GRAZIA DELEDDA

IL VECCHIO
della MONTAGNA

ROMANZO

1900
ROUX e VIARENGO - Editori
torino

PROPRIETÀ LETTERARIA

Melchiorre Carta saliva la montagna, ritornando al suo ovile.

Era un giovine pastore biondastro, di piccola statura, con occhi lionati, pallido in volto. Una ruga gli si disegnava fra le sopracciglia folte e nere, che spiccavano nel fosco giallore di quel volto e di quella testa microcefalica. Egli indossava il costume nuorese, con una sopragiacca di cuoio senza maniche.

Anche il cavallino del pastore era giallo, tozzo, angoloso, e pensieroso come il padrone: sembravano fatti l'uno per l'altro.

Melchiorre era giovine di buoni costumi e d'ottima fama; ma da qualche tempo in qua si mostrava cupo, e si sentiva cattivo e infelice, perchè sua cugina Paska lo aveva abbandonato, quasi alla vigilia delle loro nozze. Motivo non c'era stato ; solo che Paska si era improvvisamente accorta di esser bella e corteggiata anche da giovani signori.

Il cavallino saliva con prudente lentezza, scuotendo la testa tenuta alta dal freno. Dopo le falde sassose, olezzanti di cespugli aromatici, dalle quali si scorgeva Nuoro e un panorama di valli selvaggie, di montagne lontane, il pastore s'inoltrò nei boschi d'elci.

Il mattino d'agosto era purissimo: avendo il di prima piovuto, nel bosco era una dolce freschezza. Le felci, l'erba, i tronchi umidi, le roccie lavate, esalavano irritanti profumi selvatici; la brezza versava marezzi argentei sulle chiome degli elci; il cielo rideva azzurro come un lago negli sfondi sereni. Melchiorre saliva triste e truce fra tanta dolcezza di cielo e di bosco; davanti a sè, sempre più in alto, sentiva un indistinto vocìo, un riso di donne, che precedevano; gli sembrava riconoscere il riso fresco e sonoro di sua cugina, e si rodeva d'ira.

— È assolutamente lei! E ride! — pensò ad un tratto, fermando il cavallo; e stette ad ascoltare.

Le voci s'allontanarono; il riso si spense con la vibrazione dell'eco. Non doveva esser lei. Melchiorre respirò, e spronò il cavallo.

E il cavallo riprese a salire, a salire, con ritmico ondeggiar della groppa, con lento sbatter della coda sui fianchi ossuti.

Su per le chine rocciose, dalle quali il vento aveva spazzato le foglie e denudato le grandi radici degli elci, rossastre, contorte e avviluppate come serpenti, il passo del cavallo risuonava, e il ferro lucente traeva scintille dal granito.

Dopo le chine s'aprirono silenziose radure, circondate d'alberi che si slanciavano su limpidissimi sfondi. Qua e là le roccie accavalcate parevano enormi sfingi, vigilanti nella chiarità solitaria del mattino: alcuni blocchi sembravano grandi piedestalli sostenenti colossi, statue mostruose appena sbozzate da artisti giganti, are di idoli immani, e simulacri di tombe dove la fantasia popolare racchiude appunto i giganti, che in epoche ignote sovrapposero le roccie dell' Orthobene, traforandole nelle cime con nicchie ed occhi, attraverso cui ride il cielo.

Dopo le radure, di nuovo il bosco: sentieri umidi, piccoli corsi d'acqua, profumo di giunco, erbe calpestate da greggie ed armenti; e sempre ombra, tremuli rabeschi di sole, qualche grido di gazza, qualche picchio di accetta ripercosso da due, tre, quattro echi. Poi ancora la salita, ma dolce, molle di felci fresche.

Guadagnata anche questa, il pastore incontrò alcune donne e fanciulli che scendevano carichi di sacchi di carbone. Fermò il cavallo per lasciarli passare. In quel tratto il sentiero serpeggiava fra rupi aride, e il sole batteva già caldo sul terreno sassoso e privo d' alberi.

La montagna appariva improvvisamente desolata; era un adeguato sfondo al triste quadro di quelle donne lacere e scalze, dalla testa conficcata nei gravi sacchi neri; di quei fanciulli che scendevano curvi sotto l'enorme carico, con le manine nere penzoloni, la testa tirata indietro dalla corda dei sacchi, e gli occhi e la bocca spalancati per il calore e la fatica. Donne e fanciulli scendevano cauti, silenziosi, coi volti sudati e rossi, e gli occhi nuotanti in un sogno di dolore malvagio. Vedendo il pastore, tranquillo e seduto a cavallo, lo invidiarono, e glielo dimostrarono gridandogli rudemente di scostarsi, imprecandolo e aizzandogli il cavallo.

Due donne, rimaste ultime, gli si fermarono vicino, ridendo di un riso spezzato e maligno:

— Vai all'ovile, Merzioro Carta?

— Così pare!

— Se aizzi il cavallo farai un bell'incontro.

— Io non devo incontrar nessuno! — diss'egli, duro.

Ma, dentro, il cuore parve saltargli alla gola.

— È dunque lei! — pensò, ed ebbe desiderio di spronare davvero il cavallo; ma tosto si pentì e s'umiliò del suo desiderio.

Le donne intanto, ripresa la discesa, fermarono un ragazzo per il sacco, e lo consigliarono:

— Grida così: Tanti saluti a Paska Carta!

Il ragazzo si volse in faccia al sole, socchiuse gli occhi, si portò le mani giunte alla bocca, e gridò:

— Faccia di volpe, ohè, tanti saluti a Paska Carta!

Il maligno grido finì d'inviperire Melchiorre: tuttavia egli non si volse, non rispose. Giunse ad una fontana. Grandi elci immobili ombreggiavano la radura coperta di tenere erbe bionde : vicino alla rozza fontana di pietre c'erano le traccie di un banchetto; macchie nere ove era stato acceso il fuoco, felci appassite su cui erano state distese le tovaglie, e in giro pietre servite per sedili, che sembravano ancora accolte a muto convito; e avanzi di frutta, e frantumi di stoviglie.

Il pastore e il cavallo parevano piccolissimi in quella solenne grandiosità d'alberi e di sfondi azzurri.

Melchiorre smontò, e tirando il cavallo per la briglia si avanzò fino alla fontana. S'inginocchiò sulle pietre, rigettò indietro sul capo la berretta, e curvandosi sino a baciar la sua figura riflessa dall'acqua, bevette a lunghi sorsi. Si rialzò coi baffi stillanti, si tirò la berretta, e fece bere il cavallo nella fontana, invece che nella pozza praticata apposta per abbeverar le bestie.

Mentre il cavallo s'abbeverava, egli guardava intorno sospettoso, provando un gusto dispettoso nel veder l'acqua intorbidata dall'animale. La fontana era stata pulita pochi giorni prima, per uso di alcune famiglie che facevano la novena nella chiesetta in vetta al monte. Paska serviva in una di queste famiglie, e ogni giorno scendeva alla fontana, per attinger acqua, con la rossa anfora di creta sul capo; i suoi adoratori, certo, la rincorrevano fin laggiù.

Che dunque il cavallo bevesse, che intorbidasse, che, potendo, inquinasse la fresca acqua fina, come quei signori avevano avvelenato l'anima del pastore.

Che bevesse! Anzi, in un impeto d'ira, che diede un giallo fulgore ai suoi occhi, Melchiorre si curvò, aprì le mani, afferrò uno, due, tre massi, dalla base nera di fango, e li gettò entro la fontana. L'acqua gorgogliò, sprizzò, traboccò, si sparse sulle pietre circostanti.

Egli riprese la briglia, risalì rapido in sella e s'allontanò.

Tutto ritornò nel grave silenzio di prima; ma l'acqua rimase torbida, ed egli riprese la salita col cuore sempre attoscato. Ora nessun rumore gli giungeva; solo il crepitar delle foglie secche e dei ramoscelli rotti dalle zampe del cavallo. Qua e là, nello sfondo dei tronchi oscuri, sorgeva qualche scheletro d'elce scorzato, rosso, sanguinante come un corpo scorticato; i rami morivano in un triste verde-grigiastro.

A un certo punto Melchiorre si fermò: il suo ovile era a levante, un po' lungi dalla chiesetta, davanti alla quale non occorreva passare. Eppure, per un momento, egli fu tentato di salire lassù; ma poi rallentò la briglia, lasciò che il cavallino seguisse il suo istinto. E il cavallino rizzò le orecchie, e attraverso l'intrico del bosco e delle rupi s'avviò all'ovile.

Allora, riprendendo la solita via, Melchiorre tornò alla realtà, e si sdegnò della sua debolezza. Gli accadeva sempre così.

— Sta quieto — gli diceva il vecchio padre — meglio prima che poi.

Ma questo conforto era come il sale sopra una ferita; gli destava spasimi feroci. E sempre, senza volerlo, si trovava sulle traccie della ridente creatura, che lo trascinava dietro di sè con l'insultante letizia della sua giovinezza libera e leggera. Gli sembrava di aver dritto ancora su di lei, almeno come parente, e senza l'idea del padre vecchio e cieco, si sarebbe compromesso.

Giunse all'ovile a sole alto: il cavallo si fermò al solito posto, presso una mangiatoia di pietra, sotto un elce. Un piccolo cane nero, dai limpidi occhi castanei, e un gatto tigrato, dagli occhi celesti, gli vennero incontro, silenziosi, l'uno saltellando, l'altro a passettini lenti e leziosi.

S'udiva il tintinnìo delle capre al pascolo, e il grido del giovine mandriano, che, in assenza di Melchiorre, custodiva l'ovile e il vecchio cieco.

In quel versante l'Orthobene guardava l'oriente, chiuso dalle azzurre montagne della costa, fra le quali intravedevasi il mare, confuso col cielo in una zona grigio perla. Vasti e ineffabili orizzonti. Terre solitarie e ondulate si stendevano ai piedi della montagna; e lassù, nell'ovile, l'Orthobene era tutto un sublime incanto di roccie, boschi e radure. La capanna sorgeva in una spianata dal libero orizzonte: il sentiero che là conduceva, insinuavasi nel bosco, rasentava precipizi, chine coperte d'erba bionda, scendeva e saliva per scalinate, antri, archi di granito. Il musco dominava, coprendo i tronchi e le pietre; l'edera, sugli alti crepacci, abbandonava i suoi poderosi ciuffi alle carezze del vento, o, quando l'aria taceva, guardava i lontani orizzonti.

Nella spianata, vicino alla mandria, un solo elce: davanti l'orizzonte: dietro il bosco; a destra e a sinistra ancora la solennità delle roccie, sovrapposte, forate in alto da occhi che per lo sfondo del cielo sembravano azzurri, e da nicchie inghirlandate d'edera, dalle quali pareva fossero scomparsi idoli antichi. Alcuni graniti si slanciavano sottili come obelischi; altri giacevano su enormi piedistalli, come sarcofaghi coperti da drappi di muschio verde. E ogni cosa, alberi, roccie, macchie, assorte in un profondo sogno di solitudine, parevano immerse nella contemplazione dei solenni orizzonti.

Anche le capre, allor che salivano sulle roccie, volgevano il viso di sfinge barbuta e gli occhi melanconici alle lontananze marine; anche il gatto, nei suoi lunghi sogni sulle pietre, fissava le pupille diafane all'oriente; e il vecchio cieco, e il mandriano e Melchiorre guardavano sempre laggiù, come in attesa di qualche cosa.

La capanna, di rami e pietre, era abbastanza vasta e pulita, con un gran focolare nel centro. Fra i recipienti di sughero, per il latte, pendevano i gabbani dei pastori.

Al giunger di Melchiorre, zio Pietro uscì dalla capanna, dove aveva preparato il canestro del pane per la colazione. Era alto e rigido, con qualche cosa di ieratico nel volto roseo dalle palpebre abbassate, con un profilo acuto e una lunghissima barba, di un candore metallico. Era calvo, con una corona di riccioli argentei sulla nuca. Le folte sopracciglia bianche, aggrottate, tradivano l'interna, continua, finissima ascoltazione ai suoni, alle impressioni esterne. Indossava il costume di vedovo nuorese, ma sul capo, invece della berretta, teneva un tocco di pelle di volpe. Egli usava un leggero bastone di legno d'oleandro, sul cui manico era rozzamente incisa una testa di cane: quasi sempre lo protendeva in avanti, o di fianco, nella ricerca di un invisibile ostacolo. Anche la mano sinistra, rossa, rugosa, tremante, brancicava sempre, cercando, palpando un appoggio o un ostacolo. Sebbene calmo in apparenza, zio Pietro non sorrideva mai, e solo quando sentivasi vicino il figliuolo, spianava le sopracciglia: allora, nella placida sicurezza, il suo bel volto pareva quello di un patriarca o di un santo.

Attese sull'apertura della capanna: dal suono rimbalzante delle staffe e del freno si accorse che Melchiorre toglieva la sella al cavallo, e si fece un po' indietro per lasciarlo passare.

L'altro entrò, senza dir parola, e depose bruscamente per terra la bisaccia, intorno alla quale il cane s'aggirò fiutando.

— Cosa ha egli? — pensò zio Pietro, accorgendosi subito che il figliuolo era più irritato del solito. Ma tosto sentì una gustosa fragranza, e si rallegrò come un bimbo.

— Cosa hai portato? — chiese.

— Toccate — disse Melchiorre.

— Questo è un cocomero. E questo è un popone — rispose il vecchio.

— Dove è quello scimmiotto? — domandò Melchiorre, sedendosi sulla stuoia, vicino alla porta.

Sporse il capo, fischiò, gridò:

— Basilio, o Basiliooo?

Anche zio Pietro sedette. Il cane e il gatto, da buoni amici, fiutavano assieme le frutta recate da Melchiorre.

— Basiliooo?…

Il mandriano rispose con un bèèè tremulo e prolungato, che pareva il belato d'una capra, poi fischiò, poi venne saltellando e correndo, con una lepre sotto il braccio.

Venendo dal suo villaggio, che si scorgeva dall'Orthobene, Basilio aveva portato una lepre di nido, così piccola che stava entro il pugno; e il padrone gliela lasciava allevare, col patto di arrostirla un giorno o l'altro. Dopo i primi tentativi di fuga, la palpitante bestiola dalle lunghe orecchie bionde parve addomesticarsi; bevette il latte, rosicchiò il pane, raspò le ghette di zio Pietro, morsicò le dita di Basilio; e quando credeva di non esser veduta, giocava e saltellava, strofinandosi il musino con ambe le zampette anteriori. Ma i suoi grandi occhi dolci, sempre aperti e intenti, meditavano la fuga, e guardavano lontano, come assorti nel ricordo della libera vigna natia, dove i fratelli dovevano danzare alla luna, e rosicchiare i primi acini violetti dell'uva.

Basilio non la fidava; la teneva sempre legata e spesso la pigliava con sè, a guardare le capre.

Entrato nella capanna, legò la lepre ad un piuolo, e si gettò sulla stuoia, emettendo piccoli gridi di contentezza alla vista dell'anguria, sulla quale si gettò, fiutandola e morsicandola per ischerzo.

Mangiarono in fretta il grigio pane d'orzo, silenziosi. Accanto alla solenne figura del vecchio, contrastava il viso bronzino roseo e ridente del giovinetto. Basilio aveva begli occhi neri, un'ondulata capigliatura d'oro bruciato, e splendidi denti che, nel riso, apparivano tutti, fino ai molari, in una stupenda cornice di gengive rosee.

— Sarebbe tempo di finirla con la tua lepre!

— disse a un tratto Melchiorre, guardando la bestiole.

— Cosa volete farne?

— Questo — disse il padrone; e con la mano fece atto di praticare un buco.

— Prima facciamolo a questa! — rispose Basilio, prendendo l'anguria e mettendosela fra le gambe.

— Oh, lo faremo anche a quella!

— Altro bene voi non abbiate!

— Lo dicevo io! Mi meraviglio, scimmiotto! Alla tua età si amano le donne, non le lepri! — disse ironicamente Melchiorre. — Ma forse le vuoi bene perchè ti somiglia. — E intanto spezzava un pezzo di pane, porgendolo alla lepre.

— Somiglia al gatto — osservò Basilio.

— No, con quelle orecchie somiglia a te e all'asino. Diavolo! — gridò ritirando la mano — mi ha morsicato! Tutta te, ecco, che sembri sciocco e sei una volpe!

Basilio rise, tutto intento a tagliar l'anguria col suo coltello.

— Lepre… volpe… bah! — disse zio Pietro, cui non piaceva il linguaggio aspro del figlio. — Del resto — soggiunse — anche la lepre ha la sua parte di perfidia. Ha l'alito pestilenziale: se sugge le mammelle d'un altro animale, il latte si dissecca. Una volta una pecora trovò un nido di leprotti, la cui madre era stata cacciata. Cosa fa la pecora, stupida? Li allatta. Ebbene, il suo agnello comincia a deperire, a deperire…

— La pecora non aveva più latte? — chiese Basilio, attentissimo.

— Sì.

— Conti d'Isoppo! (Esopo) — disse Melchiorre, sprezzante.

— Eppoi, eppoi? Raccontate zio Pietro. E la lepre? E l'agnello?

Ma zio Pietro tacque, risentito, ripetendo fra sè:

— Che cosa ha egli oggi?

Poi chiamò il gatto:

— Tortorella?… — E disse: — Date da mangiare agli animali.

— Zio Melchiorre ha già mangiato! — disse Basilio, ridendo.

Intanto sbatteva lievemente per terra l'anguria; poi l'aprì, e battè allegramente le mani. Ma l'anguria s'apri in due stelle carnose d'un rosa pallidissimo, sparse di sementi bianche.

— Cruda? — domandò zio Pietro.

— Pur troppo! — grugnì Melchiorre, comicamente desolato. Prese con ambe le mani una fetta, e vi tuffò ferocemente il muso, imprecando fra sè che nessuna cosa gli andava a seconda.

Dopo il pasto, tutti uscirono fuori. Basilio riprese a fischiare e belare, e Melchiorre portò al cavallo gli avanzi dell'anguria.

Da lontano arrivava il tintinnar delle capre; ma ogni voce e ogni rumore sfumavano nel gran silenzio, nell'immensa serenità del paesaggio. In quell'immensa serenità, fra i grandi alberi e le rupi enormi, le figure dei pastori svanivano, piccolissime, sui limpidi sfondi.

Un po' giù dalla radura, sotto le roccie, dalle quali scaturiva un filo d'acqua, Melchiorre aveva pazientemente formato un piccolo orto e una rozza vasca di pietre. Alti fagioli dai fiorellini scarlatti s'attortigliavano a lunghe pertiche, e una fila di pomidoro cominciavano, nella frescura del luogo, a imporporarsi.

Come usava ogni giorno, egli si portò sulle roccie, e là ritto fischiò e battè le mani per radunar le capre perchè s'abbeverassero senza saltar la siepe dell'orticello.

Zio Pietro scese il sentiero, fermandosi ogni tanto, tastando il terreno col bastone. Trovato il suo posto favorito, una pietra scavata in forma di sedia a bracciuoli, vicino alla vasca, sedette. Sentì l'odor fresco dell'orto, del musco bagnato; sentì le capre che venivano saltellando, scendendo dalle alture, salendo le chine, urtandosi, spingendosi, con un tremulo tintinnio di campanelle. Nell'accostarsi all'acqua si facevano tranquille, e bevevano pacatamente una dopo l'altra. Stendendo la mano, zio Pietro poteva toccarle: gli passavano vicine, con leziosa andatura da gatte.

In una spaccatura delle roccie, Melchiorre le distingueva e le contava una per una coi suoi occhi di falco; e continuava a fischiare e battere le mani. Al basso, la voce, i belati e i fischi di Basilio spingevano le capre. Egli le chiamava con nomi bizzarri; esse intendevano, lasciavano i cespugli, gli passavano avanti saltellando. Ultimo a salire era Zio Frate, un vecchio capro nero dalla barba bianca, che aspettava si abbeverassero tutte le capre per avvicinarsi anch'esso all'acqua; poi passava cozzandole un po', benevolmente, e le spingeva alla discesa. Qualcuna s'indugiava, rizzandosi sulla siepe, ma un feroce hoc! di Melchiorre e la fronda di Basilio l'allontanavano.

Zio Pietro ascoltò, e quando il suono dei campanacci si sparse nuovamente per le chine, egli sentì Melchiorre scender il sentiero e oltrepassare.

Dove andava? Zio Pietro provava sempre timore e inquietudine, quando il figlio s'allontanava. In quei giorni, poi, sapeva che Paska era vicina, e s'inquietava più che mai.

Dove andava ora Melchiorre? Forse in cerca di Paska e di uno scandalo?

In alto, al di là delle roccie, il vecchio sentiva il bosco stormire, percosso da un brivido di brezza: era un susurro continuo, monotono, come il ronzìo di migliaia d'insetti, che accresceva l'impressione della solitudine. Quando era solo, zio Pietro provava desolatamente questa impressione di solitudine; e la voce del bosco gli echeggiava dentro, nel suo buio interiore, con la tristezza d'una notte senza confine. Per lui la luce era la presenza di Melchiorre. Ma da qualche tempo sentiva che Melchiorre, pervaso dalla passione, gli sfuggiva; e gli ritornava più intenso quel triste senso di solitudine, e un timoroso abbandono, e un terrore simile a quello d'un bimbo smarrito in luoghi deserti. Tutti i fantasmi delle tenebre lo attorniavano, impalpabili, tanto più terribili quanto più indistinti.

S'alzò, e stette in penoso ascolto. Solo il mormorar del bosco. E di qua e di là, come goccie d'acqua cristallina, brevi tintinnii.

Zio Pietro tornò alla capanna; e lassù i soliti rumori, il ruminar del cavallo, il guaire del cane, il rosicchiar della lepre, lo rassicurarono. Sentì la lepre raspargli le ghette, la prese fra le mani e la carezzò.

— Malignaccia, malignaccia — mormorò, sentendole batter forte il cuoricino. Poi cominciò a preparare il pranzo.

Nella capanna avevano qualche utensile domestico, provviste e olio d'oliva; zio Pietro si curvò sul focolare, avvicinò la mano alla cenere, e, sentendo calore, scoprì una grossa brage con la punta del bastone; il quale essendo forato, serviva anche da soffietto. Poi mise una manata di fuscelli secchi sulla bragia, e soffiò dentro il bastone: la cenere si sparse intorno al focolare, il gatto scappò scuotendo le zampe, e la fiamma brillò.

Ritornando, Melchiorre trovò i maccheroni conditi entro la casseruola, la stuoia spiegata, il pane preparato nel canestro.

Era forse la una; l'elce descriveva appena un cerchio d'ombra intorno al suo tronco, e il sole penetrava per tutte le fessure della capanna. Dentro e fuori faceva caldo; l'azzurro del cielo vaporava chiaro all'orizzonte; nella luce fiammante del sole allo zenit, le roccie assumevano toni di cenere ardente. Ma in alto i boschi fremevano forte, circondando la radura con un sonoro susurro. Di nuovo i pastori sedettero per terra, e pranzarono, tornando ai soliti discorsi riguardanti le capre, i pascoli, i pastori amici o vicini. E Basilio rideva sempre. Melchiorre raccolse su un pezzo di sughero le sementi del mellone, per seminarle l'anno venturo; con la scorza di alcune fette, il mandriano intagliò statuette piatte, che parevano idoletti fenici, e compose una dentiera dai feroci denti gialli, che s'applicò sotto le labbra ridendo grottescamente.

Dopo il pranzo, Melchiorre e zio Pietro se n'andarono a meriggiare sotto il bosco. Il vecchio si pose il berretto sotto il capo, il bastone a fianco e in breve, cullato dallo stormire del bosco, si addormentò. Una chiazza di sole gli calava sul dorso, e la brezza smuoveva le candide ciocche della sua barba: pareva un vecchio santo, addormentato nella se rena solitudine del bosco, nella quiete di quegli sfondi quasi cinerei. Melchiorre, supino, con le gambe accavalcate e le mani sotto il capo, guardava suo padre, e non poteva assopirsi.

Sotto il cielo luminoso, il bosco, investito dalla brezza, aveva scorci di perle, getti scintillanti di argento; e fra quello splendore metallico, susurrava sempre una voce canora, sonnolenta. Sul mormorìo del bosco, le campanelle delle capre battevano note argentine; i richiami delle gazze tessevano liquidi fili di armonia. E Melchiorre non poteva trovar riposo. Il riso di Paska lo perseguitava, lo pungeva, lo attirava lontano, verso la capannuccia di frasche, a fianco della chiesetta, ove ella forse, col fazzoletto graziosamente rigettato sulla sommità del capo, il volto roseo per il calore del fuoco, cucinava svelta il succulento pranzo del padrone.

Un violento desiderio di recarsi lassù, di entrare, di afferrarla e trascinarsela dietro, lo vinceva.

— Se non fosse per quello lì! — pensava; e fissava la macchia di sole che, lentamente, dal dorso saliva alla nuca di zio Pietro.

Durante la mattina, si era aggirato due volte intorno alla chiesa; la prima volta in un circolo largo, durante il quale s'era scusato seco stesso, dicendosi in cerca d'un pastore amico; la seconda volta avvicinandosi al punto d'attrazione sino a scorger la vecchia chiesetta.

Aveva udito voci di donne che attingevano acqua al pozzo della radura; e fra le erbe gialle e le pietre aveva veduto un bambino vestito signorilmente, in calzette nere, che s'appiattava, slanciava il berretto su qualche cavalletta verde, e acchiappatala la portava ad un piccolo falco addomesticato. Il falco aspettava, fermo sopra una pietra, seguendo il bimbo coi suoi rotondi occhi gialli: avuta la cavalletta, la premeva con la zampa, e se la beccava crudelmente, stridendo, starnazzando le ali fulve.

Melchiorre aveva lanciato una feroce occhiata sul bimbo, sul falco, sulla chiesa, sollevando le sopracciglia come per stender meglio il suo amaro sguardo fino all'orizzonte.

Ed era tornato dal padre.

Si volse sul fianco, continuò a fissare la macchia di sole che saliva verso i riccioli argentei di zio Pietro. E gli parve di provare un improvviso benessere fisico e morale.

— Come sono matto! — pensò. — Ho cento capre, sono giovine, sano, onesto. Qual donna non mi vorrebbe? Io m'infischio di mia cugina e dei signorotti suoi innamorati. Vadano al diavolo! Finiscila, Melchiorre; non vedi che stai diventando stupido come una pietra?

Ma a un certo punto le tempie cominciarono a martellargli, e un calore molesto gli punse, gli irritò tutta la persona. Fra il susurro del bosco giungeva un suono di flauto, fino, tremulo, che or pareva morire tristemente, or s'avvivava di gorgheggi saltellanti e liquidi.

Melchiorre sollevò la testa per ascoltar meglio. Il suono, trasportato dalla brezza, oscillava, veniva ora sì, ora no, insinuandosi nel bosco, ricamando una striscia serpentina di melodia argentina sul fondo cupo del susurro degli elci. Pareva un rosignuolo, che circondasse il bosco con un cerchio di lamentosi gorgheggi. A intervalli, poi, quando lo scroscio del bosco era meno forte, qualche vibrazione di chitarra scendeva grave e lenta, come goccia d'oro, sull'ondulazione argentina del flauto.

Erano certo i signori del monte, che dopo il lauto pranzo suonavano e si divertivano: e Paska era forse fra loro. Melchiorre ardeva d'ira e d'odio.

— Io vado! — urlò fra sè: si sollevò, si sedette; ma guardò il viso del padre, lumeggiato dalla macchia di sole, e non s'alzò.

Ma non si calmò. Si rigettò per terra, bocconi, con le braccia aperte, figgendo le labbra sul fieno ripiegato, e gemette selvaggiamente, come belva legata. Restò cupo e taciturno tutto il resto della giornata: andava e veniva dalla capanna al bosco, cogliendo virgulti per il cavallo, arrampicandosi sugli alberi e le roccie. Dall'alto guardava sempre verso la chiesa, punto che fatalmente lo attirava; e nella diafana serenità pomeridiana gli giungeva ancora, traforandogli il cuore, qualche trillo di chitarra.

Col rosso tramonto un nuovo incanto dilagò intorno; gli alberi tacquero; dagli sfondi dell'occidente il cielo di corallo versò una miste riosa luce porpurea entro i colonnati del bosco, sulle roccie, sull'edera. E ogni cosa s'imporporò nel silenzio solenne dell'ora. Sul cielo il fuoco del tramonto giungeva sino all'oriente, smorzandosi in dense vaporosità rosee, fra cui le montagne s'elevavano pavonazze.

Zio Pietro stava seduto davanti alla capanna, e pregava. La sua preghiera, nella dolcezza del tramonto, pigliava la via della chiesetta, dove in quell'ora si diceva la novena. Zio Pietro ricordava le preghiere e i gosos dalla cadenza melanconica, recitati altre volte nella chiesetta, e rivedeva la porta spalancata verso il rosso occidente.

Segnoredda 'e su Monte — diceva fra sè, pregando — piccola Signora del Monte, fammi la grazia di venirti ancora a pregare nella tua chiesetta. Fammela questa grazia, Segnoredda, fammela. Basilio mi guiderà; vedrò… quella ragazza, e chissà che non possa dirle una parolina… Paska, ricordati del vecchio zio Pietro, che ha gli occhi chiusi: non tormentarlo oltre, figlia mia! Ave Maria, grazia piena, il Signore è teco…

A momenti, qualche tintinnìo di capra gli sembrava lo squillo del campanello della chiesetta: e vedeva sempre quello sfondo di porta, quel cielo color fragola velato di violetto; e sull'altare le fiammelle dei ceri, erette come foglie d'oro, con fragranza di ginepro arso.

— Paska, figlia di mio fratello, dove sei tu? Sei lì, inginocchiata? E preghi? Come puoi pregare, dopo tutto quello che ci fai soffrire? Ti ha veduto Melchiorre? No? E allora, perchè è così cupo? Ave Maria, grazia piena, il Signore è teco… Se domani potessi andare e vederla? Forse potrei accomodare ogni cosa. Cosa ne dici, vecchio Pietro? Nostra Signora del Monte, concedimi questa grazia, piccola rosa mia, piccolo giglio mio, concedimi questo miracolo! Ave Maria, grazia piena…

S'acquetò in questa speranza, pregando fervorosamente. Intanto udiva i tintinnii delle capre avvicinarsi, fondersi in un solo suono melanconico. La greggia tornava alla mandria. Melchiorre e Basilio venivano recando fasci di fronde che gettarono sulla siepe della mandria; poi chiusero i rozzi cancelli, e il mandriano entrò nella capanna per riaccendere il fuoco. Melchiorre si sdraiò vicino a zio Pietro.

Imbrunì: il fuoco dell'occidente si smorzò in luminosità violacee, su cui il bosco disegnava il suo frastaglio nero: qualche stella appariva come goccia di rugiada, sugli estremi rami. Le montagne ed il mare, ad oriente, svanivano già nel sogno cinereo della notte. Era una pace sovrana; eppure in quel silenzio profondo, in quella immobilità delle cose che il crepuscolo rendeva gigantesche, in quell'incipiente mistero della notte, spirava un senso vago di angoscia.

L'oscura linea del bosco pareva una nuvola saliente pel nitido occaso, mentre grigie vaporosità dilagavano ad oriente. E in quella immensità di crepuscolo, nel silenzio, nella solitudine, i pastori, la capanna, le bestie, sembravano ancor più piccoli, punti smarriti sotto i profili di sfinge delle roccie gigantesche, chiari all'ultima luce. Col cader della notte Melchiorre si fece ancor più cupo.

— Non ve ne stancate di pregare, voi? — chiese rudemente al padre, udendo il rumore delle pallottoline del rosario.

Zio Pietro finì di pregare, baciò la crocetta di metallo del rosario, si segnò con essa, si levò il berretto, e disse: — Dio sia lodato.

— Perchè lodato? — domandò la voce acre di Melchiorre.

— Per i beni che ci manda, per i mali che ci risparmia.

Dopo un po' di silenzio, Melchiorre proruppe:

— Vostra nipote è al Monte!

— Ci sei stato?

— E a che? A cavarle gli occhi? Me lo hanno detto.

— Anche a me.

— Anche a voi? E chi?

— Basilio.

— Basilio? E come le sa queste cose, quella faina? Basilio, Basilio, vieni fuori, piccola volpe: hai abbandonato il gregge, forse, per andar lassù? Bada che io non ti tronchi le gambe, un giorno o l'altro.

Basilio apparve sull'apertura illuminata della capanna, e rise maliziosamente.

— Che andare? Che andare? — disse — Se sono venute qui le serve, e le signore anche, e i signori, in cerca di latte! Non ce n'è, ho risposto. « E di chi è quest'ovile? » « Di Melchiorre Carta ». « Ebbene, allora faremo venire la cugina, a pigliar il latte ». » E perchè non è venuta oggi? » « Perchè è scesa a Nuoro e risalirà più tardi » hanno detto loro.

— Chi ha detto queste cose? Perchè non vengono quando ci sono io, che ce lo do io il latte? Che vengano, che vengano!… Che venga! — ruggì Melchiorre.

— Oh, non verrà, state tranquillo!

— Cosa ne sai tu, piccolo falco? Va e fa il fatto tuo; altrimenti ti faccio rider il riso sardonico! E non sapete, padre, — disse poi, rivolto al vecchio — mi dimenticavo dirvi le prodezze di questo qui. E non l'ho trovato con una capra legata, dalla quale cercava far suggere la lepre, per esperimentare la vostra storiella?

— Cattivi esperimenti! — disse zio Pietro.

Poi tacque, col viso sollevato. Melchiorre lo guardò; quel viso atteggiato a pace melanconica gli diceva in silenzio mille cose buone, che gli echeggiavano entro il cuore oppresso.

Ricordò d'avergli, durante la giornata, parlato sempre aspramente, e provò un impeto di pentimento, di pietosa tenerezza.

— Babbo, — domandò a un tratto, con voce mutata, non sapendo che altro dire — ma è proprio vera la storia della lepre? Ma guardate però che animo maligno ha Basilio, a voler fare certe cose!

— È ancora ragazzo — disse zio Pietro. Poi raccontò altre storielle, finchè si ritirarono nella capanna e andarono a dormire. Melchiorre pareva rasserenato; ma svegliatosi dopo breve sonno, zio Pietro s'accorse che il figlio s'era assentato. La stuoia era vuota; sul posto ove Melchiorre soleva coricarsi, zio Pietro palpò il corpo molle e attortigliato del gatto.

— È andato! — gridò fra sè, ed ebbe paura. — Basilio?

Ma questi dormiva il profondo sonno dei feliei, e zio Pietro lo dovette cercare e pungere col bastone, per farsi sentire.

— Chi mi tocca? Cosa volete?

— Dov'è andato Melchiorre?

— Ne so molto! È uscito, non c'è, o ci sarà; non lo so. Lasciatemi dormire.

Zio Pietro si sentì paurosamente solo.

S'alzò, si sedette sul limitare della capanna, e ascoltò. Sentiva con mirabile istinto che in quel momento Melchiorre lo dimenticava, trascinato fatalmente dalla passione.

Il mistero della notte era completo; il bosco fremeva nuovamente, col fragore di un invisibile torrente; un lento roteare d'acque fredde, scure, perdentesi in neve lontananze. Nessun altro rumore. Ora anche le roccie s'ergevano nere, aumentando la penosa sensazione dell'ombra. Nel cielo incolore, la Via lattea descriveva appena una traccia di candore vaporoso: ad oriente era un vuoto grigio, triste, infinito; e sulle montagne smarrite in quel vuoto, brillava un fuoco. Un fuoco vermiglio e lanciato, che sembrava un fiore di melagrano.

Altri lavoratori erano lassù, dissodando la montagna; e la luce dei lentischi incendiati mandava un saluto ai solitari pastori dell'Orthobene.

Ma zio Pietro non vedeva nè la Via lattea, nè il segno di vita dei lontani fratelli. Nella sua tenebra profonda udiva solo la voce, il lamento di solitudine e d'abbandono del bosco, e gli sembrava d'esser circondato da un freddo gorgo d'acque nere.

Intorno, dalle roccie, dal bosco, dalle cose che non vedeva, sentiva il mostro impalpabile dell'oscurità tendere una rete immensa, e migliaia di tentacoli, minaccianti areani pericoli. L'angoscia della solitudine lo opprimeva: pensava puerilmente che Melchiorre non sarebbe tornato mai più, che Basilio lo avrebbe abbandonato, che egli sarebbe rimasto solo su quel limitare, davanti al buio eterno.

Gli sembrò di piombare nella deserta profondità di un mare freddo e oscuro; ed aveva due grandi occhi spalancati, ma con essi non vedeva che una immensità vuota e nera, solo in quella sua notte eterna, più angosciosa della morte stessa.

Melchiorre attraversò a passi rapidi ed agili la radura, e si fermò vicino al sentiero che mena alla chiesa, dietro un tronco d'elce biforcato, che lo nascondeva tutto, e tutto gli lasciava scorgere sul davanti.

Un gran fuoco illuminava il bosco: quasi tutti i novenanti stavano là attorno raccolti. Un cagnolino nero, confuso nell'ombra, ma con un collare di ottone scintillante al riflesso del fuoco, abbaiò dietro Melchiorre, facendo atto di slanciarglisi ai piedi, senza osarlo.

Egli si volse; disse piano piano, con disprezzo: — Aspetta, marrano! — e incitandolo accennò a corrergli sopra, senza avanzare. La bestiola scappò: una voce nasale, dominando il frastuono della scena, gridò:

— Te', Leone!

— Leone! — esclamò fra sè Melchiorre, vedendo il cagnolino correr verso quella voce: — Te'! — E raschiò e sputò al di là del tronco, sporgendosi meglio nella biforcatura. Nessuno però s'accorse di lui, nè della sprezzante sfida ch'egli gittava dietro il pauroso cagnolino, davanti a tutta quell'allegra gente.

Dall'ombra egli vedeva una grandiosa scena, un fantastico quadro di chiaro-oscuri rossi, disegnato sul nerissimo fondo della notte. Il gran fuoco di tronchi e rami crepitanti, le cui fronde non ancor incendiate avevano già tutte le foglie fantasticamente cangiate in brage, mandava in alto lunghe fiamme rosse, illuminando a sprazzi la parte inferiore degli alberi e gli scorci di figure aggruppate qua e là, per terra, sulle pietre, a ridosso dei tronchi.

Il bosco pareva una fantastica e mostruosa costruzione sorretta da nodose colonne, i cui intercolunni, le cui vôlte e i cui sfondi si perdevano in un vuoto oscuro. Nel rosso circolo della luce della fiamma passavano correndo e traendosi dietro le loro lunghe ombre, ragazzi che attizzavano il fuoco con bastoni e rami.

Melchiorre riconobbe il fanciullo delle cavallette, che emetteva stridi acuti trascinando un ramo le cui fronde lasciavano intorno al fuoco una traccia di terreno spazzato. Risate allegre e piene, cantilene, voci, grida, salivano col rosso splendor della fiamma, perdendosi com'esso nel fondo nero del bosco.

Sulle prime Melchiorre parve sviato dal suo scopo, attratto dal curioso spettacolo, di cui le immagini e i suoni gli davano un gusto quasi fanciullesco. Il leggero vento che passava stormendo fra gli alberi gli batteva alle spalle, mentre al viso gli giungeva il calore del fuoco.

Varie signore, col capo avvolto in fazzoletti di seta o in iscialletti di lana, sedevano sopra un tronco rovesciato: alcune ridevano, coi denti scintillanti: una, con le gambe accavalcate e le mani strette intorno al ginocchio, sonnecchiava abbassando e rialzando la testa; un'altra sognava per civetteria, col viso all'insù e la gola illuminata dal fuoco. Sedevano per terra, e su pietre, e addossate ai tronchi, paesane con bimbi in grembo; e uomini, taluni sdraiati a pancia a terra, col volto eretto e il mento fortemente appoggiato alle mani intrecciate. Alcuni monelli stavano appollaiati sui primi rami o sulle biforcature degli alberi, con le ignude gambe penzoloni. Ritto, accanto al fuoco, un giovanotto accordava un flauto alla cui canna la fiamma dava lampeggiamenti scarlatti che si riverberavano sulle mascelle gontie e sulle mani del suonatore; il quale, con gli occhi convessi sullo strumento, dondolando tutta la persona per dar più forza al suo alito, parea dimentico della folla che lo circondava, egoisticamente assorto nel suo seccante esercizio.

Dopo aver fissato il bimbo delle cavallette e il ramo che spazzava il terreno intorno al falò, Melchiorre mise attenzione agli striduli accordi del flauto, seguendo con gli occhi i movimenti delle mani rosse del suonatore. E provando uno sprezzante impulso d'irosa pietà per costui, ricordava la melodia lontana udita al meriggio, e l'impressione di gelosia che ne aveva provata. Era costui che allora suonava? Questo giovanotto basso e scarno, dai capelli così rasi che lasciavano scorger la cute del cranio, e rendevano enormi due rosse orecchie rialzate, e dallo scarso pizzetto rosso, irto sul mento sporgente? E costui, col ridicolo gonfiar delle scarne guancie, era stato capace di attoscargli il cuore per tutta la sera?

Improvvisamente Melchiorre smarrì l'ingenua impressione di curiosità che quel quadro notturno gli aveva destato. — Dov'è Paska? — ruggì il suo cuore. E gli occhi s'accesero, correndo, saltando dall'una all'altra delle paesane sedute per terra o sulle pietre, salendo e investigando sin le figure debolmente illuminate, che stavano silenziosamente assise sulle panchine addossate al muro della chiesa.

Paska non si vedeva; o almeno egli non potè scorgerla: e ne provò sollievo, ma non si mosse.

— Efisio — gridò la voce nasale che avea chiamato il cagnolino — finiscila con quel ramo, e gettalo sul fuoco.

Il bambino continuò a correre, e per giunta il cagnolino andò dietro il ramo, abbaiando.

— Che polvere! lamentò una signorina.

— Efisiooo! Leoneee! — La voce nasale strillò così minacciosa che il cagnolino scomparve con la codina fra le zampe, e il bimbo si fermò.

I monelli appollaiati sui rami cominciarono a fischiare e sputare dall'alto.

— Figli d'un capricorno, finitela! — gridò il suonatore di flauto, scuotendosi dal suo sogno artistico perchè sentiva qualche cosa d'umido sul collo. E minacciava col flauto lucente, col volto in su e una mano sul collo.

— Finiscila tu, corno di capra!…

Grandi risate echeggiarono: la signora che sonnecchiava si svegliò.

— Efisio, getta quel ramo sul fuoco!

Il bimbo obbedi con grave sforzo: la fiamma s'abbassò tosto, divampando poscia più alta, più crepitante e sfavillante. Insultati, e percossi con pietruzze dal basso, i monelli fischiavano e sputavano con maggior insolenza.

La questione si faceva seria perchè ci s'immischiavano anche le paesane, gridando vituperi e imprecando col viso rivolto in su!

— Al diavolo che vi ha tirato là sopra! Vuoi finirla, mendicante?

— Mendicante sei tu!

— Pieno di pidocchi…

— Pieno di pidocchi sei tu!

— La questione viene spostata! — gridò la voce nasale. — Vediamo se si può finirla altrimenti.

Melchiorre vide un grosso uomo giallo e calvo, con formidabile barba nera, ergersi gigantesco e minaccioso.

— La finisca lei, prima di tutto! — disse volgendosi al suonatore. — Faccia un po' il piacere! È seccante!

E il giovinotto tacque; ma i monelli proseguirono a fischiare, gridando, imitando la voce nasale del grosso signore, e scuotendo le zampe come animali selvaggi.

Paska non si scorgeva: che fosse scesa a Nuoro anche quella sera?

Melchiorre cominciò a seccarsi, provando un caustico senso di disprezzo verso tutta quella gente che passava così scioccamente il tempo. Calmato dall'assenza di Paska, pensava di andarsene, quando la scena cangiossi come per effetto teatrale. Una signorina aveva fra le mani rosee e nervose un fazzoletto che andava piegando e ripiegando e avvolgendo strettamente. A un tratto, gridando: — È arrivato un bastimento carico di… — lo lanciò sul naso di un giovinotto che, assorto e silenzioso, fumava una pipetta di creta. Nel ricever il molle proiettile egli trasalì comicamente, destando grandi scoppi di riso, ma ebbe la prontezza di spirito di lanciarlo a sua volta sulla gola della signorina che sognava.

— Di impertinenti! — rispose. — È arrivato un bastimento carico di…

La sognatrice si scosse, raccolse il fazzoletto e non seppe subito rispondere: ma il gioco banale era cominciato, e il fazzoletto continuò a volare da un punto all'altro, destando risate e malumori per la difficoltà dei carichi in I.

Tranne un gruppo d'uomini che parlavano di politica esprimendo idee repubblicane molto spinte, tutti gli altri presero parte al gioco; anche i monelli si gettavano manate di foglie gridando arrivi di bastimenti carichi di libere impertinenze.

— Impossibile! — gridò il signore dalla voce nasale, raccogliendo con le mani sul petto il fazzoletto. — Io sono fuori di gioco.

— Penitenza! Penitenza!

— Cambiamo la lettera. Con l'I non si trovano vocaboli adatti.

— Cambiamo un corno! — Se cominciamo con le m o coi vostri caffè e cioccolatte…

— E corni appunto!… — gridò un monello.

— Che gusto c'è?

— Crispi? Ma io l'avrei lasciato al potere, ma io sarei il primo a rimettervelo… poichè tanto, prima o dopo, egli vi ritornerà per compiere la profezia di Mazzini…

— È quanto vogliamo…

— Cavallotti…

— Grispis? — pensava Melchiorre — quello che ha aumentato le imposte? Un giorno o l'altro c'è qualche sardo che va a Roma e lo ammazza con la falce.

— Penitenza! Penitenza! Mi dia quell'anellino che ha, lei.

— Chi'io possa un giorno darglielo ai piedi dell'altare! — disse galantemente il giovine suonatore, traendosi con due dita l'anello repubblicano, fatto da un chiodo, e mettendolo sulla palma della rosea mano aperta verso di lui.

— Cambiamo questo stupido I — si propose ancora. — Mettiamo il P.

— Pulcini, pulcini! — insolentirono i monelli.

— Porchetti…

— Pidocchi…

— Pasque! Pasqueee! Viva! Viva! Arrivato un bastimento carico di Pasque! Viva Pasqua, viva!…

Melchiorre lasciò la politica e sollevò gli occhi ardenti. Paska era finalmente apparsa, e ritta davanti al fuoco, piccola e snella, con le maniche della candidissima camicia rimboccate e le cocche del fazzoletto nero rigettate sulla sommità del capo, cercava con gli occhi un posto ove sedersi.

— Vieni qui, vieni qui, agnella mia — la invitò il suonatore. — Vieni e siediti al mio fianco.

— Al suo fianco il coltello! — ella rispose; ma la sua voce era così sonoramente dolce, il suo riso tanto allegro, che Melchiorre sentì lui il fianco punto da un segreto coltello; e si portò il pugno alle labbra in atto di mordere. Pensò:

— Cosa mi tiene, cosa mi tiene, fraschetta, anima maledetta, che hai il miele in bocca e in cuore un serpente!…

Ella guardava sempre in giro, leziosamente, posando, sapendosi fissata e ammirata sebbene con poca venerazione.

Il ciuffo dei suoi lucidi capelli castanei, signorilmente rialzato sulla breve fronte bianca che splendeva come avorio, aveva riflessi di rame dorato; c riverberi azzurrini sfioravano il petto della camicia dalle pieghe inamidate e sapientemente disposte.

Quando ebbe scelto il posto, attraversò, con baldanza di giovine gazzella dai fianchi elegantissimi, tutto lo spazio arso dalla viva luce della fiamma, e si pose in vista, balzando felinamente sopra uno sporgimento di roccia. Di là dominò la scena col fulgore dei suoi limpidi occhi castanei dalle lunghe ciglia. Le fu subito gittato il fazzoletto sul seno, e un giovine trascinatosi ai suoi piedi si sdraiò supino e cominciò a stuzzicarla con un bastoncino.

— Stia secco, lei — gli disse ella, raccogliendosi le sottane intorno alle gambe; e gli scaraventò il fazzoletto sul volto.

— Penitenza! — urlaronò d'ogni parte.

— Io non gioco! Non è vero che non gioco, padrone? — gridò Paska.

— No, tu fai davvero! — rispose la voce nasale.

— È colui il suo padrone? — disse fra sè Melchiorre: e capi subito l'istintiva antipatia che il fanciullo delle cavallette, il cagnolino e la voce nasale gli avevano destato.

— No, ella non gioca; ella fa davvero! — ripetè fra sè amaramente.

Egli perdeva già il bene dell'intelletto; le orecchie gli tinnivano e ardevano come se tutta la fiamma e il calore del fuoco gli serpeggiassero entro la testa.

— Dov'è il falco? — domandò Efisio, aggrappandosi alle gambe di Paska, col visino sollevato.

— Non lo so: va e cercalo! — ella rispose con impertinenza; ma lo rattenne presso di sè per salvarsi dai proiettili che dall'alto i monelli, e dal basso i giovinotti, le lanciavano.

Il gioco proseguì. Quando press'a poco tutti, compresa lei, ebbero dato un pegno, si formò il comitato per le penitenze: ella vi prese parte per l'alta protezione del suonatore di flauto.

— Sto bene qui, non mi muovo! Vengano qui se mi vogliono! — disse.

E siccome ella stava in disparte, il comitato le si avvicinò, circondandola un po' troppo strettamente.

Ella rideva, emettendo piccoli stridi di gazza: Melchiorre vedeva le paesane curvar l'una su l'altra le teste, mormorando e ridendo fra loro, certo trovando sconveniente il contegno di Paska; e fremeva e a momenti stringeva i pugni sino a conficcarsi le unghie sulle palme delle mani.

Furon lasciati in grembo a Paska i pegni del gioco, e le persone del comitato si disposero in fila.

— Di chi è questo pegno? — ella domandò, sollevando e sventolando un fazzolettino bianco cifrato in rosso.

— È mio — rispose una voce sottile.

— Vuol riaverlo?

— Sfido, se è mio!…

— Allora bisogna che ella si alzi e vada a dar un bacio al mio padrone.

— Quello puoi farlo tu!

— Brava, bravaaa! — gridarono molte voci; e tutti risero sguaiatamente.

— Bravissima! — pensò anche Melchiorre, ma la sua collera crebbe.

— Se me lo impongono, lo faccio! — rispose Paska arditamente.

— Ma fatelo tutte; si può far benissimo! — esclamò la voce nasale.

— Per penitenza! — rispose il suonatore.

— Qui e'è troppo spirito; via, finiamola! — disse una signora, seccata che si desse tanta attenzione ad una serva. — Non usciamo dai limiti dell'educazione.

— Cominci lei! — rispose una voce.

Gli animi s'inasprirono; ma il comitato si riunì di nuovo, e chi più chi meno volentieri tutti eseguirono delle stupide penitenze.

Al suonatore toccò ballare con la scopa, e se la cavò comicamente, covando stizza sotto apparente disinvoltura; gli venne restituito il flauto, ed ei credeva finita la sua parte, quando Paska gridò:

— Di chi è questa pera? — e agitava in alto, tenendola con due dita per il corto gambo, una magnifica pera d'un verde-cereo lucente.

— Diavolo! — esclamò il suonatore, battendo le mani sulle tasche della giacchetta. — Quella è mia! Me l'avete rubata!

— Come? Ella va con provviste in saccoccia? Ma è cosi mangione? Che altro ci ha ancora? Altre frutta? Pane? Formaggio? Fa vedere?… Con tutta la sua idealità!…

— È mia! È mia! Non è vero che è sua! Dalla a me, Paska Carta, dalla a me — gridavano i monelli.

Il giovinotto arrossì, poi volle starci per puntiglio, e per riaver la pera s'assoggettò alla penitenza della lettera.

Fu fatto stupidamente inginocchiare, e un giovine lungo, scarno, in maniche di camicia nonostante il fresco della notte, gli scrisse sulle spalle varie righe insultanti, per virgole e punti somministrandogli pugni sonori.

— Se ci arrivassi io! — pensò Melchiorre. — Ma perchè colui si lascia picchiare? Ed è di colui che quella sciocca è innamorata? Ma non è meglio il mio caprone, non è meglio di colui? E le mie capre non hanno più serietà di tutta questa torma di matti?

— La pera sia restituita al padrone — sentenziò Paska, quando il giovine si sollevò scuotendo le spalle indolenzite.

Ma la pera se l'erano divisa e mangiata due ragazze del comitato, e fra grandi sghignazzamenti furono restituiti al giovane solo gli avanzi.

Egli parve accogliere tutto con disinvolta indifferenza, ma un'ombra gli attraversò gli occhi, e nonostante le proteste, riprese a suonare il flauto con incessante crudeltà.

— Di chi è questo ditale?

Un ditale d'alluminio scintillò infilato nel mignolo del giovine in maniche di camicia.

— È il mio! — disse Paska, guardandolo.

— È il mio! — pensò Melchiorre, riconoscendo con tristezza l'ultimo suo affettuoso regaluccio alla fanciulla. E ricominciò ad adirarsi, oppresso dai ricordi, umiliato dal veder il suo dono fra le mani di coloro che lo rendevano infelice.

— Se vuoi riaverlo, Paska di rose, raccontaci una novella.

— Una novella? Quale? — diss'ella, come fra sè, sollevando le braccia per accomodarsi il fazzoletto: in quell'atto il suo svelto busto apparve stupendamente modellato dalla camicia e dal corsetto di velluto rosso, e Melchiorre, alle altre sensazioni che lo urgevano, sentì mescersi lo struggente desiderio di ricingere quel flessuoso corpo che tante volte aveva abbracciato col sereno trasporto del fidanzato.

Chi ora li divideva? Chi gl'impediva di saltare al di là del tronco e correre e sentir ancora, col dolce abbandono antico, il lieto cuore di Paska palpitar contro il suo, e la fresca bocca di lei rider contro le sue labbra? Chi li aveva divisi? Quella gente ridicola e sciocca che aggiravasi intorno al fuoco come farfalle notturne attorno al lume! Egli si sentiva la forza e il coraggio di passare attraverso coloro, urtandoli, spingendoli, gettandoli sulla fiamma; e farne un fuoco alto alla cui luce restar soli egli e Paska, alla quale rivolgersi urlando: « E ora? »

— Racconta la storia della gallina, — disse Efisio, tirando le sottane di Pasqua.

— No, quella del gallo — gridaron i monelli — che non aveva fatto l'uovo…

— Quella della gallina che aveva fatto l'uovo…

— No, quella del gallo.

— Chicchirichi…

— No — disse Paska dominando il chiasso con la sua bella voce sonora — racconterò lo storia del magro (voleva dire del mago).

— No, quella del grasso, quella del grasso! — Si ricominciò a ridere, a fischiare. Un ragazzo batteva una fronda sul fuoco e la fiamma percossa si divideva, sollevandosi ed abbassandosi, rossa sanguinante.

La scena cangiavasi in tregenda: le figure apparivano e sparivano fra sprazzi di luce sanguigna, e i portici e gl'intercolunni del bosco si sprofondavano in antri misteriosamente neri e infiniti.

Paska cominciò la fiaba:

— Dicono che una volta c'era un ragazzo chiamato…

— Antoneddu… — disse la caustica voce del padrone.

— No, non così, ma…

— Mel… chi… or… reee…? — gridò una voce vibrante, in quattro note spezzate che parvero battute di chitarra.

Melchiorre vibrò assieme alla voce che pronunziava il suo nome. Chi lo pronunziava? Chi lo derideva? Chi lo profanava? Nessuna delle figure ritte.

La voce era salita dal suolo, da uno degli uomini sdraiati, di cui non distinguevasi il volto.

— Ebbe'? Si, Melchiorre! — disse Paska con occhi sfidanti. — Esso…

— Questo è troppo! — gridò fra sè il pastore, vedendo la luce del fuoco sempre più sanguinante.

— Esso un giorno andò a portare legna dal monte…

— Oh come? Non era pastore? — chiese la voce vibrante.

— Ma che pastore d'Egitto! Era un ragazzo, un contadino. E incontrò zia Orca. Dunque, quando incontrò zia Orca il ragazzo si spaventò…

— Sfido io!

— Com'era fatta l'Orca? — domandò sommessamente Efisio, che ascoltava stringendosi alle gambe della ragazza. — Denti ne portava?

— Altro che denti! Aveva spiedi per denti, e le ciglia cosi lunghe che se le rialzava con due stanghe…

— Povero Melchiorre! — disse la voce di chitarra.

— Il cuore mi dice che in questa storia ci entrano delle chiavi — disse la voce nasale.

Il flauto suonava sempre, acutamente.

— « Dove vai, agnellino mio? » domandò zia Orea. « Se vieni con me e mi vendi questa legna, ti dò un canestro pieno di pane che per quanto ne togli resta sempre pieno ». Il ragazzo, che aveva sempre fame, si lasciò tentare e le andò dietro, curvo sotto il fascio di legna. Zia Orca trottava avanti, spazzando il terreno con le ciglia… Finiscila tu con questa fronda, che il diavolo ti metta ad affumigare; non vedi che mi viene tutto il fumo agli occhi? — gridò Paska, chiudendo gli occhi e torcendo il viso.

— Il fumo va verso le belle e le giuste… — disse il padrone

— Giuste… in linea al fumo! — osservò la voce di chitarra.

E il flauto suonava sempre una nota acuta e lamentosa che saliva, saliva fra gli alberi oscuri, sperdendosi in alto, nel vuoto fresco e infinito del cielo nero.

Melchiorre non pensava più: ascoltava, guardava intensamente, sospeso in una contemplazione indicibilmente angosciosa.

Qualcuno afferrò il ragazzo che batteva la fronda sul fuoco e lo spinse lontano: la fiamma si riunì, corta e violacea, e il fumo salì dritto, in densa spira bigia, che sparpagliavasi in alto, al vento, smarrendosi col fruscìo degli alberi e col suono del flauto.

Paska riprese la puerile storia.

— Dunque zia Orea trottava avanti, spazzando il terreno con le ciglia. E andando e andando dicono che arrivò a casa sua: prese il ragazzo e lo chiuse entro una cassa. Lo voleva ingrassare per poi mangiarselo; ma lui ogni giorno, quando l'Orca gli diceva di mostrare il mignolo per un bucherellino, mostrava la coda d'un topo che aveva trovato entro la cassa.

— Ma… e come mangiava? — domandò piano piano Efisio, tirando la sottana di Paska. — E l'Orca non poteva vederlo quando apriva la cassa?

— Lasciami stare, non lo so! Dunque, quando mostrava la coda del topo, dicono che zia Orca, vedendo che non ingrassava mai, lo cavò fuori dalla cassa e lo mise a fare il servo. Dicono che gli consegnò cento e una chiave…

Il padrone cominciò a ridere di un riso nasale rumoroso che pareva la vibrazione d'un tamburo di rame.

— L'ho detto io che c'entravano chiavi…

— La finisca lei, signor padrore! Dunque gli consegnò cento e una chiave, e gli disse: « Vedi queste cento e una chiave? Apri tutte le porte che s'aprono con queste cento chiavi, ma guai se apri quella che s'apre con… ».

— Quella cento e una! Che cosa s'apriva con quella cento e una? — gridarono da ogni parte, e ricominciarono a fischiare, a ridere, e dire impertinenze e peggio. — Oh, povero Melchiorre… povero disgraziato!

Melchiorre socchiuse gli occhi per fissar meglio Paska, e gli parve vederla arrossire, forse perchè arrossiva lui. E sentì la gola stretta da un'ira feroce contro coloro che, credendolo lontano, vigliaccamente lo sbeffeggiavano, e contro Paska che tanto permetteva.

— Non la finisci la tua stupida storia? — gemè fra sè. — Te la farò finir io stanotte, scimmia, rana, vipera!

— ….. Dunque dicono che il ragazzo pigliò le chiavi, e non apriva mai quella porta. Però pensava sempre a quello che doveva esserci là dentro, e di giorno in giorno cresceva la sua curiosità. Un giorno non seppe resistere e aprì; ma fuggì via inorridito perchè vide la camera piena di cristiani rosicchiati dall'Orca. In fondo c'era un diavoletto che pestava le ossa entro un mortaio di pietra…

— Diavolo! — disse il giovine in maniche di camicia — Le utilizzavano anche!

— L'avranno poi venduta, questa polvere, per mischiarla allo zucchero e alla farina dei maccheroni…

Il piccolo Efisio aprì le labbra, ma non potè parlare: era non meno inorridito del giovine servo dell'Orca; e fece tesoro della osservazione sull'utilità delle ossa di cristiani pestate.

Il flauto suonava sempre.

— …Dunque, quando il ragazzo fuggi inorridito, il diavoletto fece la spia a zia Orca, dicendole come il servetto era entrato nella stanza. Zia Orca allora prese il ragazzo e voleva ucciderlo; poi lo lasciò vivo a questo patto: che ogni notte le cuocesse per cena un cristiano. E come fare? Il ragazzo…

— Ma come lo voleva? Allo spiedo, lesso o al tegame, Paska, o Paska?

— Cotto, cotto; semplicemente cotto come lei — ella gridò, destando nuove risate. — Il ragazzo non sapeva come fare. Pensatelo voi! Far ogni notte la cena con un cristiano, dopo averlo anche ammazzato, non è cosa molto facile, tanto più per un ragazzo. Zia Orca se ne andò fuori dicendo: « Guai se non trovo la cena fatta! » E l'altro a piangere, a piangere. Veniva la notte, intanto, le stelle spuntavano…

— Cosa c'entrano le stelle?

— Ma proprio! Cosa c'entrano le stelle quando viene la notte? — diss'ella, ironica.

— Un pizzico di poesia…

— Che c'entra come un pizzico di quella polvere nei maccheroni…

— …Il cielo sembrava un vaglio, cosi tutto bucherellato di stelle…

— Originalissimo paragone…

— …Infine era notte, e il ragazzo non sapeva come fare. Quando si sente un rumore.

— Sarà stato il rumore del mortaio.

— …No, era un uomo che passava cantando. Cosa fa il ragazzo? Prende una stanga e s'appiatta dietro un albero.

Qui Paska fece pausa, quasi per indicare l'ansiosa attesa del ragazzo appiattato: s'udiva intorno solo l'incessante suono del flauto, per cui l'ironica voce nasale domandò:

— Ma dimmi un po', Paska, il mal capitatoche passava, cantava o suonava? Suonava, vero?

— Sì, suonava. Suonava il flauto! — rispose la voce di chitarra; e ridendo e vibrando gridò:

Sta attento dietro l'albero, Melchiorreee!

Melchiorre si tirò istintivamente indietro: tutti i suoi nervi vibravano, pronti a spezzarsi.

Crudelmente impassibile il suonatore raddoppiò le note acute, che si slanciavano su come razzi di cristallo.

— …Dunque, quando l'uomo passò, il ragazzo balzò fuori, e gli ruppe la stanga sulla testa. L'altro cadde a terra morto…

— Bel colpo!

— Non c'è male, per un ragazzo a quell'età! Ma già, abitando con chi abitava…

— …L'altro cessò di cantare…

— Sfido! Anche un suonatore avrebbe smesso di suonare!

— …Cessò di cantare. Allora il ragazzo tutt'allegro…

— Bell'allegria! Si vede che zia Orca gli dava una squisita educazione!

— Da delinquente! Che ne dice, cavaliere?

— …Tutt'allegro lo cominciò a tirare, a tirare… — proseguì Paska, stringendo i denti e facendo atto di chi con grave sforzo trascina un peso.

Col bianco visino spaurito, Efisio, sempre aggrappato alle sottane di lei, ne seguiva con gli occhi spalancati tutti i movimenti delle mani e della bocca: gli parve realmente vedere il ragazzo trascinare l'uomo morto per metterlo in padella, e il suo terrore crebbe.

Anche il cagnolino, posato colle zampine anteriori tese in avanti, sollevava la testa fissando su Paska gli occhietti rossastri entro cui il riflesso del fuoco accendeva una favilla d'oro.

— …Dunque, tira che ti tiro, il ragazzo riuscì a trascinare dentro l'uomo che cantava…

— Cioè, che non cantava più.

— …Accese il fuoco, mise un gran paiuolo d'acqua e gettò dentro l'uomo morto…

— Con le vesti e con tutto, vero?

— E anche le scarpe?

— Bel brodo doveva riuscire…

— Non aveva bisogno d'altro condimento!

— …Quando zia Orca tornò, trovò la cena pronta. Mangiò tutta contenta, poi andarono a letto. Ma ecco nel più bello dun dun alla porta.

« — Chi è?

« — Il Re!

« Era la Giustizia che veniva con la moglie dell'uomo morto per vedere se era stata l'Orca ad ammazzarlo. L'Orca prese gli avanzi della cena…

— Forse le scarpe cotte, ma non abbastanza per esser masticate, vero?

— … Gli avanzi della cena e li gettò in un profondo pozzo nero: poi gettò li un caprone. Poi aprì la porta. Entrò tutta la Giustizia e la donna che piangeva e si tirava i capelli. Guardarono dappertutto, e non trovando nulla…

— E le cento e una stanza? Perchè la perquisizione non fu regolare?

— Forse l'Orca aveva protettori fra i giustizieri: anche allora la Giustizia non funzionava molto bene…

— Per i farabutti! — disse la voce nasale, con mal celato dispetto.

— Già, c'è lei; scusi, cavaliere!

— Prego! — rispose l'altro, ironico.

— … Basta, non trovando nulla stavano per andarsene, quando la donna, uscita nel cortile, gridò: « E questo pozzo? In questo pozzo guardate ». « È vero », disse. il pretore: e comandò ai soldati di scendere nel pozzo, ma nessuno obbedì.

— Lo dicevo io che si funzionava male!

— … Allora presero il ragazzo, gli legarono una corda e lo costrinsero a scendere nel pozzo. Quando fu sceso gli gridarono: « Che c'è? » Egli rispose: « Un cadavere! » La donna allora cominciò a piangere, a piangere, a strapparsi i capelli e le vesti, e a urlare. Ne aveva ben ragione, poveretta. Allora il pretore gridò al ragazzo di dire i connotati della vittima; e il ragazzo gridò alla donna:

« — Tuo marito quanti occhi portava?

« — Mio marito portava due occhi.

« — Anche questo ne porta due. Tuo marito quante orecchie portava?

« — Mio marito portava due orecchie.

« — Anche questo ne porta due. Tuo marito quanti nasi portava?

« — Mio marito portava un naso.

« — Anche questo ne porta uno. Tuo marito quanti piedi portava?

« — Mio marito portava due piedi.

« — E questo ne porta quattro! Tuo marito vello portava?

« — Mio marito vello non ne portava.

« — E questo porta vello! Tuo marito corna portava?

« Tutta la Giustizia cominciò a ridere, a ridere: il pretore si gettò pancia a terra per non scoppiare ».

Anche gli ascoltatori della graziosa narratrice fecero eco alle risate delle poco serie e poco accorte Autorità della storiella. I monelli ora ascoltavano attenti, sporgendo i visi rossi fra i rami oscuri. All'improvviso scoppio di riso degli astanti, il cagnolino abbaiò, muovendo qua e là la testina; ed Efisio ebbe un pallido sorriso sul visino smorto.

Solo il suonatore rimase impassibile, e le note del suo strumento, ora un po' stanche, ma taglienti, continuarono a salire come lame sottili e chiare sul vuoto cielo.

Paska riprese:

« — … Mio marito corna non ne portava! » cominciò a gridar la donna, imprecando e battendosi i pugni sul volto. « Mio marito non ne portava corna: tu le avrai, non mio marito, le avrai tu…

« — E questo porta corna… ».

Le risate raddoppiarono: la voce di chitarra disse:

— Sfacciato quel Melchiorre!

— Povero Melchiorre! Che stupido!

— Paska di rose, cavalo fuori dal pozzo…

Paska e rosas, affogalo, se lo merita…

Ella capì le allusioni, e ridendo e gettando un po' indietro la testa in modo che si scorse la bianca gola gonfiata dal .riso, disse sfacciatamente:

— L'ho già affogato!

Melchiorre perdè il lume della ragione: gli parve saltare al di là del tronco; di piombare con una mano sul fuoco e di rilevarla scottante, scuotendola. Aveva schiaffeggiato a sangue la bella Paska: aveva percorso lo spazio che li divideva e le era stato addosso prima che alcuno degli astanti si fosse mosso.

Ella si portò le mani al viso, alla testa, tirandosi indietro, gridando: « Aiuto! Aiuto! », e il bambino anzichè abbandonarla, parve volerla difendere, tenendo le braccia in alto, aggrappandosele meglio.

Melchiorre si vide circondato da volti adirati, e sentì sulle spalle grossi pugni che risuonavano sul duro cuoio della giacca.

— Vigliacco!… Miserabile!…

— Bestia!

— Infame!

Paska si mise a piangere di dolore e terrore: il bambino pianse anch'esso, con singulti striduli; il cagnolino saltellò, abbaiando ferocemente, facendo atto di slanciarsi nella mischia, senza osarlo.

— Vigliacchi siete voi! — gridò Melchiorre con voce rauca, divincolandosi. — Lasciatemi andare, altrimenti stanotte finite male il divertimento.

— Mascalzone! — Un poderoso pugno gli cadde come una pietra sulla nuca. Egli si divincolò, furioso, con gli occhi splendenti, e, di nuovo, con slancio felino fu sopra a Paska; la schiaffeggiò ancora, potentemente, sentendo sul dorso della mano il morbido ardore delle guancie di lei. Poi ebbe nuovamente l'impressione d'un salto rapido, largo, e si trovò fra le pietre della spianata. La sua persona vibrava tutta, le orecchie gli ardevano, le labbra frementi pronunziavano vituperi ed imprecazioni. Provava uno spasimo senza nome: avrebbe voluto gittarsi per terra, morder le pietre, sbatter la fronte al suolo, spaccarsela e morire.

Nella grande oscurità che lo circondava, distinse ancora il lontano barlume del fuoco e la massa nera del bosco, lo strillo del bimbo, l'abbaiare del cagnolino e il singulto spezzato di Paska. Ma il flauto maledetto, il cui suono tanto l'aveva e da vicino e da lontano irritato, non s'udiva più fra il monotono susurro del vento che ogni altro rumore dominava.

Come una grande sfera di corallo sanguigno, il sole sorgeva dal mare lontano quando squillò il campanello della messa. Gran silenzio al di fuori. Gli alberi tacevano nella nitida frescura del mattino, sotto la chiarità del purissimo cielo: qualche donna vagava qua e là, assonnata e silenziosa, e nelle capannuccie di frasche odoranti, le caffettiere gorgogliando saltellavano sulle brage.

Risuonò il secondo squillo di campanello, piccolo nitrito metallico, imperioso, che vibrò fuor della chiesa, per le porte spalancate, e si spense fra gli alberi. Il sole pendeva ancora sul mare, rasentandolo, incendiandolo con vivida luminosità d'ambra.

Le porticine delle stanze (cumbessias) addossate alla chiesa si spalancarono, e nel vano apparvero figure assonnate di bimbi, ragazzi e giovanotti.

Al terzo squillo di campanello quasi tutti entrarono in chiesa; di nuovo un gran silenzio aleggiò al di fuori, fra gli alberi dalle cime spruzzate dai soavi riverberi del sole senza raggi, c sulla spianata ove le pietre scintillavano.

Zio Pietro venna di là, uscendo dal bosco umido e brillante, scendendo dalle roccie come una Deità montana, cieca e forte come le pietre, solenne e mite come gli elci eretti al puro cielo del mattino. Aveva lasciato il berretto di volpe: il cerchio nero della berretta sarda sulla nuca stringeva i capelli argentei. Lo guidava Basilio, che se lo traeva dietro trascinandolo un po', ridendo, curvando la testa in assidua ricerca di lembi di suolo meno pietrosi. Giunti a mezzo della spianata zio Pietro alzò il bastone, e tendendolo in avanti disse:

— Siamo vicini, vero? Ho sentito il campanello.

— Siamo vicini, ma io non ho sentito nulla. Ci avete buone orecchie, voi!

— Si vede nessuno?

— Si vede… si vede… — disse Basilio, sollevando la testa e guardando acutamente qua e là — si vede… un cagnolino nero. Oh, che bellino! Te' te' te'! — gridò poi scoccando le dita verso la bestiola che rispose abbaiando, dimenando la coda ritta, saltellando, ma non avanzandosi.

— Non ti ho chiesto se si vedono cagnolini neri; ti ho chiesto se si vedono cristiani.

— Nessuno, zio Pietro, nessuno!

Ma dopo qualche passo Basilio socchiuse gli occhi, rise fra sè, e disse con malizia che rasentava la malignità:

— Eh, eh, zio Prè, si vede Paska!…

Il vecchio ebbe un lieve tremore fra le sopracciglia; ma tosto si ricordò e disse severo:

— Bugiardo: tu non la conosci neppure. Bada che non son venuto per scherzare con te. Tira avanti, la sorte ti tiri.

— Non ho scherzato, zio Prè, m'è parso proprio di vederla. È piccola, non è vero? Ha il volto rosco lucente, gli' occhi neri lucenti, non è vero? E due grandi sopracciglia nere, non è vero? Era là, dietro quel cagnolino, e quando vi ha visto è scappata.

— Tira avanti. Non è vero! — gridò il vecchio, sentendo che Basilio mentiva. Intanto procedevano. Guardando il cagnolino, a cui volgeva continui atti di richiamo, Basilio non badava più al suolo: per cui il vecchio, sebbene tastasse il terreno col bastone, inciampava sovente.

— La messa è cominciata; non si sente più il campanello. Tira avanti, scimunito, e lascia stare quel cane. Non si vede nessuno?

— Neppure una gamba di cristiano vivo. Oh, come è bellino quel cane, ci ha un collare d'oro e una campanella. Sentite, zio Pietro… Drin, drin, drin, drin. Te', bellino, te' piccolo sorcio. Se fossi stato solo me lo avrei rubato.

— Bravo! E stiamo per entrare in chiesa!

— Che male c'è? L'averi messo con la lepre.

— Pare impossibile che tu sii così ragazzo!

— esclamò zio Pietro. Pure dopo un momento domandò: — Dove l'hai lasciata?

— Chi? la lepre? Oh — disse l'altro con fine sorriso, ricordando la bestiola nascosta nel cavo d'un elce — l'ho lasciata in un luogo dove nessuno, neppure le fate, possono trovarla. Lo so io solo.

— Dove, dove?

— Se ve lo dico, lo sapete voi pure, e qualche giorno me la rubate, ve la arrostite, e poi dite che è scappata.

— Non c'è pericolo? — esclamò zio Pietro tristemente. Intanto erano giunti, ed egli se n'accorse perchè, dopo una piccola salita, stendendo il bastone aveva toccato un muro, e le sue nari finissime sentivano l'odore del caffè bollente e l'umido profumo delle capannuccie di frasche.

— Il cagnolino ci vien dietro, ma non vuole avvicinarsi — disse Basilio volgendosi indietro. — Bau, bau, bau, drin, drin, drin. Perchè non ti avvicini, marrano? Vieni qui che ti faccio la festa. Datemi il bastone, zio Prè.

— E lascialo stare! — disse il vecchio seccato, tirando indietro il bastone. Siccome la bestiola, irritata dalle smorfie e dalle grida di Basilio, abbaiava forte, si precipitò fuori d'una porticina il piccolo Efisio, e mettendo la manina contro al sole guardò su e giù.

— Leone, qui, Leone!

— Leone, qui, Leone! — imitò Basilio beffardo. — È tuo quel cane, ragazzino?

— Sì, è mio, non è tuo! — gridò Efisio inviperito.

— Se alzi la voce, gli do tante bastonate che gli faccio cacciar le vïscere per gli occhi.

— Tu? E prova? Se chiamo papà!

— Ah, se chiami papà! — esclamò l'altro ridendo. E aggiunse una solenne insolenza sarda.

— E finiscila, finiscila! — ammoniva zio Pietro andando avanti.

Il bimbo mostrò la lingua rosea e Basilio gli fece le corna, e, non contento di ciò, appena ebbe introdotto il vecchio in chiesa, tornò fuori per proseguire il litigio.

Zio Pietro si trovò solo, inginocchiato per terra con una sola gamba, e il braccio sinistro appoggiato al sedile fabbricato, lungo la parete. La poca gente che assisteva alla messa si volse a guardarlo; egli lo sentì, e provò una tristezza, uno smarrimento, una commozione profonda. Il cuore gli battè forte, ma il volto roseo, sollevato verso l'altare, illuminato dalla luce della porta laterale, non s'alterò.

C'era Paska là dentro, nella grigia frescura della chiesa? Egli aveva sperato che ella, vedendolo, si sarebbe alzata per venirlo a toccare e salutare. Ignorava lo scandalo della notte prima, e veniva a insaputa di Melchiorre per visitare ancora una volta la Madonna, e poi anche per tentar di parlare con Paska.

Ella non venne. Forse non osava alzarsi, forse non c'era neppure. Il vecchio cuore riprese le regolari pulsazioni, il lento passo del suo buio e triste cammino, e il pensiero si sollevò tutto alla Piccola Signora, il cui roseo visino lucente pareva assorto nella luce argentina della porta del fondo, ove sorgeva una cresta azzurra di monte e la cima d'un elce.

Le donne salmodiavano con voce monotona; la cadenzata cantilena aveva tutta la melanconica dolcezza dei susurri notturni del bosco. Zio Pietro ricordava, rievocati da quella cantilena, i minimi particolari di altre messe, ascoltate lassù in tempo lontano; e rivedeva i luminosi sfondi delle porte, le donne curve sotto la porpora più o meno granata dei corsetti di scarlatto; e sull'altare qualche testa nuda di paesano, dai lunghi capelli unti, raccolti in treccioline, lucenti alla luce dei ceri; e il lento sacerdote che andava e veniva a mani sollevate, con la tunica d'un equivoco candore tanto rialzata dietro, da lasciar vedere l'orlo dei pantaloni neri.

Dopo le litanie la gente intonò i gosos, cambiando tono, ma sempre dando alla voce una cadenza monotona, melanconica, nella quale vibrava ancora la susurrante pace dei boschi, ma più triste, più solitaria, quasi impregnata di arcana nostalgia.

Zio Pietro ebbe un leggero brivido alla nuca, e un flusso di misteriose tenerezze, di ricordi, di rimpianti, gli coprì il cuore. Poggiando le mani al bastone si sollevò, si sedette, e la sua voce un po' nasale s'uni alla cantilena popolare, di cui alcune note salivano stridenti e spezzate come battute su cristallo infranto, altre ondeggiavano basse e sonore come echeggianti da profondità di grandi vasi metallici.

Al ritornello risuonavano anche le voci di bimbi e d'uomini, così che nella sonorità della melodia le parole andavano disperse; ma zio Pietro sapeva a memoria i gosos, e ogni verso ch'egli cantava gli ridiscendeva sul cuore con ineffabile tenerezza.

Imploranos, de su Monte
Reina, s'eterna vida(1) Imploraci, del Monte Regina, l'eterna vita..

L'ultimo ritornello fu ripetuto due volte; le voci infantili s'acuirono, terminando in piccoli gridi rauchi: poi all'improvviso si fe' silenzio, e zio Pietro tornò a inginocchiarsi per la benedizione. Coi gomiti appoggiati al sedile nascose il volto fra le mani, e attese e ricominciò a turbarsi. Udì la gente andarsene; i bimbi e gli uomini scender i gradini dell'altare; ma nessuno s'avvicinava a lui, niuno gli badava. Ella dunque non c'era? Attese ancora, finchè la chiesa rimase deserta: udì la tosse rauca d'una donnicciuola che usciva ultima, e il lievissimo passo d'un bimbo scalzo: poi più nulla. Allora s'accorse che anche Basilio lo aveva dimenticato, e sentì una grave tristezza, un doloroso senso d'umiliazione e debolezza. Le labbra continuavano a pregare, ma l'anima era fredda e vuota come la vecchia chiesa, e la preghiera vi si smarriva tristemente. Senti Basilio rientrare in punta di piedi, rattenendo il respiro, avvicinarglisi alle spalle, toccarlo al braccio.

— Zio Pietro, volete che andiamo? Non c'è più nessuno.

— E tu dov'eri?

— Io? Qui, zio Pietro.

— Non è vero? Sei bugiardo anche in chiesa? Non hai ascoltato la santa messa. Inginocchiati. Subito.

Lo tirò, lo fece inginocchiare, e, udendolo sospirare e pregare fervorosamente a bassa voce, lo perdonò.

— Zio Pietro, che bei fiori sull'altare! Sono veri? Mi lasciate andare a vederli?

Egli ci meditò sopra, e pensando che Basilio poteva far anche a meno del suo permesso, credè bene darglielo.

— Va pure; e non toccar nulla.

Ma dopo averlo sentito salir a passi leggeri ed elastici sino all'altare, udì su questo un tintinnio di vasi smossi e rovesciati. Immediatamente Basilio fu di nuovo al suo fianco.

— Che hai fatto? Hai toccato nulla?

— Nulla, zio Pietro. Andiamo ora.

Se lo tirò dietro e uscirono.

Paska stava un po' curva sull'apertura d'una capannuccia, quando vide la rigida figura dello zio. Presa dalla paura d'un nuovo incontro con Melchiorre, ella non era ridiscesa in città per le provviste, ma essendo stata alla fonte in buona compagnia, non aveva assistito alla messa, nè veduto zio Pietro; e vedendolo ora, si sarebbe volentieri eclissata se Basilio, fissandola intensamente, non l'avesse riconosciuta agli indizi.

— Sei Paska Carta? — le domandò maliziosamente, scuotendo la mano del vecchio nella sua, quasi per dire: — Non riconosci quest'uomo? Non lo inviti ad entrare?

Ella uscì dalla capanna facendo di necessità virtù: se zio Pietro non fosse stato cieco, nè in balìa di un monellaccio, ella, dopo lo scandalo della notte prima, si sarebbe creduta in diritto di voltargli le spalle; ma poichè egli era la più debole e infelice delle creature, non poteva negargli il saluto senza aumentare la maldicenza e le derisioni femminili che la pungevano. E salutò, facendo un amichevole cenno di testa, quasi il vecchio l'avesse veduta.

— Siete qui, zio Pietro?

— Sono qui. E tu dov'eri? Non eri a messa?

— Non c'ero. Ero alla fonte. Eh, non mi avanza del tempo per entrare in chiesa! — Diventò ironica, fredda, inquieta. Con moto nervoso delle piccole mani rosse s'allargava sui fianchi il grembiule di percalle nero a fiori gialli; e mille parole amare le salivano alle labbra, col desiderio di gridare, sfogare tutta l'ira e il dolore che l'avvelenavano, ingiuriando il povero vecchio. Ma a che pro? Che colpa aveva egli? Che poteva egli farle? Forse era venuto per pacificarla, chiederle perdono; e in fondo sentiva vergogna, perchè la sola presenza del vecchio era per lei un muto rimprovero.

Eppoi c'era Basilio che la guardava ostinatamente, sorridendo con malizia, seguendo con sguardo curioso ogni suo movimento; e i padroni, fattisi sull'uscio della stanzetta, osservavano. Si volse loro e disse con voce dispettosa e amara:

— Questo è mio zio Pietro, poveretto, il padre di quel miserabile che ieri notte mi ha battuta.

— Chi ti ha battuta? Melchiorre? — gridò il vecchio, e per il dolore e la sorpresa sollevò le palpebre, lasciando scorgere il bianco rossastro degli occhi spenti.

Basilio spalancò la bocca e cessò di sorridere.

— Non lo sapete dunque? — strillò Paska, continuando a slargarsi il grembiule. E, voltandosi or verso zio Pietro, or verso i padroni, (il signore era grosso, giallo, calvo, con densa barba nera, la signora molto rossa in viso, con piccoli occhi azzurri, vestita di nero), narrò la storia, metà in sardo, metà in italiano, incurvando all'ultimo le spalle, come se le poderose mani di Melchiorre stessero lì pronte a ripigliare la faccenda.

— E mio figlio ha fatto questo? E mio figlio ha fatto questo? — andava ripetendo zio Pietro, tenendo le mani l'una sull'altra appoggiate al astone, e il volto umilmente curvo. La barba gli copriva sin la cintura di cuoio, donde pendeva l'acciarino in forma di piccola scure.

— E vostro figlio ha fatto questo, zio Pietro, e vostro figlio ha fatto questo, contro sua cugina, contro l'orfana di padre e di madre, e forse s'appresta a far altro, perchè, già lo so, egli vuol bere il mio sangue, dopo che mi ha calunniata e vilipesa in mille modi. Ma parole che gli do io — e si posava una mano sul petto — che gli troncheranno le gambe quando meno pensa, o non mi chiamerò più Paska Carta!

— Paska! Paska!… cominciò il vecchio; ma ella non lasciò proseguire, e si mise a piangere, e strillò fra i singhiozzi:

— Paska! Paska! Già lo so cosa volete dirmi, zio Pietro, so tutto, tutto so… ma volete che mi lasci ammazzare da lui? Lo sto forse molestando io? Perchè non mi lascia tranquilla? Dite?

— Buon uomo — disse la signora, vedendo che s'avvicinavano dei curiosi — entrate dentro un momentino. Aiutalo, Paska.

Il signore rinculò dentro la stanzetta facendo gli occhiacci a sua moglie; ma questa mormorò: « Poveretto! » e, atteso il vecchio sulla porta, l'aiutò ad avanzarsi, ad accomodarsi sopra una panca.

Basilio gli sedette a fianco, e torcendo il collo esaminò curiosamente ogni cosa. Una gran tenda turchina divideva l'ambiente in due parti, velando prudentemente i letti da campo rizzati in fondo alla stanza: lo spazio libero, sotto il tetto di canne donde penetravano fili di sole, dal pavimento rozzamente ciottolato, veniva occupato dalla panca ove sedevano, da qualche seggiola, da una cassa di legno giallo, da un tavolino ingombro di vassoi, ampolle, bicchieri e calici che brillavano alla viva luce della finestruola. Da questa, aperta ad oriente, scorgevasi il bosco e un ammaliante sfondo di cielo e mare azzurri. Un piccolo specchio rifletteva di fronte un pezzo di quel luminoso paesaggio: l'aria fresca veniente dal bosco, penetrando per la finestruola, dava alla tenda un movimento di onde turchine pioventi dal tetto. Basilio credeva trovarsi in un magnifico salone e ne provava felicità: i suoi occhi andavano dal radioso sfondo dello specchio al prisma d'una sfaccettata ampolla di menta, che alla luce sembrava un'anfora di smeraldo di cui ogni sfaccettatura sprizzava scintille di topazi galleggianti nell'interno liquido. E non sapeva quale più intensa delle due possibili gioie: o sentir scendere per la gola il filo denso della verde bevanda, o guardar lo specchio e vedercisi riflesso nitidamente, e non tremula ombra come nella fontana. E Paska era lì, ritta, rosea, pulita. Spiando i discorsi di zio Pietro e del figlio, Basilio aveva tante volte pensato a lei, dominato a poco a poco da una potente curiosità di conosceria. Ora ella era li, col grembiule tutto slargato sul puro ed elegante arco dei fianchi; era lì a testa nuda, con le piccole mani fragranti di caffè, e scalza. Egli non aveva mai veduto una donna più bella di così: e la sua curiosità appagata, e la speranza di bere il rosolio e di guardarsi nello specchio gli davano una gioia profonda. Dimenticava la lepre che lo attendeva nel cavo muscoso, le capre abbandonate, il padrone lontano, zio Pietro che gli stava al fianco. Tutto ciò che vedeva, compreso il volto rosso della signora e il viso giallo e la minacciosa barba nera del signore, gli sembrava bello, e non gli dava soggezione. Come dovevano esser felici là dentro, coi dolci nascosti nella cassa, e i rosoli e i vini! Anche Paska, nonostante la batosta di zio Melchiorre e le lagrimette versate, doveva esser molto felice.

Ella intanto proseguiva i suoi lamenti, prendendo animo dal doloroso e umile silenzio di zio Pietro, che la ascoltava sempre a capo chino e con le mani aperte poggiate sul bastone. Egli sentiva lo sguardo dei signori fissarlo, e non poteva protestare, nè parlare; ascoltando la scena efficacemente narrata da Paska, ripensava all'angoscia patita la notte prima, durante l'assenza di Melchiorre. Dunque non s'era ingannato prevedendo sciagura, e forse non s'ingannava neppur ora, tremando alle minaccie di Paska, che di tanto in tanto la voce nasale del padrone incitava alla vendetta con ironiche frasi. Che dunque poteva dire? Tutte le parole preparate fuggivano dinanzi al nuovo inasprimento d'animi; ma anche senza questo non avrebbe potuto parlare alla presenza di quel padrone rude e beffardo che difendeva Paska.

— Tu hai ragione — provò a dire — ma tu sai come egli è fatto. Il dolore inasprisce, figlia mia, e devi compatire, devi esser prudente, devi perdonare. Egli l'ha fatto per troppo amore, perchè ti vuol bene ancora.

— Bell'amore, zio mio, bell'amore! Amore di bestie feroci! Io non voglio nè il suo amore, nè il suo odio: non so cosa farmi nè dell'uno nè dell'altro. È per piangermi dopo avermi ammazzata, forse? Lasciatemi stare la testa, zio mio, queste non sono coso da dirsi.

— Paska, fallo per amor mio, sii prudente, per questo povero vecchio che ha perduto la luce del giorno. Siamo nati tutti per morire, e all'altra vita ci portiamo solo le buone opere, il perdono delle offese, il compatimento, l'amore al prossimo…

— Ma, buon uomo, perchè queste cose non le dite a vostro figlio? — domandò l'ironica voce del padrone.

— Si, perchè non le dite a vostro figlio, zio mio?

La signora, vedendo arrossire il vecchio, ne ebbe pietà e disse rivolta al marito e a Paska:

— Via finitela. Porta da bere qualche cosa a questo vecchio. Vivete sempre nell'ovile, buon uomo?

— Sempre.

— Anche d'inverno?

— Anche d'inverno.

— Ma d'inverno ci dev'essere molto freddo quassù e molta nebbia.

— Non importa.

— Che vita! — diss'ella stringendo le spalle con un finto brivido. Il marito, ch'era magistrato, figgeva gli occhietti neri lucenti sul volto di zio Pietro, e ritrovava le stigmate della delinquenza, mentre il vecchio era sempre stato uomo onesto.

— Quante ne avrà fatte costui in vita sua! Ma se ha sfuggito la umana giustizia non sfugge la divina. Cranio dolicocefalo, volto prognato (e non era vero!), angolo facciale imperfettissimo. E quel muso di volpe lì vicino? Delinquente in formazione, di specie pericolosissima: microcefalo, con fronte depressa. L'alba e il tramonto del delitto. Razza maledetta!

— Di dove sei tu? — domandò a Basilio.

— Di… — rispose egli sorridendo, volgendo al signore i suoi occhioni sereni.

— Quanti anni hai?

— Non so. Diciotto, credo.

— Non si direbbe. Ti piace il vino?

— Uhm… non ne vedo mai…

— Ma vedendone ti piacerebbe?

— Sicuro. E a chi non piace il vino?

— Bene avviato! — pensò il signore. — Vizioso e sfrontato… Porta vino, Paska.

Basilio si pentì della sua risposta.

— No, no — disse però la signora — è troppo presto per il vino. Cosa volete, buon vecchio? un po' di caffè? rosolio?

— Rosolio — rispose per lui Basilio.

E Paska servì la menta, versandola lentamente nei calici granati fioriti d'oro. Mentre zio Pietro beveva a poco a poco, Basilio sorbì avidamente in un sorso il suo calice, arrovesciando la testa indietro, chiudendo gli occhi nell'intenso godimento che l'acuta freschezza del liquore gli lasciava nel palato e sulla lingua. Che cosa buona, Dio mio! Aveva l'irritante voluttà di un soffio di vento sulla cresta delle roccie.

Basilio avrebbe voluto battersi un pugno sul petto per il piacere; ma rimesso appenil calice sul vassoio di cristallo, sentì tutta la bocca ardergli, come una volta che aveva masticato pepe, e arrossì e fece una smorfia.

Sulla porticina appariva la gracile figura di Efisio e il musetto del cagnolino. Vedendo Basilio, Leone abbaiò e non volle entrare; il bimbo spalancò gli occhi e andò a porsi silenzioso accanto al padre. Temendo che si venisse a sapere la disputa avuta, e che in conseguenza venisse cacciato a spintoni, Basilio si sentì ardere le orecchie e tutta la gioia di poco prima gli si avvelenò: non vide più nulla nella stanza; solo un visuccio giallognolo e due occhietti azzurri nemici fissi su lui.

Fuori, il cagnolino abbaiava.

— Andiamo, zio Pietro — disse il giovinetto, toccando il braccio del vecchio.

— Andiamo — rispos'egli, scuotendosi dal suo doloroso avvilimento.

E se n'andarono tristi, umili, senza aver ottenuto da Paska una buona parola. Zio Pietro pensava:

— Che dirà poi Melchiorre se saprà che mi sono avvilito al punto di venirla a cercare, al punto di entrare da quei signori e bere e parlare con loro? Ogni cosa è perduta; s'egli non fa attenzione, si perderà anch'egli… e che sarà di noi?

E… mezzo alla spianata, mentre s'udiva il riso e il grido dei bimbi e il saltellante anelito del flauto, pur intravedendo il paesaggio allagato dal limpido splendore del mattino, sentendo sul viso il tepore del sole e nella mano la mano di Basilio, provò ancora il terrore della notte prima.

Per via, dileguatesi alquanto le impressioni provate, Basilio e zio Pietro affrettarono il passo, temendo che Melchiorre fosse già ritornato. Ma solo il cane vigilava le capre dall'alto d'una roccia, e vedendoli volse il capo, ma non si mosse. Il gatto invece, che aveva fame, venne fuori dalla mangiatoia coi baffi impigliati in una ragnatela polverosa e alcuni fuscelli di paglia pendenti tra il pelo arruffato, e mosse incontro sbadigliando, sfregandosi ai piedi di zio Pietro; poi precedette a piccoli passi, facendo ogni tanto inciampare il vecchio.

Basilio s'assicurò che nessuno era venuto in loro assenza, che le capre pascolavano tutte tranquillamente sui dirupi, brucando i cespugli ancor lucenti di rugiada; e appena potè scese a cercar lepre nel cavo del tronco. Pensava con insistenza a Paska, al bimbo, al cagnolino dal collare d'oro, ricordando con ammirazione la prima, con odio il secondo, e desiderando con stizza il terzo (avrebbe voluto almeno il collare); e a tutto questo s'univa ancora il fresco gusto della menta, che ritrovava nell'irritante profumo umido del bosco. E una liquida fiamma d'insolite sensazioni gli ardeva negli occhi; ma tornò di botto alla solita realtà, e dimenticò ogni altra cosa, quando nel cavo del tronco, donde sbucavano frettolose grosse termiti nere, non trovò la lepre. Si curvò a guardare di qua e di là, stupito e addolorato; messo il braccio entro il cavo trovò un pezzo della cordicella rosicchiata, ma null'altro. Allora cominciò a imprecare e commentare il fatto ad alta voce, curvandosi, strisciando pancia a terra sotto le macchie, rotolando le pietre, guardando su e giù senza trovar mai nulla.

— E pareva addomesticata, che il diavolo t'addomestichi, animale scellerato! Ma che l'abbiano rubata? Chi l'ha rubata? Dove sei, tu, ladro? Esci fuori che ti piglio a schiaffi e pedate. Così si tocca la roba altrui, ladro?

Quest'interrogazione lo colpi vivamente: se egli dunque riusciva a rubare il cagnolino, o almeno il collare, il bimbo gialliccio, dagli occhietti che sembravano due foglioline di pervinca, ne avrebbe provato il dispiacere che provava lui? E quell'altra cosa che aveva in tasca? La trasse fuori: era una rosa di carta, inverosimilmente grande e scarlatta; ne accomodò un po' con l'indice le foglie sgualcite e la ficcò in un cespuglio, allontanandosi per vederne l'effetto. Sul verde cinereo e vellutato del tassobarbasso, la rosa parve una grossa brage ardente, d'un effetto stupendo per gli occhi di Basilio; ma nell'affanno per la scomparsa della lepre egli non potè godersi a lungo quell'improvvisa e strana fioritura del cespuglio, e lasciò la rosa e tornò all'ansiosa ricerca, allontanandosi mano mano dal tronco vuoto.

Niente, nulla, in nessun posto. Dovevano aver rubato la lepre. Forse perchè anch'egli aveva quella mattina meditato un furto e commessone un altro? Macchè! Rubar una rosa di carta era altra cosa che rubar una lepre!

— Animale vile, chi sei tu che hai toccato la roba mia? — diceva stringendo i denti e i pugni. — Perchè l'hai toccata? Altro bene tu non abbi! Esci fuori! esci fuori, se hai fegato, esci fuori!

— …Fuori… ori …ri …iii — rispose solo l'eco.

Poco dopo udì il fischio di Melchiorre che lo chiamava a colazione, e salì mogio mogio, silenzioso, curvo, guardando fissamente per terra con occhi affascinati. Dimenticò la rosa nel cespuglio.

— Cos'hai? — gli chiese il padrone.

— M'hanno rubato la lepre.

— La lepre t'hanno rubato? Allora avranno rubato anche altre cose. Ti sei assentato, vuol dire!

— Sarà fuggita — disse zio Pietro trepidando, e volse il viso verso Basilio come per supplicarlo di tacere.

— Sarà — rispose egli pronto.

Ma Melchiorre s'accorse che e'era qualche cosa di nuovo, e guardò il padre, poi Basilio, poi fissò lontano lo sguardo cupo e tacque.

Sul tardi, dopo che le capre furono abbeverate, egli vide sul pallido cespuglio del tassobarbasso, battuto dal sole, la grande rosa fiammeggiante: una macchia di sangue cristiano non gli avrebbe causato più ribrezzo e stupore. Si curvò, tolse la rosa fra il dito medio e l'anulare, in modo che gli rimase aperta sulla palma della mano, e l'esaminò a lungo, fischiando intanto per chiamar Basilio che cercava sempre la lepre. Quando lo vide venire incrociò rapidamente le mani sul dorso, celando la rosa; e attese fermo nel sole, la cui luce dava ai suoi occhi una trasparenza d'ambra. Una capra giovine e svelta, arrampicata su un mozzicone d'elce, ne brucava le fronde selvagge, emettendo dal campanaccio un sottile e cristallino rintocco che smarrivasi nel silenzio della china soleggiata.

— Hai ritrovato la tua lepre? — gridò Melchiorre.

— No.

— Vuol dire dunque che te l'hanno rubata?

— Non lo so.

— Ah, non lo sai! Ma lo so io, volpe di nido, e so che questa mattina hai lasciato le capre sole. Dove sei stato? Parla e di' la verità, altrimenti te la faccio uscir di corpo assieme con l'anima.

— Ma, zio Melchiorre, io non sono andato in nessun posto, che possiate vedermi con questi occhi fuori…

— Chi allora è venuto qui, chi? Voglio saperlo. Subito! I signori del Monte forse?

— Nessuno, zio Melchiorre, nessuno, sull'anima mia, che non mi rivediate più!

— Scimmiotto mal nato — gridò allora Melchiorre lanciandoglisi sopra — ti dò io le bugie e le imprecazioni e i giuramenti! E questa rosa chi l'ha messa qui, chi l'ha messa se non tu? La vedi o non la vedi?

Gli battè sul volto la rosa, facendogli male agli occhi, e gli tirò forte le orecchie, scuotendolo violentemente.

Non avendolo mai veduto cosi incollerito, Basilio ebbe paura; disse ogni cosa (dopo tutto, da zio Pietro non aveva nulla che temere); ma la rosa disse di averla trovata in chiesa.

Melchiorre l'ascoltò intensamente, e gli pareva sognare ancora uno dei brutti sogni avuti la notte prima; e mentre a Basilio le orecchie ardevano per la stretta delle sue dita, le sue s'imporporavano e pulsavano d'ira e vergogna.

— E mio padre ha fatto questo! — proruppe battendosi le mani sulle anche. — E ha fatto questo? Oh, Dio, oh Dio, ma è matto dunque quel vecchio? E ha fatto questo — gridava più forte, parlando a sè stesso. — Ma non è possibile, e questo scimmiotto mentisce, mentisce! E lui s'è umiliato, ed ha parlato con quella… e ha bevuto e s'è seduto in casa di quella gente! Oh Dio, Dio mio, che accade di me, in che pozzo profondo son caduto? Mi vogliono perdere, mi vogliono assassinare. Aspetta, aspetta!

S'incamminò correndo, con la rosa fra le mani. E Basilio dietro, spaurito e ansante. Pensava:

— L'ho fatta! Ora va ad ammazzare suo padre, poi ammazza me e ci getta in qualche grotta profonda che non ci vedon più. Non sarebbe meglio scappare?

Più della paura poteva però in lui la curiosità, e correva dietro il padrone non per dar, in caso, aiuto al vecchio, ma per vedere e ascoltare, perchè, dopo tutto, non capiva ancor bene che razza di storia c'era fra i padroni e Paska. Solo a frammenti aveva inteso i loro colloqui intorno alla ragazza, ed ora voleva sapere, voleva conoscere ogni cosa. Ma nella corsa Melchiorre parve calmarsi alquanto; giunto presso la siepe dell'orto si fermò, si volse, attese Basilio e gli disse:

— Basilio, per quanto hai cara la vita, ora che conosci quella fraschetta, va e torna e cerca di parlarle a quattr'occhi, e le dici così, e non cambiare neanche una parola, altrimenti ti cambio gli occhi da un'occhiaia all'altra. Le dici cosi: « Mi manda Melchiorre Carta, tuo cugino, e ti dice di andartene, capisci, di andartene entro la giornata d'oggi, di tornare a Nuoro, di non precipitarlo, perchè altrimenti hai finito il divertimento ». Non altro, ma dille così. Come le dirai?

— Le dirò: « Mi manda Melchiorre Carta tuo cugino, e ti dice di andartene entro la giornata d'oggi, di tornar a Nuoro, di non precipitarlo, perchè altrimenti hai finito il divertimento ».

— Va bene. Anzi aggiungile questo: « Che non creda sia stato to a mandar quel vecchio da lei e dai suoi padroni, che il diavolo li scortichi. Che non ho paura di nessuno. Che dei suoi padroni me ne infischio altamente, e che con lei non abbiamo ancora aggiustato i conti ». Ora va, corri.

Basilio s'incamminò a malincuore, provando tuttavia un segreto piacere al pensiero di rivedere Paska e di aver forse sottomano il cagnolino; ma non aveva fatto un centinaio di passi che il padrone lo richiamò.

— Cosa volete ancora? — gridò egli stizzito.

— Oh, di', non alzar la voce, bada che anche con te non ce la siamo ancora detta tutta. Prendi questa e rimettila dove l'hai trovata.

Gli gettò la rosa, pensando che quella era una scusa plausibile per il ritorno di Basilio verso la chiesa.

— Cercatemi la lepre — raccomandò il mandriano. — Dite un Credo a sant'Antonio per ritrovarla.

Melchiorre ritornò verso la capanna, calmato alquanto, deciso di spiegarsi affettuosamente col padre e di pregarlo di non far più certi passi…

Zio Pietro, curvo davanti alla capanna, si pettinava con un piccolo e sdentato pettine di legno giallo: i capelli divisi sulla nuca da una larga scriminatura, tirati in avanti sul collo, lucevano al sole, lisciati dai pochi denti del vecchio pettine; qualche po' di forfora cadeva al suolo, ma buona parte biancheggiava su un fazzoletto turchiniccio steso sugli omeri del vecchio.

Melchiorre stette a guardare un po', e non sapeva come cominciare l'ingrato argomento. Cosa dire? Che Basilio aveva tradito il segreto? Non poteva ciò recar molto dolore al vecchio che, costretto a passar tante ore solo col mandriano, riponeva in questo tanta fiducia?

Dirgli d'aver appreso il fatto da persone solite ad ascoltar la messa al Monte? Ma non poteva Basilio, che facilmente gli aveva riferito ogni cosa, far altrettanto col vecchio? E questo, cui ripugnava sopratutto la menzogna, sarebbe poi entrato in diffidenza con entrambi. Stando Melchiorre in questi pensieri, zio Pietro finì di pettinarsi; rigettò indietro sulla nuca tutti i riccioli dei capelli bianchi, e levandosi dalle spalle il fazzoletto lo scosse al suolo più volte; con un lembo poi pulì il pettine fra i cui denti eran rimasti molti peli candidi, e disse:

— Melchiorre, guarda un po' questo fazzoletto se c'è qualche cosa…

Melchiorre prese il fazzoletto, lo guardò attentamente da una parte e dall'altra, ed esaminò bene le spalle, gli omeri e il collo di zio Pietro, ma per fortuna non trovò nulla.

— Siete pulito come l'oro — disse; e intanto pensava: — Cosa dirgli? Perchè dirgli nulla, poveretto? Egli è vecchio e debole come quel pezzetto di legno con cui s'è pulito la testa; ma è utile ancora come il vecchio pettine. S'egli stamattina si è mosso, l'ha fatto certamente con scopo di bene, ed è abbastanza castigato dall'umiliazione ricevuta.

E tacque, e ritornò verso le capre; ma cominciò a pensare a Basilio, seguendolo con la mente stretta da ansiosa inquietudine.

Con le sue agili gambe di cerbiatto, a quell'ora il mandriano doveva esser vicino alla chiesa: forse incontrava Paska al pozzo e già le riferiva la poco benigna ambasciata. E forse ella ne rideva con quel suo riso da albero scosso dal vento e pieno di uccelli canori — se pure aveva ancor voglia di ridere dopo la lezione della notte prima. Ripensando a questo, Melchiorre provava grande stupore per il suo ardire, per il modo con cui se l'era facilmente scampata, per i pugni e gl'insulti ricevuti senza reagire; e sentiva ancora la sua giacca di cuoio risuonar cupamente sotto le percosse, e le morbide guance di Paska cedere sotto il dorsò della sua mano. E rideva, gridava, imprecava e sogghignava fra sè, e intanto, senza averne a precisa coscienza, cercava la lepre, frugando e scotendo i cespugli con un bastone, e mormorando a fior di labbro:

— Io credo in Dio Padre onnipotente…

La prima domanda che Basilio fece, ritornando all'ora del pranzo, fu intorno alla lepre: ma la lepre non era stata trovata.

— Ho recitato una cinquantina di Credo — disse Melchiorre — e ho perduto tutta la mattina, che ti disperda un turbine, te e la tua lepre. Non uscirà più al mio cospetto, ma se esce, in verità che ha finito il divertimento.

— Anch'essa? — chiese Basilio ridendo.

Il padrone lo fissò torvo, accennandogli di tacere, poichè c'era zio Pietro; ed egli cominciò a far cenni con le mani e le labbra e chiudendo maliziosamente un occhio, per far capire che la sua missione era riuscita bene.

Dopo pranzo, mentre il vecchio faceva la siesta sotto il solito albero, sotto quella gialla macchia di sole che gli percorreva lentamente tutta la persona, Melchiorre volle sapere a puntino quanto Basilio aveva fatto, detto e udito. Stavano sulla spianata invasa dal sole; il cane e il gatto dormivano vicini, il cavallo ruminava sotto la corta ombra dell'elce. Dal mare saliva lentamente una linea di luminose nuvole argentee, che si perdevano nel cielo, come una scalinata metallica conducente a un invisibile palazzo.

— Quando sono arrivato — disse Basilio, ho inteso che ridevano e giocavano sotto gli alberi e mi sono avvicinato; ma essa non c'era, perchè naturalmente i padroni non la lasciano a divertirsi sin dalla mattina. C'erano signori e signore che giocavano alle carte; altri erano sdraiati su pezzi di stoffa e cuscini e piccoli materassi stesi al suolo, e dicevano mille sciocchezze. Uno si dondolava entro una rete legata a due alberi.

— Basta. Va avanti. Cosa m'importa di tutto questo?

— No, sentite una cosa curiosa. Quello che stava nella rete prese un fuscello e lo gettò sul collo d'una di quelle signore che giocavano: questa credendo fosse stato un altro a gettarglielo prese un sassolino e lo gettò a uno di quelli che stavano sdraiati: così cominciò una guerricciuola segreta di fuscelli e sassolini.

— Già! — disse Melchiorre con amaro disprezzo — hanno bel tempo coloro! È la stessa storia del fazzoletto d' iersera. Ma — gridò poi — cosa mi importa di tutto questo?

— No, sentite, sentite che matti! Dopo i sassolini e i fuscelli si sono lanciati le carte, i cappelli, e poi manate di fieno e di foglie, e poi i cuscini, e poi i pezzi di stoffa e i materassi. E ridevano, ridevano, tanto che molti si gettavano pancia a terra per non scoppiare: e tutti pieni di polvere e foglie secche si rotolavano, e le donne scappavano gridando. Allora io vidi quel ragazzino col quale, come vi dissi, ci siamo bisticciati; e temendo mi vedesse sono passato dall'altra parte della chiesa. Subito cosa vedo? Vedo Paska in capelli, con le maniche rimboccate in alto in alto, che cucinava pollastri sopra un fornello acceso, vicino alla capanna.

— E cosa disse vedendoti?

— Non mi vide subito perchè parlava e rideva con un giovinotto che fumava appoggiato al muro e che le diceva molte cose allegre.

— Cosa le diceva? Com'era?

— Bassetto, secco, con la barba in color coda di volpe.

— E le orecchie grandi?

— Le orecchie, non so, non ci ho badato.

— È lui, quello che suonava — pensò Melchiorre. — Dev'esser il suo preferito, quell'animale rossiccio. Almeno per chi, almeno per chi, mi fa girar la scatola!… E cosa diceva? — replicò.

— Non lo so, ma doveva dir cose allegre, perchè essa era lieta e ridente. Egli però, maligno, mi vide subito e strizzò gli occhi per accennarle di non parlar forte. Allora ella si volse e mi vide.

« — Siete ancora qui? — mi gridò.

« — No — dico io. — Sono ritornato perchè ho trovato questo fiore che deve esser della chiesa, e voglio rimetterlo. Anzi vieni che mi aiuti.

« Forse ella capì che avevo da parlarle; fatto sta che mise la testa entro la porta della stanzetta, disse qualche cosa alla padrona, disse all'amante: — Ritorno subito — e mi seguì. Quando fummo entro la chiesa io subito le dissi:

« — Il fiore è una scusa. Sono venuto perchè mi manda Melchiorre Carta tuo cugino e ti dice di andartene oggi da qui, di ritornartene immediatamente a Nuoro, di non precipitarlo, chè altrimenti hai finito i divertimenti… ».

— Ed essa? Ed essa?…

— Essa? Morta! Le si è fatto il viso bianco come un pezzo di tela, e non ebbe coraggio di risponder una parola.

— E tu? e tu?…

— E io soggiunsi: » …e di non credere che sia stato lui a mandar quel povero vecchio ad umiliarsi davanti a te. Che egli non ti teme, nè te, nè i tuoi padroni, che dei tuoi padroni se ne infischia altamente, e che con te i conti non li ha ancora aggiustati ».

— Va bene. Bravo! Ed essa, poi?…

— Essa, zitta come una chiocciola. Allora io le lascio il fiore e me la svigno; ma da lontano, spiando, la vedo uscire, tornar presso il giovinotto e mettersi a gesticolare, a far croci e mille altri gesti. Doveva raccontargli il fatto.

— Lo racconti pure, lo racconti! Le assicuro io che non lo racconterà tutto. Ora stiamo a vedere cosa fa.

— Io dico che non vi obbedirà.

— Non mi obbedirà? Lo dici tu, scimmiotto? Chi la difenderà? Quel faccia di volpe che le stava vicino, forse?

— Quello lì? — gridò Basilio con disprezzo, sputando sopra una pietra. — Quello non è buono a sollevare un dito.

E aggiunse quasi parlando fra sè:

— È brutto come un cane. Essa è bella come una rosa. Come mai può guardare quegli uomini lì?

— Lo vedi? — proruppe Melchiorre. — In cento mila diavoli, se almeno avesse guardato un uomo bello! Ma colui è un animale. Perchè ha pantaloni e colletto? Ma io non lo scambierei col mio scarpone. E il padrone, hai visto il padrone?

— Un otre, col viso che sembra un lievito! — disse Basilio ridendo, ma non più col suo fresco riso infantile.

Un'ombra gli velava i begli occhi, e per l'inquietudine di ciò che poteva capitargli dopo la sua pericolosa ambasciata, e per il disgusto lasciatogli dall'evidente amoreggiamento di Paska col brutto giovinotto, provava un'insolita oppressione, una segreta ira contro il padrone, contro la gente del Monte e contro sè stesso. Se la prese con le capre, aizzandole, caricandole d'improperi, di nomi vituperosi, rincorrendole, facendole saltare e cozzare l'una contro l'altra. Poi si rimise a cercar la lepre, correndo qua e là nel sole del pomeriggio, curvandosi a guardare con un solo occhio entro le frane, mettendo la testa fra i cespugli, strisciando sul muschio i cui fili verdi arricciati gli rimanevano fra i capelli e sulle vesti. Nulla, nulla. Melchiorre zappava nell'orto, irrigava i piccoli solchi; e davanti a quel solenne orizzonte marino, ove la scalinata di nuvole metalliche s'era stesa, assottigliandosi in lunghissime linee lattee sul fondo celeste chiaro, fino ad assumere l'illusione d'un lontano mare azzurro solcato da parallele striscie di diafana spuma, zio Pietro, seduto sull'apertura della capanna, tagliava col suo affilato coltello grossi gambi di ferula, per formarne uno sgabello. Teneva curva la testa, quasi gli occhi seguissero e guardassero l'opera delle mani: e pareva che sotto la sua fronte serena, solo tranquilli pensieri ondeggiassero quietamente, come quelle lontane linee bianche solcanti l'orizzonte.

Il sole calava sui boschi, vibravano le campanelle delle capre, i gridi selvaggi di Basilio, i richiami delle gazze, il suono della zappa: null'altro udivasi, neppure il solito mormorar della selva, perchè la quiete pomeridiana era sì profonda che non si smovevano neanche le estreme foglioline tenere dei rami giovani, nè sollevavasi il vello delle capre, nè dondolavano le campanelle di corallo dei fiorellini pendenti dai fagioli dell'orto. La montagna assopivasi in un quieto sogno di pace, in faccia al mare; e le tre povere creature disperse in quella profonda solitudine parevano anch'esse vinte dal tranquillo sogno meridiano, mentre nei loro cuori turbinava la passione.

La sera passò serena e nessun incidente sopravvenne: solo al cader della notte, mentre curvo sul focolare Basilio soffiava sul fuoco, vide un animaletto con lunga coda saltar rapidamente davanti alla capanna.

— Oh la lepre! la lepre! — gridò balzando fuori.

— Sarà il gatto — disse Melchiorre.

— No, è la lepre! Aveva la cordicella. È uscita ora che ha fame.

Si diedero a cercarla, e siccome le capre facevano un insolito chiasso entro la mandria, Basilio vi si cacciò dentro, e Melchiorre fece lume con una crepitante fronda accesa. All'incerta luce giallastra le capre si strinsero l'una contro l'altra, in modo che su una massa grigiastra apparve una fitta siepaglia di corna nere, e in un angolo della mandria Basilio ritrovò la lepre accucciata, con le orecchie basse, gli occhi spalancati e il cuoricino più che mai battente per fame e paura. Nonostante tutte le minaccie, nessuno osò castigarla; anzi il suo ritrovamento diradò il melanconico mutismo che gravava da qualche ora sui pastori.

L'indomani, all'alba, padrone e servo munsero le capre, che incominciando ad esser pregne davano già poco latte. Melchiorre le afferrava ad una ad una, cacciandosele fra le gambe, e curvo mugneva con le forti dita le mammelle grigie e nere; seduto sui calcagni Basilio teneva il paiolino di rame, lucente alla vitrea luce dell'alba. Il latte gocciolava denso e fumante, e i belati delle capre tremolavano nel lucido silenzio dell'ora come pianto di bimbi abbandonati nel bosco.

Dal mare saliva in cerchi leggermente ranciati il crepuscolo mattutino; i gridi delle gazze attnaversavano l'aria quieta.

Melchiorre partì sul cavallino, attraverso i sentieri umidi di rugiada, ove le foglie bagnate luccicavano ai riflessi dell'aurora, e i rami e le rocce smarrivano i profili dell'indicibile purezza delle lontananze. A Nuoro smontò nel vicinato di Sant'Ussula (Sant'Orsola), davanti una casetta d'apparenza meno miserabile delle altre. L'abitava una donnicciuola benestante, avarissima, che vendeva il latte di Melchiorre, e gli faceva il pane e gli lavava e rattoppava le vesti, e gli rendeva tanti altri servigi per modestissima ricompensa. La viuzza era deserta; alcune galline giallastre e nere correvano silenziose, lasciando l'impronta delle zampe sulla polvere e acchiappando qualche disgraziata mosca. Sulla facciata di granito della casetta s'aprivano due finestre di legno rosso con un piccolo vetro nel mezzo; la porta d'entrata dava a fianco, in un cortiletto aperto, quasi tutto occupato dal babizone, bizzarro riparo composto di quattro grossi tronchi ritti e ben piantati in quadratura, che ne sostenevano altri sette od otto incrociati, sui quali posava una discreta quantità di legna da ardere. Questa forte ed economica tettoia veniva utilizzata per riparo al bestiame da tiro quando dovevasi farlo pernottare in città.

Melchiorre legò il cavallo ad uno dei tronchi, ed estratto dalla bisaccia il recipiente del latte entrò famigliarmente nella vasta cucina, alle cui pareti color terra e al tetto di canne il fumo aveva dato uno smalto nero brillante.

Zia Caterina, più conosciuta col nomignolo di zia Bisaccia, forse perchè donna che sapeva raccoglier bene le cose sue, vuotò il latte in una pentola di creta rossa, la coprì con un piatto contenente piccole misure di latta, versò un po' d'acqua nel recipiente, e mentre lo scuoteva in ogni verso per ben risciacquarlo, domandò:

— E così dunque, come va quel conto?

— Qual conto?

— Che volcvi ammazzare tua cugina, al Monte, avant'ieri sera?

— Oh, lasciatemi stare la testa! — gridò Melchiorre facendo un molinello sui tacchi.

Zia Bisaccia uscì dalla porta e vuotò via l'acqua bianchiccia; poi rientrò col recipiente capovolto e gocciolante, e fissò Melchiorre, senza parlare. Anch'egli la fissò. Era una donna di media statura, robusta, ma agile e svelta come gatta; e di gatta aveva gli occhi obliqui, d'un grigio chiarissimo, quasi bianchi, malignamente fissi sotto corte palpebre rossastre. Tutto il suo viso maschile, bianco, molle e grinzoso, che pareva quello d'un vecchietto sbarbato, non esprimeva mai nulla; ma gli occhi chiari e fissi, e la continua mimica irrequieta di due enormi mani nodose facevano di zia Bisaccia una donna temibile e talvolta anche terribile. Lo sapevano bene i suoi creditori, i suoi dipendenti, i suoi servi (ella era assai benestante, e menando vita miserissima, coi risparmi e le usure aumentava ogni anno il patrimonio), e sopratutto i figliuoli, dei quali tre erano in carcere, imputati e condannati per furto, e il marito pastore che, appunto per paura di lei, ritornava solo ogni tre mesi dall'ovile.

Uno fra i pochi a cui ella non s'imponeva era Melchiorre. Egli anzi riusciva talvolta ad aver su lei un certo ascendente, con la sua calma flemmatica; e così quella mattina la lasciò lungamente e aspramente commentare il fatto della batosta data a Paska, poi le chiese:

— Ma a voi, dopo tutto, cosa ve ne importa? Anzitutto non è vero che io, come voi affermate, volevo ammazzarla; nè apersi il coltello, nè presi il fucile. Volevo solamente darle una piccola lezione… Ma — dimandò poi — sapete voi qualche cosa, da ieri ad oggi? È ancora lassù, o è ridiscesa a Nuoro?

— Cosa ne so io? Cosa ne so io? — ella gridò agitando le dita. — So solamente che tu la stai cercando, Melchiorre Carta! A me importano nulla i fatti tuoi; ma, se tu vieni ad aver dei guai, io non voglio seccature in casa mia. Io ti vendo il latte, ti lavo e rattoppo, e tu mi paghi e va bene: non è che io abbia bisogno della tua miseria, tu sai bene che in casa mia io sto bene; che la mia casa è piena come un uovo; che in casa mia c'è pane — e contava con la destra le dita della sinistra — in casa mia vino, in casa mia formaggio, in casa mia lana, in casa mia olio, in casa mia lardo, in casa mia…

— Accidenti! — completò Melchiorre, che seguiva con gli occhi i movimenti di quelle grosse dita livide.

— …Infine, io non ho bisogno del tuo latte di capra, questo volevo dire, e mi voglio tranquilla, e se per caso caschi in mano della giustizia, non voglio che vengano a seccarmi in casa mia…

— Come che non sappiate cosa sia la giustizia! — disse l'altro ironicamente, accennando ai tre figli detenuti.

— Appunto perchè lo so, appunto perchè mi basta il mio grattacapo. Del resto non è tutto per volerti male che ti dico come vanno le cose, Melchiorre, ma bada bene, bada bene…

E lo minacciava col dito; tanto ch'egli cominciò a provare un vago principio d'inquietudine: forse zia Bisaccia sapeva qualche cosa? aveva Paska minacciato di perseguitarlo? Con l'aiuto dei suoi damerini e dei suoi padroni ella poteva fargli del male: per la prima volta egli ci pensò fremendo. Benchè l'ora si facesse tarda, indugiò per saper meglio qualche cosa: ma venivano donne e bimbe per comprar latte, e zia Bisaccia chiacchierava e gridava maledettamente, misurando il latte con attenzione ed anche con frode. Melchiorre osservava, e un momento che si trovaron soli disse:

— Ma voi ci guadagnate assai, zia Caterì. Sembrate misurare il vostro sangue!

— Ci guadagno un corno! Ti sei piantato qui per osservarmi, stamattina? Vattene, perchè ho da uscire, e poi devo recarmi in Conciliazione, ove ho da sbrigare quindici citazioni.

— Perchè non fate andar vostro marito? Non vi vergognate ad andar voi?

— Andar io? Vergognarmi? e perchè? — ella gridò. — Vergogna è per chi ci va debitore, non creditore come ci vado io! Mio marito, mio marito? Così sia buono a mangiare come è buono a far il fatto suo! Gli uomini! Siete tante bestie lanose: vattene, vattene! Non siete buoni a nulla! A picchiar le donne solamente, a rincorrerle, a maltrattarle, a volerle ammazzare… come l'amico…

— Ma chi vi ha detto questa sciocchezza? — proruppe lui. — Voglio saperlo. Voglio! Voi sapete qualche cosa e dovete dirmela, subito.

— Io non so nulla, se non che son queste le vergogne: d'un uomo che invece di far il fatto suo va dietro una ragazza così così… — e cullava la mano con disprezzo — come se nella vita non esistano ben ben più gravi affari da sbrigare. E poi vieni a dirmi che è vergogna andar nanti il Conciliatore perchè non mi pagano l'orzo, il frumento, l'olio e la lana venduti o prestati.

— Con l'interesse del duecento per cento!

— Con le zucche! Con quel che mi pare e piace. Io li sfamo in inverno, che il diavolo li sfami, e poi in estate negano il fatto mio, pulciosi, canaglia, mendicanti!

— Non saran certo tutti che vi pagheranno! — disse l'altro, e la traeva su quell'argomento sapendo di farle piacere, per rabbonirla e trarle il segreto.

Ella rise come fra sè, senza muover un muscolo del viso, sicura ed ironica.

— Ho buoni pegni io! Se non pagano ho pegni e cambiali! Perchè non devono pagarmi? Non è forse il fatto mio che richiedo? E i miei figli non han diritto di campare?

— Ma tre non sono al servizio del Re? Non li campa lui? — disse ridendo Melchiorre.

— Temo che debba entrarci tu pure, fra poco! profetò la donna, staccando da un chiodo una sottana d'orbace grigio orlata di scarlatto.

— Lingua mia si dissecchi — aggiunse indossandola e agganciandosi poi il corsetto — ma vedrai, Melchiorre Carta, che se seguiti di questo passo ci andrai tu pure, fra poco, al servizio del Re!

Andò e serrò la porta che dava ad una scaletta, chiuse la finestruola, coprì il fuoco di cenere.

Melchiorre le camminò dietro, inquieto e serio, e, mentr'ella stava curva sul focolare, le disse supplichevole:

— Voi sapete qualche cosa! Ditemelo, zia Caterina, ditemelo: bisogna che me lo diciate. Chi c'è venuto qui, chi vi ha parlato? Dite, dite!

— Io non so nulla, io nulla! Dio ce ne scampi e liberi, io non c'entro, nè c'esco. Vattene, chè si fa tardi.

Si sollevò, s'incamminò fuori. Melchiorre, preso il recipiente del latte, continuò ad andarle dietro sempre supplicandola e incalzandola di domande; ma non ottenne che evasivi « Dio ci scampi e liberi » e gesti fatti come per scacciar ogni sorta di tentazione. E nel frattempo ch'ei ricacciava entro la bisaccia il recipiente, la donna chiuse a doppio giro la porta e se n'andò svelta e frettolosa, coi grigi gheroni della sottana ondeggianti, e il giubbone sanguinante al sole.

Egli rimontò a cavallo, comprò vino in una vicina bettola, e riprese la via della montagna.

Una cupa tristezza, un'inquietudine occulta lo prese. Egli non era mai stato manesco, nè violento, nè ladro; nessuno l'avea quindi mai molestato. Doveva perdere la sua fama d'onesto, la sua pace e la sua piccola fortuna per correre dietro uno sciocco amore mascherato d'odio?

Le percosse e le minaccie contro Paska gli erano sembrate cosa naturale: ora s'accorgeva di tutta la gravità del suo operare e aveva… paura? « No, paura no, paura no! » gridò, fra sè stringendo i pugni sull'arcione e sollevando gli occhi all'estreme rupi dell'Orthobene. Paura di chi? Dei padroni e dei vagheggini di Paska? Essi, uniti tutti insieme contro uno, potevano ben dargli piccoli pugni risuonanti sul cuoio della mastrucca, e gridargli vile con voce tremante; ma che altro potevano fargli? Non accusarlo ai giudici, perchè egli non aveva mai rubato, ucciso, detto il falso. Che doveva dunque temere? Nulla; eppure temeva, e sentivasi debole davanti ad una occulta forza, e paventava misteriose insidie, nascoste come invisibile rete d'agguato tra le foglie sparse al suolo, e fra le rupi, e in tutta quella sconfinata libertà montana che gli sembrava profanata dalla presenza degli adoratori di Paska.

Un sentimento d'arcano timore, simile a quello che zio Pietro provava nelle ore di solitudine, lo assaliva e stringeva; i suoi occhi di falco distinguevano foglia a foglia gli elci e le macchie, e scintilla a scintilla le nere brillanti picchiettature del granito; ma e al di là? e dove l'occhio non giungeva? che c'era dietro le foglie, dietro le macchie, fra i crepacci delle rupi? Venissero fuori i nemici occulti, si mostrassero nella libera luce, ed egli non avrebbe temuto: gli puntassero il fucile in pieno petto, ed egli non si smarrirebbe. Ma temeva l'insidia, l'ombra, il laccio, la sottile rete del tradimento, e pensava:

— L'uccello può salire fino alle nubi, ma basta un po' di vile vischio per imprigionarlo.

Avvicinandosi all'ovile cercò scuotersi e sorridere di quel suo stolto terrore durante il quale non aveva neppur osato formular bene il temuto pericolo; ma col grido delle gazze gli giungeva come l'eco insistente della voce di zia Bisaccia.

La vista di zio Pietro, che al solito stava in attesa ascoltando il passo del cavallo, acuì la sua fiera tristezza. Colpendo il figliuolo avrebbero ferito il povero padre: era possibile tanta viltà? E per chi poi? E perchè? Per una creatura leggera e malvagia!

Il suo cuore amareggiato intuì in quel momento tutta la brutta verità, tutto il pericolo che correva. Paska voleva liberarsi di lui, e, con l'aiuto dei suoi protettori, voleva sopprimerlo, imprigionarlo, allontanarlo…

Quale accusa gli tramavano? Egli non sapeva, ma sentiva; e le parole di zia Bisaccia ora gli foravano il cuore come stili.

Il vecchio s'avanzava nella radura, nel sole; il gatto e il cane gli venivano ai fianchi.

Melchiorre estrasse dalla bisaccia la zucca gialla incisa, levò con due dita il tappo, e la porse al padre.

— Bevete, prendete, ho portato del vino.

Zio Pietro la prese con ambe le mani, e, accostandola alle labbra, rovesciò lentamente la testa all'indietro. Il sole gli battè sul viso, sul petto, sui candidi peli della gola sollevata.

— Bevete, bevete! — incalzava Melchiorre, e lo guardava con tenerezza, ma tenerezza così triste ed amara che pareva dispetto.

S'accorse in quel momento che se un sentimento simile alla paura lo aveva avvilito dopo le oscure profezie di zia Bisaccia, era per quel vecchio dagli occhi morti, che vedeva con gli occhi del figlio e viveva della vita, della libertà e del lavoro del figlio.

— Oh, s'egli non ci fosse stato! — gridò il rancore, filtrandogli il suo veleno nel cuore.

— No, è meglio che ci sia: ti preserva dai tristi passi che coloro per cui vorresti farli non meritano neppure! — rispose una tenua voce che nella sua umile dolcezza nascondeva una segreta fierezza.

Zio Pietro beveva a lenti sorsi; e il vino gli spandeva una calda serenità entro il vecchio petto, allagandogli il cuore d'improvviso benessere. Si tolse di bocca la zucca, e col viso ancor sollevato e le labbra bagnate e rosse di vino, la ritornò a Melchiorre. E Melchiorre anch'ei bevette, ma a grossi e avidi sorsi, dando il volto al sole e l'anima al forzato oblìo d'ogni passata umiliazione. Non si proponeva di dimenticare e tanto meno perdonare, ma di vincer le passioni e d'esser prudente per non amareggiare l'infelice vecchiaia del padre.

I rimanenti giorni d'agosto passarono sereni e tranquilli.

Fermo nel suo proposito, Melchiorre s'acquietò in una cupa serenità, nella rassegnazione amara di chi tutto ha perduto; e continuò nelle solite occupazioni, scendendo all'alba in città per portarvi il latte sempre più scarso e denso, coltivando l'orto ove imporporavano i pomidori, tagliando fronde alle capre, vagando in silenzio pel bosco; zio Pietro proseguì a intagliare e costrurre arnesi di ferula, preparare i pasti con gli erbaggi dell'orto, spazzar le mandrie, ricordare e pensare fra le mute rocce, davanti a quell'attraente orizzonte orientale, dal quale egli non scorgeva salire in lente spire fumiganti i primi e tenuissimi vapori cenerini che annunziano l'agonìa dell'estate.

Nella rinnovellata pace dell'ovile, solo Basilio conservava qualche cosa d'irrequieto: una misteriosa fiamma gli serpeggiava pel sangue, dandogli uno strano malessere nervoso che ad ore lo faceva correre, ridere, saltare e gridare dietro le capre; ad ore lo gettava in languidi torpori d'una dolcezza quasi spasmodica. Lo stordivano gli ultimi calori d'agosto, che per assoluta assenza di vento a giorni erano davvero snervanti, resi più intensi dal riverbero delle roccie ardenti; eppure in certe ore d'invincibile languore, egli si sdraiava al sole come un gatto, lungo disteso, fra l'erbe gialle al meriggio, e si assopiva in un'acre ebbrezza di caldo, in uno svenimento di tutte le fibre rammollite e dei nervi rallentati.

Il bosco taceva, tacevano le campanelle delle capre meriggianti; il cielo ossidato parea sprofondarsi all'orizzonte fra le aride evaporazioni del mare. In quelle ore di immobilità ardente il bosco aveva foschi bagliori d'acciaio brunito, l'oriente vaporava cenere azzurrognola, e le erbe bionde così molli e lucenti nei dì sereni, s'incrudivano e pungevano con aculei d'oro bruciato, come aghi metallici. Basilio si levava affranto e indolenzito, con la voce rauca e la mente pervasa da insidiosi languori. Dopo il folle buonumore del mattino, passava la sera immerso in gravi stupori, poltrone, muto, cupo; e se lo sgridavano, aveva improvvise e insolite rivolte, imprecava, insultava, talvolta scoppiava anche a piangere: poi di notte aveva freddo, si accucciava accanto al fuoco e batteva i denti, col volto cencrognolo e gli occhi smarriti. E nel sonno agitato mormorava continuamente strane cose.

— Cosa diavolo hai? — gli chiese un giorno Melchiorre, guardandolo fisso. — Tu sei malato e non vuoi dir nulla. Dove hai male? Parla!

— Qui — rispos'egli ironico, e curvandosi si toccò il collo del piede(1) Modo nuorese per indicare che si sta benissimo.; e rise, ma già nel suo riso forzato, che aveva perduto la freschezza infantile di pochi giorni prima, era la conferma alle supposizioni del padrone.

— Lì? Ah, benissimo; allora hai qualche grillo per il capo. A che pensi? Se ti ammali quassù e muori, in verità mia che ti lascierò divorare dai corvi.

Basilio alzò le spalle con stoica indifferenza, e nei suoi occhi passò una fredda ombra di tristezza.

— Lasciatemi pure ai corvi od ai cani, come vi piace. Tanto, cosa ci faccio io nel mondo?

— E gli altri cosa ci fanno? — gridò zio Pietro, presente al discorso.

Melchiorre, che sempre aveva un po' invidiato la spensierata adolescenza di Basilio, lo guardava colpito. Anche quello era dunque scontento? Chi dunque poteva esser contento?

— Gli altri? Gli altri? Quali altri? — disse Basilio con sprezzante franchezza. — Voi credete che, perchè voi siete così, gli altri non si divertono? Vedete i signori del Monte, che il diavolo li rapisca! Che fanno quelli? Giocano, ridono, mangiano bene, dormono meglio, suonano la chitarra, ballano, cantano, fanno all'amore con tutte…

La sua voce vibrante d'invidia e quasi d'odio si ripercosse nell'animo di Melchiorre come suono rimbombante entro un profondo vaso metallico, e vi ridestò cupi echi sopiti.

— Anche tu! — gridò, ma tosto desiderò poter riprendere il suo grido perchè zio Pietro volse il viso verso di lui, e parlò, rispondendo in apparenza al mandriano, ma in realtà a tutti e due:

— I signori! Cosa credi sieno i signori? Uomini come noi. E ti credi che sono contenti? Un corno! Ohi, ohi, ragazzo, perchè te lo fai dire? siamo tutti nati per soffrire, e portar la nostra croce. Al posto di quei signori che ti sembrano felici, se tu sapessi cosa bolle nella loro pentola, tu non ti ci vorresti neppure morto. Dietro i loro giochi c'è un mostro che li divora: sono deboli e malati di corpo, e vili e miseri d'anima. Sono pieni di debiti, di cure, d'ansie, e il loro riso è come il tinnìo argentino di un piatto già rotto e che pur sembra nuovo. Fanno all'amore con tutte, ma non amano e non sono amati da nessuna donna, come potrai esserlo tu se crescerai e ti procurerai onestamente un ovile e un branco di capre. Suonano, suonano ! — esclamò poi con sottile ironia. — Suonano come ronza la mosca in autunno quando sta per morire. E a te chi impedisce di suonare ? Va nella valle, taglia le canne tenere e fabbricati un paio di leoneddas come i pastori del Campidano. La tua musica sarà sempre migliore di quella della chitarra dei signori. Mangiano e dormono? — proseguì. E tu forse non mangi e non dormi? Perchè non mangi cose buone? Ma sai tu che quelli lì le cose buone le digeriscono assai peggio che tu il pane d'orzo ? Sa matta siat prena, siat de paza o siat d'arena(1) La pancia sia piena, sia di paglia o sia di rena.. Purchè sia pulita l'anima !…

— È vero… — cominciò Melchiorre.

— Bah ! Cominciate ora voi un'altra predica ! — disse Basilio seccato; e se ne andò via fischiando.

Più che tutte le prediche dei padroni gli fece bene il permesso di scendere una mattina a Nuoro. Nel cortiletto di zia Bisaccia, invece che al solito posto legò il cavallo vicino ad un palo intorno al quale s'attortigliava un'esile pianta di vite.

Prima di ripartire staccò dalla vite una manata di foglie che si ficcò in tasca per recarle alla lepre. Anche il cavallo allungò un po' troppo il collo, annusò la vite e ne strappò coi lunghi denti gialli qualche foglia. Mai ciò fosse accaduto ! Zia Bisaccia slanciossi urlando nel cortile, percosse la bestia ed ebbe un fiero battibecco con Basilio che dovette saltare a cavallo e scappare. La donna lo accompagnò con una violenta scarica d'insulti, minaccie e fiche.

— Lo vedi il villano mal venuto dal suo paese! Al diavolo chi t'ha portato qui! Asino, cialtrone, bestia! Truh, truh, truh!(1) Voce per aizzar le bestie.. Lasciami venir qui il tuo padrone chè aggiusteremo i conti. Lo vedi! che vieni in casa mia a rovinarmi ? Sentito lo hai? In casa mia sto meglio di quello che sta tua madre nella sua buca, e non voglio seccature. Se non fosse perchè non hai che il cielo da vedere e la terra da calcare, ti citerei per i danni; la vedremmo. Truh, l'asino, truh…

Basilio era sparito. Nonostante i vituperi di zia Bisaccia si sentiva lieto e leggero come un uccello. Spaventato dalle percosse e dalle grida, il cavallino trottava rapido e colle orecchie ritte.

Il mattino era diafano e azzurro: invece di tornare direttamente all'ovile Basilio passò sul Monte, e vide Paska e le parlò.

Fra i suoi piaceri e i suoi trionfi, e nonostante le alte protezioni di cui godeva, ella viveva d'ansie e di paure; vedendo il mandriano, cambiò colore, ma gli si mostrò ironicamente benevola.

— E di laggiù? — chiese, accennando col mento verso l'ovile. — Altra minaccia hai da dirmi?

— Pare così! — diss'egli facendo il coraggioso. — Se non dai attenzione, vedrai cosa ti accadrà, agnella mia!

— E cosa m'accadrà ? — diss'ella con sprezzo.

— L'altro giorno hai fatto presto ad andartene, altrimenti te lo avrei detto io cosa rispondere.

— E cosa?

— Questo solamente! — E sputò e passò il piede sulla saliva.

Basilio seguì con gli occhi l'atto di lei; poi la guardò fisso e sorrise.

— Eppure quel giorno non avevi voglia di scherzare così, bella mia: è che sono in fretta e se tardo ancora egli mi massacra, altrimenti te ne direi qualcheduna…

— Di' di', di'… — incalzò ella, tradendosi, più paurosa che curiosa.

— Non posso indugiare, ora.

— Aspetta, aspetta! — Ella lo tratteneva: egli le sfuggì rosso di piacere, dicendo che sarebbe tornato l'indomani.

— Domani torniamo tutti a Nuoro, all'alba. Vieni almeno stassera.

— Tornerò ! — egli gridò, e fuggì via sul cavallino, fra le pietre della radura.

Quel giorno egli parve riprendere la spensierata letizia di prima: erano grida, risate, fischi, belati che si spandevano follemente per la china, con brevi ma sonori echi perdentisi in alto, nell'aria pura del bosco.

A pranzo raccontò ridendo la storia di zia Bisaccia che voleva citarlo per le foglie strappate alla vite.

— Pascolo abusivo ! Quella donna deve aver in corpo lo spirito del male!

Ma tacque dell'incontro con Paska, e per tutta l'ora della siesta, invece d'assopirsi morbosamente come nei dì passati, sdraiato pancia a terra, con le punte dei piedi e i gomiti fissi al suolo, e il mento sulle mani intrecciate, escogitò il modo di potersi recare segretamente al Monte. L'idea di riveder Paska lo affascinava, dandogli un piacere ardente come la vampa di sole che battendogli sul dorso e sulle reni lo investiva di calde dolcezze. Non sapeva come avrebbe fatto per assentarsi, ma sentiva che assolutamente sarebbe andato lassù. A un tratto l'idea venne, e balzante e acuta. Si levò, e assicuratosi che nessuno lo vedeva, afferrò per le corna una giovine capra nera che meriggiava nella corta ombra di un cespuglio. E la fece rizzare, e se la trascinò dietro reluttante, parlandole dolcemente, sommessamente, per convincerla a seguirlo docile.

— Vieni, vieni con me, Fior di pervinca, vieni, che non è poi per ammazzarti. Cammini o non cammini, bella mia? Andiamo, caprettina, andiamo, che il portarti dove ti porterò io non è poi un colpo d'archibugio sardo che ti trapassi il cuoricino! Vieni; resterai solo fino a stanotte, laggiù; ti getterò fronde e siepi, e non creperai; vieni, vieni, Fior di pervinca; è necessario che tu venga, alò!

Camminarono così circa un quarto d'ora. Basilio si volgeva ogni tanto, scrutando le chine soleggiate, ove non scorgeva nessuno; anche la capretta volgeva il capo belando, ma niuna delle compagne già lontane rispondeva. Così la povera Fior di pervinca si trovò in fondo a uno speco ombreggiato da folte siepi, imprigionata fra grosse pietre che Basilio fece rotolare dall'alto. Egli le recò poi fronde d'elce e manate di fieno, e rimase finchè la capretta cessò di belare. Poi s'allontanò di corsa: le capre meriggiavano tranquille, nessuno erasi accorto della sua assenza; e solo sul tardi, al declinar del sole, egli fece conoscere al padrone che Fior di pervinca mancava.

— Va a cercarla! — disse Melchiorre, dopo essersi assicurato della verità. — E se non la riconduci, non ricomparirmi davanti, poltronaccio accidioso.

Egli se n'andò allegramente dalla parte della chiesetta: all'uscir del bosco vide il sole, senza raggi e vermiglio come una enorme melagranata, cader lentamente dietro l'infuocata catena delle lontane montagne. In cielo cerchi porpurei degradavano in cerchi rosa-violacei sfumati nel caldo azzurro dello zenit.

Arrossati dal lento tramonto i boschi tacevano, le calde rocce apparivano porpuree, le felci e le erbe avevano riflessi rosei: e in quel gran silenzio rosso, in quella intensa luce d'incendio, Basilio rivide Paska, il cui viso luceva smaltato di rosa, e gli occhi avevano chiare fosforescenze di fiamma.

Ella forse lo aspettava, perchè l'accolse con sorriso malizioso, dicendogli:

— Ora c'è la novena: la diciamo presto, stasera, perchè poi andiamo ad accendere l'ultimo falò in monte Bidde. Entri alla novena?

— Sì.

— Poi verrai a monte Bidde!

— Sì.

Egli rispondeva sì ad ogni cosa. Era possibile rispondere altrimenti alla bella Paska?… E se riferivano al padrone d'averlo veduto a ragionare con lei, a seguirne i passi?

Il padrone era lontano, ed egli in quel momento non lo ricordava neppure.

Il campanello della novena squillava, chiamando, insistendo, vibrando. Basilio seguì Paska come il cagnolino del collare lucente, che non gli destava più alcun desiderio, seguiva il padroncino di lei.

In chiesa si fece il segno della croce, e non sapendo altro, ricordò e recitò alcune originali preghiere popolari, apprese nella sua infanzia.

Deo mi sinno sa rughe, Sa vera rughe, Sa rughe vera, Sa Madalena, Santu Franziscu, Santu Fhilippu, Santu Juanne; Morte mai no' m'inganne, Nè a die nè a notte, Fin' ass'ora 'essa morte, Fin' ass'ora 'essa fine; S'anghelu serafine, S'anghelu biancu; In nomen de su Babbu, De su Fizu e de s'Ispiridu Santu(1) Io mi segno la croce — la vera croce — la eroce vera — la Maddalena — San Francesco — San Filippo — San Giovanni — morte mai non m'inganni — nè in giorno, nè di notte — fino all'ora della morte — fido all'ora della fine — l'angelo serafino — l'angelo bianco — In nome del Padre — del Figliuolo e dello Spirito Santo..

Poi, sollevando gli occhi alla Madonna, col cuore intenerito recitò fervidamente:

Frisca sezis cale rosa, Frisca sezis cale lizu, Mama de su Santu Fizu, Mama de su Fizu Santu; In nomen de su Babbu, De su Fizu e de s'Ispiridu Santu(1) Fresca siete quale rosa— fresca siete quale giglio — Madre del santo Figlio — Madre del Figlio Santo — In nome del Padre — del Figliuolo e dello Spirito Santo..

La novena finì tardi perchè, essendo l'ultimo giorno, oltre le solite preghiere il sacerdote recitò ad alta e cadenzata voce una lunga e monotona invocazione, pregando pace ai defunti devoti della Madonna, felicità e prosperità ai vivi, sperdizione delle eresie, conversione degli infedeli, gloria al Sommo Pontefice e alla Santa Chiesa cattolica, vittoria degli angeli contro i demoni… S'anghelu serafine, S'anghelu biancu, In nomen de su Babbu, De su Fizu e de s'Ispiridu Santu. mormorava Basilio fervidamente, e pregava per il Papa, per la conversione dei Turchi, per la vittoria degli angeli. I ginocchi gli doloravano, pungendoli i legacci delle ghette, e il pensiero cominciava a volgersi con inquietudine verso l'ovile, entro lo speco ove Fior di pervinca dovea gemer lamentosi belati; ma Paska era lassù, inginocchiata sui gradini dell'altare, la testa reclinata con civetteria, e il corsetto di velluto color sangue di drago rosseggiante al luminoso crepuscolo. Ella pregava e Basilio pregava; ella non si muoveva e Basilio non poteva muoversi; ella fu fra le ultime ad uscire, e Basilio uscì dietro di lei.

Fuori i cerchi dell'orizzonte avean preso una calda tinta violetta venata di rosso, stendendosi, slargandosi, svaporando lentamente. E in quel melanconico e ineffabile sogno di viola, la luna nuova calava rossa come un doppio corno di corallo. Quel giorno doveva essere stato ardentissimo nel piano, se tanti caldi vapori si adunavano nell'orizzonte, dando al novilunio il colore delle brage; ma sull'Orthobene, sebbene il bosco tacesse immobile nel silenzio rosso della sera, l'aria aveva solo un tepore gradevole, una ineffabile pace di sogno. E in quella pace e in quel sogno, sotto gli alberi tacenti, fra le roccie erette al vespero, attraverso l'alto paesaggio flagrante, che sembrava assorto nella contemplazione dei grandiosi orizzonti violetti e nell'adorazione del mistico novilunio vermiglio, la gente se ne andò ad accendere l'ultimo falò sulle creste vigilanti Nuoro lontana.

Le voci vibravano commosse dall'ora, con cadenze flautate; i gridi dei bimbi parevano pigolii d'uccelli. Ognuno trascinava seco un ramo, uno sterpo, una fronda; i fanciulli salivano sulle roccie, scendevano, saltavano, risalivano, campeggiando neri sullo sfondo solitario del cielo.

Basilio veniva dietro, serio, con occhi spalancati, meravigliato di trovarsi fra quella gente e in quel luogo: la sua inquietudine aumentava, Paska non badava a lui. Perchè era venuto, perchè andava dietro quella gente allegra, quelle serve che ridevano, quei signori che fischiavano, quei fanciulli che saltavano sulle pietre?

E il padrone che l'attendeva? E la capretta che belava in fondo allo speco?

E perchè Paska, che se lo tirava dietro, non sembrava neppure ricordarlo?

Si giunse alle rupi di monte Bidde ed ei fu messo ad accomodare i rami e le fronde che tutti gettavano una sull'altra, e ad appiccarvi fuoco. Sulle roccie i piccoli elci selvaggi sfumavano nel cielo cinereo: sotto monte Bidde i boschi scendevano compatti, stendendo un folto e fluttuante mare di verde, una cascata arborea precipitante giù per le scoscese chine.

E giù le valli dormivano nell'ombra; Nuoro biancheggiava nel crepuscolo, ed altri borghi lontani apparivano nei desolati paesaggi cinerei: le montagne dell'orizzonte s'ergevano in vasto circolo bronzeo, in quell'ardore violetto del ciclo che verso est e nord s'illanguidiva in soavi vaporosità di perla lilla-rosea.

Il fuoco guizzò scoppiettando, emanando un denso cirro di fumo rosco punteggiato di scintille d'oro, che s'elevò tortuoso, e poi abbassandosi si sparpagliò sulla verde cascata del bosco, su cui la fiamma gettava sprazzi di luce sanguinante.

Ritte o sedute qua e là sulle roccie, le figure dei novenanti campeggiavano oscure come statue sui grigi piedistalli del granito illuminato dal fuoco e dai riflessi dell'orizzonte: il cagnolino nero fermo sulle quattro esili zampette, proprio sulla più alta cima, gettava al cielo violaceo lo squillo del suo campanello.

Paska degnossi alfine ricordare Basilio e lo attirò dietro una sporgenza di rupe: coprivan la loro voce il chiaccherìo delle donne, le grida dei bimbi e il canterìo degli uomini ritti presso il falò.

— Ancora qui sei? — gli disse beffarda come lo avesse perso di vista. — E se il padrone ti cerca?

— Non mi trova! — rispos'egli, fissandola arditamente, esasperato dal dispetto e dall'inquietudine.

— Dunque, parliamo. Cosa è, cosa è che egli dice e minaccia? Cosa ha detto quando ha saputo che le sue ingiunzioni e le sue minaccie m'entrano in un orecchio e m'escono dall'altro? Di' di', parla, ragazzino.

Indispettito da quest'ultima parola, egli rispose:

— E perchè vuoi saperlo, se t'entra in un orecchio e t'esce dall'altro?

— Così, per curiosità. Parla, parla… come ti chiami tu?

— Col mio nome.

— Lasciamo le burle — diss'ella facendosi seria. — Ripetimi com'è che ti disse quando venisti a parlarmi nella chiesa; ripeti quelle precise parole.

— Non ricordo.

— Via, non far l'asino. Mi dicevi che se non me ne andavo subito subito, mi avrebbe fatto finir lui i divertimenti. È così o non è così?

— È così?

— Che cosa voleva dire con quelle parole? Che mi avrebbe ammazzata; o non è vero che voleva dir così?

— Sicuramente — mentì egli.

— E allora perchè non l'ha fatto? Vedi che i divertimenti non li ho ancor finiti. Vedi stasera che bel divertimento? — Accennava al falò; ma Basilio sporse il labbro inferiore con noia sprezzante. — Non ti pare? Forse vi divertite altrettanto fra le vostre capre? Dunque, parla, cosa sono le altre minaccie, parla, parla, che il diavolo ti porti, o ragazzo straniero.

Lo prese per le braccia e lo scosse vigoro-samente: egli traballò e fu per precipitare nell'abisso roccioso che sprofondavasi ai loro piedi. Non cadde perchè Paska lo rattenne emettendo un leggero grido di spavento; ma da quell'istante egli cadde in un abisso ben più profondo.

Disse tutto ciò che ella gli fece dire: sì, Melchiorre minacciava sempre ammazzarla, o per lo meno rapirla e portarla legata all'ovile, ove ne avrebbe fatto scempio, lasciandola poi morir d'inedia, o precipitandola giù per dirupi, dove neppur le capre passavano.

— E sono il suo sangue? — esclamò ella con sincero terrore. — Il suo sangue sono! I nostri padri eran figli d'una stessa madre, proprio fratelli, sai! Cosa gli ho fatto io, cosa?

— Facevate l'amore, voi…

— Facevamo un corno! È lui che s'era messo in testa delle idee sciocche, a cui io rispondevo no, e no, e no! Poi, quando compii il ventun anno, nel mese d'aprile, gli dissi: « Ora sono padrona di fare quel che mi pare e piace; scostati, e non molestarmi più, che non voglio esser appestata dall'odor del siero… ».

— L'odor del siero! — ripetè Basilio, parlando a sè stesso.

Ella capì di averlo offeso, e siccome le premeva tenerselo amico, gli sorrise dicendo:

— … quando proviene da una bestia come il tuo padrone. Non è vero che sembra una bestia? Sembra una pecora bianca a cui il fango abbia ingiallito il vello. E diglielo pure, se vuoi dirglielo!…

— Tu parli così perchè sai ch'io non gli dirò mai nulla!

— C'è pastore e pastore — ella osservò seguendo la sua idea — ma egli non è neppure pastore; è un animale sporco, mentre ci son pastori che valgon più dei signori in paltò.

Basilio, che già guardandosi nella fontana, meno ingenuo di Narciso, erasi accorto del suo bel viso, credette ch'ella accennasse a lui, e ne provò uno sciocco piacere.

— E diglielo pure da parte mia, e digli che, poichè egli vuol beversi il mio sangue, io terrò forte finchè potrò per riguardo di quel povero cieco. Ma che non provochi la mia pazienza, perchè allora metterò da parte ogni riguardo, e, giacchè lo vuole, ci beveremo il sangue a vicenda…

— Io non gli dirò nulla.

— Ah, non gli dirai nulla? Farai bene, perchè potrà poi pigliarsela con te. È così matto! Ma non temere tu; tu pure sta forte, ragazzino. C'è Paska Carta che ti protegge — e si toccava il petto con un dito — e Paska Carta ha chi la difende. Se io avessi voluto — aggiunse abbassando la voce — a quest'ora egli sarebbe in prigione, come grillo entro un tubo di canna. E se continua a molestarmi gli farò vedere chi è lui e chi son io; che non basteranno le corna' delle sue cento capre a liberarlo dal laccio in cui verrà avvinto.

Basilio non seppe che rispondere a tanta spampanata; e restò silenzioso, gli occhi fissi in lontananza, assorto in tristi contemplazioni.

Il falò andava spegnendosi, al suo rosso bagliore poco prima ondeggiante sul bosco e sulle roccie, subentrava l'ultima luce violacea dell'orizzonte.

I paesaggi cadevano nell'ombra: la luna incurvavasi sempre più corallina nel suo lento tramonto.

— Basta — sospirò Basilio, scuotendosi — io ora me ne vado. Voi arrangiatevi: a me basteranno le grida e gli improperi con cui egli stasera mi coprirà. Ora me ne vado.

Ma sospirò ancora e non si mosse. Di tutte le impressioni provate in quel giorno, ora gli restava una indistinta tristezza, un doloroso desiderio di non più tornare all'ovile, e di restar lì, su quella sporgenza di roccia, ma di restarvi con Paska finchè tutta la gente se ne fosse andata. E allora, quando tutta la gente se ne fosse andata, quando nell'orizzonte si fosse spento quel misterioso ardore di viola, egli forse si sentirebbe coraggio e forza di dir a Paska cose mai prima dalle sue labbra pronunziate. Ella contava tre anni più di lui, ma sembrava una ragazza quindicenne: egli era tanto fanciullo ancora, ma il suo cuore pulsava virilmente, pervaso da ineffabili desiderii; e ogni palpito era una parola, un grido di passione angosciosa e quasi feroce. Diceva questo grido:

— Io ho gettato la capretta in fondo allo speco per poterti venire a trovare, e sarei pronto a commettere un delitto per te. Paska, vuoi che ammazzi ad una ad una tutte le capre di Melchiorre? Vuoi che uccida lui? Vuoi che uccida il vecchio zio Pietro? Parla, parla: io mentirò, io ucciderò, io farò tutto quello che tu vorrai, tutto per amor tuo. Ma restiamo qui soli. Soli. Lascia andare questi signori che io odio perchè preferiti da te: restiamo soli, restiamo soli, restiamo soli…

E la gente cominciò ad andarsene; ma avendo veduto i piccoli occhi del padrone rifulgere a poca distanza, Paska saltò giù dalla sporgenza della roccia, e Basilio si scosse dal sogno appassionato. Dal basso ella gli disse:

— Ci rivedremo a Nuoro qualche volta, se tu ci scenderai. Ci scenderai?

— Non lo so — egli rispose sgarbatamente. La seguì con gli occhi, la vide saltar svelta di pietra in pietra, voltarsi per chiamare il cagnolino che le corse dietro, e sparir nel crepuscolo estremo. Egli rimase solo: udì le voci e le risa perdersi lentamente nel silvestre sentiero, dietro le roccie, nel rosso novilunio; poi vide l'orizzonte spegnersi in oscure tinte paonazze. Allora tornò all'ovile, triste, avvilito.

Dalla capanna, ove era acceso il fuoco, usciva una grassa fragranza d'arrosto; e al di fuori, nell'ombra appena rotta dal barlume che usciva dall'apertura, Basilio vide pendere un roseo corpo dalle zampe penzolanti. Era la povera Fior di pervinca morta e scuoiata. Cercando uscir dallo speco aveva ficcato la testa fra due pietre, e ricercandola Melchiorre l'aveva trovata soffocata.

Basilio s'accostò, palpò le fresche carni per assicurarsi che gli occhi non l'ingannavano; e non osando entrar nella capanna si sdraiò al di fuori gemendo sommessamente.

— Sei ritornato? — chiese zio Pietro.

Egli non rispose.

— Tornato sei, Basilio? Cosa hai?

— Sono mezzo morto — diss'egli con voce rotta. — Ho percorso tutto il Monte, ma vedo che avevo sbagliato strada. Ohi, zio Pietro mio, che sono morto.

— Sta zitto! — gridò Melchiorre, che arrostiva i visceri della capra. — Se esco fuori ti faccio morir davvero, e peggio del come è morta questa povera bestia.

Ed egli stette zitto, rattenendo persino il respiro, con le orecchie tese. S'era il padrone accorto della sua mancanza? Che gli avrebbe detto l'indomani, quando zio Pietro non li avrebbe uditi?

Ma nè il domani, nè poi Melchiorre gli rivolse parola di rimprovero. Venne e passò il settembre, venne e inoltrò l'ottobre. A giorni imperversava il vento, cangiando gli elci in altrettanti demoni dalle cento braccia pazzamente mosse, dai cento urli profondi; e pioveva, e faceva freddo, e la nebbia umida e amara saliva, scendeva, ondeggiava, avvolgendo or la base or l'estremità del bosco e delle roccie in grigi velari. Poi vennero i soavi giorni d'autunno. L'erba fine e lucente rinasceva sulle chine, sul molle terreno che fumava al sole: e le roccie scoperte apparvero lavate e chiare, il musco e l'edera s'imbrunirono, e tutto il bosco, dai tronchi anneritì alle foglie umide, assunse profonde tinte scure. Ma il sole d'autunno dilagava con intense dolcezze nei tiepidi pomeriggi tranquilli: dal mare fumavano bianchi vapori luminosi, e a giorni il cielo si copriva di piccolissime nuvole, candide, rotonde, sparpagliate, che seguivano il sole in lenta marcia, e lo raggiungevano è lo velavano. Allora il suo disco argenteo senza raggi precedeva seguìto dalla grande distesa di quell'ondeggiante greggia aerea, che si stendeva a ventaglio, luminosa sul fondo chiaro del cielo.

Basilio assomigliava quel puro e lento passaggio di nuvole, a un'immensa greggia di agnelli autunnali, dal vello candido e ricciuto come seta; e il pallido disco solare che per l'infinita pianura celeste apriva la strada verso ignoti pascoli, gli sembrava il fortunato pastore di tanta ricchezza. Restava lunghe ore assorto in questa strana contemplazione, col volto all'insù, riunendo nella sua selvaggia percezione il lato poetico al lato positivo della visione. Oh, possedere tutte quelle greggie! E una tanca (pascolo) immensa e piana come il cielo! Zio Pietro raccontava una storia di due pastori che sdraiati all'aperto, in una serena notte estiva, avean desiderato, uno posseder una tanca grande quanto il cielo, l'altro tante pecore quante stelle brillavano sul firmamento.

— E dove le pascoleresti? — chiese il primo.

— Nella tua tanca.

— Ma io non te l'affitterei.

— Ed io entrerei lo stesso.

— E io ti pesterei il muso.

— E fanne la prova!

S'azzuffarono; e le stelle risero di loro.

Per evitare dunque ogni inconveniente, Basilio desiderava tutto, e la tanca vasta come il cielo e le greggie numerose come le nuvolette dei rugiadosi mattini e dei tepidi pomeriggi.

— Che ne faresti? — chiese zio Pietro, al quale espresse un giorno il suo desiderio.

— Mi ammoglierei!

— Veramente! — disse il vecchio, sorridendo appena. — Quanti anni hai? Diciotto? Baffi hai tu per pensare a queste cose? Del resto non occorre avere il cielo e le nuvole per procurarsi l'amore d'una donna onesta. Io, quando tornai dal servizio militare, non avevo nulla, neanche la punta d'un capello. Ma avevo buoni amici, che mi donarono e mi fecero donare dai buoni pastori una capra ciascuno. Così mi misi a fare il pastore, e Maria Grazia mi sposò e fummo felici.

— Eravate più vecchio di vostra moglie?

— No, credo che ella avesse qualche anno più di me; ma era la più buona massaia di Nuoro. Faceva persino i formaggelli dal cacio di capra e sembravano di cacio di vacca. E dalla lana che essa filò, le capre da trenta diventarono cento, e zio Pietro potè acquistare il terreno per pascolarle tutto l'anno. Comprendi?

Basilio comprendeva, e una gioia luminosa come quel celeste mattino d'autunno gl'invadeva il cuore al pensiero che forse un giorno Paska lo avrebbe voluto per sposo, anche senza la tanca vasta come il cielo e le greggie numerose come le stelle. Ma dietro la gioia luminosa si celavano insidie profonde nel suo cuore, perchè Paska non era l'antica onesta Maria Grazia, e il cuore di Basilio non era il cuore puro di zio Pietro.

Dopo quel giorno, più intensamente avvolse il mandriano il desiderio di scendere a Nuoro; ma avendo le capre pregne, che ora pascolavano lente e gravi, cessato di dar latte, neppur Melchiorre s'assentava, e mai gli permetteva il desiderato viaggio alla città. Solo talvolta, quando qualche caprone si smarriva, Basilio andava verso la chiesa, desolatamente grigia e umida nel circolo dei boschi bruni sfumati nella nebbia: una triste malia lo sospingeva lassù, e poi verso Monte Bidde, fino alla sporgenza dìroccia ove Paska, guardandolo entro gli occhi, gli era penetrata nell'anima. Dove era ella ora? Gli elci mormoranti sotto i grigi cieli conservavano ancora nel loro susurro qualche nota dei liquidi gridi del flauto e i rintocchi di rame della chitarra; e tutta la montagna irrorata di nebbia esalava irritanti fragranze come in quella sera; ma ella, ella dov'era? Egli se lo chiedeva con ispasimo, e avrebbe voluto gridare dalle cime tutta la violenta passione che lo stringeva: gridare, urlare, implorare, in modo da riempir tutta la montagna con le sue voci. Mai aveva pensato a sua madre e guardato il suo lontano villaggio, come ora pensava a Paska, e guardava verso Nuoro grigia sotto i grigi bagliori dell'orizzonte.

E passò l'ottobre e passò il novembre. Nulla di nuovo all'ovile, tranne una sera in cui giunse un giovinotto paesano, ben vestito, leggiadro e roseo di viso. Era uno dei figli di zia Bisaccia.

— Salute! — gli disse Melchiorre. — Che buon vento ti porta qui?

L'altro rispose, ridendo, che lo accusavano d'aver rubato delle vacche.

— E piuttosto che andarmene a schiacciar cimici al servizio del Re, come i miei fratelli, preferisco passeggiare in campagna.

— Ma le hai rubate le vacche?

— Macchè!

— Allora, osservò zio Pietro — sarebbe meglio costituirti. Si dilucideranno meglio le cose.

— Andate! Andate! Non voglio morir di fame, quest'inverno; perchè, sapete, là dentro danno una scodellina d'acqua con olio e due fette di patate, e un pane. Un pane solo al giorno, capite? Così il Re mantiene quelli che sono al suo servizio; e ad alimentare un corpo cristiano non ci vuol solo un pane, e una cucchiaiata d'acqua con olio, peggio dell'olio di ricino.

— E tua madre non può mandarti il pranzo ogni giorno?

— Prima ella s'appicca. « Mangiate quella che vi dà il Re, giacchè vi siete messi al suo servizio », dice!

Egli recava sulle spalle una piccola bisaccia di cuoio; se la tolse, ne slargò l'apertura, ed estraendone un mazzo di carte propose una partita al lanzichenecco. Nessuno sapeva il gioco, e d'altronde zio Pietro non redeva e Melchiorre non aveva voglia di giuocare. Basilio accettò una partita alla scopa.

— Hai tu denari? — chiese il giovine.

Basilio, con le mani in tasca, alzò le spalle sorridendo.

— E neppure una capra? — aggiunse l'altro gettando le carte.

— Neppure.

— E allora facciamo così: io ho qui una gallina (e guardò con un solo occhio entro la bisaccia). Non è rubata, sai, no, l'ho presa di casa; mia madre strillerà, accorgendosene, ma non incolperà nessuno, perchè ella dice che, finchè ha dei figli fuori del carcere, e le verrà rubata qualche cosa, non dubiterà mai d'altri… Basta, infine facciamo così: se perdo io, Melchiorre infila la gallina nello spiedo; se perdi tu, ti do sette scappellotti.

— Accetto.

Seduti per terra giocarono, alla luce del fuoco, e il figlio di zia Bisaccia rideva come un fanciullo, raccontando notizie di Nuoro e storielle amene. Il cane, il gatto, e più indietro la lepre elegantemente adagiata così che sembrava un gomitolo di seta bionda, con gli occhioni riflettenti la fiamma, guardavano intenti. Fuori la nebbia pallida saliva, inondando i vertici di amari vapori, e la pioggia scrosciava sugli elci, bagnando le povere capre, dal cui vello sporco l'acqua gocciolava gialla, e il cavallino, la cui macchietta immobile e rassegnata sotto l'enorme fantasma dell'elce appariva or sì or no fra la nebbia.

Melchiorre guardava dall'apertura della capanna, dominando tutta quell'umida tristezza, e una domanda gli premeva sulle labbra mentre il paesano raccontava le novità di Nuoro. Ma non osava. Anzi, in fondo, s'irritava contro la sua curiosità, perchè, dopo tutto, dopo il voto pronunziato sul capo paterno, che gli aveva svelto dall'anima quasi ogni vitalità, per cui negli ultimi mesi era vissuto come automa, senz'altra volontà che quella di mantener la promessa, che poteva e doveva importargli di Paska?

Vinse Basilio, forse per generosità dell'avversario, il quale possedeva un ottimo cuore, e rubava le provviste di sua madre per portarle alle sue amanti povere. (Anehe le vacche le aveva realmente rubate, ma per venderle e col ricavo pagare una cambiale d'un suo povero amico). La gallina, nera picchiettata di bianeo, venne fuori dalla bisaccia, e fu pelata e passata alla fiamma: dentro aveva un grappolo d'uova, alcune già grosse e gialle. Ahi quanto doveva strillare zia Bisaccia!

Infilando la gallina nello spiedo, Melchiorre aprì le labbra per far la domanda che lo vinceva. Sollevò gli occhi, vide il volto del giovine roseo e ridente, e non osò. No, no, no: cosa gl'importava? Era così vile da interessarsi ancora d'una donna che aveva percosso e vituperato?

La gallina fu arrostita, fra i continui sbadigli e gl'inarcamenti di schiena del gatto che seguivail rotolar dello spiedo con occhi fosforescenti: fuori la pioggia aumentava, e la nebbia saliva fino alla capanna; dall'apertura oramai non scorgevasi che uno sfondo grigio indefinito, pervaso da un sonoro e continuo scroscio. Parea che invisibili torrenti cerchiassero la capanna, e che questa galleggiasse sola e perduta nella vastità di acque grigie vaporanti. In questa solitudine nebbiosa i quattro uomini cenarono: e sembrava che il bandito non temesse insidie, sicuro che niuna potenza umana potesse penetrare traverso i vapori di quel grigio mare fragoroso; e che i pastori obliassero che al di là delle nebbie esistesse altro mondo e altra gente.

Eppure Melchiorre sentiva sempre la gola stretta dall'amara domanda, e mangiando, ridendo, chiacchierando, non cercava che il momento opportuno per liberarsene. Conducendo con abilità il discorso, parlò della molta gente che quell'anno aveva fatto la novena alla Madonna del Monte.

— Oh — disse a un tratto, rapidamente, col boccone pieno, sforzandosi all'ironia — e cugina mia cosa fa?

Basilio tese il fine arco delle sopracciglia; ma il paesano corrugò le sue e cessò di sorridere.

— Non ne so niente — disse con indifferenza.

Melchiorre capi che eglì invece ne sapeva troppo, e lo incalzò di domande.

— Cosa fa essa? Cosa fa? L'hai veduta?

Ha l'impronta ancora dei miei schiaffi? Fa ancora l'amore coi signorotti?

— Coi signori e coi rustici — rispose l'altro seccamente, e il discorso cadde, lasciando una impressione di rabbia e tristezza nel cuore di Melchiorre e di Basilio.

Poi zio Pietro raccontò una storiella.

— Sentite, una volta un mercante andò in un regno lontano, ove c'erano tanti topi che il re mangiava sempre pane, perchè il formaggio se lo rodevano quelli…

— Figuriamoci allora cosa davasi da mangiare in carcere! — sogghignò il paesano.

— Basta, cosa fa il mercante? Tornato al suo paese prende tanti gatti e li porta in regalo al re, il quale, vendendo la strage che i gatti facevano dei sorci, dona al mercante tanti sacchi di oro. Poi, tornato il mercante al suo paese, un compagno invidioso pensa: se quel re regala tanto oro per tre o quattro gatti, cosa darà se gli portano cose di più gran valore? Cosa fa, prende e gli porta tutto il suo patrimonio in doni, oro, perle, broccato, vino, ecc.

— Anche formaggio? — chiese Basilio.

— Anche. Ad ogni modo, sapete cosa fece il re? Siccome il visitatore, maligno, non aveva detto che era del paese di quell'altro, il re, credendolo d'un regno di topi come il suo, gli regalò sei gatti! E l'altro si rimase con tanto di naso.

Al paesano piacque tanto la storiella, che dopo quella sera ritornò quasi ogni giorno all'ovile: e sempre recava vino, lardo, pane bianco, salame, uova, carne, e inondava e rallegrava col suo riso spensierato la capanna oramai quotidianamente desolata dal freddo. Benchè zio Pietro e Melchiorre temessero che un giorno o l'altro i carabinieri salissero e acchiappassero l'allegro giovane lassù, gli si affezionarono; e talmente s'abituarono a vederlo, che se qualche volta mancava s'inquietavano, e nel freddo cerchio dell'inverno precoce sentivano più rigida la tristezza della solitudine e della mala stagione.

Per di più quell'anno gli elci di quel tratto di montagna non avean dato ghiande; quindi nessun pastore porcaro essendo venuto lassù, il bosco restava desolatamente, freddamente deserto sotto le continue nebbie. Gli uccelli eran migrati, le roccie umide assumevano tristi tinte verdastre e rugginose, e dal mare oramai invisibile, continuamente rigurgitavano nubi e vapori cinerei e lividi, d'inesprimibile tristezza: e dietro le lontane montagne, scialbe al mattino e cupamente bronzee alla sera, le nuvole descrivevano altre montagne, misteriosamente alte e livide, talvolta orlate di gialli bagliori, o illuminate da arcani tramonti foscamente vermigli, immobili sul morto fondo del cielo come montagne fantastiche intravedute in paurosi sogni. Ai primi di dicembre nevicò, ma un leggero nevischio che tosto si sciolse.

Fra il gatto assopito e la lepre, i cui occhi fissi nelle fredde lontananze sognavano sempre la fuga, zio Pietro restava entro la capanna: e ora che Melchiorre s'assentava di rado, e che pareva avesse obliato, egli si sentiva un po' tranquillo, e pregava che l'inverno non diventasse molto rigido, che molti capretti venissero alla luce, che molto latte gonfiasse le mamme delle capre. E poi? Egli non vedeva la nebbia, ma sentiva il freddo; e lo scrosciar del bosco contorto dal vento gli dava intera la percezione dell'inverno; ma per la sua antica esperienza sapeva che il vento, la pioggia, la nebbia e la neve erano necessarie perchè la terra s'impregnasse d'umido, gli alberi si spogliassero delle foglie inutili, le sorgenti rigurgitassero di acqua, e ogni cosa infine raccogliesse dall'inverno i germi fecondi della primavera.

Quindi non si lamentava mai; il tepore dei grandi fuochi accesi nella capanna lo avvolgeva in un dorato cerchio di luce interna; e come dalla tristezza dell'inverno la sua vecchia esperienza presentiva il rigoglio della primavera, così dalla melanconieca rassegnazione di Melchiorre tornava a sperare un buon avvenire. Melchiorre avrebbe nuovamente amato; e si sarebbe avverato il mite sogno di lasciar quella selvaggia solitudine, di passare gli ultimi inverni in più ampio riparo, di ascoltar la messa ogni mattina. Intanto s'avvicinava Natale, e appunto lo scrupolo d'ascoltar la messa almeno quel giorno, gli fece esprimere il desiderio di scendere a Nuoro.

— Scendo anch'io! Vi condurrò io! — disse Basilio prontamente.

— Lo condurrò io — disse fermo Melchiorre.

— Ma anch'io ho dritto d'ascoltar la messa in quel giorno! Se non mi lasciate andar di buon grado, andrò lo stesso, vi piaccia o no.

— Andrai — disse zio Pietro : e siccome Melchiorre alzava la voce, Basilio si fece umile e lo persuase con buone ragioni. Alla fine Natale era Natale, e ogni cristiano doveva onorare il divino Figlio; e si aveva un'anima sola, alla fine! Poco male se ne avessero avute due, da poterne perdere una! ma se ne aveva una sola, e… infine egli voleva scendere a Nuoro ad ascoltar la messa.

Zio Pietro accennava di sì, di sì, sollevando ed abbassando la barba un po' ingiallita dal fumo; ma Melchiorre fissava Basilio e gli puntava un dito sul petto:

— Tu? Tu? Cosa dici tu di anime e di divini Figli? Piccola volpe, tu non ne hai due, ma dieci di anime, e le darai tutte non al divino Figlio, ma al padre dell'inferno.

Ad ogni modo, gli permise di scendere a Nuoro per ascoltar la messa di mezzanotte; sarebbe risalito all'alba, e, dopo il suo ritorno, zio Pietro e suo figlio sarebbero scesi a lor volta, permettendolo il tempo.

Il tempo lo permise. Faceva freddo intenso ma asciutto; il cielo spazzato dalla tramontana era d'un azzurro profondo algentissimo, e le lontane montagne coperte di neve cristallizzata tagliavano l'orizzonte con acute lame d'alabastro. Il bosco rabbrividiva sotto la limpidissima ma gelata trasparenza del cielo; e Basilio, col volto livido, il naso paonazzo e gli occhi lucenti di lagrime spremutegli dalla gioia e dal freddo, scese la montagna saltellando.

Il freddo aumentava col cader della sera: dalle radure scorgevasi, dietro i boschi scossi dalla tramontana, il freddo incendio d'oro pallido del tramonto; e udivasi vibrato nel silenzio qualche grido di pastore, che, imitando il grugnito, richiamava i porci sbandati, e qualche lontano picchio d'accetta. Nella sua gioia Basilio rispondeva a quelle voci perdute nel lucido tramonto, emettendo grida selvaggie che echeggiavano nelle lontananze, ripercosse dai graniti come da lastre di metallo. Altre grida rispondevano, ed egli continuava nella sua corsa, balzando e nitrendo come un puledro. Nella tasca di cuoio, pendentegli sulle spalle, gorgogliava un po' di latte, destinato per regalo a zia Bisaceia, spremuto da alcune capre sgravatesi già di capretti magri e rattrappiti. Nella corsa il vento investiva Basilio, ed era così freddo che dal naso gli calava un umore salato, che egli pulivasi ogni tanto con la mano.

Giunse a Nuoro che imbruniva: rientravano di campagna pastori e contadini; questi ultimi, con la lor giacca di cuoio, il volto aquilino, terroso, col pungolo sulla spalla, preceduti da piccoli buoi rossi o neri trascinanti l'antico aratro sardo, parevano figure egizie sorte da scavi archeologici.

Basilio passò di corsa, senza guardare nè salutar nessuno. Giunto nel famoso cortile di zia Bisaccia vide la porta illuminata dal fuoco, e udì voci aspre e fiere: era la padrona che copriva d'improperi il marito tornato dall'ovile, dopo tre mesi d'assenza, per passare almeno il santo Natale in famiglia. Egli non reagiva, nè rispondeva alle grida della moglie; e quando Basilio entrò vide una figurina d'uomo così lacera e sporca, con un pallido visetto completamente sbarbato e due occhietti azzurri così spauriti, che lo derise e lo compassionò fra sè.

— Ave Maria! — disse, togliendosi di spalla la tasca.

— Grazia piena — rispose la donna volgendosi stizzita. — Sei tu, muso di sorcio? Cosa c'è di nuovo?

— Sono sceso per ascoltar la messa: domani verranno zio Pietro e zio Melchiorre. Prendete questo.

— Cos'è questo?

— Un po' di latte.

— Per venderlo?

— No, per voi.

Ella lo prese, alquanto rabbonita, e lo vuotò in una pentolina, lasciando pazientemente cader le ultime gocce dense, misurandolo con gli occhi e pensando di venderlo l'indomani; poi andò a nasconderlo aflinchè i figli, ritornando quella notte coi loro scapestrati compagni, non lo bevessero. Aveva nascosto anche il grande agnello nero che il marito aveva portato dall'ovile. Ella non intendeva nè di andar alla messa, nè di far cena di grasso; gran che se sul fuoco abbassava e divideva la fiamma un paiolino nero, ove gorgogliava l'acqua per un po' di maccheroni. Nascosto il latte, ella si sedette per terra, nel rosso bagliore del fuoco, pestando in un mortaio, stretto fra i suoi ginocchi, noci secche che sotto i colpi feroci del pestello diventavano poltiglia gialla screziata di bruno. Con questa avrebbe condito i maccheroni, seguendo la tradizione e risparmiando il cacio.

Basilio stette ritto presso il focolare, spingendo i tizzoni con un piede, incerto se doveva chieder indizi per ritrovar la casa ove Paska serviva; ma no, zia Bisaccia era troppo maligna per non riferir tutto a Melchiorre. Era pericoloso parlare. E come l'ometto dagli occhi azzurri, spauriti, aveva profittato della venuta di lui per sgattaiolare nelle stanze attigue, egli colse il momento in cui più furiosamente zia Bisaccia pestava, per far un mulinello sui tacchi e andarsene in giro.

Gli fu facile trovar il palazzo ove Paska abitava; una casa bianca, le cui finestre del primo piano erano illuminate: la strada, abbastanza ampia, restava deserta, sotto le vivide stelle che, come scosse dalla sottile tramontana, oscillavano sprizzando bagliori verdi. Egli sollevò il viso, e stette lungamente indeciso, tremando, più che per il vento che gli sferzava la nuea, per un'angosciosa sensazione d'incertezza.

Non sapeva perchè era arrivato sin là, nè che cosa avrebbe detto alla ragazza; ma l'idea di non picchiare a quella porta e di non veder Paska non gli passava nel pensiero.

E picchiò, stringendo nel suo il gelato pugno di ferro pendente sulla porta.

Il suono rimbombò nell'interno, nel vuoto delle scale, e la cupa vibrazione si fuse tosto con un piccolo latrato e con un passo svelto scendente i gradini. Basilio riconobbe il latrato del cagnolino nero, percepi di chi era il passo, e si ritrasse palpitando di soggezione e di gioia.

— Chi è? — chiese dall'interno la canora voce di Paska.

— Io.

— Chi, tu?

— Io, Basilio.

La porta si spalancò tosto, e Paska apparve premurosa e meravigliata.

— Sei tu? Cosa vuoi?

Cosa voleva? Ma… nulla! Voleva vederla, sentirla, esaudire il segreto e struggente desiderio che da quattro lunghi mesi lo urgeva. Ella comprese e non insistè.

— Cosa c'è di nuovo? — chiese con voce bassa ed affrettata. — Sei sceso ad ascoltar la messa? Dove stai?

— In casa di zia Bisaccia.

— E il figlio, il figlio di questa donna, ci viene all'ovile? — ella domandò, fissandolo.

— Spesso — rispose egli, pur avendo la coscienza di far male: ed ella si fece più che mai premurosa e vivace.

— Come ti sei fatto grande! — disse, guardando da capo a piedi l'alta persona di lui, illuminata di fronte dal lume della scala. — Ora non posso restar qui: vieni, ritorna, i miei padroni vanno alla messa; potremo parlare.

Ma, e dunque egli non poteva andare alla messa? Ma che! forse era sceso davvero per la messa? Ed ella ci andava?

— E tu vuol dire che non ci vai?

— No.

Dunque anch'egli non ci sarebbe andato.

— Verrai? — ella chiese, chiudendo a metà la porta.

— Verrò.

La porta fu chiusa; a lui, che non tremava più, parve si chiudesse la porta del paradiso; ma un'immensa luce gli folgorava dentro, ben dentro al petto. Rifece la strada, ritornò nei miseri vicinati ove qual margherita… con quel che segue…era celata la casa di zia Bisaccia; e gli pareva di non toccar terra coi piedi, e di sfiorar invece con la punta gelata del naso i cieli limpidi come specchi, nella cui fredda e incolore trasparenza le stelle sempre più acutamente raggiavano.

Zia Bisaccia preparava la salsa sciogliendo la poltiglia delle noci entro un gran piatto di creta rosso, sul cui smalto il fuoco accendeva riflessi corallini. Con una mestola di legno traeva acqua bollente dal paiolino e la versava nel piatto concavo; il fumo caldo le avvolgeva le mani, salendole al viso. Il marito, seduto coi ginocchi serrati, in atteggiamento di chi prova occulti timori, guardava in silenzio, seguendo con gli occhietti celesti ogni movimento della donna. Ella estrasse dal paiolino un maccherone, e accostandosi la mestola alla bocca lo addentò: poi, senza sollevar oltre la testa, disse:

— Son cotti. Cala giù il paiolino, Bakis.

L'ometto s'alzò di scatto, afferrò l'ansa del paiolino, lo sollevò e lo depose per terra bruscamente, soffiando tosto sulla palma della mano scottata.

— Sciocco, sciocco, sciocco; Non lo sapevi ch'era ardente l'ansa? — gridò la moglie.

Zio Bakis non si lamentò per non provocarla di più; anzi si ripiegò con buona grazia sui ginocchi, e presa la mestola cominciò ad estrarre i maccheroni dal paiolino, versandoli mano mano nel piatto, entro il quale zia Bisaccia li rimescolava con la salsa.

Il tiepido vapore avvolgeva marito e moglie; sul focolare la fiamma saliva gialla e acuta nell'anello ardente del treppiede vuoto.

— Zia Caterina — disse Basilio, che sorrideva beato, mostrando tutti i suoi denti splendidi — levo via il treppiede? Altrimenti cuoce il diavolo.

Egli accennava alla tradizione nuorese, che afferma cuocer il diavolo, invisibile, le sue vivande sui treppiedi lasciati vuoti sul fuoco; ma zia Bisaccia non aveva voglia di scherzare.

— Siediti sopra, se non lo puoi vedere sul fuoco.

— Chi, il diavolo?

— No, no, il treppiede — disse bonariamente zio Bakis. — Sta quieto, figlio mio.

Conditi i maccheroni, zia Bisaccia preparò il pane e il vino e attese i figliuoli, ma scoccarono le otto, scoccarono le otto e mezzo e le nove, e i figliuoli non rientrarono.

Alla fine, verso le nove e dieci minuti, ne ritornò uno, somigliante assai al fratello bandito, alto, bianco e con occhi azzurri; ma la berretta gli scivolava sul capo, le gambe si piegavano, le pupille avevano una fissazione stupita; era ubbriaco fradicio.

La madre se n'avvide subito, e cominciò a gestire e gridare:

— È per questo che ti ho atteso? Ubbriacone, miserabile, rovina case. Ceniamo, Bakis. Vedi se val la pena di attendere i tuoi figli per cenare.

— Ceniamo — rispose egli rassegnato.

Cenarono; ma il giovinotto, che non parlava, e solo s'affaticava a tener ferma sul capo la berretta che non voleva starci, assaggiò appena un maccherone, lo sputò e non ne volle più.

— Oh, non ti vanno? — gridò la madre ironica. — Cosa vorresti, bellino? Porchetto arrosto, vorresti?

— Pare così — balbettò egli, e cominciò a ridere piano piano, fra sè e sè, come ricordando cose molto allegre; poi tese la mano per versarsi da bere, ma la madre tolse rapida l'ampolla e la sollevò in alto dicendo:

— Se vuoi, te la fracasso sul capo, perchè il corpo ne lo hai già pieno.

Egli non protestò, anzi rise ancora.

Basilio e zio Bakis mangiavano intanto a due palmenti, prendendo dal piatto i maccheroni a grandi cucchiaiate, tenendo un pezzo di pane sotto il mento per raccogliere la salsa gocciolante dal cocchiaio di legno. Tacevano, e non s'intromisero neppure quando zia Bisaccia, vedendo il figlio alzarsi barcollante per andarsene, gli si levò sopra e lo percosse e lo fece seder di nuovo.

— Fermo lì, fermo li! — urlò. — O che vuoi andare dove sono i tuoi fratelli? In gabbia o nel bosco? Non bastano due, anzi tre, ubbriacone, bestia, rospo? Fermo li, e non ti muovere! altrimenti la notte di Natale la ricorderai a lungo.

Ed egli continuò a ridere; ma appena la madre si fu seduta, si rialzò incamminandosi verso la porta. Ella gli si lanciò ancora sopra, lo spinse indietro e chiuse la porta a chiave.

Zio Bakis faceva cenni a Basilio, perchè non aprisse bocca, socchiudendo un occhio e stringendosi le labbra con due dita: e Basilio mangiava, guardava e taceva.

Egli era così felice che anche una scena di sangue, in quel momento, gli sarebbe parsa uno scherzo.

Nonostante la prudenza di zio Bakis, la moglie se la prese con lui, dopo aver spiegato per terra una stuoia e fattovi sdraiar il figliuolo.

— Li vedi i tuoi figli, li vedi, ometto di pasta, li vedi, ometto dagli occhi di gatto? Non era meglio lasciarli nel seno del Signore? Per allevarli così, non era meglio che tu non ti fossi mai ammogliato, e fossi rimasto sempre nel tuo ovile, nella tua tanca, come una faina che sei? E questi son uomini? — concluse con disprezzo. — Uomini sono questi!

Solamente dopo che ella, rimessa in ordine ogni cosa, e imposto al marito di non uscire, nè permettere al figliuolo di muoversi, se ne fu andata a letto, zio Bakis potè respirare.

Chiese a Basilio molte notizie, di dove era, chi era la sua famiglia, quanto i Carta gli davano per salario e se zio Pietro era sano e che faceva e come passava il tempo, e se l'ovile veniva frequentato da banditi.

Basilio rispose in tono ironico, ridendosi fra sè di lui, perchè dal suo contegno verso la moglie lo riteneva l'uomo più imbecille di Nuoro; e per l'istintiva cattiveria contro chi appare ridicolo e debole, non gli disse che fra i banditi che frequentavano l'ovile e'era il figliuol suo, notizia a cui forse tendeva la domanda dell'ometto.

Ma cambiò alquanto la sua opinione un fatterello da zio Bakis narratogli:

— Pietro Carta! — egli esclamò d'un tratto, accavalcando le gambe, e stringendo le mani attorno al ginocchio. Stette un momento silenzioso, con gli occhietti illuminati da lontani ricordi, poi disse: — Bravo uomo quello li! Mi ricordo, quando eravamo giovani, ed io facevo l'amore con Caterina, una notte di Natale come questa, che io non avevo nulla da regalar alla mia innamorata, vado al suo ovile e gli dico:« Pietro, mi lasci rubar un porchetto dal tuo padrone? Ti do cinque lire ». Benchè fossimo molto amici, egli mi cacciò via insultandomi, gridandomi:« Io non vendo la mia fedeltà per uno scudo! Vattene, e se ti salta in testa di toccar nulla da queste parti, vedrai che domani non passerai il giorno di Natale in compagnia della tua innamorata ». Io me ne andai ridendo di mala voglia, e non sapendo dove meglio batter la testa, capitai nell'ovile del mio futuro suocero. In quelle vicinanze ricordai che fra le altre e'era una levata di porchetti da regalare a certi giudici di Sassari, che dovevano far il processo di un fratello di Caterina. Che faccio io? Mi avvicino come un ladro, entro nella mandria, prendo per il muso, stringendoglielo forte, uno dei porchetti, e gli immergo la lesina nel cuoricino.

— Era di vostro suocero? — chiese Basilio, mentre zio Bakis col pugno stretto, come se ci avesse la lesina, faceva atto d'immergerla nel cuoricino d'un invisibile porchetto.

— E di chi dunque? E l'indomani il porchetto, invece d'aspettare il viaggio a Sassari, fu mangiato qui, da Caterina, in buona compagnia.

— Ma… — disse Basilio con ammirazione — e i vostri suoceri e la vostra innamorata non s'accorsero che il regalo era stato rubato a loro stessi?

— Macchè! Macchè! Ma quel furbo di Pietro Carta, saputo che mancava un porchetto dall'ovile di mio suocero, se lo pensò subito; e un giorno che passavo davanti alla sua capanna, lo salutai, e gli dissi ridendo:« E oggi me lo dai un porchetto? », egli raschiò, sputò fra i suoi due piedi, e non mi rispose neppure. Dopo quel tempo la nostra amicizia andò scemando: ora è da molto che non lo vedo. Ha cambiato ora? Ma già, ora mi dicono che non vede nulla.

— Benchè non veda, sente e ascolta! — disse maliziosamente Basilio. — È sempre lo stesso.

Dopo questo fatterello, egli cambiò dunque opinione, a riguardo di zio Bakis; anzi l'ometto gli parve uno di quelli per cui s'inventò il proverbio sardo: ribu mudu, tiradore(1) Rio silenzioso, travolgitore.; e stava per raccontargli delle frequenti visite dei banditi all'ovile Carta, quando s'intesero dei passi furtivi nel cortiletto, e un altro dei padroncini mise prudentemente la testa entro la porta.

Visto che la madre non e'era. fe' cenno ai compagni, e questi entrarono nella cucina, sforzandosi a render meno gravi i loro passi. appesantiti dagli searponi e dal vino.

Eran quattro giovinotti paesani; uno altissimo, pallido, con lunga e quadrata barba nera; il secondo piccolo, olivigno, con occhi brillanti; il terzo rosso e calvo, con lunghi bafli biondastri; il quarto con occhi azzurri, capelli prolissi e neri, e volto bianco completamente sbarbato. Questi due ultimi, sebbene di tipo così diverso, erano anch'essi figli di zio Bakis e di zia Bisaccia. I due primi si avvicinarono all'ometto, battendogli le mani sulle spalle e sul capo, con carezze filiali; ed egli li accolse complimentoso, invitandoli a sedere, ma più a cenni che a voce.

— Se mia moglie si sveglia e scende giù, ci scaccia tutti col manico della scopa. Sedete, ma… silenzio!

— Altro che scopa! Con la scure! — disse Basilio.

— Chi è questo giovinotto? — chiese quello dalla barba quadrata.

— Il servo di Melchiorre Carta.

— Ragazzotto, come va il tuo padrone?

— Coi piedi!

— Dico, d'amore come va? Pare che vada proprio coi piedi!

Risero tutti. L'ubbriaco dormente, che non s'era mosso, russava con certe note rauche, frammezzate di sibili e di sbuffi.

Intanto i due fratelli approntavano la cena. Se la madre avea cotto i maccheroni tradizionali per rispettar la vigilia e risparmiare il cacio, e nascosto l'agnello pasquale, essi avevan portato segretamente dall'ovile altri due agnelli, e trovato ben il modo di preparare agli amici il vino, il formaggio, il pane bianco, e persino il caffè e un piatto di uva dorata, ancor fresca, da cui Basilio sottrasse destramente un grappolo, che gettò nella sua bisaccia.

Uno per parte del focolare, gli agnelli, infilati in lunghi schidioni neri, cominciarono a friggere, gocciolando il grasso sulle brage, dalle quali esalava un denso fumo odoroso di arrosto. E zio Bakis narrò altre argute storielle della sua giovinezza, finchè fu lasciato solo, a guardia degli agnelli e del figliuolo ubbriaco. Gli altri figliuoli e i compagni se n'andarono a messa: e Basilio fu lor dietro per un tratto di strada.

La notte continuava ad esser limpida e fredda; soffiava sempre la tramontana, e sempre gli astri pareano chiare fiammelle scosse dal vento in lontanissimi cristallini deserti.

Al soffio dell'aria rigida, Basilio si scosse dalla piacevole sensazione delle storielle di zio Bakis, e della cena fatta e di quella da farsi; ma non meno intenso, sebbene diverso, fu il piacere che provò nello sfuggire destramente la compagnia dei quattro giovanotti, e tornar per la via percorsa tre ore prima. Eppure, all'appressarsi della casa di Paska, fu ripreso da uno strano smarrimento. Sarebbe ella scesa ad aprire? l'avrebbe dunque riveduta fra poco, fra cento, fra cinquanta, fra venti passi! Li contò camminando in cadenza, a capo chino, e al suono dei suoi scarponi ferrati battevagli il cuore.

— Se son più di venti passi ella aprirà, se no, no — pensò.

E furono più di venti, perchè egli lo volle, accorciandoli: ed ella apri.

Lo attirò dentro, chiuse la porta. La luce ora scendeva dall'alto, giù per le altissime pareti bianche polverose, per i gradini d'ardesia, turchinicci ed umidi, al cui fianco la balaustrata nera perdevasi in un serpeggiamento vorticoso. Eravi un freddo umido in quel pianerottolo, che sembrava il fondo d'un abisso; e Basilio, guardando in alto per cercar l'invisibile lume dal quale pioveva quella luce scialba, provò istintivamente paura, e istintivamente pensò che per godere la compagnia di Paska, meglio di quel fondo di scala era l'orizzonte rosso di Monte Bidde. Là si era sopra precipizi meno spaventosi di questo abisso cittadino, la cui profondità nascondeva tenebrose insidie… Tutto questo egli lo senti confusamente in fondo al cuore commosso; e forse era il piacere troppo acuto, che degenerava quasi in paura. Infine era quello il suo primo convegno amoroso; poichè, com'egli aveva presentito, Paska lo incoraggiò a rivelarsi, e corrispose con abile ingenuità alle prime frasi d'amore da lui balbettate.

Sembrava una bimba adorabilmente innamorata, e nella sua indicibile ebbrezza Basilio provò un'impressione nuovissima in lui; gli sembrò, cioè, d'esser grande, uomo fatto, uomo forte, e poter proteggere e contendere con tutti e contro tutti la piccola dea, che doveva sollevar fra le braccia vigorose per poterla stringere meglio al giovine petto palpitante.

Intanto disse ancora tutto ciò ch'ella gli fece dire sul conto di Melchiorre e del figlio di zio Bakis che frequentava l'ovile, e a quali ore e in quali giorni soleva indugiarsi nella capanna, e come recava regali odoranti di furto.

— Ciò è nulla! — ella disse pensierosa. — Egli ruba vacche e buoi… Ah, già! figlio di suo padre! Ti credi che il patrimonio zio Bakis lo ha fatto col lavoro?

Basilio ricordò la storiella del porchetto.

— Già! già? — disse con fine sorriso.

— E mio cugino ci va spesso con quel giovinotto? Escono assieme?

— Sì — egli rispose: e non era vero.

— Faranno compagnia, già, andranno assieme a rubare.

— Certo — egli affermò. Mentiva.

Mentiva, ma gli sembrava dir la verità, tanto che, incalzato e suggestionato da lei, narrò episodi perfettamente falsi, dai quali la figura di Melchiorre risaltava tristamente disonesta. Credeva ella o non credeva? In fondo no, ma tanto lei che Basilio avevano bisogno di sbarazzarsi di Melchiorre, e, non potendo farlo altrimenti, lo demolivano con le loro menzogne.

Quando a lei parve ora, mandò via il giovine amatore, ma per ricordargli che dovevano separasi, dovette scuoterlo, richiamandolo dall'ebbrezza in cui lo aveva immerso.

— Ci rivedremo? — egli chiese, facendosi triste.

— Sempre che tu vorrai.

— Io vorrei sempre! — egli escalmò con islancio. — Ma il padrone non mi lascerà…

— Ti lascerà, ti dico che ti lascerà! — ella rispose con ironia. — Va tranquillo.

Lo accompagnò fino alla porta, battendogli una mano sul dorso, e ripetendogli leziosamente:

— Come ti sei fatto alto in pochi mesi, agnello mio, come ti sei fatto alto! Addio.

Egli la riabbracciò, e se n'andò via stordito da un sentimento di gioia e pena miste assieme, pensando già al modo di ritornar al più presto ad un nuovo convegno.

Rientrò nella cucina di zio Bakis prima che i giovanotti fossero tornati dalla messa. Gli agnelli erano perfettamente arrostiti, e la lor crosta rossa e screpolata splendeva per il grasso liquefatto, alla tenue luce del fuoco, quasi tutto ridotto in brage. L'ubbriaco dormiva sempre, e nella calda penombra, fra i vapori fragranti d'arrosto, l'ometto vigilava un po' ansiosamente, sembrandogli udir romori nell'interno della casa.

— E gli altri? — chiese a Basilio con voce sommessa.

— Chi, gli altri?

— I miei figli e i compagni.

— Ah! — fece Basilio ricordando.

— Dove hai la testa, ragazzotto? Non sei stato a messa?

— Sì… sì… ma poi li ho perduti di vista.

— Mi sembra che tu abbi sonno.

— Sonno? Si, forse ho sonno.

— Forse! E coricati allora!

Basilio sentiva acuto bisogno di trovarsi solo, di raccogliersi in sè stesso e pensare, e pensando ricordare, e ricordando rivivere nella beatitudine di pochi istanti prima, che sembrava già lontana e vaga come un sogno.

Accolse con gioia l'idea di coricarsi, chiuder gli occhi e finger di dormire.

— Pigliati quel sacco — disse zio Bakis, indicandoglielo.

Egli prese il sacco, lo spiegò, lo stese per terra, e vi si gettò sopra, lungo disteso a pancia a terra, nascondendo il viso sulle braccia intrecciate. Chiuse forte gli occhi, e rivide tosto il pianerottolo illuminato dall'alto, sentì l'agile busto di Paska fra le sue braccia. le calde labbra di Paska sulle sue, e provò un fremente piacere, più intenso e profondo di quello provato nella realtà. Ma nello stesso tempo il desiderio acuto e la speranza ineffabile di rivedere e riaver presto Paska così nella realtà, gli pungevano la gola, gli vuotavano il cuore, gli troncavano il respiro. Il calore del fuoco gli riscaldava tutta la persona, di fianco; si volse supino, strinse le mani intrecciate sugli occhi, mentre il sangue gli batteva forte sul cranio e sulla nuca, e riprese il sogno, il ricordo, il desiderio, lo spasimo. Paska gli stava sempre vicina; egli ne vedeva e ne sentiva gli occhi e il volto con sensazione fisica, e le parlava con transporto, dicendole cose che in realtà non le aveva detto e non saprebbe dirle giammai. Il piacere era così intenso, così intenso lo spasimo, che alcune lagrime gli bruciarono le palpebre: riaprì gli occhi, vi passò sopra il dorso delle mani, e solo allora si accorse che i figli di zio Bakis erano rientrati, e che cenavano.

— Giovinotto — gli disse il calvo, vedendolo scuotersi — levati e mangia.

— Egli si sollevò alquanto, e vide che i giovani, trinciati gli agnelli sul tagliere di legno, in uno dei cui angoli era praticata la saliera, mangiavano avidamente, tenendo la carne fra le mani e strappandone grandi morsi coi denti incisivi.

Il piacere della cena succulenta gli parve fastidio in confronto al piacere del suo sogno, e arrovesciandosi di nuovo sul sacco richiuse gli occhi. Ma non potè raccogliersi intensamente in sè come prima: attraverso il sogno gli arrivavano le chiacchiere sommesse dei giovanotti, tramezzate di represse risate, e il tintinnire delle ampolle e delle tazze di vetro colme di vino, e il russare dell'ebbro. A un tratto questo cessò; il dormente si stiracchiò; sbadigliò, e senza aprir gli occhi chiese:

— Che ora è? Imbrunisce?

Gli altri risero: egli aprì gli occhi stupiti, li roteò, si sollevò e ricadde.

— Chi è questa gente? Dove siete, fratelli miei, dove siete? Io non vi vedo. Dove sono io?

— Tu sei ubbriaco — gli rispose uno dei fratelli. — Dormi, dormi.

— Io ubbriaco, io? — egli gridò risollevandosi e puntando i pugni all'indietro sulla stuoia. — Chi sei tu?

I suoi occhi rossi avevano un'espressione ebete eppur minacciosa.

— Zitto! se tua madre si sveglia! — disse zio Bakis.

— Mia madre? Chi è mia madre? Dov'è? Fatela venire. Io non ho nè madre, nè padre, nè fratelli; io ho nemici e rivali! — Stese un pugno, per cui, mancatogli il sostegno da quel lato, ricadde. — Io ho solo un fratello, ma quello non c'è, è bandito, è lontano. Dove sei, fratello mio, fratellino mio, dove sei?

Stese l'altro pugno, e così, supino, a braccia aperte, cominciò a singhiozzare, invocando ad alta voce il fratello bandito.

— Al diavolo il vino e chi te lo porse! — imprecò il fratello calvo, precipitandoglisi sopra e tappandogli la bocca con le mani. — Taci, perdio, o t'affogo.

L'ubbriaco rantolò, ma non oppose resistenza, e a poco a poco si riaddormentò. Ma il suo accenno al lontano fratello parve disturbare l'allegria dei convitati, che finirono di cenare parlando tristemente del bandito.

— Ieri l'han visto all'ovile dei Carta, me l'ha detto questo ragazzotto — disse zio Bakis, accennando Basilio.

— Parleranno di Paska Carta! — fece ironicamente il giovine barbuto.

— Perchè? — si domandò Basilio.

Zio Bakis sospirò e imprecò contro Paska.

— Perchè? Perchè? — ripetè fra sè Basilio, svegliandosi dal suo sogno.

— È per queste cose che mio figlio è andato male. Rubava di casa per regalare alle donne, e chi ruba in casa, ruba anche fuori di casa.

— E ora?

— Ora pare l'abbia lasciata — disse uno dei fratelli.

E l'altro:

— Oh, l'ha lasciato lei! Sull'albero caduto ognuno picchia la scure.

— Attenzione come va da Melchiorre Carta. Quello sciocco può fargli torto.

— Che ne sa lui, quella faccia di volpe? — disse il calvo con disprezzo. — Se quella… ha gli amanti a dozzine! E non era con mio fratello soltanto che lo tradiva, e per cui l'ha lasciato!

— Ma se è lui che l'ha lasciata!

— Chi, Melchiorre?

— No, mio fratellò.

Basilio fremeva: il suo sogno veniva barbaramente distrutto, la bella immagine di Paska s'incupiva, il piccolo volto lucente coprivasi di tutta la fuliggine della cucina di zia Bisaccia.

Dall'ebbrezza piena dei ricordi egli passò all'angoscia del vuoto; rammentò le prime istintive gelosie, e s'avvide che non solo i signori doveva odiare, ma anche i paesani, i pastori, gli straccioni.

In un attimo pensò mille amari e confusi pensieri, ebbe desiderio di sollevarsi e sputare in volto ai maldicenti che calunniavano la sua Paska, e poi d'uscire, correre, battere alla porta di lei e gridarle:

— È vero che tu fai l'amore con tutti? Anche coi ladri?

Ma non si mosse.

Aveva sognato? Rievocò il convegno in tutti i suoi particolari, risenti sulle labbra il sapore ardente dei baci di Paska, e tremò ed ebbe voglia di piangere.

Possibile che tutto quanto egli ricordava fosse accaduto? Sì, era possibile, era vero, e, appunto perchè vero, deveva esser vero anche tutto ciò che di Paska malignamente narravano.

Ma perchè anche con lui? Con quale seopo? Egli pensò amaramente, lucidamente, come uomo sperimentato. Perchè anche con lui? Egli era un povero ragazzo senza avvenire; egli non aveva agnelli, nè denaro, nè altra roba da regalarle. Perchè ella dunque doveva ingannarlo, se non gli voleva un po' di bene?

No, la calunniavano. Forse quei giovanotti l avevano' visto entrare da lei, e ora parlavano così per invidia, perchè egli sentisse e soffrisse.

— Ma io dormo enon sento nulla! disse fra sè, con stizzoso proposito infantile: e stette immobile, con le tempia pulsanti, soffrendo profondi tormenti.

I giovinotti finirono di cenare, fecero il caffè, versandone metà sul fuoco e l'altra metà buttandola via; poi se n'andarono ubbriachi e barcollanti.

Basilio li sentì cantare raucamente in lontananza, mentre zio Bakis rimetteva in ordine la cucina, camminando in punta di piedi e spalancando la porta perchè l'aria dissipasse gli odori e i vapori della cena.

Passò qualche ora; lo sfondo della porta si illuminò d'una fredda e vitrea luce; tornarono i figli di zio Bakis e si gettarono sul pavimento addormentandosi d'un sonno brutale, ma Basilio non potè dormire. Sentiva tutte le membra slegate, le giunture dolenti, e il pensiero stanco di fantasticare, quando cominciò a vincerlo un grave assopimento. Paska gli tornò vicina, soave e tenera, come nei primi momenti in cui s'era sdraiato sul sacco: il piccolo viso luceva, le labbra calde e rosse si posavano sulle sue con infinita, infinita dolcezza. Era il torpore strano dei meriggi della montagna, la luce intensa e arcana, la dolcezza snervante del sole, dei sogni, dei desiderii, il voluttuoso rammollimento dei muscoli, la calda carezza delle erbe, dei sonori susurri della selva, del vento, delle fragranze; il vagolar della psiche smarrita nella vaporosa linea tra il sonno e la veglia, il piacere indefinito del sogno e del ricordo fusi assieme.

Una scossa forte, una voce brutale lo destò.

— Cos'è? — diss'egli, sollevando a stento le palpebre pesanti.

— Levati, vattene, ch'è ora.

Gli occhi velati dal piacere del sonno guardavano stupiti l'ingrata figura di zia Bisaccia, ritta fra quegli uomini ubbriachi addormentati per terra.

— Non hai udito? È ora di partire.

— Vado, vado! — rispos'egli spaventato.

E si alzò, usci fuori di botto. La gelata aurora invernale gettava grigi bagliori sul muro del cortile; il terreno era indurito e imbiancato dal gelo, il cielo basso, uniformemente bianco. Basilio rabbrividì, e provò un indicibile disgusto svegliandosi alla cruda realtà, al ricordo di ciò che i giovanotti avevano detto di Paska. E lo riprese il desiderio di correre da lei per rivederla, per sapere, sapere, sapere… ed anche per riavere il piacere ineffiabile dal quale zia Bisaccia l'aveva strappato. Perchè lo aveva destato quella strega? Perchè non lo lasciava neppur dormire? Perchè zio Bakis era così maligno? Perchè i suoi figliuoli così malvagi? Perchè Paska non poteva esser sua moglie, subito? Perchè faceva tanto freddo? Perchè il mondo era così brutto e la vita tanto triste?

— Cosa fai lì? — urlò la donna, affacciandosi all'uscio con la tasca e porgendogliela. — Va presto, va subito, chè altrimenti se la pigliano con me i tuoi padroni. Tocca via, presto.

— Io vado da Paska — pensò egli infilandosi la tasca sulle braccia.

— Io vado a messa — disse invece la donna. — Andiamo assieme un tratto.

Si avvolse nella tunica, e si trasse dietro Basilio assonnato e triste; una campanella suonava lontana, gettando piccoli rintocchi striduli e senza vibrazione all'aria gelata del melanconico mattino.

Zia Bisaccia accompagnò Basilio fino alla strada che usciva dall'abitato, e si volse finchè lo vide sparire.

Egli andò dritto, come spinto dalla volontà di lei, e non si volse e non tornò indietro;; ma il suo cuore nuotava in un mar d'amarezza.

Dagli occhi appannati dal freddo, dal sonno e dal dolore, gli sprizzaron grosse lagrime che solcandogli le guancie gli bagnarono le labbra; ed avevano un sapore acre, salato.

Salì muto e lento, sotto il ciclo tristamente candido che prediceva la neve; il gelo imbiancava le chine e induriva i cespugli su per i sentieri che la sera innanzi egli aveva sceso correndo, col cuore in festa; da Nuoro venivano, spezzate e sottili, le note delle campane mattutine: sul freddo candore del cielo le montagne gravavano livide.

Quando fu in alto, molto in alto, sentendosi, nonostante il freddo, la gola arsa, e non volendo bever acqua, ricordò il grappolo d'uva, di cui zia Bisaccia non s'era certamente accorta. Lo trasse, e siccome il fondo della bisaccia lo aveva sporcato, si curvò e lo immerse due volte nel ruscello; poi lo sollevò all'altezza del viso e cominciò a piluccarlo. Ogni acino, giallo, diafano e lucente, rifletteva il suo volto microscopico, e col naso e le labbra ingrossate: ed era di una dolcezza fresca da gelato, ma neppur questa dissipava l'amaritudine del piccolo cuore.

Quando giunse all'ovile i padroni si disponevano alla partenza; Melchiorre spiava il suo ritorno, già incollerito della sua tardanza.

Appena lo vide gli gridò:

— Potevi attendere ancora un po', volpicina. Non ti sei divertito abbastanza? Se l'avessi saputo!

— Pare che nevichi — gli rispose sollevando in aria il volto. — Coredevo che non scendeste. ste. In casa di zia Bisaccia han fatto gazzarra tutta la notte, non mi hanno lasciato dormire nulla, e sono stanco che quasi credevo di non poter arrivare. Scendete davvero, zio Pietro?

— Poveretto! — disse ironico Melchiorre, aiutando il vecchio a montare sul cavallino. — E ora, se puoi, addormentati, per riposare dagli stravizi della notte: poi faremo i conti.

— Se scendete, mi pare non sia stasera che ritornerete qui, zio Pietro. Nevicherà, vedrete.

— Lascia nevicare — disse zio Pietro in sella, mentre Melchiorre gli accomodava le staffe.

— Non metterò certo la mano per riparo! Buon viaggio.

Melchiorre battè la mano aperta sulla groppa del cavallino, che tosto si mosse, e gli andò dietro attento. In breve sparvero tutti sul grigio sfondo del sentiero.

Basilio si tolse di spalla la tasea, e rimase un po' ritto sull'apertura della capanna, fischiando con apparente indifferenza. fissando gli occhi in un vuoto punto lontano. Il cielo parea abbassarsi sempre più, ingoiando nel suo vaporoso biancore le cime delle montagne della costa; intorno all'ovile le roccie bagnate e il bosco cupo avevano un'immobilità e un profondo silenzio d'attesa, nel quale si spezzavano come tinnii di cristallo rompentisi i tintinnii delle capre. E i belati dei primi capretti tremolavano con lamento d'infantile pianto umano.

— Chissà che oggi venga! — diceva fra sè Basilio, pensando al bandito. L'abbia lasciata o no, io lo odio; e lo dirò a zio Melchiorre, che anche con quello li essa ha fatto all'amore. Ma cosa può fargli il padrone? Cosa può fargli? — pensò dopo un momento, con maligna contentezza. — Lo so io cosa può fargli, lo so io!

Verso le dieci cominciò a nevicare, fittamente, a falde lunghe e larghe che pareano petali di fior di mandorlo. Le montagne della costa sparvero tutte sotto la curva bianca dell'orizzonte; le roccie, i cespugli, il bosco, la capanna, l'elce della radura e le mandrie ricevevano in silenzio la neve continua, fitta, infinita; i belati dei capretti tremolavano ancor più lamentosi.

Basilio scese di corsa la china, fendendo l'intenso volteggiar della neve, e giunto ove le capre, sul cui vello caldo i bianchi fiocchi si posavano leggeri sciogliendosi tosto, s'ostinavano a roder i cespugli, spinse su i pochi capretti, conducendoli al riparo di frasche, costrutto per essi presso le mandrie.

Essi salirono saltellando, belando e improntando le zampette sul leggero strato di neve, seguìti dalle madri; e introdotti nel riparo si affacciarono tutti nell'apertura, uno sul collo dell'altro, i graziosi capretti bianchi e neri, fissando intorno i grandi occhi.

Basilio tornò nella capanna; il gatto dormiva, la lepre fissava sempre un punto lontano, il cane, fermo sull'apertura, abbaiava contro le falde di neve che l'aria sospingevagli sul muso.

E la neve cadeva sempre, in linee leggermente oblique, eguali, incessanti, silenziose, su uno sfondo vaporoso e candido. Ora le falde eran lunghe e sottili: gelide distese di crisantemi bianchi e di margherite dovevano sfogliarsi in alto, nelle candide profondità dei cieli nivali, e i petali, infiniti come le rene del mare, piovevano in linee oblique, in filamenti e trame e bioccoli di bambagia, in peluria delicatissima di candidi uccelli, stendendosi sulle roccie, sul terreno, sul bosco. Ogni foglia d'elce riceveva la neve come piccola mano aperta verso il cielo, e si copriva, s'allargava, si marmorizzava, as sumendo informi contorni che si fondevano coi contorni delle altre foglie: ogni bruno fuscello s'ingrossava lentamente trasformandosi in verga d'alabastro; e i cespugli segnavano bizzarre vegetazioni marmoree, e sulle rupi si stendevano immensi drappi di velluto candido, sull'edera irregolari filograne di madreperla bianca, sul terreno strati di piume di cigno.

— Non sarà oggi che zio Pietro risalirà quassù — pensò Basilio; e vedendo la neve ingrossarsi si gettò sul capo il gabbano, prese la scure e tornò fuori. Radunò le capre, bagnate, che sul candor della neve apparivano d'un giallo sporco desolato, e le sospinse entro le mandrie, le cui siepi parevano intagliate nel marmo; quindi se n'andò nel bosco e sali sugli elci ad assidare, cioè a tagliar rami, con le cui fronde alimentar il gregge durante la nevicata.

Nel gran silenzio del bosco il picchiar della scure echeggiò sordamente; ed a quel suono fra d'acciaio e di legno, che ripercotevasi in circolo, quasi non una ma sei o sette accette tagliassero in giro per il bosco, due carabinieri biondi e rosci, in tenuta di campagna, con le borse e le uose bagnate, e le bocche dei fucili orlate di neve, mentre stavano per ismarrirsi, ripresero la giusta direzione verso l'ovile dei Carta. Basilio li scorse venir per il bosco sotto cui la neve, restando sulle chiome degli alberi, non ancora penetrava: sulle prime ebbe timore, perchè da qualche ora mulinava in testa sì foschi e inconfessabili pensieri che sentivasi oppresso come un colpevole; ma poi indovinò lo scopo per cui venivano quei due rosei giovanotti dallo sguardo freddo e maligno, e dalle grosse mani paonazze; e il cuore gli battè rapido. Era gioia, affanno, speranza, paura, ansia: tuttavia la scure continuò a picchiar dritta sul tronco scricchiolante, incidendolo d'una gialla ferita.

I carabinieri avanzarono fin lì, tra le fronde nevose già cadute, e sollevarono la faccia. Qualche scheggia cadde sulle loro teste.

— Buon giorno — disse allora Basilio, fermando la scure sul tronco e sollevandosi ritto, alto, coi piedi fortemente fermati su due rami, e gli occhi chini al suolo. — Chi cercano?

— Chi sei tu?

Egli pensò che dicendo un nome qualsiasi, essi sarebbero passati oltre. Ma egli voleva il contrario, e disse:

— Basilio Serra, servo di Melchiorre Carta. Essi scambiarono un rapido sguardo.

— Scendi tosto. Conducine al tuo ovile.

Egli scese, si caricò le fronde sulle spalle, i rami trascinò dietro, spazzando con essi la nevefuor del bosco; e attraverso il fioccar sempre più fitto, condusse i due nella capanna.

Là essi si scaldarono, si asciugarono le vesti, e fissando ostinatamente i freddi occhi fuori dell'apertura procurarono di vedere senza esser veduti: e vollero che Basilio non si movesse più dall'angolo ove erasi seduto. Egli obbedi, stette silenzioso, con le gambe lunghe distese e la fangosa suola degli scarponi parata e fumante al fuoco. Per ingannare l'ansiosa attesa prese la lepre fra le gambe, e cominciò a farle eseguire mille giochetti. Il gatto, spaventato, avea cercato scappare: impeditone dalla neve, s'era nascosto fra le stuoie: il cane abbaiava ferocemente.

I carabinieri gli diedero un calcio ciascuno, e vista inutile questa misura, imposero a Basilio di farlo tacere. Egli vi riuscì a stento, poi riprese a giocar con la lepre.

I carabinieri lo squadrarono ogni tanto con sguardo freddo, sprezzante, senza degnarsi di rivolgergli oltre la parola; e non immaginavano certo, che quello che a lor sembrava un grosso fanciullo sciocco, sapeva perchè essi eran venuti, e che cercavano, e che guardavano attraverso il silenzioso turbinìo della neve.

Dopo un'ora circa d'attesa egli li vide guardarsi rapidamente, e ancora più rapidamente tirarsi indietro con slancio felino, appiattandosi uno per lato dell'apertura.

— È qui! — pensò, gettandosi indietro la lepre, e carezzando il cane per farlo tacere.

Il figlio di zia Bisaccia veniva a grandi passi, un po'curvo, affondando i piedi bagnati nella neve già alta. Era stato a caccia di pernici, giù, giù, nel versante sud-ovest, dove aveva scovato anche una cinghialessa che allattava i suoi ed i figli di un'altra cinghialessa ammazzata qualche giorno prima, e veniva con la lieta speranza di scaldarsi al fuoco amico e di arrostirvi le pernici, e ridendo giuocare a carte con Basilio.

Giunto presso la capanna si rizzò sulla persona, si scosse la neve di dosso, la scostò coi piedi dall'apertura ed entrò.

— In nome della legge, ti arresto — disse il carabiniere di destra, afferrandolo per il braccio. Egli spalancò gli occhi, impallidi, fece un istintivo moto per fuggire; ma anche l'altro soldato gli fu sopra, e improvvisamente egli sentì sui polsi qualche cosa di più gelato della neve: le manette.

— Mettetemi anche una corda! — disse beffardo, scuotendo le mani legate. — Giovanni Tolu, il famoso bandito che arrestate! Vi metteranno la medaglia!

— Tira avanti! — disse uno dei carabinieri, battendogli sull'anca il calcio del fucile.

— Mi hai fatto tu la spia, vigliacco? Me la pagherai! — gridò verso Basilio il paesano.

— Tira avanti! Tira avanti!

Lo spinsero fuori rudemente.

— Vi tirino i cani! — egli gridò; e procedette a salti, senza voltarsi, senza por mente alle proteste di Basilio.

Questo vide i tre uomini allontanarsi e sparire nel continuo vaporar bianco della neve: poi tornò a sedersi per terra, parlando fra sè.

— Macchè spia, macchè spia! Peggio per lui ch'è venuto! Zio Melchiorre avrebbe fatto lo stesso; proprio come ho fatto io. Del resto, ben fatto! Ben fatto!

E come avesse compiuto un gran dovere, tornò a pensare a Paska con dolcezza ardente. Fuori i capretti belavano sempre con lamento di bimbi soffrenti per freddo e fame.

Melchiorre, risalito solo, trovò che Basilio dormiva profondamente, con le mani abbandonate al suolo e i piedi parati al fuoco semispento. Lo scosse e svegliò brutalmente: una fiamma sinistra gli brillava negli occhi.

— Hai fatto la spia, oggi, volpe senza coda? Ti stai mettendo in cattiva strada. Bada a te, ragazzo!

— La spia! Macchè spia, macchè spia! — rispose Basilio; e con apparente sincerità narrò come la cosa era andata: poi trovò modo di dire che non avea, la notte prima, dormito, perchè i figli di zia Bisaccia e i compagni narravano mille storie, fra cui quella di Paska e del bandito.

Melchiorre fremè internamente; ricordò molti particolari prima sfuggitigli, e non inveì oltre contro Basilio; ma stette attento, diffidando.

Nevicò tutto il resto del giorno e lungo la notte: egli dormì pochissimo, sussultando ed uscendo fuori ad ogni piccolo e smorzato rumore, causato per lo più da qualche ramo che schiantava sotto il peso della neve.

Pensava a zio Pietro, affidato alle cure poco affettuose di zia Bisaccia; e temeva che da un momento all'altro venissero i carabinieri e lo traessero in arresto come favoreggiatore di banditi. E di quali banditi! Sentiva in fondo un sentimento d'amarezza contro il figlio di zia Bisaccia; avevano mangiato, bevuto e riso assieme; ma chissà che l'ultimo innamorato di Paska non comprendesse nelle sue allegre risate anche colui che lo accompagnava e proteggeva? Era mai possible? Oh, sì, tutto era possibile! Melchiorre conosceva qual vaso di iniquità e perfidia era il cuore umano. E nella notte nevosa, intensamente ascoltando il tonfo dei rami schiantati e gli altri piccoli rumori dell'immensità silente, sentiva nella testa, dietro la fronte, sul cranio, sulla nuca, dentro le orecchie, ribollirgli il sangue con ardenti gorgoglii di liquido in ebollizione, pensando che correva rischio di perdere la libertà per uno ch'avea contribuito o forse era stato la maggior causa del suo dolore.

Perocchè in quella notte egli si accorse che il suo dolore esisteva sempre; che mentre cercava ingannar sè stesso fingendo calma ed oblìo, nella profondità del cuore la passione lo tormentava sempre.

Ricordò le minacce di Paska, se non cessava di perseguitarla; e risentendo ora, più fondata e decisa, la penosa inquietudine provata una mattina nel salir da Nuoro, cercò connettere i fatti d'allora con l'arresto del bandito. Questi allora doveva certo amoreggiare con Paska: doveva essere stato lui a metterlo sull'attenti, per mezzo di zia Bisaccia.

Un rumore più forte degli altri lo fece balzar su, con gli occhi spalancati: udì un altro rumore, il tonfo d'un corpo pesante che cadeva sul molle strato di neve.

Gli parve veder cadere un uomo, e tosto, per istintiva comparazione d'immagini, pensò che il giovane amico era caduto così, come ramo sulla neve. Doveva esser stata Paska a farlo, in qualche modo, cadere, come aveva minacciato far cadere lui.

A questa istintiva idea ebbe un fremito di amara gioia in fondo al cuore; ma fu un momento. La tristezza immensa, immensa come la tristezza della notte, lo riavvolse: la nitida voce dell'istinto gli risuonava nella profondità dell'anima, predicendogli cupe cose.

A Nuoro gli avevano in segretezza confidato che qualcuno diceva essere Paska in relazione molto intima col padrone, che si lasciava talvolta dominar da lei. Quando però egli ubbriacavasi, e ciò accadeva spesso, la bastonava, e la costringeva a correre carponi per le stanze, coi capelli sciolti, portando a cavalcioni sul dorso il piccolo Efisio, che la frustava come una puledra.

La padrona taceva, o per stupida bontà, o per paura del marito che la bastonava come la serva; dicevasi però fosse lei a consigliar il bimbo di frustare, e coi calcagni percuoter forte Paska, quando gli serviva da cavalcatura.

Melchiorre aveva provato un disperato disgusto udendo queste cose; non ci aveva creduto del tutto, ma, ad ogni modo, si spiegava lo strano potere di Paska.

— Certo — pensava — ella non è caduta così basso, ma forse ha ammaliato il padrone per indurlo ad aiutarla nelle sue vendette. Forse l'arresto del mio amico è opera sua, se è vero che è stato egli ad abbandonarla. Ed io, che ho fatto qualche cosa di più, devo temere e aspettarmi qualche cosa di più.

Dopo aver dormito e russato tutta la notte, Basilio s'alzò all'alba. Melchiorre vegliava ancora, pallido e stanco, ma sentiva tanto prepotente bisogno di dormire, che prese il fucile carico, e disse recisamente al mandriano:

— Ora m'addormento con questo qui allato. Bada bene, se mi incorre qualche cosa, appena mi sveglio ti sparo.

— Fate quel che volete. Io esco per spazzar la neve dalla mandria. Se per colpa mia vi accade qualche cosa, sparatemi pure.

Melchiorre si coricò con la fredda canna del fucile stretta nella mano. Basilio uscì fuori. Era l'alba: la neve aveva cessato di cadere, ma il cielo restava bianco, uniforme, l'orizzonte chiuso da densi vapori.

Sotto la triste e pallida alba il bosco sembrava una misteriosa accolta di fantasmi ricoverati tutti sotto un'enorme cappa di ermellino. Ed ermellini giganteschi e mostruosi, fermi e affondati su altre pelli di ermellino, estese con incalcolabile profusione di lusso sul terreno, parevano le roccie, volte ad oriente in attesa di un'aurora che non spuntava.

Pensando a Paska, col cui ricordo erasi addormentato e svegliato, Basilio entrò nella mandria, ove il tepore naturale delle capre aveva convertito la neve in fango, e curvo, spingendo con le anche le povere bestie quasi assiderate, cercò pulire alla meglio il recinto. I capretti ricominciavano a belare, spingendo il musetto fra i cespugli del riparo, che nei delicati frastagli della neve parevano macchie di rovo fiorito. Anche le capre belavano. Curvo, spazzando il suolo con una scopa di ginestra secca, che non faceva che tracciare un'infinità di graffiti sul fango improntato dai biforcati piedi delle capre, Basilio spingeva sempre coi fianchi le bestie, parlando loro ad alta voce, imprecandole e lusingandole.

E pensava: — E se venissero i carabinieri e l'arrestassero, che colpa ne avrei io? Non potrei io andarmene ad assidare, e così non aver il tempo ad avvertirlo, se mai venissero? Ma… e poi?… Non mi torna punto a conto. Forse, non trovando subito altro padrone, dovrei tornarmene al mio paese. E allora? E lei!

Si sollevò col volto sorridente. Una lieta idea gli brillava nella mente, scacciando le tristezze di prima.

— Ora che il padrone ha paura, non scenderà più a Nuoro. Manderà me. E potrò vederla ogni giorno. Oh gioia! — I suoi occhi splendevano, quasi vedendo tutta la fredda e bianca montagna esultar di pascoli fioriti, sotto il sole di primavera. Egli avrebbe potuto veder Paska ogni giorno! Il bandito, avesse o no dei torti, era prigioniero; Melchiorre, pensasse o no alla cugina, aveva paura! Egli dunque avrebbe potuto veder Paska ogni giorno, senza timori nè preoccupazioni: non era felice?

Lo fu per tutto quel giorno e nei seguenti.

Nutrite di fronde che i pastori andavano a tagliar nel bosco, le capre si sgravavano felicemente, e subito, succhiando il latte grasso e nutriente, i capretti si sentivano forti, aprivan gli occhi e addrizzavano le esili zampette ripiegate.

La neve, come avviene nel Nuorese, durò pochissimo: prima una forte pioggia, ogni cui goccia praticava un grosso buco sulla neve già sotto corrosa, poi il vento detto dai Nuoresi pappa nie (mangia neve) la liquefecero. Dal bosco cadde a mucchi, e solo qua e là sui più grossi rami ne rimase un po' gelata. Poi un giorno, dopo il lungo vaporar triste degli orizzonti, apparve il sole, e il cielo s'incurvò come uno specchio di lucida ma fredda turchese sui nitidi profili marmorei, sulle lame brillanti delle montagne lontane. Gli attorti ghiacciuoli di cristallo opaco pendenti dai rami e la neve cristallizzata sulle roccie sprizzarono riflessi, nel cui tremulo splendore oscillavano tutte le perle dell'iride: la sottile erba invernale, su cui la brina disfaceva le sue perfide filograne, brillò anch'essa, smeraldina; e i capretti candidi e neri scesero saltellando dalla mandria.

Una sera Basilio montò a cavallo per ricondurre all'indomani zio Pietro all'ovile. Egli non si era ingannato; Melchiorre aveva paura. Lo vedeva trasalire ad ogni romore, vegliar la notte, guardar sempre lontano un po' spaurito. Doveva dormir di giorno, forse celandosi nella profondità delle grotte, perchè s'assentava senza dir dove andava. A scender poi a Nuoro pareva neanche pensarci: quindi Basilio parti felice, sicuro di vedere spesso l'amata.

E infatti, lungo quell'inverno, la rivide spesso. Zio Pietro, tornato all'ovile, non se ne mosse più. Col tempo Melchiorre rassicurossi alquanto; tuttavia, non fidandosi, mandava Basilio a Nuoro col latte.

Essendo le albe tarde e crude, le capre ora venivano munte sul tardi; quindi il latte veniva portato di sera perchè zia Bisaccia lo passava al fuoco e lo vendeva il mattino dopo per tempo; e spesso Basilio scorreva la notte a Nuoro.

A giorni egli ritornava all'ovile con gli occhi lucenti di gioia, ricordando il recente convegno con Paska: la sua letizia però aveva spesso un fondo amaro e crudele. Alla spensierata ebbrezza dei primi giorni succedeva un piacere inebbriante sì, ma amareggiato dal pensiero dell'avvenire. L'uomo si destava nell'adolescente. Preso perdutamente di Paska, egli oramai non aveva che il continuo e selvaggio desiderio di farla sua moglie; ma vedeva chiaramente, come mai prima, la sua estrema povertà, che gli impediva di sposarsi.

Non dormiva più profondamente come prima: torbidi pensieri gli battevano alle tempia, mentre fuori il vento scrosciava con rumore di mille fragorose cascate. In quelle notti egli odiava Melchiorre che ora lo maltrattava ingiustamente; lo odiava non solo per ciò e perchè era stato intimo di Paska, ma perchè possedeva tanto bestiame, tanto terreno, mentre egli non aveva nulla e doveva servirlo per vivere.

In casa di zia Bisaccia udiva talvolta le storielle che si narravano sul conto di Paska. Fremendo per cento opposte passioni — gelosia, ira contro i maldicenti, disgusto, dubbio, amore — gliele riferiva ingenuamente, e un solo de' suoi baci da Circe lo rasserenava: in fondo, però. come lievito acre, gli restava la gelosia. E avrebbe voluto sposar subito, oltre che per soddisfar la sua violenta passione, perchè riteneva puerilmente che Paska, diventando sua moglie, non avrebbe più guardato altro uomo, e le chiacchiere sarebbero cessate.

Ai discorsi ingenui con zio Pietro eran succedute domande positive. Un giorno gli chiese:

— È vero, zio Pietro, che quando un pastore torna da far il soldato e non ha nulla, gli amici gli dànno ciascuno un capo di bestiame e così arriva a farsi un buon gregge?

— Secondo. Se è un giovine onesto e benvoluto, gliene dànno molto.

— E voi, quando siete tornato da far il soldato, ne aveste molto?

— Sì.

— E poi vi siete sposato.

— E poi mi sono sposato.

Un altro giorno, insistendo ancora sulla questione, zio Pietro gli confidò una vecchia storia.

— Senti. Allora tutti mi volevano bene. Ma anch'io, non è per vantarmi, non facevo male a nessuno. Quando avevo la tua età ero anch'io servo. Avevo una padrona vecchia vecchia, e il figlio unico, quando io ero loro servo, venne arrestato e condannato a cinque anni di prigione. La padrona ne ammalò per il dispiacere e oltrechè era anche decrepita stava per rendere gli spiriti al Signore. Sapendo che la giustizia si sarebbe preso tutto, se ereditava il figliuolo, cosa fa? Fa testamento a me, e muore sicura che io, come le avevo promesso, avrei restituito tutto al figliuolo quando sarebbe tornato di carcere. E così feci. E il figliuolo allora mi regalò venti capre pregne.

Basilio ricordò la storiella del porchetto di zio Bakis, e guardò fisso il cieco: che differenza fra l'ometto dagli occhi azzurri e questo gran vecchio che raccontava così semplicemente le sue buone azioni!

— Cuor mio! — esclamò il mandriano, ridendo e battendosi un pugno sul petto. — Io m'avrei tenuto tutto!

— E poi? — chiese zio Pietro, severo.

— Poi avrei sposato una bella ragazza. Facevate l'amore allora, voi? Oh, si vede che non facevate l'amore.

— Lo vedi? Ti sbagli. Lo facevo anzi, ma se la beata di Maria Grazia mi avesse saputo capace di disonestà non mi avrebbe voluto più. Oh, che dici davvero? — Basilio curvò la faccia verso il focolare spento, ma, quasi sulla pietra ardesse il fuoco, senti una vampa incendiargli le guancie. Pensava a Paska.

— Almeno la metà! Almeno la metà! zio Pietro! Siete stato stupido — disse poi ridendo d'un falso riso.

— Nulla. Nulla. Essa non mi avrebbe voluto.

— Sciocca! — disse fra sè Basilio, e, uscito fuori, sputò con disprezzo, senza pensare che insultava la santità d'una morta.

La primavera avanzava. L'erba cresceva foltissima sui pianori, le siepi, fiorite di biancospino, rinnovavano qua e là la delicata malia della neve; sotto il bosco spirava l'umida fragranza dei ciclamini, delle viole e dei mughetti, che di mattina e di sera giungeva sino alla capanna, distinta su uno sfondo di profumi d'erbe selvatiche e di musco. Da ogni roccia sgorgava un ruscelletto; fatta rio, la fontana attraversava l'orto che Melchiorre ricominciava a solcare.

Si slattavano i capretti, serrando il loro musetto in una rozza museruola di legno; si cominciava a venderli, e col latte sovrabbondante si faceva il cacio. Le faccende, essendo qui triplicate, i pastori avevano meno agio di abbandonarsi alle loro passioni. Il latte veniva nuovamente munto all'alba, e non era sempre Basilio a portarne da zia Bisaccia quel tanto che se ne poteva spacciare; quindi non più convegni notturni con Paska. Ma ella scendeva ogni mattina per tempissimo alla fontana, nell'ora in cui Basilio doveva risalir la montagna, ed egli l'attendeva, fermo col cavallo sull'orlo del sentiero, sulle alture della Solitudine.

Appena scorgeva la figurina di lei scender agilmente sul fresco stradale, i cui paracarri brillavano di rugiada, metteva una grossa pietra sull'estremità della fune del cavallo, e scendeva correndo il ciglione. Dallo stradale teneva d'occhio il cavallino, rassengnato e campeggiato in aria, e ragionava un po' con la ragazza. Più d'una volta furon visti così assieme; e si disse aver Paska riannodato relazione con Melchiorre, ed esserne Basilio il messaggiere. La cosa fu riferita a zia Bisaccia, quindi al pastore.

— Cosa è questo pasticcio? — chiese egli al mandriano. — Cosa ragioni tu con quella…?

Siccome le diede un nome insultante, Basilio senti il sangue montargli al capo, e gridò:

— Faccio l'amore con lei. Cosa avete da dir voi? La sposerò.

Il viso di Melchiorre si rischiarò; una sincera risata gli gonfiò il petto, irradiandogli gli occhi. E l'altro sentì tanto ilare disprezzo vibrare nel riso del padrone, che avrebbe preferito uno schiaffo.

— Oh, oh! ah, ah! — disse Melchiorre, curvandosi e battendosi le mani aperte sulle anche.

— Dubitavo della cosa; ma che fossimo a questo punto!… Buona fortuna, buona fortuna!

Non disse altro, non insultò, non scacciò Basilio, come egli temeva, non mostrò alcun rancore, non nominò mai più la cugina. Ma Basilio da quel momento s'accorse d'essere trattato con beffa continua, con ostentata compassione, con mal celata diffidenza. E se ne senti umiliato, e tentò anche d'andarsene, cercando segretamente un altro padrone; ma nessumo gli offerse i patti vantaggiosi che godeva presso i Carta; ed ora egli aveva bisogno di guadagnar molto, d'accumulare e nascondere il suo denaro. Da più mesi non mandava nulla alla povera madre.

Il pensiero suo continuo e struggente era di posseder molto denaro, tanto almeno che gli permettesse l'acquisto d'un piccolo gregge. Ma ogni capra cosava dicci lire: e quanti mesi, quanti anni ancora doveva egli servire per accumulare nella sua unta borsa di pelle stretta da una correggia, almeno quaranta o cinquanta di quei piccoli fogli colorati, con l'immagine del re, per poter sposare Paska!

Inoltre doveva compiere il servizio militare, e se da un lato lo lusingava la speranza di ricever al ritorno, sebbene non nuorese, un certo numero di capre, secondo l'antico costume, d'altra parte, il pensiero di lasciar Paska, e forse di venir da lei dimenticato, lo trambasciava.

Coll'avanzar della primavera il suo amore crebbe, rigoglioso come la vegetazione della montagna.

Il musco coprì di sangue vivo le roccie con la sua fioritura carnosa e vermiglia; la ginestra stese zone d'ambra e d'oro pallido sui dirupi; fiori l'asfodelo, ergendo i fiorì argentei sulle lame dell'elegante cespuglio, e fiorì tutto il bosco, cangiando in pari tempo le foglie.

Le nuove foglie e i piccoli innumerevoli grappoli dei fiori degli elci erano d'un giallo chiarissimo, coperti di peluria cinerina: tutto il bosco pareva un immenso mazzo di fiori sfumati nell'azzurro. Un soffio voluttuoso percorreva le alte erbe, fra cui le nuove caprette, rincorrendosi, lasciando solchi argentei, o ove alcune capre tisiche tuffavano il muso, ricercando con mirabile istinto' le erbe medicinali che prolungavano la lor grama esistenza. Basilio sentiva quel soffio ancor puro e già ardente, pregno di irritanti profumi; nelle lunghe sieste tornava a sdraiarsi al sole, come nello scorso agosto, sprofondando le mani calde fra l'erba fresca, e indistinti pensieri affannosi, e desiderî indicibili lo tormentavano.

Un giorno, agli ultimi di maggio, Melchiorre prese otto grossi capretti che ancor gli restavano, li legò per i piedi, e li attaccò quattro per parte alla sella del cavallo. E col mandriano li mandò in un villaggio, donde gli eran stati commissionati.

Basilio partì cantando, spingendo in avanti il cavallo carico, sui cui fianchi i capretti, a testa in giù, abbandonavano il corpo lanoso.

Scese pei boschi fioriti, attraverso le roccie rosse di fior di musco; poi prese la valle, sui cui sentieri incavati la ginestra gettava i suoi archi d'oro, attraversò il fiume, dove il sambuco stendeva le vagolanti ombrelle dei suoi fiori sulle acque verdi, e riprese a salire su montagne di schisto, fiorite di rose canine. In una brughiera, tra fittissime macchie di lentischio, vide pascolare un puledro grigio dalla coda mozza.

Stanco del lungo cammino a piedi, prese la cordicella legata all'arcione del suo cavallo, la lanciò al lungo collo del puledro, e lo montò a dorso nudo, col proposito di rilasciarlo lì al ritorno. E via per la brughiera che pareva un selvaggio mare dalle onde verdi-cupe. Solo un cuculo batteva la sua nota acuta, sfumata nell'immenso silenzio: pareva il melanconico palpito della brughiera. Basilio passò, eretto sul puledro, come un giovine centauro emergente da quel selvatico mare di lentischi. Gli sembrava che il puledro fosse suo, che suoi fossero il cavallo e i capretti e tutto lo spazio che attraversava; e che tutto fosse in suo potere di vendere, per potersi al ritorno presentar a Paska con la borsa colma, e sposarla.

Lo invase una smania di slanciarsi alla corsa attraverso l'altipiano, gettando grida selvagge alle libere lontananze primaverili.

Giunto al villaggio vendè i capretti. Gli chiesero se il puledro era da vendere. Egli guardò la sella vuota del cavallo, e pensò ch'era naturale rifar il viaggio su quella e non sul dorso nudo del puledro. E lo vendette.

Al ritorno — era notte — ripassando nella brughiera, sentì il cuculo singhiozzare ancora, lentamente, invisibile, nell'immenso silenzio; i lentischi brillavano all' obliquo raggio della nuova luna.

Provò un brivido alle reni, ebbe un vago istinto di timore e di tristezza; ma, passato oltre, gli parve ehe ogni pericolo fosse svanito. E fu tutto.

Dopo il primo passo riuscito a meraviglia — il puledro era stato comprato da un forestiere allontanatosi subito dal Nuorese, — Basilio trovò la sua via; e allorchè venne avvisato per la leva, s'arrossò e infiammò gli occhi con orribili bagni d'acquavite. Soffrì inauditi tormenti, ma sceso a Nuoro per la visita militare, fu riformato per oftalmia incurabile.

Invece guarì in poco più d'un mese. Passò l'estate. Nulla pareva cambiato nell'ovile dei Carta, eppure una grande trasformazione era avvenuta nelle più piccole cose, da Basilio che, fattosi alto e serio, or aveva negli occhi un'inquieta fiamma di preoccupazioni, alla lepre che, grossa e dura, sempre silenziosamente e inutilmente viva, pareva avesse smesso il bisogno di fuggire. Le sue corte palpebre s'abbassavano sugli occhi con melanconica stanchezza; doveva aver dimenticato la vigna natìa, i fratelli forse ora morti sotto sanguinanti ferite, le danze lunari, ogni cosa, ogni istinto. In un anno aveva vissuto una lunga vita inutile, e ora si rassegnava, addormentandosi in un sopore vegetativo.

E zio Pietro continuava a soffiar il fuoco col suo bastone, a spazzar la mandria con l'alta scopa di siepe, a preparar i pasti, a pettinarsi sul fazzoletto rosso, a pregare e narrar storielle. Il suo cuore rasserenavasi; il piccolo Giglio del Monte aveva esaudito le sue preghiere, spazzando le nuvole dall'oscuro orizzonte della sua vecchiaia. Veramente il buio durava sempre, ma sereno ora come in una interlunare notte estiva.

Un giorno ch'erano soli Melchiorre gli disse:

— Padre, sentite. Zia Bisaccia mi vuol dar moglie.

— Se è buona, prendila. Ma hai dimenticato l'altra?

— È buona — disse Melchiorre, senza rispondere alla seconda domanda. — È sua nipote. Bassotta, grassa, bruna, con gli occhi di gatto. Una buona massaia.

— Come si chiama?

— Benturedda(1) Bonaventurella..

— Ha qualche cosa?

— Molto, una casa, una vigna, una terra, una giumenta.

— Se è onesta, pigliala. Ma hai o no dimenticata l'altra?

— L'ho dimenticata — rispose Melchiorre seccato.

Dopo le opportune pratiche di zia Bisaccia, un giorno d'autunno zio Pietro montò a cavallo, e guidato dal figliuolo scese a Nuoro. Quivi giunto cambiò di vesti, si lavò, si pettinò la barba, mise la berretta sarda, e condotto da zia Bisaccia andò a chieder la mano di Benturedda. Questa era, come Melchiorre l'aveva in brevi tratti dipinta, bassa, grassa, con seno e fianchi poderosi, olivastra di carnagione, con occhi azzurrognoli incassati sotto foltissime sopracciglia nere. La fronte breve e pelosa sfuggiva nell'arco del fazzoletto molto tirato in avanti; la voce uscente da due labbra grosse e ironiche aveva un timbro maschio sgradevole, e gli occhi una lucida e severa fissazione.

La madre, sorella di zia Bisaccia, enormemente pingue, con un seno spropositato, il volto grasso cascante e gli occhi celesti incassati come quelli della figliuola (gli occhi azzurri parevano una specialità della stirpe di zia Bisaccia, alla quale zio Bakis, oltre che marito, era parente), accolse zio Pietro con deferenza cortese, ma austera. Ella parlava quasi sillabando, e stringendo la bocca per darsi aria di importanza.

Mentre era da molto preparata alla domanda del vecchio, rispose come se mai avesse saputo nulla, e nicchiava e avrebbe preso del tempo — benchè la risposta fosse già pronta — se zia Bisaccia non interveniva.

— Ma che tempo, che tempo! Sorella mia, ascolta bene, ascolta tua sorella. Tua figlia è ricca, Melchiorre è ricco; cosa diavolo stiamo ad aspettare? Essi hanno casa — e contava, al solito, sulle sue dita — hanno terre, bestiame, pane, vino, lana, olio… diavoli, palle che ti trapassino il corpo! Cosa vuoi dunque aspettare?

Sebbene un po' scandolezzata, la vedova si lasciò convincere, e rispose di sì. Avrebbero dato l'entrata a Melchiorre per Tutti i Santi.

La ragazza porse da bere a zio Pietro, e parlò e rise con sostenutezza.

— Alla vostra salute, e all'adempimento dei nostri voti! — augurò zio Pietro, sollevando il bicchiere con mano tremante.

Anche il cuore gli tremava; e la ruga della fronte gli si sollevava turgida. Una infinita e indefinita tristezza lo invadeva, davanti a quelle due donne che intuiva false e cattive. La voce e il riso maschile di quella che Melchiorre gli aveva detto buona cd onesta, gli destavano specialmente una istintiva antipatia. Non seppe perchè, ma pensò a colei alla quale da molto non pensava più, a Paska, dalla voce armoniosa e dal riso fanciullesco, che spandeva gioia ove vibrava; e provando un improvviso struggimento di tenerezza, di ricordi e rimpianti, sentì che Melchiorre non aveva, non poteva aver dimenticato.

Questo intanto attendeva in casa di zia Bisaccia, ritto sulla porta, fumando un mezzo sigaro sardo. Quando vide tornar zio Pietro si levò di bocca il sigaro, e sputando lontano chiese con perfetta calma:

Ebbè, vi hanno dato curcufica?(1) Zucca. Significa rifiuto..

— Sì — rispose il vecchio. — Non vedi quanto mi pesa?

Fece atto di curvarsi, quasi sulle spalle gli pesasse davvero una grossa cucurbitacea, e voleva scherzare, e volevano scherzare entrambi, mentre un senso d'amarezza, scambievolmente celato, in fondo in fondo li opprimeva.

Zia Bisaccia rideva col suo strano e grossolano riso che non le smuoveva un muscolo del viso. Prese la nodosa mano di Melchiorre, e contandogli le dita ripetè l'antifona:

— Voi avete bestiame, avete casa, terre, olio, latte, lana, vino. Mia nipote farà l'affar suo perchè è… mia nipote. A Tutti i Santi l'entrata. Smetti quel muso da vampiro, Melchiorre Carta, e ricordati sempre di zia Caterina, che ti ha reso felice…

Egli lasciò dire, con la mano inerte e uno stupido sorriso in volto.

— Lana, olio, latte, cacio, case, bestiame, vino, miele… — diceva il suo cuore pulsando amaramente. — Basta tutto questo per esser felice?

— Per Tutti i Santi? — chiese. — Combineremo il regalo da fare. Un fazzoletto? O del denaro?

— Del denaro, del denaro, figlio mio. Il fazzoletto si consuma, il denaro si conserva. Io ho un mezzo marengo d'oro. Ti cambierò la carta e… senza aggio!

— Va bene — diss'egli; e pensava a Paska e al primo regalo che le aveva fatto. Ella gli aveva ricambiato un fazzoletto da naso, con un cuore ricamato in cotone rosso.

Padre e figlio risalirono un po' tristi la montagna. La nebbia d'autunno, grigia e desolata, bagnava le foglie secche e velava il bosco. Attraversarono quell'umido velario, silenziosi, melanconici, quasi ritornassero dall'aver compiuto una triste azione.

Nei giorni seguenti intuirono scambievolmente il loro malcontento, ma non se lo comunicarono.

Melchiorre si sentiva forte e rassegnato nella sua tristezza; il passo era fatto, e sebbene egli provasse disgusto pensando alla nuova fidanzata, era deciso di sposarla. Un vuoto, un vuoto triste e caliginoso come l'orizzonte allagato di nebbia, sprofondavasi dentro di lui: l'anima vi nuotava, rassegnata di quella fosca rassegnazione che dà la perdita d'ogni speranza, e non voleva più lottare, nè vedere, nè pensare.

Eppure lottava e vedeva e pensava. Mentre durante le pratiche di zia Bisaccia egli era stato sostenuto dal dispettoso desiderio di ferir Paska col suo nuovo fidanzamento, ora, compiuto questo, i ricordi gli tornavano insistenti, con insidiose tenerezze, e con tumulti di sdegno contro sè stesso che non sapeva dimenticare.

Paska era malvagia, maligna, leggera, forse perduta: egli pensava questo, ma poichè ella non poteva più appartenergli come moglie, tutto ciò non gli recava più ira nè dolore.

Ricordava di lei solo la creatura bella e affascinante, che possedeva la malefica potenza di far perdere il senno a chi l'avvicinava: e in questo morboso ricordo si smarriva con l'angoscia nostalgica di chi ha perduto una gioia sempre agognata, e che mai più potrà raggiungere. Non pertanto la presenza di Basilio continuava a riuscirgli sgradevole e talvolta anche compassionevole.

Sentiva che Paska si burlava di quel fanciullone come s'era burlata di lui, e che lo avrebbe ben presto tradito ed abbandonato. Forse ella, mal formata d'animo quanto perfetta di corpo, corrispondeva Basilio per far dispetto a lui, e forse anche servirsene per fargli del male.

Ma essendo la sua vita onesta, teneva presso di sè il mandriano appunto perchè questi, in ogni caso, gli servisse di difesa: sarebbe stato creduto più di qualsiasi altro.

Il giorno di Tutti i Santi scese a Nuoro, e andò a far la prima visita alla fidanzata. Fu ricevuto in cucina, e si sedette lontano dalla ragazza, senza osar di guardarla. Parlarono di cose indifferenti, di capre, di banditi, dei figli di zia Bisaccia, che parte erano ancora in carcere e parte correvano la cavallina a rompicollo.

Melchiorre udiva solo la voce grossa e sonora della ragazza, e con la mano in tasca, palpando la piccola moneta d'oro, pensava con disgusto:

— Come farò, se la madre, per disgrazia,ci lascia soli?

Non ci fu quel pericolo; ed egli potè andarsene freddo e rigido come era venuto, dopo aver messo sulla palma della mano di Benturedda la piccola moneta d'oro.

Quando Basilio seppe che il padrone s'era fidanzato, e che fra poco si sarebbe sposato, provò un mordente impulso d'invidia.

— Sposiamoci — disse supplicando, appena potè veder Paska — sposiamoci. Ho il danaro per acquistar trenta capre.

— Trenta capre! Ci vuol altro, bello mio!

— Sposiamoci, Paska, sposiamoci. Io non posso più vivere così, io non posso più vivere senza di te… — Egli spasimava, assaltandola di baci disperati. — Io commetterò qualche pazzia se tu non mi sposi.

— Ti sposerò… Quante volte l'abbiamo detto!

— diss'ella per calmarlo.

— Ma quando? Ma quando? Subito, subito, prima del padrone, prima?

— Il tuo padrone si sposa? — chiese ella stupita, allontanando la sua dalla faccia di Basilio, e spingendolo per gli omeri, con le mani aperte.

— È sposo, sì, è sposo. Non lo sapevi? Sposiamoci anche noi, anche noi, Paska…

— Con chi?

— Con chi? Io con te, tu con me!

— Dico, con chi sposa Melchiorre? — domandò ella rudemente; e le labbra le si incresparono, pronunziando quel nome. Perchè? Perchè l'acqua d'uno stagno s'increspa alla brezza? Perchè l'anima della donna è un misterioso stagno, nelle cui profondità dormono singolari mostri che un soffio agita e sveglia?

Melchiorre sposava un'altra donna: dunque l'amava, e amandola dimenticava, e dimenticando disprezzava colei che, credendo di averlo sempre in pieno dominio e di possederne tutto l'odio e tutto l'amore, si divertiva a sbranargli il cuore?

— Benturedda, la nipote di zia Bisaccia. È brutta, ma è ricca — disse Basilio, appoggiando la fronte sulla spalla di Paska.

— Ed egli ama quell'otre? — ella domandò, come parlando fra sè. — Non è possibile. Non è vero. Sei bugiardo.

— Non lo so, cioè sì, l'ama, si amano e si sposano. Sposiamoci anche noi che ci amiamo, sposiamoci!

Fisso nella sua idea, egli gemeva come un bimbo, vezzeggiando, sfregando la fronte sulla spalla di lei: — Dimmi di sì, promettimelo, Paska, Paska mia, buona buona, dimmi di sì, promettimelo: non me ne andrò se non me lo prometti…

— Non so… — ella disse, distratta. — Quello che hai è troppo poco per vivere.

— Troppo poco, troppo poco! E se fosse il doppio? Il triplo?

Ora teneva gli occhi fortemente chiusi, e sempre la fronte sulla spalla di lei.

— Allora sì… — mormorò Paska; e come Melchiorre, dando promessa di sposo ad un'altra, pensava a lei, ella pensò a lui promettendosi a Basilio.

— Oh no — pensava nella profondità della mente — non valeva la pena di tradirlo, se dovevo finire per esser la moglie del suo mandriano.

— Allora sì, allora sì! — esclamò Basilio, ergendosi sulla persona. — Bada che me lo hai promesso, bada! Se non manterrai la promessa, ti ucciderò!

— Come mi ha ucciso lui! — disse ella amaramente fra sè, forse pensando che in un exadoratore era preferibile l'odio all'oblio.

Basilio, che la sopravanzava tutta con la testa, le morsicò lievemente i capelli, poi disse scherzando:

— Io sono più alto di te: quando saremo marito e moglie come farai a baciarmi, che non ci arrivi?

— Ti chinerai tu, credo io! — rispose ella senza sollevare gli occhi.

La sua voce era triste ed ironica. Egli si curvò infatti e la baciò; ma le belle labbra rimasero fredde, e si concessero ai baci perdutamente appassionati di lui con l'abbandono indifferente di chi pensa a cose lontane.

Egli poi se n'andò pensando al modo di duplicar presto il suo capitale nascosto nel cavo d'una roccia: e rei pensieri volteggiavano come foglie putride nel turbine della sua passione.

Tornò l'inverno più rigido del passato; continue nebbie, dense e umide come pioggia, avvolgevano l'ovile, e quasi ogni giorno cadeva un po' di nevischio. Si dovettero far rozzi ripari per le capre, e i pastori, abbandonata la capanna, ove il freddo era intensissimo, si ritirarono in una vicina grotta, abbastanza ampia: sull' apertura eressero una tettoia di frasche, contro cui il vento si sbatteva con sordi soffi di mostro afono. Il fumo smaltò ben tosto di nero lucente la volta irregolare e granitica della grotta; là dentro zio Pietro, seduto avanti l'alta fiamma del fuoco, con le mani poggiate una sull'altra sul bastone ritto fra le gambe, pareva una figura preistorica, gli occhi chiusi nel sogno d'apocalittiche visioni.

E apocalittiche visioni erano al di fuori, nelle mostruose volute delle nuvole correnti sul cielo. Il caos fumava nella nebbia dell'orizzonte; dall'immenso crogiuolo del mare vaporavano sciolti tutti i grigi metalli di misteriose profondità minerali; e nella nebbia che continuamente, come per il diffuso alito della montagna, il terreno esalava, or grigia e diafana, or fumosa e fosca, le roccie e gli alberi apparivano e sparivano in chimeriche fantasmagorie. Nelle lunghe notti, se incombeva un po' di calma, e la luna invernale passava come un grand occhio biondo velato di lagrime, attraverso la nebbia e i cirri volteggianti pei eieli, un sovrumano incanto di tristezze, di sublimi desolazioni, di indicibili solitudini, regnava lassù. S'udiva lo scroscio dei torrenti, e null'altro si udiva; ma quel roteare di bianche acque sul granito riempiva la notte d'arcane armonie, rendendo più intensa la sensazione del silenzio. Pareva che al di sopra degli umidi boschi addormentati, le cui ghiande castanee pendenti dalle loro piccole coppe grigie luccicavano tenuemente al pallido sguardo della luna, passasse l'areo cocchio d'una Dea notturna — forse la Solitudine — avvolto nel grigio nimbo delle nuvole correnti.

I pastori dormivano entro la grotta, coi piedi rivolti al fuoco: accovacciati nell'ombra, il gatto e la lepre parevano donnole addomesticate, e completavano così il preistorico quadro. Ma il sonno di Basilio s'era fatto lieve e inquieto. Ad ogni piccolo rumore sollevava la testa, e ascoltava con gli occhi chiusi. Talvolta s'alzava, usciva fuori e percorreva i dintorni, fermandosi ogni tanto col viso eretto alla luna. L'alta persona snella, il bel capo e il profilo sfumati in una lieve aureola vaporosa sullo sfondo lunare, potevan ricordare il giovine Endimione sul ciglione della selva, in attesa della segreta amante sublime.

E infatti Basilio, spiando le spiacevoli sorprese che la notte poteva apportare, pensava alla sua Diana; e se non l'attendeva in realtà, nelle fredde vaporosità della montagna, sentiva però un continuo delirio d'attesa. Invece di calmarsi col tempo e con la sicurezza del conseguimento, il suo amore diventava spasimo. Paska non poteva visitar nel bosco il suo leggiadro per quanto sporco Endimione, ma egli scendeva quasi ogni giorno da lei, e la cercava e le andava dietro perdutamente. Tutti oramai conoscevano la sua passione.

A Nuoro egli s'indugiava anche con Felix, il quarto figliuolo di zia Bisaccia, col quale aveva stretto intima relazione. Essendo annata di ghiande, molti pastori poreari popolavano il bosco col loro gregge grugnente. Sebbene le capre nel loro squisitissimo istinto non toccassero le ghiande e neppur l'erba ove i porci eran passati (riconoscevano al fiuto l'immondo passaggio), si nutrivano così sostanzialmente che il latte ne veniva troppo denso, e i delicati capretti, risentendosi dell'eccessivo nutrimento, s'ammalavano.

Irritato per altre cagioni, Melchiorre pretendeva ingiustamente che fossero i porci a guastargli il pascolo; e indisse al pastore vicino di non lasciar penetrare oltre la greggia nella sua tanca. L'altro promise, ma non mantenne; e un giorno Melchiorre, trovati sotto gli elci alcuni porcellini, li rincorse e li cacciò. Nella fuga questi si sbandarono, e parecchi, cadendo fra dirupi, si storpiarono e rimasero morti. Il porcaro arse d'ira, e venne a parole con Melchiorre: s'ingiuriarono, si rinfacciarono cento immaginari delitti, e parve volessero bastonarsi. Non ne fu nulla; ma da quel giorno ruppero le buone relazioni di vicinanza, e si niegarono il saluto. Questo finì per inasprire Melchiorre. Egli scendeva ogni domenica a Nuoro, per visitar la fidanzata che gli diventava sempre più antipatica. Dopo le prime ipocrite sostenutezze, madre e figlia gli si mostravano come veramente erano, maligne, pettegole, avare sino alla sordidezza, e piene di boria. In quattro mesi non una dolce parola intima era passata tra i due fidanzati: l'enorme mole della madre vigilava sempre il focolare, attorno a cui sedevano, e del resto Melchiorre non desiderava affatto un colloquio intimo.

Una sera invece si trovò solo con la vecchia.

— E lei? — domandò sedendosi, a testa china, con gli occhi fissi per terra fra i suoi due piedi.

— È uscita, tornerà fra poco — rispose la donna, guardandolo attentamente. Dopo breve silenzio disse: — Ora che siamo soli, voglio parlarti di una cosa.

— Cosa? — egli domandò sollevando gli occhi senza alzar la testa.

— Senti, Melchiorre, figlio mio. Tu sai che a me non piacciono le chiacchere e i pettegolezzi. — (Tutt'altro! — pensò egli). — Stabilito ciò, quanto ora devo dirti, se fosse stato un pettegolezzo non ci avrei badato, ma si tratta di cosa seria e grave. M'è dunque venuta una persona seria, una persona buona, cosi fossi io — (Troppa umiltà — pensò Melchiorre, che tuttavia sentivasi un po' inquieto) e questa persona mi disse: « In fede di cristiani battezzati, ditemi, è vero che date vostra figlia a Melchiorre Carta?

« — È vero.

« — State attenta a quel che fate, perchè egli corre cattive acque, e non tarderà ad esser posto in mani della giustizia ».

— Perdio! — gridò Melchiorre, più adirato che spaventato, battendosi un pugno sul ginocchio. — Ricomincia il gioco?

— Cosa vuol dire? — chiese l'altra attenta.

— Continuate.

— Bene. Dopo molte preghiere e scongiuri, finalmente la persona mi diede qualche indizio.

Pare sia stata tua cugina Paska a svelar qualche cosa. Sai bene — la donna abbassò la voce — Paska è serva e… dicono, io I'ho inteso, non affermo sia vero, liberaci Dio… serva e qualche cosa di più presso un magistrato. Pare ci sieno denunzie anonime contro di te, che accogli i banditi nel tuo ovile, che si vede spesso bestiame rubato nella tua tanca…

Le labbra di Melchiorre, sbiancate, fremevano; ma non s'aprirono per parlare. Egli anzi stringeva i denti per frenare la sua commozione davanti agli occhi attentissimi della donna.

— … Non ho voluto mai dirti nulla, ma con Paska son passati dei pettegolezzi da quando ti seppe fidanzato di mia figlia. S'è lasciata andare persino a dire che se ella voleva, tu avresti sposato prima lei che l'otre… la chiama l'otre la figlia mia…

Le labbra di Melchiorre, cessando di fremere, sorrisero; e gli occhi gli rifulsero d'una luce lieta. Perchè le labbra sorridevano pensando a Benturedda, e gli occhi splendevano pensando a Paska?

— … Mia figlia è un otre di latte, ma Paska è un otre di siero putrido! Dice inoltre che, se lei avesse voluto, tu a quest'ora saresti disperso, ma che ne è ancora in tempo, visto che la giustizia ti ha sulla punta del naso. Dopo tutto ciò pensai che ella forse sparge la voce delle denunzie anonime, perchè il matrimonio tuo con mia figlia vada in fumo; quindi non ci diedi molta fede, sebbene, come ti dissi, la persona sia seria e grave. Tuttavia, Melchiorre, sentimi bene. Io ti promisi mia figlia perchè ti so un giovine onesto, laborioso e buono.

— E benestante! — proruppe lui.

— E benestante anche. Non si vive di solo amore…

— Macchè amore! — disse egli fra sè. E con le braccia incrociate, ergendo fieramente il collo, stette ad ascoltare le conclusioni. La donna raddolcì la voce, sino a renderla umile, ma questo non scemò l'amarezza delle parole:

— … E sono pronta a mantener la promessa. Ma caso mai… se tu non ti sentissi tranquillo… se per caso… alla fine si è uomini e soggetti all'errore.

— Donna — egli disse acerbamente — io non sono un ladro! E se non avessi dato già abbastanza dispiaceri a quel povero vecchio, dopo queste vostre parole me ne andrei e non rimetterei più piedi in questa casa.

— Tu mi hai frainteso! — esclamò ella, e cercò rabbonirlo finchè tornò la figliuola. Allora il discorso cadde su cose indifferenti.

Melchiorre fremeva fra sè: di nuovo l'assaliva l'istintiva paura di pericoli ignoti, e, disgustato, trovandosi fra le due donne che egli non amava e che diffidavano di lui, gli pareva trovarsi accerchiato di nemici. Pure, in fondo, qualche cosa di dolce gli rendeva meno intensa l'amarezza di quei momenti.

Paska aveva detto che, ella volendolo, egli si sarebbe più volentieri dato a lei che alla fidanzata, la cui voce sembrava davvero il gorgoglio d'un otre semivuoto. Ella dunque ammetteva una loro riunione? Ed era gelosa? Ogni altra cosa, dispetti, odio, dolore, minaccie, malefizi, infamie, tutto svaniva. Restava solo l'insidiosa dolcezza delle dispettose parole di lei, dolcezza alla quale, certo, si mesceva un po' l'acre piacere della vendetta. Egli sentiva di disprezzar sempre Paska, di non poterla più sposare; ma unendosi a un'altra donna, a Benturedda forse, il suo maggior piacere sarebbe il rimpianto e il dispetto dell'antica fidanzata. Uscì stravolto, e rientrato da zia Bisaccia le raccontò ogni cosa.

— Vorrei scambiar due parole con mia cugina

— disse poi. — Voglio sapere, voglio vedere se c'è qualcosa di vero in tutto questo pasticcio.

Zia Bisaccia pensò alquanto.

— Se mi prometti di non far nuove pazzie, posso farti parlarle stasera stessa…

— Andate! Andate! Son passati quei tempi!

— diss'egli risentito. Ella indossò la tunica, rigettandosene i lembi sugli omeri, e uscì.

Cadeva la sera: Melchiorre rimase presso il fuoco, col volto nascosto fra le mani. La sera in cui zio Pietro era andato a chiedergli Benturedda in isposa, egli non aveva atteso con tanta ansiosa inquietudine.

Zia Bisaccia sapeva ove trovar Paska. Questa passeggiava su e giù per il Corso fra un gruppo di domestiche dal lezioso sguardo, e di bimbe infagottate che parlavano di mode e sparlavano del prossimo come signore per bene. Il padroncino di Paska, sempre mingherlino, col visuccio pallido affondato nella falsa pelliccia del paltoncino, veniva a fianco della ragazza: e dietro il cagnolino nero, con l'eterna nota del suo campanellino, e il collare rifulgente d'una scintilla d'oro.

Il nitido vespero invernale calava con freddi bagliori d'agata sull'orizzonte occidentale: ad est, sullo sfondo del Corso, la piena luna, sorgente dall' Orthobene, sospesa come enorme perla nel tenero azzurro del cielo, spandeva vivi riflessi d'acqua sul lastrico di granito bagnato. Tutto il Corso, discretamente animato, sotto quelle diffuse luminosità pareva un fiume quieto: verso ovest i riflessi morivano in isfumature d'ambra.

Zia Bisaccia attraversò il lastricato col suo fiero passo da cavalla indomita: borbottava fra sè, con infinito disprezzo, mille ingiurie contro i signori e le signore, e specialmente contro le serve che passeggiavano così sfacciatamente. Finalmente vide chi cercava.

— Sss… — soffiò, uncinando un dito fuor della tunica incrociata sul petto.

— Cosa volete? — chiese Paska avvicinandola.

— Voglio te. Vuoi venire un momento a casa mia? C'è una persona che vuol parlarti.

— Chi è?

— Cugino tuo.

— Zia Caterina!? — interrogò Paska, guardandola un po' stupita, un po' spaventata.

— Non aver paura! È in casa mia e basta.

— Verrò subito, allora. Per voi!

— Per me un corno! — rispose la donna, e voltando le spalle s'allontanò, nera sulla luminosità del granito e dell'aria.

Melchiorre attendeva, dando le spalle alla porta, col volto sempre fra le mani: nella cucina addensavasi il buio, e alla mobile luce rossastra della fiamma, grandi ombre tremavano sulle pareti.

Ancor prima che zia Bisaccia rientrasse, egli udì passi leggeri e un sottile rintocchino di campanellino nel cortile. Si volse, e tosto, al di sopra della sua ombra stendentesi gigantesca sul pavimento, vide sorger sulla parete, andando a perdersi sul tetto, tre grandi ombre: di una donna, d'un bimbo, d'un cane.

— Paska — disse, alzandosi — perchè hai condotto questo signorino?

Il signorino guardava con occhi spalancati, e ascoltava con orecchie intente: quindi Paska sollevò e corrugò le sopracciglia, accennando a Melchiorre di esser prudente, e rispose:

— È voluto venire, e siamo venuti per cercar zia Caterina, che mi voleva. Dov'è?

— Non è tornata ancora. Avete fatto prima di lei, forse.

— Prima, Siediti qui, Efes. — Paska fece sedere il bimbo su una sedia sgangherata, ed ella s'assise sopra uno sgabello, in piena luce. Il cagnolino, seguìto dall'inquieto sguardo del bimbo, girava per la cucina, fiutando ogni cosa; e sempre il campanellino suonava e il collare splendeva.

Ritto davanti al focolare, Melchiorre fissava avidamente Paska, dominandola con uno sguardo nel quale ardevano cento diverse passioni.

Gli sembrava che senza la presenza di quel bimbo, che gli riusciva odiosa e nello stesso tempo lo intimoriva (capiva che Paska lo aveva condotto per sua sicurezza), avrebbe ancora percosso sua cugina, calcandole con le mani sulle spalle, premendola e calpestandola. E in pari tempo guardandole la bocca rossa e fresca, la cui linea infantile dava a tutto il volto una graziosa espressione di giovinezza, rivedeva con disgusto le grossolane labbra di Benturedda; e con interno fremito, con tenerezza angosciosa, con desiderio folle, ricordava i baci dati a quella bocca di rosa e di fuoco, che gli stava così vicina eppur tanto lontana. Perchè tanto lontana? Niente affatto lontana. Se fossero stati soli, avrebbe afferrato Paska, e invece di percuoterla, l'avrebbe baciata col frenetico scoppio di tutta la sua passione, del suo dolore, della sua ira da tanto tempo covata. Ma quel bimbo!

Perdio, quel bimbo con le manine in tasca, che lo guardava ogni tanto con lo stesso sguardo, fisso e diffidente, e quel cagnolino!… Col desiderio, li prese violentemente e battè la loro testa al muro; in realtà, si contentò di chieder amaramente:

— È il figlio del tuo padrone, questo?

— Sì — ella rispose, e rise, incontrando coraggiosamente lo sguardo che la divorava.

— Perchè ridi?

— Perchè ne ho voglia.

— Bellino — dimandò poi Melchiorre, rivolto al bimbo — è vero che questa ti fa da cavallo, e che tu la frusti?

— Non è vero! — rispose risolutamente l'esile vocina.

Melchiorre provò un benefico sollievo, ma Paska s'offese e balzò in piedi.

— Non son venuta per ascoltar insulti. Me ne vado… Andiamo, Efes…

Per fortuna rientrò zia Bisaccia e la rattenne; poi carezzò rudemente il bimbo, presc una lucerna d'ottone tutta pesta, s'incurvò sul focolare, con le dita sparpagliò il lucignolo e lo immerse nella fiamma. L'olio gocciolò sul fuoco e il lucignolo s'accese.

— Bimbo, vieni — disse zia Bisaccia, porgendogli una mano, e con l'altra tenendo alta la lucerna oleosa, che mandava una gran fiamma. — Vieni, zia ti darà una cosa buona.

Egli guardò Paska.

— Va pure, se vuoi — diss'ella, rassicurata dalla presenza della donna; ed egli andò, volgendosi indietro per chiamar il cagnolino. Fu condotto in una camera che gli parve oltre ogni dire misteriosa: strane fragranze gravavano intorno; un baldacchino quadrato, di stoffa gialla, copriva il letto di legno; sulle pareti, miste a quadretti e immagini, pendevano corbe e canestri di asfodello; grandi arche nere, scolpite da chimerici bassorilievi, posavano lugubremente sui rozzi piedi, lungo i muri. Dal soffitto pendevano formaggelli gialli, grappoli d'uva, di pere e di mele cotogne.

Ma la sorpresa un po' paurosa cessò nel fanciulletto, quando, sollevato dalla donna il coperchio di una di quelle arche, sotto cui il cagnolino era scomparso, egli vide grandi corone di fichi secchi, attorte come serpentelli inzuccherati, e uva passa lucente, e una pentola colma d'una sostanza dura, gialliccia, perfettamente a lui ignota. Allungò la testina, si fece coraggio.

— Cosa è questo? — domandò.

— Miele. Assaggialo.

Siccome egli peritava, zia Bisaccia introdusse vigorosamente un dito nella pentola, e ricavandolo colmo di miele glielo accostò alle labbra. Sulle prime egli torse il visino; poi non solo succhiò, ma leccò quel dito.

Rimasti soli, Paska, ritta presso il focolare, chiese a Melchiorre cosa voleva da lei.

Cosa volcva? Egli se n'era quasi scordato.

— È tardi — ella disse guardando fuori. — Spicciati chè i padroni m'aspettano.

— Il padrone t'aspetta? Ti dice ogni cosa il padrone?

— Il diavolo ti porti! Ricominciamo?… Son venuta per questo?

— Sì, per questo — diss'egli afferrandole un braccio. — È vero che hai detto questo, questo e quest'altro? — (Le riferì esattamente ogni cosa). — È vero o no? Parla, qui, subito, altrimenti ti farò vedere chi sono io! Sono stanco di tutte queste cose! Tu vuoi rovinarmi…

— Non sono io che faccio le accuse anonime! — scappò detto a lei.

— Dunque è vero? Dunque? Parla, figlia di Satanasso! Chi le dice a te queste cose? — Le afferrò l'altro braccio e la scosse tutta. Ella lasciò fare, tranquilla.

— Non me le dicono. Le sento. Io non voglio punto rovinarti… cosa mi importa di te? Ma ho parlato perchè non posso vedere quell'otre maligna e perfida…

— E perchè non puoi vederla?

Ella non seppe rispondere; ma chinò la testa come commossa.

— Perchè non puoi vederla… se non t'importa nulla di me? Perchè?…

Nessuna risposta. Egli non ricordava più lo scopo per cui l'aveva fatta chiamare; non ricordava più il suo pericolo; non chiedeva più ciò che ella poteva sapere delle accuse che lo minacciavano. Solo l'ultimo perchè lo urgeva: tutto il resto era nulla. Anche suo padre era dimenticato.

Dopo un intenso silenzio, chiese con voce cambiata:

— Non hai paura di me, tu?

— Perchè dovrei averne?

— Posso ucciderti.

— Uccidimi.

Per un secondo egli ebbe la precisa volontà di ucciderla e uccidersi.

— E allora perchè un tempo avevi paura di me?

— Allora non desideravo morire.

— E ora lo desideri?

— Sì.

— Perchè?

— Perchè sono disgraziata.

— Perchè sei disgraziata?

— Perchè il mondo è pieno di menzogne, di calunnie, d'infamie.

Bastarono queste parole perchè egli si convincesse che le cose dette sul conto di lei fossero menzogne, calunnie, infamie.

— Paska — disse, sollevandole a forza la testa — è anche calunnia che fai all'amore col mio mandriano?

— Povero ragazzo! — diss'ella, col viso sollevato, ma con gli occhi lontani dagli occhi che la guardavano pazzamente.

— Povero ragazzo! — ripetè egli fra sè. — Guardami! — comandò.

Essa lo guardò.

— Paska! — diss'egli come in delirio, e tremando tutto se la strinse ferocemente al petto, la sollevò fra le sue braccia, e immerse le labbra in quelle di lei con la stessa assetata avidità con la quale aveva bevuto l'acqua della fontana, mentre ella saliva ridendo la montagna.

Nonostante tutta la sua famosa astuzia, rientrando in cucina zia Bisaccia non s'accorse di quanto male aveva fatto a sua nipote.

Col lucignolo ridotto in brage, la lucerna spegnevasi; Efisio reggeva una piccola corona di fichi secchi. Paska strinse sull'esile collo del bimbo la pelliccia che si spelava come un vecchio gatto, e lo trascinò via. Erano appena usciti che egli chiese:

— Quando ci torniamo qui?

— Spesso, purchè tu stia zitto. Me lo hai promesso. Voglio vedere — ella rispose; e affrettò il passo perchè vide Felice, il figlio di zia Bisaccia, che tornava a casa ubbriaco. Egli però non la riconobbe.

Nella sua ebbrezza Melchiorre ricordò finalmente che zio Pietro doveva aspettarlo inquieto, e disponendosi a partire disse alla donna:

— Pare che la cosa sia vera, non solo, ma che sia assai grave. C'è gente che mi vuol male. Non so come finirà. Io però sono tranquillo, perchè ho la coscienza pura. Ad ogni modo bisogna esser prudenti: tarderò a ridiscendere in città. Dite dunque in casa di vostra sorella che per qualche tempo non mi aspettino.

— Parla, parla, parla! — incalzò zia Bisaccia, afferrandolo per il cappotto. — Cosa sono queste lettere nonime? Cosa ti ha detto quella fraschetta? Parla! Sarà poi vero? o sarà come il vento che par raccontare cento cose, mentre non è che un soffio d'aria?

— Se non ci credevate, perchè l'avete fatta venire? — egli chiese aspramente.

— L'hai voluto tu.

— State zitta: vedete vostro figlio che ritorna! E non è solo(1) Vale a dire: è accompagnato dalla sbornia., a quanto pare…

Felix entrò barcollando, con gli occhi quasi chiusi e le mani penzoloni.

— Vi lascio con Gesù e con Maria, me ne vado… — salutò alquanto ironicamente Melchiorre, e scappò via mentre zia Bisaccia, aggirandosi su sè stessa, guardava da capo a piedi l'ubbriaco.

Melchiorre, che era venuto e se ne andava a piedi, udì gl'improperî e gli urli coi quali la madre accoglieva il figliuolo, e disse a voce alta:

— Le dia quello lì a sua nipote!

La notte era scesa: la luna alta sul cielo immacolato gettava splendori nivali sui bassi tetti muschiosi e sulle viuzze erbose: gli alberi e i cespugli degli orticelli e dei cortiletti di Sant' Ussula stendevano la venatura dei rami ignudi sullo sfondo azzurro-latteo dell'aria; canti rauchi d'ubbriachi rimbombavano in lontananza.

Pareva una notte d'autunno; e in quella luce, in quella trasparenza lunare, Melchiorre, pur dopo tante emozioni, sentiva i muscoli agili e il pensiero limpido.

Nessuna paura lo turbava; indecisione aliuna non frangeva il corso gagliardo e ardente del suo sangue.

Ogni pulsazione dal suo cuore diceva:

— Paska, Paska, Paska, Paska…

E il pensiero rispondeva!

— L'amo: sarà mia. L'otre tarderà a vedermi: come liberarmi dalla promessa?

Ma neppure questa domanda turbava l'inno dolce e selvaggio del cuore, che compendiandosi nella ripetizione di quel solo nome — Paska — risuonava travolgendo ogni altra cosa, come ruota mossa da poderoso torrente.

Presso il casotto del dazio, davanti all'Orthobene nitidamente disegnato dalla luna, vide due carabinieri. Ebbe un istintivo moto di timore e si volse per fuggire; altri due carabinieri proiettavano le loro lunghe ombre deformi sul terreno chiaro.

Melchiorre si fermò, e in quel terribile momento, benchè la visione dell'Orthobene gli ricordasse il padre che lo attendeva, ebbe un consolante pensiero:

— La mia coscienza è pura. Se mi arrestano, almeno è una scusa per rompere la promessa.

Nella grotta zio Pietro attendeva, istintivamente inquieto. Anche lassù la notte era limpida, e i boschi taciti sotto il cristallo argentato dal cielo; ma il gelo calava diffuso coi raggi della luna.

Basilio aveva raccolto le capre nei ripari, e legato il cavallo davanti alla grotta. Le ore passavano, Melchiorre non tornava.

— Non è invano — diceva zio Pietro, parlando come fra sè.

— Siete uno stupido, zio Pietro! Egli è presso l'innamorata e si dimentica.

Il vecchio curvava la testa, tanto che la barba gli copriva tutto il petto: e taceva. Poi dopo un po':

— Ma, e le altre volte? Non è invano che tarda così.

— Che matto che voi siete! Ora l'amore cresce, e vostro figlio sarà rimasto laggiù come uccellino nel vischio. O forse si è ubbriacato.

— Egli non s'ubbriaca.

— Oh no, mai! — disse Basilio con ironia. — Ad ogni modo tornerà domani se non torna stanotte. Coricatevi, voi.

— Non mi corico. Non è invano che egli non torna. Che ora è?

— Non mi seccate! — disse rudemente Basilio; ma si alzò tosto, e stette sull'apertura della grotta, coi pollici fortemente ficcati entro la cintura, e il viso in su.

— Dalla luna possono esser le otto.

— Che è accaduto? — pensò zio Pietro. — Egli non ha mai mancato di dormire all'ovile. Che si sia ubbriacato davvero? Che l'abbiano arrestato?

E provò tale angoscia che un gelato sudore gli bagnò la nuca. In un attimo risorsero le antiche sensazioni di terrore, togliendogli anche quel vago senso di luce interna che lo animava. Tutto fu buio, fuori e dentro dell'anima e del corpo; e in quel momento, mentre coi piedi entro i ceppi Melchiorre pensava intensamente a lui, egli intuì mirabilmente ogni cosa.

Passato il primo stordimento, più che dolore ebbe paura; e nel suo puerile timore non disse nulla di quanto indovinava, temendo che Basilio lo abbandonasse.

Si coricò, ma stette sveglio, cogli occhi aperti in quell'immenso ed angoscioso buio che lo attorniava d'ogni parte.

Anche Basilio giaceva per terra, vicino all'apertura; ma zio Pietro si accorse che neppure egli dormiva. Lo sentiva muoversi, col respiro irregolare, talvolta sospeso e ansioso, e nella sua inquietudine capiva che anche il mandriano era inquieto. Perchè? Per affetto? Per timore? Non sapeva, non indovinava, ma sentiva, e la muta inquietudine di Basilio aumentava la sua. Le fredde ore passavano si. lenziose sui boschi, nella luminosità sempre più chiara della luna al declino. Ogni foglia d'elce aveva una fiammella perlata, lunghe ombre decise si stendevano ai piedi delle roccie e dei ccspugli, e nella lattea chiarità di quell'ampio cielo vibrava sempre, continuamente, l'invisibile ruota del torrente lontano.

Melchiorre non tornava. Zio Pietro sapeva che non sarebbe tornato più, eppure lo aspettava, sempre sveglio, immobile sulla stuoia, della qualc, nella dolorosa insonnia, sentiva ogni giunco premergli le vecchie membra. Il sangue commosso gli pulsava forte alle tempia, sulla nuca, entro le orecchie, in gola, nei polpastrelli delle dita; eppure aveva freddo, e nella stanchezza della insonnia, col pensiero esausto, confondeva il correr del torrente col batter del suo sangue, provando una impressione di gelo, come se tutta la fredda acqua scendente dai monti gli scorresse nelle vene.

Era ancora l'antico gorgo gelido che lo invadeva, la profondità di mari oscuri, ove lo sguardo dell'anima invano si apriva. Melchiorre non sarebbe tornato…

E anche Basilio continuava a vegliare.

Al tramonto della luna, che, essendo l'apertura ad occidente, ora penetrava sin dentro la grotta, il giovine si scosse forte, si sollevò. Zio Pietro lo sentì stiracchiarsi, sbadigliare, poi soffiare sul fuoco spento.

La fiamma dovette sorgere vivissima, perchè un improvviso tepore giunse al volto del vecchio; e gradatamente un dolce calore lo invase, allontanando quella gelata illusione d'acque che lo soffocavano. Il sangue battè meno rapido; gli occhi si chiusero in un vago torpore. Mentre stava così assopito udì un fischio, ma non abbastanza per svegliarsi.

Basilio invece, accoccolato accanto al fuoco, con le ginocchia strette fra le braccia, balzò totto in piedi, uscì e corse verso la capanna. Incontrò Felix, il figlio di zia Bisaccia, che per l'ubbriachezza della sera prima aveva ancora gli occhi rossi e la voce cavernosa. Egli disse subito che Melchiorre era stato arrestato.

— Mia madre sa che lo hanno arrestato sotto accusa d'avere venduto bestiame rubato. Dicono di averne veduto qui, intorno all'ovile. Basilio, bada a te, ragazzotto!

Lo prese per gli omeri, lo scosse violentemente.

— Ohè, per chi mi prendi? A me mi fanno un corno! — rispose Basilio sollevando un dito.

La luna tramontò; un improvviso buio si fece intorno. Nonostante la loro bravura, i due giovanotti avevano paura.

— È probabile che vengano i carabinieri a perlustrare la tanca. Bisogna allontanar quel bue: dove diavolo lo hai messo?

— Sei venuto per questo?

— È dunque per veder i tuoi begli occhi?

Felix aveva rubato un bue, e aspettando l'occasione per rubarne un altro e venderli appaiati, lo aveva consegnato a Basilio perchè lo tenesse celato nella tanca. Avrebbe poi ricambiato il favore, procurando la vendita di qualche capo di bestiame trovato dal mandriano.

Andarono in cerca del bue; trovatolo sdraiato nel bosco, lo svegliarono e lo aizzarono. La bestia, nera e grassa, s'inginocchiò pesantemente sulle due zampe anteriori, poi si rizzò e si mosse stordita nell'oscurità.

— Truu… truu.., op, va via, va via… — cominciò a gridare Felix, battendo le mani e rincorrendo il bue.

Basilio si curvò, brancicando prese tra la fredda erba una pietra, e la lanciò sul fianco dell'animale; questo scosse una zampa, volse il capo, e leccandosi la ferita partì con trotto pesante. I due uomini lo rincorsero lungo tratto, emettendo strane voci per aizzarlo.

L'eco della fredda e silenziosa ora ripeteva nitidamente la pesante corsa del bue e i passi e le voci dei due uomini. Il cane dell'ovile abbaiava in lontananza. Zio Pietro restava assopito, ma sentiva di non dormire, e voci confuse gli risuonavano nella mente. Ad oriente gli elci ancor neri rabbrividivano su uno sfondo di gelido cristallorosa, e le capre si cozzavano entro i ripari, quando Felix e Basilio entrarono nella grotta. Il fuoco s'era di nuovo spento; zio Pietro sembrava dormire, ma si svegliò immediatamente e sentì la presenza di un estraneo.

— Chi è? — domandò sollevando la testa e il busto e porgendo una mano.

Felix si chinò, gliela prese, e lo aiutò a sollevarsi.

— Sono io, zio Pietro.

— Sei Felix. E Melchiorre? — E siccome l'altro taceva impietosito, gli chiese risolutamente:

— Lo hanno arrestato?

— Sì.

Questa sillaba, che pur attendeva, gli diede un mortale dolore, uno sgomento indicibile.

— Signore, sia fatta la tua volontà! — gemè, ma tutta la sua antica fede, la sua semplice filosofia, la sua bontà, la sua forza caddero, come pietre dall'alto, entro quel misterioso gorgo d'acque gelate che nuovamente lo circondavano. Intese appena le scuse che Felix cercava connettere per fargli coraggio: « Che Melchiorre se ne tornava all'ovile, quando aveva incontrato due carabinieri ubbriachi, che lo avevano insultato, che egli aveva risposto vivacemente, e perciò lo avevano tratto in arresto. Che non era nulla, che stesse tranquillo, che non era nulla.

— Non è così! Perchè cercano ingannarmi? — gridò il vecchio cuore; e da quel momento non ebbe che il desiderio, il fermo proposito, di scender a Nuoro, a qualunque costo, per sapere, per conoscere, per intendere tutta la triste verità. — Portami in città, Felix, portami con te, fammi questa carità.

— Siete matto, zio Pietro? — gridò Basilio. — Cosa volete farci laggiù? Strapazzarvi invano? È cosa da nulla.

— È cosa da nulla — ripetè Felix.

Per quanto zio Pietro pregasse, non lo esaudirono. Felix rimase tutto il giorno e la notte lassù; avendo saputo dell'arresto, tutti i pastori dei dintorni, compreso il vicino porcaro, vennero, desolati, consolando il vecchio, assicurandolo che fra poco Melchiorre verrebbe certamente rilasciato libero. Egli ascoltava e taceva, con le orecchie intente, la ruga dritta in mezzo alla fronte, le mani una sull'altra sul bastone. E niuna parola lo confortava, nessun conforto lo distoglieva dal proposito di scendere a Nuoro.

Eppure per tutto il giorno lo sostenne la speranza di sentire Melchiorre tornare. Il cane usciva e rientrava inquieto, nervoso, e lo guardava gemendo sottilmente; la lepre allungava tratto tratto le orecchie, come scuotendosi dal suo apatico sogno. Solo il gatto, fermo davanti al fuoco, con la coda attortigliata alle due zampine anteriori, conservava negli occhi socchiusi la calma luce di due smeraldi, la trasparenza indifferente dell'egoismo.

Passarono i giorni; gli amici si stancarono di visitare il vecchio, l'ovile cadde in profonda desolazione, Melchiorre non tornava. Zio Pietro non mangiava, non beveva, non si muoveva: il suo cranio si fece pallido, la barba ingiallì.

— Voi diventate matto — gridava Basilio, sinceramente disperato. Se continuate così, diverrete presto un cadavere, e quando Melchiorre tornerà, troverà ben in ordine le cose sue! Bel guadagno ne fate, zio Pietro! La giustizia si mangerà tutto.

— Portami a Nuoro, Basilio.

— Portami un corno! Voi restate qui, ve lo giuro, che mi escano gli occhi, e mangiate, e bevete, e state forte, che le cose si rimedieranno.

Zio Pietro non s'incolleriva, taceva, curvava il volto sul bastone; ma il suo silenzio era più triste d'ogni querela. Allora Basilio cercava lusingarlo, gli si inginocchiava davanti come un bimbo, porgevagli latte e pane.

— Mangiate, zio Pietro, siate buono, piccolo zio mio, siate buono. Che ne ricavate voi da questa vostra condotta? Andiamo, siate forte, zio Pietro. Vi ricordate tutte le storielle che mi raccontavate, tutti gli avvertimenti che mi davate? A che servono essi, se non mi date il buon esempio? Andiamo, via, fate da savio, Andremo da Nostra Signora e pregheremo. Volete?

— Oh Dio — diceva poi parlando a sè stesso — è inutile! Non intende un accidente. Siete diventato sordo, zio Pietro? — urlava alzandosi. — Come farò io, quando, tornato Melchiorre, vi troverà morto? Dirà che sono stato io! Ebbene, lo so io il rimedio. Me ne andrò, e vi pianterò, voi con le vostre capre e i vostri diavoli.

Solo questa minaccia scuoteva alquanto il vecchio; l'orrore della solitudine, la paura che derubassero l'ovile, vincevano il sue dolore.

Basilio accudiva malamente a tutto il da fare, non aiutato per nulla da zio Pietro: le mandrie erano sporche, il fuoco spesso spento, il latte, munto in fretta, riusciva scarso e non pulito. Egli scendeva e risaliva la montagna non indugiandosi a Nuoro; e dal giorno dell'arresto di Melchiorre, per quanti convegni le avesse dato, non aveva riveduto Paska. Questo finiva di squilibrarlo, dandogli una stanchezza inquieta, una tristezza intensa. Un giorno pensò:

— Sono stufo alla fine, ho bisogno d'aiuto. Bisogna che la veda, poi… Zio Pietro, bisogna cercar un aiuto: le cose vanno male così. Volete?

Il vecchio annuì.

— Compare Jacu — disse al solito Basilio, passando dal porcaro vicino — badate a zio Pietro e alle capre.

E al solito il vicino promise, ma non mantenne.

Basilio scese in città, cercò nel vicinato di zia Bisaccia un ragazzotto robusto e sfaccen dato, e gli propose di salir all'ovile per aiutarlo, e badare al gregge durante le sue assenze.

— Quanto mi dài?

— Quattro lire al mese.

— No, dieci.

— Dieci? Puh! — urlò Basilio sputandolo. — E osi chiedere dieci lire, tu? Tu, rognoso?

— Altrimenti non vengo — disse l'altro tranquillamente, passando la mano sulla saliva di Basilio.

— Poltrone, cialtrone, pidocchioso! Siete tutti così, maledetta razza nuorese! Cani senza padrone! Morite di fame, e quando vi cercano per lavorare, pretendete tanto, o piuttosto continuate a schiacciar pidocchi! Volete guadagnar in un giorno ciò che poltrite in un anno!

— Va, sei di cattivo umore, oggi — disse l'altro con disprezzo.

Basilio andò in cerca di Paska, e non potè trovarla. Fu assalito da una tristezza irosa, e poichè l'ora avanzava, e occorreva tornare all'ovile con qualcuno che all'indomani, restando lassù, gli permettesse d'indugiar a Nuoro per rivedere a qualunque costo Paska, tornò dal ragazzo.

— Ti do cinque lire.

— No, dieci.

— Sei.

— No, dieci.

— Sei, mendicante. Se non accetti, ti prendo e ti fo uscire le viscere in bocca.

— No, dieci.

— Dopo tutto — pensò Basilio — non esce dalle mie costole. Sette! — gridò.

L'altro accettò: e presero la via dell'Orthobene caricandosi l'un l'altro d'improperi e di minacce tremende; ma giunti presso l'ovile Basilio disse, smontando da cavallo:

— Sta zitto, botte di feccia: se quel buno vecchio ci sente, ci sgrida.

Ma per quanto lo ricercassero, quel buon vecchio non c'era.

Egli aveva lasciato il suo triste posto presso il fuoco, appena Basilio era partito. Pensava:

— Gli andrò dietro: udrò i suoi passi e mi orizzonterò. Se si accorgerà di me a mezza via, non avrà il coraggio di farmi tornare indietro.

Per un tratto la cosa andò bene. Egli conosceva il sentiero che menava fuor della tanca, e potè traversarlo, tendendo appena di tanto in tanto il bastone in avanti, e palpando l'aria con la mano sinistra. Avanti a sè udiva distintamente il passo del cavallo.

La giornata era stupenda; sentivasi un soffio annunziante la primavera; la speciale fragranza dei sereni pomeriggi montani profumava l'aria. Tra le alte fronde d'un elce sparpagliante sul cielo azzurro il sole raggiava come un enorme diamante. E nell'immensa serenità silenziosa tremolava solo il grido di una gazza, serpeggiante trina d'argento sul verde sfondo del bosco.

Oltrepassato il varco della tanca, zio Pietro si fermò alquanto indeciso: udiva sempre il passo del cavallo, ma non vedeva più con sicurezza il sentiero: tuttavia proseguì.

Il terreno era piano, molle, erboso. Per quanto protendesse il bastone in giro, zio Pietro non trovava alcun ostacolo. Ingannato da ciò, per un tratto procedè tastando solo il terreno, tendendo l'orecchio al passo del cavallo e al grido della gazza che si avvicinava.

A un punto, però, improvvisamente, gli parve più denso il buio delle sue sensazioni, e un doloroso fronte ardore gli bruciò la testa: aveva battuto la fronte contro un tronco. Si fermò, portandosi la mano al capo, e due lagrime cocenti gli bagnarono le palpebre. Un'onda di dispe razione gli coprì il cuore, un'angoscia indefinita si fuse al dolor fisico.

Chiamò gemendo: — Basilio! — e gli parve che il passo, già di molto lontano, si fermasse, ma che, non ripetendosi la chiamata, si muovesse di nuovo.

Cessato il primo stordimento, riprese la via, fermandosi ad ogni passo per tastare il terreno e il davanti e i lati del sito percorso. Ciò non ostante scivolava spesso, il terreno gli mancava sotto i piedi, ruvide fronze gli sferzavano il volto. Ora udiva il grugnir di porchetti sparsi al pascolo, ma il grido della gazza allontanavasi di fianco, e il passo del cavallo sfumava via sempre più lontano. Ma egli l'udiva ancora abbastanza per orizzontarsi, e bastava quel tenue eco ripercotentesi nel silenzio del bosco soleggiato, perchè la vecchia anima non si smarrisse nella tenebra in cui procedeva. Diceva a sè stesso:

— Avanti! Coraggio, Pietro Carta! La salvezza di tuo figlio forse dipende da questa tua discesa. Avanti.

Pensava a Paska e al magistrato suo padrone: di costui risentiva la voce nasale ingrata, ma ricordava la buona accoglienza, la pietosa cortesia della signora sua moglie, e osava sperare.

Sebbene le maligne voci sul conto di Paska e del padrone non fossero giunte alla sua pura solitudine, in fondo gli sembrava viltà chieder aiuto a chi tanto aveva fatto soffrir Melchiorre; ma a quale azione non si sarebbe egli piegato per salvare il figliuolo?

— Giustizieri — diceva fra sè, rivolto a invisibili personaggi — rendetemi mio figlio, che è innocente. Togliendomelo mi togliete una seconda volta la luce. Il male, i delitti, le rapine le viltà le commettono gli altri, non mio figlio; cercateli altrove, uomini del Re; questa volta il delitto lo commettete voi. E poi volete che io mangi, che io beva, che io mi lavi, che io mi pulisca la testa e non mi muova, mentre mio figlio soffre di corpo e d'anima, innocente, sentite, innocente!

La fresca ma un po' aspra fragranza delle nuove felci esalava intorno: egli dovette proceder ancora più cauto e lento nella mollezza della vegetazione rinascente, e intanto il passo del cavallo, lontano ormai, sfumò vie più, riducendosi quasi ad un fruscìo, percepibile appena dal fine udito del vecchio. Una volta egli cadde lungo e disteso sul dorso; non si fece male perchè l'erba attutì il colpo, ma perdette il bastone e dovette a lungo brancicare qua e là per ritrovarlo. In questa ricerca alquanto affannosa cessò di por mente al passo, e questo gli sfuggì del tutto.

Quando, ritrovato il bastone, si sollevò, non udì assolutamente più nulla, nè da vicino, nè da lontano: allora provò intensissimo il senso della solitudine insidiosa nella quale s'inoltrava. Gli parve che qualcuno che prima lo accompagnava lo avesse perfidamente abbandonato, e si sentì smarrito.

Proseguì, ma cominciando a disperare. Invano le orecchie tese cercavano raccogliere i più indistinti suoni della montagna: nel tiepido tramonto non smuovevasi una foglia, e i radi gorgheggi di uccelli selvatici modulati nelle lontananze del bosco accrescevano il silenzio della serena quiete.

Zio Pietro pensò che doveva aver fuorviato se non incontrava nessuno, se non udiva un passo umano; poichè in quella stagione la montagna era piuttosto abitata. Quel dubbio accrebbe la sua inquietudine, ma proseguì.

Sperava sempre d'incontrare qualcuno che pietosamente lo accompagnasse, eppur temeva quest'incontro pensando:

— M'inganneranno. Mi ricondurranno all'ovile, giacchè pare si abbiano dati tutti la parola per non lasciarmi scender a Nuoro.

Andava di fronte al sole, orientandosi dal suo tepore; ma lo sentiva scendere e diminuire; fra poco sarebbe tramontato. E dove egli andrebbe, mancandogli anche quella guida?

Infatti, sparito il sole, ben presto egli lasciò la direzione ovest e fuorviò verso nord. Ritrovò il bosco, e il suo bastone battè incessantemente sulle roccie.

Un grato tepore, fuso al profumo dell'edera e del musco ancora caldo, alitava intorno, ma l'ombra del rapido vespro doveva calare, sulle tacite roccie, perchè zio Pietro sentiva la sua interna ombra addensarsi.

Invece di scendere ora egli saliva; dove andava? dov'era? Che c'era intorno a lui?

La disperazione crebbe; il cuore pareva schiacciarsi fra due di quelle non vedute ma toccate roccie, che si seguivano sovrapponendosi le une alle altre. Il bastone e la mano ormai non si posavano che sulla pietra, e i piedi ardenti di stanchezza dovevano sollevarsi per proseguire.

— Devo trovarmi su qualche cresta — pensò zio Pietro. — Se potessi ritrovare la discesa, forse arriverei.

— Dove? — gridò la ragione. — In qualche precipizio? Torna, torna indietro, vecchio, la sera s'avvicina.

— No — disse il cuore. — Voglio scendere, voglio arrivare. Melchiorre aspetta. Se potessi trovar la discesa, arriverei.

— Dove? Non certamente alla città. Forse a qualche luogo più lontano, ove Melchiorre non t'aspetta. Torna indietro, vecchio Pietro.

Ma il bastone continuò nella sua lenta esplorazione, e i piedi nell'aspra salita. Per un breve tratto le roccie cessarono, e il bastone trovò un terreno molle di foglie fracide e d'erba; ma poi ritoccò la pietra, sprofondandosi spesso nel musco o in fenditure delle quali non sempre raggiungeva il fondo.

Zio Pietro si sedette un momento: sentì che in quel sito non c'erano alberi, e che la luce del vespero doveva sfolgorar nitida sulle roccie.

Lassù era il dominio della pietra, e le creste della montagna dovevano ergersi vicine, forse sul suo capo stanco. Qualche soffio di brezza gli gelò il sudore che gli inumidiva la nuca, dandogli un senso d'angoscioso raccapriccio. Ebbe il desiderio di gridare, sentì tutto l'orrore dello smarrimento, eppure non si pentì di essere partito. Solo disse:

— Dove sono? O Signore Dio, ritornatemi nella via buona, o sia fatta la vostra volontà. Forse non troverò la via, e passerò una ben triste notte; ma mio figlio forse non soffre anch'egli?

Riprese la via, e nel profondo dell'anima quasi si rallegrava dei suoi patimenti, sembrandogli di divider così quelli del figliuolo.

Il bastone tornò a batter le roccie, di sopra, di sotto, di fianco. Spesso zio Pietro doveva arrampicarsi per superare la salita; una volta trovò il vuoto davanti e sotto di sè, e sentì la brezza soffiargli forte sul viso. Pensò:

— Sono in cima. Se potessi trovar la discesa!

Ma dovette indietreggiare, ridiscendere, tentar un altro punto. Qui gli parve orizzontarsi meglio e quasi riconoscere il luogo, giacchè il bastone sfiorava molte macchie e cespugli dal duro fogliame, esalanti agresti profumi al crepuscolo; e un distinto mormoreggiar di selva saliva dalle sottostanti chine.

— Devo esser a Cuccuru Nieddu — egli pensò. — Cammino da tanto tempo, e non mi trovo distante che una mezz'ora dall'ovile. Ho ben girato e rigirato.

E sentì che la sera avanzava, perchè gli uccelli tacevano nei loro invisibili nidi, e le pietre e le macchie esalavano quella speciale fragranza umida che dà loro l'ombra. Poco veramente doveva importargli che la notte calasse, poichè non poteva esser più nera di quella che lo dominava: eppure aveva una istintiva paura dell'ombra esteriore, e l'avvicinarsi di questa sembrava accrescergli il buio interno.

Un tremito cominciò a percorrergli le mani e le ginocchia; sentiva la gola stretta, lo stomaco duro, la testa pesante come i macigni su cui scendeva trascinandosi; ma non pensava mai d'indietreggiare.

Qualche cosa d'arcano e irresistibile lo attirava: che cosa? Melchiorre, o il vuoto, il pericolo?

— Questi — diceva la ragione.

— Quello — diceva il cuore.

E la fatale discesa continuò. Le mani, graffiate dall'asperità della pietra, ardevano e pulsavano; nel gran buio della lor vuota visione i morti occhi scorgevano come un lontano punto turchino, iridato. Giù, al di sotto, i boschi fremevano con più distinto romorìo, per la brezza che saliva a sbattersi contro le roccie.

— Sono stanco — pensò zio Pietro, fermandosi di nuovo. — Signore, aiutatemi. Dove sono mai? Ch'io possa trovar riposo, ch'io possa vedere!

Rovesciò un po' la testa indietro, come cercando la luce con disperato sforzo; e ascoltò, ma non udì che il susurro del bosco, e non vide che quel fantastico punto turchino, alto ora come un astro.

La brezza gli passò la sua fredda lama sulla gola, rinnovandogli l'angoscioso raccapriccio della disperazione. Ma il Signore udì la preghiera.

Riprendendo la discesa, zio Pietro posò i bastone sopra una piccola sporgenza: ingannato da questo appoggio tese il piede, ma il piede non trovò nulla e il bastone si spostò.

Gli parve che il susurro della selva, elevatosi improvvisamente a immenso fragore, gli sibilasse entro le orecchie, e che l'immaginario punto turchino si sciogliesse come un razzo in mille faville iridate. Poi tutto tacque, tutto sparve. Era caduto da una altezza di quattro o cinque metri, battendo il dorso sopra una pietra. Non svenne, ma tutti i suoi muscoli parvero pietrificarsi, il sangue sospese il suo corso, i nervi stettero tesi in una immobilità più straziante d'ogni dolore; e il pensiero si perdette in questo strazio.

Poi, a misura che il sangue riprese a correr irregolarmente, il dolore si pronunziò, acutissimo sul dorso, diffuso per tutte le membra.

Non cercò neppur muoversi dalla posizione in cui era caduto; solo tese la mano cercando il bastone; non trovandolo subito, pensò di averlo smarrito, forse per sempre, e ne provò dolore.

E solo allora cominciò a gemere, tutto immerso nel suo intenso spasimo fisico e morale come in un bagno di sangue bollente.

Poteva essere mezzanotte quando Basilio e il pastore vicino giunsero in quel sito, dopo lunghissima e affannosa ricerca.

La luna nel suo ultimo quarto ascendeva sul cielo limpidissimo; le roccie s'ergevano nere su fondo d'argento: parevano il profilo d'una misteriosa città, e su di esse dominava acuta la piccola piramide del punto trigonometrico.

Cessata al sorger della luna la brezza, ogni cosa taceva in silenzio ineffabile; i boschi scendevano compatti al di sotto di Cuccuru Nieddu, e i raggi obliqui della luna segnavano vaghe ondulazioni di luce su quel dormente mare di foglie, calante verso ignoti lidi.

Intorno, nell'immensità della notte, le lontane montagne svaporavano azzurre sugli orizzonti azzurri.

— Zio Pietro, zio Pietro, che avete fatto, voi! — gridò Basilio, curvandosi sul vecchio. — Mi sentite? Son Basilio, son qui. Che cosa avete; siete caduto? È da tanto tempo che vi cerchiamo! Zio Pietro?

Il vccchio giaceva immobile. Il pallore del suo volto vinceva quello della lunga barba scompigliata.

— È morto! — gridò Basilio, rizzandosi; e si mise a piangere scioccamente, battendosi disperato le mani sulle coscie. — Che ho fatto io, che ho fatto io! Che conti renderò al mio padrone del padre suo? E glielo dicevo per ischerzo che lo avrebbe trovato morto! È morto! È morto!

La sua voce e i suoi singulti vibravano ripercotendosi sulle roccie.

Ma il pastore pose una mano sul petto di zio Pietro, e guardò in alto.

— Imbecille — disse a Basilio — meno chiacchere e più coraggio. È vivo; deve esser caduto di lassù. Trasportiamolo.

Strapparono foglie ed erbe e le sparsero su dei rami intrecciati; e il più delicatamente possibile presero il ferito e lo deposero là sopra.

Egli gemette: Basilio e il pastore tremarono d'egual fremito.

— Che ho fatto `io! — ricominciò a gridar il primo — che mai ho fatto io!

— Che ho fatto io! — gridò fra sè il pastore, ma non disse nulla, anzi costrinse Basilio a tacersi, e si curvò sul vecchio dicendogli dolcemente:

— Che avete, zio Pietro? Siamo noi; non è nulla, fate coraggio.

Il vecchio continuò a gemere; una leggera bava sanguigna gli colorava le labbra, scorrendo sulla barba.

Lo trasportarono lentamente, camminando con somma cautela attraverso le roccie e le spesse ombre.

Ogni cosa taccva: la luna passava dietro i rami neri: nell'aria freschissima, ma non fredda, gravava l'umida fragranza del bosco. Basilio piangeva silenziosamente, mordendosi forte il labbro inferiore per non scoppiare in singhiozzi. Una inenarrabile angoscia lo urgeva: entro la sua anima il pianto scoppiava e risuonava come un uragano. E fra sè diceva:

— Era questo il presentimento che mi rattristava. Lo sentivo io, che qualche cosa d'orribile doveva accadere! E son io, son io che vi ho ucciso, zio Pietro, son io, sono io! E vi volevo bene; e voi mi avete dato da mangiare e da bere, e mi avete vestito e calzato. Io invece vi ho ucciso! Sono io che per il primo feci passar per ladro il vostro figliuolo, per far piacere a lei, e lei è stata la prima ad accusarlo. E invece ero io che introducevo nella tanca il bestiame rubato. Che ho fatto, che ho fatto io!

Anche il pastore, contemplando il volto di zio Pietro, bianchissimo quando la luna lo illuminava provava una cupa tristezza; ma egli non era più, come Basilio, giovane e appassionato, e dopo il primo fremito di rimorso non si rimproverava più, neppur fra sè stesso, l'ultima denunzia anonima contro Melchiorre.

Nella grotta il ragazzo nuorese, che aveva profittato della solitudine per divorare quasi tutto il pane e il cacio dci pastori, teneva desto il fuoco. Con le stoie e i gabbani Basilio e il porcaro prepararono un comodo giaciglio ove deposero il vecchio. Lo spogliarono: il dorso era tumefatto e livido; non una goccia di sangue era sgorgata dalla enorme ferita. Lo unsero con olio tiepido, e si strapparono le vesti per avvolgerlo; egli piangeva con gemiti strazianti, riempiendo la grotta di grida lamentose; poi parve ricadere nel torpore in cui lo avevano trovato immerso sul dirupo.

— Chiamiamo un medico? — chiese Basilio.

— Il medico vuol essere pagato.

— Si pagherà.

Chiamò fuori il ragazzo, e aperta la famosa borsa gli diede due fogli da dieci; poi lo fece montare a cavallo.

— Va da zia Bisaccia, che faccia salire un medico; di' a questo che un vecchio è caduto e si ha rotto la schiena. Pagalo, compra le medicine che ti dice lui. Se non fai presto, la farai con me. Avverti zia Bisaccia che non dica niente a nessuno, chè zio Melchiorre non venga a saper nulla. Cammina!

Battè una fronda sulla groppa del cavallo, che partì al trotto, chiaro nell'ora lunare; poi rientrò nella grotta, si gettò bocconi presso il fuoco e ricominciò a gemere.

— Taci — disse infine il pastore, infastidito — finiscila, muso di faina; tu piangi, ora, mentre… non rompermi le scatole, non farmi parlare…

Basilio tacque, ma dentro di sè sentì più tempestoso rumoreggiargli il pianto. Rivedeva zio Pietro nei sereni giorni trascorsi, quando Melchiorre era libero e la pace regnava nell'ovile; udiva ancora le semplici storielle che tanto lo avevano impressionato nei primi tempi del suo servizio, e ricordava la grande e innocente felicità goduta prima di conoscere Paska. Ora tutto era caduto. Melchiorre in carcere, zio Pietro morente, l'inferno nel suo cuore. Il vecchio non si sarebbe più rialzato, mai più la sua figura avrebbe vigilato l'ovile: ogni cosa cadeva.

Solo un barlume di dolcezza avrebbe potuto ancora illuminare il buio della sua anima stravolta: Paska. Ma anche Paska, per la quale ogni disgrazia era accaduta, anche Paska gli sfuggiva, perdendosi nel turbine che lo travolgeva: e l'ultimo barlume di luce si perdeva con lei.

Verso l'alba il pastore andò a guardare nel suo ovile. Una torma di graziosi porcellini rossi, gialli, grigi, neri macchiati di giallo, e bianchi screziati di nero, gli vennero tra i piedi grugnendo, rotolandosi, frugando la terra col musino. Il cielo schiarivasi, metallico sullo sfondo dei tronchi e dei rami oscuri; la giornata annunziavasi serena.

Ritornando verso la grotta il porcaro vide Basilio venirgli incontro, col volto grigio e gli occhi gonfi.

— Zio Pietro ritorna in sè — disse. — Non sarebbe bene fargli fare il testamento?

— Il testamento?

— Il testamento. Sai bene, se Melchiorre viene condannato, la giustizia si piglia tutto.

Se invece zio Pietro fa testamento ad altri? Egli raccontava sempre che la sua padrona, quando egli era servo, fece testamento a lui, essendo il figlio in prigione: poi egli restituì tutto e la giustizia si prese un accidente.

— E tu vorresti… — cominciò l'altro imbarazzato, guardando per terra e buttando lontano col piede una fronda.

— Giuro, che mia madre non mi riveda, che io farei altrettanto! — gridò Basilio; e il suo accento era sincero.

Il pastore sollevò il volto; lo guardò, si fissarono.

— Se tu vorrai, il tuo padrone non sarà condannato. Perchè dare a zio Pietro quest'ultimo dolore? È come dirgli: voi state per morire, e vostro figlio sarà condannato.

Rientrarono pensierosi nella grotta. Zio Pietro si lamentava; non erano più i gemiti incoscienti di prima, ma un lamento vivo, ancor più straziante, misto di dolor fisico e dolor morale. Muoveva la mano destra, brancicando qua e là, e appena sentì rientrar i due uomini chiese gemendo:

— Dov'è? Dove l'avete lasciato il mio bastone?

— È qui — disse Basilio con pietosa menzogna. — Che bisogno ne avete ora? State tranquillo.

— E vero, non ne ho più bisogno — egli rispose con amarezza. — Perchè non m'hai tu aiutato, piccolo Basilio? Per tua colpa io morrò senza aver riveduto il figliol mio.

Fu il primo, l'unico, l'ultimo suo rimprovero.

Basilio sentì un lungo spillo forargli il cuore; e uscì nuovamente fuori, battendosi le mani sul capo, mordendosele, torcendosi tutto in una crisi di disperato rimorso.

Il pastore scaldò un po' di latte, poi s'inginocchiò presso zio Pietro e glielo fece pazientemente sorbire. Il vecchio torceva il collo, arricciava le labbra per lo spasimo e tremava tutto. Dopo, la febbre aumentò spaventosamente, ardendogli il volto, ed egli cominciò a delirare, muovendo le mani come per togliersi di dosso un insopportabile peso. Con voce rauca ma dolce, quasi infantile, egli diceva mille cose sconnesse, brani di preghiere, di storielle, di antiche canzoni; parlava a Melchiorre bambino, alla defunta moglie; ricordava minuti particolari della sua giovinezza, rivivendo in un tempo lontano assai. Ma gemeva ad ogni respiro, e se muovevasi gridava di dolore, e di tanto in tanto ricercava e richiedeva il bastone. A un certo punto questa ricerca divenne affannosa, e ogni movimento delle braccia aumentava lo strazio della ferita.

Curvo su sè stesso, Basilio raccoglieva dentro di sè tutte le vibrazioni di quell'infinito strazio, provandone un riflesso di spasimo fiscio. Il non poter far nulla, il non saper far nulla per diminuir le sofferenze del vecchio, accresceva la sua pena, gli dava un desiderio pietosamente crudele:

— Che egli muoia presto, che cessi di soffrire…

— Va — disse il pastore — va a cercarlo questo maledetto bastone: forse lo calmerà.

Basilio si scosse, uscì, corse via come liberandosi da un incubo. L'aurora saliva: grandi cerchi di vetro paonazzo fasciavano l'oriente; le roccie umide e le foglie dei rami estremi apparivano rosee. Le montagne lontane sorgevano azzurre su fondo rosso, la luna tramontava diafana come un sottile anello d'alabastro. Quando Basilio giunse sul sito ove zio Pietro era caduto, il sole spuntava dal mare: il bosco saliva sino alle roccie, con le verdi onde sprazzate di rosa; una pace immensa dilagava pel puro mattino. Saltando, scendendo, arrampicandosi sui macigni, curvandosi agilmente a fissar il vuoto dei crepacci, frugando fra i cespugli e il muschio umido, per qualche istante Basilio dimenticò il suo affanno; ma non rinvenne il bastone.

Ritornò tristemente, e prima di ricntrar nella grotta s'avanzò sul sentiero, scrutando se mai arrivava il medico. Nessuno. La fresca vastità della tanca era animata solo dai capretti correnti fra l'erba, dove tuffavano il muso stretto dalla museruola. Nove porcellini biondi, grugnenti e rotolanti, avevano illecitamente saltato il varco della tanca, ma ora nessuno più pensava ad offendersene.

Nessuno giungeva. Eppure le roccie rivolte ad oriente aspettavano, vigilanti nel quieto splendore del mattino; le capre ritte sui dirupi, fra i cespugli, volgevano i grandi occhi foschi in lontananza; il gatto, fermo sopra la grotta, rifletteva strane luci verdi negli occhi socchiusi; il cane gemeva guaiti lamentosi. Che vedevano? Che aspettavano? Qual mistero giungeva?

Nella piena luce del mattino, le erbe, le fronde, le pietre, gli animali parevano smarirsi dell'arcano terrore che tante volte aveva stretto l'anima di zio Pietro.

Veniva la morte.

Rientrando nella grotta, Basilio, trovò che il vecchio agonizzava. Il pastore, inginocchiato, a capo scoperto, con un pezzetto di cero acceso fra le dita, pregava. Nella penombra delìa grotta il suo volto olivastro, circondato di lunghi capelli neri unti, appariva illuminato dalla fiammella palpitante del cero: grosse lagrime gli solcavano le guancie.

Basilio si gettò anch'egli al suolo; non aveva più lagrime, e non ricordò che l'antica preghiera infantile:

Frisca sezis cale rosa, frisca sezis cale lizu; Mama de su Santo Fizu, Mama de su Fizu Santu. In nomen de su Babbu, de su Fizu e de s'Ispiridu Santu.

La recitò dieci o dodici volte, tenendo gli occhi spalancati e fissi sul volto del morente. Vide la bianca barba fluttuare lievemente ancora, le palpebre tentar di sollevarsi; la mano secca e livida del morente muoversi due volte, cercando nel vuoto. Che cercava? Il bastone? Basilio ne provò pena profonda, e si pentì di non aver cercato meglio, fino a trovarlo e riportaglielo. E continuò a fissare il morente, senza più pregare nè piangere. Pareva impietrito, tutto concentrato nell'arcana visione della morte.

La barba del morente fluttuò un po' più distintamente; le labbra umide di bava sanguigna e di latte s'aprirono a un piccolo sbadiglio, le palpebre si sollevarono; poi tutto finì. Zio Pietro vedeva l'eterna luce.

Il pastore spense il cero, e con questo segnò una gran croce sulla fronte, sul petto, sugli omeri del morto; gli abbassò le palpebre, gli congiunse le mani sul seno; poi uscì fuori e pianse.

Basilio si protese sul morto, fino a sfiorarne il viso; e stette immobile, pallido, scrutando il gran mistero della morte. Dunque quel corpo rigido e muto non si drizzerebbe mai più; quelle labbra non si muoverebbero più mai, la barba mai più; ondeggierebbe! E ieri, alla stessa ora e più tardi, era ancor vivo; e domani anche la fredda spoglia sarebbe sparita. Più nulla, per quanto si cercasse sopra tutta la terra, in tutti i tempi, si troverebbe di quell'uomo.

Un'ombra fosca oscurò i limpidi occhi di Basilio: per la prima volta l'anima selvaggia e incosciente sentiva interi i solenni arcani della vita e della morte. Cominciò a parlar piano piano, puerilmente, rivolto al morto:

— Zio Pietro, non vi sollevate più, non mi sentite più? Sono Basilio, sapete; non mi sentite più? Non mi sentite ancora? Non ho potuto trovarlo il vostro bastone, ma lo cercherò ancora, finchè lo troverò, sebbene voi non ne abbiate più bisogno. Non lo soffierete più il fuoco, no, non le spazzerete più le mandrie, zio Pietro? Destatevi, alzatevi; vi ricordate ieri a quest'ora? Quante cose possono accadere in brevi ore! Forse anch'io, domani, a quest'ora sarò morto. Può darsi benissimo, ma voi siete già in Cielo, ed io andrò all'inferno. Avrò tempo a pentirmi? Zio Pietro, oh, no, non lo dite a nessuno che siete morto per causa mia. Raccontatemi ancora una storiella; vi ricordate, zio Pietro? La storiella di quel re che aveva le orecchie d'asino? voi non tornerete più alla capanna; voi non vedrete più vostro figlio, oh zio Pietro mio, mio, mio.

E dentro di sè ripeteva le ultime parole del morto: « Piccolo Basilio, per colpa tua muoio senza aver riveduto mio figlio ».

Poi si sollevò, e battendosi le mani sulle coscie gridò disperatamente:

— Ed io lo dicevo per ischerzo che sareste morto, zio Pietro, e invece siete morto davvero, siete morto!

Solo l'arrivo del ragazzo nuorese col medico e con altre persone, lo distolse dal suo estremo colloquio col morto. Fatte le constatazioni, questo fu deposto su un carro coperto di fronde, e portato via.

Basilio avrebbe voluto prima correre in cerca del bastone per metterlo fra le mani del morto: qualcuno sorrise di questa sua idea fissa, ma non perciò egli la depose.

Sul pomeriggio, partiti i curiosi, egli munse le capre, le contò, spedì il latte a Nuoro, e pensò di rifocillar sè e gli animali. Il cane non cessava di lamentarsi, il gatto vagava smarrito e affamato, emettendo acuti miagolii, i quali rìconfermavano nei pastori la credenza che i felini s'accorgono della morte dei loro padroni. Ma la lepre era scomparsa, lasciando solo un pezzetto della cordicella rôsa: profittando del trambusto aveva effettuato il suo lungo sogno di fuga.

Verso sera, appena potè, Basilio ritornò fra le rupi di Cuccuru Nieddu, e ricominciò a cercar il bastone. Seguendo quelle che gli parvero le traccie di zio Pietro, pensò instintivamente allo smarrimento e all'angoscia che doveva aver provato il vecchio nel trovarsi perduto fra le roccie, e ne sentì quasi la stessa penosa sensazione. Giunse così sul macigno dal quale zio Pietro era precipitato; e curvo stette fermo sull'orlo del dirupo. Ancor chiari alla sera, i boschi calavano sempre in silenziosa e verde marea; ma ora le nuvole salivano dal vasto orizzonte, e passavano lentamente, oscure sul fondo pallido del cielo.

Egli sfiorò l'orlo del macigno, cerecò una non pericolosa discesa, calò agilmente; e tornato sul posto preciso ove zio Pietro era caduto. tastò il musco, l'erba, i cespugli, trascinandosi sui ginocchi. L'ombra cresceva. Così curvo al suolo, stanco, con le palpebre pesanti, egli vedeva sempre la figura del morto, col dorso tumefatto e violaceo, una graffiatura rossa sulla mano destra, e una foglia secca fra i bianchi peli della barba.

Il dolore allora cominciò a diventargli ossessione; l'infruttuosa ricerca del bastone lo stancava e l'irritava. Fuvvi un momento in cui si sedette e poi s'arrovesciò sulla pietra dove il morto era caduto.

Le nuvole passavano lente sul suo capo, nere ma orlate di una fosca luminosità, sul fondo di argento pallido del cielo: parevano enormi uccelli ad ali spiegate, lentamente naviganti nell'aria solitaria. In alto le roccie guardavano il crepuscolo; nelle fredde lontananze le montagne sorgevano fosche, d'un azrurro bronzino, sul pallore di quel gran cielo morto.

Basilio vedeva sempre il dorso frantumato del morto, e la foglia secca fra i bianchi peli della sua barba: e ripeteva fra sè le ultime parole di lui.

Per sollevarsi da quell'incubo pensò che con la testimonianza sua, del pastore vicino e d'altri testimoni, che ad ogni costo avrebbe saputo trovare, Melchiorre non tarderebbe ad esser riposto in libertà; poi pensò a Paska. Ricordò la sera in cui, dalla sporgenza di Monte Bidde, tra i violacei ardori del vespro, il suo cuore aveva gridato voci d'amore selvaggio:

« … Vuoi che uccida il vecchio zio Pietro? » Parla, parla, io mentirò, io ucciderò, io farò tutto ciò che tu vorrai, per amor tuo… ».

« Vuoi che uccida il vecchio zio Pietro? » Sì, egli l'aveva ucciso; ma ora gli pareva che tutto il fuoco che prima lo ardeva, si fosse consumato entro il suo cuore, e che gran spazio di anni fosse trascorso dal tempo in cui inebbriavasi stoltamente dell'amore di Paska.

E gli sembrava che nessuna cosa avrebbe più potuto ridonargli pace.

Fine.