LE PIU BELLE PAGINE
DI
SILVIO PELLICO
SCELTE DA
GRAZIA DELEDDA

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1923

TERZO MIGLIAIO.

Sono i tempi che plasmano l'uomo, o è questo che torce a sua sembianza il tempo?

E sappiamo noi se un romantico, strappato, per forza divina, dalla letteratura nuova del 1800 e gettato due secoli prima o dopo l'epoca in cui visse, avrebbe espresso quelle medesime forme di arte o compiuto quelle azioni che il suo tempo lodava o biasimava?

Così pensando a Silvio Pellico che, col Grossi, col Berchet, col Manzoni e con tutti gli altri del suo tempo fu invaso da tanto ardore nell'accettare il sentimento del reale, nell'opporsi eccitato al classicismo che sembrava avere la forma e la freddezza d'una statua di pietra, nel conciliare il paradiso cristiano con lo spirito moderno, non sappiamo immaginare quale sarebbe stata la sua impronta se vissuto con la sua anima sensibilissima accanto al Machiavelli, o un secolo dopo il suo.

Diciamo questo perchè non crediamo ch'egli potesse scrivere altro che Le mie prigioni o le Cantiche o la Francesca o l' Ester d'Engaddi: tanto il suo spirito, forse il più tipico del romanticismo, sembrava covare da lungo tempo quella forza intrinseca e dissimile da tutte le precedenti, per sbocciare proprio allora quando il nuovo movimento lo accarezzava e riscaldava, come il sole riscalda ed apre un fiore dopo l'alba rugiadosa.

Nelle lontane immagini della nostra prima giovinezza ricordiamo un uomo nobile e buono che ha per lungo tempo molto sofferto; egli è là, nei nostri primi anni, solo, in un'atmosfera confusa, ora melanconico, ora con lo sguardo luminoso di una fiamma interiore; abbiamo conosciuto il suo viso eroico sulle copertine dei libri popolari, dipinte con colori vivi ed ingenui, dove accanto a una grata di ferro e fra decorazioni di catene spiccava in caratteri rossi il titolo « Le mie prigioni » e da quel libro, sopratutto, abbiamo attinto le poetiche tristezze e i propositi romantici, e qualche cosa di più profondo ancora, la fede e la religione che si confacevano all'anima nostra fanciulla.

Se ora riprendiamo a leggerlo senza alcun pregiudizio, vi scopriremo i mirabili aspetti e lirici e filosofici e religiosi che una volta avevamo lasciato passare inosservati. A quindici anni abbiamo amato il martire patriotta e religioso, abbiamo sentito l'umanità delle sue calme parole, e incoscientemente ci sono balzati dinanzi agli occhi, non ancora acuti, i caratteri, i personaggi, i luoghi delle orrende prigioni: ora invece siamo portati a seguire tutto lo svolgimento temporale e qualitativo dell'animo di Silvio Pellico; ora solleviamo un istante il viso pensieroso dal libro dopo aver letto della sua conversione religiosa; scorgiamo delle tinte veriste quando il carceriere gli dice che senza bere vino la solitudine gli sarà più amara; e finalmente sappiamo per intero comprendere la clemenza e la benignità del prigioniero verso i suoi carnefici, mentre prima, poichè l'amore cieco è esigente e ingiusto, forse lo accusavamo di debolezza e anche di paura.

Oramai però lo abbiamo letto poeta tragico ed epico, e conosciamo i precetti morali dei suoi Doveri degli uomini; e spingendo lo sguardo curioso e pronto alla critica nelle sue lettere e nei suoi pensieri più intimi, possiamo dire di conoscerlo come un amico. Più sicuri nel giudicarlo, esso può quindi destare una maggiore ammirazione sebbene forse… meno amore che nei primi anni.

Eppure quest'uomo, pur così gracile di corpo, così ossequiente ai suoi genitori che in età matura gli proibivano di unirsi con la Gegia, così perplesso a volte nelle sue decisioni, e amante della pace domestica, ha sopportato con eroica fermezza dieci lunghi anni di tortura in quel carcere inumano che aveva fiaccato le fibre più vigorose; ed è meritevole non solo dell'amore dei nostri primi anni fantasiosi, ma anche di quello di ora che nella maschera floscia del suo viso borghese e nei suoi occhi smorti dietro gli occhiali a stanghetta non vediamo più l'eroe, ma nella sua opera abbiamo imparato a conoscere tutta la sua umanità dolorosa.

L'anima di questo scrittore era una corda sensibilissima ad ogni vibrazione: tuttavia il tumulto l'allentava rendendola incapace di esprimere fortemente: egli rimaneva scosso da ogni impressione, da ogni contenuto artistico, senza però riuscire a dargli una forma con la potenza originaria.

L'artista deve creare lo spirito, la fiamma vivificatrice dell'opera, ma nello stesso tempo concepirne la forma che dia corpo alla sua realtà spirituale: senza questa concezione si rimane sempre nella torbida inquietudine dei decadenti. Pur essendo un nuovo, Pellico non ha saputo nè potuto esprimere potentemente tutto il suo pensiero. Basta osservare i personaggi delle sue tragedie e delle sue Cantiche dei quali egli cerca di sfuggire la grande unità sezionandoli, di modo che non si riesce ad avere in Eufemio di Messina, o un grande condottiero, o un amante, o un patriota: in esso vi è solo un dissidio borghese che non ottiene nessun rilievo. Che il poeta quei tre aspetti li abbia immaginati grandiosi ed eroici, nessuno lo dubita; pur tuttavia la forma non è pari alla concezione. Quando invece gli accade di non aver più davanti a sè la sua creatura, ma per foga d'entusiasmo o tenerezza di sentimenti s'immedesima con essa, il che è ben facile a discernere, e apre il suo cuore come fosse lui Paolo nella Francesca da Rimini, allora ne scaturiscono quelle stupende battute che elettrizzarono tutta l'Italia, e quella dolcissima scena d'amore fra Paolo e Francesca, dove l'incertezza e i sospiri dei due amanti ricordano il Silvio che non ardiva parlare del suo affetto a Teresa Bartolozzi.

Appunto perchè è lui che vive e che parla, nelle « Mie prigioni » è grande.

La sua personalità vi è netta, senza contradizioni, anche con quei cangiamenti che i tre periodi della sua vita, la giovinezza, i dieci anni di carcere con il tempo che seguì fino alla pubblicazione delle « Mie prigioni » e la vecchiaia, hanno apportato.

Sempre una grande serenità un po' melanconica, nel pensiero e nelle azioni, una coscienza netta e fortissima tale da affrontare qualsiasi pena piuttosto che salvarsi con un'accusa o una menzogna ignobile.

Fin dalla prima giovinezza, cresciuto fra parenti religiosi, fu predisposto a un profondo culto di Dio: trasferitosi per quattro anni a Lione, la vita brillante e mondana di quella città lo distrasse, e ancor più a Milano si dimenticò della religione, quando in casa del conte Porro Lambertenghi e nella redazione del « Conciliatore » le battaglie della letteratura rinnovantesi e la passione per la patria destarono nella sua vita il ritmo più intenso.

Ma gettato nel carcere ricercò in quella tetra solitudine la vera ragione di vivere e la ritrovò nel suo stesso dolore, nella sua rassegnazione, nella speranza di una giustizia che non fallisce: allora si riavvicinò a quell'amico che non lo aveva mai abbandonato: a Dio.

La conversione fu del tutto umana e giustificabile: e per il resto della vita, specialmente quando, perduta l'ultima vigoria virile, fu vinto dai dolori del corpo macerato dai lunghi anni del carcere, l'unica sua pace fu negli studi religiosi e nella preghiera.

Questo suo abbandono a una volontà superiore, la bontà coltivata e voluta da lui come il maggiore dei beni, il poco amore alle cose esteriori della vita e il continuo guardare di là dall'orizzonte mortale con la ferma speranza che solo di là debba cominciare il regno della giustizia e della gioia, hanno, più che altro, fatto di lui lo scrittore preferito della mia prima fanciullezza, e credo abbiano anche influito a formare qualche piega del mio carattere morale, del che non sempre ho avuto a lamentarmi. Troppo a lungo e inutile sarebbe raccontare le ragioni esteriori ed intime di questa preferenza e di questa aderenza quasi religiose: ad ogni modo tengo a dire che, invitata a collaborare alla scelta delle più belle pagine degli scrittori italiani, ho raccolto quelle di Silvio Pellico non con presunzione di fare opera di studio e di coltura, ma come atto di fede e di riconoscenza.

Grazia Deledda.