GRAZIA DELEDDA

IL TESORO
ROMANZO

TORINO
GIULIO SPEIRANI E FIGLI
EDITORI-LIBRAI

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a norma delle uigenti leggi.

Viveva a Nuoro di Sardegna, verso la fine d'aprile del 1886, un uomo chiamato Salvatore Brindis, e soprannominato Cane Raju((1) Cane rosso.). Aveva circa cinquant'anni, ed era un uomo alto, corpulento, con folta barba grigia lunga, faccia rossa e occhi assai strani, torvi e iniettati di sangue, che a momenti però, diventandogli limpidi e quasi dolci, si rassomigliavano agli occhi di un cane intelligente; e forse ad essi e al suo colorito sanguigno Salvatore Brindis doveva il suo soprannome.

Da tutta la sua grossa persona spirava un'aria di prepotenza, di forza e di volontà: sul petto largo e robusto il velluto turchino del giubbone restava stirato in modo da disegnarne tutte le linee, e una cintura di pelle nera adorna di rozzi ricami, come l'usano i paesani nuoresi, stringeva fortemente quel corpo poderoso.

Salvatore Brindis apparteneva alla razza dei principali; possedeva del bestiame, la casa dove abitava, una tanca nella montagna, vasto terreno chiuso, con elci e pascoli estivi, e un podere nella valle, ed anche un cavallo famoso, grasso e robusto come il padrone. Le rendite dunque gli pérmettevano di viver così, nè, bene, nè male, ma siccome egli preferiva precisamente viver bene, aveva anche debiti molto fastidiosi, pasture non pagate, una cambiale nella Banca Agricola ed altre cosette ancora.

Visitava spesso il fatto suo, specialmente l'ovile, ma buona parte del suo tempo la passava in città, occupandosi più degli altrui che dei proprii affari. Camminava tutto il santo giorno, e siccome calzava stivaletti signorili un po' stretti, i suoi piedi sudavano in un modo orribile; ragione per cui sua moglie, ogni notte, prima di andare a letto, glieli faceva lavare in acqua tiepida.

Una notte, verso la fine d'aprile del 1886, mentre Salvatore faceva il consueto lavacro, sua moglie entrò in camera con un'aria insolita e misteriosa.

Agada Brindis, anch'essa verso la cinquantina, era alta e nervosa, con lungo viso bronzino avvolto in una benda gialla; vestiva all'antica, con gonna d'albagio grigio e giubbone da uomo, di scarlatto cupo e a doppio petto; ed era l'ignoranza personificata, piena di pregiudizi, superstizioni e rispetti umani; il che non le impediva d'aver talvolta un perfetto dominio sul marito.

— Salvatore — disse rinchiudendo la porta senza far rumore — ho da dirti una cosa.

— Eh? Cosa? — esclamò egli alzando la faccia, più rossa del solito per lo sforzo che faceva chinandosi sul catino dell'acqua.

— Una cosa bella!… — rispose la moglie, fissandolo negli occhi come per chiedergli: non ti metti in curiosità?

Ma egli restò indifferente, e traendo dall'acqua uno dei suoi piedi abbastanza bianchi e vellosi, si mise ad asciugarlo tranquillamente.

— Aspetta, aspetta; mettiti a letto prima — disse Agada rimboccando le coperte rosse del letto. Le sembrava che Salvatore fosse impaziente di sentire il segreto, mentr'egli invece spogliavasi senza neppure chiederle nulla.

Davanti al letto c'era a modo di tappeto un piccolo sacco di lana, a righe nere e grigie; e l'antico talamo sardo, di legno nero scolpito, a baldacchino, ma privo di cortine, aveva intorno ai piedi, per tutti i quattro lati, un volante di percalle a quadrati rossi e bianchi. Sulle pareti bianche della vasta camera pendevano molti quadretti a vivi colori, e vicino al capezzale un mazzo di rosarii, un cero benedetto, una croce di palme, un ramo d'ulivo, un crocifisso e tanti altri oggetti sacri custodivano i sonni di Agada e Salvatore contro le tentazioni e i malifizi del demonio.

Sopra un tavolino accanto al letto, coperto da un antichissimo tappeto sardo di tela di lino, adorno di frangie e trapunti rossi, fra chicchere e bicchieri e calici e ampolle, una candela ad olio d'oliva illuminava il semplice ambiente pulito e antico.

In breve Salvatore fu tra le bianche lenzuola grossolane di tela casalinga, e cominciò a trarre grossi sospiri, a sbadigliare, a dimenarsi, quasi stesse per sopraggiungergli un accidente. Agada, ch'era uscita portando via il catino, rientrò e avvicinandosi leggermente al letto non si stupì per lo stato del marito; egli si dimenava così tutta la notte, con un sonno inquieto e quasi nervoso, ma purchè avesse i piedi puliti la moglie non ne faceva caso e dormiva fino all'alba d'un sonno placido e lievissimo.

— Leggi questa lettera — gli disse chinandosi sul letto; gli occhi le scintillavano, le labbra sottili e smorte le tremavano leggermente, e porgendo la lettera al marito pareva gli desse una cosa sacra.

— Cosa diavolo c'è, cosa diavòlo c'è qui? Avvicina il lume un po', un più — diss'egli lasciando di dimenarsi e spiegando curiosamente il foglio.

Agada avvicinò il lume, tenendo in mano la busta già sporca e sgualcita della lettera arrivata poche ore prima, e ritta, rigida, trattenendo il respiro, seguì con lo sguardo ogni movimento del volto di Salvatore, che leggeva con occhi spalancati e curiosi. Vide quel grosso e rosso viso passare dall'espressione della curiosità alla manifestazione dello stupore, della meraviglia, del dubbio e infine dell'ilarità più clamorosa.

Salvatore si abbandonò sui guanciali, su cui s'era un po' sollevato per legger meglio, e stringendo la lettera in una mano aprì le braccia e cominciò a ridere, a ridere come uno stolto, d'un riso allegro, pieno, clamoroso e insolente. Da molto tempo Agada non l'aveva veduto rider così, e subito ebbe l'idea stravagante e paurosa che fosse impazzito per la gioia.

— Dammi a veder la busta — disse Salvatore, ed essa gliela diede.

Era una busta lunga, bianca e ruvida, su cui stava scritto: « Al Signor Salvatore Brindis, Propriet. (Italia) Nuoro (Sardegna). »

Salvatore si rimise a ridere clamorosamente: non pensò neppure di rimproverare la moglie perchè s'era permessa di aprir la lettera e di mostrargliela sì tardi, tanto la cosa gli sembrava ridicola, e tanto Agada era avvezza a far il comodo suo in certi affari.

— È proprio indirizzata a me, a Salvatore Brindis, che il diavolo vi tiri il collo! Cosa vuol dire questo propriet., cosa vuol dire?

— Proprietario forse — disse Agada.

— Ah, proprietario! ah, proprietario! — gridò Salvatore, e rideva in modo da far tremare tutto il letto col suo volante.

Agada ne restò orribilmente seccata, e sembrandole che il marito ridesse per la lettera e per lei, disse con dispetto:

— E fammi il piacere di finirla! Perchè ridi così; che c'è da ridere?

— Ma tu ci credi? — domandò il marito guardandola con pietà.

Sulle prime ella ebbe vergogna di dir sì, poi, per dispetto, affermò la verità.

— Sicuro che ci credo.

Salvatore allora rise tanto che il volto gli diventò pavonazzo.

— Maledetto chi ti dice qualche cosa! — disse Agada umiliata e inviperita — dovevo pensarmelo, Perchè sei uno sciocco: Dammi, dammi qua…

Gli riprese facilmente la lettera e la busta e fu per andarsene, ma egli disse: — Senti, non farmi più ridere, chè mi farebbe male. Non vedi ch'è una truffa?

— Una truffa?!…

— E dunque un demonio?

A questo pensiero non per anco avuto, Agada si fece piccina piccina, si raddolcì e guardò la lettera con un' espressione di rimpianto doloroso.

— Fammi il piacere — disse riavvicinandosi al letto — rileggimela e spiegamela…

Salvatore allora cessò di ridere e la contentò; la bizzarra lettera, scritta in pessimo italiano, con caratteri grossi e regolari, veniva da una prigione militare di Francia, ma sul francobollo verde portava il bollo di Parigi dov'era stata certo impostata. Salvatore lesse a voce alta:

« Egregio Signore,

« Benchè non abbia l'onore di voi conoscere, sapendo che siete una persona onorata su cui si può affidare con fiducia, vengo a chiedervi un favore che son certo non mi negherete. Io sono un ex-capitano di cavalleria, già cassiere di un reggimento al tempo della guerra franco-prussiana del 1870-71. Dopo la disfatta di Sèdan, quando i prussiani invasero la Francia, io riuscii a seappare con la cassa del reggimento affidata a me, e conteneva 40.000 Luigi in oro (lire italiane 800.000), e venuto in Sardegna nascosi questa somma nei dintorni di vostro paese, in una solida cassetta d'acciaio, con serratura invisibile, di che io solo conosco il segreto.

« Contavo di ritornare nell'isola con la mia famiglia, ma ritornato in Francia fui arrestato come disertore e condannato alla reclusione. Ora io vi scrivo per proporvi di ritrovare la somma da me nascosta, ma a questi patti:

« 1°ree; Verrá a voi dato un terzo della somma se farete quanto segue:

« 2°ree; Far venire al vostro paese una mia figlia di 17 anni che si trova a studiare in un collegio; verrebbe con una donna di compagnia e porterebbe i dati necessari per ritrovar e aprire la cassetta.

« 3°ree; Assicurare coi due terzi della somma restante l'avvenire di questa fanciulla e collocarla in casa onorata o trovarle magari un marito buono, distinto, signore, che la rendesse felice.

« 4°ree; Finalmente anticipare le spese di viaggio alle due donne.

« Se, signore, voi accettate, rispondete subito a me, senonchè vi degnerete metter due buste, nella prima o interna scriverete il mio nome, nella seconda o esterna scriverete l' indizizzo di questa persona che s'incaricherà di farmi pervenire la risposta: Madame Josephine Bargil
Rue de Chery, 100

Paris (France).

« Inoltre firmerete con questo nome « Ferro » e ciò per miglior precauzione, caso mai la lettera venga aperta qui, dove sono molto invigilato. — Sicuro nella di voi onestà e gentilezza, e affidandomi al vostro onore per il segreto, aspetto e

sono di voi dev.mo:
VICTOR HONORÉ. »

Durante questa lettura Salvatore aveva fatto grandi sforzi per non ridere di nuovo; specialmente il 4°ree; patto, che, secondo lui, tradiva la truffa, lo divertiva immensamente. E spiegò la cosa a sua moglie.

— Ecco qua, credono ch'io mandi il denaro subito, stupidi che altri non sono! Ma dove diavolo hanno pescato ch'io esistevo?

— Ci vorrebbe molto denaro?

— Per che cosa?

— Per far venire le due donne…

Salvatore guardò sua moglie e s'adirò.

— Sta a vedere che ci pensi, sciocca ignorante!

Fammi il santissimo piacere di lasciarmi dormire!

E mandò in aria la lettera; Agada la raccolse umilmente e se ne andò via senza pronunciar sillaba, ma scendendo la piccola scala di pietra cominciò a sospirare e rattristarsi.

La scaletta finiva al pian terreno della casa, ov'erano due stanze e una specie di portico nel quale Agada e Costanza la nipote si sedevano in estate per lavorare. La casetta, di pietra e fango — un'antica e solida costruzione, fatta grigia dal tempo — aveva una cert'aria pittoresca, con le finestre e le porte piccolissime, un balcone di legno al primo ed ultimo piano, e l'arco di mattoni crudi del portico. Davanti le si stendeva un piccolo cortile, lastricato di ciottoli, che bisognava attraversare per giungere alla cucina, alla dommo 'e mola, cioè alla stanza della macina (dove un asinello girava perpetuamente intorno ad una mola latina da macinar grano) ed a una tettoja ben riparata, a cui i Brindis davano il nome di stalla. Un fico magnifico ombreggiava il cortiletto.

Agada attraversò il cortile col suo passo lieve; e Costanza apparve sulla porta illuminata ed aperta di cucina, domandando subito ansiosamente:

— Cos'ha detto? cos'ha detto?

Agada le tirò il grembiale, accennandole la servetta che stava in cucina, poi l'attirò più in là, verso il portone.

— Non comprende un'acca tanto — disse Costanza, alludendo a Cicchedda la serva.

— Così ti pare? Ma non occorre parlare davanti a nessuno. Ha detto che é una truffa.

— Una truffa? — esclamò Costanza con stupore, e nel suo viso si distinse al chiaro di luna la stessa melanconia che aveva colto Agada poco prima.

Costanza contava ventiquattro anni e viveva da bambina coi Brindis, che non avevano figli: era una ragazza svelta, simpatica e sopratutto intelligente; eppure anch'essa, dopo aver letto alla zia la strana epistola di monsieur Honorè, s'era lasciata cogliere dalla gioia febbrile e nervosa di una prossima ricchezza.

L'idea della truffa non le venne neanche per sogno, ed anzi nel suo cervello intraprendente si formulava già il progetto d'invertire le parti, dando cioè un terzo del tesoro alla signorina Honorè e il resto a zio Salvatore, che così si sarebbe subito liberato dai debiti, e avrebbe acquistato dieci o dodici tanche e un migliaio di vacche. Costanza non comprendeva altrimenti la ricchezza; non pensava ai danni e fastidi che una sì improvvisa e colossale fortuna poteva recare, ma solo agli utili e al modo di corbellare la signorina Honorè. Se fosse possibile non darle nulla? no, poveretta, bisognava darle qualche cosa e procurarle un buon marito. E Costanza pensava già ad un loro parente signore, avvocato, giovine e distinto; ma bisognava cercarlo all'ultimo perchè non intralciasse la faccenda e non si appropriasse di tutto…..

Per tutta la sera Agada e la nipotina non avevan discorso nè parlato di altro, aspettando il ritorno di Salvatore, del quale avrebbero volentieri fatto a meno se avessero avuto la somma da spedire a Parigi per il viaggio delle due signore. Ma qui stava il quibus, perchè zia e nipote non avevano denari; probabilmente non ne aveva neppur Salvatore, ma egli poteva facilmente procurarsene.

Ed ora una sola parola faceva crollare tutto il sogno; ma Costanza sulle prime si ribellò.

— Ma che truffa, ma che truffa! — disse a bassa voce. — Mi pare impossibile; come mai si sarebbero rivolti proprio a zio Salvatore? Giacchè hanno saputo che esisteva, avranno anche saputo che non è così stupido da lasciarsi truffare. Domani gli spiegherò io…

Agada sorrise; sorrideva raramente e il suo sorriso annunziava sempre qualche cosa di triste.

— Tu non gli dirai nulla. Quando io ho insistito un po' quasi mi batteva. Se torniamo sull'argomento farà uno scandalo.

— Eppure il cuore mi dice che e' è qualchecosa di vero. Datemi la lettera; la farò leggere da chi se ne intende.

— Da chi?

— Da Bancu.

Agada aveva avuto la stessa idea, ma non lo disse e non cedè la lettera; le parole di Costanza le ridonavano la convinzione che si trattasse di cosa vera e seria, e disse:

— Domani andremo insieme da Bancu; dopo tutto tentare é buono, e Salvatore ha le sue idee. Lasciamolo stare, e tu non dirgli nulla.

— Nulla — ripetè Costanza, e rientrarono in cucina dove Agada, prendendo il solito suo posto accanto al focolare, si mise a filare.

Costanza le si assise dirimpetto, muta e pensierosa.

La servetta lavava piatti, china su un paiolino nero deposto al suolo; nella cucina, dalle pareti d'un giallo cupo offuscate dal fumo, dal tetto di grosse travi e di canne, c'era il forno, il focolare di pietre levigate e sospesavi sopra, ad altezza d'uomo, la cannitta, graticolato di legno d'un metro quadrato circa, appeso con quattro funi alle travi del tetto, e che serve per affumigare il formaggio appena estratto dalla salamoia.

Appesa alla cannitta una piccola lampada di latta a tre becchi spandeva una luce tenue e tremolante, che non riusciva ad illuminare tutto il tenebrore della cucina, non dava riflessi alle grandi casseruole di rame brunite dal fumo, che ornavano le pareti, e lasciava le donne in un chiaro-scuro pittoresco, ma poco comodo.

Pure Cicchedda lavò i piatti con disinvoltura e Agada, sulla sua alta seggiolina, continuò a filare destramente seguendo con gli occhi l'opera delle sue lunghe e magre mani.

Costanza non faceva nulla, ma pensava; pensava a quella cosa, come ci pensava Agada seguendo il filo di lana del suo fuso; non parlavano Perchè c'era la servetta, ma i loro pensieri battevano la stessa via…

Una specie di febbre fermentava nelle loro idee, poche ore prima così tranquille e rassegnate; pensavano sopratutto alla felicità di non aver debiti, di non pagar interessi, di sentirsi superiori a tutte le donne ricche di Nuoro, e al gusto dei cambiamenti che l'avventura avrebbe apportato nella loro vita. A Costanza seccava il pensiero, balenatole nel cortile, di mostrare la lettera all'avvocato Cosimo Bancu, quello stesso che si proponeva di ammogliare con la signorina francese; e poichè nonostante la sua intelligenza non era scevra da superstizione, un' altra idea strana le veniva in mente. Quando Cicchedda ebbe rimesso i piatti e venne a sedersi in terra, presso il focolare, Costanza le rivolse un'occhiata profonda.

La servotta era una povera e strana creatura sui diciotto anni, bionda e con grandi occhi stupidi e sonnolenti. Era del villaggio di Oliena, ignorantissima e miserissima; due anni prima veniva a Nuoro dal suo villaggio per chiedere ancora l'elemosina. Un giorno Salvatore Brindis ritornando a cavallo dalla valle, l'aveva incontrata sullo stradale, morente di fame e di freddo e, chiedendogli essa l'elemosina, le aveva domandato quanti anni aveva.

— Perchè non lavori? — le disse poi brutalmente.

— Alla tua età a Nuoro le ragazze son serve, e a Mamojada vanno a zappare che é una stessa bellezza. — Poi ricordandosi che sua moglie cercava una servetta, gli venne l'idea di portargliela. E gliela portò.

Cicchedda non sapeva nulla; era piena di stracci e di pidocchi e Agada Brindis voleva mandarla a quel paese insieme a suo marito ch'era rientrato a casa con quell'arnese.

Ma Salvatore coi suoi grandi difetti possedeva anche molto buon cuore, e riuscì a persuader la moglie di mantener la bimba, dal momento che si trattava di darle solo gli alimenti; e siccome ad Agada repugnava l'olianese sopratutto per la sua sporchizia, egli, cui avanzava del tempo, prese Cicchedda per i capelli arruffati, glieli rase e li gittò sul fuoco. Poi la costrinse a rinchiudersi dentro la dommo 'e mola, ed a lavarsi entro un paiuolo d'acqua bollente, e prese delle vecchie vesti di Costanza, le gettò dal finestrino della porta, senza guardar dentro, gridandole di rivestirsi con esse. Sarebbe potuto magari entrare; tanto la ragazza era sbalordita che non ne avrebbe fatto caso. Quando fu vestita uscì nel cortile, e Salvatore la presentò a spintoni alle donne, dicendo:

— Ora imparatela voi, se volete andare in paradiso; altrimenti andate dove più vi aggrada!

— Sta a vedere — disse Agada, accomodando le vesti intorno all'esile corpo della ragazza. E la interrogò se sapeva far qualche cosa, ma la poveretta non sapeva neppur parlare, e non capiva perfettamente quanto le dicevano.

Ci volle del tempo per insegnarle a tirarsi bene i lembi della corta camicia sotto la cintura delle sottane, a spazzare, a lavar i piatti ed aizzar l'asinello intorno alla mola: Costanza la imprecava senza pietà, ed Agada le stirpava l'anima a furia di fatiche. Ma tale era il benessere provato, in confronto alla vita randagia e affamata della sua infanzia, era tanto felice di mangiare ogni giorno, di vestir scarpe, di dormire — e che sonno! — in un vero letto, che a Cicchedda sembrava di esser in paradiso, e provava una gratitudine profonda per i padroni. S'era affezionata a loro come un cane; avrebbe fatto pazzie per contentarli; amava con lo stesso affetto ogni particolarità della casa, il fico, la stalla, la mola e la cucina; col cavallo poi, con l'asino e le galline e i gatti era in istretta amicizia, parlava con essi a voce alta, e un continuo sorriso di beatitudine le sfiorava le labbra sottili e rossastre. Dopo due anni eseguiva coscienziosamente ogni faccenda servile, quasi venisse ricompensata; invece riceveva soltanto le vesti, il vitto, qualche paio di scarpe e qualche soldo nelle feste solenni; e Agada Brindis, con la sua coscienza finissima, non se ne faceva scrupolo alcuno, dicendo:

— Giacché le ho insegnato a lavorare è giusto che lavori un po' per conto mio. Quando si guadagnerà qualche cosa gliela daremo.

Cicchedda non pensava a chiederle nulla, e due cose sole la rattristavano; l' idea di poter un giorno o l'altro esser mandata via e un altro grosso dispiacere. Camminava saltellando e Salvatore, scordando la sua generosità, la metteva in caricatura per questo difetto, e soleva dirle:

— Son quasi convinto che dalla cintola in giù tu abbi il corpo di rana. Quando ti sei lavata, il giorno che ti ho portata qui, mi pare d'aver veduto dal finestrino qualcosa di simile…..

Ella impallidiva, si arrabbiava e soffriva grandemente, convinta che Salvatore parlava sul serio.

Uomo caustico in sommo grado, egli si divertiva delle miserie e delle piccolezze altrui, e quando un suo scherzo riesciva bene lo prolungava fino alla crudeltà. Così ogni santo giorno tormentava la servetta con la sua supposizione, e, quel che più a lei dispiaceva, gliela esprimeva davanti alla gente.

— Non fa nulla, non fa nulla! — strillava lei adirata — se ho le gambe di rana già son le mie, non son le vostre; importatevene, zio sciocco!

Gli mancava di rispetto, e avrebbe dato dieci anni di vita per far cessare l'orribile calunnia.

Anche quella sera Salvatore, a cena, aveva fatto allusione a quel fatto; ella sentivasene profondamente triste, e lavando i piatti due grosse lagrime le eran cadute entro il pajolino della risciacquatura.

— Cicchedda — le disse Costanza dopo averla guardata con fissazione — mi farai un piacere?

Eia! (Si!) — affermò ella, aprendo i suoi grandi occhi sonnolenti e velati.

Agada cessò un momentino di filare: cosa era il piacere che Costanza poteva chieder a quella sciocca?

— Sta attenta — disse Costanza. — Tu sei nipote di Marta Fele. Marta Fele, di Oliena, indovina ogni cosa, tu hai detto cento volte.

Eia! — ripetè vivamente Cicchedda, col viso in su. Una ciocca di capelli giallastri che le pioveva sulla tempia destra, al nome di Marta Fele ebbe un fremito, si spostò e venne ad ombreggiarle tutta la fronte.

Perchè Marta era una donna meravigliosa, che prediceva l'avvenire, e spiegava gli enigmi più misteriosi: Cicchedda, che si vantava d'esserle parente, credeva tanto nella sua potenza che tremava nel nominarla o nel sentirla nominare. Costanza domandò:

— Se tu andassi ad Oliena e ti riescisse di farla venir qui?

Agada comprese il pensiero della nipote, e riprese a filare.

— Umh, non verrà! — esclamò la servetta, sporgendo il labbro inferiore in segno di diniego.

— Perchè? Non é mai venuta a Nuoro? Perchè non verrà?

— Non verrà!

— Perchè non verrà! — ripetè in alto Costanza, cominciando a stizzirsi.

— Perchè non verrà! Chi ha voglia di vederla deve andar là!

— Questa è bella! E a che ora e in quali giorni indovina ogni cosa?

L'aveva sentito molte volte, ma non essendole occorso mai di consultar la maga, se n'era dimenticata.

— Nei giorni di festa — rispose Cicchedda, mordendo un lembo del grembiale e dondolandosi — dalle due alle tre di sera nei giorni di festa, nei giorni di festa…

E siccome lo diceva con cantilena, Agada la rimproverò:

— Non c'è bisogno di metterti a cantare nè a ballare. Puoi parlare e star ferma…

— Non posso star ferma…

— Ah, non puoi! Perciò cosa ti dicono?…

Alludeva allo scherzo di Salvatore, e lei lo comprese, e richiamata al suo dolore, proruppe improvvisamente in pianto.

Sedendosi al focolare aveva precisamente l'idea di piangere, ma le interrogazioni di Costanza l'avevano distratta; ora il rimprovero di zia Agada toccava così al vivo la piaga che il dolore scoppiò più forte quanto più improvviso e represso.

— Che demonio hai? — gridò Costanza meravigliata. E Agada chiuse gli occhi per non ridere e disse:

— Eh, lo so io cosa ha!

Allora Costanza comprese, e rise altamente, un riso pieno, beffardo e sonoro simile a quello di Salvatore: però egli ridendo diventava brutto e deforme e la nipote bellissima. Aveva magnifici denti e splendidi occhi che il riso rendeva lampeggianti.

Cicchedda s'irritò vieppiù, e il suo singulto vinse lo squillo sonoro della risata, in modo che Costanza ne ebbe pietá e smise: ma l'altra continuò a singhiozzare, contorcendosi tutta e tirandosi i capelli.

— Lo fa apposta! — pensò Costanza, e cercò di consolarla ironicamente, ma Cicchedda faceva peggio.

— Ma si potrebbe sapere cosa diavolo hai? Farai entrar la pattuglia, perchè pare che ti stieno impiccando! — le gridò Costanza, ma non ci fu verso di farla cessare, o di farle dire la causa del suo spasimo.

— Ma infine! — disse Agada seccata. — Mi dai la tentazione di gettarti la conocchia sul capo! Ma non ti farebbe nulla. Senti, se la finisci, domenica vai ad Oliena con Costanza…

— Davvero? — gridò allora Cicchedda, rasserenandosi.

L'indomani Salvatore si levò all'alba, e subito sellò il cavallo, ma sentivasi le palpebre pesanti e usciva in campagna di mala voglia. Era un'alba grigiastra e calma d'aprile; i rami ancor spogli del fico stillavano una triste rugiada senza riflessi, e nel cortile regnava un gran silenzio quasi notturno.

— Dammi la bisaccia — disse Salvatore alla servetta, che usciva dalla dommo e mola dopo aver aggiogato l'asinello alla macina.

— Padrona — gridò Cicchedda dirigendosi alla cucina — il padrone vuol la bisaccia.

— Che il diavolo ti bastoni, non puoi recarmela tu? — esclamò Salvatore slanciandosi verso la cucina.

Agada accendeva il fuoco e non si mosse, ma domandò: — Non prendi nulla, Salvatore? Perchè hai tanta furia? A che ora ritorni?

— Quando sarò ritornato sarò qui! — diss'egli di mala maniera; saltò a cavallo e Cicchedda gli aprì il portone, ma quando fu nella via s'avvide d'aver dimenticato la leppa, grosso coltello che i pastori nuoresi portano infilato alla cintura entro una rozza guaina di cuoio, e gridò:

— Cicchè, ohè, Cicchè, portami la leppa ch'è nell'angolo della tavola di cucina.

Cicchedda rientrò, ma non si rivedeva più, nè con leppa, nè senza leppa; il cavallo scalpitava e Salvatore si stizziva allorché comparve una donna in fondo alla via e cominciò a fargli dei cenni agitando le braccia.

— Andate in campagna? — domandò.

— Così pare! — diss'egli col suo fare borioso, senza quasi degnarsi di guardarla, con altera indifferenza.

— Non andate! — esclamò la donna, ch'era una sua poverissima comare. — È alzata vostra moglie? vengo in casa vostra, perchè la moglie d'Alessio é molto aggravata e forse non passerá il giorno d'oggi.

— Oh, diavolo! — disse Salvatore stupito e commosso, volgendosi tutto verso la donna. — Perchè non siete venuta prima?

— Più presto di così? Tanto cosa potete farci?

— Agada ieri sera non mi disse nulla; credevo… aspettate… Agada, Agada? — Chiamò egli rientrando nel cortile. — Oh, non senti cosa dice comare Franzisca? Maria sta molto male, è per morire!

— Gesù! — gridò Agada spaventandosi.

— Ecco la leppa! — disse Cicchedda, senza preoccuparsi della triste novella, ma Salvatore la guardò torvo e smontò da cavallo, mentre la comare dava ad Agada una infinità di particolari sull' improvviso peggioramento di Maria, moglie di Alessio Piscu, prediletto nipote dei Brindis, che l'avevano allevato in casa insieme alla cugina Costanza, amandolo come un figliuolo.

Alessio, giovine, bello e benestante, era ammogliato da poco tempo e aveva un figliolino.

Il giorno prima Agada era stata a visitar la malata, ma il suo stato non era grave e non prediceva nulla di allarmante.

— Sta malissimo ora, invece — disse Franzisca — ha passato una notte d'inferno. Io dormii in casa loro e volevo vegliar io, ma Alessio non volle: è restato tutta la notte in piedi, poverino. A mezzanotte Maria ha avuto un attacco che la credevamo morta; dopo non ha fatto che peggiorare; ora non riconosee nessuno ed ha il viso rosso come lo scarlatto.

Salvatore rimise il cavallo nella stalla e Agada cominciò a piangere, benché in realtà non sentisse un dolore violento; ma occorreva far cosi, perchè Franzisca avrebbe raccontato tutto. Intanto continuava a dar particolari interessanti sulla malattia di Maria, forbendosi ogni tanto la bocca con aria d'importanza, e Agada parea provar tanto dolore da restarne impalata sulla porta; un dolore che non le permetteva neppure d'invitar la comare ad entrare ed a sedersi. Franzisca però scorgeva benissimo la caffettiera sul fuoco, e allungava la sua missione col desiderio di buscarsi una tazza di caffè. Cicchedda, dentro, spazzava e tendeva le orecchie; a un tratto fece un salto, perchè la caffettiera bolliva e l'acqua si rinversava sul fuoco e cominciò a gridare: — La padrona! la padrona, venite qui!

Agada, scandolezzata, non si volse neppure, ma comare Franzisca capì ch'era inutile restare e s'avviò per andarsene. Salvatore era già uscito per recarsi da Maria.

— Ora sveglio Costanza e vengo subito — disse Agada, accompagnando la donna per il cortile.

— Ah, una cosa dimenticavo! Bisogna portar qui il bambino.

— Lo porteremo. Andate con Dio.

— Costanza? — chiamò poi Agada battendo le dita sulla porta della camera terrena. — Levati subito.

Rientrando in cucina vide Cicchedda rider silenziosamente, mostrando tutti i suoi denti bianchissimi, e dicendo: — L'ho fatta andar via io! Non terminava più; aveva voglia di caffè, ma ha fatto fiasco. Se poi glielo aveste dato, vi avrebbe criticato dicendo: — Guarda, guarda, non è preoccupata della disgrazia!

Agada, benché colpita da queste giuste osservazioni, non disse nulla, e ripiegandosi su sè stessa gettò il caffè macinato sull' acqua bollente, rimescolandola rapidamente sul fuoco.

— Io non posso veder questa zia Franzisca — continuò Cicchedda — si ficca da per tutto, entra in ogni buco e si crede necessaria in ogni casa. Scrocca sempre; la prenderei a pedate. Mi metterete il lutto se muore Maria Piscu? — domandò infine, facendo alterar la padrona.

— E finiscila, e finiscila! E misura le parole prima di dirle.

— Cosa ho detto?

— Va e spingi l'asino, chè non sei buona ad altro-Levamiti dai piedi.

Cicchedda non si offese e uscì saltellando; appena riaprì la porticina della dommo e mola le galline cominciarono a scender svolazzando da un asse posto sotto una sporgenza del tetto, e il gallo cantò.

— Chicchiricchì! — ripetè Chicchedda, e non seppe e veramente non cercò spiegarsi perchè la triste notizia della malattia di Maria Piscu le metteva una strana allegria in corpo.

— Faresti meglio a spinger tuo fratello, che è fermo. Se ci vengo! — gridò Costanza, uscendo scalza e a testa nuda dal porticato.

L'asinello infatti, chi sa da quando, stava fermo, forse dormiva in piedi sotto la sua maschera di cuoio, perchè, quando Cicchedda gli gridò di camminare, partì al trotto, spaventato.

— Oh, stavi fermo! — gli chiese ella con ironia — non hai dormito abbastanza? Cammina, cammina, perchè dobbiamo fare il pane prima che… — aggiunse a voce bassa, sicura del fatto suo — prima che muoia la moglie d'Alessio Piscu!…

Preso il caffè, Agada e Costanza si vestirono per recarsi da Maria. Costanza indossava il costume semplice delle paesane nuoresi, vestiva con una certa modestia e teneva il fazzoletto di lana oscura tirato sulla fronte.

Agada indossava il costume di donna maritata, col grembiale di panno ricamato e la cintura d'argento. Prima di uscire diede a Cicchedda l'ordine di spazzare il cortile e la stalla, dar da mangiare al cavallo e far camminare l'asinello.

— Non lasciar la casa sola, intendi bene!

— E le galline? — domandò Cicchedda, rincorrendola fino alla strada.

— Ah, aspetta! — fece Agada tornando indietro. — Metti l'acqua a bollire e cuoci la crusca per le galline.

— Va bene! — gridò la ragazza in italiano, e ferma sul portone seguì le due donne con lo sguardo, e fece una smorfia vedendole prender un contegno rigido e decoroso da far gelare i sassi.

Rientrarono dopo due ore, accompagnate da Salvatore che teneva in braccio un bambino grasso e rosso vestito da fraticello per voto a San Francesco d'Assisi.

— Oh Domenico, oh Domenico! — gridò Cicchedda andando incontro al padrone che depose il bimbo fra le sue braccia esili e irrequiete. E subito Domenico le accarezzò il viso con le sue manine fredde, rosse e piene di fossette.

— Ciccedda… Ciccedda… — balbettò.

— Come sta tua madre, cuoricino mio, come?

Salvatore la guardò a stracciasacco e disse al bimbo vezzeggiando:

— Mamma é andata alla festa, è andata. Porterà i dolci a Domenico e un cavallino porterà, non è vero? E Domenico resta qui finchè mamma non torna.

— E quando torna? — domandò il bimbo, con gli occhioni un po' inquieti.

— Domani torna, domani — disse Cicchedda deponendolo in terra.

Salvatore si curvò e lo prese con tenerezza per la manina; era una bizzarra macchietta invero quell'uomo grosso dagli occhi torvi chinato sul fraticello che sembrava un giocattolo, biondo, con certi occhioni verdi, grigi, azzurri, profondi e indifferenti come quelli di un grazioso ed egoista gattino. Il vestitino oscuro in forma di tonaca, dal cordone bianco e dal piccolo cappuccio, lo rendeva più grazioso e bello.

Salvatore lo amava intensamente, e quest'affetto gli rendeva più grave il dispiacere per la malattia di Maria.

— E come sta? — domandò Cicchedda ad Agada.

— Male, molto. Figurati che non ci ha riconosciuti; l'ho toccata in fronte, dicendole: — Maria, come ti senti? — e non mi rispose.

— Poverina! Ci vado io a visitarla?

— Sì, è proprio necessario! — disse l'altra con ironia triste.

Domenico correva per il cortile su un cavallo di canna, gettando dei piccoli stridi allegri, e Salvatore lo guardava con melanconia, con tristi presentimenti. Infatti da quel giorno le notizie di Maria si fecero sempre più gravi. Ogni sera i Brindis si dicevano:

— Non passerà la notte.

E invece passava anche l'indomani, ma sempre senza speranza. Erano febbri putride e nervose giunte all'ultimo stadio, e l'agonia della malata durava già da varii giorni.

— È questione di poche ore — disse Agada il quarto giorno. — Non inghiotte più, non vede, non sente. Si contorce tutta quanta e ci vogliono tre uomini a rattenerla, altrimenti si spezza la testa.

Invece passarono altri tre giorni: i Brindis andavano e venivano, senza aver più la testa a posto, e Cicchedda faceva da padrona di casa.

— E mamma non torna, e babbo non porta caballino a Domenico? — domandava il bimbo ogni giorno.

— Domani, cuoricino mio, domani…

Ma questo domani non arrivava mai; i medici prolungavano la vita di Maria con delle iniezioni, ma Salvatore le trovava una crudeltà, perchè Alessio invecchiava di un anno ad ogni ora di agonia della moglie.

— Dio mio! — disse una sera Ciccheda, dopo esser stata dalla moribonda. — Alessio Piscu sembra un vecchio di cent'anni. Come doveva voler bene a sua moglie!

La considerava già morta, e infatti Agada aveva già chiuso le finestre e il portone in segno di lutto: ma i giorni passavano e Maria non moriva, e Domenico aspettava sempre e domandava:

— Oggi non è domani? E mamma e babbo non tornano dalla festa?

— Domani, domani.

Una sera, pochi momenti dopo che Agada era rientrata, giunse correndo comare Franzisca; nello spingere il portone vide il fraticello che cercava d'uscire e per poco non gli fece del male.

— Dove vai, dove vai, bellino mio? — gli chiese prendendoselo in braccio.

— Voglio mamma, voglio mamma!… — cominciò egli a strillare, piangendo senza lagrime e dimenandosi.

Allora la donna si mise anch'essa a piangere, e diede il bimbo a Cicchedda, dicendole di chetarlo.

Vedendo Franzisca entrar in cucina le Brindis capirono subito che Maria era morta e si diedero a piangere; uscendo la donnicciuola senti Domenico ridere allegramente, perchè Cicchedda l'aveva deposto sull'asinello, e continuò a piangere sul lembo del suo grembiale turchino, ma pensò:

— Ora Alessio tornerá qui; bisogna che ci venga più spesso perchè avranno più da fare…

Infatti Alessio rientrò in casa dello zio tre giorni dopo, all' annottare; in segno di lutto gravissimo teneva la barba lunga, il cappotto vestito e il cappuccio tirato sul viso; gli occhi aveva infossati, tanto che non se ne distingueva il colore, ed era pallido come un cadavere. Non cercò di riveder Domenico, che dormiva già, non ne domandò notizie; e Cicchedda, che aveva spiato il suo arrivo, lo guardò curiosamente, seguendolo in ogni suo movimento, senza osare di rivolgergli la parola.

Anche gli altri, del resto, non aprivano bocca; la morte, il lutto, la tristezza, mettevano come una grave soggezione fra loro. Fu una serata lugubre; non si poteva discorrere di nulla, nè dei propri nè degli altrui affari, e il ricordo della morta stava troppo fisso nel pensiero di Alessio perchè si osasse parlare di lei.

Fuori pioveva, pioveva; si sentiva gorgogliare il fango e la miseria per le viuzze del povero rione, abitato da povera gente; era una di quelle tristissime notti di primavera in cui pare che l'inverno, improvvisamente, voglia riprendere il suo impero.

Alessio si sentiva morire, aveva la febbre e gli pareva che tutta quella pioggia stridente, incessante, filtrasse fino al corpo della sua povera morta, allagandolo e gelandolo…

Tutta la notte, nel letto dove riprendeva il suo posto dopo quattro anni di grande felicità, non fece che delirare in un dormi-veglia affannoso, pieno di visioni strane e di sensazioni fantastiche. Una di queste, insistente e strana, lo afferrava di tratto in tratto, dandogli un misterioso stupore. Il quadrato della luce vaga del finestrino, illuminato da un pezzetto di luna che al cessare della pioggia passava correndo fra le nuvole, gli sembrava un fazzoletto che Maria preferiva, un fazzoletto di lana nera a fiorami verdi ch'egli le aveva comprato in una festa. E quel quadrato di luna, cambiatosi nel fazzoletto, parlava, rideva, si muoveva; le foglie erano i capelli di Alessio e ogni trama tirava una foglia, dando acuti spasimi alla sua testa febbricitante. Piccole monete d'argento apparivano e sparivano nel fazzoletto, e avevano incisa una minuscola testa di Maria, che parlava e rideva come Maria parlava e rideva; e il tutto veniva attraversato dal cordone bianco di fraticello che cingeva Domenico.

Fra le altre incalzanti visioni il bizzarro fazzoletto scompariva e riappariva con la luce della luna; e Alessio ne provava una sensazione angosciosa che accresceva la febbre e il dolor di capo.

All'alba parve destarsi, mentre realmente non aveva dormito, e il dolore acuto e soffocante che da tre giorni lo martoriava, lo investì come un brivido ed uno spasimo fisico, e lo fece balzare da letto e battere pazzamente la bella testa sul guanciale. Usci dal porticè, perchè la sua stanza era al pian terreno, in faccia all'altra ove dormivano Costanza, Domenico e Cicchedda, e quest'ultima, essendo già levata, si fece premura di portargli un lavabo di latta pieno d'acqua.

Dal fico piovevano grosse goccie d'acqua, grigie e lente; nel cielo limpidissimo, ma scolorito, le ultime nubi si dissolvevano come masse di fumo, e il cortile era pieno di fango, di laghetti scuri che riflettevano la tristezza del mattino.

Mentre Alessio si lavava, Cicchedda stette a guardarlo imbambolata, ed egli senti che questa creatura, la più misera fra le creature, lo compassionava pur essa; e ciò accrebbe il suo scoramento, la sua tristezza e il suo disgusto.

Cicchedda infatti lo trovava più che mai invecchiato, ma oltre che per pietà lo guardava infantilmente curiosa di veder come era fatto un grosso dispiacere.

Il volto di lui aveva preso una tinta livida, i suoi folti ed irti capelli, la sua barba, i suoi baffi e le sue congiunte sopracciglia sembravano più nere ed abbondanti; la sua alta persona, d'una muscolosa e perfetta fattura, a cui il pittoresco costume nuorese dava una speciale eleganza di forme e di movimenti, s'era incurvata; il suo profilo latino, dalla fronte, le labbra e il mento sporgenti, d'una purezza scultoria da razza vergine e antica, s'era vieppiù accentuato nella magrezza delle gote infossate, e gli occhi, che ora alla luce si scorgevano neri, avevano una fissità da allucinato. Contava trent'anni, era intelligente, sapeva leggere e scrivere, e gli piaceva viver quasi signorilmente; e poteva farlo Perchè stava meglio dello zio e meglio sapeva condurre i suoi affari. Anzi il suo triste ritorno in casa Brindis parve riassettare gli affari imbrogliati di Salvatore; gli fece un prestito grazioso, graziosissimo anzi, ed acquietò qualche creditore impaziente del suo. Ma le faccende domestiche si triplicarono. Alessio aveva tre servitori che divoravano sei grandi pani d'orzo ogni santo giorno, per cui Cicchedda aizzava disperatamente l'asinello, e le padrone non facevano altro che pulir farina e accendere il forno.

A poco a poco Alessio si calmò e riprese le sue abitudini; usciva a cavallo e si assentava intere giornate; al ritorno Cicchedda gli andava incontro fino alla strada con Domenico fra le braccia. E lo sollevava in alto, in alto, fino all'arcione, dicendogli sciocchezze e facendogli il solletico; il bimbo rideva, emettendo i suoi stridii di grillo e d'uccellino, e mostrando i dentini faceva balenare i suoi occhioni iridati, con quella loro strana allegrezza inconsapevole, egoista, innocente e piena, ch'era un incanto a vederlo.

Alessio lo pigliava in arcioni, e per contentarlo faceva camminare il cavallo; Domenico rideva più che mai, guardando di sotto in su il babbo, e Cicchedda batteva le mani in mezzo alla via.

Il riso di Domenico guarì più che altro la ferita d'Alessio; quando il dolore voleva investirlo egli sapeva dove ricorrere per salvarsi; pensava ad un visetto rosso e fresco, un po' scabroso come le pesche mature, pieno di fossette e di malìe; agli occhi, ai dentini, alle manine del bambino, e questo lo calmava.

Possedeva molto bestiame, molte terre; aveva una infinità di affari e perciò era sempre affaccendato, in relazione con persone alte e basse; e tutto questo andirivieni, in campagna e in città, assorbiva il suo tempo, lo distraeva dal suo dolore. Non tardò a riprendere il suo solito umore, un po' serio e taciturno, ma sempre eguale e d'una gentilezza quasi signorile; e vedendolo ringiovanire, con gli occhi nuovamente fieri ed espressivi, la persona raddrizzata, i capelli e la barba pettinati, il viso d'un pallore bronzino, sano e naturale; vedendolo riprendere i suoi affari, stabilirsi in casa altrui, camminare, mangiare e parlare come se nulla fosse stato, Cicchedda si convinse ch'egli non aveva cuore!

In questo frattempo, fra gli avvenimenti che recavano molti cambiamenti ed anche molte seccature, Agada e Costanza avevano trascurato il loro famoso affare, senza però dimenticarlo.

Ne parlavano sempre; spesso Costanza ci tornava su improvvisamente, con una frase vaga e misteriosa, e zia Agada rispondeva subito a proposito, quasi stesse appunto pensandoci.

Una sera Costanza disse, sollevando allo improvviso la testa dal cucito:

— Lo diciamo ad Alessio, zia?

— Umh! — disse Agada — ci ho pensato anch'io, ma non mi par che vada bene. Ha le stesse idee di tuo zio, e riderà di noi e andrà a ripeterglielo e ne faranno un baccano….. Lascia stare; è meglio anzi che Salvatore abbia dimenticato.

Allora Costanza propose di far ella medesima la risposta; l'aveva già ideata.

— Sentite, scriviamo così. Che ci dicano il nome della figlia e del collegio dove studia; che non abbiamo ancora il denaro da mandare, ma che ce lo procureremo presto. Intanto prendiamo informazioni del collegio, della figlia, e vediamo cosa c'è da sperare.

Ma Agada non approvò: la sua idea fissa era di consultare Cosimo Bancu, loro parente, loro avvocato, loro procuratore, e sul quale deponevano una illimitata fiducia. Egli andava raramente da loro, ma li riceveva ad ogni ora in casa sua, sempre che avevan bisogno di lui.

Durante la malattia e la morte di Maria, s'era lasciato veder due volte, ma siccome Agada e Costanza dovevano mantenersi in un decoro profondo, dato il loro dispiacere e il loro duolo, non avevano osato dirgli nulla.

Ora, verso la metà di giugno, una domenica sera, l'avvocato Cosimo Bancu stava nel suo salotto, eseguendo al piano-forte il commovente finale dell' Aida. C'era gente; una signora d'etá e una signorina alta, fredda e steechita, che dentro il suo vestito bianco pareva una statua di neve. Una bellissima statua però: sotto i guanti scamosciati s'indovinavano due piccole mani perfette, e la scollatura vaporosa del vestito lasciava vedere il collo d'una meravigliosa bianchezza. La bocca e il mento, poi, erano un poema di grazia e purezza; i capelli d'un castaneo chiarissimo, quasi biondi, morbidi e abbondanti, aveva acconciati con arte; gli occhi però erano piccoli e neri, pieni sempre d'un sorriso senza espressione, nè intelligenza.

Invece altre due ragazze sedutele quasi ai piedi, su due poltroncine basse — perch' essa troneggiava su un' alta sedia dall' imbottitura durissima — possedevano bellissimi occhi oscuri, grandi e profondi, limpidi e intelligentissimi, che con una sorprendente mobilità cambiavano d'espressione ad ogni nota del cembalo. Erano le due sorelle di Cosimo, piccole, pallide e bianche in viso e dal profilo irregolare; si sarebbero rassomigliate quasi perfettamente, se la minore non fosse stata più robusta, con le guancie piene, le sopracciglia appena disegnate e i capelli chiari, quasi del colore di quelli della signorina bianco vestita.

Giovanna era una graziosissima ragazza, senza esser bella nè delicata; aveva diciotto anni e dei piedini invisibili; era quasi ancora una bimba, ma una bimba maliziosa, una rosa non ancora sbocciata; qualcosa di morbido, di pieno, di desiderabile e adorabile che faceva dire — è una cosa bella — senza esserlo precisamente.

La maggiore era più esile e sottile; e i capelli oscuri, le folte sopracciglia congiunte, le ciglia lunghe e una certa delicatezza nei contorni del visino scarno le davano una fisionomia affatto diversa. Poi, pensando ai suoi venti anni, ella assumeva una cert'aria seria di donnina pensierosa.

In fondo al salotto, sedute sul divano coperto di bianco, la signora d'età e la madre di Cosimo ragionavano di cose utili, badando poco alla musica che copriva la loro voce.

Donna Francesca Bancu apparteneva ad una nobilissima famiglia d'origine arborense; anzi questa famiglia discendeva precisamente dagli Arborea, ed in principio possedeva titolo comitale; ma dopo la disfatta di Leonardo d'Alagon, venuti gli Aragonesi, un lontano avo di donna Francesca aveva perduto il dominio e le pergamene, ed era stato esiliato. Così gli ultimi rampolli, vivendo a Nuoro, conservavano la nobiltà del sangue e si ostinavano a pretenderla anche nel titolo; e donna Francesca, sposando un pedestre borghese, anzi un popolano arricchito — morto ora da una quindicina di anni — era rimasta dama fino alle unghie.

Ciò non le impediva, quella sera, d'indossare una toeletta poco decente per ricevimento; un guarnellino nero-verdognolo, una giacca lunga d'antico taglio e uno scialletto al collo.

I vestitini eleganti delle figlie e il finissimo costume grigio di Cosimo contrastavano assai con l'abbigliamento modesto della madre; eppure era molto più dama essa dentro la sua giacca rassomigliante più ad un sacco che ad altro, che essi dentro la loro ultima moda. C'era tanta spigliatezza e delicatezza nei movimenti delle sue mani fini, del suo viso bianco e fresco, degli occhi grandi e neri, della fronte celata nelle tempie da due bende di capelli lisci e grigi, che anche un gatto avrebbe riconosciuto in lei un' antica dama sarda.

Quando riceveva soleva vestirsi bene, con un abbigliamento di seta nera, che le era servito da damigella, da sposa e da vedova, ma quella sera, avendola le signore Marchis sorpresa in veste da casa, non le avevano permesso d'abbigliarsi.

— Oh, guardino come sono! — aveva esclamato, aprendo le braccia e guardandosi.

— Oh, lasci stare, lasci stare! — rispose la signora Marchis, tirandola per la mano — sappiamo come si sta in casa. Lei poi che lavora tanto, che ha tanto da fare!

Anche Cosimo fu sorpreso al piano; altrimenti si sarebbe volentieri eclissato, perchè nutriva una speciale antipatia per la bella Peppina Marchis, e il vedersela lì davanti, bianca, stecchita e senza espressione, invece di dargli un godimento estetico, lo metteva di mal umore.

Dopo certi complimenti asciutti e quasi ironici, Cosimo si rimise a suonare con indifferenza. E suonava il finale dell' Aida, quando s'aprì la porta, e una domestica, mettendo rispettosamente la testa nel vano, disse:

— Il dottore, c'è gente che la vuole.

— C'è gente che ti vuole, Cosimo — ripetè Elena, la sorella maggiore.

— Cosa? — chies'egli fermandosi di botto e sollevando la testa.

— C'è gente nello studio — disse la serva.

— Chi è? — domandò egli rizzandosi. Era tanto alto che la sua testa sporgeva tutta al di sopra del piano forte.

La signora Marchis lo guardò, poi guardò Elena e Giovanna dal fondo del divano, e con aria sorpresa, quasi non avesse fatto ancora quest'osservazione, disse:

— Donna Francesca, come non si rassomigliano i suoi figli!

— Niente, niente! — rispose l'altra sorridendo e guardando Cosimo. — Le bambine si rassomigliano alla nonna, mia povera suocera, e Cosimo al nonno e un po' anche a suo padre, ma poco. A me nulla, benchè dicano che i maschi prendano la fisionomia della madre.

— Io rassomiglio a te! — disse vivamente Giovanna, volgendosi sulla sua poltroncina; e pigliò parte alla conversazione delle due signore.

— C'è zia Agada Brindis e la nipote — rispondeva la domestica dalla porta.

Cosimo fece un gesto di noia profonda e il suo malumore aumentò. Elena se ne accorse e: — vado io? — domandò rizzandosi e guardando il fratello.

— Potevi dire che non c'ero! — esclamò egli verso la serva, senza pigliarsi alcuna soggezione per la signorina Peppina. Era tanto la noia di veder zia Agada, che lo consultava sempre e gli rompeva la testa per delle sciocchezze che preferi restar in salotto.

Ma siccome alle Brindis, in qualità di parenti, occorreva usar dei riguardi, uscì Elena per riceverle e dire che Cosimo era fuori di casa.

L'avvocato si rimise a sedere sul suo sgabello, facendo gesti da persona seccata, e Peppina capì benissimo ch'egli mandava zia Agada e la bella nipote a farsi benedire. E pensò, abbottonandosi un guanto, che poi era già abbottonato:

— Che tipo! Non si scomoda neppure per i suoi pochi clienti!…

Lo guardò di sottecchi, poi, siccome Giovanna, con la testa indietro, ragionava ancora con la madre, si volse anch'ella verso le signore, ma lo fece così lentamente, così rigidamente che parve non muoversi.

Con un dito sopra un tasto, Cosimo pienava il salotto d'una sola nota acuta e stridula, ov'era diffusa tutta la sua noia dispettosa. A un tratto però un getto bizzarro e argentino di trilli, di gorgheggi, di pigolii allegri, freschi e diversi, coprì la voce di donna Francesca che raccontava come Elena aveva avuto quattro balie.

— Oh i cacciatori, Peppina, senti i cacciatori! — esclamò Giovanna volgendosi di nuovo verso il piano, con gli occhi brillanti.

— Che cacciatori? — domandò Peppina un po' sorpresa, guardando verso la finestra.

I Cacciatori erano invece nella graziosa romanza senza parole che Cosimo suonava; e Peppina dovè al fine capirlo.

— Senti, senti gli spari! — disse Giovanna.

S'udivano infatti delle graziose schioppettate, e gli uccellini che prima trillavano giocondi, emisero gridi spaventati, caddero e si dispersero.

— Oh, che bello! — disse Peppina, ma senza scomporsi. — Lo ripeta!

E Cosímo lo ripetè, più per lui che per lei, perchè quella graziosa caccia gli piaceva assai, forse nella sua qualità di vero e appassionato eacciatore.

Mentre gli uccellini tornavano a cantare e volare, rincorrendosi per le frasche di un pesco fiorito — doveva certamente essere un pesco fiorito — Cosimo disse sorridendo:

— Sto componendo anch'io una sinfonia da caccia. Oh, ma se sentisse lì che fucilate! Ma altro che uccelli! Si sentono i cinghiali grugnire e i cervi correre…

Parlava suonando, e la sua fronte finalmente si spianava.

— Ce la faccia sentire — disse Peppina.

— Oh, non è ancora terminata! — egli rispose fermandosi, con le mani sui tasti; mani bianche e affusolate, mani proprio da piano-forte, da gentiluomo civile e raffinato. Un anello brillava sul mignolo della sinistra, un grosso anello ornato d'un solitario, che egli portava religiosamente, non perchè era l' anello dottorale, ma perchè memoria di Giuseppe Bancu suo padre, uomo forte, ambizioso ed energico, a cui il figlio voleva rassomigliare.

Cosimo aveva gli occhi turchini vivissimi; guardando entro gli occhi altrui scrutavano sino in fondo alle anime, con una fissità in cui non distinguevasi bene dove confinava il fascino con l'insolenza. Era bianco e pallido come le sorelle, ma ben profilato, con fronte spaziosissima e il mento coperto da un corto pizzo rosso. Quando vestiva di nero, questo forte meridionale sembrava un uomo del nord, un modello di Rubens, scialbo, freddo e quasi delicato nonostante la sua alta statura e le sue spalle larghe e vigorose.

Erasi laureato da sette anni in una Università del continente; teneva studio, ed era un buon avvocato; ma lavorava poco, non aveva clienti perchè di modi superbi, scettici e beffardi, e non si curava delle poche cause che gli affidavano.

Dipingeva, ballava, suonava e cacciava; tutti gli erano amici, tutti lo conoscevano, tutte le ragazze da marito gli tenevano gli occhi addosso. Ma in lui non si capiva se amava od odiava, chi voleva bene e chi male, che desiderava o sognava; non lasciava scorgere che una indifferenza profonda, una superioritá schiacciante, e talvolta una noia che insultava chi gli stava davanti.

Elena tardò tanto che quando rientrò le signore Marchis stavano per andarsene.

— Come, non restano? È tanto presto ancora! — disse. Era un po' confusa e commossa, e Cosimo le domandò:

— Cosa volevano quelle lì? Potevi mandarle via un po' prima.

— Eh, sì! — diss'Elena con una smorfietta infantile, rivolta a Peppina quasi per iscusarsi. — Sono parenti, figurati, che vengono tanto di rado, poverette! Volevo anzi far uscire mammà, ma quando intesero che v'era gente, son state discrete, non han voluto…

— Discretissime!… — disse Cosimo beffardo.

— Vestitevi, signorine; andiamo a far due passi — disse la signora Marchis.

— Usciamo! — fece Elena con poca volontà, guardando Giovanna, che corrispose un po' stupita al suo sguardo.

Perchè Elena non voleva uscire quella sera? Eppure amava assai recarsi al passeggio, specialmente la domenica.

— Sì, usciamo — disse Giovanna avviandosi verso la porta: Elena la seguì di mala voglia, e traversando l'andito:

— Che gusto uscire con loro! io non so che gusto ci trovi! — mormorò.

— Cos'hai? — domandò Giovanna voltandosi. — Se non vuoi venire puoi restar a casa!

Ad Elena non piaceva mostrarsi in pubblico con Peppina Marchis, perchè accanto ad essa sapeva di sfigurare.

Questo era un suo segreto innocentissimo, ma malizioso; in chiesa, per le vie, da per tutto, cercava porsi accanto a ragazze bruttine, più piccole ed insignificanti di lei, per apparire graziosa ed elegante.

Mostrarsi con la signorina Marchis era per lei un vero sacrifizio, tanto più che non prendeva gusto alcuno nella compagnia di questa fredda bellezza, vuota e compassata. Non ostante la loro buona relazione, che passava per amicizia, nessuna simpatia od intimità correva fra le Bancu e le Marchis; appena si separavano si criticavano a vicenda. La signora Marchis era poi una pettegola numero uno, che osservava ogni particolarità e trovava da ridire sopra ogni cosa.

Durante il passeggio ad Elena toccò, manco male, andarle al flanco, Perchè Peppina e Giovanna precedevano, ma la signora non tacque per un minuto secondo: parlava male di tutte le persone che incontravano e ripienava la povera testina di Elena di pettegolezzi e malignità.

Ma ella non rispondeva; era annoiata e nervosa, non salutava nessuno, ed a momenti si estasiava, un pensiero profondo le passava negli occhi e guardava Giovanna con desiderio intenso di rientrar presto in casa, per confidarle il gran segreto di cui da due ore era partecipe. Gliel'avea già annunziato mentre si vestivano.

— Quando rientriamo ti dirò una cosa.

— Cosa, cosa, dimmelo ora, subito!

Ma ella aveva taciuto. Non era cosa da dirsi su due piedi, con le porte spalancate, mentre s'allacciavano a vicenda le cinture dei vestiti; ne avrebbero parlato al ritorno.

A misura che la sera avanzava la passeggiata animavasi; apparivano signore in abiti chiari, signori invisibili durante la luce del giorno, e saliva un bisbiglio allegro e animato nel crepuscolo diafano e lucente di giugno. Persino Peppina rideva, col suo riso fresco, ma leggero e compassato. La sua signora madre intanto non trovava più parole bastanti per sparlare di tutti; qualche vittima le sfuggiva senza dubbio, e le sarebbe sfuggito anche un signore d'una certa età, che passando a lor vicino salutò profondamente e rispettosamente, ma il cui saluto era senza fallo rivolto alle sole Bancu, Perchè accompagnato da un impercettibile sorriso rivolto a Giovanna. Ma quest'ultima si volse, e aspettando che la sorella s'avvicinasse, disse vivamente:

— Elena, hai veduto De-Cerere?

— Sì, va avanti! — rispose seria Elena, con una ruga in mezzo alla fronte.

— Ah, De-Cerere, quel signore vecchio? — domandò la signora Marchis.

— Non è vecchio! — esclamò Giovanna, volgendosi ancora con interesse.

— Ah, il giudice, quel giudice, sì, sì, lo conosciamo. E chi non lo conosce? Però mi pareva che si chiamasse Cenere. Non esce mai: l'hanno mandato qui in punizione, è sempre serio, non esce mai. È vecchio, avrà sessant'anni!

— Non è vero, non è vero! — esclamò Giovanna, e si fermò, si mise al fianco della signora e cominciò a difendere il giudice con un calore troppo evidente, senza áccorgersi delle fulminee occhiate d'Elena.

— Non è vero che ha sessant'anni, chi lo dice? Ne ha quarantacinque, quarant'otto al più. Ha tutti i denti, non vede?

— Saranno falsi…

— Ma che falsi! Ci viene spesso in casa, anche ieri sera.

— Oh! — esclamò la signora, con sorpresa e malizia. — Sono in relazione?

— Sì — prese a dir Elena, per impedire a Giovanna di proseguire. — È molto amico di Cosimo e viene spesso in casa. Non va altrove, credo: ha poche relazioni, ma è tanto bravo e gentile. A Nuoro però sta mal volentieri, perchè dicono tante sciocchezze sul conto suo. Si farà presto cambiare.

— Fa l'amore con la tale — disse Peppina.

— L'amore? Ma è vecchio! — disse la madre, ridendo; erasi accorta facilmente che a Giovanna interessava il De-Cerere, e insisteva su quel punto per farle dispiacere. E Giovanna stava per scattare di nuovo, ma intervenne Elena, seria ed autorevole:

— No, signora, non è vecchio. Non ha ancora cinquant'anni; eppoi è ricco, è gentiluomo. Se chiedesse la mano della tale, l'accetterebbero. Ma è una diceria.

— Non la conosce neppure — esclamò Giovanna. — E poi non ci pensa neppure! Eccolo di nuovo. Lo guardi bene se è vecchio!…..

De-Cerere infatti si riavvicinava, dopo aver fatto ben poca strada; era in compagnia d'un altro signore grave e solenne, ed ora non sorrise, ma gli sorrise Giovanna, fattasi improvvisamente muta, e poi si volse anche leggermente a guardarlo. Elena se ne accorse e strinse le labbra pensando: — La farai con me, quando ritorniamo a casa, sciocchina!

— Non è vecchio, ma è tutt'altro che giovine! — sentenziò la signora Marchis. — Ha i capelli e la barba castanea, ma chi sa che non si tinga!

— Non si tinge, non si tinge! — affermò Giovanna. — Non li ha veramente castanei i capelli, li ha neri e cominciano a diventargli grigi. Quindi non si tinge. E poi non è uomo da far queste piccolezze.

— Ma che piccolezze!… (La signora Marchis se li tingeva).

E proseguirono su questo tono finchè rividero più volte De-Cerere e la signora Marchis si convinse che egli non poteva aver cinquant'anni, che conservava tutti i denti, tutti i capelli, tutta la barba, sebbene un po' rada, corta e divisa sul mento.

Era piccolo, con portamento un po' stanco ma corretto e aristocratico, la fisionomia nobile e buona, quasi soave, gli occhi oscuri e profondi, la fronte alta, senza rughe, pensierosa e triste: pallido, vestiva elegante, con guanti neri; e l'aria di tutta la sua persona spirava decoro, gravità e serietà.

Questa fu infatti l'ultima impressione della signora Marchis.

— Non mi par uomo da far la corte alle ragazze: è tanto serio!

— Se sapesse! — pensò Giovanna sorridendo.

— Sarà forse ammogliato. Di dov'è?

— Toscano. Se avesse avuto moglie… — disse Giovanna, e stava per pronunziare una sciocchezza, ma aggiunse: — non sarebbe venuto solo nell'esilio, come lo chiama.

Da tutti questi discorsi le Marchis capirono che una relazione più che amichevole legava la Bancu al De-Cerere; ritiratesi, non parlarono d'altro, s'immaginarono ch'egli facesse la corte a Giovanna e subito sparsero la novella ai quattro venti.

Tre giorni dopo tutti dicevano che De-Cerere era fidanzato… con Elena!

— Sarà con donna Francesca! — disse un bello spirito.

Rientrando in casa, Elena fece a Giovanna una ramanzina coi fiocchi; la chiamò civetta e minacciò di dir tutto a Cosimo, se si permetteva di voltarsi un'altra volta a guardar quel vecchio.

Lo chiamò così, benchè non lo pensasse punto, e disse:

— L'ho difeso perchè la signora Marchis mi dà ai nervi, ma è vecchio, ha i capelli tinti, i denti falsi…

— E del resto cosa me ne importa? — esclamò Giovanna.

— Perchè fai la sciocca, allora?

— Perchè anche a me le Marchis danno ai nervi. Che gente invidiosa! Se Paolo cercasse Peppina vedresti come sarebbe giovine e bello e… tutto!

Parlando di De-Cerere fra loro lo chiamavano sempre col solo suo nome: in principio Elena lo faceva per scherzo, per ironia, ma poi cisi era avvezzata sul serio. Fra loro Paolo andava e Paolo veniva; di mattina o di sera era necessario, ogni giorno, che parlassero di lui in una strana maniera.

Egli veniva spesso a trovarle; talvolta Cosimo non era in casa, oppure c'era benissimo, ma non si lasciava vedere, e donna Francesca stava occupata. Allora Elena e Giovanna lo ricevevano da sole, senza alcun male al mondo, e donna Francesca e Cosimo permettevano ciò perchè consideravano il giudice un uomo stagionato, se non vecchio, la cui presenza non poteva recare aleun danno alle ragazze. Cosimo anzi volea che lo ricevessero con riguardo: era il giudice anziano, faceva continuamente da vice-presidente, era influentissimo, e gli avvocati, anche se infingardi come Bancu, sapete bene che talvolta han bisogno di simili personaggi.

Nel salotto di donna Francesca, Paolo De-Cerere era così amabile, lieto e galantemente affettuoso che non sembrava neanche per sogno un giudice.

Le sue visite si prolungavano, diventavano indiscrete; egli si dimenticava, si estasiava, diceva che erano per lui un raggio di sole, e corteggiava Giovanna. Ma era una corte tutta innocente, quasi paterna, se può chiamarsi così, che lusingava enormememente la vanità della bimba, senza toccarle il cuore.

Sulle prime De-Cerere aveva rivolto la sua attenzione ad Elena, ma forse l'aveva trovata troppo esile e seria, e forse egli era uomo di mondo più che nol dimostrasse e gli piacevano le ragazze belle, fresche e fragranti, perchè in breve si rivolse tutto a Giovanna, dimostrando ad Elena soltanto una amicizia profonda e rispettosa, una ammirazione sincera per la sua intelligenza, la sua bontà ed indulgenza. Ma ella sentivasene poco lusingata, e gli nutriva una stima relativa; le sembrava ch'egli mettesse poca profondità nelle sue parole, che venisse più per divagarsi che per altro; e ad ogni modo la disgustava grandemente la corte che egli faceva a Giovanna. O egli scherzava, ed Elena non ammetteva simili scherzi, o faceva sul serio e le ripugnava forte l'idea di Giovanna sposa d'un uomo che poteva esserle padre. Appena egli se ne andava ella cominciava a lamentarsi e parlar male. « Non avrebbe più tenuto il moccolo, non avrebbe più permesso di ricever da sole quel vecchio ipocrita, imprudente e importuno. »

Un giorno disse:

— Poteva attendere un momentino, ieri sera, e scoccava mezzanotte. Che signore educato! Senti, Giovanna. Non azzardarti più a farmi uscire, quando egli viene. Ricevitilo da sola.

— Perchè non le dici a lui queste cose? — domandò Giovanna risentita.

Esse andavano sempre d'accordo, si amavano, si confidavano tutta l'anima, ma spesso, causa il signor De-Cerere, si bisticciavano molto. Giovanna diceva:

— Egli non pensa a me sul serio; se ci pensasse, me lo piglierei!

Lo diceva per burla, ma Elena si adirava, sembrandole proprio di veder quella bimba innamorata di Paolo al punto di sacrificargli la sua fanciullezza, e per combatterlo meglio lo metteva in caricatura. E Giovanna aggiungeva con cattiveria:

— Parli così perchè non pensa a te. Se ci pensasse, ti parrebbe un sogno.

— Ma certo! Un sogno cattivo! — diceva Elena ridendo, e minacciava di far chiuder la porta sul muso a Paolo. Invece quando egli ritornava ella entrava sorridendo in salotto, e non smetteva di sorridere durante tutta la visita, neppure quando Paolo stringeva le manine di Giovanna o le rivolgeva complimenti troppo galanti. Del resto il vezzo di stringer le mani, a certi punti del discorso, Paolo lo usava con tutti. Più d'una volta si permetteva di prender anche le mani di Elena, e tenersele fra le sue con atto affettuoso e paterno, ma essa le ritirava tosto.

Però questa ed altre famigliarità, sembravano naturalissime nel De-Cerere; egli, così solenne e grave nelle vie, presso le sue piccole amiche si lasciava andare ad intimità affettuosissime; raccontava la sua vita, faceva narrazioni graziose e divertenti, e rideva mostrando tutto il meraviglioso splendore dei suoi denti.

Diceva d'aver molto viaggiato, e parlava di suo padre, ancor vivente, con tenerezza profonda: il che non impediva che Elena dicesse a Giovanna, sole:

— Dev'esser vecchio come Matusalem. Credi davvero che sia ancor vivo? Io non ci credo!

— Che sciocca tu sei! — esclamava Giovanna con stupore. — Come vuoi che parli di suo padre in questo modo, se fosse morto?

— Lo farà per dimostrare che essendo vivo il padre egli non può esser vecchio!

Da questo punto ricominciavano le questioni. Elena diceva:

— Un'altra volta mi farai il santissimo piacere di sederti lontana da lui, di non lasciarti stringer le mani, di badare a quel che dici. Dimmi, se il tale od il tal altro venissero e si permettessero di fare e dire quanto egli fa e dice, che ne penseremmo noi?

— Ma lui lo fa innocentemente! È così buono, così educato! Potrebbe esser nostro padre! Chissà che non abbia idee con la mamma! — diceva Giovanna scherzosamente, e questo pensiero le divertiva e le rappacicava.

Giovanna però credeva che De-Cerere fosse innamorato di lei, e non d'altre, e aspettava una formale dichiarazione. Non era innamorata, ma la corte di Paolo la lusingava, dandole una strana idea di sè stessa; ed avrebbe voluto ch'egli si spiegasse per poter far pompa di un tanto corteggiatore, serio ed influente, e sopratutto ricco.

I Bancu abitavano una bella casa a due piani, con un piccolo giardino, una casa piuttosto comoda e signorile, restaurata al ritorno di Cosimo dagli studi: al pian terreno c' era il suo studio d'avvocato e di procuratore.

Possedevano un'altra casa affittata, e molte terre, ma in realtà erano meno benestanti di quel che si credeva. Le rendite bastavano appena a pagar le imposte ed a viver decorosamente, senza lusso: Cosimo non guadagnava nulla e aveva debiti; ricordava i tempi splendidi quando, vivo suo padre, il denaro scorreva come un fiume nella loro casa, e avrebbe voluto rinnovarli, ma non aveva volontà, e il suo desiderio ambizioso lo tormentava senza spronarlo all'opera.

Anche le ragazze, ricordando vagamente altri tempi migliori, sognavano ricchi matrimoni; perciò Giovanna non rifuggiva dall'idea di sposar il De-Cerere, poichè lo si diceva ricco.

Ma Elena era più spirituale, e oltre il benessere sognava l'amore; senza l'amore anzi non capiva il matrimonio.

Due anni prima s'era innamorata di un giovane studente, amico di Cosimo, distinto, ma povero. Conoscendo l'ambizione dei Bancu, egli aveva promesso ad Elena mari e monti; avrebbe studiato, occupando una buona e splendida posizione. Ella, prestandogli fede, erasi abbandonata al suo primo amore come ad un soave sogno sicuro.

Ma era accaduta la solita storia: egli non raggiunse che una modesta posizione, donna Francesca e Cosimo strepitarono perch'Elena rompesse la sua relazione amorosa, e il sogno cadde da sè come una rosa sfogliata.

Egli era lontano, ora, e sperava sempre, ma Elena non pensava più a lui.

Ella sperava di amar nuovamente, ma non cereava, non andava incontro ad alcuna passione. Tutti i giovani che conosceva le erano profondamente indifferenti; non guardava nessuno con desiderio d'esser corteggiata, ma aspettava.

— Verrà, domani, fra un anno, fra due o tre, ma verrà — pensava. — L'amerò grandemente, ma mi guarderò dal ricadere in una passione infelice. Bisogna che tutti ne restino contenti…..

Qualche volta pensava che forse in quel tempo egli poteva sollevarsi e rendersi degno di lei. L'avrebbe riamato? Sarebbe stato egli l'eletto? Forse no, pur troppo! L'indifferenza era grande ed intensa, quanto grande ed intenso era stato l'amore, ed anzi il velo della sofferta delusione le gettava nell'anima un lieve disgusto, al pensiero che egli, col tempo, poteva farla sua.

Intanto però non gli aveva mai scritto queste cose; la relazione erasi rotta insensibilmente, come smorzata dal tempo e dalla lontananza. L'ultimo a scrivere era stato lui; ella non aveva risposto, non gli avea più detto alcuna parola di speranza, ma neanche di diniego. Ed egli, lontano, nel silenzio di lei, sperava tuttavia ed amava sempre.

Al ritorno dal passeggio, Elena, tutta adirata per il contegno di Giovanna, non le partecipò il segreto che sapeva; ma passò una notte agitata e tardò ad addormentarsi, pesandole assai di saper una cosa e di non averla ancora confidata alla sorella.

Il lunedì mattina, verso le dieci, entrarono assieme nel salotto. Per le tende di mussola della finestra socchiusa penetrava una luce discreta e fresca, rendendo l'ambiente più quieto del solito, più degno di ricever confidenze. Il salotto era piccolo, con le pareti di un giallo pallido a fascie bianche, sulle quali salivano rami di foglie gialle in rilievo: nel mezzo e negli angoli della vòlta bianca spiccavano, in medaglioni smaltati, grandi mazzi di rose thee giallissime; un tappeto oscuro, imitazione Bruxelles, copriva il pavimento, il mobilio era semplicissimo; vecchi quadri ad olio, dallo sfondo cupo e dalle figure d'un rossogiallo sfumate, ornavano le pareti; e cestelli di fiori mettevano una nota chiara sulle consoles oscure, sul nero cembalo antico. In tutto un'aria di semplicità, di grazia quieta e modesta, che però non mancava d'una certa eleganza.

Elena rinchiuse la porta e sedette davanti al pianoforte chiuso.

— Senti, — disse a Giovanna, che la guardava con curiosità. — Zia Agada Brindis mi ha ieri sera confidato un segreto. Benchè non sia necessario lo dico anche a te, ma giurami prima che…..

— A chi vuoi che lo dica? — fece Giovanna con impazienza; e bastarono queste sole parole per rassicurar Elena.

— Senti bene che storia curiosa — disse abbassando la voce e traendo una lettera.

— Oh, oh! — esclamò l'altra con premura, spalancando gli occhi. — Aspetta, aspetta!

Prese una sedia, si mise a fianco di Elena, e appoggiandosele sopra la seguì con gli occhi nella lenta e sommessa lettura della famosa lettera del tesoro.

— Oh, oh — esclamò in fine. — Fammela veder bene, dammela, aspetta…

La rilesse attentamente, esaminò la busta per ogni verso, e col volto illuminato da una gioia vivissima, coprì Elena di domande. Come e perchè zia Agada le avea confidato una simil cosa? E zio Salvatore ne sapeva nulla? E perchè la lettera restava in sue mani?

— Ieri sera zia Agada cercava Cosimo; io dissi che non era in casa, che forse neppur oggi l'avrebbe trovato, dovendo egli recarsi in campagna. Zia Agada e Costanza si guardaron desolate, e io allora dissi: — Se posso comunicargli ciò che avete da chiedergli lo farò con piacere. — Si guardarono di nuovo, stettero in dubbio, nicchiarono, e Costanza fece: — Ma non possiamo dirlo ad Elena! — Se posso esservi utile! — esclamai. Allora zia Agada mi porse a leggere questa lettera dicendo: — Ebbene, tanto è un fatto che devi venir a sapere. — Se mi date retta — diss'io dopo aver letto — non parlatene a Cosimo, che forse non se ne prende cura, o non ci crede. È una cosa semplicissima, e faremo noi la risposta. — Le convinsi e mi lasciaron la lettera. Senti, Giovanna — conchiuse Elena pensierosa — ho veduto in sogno il babbo che mi diceva: — Finora i tempi furono tristi, ma cambieranno! — Io non credo ai sogni, ma chi sa? Il babbo deve guardarci di lassù: chissà, chissà che non sia stata l'anima sua a guidar qui zia Agada?

— Se fosse vero! — esclamò Giovanna sempre più stupita. — Ma perchè non risposero prima, perchè non lo dissero a zio Salvatore!

Elena ripetè quanto Agada Brindis le aveva riferito su questo proposito.

— Anch'io non son convinta — disse poi. — può essere una truffa, il mondo è così cattivo, ma può darsi sia anche vero. Ora facciamo la risposta: io la detto e tu la scrivi, perchè la tua calligrafia è più sconosciuta della mia.

— Sfido io! — pensò Giovanna, che non aveva mai scritto una lettera per la posta.

— Come facciamo questa risposta?

La risposta da farsi era quella suggerita da Costanza: senonchè, per maggior prudenza, dovevansi indirizzare ad Elena le ulteriori notizie del tesoro.

— Capirai, se vedono arrivare altre lettere da Parigi all'indirizzo di zio Salvatore, possono insospettirsi e far commenti. Invece io posso avere qualche relazione in Francia, tanto più essendo le lettere indirizzate ad una donna, che può esser magari una modista.

Zia Agada, che non aveva voluto ceder la lettera a Costanza, s'era lasciata suggestionare da Elena, affidandosele pienamente: se poi l'affare riusciva, il matrimonio di Cosimo con la signorina Honoré, era bell' e fatto!

— Ottocentomila lire! — esclamò Giovanna, chiudendo gli occhi, quasi per scorger meglio la luminosa visione. — E ne danno un terzo. Umh! Se Cosimo sposa la signorina resta tutto a noi! Ma dove sarà? ma dove sarà?

— Forse nelle tancas di zio Salvatore. Il capitano dev'essersi informato, deve aver ritenuto il suo nome. Che cosa curiosa! — disse Elena ridendo. — Io non posso crederci, non posso convincermi. Ci sono tutte le probabilità di una truffa. Infatti perchè il capitano, fuggendo dalla Francia non portò seco la figlia?

— Forse non ne ebbe il tempo.

— E allora perchè, sapendo ciò che l'aspettava, non restò qui e non fece venir sua figlia? È una sciocchezza; io non ci credo!

— Ma! — disse Giovanna. — Tu dici ogni cosa, tu credi e non credi! Che ti faccio io?

— E del resto! Facciamo la risposta; tentare non nuoce.

— Io ci credo, io ci credo! — affermò convinta Giovanna, levandosi ritta. — Andiamo nello studio.

Andarono nello studio. Cosimo era a caccia, e quindi le signorine si presero la più ampia libertà davanti alla sua grande e ingombra scrivania, dove la carta bollata guardava in cagnesco le trionfanti carte da musica, manoscritte e stampate, e i romanzi opprimevano i codici in modo indegno e abbominevole.

— Perchè non lo diciamo a Cosimo? — domandò Giovanna, mettendosi a scrivere.

— Ne riderebbe come Salvatore Brindis, e manderebbe tutto in aria. Glielo diremo più tardi, più tardi. Scrivi — disse Elena.

Appoggiò i gomiti alla scrivania, ed esaminando un manoscritto di musica, comin ciò a dettare. Giovanna scriveva accuratamente, ripetendo l'ultima parola scritta quando Elena si fermava, e sentiva una certa trepidazione, quasi stesse compiendo un atto solenne.

Il che non impedi ad Elena di gridarle:

Credito con un t, ignorantona!

Giovanna cancellò ridendo il t superfluo e continuò. Diceva la lettera che lo scrivente, cioè Salvatore Brindis nascosto sotto il nome di Ferro, era povero e spiantato, ma che, ricevendo più garanti assicurazioni sul fatto, avrebbe fatto il sacrificio d'imprestarsi la somma richiesta. E chiedeva informazioni sul collegio ove studiava madamigella Honorè.

— Sarà una biondona! — disse Giovanna mentre Elena rileggeva la letterina. — Ha diciassette anni, uno meno di me, ma dev'esser alta e grossa. Oh, Dio mio, la mamma! — esclamò poi trasalendo e volgendosi verso la porta.

Elena si voltò, inquieta, non volendo che per allora donna Francesca partecipasse al segreto; ma la porta fu spinta da una bella gatta bianca, ch'entrò correndo, inseguita da un grazioso gattino nero; volteggiarono rapidamente per la stanza, e il gattino saltò al di sopra della gatta, che gli graffiò il roseo musino e gli occhi verdi.

— Gatti maledetti! — gridò Giovanna, pestando i piedi per farli fuggire.

— Lisbet, Lyly, presto fuori! — ordinò Elena, accennando la porta, ma con accento affettuoso che stizzì Giovanna, nemica inesorabile dei gatti.

Invece Elena li amava assai: Lisbet e Lyly si rincorrevano e giuocavano sempre, pur amandosi pochissimo.

Lisbet era bianca, grassa e superba; Lyly allegro, pazzo e affettuoso; amava un poco la sua compagna e cercava di amicarsela; la rincorreva e nelle ore d'intimità, quando essa dormiva grave e solenne, leccavale le orecchie rosee, ma essa non si commoveva punto e lo graffiava sempre. Tuttavia qualche volta smetteva la sua olimpica solennità, ringiovaniva e giuocava volentieri. Quando mangiavano graffiava più che mai il grazioso ed avido Lyly, e se non riusciva a farlo allontanare, si allontanava essa, aspettando. Si contentava meglio degli avanzi che di mangiare assieme. Ma all'infuori di questa sua antipatia, era buona, pacifica, e guardava Elena con tanta intelligenza negli enormi occhi biondi, che parea avesse un'anima.

— Che orrori! — disse Elena piegando la lettera. — Possibile che tu sii così ignorante! Non sai scriver due righe.

— Un'altra volta scrivi tu, o metti i tuoi figli! — rispose Giovanna accennando ai gatti.

— Scriverebbero meglio di te! Se scrivi così a Paolo starà proprio contento! Ah, ecco il tuo risolino!

Era un risolino caratteristico, lieto, rivelatore, involontario, che apriva la bocca di Giovanna, descrivendole un cerchio intorno al mento, ogni volta che si parlava di De-Cerere. Dava fortemente ai nervi ad Elena, che sempre si prometteva di non accennare a Paolo, di non ricordarlo mai davanti a Giovanna. Invece vi tornava su, involontariamente, ogni momento; e sempre il sorrisino beato di vanità, arrotondava il grazioso e bianco mento di Giovanna.

La lettera, in doppia busta, fu subito impostata, e Giovanna chiese:

— Quando arriverà la risposta?

— Chissà! Sai bene che la lettera non può arrivar subito al capitano. Fra una cosa e l'altra, io credo ci vogliano due settimane almeno — disse Elena. Ma le due settimane passarono e la risposta non venne.

I giorni si seguivano eguali ed uniformi; donna Francesca badava alla casa, alle due domestiche, ai pasti; Cosimo riceveva qualche cliente, recavasi alla Pretura e al Tribunale, suonava, e ogni notte rientrava a casa alle una e alle due antimeridiane; Elena e Giovanna ricamavano, andavano al passeggio e chiaccheravano.

Oltre le Marchis conoscevano molte altre signore, e ricevevano spesso delle visite.

Parlavano spesso del tesoro, facendo grandiosi progetti, fra lo scherzoso e il serio; ma non arrivando più la risposta, l'entusiasmo cominciò a raffreddarsi, e l'idea di Salvatore Brindis a farsi luogo. Intanto, fin dalla prima settimana zia Agada, ritorn ando dalla messa, entrò dalle sue gentili parenti, ed a Elena, venutale incontro, chiese subito se eran giunte notizie di quella cosa.

— Fate presto voi! — disse Elena ridendo, gentilmente stizzita. — Ci vuol tempo!

Per non dimostrare d'esser venuta per ciò, Agada entrò da donna Francesca; si fecero mille feste, lamentandosi scambievolmente delle imposte, della cattiva annata, dell'infedeltà della gente di servizio, e di tante altre cose.

— E Alessio, sta in casa vostra?

— Sta in casa nostra. Che voleva fare, poveretto?

— Si riammoglierà! — disse Giovanna spensieratamente, non badando all'aria dolorosa assunta da Agada Brindis.

— Si, non pensa ad altro! È tanto addolorato, invecchiato! Non sembra più desso. Vive sempre in campagna, triste.

E cominciò a tesser le lodi di Maria Piscu finchè le calaron le lagrime.

— Che donna ipocrita! — pensò Elena.

— Non dubitate — le disse accompagnandola per le scale — appena arriverà la risposta vi avviserò. Ma io son sicura che non arriverà nulla.

— Così mi dici? — domandò Agada fissandola. — Eppure ho buone speranze. Costanza ha sognato l'arrivo delle signore….

— Sta fresca aspettandole! — pensò Elena — è molto furba, ma farebbe meglio a sognare un matrimonio… col cugino Alessio!

Nell'uscire Agada incontrò comare Franzisca che entrava.

— Ficca il naso anche qui! — pensò salutandola con un lieve cenno di testa.

La donnicciuola veniva per proporre a donna Francesca la compra di una chioccia con dodici pulcini, la cui padrona non voleva darsi a conoscere.

Era questa un'industria di comare Franzisca; faceva spesso di queste vendite segrete, e ci guadagnava assai, perchè se, per esempio, le davano a vender per una lira un vecchio trepiede, essa lo cedeva per due lire; se le consegnavano un anello ad impegnarlo per cinque lire, ne prendeva una o due in più per conto suo; e se gl'interessi erano il trenta per cento essa li portava al cinquanta, serbando per sè il di più.

— La chioccia è grassa, sembra una fata (nientemeno!), i pulcini bellini bellini, sono un incanto. Un prezzo vile, poi, perchè si ha bisogno di denaro: sei lire.

— Portateli a vedere — disse donna Francesca. — Combineremo poi.

— Veda un po' — disse comare Franzisca ad Elena, sul pianerottolo — mi dia un pochino d'olio: si fa una gran carità: è per una donna malata…

— Non ne abbiamo: un altro giorno.

Ma la strega seppe così bene insistere che Elena la favorì. Era molto caritatevole, ma, cosa strana, non amava i mendicanti; però ne beneficava molti per quel profondo precetto, di far bene ai poveri non per ciò che meritano, ma per ciò che soffrono.

Allora — diceva ridendo a Giovanna — compreremo molti terreni e ci porremo a lavorare i poveri.

Allora significava dopo il famoso matrimonio di Cosimo con la madamigella francese; bene spesso ci tornavano sopra, dimenticando anche Paolo; se suonavano — suonavano poco e male — e il vecchio cembalo era scordato, si proponevano di comprarne, allora, uno di seimila lire, dipinto da buon artista; se pulivano il salotto dicevano di tappezzarlo a lampasso, arredandolo con lusso; pensavano di allargare il giardinetto, di fabbricare un'altra ala della casa, di far un viaggio al continente.

Lo dicevano ridendo, ma Giovanna ci credeva assai, ed anche Elena, talvolta, sentivasi tentata di crederci.

Intanto la risposta non arrivava.

Una sera mentre stavano alla finestra, passò Costanza e le salutò.

— State al fresco? Come state?

— Bene, e tu come stai? Vieni?

— No, ho fretta. Tanti saluti. — E parve passar oltre, ma rialzò il viso e chiese:

— E di quella faccenda non si sa nulla?

— Nulla ancora! — rispose Elena.

— Ora mi seccano! — disse quando Costanza fu passata. — Scommetto che é passata per di qui appunto per far questa domanda.

— Non rispondono più! — disse Giovanna scoraggiata. — Proviamo a scrivere ancora?

Provarono, ma il mese di luglio passò e niuna risposta venne.

Zia Agada trovava una scusa o l'altra per visitarle, ed informarsi dell'affare.

— Nulla, nulla! — dicevale Elena con desolazione, e la cara parente se ne andava via rigida, fredda, sorridendo con tristezza.

Un giorno Elena parlò di questo curiosissimo affare a Cosimo.

— Fa veder la lettera — diss'egli.

Mentr'egli leggeva, Elena lo guardò fisso, come Agada aveva guardato suo marito; Cosimo però non rise.

— Può darsi! — esclamò anzi sul serio, e raccontò tre storie di tesori ritrovati, di cui una rassomigliava molto a quella del capitano francese. Se non che si trattava d'un uomo d'altra nazione (pare che la povera Sardegna sia il punto di mira di tutti quelli che da ogni parte del mondo vogliono celar tesori), che aveva sotterrato un'ingente somma in varie cassette di ferro. Una sola di queste, pur troppo, una sola se n'era rinvenuta, con dentro ventimila lire in oro, ma ad ogni modo era qualche cosa!

Cosimo giurò sul suo onore che il fatto era vero, ed Elena disse ridendo:

— Meno male che questa volta si tratta d'una sola cassetta, e d'acciaio. Così ritroviamo o tutto o nulla!

— Eh, non rider così! — disse Cosimo. — Può darsi. Sai cosa ci vuole? Del denaro, molto; e penetrare nel carcere di questo signore, e riuscire ad assicurarsi di qualche cosa…

Parlava scherzando e sul serio?

Elena non sapeva spiegarselo; ma intanto sentivasi suggestionata, e tornava a credere…

— Lascia, lascia — disse Cosimo, tirandosi con due dita il pizzo rosso, e guardando verso la finestra — oggi stesso faccio un telegramma al direttore delle carceri militari ov'è il capitano. Se mi assicuro della sua preziosa esistenza, lascia fare a me…

— Senti — fece Elena sorridendo — zia Agada vuole ammogliarti con la signorina Honoré.

— Diavolo! Ci penseremo poi! — diss'egli, tirandosi il pizzo in su: e a proposito trovò il modo di dire, ridendo, d' aver scoperto che Peppina Marchis era innamorata di lui. E parlò male della bella signorina.

Quando; in certi momenti di buon umore, egli lasciavasi andare a delle intimità, diceva le cose più orribili, le rivelazioni più meravigliose, con la massima noncuranza: le sue relazioni d' ogni genere, e la vita che menava, gli permettevano di conoscere tutti i pettegolezzi, gli scandali più o meno intimi, gli avvenimenti di tutte le famiglie della città; nessuna cosa gli giungeva nuova, e perciò ascoltava con indifferenza ogni maldicenza.

Pretendeva che le sorelle e la madre non si occupassero dei fatti altrui; ma se qualche rarissima volta si lasciava in lor presenza andare a delle confidenze, rivelava cose veramente meravigliose.

Così in quel giorno raccontò storielle proprio amene sul conto di Peppina Marchis, ma Elena disse.

— Non saran vere. E poi è bella e ricca.

— Ma che ricchezze! — gridò Cosimo. — La donna ch'io sposerò non sarà ricca, ma pura come l'aria, innocente e buona.

— Maria? — domandò Elena, ma egli si mise a ridere beffardo.

Eppure Maria, una ragazzina di diciotto anni, che abitava in faccia a casa loro, era una bimba pura come l'aria, innocente e buona, pallida e con la treccia ancor pendente sulle spalle; evidentemente innamorata di Cosimo, lo aspettava sempre alla finestra, arrossiva nel vederlo, e per lunghe ore sognava presso il davanzale; ei se ne avvedeva, ma Maria era troppo esile ed umile per attirare i suoi sguardi.

Incapace di nutrire una passione profonda, egli credeva che tutte le fanciulle civettassero per trovar marito, e benchè la sua vanità restasse lusingata dalla muta adorazione di Maria, pensava crudelmente:

— Cerca già marito! Piccola civetta!

La trovava poi troppo insignificante per degnarsi di guardarla neppur per passatempo: gli dava soltanto fastidio, talvolta disgusto.

Era figlia d'un piccolo impiegato, e senza esser brutta appariva insignificantissima, possedeva soltanto bei capelli castanei e occhi limpidi, chiari e puri come rugiada.

— Ho dimenticato il francese — disse Cosimo, ripigliando l'argomento del tesoro — ma da stassera voglio riprenderne l'esercizio. Lo parleremo con De-Cerere.

Prese la lettera e la mise nel taschino del gilè; però prima d'uscire cambiò vesti e la dimenticò. Elena la ritrovò e se la riprese pensando:

— Se la desidera me la chiederà: qui qualcuno potrebbe vederla.

Sperava che la sera Cosimo ne avrebbe riparlato: forse aveva già telegrafato, forse sapeva qualche cosa: ma egli rientrò sul tardi, cenò su due piedi e uscì di nuovo pigliandosi la chiave. Neppur l'indomani parlò; sembrava di mal umore ed Elena non osò interrogarlo.

Entrambe le sorelle gli usavano poca confidenza; lo amavano assai, ma il suo carattere strano, la poca cura ch'egli dimostrava loro, le allontanava da lui, le metteva in soggezione. Nè esse, nè donna Francesca si dissimulavano i suoi difetti, ma siccome gli attribuivano anche delle splendide qualità, gli nutrivano una stima ed un affetto da non dirsi, che nella madre raggiungeva talvolta l'adorazione. Nella boriosa indifferenza del figlio ella scorgeva un segno di superiorità, di nobiltà di sangue; persino nella poca volontà di lavorare vedeva un segno di lontana aristocrazia.

Del resto donna Francesca era il più bel tipo d'antica dama sarda; alta, delicata, con profondi occhi neri, profilo puro e carnagione ancor fresca. I capelli grigi teneva pettinati all'antica foggia sarda, divisi per lungo e per largo, in modo che le scriminature segnavano una croce sulla sommità della testa; e forse ciò era anche un segno di divozione, un preservativo contro le tentazioni.

Vestiva sempre di nero, e teneva spesso in testa un fazzolettone bianco che le dava un'aria monacale.

Lavorava e vigilava sempre; non era al corrente della vita moderna, ma compativa i nuovi costumi; non faceva della maldicenza, non si adirava mai, non aveva alcuna malizia. Inoltre eseguiva dolci e pasticcini meravigliosi, come soltanto le monache sanno farne e coltivava con le sue mani il piccolo giardinetto.

Non aveva alcun sentimento di malignità; per ciò permetteva che le figliuole ricevessero da sole il signor De-Cerere e qualche altro amico di famiglia, sicura che le sue bimbe, rassomigliandole, erano abbastanza savie e serie per preservarsi da sè stesse. Ed Elena lo era di certo, ma Giovanna, per la sua indole e per la sua estrema giovinezza, non lo era abbastanza; e chissà come il romanzetto col signor De-Cerere sarebbe andato a finire, senza un semplice avvenimento accaduto verso la fine d'agosto.

Dopo il fittizio entusiasmo di Cosimo per la storiella del tesoro, Giovanna aveva ripreso il filo delle sue ambiziose speranze; ma nessuna notizia giungeva, nè il fratello sembrava ricordarsi del fatto.

Un giorno in cui lo vide di buon umore Elena gli chiese se aveva fatto il telegramma.

— Sicuro, l'ho fatto. Il capitano esiste realmente, è prigioniero militare; ha una figlia in collegio!

— Ma davvero, ma proprio davvero? — disse Elena guardandolo fisso, chiedendosi ancora s'egli scherzava o no. Non seppe spiegarselo; egli sembrava beffardo e sembrava serio; ma per quante preghiere e investigazioni gli si fece, non mostrò la risposta del dispaccio. L'aveva forse smarrita?

In quel giorno e nei seguenti si riparlò assai del fatto, e Cosimo diceva di voler un giorno o l'altro partire per la Francia, ma poi se ne dimenticò nuovamente, tutto occupato nella sua opera dei Cacciatori sardi ed in altre musiche…

— Senti — disse un giorno Giovanna, mentre con Elena pulivano il salotto, dove non lasciavano entrare le manaccie delle domestiche — facciamo una cosa; parliamone a Paolo.

Elena che, con le maniche rimboccate e un fazzolettino bianco in testa, gittava foglie di vite per pulire il tappeto, si fermò stupita e indignata e — cosa, cosa? — domandò. Giovanna, ritta sopra una sedia, puliva i quadri, e proseguì tranquilla la sua faccenda, ripetendo:

— Ho detto di parlarne a Paolo: Cosimo non farà nulla.

— Cosa, cosa, non ho inteso bene! — disse Elena volgendo la cosa in burla.

— Se non hai inteso te lo ripeterò ancora; non pigliar la cosa in questo modo, tanto non abbiamo nulla da perdere.

— Che ragazzina sciocca! — esclamò Elena, come fra sè. — Eppure non par così.

— Perchè sono sciocca? — domandò Giovanna, offesa non per questo, ma per il titolo di ragazzina.

— Parlare d'una cosa criminale ad un giudice?

— Non sarà al giudice, ma all'amico nostro.

— Amico tuo! — disse Elena vivamente.

— Amico nostro; e non ci tradirà, non solo, ma ci aiuterà.

— Lasciami, lasciami stare la testa — disse Elena, come supremamente annoiata. — Fammi il piacere di non pensar più a questa pazzia. Che male ho fatto io a parlarne! Ora le Brindis diffidano, Cosimo fabbrica romanzi, tu fai delle sciocchezze, io sono stufa di tutte queste cose. La fortuna non si trova così; si acquista col sudor della fronte, e se monsiù Honorè è in prigione può restarci benissimo. Ma dà attenzione tu, chè caschi; ti vedo e non ti vedo…

Infatti Giovanna era salita sulla spalliera della sedia e spazzolava le tende quasi sospesa per l'aria. Non rispose al sermone di Elena e seguì il filo dei proprii pensieri.

— Sì, bisognava parlarne a Paolo: le avrebbe aiutate; avrebbe egli stabilito se era una cosa seria o burlesca. Solamente perchè glielo direbbe lei si porrebbe subito in moto, dilucidando tutte le cose. Era così buono e cortese, così innamorato di lei! Quante volte non le aveva detto di chiedergli un sacrifizio?

— Stiamo a veder ora cosa saprà fare; forse ne sa già qualche cosa, perchè Cosimo dice che quando si vedono parlano sempre in francese e che anche ier sera han tenuto una lunga conversazione.

Eran più giorni che Giovanna pensava a ciò: non era questa una buona occasione per provare anche la devozione, la galanteria, l'amore di Paolo, che si esplicava in tutti i modi, fuorchè in una buona dichiarazione? Temeva egli forse? Era dunque un incoraggiamento il confidargli un segreto e chiedergli aiuto. Ed egli, per farsi ben volere, avrebbe fatto tutto il possibile per contentar la sua amata. Giacchè d'esser amata seriamente ella era ben certa. Per S˙ Giovanni Paolo le aveva fatto un dono gentile, e nelle visite seguenti l'aveva più che mai corteggiata, lasciando sempre capire che non si spiegava bene perchè non sperava nulla, perchè non pretendeva nulla, perchè era vecchio e desiderava per lei una completa felicità, quale egli non poteva darle.

Ma ella era ben sicura che, vedendosi incoraggiato, egli si dichiarerebbe di certo. Per fortuna però il suo cuoricino non era per anco toccato, e lo provavano evidentemente due fatti curiosi. Rideva senza offendersi delle pungenti parole d'Elena, specialmente quando si toccava il tasto divertente del padre di Paolo, della cui esistenza dubitavano; e dopo cena, quando donna Francesca si ritirava, ed esse restavano leggendo o alla finestra o disegnando ricami, negli angoli dei libri o dei disegni ella tracciava originali e goffe macchiette che la rappresentavano a braccetto di De-Cerere. Nessuna delle caricature d'Elena era esilarante come queste macchiettine che la rappresentavano arrampicata al braccio del rispettabile sposo, al quale metteva in mano certi bastoni inverosimili e parapioggia aperti e certi gibus e code di rondini che lo rassomigliavano ad un vecchio corvo.

Ne rideva, guardandole, quasi non fosse fatto suo; ma in fondo, quando trovavasi realmente davanti al suo amico, provava un fascino dolce e arcano. L'accento di Paolo era soave ed insinuante, l'occhio suo profondo e buono; tutto il suo aspetto s'imponeva per la stessa stima rispettosa che inspirava.

Giovanna non era propensa ai sogni come Elena, ma non avendo ancora amato sarebbe forse bastato un solo punto per suggestionarla ed affascinarla del tutto.

Ma una sera d'agosto, in cui Paolo De-Cerere sentivasi mortalmente annoiato, andò a batter la porta di casa Bancu: entrando incontrò Cosimo che usciva.

— Al diavolo! — pensò l'avvocato, che avrebbe voluto nascondersi.

Anche De-Cerere si morsicò leggermente il labbro superiore pensando che sarebbe stato meglio venir più tardi. Tuttavia si fecero un mondo di complimenti, e Cosimo voleva ad ogni costo restare, e l'altro insisteva perchè uscisse, perchè non si disturbasse, mentre era egli che non si voleva disturbato nella sua visita. Intanto Cosimo lo accompagnò fino al salotto, ed entrata Elena intese la questione e disse, porgendo una poltrona a De-Cerere:

— Ma sì, Cosimo non ha niente da far fuori. Lasci fare; ci eseguirà la sua nuova musica.

— Sciocca! — esclamò Cosimo fra sè, adirato e guardandola a stracciasacco.

— La eseguiremo stassera con accompagnamento di violino — disse con estrema gentilezza. — Lei si degnerà restare.

— Sì, sì, ma intanto non si disturbi, avvocato — continuava l'altro.

Il pensiero che Cosimo restasse lo mise di malumore; si pentì quasi d'esser venuto, ma insistè così gentilmente perchè l'avvocato non si disturbasse, che l'avvocato se n'andò via allegramente, senza accorgersi di esser mandato via.

Paolo rimase però con un po' di malumore: Giovanna tardava ad entrare ed Elena, benchè non cessasse di sorridere, gli sembrava più fredda del ghiaccio. Il tempo poi era afoso e pesante; al salotto imcombeva una strana luce grigiastra, smorta, e per la finestra penetrava un leggero soffio di scirocco, che scuoteva i nervi e rizzava i capelli col suo odore asfissiante di nuvole umide, di paludi lontane, di mare in burrasca.

— Che tempo — disse Elena, tanto per cominciare — par però che voglia piovere. — E guardò verso la finestra.

Parlavano ancora del tempo, quando entrò Giovanna in gran toeletta: era pallida e nervosa, ma sorrideva e pareva allegra.

— C'era bisogno di ciò, mentre sapeva che io vesto da casa! — pensò Elena, che indossava una semplice blusa d'indiana. E cessò di sorridere e si fece più piccina di quel che era, mentre Giovanna, che con poco tatto davvero aveva messo un vestito tutto nastri e splendidi scarpini, faceva un notevole contrasto con lei. Dopo tutto le importava poco, non desiderando punto attirare l'attenzione di Paolo, ma le dispiaceva la poca delicatezza di Giovanna, e quest'incidente, unito al soffio dello scirocco che giungendole per le spalle le inumidiva i riccioli della nuca e le dava un brivido nervoso, finì col mettere di malumore anche lei.

Tenendole le mani, Paolo fece un lungo complimento a Giovanna, dopo di che ella si sedette in faccia alla finestra coi piedini in mostra, e la conversazione parve cominciare con dei dunque abbastanza animati. E si riprese a parlar del tempo, della noia, di una festa campestre, di Cosimo e della sua musica (Paolo non faceva mai suonare le signorine, non ignorando che ne sapevano poco); ma Elena, evidentemente annoiata, parlava poco, e Giovanna s'incantava guardando la spalliera del piano, che rifletteva gli arabeschi delle cortine.

Anche Paolo perdeva ogni tanto il filo del discorso; non era in vena come le altre volte, non faceva complimenti e a momenti pareva inquieto, perplesso e timido. Giovanna pensò: — Sta a vedere che stassera si dichiara!

Ma egli si contentava di ammirarle i piedini, e per esprimer in qualche modo la sua ammirazione cominciò a dire, muovendo la sua mazza elegante, che le sarde avevano quasi tutte piedini da fata.

Elena arrossì, nascose i suoi, ch'erano piccolissimi, e guardò violentemente Giovanna perchè, invece di fare altrettanto, sorrideva compiacendosi delle parole di Paolo.

Da ciò si parlò di piedi e di piedini, e naturalmente si ricordarono le chinesi e le giapponesi e il discorso volò in paesi lontani, in città belle, in viaggi meravigliosi, e Paolo ripetè d'aver molto viaggiato. Elena pensò:

— Se è vero o no lui lo saprá!

Egli riparlò di Parigi, e Giovanna a questo punto guardò Elena, ed Elena corrispose al suo sguardo, ma alzando leggermente le spalle e sporgendo il labbro inferiore come per dire:

— Ma fa pure quel che vuoi. Che m'importa!

— Parigi! — esclamò Giovanna, quando Paolo finì di raccontare le meraviglie vedute nell'Esposizione del 1878 — sa che noi dovremmo farvi un viaggio?

Siccome gli occhi le splendevano insolitamente, Paolo prese la cosa sul serio e domandò il perchè di tal viaggio.

— Se sapesse! disse Giovanna. — Ma si può affidarle un segreto?

— S'immagini! — diss'egli quasi offeso; e guardandola maliziosamente soggiunse: — Si tratta d'un viaggio di nozze?

— Oh, no, no! — Giovanna chinò gli occhi, poi guardò Elena, quasi supplicandola di parlar lei.

Dall'interesse un po' sarcastico con cui Paolo prendeva la cosa, Elena capì che era inutile, forse pericoloso, parlare; d'altronde una voce segreta, i suoi nervi scossi e vibranti, le dicevano che dall'esito di quella conversazione dipendeva l'avvenire di Giovanna; e parlò. Prese un tono fra l'ironico e il serio e raccontò la storia, senza far nomi; e Paolo ascoltò sorridendo, con attenzione speciale, ma senza dimostrare alcuna curiosità. Giovanna lo guardava acutamente in volto; credeva ch'egli interrompesse Elena con domande particolari; che capisse perchè gli si rivelava il segreto; che si mettesse subito al loro servigio.

Non avvenne niente di tutto questo; egli ascoltò cortesemente, e benchè Elena notasse una crescente ironia nella sua attenzione, egli fu abbastanza gentile per non deridere, nè mettere in dubbio la storia.

— Può darsi, può darsi — disse, guardando Elena, e accarezzando su un tavolinetto vicino un grosso spartito rilegato in pelle rossa. — È una cosa per lo meno verosimile, e qui in Sardegna si raccontano tanti fatti di questo genere. Dunque è lei che va a Parigi, Elena? Ma sì, vada, vada: fa molto bene viaggiare, specialmente quando si é intelligenti come lei!

— Sì, molto intelligente! — esclamò essa ridendo e chinando gli occhi.

— Ma sì, intelligentissima! Non chini così modestamente quegli occhioni. Già, tutte le sarde sono intelligenti. Anche lei, Giovanna, non è vero? — e si volse sorridendole e facendole un cenno con la testa. — Lei anzi è più furba, più viva di Elena. Ma Elena è così buona, così sincera!

Qui fece un gran discorso, lodando entusiasticamente le sarde.

— Eh, gli piacciono le sarde all'amico! Se le conoscesse bene! — pensò Elena.

Del tesoro come se non se ne fosse parlato. Giovanna diventava più pallida ancora, con gli occhi spalancati, pieni di stupore e tristezza. Che orrenda delusione soffriva!

Alfine Paolo si ricordò; tornò sull'argomento, augurando buona fortuna, e dando consigli sul come viaggiare, sul modo di comportarsi a Parigi ed in Francia. E sempre Elena scorgeva un filo di sarcasmo nelle sue parole cortesi, e rispondeva anch'essa con ironia, quasi si trattasse d'uno scherzo: ma ogni tanto guardava Giovanna, dicendole con quel suo sguardo vivo e parlante: — Vedi il tuo amico?

Eh, lo vedeva benissimo, la povera Giovanna, e ne provava un'ira, un dolore da non dirsi. E ciò che più le dispiaceva era appunto la sua delusione; esagerava le cose, le pareva che Paolo le pigliasse in giro, divertendosi e burlandosi di loro.

E nella sua nervosa stizza infantile pensava orribili cose. Credeva o non credeva alla storia il signor De-Cerere? Forse credeva, e capiva benissimo lo scopo della confidenza loro, ma fingeva di non crederci e non comprendere per potersi poi, chi sa? servire per conto proprio della rivelazione; forse non credeva e parlava con quell'ironica cortesia per meglio burlarsi di loro?

Queste orrende cose pensava Giovanna, e mentre le pensava osava guardare curiosamente il suo caro amico, quasi lo vedesse la prima volta.

Ah, sì, era vecchio davvero; la sua barba era tinta, i suoi denti falsi; le sue parole eran splendide e false come i suoi denti!

— Forse crede che gli abbiamo parlato di ciò per chiedergli in prestito dei denari! — pensò ruvidamente, e ne provò una grande umiliazione (benchè in fondo la cosa stesse in un modo quasi simile a quello), e per dimostrare il contrario cominciò ad ostentare un'aria da gran signora, stizzosamente:

— Sicuro, sicuro, appena Cosimo avrà tempo, perchè ora ha tanto da fare (non era vero), andrà, scoprirà, e se è uno scherzo profitterà dell'occasione per viaggiare; tanto ha sempre intenzione di fare un lungo viaggio!

Elena la guardò con meraviglia.

— Ma farà benissimo! — esclamò Paolo, sempre cortesemente. — Anzi si faccia portare anche lei, e così risparmierà il volgare viaggio di nozze, ch'è noiosissimo.

— Che ne sa lei? — domandò Elena ridendo.

— Oh, non c'è pericolo ch'io faccia viaggio di nozze, stia tranquillo…

Egli sentì la domanda un po' impertinente d'Elena, ma preferì rispondere all'uscita di Giovanna.

— Oh, io sono tranquillissimo! — esclamò, facendo un inchino con la testa — ma perchè, se è lecito, ella non farà viaggio di nozze?

Giovanna si mise a ridere dicendo:

— Perchè qui non si usa, e poi perchè… mi manca lo sposo!

— In quanto a ciò!… Ella è ancora una bimba; non le mancheranno mai adoratori e non avrà che da scegliere. Anzi, ho sentito dire…

Si fermò sorridendo, con quel suo sorriso fine, che gli faceva chinare gli occhi e mostrare i denti. Parea sorridere fra sè.

— Che ha sentito? — domandò Giovanna attentissima.

— Fra noi tutto é permesso, non è vero, benchè loro manchino un po' di confidenza con me…

— Ma s'immagini! — cominciò Elena, ma egli non la lasciò proseguire:

— Non m'immagino nulla, non m'immagino nulla! Per carità, non mi sgridi, Elena; ho detto per scherzo. Io credo a tutto ciò ch'ella dice, ed anche ora crederò a quanto vorrà dirmi.

— Dunque?

— Dunque mi dissero che le signorine Bancu sono entrambe fidanzate.

Giovanna pensò: — È per questo che non osa dichiararsi? — e col suo fare sventato domandò vivamente:

— Con chi? con chi?

— E lei può pensare — disse Elena con calma — che se una tal cosa avvenisse, il nostro amico non sarebbe il primo a saperlo?

— Brava! — esclamò egli, entusiasmato dalla franchezza e gentilezza d'Elena, e presale una mano, gliela strinse fra le sue.

Alle insistenti domande di Giovanna disse poi i nomi dei pretesi fidanzati; per Elena quello dell'antico innamorato, ed essa l'ascoltò senza batter palpebra; per Giovanna quello di un amico di Cosimo, che frequentava la casa.

— Non è vero! — assicurò fermamente Elena, e si vide creduta sull'istante.

Invece Giovanna prese le cose sul vivo, e siccome Paolo le mostrò meno fede, e prese più interesse al suo che al fidanzato di Elena, disse un mondo di sciocchezze.

Cominciò a sparlar del giovine, assicurando che le era antipatico. Elena si agitò, fece un gesto di disgusto, la guardò severamente, ma ella continuò a ciarlare.

— Chì sa, chi sa, chi sa? — disse Paolo, sempre sorridendo. — Ella è così maliziosa!

— Ma che maliziosa! — esclamò essa arrossendo.

— Le assicuro che non è vero….

— Che ella non è maliziosa?

— No, che non è vero ciò che le dissero: son tutte malignità, sciocchezze della gente. Non possono veder una persona entrar in una casa che subito non dicano malignità. Non si può aver relazione con nessuno. Anche per lei, anche per lei non dissero…..

Elena, mortificata all'estremo, a questo punto chiuse gli occhi, proponendosi di batter Giovanna, come una monella, appena rimaste sole.

Ma Paolo ascoltava benignamente, e disse inchinandosi:

— Lo so, lo so, ed è per me un grande onore!

— Sì, ma intanto….

— Ma intanto vuol dire che tutti l'ammirano, e….

— Che razza di discorso è questo? — pensò Elena riaprendo gli occhi.

— ….. Le dispiace forse? — proseguiva De-Cerere. — Vuole che non ci venga più?

— Oh, non dico questo! — disse Giovanna, voglio dir solo che la gente maligna su tutto, e vede sempre cose insussistenti!

Non era questo il momento opportuno perchè Paolo De-Cerere aprisse il suo cuore e si spiegasse chiaramente? In principio della conversazione Giovanna aveva dichiarato, con sommo dispiacere di Elena, che le piacevano gli uomini d'etá, serî e posati; poi aveva dimostrato un certo desiderio di maritarsi, e infine diceva che il suo cuoricino era libero.

Perchè dunqae Paolo non si spiegava?

Ella, già raffreddata dal contegno preso dall'amico circa il tesoro, non badò molto a ciò, ma ci badò Elena, guardando fissamente il giudice, quasi fosse un reo, con la fronte aggrottata. — Da quel momento la conversazione diventò gelidissima, e non potè riscaldarla neppure il caffè, che una domestica servi poco dopo.

A un certo punto, poi, entrò silenziosamente Lyly, giocò sotto il divano, arrotolò un angolo di tappeto, e si mise a far capitomboli meravigliosi. Giovanna batté il piede per farlo uscire, e siccome Lyly non intese con le buone, ella lo prese per un'orecchia e lo scaraventò fuori della porta aperta.

Il poveretto parve cader dalle nuvole, non diede un gemito, ma s'aggirò su se stesso, colto da vertigine.

— E va! — disse Elena con rimprovero, mentre Paolo esclamava:

— Poverino! — E difese questa razza di animali graziosi e calunniati; il che accrebbe il dispetto di Giovanna.

Prese un contegno gelido e stizzoso di bimba viziata, e nonostante il suo bel vestito e le sue scarpine, quella sera riusci grandemente antipatica a Paolo.

Egli se ne andò tardi, ma la visita non lo lasciò, come le altre volte, soddisfatto; e appena fu uscito, Giovanna cominciò a parlarne amaramente male.

Elena restò tranquilla, e disse:

— E lo avevo detto io? Ora sei contenta!

— Ma che razza d'uomo è Cosimo? — esclamò poco dopo. — Disse che ieri sera aveva conversato a lungo in francese, con Paolo, ed invece hai inteso lui? Disse che, prima di stassera, non avvicinava Cosimo da due settimane.

— Chi sarà il bugiardo? — domandò Giovanna. E la domanda restò senza risposta.

Elena uscì scuotendo la testa, mentre Giovanna nervosa e triste si sedeva davanti alla finestra, mettendosi una sedia al fianco, e abbandonandovisi con stanchezza, e incontrò nell'andito il povero Lyly che si sfregava contro il muro.

— Cosa ti ha fatto quella sciocca di Giovanna? — gli chiese, chinandosi e sfiorandogli la vellutata schiena.

Giovanna sorrise fra sè, compassionando Elena che ragionava con un gatto, e pensò che avrebbe avuto tanto piacere a pigliar per le orecchie e sbatter contro il muro anche un personaggio più grosso e serio di Lyly.

— Andiamo via — disse Elena pigliando il gattino fra le braccia.

Giovanna non si svestì, sperando che Cosimo tornasse coi concertisti della sua musica, e restò presso la finestra.

Il vento s'era calmato, ma grandi nuvole umide e tetre oscuravano il cielo, rendendo la sera desolata e triste.

Anche Maria stava alla finestra, più pallida del solito, e Giovanna vedendola pensava con cattiveria:

— Giacchè ella è alla finestra Cosimo non tarderà a rientrare: ella lo sa!

Ma Cosimo non rientrava, e ad un tratto la testina di Maria ritirossi vivamente dalla finestra.

— Che c'è? — pensò Giovanna, sporgendosi sul davanzale. — Ah, è Peppina che passa! Viene forse in casa? Sì, viene in casa. Che noia!

Si ritirò anch'essa, per non esser veduta, ma restò presso la finestra, e vide che Maria, passata la signorina Marchis, si affacciava timidamente.

— Quella si ch'è innamorata! — pensò Giovanna, tra il beffardo ed il pietoso. — E di chi poi, povera Maria! Se tu sapessi che razza d'uomo è il tuo ideale? Eppure mi piace più di Peppina, benchè sia povera. Io la preferirei. Mi è simpatica, le voglio bene. Ah, vengono qui, le Marchis! Che noia! Meno male che Paolo è andato via!

Pensando a Paolo il volto le si rabbuiò; per un momento restò incantata, con gli occhi smarriti, ma poi, nonostante la sua tristezza, s'allontanò dalla finestra saltellando, e giunta alla porta, si volse e fece un cenno ironico d'addio verso Maria:

— Addio, gelosina!

Quella sera donna Francesca ebbe tempo di mettersi un po' in toeletta; quando entrò in salotto la signora Marchis le fece un mondo di feste, squadrandola maliziosamente, ma Peppina restò fredda e rigida, pur ridendo graziosamente e scuotendo il suo splendido ventaglio ricamato.

Indossava un ricco vestito azzurro e sembrava più bella, più gelida e sostenuta del solito. Quanti anni aveva? Fors'era più vicina ai trenta che ai venti, ma la linea bianca e fresca delle sue guancie ne dimostrava diciotto al più; pareva una infantile statua, pura e gelata, senza vita, nè passioni, ed era impossibile che questa splendida e fredda creatura avesse avuto tutti gl'innamorati e le avventure che le lingue maligne le affibbiavano.

Elena la guardava con una certa tristezza ed umiliazione; pensava che gli amici di Cosimo quella sera l'avrebbero trovata accanto a Peppina più insignificante del solito.

Infatti fu così. I tre amici che Cosimo introdusse rumorosamente nel salotto, vista la signorina Marchis, parvero non accorgersi delle padroncine e dimenticarono anche il galateo.

Cosimo invece sembrò contrariato di trovarci le Marchis e solo quando fu seduto davanti al piano domandò alla signora come stava.

— Bene. E lei, vedo che sta bene.

— Eh, grazie a Dio, si sta benone — diss'egli con indifferenza, affaccendato nel frugare le sue musiche.

Chiamò Elena e le disse qualche cosa a voce sommessa: ella uscì, e rientrando vide il signor Ciriaco, quello che doveva accompagnare col violino, ritto presso Cosimo; gli altri due amici assediavano Peppina, e Giovanna avea lor rivolto graziosamente le spalle, dal momento che anch'essi non s'occupavano di lei. Elena si assise anch'ella vicino alla madre, rivolta alla signora Marchis, e credè veder questa rispettabile madama rallegrarsi perfidamente perchè i cavalieri s'occupavano soltanto di sua figlia. Allora, per una buona reazione, Elena si sentì superiore a queste piccole miserie, e trovò ridicoli i due giovinotti. Lo erano infatti oltre ogni dire. Uno era avvocato in erba, l'altro impiegato: l' avvocato portava occhialini ed era uno sciocco numero uno; faceva la corte, anzi, s'innamorava di tutte le ragazze, belle e brutte; però, trovandosi fra molte, preferiva le belle, o almeno le floride, dimenticandole appena sparivano. Si rivolgeva poi subito ad altre; il suo cuore non stava vuoto un momento, forse perchè la sua testa era ciò che di più vuoto si possa immaginare. L'impiegato, un continentale biondo e scipito, con certi occhi color di lavagna, stretto amico dell'avvocato, gli contrastava spesso le sue conquiste amorose. Accadeva talvolta che la vittoria restava al biondo, e l'avvocato allora rivolgevasi altrove; ma sul meglio rivedevasi il pericoloso amico tra i piedi.

Il signor Ciriaco, invece, alto, magro, con baffi da uomo disperato, posava da scettico, da personaggio importante, appassionato solo per le arti belle. Temeva d'esser messo in caricatura da Cosimo, e ne parlava orrendamente male; ma lo seguiva da per tutto, gli rendeva dei servigi e lo adulava. E con tutta la sua serietà e la sua falsa distinzione — si credeva distintissimo — diceva insolenze e impertinenze anche davanti alle signore; inoltre, nei momenti di buon umore, esercitava l'ottima virtù d'imitare per beffa molte rispettabili persone, come il pretore, il presidente, certi avvocati, certi preti, ed altri individui che non lo molestavano punto. Coglieva a meraviglia il lato ridicolo d'ogni persona e lo riproduceva perfettamente; inoltre faceva il gatto, il cane, il gallo ed altri animali.

E niente può immaginarsi di più ameno di Cosimo Bancu che faceva la caricatura del signor Ciriaco imitante gli altri!

Quella sera il Ciriaco, ritiratosi presso Cosimo che frugava fra le sue carte musicali, guardava acutamente l'impiegato e l'avvocato, fissandone tutti i contorcimenti, i gesti e le manovre, per poterle certo imitare l'indomani.

Peppina, fredda ai complimenti dei due amici, smuoveva ogni tanto la sua poltrona per mettersi in vista di Cosimo; ma egli non le badava, intento sempre a ragionar col Ciriaco, che restava con le mani sulla schiena e appoggiato alla parete. A un tratto, addensandosi l'ombra, Bancu accese le steariche del piano, e nella luce gialla che illuminò tutto l'angolo della parete, mentre nel resto del salotto s'indugiava l'ultimo chiarore della sera grigia, il suo volto apparve più pallido e fatale del solito. Il Ciriaco lo guardò rapidamente, osservandogli poscia le bianche mani scarne dalle unghie lunghe lievemente scanalate, e ancora una volta pensò che quel tipo era inimitabile. Avea molte volte provato a contraffare quella fisionomia seria, più sarcastica di tutti i volti beffardi, e la voce e il gesto di quelle aristocratiche mani nervose: invano, non ci riusciva. Invece Cosimo, quando imitava il Ciriaco che lo contraffaceva, destava la più viva ilarità.

A un certo punto il Ciriaco si mise ad osservare la signora Marchis, trovandone un soggetto adattissimo per caricatura. Ella, al solito, parlava fitto, fitto, ed anzi non lasciava parlar nessuno: si intendeva di tutto, fuorchè di cose ragionevoli, e se i suoi interlocutori non le tenevano dietro, o l'interrompevano, o non osando tanto, stavano zitti, essa li qualificava per stupidi.

Era brutta, vaiuolata, con grossa testa e corpo mingherlino: guardava fisso, vestiva con stravaganza e faceva l'aristocratica: aveva l'eccellente abitudine di far capire ogni tanto ch'era ricca, che faceva cucinar ogni cosa col burro, che sedeva sempre in poltrona, che molte persone dovevano dei bei denari a suo marito: siccome poi era imparentata con due o tre persone altolocate, se ne vantava con ogni nuova conoscenza. Appena presentatale diceva: — Io sono nata in tal paese, mio marito è il tal dei tali e copre tal carica. — Era un grosso impiegato. — Ah, lei è il tale? Già, l'ho sentita nominare da mio marito. Conosce lei mio zio, capo-sezione al Ministero delle finanze? Mia madre è sorella del tale, il quale fa la tal cosa, e mio cugino, che vive a Lione, ha sposato un'inglese milionaria!

Poi non chiudeva più bocca; entrava in particolari intimi, faceva capire che sua figlia aveva i pretendenti a sacchi.

Cosimo non la poteva soffrire, e quella sera ritardava il concerto colla speranza di vederla ad andarsene: svanita questa speranza, fece un cenno al Ciriaco, come per dirgli: Cominciamo, figurandoci che questa gente non ci sia! L'altro s'assise, accomodando alla meglio le sue lunghe gambe e i suoi piedi enormi, e abbracciò appassionatamente il suo strumento, inchinando la testa a destra, e tendendo un orecchio grande e rosso come una foglia di pampino secco.

Da quel momento egli non fu più di questo mondo; non vide, non pensò più d'imitare nessuno; i suoi baffi si rallentarono, gli occhi strizzandosi si allungarono, le mascelle si sporsero, e tutta la sua fisionomia prese una meravigliosa aria giapponese.

Il concerto cominciò: l'avvocato fece un salto, ed esclamando:

— Oh, oh, cominciamo? — andò ad appoggiarsi al piano.

L'impiegato, evidentemente commosso, raddrizzò la schiena, e disse con sentimento:

— Dopo io canterò!

— Qualche cosa bella? — chiese Peppina.

— Oh — fece il biondo, con modestia — una mia poesia, musicata da Bancu.

Intanto Peppina colse l'occasione per spinger la sua poltrona ancor più in là, e sorrise ad Elena e Giovanna, quasi non le avesse ancora vedute.

Ma esse rimasero fredde, e Giovanna, per dimostrarle che non si curava di lei, com'essa le avea trascurate, s'avvicinò ad Elena, e appoggiandosele lievemente sopra, le attirò una mano e gliela strinse. Ma avendole Cosimo detto: — Perchè non accendi i lumi? — rizzossi subito sulla punta dei piedi, s'avviò e urtò una poltrona contro l'avvocato.

— Oh, scusi! — esclamò egli, e Giovanna gli rise in faccia, perchè veramente toccava a lei scusarsi.

— Ah, — disse Peppina, col suo riso di cristallo rotto, — perchè fai luce, Giovanna? Si vede ancora: è più poetico così!

— Ah! — fece fra sè Giovanna, imitando beffardamente il riso dell'amica. — Perchè sarebbe più poetico?

E accese tutti i lumi. Nella finestra tremolava ancora il crepuscolo, e in lontananza, su una striscia di cielo rischiaratosi chiaramente, si delineavano nitide e oscure le ultime montagne dell'orizzonte. Giovanna si fermò a guardare, e fu ripresa da una grande, intensa tristezza.

Cosimo e l'amico attaccavano con violenza il preludio dei Cacciatori: le note del piano e i trilli del violino si fondevano in un fragore speciale che pienava il salotto fin dentro i cassettoni dei tavolinetti. In questo preludio dovevasi sentire il solenne e selvaggio paesaggio delle montagne del Gennargentu, ove i muffoni, i cervi ed i cinghiali abbondano come le formiche in altri paesi: il violino doveva specialmente profilare le alabastrine cime nivali, riprodurre l'acuto profumo dei rododendri; la nota pedale del cembalo dare la sensazione dell'immenso ed arcano silenzio.

In realtà non davano nè riproducevano nulla, cioè, sì, facevano qualche cosa, ma Giovanna scorgeva il Gennargentu solo dai vetri della finestra, nell'estremo orizzonte che s'oscurava.

La signora Marchis taceva finalmente, profittando del generale raccoglimento, per fare studi di critica sui varii personaggi: Peppina sorrideva, sfolgorante di bellezza, ed anche Elena, leggermente abbandonata sulla spalliera della sua sedia, come immersa in un sogno, pareva bella alla vivissima luce dei lumi. Era rosea, coi capelli tutti rialzati sulla fronte purissima. L'avvocato degnavasi finalmente guardarla dall'alto, e pensava, vivamente colpito:

— Ecco una ragazza che deve pensar profondamente. Com'è seria e pura!

I suonatori eseguivano la prima parte: l'entrata dei cacciatori a cavallo, coi rispettivi cani, di cui distinguevansi benissimo i latrati. Gli occhi del signor Ciriaco toccavano obliquamente la radice dei capelli delle tempia, e l'arco del violino sembrava una bacchetta magica. Peppina lo guardava meravigliata, poi guardava le mani di Cosimo, più eburnee dei tasti, e senza l'incanto di quelle mani, tutta la musica le avrebbe fatto l'effetto d'un tuono con relative saette. Il biondo intanto, col gomito sul ginocchio e il mento sulla mano; ripassava fra sè la sua poesia, e la signora Marchis lo qualificava per un uomo intelligente, poichè faceva la corte a Peppina.

Com'è seria e pura! — pensava l'avvocato con le gambe accavalcate, guardando Elena. — Quanti anni ha? Venti forse.

Si volse e guardò Giovanna: ma ella gli dava le spalle, fissando sempre in lontananza un punto misterioso. La sola che seguiva con qualche intuizione la suonata era Elena; con animo cortese cercava percepire tutte le cose belle che Cosimo affermava esserci, e la sua buona volontà dava qualche valore ad ogni nota. Nella seconda parte credette sentir gli spari, scorger i cacciatori fermi alla posta, dietro i dirupi, e veder il cervo passar cauto e leggero, poi saltellante e rapido, ferito al fianco e inseguito dai cani. La suonata si chiudeva col ritorno dei cacciatori, che suonavano e cantavano lietamente, scendendo per le balze, nei montuosi sentieri rocciosi, al cader della sera.

I cani dovevano latrare giocondamente, e per accennare la sera dovevasi sentir in lontananza il rintocco dell' Ave Maria. Fu veramente l'unica cosa che riuscì bene: s' udì distintamente il rintocco melanconico e vibrato d' un' ave lontana: ad Elena si illuminarono meravigliosamente gli occhi, perchè provò la sensazione di un paesaggio alto e deserto, ove splendeva il gran vespero delle montagne.

S'applaudì, si volle il bis del finale; e il signor Ciriaco, sudato e tremante, parve destarsi da un sogno. Poco dopo entrò la domestica col caffè e vini prelibati: preso il primo, le Marchis parlarono d'andarsene.

— È tardi — disse Peppina guardando verso la finestra ormai buia.

— Ma no, aspettino. Le accompagneremo poi noi — disse il biondo, cui premeva aver gli applausi di Peppina, por la sua romanza le Belle mani.

A un certo punto s'appoggiò al muro, e accompagnato di mala voglia da Cosimo, cominciò. Che voce era la sua? Una voce d'asino, signori miei.

La romanza narrava il fascino delle belle mani, che leniscono ogni dolore con le lor carezze.

— Pare invece che lo stiano pigliando a pugni! — disse piano l'avvocato, chinandosi dalla parte di Elena.

Ella alzò gli occhi su lui, un po' meravigliata, ma non potè rattenere un sorriso. Anche Giovanna, sedutasi, sorrideva col fazzolettino sulla bocca.

Il biondo continuava a cantare: ratteneva il respiro fino a diventar rosso, si sosteneva i fianchi con le mani, s'allungava e si restringeva come un serpe.

Incoraggiato dal sorriso d'Elena, l'avvocato s'avvicinò, chinandosi sulla spalliera della sua sedia, e disse scherzosamente:

— Osservi come Ciriaco lo sta fissando. Sarà curioso quando lo imiterà.

Elena fu per dire: — Ma possibile che Ciriaco non sappia far altro che la marionetta? — ma sorrise e tacque.

— Se avesse veduto la caricatura di De-Cerere! — disse l'avvocato. — Poco dopo capitò il giudice, e quasi accadeva uno scandalo.

— Ma io credo che De-Cerere non meriti alcuna caricatura! — esclamò Elena con qualche fierezza, che confuse il giovine.

Giovanna, avendo inteso il nome di Paolo attraverso il canto disperato del biondo, s'alzò inquieta e s' avvicinò ad Elena. Intese l'avvocato che diceva:

— Sa che è traslocato?

— Chi?

— De-Cerere.

— Oh! — esclamò Giovanna stupita. — S'era qui stassera! E non ci disse nulla.

— Il decreto è arrivato stasera — disse il giovane volgendosele cortesemente. — Certo egli nol sapeva ancora. È stato nominato presidente. Sarà lietissimo.

Elena e Giovanna si guardarono.

— E per dove?

L'avvocato nominò una piccola città meridionale del continente.

In quel punto finì la cantata dell'impiegato, ma, cosa triste, nessuno l'applaudì: il Ciriaco per invidia, Peppina per non scomporsi, donna Francesca e la signora Marchis per la stessa ragione, l'avvoca to e le signorine Bancu perchè parlavano di Paolo.

— Cosimo — disse Giovanna sporgendosi sul piano.

— De-Cerere è nominato presidente.

— Lo sapevo — rispose Cosimo tranquillo; ma grandi oh! di sorpresa sursero per parte degli altri, che subito cominciarono a parlar di Paolo.

L'avvocato rimase presso Elena, e l'impiegato, indispettito per l'affare degli applausi mancati, s' avvicinò anch'egli e chiese se la signorina suonava.

— Ma no! — diss'ella.

— Ma si! — esclamò il biondo con galanteria, — So che le signorine suonano benissimo: ci daranno la fortuna di sentirle.

E cominciò a far mille complimenti, tanto che la signora Marchis, visto che non corteggiava più Peppina, lo qualificò per uno sciocco.

Poco dopo le Marchis se n'andarono, e non permisero d'essere accompagnate: ma, porgendo la mano a Cosimo, Peppina lo guardò rapidamente, come comandandogli qualche cosa, ed egli, fattosi gentile al'improvviso, volle accompagnarle per le scale.

E nella giravolta, la signora Marchis precedendo, Cosimo strinse forte la mano di Peppina, e le disse:

— Verrò alle undici…..

Nella via, mentre la madre sparlava delle Bancu e dei loro amici, la figlia s'immerse in un sogno pensando che il colloquio di quella notte avrebbe deciso Cosimo a chiederla in isposa.

Otto giorni dopo Paolo De-Cerere venne dalle Bancu a congedarsi.

Non mostrava nè letizia, nè rimpianto: era d'una cortesia aristocratica e gelata e ripeteva le solite cose.

Promise di scrivere, di mandare libri e giornali alle sue piccole amiche, per dimostrare loro che non le dimenticava, e ripetè più volte:

— Forse non ci rivedremo mai più!

Giovanna restò sorridente e indifferente, mentr'egli trovava il modo di dire molte cose insignificanti col miglior garbo del mondo. Alla vigilia della sua partenza egli dimostrò ancora interesse per avvenimenti e persone che sfuggivano per sempre dal suo circolo d'esistenza, ma che restavano in quello delle sue piccole amiche; e raccontò ancora molti episodi del suo passato.

Rifece i soliti auguri, e nel congedarsi si mostrò un po' profondo, quasi commosso. L'accompagnarono fino alla porta.

— Addio! — ripetè egli, stringendo ancora la mano di Giovanna, che non cessò di sorridere.

— Arrivederci — disse Elena.

Fuori della porta egli s'inchinò con gli occhi a terra, e s'allontanò senza voltarsi.

— Addio! — ripetè Giovanna quasi allegramente, chiudendo la porta. E risalì le scale saltellando mentre Elena restava seria, quasi triste per la partenza di Paolo, che forse davvero non avrebbero riveduto mai più.

— Meglio così — disse Giovanna; e attraversò il pianerottolo sempre saltellando. Lyly e Lisbet giuocavano sempre, rincorrendosi e raspando gli usci.

Lyly precedè Giovanna fino alla porta, e rizzandovisi quant'era lungo, raspò e miagolò: ella ricordò come l'aveva maltrattato un giorno, alla presenza di Paolo, e sorridendo lo allontanò col piede.

— Vuoi un'altra lezione? — gli chiese. Ma affacciatasi alla finestra del salotto si sentì improvvisamente triste.

Imbruniva. Al di sopra delle ultime montagne stava come sospesa una lunga nuvola, nera sullo sfondo glauco e liquido dell'orizzonte. Nell'alto del limpidissimo cielo una sola stella, Venere, in color d'oro, fissa e radiosa, proiettava il suo raggìo ineffabile sulla lunga nuvola, che pareva un'aerea foresta lontana, col suo profilo d'alberi e macchie e cespuglì tremolanti sull'orizzonte.

Giovanna, col mento sulle mani intrecciate, guardò e sentì una infinita ed arcana tristezza: le parve che Paolo De-Cerere non l'avesse mai amata; sentì come sarebbe stata infelice se si fosse lasciata illudere fino all ultimo, e ripetè fra sè: — Meglio così!

Ma perchè gli uomini eran fatti così? Eran buoni o cattivi? Eran buoni e cattivi; e le parve che Paolo fosse, fra le altre cose, un grande egoista. Tuttavia sentì che la sparizione del vecchio amico lasciava un vuoto nella sua giovine vita: un vuoto nella sua ingenua vanitá. Per confortarsi pensò ancora che Paolo era vecchio per lei, che non l'avrebbe mai amato volentieri: ma queste considerazioni, anzichè diminuire, accrebbero la sua infantile melanconia.

E fu cosi che, come ultimo tributo al suo primo amore nato morto, si lasciò cader due grosse lagrime, risplendenti come perle al riflesso del raggio di Venere stella.

Una mattina di settembre Costanza Brindis e Cicchedda si recavano per tempissimo ad Oliena, cavalcando entrambe su lo stesso cavallo. Non era il famoso cavallo nero di Salvatore, ma la placida acchetta castanea di Alessio. Salvatore non cedeva mai, neppure alle sue donne, il cavallo favorito, mentre il nipote prestava con buona grazia la sua cavalla. Ei possedeva una specie d'allevamento equino: ogni anno vendeva due o tre cavalli, tenendo gli altri al pascolo delle sue lancas, e, oltre la sua acchetta favorita, li prestava volentieri agli amiei ed ai parenti.

Ogni mattina Cicchedda sellava l' acchetta, la caricava di due alti cestini di canna, ficcati entro un'enorme bisaccia, e scendeva alla valle per coglier fichi d'India nel chiuso dei padroni. Il bestiame ed anche il personale di casa Brindis faceva un gran consumo di queste frutta: specialmente Cicchedda e Domenico da qualche tempo non vivevano d'altro.

Scendendo alla valle la ragazza trottava allegramente sulla cavallina, sferzandola con una fronda di sambuco: qualche volta l' acchetta galoppava sì bene che la dama andava a gambe per aria. Ma siccome, nell'ora mattutina e nel deserto stradale, nessuno assisteva al capitombolo, ella si ricomponeva subitamente, e senza confusione risaliva in sella imprecando la cavalla. Giunta al chiuso, spiccava i fichi d'India con una lunga canna e cantava ad altissima voce i mutos più appassionati. Ne componeva ella medesima con meravigliosa voce poetica; aveva una bella voce tremolante, e in campagna, o quando in casa puliva la farina, al rumor cadenzato dello staccio, o lavando nel ruscello, cantava a perdita di fiato. Ora pronunziava perfettamente il nuorese, aveva stretto relazione con molte ragazze allegre, e in quest'ultima estate aveva subito una specie di transformazione morale e materiale. Non più sonno negli occhi. Non più sorrisi stupidi. Pretendeva d'esser vestita bene e cominciava ad adottar tutte le civetterie e le grazie delle ragazze nuoresi.

Non saltellava più, ma il padrone continuava a dirle quel tale scherzo; e quando Alessio era presente e lo udiva, ella diventava rossa come il melograno e piangeva segretamente.

Ma aveva un progetto col quale sperava por fine al tormento. Più volte, visto che Costanza non si recava più ad Oliena, invocò il permesso d'andarvi da sola, a piedi.

— Tre ore, tre ore sole, padrona mia!

Ma Agada rispondeva di no.

— Eh, c'è tempo! Andrai con Costanza quando sarà filata tutta la lana che dovete portar alla tessitrice di Oliena. — Ma questo non era che un pretesto, e la gita di Costanza veniva rimandata di giorno in giorno, in attesa della risposta alla lettera di Elena Bancu.

Ma in settembre la risposta non era giunta. Ormai le Brindis diffidavano; s'erano pentite d'aver rivelato la storia del tesoro; sentivano che, arrivasse o no la risposta, fosse vera o falsa la cosa, poco conto dovevano farci.

Un solo filo di speranza le univa ancora al caro sogno perduto; e un giorno, essendo filata tutta la lana, Costanza e Cicchedda montarono sulla cavalla di Alessio e s'avviarono ad Oliena. La servetta non stava in sè dalla gioia; col viso in aria diceva una sciocchezza ad ogni passo della cavallina, e Costanza, guardando innanzi a sè seria e composta, ancora un po' assonnata e pallida, taceva o rispondeva con indifferenza.

L'aurora rosseggiava ancora dietro le alture della Solitudine, e solo nello sfondo della valle le montagne d'Oliena apparivano rosee sul cielo purissimo e luminoso, nelle prime irradiazioni del lontano sole nascente. Ma il versante occidentale dell'Orthobene e lo stadale e la sottostante vallata restavano nell'ombra freschissima del primo mattino: nelle fratte roride, fra i grigi olivi sognanti, era un allegro cinguettìo di uccelli; freschi profumi di erbe aromatiche, di lentischi e di roccie bagnate di rugiada scendevano dalla montagna.

Il sole era già alto quando sbucarono dalla pianura d'Oliena, in faccia alle montagne color di lilla, e fra i campi privi d'alberi e biondissimi per le fitte stoppie rase cominciarono ad incontrare paesani a cavallo e paesane a piedi, che, con le scarpe in mano, si recavano a Nuoro per vender frutta.

Cicchedda, riconoscendo le sue compaesane, le chiamava a nome, dimenandosi sulla cavallina e ridendo altamente. Le olianesi si fermavano meravigliate, non riconoscendola nel suo costume nuorese, e le dicevano insolenze. A un certo punto Costanza, seccata, rivelò l'essere della sua compagna.

— Oh, oh, è Cicchedda Brontu! Guardate, guardate, è Cicchedda Brontu! — gridarono le olianesi, circondando la cavallina.

Una ragazza lacera disse:

— Oh, oh, ti sei levata la crosta?

— Io si. Levatela tu, ora! — gridò Chicchedda.

Le donne risero, ma quando si furono allontanate, la fanciulla lacera si volse e gridò:

— Ma io non vado a Nuoro per mendicare!…

Cicchedda arrossì; voleva scender e lanciar una pietra all'insolente, ma Costanza, temendo uno scandalo, spinse la cavalla al galoppo. La servetta dovette aggrapparsele forte, gridando per la paura di cadere, e quando l' acchetta riprese il solito passo, disse:

— Le vedi! Le vedi le olianesi che non possono veder nessuno a camparsi la vita! Meglio sarà — aggiunse dopo, pensandoci — meglio se mi vedranno maritata!

— Diavolo! — esclamò Costanza. — Che idee hai! Pensi a pigliar marito? É per questo che da qualche tempo stai diventando…

— Cosa sto diventando? Cosa sto diventando? — gridò ella rossa e stizzita.

— Eh, stai diventando viva! Hai grilli per la testa? Zia Agada te li caverà col manico della scopa.

Cicchedda rise, con occhi splendenti: rise anche Costanza, e un paesano dalle vesti bianche di calce, che passava in quel punto, le guardò e disse:

— A poco, a poco, belline mio, altrimenti cascate da cavallo.

Ma esse non risposero, per non provocare insolenze, e continuarono a ridere nella frescura proiettata dagli alberi degli orti verdi e irrigati.

— Quando tu sposerai con Alessu — disse Cicchedda — mi regalerai lo scarlatto e l'orbace d'una veste, ed anch'io allora mi procurerò l'innamorato…

— Alessu non pensa a riprender moglie, e in tal caso non penserebbe a me. La vuol ricca e buona massaia. Tu gli converresti! — disse l'altra con ironia.

— Io? Io non son degna neppure di legargli lescarpe! — esclamò Cicchedda arrossendo, fattasi seria.

— Non occorre che tu ti burli di me, perchè son povera. Ma tu che sei ricca…

— Ma che ricca d'Egitto! — disse Costanza.

Tacquero, come immerse entrambe in un sogno, e così fecero il loro ingresso in Oliena. Cicchedda non provò alcuna forte commozione nel rivedere le prime case rovinate del suo paese, e le donnicciuole che uscivano sulle porticine per guardar curiosamente; ma pareva colta da una vaga tristezza, e i suoi grandi occhi sognavano dietro un pensiero ineffabilmente dolee e doloroso.

Smontarono in una casetta di misera apparenza, presso una parente di Cicchedda, nonché tessitrice, a cui Costanza consegnò i grandi gomitoli bianchi e neri di lana filata, e un pezzo di carne cruda. La donna si diede subito a cucinarla, e le ospiti uscirono a girovagare per il villaggio.

Nessuno riconosceva più in Cicchedda la piccola e stracciata mendicante di tre anni prima: essa ne restava contenta e se Costanza la presentava come olianese, niegava recisamente d'esserlo.

Pareva che una nuova coscienza si destasse in lei, facendola arrossire del suo misero passato.

Non sapendo come passar la mattina, padrona e serva se n'andarono in una vigna della tessitrice, poco distante dal villaggio, sulle falde della montagna. Il luogo era quanto mai pittoresco, olezzante di timo e di verbasco; l'ombra delle bianche dolci montagne pioveva sulle fresche vigne, dove l'uva era già matura, dove le susine violette spiccavano sul verde lucente degli alberi snelli. Nelle pendici dell'ultimo orizzonte soleggiato vedevasi Nuoro.

— Che starà facendo zia Agada? — domandò Cicchedda, guardando lassù con nostalgia.

— Starà facendo il pranzo! — disse Costanza, lavandosi in una fontana; e aggiunse con malizia: — Dove ti piace più, qui od a Nuoro?

— A Nuoro! — disse la ragazza.

— Che mi uccidano con una fucilata! Cicchedda è innamorata! — pensò Costanza cogliendo le susine violette. — Ma di chi? Purchè non si rompa l'osso del collo! — E scosse la testa, sembrandole che la servetta fosse male avviata, e che si destasse troppo fatalmente dal suo stupido sonno infantile.

Ritornando, mentre percorrevano un viottolo chiuso da muricciuoli assiepati di rovi, Costanza domandò:

— Dunque, andremo dalla maga?

— Sicuramente! — disse Cicchedda, e pensò: — E non siamo venute per questo?

— E cosa le chiediamo? — fece l'altra con falsa ingenuità.

— Eh, lo sai tu cosa vuoi chiederle! — pensò Cicchedda. Poi disse: — Io le chiederò se mi devo maritare…

— Non pensi ad altro! Sei innamorata? Ti han veduto discorrere con un convittore…

Cicchedda rise, scuotendo le spalle come per dire: Che sciocchezza! ed esclamò:

— È uno studente d'Oliena: ogni volta che mi vede mi ferma, ma io non bado a lui!

— Non badi a lui? E dunque a chi badi? Con chi fai l'amore?

— Col pane! — disse l'altra ridendo. Poi s'infastidi. — Ma lasciamo questi discorsi e andiamo da zia Marta Fele.

— Bisogna esser sole ad interrogarla?

— Te l'ho letto mille volte. Hai paura tu?

— Fa del male? Mi toccherà? — domandò Costanza impensierita. — Nessuno vedrà?

— Macchè! Nessuno.

— Sai cosa voglio chiederle? — disse Costanza, pensando che bisognava cercar una scusa.

— Se l'innamorato ti tradisce?

— Io non ne ho e non penso a queste pazzie. Senti, ma giura che non dirai a nessuno…

— In coscienza dell'anima!

— Senti, mia nonna era una donna denarosa. Ora, quando morì, non le trovarono un centesimo, e tutti dicono che ha nascosto molto denaro, e che la morte non le diede tempo di dir dove. Ora io voglio domandare alla maga se ciò é vero e se il denaro si può ritrovare e dove. Ti pare che risponderà?

— E perchè no? — rispose Cicchedda mangiando la foglia. Per tutto il resto della via tempestò Costanza di domande, colta da una nuova tristezza. — Può esser molto il denaro?

— Eh, altro! Più di diecimila scudi.

— Dio mio, Dio mio! Allora sì che sarai ricca, e se sposerai Alessio sarete i più ricchi di Nuoro!

— Oggi è domenica — disse Costanza passando davanti alla chiesa — e non siamo state neppure a Messa. Se la zia lo sapesse!

La chiesa era chiusa, e per quanto aspettassero niuno venne ad aprire: si contentarono di guardare e pregare attraverso i fori della porta corrosa, poi ripresero la via verso la casa della tessitrice.

— Ti pare sia peccato consultare la maga? — disse Costanza, colpita.

— Sì, certo! — disse Cicchedda, colpita anch'essa da questo pensiero, o fingendo d'esserlo. — Se zia Agada viene a saperlo ci rompe le costole!

— Non lo saprà, se tu non glielo dici.

— Io? Dio me ne liberi, ma può saperto, ci vedranno entrare, e son così curiose le olianesi. Finchè non trovano il filo della matassa strappano… — disse Cicchedda, e con grande eloquenza cercò convincer Costanza a non visitar la maga. Quanto prima desiderava andarci, ora parea ripugnasse da questo pensiero.

L'avrebbero saputo a Nuoro, ed era una gran vergogna consultar la maga; lo avrebbe saputo zia Agada e guai! Bisognava portar qualche regalo alla maga, che non accettava denari, e regalo non avevano. E poi, chi sa se indovinava, chissà se non s'approfittasse lei del segreto.

E poi era peccato, e mille altre storie!

Evidentemente rinunziava al suo tanto vagheggiate consulto, purchè Costanza non avvicinasse la maga; ma l'altra seppe vincere ogni difficoltà, ogni dubbio, e, per non destar sospetti, ella dovette guidarla dalla Fele.

Eran le due: il sole ancor ardente di settembre bruciava le misere viuzze; e a misura che s'avvicinavano alla casa della maga, i vicinati diventavano più miseri e desolati, coi viottoli sporchi, le casette rovinate, sotto il gran cielo luminoso e caldo, nella viva luce del meriggio.

Davanti alla casupola della maga, la tristezza dell' ambiente raggiungeva un grado di disperazione, che s'infiltrava anche nell'anima delle due fanciulle, poco adatta tuttavia a ricever l'impressione dei luoghi e delle cose.

Non si vedeva nessuno; il viottolo s'allargava in un piazzaletto pieno di fossi, invaso d'ortiche e d'altre male erbe secche.

Da un muro in rovina sporgeva un melanconico caprifico polveroso, e un cane grigio, magro e silenzioso, frugava tra le sporchizie della strada.

— Zia Marta, zia Marta? — chiamò Cicchedda da una porticina aperta. E siccome nessuno rispose, le ragazze s'avanzarono per una cucina buia, dove in un canto scorgevasi una mola in disuso e un forno in rovina. In fondo c'era un' altra porticina; Cicchedda l'aprì con disinvoltura ed entrarono in un cortiletto dello stesso genere della strada, invaso d'erbe secche e di pietre.

All'ombra d'un caprifico — quello stesso che sporgeva sulla strada — una donna ritta, lacera e consunta, filava, circondata da sei galline sonnolenti. La tristezza aumentava, Costanza esitava ad avanzarsi.

— Vieni — disse Cicchedda, incoraggiandola; e si diresse verso la donna, salutandola a voce alta. Dal movimento ch'ella fece, Costanza s'avvide che la filatrice era sorda; credendola la maga, fece una smorfia, ma Cicchedda disse:

— È la sorella di zia Marta.

A furia di gesti la servetta riuscì a farsi riconoscere, ed a spiegare il motivo della visita.

— Dov'è zia Marta? — gridò accostando la bocca e le mani all'orecchio della sorda.

La donna, che guardava fissamente Costanza, sorridendole, additò in fondo al cortile una casetta ad un piano; bisognava arrampicarsi su una vecchia scala a piuoli per arrivare ad una porta che s' apriva quasi sotto il tetto.

La sorda fece capire che la maga, invasa dagli spiriti, era lassù.

— Da molto? — domandò Cicchedda additando la casetta.

— Da poco.

— Presto, Costanza, sali per quella scala ed entra. Quando stan per venirle gli attacchi zia Marta ha cura di ritirarsi là.

Ma Costanza esitava, e domandò guardando la porta:

— Ma è aperta? Non può cadere di là?

— È in una stanzetta attigua. Va.

— Non si sente nulla! — esclamò la sorda, guardando Costanza. — Va pure, va pure, non temere; non s'ode una parola…

— Ho paura — disse piano Costanza.

— Che sciocca! Non ti farà nulla. È una vecchia che un pugno può atterrare.

— Ma gli spiriti? — Quasi tremando Costanza s'avviò verso la scala, e mentre Cicchedda gliela sosteneva, s'arrampicò lesta, fingendo di ridere, ma con un gran freddo in cuore. Arrivata all' altezza della porta la spinse, e guardò prima d' entrare. Era una stanzetta sotto il tetto, con un vecchio e misero letto di legno, un'arca antica, una brocca per terra, e tele di ragno qua e lá.

Aguzzando gli occhi Costanza vide, per la porta socchiusa, la maga coricata nell' attigua cameretta: era vecchia e pareva dormisse.

— Ho paura, ho paura! — pensò la fanciulla, tremando davanti al mistero, che l'idea del peccato rendeva più profondo; ma entrò egualmente, lasciando le porte aperte.

Guardò curiosamente ed a lungo la maga immersa in una specie di sonno catalettico: vestiva di nero, scalza e lacera, magra e dalla pelle bruciata; il volto però, contornato di capelli bianchi, raccolti entro una lunga cuffia nera, era chiaro, pallido, con lineamenti simpatici e profonde occhiaie violacee.

Costanza si rinfrancò, ma infastidita da quel lungo sonno, tornò sulla porta della prima stanza, e chinandosi disse:

— Dorme?

— Eh, aspetta finché cominci a parlare; poi interrogala subito — le disse Cicchedda.

Ella chiuse la porta e ritornando presso il giaciglio della maga le vide, con nuovo terrore, il collo magro e nero gonfiarsele lentamente, e le mani contorcersele.

La povera vecchia fu semplicemente assalita da orribili convulsioni epilettiche, e Costanza credè fossero gli spiriti che le invadevano e contorcevano il corpo.

Imbevuta, auto-suggestionata da quest'idea, la Fele diceva nelle sue convulsioni cose orribili e straordinarie, cambiando ogni tanto accento, riproducendo la voce di molti animali, parlava inoltre strani linguaggi, con accenti gutturali e striduli, che passavano per latino ed ispagnuolo, e che invece potevano essere ostrogato e giapponese. Questa virtù costituiva il suo maggior pregio e la sua più alta fama; ma per fortuna rispose in semplice olianese alle timide domande di Costanza.

E non disse nulla di preciso. Fra improperi, bestemmie e grida dell'altro mondo, rispose che il tesoro esisteva realmente, ma che bisognavano dati precisi per trovarlo.

— Diavolo! — pensò Costanza con rispetto della maga. — Se avessimo indicazioni precise non sarei venuta qui a spaventarmi.

Facendosi coraggio, incalzò con le sue domande.

— Sforzatevi, sforzatevi a indovinare il sito, guardate bene, cercate…

Come suggestionata la maga cercava, cercava, ma rispondeva sempre:

— C'è, c'è; ma bisogna aver le indicazioni. Portamele e ti condurrò…

— Se ho le indicazioni non occorre che mi conduciate voi! — pensò Costanza stizzita.

La maga, spaventosa, col viso, le mani ed il collo gonfi enormemente, si avvoltolava, aggrappandosi tenacemente al letto, contorcendosi tutta. Costanza temeva di vederla cadere, o spaccarsi il cranio nei furiosi colpi di testa che dava al letto, ma parea che la povera vecchia avesse l'istinto di non farsi del male. A momenti, per reazione o per dispetto, Costanza pensava se tutto non era una finzione, ma ad un tratto, avendo la maga emesso una strana voce, simile al canto del gallo, rabbrividi di terrore, e fu per andarsene.

— Fermati, fermati; sei nuorese? — domandò la maga, con voce naturale e dolce.

— S'è svegliata? — si domandò Costanza; e si meravigliò scorgendo gli occhi della vecchia sempre chiusi, sempre le sue membra contorte dalle convulsioni.

— Io sono il più piccolo — disse la voce dolce della maga — quello che proteggo Marta Fele dagli altri sei demoni

— Oh, oh! — esclamò fra Sè Costanza, e arditamente domandò:

— E allora, perchè non mi rispondi tu?

Lo spiritello si stizzi, e mentre zia Marta si rizzava sul letto (per cui Costanza si rifugiò nell'altra cameretta) gridò:

— E chi ti ha risposto se non io?

— Mi hai risposto un corno! — pensò la ragazza; poi, vedendo la maga ricader sul letto, battendosi forte la testa, disse:

— Be'! allora a rivederci.

— Ricordati del piccolo, del piccolo buono: bisogna fargli parte del tesoro, quando lo ritrovi, o la nuorese, o la nuorese — gridò un'altra voce della maga, fioca e rauca.

— Sta fresca! — rispose fra sè Costanza, scendendo rapidamente la scaletta.

Cicchedda le venne incontro correndo, e quasi non aspettava che ella fosse scesa del tutto, per salire lei.

— Che furia! — disse Costanza, ridendo suo malgrado. Poi s'avvicinò con malumore alla sorda, e provando, nonostante la delusione sofferta, una gran pietà per le due misere creature, le mostrò del denaro, accennandole se l'accettava.

— No — disse la sorda, recisamente.

Non accettavano denaro per timore della pulizia, e non si fidavano mai.

— E, allora, cosa vi do? — esclamò l'altra, stendendo le mani aperte per significare che non aveva nulla.

— Hai visto com'è spoglia, e anch'io? — domandò la sorda, guardando le sue vesti lacere. — Siamo quasi nude. Mandaci degli stracci da Nuoro.

— Sì! — accennò Costanza con la testa.

La sorda le fissò ostinatamente il grembiale d'indiana turchina.

— Sta a vedere che lo vuole! — pensò la ragazza.

— Glie lo do? No, è ancor troppo nuovo.

— Buona roba questa! — disse la sorda toccandoglielo.

— Eh, dicevo io!

Intanto Cicchedda, salita speditamente dalla maga, la toccava e le gridava:

— Zia Marta, zia Marta! Come state, non mi riconoscete? Sono Cicchedda, sono vostra nipote. Come siete invecchiata!

La maga, un momento immobile, muta e stecchita, riprese a batter forte il piede e la mano destra: diede dieci o dodici pugni al letto, poi molinò in alto il braccio, e se Cicchedda non si fosse tirata indietro, l'avrebbe colpita in viso. Ripresa dalle convulsioni, cominciò a ringhiare, imprecando.

— Zia Marta — disse Cicchedda cogliendo il momento — sono vostra nipote, e sono venuta a farvi una domanda. C'è una persona che mi vuol male e mi sta sempre insultando. Ogni giorno, ogni giorno. Cosa devo fare Perchè non m'insulti più?

— Va al diavolo! — gridò la maga. — Va al diavolo!

— Andateci voi! — gridò Cicchedda imperiosamente.

— Voglio che mi rispondiate. Eh, non siete con quella nuorese, ora, siete con me, con Cicchedda Brontu, vostra nipote. Rispondetemi, altrimenti vi batto!

— Bisogna far così, poveretta! — pensò.

— Con la minaccia di batterla il piccolo risponde. Altrimenti no.

Infatti, per un fenomeno suggestivo, la maga parve sottomettersi al comando imperioso; anzi tremò e si acquietò.

— Eh — disse, come parlando in sogno — tiragli un morso al piede sinistro!

Cicchedda rise, per la volgarità e la difficoltà della ricetta, e intanto si pose a sedere su una seggiola sfondata, guardando pietosamente la miseria della stanza.

— È impossibile, cosa mi venite a dire? state per impazzire? Pensateci bene, è una sciocchezza! Sari curiosa io, mordendogli il piede! E poi non è uomo da lasciarsi fare simili faccende. Alzerebbe lo stesso piede, e mi scaccerebbe da casa sua. Ed io non voglio andarmene, ora specialmente che la padrona mi ha promesso cinque lire al mese. Cinque o sei, lo vedremo poi. Avanti, dite. Qualche bibita, meglio, qualche scongiuro.

— Ah, giusto, una bibita! — rispose la maga, — Gettagli nel vino un po' di capelli bruciati.

— Null'altro?

— Nulla.

— Ma di chi?

— Della persona a cui vuol più bene.

— Alessio! — gridò fra sè Cicchedda, pensando istantaneamente ch'era una cosa difficilissima averne i capelli. Ripetè:

— Nient'altro?

— Nulla, nulla.

— Ah, ora — disse poco dopo — guardate questa cosa. — Trasse di tasca un fazzoletto di colore, e lo mise in mano alla maga, che lo strinse nel pugno.

— È un fazzoletto — disse, pur tenendo gli occhi chiusi.

— Di chi è?

— D'un uomo.

— Mi vuol bene quest'uomo? — chiese la fanciulla, arrossendo.

— Quanto ne vuole a me!

La risposta rattristò Cicchedda. Riprese il fazzoletto e, chinandosi sulla maga, che s'agitava e gemeva quasi cercando di sottrarsi alla suggestione, domandò timidamente: — Chi sposerà?

— Non lo so.

— Chi sposerà? Rispondetemi!

— Una ragazza povera.

— Molto?

— Molto.

— Dio, Dio mio! — sospirò la fanciulla.

— Sarò io? — domandò.

— Non lo so, non lo so. Vattene….. — disse zia Marta con stanchezza, e non fu possibile a Cicchedda di saperne oltre: ma credeva saperne abbastanza, e un profondo sentimento di dolore e speranza la vinceva tutta.

— Addio! — disse, e pensando a quanto Costanza non avea pensato, mise qualche moneta di rame sotto il guanciale della zia.

Appena fu uscita sentì la maga rifare il canto lugubre del gallo.

— Un malaugurio? — pensò tristemente.

Scesa nel cortile, Costanza le disse che la sorda desiderava il suo grembiale.

— E daglielo dunque! Ne hai tanti!

— Voleva darle denari…..

— Ma che denari. Dà il grembiale a queste poverette.

Costanza se lo lasciò prendere, ma giunta sulla via se ne dolse; e si avviarono entrambe silenziose, come pentite della visita fatta.

All' imbrunire zia Agada le attendeva ancora, seduta sotto il portico con in grembo il piccolo Domenico, a cui voleva insegnar l' Ave-Maria. Ma il bimbo ci badava poco; aveva un' allegra parlantina e non stava fermo un minuto.

— Dov'è andata Cicchedda! — domandava ogni tanto.

— Voglio Cicchedda e il pulcino e la tortorella.

— Sta quieto e impara: altrimenti vai all' inferno. Dio li salvi, o Maria.….

— Il pulcino, la tortorella.….

— Ma che pulcino, ma che tortorella. Sta fermo e impara. Dio li salvi.….

— Nossignore! — esclamò alfine il bimbo con tono imperioso. — Voglio il pulcino, Cicchedda mi ha detto di portarmi un pulcino e una tortorella. Dov'è Cicchedda, perchè non ritorna?

— Ritornerà subito, cuoricino mio, non far da cattivo, altrimenti vengono le bestie cattive e ti mangiano…..

— Dove sono le bestie cattive? — disse Domenico con spavalderia. — Se vengono Alessio prende il fucile e le spara! — Chiamava il babbo col suo nome, e gli dava del tu, come spesso usava con gli altri. Agada s'ostinava ad insegnargli l' Ave, ma non ci fu verso; alfine egli chinò la testina sul seno della zia e disse:

— Dov'è Cicchedda, quando ritorna? Se non ritorna ancora vado io a cercarla…..

— Senti, senti, vengono! — esc! amò Agada, come accennando ad un romore lontano.

— Vuoi più bene a me, a Costanza o ad Alessio?

— A Cicchedda! — diss'egli vivamente; — e non si chetò finchè non rivide la ragazza: le si aggrappò alle gambe, emettendo grida di gioia, e chiedendo il pulcino e la tortorella.

Ella gli portava invece un passserotto mezzo morto di fame e spavento.

— Ecco la tortorella, uccellino mio, — disse prendendo il bimbo in braccio e baciandolo; — il pulcino non l'ho portato perchè le galline nostre l'avrebbero ammazzato per gelosia.

— Che sciocchezze dici al bimbo! — disse Agada.

— Perciò sta diventando matto come te!

— Matta sei tu, Agada Brindis! — gridò Domenico stringendo l'uccellino nel pugno. Le donne risero; e Cicchedda gridò:

— Non si dice così a zia, non si dice così!

Rientrando, Alessio trovò le donne che ridevano ancora, ma egli non rise, udendo i prodigi di Domenico, che, legato un filo alla zampina dell'uccello, cercava di farlo svolazzare. Gli si volse serio, e disse:

— E ripeti davanti a me le parole dette a zia Agada! — Domenico chinò la testina. — Chi te le insegna queste belle cose? Cicchedda forse?

Cicchedda arrossì e chinò anch'essa il capo. Alessio conchiuse:

— Se torni a farlo un'altra volta guai!

— E non ha detto che più di me, di Costanza e di te, vuol bene a Cicchedda! — disse Agada con finta serietà.

— Sì, sì, vi piaccia o non vi piaccia, è così! — gridò Domenico con la vocina stridente.

Una risata alta ed allegra partì dal fondo della cucina, dove Cicchedda appendeva la sella ad un chiodo, e Domenico, temendo che il babbo lo picchiasse, si rifugiò laggiù tirando il filo del passerotto.

Ma il babbo pensava a tutt'altro che picchiarlo: si sentiva anzi altero per la sua vivacità, e l'attribuiva a svegliatezza di mente: voleva però educarlo bene, e s'adirava sul serio quando il bimbo ripeteva inconsciamente certe impertinenze insegnategli da Salvatore Brindis, che ne rideva a più non posso. In Alessio era una specie di delicatezza signorile, che spiccava vieppiù accanto alla ruvidità di Salvatore. In fondo lo zio era più di buon cuore, ma si mostrava duro, insolente e volgare, mentre Alessio parea che appunto la volgarità odiasse.

Zia Agada restò grandemente mortificata ed afflitta per le risposte date dalla maga a Costanza. Tirò dal suo fuso un filo lungo come la disperazione e disse:

— È inutile! Non siamo nati per aver fortuna! — E avvolse il filo sospirando.

— Eppure nessuno mi leva di testa che Elena sappia qualche cosa. Abbiamo fatto male.

Costanza comprese ciò che avevano fatto male, e chinò la testa, guardandosi il grembiale e rimpiangendo quello dato alla sorella della maga.

Da quel momento le due donne caddero in profonda melanconia; era troppo doloroso deporre ogni speranza. Che il tesoro esistesse ne erano oramai più che sicure, ma di ritrovarlo non speravano più; pure, in fondo, una speranza vaga, insensata, ricacciata e non confessata, restò: era la speranza dell'ignoto, di ciò che poteva accadere se non un giorno l'altro. Chi sa mai?

Dopo tutto Elena Bancu non era cattiva, ma religiosa e sincera. E poi le Brindis potevano tener d'occhio ogni avvenimento di casa Bancu. Un giorno Costanza, per consiglio d'Agada, disse ad Elena della sua visita alla maga.

— Credi tu a queste cose? — domandò Elena ridendo. — Io non so: eppure tu non sembri tanto ignorante. È anche peccato, sai? Se non ci procuriamo fortuna d'altra parte, stiamo fresche! — e aggiunse, fissando i grandi occhi in Costanza: — Ma già, tu fra poco non avrai bisogno di nulla. È vero che vai sposa ad Alessio?

— Macchè! — disse Costanza con aria contrita. — Chi te l'ha detto? Che sciocchezze si dicono! Come vuoi che Alessio pensi a riprender moglie se Maria non fa mezz'anno ch'è morta? Chi te lo ha detto? — insisté tuttavia con interesse.

— Chi? — fece Elena, come interrogandosi. — Aspetta. Chi me l'ha detto? Ah, Cicchedda!

— La nostra serva?

— Sì, l'altro giorno ch'è venuta qui.

— Ma guardate che matta! — disse Costanza arrossendo. — Ti giuro che non è vero! Ma tu pure dicono che vai sposa con un presidente. Non ricordo come si chiama.

— Non è vero. Bugie, fole, sciocchezze — disse Elena con semplicità.

Appena rientrata Costanza se la prese con Cicchedda; si bisticciarono, e se ne dissero di cotte e di crude. Ora la servetta rispondeva, s'inalberava ad ogni osservazione, assumeva un contegno stravagante; non lavorava più con la muta rassegnazione di prima, e perdeva in bontà e pazienza quanto sembrava acquistasse in intelligenza e bellezza. Eseguiva ancora e puntualmente le sue faccende, ma guai a dirle una parola alta. E ora Agada temeva di perderla; avendole la sua coscienza suggerito finalmente che il lavoro della fanciulla meritava un compenso, le assegnò cinque lire al mese, ma siccome sapeva, a tempo opportuno, fare della speculazione, un giorno fece a Cicchedda questo discorso:

— Senti. Tu ora sei una ragazza che deve comportarsi con decoro e decenza…..

Cicchedda lo sapeva di già, e fece una graziosa smorfia.

— ….. ora, allorchè vai in chiesa, occorre che sii vestita di tutto punto, con le scarpe…..

— Le ho!

— ….. e il corsetto allacciato…..

— Mi pare che non mi abbiate mai veduto in chiesa col corsetto slacciato!

— Eh, non ci vai molto in chiesa!

— Perchè non mi lasciate andare.

— No, perchè ti piace andar in giro. Ma lasciamo ciò. Dunque bisogna che tu sii decente, che ti procuri il giubbone e la tunica.

— Se mi anticipate i denari!

— Non ne ho, ma tu sai che ho un giubbone ed una tunica che vorrei vendere perchè mi sono stretti. Te li do in conto della tua paga…..

Cicchedda accettò, e così ebbe quasi un anno di paga anticipata, perchè Agada, con tutta la sua coscienza, glieli cedè al doppio prezzo del valore.

Con tutto questo temeva che qualche giorno la ragazza la piantasse, e la trattava bene perchè difficilmente ora avrebbe trovato una domestica più esperta per quel prezzo vile. Oramai Cicchedda conosceva tutti gli angoli della casa, sapeva gli affari di famiglia, era agile, fedele, esperta, non tradiva il segreto, non rubava, mangiava e dormiva poco. Poi in certe ore era d'un buon umore invadente, che cacciava la melanconia dall' anima severa di zia Agada. Diceva ingenuità stravaganti e verità che facevano ridere, tanto erano profonde; portava dalle vie, dalle case, da tutti i buchi dove penetrava, un mondo di notizie, di pettegolezzi, di cose meravigliose ed emozionanti.

Le Brindis facevano vita ritirata, ma amavano intensamente conoscere i fatti altrui, e godevano assai per le buone qualità di cronista di Cicchedda.

Anche zia Franzisca, che veniva spesso a lavorar in casa, portava un gran contributo di notizie interessanti; altre donnicciuole venivano e portavano e apprendevano le novità di tutta Nuoro, ma con costoro le Brindis restavano riservate e piene di decoro, e non godevano tutto il gusto sopraffino provato con Cicchedda, davanti a cui potevano abbandonarsi a tutti i commenti, a tutte le meraviglie, al dispiacere per la fortuna altrui o alla gioia per l'altrui male.

Poi Domenico s'era affezionato alla servetta con tutta la tenacità degli affetti infantili; senza di lei, che sembrava ammaliarlo, non mangiava, non dormiva, non stava tranquillo; e quando ella dovea allontanarsi per intere giornate, restava melanconico, inquieto e cattivo. Se gli sopravvenivano dei piccoli mali, e gliene venivano spesso perchè, in assenza del padre, lo allevavano male, lo viziavano, gli davano tutti i gusti, per cui veniva su goloso e intemperante in modo da soffrire solennissime indigestioni; solo Cicchedda riusciva a curarlo, a fargli prendere le medicine e guarirlo.

Ora Domenico, coi suoi begli occhi verdi indifferenti, con le fossette delle sue guancie fresche e rosate, col suo riso da uccellino, coi suoi cavallini e fucili di canna, con le sue monellerie, col suo fracasso che benchè minuscolo metteva sottosopra tutta la casa, coi suoi discorsetti strani e le parole che Salvatore Brindis gli insegnava, era l'idoletto domestico che guai a infrangersi od a sporgere il piccolo muso roseo.

Invece d'esserne gelosi, i Brindis si compiacevano della predilezione del bimbo per Cicchedda. Pareva loro un segno d'intelligenza: non era già tutto giusto e meraviglioso ciò che pensava, provava e balbettava il fraticello?

Lasciamolo dunque affezionarsi a chi più gli pare e piace, contentiamoci che Cicchedda lo sappia pigliar per il suo verso, fargli ritirare il musino, prender le medicine, lasciarsi lavare e pulire, e insegnar le preghiere e le parole graziose.

L'argomento era logico, non faceva una piega; era anzi quanto di più liscio si possa immaginare. E per tutte queste cose Agada temeva che Cicchedda l'abbandonasse col suo anno di paga anticipata.

Ma la ragazza non ci pensava neanche in sogno: voleva soltanto esser rispettata; sentiva una specie di fiera e selvaggia dignità, risvegliatasele a un tratto, per cui ora gli scherzi di Salvatore Brindis la pungevano come spilli arroventati. Che ella diventasse di giorno in giorno più alta e ben fatta, e pulita e bianca, che il modo con cui si tirava le maniche della camicia sulle bretelle del corsetto le desse un'eleganza tutta speciale, che restasse a testa nuda e la sua treccia attortigliata fosse bionda come la stoppia del grano, poco importava a Salvatore Brindis. Egli continuava a scherzare; egli, sempre per burla, diceva le più graziose ingiurie a tutti i suoi conoscenti; e prima di tutti a sua moglie; ma Cicchedda non voleva persuadersi che ciò era un segno di affetto, e pensava sempre fissamente al modo di procurarsi una ciocca viva dei capelli d'Alessio, per bruciarla e farla bere al padrone.

Veramente aveva un pensiero più fisso e tormentoso di questo, ma il desiderio di riuscire a far l'intruglio magico per zio Salvatore non era poca cosa.

Ora, grandemente difficile era l'impresa dei capelli. Alessio si pettinava ogni giorno, e sarebbe stato facile raccorre i capelli che gli cadevano; ma no, bisognava che quelli destinati alla bella bevanda, fossero tagliati appositamente, con la precisa intenzione d'adoprarli a tal uso, e con desiderio, tacito od espresso, che riuscissero buon effetto.

Ma perchè i capelli d'Alessio e non di altri? Era egli veramente la persona che Salvatore Brindis amava di più?

Cicchedda, per tre giorni e tre notti di seguito, aveva diligentemente esaminato la questione. Chi era la persona più amata dal padrone? Alessio, Agada, Domenico o Costanza? O qualcuno dei numerosi amici? Nicola Noina, per esempio, col quale Salvatore s'amavan come fratelli?

Per un momento ella pensò anche a Domenico; ma tosto le parve che un bimbo non potesse venir amato con la forza con cui s'ama un grande. Scartò poi decisamente Agada e Costanza; Salvatore Brindis non le sembrava un uomo capace d'amare sovra tutti una donna, fosse pure sua moglie o la sua figlia adottiva.

Restava Alessio; a lui bisognava tagliar i capelli, ed ella tremava a questo pensiero; ma appunto perchè Alessio non sentisse più gli orribili scherzi dello zio, la cosa era necessaria ed urgente. Da qualche tempo poi ella si accorgeva che Costanza aiutava Salvatore a perseguitarla con graziosissimi insulti, specialmente alla presenza d'Alessio.

— Padrona — disse un giorno in cui si trovava sola con Agada — mi fate un piacere?

— Vuol forse le cresca la paga? — pensò Agada.

— Sentite — disse l'altra, sedendosi per terra ed estraendosi una spina dal piede, come se n'estraeva una dal cuore. — Io non so perchè il padrone e Costanza mi parlino sempre così male. Non faccio forse il mio dovere? Li offendo io?

— Tu pure sei linguacciuta.

— Linguacciuta! Linguacciuta! Quando mi rompono la pazienza! Altrimenti non molesto nessuno. Io vi do l'anima e il corpo, e voi, anzi voi no, ma Costanza mi tratta e mi parla cosi male! Mi dispiace perchè alla fine non sono più una ragazzina. Pare che non siate più contente di me! Potete dirmelo e me ne vado, non e'è bisogno di parlarmi male, e pormi in caricatura. Sono come Dio mi ha fatta!

— Sei anzi una bella ragazza — disse Agada per lusingarla. — Prima non dico, ma ora…

— Bella o brutta, poco importa! Io riconosco tutto il bene che mi avete fatto, ma non e'è bisogno che nessuno mi rinfacci il modo con cui m'avete raccolta! L'elemosina l'han chiesta persino dei re, e la povertà non è viltà. Del resto, nel mondo nessuno deve fidarsi, perchè chi non ha mendicato da giovine, può farlo in vecchiaia. Eh, non guardatemi così, non dico per voi! Quello che più mi dispiace — aggiunse dopo un momento d'esitazione — è che mi prendono per una ragazzina, e dicono che ho le gambe di rana!

Agada rise suo malgrado.

— E poi — disse infine Cicchedda, mettendosi un dito in bocca e sfregando un po' di saliva sul piede — vengono a dirmelo davanti agli uomini, che perciò mi rivolgono delle insolenze!

— Fa una cosa — disse Agada ridendo — mostra a tutti le gambe, e vedranno ch'è calunnia!

Ella sollevò vivamente il capo, guardò scandolezzata la padrona e disse con dispetto:

— Sentite, se non fate il piacere di finirla, voi e loro, vedrete la burla che vi faccio io!

Agada, temendo ch'ella se ne andasse, pregò Costanza e Salvatore di lasciarla in pace.

— Oh, va al diavolo! — esclamò Salvatore. — Ti occupi di queste cose? O sei gelosa?

Gelosa? Agada non sorrise neppure, tanto la cosa le parve sciocca.

— Che intendi dire, Salvatore Brindis?

— Voglio dire se ti salta in testa l'idea che tuo marito s'occupi sul serio della tua domestica, che il diavolo la scortichi!

— Ma non è questo che volevo dirti io!

— Sì, lo capisco, ma del resto faccio quel che mi pare e piace!

La sera infatti, mentre finivano di cenare, interruppe un grave discorso per dire:

— Vieni qui, Cicchedda, l'olianese mendicante, cosa sono i pettegolezzi che sei andata a raccontare alla tua padrona?

La fanciulla arrossì e provò un principio di spasimo.

— Io? nulla! — rispose.

— Nulla? Te lo do io il nulla! Ecco ora che la tua padrona é gelosa perchè crede che io mi occupi di te!

— Come siete matto! — esclamò la ragazza. — Fate venire il riso giallo! (Sardonico).

— E proprio fai venire il riso giallo! — disse Costanza con disprezzo.

Ella, che cominciava a odiar la padroncina, provò un brivido di dispetto.

— Lasciatemi in pace — disse — io non vi cerco!

— Ma ti cerchiamo noi! — gridò Salvatore; e vistala metter il broncio, e respinger la cena, disse: — Mangia, mangia, che ti si mangi la polvere; e non tormentar più mia moglie!

Alessio e Costanza ridevano, e Cicchedda, con gli occhi velati di lagrime, si sentiva roder le viscere da quel riso.

— Non voglio nulla! — disse ad Agada che la lusingava. — Lasciatemi stare la testa.

— La testa e i piedi; ma mangia, altrimenti la rabbia ti rovinerà.

— Sempre, sempre così! — disse Costanza ridendo.

— Io non so cosa diavolo hai. Diventi insopportabile ch'è un piacere!

— Dovresti star sempre allegra! — disse Alessio con la sua bella voce. — Cosa ti manea? Pensi forse a pagar le imposte?

— Le imposte ai ricchi, che perciò non hanno il diritto d'insultare i poveri! — disse Cicchedda fieramente.

Alessio ne restò così colpito che non rispose, e chinò gli occhi su Domenico, che appoggiato alle sue ginocchia si succhiava tranquillamente un dito.

Cicchedda mise sul fornello il paiolino dell' acqua per pulire i piatti, e uscita nel cortile si sedette sotto il portico.

La notte era oscura, troppo fresca; un vento leggero e melanconico gemeva, frusciando sul fico nero, dove cantava l'ultimo grillo: la fanciulla, a testa nuda, provò un brivido di freddo, e si sentì triste, triste fino alla morte.

Si mise a singhiozzare piano, piano, amaramente, e non rispose ad Agada, che la chiamò dalla cucina.

Dopo un pocò uscì Alessio e avvicinandosele disse con dolcezza:

— Perchè non entri? Domenico dorme; va e mettilo a letto. Fa da buona, lascia cantar zio: tu sai com'è fatto lui!

Ella sentì alleggerirsele il cuore: avrebbe voluto disfarsi in largrime, cadendo ai piedi d'Alessio, e singultò forte, ma di ineffabile dolcezza.

— Ma sai che sei una ragazza sciocca! — diss'egli, vieppiù dolcemente. — E perchè piangi ora? Alzati, e va in cucina…

— Tutti mi vogliono male — singhiozzò essa — ma me ne andrò… me ne andrò…

— Macchè! Nessuno ti vuol male; io almeno ti voglio bene! — disse Alessio, e per provarglielo le passò una mano sui biondi e freschi capelli.

Scherzava o diceva sul serio? La trattava da bimba o da fanciulla? Ella non se lo spiegò, ma sentì tutte le verdi stelle del cielo cader nel cortile, il fico ballare, il freddo cambiarsi in un calore delizioso e inebbriante; e senza accorgersene si trovò in cucina, ridendo silenziosamente e beatamente. Prese Domenico fra le braccia e tornò nel cortile.

Alessio non c'era più, ma ella lo vide lo stesso, e quando spogliò Domenico e lo mise a letto, e gli accomodò delicatamente la testina e le manine sul guanciale, facendogli il segno della croce, nascose il volto sulle coltri, e rise e gemette in modo che pareva impazzita..

Il giorno dopo Alessio e Salvatore Brindis salivano a cavallo sulla montagna, recandosi a stimar le ghiande degli elci d'un'alta tanca, che dovevano prender in affitto per i loro porci.

A un certo punto, in un sito d'una bellezza selvaggia e solenne, dove alte roccie di granito chiudevano il bosco meraviglioso, presero a parlar di Cicchedda.

I cavalli, un po' ansanti e lucenti di sudore, camminavano silenziosamente sulle foglie morte, tra le felci secche e l'erba autunnale; Alessio diceva che Cicchedda era una bella ragazza, e la sua voce perdevasi stranamente nel silenzio profondo dell'alta foresta.

— Vi ricordate? Pochi mesi fa era così stupida e brutta! Io non so certi cambiamenti delle donne! Ora è bella, e lo diventerà di più. Ha i capelli che sembrano seta…

— Diavolo! Glieli hai toccati? — domandò Salvatore ridendo.

— Forse! — disse Alessio, e continuò ad enumerare le bellezze della ragazza.

Salvatore, con quel suo grosso corpo un po' abbandonato sulla sella, ansava, e ogni tanto tiravasi sulla fronte la berretta che voleva scivolar indietro, guardando in viso il nipote con quei suoi occhi torvi e iniettati di rosso.

Alessio invece guardava innanzi a sè, continuando a parlar di Cicchedda, e nella sporgenza delle sue labbra, e nella espressione del suo volto, Salvatore scorgeva qualche cosa che non gli garbava.

— Senti — disse a un tratto, chinandosi sul cavallo per passare sotto le fronde basse d'un elce — mi pare che tu abbi guardato molto la ragazza.

— E perchè no? — rispose Alessio ridendo.

Ma Salvatore non aveva voglia di ridere.

— Sentimi bene. Tua moglie è morta quest' anno, ma ciò non t'obbliga a sotterrarti dopo di lei. (Alessio fece il viso lugubre). Sei giovine e forte, lo capisco benissimo, ma senti bene, sarebbe una bellissima cosa se tu non guardassi tanto Cicchedda.

— Oh, diavolo! — gridò Alessio ripigliando la sua disinvoltura, e guardando maliziosamente lo zio. — Mi pare che la guardiate anche voi! — Ma Salvatore restò così duro e composto che il nipote, prendendo la cosa sul serio, aggiunse con disprezzo: — Non abbiate paura, no!

— Cicchedda io la considero come una figlia di famiglia — disse Salvatore, passando curvo sotto un altro elce; — è cresciuta in casa, non la manderò mai via…

Alessio significò con un gesto:

— Ma cosa me ne importa!

— Non voglio che in casa mia le succeda nessuna disgrazia; non voglio, capisci?

— Purchè non le accada altrove! — disse Alessio ridendo. — Essa è bella ed allegra, e non sono io solo a guardarla. La guardate anche voi, mi pare!

— Eh, diavolo, lasciami questi discorsi! gridò Salvatore, che diventava livido per la stizza e la fatica.

— Del resto faccia ella quel che le pare e piace!

Andò avanti, e il discorso pareva finito; ma poi fermò il cavallo, attese Alessio e disse recisamente:

— È una bambina, è anche un po' sciocca, e può commettere qualche pazzia senza accorgersene. Voglio che tu faccia da savio, capisci? Potresti altrimenti rischiare qualche cosa…

— Ma — esclamò Alessio, seccato — perchè ve la pigliate così? Ho forse detto qualche cosa, io?

Vedi là il monte Palas de Casteddu? Ricordati ciò che oggi ti dico qui. Divertiti dove vuoi, fuorchè in casa mia, con quella ragazza. Altrimenti ti farò pagar caro ogni danno. Ricordatene!

E Salvatore allargò le braccia quasi chiamando a testimonia la montagna.

Il bosco s'apriva in una verde radura, donde si godeva un immenso panorama, fino alle cerule montagne del Gennargentu; chine verdi e rocciose salivano fino agli estremi boschi della montagna; il mattino era fresco e splendido, il paesaggio meraviglioso nella dolcezza autunnale. Prima di riprender la salita, i cavalli si abbeverarono iu una fontana, presso una capanna addossata alle roccie, donde uscì un uomo armato di fucile. Era un bandito, che salutò, intrattenendosi fiduciosamente coi due passanti. Oltrepassata la fontana, essi presero a parlar del bandito, di ghiande, di porci e di tancas e la bionda Cicchedda parve completamente obliata.

Ma da quella sera Alessio entrò con lei nella più benevola e graziosa relazione, cordiale e senza malizia, che non insospettì nessuno, fuorchè Costanza.

Questa ragazza, fredda e ambiziosa, contava dei diritti sul cugino, benchè non l'avesse mai realmente amato.

In un tempo lontano i parenti, gli amici ed i vicini glielo avevan designato come sposo; ma Alessio avea sposato Maria, ed ella erasi rassegnata, tanto più che essendo giovanissima non le mancava la speranza di sposare un altro principale. Non aveva mai fatto l'amore, nè probabilmente mai amato. Come tutte le paesane nuoresi di buona famiglia, era in fatto d'onestà d'una delicatezza puritana; sarebbe morta di dolore, se qualcuno avesse trovato che ridire sulla sua condotta.

Intanto però, a venticinque anni, nessuno dei pretendenti, più o meno veri, di cui si vantava, degnavasi sposarla.

Ora, nonostante il lutto recente, i parenti, gli amici ed i vicini tornavano a combinar fra loro il matrimonio di Alessio con la cugina. Ed essa ci credeva, oh, se ci credeva! tanto più che ora Alessio era più ricco di prima, e i famosi pretendenti si lasciavano desiderare.

Tre mesi prima ella, insieme al sogno del tesoro, avea accarezzato la stolta speranza di sposar nientemeno che Cosimo Bancu: segretamente, nel suo sogno ambizioso, di cui, non conoscendo bene Cosimo, non potea misurare tutta la stoltezza e l'impossibilità, aveva pregustato la voluttà di entrare in una famiglia signorile, di aver salotto, di indossare vesti ricamate e guanti; ma il luminoso sogno era caduto assieme alla speranza di ritrovare il tesoro, e la presenza d'Alessio, giovine e vigoroso, che portava il lutto con disinvoltura, l'avea consolata fino ad un certo punto.

Tutti le chiedevano: « È vero che sposi Alessio? » Ella si stizziva, rispondeva di no, se la prendeva con Cicchedda, che confermava e propagava la diceria, ma in fondo se ne sentiva felicissima.

Circondava Alessio di cure e di gentilezze, davanti a lui si mostrava operosa e prudente, savia ed accorta, e benchè egli pensasse a tutt'altro che a corteggiarla, sperava assai.

Ma un giorno s'accorse dei grilli che Cicchedda aveva per la testa, e se ne indispettì, e cominciò a farle una guerra senza tregua nè pietà; l'avrebbe mandata via a spintoni cento volte al giorno, senza la protezione che ora la ragazza godeva da Agada Brindis, nonchè da zio Salvatore.

Nonostante certe sue malignità, Agada era troppo fatta all'antica per accorgersi di certe cose, e il padrone restava sempre fuori di casa; d'altronde, la condotta di Cicchedda pareva irreprensibile; ella era d'un tratto diventata seria e pensierosa, e lavorava alacremente, sopportando con pazienza la persecuzione di Costanza. Ogni volta che Alessio riedeva di campagna, ella, che riconosceva da lontano il passo della cavalla, prendeva Domenico in braccio e usciva sulla via: appena sull'angolo della viuzza spuntavano le orecchie nere della cavalla, il bimbo agitava le piccole braccia, e il volto di lei s'illuminava. Andava incontro al giovine e gli porgeva il bimbo, che strillava di gioia; e Alessio, mettendo Domenico sul davanti della sella, le diceva qualche buona parola, e le sorrideva, guardandola profondamente. Ella lavorava come una schiava, soffriva tutte le pene e le umiliazioni possibili, e avrebbe ogni giorno dato un anno della sua miserabile vita, per questo sguardo e questo sorriso; sentivasi mancare quando le piovevano dall'alto della docile cavalla, e nell'angoscia della momentanea felicità fatale, desiderava cadere ai piedi di Alessio, esangue e morta. Morta, morta! Almeno egli l'avrebbe raccolta fra le sue braccia, forse versando una lagrima. Morta, morta! Tanto che faceva ella nella vita, senza gioie, nè speranze, con in cuore quell'incanto tormentoso, che la sfiniva e la perdeva, che l'aveva destata alla vita, ed ora la spingeva alla morte? Almeno almeno la lasciassero tranquilla!

Tante volte aveva pensato di confidare ad Alessio le sue pene, la persecuzione seria di Costanza unita a quella burlesca e terribile di zio Salvatore. Pensava anche di pregarlo a darle una ciocca dei suoi capelli, per comporre la magica bevanda; e dopo questa decisione sentivasi tranquilla, quasi allegra, ma arrivato il momento di parlare si vergognava, arrossiva persino d averci pensato.

E la magìa era più che mai necessaria, occorrendo anche per Costanza, che ella credeva innamorata di Alessio; ma appunto per la sua muta ed astiosa sorveglianza, la faccenda riusciva impossibile.

Rimpetto alla camera delle ragazze, per una porta che s'apriva e chiudeva col semplice segreto d'un saliscendi manovrato da una cordicella, c'era una stanzetta ove stavan rimesse tutte le masserizie per fare il pane: di là s'entrava nella camera d'Alessio, la cui finestra dava sul cortile.

Egli dormiva a porta aperta, e facile era introdursi da lui e, durante il sonno, tagliargli i capelli; ma a Cicchedda riusciva impossibile levarsi di notte, perchè Costanza la vigilava, e chiudeva la loro porta tenendosi la chiave.

Ma una sera si decise.

Era agli ultimi dell'anno. Alessio e zio Salvatore salirono all'ovile per visitare i porci che ingrassavano meravigliosamente. e dalla cui vendita si sperava assai. Dacchè era in casa il nipote, gli affari non andavano male come prima, ma neppur bene quanto si desiderava. Salvatore giocava a carte, usava con donne, era splendido con gli amici, e le rendite non potevano bastare. Agada si lamentava di continuo, e diceva ad Alessio, col viso bianco e stirato per la mortificazione:

— Sgridalo tu, sgridalo tu, figlio mio, digli che lasci i vizi, che è tempo di finirla con tutti questi pasticci, questi imbrogli, queste pazzie. Oramai è vecchio, dovrebbe andar più bene… Io non posso esser più mortificata di così,!

Alessio faceva quel che poteva. Salvatore lo lasciava dire o si seccava.

— Ficcati nei fatti tuoi! — gli disse un giorno, con la sua voce sonora, che faceva tremar Cicchedda.

— lo faccio quel che mi pare e piace!

Quel giorno trascorsero una deliziosa giornata sulla montagna: soffiava una tramontana tagliente, la nebbia incappucciava le cime, ogni tanto volteggiava uno spruzzo di nevischio al di sopra dei boschi; ma i pastori accesero un gran fuoco nella capanna, e arrostirono un porchetto, raccontando storie piacevoli. Poi venne un amico da una tanta limitrofa, portò una zucca di vino d'Oliena, e cantarono e risero, parlando di banditi e di donne.

Riparlarono anche di Cicchedda, e Alessio lasciò capire ch'ella era innamorata di lui. Salvatore aggrottò le sopracciglia e diventò pavonazzo.

— La mando via, la mando via… o piuttosto mando via te… Ricordati ciò che ti ho detto tre mesi fa… passavamo laggiù! — gridò, tendendo il braccio verso il monte Palas de Casteddu.

Alessio, che fumava semi-sdraiato per terra, strinse le labbra intorno al cannello della sua pipa elegante, con atto di derisione e di suprema noncuranza, ma, in una specie di sogno, continuò a pensare alla fanciulla. Era un desiderio infinito, che lo pungeva e lo dominava da parecchio tempo: ma egli non curava neppure di esaminarlo o combatterlo, tanto si riteneva superiore ad una simile passione. Non curava di più le avvertenze e le minaccie di Salvatore; e non si divertiva con Cicchedda, non per onestà o indifferenza, ma perchè credeva di degradarsi abbassandosi a lei.

Quando però le stava vicino, e la sentiva palpitare e smarrirsi sotto il suo sguardo, e la vedeva così bella e fresca, così piena di passione per lui, molte tentazioni lo assalivano, il suo occhio diventava profondo, e gli occorreva una fredda potenza di volontà per dominarsi.

Mentr'egli pensava a lei, nell'ovile della montagna, ella puliva la farina d'orzo sognando di lui. Ogni tanto, invitata dal monotono volteggiar dello staccio, si provava a cantare, ma la voce le moriva in gola: aveva freddo, era triste, presentiva cose ignote ed amare, e il pensiero di lui non bastava a calmarla.

— Stanotte entrerò — pensava. — Stassera dobbiamo lievitare il pane; a mezzanotte io devo levarmi per rimescolare la pasta; Costanza resta a letto, ed io entro…

Ma pensando così gli occhi le si smarrivano come dietro una visione apocalitica. Una volta singhiozzò, e pensò eroicamente: — Me ne vado, me ne vado; mi vogliouo persino in casa Bancu e mi pagano meglio di qui. Cosa ci faccio io qui? Se resto ancora divento pazza!…

Per qualche istante, passando la farina nel vaglio, accarezzò la buona idea. Ma come poteva andarsene, se la sua vita era attaccata ad ogni angolo, ad ogni oggetto della casa? Come poteva abbandonare, oltrecchè le persone, gli animali che amava intensamente? Come poteva viver senza veder l'asinello, la cavalla d'Alessio, il cavallo di zio Salvatore, il gallo, le galline, il cane e i gatti? Amava il fico, il pozzo, la mola, sorrideva ad ogni cantuccio della casa; tutti gli oggetti, cominciando dal paiolino e terminando con le forbici, le parlavano un linguaggio speciale. Come poteva viver senza veder ogni giorno i verdi uccelli scintillanti nei piatti, senza macinare il caffé nel macinino di ferro, il cui rumore la invitava a cantare, senza attinger acqua dal pozzo stretto ed oscuro, con la pesante secchia di latta, senza spazzare il cortile grigio e freddo, senza chiuder il portone, la cui serratura aveva una strana fisionomia che sogghignava o sorrideva a secenda delle ore?

E piangeva, piangeva pensando a tutte queste cose, e mentre una voce interna la consigliava di andarsene, di fuggire i tormenti e le tentazioni, un'altra voce più intima, più forte e potente, le diceva che nonostante tutto, ella doveva restare e operare secondo voleva il suo destino.

Verso le due pomeridiane la farina era pulita; e venuta zia Franzisca, fra una storiella e l'altra, mentre la caffettiera brontolava sul fuoco, con gran voluttà della comare, fu lievitato e impastato il pane d'orzo, rimesso entro grandi recipienti di sughero, disposti accanto al focolare, e ben coperti con sacchi di lana. La fermentazione doveva cominciare nelle prime ore della notte; a mezzanotte Cicchedda doveva rimescolar la pasta entro i recipienti, e qualche ora dopo cominciar il pane.

Intanto ella sentivasi triste ed inquieta, perchè i padroni tardavano a ritornare; temeva passassero la notte in montagna, ed ogni tanto usciva sul portone.

— Ah lo aspetti? — pensò Costanza, accorgendosene. — Ma stassera non uscirai sulla strada a far la pazza, parola che ti do io!

Infatti al cader della notte Cicchedda sussultò udendo il passo dei cavalli, e prese Domenico fra le braccia gridando:

— Senti, senti, cuoricino mio! Senti il babbo e zio Salvatore… andiamo d incontrarli! Portano un porcellino a Domenico, non è vero? Senti, senti, il porcellino ti chiama!

— Senti, senti, porcellino chiama Domenico — gridò il bimbo aggrappandosele al collo e sfregandole il visino sulla spalla.

Ma mentre ella stava per uscire Costanza le si slanciò sopra e le tolse il bambino.

— Vado io; tu resta qui! — disse aspramente.

Ella sentì come una pugnalata; restò muta e stecchita, quasi spaventata, e in quel momento s'accorse che l'astio di Costanza s'era fatto odio.

— Stanotte entrerò — pensò — non ne posso più; se la magia non riesce, me ne vado.

— E Cicchedda? — domandò vivamente Alessio, vedendo Costanza col bimbo che strillava:

— Porcellino, porcellino mio, dov'è?

Era quasi notte; una notte fredda, nebbiosa, umida e piena di vento.

—È malata… perchè credeva che stassera restavate fuori di casa — rispose Costanza con un tristo sorriso.

Anche Alessio sentì qualche cosa nella voce della cugina, e vedendo Cicchedda pallida e seria ne provò pietà: per confortarla la guardò, e le mise egli stesso il bimbo fra le braccia. Ella riprese un po' di buon umore, non rispose alle querimonie di Costanza e attese.

Andata a letto, non chiuse occhio; sentì Alessio uscire e rientrare verso le undici, e con gli occhi spalancati, nell'oscurità animata dal russare infantile del bimbo, seguì mentalmente ogni movimento del giovane. Si calmò quando le sembrò addormentato; ma lo era profondamente? In quel momento ella non lo amava punto; pensava a lui come al prediletto di Salvatore e di Costanza, di cui le occorreva una ciocca di capelli. La paura e l'ansia la paralizzavano; con gli occhi aperti e le orecchie tese, in quella immobilità fissa, pareva che il suo solito io fosse addormentato, che il solo pensiero di entrar là tenesse desta la sua percezione, dandole un forte e doloroso palpito alla tempia sinistra. Eppure altri pensieri, altre percezioni vaghe, indistinte e sfuggenti le tumultuavano nella mente: nell'oscurità la sua iride fissa vedeva sprazzi violetti, iridati, che guizzavano e sparivano come piccoli serpi.

A un tratto le parve che Alessio si addormentasse profondamente, ma che Alessio fosse ella stessa, che cadeva in leggerissimo sonno. E ne provò una infinita dolcezza, le parve d'esser felice, di amare tutti, compresa Costanza. In questo stato, nè sonno nè veglia durò quasi un'ora; poi si levò rabbrividendo di freddo, indolenzita dal riposo tormentoso, e provò una vertigine intensa, nella quale le tenebre della camera si fecero più dense e profonde. Si vestì silenziosamente e uscì con le scarpe in mano, fermandosi sul portico per calzarsele, investita dal vento, il cui soffio le diede quasi una sensazione piacevole, ridonandole un po' di vita e di coraggio.

Fu così che tirò la cordicella del saliscendi, e la porta s'aprì con leggero stridìo. Ma ella non entrò ancora: lasciò la porta semiaperta e attraversò il cortile in punta di piedi. Nella cucina tiepida, dal fuoco coperto di cenere saliva una tenue fiammella azzurra e trasparente, che pareva sospirasse, perchè il tronco cigolava ad intervalli. Ella, superstiziosa e paurosa, si spaventò, e alla livida luce della fiammella, che irradiava appena le pietre del focolare, cercò tremando la candela. Ora, mentre tendeva la mano destra, con la sinistra si strofinò leggermente l'angolo di un occhio, e tosto, per il fenomeno semplicissimo che a tutti accade, vide un grande occhio splendente passarle rapidamente dinnanzi. Diede un salto e un grido doloroso.

Poche volte ella aveva veduto quell'occhio — qualche volta due in pari tempo — con indicibile terrore; era lo sguardo d'uno spirito occulto e terribile, che l'avvertiva di misteriose disgrazie. E ogni volta, ella diceva, le era accaduta qualche cosa malaugurata: l'ultima volta, per esempio, Costanza aveva cominciato perseguitarla!

Tremando nervosamente, accese il lume e rimuginò il fuoco, ma neppure la luce ed il calore dissiparono la sua cupa e profonda tristezza. Nonostante il suo angoscioso terrore pensava sempre ai capelli di Alessio: ravvivò il fuoco, e soltanto dopo aver cercato le forbici nel cestino del cucito, guardò se il pane fermentava. La pasta, d'un color grigio livido, era gonfia, ma non ancora in grado di essere rimescolata; ed ella si sedette accanto al fuoco con le mani intrecciate davanti alle ginocchia, e cadde in profondi pensieri, aspettando e tremando.

Verso la una Alessio, che pure s'era addormentato pensando ad altro, sognava d'essere nell'ovile della montagna. A un tratto vide Cicchedda correr disperata verso di lui, inseguita da un pastore che le gridava: — Ti uccido, ti uccido!… Mi hai rubato il porchetto! — Salvami, salvami, Alessio Piscu! — gridò ella. Avea i bei capelli biondi sciolti, e Alessio, che col suo gusto di paesano civilizzato e raffinato amava assai questi capelli, fu assalito dalla subitanea passione che sempre provava accanto a lei: quindi la salvò con entusiasmo, accogliendola fra le sue braccia; e senza darsi pensiero del pastore, cominciò a baciarla appassionatamente, pensando:

— Ma che sciocco ero io a non corrisponderla prima questa ragazza!

Però la ragazza pareva pensarla diversamente, perchè si mise a gridare e per difendersi brandi un paio di forbici e gliele passò in fronte.

Ei si svegliò rabbrividendo, e sulle prime credè che il sogno continuasse: in un filo di luce, che penetrava per la porta semi-aperta, vide la fanciulla sognata china su lui, e sentì che gli tagliava i capelli. Provò una strana sensazione di spavento, di stupore e piacere; i polsi gli tremarono, ma rapidamente percepì la realtà e pensò che Cicchedda gli rapisse i capelli per comporne qualche filtro amoroso, e sentì svanire il suo spavento più fisico che morale.

— Che stai facendo? — domandò con voce sommessa, spalancando gli occhi.

Ella lasciò la ciocca già tagliata, e tutto il sangue le salì alla testa: volle fuggire, ma non potè: ei le teneva vigorosamente stretta una mano, e nell'influsso quasi magnetico lasciatogli dal sogno, nonostante la scossa fisica provata nello svegliarsi, sentiva d'amar vertiginosamente la fanciulla, dimenticando completamente, in quell'ora e in quello strano momento psicologico, tutta la sua superiorità, nonchè gli avvertimenti di Salvatore Brindis.

E Cicchedda, a cui la veglia tormentosa, la fatica e il terrore provati, ed ora l'umiliazione e il dolore di non esser riuscita nella sua impresa, toglievano il sentimento della realtà, in quell'oscurità che le gravava sulla testa dolente, che le stringeva il cuore con neffabile angoscia, non poteva fuggire, nè gridare mentre l'occhio dello spirito maligno, l'occhio d'oro, verde, violetto, rosso, radioso e spaventoso tornava a passarle davanti, ingrandendosi immensamente, immensamente.

Il cinque agosto, giorno del suo onomastico, Maria Nevina Spina seppe per la prima volta la triste notizia.

Il signor Peppe Spina, che adorava la sua figlietta, avea comprato dolci e rinfresci, invitando qualche collega impiegato per festeggiare l'onomastico di Maria. Ed ella, così graziosina, facendo gli onori di casa assieme alla grassa domestica sua amica e sua guida, indossava il vestito nuovo, il bianco, e aveva le guancie delicate insolitamente tinte di rosa. Era molto bellina così, coi chiari occhi tanto limpidi eppur tanto profondi, con la bella treccia pendente, che le dava una leggera inquietudine, perchè poteva guastare il colletto dell'abito, con le sue mosse timide e infantili.

Aveva diciotto anni, ma ne mostrava quindici: un signore, facendole gli auguri, s'era permesso regalarle un pizzicotto alla guancia sinistra, che forse perciò restava più rosea dell'altra, ed ella ne provava una intensa mortificazione.

Vennero anche due signore, e a un certo punto cominciarono a sparlare dell'avvocato Cosimo Bancu, e Maria tese le piccole orecchie trasparenti, che diventarono di corallo. Ella non poteva, nè voleva parlare per difendere il suo vicino, e chinò dolorosamente i grandi occhi chiari, ma un osservatore attento avrebbe indovinato tutti i suoi sentimenti dal colore e dal fremito delle piccole orecchie diafane, velate di capelli crespi sfuggiti al pettine.

Un giovinotto disse con tono beffardo e riso sardonico, bevendo dal fondo d'un bicchiere:

— Si rialzerà ora, se sposa la Marchis! — E guardò il bicchiere vuoto, attraverso la luce, socchiudendo un occhio malignamente.

Fu allora che le orecchie di Maria diventarono come di cera: sollevò gli occhi supplichevolmente, implorando misericordia, ma nessuno smentì la triste novella. Qualcuno ripetè l'orrendo riso sardonico del giovinotto, e le due signore cominciarono a parlar fitto fitto, con voce calma ma tagliente, frugando nella vita di Peppina.

Così Maria venne a conoscere molte cose che prima non sapeva, e che avrebbe voluto ignorar sempre.

— Sentite — diceva il giovinotto del bicchiere — la storia è così: qualche mese fa, una notte oscura, Bancu ritornava dal Circolo. In un certo punto vide una porta aperta, e sembrandogli strano si fermò, anzi sporse la testa all'interno. Tosto una bellissima ragazza gli gettò le braccia al collo, e cominciò a chiamarlo appassionatamente « Stefano mio, Stefano mio.» Benchè non si chiamasse precisamente così, Bancu lasciò fare, con che gusto figuratevi! E quando giunse il vero Stefano trovò la porta chiusa!

Grandi risate accolsero la storiella, che doveva aver un fondo di vero, perchè chi la narrava chiamavasi Stefano. Ma Maria non rise, tanto più che una delle due signore terminò le sue supposioni con questa lieta profezia:

— Vedrete, se davvero si sposano, non passerà un anno che saranno separati.

Oh, come soffriva Maria! L'idea che Cosimo dovesse ammogliarsi non le era mai venuta, nei tre anni che lo amava. Ella era una bimba melanconica e sentimentale, e forse per atavismo portava in sè qualcosa di misterioso, che sfuggiva persino all'attenzione continua e delicata del padre suo. Sua madre, figlia di una aristocratica famiglia sarda, aveva amato Peppe Spina per pura fatalità: fuggita con lui, l'aveva sposato, ed era morta diseredata e rinnegata dai suoi prima di conoscer le amare delusioni di certe unioni romantiche. Ma era morta innamorata ancora, e la sua gracile creatura aveva ereditato, insieme ad una delicata signorilità di pensiero, di fisionomia e di modi, una fatale potenza d'amore, che vinceva e restava il più puro e tenace dei sentimenti.

Maria trascorse l'infanzia in un borgo delle montagne, davanti a paesaggi alti e silenziosi, in una solitudine melanconica e solenne. Suo padre, uomo più tosto lieto e felice del suo stato, le fece da maestro; quindi la sua coltura non poteva dirsi molto vasta e profonda, e neppure la sua intelligenza era molto acuta, ma possedeva una profondità di pensiero quasi meravigliosa per la sua età.

Appena scesi a Nuoro, ella s'affacciò alla finestra dell'appartamentino pulito e modesto, e vide Cosimo Bancu: e quella fisionomia pallida e ardente, quel profondo sguardo magnetico, tosto la impressionarono e l'avvinsero.

Piana(1) Cipriana., la grossa domestica che l'aveva allevata e la seguiva dovunque, si accorse subito di qualche cosa, e cominciò a sgridarla perchè stava sempre alla finestra; ma d'altronde Piana aveva molto da fare, e non poteva abbastanza custodire l'uccellino che metteva le ali per volarsene. Siccome Peppe Spina era uno di quei piccoli impiegati sibariti, che si compensano del lungo, arido e umile lavoro, con ogni sorta di piccoli e possibili godimenti materiali, Piana stava sempre davanti ai fornelli escogitando ogni giorno nuove raffinatezze di vivande e non poteva accorgersi che Maria aspettava alla finestra l'uscita ed il ritorno di Cosimo Bancu.

Poca relazione correva fra le Bancu e gli Spina, ma Maria amava già fortemente le sorelle e la madre di Cosimo. Specialmeute Elena l'affascinava: quando dalla sua finestra ne vedeva il pallido volto pensoso, restava a guardarla incantata, e avrebbe dato chissà cosa per poterle diventare amica intima. Ma Elena non le badava più di Cosimo, e Maria ne provava un'angoscia profonda.

Ciò che voleva, desiderava e sognava, non lo sapeva bene neppur essa. In tre anni non parlò una sol volta con Cosimo, ma ne conosceva bene la voce, lievemente caustica e altera, e la sentiva da lontano in ogni sua vibrazione. Ma nei suoi timidi sogni indistinti non si immaginava neppure che quella voce venisse amorosamente diretta a lei; non aspettava nè chiedeva nulla. La sua massima felicità era di vederlo: non desiderava neanche d'esser veduta, perchè, se per caso straordinario Cosimo sollevava gli occhi e la guardava, o incosciente o indifferente, ella ne soffriva. La sua massima angoscia poi era il dubbio che egli indovinasse il suo segreto amore. Se non sognava neppure che Cosimo le rivolgesse la parola, tanto meno giungeva ad intuire altri sogni formanti l'essenza più viva ed intima dell'amore: la sua passione era infine l'ideale di Cosimo Bancu, che, come tutti gli uomini corrotti pretendeva ciò che di più puro si possa immaginare. Ma egli non era degno di conoscere e sentire il vero profumo di quest'amore.

Maria, udendo ch'egli era fidanzato, si svegliò come da un sogno: la gelosia le fece comprendere molte cose fino ad allora ignote, e cominciò a soffrire: la sua prima impressione fu che ora non le era più lecito di aspettare il passaggio di Cosimo, nè di vederlo. Che farebbe dunque tutta la giornata? Il mondo le crollò intorno, nella sensazione del vuoto che apporta la caduta d un sogno, la rottura d'una cara e dolce abitudine.

Per tre giorni Cosimo non rivide la testina di lei alla finestra, e ne provò una vaga inquietudine. Era malata la piccina? Avea forse saputo la novitá, e le riusciva fatale? Volle domandarne alle sorelle, ma non lo fece per orgoglio contro sè stesso; la curiosità però lo pungeva, e un giorno incontrando Piana nella via le disse ridendo e andandole dietro: — Piana, piano!

— Cosa comanda la vossignoria?

— Come stai? — e le tirò un pizzicotto di cui ella, grassa com'era, non s'offese punto.

— Bene, grazie a Dio, — rispose.

— E la tua padroncina, come sta?

— Bene anch'essa, grazie a Dio.

Rientrando Piana trovò che Maria, seduta al fresco della scala, faceva melanconicamente la calzetta, e cominciò a dire scherzando: — E la tua padroncina come sta?

— Chi ti ha domandato così? — chiese ella sollevando la testa.

— Un signore nella via!

Maria arrossì pensando subito a Cosimo.

— Chi? Chi? — insistè, tirandosi in avanti la treccia e morsicandosela. E andò dietro a Piana finchò la costrinse a pronunziare il nome adorato ed odiato. E, con gran dispetto di Cosimo, ritornò alla finestra più pallida e sottile che mai. Soffriva assai, pensava sempre, ostinatamente a Peppina Marchis, e le pareva di odiarla, ma non odiava più Cosimo, perchè s' ra degnato di chieder sue notizie.

Però cominicò per lei un nuovo sogno doloroso: una forza occulta e prepotente l'attirava nel vano della finestra, ma non più i lunghi, dolci e indistinti sogni di prima le passavano nei puri e chiari occhi. Aspettava, aspettava sempre, ma chiedevasi perchè aspettava. Sentiva il noto passo risuonare sulla via, anzi lo sentiva prima che risuonasse davvero, ma nonostante questa percezione, quando il passo si rendeva distinto, ella sussultava quasi spaventata. Così vedeva distintamente, ancor prima di vederla realmente, la persona di lui in tutti i suoi particolari, nella veste, nel bastoncino, nelle mani esangui, nel viso pallido: eppure quando lo scorgeva davvero, si seuoteva, quasi le apparisse all improvviso, e quella veste grigia, quel cappello molle e chiaro, quella mazza elegante e flessibile, quelle mani color di rosa bianca, belle e cattive, quel volto fatale, le davano tante diverse impressioni, che rapidamente riunite in una sola sensazione, la facevano sussultare. Di tutte non sapeva qual fosse la più forte impressione: forse quella del volto, forse delle mani, forse del costume grigio. Ogni particolare la colpiva ogni volta vivamente e misteriosamente.

Intanto i giorni passavano, l'aria si rinfrescava lentamente; ella, cambiando d'umore, diventava silenziosa e seria, ma benchè di costituzione delicata, il suo fisico non risentiva la melanconia morale. Era l'anima sola che gemeva e soffriva.

La vita seguiva sempre eguale: sempre Peppe Spina lavorava come una macchina da scrivere, sempre Piana cucinava, e non trascuravano Maria: ma ella oramai li sfuggiva quasi odiosamente. In due mesi si creò l'idea di una infelicità tremenda e inesorabile: non guardava più nè al passato, nè all'avvenire, e nel presente sentiva una tristezza profonda fino alla morte. Delle volte si sedeva in basso, sul gradino della porta della sua cameretta, e guardava lungamente il quadrato di cielo che formava lo sfondo della finestra. Era un alto, alto sfondo, era profondo, era intenso; ma l'azzurro nitido e ardente andava di giorno in giorno rendendosi diafano e chiaro, a misura che l'atmosfera rinfrescava.

Ella si smarriva lassù; vi sentiva l'impressione di una cosa infinita, infinita, inafferrabile, inesplicabile, come la passione che la dominava.

Prese dolcezza a questa consuetudine, e così passava le giornate o alla finestra o seduta sul gradino, con un omero appoggiato allo stipite della porta e gli occhi in alto. Ma un giorno la tristezza autunnale si fece più densa e palpabile; una nuvola bianca, sottile come lama di coltello, balenò con un latteo languore sul quadrato azzurro, e tutto il cielo parve impallidire soavemente; ma a questa dolcezza seguì la strana mestizia delle nubi gialle, delle nuvole rosse che passavano mettendo un freddo incendio in regioni lontane, poi salì una chiazza grigia, che si fermò, si estese, copri tutto il quadrato, tutto il cielo, tutto il mondo, tutta l'anima di Maria, con un denso velo di mezzo lutto pesante. Il vento soffiò portando l'odore delle ultime vendemmie, e il granito del davanzale prese pur esso una tinta umida e grigia. Anzi una sera Maria, che conosceva ogni picchiettatura nera e cinerea del suo davanzale, vide il granito coprirsi, negli angoli, di musco d'un verde chiaro e triste, e due fili d'erba, sottili e pallidi, tremare al venticello acuto. Una inesplicabile tristezza la prese, la invase e conquise tutta; le sembrò che il davanzale rappresentasse la sua anima solitaria e abbandonata, e disperò. Chiuse la finestra, e si gettò sul letticciuolo senza poter piangere.

Allora il vento autunnale diventò più forte; mille rumori tristi, resi acuti dal freddo, soffiarono al di fuori dei vetri riflettenti il crepuscolo giallo, cantando tristi canzoni di morte.

Oh, morire, morire! Come Cicchedda, anche Maria, nella profonda e ineffabile tristezza dell'autunno morente, desiderò morire per destar pietà in iui!

A misura che il freddo s'innoltrava, vide Cosimo più di rado. Non apriva la finestra, ma guardava dai vetri che la pioggia talvolta copriva d'un velo liquido e arabescato: altre volte era la nebbia tiepida e violacea che vaporava per la via; e dietro tai veli melanconici la figura di Cosimo parea appannarsi, dileguarsi dall'anima di lei; ma la tristezza restava sempre fissa, immensa e grave. Intanto pensava che fra poco, diventando Cosimo sposo di un'altra, ella non avrebbe più potuto amarlo senza peccato. O lei, o il suo amore morrebbero. Forse il suo amore era già morto; e il dileguarsi dei sogni e il cessare d'una dolee consuetudine era la sola causa della sua tristezza; ma nonostante tutto non disperava ancora completamente.

Un giorno Piana le disse che le Bancu, e specialmente Elena, non erano contente del matrimonio di Cosimo. Ella arrossì di cattiva gioia; oh, che Elena almeno non amasse l'altra! Ma tosto si pentì, perchè dopo tutto si sforzava a non odiare la rivale, benchè, per le maldicenze sentite, se la immaginasse molto spregevole. Vedendola al passeggio o in chiesa la guardava con occhi spauriti; e scorgendola così bella, florida, elegante e indifferente, ne provava una straziante umiliazione, che la rimpiccioliva e l'opprimeva.

Venne l'inverno. In carnevale Peppe Spina si divertiva assai, e pretendeva altrettanto da sua figlia e dagli altri.

Quest'uomo un po' bizzarro, che in gioventù aveva avuto solo il fascino d'una grande bellezza, ora, nella virilità sciupata dall'arido e continuo lavoro, non era che un piccolo sibarita, incolto e volgare. Nel suo ufficio era di un umore stravagante e bisbetico, per cui gli avvocati ne dicevano corna, ma fuori, ritornato semplicemente Peppe Spina, era sempre d'un buon umore invadente, piuttosto grossolano.

Il contatto signorile della sua sposa, gli aveva però lasciato come un lontano riflesso, che tornava ogni giorno a splendere nei modi suoi, davanti alla sola Maria, anzi rievocato dalla sua presenza. Davanti a sua figlia Peppe Spina diventava l'uomo più delicato e signorile el mondo, e il suo umore assumeva una tinta eguale, dolcemente lieta ed espansiva.

Aveva allevato la sua delicata creatura con cura e religione, in un ambiente ideale, che però non era il vero ambiente di casa Spina. Tutte le cure materiali della casa, i piccoli fastidi, la prova dell'esistenza quotidiana gravava solo sopra di lui e sulle larghe spalle di Piana. Fino ai quindici anni Maria non s'era occupata di nulla, e dai quindici in su di Cosimo Bancu.

Viveva in un mondo trascendentale, e anche facendo la calzetta, anche aiutando debolmente Piana, il suo spirito rifuggiva spontaneamente dalle piccolezze della vita umile e quotidiana.

Ora, Peppe Spina, nella sua onesta letizia di vivere, veniva spesso turbato da un pensiero, che sempre più rendevasi denso e frequente. Sua figlia, la sua Maria, ch'egli aveva allevato con tanta cura, con tanto egoistico amore, Maria non lo amava! Prima aveva sperato che la bimba spensierata ed incosciente, crescendo si sarebbe necessariamente affezionata all'unica persona che le viveva accanto e la curava amorosamente: e dai dodici ai quindici anni Maria s'era infatti mostrata un po' espansiva e confidente, ma in misura assai sobria.

— Più tardi! — pensò Peppe Spina.

Ma scesi a Nuoro, più Maria cresceva, più l'intimità spirituale tra padre e figlia invece d'aumentare, scemava. La freddezza timida e rispettosa di lei era desolante come l'indifferenza; pareva che un ostacolo morale, doloroso nella sua impalpabilità, ne allontanasse l'anima da quella del padre, avida di affetto.

Ella parlava poco, sfuggiva lo sguardo e talvolta anche la presenza del padre, e, quel ch'era peggio, pareva che facesse ciò naturalmente, per semplice indifferenza.

Egli ne soffriva: non s'immaginava che Maria fosse innamorata, perchè la considerava ancora bambina, e gli sembrava tutto possibile, fuorché lei presa di amore. Eppure molti, tutti i vicini e tutta la famiglia Bancu conoscevano il piccolo segreto di Maria; anche Piana ne dubitava, sebbene non riuscisse a indovinare chi era lui.

In questi ultimi tempi il temperamento della fanciulla s'era fatto più che mai freddo e indifferente: v'eran giorni in cui le sue labbra pallide, un po' increspate, non s'aprivano ad un sorriso.

Peppe Spina faceva e diceva tutto ciò che credeva potesse divertirla, ma vedendola sempre più melanconica e distratta, sempre più lontana da lui, anche egli si rattristava; il fosco umore di lei gli si infiltrava nelle vene, dandogli spesso un misterioso peso, invincibile e quasi fisico. Da qualche tempo nella strada, nell'uffizio, nei crocchi amici, ed anche svegliandosi di notte, provava una strana sensazione; i suoi pensieri normali, d'uomo sano e contento, venivano interrotti come da un forte colpo di scure, un'angoscia indefinibile e senza causa gli pesava sul cuore e sulla testa, ed egli percepiva quest'angoscia come uno spazio vuoto, freddo e grigio, sul quale, dopo un momento di nebulosità, appariva la figura di Maria con le labbra mute e increspate. Allora egli afferrava la causa della sua improvvisa sensazione di dolore, e le sopracciglia gli si aggrottavano, e sentiva un acuto dolore fisico alla tempia sinistra, il cui battito pareva dire: Maria! Maria!

Vagamente, per intuizione spontanea, essendo egli un uomo normale che non cercava il filo psicologico dei suoi pensieri, venne a convincersi che Maria non l'amava investita da qualche segreto dolore: questa causa ignota e inafferrabile la teneva lontana da lui, ma per questo stesso dubbio, che lo tormentava spesso, egli vieppiù sentiva il bisogno dell'affetto e della confidenza di lei.

Ma quale e dov'era la causa? Di che Maria doveva soffrire? Di lui o d'altri? In carnovale fece di tutto per divagarla, portarla in giro e conducendola ai balli; ella lo seguiva docilmente, anzi, alla proposta di un nuovo divertimento, i suoi puri occhi s'illuminavano, ma il ghiaccio tra padre e figlia non si rompeva mai.

Qualche volta Spina, seguendola con gli occhi e vedendola ballare e mostrarsi fugacemente lieta con le altre persone, giungeva a provarne una segreta e indistinta gelosia. Ma le ore liete duravano poco. Spesso Maria interrompeva a mezzo una risata, e ricadeva nella sua stanca malinconia, che pareva posa, capriccio di bimba volubile e viziata. Quasi uno spettro, un'ombra, un ricordo amaro le passasse davanti, il suo viso s'oscurava e le sue labbra assumevano quell'increspatura dolorosa che colpiva vivamente il padre suo. Allora egli pentivasi della sua innocente gelosia, e aavrebbe voluto, a costo di morirne di crepacuore, che Maria ridesse e chiaccherasse sempre e con tutti.

— Sei stanca? Vuoi che ce ne andiamo? — le chiedeva avvicinandosele.

— Come vuoi!

— No, se ti diverti ancora! — Essa faceva una smorfietta d'indifferenza! — Allora andiamo.

E benché egli avesse desiderio di restare, l'avvolgeva bene negli scialli, se la pigliava al braccio e tornavano a casa.

Lungo la via, al buio, avrebbe voluto dirle cose allegre e confidenti, ma il silenzio di lei, l'immobilità del suo braccio gli toglievano il coraggio di parlare.

Un giorno venne in casa Spina una signora, dicendo che il sabato seguente c'era ballo al circolo, e siccome Maria non dimostrava entusiasmo, esclamò:

— Ma, signor Spina, che razza di fanciulla è sua figlia? Eccola lì fredda come il ghiaccio! Alla sua età una notizia simile mi faceva correre per la gioia!

— Eh, Maria non corre! — diss'egli. — Ma anzi ora è allegra. Se la vedesse in certi altri momenti!

Ella sentì un lieve accento di rimprovero e tristezza in queste parole, ed ebbe voglia di piangere. Rise invece.

— Sì, aspetti che mi metto a correre! — disse alla signora. — Del resto, quelle che sembriamo più fredde, forse siamo più sensibili delle altre!

Il padre, avendo molte ragioni per dubitare di questa asserzione, scosse la testa, accomodandosi il colletto on due dita.

— Vorrei un bel costume col velo — diss'ella.

— C'è quello di Piana!

Maria rise di cuore all'idea di trovarsi entro il costume di Piana, il cui colletto poteva cingerle la vita, e Spina, contento ch'ella ridesse, le fece a sua insaputa portare un magnifico costume da un villaggio vicino.

— Com'è bello, com'è ricco! — diss'ella con gioia e sorpresa, voltando e rivoltando il corsetto alla luce.

Anche Piana guardava a bocca aperta.

— Ecco come dovrebbe esser sempre! — pensò Spina. — Perchè non è sempre così? Che le ho io fatto perch'ella non sia sempre così? Almeno il carnevale fosse eterno, e ci fosse un ballo ogni sera, ed io potessi procurarle ogni giorno un nuovo costume.

Tutta la sera Maria, che ogni tanto contemplava il costume, restò lieta; e quando Piana la vestì e l'adornò di gioielli, rise col volto colorito, voltandosi e rivoltandosi davanti allo specchio.

— Sta ferma! — gridò Piana. — Altrimonti me ne vado e t'accomodi tu!

La gonnella era di velluto nero e seta azzurra; nastri celesti allacciavano il corsetto sulla camicia ricamata e inamidata; le maniche spaccate sul davanti e dal gomito in giù lasciavano sfuggire gli sboffi della camicia: un portento di ricchezza e d'eleganza.

— Come stai bene! — esclamò Piana, allacciandole la cintura d'oro, e allontanandosi per guardarla meglio.

Mentre Maria, sdegnando il suo aiuto, si metteva il velo, rientrò Beppe Spina, accompagnato da Stefano, quello della storiella di Cosimo Bancu e di Peppina.

— Dov'è Maria? Non è pronta ancora? — gridò Spina dalle scale.

— Eh, si mette il velo, ma ci riuscirà domani! — disse Piana sdegnosa. — Io non so proprio che figura farà al ballo.

— Verrai tu pure.

— Io? — gridò Piana, puntandosi un dito sul petto.

— Sta fresco lei se crede ch'io venga là per mettere il velo a sua figlia!

Entrato da Maria, Spina fu stupito di trovare, invece di sua figlia, una bellissima fanciulla alta e sottile, da gli occhi splendendi e il viso roseo. Il velo ricamato dava una delicata vaporosità allo splendore del costume, una bellezza tanto fine a Maria, che il padre sentì un orgoglio e una tenerezza intensa.

— Piana dice che il velo non te lo sai mettere! — esclamò, non sapendo dir altro.

E carezzevole le pose le mani sul capo, come per acconciarle il velo, e quella sera trovò il coraggio di dirle:

— Non sei più triste, non è vero?

Una nube passò agli occhi di lei. Perchè suo padre le faceva questa strana domanda? Ah, dunque sapeva? Indovinava? Arrossì, provò una grande umiliazione, una intensa tenerezza, un desiderio grande di fuggire, di abbandonarsi piangendo sul petto di suo padre.

— Perchè triste? — disse invece con indifferenza, sfuggendo lo sguardo e le carezze di lui. Lo vide rattristarsi, e ne sentì un intenso dolore, ma non potè rompere l'ostacolo che li divideva. Non era possibile, non era mai possibile!

— Andiamo, andiamo! — disse. — Piana?

Usci rapidamente, con un gran fruscio di seta, un gran scintillìo di gioielli, una acuta fragranza di viola: vide Stefano e lo salutò famigliarmente.

— Oh, c'è anche lei? Buona sera! Viene?

Egli si tolse il sigaro di bocca, e la guardò acutamente, colpito dalla sua splendida apparizione. Anzi pensò tosto:

— Che stupido Cosimo Bancu a non accorgersi di questa ragazza!

E si mise a corteggiarla, e fu al suo braccio ch' ella entrò nella sala da ballo, coi bei capelli a metà sciolti sotto il velo, che le davano un'aria fra di cherubino e di fata. Tutti si volsero a guardarla, e molti chiesero chi ella era.

Stefano vide Cosimo Bancu in fondo alla sala, appoggiato al piano forte con aria annoiata, e gli passò rasente, e sentì Maria, che dopo aver scorto il viso ben noto, tutto bianco e freddo sullo sparato della camicia che sembrava di porcellana, guardava davanti a sè senza veder nulla, tremar come uno spaurito uccellino imprigionato.

E Stefano vide che Cosimo, con una fugace espressione di ammirazione sul volto, si rizzava sulla persona, fissando sulla fanciulla il suo acuto sguardo turchino, che penetrava come un assillo, come un insulto, come un bacio violento.

Gli avrebbe volentieri dato uno schiaffo, perchè quella sera soltanto si degnava accorgersi di Maria Spina — ma si contentò di guardarlo freddamente, portandosi intorno la sua piccola splendida dama.

La sala era già affollata di signorine in costume: un trionfo di scarlatto fiammeggiante che dava un riflesso rosso alle pareti adorne di edera lucente.

Quando Maria volle sedersi, Stefano si allontanò, ma non uscì dalla sala, benché fosse un giocatore appassionato, e rimase vicino ad una porta, osservando Baneu, e attortigliandosi così rabbiosamente i baffi che ne diventava rosso.

Non era certamente innamorato di Maria, ma odiava Cosimo, e vedendolo fissare il suo sguardo da sparviero sulla fanciulla, ne provava un infinito disprezzo.

Ma s' accorgeva Maria dell' attenzione di Cosimo? Forse sì, perché diventava sempre più bella, quasi animata da una misteriosa luce interna: sedeva graziosamente traverso una sedia, appoggiando un braccio alla spalliera, in modo che appariva di profilo, con la splendida gonna abbandonata sul davanti: e il velo che le cadeva sul fianco, la copriva tutta vaporosamente.

Cosimo la guardava ammaliato; gli sembrava che il profumo di viola, sentito mentr'ella gli passava vicino, si spandesse per tutta la sala, e, siccome Peppina non era ancor giunta, desiderava vagamente che non intervenisse più.

perchè? E Perchè provò una specie di irritamento nervoso pensando che quello sciocco di Stefano, suo precessore nel cuore di Peppina, poteva diventargli successore nel cuore di Maria?

Sentendosi osservato da lui, a un certo punto, per fargli dispetto, mentre gli accordi del piano coprivano il chiaccherìo delle donne, e gli uomini, un po' ridicoli nelle loro mosse falsamente corrette, correvano attraverso la sala in cerca di dame, s'avvicinò a Maria e inchinandosi l'invitò a ballare.

Ella, tutta rossa nel suo gran velo di fata, si confuse, non osò guardarlo, e si alzò ma mentre Cosimo le porgeva il braccio, apparve il volto impassibile di Stefano.

Maria, nella sua confusione, lo scorse come attraverso il velo, e vide la sua gran bocca aprirsi ad un sorriso strano e parlare. Non udì le parole, ma vide Cosimo allontanarsi, e trovandosi invece che al suo al braccio di Stefano, ebbe voglia di piangere,

— Non si ricordava? — domandò il giovine, guardandosi la punta dei piedi; e siccome ella non rispose neppure, pensò con dispettosa pietà: — Povera creatura!

No, Maria non ricordava di avergli promesso il primo giro, e ballando gli pestò i piedi, perchè vedeva le pareti muoversi vertiginosamente in giro, le candele e le sedie roteare, le coppie danzanti aggirarsi intorno a sè stesse con gioco ridicolo e puerile.

Fra tanto caos vide Cosimo Baneu entrare dando la mano alla fidanzata, vestita di bianco, scollata, con una brillante catena d' oro intorno alla gola d' alabastro. I due fidanzati si misero a ballare, e da quel momento Maria non vide più che il collo di Peppina, e la catena d' oro che brillava a intervalli come una stella filante.

Stefano ricondusse la sua piccola dama che quasi non respirava più; mentre ella si sedeva passarono Cosimo e Peppina, parlando fra loro, e il vestito bianco della fidanzata, che spiccava come un giglio fra i costumi rossi delle altre signore, le sfiorò il velo.

Maria ne provò un' intensa tristezza: eppure Cosimo tornò a fissarla da lontano, e al secondo ballo le si avvicinò dicendole con famigliaritá:

— Questo è promesso a me, non è vero?

Ella s' alzò rigida e fredda, chinando la testa, sebbene non ricordasse d' aver fatto tale promessa: sentiva una tristezza sempre più profonda e cupa, ma il suo cuoricino non batteva più, e le pareti non si muovevano più vorticosamente. E fra le braccia di lui, con la testina così vicina al suo cuore, con la mano in quella di lui, non provò più nè gioia, nè dolore. E anch' egli, sentendosi fra le braccia quel corpo sottile e puro di bambina, da cui esalava il profumo di viola che l' aveva già colpito, nel veder quella fronte muta e triste, quei limpidi occhi che non osavano guardarlo, non seppe dire una parola. Con la mano inguantata premeva leggermente il velo ed i capelli sciolti di lei, e gli sembrava che quel velo, intessuto di brina e rugiada, purificasse la sua mano. Una timidezza strana lo prese, e si sentì invaso dalla tristezza di Maria. Finito il ballo, la ricondusse sul divano, s'inchinò senza sorridere e s'allontanò; non le rivolse più il suo acuto sguardo da sparviero, e parve anzi dimenticarla.

Per tutta la notte ella ottenne un gran successo col suo costume e il suo splendido velo: e ne pareva inebriata, gli occhi le splendevano, aveva le labbra rosse e lucenti come corallo. Restava nella festa, trattenuta da una forza ignota; avrebbe voluto che quella notte non terminasse mai, eppure in fondo sentiva sempre un'angoscia infinita e senza nome.

Verso la fine del ballo, mentre Stefano le siedeva vicino corteggiandola, ella vide venir suo padre: giuntole davanti, le si inchinò dicendo:

— Vogliono che tu canti l' Ave Maria di Gounod.

Ella lo guardò meravigliata, poi ricordò che nel villaggio delle montagne la signora del pretore le aveva insegnato l' Ave Maria di Gounod, e sorrise.

— Ma chi ha detto ch' io la sapevo?

— Io.

— Fa piacere a te?

— Sì.

— E allora anche a me.

S'alzò, e prese il braccio di suo padre, sorridendo, ma in fondo alla sala vide Cosimo seduto al piano, e poco distante la fidanzata, assisa nella gloria del suo vestito bianco e dei suoi gioielli, e di nuovo si sentì morire.

Cosimo le accennò cortesemente di sedersi, ma ella volle star ritta, quasi appoggiata alla parete, seria e pallida nel suo gran velo un po' scomposto.

Quasi tutti gli invitati s'aggrupparono intorno, e fu un chiacchierio alto, pieno di risate, smorzato dagli accordi del piano, a cui Cosimo mescolava capricciosamente delle strane semi-cadenze che a Maria parevano singhiozzi sommessi.

— Siamo pronti — le disse, senza guardarla. E attaccò.

Fu allora un gran silenzio per la sala: parve che tutto il freddo e grigio silenzio dell'alba, biancheggiante sui vetri, si spandesse dentro; le fiammelle delle steariche quasi consumate si fecero lunghe e vivide, dando un rapido riflesso violaceo alle foglie sempre fresche e lucenti dell'edera adornante le pareti.

Maria cominciò con voce un po' tremula e sommessa, alterata dalla pronunzia del latino: Cosimo la sentiva come scendere dall'alto, e senza dimostrarlo l'ascoltava intensamente.

— Più in alto! — disse una voce.

Maria si rinfrancò, e con la voce alzò gli occhi, inebbriandosi della sua angoscia sovrumana, che solo quella preghiera, che solo quella musica, suonata da chi causava il suo indicibile dolore, potevano in qualche modo esprimere e calmare. Gli ascoltanti non sorrisero più; le donne impallidirono, invase da un bisogno di piangere per quel dolore misterioso ed occulto che gemeva nell'invocazione della soavissima preghiera. E la voce diventava sempre più alta, più dolcemente straziante; e l'invocazione pareva un singulto di suprema disperazione, di estrema speranza.

Una ruga si disegnava fra le sopraceiglia di Cosimo, e gli pareva che le note uscenti dai pallidi tasti, sotto le sue dita bianche di decadente, fossero lunghi spilli d' oro, d' argento, di cristallo, che gli foravano e illuminavano il cuore come raggi proiettati da un'alta luce interna, abbagliante ed acuta.

Da tre notti egli non dormiva: quella notte aveva bevuto e giocato assai, tanto da mostrarsi più volte scortese e geloso con la sua fidanzata: nessuna meraviglia quindi se, suonando l' Ave Maria di Gounod, e udendo la voce di Maria, provava quella bizzarra impressione di spilli iridati, convergentisi in raggi che lo illuminavano e straziavano internamente.

La voce soave e infantile ora gli giungeva come di lontano, spinta, smorzata, resa sonora o languida dal vento: e nella interna luce che lo illuminava, la visione di Maria gli appariva tutta pura e divina nella sua veste di velluto e di velo. E sentiva la piccola anima trascurata e derisa pianger desolatamente, soavissimamente nelle sue note stesse, sotto le sue pallide mani crudeli.

A misura che la preghiera finiva la voce diventava sempre più alta, più limpida e pura: Cosimo rivide Maria alla finestra, ed ora il suo amore, trasfuso nella sua preghiera, gli parve come una sorgente d' acqua purissima, color d'argento, che avrebbe potuto rinfrescarlo purificarlo, dargli la pace che sentiva di non poter ritrovare nel frivolo amore di Peppina Marchis, e neppure nella splendida posizione che i parenti di lei gli promettevano.

Una smania, un desiderio acuto di cessare, di volgersi, di chieder perdono a Maria, e dirle che l'adorava, e farle dimenticare in un bacio solo tutto il dolore che la sua voce svelava, lo prese, invadendogli il sangue con l'ebbrezza di una coppa di vino dolce e potente; ma quando lasciò di suonare si sentì come paralizzato, gli parve destarsi da un sogno, e vide la fanciulla allontanarsi fra gli applausi e gli sguardi di tutti gli invitati.

Uscendo dal ballo con Giovanna, vestita da florida e ridente olianese — Elena non era intervenuta — e accompagnando per un tratto di strada la fidanzata e i suoi parenti, Cosimo non parlò, ma due o tre volte traballò, per cui Peppina rise freddamente.

Rientrato a casa, dormi profondamente fino a mezzogiorno; uscendo alzò la testa verso la finestra di Maria, ma la vide chiusa. Anche nei giorni seguenti non rivide la fanciulla, e fu preso da una inquietudine nervosa e cupa, credendola ammalata. Un giorno ne chiese notizie a Piana, e seppe che infatti Maria s'era sentita assai male dopo il ballo del circolo, per cui Peppe Spina l'aveva portata a Cagliari per divagarla, lasciandola presso una sua parente.

— Meglio così, forse — pensò Cosimo.

Quando Maria ritornò seppe ch'egli aveva già impalmato la signorina Marchis; per ciò forse si mostrò finalmente affettuosa ed espansìva col padre suo, e Peppe Spina si sentì l'uomo più soddisfatto del mondo.

Da sei mesi Elena Bancu soffriva segretamente perlo strano matrimonio di Cosimo; le sembrava un brutto sogno; e invano avea cercato di manifestare la sua antipatia e di opporsi. Amava intensamente il fratello, ed era disposta a perdonargli ogni difetto, ma che la fatalitá che lo dominava lo trascinasse verso un'unione infelice, no, non poteva ella sopportare. Intuiva e prevedeva qualcosa di triste, e ne soffriva, pur dicendosi che forse sbagliava nel suo presentimento, e pregando e sperando che così fosse.

Cosimo mise su casa a parte, volendo vivere indipendentemente, ma la dote costituita alla sposa, sebbene buona, non poteva bastare a tutto. Egli diceva sempre di voler occupare una posizione ferma e sicura, ma sebbene ciò, con le influenze della famiglia Marchis, riuscisse facile, non si decideva mai, per infingardaggine e amore di vita libera e gaudente.

Ora, anche le esigenze della sposa erano molte, ed ei non guadagnava nulla; aveva debiti a grossi interessi e accennava ad accrescerli, anzichè estinguerli. Elena sentivasi triste sapendo tutto ciò; il giorno delle nozze, quando Cosimo lasciò la casa, e furon portate via le sue carte, i suoi libri e le sue vesti, ella pianse amaramente sembrandole che qualche cosa della sua vita, dell'anima sua, se ne andasse col fratello. Anch'egli se ne andava; ma dove andava egli? Verso il bene o verso il male?…

La casa diventò più che mai ampia e vuota; la tristezza misteriosa che da sei mesi tormentava Elena si cambiò in desolazione profonda: nei primi giorni ne pianse sconsolatamente, ma quando Cosimo veniva in casa come uno straniero, ella provava una grande timidezza davanti a lui; non sapeva dirgli nulla, e sembrava indifferente, mentre non faceva che pensare a lui e pregare per il suo avvenire.

Ma a poco a poco si clamò. Passò quasi un mese; la casa ritornò in ordine, le abitudini domestiche non parvero soffrir molto per l'assenza di Cosimo, ed anzi subentrò un po' di solitudine, di pace profonda e ordinata, che dopo tutto non dispiaceva ad Elena, come dispiaceva a Giovanna.

Gli sposi venivano ogni notte in casa di donna Francesca, e sembravano felici, la primavera cominciava a raddolcir l'aria, mettendo tiepidi sogni profondi sul cielo lattiginoso e sui mandorli fioriti. Elena sentiva quei sogni e vi si abbandonava dolcemente: pareva che qualche fiore risorgesse nell'anima sua come rinascevano le prime rose lungo i muri del giardino, e che l'orizzonte delle sue fantasie si allargasse con l'orizzonte del cielo così calmo e soave nell' illusione di lattee pianure vanescenti nell' azzurro. La primavera operava soavemente un miracolo nell'anima sua, lasciandole però ancora un senso di melanconia infinita, specialmente quando vagava per i piccoli viali del giardino, e nella sera che avanzava un po' nebbiosa e tiepida, sentiva le prime fragranze delle rose, quei profumi roridi e profondi che sono la silenziosa musica della primavera. Nel giardinetto, intorno, intorno ai muri di granito, s'aggiravano splendidi rosai, fra cui sognavano sempre le rose rosse e vellutate di ogni mese, sostenute da grosse canne fresche e gialle sfumate in pavonazzo. Nel mezzo del giardinetto s'ergeva una specie di peristilio di passiflore e di edera, sostenuto da una colonna di granito chiaro, su cui strideva continuamente, aggirandosi su sè stessa, una banderuola di ferro rosso.

Dal peristilio, dolce luogo di sogni, che Elena amava intensamente, partivano quattro piccoli viali, che andavano a finire nel viale largo, svolgentesi intorno al giardinetto. Peschi, albicocchi e ciliegie dalle foglie vermiglie, meli e giuggioli, su cui s'arrampicava la vite, formavano i graziosi e pittoreschi pergolati del piccolo eden; fiori rari e delicati crescevano sui rozzi vasi sardi di creta; nessun ordine regnava, e tra le rose s'ergeva l'oleandro ed il lauro, l'uva spina, la robinia e il gelsomino, così ch'era una siepe intricata, un trionfo di verzura esultante al sole ed al vento, stretta dalle canne d'oro, la cui rustica eleganza cresceva poesia al luogo.

Era una poesia, una frescura, una pace infinita. Sul davanti la casa tranquilla e silenziosa guardava colle sue finestre lunghe, così piene di pace e di dolcezza, nell'ombra dei pomeriggi sereni; al di là dei muri si scorgevano altri orti, poi i campi; all'est l'orizzonte chiudevasi con le dilette montagne d'Orthobene, al sud Elena vedeva i campanili della cattedrale rifulgere rossi nel tramonto, e nel loro vano scorgeva la verde collinetta di Sant'Onofrio, sfumata nel cielo sereno.

Nel giardinetto ella si chinava soltanto per cogliere qualche fiore; non s'occupava nè coltivava nulla, eppure conosceva ogni foglia, ogni ramo, ogni pietra dei muri, e tutto amava, e ad ogni foglia, ad ogni fiore si sentiva misteriosamente legata. I suoi sogni e le sue fantasie erano tutte lì, in quell'orizzonte, in quello spazio; erano nel cielo, nell'aria, negli alberi, nella facciata della casa, nei piccoli viali silenziosi, nelle canne sulle cui punte violacee posavano irrequiete le allodole e le rondini, cantando al cielo le fresche ballate primaverili ed autunnali, e l'avvolgevano in segrete e profonde malìe.

Anche di notte restava lunghe ore laggiù: nelle notti interlunari la via lattea e le stelle piovevano sulla sua testina pensosa una infinita poesia di sogni arcani; e quando la nuova luna cadeva, falce d'oro o di perla, sul raso glauco dell' occidente, al di sopra della casa paterna, su cui parea proiettasse un raggìo d'antica poesia protettrice e amorosa, o sorgeva piena, rutilante, dalle montagne nere, sul cielo di cristallo argenteo, e un'ondata di gemme rifulgeva magicamente sul giardinetto, Elena vagava come in un mare di incanti e di sogni. Non era una visionaria, o una sentimentale, e neppure un'artista, ma per istinto e per gentilezza di costumi la sua anima era aperta inconsapevolmente ad ogni sensazione poetica, e pur sentendo tutte le realtà della vita si lasciava affascinare dai sottili incantesimi della natura e dai sogni che la solitudine e la giovinezza generano.

Una sera che Giovanna e donna Francesca erano da Peppina, ella, mentre vagava sul davanti del giardinetto, sentì picchiar forte alla porta, e siccome la domestica non usciva, corse ella stessa ad aprire. Era il portalettere che le porse un giornale politico, uno di mode, una cartolina per donna Francesca e una lettera per lei.

— Grazie — diss'ella, chiudendo la porta e guardando la lettera quadrata, dura e bianca, dalla soprascritta angolare, ma chiara e ferma, che riconobbe tosto. Salì le scale leggendo la cartolina, entrò nella sua camera, mise i giornali sul tavolino, e avvicinatasi alla finestra aprì la lettera. Era di Paolo De-Cerere. A misura che lesse, Elena diventò leggermente rossa, e un sorriso vago, quasi triste, le increspò le labbra: grandi complimenti doveva rivolgerle il lontano amico, per commuoverla e farla sorridere così.

Quando ebbe finito, alzò la testa, e appoggiandola lievemente ai vetri aperti, guardò lontano, con una vaga espressione di dolcezza e di tristezza negli occhi. E pensò. Doveva mostrar la lettera a Giovanna? Doveva tacer d'averla ricevuta? ciòl e ripugnava: non sapeva mentire con sua sorella, ed era meglio mostrarle la lettera, tanto più che Giovanna non l'avrebbe neppur letta.

Nelle sue prime lettere Paolo s'era rivolto ad entrambe le sue piccole amiche, ma siccome era sempre Elena che gli rispondeva, aveva finito col rivolgersi soltanto a lei. E Giovanna allora a dire con dispetto infantile:

— Ah, egli scrive a te? E tu rispondigli, ma a tuo nome soltanto. Io me ne lavo le mani. Tanto si vedeva bene, quando era qui, che voleva bene a te, non a me…

— Vuol bene a tutte due.

— Non me ne importa nulla! — diceva Giovanna con indifferenza. E infatti non glie ne importava più nulla del suo vecchio e lontano amico! Nelle feste da ballo del carnevale passato e nei ricevimenti per le nozze di Cosimo, s'era vieppiù accorta quanto Paolo era vecchio e lontano; ben altre fantasie frullavanle ora nella testina irrequieta e vezzosa: spalline brillanti 'ufficiali, camiciette smaltate di giovani avvocati e professori, e persino cravatte rosee di studenti eleganti e intraprendenti.

Il veder le lettere di Paolo dirette alla sola Elena, toccò un poco la sua vanità di ragazza bella e corteggiata, ma fu una lieve nuvola, una spira di fumo che svanì tosto nell'azzurro della sua fantasia spensierata. Non volle neppur leggere l'ultima lettera arrivata nei giorni delle nozze di Cosimo: aveva ben altro per la testa, disse.

— Ed io non rispondo più! — disse Elena offesa.

— Come credi!

Ma la lettera era così affettuosa e gentile che ella rispose anzi con più profondità e sentimento del solito. Oramai era sola ad amare il vecchio amico lontano, e quest'amico che viveva solitario, desideroso e bisognoso d'affetto, che si rivolgeva a lei come ad una figlia lontana, e le apriva tutta l'anima sua, e le confidava tutto sè stesso, che scrivendo con profondità ed affetto paterno le chiedeva come una grazia di non dimenticarlo e volergli un po' di bene, la attirava dolcemente a sè, destandole un affetto figliale, puro e sincero. Da lontano s'erano conosciuti meglio; era l'anima che oramai parlava nei brevi foglietti scambiati a lunghi intervalli, l'affetto cresceva, e Paolo non si ricordava di Giovanna che per salutarla.

Ma in quest'ultima lettera, giunta con più sollecitudine delle altre, anche di ciò s'era dimenticato: diceva d'esser un po' malato e di sentirsi grandemente triste nella sua solitudine.

« Come l'ho desiderata, come la desidero vicina, Elena! Come dopo la sua ultima lettera, ove vedo tutta l'anima sua buona e profonda, sento di volerle bene e di non poterla dimenticare mai più »

Poi: « Non mi dimentichi: preghi per me, per la mia salute: le preghiere di un'anima come la sua devono esser dolcissimi comandi per il Signore ».

Poi: « Mi porga le sue manine, non le ritiri più come faceva una volta, non abbia alcun timore di questo vecchio malato e solo, che l'ama come una figlia da cui è inesorabilmente separato, che ripone oramai gran parte della sua poca felicità nel suo affetto gentile; mi dia le sue mani, mi scriva presto, non mi lasci solo.

« Non avrei dovuto scriverle così subito, ma la solitudine è grande, il desiderio di ricevere nuovamente e presto sue lettere è intenso. Mi scriva a lungo, mi apra tutta l'anima sua, dicendomi dei suoi sogni: io l'ascolterò religiosamente, e ogni sua parola mi risuonerà come una musica lontana, che carezza e raddolcisce ogni dolore ».

E terminava con un saluto affettuoso, fra cui Elena intese qualche cosa di infinitamente triste e dolce.

Rimase a lungo con la testa appoggiata ai vetri, e gli occhi fissi in un punto lontano del crepuscolo crescente.

Subitamente le venne il pensiero che Paolo s'innamorasse da lontano di lei; e questo pensiero la rese altera e triste. Altera perchè se questo fatto singolare accadeva, era un trionfo dell'anima sua, delle sue doti morali e del solo fascino spirituale. Ella avea sempre sognato d'esser amata così, di solo amore ideale, nel quale assurgesse solo l'anima, la sensazione intensamente pura e dolce dell'unione spirituale, scevra da ogni ombra materiale.

Ma quest'ideale le sembrava impossibile venisse incarnato in Paolo: si sentiva divisa da lui per differenza di età, per l'idea ch'egli avesse amato Giovanna, per l'abitudine di volergli bene come ad un padre lontano. Ogni altro affetto fra loro le sembrava impossibile, quasi fuor di natura; e il pensiero che, trasformandosi l'amicizia di Paolo, potesse venir distrutta la loro buona relazione, la rattristava grandemente.

Rileggendo però la lettera pensò che potevasi esser illusa: le parole eran certo troppo affettuose, ma infine ricordò i complimenti ed i modi insinuanti di Paolo, e quasi un senso di diffidenza la prese. Volle porger la lettera a Giovanna, ma si contentò nel vedersela respinta, benchè l'indifferenza della sorella le spiacesse assai. Perchè le dispiaceva? Non se lo domandò neppure.

E pensò tutta la sera all'amico lontano, senza cercare d'allontanarne il pensiero. Egli era sofferente, egli l'invocava: perchè non doveva accorrer presso di lui con carità? La visione di Paolo che solo e triste pensava a lei, che le scriveva e la sognava vicina, le si delineava pura allo sguardo dello spirito. E il pensiero che un uomo serio e intelligente, passato per molte vicende della vita, immerso in cure civili gravi e interessanti, si rivolgesse a lei, umile e semplice, e le chiedesse affetto e confidenza, la insuperbiva serenamente.

E lo vedeva e lo ascoltava: non distingueva più i suoi veri lineamenti, nè ricordava bene il suono della sua voce; ma nella nuova visione il volto, gli occhi, la voce, apparivano dolci e buone; e svaniva il ricordo del passato, durante il quale la persona di lui le era stata indifferente, talvolta fastidiosa.

Per tutta la sera le parve d'essergli vicina, dicendogli parole gentili che lo confortavano e lo facevano sorridere. L'indomani mattina, svegliandosi dal sonno profondo e dolce delle aurore primaverili, il suo pensiero, quasi semplicemente interrotto dal sonno, ritornò subito alla lettera, alle espressioni più affettuose, alla visione di Paolo.

Restò così lungamente pensando con più dolcezza della sera prima, con gli occhi chiusi da sembrar ancora addormentata.

« Mi porga le sue manine, non le ritiri più, non abbia alcun timore di questo vecchio malato e solo…». Queste parole le tornavano con insistenza al pensiero e provava l'impressione soave e delicata di sentir le sue mani strette in quelle di Paolo che le sorrideva.

Rileggendo, e più volte, la lettera, le sembrò che le espressioni non fossero vive e insinuanti come ricordandole nel pensiero; ma ripiegato il foglio, la sensazione dolce ritornava. Per tutta la mattinata, lavorando accanto alla finestra, fra i chiaccherii domestici, seguì il corso dei suoi pensieri, che continuavano a sembrarle semplici e naturali; pensava anche alle frasi gentili e affettuose da risponder alla lettera, ma il più tardi possibile. Invece nella sera, andatasene Giovanna da Peppina, che le insegnava un ricamo, scesa donna Francesca in giardìno, trovandosi ella sola e non avendo da far nulla, le sembrò un'ora propizia per scrivere la risposta, con l'intenzione però di farla impostare soltanto nei giorni seguenti.

E scrisse; ma la lettera non riuscì com'ella l'aveva ideata; molte cose le sfuggirono, altre le parvero inopportune; ma ad ogni modo le parve così confortante che sentì il bisogno di spedirla subito. Lasciandola poteva perder il suo profumo, poteva arrivar a Paolo quand'egli, ristabilito e rasserenato, non ne avrebbe più sentito il dolce conforto.

L'idea pura e semplice del bene la muoveva; così la lettera partì subito, e chi la scrisse ne provò una gioia tutta intima e buona: passeggiando quella sera nel giardinetto, sognando nel peristilio di passiflore, davanti ai rosei vapori dell'orizzonte, ella sentì più intensamente la primavera e la vita, sembrandole di esser oramai anch'ella utile e buona a qualche cosa profonda.

Nei giorni seguenti però tornò ai pensieri soliti, e l'impressione viva della lettera di Paolo sfumò; ma quando sentivasi turbata da qualche triste idea, ricorreva alla visione del suo lontano amico e si rasserenava. Non aspettava presto un'altra lettera, e le pareva di non desiderarla, ma sapendo che fra una cosa e l'altra occorreva una settimana per una pronta risposta, otto giorni dopo corse con leggero turbamento quando il portalettere venne. Anche quella sera Giovanna era assente: anche quella sera arrivò una lettera quadrata, dura e bianca, la cui soprascritta dalle rapide lettere angolari aveva già preso una forte suggestione nella memoria di Elena. E il cuore di lei ebbe un rapido sussulto. Così presto arrivava, così presto? Perchè? Come?

Una piega segreta del cuore sapeva bene il come ed il Perchè, ma il mistero di questa piega era ignoto alla stessa persona cui il cuore apparteneva.

Ella andò subito al posto prediletto, vicino alla sua finestra, dove nessuno poteva disturbarla, e aprì nervosamente la lettera, e la lesse rapidamente. Le pareva d'esser calma e quasi indifferente; non arrossì, non sorrise, non appoggiò la testa ai vetri, come l'altra volta. Solo, arrivata in fondo ricominciò, e a misura che rileggeva, le sue labbra s' aprivano, come a respirare un' aria ignota, che l' avvolgeva misteriosamente.

Paolo le scriveva d'esser stato assente qualche giorno; al ritorno aveva trovato « come un soffio d'aria pura e vivificatrice » la sua lettera e d'esserne ancora immensamente consolato.

« Grazie: anche da lontano Ella ha una virtù ineffabile di soave conforto. Fino a quando? Per mia parte, di certo, finchè un alito, un soffio di vita m'agiterà. »

In quella lettera egli cominciò ad apparirle sotto un nuovo aspetto, che la colpiva immensamente.

« Nella mia vita ho pensato, sentito, sperato, sognato e voluto amar molto. La vita mi siè spezzata fra le mani, in miseri frammenti. Ma chissà che il tramonto della mia vita non possa esser buono a qualche cosa, se ella, Elena, lo vorrà! Quaggiù non mi sembra aver più molto viaggio, ma se potessi viver sano, fiorente, amato ed amante, illuminato ed illuminante, altri dieci anni ancora, e poi spegnermi dolcemente, come chi è stanco di sua giornata, ma che nell' ultimo raggio di luce ha trovato un po' di beatitudine, mi parrà che tutti ì triboli della mia vita passata diventino rose per farne corona alla mia fronte stanca.

« Certo, io non sono tanto egoista da chieder a lei, Elena, di pensare a me giusto in questi dieci anni di sua gioventù, fiorita e poetica. Non ho il diritto di raccoglier io per me il tesoro dei suoi affetti, e disturbare la via dei suoi sogni di giovinetta. Mi parrebbe quasi un delitto. Ella ha bisogno d'un alto sole che fiammeggi sulla sua via; tali soli sono rari, ma ella è degna d' incontrarne uno, e se l'incontra lasci che la infiammi e la illumini tutta. Ma se, finchè non l'ha trovato, può bastarle una forte, calda, leale amicizia d'un uomo che ha ormai descritta la sua parabola, ma serbando quasi la verginità del cuore per i grandi sentimenti, Elena, posi pure la sua testina sul mio cuore, e levando gli occhi cerchi negli occhi miei tutta la luce d'un affetto intenso che vuol piovere sull'anima sua come un'ambrosia infinita…

« Mi scriva a lungo, quando non ha nulla di meglio a fare, quando lo scrivermi le sembri debba ritemprare il suo coraggio, e farle trillare un canto di gioia nell'azzurro luminoso.

« …..Addio, dolcissima, mi dia a baciar le sue manine, e le posi sulla mia fronte, intanto che i miei occhi la inondano di carezze infinite.

« …..E ora cosa le dirò ancora? Nulla, perchè vorrei dirle troppo; ma sente bene che sono suo, suo, tutto suo? E per sempre? »

Benchè la parola amore non venisse pronunciata in questa lettera, capolavoro di tenerezza e di soavità, ogni dubbio oramai svaniva. Paolo pensava ad Elena, Paolo l'amava, e intensamente e profondamente e si squarciava il seno per mostrarle piaghe intime che ella non pensava neanche potessero esistere nel cuore di lui.

Uno stupore grande di tutto ciò, di sè stessa, di ciò che provava, la prese. La figura di Paolo le apparve grande, luminosa e delicata, ma si rattristò di nuovo profondamente, pensando che non poteva corrispondere all' amore di questo uomo, che pur l'attirava così soavemente a sè. Non poteva, non poteva amarlo!

Era una cosa impossibile, ed egli stesso se ne accorgeva, perchè non cercava l'amore di lei, ma il solo suo affetto.

Tutta la sera fu pallida e distratta; cercò il buio, le stelle, il mistero della notte fragrante: vagò nel giardino e il profumo delle rose la colpì vivamente, confondendosi, in una inesplicabile sensazione, coi suoi stessi sentimenti.

Tardò ad addormentarsi; sentiva una gioia grande e intensa, ma in fondo all'anima provava un'angoscia dolce e struggente, e questi due sentimenti confusi insieme le davano come uno stordimento febbrile e inebbriante.

Pensava: — Io gli vorrò sempre bene, non lo dimenticherò mai — e come sarebbe possibile? — ma non potrò mai amarlo, mai!

E parevale d'esser serena pensando così, ma intanto aveva paura di amarlo, perchè si sentiva a poco a poco vincere da un fascino ineffabile. L'idea di appoggiar la testa sul cuore di lui, com'egli desiderava, e sollevar gli occhi incontro ai suoi, le dava un'impressione così ineffabilmente dolce da farla piangere; ed ella si abbandonava al sogno, pur dicendo di non poterlo amar mai.

Convinta di ciò, e per non alimentar la passione di Paolo, cercò scrivergli il più tardi, il più freddamente possibile. Cercò anche distrarsi, e andò in campagna. Il tempo era splendido; il cielo, il paesaggio, la primavera, il sole, la luce, gli astri, le fragranze delle rose, le montagne verdi, le roride valli fiorenti, tutto era un sogno d'amore, una calda, inebbriante malìa. Per varii giorni ella visse come fra cielo e terra, in un cerchio di sogni incantati: la realtà le sfuggiva, ogni cosa assumeva linee vaporose; il sogno la vinceva. Se Paolo fosse stato vicino, nella realtà, tutto questo non sarebbe forse accaduto; ma egli era lontano, egli veniva in forma di sogno misterioso e irresistibile, e la fantasia di Elena ne restava ammaliata.

Perchè non era Paolo De-Cerere, uomo serio e di età, magistrato e amico, che le appariva; era un'anima delicata ed ardente, uno spirito amante e ideale, le cui parole eran carezze divine, che la seguiva e l'affasciva irresistibilmente con la magìa di parole scritte da lontano, parole che si moltiplica vano, trasformandosi nell'infinita musica di note appassionate, ignote, mai udite, mai immaginate.

I giorni scorrevano: sempre ella provava una smania di scriver, di gettar sulla carta, con la sua scritturina esile e irregolare, col suo stile fantasioso di ragazza meridionale intelligente, tutto il suo cuore, che fremeva e tremava nell'avvolgente e inesplicabile mistero nuovo, ma resisteva e contava i giorni, aspettando il momento beato. Sentiva d'aver trovato già il suo sole, com'egli scriveva, ma non voleva lasciarsi infiammare, perchè l'unione loro le sembrava più che mai impossibile. Questo pregiudizio la rattristava grandemente, ma la convinceva tutta.

Di sera restava lunghe ore davanti alla finestra, davanti alle nuvole lunghe, color di rame o turchine, che venivano dissolvendosi dall'occidente, e una tristezza, un desiderio di cose ignote, confuse, la vinceva. Non si confessava ch'era il desiderio di trovarsi vicina a Paolo, di nascondergli il viso sul cuore e di piangervi, ma quando finalmente vinta gli scrisse, pianse davvero, dolcemente, angosciosamente.

La sua lettera doveva esser vibrante dei suoi sentimenti, perchè la risposta, questa volta attesa con ansia confessata, giunse prestissimo.

Non più con turbamento, ma con cuore tremante e viso smorto Elena lesse:

« Oh, no, Elena, non è più possibile che io mi distacchi da Lei, mio piccolo gran sole, che viene ad illuminare l'anima mia!

« Parli sempre così, e l' onda delle sue sante parole mi darà, rinfrescandomi, ogni fede e coraggio. Io non Le chiedo altro se non di proseguire. So che non è chieder poco; perchè so chi è, e sento tutte le poetiche vibrazioni dell'anima sua. Sia amica così, fino all'ultimo. Ella mi serena la fronte, ella dirada la tenebra dell'orizzonte mio, che spesso si oscura. »

« …..Se ella seguita a parlarmi così, io avrò un coraggio da leone per ogni cosa buona e bella. Niente mai mi sarà più dolce che l'intrattenermi con Lei, a lei sola confidare tutta l'anima mia.

« Ma perchè ha messo tanto tempo a rispondermi? È vero che poi mi ha ben compensato con una lettera piena di adorabile freschezza primaverile. Oh, questo soffio soave arrivi frequente all'anima mia stanca. Ella ridesta con le sue parole e col suo affetto ogni virtù che in me languiva.»

« ….. Quando ora penso, fra il tumulto d'una vita occupatissima, ma poco geniale, che esiste lontano una creatura nel pensiero della quale io son vivo, che questa gentile viene talora a me come un fiore delicato e profumato, per darmi le ebbrezze d'una amicizia pura e rigeneratrice, quando sento, Elena, l'anima sua candida e bella passar nella mia ed esaltarla, mi domando se rinasco, e comincio a credere che la sorte siasi placata con me e che Dio voglia, per l'estremo mio viaggio, concedermi un po' di bene. Allora vorrei trillare un alto inno di gioia negli spazi azzurri, gettarmi di nuovo, come da bambino, sui prati fioriti, per baciar ad una ad una le margheritine, salir con Lei sui monti, e respirar con Lei, - accanto a Lei, l'aria libera e pura, e ritornar una volta poeta, come anch'io lo fui, per cantare a lei sola l'ultima mia canzone. Ellaè per me la poesia dolce, viva e sorridente, che il contatto della realtà potrebbe guastare. Oh, venga, venga spesso a me, anzi mi rapisca, mi porti via da questo mondo uggioso, pieno d'artifizi e di menzogne; mi faccia simile a Lei, mi ridoni la serenità della mia fanciullezza; io vorrei rifarmi piccino accanto a Lei e trovar le mie parole più dolci per susurrargliele. Oh, Elena, se sapesse il bene che mi fa

« Di me non dubiti mai; io non so voler bene a mezzo a per poco; mi chiami con quel nome che più le piace, ma senta che io Le ho data la miglior parte di me; nei suoi lavori, nelle sue passeggiate, nei suoi sogni, pensi ch'io veglio accanto a lei, sempre, e che, finch'ella mi vorrà, non la lascierò più. Ed ora devo osare di dirglielo? Incomincia a diventarmi ingrato questo lei cerimonioso, che vorrebbe impedire ogni intimità, e sarei tentato a parlarle come si parlano fra loro i poeti; ma se ella non incomincia, io non principierò mai. Ma qualunque sia il modo con cui le piacerà che si parlino le anime nostre, mi senta in Lei come desidero sentirla in me, e vivere della sua vita, suo, tutto, tutto, e per sempre.

« PAOLO. »

Ella chinò il volto su questa lettera e pensò a lungo. Oramai tutti i suoi pensieri, rivolti a Paolo, erano d'una infinita e ineffabile dolcezza: quest'ultima lettera suggellò il cerchio fatato che la circondava, e velò la realtà con un pulviscolo roseo e fragrante di sogni.

Sparvero le piccole miserie della vita quotidiana, i pensieri fastidiosi, i presentimenti per l'avvenire. Tutto l'universo diventava una cosa di second'ordine, sotto l'irradiazione di questa luce profonda ed arcana ch'era l'amore forte e delicato di Paolo. Eppure ad Elena sembrava sempre di non poter corrispondere a quest'amore; ma senza di esso sentiva di non poter più vivere. E poichè le cose si concilia vano, non chiedendo Paolo che un puro sentimento d'affetto e di amicizia, pur avvolgendola in un'onda d'amore ineffabile, ella si sentì felice.

Non pensò a ciò che poteva succedere: anche la percezione dell'avvenire svaniva nella grande felicità del presente.

Mai erasi sentita così felice; Paolo le sembrava l'uomo più nobile, buono e perfetto della terra, e l'esser amata da un tal uomo la grazia più alta e soave della vita.

Rispose subito, dandogli del tu, come egli desiderava; le sembrò una cosa naturalissima, e semplicissime le parvero le cose che scrisse soavemente sul piccolo foglio giallo levigato, che esalava un lieve aroma di rose fresche.

E tutto il giorno, e la notte e l'indomani continuò nei suoi dolci pensieri: le pareva d'esser diventata più alta, più sottile e delicata; non camminava più, sorvolava, passava lieve come un sogno sopra ogni cosa. I suoi pensieri diventavano tutta grazia e gentilezza; era impossibile che d'ora innanzi si fermassero sopra cose volgari, e che nessuna piccolezza potesse toccarla.

Parlava con dolcezza, col viso illuminato da una beatitudine profonda.

Ma un'altra lettera, giunta all'improvviso due giorni dopo, la turbò, richiamandola bruscamente alla realtà.

Paolo le diceva di non meravigliarsi se le scriveva ancora, prima d'aver ricevuto risposta alla sua ultima. Era il suo compleanno, e trovandosi solo aveva pensato ai suoi cari lontani.

« ….. e siccome fra le creature più care, Dio solo sa come e perchè, ella ha preso un posto eminente, ecco perchè a lei ritorno, come ape al miele, prima della chiamata. »

Fin qui andava bene; dove andava male era più giù, dove, in un abbandono a ricordi del passato, si accennava una estinta passione. Ei diceva di aver qualche anno prima sofferto molto per dolori d'ogni sorta, tanto che spesso gli avea sorriso il pensiero della morte.

« ….. ma non morii, perchè una una donna pregò con amore per me, perchè la speranza d'aver trovato un'anima poetica sulla mia via mi sostenne, Perchè vagheggiai un sogno, ora pur troppo disperso, che bastò a reggermi nella lotta dolorosa di quegli anni. »

« ….. Le dissi che il mio sogno è svanito; non per mia colpa; la donna che pregava m'è ancor sacra nella memoria, ma essa stessa ha distrutto l' idolo. La benedico ancora per il bene che mi fece, ma non la vedo più, e ogni relazione è rotta fra noi.

« Ma di questa e di altre brevi illusioni io Le dirò un altro giorno, quando la confidenza sarà più intima. Già prevedo però quello ch'ella vorrà dirmi: « anche di me forse s' illude, e dopo avermi sollevata molto in alto mi lascierà cader dalla memoria. » No, Elena, se ella nol vorrà! Negli affetti io cerco quel che do, il pieno abbandono, la sincerità perfetta. Ogni dissimulazione mi raffredda e mi impaura. Di me non nascondo nulla, e nell'anima che ravvolge la mia cerco la luce chiara; ogni ombra mi turba. La Psiche deve aver libero volo, e sprofondarsi nel cielo azzurro come negli abissi, impavida e sicura; le piccole e grandi bugie, i sotterfugi, le malizie, l'opinione del volgo, i pregiudizi mi offendono quando due anime benedette da Dio s' incontrano.

« Ma io, ripeto, nacqui troppo presto per lei; ora non posso sognarla altrimenti che come una fata lieve, aerea, fantastica, invisibile, destinata ad altri, ma che intese la mia voce e si fermò, gentile e pietosa, per un istante ad ascoltarmi. È così, Elena, parli, parli, ma parli senza fine! »

Sì, tutto ciò era dolce e grande, ma l'accenno alla donna amata e dimenticata, distruggeva il sogno d'Elena, dandole un brusco senso della realtà. Non le era mai venuta l'idea precisa che Paolo avesse amato altre donne fortemente e grandemente: egli stesso glielo aveva lasciato intendere. Ed era forse il pensiero di possedere intero il suo cuore, per il passato, il presente e l'avvenire, che la lusingava, dandole un' immagine grandiosa di lui. Ora questa figura diminuiva, tornava alle proporzioni naturali, ed ella ne soffriva, e il dubbio temuto da Paolo la investiva:

— Mi dimenticherà come le altre!

E sentivasi gelosa di quest'amore lontano e svanito, di questa donna orante ed amata; le parve che il suo fantasma s' interponesse, impedisse la perfetta corrispondenza delle anime loro.

Con un senso di freddezza altera e sdegnosa si pentì d'aver dato del tu a Paolo, e più che mai credè di non poterlo amare. Non pensò neppure di rispondere all'ultima lettera, anzi perchè le dava una sensazione spiacevole e dolorosa, la nascose senza rileggerla. Così passò tristemente il resto della settimana.

Ogni notte Cosimo e la sposa venivano da donna Francesca. Peppina aveva smesso un po' del suo rigido contegno, però Elena non riusciva ancora a indovinarne il carattere ed i pensieri. Era o no una sposa felice? Amava o no suo marito e la sua nuova famiglia? Non riusciva facile indovinarlo. Parlava sempre di cose frivole o di pettegolezzi, dimostrandosi ignorante e maligna, difetti che Elena le aveva già scoperti da molto tempo.

Fin dai primi tempi dopo le nozze Cosimo aveva dimostrato la sua avversione per la suocera; non andava mai a trovarla, e pretendeva anzi che anche Peppina si recasse di rado in casa sua. Di qui cominciarono i malumori. Una sera egli incontrò un cliente per via, ma tornando a casa trovò la porta chiusa, la padrona e la domestica assenti, e fece una bruttissima figura. Si recò infuriato dalla suocera, e chiese di mala maniera la chiave a Peppina.

— Non l'ho. L'avrà la domestica, che si sarà recata alla fontana…

— Ah, bel modo questo digovernar la casa! — gli scappò detto a Cosimo. — La casa d'un avvocato deve restar sempre aperta! Voglio che la mia porta sia sempre aperta.

Siccome vociava, la suocera si scandolezzò, volle rabbonirlo, ma egli scappò via pensando: — Ah diavolo! Vorrei che mia moglie restasse un po' a casa! — Un po' inquieta Peppina ritornò subito, ed egli continuò il suo sermone.

— Puoi alla fine abituarti a star lontana dalle gonnelle di tua madre: puoi almeno far restar a casa la domestica! Oggi io ho fatto una cattiva figura, che avrei pagato non so che per non farla!

Per un poco ella lo las ciò dire, ma ad un certo punto scattò:

— E tu non sei sempre da tua madre? Ci vai persino quattro volte al giorno!

Cosimo strinse i denti per la stizza, ma non rispose: se la prese invece con la domestica, e quasi quasi la mandava fuori a pedate.

E Peppina, che sotto l'epidermide bianca e tranquilla celava il mistero di una bile raffinatissima, quella notte non volle andar dalla suocera, ma si mise presto a letto. Cosimo allora restò fuori fino alla mezzanotte: ella ne pianse di dispetto, e l'indomani non volle levarsi, fingendosi sofferente, ragione per cui i due sposini rifecero la pace. Ma la luna di miele ormai era rotta e tramontata.

Peppina continuò a recarsi ogni giorno dalla madre, trascurando le cure della sua casa nascente, e Cosimo sentì accrescersi l'antipatia per la suocera per il suocero — uomo bravo, ma buono soltanto a compier i suoi doveri d'ufficio ed a lasciarsi dominare dalla moglie — sembrandogli che la sua sposa sentisse più attaccamento per loro che per lui. Ella, urtata, cominciò a sua volta a disamar la suocera e le cognatine; non voleva più recarsi da loro, e andandoci appuntava poi ogni lor gesto e parola.

E Cosimo, guai a toccargli la madre e le sorelle: di qui cominciavano i litigi — assai presto, pur troppo! — avvalorati poi da altre ragioni più serie e profonde.

Cosimo ne cadeva in tremendi malumori; più che mai trascurava i suoi pochi affari e riprendeva la vita scorretta menata da scapolo. Non ricordava più Maria e la fugace passione provata per lei, ma qualche volta quando i modi di sua moglie lo rendevano infelice, fra i torbidi pensieri tornava ad apparirgli con dolci sfumature la visione luminosa intraveduta l'ultima notte di carnevale, fra la divina musica di Gounod.

Non si sentiva felice. Amava certo Peppina, bella e sana, ma le anime loro non s'incontravano, non si fondevano; e siccome egli provava talvolta anche raffinati bisogni spirituali, sentivasi incompreso, deluso e triste. L'urtava l'ignoranza e la volgarità di sua moglie; persino la di lei eleganza nel vestire gli sembrava una vuota e piccola volgarità.

Le Bancu sapevano di questi dissapori, e mentre donna Francesca faceva il possibile per spegnere questi piccoli fuochi, Elena e Giovanna ne soffrivano assai.

— Ma che sapete voi! — diceva la madre per confortarle. — Voi non conoscete il mondo. Altro che di questi fuochi di paglia si accendono fra mariti e mogli!

Ma Elena pensava che fra gli sposi di animo delicato, che veramente s'amano, deve regnar la concordia, la stima e la pace; e soffriva assai perchè i suoi presentimenti cominciavano ad avverarsi, pur troppo! e avrebbe fatto qualche sacrifizio per veder Cosimo col viso meno scuro.

Però, fra questi dispiaceri, sapeva ormai dove rifugiarsi: bastava che il suo pensiero prendesse una data via perchè una incantata beatitudine le piovesse sull'anima, e i fastidi, i presentimenti, i crucci, s'allontanassero e sfumassero, come svanivano le altre cose fastidiose o pesanti, davanti alla luce che le irradiava tutta l'anima.

Era stata una notte interlunare di maggio, che le giunsero assieme due lettere di Paolo, attese intensamente per il desiderio di-veder presto svanito il sentimento di gelosia e freddezza, causatole dalle ultime confidenze di lui.

Ricevè le lettere con invincibile batticuore, col viso bianco quasi per angoscia. Non dimenticò mai quella sera; avevano in casa un ospite dei villaggi, e dovevano cenar tardi; quindi ella potè un po' ritirarsi nel sua camera, mentre Giovanna passeggiava canterellando allegramente nel giardino, dove Lyly correva e s'arrampicava sugli alberi.

Le finestre erano aperte, la notte scendeva meravigliosa. Ad occidente splendeva ancora una fascia glauca, nelle cui alte sfumature Venere purissima brillava come una perla. L'aria olezzava di rose e di fieno fresco, mille confusi e lieti rumori morivano nella grande quiete dell'estremo crepuscolo occidentale. Elena aprì le lettere e cominciò a leggere quella che le parve scritta prima. Paolo le dava del tu. Una commozione violenta la prese; cominciò a tremar tutta, e gli occhi le si velarono di lagrime ineffabili: tutto, tutto svaniva davanti a quelle lagrime; anche la donna che pregava, che tanto l'avea fatta soffrire in quei giorni, anche essa spariva fra lei e Paolo.

Restavano soli: restavano essi soli davanti alla profumata sera di maggio, sotto il gemmeo occhio di Venere, sotto la luce perlata dell' infinito: e le anime loro s'incontravano, si stringevano nell' amplesso divino di un amore perfetto e sovrumano.

« Elena, Elena — scriveva Paolo, ed ella sentiva tremare un poema di lagrime, di baci, di carezze, di parole, di poesia e musica celestiale, — grazie, grazie, grazie, mia grazia infinita! Se tu sapessi, se tu sentissi qual tuffo di gioia ho provato oggi aprendo la tua lettera e vedendoti venire a me libera, intera, sorridente e serena!…

« ….. Tu mi hai scritto il giorno stesso del mio compleanno; sentivi forse che l'anima mia volava a te e ti avvolgeva in una carezza immensa?

« Elena, non t'offendano mai le volgarità della vita-Levandoci su, correndo dietro ai nostri affetti, ai nostri alti sogni, alle nostre profonde visioni, non sentiremo più nulla di ciò che ne opprime e molesta. Ma quando alcun peso della vita t'aggraverà, non celarmelo, e non temere che la tua sofferenza mi allontani da te; no, io vorrò far miei tutti i tuoi pensieri, per divider teco la tua gioia e raddolcire col mio affetto i tuoi dolori.

« ….. Ecco, ora, caduto il lei cerimonioso, ora mi sento più tuo, come ti sento più mia. Ora le anime nostre possono parlarsi il linguaggio naturale confidarsi tutto.

« Oh, la gioconda primavera che tu m'hai concesso! Oh, il glorioso rinascimento che tu mi hai dato! Elena mia soavissima, continua a parlare così: io chiudo gli occhi e t'ascolto. Che musica è nelle tue parole! Quanta luce, quanto profumo! E se tu sapessi che dolcezza provo nel mormorare il tuo nome!

« ….. No, non temere mai di me. Io voglio saper prima com'è fatta l'anima della creatura a cui voglio appartenere: quando lo so, la mia adorazione non teme esperimenti…

« ….. sento ogni bellezza ed ogni grandezza, e per questo soffio che mi abbandonerà soltanto con la vita, tu puoi crearti lontana l'illusione che io abbia la virtù di una eterna giovinezza, e stringerti a me sicura. Ma non dir più forse quando speri ch' io possa esser dissimile dagli altri, e che dopo averti sognata non lasci cader il mio sogno! No, se altri non sfronda da sè la sua corona, io, per parte mia, non posso aggiungerle nuovi fiori, e ardere nuovi incensi all'ara. Le mie braccia non lasciano ciò che hanno stretto… »

Così in un crescendo meraviglioso di espressioni appassionatamente delicate, proseguiva la prima lettera, ma nella seconda fremeva qualcosa di più vivo e tumultuoso. Era scritta a mezzanotte; si vedeva bene che egli non aveva riposato, ma che pensando ad Elena continuamente, non trovava anzi riposo che nel ritornare a lei.

« ….. È inutile; non resisto; sento il fascino e torno a te con desiderio ineffabile. Perchè? Come? Qual filtro mi hai dato? Perchè la tua voce mi chiama così? Perchè gli occhi tuoi profondi mi cercano così lontano? Eccomi dunque ben vicino a te!

« ….. la mia vita vorrebbe avvolgerti tutta in una sola, grande, divina, immortale carezza. Ma poichè sono pur troppo un essere mortale, molto imperfetto, tutti i miei voti non possono far nulla per la tua felicità; ma se tu sapessi immaginar cosa che mi fosse possibile e che ti facesse piacere, dovresti mettermi alla prova, anche del fuoco.

« …… — tu sei sicura che puoi accettare il mio culto, perchè ti lascerò tranquilla, e non desterò in te alcuna passione: solamente avrò, come una grande anima, il potere arcano di compendiare in me tutti gli affetti di cui tu puoi esser oggetto, perchè quando tutte le vere, le vive e naturali passioni della tua vivace gioventù potranno farti soffrire, sarai persuasa che ti resta sempre un'anima che ti abbraccia dall'alto dell' eternità. Tu puoi essere sicura, ma io? Chi ti dice ch'io non sia più capace di passione? e che il mio affetto smisurato non possa diventar tumultuoso? Le ultime eruzioni di un vulcano non sono le meno pericolose: il fuoco vicino a spegnersi manda più gran fiamma. Io mi guarderò quanto potrò, ma poco posso innanzi alla tua dolce magìa. Non conosco gli scongiuri, e se li conoscessi non li adoprerei, tanto mi è caro il naufragio nel sogno luminoso che tu mi apri a serenar l'ultimo mio orizzonte! »

« ….. tu mi rattieni irresistibilmente, tu mi allacci, le tue piccole mani mi stringono forte; i tuoi occhi sovrani m'incatenano; la tua parola mi vince. Io non vorrei lasciarti un istante, e mentre lavori, mentre guardi a traverso i vetri delle tue finestre, mentre ti addormenti, mentre ti svegli, dirti: Elena, non sei sola mai; Elena, uno spirito invisibile, ma infinito, ti avvolge, ti abbraccia tutta, e ti trasporta al di là delle cose che ti spiacciono, in un oblìo profondo d'ogni realtà che pesa. Vieni, vieni meco; attraversiamo i mari, i monti, e raccogliamo tutte le voci della natura esultante in un solo gran tripudio d'amore. Io m'immaginerò d'aver ali e raccoglierti in esse; se avrai freddo ti scalderò, se avrai caldo ti rinfrescherò agitandole.

« L'anima mia, ricovrata nella tua, potrà alzare un volo potente. Accoglimi e non sentir mai noia dell'ospite che vuol esser incomodo. »

La lettera terminava così:

« ….. ti prego di prestar sempre alle mie parole tutta la maggiore intensità, perchè se tu potessi esser dentro di me, e veder quello che vi succede, sentiresti come mi balza in petto giovanilmente il cuore mentre ti scrivo. Ti lascio, Elena, e non ti riscriverò se non dopo aver ricevuto una tua lettera. Spero che almeno una volta alla settimana verrai a visitarmi, a sollevarmi dal mondo in cui vivo per trasportarmi teco nel nostro, che non appartiene a nessuno, dove siamo grandi signori noi dell'universo.

« Dammi le tue mani, e portale alla mia fronte, e lascia ch'io ti miri profondamente, intensamente: quando ti parrà ch'io ti guardi troppo, tu chiudi gli occhi miei, come io vorrei chiudere i tuoi perchè non veggano il mio turbamento.

« E ora come devo fare? Innanzi alle Madonne bisognerebbe mettersi in ginocchio; perchè dunque, Elena, oso chiuderti fra le mie braccia e coprirti gli occhi di baci infiniti? L'anima mia è già passata nella tua e si sente beata di rimanere in te! »

Dopo aver letto, ella non potè nè ridere nè piangere, ma tutta l'anima le brillò negli occhi profondi, che si allargarono ineffabilmente: provava una sensazione profondamente indicibile; gioia e angoscia, desiderio e preghiera, mistero profondo e radioso che scendeva dall'infinito e all'infinito risaliva. Tutte le stelle che cominciavano a tremare in cielo, purissime e splendenti come lagrime di diamante, incoronavano la sua fronte; tutti i profumi del maggio fresco, della terra fiorente, odoravano, divini aromi della vita e dell'amore, nel suo cuore. Ciòche fece nel resto della sera, non lo ricordò poi che come in sogno.

Vagò nel giardinetto, nascose il viso fra le rose, e il suo respiro narrò alle rose che nelle lor foglie, nel loro acuto profumo, ritrovava una sbiadita impressione dei baci che il suo lontano amico le mandava.

Ma il giardinetto, dove il vezzoso e innamorato Lyly correva pazzamente, mettendosi in agguato davanti alla sua signora e attraversandole il passo con salti meravigliosi, per richiamare, ma invano, la sua attenzione, era troppo piccolo. Ella avrebbe voluto percorrere campi vasti come il cielo, e andare… andare… fino a lui, che pur le era così vicino, che con la brezza le copriva il volto d'ineffabili baci.

E si sentiva leggera come la brezza, si sentiva alta fino alle stelle, e sottile e delicata come lo stelo dei fiori. Un'anima invisibile, che solo l'anima sua vedeva, impalpabile così che solo l'anima sua poteva toccarla, la seguiva, l'avvolgeva in un nodo forte che più nessuna cosa poteva sciogliere, e la trasportava ad altezze immense, in volo vertiginosamente inebbriante.

A lungo, a lungo, nella notte vegliò: e l'ebbrezza misteriosa cresceva con lo splendore delle stelle, con la intensità rorida delle fragranze notturne. Ogni cosa ed ogni avvenimento, il passato, il presente e l'avvenire svanivano: restava soltanto l'ora, l'attimo fuggente, che però valeva per secoli. Se Paolo fosse stato vicino nella realtà, come ella lo sentiva nel sogno, il gaudio non sarebbe stato più pieno e sovrumano di così.

Più che il sonno, la vinse a notte alta una specie di incantesimo dolcissimo e profondo. Solo allora, vinto dall'incanto, il cuore finalmente confessò a se stesso il suo mistero.

Disse tremando:

— L'amo!

Da gli occhi socchiusi della spirituale creatura scesero allora due lagrime; ma egli era sempre vicino, e furono le sue labbra di mago che asciugarono le due lagrime e chiusero gli occhi sognanti.

In casa Brindis gli avvenimenti incalzavano. Una notte di febbraio, che soffiava un vento tremendo, sollevando in alto e disperdendo la neve caduta nei giorni prima, Costanza fu svegliata di soprassalto da fortissimi colpi battuti al portone.

— Cicchedda — gridò sollevandosi sul letto.

— Cosa c' è? — domandò la ragazza svegliandosi spaventata.

— Senti? senti? Picchiano al portone.

Cicchedda ascoltò, ma non avendo alcuna volontà di levarsi, disse:

— È il vento.

— Ma che vento! Lèvati su e va sopra a svegliare zio Salvatore.

Ma l'altra, invasa anche da un po' di paura, non volle muoversi; Costanza, adirata, imprecò, e seguitando più che mai i colpi che pareva volessero atterrare il portone, si gettò giù dal letto borbottando:

— Ah, non ti levi per questo? Per altro sì che ti saresti levata.

Cicchedda restò così angosciosamente colpita da questa osservazione che subito si alzò, rabbrividendo. Cosa Costanza voleva dire? Fu per chiederglielo, ma essa, semi-vestita, scalza e all'oscuro uscì rapidamente fuori: invece di salire da Salvatore battè alla porta di Alessio.

— Lèvati, presto! Battono forte al portone.

— Chi? — gridò Alessio.

— Non lo so.

— Chi è? chi è? Aspettate! — gridò Costanza dal portico verso chi picchiava. La sua voce si smarrì nel vento, ma tosto cessarono i colpi, e un'altra voce rispose:

— Sono ioooo!

— Mi sembra la voce di Antoni Canu. — Cosa sarà accaduto, Dio mio? — disse ella quasi singhiozzando.

Tremando di freddo, rientrò nella cameretta, dove Cicchedda accendeva il lume, e si vestì le scarpe.

— Cosa è? chi è? — domandò la servetta, ma ella non si degnò risponderle.

Intanto, al chiasso, Salvatore ed Agada si levavano; Alessio, in manica di camicia, attraversò il cortile pieno di neve e di fango, e aprì il portone. Era infatti Antoni, uno dei due servi pastori che guardavano i porci.

Il poveretto era più morto che vivo, e narrò in poche parole una storia assai facile ad accadere nel nuorese, ma non perciò molto allegra. Era avvenuta una bardàna (una razzia), cioè un gruppo di ladri, camuffati e tinti, nelle prime ore della notte erasi introdotto nell'ovile, legando fortemente i pastori e rubando i porci grassi e belli. La notte era propizia, perchè la neve copriva le traccie dell'onesta comitiva, e il rumore del vento poi finiva di accomodar la faccenda.

Solo dopo molti sforzi i pastori s'erano liberati dai loro lacci, e Antoni scendeva nella città mentre l'altro si metteva coraggiosamente dietro i ladri; ma la graziosa compagnia era già molto lontana.

Alessio e Salvatore, bianchi in viso per la rabbia e il dolore, giacchè il danno era enorme per loro, si misero a imprecare maledettamente. Senza indugio furono sellati i cavalli, e il pastore corse ad avvisare i carabinieri e la compagnia dei barracelli, di cui Salvatore e Alessio facevano parte; ma zio e nipote partirono subito, come due anime dannate, armati e incappucciati. Cicchedda volle uscir col lume fino al portone, ma il vento glielo spense, le sollevò le vesti e gli strappò di testa il fazzoletto.

La notte era intensamente fredda, il cielo basso, di una bianchezza fosca e uniforme; una luce tenue e triste, emanata dalla neve, illuminava stranamente la via, e il vento furiosissimo imperversava.

I cavalli, spronati crudelmente, partirono con galoppo rapido e disperato, senza tuttavia produrre alcun rumore sulla neve della strada, e Cicchedda rinchiuse il portone battendo i denti per l'emozione e il freddo. Quasi quasi piangeva, tanto partecipava al dolore di Alessio, tanto soffriva nel vederlo partire così, di notte, tra il vento e la neve, incontro a una misteriosa avventura.

Benchè il giorno fosse ancor molto lontano, le donne non pensarono di tornare a letto; erano spaventate, dolenti e sofferenti; Agada e Cicchedda specialmente, la prima perchè dalle vendita dei porci sperava rimediare a molte cose, a molti fastidi che ora le tornavano dolorosamente al pensiero; la seconda perchè pensava sempre al dispiacere e allo strapazzo di Alessio.

Costanza, muta e rigida, sentiva pur essa un'emozione sgradevole e ansiosa, ma se non ci fosse stato di mezzo zio Salvatore e i suoi interessi avrebbe provato un gusto malvagio e segreto nel veder soffrire così evidentemente Cicchedda.

Perchè oramai l'odiava; si accorgeva, sentiva, senza averne ancora la minima prova, le relazioni correnti tra la fanciulla e Alessio, e una repulsione instintiva e inesorabile l'animava a perseguitarli. Spiava continuamente e accanitamente ogni loro parola, ogni movimento e ogni sguardo, è benchè nulla confermasse i suoi dubbi, ella vedeva, indovinava la realtà e ne soffriva. Davanti ai parenti, in casa, Alessio trattava duramente Cicchedda, mostrandole disprezzo e malvolere, mentre prima usava con lei affabilmente, ma Costanza sentiva la finzione; e i modi del cugino finivano col confermare i suoi dubbi odiosi ma veri. Il desiderio e la smania di mandar fuori la ragazza, di cacciarla vergognosamente da casa e levarsela via dagli occhi, la pungeva assiduamente; e il pensiero che anche fuori di casa Alessio avesse continuato a proteggerla e trattarla, acuivano il suo odio e la sua gelosia.

Ma per tirar dalla sua zia Agada e zio Salvatore le occorrevano prove; ed essa le cercava assiduamente con pazienza odiosa e implacabile. Quella notte, leggendo sul viso della fanciulla una sofferenza acuta ed ansiosa, il cuore le prediceva che qualche cosa sarebbe successo; intanto avrebbe voluto fingere, ma non le riusciva; ogni sua parola sprizzava veleno, e se Cicchedda si conteneva, se dall'anima sua non erompeva un grido di ribellione contro tutta la fatalità che la perseguitava, il suo cuore solo ne sapeva il doloroso mistero.

Zia Agada si accoccolò accanto al fuoco, bianca in volto e con gli occhi smarriti; il suo pensiero lavorava angosciosamente, e la visione dei ladri che tra la bufera e nel mistero delle montagne spingevano il branco dei porci e quella di Salvatore e d'Alessio che galoppavano contro al vento, nell'orrore della notte, esposti a tutti i pericoli, lo incantavano dolorosamente. Anche Cicchedda era dietro di lui e aveva paura, e un presentimento di cose angosciose e terribili le serrava la gola. A un tratto, affievolito dal rumore del vento, s'udì il pianto di Domenico come un gemito Iontano.

— Domenico è sveglio! piange! — disse Agada sollevando il capo. — Fu per alzarsi, ma Costanza disse:

— Vado io! e corse.

Dopo un poco, siccome il pianto del bimbo non cessava, anche Cicchedda uscì; nel portico si fermò ad ascoltare, e sentì la voce di Costanza che cercava chetare Domenico.

— Voglio Cicchedda… voglio! — gridava il bimbo dimenandosi.

— Perchè la vuoi? disse Costanza stizzita — Non ci sono io, sciocco?

— Voglio Cicchedda, voglio Cicchedda! — ripetè Domenico fra i singhiozzi.

Ella, nel suo dolore, sentì una tenerezza più che mai intensa per il piccino. Qualche tempo prima Costanza, per levarglielo dal letto, aveva fatto di tutto onde indurlo a dormire con lei o con zia Agada. Inutile. Domenico aveva fatto un chiasso infernale, e neppur ella, pregandolo di contentare Costanza, l'aveva vinto; del che non è a dire la sua gioia segreta e l'ira della padroncina che cominciava ad involger nel suo odio anche il bambino.

— Dormi! — gli disse ruvidamente, viste inutili le carezze. — Altrimenti chiamo i bobboi per rapirti. Non la senti la mamma dei venti, in cerca di bambini? Eh, apro la porta?

Domenico s'impaurì e pianse più piano, gemendo sconsolatamente e dicendo con disperazione:

— Cicchedda….. dov'è Cicchedda?…..

Essa, fuori, ne ebbe una gran pietà, ma non entrò ancora perchè Costanza la imprecava.

— Se l'ha presa la madre dei venti, perch'è cattiva, perch'è maligna, miserabile che altra non è!…..

C'era tant'odio e disprezzo in queste parole, con le quali forse voleva suggestionare il bimbo, che Cicchedda coi denti stretti per la rabbia, entrò.

— Sono qui! Sono qui, cuoricino mio! — esclamò, contenendosi e correndo dal piccino, che le porse le sue graziose braccine, e attaccandosele tenacemente al collo, col viso illuminato da un sorriso, si calmò sull'istante. Questa prova d'affetto calmò anche lei. Disse dolcemente:

— Dormi, dormi, cuoricino mio!

E Domenico ritirò le braccia e chiuse gli occhi.

Costanza s'allontanò dal letto piena di stizza; avrebbe volentieri strozzata la ragazza e dato un paio di schiaffi a Domenico, ma si contentò di ritornare in cucina borbottando. Zia Agada però, che diceva il Rosario, con le visioni dei ladri, e di suo marito, e di Alessio, e dei barracelli, e dei carabinieri davanti allo sguardo fisso nel fuoco, non le diede retta.

Domenico s'addormentò tosto, e Cicchedda, col braccio stretto intorno al suo corpicino, semi-sdraiata sul letto, si mise a piangere silenziosamente, con un gran freddo per tutta la persona. Seguiva Alessio nella pericolosa corsa notturna, e visioni spaventose la tormentavano; così fu colta da una specie di sopore gelido e doloroso; in una sensazione confusa e spasmodica le pareva che il vento volesse portarla via davvero, come Costanza aveva detto, e si aggrappava disperatamente al bimbo che le sembrava un masso di neve ghiacciata; e la voce odiata di Costanza sibilava, incitando il vento alla sua attrazione vertiginosa… E giù, in uno sfondo nebbioso, Alessio cadeva da cavallo, e spari e tuoni rumoreggiavano.

Invece Alessio e zio Salvatore stavano in quell'ora ben fermi in sella, benchè i cavalli salissero faticosamente la montagna. Il vento diventava sempre più furioso, ma più si saliva, più una strana luce bianca orizzontava i due bizzarri cavalieri. Anche sotto gli elci, che il vento urlando scuoteva, il buio non era profondo; e il cammino rendevasi meno difficile e pericoloso, essendo le chine meno scoscese e meno alta la neve.

I due viandanti tacevano; solo di tratto in tratto zio Salvatore, tutto bagnato per la neve che cadeva dagli elci, sbuffava ed imprecava.

Alessio, per una divinazione assai facile in simili casi, sapeva press'a poco chi erano i ladri della bardàna e la direzione che avevano preso; e fremeva di rabbia, non tanto per la perdita quanto per l'affronto subìto, ma conservava un ammirabile sangue freddo, freddissimo anzi, con tanta neve che gli piombava addosso, e col vento che a momenti, battendogli di fronte, faceva indietreggiare il cavallo.

Salvatore si sentiva meno sicuro; non aveva paura, certo, ma meno svelto e freddo di Alessio, soffriva nella faticosa cavalcata, e i pensieri gli si intorbidivano; a momenti quel bagliore bianco ed uniforme che sfumava ogni cosa in un'allucinazione strana e suggestiva, gli dava una vertigine pericolosa. Solo per un miracolo d'equilibrio non piombava a capo fitto sulla neve; ma più d'una volta rise fra sè, d'un riso strano e caratteristico, causatogli dalla percezione della figura ridicola che avrebbe fatto cadendo, e quasi si trattasse d'un'altra persona, mormorò:

— Aspetta! Aspetta! Ora ci siamo!

E avanti, avanti, i due generosi cavalli forti e pazienti, con la testa atteggiata ad una rassegnazione sonnolente e cupa, salivano, evitando con mirabile istinto ogni pericolo, ritrovando la via sotto la neve, fra i cespugli che il vento liberava dal folto mantello bianco, fra le rupi cangiate in immensi blocchi di marmo, sotto i boschi coperti da grandi merletti di cui il vento disfaceva ad ogni soffio l'incanto.

Per molto tempo camminarono così; zio Salvatore aveva esaurito tutte le sue imprecazioni, e non sentiva più il coraggio di ridere vedendosi far dei capitomboli, ma sudava come se fosse in un meriggio di agosto, e gli venivano davvero le vertigini. Non distingueva più nulla in tutta quella vanescente visione bianca; solo la macchia nera di Alessio che gli apriva la strada; una macchia nera che si allungava, si stendeva, sfumava in grigio e spariva a intervalli in quella tremenda bianchezza vertiginosa.

Sibili acuti, urli, gemiti, scrosci di riso, rumori di cascate, di torrenti, di voci umane e infernali vibravano per la montagna; e tutto, cielo, terra, monti ed alberi si confondevano in una nuvola bianca, in un soffio potente e misterioso.

Ma un forte abbaiare di cani, spinto dal vento, ebbe il potere di disfare un poco il malefizio; zio Salvatore chiuse gli occhi, e riaprendoli distinse un muro coperto di neve, vide un foro luminoso e s'accorse che erano giunti all'ovile. I cani abbaiavano furiosamente, ma Alessio gettò un grido e tosto tacquero.

Nella capanna, circondata di neve e addossata a una rupe, e'era un ragazzo, fratello d'uno dei pastori, mezzo inebetito ancora per lo spavento. Era un ragazzo sucido, col volto così nero, dalle labbra grosse e il naso camuso che sembrava un moro; quella notte poi, nello stato in cui si trovava, alla luce del fuoco acceso sulle pietre della capanna, era così orribile che Alessio ne provò una vaga sensazione di paura. E tosto gli sembrò che il ragazzo avesse relazione coi ladri; non seppe spiegarsi questo pensiero, causatogli da un senso di disgusto, nell'irritazione nervosa che nonostante il suo apparente sangue freddo lo vinceva, ma mettendosi ritto accanto al fuoco, mentre zio Salvatore ora invaso da un freddo intensissimo si scaldava le mani, egli guardò il fanciullo acutamente.

— Non è tornato Sidòre? — domandò.

— No — rispose il ragazzo.

— Ma come andò la faccenda?

Il fanciullo raccontò, con parole tronche e quasi singhiozzando.

— A che ora tu sei venuto? — gli chiese Alessio duramente.

— Ieri, alle tre di sera.

— Non hai incontrato nessuno? — domandò l'altro, con accento duro e suggestivo. Il ragazzo sollevò gli occhi, quasi attratti dall'acuto sguardo di Alessio, e non rispose subito.

— Chi hai incontrato? — gridò egli allora — forse Scoppetta?

Era questo il nome del bandito, che un giorno zio Salvatore e il nipote avevano incontrato nel salire all'ovile; si aggirava spesso intorno per quel tratto di montagna, fra la chiesetta e il monte Palas de Casteddu, e usava anche recarsi nell'ovile dei Brindis e dormirvi. I pastori lo trattavano bene, egli si mostrava amico, ma ciò nonostante i dubbi d'Alessio eran subito caduti su lui.

— Sì — rispose timidamente il ragazzo, e il padrone flammeggiò negli occhi e alzò un braccio in atto di minaccia.

— Oh! — gridò — e cosa ti ha detto?

— A me? nulla… — tentò di negare il fanciullo, ma l'altro lo fulminò con lo sguardo e con la voce.

— Cosa ti ha detto? Rispondi la verità, altrimenti ti prendo a schiaffi, che non vedi dove vai finire…

Allora il ragazzo confessò. Sì, Scoppetta gli aveva chiesto se il padrone saliva quella sera all'ovile, se i pastori sarebbero rimasti soli, se nessuno sarebbe venuto da Nuoro in quel giorno.

E il ragazzo aveva risposto tutto ciò che sapeva, che il padrone non saliva, che nessuno sarebbe venuto, che i pastori sarebbero rimasti soli nella notte.

E Alessio, aiutato da Salvatore che ora sentiva nuovamente un caldo terribile, cominciò a bestemmiare, agitandosi come un ossesso, con gli occhi spaventosamente fiammeggianti, mentre il ragazzo si faceva piccino, piccino, e domandandosi atterrito: — Cosa ho fatto io? cosa ho fatto io? — sbirciava l'apertura della capanna, pensando di fuggire.

— Lo vedete? — gridava Alessio rivolto allo zio — lo diceva io ch'era lui, Scoppetta, anima vile, anima dannata, vigliacco, miserabile! Su diaulu sa terra chi ti reghet! Ma ora la farai con me, anima vile! E questo animale qui — e prese il ragazzo per il ciuffo — questa bestiolina nera e schifosa che non diceva nulla! Perchè non hai avvertito tuo fratello, perchè non ti sei aperto nelle costole, miserabile che altro non sei, ladruncolo vile? Oh che ti hanno promesso di farti parte della bardàna, figlio di donna….. che se ti piglio, ti metto il muso sul fuoco?

E inferocito, accecato dall'ira, accennava ad eseguir la minaccia, e l'avrebbe eseguita se Salvatore non avesse protetto il ragazzo che piangeva disperatamente. Alessio continuò a urlare improperi contro il bandito ed il fanciullo, finchè arrivarono i barracelli e due carabinieri guidati da Antonio; risalirono a cavallo dopo aver interrogato il ragazzo, più morto che vivo; e dietro gli indizi dati dal pastore, che diceva d'aver riconosciuto fra i ladri qualche paesano di Oliena, decisero subito qual via pigliare.

Il tempo incalzava; i cavalli furono spronati a sangue, ed Alessio aperse la strada. Ora discendevano; non si trattava di ritrovar la traccia dei ladri, cosa impossibile per la neve caduta nelle prime ore della notte, ma di attraversar loro la via, che secondo l'istinto dei barracelli, gente avvezza a simili operazioni, doveva essere fra le montagne di Nuoro e quelle di Oliena. Scendevano quindi per il versante sud-est dell'Orthobene, e la comitiva, composta di gente forte e coraggiosa, armata di tutto punto, era più che mai epica e bizzarra, sullo sfondo della gelida notte nivale e del paesaggio misterioso.

Verso l'alba il vento cessò, e il cielo si fece un po' chiaro e diafano, ma il freddo diventò più acuto. Quando ad oriente, al disopra del mare, sulle vette di monte Pizzinnu, lo strano monte inesplorato, rifugio di banditi e di leggende, apparve una linea di cielo limpido, verdognolo, d'una indicibile tristezza, annunziante l'aurora, giù ad occidente, verso il monte Gonare, l'orizzonte si aprì un poco, quasi per riflesso, e comparve la luna al tramonto, una luna bianca, marmorea, la cui luce, spandendosi su solenne paesaggio nevoso, sembrò uno sguardo di sovrumana melanconia. E fu un silenzio immenso, ineffabile, una fantasmagoria di boschi, rupi, picchi, vallate rese marmoree da una maga capricciosa e strana, fino all'orizzonte ove le ultime montagne svanivano grigie e fredde.

In questa luce vaga, bianca e smorta, il viso di Alessio apparve d'un pallore fosco e livido; i cavalli affondavano fino a metà zampa nella neve, però ora si distinguevano i pericoli, e Salvatore Brindis, assonnato, malconcio e di pessimo umore, poteva evitarli.

La luce fredda e acuta del giorno, diradando a poco a poco il profondo velario delle nubi, vinse il bagliore della luna, che tramontava come una piccola nuvola bianca sbiadita, e Alessio, arrivato il primo sulla pianura di Oliena, scorse col suo acuto sguardo di falco la macchietta lontana d'un uomo.

— Ecco Sidòre, eccolo! — gridò.

Era infatti il pastore partito coraggiosamente dietro i ladri; ritornava in uno stato miserabile, fradicio fino alle ossa, e camminava a stento, ma quando vide il padrone sorrise fieramente.

— Ah — disse con semplicità — temevo che avreste preso altra via!

— Ebbene? — domandò Alessio chinandosi sulla sella.

— È questa, proprio questa la via! Guai, guai se questa volta non fate iscaddura! (Esempio che desti spavento e timore) — disse il pastore, e a sua volta cominciò a imprecare orrendamente.

Fu circondato da tutta la comitiva, e lì in mezzo alla pianura bianca, coi piedi affondati nella neve, coi capelli bagnati appiccicati alla fronte ed al viso paonazzo, con poche parole e pochi gesti energici narrò come erano andate le faccende di quella deliziosissima notte. « Sì, aveva inseguito e seguìto i ladri; giusto, giusto per quella via erano passati; andavano assai presto, ma non tanto come volevano, a causa della neve. E lui dietro. Voleva vedere dove andavano a finire, perchè certamente in qualche luogo si sarebbero fermati, e l'aveva veduto, perdio! Erano laggiù, in un ovile di pastori olianesi — e accennò alla sua sinistra, dietro un'altura lontana — ed egli correva verso Oliena per avvisare i carabinieri e mandar gente a Nuoro, quando, per fortuna, aveva incontrato il padrone. »

— Presto, presto, avanti! — conchiuse.

Alessio se lo prese in groppa e la comitiva s'avviò di nuovo; parlavano tutti animatamente, e il pastore additava la traccia dei ladri, che si scorgeva chiaramente nella pianura, dove la neve era scarsa.

La luce cresceva; le montagne d'Oliena apparivano come una muraglia d'alabastro sul pallore azzurrognolo del cielo.

Un quarto d'ora dopo l'ovile fu in vista, ma contrariamente alle affermazioni di Sidore, fu trovato disabitato; la capanna cadeva in rovina, nessuno si vedeva intorno. I ladri, forse avvisati, forse accortisi d'esser inseguiti, avevan ripreso la corsa verso i salti d'Orgosolo.

L'inseguimento durò quasi tutta la giornata; buona parte dei porci, sbandati o sfuggiti, fu ritrovata per via, ma Alessio volle proseguire. Era livido, divorato da una rabbia inesorabile, e gli stessi patimenti sofferti in quella strana caccia faticosa lo spronavano dietro la vendetta.

Verso sera ricominciò a nevicare. Erano giunti quasi sotto il villaggio d'Orgosolo, in un sito alpestre e selvaggio; grandissime roccie a picco coperte di neve, e intricate macchie, fra cui riusciva impossibile passar a cavallo, arrestarono la comitiva. Furono rinvenuti gli ultimi porci, e Alessio ed un carabiniere, arrampicatisi sulle roccie, videro tre o quattro individui sbandarsi fra le macchie, e fecero fuoco. Le fucilate echeggiarono stranamente acute per tutto il paesaggio nevoso; in lontananza si ripercossero sordamente, più volte, perdendosi sonore nel silenzio della montagna, per ignote gole.

A piedi, affondando nella neve, Alessio, i carabinieri e due barracelli proseguirono la caccia, ma poco dopo accadde una cosa bizzarra. Fu fatto fuoco alle loro spalle, e precisamente su Alessio; la palla lo ferì leggermente alla gamba sinistra, e il sangue colorò la neve. Egli non emise un gemito, tanto più che sulle prime non sentì dolore alcuno, ma trasportato a braccia fino al cavallo, volle subito ritornare verso Nuoro, benchè zio Salvatore lo scongiurasse di pernottare ad Orgosolo per curare subito la ferita.

La comitiva così andò disgiunta; i pastori riunirono i porci e ripresero la via dell'Orthobene, Alessio e lo zio discesero allo stradale e i carabinieri coi barracelli cercarono ancora i ladri, ma inutilmente. Più tardi si seppe che il bandito era stato ferito dalla prima fucilata d'Alessio, e forse era stato lui a ricambiargliela; avendo dopo questo fatto eseguito altre prodezze, diventò famoso, e gli fu posta una taglia di tremila lire.

Zio e nipote giunsero a Nuoro verso la mezzanotte.

Le donne avevan trascorso una giornata triste e angosciosa; al sopraggiunger della notte l'ansia si rendeva più viva e grave; zia Agada piangeva, col volto bianco come cenere, e Cicchedda usciva spesso sulla strada, sussultando ad ogni passo di cavallo, ad ogni rumor di voci.

Cosa accadeva in lontananza, cosa mai accadeva?

Perchè non ritornavano, perchè non mandavano notizie?

Presentimenti paurosi le serravano la gola; avrebbe voluto correre, andar dietro d'Alessio, vederlo, esser certa di quanto gli accadeva, fosse pure una triste cosa. Meglio la certezza di un male definito che l'incertezza di un male misterioso, ingrandito dall'ignoto.

Sparsasi la notizia per la città, molte persone eran venute ad informarsi e ciascuna diceva il suo parere, facendo pronostici ed augurii. Una seccatura enorme, tanto più che in qualche persona Costanza intravvedeva benissimo una certa segreta compiacenza, un certo desiderio pio che la disgrazia divenisse più completa. Persino comare Franzisca non aveva mancato di ficcar il naso nella facenda, rimanendo più di un'ora chiacchierando e abbrustolendosi davanti al focolare, notando il pallore ed il malessere di Cicchedda. Le chiese anzi:

— Eh, come sei gialla; cosa hai?

— Oh, cosa ho? Oh, volete che rida oggi?

Ma andandosene comare Franzisca strizzò un occhio, additando Cicchedda, e disse piano a Costanza:

— Eh, neppur tu sei così addolorata!

E Costanza pensò che la donnicciuola doveva saperla lunga.

Venne anche Cosimo Bancu in persona, con le mani sprofondate nelle tasche del soprabito e i pantaloni piegati su gli stivali pieni di fango e di neve.

Zia Agada voleva riceverlo nella stanza buona, ma egli restò ritto in cucina, informandosi della faccenda, e se ne andò subito via. Agada e Costanza, tutte altere per questa visita, cominciarono a parlare delle Bancu e della fidanzata del giovine.

— Quelle sì che son fortunate, quelle sì che stanno bene, quelle sì che son felici… — cominciò Costanza sospirando, con mal celata invidia; e non la finiva più.

Zia e nipote parlavano quasi sempre dei beni, della posizione, della vita delle famiglie benestanti; e quando ne facevano dei pettegolezzi e della maldicenza, invidiavano mal celatamente il benessere altrui.

Ma quella sera ritornarono presto alla loro ansia, che neppure il chiacchierio, i gridi e le risate di Domenico, che giocava con un gattino, poteva distrarre. Quando scoccò il coprifuoco Costanza disse:

— Zia, andate a letto. Forse non ritornano ancora: andate; resterò io, se ritornano o mandano notizie vi sveglierò.

Ma Agada non volle neppur sentirla: come la si riteneva capace di dormire? Mandarono adunque a letto solo Cicchedda e il bambino; ma la fanciulla, messo Domenico a dormire, si sedette, avvolse le mani nel grembiale, e chinata la testa sulle coltri, chiuse gli occhi con suprema stanchezza. Si lasciò vincere da un sonno leggero e febbrile, dal quale la destarono di soprassalto forti colpi battuti al portone; si sollevò spaventata, coi piedi e le mani fredde e indolenzite, mentre dalla candela spentasi per mancanza d'olio, il lucignolo rosso fumava con odore sgradevole. Con dolore si portò le mani alla testa, e fu per uscire, ma ricordandosi che le padrone la credevano coricata, si fermò tremando vicino alla porta. Sentì che dei cavalli entravano nel cortile, ma nessuna voce; che era avvenuto? chi ritornava? perchè tacevano? No, non poteva restar là rinchiusa; aprì la porta e guardò: vide solo alla luce rossastra del lume le ombre dei cavalli agitarsi nel cortile. E nessuno parlava ancora.

Ma presto la ferì la voce spaventata e desolata di Agada.

— Alessio! tu sei ferito!

Alessio ferito? Cicchedda si slanciò nel cortile, l'attraversò correndo ed entrò in cucina dietro Costanza. Ma che le importava di Costanza o degli altri se Alessio era ferito? Poteva ricordarsi d'altri che di lui? Sulle prime lo vide confusamente, con una gamba fasciata di bende macchiate di sangue; poi lo guardò in viso, e il viso era grigio e disfatto. Ed emise un grido.

Egli sentì tant' angoscia in questo grido che ne sussultò nelle più intime fibre; s'intenerì, e dimenticando anch'egli che Costanza stava presente, disse a Cicchedda con dolcezza:

— Non è nulla, non è nulla: non temere!…..

— Cos' ha quella matta? Perchè grida così? domandò Salvatore Brindis, levandosi il fucile. E imitò con beffe la voce di Alessio: — Non è nulla, non è nulla, non temere, gioia mia; è un rovo che ci ha graffiato le gambe. — E rise.

Dalla gaiezza di lui Agada capi che s'era fatta buona impresa, e il cuore le si alleggeri; ma il viso di Costanza si fece buio, e fu tale la sensazione odiosa che provò nel veder confermati i suoi dubbi, che le ginocchia le tremaron visibilmente.

— C'era gran bisogno che ti fossi levata! — gridò a Cicchedda con ironia. — Va, e rimetti i cavalli nella stalla!

L'altra non rispose, ma prese il lume ed uscì, e pianse amare lagrime tirando per la briglia il cavallo d'Alessio.

Sentiva d'essersi tradita, e se la voce e le parole buone di lui raddolcivano come balsamo la sua angoscia, ora un nuovo strazio la torturava, pensando che Costanza e i padroni s'erano accorti. Che sarebbe avvenuto di lei? E piangeva per ciò, e per il desiderio di cader ai piedi di lui, e dirgli con le lagrime e i baci, l'ineffabile dolore, l'ansia provata in quella interminabile e tremenda giornata. Perchè non poteva farlo? Chi glielo proibiva, chi?

— Questo, dunque, il mio posto? — pensò con dolorosa umiliazione, togliendo la briglia alla cavalla, e attaccandola alla greppia. Pure, vista la povera stanca bestia ficcare avidamente il muso fra la paglia, pensò con tenerezza che Alessio l'aveva cavalcata, che aveva accompagnato e trasportato Alessio, e liberandola dalla sella la carezzò sul dorso fumante.

Rientrando in cucina vide che Salvatore voleva recarsi in cerca di un medico; ma Alessio lo tratteneva:

— Perchè? Sto forse per morire? Lasciate il medico a domattina: per ora mi accomoderà zia Agada…

E benchè soffrisse acuti dolori, si ritirò zoppicando stringendo i denti per rattenere i gemiti: la zia gli andò dietro, e aiutata da Costanza gli curò la ferita con un unguento composto da lei con semi di lino, olio e tuorli d'uova, buono per ferite d'arma da fuoco. Cicchedda restò in cucina. Salvatore mangiava, con un canestro di pane e vivande posto sul davanti del focolare; le sue vesti fumavano al calore del fuoco e il suo viso si rifaceva sanguigno.

— Li avete ritrovati tutti? — arrischiò timidamente Cicchedda.

— Cosa abbiamo ritrovati tutti?

— I porci…

— Sicuramente.

— Ah? sì? E dove? e come? — domandò ella con gli occhi luminosi, che dovette chinare perchè Salvatore, fissandola acutamente, e in modo assai strano, invece di risponderle a proposito, le disse:

— E perchè ti sei messa a gridare vedendo Alessio? Perchè non hai gridato vedendo me?

Intanto divorava tutte le vivande del canestro, per cui ella esclamò:

— Oh, bella! Perch'egli è ferito e voi no. Eh, non avete neppur voglia di mangiare!…

— Che tu non possa mangiar più! Ferito! Ferito! Ferito un corno! È una graffiatura, e tu quasi morivi di spavento, figlia del diavolo! A me non la racconti giusta!

E continuava a guardarla con insistenza dentro gli occhi, dentro l'anima. Ella ne tremò internamente, ma rise e disse:

— Che matto voi siete!

Una strana melanconia apparve sul volto e nei torvi occhi di Salvatore, che disse scuotendo la testa:

— Cicchedda, Cicchedda! Io sono matto, io sono vecchio, e quanto parlo è mal detto. Così almeno dice zia Agada, mia moglie, che il diavolo la scortichi. Buona donna del resto; e tu devi ascoltare tutto ciò che essa ti avverte, perchè è per il tuo bene. Ragazza, fa da savia! Noi ti amiamo come figliuola, e vorremmo vederti sulla buona via. Ascolta i consigli dei vecchi; non dar retta ai tentatori.

— Ma che state dicendo? Io non ho tentatori… — rispos'ella a fior di labbro, curvando la testa. Gli occhi rossi le frugavano l'anima, le pesavano sul capo, ed ella ormai arrossiva e si turbava per ogni cosa.

Il padrone continuò a farle una predica, sempre mangiando e bevendo: a un tratto la vide chinar vieppiù la fronte, fino a nasconder il viso su le braccia intrecciate, e credette d'averla annoiata, ma ben presto s'accorse che ella piangeva. Perchè si turbò come un bambino? Respinse il canestro e stette a guardarla trasognato.

Perchè piangeva quella sciocca? L' aveva offesa o toccata nel vivo? Forse?

Continuò a fissarla acutamente, con un'ombra fosca sul viso. Ella piangeva piano piano, amaramente, ma non era più il suo pianto sciocco ed infantile d'una volta. Era il pianto di chi soffre profondamente, e Salvatore conosceva troppo bene il mondo per non accorgersene. Così ripiegata, nella penombra giallastra della cucina, ella mostrava le larghe e belle spalle; e il velluto rosso della pala, nel lieve moto dei singhiozzi, tremava e splendeva; sul suo capo, al di sopra del focolare, la cannitta dondolava con sottile scricchiolìo.

Salvatore guardò lassù e proruppe:

— Cosa diavolo hai tu, ragazza? Se ascoltassi i consigli di chi ti vuol bene non piangeresti mai.

Ella sollevò improvvisamente e fieramente la faccia, rossa per il pianto, e aprì la bocca per parlare, ma sentì Agada e Costanza rientrare, ed ebbe solo un fremito sulle labbra.

Quando tutti furono a letto — quella notte Salvatore non si lavò neanche i piedi — Agada domandò malignamente:

— Cosa hai detto a Cicchedda che piangeva?

Egli, che si dimenava e sbuffava più del solito, non trovando una posizione adatta dopo gli strapazzi di quel giorno maledetto, non rispose.

— Lasciami star la testa — disse dopo un po'. — Se oggi piangeva, domani riderà.

Parve addormentarsi, ma a un tratto ricominciò a torccrsi, a sospirare.

— Se non dormi — fece — ho da dirti una cosa. Faresti bene a sorvegliare quella ragazza! — e sommessamente disse dei suoi sospetti.

Agada, mezz'addormentata, si meravigliò altamente ch'egli, dopo una giornata simile, si preoccupasse di certe cose, e le parve una sciocchezza occuparsi di Cicchedda, mentre si avevano ben altri grattacapi!

— Dormi! — disse con voce velata, e non udì neppure le ultime parole del marito.

L'indomani Alessio non si levò. Aveva trascorso una notte orrenda, con spasimi alla gamba e un principio di febbre, che gli rendeva il sonno penoso, affannoso, pieno delle impressioni e delle visioni della giornata, ma trasformate in sogni confusi e mostruosi. Tutta la notte aveva confusamente atteso Cicchedda, desiderandola vicina, ma sentendo che neppur la sua presenza l'avrebbe sollevato: essa però non era venuta, sicura che Costanza la sorvegliava. All' alba, udendo un passo nel cortile, egli chiamò:

— Cicchedda?

Invece entrò Costanza, gli toccò la fronte con la punta delle dita, e guardandolo affettuosamente gli chiese con premura:

— Che vuoi? Come hai passato la notte?

Cicchedda è andata pel medico. Ora ti porterò un po' di caffè.

Ma egli non voleva nè medico nè caffè: voleva vedere Cicchedda, e disse:

— Quando Domenico si sveglia, fammelo portare da Cicchedda…

La sua voce era lamentosa; e il volto affilato dalle sofferenze della notte, e gli occhi smorti, nella prima triste e grigia luce dell' alba invernale, apparivano quasi vinti da lunga malattia.

Costanza uscì pensando come mai quella strega di olianese lo avesse stregato, e più che mai decise di sorvegliare.

In tutti quei giorni fu un continuo via vai di gente, perchè s'era sparsa persino la voce che Alessio era stato ucciso.

I curiosi interrogavano Cicchedda per via, ma essa, triste e seria, rifiutava di rispondere. Salvatore, affaccendato e confuso, chiamatò in tribunale per deporre nella faccenda della bardàna, non ebbe tempo di ricordarsi della ragazza, ed anzi parve dimenticarla.

Alessio restò sci giorni a letto, curato affettuosamente; poi si levò, ma rimase in camera, senza muoversi, seduto davanti ad un braciere di fuoco.

Domenico lo svagava alquanto, ma ciò non bastava; si sentiva cupamente triste e nervoso, e la sua debolezza fisica lo irritava talmente, che spesso faceva per alzarsi, slanciarsi sulla sua cavalla, e riprendere gli affari.

Dopo la neve ritornò un sole quasi primaverile, che rendeva il cielo intenso e profondo, ma nella camera un po' umida e oscura regnavano il freddo e la tristezza, e il fuoco pareva spento al lontano riflesso di quel cielo tiepido e limpido. Ma Alessio non doveva muoversi; e non avvezzo alla contemplazione soffriva orrendamente, e non sapeva con chi pigliarsela.

Cicchedda entrava ed usciva ogni tanto, recandogli il fuoco e da mangiare e da bere, ma egli la guardava con occhio profondamente indifferente, e non la curava affatto.

Nella sua perduta adorazione ella credeva ch'egli operasse così per prudenza, e lo guardava timidamente, ringraziandolo della sua stessa freddezza.

Intanto egli, col suo intuito fino di malato nervoso, andava accorgendosi di due cose sin'allora sfuggitegli: prima di tutto dell'attaccamento di Domenico per Cicchedda. Ne provò quasi disgusto e dispiacere, perchè gli parve che se la ragazza fosse tolta al bimbo, questo ne avrebbe sofferto acutamente, forse anche fisicamente, tanto ella lo dominava.

Pareva che oramai tutti gli altri personaggi della casa, neppur suo padre, contassero nulla per Domenico, più che mai viziato e grazioso. Era d'un egoismo formidabile e di una prepotenza irresistibile: strillava e piangeva spesso fino ad esaurire tutte le sue piccole forze, e solo Cicchedda riusciva a dominarlo, farlo tacere e dormire; pareva incantarlo.

L'altra scoperta disgustosa che Alessio fece, fu lo spionaggio assiduo e vile di sua cugina; benechè ne fosse edotto non credeva che le cose arrivasscro a tal punto; vedeva, s'accorgeva, sentiva quando Costanza spiava, invisibile, dietro la porta o la finestra; quando piombava improvvisamente nella camera capiva le acri allusioni che ella rivolgeva a Cicchedda, e intuiva tutte le persecuzioni a cui la ragazza era fatta segno.

Ne provò sulle prime una collera sottile e nascosta, che poi si fece acuta ed acerba. Oh che cercava intorno a lui quella sciocca? Perchè lo spiava? Non poteva egli fare quel che gli pareva e piaceva? Si sentiva avvilito, e si domandava che avrebbe fatto quel sacco di fiele di sua cugina, se avesse scoperto quanto cercava di scoprire. Avrebbe forse fatto uno scandalo, o forse che gli avrebbe comandato di non fare quel che gli pareva e piaceva? Comandare? A chi? A lui?

Si mise a rider fra sè acerbamente. Pensò che Costanza poteva scacciar Cicchedda. Ma che forse egli non poteva vederla anche fuori di quella casa? Ma poteva andarsene magari lui, se continuavano a seccarlo! Non era già a peso loro, anzi il diavolo sapeva s'era egli a mangiar del loro, od essi ad usufruir del suo!

— E come, perdio! — Si ricordò allora dei consigli e delle minaccie di zio Salvatore, quel giorno che salivano sui monti ed avevano incontrato quel vigliacco di Scoppetta. Ma egli s'infischiava altissimamente di quel vecchio matto di zio Brindis, e di tutta la parentela!

Tornò a rider fra sè insensatamente, e provando un nervoso istinto d'antipatia verso Costanza, che forse lo spiava d'accordo con quella vecchia strega di zia Agada e con quel vecchio sciocco di zio Salvatore, ebbe un vivo desiderio di far imprudenti dispetti. Comineiò a parlar male della cugina, con Cicchedda che ne restò contenta e spaventata.

Per la prima volta Costanza compatì, benchè umiliata, ma alla seconda capì la manovra d'Alessio, e uscì in cucina piangendo di rabbia e di umiliazione. Quel giorno in cucina ci fu l'inferno per Cicchedda, a cui la padroneina lasciava velatamente capire orrende cose. La povera ragazza ingoiò il veleno a grandi sorsi, ma tacque per paura, pel presentimento di disgrazie e dolori più acuti. Non pensava di andarsene, ed anzi il timore di venir scacciata l'angosciava: temeva che allontanandosi, Alessio l'avrebbe trascurata, forse dimenticata; ed ella voleva restargli vicino, anche a costo dei più grandi ed umilianti sacrifizi.

Ma quel giorno anche Agada, che talvolta usava difenderla contro le invettive di Costanza, la strapazzò, e le fece capire che l'avrebbe mandata via.

Ed essa, no, non voleva, non voleva andar via, non voleva. Oh, perchè Alessio si comportava così? Perchè non usava prudenza? E intanto, spinta dal suo dolore, fu anch'essa imprudente.

Quando entrò dopo cena per prender Domenico, lo trovò addormentato sulla sua seggiolina bassa, con la testina appoggiata al ginocchio del padre che meditava più che mai cupo, benchè il medico gli avesse permesso d'uscire l'indomani.

Chinandosi sul bimbo ella disse con voce bassa e supplichevole:

— Perchè fai così, Alessio? Perchè le parli male? Perciò se la prende con me, oh, se sapessi come!…

Le lagrime le velarono gli occhi e la voce le tremò: egli ne sentì molto dolore, molta indignazione, e disse a denti stretti:

— Vorrei prenderla a schiaffi!

— Non farlo, non farlo, abbi carità di me! — gemè ella, e ancora china sollevò verso di lui gli occhi pieni di lagrime, con tale dolore e umiliazione e passione, ch'egli sentì aumentare il suo odio per la cugina.

In quello stesso punto sentì che Costanza spiava dietro la porta, e pensò che sarebbe schiantata dalla rabbia se finalmente si fosse accertata di quanto cercava sapere.

— Che t'importa di quella sciocca? — gridò, e stese le mani, prese quasi violentemente il capo di Cicchedda e la baciò. Allora Costanza, tremando per l'ira, con gli occhi velati, spinse la porta ed entrò.

Se Cicchedda avesse veduto uno dei fantasmi che temeva sempre di incontrar nella notte, non si sarebbe certamente spaventata di più.

Costanza oramai le incuteva una specie di paura fisica, che in quel momento la paralizzò; parve che il sangue le si fermasse nelle vene, e il volto le si fece bianchissimo, ma ebbe il moto istintivo di stringersi ad Alessio, quasi cercando protezione. Egli s'accorse di tutto; ebbe un fremito d'ira, ma dominandosi disse con voce tranquilla:

— Cicchedda, porta a letto il bimbo.

Ella si curvò, ma Costanza le fu sopra, le diede uno spintone e prese essa il bambino: la fanciulla battè la fronte sulla tavola, e gemè angosciosamente, per dolore fisico e morale.

Allora l'ira d'Alessio traboccò, e gli occhi gli luccicarono spaventosamente.

— Lascia stare mio figlio! — urlò con voce terribile, slanciandosi dietro Costanza e strappandole il bimbo: ella ebbe paura, Domenico si svegliò tremando e piangendo lamentosamente, e al suo pianto anche Cicchedda, che aveva veduto le stelle e si stringeva la fronte per il dolore, cominciò a singhiozzar forte. Era una desolazione, un'angoscia, uno spasimo senza nome in quei singhiozzi sfrenati, in quel pianto amaro che pienava la camera di gemiti. E Domenico, vedendola piangere, raddoppiò i suoi strilli, il suo pianto senza lagrime; ma questa doppia musica strana, invece di commuoverlo, irritò Alessio in sommo grado.

— Vattene! — gridò a Costanza.

— Perchè me ne vado? — saltò su essa come una vipera. — Son forse in casa tua?

— Ah, giusto! — diss'egli amaramente, come colpito. E se la prese col bimbo e con Cicchedda, che continuavano a piangere.

— Finiscila, demonietto, altrimenti ti batto. Prendi, Cicchedda, portalo a letto, e tu pure finiscila, figlia di Dio! Vi dico!… — concluse minaccioso, porgendole il piccino. Entrambi si calmarono e s'avviaron singhiozzando appena a fior di labbro, ma fu tale l'indignazione di Costanza, vedendo Alessio porre il figlio fra le braccia dell'amante, dopo averlo strappato a lei, che cominciò a ingiuriar aspramente Cicchedda. Questa uscì senza rispondere, rimettendosi a singultar sul portico; e Alessio alzò allora la mano per percuotere la cugina.

— Non so cosa mi tenga! — disse a denti stretti.

Ella non si scansò; solo incurvò leggermente le spalle e disse:

— Si, non ci manca che questo, Alessio Piscu! Tutto l'altro l'hai fatto! Ah, ma non credevamo mai che ti prendessi così giuoco della casa nostra!

Egli volle parlare, ma ella non gli lasciò aprir bocca.

— Ah, ti credi che io sia entrata qui stasera per altro? Sono entrata semplicemente per farti vedere che ci accorgiamo di tutto, e che nessuno può beffarsi di noi alle nostre spalle. Del resto fa quel che vuoi; sei padrone di romperti l'osso del collo, ma non è giusto che tu copra di vergogna la casa di Salvatore Brindis, la più onesta di Nuoro!…

Ella parlava con tale fierezza, con tono fra il risentito e il lamentoso, che Alessio ne restò profondamente colpito. La sua collera parve calmarsi; sentì che la cugina, quali si fossero i sentimenti che la spingevano ad operar così, aveva ragione, provò un vago disgusto, un senso di vergogna e di rimorso, ma non si diede per vinto. Disse:

— Ve la toglierò presto questa vergogna, oh, se ve la toglierò! Ma forse ve ne pentirete!

Costanza capì, con un po' di terrore, ch'egli se ne sarebbe andato. Non ci aveva mai pensato; ed ora, calcolando rapidamente quanto danno ne avrebbero, divenne più conciliante. Tuttavia il diverbio durò a lungo: Cicchedda piangeva dentro l'altra camera, e neppur le carezze di Domenico, che le passava le manine sul volto, dicendole piano:

— Pecchè piangi? pecchè? — la calmavano.

Una volta aprì lievemente la porta, per mettersi in ascolto, ma si ritrasse inorridita vedendo zia Agada ad origliare sul portico. Sentiva bene che l'indomani l'avrebbero vergognosamente scacciata; forse convincerebbero Alessio a dimenticarla… e mille orribili idee le tempestavano sotto la fronte marchiata da un lividore doloroso. Pensò di fuggire, di suicidarsi se Alessio la dimenticava; e aveva poi una gran paura, una gran vergogna di ripresentarsi a Salvatore Brindis… Affondando la faccia sul letto, per reprimere i singhiozzi convulsi, vedeva il viso colorito e gli occhi rossi del padrone che la fissava acutamente con l'espressione dell'altra notte, e sentiva la sua voce, le sue parole severe e affettuose che l'avevano costretta a pianger davanti a lui.

Quella notte, per fortuna, egli era in campagna; altrimenti non avrebbe certo pazientato fino al domani per mandarla via. Ma l'indomani egli ritornava, e Dio sapeva che scandalo doveva accadere. L'indomani invece, quando egli rientrò, non s'accorse di nulla, ed ella vide con stupore che non solo non la scacciavano, ma non le rivolgevano neanche la minima allusione al fatto della sera prima. Alessio potè finalmente uscire, ed anzi si fece un po' di festa per la sua guarigione e per la vendita dei porci conclusa quel giorno con un negoziante di Cagliari: vennero degli amici, bevettero, e Salvatore si prese una sbornia numero uno.

Dopo vari giorni Cicchedda seppe da Alessio che le donne, spaventate dalla sua minaccia d'andarsene, si eran calmate, chiedendogli anzi scusa, e dicendogli che operavan così per il bene di lei e per il decoro della casa! Ma gli avevan strappato la promessa di non molestare più la ragazza.

Ma dopo quella scena la discordia entrò in casa Brindis. Alessio non mantenne la promessa, anzi arrivò a tal punto che non si dava più alcun pensiero delle parenti. Cicchedda lo esortava alla prudenza, lo supplicava, lo sfuggiva, paurosa d'un nuovo scandalo; e viveva una vita terribile, maltrattata più che mai dalle padrone, che facevano di tutto perchè se ne andasse da sè, per non provocare altrimenti la collera d'Alessio. Ma per quanto soffrisse, ella non pensava d'andarsene, e tutto avrebbe patito, fuorchè allontanarsi da lui.

Una catena fatale di convenienze, di interessi, di egoismo, li legava strettamente gli uni agli altri: per tre mesi vi si dibatterono entro dolorosamente, con amarezze, piccolezze, viltà e rancori d'ogni sorta: sentivano che questo stato insopportabile non poteva durare, eppure cercavano di prolungarlo.

Circondato dai pettegolezzi e le schiaccianti piccolezze delle tre donne, Alessio passò tre mesi d'inferno; ma neppur esso poteva andarsene. Come le Brindis avevan bisogno di lui, che regolava gli affari e frenava le stoltezze di Salvatore, così egli sentiva di rovinarsi rimettendo casa a parte, con donne estranee, che gli avebbero rubato anche la pelle. Ma restando s'avvelenava l'esistenza.

Soli Domenico e lo zio passavan sereni fra la continua tempesta: davanti a Salvatore tacevan le ire e gli scandali, ed egli, credendo anzi che Cicchedda, dopo la sua predica, s'era levati i grilli di testa, e che Agada la sorvegliasse, restava tranquillo.

Ma una sera di maggio, ritornando pensieroso di campagna, raggiunse nello stradale comare Franzisca, che tornava anch'essa dalla valle, con in capo un fazzoletto sporco pieno di erbaggi e con un fascio di fuscelli da ardere.

Lo stradale era deserto, s'udivan solo dei carri roteare in lontananza, e la sera calava luminosa e quieta.

Il cavallo di Salvatore, che sentiva di ritornare verso la mangiatoia, andava lesto, a testa alta, e appena comare Franzisca lo vide, ebbe un sorriso maligno. Era tanto tempo che desiderava parlar occasionalmente al compare! ma egli stava per passarle innanzi senza guardarla.

— Buona sera — diss'ella con voce insinuante. — Tornate dal chiuso, compare?

— Così pare! — diss'egli senza scomporsi, e proseguì; ma l'altra gridò:

— Aspettate, aspettate, chè mi sono ricordata una cosa. Doveva venir a casa vostra, ma voi mi risparmiate i passi.

— Cosa diavolo vuole? — pensò egli tirando la briglia al cavallo, e a piccoli passi aspettò che la comare si spiegasse.

— Ditemi, compare, devo cercar una domestica: è vero che mandate via Cicchedda? La vogliono in una buona casa…

— Ma perchè dobbiamo mandarla via? Ma come dobbiamo mandarla via? — interruppe Salvatore con violenza.

— Ma….. quello lo sapete voi! Io l'intesi dire…..

— fece la donna malignamente.

Salvatore Brindis poteva per tre mesi non accorgersi di quanto accadeva in casa sua, ma s'avvide benissimo che la comare accennava maligna a qualche cosa. E disse con voce brusca guardando in avanti:

— Cosa volete dire? Cosa avete inteso dire?…

— Ma… nulla! Solo che mandavate via Cicchedda perchè faceva all'amore con Alessio! Questo lo dice tutta la città.

— Tutta la città? Ma che che città d'Egitto! Cosa può dir la città se non sciocchezze e pettegolezzi?…

— Non v'adirate così, compare Salvatore… — cominciò beffarda la donna.

Ma compare Salvatore spronò il cavallo, che quasi le sparò un calcio in viso, e s'allontanò sbuffando.

Ella restò male. — Andate un po' ad aprir gli occhi ai ciechi, a far bene agli stolti! È come voler abbatter un masso con la fronte! — pensò melanconicamente, e non s'accorse che i fuscelli le cadevano dal fazzolettaccio pieno d'erbaggi rubati.

Salvatore Brindis rientrò a casa con una ciera chiusa, e Agada, che ne conosceva bene i malumori silenziosi, e li temeva più delle collere violente, lo guardò senza chiedergli che aveva, aspettando ch'egli parlasse.

Ed egli parlò quando furono soli nella loro camera, ed Agada, deposto il paiolino dell'acqua tiepida in mezzo alla stanza, cominciò a slegarsi il grembiule. Vedendo suo marito andar su e giù sbuffando, gli chiese:

— Cos'hai?

Allora egli le si piantò davanti, e fissandola in volto, e sollevando un angolo della bocca con amaro sogghigno, disse:

— Cosa ho? Te lo dirò ora. Ho due cose. La prima, che sono minacciato di morte…

— Da chi? — domandò ella turbata.

— Ne so molto io da chi! Cioè, sì, lo so benissimo, ma tu stessa l'indovini. Vicino alla capanna del chiuso oggi ho trovato una fossa scavata, e una croce piantatavi accanto!…..(1) Semplice modo con cui il nemico sardo vi dice: — Ti ucciderò!.

— E tu cos'hai fatto — chiese Agada con gli occhi pieni di paura.

Salvatore si mise a ridere, ma d'un riso amaro, a bocca chiusa.

— Cosa ho fatto? Ho turato la fossa, e ci ho seppellito la croce. Sta quieta, o donna! Salvatore Brindis non morrà che per mano di Dio, il più tardi possibile. Io mi infischio altamente di Scoppetta, che la giustizia lo abbruci! (Agada aveva già capito che la minaccia proveniva dal bandito.) Ma c'è un'altra storia che mi interessa. Ti ricordi, una notte io ti dissi di badare alla tua domestica. Hai tu badato, Agada Brindis?

— Ha scoperto! — pensò ella, ma disse:

— Sicuro!

— E che cosa me ne dici?

— Perchè mi fai questa domanda?

— Perchè? — disse Salvatore alzando la voce e facendosi più rosso del solito — perchè io son l'ultimo a sapere i fatti di casa mia!

E siccome la moglie chinandosi per togliersi le scarpe, non protestava, la sua ira scoppiò. Non gridò, ma il suo accento grosso e duro, i suoi gesti furiosi, lasciavano intendere violente risoluzioni.

— Domani rideremo! Non credevo mai che Alessio fosse così vile. E glielo dissi: Lasciala stare quella ragazza, non scherzare con lei: è come nostra figlia! Ed egli dunque non mi ha badato? Ma ora glielo ricorderò io! Ah, egli si crede che qui non si possa viver senza di lui? Invece io gli insegnerò il contrario, gli insegnerò come…

— Cosa dici, cosa dici, Salvatore! — esclamò Agada con dolcezza. — Non c'è bisogno di far scandali; si accomoderà ogni cosa; son cose da nulla.

Ma egli non le badò; parlava come fra sè, battendo forte un calcagno sul pavimento che tremolava tutto.

— È una viltà che pagherà cara! Fuori di casa mia, subito! Se gli devo seicento lire, gliene restituirò settecento. Ma fuori di casa mia, subito!

— Salvatore, Salvatore, senti…

— Non voglio sentir nulla! E tu, donna del diavolo, non sei buona a guardar la tua casa! Ah, ah! — rise di nuovo amaramente, senza muover i muscoli del viso.

— Ah, il vedovo che non sapeva darsi pace!

E un anno dopo, mentre forse la moglie è ancora intatta nella sua fossa, egli va a tentar le ragazze che…

— Una serva! — disse Agada con disprezzo.

— Una serva! — gridò egli con occhi lampeggianti.

— Appunto per ciò doveva lasciarla stare. Una ragazzina disgraziata!…

Agada, infastidita, cominciò a imprecare contro Cicchedda.

— Era lei la cattiva: Alessio non aveva colpa; egli era uomo, e gli uomini, si sa, sono uomini. Maledetto il giorno, l'ora e il momento che quella sciocca aveva messo piedi in casa loro. L'indomani l'avrebbe appiccata al fico…

— Cosa borbotti, donna scipita? — disse Salvatore.

— Toccava a te dar attenzione in casa tua. Bella fama ora ti acquisterai!

— La mia fama? strillò Agada. — La mia fama sarà sempre buona: peggio per chi perde la sua! E tu, vecchio arrogante, tu sei buono solo a difendere i cattivi e i malvagi, tu…

Si bisticciarono acremente, e Agada colse l'occasione per sfogare tutta la sua amarezza, la sua infelicità, rinfacciando al marito tutta la sua vita, gli errori, le debolezze; e lo maledisse e lo imprecò. Allora egli s'irritò davvero, e alzò la voce muovendosi disperatamente per la stanza.

Il rumore dell'alterco si spandeva per il cortile, nella notte tranquilla. Ritta sul portico Costanza ascoltava; non afferrava tutte le parole, ma capiva di che si trattava, e comprendendo che finalmente l'insopportabile situazione stava per isciogliersi, provava una maligna sensazione di gioia e d'angoscia.

Rendendosi più violento l'attacco, ella salì piano piano le scale, e andò ad origliare alla porta degli zii: allora Cicchedda, pallida e tremante, uscì a sua volta nel portico, e cercò d'ascoltare.

Presentendo ciò che doveva accadere, si consolava pensando che almeno Alessio, fuori di città, non avrebbe assistito alla sua umiliazione.

Ma che cosa accadeva là sopra? Le voci si rendevano esasperate e rauche: si sentì come il rumore di una lotta, un oggetto pesante cadde per terra, e risuonò un grido acuto ed angoscioso di Costanza: — Zia mia! zia mia!… — Cicchedda si slan ciò fuori di sè per le scale, e si presentò sulla porta spalancata: vide confusamente il pavimento inondato d'acqua, e mentre guardava ciò con stupore, Costanza le si precipitò col pugno teso, gridandole: — Per te, vile!

Diede addietro spaventata, ma tosto si accorse che il male non era poi irrimediabile. Salvatore aveva semplicemente dato uno schiaffo a sua moglie, e rovesciato involontariamente il paiolino dell'acqua tiepida. Per l'effetto di queste due cause, zia Agada si era calmata come per incanto; immediatamente si mise a cercar stracci per asciugar il pavimento, mentre Costanza, tremando nervosamente, non sapeva dir altro che: — Vile! vile! — tanto per Cicchedda che per zio Salvatore.

Egli, ritto in mezzo a quel piccolo mare, un po' sbalordito dalla sua prodezza (in venti anni era la prima battaglia decisiva vinta contro sua moglie), già roso dal rimorso, vista la faccia stravolta di Cicchedda, se la prese subito con lei.

La ingiurò ferocemente, poi stese un braccio gridando: — Fuori, subito fuori! — I suoi occhi brillavano come quelli d'un gatto rabbioso, e Cicchedda ne ebbe paura. Ella disse qualche cosa, ma non ricordò mai quel che disse. Vide zia Agada che, raccogliendosi le sottane fra le gambe, chinavasi per asciugare il pavimento con uno straccio, e Costanza che aggirandosi su sè stessa diceva sempre: — Vile! Vile!

Poi ebbe come l'impressione delle manaccie di Salvatore Brindis, che la spingevano a saltar la scala, quattro gradini per volta. E senza saper come, nè perchè, si trovò sulla viuzza, singhiozzando spasmodicamente senza lagrimare…

Sull'alto del cielo d'un azzurro pallido e trasparente le stelle tremavano come lontani fuochi d'argento, un cantico sardo saliva melanconico e sonoro nella grande serenità della notte fragrante; ed ella, scalza ed in maniche di camicia, senza tetto, nè famiglia, cominciò ad errare senza meta nè rifugio, camminando silenziosamente per le vie strette, rasentando le mute casette immerse nel sonno della miseria. Sentiva l'angoscia di ciò che aveva per sempre perduto, e le sembrava d'aver perduto la vita.

Girovagò così, col grembiale sul viso e le palpebre bruciate da lagrime di sangue, finchè una donna, che camminava scalza pur essa, le fu sopra inavvedutamente. Si fermarono entrambe, e benchè Cicchedda si celasse vieppiù il volto nel grembiale, l'altra la riconobbe e s'accorse che piangeva.

— Sei tu, Cicchedda?

— Zia Franzisca? Dove andate?

— Cos'hai? Perchè piangi? A quest'ora! Cosa c'è?

— domandò la donna, tirandole un lembo del grembiale.

— Mi hanno mandata via! — disse la ragazza, ricominciando a piangere.

— Oh, poverina, oh poverina! — cominciò ad esclamare comare Franzisca. — Non te l'avevo detto io di non fidarti! Son gente cattiva e senza cuore, li conosco bene, io. Ma te lo avevo detto io: Cicchedda, vattene prima che ti mandino via, accomodati, Cicchedda! Ma non desti retta!

Così confortandola la trasse con sè; ed ella le andò dietro piangendo sommessamente, e raccontandole ogni cosa.

Comare Franzisca la condusse alla sua casetta triste e in rovina, vicina al camposanto; e voleva farla dormire sul suo giaciglio, ma ella preferì stendersi per terra, sopra un sacco. E non dormì certamente.

La donna le prometteva d'introdurla subito a servire in casa Bancu, ma che importava ciò? Nessuna casa poteva farle dimenticare quella di Salvatore Brindis!

Si alzò prima dell'alba e uscì sulla spianata: le stelle brillavano ancora, un gallo cantò raucamente in lontananza, altri risposero, più vicini, intorno, intorno, ad intervalli; ed in quei canti rauchi, vibratinel fresco silenzio dell'alba, le parve sentire il pianto lamentoso ed accorato di Domenico, e fu invasa dal desiderio struggente di abbracciare il bimbo, di baciarlo sulle guancie aspre e rosee.

Poi guardò le ultime stelle e pensò ad Alessio con infinita tristezza.

Dov' era egli in quell' ora? Che accadrebbe al suo ritorno? A chi egli darebbe ragione? Pensò che forse i Brindis lo convincerebbero a dimenticarla, e la sua tristezza si fece mortale.

Ma verso mezzogiorno comare Franzisca, andata dai Brindis per farsi restituire le vesti di Cicchedda, e per esplorare gli avvenimenti, le portò strane novelle.

— C'è l'inferno, con tutti i demoni scatenati.

— Cosa c'è? — chiese ella tremando.

— Eh, nulla! — disse l'altra, beffarda. — Salvatore Brindis ha cacciato via di casa sua il nipote. Quasi s'ammazzavano!

— Dio mio, nostra Signora mia! — ella gemè.

L'altra versò una scodella d'acqua su un pane d'orzo, e apprestandolo, con un pezzetto di formaggio che pareva calce, in un vecchio canestro rosicchiato, la invitò a mangiare.

Intanto ricostruì il fatto, come aveva potuto capirlo. Alessio era rientrato verso le nove, e Salvatore, senza neppur lasciargli rimetter il cavallo nella stalla, cominciò a inveire violentemente contro di lui, chiamandolo vile.

Sulle prime Alessio rispose pacatamente, anzi scherzosamente.

— O zio Salvatore, o zio Salvatore, perchè ve la pigliate così? — E lo guardava maliziosamente, negando i fatti, ma con aria da conquistatore.

Ma quando seppe che Cicchedda era stata cacciata, che la faccenda andava sul serio, si alterò. Lo zio continuò a caricarlo di vituperi, di rimproveri violenti, e fra le altre cose gli ricordò le parole dettegli nell' autunno passato, il giorno che salivano all'ovile della montagna.

— Io non me ne ricordo! — disse Alessio sdegnosamente. — Come volete che ricordi le vostre sciocchezze?…

S'intromisero le donne, e ciò fu un male irremediabile, perchè naturalmente, invece di calmare gli animi, li inasprirono. Siccome Alessio pareva volesse rinfacciare a Salvatore i favori fattigli, lo zio gli disse d'andarsene di casa sua.

Ed egli se ne andò!

Le donne piangevano, imprecando Cicchedda, dando ogni torto a Salvatore e chiamandolo scandaloso e matto. E Costanza si prese due sonori ceffoni che la stordirono. Egli pareva impazzisse davvero; non aveva mai adoprato argomenti così decisivi contro le sue donne; e siccome le loro invettive continuavano ad irritarlo, per sfuggire alla tentazione di proseguire, sellò il cavallo, e sbuffando useì.

Le donne credevano che tutto finisse bene, che egli si calmasse, che Alessio ritornasse. Ma Alessio non ritornò, nè Salvatore calmossi.

All' una pomeridiana comare Franzisca tornò per reclamare di nuovo le vesti di Cicchedda, e vide uscire una parente attempata dei Brindis, col piccolo Domenico per mano. E riuscì a sapere che l'aveva mandata Alessio, con l' ingiunzione precisa di prender il bimbo: verso sera avrebbe fatto ritirare la sua cavalla e i suoi indumenti. Egli poi non avrebbe più rimesso piede in casa Brindis!

Grandi ragionamenti, spiegazioni e narrazioni e lamenti eran corsi fra Agada e la parente. Agada s'era persino messa a pianger sconsolatamente, dicendo che non cedeva il bimbo, ma l'altra, donna molto savia e composta, l'aveva convinta.

— Datemi il bimbo, altrimenti potrà accadere un nuovo scandalo. Lasciate che il fuoco si spenga, e ogni cosa si appianerà.

Ma il fuoco non si spense: una collera sorda e inesorabile limava il cuore d'Alessio; ogni insulto dello zio gli risuonava con insistenza nel pensiero, e l'ultima terribile offesa, l'averlo così scacciato come un servo, gli vibrava in tutte le vene. Ora, in nessun paese del mondo l'ira e l'odio fra parenti son più inesorabili come a Nuoro, ove il detto popolare afferma:

— Gente tua, morte tua.

Alessio non perdonava a Salvatore, il cui insulto gli si infiltrava nella carne e nel sangue come l'iniezione di un pus velenoso: non faceva calcolo della causa che induceva lo zio ad operar così, ma gli effetti lo umiliavano e l'offendevano a morte. E poi la vita in casa Brindis, per quanto necessaria alle sue condizioni, gli era diventata così insopportabile, che sentì un senso di sollievo nel liberarsene.

Ma rientrando nella sua casetta, ove era stato tanto felice, dove Maria era morta, provò una tristezza profonda. Non ci rimetteva piede da un anno; nessuna cosa era stata toccata; i ricordi così gli tornarono acutissimi, l'aria chiusa delle stanze buie gli soffiò sul volto, sul cuore, con la viva sensazione delle cose passate, che parevano lontane, e che invece erano tutte lì vicine, e lo attorniavano, e lo stringevano dolorosamente.

Il ricordo di Maria lo afferrò struggente, il male commesso dopo la morte di lei gli apparve nitido al pensiero; tutte le azioni fatte in quell'anno di vedovanza presero un aspetto diverso; tutto ciò che gli era sembrato naturale e inevitabile ora gli diede una penosa impressione di colpa e di viltà

Eppure gli parve che il ricordo di Maria lo purificasse, rendendolo come era prima, in un tempo lontano, quando la felicità lo rendeva buono ed indulgente.

E credè di calmarsi, di considerare con indulgenza gli avvenimenti; ma non potè ritornare in casa Brindis, pur sentendo a quanto danno materiale e morale andava incontro. Uscito dall'ambiente suggestivo di casa sua, fu ripreso dalle cattive sensazioni di collera, e ritornandovi, l'impressione dolente e buona del passato si fece più tenue, più vaga, finchè scomparve del tutto.

Ma passò una triste notte. Domenico piangeva domandando di Cicchedda; ei s' irritò contro di lei, che gli causava tanti malanni, poi sentì quanto anch'essa dovesse soffrire, e la compassionò. Cercò di chetare il bimbo, lo minacciò, lo battè leggermente; ma solo la stanchezza ed il sonno calmarono Domenico, e anche dormendo, con la guancia ancor bagnata da una lagrima, le sue labbra di corallo tremavano, sporgendosi graziosamente, e un lieve singulto lo agitava.

Il padre lo guardò a lungo, sorrise vedendo il piccolo volto così atteggiato, ma poi si rattristò profondamente: nello strazio sottile dell' insonnia, i ricordi più amari, i particolari più umilianti e tristi della sua vita lo assalirono, sfilandogli entro il cranio con marcia rapida, ma incessante.

L'indomani mattina Domenico ricomin ciò a piangere non vedendo Cicchedda, nè le zie. Dov'erano andate? Perchè tutto cambiava intorno a lui? Anche il suo cervellino si smarriva e si rattristava.

Alessio lo riportò dalla vecchia parente, che gli fece un lungo e insinuante sermone per convincerlo a ritornar dai Brindis: gli dimostrò essere necessario e inevitabile, per più ragioni, e principalmente per Domenico.

— Voi avete ragione — disse Alessio — ma come volete che ritorni se son stato cacciato?

— Si accomoderà ogni cosa; ma tu fa il prudente, fa il savio. Che scandalo, che danno non è questo?

Egli se ne andò dandole ragione, ma in quella mattina fece ritirare da casa Brindis le sue provviste e il suo vino. Le persone mandate per ciò gli riferirono che Salvatore aveva sul proposito riso e scherzato beffardamente con leggerezza insultante.

Egli non disse nulla, ma fra sè fremè d'ira, e ogni sua buona disposizione svanì.

Così restò a casa sua, con una donna di servizio, cercata da lui con poco tatto e nessuna competenza. Non era buona a nulla, lo interrogava e infastidiva per ogni piccola cosa domestica; dopo tre giorni, in cui ella aveva malamente preso possesso della casa, e Domenico sempre strillato e pianto, Alessio si sentì disperato. Gli toccava dar da mangiare al bimbo, e trattenersi a lungo per tentar di calmarlo; ma invano; solo il sonno vinceva Domenico, che in pochi giorni cambiò fisionomia, dimagrò, e un cerchio bluastro gli attorniò i begli occhi verdi, la cui espressione d'indifferenza si cambiò in uno sguardo di sofferenza egoisticamente profonda.

Alessio, tormentato anche dalle altre piccole miserie domestiche, non poteva uscir in campagna, nè curare i suoi affari, e quasi neppur muoversi: in fondo al cuore cominciò a desiderare che Salvatore facesse un solo passo per richiamarlo: diceva che non si sarebbe piegato mai, ma sentiva che se lo zio gli chiedeva scusa e lo richiamava, avrebbe accettato come una felicità il rifare la vita passata, che sebbene fastidiosa, non lo era certo al punto della presente.

Ma i Brindis non fecero un passo verso di lui, nè egli si mosse: anche Agada, visto il suo fiero contegno, si teneva in riserbo glaciale; cercava con Costanza di saper ogni particolare sulla nuova vita di lui, per mezzo delle donne che le riportavano tutti i pettegolezzi della città, ma non mostrava più alcun desiderio di riconciliazione. Egli a sua volta veniva a saper tutte queste cose, e ne soffriva, e il suo astio si ravvivava.

Scusava un poco le donne, ma si chiedeva con meraviglia perchè mai Salvatore operava così. Che lo zio non fosse un vaso di sapienza egli lo sapeva di certo, ma si stupiva altamente che le sue stranezze e e i suoi puntigli arrivassero a tal punto: e la sua tristezza dispettosa aumentava.

Vedeva ogni sera Cicchedda, ma questo lo rattristava e lo irritava di più, perchè la ragazza, d'un umore tetro e tragico, piangeva sempre, e parlava di morte con disperazione sincera. Ella stava sempre da comare Franzisca, che diceva di cercarle una padrona, senza mai riescir a trovarla. Donna Francesca s'era già procurata altra domestica, ma per qualche giorno Cicchedda andò a lavorare in casa Bancu. Elena l'interrogò sul motivo della sua uscita da casa Brindis, e vedendola soffrire la confortò con buone e dolci parole. Che soavità ella ne provava, e quale sguardo di timida e profonda riverenza rivolgeva ad Elena, la cui persona sottile, e il viso bianco e dolce, le sembravano di una pura santa. Avrebbe voluto inginocchiarsele davanti, e pregarla silenziosamente di continuare a confortarla: sentiva quanta distanza era fra loro, e come ella era miserabilmente diversa da Elena, eppure provava una dolcezza lenitrice nell' avvicinarla. Un giorno Elena le disse:

— Stai sempre da quella donna?

— Sì, signora.

— Ma possibile che non possa trovar padrona?

— Non ne possiamo trovare.

— Te la ricerca forse quella donna?

— Sì, signora.

Elena pensò un istante, poi disse con dolcezza:

— Sarebbe meglio che tu non abitassi oltre presso quella donna. Cercala tu la nuova padrona: la ritroverai. C'é la tal signora che cerca una fantesca.

Cicchedda promise di recarsi tosto dalla signora: e vi si recò, e combinarono; solo doveva entrar al servizio fra quindici giorni. E ricordando le parole d'Elena ritornò a malincuore presso la donnicciuola, che si alterò nel sentir della nuova padrona.

Ella, calma e quasi lieta, attese Alessio per parlargli con riverenza, con timore quasi di profanarne il nome, di Elena Bancu e del fascino che ne sentiva; ma quel giorno Alessio era più che mai triste e agitato. Quasi non bastassero le disgrazie domestiche — la serva che lo avvelenava con orrende pietanze, che gli rubava già le provviste e gli maltrattava il bimbo, e questo più che mai insopportabile e sofferente — verso le undici di quella mattina gli portarono una dolorosa notizia. Tre dei suoi migliori cavalli eran stati trovati scannati nella tanca, con i garretti troncati e le lingue strappate. Oltre un grave insulto, ciò significava minaccia di ulteriori danni: egli capì che si trattava del bandito Scoppetta, persecutore suo e di zio Salvatore; e subito si mise in moto, e partì a cavallo coi barracelli. Col sangue delle bestie scannate trovò segnata una croce sul cancello della tanca; minaccia tremenda di morte. Non provò paura, ma il sangue gli ribollì nelle vene: ritto, immobile, presso il rustico cancello, in mezzo alla vastità luminosa dei verdi pascoli allagati di sole, fra lo splendore della natura e del cielo, provò in quell'istante un fiero sentimento d'odio contro tutta l'umanità, un disgusto pesante della vita e di sè stesso.

Da un anno in qua troppi torti soffriva da ogni parte, da Dio, dai parenti, dai nemici e da sè medesimo!

Galoppando attraverso le verdi tancas, dove l'erba cominciava a indorarsi tra gli alti asfodeli argentei, spronò senza pietà la pur benamata cavalla, e con la fronte aggrottata sentì tutti i suoi peggiori sentimenti prender possesso del suo essere; gli si spargevano come fiele nel sangue, e col sangue gli andavano al cervello, al cuore, a tutte le fibre, a tutti i nervi.

Avvicinandosi alla città, percorrendo lo stradale, guardò acutamente la mole rotonda delle carceri, che si disegnava nitidamente bianca nel caldo tramonto, poi sollevò gli occhi lentamente verso la montagna.

Sul cielo dolcemente ossidato, l'Orthobene, roseocupo nel tramonto che moriva sulle ultime cime, vigilava all'orizzonte. Egli, pensò alla notte cruda e terribile della bardàna, e battè un pugno sulla sella; e in quel pugno v'era la decisione di affrontare il bandito nemico, di consegnarlo vivo o morto, come il bando diceva, alla umana giustizia.

Rientrando a casa trovò il bimbo molto sofferente, e la sguaiata domestica gli disse che Domenico non aveva preso cibo in tutta la giornata.

— Non ti dissi di portarlo da zia Annarosa? — le gridò egli adirato.

— Non ci è voluto restare! — rispose la donna, e cominciò a parlar male.

Alessio la lasciò dire, e vezzeggiando il bimbo lo indusse a mangiare; ma quando egli stesso aprì l'armadio per prender qualche cosa, fu colto da raccapriccio, tanto disordine ibrido e nauseante regnava lì dentro. C'erano stracci pieni d'olio in mezzo al pane, e panni sporchi sopra il formaggio; le posate riposavano fra pezzetti di lardo e di latte coagulato secco, i piatti erano pieni di vino, e la saliera rigurgitava d'acqua. C'era soltanto un uovo rotto e un avanzo di minestra da poter dare al bambino.

La collera muta e profonda che vinceva Alessio nei sùoi momenti più cupi, lo assalì. Pensò come Costanza avrebbe crudelmente riso davanti allo spettacolo di quell'armadio, e chiamata la serva, stese la mano, e chiese:

— Cos'è tutto questo sudiciume?

— Cos'è? cos'è? — strillò la donna, senza volersì voltare. — È nulla, non c'è nulla!

— Non c'è nulla? Te lo do io il nulla; ma voltati e guarda bene lì dentro!

L'altra non guardò punto, ma continuò a borbottare:

— Io non mi faccio a pezzi: tutto in ordine non può stare!

— Ma voltati e guarda, perdio!

— Non c'è bisogno che alziate la voce…

E intanto non gli dava il gusto di guardare. Domenico piangeva sconsolatamente, ed egli, irritato in sommo grado da quei lamenti e dalla caparbietà della serva, gridò facendosi rosso:

— Ah, non ti volti, figlia del diavolo? Ti faccio guardar io…

E l'afferrò violentemente per la testa, onde farla rivolgere verso l'armadio.

— Aiuto, aiuto, chè il padrone mi strangola!…— si mise a gridare la serva.

Allora egti non ebbe più freno, sentì davvero una pazza voglia di strangolarla, e gridando:

Su diaulu chi tinch' a carrau! Non so proprio cosa mi tenga da… Fammi il santissimo piacere, va via di qui, e presto! altrimenti gridi davvero! — le diede un solenne spintone verso la porta.

— Non l'avete con me! — gridò ella inviperita. — Con Salvatore Brindis l'avete, perchè vi ha scacciato di casa sua! E con chi vi ha ammazzato le cavalle! Ora — gli disse poi, andandosene — ora portatevi qui l'solianese: essa saprà mettervi ordine in ogni cosa…

Ma queste parole, anzichè inasprirlo, lo calmarono. Avea già pensato d'indur Cicchedda ad abitare con lui; e uno scrupolo tardivo, e il pensiero che ciò Ggli avrebbe inimicato tutta la parentela e resa impossibile la pace coi Brindis, l'aveva soltanto trattenuto dal formulare apertamente il suo desiderio. Ma le parole velenose della domestica gli fecero effetto: per gli avvenimenti della giornata era in uno stato d'animo da scordare completamente ogni scrupolo, agognando a un po'di bene. Oramai Cicchedda era una buona massaia; gli avrebbe tenuto bene la casa, e chetato e guarito il bambino.

Pensava egoisticamente così, seduto accanto al letto ove Domenico, febbricitante, s'addormentava con lamento fioco e continuo. Solo il timore che i parenti s'offendessero lo tenne ancora in dubbio; e per quella sera, recatosi da Cicchedda, non le disse nulla, mostrandosi triste per la disgrazia dei cavalli e per lo stato poco soddisfacente del bambino.

— Chiama sempre te: io credo sia ammalato perchè gli manchi tu: se venissi a vederlo forse gli farebbe bene — le disse.

Ella arrossì, e negò vivamente di visitar il bimbo, benchè ne sentisse un desiderio struggente: egli allora capì che forse era inutile tentarla ad abitare con lui; ma comare Franzisca, saputa la cosa, l'indomani mattina andò a trovarlo, chiedendogli se abbisognava di qualche servizio. E capitò a tempo.

Domenico, dopo aver passato una cattiva notte, ora smaniava, con gli occhi cerchiati di grigio, i polsi irregolari e il ventre duro e ardente.

— Che abbia i vermi? — domandò ipocritamente la donna, guardandolo.

— Non so — disse Alessio disperato. — Non ne capisco nulla. Dacchè siamo qui ha fatto una vita infame, non ha più mangiato nè dormito come Dio comanda.

— Forse Cicchedda potrebbe… — cominciò la donna, con tono indifferente, sempre guardando il bimbo.

Alessio la fissò acutamente e non la lasciò proseguire. La sera prima gli avevano narrato che i Brindis s'eran rallegrati per le sue disgrazie; ed egli, per tutta la notte, tormentato dal lamento di Domenico, nuovamente ribollendo d'ira, s'era chiesto se non operava da sciocco usando ancora verso di loro certi riguardi.

La presenza di Cicchedda in casa sua gli sembrò necessaria per la salute del bambino; e il pensiero della di lei riluttanza lo spronò vieppiù. Capì a volo le intenzioni di comare Franzisca, e le disse:

— Oh, guardate un po' voi se potete deciderla a visitare il bimbo….

— Umh!… è impossibile… ma farò di tutto, benchè non sia conveniente…

Andata in cerca del medico, la donna non mancò di informarlo minutamente sulle cause della malattia di Domenico; e così il dottore, pur riconoscendo nel piccino un principio di febbri gastriche, sentenziò esserci anche una specie di nostalgia per le persone che usavano curarlo e vezzeggiarlo.

Allora Alessio sentì il bisogno prepotente di far venire Cicchedda.

— Se non viene da sè, ditele che la farò venire per forza: ditele che abbia un po' di carità! — disse a comare Franzisca, minacciando e supplicando.

E attese ansiosamente, dimenticando ogni altra disgrazia, ogni altro sentimento, nel desiderio di veder giungere Cicchedda per curargli il figliuolino.

Domenico dimostrava coi suoi lamenti una sofferenza maggiore al suo vero malessere; ed egli, guardandolo accoratamente, credeva di vederselo presto morire fra le braccia. E in questa dolorosa e paurosa sensazione sentiva più che mai intero e potente l'affetto paterno; quell'affetto che sempre l'avea sostenuto nei momenti più desolati del suo profondo ed egoistico dolore da un anno in qua. Ora gli parea che, mancandogli Domenico, si spezzerebbe il filo che lo attaccava alla vita: il bambino, con tutti i suoi piccoli difetti, era ancora quanto di più puro, grazioso, sincero e buono lo circondasse; ed egli sentiva instintivamente che l'amava di più per ciò, che mancandogli la piccola visione buona, l'ultimo raggio di luce si sarebbe spento per lui, e le tenebre, verso cui la natura sua lo spingeva, l'avrebbero forse attratto completamente.

Desiderava quindi, con una specie di forte suggestione, che Cicchedda venisse a guarirgli Domenico; e quando vide ricomparir sola la donnicciuola, impallidì ed ebbe un tremito nervoso.

— Ha creduto fossi io a farla venire e non venne!

— disse la donna con dispetto.

— Ma le avete detto che Domenico sta male?

— Di più. Che stava malissimo, e che il medico ordina di venir lei.

— Veramente questo il medico non lo ha detto, ma fa lo stesso — disse Alessio, passeggiando disperato per la camera.

— Ti consiglierei d'andar tu, ma forse anche ciò è inutile…

— Oh, se ci vado io! — minac ciò egli.

Poi si rimise a supplicarla che facesse tutto il possibile lei.

— Non vuoi credere a me? — disse la donna, ritornando da Cicchedda. — Facciamo una cosa, domandiamo al medico quando esce dal visitare il bimbo.

E verso sera la fanciulla si lasciò condurre: tremava tutta, e sulla via, in attesa del medico, si mise a piangere.

— Sciocca! — le diceva ogni tanto la donnicciuola, urtandola col gomito.

Quando il medico uscì, gli si fece avanti chiedendogli:

— Buona sera, il dottore. Come sta il bambino di Alessio Piscu?

— Male.

— L'hai sentito ora? — domandò a Cicchedda.

— Sì, ma non dice che c'è bisogno di me.

— Ma se è malato appunto per ciò! — esclamò l'altra giungendo le mani. — Andiamo; è un'opera di carità alla fine. Entriamo soltanto a vederlo. Non ci vede nessuno.

E la indusse ad entrare. Quando vide Domenico dimagrito e sofferente, Cicchedda si rimise a piangere.

Il bimbo invece le sorrise, e Alessio credè veder i grandi occhi verdi indifferenti lasciar la loro espressione di sofferenza straziante, e animarsi e risplendere.

Era illusione o realtà? Certo, dalle mani di Cicchedda, Domenico prese con dolcezza, come nel passato, il semolino e la medicina; poi furono le sue braccine dimagrite che la trattennero più che le preghiere e le minaccie di Alessio.

Quando i Brindis seppero che ella avea preso possesso della casa di Alessio, parvero dar di volta al cervello: Salvatore smaniava, sembrava dovesse venirgli un accidente; le donne mandarono ambasciate amare ed insultanti al giovine, ma egli prudentemente non rispose. Un giorno però, rientrando, vide dallo svolto della via un lembo del cappottino di Salvatore Brindis sparire entro la porta di casa sua.

— Cosa cerca? — si chiese meravigliato.

Si fermò sorpreso sulla via, preparandosi le parole da dir allo zio; e non trovandole adatte, pensò di svignarsela, o di attender Salvatore sulla via.

Intanto, non vedendolo venir fuori si domandò perchè si tratteneva. Forse per Domenico convalescente? Curioso di sapere ciò che lo zio diceva al bimbo ed a Cicchedda, rietrò senza far rumore, passando di fianco nella porta per non spalancarla, salì la scaletta, trepidando per lo scricchiolìo delle sue scarpe, e riuscì a porsi non veduto in ascolto.

Cicchedda tuttavia si fe' sulla porta, e guardando per le scale gridò:

— Chi è?

Nessuno rispose, ed essa rientrò e disse ridendo:

— Credevo fosse Alessio, perchè Alessio è in città, sapete, zio Salvatore?

— E cosa m'importa, sia in città, in campagna, o in casa del diavolo? — disse egli con voce rude. — Io son venuto per visitare te, non lui.

— Sedetevi dunque, zio Salvatore — fece ella con disinvoltura spingendo una sedia.

Ma egli camminava, muovendosi tutto, volgendo intorno, sotto, sopra, i suoi occhi rossi.

Domenico, in guarnellino bianco, seduto sul letto, giocando con un cavallino di latta, guardava ogni tanto lo zio, con grandi occhi meravigliati; e Cicchedda, non ostante la sua disinvoltura, sentiva un vago timore, e desiderava che Alessio rientrasse.

Il lungo silenzio e la fisionomia del suo ex-padrone l'inquietavano; e non sapendo cosa altro dirgli gli ripeteva:

— Ma sedetevi, zio Salvatore…

— Non importa ch'io mi sieda; son poche parole che devo dirti — esclamò egli alla fine, abbassando e poi sollevando la testa, e sempre camminando. — Ti ricordi quando io ti trovai sullo stradale di Oliena?…

— Siete venuto per dirmi questo, zio Salvatore? — interruppe ella alterandosi.

Dopo tutto il suo ex-padrone non aveva alcun diritto d'insultarla.

— Questo ed altro, ma lasciamo stare. Io credevo allora di far un'opera buona, credevo di salvare una creatura, invece…

— Invece?…

— Cosa fai tu in casa di mio nipote? — gridò egli facendosi più rosso del solito. — Credi forse che egli ti sposi, sciocca, che altro non sei?

— Ma, zio Salvatore! — diss'ella, bianca e fremente. — Perchè venite ad insultarmi? Vi sto forse cercando io? Non vi basta d'avermi scacciata di notte…..

— Potevi rientrare in casa mia di giorno, se l'avresti voluto….. Ora però…..

— Io? — gridò ella, puntandosi un dito sul petto.

— Io rientrare in casa vostra? Il fuoco ci passi prima!

— Perchè imprechi la mia casa? La mia casa che ti diede da mangiare e da bere?…

— …..E il veleno…..

— Il veleno te lo sei preso tu! Fortuna tua se avessi dato retta a chi ti sembrava nemico, mentre… Il veleno ce lo hai dato tu, ingrata…..

— Infine! — diss'ella arrossendo. — Cosa vi devo? Mi avete dato da mangiare e da bere, ma mi avete spolpato le ossa col lavoro. Mi avete insegnato a servirvi, ma non ad amarvi. Mi avete…..

— Basta! — gridò Salvatore; e Domenico, che trascurava il cavallino per badare curioso alla scena, ripetè anche egli, battendo la manina sul letto: — Basta!

Salvatore si volse vivamente, lo fissò e s'intenerì. Ma Cicchedda continuò amaramente a sfogare tutto il suo rancore, e forse esagerandoli narrò tutti i mali trattamenti, le angoscie, le umiliazioni sofferte in silenzio.

Salvatore l'ascoltò e la guardò intensamente: poi le espresse la sua meraviglia.

— Che ti fossi fatta una bella ragazza lo sapevo; ma che la tua lingua si fosse sciolta così, non lo credevo….. Eppure non ti volevamo male: oh, se tu avessi dato ascolto a noi! Uno stato conveniente non ti mancava! Invece…..

— Invece? — ripetè ella fieramente, seccata.

Salvatore allora le disse parole roventi, tanto che Alessio fu per slanciarsi dentro e cacciarlo via.

— Zio Salvatore! — gridò Cicchedda con ira — accadrà quel che Dio vuole, e quanto accade è nel volere di Dio. Ma se vi hanno mandato le vostre donne per insultarmi, avete fatto male a venire! E se non volevate perdere i benefizi di Alessio Piscu, non dovevate scacciarlo da casa vostra!…..

— Ah, come! Ah, come! — comin ciò egli a gridare, dimenandosi e andandole sopra, tanto che ella si spaventò, e Domenico si mise a piangere. — Tu credi sia ciò che mi dispiace? Tu credi ciò? E credi ch'io non l'abbia scacciato perchè non potevo soffrire la sua presenza, perchè l'odiavo? E credi che non l'odiavo per amor tuo?

— Per amor mio? — diss'ella con sorpresa, fissandolo curiosamente.

— E credi tu che io non potevo provare per te gli stessi sentimenti di Alessio?…

— Ah — diss'ella con ironia — è perciò che l'odiate, allora?…

Salvatore la fissò, tacque per un momento, poi le afferrò le mani gridando:

— Guardami in volto, ragazza! Quando io ti ho mai mancato di rispetto?

— Mai, questo è vero! — rispose ella.

— Ah, lo vedi tu stessa! E credi tu che Salvatore Brindis, cattivo, matto, maligno, ti avrebbe detto mai ciò che oggi ti dice, se non fosse accaduto ciò che è accaduto?

— Questo non lo so! — diss'ella con sorriso malizioso.

Era suo malgrado commossa e tremante, e Salvatore, avvedendosene, sentivasi invaso da una commozione violenta, da un desiderio pazzo di dire quanto soffriva. Ira, desiderio e passione gli scombussolavano la ragione.

Fuori, Alessio avea sulle labbra un sorriso beffardo e maligno; ma anch'egli provava un leggero tremito; comprendeva alfine tutto il violento e strano operare di Salvatore Brindis, e lo compativa, ma desiderava che se ne andasse tosto da casa sua, e non ci rimettesse più piede.

Domenico, spaventato per le voci dello zio, strillava intanto, non lasciando intendere al babbo il seguito del colloquio. Solo, Alessio potè sentir Cicchedda ridere un po' commossa, e il desiderio d'irrompere nella camera lo fece avanzare d'un passo.

Perchè ella rideva, Perchè non mandava via subito il suo nuovo strano adoratore?

— Fa chetare quel bimbo — disse Salvatore. — E addio.

Cicchedda restò sulla porta finch'egli non scese pesantemente e rumorosamente le scale: e quand'egli fu uscito, Alessio le comparve davanti all'improvviso.

— Ah! mi hai spaventata! — esclamò ella mettendosi un dito in bocca, poi portandoselo alla gola. — Eri lì?

— Sicuro — diss'egli seccamente.

Ed ella sorrise, accorgendosi ch'egli era geloso di zio Salvatore Brindis!

Da due mesi Elena viveva in un continuo e misterioso incanto: era come la vibrazione di una melodia lontana, che arrivandole attraverso i cieli di quella splendida primavera, coi profumi delle rose, con le fragranze e le voci della montagna, la cullava in un mare di ebbrezze spirituali. Non aveva mai scritto a Paolo che l'amava; temeva rompere la dolcissima malìa, confessandogli apertamente il suo amore; sentiva che presto sarebbe giunto il giorno in cui la grande rivelazione proromperebbe dal suo cuore come un grido, come una nota sublime, ma le sembrava che, d'allora in poi, le sensazioni delicate della sua ineffabile estasi si muterebbero in ebbrezza forse più intensa, ma meno sovrumana. Voleva ch'egli le parlasse ancora, ancora così, come le parlava, da un mondo di sogni e di luce eccelsa; ch'egli comprendesse solo per intuizione spirituale il di lei amore, e non le chiedesse oltre, e continuasse a parlarle un linguaggio che nulla aveva di terreno.

Ed egli, infatti, doveva comprendere, capire la raffinata delicatezza di lei, e provare una pura felicità sovrumana, Perchè le sue lettere diventavano sempre più luminose e spirituali: non toccavano più la terra; volavano, piume meravigliose, senza smuover l'aria, arrivavano al cielo, lo sfioravano, gli rapivano la luce più pura ed azzurra, e scendevano nella casa, nel giardino di Elena, diffondendovi l'incanto supremo che la avvolgeva.

Un giovane non avrebbe saputo, nè potuto scriver così. Nella nuova misteriosa giovinezza ch'egli diceva di sentire, scorgeva forse un gran distacco fra le crudezze della realtà ed il sogno. Era un sogno estremo, purificato dal tempo, dall'esperienza e dal dolore.

Così, di settimana in settimana, le sue lettere si facevano più delicate e profonde: erano ardenti, ma pure come il fuoco, e non domandavano altro che di proseguire l'incanto. Dopo averle lette, Elena reclinava sempre il volto sul foglio, e lagrime d'ineffabile gioia, di amore senza nome, le sgorgavano dai grandi occhi pensosi. Era così accerchiata dall'incanto, che non pensava mai distintamente all'avvenire; sentiva tutta la vera felicità nel presente, e cercava di assorbirla interamente come un profumo.

Pur non provava pace: qualcosa di inafferrabile e infinito, appunto come una fragranza, la estasiava senza inebbriarla completamente. Nella felicità sentiva il desiderio struggente di altra felicità più grande ed intensa ancora; ma come il suo gaudio si scioglieva in lagrime, così temeva che, raggiunta l'estrema felicità di aver Paolo vicino, l'incanto forse andrebbe distrutto.

Non era certamente questo il nuovo amore ch'ella aveva atteso, ma appunto perchè inaspettato, ignoto, fuori del comune, l'affascinava di più, con la forza potentissima di una misteriosa soavità: e il fascino la seguiva da per tutto, ad ogni ora. Persino in chiesa, ove pur cercava di star raccolta, pensava a Paolo; anzi, allorchè l'organo suonava, riempiendo le navate di voci lontane e sonore, di melodie arcane che sembravano il fremito di alte foreste e di mari lontani, ella sentiva una misteriosa sensazione che assimilava la musica sacra al suo amore. Se chiudeva gli occhi, la fusione diventava più completa e infinita. Dolcezze inenarrabili le scendevano nell'anima; ella amava così, con la sonora, con la melodiosa voce dell'organo; e amando, lo spirito suo saliva ai cieli più infiniti, scendeva nei mari più ceruli e profondi. E quando la voce dei cantori, librandosi sulla gamma più eccelsa di vibrazioni argentine, cantava il versetto Domus aurea, ella provava proprio la sensazione di salire, di veder negli spazi più limpidi del cielo una sottile casa d'oro, fra rose azzurre di evanescenti giardini. E lassù ritrovava il suo sogno.

Ma il godimento ineffabile della musica sacra le dava anche sensazioni umane; le ricordava intensamente le frasi più appassionate di Paolo; ed ella si estasiava, tremando leggermente, sembrandole d'esser fra le braccia del suo amico, guardata e baciata ineffabilmente da lui. Si ribellava a questa senzazione, pregava Dio di liberarnela come da una tentazione, ma dopo un momento la meravigliosa suggestione dell'organo la vinceva ancora, dandole più forte il sogno di puri baci lontani.

Anche quando Cosimo suonava sul vecchio cembalo di casa loro, la musica le produceva effetti diversi dagli antichi: parea che tutti i suoi sensi si fossero acuiti, acquistando percezioni sottilissime e delicate. Talvolta Cosimo, messo di malumore per le sue intime infelicità, si tratteneva tutta la sera in casa sua, e suonava squarci di Beethowen con inesprimibile melanconia.

Elena ascoltava seduta accanto alla finestra, guardando sulla parete, dove un vecchio quadro rosseggiava all'ultima luce della splendida sera di giugno. Una strana melanconia era in quel paesaggio giallognolo, d'autore incerto, ove la campagna sfumava in un orizzonte cinereo, che s'animava nella luce crepuscolare del salotto. Elena guardava quell'orizzonte pallido e ardente con arcana nostalgia; e mentre gli accordi gravi e melanconici del cembalo pienavano il salotto di gridi strazianti, di singulti sommessi e senza lagrime, di richiami soavi e disperati, di amore e di spasimo, di luce e di tenebre, che la riempivano d'infinita tristezza, avrebbe voluto rifugiarsi in quel paesaggio silenzioso e deserto, nella rossa e solenne pace di un vespero lontano. Lassù avrebbe meglio conseguito il suo sogno vaporoso, che la realtà doveva un giorno o l'altro urtare.

Ora tutto era mistero, vanescenza, profumo; ma poi? Che avrebbe detto Giovanna? E Cosimo, e sua madre, e gli altri tutti, che direbbero? Che penserebbe ella stessa nella realtà, rivedendo Paolo in quel salotto, nella sua antica parvenza?

Talvolta il senso della realtà la afferrava nel sogno stesso; rivedeva Paolo nel salotto, seduto accanto al tavolinetto degli spartiti. Egli parlava come prima, ed ella sentiva un freddo strano al cuore: l'anima di lui le sfuggiva, ed anche l'anima sua si celava profondamente, quasi spaurita.

Tornavano indifferenti come prima, e il sogno moriva misteriosamente come era nato.

Ma per fortuna questa sensazione era rara; e spesso anzi, quando si trovava sola nel salotto, Elena andava a sedersi dov'egli soleva sedersi, e appoggiando infantilmente la testa sul tavolinetto guardava con infinto desio verso il quadrato cerulo della finestra aperta.

Egli la chiamava la sua «adorata bambina,» ed infatti ella ritornava bambina, non aveva la percezione precisa di quanto provava, e operava quasi inconsapevolmente. Così, mentre sognava davanti a quella finestra aperta, piangeva lagrime ineffabili.

Perchè piangeva? Non era tutto un gaudio il suo amore? Non era eccelsamente amata dall'anima che amava; non era amata più d'ogn'altra creatura? Forse l'invadeva la tristezza dell'ora: attraverso le cortine vedeva il cielo morir soavemente, in toni di madre-perla, e l'ultima luce iridata balenava pei mobili del salotto; le cornici sembravano d'oro brunito, e anche nei vecchi quadri, sulle figure rossastre, in quel paesaggio giallo dall'orizzonte cinereo era l'illusione della sera. Un fresco profumo di rose, di erbe innaffiate, saliva dal giardino: ed ella, in quella fragranza che rendevasi più acuta a misura che la primavera moriva, ritrovava le prime fortissime sensazioni del suo amore.

Poi scendeva nel giardinetto, ove passava buona parte del giorno e della sera, dove la pompa delle foglie e dei fiori, ebbri di sole e di luce, parea cantasse silenziosamente l'inno del suo sogno. Intorno intorno era una meravigliosa fioritura di rose di ogni colore e grandezza: sui muri, sugli alberi, sui cespugli, il fogliame foltissimo splendeva al sole, sfumava nell'aria, coi toni più limpidi del verde, dal verde turchino al cinereo e giallo trasparente; scendeva a ciuffi, a cascate, riempieva i muri, le canne, i piccoli viali, nascondeva i vasi, invadeva tutto il fresco e folto sfondo del giardino, chiazzato dalla nota vermiglia o bianca delle rose.

Ella andava, andava intorno, sognando. Il sole allagava d'oro ogni cosa, fino allemontagne le cui chine colorate dalle messi vigilavano sulla valle; l'orizzonte rutilava, e solo nei lunghi meriggi quieti, quando la casa si profilava dolcemente nell'azzurro, l'ombra invadeva i viali con freschezza infinita.

Allora Elena leggeva in fondo al giardinetto: le rose di ghirlanda, piccole e pallide, tremavano in leggere arcate, tra il fogliame morbido ed elegante: qualcuna si sfogliava e i minutissimi petali delicati volteggiavano come piume rosee in aria. Le glicinie, sullo sfondo d'oro delle foglie diafane, parevano grappoli di perle riflettenti un lontano cielo violacco; e le ultime foglie d'ambra e di corallo degli albicocchi sognavano nel sole.

Al tramonto, al vespro, di sera, l'incanto cresceva: di notte le foglie, i fiori, la terra, dopo il tepore sempre più caldo del giorno, esalavano acuti profumi: sotto le grandi stelle di giugno era una luce vaga, un albore lontano, fra cui ogni cespuglio, ogni fiore ed ogni albero oscuro si delineava con profondo mistero, e le rose sembravano smorti occhi rivolti al cielo. Alla luna invece il giardinetto si smaltava di argento; ogni foglia scintillava quasi nascondesse in cuore una gemma; una trasparenza di perla era nelle rose bianche sfumate in carnicino, nei gigli, nelle glicine. Le rose damascene e le foglie rosse degli albicocchi si profilavano di rubino; le messi della montagna parevano la bionda chioma sparsa, smorta alla luna, di una immensa fata dormiente.

La banderuola del peristilio, nera sul cielo d'acciaio e di latte, strideva con dolcezza; i grilli cantavano, e la casa, in faccia alla luna, guardava pensosa sul giardinetto.

Elena vagava, bianca nel volto e nel vestito, e tutta la sua gioia e la sua contemplazione e il suo sogno esalavano in un nome che le sue labbra non pronunziavano.

Lyly le correva dietro, con al collo un nastro rosa o una collana di ciliegie, che alla luna pareva un vezzo di corallo; le raspava l'orlo del vestito, e vedendosi trascurato s'arrampicava sul muro, sulle cui pietre grigie Lisbet, bianca e solenne come una regina nel suo manto di ermellino, sognava riflettendo la luna nei grandi occhi di madreperla.

Se usciva, Elena, al ritorno godeva più intensamente il gaudio pensoso del piccolo giardino pieno dei suoi sogni: se da lontano lo ricordava, sentiva in questo solo ricordo tutta la gioia di vivere e d'amare. Specialmente nelle sere in cui riceveva lettere di Paolo sentivasi attratta laggiù: ogni frase, ogni parola della lettera, ripetuta dal suo pensiero, restava impressa sui fiori, sugli alberi; e ogni desiderio, ogni parola di risposta, ogni sguardo, ogni bacio mandato per lo spazio e giunto con la brezza, lasciava il suo mistero nella fragranza delle rose, delle erbe, nel fremito notturno degli alberi e dei cespugli.

Un giorno Paolo mandò la sua fotografia con queste parole:

«Tu dunque, Elena mia dolce, vuoi la mia figura, dicendo che la coprirai di fiori. Sì, spandi rose, fanciulla.

«Io non sono ancora il vecchio Anacreonte; ma ho l'anima ancor giovine e amorosa come il cantore di Ceo, e sento la grazia com'esso: sentirò dunque la dolcezza dei tuoi fiori, ma vieppiù la grazia lontana delle mani pure e adorate che li spargeranno…..»

Ella mise la fotografia nel salotto, insieme ad altre, in un porta-ritratti di velluto bianco ricamato, appeso alla parete con due nastri celesti: e l'adornò di rose e di gelsomini. Ogni volta che passava si fermava sorridendo, e allontanandosi si rivolgeva per sorridere ancora, quasi Paolo la vedesse. Spesso tornava indietro socchiudendo gli occhi, colta da una vaga suggestione ottica, perchè nella penombra della parete, fra le rose e i gelsomini, la fotografia assumeva linee e tinte vive; la carnagione pallida si animava, gli occhi profondi e soavi assumevano uno sguardo d'infinita passione.

Paolo aveva scritto d'essersi fotografato pensando a lei, cercando di fissare intensamente la sua lontana visione: forse per ciò ora ella sentiva quello sguardo avvolgerla in un fascino irresistibile, che anche da lontano la vinceva, riprodotto dalla fredda figura di carta.

E questa ineffabile suggestione le dava, giorno per giorno, più intenso il desiderio di scriver apertamente a Paolo quanto lo amava: non lo fece ancora; solo una sera gli scrisse con più dolcezza del solito, dicendogli ingenuamente del sorriso che rivolgeva al ritratto; ma più che in ogni sua lettera traspariva in questa la sua poetica e profonda passione.

Egli l'avrebbe sentita vibrar tutta, e assorbendola come il ritratto assorbiva il profumo delle rose e dei gelsomini, se ne sarebbe profondamente allietato; e nella sua ebbrezza, stringendo vieppiù l'adorata fanciulla nel cerchio della sua intensa passione, le avrebbe finalmente chiesto di parlar meglio, di dirgli che lo amava, e che voleva esser sua per l'eternità.

Elena aspettava oramai solo questa domanda per posargli spiritualmente la fronte sul cuore e dirgli che era già sua; e intanto, di giorno in giorno, cambiando i fiori sul ritratto, sentiva crescer il fascino; il sogno non le bastava più; aveva bisogno della realtà, per lei e per lui che spesso le faceva udire una nota di desolata tristezza e di profonda solitudine. E voleva creare una felicità senza nome al suo grande, al suo buono, al suo nobile Paolo, verso cui, oltre l'amore, consacrava tanta venerazione che non osava più pronunziarne il nome.

Neppur con Giovanna aveva più parlato di lui; e Giovanna, accorgendosi delle lettere ch' ella spesso scriveva e riceveva, credeva fossero dell'antico innamorato, ch'era stato nominato giudice in un piccolo tribunale sardo.

Anche Cosimo e Peppina credevano che Elena avesse riannodato la vecchia relazione; tutta la città parlava di questo prossimo matrimonio; Giovanna si lamentava per la poca confidenza di sua sorella, e ogni giorno insisteva per saper qualche cosa.

Ella taceva e sorrideva senza negare, assumendo questo metodo anche con la cognata, che spesso le parlava suggestivamente di Giovanni Carta-Selix e del loro antico amore.

Peppina conduceva spesso a passeggio le cognatine, Giovanna cresceva ogni giorno, facendosi grande e bella, slanciata ed elegante, mentre Elena restava sottile, pallida e delicata. Però anche il suo viso sembrava più espressivo e grazioso dell'anno scorso; gli occhi più limpidi e profondi; e un vago sorriso di beatitudine, rivolto come ad una lontana visione luminosa, la irradiava.

Ora non si sentiva più scomparire tra la formosa cognata e la vezzosissima sorella, non se ne accorgeva neppure, non cercava più di mettersi accanto a persone piccole e brutte per comparire di più; anzi sorrideva ricordandosene.

Nessuna bellezza, alcuna distinzione, potevano più umiliarla, ora che un'anima così grande, nobile e poetica, ritrovava e adorava in lei la vera e immortale grazia della donna. Anzi ora ella guardava con orgoglio, con infinita compassione, le fanciulle frivole e spumeggianti che le passavano davanti come vuote variopinte farfalle. Chi di esse aveva un'anima? Chi di esse era stata o sarebbe mai amata e amerebbe come lei? Ella collocava Paolo tanto in alto, e così solidamente in alto, che innalzandosi fino a lui nel sogno d'un amore che le sembrava unico, vedeva tutto piccolo al di sotto e al di fuori di quella sfera meravigliosa.

E ne provava una beatitudine profonda, formata forse da un po' di orgoglio, ma che però la rendeva buona, pura e superiore.

«— Come sei buona — le scriveva Paolo — e come renderai migliore l' anima del fortunato che potrà dirti sua!»

E non s'accorgeva d'esser egli stesso e le sue parole a renderla tale.

Ma all'ultima lettera egli tardava a rispondere, ed Elena se ne sentiva inquieta e un po' nervosa. Sopravveniva il caldo di luglio; l'aria pareva ossidarsi, la montagna s'ingialliva ardentemente: la vegetazione, rimasta meravigliosamente ed esuberantemente fresca per pioggie cadute agli ultimi di giugno, cominciava a piegarsi e rattristarsi nel sole. I petali delle rose e delle glicine, sbiadite dal caldo, cadevano coprendo i viali; di notte era una strana ebbrezza di profumi ardenti.

Elena sentiva qualche cosa di sè svaporare con la freschezza dell'aria e delle rose; qualche cosa dei suoi sogni si dissolveva con quelle ardenti fragranze che esalavano dai fiori morenti.

Perchè la primavera non s'era fermata, perchè le montagne non erano rimaste dolcemente bionde, perchè il cielo perdeva la sua fresca trasparenza, perchè Paolo tardava a rispondere, e perchè infine, in un caldo crepuscolo di luglio, arrivò una sua lettera così profondamente e misteriosamente triste? Cominciava così:

« Avrei voluto scriverti subito dopo aver ricevuto e avidamente letta la tua lettera adorabile, ma ragioni imperiose e tristi mi obbligarono ad un viaggio, durante il quale, se non potei risponderti, il tuo foglio mi tenne però cara e dolce compagnia. E anche tu, Elena, se è vero che tu venga spesso a ritrovarmi in ispirito, dovevi esser con me e susurrarmi parole soavi; tutte quelle che non si trovano nella tua lettera, perchè sento bene che la tua penna si ferma molte volte a mezza via. Temi forse invanirmi? Ci sarebbe di che. Lusingarmi? Non credo sia nel tuo carattere. Rendermi troppo felice, per lasciarmi poi, fra qualche tempo, un risveglio doloroso? Forse. In ogni modo, poichè non credo più molto al mio avvenire, e tanto poco ci credo che non ne ho neppure più il desiderio, io dico: godiamo l'ora presente che è buona; se è una illusione codesto pietoso ufficio che invita una graziosa giovine liana a rivestire delle sue braccia tenere e verdi il vecchio tronco che si spoglia e oscura, io cedo alla soave stretta, e chiedo alle aure che mormorano di dirti per me una dolce canzone… vorrei dire di amore, ma di questa parola tu sembri provare sgomento, quasi temi ch'io sia per ripeterla un giorno, quando non sarai più libera, quando fra le anime nostre si metterà, per forza naturale del tempo e degli eventi, l'uomo fortunato che ti farà sua!»

Dopo due pagine seguite su questo tono, la lettera assurgeva a note di angoscia quasi disperata. Elena vibrava in tutta la persona, e diventava bianca come colta da un acuto malessere.

«….. il primo a scomparire sarò certamente io, e forse fra non molto; ho giorni di grande sconforto, di profonda desolazione, nei quali invoco la morte, perchè la vita mi sembra ora un deserto sterile, ora una babilonia odiosa: vorrei fuggire, od estinguermi in una pace profonda. Non ho vissuto come avrei voluto e dovuto; ero nato per amar molto e non ho potuto amare; ero nato forse a grandi cose e non ho fatto nulla; non resi mai alcuna persona felice, a nessuno è stata utile la mia esistenza, e molto spesso mi domando se non era meglio ch'io non fossi nato!»

E la lettera dolorosa così terminava:

«E tu perdonami, Elena; io non debbo oggi proseguire, anzi non avrei dovuto incominciare. Ti ho lasciato scorger troppo attraverso giorni dolorosi. Cerco spesso in alto la stella guidatrice, ma questa stella sembra oscurarsi nei miei orizzonti. Forse ho sognato troppo; ed ora sento freddo, e mi pare a certe ore di scender vertiginòsamente in un abisso profondo e tenebroso. Scuoto le ali, ritentando il volo nell'alto, ma nell'alto mi pare che tutti gli astri si spengano. Tu puoi sollevarmi ancora, Elena, cantando al vecchio fanciullo la tua ninna-nanna soave; ma quando la tua voce tace, ed apro gli occhi, mi spavento e gemo.»

Nonostante ciò, ella sentì che ben poco ella contava davanti alla misteriosa desolazione di Paolo: e un'angoscia fredda ed acuta le serrò così fortemente il cuore, che non le permise neppure di piangere.

Anch'ella vide buio intorno a sè, e si addolorò doppiamente, per il dolore di lui, e per il dolore che la lettera recava a lei stessa. Stringendosi il capo fra le mani, rilesse più volte le tristi pagine; più le capiva più un nodo angoscioso le serrava il cuore e la gola. Qual era il viaggio doloroso compiuto da Paolo, e perchè egli non le confidava tutto? perchè, pur avendo compreso il gran sentimento d'amore che la spingeva a lui, non se ne rallegrava per la sua desolazione? Perchè parlava così, come se l'unione, la fusione completa delle anime e delle vite loro fosse impossibile? Perchè? Ella si gettò sul suo lettino bianco, e nascondendo il viso fra i guanciali pensò a lungo, con gli occhi fortemente chiusi, quasi cercando nel buio reale un lontano raggio di luce spirituale. Ma più pensava, più l'oscurità s' addensava: e l'angoscia sottile e gelida di sentirsi così poco calcolata da Paolo, mentre aveva creduto di riempierne tutta la vita, di illuminarne ogni giorno tenebroso di dubbio e di dolore, l'invadeva causandole anche una strana sensazione di freddo e di raccapriccio.

Solo quando potè piangere si calmò alquanto. Allora pensò a Paolo con più amore, con più dolcezza del solito: e pensò ch'egli doveva ben soffrire, se anche la figura di lei, che prima lo irradiava di tanta luce e felicità, si dileguava davanti al suo misterioso dolore.

E un desiderio struggente di essergli vicina, di confortarlo con le sue timide e pure carezze, di dirgli che lo adorava, e che si sentiva capace di farlo, col suo infinito amore, rinascere alla vita e alla fede, la prese. Non glielo scrisse apertamente, Perchè ancora il velo che si stendeva fra loro non glielo permise, ma tutto ciò che di dolce e buono ella pensava, lo scrisse. Ma gli nascose la profonda tristezza provata, per non recargli alcuna ombra nel conforto; un sentimento delicato e forte di sacrifizio la vinceva; sentivasi anch'essa sparire nella cerchia della desolazione di lui, e dimenticandosi s'avanzava solo per consolare.

E Paolo De-Cerere, nell'egoismo del suo dolore, non s'accorse quanto la faceva soffrire: ella gli parve una creatura forte e meravigliosa, che penetrasse nel suo cuore solo per strapparne le più angosciose spine e curarne le piaghe.

Forse perchè ella non gli aveva lasciato ancora comprendere tutta la misura del suo amore, egli non percepiva neppure quanto ella poteva soffrire.

Sapendolo, forse, non le avrebbe spezzato il cuore, rivelandole crudamente la causa del dolore che lo urgeva.

«Elena santa, Elena adorata,

«Io non so di dove incominciare per ringraziarti, per dirti tutto ciò che mi sta nel cuore profondo, e neppure mi sarà possibile di dare alle mie parole tutta quella profonda intensità, divinamente penetrante, che ho scorto nelle tue parole care, che l'angelo di Dio deve averti dettato.

«Se tu sapessi, adorata, in qual momento dolorosissimo mi giunge la tua lettera, intenderesti il bene che mi fai e che Dio veramente, Dio solamente t'inspirò.

«Sono in mezzo a gravi fatiche giuridiche e non ho il tempo materiale per dare sfogo ad alcun mio sentimento; ma tu, che oramai mi conosci, puoi sola comprendere quanto soffro. La tua lettera giunge provvidenziale e viene a salvarmi dal male ch' io stesso m'ero fatto per la mia cieca fede. È tutto un romanzo che nessuno conosce, e di cui io sono la vittima. Tu sola, forse, lo hai presentito; tu sola hai diritto di conoscerlo, e sarà il mio maggior castigo l'obbligo che m'impongo di confidarlo a te. Lo faccio con l'animo puro, come l'avrei fatto alla mia stessa, santissima madre.»

In dodici fitte paginette, scritte febbrilmente, narrava la sua triste storia.

Egli era di religione ebrea; lo era perchè tali erano stati i suoi avi, e sua madre, e suo padre, ancor vivo, ch'egli adorava. Aveva trascorso una triste giovinezza senza luce d'amore, mentre verso l'amore lo portava tutta la sua natura poetica e ardente. Ma nessuna donna, fino a tarda età, l'aveva amato come egli sapeva amare e come sognava d'essere amato. Però un giorno apparve sulla sua via una donna giovine e bella, ed egli credè d'aver finalmente trovato il suo sogno. Era la donna di cui altra volta aveva vagamente parlato ad Elena, facendole intendere d'averla dimenticata, la donna che pregava per lui, mentre egli attraversava sventure d'ogni sorta. Si chiamava Sara, era anch'essa ebrea, era sola, bionda e graziosa.

Una passione intensa li aveva uniti, cinque o sei anni prima, ma il padre di Paolo s'era risolutamente opposto al loro matrimonio, Sara sembrandogli non degna del figliuol suo. Allora Paolo, per non addolorare il vecchio padre, aveva sposato segretamente, col solo rito ebreo, la giovine donna. Pur tenendo segrete le loro relazioni, due o tre anni di felicità inenarrabile erano trascorsi per gli strani sposi. Un giorno però De-Cerere aveva involontariamente commesso un errore nel suo ufficio, e, per punizione, era stato mandato in Sardegna. Sara non volle seguirlo, adducendogli per scusa che se il vecchio De-Cerere veniva a saperlo se no sarebbe addolorato e forse avrebbe scoperto la loro unione, e Paolo, benchè a malincuore, trovando giusta la ragione, era partito solo. Nella lontananza Sara s'era lentamente raffreddata verso il marito, ed egli aveva trascorso due anni tristissimi a Nuoro, confortato appena dalla gentile amicizia delle Bancu, verso cui si sentiva irresistibilmente attratto. Al ritorno in continente aveva riveduto Sara, ma la sua fredda accoglienza, il diniego persistente a seguirlo nella sua nuova residenza, gli avevano messo nell'anima il veleno di dubbi tormentosi: e dopo un lungo strazio, egli, in quei giorni, s'era co' suoi occhi stessi convinto della triste verità: Sara lo tradiva!

La triste, terribile lettera, terminava così: «Sono passato per tormenti incredibili, ma ora mi sento più calmo, e la tua lettera mi è piovuta in cuore come rugiada celeste. Già la mia ultima lettera ha dovuto farti sentire il mio bisogno di altra luce migliore, di sogni più alti e sereni.

«Non temere, io non chiederò mai a te quell'amore che Sara mi ha dato. Ma poichè da questo grande e vivo dolore, io esco purificato, benedico Dio che ti manda incontro a me, come dolce salvatrice dell'anima mia. Quanto più vorrei dirti, Elena, ma sono oppresso. Solamente commosso dalla tua lettera, la rileggo più volte, come si recita una preghiera. Benedetta di Dio, Elena mia perfetta, alzami dove sai ch'io voglio volare; quello è il mio mondo e il mio regno. E scrivimi presto, perchè ho sete della tua parola.»

Ella non potè neanche piangere, tanto improvviso e fatale era il colpo. Ricordò lungamente la gelida e strana impressione provata quella sera, e la notte che passò.

Come sempre, quando riceveva lettere di Paolo, cominciava il crepuscolo, le finestre erano spalancate, e dal giardino saliva la voce fresca e lieta di Giovanna, che assieme a due sue piccole amiche e vicine ridevano e cantavano nel peristilio.

E sotto l'occhio vigile di donna Francesca le fantesche andavano e venivano per la casa, preparando la cena, e Lyly correva dietro Lisbet, nascondendosi dietro le porte per assaltarla meglio, e tutta l'esistenza della casa si svolgeva come al solito, nella tenue luminosità metallica del crepuscolo estivo.

Eppure Elena sentì come il tetto crollarle sulla testa, e il mondo intero sfasciarsi, dissolvendosi in un mare di dolore senza fondo e senza confini.

S'affac ciò alla finestra, ma non vide nulla e non potè piangere.

Il principio e la fine della lettera la lasciavano fredda e insensibile; e l'addolorava solo, acutamente, il pensare che egli l'aveva ingannata, tacendo, egli creduto così grande, egli, creduto così nobile.

Bastava soltanto ciò per far precipitare l'idolo dall'altezza vertiginosa in cui ella lo aveva collocato. Ma anch'essa cadeva nell'abisso.

Solo dopo qualche tempo le sue idee si schiarirono; allora percepì meglio la sua posizione, e pensò.

Nulla importava che davanti a lei ed alla sua religione, Paolo fosse completamente libero: l'idea ch'egli apparteneva ad un altro culto, e che secondo questo veniva ad esser legato ad altra donna, le diede anzi una sensazione più penosa ancora penosa ancora, un orrore gelido e profondo della sua passione fatale. Almeno avesse potuto dire:

— S'egli m'ama davvero, e vuol redimersi, passerà alla mia religione e sarà libero!

Ma nella sua spietata confessione nulla Paolo lasciavale intendere di ciò: invocava il suo aiuto e il suo conforto, ma nessuna speranza, nessun conforto le porgeva per il dolore che le causava.

Perchè? Questo e molti altri perchè Elena gridò fra se stessa, ma nessuna risposta venne; e neppur allora potè piangere, quasi paralizzata dall'angoscia e dalla delusione.

Passò una dolorosissima notte, senza trovar pace in alcun modo. Fino a tarda ora restò sul davanzale, davanti alla profonda notte stellata, i cui profumi misteriosi le recavano come il soffio d'ignote memorie.

Ricordava mille particolari, sempre sfuggiti alla sua cieca adorazione, e pensava al suo continuo e arcano timore, che le aveva impedito di rivelare intera la sua passione a Paolo; e pensava all'occulto invisibile ostacolo che sempre l'aveva divisa da lui.

Era dunque un presentimento, una voce di Dio? Era l'altra che si frapponeva spiritualmente fra loro e ora li divideva per sempre, per l'eternità?

E le stelle, le grandi stelle che dall'alto avevano limpidamente guardato l'incanto del suo poema, ora piovevano lagrime d'oro sul suo strazio, e il giardinetto sognava nell'oscurità calda della notte, velato da un mistero di dolore.

Sentendo freddo, si gettò uno scialletto bianco sulle spalle, e mise le mani gelate sul volto ardente che, a quel contatto, a poco a poco si raffreddò. Le ore scorrevano; una strana pesantezza che non era di sonno le calava sulla testa e sulle palpebre secche e ardenti, che le parevano di piombo.

Tutte le sue sensazioni avevano un brivido, sconvolgendosi, attraversate da un soffio maligno: tutto ciò che prima era dolcezza, ora si cambiava in amarezza disgustosa e profonda. Le sembrava di non odiare nè di disprezzare Paolo, ma di non amarlo più; e l'improvvisa morte di quell'amore, diventato già per lei una seconda esistenza, le strappava qualche cosa di vitale.

Lentamente, per la stanchezza del pensiero, le parve di calmarsi e sentirsi indifferente.

Tutto era finito; non avrebbe certamente più scritto, nè permesso a Paolo di scriverle. Sentì ch'egli ne avrebbe sofferto, ricordò le invocazioni supplichevoli della lettera, ma invece di commuoversi s'irritò e gemè in alto, per l'umiliazione e lo spasimo.

A mezzanotte chiuse la finestra, e accostandosi silenziosamente al lavabo si bagnò gli occhi; ne sentì una gran freschezza e si coricò, confortandosi nel trovarsi sola, giacchè ora Giovanna dormiva nella camera dì Cosimo.

Ma non potè dormire, pur sembrandole d'esser tranquilla. Era una calma insidiosa e superficiale; in fondo l'angoscia continuava a roderle furiosamente ogni più segreta sensazione, e non tardò per lo strazio acuto dell'insonnia, a invaderla di nuovo, completamente, con tutto lo spasimo della disperazione.

Verso l'alba, più che addormentarsi, cadde in un torpore anche fisicamente doloroso, e sogni confusi la tormentarono.

L'indomani, una giornata di caldo asfissiante, vagò per la casa, come un'anima in pena, senza trovar pace, pallida e con gli occhi cerchiati di grigio: aveva nascosto la lettera e avrebbe voluto non rivederla mai più, per non ricordare neppure la sensazione angosciosa provata nel leggerla, e andava ripetendo fra sè con una strana insistenza auto-suggestiva: Ogni cosa è finita!

E la tristezza della fine la seguiva in ogni passo: che avrebbe oramai fatto, pensato, ora, domani, posdomani e sempre?

Intanto vagava pensando a Sara, alla donna cattiva, alla donna corrotta, vicino a cui Paolo aveva osato collocare lei e il suo puro amore. Sentivasene offesa ed umiliata; sentiva il suo puro amore corrompersi e dissolversi al solo riflesso della vita di Sara. Ella stessa non era forse già coperta di abbominazione, per aver amato un uomo non libero, non cristiano?

Solo il dolore l'avrebbe purificata, ma intanto non poteva sopportarlo con rassegnazione; e a misura che il tempo scorreva, la ferita s'allargava, sanguinando, sbranandole tutta l'anima.

Non entrò nel salotto per non soffrire di più, perchè troppi sogni v'erano rinchiusi, sotto lo sguardo del ritratto di lui, nella dolce penombra.

Avrebbe voluto non ridiscender neppure nel giardino, ma dopo il tramonto, scese, sentendosi soffocare.

Il cielo era coperto, ma l'occidente ardeva, come per il riflesso d'un fuoco lontano, e nell'aria immobile gravava un pesante e amaro profumo di stoppie incendiate. Ella si guardò attorno spaurita, quasi che da molto tempo non avesse posto piede laggiù.

Come nell'anima sua tutto era incendiato là intorno; le ultime rose s'erano sfogliate, pochi fiori, dopo aver lottato col sole, ora reclinavano la testa, stanchi e smorti, addormentati per sempre nella pace pesante della strana sera: e nella foglie vibrava un riflesso duro di rame e di polvere; e nelle cascate di verzura una fiamma invisibile aveva accartocciato le foglioline, trapuntandole e miniandole di bronzo.

Le rondini si posavano mute in cima alle canne secche, guardavano in alto quasi paurose d'interrompere il grave silenzio del pesante crepuscolo, poi sparivano volteggiando, col grigio petto inargentato dall'ardente riflesso dell'occidente.

Una tristezza arida gravava sui piccoli viali e nel peristilio; la banderuola ferma e arrugginita guardava fisso l'occidente, e parea rimpiangesse anch'essa i freschi venti di primavera coi quali aveva tanto danzato e cantato mentre Elena passava sognando.

E sull'oro ardentemente brunito del cielo la casa vigilava sempre sul giardinetto; ma ora, nella sua dolcezza pensosa, gravava una indefinita e misteriosa melanconia.

Elena ricordava ogni cosa, e soffocava vedendo la fine d'ogni cosa. La morte del suo sogno si stendeva per tutto, nell'aria, sulle foglie e sui fiori: era nato con le rose e con le rose moriva, ed ella sentì che il loro profumo, insieme alla memoria del suo sogno, l'avrebbe perseguitata come il ricordo più dolce ed amaro della sua vita.

Singhiozzi aridi e spasmodiei le stringevano la gola; fuggì via dal giardinetto, ma sospinta dalla sua fatalità, andò intorno per la casa, finchè entrò nel salottino. Era l'ultimo crepuscolo, e una rossa luce suggestiva moriva lentamente sulle pareti.

Egli guardava sempre verso la porta, quasi aspettando ansiosamente l'entrata d'Elena: e nell'aprire la porta, per un rapido riflesso di luce che balenò vivido sul raso bianco del porta ritratti, ella scorse subito gli occhi di lui, che risplendevano come pieni di lagrime.

Attratta irresistibilmente si avvicinò, ricordando con acuta angoscia i fiori di cui sempre l'aveva circondato, e chiedendosi ancora s'egli li meritava; una verbena appassita, d'un rosso offuscato, pendeva ancora davanti al ritratto: ella sollevò lentamente gli occhi, e lo guardò, e nell'ultima luce di quel giorno doloroso le parve scorgere negli occhi del ritratto, non il solito soave fascino di passione, ma un grigio riflesso d' angoscia senza nome e di preghiera e di pianto.

Allora con un flutto di dolcezza pietosa la assalirono tutte le parole buone dell'ultima lettera, e misurando dalla sua la tortura di lui, percepì finalmente quanto egli doveva soffrire.

Per un minuto secondo, nell'ombra invadente del salotto, ove anche il paesaggio del vecchio quadro erasi oscurato come nella tenebra di una notte tristissima, sparve l'odiosa figura di Sara, ed Elena si sentì ancora una volta sola con Paolo, che la guardava supplichevolmente.

Allora sentì che, come in quel giorno, ella non lo aveva mai più intensamente e umanamente amato; e sembrandole sempre che tutto fosse finito, potè finalmente piangere, per lui, per lei, per il passato e per l'avvenire, con infinita desolazione, con tutta la solenne e ineffabile voluttà del dolore.

In tutti quei giorni le lettere di Paolo si seguirono febbrilmente; egli doveva intensamente soffrire, e nel silenzio d'Elena, dopo la calma relativa portatagli dall'ultima lettera di lei, uno strazio senza misericordia lo investiva e lo struggeva. Mostrava una fede illimitata in Elena, e nella sua triste tempesta si aggrappava a lei come ad un'àncora di salvezza; pareva non dubitasse menomamente della carità, della pietà di lei, e le apriva tutto il suo cuore sanguinante.

Ma ella taceva.

Esitava prima di aprire le lettere e impallidiva nel riceverle: ancora prima di leggerle sentiva serrarsele il cuore, leggendole provava un intenso dolore, poi piangeva, restava esangue e sofferente, ma non rispondeva.

Eppure le aspettava ansiosamente, e sentiva che il giorno in cui Paolo avrebbe cessato di scriverle, — e questo doveva accadere necessariamente, dato il silenzio di lei, — non avrebbe più retto al dolore.

Ma egli le reccontava troppo spietatamente la storia del suo dolore, le narrava il tradimento di Sara con troppi particolari, troppo si squarciava il petto per mostrarle il cuore vibrante d'ira, di passione e di spasimo.

Le scriveva: « Io soffrivo, io dubitavo da molto, ed anzi ero quasi certo della brutta verità, ma rifugiandomi in te come in un porto di salvezza, in un asilo santo ove potermi salvare e redimere nel giorno della sventura, non osavo confidarti nulla della mia storia e dei miei dolori, per rispetto della tua purità, del tuo candore, della tua santità », ma ora intanto, quasi dimenticasse la purità, il candore, la santità di lei, troppe cose dolorose le raccontava. Forse era uno sfogo inconsapevole e involontario, forse una grande punizione ch'egli s'infliggeva, ma Elena ne restava spaventata e talvolta offesa.

Viveva, in pochi giorni, come non aveva mai vissuto; dal suo angolo solitario e semplice vedeva il mondo in una tetra visione maligna, pieno di viltà e di male.

In certi momenti Paolo medesimo, ch'ella aveva collocato tanto in alto, in una domus aurea tremolante fra le nuvole azzurre di un sublime ideale, le appariva piccolo e iniquo, e nella sensazione di una fredda ed amara diffidenza lo considerava come un uomo di mondo, senza scrupoli e senza idealità. E sopratutto come un egoista.

Eppure lo amava sempre più; pareva che l'amore diventasse più umano ed intenso a misura che il suo oggetto andava riavvicinandosi alla terra e alla realtà; e nell' infinita carità di quest' amore, l'anima buona scusava, compativa e riabilitava la figura diletta.

Ma di giorno in giorno, d'ora in ora, la triste figura di Sara si frapponeva, fra lei e l'immagine cara, dividendoli insidiosamente.

Elena pensava all'ebrea lontana e sconosciuta, con strana e dolorosa insistenza: ella, cosi buona e indulgente con tutti, non riusciva, pur provandovisi, a perdonarle alcun torto, anzi le addossava quelli di Paolo e la disprezzava e l'odiava con intensa gelosia.

Mai, anche se Paolo avesse completamente dimenticato sua moglie, dividendosi anche moralmente da lei e separandosi dalla sua religione, anche consacrando tutto il resto della sua vita ad Elena, la figura odiosa sarebbe sparita fra loro.

Elena sentiva tutto il suo puro e trascendentale poema di quella primavera, inquinato da un filtro velenoso, e questo filtro ora si spargeva anche nel suo sangue, e vi sarebbe rimasto, latente e indistruttibile per tutta la vita.

E questo veleno era Sara, Sara che Paolo aveva amato, che Paolo aveva ricordato mentre ella si credeva sola a sognare nel cuore di lui, mentre gli mandava i suoi puri baci col suono dell'organo e i profumi delle rose.

Dopo tutto era ingiusto ch'ella si facesse così gelosa di una donna che, secondo le leggi della sua religione, apparteneva a Paolo De-Cerere e aveva diritti sopra di lui: ed ella sentiva tutto il suo torto, ma non poteva combatterlo, vinta essa stessa dalla rovina del suo sogno.

Così passarono i primi giorni afosi di luglio.

Elena cercava di stordirsi e di obliare e d'immergersi nella realtà, ma la realtà le pareva troppo triste e quasi straziante priva del sogno.

Ogni cosa la faceva vibrare dolorosamente, e sopra tutto ciò che prima le riusciva gradito: era una continua, acuta sensazione di spasimo, come il dolore di un membro scorticato che qualsiasi contatto straziava sottilmente.

Non trovava pace in nessun posto, e soffriva specialmente trovandosi nel giardinetto, sempre più triste nell'aridità ardente dell'estate, e nel salotto e davanti al tavolino rosso della sua camera su cui aveva pianto e sognato scrivendo a Paolo.

Di notte aveva la febbre e non poteva dormire; ogni piccolo rumore la svegliava di soprassalto, e sogni strani e tormentosi le limavano il cervello; le tempie battevano sempre, fortemente, incessantemente, come strette da un cerchio di ferro. E non poteva piangere, non pregare; cominciava delle preghiere fervidissime, pensando intensamente a Dio, alla morte, alla vanità della vita; e sentendosi, nel buio e nel silenzio della notte, smarrita in una sensazione di sovrumana speranza, provava un principio di calma, ma lentamente il pensiero si liberava dalla stretta in cui la ragione voleva dominarlo, e tornava nella sua via dolorosa, perdendosi ancora dietro la percezione acuta della vita e del dolore.

Poi, d'improvviso, ricordava il proposito di dominarsi, di pregare ed obliare, e sorprendendosi nuovamente sulla via della disperazione finiva col disperarsi davvero.

— Signore, Signore, fatemi dimenticare! — pregava continuamente — fatemi perdonare, rendete di pietra il mio cuore!

E desiderava che Paolo si stancasse di scriverle, o le scrivesse in modo da urtarla, offenderla, addolorarla, così che il suo amore ne morisse completamente.

Ma era un desiderio superficiale, e in fondo il desiderio vero, il desiderio segreto e non confessato era ben altro. Ma ella non osava scendere in fondo al suo cuore, come non poteva respingere le lettere di Paolo, che di giorno in giorno diventavano più voluminose e frequenti.

Ardevano, vibravano, sanguinavano, ed ella, leggendole si sentiva suggestionata da un alito d'angoscia sovra-terrestre.

Paolo De-Cerere, il gentiluomo ch'ella aveva conosciuto freddamente, pacatamente e sottilmente cortese nella realtà, l'uomo fine e delicatamente poetico ch'ella aveva intraveduto nel sogno, ora sembrava un altro, stravolto da violente passioni umane.

Odiava, amava, disperava, basiva e malediceva fino all'eroismo, fino alla viltà. Solo, nel turbine che lo investiva, Elena vedeva bene quanta luce pura e refrigerante ella gettava ancora entro quel cuore lontano; ogni fede, ogni speranza, ogni pensiero buono era ancora per lei; e nel dolore l'adorazione di Paolo De-Cerere per la semplice creatura lontana, che lo salvava suo malgrado da ogni errore imprudente, diventava sempre più delicata e superiore.

Per rispetto alla sua posizione sociale e per non recar dolore al suo vecchio padre, scriveva egli, non poteva cercar soddisfazione onorevole al suo dolore e alla sua onta segreta, ma Elena sentiva ch'egli non provocava un duello per risparmiare anche a lei un maggior dolore.

I giorni continuavano a passare, ed ella cercava liberarsi dalla catena maligna e misteriosa che l'avvolgeva; ma come in certi nodi insidiosi, più grandi erano gli sforzi, più forte si rendeva la stretta.

— Signore, aiutatemi, Signore, liberatemi! — Implorava ogni tanto, gemendo e sollevando gli occhi lagrimosi verso un punto ignoto e lontano.

Non osava più scendere nel profondo del suo cuore e cercarvi una dolcezza che ancora poteva confortarla; le sembrava peccar troppo amando tuttora consapevolmente l'uomo che aveva creduto libero e suo.

Perciò invocava l'oblio, e non potendo trovarlo invocava il perdono, pregava Dio che le mandasse un altro amore, che la liberasse di questo, ma nello stesso tempo sentiva un infinito disgusto al solo pensiero di amar un altro uomo che non fosse lui.

Pure una sera credè di veder esaudita in parte la sua preghiera.

Era sola in casa e aveva passato un pomeriggio più che mai desolato e melanconico: dopo il tramonto spalancò le finestre, e come spinta da un gran bisogno di pregare, aprì il pianoforte e si mise a suonare un Kirie, musicato da Cosimo secondo un popolare e commovente motivo sardo; sola cosa ch'ella sapeva eseguire a perfezione; la melodia monotona e ineffabilmente melanconica, piena di profondo mistero come quasi tutte le musiche sarde, si spargeva grave e solenne nell'ardente crepuscolo estivo.

Ella mormorava a bassa voce il Kirie, e la musica copriva la sua cantilena, ma quando arrivò al versetto Domus aurea la voce si spense del tutto, mentre una nota limpidissima e sonora, saliva, saliva, sfumando quasi nei cieli più alti e luminosi del vespero.

Ricordò improvvisamente ogni suo affanno e si sentì sprofondare in un abisso senza fondo nè luce; ma fu un lampo, e tosto una forza miracolosa la trasse fuori; le mani bianche e sottili ripeterono sulla tastierà l'incanto della casa d'oro, tremante fra le più alte vanescenze dei cieli, asilo di pace, d'oblio, di perdono d'ogni male, e grosse perle, quasi staccandosi dagli ornamenti rutilanti del mistico palazzo, piovvero sui tasti.

Era ella che piangeva, non più di pianto amaro e struggente, ma d'ineffabile pianto di consolazione.

Si sentì come distaccata definitivamente da tutte le passioni e sensazioni trascorse, e una gran luce di carità e di perdono la illuminò.

Quando la domestica le portò, sorridendo maliziosamente, una grossa lettera, l'aprì senza tremare, sembrandole che nulla più, tranne un buon sentimento di pietà, l'unisse a chi le scriveva. Fu così che, sentendosi forte, finalmente gli rispose, con tristezza grave e profonda, chiudendo la lettera con un addio per sempre.

E le parve che tutto, definitivamente, fosse finito.

Ma nei giorni seguenti fu ripresa dall' angoscia, e si pentì d'aver scritto, sentendo che oramai, con quella prima lettera aveva messo piede nell'abisso.

Infatti, quando cinque giorni dopo Paolo le mandò una lettera straziante che finiva così:

« Io sto male, male, male, ma se tu mi abbandoni, se tu mi disprezzi, Elena, io sento che sarò capace di fare qualche sproposito prima che la morte liberatrice venga a salvarmi, » ella pianse, e per pietà, per paura d'una disgrazia, per amore e per carità scrisse ancora…

Cosi passò un anno.

A poco a poco le lettere di Paolo diventarono più calme e serene. Pareva che la parola d'Elena, che pur gli si diceva « amica e nient'altro che amica, » lo rasserenassero e lo facessero obliare.

Un giorno scrisse che oramai considerava Sara come morta; infatti non la nominò più e parve dimenticarla completamente, e smettendo ogni ira parve tornare il Paolo di prima, dalla grande anima gravemente poetica, aperta a tutte le migliori vibrazioni della vita.

E tornò ad avvolgere Elena nell'incanto appassionato di un ultimo amore, puro e sublime come un tramonto d'autunno.

Ma Elena non era più la stessa.

Anch'essa amava sempre, e in certi giorni tornava a godere le misteriose sensazioni d'una volta, piene di sogni e d'estasi, ma grandi nubi passavano, turbandola e gelandola.

Era sempre l'ombra dell'alra, impalpabile e fosca come una nuvola, che si frapponeva, si allargava, velando tutto l'infinito del sogno, e dietro il triste ostacolo Elena sentiva Paolo sfuggirle, mentre era lei stessa che si allontanava da lui. Egli dimenticava, ed essa non poteva fare altrettanto; la sensazione amara, fredda e diffidente del primo giorno di dolore le era rimasta nel sangue e nei nervi come un veleno, e risorgeva al minimo urto.

Eppure amava ancora Paolo profondamente e delicatamente, e giorno per giorno gli ridonava tutta la sua stima, ricostruendo l'idolo e rimettendolo sull'altissima ara primiera.

Non gli accennava mai al passato, non lo turbava rappresentandogli il proprio inquietante stato d'animo, ed anzi, s'egli qualche volta si rattristava, cercava di rasserenarlo.

Ma intanto più soffriva quanto più amava: di giorno in giorno andava creandosi una strana e profonda infelicità, perchè le sembrava di peccare amando un uomo di religione diversa dalla sua, unito, secondo il suo culto, ad altra donna.

Invano sentivasi convinta della purità e santità del suo amore, non rivelato mai completamente a Paolo, e lasciato immacolato e sacro dalla lontananza. Invano. Come un peso fatale le gravava sulla fronte, la mente si torturava con idee strane e sottili, l'anima dicevasi che tutta la sua stessa infelicità proveniva dal peccato.

E quando altre infelicità vere e profonde piombarono sulla casa, Elena fu colta dall'idea triste e fulminante, che tutto fosse un castigo di Dio per la sua colpa.

Cosimo, un po' per causa sua, un po' per causa di sua moglie e molto per causa della fatalità, diventava sempre più infelice; le liti fra i due sposi, dopo un anno di matrimonio, si seguivano volgarmente, con assai violenza e scandalo.

Non trovando pace nel suo nido domestico Cosimo straviziava; passava le notti fuori, di giorno dormiva e non lavorava; s'indebitava fino agli occhi, si avviliva con avventure d'ogni genere, e pareva avesse perduto il senno. Sua moglie, protetta ed instigata dalla madre, spinta dalla sua indole volgare, sempre eretta come una vipera, invece di rattenerlo lo spingeva verso l'abisso. Non tutti i torti erano di Peppina, e la scusava un po' l'intensa infelicità propria, la condotta e la violenza di Cosimo, ma ad ogni modo pareva che una ineluttabile fatalità li avvolgesse in un turbine.

L'eco dei loro dissapori giungeva con profonda tristezza in casa Bancu, ed Elena ne soffriva assai, ricordando i suoi presentimenti e provando uno stupore doloroso nel vederli avverati.

Ma sentiva tutti i torti di Cosimo, ne intuiva i lati cattivi, gl'istinti pessimi ch'egli aveva in qualche modo dominato nella casa paterna, piena delle memorie del padre, davanti alla visione pura della madre e delle sorelle, ma che ora si esplicavano, scoppiando con violenza all'urto delle contrarietà, e conducendolo a rovina. Nonostante tutto ciò, Elena amava profondamente Cosimo, lo compativa e pregava continuamente per lui, obbliando sè stessa ed il suo segreto dolore.

Piangeva spesso, nel dubbio strano e grave che la sventura piombasse in casa sua attiratavi dalla sua passione ch'ella riteneva colpevole, e allora un gran buio l'accerchiava.

— Pur che Cosimo ritorni sereno — pensava — io non scriverò più a Paolo.

Non diceva: — non l'amerò più; — perchè sentiva che ciò era impossibile; ma anche non scrivere e non rispondere alle lettere di Paolo, che le portavano una felicità pura e profonda, che la rendevano tanto buona e pietosa, era come rinunziare al sole ed alla luce, e si smarriva al solo pensarci.

Così tormentavasi continuamente. I suoi nervi delicati erano scossi, tutto l'organismo se ne risentiva; e diventava pallida, trasparente, quasi consumata da una misteriosa malattia.

A veva acuti presentimenti di sventura, e ogni volta che sentiva Cosimo salire le scale, tremava, aspettando ansiosamente, in crudele incertezza, una triste notizia.

Ei veniva spesso, ma ci restava poco, accigliato e cupo, con gli occhi pieni d'idee penose, di fastidi, di cure e d'incertezze. Donna Francesca lo ammoniva in tutti i modi, dolcemente e aspramente, ma egli ascoltava con indifferenza, o se davasi ragione lo faceva in maniera sì violenta che rendeva inutile ogni replica.

Un giorno parlò cosi amaramente che Elena credè scorgere un disperato proposito nelle sue parole. Fu in quel tempo che per un mese non scrisse a Paolo, con la speranza e la fede di commuover Dio col suo sacrifizio. Ed era un sacrifizio doloroso e sanguinante.

Paolo scrisse due volte, poi tacque, come tristemente offeso, ed Elena, che forse aspettava una terza lettera, tuttavia sforzandosi a non desiderarla, quando anch'egli tacque, e tutto parve nuovamente e decisamente finito, desiderò morire. Le sembrò che Paolo la dimenticasse, trascurandola troppo presto, e ancora una volta si domandò s'egli non era un egoista, perchè non si curava mai di chiederle come stava, quasi ella non fosse soggetta ad alcun male; Perchè non percepiva le sue tristezze e le sue sofferenze, e sembrava amarla solo in misura di quanto essa gli dava. Ora, perch'essa taceva, egli dunque si allontanava e la dimenticava?

E ancora, ancora, mille dubbi, mille tormentose gelosie vennero a rattristarla; poi si addolorò dei suoi ingiusti sentimenti, e sentì che Paolo doveva provare, nel silenzio di lei, gli stessi dubbi incresciosi.

Poi, sopra ogni cosa, la dominò tiranno il dolore di trovarsi impotente a vincere la sua passione, a compier intero il sacifizio, dimenticando.

Intanto però gli avvenimenti proseguivano, e nulla impediva alla piaga di dilatarsi e inasprirsi ogni giorno di più. Una sera furono protestate a Cosimo per sette mila lire di cambiali, furono sequestrati i mobili del suo appartamento, e siccome in un'ora d'amore, durante la luna di miele, una delle cambiali era stata firmata da Peppina, fu sequestrata anche una parte della sua dote. Ne seguì uno scandalo grandissimo: Cosimo giunse a percuotere sua moglie, poi passò la notte bevendo e giocando. Nel ritornare trovò la porta chiusa.

Allora rientrò in casa di sua madre, giurando d'abbandonare la moglie.

Furono giorni tristissimi e penosi per la famiglia; Cosimo pareva impazzisse, ed Elena, temendo sempre si suicidasse, vegliava continuamente, con la più acuta angoscia dipinta sul volto, ed ogni più piccolo rumore la spaventava.

Vedeva soffrire sua madre e Giovanna, sentiva che anch'esse avevano le sue stesse paure, celandosele scambievolmente e pietosamente, e davanti al dolore comune non si dava più neppure il conforto del desiderio di morire.

— Che sarebbe di loro — pensava — se io venissi a morire, se sapessero anche il mio dolore e lo sentissero ricadere sopra di loro?

Donna Francesca intanto faceva di tutto per rimediare le cose, ma inutilmente; Peppina e Cosimo oramai, odiandosi, sentivano che la vita insieme era l'inferno e desideravano di non rivedersi neppure.

Ma ricordando i sanguinosi improperi con cui sua moglie l'aveva sferzato, Cosimo, più per orgoglio che per dovere, voleva lasciarle liberi gl'interessi, e soddisfare i creditori che non gli accordavano più alcuna dilazione. Ma non potè trovar denaro in nessun posto, neppure nei villaggi: a Nuoro poi una strana antipatia s'era sviluppata contro di lui, dopo la sua scandalosa separazione dalla moglie; tutti gli davano torto e ne parlavano male, malignamente contenti di vederlo infelice.

Egli sentiva una marea amara di odio e malignità, accerchiarlo, soffocarlo e vincerlo; il diamante dell'anello paterno aveva grigi bagliori sinistri, che gli si riflettevano negli occhi foschi.

Sentiva tutta la pesante tristezza che portava nella sua casa; e il viso buono della madre, e il viso d'Elena che s'affilava e impallidiva ogni giorno di più, e il viso fiorente di Giovanna che si reclinava come una rosa al soffio improvviso d'un vento maligno, gli passavano avanti quasi in una allucinazione angosciosa. E il bisogno acuto di liberarsi da ogni possibile onta, per sentirsi e mostrarsi un po' sereno, e così ridonare la tranquillità alla famiglia, lo stringeva tanto da indurlo alla disperazione. Un giorno donna Francesca gli propose di vender alcune terre, ma egli rifiutò vivacemente per lo scrupolo di non recar danno materiale alle sorelle.

Ma intanto i termini del sequestro scadevano, e Cosimo, un po' coll'aiuto della famiglia, era riuscito a procurarsi solo quattro mila lire.

Fra otto giorni gli occorrevano le altre tre mila, assolutamente, e non potendole trovare, e pensando che fra una settimana i mobili e la dote di Peppina andrebbero all'asta, si sentiva impazzire.

Ma una sera donna Francesca pensò che forse Alessio Piscu possedeva denari; e lo disse a Cosimo. Egli sperò, e cercò tosto d'Alessio.

— Non ne ho — rispose il giovane, così sinceramente che Cosimo gli credette.

Una relazione molto amichevole correva fra loro; quindi Alessio domandò a Bancu notizie sui dolorosi fatti accadutigli.

Egli raccontò ogni cosa, e nonostante si sforzasse a parer forte, lasciò trapelare tanto i suoi affanni che Alessio si commosse.

— Tu hai fatto un brutto matrimonio! — disse semplicemente, tirandosi in avanti la berretta che gli scivolava sui nerissimi capelli. E per un momento fermò la mano sulla fronte, come vinto da un'idea decisiva. Quando furono per separarsi, pose la mano destra sul braccio di Cosimo:

— Senti una cosa — disse. — Io non ho denari, ma se tu vuoi posso procurarti le tre mila lire, e forse senza interessi…..

E sorrise, un sorriso strane che gli disegnò una piega sulla fronte, e mise al nudo i suoi denti bianchi e forti.

— S'io voglio! — esclamò Cosimo. — Diavolo, s'io voglio!

— Sentimi. Dove vai domani?

— Domani? — fece Cosimo come interrogandosi.

— In nessun posto. Perchè?

— Io vado in campagna. Bisogna che tu m'accompagni, per veder la persona che darà i denari.

Restarono intesi e Cosimo si rasserenò alquanto. L'indomani mattina montò a cavallo e tornò in cerca d'Alessio. Era da molto tempo che non cavalcava e non usciva in campagna, e quando insieme al paesano, che armato di fucile montava una cavalla bianca e pareva d'assai buon umore, sì trovarono sullo stradale, egli provò una sensazione forte e piacevole, di vita e di speranza.

Gli parve rinascere, dimenticando ogni dolore; l'orizzonte s'allargava, nitido e profondo, fuori e dentro di lui; sotto il sole d'agosto i campi pieni di stoppia inquadravano con lembi d'oro le vigne verdissime; le stradicciuole restavano deserte, e solo il rauco latrare del gran cane grigio d'Alessio, dagli occhi rossi e il ventre sottile, si perdeva nella solitudine, destando l'eco fra i cespugli biondi intricati di cardi bronzini dalla testa argentea.

Le macchiette di Cosimo e d'Alessio si delineavano nere nel sole; i cavalli camminavano sbattendosi la coda sui fianchi, e sulla testa del paesano il fucile metteva una scintilla radiosa.

Arrivarono verso mezzodì in un ovile d'Alessio, posto in sito molto pittoresco e misterioso, tra una fitta boscaglia di soveri nani e contorti, che lasciavano sfuggire dai tronchi squarciati ciuffi di foglie dure, di un verde metallico, e proiettavano ombre oscure sul fieno secco e giallo.

Cosimo credeva d'incontrare qualche vecchio pastore avaro, con cui combinare il prestito delle tre mila lire. Invece Alessio, legati i cavalli e fatta una refezione di latticini e pane, lo condusse più in là.

Macchie di cisto, robustissime, s'intricavano coi soveri, dando all'aria ferma e luminosa del meriggio uno strano profumo ardente; roccie grigie, coperte di muschio color ruggine s'accavalcavano intorno; vacche nere macchiate in fronte e sul dorso da chiazze lattee pascolavano silenziose e sonnolente, tuffando il muso nel fieno e scuotendo lentamente la coda; una gazza fischiava dall'alto d'un sovero, e il suo fischio acuto, che pareva od era un grido di richiamo, risuonava lontano e dava tutta l'impressione di quella strana solitudine.

Cosimo percepì ogni cosa, e sentì un vago senso di mistero e d'inquietudine. Alessio lo fece salire sulle roccie, pregandolo di guardare per una fessura abbastanza larga, in fondo al bizzarro dolmen: per veder meglio egli guardò con un occhio solo, e le sue sopracciglia, aggrottandosi, ebbero un rapido tremore di raccapriccio e timore. Vide un uomo ammazzato in fondo alle roccie; vestiva da cacciatore e dalla sua posizione si scorgeva bene che, dopo ucciso, era stato gettato violentemente là dentro.

— Ebbene, Alessio? Ebbene? — domandò Cosimo sollevandosi, e Alessio disse che quell'uomo morto era Sebastiano Murta, soprannominato Scoppetta, da Nuoro, bandito gravato da una taglia di tre mila lire.

— Vivo o morto, capisci?

Cosimo capiva perfettamente, ma gli repugnò subito, fortemente, l'idea di guadagnarsi le tre mila lire andando a dire alle autorità:

— Signori, io sono in grado di consegnare il corpo del latitante Sebastiano Murta!

Tornò a guardar fissamente in fondo alle roccie, tenendosi stretta nella mano destra la barbetta rossa, e domandò:

— Ma è proprio lui? sicuro ne sei?

— Diavolo! — disse Alessio, ridendo come fra sè.

— Ti avrei condotto qui se fosse stato altrimenti?

— Chi l'ha uccìso? Tu forse? — chiese l'altro, sollevandosi ancora e fissando i suoi occhi turchini sul viso del paesano. — Eravate nemici e ti recava molti danni …

— Ora, certo, non me ne farà più! — esclamò Alessio, scansando la prima domanda, che l'altro non rifece.

— Ti ho portato qui — disse poi, mentre s'allontanavano dalle roccie — affinchè tu sii in grado di dare indicazioni precise. Ora arrangiati, Cosimo.

— No! no! io non farò nulla! — rispose egli vivamente; e restò lungamente assorto guardando le vacche, ascoltando il richiamo della gazza, che si perdeva lonlano per il bosco.

— Che si direbbe di me? — disse a un tratto, con un sorriso amaro. — Si direbbe che l'ho ucciso io!

— Macchè! nessuno lo potrà sapere! — rispose Alessio con freddezza.

Allora Cosimo gli domandò perchè non ritirava egli medesimo la taglia.

— A me basta che non mi molesti più, che non uccida il mio bestiame e non attenti alla mia vita ed a quella di zio Salvatore Brindis — rispose Alessio con una certa fierezza.

Bancu ne provò sdegno e umiliazione, e parole amare gli vennero alle labbra, ma tacque, e durante il ritorno sotto l'ardente sole del pomeriggio cadde in una cupa tristezza.

Rientrando in città si separarono freddamente, ma allontanatosi di pochi passi, Alessio fece eseguire una giravolta alla cavalla e con un sorriso che gli spianava il volto disse:

— Eh, Cosimo, di' a tua sorella Elena che uno di questi giorni devo venirle a parlare.

— Cosa vuole costui da Elena? — pensò Cosimo con disprezzo sdegnoso.

Volgendosi sulla sella fece un cenno di testa, come per dire con indifferenza: — Sì, glielo dirò — e s'allontanò spronando il cavallo.

Appena rientrato, cercò di Elena, e provò una tristezza ancor più grave trovandola coricata e febbricitante.

— Cos'hai avuto, Elena? — domandò timidamente chinandosi.

— Oh, non ò nulla! — diss'ella, ma rabbrividiva per la febbre, e tanta sofferenza fisica e morale traspariva dal suo volto, che egli s'inquietò maggiormente.

— Alessio mi ha detto che uno di questi giorni vuol parlarti. Perchè ti vuole?

Elena sorrise, ma vagamente, come fra sè, dicendo:

— Me lo immagino, perchò. Avete combinato il tuo affare? — domandò poi con tanto interesse ed inquietudine che Cosimo rispose:

— Sì, si. Sta tranquilla.

Elena si rasserenò alquanto, ma più che negli altri giorni egli sentì una immane tristezza gravare sulla casa.

Anche donna Francesca e Giovanna erano pallide e sofferenti; camminavano in punta di piedi e un gran silenzio, quasi lugubre, dominava per le stanze nel luminoso crepuscolo d'agosto; nessuno parlava, e sul davanzale d'una finestra Lisbet con gli occhi freddamente verdi, socchiusi, guardava verso la montagna, sognando tristemente.

Cosimo venne ad appoggiarsi a questa finestra e guardò anch'egli la montagna, pensando che causa d'ogni tristezza domestica era lui; gli parve anzi d'essere egli medesimo la tristezza in persona, emanante attorno un riflesso d'insopportabile dolore; tutto il riflesso fosco dei suoi errori e delle sue viltà.

Il volto pallido e sofferente d'Elena gli stava innanzi come un rimprovero; ed a questa percezione dolorosa s'univa stranamente il ricordo del fischio acuto della gazza, il richiamo vibrante nel bosco di soveri, che ancor gli sembrava di sentir distintamente.

Si allontanò dalla finestra, e spogliandosi degli abiti da campagna estrasse dalla tasca della giacca il grosso revolver Warnant, di cui andava sempre munito. E lo tenne in mano un momento, guardandolo con gli occhi socchiusi. L'ombra delle lunghe ciglia bionde gli calava sulle guancie un po'dimagrate, e a poco a poco quell'ombra parve stenderglisi per tutto il viso. Il manico acciaiato e la canna del revolver avevano un riflesso freddo è livido; molte volte Bancu, osservando tristemente la sua arma, aveva provato una sottile sensazione di freddo e di terrore a quel riflesso; ma questa volta ne restava quasi indifferente.

Vedeva sempre il pallido volto d'Elena sorridere con dolore e sentiva il grido acuto della gazza solitaria; a un certo punto gli sembrò che le due sensazioni si fondessero in una sola, in una voce che gli saliva dal profondo dell'esser suo, gridando:

— Rinnovarsi o morire!

Per ridonare la pace, il decoro e la serenità alla famiglia, bisognava ch'egli si rinnovasse, risorgendo ad ùna vita novella, ritornando in pace con la moglie, rendendola buona e felice, lavorando, sradicando dalla sua carne, dal suo sangue, dall'anima sua ogni vizio ed ogni viltà.

O altrimenti morire; perchè vivendo così la sua persona, la sua esistenza spargerebbe sempre intorno per la casa, per la vita di sua moglie, di sua madre, di sue sorelle e di se stesso un alito di dolore.

S'egli invece spariva una volta per sempre, dopo il primo dolore la pace sarebbe tornata nella casa, nel cuore di sua madre, delle sorelle e della sposa.

Gli parve anzi che la sua morte avrebbe prodotto l'effetto d'uno di quegli scoppi di polvere che si eseguiscono per purificar l'aria. E poichè sentì subito la sua impotenza di rinnovarsi, decise morire.

In questa sua decisione percepì freddamente tutta la sua fiacchezza e la sua viltà, ma ciò non fece che accrescere la sua disperazione, e allora gli parve naturale e semplice il passo consigliatogli da Alessio. Disperando completamente di Sè stesso, vedendosi più debole di quel che era, si domandò con meraviglia Perchè, dopo quanto aveva fatto di cattivo e spregevole nella sua vita, ora sentiva scrupolo ad eseguire il consiglio di Alessio. E provò come uno scroscio di riso sardonico fra sè e sè, confessandosi che lo scrupolo non gli era stato causato da raffinatezza di coscienza, ma dalla volgarità stessa della cosa, che ripugnava al suo istinto signorile, superiore a certe bassezze troppo evidenti.

Allora esaminò lungamente quale delle due viltà era più volgare; o ritirare la taglia del bandito ucciso a tradimento, o lasciar mettere all'asta, per una somma miserabile, la dote di sua moglie. Vinto anche dal pensiero di non lasciar fastidi alle sorelle, verso cui Peppina poteva più tardi rivolgersi, scelse il primo corno del dilemma.

Nei giorni seguenti il corpo del bandito fu riportato a Nuoro, e Cosimo potè soddisfare i suoi creditori.

Elena stava già un po' meglio.

Vedendo inutile il suo sacrifizio aveva scritto ancora a Paolo, vinta da una grande tristezza, da un acuto bisogno di sollievo; e un po 'di conforto le era giunto con la lettera di risposta.

Paolo le scrisse d'aver tremato nel ricever la sua lettera, ed ella pianse lagrime dolcissime sul foglio di lui; provò come la sensazione d'esser stata attesa ansiosamente da Paolo; ora ch'ella ritornava egli la accoglieva tremando fra le sue braccia, entro il suo cuore già rattristato per l'assenza ingiusta di lei.

Ella sentì finalmente quanto era amata, e pianse anche pentendosi dei suoi dubbi tormentosi; ma fra la gioia quasi austera della lettera di Paolo, tremava come un vèlo di tristezza grave e profonda.

Egli sentiva Elena sfuggirgli, spinta da un mistero d'occulti e tristi sentimenti; sentiva che Elena non riponeva più in lui la fede ineffabile di prima; che Elena, così serena e buona nei tempi passati, ora si velava di un sottile strato di nebbie, traverso cui appariva e spariva ogni tanto quasi capricciosamente.

Ma non le fece alcun rimprovero (ne aveya forse il diritto?) e continuando a mostrarsi profondamente buono e innamorato, le fece anzi sentire che oramai egli l'amava come essa era, come le piaceva d'essere; che non potendo più vivere senza di lei accettava quanto le piaceva dargli, senza chiederle di più, amando e benedicendo…..

— No — dissa Elena fra sè, baciando la lettera buona — io non ti lascierò più, io non diserterò più. Perdonami, Paolo; perdonami, adorato.

E nuovamente si sentì un po' felice; le-parve che Dio medesimo la spingesse ad amare, e benedicendo anzi il suo grande balsamico amore glielo mandasse per conforto dei dolori domestici.

Fu allora che accadde in lei una misteriosa reazione psicologica; ogni ombra sparve, ogni tenebra anzi parve cambiarsi in luce, come certe nuvole oscure che al levarsi del sole diventano d'oro fuso; ogni dubbio, ogni gelosia svanì, e il tormento si cambiò in dolcezza. Dimenticò completamente Sara, e siccome le lettere di Paolo, riguardanti quel periodo triste di rivelazioni e dolori, le ridonavano al solo vederle una gelata e angosciosa sensazione, le separò dalle altre, le sigillò e le nascose.

E si sentì ancora avvinta tenacemente a lui, in un sogno luminoso che la trasportava in alto, dandole ore di gioia profonda e serena; e ancora si rifugiò nel suo sogno per sfuggire alla tristezza della realtà.

Ma troppo la realtà la stringeva, Perchè potesse sfuggirla del tutto; svegliandosi la mattina provava un senso di gioia, pensando a Paolo e abbandonandosi tutta alla dolcezza di questo pensiero; le sembrava che a tutto il resto rimedierebbe il tempo; ma a misura che il giorno passava, rivedendo molte tristi cose, veniva invasa da una sottile disperazione, da un disgusto profondo della realtà.

Di sera, col cader delle tenebre, la tristezza aumentava e la realtà vinceva il sogno, ma trasformandosi essa stessa in un sogno grave e tormentoso; la mente, forse per l'incessante lavorìo del pensiero durante la giornata, provava una stanchezza dolorosa, per cui percepiva le cose sotto un aspetto fosco e disgustoso. Invano allora Elena cercava Paolo col pensiero, col desiderio struggente di riposarsi in lui; sentiva le palpebre pesanti e la testa le dolorava. Per questi passaggi improvvisi del sentimento, nell'afa irrespirabile di agosto, tutto il suo organismo delicato si risentiva, e quasi ogni sera, dopo il tramonto, a misura che cadeva il crepuscolo ardente e velato, la febbre la visitava. Quando però vide Cosimo rasserenarsi un poco, e sperò di rivederlo a rialzarsi moralmente, si sentì meglio.

Ma un giorno, agli ultimi di agosto, accadde un fatto assai doloroso.

Era un meriggio oltre ogni dire afoso e silenzioso; si respirava nell'aria l'odore soffocante di stoppie bruciate, e il cielo era così ardente da sembrar cinereo. Tutti riposavano, ed Elena, non potendo trovar pace in quella siesta pesante e caldissima, leggeva uno strano romanzo portatole da Cosimo il giorno avanti: Tarass Bulba di Gogol.

S'avvicinava alle ultime pagine, ma leggeva svogliatamente, è le estreme seene della bizzarra epopea cosacca la lasciavano indifferente, mentre la notte prima aveva provato una intensa sensazione di pietà leggendo la fine dei figli del vecchio Tarass.

Quando ebbe finito, chiuse il libro, si levò, e lavandosi ricordò che Cosimo le aveva detto:

— Appena lo leggi tu, lo leggerò io.

Prese il volume. — No, forse dorme — pensò, e lo rimise. Ma come spinta da una segreta voce lo riprese, e scese piano le scale, ripetendo inconsciamente fra sè: Forse dorme, forse dorme. Arrivata al pian terreno, nel lungo andito su cui dava lo studio di Cosimo — che dopo il suo triste ritorno alla casa paterna, per non scomodare il nuovo ordine delle camere, s'era stabilito in quella stanza anche per dormire — Elena fu per avviarsi alla cucina e far preparare il caffè del pomeriggio, ma ancora una volta l'istinto segreto la spinse verso lo studio; e proseguì sempre ripetendo: Forse dorme.

Nell'andito, appena illuminato dall'alto, immerso in una gran freschezza silenziosa, Elena avanzossi in punta di piedi fino alla lucida e grigia porta dello studio, dove su una piccola lastra d'ottone stava inciso il nome di Cosimo, e girò la maniglia di porcellana.

La porta s'aprì mentre Cosimo Bancu stava per morire; ed Elena lo vide. Dio, come permette che gli astri s'incontrino nel loro corso, che i bastimenti s'investano e affondino con migliaia di creature innocenti, che l'oceano si sollevi e la terra tremi nelle sue viscere, che da una parola dipenda lo sterminio delle nazioni e da una invisibile trama penda il destino dell'uomo, Dio è sempre grande ne' suoi occulti voleri.

Ed Elena mise tanto dolore nel suo grido acuto, che Cosimo depose l'arma rabbrividendo e si sentì salvo. Ma da quella sera la salute di Elena fu irrimediabilmente perduta. Non vi fu alcuna crisi pericolosa, o almeno nessun segno esterno che la manifestasse, ma entro di sè ella sentì qualche cosa spezzarsi, come una canna che sebbene fragile aveva sin allora resistito.

La febbre tornò a tormentarla, continuamente; era una vertigine incessante, che le velava gli occhi e le idee; sentiva una profonda indifferenza per ogni cosa, eppur ogni cosa la disgustava, l'infastidiva e l'irritava.

Diventò come una bambina sofferente, capricciosa e molesta; ma ogni suo desiderio veniva appagato e Cosimo la vigilava di continuo, con gli occhi profondamente pensosi. Oramai egli si sentiva mille volte più colpevole ed infelice di prima, ma s'imponeva la vita come un'espiazione; per contentar la madre e le sorelle fece dei passi onde riconciliarsi con la moglie e le scrisse una lettera savia e profonda; ma la risposta fu altera, fredda e negativa. In fondo egli ne provò sollievo, ma non lo dimostrò.

Una sera di settembre Cosimo rientrò in casa dando una interessante notizia.

— Carta-Selix, sapete, è traslocato a Nuoro!

Guardò Elena, che stava seduta accanto alla finestra spalancata, ma s'avvide ch'ella restava indifferente, dondolandosi sulla sedia e col viso rivolto verso il giardino.

— Forsa lo sa — pensò Cosimo.

Mentre Giovanna faceva a proposito molte domande, entrò una domestica e disse: — C'è Alessio Piscu che vuole parlarle, signoricca

— A me? — chiese Elena volgendosi vivamente; ma tosto parve ricordarsi, ed ebbe un gesto di noia.

— Fallo venire qui.

— Cosa diavolo vuole? — domandò Cosimo, ricordando anch'egli le parole d'Alessio.

— Aspetta e lo vedrai — disse Elena.

Entrò Alessio, con un mezzo sorriso su le labbra, e domandando a tutti come stavano scrutò il volto di Elena, ma la vide così fredda e contenuta che cessò di sorridere, provò un senso di freddo e timore, e sentendo tutta la falsità del suo passo, prima sembratogli facilissimo, si pentì d'esser venuto.

— Siediti — disse Giovanna, porgendogli una sedia. Egli sedette e stette zitto e fuvvi un momento di silenzio imbarazzante. Elena lo guardava, e sentendo tutta la sua confusione, gli venne con disinvoltura in aiuto.

— Ti manda Cicchedda, forse?

— Sì — rispose Alessio arrossendo, poi disse rapidamente: — Sta molto male e forse se ne muore; io son venuto per contentarla. Abbiamo una bambina e desidera che la tenga a battesimo tu, Elena …

Donna Francesca lo guardò fisso, sbalordita e scandolezzata: dopo tutto era assai cosa strana che un uomo della tempra d'Alessio facesse un simile passo. Molte persone dicevano però ch'egli aveva sposato segretamente Cicchedda, e donna Francesca si domandò se ciò era vero.

Elena guardò sua madre, e Alessio, seguendo il suo sguardo, vide gli occhi di donna Francesca fissi in lui; si turbò più che mai e gridò fra Sè: — Cosa ho fatto?

Non sentì chiaramente quanto gli rispondevano, ma percepì un rifiuto freddo e dignitoso, e vide sul volto di Cosimo un sorriso sardonico che gli diceva:

— Che uomo stravagante tu sei!

Tosto però accadde una rapida reazione entro il suo animo fiero. Perchè si vergognava, in fine? Non era per sua figlia che cercava una madrina?

— La legittimerò! — disse, con fierezza; gli occhi gli ridiventarono limpidi, e le orecchie, impallidendo, tornarono a sentir chiaramente ogni parola. Quindi aggiunse, riprendendo il vago sorriso con cui era entrato:

— Non ci vedrà nessuno; si farà domani sera verso l'imbrunire. Vuole chiamarla Elena, come te, Elena …

Elena s'intenerì, e ricordò che da molto tempo Cicchedda le aveva detto:

— Chiamerò Elena la mia creatura, se lei me lo permetterà, e lei la farà cristiana.

— Se sarete sposati — aveva risposto.

— Dio lo voglia; e lei preghi per me.

E talvolta ella aveva pregato per la sua umile ammiratrice; ora nel passo di Alessio vedeva un buon avviamento verso il bene, e non lo giudicava con la rigidezza di donna Francesca o col sarcasmo di Cosimo.

Dapprima, nel suo malessere, se n'era annoiata, ma ora s'inteneriva, e guardava supplichevolmente la madre come per dirle:

— Lasciatemi andare, mamma…..

Ma la mamma rispose di no; Alessio si alzò rigido e fiero, ed Elena vide passargli una grande ombra ne gli occhi.

— Allora scusate — diss'egli tirandosi la berretta sulla fronte, con un fiero gesto — scusate il mio ardire.

— Scusa'tu — disse Elena, accompagnandolo fino al pianerottolo. — Se fosse stato possibile, io ne avrei avuto tanto piacere.

— Sì, è vero, è impossibile! — diss'egli con un sorriso amaro, mettendo un piede sul penultimo gradino della scala, e fermandovisi. — Ma era una carità… era il desiderio d'una moribonda…

Elena provò un leggero tremito, e si sentì più male del solito, e l'indomani, spargendosi la voce che Cicchedda era morta, s'inquietò e rattristò, nel dubbio bizzarro che il rifiuto della sera prima avesse aggravato lo stato della moribonda.

Donna Francesca, per contentarla e rassicurarla, mandò verso l'imbrunire una domestica, per informarsi se la notizia era vera.

La domestica andò in casa d'Alessio, e ritornando con aria misteriosa e solenne disse:

— Non è morta, ma sta per entrare in agonia, ed Alessio la sposa…

— Alessio la sposa? — chiese Elena vivamente, e la domestica si mise a raccontar la scena con molti particolari. C'era comare Franzisca, in casa d'Alessio, e teneva la bimba fra le braccia, una bambina bellissima, già bianca come un giglio e con un ciuffetto di capelli biondi sulla fronte. Il piccolo Domenico, ergendosi sulla punta dei piedini, voleva ad ogni costo toccarla, e qualche volta riuscendovi le metteva delicatamente la manina sul visino, la manina rosa con le ditine aperte a ventaglio.

— Pipìa … pipìa! … — gridava.

Comare Franzisca, grande amica della domestica, l'aveva per favore condotta vicino ad una porta socchiusa, donde si vedeva un quadro commovente. Alessio sposava la sua amica morente: stava inginocchiato presso il letto, su cui giaceva Cicchedda dal volto che pareva di cera e gli occhi immensamente ingranditi, e piangeva come un bambino. Il sacerdote parlava sommesso e rapidamente, quasi paventando di non fare a tempo; e uno dei testimoni era zio Salvatore Brindis.

— Ma come mai? — aveva detto la domestica meravigliata.

E comare Franzisca, tirandole il lembo del grembiale:

— Piano! È stato anzi lui a decider Alessio a sposarla. È venuto a visitarla, e vedendo che moriva si è messo a gridare ad Alessio: — Ma, figlio del diavolo, non vedi che questa donna muore? Perchè non la sposi, Perchè non ti lavi la coscienza?

Elena ascoltò meravigliata questo racconto e donna Francesca disse:

— Dio sia lodato!

Da quel giorno mandarono sempre a chieder notizie della moglie d'Alessio, che, dopo una settimana, si trovò fuori di pericolo, e fu così che il battesimo della nuova Elena venne stabilito per il primo giorno in cui la madrina si sentisse bene.

— Chi è il padrino? — chiese Elena.

Le dissero che se non le dispiaceva vederla al fianco d'un paesano (giacchè al ritorno dal battesimo la madrina camminava tra il sacerdote ed il padrino) sarebbe stato Salvatore Brindis.

Ma perchè avrebbe dovuto dispiacerle?

E fu stabilita la cerimonia per il primo ottobre, alle cinque pomeridiane.

La mattina di quel giorno venne Alessio, vestito di nuovo, col giubbone di colore, i calzoni bianchissimi stirati e la barba rasa.

— Comare — disse sorridendo — vengo ad avvertirvi d'una cosa. Zio Salvatore non fa più da padrino; quando hanno saputo la cosa, mia zia e mia cugina, indemoniate, han fatto un chiasso d'inferno. Zio Salvatore s'ostinava di più, appunto per ciò, ma noi, per evitare ogni scandalo, l'abbiamo persuaso del contrario….. E abbiamo cercato un altro.

— Chi?

Alessio sorrise ancora, portò due dita al collo, per accomodarsi la collana trapuntata della camicia, e torcendo un po' la testa disse: — Carta-Selix.

Elena si rabbuiò in viso e fu per protestare, ma non usando dimostrare a nessuno i suoi segreti sentimenti si dominò e: — Sta bene — disse freddamente.

Verso sera rivide il giovine, arrivato da pochi giorni, e col quale tutti credevano si amassero ancora; ma Cosimo, che accompagnava la sorella, fu il primo ad accorgersi come ella non amava più l'antico innamorato. Lo trovarono in chiesa che aspettava; era un giovane alto e magro, d'una certa distinzione, ma pallido, con la barbetta nera appuntata, e occhi castanei, un po' affossati, un po' stanchi.

Elena lo rivide con indifferenza, quasi non l'avesse mai conosciuto, e quest'impressione cresceva a misura che, guardandolo, lo trovava completamente cambiato nel volto e nel portamento.

Ma anch'egli la trovava cambiata; era sottilissima e pallida, e il vestito di seta color violetto chiaro, e l'ombra del cappello nero le davano un'aria tristissima.

La chiesa restava deserta, ma da una delle porte principali, insolitamente spalancata, un flume di luce vivissima si versava sul pavimento grigio. Poco prima aveva piovuto; ora le nuvole andavano squarciandosi nell'orizzonte, su quello sfondo luminoso di porta, e fra gli strappi argentini, metallici, il cielo appariva come un cristallo stillante acqua splendente. Il piazzale e i gradini di granito, bagnati dalla pioggia, scintillando al riflesso acuto dell'orizzonte, parevano d'argento fuso e d'acciaio.

Un mistero solenne di luce metallica invadeva la chiesa deserta e sonora, e sullo sfondo liquido di quella porta spalancata la figura d'Elena, vagamente profilata di violetto, coi capelli increspati che sfumavano in aureola radiosa sotto l'ala del cappello, parea dovesse svanire e dissolversi nella luce.

Durante la cerimonia Carta-Selix la guardava intensamente cercando invano il suo sguardo, e sentiva quell'impressione vaga e penosa e la sicurezza anzi che per lui Elena era già svanita per sempre.

Solo all'uscir di chiesa, camminando al fianco del giovane, la cui testa seria e distinta dominava al di sopra della sua, Elena, in quella luce vivissima di perla grigia riscintillante sulle vie bagnate, trovò come un lontano ricordo, ma si rattristò più che mai. Sentiva che il giovane l'amava sempre, che soffriva nel trovarla così cambiata; ma era giunto troppo tardi. Rivedendolo prima forse anch'ella lo avrebbe riamato; ora non sentiva, non poteva sentire più nulla per lui; il mistero del più profondo oblìo era caduto sull'antico amore morto.

Ne provò una tristezza così sovrumana che il suo malore s'accrebbe.

L'ottobre procedeva lento, tiepido e melanconico; nell'aria, lavata dalle prime pioggie, era una trasparenza profonda e soave, e nelle lontananze, negli sfondi di paesaggio, attraverso le rame degli alberi su cui diradavansi le foglie, stagnavano misteriosi sogni cinerei.

Elena stava lunghe ore appoggiata al muro del giardino, e nella tiepida lunga carezza del sole d'ottobre, pensava, con gli occhi smarriti in quelle lontananze di sogno, che avevano come un muto richiamo verso ignote pianure dove la dolcezza dell'autunno non tramontava mai.

Gli alberi, di giorno in giorno più biondi, trasparenti e tranquilli, si disegnavano sottili e immobili sulle vaporosità dell'orizzonte; nei lunghi meriggi sonnolenti il sole scendeva con profonde carezze negli angoli del giardinetto, e nell'aria erravano misteriosi, ineffabili profumi.

Quando la febbre glielo permetteva, Elena veniva in giardino e si indugiava al sole, sognando silenziosamente; sentivasi mancare a poco a poco, e le pareva che la malìa delle lontananze autunnali l'attirasse ogni giorno di più verso le pianure vaporose ov'era l'oblìo d'ogni cosa terrena. Provava una indifferenza profonda per tutto ciò che sentiva o vedeva intorno a sè, quasi staccandosi lentamente dalla vita; e sola un'immagine lontana restava scolpita nelle sue sensazioni.

Era Paolo, a cui nascondeva il suo stato di salute, scrivendogli soltanto nei giorni che sentivasi bene; ma, come i suoi pensieri e le sue sensazioni, anche le sue lettere diventavano sempre più vaporose e velate.

Egli, leggendole, la sentiva diventar fine, fine, la sentiva anch'egli staccarsi dal mondo, quasi visione dissolventesi nell'azzurro, e ne provava un fascino misterioso, come di cosa lontana e inafferrabile, che tuttavia lo avvolgeva strettamente, in un incanto sem pre più soave e invincibile.

Elena, a sua volta, percepiva l'accrescersi e lo spiritualizzarsi della passione di Paolo; leggeva le lettere di lui con profonda intensità, immergendovisi tutta, come in quei tiepidi bagni di sole autunnale; e sognava ancora, e nel suo malessere, nell'indifferenza strana che la chiamava ad un profondo ed intimo raccoglimento di sè stessa — quasi dicendole di non aver più tempo per pensare agli altri — vedeva Paolo entro di lei e viveva in questa sola visione. La stessa malìa della natura morente, che la richiamava verso i pallidi sogni dell'orizzonte autunnale, era un arcano desiderio di sonno, di riposo, dopo il quale risvegliarsi ancora e ritrovarsi con Paolo in una dolce realtà.

Riveder Paolo e non lasciarlo più, era l'ultimo strato del sogno continuo e lento che le stagnava nell'anima, anche fra la sottile vertigine della febbre struggente.

Le domeniche, specialmente dal mezzogiorno in su, le scorrevano tristemente penose più degli altri giorni; non trovava riposo e le ore le scorrevano lentamente, con profonda desolazione. Talvolta però l'idea d'una passeggiata in campagna, di una visita, di uno svago che l'avrebbe ajutata a passar la sera, le sorrideva al pensiero e bastava per sollevarla momentaneamente. Ed infatti, recandosi da persone amiche, passeggiando al sole, chiaccherando, rideva ancora e dimenticava; la sua vita intima prendeva un diverso aspetto, i suoi soliti pensieri, le sue sofferenze, le sottili e penose sensazioni di tutto il suo essere sfumavano dolcemente, senza svanire del tutto, come nuvole di autunno, di quell' autunno oltre ogni dire dolce e prolungato.

Cosimo, che fra le altre delicate attenzioni, ora usava condurla spesso in campagna, una sera la portò verso la piccola stazione della ferrovia, recentemente inaugurata.

L'aspetto della stazione era oltre ogni dire triste e misero, e la veduta dei primi vicinati di Nuoro, molto poveri e poco puliti, accresceva la spiacevole sensazione. Ma spingendo lo sguardo, nel meriggio tiepido e celeste d'autunno, si godeva una visione molto pittoresca.

Nuoro — di cui distinguevasi la mole rotonda delle carceri bianca nel sole, e, dominante su tutte le case colorate, la facciata rossastra della cattedrale — appariva quasi addossata alle falde dell'Orthobene, del quale, nella chiarezza del pomeriggio soleggiato, si scorgevano nitidamente le roccie grigie, i clivi leggermente verdi e i boschi resi bruni dalla freschezza e dalle pioggie d'autunno.

E a destra della cattedrale la collinetta di Sant'Onofrio, coperta di quel tenerissimo verde d'autunno che fa sognare melanconicamente, si abbandonava alle carezze del sole, come una fanciulla freddolosa e malata, come Elena stessa che, ferma sulla spianata incolta e triste circondante la livida stazione, guardava lassù con gli occhi socchiusi, un po' stanchi per la luce chiara e diffusa del sole.

La collinetta verde dalle piccole roccie le sembrava diversa del come le appariva dal giardinetto sullo sfondo solito dei suoi pensieri e dei suoi sogni. Ora sullo sfondo dell'orizzonte d'un celeste argenteo e luminoso, fra le brune montagne di Orthobene e la verde collinetta di Sant'Onofrio, che si delineavano nitidamente, ora s'elevavano pittorescamente vanescenti, quasi formate di marmo striato e chiazzato di turchese, le montagne di Oliena e il bianchissimo picco spaccato dell'Atha sfumava nella radiosa e argentea dolcezza del cielo.

A destra d'Elena, dietro altre alture, dopo che tutto l'orizzonte veniva chiuso dalle lontane diramazioni del Gennargentu, azzurre nell'aria diafana, un'altra montagna spiccava quasi turchina e in perfetta forma di piramide, tra i bagliori del sole che volgeva laggiù. Era Gonare.

Richiamata da Cosimo, Elena si volse e lo seguì per un viottolo che, partendo dalla stazione, andava verso nord, stretto, insinuantesi fra gli ultimi orticelli della città e la campagna avvallata, su cui dominava. La visione cambiava completamente d'aspetto, ed Elena si fermò di nuovo a guardare; e poichè è una grande verità quella di Amiel che chaque paysage est un etàt d' âme, sentì una vaga tristezza subentrare alla profonda dolcezza provata davanti al primo orizzonte invaso d'azzurro. Ora il grigio, con tutti i suoi toni pallidi, dominava.

Monte Dionisi, selvaggio, attraversato dalla piccola strada ferrata, come un barbuto bandito sardo primitivo accarezzato sebbene reluttante dalla mano d'una raffinata donna moderna e circondato dal suo braccio bianco e sottile e nervoso, proiettava la sua ombra dolcemente triste giù per la china arata.

Sulle vigne, sui pascoli rinascenti vagavano lunghe ombre melanconiche, e la luce del sole rendeva più grigie le tinte del paesaggio più in là, dalla vallata dell'Isalle fino ai monti di Lollove, selvaggie severi nella loro nudità. Poche alberelle rossastre, esili e piccine, disseminate per le vigne, scomparivano nella vastità del terreno; pareva che fra tutta la melanconica e silenziosa soavità del paesaggio s'ergesse un albero solo, un pino dal verde intenso, immobile al sole. Sognava su una radura di erba pallida e tenera. guardando i piccoli punti bianchi dei lontani casotti, sparsi nella grigia vastità del paesaggio; aveva, in quella sua visione altera di solitario potente, qualcosa di profondamente pensieroso. Anche il cielo, da questa parte non partecipando alle dirette irradiazioni del sole, era leggermente pallido e cinerco. Elena guardava dal muricciuolo del sentiero e diventava triste. Ma: — Andiamo — disse Cosimo avviandosi, ed ella lo seguì, domandando il nome del sentiero.

Palas de serra — rispose Cosimo, ed essa ripetè fra sè quel nome guardando in avanti.

L'erba rinasceva all' ombra dei muri; la prospettiva del paesaggio allargandosi, appariva tutta la vallata e dopo i monti di Lollove si delineavano quelli d'Orune, d'un grigio livido, benchè soleggiati chiaramente. Anche nel sentiero ora dominava il sole, e sui muricciuoli, sui ciglioni, sull'erba d'autunno sorrideva la pigra e tiepida dolcezza del pomeriggio.

Cosimo procedeva avanti, guardando per terra, rimuovendo i sassolini col suo bastone e mandandoli lontani. Elena si levò i guanti e li strinse nella destra, tirò in avanti la coda dell'abito e ne rimise il lembo nella stessa mano; la sinistra abbandonò con dolcezza. Le piccole mani riscaldate dai guanti apparvero meno esangui e più bianche del solito, picchiettate di rosa e con le vene violacee leggermente gonfie.

Anche il volto le si coloriva, e la vena delicata che le si disegnava sempre sulla fronte, ora distinguevasi vieppiù nella trasparenza pura della carnagione, resa bianchissima dalla luce del sole.

Così camminarono silenziosamente per tutto il sentiero; da una parte e dall'altra apparivano orticelli, vigne piccole e nude, e più in là sempre il paesaggio grigiastro e desolato.

Piccole nubi bianche vagavano per il cielo; a momenti il sole impallidiva, ma neppure un alito di vento turbava la tiepida dolcezza di quel gran silenzio rurale, ove la voce non aveva vibrazioni, ove il pigolìo di qualche allodola solitaria si smarriva, fondendosi nella trasparenza dell'aria.

E se qualche albero dai rami cespugliosi e vanescenti, con le foglie ultime arrossate dall'autunno, appariva, il cielo con le sue nubi bianche, guardato attraverso quei rami e quelle foglie, dava una sensazione ancor più dolce e struggente. Così qualche foglia ancora verde, qualche rinascenza di foglia autunnale, specialmente sui fichi grigi del tutto spogli, prendeva una tinta pallida, ma decisa, che attirava lo sguardo fra tutte le sfumature indefinite di tutte le cose, e particolarmente del cielo fatto di profondità e di vaporosità, di raso e di velo. Il cielo anzi sembrava lo sfondo di ogni cosa, uno sfondo di raso azzurro, su cui una mano di ammalata, di sognatrice decadente, di fata preraffaellista, avesse ricamato in forma di nuvole bianche e di alberi spogli, di rare foglie pallidamente verdi e di margherite sfumate in viola, la visione ondeggiante, ineffabilmente inafferrabile, misteriosamente nostalgica, di un lontano e triste e soave infinito.

Elena pensava sempre a Paolo; come il cielo era lo sfondo della natura morente, Paolo era lo sfondo del pensiero di lei; gli altri pensieri, le altre sensazioni, percezioni ed impressioni, erano sovrapposizioni più o meno delineate su quello sfondo; potevano per un momento velarlo, ma sfumavano tosto, lasciandolo libero e dominante.

Così in quell'ora, dopo l'impressione delle cose vedute, e per questa stessa impressione, Elena tornava tutta al suo solito pensiero, al desiderio dolce di aver Paolo vicino.

Si scosse vedendo Cosimo fermarsi: quando lo raggiunse egli diceva sorridendo e col bastone teso:

— Ecco di nuovo Nuoro e i suoi quartieri aristocratici!

Anch'ella sorrise. A lor davanti il sentiero sboccava in una specie di piccola piazza desolata. Da una parte s'ergeva il muro alto e nero d'una casa senza finestre e col dappiede coperto di erba folta e melanconica; dall'altra, sul limite della campagna, una casupola miserissima con davanti un mucchio di pietre grigie al sole; e più avanti ancora cominciava una via bianca e ben tenuta. Ma l'interessante stava tutto a destra d'Elena e di Cosimo; era il vicinato di Sant' Ussula (Sant'Orsola), il più miserabile e caratteristico di Nuoro, dalle casette di pietra antichissime, grigie e desolate. Il sole vi batteva sopra silenziosamente e non si udiva una voce: saliva su una strana poesia di miseria e desolazione; pareva un villaggio abbandonato su cui il sole, la luce, l'aria pura, passavano con larghe ondate di silenzio e di morte. Nell'aria si sentiva l'alito puro della montagna, ma ciò accresceva la sensazione della solitudine e dell'abbandono, e questa sensazione finiva completandosi con la vista di tre o quattro bambini, sporchi, magri e laceri, che giocavano silenziosamente fra le pietre, davanti alla casupola solitaria. Sembravano piccoli selvaggi innocui, abbandonati come i padri loro, come i loro parenti, come i loro discendenti, come le abitazioni e i diritti loro, da una lontana ed egoista civiltà, passata al di là delle montagne, che non li aveva veduti e non li vedrebbe mai più!

Elena si rattristò di nuovo, sentendo confusamente ciò, pensando alla sua casa comoda e fresca, e si domandò so poteva dirsi infelice davanti alla miseria rassegnata e profonda delle povere donne di Sant'Ussula.

Anche Cosimo, provando le stesse sensazioni, si faceva una simile domanda; però egli sentiva insieme un profondo disgusto e percepiva il lato ridicolo delle cose. Infatti, attraversando un lembo del bizzaro vicinato, cercò di far ridere Elena mostrandole col bastone certe portieine e finestrine, in cui parea davvero impossibile che persone sane e normali passassero o si affacciassero, e faceva paragoni divertenti.

Elena si lasciò suggestionare e cogliendo anch'essa la fisionomia ridicola di quelle casette cadenti, poco più alte di Cosimo, dalle porticine sgangherate e dalle finestrine che sembravano buchi, sorrise guardando curiosamente come una forestiera.

Il rovo cresceva sulle facciate, il musco invadeva i tetti bassi, di tegole sarde rotte e annerite dal tempo; le portieine e le finestruole diventavano sempre più piccole.

— Ecco il non plus ultra del minimo — disse Cosimo ridendo e fermandosi davanti ad un finestrino, un buco di quindici centimetri per lato, con un bastoncino posto di traverso.

Poi videro una porticina del tutto sfasciata, assicurata nell'interno da un mucchio di pietre, e Cosimo disse che pareva un portone del Rinascimento. Ma Elena si fermò davanti un muricciuolo, sollevandosi sulla punta dei piedi per veder meglio, e diventò pensierosa guardando una casetta di miglior apparenza che le altre, con la porticina nuova rinchiusa. D'innanzi le si stendeva un pezzetto di terreno zappato, ai lati della porticina due pianticelle verdi, una di fico e una di rose, s'ergevano nella frescura e nel silenzio dell'ombra. Erano piantate di fresco, e quella piantina di rose svelava la mano di una fanciulla, di una popolana inconsciamente poetica che forse componeva dei mutos ed era innamorata; forse era felice, forse i suoi sogni erano freschi e forti come il rosaio suo: e al fiorire di questo avrebbero fiorito anch'essi.

Elena, pensando a ciò, tornando improvvisamente al suo cruccio continuo, sentì il sorriso svanirle dal volto e si mosse. Cosimo voleva farle attraversare tutto il vicinato, ma ella precedendo continuò per la via larga che conduceva al Camposanto.

A sinistra, dietro un muro, continuava la visione solitaria della vallata e delle montagne d'Orune, ma l' orizzonte andava allargandosi; a destra s'innalzava qualche roccia, e finalmente, allo sbocco della silenziosa via, che terminava in un campo desolato, Elena vide il muro bianco del cimitero.

Camminava sempre avanti, colle mani strette sui guanti e gli occhi sollevati ed intenti, e naturalmente pensieri malinconici le sfiorarono la mente. Alla vista del cimitero, in quello sfondo desolato di paesaggio, dominato da una roccia che lo guardava dall' alto come sentinella enigamatica e pensosa, una sensazione dolorosa le rabbuiò la fronte; pure quanta pace, che misterioso sollievo in tale sensazione! Ricordò che nella sua infanzia una vecchia domestica soleva portarla a passeggio da quelle parti, ove nelle belle giornate il sole indugia con tepori profondi, con pace solenne ed arcana. Ella saliva sulla rupe guardante il cimitero, e giocava e gridava inconsapevole ancora del gran sentimento che destano le tombe.

Ora quel sentimento la invadeva, reso più profondo ed acuto appunto dal ricordo delle gioconde ore inconsapevoli passate là intorno, nei giorni felici dell'infanzia; pensò che poteva essere l'ultima volta che passava per quella via pensando e muovendosi, e percepì la gran desolazione del nulla e la vanità della vita.

Il cancello era chiuso: Elena passò oltre e, rasentando il muro, su cui stava improntata una tristezza profonda per le pietre mancantivi, sparse al suolo sull'erba, salì ai piedi della rupe. La melanconica erba d'autunno cresceva d'intorno; dietro la rupe si stendeva un prato soleggiato, cespugli di verbasco, di lentischio e di prugnolo dormivano nel tepore del sole, mentre le ombre cominciavano ad allungarsi dolcemente.

Il paesaggio s'allargava in giro, bizzarro e triste nel suo vasto circolo silenzioso; il sole batteva di nuovo in faccia ad Elena e tutto il piccolo cimitero ne veniva inondato.

Nè monumenti, nè cipressi: solo qualche severa fila di rosmarini stendeva il suo verde fosco sul fondo giallastro del sacro suolo; l'azzurro slavato delle croci diventava ancor più smorto nella luce intensa del sole, e la colonna piramidale di granito, pallidamente cinerea sul verde dei rosmarini, pareva guardasse verso ignoti orizzonti, in attesa di lontani tramonti estremi.

Cosimo si fermò davanti al muro, e appoggiandovisi aspettò che Elena si muovesse. Ella si sedette su una piccola sporgenza della pietra, coi piedi sur an cespuglio di verbasco, ed essendo un po' stanca senti un benessere grande, fisico e spirituale, una profonda sensazione di vita davanti all'umile e silenziosa casa simbolica dei morti.

Oh, no, non voleva morire! Per quanto stranamente e suggestivamente triste fosse il gran cerchio di montagne che chiudevano gli orizzonti, un bagliore di vita pioveva dal sole, benchè di una vita piena di sogni e di vanescenze indefinitivamente dolci. Anche le montagne selvaggie sognavano sotto quel sole autunnale, vinte da una malia misteriosa, leggermente livide nel loro forte sonno; solo Gonare, che ora appariva in color di cobalto, schiarito dalle irradiazioni del sole cadente, sul fondo quasi ossidato del cielo, sorrideva nel sogno cerulo del pomeriggio.

Ed Elena, col volto tutto bianco nel sole, sentì come una diversa impressione della vita, un distacco dalla terra, che però non escludeva il senso dell'esistenza e dei suoi migliori affetti; sentì il suo grande amore purificarsi ancor più, spiritualizzandosi completamente davanti al piccolo camposanto soleggiato ed alla profonda visione di quel paesaggio dormiente un puro sonno selvaggio. E desiderò anch'essa dormire, desiderò ancora la vicinanza di Paolo, ma solo per poter chinare la testa sulla sua spalla e addormentarsi cosi, nella magica dolcezza del tramonto autunnale.

S'udiva il lavorìo lontano di un tagliapietre, un suono eguale, continuo, sfumato nella distanza, che dava la giusta impressione del gran silenzio del prato sottostante, fra i cui cespugli e sul fieno nero della primavera trascorsa rinasceva l'erba d'autunno.

Elena e Cosimo attraversarono silenziosi il prato che finiva in pendii pietrosi; sotto i prugnoli dalle bacche violacee crescevano le margheritine bianche, sfumate in cremis, esili e senza fogliame. Elena ne colse e se le mise sulla cintura.

Si vedeva lontano la vecchia chiesa di Valverde, dove l'Orthobene terminava coi suoi boschi di elci, e il paesaggto vicino, forte e bello, cambiava ora completamente di aspetto. Sul sentiero ove Cosimo ed Elena scescro, la chiesetta della Solitudine guardava sulla valle Manna ancor piena di verde; cominciava la montagna, e sullo sfondo della vallata, sul cielo da cui saliva un pennacchio di nuvolette bianche, un getto di piume e di sogni autunnali vaganti a poco a poco in lontananze infinite, riapparivano le calcaree montagne di Oliena chiazzate di turchese.

Guardando su valle Manna e lasciandosi dietro la visione triste e solitaria dei pendii rocciosi, scendenti con la selvaggia poesia dei lentischi e delle pietre fino a Valverde, Elena e Cosimo presero il sentiero riconducente a Nuoro. V'erano usciti al sud e vi rientravano al nord.

Il sole al declino batteva dolcemente e melanconicamente sui loro volti, sul loro cuore e sui cespugli del sentiero.

Cosimo aveva pensato al padre, morto e sepolto in terra lontana, morto in cerca d'onesta fortuna pei figli suoi — e stendendo la bianca mano affilata guardava l'anello che sprizzando acute scintille al sole parea avesse un'occulta voce di ricordo e rimprovero.

E mentre nei suoi profondi occhi balena va il riflesso del diamante incastonato nell'anello paterno, Cosimo mormorò piano piano, quasi fra sè, quei versi di Gauthier:

Va, va I'umana carovana e vede
Qualche cosa di verde a I'orizzonte …

Dall'indomani le nuvole cominciarono ad accavalearsi sull'orizzonte, rappresentando, come nella ballata di Gauthier, strani miraggi di piombo, miniati di fuoco o sfumati in toni grigi, nebbiosi ed umidi. Erano città di bruma, palazzi e torri sottili, trasparenti come veli di pioggia, e cattedrali fantastiche, cupole di granito umido, parchi e giardini grigi o dipinti a pastello, ponti d'acciaio gettati attraverso larghi fiumi stagnanti e lividi, e pianure allagate di vapori rossastri, e lontani laghi vitrei e foreste violacee che tremavano camminando e dissolvendosi verso ignoti lidi — e infine mari di pietre, scogli turchinicci e montagne altissime, montagne di bronzo che serravano e oscuravano tutto l'orizzonte.

Elena non scendeva più nel giardinetto, ove gli alberi oramai spogli del tutto ripiegavano i rami rossastri, cosparsi di perle gialle di resina quasi liquida, al soffio del vento freddo, che portava dalla montagna larghe ondate di vapori grigi ed amari come fumo.

I vividi occhi d'Elena andavano spegnendosi a poco a poco, quasi velati dalle nebbie dell'autunno morente; una immensa tristezza le gravava sul cuore, ed aveva la percezione di dover morire, ma non più la volontà di ribellarsi al triste pensiero la sosteneva.

Restava intere giornate a letto, in una immobilità grave e quasi letargica; riceveva le visite dei medici e sorbiva le medicine con la docilità di una bambina buona, e le sembrava d'essere indifferente a tutto, ma in fondo provava un'angoscia profonda che la faceva piangere accoratamente.

Quando pensava di dover morire, tutti i particolari della sua serena esistenza di fanciulla, tutte le dolcezze delle sue abitudini, tutti gli oggetti famigliari le passavano davanti alla mente, e l'idea di lasciar ogni cosa, inesorabilmente, la costringeva a piangere quel pianto che è la più alta commiserazione di noi stessi, allorchè sentiamo sovrastarci una rovina.

Tutta l'angoscia misteriosa e solenne della morte la dominava; pensava al dolore che avrebbero sofferto sua madre, sua sorella e suo fratello, all' accoramento loro dopo la sua sparizione dalla casa e dalla vita, e i più piccoli particolari dell'esistenza trascorsa le si ripresentavano alla mente con dolcezza struggente. Da Lyly alla banderuola del peristilio, dal ritratto di Paolo nel salotto all'ultima foglia dei rosai, ogni cosa le ricordava e narrava una gioia intima e profonda che non avrebbe goduto più mai.

Addio, addio!

Oramai chiudeva le sue lettere a Paolo con questa triste parola, e temeva che ognuna d'esse fosse l'ultima.

Una grande tristezza era nella casa; anche Giovanna impallidiva, diventando alta, sottile e seria; non più i gaj discorsi d'una volta, gli scherzi, le risate, le raccolte letture nel salottino da pranzo.

Quando donna Francesca si ritirava, Giovanna restava sola, e ricordando anch'essa i bei giorni trascorsi forse per sempre, singhiozzava segretamente; pareva che la giovinezza fosse finita per le due fanciulle, che il rimpianto di un bene perduto inesorabilmente gravasse sui loro pensieri, davanti all'immagine della morte.

Un giorno in cui Elena si sentiva un po' bene accadde un fatto insolito; le fu cioè recata una citazione dal Tribunale, per testimonianza in causa penale.

— Che significa? — disse, inquieta e quasi spaventata. — Forse c'è errore di nome.

— No, è per te veramente. Me ne ha parlato Carta-Selix — disse Cosimo.

Elena passò una giornata più triste del solito; si esaminava su tutto quanto poteva aver veduto o sentito, ma non ricordava nulla che spiegasse la citazione. Era per il quindici gennaio.

— Io sto male, io non ci vado — disse Elena.

Cosimo fece eseguire un certificato medico, e fu stabilito che venisse interrogata a casa.

La mattina del quindici gennaio fu acceso il fuoco nel caminetto del salotto, ed Elena, vestita di bianco, vi si assise davanti, tremando leggermente e stendendo le mani sottili alla flamma.

Una curiosità intensa mista ad un vago timore l'occupava tutta, sottraendola alla solita indifferenza del suo malessere. La giornata era nitidissima e fredda, e l'acuta luce del sole — un sole invernale che i Nuoresi chiamano sole coi denti — accresceva la sensazione algida dell'aria tagliente, in cui sentivasi un lontano odor di neve.

Ma il salotto era tiepido e allegro; traverso i vetri irradiati dal sole tremava la visione leggermente cerula delle montagne d'Oliena, profilate di neve, e si scorgevano gli orti umidi, dove l'erba invernale, fredda e lucente come smeraldo, rabbrividiva al vento.

Elena aspettava da cirea un'ora quando giunsero il giudice istruttore e il suo vice-cancelliere accompagnati da Cosimo.

— Vengono — disse Giovanna, socchiudendo la porta del salotto, e poi allontanandosi rapidamente per andare ad incontrarli.

— Buon giorno, signorina — disse il giudice, guardandola fissamente. Era Carta-Selix, che indossava elegantemente un macfarlan grigio.

Giovanna rispose al saluto arrossendo, benchè la voce del magistrato fosse fredda e rigida e lo sguardo quasi duro.

— Passino — disse andando verso la porta del salotto, e mentre i signori entravano li esaminò meglio, con tutta la sua curiosa e acuta attenzione, cui non sfuggiva alcun particolare, dalla spilla della cravatta alla grossezza dei piedi. Non le sfuggirono infatti le proporzioni spaventose dei due piedi enormi del vice-cancelliere; un uomo scarno, con un viso che pareva scolpito nel burro, e i capelli irti sulla fronte;che non mancava però di una certa distinzione e d'un'aria d'antica bellezza. Era Peppe Spina.

Elena stava ritta presso il caminetto e chinò gli occhi quando vide e sentì lo sguardo di Carta-Selix fissarla avidamente; il giovane le strinse la mano e gliela rattenne alquanto domandandole con premura come stava.

— Un po' male — diss'ella freddamente — S'accomodino.

Un tavolino sgombro era stato disposto accanto al camino; Spina vi depose i suoi scartafacci, e visto l'esempio del giudice, si permise anch'egli di chieder ad Elena come stava.

— Un po' male — ripetè essa, senza sorridere, senza scomporsi.

Pareva che il giudice fosse lei, ma in breve la sua freddezza si estese su tutti; Spina si sedette impassibile, col viso di marmo giallastro improntato d'una enigmatica indifferenza, e con un pugno sul tavolino aspettò.

Carta-Selix rimase in piedi.

— S'accomodi — disse ad Elena; ed a Cosimo, che voleva lasciare il salotto, fe' cenno di rimanere.

Cosimo si avvicinò al piano, vi si appoggiò e prese in mano uno spartito fingendo di esaminarlo, mentre con una mano si stringeva e accarezzava il pizzo; ma ad ogni batter di palpebra guardava rapidamente Elena. Ella se ne accorse, ne fu contenta, e si sedette rigida e composta, con una spalla volta al caminetto.

Il giudice prese lo scartafaccio di Peppe Spina, lo sfogliò guardandovi dentro e andando verso Elena disse bruscamente, porgendoglielo:

— Signorina, riconosce lei questa lettera?

Elena esaminò commossa la lettera cucita allo scartafaccio e la riconobbe tosto: era la lettera scritta da Giovanna, in risposta a quella del famoso tesoro.

— Ah! il tesoro! — fece, con un sorriso di meraviglia e di sorpresa, di ricordo e d'inquietudine, e la guancia volta verso il fuoco le diventò rosea. Alzò gli occhi e guardò rapidamente Cosimo, come per chiedergli:

— Devo dire?

— Si! — disse Cosimo con gli occhi ed un cenno di testa; e tornò subito a fissare lo spartito.

— Riconosco questa lettera — disse Elena alzando il braccio per restituire le carte al giudice, che le stava sempre avanti. Egli restò impassibile, ma ella vide un rapido moto di sorpresa fra le folte sapracciglia di Giovanni Carta-Selix, a cui era ben nota la scrittura di lei.

— È scritta da mia sorella Giovanna, sotto la mia dettatura.

— La rilegga — disse il giudice, e racconti il fatto.

Elena diede una sdegnosa occhiata alla lettera, e vedendola così sgualcita, piena di bolli giudiziari francesi, pensò:

— Che viaggio hai fatto! Dove sei stata? Come sei ritornata? Quante cose sono accadute durante il tuo viaggio!

Con un guizzo da lampo le passarono in mente tutti gli avvenimenti accaduti dal giorno in cui la lettera era stata scritta; molte figure sfilarono fra le righe irregolari della calligrafia di Giovanna, e fra tutte prese forme decise il profilo di Paolo, seduto nell' angolo del pianoforte, in una sera afosa e fosca di estate.

Ascoltava la storia del tesoro; ed Elena ricordò la sua aria finemente ironica e, narrando di nuovo la storia, si trovò ad imitarla.

Peppe Spina, col collo un po' stirato, ascoltava attentamente e pareva interessarsi assai alla faccenda; il giudice invece si mise a passeggiare su e giù per il salotto, guardando freddamente le pareti. Quando Elena ebbe finito egli le si fermò nuovamente davanti, dicendole di esaminar bene lo scartafaccio.

Era scritto in francese, ed Elena, arrossendo anche nell'altra guancia per lo sforzo mentale che metteva a decifrarlo, potè malamente capire che si trattava di una truffa, come Salvatore Brindis aveva sin dalle prime qualificato la faccenda.

La lettera firmata Elena Bancu era stata sequestrata presso madama Bargil, assieme ad altri documenti per simili reati, e veniva spedita a Nuoro onde si verificasse se la truffa era stata consumata. Carta-Selix lo chiese ad Elena, sprofondando le mani entro le tasche del macfarlan foderate di raso turchino.

— No, disse Elena.

— Favorisca dettare — disse Carta-Selix accennandole Spina, e rimettendosi a passeggiare con le mani in saccoccia.

— Perchè passeggia così? — pensò Elena sempre esaminando le carte. — A che pensa? È impassibile, è freddo come il ghiaccio. Ha dimenticato o ricorda? — Le sembrò che Giovanni avesse dimenticato, e nonostante l'intensa indifferenza che anch'ella provava per lui, ne sentì un senso di sollievo.

— Quanti anni ha? — domandò Spina, scrivendo.

Elena non intese. Pur guardando le carte bollate francesi vide il giudice fermarsi un istante davanti alla finestra. E in quella finestra, altre volte, in un tempo lontano e indeterminato come nel ricordo d'un sogno, ella soleva aspettare il suo primo innamorato che passava in una strada rasente al sottostante giardinetto.

Si rivide al davanzale e rivide la figura alta e magra di lui nella piccola strada; per un secondo, in un palpito più accelerato del cuore commosso, rivisse nel passato e intuì il pensiero, la sensazione che anch' egli doveva in quell'istante provare.

— Quanti anni ha? — disse il giudice voltandosi rapidamente.

— Ventitrè! — rispose ella, rialzando vivamente la testa. I loro sguardi s'incontrarono.

— Ricorda! soffre! — pensò Elena.

Egli continuò a passeggiare con le mani entro le saccoccie turchine, e comin ciòa interrogarla con voce fredda e indifferente.

Elena rispondeva ironicamente, quasi scherzosamente e ad un certo punto parve che tutto fosse una cosa da burla; a poco a poco Cosimo s' avvicinò e si permise dei commenti ameni, e mentre Peppe Spina scriveva la risposta della testimonia, egli e il giudice si scambiavano delle osservazioni. Carta-Selix, sempre camminando, non smetteva la sua aria fredda e dura, ma diceva parole così beffarde che Cosimo ne rideva.

Poichè Elena diceva d'aver operato per incarico d' Agada e Costanza Brindis e per contentarle solamente, era alle spalle delle due donne che si scherzava, ma talvolta sembrava ad Elena che le parole del giudice, o meglio di Carta-Selix — giacchè era lui che parlava, tra una domanda e l'altra del magistrato — e il sorriso muto del giallo cancelliere canzonassero pur lei.

Un pensiero strano le venne.

— Fors'egli crede ch'io l'abbia abbandonato in attesa di queste ricchezze! — E guardò il ritratto di Paolo così intensamente che non rispose all'ultima interrogazione. Carta-Selix seguì quello sguardo, e quando ella ebbe firmato, rialzandosi vide il giovine davanti al porta-ritratti.

— Chi cerca? — pensò ella arrossendo.

— Favorisca chiamare la signorina Giovanna — disse il giudice.

Cosimo uscì, informò rapidamente Giovanna e la condusse tutta rosea e confusa nel salotto.

Ciò non le impedì di ridere graziosamente, raccontando a sua volta la storia con arguzia e disinvoltura.

Il giudice, sempre con le mani in saccoccia, s'era finalmente fermato e ascoltava con interesse; Elena temeva che Giovanna dicesse qualche sproposito e la guardava un po' inquieta, ma in breve s'accorse che una leggera malizia le brillava negli occhi e a un certo punto dovette rivolgersi verso il fuoco per nascondere un lieve sorriso.

Dopo quel giorno Cosimo condusse spesso in casa il giovane magistrato, e ogni sera si vedevano assieme a passeggio, per cui si sparse di nuovo e insistemente la voce che Elena e Carta-Selix si fossero fidanzati.

Quasi ogni sera Giovanni passava nella piccola strada rasente al giardinetto, ma Elena non riappariva mai più alla finestra grigia e silenziosa del salotto.

Il giovine allora andava a batter la porta di casa Bancu e chiedeva di Cosimo; s'egli non c'era, domandava alla domestica venuta ad aprire come stava la signorina Elena.

— Un po' meglio — gli rispondevano invariabilmente. Ma Elena non si vedeva mai, nè alle finestre, nè in chiesa, nè al passeggio, e probabilmente invece di migliorare, peggiorava.

Una sera Carta-Selix vide Giovanna al passeggio, e pur sapendo Cosimo a caccia, andò a chieder di lui.

— Non c' è; è andato a caccia.

— E la signorina come sta oggi? — domandò sfregando il sigaro sulla porta per spegnerlo.

— Un po' meglio.

— È a casa? Potrei visitarla?

— Passi — disse la fantesca sorridendo maliziosamente, sicura che Elena l'avrebbe ricevuto con piacere. Lo introdusse nel salotto, ma Elena si crucciò quando si venne a dirglielo. Poi dovette andare.

— Venite, mamma — disse quasi supplichevolmente. Ma donna Francesca pensò candidamente che Carta-Selix — verso cui tutta la famiglia, tranne Elena, nutriva oramai una simpatia sviscerata — si sarebbe offeso se accompagnava la figliola.

Così Elena dovette riceverlo da sola. Lo trovò in contemplazione davanti al portaritratti di raso bianco, ma appena la vide si scosse e le andò incontro chiedendole: — Come sta? — Così! — disse ella tendendogli freddamente la mano.

Egli si rattristò, quasi avesse veduto Elena vicina a morire, ma poichè era venuto volle tentare ancora, benchè nelle ultime settimane, dopo quella mattina fredda e chiara in cui aveva sentito rinascere più che mai potente il suo amore assopito, le avesse scritto due volte senza ottener risposta. Le prese le mani e la guardò insistentemente.

— Elena! — disse piano.

Ma in quel nome tremò tutta la sua amarezza, il suo dolore, la sua passione, e insieme un rimprovero accorato, una supplica estrema.

— S'accomodi — mormorò ella, cercando di svincolare le mani. Ma egli non lo permise.

— Perdonami, Elena, se ho osato venire. Perchè non rispondi alle mie lettere? No, non rimango; voglio da te una sola parola, poi me ne vado.

Ella, ch' era entrata col proposito di offendersi s'egli accennava al passato, non sentì più alcuno sdegno, ma giacchè egli non voleva rimanere a lungo, non cercò più di rattenerlo, neppure per falsa cortesia.

Rimasero così, ritti in mezzo al salotto.

Dalla finestra, donde si scorgeva la piccola strada da lui frequentata, entrava una luce grigia e tristemente dolce di crepuscolo invernale.

— Qual'ì questa parola? — domandò Elena, sempre sfuggendo lo sguardo di lui.

— Elena — diss'egli — ricordi nulla del passato? Quella finestra, quella stradicciuola rasente al vostro giardino, non ti ricordan più nulla? Cosa è accaduto io non so. Certo, qualche cosa assai triste per me….

— E anche per me! — pensò Elena.

— Ricordo ogni cosa — disse.

— Ma inutilmente! Sono io solo a ricordare. Io ho vissuto per te, sempre per te, ma sentivo che un occulto malefizio ti teneva lontana, mi ti toglieva, forse facendoti del male…..

— È vero! — pensò Elena, e ricordò quanto aveva sofferto per il suo ultimo amore, ma tosto la memoria delle gioie che aveva anche provato scacciò il triste ricordo, e un sentimento di tenerezza accorata la invase. Ricordò inoltre che aveva cessato di amar Giovanni molto tempo prima di conoscer Paolo De-Cerere.

— Rispondi, Elena! — disse il giovine, avvicinandosi alle spalle le mani, fra cui teneva sempre strette quelle di lei, con desiderio forse di essere abbracciato. — Rispondimi, dimmi una parola sola! Si può rompere questo malefizio, si può, Elena, dimmelo?…..

E la sua voce diventava carezzevole, e i suoi occhi cercavano sempre quelli di lei. Vide alcune lagrime bagnarle le ciglia abbassate; credè di averla scossa, e ripetè con nuova supplica straziante la dolce parola:

— Elena!

— No, non si può più sprezzarlo…. — disse ella, e grosse lagrime limpide e ardenti, dopo aver brillato fra le lunghe ciglia tremanti, scesero per le guancie pallide.

Egli la guardò dolorosamente; subito sentì accertato il dubbio molesto di un nuovo amore di lei, ma non lo espresse, non volle neppur darsi il dolore di farselo confermare da una confessione di lei. Si creò l'illusione, pur sapendola una illusione, che Elena accennasse al suo stato di salute.

— Guarirai, Elena — disse, non disperarti. Guarirai moralmente e fisicamente, e allora in te sola starà il diventar felice…..

Ma la sua voce, facendosi triste e fredda, non riproduceva più l'intimo senso del suo pensiero; pure Elena sentì meravigliosamente ciò ch'egli pensava e fu contenta che il colloquio finisse così. Eppure le parole di lui le diedero una vaga speranza di guarigione, di lontana rinascenza.

— Se guarirò…. — disse sollevando il viso illuminato e incontrando finalmente lo sguardo di lui, che credette sentire una promessa in quelle due parole e sognò riprendere l'anima di lei in quello sguardo.

— Guarirai… — disse baciandola in fronte.

Da quella sera ritornò ogni giorno in casa Bancu; lo ricevevano famigliarmente come un fidanzato, e dopo qualche settimana s'abituarono a considerarlo tale, benchè non ci fosse stata nessuna domanda ufficiale di matrimonio.

Ma esisteva con tacito accordo tra la famiglia e lui; capivano tutti che dipendeva da una sola parola di Elena il decidere la situazione.

Ma ella peggiorava sempre e taceva, accogliendo Giovanni con fredda cortesia. Il primo giorno, ed anche nei seguenti, aveva provato una nuova sensazione di vita, di ritorno al passato; la figura di Carta-Selix, giovine, forte, libero e amante, le si ergeva vicina e le impediva d'immergersi ancora nella visione lontana che l'ammaliava. E questa visione, la figura di Paolo, s'era allontanata quasi dissolvendosi in un vaporoso fantasma, senza però scomparire mai del tutto.

Ma dopo pochi giorni, presa l'abitudine di veder Giovanni Carta-Selix, di sentirlo salire le scale, entrare famigliarmente, domandarle come stava, sedersi, mettersi a discorrere di cose inutili, talvolta frivole e spiritose e superficiali, Elena fu a suo riguardo ripresa da una profonda indifferenza. Anzi le parve di non averlo mai amato, giacchè non era quell'uomo giovine ancora, ma dagli occhi stanchi, dalla fisionomia grave, quel magistrato che nell'intimità della conversazione conservava un po' della posa che assumeva nelle sue funzioni, non era quella figura d'una distinzione troppo comune, che ella aveva un tempo amato.

Il giovine che attraversava la piccola strada rasente al giardino non era quello; era timido, ma sincero e poetico, e non parlava come ora parlava Carta-Selix il giudice istruttore.

E la sua figura a sua volta si allontanava, si dissolveva, sfumava del tutto, mentre quella di Paolo si ricomponeva e tornava vicina, nell'onnipossente e ineffabile e indistruttibile grandezza del sogno.

***

Una sera di marzo, mite e tiepida, piena di nebbia lattiginosa fra cui arrivava indistinto il profumo dei pascoli rinascenti, Elena ricevette una lettera listata a nero.

Era a letto, e oramai le lettere le faceva ritirare dalla posta da una domestica fidata, e dopo averle moltissime volte rilette, le rimetteva entro una borsa di velluto nero che aveva ricamato negli ultimi mesi dell'anno.

Paolo le scriveva con semplicità profondamente triste, che il suo vecchio padre era morto; ella aspettava da molti giorni la notizia e, ricevendola, si rattristò assai.

Pensò intensamente, a lungo, col gomito puntato sul guanciale e la lettera aperta sotto gli occhi.

Un gran silenzio era per la casa, perchè credevano che la malata riposasse; la luce tiepida e bianca andava spegnendosi dolcemente per le pareti; i vetri riflettevano la pace grigia e vaporosa della sera, e attraverso questa pace solenne, vibrati nel silenzio e nella trasparenza perlacea dei vetri, giungevano i suoni della via: erano passi tranquilli, voci sane, grida lontane di bambini, un cane che abbaiava, il passo di un cavallo, e, più lontano ancora, rumori confusi e indistinti.

Elena ascoltava intensamente, e una tristezza senza nome le calava sulla fronte; i rumori delle vie le davano una potente sensazione di vita, la percezione di coloro ch'erano sani, che si muovevano, che nessun dolore, nessun intorpidimento, nessun letargo fisico, com'era il suo, richiamava ad una idea fissa e struggente di morte.

E pensò al vecchio gentiluomo israelita, ch'era morto così tardi, mentre ella moriva troppo presto; ricordò gli scherzi che in un tempo lontano ella aveva detto a proposito del vecchio signore, e per un momento rivisse in quei giorni, e sembrandole di intuire soltanto ciò che ora realmente accadeva, ne provò una sensazione di profonda meraviglia. Ma si svegliò tosto, e tornando alla realtà del presente sentì che aveva amato assai il padre di Paolo, Perchè padre di lui, mentr'egli certamente era morto ignorando l'esistenza di lei.

Non provava alcuna gioia al pensiero di Paolo libero finalmente di convertirsi; solo, con ostinazione segreta, pensava sempre alla morte del vecchio, al mistero profondo e solenne che si avvicinava anche a lei.

E mentre dall'interno del cuore, evocato dai rumori della via e dalle sensazioni della vita, prorompeva un lamento d'angoscia, una tacita invocazione all'esistenza, la ragione, nel sopore della febbre lenta e sottile, ripensava in sogno alla visione dolce e cinerea di quell'orizzonte autunnale, di quel confine della terra e dei mari e dei cieli, verso cui un fascino sovrumano attirava gli spiriti, dove ora riposava, fusa nell'essenza stessa dell'infinita visione, l'anima del vecchio gentiluomo ebreo.

Morire a venti, a novant'anni, che importava, poichè si doveva morire?

Ricordò d'aver scritto una volta a Paolo, in un giorno della magica- primavera lontana, nell'aurora del loro amore:

« Vorrei chinare il viso sulle tue lettere, ascoltando la melodia arcana delle tue parole profonde, e addormentarmi e sognare e morire così, sotto la benedizione tua e del cielo azzurro, tra i profumi delle rose aperte. »

Il sogno, il desiderio misterioso si compieva: perchè dunque il cuore si lamentava? Ed Elena pregò fra sè:

— Sia benedetto il Signore in ogni opera sua!

Una pace sovrana saliva con l'ombra cinerea della sera dimarzo; i rumori svanivano, i vetri grigi tacevano, addormentandosi a misura che l'orizzonte impallidiva. Elena ritirò il braccio e appoggiò il viso alla lettera di Paolo, chiudendo gli occhi e sembrandole di cadere nel profondo sopore del cielo e delle cose.

Ma la sua mente continuò a lavorare; il contatto della lettera che la sua guancia riscaldava, le fece vedere in confusa visione la testa di Paolo, china sul viso morto del padre suo con angoscia silenziosa e profonda. E anche negli occhi di lui passava il mistero della morte.

Si sarebbe chinato così anche sulla sua testina, quando riposerebbe, bianca e muta per sempre, su quello stesso guanciale? Avrebbe sofferto egli? Più di sua madre? Più di sua sorella, del fratel suo?

Le parve di vederlo, e una voce le diceva, dentro, con angoscìa suprema e ad intervalli: — Elena! Elena mia!

E senza avvedersene, bagnò di lagrime tutta la lettera, l'ultima lettera di Paolo, amando e benedicendo.

Ma egli, per otto, per dieci, per quindici giorni, attese invano la risposta, e siccome nella sua ultima lettera Elena gli aveva scritto di sentirsi male, fu preso da una inquietudine triste e nervosa. Aveva forse peggiorato la sua diletta bambina? Cento altri dubbi tormentosi lo investirono, ma la fede suprema che egli riponeva in Elena dava la vittoria al primo timore, che tuttavia era il più doloroso di tutti.

Cominciò dieci lettere, ma giunto alla terza riga si fermava, assorto in un pensiero grave e dolce che da due settimane lo dominava. Partire. Ritornare laggiù nella terra triste e misteriosa, che lo richiamava con lontana voce solenne e potente.

Era una voce che lo chiamava da molto tempo, ma giammai l'aveva sentita più forte e imperiosa. Una suggestione meravigliosa correva certamente per un invisibile filo attraverso i cieli ed i mari. Elena sentiva il suo nome entro di sè, susurrato dal cuore di Paolo e Paolo ascoltava la voce arcana delle cose lontane e della sorte che circondava Elena.

Un giorno d'aprile partì.

Tutta la notte, lungo la traversata, rimase sul ponte come un giovine poeta innamorato; gli sembrava che il vecchio piroscafo silenzioso lo conducesse verso un'altra vita, verso un sogno lontano, e sentiva tutto l'immenso mistero della notte sui mari riflettersi entro il suo essere.

Sulle curve del cielo purissimo, che aveva tutta la trasparenza incolore e ràdiosa d'uno specchio senza sfondo, grandi stelle ignote palpitavano come smeraldi, e nel mare senza confine, pallido nella notte, altre stelle, altre stelle ancora tremavano fra l'acque in color di lilla smorto.

All'alba, nel pallore liquido dell'occidente, mentre le ultime stelle si scioglievano nella luce, apparvero le coste violacee della Sardegna.

Paolo guardò laggiù come verso una plaga sacra e infinita; l'alba recava una brezza freschissima e pura; il mare, riflettendo la luce cristallina dell'oriente, cominciava a risplendere, e anche negli occhi di Paolo salì la luce e il riflesso dell'alba. Si ritirò un poco e occupò gli ultimi momenti della traversata scrivendo ad Elena.

« Io vengo, io vengo, mi senti, piccola fata? Stanotte, lungo la traversata, ho vegliato pensando a te, pensando al mistero grande che ci ha uniti, che mi attira e mi trasporta ineffabilmente sino a te. Ed io vengo per leggerlo negli occhi tuoi, questo mistero inenarrabile, per leggerlo come l'ho stanotte letto nei mari profondi, nel cielo, nelle stelle, nell'infinito. Ora le coste dell'isola tua appaiono sull'orizzonte, ed io guardandole poco fa con profonda commozione, ho pensato che laggiù è il porto della Fede, della Speranza, della Luce, verso cui, per tutta la mia vita, ho sinora agognato invano.

« Elena, Elena, io vengo, mi senti?

« Stendimi le tue braccia tenere e forti, accoglimi tutto entro di te. Io vengo a te purificato e redento; sarò tuo e del tuo Dio, ma senti bene, Elena, che la mia Fede migliore, la mia nuova religione, il mistero sublime della mia nuova vita, sarai tu….. »

In treno, solo in uno scompartimento di prima classe, cercò riposare e dormire un poco; ma quello ch'egli chiamava il mistero di tutto il suo spirito, unito ad inquietudini precise ed umane sul modo con cui Elena l'avrebbe accolto nella realtà, sullo stato in cui ella poteva trovarsi, lo tenevano desto e turbato.

Ma sentendosi stanco, con le palpebre pesanti ed aride, volle ad ogni costo dormire; tirò le tendine e chiuse gli occhi, ma il pensiero lavorava sempre; e i rumori del treno, e la luce che ostinata gli attraversava le palpebre gli davano una tensione di nervi quasi dolorosa.

Cercò sviare e disperdere il corso dei pensieri, e fra sè, lentamente, disse dei versi, evocando l'immagine materiale che corrispondeva ad ogni parola. Ci riuscì. Cento cose diverse, figure di navi, di fiori, d'anelli, amuleti, sirene, montagne, donne, nuvole, statue, e di tante altre cose nominate dai versi, gli passarono rapidamente nella percezione forzata, a cui il pensiero finiva con l'adattarsi dolcemente.

A poco a poco perdette la sensazione spiacevole della luce e dei rumori del treno; altre figure, non chiamate, gli apparvero, fra cui quella di una bambina bella in costume nuorese, e di un muro cadente coperto di musco, su cui il sole batteva dolcemente, così dolcemente che il pensiero vi si smarrì, tremò un poco, si spense del tutto.

Giunse a Nuoro alle cinque pomeridiane. Per non incontrare persone che riconoscendolo potevano ferfarlo e trattenerlo, uscendo dall'albergo s'avviò a casa di Elena per strade poco frequentate.

Era un pomeriggio quieto e splendido; nelle vie soleggiate non s'incontrava nessuno, e nell'aria spirava un lontano profumo d'erba calda, di campagna, di pascoli addormentati nel tepore e nella luce del tramonto.

Paolo camminò tranquillo fino allo svolto della via nel cui centro s'ergeva la casa d'Elena; ma quando fu vicino alla porta provò un profondo smarrimento, quasi un senso di tristezza. Per qualche secondo il cuore cessò di battere, poi, mentre la mano prendeva il battente della porta, e gli occhi cercando le finestre le scorgevano tutte ermeticamente chiuse, pulsò con violenza. E la mano picchiò sulla porta quasi con la stessa violenza.

Venne ad aprire una domestica, con gli occhi rossi e gonfi, e la testa imbaccuccata in un fazzoletto nero.

— La signora Bancu? — chiese Paolo sapendo che ad ogni modo sarebbe uscita Elena a riceverlo.

— Favorisca — disse la donna precedendolo con passo grave per la scala semi-buia.

Nel salotto eguale penombra.

Paolo restò in piedi vicino alla porta, fissandola intensamente; un tremito leggero, ch'egli cercava invano di dominare, gli agitava la mano sinistra.

Era una vibrazione indefinita, partente dal cuoro, una vibrazione di gioia, d'attesa e d'inquietudine.

Perduta la percezione del tempo, in quella penombra silenziosa, i pochi minuti d'attesa parvero lunghissimi; il tremito aumentava, comunicandosi al polso, a tutto il braccio.

Il movimento della porta che si apriva lo rese ancor più forte, ma invece d'Elena apparve Peppina Marchis, e appena Paolo l'ebbe distinta sentì la sua mano chetarsi.

Peppina s'avanzò col suo bel passo aristocratico, la testa un po' indietro, fissando Paolo che riconobbe, tosto.

— Scusi, signore — disse con evidente sorpresa — lei a Nuoro?

Paolo la sapeva moglie di Cosimo, ma non ignorava ch'erano divisi, e benchè avesse chiesto della signora Bancu, ora, vedendola, si turbò.

— Lei è la moglie di Cosimo? — disse toccandole freddamente la mano. — Ho piacere di conoscerla. Sono arrivato stassera; avrei piacere di riveder Cosimo… le signorine…

Peppina non rispose, ma lo guardò quasi pronta a piangere, ed egli se ne avvide; e anch'egli la guardò intensamente, come pochi momenti prima fissava la porta.

— Elena….. come sta? — pronunziò, e la mano tremò di nuovo, ma egli non se ne accorse.

— Elena? Oh, sta benissimo, ora! — rispose la giovine signora, e un singhiozzo sfumò nella sua voce piena d'amarezza.

— Signora, che è accaduto?

Paolo ebbe la percezione d'aver gridato così, ma poi, per qualche tempo, non capì, non intese, non vide più nulla, come se l'oscurità del salotto si addensasse, e il pavimento, sprofondandosi, si cangiasse nel fondo di un abisso indefinito, come nella sensazione vertiginosa d'un cattivo sogno.

Quando, con un violento sforzo della volontà, riprese la sensazione del vero, vide la giovine signora piangere, e la sentì raccontare gli ultimi momenti santi d'Elena, ch'era spirata poche ore prima, serenamente, benedicendo la riunione di Cosimo con la moglie. Pregata a nome di Elena, Peppina era venuta a trovarla, e la dolce anima morente l'aveva trattenuta ch'ella poi non s'era più sentita il coraggio d'andarsene.

Paolo pensò alla lettera scritta sul piroscafo, alla notte passata in mare. E taceva, senza dire una parola di condoglianza, senza pensare ad andarsene.

L'ombra s'addensava nel salotto; a un certo punto la giovine signora tacque anch'essa, e Paolo, sentendo ch'ella desiderava ch'egli se ne andasse, si alzò. Ma disse, implorando:

— Perdoni, signora. Vorrei rivederla…..

Peppina capì ch'egli parlava d'Elena; si stupi, comprese confùsamente qualche cosa, e s'alzò.

— Favorisca — disse, andando avanti senza smettere mai il suo maestoso ed elegante incedere. Aprì la porta e Paolo passò inchinandosi.

Camminarono silenziosi, egli a testa nuda e pallidissimo, con raccoglimento profondo, quasi attraversassero una chiesa.

Nella camera d'Elena ardevano lunghi ceri in candelabri di metallo deposti sul pavimento, e la luce del sereno crepuscolo, entrando per le imposte socchiuse, tremava in lunghe striscie sulla volta, fondendosi col bagliore rosso e quieto dei ceri.

Giovanna, inginocchiata presso il letto, piangeva silenziosamente, bevendosi le lagrime con singulti radi e infantili.

Peppina le toccò una spalla.

— Giovanna — disse amorevolmente, con dolce rimprovero — sei di nuovo qui? Vattene, levati su, sii forte, via, Giovanna!

La fanciulla sollevò il volto, rosso per le lagrime, e vedendo Paolo De-Cerere cessò di piangere; si alzò rapidamente, e, ritirandosi a pie' del letto, guardò il suo antico amico con grandi occhi spalancati di bambina sorpresa e curiosa.

Ma egli non le badava.

Egli guardava Elena, e non vedeva altro.

La «piccola fata» era tutta vestita del suo abito bianco; aveva le scarpette di raso bianco, i guanti bianchi, i capelli raccolti entro un pettine d'argento e di brillanti che scintillavano alla luce dei ceri.

Il volto, sebbene scarno e cereo, parve a Paolo più bello del come l'aveva veduto l'ultima volta e conservato nella memoria. Un cuscinetto di velluto nero ricamato a grandi rose posavale accanto; e Paolo (avendoglielo ella una volta scritto) indovinò che racchiudeva le sue lettere, e che, per desiderio estremo, doveva servirle da pietoso guanciale nel letto dei sogni eterni.

Ei guardava intensamente le lunghe eiglia abbassate della «piccola fata» e di nuovo pensava alla lettera scritta all'alba, al gran mistero intraveduto e sfuggito.

Di nuovo smarrì la percezione del tempo, del luogo, dei suoi movimenti; solo gli sembrò di chinarsi chiamando dolcemente:

— Elena! Elena!

Giovanna si rimise a piangere sconsolatamente, gemendo e singhiozzando.

La cognata allora le si avvicinò, la prese dolcemente per le spalle e la portò fuori della camera.

— Giovanna, Giovanna! — le disse Carta-Selix, che, nonostante il suo gran dolore, cercava di confortare gli altri. — Sia forte, si faccia coraggio! Per sua madre!

Certo, non pensava in quel momento che più tardi egli e Giovanna si sarebbero confortati scambievolmente, ma che neppure il gaudio del loro amore, neppure il sorriso di un'altra Elena, fiore gentile della loro felicità, avrebbe consolato il dolore della madre, e tanto meno un altro dolore lontano, più inenarrabile ancora.

FINE.

GIULIO SPEIRANI E FIGLI - Editori - Via Genova, 3 - Torino
Volume 23° della Biblioteca Romantica Speirani

GRAZIA DELEDDA

La via del male

ROMANZO
Elegante volume di pagine 300 con una splendida copertina illustrata

UNA LIRA

Giudizi della stampa sul romanzo: La via del male.

È uno di quei libri che attraggono irresistibilmente la potenza del vero. Quando si giunge all'ultima pagina, l'animo ancora tutto compreso di mille nobili e fini sensazioni si sente circondato da un'onda di pensieri buoni e forti che lo spinge al fermo volere di tutto ciò che è bello ed onesto. Grazia Deledda, molto giovane ancora, quasi perduta nella sua lontana Sardegna, sembra raccogliersi nel silenzio pieno dei sorrisi della natura sarda e di là invigilare attenta, giudicare intelligentemente e raccogliere ogni pensiero, ogni lotta dell'uomo, ogni costume di quel paese, ogni tinta di quella natura tanto interessanti. Nei suoi libri, nelle sue poesie, ella ritrae vivamente l'ambiente sardo, e i suoi scritti oltre ad essere gioielli artistici, sono un lampo di luce, un quàdro interessante di quell'isola dimenticata e pur sempre oggetto di studi e cure degli studiosi.

La Via del male è il riflesso della vita del contadino ricco in Sardegna. In questo suo lavoro l'Autrice si è rivelata ancor più potente scrittrice di quel che non si mostrasse nell'ultimo suo romanzo Anime oneste che ebbe l'onore di una prefazioue di Ruggero Bonghi.

La potenza artistica dell'Autrice è grande, specialmente quando essa si ferma a dipingere la natura. Per narrare l'azzurro del cielo la Deledda ha cento parole vere e diverse come un bravo pittore ha cento tinte per interpretare un chiarore di luna. Il protagonista della Via del male, è un giovane, Pietro Benu, tratto dall'amore e dalla gelosia a commettere un delitto, delitto lungamente premeditato, tranquillamente compiuto. Non è il delinquente nato perchè una vita onesta e tranquilla come quella che fino allora egli aveva menato non lasciava trasparire alcuna stigmata di degenerazione psichica, non è il delinquente per passione perchè non ha nè un dubbio nè un rimorso, è il delinquente che diviene, giorno per giorno, lentamente e per l'ambiente e per la suggestione di un malvagio.

Tutto ciò e narrato con analisi sorprendente di verità e di finezza, che desta un profondo senso d'ammirazione e per l'opera e per l'autrice.

(L' Idea Nova, 1° gennaio 1897.)