dire queste cose, vecchio ingrato, vecchio cattivo …

Egli però continuò a brontolare, anche dopo che ella ebbe spento il lume e si fu coricata. Nel buio ella sentiva quella voce ansante e stridente, e le pareva che una sega le dividesse il cuore. E una parte di quel cuore si conservava buona e pura, e ardeva d'amore, di pietà, di gratitudine, mentre l'altra parte sanguinava e ardeva anch'essa, ma come un tizzo verde, d'una fiamma livida e puzzolente. La dolcezza e la tristezza dei ricordi erano sparite: quella voce di fantasma cattivo richiamava la donna alla realtà opprimente.

Le pareva di soffrire d'asma anche lei; e invece di compatire il vecchio per ciò che egli soffriva, ella ripeteva fra sè le imprecazioni e le male parole di lui.

Finalmente entrambi si calmarono e si assopirono. Una voce dolce e sonora cantò in lontananza una soave battorina d'amore, poi s'avvicinò, risuonò nel silenzio della straducola, accompagnata da un coro melanconico di voci giovanili:

…Sos ojos, sa cara bella,
Su pilu brundu dechidu!
Pro me non bi torrat mai
Cuddu reposu perdidu … (1)

…Gli occhi, il viso bello,
I capelli biondi graziosi!
Per me non ritornerà mai
II riposo perduto.

— È Gantine, povero usignuolo! - pensò Annesa, che nel dormiveglia cominciava già a sognare di Paulu. E, al solito, pensò con tenerezza e con rimorso al suo giovane fidanzato; ma quando la voce tacque, ella si assopì ancora e di nuovo la figura di Paulu le tornò vicina.

L'indomani mattina donna Rachele andò alla messa bassa e fece la comunione: e le altre donne anziane del villaggio, che assistevano alla messa, la videro piangere e pregare fervorosamente, tutta chiusa nel suo scialle nero come in un manto di dolore.

Annesa invece andò con Rosa alla messa cantata delle nove. Col suo bel costume dalla gonna pieghettata e orlata di verde, il corsetto nero e rosso, il grembiale carico di ricami antichi, una benda gialla intorno al capo, ella rassomigliava ad una piccola madonna primitiva, mentre al suo fianco la bimba deforme, goffamente vestita di un abituccio borghese di cotonina rossa, pareva la caricatura d'una civiltà degenerata.

Dopo aver percorso la straducola in pendio, uscirono nella strada comunale, polverosa e sporea, che attraversava tutto il paese, e proseguirono verso la chiesa.

Altre donne, vestite come Annesa, sbucavano da tutte le straducole; gruppi di bimbi laceri ma robusti e belli, dai luminosi occhi neri, giocavano qua e là, sotto gli archi delle porticine, sulle sealette esterne, nei piccoli cortili insolitamente spazzati e inaffiati.

La chiesa di San Basilio, sebbene questo fosse il santo protettore del paese, restava fuori dell'abitato, un centinajo di metri distante dall'ultima casupola nella quale abitava una parente dei Decherchi.

Una specie di cortile vastissimo, roccioso, coperto di fieno e di stoppie calpestate, circondava la chiesetta, addossate alla quale sorgevano alcune stanze e una tettoja dove si riunivano le persone incaricate del buon andamento della festa.

Vicino alla chiesa sorgeva anche una specie di torre quadrata, con un rozzo belvedere, al quale si saliva per una scaletia esterna. La chiesa, le stanze, la torre, d'una costruzione primitiva, di pietre rozze e di fango, avevano preso il colore cupo e rugginoso delle roccie circostanti. A sinistra della chiesa, ai piedi del villaggio, sprofondavasi fissa della sua bellezza e dei suoi pretendenti non aveva altra debolezza.

Un cortiletto senza cancello, circondato da un muricciuolo, precedeva la casetta: dalla porticina spalancata usciva un buon odore di caffè. Annesa gridò:

— Zia Anna, non venite alla messa?

— Aspetto un ospite, — disse la donna, affacciandosi alla porta con una caffettiera in mano. - Rosa, anima mia, come sei bella oggi! Venite avanti; vi darò il caffè. Sei sempre vecchia, Rosa? I dentini non vogliono spuntare, no?

Rosa sorrise, mostrando le sue gengive sguar - nite, e Annesa disse, per conto della bimba:

— Verranno di nuovo, i dentini, e poi cadranno ancora! Cadranno anche i vostri, zia Anna, e non ritorneranno più!…

— Può darsi, — rispose la donna, che aveva bellissimi denti. — Ma venite, belle mie; vi darò il caffè: per la messa è ancora presto. Ho veduto prete Virdis passeggiare davanti alla chiesa: era con un signore che mi è sembrato Paulu…

Allora Annesa, che stava per entrare da zia Anna, cambiò parere e s'avviò verso la chiesa.

— Addio, addio, statevi bene, e tanti saluti alle ragazze. Noi andiamo perchè è tardi.

— Avevo da raccontarti una cosa: verrò da voi domani, — disse zia Anna, salutando con la mano. - Addio, Rosa, non mangiare molti torroni. Non mi hai detto neppure cosa ti ha dato il sorcio, in cambio dei tuoi dentini. Glieli hai poi messi, nel buco dietro la porta?

— Sì, — gridò la bimba voltandosi. — Mi ha lasciato un po' di nocciuole, in cambio dei denti.

— A che servivano le nocciuole, se non avevi denti per schiacciarle?

— Eh, le ho schiacciate con una pietra!

— Addio.

— Addio.

Annesa trascinava Rosa e camminava in fretta, guardando fisso davanti a sè, come affascinata. La bimba disse:

— Sì, babbo è là, davanti alla chiesa, e passeggia con prete Virdis; pare che litighino!

Infatti il vecchio prete gesticolava animatamente. La sua grossa pancia ansava. Egli era bruttissimo, grosso e gonfio; il viso color mattone, paffuto e rugoso nello stesso tempo, esprimeva un malcontento sdegnoso. Una parrucca dai lunghi peli che sulla nuca si mescolavano a qualche ciuffo argenteo di capelli veri, accresceva quell'orrida bruttezza.

Annesa abbassava gli occhi ogni volta che incontrava il prete: e anche quella mattina tentò di passar dritta, trascinandosi dietro la bimba, ma il vecchio sacerdote sollevò una delle sue grosse mani rosee e cominciò a gridare:

— Rosa! Rosa!

Annesa dovette fermarsi.

— Rosa, — disse il prete, avanzandosi fino a coprire con la sua pancia il viso della bimba. - Ho piacere che tu venga alla messa. A quanto pare ci vengono persino le capre, oggi, persino le donne ebree e le donne moresche.

Annesa andava raramente in chiesa: capì l'allusione, ma non si turbò. Guardava nella spianata, fingendo d'interessarsi al quadro variopinto che le si stendeva innanzi agli occhi, e ascoltava i bandi che il messo (1) Banditore., ritto sopra una roccia, gridava alla folla.

Anche Paulu guardava laggiù. La figura del messo, alta e selvaggia, spiccava nera nel sole. Col suo tamburo scintillante, col suo costume metà da paesano, metà da cacciatore, col suo berretto di pelo che pareva la capigliatura naturale di quella testa nera e forte, il messo dava l'idea di un araldo primitivo sceso giù dai boschi della montagna per annunziare qualche cosa di terribile ai pacifici bevitori d'acquavite e di anisetta raccolti intorno ai furbi rivenditori della spianata. Tutti lo guardavano, ed egli gridava con voce stentorea da predicatore:

— Giovani e giovanette, andate a ritrattarvi dal fotografo che abita presso il falegname Francesco Casu. E chi vuole orzo a una lira il quarto (2) Quarto d'ettolitro. corra dal signor Balentinu Virdis. E presso Maria detta la Santissima si vendono uova fresche e sorbetti fatti col ghiaccio…

— Sì, anche le donne moresche! — ripetè prete Virdis. — Quelle che si alzano la mattina col diavolo e vanno a letto, la sera, col demonio. Va, va, Rosa, prega per questa gente, che si converta. Mi racconterai poi la storia del Signore morto. La sai ancora?

— Sissignore.

— Meno male: tu non sarai un'ebrea. Va, va.

E riprese a camminare, sbuffando. Paulu lo seguì, ma prima scambiò con Annesa uno sguardo rapido e ardente che la riempì di gioja.

Anghelos santos! — ella disse piano, con ironia, ripetendo l'intercalare favorito del Virdis. E la piccola Rosa, che amava poco il grosso prete, si mise a ridere, col suo risolino triste di vecchietta.

Annessa ascoltò la messa pensando a Paulu, e ricordandone lo sguardo appassionato. Ella provava sempre un senso di ebbrezza quando il vedovo le dava quei rapidi segni d' amore; le pareva che uno sguardo scambiato così, di giorno, tra la gente che li separava come non avrebbe potuto separarli una muraglia di macigni, valesse più che tutti i loro abbracci notturni.

E le parole pungenti di prete Virdis le sembravano simili a un lontano rumore di vento: uno sguardo di Paulu la ricompensava di ogni affronto e di ogni umiliazione.

Dopo la messa egli l'attese sotto le quercie e prese Rosa per mano.

— Andiamo da quel venditore di torrone - disse a voce alta, poi aggiunse, piano: — Prete Virdis è arrabbiato con te perchè non hai fatto la comunione. Ti ho scusata con lui, dicendogli che avevi molto da fare. Egli non è cattivo; tutt'altro! È simile all'alveare; brutto di apparenza, ma colmo di miele. Mi ha promesso d'intercedere ancora per noi presso zio Zua. Verrà oggi da noi; non essere sgarbata con lui, ti prego. Se poi non si riesce a nulla con zio Zua, fra giorni io vado al paese di Ballore Spanu. Egli mi ha promesso di presentarmi ad una sua parente, sorella del rettore del suo paese; una vecchia denarosa che forse mi presterà qualche migliajo di lire. Vuoi bere un liquore, Annesa?

— Ah, speriamo dunque — ella disse, sospirando. — Dov'è ora il tuo amico?

— Non so: ha promesso di venire a raggiungermi qui, — rispose Paulu, guardando intorno per la spianata.

Intanto s'erano avvicinati al banco del venditore di torroni.

Gli uomini, dopo essere stati in chiesa, si affollavano di nuovo intorno ai liquoristi: e non si contentavano di un solo bicchierino, ma compravano intere bottiglie di liquore che sorbivano, in compagnia degli amici e degli ospiti, fino all'ultima goccia. Quegli uomini vestiti di pelli, dai lunghi capelli unti, alti e rudi come uomini primitivi appena sbucati dalle foreste della montagna, erano avidi di bevande alcooliche e dolci, e si leccavano le labbra con voluttà infantile.

Annesa accettò da Paulu un bicchierino di menta. Accorgendosi d' essere osservata da un gruppo di amici di Gantine, si mostrava triste e compassata, come del resto lo erano tutte le donne che in quel momento attraversavano il cortile della chiesa.

A un tratto ella si sentì presa per la vita da un braccio d'uomo, e vide accanto a sè il piccolo ziu Castigu, vestito a nuovo, pulito, allegro come un fanciullo.

— Come, — egli disse, tenendo Annesa abbracciata, ma rivolgendosi a Paulu — ve ne andate così, senza far visita ai priori della festa? Le par ben fatto, questo, piccolo don Paulu mio? No, no, lei non vorrà offendere San Basilio, andandosene senza visitare i priori. Io sono fra questi, e ci tengo alla sua visita. Andiamo. Rosa, rosellina mia, vuoi che ziu Castigu ti prenda in braccio? O sulle spalle, come un agnellino?

— Io devo andare a casa, — protestò Annesa. - Donna Rachele mi aspetta.

— Tu verrai, pili brunda: prenderò sulle spalle anche te, se vuoì! Andiamo. Gantine è venuto da me stamattina per tempo, ed ha preso il cavallo per recarlo al pascolo. Non è ancora tornato?

— No; diventa sempre più poltrone quel giovine, — disse Paulu. — Fa sempre il comodo suo.

— Ssss! — sussurrò ziu Castigu, accennando ad Annesa.

Ma ella non pareva molto preoccupata per le parole di Paulu: aveva ripreso nella sua la manina di Rosa, e ritornava verso la chiesa, precedendo i due uomini.

— Fra giorni voglio mandare Gantine in una lavorazione di scorza, nella foresta di Lula — riprese il vedovo -. Mi hanno offerto di tenerlo lassù fino al tempo delle seminagioni: così almeno guadagnerà qualche cosa.

— Sì, è un ragazzo molto allegro, — convenne ziu Castigu. — Ma tutti siamo stati allegri, da ragazzi…

— Tutti, sì — ripetè Paulu.

— Anche lei, sì, don Pauleddu mio! Era molto allegro. Ora non più!

— Volati gli uccelli! — disse Paulu, guardando in alto e facendo un segno di addio con la mano. — Volati, volati!…

— Eh, diavolo! Qualcuno ne resterà! — disse il pastore, ridendo col suo riso caratteristico, un po' sciocco, un po' beffardo.

— Ecco, passiamo di qui: entriamo nella cucina grande.

Entrarono nella cucina grande, ove i promotori della festa preparavano un banchetto omerico.

— Ohè, Miale Corbu, eccoci qui! — gridò con orgoglio ziu Castigu, avanzandosi a fianco di Paulu.

Il priore maggiore, cioè il presidente del Comitato per le feste, parve sbucare da una nuvola di fumo denso e grasso, che copriva come d'un velario lo sfondo della cucina. Ed era un uomo degno di esser circondato di nuvole come un dio selvaggio: una specie di gigante, vestito di un corpetto rosso e di un pajo di brache di saja, così larghe che sembravano una gonnella corta ricadente sulle uose di lana nera. Sotto il berretto lungo ripiegato sulla sommità del capo, e fra due bande di lunghi capelli neri unti di grasso, il viso d'un rosso terreo, dal naso aquilino, il mento sporgente, la barba rossiccia ondulata, pareva scolpito nella creta.

Vedendo che Paulu Decherchi onorava d'una sua visita quella riunione di pastori semplici e poveri, il priore sorrise, quasi commosso, e condusse il giovine attraverso le cucine e le stanze facendogli osservare ogni cosa come ad un forestiero.

— Buona festa, quest'anno? — domandò Paulu, guardandosi attorno.

— Non c'è male. Siamo cinquanta promotori; e altri cento pastori hanno concorso alla festa, portando ognuno una pecora e una misura di frumento.

Nei grandi focolari ardevano tronchi interi di quercia, e dentro i paiuoli di rame cuocevano intere pecore. Alcuni uomini, seduti per terra, infocati in viso e con gli occhi lacrimosi per il fumo, facevano girare lentamente, sopra le brace, intere coscie di montone, infilate in grossi spiedi di legno. Una quantità enorme di carne di montone rosseggiava sulle panche disposte lungo le pareti; e nei recipienti di legno e di sughero fumavano ancora le viscere, e qua e là s'ammucchiavano le pelli nere e giallastre delle cento e più pecore sgozzate per festeggiare degnamente il piccolo San Basilio protettore di Barunei.

Mentre Miale Corbu conduceva Paulu in una specie di loggia coperta, dove una donna serviva caffè e liquori alle persone che si degnavano di visitare il priore, ziu Castigu introduceva Rosa ed Annesa nelle stanze attigue alla cucina. In una di queste stanze dovevano pranzare gli uomini, in un'altra le donne e i fanciulli; in una terza, detta la stanza dei confetti, stavano i dolci, in un'altra il pane. Ed in tutte le stanze, basse e fumose, s'agitavano strane figure di uomini barbuti, che preparavano i taglieri e i coltelli per il banchetto.

— Quanto pane! Ce n'è per cento anni! — disse Rosa, con la sua vocina di vecchia, fermandosi davanti ai larghi canestri colmi di focaccie bianche e lucide.

— Magari, rosellina mia, — disse ziu Castigu, che ascoltava religiosamente ogni parola della bimba.

— Chi mangia tutto questo pane? L'orco? - domandò Rosa, curvando su un cestino l'enorme testa che pareva dovesse da un momento all'altro staccarsi dall'esile busto.

Ziu Castigu rise, poi spiegò alla bimba che buona parte del pane veniva consumata durante il banchetto, e il resto veniva distribuito ai mendicanti ed ai fedeli che visitavano il priore.

— Se tu ritornerai fra due ore, rosellina mia, vedrai che gli uomini mangiano più dell' orco. Eccone uno, per esempio, che sfiderebbe l'orco a mangiar più di lui…

Un uomo grosso e tarchiato, con una abbondante barba rossastra, entrava in quel momento nella stanza del pane. Teneva in mano una fetta di carne bollita, fumante, e un coltello a serramanico: e ogni tanto strappava un boccone coi denti, e se qualche tendine resisteva lo tagliava col coltello, senza toglier la carne di bocca, e masticava con avidità, mentre i suoi occhi d'un cupo turchino, luminosi e freddi, esprimevano una voluttà ferina.

— Sì, ricordo, — disse Annesa: — l'anno scorso passai di qui mentre pranzavate, e sembravate tanti lupi. Ognuno di voi teneva sulle ginocchia un tagliere colmo di carne, e mentre ne mangiava una fetta adocchiava già l'altra. Pareva che non aveste mai veduto grazia di Dio!

— È festa: bisogna mangiare! — disse ziu Castigu, senza offendersi. — Mangiamo noi e diamo da mangiare agli altri. Ecco!

Un altro pastore, giovine e bello, col corsetto rosso slacciato e adorno di nastri azzurri, s'avanzò sorridendo, e offrì ad Annesa un tagliere colmo di carne fumante (1) Questi taglieri, di legno, han forma di vassoi, con un manico solo; in un angolo v'è un'incavatura per il sale..

— Bellina, — disse galantemente il giovine, - questo è per te.

Santu Basile meu! — esclamò la donna, sollevando le mani e ritraendosi spaventata. — Tutta quella roba lì? Che ne faccio io di tutta quella carne?

— La mangi! — disse l'altro con voce grave.

Ella capì che non accettando avrebbe offeso il giovine, e disse cortesemente:

— Ebbene, avvolgimi questa roba in un fazzoletto: la porterò a casa.

— A chi? A Gantine tuo?

— Gantine suo? Eccolo qui! — esclamò ziu Castigu.

Infatti il giovine servo entrava in quel momento. Vestito a festa, col corsetto rosso orlato d'azzurro, sbarbato e coi capelli lucidi e lisci, ricadenti sulle orecchie a guisa d'una cuffia di raso nero, Gantine appariva più grazioso del solito, e Annesa lo guardò con tenerezza quasi materna.

— Ho saputo ch'eri qui, — egli le disse, con mal celata gelosia. — Andiamo fuori. Andiamo. Donna Rachele ti aspetta; ha bisogno di te.

Le parole erano semplici, ma la voce insolitamente amara. Che aveva Gantine? Sembrava un po' triste e diffidente; e Annesa si turbò, ma al solito seppe fingere, ed anzi si mostrò offesa.

— Donna Rachele sa quando devo tornare, - disse lentamente. — Tornerò a casa quando mi piacerà.

— Tu vieni subito con me, — ripetè Gantine, facendosi pallido. — Ziu Castigu, diteglielo voi.

— Gantine è geloso! — esclamò beffardo il giovane dal tagliere. — Va, bellina, va. Egli ti comprerà il torrone. Del resto hai torto, Gantine. Siamo tutti fratelli, qui, non siamo stranieri, e nessuno tenta rubarti la tua colomba.

— Fratelli? Gente tua, morte tua… — rispose Gantine; poi parve pentirsi della sua frase, e rise, d'un riso forzato.

Annesa palpitò, ma finse di non aver udito le parole del fidanzato.

— Andiamo. Rosa, dammi la manina. Ziu Castigu, se don Paulu domanda di Rosa ditegli che siamo già andate via.

Uscì, per una porticina che s'apriva in fondo alla stanza del pane, e il servo la seguì. Da quella parte il luogo era quasi deserto: solo alcuni mendicanti, accovacciati fra le roccie e le macchie, divoravano il pane e la carne che il priore aveva fatto loro distribuire. Precisamente in quel punto, dove cominciava il sentiero della montagna, era morto il vecchio cieco che aveva condotto Annesa nel villaggio. Ella non ricordava nulla del misterioso fatto, ma ogni volta che era costretta a passare di là le pareva di rivedere il vecchio mendicante morto; provava un confuso sentimento di angoscia e di umiliazione, e diceva a sè stessa:

— Egli mi ha condotto e lasciato qui, mentre poteva condurmi altrove… Sarei stata una mendicante, una vera serva, ma avrei sofferto meno. Eppure…

Eppure, in fondo, ella non concepiva la vita in altro modo, senza Paulu, senza dolore, senza passione.

— Ero nata per questo…

Più che mai in quel giorno, passando con Rosa e Gantine nel luogo ove era morto il vecchio, ella si sentì umiliata e triste: affrettò il passo e guardò lontano, con gli occhi velati, col viso coperto dalla solita maschera di tristezza sdegnosa.

Gantine la raggiunse: le si mise a fianco, la guardò fisso.

— Anna, — le disse, quasi supplichevole, — non essere così sdegnata. Perdonami, Anna, l'ho fatto per il tuo bene. Tu sai che le donne non entrano là, dove sono gli uomini, o v'entrano coi loro mariti, coi loro fratelli.

— Io sono entrata con don Paulu.

— Ebbene, egli appunto non è tuo marito, non è tuo fratello — riprese il giovine sospirando. — I miei amici vi hanno veduti assieme e hanno mormorato. La gente è maliziosa, Anna!

— Questa è nuova — ella esclamò con sarcasmo. E affrettò di nuovo il passo, trascinandosi dietro la bimba pesante. Svoltarono, si ritrovarono presso il venditore di torrone. Più in là l'ospite povero, esponeva le sue briglie ed i suoi sproni sopra una bisaccia distesa per terra come un tappeto. Vedendo Gantine, egli sorrise e fece addio con la mano.

— Ebbene, — disse il giovine servo avvicinandosi, — avresti per caso una briglia per una puledra indomita?

Ed entrambi guardarono Annesa e risero.

— Anna, — pregò poi Gantine, — mi permetti di offrirti una libbra di torrone?

— Le puledre non mangiano torrone, — ella rispose, rassicurata.

Gantine disse qualche altra parola, ma la sua voce fu coperta dal rumore assordante del tamburo che risuonò quasi lugubre nell'improvviso silenzio della folla.

Il messo annunziava, con la sua voce rauca e alta di predicatore, che alle cinque pomeridiane sarebbe cominciata la corsa dei cavalli.

— Primo premio, venti lire in argento e un drappo di broccato fino: secondo premio, dieci lire in argento e un fazzoletto di seta…

Un nugolo di ragazzacci circondava e molestava il messo: uno spingeva la sua audacia fino a battere il tamburo con un bastoncino.

— Terzo premio, uno scudo d'argento e una berretta sarda nuova fiammante. — Ragazzi, levatevimi d'intorno, altrimenti vi distribuisco tanti calci che non vedete dove andate a finire!

Verso le tre pomeridiane Annesa, mentre attraversava l'andito, vide nel vano della porta semiaperta la grossa pancia di prete Virdis. Col suo passo leggero e silenzioso ella corse incontro al vecchio sacerdote, e mentre spalancava la porta, gli sorrise come non gli aveva mai sorriso.

Il sole, che batteva sulla facciata della vecchia casa e illuminavatutta la straducola deserta, penetrò nell'andito e indorò il viso smorto di Annesa. Il prete la guardava intensamente; le sbattè s ul braccio un fazzoletto rosso e turchino ch'egli teneva sempre in mano, poi le domandò:

— Ebbene, a che pensiamo? Mi sembri pallida, donna. Sei malata?

— Io? Non sono stata mai così bene, prete Virdis mio! Venga, venga avanti.

Ella volse le spalle, corse ad aprire l'uscio della camera del vecchio asmatico. Il prete si avanzò, sbuffando, entrò, si guardò attorno.

Ziu Zua pareva assopito, ma appena scorse il prete si animò, si agitò.

— E gli altri? Come va, compare Zua?

— Don Simone è uscito, ziu Cosimu e donna Rachela sono nell'orto. Devo chiamarli, prete Virdis? — domandò Annesa con premura. Ma subito si accorse che ziu Zua s'era allarmato per la visita del prete, e si pentì della sua domanda.

— Ora vado a chiamarli: s'accomodi.

— Annesa, tira su questo cuscino, — le ordinò il vecchio asmatico.

Ella si avvicinò e accomodò i cuscini, mentre il prete sedeva accanto al letto asciugandosi il sudore del viso e del collo col suo famoso fazzoletto turchino e rosso.

— Aufh! Aufh! Sono stanco morto! Avete ospiti, Annesa?

— Sissignore: due. Un ricco proprietario e un venditore di briglie. Vanno bene così, i cuscini, ziu Zua?

— Va bene, vattene! — rispose duramente l'infermo.

Ella s'allontanò, e il prete s'accorse che il viso di ziu Zua s'era fatto cupo, più diffidente e brutto del solito.

— Aufh! Aufh! Quante mosche avete! Annesa, perchè non chiudi un po' quelle imposte?

Annesa socchiuse la finestra, uscì, si appoggiò all'uscio: ma per qualche momento non udì che lo sbuffare del prete e i sospiri anelanti del vecchio. Brutto segno, quando ziu Zua sospirava così, esageratamente. E prete Virdis lo sapeva, ed anche egli sbuffava più forte del solito.

Finalmente il vecchio asmatico domandò:

— Perchè questa visita, a quest'ora? Avete fatto buona festa, compare Virdis?

— La festa non è ancora finita, compare Zua. C'è ancora la processione, la corsa dei cavalli, la benedizione.

— Ah, — riprese il vecchio, con voce melanconica — chi credeva, due o tre anni fa, che io non avrei più partecipato alla festa? Son vivo e son morto… Tutto per me è finito.

Sospirò e abbandonò sui cuscini la testa cadaverica: due lagrime apparvero negli angoli rugosi dei suoi occhi, come gocce di rugiada fra le pieghe d'una foglia morta.

— No, — disse una voce grave e dolce che ad Annesa non parve più la voce di prete Virdis, — niente è finito, Zua Dechè! Tutto invece deve cominciare…

— Io sono un uomo morto, compare Virdis!

— Che cosa è la nostra vita davanti all'eternità, Zua Dechè? Un granellino di sabbia davanti al mare, una piuma nel cielo infinito. E le nostre pene più gravi, e tutta la nostra esistenza e le sue passioni ed i suoi orrori non sono che soffi di vento. Oggi siamo vivi, domani saremo morti; e solo allora potremo dire: tutto incomincia e nulla finirà…

Il vecchio asmatico sospirò ancora.

— Sia fatta la volontà di Dio, compare Virdis! Ch'egli mi prenda o mi lasci, per me ormai è la stessa cosa. Gli uomini come me, anzi, farebbero bene a morir presto. Che faccio io nel mondo? Sono di peso a me ed agli altri. Qualcuno, del resto, l'ha già capito benissimo e pensa a spazzarmi dal mondo come si spazza l' immondezza da una stanza o da una strada…

Dietro la porta Annesa sussultò: si mise una mano sulla fronte e cessò di respirare per ascoltar meglio. E la voce di prete Virdis risuonò di nuovo grossa e rauca:

— Aufh! Aufh! Che parole son queste, compare Zua? Perchè parlate così? E se vi sentissero?

— E credete voi che non ci sia qualche orecchio aperto per sentirmi, compare Virdis? Ogni porta, qui, ogni finestra, ogni buco è fornito d'orecchie per sentirmi, come ogni mano è pronta a colpirmi! Mi ascoltino pure: o che forse non parlo apertamente, in presenza di tutti?… L'eternità? - disse poi il vecchio, sempre più ansante e agitato. - Voi parlate dell'eternità, compare Virdis? L'eternità è in questo mondo, per chi soffre: ogni ora è un anno, ogni giorno è un secolo d'agonia. Ma basta, ripeto, sia fatta la volontà di Dio.

— Voi delirate, — riprese prete Virdis. — Ve l'ho già detto mille volte: è una malattia la vostra, una manìa di persecuzione. Chi pensa a farvi del male? E perchè? E se pensate questo, perchè rimanete qui?

— E dove andare? — chiese il vecchio, piangendo. - Io non ho casa, non ho fratelli, non ho amici. Nessuno mi vuol bene. Dovunque vada ci sarà sempre qualcuno che avrà intenzione di derubarmi. Tutti mi odiano perchè ho con me pochi soldi. L'aria stessa mi è nemica e non si lascia respirare da me…

— Zua Dechè, buttateli via, allora, questi pochi soldi: o fate una opera di carità… Quando non avrete più niente…

— Quando non avrò più niente sarà peggio ancora: sarò considerato come un cane vecchio, come un cavallo vecchio…

— Va bene! Vi uccideranno lo stesso! — esclamò il prete, adirandosi. — Zua, Zua, il vostro male è davvero inguaribile… E siete voi che non avete timor di Dio. E siete voi che non amate nessuno, che non avete mai amato nessuno…

— Io… Io…

— Si, voi, compare Zua! Chi avete mai amato, voi? I denari soltanto. Quante volte vi ho detto, molti e molti anni or sono: « Compare, createvi una famiglia; compare, seguite i precetti di Dio… »

— Nessuno meglio di me ha seguito i precetti di Dio. Io non ho mai peccato, non ho rubato, non ho ucciso, non ho deposto il falso, non ho guardato la donna altrui. Ma Dio è ingiusto…

— Anche questa, anghelos santos! — gridò il prete, battendo le mani, sempre più irritato. - Ora non c' è che un Dio cattivo e ingiusto. Vecchi, giovani, uomini, donne, tutti se la prendono con Dio. È molto comodo, accusare il Signore del male che noi stessi ci facciamo. Ma bravo, Zua dechè! Anche voi, vecchio pezzo d'asino! Lasciatemi parlare, altrimenti schianto! perchè io non mi offendo se mi insultate, se mi calunniate, ed anche se mi bastonate: ma non posso sopportare che si offenda Dio. Questo no! Ah, è Dio che vi dice di non ajutare il prossimo, di non amarlo, di non fare agli altri il male che non volete sia fatto a voi? È Dio che vi ha detto di starvene sempre solo nella vita, per non aver seccature, per accumulare denari, per non aver responsabilità? E ora prendetevi questa, compare mio! Statevene solo per tutta la vita, solo, si, appunto solo come un cane vecchio.

Ziu Zua sospirava e gemeva, ma non osava più protestare, forse dando fra sè ragione al vecchio amico. E il vecchio amico proseguì:

— Sì, è proprio Dio che vi consiglia l'avarizia, e che vi dice: nascondili bene i tuoi soldi, Zua, nascondili e amali sopra ogni cosa, anche più di te stesso. E non dare ajuto a chi sta per naufragare e ti porge disperatamente le mani…

— Ah, abbiamo capito! — disse allora il vecchio, sollevandosi. — Abbiamo capito.

— Voi non avete capito niente, invece!

— Ho capito… ho capito… -ripetè l'altro, che volle di nuovo cambiare discorso. — Tutto il male ce lo siamo fatto noi. Anche la gamba me la son rotta io…

— E ve l'ha rotta Dio? Se non andavate alla guerra…

Ma tosto prete Virdis s'interruppe, e comprese che la sua visita poteva giudicarsi inutile: non solo inutile, ma anche dannosa.

— Alla guerra! alla guerra! — gridava il vecchio, agitandosi tutto, ansante, tremante, incosciente. — Ah! ah! ah! Tutto potete rinfacciarmi, ma non questo! Alla guerra! Sicuro, alla guerra… ci sono andato… perchè mi ha mandato il re… perchè alla guerra vanno tutti gli uomini forti, gli uomini di coscienza… E io, io… sono andato, e andrei ancora, io… e La Marmora… e Bellaclava… e la medaglia, eccola, specchiatevi… qui…la medaglia… specchiatevi…

La sua voce rabbiosa s'affievolì, le sue parole finirono in un rantolo.

— È finita! Prete Virdis non può dire davvero d'essere un uomo furbo! — pensò Annesa dietro l'uscio. Fin da principio ella aveva capito che ziu Zua deviava il discorso e provocava il prete, inducendolo a parlar male, per non lasciargli modo di spiegare il motivodella sua visita. Ma compare Virdis era andato anche troppo oltre, e aveva colpito troppo sul vivo il suo vecchio amico: Annesa ora lo sentiva muoversi e sbuffare, incapace di rimediare al mal fatto, ed anche lei stringeva i denti, arrabbiata più contro di lui che contro ziu Zua.

Quella notte il vecchio ebbe un forte accesso d'asma. Annesa, a un certo punto, credette ch'egli dovesse morire e provò uno strano sentimento di gioia e di terrore.

Ah, se il vecchio moriva! Con la sua morte tutto si accomodava. Ma la morte è sempre un avvenimento misterioso e terribile, e non ostante il suo coraggio ed il suo desiderio crudele, Annesa si spaventò all'idea che il vecchio dovesse morirle fra le braccia da un momento all'altro. Aprì quindi l'uscio di cucina e chiamò Gantine. L'ospite povero non era ancora rientrato; il servo dormiva profondamente, ed anzi russava come un vecchio, cosa che dispiaceva molto alla fidanzata.

Ella dovette chiamarlo due volte: egli si svegliò di soprassalto e stentò a capire quello che Annesa diceva. Poi entrò nella camera e s'avvicinò al lettuccio, ma invece di badare al vecchio cominciò a pizzicare la fidanzata, tanto ch'ella s'inquietò.

— Malanno che ti prenda, Gantine, sciocco! Ti ho chiamato per questo?

— E dunque perchè mi hai chiamato? — egli mormorò, sospirando. — Non vedi che ziu Zua sta meglio di me? Perchè respira un po' male? Vedrai che subito passa. Eh, ziu Zua? — gridò poi curvandosi sul letto, — Che c'è? Come va? Volete che chiami il dottore?

Il vecchio stralunava gli occhi, agitava le mani, quasi volendo smuover l'aria intorno a sè. Ma dopo un momento si calmò, e il suo viso congestionato riprese il solito colore giallognolo.

— Compare Virdis… — mormorò.

— Volete che lo chiamiamo? — domandò Annesa con premura.

Egli la guardò, ma non rispose.

— Ora state meglio? Volete il dottore? — insistè Gantine, che si era seduto ai piedi del letto e non aveva intenzione di andarsene.

— Il dottore… Il dottore… Quando è che avete chiamato il dottore per me?… Un po' d'acqua, almeno, datemi… — borbottò il vecchio. — Acqua fresca…

— Eccola.

Annesa gli accostò il bicchiere alla bocca, ma egli assaggiò appena l'acqua e la sputò dentro il bicchiere.

— È fuoco questo, non acqua… Nel pozzo non ce n'è?… Portami un po' d'acqua fresca, almeno…

Per tener fresca l'acqua Annesa legava la brocca ad una corda e la calava nel pozzo. Uscì dunque nel cortile e tirò su la brocca, versò un bicchiere d'acqua e s'avviava per rientrare quando s'accorse che Gantine le veniva incontro.

— Che vuoi? — disse a voce alta.

Egli la prese fra le braccia, la baciò con violenza. Ella rovesciò l'acqua.

— Lasciami, — disse irritata, cercando di svincolarsi, ma egli la baciò e la strinse più forte.

— Sei o no la mia sposa? — le diceva, quasi anelando, cieco di desiderio. — Perchè mi sfuggi sempre? Perchè non vuoi mai vedermi? Prima non eri così, Annesa! Pare che tu ora non mi ami più.

— Lasciami andare: il vecchio aspetta.

— Lascialo aspettare: sarebbe meglio che morisse una buona volta… Se egli muore i padroni potranno finalmente darmi i denari che mi devono, e potremo sposarci. Ma intanto. Annesa, sta qui con me un momento. Tu fuggi sempre… Si direbbe che hai paura.

— Ho paura, si, — ella rispose, un po' ironica.

— Sei onesta, lo so: e questo mi piace. Ma qualche volta puoi stare con me…

— Lasciami — ella insistè, con voce aspra.

— Torna, Annesa; ti aspetto… — egli supplicò. - Fra due o tre giorni devo partire. Se non ci vediamo stasera non potremo vederci più. Vieni, Annesa…

— Lasciami: vedrò.

Egli la lasciò, ma ella non uscì più: anzi si affrettò a richiudere l'uscio col catenaccio, e non rispose ai lamenti e alle imprecazioni del vecchio.

L'indomani mattina per tempo gli ospiti partirono e anche il servo dovette andare sulla montagna per ricondurre il cavallo di Paulu.

Passata la festa, la vita in casa Decherchi riprese il solito corso monotono e triste. I due nonni andavano in chiesa, poi si trattenevano a lungo coi loro vecchi amici, seduti sulle panche di pietra davanti alla porta del Municipio. Di sera, invece, sedevano davanti alla porta di casa, e qualche volta prete Virdis teneva loro compagnia.

Paulu aveva anch'egli i suoi amici, i suoi affari, i suoi intrighi. e quando stava in paese ritornava a casa solo a mezzogiorno e alla sera.

E le due donne lavoravano, e donna Rachele pregava continuamente. A tavola gli uomini parlavano male del prossimo, e raramente si occupavano dei loro affari. Eppure questi affari andavano malissimo. Tre giorni dopo la festa, il messo, che funzionava anche da usciere, notificò ai Decherchi gli atti per la prima asta della casa e della tanca.

Ancora due settimane e tutto sarebbe andato in malora. I nonni e donna Rachele non sembravano tuttavia molto inquieti; aspettavano forse l'intervento della divina provvidenza, o speravano che Paulu trovasse i denari. Anch'egli, del resto sperava ancora. Ballore Spanu gli a veva detto, prima di partire:

— Io sono ancora come un figlio di famiglia, tu lo sai. Non posso disporre di un centesimo. Ma se tu vieni al mio paese posso presentarti alla sorella del parroco, una vecchia riccona, che senza dubbio ti potrà prestare qualche migliaio di lire. Fra otto giorni anche noi avremo la festa: farai bene a venire.

Egli era deciso di tentare ancora questo passo. E se non gli riusciva…

— Non so perchè — disse ad Annesa, la sera prima della partenza — ma son certo che troverò… Non tornerò a casa senza i denari… piuttosto mi uccido…

Non era la prima volta che egli minacciava di suicidarsi; ma Annesa non si era mai tanto spaventata.

Egli parti. Anche Gantine era partito per la foresta di Lula, dove sarebbe rimasto fino al tempo delle seminagioni.

Il vecchio asmatico volle confessarsi. Prete Virdis rimase lungamente con lui, e quando uscè dalla camera e sedette vicino alla porta assieme coi due nonni. Annesa notò in lui un'insolita allegrezza.

— Prete Virdis è allegro — ella disse a donna Rachele. — Deve aver convinto ziu Zua ad aiutarci.

— Dio lo voglia! — sospirò l'altra. — Farei un pellegrinaggio a piedi fino alla madonna di Gonare.

Ma per quanto Annesa ascoltasse, il prete non diede ai vecchi la buona notizia. Egli chiamò Rosa e le fece raccontare la Storia del Signore morto, e discusse a lungo con la bimba circa i particolari di questa Storia, poi chiacchierò con ziu Cosimu e don Simone a proposito di Santus, il pastore accusato di parricidio, e anch'egli sostenne l'innocenza del disgraziato padre.

— È partito ancora: ha saputo che il figlio si trova in un ovile vicino ad Ozieri.

— Sarebbe il caso di appiccarlo davvero, se lo trova! — disse ziu Cosimu, con insolita asprezza.

Prete Virdis cominciò a sbuffare e a gesticolare, scandolezzato.

— Cosimu Damianu! Che dici? che dici? Son parole d'un cristiano, le tue? E che, diventi una bestia feroce, ora?

Allora Rosa raccontò un sogno terribile avuto la notte prima.

— C'era un lupo, lungo, lungo, lungo, con una codina piccola piccola. E correva dietro a un'altra bestia ferocia, in un deserto. Un bel momento apparve un uomo con una canna e uno spiedo…

— Che sogno, Dio mio! — disse ziu Cosimu, facendo gesti di spavento. — Ho paura, io!

Rosa cominciò a ridere, ma poi ridiventò seria e aprì le manine:

— Eh, non aver paura! È un sogno!

— E poi, l'uomo con lo spiedo?

— L'uomo corse, corse. E c'era vicino un altro deserto: poi un altro ancora…

— Insomma ce n'era una provvista, di deserti! - esclamò prete Virdis.

— Ascoltate, ascoltate! — disse Rosa con impazienza.

E i tre vecchi stettero attenti alle chiacchiere fantastiche della bimba, mentre nell'andito Annesa e donna Rachele sognavano, la prima aspettando, con tragica attesa, un momento di pace e di speranza, e la seconda pregando invano un Dio che non si commoveva mai.

Paulu era partito la mattina all'alba. Da molti anni egli non faceva altro che viaggiare così, in cerca di denari, come il cavaliere antico in cerca di tesori. Un po' di sangue di cavaliere spagnuolo scorreva certo nelle vene del nobile sardo spiantato. I tempi sono mutati, però: non si trovano più tesori fra le roccie, nè gente pronta ad aprire la borsa. Tuttavia don Paulu Decherchi camminava, e sperava giungere finalmente in un luogo abitato da persone meno sordide e avare degli strozzini coi quali egli aveva avuto sempre a che fare.

Egli sperava e quasi era certo di trovar finalmente un po' di fortuna.

— La sorella del parroco è una donna di coscienza, — pensava. — Mi darà i soldi e pretenderà un interesse modesto. Così potremo saldare il debito verso la Banca, e poi, col tempo, zio Zua morrà e aggiusteremo per benino i nostri affari.

E va e va. Ad un tratto il suo piccolo cavallo bajo, alla cui sella stava legata la bisaccia a fiori bianchi e rossi, che pareva ritagliata da un vecchio arazzo, si fermò e sollevò la testa fine e nervosa.

Un sentiero s'apriva, al di là di un muricciuolo a secco, a destra dello stradale polveroso e mal tenuto; ma due macchie di rovi rosseggianti di more acerbe ne chiudevano quasi completamente il varco.

— Tu hai ragione, — disse a voce alta Paulu, accarezzando la testa dell' intelligente bestia. — È meglio passare di qui. Il sentiero è brutto, ma c'è meno polvere e più ombra.

E lasciò andare il cavallo che passò cautamente fra le due macchie.

Il sentiero, mal tracciato, serpeggiava lungo i fianchi della grande vallata. La luce rosea-aranciata dell'aurora illuminava dolcemente il passaggio, che pareva un paesaggio primordiale ancora vergine di orme umane. La valle era tutta scavata nel granito; muraglie di roccie, edifizî strani, colonne naturali, cumuli di pietre che sembravano monumenti preistorici, sorgevano qua e là, resi più pittoreschi dal verde delle macchie dicui erano circondati e inghirlandati. Il letto di un torrente, di granito, d'un grigio chiarissimo, solcava la profondità verdognola della valle, e gli oleandri fioriti che crescevano lungo la riva, fra le roccie levigate, parevano piantati entro ciclopici vasi di pietra. L'alloro dalle foglie lucide, il corbezzolo, il mirto dal frutto nero, il ginepro fragrante, le macchie ancora fresche della rosa peonia, e le piante più rare della flora sarda, rivestivano tutta la valle, circondavano le roccie, si arrampicavano fin sulle cime più alte. Montagne bianche e azzurre, alcune ancora velate da vapori fluttuanti che il riflesso dell'aurora tingeva d'un rosa dorato, chiudevano l'orizzonte. In lontananza, ai piedi della montagna boscosa dalla quale scendeva direttamente la valle, scorgevasi ancora il villaggio, bianco e nero tra il verde delle macchie; e più in qua, in una conca grigiastra, si distinguevano le rovine d'un altro paesetto, i cui abitanti. — diceva la leggenda popolare. — erano tutti morti durante una pestilenza misteriosa, o erano stati esterminati in una notte sola dagli abitanti del villaggio vicino che volevano allargare il loro territorio.

Paulu sentiva la poesia del mattino e la bellezza del luogo. Da molto tempo non s'era sentito così allegro e felice: gli pareva d'esser tornato adolescente, quando partiva da casa sua, allegro e spensierato come un uccello, e correva in cerca di piacere, ignaro dell'avvenire. A momenti si metteva persino a cantare.

Sas aes chi olades in s'aèra Mi azes a jucher un' imbasciada… (1)

O uccelli, che volate per l'aria,
Mi porterete un' ambasciata…

E la sua voce fresca e sottile come voce di donna risuonava nel silenzio del sentiero, e il cavallo scuoteva un'orecchia, quasi l'infastidisse l'insolita gajezza del padrone. Ma Paulu lo spronava e continuava a canticchiare. Si, era allegro: il ricordo di Annesa, la speranza di trovare il dentro, la bellezza del mattino, lo eccitavano gradevolmente. Al diavolo i tristi ricordi e le tristi figure, e specialmente quella di zio Zua. e quella del messo con le sue cartacce.

E va e va. Egli scese e risali tutta la valle, attraversò un piccolo altipiano, arrivò in un villaggio, si fermò in una locanda per dar da mangiare al cavallo. Era sua intenzione di ripartire subito; ma una donna lo riconobbe e corse da Pietro Corbu, un ricco proprietario del luogo, per avvertirlo che don Paulu Decherchi era sceso nell'osteria di Zana, la vedova del brigadiere. Don Peu Corbu corse allora dalla vedova Zana, e appena vide Paulu lo caricò d'improperi perchè gli aveva fatto il torto di non recarsi subito a casa sua.

— E che, c'è la peste a casa mia? Da quando in qua Paulu Decherchi va all'osteria, invece d'andare in casa d'amici?

Paulu aveva già domandato denari in prestito a don Peu, che naturalmente glieli aveva negati. Egli domandava denari a tutti i suoi conoscenti, ma non ripeteva la domanda dopo un rifiuto, e serbava rancore quando non otteneva il favore. Tuttavia finse di veder don Peu con piacere, gli fece mille complimenti, ma non volle seguirlo.

— Ho fretta! — disse. — Mi fermo solo un momento. Vado alla festa di Sant' Isidoro.

— La festa è posdomani. Tu resterai qui tutta la giornata di oggi, parola di Peu Corbu!

— Non giurare. Non resto, — replicò Paulu. Invece rimase. Don Peu era uno di quei nobili sardi che, se occorre, non sdegnano di lavorare la terra, ma che per lo più vivono oziosi, in attesa di un amico o di un ospite col quale bere e chiacchierare lungamente.

Afferrò Paulu come una preda, lo portò in giro per il paese, d'osteria in osteria. Bevettero molto entrambi, e Paulu continuò a mostrarsi allegro, e cominciò a raccontare molte fandonie: disse che i suoi affari andavano benissimo, e che il vecchio asmatico gli aveva consegnato le sue cartelle perchè se ne servisse a suo piacere.

— Vedi, — disse, guardandosi il vestito di stoffa inglese finissima, ma goffamente tagliato, — questo vestito me lo ha regalato lui, zio Zua: cioè mi ha regalato cento lire dicendomi di comprarmi un vestito.

— Avete fatto molto bene a prendervi quell'uomo in casa. — disse don Peu, palpando la stoffa della giacca. — Dopo tutto, però, anche voi gli volete bene: se capitava in altra famiglia lo ammazzavano. Zana, ocri madura (1) Dagli occhi grandi., porta un'altra bottiglia di quel diavoletto di moscato.

Zana, una bella vedova dai grandi occhi nerissimi, lasciò il banco della sua botteguccia, nella quale s'ammucchiavano i generi più disparati, ed entrò nella piccola retrobottega dove s'erano rifugiati i due nobili amici. Questa retrobottega, che riceveva luce da un finestrino praticato sul tetto di canne, serviva anche da sala da pranzo: v'era una caratteristica table d' hôte con un canestro ricolmo di quel durissimo pane sardo detto carta di musica, e una pezza di formaggio marcio, da un buco della quale scappavano saltellando molti piccoli vermi bianchi che sembravano assai allegri e birichini. Sulle pareti tinte di rosso non mancavano calendari e immagini sacre. Una fotografia ingrandita riproduceva, esagerandola, la figura di un carabiniere grasso e pacifico, che sembrava un prete travestito da brigadiere.

— Zana, ojos de istella, (1) Occhi di stella.— disse don Peu, mentre la vedova, seria e compassata, versava da bere, — questo nobile qui, vedi, questo cavaliere è vedovo e cerca conforto. Anche tu, mi dissero, cerchi conforto. Non potreste confortarvi a vicenda?

— Don Peu matto, — rispose la vedova con sussiego — se non fosse per rispetto all'ospite le risponderei male.

— Lascialo dire, vedovella, — pregò Paulu.

La vedova, tuttavia, guardò il vedovo: egli la guardava già. Che volete? Entrambi avevano bellissimi occhi, e gli occhi belli son fatti per guardarsi, anche se hanno già versato molte lagrime sulla tomba di persone care.

Zana si trattenne ancora un po' coi suoi avventori, poi tornò nella botteguccia, dove un bambino domandava unu sisinu de lughinzos (2) Un soldo di lucignoli..

Paulu, non sapeva perchè, era diventato triste. Fino a quel momento s'era come suggestionato con le sue vanterie, e gli era parso che realmente i suoi affari andassero bene, e che le cento lire che aveva in tasca non gliele avesse prestate quel goffo e semplice santo uomo di Prete Virdis. Ma nell'ombra che si addensava nella piccola retrobottega rossa, egli rivedeva come in sogno certe figure lugubri; il viso del messo, nero e selvaggio, balzava dietro la figura cadaverica del vecchio asmatico …

— È ancora una bella donnetta, — disse don Peu, accennando alla vedova — ed ha anche dei soldi, dicono. E dicono … io non affermo nulla … parola di don Peu, non so nulla … ma dicono … Bevi dunque, Paulo Decherchi. A che pensi?

— Non bevo più. Che dicono, dunque?

— Tu devi bere, parola di don Peu! Ah, ti preme sapere cosa dicono? Non si può dire, qui: c'è il brigadiere che ci ascolta, ah! ah! Addio!

Don Peu fece un cenno di addio alla fotografia e Paulu bevette. Il moscato della vedova del brigadiere fece ancora sparire la figura dell'usciere.

— Cosa dicono? Cosa dicono, Peu?

Don Peu abbassò la voce e raccontò varie storielle sul conto di Zana: ogni tanto sollevava gli occhi maliziosi e guardava il viso bonario del brigadiere morto, che, nella penombra, pareva affacciarsi da un mondo lontano per ascoltare con indulgenza le avventure della sua vedova. Ed anche Paulu lo guardava e rideva, dimenticandosi che fra otto giorni la Banca agricola avrebbe inesorabilmente messo all'asta la vecchia case e l'ultima tanca della famiglia Decherchi.

L'indomani all'alba riparti, e verso le dieci arrivò al paese di Ballore. Il tempo s'era improvvisamente rinfrescato: sembrava d'autunno. Egli non si sentiva più allegro come il giorno prima: la sbornia gli aveva lasciato la bocca acre e la gola arida. Ricordava le due ore passate nel retrobottega della vedova come un sogno eccitante: il vino, le storielle dell'amico, la presenza di Zana che ogni tanto entrava e con qualche scusa si tratteneva presso la tavola, lo avevano reso folle e incosciente come nei beati tempi della sua prima giovinezza. Nonostante le proteste di don Peu egli aveva voluto pagare una bottiglia, e per pagarla aveva tirato fuori un marengo, e siccome la vedova non aveva abbastanza spiccioli per il resto, egli aveva detto:

— Bene, mi darai il resto quando ripasserò, fra tre giorni.

Zana voleva fargli credito, don Peu voleva prestargli gli spiccioli: egli finse di stizzirsi. L'amico credette che egli facesse lo splendido per cattivarsi l'animo di Zana, e guardò ridendo la fotografia.

In viaggio Paulu ricordava la figura alta e bella della vedova, il suo viso roseo, le labbra voluttuose; ma pensava anche alla piccola Annesa, all'edera tenace e soffocante della quale egli solo conosceva gli abbracci e dalla quale sentiva di non potersi liberare mai più, neppure volendolo.

— Zana è bella, ma fosse anche una donna onesta non si potrebbe amare a lungo, — pensava. - Annesa è un tesoro nascosto, inesauribile: ogni suo bacio mi sembra il primo.

Egli non diceva a sè stesso che il segreto amoroso di Annesa stava tutto nella passione tragica che egli le inspirava; non lo diceva, ma lo sentiva, e si lasciava prendere e avvolgere tutto da questa passione come il ramo dail'edera. Più che amare si lasciava amare, e senza essere deliberatamente infedele, guardava e desiderava le altre donne e si lasciava prendere da loro con piacere infinito.

Così, senza dimenticare Annesa, ma pensando alla bella vedova, arrivò al villaggio. Grandi nuvole rosee coprivano il sole, una mite luminosità indorava le colline coperte di stoppia, al di là delle quali sorgeva un monte calcareo che pareva di marmo rosa. Era il classico paesaggio sardo, grigio e giallo, con file di macchie verdi che risaltavano fra l'oro delle stoppie: piccole vacche nere s'abbeveravano hell'esile ruscello, e le figure dei pastori, vestiti di rosso e di nero, si disegnavano vivacemente sul giallo della collina. Ma all'avvicinarsi del paesetto, tutto diventava triste: la strada polverosa, l'aria irrespirabile per l'odore delle immondezze. La chiesetta precedeva di un centinaio di metri il paese, e sorgeva in mezzo ad un campo arido, sparso di cumuli di pietre, di roccie sovraposte, di massi che formavano circoli, coni, piramidi. Pareva che un popolo primitivo fosse passato in quel campo, tentando costruzioni che aveva poi abbandonato incomplete: tutto era silenzio e desolazione.

Passando dietro la chiesetta Paulu vide alcuni paesani intenti a costrurre capanne di frasche, per la festa che ricorreva l'indomani, e li salutò con affabilità rozza, come dovevano salutare i signorotti feudali, due secoli prima.

Entrò nel paese, attraversato dalla strada comunale: le zampe del cavallo affondavano nella polvere e nelle immondezze. Casupole di pietra, fabbricate sulla roccia, si aggruppavano attorno a qualche costruzione nuova; donne scalze e in cuffia, bambini laceri, ragazzetti semi-nudi, tutto un popolo che pareva sbucato da un sottosuolo lurido e bujo, animava la strada polverosa: tutti susurravano nel vedere don Paulu Decherchi che continuava a distribuire saluti dall'alto del suo cavallo.

Nel passare davanti ad una casa antica, meno povera delle altre, egli si irrigidì, fece caracollare il cavallo, e guardò le finestruole munite d'inferriata. In quella casetta abitava la sorella del rettore, una vecchia molto ricca, la quale appunto doveva prestare i denari al cavaliere spiantato. Ma nessuno apparve alle finestre ed egli passò oltre; il suo amico abitava in fondo alla straducola, in una casetta costrutta sopra la roccia, in fondo ad un cortile aperto.

Ballore Spanu era assente, ma la sua famiglia, composta dalla mamma e da sette sorelle nubili, la più giovane delle quali aveva passato la trentina, accolse l'ospite con vive manifestazioni di simpatia.

— Ballore è in campagna, — disse la madre, una vecchia piccola e grossa, dal viso giallognolo quasi completamente nascosto da una benda nera. — C'è un incendio, in un bosco vicino alle nostre tanche, e Ballore mio è andato per ajutare a smorzarlo. Ma tornerà verso sera. E i suoi parenti come stanno, don Paulu? E donna Rachele? Ah, ricordo ancora quando ella venne alla nostra festa: era sposa; sembrava un garofano, tanto era bella.

Le sette bajanas (1) Zitelle. s'affollavano attorno a Paulu, e chi gli serviva il caffè, chi gli porgeva il catino per lavarsi. Si rassomigliavano tutte in modo sorprendente; piccole, grosse, col viso grande, giallognolo, e le folte sopracciglia nere riunite sopra il naso aquilino.

Grandi casse nere e rossicce, scolpite con arte primitiva, un letto a baldacchino e una vecchia panca nera, arredavano la camera che riceveva luce dalla porta: alcune galline entravano ed uscivano liberamente.

Paulu bevette il caffè, si lavò, ascoltò le chiacchiere della vecchia, la quale gli raccontò che litigava da sette anni con un vicino, per un diritto di passaggio in una tanca.

— Sette anni, figlio mio. Solo gli avvocati m' hanno già succhiato più di duemila trecento scudi. Ma è per il puntiglio, capirà: pur di vincer la lite, andrei a chieder l'elemosina.

Verso sera egli uscì. Ma le chiacchiere della vecchia, l'assenza dell'amico, gli sguardi delle sette vecchie zitelle dalle sopracciglia selvagge, lo avevano mortalmente rattristato. Girovagò per il paese, domandandosi se doveva far visita al rettore, che non conosceva ancora. Il cielo si copriva di nuvole, il paesetto, al confronto del quale Barunei pareva a Paulu una cittadina graziosa, dava l'idea di un covo di mendicanti, cupo sotto il cielo cupo.

Gli uomini tornavano dai campi e dai pascoli, alcuni a piedi, altri su piccoli cavalli bianchi o neri: e parevano venir di lontano, silenziosi e stanchi come cavalieri erranti.

A un tratto la disperazione avvolse col suo velo gelido il cuore di Paulu.

— Dove son venuto a cercar fortuna! In un immondezzajo! — egli pensava, dirigendosi verso la chiesetta fra le roccie. — È mai possibile che trovi denari qui, proprio qui?

Gli uomini avevano finito di costrurre le baracche; la gente s'avviava alla chiesa, dove il Rettore cantava i vespri. Paulu si fermò a guardare le donne, alcune delle quali bellissime nonostante il costume rozzo e barocco, poi anch'egli entrò in chiesa e si pose vicino ad uno strano simulacro che rappresentava la Vergine assisa sulle nuvole. Le nuvole erano di legno nero, rotonde come palle: la Vergine, in cuffia ed in grembiale, pareva un idolo preistorico, mostruoso ed informe. Paulu conosceva i santi delle chiesette dei villaggi sardi, e non s'impressionò; ma d'un tratto quella Vergine gli ricordò i quadretti sacri della retrobottega di Zana, e un'idea gli balenò in mente. Ma subito la respinse con ribrezzo. No, egli poteva abbassarsi a tutto, poteva umiliarsi ai più ignobili usurai, poteva anche lasciar mettere all'asta la casa e vedere il vecchio nonno e la povera donna Rachele e l'infelice Rosa cacciati dal nido antico come bestie dal covo; ma abbassarsi a chiedere denari ad una donna equivoca mai, mai.

— Meglio morire, — pensò, chinando la testa. L'idea del suicidio non lo spaventava. — Se io mi uccido zio Zua salverà la famiglia. Egli mi odia, ed è per far dispetto a me che non vuole ajutarci, ma se io muojo …

La figurina di Annesa gli apparve nella penombra della chiesetta; e più che al dolore dei suoi nonni ed all'angoscia di sua madre, egli pensò alla disperazione di lei, e decise di avvertirla del suo funesto proposito.

— Così si preparerà, e dopo non si tradirà, non farà capire che eravamo amanti, e potrà egualmente sposare Gantine. No, non voglio rovinarla, povera Annesa, anima mia cara …

Lagrime sincere gli scorsero lungo le guancie; per nascondere il suo dolore s'inginocchiò, depose il cappello per terra, appoggiò un gomito ad una mano e con l'altra si strinse le tempie.

Un coro d'una tristezza selvaggia indescrivibile risonava nella chiesetta: pareva un rombo lontano di tuono, attraversato da melanconici squilli di campane, da lamenti e singhiozzi infantili. Gli uomini, inginocchiati presso l'altare, intonavano una cantilena lamentosa e nostalgica, con voci basse, eguali, supplichevoli, che parevano venir di lontano; mentre le donne, sedute per terra in fondo alla chiesa, rispondevano con voce cupa e squillante: sopratutto la voce di una che pareva la direttrice del coro risuonava alta e metallica, come il rintocco d'una campana.

L'ombra s'addensava: i pochi ceri dell'altare illuminavano appena il gruppo degli uomini, che appariva nero e bianco in un chiaroscuro lugubre. Paulu non dimenticò mai quell'ora tragica della sua vita. Quel canto selvaggio e triste gli ricorava tutta la sua fanciullezza triste e selvaggia. Figure dimenticate gli passavano in mente, balzavano come dalla penombra della chiesetta e lo assalivano, lo stringevano, gli gridavano strane cose. Rivedeva certi profili di servi che erano stati lunghi anni in casa sua: udiva la sua balia, che pettinava la piccola Annesa e cantava una filastrocca:

Isperta, isperta, pilu,
pilu brundu che seda(1)

Pettina, pettina, capello,
capello biondo come seta …

.

Poi la voce taceva, la balia spariva: al suo posto sedeva il grosso prete Virdis, col fazzoletto in mano, e Rosa passava lentamente in fondo al cortile. Donna Kallina, la povera morta, cerea e trasparente come un fantasma, sedeva al sole, cercando invano di scaldarsi.

E i devoti, nella chiesetta sempre più melanconica, proseguivano il loro coro desolato: pareva che un popolo nomade passasse al di fuori, nel campo roccioso, intonando un canto nostalgico, un addio alla patria perduta.

Paulu sentiva quest'arcana nostalgia che è nel carattere del popolo sardo. La sete del piacere, del godimento, delle avventure, lo aveva sin da fanciullo spinto in una via che non era la sua anch'egli aveva continuamente sognato una patria lontana, un luogo di di gioja dove ora sentiva che non sarebbe arrivato mai più.

Le sette sorelle di Ballore rimasero edificate per il contegno che egli tenne durante la novena. Ma Ballore, ch'era tornato dalla tanca con le mani scottate, stanco e di cattivo umore, guardò Paulu e vedendolo molto abbattuto pensò:

— Deve essere in terribili condizioni: egli che non crede in Dio ha finto di pregare per intenerire la sorella del Rettore.

E si domandò se non aveva fatto male ad invitarlo.

— Come restituirà i denari? — pensava. — Egli non possiede più nulla. Bella figura farò io col Rettore e con sua sorella!

Rimasti soli, nella camera dal letto a baldacchino, dove era stata preparata anche la tavola per l'ospite, i due amici si guardarono in viso.

— Vuoi che usciamo? — domandò Ballore. Ma Paulu capì che l'amico era stanco e di cattivo umore e disse:

— Dove vuoi andare? Dalla persona alla quale hai promesso di presentarmi? È forse troppo tardi. Non si domandano prestiti, a quest'ora!

— Se occorre, perchè no? — disse Ballore: poi sospirò. — Ah, come sono stanco! Per poco il fuoco non mi avvolgeva e mi abbrustoliva come una fava! Ma l'abbiamo domato: fuggiva come un diavolo, e noi dietro, con fronde e bastoni, lo inseguivamo e lo battevamo e lo schiacciavamo come una bestia. Meno male, non è arrivato al bosco, ma ti dico io ci ha ben morsicato: guarda.

Fece vedere le braccia rosse, le mani infiammate: anche la barba e persino le sopracciglia folte e congiunte erano bruciacchiate. Egli sentiva tutta la distanza che passava fra lui, tipo rozzo e forte di lavoratore, energico ed avaro, pronto a tutto, anche a combattere col fuoco, e Paulu dal viso fine e pallido, dagli occhi melanconici di donna ancora cerchiati d'angoscia! E guardava il suo ospite, e ne sentiva pietà; ma che poteva farci? No. non poteva ajutarlo: egli aveva tanti nemici, tante liti, doveva pagare tanti avvocati: agli amici bastava prodigare buone parole. Buone parole si, quante Paulu ne volle: tanto che egli s'inteneri e si mostrò con Ballore umile e sfiduciato quanto con don Peu s'era mostrato borioso.

— Te l'ho già detto, Ballò. Io sono rovinato. Se tu non m'ajuti io non so che avverrà di me. È meglio finirla: se io muojo forse le sorti della mia famiglia muteranno: vedi, son io il cattivo genio della mia casa: dopo la mia nascita è cominciata la decadenza. Sono andato di male in peggio, di male in peggio …

— Ah, non parlare così, — disse Ballore. — Sei giovane, sei sano. Puoi fare, se non altro, un buon matrimonio. Mi meraviglio, anzi, che tu non ci pensi. Donna Kallina, beata, era una santa, ma credo che la sua anima buona gioirebbe se …

— Taci, — supplicò Paulu. — Che ella non ti senta. Io non riprenderò mai moglie, mai:

— Eppure è forse l'unico mezzo …

Paulu credette che Ballore insistesse forse per proporgli una delle sue sorelle, e provò un senso di freddo. Le donne gli piacevano, anche se brutte, purchè simpatiche, ma quelle sette vecchie vergini dalle sopracciglia minacciose gli davano l'idea di esseri ibridi, metà donne e metà uccelli, e gli destavano un invincibile disgusto.

— Ballore, — disse, pensando ad Annesa, — siamo uomini entrambi e tu mi compatirai. Devo dirti una cosa. Io ho una relazione segreta con una donna. Non sono un miserabile: son disgraziato ma non disonesto. Forse non sposerò mai questa donna, ma non l'abbandonerò mai …

— Perchè non puoi sposarla? È povera?

— È maritata, — disse Paulu, per non far sospettare di Annesa. — lo le ho voluto sempre bene, fin da bambino, ma la fatalità ci ha separato. Io presi moglie, poi quando rimasi vedovo rividi la donna. In quel tempo, per il mio lutto, ero costretto ad una vita triste, casta. Non potevo divertirmi, non avvicinavo donne. Un giorno mi trovai solo con la mia amica. in campagna. Io l'avevo sempre rispettata, e speravo di non lasciarmi vincere mai dalla passione. Ma il desiderio fu più forte di me, mi vinse, mi accecò. E ciò che fu peggio, la donna non aspettava che un mio cenno per darsi interamente a me. Anche essa mi aveva sempre amato: mi si avvinghiò, si strinse a me come l'edera alla pianta. Io non la lascierò mai … fino alla morte …

— Ah, Paulu, Paulu! — disse Ballore sospirando. — Ecco il tuo guajo: tu sei stato sempre debole.

— E tu credi che io non lo sappia? Lo so, purtroppo, — continuò Paulu, eccitato, ricordando ancora le lagrime infantili che aveva versato durante l'ora della novena. — Io sono un bambino, e capisco che la mia debolezza e la mia impotenza furono causa dei nostri guaj: e più che questi guaj mi accora appunto il vedermi così, sempre debole, sempre fanciullo. Io ho sbagliato strada, Ballore, e nessuno più potrebbe additarmi la mia via. Se avessi continuato a studiare sarei diventato qualche cosa, ma già mio padre, mia madre, i miei nonni, tutti, tutti hanno commesso un grave errore cacciandomi in Seminario. Non ero uccello di gabbia, io! Chiusero la porta ed io tentai scappare per la finestra. Allora mi mandarono via, e fu da quel giorno che smarrii la strada. Nessuno mi disse che dovevo lavorare, ed io me ne andai per il mondo, e fui come quei mendicanti che vanno di festa in festa. Anche io nelle feste cercavo qualche cosa che non trovavo mai. Non sono cattivo, però, vedi: non ho mai fatto del bene, ma neppure del male: solo a me stesso ho fatto del male. Tante volte anzi, ho desiderato di poter fare almeno del male, come sanno farlo molti, con forza e con astuzia. Niente: neppure ciò so fare. Ti ripeto, sono rimasto un bambino: la mia intelligenza e la mia istruzione, e tutto insomma, tutto, in me si è fermato nel meglio del suo sviluppo: sono come quei frutti che si seccano prima di maturare …

L' altro ascoltava e non riusciva a capire tutta la finezza e la desolazione del discorso di Paulu; capiva una cosa sola: che l'amico cavaliere non si sarebbe mai più sollevato dalla sua rovina morale e materiale, e si pentiva d'averlo invitato.

Chiacchierarono ancora, poi andarono a letto.

All'alba Paulu si svegliò e si accorse che Ballore usciva, ma quando egli si alzò l'amico era già rientrato e beveva un bicchierino d'acquavite.

— Che dormire ho fatto! — disse Ballore. — Mi sveglio appena adesso. Bevi.

Uscirono, andarono in chiesa. La festa era molto misera. I paesani, quasi tutti contadini, che festeggiavano Sant' Isidoro agricoltore come i ricchi pastori del paese di Paulu, in inverno, festeggiavano Sant'Antonio dal porchetto, avevano fatto una scarsa raccolta. Ballore, anzi, cominciò a lamentarsi:

— Quest'inverno qualcuno morrà di fame, in questo paese: la miseria è profonda. Mussiù Giuanne (1) La fame.farà festa. Ah, i tempi sono cambiati, Paulu mio! Ora tutti, chi più chi meno, stentiamo a vivere, mentre quando io ero fanciullo, ricordo, tutti vivevamo agiatamente. Che gente ricca esisteva allora! Vedi, il Rettore e la sorella, avevano i denari a sacchi, proprio a sacchi.

— Perciò, — ricordò Paulu, — furono derubati, non è vero?

— Altro! Fu una famosa grassazione: quaranta individui armati e mascherati, — e si dice ve ne fossero parecchi del tuo paese, eh, Paulè, non offenderti! — assaltarono la casa del Rettore, denudarono il povero prete e la sorella, li legarono assieme, li gettarono sopra un letto, fecero man bassa di tutto… Si dice portassero via più diecimila scudi.

Quando Paulu e l'ospite andarono dal Rettore, la sorella, — una piccola vecchia dalla cuffia di broccato, — cominciò appunto a ricordare la storia della grassazione. Probabilmente, da quarant'anni in qua ella non faceva altro che raccontare quella storia. La sua bocca spalancata, gli occhietti neri fissi e vitrei parevano ancora pieni del terrore di quell'ora mostruosa.

— Ce n'era uno, di quei demonî, alto e nero, con una sopraveste di pelle, lunga quasi fino alle caviglie: pareva un enorme montone rizzato sulle zampe posteriori. Figli miei, io lo sogno tutte le notti, sempre con terrore, quel demonio nero pe loso… Ah, ci hanno rovinato: non ci lasciarono neanche cenere nel focolare.

Basta, la conclusione fu che nè il Rettore nè la vecchia avevano denari disponibili. Paulu uscì da quella casa con la disperazione nell anima.

— Ballore questa mattina deve aver consigliato la vecchia a negarmi il prestito, — pensò.

Il dolore e l'umiliazione risvegliarono il suo orgoglio, e come con don Peu, finse con Ballore una spensieratezza e un'allegria esagerate. Rimase tutto il giorno nel villaggio, spese il resto delle cento lire in doni per le sue ospiti, bevette e rise.

Ripartì il giorno dopo, all' alba: non sapeva dove dirigersi, ma noa voleva assolutamente tornare in paese senza i denari.

— Piuttosto mi sdraio sotto un albero e mi lascio morir di fame.

Cammina, cammina. Il cielo era triste, annuvolato: e la terra assetata, gli alberi polverosi, le roccie aride, aspettavano in silenzio, pazientemente, la pioggia promessa. Non si muoveva una foglia; non s'udiva, per il paesaggio livido e giallo, una voce umana, un grido di viventi. Dove andare, se tutto il mondo era per Paulu simile a quel luogo deserto? Era finita: finita davvero.

Cammina, cammina; il cavallo docile e pensieroso trottava, e quando vedeva qualche varco nei muriccioli delle tancas non esitava ad oltrepassarlo, in cerca d'una scorciatoja. A un tratto, mentre appunto attraversava una scorciatoja, nelle vicinanze del paesetto di don Peu. Paulu s'udì chiamare da una voce che gli parve di conoscere. Il cavallo si fermò. Un uomo alto e grosso, con una lunga barba rossastra, e un ragazzetto lacero e selvaggio che pareva uno zingaro, s'avanzavano rapidamente.

— Don Paulu, don Paulu? — gridava l'uomo, ansante e stanco.

Paulu guardò e vide Santus, il pastore che la voce pubblica accusava di parricidio: il ragazzetto era suo figlio.

— Come, l'avete ritrovata finalmente questa buona lana? — domandò Paulu.

Santus prese il ragazzo per le spalle e lo scosse ruvidamente.

— Ho fatto due volte il giro della Sardegna a piedi, ma spero di morire non disonorato. Eccolo qui l'uccello del diavolo: ora lo conduco dal brigadiere e dico a tutti: vedete se un padre può ammazzare il figlio, che vi ammazzino senza che ve ne possiate accorgere! Ed ora me ne lavo le mani, don Paulu.

L'uomo imprecava, ma nonostante la stanchezza, l'ansia. i patimenti che gli si leggevano in volto, egli dimostrava una gioia selvaggia: il ragazzo invece era cupo e guardava lontano, e i suoi grandi occhi azzurri parevano gli occhi d'un prigioniero, sognanti la fuga.

— Tornate difilato in paese? — domandò Paulu, senza interessarsi molto ai casi di Santus e del ragazzo.

— Subito; le occorre qualche cosa?

— Allora, — egli disse lentamente, meditando le parole prima di pronunziarle, — vi darò un bigliettino che consegnerete ad Annesa: ma a lei solamente, avete capito? Inoltre le direte a voce che dica a mia madre che per stassera non mi aspettino.

— Va bene, don Paulu.

Allora Paulu trasse il suo taccuino e scrisse poche parole col lapis.

« Ritorno da O.., pernotterò qui, in casa di don Peu Corbu. Viaggio inutile. Nessuna fortuna: nessuna speranza. Non so quando ritornerò. Ricordati ciò che ti dissi prima di partire… non spaventarti… »

Santus non sapeva leggere. Paulu gli consegnò il biglietto appena piegato: l'altro lo prese, lo mise nella borsetta della cintura e promise di consegnarlo solo ad Annesa: e proseguì il viaggio, spingendosi avanti il fanciullo taciturno, fermandosi con tutti i viandanti che incontrava per raccontar loro la sua storia. E non pensava che dentro la borsetta della sua cintura egli portava il seme d'un dramma ben più terribile del suo.

Paulu, nonostante le rimostranze già fattegli da don Peu, smontò ancora dalla vedova del brigadiere. Nessun progetto lo guidava, ma dopo aver scritto e consegnato il biglietto per Annesa egli s'era sentito ancor più triste, più inquieto: il proposito di non ritornare senza i denari gli dava una specie di ossessione.

— Ho ancora cinque giorni di tempo, — pensava. — Dovessi girare come quel disgraziato Santus, ma non tornerò a casa a mani vuote. Oramai è per me una questione d'onore.

Dove andare, però? Ricordò gli usurai di Nuoro, e fra gli altri una donna che anni prima gli aveva prestato mille lire al trecento per cento.

— Che differenza esiste fra un'usuraia simile e una vedova che non gode ottima fama? — si domandò.

Ma quando scese davanti alla botteguccia di Zana e vide la donna accorrere alla porta e sorridergli dergli con famigliarità, come se l'avesse atteso certa del suo ritorno, provò un impeto di disgusto. No, no, egli non le avrebbe domandato mai i denari.

— Ah, — disse Zana, prendendo per la briglia il cavallo di Paulu, — lei non ha dimenticato il resto, a quanto vedo.

Spinse il portoncino attiguo alla porta e introdusse il cavallo nel cortiletto: Paulu la lasciò fare; la segui, si levò lo sprone, ma non pareva disposto a scherzare.

Zana invece sembrava allegra: non era più la vedova compassata e seria che vendeva i lucignoli nella botteguccia o serviva decorosamente gli avventori nella retrobottega; era una donna bella e giovane, che da tre giorni pensava agli occhi dolci e allo sguardo languido del nobile amico di don Peu.

— Son sola in casa, — disse, dopo aver legato il cavallo. — La serva è andata a lavare. Non ho preparato niente: bisogna quindi che lei abbia pazienza.

Era quasi mezzogiorno: il silenzio tragico dei giorni annuvolati regnava sul paesetto, sul cortile, sulla casa della vedova.

Paulu entrò e sedette davanti alla tavola apparecchiata, sulla quale stava ancora la carta da musica: dalla parete color sangue coagulato il brigadiere guardava, ancor più pacifico del solito, nella penombra silenziosa di quel giorno velato e caldo.

Paulu mangiò poco e bevette molto: e più beveva più gli pareva che la sua mente, annuvolata come il cielo, si schiarisse, e che molti problemi si risolvessero.

— Che differenza c'è fra un'usuraia e una vedova come Zana? Nessuna. Ciò che vale l'una vale l'altra.

Zana entrava ed usciva. Gli servì una scatola di sardine, poi due uova, poi un piatto di fritto.

— Come, e tu dicevi che non avevi niente? Purchè dopo non mi porti un conto troppo grosso.

Zana lo guardava sorridente.

— Era il mio modesto desinare, don Paulu. Non si burli di me.

— Come! — egli disse, alzandosi. — Il tuo desinare? E tu, allora? Come farai?

— Non pensi a me, don Paulu.

Ma egli era già mezzo brillo, e stette un momento in piedi, comicamente mortificato per aver mangiato il pranzo di Zana. Ma poi rise e disse:

— Pensare che oggi a casa mia si dà un pranzo a sei poveri, e mia madre in persona deve servirli; sulla tavola stanno le nostre più belle stoviglie e le posate d'argento. Ed io sto qui a mangiare il pranzo della vedova!

— Sua madre deve servirli? È un voto? — domandò Zana, avvicinandosi.

— No, è un lascito, o meglio un canone che grava su una nostra tanca.

Subito egli pensò che forse quel pranzo di poveri era l'ultimo che la sua santa madre serviva, e si rifece cupo, quasi livido in volto, e l'idea di farsi prestare i soldi dalla vedova tornò a insistergli nel pensiero.

Tutti gli anni donna Rachele faceva chiamare qualche donna del vicinato, per ajutare Annesa a preparare il pranzo dei poveri.

Quell'anno, però, Annesa disse che non voleva ajuto alcuno. Era già troppa la spesa del pranzo; una trentina di lire che ella diceva « buttate ai cani ed ai corvi ».

Anche Paulu ogni anno protestava, e il giorno del « pranzo dei poveri » non tornava mai a casa per non arrabbiarsi nel veder sua madre affaticarsi tanto e abbassarsi a servire sei pezzenti miserabili.

Ma donna Rachele, con la sua santa pazienza, lasciava borbottare i « ragazzi » e aspettava quasi con ansia quel giorno per lei benedetto. Pensava:

— Gesù nostro Signore lavava i piedi ai poveri. Anch'io vorrei fare altrettanto coi poveri seduti alla mia mensa.

Da anni ed anni, forse anzi da secoli, una dama Decherchi compiva il sacro obbligo di servire con le sue mani « sei poveri modesti, di cui possibilmente fosse celata l'indigenza ».

E donna Rachele s'era sempre opposta alla vendita della tanca gravata di quel canone, appunto perchè aveva cara la pietosa ingiunzione.

Così la tanca era rimasta l'ultima: ma ora bisognava rassegnarsi alla violenza inesorabile degli eventi. Pazienza. D'altronde Paulu non era tornato ancora, e l'ultima speranza di donna Rachele e dei nonni era riposta in lui.

— Basta, l'anno venturo sarò forse morta. Pensiamo a far bene il nostro dovere quest'anno, - diceva la pia donna ad Annesa inquieta e nervosa.

Quasi tutti gli anni i sei « poveri modesti » che convenivano segretamente al pranzo, erano gli stessi. E nonostante il mistero che li circondava, buona parte degli abitanti di Barunei sapeva che in tal giorno e alla tale ora i sei tali mangiavano con forchette d'argento e serviti da una dama. Ogni anno la sera del pranzo il messo, che era mezzo matto, si divertiva a passare davanti alle case dei sei poveri, chiamandoli a nome, e rivolgendo loro qualche scherzo umiliante:

— Chircu Pira, vieni fuori! Dì, mangi anche stassera colla posata d'argento?

— Matteu Bette? Che ne dici, è meglio mangiar la minestra col cucchiaio d'argento o col cucchiaio di legno?

— Ti lecchi ancora le dita, Miale Caschitta?

La vigilia del pranzo zia Anna, la vecchia cugina di donna Rachele, si offrì per aiutare Annesa.

— Così vedrò di scegliermi uno sposo fra i vostri ricchi invitati, — disse scherzando.

— Vieni pure, — rispose la vedova. — Ma bada che a tavola devo servire io sola. Non voglio che tu mi ajuti.

— Come si fa, allora? Non posso guardare gli invitati, — rispose l'altra.

La mattina per tempo ritornò, e subito ricominciò a scherzare. Disse che uno degli invitati, un certo Matteu Corbu detto Brente 'e leone (1) Ventre di leone., l'aveva una volta chiesta in matrimonio.

— Non l' ho voluto perchè era un mangione: tanto è vero che s'è mangiato tutto; avrebbe finito col mangiarsi anche sua moglie.

Ma Annesa non badava a zia Anna. Cucinava e pensava con angoscia a Paulu assente da tre giorni. Dov'era egli? Perchè non tornava? Le parole di lui le ritornavano in mente con sempre più cupa minaccia.

— È l'ultimo viaggio questo: o trovo o … non torno!

Ogni tanto, quando nella straducola risuonava il passo d'un cavallo, ella palpitava: ma non era il passo del cavalio bajo: la speranza svaniva, l'inquietudine cresceva. Come al solito, ella era vestita decentemente, pulita, pettinata con cura: ma donna Rachele, che entrava ed usciva, dalla camera alla cucina e da questa al cortile dove era stato acceso il fuoco per cuocere la pasta e arrostire la carne, notava in lei qualche cosa d' insolito e di strano.

— A momenti sei pallida, a momenti il tuo viso è infiammato, — le disse, sfiorandole con le dita la fronte. — Che hai, Annesa? Sei malata, sei stanca?

— Ma niente! È il calore del fuoco, — disse Annesa, irritata.

Anche zia Anna la guardò e non scherzò più. Dagli occhi dolci e tristi di Annesa era scomparsa la solita mansuetudine: a momenti splendevano d'una luce selvaggia, fissi e incoscienti come gli occhi d' un allucinato.

— La ragazza oggi è di malumore; lasciamola tranquilla. È adirata perchè non voleva che quest'anno si desse il pranzo, — confidò donna Rachele alla cugina.

Zia Anna, veramente, non dava torto ad Annesa. Dal momento che fra pochi giorni la tanca doveva esser messa all'asta, era stupido soddisfare il canone. Ma non disse nulla e continuò a girare lo spiedo sulla brace fumante.

Nella camera del vecchio asmatico la tavola era già apparecchiata: sulla tovaglia giallognola le ultime sei posate d'argento stavano accanto ai piatti bianchi sparsi di fiorellini rossi.

Già due invitati, due vecchi fratelli, Chircu e Predu Pira, sedevano davanti al lettuccio dell'asmatico. Erano due vecchi disgraziati, di buona famiglia, che avevano tentato sempre qualche negozio, qualche impresa, e sempre avevano fallito. Vestivano decentemente, in borghese, ma i loro visi bianchi, cascanti, le mani scarne, gli occhi pieni di tristezza, narravano una lunga storia di dolore e di stenti. Erano veramente due poveri modesti, dei quali però l'indigenza era ben nota, e donna Rachele li aveva invitati per far piacere a zio Zua, del quale il meno vecchio dei fratelli Pira, Chircu, era stato amico intimo. Mentre si aspettavano gli altri invitati zio Zua profittava dei momenti in cui donna Rachele usciva nel cortile, per parlare male dei suoi parenti. La sua voce bassa ed ansante si spandeva come un gemito nella camera melanconica. Dalla finestra socchiusa penetrava un filo di luce grigia, un odore di foglie umide: tutto era triste là dentro, il vecchio cadaverico, la tovaglia giallognola, i due fratelli dal viso bianco di fame …

Zio Zua parlava male di tutti, persino di Rosa « conca'e malune » (1) Conca. testa. Malune è ua recipiente di sughero..

— Cosimu Damianu è andato in campagna, oggi! Vuol lavorare, il vecchio fannullone! Ora, ora! Ora che la sua bocca è vicina alla fossa! Vuol lavorare adesso, dopo che è vissuto tutta la vita alle spalle degli altri! E don Simone è andato a spasso: ha bisogno di camminare, per farsi venir l'appetito, il vecchio cavaliere! Passeggia, passeggia pure, caro mio: l'anno venturo l'invitato sarai tu al pranzo dei poveri, invitato dal nuovo padrone della tua tanca.

I due vecchi sorrisero tristemente: ma il più anziano, al quale l'asmatico riusciva alquanto odioso, per fargli dispetto disse:

— Paulu porterà oggi tanti denari: dicono sia andato a Nuoro, dove …

— Taci, — interruppe zio Zua, cercando di sollevarsi sul guanciale, e animandosi cupamente al ricordo di Paulu. — Corni porterà, quel vagabondo, quel giramondo; chi gli fa più credito? Tutti ridono di lui … Ah, tutti … sì … tutti … ah …

La collera lo soffocava. Il vecchio Pira s'alzò e gli accomodò il cuscino sulle spalle.

— Non adirarti, così. Zua: ti fa male.

— Mi adiro, sì, perchè, vedi, tutti credono che egli sia in viaggio per affari suoi, per … Basta, invece … ah, ah …

— Invece è in giro per divertirsi, lo sappiamo, - disse Chircu Pira, cercando di calmare l'amico. - Lo sappiamo.

— Sì, vecchi miei. È andato alla festa di Sant'lsidoro. E si è fatto prestare i denari. Ah, non pensa che fra cinque giorni si farà la prima asta della casa e della tanca: non ci pensa, come del resto nessuno ci pensa … qui … Oh, son tutti allegri: se ne infischiano, loro! Vedete don Simone! Egli se ne va a passeggio, per farsi venir l'appetito! Sperano forse che io muoia, entro questi cinque giorni: ma la mia pelle è dura, e dentro la mia pelle ci stanno sette anime, come le ha il gatto! Non morrò, vecchi miei, e se morrò, c'è qualcuno che verrà … verrà a vedere … ah!

— Che cosa verrà a vedere? Zua, non adirarti, — ripetè il vecchio amico, — ti farà male.

Ma l'altro fratello insistè:

— Che verrà a vedere?

Ma l'asmatico s'era già pentito delle sue parole, e non volle dire altro.

— Quante mosche, — disse, scuotendo lentamente la mano intorno al cui polso teneva il rosario. — Che brutta giornata! Quando fa questo caldo afoso, soffro tanto: ieri notte credevo davvero di soffocare. E quell'asina di Annesa… buona anche quella! … Mala fada la jucat (1) Mala fata la guidi!mi guardava come se avesse voluto … Ah, ecco che vengono …

Qualcuno entrò: s'udi nell'andito il riso melanconico di Rosa. Ed ecco la testa enorme, gli occhi vivi e il vestitino rosso e azzurro della bimba: e dietro di lei il vestito nero, il bastone, il berretto di don Simone.

Il vecchio nobile sembrava più allegro del solito, scherzava con la bambina, tirandole la cocca del fazzoletto che le avvolgeva la testa, e dicendole infantilmente:

— Avanti, puledrina. Cammina.

Zio Zua lo guardò con disprezzo.

Poi giunsero gli altri invitati, dei quali uno solo era giovanissimo, cieco sin dall'infanzia. Don Simone sedette a tavola coi poveri, cosa che non aveva fatto mai, e volle Rosa al suo fianco.

— Donna Rachele, — gridò, scherzando, — siamo pronti. Avete sbagliato il numero, però, quest'anno: invece di sei avete invitato sette poveri; anzi sette e mezzo.

Rigida e pallida nel suo costume nero, donna Rachele entrò, portando un largo piatto colmo di maccheroni: sorrideva, ma quando vide il vecchio suocero seduto fra i poveri commensali trasalì: e lagrime amare inumidirono i suoi occhi. Ma egli la guardava sorridendo, con gli occhi pieni di gioja, ed ella pensò:

— Pare che voglia dirmi qualche cosa. Una buona notizia. forse? Che gli abbia scritto Paulu?

Durante il pranzo don Simone scherzò, ma la sua presenza intimidiva alquanto gli invitati; egli cominciò a prenderli in giro bonariamente.

Matteu, brente 'e leone, chi pares una balena, a denotte duas chenas e una colassione (1)

Matteu, ventre di leone,
che sembri una balena,
di notte (fai) due cene
e una colazione.

,

disse a Matteu Corbu, il vecchietto mangione che si vantava d'aver una volta divorato un intero agnello.

La quartina esilarò gli invitati; credendo di far piacere al padrone di casa, alcuni cominciarono a perseguitare il vecchietto coi loro scherzi.

— La tua canzone favorita, in gioventù, qual'era, Matteu? — domandò zio Chircu. — Ricordati bene.

Ma il vecchietto, che pareva un piccolo San Pietro, calvo e coi capelli lunghi sulla nuca, mangiava tranquillamente e taceva. Accanto a lui Niculinu il cieco palpava la tovaglia e sorrideva.

— Tu non ricordi? Ebbene, Matteu? Sei sordo? Io la ricordo, però, la tua canzone:

Si sar muntagnas fin de maccarrones, E i sar baddes de casu frattadu …(1)

Se le montagne fossero di maccheroni,
E le valli di formaggio grattugiato …

Rosa ascoltava avidamente; ad un tratto scoppiò a ridere e volle dire una cosa nell'orecchio a don Simone.

— Ma che vuoi? Non ti sento, Rosa.

— Andiamo, ve la dirò in cucina.

Scese pesantemente dalla sedia e tirò la giacca del nonno: egli si alzò e la segui in cucina.

— Fategli ripetere la canzonetta dei maccheroni, nonno!

— Diavoletta, mi hai fatto venir qui per questo? Ah, diavoletta!

Ella scappò, egli la rincorse fino al cortile. Zia Anna era in cucina. Annesa era entrata nella camera e serviva il vecchio asmatico; donna Rachele uscì nel cortile e si curvò per togliere lo spiedo dal focolare. Don Simone le si avvicinò e le disse rapidamente:

— Prete Virdis m'ha confidato una cosa, ma in gran segreto. Egli ha convinto Zua a comprare la casa e la tanca; così tutto si accomoderà. Ma, per amor di Dio, non parlarne con nessuno, nemmeno con Annesa.

— Andiamo, Rosa, — disse poi alla bambina. - Faremo ripetere la canzonetta.

Quando la vedova entrò, portando l'arrosto, tutti si accorsero che ella aveva mutato aspetto: una gioia quasi febbrile le animava lo sguardo, parole di amore e di dolcezza le uscivano dalle labbra lievemente colorate. Anche Annesa s'accorse dell'eccitazione di donna Rachele, ma l'attribuì al piacere quasi mistico che la santa donna provava nel servire i poveri; e la sua tristezza e la sua irritazione crebbero. A momenti anch'ella pensava male dei suoi benefattori, come ne pensava male il vecchio infermo. Sì, davvero, faceva rabbia vederli così incoscienti e allegri alla vigilia della loro completa rovina. E Paulu che non tornava! Dov'era egli? Il pensiero di Annesa lo cercava, lo sentiva, lo seguiva, per l'immensità deserta delle tancas, attraverso i sentieri melanconici, sotto quel cielo cupo e minaccioso che anche sopra di lei, sopra la sua testa dolente, pareva pesasse come una volta di pietra.

I commensali parlavano di Niculinu il cieco.

— Dice che da qualche tempo a questa parte gli pare, in certi giorni, di veder come un barlume lontano. Fino all'età di tre anni egli non è stato cieco: lo è diventato dopo una grave malattia. Ultimamente è andato alla festa del Redentore, a Nuoro, e crede di riacquistare lentamente la vista. Non è vero, Niculinu?

Il cieco, per tutta risposta, si fece il segno della croce.

— In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, — esclamò donna Rachele, segnandosi anche lei. — Dio è onnipotente e può tutto: sia sempre lodato il suo santo nome.

E battè la mano sulla spalla di Niculinu, quasi per significargli che anche lei fino a quel momento era stata come cieca, mentre ora cominciava a scorgere un lontano barlume di speranza. Ah, si: ella ricominciava a sperare nella bontà umana, e questa speranza era la cagione della sua gioja: avrebbe voluto avvicinarsi al lettuccio del vecchio asmatico e dire:

— Zua Decherchi, ti ringrazio, non perchè ci serbi la casa e l'ultimo pezzo di terra, ma perchè ti dimostri buono mentre noi tutti ti credevamo così cattivo.

Ma don Simone la guardava ed ella capiva che doveva tenere il segreto.

E lo tenne, ma durante il pomeriggio ella prodigò mille attenzioni al vecchio asmatico: egli ne indovinò la causa, e s'irritò maggiormente; e la sua irritazione inaspri quella di Annesa.

La giornata diventava sempre più cupa e triste; il tuono rumoreggiava in lontananza, dietro la montagna livida e nera. Qualche cosa di angoscioso e di tragico gravava nell'aria.

Finito il pranzo, i poveri se n'andarono, tutto rientrò nell'ordine e nel silenzio melanconico di prima. Solo, di tanto in tanto, zio Zua gemeva, e se Annesa attraversava la camera quel gemito diventava simile a un ringhio.

Ella lavorava e taceva: rimise le stoviglie, le posate, spazzò la cucina e il cortile: poi andò alla fonte, con l'anfora sul capo, e si fermò a lungo davanti al paracarri, guardando le lontananze della valle. Sotto il cielo grigio solcato da nuvole quasi nere, d'un nero terreo, tutto appariva triste; la valle si sprofondava come un enorme precipizio, le roccie sembravano pronte a rovesciarsi le une sulle altre; il bosco della montagna, nero e immobile, si confondeva con le nuvole sempre più basse.

E Paulu non veniva. Annesa soffriva un terribile mal di capo: le pareva che l'anfora fosse una delle roccie che, nel suo capogiro, ella vedeva quasi muoversi e precipitare: e il tuono le risuonava entro la testa, con un rombo continuo. Stava per avviarsi di nuovo, quando vide Santus il pastore e altri tre uomini e un fanciullo avanzarsi dalla svolta dello stradale. Aveva la febbre come ella temeva, o il fanciullo che si avvicinava, preceduto da due vecchi e seguito dal padre e da un altro paesano, era veramente il figlio smarrito di Santus? La curiosità le fece per un po' dimenticare il suo affanno: si tolse la brocca dal capo, la depose sul paracarri e attese. Il gruppo s'avvicinava; la voce di Santus, alta e allegra, arrivava sempre più distinta nel silenzio dello stradale solitario.

— Perdio, lo conduco subito dal brigadiere; poi se vuol scappare scappi pure e vada al diavolo…

Il fanciullo taceva. Annesa guardava; e non si stupì quando Santus, vedendola, gridò:

— Annesa, ohè, Annesa! Ecco qui l'uccellino scappato. Lo vedi? Guardalo bene: anche tu puoi dire che è lui?

— E dove sei stato, tutto questo tempo? — do — mandò Annesa, quando i paesani le furono vicini.

Il ragazzetto la fissò coi suoi occhi azzurri cattivi, ma non rispose.

— Abbiamo incontrato don Paulu, — le fece sapere il pastore: — stanotte non tornerà in paese: non aspettatelo.

Annesa, che si rimetteva sul capo la brocca, vibrò tutta, e per nascondere il suo turbamento lasciò che i paesani passassero oltre. Ma le parve che Santus si voltasse e si fermasse poi ad aspettarla.

— Egli deve dirmi qualche cosa — pensò raggiungendolo.

Gli altri precedevano di qualche passo.

— Dove hai veduto don Paulu? — ella domandò, guardando davanti a sè, verso le prime case del villaggio.

— Nei salti di Magudas; era diretto a quel paese. Anzi, mi diede un bigliettino per te … per darlo a don Simone, forse … — aggiunse il buon pastore, ch'era un buon uomo, ma non senza malizia. — Però mi ha avvertito di darlo solo a te … Ecco … E le mise in mano il biglietto che aveva destramente levato dalla borsa della cintura.

Annesa strinse nel pugno il pezzetto di carta: una brace non l'avrebbe scottata di più. Passarono alcuni secondi; il pastore parlava, ella non udiva. Ella udiva soltanto il rombo dei tuoni che s'avvicinava: e le pareva che dentro il pugno stringesse, non un pezzetto di carta, ma un cuore pulsante, un'anima che urlava e spasimava. Che avveniva? Paulu non le aveva mai scritto. Perchè le scriveva, ora? Una buona o una cattiva notizia? Ella non dubitò che un istante: la notizia doveva essere triste. Ed ebbe paura di apprenderla troppo presto.

Una donnina seduta a cavalcioni su un cavallino bianco raggiunse la comitiva, e riconoscendo il figlio di Santus, cominciò a dar gridi di sorpresa e di gioja.

— Eccolo, si; è iui! Ah, come sono contenta! No, non era possibile che un abitante di Barunei avesse ucciso il suo figliuolo: il nostro paese ne sarebbe rimasto infamato: anche nelle « canzoni » dei girovaghi sarebbe stato nominato e infamato, il nostro Barunei.

— Sta zitta, Anna Pica! — gridò Santus. — La tua lingua sembra un coltello.

Annesa si fermò automaticamente, come s'erano fermati gli altri, ma udiva solo il rombo del tuono, e nella sua mano sentiva la carta fatale: null'altro esisteva per lei.

Gli altri si mossero: attraversarono il paese: ella li segui, si trovò in mezzo alla folla che a poco a poco s' era aggruppata intorno al pastore, stette ad ascoltare, sorrise. Una fiamma improvvisa, un tuono fortissimo, alcune goccie di pioggia fecero correre la gente di qua e di là: ella si trovò quasi sola in fondo alla straducola che conduceva alla casa dei suoi benefattori, e s'avviò correndo.

Era quasi buio. Donna Rachele, sperando che Annesa tornasse presto dalla fonte, era andata con Rosa alla novena. La casa deserta era animata solo dal gemito del vecchio asmatico, quel giorno più cupo e agitato del solito. La luce metallica dei lampi inondava ogni tanto la camera buia, l' andito silenzioso.

Annesa depose la brocca, sempre stringendo nel pugno il biglietto; poi uscì nel cortile e lesse a stento il triste messaggio: « Ricordati ciò che ti dissi prima di partire… » Un lampo terribile, un tuono fragoroso riempirono di terrore il cielo: ella credette che il fulmine fosse piombato sopra di lei, sul suo capo, e gemette come gemeva il vecchio.

— Egli non ha trovato … Egli si ucciderà. Questa volta … Questa volta è davvero. Fra due, fra tre giorni, quando non ci sarà più speranza, egli morrà. È così …

Un nuovo rombo formidabile, il bagliore azzurro d'un lampo, un altro tuono ancora, riempirono il cortile di luce e d'orrore: la pioggia scrosciò furiosa. Ella rientrò in cucina e appoggiò la fronte alla porta chiusa, pensando che se Paulu a quell' ora viaggiava doveva bagnarsi tutto. E per alcun tempo questo pensiero l'inquietò più che la minaccia del biglietto: un tremito nervoso l'agitava tutta: le pareva di sentir la pioggia scorrerle lungo le spalle, bagnarle la schiena e tutta la persona, giù, giù, fino ai piedi.

E non poteva gridare, non poteva piangere: un nodo isterico le stringeva la gola. Fuori cresceva la furia del temporale, la pioggia batteva contro la porta, i tuoni rombavano con ira nemica. Ed ella, con la testa contro la porta, pensava a Paulu smarrito nella tristezza della sera tempestosa, percosso dall'ira cieca dell'uragano, e le pareva che anche la natura, oramai, si unisse alla sorte, agli uomini, per incrudelire contro il disgraziato. Fuori, dentro, nella casa, intorno alla casa, per la vastità dei campi e dello spazio, un esercito di forze nemiche si divertiva crudelmente a perseguitare un essere solo, un uomo debole e infelice. Nessuno lo ajutava, nessuno lo difendeva: neppure sua madre, che non si affannava per lui, che sorrideva perchè i poveri sedevano alla sua mensa mentre il figliol suo, più povero e misero dell'ultimo dei mendicanti, errava di paese in paese, in cerca di fortuna e d'ajuto! …

— Nessuno, nessuno! — gemeva. Annesa, sfregando la fronte contro la porta, come la pecora verminosa contro il tronco della quercia. — Nessuno, nessuno! Soltanto la serva pensa a te, Paulu Decherchi, disgraziato fanciullo. Ma che può una serva contro la padrona di tutte le creature umane, contro la sorte?

— Annesa, demonia? — gridò zio Zua, che da un quarto d' ora chiamava invano. — Annesa maledetta, accendi il lume.

Ella entrò nella camera, ma non accese il lume. Un crepuscolo torbido penetrava dalla finestra, descrivendo un cerchio di luce grigiastra che arrivava appena ai piedi del lettuccio di zio Zua: ma di tanto in tanto il bagliore dei lampi illuminava la camera, e allora pareva che la figura del vecchio balzasse dall'ombra, e poi ripiombasse di nuovo in un luogo di tenebre e di mistero.

Annesa guardò a lungo l'infermo, con occhi allucinati: le pareva che egli fosse già morto ma urlasse e imprecasse ancora. E da quel momento ella fu assalita da una specie di ossessione: avvicinarsi al vecchio e strangolarlo, farlo tacere finalmente, ripiombarlo per sempre nell'abisso d'ombra dal quale egli usciva ogni tanto urlando.

Ferma sull' uscio di cucina ella stese alquanto le braccia, contraendo le dita: un gemito le uscì dalla bocca. Allora il vecchio credette che ella avesse paura del temporale e abbassò la voce.

— Annesa, — supplicò, — ma accendilo questo lume! Vedi che anche tu hai paura! Vedi come mi hanno lasciato solo … Chissà dove saranno! Anche Rosa è fuori: si bagneranno tutti …

Ella ritornò in cucina e accese il lume: ricordò che Paulu aveva preso con sè il cappotto, e il pensiero che egli potesse coprirsi la confortò. Allora sospirò, con un senso di sollievo simile a quello che provano i bambini quando sentono che l'eroe della fiaba, sorpreso dall' uragano, ha trovato una casetta nel bosco. E rientrò col lume nella camera del vecchio.

Il temporale infuriò fino a sera inoltrata; poi d'un tratto il cielo si rasserenò; le ultime nuvole, come squarciate dall' ultimo tuono, s'aprirono, si lacerarono, scesero giù dietro la montagna. La luna grande e triste apparve sopra il bosco e imperò, sola nel silenzio improvviso e nella melanconia della notte umida.

Donna Rachele, la bimba, i vecchi nonni, che erano rimasti in chiesa finchè aveva cominciato a spiovere, rientrarono, mangiarono, poi se ne andarono a letto.

Annesa rimase sola in cucina, dove aveva acceso il fuoco perchè la pioggia torrenziale aveva inondato la tettoja. Le pareva fosse d'inverno. Il chiarore del fuoco illuminava le pareti brune, tremolava sul pavimento umido, macchiato dall' impronta delle scarpe infangate di don Simone e di zio Cosimu. Ella sentiva brividi di freddo e sbadigliava nervosamente.

Dopo aver rimesso in ordine la cucina, rientrò nella camera e accese il lumino da notte che mise per terra, nell'angolo dietro l'uscio. Ed ecco che di nuovo la figura di zio Zua, assopito ma più anelante e agitato del solito, parve sprofondarsi nella penombra. Camminando in punta di piedi Annesa si avvicinò parecchie volte al letto, preparò la coperta sul canapè, ma non si coricò. Le pareva che avesse ancora qualche cosa da fare. Che cosa? Che cosa? Ella non sapeva, non ricordava; o meglio cercava di sfuggire all' idea mostruosa che da qualche tempo rumoreggiava entro la sua testa con un rombo di uragano.

Ella ritornò a sedersi accanto al focolare, si curvò verso la fiamma e rilesse il biglietto di Paulu: poi lo bruciò. E per lungo tempo rimase immobile, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, fissando gli occhi sulla brage fra cui il foglietto, fattosi nero e attortigliato come una foglia secca, si trasformava lentamente in cenere.

Qualche cosa entro di lei si consumava così. La coscienza e la ragione l'abbandonavano: un velo scendeva attorno a lei, separandola dalla realtà, dalla vita, e circondandola d'ombra e di terrore. Ella non ricordò mai quanto tempo stette così, piegata su sè stessa, in uno stato di semi-in-coscienza. Ella sognava e lottava per svegliarsi, ma l' incubo era più forte di lei. Ci fu un momento in cui ella si alzò e s'avvicinò all'uscio della camera: il vecchio dormiva; intorno alla tavola sedevano ancora i sei poveri, e non mangiavano, non parlavano, ma la fissavano con occhi melanconici. Specialmente Niculinu, il cieco, la guardava fisso, coi suoi grandi occhi biancastri dalle grosse palpebre livide.

Ella tornò al suo posto e chiuse gli occhi: ma non cessò di vedere davanti a sè gli occhi lattiginosi e le palpebre gonfie del povero cieco. Durante il pomeriggio ella aveva pensalo due o tre volte a Niculinu. Meno felice di lui che diceva di ricordare la luce e i colori come un sogno lontano della sua infanzia, ella non ricordava nulla dei suoi primi anni: non una voce saliva per lei dalla profondità oscura della sua origine, non una figura si disegnava nel suo passato.

— Io non ho padre, nè madre, nè parenti, - ella pensava nel suo delirio. — I miei benefattori sono stati i miei nemici. Nessuno piangerà per me. Io non ho che lui, come lui non ha che me. Siamo due ciechi che ci sosteniamo a vicenda: ma egli è più forte di me, e se io cadrò egli non cadrà…

E le sembrava che realmente ella e Paulu fossero ciechi: ella aveva gli occhi bianchi e le palpebre pesanti come quelle di Niculinu; e davanti a sè non vedeva che una muraglia rossa e infocata il cui riverbero la bruciava tutta. Rumori misteriosi le risuonavano entro le orecchie; credeva di sentire ancora la pioggia scrosciare contro la porta, e il tuono riempiere la notte d'un fracasso spaventevole: l'uragano assediava la casa, voleva prenderla d'assalto, come una torma di grassatori, e tutto distrurre e devastare.

Poi una figura uscì dalla camera del vecchio, strisciò lungo la parete, sedette accanto al focolare. Annesa non poteva volgersi, ma sentiva il fantasma al suo fianco: sul principio le parve fosse il cieco, ma d'un tratto ella si sentì sfiorare la mano da una mano dura e calda che le sembrò quella di Gantine. La mano salì fino al viso di lei, glielo carezzò; le prese il mento, le strinse la gola… Davanti a lei balzò una figura gialla, con due occhi ardenti e una lunga barba grigia fra i cui peli umidi s'apriva una bocca nera e contorta. Era zio Zua. Egli la strangolava.

Ella si svegliò, piena di terrore, e rimase lungo tempo immobile, vinta da uno spavento indicibile. Finalmente potè alzarsi e andò ancora a spiare dietro l'uscio. Le figure dei sei poveri erano sparite: il vecchio dormiva, con le spalle e la testa abbandonate sui guanciali, e le mani sul lenzuolo. Il suo affanno s'era calmato: egli stava così immobile e quieto che pareva morto. Sola cosa viva, in quella camera sepolcrale, era la fiammella del lumino che pareva si fosse nascosta da sè dietro l'uscio.

Annesa entrò, s'avvicinò al letto, guardò il vecchio. Un momento, un po' di forza, un po' di coraggio e tutto era finito…

Ma la forza e il coraggio le mancarono: ella provò un senso di gelo, fu assalita da un tremito e le sue dita si contrassero… No, ella non poteva, non poteva. In un attimo mille pensieri le ritornarono in mente; dal fondo della sua coscienza salirono mille voci dimenticate, una fiammella brillò nella sua anima morta, simile al lumicino che rischiarava la grande camera lugubre.

— Non uccidere. Non fare agli altri quello che non vorresti fossefatto a te…

Ella ritornò in cucina, aprì la porta e uscì nel cortile. Allora si accorse con meraviglia che l'uragano era cessato: la luna saliva limpida sul cielo azzurro chiaro come un cristallo; i vetri delle finestre, il lastrico del cortile, le tegole della tettoia avevano un riflesso d'argento. E nel silenzio profondo non si udiva più neppure il canto dei grilli, nè la voce del rosignuolo che ogni notte cantava come in sogno, nel bosco in fondo all'orto.

La furia dell'uragano aveva spento anche la voce delle cose. Pareva che gli abitanti del villaggio, nero ed umido sotto la luna, fossero tutti scomparsi come i loro leggendari vicini del paese distrutto. Ma questo silenzio, questa morte di tutte le cose, invece di calmare Annesa la eccitarono ancora. Nessuno poteva spiarla, nessuno poteva vedere ciò che ella faceva. Il mondo esterno coi suoi ammonimenti e i suoi pericoli non esisteva più per lei: e nel suo mondo interno, tutto era di nuovo tenebre. L'ossessione la riprese, la ripiombò in uno stato di semi-incoscienza febbrile; ella però lottò ancora contro il cieco impulso che la guidava. Rientrò nella camera, uscì di nuovo nel cortile: andava e veniva come una spola, tessendo una trama spaventevole, una rete entro la quale ella sentiva instintivamente che sarebbe rimasta chiusa in modo orribile.

A lungo l'istinto della conservazione fu più forte della sua manìa di sacrifizio e a un tratto parve salvarla. Ella chiuse la porta, spense la candela, sedette sull'orlo del canapè e si curvò per levarsi le scarpe. Ma il vecchio sospirò e s'agitò, ed ella rimase un istante curva, ascoltando; poi, siccome egli si calmava, ella si sollevò lentamente. Era meglio non spogliarsi: gli accessi d' asma, che da qualche notte tormentavano il vecchio, potevano da un momento all'altro ricominciare. Poichè bisognava alzarsi per curarlo, era meglio coricarsi vestita.

Ella si corica dunque, e si tira la coperta fin sul viso. Un brivido di freddo la scuote dai piedi alla testa. l'orribile verità le ritorna in cuore, glielo stringe come in una morsa di ferro.

Ella si è coricata vestita, non per esser pronta ad aiutare il vecchio, ma per aiutare la morte, se l'accesso ritorna. Un piccolo sforzo, una mano sulla bocca del malato, il calmante rovesciato sul tavolino, e tutto sarà finito, e nessuno saprà che la morte ha avuto ai suoi ordini un'ancella coraggiosa…

Ella sentiva il suo cuore battere convulso, cercava di respingere ancora la tentazione diabolica e tuttavia aspettava… E la sua attesa era simile all'attesa del sicario dietro le macchie: l'incertezza, la paura, la speranza, tutte le perfidie umane vibravano nel palpito angoscioso del suo cuore.

Rivedeva la figura del vecchio come le era apparsa la notte prima, durante l'accesso: egli sembrava agonizzante, stralunava gli occhi e apriva la bocca avida d'aria.

— Basta forse ch'io non lo ajuti a sollevarsi; egli morrà, egli deve morire, — ella pensava con desiderio feroce. — Basta che io non gli dia il calmante. Egli deve morire stanotte; altrimenti muore l'altro. Bisogna che Paulu domani sappia che il vecchio è morto. È tempo. È tempo!

Il suo desiderio era così forte che le pareva impossibile non dovesse avverarsi. Poichè il vecchio doveva morire, doveva morire subito. Fra venti, fra dieci, fra due giorni sarebbe stato troppo tardi: la notizia della sua morte doveva raggiungere Paulu al più presto possibile. O l'uno o l'altro!

Le pareva che il destino della disgraziata famiglia stesse in mani sue: nel suo delirio arrivava a dirsi che avrebbe commesso un più grave delitto di quello meditato, se non riusciva a impedire la morte di Paulu, la rovina ultima dei suoi benefattori. O l'uno o l'altro; o l'uno o gli altri!

Di tratto in tratto risuonava nella straducola qualche passo di cavallo stanco; poi il silenzio regnava più intenso.

L'ora passava. La stanchezza, la febbre, il turbamento, ricominciarono a far delirare Annesa; le figure dei sei poveri ripresero il loro posto intorno alla tavola, gli occhi bianchi e gravi del cieco fissavano il lettuccio del vecchio asmatico, la testa enorme di Rosa cominciò a oscillare sull'esile collo della bimba, dal quale pareva volesse staccarsi; donna Rachele s'avanzava con un vassojo in mano, e rideva, come da anni ed anni la febbricitante non l'aveva veduta più ridere; e questa letizia insolita, da vecchia improvvisamente impazzita, esasperava Annesa. Nel suo sogno febbrile ella guardava il vecchio e pensava:

— Con tutta questa gente, anche se l'accesso ritorna, come posso fare io? Tutti mi guardano; anche Nicolinu vede… Non se ne vanno dunque?

Non se n'andavano perchè infuriava ancora il temporale: i lampi illuminavano la camera con un bagliore infocato; i tuoni scuotevano tutta la casa, un filo d'acqua penetrava dal soffitto e cadeva sulle spalle di Annesa, dandole un raccapriccio nervoso; ed ella aspettava sempre, e nel sogno delirante la sua attesa diventava un'attesa misteriosa, piena di terrore e d'angoscia. Chi doveva arrivare? Che cosa doveva succedere? Ella lo ricordava benissimo: sapeva che doveva arrivare la Morte e che ella doveva ajutarla come la serva ajuta la padrona; ma oltre a questo ella aspettava altri fantasmi più terribili ancora, e indovinava che altre cose più orrende dovevano succedere… E un dolore che superava tutti i dolori già da lei sofferti, più grande dell'umiliazione del suo stato, più grave della finzione con la quale ella s'era sempre coperta come d'un manto da maschera, più intenso della sua pietà per la famiglia che l'aveva beneficata, più acuto della paura che Paulu morisse di mala morte, le lacerava l'anima sommersa nelle tenebre del male. Era un dolore senza nome; l'angoscia del naufrago che scende nell'abisso molle e amaro del mare e ricorda i dolori della vita, — belli e piacevoli in paragone al mostruoso dolore della morte.

Un altro passo di cavallo nella straducola!

Ella si scosse dal suo assopimento, si levò la coperta dal viso e ascoltò. Signore, Signore, era mai possibile? Il passo risuonava forte e tranquillo, s'avvicinava, sembrava il passo del cavallo di Paulu.

Ella si gettò dal canapè trascinandosi dietro la coperta, e s'avventò contro l'uscio come una pazza; ma il cavallo passò oltre. Il vecchio si svegliò di soprassalto; vide la coperta buttata per terra in mezzo alla camera, vide Annesa vestita e si spaventò.

— Annesa? — chiamò a voce bassa: poi gridò:- Annesa? Anna, che c'è?

Quel grido la richiamò alla realtà: ella ricordò subito ogni cosa, e sentì il bisogno di scusarsi col vecchio.

— Credevo fosse don Paulu, — disse con voce rauca, assonnata. — Credendo che tornasse non mi sono spogliata. Volete qualche cosa?

S'avvicinò al lettuccio, e fu ripresa dalla tentazione, dall'ansia, dal terrore; ma le parve che il vecchio, nella penombra, indovinando i pensieri di lei, vigilasse, spaventato.

— Dammi un po' d'acqua.

Ella prese il bicchiere che stava sopra una sedia, e glielo porse: la sua mano tremava.

— Sognavo… Mi pareva m'avessero portata via la medaglia: eccola qui … — disse zio Zua con la sua voce tremula e ansante, cercando e traendo fuori dal petto la medaglia.

— Proprio! Ora vi portano via anche quella porcheria, — rispose Annesa con dispetto. — Proprio: ora vengono i grassatori per portarvela via.

Il vecchio alzò la testa.

— Ohè, bada a quel che dici, ragazza! Se non portano via la mia medaglia, porteranno via gli stracci dei tuoi padroni!

— Io non ho padroni! Dormite, dormite, che farete bene. Neppure la notte lasciate in pace la gente…

— Non hai padroni? Ah, è vero, domani sarete tutti servi, — riprese il vecchio, sempre più irritato. — Servi, sì, servi! Anche il tuo bel giramondo, se vorrà vivere, andrà col badile e la zappa sulla spalla…

Non era la prima, nè la millesima volta che egli, d'altronde provocato, le rinfacciava la miseria dei « suoi padroni ». Entrambi sapevano dove meglio colpirsi a vicenda e non esitavano a farlo.

Instintivamente ella si scostò dal letto, ripresa da un tremito convulso; raccattò la coperta, sedette sul canapè e sbadigliò. Il vecchio continuava a borbottare.

— Ah, non vi lascio in pace neppure la notte? Malanno che vi colga, anche quello mi rinfacciate? Chi ti cercava, vipera? Sei tu che mi hai svegliato, e faresti davvero meglio a spogliarti e andare a letto. Il tuo giramondo non tornerà, sta pur sicura, non tornerà. È inutile che tu lo aspetti, sai, bella; egli a quest'ora non pensa a te.

Ella cessò di sbadigliare e di tremare.

— Cosa? Cosa? Cosa dite?

— Nulla. Dicevo… che la medaglia possono portarmela via, anche la medaglia… ma gli occhi no… ma le orecchie no…

— Continuate! — ella disse, minacciosa.

— Niente, ho finito. Va a letto, ti dico, e non prendertela con me se il giramondo non torna. Ti ho detto che non pensa a te… stanotte.

Era troppo. Un velo coprì gli occhi di Annesa; incosciente ella si alzò, trascinandosi dietro la coperta che di nuovo abbandonò in mezzo alla camera; si precipitò contro il vecchio, gli si gettò addosso, gli mise le mani intorno al collo. Una specie di rantolo le usciva dalla bocca spalancata; tutto era tenebre e fragore intorno a lei, ma il vecchio ebbe la forza di strapparsi dal collo le mani che volevano soffocarlo, e cominciò a gridare:

— Aiuto! Aiuto!

Ella non tentò di fargli oltre del male, ma gli disse a voce alta:

— Se non state zitto vi strangolo davvero!… Provate un po' a gridare ancora! provate un po'!

Egli ebbe paura della minaccia e non osò più gridare, ma si portò le mani al collo, con un istintivo moto di difesa, e curvò la testa, curvò le spalle, e tremò tutto, vinto da un terrore infantile. La sua barba sfiorava la coperta, sotto la quale le sue vecchie membra si agitavano convulse.

La disgraziata non distingueva niente: capiva soltanto che il vecchio aveva paura di lei; ed anche lei, ora, aveva paura di lui.

— Domani egli mi denunzierà, — pensava, fissandolo con occhi non più umani. — Sono perduta. Mi denunzierà, e si farà portar via di qui, e tutto sarà finito. Ch'io sia perduta non importa, — pensò poi, con disperazione. — Ma gli altri no, gli altri no.

E un martello inesorabile picchia va e picchiava alle sue tempia. come ad una porta che bisognava sfondare.

— O lui o gli altri. O lui o gli altri.

Ma ella non poteva: non poteva. Le sue mani si rifiutavano all'opera orrenda. Tentò di placare il vecchio; gli si curvò sopra, gli parlò con frasi sconnesse; ma la sua voce era rauca, minacciosa, e pareva venir di lontano, da un mondo tenebroso popolato di esseri mostruosi, di demoni, di bestie parlanti.

Forse il vecchio, ripiegato su sè stesso, come curvo sul confine della vita e già partecipe ai misteri dell'eternità, sentiva che quella voce non era più una voce umana; forse non la sentiva neppure, e non dava ascolto che alla voce del suo terrore. Per quanto Annesa parlasse, egli non si muoveva, con le mani sempre intorno al collo e il viso sul lenzuolo.

Ella si stancò: si sollevò e andò a raccattare nuovamente la coperta. Un urlo risuonò per la camera:

— Aiuto! Aiuto!

Allora ella perdette l'ultimo barlume di ragione. D'un balzo fu sopra il vecchio, gli gettò la coperta sul capo, lo premette con tutto il peso della sua persona.

Un gemito sordo e lontano, un agitarsi disperato di membra sotto la coperta: poi, lentamente, il gemito s'affievolì, parve venire da una lontananza buia, dalla profondità d'un abisso; e sotto il suo petto convulso, fra le sue braccia contratte, Annesa non sentì che qualche sussulto, un lieve movimento, più nulla …

Quanto tempo era passato? A lei parve fossero trascorsi appena due o tre minuti, e si meravigliò della poca resistenza della vittima. Dubitando che il vecchio fingesse ancora, gli premette il viso con le mani, gli spinse la testa contro il cuscino.

Altri minuti passarono. Ella riacquistava gradatamente quel po' di semi-incoscienza febbrile che l'aveva sostenuta fino al momento del delitto; ed ora si accorgeva di quello che faceva, e aveva paura di venir sorpresa. Qualcuno poteva aver udito i gridi della vittima: da un momento all' altro zio Cosimo o don Simone o donna Rachele potevano apparire sull'uscio e domandarle che cosa succedeva…

Ella ascoltava e ogni tanto volgeva il viso spaurito, guardando verso l'uscio. Ma il silenzio della morte regnava oramai nella camera: ogni oggetto restava immobile, nella penombra, e solo il lumicino continuava ad ardere ed a spiare, quieto nel suo angolo, come un testimone che vuol vedere senza esser veduto. Ad un tratto ella provò un terrore misterioso; le parve che le cose intorno, mascherate di penombra, avessero paura di lei, ed era invece lei che aveva paura di loro: se un mobile avesse in quel momento scricchiolato ella sarebbe fuggita urlando.

Finalmente si mosse: stette alcuni momenti in piedi, davanti alla vittima, senza osare di scoprirla; poi udì un rumore che le sembrò venisse dalle stanze superiori, e corse e chiuse a chiave l'uscio. Ma subito lo riaprì e uscì nell'andito.

Che fare? Per un momento pensò che doveva gridare, chiedere aiuto, dire che il vecchio moriva. Sali il primo rampante della scala, fino all'uscio di donna Rachele, ma mentre stava per picchiare ricordò di aver lasciato la coperta sopra la vittima, e di nuovo le ritornò in mente il dubbio che il vecchio non fosse morto.

Ridiscese, ma una nuova impressione morbosa le impedì di levar la coperta: ella aveva paura di veder il viso della vittima. Qualche cosa però bisognava fare; chiamare, fingere, dire che il vecchio era morto in seguito ad un accesso.

— Dio mio, Dio mio, — ella mormorò, lisciandosi due volte i capelli con ambe le mani.

E andò a sedersi sul canapè. Il cuore non le batteva più. Ma si sentiva stanca, così stanca che le pareva di non poter più alzarsi e camminare; e avrebbe voluto coricarsi e dormire, poichè tutto era finito, e oramai non le restava che dormire, dormire profondamente.

— Dirò che egli è morto mentre dormivo. Perchè devo svegliarli, ora? C'è tempo… c'è tempo…

Reclinò la testa, chiuse gli occhi: e subito vide il viso del vecchio girare vertiginosamente intorno a lei. Ma subito un passo risuonò nel silenzio della notte chiara, sui ciottoli umidi della straducola. Ella provò un nuovo terrore, sembrandole di riconoscere il passo di Paulu.

Il passo s'avvicinava. Ella balzò in piedi, prese il lume, si curvò sulla lampadina e stette ad ascoltare, con crescente terrore. Paulu non poteva essere: in tutti i modi egli sarebbe ritornato a cavallo. Eppure quel passo un po' indolente sembrava il suo…

La fiammella della lampadina s'allungò, s'indugiò intorno al lucignolo del lume, parve comunicargli un segrelo, poi si rimpiccioli, si fece ancor più quieta e timida. E la nuova luce si sparse, giallognola e triste, cercò ogni angolo della camera lugubre, illuminò il mucchio immobile che sorgeva sul letto. Anche la mente di Annesa parve rischiararsi: ella capì ciò che aveva fatto, ed ebbe paura di sè stessa.

— Ho ucciso un uomo, io, Annesa, ho ucciso! Dio mio, che ho fatto?

A misura che il passo s'avvicinava, ella sentiva crescere la sua paura: paura che il vecchio, non ancora morto, dovesse muoversi ed emergere dalla coperta giallastra come da un mucchio di terra; paura di accostarsi al letto, paura del passo che s'avvicinava, paura di muoversi, paura di star li ferma, vicino alla fiammella della lampadina che pareva la guardasse come un occhio vivo.

Ed ecco, il passo cessò; qualcuno battè alla porta. Neppure per un istante ella dubitò. Chi picchiava era Paulu.

Ella uscì nell'andito, ma non aprì subito.

— Annesa, apri, sono io, — disse Paulu, battendo di nuovo alla porta.

Ella dovette decidersi, anche per timore che donna Rachele o zio Cosimo Damianu s'alzassero per aprire. Chiuse l'uscio, ma poi ebbe paura che Paulu volesse attraversare la camera per andare in cucina, e rientrò, s'avvicinò al letto, sollevò la coperta…

Il vecchio, con la testa abbandonata sui cuscini, stringeva i pugni, e teneva gli occhi aperti, la bocca spalancata: il suo viso era rosso, d'un rossore lividognolo, e pareva ridesse sguajatamente.

Annesa, con l'idea fissa che la sua vittima respirasse ancora, fu maggiormente impressionata da quel viso colorito, da quella bocca aperta che lasciava scorgere quattro denti neri corrosi, da quegli occhi che riflettevano la fiammella del lume che ella teneva in mano, e parevano vivi, beffardi, ridenti…

Paulu picchiò ancora.

Ella distese la coperta sul letto, copri il vecchio fino al collo, poi uscì, e dopo aver deposto il lume sulla scala aprì.

— Annesa, che fai? — domandò Paulu.

— Mi vestivo. Come, sei tu, Paulu? E il cavallo?

Egli entrò, avvolto nel lungo cappotto bagnato, con una piccola bisaccia in mano: era pallido, ma sorrideva, e i suoi occhi scintillavano, animati da una gioja infantile. E Annesa, dopo averlo sognato agonizzante, sentì un'angoscia mortale nel vederlo così insolitamente felice.

Egli disse scherzando:

— Il cavallo l'ho venduto. — Poi aggiunse, serio: — non mi hai sentito passare, poco fa? Ho pensato che il temporale avesse inondate la tettoja: ho lasciato il cavallo da zio Castigu, perchè domani lo conduca al pascolo.

Non era la prima volta che ciò avveniva, ma ella se ne meravigliò come d'un fatto straordinario. Paulu si tolse il cappotto: ella si affrettò a levarglielo di mano e sentendolo pesante e umido ricordò la preoccupazione avuta durante il temporale.

— Il cuore mi diceva che eri in viaggio, — disse sottovoce, sembrandole che il vecchio udisse ancora. — Ma non ti aspettavamo. Anzi, io ho avuto il biglietto. Che spavento… Ho avuto la febbre…

— Lo vedo che tremi, — mormorò Paulu. — Sai, invece, no trovato i denari. Aspettami un momento. Vado su e scendo subito…

Ella fece un rapido movimento verso di lui, lo guardò con gli oecchi spalancati: egli l'abbracciò, la strinse a sè, la baciò sulle labbra, mormorandole:

— Si, ho trovato, ho trovato… Aspettami…

La lasciò, prese il lume e sali alle stanze superiori. Ella non senti la stretta, non sentì il bacio, non capì che due sole cose, orribili, orribili… Egli aveva trovato i denari, egli era passato prima che ella commettesse il delitto e non aveva picchiato alla porta… Sedette sul gradino della scala, al buio, col cappotto grave e umido sulle ginocchia, e le parve che un peso enorme la schiacciasse. Egli era passato e non l'aveva avvertita: egli era salvo ed ella era perduta.

Ma in quel supremo momento di disperazione, ella intuì che la forza misteriosa della fatalità la guidava, e instintivamente si ribellò al dolore, al rimorso, alla paura, a tutte le cose terribili che l'avvolgevano e la soffocavano come la coperta aveva soffocato il vecchio. S'alzò, lasciò cadere il cappotto, attraversò l'andito e aprì la porta che dava sull'orto. Vide lo sfondo lunare del cielo, argenteo sopra il bosco nero, e respirò.

— Ho fatto tutto per lui, — pensò, intrecciando con moto convulso le mani. — Ero cieca, non vedevo, non udivo. Ed egli è passato e non mi ha avvertito! Egli mi ha scritto che voleva morire e invece sperava ancora… Mi ha ingannato… mi ha ingannato…

Paulu la sorprese sul limitare della porta spalancata, e pensò che ella avesse aperto per uscire con lui nell'orto, come di solito facevano. La prese quindi per la vita e la trascinò con sè. Il terreno era umido, la notte fresca: l'acqua del fossatello in fondo all'orto, ingrossata dall'acquazzone, brillava alla luna con un riflesso giallastro; dal bosco veniva un odore di erba e di terra bagnata: Annesa non si accorgeva di nulla, ma Paulu, nonostante la stanchezza del viaggio, provava un'eccitazione febbrile, sentiva la dolcezza della notte, voleva partecipare la sua gioia all'amante. Gli pareva giusto, dovendo farsi perdonare da lei qualche torto. Non s'avanzarono fino al bosco troppo umido, quella notte: rasentarono la casa, e si fermarono vicino alla porticina del cortile.

— Ti sarai spaventata, — egli disse, tenendola sempre stretta a sè. — Mi sono tanto pentito di quel bigliettino: ero disperato. Ti racconterò tutto, ora. Ti sei spaventata, vero?

Annesa non rispose: pareva indispettita.

— Ebbene, perdonami. Sta allegra, ora: senti che cosa mi è capitato …

— Sarà meglio che chiuda la porta di casa e faccia il giro per aprire qui: staremo meglio nel cortile. È tardi, è tanto tardi — ella mormorò cercando di liberarsi dalla stretta di lui.

— Aspetta un po', Annesa… Non mi hai dato ancora un bacio.

Egli la baciò con più ardore del solito: pareva che avesse corso qualche pericolo, che avesse temuto di non rivederla più, e rivedendola sentisse di amarla più di quanto credeva.

Ella scottava, tremava, ma non per i baci di lui: vedeva sempre davanti a sè il viso colorato e il sorriso macabro del vecchio, e temeva e sperava ch'egli potesse ritornare in vita.

— Chiamando il medico, forse… — pensava.

— Annesa, che hai? La febbre, vero? — proseguì Paulu. — Sì, ora andrai a letto, subito: solo volevo dirti che cosa mi è capitato, dopo che ho scritto il biglietto. Sono ritornato nel paese di don Peu; egli mi aveva fatto conoscere la vedova di un brigadiere, una certa Zana, che presta denari a interesse. La prima volta ella mi aveva detto di no: spinto dalla disperazione io tornai da questa vedova, e le dissi…

Egli mentiva e sentiva di mentire male, ma Annesa non se ne accorgeva. La storia che egli raccontava la interessava fino ad un certo punto: oramai altre cose le passavano per la mente. Eppure provava un certo dispetto contro la vedova che, al dire di Paulu, s'era lasciata commuovere e gli aveva prestato li per li seicento scudi all'interesse del dieci per cento.

— È giovane, o vecchia? — domandò.

— Chi lo sa? Sembra giovane, ma a guardarla bene… Infine…— si corresse subito Paulu, — questo non importa niente: ciò che importa è…

— Lasciami: vado e chiudo, là, — supplicò Annesa, spaventata. — Mi è parso di udire un rumore. Donna Rachele può essersi svegliata. Hai fatto tanto chiasso…

— Dormivano tutti, sta tranquilla…

— Lasciami andare, Paulu. Ho paura. Se ci trovano nel cortile poco male: fingiamo di prendere legna per accendere il fuoco e asciugare il tuo cappotto. Ma qui… è tardi…

Egli la lasciò andare: ella corse, leggera e silenziosa, rientrò. chiuse. Paulu aveva lasciato il lume nell'andito: ella lo prese, entrò nella camera, in punta di piedi, e s'avvicinò al lettuccio, attratta da una misteriosa suggestione.

Il vecchio era sempre là, immobile e livido sotto la coperta. E rideva ancora, col suo riso spaventoso, con la testa abbandonata sul cuscino, e i quattro denti neri nel lividore della bocca aperta… Ella lo guardava e non le pareva possibile che egli fosse morto: e avrebbe voluto scuoterlo, chiamarlo, ma aveva paura. Sempre in punta di piedi uscì in cucina, riapri le porte, si ritrovò con Paulu, che le domandò sottovoce:

— Non s'è svegliato?

— No, no, — ella rispose, — dorme: non s'è neppure svegliato quando hai suonato. Ha avuto un accesso d'asma, poi s'è addormentato… pare morto… Ho paura…

— Lo fosse almeno! — egli disse con indifferenza. — Del resto non abbiamo più bisogno di lui… Cioè, se morisse mi farebbe piacere, così non starei in debito verso una donna come la vedova del brigadiere… Del resto…

Ella avrebbe voluto insistere, pregarlo di andare in cerca del medico; ma aveva paura si scoprisse la terribile verità: anche Paulu cambiò subito discorso; entrambi avevano qualche cosa da nascondersi, e preoccupati di ciò non si accorgevano della menzogna reciproca. Ella però capiva che doveva mostrarsi più allegra, e finger meglio.

— Sono contenta che tu abbi trovato, — disse con voce tremante.— Ora non ripartirai presto, spero. Il tuo biglietto mi ha tanto spaventato, sai: credevo che tu volessi morire…

— Non parliamone più, ora! Sono qui, e spero infatti di non riparire presto. Ho pensato sempre a te, Annesa. Ho pensato: ora potremo respirare alquanto; io potrò lavorare, potrò… Sì, voglio fare qualche cosa: è tempo di pensare ai casi miei. Don Peu mi ha proposto un affare: egli possiede una miniera, sui monti di Lula, e vuole esplorarla: gli ho chiesto, scherzando, se voleva prendermi con sè, come sorvegliante e cantiniere dei lavoratori, gli dissi che desideravo allontanarmi per un po' di tempo da questo paese, dove tutto mi riesce odioso. Egli accettò…

— Tu, cantiniere, tu?… — disse Annesa con dolore.

— Io, si; che male c'è? Non è vergognoso lavorare, Annesa. E poi, non sarebbe neppure lavoro, il mio. Con mille lire metterei su la cantina, cioè una specie di trattoria dove i minatori si provvedono del pranzo e di quanto loro occorre. Guadagnerei il mille per cento, vedi. Sì, sì, è conveniente, ci ho pensato bene. Sono contento più per questo che per aver trovato i denari. Chi sa, Annesa, forse la sorte si è stancata di perseguitarci. Non dir nulla, però, nulla, neppure alla mamma. Prima ho bisogno di aggiustare i nostri affari. Ah, son davvero contento, — egli ripetè, esaltandosi, — son contento anche per quel diavolo maledetto di vecchio. Gli farò vedere che non abbiamo affatto bisogno di lui: e se continua a tormentarci lo farò cacciar via di casa. No, non abbiamo più bisogno di lui. Ma tu tremi, Anna! perchè non prendi qualche cosa? Hai provato a bere un po' di caffè? Senti, anch'io voglio qualche cosa; sento un po' di freddo.

— Vuoi mangiare? C'è qualche cosa: oggi avevamo il pranzo dei poveri.

— Mangiare, no: bere. Vado in cantina, poi torno. Vorrei parlare anche con mia madre, per dirle che ho trovato i denari. Ma aspetterò a domani.

— Tu vuoi passare nella camera? — ella chiese, spaventata.

— Ebbene, se si sveglia che c'importa? E che non posso fare quel che voglio, in casa mia? Non ho più paura di lui.

— No, aspetta, ti porterò da bere qui: non passare, non svegliare donna Rachele: è tanto stanca, ha tanto lavorato.

E siccome ella voleva di nuovo allontanarsi, Paulu la rattenne.

— Aspetta un momento. Avevo da dirti una cosa… ora non ricordo più… Lascia stare: non voglio bere. Non voglio bere più, sai: anche ieri sera ho bevuto, anche oggi… un pochino…

— E anche domani, — mormorò Annesa, che sapeva quanto valevano le promesse di Paulu, non esclusa quella di cercarsi un impiego e di mettersi a lavorare.

— Ah, tu non credi! — egli protestò, — ma vedrai, vedrai: da domani io voglio essere un altro.

— Domani, — ella pensò, — che accadrà domani?

Paulu la senti rabbrividire e la pregò di andarsene a letto: ma ella insisteva.

— Ti porto da bere: vado e torno. Aspetta, anch'io devo dirti una cosa.

— Dimmela ora. Ti ripeto che non voglio più bere! Ah, tu non credi che io possa tenere una promessa? Non sono più un fanciullo: in questi ultimi giorni ho pensato ai casi miei, e ho deciso di finirla con tutte le sciocchezze.

— Anche con me… allora…

— Si, anche con te, — egli disse con voce grave. - Senti, Annesa, desideravo parlar prima con mia madre, per domandarle consiglio, ma siccome sento che ella non potrà che consigliarmi di fare il mio dovere… ti dirò… Ebbene, sì, tu devi averlo capito…

— Io? Non capisco, — ella mormorò, sollevando gli occhi che aveva tenuti sempre chini, quasi il sonno la vincesse.

— Tu non capisci? Io voglio sposarti, Annesa. Ti porterò via con me, andremo nelle miniere: nessuno si metterà più fra noi…

Egli non disse, forse perchè non lo confessava neppure a sè stesso, che un po' di calcolo entrava in questa sua decisione. Aveva bisogno di compagnia, per resistere alla solitudine e alla desolazione del soggiorno fra le aride montagne di Lula, e aveva bisogno d'una donna per ajutarlo nella meschina bisogna di cantiniere. Del resto, per dire il vero, l'idea di sposare o semplicemente condurre con sè Annesa lo incoraggiava nel proposito di recarsi nelle miniere.

Ad ogni modo egli si aspettava, per parte di lei, una viva manifestazione di gioia; ma ella parve non capire, o piuttosto non credere alle parole di lui; e per la seconda volta provò una impressione strana, di soffocamento, di vertigine, la stessa che aveva provato nell'udire che Paulu era passato senza avvertirla, mentre ella stava per compiere il delitto. Poi le sembrò di udire in lontananza una risata misteriosa, triste e beffarda.

— Perchè ridi? — domandò Paulu, sorpreso. - Che c'è da ridere? Tu non credi più a quello che ti dico: non parlo più, dunque, ma, ti ripeto, vedrai se son bugiardo o no. Parleremo meglio domani: ora vado anch' io a letto; sono stanco e qui fa freddo, e tu hai la febbre. Parleremo domani…

Fece un passo, poi si fermò ancora e disse, con un po' d'ironia:

— O non ti piacerebbe venire con me, nella miniera?

Ella non rispose, ma gli si avvinghiò al collo e scoppiò a piangere: e tutto ciò che v'è di più amaro e doloroso nel pianto umano, la disperazione, il rimorso, l'odio contro il destino che si diverte mostruosamente a tormentarci, vibrò nel pianto di lei.

Paulu era avvezzo a veder piangere la sua poco allegra amica: qualche volta si commoveva anche lui, qualche volta s'irritava: ora, non potendo spiegarsi in altro modo l'eccitazione di lei, l'attribuì alla gioja, alla speranza, alla passione che ella doveva provare in quel momento. Ma quando era allegro, egli amava la gente allegra.

— Annesa, — disse, — finiscila: lo sai, non mi piace vederti piangere. Abbiamo pianto abbastanza; è tempo di finirla ora. Su, dimmi qualche cosa, prima di separarci, poichè veramente non hai aperto bocca che per dirmi qualche brutta parola. Quando vuoi, però, sai parlare bene: dimmi una buona parola, e poi andiamocene a dormire. Oggi è stata una giornata ben lunga e faticosa; ora tutto è finito, però. Perchè continui, ragazza? Credi pure, oramai tutto è finito; arriva un momento di riposo per tutti.

Ella piangeva, col volto nascosto sul petto di lui. Avrebbe voluto morire così, sciogliersi in lagrime, addormentarsi per sempre. Una stanchezza mortale le pesava sulle spalle, le piegava la testa: ogni parola di Paulu la colpiva, le riusciva dolce e tormentosa nello stesso tempo.

Egli continuò a parlare, ripetendo sempre le stesse cose: poi cercò di staccarsi da lei, ma non potè.

Ella aveva una terribile paura che egli, passando per la camera, si accorgesse del delitto: e temeva anche di star sola, sebbene il sonno la vincesse. Come i febbricitanti, o le persone circondate da gravi pericoli, non voleva addormentarsi: già mille fantasmi le apparivano in lontananza; tutto diventava sempre più torbido e pauroso intorno a lei.

Paulu, che era stanco e voleva ritirarsi, la trascinò con sè fino alla porta di cucina; ma quando vide la candela, posata per terra vicino al focolare, ella ricominciò a tremare, a battere i denti, e si strinse maggiormente a lui.

— Non soffocarmi, — egli le disse all'orecchio, scherzando.

Ella lo lasciò subito e s'irrigidi, ma perchè egli non se ne andasse, cominciò a parlare; pareva vaneggiasse.

— Aspetta: ho da dirti una cosa. Non occorre aspettare a domani per parlarne. Verrò nella miniera… Sicuro, se vuoi posso venire da domani, da stanotte. Verrò. Come puoi aver pensato il contrario? Vuol dire che non mi conosci; se no sapresti che con te io verrei nell'esilio, lontano, in altre terre, nelle altre parti del mondo. Se tu commettessi un delitto, verrei con te nell'ergastolo, porterei io le catene, non ti lascerei mai, metterei la mia mano fra la tua carne e le catene…

— Speriamo non occorra — egli osservò, poco commosso.

— Senti, senti, Paulu. Dovevo dirti una cosa… aspetta… — ella proseguì, passandosi una mano sul viso. — Ah, ecco, non voglio che tu parli con tua madre, riguardo al nostro matrimonio: non parlarne con nessuno.

— Hai paura di Gantine?

Ella non ci pensava neppure, e accennò semplicemente di no.

— Le dirai soltanto che vuoi andare nelle miniere, che mi porterai con te… come serva, perchè solo non potresti vivere, lassù. Mi lasceranno venire, sì: dopo, se occorrerà, ci sposeremo. Io non lo pretendo, lo sai, basta che tu non mi abbandoni! Se Dio esiste, ci perdonerà: i preti assolvono tutto, non è vero? Che ne dici? Prete Virdis mi assolverà… lo so, mi assolverà.

— Mia madre acconsentirà meglio a lasciarci sposare, che a partire assieme, soli, per un luogo lontano.

— Mi dispiace, ma io verrò egualmente, anche se lei non vorrà: io bacio le mani dei miei benefattori, ma… vengo con te, Paulu… Fuggirò, se tu vai via — ella continuò, prendendogli un braccio e stringendolo forte. — Tu non mi lascerai qui, vero? Bada che ora hai promesso! Non voglio che tu mi sposi, ma voglio che mi porti via con te… Hai promesso, sai, Paulu, hai promesso… Ah, ah… Paulu…

— Annesa, che hai? — egli disse inquieto. — Ho promesso e manterrò. Va a letto, ora. Prenditi qualche cosa, non vedi che hai la febbre? Vai. Se sapevo, non ti dicevo niente, stassera.

Ma ella non badava alle parole di lui: il suo pensiero vagava lontano.

— È lontana, la miniera?

— No: bisogna passare per Nuoro, poi si arriva lassù dopo cinque o sei ore di viaggio a cavallo. Ma va a dormire, cristiana; parleremo di questo domani. Ora io passo in punta di piedi per la camera: l'istrice non si sveglierà. Tu chiudi e va subito a letto: su, Annesa, non farmi adirare.

La baciò ancora, ma sulle labbra di lei non sentì che il sapore salato delle lagrime: poi attraversò la cucina senza far rumore, ed ella provò quasi un impeto di gioia vedendo che egli non prendeva il lume.

Con gli occhi spalancati, il respiro sospeso, ella ascoltò: ma quando i passi furtivi di lui cessarono, ed ella non udi più alcun rumore, le parve di essere sola, abbandonata da tutti, sul limitare di una porta che conducesse ad un luogo di terrore e di morte.

Dopo un momento di esitazione entrò e chiuse. Ma non ebbe più il coraggio di rientrare nella camera, per quanto una suggestione malefica l'attirasse là dentro. Sedette accanto al focolare, nel posto dove s'era indugiata qualche ora prima, e frugò la cenere con un fuscello. Il fuoco s'era spento completamente. Ella sentiva freddo, ma non osò o non ebbe più la forza di muoversi.

Rimise i gomiti sulle ginocchia, il viso fra le mani, e le parve che la testa le girasse vortico samente intorno al collo, ma quest'impressione le riusciva quasi piacevole. Le pareva di non essersi mossa da quel posto in tutta la notte: tutto era stato un sogno, orribile da prima, triste e dolce poi. Il vecchio dormiva ancora, Paulu viaggiava, avvolto nel suo cappotto bagnato.

Le visioni della febbre tornavano a circondarla: apparivano, sparivano, come fantasmi fra la nebbia: a momenti ella riconosceva quei fantasmi, vedeva zio Castigu, prete Virdis, Rosa, Gantine: ma poi, nel mistero della nebbia, si svolgevano strane metamorfosi, zio Castigu le sorrideva con la bocca infantile del suo giovane fidanzato; sulla sottana di prete Virdis appariva il viso triste di Rosa; e la figura incappucciata, che viaggiava su un cavallo fantastico, in lontananza, nera sullo sfondo della notte vaporosa, non era Paulu, no, era un essere misterioso, un vecchio mendicante che andava verso le miniere di Lula, in cerca d'una bambina smarrita… Annesa smaniava e gemeva: nel sonno ella udiva i suoi gemiti, e sapeva di sognare, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a svegliarsi; così dormì parecchie ore, tormentata da sogni bizzarri.

Quando si svegliò, intirizzita, il suo primo pensiero fu per la sua vittima. In un baleno ricordò ogni cosa, e con improvvisa lucidità di mente pensò a quanto le restava da fare. La febbre pareva cessata. Ora ella non sentiva più nè terrore, nè paura, nè indecisione. Ritornava ad essere una creatura di finzione e di silenzio, in lotta con la sorte maligna. Perchè tremare, perchè smarrirsi? Ella non aveva nulla da perdere, purchè non avvenisse alcun male ai suoi benefattori. Non sperava nulla per sè, in questo mondo: non credeva nell'altro.

Si alzò, sbadigliò, rabbrividi di freddo. La notte era alta ancora, ma si udivano i galli cantare, e qualche roteare di carro risuonava in lontananza, nel silenzio delle straducole umide illuminate dalla luna. La candela ad olio ardeva ancora, ma il lucignolo aveva formato una specie di funghetto di fuoco che mandava un fumo nero ed acre.

Come un vecchio delinquente ella cominciò a preparare ogni cosa prima di chiamare i suoi benefattori; prese la candela, la riempì a metà d'olio, tagliò con le forbici il lucignolo arso: entrò nella camera, cautamente; e prima di tutto guardò se il canapè era abbastanza in disordine, poi tolse la coperta dal viso della vittima e stette lungamente a guardarla. Il vecchio continuava a ridere, col suo orribile riso; ma il volto s'era fatto grigio, gli occhi s'erano un po' socchiusi e appannati. Ella avrebbe voluto scuotere il cadavere, fargli prendere un'altra posizione, ma non osò: le destava un raccapriccio invincibile, le pareva che, toccandolo, le sue dita sarebbero rimaste attaccate a quelle carni morte.

Finalmente potè allontanarsi; si levò il corsetto, il grembiale, li depose sulla sedia; si scompigliò i capelli, si passò le mani sul viso, sugli occhi, quasi per comporsi una maschera d'indifferenza; poi salì al primo piano, e battè all'uscio della camera di donna Rachele. Gli uomini dormivano all'ultimo piano: zio Cosimu anzi s'era fatto un lettuccio su in soffitta, fra i mucchi di frumento e di legumi.

Donna Rachele si chiudeva a chiave: ella dormiva poche ore della notte, ma aveva il sonno pesante, e Annesa dovette picchiare tre volte per svegliarla.

— Donna Rachele, apra; zio Zua sta male, sta per morire.

— Gesù Maria, va e chiama subito prete Virdis. Va e chiama mio padre… — gridò la vedova, correndo ad aprire.

Rosa, che dormiva con la nonna, si svegliò e si mise a piangere: Annesa entrò nella camera, col lume in mano, e mentre donna Rachele si allacciava tremando la sottana, disse tranquillamente:

— Non si spaventi. Credo che zio Zua sia morto.

— Come lo dici! — gridò la vedova, correndo scalza verso l'uscio. — Morto così, senza sacramenti, senza niente! Che dirà la gente, Signore mio Dio! Che lo abbiamo lasciato morire così! Ma perchè non chiamavi?

— Non mi sono accorta di nulla! Ora, pochi minuti fa, mi sono svegliata, e non…

Donna Rachele non l'udiva più. Scalza, in sottanino, s'era precipitata giù per le scale, al buio, gemendo e gridando:

— Senza sacramenti! Dio, Signore mio, senza sacramenti…

Rosa piangeva sempre. Don Simone battè il bastone sul pavimento della sua camera, Paulu aprì il suo uscio e domandò:

— Cosa c'è, Annesa? Mamma…

Annesa ricominciava ad aver paura, ma oramai aveva piena coscienza di ciò che aveva fatto, di ciò che poteva accadere, e si dominava energicamente. Cercò di far tacere Rosa, rispose a Paulu:

— Scenda subito; chiami i nonni. Zio Zua è morto.

Subito Paulu si vestì e corse da don Simone che picchiava sempre forti colpi sul pavimento per far tacere la bambina.

— Sta zitta; vado giù e torno subito. Zio Zua sta male, ha mal di pancia: vado a dargli la medicina. Non muoverti… — disse Annesa; ma Rosa aveva sentito le parole della nonna, e ripeteva singhiozzando:

— È morto senza sacramenti… È morto: che dirà la gente?.. Tu non hai chiamato…

— Ma sta zitta! — gridò Annesa, irritandosi. — Se ti muovi guaj a te.

E corse fuori, giù per le scale, sempre più turbata, ma sempre più decisa a non tradirsi. Dall'uscio vide donna Rachele curva sulla vittima, della quale aveva sollevato il capo e scuoteva le braccia.

— Nulla, nulla! È morto davvero! Ma come è stato, Annesa? Dio, Signore mio, che dirà la gente?

Ella si avvicinò, e provò un senso di sollievo, sembrandole che il morto avesse cambiato fisionomia, cessando di ridere e di mostrare i denti.

— Prenderà un malanno a star così scalza! - ella disse a donna Rachele, respingendola. — È morto, non vede? È già freddo. Stanotte ha avuto un altro accesso d'asma, come quello d'ieri notte: anzi ha gridato tanto. Credevo l'avessero sentito. Poi si è calmato, si è addormentato: anche io ero stanca, mi sono addormentata profondamente, Poco fa mi svegliai, ascoltai, non sentii nulla. Stavo per riaddormentarmi; ma poi ho avuto una specie di presentimento: accesi il lume, guardai…

— Dio, Dio, perchè non hai chiamato, stanotte? Bisogna tacere, ora: non bisogna dire che è morto così, senza che noi ce ne accorgessimo…

— Sì, sì! Diremo che c'eravamo tutti, — disse Annesa vivacemente. — Ah, ecco don Paulu!

Nell'udire i passi del vedovo ella impallidì, e fu riassalita da un tremito nervoso che la costrinse a battere i denti, a morsicarsi la lingua e le labbra. Ma Paulu non badò a lei. Anch'egli aveva la candela in mano e corse a guardare il morto; si curvò, lo fissò, lo toccò. Il suo viso assonnato non esprimeva nè dolore, nè gioja.

— È andato! È freddo stecchito! Come è stato, Annesa? — domandò, andando a deporre il lume sul tavolo.

— Stanotte ha avuto un nuovo accesso d'asma, come quello di ieri notte, — ella ricominciò; e ripetè quello che aveva detto a donna Rachele, mentre questa andava di qua e di là per la camera, cercando qualche cosa che non trovava.

— Mamma, vada a mettersi le scarpe! Che cerca? C'è bisogno di disperarsi così? È morto: che dobbiamo farci — disse Paulu, al quale era balenato in mente il dubbio che il vecchio fosse morto durante il convegno suo con Annesa.

Donna Rachele non udiva nulla, presa dal rimorso d'aver lasciato morire il vecchio senza sacramenti. Le pareva di vederlo, tra le fiamme del purgatorio, con le braccia sollevate, e la bocca aperta, avido di luce e di pace. Dopo aver frugato di qua e di là, finalmente ella trovò quello che cercava: un piccolo crocefisso nero, che mise sul petto del morto.

— Bisogna lavarlo e cambiarlo, — disse, calmandosi. — Annesa, va e accendi il fuoco e metti un po' d'acqua a scaldare. Che fai li, istupidita? Annesa, Annesa, che cosa hai fatto!

Questo rimprovero, sebbene dolce, colpì Annesa; oramai ogni parola aveva per lei un doppio significato: ma mentre accendeva il fuoco per scaldar l'acqua da lavare il cadavere, ripetè a sè stessa che bisognava esser forte, pronta a tutte le sorprese.

Dopo un momento s'udi la voce di don Simone:

— Ma che è stato? È forse morto? Cosa dice Annesa? Perchè non ha chiamato?

— Che colpa ha quella lì? Lasciatela tranquilla! — disse Paulu, irritandosi perchè donna Rachele ricominciava a lamentarsi. — È morto e sia pace all'anima sua…

— Ma è questo, Paulu… — riprese la vedova.

— Ma lasci andare, mamma! Crede lei che se egli si fosse confessato sarebbe andato in paradiso?

— Paulu! — disse il nonno con voce grave e triste. — Rispetta almeno i morti!

Paulu non replicò. Nel silenzio improvviso si udi il pianto di Rosa, e subito zio Cosimu Damianu, avanzandosi con la bimba fra le braccia, domandò:

— E Annesa? Ditele che dia attenzione a Rosa! Ma che è avvenuto? E Annesa che ha fatto?

Annesa e Annesa. Tutti se la prendevano con lei, ma ella era decisa a lottare contro tutti.

Uscì nel cortile e attinse l'acqua: il cielo non ancora bianco, ma già pallido di un vago chiarore, annunziava l'alba; la luna, grande e triste, calava dietro il muro del cortile, le stelle tremolavano, velandosi, quasi impazienti di andarsene. Annesa avrebbe voluto che la notte non finisse ancora; aveva paura della luce, della gente che si sveglia e pensa ai casi altrui con malignità. La gente? Ella odiava la gente, questa vipera crudele alla quale bisognava dar da succhiare il proprio sangue. Per la gente ella aveva rinunziato al sogno di tutte le donne oneste: al sogno di sposare l'uomo che amava: per la gente, per le sue mormorazioni, per il martirio che la gente avrebbe fatto subire a Paulu se egli lasciava scacciare i nonni e la madre dalla casa degli avi, ella aveva commesso un delitto. Ed ecco che fra poco la gente si sarebbe svegliata, e avrebbe invaso la camera ove giaceva il morto, e lo avrebbe scoperto, denudato, esaminato, e forse avrebbe indovinato la terribile verità.

Più tardi, mentre ella e donna Rachele lavavano il cadavere, don Simone, zio Cosimu e Paulu, seduti attorno al fuoco, presero appunto a parlare delle seccature che il prossimo infligge in certe occasioni. Zio Cosimu piangeva, cercando di nascondere il volto dietro la testona di Rosa. La bimba gli si era addormentata sulle ginocchia, ma ogni tanto aveva un fremito, e con la manina calda gli stringeva forte un dito.

— Si, — diceva don Simone, — ora verranno a seccarci. In queste occasioni, quando maggiormente si ha bisogno di tranquillità, la gente viene a immischiarsi nei fatti nostri. Gli antichi seppellivano in casa i loro morti, senza bisogno di star lì a fare i funerali… Così almeno raccontano: nei nuraghes, che servivano di abitazioni, si trovano le ossa dei morti…

— No, per esempio, — esclamò Paulu, — zio Zua io non lo vorrei seppellito in casa! Sia pace all'anima sua, ma ci ha troppo tormentato…

— Lasciamo correre trenta giorni-per un mese, - disse don Simone. — Misura le tue parole, Paulu! Non parlare così davanti alla gente, che appunto in queste occasioni osserva tutto…

— Io sono sincero! Babbo Decherchi, vi assicuro che mi dispiace la morte di quel vecchio, ma non posso piangere.

— Ecco, perchè tu sei troppo attaccato alla vita, figlio mio, — disse allora zio Cosimu. — Neppure lo spettacolo della morte ti impone rispetto!

Era forse la prima volta che zio Cosimu parlava così aspramente al nipote: Paulu si turbò più per quelle brevi parole del nonno materno, che per i continui rimproveri di don Simone.

— Attaccato alla vita! — disse amaramente, come fra sè, ricordando che il giorno prima aveva pensato di uccidersi. — Se fossi stato così, come voi dite, avrei… basta, non è ora di parlare di queste cose!

— E allora taci! Un morto è là; pensa piuttosto che tutti dobbiamo morire. Zua Decherchi non era un vile, che si possa chiacchierare e scherzare davanti al suo cadavere. Era un uomo valoroso, e sopratutto un uomo onesto, lavoratore e giusto. I mali fisici lo avevano reso aspro, ora, ma spesso è nell'amarezza che si dicono le verità. E la verità è quella che dispiace!

Paulu non rispose subito. Dopo tutto egli era un figlio e un nipote rispettoso e non aveva mai questionato coi suoi maggiori, anche perchè lo giudicava inutile. Non aveva mai questionato, ma aveva sempre fatto il comodo suo, sempre ritenendosi infinitamente superiore, per intelligenza e volontà, ai suoi nonni ignoranti e semplici. Le parole insolite di zio Cosimu, in quell'ora funebre, lo colpirono vivamente, anzi gli dispiacquero. Ma poi pensò che forse il nonno aveva ragione, e forse per questo volle, dopo un momento, replicare.

— Un giusto! — mormorò. — La morte del giusto però, non l'ha fatta!

— Taci, taci dunque! — disse allora don Simone, che s'era messo a pregare quasi a voce alta. — Tu non sai quello che dici! Perchè non ha fatto la morte del giusto? Non è morto nel suo letto, di morte naturale? Perchè non si è confessato? Ma il Signore è misericordioso, e la sua bilancia pesa le buone e le male azioni meglio del come possiamo pesarle noi…

Annesa entrava ed usciva, e udi le parole del vecchio « cavaliere ». Se avesse potuto sorridere, ella che non credeva in Dio e in una giustizia sovrumana, avrebbe sorriso: ma pensava ad altro!

— Avete finito? — domandò zio Cosimu, mentre ella versava fuor della porta l'acqua con cui donna Rachele aveva lavato il cadavere.

Ella s'avvicinò al focolare e fece cenno di no. Non parlava più: le sue labbra sembravano sigillate. Paulu riprese:

— Non pesino le mie parole sul morto, ma credo che la bilancia eterna abbia bisogno di tutta la misericordia del Signore per…

— Figlio di Sant' Antonio, — proruppe di nuovo zio Cosimu, — non hai capito che non ti conviene di parlare così? Sta attento…

— Ma, infine, che ho da temere? — esclamò Paulu. — Spero non diranno che l'ho fatto morire io…

— Eh, possono dirlo, invece, — rispose il vecchio, abbassando la voce. — Eppoi non si tratta di questo, ora. Si tratta di pregare o… di star zitti.

— Eppoi! Eppoi!… — disse don Simone, agitando una mano in aria. E dopo un momento di silenzio aggiunse: — Egli non era poi così cattivo, no! Egli voleva farci del bene. Forse noi non abbiamo saputo trattarlo nè conoscerlo. Lo abbandonavamo ogni giorno di più, lo lasciavamo solo, ci ricordavamo di lui quando ne avevamo bisogno… Si, — aggiunse a bassa voce, — non lo amavamo come forse meritava. Ed egli… ora posso dirlo, egli voleva farci del bene… Egli aveva incaricato prete Virdis di acquistare la casa e la tanca…

Paulu sollevò vivacemente il capo: e vide che Annesa, in fondo alla cucina, guardava fisso don Simone. Pareva spaventata.

— Basta, preghiamo, — concluse il vecchio nobile, e non giudichiamo mai il nostro prossimo, prima d'averlo conosciuto.

Ma Paulu odiava zio Zua anche morto; e giudicò opportuno far sapere ai suoi nonni che non avrebbe avuto bisogno dell'ajuto del vecchio avaro.

— Lasciamolo in pace, — disse, — ma se egli reramente voleva farci del bene poteva risparmiarci tanti dispiaceri: poteva risparmiarmi di correre tutto il circondario, sotto il sole e sotto la pioggia… e di umiliarmi a tutti gli strozzini, a tutte le donnicciuole, a tutti i villani che incontravo… Voi volete che non parli; ma io non posso tacere. Ancora poche parole. leri notte ho fatto tardi, non ho voluto svegliarvi. Ho trovato i denari, ma con quale umiliazione! Da una vedova di fama equivoca ho dovuto prenderli… e li ho presi: che dovevo fare? - aggiunse, difendendosi da rimproveri che i vecchi non pensavano di rivolgergli. — Avevo l'acqua alla gola… Ancora un po' e mi sembrava di dover affogare…

— Chi dice nulla? Se tu restituirai quei denari, che t'importa della fama della vedova?

— Li restituirò, certo! E non crediate che li restituirò con l'eredità del morto… No; voglio dirvi anche questo. Ho trovato un impiego. Lavorerò: andrò nelle miniere…

I due nonni lo guardavano e don Simone scosse la testa: ed anche zio Cosimu, nonostante tutta la sua bontà solita, il suo compatimento, la sua tenerezza, strinse le labbra e fece cenno di no. No, no; egli non credeva alle parole del nipote.

Ma Paulu non replicò oltre: aveva detto tutto quello che gli premeva di far sapere ai nonni. Il resto lo avrebbe detto a sua madre, più tardi; ora non ci pensava neppure.

I vecchi ricominciarono a pregare, ed egli chinò la testa sulla mano e s'immerse nei propri pensieri: dopo tutto, lo spettacolo della morte, benchè non gli riuscisse nuovo, lo rattristava, e gli faceva ritornare alla mente mille quesiti vecchi come il mondo e sempre nuovi e sempre difficili a risolversi. Finisce tutto con la morte? Abbiamo davvero un'anima immortale? E dove va, quest'anima, dopo la nostra morte? Dov'è l'anima del vecchio asmatico? Esiste davvero il Signore, il Dio dei nostri padri, seduto sulle nuvole, il vecchio Dio giusto e terribile, il Dio con la bilancia, tanto amato e riverito dai vecchi nonni?

Paulu non sapeva: ricordava la morte di suo padre, la morte di sua moglie, ma ricordava che allora la disperazione e il dolore non gli avevano permesso di rispondere ai terribili quesiti che ora gli ritornavano al pensiero. Ora si trovava in ben diversa disposizione d'animo: era quasi felice, si sentiva giovane, forte, pieno di buona volontà: l'avvenire gli appariva quasi roseo. Era quindi propenso a credere all'esistenza di Dio e della sua bilancia, e, in conseguenza, della sua giustizia!

Annesa, invece, udita la notizia che il morto voleva « far del bene alla famiglia », era diventata ancor più cupa e silenziosa. donna Rachele, intanto, compiva i riti funebri con una specie d'esaltazione religiosa, pregava e sospirava e ogni tanto mormorava:

— Morto così! Annesa, morto così!

Annesa taceva, e quando il cadavere fu rivestito e ricoperto con un drappo di damasco giallognolo, e la luce glauca dell'alba, penetrando dalla finestra sull'orto, si fuse col chiarore rossastro dei ceri che ardevano sui vecchi candelabri dorati, il viso di lei, immobile nel cerchio del fazzoletto nero, apparve come una maschera di cera.

Appena fu giorno ella andò a chiamare prete Virdis.

Egli sospese di dire la prima messa per correre nella casa visitata dalla morte; entrato nella camera dove zio Cosimu vigilava il cadavere, s'inginocchiò e pregò; poi uscì in cucina, sedette vicino al tavolo, e per qualche minuto stette silenzioso, rosso e gonfio più del solito; ma ad un tratto si sbattè il fazzoletto turchino sulle ginocchia, abbasso e sollevò il capo, sbuffò.

— Annesa mi ha raccontato… che eravate tutti presenti quando Zua è morto. Ah, perchè non mi avete chiamato, anghelos santos! Che male avete fatto!

Donna Rachele mise sul tavolo un involto, e sospirò. E sebbene con ripugnanza, sostenne la menzogna di Annesa.

— Egli aveva di questi accessi quasi tutte le sere. Il medico aveva ordinato un calmante che riusciva sempre efficace. Stanotte però il male è stato così forte ed improvviso che Annesa non ha fatto in tempo a versare il calmante nel bicchiere. Abbiamo trovato quest' involto fra i materassi, e non l'abbiamo aperto aspettando che lei venisse.

— Apritelo pure, — disse prete Virdis. — L'altro giorno egli mi aveva consegnato le sue cartelle e il suo testamento…

— Tutto è in buone mani, — mormorò donna Rachele, svolgendo il pacco trovato fra i materassi.

Ma Paulu, che s'era avvicinato per guardare, emise un'esclamazione di rabbia, si strinse la testa fra le mani, e cominclò ad agitarsi.

— Egli aveva mandato via di casa il testamento? Mi credeva dunque capace di falsificarlo! Sono dunque giudicato così vile? E anche lei, prete Virdis, anche lei mi ha giudicato così vile?

— Pensiamo ad altro! — rispose il prete, agitando il fazzoletto. — Io ho compiuto la sua volontà, e null'altro. Ora pensiamo a seppellirlo, poi parleremo del resto. Tu, Paulu, andrai a dar l'avviso al sindaco; io penserò ai funerali…

— Io? — gridò Paulu, battendosi le— mani sul petto. — Io me ne vado subito in campagna. Nessuno mi ha veduto tornare ieri sera: il mio cavallo forse è ancora da ziu Castigu. No, — aggiunse, — non posso restare qui oggi. Son troppo irritato, prete Virdis! Egli mi offende anche dopo morto. Vado via: potrei parlar male, e ogni mia parola sarebbe pesata. Dammi la bisaccia. Annesa, mettici dentro un pezzo di pane…

— Paulu, abbiamo da-pensare ad altro! — disse donna Rachele, e Annesa non si mosse.

Ma egli, offeso per l'affare delle cartelle e del testamento, era deciso ad andarsene; l'idea di-dover restare tutto il giorno a casa e mentire, davanti agli estranei, un dolore che non sentiva, aumentava la sua agitazione. Disse:

— Me ne andrò nell'ovile di zio Castigu.

— Va pure, cattivo cristiano, va! La volpe cambia il pelo, ma non il cuore. Va, va, — disse il prete, agitando sempre il suo fazzoletto, come per scacciare le mosche.

E Paulu si mosse per uscire. Donna Rachele e don Simone, che in fondo in fondo giustificavano la sua collera, non lo trattennero: solo Annesa gli corse dietro, e gli disse, supplichevole:

— Tu non farai questo! Tu non andrai, Paulu! Che dirà la gente?

— Se qualcuno mi vedrà tornerò indietro, — egli promise. — Lasciami andare. È ancora presto: nessuno mi vedrà.

Uscì e non tornò. Donna Rachele, prete Virdis e don Simone confabularono a lungo; poi il sacerdote se ne andò, promettendo di provvedere a tutto per i funerali.

Più tardi la casa si riempi di gente: vicini, parenti, amici. Vennero anche i due vecchi fratelli che il giorno prima avevano preso parte al pranzo dei poveri; e l'amico del defunto diceva:

— Come si muore presto! Ieri ancora Zua era pieno di vita…

— Sì, egli correva e saltava come una lepre che presente la pioggia! — osservò ironicamente l'altro fratello.

Poi venne il falegname con la cassa, e il morto fu messo dentro, con le sue medaglie e il crocefisso nero. Qualche vecchia parente propose di cantare una nenia funebre in onore del morto, ma don Simone si oppose: egli era un uomo all'antica, sta bene, e approvava anche gli antichi usi, ma capiva che certe barbare cerimonie hanno fatto il loro tempo: quindi ordinò ad Annesa di preparare il pranzo, mentre di solito non si accende il fuoco nelle case ove c' è un morto; ed ella si ritirò nel suo angolo, sotto la tettoja, contenta di sfuggire all'attenzione delle persone curiose che andavano e venivano con la scusa di far le condoglianze a donna Rachele ed ai vecchi nonni.

Il cortile era deserto. La piccola Rosa era stata mandata in casa della zia Anna e non doveva ritornare che a sera inoltrata.

L'ora passava; Annesa si sentiva sempre più tranquilla: ancora un po' e la terra muta si sarebbe aperta per inghiottire il terribile segreto. Ma mentre attraversava la cucina per cercare qualche cosa nell'armadio, ella senti un profondo sospiro; si volse, inquieta, e nell'angolo dietro la porta vide Niculinu il cieco: immobile, rigido, egli fissava nel vuoto i suoi occhi biancastri, dalle palpebre pesanti, e pareva deciso a non muoversi presto.

— Che fai lì? — ella domandò, inquieta. — La gente è di là, nelle stanze di sopra. Va di là.

— E tu che fai?

— Preparo la colazione, — ella'rispose, prendendo un piatto dall'armadio.

— Ah, i morti non mangiano più, ma i vivi mangiano ancora!

— Sicuro! dal momento che essi hanno ancora la bocca! Che t'importa? — ella disse, seccata. - E tu, ieri, non hai mangiato, qui? E tuo padre non è morto?

— Sì, ho mangiato e bevuto, — riprese l'altro, con la sua voce fiacca e dolce. — Perciò… Basta; dov' è Gantine? Non tornerà oggi?

— Nè oggi nè domani. È lontano: nella lavorazione del salto di San Matteo.

— E don Paulu, dov'è?

— Ma che t'importa? — ripetè Annesa. — Non ho voglia di chiacchierare con te, Niculinu. Fammi il piacere, vattene.

— Annesa, — egli ripetè, senza badare alle aspre parole di lei, — dov' è don Paulu? Se ritorna digli che non tutti ieri hanno creduto, come ho creduto io, di far la Comunione in questa casa. C'è della gente maligna, nel mondo! Molta gente maligna.

— E lascia che ci sia! Lo so, i fratelli Pira hanno sparlato di noi, dopo aver mangiato e bevuto qui! Ma non abbiamo tempo per pensare a queste cose, oggi…

— Bisognerebbe avvertire don Paulu, — ripetè l'altro con insistenza.

— Egli non ha bisogno di avvertenze; lasciami in pace, Niculinu.

Ella ritornò nel cortile, ma si senti di nuovo inquieta. Avvertire Paulu? Di che? Delle maldicenze dei vecchi sfaccendati? Paulu avrebbe riso: egli non amava i pettegolezzi. Dopo un momento ella rientrò nella cucina, per domandare al cieco che cosa i fratelli Pira avevano detto; ma Niculinu non c'era più. Nella camera s'udiva il falegname che finiva di inchiodare i galloni d'argento sul drappo nero della cassa; e quel suono lugubre di martello riusci quasi piacevole all'orecchio di Annesa: oramai nessuno più vedeva il morto: ella sola lo vedeva ancora, livido e macabro, con la bocca aperta e gli occhi di vetro… Ma oramai la cassa nera, coi suoi galloni e i suoi chiodi, custodiva il segreto, come lo custodiva lei…

Poi il martello tacque: una voce disse, dietro l'uscio:

— Ecco fatto: andiamo a mangiare…

E a poco a poco la gente se ne andò; e i vecchi nonni e donna Rachele mangiarono, poco si, ma tranquillamente, come persone che hanno la coscienza tranquilla e la certezza d'aver compiuto il proprio dovere.

Alle tre il morto fu portato via. Annesa rifece il lettuccio, rimise tutto in ordine, e i nonni e donna Rachele scesero e continuarono a ricever la gente nella camera dov'era morto il vecchio.

Dopo i funerali prete Virdis ritornò e sedette accanto a donna Rachele, domandando se Paulu era tornato.

— Questa mattina l'hanno veduto uscire, — continuò il grosso prete, che teneva sempre in mano il suo fazzolettone rosso e turchino. — Errore sopra errore. Sì, cari miei, da ieri ad oggi avete fabbricato un edifizio di errori. Speriamo non crolli…

— Che vuol dire con queste parole? — domandò don Simone; ma prete Virdis agitò il fazzoletto e tacque. Annesa però notava con inquietudine che egli volgeva vivamente la testa ogni volta che la porta s'apriva. Pareva che egli aspettasse qualcuno, ma quando le persone entravano reclinava la testa e agitava il fazzoletto senza pronunziar parola; e solo verso il tramonto s'alzò e si congedò.

— Devo andare per la benedizione, — disse, con voce grave. — Se avete bisogno di me chiamatemi.

Finalmente la casa restò tranquilla: i due vecchi uscirono nell'orto, donna Rachele potè muoversi. Annesa sedette sullo scalino della porta che dava sull'orto e guardò verso la montagna. Cadeva una sera mite e luminosa. I boschi, immobili e taciti, dal confine dell'orto fino agli estremi vertici della montagna apparivano rosei, come illuminati da un incendio lontano: le fronde rossastre degli ultimi elci si disegnavano nettamente sul cielo grigio-violaceo dell'alto orizzonte. Tutto era pace e silenzio: ma Annesa si sentiva stanca, e benchè le sembrasse di udire ancora, nella camera vicina, l'ansare del vecchio asmatico, provava l'impressione che anni ed anni fossero trascorsi dopo il fragoroso temporale della notte prima. Non poteva convincersi che in un giorno e una notte fossero accadute tante cose. E le pareva di essere invecchiata, e che un peso invisibile le gravasse sulle spalle e la costringesse a curvarsi fino a terra.

— Tutto è finito, — pensava. — E ora bisogna andarsene. Se resterò qui, in questa casa, non sarò più capace di ridere, di parlare, di lavorare. Ho liberato gli altri dal tormento del vecchio, ma mi sembra d'avermi caricato un peso sulle spalle… Si, eccolo qui, sulle mie spalle: è il vecchio, e geme ancora…

Trasalì e impallidì. Uno sbadiglio nervoso le contrasse il viso.

— Ah, ecco la febbre che ricomincia: già, è calato il sole. Ne avrò per tutta la notte.

Per qualche tempo rimase là, immobile sullo scalino della porta, ma invece di riposarsi le pareva di sentirsi sempre più stanca, e come il cielo si oscurava, anche i suoi pensieri si velavano. Guardava verso il punto della montagna dove ella creddeva ci fosse l'ovile di zio Castigu e pensava:

— Paulu sarà già in cammino; scenderà forse a piedi per lasciare il cavallo al pascolo, e arriverà stanco e vorrà cenare. Bisogna muoversi: devo anche andare alla fontana…

Ma una grande fiacchezza le impediva di muoversi: di nuovo sbadigliò e rabbrividi dai piedi alla testa:

— Ah! ah! — disse a voce alta. — Ci manca solo questo, che mi ammali… — e un pensiero molesto la turbò: — se mi assale il delirio, e parlo? Ah, no, labbra mie, tacete! Ora che la terra ha ingojato il segreto, dovrei svelarlo io?

Sbadigliò ancora e si portò ambe le mani alla bocca; poi si alzò, smaniosa di muoversi, di vincere il maligno sopore che la invadeva: accese il fuoco e preparò la cena; pensò di andare alla fontana e cercò l'anfora, ma mentre attortigliava un pannolino per farne un cercine provò un capogiro e dovette appoggiarsi al muro per non cadere: con l'ombra della sera tornava la nebbia perfida della febbre. Donna Rachele si accorse che Annesa stava male e le tolse l'anfora di mano.

— Figlia mia, dammi ascolto; va piuttosto a coricarti.

— Bisogna andare … - ella disse con voce velata.

— Bisogna andare a letto, figlia! Non ti accorgi che hai la febbre?

— Ebbene, vado a prendere Rosa, e mi faccio dare un po' d'acqua da zia Anna: mi lasci andare …

Prese una piccola brocca e uscì: la sera cadeva, limpida e dolce; sul cielo ancora d'un colore rosa azzurrognolo, al di là delle casupole nere del villaggio, scintillavano le stelle dell'Orsa; i contadini tornavano, sui loro piccoli cavalli stanchi, e attraverso le porticine spalancate si scorgevano le donne intente ad accendere il fuoco ed a preparare il misero pasto pei loro uomini.

Giunta presso la casetta della cugina di donna Rachele, Annesa, che cominciava ad inquietarsi per la prolungata assenza di Paulu, si fermò e stette un momento a guardare se qualche pastore scendeva dal sentiero della montagna. Ma non vide nessuno, ed entrò nel cortiletto aperto, poi nella casetta della zia Anna. Era una casetta di gente povera; nella cucina, al di sopra della porta, stendevasi una specie di soppalco, sul quale s'ammucchiavano le provviste della legna, della paglia e dell'orzo.

— Annesa, sei tu? Rosa è andata alla fontana assieme con Ballora, e con le bambine, - disse la zia Anna, sporgendosi appunto dal soppalco, dove era salita per prendere un po' di legna. - Aspetta un momento.

Scese lentamente, per una scaletta a piuoli, mentre Annesa versava, dalla brocca deposta su una pietra, un po' d'acqua nella sua anforetta.

— Prendo un po' d'acqua: domani ve la riporterò, zia Anna.

— Anima mia, con gl'interessi la voglio! - esclamò l'altra, scherzando. - Ballora riporterà Rosa a casa vostra, ora, nel ritornare dalla fonte. Hanno aperto il testamento? - domandò poi. - È vero che lo aveva in consegna Prete Virdis? Ah, quel vecchio istrice! Non gli pesino neanche come una foglia di rosa le mie parole, ma egli era ben gretto e diffidente … Oggi poi s'è sparsa la voce che Paulu l'abbia fatto morire a furia di bastonate.

— Ah, - gridò Annesa, ricordando le parole del cieco, - si dice questo?

— Chiacchiere, anima mia! Ma che hai?

Annesa tremava di febbre e di paura: pensava però che non doveva tradirsi, e rispose con calma:

— Tutte le sere, da qualche tempo in qua, ho la febbre. Ora vado e mi corico; sono stanca morta; vedete, zia Anna, ho la schiena rotta, come avessero bastonato anche me … Addio, parleremo un'altra volta. Lasciatemi andare.

— Verrò da voi più tardi, anima mia, - disse la zia Anna accompagnandola fino al sentiero che attraversava la china rocciosa. - Se incontri Ballora dille che s'affretti; è già tardi.

Annesa affrettò il passo, con la speranza di trovar Paulu già rientrato; ma a metà strada, in una viuzza solitaria, le parve di udire la voce di Ballora e il pianto di Rosa. Si mise a correre e in fondo alla viuzza incontrò infatti la nipote della zia Anna che a sua volta correva, con Rosa fra le braccia, e seguita da altre due bambine spaurite.

— Rosa, Rosa? - gridò Annesa, deponendo per terra l'anforetta e slanciandosi incontro a Ballora. - Che c'è? Che c'è?

Rosa le si aggrappò al collo, le abbandonò la grave testa sulla spalla: tutto il suo corpicino tremava convulso.

— Torna indietro, - disse la fanciulla con voce ansante. - I carabinieri ti cercano: sono li, in casa vostra, e arrestano tutti … Tutti, anche zia Rachele …

— Anche zia Rachele … - balbettò Annesa, senza sapere quello che diceva, mentre Ballora e le bimbe correvano, colte da una specie di timor panico, quasi fuggendo da un luogo pericoloso. Ella le se guiva e domandava con voce ansante:

— Come? Come?

— Non so… Noi siamo arrivate davanti alla vostra porta: volevamo riportare Rosa … Ma davanti alla vostra casa c'era gente … molta gente … e una donna mi disse: ci sono i carabinieri: arrestano tutti … tutti … e cercano Annesa. Allora- io deposi la brocca per terra, presi Rosa e scappai. Bisogna avvertire zia Anna. E tu nasconditi, Annesa, nasconditi … nasconditi …

Ella non pensava ad altro: nel suo terrore, vinta dal solo istinto della conservazione, pensava che ella sola, colpevole, era in pericolo. Gli altri erano innocenti: non avevano nulla da temere. Non pronunziò più una parola, non le venne in mente di tornare indietro e di accertarsi se Ballora s'era o no ingannata o se non avesse esagerato il pericolo. L'istinto la spingeva, la costringeva a correre, a salvarsi.

Anche Ballora e le bimbe proseguivano la loro corsa sfrenata: pareva fossero inseguite tutte dai carabinieri. Parecchie donne s'affacciarono alle porticine delle casupole, e una disse:

— Son ragazze che si divertono a rincorrersi.

E le fuggitive poterono arrivare indisturbate davanti alla casetta di zia Anna. La cucina, ove entrarono una dopo l'altra, era deserta: Annesa pensava di nascondersi nel soppalco, ma Ballora le disse:

— Non restare qui, Annesa, non restare … Prima d'ogni altro posto, verranno a cercarti qui … Nasconditi altrove …

— Dove? Dove? - ella domandò, guardandosi attorno disperata.

— Vattene, Annesa, - incalzò l'altra, - vattene: mi pare che vengano …

Allora Annesa, cieca di paura e di egoismo, non cercò di sapere altri particolari, non vide più nulla: si liberò violentemente di Rosa, se la strappò dal collo, dalle braccia, come una fronda di rovo che non volesse staccarsi; e si slanciò fuori e riprese la sua corsa. Fortunatamente il luogo era deserto: nessuno la vide, o meglio ella non vide nessuno, e potè rifugiarsi nel cortile della chiesa e di là, su per la scaletta di pietra, sali al primitivo belvedere dove nei giorni della festa i priori si riunivano per prendere il fresco e giocare alle carte. Era una specie di loggia a tre arcate, coperta da un tetto di canne, e circondata da un parapetto di pietre. Ella s'inginocchiò davanti al parapetto e sporse appena il viso fra due pietre: sul suo capo, nello sfondo della rozza arcata, brillavano le stelle; tutto era silenzio, pace, ombra.

Il cuore le batteva convulso, la febbre aumentava il suo terrore. Le pareva che fantasmi mostruosi l'inseguissero, per afferrarla e gettarla in un luogo più misterioso e spaventoso di quell'inferno al quale non credeva. Il caos era intorno a lei: un'ombra, una nebbia, una notte tormentosa, senza fine.

Fu davvero una notte tormentosa, più terribile ancora della notte scorsa. Dal suo nascondiglio ella poteva scorgere la spianata, la china rocciosa e la casa della zia Anna. A lungo un lumicino brillò nella porta della casetta; ella vedeva delle ombre muoversi, e le pareva di sentire il pianto di Rosa e rumori vaghi, indistinti: ma poi tutto fu silenzio. Un uomo a cavallo attraversò la spianata: il cielo ad oriente s'imbiancò. Alquanto rassicurata, ella si alzò, si scosse, ragionò.

Dov'era Paulu? Era tornato? Era stato anche egli arrestato? E gli altri? Se Ballora si fosse ingannata?

— E tutto un sogno, - ella pensò. - Ballora deve essersi ingannata. No, non si arresta così la gente, all'improvviso, in un momento. Io deliro: è la febbre che mi tormenta.

Ma poi ricordò che anche la notte prima aveva creduto di sognare, mentre tutto, tutto era stato una tragica realtà.

— Io, io sono la causa di tutto, - io maledetta! Che devo fare ora? Perchè sono fuggita? Di che cosa ho paura? La reclusione mi aspetta: lo sapevo, anche prima di fare quello che ho fatto. Perchè fuggo, ora? Dio mio, Dio mio, tutto è perduto!

Sedette sul primo gradino della scaletta, e cercò di esaminare meglio la sua situazione: a poco a poco il suo terrore e il suo dolore diminuirono, e un barlume di luce brillò nella sua anima tenebrosa. Ella tornò ad essere ciò che era stata sempre: l'edera che non poteva vivere senza il tronco.

— Bisogna salvarli, - decise, alzandosi e ridiscendendo nel cortile. - Andrò a costituirmi, e se occorre dirò tutto.

Ritornò verso la casetta di zia Anna: non aveva più paura, potevano ben prenderla, legarla, gettarla pure in un luogo di dolore eterno, ella non avrebbe detto parola se non in favore dei suoi « benefattori ».

Picchiò. Zia Anna apri subito.

— Sei tu? - disse, sollevando le mani, spaventata. - Che vieni a fare? Ti cercano, sai: hanno guardato in tutte le case del vostro vicinato e aspetto che da un momento all'altro vengano qui. Non sono andata a letto perchè son certa che verranno!

— Ma è vero, dunque? - domandò Annesa con voce sorda. - E Paulu?

— Paulu non è tornato: almeno non era tornato, poco fa. Gli altri son tutti arrestati, tutti, anche Rachele.

— Anche lei? - disse Annesa. E si gettò per terra, come fulminata dall'orrenda notizia.

Credendola svenuta, la donna si chinò per sollevarla: ma ella la respinse, s'alzò, si battè un pugno sulla bocca, quasi per impedirsi di parlare. E volse le spalle, per andarsene.

— Senti, figlia mia, dove andrai? - gridò la donna.

— Dove volete che vada? Torno a casa: chi c'è là?

— C'è un carabiniere che aspetta il ritorno di Paulu. Ma Paulu certo non tornerà: certo ci sarà stata qualche anima buona che sarà corsa ad avvertirlo. Ascoltami, Annesa: vedo la tua intenzione. Tu vuoi farti arrestare. Guardatene bene, se sai qualche cosa: sei una donna, sei fragile, finiranno col farti parlare.

— Ma voi … anche voi credete? …

— Io non so niente! Tutto il paese dice che Paulu ha bastonato il vecchio sino a farlo morire, e che tu e tutti voi siete complici. Se questo non è vero, perchè vuoi farti arrestare? Nasconditi, se sai qualche posto sicuro. Vedrai che è cosa da niente: domani forse tutto si accomoderà …

— Appunto. Voglio costituirmi per questo. Dove volete che vada, zia Anna? Non sono un uomo, per correre fra i boschi. Anzi, giacchè devono venire, lasciate che li aspetti qui. No, non verrò dentro, non voglio che le bambine si spaventino. Li aspetterò qui.

Sedette sul muricciuolo del cortile. Intorno regnava sempre il profondo silenzio della notte pura: la luna grande e gialla spuntava sopra la montagna e già un albore melanconico illuminava la spianata e le casette addossate alla chiesa. Zia Anna le si avvicinò e le mise una mano sul capo.

— Sentimi, - le disse sottovoce. - Io conosco Paulu più di quanto tu possa conoscerlo, Annesa; e so quanto egli vale. Egli è stato la rovina della sua famiglia. Ascoltami, anima mia. Se la giustizia s'è mossa, qualche cosa deve essere accaduto.

Annesa cominciò con impeto:

— State zitta … - ma poi scosse la testa e non proseguì. A che serviva? No, ella non voleva pronunziare parole inutili; voleva solo operare, salvare i suoi « benefattori ».

Zia Anna le premè la mano sul capo e continuò, grave e misteriosa:

— Sentimi: tu devi sapere quello che è accaduto, e la giustizia ti cerca appunto perchè spera che tu parli. Guardati bene dal lasciarti prendere, ti ripeto, se tu vuoi bene a Paulu. Tu lo sai, egli è per te un fratello: non perderlo, non parlare. Forse tutto si accomoderà: ma bisogna che tutti stiate zitti e silenziosi come le pietre.

— Se occorrerà dirò che la colpevole sono io … io sola … - disse Annesa con voce timida. Ma zia Anna le mise la mano sulla bocca.

— Vedi? Vedi? Tu chiacchieri già! Zitta, figlia, zitta come la chiocciola! Tu non devi parlare, non devi accusare nessuno, non devi accusarti! Non ti crederebbero, anche se tu ti accusassi; e ti costringerebbero a dire ciò che davvero hai veduto! E li perderai, figlia, li perderai!

— Ah, no, no, non ditelo neppure! - ella supplicò giungendo le mani. - Non-fatemi impazzire!

— Silenzio …-disse la donna, sollevando la testa. Annesa tacque, ascoltando: udi passi gravi e rumorosi nella viuzza, al di là della spianata, e, benchè pronta a tutto, vibrò di spavento e balzò in piedi. Ma i passi cessarono: di nuovo tutto fu silenzio sotto il grande occhio giallo della luna.

— Voi credete dunque che Paulu sia rimasto lassù? - ella domandò, guardando verso la montagna.

— Io credo. Fin da stamattina si vociferava che il vecchio fosse morto in seguito a maltrattamenti di Paulu, e che questi verrebbe arrestato prima di sera. Qualche amico, qualche anima buona, avrà cercato di informare Paulu, e in seguito a quest'avvertenza egli non si sarà mosso dall'ovile di ziu Castigu. Non ti pare?

— Lo credo! Lo credo! - esclamò Annesa con fervore. - E s'egli è libero tutto si accomoderà!

— S' io potessi vederlo, - pensò, - se io potessi parlare con lui!

Che cosa gli avrebbe detto? Non la verità, certo. Ma il desiderio, il bisogno di vederlo, di raccontargli ciò ch'era successo, di combinare con lui il miglior modo per difendersi, per salvarsi, la spinsero verso il sentiero della montagna.

Ella s'avviò, come una sonnambula, senza dire a zia Anna dove andava.

— Dove vai? Dove vai? Annesa? …

Ella non rispose: ricordava le parole del cieco, il contegno di prete Virdis, lo sguardo beffardo dei fratelli Pira. Si, certo, fin dalla mattina, la gente sapeva che una calunnia infame correva sul conto di Paulu: e qualche anima buona, come diceva zia Anna, forse lo stesso Niculinu, aveva mandato ad avvertire il vedovo.

Lassù, fra le roccie e i boschi millenarî s'aprivano grotte e nascondigli inaccessibili a tutti, fuorchè ai pastori che ne conoscevano i laberinti. Ziu Castigu, poi, era tanto pratico di quei luoghi, che egli stesso qualche volta si vantava d'essere il re delle grotte (su re de sas concheddas). Senza dubbio Paulu, poichè non era tornato in paese, s' indugiava lassù, in attesa che la calunnia messa in giro dagli amici del morto venisse smentita.

Ripassando dietro la chiesetta, dove cominciava il sentiero della montagna, Annesa si fermò ancora ad ascoltare ed a guardare verso il villaggio. Le pareva d'essere inseguita: ma non udi nulla, non vide nessuno. La luna, limpidissima, illuminava le casette nere e grigie che parevano fatte di carbone e di cenere: il vasto orizzonte, tutto d'un azzurro latteo, sembrava uno sfondo di mare lontano. Le ombre delle roccie e dei cespugli si disegnavano sul terreno giallognolo, tutto appariva dolce e misterioso. Ella si rassicurò.

Le parve che la notte, la luna, le ombre, il silenzio le fossero amici: tutte le cose tristi ed equivoche oramai le davano coraggio, perchè tutto era triste ed equivoco nella sua anima. Cammina, cammina: ella cominciò la salita dipartendosi dal punto preciso dove era morto il mendicante, suo primo compagno di viaggio, che l'aveva condotta là, in quell'angolo di mondo, come il vento porta il seme sull'orlo dell'abisso: la fatalità continuava ad incalzarla, un vento di morte la spingeva. Avanti, avanti: ella andava e non sapeva dove sarebbe giunta, come non sapeva donde era venuta.

Su, su, di pietra in pietra, di macchia in macchia. Qua e là brillavano, tristi e glauche fra i giunchi neri, larghe e rotonde chiazze d'acqua che parevano gli occhi melanconici della montagna non ancora addormentata. A un tratto il sentiero s'insinuò tra le felci e i rovi che coprivano i fianchi del monte, poi fra macchie di ginepro, poi nel bosco e fra le roccie. La luna penetrava qua e là fra gli alberi altissimi; ma spesso le roccie la nascondevano, e l'ombra s'addensava sul sentiero.

Fantasmi mostruosi sbarravano allora lo sfondo della strada: in lontananza apparivano edifizî neri misteriosi; muraglie fantastiche sorgevano di qua e di là dal sentiero: le macchie sembravano bestie accovacciate, e dai rami degli elci si protendevano braccia nere, teste di serpenti. Tutto un mondo di sogno, ove le cose incolori e informi destavano paura per la loro immobilità e la loro incertezza, si stendeva sotto il bosco.

Annesa camminava, e le pareva di esser passata altre volte attraverso quelle tenebre, in mezzo a quei fantasmi immobili, e di conoscerli, e di non aver più timore dei pericoli ignoti che la precedevano e la seguivano: eppure di tanto in tanto bastava il fruscìo dei suoi passi sulle foglie secche per farla trasalire.

A metà strada, sull'alto di una china, apparve una figura strana, che si muoveva davvero: sembrava una figurina umana, ma con una enorme testa di Medusa, nera nel chiarore lunare. Annesa si gettò dietro una roccia: e vide passare e sparire, a lunghi passi silenziosi, una ragazzetta scalza con un fascio di legna sul capo. Era una bimba che viveva vendendo legna rubate: i suoi piedini coperti da una crosta di fango sembravano calzati di leggeri sandali adatti alla fuga. Annesa riprese la strada. E su, e su. Un'altra figura apparve, nera sulle bianche lontananze di un pianoro: un centauro che fischiava, e galoppava verso le vaporosità dell'orizzonte … Poi più nulla: il mare apparve, come una nuvola d'argento azzurrognolo, sull'ultima linea del cielo lattiginoso; e la chiesetta nera si disegnò, alla destra del sentiero, sulla china petrosa. S'udiva il tintinnio monotono e argentino dei sonagli d'un gregge al pascolo. Dovevano essere le pecore di zio Castigu. Guidata dal tintinnio melanconico, Annesa attraversò il pianoro sottostante alla china, e giunse fino alla capanna del vecchio pastore. Non trovò nessuno; ma il cane cominciò ad abbajare, e ziu Castigu non tardò ad apparire, avanzandosi rapidamente dal bosco.

— Annesa, che c'è? Sei tu, anima mia? - egli gridò con voce spaventata. - Che è accaduto?

— Dov'è? - ella domandò con voce bassa e anelante. - Dov'è?

Il pastore la guardò da vicino; gli parve che ella fosse invecchiata e impazzita.

— Chi? - domandò.

— Chi? Paulu! - ella disse quasi con dispetto.

— Paulu! E chi lo ha veduto?

Sulle prime ella credette che il vecchio mentisse.

— Ditemi dov'è, ditemi dov'è! A me potete dirlo, credo! Son venuta per lui: devo parlare con lui.

— Ma che è accaduto, Anna? Ti giuro che non ho veduto don Paulu.

Allora ella vacillò, parve impazzire davvero.

— Dove sarà egli? Ma dove? - gridò: e pareva rivolgesse la sua domanda al cielo, alla notte, al destino invisibile e fatale che la spingeva, sempre ingannandola e prendendosi crudele giuoco di lei.

— Ma che cosa accade, Annesa?

— Ah, che disgrazia! Io credevo che Paulu fosse qui … nascosto. Lo cercano, zio Castigu mio, lo cercano! Cercano anche me! Hanno arrestato don Simone, zio Cosimu Damianu, donna Rachele: e devono arrestare anche Paulu, anche me! Ci accusano di aver assassinato zio Zua. Dov'è Paulu, dov'è?

Anche il vecchio impallidi e si turbò.

— Mio nipote Ballore, venuto qui stamattina, mi raccontò che don Paulu s'era ripreso il cavallo dicendo che doveva andare in campagna. Io non l'ho veduto, pur troppo! - disse. - Raccontami tutto: mi pare di sognare. È mai possibile ciò che tu dici? Non sei … malata?

— No, non sono pazza, zio Castigu! Vorrei esserlo, ma non lo sono! - ella disse con disperazione. E raccontò ciò che sapeva dell'arresto dei suoi « benefattori ».

— Anche donna Rachele! Anche don Simone! Ma in che mondo siamo? Ma è impazzita, la giustizia? E tu, Annesa, tu non sai altro?

Ella protestò: non sapeva altro. Ma d'un tratto fu riassalita dalla paura; pensò che ella sola era veramente in pericolo, mentre gli altri, innocenti, avrebbero trovato modo di salvarsi; e si aggrappò al vecchio, e gli disse con voce sommessa:

Cuademi! Cuademi! per l'anima dei vostri morti, nascondetemi! Dove sono le grotte? Portatemi là. Bisogna che io stia nascosta, bisogna che nessuno senta la mia voce finchè loro non sono salvi … Cuademi … Cuademi! (1) Nascondetemi..

Gli strinse le braccia, poi si gettò per terra, gli abbracciò le ginocchia, si raggomitolò: pareva volesse nasconderglisi sotto i piedî. Egli la guardò, dall'alto, e un pensiero gli balenò in mente, luminoso e tetro come un lampo.

— Tu sai … tu sai … Hai fatto o hai veduto … - mormorò.

— Non so niente: non ho veduto niente. Nascondetemi. Tutti mi hanno consigliato di non lasciarmi arrestare. Nascondetemi, nascondetemi, ziu Castigu!

— Tutti … - egli balbettò. - Chi, tutti?

— Tutti … tutti, ziu Castigu mio! Ed anche voi non permetterete … no … no … nascondetemi …

— Ora ti metto subito dentro la mia tasca! - egli disse con impazienza, curvandosi e toccandole una spalla.

Ella tremò tutta. Il vecchio senti entro di sè come la ripercussione di quel fremito, e di nuovo comprese la verità. Ma più che orrore senti una profonda tristezza: e la sua anima semplice e timida d'uomo solitario diventò pietosa ed eroica davanti al dolore pauroso della donna colpevole, ripiegata ai suoi piedi come un agnello ferito.

— Alzati e vieni con me, - disse semplicemente. - Se non sei colpevole non devi temere.

Ella si alzò, si guardò attorno, e senti il bisogno di domandar consiglio all'uomo semplice che molti deridevano: un cuore pietoso, in quell'ora di miseria, valeva più che tutti gli avvocati del mondo.

— Ziu Castigu, ditemi voi, che cosa devo fare?

— Tacere, figlia, - egli rispose portandosi una mano alla bocca. - Tacere per il momento … Ora ti nasconderò, secondo il tuo desiderio. E tu resterai là, dove io ti condurrò, e starai zitta come le roccie, finchè non tornerò io. Ti metterò fra due pietre, - aggiunse, avviandosi verso la capanna, - ti nasconderò in modo che anche se ti cercheranno come si può cercare una spilla nel mare non ti ritroveranno certo … Ti porterò da mangiare e da bere: farò come il corvo che portava il pane adElia.

Egli entrò nella capanna e prese un vaso di sughero e un pane d'orzo, poi s'avviò nuovamente verso il bosco. Ella lo seguì: le pareva di aver percorso altra volta quella radura senz'alberi, coperta di cardi secchi e di fieno; di aver veduto altra volta quella linea di bosco che stendeva una nuvola nera sul cielo d'argento …

La luna brillava limpidissima; ma in lontananza cominciavano a salire larghi nastri di vapori luminosi, e quando il pastore e Annesa arrivarono al di là della radura videro, attraverso i tronchi, un mare di nebbia argentea, dal quale emergeva, enorme scoglio azzurro in forma di piramide, il monte Gonare. Ella trasalì. Sì, era la stessa strada percorsa con Paulu quel giorno, il primo del loro amore …

— Noi eravamo in peccato mortale: Dio grava la sua mano sopra di noi e ci castiga, — ella pensò, curvando la testa.

A un tratto il bosco si aprì, e a destra apparve la tomba del gigante, grande e misteriosa nel silenzio lunare: zio Castigu prese a salire di pietra in pietra, tirandosi dietro la donna cieca di dolore e di lagrime.

— Perchè piangi ancora? Non aver paura, ti dico: vedrai … Cammina piano, bada di non cadere. Gli occhi ce li hai, eh? E buoni, anche! …

Ella sentiva le pietre oscillare sotto i suoi piedi, come in quel giorno, e le pareva di dover di momento in momento precipitare in un abisso. Sfiorarono infatti un precipizio; salirono fino alla pietra che dal basso e da lontano pareva una bara; ridiscesero l'altro versante della cima, e s'inoltrarono fra due muraglie di rupi. La luna allo zenit illuminava lo stretto passaggio; tuttavia il pastore procedeva cauto, sfiorando le muraglie. Improvvisamente le rupi s'aprirono; apparve tutto l'altro versante della montagna, e valli e valli e altre montagne e altre montagne ancora: ombre e vapori, e il chiarore della luna rendevano più fantastico il panorama. Annesa s'asciugò gli occhi e guardò dall'alto: zio Castigu saltò sulla roccia sottostante e l'ajutò a scendere. Di nuovo passarono lungo una specie di gradino sospeso su un precipizio, e finalmente si fermarono davanti all'apertura bassa e larga d'una grotta.

— Qui, vedi, dopo che tu sei entrata, io metterò una pietra e un po' di fronde — disse il pastore. — Nessuno potrà scovarti.

— Ho paura, — disse Annesa.

— Di che hai paura? Solo il diavolo potrebbe scovarti. Andiamo.

Si curvò e sparve. Annesa si curvò sua volta, si mise carponi, e il pastore, dall'interno, la prese per le braccia e la tirò dentro.

Ella vide allora, non una grotta bassa e tenebrosa come son quasi tutte le grotte delle montagne, ma una speciedi cameretta quadrata, formata da roccie mirabilmente collocate. Oltre il buco d' entrata, uno spiraglio abbastanza largo per lasciar passare una testa d'uomo, s'apriva fra due macigni; e Annesa, appena sollevatasi, vi s' affacciò diffidente. Ma sotto di sè vide una cascata spaventosa di roccie, precipitante fin quasi in fondo alla valle: qua e là, fra i crepacci delle rupi livide alla luna, nereggiavano ciuffi d'elci e cespugli che parevano chiome selvaggie di mostri pietrificati. Un chiarore vago penetrava dall' apertura; tuttavia zio Castigu accese un fiammifero, lo sollevò, lo abbassò; allora Annesa distinse, in fondo alla grotta, un avanzo di cenere, e accanto a questo segno di passaggio umano una pietra addossata alla roccia. Altre creature erano dunque passate in quel luogo di mistero, portandovi e lasciandovi qualche cosa del loro dolore e della loro paura. Ed ella sedette sulla pietra, come su un trono di espiazione, e quando il pastore se ne fu andato, le parve di non restare completamente sola, poichè col piede sfiorava l'avanzo d'un fuoco che aveva illuminato un dolore o un errore simile al suo.

Le ore passarono. Ella pensava:

— Sì, sì, non sono io sola colpevole. Quanti altri, uomini e donne, hanno peccato, hanno commesso delitti, hanno fatto del male! E non tutti sono stati castigati come lo sono e lo sarò io! Perchè questa sorte a me, perchè questa sorte?

Ma era già quasi rassegnata: sapeva ciò che doveva fare. Aspettare: null'altro. Zio Castigu le darebbe un consiglio. E se occorreva presentarsi alla giustizia, ella si sarebbe presentata. E poi … e poi? … Non poteva più pensare al poi; era stanca, il sonno la vinceva. Ma le pareva di non poter dormire, e si accorgeva di esser seduta su quella pietra, dentro quel nascondiglio dove altri assassini, altri colpevoli, altri malfattori avevano portato la loro ansia, il loro anelito di belve sanguinarie inseguite da cacciatori implacabili.

— Come posso dormire, qui … mentre i miei benefattori sono anch'essi rinchiusi in una tana peggiore di questa? — pensava, e dimenticava subito questa domanda, e le pareva che la pietra si movesse, l' apertura si spalancasse, e una figura barbuta apparisse dietro la roccia …

Ella cercava di muoversi, ma non poteva; poi dimenticava tutto, rivedeva la nebbia argentea, in fondo al bosco, la piramide di Gonare, la tomba del gigante.

Così le parve di non dormire; ma ad un tratto, dopo aver veduto mille cose strane e dopo aver viaggiato e corso affannosamente su per montagne paurose, spalancò gli occhi e rabbrividi.

L'alba violacea rischiarava il nascondiglio. Ella si alzò e guardò dall'apertura. Silenzio profondo. Il cielo era velato; larghe striscie di nebbia bianca che parevano fiumi, solcavano qua e là le valli e i monti.

Dalla profondità del burrone salì uno strido lamentoso: ella si ritrasse, sedette di nuovo, pietra fra le pietre, e attese.

Aveva ancora la febbre; e come nel sogno aveva creduto di muoversi e di vedere cose reali per quanto spaventose, ora, nella realtà, credeva di sognare.

Immagini vaghe e confuse le passavano davanti agli occhi smarriti: in un profilo della roccia dell' apertura le pareva di riconoscere il profilo grigiastro della sua vittima. Il vecchio era vivo ancora, ancora sano, e stava seduto al di fuori della porta di casa, assieme con don Simone e con zio Cosimu: e con la sua voce dispettosa, raccontava le sue avventure di guerra.

— …Ecco, ad un tratto, un tamburo rullò; poi un altro, poi mille… parve il finimondo, il giorno del Giudizio universale, quando Gesù Cristo scenderà a piedi in terra e le montagne si spaccheranno. Tutti furono in piedi, come anime pronte al giudizio…

Annesa, seduta sul limitare della porta, ascoltava e provava un vago sentimento di terrore. Ella non credeva in Dio, non credeva nel Giudizio universale; ma le parole del vecchio la spaventavano.

Finalmente ziu Castigu ritornò.

— Ehi, bandita, — disse scherzando, mentre penetrava carponi nello speco, e spingeva avanti a sè un recipiente chiuso, — ecco i soldati!

— Zio mio, — rispose Annesa, premendosi le mani sul petto, — non parlate così; non è tempo di scherzare! Ditemi … ditemi …

Egli penetrò, si sollevò, le porse il recipiente che era colmo di latte coagulato.

— Ditemi … ditemi…

— Don Paulu non è stato ancora arrestato, ma lo cercano da per tutto … Cercano anche te; hanno perquisito tutte le case del vicinato, la casa di zia Anna, la casa di prete Virdis, la casa di Franchisca Perra.

Annesa ascoltava, con gli occhi spalancati, come svegliatasi di soprassalto da un sogno profondo.

— Dove sarà egli? Dove credete che sia?

— Eh, colomba, l'ho dentro la mia saccoccia, - disse il pastore, mettendosi una mano in tasca. — Che posso saper io? Bevi un po' di latte … Mangia questo pezzo di pane.

— Raccontatemi, — ella insistè. — Siete stato laggiù?

— Sono stato laggiù: ho parlato con prete Virdis. Egli crede che non risulterà nulla, poichè vi ritiene innocenti tutti. Oggi arriveranno due medici da Nuoro, per la perizia medica del cadavere. Se niente è accaduto niente risulterà. Fra qualche ora verrà su mio nipote Ballore che mi porterà notizie. Tornerò.

Ella mise il latte ed il pane sulla roccia e non mangiò.

Con le mani in grembo, gli occhi fissi in lontananza, stette di nuovo immobile, ma non sognò più.

« Se niente è accaduto niente risulterà «.

Potevano ben sperare, gli altri: ella non sperava più.

Essi mi cercano, mi cercano, — pensava, con raccapriccio quasi fisico, — e finiranno per trovarmi, qui od altrove … È forse meglio che io vada. Che aspetto? Egli, il vecchio, egli oramai parlerà: dirà il segreto ai medici sapienti … Lo hanno disseppellito per questo. Egli parlerà … egli parlerà …

E le sembrava di odiarlo ancora.

— Mi cercano, mi cercano … Mi hanno cercato anche là, dalla vecchia zia Franchisca. Povera vecchia … che penserà di me?

Rivedeva allora la figura d'una vecchia inferma, alla quale spesso ella portava da mangiare e ripuliva la stamberga miserabile. Era una vecchia buona e paziente quanto l'asmatico era dispettoso e cattivo; ogni volta che Annesa le portava da mangiare, ella le baciava la mano e piangeva di riconoscenza.

— S'egli fosse stato così! - pensava la disgraziata. - E ora che dirà zia Franchisca? Ella piangerà d'orrore ricordandosi d'aver baciato la mia mano!

Più tardi, arsa dalla sete, ella bevette un po' di latte, e incoraggiata dal silenzio profondo del luogo sporse la testa fuori dell' apertura e guardò a lungo sul precipizio. Era un giorno velato e caldo: le montagne calcaree della costa sembravano vicine; nella grande vallata si distingueva nettamente ogni strada, ogni macchia, ogni filo d'acqua, ma sul versante della montagna ondulavano ombre e vapori, simili a grandi veli distesi sulle roccie; lo strido lamentoso che ella aveva udito fin dall'alba saliva ora più acuto e distinto, e pareva un sibilo umano.

Ed ella cominciava a crederlo veramente il grido di qualche pastore, quando distinse due nibbi che avevano fatto il nido fra le roccie. I due uccelli si inseguivano, volando d'albero in albero, giù in fondo al burrone; ma d'un tratto il nibbio maschio volò in alto, fece come un giro di esplorazione, ripiombò giù e riprese a svolazzare intorno alla compagna che lo richiamava col suo strido lamentoso, d'una tenerezza selvaggia.

Poi i due uccelli in amore salirono fino all'elce vicino allo speco; e il loro strido di tenerezza e di piacere parve animare tutta la solitudine del grande paesaggio addormentato sotto il cielo vaporoso.

E Annesa ripensò al suo amante, nascosto come lei in luogo ignoto, e sentì tutta l'angoscia del bene perduto.

— Mi condanneranno … mi porteranno lontano lontano, in una reclusione oscura.

Là ella avrebbe ricordato il suo Paulu come gli angeli maledetti ricordano il Signore. E più nulla, più nulla di lui ella avrebbe posseduto; forse neppure il pensiero, perchè egli non poteva certo pensare a lei … assassina! …

— Perchè ho fatto questo? — si domandò cadendo in ginocchio. — Dio disse: non ammazzare, non fornicare … Io ho chiuso gli occhi alla luce di Dio, e sono caduta come cadono tutti coloro che non guardano dove passano …

E di nuovo pianse e battè la fronte sulla roccia; ma già una luce vaga la richiamava verso un punto lontano, e la guidava come la luce del faro richiama e guida il navigante attraverso le tenebre e l' ira feroce del mare in tempesta.

Zio Castigu ritornò solo verso il tramonto: Annesa s'accorse che egli era serio e turbato.

— Lo hanno preso? — domandò.

— Si è costituito. Ha fatto male!

Ella diventò livida in viso, ma si animò febbrilmente.

— Perchè male? Credete forse ch'egli sia colpevole? Anche voi, lo credete? Ebbene, vedremo, allora, quando i medici faranno la perizia e il morto parlerà … Vedremo se il vecchio è stato bastonato … vedremo cosa dirà …

— Annesa, tu vaneggi; fammi sentire il polso: tu hai la febbre. Tu non hai toccato cibo; perchè?

Egli le strinse i polsi e la guardò fisso: anch'ella lo fissava, coi grandi occhi beffardi e tristi, chiari di debolezza e d'angoscia; a un tratto liberò le sue mani dalle mani del pastore, gliele mise sul petto, lo respinse, e cominciò a gridare:

— Anche voi li credete colpevoli? Voi, voi, miserabile, voi che avete mangiato il loro pane, che avete dormito nella loro casa? Chi più crederà dunque alla loro innocenza?

— Calmati, donna! - disse zio Castigu, agitando le mani. - Tu sei arrabbiata ed hai ragione, ma non prendertela con me. Sentimi, invece: ragioniamo un poco. Nessuno più di me crede all'innocenza dei miei padroni: io ho pianto tutta la notte, vedi, ed anche tutto il giorno: ho pianto sulla loro sorte come si piange davanti ad una tomba … Ascoltami, figlia: io direi una cosa … Tu dovresti parlare con prete Virdis …

Ella si calmò, si rimise a sedere sulla pietra, e non rispose: anzi strinse le labbra, come per impedirsi di parlare involontariamente. L'uomo si curvò, le mise una mano sulla testa.

— Cosa dici, Annesa? Io direi …

Ella fece cenno di no.

— Prima gridavi, ora stai troppo zitta: è vero, io stesso ti dissi di tacere come le pietre … Ma da ieri ad oggi molte cose sono accadute …

— Nè ieri, nè oggi, nè mai io ho da dire niente a nessuno, - ella disse con voce rauca. - Perchè volete che parli col prete?

— Così … per combinare sul da farsi …

Ella scosse ancora il capo.

— Ad ogni modo io, stanotte o domani mattina scenderò in paese, e saprò qualche cosa.

— Non dite ch'io sono qui! Mi avete accolta: non mi tradirete. Sarebbe il tradimento di Giuda …

— Alle tue parole neppure rispondo! - egli disse sdegnosamente: poi s'intenerì, le toccò la fronte, avvicinò a lei il recipiente del latte. - Tu hai la febbre: senti, ti lascio qui il mio cappotto, poi ti porterò un sacco. Non temere; qui sei sicura come eri sicura nel ventre di tua madre …

Ma nonostante queste parole ella non si sentiva sicura. Se mai, le pareva di trovarsi nel ventre di un mostro di pietra, o entro una tomba di roccia simile alla tomba che chiudeva il gigante morto. Anche lei era stata condotta là dentro dall'astuzia e dalla malignità della sua misera sorte … Ma finchè poteva, voleva ribellarsi e combattere.

— Zio Castigu ha indovinato tutto, — pensava — e vuole farmi confessare, vuol farmi dire tutto al prete. Ma io non voglio … non ancora …

E un'altra notte di febbre e di angoscia passò. Ella si sentiva sanita: le pareva che le pietre la schiacciassero, e si domandava se la reclusione era così, un nascondiglio per tutta la vita … La smania della febbre la incitava a fuggire; incubi paurosi la soffocavano: le pareva di trovarsi sotto una coperta nera, e sopra c'era la vittima, e curvi su lei i tre dottori che mormoravano parole strane. Fuggire! … Fuggire! Ma dove andare? Tutto il mondo, oramai, era per lei un luogo di pericolo e di affanno.

Sorse di nuovo il giorno e di nuovo tramontò. Le notizie che portava zio Castigu erano sempre tristi: non si sapeva nulla della perizia medica, nè dei lunghi interrogatorii coi quali il pretore tormentava gli accusati.

— Domani, forse, i miei padroni saranno condotti nelle carceri di Nuoro. Pensa, Annesa, pensa!

— disse zio Castigu, giungendo le mani con disperazione.

— Don Simone Decherchi e donna Rachele legati e messi su un carro come volgari malfattori! Anche le pietre piangeranno.

— Che fare? — ella domandò.

— Che fare? — ripetè il vecchio.

Si guardarono disperati: poi ella proruppe:

— Ma i parenti, che fanno? Perchè non si muovono e non cercano degli avvocati?

— I parenti? Gente tua, morte tua! Nessuno si è mosso. Solo prete Virdis cerca di aiutarli. Ma che può fare? Vedi, donna, io sono quasi tentato di accusarmi del delitto, per salvar loro …

— Direbbero che siete stato soltanto complice …

— ella disse con tristezza.

La sera del terzo giorno I'uomo semplice che non possedendo altro voleva sacrificare la sua libertà per gli amati padroni, penetrò nel nascondiglio e sedette accanto ad Annesa.

— Che avete da raccontarmi? — ella domandò subito, con la suavoce sempre più cavernosa. — Che c'è di nuovo?

— C'è questo: tutti dicono che tu dovresti presentarti alla giustizia. Se ella si nasconde, — tutti dicono — ella deve sapere qualche cosa. Anche prete Virdis è di questo parere. È stato egli a consigliar Paulu di costituirsi, e vorrebbe che anche tu ti presentassi …

— Che sa egli di me? …

— Annesa, egli sa che io ti vedo …

— Voi … voi mi avete tradito … — ella gridò, alzandosi. — Giuda, Guida … peggio ancora di Giuda …

Voi avete tradito una povera donna … Ora non vi resta che legarmi e consegnarmi ai soldati …

— Non vaneggiare, — riprese il vecchio, calmo e triste. — Sentimi. Io non ti ho tradito: io sono andato da prete Virdis, perchè egli è la sola persona che si cura dei nostri poveri padroni e vuol salvarli a tutti i costi. Tu sai che egli, a sue spese, ha fatto venire da Nuoro un avvocato. Tu sai che è stato egli a consigliare Paulu di presentarsi alla giustizia. Egli mi disse: « Darei dieci anni di vita per poter parlare con Annesa: ella sola, forse, può salvare i suoi benefattori. Il loro destino è nelle sue mani come un giuocattolo nelle mani d'un fanciullo …» Annesa, figlia del Signore, ascolta la parola di due uomini onesti. Nè io, nè prete Virdis abbiamo mai commesso una cattiva azione: e non vogliamo cominciare a commettere il male perseguitando una donnicciuola sventurata … Del resto, tu dici che non pensi ad altro che a salvarli: e questo è il nostro scopo. Bisogna salvarli, Annesa: bisogna salvarli …

Ella piangeva, con la testa appoggiata alla roccia. Sentiva che il vecchio aveva ragione. Che aspettava ancora? Tre giorni erano trascorsi, ed ella non aveva fatto niente, ella non aveva tentato niente per loro: bisognava muoversi, vincere l'istinto selvaggio che la costringeva a nascondersi come una bestia ferita.

— Se tu hai paura di ritornare al paese, prete Virdis verrà qui. Del resto nessuno ti costringe a fare quello che non vuoi. Hai pure una coscienza, Annesa: che ti consiglia?

— Ebbene, non devo dirlo a voi! — ella rispose, sollevandosi con fierezza. — Fate pure venire il prete …

Il loro incontro avvenne la mattina dopo, al l'alba, nel portico che precede la chiesetta.

Era quasi buio ancora; la luna calava sull'orizzonte d'un azzurro cinereo, solcato da nuvole scure. Ad oriente distinguevasi il mare, bianco e vaporoso: sarebbe parso un crepuscolo serale se qua e là, nel bosco silenzioso, la rugiada non avesse rese lucide e umide le foglie.

Prete Virdis era venuto su a piedi, ed era anche caduto e s'era fatto male ad una mano. Pazienza: egli era abituato a questi piccoli incidenti. Se camminava a piedi, specialmente di notte, cadeva in malo modo; se montava a cavallo, il cavallo scivolava, o qualche ruvida fronda d'elce graffiava il viso del prete, o gli portava via la parrucca. I maligni, i miscredenti, dicevano che queste piccole disgrazie accadevano a prete Virdis dopo che egli aveva pranzato o cenato: fatto sta, però, che quella volta egli non aveva nè pranzato nè cenato, eppure, nonostante il chiaror della luna e la valida compagnia di zio Castigu, egli era caduto egualmente.

Annesa lo trovò seduto sulla muriccia, sotto il portico, con la sottana sollevata fin sulle ginocchia e la mano fasciata dal solito fazzoletto rosso e turchino. Egli pregava quasi a voce alta e guardava in lontananza, verso l'orizzonte al di là della radura, dove la luna calava pallida e melanconica.

Quando Annesa apparve, egli la fissò coi suoi piccoli occhi grigi, ma parve non vederla perchè continuò a pregare. Anch'ella lo guardò con stupore: egli sembrava un altro; era meno gonfio del solito, col viso pallido, quasi bianco, cascante; e intorno al suo mento, dagli angoli della bocca in giù, si disegnavano due nuove rughe, profonde. Sembrava un uomo disgustato e addolorato, ma d'un disgusto e di un dolore ingenui, da bambino infelice.

— Va bene, — disse ad un tratto, raccogliendo entro il pugno il suo piccolo rosario nero, — eccoci qui! Avanti, siediti qui.

Annesa prese posto accanto a lui, sulla muriccia addossata al muro della chiesetta: e da quel momento non si guardarono più, entrambi con gli occhi fissi al di fuori del portico, verso quella lontananza triste ove la luna moriva e il cielo pareva coperto di veli che uno dopo l'altro cadevano lentamente dietro le ultime montagne dell'orizzonte.

Annesa disse:

— Mi dispiace che lei sia venuta quassù. Si è fatta anche male? Ah, se avessi saputo! Ma fino a ieri sera ho avuto paura … sono una debole donna, prete Virdis, mi perdoni. Stanotte però ho pensato bene ai casi miei … e sarei ritornata in paese, se zio Castigu non mi avesse detto di non muovermi dal luogo ove ero nascosta … Voglio presentarmi alla giustizia. giacchè vogliono arrestare anche me.

— Raccontami ogni cosa, per filo e per segno, — pregò il vecchio prete; — raccontami tutto.

Ella raccontò come era fuggita.

— Non questo solo. Raccontami come è avvenuta la morte del vecchio.

— Ma ella lo sa già …

— Non importa. Racconta.

Ella riprese a parlare, con la sua voce assonnata e fredda: ripetè quanto aveva detto ai suoi « benefattori ».

— Questa è la pura verità. La mia colpa è di non aver subito chiamato, appena il vecchio è morto …

Prete Virdis ascoltava e respirava forte, quasi ansando. Ella non lo guardava, ma sentiva quel respiro d'uomo stanco, e le pareva che egli s'interessasse poco a ciò che ella diceva.

— Tu non dici la verità, Annesa, — egli disse finalmente, senza muoversi, con le spalle e la testa sempre appoggiate al muro. — Ed io sono qui per sentire la verità, non per altro.

Ella non rispose.

— Sentimi, Annesa. Io non sono nè un giudice nè un confessore. Il giudice saprà farti dire la verìtà tuo malgrado, perchè questa è la sua arte: te la strapperà di bocca come un dente cariato, e tu neppure te ne accorgerai. Al confessore ricorrerai da te, quando vorrai. Io qui sono soltanto un uomo: un uomo che ama i suoi simili e vorrebbe aiutarli. Se tu vedi un povero vecchio caduto per terra vuoi sollevarlo, vero? Se non lo faresti ti parrebbe d'essere non una creatura umana, ma una bestia senza ragione. Basta, lasciamo le prediche. Volevo dirti soltanto che voglio aiutare i tuoi benefattori a sollevarsi dalla loro caduta: e tu devi aiutarmi.

— So tutto questo; e sono pronta. Che devo fare? Non ho finora seguito i consigli degli amici dei miei benefattori? Mi hanno detto di nascondermi e mi son nascosta: mi han detto di tacere e l'ho fatto.

— Ebbene, ora parlerai. Dirai la verità. Null'altro.

— L'ho detta … l'ho detta … — ella insistè.

Allora egli abbassò la voce e disse:

— No, Annesa, tu non l'hai detta. Io però la so, e la so prima di te, da lunghi e lunghi anni, e l'ho veduta crescere assieme con te, ed è una verità spaventosa; è come un serpente, che è cresciuto con te, che si è avviticchiato a te, al tuo corpo, alle tue braccia, al tuo collo … e forma con te una stessa cosa. Donna e serpente … Una stessa cosa che si chiama Annesa.

— Prete Virdis, — ella disse, spalancando gli occhi, e alzando la voce, tra offesa e spaventata, — non parli così! Che ho fatto, io?

— Che hai fatto? Tu lo sai, senza che io te lo dica. Sai appunto la storia del serpente, che morsicò e avvelenò l'uomo che l'aveva raccolto nel suo seno. Basta, ripeto, non voglio far prediche: una sola cosa ti dico: Paulu è corso a rifugiarsi da me, quando qualcuno lo avverti del pericolo. Io lo accolsi come zio Castigu accolse te. Nell'ora del dolore m'ha detto tutto.

— Ebbene, che può averte detto? Che ci siamo amati. Ma non sono stata sempre al mio posto, io? Che ho fatto di male?

— Ecco il serpente che parla! Che hai fatto di male? Hai peccato, null'altro! Ti par poco?

— Ebbene, sia pure: ho peccato. Ma il male l'ho fatto a me stessa soltanto.

— Ma tu non dovevi farlo a te stessa, il male: a te stessa meno che agli altri. Dio ti ha dato un'anima pura, e tu l'hai insozzata e tu la vuoi ripresentare al Signore come uno straccio lurido. Tu ti sei calpestata, ti sei coperta di fango, ti sei trattata come la tua peggiore nemica.

— È vero … È vero! …

— Questo è il tuo maggiore delitto. Dio ti aveva dato un'anima umana e tu l'hai deformata, a poco a poco, anzi hai fatto peggio ancora, l'hai uccisa l'anima tua. l'hai soffocata, e l'anima tua si è imputridita entro di te come un cadavere in una tomba; e ti ha corrotta e ti ha reso immonda. Sepolcro imbiancato: che di fuori par bello alla gente, e dentro è pieno d'ossa e di putredine …

— Prete Virdis! Prete Virdis! … — ella gemette, portandosi le mani al viso.

— Lasciami continuare. Se ti parlo così è perchè so che mi capisci. Un'altra donna non mi avrebbe capito, ma tu sei diversa dalle altre, tu sei intelligente e forse hai già detto a te stessa, molte volte, quello che io adesso ti ripeto. Ricordati, Annesa, quante volte ti ho sgridato perchè non venivi alla messa, perchè non ti accostavi più a Dio. Sono anni ed anni che tu hai smarrito la giusta via, ed io ti seguivo, o meglio aspettavo il tuo ritorno … Ah, ma non credevo che tu cadessi così ciecamente nell'abisso … Chi può salvarti, ora?

Ella non rispose. Le parole del vecchio prete erano semplici, rozze, anche comuni: egli del resto gliele aveva dette altre volte; ma il suo accento era grave, convinto, e nella sua voce vibrava, più che il rimprovero, la pietà, e più che la pietà una infinita tristezza. E ogni sua parola cadeva nel cuore di Annesa come pietra entro una palude, stracciando il velo torbido e fetido della superficie melmosa.

— Dio solo può salvarti, — egli continuò sempre più abbassando la voce. — Tu hai commesso una colpa dopo l'altra, perchè questo è il destino di chi si mette sulla via dell'errore. Solo i morti non possono sollevarsi: i vivi cadono e si rialzano, i malati possono guarire. Annesa, poco fa ho detto che la tua anima è morta, ma ho detto male, poichè l'anima non muore; ma è malata, l'anima tua, e d'un male pestilenziale, d'un morbo che avvelena l'aria intorno. Cerchiamo di guarirla. Anna, rispondi alla mia domanda: Credi tu più in Dio? Non rispondi? Ti ripeto: io non sono ora nè il tuo confessore nè il tuo giudice: sono il tuo medico.

— Non so, — rispose Annesa. — È vero; da molti e molti anni non credevo più in Dio, perchè troppe sventure cadevano sulla nostra famiglia, come fulmini sullo stesso albero… Troppo, troppo! E i miei benefattori sono gente onesta, timorosa di Dio. Perchè dunque il Signore li martoriava e continua a tormentarli tanto? In questi giorni, però, ho pensato a Dio… qualche volta: e ora penso che ella ha ragione, prete Virdis, ma io non sono malvagia come lei crede; io ho fatto del male a me stessa, è vero, ma l'ho fatto per… far del bene agli altri… E sono pronta ancora, le ripeto: mi dica che cosa devo fare. Devo accusarmi d'aver ucciso il vecchio? Son pronta. Dirò: lo odiavo e l'ho ucciso; legatemi, buttatemi nella reclusione nera come si butta una pietra in un pozzo, e che di me non si parli più. Ma mi crederanno?

— Non ti crederanno perchè questa non è la verità. Tu non devi parlare così, no, no! Questa non è la verità!

— Ah, — gridò allora Annesa, con voce aspra. — Qual'è dunque la verità? Che cosa si vuole da me? Me lo dica lei, prete Virdis.

— Sicuro, te lo dirò io. Ecco, tu devi parlare così: « Sono io sola la colpevole; io, io che ho ucciso non per odio, non per amore, ma per interesse. Io sono il serpente e la donna, e ho strisciato anni ed anni intorno all'albero del frutto proibito, e ho indotto l'uomo debole a peccare con me. E quando mi sono stancata del peccato della carne, ho rivolto i miei desiderî ad altre cose: ho detto a me stessa: voglio avvincere a me l'uomo con altri lacci… »

— Non capisco, non capisco niente… — ella mormorò. — Me lo dica con altre parole.

— Insomma, ecco, tu devi dire così: « Ho ucciso il vecchio in modo da far credere, se il delitto si scopriva, che Paulu era il colpevole ed io sua complice. Di questo delitto volevo farmene un'arma e un laccio contro Paulu, per tenerlo sempre avvinto a me ».

— Io devo dire così? E sarò creduta?

— Certo, perchè è la verità.

Ella balzò in piedi, rigida, livida, con le mani contratte: i suoi occhi si spalancarono, si fissarono sul prete con uno sguardo vitreo e feroce.

— Prete Virdis, — balbettò, — è Paulu che le ha detto questo?… È lui, è lui?… Voglio saperlo subito: mi dica subito che non è vero… Se no… io…

Il prete non si mosse, e neppure la guardò. Ma con voce alta, che pareva ironica ed era triste, ben diversa dalla voce tenue e pietosa con la quale aveva fino a quel momento parlato, domandò lentamente:

— Se no? Mi farai quello che hai fatto a Zua Decherchi?

Allora ella credette di capire una cosa spaventevole: che il prete avesse paura di lei, come di una bestia, come di un cane idrofobo, e che cercasse di colpirla cautamente, fingendo di non temerla: e in quel momento comprese tutto l'orrore del suo delitto, e le parve di essere davvero simile al serpente al quale prete Virdis l'aveva paragonata.

— Mi guardi, prete Virdis, mi guardi, in nome di Dio! — disse, rauca e anelante, mettendoglisi davanti e costringendolo a guardarla. — Ripeta se crede in sua coscienza a quanto ha detto… Se lo crede lei, prete Virdis, se lo ha creduto Paulu… lo crederò anch'io… Crederò d'essere al di sotto delle bestie feroci, crederò d' essere simile al majale che divora il bambino nella culla… Lo dica, ma lo dica! Lo ripeta… Se me lo ripete un'altra sola volta io non esiterò; correrò giù, in paese, mi inginocchierò davanti alla porta del carcere e supplicherò che mi venga aperta, questa porta, che mi venga spalancata come la porta d'una chiesa..

Il prete aveva sollevato la testa, e guardava la disgraziata con occhi pietosi, ma anche investigatori. Gli occhi disperati di lei, il suo viso invecchiato, la sua esile persona vibrante di spavento, non erano gli occhi, il viso, la persona d'una delinquente astuta e feroce.

— Calmati, Anna, — le disse, sollevando la mano fasciata, — può darsi che io mi sia ingannato: siamo tutti soggetti all'errore. E ora sentimi. Riprendi il tuo posto e ascoltami. Paulu, come ti dissi. rimase da me una notte, nascosto così bene che i carabinieri nella loro perquisizione non poterono trovarlo. Quando fummo tranquilli, parlammo a lungo. Egli mi confidò tutto; mi disse d'essere tornato la sera prima e di aver avuto un colloquio con te, mentre il vecchio dormiva. Egli ti disse di aver trovato i denari, e ti confidò i suoi progetti per l'avvenire. E promise di sposarti: ma tu non l'hai creduto, tu hai espresso il timore che egli, andandosene, ti dimenticasse. E dopo questo convegno… il vecchio morì! non si potrebbe dunque credere che tu abbi commessoil crimine per impedire a Paulu di partire?

— Ma Paulu che cosa diceva? Che cosa? — ella domandò.

— Egli ti crede innocente… Almeno lo dice.

— Prete Virdis, — ella disse allora, coprendosi gli occhi con una mano, — lei mi ha giudicato come i fanciulli giudicano le streghe: peggiore di quello che sono. Il vecchio era morto quando Paulu tornò… Ebbene, sì, — riprese dopo un attimo di silenzio, scoprendosi gli occhi e alzando la voce, — le dirò tutto, prete Virdis: l'ho ucciso io… L'ho ucciso perchè credevo di salvare Paulu… E Paulu passò di fuori e non mi avverti: e la stessa sorte, che mi portò in questo paese maledetto, mi costrinse a diventare quello che sono diventata… L'ho voluto io, forse? No, no, prete Virdis, io ho fatto strazio di me perchè così ha voluto la sorte. Io avrei voluto essere una donna come tutte le altre; avere un padre, una madre, vivere onestamente… Perchè Dio, se è vero che c'è, ha voluto altrimenti?…

— Dio ti ha dato la ragione, Annesa: non senti tu, in questo momento, che hai la ragione e che la tua sorte te la sei creata da te? Perchè non hai ragionato sempre come ragioni ora? Ecco, perchè credevi d'essere padrona di te stessa e di far di te quello che volevi: tutto ti sembrava permesso perchè non avevi padrone. Ed ora, ora che ti accorgi d'essere invece schiava di quella che tu chiami la sorte, ora ti lamenti… E non ti accorgi, Anna, non ti accorgi che chi ti guida è Dio…

— Dio! Non lo dica, prete Virdis! Egli non avrebbe voluto la morte del vecchio…

Prete Virdis cominciò a irritarsi e a sbuffare.

— Tu non puoi giudicare i decreti di Dio! Vuol dire che l'ora del vecchio era giunta, e non spetta a noi giudicare la sua sorte. Pensa a te, Anna; la tua ora non è ancora arrivata, e non importa il modo col quale essa arriverà: che tu muoia in un modo o nell'altro non devi preoccupartene. Pensa solo a comparire davanti al Signore con l'anima guarita da ogni male.

— Che devo fare? Sono pronta ad accusarmi, — ella disse con slancio, — e dirò tutto quello che ella vorrà…

— Quello che vorrò io? Che c'entro io? Tu dirai la verità, ripeto; null'altro.

— Ma mi crederanno? — ella ripetè, riassalita dai suoi dubbi. — Non diranno che io sono stata complice soltanto? Io ho sempre fatto male quello che ho fatto, prete Virdis! Non vorrei ancora nuocere a… loro.

Non osava più chiamarli i suoi « benefattori ».

Il prete scosse la testa: guardava fuori, con occhi tristi, e pareva dicesse di no ad una persona lontana.

— Tu non mi hai ancora capito, Anna! La verità, la verità! Ecco tutto. Bisogna dire la verità e non preoccuparsi d'altro. Sarai castigata, o non lo sarai? Soffriranno ancora gli altri, per causa tua? Tutto questo non importa. Importa soltanto che tu vada dritta per la tua via.

— Farò quello che lei mi consiglierà, — ripetè Annesa.

Ma egli parve non udirla: si alzò, fece con le labbra una smorfia di stanchezza e di sofferenza, e continuò a guardar lontano.

— Oh, e ora non si tratta solo di questo, — riprese, con voce triste e bassa. — Il maggior castigo, Annesa, devi importelo da te. Vedi, il Signore non è crudele come son crudeli gli uomini. Egli dice a colui che è caduto: sollevati e bada di non ricadere. Egli dice a te, Annesa: Donna, ti ho aperto gli occhi, ho sgombrato la tua anima dalle tenebre come all'alba sgombro il cielo dai vapori notturni. Cammina, e non peccare mai più.

Ella sospirò e giunse le mani.

— Non peccare più… Non peccare più…

Le ultime parole del prete la commossero, più delle minacce e dei paragoni coi quali egli aveva infiorato il suo discorso.

— Non peccare più… — ripetè. — Ci ho pensato tanto in questi giorni, prete Virdis! Ho pensato che non voglio più peccare: non voglio più ingannare nessuno… non voglio più far del male a nessuno…

— Va bene, va bene!

— Se sarò condannata…

— Aspetta ancora! Aspetta ancora! — egli disse, con impazienza, sollevando la mano fasciata. — C'è tempo! Forse le cose andranno meglio del come pensiamo. Pensa intanto all'anima tua.

Ed egli continuò a parlare, ripetendo che la vita è breve e piena d'inganni, e che la nostra sola felicità consiste nel credere ad un'altra vita eterna, ad un mondo ove tutto è vero, tutto è puro, e dove la giustizia è diffusa come l'aria intorno alla terra; ma Annesa, oramai, non aveva più bisogno di ascoltare sermoni: una voce interna le mormorava parole di conforto e le indicava la via da tenere.

Egli le disse:

— Perchè la tua presenza non provochi inutili chiacchiere, tornerai al paese stassera, chè nessuno ti veda. Verrai a casa mia, e combineremo il da farsi. Intanto io celebrerò qui la messa secondo la tua intenzione. Ho portato con me la particola.

Chiamarono zio Castigu, che aveva in consegna la chiave della chiesetta, e aprirono. Il sole non era spuntato ancora, ma l'oriente brillava già, tutto d'oro rosso, e questa vivida luce d'aurora penetrava dal finestrino della chiesetta e indorava le pareti polverose. Tutto era umile e dolce in quella chiesetta solitaria: la Madonnina, dall'abito giallo scolorito, col suo bambino paffuto e sonnolento, pareva una piccola madre mendicante che si fosse ritirata in quell'eremo per cibarsi di ghiande e vivere coi poveri pastori della montagna. Nè quadri, nè statue, ornavano le pareti: molti topi, invece, fuggirono davanti a zio Castigu, quando egli aprì, la porta; e preté Virdis, che aveva una infantile paura dei più innocui animaletti, si spaventò e parve provar più orrore per quel piccolo esercito fuggente che per i peccati di Annesa.

— Non abbia timore, — disse zio Castigu. — Sono topi selvaggi. Si figuri, prete Virdis mio, l'altro giorno lasciai qui una bisaccia colma di pane e di formaggio, ed essi rosicchiarono la bisaccia, ma non toccarono nè il pane nè il formaggio. Si vede che non ne avevano veduto mai.

Prete Virdis tuttavia procedè cauto, e si lasciò vestire dal pastore che trovò, in fondo a una cassa posta dietro l'altare, un camice e una pianeta rosicchiata appunto dai topi selvaggi. Mentre per accendere l'unico cero dell'altare zio Castigu adoprava l'acciarino e l'esca, Annesa vide il prete guardarsi attorno inquieto.

— Non abbia timore, — disse il pastore, serio serio: — suonerò il campanello per farli scappare.

La messa cominciò: niente di più pittoresco e comico di quel grosso ufficiante dalla pianeta bucata, e del vecchio preistorico che assisteva la messa suonando ripetutamente il campanello come per far scappare un popolo di spiriti maligni.

In fondo alla chiesetta deserta, sulle cui pareti la polvere e i fili dei ragni diventavano sempre più rosei e dorati al riflesso dell'aurora, Annesa mormorava brani di preghiere dimenticate, e di tanto in tanto sì curvava e baciava il pavimento con passione e furore. Davanti a sè, ella non vedeva niente; non ascoltava la messa, non sapeva quello che ripeteva fra sè incoscientemente: non erano la fede e il timor di Dio che la piegavano sino a terra e le facevano baciar la polvere con un sentimento di amore, più che di umiliazione; tuttavia la sua anima piangeva e clamava, e la sua persona pareva contorta da una specie di furore religioso.

Zio Castigu scampanellava. L'unico cero, sull'altare melanconico, guardava col suo occhio d'oro, immobile: ad un tratto però la fiammella si allungò, si mosse, diventò una piccola lingua giallognola e parve dire qualche cosa al bambino sonnolento che la guardava fisso.

Annesa rimase tutto il giorno nella chiesetta. Continuava a mormorar preghiere, ma pensava ad altre cose.

— Mi condanneranno a trent'anni di reclusione, — pensava. — Forse morrò prima di finirli. Forse mi condanneranno a vent'anni. Quando ritornerò sarò vecchia: che farò? Vivrò d'elemosine… Forse nella reclusione potrò lavorare, potrò accumulare qualche piccola somma. Matteu Piras, che rimase quindici anni nella reclusione di Civitavecchia, portò a casa, quando ritornò, quattrocento scudi e mise su un bel negozio. E Paulu che dirà? Che farà? Mi aiuterà? Mi rinnegherà? Faccia egli quel che crede: io farò il mio dovere. Sarò buona… sarò buona… Dio, Dio mio…

E piangeva, pensando a Paulu, ma non più con lagrime di vergogna o di disperazione: poi si proponeva di non pensare oltre a lui: le pareva di peccare ancora, ricordandolo. Ella non voleva peccare mai più. E Gantine? Che farebbe, che direbbe Gantine? Egli era giovine, leggero: si sarebbe presto confortato.

Verso mezzogiorno zio Castigu battè alla porta. Ella uscì nel portico, mangiò un pezzo di pane d' orzo e un po' di latte coagulato, e scambiò qualche parola col pastore.

— Sei ferma nel tuo proposito? — egli le domandò. — Vai giù stassera? Vuoi che ti accompagni?

— Non occorre: non ho paura.

Egli la guardava. Ella era pallida, ma aveva ripreso la sua solita fisionomia, il suo solito sguardo, un po' beffardo, un po' ingenuo. Zio Castigu cominciava a credere di essersi ingannato, ritenendola colpevole.

— Stanotte ho sognato che era venuta su, fin qui, Anna Decherchi. Aveva sul capo un cestino pieno d'uva, e una lettera ìn mano. Ma non era Anna Decherchi; era invece Paulu travestito, ma travestito così bene che sembrava la vecchia. Appena mi vide si mise a ridere e mi domandò: Dov'è Annesa? Voglio farle uno scherzo…

— Uva, lagrime, — disse Annesa; ma il pastore ribattè:

— Però don Paulu rideva: buon segno. Ah, vedi, Anna, il cuore mi dice che entro oggi riceveremo una buona notizia. Ah, se ciò fosse, Maria Santissima mia! Tutti i giorni, tutti i giorni verrei qui, m'inginocchierei su questa sacra soglia, e bacerei la terra. In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo.

Egli s'inginocchiò, baciò la terra, si fece il segno della croce: Annesa sussultò al solo pensiero che « una buona notizia » potesse giungere. Ah, la vita l'attraeva ancora, con tutte le sue seduzioni; e la speranza di potersi salvare era così dolce e ardente che la faceva soffrire…

Rientrò nella chiesetta e si rimise in ginocchio, nell'ombra, sulla polvere. Meglio non sperare: salvarsi significava ricadere nel peccato, dimenticare, perdersi per sempre. Ed ella non voleva peccare mai più, mai più.

— Dio, Dio mio, ajutatemi voi! S'io devo ritornare nel mondo ajutatemi voi: non voglio più mentire, più ingannare, più far del male… Non sposerò Gantine, per non ingannarlo, non sposerò Paulu, non peccherò più con lui. Non sono degna di nessuno: vivrò sola, curerò i malati, lavorerò, porterò da me, sola, il peso dei miei delitti…

Si curvò e baciò ancora il pavimento: e nel sollevarsi le parve di veder un'ombra dietro il finestrino.

— Mi vedono? — Si ritrasse, ebbe paura. L' idea della prigione, della condanna, della reclusione la dominò ancora. Ricominciò a pregare, ma con tristezza infinita. Il Dio al quale ella era ritornata nell'ora della disperazione, come il bambino ritorna in grembo alla madre che lo ha castigato, era un Dio severo, inesorabile. Egli poteva perdonare, ma non dimenticare: e domandava penitenza, penitenza.

— No, io non potrò salvarmi dalla condanna, — ella pensava, piangendo silenziosamente, con la fronte sulla parete. — Non è possibile. Si salveranno loro, e questo mi basterà: e la buona notizia sarà quella del loro scarceramento; null'altro.

E le pareva di veder Paulu nella stanzetta del piccolo carcere di Barunei; lo vedeva piegato su sè stesso, livido d'umiliazione e di rabbia, pentito d'essersi dato inutilmente in mano alla giustizia umana stupida e cieca. Egli aveva sperato d'esser rimesso in libertà dopo qualche ora, assieme coi suoi: egli s'era costituito per dimostrare la sua innocenza, e non era stato creduto; e le ore passavano invano, e passavano i giorni, e forse egli non sperava più…

— Ed io sono ancora qui, sono ancora libera! Paulu mio, Paulu, Paulu mio! Che dirai di me quando saprai? E donna Rachele, cosa dirà? Ella piangerà, e i nonni diranno: « Ella non aveva timor di Dio, e ci ha condotto sull'orlo dell'abisso. Per colpa sua abbiamo sofferto il più grande dolore, la più grande umiliazione della nostra vita ». Poi si conforteranno, e dimenticheranno. E la vita passerà; io vivrò lontano, lontano, in una galera sconosciuta… e vedrò sempre, davanti a me, il viso orribile, il sorriso vendicativo di zio Zua. Egli solo, egli solo non mi dimenticherà: egli verrà con me, sempre, sempre… Ah, egli lo sapeva già che si sarebbe vendicato: egli lo sapeva, ed io non sapevo niente. Sappiamo mai quello che può succedere? So io quello che accadrà domani? Ah, Dio mio, Signore misericordioso, perdonatemi: ecco che vaneggio ancora: ecco che spero ancora! Ah, no, no.

Ella non voleva sperare, e intanto aspettava: ogni piccolo rumore le dava un brivido: dal finestrino penetrava ora la luce azzurra e chiara del meriggio; il cielo era tutto in colore di zaffiro, il bosco mormorava intorno alla chiesetta con un romorìo lieve e sonnolento di api intorno all'alveare. Una pace infinita, una dolcezza triste, riempivano il ricovero solitario di quella Madonnina selvaggia, di quel bambino sonnolento, che parevano così tranquilli nella loro povertà, così lontani dalla donna che piangeva ai loro piedi.

Verso il tramonto arrivò, al solito, il nipote di zio Castigu, che ogni sera portava giù in paese il prodotto del gregge.

— Prete Virdis m' ha mandato a chiamare, — disse, — e mi ha incaricato di dirvi che desidera parlare con voi solo, stanotte. Mi ha avvertito di ripetere: con voi solo.

Il pastore corse da Annesa e le riferì l'ambasciata.

— Anna, — disse con voce commossa, — credo che il mio sogno si avveri! È segno che prete Virdis desidera che tu non ti muova: è segno che c'è qualche speranza…

Ella tremava tutta.

— Non illudetemi, zio Castigu… non fatemi sperare… no… no… non voglio…

— Perchè non vuoi sperare? Dopo la notte viene il giorno. Prega, prega, Anna; io corro giù in paese. Vuoi andare nella capanna?

Ella però volle restare nella chiesetta: nella furia, il pastore si dimenticò di portarle da mangiare, ma ella non sentì la fame, non si addormentò, non si mosse dal suo angolo. Vide attraverso il finestrino apparire una stella rossastra sul cielo verdognolo del crepuscolo, poi altre stelle ancora: e il bosco tacque, e tutto fu silenzio, silenzio misterioso di attesa.

Zio Castigu ritornò verso la mezzanotte.

Quando ella sentì il suono della chiave nella toppa arrugginita provò una strana impressione: le parve che un essere invisibile, un fantasma veniente dalla profondità d'un mondo ignoto, cercasse d'introdursi nella chiesetta, per avere un colloquio con lei e rivelarle il mistero del suo avvenire. Invece, nel buio, s'avanzò il vecchio pastore: ella ne riconobbe il passo, ne riconobbe la testa selvaggia, che si disegnò nera sul quadrato cenerognolo e stellato del finestrino: ma dal modo con cui zio Castigu disse: « Annesa, sai?… » ella sentì che il vecchio pastore le avrebbe rivelato, come il fantasma d'un mondo occulto, il segreto del suo avvenire.

— Zio Castigu?

— Domani… domani… saranno rimessi in libertà… L'avvocato ha detto a prete Virdis che dalla perizia medica è risultato che il vecchio è morto soffocato dal suo male… E che nessuno l'ha percosso, che nessuno, tranne il Signore, l'ha fatto morire…

Ella cadde in ginocchio, nelle tenebre: ma una luce ardente, simile allo splendore del sole, le rischiarava l'anima.

— Il Signore ha perdonato: il Signore ha veduto il mio cuore, ha misurato il mio errore e il mio dolore; ha veduto che questo era più grande… era più grande del mio errore…

Zio Castigu sentiva, nel silenzio, i denti di lei battere forte.

— Anna, che fai, ora? Vieni fuori con me? Prete Virdis ti consiglia di non muoverti finchè essi non saranno rimessi in libertà. Hai sentito?

— Ho sentito.

— Ma che fai, ora?

— Prego.

— Ora puoi stare tranquilla, — egli disse, ingenuamente. — Puoi venire di là, nell' ovile.

— No, sto qui: voglio pregare.

— Puoi pregare anche là, nella capanna. Dio ti sentirà egualmente. E tu non hai mangiato, pili brunda.

Nel sentirsi chiamare col suo nomignolo, ella provò un impeto di gioia: zio Castigu non l'aveva più chiamata così, durante tutti quei giorni di terrore.

Tutto era dunque passato? Era possibile? Non era un sogno? Per convincersene ella si alzò, dimenticò le sue preghiere, diede retta al vecchio che insisteva:

— Andiamo, andiamo!

Uscirono. La notte era chiara, vivida di stelle: l'orizzonte sembrava vicino, appena dietro le linee nere dei boschi e i profili delle roccie; le pecore di zio Castigu pascolavano nascoste fra le macchie in fondo alla radura, e il tintinnìo cadenzato dei loro campanacci pareva una musica misteriosa, quasi magica, un coro di vocine tremule sgorganti dalle pietre, dai tronchi, dai cespugli.

Molte stelle filanti attraversavano il cielo biancastro, e zio Castigu, al quale non sfuggiva mai nessun fenomeno celeste, disse guardando in alto:

— Pare che le stelle grandi piangano, stanotte. Guarda quante lagrime!

Annesa sollevò il viso. Anche lei piangeva. Ricordava la sera della festa di San Basilio, i razzi che attraversavano il cielo scolorito, al di là del cortile silenzioso. Quindici giorni erano trascorsi: quindici giorni lunghi e terribili come anni di peste e di carestia. Ora tutto era finito: e tutto doveva ancora incominciare.

— Che altro ha detto prete Virdis? — domandò, seguendo a passi cauti il vecchio che camminava spedito e svelto fra i sassi e i cardi.

— Di star tranquilla; di non muoverti finchè…

— Io vorrei parlare ancora con lui, prima… — ella interruppe; poi, dopo un momento di silenzio, aggiunse, piano: — prima di ritornare dai miei « benefattori ».

Ella pronunziò ancora l'usata parola; ma subito dopo ricominciò a piangere. Non erano lagrime di rancore e di rimorso, ma non erano più lagrime di gioia: erano lagrime di pentimento e di speranza, che nella notte infinita della sua anima cadevano e brillavano come nella notte le stelle filanti.

Cadeva la sera del terzo giorno dopo lo scarceramento della famiglia Decherchi. Nel villaggio oramai non si parlava più dell'avvenimento se non per commentare la seomparsa di Annesa. Ella non era più tornata in paese.

Dove sarà andata? Molti dicono che sta nascosta nell'ovile di zio Castigu. Per lo spavento è caduta malata; ha la febbre e non può muoversi. Altri assicurano di averla veduta in paese, in casa di prete Virdis: è sempre stata là: altri dicono che il vetturale, quello della corriera postale, ha portato da Nuoro una lettera di Annesa indirizzata a donna Rachele. Perchè ella non torna? Perche ha paura di essere arrestata. Voci vaghe e strane circolano ancora sul suo conto, fra le persone meglio informate. La perizia medica ha assodato che il vecchio è morto di morte naturale, in seguito ad un accesso di asma: ma l'accesso, aggiungono le persone bene informate, è stato provocato dai mali trattamenti di Annesa, la quale, inoltre, non ha fatto i suffumigi e non ha somministrato all'infermo i calmanti prescritti dal medico. La colpa non è grave, ma le colpe, anche le più piccole, devono scontarsi con un castigo. Annesa ha paura e non torna: vedrete che tarderà a ritornare, a ricomparire. I Decherchi affermano che non sanno nulla di lei: i due nonni, che nonostante il male che ha loro causato, vogliono portare il lutto per Zua Decherchi, non escono di casa e ricevono poca gente. Anche donna Rachele non si lascia vedere; Paulu è intrattabile, ed a chi gli domanda notizie di Annesa risponde:

— Ficcatevi nei fatti vostri. Ella è dove le pare e piace.

Chi chiacchiera volentieri è Gantine: quando ha saputo il fatto egli è ritornato in paese. Paulu, appena uscito dal carcere, gli ha domandato:

— Perchè sei venuto? Riprendi subito il tuo bagaglio e ritorna nella foresta.

— Come, perchè son venuto? E Annesa? Non devo pensare a lei?

— Annesa s'aggiusterà, anche senza il tuo ajuto. Vattene.

Ma Gantine s'è ribellato. Egli gira per il paese, chiacchiera, domanda e dà notizie. È corso nell'ovile di zio Castigu, ha bussato alla porta di prete Virdis. Annesa non c'è. La gente comincia a prenderlo in giro; molti gli dicono:

— Ma se Annesa è venuta da te, nella foresta! Forse avete fatto diverse strade!

Allora Gantine, che in fondo soffre ma non vuole dimostrarlo, fa credere di sapere dove Annesa si nasconde.

— È andata a Nuoro. È partita con la corriera, il giorno dopo l'arresto dei miei padroni. Sta in casa di una nipote di prete Virdis, che è maritata con un negoziante nuorese.

— Ma perchè non torna?

— Perchè ha paura delle vostre maldicenze, gente stupida e cattiva!

E il povero Gantine va, va, di casa in casa, ascoltando le chiacchiere, e poi corre da donna Rachele, e le domanda consiglio, e davanti a lei, che ha il viso magro e pallido ma alquanto beato di una martire (sia fatta la volontà di Dio!), piange di rabbia e di inquietudine come un bambino malato.

Prete Virdis, in corpetto, pantaloni e scarpine, senza parrucca, senza fazzoletto in mano, stava seduto sul balcone di legno della sua casetta e finiva di leggere il breviario. Pareva un altro: dava l'idea di un uccello al quale fossero state strappate le migliori piume.

Il piazzale, un triangolo di terreno roccioso davanti alla casetta, era deserto come un lembo di montagna: in fondo si delineava un profilo di paesaggio lontano, una cima di montagna, violacea sull'orizzonte roseo del crepuscolo. Il cielo, sopra il piazzale e le casette cineree e silenziose, scolorivasi come un velluto azzurrognolo vecchio e sciupato: un alito fresco, odoroso di basilico, veniva dal fondo della strada; tuttavia prete Virdis smaniava, come oppresso dal caldo, e in mancanza del fazzoletto agitava la mano, scacciando un nugolo di mosche immaginarie.

Che fare? Che fare? Da due giorni Annesa era nascosta in casa sua. Due sere prima, mentre egli ritornava da casa Decherchi, ella, che lo aveva aspettato nascosta dietro un muricciuolo del piazzale, gli era comparsa davanti all'improvviso.

— Prete Virdis…

Anghelos santos! Sei tu? Sei tu?

— Sono io. Eccomi. Ho bisogno di parlarle.

— Vieni.

La casetta era silenziosa. Paula Virdis, la cugina del prete, dormiva a quell'ora, in una stanza terrena attigua alla cucina. Al buio, tastoni, Annesa seguì il vecchio, del quale sentiva il respiro un po'affannoso: attraversarono un andito, salirono su per una scaletta ripida, entrarono nella stanza dal balcone di legno: la finestra era aperta; fino alla camera giungeva il canto di un grillo, un odor di basilico, lo splendore lontano d'una stella.

Prete Virdis accese il lume. Annesa conosceva già quella stanzetta povera, arredata come la camera d'un contadino. Stanca, sfinita, ma con gli occhi illuminati da una fiamma interna, ella cadde a sedere pesantemente sulla vecchia cassapanca che pareva rosicchiata dai topi. E curvò la testa, quasi vinta dalla stanchezza e dal sonno. Prete Virdis chiuse le imposte: si volse, pareva adirato.

— Dunque?

— Sono qui, — ella disse, scuotendosi. — Sono passata là, ho ascoltato alla finestra.

— Dove, là?

Là, — ella indicò con un gesto vibrato, come per significare che non poteva esserci altro là, altro posto davanti al quale ella potesse fermarsi. — Dov'era lei, poco fa! Allora…sono venuta qui…l'ho preceduta, l'ho aspettata. Ha veduto?

— Va bene. Va bene… Ho veduto.

Egli si mise a passeggiare attraverso la camera. Che fare? Che voleva da lui quella donna? Voleva ajuto; voleva essere salvata da lui. Come salvarla? Non bastavano le buone intenzioni, le buone parole. Occorreva l'azione. Che fare?

— Da due giorni penso a te, — egli disse, senza guardarla. — E penso che l'aria di questo paese non è più buona per te.

— Sì, voglio andarmene.

— Dove, però, dove?

— Ci pensi lei!

— Io? — egli disse, puntandosi un dito sul petto. — Giusto io? Ah, sì, sì: voi combinate le magagne; dopo devo pensarci io…

Vostè es su pastore(1) Lei è il pastore. — mormorò Annesa. — No, non si arrabbi, prete Virdis, non mi abbandoni… Lei pensa a tutti… e deve pensare anche a me.

— È tardi, è tardi, — egli osservò con voce triste; ma ella finse di non udirlo e proseguì:

— Sua sorella Paula an giorno si lamentava con me: diceva: mio fratello non pensa mai a lui; perciò la nostra casa sembra una tana, e la gente lo calunnia e dice che egli è avaro e che nasconde i suoi denari. Invece egli pensa sempre agli altri: è il padre dei malfattori, dei cattivi figliuoli, degli sventati, dei disperati…

Prete Virdis andava su e giù, sbuffava, agitava il fazzoletto.

— Paula è una pettegola: ecco che cosa è; una chiacchierona.

— Io voglio andar via, prete Virdis: non voglio più tornare in quella casa. Ah, mi ajuti lei! Stasera ho avuto il coraggio di non entrare, là, benchè la tentazione mi spingesse. Ma domani, prete Virdis, domani?… Che accadrà di me domani? Io voglio andarmene. Andrò a Nuoro. Mi raccomandi a sua nipote: andrò serva, lavorerò, vivrò onestamente.

— Paulu verrà a cercarti: tu ricadrai egualmente.

— No, no, — esclamò Annesa, intrecciando le mani e scuotendole con gesto supplichevole. — Non lo dica neppure! Lei, prete Virdis, lei parlerà con Paulu: gli dirà tutto, se occorre…

— Io? Le mie labbra si disseccheranno prima di rivelare il tuo segreto. Spetta a te.

— Io?… — disse a sua volta Annesa. — Io…

Picchiarono al portone. Ella s'interruppe e spalancò gli occhi: nonostante ciò che era accaduto, ella aveva paura; le sembrava impossibile che il suo delitto dovesse restare segreto e impunito. Poi una speranza triste e ardente le tremò in cuore.

— Se fosse Paulu! — disse sottovoce.

— Tu vorresti, magari! Sta zitta!

Ella abbassò gli occhi, pensò a quello che avrebbe fatto se Paulu le fosse ricomparso davanti all'improvviso:si sarebbe gettata per terra, con gli occhi chiusi, le mani sulle orecchie, la bocca sulla pol. vere, per non vederlo, non ascoltarlo, non rivolgergli la parola.

Eppure, quando prete Virdis aprì il balcone e una voce di fanciullo, quasi piangente, supplicò: « Prete Virdis, mio padre sta male e vuole confessarsi », ella sospirò disillusa.

— Si è aggravato? — domandò il prete.

— Molto: pare un cadavere. Dalla bocca gli è venuto fuori tanto sangue, tanto sangue…

La voce del ragazzetto tremava: Annesa credette di vedere l'uomo che vomitava sangue, e ricordò il suo voto:

« Voglio assistere gli ammalati: chiuderò gli occhi ai moribondi… »

Si alzò, vide che prete Virdis si metteva il cappello e si dirigeva verso l'uscio dimenticandosi di chiudere il balcone, e non badando più a lei.

— Prete Virdis, posso assistere quel malato…

Anghelos santos! Non muoverti, tu: sta lì. Quel malato non ha bisogno di te. Tornerò presto.

— Se zia Paula mi trova qui!…

L'altro aveva fretta; non le rispose, ma prese il lume, uscì e chiuse l'uscio a chiave. Ella ricadde seduta sulla cassapanca e non si mosse più: l'odore del basilico, il canto del grillo, lo scintillìo della stella penetravano per il balcone aperto, e dopo un momento ella ebbe l'impressione di trovarsi ancora seduta sullo scalino della porta che dava sull'orto di don Simone… E la dolcezza, la tristezza, il desiderio di tutte le cose perdute la riassalirono.

— Chi mi impedisce di tornare là? Se fossi entrata! Perchè, perchè non devo tornare? Chi me lo proibisce? Prete Virdis che mi ha chiuso a chiave? Perchè non devo tornare?

Il desiderio s'acuiva: ella era stanca, aveva sonno, aveva la febbre. Era tempo di ritornare a casa, di ricoricarsi nel suo lettuccio. Aveva camminato tanto, nell'ombra, fra le pietre, fra le spine: era tempo di riposarsi… Ecco, ella chiude gli occhi, si assopisce. Una figura balza subito davanti a lei: è zia Paula, la cugina borbottona di prete Virdis.

— Chi sei! Che fai qui? Una donna qui? Ah, quel Michelì sta diventando matto davvero: matto del tutto, perchè un poco lo è sempre stato. Vattene.

— Sono Annesa, zia Paula mia…

— Che zia Paula o non zia Paula! Vattene; sono stufa dei malanni degli altri! Ne ho abbastanza dei miei…

Annesa si alza, se ne va. Cammina, cammina, per le straducole buje, arriva là, davanti alla casa di don Simone. La porta è chiusa: ella spinge il portone, e il portone si apre. Si vede che Gantine è uscito di nascosto dei suoi padroni, ed ha lasciato il portone aperto. Ella entra nel cortile, entra nella cucina, entra nella camera: dietro l'uscio arde il lumino da notte; zio Zua sta seduto sul lettuccio e respira affannosamente. Ella si butta sul canapè e sta per addormentarsi. Ma ad un tratto si solleva e guarda spaventata il vecchio. Come, non era morto? Non lo aveva ucciso lei? Che fa ora lì, il vecchio? Perchè lo hanno rimesso lì? È vivo? È risorto? Parlerà ora? L'accuserà? Bisogna fuggire: bisogna camminare ancora; andarsene lontano.

Ella si svegliò: pensò subito:

— Bisogna camminare, camminare ancora.

Poco dopo sentì prete Virdis rientrare: lo attese, ma egli tardò alquanto a salire.

— Deve essere entrato da zia Paula, per avvertirla che son qui. Quanto borbotterà, quella donna!…

Zia Paula, invece, non borbottò. Ella dormiva in una cameretta terrena, poveramente arredata come la camera del balcone: quando prete Virdis entrò, e la svegliò dicendole che bisognava tener nascosta Annesa almeno per qualche giorno, zia Paula si contentò di rispondere:

— Ora ti prende la manìa di nasconder la gente, poichè non puoi nascondere tesori. Falla venir qui quella donna.

Prete Virdis condusse Annesa nella cameretta terrena e lasciò sole le due donne. Zia Paula rassomigliava molto al cugino prete, col quale erano vissuti sempre assieme. Una volta aveva indossato la sottana, s'era messa la parrucca ed era andata da donna Rachele: Annesa, vedendola, l'aveva creduta prete Virdis.

— Spogliati e vieni a letto con me: se non vuoi coricarti a fianco mio, coricati a piè del letto, - disse semplicemente la vecchia.

Annesa obbedì: il letto era abbastanza largo, e, sebbene non molto morbido, le parve un letto di piume.

— Da tante notti dormivo per terra, — disse. - Ah, mi pare di essere entro una barca, e di andare lontano, lontano…

— Dov'eri, Annesa, si può sapere?

— Se sapeste! Ero nascosta nella sagrestia della chiesa di San Basilio.

— San Basilio mio! — esclamò l'altra, facen dosi il segno della croce. — Sarà mai vero? Ed ora, perchè non sei ritornata a casa tua?

— Io non ho casa, zia Paula! Non sono tornata perchè la gente dice…

— È vero, è vero. La gente dice che tu hai fatto morire Zua Decherchi: lo hai fatto arrabbiare e non gli hai dato il calmante. È vero?

Annesa non rispose.

— Dove andrai, Annesa? Non tornerai più dai tuoi padroni?

— Chi sa? Ora ho sonno: lasciatemi dormire.

— E Gantine? Non l'hai riveduto? Egli gira per il paese, cercandoti; sembra un pazzo.

— Povero Gantine. È tanto giovane!

La vecchia insistè, ma l'altra chiuse gli occhi e ricadde, silenziosa e febbricitante, nei suoi sogni dolorosi. E rimase altri tre giorni nascosta in quella cameretta melanconica, che riceveva luce da un finestrino praticato sul tetto. Di là udiva la voce di Gantine, il quale veniva spesso per domandare notizie di lei.

— Figlio mio, — diceva zia Paula, — Annesa deve essere scappata lontano, molto lontano. Ed ha fatto bene. Io me ne sarei andata in capo al mondo: sarei scappata come un gatto che ha toccato il fuoco.

— Ma perchè? ma perchè? — domandava Gantine con voce lamentosa.

— Perchè? Perchè così! Và, mettiti il cuore in pace. Annesa forse non tornerà mai più in questo paese.

— Ah, quel vecchio! Se fosse ancora vivo lo ammazzerei io! Anche dopo morto ci tormenta!

— È vero! è vero! — singhiozzò Annesa, nella penombra della triste cameretta.

— Ella non mi vuol bene, — riprese Gantine. - Da molto tempo non mi vuol più bene. Me ne sono accorto io, sì! Altrimenti non avrebbe fatto così, zia Paula, non avrebbe fatto così! Capisco che ella serbi rancore contro i nostri padroni e non voglia più ritornare in una casa dove ha tanto sofferto. Perchè è per causa loro …

— Là, là, taci, linguacciuto! — impose zia Paula.

— Che causa loro! Sono loro, invece, che dovrebbero dire …

— Che cosa dovrebbero dire? …

— Insormma, se Annesa avesse dato il calmante al malato, egli non sarebbe morto.

— Il calmante? Doveva strangolarlo, invece, doveva …

— Là, là, linguacciuto, taci!

Annesa si domandava:

— Se Gantine sapesse, mi scuserebbe? Forse sì. Anch'egli lo odiava. Ma egli non saprà mai. No, no, no; vattene, Gantine, vattene. Io non voglio più ingannarti, non voglio più ingannare nessuno.

Finito di leggere il suo breviario, prete Virdis s'alzò, e si affacciò al balcone. Il cielo s'era fatto cinereo; la stella che mandava il suo scintillìo verdognolo fin dentro la cameretta, era apparsa sopra la montagna lontana: il grillo cantava. Prete Virdis aspettava Paulu, e il vetturale zio Sogos, che doveva portargli una lettera da Nuoro. Ma entrambi tardavano: eppure la corriera doveva essere arrivata da oltre un'ora. Finalmente un vecchio alto e curvo, miseramente vestito, attraversò il piazzale e battè al portoncino sotto il balcone.

— Venite su! Era tempo! — disse prete Virdis, ritirandosi.

Accese il lume, cercò la parrucca, che stava ad asciugare sopra una sedia, e se la rimise ancora umida di sudore; poi chiuse il balcone e aprì l'uscio. Zio Sogos saliva la scaletta e sospirava.

— Siamo vecchi, prete Virdis, siamo vecchi: si cammina piano, ora.

Entrò. Alto, curvo, col viso rugoso e ispido di peli grigi, il vetturale sembrava un mendicante.

— Ebbene, avete veduto mia nipote?

— L' ho veduta, le ho portato la lettera. Ecco qui la risposta.

— Sedetevi lì un momento. Aspettate — disse prete Virdis, mentre apriva la lettera, senza accorgersi che la busta era stata già aperta.

— Va bene, va bene, — disse poi, ripiegando il foglietto e lasciando la busta sul tavolo. — E ora, sentite, voi dovete farmi un favore.

Il vecchio, seduto sulla cassapanca davanti al tavolo, fissava i piccoli occhi umidi e tristi sulla busta e allungava lentamente la mano.

— Comandi, prete Virdis. Lei mi ha tante volte ajutato. Sempre le ho detto: prete Virdis mi comandi; sono il suo servitore.

— Bisogna che domani, no, posdomani, voi con duciate a Nuoro, nella vostra carrozza, una person che non vuol esser veduta partire da Barunei.

— Va bene: ho capito, — rispose prontamente il vecchio. — Basta che questa persona vada a piedi fino al ponte, posdomani mattina, presto, e mi aspetti là.

— E se c' è qualcuno che vuol partire?

— Si saprà domani sera: verrò ad avvertirla, se mai.

— Va bene. E… silenzio, non è vero? Voi mi capite, non è vero?

— Va bene: non dubiti.

Il vecchio si alzò e mise la mano sopra la busta.

— Paula, porta da bere, — gridò prete Virdis, affacciandosi all'uscio. Ma siccome nessuno rispondeva egli scosse la testa e disse: — andiamo giù: vi farò dare un bicchiere di vino. O volete acquavite?

— Vino, vino, — rispose zio Sogos, stringendo la busta dentro il pugno. — L'acquavite non è mia amica.

Dal suo cantuccio Annesa sentì la voce del vecchio carrozziere e sospirò. Finalmente! Doveva esser giunta la risposta da Nuoro. Ah, partire, partire! Arrivare in un luogo ignoto, fra gente nuova: cominciare una nuova vita, lavorare, soffrire, dimenticare! Ella non pensava ad altro.

Appena uscito zio Sogos, prete Virdis entrò da lei e disse:

— Come, al buio? Ah, che fa quella donna benedetta, che ti lascia al buio? E che quest'anno non si trovano olive? Non si trova olio?

— Per quello che ho da fare! — mormorò Annesa. — Eppoi il lume è qui.

Si alzò e cercò i fiammiferi.

— Ecco qui la risposta di Maria Antonia mia nipote. Dice che ha trovato un posto per te, presso una famiglia nuorese …

Nell'udire la buona notizia, ella provò quasi un impeto di gioia, ma improvvisamente tremò, come spaventata, e lasciò cadre il fiammifero acceso. La piccola fiamma violacea brillò e si spense: prete Virdis tacque; e nel silenzio, nelle tenebre, Annesa dimenticò ogni cosa passata, ogni cosa presente, per ascoltare la voce di Paulu Decherchi.

— Che fate, zia Paula? Dov'è prete Virdis?

Egli era entrato in cucina: la sua voce era seria, quasi dispettosa.

— Ah, ah, è lei, don Paulu? Micheli verrà, adesso. Venga su, in camera …

— Dov'è? dov'è?

— Venga, venga su.

Zia Paula lo precedette col lume: egli la seguì.

— Che vuole? — domandò Annesa, piano, e prete Virdis rispose sottovoce:

— Non so. Credo che egli dubiti, come lo dubitano tutti, che tu sii qui. Ecco, ti lascio qui la lettera: leggila. Vado. Coraggio!

Ella accese un altro fiammifero e lesse le poche righe scritte rozzamente.

« Caro zio,

« Mi sono subito occupata della vostra commissione. Ci sarebbe un posto buono per la donna che mi raccomandate. Il padrone sarebbe un proprietario benestante di Nuoro, che ha la moglie vecchia e non ha figli. C'è però da lavorare: fare molto pane d' orzo per i servi, e lavorare anche in campagna. Però questi padroni sono persone caritatevoli, e tratterebbero molto bene la serva da voi raccomandata. Se questa vuole, può venire anche da domani. Noi siamo sani, ecc. Vostra nipote « MARIA ANTONIA ».

Annesa lesse e rilesse la letterina, ma stentò a capirla: il suo pensiero era là, nella cameretta dove prete Virdis e Paulu parlavano certo di lei. Che cosa dicevano? Che voleva Paulu? Ella avrebbe dato dieci anni del resto della sua miserabile vita per poter ascoltare il colloquio fra i due uomini. E ripeteva a sè stessa l'ultima parola di prete Virdis: coraggio! Sì, coraggio, Annesa, coraggio, coraggio! Coraggio, per lottare, per vincere, per non ricadere nell'abisso molle e tenebroso del peccato.

In cucina non si sentiva più alcun rumore: senza dubbio zia Paula, curiosa, stava ad origliare su, all'uscio della cameretta del balcone. Purchè i due uomini non accennassero all'orribile segreto! No, non era possibile: Paulu non sapeva, non dubitava, non poteva credere … E prete Virdis aveva detto: « prima ch'io parli di ciò le mie labbra si disseccheranno ».

No, essi discutevano forse sulla scomparsa di lei: Paulu forse diceva:

— So che ella è qui: voglio rivederla, voglio costringerla a tornare a casa.

E prete Virdis sbuffava e rispondeva:

Anghelos santos, quanto sei cocciuto, figlio caro! Non hai capito che Annesa è andata vialontano, e che le conviene di non ritornare più in casa tua?

Un passo in cucina: poi di nuovo silenzio. Ah, sì, senza dubbio, zia Paula era salita su, fino all'uscio della cameretta, e stava ad origliare; Annesa ne provava dispetto ed invidia: anche lei avrebbe desiderato salire la scaletta, mettersi ad ascoltare. Quasi vinta dalla tentazione, ripiegò il foglietto, s'avvicinò all' uscio e cominciò ad aprirlo, senza far rumore.

E subito vide Gantine, seduto immobile sulla panca in fondo alla cucina. Egli fissava gli occhi sulla porta d'ingresso, ma dovette accorgersi di qualche cosa perchè subito si alzò e si guardò attorno. Non vide nulla. Annesa s'era ritirata rapidamente e aveva chiuso l'uscio, appoggiandovisi tutta, quasi per impedire al giovine di penetrarenella cameretta. Passarono alcuni momenti: la voce di zia Paula la richiamò dal suo stupore e dal suo turbamento.

— Che fai qui? — domandò un po' inquieta la cugina di prete Virdis, scorgendo Gantine in piedi presso l'uscio della cameretta.

— Vi aspettavo. Ora però stavo pensando di portar via la pentola che bolle sul vostro focolare, — rispose il giovine, sforzandosi a mostrarsi disinvolto.

— Avresti fatto un magro affare! Credi che contenga fave con lardo, la mia pentola? No, guarda: contiene patate. Siediti, Gantine. Come, non sei ripartito per la foresta?

— Dal momento che son qui non posso essere ripartito, — egli disse, acremente.

E sedette; e di nuovo, per qualche momento, il silenzio regnò nella cucina: Annesa ascoltava, palpitando; a veva paura che Paulu, andandosene, entrasse in cucina e vedendo Gantine provocasse una scena.

— Sì, — disse il servo, dopo un momento, - don Paulu voleva che io partissi: ma io m'infischio di lui. Egli è arrabbiato, questi giorni; sembra il diavolo in persona: ma sono arrabbiato anch'io. Sono arrabbiato con tutti: e con voi, anche, sopratutto con voi!

— Maria Santissima! — esclamò la vecchia, non senza ironia. — E perchè sei così arrabbiato, Gantine?

— Lo sapete il perchè, zia Paula! Annesa è qui: è nascosta qui, forse è là, dietro quella porta. Ebbene, che ella mi senta, se è lì: bisogna che io parli.

— Parla piano, — supplicò la vecchia. — Parla pure, ma non alzare la voce. Annesa non può udirti. Così sia lontano da noi il diavolo, come ella è lontana di qui!

— Ella è qui, è qui, in questa casa! — ripetè Gantine, con voce triste, ma ferma. — Non mentite, non bestemmiate, zia Paula! Io non voglio fare scandali: a che servirebbero? A rendermi oggetto di riso e di compassione. Ma che io taccia, che io non parli, ah, no, perdio! Troppo a lungo ho fatto lo stupido. Ora ho compreso tutto: tutto ho compreso, zia Paula, e voglio farlo sapere a chi tocca.

— A me? Tocca a me?

— Anche a voi, sì: e diteglielo, a quella donna, ditele che ho compresa tutta la commedia. Non farò scandali, ripeto: non butterò giù le porte, non griderò: non son cattivo, io. Altri, altri son più cattivi di me …

Egli quasi piangeva. Per un momento Annesa, vinta da quel sentimento di tenerezza quasi materna che la giovinezza e la bontà d'animo di Gantine le avevano sempre destato, ebbe l'idea di aprire l'uscio, di avanzarsi verso il giovine e dirgli qualche parola di conforto: ma l'altro poteva sorprenderli, poteva vederla, ed ella, ella non voleva più rivederlo, l'altro!

— Stassera, — proseguì Gantine, — ho veduto Paulu confabulare con zio Sogos: leggevano una lettera; dovevano senza dubbio combinare la partenza di Annesa: già, tutti questi giorni essi stanno sempre assieme. Ed egli, Paulu, il mio padrone, egli crede che io non sappia nulla, mentre so tutto. Ho le orecchie per sentire, gli occhi per vedere.

— Ed io non so niente, figlio del cuor mio; io non so proprio niente!

— Allora ve lo dirò io, quello che succede! Paulu vuole sposare Annesa, ed Annesa … forse non è contraria a questo progetto. Da lungo tempo ella non è più l'Annesa di una volta: non mi ama più, non pensa più a me. Quando partii per la foresta non mi volle neppure baciare. Io partii triste, cupo, con un brutto presentimento in cuore. E dopo è accaduto quello che doveva accadere. Ora Paulu vuole sposarla, perchè dice che ella è stata perseguitata ed ora è calunniata per colpa della famiglia Decherchi…

— Come sai queste cose, Gantine? La fantasia ti trascina, — disse la vecchia, commossa e curiosa. — Non t'inganni? Non t'inganni?

— Non m'inganno, non m'inganno, zia Paula! Il fatto è così. Perchè Annesa non torna a casa? Perchè Paulu non vuole. Perchè egli ha avuto ed ha continuamente lunghe e acerbe discussioni coi suoi nonni e con sua madre? Essi credono Annesa colpevole, ed anche Paulu lo crede. Egli dice che vuol sposare Annesa per dovere: essi lo chiamano pazzo. Egli dice che vuol andarsene via, lontano, nelle miniere, e condurre Annesa con sè: donna Rachele piange sempre, don Simone pare moribondo, moribondo per la rabbia e il dolore. Le cose stanno così, zia Paula, stanno così, pur troppo!

— Ma Annesa forse non ne sa niente!

— No, no! No, no! Ella è d'intesa con Paulu. Altrimenti sarebbe tornata a casa. Essa non torna perchè è… quello che è! La donna degli inganni e delle perfidie, il gatto selvatico traditore! Io oramai l'odio, io non la sposerei più, neanche se avesse due tancas da mille scudi l'una!

— Ma allora perchè la cerchi? Che t'importa più di lei? Lasciala tranquilla …

— Io l'odio, l'odio… — ripetè Gantine, ma con voce monotona e triste.

Dietro l' uscio Annesa, meravigliata e commossa, mormorava fra sè:

— Meglio! Meglio! Meglio così!

— Io la cerco? — riprese Gantine. — Non è vero; non m'importa piu nulla di lei; solo, vorrei vederla per dirle che non sono uno stupido, per dirle che io non voglio essere un uomo ridicolo, per dirle che ho pietà di lei. Povera disgraziata! Ella non ha mai veduto il chiodo che doveva forarle gli occhi; la stupida è sempre stata lei, non io! lo sono un uomo: soffro e soffrirò, ma forse vincerò la prova, e mi dimenticherò di lei, e troverò un'altra donna che mi vorrà bene. Ma lei, lei che farà? Anche se sposa il padrone, che farà? Sarà sempre la serva: Paulu la bastonerà fin dal primo giorno della loro unione; farà ricadere sopra di lei tutti i guaj che l'hanno perseguitato. Annesa è stata sempre tormentata e sfruttata da loro, e continuerà ad essere il loro zimbello, la loro vittima. Ed io riderò: vedrete che riderò, zia Paula!

Intanto, però, non rideva: la sua voce lamentosa e dispettosa pareva la voce d'un bimbo pronto a piangere.

Zia Paula non sapeva che dirgli, e andava e veniva per la cucina, preparando la tavola per la cena, e cominciando ad inquietarsi anche lei al pensiero che Paulu potesse da un momento all'altro scendere e sentire le cattive parole del servo.

— Del resto, — egli proseguì — vi assicuro che non m'importa proprio niente. Ne trovo io delle donne! E più belle, più oneste, più gio vani di lei! Ella ha quasi quarant'anni, io non ne ho neppure ventisette: vada al diavolo. Quando lei sarà vecchia io sarò ancora giovane.

— Ma giusto: è quello che dico io! Perchè ti inquieti tanto, dunque? Guardati un'altra donna: non perder tempo, giglio mio. Ci sarebbe Ballora, la nipote di Anna Decherchi, che ti converrebbe: ha qualche cosetta, anche …

Ma Gantine battè le mani, e disse con un grido di rabbia:

— State zitta! Perchè mi parlate di queste cose? Io non penso a ciò, ora!

— Non gridare; senti! Mi pare che scendano.

— Chi?

— Micheli e don Paulu.

— Don Paulu è qui! — egli disse, abbassando la voce. — Bisogna allora che me ne vada!

Si alzò, stette in ascolto. Dietro l'uscio Annesa, ascoltava cercando invano di reprimere la sua ansia.

— Io vado, — disse Gantine, dopo un momento, con voce mutata. — Zia Paula, buona notte. Non so se domani potrò ritornare. Se vedete Annesa, come certamente la vedrete, ditele così da parte mia: « Annesa, fai male a trattarmi così: fai male, perchè se c'è una persona che ti vuole veramente bene sono io. Annesa, mandami a dire qualche cosa: farò quello che tu vorrai ». Poi le direte così: « Anche se è vero quello che la gente dice che tu hai fatto morire il vecchio, a me non importa. Io l'avrei fatto morire un anno prima d'oggi: l'avrei strangolato, l'avrei buttato sul fuoco! ».

— Bei sentimenti, hai, giglio d'oro! — eselamò zia Paula. — Andrai all'inferno vivo e sano.

— L'inferno è qui, in questo mondo, zia Paula! — egli disse andandosene.

Quando fu per uscire si fermò e aggiunse:

— Le direte poi così: « Annesa, non fidarti di Paulu: egli è una vipera, null'altro. Egli non ti vuol bene: se ti vuole sposare è perchè crede che tu abbi ammazzato il vecchio per lui, e non vuole avere rimorsi». Eh, è uomo di coscienza, don Paulu! … Oh, un'altra cosa, che ho saputo stamattina, — concluse Gantine, ritornando indietro di qualche passo. — Le direte così, poi: « Annesa, c'è una donnaccia di Magomadas, una vedova facile e denarosa, la quale l'altro giorno s'è vantata che Paulu Decherchi è innamorato pazzo di lei, e che lei gli ha prestato molti denari, il giorno prima che zio Zua morisse; e che glieli ha prestati perchè egli ha promesso di sposarla ». Buona notte, zia Paula.

— Aspetta, aspetta, — implorò la vecchia, curiosa, correndogli appresso: ma egli andò via, promettendo di ritornare.

Annesa, appoggiata all'uscio, con le braccia tremanti abbandonate lungo i fianchi, si sentiva soffocare, come quando, nella notte del delitto, aveva saputo che Paulu era passato nella via senza avvertirla: e si sforzava a non credere alle parole di Gantine, ma in fondo al cuore sentiva ch'egli non aveva mentito. Ubbriaca di dolore e desiderosa di gastigo, ripeteva a sè stessa:

— Meglio, meglio. Meglio così!

Andato via Paulu, prete Virdis, nonostante i replicati richiami della cugina, non si mosse dalla cameretta del balcone. Coi gomiti sulla tavola, le dita fra i peli rossicci della parrucca, egli sbuffava e ripeteva a voce alta:

— Che fare? Che fare?

Paulu gli aveva dichiarato che voleva a tutti i costi e contro la volontà di tutti sposare Annesa. Egli la riteneva colpevole, e appunto per questo voleva sposarla. Ma in questa sua decisione v'era tanta rabbia, tanto rancore, che prete Virdis n'era rimasto sgomentato.

— Sarebbe il matrimonio del diavolo! Sarebbe il matrimonio del diavolo! — pensava, strappando i capelli della parrucca.

A un tratto si sollevò e cominciò a contare sulle dita.

— Primo: non credo alla decisione di Paulu. Egli però è capace di perseguitare Annesa, e di andare a raggiungerla a Nuoro. Secondo: credo poco anche al pentimento ed alla conversione della disgraziata. Mi spaventa sopratutto, in lei, la mancanza di rimorso. Ella, ora, è invasa da una specie di manìa religiosa; ma se rivede Paulu scommetto che gli ricade subito fra le braccia. Terzo: se questo avviene, siamo tutti perduti; perduti loro, i due disgraziati, perduti i vecchi nonni, l'infelice madre, perduto io, davanti al Signore, io che non sarò stato buono di salvare un'anima disgraziata. Perduti, perduti …

— Micheli, non si cena, stassera? Vieni giù, tutto è pronto.

Zia Paula stava sull'uscio: egli la guardò, senza vederla, e ripetè desolamente:

— Perduti!

— Che cosa hai perduto? — domandò la vecchia, inquieta, guardando per terra.

— Fammi venir su quella donna, va, — egli disse, levandosi la parrucca un'altra volta e andando su e giù per la camera.

— Ma come, non vieni giù, Micheli? Parlerai con lei mentre ceneremo.

— Non è tempo di cenare: va!

— Mi pare sia tempo di portare qualcuno al manicomio, — borbottò zia Paula; e scese le scale sbuffando e sospirando anche lei.

Annesa salì, entrò, muta e triste, ma rassegnata: prete Virdis continuò ad andare su e giù per la camera e, al solito, non la guardò.

— Annesa, hai letto la lettera? Che hai deciso?

— Di partire.

— Paulu era qui; abbiamo parlato a lungo. Sai cosa vuol fare? Vuole sposarti: la sua famiglia non vuole, ma egli è deciso. Ah, ah, ora, ora! Ora s' è deciso, Angeli santi! Che ne dici, Annesa? Vuoi sposarlo?

— No, — ella rispose subito.

— Perchè non vuoi sposarlo?

— Prete Virdis, lei lo sa meglio di me!

— Io lo so? Sì, tu lo hai detto: vuoi fare una vita di penitenza. Così parli oggi, ma fra un mese, fra un anno, parlerai così ancora? Se rivedi Paulu non ricadi con lui in peccato mortale? E non è meglio, forse, che vi sposiate, ora, giacchè egli è deciso?

— No, no, mai! — ella disse con forza.

— Egli vuol vederti. Egli sa che sei qui, sa dove andrai, sa tutto, insomma. Dice che ti seguirà, che ti perseguiterà. È meglio che tu lo veda e gli dica ciò che pensi.

— No, no, — ella ripetè, supplichevole. — Non voglio vederlo. Prete Virdis mio, non glielo permetta!

— Ecco! Tu hai paura di rivederlo! È meglio, allora, che tu lo riveda; e fra voi v' intenderete. E se vuoi sposarlo sposalo pure, Annesa. Questa sarà forse la tua maggior penitenza: ma una penitenza che costerà molte lagrime anche ad altri innocenti. E Dio, vedi, Dio, ti ripeto, è misericordioso: Egli ti ha perdonato, e non t' impone di castigarti oltre misura: ma ti impone di non far più male agli altri, hai capito?

Ella lo seguiva con gli occhi; lo vedeva irritato, capiva che egli diffidava sempre di lei. Che fare? Che dire per convincerlo?

— Prete Virdis, — rispose semplicemente. — Il tempo risponderà per me.

— Il tempo, il tempo! — ripetè con voce monotona, volgendo gli occhi verso il balcone aperto, quasi per scrutare, fuori, nell'orizzonte buio, il mistero dell'avvenire.

Prete Virdis si fermò, la guardò alla sfuggita, scosse la testa.

— Tu dunque non vuoi vederlo? Pensaci bene: hai tempo tutto domani.

— Ho già pensato: non voglio vederlo.

— Allora andiamo giù e ceniamo.

Scesero. Zia Paula aveva chiuso il portone, ed era andata a prendere il vino in cantina.

Prete Virdis pranzava e cenava in cucina, come un contadino; i suoi pasti erano frugali, ma inaffiati da abbondante e generoso vino d'Oliena. Anche quella sera egli bevette discretamente, poi cominciò a chiacchierare e a discutere con zia Paula, la quale ripeteva le cose dette da Gantine.

Prete Virdis s' irritava contro il servo « chiacchierone e leggero come una donnicciuola », ma non difendeva Paulu: Annesa ascoltava e taceva, come se i suoi ospiti non parlassero di lei, ma d'una persona che ella non avesse mai conosciuto o fosse morta da lungo tempo. A un tratto, però, mentre zia Paula andava di nuovo in cantina, ella sollevò gli occhi e disse:

— Prete Virdis, le domando una grazia: mi faccia partire domani mattina.

Anghelos santos, hai ben fretta, Anna! Fino a posdomani mattina non è possibile.

— Mi faccia partire! Altrimenti mi avvierò a piedi, stanotte: bisogna che vada; è tempo.

Zia Paula rientrò, con la bottiglia in mano, e ricominciò a borbottare.

— La botte è in agonia: vien giù appena un filo di vino. La nostra casa è diventata un'osteria…

— Stureremo l'altra botte, cugina mia: tutti i mali fossero come questo! — rispose filosoficamente prete Virdis.

Dopo cena egli uscì, e quando ritornò battè all'uscio della cameretta di zia Paula. Annesa era già a letto: aveva la febbre e sonnecchiava, immersa in una nebbia di sogni affannosi e cupi. Sentì benissimo la voce di prete Virdis, ma le parve di continuare a sognare.

— Annesa, domani mattina all'alba trovati vicino al ponte, e aspetta la vettura postale. Prima di andar via vieni su da me. Paula, vieni, ho da dirti una cosa.

Zia Paula, in cuffia e sottanino, ricominciò a borbottare.

— Cosa vuoi? Neppure la notte mi lasci in pace! Non riposi e non lasci riposare. Devo andare a letto, ora.

— Vieni, cugina mia; due parole sole.

E quando furono nel cortile le disse:

— Bisogna prepararle un fagotto, mi pare: non bisogna mandarla via così. Avresti qualche sottana e qualche camicia da darle?

— Tu diventi matto davvero, Micheli. — Ora vuoi anche spogliarmi, strapparmi la camicia, strapparmi anche la pelle!

— Davanti al Signore compariremo senza camicia ed anche senza pelle, — egli disse severamente, sebbene poco a proposito. — Meno chiacchiere, Paula; pensa a far un'opera di carità.

— Ma non capisci che dentro una delle mie camicie ci stanno tre Annese?

Questa ragione parve convincere il vecchio: egli non insistè, e salì al buio la scaletta. E zia Paula chiuse la porta di cucina, rientrò nella sua cameretta, ma invece di coricarsi aprì la cassa, cercò qualche cosa, fece un fagotto: e nella cocca d'un fazzoletto annodò una moneta d'argento, da due lire, e mise il fazzoletto dentro il fagotto.

Prete Virdis, intanto, acceso il lume e chiuso l'uscio, guardava anch'egli nel suo cassetto, contando il poco denaro che aveva. Fra questo poco c'era una monetina d'oro, da dieci lire, che egli aveva ricevuto da donna Rachele per la celebrazione di cinque messe funebri in suffragio dell'anima di Zua Decherchi. E poichè il resto del poco denaro era in rame e pesava troppo, egli decise di dare ad Annesa la monetina d'oro.

L'alba di settembre cominciava a rischiarare il cielo, sopra il monte San Giovanni. La grande vallata dormiva ancora, con le roccie, i muraglioni di granito, i cumuli di pietre, chiari appena tra il verde scuro delle macchie: e nel silenzio dell'alba triste, pareva, coi suoi monumenti fantastici di pietra chiara, e le sue macchie melanconiche, un cimitero ciclopico, sotto le cui roccie dormissero i giganti di una età scomparsa.

Il cielo era grigio; cinereo-violaceo in fondo all'orizzonte, sparso di nuvolette giallastre sopra i monti di Nuoro e di Orune velati da vapori color fiore di malva. Una tristezza solenne, di cose morte, di luoghi vergini mai attraversati dall'uomo, incombeva sul paesaggio, fino all'orizzonte lontano, che con le sue nuvolette immobili pareva una pianura vaporosa sparsa di macchie ingiallite dall'autunno.

Annesa scendeva verso il ponte, con un fagotto in mano, e sembrava compenetrata dal silenzio cupo del luogo e dell'ora: il suo viso grigio e immobile, e gli occhi chiari dalla pupilla dilatata, riflettevano la serenità funebre del grande paesaggio morto, del gran cielo solitario.

Arrivata vicino al ponte, sotto il quale non scorreva più un filo d'acqua, ella si mise dietro una roccia; e siccome c'era da aspettare un bel po', prima che la vettura di zio Sogos riempisse col suo fragore il silenzio dello stradale, ella sedette su una pietra e depose il fagotto per terra.

Poco distante sorgeva un elce dalla cima inaridita, e alcune fronde d'edera, strappate dal tronco dell'albero, stavano sparse al suolo, non ancora secche ma già calpestate da qualche passante.

Ella le vide e ricordò che molte volte Paulu l'aveva rassomigliata all'edera. Addio, addio! Ora tutto è finito davvero! Ella ha ripreso il suo fatale cammino, che deve condurla lontano per sempre da quei luoghi ove un giorno è giunta così, come ora parte, con un fagotto in mano e guidata da un vecchio misterioso che era forse il suo triste Destino. Ancora egli la guida; è invisibile ma è lì, al suo fianco, e non l'abbandonerà mai.

Passò quasi un'ora. Il cielo si copriva di vapori rossastri che annunziavano una giornata torbida e calda. Un' allodola cantò, da prima timidamente, poi sempre più vivace e ardita: un roteare di carrozza risuonò nello stradale. Annesa balzò in piedi, ascoltando. La carrozza s'avvicinava. Era la vettura di zio Sogos? Era presto ancora, ma il vecchio carrozziere aveva probabilmente anticipato l'ora della partenza; la vettura, infatti, arrivata vicino al ponte rallentò la corsa e si fermò. Ella prese il fagotto, e si avanzò verso lo stradale: ma appena ebbe fatto qualche passo si fermò, e un rossore lividognolo le accese il volto. Paulu Decherchi era là, a pochi passi da lei, fermo davanti a un carrozzino a due posti.

— Annesa!

Ella non rispose, non si mosse, e lo guardò come spaventata, vinta da uno strano sentimento di paura e di gioja. Egli le fu vicino e le disse qualche parola che ella, nel suo improvviso turbamento, non udì. Per un attimo ella dimenticò ogni altra cosa che non fosse lui: se durante quel momento d'inconscienza egli le avesse preso una mano dicendo « torniamo a casa », ella lo avrebbe seguito docilmente.

Ma egli non le prese la mano, non le propose di tornare a casa: ed ella ritornò in sè, vide che egli era invecchiato, imbruttito, e che la guardava in modo strano, con occhi cattivi, disperati.

— Che vuoi? — gli domandò, come svegliandosi da un sogno.

— Te lo dirò in viaggio. Cammina, su: montiamo sul carrozzino. Avremo tempo di parlare in viaggio.

— Che vuoi? Che vuoi? Dove vuoi andare? - ella ripetè, ridiventata pallida e triste.

— Andremo dove vorrai. Ma cammina, andiamo: bisogna partire.

— Io non partirò con te.

Gli occhi di lui s'accesero d'ira.

— Tu partirai con me! E subito! Andiamo. Vieni.

Allungò la mano, ma la ritirò subito, quasi che una forza o un disgusto superiori alla sua volontà gli impedissero di toccare Annesa: ed ella se ne accorse, come sulla montagna s'era accorta della paura instintiva di prete Virdis. Tuttavia indietreggiò, scostandosi sempre più da lui.

— Io voglio partire, ma non con te, — gli disse con tristezza, ma senza rancore, fissando sempre negli occhi dispettosi di lui i suoi occhi spalancati e vitrei. — Perchè sei venuto? Sapevi che io non ti avrei obbedito. Non te lo ha detto prete Virdis? Io non verrò con te, non verrò più.

— Tu verrai invece, tu verrai! Ti legherò!…

— Puoi legarmi, trascinarmi: io scapperò appena potrò, te ne avverto!

Egli incrociò le braccia, nervosamente, come per comprimerne i possibili scatti violenti: tremava tutto, e si avvicinava a lei, e se ne allontanava come spinto e risospinto da sentimenti opposti, da ira e da passione, da pietà e da orrore. Ella non lo aveva mai veduto così, neppure nei momenti più disperati, quando egli diceva di volersi uccidere; e lo guardava, anche lei vinta suo malgrado da un sentimento di pietà e di umiliazione.

— Tu verrai con me, — egli disse, seguendola fin sotto l'elce, dietro il cui tronco ella s'era riparata, — tu verrai con me, senza dubbio: se non oggi domani, verrai con me. Parti pure sola, ora, se vuoi, ma bada bene a quanto ora ti dico: ti proibisco di fare la serva. Non sono un vile io, capisci, non sono un vile. Sono Paulu Decherchi, e so il mio dovere! Io non ti abbandono. Hai capito?

— Ho capito. Tu non sei un vile e non mi abbandoni. Sono io che devo fare il mio dovere. E lo farò.

— Lascia le parole inutili, Anna! Lasciamo le parole inutili, anzi: nè io ti abbandono, nè tu devi tormentarmi oltre. Sono stanco, ora, hai capito, sono stanco! Sono stanco delle pazzie di prete Virdis, e delle idee che egli ti ha messo in mente. Sono stanco di tutto: è tempo di finirla!

— Sì, è tempo di finirla, Paulu. Non gridare non alzare la voce. Prete Virdis non ha a che vederci, nei nostri affari. Anche gli altri, i tuoi, si inquietano inutilmente: lasciatemi in pace e ritornate in pace. Non andare contro la volontà di nessuno e neppure contro la tua stessa volontà!

— E allora è proprio contro la tua volontà che devo combattere?

— Sicuro.

— E perchè?

— Il perchè tu lo sai: non farmelo dire.

E ad un tratto gli occhi smorti di lei s' animarono, esprimendo un dolore quasi fisico.

— Tu lo sai, — ella ripetè, parlando sottovoce. — Te lo leggo negli occhi. Va, non tormentarmi oltre. Tu ci hai pensato un po' tardi, al tuo dovere. Ma del resto è meglio così: quello che è accaduto sarebbe accaduto lo stesso, e tu mi avresti maledetto. Anche ora, vedi, anche ora sei cambiato con me, Paulu! Io non sono più Annesa: sono una donna malvagia. Ma, vedi, cuore mio, io sono contenta che tu non mi maledica. Avevo paura di questo. Sono contenta che sei venuto, e non ti domando altro… Tu non hai, come credi, obblighi verso di me: io ho fatto quello che ho fatto perchè era il mio destino: non l'ho fatto solo per te: l'ho fatto per tutti… per tutti voi… Ho fatto male, certo ma ero come pazza, ero fuori di me: non capivo niente. Dopo, dopo, ho capito: e ho fatto un voto. Ho detto: se loro si salveranno, se io mi salverò, voglio castigarmi da me, voglio andarmene, voglio vivere lontano da lui… per non peccare più… Ecco tutto: e ho fatto bene, perchè tanto, tanto tu… Paulu, tu… sei cambiato: tu ora hai paura di me, ed hai ragione…

— Tu vaneggi; tu sei fuori di te… — egli disse, stringendosi la testa fra le mani. — Non è vero niente! Non è vero!… Non è vero! — gridò poi, come fuori di sè, rabbiosamente.

— Invece tutto è vero. Quello che è stato è stato.

Ella scosse la testa, scosse le mani, quasi per scacciar via lontano da sè il passato. Egli parve calmarsi, convinto dalle parole di lei. Curvò la testa e fissò, senza vederle, le fronde appassite dell'edera: nel silenzio del luogo, dall'alto dell'elce il trillo dell'allodola si spandeva come il riso d'un essere invisibile, un po' malinconico e un po' beffardo, e pareva deridesse i due piccoli mortali ch'erano andati a portare il loro dolore nella grandiosità impassibile del paesaggio morto.

Paulu sollevò la testa e domandò:

— Che farai, ora? Dove andrai? Tu sei malata, sei invecchiata. Che farai? La serva. Sai cosa vuol dire far la serva? Sai com' è la famiglia presso la quale vuoi andare? Io li conosco, i tuoi padroni. Gente avara, gente pretensiosa: essi non ti ameranno certo. Tu ti ammalerai, vedi, tu cadrai e ti seccherai inutilmente, come quest'edera staccata dall'albero.

— L'edera stava per soffocar l'albero: meglio che sia stata strappata, — ella rispose, intenerita dalla pietà che egli finalmente le dimostrava. E cadde a sedere sulla pietra, e nascose il volto fra le mani, piangendo.

Paulu continuò a parlare: ella continuò a piangere; ma ad un tratto si calmò, e stette immobile, seduta sulla pietra, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, come quando, seduta sul gradino della porta che dava sull'orto, svolgeva nella mente il filo dei suoi tenebrosi pensieri. Non pronunziò più parola: capiva che Paulu, in fondo, era contento di liberarsi di lei, e Paulu, a sua volta, sentiva che le sue parole erano vane e non arrivavano più fino all'anima della disgraziata.

In lontananza risuonò il roteare pesante della corriera.

— Vattene, — supplicò Annesa. — Per amor di Dio, vattene! Lasciamoci in pace! Stringimi la mano: saluta i tuoi, don Simone, zio Cosimu, donna Rachele. Di' loro che non sono un'ingrata: disgraziata sì, ma ingrata no. Va: addio!

Egli non si mosse.

La corriera s'avanzava, doveva aver già oltrepassato la giravolta prima del ponte.

Annesa si alzò, riprese il suo fagotto.

— Paulu, addio. Stringimi la mano.

Ma egli, pallidissimo, evidentemente combattuto fra il desiderio di lasciarla partire, di liberarsi di lei, e l'umiliazione che la generosità di lei gli infliggeva, volse il viso da un'altra parte, e ricominciò ad agitarsi.

— No, no! Io non ti voglio dire addio, nè stringerti la mano. Ci rivedremo! Ti pentirai amaramente di quello che oggi tu fai. Vattene pure: non te lo impedisco; ma non ti perdono. Annesa, non ti posso perdonare! perchè tu oggi mi offendi, come nessuno mai mi ha offeso. Va pure, va!

— Paulu, cuore mio! — ella gridò con disperazione.- Perdonami: guardami! Non farmi partire disperata. Perdonami! perdonami!

— Vieni con me, allora! Andiamo. Ora vado ad avvertire zio Sogos che passi diritto.

Allora ella gli si avvinghiò al collo, per impedirgli di muoversi: e fra le braccia di lui, che l'accolse sul suo petto con un impeto di vera pietà, tremò tutta come un uccellino ferito.

— Andiamo, andiamo, — egli ripeteva, — andiamo dove tu vuoi. Dovunque si può fare penitenza: abbiamo peccato assieme, faremo penitenza assieme.

La corriera arrivò, sí fermò sul ponte. Annesa capiva benissimo che Paulu le parlava con dolcezza e con pietà perchè era certo che ella sarebbe partita: non le venne neppure in mente di metterlo alla prova; si staccò da lui, le parve di aver peccato col solo toccarlo. Senza dirgli più una parola riprese il suo fagotto e si diresse verso lo stradale.

Egli non la seguì.

Ed anni ed anni passarono.

I vecchi morirono; i giovani invecchiarono.

Conosciuta la storia di Annesa, la famiglia presso la quale ella doveva andare a servire, non volle più saperne di lei. Ella dovette aspettare un bel po', prima di trovare servizio, e finalmente fu accolta in una famiglia di piccoli possidenti borghesi: il padrone tentò di sedurla, la padrona, ogni volta che tornava dalla predica o dal passeggio e aveva veduto qualche signora più ben vestita di lei, se la prendeva con la serva, maledicendola e arrivando persino a bastonarla.

Non era la vita di penitenza sognata dalla donna colpevole, ma non era neppure una vita molto allegra; ad ogni modo, il tempo passò. Gantine venne a cercare la sua ex-fidanzata, Paulu le scrisse parecchie volte: ma poi Gantine prese moglie, e Paulu parve rassegnarsi.

Annesa cambiò sovente di padrone: capitò finalmente presso un vecchio canonico soprannominato canonico Farfalla perchè camminava così lesto che pareva volasse. Canonico Farfalla godeva fama di astrologo perchè ogni notte, dalle piccole finestre della sua casetta posta sul confine del paese, guardava a lungo le stelle: quando accadeva qualche fenomeno celeste tutti ricorrevano a lui per spiegazioni.

Egli era un uomo colto, ma anche molto distratto. In breve Annesa diventò padrona della casetta e potè fare tutto quello che volle. Allora si acquistò fama di donna pietosa: fu vista dietro tutti i funerali, fu chiamata ad assistere i moribondi, a lavare e vestire i cadaveri prima che venissero chiusi nella cassa funebre: tutti i malati poveri, le partorienti povere, i paralitici poveri, ebbero da lei qualche assistenza.

E così gli anni passarono. Una volta donna Rachele venne a Nuoro per la festa del Redentore; andò a trovare Annesa, l'abbracciò, e piansero assieme; poi la vecchia dama, pallida e triste nel suo scialle nero, come la Madonna in cerca del Figliuolo morto, prese la mano della serva e cominciò a lamentarsi.

— I vecchi, tu lo sai, i vecchi sono morti. Rosa è sempre malata; Paulu è invecchiato; soffre di insonnia e di altri malanni. Anch'io, di giorno in giorno, mi curvo sempre più, cercando il posto dov'è la mia fossa. Abbiamo bisogno di una donna fedele, in casa, di una donna affezionata e disinteressata. Abbiamo avuto una serva che ci rubava tutto: Paulu non è buono a niente: Rosa è invalida. Che accadrà di loro, se io morrò?

Annesa credette che donna Rachele volesse proporle di tornare da lei, e sebbene decisa di rifiutare si sentì battere il cuore. Ma la vecchia non proseguì.

Qualche tempo dopo Annesa seppe che Paulu era ammalato di tifo: poi un giorno, verso la fine di autunno, se lo vide comparire davanti come un fantasma. Egli era diventato davvero il fantasma di sè stesso: vecchio, magro, coi capelli bianchi, gli occhi infossati e i denti sporgenti. Durante tutti quegli anni egli aveva sempre continuato a vivere di ozio, di imbrogli, di vizî: il tifo, poi, gli aveva un po' ottenebrato la mente, lasciandogli una strana manìa: egli credeva di essere stato complice di Annesa, nell'uccisione del vecchio, e ne provava rimorso. Ella si spaventò, nel vederlo. Egli le raccontò i suoi mali.

— Tutte le notti sogno il vecchio: qualche volta egli mi sembra il nonno Simone, il quale mi impone di venirti a trovare e di costringerti a sposarmi. Che facciamo, Annesa? Non hai rimorsi, tu? Non sogni il vecchio?

Ella non era mai stata troppo tormentata dai rimorsi: s'era pentita, credeva d'essersi castigata abbastanza con l'abbandonare l'amante e la famiglia dei suoi benefattori, ma dopo i primi tempi non aveva più sognato o veduto il vecchio.

— Che facciamo? — ripetè Paulu. — In casa mia c'è bisogno di una donna fedele e paziente: mia madre è vecchia, anche lei malandata: Rosa è tanto infelice, io sono un cadavere ambulante. Anna, ritorna, se vuoi fare penitenza.

— Donna Rachele ha paura di me, — rispose Annesa; -se ella vuole posso ritornare, ma finchè è viva lei non riparlarmi di matrimonio.

— Allora è inutile che tu ritorni, — egli rispose tormentato dalla sua idea fissa.

E se ne andò, senza neppure stringerle la mano. L'uno per l'altro, oramai, erano gelidi fantasmi. Un altro anno passò. Egli non la molestò oltre, ma coi suoi rimorsi, le sue paure, la sua idea fissa dovette suggestionare donna Rachele, perchè un giorno Annesa ricevette una lettera con la quale la vecchia dama la pregava di « ritornare ».

Ella abbandonò con dolore la tranquilla casetta dalle cui finestre il canonico Farfalla parlava con le stelle, e « ritornò ». La vecchia casa Decherchi pareva una rovina: la porta tarlata, i balconcini arrugginiti, sfondati, il cornicione coperto di erbe selvatiche, tutto, all'esterno, come nell' interno della casa, tutto era decrepito, irriconoscibile, pronto a cadere ed a seppellire le tre meschine creature che abitavano quella rovina.

Annesa rientrò piangendo in quel luogo di pena: vide donna Rachele coricata sul lettuccio, nella camera da pranzo, e trasalì: accanto al lettuccio stava seduta una vecchietta giallognola, un po' gobba, con due grandi occhi metallici che avevano uno sguardo strano, diffidente e felino. Il vestito bizzarro di questa bizzarra creatura, — un costume tra il paesano e il borghese, — colpì Annesa. Ella guardò bene la vecchietta, e vide che aveva i capellì rossastri, abbondanti.

— Rosa! Rosa mia! — gridò, piangendo.

Ma Rosa non la riconobbe; e quando seppe che quella piccola donna che sembrava più giovane di lei era Annesa, l'antica figlia di anima, la sua futura matrigna, la guardò con maggior diffidenza.

— Rosa, — pregò donna Rachele, — va in cucina e fa scaldare un po' di caffè.

— Posso andare io! Conosco la cucina, mi pare! — esclamò Annesa.

Ma Rosa trasse di saccoccia, con ostentazione, un mazzo di chiavi, aprì il cassetto della tavola, trasse lo zucchero e disse:

— Tu non sai, non sai dove sono le provviste. Ora vado io, in cucina; sta lì con la nonna.

E rimise le chiavi in saccoccia. Rimaste sole, donna Rachele disse alla sua antica figlia d' anima.

— Non contrariare la povera Rosa. Ella ci tiene, ad essere la padrona di tutto… del poco che ancora abbiamo! Non contrariarla, Annesa, figlia mia. Quando ha qualche dispiacere la povera Rosa cade in convulsioni. Non contrariarla.

In quel momento rientrò Paulu: egli era stato a messa; qualcuno l'aveva avvertito dell'arrivo di Annesa.

— Che nuove a Nuoro? — le domandò semplicemente, stringendole la mano. — Fa molto caldo?

— Non molto, — ella rispose.

Lo guardò. In un anno egli aveva finito d'invecchiare: aveva i capelli bianchi, i baffi grigi: pareva zio Cosimu Damianu.

— Paulu, — disse sottovoce donna Rachele, - avvertivo Annesa di non contrariare la povera Rosa. Pregala, anche tu. Dille che…

— Ma sì, ma sì! — egli disse con impazienza. - Annesa lo sa già che è tornata quì per far penitenza. Te l'ho già detto, Anna, mi pare. Te l'ho detto, sì o no?

— Sì, sì, — ella rispose.

Come in una sera lontana, ella apre la porta che dà sull'orto e siede sullo scalino di pietra.

La notte è calda, tranquilla, rischiarata appena dal velo biancastro della via lattea: l'orto odora di basilico, il bosco è immobile; la montagna dal profilo di dorso umano par che dorma, distesa sul deserto infinito del cielo stellato.

Tutti dormono: anche Paulu che soffre di lunghe insonnie nervose. Da qualche giorno, però, egli è tranquillo: la sua coscienza sta per acquetarsi. Domani Annesa avrà un nome: si chiamerà Anna Decherchi. Tutto è pronto per le nozze modeste e melanconiche. Annesa ha preparato tutto, ed ora siede, stanca, sul gradino della porta.

E pensa, o meglio non pensa, ma sente che la sua vera penitenza, la sua vera opera di pietà è finalmente incominciata. Domani ella si chiamerà Annesa Decherchi: l'edera si riallaccerà all'albero e lo coprirà pietosamente con le sue foglie. Pietosamente, poichè il vecchio tronco, oramai, è morto.

FINE.