GRAZIA DELEDDA

L'OMBRA DEL PASSATO

ROMANZO

ROMA
NUOVA ANTOLOGIA

Il cordaio fu il primo ad attaccare le sue più belle corde, dal portone al palo che indicava il limite fra la sua aja e quella di Giovanni La Pioppa.

Era la mattina del Corpusdomini. La processione, per eseguire la giravolta, doveva entrare nell'aja del cordaio, attraversare quella di Giovanni, uscire per il portone del zolfanellajo, la cui umile casetta era l'ultima del paese.

Le tre famiglie si tenevano molto onorate di questa preferenza, e ogni anno formavano, con lenzuola attaccate a due fila di corde, una specie di viottolo semicircolare che cominciava dal portone di Sison il cordaio e finiva nel portone del zolfanellajo. Un palo di qua, uno di là, segnavano appena il limite delle tre aje unite: quella di Giovanni De Marchi, detto La Pioppa, éra la più grande. Egli era un uomo ricco: anche la sua casa grigia, con le persiane verdi al primo piano, superba fra le due casette di Sison e del zolfanellajo, sembrava la padrona fra due serve.

Il cordaio, che tira di qua, annoda di là, aveva già tracciato la viottola attraverso la sua aja, guardava la porta di Giovanni e imprecava:

Corpu d'un Diu, nessuno si vede! Per una volta all'anno che passa il Signore!

Ma ecco apparire il zolfanellajo con una cordicella intorno al braccio.

— Ohè! - gridò il cordaio.

— Ohè! - rispose il zolfanellajo.

— Che si fa, palandroni? Che si aspetta? Corpo d'un Dio, ma che si fa?

Il zolfanellajo non rispose. Si fece il segno della croce e attaccò la corda al chiodo del suo portone.

L'altro allora s'arrabbiò. Chiamò la moglie, la figlia, coprendole d'insulti, chiamò la moglie di Giovanni, urlò contro un gruppo di bambini accorsi ad offrirgli aiuto. Pareva un uomo violento, coi piccoli occhi azzurri incassati sotto una larga fronte rossa, con le gambe nude nerborute e i grossi piedi terrosi che sembravano le radici di quel corpo secco e alto come un tronco secolare.

Ma i bambini si ridevano di lui: segno evidente che le apparenze ingannano. Nessuno compariva alla porta spalancata della casa di Giovanni.

Il zolfanellajo s'avvicinava al palo, tirando la cordicella, e pareva che pregasse. Piccolo, lento, melanconico, vestito a festa, con una giacca signorile troppo larga per lui, egli sembrava un ometto di legno. Il viso raso anche nelle sopracciglia, d'un pallore verdognolo, dava l'idea che l'ometto si fosse lavato con lo zolfo: e a questo pallore accresceva risalto il fázzoletto rosso che egli teneva intorno al collo.

Intorno a lui ed al cordaio aumentava il chiasso dei bambini. Le rondini, che uscivano liberamente dalle case, dove avevano i loro nidi, e volteggiavano sulle aje in cerca d'insetti, non erano più allegre di quei bambini scalzi, dai capelli colore della polenta, e la coda della camicia dritta fuori della spaccatura dei calzoncini.

Ritto in mezzo a loro, come l'albero in mezzo ai fiori, Sison dava gli ordini:

— Puttini, correte! Portate fiori, fronde, foglie di fagiuoli. Badate di non strappare le piante.

I bambini sparirono. Uno solo, il cui viso spariva sotto le falde arrovesciate d'un cappellaccio di paglia, stette a guardare tranquillamente l'opera del cordaio.

— Adone! - gridò l'uomo, furibondo. - Non vai neppure a prendere i fiori? Ma di', siete tutti matti, voi, oggi?

Adone sollevò la testa; si vide il corto visetto roseo, fra due grappoli di ricci neri, si videro due grandi occhi neri dalle larghe palpebre: la piccola bocca ironica restò chiusa.

L'uomo gli andò sopra, minaccioso.

— Dico, siete matti, voi, oggi?

— E lasciatemi stare, - disse finalmente Adone, con fare da grande, muovendo le ditine entro le profonde saccoccie dei calzoncini spaccati. - Lo zio Carlino parte: la zia sta ad arrostire il pollo per lui, e io devo accompagnarlo fino a San Martino.

— E va bene! Benone! - urlò Sison. - Lo zio Carlino parte: il Signore può andare a farsi indorare da Meoli!

Il zolfanellajo fece un gesto d'orrore: da Meoli, a farsi indorare, si mandano le persone seccanti.

Ma Sison era cieco di rabbia. Ricominciò a chiamare la figlia, finchè questa, una biondina in vestito corto color rosa e in pianelle ricamate, non scese é attaccò le lenzuola alle corde.

Adone le andò vicino e si sfregò contro le sue vesti come un gattino, guardandola e parlandole carezzevolmente.

— Bello! - le disse lei, staccando le labbra come per dargli un bacio.

I bambini ritornarono, carichi di fiori e di erbe. Andromaca, la bella cordaia, ornò le lenzuola con foglie di fagiuoli e di zucche; il zolfanellajo portò giù i migliori quadretti che possedeva.

Elettra, la padrona della vicina osteria del Vicerè, s'affacciò al portone del cordaio, s'affacciò al portone del zolfanellajo, guardò le due poetiche stradiole strette dai candidi muri delle lenzuola fiorite, e dichiarò che la più bella era quella di Sison. Questa lode calmò alquanto il cordaio.

La casa di Giovanni si animava: una persiana fu spinta con fracasso; un vecchio sbarbato e roseo, coi capelli bianchi divisi sulla fronte, s'affacciò alla finestra, guardò, disse bonariamente: - Perbacco, com'è bello! - Poi chiamò Adone. - Di', tu, che fai ancora li? Non vai ad avvertire il barcajuolo?

Adone volle scusarsi:

— Guardavo soltanto: non mi sono mosso.

Ma subito apparve sul limitare della porta un uomo altissimo, la cui testa arrivava fin quasi allo stipite: e una voce profonda risuonò fra il chiacchierio dei bimbi e il garrir delle rondini.

Sgambirlott(1) Impacciato., sei ancora li? Fila!

Adone partì di corsa.

Tutti si volsero a guardare l'uomo gigantesco, La Pioppa(2) Pioppo. alta e vigorosa.

Egli rassomigliava molto al suo cugino ed ospite Carlino: aveva i capelli bianchi divisi sulla fronte e i baffi giallastri; ma più che roseo, il suo viso era cremisi, la pelle aspra, il naso schiacciato: una pinguedine avanzata rendeva più monumentale quel corpo di gigante, i cui larghi piedi calzati di grosse scarpe sembravano di bronzo.

Tutti rispettavano l'uomo alto e ricco: soltanto il cordaio credeva di poter competere con lui.

— Ma queste corde, omone, si attaccano o no? - gli gridò, inviperito. - Ha paura di sporcar le lenzuola la tua Pirloccina?

— Pazienza! Ha da pensare ad altro, stamattina - rispose l'uomo alto, con la sua voce calma e profonda.

— Anche l'anno scorso ha fatto tante storie, la tua signora moglie! Sì, ha paura di sporcar le lenzuola.

Allora la piccola moglie di Giovanni, timida e malaticcia, s'avvicinò al marito, e mentre metteva i piedi scalzi entro le ciabatte che stavano sul limitare della porta, osò rimbeccarc il cordaio:

— È quello il modo di onorare il Signore? Bestemmiando? Io ho tante lenzuola da far una strada fino all'argine.

— Facciamola! Ci passerò io! - disse il signor Carlino, dalla finestra.

I bambini risero: e il cordaio, per dispetto, passò nell'aja di Giovanni e cominciò ad attaccar le corde.

— Ecco come si fa, allora! Ecco come si fa! Andromaca, qui un lenzuolo.

I bambini passarono anch'essi nell'aja di Giovanni e sparsero fiori e foglie sul terreno chiaro e duro.

Cinque rondinotti, dal nido grigio attaccato alla trave del portico, sporsero le testoline lucide e cominciarono a stridere, quasi protestando contro l'invasione di tutti quelli altri rondinotti biondi dal codino sporco.

Adone rientrò di corsa, seguito da un giovine barcajuolo scalzo: passò sotto le lenzuola e andò in cucina, dove la zia finiva di riempire un cestino da viaggio.

La cucina era grande, con le pareti gialle: sulla cappa dell'enorme camino stavano due paja di scarpe nuove con la punta in su, e due caffettiere di rame. Le tavole di noce, la madia rossa, le angoliere lucide, tutto spirava benessere e ordine.

Adone si attaccò alle gonne della Tognina, le strofinò il fianco col suo visetto roseo, non la lasciò più finchè ella non gli ebbe consegnato il cestino, dal quale esalava un grato odore di pollo arrosto.

Pochi momenti dopo egli correva dietro il barcajuolo che portava la valigia e camminava a passi lunghi e silenziosi.

Gli usignuoli cantavano sui pioppi e sugli olmi che ombreggiavano gli orli della larga strada fiancheggiata da fossi d'acqua corrente limpidi come ruscelli; fiori d'ogni colore ornavano l'erba brillante di rugiada.

Giovanni accompagnava il signor Carlino, che aveva salutato affabilmente tutti i vicini e fatto un cenno di addio ai rondinotti del nido. I due uomini chiacchieravano, ma Adone non badava a loro, intento a correre sull'ombra deforme del barcajuolo. Gli pareva così d'essere trascinato da quell'ombra strana che sembrava quella di un cammello a due gambe. Ma d'un tratto l'ombra sparì, il giochetto cessò.

Cominciavano le case del centro del paese: prima quella del fabbro, rossa su uno sfondo di alberi verdi, poi quella del tabaccajo, poi quella del sarto, che era anche oste. Le botteghe, tranne quella del tabaccajo con la sua vetrina piena di cartoncini adorni di fiori e di cuori trafitti, erano chiuse. Dalle finestre pendevano coperte e drappi colorati: allo sbocco dei viottoli sorgevano archi di fronde e di fiori; tutti i portoni erano addobbati e decorati in modo pittoresco.

Adone e il barcajuolo, rossi in viso, felici entrambi, proseguivano la loro corsa, scambiando qualche frase e ridendo forte.

— Al ritorno mi metto il vestito nuovo e vado a messa con lo zio - confidava il ragazzetto al l'uomo che lo ascoltava attentamente. - Poi dobbiamo mangiare una gallina: poi oggi andrò a trovare la mia mamma. Chissà che le porti qualche cosa, eh, speriamo! Ho una gran cesta piena di roba, io: se vieni, un giorno, ti faccio vedere tutto. In fondo c'è una cosa… una cosa… non ti dico che cosa, perchè tu puoi farmi la spia… Ebbene, te lo dico lo stesso: ho quattro soldi: due li porto alla mamma.

Arrivarono davanti alla chiesa, bianca e gialla, che sorgeva in fondo ad un prato sulla cui erba appena falciata alcuni pioppi allungavano le colonne d'ombra dei loro tronchi tinti di bianco. Attraverso questi tronchi, come in un intercolunnio marmoreo, si scorgeva, di fronte alla chiesa, un muro verdastro e un grande cancello di ferro arrugginito. E attraverso il cancello si vedeva un giardino inselvatichito, in fondo al quale sorgeva un palazzo del Settecento, dalle finestre chiuse, grigio e solitario sullo sfondo d'un parco il cui verde cupo si stendeva lontano, fino all'argine del Po.

Adone e il barcajuolo passarono davanti al cancello, lasciando la strada comunale per internarsi in un viottolo che per lungo tratto correva tra il muro del giardino del parco e il muro del cimitero.

Il canto degli usignuoli sembrava più dolce e flautato in quel luogo deserto. Adone si fermò per guardare un nido che egli adocchiava da qualche giorno, e sul quale gli pareva di poter accampare diritti di proprietà.

Il barcajuolo andò avanti, si perdette nell'ombra del viottolo: dello zio si udiva la voce, ma non si vedeva ancora la persona. E Adone profittò subito della sua solitudine: piano piano, facendo gesti da piccolo commediante, depose il cestino per terra, sollevò cautamente la salvietta, annusò con voluttà il buon odore del pollo. Ma non era questo che egli cercava. E all'improvviso cominciò a ridere, con un gorgheggio che si unì a quello degli a usignuoli: ma subito ritornò serio, pensieroso; prese dal cestino due coppie di calum, grosse ciliege dure e lucenti come il corallo, e se le mise sulle orecchie. E riprese il cestino, ma dopo altri venti passi si fermò ancora, e mangiò i suoi bizzarri orecchini. Fu un attimo di voluttà. I suoi grandi occhi d'un bruno dorato, diventarono languidi e tristi. Egli fu tentato di prendere altre ciliege; ma la voce dello zio risuonò più forte e più vicina.

Il gigante parlava di lui: ed egli non dimenticò mai quel discorso:

— Sì - diceva la voce profonda. - Adone deve fare il paisan. Perchè dovrebbe studiare? per diventare impiegato o prete? Gl'impiegati si rovinano lo stomaco: i preti vanno incontro a brutti tempi. Adone deve badare alla sua roba. Io l'ho preso con me per questo. Non ho fratelli nè sorelle: gli altri non fanno che desiderare la mia morte. La mia Tognina sarà la mamma di Adone. Tu sei ricco e non hai figli. Mia moglie è debole e di poca vita. Io avevo bisogno d'un figlio: il Signore non me ne ha mandato; ed io me ne sono preso uno a prestito! « Tu hai un sacco di figliuoli, - ho detto a nostra cugina Martina - dammene uno ». Ho preso Adone fra le braccia e me lo son portato via. E tu ora dici che bisognerebbe mandarlo a studiare? Neanche per idea, Carlin!

— È tanto intelligente! - disse l'impiegato.

— E tanto meglio, allora! Custodirà meglio la sua roba! Non è vero, puttino? Sarai un bravo paesano?

Adone, così direttamente interpellato, si mise a correre e non rispose. Ma il signor Carlino lo rincorse, lo afferrò e gli disse:

— Guardami! Ah, non sono occhi da contadino, questi! Sarai un dottore, di'?

— No, meglio maestro!

— Perchè? - disse l'impiegato, ridendo.

— Perchè il maestro sa tutto!

— Santa innocenza! - gridò l'altro, aprendo le braccia. Poi prese per mano il ragazzetto e si mise a chiacchierare seriamente con lui. Adone rispondeva pronto: trovava spiegazione a tutto.

Dopo il viottolo attraversarono un sentieruolo, fino all'argine che con la sua linea verde tagliava lo sfondo luminoso del cielo. Nei campi dietro il cimitero le distese di grano già dorato parevano splendere di luce propria tra il verde un po' triste della meliga e del trifoglio.

I due uomini e il ragazzetto salirono sull'argine, ridiscesero verso la riva del Po. In quel punto e in quei tempi il fiume, allargato dallo sbocco della Parma, sembrava un lago, tutto azzurro e oro fra le rive coperte di boschi.

La barca era pronta. Il vecchio Pigoss, il portinèr(1) Barcajuolo che tiene il porto., aspettava col remo in mano. Col suo piccolo viso nero, i capelli argentei, gli occhietti d'un azzurro cangiante come quello del fiume, il vecchietto aveva un'aria beffarda e dolce nel medesimo tempo. Pareva un essere superiore; ricordava certi marinai, certi pescatori, figli delle acque, che sentono pietà e disprezzo per i contadini figli della terra.

Adone gli sorrise, come ad un amico della sua età, e appena tutti furono in barca, e i due barcajuoli cominciarono a puntare i remi sulla sabbia, spingendo il piccolo legno verso la corrente, egli supplicò:

- Pigoss, raccontami la storia del paese che è sotto il fiume.

— Va là, bello, un'altra volta! - disse il vecchietto, che a sua volta desiderava sapere dal sor Carlino una storia meravigliosa.

— Com'è grande, Roma? È circondata dal mare? La va per mare, lei?

— Ce ne vuole! Il mare è lontano. C'è però il fiume, il Tevere.

— È navigabile?

— Altro!

— C'è un paese anche sotto quel fiume? - domandò Adone. - Io guardo sempre, qui, ma non vedo mai nulla.

E si curvava sulla sponda della barca, tanto che lo zio La Pioppa lo sgridò, tirandolo per i calzoncini.

— Ti dò uno scapaccione, sgambirlo!

Adone lo guardò e gli rise in faceia.

L'omone lo baciò, lo attirò a sè: e lo zio Carlino, che la domenica andava sempre a visitare i musei, ammirò quel gruppo veramente artistico, quel monumentale lavoratore dalle scarpe e il vestito color bronzo e quel fanciulletto scalzo dagli occhioni socchiusi e la bocca maliziosa: sembravano la forza e l'astuzia.

La barca scendeva verso Brescello: e il buon funzionario, dopo aver ammirato l'uomo e il fanciullo, ammirò ancora una volta il grande paesaggio fluviale che a lui pareva il più bello del mondo. Questa sua convinzione era forse un po' esagerata: certo, però, il Po quella mattina era bellissimo, sempre più largo, d'un azzurro latteo iridescente. Verso le rive l'acqua rifletteva i boschi capovolti; sopra le muraglie di sabbia delle isole, i pioppi tremolavano come alberi d'argento, e i canti degli usignoli e i richiami insistenti dei cuculi parevano uscir dall'acqua, da boschi sepolti nel fiume.

Tranne questi gridi non si udiva altro rumore. Solo qualche volta, alle domande di Adone, rispondeva l'eco beffarda che pareva anch'essa la voce di un essere nascosto sott'acqua.

— Come si fa a far su la roba?

Roba,(1) Ruba. - rispondeva il grido beffardo.

E anche un campanile bianco, all' orizzonte, pareva sorgere dall'acqua, come una vela. La barca sfiorò una lunga isola che terminava con un triangolo di sabbia a fior d'acqua.

— Di chi è quest'isola? - domandò l'impiegato. - C'è una bandiera su un palo. Perchè?

— L'isola è dei Galvanin: forse la bandiera c'è perchè oggi è festa, - disse Pigoss: ma Adone protestò.

— È anche mia, però! C'è in mezzo un laghetto: e tante lepri, e biscie, e uccellini piccoli piccoli. Non dirlo a nessuno, - aggiunse all'orecchio dello zio. - C'è anche un pesce grosso: forse è uno storione. Taci, però, eh?

— Ci sei stato? Come? Come l'hai veduto?

— Lo so io! - egli rispose con aria di mistero.

L'isola, coi suoi pioppi e i salici curvati sulla sabbia, s'allontanò: la barca s'avvicinò di nuovo alla riva.

— Arrivederci. E sii bravo, - disse l'impiegato al ragazzetto. - Vedrai cosa ti manderò, se sarai buono. Me lo prometti? Non sarai cattivo?

Adone guardò il gigante, come per prenderlo a testimonio che gli si domandava una cosa impossibile: poi i due cugini si abbracciarono e Giovanni, commosso come una donna, raccomandò vivamente il cestino ai barcajuoli.

L'omone e il ragazzeto saltarono a terra; la barca, come alleggerita dal peso del gigante, si allontanò rapida e nera sul fiume azzurro. Adone la seguì con gli occhi, finchè potè vederla. Egli sapeva che prima di arrivare al suo mondo ignoto lo zio Carlino doveva scendere a Brescello e di là prendere una lunga strada attraverso campi e campi, paesi e paesi, fiumi larghi e stretti, montagne assai più alte dell'argine: tuttavia, in quel momento, seguendo con gli occhi affascinati la barca silenziosa, gli pareva che questa dovesse fermarsi soltanto in una riva molto lontana, al di là dell'orizzonte, dove sorgeva un paese incantato, quasi simile a quello sepolto nel fiume, del quale sapeva notizie solo il vecchio Pigoss che ne parlava come d'un suo paese d'origine.

La voce dello zio lo trasse dal suo sogno.

Andom, sgambirlo! Forse arriveremo in tempo per la processione.


***

L'uomo e il fanciullo ritornarono verso il paese, percorrendo l'argine.

Di tanto in tanto lo zio fingeva di coprire e nascondere Adone con un mantello immaginario, come usava d'inverno quando conduceva con sè il ragazzetto, e gli domandava:

— Dove siamo ora?

Ma il fanciullo era pensieroso e non rispondeva a tono. A un tratto esclamò:

— Vorrei sapere una cosa solamente, per piacere: com'è il mare!

Sebbene chiesta per piacere, la risposta non venne. Adone sollevò gli occhi e vide una cosa strana. Lo zio era diventato pallidissimo e tremava: pareva avesse freddo. E questo freddo improvviso si comunicò al fanciullo.

— Che hai? Che hai? - egli domandò spaventato, abbracciando le gambe al gigante. - Zio mio, ma che hai? Dimmelo, zio mio, che hai? Zio mio…

L'uomo s'era fermato e si passava una mano sulla fronte. E continuava a tremare, e pareva dovesse cadere; ma resisteva all' urto improvviso del male, come un vecchio tronco all'urto del vento.

Adone sentiva un' angoscia paurosa; afferrato alle gambe tremanti dello zio, gli pareva di sostenerlo, mentre si appoggiava per non cadere egli stesso, vinto dalla paura misteriosa che lo agitava.

Parole strazianti gli uscivano dalla piccola bocca fattasi triste: ma l'uomo non lo udiva, intento a combattere il nemico invisibile che lo aveva assalito a tradimento. Pochi istanti: e il male fu vinto.

— Niente, niente, - disse la voce profonda, alquanto tremula. - Un capogiro. Mi viene sempre, dopo che sono stato in barca. Ti sei spaventato caro? Non dir niente alla zia.

Lo prese per mano, s'avviò: era ancora pallido, ma sorrideva, e pareva contento della sua vittoria. Ma Adone, che lo guardava fisso con gli occhi ancora pieni di terrore, sentiva tremare la grossa mano che raccoglieva la sua, e quel tremito pareva gli salisse per il piccolo braccio e gli si comunicasse al piccolo cuore sensibile.

— Com' era questo capogiro, zio? Ti è passato, ora? Non dire le bugie, zio! - diceva con voce serìa.

— Ma cosa ti passa in mente, sgambirlo? È passato, mille volte passato!

Sentendosi chiamare ancora sgambirlo, Adone si calmò. Proseguirono lungo l'argine solitario, bianco di polvere e di sole. Il ragazzetto non cessava di spiare sul caro volto i segni del male che lentamente sparivano, e diceva a sè stesso, con orgoglio:

— Se non c'ero io egli cadeva di certo di certo: l' ho tenuto su io, però!

E l'omone respirava forte e finalmente sospirò: la mano cessò di tremare, gli occhi s'illuminarono. Parve ricordarsi di qualche cosa.

— Ah, il mare? Com' è fatto? Come il Po, ma largo, in modo che non si vede l'altra riva. E ha le onde, come quando spira il vento di sotto(1) Levante., ma molto più grosse.

Rassicurato, Adone riprese le sue domande. Egli aveva già passato il periodo dei perchè, si spiegava da sè molte cose, meglio del come gliele spiegavano gli altri. Ma le cose lontane, le cose che egli non aveva mai veduto e delle quali conosceva solo il nome, lo inquietavano, lo tenevano desto la notte e pensieroso il giorno.

— E le montagne, come sono? Come l'argine?

— Molto più alte.

— Mandano l'ombra sulla città?

— No, no; sono lontane, dalla città.

— La città è bella, non è vero?

— È bella, sì; ma si vive meglio in campagna. Io ho provato a vivere in città, ma poi sono scappato. Vi è tutto cattivo, tutto guasto o falsificato. Ho letto che ora falsificano persino le uova: le fanno a macchina.

Adone si fermò, spalancò gli occhi.

— Le uova? - gridò. - Come? Come? Dimmi come si fanno!

— Io non lo so davvero! Forse prenderanno i gusci vuoti e li riempiranno con qualche porcheria.

— Dio mio! - esclamò Adone; sospirò e rise, tanto l'idea delle uova false lo divertiva e lo interessava.

***

Quando zio e nipote rientrarono nell' aja, la processione era già passata; le donne ritiravano le lenzuola dalle corde, e Adone profittò del momento per correre in cucina a guardare dentro la pentola che gorgogliava e fumava sul fuoeo semispento.

— La ghè, la ghè - mormorò, toccando col ditino la zampa giallognola della gallina che bolliva dentro la pentola. Egli era un golosone, e per di più aveva fame; il sentimento del dovere e neppure la paura di scottarsi gli avrebbero impedito di sgraffignare la zampa della gallina, se in quel momento la zia non si fosse precipitata dentro la cucina, gridando disperata:

— Le undici! Son le undici, e nessuno lo diceva! Povera me!

Adone non si commosse: finse di cercare un tappo sotto la tavola, poi, rassicurato, si avvicinò alla zia che in fretta e furia s'era messa ad impastare le tagliatelle.

— Zia, dammi i gusci, - pregò. - Zio Giuan dice che ora si fanno anche le uova false. Voglio provare a farle.

— Caro il mio omin, - disse la donnina - una sola persona può fare le uova.

— Chi?

— La gallina.

— La gallina non è una persona, va là! - osservò giudiziosamente il ragazzetto.

Prese i gusci, li mise delicatamente uno dentro l'altro, pregò la zia di dargli un pezzetto di pasta e si ritirò nella camera bassa, una specie di cantina grande, e quasi buia, che serviva soltanto di ripostiglio ed era ingombra di oggetti inutili.

Egli si avanzò verso l'angolo più buio, e s'inginocchiò davanti a una cesta, dalla quale incominciò ad estrarre gli oggetti più disparati; stracci bianchi e di colore, ossa, sacchetti colmi, scarpe, bastoncini, una pentolina, una bambola, una stecca da busto, un pennello, una bottiglia…

El ghè, el ghè! - egli mormorava, con gioia, palpando ogni nuovo oggetto. Poi rimise tutto dentro la cesta; lasciò fuori solo il pennello, la pentolina e i gusci, deciso di tentare, più tardi, la composizione delle uova false. Per il momento la fame lo spingeva di nuovo in cucina. Assistè con attenzione avida a tutti i preparativi del pranzo. Di tanto in tanto buscava qualche cosetta: un pezzettino di formaggio, un pezzettino di burro: non sdegnava neppure il lardo già pestato col prezzemolo. Tutto era buono. E ogni volta rideva, gorgheggiando, come i rondinotti dell' atrio quando la madre rondine portava loro qualche insetto.

La Tognina, triste e taciturna, andava e veniva e si curava poco del ragazzetto. Tirò fuori sei bottiglie di lambrusco, e il più bel salame ch' ella conservava ancora fra la cenere.

Adone andò a comprare il pane: al ritorno raggiunse lo zio Giovanni, completamente ristabilito dal suo malore, e il fratello della Tognina che era invitato a pranzo. Fratello e sorella si rassomigliavano assai: il Pirloccia però era più brutto, quasi deforme; sembrava davvero una trottola, e le sue piccole gambe sostenevano come per miracolo un grosso corpo dal petto sporgente.

Egli si faceva perdonare la sua bruttezza con l'amabilità der modi: era allegro e chiacchierone quanto la sorella era indifferente e di poche parole. Adone però non lo amava: sentiva per lui un'antipatia istintiva e gliela dimostrava.

Quell'ometto dal viso sbarbato e olivastro, coi suoi riccioli neri sulla fronte sporgente, coi suoi occhietti azzurri maliziosi e i denti piccoli e candidi, gli dava l' idea d'un fanciullo cattivo, di quelli che qualche volta lo molestavano.

— Come, non sei stato a messa? - gli domandò l'ometto, quando furono per mettersi a tavola.

— No, brutto! - egli rispose francamente.

E lo zio Giovanni, curvo, intento a sturare una bottiglia che stringeva fra le gambe, sollevò il volto e gridò:

— Ma aspetta, miclòn, ti voglio dare una bella lezione!

— Bè, bè, non lo farò più! - disse Adone; ma gli parve che anche lo zio guardasse con poca simpatia il Pirloccia, e ricordò che una volta lo aveva chiamato « mezzo uomo ».

— Tognina, su; pronti? - gridò Giovanni.

— Pronti! - rispose la donna, accorrendo con dur scodelle, entro le quali aveva messo un po' di tagliatelle cotte.

Giovanni versò il vino spumante nelle scodelle, e tutti sedettero a tavola, mangiando con voluttà quella specie di antipasto paesano.

Pirloccia si leccò le labbra violacee di vino, e cominciò a raccontare le solite storie, mentre Giovanni ricordava il cugino che viaggiava verso Roma.

Anche l'ometto aveva viaggiato: conosceva bene il mondo. Col suo carrettino carico di scope egli aveva attraversato quasi tutta l'Europa ed anche parte dell'Africa e dell'America. Si, egli aveva girato tutto il mondo, - egli diceva, - sempre in cerca della fortuna. Ma la fortuna è come l'anello sepolto dove comincia e dove finisce l'arcobaleno. Pare li, vicino, ma non si arriva mai a trovarlo.

— Corpo, - egli gridava, agitandosi, - sono stato anche a Montecarlo, dove tutti quelli che vanno o s'impiccano o diventano ricchi. Io non mi sono impiccato eppure non sono diventato ricco, Dio te stramaledissa, fortuna!

Giovanni colmò il suo piatto enorme di tagliatelle sottili e gialle come fili di seta.

— Ma, hai giuocato? - domandò con calma.

— Non sono andato al di là dell'ingresso: solo ho venduto trenta scope al portiere, - ammise Pirloccia.

— Chi sa, - osservò malinconicamente Giovanni, - qualcuna di quelle scope avrà spazzato il sangue di qualche suicida…

— Ma che credi si ammazzino dentro casa? - disse l'altro ridendo. - Si impiccano agli alberi: ne ho veduto penzolare dieci o dodici.

— Bene, finitela con queste storie, - pregò Tognina, che aveva una grande paura della morte e non amava che se ne parlasse. - Giuanin, stura piuttosto quest'altra bottiglia.

Giovanni sturò la bottiglia, e tutti presero a parlare di cose più allegre. Ma Adone, che se non amava il Pirloccia, ne ascoltava avidamente le storielle, continuò a pensare a Montecarlo, agli uomini che penzolavano dagli alberi, a quelli che se non s'impiccano diventano ricchi; e cominciò a fantasticare cose bizzarre, tanto che dimenticò persino le uova false. Se ne ricordò nel pomeriggio, quando frugò nuovamente nella cesta, stando questa volta attento a non sporcarsi la camicetta nuova, a quadratini bianchi e neri, alla quale teneva moltissimo. Ma era già tardi, ed egli doveva andare dalla mamma. Prese dunque due soldini, uno per mano, cacciò le manine dentro le saccoccie dei calzoncini nuovi - chiusi dietro e davanti! - e s'avviò.

La mamma stava a Co' de' Brun, che era una specie di sobborgo di Casalino, o per meglio dire il quartiere dei poveri. I ricchi e gli aristocratici, cioè i mercanti e gl'industriali, stavano tutti verso la chiesa.

Il ragazzetto doveva fare circa venti minuti di strada per arrivare dalla sua mamma. Attraversò tutto il paese. Era l' ora del passeggio: le fanciulle vestite di rosa e di celeste, le donne anziane con lo scialle ricamato, i giovanotti con la cravatta verde, i vecchi contadini vestiti di fustagno, i mercanti dai grandi cappelli grigi, insomma tutti i personaggi più importanti che passeggiavano lungo i fossi o chiacchieravano davanti alla chiesa chiamavano Adone e gli rivolgevano paroline graziose. Egli camminava e spesso correva, senza voltarsi, sempre con le mani in tasca. Non aveva tempo da perdere, lui: sapeva che se si fermava le donne l' avrebbero afferrato e baciatò forte, e gli uomini l'avrebbero trattenuto per insegnargli parole maliziose e per ridere con lui.

Arrivato davanti alla chiesa, invece di proseguire per la bella strada comunale, svoltò e percorse di nuovo il viottolo Dargenti.

Questo viottolo era per lui un luogo delizioso. Percorrendo le altre strade, larghe o strette, l'argine, le cavdagne(1) Capezzaie. erbose, egli era un monello cattivuccio come tutti i monelli: lungo il viottolo Dargenti, invece, come il bandito nel folto del bosco, egli si sentiva padrone di sè; considerava sua proprietà i nidi, le erbe, le bacche, le rane del fosso verdastro che stendevasi lungo il muro del parco; ma diventava pensieroso, quasi cosciente.

Qualche volta, di sera, quei due muri egualmente tristi, corrosi, verdastri, gli davano un senso di tristezza, gl'incutevano paura. Là dietro, da una parte e dall'altra, sorgevano invisibili fantasmi. Spesso egli si fermava davanti al cancello arrugginito, sempre chiuso.

Nulla di più melanconico di quel palazzo del Settecento, già decaduto come un vecchio castello. Il padrone del palazzo viveva ancora ma non ci veniva mai. Solo qualche volta Adone vedeva il vecchio Jusfin, l'antico cacciatore dei signori Dargenti, attraversare il giardino e il parco che egli aveva in custodia. L'ex-cacciatore conservava ancora il costume, - giacca di velluto, calzoni stretti, cappello con penna di fagiano, - ed aveva ancora un aspetto decorativo; era alto, col petto largo, una lunga barba d'argento dorato. Ma anch'egli non era più che un ricordo d'altri tempi, una figura e nulla più. Era vecchio, decaduto: un panereccio gli aveva portato via il pollice destro. Con le altre dita non si può premere il grilletto del -fucile, anche quando si ha il tempo e la comodità d'andare a caccia nel bosco o nel fiume. Jusfin andava invece in fondo al parco, dove ogni anno seminava segretamente la sua provvista di granoturco e di patate.

Ecco la ragione per cui neppure pagando si riusciva a visitare il parco ed il palazzo. Jusfin aveva ancora un gran rispetto per il suo ultimo padrone; ma vivere bisognava.

L'ex-cacciatore era molto amico di Sison il cordaio, e spesso andava a trovarlo, e parlava dei bei tempi passati: non era bugiardo, come tutti i cacciatori; era piuttosto uomo di poche parole, ma qualche volta si beffava del prossimo. Adone correva dal cordaio ogni volta che vedeva Jusfin, e ascoltava ansioso ogni parola del vecchio: per lui nulla esisteva di più meraviglioso del palazzo Dargenti. Il parco, del quale invano tentava saltare i muri, lo attirava in modo speciale.

Nell' interno di quel grande palazzo chiuso, - egli aveva sentito raccontare da Jusfin, - v' erano cose magnifiche, mobili d'oro e di velluto, specchi enormi, uccelli imbalsamati, armi rare che avevano ucciso uomini maligni e tedeschi cattivi.

E nel folto del parco chiuso, sotto quegli alberi altissimi, dei quali egli non sapeva ripetere i nomi strani, v' erano altre casette coperte d'edera, con piccole porte e piccole finestre; e un laghetto popolato di anitre selvatiche, di pesci rossi, di cicogne; e v'era una barchetta di argento, e sulle sponde di questo laghetto crescevano le fragole, e in mezzo ad un campo di avena c'era il nido del passero solitario.

Tutte queste cose, mai vedute, esercitavano un fascino straordinario sul ragazzetto: neppure la città sepolta nel fiume era per lui più misteriosa ed attraente del parco e del palazzo abbandonati. Certi nomi specialmente gli davano un senso quasi morboso di curiosità e di piacere.

I nomi strani degli alberi, le « armi », gli « uomini maligni », le « cicogne », e sopratutto il « passero solitario », s'erano impressi nel suo pensiero come nomi di cose belle ed ignote.

— Le armi? - gli spiegava lo zio Giovanni. - Cosa vuoi che siano? Bagai, fucili, coltelli, spade; perfino il coltello col quale tua zia taglia il salame e le fojade è un'arma…

— Il passero solitario? - diceva la maestra dai capelli biondi tirati sulle tempia. - È un uccellino dal dolce canto, che ama vivere nei luoghi solitari. Hai capito?

— Sissignora - gridava Adone con voce cadenzata, come gli aveva insegnato la signora maestra; ma non restava soddisfatto e sentiva che nessuno al mondo avrebbe mai potuto spiegargli « che cosa erano » gli oggetti misteriosi, i fiori, gli uccelli, le meraviglie che la sua fantasia intravedeya al di là del muro verdiccio del parco Dargenti.


***

Egli entrò nel cortiletto assiepato e vide sua madre, una donna ancora bella, ma scalza e lacera, che attingeva acqua dal basso pozzo dietro la casetta. Ella era vedova da poco tempo, e come le vedove delle fiabe aveva sette figli, pei quali doveva lavorare dì e notte ed anche nei giorni di festa.

Adone amava e ammirava la sua mamma. Gli pareva una donna bellissima, coi suoi capelli neri e gli occhi d'un azzurro verdognolo, grandi, vivi, allegri.

— Mamma! - egli gridò fervidamente, correndo verso il pozzo, senza levare le mani dalle saccoccie.

— Viscere care, - rispose la donna, senza troppo commuoversi.

Eva, la sorellina, bionda e rosea come un angioletto, udendo la voce di Adone corse, scalza ed affannata, con un puttino che le dondolava fra le braccia e minacciava di cadere all'indietro.

— Che belle scarpe nuove! E delle altre che ne hai fatto? - gridò.

— La zia le ha date ai figli di Pirloccia.

— Tutto ai suoi! - sospirò la madre, staccando la secchia dal ramo uncinato che serviva per attingere l'acqua. Poi sedette sullo scalino della porta, attirò a sè Adone e gli disse: - Raccontami che cosa hai fatto oggi. Chi c'era a pranzo?

Ella volle sapere tutto; persino che cosa avevano mangiato quel giorno, e quante bottiglie avevano bevuto.

Adone non si fece pregare: era un chiacchierone e non sapeva tener un segreto, tanto più se glielo raccomandavano; così raccontò che lo zio s'era sentito male, poi ripetè le ciarle del Pirloccia. La mamma ascoltava e sospirava.

— Sei bottiglie in tre! - Chi troppo e chi nulla! Poteva pur mandarmene una!

— Zia Tognina dice che devi venire a trovarla se vuoi qualche cosa! - esclamò eglì, tirando fuori dalla saccoccia il piccolo pugno caldo. - Perchè non vieni mai? Ecco, io ti ho portato questo. Non l'ho rubato, sai; me lo ha dato lo zio per comprarmi le mele.

— Caro il mio omin! - ripetè la mamma prendendo la moneta che Adone le mise in grembo.

E gli diede finalmente un bacio, così dolce, così dolce; più dolce delle mele di cui egli aveva fatto sacrifizio!

— La Tognina si lamenta? Lo sai, non esco mai - ella disse sporgendo uno dei suoi piedi scalzi. - Vedi, non ho neppure le ciabatte! Ah, caro il mio omin, siamo tanto poveri noi! Ma non importa, purchè tu non ti stanchi di obbedire, di amare i tuoi zii, e di farci sperare che un giorno sarai la nostra consolazione.

Poi ella parlò del babbo morto.

— Egli era tanto bravo: lavorava giorno e notte, e tu sai quanto lavorano i muratori di ponti. Egli sarebbe diventato capomastro, se Dio non lo chiamava a sè. Tu diventerai bravo come il tuo babbo?

— Sì! - egli rispose vivacemente, contento che la sua mamma gli dimostrasse almeno un po' d'affetto. E cominciò a esporre i suoi vasti progetti per l'avvenire.

— Eh, certo, io lavorerò giorno e notte e anche un pochino la festa. Voglio fare il maestro o il capomastro. E farò un palazzo alto, alto, con due torri. In una ci starete voi, nell' altra io con mia moglie e i miei puttini…

Mi no! - esclamò Eva, che ascoltava avidamente. - Non voglio cadere, io…

— Bada intanto di non lasciare cadere Ottavio, - osservò la mamma.

— Che sai tu? - dissé Adone con disprezzo. - E si cade forse dalla terrazza del palazzo Dargenti?

— Chi lo sa? - rispose la bimba, pensierosa.

— Io ci salirò un giorno o l'altro, invece - riprese il ragazzetto, sempre più animandosi. - Voglio comprarlo quel palazzo, io!

— Proprio, proprio! - esclamò la mamma, ridendo. - Ecco Reno, il tuo povero fratellino. Sentiamo cosa dice, lui.

Reno, il fratellino rachitico, scendeva zoppicando la scaletta di legno che dalla cucina conduceva alla stanza superiore.

Vedendo Adone, che si era voltato per guardarlo, gli si piantò davanti, con le gambe storte aperte ad arco, con le mani in tasca, gli occhioni verdi spalancati sotto una folta frangia di capelli gialli: e non rispose al suo sorriso, ma lo fissò a lungo, con evidente senso d'invidia. Adone era così ben vestito!

— Renuccio, ti sei svegliato ora? Vieni qui, caro, - disse la mamma porgendo le mani al di sopra delle spalle.

Ma il rachitico era di cattivo umore; aveva troppo dormito. Non rispose, non aprì bocca, ma s'appoggiò alle spalle della mamma, e piano piano ella finì col prenderlo in grembo. E lo baciò sul capo, gli divise sulla fronte i lunghi capelli giallastri, gli disse, con parole velate, che egli era il suo bimbo più caro, perchè il più infelice. E per divertirlo insistè sui folli progetti del « capomastro » mentre Ottavio, che fino a quel momento non aveva cessato di succhiare il suo cerchietto di osso e di sorridere alle galline e alle rondini, piangeva vedendo il grembo materno occupato da un altro.

E Adone a sua volta, il futuro signore, guardava con invidia il fratellino rachitico, che per il momento era molto più ricco di lui perchè si godeva tutti i baci e tutte le carezze della mamma.

Sì, fu durante quella sera indimenticabile che la sua sorte mutò.

Egli era appena tornato a casa, e stava nel cortile assieme con la Tognina, aiutandola a sgranare fagiuoli.

Sopra il tetto dei fienili, dietro le cime degli alberi, il cielo era tutto rosso; la luce rosea ma sempre più smorta della sera illuminava il cortile.

A un tratto la donna e il fanciullo credettero di sognare. Sullo sfondo del portone spalancato vedevano due uomini, il cordaio e Jusfin, che reggevano il corpo esanime di Giovanni.

Seguivano altre persone, fanciulle vestite di chiaro, giovanotti e uomini; bambini che guardavano spauriti quel grosso corpo cascante, quel viso livido reclinato sul petto, quelle mani aspre che parevano addormentate, quei piedi pesanti che non volevano staccarsi dal suolo.

Sulle prime Tognina credette che suo marito fosse ubbriaco; cosa che gli succedeva di rado, ma gli succedeva.

Adone invece ricordò come lo zio quella mattina s'era sentito male, e si mise a piangere, credendolo morto.

Anche la donna allora diede un grido e corse come una pazza incontro al gruppo che s'avanzava. La gente rimase fuori; solo il prevosto, seguìto da un cagnolino nero, entrò correndo nel cortile, prese Tognina per un braccio e le gridò sul viso:

— Calma! calma! È niente: è uno svenimento. Forse ha bevuto troppo.

Poi, siccome qualche persona entrava nel cortile, egli tornò indietro e gridò ferocemente:

— Via! via! E che ci sono le marionette, qui? Via, sacri tabernacoli, via!

Egli stesso chiuse il portone, mentre i due uomini trascinavano verso la casa il gigante svenuto.

Il cagnolino cominciò ad annusare i fagiuoli caduti per terra, poi guardò Adone e abbajò.

Adone gli diede un calcio e fuggì nel portico, dove si mise in un angolo, ascoltando e guardandosi intorno spaurito. E da quel momento cominciò per lui una specie di sogno pauroso.

Egli desiderava ardentemente salire nella camera ove lo zio era stato portato, e gridava piangendo: « Zio mio, zio mio, svegliati! » ma aveva paura di muoversi. La sua angoscia era pari al suo terrore. Era morto, lo zio? Avrebbe riaperto gli occhi, sollevato la testa? sollevato le mani? Egli non sapeva: egli sapeva che se lo zio era morto non era più il suo zio caro: era un morto, ed egli aveva paura dei morti.

La luce mancava: tutto si velava, tutto diventava triste e misterioso.

La gente andava e veniva, e le figure apparivano sempre più nere sullo sfondo ancora un po' chiaro della porta spalancata.

La scaletta che dal portico conduceva al piano superiore risuonava di passi rapidi e pesanti: poi questi passi diventarono lievi, lenti, quasi furtivi, e le figure nere meno numerose: lo sfondo della porta si oscurò, e una voce cantò al di là della siepe, nell'aja del zolfanellajo:

Mi vestirò da monaca Per ingannar gli amanti: Ne ho ingannati tanti, Tanti tanti tanti, Ingannerò anche te.

Adone strinse i pugni, infuriato. Perchè cantavano? Non sapevano che lo zio era malato? Forse morto?

La voce riprese a cantare:

Tanti tanti tanti…

Egli si rimise a piangere, per dispetto.

Nessuno badava a lui. La voce tacque, tutto fu silenzio. La rondine e i rondinotti di tanto in tanto pispigliavano, come in sogno.

D'un tratto il portico si ripopolò di figure nere: qualcuno rise; una campanella squillò nel cortile.

— Ecco il dottore!

— È finita! - pensò Adone. - Il dottore! Mio zio deve morire.

La voce iraconda del cordaio lo trasse dal suo sogno doloroso.

— Si potrebbe accendere un lume! Adone!

Egli si mosse; entrò in cucina, prese un zolfanello e si curvò sul focolare per accendre il lume. Sulla cenere calda stavano alcune fette di polenta che Tognina aveva messo ad abbrustolire: da una padellina usciva il grato odore delle rane in umido. E per istinto egli toccò la polenta, annusò le rane, e si accorse che aveva fame: e si sentì ancora più triste e disperato.

Fu una notte indimenticabile.

Il malato riprese i sensi, ma non parlava e non si moveva. Verso le nove arrivò la mamma di Adone, e benchè il medico avesse ordinato di non lasciar entrar gente nella camera del malato, ella volle salire a tutti i costi. Per un momento Adone stette sulla porticina della scala, guardando la sua mamma che saliva in punta di piedi e appoggiandosi al muro per non far rumore. Egli chiamò sottovoce:

— Mamma? Mamma?

La donna si volse, gli accennò di star zitto. Allora egli prese una grave decisione: sali, cautamente, afferrò un lembo della sottana della mamma, e per quanti gesti ella facesse, egli non volle più lasciarla. Cosi, stretti l' uno all'altra, entrarono nella camera del malato. Era una camera vastissima, bassa, con le pareti e le travi tinte di calce: un gran letto di noce, due cassettoni, un tavolino, una lunga cassa massiccia si perdevano nella vastità di quel camerone, che nonostante tutti quei mobili sembrava vuoto.

Adone e lo zio dormivano assieme in que gran letto molle, dai materassi e i cuscini di piume. Lo zio russava e parlava in sogno; ma Adone dormiva così bene che non si accorgeva di niente.

Nelle notti d'inverno egli si avvicinava al gigante, e gli pareva d'essere accanto al fuoco, tanto calore il grosso corpo emanava. Di solito, appena svegliati, zio e nipote prendevano il caffè, servito loro da Tognina, che dormiva in un'altra camera e si alzava prima dell'alba. Dopo il caffè, qualche volta, mangiavano un po' di suc, sugo d'uva congelato. Adone aveva fretta: avrebbe voluto bere il caffè e mangiare il suc nello stesso tempo. Ma lo zio diceva:

— Santa pazienza! Aspetta che vada giù il caffè: ora è qui, nel barbussin, ora è qui nella gola, ora qui nello stomaco.

E col suo ditone peloso gli toccava il mento, la gola, il petto, gli faceva il solletico, lo costringeva a ridere pazzamente.

Sì, l'omone voleva bene all'omino goloso e ridente. Lo conduceva spesso con sè, attraverso i campi, lo copriva fin su gli occhi col suo mantello, e gli domandava:

— Dove siamo, ora?

Se Adone indovinava il punto preciso dove si trovavano, lo zio gli dava una palanchina da due centesimi. Un giorno andarono a Viadana. Era d'autunno, faceva freddo e Adone camminava sotto il mantellone dello zio. A un certo punto della strada l'omone si fermò e gli mise sulla testa un oggetto che pesava assai.

— Indovina cosa è, - gli disse.

Un pezzo di parmigiano.

— Hai indovinato il colore. Non è parmigiano, però. Indovina cosa è.

Adone non riuscì a indovinare. Impazientito si sottrasse al peso e sollevò il mantello. E vide che lo zio teneva in mano un sacchettino di tela giallognola.

— Dimmi che cosa è, zio! Dimmelo!

— Se lo domandi per piacere.

— Sì, zio, per piacere!

L'uomo guardò di qua e di là, da una parte e dall'altra dell'argine. Nessuno. Silenzio. I campi erano tutti gialli: gli alberi sembravano d'oro; e il cielo era grigio e freddo, e il fiume pareva immobile, grigio e freddo come il cielo.

Con gesti misteriosi lo zio slegò il sacchetto, e lo abbassò tenendolo con ambe le mani: e Adone potè vedere tante tante monetine gialle fra le quali biancheggiava qualche grossa moneta d'argento.

— E di chi sono? - domandò, abbassando istintivamente la voce.

— Tue.

— Mie? E allora dammele!

— No, caro: quando sarai grande.

— E ora dove le porti?

— Alla Banca.

— Che cosa è la panca?

— La Banca, non la panca! Un luogo ove si custodiscono i denari. Altrimenti i ladri ce li rubano.

— Io darò tante bastonate ai ladri! Romperò loro la testa, e anche le gambe, - gridò Adone, facendo atto di bastonare.

Lo zio rise; intanto aveva ancora legato e messo sotto il braccio il prezioso sacchettino.

Ripresero la via. Adone era già stato altre volte a Viadana, e la considerava come una città grandiosa. Sopratutto egli ammirava l'acciottolato delle vie; anche il ponte di chiatte sul Po gli sembrava una cosa magnifica.

Durante il viaggio, del resto molto breve, egli pensò sempre alle monetine gialle, e fu allora che gli venne in mente di comprare un molino, una barca, una carriuola, il palazzo Dargenti. Domandò allo zio perchè non gli consegnava subito le monete, dal momento che egli non aveva paura dei ladri.

— Potresti perderle, anche!

— Ma no; le metterò nella cesta.

Ma lo zio non si lasciò convincere. Allora un'altra inquietudine turbò il ragazzetto.

— E me le daranno, poi? E se tu morrai?

— Lo lascerò scritto. Lascerò scritto che tutta la mia roba è tua.

— E… se morrò prima io? Te le riprendi? Senti, devi fare così: le darai alla mia mamma.

— Speriamo non sia il caso.

Má intanto erano giunti. Sotto i suoi piedini Adone sentiva il lastrico della via, e la gioja e l'emozione di trovarsi nella città gli faceva dimenticare ogni altra cosa.


***

Ed ora lo zio giaceva sprofondato fra i cuscini di piume. Il suo viso diventava sempre più cadaverico: le sue mani, abbandonate sulle lenzuola, sembravano già morte.

Tognina, col viso reclinato sul povero gigante abbattuto come una quercia dal fulmine, gli copriva la fronte con pannolini bagnati; e di tanto in tanto gli sollevava ora l'una ora l'altra mano e dopo averla tenuta alquanto sospesa la lasciava ricadere sul lenzuolo umido.

Adone guardava, con tristezza e paura. Domandò sottovoce:

— È morto?

Nessuno rispose. Soltanto Pirloccia si mise un dito sulle labbra, e Adone non osò più fiatare.

L'ometto s'era installato accanto al letto di Giovanni, e pareva non avesse intenzione di muoversi. Nella penombra, coi suoi occhietti lucidi come quelli di un topo, intenti a spiare il momento della morte del gigante, egli pareva uno gnomo maligno pronto a compiere qualche opera cattiva.

La mamma di Adone s'era avvicinata a Tognina e le diceva qualche parola sottovoce. A un tratto gli occhi vitrei del malato parvero animarsi: le sue labbra si mossero. Egli aveva sentito la presenza del fanciullo e Tognina comprese ch'egli voleva vederlo. Si volse, guardò Adone con gli occhi pieni di lagrime, gli fece cenno di avvicinarsi. Adone si gettò sul letto, guardò avidamente il caro viso e non lo riconobbe più. Il suo zio rosso e sorridente era già morto: di lui non rimanevano che i capelli e i baffi; tutto il resto s'era trasformato orribilmente.

Sotto gli occhi del malato, ridiventati vitrei, si disegnavano due vene, livide e gonfie: Adone passò il ditino sopra queste vene, quasi volendole far sparire; poi si mise a piangere dirottamente. La mamma lo prese per le spalle, lo trascinò fuori della camera e lo sgridò, piano, piano, minacciando di batterlo se non stava zitto. Allora egli tacque: si volse e vide che l'ometto silenzioso s'era alzato e chiudeva l'uscio della camera.

Egli e la mamma rimasero nel pianerottolo. Ella gli strinse la mano, se lo tirò dietro, giù per la scaletta. Nell'atrio, che era un lungo andito sul quale s'aprivano gli usci delle stanze terrene, v'erano parecchie persone, fra le quali due tigli del Pirloccia, due gemelli uno dei quali era bruno e olivastro come il padre e l'altro così albino che pareva canuto. Un vecchio bifolco, fratello di Jusfin l'ex-cacciatore, accendeva un lumino ad olio davanti all immagine di San Simone Giuda, inchiodata dentro una piccola nicchia del muro. Grosse lagrime gli solcavano il viso rugoso e andavano a perdersi fra i peli ispidi dei baffi grigi. Adone vide la sua mamma avvicinarsi al vecchio e dirgli sottovoce qualche parola: poi uscirono nell'aja e di là nella strada.

Era una notte soavissima. Gli usignuoli cantavano, fra un coro dispettoso di rane e di rospi; il profumo del fieno e del grano ondeggiava nell'aria, quasi fondendosi col canto degli usignuoli e con lo splendore delle lucciole. La luna grande e dorata saliva dietro i pioppi, sul cielo azzurro; l'acqua dei fossi rifletteva i tronchi neri, le erbe grigie brillanti di lucciole, e in fondo in fondo il cielo azzurro e le stelle d'oro.

Questi riflessi destavano sempre una grande meraviglia in Adone. Ma quella sera egli pensava ad altro. Un mistero terribile, ben più profondo di tutte le meraviglie della terra, turbava la sua piccola anima. Madre e figlio camminarono per un buon tratto di strada, silenziosi. Egli sentiva che la mamma voleva dirgli qualche cosa e la seguiva volentieri.

— Senti, - ella disse, sottovoce, quando fu rono alquanto lontani. - Dimmi una cosa. Nel cassetto del tavolino, in camera dello zio, che cosa c'è?

— Tante monete gialle e bianche

— Le hai proprio vedute?

— Sì, sì, eh, altro!

— E carte ce ne sono?

— Carte da giuoco?

— No, no. Carte scritte.

Egli pensò, ricordò:

— Sì, sì, ce ne sono.

— Chi ha la chiave? Lo zio?

— Sì, lui, sempre. Di notte la mette sotto il cuscino.

— Senti bene - disse la mamma, fermandosi. - Bisogna che tu ritorni in camera dello zio. Mettiti in un angolo e sta zitto zitto. E sta attento se aprono quel cassetto.

— Io? Io ho paura, - egli disse tremando. - Come farò a star lì, se lo zio muore?

— Senti, caro il mio omino. Bisogna che tu ci stii, là, almeno finchè torno io. Va, fatti coraggio. Io ora corro a casa, cerco qualcuno che dia attenzione ai tuoi fratellini. Poi torno… Se non è troppo tardi!

— Perchè non l'hai fatto prima? Ma perchè?… - egli singhiozzò, attaccandosi nuovamente a lei.

— Caro il mio omino, non credevo che tuo zio stesse così male. Va, ora, va!

Ma egli aveva paura. Lasciò che la mamma si allontanasse e invece di ritornare verso casa s'avvicinò alla chiesa. L'ombra dei pioppi si disegnava nettamente sull'erba del prato: i tronchi sembravano colonne di marmo, e le loro ombre colonne nere buttate per terra. Egli aspettava trepidando il ritorno della mamma: ella lo avrebbe sgridato, di certo, ma egli preferiva ogni tormento a quello di ritornare in camera dello zio. Cautamente s'avvicinò ai pioppi: qualche cosa bisognava pur fare. E piano piano cominciò a passare e ripassare su quelle ombre nere, eguali, immobili, che andavano a perdersi nell'ombra compatta verso il cancello Dargenti. Ma ad un tratto egli provò un senso di spavento. Gli parve di vedere un viso deforme e giallo affacciarsi tra il fogliame dei pioppi: un sospiro profondo attraversò l'aria. Egli si mise a correre, e ritornò a casa. Il portone era sempre socchiuso. Nell'andito vegliavano ancora i figli del Pirloccia, una loro zia sorella di Tognina, e il vecchio bifolco. Nella nicchia, davanti all'immagine rossa e gialla di San Simone Giuda, ardeva entro un bicchiere una fiammella galleggiante. Il bifolco diceva a voce bassa il rosario; gli altri rispondevano bisbigliando. Adone andò a sedersi sotto alla nicchia, e anch'egli pregò. Guardava sempre verso la porta, aspettando ansiosamente la mamma: aveva sonno, però, e la testa gli si piegava sul petto. A momenti gli occhi gli si chiudevano: allora gli pareva d'essere ancora nel viottolo, con le ciliegie sulle orecchie e il cestino in mano. S'udiva la voce dello zio: tutto era stato un sogno; lo zio era sano e allegro, l'uomo che giaceva sul gran letto molle, nella camera grande, era uno sconosciuto, un essere misterioso del quale egli aveva paura. Anche il Pirloccia gli destava paura. Gli pareva di vederlo: il piccolo uomo nero si alzava piano piano, frugava sotto il cuscino del malato, prendeva la chiave, poi correva lungo il muro come un topo e usciva dalla camera.

— Se passa di qui lo prendo per le gambe e lo morsico, - pensava Adone, spavaldo anche in sogno.

Ma all' improvviso egli sollevò la testa e trasalì. La Tognina attraversava l'andito, silenziosa, con un bicchiere in mano. Pareva anche lei moribonda, tanto era gialla in viso e sfinita.

La zia Elena le andò incontro e le prese di mano il bicchiere. La donnina tornò su. La zia Elena attraversò anche lei l'andito, col bicchiere in mano.

Adone reclinò ancora la testa. Gli parve di udire il passo della mamma, in lontananza.

— Ella non mi sgriderà se dormo, - pensò. E finse di dormire, e fingendo s'addormentò davvero.


***

Quando egli si svegliò lo zio era morto.

Tristi giorni cominciarono allora per Adone. Tutti credevano che Giovanni lo avesse nominato suo erede. Ma due settimane circa dopo la morte del gigante, Tognina disse di aver trovato, in mezzo ad altre carte, un testamento olografo, che risaliva a quindici anni prima, e nel quale il morto la nominava sua erede universale.

La gente commentò a lungo il fatto. E una voce maligna si sparse: che Pirloccia, d'accordo con Tognina, avesse fatto sparire l' ultimo, il vero testamento col quale Giovanni instituiva erede il nipotino.

Intanto Adone rimaneva presso la zia. Ella non s'era mai occupata di lui, come del resto non s'era mai occupata di alcuno.

Col marito s' erano poco amati, ma erano vissuti sempre in pace, forse appunto perchè la piccola donna non aveva mai pensato ad altro che alla sua casa, alla cucina, alla biancheria. Inoltre elle era sempre malaticcia; soffriva di reumatismi che la costringevano a stare lunghi mesi a letto; e anche quando stava bene faceva poco chiasso. Era timida e taciturna. Non usciva quasi mai, e neppure amava tener aperte le finestre e la porta. Nessuno riusciva a sapere che cosa ella facesse tutto il giorno, chiusa in tal modo come una monaca.

— Che fa la zia? - domandavano ad Adone le vicine curiose.

— Sta in camera sua a pulire le sedie, - egli rispondeva invariabilmente.

Dalla mattina alla sera ella infatti non faceva altro che riordinare e pulire i suoi mobili. Pareva che il senso dell'affettività si fosse sviluppato in lei in modo anormale: ella non amava le persone, ma amava le cose. Si curava dei suoi mobili più che dei suoi parenti. Dopo la morte del marito diventò ancora più triste e misantropa. Fece assiepare e dividere la sua aja da quelle dei vicini; mise un saliscendi nuovo al portone, e ordinò al nipotino di chiuderlo ognivolta che entrava od usciva.

Egli obbediva, ma entrava ed usciva poche volte al giorno. Dopo la morte dello zio egli si annoiava a stare in casa e ci stava il meno possibile. Quando non vagava pei campi, dopo la scuola, andava dalla sua mamma a giocare e litigare coi fratellini; tornava a casa solo per frugare in tutti gli angoli, cercando da mangiare; e quando era sazio scappava ancora. Passava molte ore della giornata dal cordaio o dal zolfanellajo, il cui cortile era rimasto così stretto da sembrare un viottolo fra due siepi.

Il cordaio era terribilmente adirato contro la Tognina, per l'affare della siepe, e si sfogava parlandone male con Adone. Del resto egli gridava sempre, e tirava e stendeva le sue corde con violenza, bestemmiando contro la canapa, che quell'anno era cattiva, e contro il suo mestiere, e contro sua moglie, e contro Andromaca. La fanciulla, bionda e rosea, con due grandi occhi castanei socchiusi e languidi, coi predini nudi, a metà dentro le pianelle ricamate, girava la ruota e taceva. Pareva non udisse neppure la voce irata del padre. Adone le si aggirava sempre attorno, ammirandola e sorridendole.

Il zolfanellajo, al contrario di Sison, parlava poco e quasi sottovoce. Spesso pregava. Il suo mestiere facile e tranquillo gli permetteva di lavorare seduto comodamente all'ombra del portone: però egli era spesso malato; tossiva; grossi foruncoli al collo e alla bocca lo tormentavano.

La moglie, più vecchia di lui, sembrava anche lei una statua di legno: era alta, secca, senza vita, con un vestito color noce, un cappello d'uomo in testa e un fazzolettino frangiato al collo. Era brutta, sdentata, con un gran naso aquilino e gli occhi azzurri un po' divergenti: eppure il zolfanellajo, che l'aveva sposata in seconde nozze, aveva per lei una specie di adorazione filiale. Anche lei parlava poco e forse per questo aveva uno scudmai(1) Soprannome. strano: la chiamavano la Müton.

Ella preparava i fuscellini di legno, li contava, ne faceva dei mazzetti che porgeva al marito. Egli pestava lo zolfo, lo scioglieva entro un pentolino collocato su tre pietre, fra le quali ardeva il fuoco; e immergeva rapidamente le punte dei fuscellini nella materia gialla bollente che pareva oro liquefatto. La vecchia poi riuniva ancora i mazzettini, a venti a venti, formando come delle piccole ruote che collocava una sull'altra. Così i zolfanelli s'elevavano in tante piccole colonne, intorno ai due silenziosi e melanconici operai, che parevano intenti ad un'opera magica.

Adone contava, senza mai riuscire a trovare il numero giusto, le ruote, i mazzetti, i fuscellini. Guardava entro il pentolino, starnutava, offriva il suo aiuto alla donna di legno scuro e all'ometto di legno giallo. L'una e l'altro rifiutavano. Allora egli chiacchierava e rideva. Rideva anche quando parlava di cose serie, discutendo, per esempio, se lo zio era andato in paradiso o nel purgatorio. L'inferno non lo ammetteva neppure per i più malvagi: al solo pensarci gli veniva voglia di cavar la lingua e fare tante smorfie.

Il zolfanellajo era propenso a credere che lo zio Giovanni si trovasse in purgatorio.

— Egli era un uomo onesto, - diceva seriamente, - ma anche lui aveva i suoi peccati. Qual'è l'uomo senza peccato, specialmente se è ricco?

— I ricchi vanno tutti all' inferno, - diceva la donna, con gli occhietti conversi sul mazzetto di stecchini.

Adone spalancava gli occhi e la bocca, meravigliato: poi rideva, certo che la zolfanellaja scherzava.

Ella però non scherzava, e tanto meno rideva; anche il zolfanellajo non rideva. Quell'ometto melanconico e tranquillo, mite come un agnellino, era un socialista convinto. In quel tempo il socialismo, in Italia, era quasi ancora una società segreta. Erano i tempi eroici della nuova dottrina: i suoi seguaci erano perseguitati, o almeno tenuti d'occhio come individui pericolosi. Nelle poste venivano aperte le loro lettere: se osavano far propaganda venivano cacciati dai loro impieghi.

Nel collegio di Gonzaga, però, era già deputato Enrico Ferri: e fra i suoi pochi ma fervidi seguaci di Casalino v'era uno studente, figlio del zolfanellajo.

Quando parlavano di lui il padre e la matrigna abbassavano la voce e si commovevano: pareva che parlassero del gran re Davide, del quale lo studente aveva il nome.

Durante le vacanze Davide, che studiava a Milano e viveva coi pochi denari guadagnati da suo padre, faceva un'attiva e coraggiosa propaganda. I primi ad essere convinti da lui furono il padre e la matrigna. Anche la matrigna. Tutto è buono per alimentare il fuoco, anche il fuscellino, anche la foglia morta.

Il socialismo del zolfanellajo era però un socialismo cristiano e primitivo.

— I ricchi devono aiutare i poveri, - egli diceva al piccolo Adone. - Se no non vanno certo in paradiso. I ricchi devono anzi dividere i loro beni coi poveri. Ora tuo-zio era un uomo onesto, ma non aiutava i poveri. Sarà andato in purgatorio.

Adone voleva discutere, anche perchè sperava di andare in paradiso e voleva raggiungervi lo zio.

— Ma la sua roba era sua, ecco! Perchè doveva darla agli altri?

Il zolfanellajo, intento alla sua pentolina gialla e nera, scuoteva la testa. Non voleva, non poteva discutere con un bambino: c'era tempo!

Ma la donna, che aveva colto a volo certe parole del figliastro, diventava misteriosa, e sbattendo sulla pietra i mazzetti di stecchini per farne star bene assieme le estremità, mormorava:

— Verrà un giorno!… Verrà un giorno!…

— Che cosa?

— Verrà!…

Ella non osava dire altro, ma sapeva lei! Verrà un giorno in cui tutti saremo ricchi, o per lo meno eguali. Allora la Tognina non si permetterà più di chiudere la sua aja; e tutti potremo permetterci la comodità di starcene dentro, in casa, a pulire le sedie invece che a fare zolfanelli.

Adone non capiva; ma amava la compagnia di quei due esseri in apparenza miti e silenziosi, che parlavano poco, ma quando parlavano dicevano cose serie e si rivolgevano a lui come ad un uomo fatto.

Qualche volta però s'indugiava a lungo anche nell'aja del cordaio. Se questi era assente, Andromaca chiacchierava volentieri ed anche giuocava col suo piccolo ammiratore. Ultimamente il cordaio aveva comprato un campo dietro la sua casa, e aveva impiantato la sua ruota e i piuoli sotto un lungo pergolato che sembrava un andito verde.

Quando erano soli, Andromaca e Adone si rincorrevano pazzamente sotto il pergolato. Ella perdeva le ciabatte, egli urlava quando lei lo raggiungeva. Un giorno, lottando e ridendo, caddero assieme. Gli occhi dorati e voluttuosi di Andromaca scintillavano. Ella premè col suo il petto di Adone, lo guardò negli occhi, gli morsicò le labbra. Egli gridò, ma quando si rialzarono la supplicò di ricominciare il giuoco.

— Ancora! Ancora! Per piacere! - le disse, reclinando la testa e guardandola con occhi supplichevoli. Ma ella non volle farlo più.


***

Cominciava l'estate calda e afosa della pianura. Il sole ardentissimo batteva sulla grande aja chiusa, che pareva un piccolo deserto.

La casa di Tognina taceva: attraverso le vaste camere silenziose e l'andito illuminato da una lancia d'oro che il sole disegnava dalla porta socchiusa alla parete, passava solo, come un fantasma, la figura piccola e nera della vedova.

Dietro la casa c'era un cortiletto, popolato di galline sonnolenti. Di là s'andava nei campi verdi di melica e di granoturco, biondi di frumento, circondati d'alberi e di viti. Dopo la morte di Giovanni, i due figli del Pirloccia lavoravano il vasto possedimento della zia. Adone non amava la compagnia di questi due giovanotti che lo vedevano di mal occhio e lo deridevano: specialmente Marco, il moro, quello che rassomigliava al Pirloccia, gli riusciva antipatico. L'altro, Agostino, era alto e svelto, ma d'una bruttezza straordinaria: il suo scialbo viso di albino, dagli occhi lattei, miopi, dalla bocca grande e i denti sporgenti esprimeva tuttavia una certa bontà. Entrambi, non ancora ventenni, erano fidanzati con due belle ragazze. Fra loro, non andavano troppo d'accordo, anzi questionavano spesso: erano però due forti lavoratori, e non amavano Adone perchè lo ritenevano un ragazzo poltrone. Egli a sua volta li temeva e li scansava, e la sua antipatia si riversava anche su gli altri due figli del Pirloccia, che frequentavano assieme con lui la prima classe elementare.

La vita, così, in casa della piccola vedova, trascorreva più triste che allegra.

Il Pirloccia veniva spesso, occupandosi degli affari di Tognina: non raccontava più le sue storie di viaggio, e pareva non s'accorgesse affatto di Adone. Dopo la morte dello zio non si apparecchiava più la tavola; la vedova mangiava seduta davanti al camino, Adone la imitava volentieri, dividendo il suo pranzo col gatto.

Un giorno egli andò a lamentarsi con la mamma.

— Stamattina sono uscito nel campo: sono andato a cogliere i pomidoro. Mi aveva mandato la Tognina; mica sono andato per idea mia. E Agostino mi ha rincorso colla falce in mano, minacciando di falciarmi le gambe! Eh!

— E la tua zia che ha detto?

— Niente! Non dice mai niente, lei!

— Ma glielo hai detto bene?

— Sicuro, eh! Stava nella sua camera e puliva le sedie. Ha detto solo: e lasciami in pace!

— Pazienza! - sospirò la mamma. - Forse avrai fatto qualche dispetto ad Agostino.

— No, no, davvero, niente!

— Pensaci bene, caro il mio omin. Gli avrai mostrato la lingua.

— No, no, davvero, niente!

— Pensaci bene: almeno la punta.

Egli pensò: arrossì, e finì col confessare.

— Sì, appena la punta.

— Vedi? Vedi?

La mamma lo sgridò: gli disse:

— Non devi far cosí! Devi esser buono, affinchè la zia ti voglia bene, come ti voleva bene il tuo povero zio. Se sei cattivo ti manda via; si prende in casa i figli di Pirloccia.

— Ed io vengo da te!

— Da me? povero il mio omin! Siamo abbastanza, noi! Come si fa, con tante bocche che mangiano, con poche braccia che lavorano? Sta buono, sta buono, e ama la tua zia. Se ella ha una coscienza riparerà al mal fatto.

Qualche volta madre e figlio ricordavano le promesse dello zio.

— Ricordati quanto ti ho detto quella sera! Sì, Pirloccia deve aver portato via le carte, quella notte, capisci, le carte nelle quali il tuo povero zio aveva scritto che tu eri il padrone di tutto… Come ho fatto male, quella notte, a non restar là! Come ho fatto male! Ma chi poteva credere che Giovanni morisse così presto! Pazienza: meno male che la zia ti tiene con sè. Ella, certo, vorrà rimediare al mal fatto. Bisogna però che tu sii bravo, obbediente, docile.

E lo avvertiva di non ripetere a nessuno le loro conversazioni: ma ella stessa chiacchierava con tutti, e un giorno il Pirloccia la minacciò d'una querela.

Ella si spaventò, negò tutto. Allora l'ometto si ra bbonì, le disse:

— Vedete, Martina, se io avessi fatto una simile cosa, sarei in migliori condizioni. Invece che cosa sono io? E i miei ragazzi? Tutti servi della Tognina, servi mal pagati e mal trattati. Ho conosciuto un uomo, in Croazia, un furbacchione d'uomo che aveva aiutato una sua parente a rubare i soldi d'un moribondo. Ebbene, cosa fece l'uomo? Si tenne tutto per sè. Ma era un furbacchione. Pirloccia, al contrario, è un uomo onesto: egli se ne infischia della roba altrui. Dite se ho ragione o no, Martina.

Egli sparlò della sorella: ella amava più le sue galline che í suoi parenti. La donna, allora, gli diede pienamente ragione: e ogni volta che Adone andava a lagnarsi con lei lo sgridava.

Egli, che nelle sue ore disperate andava ad accusare a sua madre, come ad un giudice incorruttibile, coloro che lo maltrattavano senza ragione, provava una grande tristezza per le ingiuste sentenze di lei.

Egli comprendeva bene che ella non lo voleva presso di sè, perchè nella povera casa non c'era posto per lui; ed egli non lo pretendeva neppure, ma gli dispiaceva tanto che la sua mamma lo respingesse, e non gli rendesse giustizia e non gli volesse bene. Quando la mamma gli parlava troppo aspramente, egli, spinto dalla sua sete di giustizia, se ne tornava presso la zia.

— Ma sentimi bene, zia, ti dico! Ecco, Marco mi ha dato uno schiaffone: io non facevo il cattivo. Io l'ho detto alla mamma, e lei ha detto che Marco ha fatto bene!

— La tua mamma ha ragione!

Egli protestava, gridava, piangeva.

— Nessuno mi vuol bene. Nessuno! Nessuno!

— Perchè sei cattivo!

— Lo zio solo mi voleva bene.

— Perchè eri buono, allora!

No, egli lo sentiva: perchè soltanto lo zio era stato un uomo giusto.

***

I tempi erano mutati, e peggioravano di giorno in giorno. Di giorno in giorno il Pirloccia con tutta la sua progenie s'avvicinava alla casa della vedova, e la circondava e la invadeva come un nemico astuto e forte circonda e invade un dominio mal difeso.

Una sera d'autunno la zia Elena che conviveva col Pirloccia e dava attenzione ai suoi bambini, venne a raccontare che i due gemelli s'erano bisticciati col padre. Più tardi giunse il Pirloccia stesso, arrabbiato e fremente.

— Mi farai dormire nel tuo fienile, Tognina! - supplicò. - O vanno via loro, di casa mia, o vado via io. No, bisogna che abbiano una buona lezione, quei due cani! Corpo! Corpo! Sono sì o no il padre, io?

Tremava di rabbia. Se fingeva, fingeva molto bene. Tognina lo guardò, coi suoi occhi tristi e diffidenti, e non gli negò l'ospitalità domandata.

La notte era fredda e piovosa: invece di dormire nel fienile l'ometto dormi in cucina, e invece di una furono più notti.

Di giorno egli andava a lavorare le sue scope; di sera ritornava e raccontava di aver ancora litigato coi gemelli, i quali gli avevano persino rinfacciato di essere un cattivo padre. Ah, sì, un cattivo padre? A lui, che girava il mondo, sotto la pioggia e sotto il sole, per sostentare la famiglia! Ora però voleva abbandonare a sè stessi i due giovinastri. E cercava casa, per sè e per i due figli piccoli. Domandò a Tognina se gli affittava la camera bassa, dove egli avrebbe potuto riporre anche le sue scope. La donnina rispose subito negativamente. Egli gridò:

— Mica gratis! Pago, io, e bene, e subito. Ecco qui.

Trasse il suo voluminoso portafogli, zeppo di carte ingiallite e di immagini sacre, e prese un biglietto da cinque lire.

— Anticipazione, corpo! - gridò, porgendolo a Tognina. - Guardalo, almeno.

La donna non volse neppure la testa. Pirloccia rimise il biglietto nel portafogli e il portafogli in tasca.

Adone stava seduto accanto al fuoco, col gatto sulle ginocchia, e osservava la seena senza parlare. I suoi begli occhi splendevano, al riflesso della fiamma.

Per alcuni momenti nessuno più fiatò: s'udiva solo il ronfare del gatto e il soffio della fiamma. Ma ad un tratto l'ometto guardò il ragazzo, quasi lo vedesse appena allora, e domandò:

— Perchè non va a letto questo scimmiotto?

— Scimmiotto sei tu, - rispose vivacemente Adone. E guardò l'uomo, sfidandolo. Ma per la prima volta dacchè lo conosceva lo vide arrabbiarsi in modo terribile.

— È tempo di finirla! - gridava l'ometto, agitando il braccio. - Tu non rispetti neppure i vecchi. Ma se tua zia non è buona a correggerti, d'ora in avanti ci penserò io. Marcia a letto! Subito!

Adone stringeva a sè il gatto spaventato, e guardava-la zia.

— Obbedisci, - ella disse con insolita dolcezza. - Va a letto: è tardi.

Egli allora ricordò i consigli della mamma, e obbedi.

Egli ora dormiva su un canapè, nella camera della zia: una camera piuttosto piccola, con un grande camino sul quale stavano parecchi vasi di vetro pieni di conserve di frutta e di ciliege nell'alcool. Un letto di noce, coperto di cuscini di pìume, occupava tutta la parete di fondo. Formava il lusso e la caratteristica di questa camera una dozzina di sedie di noce, con le spalliere ricurve e i fondi mobili, di stoffa verde e gialla. Queste sedie antiche, sulle quali la zia pretendeva che Adone non si sedesse neppure, esercitavano su lui un vero fascino. Egli le aveva sempre vedute lì, in quella camera austera e melanconica: e le conosceva una per una, perchè, sebbene apparentemente eguali, avevano qualche segno, qualche particolare che le distingueva l'una dall'altra; e gli piacevano tanto che egli amava figurarsi le sedie del palazzo Dargenti simili a quelle.

Appena acceso il lumino, invece di coricarsi, egli sollevò a metà il fondo d'una di queste sedie: poi fece altrettanto con un'altra: poi sedette e guardò i vasi di vetro sul camino. Poco per volta il suo dispiacere svaniva: la contemplazione di quei vasi, dei quali invano parecchie volte aveva tentato l'assalto, gli dava un delizioso senso di voluttà. A quell'altezza, coi loro colori, il loro scintillio, il loro profumo, rappresentavano per lui un sogno di dolcezza.

A un tratto però egli si scosse, balzò in piedi: i suoi occhi diventarono scuri, inquieti. Udiva Pirloccia e Tognina litigare: l'ometto urlava come un ubbriaco. Egli ebbe di nuovo paura: si spogliò in fretta, andò a letto, ma non potè dormire: fin sotto le coperte gli giungeva all'orecchio, come da una cupa lontananza, la voce rauca del maligno ometto. Che cosa voleva? Forse urlava perchè voleva in affitto la camera bassa: e l'idea che l'ometto potesse venire ad abitare in casa sua lo spaventava.

— Speriamo di no, speriamo! - sospirava.

Giù in cucina l'uomo e la donna continuarono a litigare: poi tutto fu silenzio. Adone cominciava ad assopirsi quando la zia salì. Gli parve che ella singhiozzasse, e provò una grande pietà di lei, un bisogno di volerle bene, di proteggerla, di confortarla.

— Zia, zia, - le disse, con la stessa vocina affettuosa con cui un tempo chiamava lo zio buono e caro, - che hai? Dimmi che hai, zia mia! Perchè gridava, quello là? Dovevi chiamarmi, zia: sarei venuto giù con un bastone…

Egli aveva messo fuori la testina arruffata, e il suo visetto roseo, sul candore delle lenzuola, era più bello ed espressivo del solito. Ma la zia neppure lo guardò.

— Tu hai sognato, - gli disse, con voce aspra e tremante. - Fai il cattivo anche quando sei a letto. Dormi, dormi.

Spense il lumino, si coricò e cominciò a pregare. E siccome Adone sospirava, inquieto, gli domandò:

— E tu hai detto la preghiera, almeno?

— Mi son dimenticato!

— Tutte le sere così! Di' subito la preghiera, cattivaccio!

Allora egli, un po' per dispetto, un po' per divertirsi, cominciò a recitare una preghiera scherzosa, che lo zio gli aveva insegnato:

Signur, la veta, l'unur, Di sold da spender, 'Na bela dona a st' mond, In paradis a cl'atar Signur, an v'arcmandi atar.

— Zia, è bella questa preghiera?

Siccome la zia non rispondeva, egli agitò le gambe, e gridò:

— è bella questa preghiera? Zia, oh, zia!

La zia allora si adirò, alzò la voce, gli disse che era stanca di lui e delle sue cattiverie, che lo avrebbe cacciato via poichè egli era il suo tormento, e non la lasciava in pace neppure la notte: e gli impose di tacere, di star fermo, di non fiatare oltre.

Egli non fiatò oltre. Non aveva mai sentito la zia a gridare così arrabbiata: la voce di lei, in quel momento, rassomigliava alla voce del Pirloccia.

Egli ebbe voglia di piangere, ma si frenò, per dispetto, per orgoglio.

— Me ne andrò, - disse fra sè: - sì, me ne andrò! La mia mamma è povera e non mi vuole con sè, ma io me ne andrò coi saltimbanchi, e sarò il loro servetto, e poi diventerò anch'io saltimbanco. Sono svelto, io! So saltare, io! Meglio, meglio! Si, meglio che me ne vada. Aspetta un po'!

Veramente c'era da aspettare un bel po', perchè i saltimbanchi dovevano arrivare l'anno appresso, in maggio, per la fiera di Santa Giulia. Ma nell'attesa e nella speranza di por fine ai suoi guai, egli si rassegnò e si addormentò.


***

Pirloccia riuscì a farsi affittare la camera ed anche un ripostiglio dietro il portone.

— Mica gratis! Mica gratis! Pago, io, ecco, ed anche anticipato! Ecco qui un mezzo marenghino, - gridava, mostrando sulla palma della mano una piccola moneta d'oro.

Tognina guardava la monetina e non rispondeva. Anche Adone, che mangia va la sua polenta dividendola col gatto, guardava e taceva. Non si disperava più, pensando ai possibili maltrattamenti del Pirloccia. Il suo piano era bèll'e fatto. Fuggire. Fuggire, se lo bastonavano; fuggire coi saltimbanchi, e non ritornare più. La carriera non era brillante, ma gli sembrava molto più facile della sognata carriera di maestro, per la quale occorreva studiare, aspettare, subire tutte le ingiustizie dei suoi parenti.

La Tognina dunque cedette; l'uomo riempì di mobili la stanzona, che in tal modo diventò camera da letto, da pranzo, cucina e laboratorio nello stesso tempo. Fiorello e Fiorina seguirono il padre nella nuova abitazione. Con loro venne anche la zia Elena. Fisicamente la zia Elena rassomigliava a Tognina, ma era d'un carattere ben diverso. Era una di quelle figurine che passano inosservate nella vita, perchè non vivono per sè stesse ma per gli altri: come le lanterne cieche danno luce ma non si vedono. Di loro si accorgono solo, quando ne han bisogno, le persone che le sfruttano. Eppure la zia Elena era felice: amava tutti. Amava anche Adone, ma non era abbastanza forte per proteggerlo. I due ragazzetti del Pirloccia, poi, erano buoni: Fiorello, alquanto albino, ma non come il fratello maggiore, con la bocca grande e gli occhi biancastri, era anzi troppo buono, malinconico, pensieroso. Quando non andava a scuola aiutava il padre a cucire le scope: anche Fiorina, scarmigliata e brutta, lavorava sempre. Il padre li amava molto, ma a modo suo: quando non lavoravano li bastonava.

— Per il loro bene, - diceva.

L'inverno fu rigido e lungo. Dopo Natale la Tognina dovette mettersi a letto, coi suoi dolori reumatici, e vi stette quasi un mese. Non si lamentava mai, ma qualche volta dava un grido e un sospiro che, diceva Pirloccia, parevano quelli di Gesù nell'orto degli ulivi.

In quel tempo i Pirloccia in vasero la casa come un campo nemico abbandonato. Marco c Agostino venivano ogni sera, accendevano il fuoco, mangiavano la polenta preparata dalla zia Elena. Questa, intanto, per dare attenzione alla malata, si coricava con Fiorina nel lettuccio di Adone. Ed egli fu mandato a dormire in una cameraccia all'ultimo piano. C'era molto freddo lassù; la finestra, invece di persiana, aveva uno sportello esterno che s'apriva e si chiudeva con una cordicella assicurata ad un chiodo sul davanzale. I topi, durante la notte, correvano e saltavano sulle travi ed anche sul pavimento, e rosicchiavano le patte e il granturco ammucchiati negli angoli della cameraccia. Adone non aveva paura dei topi, ma temeva che qualche notte anche le martore venissero a visitarlo nel suo freddo esilio. Una cosa però lo confortava: entro un vecchio cassone, accanto al quale egli aveva collocato la cesta coi suoi tesori, v'erano pomi e noci. Egli faticava molto ad aprire il cassone, ma una volta sollevato il sepolcrale coperchio, tutti i guai e le ingiustizie della terra venivano dimenticati.


***

In primavera i due gemelli si sposarono. Vi fu una gran festa, dopo la quale il Pirloccia, completamente rappacificato coi figli, parti con le sue scope, per uno dei suoi soliti viaggi al di là del confine.

Al ritorno trovò grandi novità. Le sue nuore, spose da appena tre mesi, erano in istato di avanzata gravidanza. Inoltre non andavano d'accordo, sebbene avessero prima di sposarsi giurato di vivere e morire assieme. Dirce, la sposa di Agostino, era bionda, grassa, indolente; Carissima invece lavorava sempre e cantava dalla mattina alla sera. Era bellissima, bruna, con due riccioli neri sulla fronte rosea, e gli occhi luminosi.

Tutte le simpatie dell'ometto erano per lei. Al suo ritorno egli pregò Tognina di dare una camera, - sempre in affitto, s'intende, - a Marco ed a Carissima. Un buon padre deve evitare che i suoi figliuoli si azzuffino, specialmente a causa di donne. Egli fece ancora vedere, sulla palma della mano, una moneta d'oro. La donnina guardò la moneta e non rispose. Ma otto giorni dopo Marco e Carissima occuparono la camera attigua a quella dello zio morto. Carissima lavorava da sarta: domandò alla zia il permesso di cucire nell'atrio, e questo, poco per volta, diventò il suo laboratorio.

Così la vasta casa un tempo deserta si riempì di gente, risuonò di grida, di risate, di canti. Al rumore della macchina da cucire si univa la voce melodiosa di Carissima che qualche volta aveva gorgheggi d'usignuolo.

La Tognina sola taceva, intenta a pulire le sue dilette seggiole. Le dispiaceva o la rallegrava quell'ondata di vita giovanile che ora le si agitava intorno? Nessuno lo ha mai saputo. Qualche volta il suo umore variava. Per giorni e giorni ella taceva, si nascondeva: poi diventava alquanto socievole, accoglieva i nipoti alla sua tavola, faceva vita in comune con loro. Oppure si arrabbiava; cosa che prima non le succedeva mai: e quasi sempre se la prendeva con Adone, lo batteva, e minacciava di mandarlo via. Egli piangeva di rabbia e d'umiliazione. Almeno la zia avesse maltrattato anche gli altri nipoti: no, era sempre lui la vittima delle improvvise collere di lei.

— Rabbiosa! - le disse un giorno, stringendo i pugni con disperazione, - perchè sempre a me? Sempre a me? Ma che t'ho fatto, di'?

— Se non stai zitto ti rompo la testa.

E lo rincorse col matterello; pareva pazza. Egli ebbe paura di lei come del Pirloccia. E il peggio era che Fiorina e Fiorello, vedendolo perseguitato dalla zia, prendevano con lui arie da padroni.

— Tu non lavori, non prendi mai soldi, pufttt… - diceva Fiorello soffiando con disprezzo. - Ben fatto se la zia ti dà, allora!

Adone gli mostrava la lingua: l'altro perdeva la pazienza e gli si avventava contro, e siccome era più forte lo buttava a terra, gli schiacciava la pancia, gli dava tanti pugni. Adone mordeva: i suoi dentini tagliavano come coltelli.

Urla, pianti, gemiti da entrambe le parti. Marco e il Pirloccia apparivano in iscena. I due ragazzi s'alzavano e scappavano. Adone se ne andava dal cordaio o dal suo amico zolfanellajo, al quale raccontava le sue pene. E siccome naturalmente svisava i fatti, dandosi troppa ragione, l'ometto giallo dalla cravatta rossa non gli rendeva giustizia. Neppure lui! Nessuno lo credeva: nessuno lo confortava.

Ed egli andava dalla sua mamma scalza, che stava seduta sul limitare della porta e applicava un rappezzo piccolo su un rappezzo grande, ad un paio di calzoneini consumati.

Reno e Ottavio, sdraiati per terra, giocavano come due cagnolini; Eva, scalza e coi capelli biondi scarmigliati simili ad una nuvoletta d'oro, faceva rapidamente delle treccioline per cappelli.

— Nessuno mi vuol bene, - si lamentava Adone. - Tutti mi danno, tutti mi odiano. Tutti i malanni sono con me!

La mamma sospirava, ma non gli dava ragione.

— Devi esser buono, ecco tutto! Tognina ti vuol bene, e se qualche volta ti corregge è perchè vuol vederti bravo.

— Ma agli altri non dà.

— Vuol più bene a te che a loro, caro il mio omin. Credi pure, è così! E se ella ha una coscienza rimedierà al mal fatto.

La mamma sospirava, dicendo così; ma Adone non si confortava. E andava via sconsolato; percorreva l'argine polveroso, s'internava nel suo viottolo, s'arrampicava sugli alberi, saltava i fossi, o si sdraiava sull'erba e sognava. La natura era già per lui pietosa e consolatrice, come non lo era più neppure la mamma.

Sull'erba, tra i fiori alti e gialli che parevano tinti dal sole, egli si sentiva tranquillo, come legato ad essi da una misteriosa simpatia. L'erba era la sua mamma, i fiori i suoi fratelli: e il cielo grande e azzurro, che qualche volta pareva sparso di piume bianche e grigie, era la volta della sua momentanea dimora, del rifugio dove nessuno lo tormentava.

— Io diventerò grande, - egli pensava, coricato supino, e agitando le mani in aria. - Posso diventare alto fino a toccare il cielo. O almeno alto come questo palo, che sembra un gigante. Allora nessuno più mi toccherà: guai, se mi toccano! Farò il maestro, allora, e avrò un puttino, anzi due, anzi sette, e dirò loro: «Siate buoni, puttini, eh! Se sapeste quante bastonate ho prese, io, perchè ero cattivo!» Eh, come sarò alto! Arriverò fino al muro del parco e vedrò cosa c'è dentro. Ah, come sarò allegro allora!


***

I tempi, intanto, peggioravano.

Adone frequentava la scuola, e, se non amava, ammirava il vecchio maestro che « sapeva di tutto». Il vecchio maestro viveva solitario in una casetta color di rosa, circondata da un orticello pieno di dalie e popolato di gattini e di uccelli.

Una volta Adone andò dal maestro a portargli un regalo: e nella piccola sala da pranzo vide un uccello strano, tutto bianco, con gli occhi rassomiglianti a quelli del maestro. Lo scolaretto provò una grande impressione: la casetta rosea, i fiori, i gatti, l'uccello misterioso, tutto gli parve invidiabile. Gli piaceva sopratutto l'indipendenza del vecchio maestro, il quale era padrone di entrare e d'uscire quando voleva, di passeggiare solo, di mettersi una calza rossa e l'altra turchina ed anchè le scarpe diverse l'una dall'altra.

Inoltre il maestro sapeva «tutte le cose del mondo». Pareva avesse studiato a memoria il libro del perchè. Sapeva chi era il re, il papa, l'imperatore. Sapeva tutta la storia delle guerre degli italiani coi tedeschi. Si levava il cappello quando parlava di Vittorio Emanuele padre della patria. Ma quello che più colpiva Adone era la coltura geografica e astronomica del maestro, il quale sapeva persino che nella luna ci sono montagne e nelle stelle uomini, animali, fiumi; e probabilmente anche fossi larghi come quelli della strada comunale di Casalino.

Per tutte queste cose Adone, appena finita la terza elementare, dichiarò che voleva continuare a studiare e diventare anche lui maestro.

Per continuare a studiare bisognava recarsi a Viadana, partire la mattina per tempo, ritornare verso le due. Egli era pronto a tutto: aveva buone gambe, lui. Ma la zia, senza dubbio instigata dal Pirloccia, si oppose subito ai suoi desiderî.

— Lavorare, bisogna! È tempo. Tutti lavorano: tu solo sei un fannullone.

— Ma non capisci che, dopo, guadagnerò tanti soldi? Ma tanti! - egli disse, desolato. - Li darò tutti a te, zia. Vedrai, zia mia! Ma fammi studiare. Ti dirò che sei tanto bella!

Egli la carezzava, le si strofinava addosso come un gattino: ella non si commoveva, neppure sentendosi adulata.

Durante quelle vacanze egli dovette tentare di lavorare assieme con Fiorello e Fiorina; ma non aveva nè voglia nè attitudine per riuscire a far bene lo scoparo. Gli piaceva assai più fare il burattinajo. Si nascondeva fra quattro sedie, agitando due scope nuove, alle quali faceva ripetere i discorsi di Pulcinella e di Sinforosa. Fiorina scarmigliata e Fiorello dalla lunga bocca ascoltavano attentamente; ma per quanto si divertissero, a un certo punto si scambiavano uno sguardo malizioso e si beffavano di Adone. Per loro, abituati a lavorare e ad obbedire, il ragazzetto allegro e imprudente era un po' matto.

Se poi sopravveniva il Pirloccia la farsa si mutava in dramma. Adone taceva, si nascondeva, qualche volta riusciva a scappare. Allora se ne andava nel suo viottolo, e più in là ancora, verso l'argine o nei boschi di pioppi e salici che coprivano le rive. Se incontrava il vecchio Pigoss si attaccava disperatamente a lui, lo seguiva, si faceva prendere in barca. Se poi riusciva a farsi anche raccontare la storia della città sepolta nel fiume, dimenticava completamente i suoi guai. Allora gli veniva in mente di farsi barcajuolo. Sì, gli pareva che il vecchio portinèr sapesse cose che neppure il maestro sapeva.

Un giorno, ai primi di settembre, Pigoss vide appunto il suo piccolo amico attraversare pensieroso il tratto di sabbia tra la riva e il bosco, nel punto che gli abitanti di Casalino chiamavano pomposamente il porto. Invece d'essere, come al solito, scalzo e mal vestito, Adone indossava il suo vestitino nuovo e aveva un berrettino a visiera. In mano teneva un involtino. Era pallido in viso, con gli occhi cerchiati e il naso un po' gonfio. In tre anni egli era cresciuto di poco: aveva sempre un viso da bambino; solo la sua voce un po' velata e le sue mossettine da uomo serio rivelavano in lui il fanciullo già amico del dolore.

— Che c'è, bello? - domandò il barcajuolo. - È festa, oggi?

Adone raccolse sulla riva una fronda di salice, e fece con essa un cenno misterioso, verso il paese. Pareva dicesse addio a una persona lontana. Poi si volse. Dall'altra riva del fiume giungeva un richiamo prolungato e sonoro. Qualche viandante chiamava la barca, per attraversare il fiume. Pigoss si disponeva a partire.

— Pigoss, prendetemi! - supplicò Adone.

Il vecchio acconsentì; e solo quande furono al largo Adone gli confidò le sue pene e i suoi progetti.

— Tutti mi bastonano, Pigoss; tutti! Sono un cagnolino, io? Pirloccia ha minacciato di legarmi e di mettermi entro una cassa. E tutto perchè io voglio andare a scuola. No, io non voglio far le scope. Marameo! Voglio diventare maestro, o barcajuolo, o saltimbanco. E ora voglio scappare.

— Quando, bello? - domandò il vecchio, ironico e pensieroso.

— Ora, vi dico! Siete sordo? Ora, appena siamo arrivati alla riva.

— Oh, oh, così presto? E dove vuoi andare?

— Lo so io!

— E soldi ne hai, bello?

— Lo so io!

Pigoss fece altre domande; ma il fuggitivo pareva pentito d'aver già parlato troppo, e non rispose oltre. Curvo sull'orlo della barca, immergeva nell'acqua la fronda che aveva preso con sè; ad un tratto la sollevò e la fece sgocciolare. Scintille d'argento, perle, monetine, stelle, apparvero e sparvero sull'acqua corrente, attraversata obliquamente dalla barca. Il sole tramontava sul cielo rosso: una pace solenne regnava sul fiume tutto verde e roseo, la cui acqua pareva scorresse sotto un velo risplendente.

Pigoss remava e taceva. Pareva avesse dimenticato le parole di Adone: ma ad un tratto volse lentamente la barca verso la punta dell' isola che verdeggiava in mezzo al fìume, e disse con la sua solita bonarietà sarcastica:

— Devo prendere un tronco che ieri ho pescato e messo ad asciugare sulla sabbia. Sbarchiamo: poi scapperemo.

Adone capì subito che il vecchio non voleva portarlo all'altra riva: e non protestò, ma si pentì di aver parlato, e decise di non tornare indietro, anche a costo di passare la notte nell'isola deserta.

— Starò qui finchè lui va via, - pensò, scendendo sulla riva ove si stendeva una specie di duna, - mi nasconderò, aspetterò qualche altra barca di passaggio.

L'isola era completamente deserta: durante le ultime pioggie il fiume, ingrossato, l'aveva qua e là corrosa e inondata di sabbia; le sue rive apparivano a tratti alte come bastioni, a tratti dolci e in declino, o riparate da piccole dune di sabbia.

Mentre Pigoss fingeva d'andare in cerca del suo tronco, dimenticandosi che al di là del fiume i viandanti lo aspettavano, Adone si internò nell'isola. Il terreno era molle, coperto dierbe grasse e strane; una specie di nebbia verdognola avvolgeva i pioppi e i salici immobili sullo sfondo del cielo d'un violetto rossastro.

Ogni tanto Adone si fermava, sembrandogli che il vecchio lo inseguisse. Ma non si udiva voce umana in quel bosco simile ad un bosco da fiaba.

Arrivò davanti al piccolo stagno circondato di macchie, e sedette sulla sabbia ancora calda. Passò quasi mezz'ora. Un merlo cantava tra le macchie, e il suo grido liquido pareva uscir dall'acqua violacea dello stagno. Il cielo diventava pallido e triste; alle spalle di Adone il velo del bosco si addensava; in lontananza i tronchi assumevano forme bizzarre. Egli cominciò ad aver paura: idee fantastiche gli passarono in mente.

Egli temeva che Pigoss, non vedendolo più, fosse andato ad avvertire il Pirloccia: ad ogni modo bisognava muoversi, ritornare verso la riva.

— Posso anche morire, qui, - pensò, alzandosi. - Sì, si può morire da un momento all'altro, come il mio povero zio.

S'avvicinò allo stagno, come inseguendo la luce che se ne andava: per distrarsi avrebbe voluto gettare qualche sassolino nell'acqua: ma dove trovare il sassolino? - Possibile che Pigoss l'avesse abbandonato e tradito? Anche lui, dunque, lo odiava. Tutti lo odiavano. Due grosse lagrime gli gonfiarono gli occhi. A capo basso, col suo misterioso involtino sotto il braccio, egli ritornò verso la riva. E vide la barca del Pigoss che ritornava, coi viandanti e due cestini pieni di mele. Ma la barca, forse per desiderio dei passeggeri, che gesticolavano, protestando senza dubbio contro la lentezza del barcajuolo, passò dritta senza riavvicinarsi all'isola.

Allora Adone provò una grave disperazione. Cadeva la sera; il cielo e il fiume diventavano sempre più tristi e scuri: soltanto la sabbia rimaneva chiara. Egli sedette sulla duna, aspettando. Gli pareva d'esser solo sulla terra, abbandonato in un'isola deserta.

Gli uccellini dell'aria, le biscie, le chiocciole, tutti gli animaletti di cui si scorgevano ancora le orme sulla sabbia, erano meno soli e abbandonati di lui. Passasse almeno una barca che lo portasse all'altra riva! Di là egli sapeva dove andare. A Mezzano c'erano i saltimbanchi; egli li conosceva perchè erano già stati a Casalino, dove gli avevano promesso di prenderlo al loro servizio se li raggiungeva al di là del Po.

E ora come fare, se non passava la barca? Pigoss andava senza dubbio ad avvertire la Tognina: il Pirloccia veniva, lo inseguiva nel bosco, lo legava, lo riportava nella casa divenutagli odiosa. Dio, che paura! Pareva una fiaba: Pirloccia era il mostro.

Alla tristezza di questi brutti sogni cominciava a mischiarsi un malessere vago e sottile, che poteva esser bene un po' d'appetito. Egli sbadigliò, come un gattino affamato, e sembrandogli di scorgere una barca in lontananza si decise ad alzarsi e chiamare:

— Oh, ooh!

L'eco soltanto rispose. Egli cercò un punto più alto della riva e ripetè il suo grido di richiamo. Ma solo la voce dell'eco rispondeva beffarda.

Egli sedette di nuovo sulla sabbia, e ricominciò a sbadigliare. Era quasi notte: gli alberi e i profili lontani delle rive e delle isole diventavano neri: il paesaggio dava l'idea di una pagina di carta d'argento macchiata d'inchiostro.

— Anche Pigoss, vecchiaccio maligno, anche lui, anche lui mi ha tradito. Come farò io? - sospirò Adone; e, per dispetto, cominciò a buttare pugni di sabbia sull'acqua. Improvvisamente una voce risuonò poco distante, da un'insenatura della riva.

— Figli di cani, statevi fermi, Dio ve stramalediss

Egli balzò in piedi, e vide una barca che costeggiava silenziosamente l'isola, guidata dal figlio del Pigoss. Dentro la barca c'era un uomo che pescava con la rete; e non senza turbamento Adone riconobbe Davide, il figlio del zolfanellajo. Egli ne aveva tanta soggezione che evitava di andare dal suo vicino quando lo studente era in paese. Quel giovine alto, magrissimo, dal viso scarno e come bruciato, al quale i capelli neri e lunghi, e gli occhi d'un turchino verdastro, vicini, quasi convergenti sul naso aquilino, davano un'espressione di Cristo feroce, gl'incuteva non solo soggezione ma anche un senso di timore. Egli lo ammirava, però, come ammirava il maestro, al quale Davide rassomigliava alquanto, e come ammirava tutti coloro « che sapevano molte cose », ma se ne teneva a rispettosa distanza. E non avrebbe osato fiatare senza l'intervento del giovine Pigoss.

— E che fai lì?

— Aspetto qualche barca che mi prenda: tuo padre m'ha abbandonato qui, - egli disse, sottovoce, guardando timidamente il giovine che immergeva la rete.

Il barcajuolo strinse le labbra per accennare al ragazzo di star zitto.

Curvo sul bastone che sosteneva la rete, Davide ascoltava i rumori dell'acqua. A un tratto mormorò « c'è, c'è », e tirô su rapidamente la rete che all'ultima luce del crepuscolo scintillò come intessuta di fili d'argento.

— Niente, - disse il barcajuolo. - E questo era un punto buono, corpo!

Solo allora lo studente parve accorgersi di Adone, e gridò con voce stentorea:

— Perchè avete chiacchierato? Il pesce c'era, ma è scappato!

Adone non osò rispondere: ma ad un cenno del barcajuolo scese correndo fino a un punto basso della riva e saltò nella barca.

— Silenzio, - gridò lo studente. - A chi parla dò un ceffone.

Il ragazzo non aveva voglia di chiacchierare. Col suo misterioso involtino fra le mani, stette silenzioso a guardare, e a poco a poco s'interessò tanto della pesea che dimenticò con chi era e perchè era lì.

La barca continuò a sfiorare le coste dell'isola. Il barcajuolo puntava soltanto il remo per tener la lieve imbarcazione lontana dalla sabbia, e appena si trovava in qualche insenatura della riva faceva eseguire una giravolta alla barca, affinchè Davide potesse immergere lentamente la rete nell'acqua.

L'ora era propizia alla pesca: era quasi buio, e un silenzio intenso regnava sul gran flume ancora argenteo fra le rive nere. In fondo alla barca, alcuni pesciolini guizzavano disperatamente, urtandosi fra loro e balzando fino ai piedi di Adone. Egli sentiva pietà di questi poveri pesciolini, ma quando Davide tirava su la rete, egli sentiva una smania di gridare: - El ghè! El ghè! - anche se il pesce non c'era.

Arrivarono così in fondo all'isola e presero il largo; non c'era da sperar più niente. Il pescatore issò la rete in fondo alla barca, poi si curvò a guardare i pesciolini: i lunghi capelli gli piovvero tutti avanti sul viso sbarbato e scarno. Ora Adone lo guardava fisso, e finalmente osò parlare:

— Sono tredici, - disse. - Eh, sono piccolini, ma non sono pochi!

— Tredici! - osservò il barcajuolo, - brutto numero; vogliamo gettare ancora la rete, laggiù?

Ma Davide era stanco, e aveva paura dell'aria umida della sera.

— Approda, approda, - disse, sedendosi sull'asse accanto al ragazzo. Scosse la testa per gettare indietro i lunghi capelli, si calò sulla fronte le larghe falde del cappello nero, e si mise a cantare, senza badare oltre ai suoi compagni.

Aveva una bella voce, e la « canzone » che cantava era così bella, come Adone non ne aveva mai sentito.

Cielo e mar, l'etereo velo…

L'eco rispondeva e non era più beffarda: tutte le cose, intorno, intorno al magico specchio dell'acqua che rifletteva le prime stelle, parevano più lontane, più vaghe, più misteriose.

Adone sentiva una dolcezza infinita, dimenticava le sue pene, tornava anch'egli allegro e spensierato, vicino a quel giovine dai lunghi capelli, che cantava come una donna. Ah, ora egli non sentiva più timore nè vergogna: soltanto gli dispiaceva che Davide non badasse affatto a lui.

Ma la riva s'avvicinò, il sogno svanì. Sulla riva c'era il vecchio Pigoss, che senza essere interrogato volle scusarsi con Davide per aver lasciato Adone solo nell'isola.

— Volevo dargli una piccola lezione, solo una piccola lezione. E non voleva scappare, questo baloss? Voleva scappare, e il vecchio Pigoss che s'aggiustasse, poi! No, veh, bello! Domanda il permesso, prima: poi mi dài due palanche e ti porto anche a Brescello.

— E dove volevi andare? - domandò lo studente.

Adone, rosso, arrabbiato, si guardò bene dal parlare dei saltimbanchi.

— Volevo andare a Roma, dal mio zio Carlino.

— Brrravo, trippa! - gridò Pigoss. - E non puoi scrivergli, al tuo zio Carlino? Scrivigli: digli che ti maltrattano, perchè fai il cattivo, e lui manderà una colomba a prenderti… Ebbene, Davide, - aggiunse poi, cambiando tono di voce, - fagliela tu la lettera: forse il puttino ha ragione.

— Ti maltrattano? Come? - domandò allora il giovine. - Prendi: andiamo, mi racconterai per via.

Gli diede un fazzoletto, entro il quale il giovine Pigoss aveva legato i pesciolini, e s'avviò, salendo di corsa l'argine. Adone lo seguì. Attraversarono il viottolo buio, la strada qua e là illuminata ad acetilene. Adone parlava: raccontava tutti i suoi guai. Davide non gli dava ragione, ma neppure lo sgridava, come tutti facevano.

E bastava questo per confortare il piccolo cuore assetato di giustizia.

Quando furono davanti alla bottega del tabaccajo lo studente si fermò e guardò Adone, quasi lo vedesse per la prima volta.

— Ah, vuoi diventar maestro? - gli disse, fingendo meraviglia. - Ma sai scrivere, ora? Tutto? Anche pane, polenta, patate?

Adone sbadigliò, ricordandosi che aveva fame: poi rise, accorgendosi che Davide scherzava. Non sapeva perchè, non si sentiva più triste e non pensava più a fuggire. Non sperava protezione da Davide, ma era contento d'essersi sfogato con lui, e d'aver trovato finalmente uno che non lo sgridava. Poco per volta arrivò a confidargli che voleva raggiungere i saltimbanchi. Neppure allora Davide lo sgridò.

Arrivati, entrarono entrambi in casa dello studente. Il zolfanellajo non era ancora rientrato; la moglie preparava la cena, e appena sentì rientrare il figliastro gli corse premurosa incontro.

— Perchè sei vestito così? - domandò al ragazzetto, che le porgeva il fazzoletto coi pesci.

Adone guardò lo studente; temeva che egli raccontasse la sua avventura. Ma Davide tacque; andò a cambiarsi le scarpe, e quando ritornò in cucina, vedendo che Adone se ne andava, lo richiamò a voce alta:

— Di', tu, pedagogo, perchè scappi? Non stai qui a mangiare il pesce?

— E se la zia mi sgrida?

— E dille che vada al diavolo!

— Bei consigli! - disse il zolfanellajo che rientrava.

— Non è sua madre, quella, e neppure sua matrigna! - gridò allora lo studente, agitato. - E neppure sua zia, e neppure sua padrona. È una vigliacca!

— Dio, Dio, se Tognina sente! - disse Adone, spaventato e nello stesso tempo felice.

— Che hai? - domandò il zolfanellajo, stupito; ma la vecchia, con un pesciolino in una mano e le forbiei nell'altra, gli accennò di non disturbare Davide.

E questi continuò a gridar vituperi contro i suoi vicini; Adone si piegava su sè stesso, contorcendosi per frenare uno scoppio di riso, tanto i gesti e le parole dello studente lo divertivano. Sulla porta il zolfanellajo tendeva l'orecchio, pauroso che dall'aja vicina qualcuno sentisse; finalmente si volse e pregò Davide di tacere.

— Veh, ti farà male allo stomaco!

Questa ragione parve calmare il giovinotto: allora Adone uscì nell'aja, spiò fra la siepe, vide lume nella camera della zia. Il resto della casa pareva deserto. Egli potè rientrare inosservato, salì nella cameraccia, si spogliò, rimise nella cesta il misterioso involtino.

Il bambino di Carissima strillava disperatamente, solo nella camera degli sposi. Adone ne sentì pietà: ricordava la disperazione provata nella solitudine dell'isola. Scese, entrò nella camera di Carissima e cercò al buio la cesta ove stava il bambino.

— Taci, taci, - disse, toccando un visino molle e caldo; e il bambino tacque, succhiando un dito della mano che lo accarezzava.

Adone lo prese fra le braccia, e a tastoni, piano piano, ritornò giù.

— Sai che devo andare? - confidò al marmocchio. - Sono invitato a cena: sì, sì, sai da chi? Non te lo voglio dire.

Il bambino non se ne preoccupava: non vedendo la madre ricominciò a strillare, finchè la sarta, che era andata dal cordaio, non corse e sgridò il ragazzo. Ma Adone era così felice che niente, quella sera, poteva offenderlo.

— E prenditelo, toh, - disse, rimettendo il bambino fra le braccia della madre. - Io vado a cena da Davide. Abbiamo pescato trenta pesci, grossi così.

— Che dici, bugiardo? Quale Davide?

— Davide del Nin, - egli gridò.

C'era forse un altro Davide al mondo, tranne quello della Storia sacra?

— Ah, quel matto! - disse Carissima.

Egli uscì, senza domandare il permesso alla zia, e tornò dai vicini. Davide 'aiutava la matrigna a preparare la salsa per i pesciolini, e durante la cena fu molto chiassoso.

Però Adone osservò che egli non rideva mai. Dopo cena, mentre il zolfanellajo fumava la sua pipetta nera, lo studente si volse alla matrigna.

— Mamma, - le disse, - andate a chiamare la Tognina: ditele che la voglio io.

La vecchia andò, senza fare osservazione.

Adone guardò il giovine; Davide disse che voleva comprare le galline della sua vicina.

Adone scosse la testa: no, no, c'era ben altro!

— Non mi accuserà? - domandò, inquieto.

— Chi, io? Che c'entri tu con le galline?

— Che hai fatto? - domandò il zolfanellajo, stuzzicando la sua pipetta.

— Nulla, nulla, ssst!… - disse Davide, lisciandosi con ambe le mani i lunghi capelli. - Ecco la mummia.

Tognina entrò; piccola, curva, nerastra, ella sembrava davvero una mummia: il suo visino esprimeva una vaga inquietudine.

Adone la guardò, poi fissò gli occhioni avidi negli occhi di Davide: la curiosità gli toglieva quasi il respiro.

Ma il giovine disse a Tognina:

— Sedetevi, sedetevi. Voglio comprare tutte le vostre galline! Venite qui vicino a me. La mamma e Adone andranno intanto a comprare una bottiglia di moscato.

La matrigna s'avviò subito, ma Adone non si mosse.

— Lo vedete, com'è disobbediente? - disse la zia. - È cattivo anche quando dorme.

— Ohibò!

Egli credette che Davide si beffasse un po' della Tognina, e si mise a ridere. Ma il giovinotto lo guardò, severo, con quei suoi occhi vicini e fissi come quelli di un uccello da preda. Ed egli ebbe di nuovo paura e soggezione di lui. S'alzò e raggiunse la zolfanellaja.

— Ma io vorrei sapere cosa dicono! Perchè non vogliono che io senta? - le chiese, desolato, tirandole la veste.

La donna era pensierosa: più che al colloquio tra il figliastro e la ricca vicina ella doveva pensare a qualche cosa di lontano, di vago, oltre il tempo e lo spazio, perchè mormorò come fra sè:

— Verrà un giorno! Verrà!

E Adone si mise a ridere, come se qualcuno gli facesse il solletico: come lui ai figli del Pirloccia, la Müton gli sembrava un po' matta.


***

Egli non seppe mai che cosa Davide disse quella sera a Tognina; ma fin dal giorno dopo si accorse che la zia non ostacolava oltre i suoi progetti di studio.

— Se vuoi andare a scuola a Viadana, va pure, - ella gli disse. - Basta però che tu non mi faccia spendere. Denari non ne ho: il granone, l'uva, la saggina, tutto quest'anno è scarso e di cattiva qualità. Eppoi ci sono i tributi, da pagare: insomma denari non ne ho.

Povera donnina! a momenti aveva paura di morir di fame, con duemila bottiglie di vino vecchio che ancora possedeva. Adone però non si preoccupava per i denari: egli credeva che si potesse andare a scuola ed anche vivere senza spendere troppo. Per ogni evento, in quei lunghi anni di privazioni e di stenti, egli era riuscito ad accumulare, non sapeva neppure lui come, una forte somma: quaranta soldi. Con quaranta soldi egli era certo di poter viaggiare attraverso il mondo e attraverso la vita.

Intanto s'avvieinava il tempo di andar a scuola. Anche Davide pensava alla partenza. Qualehe altra volta Adone aveva avvicinato lo studente ed era stato alla pesca con lui. Davide s'informava sempre se lo avevano ancora bastonato. Ma dopo la partenza del Pirloccia, che era andato in Toseana in cerea di saggine, Adone godeva una certa tranquillità: inoltre era felicissimo al pensiero di poter frequentare le scuole di Viadana. Non si lamentava, quindi, ed era molto allegro. Una sera egli vide molta gente andare in casa del zolfanellajo: v'andarono anche i due gemelli e Sison il cordaio. Pieno di curiosità egli attraversò l'aja, penetrò nel piccolo andito dei suoi vicini, e vide lo studente in piedi davanti al tavolo di noce, nella stanza terrena che serviva anche da eucina. Molti uomini stavano seduti intorno al tavolo, con le mani in tasca o col gomito sulla spalliera della seggiola: altri sedevano sulla panca e sulla cassa dell'andito; altri stavano appoggiati alle pareti, con le braccia incrociate sul petto.

Immobili, attenti, sotto la luce scarsa d'una lampada a petrolio che ardeva sopra il camino, parevano figure dipinte.

Adone distinse le faccie scialbe di Agostino e di Candido il muratore accanto a quella rossa e rozza del fabbro, suocero del gemello; vide il viso rotondo e bonario del Casèr, e la figura di Pino suo figlio, il cui volto roseo e lucido pareva quello di una donna.

V'era anche l'oste del Vicerè, e un ricco proprietario dal viso grasso e pallido come la luna. Sotto la cappa del camino acceso stava accoccolata la Müton: accanto a lei il vecchio Pigoss sorrideva silenziosamente, coi piccoli occhi in colore dell'acqua del Po. Piu in là c'era un vecchio con la testa fra le mani: era calvo e il suo cranio lucido rifletteva lo splendore del fuoco. A destra di Davide sedeva il vecchio bifolco che aveva acceso il lumino davanti all'immagine di San Simone Giuda, mentre lo zio Giovanni moriva. Davide parlava, muovendo sul tavolo, con gesti nervosi, alcuni mazzetti di zolfanelli, e un peker(1) Bicchiere ad ansa. pieno di vino.

Adone stette alcuni momenti a bocca aperta, meraviglialo della scena. Davide parlava come il prevosto in chiesa: le cose che diceva, però, sembravano ben diverse. Egli non nominava Dio nè il purgatorio. Adone non capiva bene: ricordò sempre che lo studente a un tratto prese in mano un rotolo di zolfanelli e disse:

— Proprio così, vedete. Sì. Se noi mettiamo questi zolfanelli sparsi qua e là, uno per uno valgono niente, mentre così uniti valgono trenta centesimi. L'unione fa la forza, non solo, ma anche il valore.

E il fabbro accennò di sì.

Un'altra volta Davide prese il peker e un altro bicchiere piccolo, e li mosse in diverse guise, allontanandoli e avvicinandoli sul tavolo.

— Questo è il capitalista (il peker), questo il piccolo industriale (il bicchiere). Mentre il primo può viaggiare in treno e far transportare rapidamente la sua merce, il piccolo industriale, - e tutti voi lo sapete, - è costretto a viaggiare col suo carrettino. Egli e la sua merce arrivano quando l'altro ha già conquistato il mercato.

Sison agitò la mano, come per dire: - altro che!

Ma poi Adone si annoiò: uscì in punta di piedi e andò a domandare a Carissima che cosa tutto questo significava.

Sono i socialisti, - disse la sarta con accento di mistero. Ma non seppe dirgli altro.

Un giorno finalmente Adone potè andare a seuola a Viadana. Lo accompagnava la sua mamma, che doveva presentarlo al maestro e al direttore delle scuole.

Era una mattina di ottobre, fresca e nebbiosa. Nella fretta di partire, Adone aveva mangiato appena una fetta di polenta, e a metà strada scntiva già quasi fame. Ma che, importava la fame, il freddo, la nebbia? Egli camminava zufolando, con le mani in tasea, un quadernetto e il libro della terza elementare sotto il braccio: e gli pareva di andare alla conquista del mondo.

Attraverso la nebbia che si diradava, scorgevasi vagamente il flume argenteo: qua e là qualche albero completamente giallo appariva come una flamma in mezzo al fumo.

Egli ricordava il viaggio sotto il mantello dello zio, il sacchettino pieno di monete, la promessa del gigante. Come era stato felice, quel giorno! Ma ora si sentiva piu felice ancora: gli pareva di aver raggiunto il più bel sogno della sua vita. Non aveva più bisogno di essere coperto dal mantello, lui! E dei soldi non sapeva che farsene. Non occorrono soldi per frequentare la scuola!

— Vero, mamma? - domandò, seguendo il filo dei suoi segreti pensieri.

La mamma camminava svelta, col suo fazzoletto giallo in testa, e le scarpe vecchie regalatele dalla sorella del prevosto.

— Vero, si spende poco per andare a scuola? Che cosa si spende? Niente.

— Più in là, sì, caro il mio omino: se andrai a Cremona o a Padova dovrai spendere. Ma la Tognina, speriamo, tirerà fuori i soldi.

— Speriamo, - disse Adone, ma diventò pensieroso.

Arrivati a Viadana andarono dal direttore delle scuole, che li accolse benevolmente. Era un vecchio prete, appassionato suonatore d'organo, molto amico del prevosto di Casalino, la cui sorella gli aveva già parlato di Adone. Egli fissò gli occhi un po' vitrei negli occhi luminosi del ragazzetto.

— Va bene, va bene, - disse, agitando le lunghe dita sottili. - Gli occhi promettono bene. Sai a che servono gli occhi?

— Per vedere, - rispose pronto lo scolaretto.

— Bravo, bravo; ma anche per rivelare i nostri pensieri: sono le finestre della nostra anima.

— È per questo che i suoi sembrano di vetro, - osservò la mamma, quando furono nella strada. - Cosa vanno a dire, questi omon!

Gli omoni, per lei, erano i grandi uomini. Ma Adone, sempre più pensieroso, le insegnò:

— Eh, è così, per modo di dire!

Anche il maestro, biondo e grasso come un signorone, accolse benevolmente la povera donna e il nuovo scolaro. Anche lui fu colpito dagli occhi di Adone.

— Intelligente sei, - disse, battendogli una mano sulla testa. - Speriamo avrai anche buona volontà!

Nonostante queste lodi lo scolaretto rimase pensieroso e quasi triste durante tutto il tempo della scuola. Il maestro gli aveva detto che bisognava comprare il libro di lettura, almeno: come fare, se la Tognina non voleva spendere? Poveretta, se comprava i libri non poteva pagare i tributi!

Al ritorno egli passò dalla mamma: aveva una fame terribile, e gli pareva di non poter arrivare fino alla casa della zia. Per fortuna la mamma lo aspettava e gli aveva preparato una piccola focaccia ch'egli divorò avidamente, seduto sullo scalino della porta. I fratellini lo guardavano con invidia. Ottavio raccattò un pezzetto di focaccia, caduto per terra, e lo mangiò senza neppure pulirlo. Adone pensava al suo avvenire, a quando sarebbe stato maestro e avrebbe potuto aiutare i suoi poveri fratellini.

Intanto bisognava pensare ai libri. La mamma ripeteva:

Speriamo che la Tognina li compri. Ma egli non sperava: tuttavia disse:

Ci penserò io!

Ritornò a casa e cercò ancora da mangiare. Non gli avevano lasciato niente; o meglio, la zia Elena gli disse che gli avevano lasciato un po' di minestra, ma che Fiorello poi se l'aveva mangiata. Adone protestò, ma dovette contentarsi d'un pezzetto di polenta fredda. E andò in cerca di Tognina per parlarle dei libri.

La donnina stava poco bene: aveva un forte dolore a un ginocchio, e non poteva muovere un braccio. Quando vide il nipotino lo guardò coi suoi piccoli occhi indifferenti, ed egli non ebbe il coraggio di domandarle i denari.

L'indomani mattina eglis'alzò più presto del solito, scese nell'aja e andò nel pollajo. Per paura che anche quel giorno non gli lasciassero da mangiare, prese due uova e le mise in tasca: e di là le due uova emigrarono nella famosa cesta dei tesori.

Entro la cesta v'era una scatola: egli la prese e l'aprì delicatamente: ne saltò fuori un'altra scatola, e da questa un'altra più piccola ancora. Egli avvolse quest'ultima in un foglio di carta gialla e si avviò: il misterioso involtino pareva lo stesso che lo aveva accompagnato nell'isola deserta.

Sempre nebbia: ma era una nebbia leggera, attraverso la quale si scorgeva il cielo pallido e lontano. Passando davanti al cancello Dargenti, Adone, per quanta fretta avesse, si fermò stupito. Egli non aveva mai neppure immaginato che quel cancello venisse un giorno aperto: e invece lo era.

Chi l'aveva aperto? Un ladro, forse? Egli fu tentato di penetrare nel giardino, ma ebbe paura: non sapeva se del ladro o di Jusfin. Nel viale l'erba era calpestata; pareva ci fossero passati dei cavalli.

Adone palpitava di curiosità ma anche per un vago timore: l'incantesimo che prima avvolgeva il parco è il palazzo si era improvvisamente rotto, restava a sapere per quale misterioso comando.

Altri pensieri lo urgevano; altrimenti egli avrebbe finito col penetrare nel giardino; ma era tardi, bisognava affrettarsi, pensare ai propri affari.

A metà strada, verso Casale, raggiunse tre ragazzetti di questo paese, che andavano anch'essi a scuola a Viadana. Due, grossi e bruni, mal vestiti, parevano due fratelli, evidentemente poveri; il terzo Adone lo aveva già veduto nella sua classe. Era un biondino, pallido, col nasino lungo affilato: vestiva signorilmente, aveva le scarpe gialle e le calze rosse.

Tutti e tre discutevano se dovevano o no fermarsi da Belluss, un uomo che aveva un casolare poco distante dall'argine e vendeva liquori e frutta ai passanti.

Altro! - diceva il biondino dalle calze rosse, facendo saltare in aria e riprendendo fra le mani una monetina da due centesimi. - Voglio anzi bere l'acquavite.

Arrivati al casolare si fermarono. Adone ricordò d'essere più di una volta entrato là con lo zio, e senza saper perchè segui i tre scolaretti. I due fratelli comprarono in società un soldo di castagne secche. Il biondino volle a tutti i costi l'acquavite: ma appena l'ebbe assaggiata fece una smorfia e sputò.

Il padrone del casolare, un buon omaccione rosso tutto pancia, guardò coi suoi grandi occhi azzurri sporgenti il quarto ragazzetto, quasi per domandargli se non prendeva niente.

Adone arrossì, ma sporse con orgoglio il suo involtino:

— Ho quaranta soldi, qui, io: ma servono per il libro di scuola.

— Tu sei il nipote di Giovanni La Pioppa? - domandò l'uomo, riconoscendolo. - E come sta la Tognina?

— Bene. No, ha dolore a un ginocchio.

— Ah! i suoi soliti dolori! Dille che strofini I ginocchio con un po' d'olio caldo. Tò, prendi.

Gli diede un pugno di castagne secche, ed egli arrossì ancora, ma neppure ringraziò.

Fece il resto della strada coi tre scolaretti di Casale, e il biondino gli domandò:

— Siete amici, con Belluss?

— Sì, - egli rispose, dandosi dell' importanza. - Siamo amici. Ho molti amici, io. Conosco anche Davide del Nin.

E si meravigliò che gli altri non lo conoscessero, almeno di nome.

— Ora è partito; è andato a Milano, ed ha promesso di scrivermi. È un bell' uomo, alto, con la cravatta nera e i capelli lunghi: e sa tante lingue. Anche il francese.

— Anche mio zio il tenente sa il francese, - disse il biondino. - Ed è bello, poi!

— Com'è, tuo zio?

— Alto alto, con gli occhi piccoli e neri.

— Davide invece ha gli occhi grandi: son più belli. Dev'essere più bello di tuo zio.

— Sì, perchè lo dici tu!

Cominciarono a discutere animatamente, a proposito di occhi grandi e piccoli: a momenti si azzuffavano. Fortunatamente uno dei due ragazzetti bruni, finito che ebbe di masticare una castagna durissima, espresse la sua opinione.

— Gli occhietti piccoli sono più belli perchè sembrano gli occhi del sorcino.

Gli altri cominciarono a ridere pazzamente, beffandosi del ragazzetto.

— Oh, oh, gli occhi del sorcino! Son belli gli occhi del sorcino! Oh, oh!

Anche al ritorno i quattro ragazzetti si ritrovarono per istrada e andarono assieme fino a Casale. Adone se la intese specialmente col biondino, o meglio discusse animatamente con lui, mentre i due fratelli si indugiavano a buttare sassolini entro i fossi, o a contemplare qualche grappolino d'uva violacea che rimaneva ancora sulle viti spoglie.

Adone non aveva più con sè l'involtino, dal quale si era separato a malincuore. Ma non importava: era flero d'esser stato uno dei primi a portare i soldi al maestro, che s'incaricava di comprare il libro.

Rivedeva la figura bonaria e allegra del maestro, e il sorriso col quale egli l'aveva guardato mentre svolgeva il pacchettino.

— Tutte palanche? E come son vecchie! Sembrano monete del tempo dei Faraoni. E che tua zia ha i suoi tesori tutti in palanche?

Adone non sorrise, non arrossì; non disse che la piccola somma gli, apparteneva, raccolta pazientemente soldo per soldo, da mesi e mesi, e che aveva sognato di poter viaggiare attraverso il mondo munito di quel piccolo tesoro. Dieci per dieci contò i soldi, fino a quaranta.

— Basta, basta! Bene, bene! - disse il maestro, dandogli indietro dieci soldi.

Ed egli mise in tasca le care palanchine, pensando al modo di farle moltiplicare ancora. La scatolina la regalò al maestro, in segno di riconoscenza.

— Anche io ho uno zio a Roma, - disse al biondino, seguendo il filo dei suoi segreti pensieri. - Quello li è buono, sì! Un giorno o l'altro, se mi pare, vado a trovarlo. È ricco, sai, è impiegato: è anche cavaliere.

— E i soldi per il viaggio chi te li dà? - domandò l'altro, invidioso.

— Eh, lo so io! C'è una persona che sempre mi manda di nascosto a vender le uova e altre cose, e mi dà sempre qualche soldo.

— E chi è questa persona?

Adone non pronunziò il nome di Carissima, la quale prendeva spesso le uova dal pollajo di Tognina e il frumento dal sacco di Pirloccia: no, aveva giurato il segreto, e non poteva parlare.

— Che t'importa? Una persona!

— Tu non hai padre, vero?

— Io no. E tu?

— Io sì. Il mio babbo è tintore; eppoi è anche organista ed è amico del direttore. Perciò avrò buoni punti, all'esame.

— E anch'io avrò buoni punti, se voglio, - rimbeccò Adone. - Studierò giorno e notte, giorno e notte.…

— E diventerai cieco, allora!

— Ho certi occhioni io, caro mio! - disse Adone, spalancando i suoi begli occhi luminosi. - Non diventerò mai cieco, io! E se no metto gli occhiali, come qualche volta fa Davide. Ti ho detto chi è Davide, il mio amico. Io avevo soggezione di lui, prima. Ma una sera io volevo scappare, perchè mio zio mi aveva bastonato. Vado, ma quel maledetto di Pigoss mi lascia nell isola. Ed ecco che passava Davide, pescando. Appena mi vide mi prese con sè, e si mise a cantare. Io non ho mai sentito una voce più bella della sua: cantava una bella canzonetta… così… aspetta… non ricordo più… Era così bella!

Così? Iho! Ihoo!… - disse il biondino invidioso, rifacendo il raglio dell'asino.

Ma va là! Una bella voce, ti dico! - gridò Adone, arrabbiandosi. Poi si calmò, abbassò la voce, riprese a raccontare: - Al ritorno Davide m'invitò a cena; poi il giorno dopo mi condusse ancora con sè; e ogni volta che andava in barca mi chiamava. Io gli dissi che prima mi vergognavo di guardarlo. Ed egli mi disse una volta che tutti gli uomini sono eguali, anche i grandi coi piccoli. Solo, i grandi qualche volta possono dare qualche schiaffo ai piccoli, quando questi fanno i cattivi.

— A me nessuno ha mai dato schiaffi! - si vantò il biondino - Mia madre piange se mio padre mi sgrida.

— E così non diventerai mai bravo!

— Sì? Diventerò più bravo di te, invece!

Nonostante questi battibecchi, i due scolari, arrivati al viottolo che conduceva dall' argine al paese, si lasciarono promettendosi di ritrovarsi all'indomani.

— Tu, quando passi qui mi chiami a voce alta: se sono indietro, mi aspetterai.

— E tu mi risponderai?

— Sì. Come devo chiamare?

— Adone. E io?

— E tu Marco.

Dopo un momento Adone si sentì chiamare dal viottolo.

— Adoneee!

— Marcooo!

— Addio!

— Addio!

***

Questa volta Adone non passò in casa della sua mamma. Aveva fretta di arrivare davanti al cancello Dargenti. I soldi dati al maestro, l'incontro con Marco, le castagne di Belluss, la scuola, insomma tutti gli avvenimenti della giornata, gli avevano fatto dimenticare il cancello aperto; ma ora, attraversando il viottolo, non pensava ad altro. Si mise a correre, arrivò ansando, ma provò una delusione: il cancello era chiuso. Ma sull'erba ora si notavano alcune chiazze bianche, come di calce; e molte finestre del palazzo erano aperte.

Nonostante la fame chè lo illanguidiva, egli rimase a lungo attaccato ai ferri del cancello. Che accadeva lassù, dentro il palazzo, sul quale i grandi alberi cupi slendevano le loro chiome unite, simili ad una nuvola verde?

A un tratto egli trasali. Una figura passava e ripassava dietro quelle finestre. Era una figura strana, vestita d'un camiciotto giallo e con un berrettino di carta verde sui capelli biondi.

Ma una volta la figura strana si volse: Adone vide un volto conosciuto, due pomelli rossi sporgenti, due baffi giallastri su una bocca ironica. Riconobbe Candido il muratore.

— Candido! Candidooo! - cominciò a gridare. Finalmente il berettino verde si sporse da una delle finestre.

— Olà, che c'è?

— Di', Candido, che fai?

— Ma va da Meoli a farti indorare…

Le voci si perdevano nel silenzio del giardino abbandonato, dove l'erba alta tremolava al soffio leggero del vento. Alcuni steli, sull'orlo del viale, si curvavano sull'erba calpestata, e pareva le domandassero chi le aveva fatto tanto male e tremassero timorosi anch'essi d'un ignoto pericolo. Che accadeva? Chi veniva a turbare la pace solitaria del luogo?

Adone decise finalmente d'andarsene: e appena rientrato cercò da mangiare. Trovò la minestra e la mandò giù avidamente; trovò un pezzo di burro e lo divorò; cercò ancora e fece sparire tutto quello che trovò. Di solito a quell'ora la cucina era deserta. I ragazzi lavoravano nella camera bassa, dove era stata aperta una finestra verso il cortiletto; Carissima lavorava e cantava nell'atrio.

Quando fu sazio egli sali dalla zia che stava nella sua camera, sepolta fra le sue sedie antiehe e i suoi vasi di conserva. E le diede la gran notizia:

— Sai che al palazzo Dargenti e'è gente?

Di già? - disse la donnina, con la sua voce indifferente. - Dicono l'abbia comprato una signora vecchia, di l'arma. L'hai veduta?

— Una signora vecchia, vecchia? No, ho veduto Candido.

— Solo?

— Ho veduto anche Belluss, che mi ha dato un pugno di castagne. Ha detto, anche, di strofinarti il ginocchio con l'olio caldo. Devo farlo io?

— Oh, no, è inutile. Tutto è inutile! - ella disse con tristezza. - Ma dove l'hai veduto, Belluss? Al palazzo Dargenti?

— Ma che dici, zia? - egli gridò, ridendo.

E s'aggirò per la camera, guardando i vasi sul camino e passando il dito sulla stoffa delle sedie: desiderava che la zia lo interrogasse sulla scuola, il maestro, i compagni; ma ella pareva ignorasse ch'egli andava a scuola e avesse un maestro e dei compagni. Ella pensava ai suoi dolori reumatici: tutto il resto le era indifferente. Le novità del palazzo Dargenti dovevano essere ben straordinarie se riuseivano ad interessarla fugccemente.

Forse Sison sa qualche cosa, - disse Adone, ricordandosi. - Jusfin deve avergli detto qualche cosa.

E corse ad informarsi. Mentre passava nell'atrio disse a Carissima:

Sai, al palazzo Dargenti viene a stare una signora di Parma, vecchia, veechia.

Ora, che comincia il freddo? - esclamò la sarta, senza smettere di cucire a macchina.

Si, si, proprio ora! C'è Candido che pulisce il palazzo.

Allora sta attento, quando arriva la signora, — disse Carissima, abbassando la voce - Porteremo là le uova.

Egli ricordò le due uova nascoste nella cesta: si potevano vendere anche quelle, fra le altre: era anche un buon pretesto per penetrare nel giardino Dargenti. E andò dal cordaio: ma la porta di Sison era chiusa, l'aja deserta.

Allora Adone andò dal zolfanellajo: l'ometto lavorava nel piccolo atrio, perchè nell'aja c'era già fresco; e da qualche tempo in qua egli aveva una tosse ostinata che lo rendeva più debole e melanconico del solito.

— Però se dobbiamo morire sia fatta la volontà del Signore, - egli diceva a sua moglie, quando Adone entrò. - Riguardo al morire siamo tutti eguali: ah, lì non c'è differenza, veh, proprio no!

— È il freddo, è il freddo che ti fa tossire, - riprese la donna con voce monotona. - Davide dice che y'è un paese caldo anche d'inverno: li, bisognerebbe andare.

— Sì, - affermò Adone, prendendo il gatto fra le braccia, - in America fa caldo, quando qui è freddo; si legge nel libro ed è la verità.

Poi, mentre il gatto gli leccava un dito ancora unto di burro, egli aggiunse pensieroso:

— E chi sarà la vecchia che verrà al palazzo Dargenti?

— Una vecchia? Al palazzo Dargenti?

— Sì, si, di Parma: vecchia, vecchia.

— Sarà la veccia corna!(1) Spauracchio. - disse allora il zolfanellajo. Adone rise così forte che il gatto scappò. L'ometto ricordò che Jusfin, pochi giorni prima, aveva detto al cordaio che il palazzo e il parco dovevano andare all'asta. Jusfin era malto abbattuto e triste, in quei giorni. Il suo ultimo padrone, Carlino Dargenti, era gravemente ammalato, in una città lontana.

Nissa, mi pare.

— Nizza: è una città della Francia, - corresse Adone.

Sì, Carlino Dargenti era gravemente malato: il zolfanellajo si ricordava benissimo di questo giovine bello e spensierato, che una volta aveva portato la sua sposa a Casalino. Dopo non si erano veduti più. La sposa, molto più vecchia di lui, era morta qualche anno prima.

— Ah, ecco, deve essere la suocera, che compra il palazzo. Jusfin dice che è una signora molto vecchia, quasi cieca, quasi sorda, quasi…

— Quasi morta, allora! - disse la zolfanellaja.

Appagata alquanto la sua curiosità, Adone parlò degli avvenimenti della giornata. Riferì le questioni avute con Marco.

Gli ho detto che Davide è bello, che ha i capelli lunghi, gli occhi belli. Non è vero?

— Belli, belli! - esclamò la matrigna, convinta.

Lui rideva, quell'asino di Marco! Dice che il suo zio tenente è più bello. Che roba! Che dite voi, Nin?

Il zolfanellajo tossi, fece una smorfia, ma non rispose. La donna, invece, ricordò i discorsi di Davide, a proposito di militari. Un tenente? Ella non aveva mai veduto un tenente; ma sapeva che i militari pregano che venga la guerra perchè il loro mestiere è quello d'andare alla guerra. Sono cattivi, dunque: vorrebbero far morire la gente.

— Che roba, che roba, Dio mio! Paragonare Davide a un tenente! - disse Adone, giungendo le mani, e gettando la testa all'indietro. - Che ridere, Dio mio!

Ma non rideva. No, anch'egli non aveva mai visto un tenente, ma bastavano le parole di Davide, riferite dalla matrigna, perchè anch'egli, per far dispetto a Marco e dimenticando le lezioni del maestro di Casalino, deridesse, disprezzasse e temesse i « militari ».

Più tardi egli andò da Sison, per sapere qualche cosa circa la misteriosa vecchia del palazzo Dargenti: ma il cordaio non era in casa e Andromaca non sapeva nulla.

— Andiamo a vedere, - ella disse, punta dalla curiosità.

Andarono assieme: anzi Adone le si attaccò al braccio e non volle più lasciarla.

Attraversarono la strada, giunsero al cancello. Era chiuso. Il prato della chiesa era deserto: dal viottolo però si avanzava Pino il fìglio del caser, il bel giovinotto roseo, dai grandi occhi neri e i denti così bianchi che si vedevano da lontano Scorgendo Andromaca, anch'egli si avvicinò al cancello.

Che guardate? - domandò, cingendo con un braccio la vita della fanciulla.

— Adone dice che ci deve venire a stare una vecchia. Non si vede nessuno, però.

— Ah, una vecchia? Forse il prevosto sa qualche cosa. Va a domandare, Adone.

Mì no, mì no, - disse Adone. - Ogni volta che mi vede il prevosto mi tira le orecchie.

Stettero ancora a guardare: Pino stringeva Andromaca, e quasi le sfiorava la guancia con la sua guancia. Arrampicato sul cancello Adone guardava e chiacchierava, convinto che gli altri due s' interessavano molto alle ipotesi che egli faceva.

Il sole era tramontato. Sui grandi alberi del parco cominciava a stendersi un velo di nebbia; l'erba umida odorava. Nel silenzio del luogo solo la voce e le risate di Adone vibravano argentine. A un tratto però anche Andromaca emise un piccolo strillo, poi rise, scuotendosi tutta e cercando di sfuggire al braccio che la teneva stretta al cancello. Adone si voltò. Vide che Pino sorrideva in modo strano, mostrando tutti i suoi bei denti e fissando gli occhi negli occhi della fanciulla. E lei rideva, si scuoleva, ma lo guardava nello stesso modo. E pareva che entrambi non vedessero più lo scolaretto. Ma egli provò un impeto di gelosia, e volle difendere la fanciulla.

Ohè, che fai? Lasciala! — grido al giovinotto. - Non voglio che la tocchi.

I due risero, ma continuarono a guardarsi. Ed egli, non seppe perchè, senti caldo alla faccia e alle orecchie. E dimenticò persino la vecchia che doveva venire ad abitare il palazzo Dargenti.

***

E la vecchia, per quell'anno, non si lasciò vedere. Ma dopo qualche tempo tutti seppero chi era. Era proprio la marchesa Pigozzi, la suocera dell'ultimo Dargenti, una vecchia molto severa, molto ricca, che dopo aver lasciato morire quasi nella miseria il genero vizioso, ne aveva pagato i debiti e riscattato il patrimonio. Durante quell'autunno il palazzo fu riattato, ma nessuno venne ad abitarlo. Ogni volta che Adone si fermava a guardare attraverso il cancello, vedeva passare e ripassare, nel vano delle finestre spalancate, la figura gialla e svelta di Candido, la figura grave e bruna del vecchio fabbro, la figurina scialba del falegname, bionda come la segatura delle sue assi; vedeva nel viale i mucchi della calce e della sabbia, sull' erba le traccie dei passi degli operai, e qualche volta pensava di entrare, di soddisfare la sua antica curiosità, ma non osava, o meglio non voleva. Non era più il bambino curioso e fantastico di una volta: era un ragazzo, uno scolaro, uno studente, anzi, come si lirmava sulla copertina dei suoi quaderni:

DE MARCHI ADONE
DI CASALINO
STUDENTE
D'ANNI UNDICI, DUE MESI E QUALCHE CONA

D'altronde quel viale imbrattato di calce, quell'erba calpestata, quelle finestre aperte, animate dalle figure note degli operai, non le seducevano più tanto.

Il mistero cadeva: il palazzo Dargenti diventava una casa come tutte le altre; più grande, più bella, ma non più misteriosa. Il parco, avvolto di nebbia, silenzioso e freddo, tentava ancora la fantasia di Adone, ma egli rimandava di giòrno in giorno il progetto di penetrarvi. Avrebbe voluto trovarsi un compagno, per questo viaggio di esplorazione, perchè, bisogna dirlo subito, egli aveva ancora una vaga paura d'inoltrarvisi solo. Paura di che? Non sapeva: ma aveva paura. Non si sa mai. Jusfin raccontava che un tempo i Dargenti tenevano nel parco una quantità di bestie strane: cervi con le corna che parevano rami; cinghiali dai denti enormi. E se qualcuna di queste bestie viveva ancora? Bastava darle una bastonata, è vero, ma sempre meglio in compagnia di un amico.

Adone invitava Marco ad accompagnarlo nella sua progettata esplorazione: ma il biondino aveva capito che c'era qualche pericolo da superare, ed esitava. Era un ragazzetto prudente. Marco: freddo, indolente, dispettoso, ma prudente.

Tutti i giorni, oramai, i due compagni di scuola si ritrovavano nella strada fra Casale e Viadana; e facevano il viaggio assieme, bisticciandosi e pur volendosi bene.

Diventarono inseparabili, Altri ragazzetti della loro età li precedevano o li seguivano, e cercavano di unirsi a loro, e non riuscendovi li molestavano continuamente. Adone e Marco si beffavano di tutto e di tutti: forti della loro amicizia, respingevano le lusinghe e gli attacchi, rifiutavano la compagnia degli altri scolaretti.

Avevano bisogno di esser soli per discutere meglio, e litigare comodamente. Parlavano quasi sempre dei loro parenti e delle cose che possedevano i loro parenti; e ciascuno vantava la sua roba. Adone però non si scaldava troppo: parlava senza convinzione. Quando si trattava però di lodare la chiesa del suo paese, la torre, il prato, il palazzo Dargenti o Davide del Nin non ammetteva repliche.

— La nostra torre è più alta; si, è più alta della vostra: cento metri di più.

— Sì, perchè lo dici tu! La nostra è più alta; l'ha detto persino il prevosto. Eppoi c'è anche la poesia, per la nostra torre; sì, aspetta, te la dico subito. - E la inventava lui:

La torre di Casale Chi la scende e chi la sale.

Adone sollevava il viso al cielo e rideva.

— Che roba, Dio mio! Roba da ridere. La nostra torre, ti dico, è più alta, più alta e più alta! Mille metri più alta.

— Se non la finisci ti do uno schiaffone.

— Prova un po'!

Qualche volta deponevano i libri per terra e si azzuffavano. Ma questo non impediva che rifacessero subito pace e riprendessero le loro discussioni.

Adone parlava spesso di Davide: ne parlava con tale entusiasmo che a poco a poco Marco si lasciava suggestionare e pensava allo studente come ad un essere meraviglioso. Un giorno disse:

— Quando tornerà ancora, questo tuo Davide, verrò anch'io a pescare con voi.

— Vedrai, vedrai! E sentirai come canta! Se poi tuo padre ti bastona dillo a lui, e vedrai…

Ma non c'era pericolo. Il padre di Marco adorava il suo unico figliuolo e pensava a tutt'altro che a bastonarlo. Lo mandava ben vestito, ben calzato, ben nutrito, e tutte le mattine gli dava un soldo perchè si comprasse qualche cosa da Belluss.

Tutti gli scolaretti facevanò tappa al casolare; e l'omone dai grandi occhi celesti, ora che il freddo diventava intenso, accendeva tutti i giorni un mucchio di segatura perchè i piccoli clienti intirizziti potessero scaldarsi.

Dalla finestra della vasta cucina giallognola si scorgeva il paesaggio nebbioso. I ragazzi, quasi tutti poveri, coi visini rossi di freddo, erano infagottati in modo ridicolo e pittoresco; Adone spariva entro un mantello grigiastro dello zio morto, e aveva in testa un berrettino di pelo, di misteriosa provenienza. Per quanto raccorciato, il mantello sfiorava il suolo e aveva i lembi orlati di fango, ed era anche rattoppato, ragione per cui Marco diceva che Adone col suo tabarro sembrava una capanna con la porta e la finestra chiuse. E Adone qualche volta si vergognava del suo mantello, ma se lo teneva caro perchè gli faceva caldo.

Il tempo passava. L'inverno rigidissimo copri con le sue nebbie e le sue nevi l'immensa pianura. Sul palazzo Dargenti, nuovamente chiuso, i grandi alberi, coperti di neve, vigilavano come fantasmi: tutto era silenzio e desolazione.

Molta gente si ammalò quell' inverno a Casalino. La Tognina stette lungo tempo a letto, coi suoi dolori reumatici, e anche Pirloccia, ritornato da uno dei suoi lunghi viaggi, si ammalò di polmonite. Adone, quindi, fu più che mai trascurato. La zia Elena aveva tanto da fare: solo Carissima lo chiamava spesso in disparte, per incaricarlo di vendere le uova e il frumento e le altre cose ch'ella poteva rubare in casa.

Egli se ne incaricava volentieri, e incoraggiato dall'esempio si arrangiava anche lui, e se non poteva altro raccoglieva e vendeva gli stracci, le ossa, la cenere, le bottiglie, provvedendo così alle spese di scuola, e rinnovando anche il suo gruzzolo nascosto. Nessuno pensava a lui: bisognava bene che provvedesse da sè. Lo diceva anche il maestro: chi s'aiuta il ciel l'aiuta. E cominciava dalla mattina presto: si alzava, non trovava nulla da mangiare: allora prendeva un po' di farina, un po' di burro o di strutto, un po d'acqua fredda, e faceva un chissolin(1) Focaccia., che deponeva sulla brage o magari soltanto sulla cenere calda. In un attimo la piccola focaccia diventava rossa e nera, o nera da un lato e bianca e gonfia dall'altro: e in un altro attimo spariva. Fosse cruda, fosse cotta, allo scolaretto sembrava saporitissima.

E via, per le strade fangose, nella cui melma biancastra, quasi liquida, gli zoccoli del ragazzetto lasciavano la rapida impronta d'un viandante che ha fretta, che è spinto nel suo cammino da un sogno incalzante.

Sì, il nostro ometto intabarrato sognava, e correva dietro il suo sogno: gli zoccoli non pesavano ai suoi piedini fatti per la corsa nelle vie difficili della vita. Poichè egli sognava già di raggiungere qualche cosa, nella vita: sognava di raggiungere la felicitá, la gioia, la giustizia, la fortuna. Via, via: spesso il gelo induriva le strade, e il cielo era d'un azzurro cupo di cristallo, è il sole splendeva come un grande diamante freddo: allora l'ometto si sentiva leggero e lieto come un uccello. Gli pareva d'aver una maschera di ghiaccio sul viso, e tutto era fresco, trasparente, luminoso intorno a lui. Attraverso questa trasparenza di cristallo egli vedeva loutano lontano, davanti a sè, nella sua vita: bisognava correre, trascinare gli zoccoli, trascinare il mantello rattoppato: bisognava rompere tante e tante porte di vetro e ferirsi, e sanguinare: ma dopo l'ultima porta, là, lontano, c'era un mondo meraviglioso, non più gelido, non più nudo e desolato come la grande pianura ghiacciata: c'era la vita.

La zia Elena s'affacciò alla porta, guardò il cielo biancastro e disse:

Per San Benedett la rondanina la ven al tett, e s'l'è mia 'gnida, u ch' l'è morta u ch' l'è frida.

Sì, era il ventuno marzo, San Benedetto, e le rondinelle non erano ancora venute. L'inverno continuava, rigido e implacabile; il cielo prometteva ancora la neve.

Anche Pirloccia s'avvicinò alla porta: era brutto, scarno e nero più del solitò, sembrava un piccolo diavolo. Egli guardò il cielo e tossì: al di là della siepe a destra s'udì la tosse del zolfanellajo, una piccola tosse stanea, e al di là della siepe a sinistra la tosse rabbiosa e forte di Sison. Anche il bambino di Carissima tossiva: tutti tossivano. A un tratto Adone apparve nell'andito, col suo mantello, il suo berretto, i suoi zoccoli: e passando tra la zia Elena e il Pirloccia urtò alquanto quest'ultimo.

— Ecco uno che s'infischia dell'inverno, - disse l'uomo, guardando con dispetto il fanciullo. - Lui non è mai malato, e non si preoccupa di nulla! La sua malattia è l'appetito.

Adone filò dritto senza rispondere.

Pirloccia tossì ancora, sputò, gridò:

— Lascia venire il bel tempo! Almeno a pascolar le vacche andrai, fannullone!

Tognina, per consiglio del fratello, che oramai era il padrone in casa, aveva comprato un paio di enormi vacche. Adone ammirava le due grandi bestie monumentali, ma l'idea di condurle al pascolo non gli riusciva gradita.

— Io vado a scuola, - gridò, voltandosi. - Le vacche le pascolerete voi.

— Ah, sì, proprio? Vedremo.

— Vedremo!

L'uomo continuò a brontolare: Adone andò via senza più voltarsi, senza più rispondere. Ma la tristezza e l'umiliazione lo avvolgevano, gli pesavano come il suo brutto mantello. Le persecuzioni del Pirloccia e dei suoi figliuoli cominciavano ad avvilirlo, ed egli si domandava sempre il perchè di questa grande ingiustizia. Che faceva di male, per essere maltrattato e avvilito così? Perchè Pirloccia era così cattivo? Tutti erano buoni, al paese. Lo zolfanellajo era un santo; il fabbro, il falegname, il tabaccajo, tutti erano buoni. Anche Sison, nonostante i suoi continui brontolii, era buono, amantissimo della sua famiglia.

Anche la mamma era tanto buona: era una martire, una vittima della povertà. A misura che cresceva, Adone sentiva di amare intensamente la sua povera mamma, e soffriva perchè non poteva subito aiutarla. Tognina invece non era buona. Non era cattiva, ma neppure buona. Egli però ne sapeva il perchè: glielo aveva detto la zolfanellaja. Tognina era ricca e i ricchi non sono mai buoni: amano troppo il loro denaro per poter amare il prossimo. Ma verrà un giorno… Verrà un giorno in cui i poveri saran ricchi e i ricchi poveri! Allora… Allora questi sapranno quanto è triste non essere amati.

— Ma io vorrò bene a tutti, anche se diventerò ricco, - prometteva Adone a sè stesso. - Come si fa a non voler bene a tutti?

Però al Pirloccia sentiva che non avrebbe mai potuto voler bene: l'ometto lo perseguitava troppo, era troppo cattivo. Perchè era così? Forse perchè girava il mondo. Sì, una volta il maestro aveva detto: « Fanciulli, amale i campi, la sacra natura: l'uomo dei campi è l'essere che più s'avvieina alla perfezione: egli non conosce le corruzioni e le ipocrisie del mondo, e conserva la sua anima semplice e pura ».

Che cosa fossero le corruzioni e le ipocrisie del mondo Adone ancora non sapeva: sapeva però che Pirloccia aveva veduto molte città, molte nazioni, e che era diverso dagli altri abitanti di Casalino. Sì, ma anche Davide viveva in una grande città, e non era cattivo! Perchè dunque? Perchè dunque? Pareva che il piccolo uomo nero avesse una ragione occulta per maltrattare Adone; e anche Tognina, e anche i figli del Pirloccia parevano animati contro di lui da un astio segreto. Non volevano che egli vivesse senza lavorare, e sognasse una posizione migliore della loro. Altra ragione la mente dello scolaretto non trovava: ma il suo cuoricino sensibile presentiva altre ragioni, delle quali non sapeva spiegarsi il mistero. Specialmente l'indifferenza e l'astio della Tognina gli parevano mostruosi. Perchè la zia non lo trattava almeno come gli altri nipoti, o non lo amava almeno come amava le cose che le appartenevano? No, per lei egli contava meno d'una sedia, di una cassa, di un barattolo di conserva.

E non potersi liberare, non poter vivere con la sua mamma, coi suoi fratellini! Perchè mai la sua mamma era così povera? Ah, certo, egli avrebbe preferito vagare per il mondo, elemosinando, piuttosto che andar a mangiare il pane già scarso della sua mamma e dei suoi fratellini. Ah, egli ricordava sempre che Ottavio e Reno l'avevano guardato con invidia mentre mangiava la focaccia, al ritorno da Viadana, il primo giorno di scuola.

Ed ecco, ora, il Pirloccia minacciava di mandarlo a pascolar le vacche!

Era nomo da farlo. Ma egli era ragazzo da ribellarsi, anche! Si, ma come? Era sacile pensarlo; ma dal dire al fare, - insegnava il maestro, - c'è in mezzo il mare.

Ah, ecco, egli camminava, camminava in fretta, come al solito, e sentiva sulle sue piccole spalle il peso del suo destino; e sentiva nel cuore la disperazione della sua debolezza, della sua miseria. Come liberarsene? Il suo destino era come il suo mantello: brutto ma comodo. Liberarsene significava morir di freddo.

Verrà un giorno, però!… Il freddo passerà bene; il sole tornerà a scaldare la terra, l'erba, la cara erba buona, crescerà lungo l'argine e nei viottoli.

Via il mantellaccio, allora; via gli zoccoli: l'uccello uscirà dalla sua gabbia e sarà padrone del cielo.

E così nell'avvenire, così nella vita.

Dio, Dio, che gioia! Egli palpitava al solo pensiero dell'avvenire: l'incontro con Marco, la tappa da Belluss, il calore della fiammata, la dolcezza delle castagne secche, finivano col rasserenarlo e inebriarlo di gioia.

Eppoi il tempo non era così triste e rigido come pretendeva quell' anima chiusa di Pirloccia. Faceva ancora freddo, sì; ma con la sua squisita sensibilità Adone sentiva che l'inverno era gia finito. La terra palpitava timidamente, come un fanciullo innamorato, e si copriva di peluria verde: qua e là si sentiva il lieve profumo di qualche violetta, e su gli alberi scoppiavano le gemme verdoline. E il fiume si gonfìava, giallo e azzurro, e qualche molino palpitava di nuovo, a intervalli, come sveg liandosi dal Jungo sonno invernale.

A scuola Adone faceva progressi: il maestro gli voleva bene e scherzava con lui, e un giorno gli regalò un libriccino illustrato che per qualche tempo formò la sua felicità e il suo spasimo.

Era la storia di Robinson Crusoe! La fantasia di Adone non aveva mai immaginato una storia più bella. Per qualche tempo egli non pensò ad altro; lesse e rilesse il libriccino, lo imparò a memoria, e pur sapendolo parola per parola lo rileggeva ancora. Se cercava di leggerne solo qualche pagina, qua e là, non poteva: aveva bisogno di ricominciare da principio e rileggerne tutte le pagine di seguito, come i bimbi che, pur sapendo a memoria la fiaba prediletta, desiderano sentirla a raccontare di nuovo, dal principio alla fine.

Di notte egli sognava l'isola di Robinson; di giorno, passando sull'argine, ricordava la sera in cui Pigoss l'aveva abbandonato solo nell'isoletta dello stagno.

— Perchè non potrei vivere anch'io come Robinson, in un luogo deserto? - si domandava. - Mi farei una capanna: vivrei di pesci e di uccelli. Cosi starei tranquillo per tutta la vita!

Un giorno egli fu ripreso dalla smania di fuggire. Era d'aprile, dopo Pasqua, una domenica avanti la festa di S. Marco. Egli stava nel portico, e ascoltava le chiacchiere della zia Elena e di Carissima quando rientrò il Pirloccia. L'ometto era vestito a nuovo, con un abito di panno durissimo, e aveva un cappellaccio color cenere e una eravatta turchina svolazzante. Doveva aver bevuto perchè inciampò contro lo scalino della porta e per poco non cadde. Adone ricordò sempre questi particolari.

Appena entrato, il Pirloccia lo guardò e gli fece cenno di alzarsi.

— Su!

— Che volete?

— Su, andiamo! Conduci le vacche a pascolare.

Il ragazzetto palpitò, ma non si mosse.

— Ohè, a chi dico? Al muro? - gridò l'uomo, spalancando gli occhi, minaccioso. - Dico a te, palandrone! È tempo di finirla: oramai sei alto e grosso e mangi per tre. Alzati.

— Io non vado… io non voglio andare… - mormorò Adone. - E poi è anche domenica…

— Si, andrà domani… comincerà da domani - disse timidamente Tognina.

Ma l'uomo cominciò a saltare di qua e di là, poi si battè i pugni contro i fianchi: pareva l'avesse morsicato una vipera.

Ah, domani? Ah, domani? Ah, si, domani? Sentitela, la scema! Lo avvezzi bene, il tuo merlo: lascialo un altro momentino e vedrai come ti caverà gli occhi! Oggi bisogna andare, oggi! Cammina, palandrone, o ti prendo per le orecchie! Ti dico che è tempo di finirla: ora mi ci voglio mettere sul serio. Su, cammina. Ti manderò anche a fare il boassin(1) Raccoglitoro di concime..

Lo prese per il braccio, lo tirò su lo spinse. Adone guardava disperatamente la zia, ma la zia s'era fatta pallida più del solito e non fiatava più. Anche le altre donne tacevano. Sopratutto l'ultima minaccia del Pirloccia atterriva il ragazzo: era l'estrema degradazione.

A spintoni Pirloccia lo condusse nella stalla, che dava sul cortiletto dietro la casa. Le due grandi vacche giallognole volsero lentamente il capo.

Spinto dall'ometto Adone andò a sbattere contro il fianco d'una vacca. La bestia trasali: era più alta di lui, era grande, era enorme, calda e ruminante: egli ne ebbe paura, senti un impeto d'odio contro le due vacche: avrebbe voluto ammazzarle: era deciso a tutto fuorchè a condurle al pascolo. Ma Pirloccia insisteva, minaccioso. Slegò le vacche, mise in mano al ragazzo l'estremità delle cordicelle.

Adone non parlava, non piangeva, ma il suo visetto di solito acceso era diventato verdastro. Egli lasciò cadere le corde: Pirloccia gli diede uno, due, molti ceffoni, urlando. Allora egli vide tutto rosso: una flamma gli avvolse la testa; e udi un rumore sordo entro le orecchie, e senti un impulso bestiale di mordere, di spezzare qualche cosa di vivo coi suoi dentini forti. Gli urli di Pirloccia gli arrivavano come di lontano: ed egli ebbe l'impressione di correre, di andare verso questa voce odiosa e di gettarsi contro un muro, graffiando e mordendo le pietre come un gatto arrabbiato. Ma le pietre erano molli: il sangue sprizzò, gli bagnò le labbra, ed egli ne sentì il sapore acidulo. Gli urli dell'ometto raddoppiavano, non sembravano più umani. Adone ritornò alla realtà e si accorse di aver graffiato e morsicato a sangue il suo persecutore, del quale intravide il viso nerastro che nella sofferenza e nell'ira pareva ridesse di un riso diabolico. Si sentì perduto; e non seppe mai come riuscì a scappare dalla stalla, dal cortiletto, ed a gettarsi disperatamente attraverso i campi. Corse, volò: gli pareva di sentir sempre, alle sue spalle, il grido cattivo del piccolo uomo nero. Probabilmente il Pirloccia lo rincorse davvero; ma fosse stato pure il diavolo in persona non sarebbe mai riuscito a raggiungere il ragazzo, tanto questi volava. Finalmente egli si fermò, ansante, palpitante: si guardò attorno smarrito: si vide in salvo, per il momento, e si gettò a terra piangendo, convulso, con un dolore senza nome. Fu una delle più tristi ore della sua vita. Egli piangeva di rabbia, di dolore fisico, di impotenza: ma sopratutto piangeva perchè sentiva di aver fatto del male.

A poco a poco si calmò, si alzò, girovagò pei campi. Che fare, ora? Se tornava a casa, Pirloccia lo accoppava di certo: andare dalla sua mamma non voleva. Sentiva di aver torto e non voleva far dispiacere alla sua povera mamma. Girò due o tre volte intorno ai campi della zia, fermandosi e palpitando ogni volta che sentiva qualche rumore di passi. I campi della Tognina erano circondati da fossi larghi e profondi e da cavdagne erbose: egli ne conosceva naturalmente ogni albero, ogni filo d'erba: quello alto e poderoso era il ciliegio le cui foglioline delicate e lucenti riflettevano la rosea luce del sole al tramonto: quell'altro era il susino svelto, che pareva un figliolino del noce gigantesco. In fondo alla cavdagna centrale, che metteva nella strada alberata, due pioppi altissimi vigilavano i campi quel giorno silenziosi.

Il sole tramontava dietro questi pioppi, sul cielo d'un azzurro tenero e vellutato. Adone pensava agli altri ragazzi della sua età, che in quell'ora andavano a spasso o in chiesa ed eranò l'orgoglio dei loro genitori. Egli invece era là, solo, desolato, e doveva nascondersi come uno che ha commesso un delitto. E tutto questo perchè era un poveretto.

Egli ricordava benissimo i bei giorni di festa, quando era vivo lo zio Giovanni: egli lo accompagnava in chiesa, e tutti si fermavano a salutarli e guardarli sorridendo. Allora egli era ricco: lo zio Giovanni lo conduceva per mano attraverso i campi e gli diceva:

— Vedi, tutto questo sarà tuo, se sarai buono.

Egli era stato buono sempre… tranne quel giorno! Ma lo zio era morto e non aveva tenuto le sue promesse, e aveva lasciato la sua roba agli altri.

— Zio, zio mio, - gemeva egli stringendosi le mani al petto - perchè hai fatto così? Perchè non mi hai lasciato qualche cosa? Almeno il ciliegio, o il noce, o i pioppi! Non sarei così poveretto, cosi disgraziato! Perchè tutto a loro, e a me niente?

Gira e rigira egli varcò la strada, saltò il fosso, si trovò in un altro campo, poi in un altro campo ancora, poi nella strada che conduceva alla casa della sua mamma. Qualche cosa di misterioso lo attirava, lo attirava laggiù.

— Ebbene, andrò, ma non le dirò nulla.

Andò: e fu stupito di non vedere la sua mamma scalza seduta sullo scalino della porta. Ottavio, ch'era diventato un trottolino grosso, rosso e sudicio, giocava vicino al pozzo con un usignolino morto, mettendolo su con le alucce spiegate, e pretendendo di farlo volare.

— Chi te lo ha dato? - gridò Adone, pieno di pietà per l'uccellino morto.

— Trovato, io! - rispose Ottavio - El g'ha la bibì, guarda qui, sotto l'ala. Anche Checco ha la bibì, qui, al collo.

Francesco era il fratello maggiore, il quindicenne muratore di ponti, che aiutava col suo lavoro la povera mamma.

Col cuore pieno di tristezza Adone corse dentro la casetta, sali la piccola scala di legno, vide Francesco steso sul letto, col collo fasciato.

Ha un ascesso sotto l'orecchio - disse la mamma che era assai impensierita, perchè Francesco aveva la febbre e dolore alla testa.

Adone si spaventò. Egli non distingueva ancora le gravi dalle lievi malattie: la morte dello zio gli aveva però lasciato un ricordo funesto, un terrore misterioso dei mali fisici. Sì, sì, poteva morire da un momento all'altro, come era morlo lo zio.

Egli stette un momento nella camera, poi tornò giù, sedette sull'orlo del pozzo e ricominciò a piangere. Ottavio credette ch'egli piangesse per l'uccellino morto, lo guardò fisso, e si mise a piangere anche lui.

La mamma scese giù di corsa, e domandò che cosa avevano. E Adone non potè resistere oltre: le si avvinghiò al collo come un bambino e le raccontò piangendo ogni cosa.

Al solito, la mamma gli diede torto: ma glipromise di accompagnarlo a casa e di chiedere perdono per lui. Egli si ribellava: perdono no, perdono no, non doveva nè voleva chiederne: ma la mamma gli disse con voce triste:

Caro il mio omin, bisogna aver pazienza: si domanda perdono anche quando non c'è peccato: i poveri debbono sempre sottomettersi. Non addolorarmi oltre: vedi come tuo fratello sta male!

E perchè il fratello stava male e la mamma soffriva, egli si piegò: tornò a casa attaccato alle gonnelle di lei, e facendosi scudo di lei per ogni possibile pericolo. Pirloccia non c'era, e Tognina accolse il fanciullo e la donna con la sua solita indifferenza di persona malaticcia che pensa solo ai casi suoi.

La zia Elena invece scuoteva la testa e sporgeva le labbra.

L'ha falla troppo grossa - diceva. - Chissà, chissà!

Tognina consigliò Adone di mangiare e andarsene subito a letto: egli obbedi, ma tardò a chindere gli occhi. Nella sua grande stanzaccia, ove erano stati trasportati molti degli oggetti fuori d'uso che prima ingombravano la camera bassa ora tutta occupata dalle scope del Pirloccia, c'era freddo, e un cattivo odore, e un malinconico chiarore di luna e un rapido rincorrersi di topolini allegri. Adone aveva finito con l'affezionarsi a questi topolini, e spesso desiderava essere uno di loro, o almeno aver la facoltà di diventarlo. Del resto, desiderava di diventare anche un uccello, una rana, una lucciola. Quella notte però i topolini gli davano fastidio: gli pareva che si rincorressero come Pirloccia aveva rincorso lui per i campi, dopo la scena della stalla. Dio, era possibile? Anche fra le bestie potevano succedere simili cose? No, non era possibile. Le bestie son tutte eguali, beate loro: non vi sono ricchi e poveri, fra le bestie: non è possibile che un topolino orfano venga preso in casa d'una sua zia e poi maltrattato così, come veniva maltrattato lui. Beati loro: ecco, egli non li amava più: li invidiava.

Piano piano si addormentò: e subito sognò un'isola tutta verde, circondata di pioppi: ma era un'isola coltivata: come nei campi della Tognina il frumento verdeggiava qua e là, e un popolo di pianticelle di granone s'affollava intorno ad un ciliegio florito. A un tratto Robinson apparve dietro la siepe, vestito di pelli, biondiccio, sorridente: conduceva due vacche al pascolo. Adone si mise a ridere: no, non era Robinson quello, era il maestro! Come era buffo, così, vestito di pelli, con le due vacche che pareva lo spingessero col loro soffio! Ma ecco, tutto ad un tratto, il sogno cambia, diventa orribile, così orribile che non si può raccontare. È sogno, è realtà? Per qualche istante Adone non sa spiegarselo. È proprio vero che Pirloccia lo bastona, sorprendendolo nel sonno?

— Così, vedi, così, vedi! Così non scappi, maledetto! Prendi, ecco, impara! Prendi.

Erano pugni alla testa, schiaffi, ceffoni. Sì, era vero! Il dolore era vero: la voce cattiva del piccolo uomo nero risuonava nel silenzio della stanzaccia illuminata dalla luna. I topolini non si udivano più: anch'essi avevano paura del terribile ometto.

Adone cominciò a gemere, a dibattersi, soffocato da un dolore mostruoso. No, nulla di quanto aveva finora sofferto, nulla poteva paragonarsi al dolore che provava ora. Gli pareva di morire.

Finalmente l'uomo lo lasciò e se ne andò. Per qualche momento ancora Adone si contorse sul lettuccio, con l'impressione che l'ometto continuasse a percuoterlo. Poi s'alzò, nudo sul giaciglio, e cominciò a urlare. La sua voce disperata riempi per qualche momento la desolazione della stanzaccia, sul cui pavimento i vecchi oggetti si delineavano immobili come cose morte. E gli parve che il suo urlo di protesta angosciosa riempisse tutto il mondo: ma nessuno l'udi, nessuno si mosse: il mondo, per lui, era pieno di anime morte, più insensibili dei vecchi oggetti sparsi sul pavimento della stanzaccia. Egli solo udiva il suo grido disperato, la sua accusa contro l'ingiustizia e la prepotenza mostruosa dell'ometto nero che pareva la personificazione di un crudele destino: ed egli solo ebbe pietà di sè stesso. Si ripiegò, si accoccolò sul lettuccio, tacque. E non pianse più, e invece di pensare a sua madre, o a qualunque altra parente che avrebbe potuto difenderlo, pensò a Davide.

— Questa volta scappo davvero! - pensò. - Vado a Milano, vado da lui. So la strada: è la strada di San Giovanni in Croce, che va dritta a Milano. Vado proprio da lui: Via Santa Radegonda, trentadne… Vado.

Cautamente s'alzò, si vesti, frugò nel cestino in cerca dei suoi tesori. Gli pareva che da Casalino a Milano il viaggio fosse facile come da Casalino a Viadana.

Sì, bisognava andare. In qualche punto del mondo doveva esistere una persona, almeno una, che gli rendesse giustizia.

Albeggiava appena quando egli attraversò Casalmaggiore. Il chiarore della luna al tramonto si fondeva con la luce azzurrognola dell'alba, e un velo leggerissimo di nebbia fluttuava sulla città addormentata. Adone credeva di aver già fatto un buon tratto di strada verso Milano, e nonostante il dolore d'aver abbandonato il paese natìo senza neppure salutare la mamma e il fratello malato, si sentiva vispo come un uccello.

Non aveva fretta: era certo che Pirloccia e la zia non avrebbero mandato a cercarlo.

Egli mi ha detto fin da ieri di andarmene via: sì, me ne vado. Appena arriverò scriverò una lettera alla mia mamma.

Egli s'inteneriva pensando a questa lettera. Povera mamma! Ella piangerà, ora, ma più tardi darà ragione al suo disgraziato figliuolino, quando egli, diventato grande e forte, ritornerà in paese e farà il maestro di scuola e guadagnerà molti denari.

Cammina, cammina: nella strada che conduce a San Giovanni in Croce, egli vide avanzarsi rapidamente un calessino guidato da un negoziante di grano, molto amico del Pirloccia; e avrebbe voluto nascondersi, ma non era più in tempo. L'uomo l'aveva già veduto, e senza fermare il calesse gridò:

— Dove vai? - ma tirò dritto senza aspettar la risposta che Adone non pensava a dargli.

Il fuggitivo proseguì la sua strada. Nonostante le sue preoccupazioni e la stanchezza che dopo la notte insonne e i pugni ricevuti cominciava a sentire, egli aveva fame.

Ma questa volta egli aveva provveduto: nel suo fagottino, oltre i soldi, c'era qualche fetta di polenta, burro, formaggio, uova. Sedette su un mucchio di ghiaja umida, e svolse il fagottino. Il sole spuntava in fondo alla lunga e dritta strada, allora tutta fiancheggiata d'alberi d'alto fusto. Le foglie giovani, l'erba tenera, sparse di rugiada, scintillavano come foglie e steli di cristallo: gli uccelli cantavano, ancora un po' freddolosi e timidi.

Adone pensava sempre a Robinson, e mangiando la sua polenta fredda trovava qualche rassomiglianza fra lui e il prediletto eroe. Ma una biciclétta passò, scintillando, volando; poi passò un carrettino, entro il quale, su una sedia, stava seduta una signorina in cappello: egli capì che il suo paragone era assurdo. Ma egli aveva bisogno di pensare a Robinson per pensare a qualche cosa di bello, di fantastico, che lo distraesse dai suoi tristi pensieri. Il ricordo dell'orribile scena della notte lo colmava di terrore.

Rimettendosi in cammino pensò:

— Stanotte voglio dormire all'aperto e accendere il fuoco in qualche cantuccio, sotto un albero. I fiammiferi li ho. Allora, sì, mi parrà di essere lui.


***

Cammina, cammina. La bellissima strada si slanciava attraverso i campi dal verde tenero e variato, verso una lontananza infinita… Il cielo, là davanti, nello sfondo lontano, era d'un azzurro denso e luminoso: laggiù, laggiù, era il mistero del mondo.

Ma prima di arrivare a San Giovanni, Adone sentì il bisogno di riposarsi ancora: aveva sonno, le idee gli si confondevano nella mente.

Aprile, dolce dormire…

Doveva essere mezzogiorno circa. A quell'ora egli pensava sempre con nostalgia a una tavola apparecchiata, a un bel piatto di tagliatelle fumanti… Non tutti i giorni egli, dopo che frequentava la scuola, si trovava a casa a mezzogiorno; ma ricordava sempre i bei tempi quando era vivo lo zio: e spesso sognava che potessero tornare.

Si sdrajò all'ombra della siepe, sull'orlo della strada, e cominciò a sonnecchiare e sognare. Sì, l'illusione tornava: invece che sul confine d'un prato sconosciuto egli si trovava sul confine del prato dello zio, sull'orlo della strada di Casalino… Ecco, ad un tratto, un'ombra s'allungava sull'erba, un uomo veniva. Era lo zio. « Sù, sgambirlotto, andiamo a mangiare: la zia aspetta ». E lo toccava lievemente col suo bastone. Egli balzava su in piedi, spaventato e felice. Come, lo zio non era morto? « Ma no, sciocchino, fingevo! Ho fatto un viaggio nell'altro mondo. Si può farlo henissimo, lo sai. Non ricordi ciò che il maestro dice, di un poeta che si chiamava Dante Alighieri? Su, su, andom! »

Ma mentre sognava così, con gli occhi socchiusi, Adone sentiva che il suo sogno era assurdo. I morti non ritornano, egli lo sapeva bene. No, egli non aveva più zio, non aveva più casa; la sua casa era il mondo. Meglio pensare a Robinson; oppure figurarsi d'incontrare una vecchierella curva su due bastoni. La vecchierella s'avanza, guardando per terra, e par che cerchi un oggetto smarrito. « Che cercate, vecchia? » Ella non può sollevare il capo, ma solleva gli occhi azzurri infantili. « Niente, niente, puttino. Ma ho fame ». Ecco, egli le porge il suo involtino: e allora la vecchietta ride, si raddrizza, diventa una bella donna che possiede una villa là dietro quegli alberi. « Andiamo, puttino; tu sei buono ed io ti terrò sempre con me! Andavo giusto in cerca di un ragazzo buono! »

Nel silenzio intenso dei campi e della strada tutta gialla e nera di sole e d'ombra, risuonò un grido sottile. Adone spalancò gli occhi, e invece della vecchietta di cui sognava, vide una bambina di circa dieci anni, scalza, dai grossi piedi e le gambe nerastre mal coperte dagli orli lacerati d'un vestitino rosso a piselli neri.

— Ci fermiamo qui? - gridò la bambina.

— Più in là, più in là, - rispose una voce di donna, stanca e ansante.

— No, qui, mamma! C'è l'ombra! Ho caldo! Ho fame! Voglio da mangiare! Dammi da bere.

— Ti darò delle sculacciate, anche!

Adone scoppiò a ridere. La ragazzetta si volse, lo fissò con due piccoli occhi neri corruscanti, cattivi. Allora egli si accorse che ella rassomigliava stranamente alla sua sorellina Eva, con lo stesso visetto rotondo e roseo come una mela, circondato da una vera nuvoletta di capelli color d'oro. E diventò serio. La sconosciuta gli volse le spalle: una donna magrissima, vestita di nero e con un fazzoletto giallo in testa, s'avanzava spingendo un carrettino a mano coperto da una specie di mantice di tela cruda, intorno al quale penzolava una ghirlanda di piccoli cestini di vimini. Entro il carrettino c'erano due grossi fagotti e vari oggetti di cucina usati e sudici: fra le ruote stava attaccata una cesta che rasentava il suolo. Pareva impossibile che una donna così magra e pallida potesse spingere un tal carico: ella sembrava malata, e quando fermò il carrettino, spingendolo verso la siepe, sospirò forte, ansando, come uno il cui sospiro è rimasto lungo tempo sospeso.

— Ho fame, ho sete, -' ripeteva la bambina, mettendosi a frugare nel carrettino.

La donna le diede uno spintone.

— Pazienza, Santo Dio! Lasciami respirare.

Si curvò, guardò nella cesta che ora sfiorava davvero il suolo, vi introdusse una mano: poi prese un fagottino dal carretto e s'avvicinò alla siepe. Vide Adone e subito gli domandò:

— Ci vuol molto per arrivare a Casale?

— Eh!… - egli rispose stendendo il braccio, come per dire: ce ne vuole, ancora!

— Santo Dio, Santo Dio! - sospirò la donna, sedendosi accanto al fanciullo. La bambina le si gettò addosso, inginocchiandosi sull'orlo delle vesti di lei, e stese le mani al fagottino.

Era affamata, si vedeva: per alcuni istanti non badò ad altro che al pezzo di pane che sua madre le diede: potevano offrirle un regno, non se ne sarebbe curata. Anche la donna cominciò a mangiare; prese il fagottino su una mano e lo porse al fanciullo:

— Vuoi partecipare?

Egli arrossì fino alle lagrime, intenerito per quest'attenzione. Dio! Come era affamata anche la donna: eppure come sembrava buona!

Egli si mise a sedere e disse, toccando il suo fagottino:

— Ho anch'io da mangiare, ecco. Ho già mangiato.

La bambina parve svegliarsi da un sogno.

— Che ci hai, lì? - domandò additando il fagottino.

Veramente a lui non piacque molto questa sfacciataggine: tuttavia slegò il fagottino e senza parlare fece vedere le sue provviste. La ragazzetta guardò avidamente, coi suoi occhietti neri brillanti, e senza smettere di mordere il suo pane comincio ad esclamare:

— Ah, uova? Ah, formaggio? Ah, burro? Me ne dai?

— Ti dò un ceffone, sfacciata, - gridò la donna, respingendola.

Adone rise ancora: anche la bimba rideva, avvoltolandosi sull'erba.

La cestaja si mise a discorrere con Adone come con un grande.

— Sì, - diceva legando il suo fagotto, - io sono della provincia di Cremona; mio marito era di Casale, era scalpellino ed è morto in Prussia, quest'inverno. Questa puttina era figlia sua e di un'altra donna. Ecco l'eredità ch'egli m'ha lasciato. Fosse almeno buona, questa puttina: ma no, è cattiva come un diavoletto…

— Ah, no! Ah, no! Non lo farò più, mamma! - gridò appassionatamente la bambina, strofinandosi addosso alla donna e baciandola forte. Era così bellina, così carezzevole, che la vedova la guardò sorridendo con adorazione.

— Va là, sta quieta, Caterina! Su, lasciami.

E continuò a raccontare la sua storia dolorosa. Ella intesseva cestini durante l'inverno e andava a venderli nella bella stagione: qualche volta anche durante la cattiva. Aveva seguìto il marito fino in Prussia e nell'Ungheria. Lì, sì, fa freddo, cari i miei puttini! Vien voglia di attaccare fuoco al proprio carrettino.

Ma dopo la morte del marito anche lei s'era ammalata; non poteva più mandare avanti il suo carretto.

A Casale vivevano ancora i parenti del marito, fra gli altri un tintore molto ricco, e una vecchia, Barberina Bignami detta la Suppèi, che aveva un figlio in America.

— Li conosco, io! - esclamò Adone. - Eh, sono miei amici! Marco Bignami viene a scuola con me: ha sempre le calze nuove.

Questo particolare interessante colpì la vedova.

— Son ricchi davvero?

— Altro che son ricchi, - disse Adone, soffiando. - Hanno una stanza tutta piena di tele dipinte. Le inventa lui, il tintore: ne ho veduta una, bella, verde, con tanti pisellini come questi.

Egli indicò la veste di Caterina. La bimba, inginocchiata sull'erba, ascoltava a bocca aperta: nel sentire che il parente tintore aveva una tela verde a pisellini neri, provò tale gioia che balzò in piedi e fece un molinello. Forse sperava che il tintore le regalasse un vestitino: quello che aveva, intanto, si apri di qua e di là, mentre ella saltava, e lasciò vedere due ginocchia cosi magre e sporche che parevano di legno. Adone le vide e arrossì. Non sapeva perchè, quella ragazzetta gli piaceva e lo disgustava. Era diversa dalle altre bimbe che egli conosceva. Per oltre un'ora egli, la vedova e la bimbá rimasero assieme sull'orlo della strada, all'ombra della siepe. Egli accennò ai casi suoi, ma non disse che era scappato da casa sua. La donna non lo interrogò: era sofferente; sbadigliava e tossiva, e pareva non avesse più forza di muoversi. Caterina invece rideva e gridava, perfettamente inconscia del passato, ignara dell'avvenire. Era tanto allegra! E Adone si lasciava suggestionare da questa gioia spensierata di uccellino sazio, e diventava anch'egli spensierato come nei suoi giorni più felici. Ah! che volete? La sua coscienza, appena svegliatasi e ancora informe e direi quasi embrionale come il feto nell'alvo materno, era così piccola, così debole ancora! Bastava un niente per riaddormentarla e respingerla ancora nel suo nido oscuro. Egli si alzò e si mise a giuocare con Caterina. E finchè la cestaja e la bimba rimasero li, egli non pensò a riprendere il suò cammino.

S'avvicinò al carretto e toccò tutti i cestini, domandandone il prezzo. Due lire il più grande; due soldi il più piccolino, un grazioso cestinetto giallo, rosso e verde, che egli staccò e guardò a lungo con piacere. Fu tentato di comprarlo. Di che non era tentato lui? Ma due soldi son due soldi, passato il tempo in cui egli non conosceva il valore del denaro! Riattaccò il cestino e si curvò a guardare nella cesta, sotto il carretto. E vide che dentro, su uno strato d'erba, c'erano due bellissimi pulcini, di pochi giorni, due battuffoli di seta, uno tutto giallo, con gli occhietti neri neri, e l'altro tutto nero col solo becco giallognolo.

— Dio, Dio, come son belli! - disse con tenerezza. E si mise a sorridere ai pulcini, stendendo la mano per toccarli.

Caterina, improvvisamente diventata selvaggia, lo spinse in là.

— Neh, son miei! - gridò, minacciosa. - Non toccarli!

— Chi te li tocca?

— Sì, son miei! Li ho rubati io!

— Brava, allora! - gridò Adone.

— Bè, non toccarli: lasciali stare! Son miei!

La vedova si alzò e disse:

— Caterina, andiamo.

Adone le diede altre indicazioni sulla strada da percorrere per arrivare a Casale. E mentre la vedova si disponeva a partire, le disse, dopo una lunga esitazione:

— A Marco dite che io vado da Davide Del Nin, via Santa Radegonda trentadue, Milano. Se mi scrive, sarò là.

La vedova non indagò oltre. Sollevò le stanghe del carrettino con quelle sue grosse mani, ove pareva si fosse accumulata tutta la forza del suo corpo meschino, e partì.

Anche Adone riprese la sua via.


***

Già egli vedeva in lontananza le case di San Giovanni, quando alle sue spalle udì il roteare d'un carrozzino.

Si volse e nel carrozzino vide il Pirloccia.

L'apparizione del diavolo non l'avrebbe atterrito di più: d'un salto lasciò la strada e si mise a correre attraverso i campi.

Ma l'uomo gridava:

— Fermati, Adone. Ascoltami. Tuo fratello muore; è la tua mamma che mi manda e ti prega di ritornare.

Adone si fermò di botto, colpito dalle parole e sopratutto dall'accento supplichevole del Pirloccia. Questi sembrava un altro: Adone tremava di paura, ma in fondo si sentiva lusingato per l'importanza che l'ometto, inseguendolo, gli dava: e col suo istinto finissimo sentiva che il suo carnefice aveva qualche forte ragione per non lasciarlo fuggire. D'altronde egli pensava alla sua povera mamma disperata. Sì, egli aveva fatto male ad andarsene così, senza dirle addio: bisognava ritornare de lei, confortarla, rimettere ad un altro giorno la partenza.

Piano piano, diffidente e indeciso, si riavvicinò alla strada; Pirloccia aveva fermato il carrozzino, e senza smontare continuava a supplicare Adone di « esser buono ».

— Vieni dunque, non ti mangio! - gridava, agitando le mani. - Ti giuro che non ti tocco. Va mo là, spicciati, buono, là!

Adone s'avvicinò, si fermò sull'orlo della strada. Mille parole gli salivano alle labbra; ma non osava, non voleva pronunziarne una sola.

Ad un tratto spiccò un salto e montò sul carrozzino. Quest'atto di fiducia parve intenerire maggiormente l'ometto. Egli cominciò a chiacchierare, frustando il cavallino che proseguì alla volta di San Giovanni.

— Ora andiamo un momento a San Giovanni, poichè siamo qui: ho da sbrigare un piccolo affare. Tu baderai al cavallo. La tua mamma è disperata: Francesco ha un foruncolo maligno: essa è venuta da me, poichè Scipione le ha detto che ti avevano veduto in questa strada… A che ora l'hai veduto?

Non gli domandò altro, non lo sgridò: pareva avesse dimenticato le scene orribili avvenute fra loro due. E Adone ascoltava, palpitante e diffidente.

Intanto il carrozzino procedeva. Come ci si stava bene, in due! Dopo tanto camminare a piedi era un vero piacere farsi trascinare dal cavallino vigoroso: i campi veduti dall'alto sembravano più belli, luminosi di sole, e l'orizzonte appariva più vasto. Si vedevano le allegre casette di San Giovanni, e gli alberi del parco Vidoni, del quale Adone aveva sentito parlare e che molti paragonavano al parco Dargenti. Per tutte queste cose egli si sentiva più calmo, sebbene pensasse con tristezza al fratello malato e alla povera mamma afflitta. Avrebbe voluto parlare, dire dell'incontro con la cestaja, domandare al Pirloccia se avesse incontrato la donna e la bambina: ma gli ripugnava quasi rivolgere la parola e lo sguardo al terribile ometto che per lui, oramai, rappresentava il tradimento e la menzogna.

A San Giovanni si trattennero fin verso il tramonto. Egli rimase sempre sul carrozzino: d'altronde non gli sarebbe piaciuto scendere, e seguire il Pirloccia entro qualche casa. Idee mostruose gli attraversavano la mente: aveva paura che l'uomo lo conducesse in qualche luogo per bastonarlo, o magari imprigionarlo.

E a momenti era tentato di frustare la bestia e partire solo! Che gusto ci avrebbe provato! Ma poi rifletteva: pensava che il Pirloccia, dopo tutto, gli aveva dimostrato fiducia, affidandogli il carrozzino; e diceva a sè stesso, con orgoglio:

— Se è cattivo lui non devo esser cattivo io!


***

Al ritorno, poichè Adone sospirava ed era diventato pallidino, con gli occhi cerchiati, il Pirloccia gli disse, con insolita dolcezza:

Va mò là, la tua mamma dice che il Cischin sta molto male, ma è mica vero: ha un foruncolo: e d'un foruncolo non si muore! Ohp! Ohp! Rondinello, cammina, si fa tardi!

Rondinello, il cavallino, trottava: il sole era tramontato, il cielo diventava rosso all occidente e viola chiaro in fondo alla strada diritta che pareva confinasse con l'orizzonte. Gli alberi, i campi, l'acqua dei fossi, tutto il paesaggio tingevasi di rosa: e saliva sempre più acuto l'odore dell'erba fresca. Adone pensava che Pirloccia l'aveva ingannato ancora, facendogli credere che Francesco moriva: quell'ometto era nato per mentire. Ma egli non si pentiva di tornare indietro: era tanto stanco, gli pareva che anni ed anni fossero passati dopo la scena della notte scorsa. E sbadigliava, di fame, di tristezza, di stanchezza, sempre più pallido in viso, con gli occhi tristi come gli occhi di un uomo infelice. L'unica impressione lieta che ormai provava era la speranza di raggiungere la cestaja e l'abitino rosso a piselli neri. Non sapeva e non cercava certo di spiegarsene il perchè: ma l'immagine della ragazzetta gli era rimasta impressa nella mente, e ripensando a lei si sentiva allegro, come riflettendo la gioia spensierata di lei.

Ma per quanto Pirloccia frustasse Rondinello, la figura melanconica della cestaja e l'abitino rosso non apparivano mai in fondo alla strada; pareva che avessero già varcato l'orizzonte, e che non si potessero raggiungere mai più in tutta la vita! Addio, addio: mai più! E la grande luna d'oro saliva su quell'orizzonte color lilla, in fondo alla strada: saliva, saliva, varcava la linea degli alberi immobili, saliva sulle vie tranquille del cielo infinito! Aveva essa veduto la donna e la bambina? Chissà, forse. Pareva che anch'essa fuggisse, diretta verso un luogo misterioso. E nessuno poteva inseguirla, nessuno poteva raggiungerla! Ma anche lui, Adone, un giorno, o una sera, sarebbe fuggito così: e non sarebbe più tornato indietro. Quando? Come? Non sapeva… non sapeva… ma era certo che un giorno, o una sera, sarebbe fuggito come fuggiva la luna per le vie del cielo. Le sue idee si confondevano: egli sbadigliava, chiudeva gli occhi e teneva stretto stretto sotto il braccio il suo fagottino, entro il quale un uovo s'era bell'e rotto e aveva macchiato di giallo il tovagliuolino.

Il sonno lo vinceva: ma egli aveva paura di addormentarsi, così vicino al Pirloccia. Oh, no! oh, no! E riapriva gli occhi, e vedeva la luna sempre più pallida e piccola, che saliva, saliva: poi vide anche la stella della sera, grande e luminosa, che tramontava dietro i pioppi della strada. Anche la stella fuggiva, andava verso un luogo ignoto.

A un tratto, dopo aver attraversato Casalmaggiore, Pirloccia disse come fra sè:

— Han fatto presto, quelle due rane!

Adone aprì finalmente la bocca, scuotendosi dalla sonnolenza che lo vinceva:

— Chi? Le cestaje?

L'ometto sferzò il cavallo e non rispose. Ma Adone pensò che il Pirloccia doveva aver incontrato la vedova e la bambina, e doveva aver saputo da loro che un ragazzetto con un fagottino si dirigeva verso Milano, verso la casa di Davide Del Nin, via Santa Radegonda, ecc.

— Ecco, sì: egli ha paura che io vada da Davide! - egli concluse, con la sua meravigliosa astuzia.

***

Ma nonostante la sua meravigliosa astuzia egli fu ricondotto in casa della zia, e cadde nuovamente in dominio del « maledetto carnefice », e dei suoi più maledetti figliuoli.

La sua povera mamma pianse e lo supplicò di non far più il cattivo, di non far più sciocchezze, di non affliggerla oltre.

— Oramai sei grande; non sei più un bambino, caro il mio omin! Dovresti vergognarti, di certe sciocchezze! Fuggire, si fa presto a dirlo; ma dove si va, poi? Da Davide? Povero il mio omin, ma non sai che Davide è poveretto anche lui, come noi? Dio sa che disturbo gli avresti dato! Via, non pensiamoci più: son cose da bimbi di cinque anni.

Adone scuoteva la testina: no, no, non eran cose da bambini; tuttavia pensava che forse in fondo in fondo la mamma aveva ragione, a proposito di Davide. E piegò la testa; e si rassegnò ancora una volta.

La mamma, inoltre, cercò di convincerlo che bisognava rendersi utile, quando si vive alle spalle altrui. Che male c'era, per esempio, se egli andava a pascolare le vacche?

— Mentre pascolano, tu puoi studiare la lezione. Che male c'è?

Ed egli andò a pascolare le vacche. Quando tornava dalla scuola, invece di recarsi dal zolfanellajo o da Sison, o a girovagare per i campi e pei viottoli, gli toccava di portare sull'argine o lungo le cavdagne le due grosse bestie che gl'incutevano paura. Se qualcuno di sua conoscenza lo vedeva, egli arrossiva, perchè si credeva già uno studente, avviato a diventar maestro, e aveva paura che un giorno i suoi scolari gli rinfacciassero di esser andato a pascolar le vacche! Aveva poca fiducia nei suoi futuri scolari!

Sopratutto la domenica gli riusciva penoso il suo nuovo incarico. Egli pensava sempre ai ragazzetti più fortunati di lui, che la domenica almeno se la godevano, e li invidiava cordialmente.

Le due grosse vacche non lo amavano affatto: pareva sentissero la sua antipatia e gliela ricambiassero. Appena lo vedevano sbuffavano, e sparavano calci: un giorno poi una di esse gli mangiò un libro che egli aveva lasciato un momento fra l'erba! Sì, pareva che anch'esse s'accorgessero che egli non apparteneva alla razza dei loro amici, dei contadini, cioè, o dei guardiani di vacche.

Al ritorno dal pascolo, verso il tramonto, Pirloccia mungeva le vacche e costringeva Adone a portare il latte dal casèr(1) Casàro.. Il caseificio era all'altra estremità di Casalino, verso Casale. Adone doveva attraversare tutto il paese col secchio del latte in mano, e più che fatica sentiva vergogna. Forse temeva che i suoi futuri scolari gli rinfacciassero anche questo! Eppure moltissimi altri ragazzetti convenivano al caseificio, portando il latte delle loro vacche: alcuni spingevano la secchia su una piccola carriuola, destando l'invidia dei compagni e specialmente di Adone, il cui sogno era di avere almeno una di queste carriuole: ma no, neppure questo conforto poteva avere!

Con l'andar del tempo, egli strinse amicizia coi casari e specialmente con Pino, il figlio maggiore del casèr, e prese gusto ad assistere alla confezione del bel parmigiano dorato.

Il casèr, grande e biondastro, con un bel viso grassotto e un pizzo grigio e giallognolo sul mento rotondo, agitava lentamente il latte dondolando l'enorme caldaia a forma d'imbuto, sospesa sul forno scavato nel pavimento. Pino, il bel giovinotto roseo dai denti bianchi, con una semplice maglia nera che delineava le ondulazioni del petto e il solco del dorso, stringeva nelle forme di legno il cacio giallognolo, o sbatteva il burro o gettava fascine sul fuoco. Egli cantava sempre: sapeva persino delle canzoni francesi, una delle quali egli la cantava così:

Allons, allons, enfanti de la patrì; Il giorno de la glorì è arrivè.

Teneva quasi sempre un gran cappellaccio a sgembo sui capelli ricciuti: era allegro e sereno come un giovine iddio, e Adone sentiva per lui un'ammirazione profonda.

Il locale ove si confezionava il formaggio era vasto, affumicato, rischiarato, verso sera, dal chiarore del fuoco: attraverso un uscio socchiuso si scorgeva una stanza che pareva una biblioteca; ma su gli scaffali di legno giallo invece di libri si vedevano grandi forme dorate di formaggio parmigiano. Qua e là diverse trappole di legno e di fili di ferro aprivano le loro bocche lusinghere: segno che i topi frequentavano con passione questa singolare biblioteca.

Qualche volta Pino pregava Adone di portare i saluti ad Andromaca: oltre i saluti lo incaricava di portarle dei bizzarri messaggi.

— Le dirai così: alle otto precise la luna spunterà sopra il cancello Dargenti.

Oppure:

— La bella francese alle otto precise starà a passeggiare lungo il fosso.

Adone capiva a meraviglia questo linguaggio, e invece della bella francese, una sera egli vide Pino e Andromaca passeggiare abbracciati lungo il fosso: egli sentiva per la ragazza una specie di amore, una vera simpatia fisica, tuttavia s'incaricava dei messaggi di Pino con piacere, curiosità e gelosia. Egli era già malizioso, e i compagni di scuola s'incaricavano di insegnargli, giorno per giorno, quello che ancora ignorava. Riguardo a questo erano tutti abbastanza istruiti: eppure, in altre materie, restavano indietro d'un secolo. Ce n'erano alcuni così ridicoli, così ridicoli che parevano scolaretti di prima classe. Una volta venne un vecchio ispettore che non riusciva a pronunziare certe doppie, e domandò ad uno scolaretto:

— Chi era Attila?

Lo scolaretto non ricordava. Aveva da pensare ad altre cose, lui!

— Attila era… era… re… degli Uni… e… - aiutò l'ispettore.

E subito lo scolaretto aggiunse:

— … e degli Altri!

— Che roba, Dio mio! Che roba! - diceva Adone, raccontando il fatto al zolfanellajo. E rideva forzatamente, con la testina gettata all' indietro e le manine giunte.


***

Pochi giorni dopo il suo ultimo tentativo di fuga, egli rivide Caterina.

Era il giorno di San Marco. Adone andò a trovare il suo amico, che festeggiava il suo onomastico, e si trattenne tutto il pomeriggio a Casale.

Era agli ultimi di aprile: anche i gelsi avevano messo le foglie, e la madre di Marco aveva già fatto nascere i bachi. I due amici, dopo aver fatto una bella merenda di pane e salame, e dopo aver visitato il piccolo laboratorio dove il tintore conservava le tele dipinte che destavano l'ammirazione di Adone, uscirono per andare nei campi.

Davanti alla casa del tintore c'era un viottolo umido e solitario, in fondo al quale sorgeva una melanconica casetta di mattoni rossi, a un sol piano, oltre il terreno, con quattro finestruole di legno sbiadito dalla pioggia. La porta s'apriva dalla parte opposta al viottolo. In faccia alla casetta sorgeva una Maestà, cioè una piccola cappella chiusa da un cancelletto di ferro, dentro la quale, su un altarino fiorito, un San Michele dal viso terribile calpestava un biscione verdastro. Seduta su un vecchio tronco abbandonato, davanti alla Maestà, stava la ragazzetta dall' abitino rosso a piselli neri; senonchè l'abitino era stato lavato e orlato di nero: anche i capelli d'oro, raccolti in due treccioline strette strette, una sulla sommità del capo, l'altra sulla nuca, parevano lavati. I grossi piedi della bimba sparivano a metà entro due vecchie pianelle dalla suola di legno. A momenti Adone non la riconosceva, tanto ella era mutata: ella però lo riconobbe subito e gli sorrise.

Egli arrossì, per il piacere di rivederla e per il timore che Marco sapesse qualche cosa della sua avventura.

Ma il compagno passava dritto, senza badare a Caterina.

— E tua parente, quella? - domandò Adone.

— Macchè, - disse l'altro, con disprezzo. - È una stracciona: una zingara.

— Una zingara?.. Sei matto?

— Sì, una zingara! Sì! Sì, ti dico di sì! - proseguì l'altro con dispetto. - E arrivata l'altro giorno, con una donna, una donna malata, una cestaja. Sono venute da noi: poi sono andate dalla zia Barberina, che sta lì, in quella casetta rossa. E lei se le ha prese in casa. La zia Barberina è una matta, tu lo sai.

— Una matta?… Davvero?

— Sembra un uomo: ha il cappello, il bastone, la pipa: e una voce terribile. Ma sa tante storie bellissime: quella del Caval Rundello è tanto lunga che ci vogliono tre notti per contarla.

— Ah! - disse Adone pensieroso. - È quella donna col bastone? Sì, la conosco. Senti, è ricca?

— Pufff!.. - soffiò Marco.—Chi, ricca la zia Suppèi? Ha un corno. Vendeva zoccoli, quando era giovane. Ma ha un figlio in America, sì, Giorgio, che le manda sempre denari.

E il ragazzetto si mise a gridare, imitando la voce della vecchia:

Suppèi! Suppèi(1) Zoccoli. belli e forti! - Poi aggiunse: - Sì, quando sarò grande anch'io andrò in America. Così vedrò il mare. Sai com'è il mare?

— Il mare? Altro! - disse Adone.

— No, vedi, tu non lo sai. Tu una volta hai detto che il mare è come il Po. Invece no, non è così.

Presero a discutere, come al solito, Ma Adone pensava alle donne che abitavano nella casetta rossa, e benchè fosse tardi volle riaccompagnare Marco fino al viottolo.

Caterina non c'era più. Egli guardò curiosamente per una finestruola socchiusa, e vide una stanzetta melanconica, con un tavolo di noce in mezzo, e sul tavolo un lume a petrolio, e alcuni oggettini di vetro e di marmo. Sulla parete, sopra il camino, stava il ritratto di Mazzini, circondato da una ghirlanda di fotografie sbiadite: nella luce verdastra della stanzetta umida, quella figura d'uomo magro e tetro, e le immagini che lo circondavano, pallide, cadaveriche, davano l'idea di una compagnia di morti.

Da un uscio socchiuso veniva una cantilena religiosa, d'una tristezza profonda, cantata da due voci, una grossa, maschile, l'altra stanca e velata. Dovevano essere le voci della cestaja e della vecchia Suppèi.

— Andiamo, - gridò Marco, tirando Adone per la giacca.

— Andiamo dentro, - propose Adone. - Si passa dall'altra parte?

— Io non vengo, - disse Marco allora, abbassando la voce. - La mamma mi ha proibito d'andarci, perchè quella donna, quella cestaja, ha un male che attacca.

Adone allora non insistè. Soltanto pensò che era stato più d'un'ora in compagnia della cestaja e questa non le aveva attaccato il suo male.

Un altro giorno egli ritornò a Casale, e in casa di Marco trovò la famosa zia Barberina, alla quale pensava spesso. Ella aveva davvero un viso da uomo, con un gran naso rosso e due occhietti turchini vivacissimi: in testa aveva un cappello di feltro grigiastro, e in mano un bastone, attaccato al polso con una correggia. Era molto arrabbiata: con voce grossa e rauca, che a volte però diventava sottile e quasi dolce, e battendo forte il bastone sullo scalino della porta, ella sbraitava contro i parenti che non volevano aiutare la cestaja.

— Solo i povrett, sì, solo i poveretti possono capire la miseria e i malanni altrui - diceva. - Gli altri, quelli che hanno la roba, pensano solo a loro, viscere care!

Adone fu colpito da queste parole: pensò alla Tognina e alle sue sedie. Tuttavia, siccome Marco rideva, perchè la zia Barberina era molto ridicola quando s'arrabbiava, anche lui si mise a ridere. La vecchia li minacciò col bastone. La mamma di Marco, che era una bella donna, rossa, grassa e calma, osservò che la cestaja poteva proseguire benissi mo il suo mestiere. Caterina, poi, era così maleducata: un vero folletto. E anche ladruncola. Una zingara, anzi, non un folletto.

— Ma io la manderò a scuola! Ci ha del talento, quella lì, qui - gridò la vecchia, battendosi lievemente la fronte col pomo del bastone. - Impara a meraviglia tutto, in un attimo. È più brava di molti ragazzetti che sembrano beneducati.

— Va bene, - disse la rossa, piccata perchè l'accenno era per Marco. - E voi mandatela a scuola. Ma se tocca ancora le mie uova le darò io il talento e la memoria: gliele insegnerò a sculacciate.

Marco e Adone ricominciarono a ridere: intanto Caterina s'era avvicinata pian piano, e spiava dietro la siepe.

— Viscere, vieni! - gridò la vecchia, scorgendola.

La ragazzetta corse a lei, e parve mettersi sotto la sua protezione.

— E vero che rubi le uova, qui?

Sulle prime Caterina negò: ma, messa poi alle strette, confessò d'aver preso un uovo.

— Uno solo? possibile?

— Per uno io non mi sarei scomodato! - gridò Marco, beffardo.

Allora Caterina, spavalda, si vantò d'averne preso tanti.

— Ma perchè, figlia di Dio, perchè? - domandò la vecchia, curvandosi desolata sulla sua protetta. - Perchè, viscere?

Eh! - Noi ne avevamo così pochi! Due appena - disse Caterina semplicemente, sollevando due dita. - Due soli! Due!

— Ed io ti dò due bastonate! - gridò la vecchia, terribile, agitando il bastone,

Ma Caterina scappò: e i due amici ricominciarono a ridere pazzamente.

In quel tempo avvenne un fatto straordinario: straordinario per Adone, ed anche per gli altri abitanti di Casalino.

La vecchia marchesa Pigozzi venne a passar l'estate e l'autunno al palazzo Dargenti. Appena si seppe ch'ella doveva arrivare cominciarono le discussioni e i commenti. A molti non piaceva il suo nome.

— Ma che nome brutto! La siora marchesa Pigoss! Che sia parente del Pigoss?

E tutti cominciarono a dar la baja al vecchietto arguto, chiamandolo il marchese Pigoss. Egli sorrideva, quasi fiero del suo nuovo scudmai.

Adone passava e ripassava davanti al cancello socchiuso: Jusfin piantava dalie e girasoli nel giardino inglese: alle finestre erano state messe le tende: sulla balaustrata della terrazza che precedeva l'ingresso scintillavano due grandi vasi di smalto turchino, entro i quali fiorivano due piante di cui Adone ignorava il nome: i fiori rassomigliavano alle rose, ma d'un colore più vivo, più brillante.

Anche le donne e i vecchi si fermavano a guardare, e Adone ascoltava con curiosità i commenti.

— Ma perchè hanno messo le tende gialle, che sembrano sporche?

— E la puttina Dargenti verrà anche lei?

— Ma dicono che non verrà nè la siora marchesa nè la nipotina. Verrà solo la cameriera della vecchia: è una signora di Colorno.

— Una signora non fa la cameriera.

— Eppure, ti dico, è così: è una cameriera anche lei anzianotta: dicono, almeno.

Adone andava a riferire queste chiacchiere a Carissima e al zolfanellajo.

Carissima aspettava con ansia l'arrivo dei signori: s'era raccomandata a Jusfin per farsi dare del lavoro: inoltre sperava intendersela col cuoco per le cosette che sgraffignava in casa.

Nel zolfanellajo invece la novità non destava molto interesse. Egli era molto malandato in salute: tossiva ancora, nonostante il caldo, e aveva male a un orecchio.

— Zufola, zufola! - egli diceva, toccandoselo. - Mi pare d'intendere un rumore lontano: forse è il rumore dell'inferno.

Adone rideva. Bastava mostrargli un dito, per farlo ridere! Ma l'ometto parlava sul serio. Egli aveva paura di morire, e spesso domandava notizie della cestaja.

— Di', Adone, com'è? L'hai veduta? È gialla? Sputa molto?

Poi avvertiva il ragazzo di non avvicinarsele.

— È una malattia che attacca, quella, sai! Sta lontano da quella donna, caro.

— Ma Caterina, allora? Morrà?

— Speriamo di no! Quella donna, però, bisognerebbe portarla all'ospedale. Dicono che ci son paesi dove i tisici guariscono. Davide sa il nome, di questi paesi. Ma chi può andarci? Il viaggio costa, eh!

— Certo, lui sa il nome di quei paesi! Quando viene glielo domanderemo. Quando viene? Lui conosce la marchesa Pigozzi? E la cameriera di Colorno, la conosce?

Ritornava all'argomento di prima: ma il zolfanellajo non sapeva nulla, e la Müton borbottava parole incomprensibili, oscure minacce, contro i signori che dovevano arrivare.


***

Cominciarono le vacanze. Il caldo era intenso, ma i campi si mantenevano freschi e nei viottoli crescevano ancora le margherite. Guardando dall'argine, verso il tramonto, si scorgeva come un immenso anello di fuoco che circondava l'orizzonte: il fiume verde e roseo sembrava un lago fra i boschi immobili delle rive, e tutte le cose tacevano, come morte per mancanza d'aria. Verso sera, però, il cielo impallidiva, tingevasi d'un viola chiaro; un alito saliva dal fiume, il paesaggio si scuoteva, animato dallo stridio dei grilli, e la luna infocata saliva tra i vapori dell'orizzonte.

Una di queste notti Adone, che si aggirava sempre intorno al palazzo, vide arrivare una grande carrozza nera tirata da due cavalli che parevano di legno di noce, scuri e lucidi. Egli corse fino al cancello: e dalla carrozza vide scendere tre signore e una bambina.

La marchesa doveva essere la più vecchia, quella piccola e grassa, vestita di nero, con gli occhiali che scintillavano alla luna. L'altra, piccola e magra, in paglietta e col vestito corto, doveva essere la cameriera di Colorno. Appena smontata, aveva aiutato a scendere le altre due. La terza signora invece era alta, sottile, vestita di chiaro.

— Dev' essere un'altra serva - pensò Adone, ricordando che il Direttore, a Viadana, aveva una governante così alta e ben vestita.

La bambina, appena smontata, era corsa sulla scalea, affacciandosi ogni tanto sulla balaustrata. La signora piccola in paglietta le gridò qualche parola che egli non capì.

— Parla tedesco? - egli si domandò. - Parleranno tutte così?

Tutte queste cose lo divertivano e lo agitavano: rimase a lungo davanti al cancello, sperando di rivedere le donne, sperando di veder uscire la carrozza. Ma la carrozza fece il giro del viale e sparì dietro il palazzo, e le signore non riapparvero più.

La luna e i fanali della scalea illuminavano il palazzo, chiaro sullo sfondo dei grandi alberi neri: le finestre parevano d'oro, e i vasi di smalto scintillavano sulla balaustrata dell'ingresso: dal giardino inaffiato, ov'erano stati messi tavolini e sedili di ferro, saliva un aspro odore di gerani. Come era bello tutto questo! Pareva un sogno. Soltanto l'idea di andar a casa per raccontare quanto aveva veduto, strappò Adone dal misterioso cancello, che sempre rappresentava per lui l'ingresso ad un mondo ignoto.

Ma arrivato a casa vide che le donne erano già andate a letto: Pirloccia doveva essere ancora fuori perchè il portone era chiuso solo col saliscendi: nell'atrio, sotto l'immagine di San Simone Giuda, ardeva il lumino a petrolio.

Adone non aveva sonno: l' idea di andarsi a chiudere nella sua cameraccia lo rattristava. Tornò nell'aja, ma anche l'aja gli pareva stretta, quella notte: uscì ancora nella strada, e, senza la paura di esser chiuso fuori dal Pirloccia, si sarebbe allontanato ritornando nel prato della chiesa.

La luna attraversava il cielo perlaceo; sulla strada bianca di polvere le ombre nere degli alberi parevano disegnate con l'inchiostro. Egli pensò al suo amico Marco: sarebbe andato volentieri a trovarlo, subito, per raccontargli ch'era giunta la marchesa. Ma come fare ad allontanarsi? Pirloccia l'avrebbe chiuso fuori. Ecco, egli non era padrone neppure di fare un viaggetto, di notte! Avesse avuto almeno una carrozza come quella della marchesa: si va svelti, in carrozza: e poi si sta anche bene, anche se si hanno dispiaceri. Sì, egli ricordava il ritorno da San Giovanni: come si stava bene, nel carrozzino!

Ripensò a Caterina e alla cestaja; gli parve che la signora in paglietta avesse chiamato Caterina la bimba smontata dalla carrozza della marchesa.

Si chiamava Caterina anche quella? Poteva darsi: anche le bambine ricche possono avere il nome delle bambine povere.

— Quella non ruberà le uova, però - considerò Adone. E gli venne da ridere, a quest'idea.

Un gallo cantò: ed il ragazzetto trasalì, e gli parve che anche dentro il suo cuore un gallo cantasse, rispondendo a quell'altro. Sì, doveva essere quasi mezzanotte, ed egli non solo non aveva sonno, ma avrebbe voluto cantare, arrampicarsi su un albero o sui tetti per veder meglio il cielo.

Ma il ritorno del Pirloccia lo trasse dai suoi sogni.

— Che fai lì ancora? Ah, vegli, sì? Eh, sì, domani non devi alzarti all'alba, per lavorare: c'è chi lavora per te! Marcia a letto, palandrone! Marcia, o ti chiudo fuori!

***

L'indomani era domenica. Adone andò alla messa cantata, e vide che gli uomini, ritti sulla scalinata della chiesa, guardavano tutti verso il palazzo Dargenti.

Anche dentro la chiesa fresca e luminosa, le donne vestite di celeste, di rosa, di viola, col velo nero appuntato graziosamente sul capo, aspettavano, agitate e curiose. Adone si mise accanto al vecchio barcajuolo, intorno al quale un gruppo di giovanotti scherzava chiamandolo « sior marchese Pigoss ». Il vecchio sorrideva, coi piccoli occhi maliziosi rivolti al cancello del parco Dargenti. E finalmente il cancello s'aprì, e riapparvero tre delle figure già vedute la sera prima da Adone. Mancava la signora in paglietta. La bambina era tutta vestita di bianco, con un cappello tremolante, di velo candidissimo: pareva una farfalla. Adone ora potè vederla meglio: e gli parve bruttina, verdolina in viso, con gli occhi cerchiati come quelli di una vecchietta, e i radi capelli castanei sparsi sulle spalle magre. Camminava però in modo grazioso, lievemente, quasi sulla punta dei piedini, calzati di bianco; sì, davvero, pareva una farfallina che volesse spiccare il volo.

Le due signore, invece, camminavano piano, e quella che Adone credeva la marchesa, si dondolava alquanto; aveva un petto prepotente, e il suo viso rotondo paffuto e rosso, pareva ridesse di continuo. I giovinotti dissero subito delle cose maliziose, vedendola, e Pino il caser mormorò:

— Pare che voglia spinger la gente per farsi largo, con quel petturòn: se passa qui vicino ci butta tutti per terra.

Adone, naturalmente, cominciò a ridere.

— La siora marchesa pare che cammini dormendo, invece!

— Non ci vede - disse Pino. - È quasi cieca.

Allora Adone guardò intensamente la bella signora alta e sottile, un po' rigida, che camminava cautamente, con le grandi palpebre abbassate, e che ogni tre passi si fermava e pareva non dovesse muoversi più.

— Dicevano ch'era vecchia! È più giovane di me - disse Pino, alquanto beffardo. - È bionda come il granone.

A misura che la marchesa si avvicinava, un mormorio d'ammirazione si levava da quel gruppo di uomini semplici e arguti nello stesso tempo. Essi s'aspettavano di veder una vecchia cieca, magari col bastone; invece vedevano una figura quasi ideale, dritta e bionda, vestita come una fanciulla: anche il viso era di un colore insolito; d'un rosa tendente al viola.

Quando passò in mezzo agli uomini ella si avvicinò l'occhialetto al naso e sorrise a tutti, rispondendo al saluto che tutti, Adone compreso, le rivolsero.

***

Durante tutta la messa egli non le staccò gli occhi dal viso, mentre anche le donne si voltavano per esaminare la bambina e specialmente la cameriera di Colorno, quella che Adone aveva creduto la marchesa. La bimba inginocchiata sulla sedia leggeva nel suo piccolo libro di preghiere, e pareva indifferente, quasi triste; ma ogni tanto volgeva intorno gli occhi d'un bel castaneo dorato, e un' espressione di curiosità furtiva le animava il visetto delicato e scuro.

Poi sedette, sbadigliò, si mise a giocherellare col libro: senza dubbio era stanca di stare in chiesa.

Dopo l'Evangelio il prevosto fece un breve sermone: poi diede il benvenuto alla marchesa, in nome della popolazione, e ricordando commosso i bei tempi quando il palazzo Dargenti poteva dirsi l'anima del paese, s'augurò che quei tempi ritornassero presto, anzi fossero già ritornati.

Il viso della marchesa non espresse nè gioia nè dolore, per l'augurio del prevosto. La signora paffuta non cessava di sorridere e con la testa accennava di sì, di sì. Pareva rispondesse lei per la marchesa.

Non per tutti, ma almeno per il prevosto, i bei tempi tornarono. La marchesa lo invitava ogni tre giorni a pranzo!

Anche Carissima ottenne i favori del cuoco, e trovò lavoro al palazzo. Una sera ella vi rimase fin sul tardi e Adone andò ad aspettarla al cancello. La sarta non finiva di raccontare quello che aveva veduto e sentito, ed anche quello che s'era immaginato. Fra le altre cose diceva che la signora Maria, quella dagli occhiali, era una donna molto istruita, quasi una medichessa. Per ore ed ore la marchesa si faceva sfregare da lei le braccia, le gambe, il viso ed altre parti del corpo.

— Questo si chiama il messaggio, e dicono che fa prolungare la vita.

Pirloccia e i suoi figli ridevano pazzamente quando Carissima raccontava queste cose. Anche Adone rideva. Del resto la marchesa era una bravissima donna: faceva molte elemosine e andava a trovare i poveri nei loro abituri. Quasi ogni sera invitava a pranzo i notabili del paese: molti signori venivano a trovarla, dalle piccole città vicine.

A poco a poco la gente s'abituò a veder riaperte le finestre del palazzo Dargenti, e ciascuno tornò a pensare ai casi suoi. Anche Davide, quando in settembre venne al paese, fu invitato al palazzo e vi andò nonostante tutti i suoi principî democratici.

Ma un giorno Adone sentì lo studente beffarsi della vecchia marchesa.

— Non parla che di topi! Il palazzo ne è infestato ed ella ne ha una gran paura. Mi ha domandato se in casa mia c'erano topi!…

— Se viene a vedere gliene metto uno sotto la gonna, - disse la zolfanellaja.

E Adone aggiunse, incoraggiato dall' esempio della donna:

— E se viene in camera mia gliene metto dieci, anzi venti, anzi cento! Tutti quelli che vuole.

E rise al suo modo solito, gettando la testa all'indietro e giungendo le mani.


***

Passò l'estate, s'inoltrò l'autunno: nulla di straordinario avvenne. In ottobre lo zio Carlino venne a passare alcuni giorni al paese, ma andò ad ospitare presso altri parenti, e Adone lo vide appena due o tre volte. Anche lo zio Carlino non pensava più a lui.

Poi cominciò il tempo nebbioso. Davide partì, la marchesa partì. La figura di Jusfin tornò a dominare, sola e solenne, dietro il cancello chiuso.

E Adone ritornò a scuola, riprendendo le sue relazioni con Marco.

Egli aveva di nuovo il suo mantellaccio, che ora non sfiorava più il suolo; e naturalmente egli se ne vergognava sempre più, ma d'altronde non poteva liberarsene. Faceva già freddo: già Belluss vedeva ritornare al suo casolare i ragazzi che egli chiamava « gli uslin del fredd »(1) Gli uccellini del freddo..

Agli scolaretti si aggiunsero quell'anno alcune ragazze di Casalino e di Casale che frequentavano la scuola tecnica di Viadana. Anche loro, queste studentesse freddolose, erano qualche volta costrette a far tappa da Belluss, per riscaldarsi; ma per lo più passavano rapide lungo l'argine e pei viottoli, sdegnose di unirsi ai ragazzacci che si indugiavano a saltare i fossi o a giuocare nella strada. Del resto, anche i ragazzi non badavano a loro. Eppure un giorno Adone fu colpito nel vedere una ragazzetta imbacuccata in uno scialle a quadrati neri e grigi: ella doveva recarsi alla scuola a Viadana perchè aveva una borsetta di stoffa attaccata al braccio con una cordicella. Le spalle e la testa sparivano entro lo scialle: in cambio si vedevano le gambucce rossastre e i grossi piedi calzati con zoccoli che la scolaretta strascicava lentamente. Pareva ch'ella non avesse fretta di arrivare.

— Quella è Caterina, - disse Adone a Marco. - E che, va a scuola a Viadana?

— Eh sì! La zia Barberina la manda a Viadana, perchè Caterina ha litigato, a Casale: ha dato pugni e graffi alla altre ragazzette, che non la volevano vicino.

— Perchè non la volevano vicino?

— Perchè ci attacca il male della sua matrigna.

— E come ce l'attacca se lei è sana? - gridò Adone, sempre pronto a difendere le cause giuste.

— Eh, così! Non lo so, - rispose l'altro, stizzito. - Del resto, anche tu, l'altro giorno, hai detto che avevi paura di entrare dalla zia Barberina.

— È vero, ma è altra cosa…

— Va là, va là, sta zitto! È la stessa cosa.

— No, ti dico. Eppoi, per farti vedere che non ho paura, ora vado assieme con Caterina.

— Se tu vai con lei, io non vengo più con te! Mai più in tutta la vita! - gridò Marco, arrabbiato, spingendo col piede tutt'i sassolini che trovava.

Caterina si volse. Era rosea in viso, con gli occhi brillanti, le labbra accese: era bella come una Madonnina, nel suo scialle nero e grigiastro: sembrava l'immagine della salute.

Tuttavia Marco e Adone la raggiunsero e la schivarono. Ed ella non disse niente, ma si accorse della loro mossa. Ella aveva paura di Marco, che minacciava sempre di bastonarla: e se era prepotente con le bambine e si vendicava graffiandole e sputando loro addosso, perchè si accorgeva benissimo che la sfuggivano come un'appestata, non si azzardava di fare altrettanto coi maschi. Anche lei era prudente: e non era affatto selvaggia, e neppure cattiva: ma aveva una morale tutta sua: si serviva della sua forza e della sua astuzia fin dove potevano riuscirle utili.

Quando l'ebbero lasciata indietro Adone si volse, e la guardò. Ella tirò fuori la lingua, ma accennò verso Marco: Adone capì che l'atto di disprezzo non era per lui, e cominciò a ridere.

— Che hai? - disse l'altro, sempre più indispettito. - Se ti volti ancora, vado avanti e non vengo più con te.

— Oh, bella! Non posso neppure voltarmi, ora!

— Sì, non voglio!

— Ed io invece mi volto!

— E io vado avanti!

Marco infatti si mise a correre; ma Adone lo raggiunse, lo sorpassò, si volse e rise. Era impossibile tenergli il broncio. Ripresero a camminare assieme, vicini, discutendo su tante cose. Marco era dispettoso quella mattina: Adone invece era allegro: ogni tanto rideva e scuoteva il suo mantellaccio come un uccello scuote le ali bagnate.

Caterina rimase indietro, e quando Adone si volse un'ultima volta gli parve che la ragazzetta fosse piccola piccola, con la testa e i piedi sproporzionati: ma il suo visino roseo, nella cornice grigiastra dello scialle, sullo sfondo grigiastro della strada nebbiosa, pareva una rosellina d'autunno.

***

Anche quell'anno l'inverno fu lungo e rigidissimo. Tognina dovette rimettersi a letto, con le ginocchia gonfie, e invano Carissima tentò di farle il messaggio come la signora Maria le aveva una volta consigliato.

Del resto anche Carissima aveva i suoi guai: era incinta, aveva un bambino malato, che piangeva tutta la notte, e ben presto si stancò di curare la Tognina.

Anche la zia Elena aveva da fare: Pirloccia, poi, ritornato dal solito giro, aveva paura di ammalarsi come l'anno scorso, e per curare la sua salute, quando non lavorava se ne stava nell'osteria di Elettra raccontando le sue avventure di viaggio. Quando la moglie dell'altro gemello o le innumerevoli cugine e parenti di Tognina venivano in casa entravano appena un momento dalla malata, poi se ne andavano nella cucina o nella stufa, e chiacchieravano e ridevano con Carissima.

La malata, stesa sul suo letto di piume, piccola e nera come una mummia, pareva rassegnata alla sua solitudine: le bastava la compagnia silenziosa delle sue sedie e dei suoi vasi di conserva!

Anche Adone entrava in fretta, guardava intorno curiosamente, sempre in cerca di qualche novità, poi fuggiva. Gli altri non badavano a lui che per deriderlo o rinfacciargli la sua vita oziosa; ma anch'egli non si curava di loro che per difendersi dalle loro cattiverie. Per la Tognina, però, quando ella era malata, egli sentiva un senso di pietà.

Gli pareva un essere debole, incompleto, una bambina quasi: se ella gli avesse dimostrato un po' d'affetto, egli si sarebbe affezionato profondamente a lei. Ma ella non si curava di lui, non si curava di nessuno: non doveva curarsi neppure di sè stessa perchè non protestava mai, non si lamentava dell'abbandono in cui la lasciavano i suoi parenti, oramai diventati padroni in casa sua. Del resto Adone era contento quando anche lei non lo maltrattava e non gli rinfacciava di mangiare a ufo il suo pane.

Oramai egli aveva dodici anni. Capiva molte cose: gli pareva di capire tutto. Si sentiva come un uccello di passaggio, in quella casa che era appunto come un nido di uccelli di diverse specie, e dove il padrone era il più furbo.

Pazienza dunque: ancora pochi anni e tutte le umiliazioni sarebbero finite. Una sera sull'imbrunire egli passò davanti all'uscio della camera di Tognina, e senti un lamento fioco, sottile, che pareva quasi il miagolio d'un gattino.

— Zia, zia, che hai? - egli chiese spingendo l'uscio.

Il lamento cessò. Una triste penombra avvolgeva la camera: solo intorno alla finestra spandevasi un chiarore cenerognolo d'una infinita melanconia. La nebbia s'addensava al di fuori, e pareva fosse penetrata anche nella camera umidiccia e fredda.

Adone s'avvicinò al letto fra i cui materassi Tognina si sprofondeva e quasi spariva.

— Zia, zia, dormi? Vuoi che accenda il lume? Hai freddo? Vuoi qualche cosa?

La donna non rispose. Teneva chiusi gli occhi, la testa avvolta in un fazzoletto di lana giallognolo: pareva un cadavere.

Adone ricordava sempre la morte dello zio, avvenuta quasi all'improvviso, e aveva l'idea fissa che tutti dovessero morire così, da un momento all'altro. Credette che la donna fosse morta: un terrore misterioso lo assalì; gli parve che tutte le cose, tutti gli uomini, il mondo intero infine, dovesse sparire così, improvvisamente, spento da una cupa nebbia, da un tenebrore senza fine.

Fu un momento. Egli non ebbe neppure la forza di gridare: gli parve di morire e cadde svenuto appoggiandosi al letto e poi scivolando a terra.

— Adone! - gridò allora Tognina, - che fai?

Non ricevendo risposta, anche lei si spaventò: senza muovere la persona indolenzita prese la scatola dei zolfanelli e ne accese uno: prese il lume e l'accese. Il fanciullo non si moveva. La donna gemette, chiamò: nessuno venne, nessuno rispose.

Allora Tognina fece uno sforzo, si sollevò gemendo, e buttò sulla testa di Adone l'acqua del bicchiere che stava sul tavolino. Dopo un momento il fanciullo riaprì gli occhi: guardò, vide il lume, vide la zia protesa sul letto, gialla in viso come il suo fazzoletto di lana. Egli provò una sensazione di dolcezza: ricordò lo spavento che lo aveva abbattuto, ma gli parve di aver dormito a lungo, e di aver fatto un sogno. Ora non avrebbe voluto muoversi, ma Tognina gemeva e lo chiamava disperata.

— Adone, caro, su, che hai? T'è venuto male? Su, Adone, su, viscere belle, su! Che hai avuto? Che spavento! Su, bello!

Che dolcezza sentirsi chiamare così! Egli s'alzò, s'appoggiò al letto, si passò le mani sul viso e sulle vesti bagnate.

— Ti credevo morta… così, sola, così, al bujo! Che spavento, anch'io!

Tognina lo guardò e ridiventò cupa, e rimettendo la testa sul cuscino ricominciò a gemere ed a piangere. Pareva una bambina.

Adone le passò la mano umida sul viso, e si mise a piangere anche lui. Perchè? Egli non sapeva: ma aveva bisogno di piangere, e ne provava una strana voluttà.

— Taci taci, - disse alfine la donna, asciugandosi le lagrime con la manina fredda del fanciullo. - Taci, taci. Ti sei spaventato, poveretto. Mi vuoi bene dunque? Tanto bene, mi vuoi?

— Sì, sì, zia mia! Tanto bene.

— Non c'è nessuno, giù? Ho chiamato tanto.

— La zia Elena è andata a comperare il burro e la minestrina per te: Carissima faceva la polenta: Fiorello teneva il bimbo: gli altri non sono tornati.

— Senti, Adone, - disse allora Tognina, mettendo la mano sotto il cuscino. - Ora ti do la chiave della cantina: va, prendi una scodella, grande, quella con l'orlo rosso, e riempila di vino. Di' a Carissima che lo faccia scaldare e ci metta un po' di zucchero: poi me lo porti, eh? Lo berremo assieme: fa bene per lo spavento. Va: non dare la chiave a nessuno. Hai capito? Levati la giacca bagnata.

Egli andò, stringendo la chiave con ambe le mani. Era la prima volta che la zia gli dava un segno di fiducia. Il cuore gli palpitava di riconoscenza.

Fece tutto da sè, e Fiorello, che teneva fra le braccia il nipotino malato, non poteva credere ai suoi occhi vedendo in mano di Adone la chiave della cantina; quella chiave che la zia affidava solo al Pirloccia, ed anche raramente.

Carissima invece parve rallegrarsi di quest'avvenimento: diede lo zucchero al fanciullo, poi si mise a tagliar col filo la polenta, canterellando. Nonostante i suoi guai ella era sempre allegra.

— Di' alla zia se vuole una fetta calda calda, - disse, mentre Adone vuotava il vino bollente nella scodella dal filo rosso. - Oh, senti, Adone, se facessimo una cosa, ora che ci hai la chiave! Se prendessimo un salamino?

— Proprio no, veh! - gridò il ragazzo, arrossendo di sdegno. Poi aggiunse: - Se vuoi glielo dico, alla zia.

— No, no, non dir niente, balordo! Va via, va!

Egli andò via, cautamente, con la scodella calda fra le mani.

— Bada che ti pesa! - disse Fiorello ironico. - Bevine un po' per via!

Adone non rispose. Salì le scale al bujo, si fermò: dalla scodella saliva un così grato odore, un cosi tiepido vapore, che egli provava l'impressione di trovarsi sotto un pergolato carico di uva matura, al sole di ottobre!

Vinto, egli chinò la testa e mise le labbra sull'orlo caldo della scodella!


***

Da quella sera egli prese à voler bene alla zia, come non gliene aveva mai voluto. Le pareva di proteggerla, di esserle indispensabile. Ella non gli si mostrava sempre buona come quella sera: spesso lo sgridava, lo mandava via; ma egli ritornava sempre da lei, prendendosi il gusto, come da bambino, di sedersi sulle sedie preziose e di guardare i vasi sul camino spento. Qualche volta le giornate erano splendide, la sera calava luminosa e fredda, e dietro i vetri gelati si scorgeva il cielo roseo, cristallino. Pareva che tutto il mondo fosse di vetro: s'udivano certi strilli, certe voci lontane vibrare a lungo, come tintinnii di cristallo. Adone guardava e s'incantava: sogni confusi gli attraversa vano la mente. Gli piaceva immensamente starsene in camera della zia, ove tutto era ordinato, pulito, silenzioso. Pensava:

— Quando sarò grande e avrò moglie, mi farò una camera così.

Pensando alla moglie pensava ad Andromaca: e pensando ad Andromaca arrossiva senza saperne il perchè.

Egli cominciava ad entrare in un periodo critico: era nervoso, eccitabile, aveva bisogno di amare, di odiare, di soffrire; di amare sopratutto. Bastava fargli una piccola gentilezza perchè egli si infiammasse di affetto e di riconoscenza. Aveva un po' dimenticato Davide, ma ora pensava continuamente al suo maestro, - un ragazzo pallido e malaticcio che era d'un'indulgenza eccessiva coi suoi alunni - e pensava a Marco con affetto geloso. Ma il suo amore più forte, dopo quello per la mamma, era per Andromaca. La figlia del cordajo diventava sempre più bella, alta, slanciata, bionda, con la fossetta sul mento e gli occhi dorati, lunghi e voluttuosi. Per lei Adone trascurava anche il suo amico il zolfanellajo, sempre più malato.

D'inverno il cordajo lavorava nella sua cucina, lunga e stretta come un andito: la parete di fondo era tutta occupata dal camino. Egli disfaceva qualche corda usata, e scardassava e pettinava la canapa; seduto in mezzo ai suoi mucchi di corde grigie attortigliate, egli borbottava e sembrava un fattucchiere circondato da serpenti che ai suoi strappi improvvisi pareva si animassero un momento per poi ricadere morti sul pavimento bruno.

La moglie e la figlia andavano e venivano: Adone, seduto davanti al cordaio, guardava e chiacchierava. Ma Sison, al contrario del zolfanellajo, non lo prendeva sul serio, non gli dava retta, e si rivolgeva a lui solo quando aveva da parlar male della Tognina e dei suoi parenti.

— Son tutti matti, - gridava allora, volgendosi minaccioso verso Adone. - Diglielo pure, a tua zia, dille che Sison s'infischia di loro e della loro roba! Matti ma furbi, - aggiungeva poi. - Sì, puttino, qualche giorno ti accorgerai che tua zia e suo fratello sono matti ma furbi.

— Lascialo dire; e non ripetere quello che egli dice, - consigliavano le donne.

Allora il cordajo s'arrabbiava con sua moglie, e proferiva oscure minacce contro i parenti di Adone.

— Io ho lavorato tutta la vita, - diceva, - e non sono ancora riuscito a farmi un buco dove morire. Una corda, se la voglio, per appiccarmi: ecco che cosa son riuscito a fare. E loro vivono da signori, senza aver mai lavorato: loro hanno rubato… loro hanno fatto quello che han fatto… Ma verrà un giorno… La corda sarà per loro… Verrà un giorno…

Ecco, egli parlava come la Müton! La moglie diceva:

— Ma taci, Sison! Taci, linguetta!

Egli si arrabbiava di più: strappava le corde, le agitava, minacciava di strangolare la donna. Adone rideva.

Sì, il cordaio era molto povero. Tanto povero che Pino, il figlio del casèr, non si decideva a domandare Andromaca per moglie, perchè ella non aveva neppure il corredo. I due giovani però continuavano ad amoreggiare, e Adone s'incaricava dei loro messaggi amorosi.

Un giorno egli sentì dire da Carissima che Pino non avrebbe mai sposato Andromaca.

— E la sposerò io, allora, sicuro! - egli disse.

Subito lo presero in giro, beffandosi di lui, e andarono a riferire le sue parole alla ragazza. E da quel giorno Andromaca ogni volta che lo vedeva lo abbracciava, mettendosi a saltare con lui, e chiamandolo il suo sposo. Egli lasciava fare: quando la ragazza lo stringeva a sè, costringendolo a volteggiare con lei per l'aja o per la cucina, egli provava una dolce vertigine, un vago senso di ebbrezza come quando beveva il vino caldo con lo zucchero che la zia qualche volta si faceva fare da lui.

Una sera Andromaca era sola nella cucina melanconica piena di corde e di mucchi di canapa. Adone entrò e le disse, piano piano:

— Pino ti saluta e dice che forse quest'anno lo zafferano non costerà tanto.

Queste parole dovevano avere per Andromaca un lieto significato perchè ella corse al fanciullo e lo abbracciò e si mise a ballare con lui, con più allegria del solito, e canterellò:

— E allora ne compreremo tanto. E allora ci sposeremo… con te, sai, caro il mio sposino! Caro caro caro, caro il mio sposin!

— Ti ricordi, - disse Adone, - una volta sotto il pergolato abbiamo fatto un gioco curioso. Facciamolo ancora.

— Che gioco, sposino?

— Così: tu correvi, io ti raggiungevo: fingevamo di litigare e cadevamo tutti e due per terra. Una volta m'hai morsicato le labbra.

— Ah, sì? - ella gridò, sempre più allegra. - Vuoi essere morsicato? Ecco, ti basta?… Ancora: ecco. Bau, bau, bau…

Ella finse di abbajare e lo morsicò lievemente: egli impallidi di piacere: si attaccò a lei e le morsicò forte la guancia destra.

— Ah, perdinci, tu fai davvero! - ella gridò, respingendolo. - Va via subito, cagnolino! Va via o ti do un ceffone!

Egli non sapeva se ridere o piangere, ma la guardava così mortificato che ella si rabbonì, e passandosi la mano sulla guancia ove i dentini di lui avevano lasciato il segno, disse:

— Dovresti cercarti una sposina piccola, una cagnolina come te, per fare questi giuochi. Va via; io non ti voglio più.

Ed egli pensò a Caterina. Rivide col pensiero la figurina imbacuccata che percorreva l'argine trascinando gli zoccoli, rivide le guancie rosse e rotonde come due mele, che si scorgevano anche da lontano nel grigiore della strada solitaria, e pensò che sarebbe stato bello giocare con lei come con Andromaca.

Al ritorno della primavera Adone depose ancora una volta il suo mantellaccio, e Caterina si liberò del suo scialle. Anche Marco volle imitarli: si levò la mantelletta col cappuccio, che Adone invidiava tanto, e all'insaputa della madre indossò il suo vestitino nuovo assai leggero.

L'indomani Adone lo attese e lo chiamò invano allo sbocco del viottolo. Passò un ragazzetto che altra volta i due amici avevano maltrattato.

— Hai veduto Marco? - chiese Adone.

— Che so io? - rispose l'altro, e passò oltre, sdegnoso.

— E se Marco mi ha tradito? - pensò Adone con tristezza. - Egli minaccia sempre di abbandonarmi, se non faccio quello che lui vuole. Ieri ho parlato con Caterina; e lui non vuole.

Ecco appunto Caterina. Ella si avanzava coi suoi passettini indolenti, col suo vestito nuovo d'indiana turchina, duro e gonfio come un pallone.

— Hai veduto Marco?

— È malato.

— È malato? Come? Cos'ha?

— Così! È malato.

— Ma che cos'ha? - gridò l'altro stizzito.

— Non lo so. Anche la mia mamma è malata: ha pianto, anche. Il dottore è andato da Marco, poi è venuto da noi. Dice che muore.

— Marco muore?

— No, la mia mamma. Ed anche Marco, forse, - ella aggiunse, pensierosa. - La nonna Suppèi dice che moriamo tutti.

Il giorno dopo Adone andò a trovare Marco: lo vide per un solo momento, e quasi non lo riconobbe: era rosso in viso, ma gli occhi sembravano di vetro. Aveva la polmonite, con febbre a quaranta gradi. Tutta la notte Adone sognò del compagno; ma pensava:

— Eh, domani sarà guarito.

L'indomani Caterina lo attese sull'argine per dirgli tranquillamente:

— Marco è morto.

— Bugiarda! - egli gridò. Ed ebbe voglia di buttarle un sasso, tanto le parole di lei lo irritarono.

— E allora va a vedere! - ella disse, voltandogli le spalle.

Egli non volle credere: si mise a correre, raggiunse altri due ragazzi che precedevano, li interrogò ansioso. Sì, Marco era morto. Morto! Sparito, per sempre!

Adone non pianse, non si disperò, ma per qualche giorno visse come istupidito.

— Non lo vedrò più! - pensava. - Che farò io, solo? Anch' io devo morire. Fra tre giorni posso morire. E anche subito!

L'idea della morte lo perseguitava: ma più che angoscia gli destava meraviglia. Sentiva già il grandioso mistero della morte: e non si domandava perchè si è nati e perchè si deve morire, se la vita è così breve e inutile, ma diceva al zolfanellajo:

— Siamo nati e dobbiamo morire. Lo zio morto, ma lui almeno era vecchio. Marco non era vecchio ed è morto anche lui. Anch'io posso morire da un momento all'altro. Però io non voglio. Farò di tutto per non ammalarmi. Posso mettere il mantello anche d'estate.

— Bravo, veh! Quello è un rimedio! - diceva l'ometto. - Basta un sassolino per farci scivolare e batter la testa da morirne.

— Io guarderò per terra!

— Si muore, si muore lo stesso! - sospirava l'ometto. - Oggi o domani si muore! E tutti, anche! In questo, almeno, il Signore è stato giusto. Muore il re, muore il meschino; tutti facciamo lo stesso cammino.

— Si vivesse bene, almeno! - interveniva la zolfanellaja. - No: si vive male, si muore male, e buona notte!

Per lungo tempo Adone pensò a Marco, solo, freddo e rigido nella sua piccola fossa: quando pioveva egli pensava che il suo povero amico doveva aver freddo, doveva bagnarsi, e rabbrividiva per lui. Ricordava i giuramenti che s' erano fatti, di non tradirsi mai, e si propose di non cercarsi più un altro amico.

Ora camminava solo, per l'argine e pei viottoli, e cercava quasi le orme del suo povero amico, per ricordarsi meglio di lui. Si fermava dove ogni giorno solevano incontrarsi. Un giorno chiamò:

— Marco! Marco!

Gli rispose la voce del cuculo, che pareva triste e beffarda come quella dell'eco. Egli ebbe voglia di piangere. E l'indomani ripetè il suo richiamo! Così egli conobbe la voluttà del dolore.

Un giorno Caterina lo raggiunse nel viottolo già tutto coperto di verde e pieno di usignuoli. Dopo la morte di Marco egli evitava di chiacchierare con lei, ricordandosi che il suo povero amico non amava Caterina.

Quel giorno ella camminava più svelta del solito, sollevando da terra i grossi piedi mal calzati.

— Adone, - disse, quando ebbe raggiunto il fanciullo, - ho da dirti una cosa, da parte della mamma di Marco. Ella vuole vederti.

— Subito?

— Sì, subito… No, quando passi per Casale; quando vuoi tu…

— Che vuole da me?

— Chi lo sa? Forse per farti vedere il ritratto di Marco morto. Io non l' ho voluto vedere, io! Ho paura dei morti.

— Paura d'un ritratto, balorda! Sei poco stupida!

— Stupido sei tu, balordo tu! - rimbeccò Caterina. - Io ti dico che si deve aver paura dei morti. Tu credi che essi non si muovano più? T'inganni: essi s'alzano la notte, escono fuori dalla loro fossa e girano per il mondo. E se incontrano qualcuno che ha fatto loro del male lo prendono, lo bastonano, lo graffiano…

Caterina s' agitava, fingendo di bastonare e graffiare qualcuno.

— Stupida! - ripetè Adone. - Perchè devono fare così?

— Così! Per vendicarsi! I morti hanno una grande forza. Quando siamo vivi siamo deboli; tutti ci possono maltrattare. Allora quando siamo morti ci vendichiamo. E se no, come si fa?

Adone diventò pensieroso. La teoria fantastica di Caterina gli piaceva. Sì, doveva esser così: poichè in vita non c'era giustizia, ciascuno se la faceva da sè, dopo morto. Tuttavia ripetè:

— Va via, sei una stupida. I morti non si possono muovere più. Quando ero piccino credevo anch'io ai morti: ora non ci credo più.

— Eppure ti dico che è vero! Vuoi sentire? Sì, io ho veduto un morto…

Adone rise; ma con meno allegria del solito.

E avvenne una cosa. Egli continuò a discutere con Caterina, come discuteva con Marco nei primi tempi della loro amicizia. Ma sebbene egli trattasse la ragazzetta con un certo disprezzo, su molte cose le dava segretamente ragione. Con lei potevano intendersi e capirsi più che con l'amico morto. Anche lei era povera, perseguitata. Un filo invisibile univa i loro piccoli cuori avidi di gioia, ma già toccati dal dolore.


***

Egli andò dalla madre di Marco.

Ella pianse nel vederlo; lo abbracciò, lo guardò a lungo negli occhi, quasi cercando nella pupilla di lui l'immagine del fanciullo morto. Poi gli disse:

— Vorrei farti un regalo. Vorrei regalarti il vestito di estate del mio Marco: lo prendi? Tua zia non dirà niente?

Egli arrossì, ma comprese che rifiutando avrebbe addolorato quella madre già tanto triste, e accettò.

Poi la donna gli fece vedere la fotografia del povero morto, i cui occhi erano socchiusi, la bocca alquanto contratta. Pareva dormisse, ma d'un sonno penoso. Adone ricordò le parole di Caterina, e suo malgrado provò una strana impressione. No, quel ritratto non era quello del suo amico: era il ritratto di un altro, di un essere lontano, misterioso, di un fanciullo che durante il giorno dormiva ricordando le offese ricevute, le tristezze passate, i dolori sofferti, e la notte si svegliava e andava in cerca dei suoi nemici, per farsi giustizia da sè…

La mamma di Marco gli diede il vestito entro una scatola di cartone.

— C'è anche la cravatta, - disse.

E Adone arrossì ancora, ma questa volta di gioia. Egli non aveva cravatta: possederne una era il suo sogno.

— Vieni spesso a trovarmi; non dimenticarti, sai! - pregò la donna quando egli se ne andò con la scatola sotto il braccio.

Caterina lo aspettava affacciata alla finestra che dava sul viottolo.

— Che voleva? Che voleva? - domandò curiosa, sporgendosi sul breve davanzale.

— Niente, niente, - egli rispose, misterioso.

— Invece io lo so! Ti ha dato il vestito di Marco: perchè tu non hai vestito da estate. Ella lo ha detto alla nonna Barberina. E la nonna Barberina ha detto che tu non hai bisogno dell'elemosina di nessuno, perchè i tuoi parenti son ricchi. E ha detto inoltre che la tua zia ti bastonerà, se tu porti il vestito a casa…

— È vero, - ammise Adone; - ella forse mi sgriderà.

— Senti, - disse allora Caterina, - vuoi che io nasconda in casa il tuo vestito?. Vuoi? Dammelo.

— Lo porto dalla mia mamma…

Ma ella insisteva, sporgendo le piccole braccia, e guardando il ragazzo coi suoi occhi brillanti.

— Hai paura? Lo nascondo qui, vedi, nel cassetto del comò. In questa camera la mia mamma non viene mai. Dammelo.

Egli esitava. Poteva nasconderlo bene da sè, nella sua cameraccia: poteva portarlo dalla sua mamma, fino ad ottenere dalla zia il permesso di indossarlo. Ma Caterina sembrava così smaniosa di rendergli servigio, gli diceva « dammelo » con tal grazia carezzevole, che egli temeva di offenderla respingendo la sua offerta.

— Dammi, - ripetè Caterina.

Egli depose la scatola sul davanzale:

— Vorrei prendere la cravatta, - mormorò.

— Vieni dentro, - ella disse, tutta seria, - ti farò vedere dove lo metto. Entra: sono sola in casa. La mamma e la nonna sono andate dal dottore. Va di là, alla porta, o vuoi entrare qui? Ti do una sedia.

Ma egli sorrise, sdegnoso: non aveva bisogno di sedie per scavalcare una finestra! S'arrampicò, sollevò una gamba, fu dentro, nella cameretta malinconica. Dalle fotografie giallognole le faccie sbiadite degli amici della Suppèi guardavano come dalle finestruole di una casa remota e triste.

Aiutato da Caterina egli aprì la scatola, e prese la cravatta verde a piselli rossi, che aveva tanto ammirato al collo di Marco. E siccome esitava a metterla, Caterina gli diede un consiglio:

— Mettila: quando sei vicino a casa tua la levi…

Ma egli scosse il capo con tristezza.

— Metti dentro, metti dentro, - disse, cacciandosi la cravatta in saccoccia, e chiudendo la scatola. - Dove la metti? Qui? In questo cassetto? E se la Suppèi la trova? Che dirà?

— Eh, crederà che Marco abbia portato qui il suo vestito, per impedire alla sua mamma di dartelo! - disse Caterina, un po' scherzando, un po' sul serio.

— Sì, davvero, ella crede ai morti! È così balorda! - aggiunse, chiudendo il cassetto.

Ed entrambi risero alle spalle della vecchia Barberina, credendosi già più furbi e spregiudicati di lei. Poi Adone si guardò attorno con curiosità, esaminando le frutta di marmo e le conchiglie che adornavano il tavolo ed il camino. Entro questo, poi, egli vide un mucchio di zoccoli, da uomo e da donna, alcuni veramente civettuoli, foderati di rosso e orlati di pelo.

— Che ne fate? - domandò, curvandosi a guardare.

— La nonna li vendeva, prima, - disse Caterina sollevandone un pajo. - Ora li ha regalati tutti a me. Posso metterli quando voglio. Senti come pesano; ma senti!

Egli dovette contentarla, e convenne che pesavano davvero. Poi se ne andò.

Avrebbe potuto uscire benissimo dalla porta, ma preferì scavalcare nuovamente la finestra!


***

Dopo quel giorno la sua amicizia con Caterina si fece più intima. Tognina gli permise di accettare il regalo della moglie del tintore, ed egli andò a riprendere il suo vestito.

Passando per il viottolo vide la cestaja inginocchiata davanti alla Maestà. La povera donna faceva spavento, tanto era magra, gialla in viso, coi pomelli rossastri e le labbra livide: pareva un cadavere al quale, per uno scherzo macabro, fossero state tinte le guancie con un po' di carta rossa. Adone ne provò terrore. Ella s'alzò a stento, e volle dirgli qualche cosa, ma aveva persino perduto la voce. La sua fine si avvicinava.

— Che volete, mamma? - disse Caterina, avvicinandosele e stringendole un braccio.

La malata la respinse, con un gesto che doveva esserle abituale, poi con voce afona, riuscendo a pronunziare in alto solo qualche sillaba rauca, domandò al ragazzo:

— Puttino, dimmi, è arrivata la marchesa Pigoss? quella dell'anno scorso?

— No; dicono che verrà in settembre.

— Quando arriva, me lo dirai, per piacere? Ricordati, eh!

— Sì, sì, - egli rispose premuroso.

Intanto Caterina era corsa dentro e s'era affacciata alla finestra.

— Mamma, andate dentro, su, - disse, scuo. tendo la testa. - Andate; vi fa male star lì. Su, su, andate!

— Ricordati, puttino, - ripetè la donna.

E svoltò, appoggiandosi al muro. Adone s'avvicinò alla finestra.

— Ora ti do subito la scatola… - mormorò Caterina, lasciando il davanzale.

Ma ecco, mentr'ella s'avvicinava al canterano, l'uscio s'aprì e la figura bizzarra della vecchia Suppèi vi si disegnò come in un quadro pieno di luce.

La voce maschia tonò: il bastone s' agitò in aria.

— Puttini, che fate? Che c' è? Che c' è?

— Niente, niente, nonna! - gridò Caterina, riaffacciandosi alla finestra.

— Niente? Ti darò io ora il niente. È un bel po' che osservò. Che significano tutti questi misteri? Perchè andate e venite sempre assieme? Mi han detto…

— Ebbene, che vi hanno detto? - gridò allora Adone, sporgendo la testa dalla finestra, rosso di collera. - Facciamo del male forse? Che siamo stati a rubare?

— Insomma! - disse la vecchia, correndo verso la finestra. - Siete due birichini, viscere, due discoli, questo lo sappiamo! Che ordite in segreto qualche cosa, lo sappiamo anche! Non si viene apposta da Casalino a Casale, senza uno scopo!

— Bè, finitela! - gridò Caterina, con una certa prepotenza. - Ecco che cosa è! Glielo dico, Adone?

Egli acconsentì e Caterina raccontò l'affare del vestito. Allora la vecchia cambiò fisonomia: non inveì più contro i due ragazzi, ma col bastone minacciò qualcuno che non si vedeva. Chi? la moglie del tintore o la zia di Adone?

***

Quell'anno Davide si laureò e passò tutto l'estate in paese. Venne festeggiata la sua laurea con un pranzo, al quale parteciparono i parenti, Sison, Pirloccia, il fabbro, il prevosto, il caser, il vecchio maestro di Casalino.

Adone non fu invitato; ma egli trovò una scusa per andare durante il pranzo dal zolfanellajo. La Müton lo fece sedere in un angolo della tavola, e gli diede un pezzetto di ripieno di pollo. Egli non domandava di meglio: sedette cercando di sfuggire all'attenzione del Pirloccia, mangiò con voluttà il ripieno di pollo, che pareva un dolce, e si guardò attorno.

Davide sedeva tra il silenzioso maestro di scuola e il grosso prevosto bruno. Vicino a questo il zolfanellajo pareva più piccolo e giallo del solito, quasi ripiegato sulla sedia, come una marionetta di cui si fosse rotto il congegno. Povero ometto! Egli si consumava lentamente, tossiva, aveva male a tutta la persona, ma si ostinava a lavorare. Egli guardava sempre Davide con occhi pieni di adorazione, e quando muoveva le labbra pregando pareva rivolgesse la sua preghiera al figliuolo.

Il neo-avvocato era quasi triste: forse lo preoccupava lo stato del padre, forse aveva altre cure, altri dispiaceri. Pareva anche lui malaticcio.

A un tratto sorse una discussione tra il fabbro e il prevosto, a proposito del cagnolino di quest'ultimo, che rifiutava non solo i pezzetti di pane, ma anche la minestra che la zolfanellaja gli metteva sotto il muso. Il vecchio fabbro e il prevosto erano amicissimi, ma litigavano spesso. Il grosso prete non era cattivo, e tranne quelle del Corriere della Sera non aveva altre opinioni; ma voleva sempre aver ragione lui. Il fabbro a sua volta parlava come pensava.

— È tempo di ammazzarlo, questo cagnolino, - disse seriamente al prevosto. - Vuol mangiar pollo, e non serve più a niente.

— E tempo di ammazzar voi! - rispose il prevosto, piccato. - E voi, a che servite? A far chiodi!

Tutti risero: Adone più di tutti.

— Ma io non mangio pollo, perdia! E nemmeno minestra tutti i giorni! E lavoro, sebbene vecchio - cominciò a gridare il fabbro, facendo atto di battere il ferro. - Nessuno sa più adoprare il martello come me. Così, così! Avessi sull' incudine quel che dico io; l'aggiusterei per benino.

— Chi, chi? Che cosa? - domandò, Pirloccia, malizioso, sperando che il fabbro nominasse il prevosto.

Ma il vecchio batteva, batteva un immaginario martello, e rispose:

— Il mondo!

— Bravo! - gridò Davide. - Siete un vero anarchico!

— Zitto! Zitto! - supplicò il maestro, sollevando le mani, spaventato dalla terribile parola.

Ma il battibecco fra il prevosto e il fabbro continuò: e quest'ultimo espresse davvero alcune idee anarchiche: disse persino che bisognava mettere sull'incudine il prevosto, il maestro, e poi anche il sindaco, e poi anche il re, e batterli come ferri vecchi e rimetterli a nuovo.

Il prevosto fingeva d'arrabbiarsi molto, ma in realtà non riusciva a frenare il riso: il maestro, invece, scuoteva le mani, desolato, e diceva timidamente:

— Ecco dove siamo arrivati! È terribile, insomma!

— Beva, beva! presto, presto! - gridò Davide, versandogli da bere. - Fa bene per lo spavento!

Adone ricordò il vino caldo che la zia gli aveva fatto bere quella sera in cuì egli aveva creduto di morire.

Il maestro accostò alle labbra il peker gonfio di spuma rosea, e bevette, mentre Davide gli batteva lievemente la mano su una spalla, domandandogli:

— E passata? Ha ancora paura?

— Passata, passata! - rispose il vecchio, sorridendo suo malgrado.

Il neo-avvocato rideva. E Adone lo guardava ed anch'egli rideva, come per riflesso. Così l'acqua riflette lo splendore del sole.

***

Dopo il ritorno di Davide, Adone trascurava Andromaca, e passava nell'aja del zolfanellajo tutto il suo tempo disponibile, cioè le ore in cui non era costretto a pascolar le vacche e a guardare le frutta e i meloni nei campi della zia.

Davide esercitava su lui un fascino ancor più forte di quello che gli destava Andromaca. Per lui, arrivato all' ingresso dell'adolescenza, e che guardava innanzi a sè commosso e curioso come il viandante arrivato davanti a un panorama sconosciuto, la figlia del cordaio rappresentava già l'amore e il piacere: ma l'uomo che veniva dalle grandi città e doveva tornarvi, significava qualche cosa di più complesso: tutto un mondo lontano e luminoso come il sole.

Davide portava con sè anche le miserie e le tristezze di questo mondo lontano: ma Adone non se ne accorgeva. Non si vedono le macchie del sole.

Eppure a giorni Davide era così triste che i suoi occhi parevano quelli di un'aquila ferita. Egli stava molto in casa, scrivendo un libro: in quelle ore un silenzio religioso regnava nella povera casetta. La Müton camminava in punta di piedi: Adone sedeva accanto al zolfanellajo, all'ombra del portone, e aspettava pazientemente. Ma Davide usciva quando l'ombra della casa invadeva l'aja; e allora anche Adone doveva recarsi a pascolar le vacche. Egli si vergognava di lasciarsi veder dal giovine, allora, e faceva un largo giro per non incontrarlo: ma un giorno Davide lo vide e gli disse:

— Perchè diventi rosso? Ti vergogni di questa bella compagnia? Da ragazzo il mio sogno era di condurre una vacca al pascolo. Ed anche ora… non dico, almeno due o tre non mi dispiacerebbe di averle!

Una sera Davide lo condusse con sè a pescare. Ma fu una sera melanconica. Grandi nuvole d'un violetto bronzeo oscuravano il cielo; anche il fiume, tutto violaceo, era d'una tristezza solenne.

Adone intuiva già le bellezze della natura. Distingueva i profili strani delle nuvole, i riflessi dell'acqua, le voci delle cose. Non credeva più alla città sepolta nel fiume, ma si domandava se dentro l'acqua non esistesse davvero il paesaggio tremulo che ci si vedeva, con quello sfondo di cielo vago, lontano, alquanto pauroso come un abisso. Le nuvole gli parevano la maschera del cielo. Ma il cielo non amava quella sua maschera, e appena poteva si liberava dai suoi veli, squarciandoli, buttandoli via, lontano, per gl' infiniti spazii.

A lui, invece, le nubi piacevano moltissimo: egli non era una natura di contemplatore, e forse appunto per questo amava l' instabilità, i giuochi, il multiforme aspetto delle nuvole. Anch'egli avrebbe voluto viaggiare così, in alto, giocando e sorridendo.

Anche l'acqua gli piaceva per il suo continuo andare; ma l'acqua era troppo in basso, soggetta, nonostante la sua potenza, al dominio dell'uomo. Persino il remo di Pigoss poteva ferirla, o almeno disturbarla!

Quella sera la pesca fu abbondante, ma Davide non se ne rallegrò. Adone sperava che al ritorno egli cantasse, ma il-giovine preferì chiacchierare con Pigoss, il quale gli domandava se aveva intenzione di prender moglie.

— Per farla morir di fame! - gridò il giovane. - Devo ancora studiare: altri due anni!

— Farai scuola, poi?

— Ah, farà scuola! - eslamò Adone. - Ai ragazzi?

— E anche alle ragazze! - disse Pigoss.

— Come me! Anch' io farò scuola!

— Anche tu farai scuola alle ragazze? - riprese il vecchietto malizioso. - Eh, l'ho sentito dire, che fai già all'amore.

— Ah, sì? Ah, birbante! - disse Davide.

Adone protestò, rosso in viso come il cielo all'orizzonte dietro i boschi violacei sui quali pareva si fossero sciolte le nuvole del tramonto.

Ma il barcajuolo diceva, rivolto a Davide:

— Sì, el gh'à una puttina, mi han detto, una bella puttina di Casale…

— Non è vero e non è vero! È una mia compagna, solo: si chiama Caterina, e la sua mamma muore!

— Anche! - disse Davide.

Adone parlò della cestaja, e disse che aspettava l'arrivo della marchesa per domandarle aiuto.

— Ajuto per morire? - chiese il giovine: e la sua voce era beffarda e triste.

— Tutti aspettano la marchesa! - disse Pigoss, sempre malizioso. - Tutti i palandroni, tutti i disperati l'aspettano. Anche il mugnajo, che s'è rotto un braccio, l'aspetta! Aspettatela pure, aspettatela!..

— Giacchè non hanno altro da aspettare! - gridò Davide con uno dei suoi antichi scatti. - Aspettate! Aspettate!


***

La tanto aspettata marchesa giunse, in settembre. Questa volta Adone non vide arrivare la grande carrozza nera tirata dai cavalli color legno di noce. Egli era costretto a passare buona parte della notte nella melonaja, in fondo ai campi di Tognina, in compagnia di un vecchio cane acquistato per pochi soldi da un ortolano amico dei gemelli Pirloccia. Ai suoi tempi Turco era stato un buon cane di guardia, grosso, forte, all'occorrenza feroce: ora, vecchio, sdentato, quasi cieco, procurava tuttavia di compiere coscienziosamente il suo dovere. Abbajava anche quando non c'era bisogno! Abbajava troppo, contro esseri invisibili, contro i suoi stessi padroni. Forse si accorgeva che questi non lo amavano e anch'esso non li amava. Non gli davano da mangiare, e Pirloccia diceva che dopo la vendemmia lo avrebbe ammazzato. Anche Adone non amava il suo triste compagno notturno, così vecchio, magro, nerastro, ma ne aveva pietà; gli pareva che Turco fosse cosciente della sua sorte e abbajasse protestando contro l'ingiustizia degli uomini.

Qualche volta il suo lamento era così triste che Adone aveva paura. Gli pareva che il cane vedesse qualche fantasma, e anche lui guardava intorno, un po' spaurito, un po' spavaldo.

La notte era tiepida, silenziosa, profumata dall'odore dell'erbe e dei meloni. Già qualche striscia di nebbia grigiastra velava le stelle dell'orizzonte: e gli alberi neri sullo sfondo incolore del cielo parevano davvero fantasmi, ma erano troppo neri, troppo fermi, per incutere spavento.

— Possono però essere fantasmi di alberi morti, - pensava Adone, sdrajato sotto il suo riparo di canne. - Perchè anche gli alberi morti non possono apparire? Gli alberi vivi forse ne hanno paura; io no, però. Io sono un « uomo ». Gli uomini vivi devono aver paura solo dei fantasmi degli uomini morti.

Egli rabbrividiva alquanto: poi pensava:

— Se vedessi qualche cosa di bianco, allora sì, potrei aver paura. Potrebbe essere anche lo zio, anche Marco! Ma io non ho paura. E quella balorda di Caterina che crede a queste cose. Io no, veh, io non ci credo!

E intanto aveva paura!

***

Fu in quel tempo che egli assistè ad una scena indimenticabile.

Era l'otto settembre. Egli percorreva l'argine, quando in lontananza vide Caterina. Sì, era proprio lei, col suo vestito turchino, un po' sbiadito e non più gonfio, con le sue ciabatte, coi suoi riccioli d'oro che parevano sfumati nello splendore del tramonto.

— Dove vai? - egli gridò da lontano.

— Là!

Egli comprese.

— E come farai? - egli domandò sottovoce, avvicinandosele.

— Eh, entrerò per il-portone!

— Balorda, non ce n'è, portone! C'è il cancello di ferro. E poi, come farai?

— Lo so io!

— Non ti lasciano mica entrare così, sai! Io non ci sono entrato mai, neanche quando sono andato ad accompagnare Carissima.

— Io entrerò, invece! Dirò così: voglio parlare con la signora marchesa. E se non mi lasciano parlare, ecco… vedi?…

— Una lettera? - disse Adone meravigliato. - L'hai scritta tu? Fammela vedere.

— È chiusa. Lasciala - ella disse, rimettendo la lettera entro la profonda saccoccia del suo gonnellino.

— Ma dimmi almeno cosa hai scritto.

— E non gridare! Sai che la nonna non sa niente. Lei dice sempre: se domandate la carità a qualcuno vi caccio via come galline. Sì, così, via, via! - ella aggiunse, agitando il suo gonnellino.

— E allora perchè vai là? - egli domandò pensieroso.

— Perchè la mia mamma dice che anche la nonna Barberina è tanto povera…

Egli non domandò altro. Accompagnò Caterina, curioso e più turbato di lei.

Il sole al tramonto mandava il suo splendore arancione fin dentro il viottolo; un merlo cantava sugli alberi dorati del parco. Caterina diceva:

— Ho vergogna! Ma voglio entrare lo stesso. Chi viene ad aprire? La serva?

— Va là! La serva! Ah, la serva! - egli gridò, e cominciò a ridere nervosamente.

Poi Caterina disse:

— Chissà cosa mi darà la marchesa! Chissà! Chissà!

— Chissà! - egli ripetè, sempre più pensieroso.

E diceva a sè stesso che se fosse stato nei panni della marchesa avrebbe accolto con entusiasmo la povera Caterina, e le avrebbe dato una borsa piena di monete. « Ecco, mia carina: - le avrebbe detto, - va, ritorna a casa, di' alla Suppèi che hai trovato questa borsa nella strada. La tua mamma, poi, io la farò condurre in quel paese caldo anche d' inverno, dove i tisici guariscono; in quel paese del quale parla sempre il zolfanellajo. Va, carina. Ah, no, aspetta un momentino: ecco per te una fetta di torta. La sarta Carissima dice che questa torta è molto buona. Lei l'ha assaggiata, una volta. Prendine una fetta anche per la tua mamma. Addio ».

Fantasticando in tal modo, egli provava un senso di tenerezza e d' invidia. Gli pareva che Caterina andasse incontro ad una fortuna ch'egli non avrebbe avuto mai!

Arrivati davanti al cancello, egli si scosse, come destandosi da un sogno: e dopo aver guardato si ritrasse, nascondendosi dietro il muro.

Il cancello era socchiuso: a pochi passi di distanza, nel viale coperto di sabbia c'era Maddalenina Dargenti, pronta per uscire. Al solito, ella vestiva di bianco, col cappello a larghe falde e le scarpine candide scollate.

Caterina guardava stupita, un po' contrariata per la presenza della ragazzetta vestita di bianco. Questa, a sua volta, parve seccata per l'insistenza con cui l'altra la fissava: la guardò un momento, poi le volse le spalle coperte dai radi capelli castanei. Aspettava qualcuno.

Caterina guardò Adone: egli le accennò di entrare.

Incoraggiata, ella entrò. Maddalena si volse: i suoi occhi rifulsero, cattivi.

— Che vuoi? - domandò impaziente.

— Voglio parlare con la signora marchesa Pigossi - disse Caterina, in italiano, come recitando la lezione.

— Cosa vuoi? - ripetè l'altra, reclinando un po' la testa. - Chi ti manda?

— Io!

— Ah, ti mandi da te! La nonna ora non riceve. Dillo a me, cosa vuoi!

— No, no, voglio andar là! - insistè Caterina, avanzandosi, e accennando con la testa il palazzo.

— Sta lì! Ora verrà la signorina! - gridò Maddalena, indispettita. E le si mise avanti, per impedirle il passo. Ma Caterina non s' intimidì.

Dietro il cancello Adone provava una certa inquietudine nel sentir questionare le due ragazzette. Sapeva che Caterina era prepotente con le bambine: a scuola aveva graffiato la figlia del dottore.

Passarono alcuni secondi. Ad un tratto Maddalena, senza dubbio stanca di tener a bada l' intrusa, gridò energicamente « sta lì! » e si mise a correre verso il palazzo.

Adone in quel momento sporse la testa verso il cancello e vide una scena strana. Caterina correva dietro la ragazzetta Dargenti. Questa, arrivata vicino all' ingresso, si fermò, si volse, emise un piccolo grido di rabbia. E all' improvviso si curvò fino a terra, si rizzò, buttò contro Caterina un oggetto bianco. Adone sulle prime ebbe voglia di ridere. L'oggetto bianco era la scarpetta di Maddalena. Ma subito egli vide Caterina portarsi una mano alla testa, e tremò per lei.

Ella non gridò, non aprì bocca; si volse per andarsene, e Adone si ritrasse ancora, aspettandola.

Ma due voci risuonarono nel viale.

Pampina, ma che cosa fuoi? - gridava la voce sottile della signorina in paglietta.

— Brutta impertinente, ma che cosa c'è? - gridava la voce sonora di Jusfin.

Adone guardò ancora. Vide l'ex-caceiatore gettarsi addosso a Caterina e afferrarla per le orecchie come una lepre. Senza la protezione della paglietta, Jusfin avrebbe bastonato la disgraziata.

E Maddalena si rimetteva la scarpetta: non parlava, non sembrava turbata: non sentiva il bisogno di giustificarsi.


***

È notte: una notte alquanto fresca e melanconica. Grandi nuvole bianchiccie passano dissolvendosi lentamente sul cielo d'un azzurro cupo. Pare che il fondo del cielo sia quel velo pallido e mobile, sul quale s'allarghino e si restringano deformi nuvole turchine, qua e là trapuntate di stelle.

Un vento lieve, melanconico, scuote le cime degli alberi neri: i grandi fantasmi vegetali s'agitano, mormorano cose tristi. E Turco, abbaja, con insistenza. La sua voce lamentosa riempie la notte, e produce un'eco che sembra l'abbajare d'un altro cane; d'un cane lontano, il cui urlìo ha, come le nuvole, come gli alberi, come il vento, qualche cosa di triste e di misterioso. Che ha Turco, questa notte? È più dispettoso e lugubre del solito. Abbaja anche contro le nuvole. Forse ha freddo, sente che la stagione autunnale s'avvicina, ricorda la minaccia del suo padrone ed ha paura…

Adone sta sdrajato sotto il riparo di canne: è stanco, ma non può dormire. Pensa a tante cose. Dunque, Caterina non ha ottenuto niente: fortuna che non l'hanno bastonata o magari ammazzata come una lepre! Eh, il vecchio Jusfin è cattivo: Adone ha sempre diffidato di lui. Se l'ex-cacciatore fosse stato appena appena buono avrebbe tirato le orecchie a Maddalena, non a Caterina. Maddalena è ancora più cattiva di Jusfin: è cattiva come Pirloccia.

— Se mi capita - pensa Adone - le do due o tre pugni, ma di quei buoni!

— Tu dovevi graffiarla, o buttarle addosso tante pietre! - egli aveva detto a Caterina, riaccompagnandola sull'argine, e chinandosi a raccogliere sassolini.

— Così, ecco! - E lanciava con forza i sassolini.

— Ma se là non ce n'erano!

— E le scarpe non ce le avevi, come lei? T'ha fatto male?

— No, no: era leggera! Non era mica una scarpaccia! Mi fanno più male le orecchie! Come le ha tirate, quel saraceno!

— Ma perchè non hai detto quello che volevi?

— No, no, e no! - ella gridò con rabbia, portandosi le mani alle orecchie rosse ancora. - Quel saraceno andava a dirlo alla nonna!

— Cosa dirai alla tua mamma?

— Le dirò che era chiuso.

— E la lettera?

— La manderò per la posta, come quelle per Giorgio. Ci vuole il francobollo, vero? Si può anche non metterlo.

— Io non manderei niente! - egli disse sdegnoso. Ma Caterina non può capire; è una stupida! Dopo quello che le han fatto come può ancora pensare a mandar la lettera?

— Ah, io… - egli pensa.

Turco abbaja, sempre più lugubremente.

Adone pensa alla sera in cui Pirloccia lo ha bastonato mentre dormiva, a tradimento. Ricorda gli urli che la rabbia e il dolore gli hanno strappato, e gli pare che gli urli del cane si rassomiglino a quelli suoi. Ah, ecco, al posto di Caterina egli avrebbe gridato nuovamente così.

Inginocchiata sotto la cappa del camino, la vecchia Suppèi soffiava e borbottava, accendendo il fuoco, quando una voce giovanile e ansante la chiamò dalla porta.

— Nonna? E Caterina?

— Ah, sei tu, viscere? E quando sei arrivato? - ella disse, volgendo la testa.

Un bel giovane ben vestito, con un panama da poche lire sui capelli ricci un po' spioventi, come due grappoli neri, sulle tempia bianche e lisce, guardava dalla porta. Il suo viso curioso, ancora alquanto infantile, era illuminato da due grandi occhi sorridenti.

— Ma dov' è? - egli ripetè con impazienza.

— Verrà subito, eh! È fuori.

— Le vado incontro! - No, mi nascondo: le faccio una sorpresa! - egli disse, attraversando la cucina. Ma mentre stava per entrare nell'attigua cameretta parve ricordarsi di qualche cosa: si volse, guardò la vecchia che s'era alzata appoggiandosi al bastone e lo squadrava da capo a piedi, commossa e diffidente.

— E voi come state, nonna? Bene, vero? Oh, come siete grassa!

Ma ella scosse la testa. Non credeva alle adulazioni, lei! Era sempre la stessa, lei: sotto il suo cappello da uomo biancheggiavano i radi capelli, attaccati alle tempia e mescolati, sulla nuca, con una trecciolina gialla falsa: il naso rosso, gli occhietti vivi e le guancie ruvide ricordavano un viso di vecchio malizioso e diffidente.

— Tu, sì, sei cresciuto, ragazzo! - disse, esaminando di nuovo il vestito di lui.

Il vestito era di poco prezzo ma alla moda: corpetto chiuso, giacca lunga stretta alla vita. Questa novità pareva infastidisse la vecchia.

— Ragazzo? - egli esclamò, battendo il suo bastoncino sul bastone della Suppèi. - Maestro, signora nonna! Attenti, bambini! A, e, i, o, u; asino sei tu!

Ella parve suggestionata dalla grande parola: maestro! Il suo viso si rischiarò, la sua voce grossa s' intenerì.

— Ora verrà subito, la puttina, - riprese. - Anche lei è cresciuta, in un anno! È più alta di te, mi pare! Un vero diavoletto, viscere, ma un diavoletto alto. Qualche volta però è seria, veh, molto seria. E legge i libri, anche, e i giornali, e parla come un avvocato. Quella storia scritta, che tu le hai mandato, l'ha subito letta, da cima a fondo, e pareva la sapesse a memoria, e piangeva e rideva, leggendola. Poi l' ha fatta sentire anche a me. Ho capito subito che era la storia sua e tua! L' hai scritta tu, è vero?

— È vero, è vero! Era bella? - egli domando, ridendo.

— Bella, proprio! - affermò la vecchia, scuotendo la mano e soffiando. - Le amiche di Caterina l'hanno voluta copiare, e quest' inverno tutti la leggevano, nelle stalle, e la raccontavano come una fiaba.

— Oh, oh! - egli disse, lusingato.

— Ma lavora anche, la puttina! - riprese la vecchia coi suoi gesti espressivi, e con la sua voce ora alta e grossa, ora dolce e sottile. - Tutto quello che una donna di talento può fare lei lo fa. Vedi che son stata furba ad accoglierla ed allevarla! Appena l'ho veduta, subito ho detto: questa bambina sarà una brava ragazza. Inoltre, viscere, tu che studi i libri saprai quello che Cristo ha detto: Date da mangiare agli affamati. E quelle due creature, viscere, la bambina e la matrigna, erano anche assetate. Mangiate, bevete, viscere care. La vecchia Barberina ha poco, ma il poco che ha è vostro. Il Signore mi ha tolto il figlio, e lo ha mandato lontano, come la piuma che vola per aria. E io dissi fra me: ebbene, prendiamoci quest'altra figlia che la sorte spinge come un'altra piccola piuma. Ma ho sofferto, veh, ho sofferto, con quella donna malata. E poi ho dovuto bruciare anche il letto dov' è morta, e tutta la biancheria. Altrimenti il dottore minacciava di dar fuoco alla casa, viscere! Qualche cosa però l' ho salvata, veh, ma sia detto fra noi!

Adone sapeva già questa vecchia storia, e mentre la Suppèi chiacchierava egli pensava ad altro.

— Eccola! - disse a un tratto, e d'un balzo entrò nella stanzetta e chiuse l'uscio. Quanti ricordi! La piccola stanza umidiccia era sempre la stessa, col tavolo di noce e il cassettone ornati di conchiglie e di frutta di marmo; sopra il camino i ritratti sembravano ancora più pallidi intorno alla lugubre figura del Maestro.

Egli guardò nel viottolo, sul quale il cielo roseo del crepuscolo di luglio spandeva una luce melanconica, e si sentì battere il cuore.

— Un anno! Quasi un anno! - egli pensava. - E pare ieri. Caterina s' è fatta più alta di me! Come sarà bella! Ah, eccola!

— Dov' è? Dov'è? - gridava una voce fresca e sonora. - Mi han detto ch' è venuto! Nonna, nonna, dov' è?

— Ma chi, viscere?

— Il mio Adone! S' è nascosto? Ah! Bello, bello, cattivaccio! Ah, che paura!

Ella s'era precipitata nella cameretta e fra le braccia del fidanzato. Si strinsero, senza baciarsi, ridendo e palpitando. Poi Caterina cominciò a correre come una pazza, dalla stanza alla cucina, cercando il lume, cercando il cestino della spesa, dicendo desolata:

— Bisogna comprare altra roba! Non abbiamo niente! Non abbiamo che uova!

— E che è abituato a mangiar pan di Spagna? - gridò la vecchia rozzamente.

Adone non si offese: egli andava dietro a Caterina come un cagnolino e pareva beato per le smanie e il turbamento di lei. Domandò:

— Devo andar io a prendere qualche cosa?

Ma Caterina lo afferrò per un braccio:

— No, no, amore! Non muoverti, non andar via! - Pareva colta dalla paura che egli, andandosene, non ritornasse più!

La vecchia fece due o tre gesti, imitandola comicamente: poi le ordinò di apparecchiare, e Caterina obbedì, sempre più turbata e smaniosa.

Adone la seguì nella cameretta, e l'abbracciò di nuovo. Ella rassomigliava alquanto alla figlia del cordaio, così bionda, rosea, col busto provocante: solo i suoi occhi piccoli e neri avevano un'espressione diversa: erano profondi e brillanti, ma di tanto in tanto avevano come un baleno di fierezza e di cattiveria. Ella aveva conservato la sua natura infantile, le sue mani larghe e nodose, i piedi grossi, la sua andatura un po' fiacca e dondolante: ricordava qualche cosa dei suoi avi palafitticoli; pareva che in un tempo lontano ella avesse camminato sui trampoli, attraverso foreste pantanose, e che i suoi piccoli occhi fossero abituati a scrutare i pericoli d'una natura primitiva ancora piena d'agguati e di misteri. Era una creatura di bellezza e di forza, nuova alla vita, e pronta ad ogni lotta. Mentre ella apparecchiava la tavola, Adone la guardava con desiderio, e arrossiva di piacere quando ella gli si avvicinava.

— Ti ho portato una cosa - le disse, trattandola tuttavia come una bambina. - Ma non te la dò se non indovini cos' è! Indovina!

— Ho sognato che mi avevi portato un pajo d'orecchini! Fa vedere! Presto, fa vedere!

Egli trasse di tasca un involtino e se lo pose sulla palma della mano.

— Indovina!

Ella si curvò, dando piccoli gridi di gioja: all'improvviso si gettò nuovamente al collo del giovine e lo strinse da soffocarlo. Ma poi trasalì, ricordandosi che la nonna poteva vederli, e si staccò da lui spaventata.

— Dunque, indovina! - egli ripetè, con voce turbata.

La vecchia entrò, portando tre bottiglie che mise sulla tavola.

— Tre, per non sbagliare, - disse, - In nome del padre, del figlio, dello spirito santo!

— Nonna, - disse Caterina, agitata. - Io non posso indovinare che regalo egli mi ha portato!

La vecchia prese l'involtino dalla mano di Adone, e l'aprì. C'era un piccolo ventaglio con la catenella.

— Cos' è questo bagai?(1) Oggetto. - disse la vecchia con disprezzo. Ella non aveva mai usato un ventaglio!

La cena fu modesta ma allegra; Adone raccontava la sua umile vita di studente normale. Caterina gli ripeteva tutte le piccole cose che già gli aveva scritto durante quéi lunghi mesi di lontananza.

La Suppèi ascoltava; i suoi occhietti metallici guardavano con affetto e con diffidenza i due giovani fidanzati. A un tratto Adone, raccontando il suo viaggio, disse:

— A Casalmaggiore ho perduto il tram e son dovuto venire a piedi. Sull'argine ho incontrato Scipione, il mercantino ebreo…

— Ah! - disse Caterina, e i suoi occhi scintillarono. Adone prosegui:

— Senti che storia! Scipione stava seduto sul suo carretto carico di stoffe: aveva intorno al polso un rosario e pregava. - « E che, ti sei fatto cristiano? » gli chiesi. Egli mi rispose: « Non lo sono ancora, ma se mi va bene un affare lo diventerò! » « E allora andiamo giù nel Po che ti battezzo! » io gli dissi.

Caterina rideva, nervosamente. La Suppèi la guardò e disse:

Hai sentito, viscere? Vuol farsi cristiano!

Diventi pure turco, che m'importa?

Che c'è? - disse Adone, fissando la vecchia.

C'è, c'è…

Nonna! Non voglio! Nonna!… - gridò Caterina, stendendo le mani.

Bisogna dirlo, invece, viscere! - disse la Suppèi con insolita dolcezza. - Due fidanzati devono confidarsi tutto; devono essere come due specchi messi di fronte, viscere! (Si volse al giovine, di nuovo severa). Il mercantino ebreo vuole Caterina in moglie. Vuol farsi cristiano per lei.

— State zitta, nonna! Non è vero niente; eppoi è brutto, quel giovine; è brutto, vi dico! Ed è un giudeo: ha ammazzato Gesù!

Ella era quasi convulsa; ma Adone disse con semplicità:

— Veramente non è stato lui! Eppoi egli è un bel ragazzo.

Allora Caterina si alzò, andò a sedersi sulla pietra del camino e per poco non pianse. Gridava come una bimba:

— Voi volete farmi morire, ecco! Bene, morrò, ma non voglio fare neppure il caffè!

— Fa prima il caffè, poi se vuoi morire muori, - le rispose la vecchia; e curvandosi verso Adone aggiunse: - e ne ha avuto altri, sai!

Preso il caffè i due fidanzati volevano andare a passeggio; ma la Suppèi fu irremovibile.

— No, veh, cari; questo poi no!

E dovettero contentarsi di prender due sedie e mettersi sotto il pergolato davanti alla casetta, mentre la vecchia, seduta sullo scalino della porta, fumava tranquillamente la sua pipa di creta.

La notte era calda e silenziosa: la siepe odorava, attraverso il fogliame del pergolato si scorgevano le stelle tremolanti, e le lucciole che ancora passavano nell'aria scura parevano pezzettini di perla staccatisi dai grandi astri del cielo estivo. Tutto, nel cielo e nella terra, era dolcezza e silenzio, e Adone, un po' inebbriato dal vino e molto dall vicinanza di Caterina, si sentiva felice. Dimenticava tutto ciò che l'aveva oppresso o divertito fino a poche ore innanzi: gli pareva di ricominciare una nuova vita. Sentiva ancora certe impressioni infantili: le stelle, le lucciole, il palo della siepe, sulla cui cima brillava una stella, tutto gli destava meraviglia: gli pareva che sarebbe stato felice anche se si fosse trovato solo in un deserto.

— Sono maestro! - ripeteva come a sè stesso. - Ora tutto il resto è facile. Il maestro di Casalino rinunzierà al posto: è vecchio oramai. E se egli non rinunzia e non trovo subito un altro posto, proseguirò a studiare.

— Come, come? - domandò la vecchia. - Ma non hai già finito?

— Sì, ma se continuerò a studiare altri due anni diventerò ispettore.

Egli aveva già scritto a Caterina di questo suo progetto. Ella disse:

— Sì, sì! E se la Tognina non ti aiuta, vende remo magari questa casa! La nonna me l'ha regalata. Sì, la venderemo: tanto è vecchia e un giorno o l'altro cadrà!

— E tu vuoi far schiacciare il compratore! - gridò la vecchia, sarcastica.

Poi Adone parlò d'un pranzo che la zia voleva offrire per festeggiare la sua patente.

— Anche lei crede che ora tutto sia finito e non vorrà più aiutarmi. Ma per guadagnare un po' di denaro io, queste vacanze, darò lezioni, e poi farò le « recite in persona! » Quest'inverno io e i miei compagni abbiamo rappresentato persino la Morte civile! Son bravo, io! Il difficile sarà trovare il locale!

Poi ripresero a parlare della novella manoscritta che egli aveva mandato a Caterina. Ella la sapeva tutta a memoria, e ne recitava qualche brano, con voce commossa. Egli sorrideva, ma in fondo si sentiva lusingato per il successo della sua opera.

« … Elena e Paride, - recitava Caterina, - così si chiamavano i due fanciulli orfani, erano cresciuti assieme, allevati per carità dai loro parenti. Nessuno li amava; un giorno però essi s'incontraronò e diventarono amici. Si vedevano tutti i giorni, d'inverno e d'estate, pei campi verdi e sconfinati, o sulla riva del fiume che trascorreva solenne e azzurro come un lembo di mare. Si raccontavano le loro pene; ma qualche volta anche litigavano. Essi non si accorgevano ancora di amarsi, di essere già avvinti l'una all'altro come la vite all'albero!… »

— Com'è bello, qui! - ella commentò, con ammirazione sincera. - Però quel nome di Paride non mi piace molto.

— È più bello « Scipione »?

Ella trasalì, respinse la mano che egli le met teva sulle ginocchia.

— Eppure, bisogna parlarne… più tardi… - egli le susurrò all'orecchio. - Mi racconterai tutto.

— Ed io non ti voglio raccontar niente!

— Vedi, è per continuare la novella.

— Ma se è finita! Quei due si sono sposati.

— Sì, ma han fatto troppo presto! Anzi mi darai la copia: voglio rivederla.

— A me piace così! Eppoi la copia non ce l'ho. L'ho prestata ad una mia amica, che vuol copiare la lettera di Elena per mandarla al suo amante.

— Sono diventato il segretario galante, anche! - egli gridò, battendo le mani.

Caterina recitò altri brani della novella.

«… Elena e Paride avevano circa la stessa età, ma egli poteva dirsi più vecchio di lei, perchè aveva sofferto di più ed era già abituato a conoscere i propri sentimenti ed a guidare le proprie azioni. Nessuno mai gli aveva dato buoni consigli: solo, quando uno dei suoi parenti lo maltrattava, l'altro era pronto a gridargli: il torto è tuo! Tutto questo perchè era debole e povero. Ed egli si convinse presto che nel mondo non c'è giustizia. Da una parte esistono i forti, dall'altra i deboli, e questi sarebbero destinati a sparire se non avessero virtù che gli altri non hanno: la pazienza, la costanza, la bontà! »

— Com'è bello! - ripetè Caterina.

Ma una voce ironica risuonò:

Chi è bon è.….

Era la vecchia, che ascoltava attentamente la « storiella ». Senza accorgersene Caterina dava al suo racconto l'intonazione e le sfumatore di voce che la Suppèi soleva dare alle sue fiabe, quando si degnava narrarne qualcuna ai bimbi del vicinato.

« … Paride non era bello, ma poteva dirsi simpatico. Era slanciato, svelto, con due occhi pieni di fuoco. Egli amava il bello, il buono: avrebbe voluto esser forte per ajutare i deboli, ricco per ajutare i poveri. Elena era bionda e fresca come Venere appena uscita dalle onde! Ella era anche forte e sincera. Non soffriva le ingiustizie, e solo una volta - Paride ricordava - ella aveva sopportato con pazienza una grave ingiuria… »

— Aspetta, saltiamo… - disse Caterina, non volendo raccontare davanti alla vecchia la sua avventura con Maddalenina Dargenti.

— Racconta quando i due ragazzi s'incontrano nel bosco! - pregò la Suppèi, levandosi la pipa di bocca. - Lì è bello, veh!

— Ah, aspettate, sì, ecco! « … Elena e Paride avevano quindici anni! L'età della poesia e dell'amore. Essi non si erano ancora detto di amarsi, ma se lo leggevano negli occhi ogni volta che si vedevano. Da lungo tempo avevano cessato di andar assieme a scuola, ma spesso si incontravano, e Paride, con la scusa di andar a trovare la mamma di un suo amico morto, andava in casa di Elena. La casetta della fanciulla era al limite del paese; era una povera casetta ordinata e pulita, e la nonna di Elena era una vecchia brontolona, ma piena di cuore. Lui doveva partire: aveva anche lui finito le scuole del paese, e doveva andare in una città lontana per terminare gli studi. Egli si preparava a partire, con gioia e con dolore. I suoi parenti non volevano ajutarlo, non volevano dargli un soldo. Dicevano: può lavorare, è grande oramai.

« … Un giorno, - proseguì Caterina, dopo aver inghiottito la saliva, e sospirato profondamente, - egli si recò in un paese dove c'era la fiera. Dopo aver attraversato il fiume nella barca del vecchio portiner, egli s'inoltrò nel bosco di pioppi. Camminava in fretta: egli non amava i boschi cedui, specialmente quelli che crescono sulle rive dei fiumi. Questi boschi son belli da lontano, nell'ora del tramonto, quando il sole rosso apparisce fantasticamente fra i rami argentei. Da vicino questi boschi sono incomodi. Il terreno è umido, vischioso, coperto di erbe strane e pungenti. Miriadi di moscherini nojosissimi offuscano l'aria umida e pesante. Qualche volta vi sono anche le zanzare, anche qualche biscia, e allora è brutto stare in quei boschi. Era già d'autunno; ora qua, ora là, in lontananza, s'udivano i boscajuoli battere l'accetta sui tronchi. A che pensava il nostro Paride? Forse pensava che doveva partire, e in cuor suo diceva addio a quei luoghi. Quando ad un tratto si fermò, sussultando. Una fanciulla bionda stava seduta sull'erba, appoggiata ad un tronco di pioppo. Se in quel momento gli fosse apparsa una fata egli non si sarebbe commosso di più! »

Arrivata a questo punto Caterina non volle proseguire. La voce le tremava, come velata per pudore. In vano la Suppèi ed anche Adone la pregarono di continuare.

— Parliamo d'altra cosa! Ora son bell'e stufa di questa storia, - ella mentì.

Ma la vecchia si tolse la pipa di bocca, la vuotò per terra, la depose sullo scalino.

— Voglio continuare io, ora! - disse con la sua voce grossa, e man mano raddolcendola e abbassandola ripetè a modo suo il seguito della novella, alla quale fini col dare un colore di fiaba.

Elena s'era storto un piede, mentre si recava con un'amica alla fiera di Mezzano! L'amica era andata in cerca di qualche boscajuolo che l'ajutasse a trasportare la fanciulla fino alla riva del Po. Vedendo Elena sola, pallida, abbandonata sull'erba, Paride si spaventò e le si inginocchiò davanti. Elena piangeva e rideva, per il dolore e per la gioja. Si guardarono e in quel momento compresero di amarsi.

— … « Perchè sei diventato pallido? » domandò Elena. E Paride rispose: « Perchè ti amo d'immenso amore! »

— Non è così! - gridò Caterina indispettita. - Così parlano i burattini!

— Tutti gli amorosi son burattini! - disse la vecchia.

E Adone rise ancora, ma protestò.

***

Egli ora aspetta, appoggiato alla finestra chiusa del viottolo. Le tempia gli battono: gli pare d'essere al suo primo convegno amoroso.

Caterina apre la finestra e lo accoglie nella stanzetta umidiccia che conosce già il segreto dei loro colloqui notturni. La vecchia dorme e russa: ella pretende di conoscere il cuore umano e diffida dei due fidanzati; ma crede ingenuamente che basti vigilarli quando stanno sotto il pergolato, e impedir loro di andar soli a passeggio, perchè non succeda un guajo.

Del resto il guajo non succede. Adone trema fra le braccia vigorose di Caterina, ma, come ha scritto nella sua novella, egli è abbastanza « padrone delle sue azioni » per ricordarsi che prima di possedere Caterina egli deve avere una posizione sociale.


***

Ora egli se ne ritorna lungo la nota strada. Risale il viottolo verso l'argine, quel viottolo stretto che pare scavato nella verzura, e, come spesso gli succede, ricorda la sua infanzia, il piccolo amico morto, che per lui è rimasto sempre un bambino. Forse anche nella memoria della madre Marco è rimasto piccolo, perchè ella ha pianto ogni volta che ha veduto Adone bambino; ma a misura che l'amico del morticino cresceva ella non ha pianto più. O forse anche nella memoria di certe persone i ricordi scoloriscono come i disegni che il tintore imprime sulla tela colorata. Non così nella memoria di Adone; egli ricorda tutto della sua vita passata. Ora l'orizzonte della sua vita è sereno come gli orizzonti primaverili della pianura: ma i ricordi del passato rimangono, sospesi su quest'orizzonte come una nuvola tenue che non vuol dileguarsi.

Quella notte egli ricordava con insistenza il morticino; si sentiva felice del suo presente, ma provava quasi il bisogno di procurarsi un pensiero triste. Così talvolta lo vinceva l'istinto di buttare un sasso nell'acqua quieta, per turbarne l'immobilità.

— Perchè Marco è nato se doveva morire prima di conoscere la vita? - egli si domandava.

Ma arrivato sull'argine egli dimenticò questo problema. La notte diventava umida e grigia, d'un grigio vellutato, sul quale il nero degli alberi, l'oro delle stelle, il chiarore del fiume apparivano come illuminati da una luce lontana che non arrivava alle altre cose e alle altre linee del passaggio.

Così entro il suo cuore, egli ora distingueva solo l'immagine di Caterina. Egli ricordava altre notti, altri viaggi di ritorno lungo il nastro d'erba che orlava l'argine verso il fiume: ma gli pareva che la sua felicità presente fosse più intensa della felicità d'altre volte. Altre volte questa gioja di amare gli rimaneva come chiusa nel cervello: ora gli scorreva nelle vene, lo irrorava tutto come una misteriosa rugiada. Ma all'improvviso egli si sentì di nuovo assalito da un desiderio di tristezza. E si accorse che scambiava la felicità col piacere.


***

No, egli era ebbro, ma non felice. Egli amava Caterina, ma oltre i suoi baci egli sognava una completa unione morale con lei.

Ora, d'anno in anno, questo suo sogno diventava più intenso e quindi più difficile a raggiungersi. Caterina restava quale egli l'aveva conosciuta a dieci anni: egli invece si credeva già un essere superiore, o almeno infinitamente superiore a lei.

Un dubbio, sopratutto, lo tormentava. In quegli ultimi anni egli aveva perduto completamente la fede religiosa, che del resto nessuno aveva mai coltivato in lui. Era naturalmente diventato un fervente seguace delle teorie socialiste, un assetato di giustizia. Gli pareva di esser nato con quell'istinto.

A Padova egli conviveva con altri giovanissimi studenti di scuola normale, quasi tutti anarcoidi, che ogni giorno mandavano per aria il mondo e lo ricostruivano a modo loro. Ogni giorno, forse perchè i loro soliti pasti erano poco sufficienti al loro formidabile appetito, si mangiavano qualche re e magari qualche regina. Di preti, poi, non si parli: il prete era il loro pasto favorito!

Adone era il più mite. Egli era un idealista. Voleva che si procedesse alla conquista del mondo armati non di scure, ma di pazienza e di amore. Egli non odiava i « potenti della terra » anche perchè in fondo al cuor suo s'era formata l'illusione che tutti i ricchi fossero infelici! Egli non aveva mai avvicinato un uomo ricco, ma era persuaso che avvicinandolo avrebbe avuto più da compiangerlo che da invidiarlo. Tutte le famiglie ricche, poi, egli se le figurava divise da discordie interne, destinate ad andare in rovina! Egli tirava costantemente fuori l'esempio della famiglia Dargenti.

L'amore: ecco quello che mancava ai ricchi, come del resto mancava ai poveri! L'odio di classe, poi, avvolgeva tutti in un'atmosfera torbida. Egli sognava un mondo ideale, ove tutti s'amassero e si ajutassero moralmente a vicenda. Lo preoccupavano meno le altre questioni, e specialmente la questione economica! L'uomo può vivere con poco; può diventare anche anemico, come un pochino lo era lui, ma può anche guarire.

— Anche i ricchi diventano anemici, - egli pensava, passando davanti al cancello Dargenti. - Mi ricordo, l'anno scorso la signorina Maddalena era anche lei anemica. Sembrava uno scimmiotto!… Lasciatemi avere il posto, - egli proseguì, sollevando il viso e come rivolgendosi ai pioppi immobili e neri - e vedrete come diventerò allegro e forte. Sempre passeggiate e vita allegra. Caterina…

Ecco, al pensiero di Caterina egli trasalisce sempre, di piacere e d'inquietudine. Ella sarà una moglie buona, un'amante appassionata, ma non sarà forse mai la sua compagna. Un tempo essi erano compagni, quando percorrevano l'argine, ella col suo scialle, egli col suo mantellaccio; ma non ritornerà mai il giorno in cui essi potranno ancora comprendersi come si comprendevano allora. Questo è il dubbio che lo tormenta. Egli prova una bizzarra impressione: gli pare di veder Caterina tuttora bambina, col vestitino gonfio e i zoccoli ai piedi, lontana, sullo sfondo nebbioso dell'argine. Ed egli invece è cresciuto: è diventato alto come un pioppo: un orizzonte infinito è intorno a lui.

Il lumino ardeva nel portico, davanti alla nicchia di San Simone Giuda. Nulla era cambiato nella casa di Tognina: soltanto, i fanciulli eran diventati giovani, i bambini fanciulli, ed altri bimbi eran nati. Carissima s'era alquanto ingrassata, la zia Elena aveva perduto i denti. La Tognina era sempre la stessa, malaticcia, nera, indifferente, d'età incerta: pareva che per lei il tempo non passasse, o meglio non esistesse neppure, come non esiste per la mummia chiusa nel suo sacco impermeabile. Anche nella cameraccia di Adone persisteva l'odore delle patate e delle piume, e il romorìo dei topi allegri e sfacciati. Egli andò a letto, dopo aver accuralamente appeso i suoi vestiti al vecchio attaccapanni che sembrava un albero: ma per quanto fosse stanco non potè subito addormentarsi. I suoi pensieri però deviavano, un po' vaghi e sparsi, come l'acqua d'un rigagnolo che, arrivata a un certo punto, si divide e si sparge di qua e di là per il prato. Egli pensava sempre a Caterina, ma pensava anche ad altre cose, ad altre persone, alla sua mamma, ai suoi fratelli. Essi crescevano laboriosi e gentili; soltanto il piccolo rimaneva un po' rachitico e selvaggio; e si nascondeva quando Adone lo chiamava!

— Per lui sono un uomo fortunato, - pensava Adone, ricordando che Reno un giorno aveva raccolto le briciole della sua focaccia. Poi il suo pensiero si rivolgeva con tenerezza alla sorellina Eva. - È diventata carina davvero: prenderà marito, speriamo! Anche i fratelli si ammoglieranno. Perchè non dovranno esser felici anche loro? La mamma e Reno li ajuterò io, certo. Speriamo, speriamo!

E sperando cercò di addormentarsi: ma aveva appena chiuso gli occhi quando un lieve rumore lo svegliò.

— E maledetti topi! Ah, il mio vestito!

Sollevò il capo, inquieto per il suo bel vestito grigio alla moda; ed anche per le sue calzette a righe nere e gialle. I topi non rispettano nulla. Non pensano che un vestito alla moda e un pajo di calzette fini costano grandi sacrifizi ad un giovane povero!

Egli rimise la testa sul guanciale e di nuovo si rattristò. Pensava alla zia, che lo faceva dormire ancora lassù, in quella cameraccia desolata. Egli era sempre l'intruso, in quella casa; era sempre l'uccello di passaggio. La zia s'inteneriva per lui solo quando era malata; Pirloccia non lo bastonava più perchè non poteva; gli altri lo guardavano con indifferenza o con invidia. Ed egli, nonostante le sue teorie sull'amore universale, non amava i suoi parenti, non vedeva l'ora di andarsene, di liberarsi di loro, come un tempo anelava liberarsi del suo mantellaccio che pur gli era necessario.

Al ricordo del mantellaccio sorrise. Ecco un indumento che i topi avevano sempre rispettato!

— Bisogna mettere le trappole, - egli pensò, riaddormentandosi. - È che son tanti! Mille, forse! Davide diceva che la marchesa aveva paura dei topi: ora capisco! Temeva le rosicchiassero i vestiti. Io non li temevo perchè non avevo ninete… Ora… il mio vestito, le calzette gialle e nere… ah, è dentro, eccolo, ti ho preso! Come è caldo!…

Gli parve di aver preso un topolino, entrato in una delle calzette: vide Caterina che si curvava a guardare, trasalì, si accorse di sognare, e rise piano piano, come un bimbo, addormentandosi.


***

S'alzò presto e fece un giro pei campi. Il sole non ardeva ancora, ma l'erba gialla delle cavdagne, gli acini verdi e duri dell'uva già grossi, i fichi maturi, rivelavano l'estate inoltrata. Egli si fermò vicino alla melonaja, osservando che i cocomeri quell'anno erano molto in ritardo. Egli se ne intendeva! Ricordi tristi e lieti pareva esalassero, col profumo dell'erba, da quei luoghi che avevano conosciuto la sua infanzia tormentata!

Passando vicino a un campo coltivato a pomidoro vide emergere, tra il verde umido delle pianticelle attaccate a grossi bastoni di salice, la testona gialla di Agostino il gemello.

— Come va? - egli salutò.

L'albino miope venne fuori dal campo, e disse che di salute stava benone, ma che aveva molti dispiaceri.

— Non t'han detto? Ai primi di aprile siamo venuti, io e mia moglie, ad abitare con voi. Ma le donne non andavano d' accordo: a momenti succedeva un guajo. Allora, fila! Ce ne siamo andati via ancora. Ma bisognerebbe che la zia avesse un po' di coscienza! Mi fa lavorare, sì, ma come? Come un contadino qualunque. Gli altri in casa, io fuori. E giusto questo? Dimmelo tu, piccolo, è giusto?

Egli sporgeva verso il giovine le sue grosse mani verdicce, odorose di pomidoro. Adone ricordava le bastonate che il gemello gli aveva dato, e gli veniva voglia di ridere pensando che ora Agostino si rivolgeva a lui per invocare giustizia.

— No, non è giusto, - ammise.

— Tu dovresti fare una cosa, Adone, - riprese l'albino, grattandosi forte le palme delle mani. - Devi dire alla zia: « Ma non avete coscienza, zia? Pensate a quel povero Agostino ». La zia, credilo, ti vuol bene: ti ascolterà. Sopratutto dille che abbia coscienza.

— Glielo dirò, - promise Adone, alquanto ironico.

Allora Agostino, intenerito, gli domando notizie di Caterina, e se si sposavano presto.

— Sì, - disse Adone, scuotendo la testa ricciuta, - domani! Ci vuol altro!

— Quando c'è l'amore c'è tutto! - sentenziò Agostino, aggrottando le sopracciglia nude. E ad un tratto battè una contro l'altra le palme delle mani, le tenne attaccate, disse con malizia: - tanto più che voi signori avete pochi figli.

— Va là, sono calunnie! - Adone gridò.

— Davvero, davvero, sai! Come, non lo sapevi? Ti burli di me? Vedrai; scommettiamo che la nipote della marchesa non avrà figli?

— Che, si sposa anche lei?

— Quando si sposerà, dico. Mio suocero, il fabbro, (quello che voleva rifare il mondo a colpi di martello) dice che l'avresti potuta sposare tu…

— Scemo! - disse Adone, arrossendo.

Ma l'albino ribattè:

— Eh, vedi, Davide sposa una donna ricca!

— Sì, sì, - rispose allegramente Adone.

E ritornò verso casa. Nell'aja e nell'atrio i bimbi di Carissima e quelli di Andromaca giocavano e strillavano. Il pavimento dell'atrio era sporco di buccie di piselli e di fichi; il più piccolo dei bimbi, ancora lattante, trascinava il suo cestino di vimini strillando come un cagnol ino bastonato: un altro mangiava la pappa seduto sullo scalino della porta, un terzo raccattava con attenzione un granellino di pisello e se lo portava alla boccuccia sucida. Le galline andavano e venivano, serie e imponenti. Carissima cuciva e cantava, indifferente alla scena che le si svolgeva attorno. In cucina Pirloccia faceva colazione, servito dalla zia Elena.

Vedendo Adone l'ometto gli mostrò una fetta di polenta, e lo invitò a mangiare con lui. Ma il giovane prese la tazza di caffè e latte che gli dava la zia Elena, e andò a sedersi nel portico, con la scusa che là e'era meno caldo.

Egli trasaliva ancora, nell'udire la voce del mercante di scope! Seduto in mezzo al portico, fra le buccie di piselli e di fichi su cui scivolavano i bambini, circondato dalle galline che venivano a battere il becco sui bottoni delle sue scarpe, egli mangiava il suo caffè e latte e ripensava alle parole di Agostino. Sì, perchè negarlo? Gli avevano fatto piacere, lo avevano lusingato. Era la prima volta che gli si dava tanta importanza: era dunque diventato un personaggio? Pensava. Come diventerebbe gelosa Caterina se lo sapesse!

Verrà Davide, quest'anno? - domandò a Carissima, che aveva smesso di cantare per chiacchierare con lui.

La matrigna dice di sì: dice che verrà a settembre, forse con la sposa. Dicono che questa sposa è una bella donna, più vecchia di lui, però: una donna con molti quattrini. Non era poi tanto matto come sembrava.

Adone sorrise e scosse la testa. Pensò al povero zolfanellajo, che era morto nella miseria, e domandò se la Müton era contenta del matrimonio di Davide.

— Egli le manda un marenghino ogni mese, - diceva Carissima. - Ora le ha mandato molti quattrini per accomodare la casa.

— Ecco dunque che anche per lei è venuto il giorno! - disse Adone, allegro, ma di una letizia un po' cattiva, ricordando il ritornello della vecchia zolfanellaja. - Ora voglio andare a trovarla. No, prima voglio veder la zia.

La zia era nella sua camera e rifaceva il letto, coprendolo e appianandolo con attenzione religiosa.

— Va in là, caro, - disse al nipote, vedendolo balzare in camera come un lepre.

— Sentite, zia, ho da parlarvi. Meglio subito. No, state tranquilla, non tocco le sedie: e neppure la conserva. Zia, ho da farvi una domanda: avete voi coscienza?

La donnina si drizzò, lo guardò inquieta. Adone andò e chiuse l'uscio: nel ritornare verso il letto vide nei piccoli occhi lattiginosi della zia tale un'espressione d'inquietudine che gli ritornò in mente un antico sospetto. Gli parve che Tognina fosse tormentata da un rimorso.

— Ho veduto Agostino, - disse subito, toccando per istintivo ricordo le spalliere delle seggiole. - È lui che vi domanda se non avete una coscienza. Perchè non lo prendete in casa? Gli altri si: lui no!

— Ma che vada a farsi benedire! - gridò Tognina, ricurvandosi per accomodare la coperta. - Ma se la moglie voleva bastonare Carissima? C'era l'inferno in casa. Lei, Dirce, diceva che Carissima rubava in casa: eran cose da dirsi, queste?

— Che calunnia! - disse Adone con ironia. - Ad ogni modo io ho fatto l'ambasciata. Pensateci. Ma sono ancora buone, queste conserve? A Padova ne ho mangiata una di frutta di stinchiringori. Non sapete che frutto è lo stinchiringori? No? È un frutto che ha sapore di trifoglio. Zia, dove sono andate a finire tutte le trappole? Ne vorrei due.

La donnina era pensierosa più del solito: disse dov'erano le trappole, poi tacque, e Adone se ne andò. Ma quando fu nel pianerottolo si sentì richiamare, e rientrò.

— Che volete?

— Volevo dirti… - ella cominciò, esitante, - volevo… Se vuoi invitare a pranzo per domenica la tua Caterina con la sua vecchia…

— Non c'è dubbio che questa venga! - esclamò Adone. - Ad ogni modo tenterò. Altro?

— Niente.

Egli andò e mise due trappole nella sua stanzaccia: poi andò a trovare la vecchia zolfanellaja, che lo accolse con tenerezza. Ella era diventata quasi sorda, più brutta che mai: un'aria truce le deformava il viso legnoso, quando ella parlava del suo povero morto.

— Egli parlava sempre di un paese dove i malati di polmoni guariscono: quando aveva la febbre sognava sempre quel paese. Diceva: quando il mio Davide avrà il posto ci andremo assieme. Davide non aveva posto, allora: quando lo ebbe, il mio Nino era già partito, era già nel paese ove davvero si guarisce…

Ma Adone sapeva già questa storia: e voleva parlar di vivi, non di morti.

— Dunque gli sposi verranno presto? Fatemi vedere la fotografia della sposa.

La vecchia gliela fece vedere. La sposa, in abito scollato, aveva una fila di perle al collo e teneva un lungo guanto in mano. Non era bella, come diceva Carissima, ma aveva un viso caratteristico, bruno, ovale, con una bocca spirituale e due grandi occhi neri, ai quali due folte sopracciglia riunite davano un' espressione di fierezza.

— Bella! - esclamò Adone.

C'era qualche cosa in quel ritratto, che lo colpiva profondamente. La vecchia disse, scuotendo una mano:

— È istruita, poi, la mia sposa! Sa tante lingue; ha scritto anche un libro.

Ah, ecco, ora Adone capiva: era l'espressione intelligente di quella donna, che lo affascinava.

— È ricca, poi, eh?

— Sì, sì, ricca.

— È dunque venuto il giorno? - egli disse, ridendo.

La donna capì: riprese l'aria truce di prima, ripetè il vecchio ritornello misterioso:

— Verrà un giorno.

Che voleva dunque?

Sognava forse un giorno di vendetta e di giustizia, come Adone sognava un'era di pace e di amore?

— Sì, - ella riprese. - Verranno a settembre. Son contenta, si, ma, non so che cosa la sposa mangerà. Mi dà da pensare, questo.

Adone ripetè lo scherzo fatto alla zia.

— Ordinate un vasetto di conserva di stinchiringori. È molto buona. Basta metterne un pochino nelle vivande, per farle diventare saporitissime.


***

Alcuni giorni passarono, tranquilli ed eguali. Il Pirloccia e i suoi figli non molestavano più Adone: lo lasciavano vivere, lo lasciavano proseguire per la sua via; verso la meta che egli fin da bambino s'era proposto di raggiungere.

Dopo il suo arrivo a Casalino egli si sentiva meglio, nonostante il caldo e l'afa della pianura. La notte dormiva, non aveva più dolori di testa, e non sognava più cose tristi. La mattina s'alzava all'alba e vagava pei campi, spingendosi fino ai paesetti vicini, e ritornava per l'argine, dal quale si godeva la vista del fiume calmo e luminoso.

Quando egli stava a casa, i bimbi gli si aggruppavano attorno, si arrampicavano dietro la sua sedia, lo baciavano e gli strappavano i capelli. Egli lasciava fare, finchè aveva pazienza: pensava che un maestro deve affezionarsi ai bambini. Ricordava quanto aveva sofferto, da piccolo, per l'abbandono in cui era stato lasciato, e amava per questa ragione i bambini di Carissima, quelli di Andromaca, tutti i bimbi di Casalino e probabilmente del mondo intero. E pensava ai suoi figli futuri con grande tenerezza.

— Li castigherò, - pensava, - ma non crudelmente.

Intanto s'era procurato qualche lezione. Fra gli altri aveva due scolari meno giovani di lui: un seminarista e una ragazza che frequentava anche lei una scuola normale. Entrambi ritornavano da Cremona. Il seminarista era un ragazzo poco intelligente, svogliato, e Adone un giorno ebbe l'infelice idea di dirgli che l'esistenza di Dio è una illusione degli uomini.

— Dio esiste, sì, - diceva il giovane maestro panteista, - ma è in noi, o meglio noi tutti formiamo parte di questo gran tutto universale che si chiama anche Natura… La nostra religione dev'essere l'amore per il prossimo, la tendenza a perfezionarci, a essere giusti con noi e con gli altri. Sopratutto con gli altri. Dio siamo noi…

Il seminarista ascoltava, e aveva un'aria di persona convinta; ma ad un tratto socchiuse gli occhi e disse in dialetto, con impazienza:

— Ma va da Meoli a farti indorare!

Adone non tentò oltre di convertirlo.

La studentessa era più docile. Era intelligentissima e vivace: ma non aveva memoria e neppure buona volontà, e per questo l'avevano bocciata. Era poi molto bella, pallida, con un profilo ideale, e i capelli neri meravigliosi. Fin dalle prime lezioni si mise a discutere col suo maestro: discutevano, ma finivano col trovarsi sempre d'accordo. Vicino a lei Adone palpitava, sentiva un fascino strano avvolgerlo, come un profumo, come una musica. Ma egli non pensava menomamente a tradir Caterina, vicino alla quale egli provava un'ebbrezza ben più forte di quella che gli destava la signorina.

D'altronde questa era innamorata d'un pittore, che rinnovava gli affreschi della parrocchia. E Adone dal canto suo considerava Caterina come sua moglie. Gli pareva si fossero sposati il giorno del loro primo incontro, all'ombra dei pioppi della strada di San Giovanni. Tradir lei era come tradir sè stesso. Pur desiderandola con ardore, egli la giudicava infinitamente inferiore a lui; ma ne compativa i difetti come un marito saggio compatisce i difetti della moglie. Durante le sue visite ella non tralasciava di lavorare: preparava la polenta, dava da mangiare alle galline, intrecciava cordicelle di giunco o di scorza di salice per cappelli. Vestiva un po' sciatta, coi grossi piedi a metà entro le pianelle dalla suola di legno. I suoi capelli d'oro sparivano entro un fazzoletto nero e duro, come un tesoro entro una borsa di cuoio. Adone l'ammirava egualmente: le pareva sempre bella, fresca, desiderabile. I loro discorsi quasi sempre erano puerili; le loro discussioni rassomigliavano alle loro antiche discussioni di scolaretti. Qualche volta però Adone, mentre Caterina chiacchierava, si distraeva in modo strano.

Egli sognava: davanti a sè vedeva un tavolino con su il vocabolario francese, e accanto al tavolino scorgeva la figura pallida e ardente della studentessa.

Egli scacciava subito via questa visione; gli pareva d'esser colpevole; ma sentiva una specie di voluttà nel suo rimorso.

Caterina lo osservava; gli girava attorno, spiando il momento in cui la vecchia Suppèi si allontanava.

E appena la vecchia li lasciava soli, ella si avvicinava al fidanzato, porgendogli la bocca rosea e fresca.

Egli allora dimenticava l'altra; e non si accorgeva che, mentre egli la baciava, Caterina diventava triste.

Poi andavano a sedersi sotto il pergolato.

Se veniva qualche amica di Caterina, egli non sdegnava chiacchierare e scherzare con lei: quando poi restavano soli con la vecchia, egli raccontava la sua vita di studente, o faceva progetti per l'avvenire. Oppure si abbandonavano entrambi, egli e Caterina, ai loro ricordi di fanciullezza. Ricordavano tutto: la loro vita era come uno stesso libro, del quale le pagine contenessero alternativamente la storia dell'una e dell'altro: ed essi cono scevano e sapevano a memoria queste pagine.

Raramente questionavano: Caterina era sempre docile ai voleri di lui, che del resto pretendeva poco da lei. Egli cercava di catechizzarla di spiegarle i suoi principî: le parlava di matrimoni ideali, senza sindaco e senza prete, ed ella non si scandalizzava, non discuteva neppure.

Questa docilità di lei, che in fondo gli dispiaceva perchè gli sembrava un segno di poca intelligenza, finì col persuaderlo a tentare un colpo da lungo tempo meditato.

Una sera, verso la metà di agosto, egli e Caterina si trovavano sotto il pergolato, mentre la Suppèi, nell'interno della casetta, rimetteva in ordine le stoviglie e cantava con la sua grossa voce una monotona cantilena religiosa. Adone ascoltava e si sentiva triste: il canto primitivo della vecchia gli destava come la nostalgia della fede perduta.

A un tratto egli disse:

— Ho incontrato l'ebreo lungo l'argine. Come mi ha guardato!…

— Ancora? - gridò Caterina. - Ti ho detto che è una cosa finita! Lascialo stare.

— Eh, no; voglio dirti una cosa, anzi!…

Ma ella cominciò a smaniare, e siccome Adone insisteva, si alzò, entrò in cucina e si mise ad accompagnare il canto della nonna.

Non seppe perchè, egli sentì voglia di piangere.

Caterina tornò fuori, ed anche la vecchia sedette sullo scalino della porta: il cattivo odore della sua pipa si sparse nell'aria tiepida e irritò il giovine.

Egli si alzò e fece la solita preghiera:

— Nonna, lasciateci andare a passeggio!

— A quest'ora, viscere? Dove vuoi andare?

— Allora, addio!

Caterina lo accompagnò fino allo svolto del viottolo, stringendogli nervosamente il braccio.

— Tornerai? - gli disse, supplichevole.

— Sì, ma bada che stanotte voglio dirti una cosa. Promettimi di ascoltarmi: altrimenti non ritorno.

— È per l'ebreo?

— Anche per lui, sì. So che egli gira sempre da queste parti. Perchè?

Allora Caterina si staccò da lui, quasi spaventata, mormorando:

— Tu credi?… Tu credi?…

— Io non credo niente! Ne riparleremo.

Egli si allontanò, e gli parve di essere davvero geloso. Per la prima volta si domandò se il giovine ebreo non piacesse a Caterina come a lui piaceva la studentessa!

Mezz'ora dopo essi erano di nuovo assieme, nella cameretta umida e buia.

Caterina, insolitamente fredda, non lo abbracciò: solo gli battè una mano sulla spalla, come per invitarlo a parlare.

Egli però non sapeva come cominciare.

— Andiamo fuori; qui e'è troppo caldo, - disse finalmente, irrequieto.

— La nonna…

— Lasciala dormire! Non senti come russa? Brontola anche in sogno, quella vecchia! Andiamo, qui si soffoca. Tu non fai mai quello che voglio io!

— Non e vero! - ella disse, quasi piangendo.

Uscirono, sedettero sullo scalino della porta.

Attraverso il fogliame del pergolato, sul cielo bianchiccio, si vedevano le stelle filanti; la notte era dolce; ma Adone sentiva ancora l'odore della pipa, e invece di calmarsi s'irritava sempre, più.

Caterina invece, insolitamente calma, aspettava ch'egli parlasse. Egli le cinse la vita col braccio e cominciò:

— Devo dirti una cosa. Non adirarti, però: senti bene. Devo domandarti: è proprio vero che l'ebreo ti vuole sposare? Dimmi la verità.

— Sì, è vero.

— L'ha detto a te?

— Sì, mi ha scritto. Ed è venuto qui parecchie volte.

— Tu non lo vuoi, vero?

— Se l'avessi voluto non sarei qui! - ella rispose fieramente.

— No, senti bene: voglio dirti questo. Se, per esempio, tu non mi avessi conosciuto e ti fossi innamorata di lui, avresti preteso che egli si convertisse?

— Ma egli si vuol convertire!

— Sì, ma, dico, se egli non avesse voluto rinunziare alla sua fede, e tu fossi stata innamorata di lui, lo avresti sposato egualmente?

— La nonna…

— Lascia stare la nonna! - egli disse, irritato. - Lei non può capire nulla!

— Sì, ma bisogna anche pensare che lei mi ha allevata! - rispose Caterina, cominciando ad agitarsi. - Del resto, che c'entra? Io l'ebreo non lo voglio, anche se si fa mille volte cristiano…

— Lasciami finire: e rispondimi a tono. L'avresti voluto, se ne fossi stata innamorata, e se egli ti avesse detto che la vera fede è la sua?

— Gli ebrei hanno ucciso Gesù, - ella disse, ingenuamente. - No; non l'avrei voluto!

— Ella non può capire! - egli pensò, lasciandola e stringendosi la testa fra le mani. E provò un senso di vuoto: gli parve che fra lui e Caterina, seduti sul medesimo scalino, si stendesse un deserto smisurato come quel gran cielo melanconico che si stendeva sulle loro teste.

— Eppure, - ricominciò sottovoce, senza sollevare la testa, - bisogna che tu mi capisca: è una cosa che devo dirti da tanto tempo. Io non sono ebreo, ma ho anch'io la mia fede. Non voglio fare il matrimonio religioso. Mi vuoi lo stesso?

— Tu scherzi, - ella disse, ridendo piano piano. - Vuoi provarmi. Sei geloso dell'ebreo.

— No, no. Parlo sul serio. Non sono geloso: o meglio, sì, sono geloso; ma questo non e'entra. Pensaci bene: non ridere. Non ridere! Non e'è da ridere! - disse a voce alta, ma senza sollevare la testa.

Ella cessò di ridere, e solo dopo qualche momento disse con voce tremante:

— Vuoi dunque che pianga?

Ed egli in quel momento comprese che era ingiusto con lei; egli che sognava un regno di giustizia universale.

— È per il suo bene, - pensava.

Ma perchè fosse un bene bisognava che ella comprendesse; ed ella non poteva comprendere, ed egli non si sentiva capace di spiegarle in che consisteva questo bene. Le spiegazioni sono inutili, del resto, quando la mente non s'apre per riceverle. Chi gliele aveva date a lui, queste spiegazioni? Chi gli aveva detto che la sua fede non era quella di Tognina, del Pirloccia, di Caterina, del seminarista? Nessuno: la sua mente aveva ricevuto la spiegazione da esseri invisibili, da voci lontane, da voci che salivano dalle profondità del suo cuore e scendevano dalle profondità del cielo stellato. La voce umana può influire solo fino a un certo punto, e può echeggiare solo nelle menti già aperte alle voci della natura e dell'istinto. Ed egli sapeva che Caterina non aveva questa mente, come l'aveva lui, come l'aveva la studentessa.

Caterina taceva, come sbalordita; ed egli aspettava ch'ella parlasse, rassegnato a sentire parole inutili, ma deciso a non piegarsi. Il più era fatto.

Anch'ella aveva appoggiato i gomiti sulle ginocchia e la testa sulle mani. Entrambi, curvi e silenziosi, parevano intenti ad ascoltare qualche voce che salisse dalla terra, sotto di loro.

Ad un tratto parve che Caterina ricomineiasse a ridere. Ah, ella non poteva capire! Ma il soffio che la scuoteva si fece ansante, proruppe, diventò singhiozzo. Piangeva.

Caterina! - egli disse, sollevandosi, preso da un impeto di tenerezza. - Che fai? piangi? No, non voglio! Questo no… Se tu non vuoi… se tu non vuoi…

Le accarezzò le spalle, le mise una mano sulla testa. Ricordava che da ragazzetto aveva tante volte giurato di essere il protettore di lei: ed ora invece la tormentava, la faceva piangere.

— Taci, taci, - le disse, carezzandole le spalle frementi. - Ne riparleremo quando tu ei avrai pensato bene. lo ti spiegherò… ti convincerò…

Ella sollevò la testa.

— Ho pensato, ho pensato, - disse singhiozzando, e con una certa fierezza. - C'è bisogno di pensarci tanto? Farò quello che vorrai.

— Perchè piangi, allora? - egli domandò meravigliato.

— Perchè sei cattivo, ecco! Perchè non pensi al dispiacere della mia nonna…

— La nonna?… - egli disse come fra sè. - È vecchia.

E siccome egli esitava, Caterina si sollevò, cessò di piangere, e disse con rancore e con tristezza:

— Sì, ella può morire presto. Ma i morti ritornano… i morti vedono tutto, lo sai! Ella non mi perdonerà…

— Dio, tu credi ancora a queste cose! - egli disse, stringendosi le mani desolato.

Per qualche sera non ritornarono più su quell'argomento.

Caterina parve dimenticarsene. Continuò a mostrarsi felice e spensierata: per la minima cosa rideva e gridava, meravigliandosi di tutto come una bambina. Adone, invece, nascondeva una segreta inquietudine. Non era felice della subita condiscendenza di lei, e si domandava se ella, giunto il momento, avrebbe tenuta la promessa.

Intanto egli aspettava Davide per domandargli consiglio. Da due anni egli non vedeva il suo antico protettore, che insegnava in una scuola normale femminile! Si, con tutti i suoi sogni Davide s'era dovuto piegare a far scuola a modeste donnicciuole: per Adone, tuttavia, egli restava un grande personaggio, una figura colossale che all'occasione poteva servire anche da oracolo.

Davide anticipava la sua venuta a Casalino.

Il suo matrimonio era stato rimandato, e Carissima raccontava a proposito una storiella misteriosa:

— La famiglia della sposa ha paura che Davide sia tisico. Tisico e matto è un po' troppo, vero? La sposa lo vuole egualmente; dev'essere un po' matta anche lei. Ma la famiglia ha mandato apposta un uomo a Casalino, per prendere informazioni. Ho veduto io l'uomo; aveva un capppello grigio…

— Hai una fantasia tu, carina! - disse Adone stizzito.

La zolfanellaja diceva che era invece la sposa che si sentiva poco bene.

E Carissima ribatteva, per far stizzire Adone:

— Matta e malata! Vanno proprio d'accordo, veh!


***

La domenica seguente vi fu il pranzo dalla Tognina. Ci volle del bello per convincere la Suppèi ad accettare l'invito. Alla fine ella si decise, seccata. Mise in testa, invece del solito cappello, un fazzoletto giallo, mise ai piedi le calze chè non usava dall'inverno, cambiò al bastone la correggia troppo unta, e montò sul carrozzino del Pirloccia che era venuto a prenderla perchè ella pretendeva di non poter camminare a lungo.

Caterina e Adone s'avviarono a piedi, e la vecchia volle che il carrozzino andasse lentamente: non voleva perdere di vista i due fidanzati.

— Non li ho lasciati mai soli, - si vantava col Pirloccia. - Non si sa mai! Prima avevo fiducia nel ragazzo: era freddino, timido; ma ora ha due occhi indiavolati, il ragazzo.

— Lasciateli fare! - disse l'ometto filosoficamente. - Prima o dopo fa lo stesso.

— No, viscere, non fa lo stesso! C'è una bella differenza, eh, altro! Io ho raccoltò e tirato su la ragazza come si tira su un panno sporco che è caduto nel fosso. E lava e lava, l'ho ridotto pulito e bello come una tovaglia d'altare… E voglio che tale resti! - ella proseguì, ora alzando ora abbassando la voce rauca. - Guardala lì! È più alta di lui. È bella, laboriosa, di talento. E avrà anche la dote, viscere, non dubitare. Diglielo a tua sorella, alla tua Pirloccina. Suo nipote sposerà una ragazza orfana, ma con la dote. E quanti partiti ha avuto!

Alquanto piccato, l'uomo cominciò anch'egli a lodare il suo Adone.

Vecchia, ti dico ehe anche noi l'abbiamo tirato su con ogni cura. Era un diavolo, da bambino: non voleva lavorare. Mangiare, si, corpo! E quante volte mi ha morsicato: eccoli qui, i segni. Ma a furia di carezze e di bastonate l'abbiamo raddrizzato come un ramo storto. Eccolo li: non è troppo alto, ma è proporzionato; è bello davvero! - esclamò poi l'ometto, come accorgendosi per la prima volta della bellezza di Adone. - Solo gli occhi valgono un Perù. Se avesse voluto avrebbe sposato una signora.

— Sì, viscere, la signorina Dargenti, proprio! - disse la vecchia con ironia, accomodandosi intorno al polso la correggia del bastone. - Le milionarie non sposano i maestri! E anche se egli continua a studiare…

— Come? A far che? - domandò vivacemente il Pirloccia.

— Dicono che con altri due anni di studio può crescer di grado. Giacchè non ha subito il posto…

— Il posto? Lo avrà! Ho parlato io, col vecchio maestro, sì, io, in carne ed ossa, - mentì l'ometto, sempre più agitato. - Gliene ho detto di tutti i colori: gli ho detto: ma che la si vergogni, lei, vecchio, di andare a far la scuola a ragazzini alti un palmo. Fosse a dei vecchi, pazienza, ma a ragazzini piccoli!…

— E lui? - domandò un po' ansiosa la vecchia.

— Vedrete, si piegherà. Verrà al pranzo, oggi: forse ci darà la buona notizia.

— Fosse! Ah, sì, viscere, te lo dico: ho fretta di vedere i ragazzi sposati.

— Anch'io!

I ragazzi intanto seguivano alla lontana il carrozzino, riparati malamente contro il sole ardentissimo dall'ombrellino rosso di Caterina.

E, come sempre, scherzavano e ridevano di tutto e di tutti. Pareva che la vita fosse per loro una burla. Caterina era bellissima, rossa in viso per il caldo e il riflesso dell'ombrello. Adone la guardava con desiderio, pregandola di inclinare l'ombrello in avanti perchè quelli del carrozzino non li vedessero in viso.

— Basta ora, - disse Caterina. - Ci vedono dai campi.

— E lascia che ci vedano! Non vuoi più che ti baci: stai diventando noiosa come la nonna!

— Ma sta zitto, insolente! Brutto!

— Bruttissima!

E si baciavàno. Però era vero. Caterina diventava prudente. Egli invece si infocava ogni giorno di più, come il sole in quella stagione. In quei giorni, dopo il suo ritorno, egli si divagava alquanto, combinando le « recite in persona » da offrire all'incolto pubblico di Casalino. Le « recite in persona » ottengono molto successo in agosto e ai primi di settembre. In quel tempo il paese è affollato, la gente allegra: si finisee di vuotar le botti e le bottiglie, per far posto al vino nuovo; i negozianti di scope e d'uva non sono ancora partiti: arrivano invece i negozianti di grano e i negozianti di cavalli della Croazia. E tutti questi uomini si divertono alle « recite in persona » come le fanciulle al ballo.

Adone aveva una speciale attitudine per il teatro: gli altri dilettanti, poi, si offrivano con slancio veramente eroico; la difficoltà consisteva nel trovare un locale adatto.

Speriamo di ottenere la vecchia scuderia del palazzo Dargenti, ora ti farò vedere dov'è, all'angolo del parco, - egli disse a Caterina, quando lasciarono l'argine per il viottolo. - Jusfin ha scritto alle sue padrone, e speriamo d'avere il permesso finchè non arrivano loro.

Ma Caterina era gelosa.

— Io non potrò venire, e tu non verrai da me nelle sere di recita. Perchè vuoi fare questa cosa? Per divertire gli altri, ecco tutto. E le ragazze ti guarderanno.

— E lasciale fare! - egli disse, rassegnato. - E tu anche verrai.

— La nonna non vuole.

— Ma insomma, questa nonna benedetta! - egli disse stizzito. - Mi fa una rabbia! Verrò a prenderti di nascosto, qualche sera.

— No, no, bello! - disse calma Caterina.

— L'anno scorso saresti venuta.

— L'anno scorso ero una stupida.

— Mi piacevi di più!

— E non dir bugie, bello!


***

Il pranzo fu allegro. Del resto non si son mai visti a Casalino pranzi non allegri, tranne i brevi banchetti funebri d'uso dopo qualche funerale.

Come al pranzo per la laurea di Davide, assistevano le persone più notabili del paese: grossi proprietari, negozianti di grano, il fabbro filosofo, il padrone dell' Antica Osteria del Vicerè e stallo, e tutti i figli del Pirloccia, compreso Agostino il gemello, che per l'occasione aveva fatto pace con la famiglia. Donne poche. E Tognina, al solito, non si faceva davvero notare per il suo spirito e la sua grazia. Piccola e nera, ella andava e veniva, silenziosa e leggera come un gatto, e quando sedeva a tavola nessuno badava a lei, che pure aveva preparato con la zia Elena le buone vivande e il bissolan di pane di Spagna, e una fila di bottiglie intatte lungo il muro.

I figli del Pirloccia si mostravano amabili con gl'invitati, e specialmente con la vecchia Suppèi e con Caterina.

Ma Adone sentiva che quelle amabilità erano finte, e capiva che i Pirloccia erano-contenti per la sua probabile prossima partenza dalla casa della zia.

Seduto accanto alla Suppèi, che aveva attaccato il bastone alla spalliera della sedia, Pirloccia raccontava le sue solite avventure di viaggio. Tutti sapevano ch'egli esagerava; ma appunto per questo lo ascoltavano volentieri.

Una volta ero in Egitto. Sì, e'è un paese che si chiama Egitto (egli si volse galantemente alla vecchia Suppèi). Non è neppure distante. Tutte le cose son diverse, là. Pereiò noi diciamo spesso « che roba d'Egitto! » Ebbene, in questa regione ei son bestie feroci, leoni, orsi, e un pesce grosso coi denti che si chiama coccodrillo…

— Drillo? Drillo?… - ripetè il bambino di Carissima, che ascoltava attentamente.

— Sì, cocco-drillo. Va bene; allora il pesce…

— È un anfibio, - osservò il vecchio maestro, che sedeva al posto d'onore, di fronte a Pirloccia.

— Scusi tanto: le dico, è un pesce, - affermò l'ometto. - L'ho visto io! Sta nel fiume, è nero: quando galleggia pare un pezzo di legno. Uno si avvicinava alla nostra barca carica di scope: lo tenemmo a bada buttandogli di tanto in tanto una scopa che esso afferrava coi denti e riduceva a pezzi. Ne ho veduto un altro che si mangiava una vecchia, con le vesti e tutto: non lasciò che la collana.

— Corpo! - gridò il cordaio. E il bambino, coi grandi occhi azzurri ridenti, ripetè: Lana? Lana? - e tutti risero con orrore e con beffe.

Solo la vecchia Suppèi scosse la testa con pietà, come per dire: « non la fai a me » e Adone domandò:

— E dopo ha pianto, l'animalaccio?

— Sì, sì, ha pianto, - rispose convinto l'ometto.

Allora la vecchia protestò, e dommandò come mai Adone poteva eredere a queste cose, egli che non credeva in Dio.

— Invece, come appunto è vero Dio, - disse Pirloccia, battendosi la mano spiegata sul petto, e sempre rivolgendosi alla vecchia, - vi assicuro che è vero quello che dico. Se non volete credere venite con me in Egitto, quando ei lorno.

E tutti di nuovo risero; e l'allegria aumentava a misura che Tognina rimetteva lungo il muro le bottiglie vuote.

Anche il vecchio maestro, di solito taciturno e impassibile come il gufo al quale rassomigliava, pareva eccitato. Di tanto in tanto si sollevava a metà sulla sedia, con in mano il peker colmo di spuma di lambrusco (il primo ad essere servito, ad ogni nuova bottiglia, era lui) e accennava a dire qualche cosa. Ma non gli riusciva, o non osava, o aveva paura che la rosea spuma svaporasse prima che egli avesse finito di parlare. Fatto sta che tornava a sedersi, con gli occhi tondi fissi sul peker, finchè questo non gli veniva nuovamente colmato dalla silenziosa Tognina.

Finalmente, quando furono sturate le bottiglie di vino bianco, il vecchio maestro si alzò, col peker che pareva colmo di erema, e disse con voce tremula:

Saluto il nuovo maestro! (Stese la mano verso Adone, sollevò la voce.) Come il vecchio generale si ritira dal campo di battaglia, dopo aver servito fedelmente la patria e il re… così io… così io… bene, insomma, così io mi ritiro e cedo la spada, ovverosia la bacchetta, al nuovo comandante delle nuove generazioni. Evviva il nuovò generale! Evviva il re!

E tornò a sedersi, bevendo in fretta il vino, dal quale era svanita la spuma. Mentre tutti applaudivano. Adone si alzò e s'inchinò tre volte, comicamente. Però, in fondo, si sentiva commosso: non si aspettava questo colpo di scena. Prese il bicchiere, andò vicino al maestro e lo baciò sulla guancia. L'altro si alzò ancora: toccarono i bicchieri.

— Bevo alla salute del vecchio generale! Evviva lui! Evviva io! Evviva la compagnia.

— Evviva! Evviva, - gridarono tutti, toccando i bicchieri.

Pirloccia si volse alla vecchia e le disse sottovoce, trionfante:

— Avete veduto?

Poi anch'egli si alzò, montò sulla sedia, e volgendosi verso Caterina disse con voce piena di malizia:

— E io dico: evviva gli sposi!

— Evviva!

Ma Caterina conservava la sua bella calma da regina: solo minacciò il Pirloccia con una forchetta; poi guardò la nonna Suppèi. E vide una cosa strana e insolita; la vecchia piangeva di gioia!

Dopo il pranzo Tognina invitò Caterina e la nonna a riposarsi: con questa scusa voleva far loro vedere le coperte di seta e le fodere col merletto che per l'occasione aveva messo sui letti. Ma soltanto Caterina accettò: e Fiorina la condusse nella camera dello zio Giovanni. La vecchia voleva andarsene, e dovettero pregarla molto per convincerla a rimanere fino al declinar del sole. I ragazzetti e i bimbi di Carissima le si strinsero attorno, pregandola di raccontare una storia. Come resistere a quegli sguardi languidi, a quelle testine ripiegate da un lato, a quelle boccuceie supplichevoli che pareva implorassero una grazia sovrana? Sulle prime la vecchia finse di allontanarli da sè col bastone; poi s'inteneri, comineiò la favola del Caval Rundello, e a poco a poco si animò, s'alzò, accompagnò coi gesti più espressivi il suo lungo racconto. Quando ella raccontava s'immedesimava talmente nella sua parte di narratrice, che dimenticava ogni altra cosa. Anche le donne stettero ad ascoltarla; solo Fiorina, scarmigliata e rossa, usei piano piano nel portico e di là nel cortiletto, dove Francesco, appena terminato il pranzo, era andato a sedersi.

Il meriggio ardente incombeva sulla grande aja silenziosa. Adone, che era andato a accompagnare per un tratto di strada il suo predecessore, rientro e senti che nella camera da pranzo la nonna raccontava la storia. In quel momento ella imitava la voce irata d'una principessa offesa: pareva un'attrice.

D'un balzo Adone fu' nella scaletta; sul pianerottolo si fermò, ansando. Gli pareva che dentro il cuore il lambrusco bevuto gli fervesse come dentro il peker la notizia datagli dal vecchio maestro, che oramai il posto di Casalino poteva dirsi suo, lo rendeva come ebbro. Senza precisamente sapere quello che voleva, spinse l'uscio della camera dello zio.

Caterina non dormiva, ma non lo aspettava. S'era levata la camicetta e la gonna, e in busto e sottanino inamidato stava seduta accanto al gran letto dov'era morto lo zio Giovanni, e appoggiava la testa sulla coltre di seta verde.

Vedendo Adone balzò in piedi, stringendosi le mani incrociate sul petto e reclinandovi la testa.

— Ma che vuoi? - domandò, quasi spaventata.

— Sta zitta, chè là c'è un bambino che dorme! - egli disse, accennando all'attigua camera. Chiuse l'uscio a chiave e s'avanzò in punta di piedi. Nella penombra dorata il vasto letto verdeggiava come un prato, e Caterina sembrava più bianca e bionda del solito. Il collo e le braccia dal gomito in su parevano di marmo venato d'azzurro: sulla nuca i capelli sfumavano in una lieve peluria dorata. Adone si turbò maggiormente. Gli parve di trovarsi per la prima volta davanti a una visione voluttuosa. Quella donna seminuda, madreperlacea, sull'orlo di quel gran letto verdognolo, non era Caterina; era la ninfa sull'orlo del prato, lungamente sognata dagli adolescenti. Egli si avanzò, ma non l'abbracciò.

— Hai sentito? - disse sottovoce, guardandola con occhi smarriti. - Il maestro si ritira davvero!

— Sì, ho sentito! Vattene, però! Se ci trovano qui, Adone!

— Vieni nella mia camera, allora, - egli disse, sempre più turbato. - Vedrai che lusso! Ho messo tante trappole, ma i sorci prendono la roba che e'è dentro e scappano! Andiamo…

Egli diceva sul serio, senza saper bene quello che voleva. Le mise un braccio attorno alla vita e cercò di trascinarla con sè. Fremeva tutto, di gioja, di attesa, di desiderio, incosciente come quando da bambino su quel gran letto molle aspettava che lo zio ordinasse il sugo d'uva dolee.

Caterina resisteva.

— Ma sei matto, di'? Vattene, ti dico, Adone! Adone! Se ci trovano!…

— Se ci trovano? Non siamo sposi? Non siamo uniti per sempre? Non siamo uniti, dimmi? Possiamò sposarci, ora; anche subito, se vuoi! Sì… sì… è tempo! Come sei bella! Cara… cara…

— Lasciami, - ella ripetè con voce tremante. Egli trasali.

— Un bacio solo…

La baciò sulla spalla e vibrò tutto. Parve dovesse cadere svenuto. Ella apri le braccia, smarrita. E si guardarono con occhi pieni di gioja e di angoscia, stringendosi come per sostenersi l'un l'altro sul limite fra il mondo reale e un mondo misterioso verso il quale dovevano volare o precipitare!


***

Davide arrivò una settimana dopo e rimase pochi giorni in paese.

Adone gli andò incontro col carrozzino del Pirloccia, fino alla stazione di Casalmaggiore.

Come sarà? Sarà cambiato? - egli si domandava, frustando il cavallino e facendolo correre all impazzata.

La luna rossa e obliqua, simile a un viso dal sogghigno sarcastico, saliva in fondo all'argine, sul cielo d'un lilla cinereo: attraverso la polvere Adone scorgeva il Po, che rifletteva già la luce sanguigna della luna, e ricordava il suo primo tentativo di fuga, la figura di Davide dai lunghi capelli, la dolcezza del ritorno dalla pesca.

Ma arrivato alla stazione, quasi non riconobbe il figlio del zolfanellajo. Davide non era più un giovine: era un uomo: s'era tagliati i capelli e lasciata crescer la barba: una barba lunga, quadrata, così nera che sembrava tinta. Col suo naso di rapina, gli occhi metallici ingranditi da un cerchio nerastro, egli aveva un'aria lugubre: pareva una figura sollevatasi da un sarcofago egiziano. Adone ricordò le chiacchiere di Carissima; tuttavia abbracciò Davide senza paura, e non gli permise di guidare il carrozzino, come l'altro voleva.

— Va piano, però, - disse Davide coprendosi fino alle orecchie. - Passiamo sull'argine: non e'è troppo umido?

— Umido? Io ho un caldo terribile! - disse Adone ridendo. Ma poi diventò triste.

Era incerto se doveva chiedere o no a Davide notizie della sua fidanzata: gli pareva che la vera fidanzata dell'infelice fosse la morte!

L'infelice, però, prese a parlarne spontaneamente. Sembrava molto fiero della sua fortuna. Domandò che cosa se ne pensava a Casalino.

— Non si parla d'altro! - rispose Adone. E gli parve ingenuamente di far un'opera pietosa lusingando la vanità del suo infelice compagno.

Ora la luna alta e gialla viaggiava obliquamente sopra i boschi della riva, illuminando l'acqua lattea e azzurrognola; a sinistra dell'argine, sopra una fascia di vapori argentei che si elevava sempre più come una muraglia fabbricata da giganti invisibili, brillava qualche stella verdognola.

— Sì, - pensava Adone, - egli è malato, si vede: egli deve morire e lo sa!

E gli pareva di condurre, nel suo carrozzino traballante, uno di quei fantasmi ai quali credeva Caterina. Ma appunto per questo sentiva più venerazione per Davide: ogni sua parola gli sembrava piena di profondi significati. Eppure l'altro parlava di cose semplicissime.

— Faceva caldo, a Casalino? Le notti erano già umide? Chi c'era in paese, ora? La marchesa era arrivata?

Sì. l'ho veduta che andava in chiesa: è molto invecchiata.

Lo era già trent anni fa! - osservò Davide, che non rideva mai, ma diceva qualche frase spiritosa. - Raccontami, e la nipote l'hai veduta?

Sì: era vestita di bianco; sembra una mosea nel latte, - disse Adone, incoraggiato dall'esempio dell'altro.

Anche quella va in chiesa? E il prevosto come sta? Anche tu sei stato in chiesa?

Io? No… Io…

In quel momento egli fu tentato di partecipare a Davide i suoi progetti, la promessa di Caterina, e domandargli consiglio; ma l'altro interruppe:

Raccontami: chi c'è a Casalino?

— Nessuno ancora. Verranno in settembre. Sfido, ci son tanti polli e tante frutta, allora! - disse Adone con malizia. - C'è un pittorello, solo: affresca la parrocchia: certa roba, Dio mio! Angeli verdi e gialli, santi violacei, alberi rossi. Roba dell'altro mondo davvero!

— La parrocchia può star fresca, allora! Come si chiama, questo pittore?

— Monti, mi pare. È di Mantova: è un ragazzetto… un balbuziente.

— Monti? È un milionario! - disse Davide; e questa notizia parve molto rallegrarlo. Egli si sollevò, guardò verso Fossa Caprara, di cui si vedeva la torre illuminata dalla luna, e passò una mano sulle spalle di Adone.

— E di te non mi racconti nulla? Quando ti sposi? Raccontami: sei felice?

Adone trasalì. La domanda di Davide arrivava a proposito: ed egli fu nuovamente preso dal desiderio di raccontargli come ad un fratello maggiore tutte le sue inquietudini, i suoi sogni, le sue speranze, e domandargli, come un tempo, ajuto e consiglio. Ma ancor prima ch'egli avesse aperto bocca Davide parve dimenticare la domanda che gli aveva rivolto.

— Che fai, ragazzaccio; ma che fai? - cominciò a gridare, poichè Adone, invece di proseguire per l'argine, scendeva la fuga di Fossa Caprara. - Tu vuoi ammazzarmi. Non senti che umido? Torna indietro, o va piano, almeno, diavoletto!

— Ma no, lasci fare! C'è più umido sull'argine, - disse l'altro, tirando le redini. Il cavallino non domandava di meglio: procedette lentamente lungo la strada alberata, i cui fossi colmi d'acqua limpida scintillavano alla luna.

Ora Adone ricordava il ritorno da San Giovanni, dopo la seconda fuga; si sentiva triste e non avrebbe più parlato senza le insistenti domande del compagno.

— Che farai? Frequenterai l'Università pedagogica?

— E chi sa? Come si fa? Nessuno mi aiuta. Io devo lavorare.

— Ma che fanno quei porci dei tuoi parenti? - gridò l'altro: e parve rianimarsi del suo antico furore contro i suoi vicini di casa.

Eh, hanno da pensare ad altro! - rispose Adone con tristezza. - Del resto non m'importa. Sono contento perchè avrò il posto di Casalino. Voglio vivere e morire maestro!

Non mi piaci! Non hai altri sogni?

Oh, sì! - gridò l'altro. E di nuovo mille parole infiammate gli salirono alle labbra. Ma un vago senso di diffidenza gl'impediva di parlare: sentiva che il pensiero di Davide era lontano dal suo, e pensava: - Ora egli è stanco: pensa ad altro: gli parlerò di me un'altra volta.

Eppure l'altro insisteva: di nuovo gli sfiorò le spalle con la mano, quasi accarezzandolo, e ripetè:

Quando ti sposi? Non troppo presto, vero? Com' è la ragazza? È bella?

È bellissima! - esclamò Adone con fierezza. Poi aggiunse, quasi sottovoce: - Non è molto intelligente, ma non è stupida. Farà almeno quello che voglio io. Ha già acconsentito a non celebrare il matrimonio religioso…

— Tu le hai proposto una cosa simile? - domandò l'altro meravigliato. - Ma ella è cosciente? Capisce quello che fa?

— Spero di sì! Ad ogni modo lo fa.

— Per amore, certo! - disse Davide e Adone sentì che l'altro aveva ragione, eppure provò un lieve dispetto. Ma ricordò subito che egli voleva non discutere ma domandar consiglio a colui ch'egli riteneva come un suo maestro, e disse, incerto:

— Ho fatto bene? Farò bene?

— Che dirti, caro? Bisognerebbe conoscer la ragazza. Ha sentimenti religiosi?

— È anche superstiziosa, talvolta!

— Ah, bene! - disse Davide con lieve ironia. - E tu l'ami, vero? Tu, almeno, sai quello che fai?

— Mi pare di sì! - rispose vivacemente Adone. - Io l'amo e lei mi ama. Siamo vissuti sempre assieme, nella povertà e nella sventura: siamo già legati da vincoli più forti ancora dell'amore. Io non la lascerei anche se l'odiassi.

— Ma questo non è il principio dell'unione libera!

— È il principio della giustizia, però! lo considero Caterina come una mia sorella. Mi ha accompagnato nei giorni tristi; lei sola mi ha voluto bene, quando nessuno mi amava. Siamo stati fratelli prima che amanti. Ella è, direi quasi, la mia coscienza. Lasciarla sarebbe come mutar principî!

— Bada però di non esser la sua vittima! Spesso si è vittime della propria coscienza! - sentenziò Davide. - Io non so dirti, non conoscendo la ragazza, se hai fatto bene o male a domandarle un sacrificio del quale ella forse non capisce la nobiltà. Bada che gli svantaggi non sieno tutti tuoi. Quando la donna non è evoluta bisogna rispettare le sue credenze. Non si strappano le foglie ad una pianta che ha già i frutti…

— Anzi! - disse Adone, che di questo se ne intendeva. - Si levan le foglie, perchè il frutto maturi meglio!

Ma poi si penti di aver detto questo; e ricordò ancora una volta che voleva domandar consiglio e non discutere.

Ho fatto male, dunque? Potrei rimediare…

Guardatene bene! Non ritornare indietro, mai! Ella perderebbe il rispetto che deve avere di te. Il rimedio sarebbe peggiore del male…

E Davide non aggiunse altre sentenze perchè il cavallo si fermò. Nella strada bianca si scorgeva la figura nera della zolfanellaja.

Nei giorni seguenti i due vicini si rividero spesso, e fecero lunghe passeggiate sull'argine: andarono anche a pescare, e Adone si convinse che Davide, il quale parlava continuamente della sua fidanzata, mettendone un po' in caricatura i parenti, pensava a tutt'altro che a morire.

Adone rideva, ma di giorno in giorno sentiva diminuire la sua confidenza verso Davide. Gli pareva che questo appartenesse gia ad un'altra razza. Era già un uomo ricco, senza essere infelice come Adone amava figurarsi gli uomini ricchi. Tuttavia egli continuava ad ammirarlo, ritenendolo un uomo veramente superiore.

Una sera però si unì a loro, nella piccola osteria del Vicerè, il pittore della parrocchia. Era un ragazzo originale, balbettava ma pungeva: parlava male di tutti, e dichiarava d'essere un mistico e di voler vivere in povertà! Davide lo prendeva in giro, alludendo sempre ai suoi milioni.

— Noi ci logoriamo l'anima per conservare il corpo, - diceva il pittore mistico. - Siamo come quel contadino che per non consumare il mantello soffriva il freddo.

— Seguiva le tue teorie! - disse Davide.

Adone trovava che il pittore, per quanto antipatico, aveva ragione.

Un'altra sera Davide invitò i suoi due giovani amici ad accompagnarlo dalla marchesa. Entrambi rifiutarono. E rimasti soli il pittore cominciò a parlar male di Davide; disse che sposava una donna ricca senza esserne innamorato, solo perchè era ricca.

— Tutti così! Egoisti, non socialisti! E cambiate nome, per Dio bacco, e nessuno vi molesterà più!

Adone arrossì di rabbia, non per l'opinione del pittore, ma per l'offesa a Davide.

— Non è possible! - gridò. - Egli è innamoratissimo. La sposa è una donna motto bella.

— Le donne belle, appunto, si sposano per interesse; tanto più se son ricche!

— Davide… Davide!… - gridava Adone.

E ricordava le sue ire, da ragazzetto, quando sentiva parlar male del suo vicino. Fra lui e il pittore sorse una viva discussione: entrambi però conservavano una certa misura, vicendevolmente cortesi.

— Perchè no? Gli uomini raffinati dovrebbero tender più che gli altri ai nostri ideali, - disse a un certo punto Adone. - Chi si preoccupa più del mantello, come quel contadino? Noi oggi, è vero, consumiamo i nove decimi delle nostre energie tisiche e intellettuali a procurarci il nutrimento: il giorno in cui questo problema sarà risolto dalla collettività comincierà la vera vita intellettuale per gli uomini. Sa chi ha detto questo? Wagner!

— Io aborro Wagner, - disse tranquillamente il pittore.

— Adone fece un gesto di stupore: l'altro aggiunse:

— Per me Wagner è simile al mare: bellissimo e noiosissimo. Odio l'uno e l'altro!

— Io adoro il mare, - disse Adone per contraddire il pittore. Egli non aveva mai veduto il mare!

Le « recite in persona » cominciarono verso la metà di agosto. Gli attori, chi per istinto, chi per atavismo, erano tutti animati dal sacro fuoco dell'arte: fra gli altri c' era un ex-comico, residuo di una compagnia d'infimo ordine.

Durante gl' intermezzi un vecchio burattinajo suonava la fisarmonica. Candido il « pittore » faceva da brillante. Celeste, la studentessa, era la prima donna più indiavolata e birichina che si possa immaginare. Per amore dell'arte Adone qualche volta si adattava a far da seconda donna, e Celeste lo compensava abbracciandolo e baciandolo durante la recita e qualche volta anche dietro le quinte. Egli lasciava fare: ma si sarebbe molto più divertito il mese scorso. Oramai egli pensava a Caterina come ad una sposa legittima, ed era deciso a non tradirla. Nell' intimità, poi, egli scopriva molti difetti in Celeste; sopratutto non le perdonava la sua leggerezza e la sua eivetteria. Ella badava a lui perchè il pittore era partito!

Sulle prime le « recite » non ebbero molto successo. L'ex-comico, che faceva da direttore artistico, era un attoré romantico, estremamente vanitoso. Volle dare la Croce d'oro e i Due Sergenti, che erano stati i suoi cavalli nella battaglia da lui miseramente perduta: la gente si annoiò. Ma un giorno, mentre la compagnia discuteva sul nuovo lavoro da rappresentarsi, e Adone proponeva la Morte civile, Candido si alzò, si levò il berrettino di carta e vi guardò dentro come per cercarvi un' idea.

— Se permettete dico la mia. El gh' è una commedia divertentissima, che ho veduto da bambino a Mezzano. El gh' è in questa commedia un personaggio che vien fuori con la spada e dice terribilmente:

Con questa spada in mano, Faccio scommessa un paolo, Che taglio la testa a Golo…

Che effetto, con rispetto parlando! Alle donne veniva fastidio dal ridere. Diamo quella!

Se non ricordi il titolo! - disse Adone.

Candido morsicò il berrettino.

Aspetta! C'era un omaccion cattif, chiturmentara la gente! Era bella, veh! Pareva una recita di burattini, tanto era bella!

Ma se non ricordi il titolo! - ripetè Adone desolato.

Allora l'ex-comico disse con disprezzo:

È Il Tiranno di Padova

E Adone andò a Viadana in cerca del libretto: lo trovò e in compenso volle una parte forte: quella del personaggio con la spada.

Il successo fu clamoroso. Adone venne fuori con uno spadone che sembrava una croce.

Con questa spada in mano, Faccio scommessa un paolo, Taglio la testa a Golo… … faccio la barba al diavolo!…

Quest'aggiunta rinnovò i delirî dei bei tempi di Candido. Le donne si svenivano dal ridere: a Carissima venne un singhiozzo così insistente e forte che gli spettatori zittirono. Da quella notte le sorti delle « recite » furono assicurate e se ne sparse la fama nei dintorni.

Il delegato di Viadana piombò a Casalino e mise la compagnia in contravvenzione perchè non aveva pagato la tassa d'apertura di teatro, nè adempito alle altre formalità legali.


***

Una sera, ai primi di settembre, Adone andò a prender Caterina e altre sue amiche per condurle a teatro.

La vecchia borbottò a lungo: seduta sullo scalino della porta, dichiarò che non si sarebbe mossa di lì fino al ritorno di Caterina: e fece promettere alle altre ragazze che non avrebbero abbandonato per un solo istante i due fidanzati. Ma appena furono nel viottolo i due amanti rimasero indietro, mentre le ragazze precedevano cantando. Del resto Adone quella sera pareva preoccupato, quasi triste. I suoi primi ardori smorzati, egli oramai considerava Caterina come sua moglie: non occorreva far pazzie ogni momento: qualche volta bisognava parlare anche di cose serie!

— Lasciale andare, - egli disse a Caterina che rideva e chiamava le amiche. - Senti, Pirloccia è partito.

Ella cessò di ridere, si ricordò, trasalì.

— Appena lui è andato via ho parlato con la zia, - egli riprese. - Col maestro siamo d'accordo: egli non rinunzia al posto finchè io non avrò compiuto gli studi. Così, fra due anni, se io non trovo di meglio, avrò sempre il posto di Casalino. Non gli è parso vero, di rimanere, a quel vecchio avaro!

— Che ha detto la Tognina?

— Mi ha detto che son pazzo! M'ha detto che non potrà mandarmi un solo centesimo. Anch'io gliene ho dette! L'ho fatta piangere. Però…

Tacque, insolitamente triste. Egli non diceva tutta la verità, e Caterina lo capi.

Però?… - domandò ansiosa.

Era forse meglio ch'io prendessi il posto. Sono stanco di vivere alle spalle degli altri!

Tu non vivrai alle spalle degli altri! Se occorre venderemo la casa: la nonna vuole…

— Non dire sciocchezze! - egli proruppe, adirandosi. - Ma non è questo. Io lavorerò, vivrò con poco. Ma Pirloccia continuerà a dire ch'io sono un poltrone.

Tu hai paura di quell'ometto? di quella trottola? - disse fieramente Caterina. - Tu? Se egli si permette di dire una sola parola e ficcare il naso nei nostri affari, io gli darò tanti schiaffi, ma tanti schiaffi da stordirlo! Sono donna da farlo!

Egli rise; ma ella era irritata davvero e continuò a profferire minacce contro i parenti di lui.

Arrivati sull'argine Adone le prese il braccio e si strinse a lei. E avrebbe voluto ch'ella tacesse, che gli lasciasse godere la dolcezza di quella loro prima passeggiata notturna.

Nella felicità del momento, egli avrebbe voluto dimenticare le volgarità della vita, la miseria morale dell'ambiente in cui viveva, i ricordi del passato che gli risalivano dal cuore come un sapore acre dallo stomaco. Ma Caterina ricordava appunto le confidenze che il ragazzetto col mantellaccio faceva, lungo quella stessa via, alla ragazzetta con lo scialle.

— Sì, bellezza mia, - continuava a inveire, - son capace di dargli tanti schiaffi al tuo ometto. Ed anche alla tua bella zia! Non ti hanno abbastanza tormentato? Ci lascino in pace, ora.

— Sì, sì, ma taci, - egli pregò.

— Perchè devo tacere? Credi tu che io non indovini quello che hai, stassera? Credi che io non indovini? Ti leggo negli occhi. Tu non hai confidenza in me; ma io non sono una stupida…

— Che hai, stassera, Caterina? - egli disse. - Tormentami; si anche tu, ora!

— Ah, sì ti tormento? Ebbene, sì, voglio tormentarti. Devi essere sempre tu il padrone; sempre, sempre?…

— Lasciami pensare almeno a quello che devo dire in teatro! - egli esclamò allora, infastidito.

Arrivarono in ritardo.

S'udiva il suono melanconico della fisarmonica del vecchio burattinajo, che girava per il paese intonando il motivo d'una furlana. Quel suono avvertiva la gente che la recita stava per cominciare: tutti uscivan sui portoni dandosi scambievolmente la notizia:

Gh' è la recita in persuna! Gli uomini pagan tre soldi, le donne due!

Al suono della furlana anche le vecchie si animavano: la notizia che le donne godevano un prezzo di favore invitava molte di loro a recarsi alla recita: e dove vanno le donne gli uomini accorrono più volentieri!

Nel prato della chiesa Golo aspettava impaziente colui che doveva ucciderlo.

Golo era Candido: vestito di rosso e di nero come un diavolo, egli aveva in testa il berrettino di earta per non sciupare il « cimiero » di carlone dorato del quale, durante la recita, andava molto superbo.

Presto! Presto! Presto! - cominciò a gridare, vedendo Adone.

— E che, c'è il fuoco? - domandò Caterina.

— Altro che fuoco! C'è tanta gente! Ma tanta! Corri a vestirti, Adone: io cerco il posto a queste donne.

E si mise a correre, precedendole.

Il teatro era nell'antica scuderia Dargenti: e Adone aveva paura che la marchesa desse da un momento all'altro ordine di chiuderlo. Ma un fatto accaduto quella sera dissipò le sue inquietudini.

Il locale aveva due ingressi: uno grande sulla strada e una porticina che dava sul prato e serviva solo per gli « artisti ».

Dall'arco del portone sulla strada si scorgeva l'interno del teatro. Il bigliettario stava seduto davanti a un tavolino, nell'angolo dietro il portone, e lasciò passar Golo e le donne che lo seguivano. La folla rumoreggiava, impaziente. E fra l'ondulare grigio e nero dei cappelli di feltro, si scorgeva qualche graziosa testa femminile, i cui capelli rossi o castanei avevano lievi riflessi d'oro.

Sulle pareti sporche serpeggiavano bizzarre decorazioni di foglie di vite, nastri, larghe striscie di carta dorata.

Pochi lumi a petrolio illuminavano quella confusione di figure e di cose: grandi ombre vagavano sul soffitto, e in fondo al quadro il piccolo sipario di grossa tela grigiastra pareva una vela latina ondulante alla brezza.

Mentre Golo conduceva le donne ai loro posti, Adone era corso a vestirsi. Gli « artisti » già pronti borbottavano per il suo ritardo. L'ex-comico, vestito da tiranno, disse con boria:

— Il pubblico rumoreggia. Non bisogna stancarlo; se no non rispondo dell'esito!

Celeste finiva di vestirsi, dietro un lenzuolo che funzionava da paravento.

— Signor Adone? - cominciò a gridare. - Mi sente? Faccia presto! So una cosa; so una cosa!

— Che c'è, Dio mio? - egli disse infastidito.

La ragazza montò su una sedia e sporse al disopra del lenzuolo la fronte e gli occhi luminosi e birichini.

— Non mi guardi! Non mi guardi! - strillò Adone, che si spogliava, fingendo un esagerato pudore.

— So una cosa! Ma bella! Presto, chè gliela dico! Ma soltanto a lei. Presto, - ella ripetè. - Stassera… noi… avremo…

— Dica! Dica!

— Venga qui! - ella invitò. - La dico solo a lei: niente agli altri.

Il tiranno sogghignò.

Adone, mezzo vestito, entrò nel volante camerino della prima donna: ella saltò giù dalla sedia, lo abbracciò, gli soffiò sull'orecchio:

Stassera verranno a teatro… la marchesa… e Maddalena Dar-genti!

Adone arrossì per la gioja: abbracciò la fanciulla, la trascinò fuori, s'inchinò, gridando:

Signori della bella compagnia, stassera avremo nobili spettatori! La marchesa… la signorina! L'e sorti del teatro sono assicurate.

Perdio! - gridò il tiranno, e corse di qua e di là, agitato, mentre gli altri attori si guardavano ridendo di gioja e di paura come bambini.

***

I « nobili spettatori » tardavano ad arrivare: il pubblico rumoreggiava sul serio quando nell'arco del portone apparvero due figure. Una era grossa e nera, con un piccolo viso rosso e paffuto, i capelli bianchi, gli occhiali d'oro; l'altra era sottile e bianca, così vaporosa che attraverso le maniche del suo vestito si scorgeva la luce azzurrognola dell'acetilene che illuminava la strada. Tra l'esile collo nudo, olivastro, circondato da un filo di perle, e i capelli neri divisi sulla fronte e sbuffanti sulle tempia, spiccava il fosco pallore d'un piccolo viso severo, dagli occhi lunghi socchiusi, dalla bocca lunga chiusa.

Tutti i cappelli di feltro, tutte le teste brune e dorate si volsero verso la porta: e nell'improvviso silenzio Adone, che spiava da un buco del sipario, vide il bigliettario alzarsi, precedere le due signore sino alla prima fila dei « posti riservati ». Cinque persone s'alzarono di scatto; s'udì uno scricchiolar di panche, un mormorìo confuso; poi la fisarmonica, funzionante da orchestra, intonò la marcia reale come all'ingresso d'una regina!

Adone palpitava: non sapeva perchè, ma palpitava. La signora con gli occhiali s'avanzava col suo passo elastico, col suo petto prepotente, col quale pareva ch'ella potesse farsi largo fra qualunque folla: la figurina bianca camminava anche lei quasi in punta di piedi, e pareva pronta a spiccare il volo come una farfalla!

— E l'altra non viene! - esclamò Adone, deluso.

— Andiamo, andiamo, - disse Celeste, tirandolo per la mano.

Ma egli attese ancora. La signora Maria e la signorina Dargenti s'erano già sedute.

Molti spettatori guardavano tuttavia verso l'ingresso, aspettando ancora l'arrivo della marchesa. Caterina, ancora accigliata, fissava le due signore: e mentre Maddalena guardava innanzi a sè con indifferenza, la signora maria si volgeva di qua e di là, sorridendo a tutti: pareva portasse a tutta quella brava gente i saluti della marchesa e volesse scusarne l'assenza.


***

Fu durante quella recita, rimasta celebre a Casalino e nei dintorni, che Golo per la commozione disse:

M'avanzo con la spada in mano e col cimitero in testa!

E questo fu niente, se si pensa che un altro attore, il quale raccontava le gesta di Carlo Magno al tiranno e a Golo, disse:

— E Carlo magnò le mura della città!

Urla, grida, risate, applausi deliranti accolsero la terribile notizia. Ma Adone si volse spaventato e guardò Maddalena Dargenti. Anche lei rideva: non molto, ma rideva. Ed era diventata così bella, con le fossette sulle guancie e le labbra aperte sui denti meravigliosi, che egli s'incantò un attimo a guardarla.

Un attimo.

Anch'ella lo guardò. I loro sguardi s'incontrarono. Gli occhi di lei, di solito socchiusi, s'aprirono, sollevati verso gli occhi di lui. Ed egli provò una specie di vertigine; gli parve di aver già ve duto quegli occhi, già incontrato quello sguardo, in un luogo lontano, durante una vita anteriore, in un paese di dolcezza e di voluttà, un giorno attraversato in sogno…


***

Ecco, egli ritorna ancora, dopo aver riaccompagnato Caterina e le sue amiche.

Ella si è mostrata gelosa della « prima donna ».

— Ti baciava davvero, quella lì! Non ho veduto mai una ragazza così sfacciata!

— E lasciala baciare! Non sai che in teatro è permesso tutto, agli artisti? E se no come si fa, a finger bene?

— Ma gli altri non li baciava, no! Il suo sposo non lo baciava, no!

— Ma perchè non lo voleva! Voleva me.

— Ah, voleva te, vero? Ti vuole davvero, mi pare! Badi bene: le rompo la testa a zoccolate!

— Che istinti feroci hai stassera, Caterina!

— Sei mio! Sei mio! - ella dice, stringendogli il braccio, scherzosa e appassionata. - Sei mio, veh, non sei delle altre!

— Non temere! - egli risponde, sarcastico e melanconico. - Nessuna pensa a rubarmi!

— Sì! E intanto ti guardano, tutte! Si, ti guardano, perchè sei bello. Anche Maddalena Dargenti ti guardava! Ma quella è brutta!

Egli non risponde subito: poi dice, quasi sottovoce, come pauroso di tradire i suoi pensieri:

— Quando ride è bella: gli occhi sono eguali a quelli di Andromaca del cordaio.

Ed egli ha un lieve brivido di piacere al ricordo degli occhi di Maddalena fissi nei suoi.

Ritornando, lungo l'argine, egli vede sempre davanti a sè quegli occhi lunghi e carezzevoli che, durante la recita, si sono immersi parecchie-volte nei suoi. Pareva che ella lo chiamasse dolcemente col suo sguardo: egli la guardava e ogni volta provava un senso di vertigine; gli pareva di dover cadere in un abisso di luce.

Ed ora egli va, egli va, sull'orlo dell'argine, e gli pare ancora di esser sospeso fra la luminosità del fiume e la luminosità del cielo rischiarato dal plenilunio. E pensa a lei come non ha pensato mai ad altra donna. Lei. Egli non osa chiamarla col suo nome. Lei: il mistero d'un mondo ignoto; il sogno di tutto ciò che è irraggiungibile.

Egli ha dimenticato quasi sè stesso: un mistero inesplicabile accade in lui. Egli è diventato un altro: ha di nuovo lasciato il suo vestito d'ogni giorno e ha indossato un costume insolito, più luminoso di quello del personaggio della commedia. È un vestito lieve, fatto coi veli vaporosi che circondano la notte lunare: è il vestito del Sogno. Egli, così, diventa un personaggio del quale tutti noi, in una sera di luna, abbiamo fatto la parte. Un personaggio fantastico che va e non sa dove; che cammina e crede di volare; che recita senza parole, nel magico teatro di un paesaggio lunare, un dramma del quale solo le stelle spettatrici capiscono qualche cosa!


***

Lasciando l'argine per il viottolo egli si scuote dal suo sogno. Ricorda le parole di Caterina:

— Tutte ti guardano, perchè sei bello!

— Io però le conosco, le donne! - egli si vanta con sè stesso. - Tutte civette, davvero! Anch' io, però, le guardo, veh! Eh, gli occhi son fatti per guardare!

E ripensa a Celeste: quella, anche, lo guarda, ora che non ha più il suo pittore! Ma le sue civetterie ora lo infastidiscono. Ella lo guarda perchè non sa con chi altri civettare. Non c'è nessuno, quest'anno, a Casalino: tutti son venuti per le elezioni, e il paese natìo basta visitarlo una volta all'anno. Le ragazze quindi si annoiano. Anche lei deve essere a secco di adoratori se si diverte a guardare il povero maestro del villaggio.

— Eh, ma sono un giocattolo, io? - egli protesta con sè stesso. - Non permetterò ch'ella si prenda gioco di me.

Ma d'un tratto egli rivede davanti a sè, nell'ombra del viottolo, gli occhi dolci e carezzevoli di Maddalena, e di nuovo ricade nel sogno vago e misterioso che lo ha accompagnato lungo l'argine.

Davanti al cancello si ferma. Le ombre dei pioppi si allungano sul prato bianco di luna: sulla nuvola nera degli alberi del parco il palazzo si disegna, giallognolo, con le ombre dei cornicioni, delle loggie, delle terrazze, come dipinto.

Sulla balaustrata dell'ingresso i vasi di smalto brillano alla luna e dal giardino sale un profumo di erbe e di gerani. Tutto come nel tempo lontano in cui egli, attaccalo alle sbarre del cancello, guardava curioso, avido di mistero, fissando gli occhi nelle ombre del parco. Ora gli pare di esser rilornato bambino; ma il mistero che quel luogo di sogni racchiude ora, è più intenso, più attraente. Forse è ancora illusione; egli pensa; il sognatore è sempre un bambino: tutta la sua vita è una lunga infanzia.

***

Svegliandosi, la mattina dopo, egli cercò istintivamente di riafferrare il suo sogno, come il bambino che ha un giocattolo nuovo e lo ricerca appena riapre gli occhi. Ma durante la notte qualcuno glielo ha portato via.

Gli occhi di maddalena non riapparvero, nella penombra della cameraccia. Non era luogo degno di lei, quello. Sulle prime Adone si sentì umiliato; poi ritrovò il suo orgoglio. Ricordò l'ipotesi del fabbro, riferitagli da Agostino il gemello; pensò a Davide, che aveva sposato una donna più bella e più ricca di Maddalena, e concluse che nel mondo tutto era possibile. Ma subito si stizzì con sè stesso, pensò a Caterina, che non civettava mai con nessuno, benchè molti la guardassero, e si vergognò delle sue fantasticherie. Oramai egli non aveva più il diritto di commetter leggerezze: se Caterina se ne fosse permessa qualcuna, egli avrebbe molto sofferto: perchè doveva permettersene lui?

Si alzò, sempre più stizzito, e andò a guardarsi nel suo piccolo specchio incrinato. Bello? No, non gli pareva di esser bello. Forse sorridendo… E sorrise alla sua figura; vide i suoi piccoli denti e ricordò lo scherzo dello zio Giovanni:

— Ma di', puttino, che hai fatto? Hai mangiato il riso ed hai dimenticato i granellini in bocca? Ma di', Adone?…

— Ma no, zio! Sono i dentini; guarda bene. Hai visto?

— Ah, sì! Mi parevano granellini di riso…

Egli non sorrise più: guardò ancora la sua figura e le disse:

— Come sei brutta!

Più tardi egli, mentre stava davanti alla porticina del « teatro », vide la marchesa e Maddalena che attraversavano il prato. Per la prima volta egli si accorse che ella era magra, senza forme, un po' rigida come la nonna. Col suo vestito un po' corto, i capelli raccolti sulla nuca, le braccia magre e il petto liscio, ella pareva una adolescente.

No, ella non ispiravà alcun desiderio. Oramai Adone si piccava di conoscer le bellezze femminili. Aveva un'amante bella! Un'amante! Sì, ed egli era orgoglioso di averla, ed era grato a Caterina di avergli dato anche questa soddisfazione, di essere stata la sua amante segreta, in attesa di diventare la sua compagna fedele.

Maddalena e la nonna salirono la gradinata ed entrarono in chiesa. Egli si sentì melanconico per conto di Maddalena. Davide gli aveva detto che ella andava in chiesa solo per contentare la nonna. Sì, ora egli ricordava tutte le notizie che Davide gli aveva dato sul conto di lei. Ella era un « tipo » alquanto strano, come tutti i Dargenti. La nonna diffidava di lei, ed ella non amava la nonna: ma poteva darsi che le notizie riferite dal figlio del zolfanellajo non fossero esatte.

— Del resto, che m'importa? - si domandò Adone. E volle andarsene, ma non ricordò più dove pensava di andare.

Quella notte non c'era recita: per andare da Caterina era presto ancora. Egli rientrò nel « teatro » e rimise in ordine alcuni oggetti: poi ritornò sulla porticina. Nel prato solitario passò in bicicletta un giovinotto grasso e biondo che si fermò e smontò davanti al cancello. Doveva essere uno dei soliti visitatori della marchesa. Forse veniva da Casalmaggiore, forse da Dosolo. Forse era invitato a pranzo al palazzo: Maddalena quella sera avrebbe forse civettato con lui!…

Jusfin aprì il cancello: e dovette dire che le signore erano in chiesa perchè il giovinotto consegnò la bicicletta all'ex-cacciatore e s'avanzò fino alla porta della parrocchia. Adone lo guardava fisso; gli pareva che il giovinotto, col suo viso rosso e i baffi dritti, gli occhi celati dalle palpebre un po' grosse, avesse un'aria di gaudente, d'uomo conquistatore: ed egli diventò triste; provò un vago malessere, un sentimento che gli era ignoto. Gli parve d'essere invidioso dello scònosciuto!

Durante la sua visita a Caterina egli rise e chiacchierò più del solito, e poichè ella rifaceva in modo sorprendente la voce e i gesti degli « attori » del Tiranno di Padova, egli disse alla Suppèi:

— Ma lasciatela venire a recitare, nonna! Guardate come fa bene!

La vecchia scuoteva la testa e borbottava parole severe. Fra le chiacchiere e le risate dei giovani il suo cupo mormorìo pareva il lontano brontolar del tuono nell'apparente serenità di una bella giornata.

— Lasciatela almeno venire! - egli insisteva. - Domani! Sarà più bello ancora: faremo suonare la banda. Forse verrà ancora la signorina Dargenti. E altre signore ancora, da Cicognara e da Casal Bellotto… - aggiunse, pentito d'aver espresso il suo segreto desiderio di riveder Maddalena.

Allora metterò il vestito celeste! - disse Caterina.

— Tu starai a casa, viscere! Non tutti i giorni è festa!

Caterina replicò vivacemente: e la vecchia minacciò di darle uno schiaffo. Allora Adone, per rappacificarle, si mise a scherzare e disse che sarebbe venuto a prender Caterina di nascosto, quando la nonna dormiva.

— Io dormo con gli occhi aperti, viscere! - si vantò la nonna. - Se fai del male me ne accorgo; se fai del bene me ne accorgo lo stesso. La mia anima ti gira intorno come lo spirito folletto!

— Dio, che paura! - egli disse, ridendo. - Ah, è per questo che l'altra sera, mentre schiacciavo una formica, ho sentito un soffio intorno a me! Eravate voi?

— Anche le formiche devono vivere! - ella sentenziò, sollevando il bastone. - E se facciamo del male c'è davvero uno spirito folletto che ci gira attorno. La nostra coscienza, viscere; proprio la nostra bella coscienza!

E si levò il cappello, come per salutare questo spirito invisibile.


***

Seduti sotto il pergolato i due amanti continuavano a ridere e chiacchierare: a momenti abbassavano la voce e ridevano, burlandosi della vantata perspicacia della nonna. Adone giunse a proporre a Caterina di andar davvero a teatro, quando la vecchia dormiva.

— Se tu verrai cominceremo la recita più tardi. Ma sì, vieni, carina! Sarebbe così bello! - egli supplicò, vinto da una smania di cose avventurose. - Verrò a prenderti, poi ti ricondurrò!

Ma Caterina non si prestò all'avventura.

La vecchia sedette sullo scalino e si mise a fumare: e accorgendosi che i due giovani si stringevano e bisbigliavano troppo, impose a Caterina di andar a rimettere in ordine le stoviglie, cosa che di solito, quando c'era Adone, eseguiva lei.

Caterina brontolò, ma obbedì. Andò in cucina, ma cominciò a sbatter le sedie e a lavorare con dispetto: e la vecchia di tanto in tanto sputava e le rivolgeva qualche parola ingiuriosa.

Adone, sotto il pergolato, col viso rivolto al viso della luna, ascoltava il battibecco delle due donne e, benchè fosse abituato ai modi rozzi della vecchia, s'indispettiva contro di lei ed un po' anche contro Caterina.

— Ma taci! - gridò alfine.

Caterina tacque: anche la vecchia si calmò: e non s'udi, nel silenzio lunare, che lo stridere melanconico dei grilli.

E d'improvviso, come per un fenomeno ottico, Adone rivide davanti a sè gli occhi dolci e voluttuosi di Maddalena. Egli respinse la visione, che non aveva desiderato, ma non potè respingere i pensieri e i ricordi che gl' invasero la mente, con assalto improvviso, come una torma di nemici in agguato.

Pensieri e ricordi, nella furia dell' invasione, si confondevano fra loro. Qualche ricordo però si distingueva, fra tutti: Davide… il giovinotto arrivato in bicicletta… gli ospiti del palazzo… Maddalena che attraversava il prato… le parole di Agostino il gemello.


***

Passarono alcuni giorni. Per quanto Adone fosse convinto che gli occhi son fatti per guardare, egli esitava prima di sollevare i suoi davanti a Maddalena, quando la incontrava nel prato della chiesa o la vedeva nella secolare carrozza della nonna.

Del resto, anche lei non lo guardava.

Pareva che ella non guardasse o non vedesse nessuno. La signora Maria doveva guardare e salutare per la nonna e per la nipote. Questa, quando usciva a piedi, camminava come in sogno, col suo passo lieve, coi suoi pensieri che, a giudicarne dal suo viso severo, quasi arcigno, dovevano essere gravi e superbi.

Una sera ella ritornò a « teatro ».

L'accompagnavano due signori e una signorina, ospiti della marchesa. Tutti e quattro, signorine e signori, erano vestiti di bianco, e il « teatro » parve assumere un altro aspetto, più luminoso, più gajo, quando il gruppo elegante e profumato apparve sull'ingresso.

Questa volta gli artisti furono più disinvolti. La fisarmonica intonò un ballabile relativamente moderno, « Sulle rive del Danubio », e tutti i volti si animarono di gioja. Soltando Adone recitava male, e pareva lo facesse per dispetto.

Alla recita, quella sera, assistevano la sua mamma, Eva e Reno, i cui occhi grigiastri e selvaggi non abbandonavano per un momento il viso del fratello. Anche la mamma lo guardava con ammirazione. Egli non aveva vergogna della sua famiglia: tutt'altro; ma la presenza della sua povera mamma e del fratello infelice gli ricordava la sua condizione e tutta la tristezza della sua esistenza umile.

Non volle neppure aggiungere il famoso verso della barba del diavolo. Pensava:

— È tempo di finirla! Perchè faccio questa parte da zingaro? Perchè devo far divertire questi « nobili spettatori »? Io m'infischio di loro.

E non guardava mai in platea. Quando Celeste apparve, coi magnifici capelli sciolti e il viso'truccato con vera arte, egli si propose di mostrarsi appassiònato con lei, ma subito vide che la figlia del tiranno dava nell'occhio ai « nobili spettatori ». Uno di questi, a sua volta, attirò immediatamente gli sguardi dell'attrice.

— Stia attenta: lasci stare quello stupido, tanto è ammogliato! - le susurrò Adone stizzito. Ma Celeste lo fissò un momento coi suoi occhi beffardi, e per tutta risposta guardò ancora il nobile spettatore! Ah, ella non si tormentava certo con vani scrupoli. A che servono gli scrupoli se non a far perdere il tempo?

E allora Adone, come eccitato dal buon esempio, guardò, quasi senza volerlo, la signorina Dargenti.

Ella teneva gli occhi bassi e pareva distratta. Ma appena egli la guardò, come attratti da un bagliore lontano, gli occhi lunghi e carezzevoli s'aprirono e il loro sguardo andò incontro allo sguardo che li cercava.

Adone credette di svenire, tanto lo sguardo di lei era penetrante. Egli chiuse gli occhi, li riapri, guardò altrove; ma ovunque, ovunque, vedeva gli occhi di lei. E come per isfuggire a quell'ossessione la guardò ancora, con la speranza e con la paura ch'ella non rispondesse più al suo sguardo. Ella rispondeva sempre.

***

Anche l'indomani egli incontrò Maddalena, che quasi tutti i giorni andava a visitare la vecchia sorella del prevosto. Sebbene ella fosse sola, egli non osò guardarla. No, egli che osava cercare il suo sguardo tra la folla, non poteva sollevare gli occhi davanti a lei nella solitudine del prato. Aveva paura: paura che ella lo guardasse: paura ch'ella non lo guardasse. Una specie di ossessione, fatta di rimorso, di paura, di desiderio, lo tormentava.

Egli osava credersi amato da Maddalena, ma non se ne rallegrava. Sentiva una grande pietà di lei. Pensava:

— Ma non lo sa che io sono promesso ad un'altra? Ma non lo sa? E del resto non lo sa che io non posso far all'amore con lei neanche per passatempo? Perchè non si rivolge agli ospiti della sua nonna? Civetti con quelli li. Io non sono della sua razza. Se è capricciosa lei, non sono capriccioso io.

Altre volte gli pareva che Maddalena lo guardasse appunto per amor di contrasti: perchè era povero, lontano da lei, d'una razza diversa dalla sua. Eh, le donne son tutte capricciose, specialmente all'età di Maddalena! Amano le cose romantiche, le avventure sentimentali. Altre volfe egli considerava Maddalena come una bambina: poi arrivava a crederla alquando degenerata, come tutti i Dargenti.

Ella lo guardava per semplice capriccio, per divertirsi. Questo pensiero lo umiliava: ma egli provava gusto a tormentarsi. Castigava così il suo principio d'infedeltà verso Caterina.

Così avvenne che egli cominciò a pensare con desiderio e con tristezza alla sua partenza. Tutto doveva finire. Le notti diventavano fresche, e qualche volta, quando egli tornava dal solito convegno, si trovava circondato da una nebbia vaga e chiara, attraverso i cui veli si scorgevano ancora le stelle. Vapori grigiastri ondulavano sul fiume e sui campi; ed egli talvolta s'immaginava di attraversare non l'argine, ma un ponte gettato su un immenso stagno circolare. E gli pareva che alle due estremità del ponte sorgessero due fantasmi, ognuno dei quali lo attirava a sè con forza magica. Egli andava dall'uno all'altro, come unà spola, tessendo la tela grigia della sua inutile giovinezza.

Un giorno Maddalena parti: e subito dopo egli sentì dire che ella s'era fidanzata con un ricco proprietario di Casalmaggiore: quello stesso biondo che gli aveva una volta destato una instintiva gelosia.

Egli non ne provò gioja nè dolore; era certo che Maddalena si sposava senz'amore, e sentiva pietà di lei; ma a questa pietà si univa talvolta un vago rancore.

Il presunto fidanzato non era nobile, e neppure bello: ma che volete, - pensava Adone, - i tempi son difficili, anche per le signorine nobili e ricche. Quante di loro non restano zitelle? Gli uomini della loro condizione preferiscono restare liberi, andarsene a Parigi, a Montecarlo, o in America, in cerca di miliardi; le ragazze nobili, devono spesso contentarsi di proprietarî senza titoli, e qualche volta sposano anche gli industriali venuti su dal nulla, o i professori e persino gl'impiegati!

— Del resto, - egli diceva a sè stesso, - questi qui non fanno poi un buon affare: diventano quasi schiavi, e sono soggetti ai capricci delle loro spose! Ah, quel biondone che deve sposare Maddalena crede, di fare un bell'acquisto? Se lo tenga prezioso, allora, quell'oggettino di lusso: se ne accorgerà poi che bell'acquisto ha fatto! Ella non lo amerà, egli è troppo grasso e rosso per lei: ella ama i giovani di vent'anni, fini e sottili come lei; e d'altronde come si può abbracciare con amore un uomo grasso? Povera Maddalena! povera bambina! Il matrimonio dev'essere combinato dalla nonna, da quella vecchia alla e cieca come un palo, che a ottant'anni pretende di camminare e di vestirsi come una fanciulla. Povera Maddalena! Maddalena, cara…

Una voce saliva così, fra la nebbia; una voce lontana e lamentosa. Egli l'ascoltava, e accorgendosi che la voce saliva dal suo cuore ricominciava a darsi dello stupido, del melenso, persino del degenerato!

— Sono come un bambino di dieci anni! Perchè ella mi ha guardato due o tre volte son diventato uno sciocco! E non può darsi che ella sia miope e mi abbia guardato senza accorgersene? Ed io, stupido, mi aggiravo intorno al parco come quando credevo che là dentro esistessero cose fantastiche! Come l'uomo è ancora bestia! Perchè una donna lo guarda egli ridiventa subito bambino e dimentica i suoi doveri, i suoi principî. E poi pretendiamo di riformare il mondo, la società! Noi; noi che non sappiamo vivere se non attaccati alle gonnelle delle donne! Ma riformiamoci noi, prima; stacchiamo le nostre radici dalla terra putrida, leviamoci la nostra pelle di bestia!

Ma accorgendosi che si sdegnava sul serio sorrideva di sè stesso. Ricordava ch'egli non aveva mai preteso d'essere un riformatore, e tanto meno uno scorticatore d'uomini! Egli s'era sempre contentato di sognare un mondo nuovo, le cui leggi fossero la giustizia e l'amore: ed ecco, egli ora diventava quasi feroce perchè una fanciulla ricca lo aveva appunto guardato con amore!


***

Un giorno, all'antivigilia della sua partenza, dopo essere stato dalla sua mamma, dalla quale si recava spesso, egli andò a Casale e trovò sola in casa la vecchia Suppèi.

— Dov'è Caterina? Perchè è uscita? Perchè non mi ha aspettato?

— Il libro del perchè non è ancora scritto! - ella rispose, coi suoi soliti modi sgarbati. - Andiamo su, piuttosto, in camera: voglio farti vedere una bella cosa.

Egli la seguì nella vasta camera, sulla cui trave, sopra la finestruola, si vedevano parecchi nidi di rondine che sembravano escrescenze del legno grigiastro.

La vecchia aprì il cassettone e cominciò a frugarvi dentro, borbottando. Una lieve tosse rantolosa le usciva con un suono stridente dalla gola, assieme con le parole sconnesse. Da qualche giorno ella si lamentava, ricordando d'aver sofferto una bronchite, dieci anni prima; credeva di provarne di nuovo i sintomi.

— Ho combattuto col nemico, allora! Ma lui è rimasto qui nascosto: lo senti, viscere? (e si battè lievemente sul petto il pomo del bastone). È venuta la mia volta, ora! Un bel momento anche la Suppèi deve cadere, col suo cappello, il suo bastone, la sua pipa, come un burattino morto! Arriva l'ora per tutti, caro: anche per l'arciprete: anche per i bimbi che ancora devono nascere! E finite le storie! Che rimane di noi, allora? Le buone opere. Ora dunque lu, prima di partire, devi farmi un piacere. Devi scrivere a mio figlio Giorgio. Caterina non ha voluto scrivergli. Ella dice: « Perchè volete annunziargli la vostra morte prima che sia avvenuta? » E l'arciprete, dicono, non si è fatto scriver la lapide essendo ancor vivo?

— Lasciate queste brutte idee, - esclamo Adone. - Voi vivrete più a lungo di noi, nonna! Dov'è questa bella cosa che volevate farmi vedere?

— Ora, ora, - ella riprese, aprendo e chiudendo i cassetti, dai quali esalava un forte odor di tabacco. - Tu vuoi accompagnar Caterina a spasso: ora ti domando: l'accompagnerai poi sempre? L'uomo, vedi, spesso è più duro d'un pezzo di legno. Il bastone accompagna sempre chi ne ha bisogno, ma l'uomo… invece… l'uomo cambia d'idea come di vestito! (E guardò ancora la giacca stretta e lunga del fidanzato).

— Ma che idee avete oggi, nonna! - egli disse, avvicinandosi alla finestra per spiare il ritorno di Caterina. - Stiamo allegri, invece! Ora ripartiamo, quindi ritorneremo: poi, avremo il posto, e ci sposeremo e non brontoleremo più!

— Potremmo sposarci lo stesso, viscere! - disse la vecchia, frugando sempre nel cassettone. - Il posto verrà!

Egli si volse: ella lo chiamò con un cenno del capo e gli fece vedere una scatolina con entro parecchie monete d'oro. Egli provò una strana impressione, una specie di vertigine, come quando si ricorda all'improvviso un fatto lontano, indistinto, quasi anteriore alla nostra vita mortale. Una sensazione vagamente simile a questa gliel'avevano destata anche gli occhi di Maddalena Dargenti, che ricordavano gli occhi della figlia del cordaio.

Così le monete d'oro della Suppèi gli ricordarono all'improvviso il sacchettino di marenghi, il viaggio a Viadana sotto il mantello dello zio. Egli si rivide bambino, ricordò mille cose dimenticate; e ascoltò come trasognato il discorso della vecchia.

— Sono di Caterina, sai! Lavoro suo. È una formica, sai: lavora, lavora e s'è fatto il suo gruzzolo. Da bambina era cattiva: io l'ho raccolta come si raccoglie l'osso, lo straccio, l'oggetto sporco: ho conosciuto quello che valeva, e batti oggi e lava domani, l'ho pulita come il panno con la lisciva. Eccolo qui, il suo gruzzolo lo le dissi: « Va dalla Pirloccina e pregala di cambiarti in monete d'oro i tuoi bigliettini. Così ella vedrà che non sei una mendicante ». E glieli ha cambiati. Ora, viscere, poichè tua zia non vuole aiutarti, prenditi questa scatolina. Prendila: e che non puoi muovere le mani? Caterina non avrà pace se tu non farai questo!

Egli guardava, e non sapeva se doveva ridere o piangere. La vecchia tossiva e guardava fisso le monete; ed egli capiva la diffidenza, la generosità, l'ingenuità di lei. Che risponderle?

— Ne riparleremo, nonna!

Ella richiuse la scatolina, e lo afferrò per il braccio, fissandolo coi suoi occhietti celesti venati di rosso.

— Non rifiutare! - gl'impose. - Se rifiuti dài un grande dolore a Caterina. Tu credi di conoscer la ragazza, ma t'inganni. Ella è forte di persona, ma è molto sensibile. Ricordati quello che ti dice la vecchia! I vecchi i più rimbambiti ne sanno molto più dei giovani, anche se questi sono maestri!

***

Nonostante questa prova della bontà umana, Adone rimase triste fino al momento della partenza. L'autunno rende sentimentali anche i giovani di vent'anni. La nebbia s'addensa sull'argine: gli alberi e i cespugli appaiono gialli tra i veli ondulanti dei vapori del tramonto, come pallide fiamme lontane. Cadono le foglie; e diventano nere come l'oro falso. Anche le illusioni umane cadono così: sembravano d'oro puro ed invece erano di metallo ordinario. Illusioni, speranze, sogni, tutto cade, come le foglie dall'albero. Che altro è l'uomo se non un albero? Nasce, spesso a caso, spesso in terreno ingrato, si copre di foglie, fiorisce, dà frutti secondo è coltivato. Ma spesso rimane selvatico; nessuno lo coltiva: i suoi fiori son belli, ma i frutti, se li dà, sono acerbi. E la primavera di queste pianticelle selvatiche è quasi sempre una sola: cadute una volta le foglie non rinascono più! Così pensava Adone, mentre dalla porticina del « teatro » guardava i pioppi avvolti di nebbia, e aspettava Jusfin per riconsegnargli le chiavi della scuderia. Inutile avvertire che egli si paragonava alla pianticella selvatica!

L'ex-cacciatore non tardò a comparire, nero e alto fra la nebbia. Ecco un albero che conservava le sue foglie nonostante l'autunno inoltrato!

— Guardate pure; non c'è alcun guasto!

Jusfin esaminava specialmente le serrature del portone e della porta. Adone gli consegnò le chiavi.

— Avete veduto, vecchio balordo? Avevate tante difficoltà a darmele; e brontolavate sempre: « non riuscirete a far nulla, e non riuscirete a far nulla! » Invece? E invece ci hanno messo anche sul giornale!

— Anch'io, se voglio, vado sul giornale! - disse il vecchio beffardo, facendo atto di stendere per terra un foglio e di metterci i piedi sopra.

Ma le considerazioni dei giovani di venti anni sono quasi sempre errate: e non è vero che l'albero selvativo fiorisce una volta sola.

Un altro anno era passato, col suo variopinto strascico di sogni, di noje, di speranze. Di ritorno dal suo primo anno d'Università pedagogica Adone, percorrendo l'argine da Casalmaggiore a Casalino, pensava:

— Anche durante queste vacanze voglio divertirmi. Darò qualche lezione, ma tempo me ne avanza sempre. Andrò a pescare; farò le recite. Così avrò l'utile e il dolce!

Appena arrivato cercò la zia, che stava male. Carissima lo segui nella camera della Tognina, ed egli provò un senso di pietà e di ripugnanza nel veder la malata. I dolori artritici, mai curati, la corrodevano come l'umido corrode la pietra. Ella era diventata ancor più piccola, nera, rattrappita; sperduta come in un deserto, nel suo gran letto medioevale, pareva più che mai una mummia tirata fuori dal suo sacco preistorico.

— Zia! zia! - egli chiamò, curvandosi.

Ella lo guardò, con gli occhi pieni di angoscia: non lo aveva mai guardato così, ed egli ebbe l'impressione ch'ella volesse dirgli qualche cosa. Ma Carissima stava attenta, curva sull'altra sponda del letto, e d'altronde egli non aveva voglia di starsene a lungo in quella camera calda, ove si sentiva uno sgradevole odore di canfora e di conserve.

Tognina disse con voce rauca:

— Il male arriva qui, al cuore: è vicino. Le porte sono aperte.

Le porte di che? Dell'eternità?

Egli non aveva voglia di pensare all'eternità.

— Fate, fate venire il medico, - disse, con rimprovero. - Chi non guarisce da questi mali, oramai?

E se ne andò nella sua cameraccia piena di polvere, convinto, come tutte le persone sane, che anche i malati più gravi possono guarire.

Persino la vecchia Suppèi era guarita: aveva vinto il nemico, non tossiva più, non si ricordava più della morte. Egli la trovò che litigava con la madre del povero Marco.

— Io son povera, ma la mia coscienza è pulita come la tela lavata! Io non ho tinte per tingermi l'anima! - gridava la vecchia, con la sua grossa voce, battendo i piedi per terra come una cavalla. Ma appena vide il giovane si calmò.

Al di là della siepe la moglie del tintore, ancora rossa e bella, borbottava qualche parola: vide anche lei Adone, lo fissò, lo riconobbe, ma non si commosse e neppure lo salutò.

Caterina apparve sulla porta: Adone gridò:

— Come sei grassa e alta! A momenti non arrivo più ad abbracciarti!

— Ti abbraccierò io! - ella rispose pronta.

E ricominciarono le risate, le chiacchiere, i racconti.

— Il tuo Davide s'è sposato, ed ha condotto la sposa a Casalino, per otto giorni, in primavera. Dicevi che era bella! È brutta: è nera, con una faccia lunga e due occhi cattivi. La Müton domanda ancora a tutti se son più belli i vestiti della sua sposa o quelli della marchesa! Anche Scipione l'ebreo s'è sposato: sai con chi? Con Regina la figlia di Belluss del casolare. Per quella lì, però, non s'è fatto cristiano! Ma lei lo avrebbe preso anche se fosse stato un turco!

— Si vede che egli aveva una gran passione per te!

— Eh, s'io volessi! Egli pianterebbe la sposa! - ella si vantò, calma.

Ella sembrava felice, d'una felicità serena, ma qualche volta fissava Adone con uno sguardo inquieto. Anche lei pareva volesse dirgli qualche cosa d'importante.

Egli la guardava con desiderio: a momenti però i suoi occhi voluttuosi si socchiudevano, tornavano ad essere gli occhi birichini del piccolo Adone.

— Indovina cosa ti ho portato!

— Eh, te lo avevo scritto! Volevo un altro ventaglio: quello, sai, s'è rotto!

Egli finse d'essersene dimenticato. Finalmente le diede una scatolina che ella cominciò a slegare rapidamente.

— Venite, venite a vedere, nonna!

La vecchia s'avvicinò, sdegnosa, certa che egli aveva sprecato ancora i soldi per comprare una minuteria.

— Che è questo? - gridò Caterina, guardando Adone con rimprovero e meraviglia.

E la vecchia si curvò e dentro la scatola vide i dieci marenghi che Caterina aveva consegnato al fidanzato prima della sua partenza.

Egli non li aveva neppure toccati: era vissuto col poco che la zia gli mandava di nascosto, e aveva pagato le tasse coi guadagni delle « recite in persona ».

— Nonna? - interrogò Caterina, guardando la vecchia e indicandole i marenghi.

— Ebbene, viscere, accetta! Glieli regalerai ancora quando ripartirà!

— Ed egli me li regalerà quando tornerà! - ella disse con ironia. - Era meglio il ventaglio! Denari ne avremo molti, se tu vorrai, - aggiunse guardando Adone con aria di mistero.

— Sì, ciappali per la cua! - egli rispose.

***

Caterina possedeva un segreto. Ma aspettava il momento opportuno per rivelarlo. Dopo i primi baci, nel silenzio della cameretta, ella disse cautamente, quasi paurosa di destare una troppa viva emozione nel suo amante:

— Devo dirti una cosa: molto bella! Sì, molto bella, - ripetè, poichè Adone le stringeva il braccio, interrogandola. - Senti; tu… tu-sei-ricco!

— Come? Come? È la seconda volta che mi dici questo! Perchè? - egli disse, curioso e incerto. E arrossi, nell'ombra: ricordi confusi, vaghi rimorsi gli attraversarono l'anima. Ma Caterina riprese!

— Senti bene. L'altro giorno Dirce, la moglie di Agostino, mi ha mandato a chiamare, segretamente: andai. La trovai scalza, coi capelli arruffati: pareva una furia. La sua casa era tutta in disordine: i bambini piangevano. Ella cominciò a lamentarsi con me contro la Tognina, contro Pirloccia e Carissima. Poi mi disse: « È tempo che parli io, poichè Agostino è uno stupido e non sa fare i proprî interessi. Volevo aspettare Adone, ma ho paura che egli non mi dia retta: anche lui è troppo buono, è della famiglia dei tamerlucchi: Allora ho pensato di rivolgermi a te, Caterina: tu sei una ragazza di buona volontà, non hai paura e saprai fare i tuoi interessi ». Poi mi disse che la Tognina ha fatto testamento. È vero che sa scrivere?

— Sì, è vero. Eppoi?

— Eppoi, ha fatto testamento, ma davanti al notajo. Lei lo ha solo firmato. Ha lasciato usufruttuario di tutti i suoi beni il Pirloccia: morto lui, la roba va divisa fra Marco, Fiorina e Fiorello. Ad Agostino ed a te niente. Ora, aggiunse la Dirce, i Pirloccia sorvegliano la Tognina come una prigioniera. Hanno paura che ella parli con te …. Ma questo è niente, senti ancora. Io dissi: « Ma, cara mia, non abbiamo bisogno della roba di Tognina, noi! Adone non la molesterà ». Allora Dirce mi fece giurare di non confidare a nessuno, tranne che a te, un segreto ch'ella voleva rivelarmi. E mi disse che tuo zio Giovanni aveva fatto testamento in tuo favore, lasciandoti crede universale, con l'obbligo di passare un tanto alla Tognina finchè ella viveva e di tenerla sempre con te. Ma Pirloccia, sapendo che la sorella conservava da molti anni un testamento di Giovanni, d'intesa con lei stracciò quello in tuo favore e che era l'ultimo. Dirce assicura che Agostino ha le prove di tutto ed è pronto a dartele; e aggiunse che molti sanno questa storia, anche tua madre…

Adone ascoltava, stupito, e taceva.

— Che farai, ora? - ella domandò.

— Dirce è cattiva, - egli disse alfine. - È maligna! Può aver inventato questa storia, per vendicarsi, se è vero che Tognina ha fatto testamento in favore degli altri.

Allora Caterina, che aveva sperato di sentirlo parlare in altro modo, s'inquietò.

— Senti una cosa! Tu non credi mai a nulla! E se fosse vero, invece? Tu devi parlare con Tognina, tu devi dirle: ma non vedete che state per morire, ma…

Egli la interruppe:

— Vedrò io quello che devo fare!

— Tu sei buono, tu! - ella riprese, eccitata. - Dirce ha ragione…

— Caterina! - egli pregò. - Se ti domando un piacere me lo fai? Sì, sì, vero? Promettimi che non parlerai con nessuno di quest'affare, e che farai quanto ti dirò io. Promettimelo! Tu sai tenere un segreto, quando vuoi!

Queste parole la lusingarono.

— Sì, sì, - ella disse, baciandolo. - Tutto quello che vuoi. Non credere che io voglia la roba della Tognina! Ma è per te, vedi; solo per te… Ricordati come ti hanno tormentato: e tu… tu eri il padrone!

Egli trasali, come se davvero la voce di Caterina - come egli qualche volta pensava, - fosse la voce della sua propria coscienza.

Gli parve di sognare, nell'oscurità della cameretta ove un giorno ella aveva nascosto l'abito di Marco. Mille ricordi gli passarono in mente, da prima confusi, poi sempre più distinti, allacciantisi gli uni con gli altri come gli anelli d'una lunga catena. E il ricordo che più lo colpi fu l'impressione strana provala nel vedere le monetine d'oro che la zia aveva cambiato a Caterina: per la stessa forza mnemonica che lo aveva avvertito che quelle monetine « eran sue » mille altri ricordi ora gli risalivano dalla profondità dell'incosciente, facendogli provare un malessere quasi fisico, uno stupore, un dolore sottile.

Mentre Caterina gli stringeva le mani fredde, umide di sudore, egli parlò a sbalzi, come in sogno.

— Dev'esser tutto. vero! - disse. - Ricordo tutto, ora! A te lo posso dire; e tu sai tenere i segreti. Mio zio mi diceva sempre: tutto è tuo; - ed anche la mia mamma doveva sapere qualche cosa. Il Pirloccia stava in camera dello zio, quando questo è morto. Ma io avevo paura, e non diedi ascolto ai consigli della mia mamma. Poi anche lei dovette aver paura; e non parlò più. E Pirloccia diventò il padrone. Sì, ebbi sempre l'impressione che la zia avesse un rimorso; anche oggi mi ha guardato in modo strano. E Davide parlò in segreto con lei, quando non volevano lasciarmi proseguir gli studi. Anche lui dunque sapeva!… Anche lui! La giustizia, l'onestà, la generosità non esistono più! Più nulla esiste! E questo che mi addolora, non altro. Anche lui, anche lui! Tutti sono stati, ingiusti con me…

— Io però ti ho voluto sempre bene, - disse Caterina, stringendogli la mano.

— Tu sì; tu sola! - egli disse, passandosi la mano di lei sugli occhi.

— Dio, Dio! Che fai, Adone? Ma che fai, caro? Piangi? Ma perchè?…

Egli non rispose. Che poteva dirle? Come spiegarle il senso di buio e di vuoto che lo vinceva? Come spiegarle perchè, nel sapere che poteva diventar ricco, egli invece di rallegrarsene piangeva?


***

Egli rifece a lunghi passi la via tante volte percorsa, senza accorgersi che nella notte luminosa il grande paesaggio dormiva alla luna e pareva sorridere anche nel sonno. Egli non badava che al suo mondo interiore, e gli sembrava di fare un cupo sogno. Soffriva come la volta in cui Pirloccia l'aveva battuto mentre dormiva; e come allora avrebbe voluto urlare invocando dalle profondità ignote della vita l'apparizione di un fantasma, d'una luce, d'un segno qualsiasi che gl'indicasse la via verso un luogo di giustizia. La giustizia non esisteva più: egli aveva pianto per questo. Ma a misura che si avvicinava a casa gli pareva di svegliarsi dal suo brutto sogno e pensava:

— Forse tutto è falso. Parlerò con la zia, le dirò: Non m'importa della roba, zia; non voglio nulla. Ma ditemi che tutta questa storia è falsa; ditemi che non avete ingannato un morto; che al mondo non esiste tanta malvagità. Ditemi che Davide non ha partecipato a questo delitto. Non vi domando altro, zia!

Rientrò, si fermò un momento nell'atrio, rievocando i ricordi di una notte lontana.

Il lumino ardeva davanti alla nicchia di San Simone Giuda; nulla era mutato intorno. Egli rivide le figure che si agitavano nell'atrio e nel cortile, taciturne e fosche come le figure d'un sogno lugubre: ricordò l'ometto nero che s'era installato accanto al letto del moribondo come uno gnomo funebre venuto dal mondo della morte per trafugare lo spirito del gigante. E ricominciò a dubitare.

Salì cauto la scaletta; gli pareva di rivivere in quella notte lontana. Arrivato al pianerottolo trasalì. Marco il gemello stava coricato su un materasso buttato per terra, davanti all'uscio della camera di Tognina. Mentre Adone passava egli si svegliò, sollevò la testa e disse con voce assonnata:

— La zia sta male…

Adone non rispose; ma pensò che il racconto di Caterina doveva esser vero.

I Pirloccia guardavano la zia come una prigioniera, senza dubbio per paura ch'ella-si pentisse del mal fatto.

***

Egli dormì poco, quella notte; riandò ancora, col pensiero, negli anni passati, ricordò ogni cosa. Si rivide, bambino, seduto sulla piccola duna dell'isoletta, abbandonato da tutti, circondato dal mistero della solitudine. Sì, anche le lepri del bosco, anche le chioccioline dei cespugli, erano state meno sole di lui, nella vita. Un uomo gli era apparso, quella sera, e gli era sembrato un essere di giustizia, un protettore; ombra, illusione infantile! Nulla è vero nella vita; tutto è ombra, apparizione; e gli uomini rassomigliano tutti a quel bambino col fagotto, che aveva la smania di fuggire, sognando di arrivare in un luogo d'amore e di pace, e non riusciva che a giungere in una isolotta deserta o in un crocevia dove incontrava altri miserabili, altri fuggitivi come lui.

Egli si alzò all alba, ma non tentò oltre di arrivare fino alla zia. Gli ripugnava l'idea di dover spiare, entrare da lei come da un prigioniero al quale si vuol strappare con astuzia un segreto.

D'altronde egli ora aveva la certezza ch'ella avrebbe mentito. Scese in cucina e trovò la zia Elena che accendeva il fuoco. Vedendolo pallido e con le palpebre gonfie ella si turbò e gli domandò cosa aveva.

— Ma niente! Ho bevuto troppo, ieri notte! Andrò a passeggiare, ora. Chi c'è nel campo? Agostino?

— Agostino non lavora più qui, non lo sai?

Egli frugava di qua e di là, nella cucina, come da bambino.

— Non mi scrivono mai niente! - disse.

— Sì; Agostino è in rotta con suo padre, e questa volta sul serio. Non viene più a trovarci. E l'altra notizia la sai?

— Che c'è ancora?

— Fiorello pare che voglia proprio sposare tua sorella Eva. Anche Fiorina è ben cotta per Francesco, veh!

— Neppure questo, sapevo! - egli disse. - Ah, ma ora vado subito dalla mamma.

E s'avviò, come un tempo, verso la casetta dei suoi poveri fratelli; sì, come un tempo, quando egli correva dalla mamma per chiederle ragione dei torti che tutti gli facevano.

La mamma attingeva l'acqua dal pozzo; era sempre bella, fresca non più scalza e con un giubbettino nuovo. Sì, giorni migliori arrivavano anche per lei; e giorni più belli s'avvicinavano. Ella era stata fresca e serena anche nei giorni della miseria: perchè non doveva esserlo ora?

— Come stai bene! - disse, baciando Adone, senza abbracciarlo per non sfiorarlo con le man bagnate e sporche. - Sei arrivato ieri?

— Sì, ieri. Volevo venir subito, ma sono andato da Caterina e ho fatto tardi.

La mamma non protestò; non era gelosa lei; non si è gelosi quando non si ama troppo.

— Andiamo in cucina, - ella disse, precedendolo con la secchia in mano. - I ragazzi son già via. Anche l'Eva è andata a comprare il latte. Reno lavora: ha comprato una piccola macchina per far la conserva dei pomidoro, e gira per i paesi. Ha tanto giudizio, quel ragazzo. E anche talento, veh! La macchina non andava molto bene; lui l'ha aggiustata, l'ha perfezionata, ha messo un imbuto più capace, ed ora va a meraviglia. È proprio bravo, tuo fratello! E dice che andrà in America.

— Son contento! - egli disse, entrando in cucina. Le pareti erano tinte di rosa e di celeste; in un bicchiere, sulla tavola di noce, odoravano alcuni gigli palustri, gialli e lucenti come l'oro.

Adone guardò le pareti, guardò i fiori, e gli parve d'essere in un luogo sconosciuto. Che era venuto a fare? Che voleva? Era sua madre quella donna che s'avanzava con la secchia in mano, e parlava dei suoi figliuoli industri? Dov erano questi fratelli? Pensavano a lui? No, certo: Francesco pensava a Fiorina. Eva pensava a Fiorello: i suoi fratelli facevano lega coi suoi nemici. Ed egli era un estraneo, forse un nemico, per loro: egli che aveva sognato d'essere il loro protettore. Ah, essi non avevano più bisogno di raccattare le sue briciole: essi avevano messo le ali e volavano più forte di lui. Anche sulle spalle del rachitico erano spuntate due alucce che lo avrebbero forse portato nei paesi della fortuna.

E Adone non sapeva se rallegrarsi o rattristarsi. Che era venuto a fare? Ah, non ricordava più: ascoltava le chiacchiere della mamma, ma sentiva una vaga inquietudine, come quando si ascolta una persona che ha intenzione d'ingannarci.

— Mamma, - egli chiese a un tratto, - perchè non m'avete mai scritto che Eva e Francesco amoreggiano coi figli del Pirloccia? Eva sa scrivere, mi pare! Sono un nemico, io?

La mamma gli volse le spalle, intenta ad attaccare il pajuolino al gancio del camino. Certo, solo per questo; non per sfuggire allo sguardo di lui.

— Aspettavamo il tuo ritorno: sulla carta non si può dire tutto quello che si vuole.

Egli prese un fiore dal bicchiere e lo guardò a lungo, con uno sguardo pensoso e incosciente di bimbo. Ed ebbe una voglia istintiva di fuggire, di andarsene ancora fra le macchie della riva o nei sentieruolini verdi, come faceva da piccolo, quando si buttava per terra e aveva l'impressione che l'erba fosse la sua vera madre e i fiori i suoi veri fratellini.

— Mamma, - disse, con voce mutata, - vorrei sapere una cosa sola. Ma ditemi la verità. È vero che Davide del zolfanellajo sapeva che lo zio Giovanni aveva fatto testamento in mio favore?

La donna si sollevò, si volse, vivacemente, rossa in viso. Adone le si avvicinò e le afferrò una mano ancora umida.

— Mamma, vi giuro sulla memoria del babbo, non dirò niente, non farò niente! Se Fiorina e Fiorello si sposano con Francesco e con l'Eva è come se la roba tornasse a me. Sono contento lo stesso. Non sono cattivo, io, lo sapete! Vi ho dato mai nessun dispiacere, io? Mai, vero? Non voglio cominciare ora! Ma ditemi solo una cosa… ditemi se è vero… se è vero che voi sapevate tutto… e se è vero che anche Davide sapeva tutto. Fatemi questo piacere, mamma! Fatemelo! Non vi ho domandato mai niente, mamma! Fate questo, per me!

Ella ritirò dolcemente la sua dalla mano del figlio: se l'asciugò col grembiale, guardò il grembiale, s'avvicinò alla porta. Adone le andò dietro.

— Io non so niente, di sicuro, - ella disse, quasi sottovoce. - Chi sapeva tutto era il bifolco. Egli era un uomo religioso e forse non diceva bugie. Egli dunque diceva che un giorno, una domenica, Giovanni mandò a chiamare Davide, per fargli vedere il testamento e domandargli se andava bene. Davide andò subito. La Tognina non era in casa. Giovanni mandò il bifolco in cantina, ordinandogli di scegliere una bottiglia di vino vecchio: il bifolco invece, pieno di curiosità, si fermò dietro l'uscio e stette a spiare. « Giovanni, egli diceva, spiegò una carta e la fece leggere a Davide. Questo disse: Va tutto bene, ma bisogna nominare il tutore del ragazzo. E Giovanni rispose: Cat! Non voglio morire subito! Adone sarà grande, speriamo, quando crediterà i miei beni ». Il bifolco raccontava così. Anche prima di morire, cinque anni or sono, egli mi assicurava che tutto era vero. Egli diceva che Giovanni non voleva lasciar nulla a Tognina perchè questa si sarebbe fatto mangiar tutto dal fratello. Che potevamo far noi, dimmi? Che dovevamo fare? Ricordi? Pirloccia voleva mettermi in prigione. Chi sa tutto, anche, è Jusfin. Egli era presente quando suo fratello raccontava il fatto. Va da Jusfin, Adone…

— Basta, basta! - egli disse.

E non andò da Jusfin. A che fare? Gli bastava quello che aveva sentito.


***

Nei giorni seguenti egli visse triste, come oppresso da un male fisico. Il caldo era soffocante: il cielo, grigiastro all'orizzonte, pareva una vôlta di metallo, e l'aria polverosa diventava irrespirabile. Adone provava un senso d'incubo: gli pareva d'essere improvvisamente invecchiato, vicino a morire, o a diventare cieco e paralitico, il che è peggio ancora!

E un giorno non potè resistere oltre: si rivolse a Davide come il malato al medico che detesta e nel quale tuttavia spera ancora. E in una lunga lettera gli raccontò tutta la sua storia.

« Ma non posso credere a tutto questo - aggiunse. - Non è vero niente. Mi dica lei che non è vero niente: mi dica una sola parola, e tornerò ad essere calmo, ed a guardare con fede nella vita. Ella mi conosce, vero? Sono un bambino; sono un vecchio. Ho tanto sofferto, sempre, ma ho accettato il dolore e l'ingiustizia come una condanna della sorte, ed ho afferrato quasi con gioia questi due anelli che mi congiungevano ad altri condannati, nella catena della vita. Ed ho sempre pensato che in questa catena di dolore sta appunto la nostra forza, di noi tutti umili, di noi tutti ancora schiavi che edifichiamo l'avvenire. Sì, io sono contento di aver sofferto, di aver conosciuto l'abbandono, l'ingiustizia, la povertà: e qualche volta ho allontanato da me la coppa del piacere, evitando di bere anche quando ero assetato, come i cavalieri delle fole, che non bevevano alle fontane incantate per non dimenticare chi erano e ciò che dovevano fare. Io voglio stare con coloro che soffrono; con tutti coloro che vengono dall'ombra del passato e vanno verso la luce dell'avvenire.

« Ma perchè io possa credere ancora a quest'avvenire, e camminare coi miei fratelli, bisogna che io creda in essi. Ella lo ha detto tante volte: la luce è dentro di noi, come il fuoco è dentro il ramo contorto e secco, come lo splendore è dentro la nuvola cupa ».

***

Davide non rispose.

Allora Adone cominciò a disperarsi davvero. Una notte la zia lo senti attraversare il pianerottolo e lo chiamò con voce lamentosa.

— Che volete? - egli domandò dall'uscio, senza avanzare.

Il gemello balzò su e s'affacciò anch'egli all'uscio, domandando con premura:

— Vi sentite male, zia?

— Sei stato da Caterina? - ella domandò al nipote. - Sì? Perchè non le dici che venga a pranzo, domenica?

— Glielo dirò, - egli rispose freddamente.

E se ne andò: e ancora una volta ebbe l'impressione che la zia volesse dirgli qualche cosa.

Un giorno, poi, s'accorse che il figlio maggiore di Carissima lo seguiva da lontano, forse spiando se egli andava in casa di Agostino, la cui moglie lo perseguitava incitandolo a tormentare la zia.

Egli taceva, sdegnoso, evitando l'albino e la moglie rabbiosa: e le false attenzioni di Carissima e dei fratelli Pirloccia riuscivano qualche volta ad irritarlo.

Un giorno la sarta gli propose di andar a studiare e a dormire nella camera dello zio Giovanni, ora che Tognina non poteva più accorgersene.

Ma egli rifiutò: quella grande camera fresca e solitaria era per lui quasi sacra: il letto sul quale gli erano stati rivelati i misteri della morte e della vita gli sembrava un altare.

E continuò a dormire nel suo camerone. Pirloccia aveva già invaso anche quell'angolo remoto della casa, deponendo dietro l'uscio un mucchio di manichi di scope. Adone non protestò: più che mai gli pareva d'essere un uccello di passaggio, in quella casa che era la sua. E desiderava andarsene. Dove, non sapeva. Anche l'idea di andarsene nella casetta di Caterina, e vivere assieme con la vecchia fumatrice e brontolona, gli ripugnava.

Egli sognava un luogo remoto, una casetta in mezzo a un'isola del Po: tornava a fantasticare, come da bambino; ma non ne provava gioia perchè si accorgeva che fantasticava! Tutto gli pareva illusione. Arrivò persino a credere di non amar più Caterina e di non esserne riamato. L'amore non esisteva: nulla più esisteva nel mondo: tutto era menzogna, ombra senza fine.

Egli ricordava certe sue impressioni d'infanzia, quando le più piccole cose gli destavano meraviglia e tutto gli sembrava grande e misterioso. Ricordava d'essersi una notte fermato davanti a un palo, che gli era parso un ponte fra la terra nera e il cielo luminoso. Le impressioni, nella vita, son così, egli pensava. Le cose grandiose? I punti di congiunzione fra la reallà e l'infinito? Pali fracidi pronti a cadere. E a che vivere allora? Per la prima volta in vita sua egli pensò con dolcezza alla morte. Sì, andarsene: andarsene lontano, verso una isola misteriosa, nella città sepolta sotto il fiume. A che vivere? Gli pareva che qualche cosa fosse già morta in lui, e che la parte di sè ancor viva soffrisse nel dover trascinare il peso della parte già morta. Un tempo egli aveva amato la vita come il bambino ama la madre, anche se ella non lo ama. Ah, ecco, avevano ucciso anche questo suo amore.

Fin verso la fine di luglio visse così, come paralizzato. La sera, quando si recava da Caterina, non rideva e non chiacchierava più. Se ella gli accennava all'affare del testamento egli s'irritava. Una sera parve svegliarsi dal suo letargo. In quel tempo Caterina tesseva stuoje di giunco per un negoziante di Casal Bellotto, che ogni tre o quattro giorni veniva a ritirarle. Un giorno egli arrivò accompagnato da un negoziante di cavalli della Croazia, un bell'uomo alto e rosso con due lunghissimi baffi dorati.

Il croato guardò Caterina, così forte e graziosa col suo fazzoletto nero e le gonne corte, e disse in cattivo italiano che desiderava « una serfa per tutti i mesi dell'inferno » perchè sua moglie, in Croazia, doveva partorire.

— Questo qui paga bene, - disse il negoziante di stuoje, battendo una mano sulle spalle del Croato.

— Sì, pene: dieci fiorini al mese, qualche regalo e il fiaggio pagato.

— Vengo io! - disse Caterina, scherzando.

La nonna sollevò minacciosa il bastone. Partiti i negozianti, le due donne si bisticciarono: e si bisticciavano ancora quando arrivò Adone.

Caterina, per dispetto, insisteva nel dire che voleva recarsi serva in Croazia.

— Non ho paura di viaggiare, io! Da bambina ho girato il mondo: perchè dovrei aver paura? Chi va a lavorare va a pregare!

— Taci! - egli gridò. E provò un tremito nerwoso. Ah, egli era stanco: stanco di tutte queste volgarità, di tutte queste miserie, che lo circondavano e lo infastidivano come i moscherini nel bosco. E quando fu solo con Caterina l'afferrò per le braccia, e strinse i denti, silenzioso: pareva volesse spezzare le braccia che lo avevano stretto, e spezzarsi le sue, in una convulsione di furore disperato.

Caterina si spaventò: invece di difendersi, cominciò a tremare fra le mani che la maltrattavano.

— Dio! Dio! Che hai? Di', di', che hai? - ella balbettò con terrore.

Egli allora cominciò a mormorare parole insensate.

— Ah, tu vuoi andare serva? Vuoi seguire uno sconosciuto?… La zingara è sempre zingara! E tu vuoi andartene perchè non mi ami, perchè io non son buono a darti le ricchezze che sogni! Siete tutti eguali, tutti: tutti! E vattene pure! Va… cammina! … Anch'io me ne andrò lontano, in un luogo ove la gente non è volgare, non è interessata; in un paese bello… molto più bello di questo! Va! Va, cammina! - ripetè, e la spinse verso l'uscio.

Vinto il suo primo stupore, Caterina lo afferò a sua volta per le braccia e lo scosse, come per svegliarlo dal suo sogno maligno.

— Torna in te! Tu vaneggi! Tu sogni!

Egli infatti parve svegliarsi. Come aveva fatto un'altra volta uscì fuori e sedette sullo scalino della porta. Ella gli si mise accanto, gli prese una mano e gli domandò:

— Che cosa ti ho fatto? Per uno scherzo mi maltratti così? Io so però quello che tu hai! Sei tu che sei stanco di me!

Egli non rispose: ella ripetè con dolore:

— Sì, sei stanco di me! Ah, lo so, il perchè!…

Ed egli sentì come un soffio gelato battergli li volto: guardò Caterina, nell'ombra, accostò il viso al viso di lei:

— Dimmi subito che cosa pensi.

— Niente!

— Caterina! Dimmi subito che cosa pensi o me ne vado via e non mi vedrai più!

Le strinse di nuovo il braccio. Allora Caterina levò il viso; guardò lontano, nella notte silenziosa.

— Ebbene, sì! Tu hai detto che io voglio la tua roba… la roba della tua zia… Ed io ti dico invece che sei tu che non mi vuoi più… perchè sono povera e ignorante… Come si può voler bene a una zingara? - ella disse con rancore, alzando la voce e dimenticando ogni prudenza. - La zingara è rimasta zingara! Ella non ha niente: è vestita male, ha i zoccoli ai piedi. E tu… tu ami le scarpette! Eh, puoi diventare ricco!

Egli ricordò, trasalì; lasciò il braccio di lei e si portò le mani al viso.

— È possibile tutto questo?… Che tu pensi questo? … - disse, scuotendo il capo, disperato. - Tu pensi questo? Vaneggi?

— Se vaneggi tu posso vaneggiare anch' io! - ella riprese, con crescente dispetto. - Io sono una zingara! Lo hai detto tu. E tu, chi sei? Pensaci bene. Quante volte mi hai detto ch'eravamo della stessa razza? Io non ho madre nè padre: ma tu ne hai? Ne hai, di'? Il padre tuo è stato il bastone del Pirloccia. Allora tu mi dicevi ch'eravamo fratellini: ora… ora che nessuno più ti maltratta… ora io son ridiventata zingara!

— Ma taci! - egli disse, balzando in piedi. - Taci o me ne vado!

— E vattene! Tanto un giorno o l'altro te n'andrai lo stesso! Però ti dico una cosa. Ti verrò dietro, sai! I morti ritornano! Quando meno te l'aspetterai mi vedrai vicino a te. Sarò la tua ombra! Vattene, ora!

— E meglio che me ne vada, sì; stanotte non si ragiona, - egli disse. E fece alcuni passi, ma poi si fermò, si volse, vide Caterina seduta ancora sullo scalino, col viso nascosto nel grembiale, e ritornò davanti a lei.

— Che fai? - le disse, curvandosi e levandole il grembiale dal viso. - Senti, per piacere, finiscila!

E sedete di nuovo accanto a lei; ma per oltre mezz'ora stettero così, vicini, silenziosi, senza litigare oltre, ma anche senza baciarsi, intenti ai fantasmi del proprio pensiero.

Passò il mese d' agosto: l'aria si rinfrescò, giunsero a Casalino gli ospiti che ogni anno, al tempo dell' uva, non mancano di onorare con la loro presenza l'alacre paese. Gli abitanti di Casalino sono arditi e intraprendenti. Essi vanno a Parigi, a Londra, in America. Molti sono fortunati. Anche le donne si fanno onore. La modista di lusso, che ogni autunno veniva a Casalino e alle sue clienti faceva credere di esser andata a Parigi « a prender la moda », quell' anno comprò una possessione di cento biolche di terra: ed era partita a piedi, senza un soldo, alla ventura. Meno fortunato fu un suo cugino, un albergatore stabilitosi a New York. Anch'egli, riuscito a farsi una discreta fortuna, era venuto in luglio a Casalino, ma al ritorno in America, era rimasto vittima del disastro del Sirio.

Da un mese, a Casalino, non si parlava d'altro. Anche Adone, steso sul suo lettuccio, nella cameraccia piena di zucche e di patate, leggeva e rileggeva con attenzione quasi morbosa i particolari del naufragio del Sirio.

Da qualche tempo in qua egli si compiaceva di letture tristi; sentiva come un bisogno di soffrire, di tormentarsi. Tornava a provare quel desolato senso di solitudine che lo aveva oppresso da bambino. Gli pareva di esser solo al mondo. Anche Caterina aveva dubitato di lui. Ella non lo conosceva: nessuno penetrava sino in fondo alla sua anima solitaria. Egli allora, come per distrarsi dalla sua solitudine, cercava la compagnia di altre creature lontane, malate come lui: e non si accorgeva che andava verso coloro che soffrivano, per confortarsi del suo dolore! E leggeva le notizie della rivoluzione russa, come immerso in un sogno di pietà e di terrore, senza più accorgersi che intorno a lui ferveva una vita di lavoro e di speranza.


***

In settembre, a Casalino, tutti lavorano.

Fin dalla mattina presto le aje sono animate da voci, grida, rumori diversi. Tutti son già al lavoro: anche i bambini dimostrano un' attività straordinaria; non si contentano dei soliti giuochi, vogliono anch'essi lavorare, e scavano buche, girano le mole da arrotare, vanno a molestare il fabbro, il falegname, lo scoparo, che lavorano all'ombra dei fienili, sotto i grandi portoni nel cui sfondo si vede il verde della vite e il giallo del granone maturo. Una voce si alza tra i gridi dei bimbi e i canti striduli dei galli. È una voce d'uomo, melanconica, quasi triste, che par venga di lontano:

Ci han promesso una dimane… La diman s'aspetta ancor.

E il motivo triste di questi versi, accorato, ma quasi dolce, e la nota melanconica di questa voce che sembra quella di un uomo stanco fin dall'alba, spandono intorno come un senso di grave nostalgia. Eppure il tempo è bello, la gente è allegra e lavora con piacere.

Forse l' uomo che canta non sa neppure quello che dice; ma è tutto un popolo, tutta una terra che canta per mezzo suo, senza che egli se ne accorga.

Il tempo è fin troppo bello; non piove da cinquanta giorni, i fossi sono asciutti, dagli alberi cadono le foglie come nell'autunno inoltrato; l'erba riarsa non ha più profumo; il fiume è così basso che si vede solo da qualche punto dell'argine, attraverso i salici ingialliti. Pare che il fiume di tanto in tanto si interrompa, formando grandi stagni rosei e verdi circondati di banchi di sabbia e di macchie. Sull'argine e nelle strade la polvere è così alta che ci si affonda come nella neve: l'atmosfera ne è velata, i carretti che passano veloci sembrano avvolti da una nube di fumo giallastro.

L'argine in settembre è frequentatissimo: passano carri, carrozzini, uomini in bicicletta. Sono uomini che non hanno troppa fretta, ma che neppure si attardano a guardarsi attorno o a turbarsi per la polvere, se non per preoccuparsi della siccità.

Sono mercanti di stoffe, che vanno di paese in paese, sono negozianti o fabbricatori di scope, in viaggio per l'acquisto delle saggine, mercanti di stuoje, di grano, di uva, mediatori, sensali, mercanti di cavalli, che vanno incontro ai mercanti di cavalli della Croazia; uomini tutti che fanno bene i loro affari, che afferano il cliente per la giacca, quando questi accenna ad allontanarsi prima di concludere il negozio; uomini che pensano più ai denari che alla poesia, più alla salute terrena che alla salute celeste.

Anche le donne lavorano, e se non sono occupatenei campi per la raccolta dell'uva e del granone, lavorano in casa, intessono stuoje, intrecciano corde di giunco, cuciscono le scope, tessono la tela.

Lavorano anche i vecchi e i bambini; questi intrecciano la sottile scorza del salice, in trecciuole per cappelli; i vecchi levigano i bastoni per le scope, girano la macchina per sgranare il frumentone, spremono la conserva del pomodoro, densa e rossa come sangue coagulato. Sono vecchi sani e robusti, che hanno un odore vegetale ed il colore della terra da loro lavorata.

Di tanto in tanto, tra l'accordo delle voci umane, dei rumori delle macchine e degli strumenti da lavoro, s'ode ancora il motivo dell' « Inno ».

Ora è una voce femminile, fresca, alquanto beffarda, che dà ai versi melanconici una nota nuova. Pare una musica vecchia suonata da uno strumento nuovo, ancora stridulo e scordato. Poi risuona ancora la voce dell'uomo; quella voce che par venga di lontano, che par la voce stessa delle cose, la vibrazione dell'aria, la musica degli strumenti da lavoro.

E mentre negli atrî, nei campi, nelle case ferve il lavoro, nelle strade polverose si vedono gruppi e file di bimbi piccolini, vestiti di rosso o di nero, con le faccine tinte dal succo dell'uva: il paese pare popolato solo da questi diavoletti rossi e neri dal visetto violaceo; le case e le strade ne son piene, come i nidi a primavera son pieni di uccellini.

Lungo i muri è stesa ad asciugare la saggina gialla e rossa, le cui cime sembrano intinte nel sangue.

Nei crepuscoli rossi, la luna che sorge grande e vermiglia dai vapori dell'orizzonte violaceo, par che lasci tutta la sua tinta sanguigna sulle distese melanconiche della saggina non ancora mietuta. Poi la luna sale, sale, gialla e lucida sul cielo vaporoso. La vegetazione è immobile. Solo gli steli dell'avena selvatica, in riva al fiume, tra i banchi di sabbia e i boschetti di salici, attraverso i quali brilla ancora il cielo infocato, tremano lievemente e si curvano gli uni sugli altri come per comunicarsi il segreto di tutto quel silenzio, di quell' immobilità, di quei vaghi splendori crepuscolari.

E in alto, nel bosco ceduo, solo un pioppo si muove, come per forza propria, protestando contro l' immobilità e lo stupore delle cose intorno. La luna sale; ha già varcata la zona dei vapori colorati e luminosi che fasciano l'orizzonte.

In nessun luogo della pianura la poesia della sera è così misteriosa come in riva al fiume, fra la sabbia, i pioppi nani, sotto l'argine che così, visto dal basso, dà l' illusione di una collina. Tutto è illusione; pare che il mondo finisca lì, fasciato da un cerchio magico di silenzio e di pace. Soltanto la sonorità dell'acqua porta, di tanto in tanto, la vibrazione di un suono lontano; ma questo suono par che venga da un altro mondo, da un' isola scomparsa sotto il fiume. Ad accrescere la bellezza magica della sera qualche volta succede un fenomeno vaghissimo; dopo il tramonto del sole, quando ancora intorno alle isolette di sabbia l'acqua è d' un violetto dorato, appare sull'occidente un' irradiazione bizzarra, formata da otto larghi raggi rosei che si stendono a ventaglio fino allo zenit: ad oriente si riflette la stessa irradiazione, d'un roseo più pallido: tutto il cielo ha un aspetto fantastico.

Sul fiume scende un barcone carico di legname: i barcaiuoli accendono il fuoco per la cena, uno di loro suona la fisarmonica, un altro canta:

Deh, vieni nel mio giardino…

E anche sulla linea nera dell'argine si profila una figura e trema un fischio melanconico che ripete ancora il motivo dell'inno dei lavoratori.

La voce stanca fin dall'alba pare siasi spenta del tutto, riducendosi ad un fischio; e anche il fischio si allontana, si spegne nel gran silenzio della sera, come vinto dalla pace dell'ora.


***

In una di queste sere, Adone si trovava in riva al fiume, quando vide Pigoss correre tutto preoccupato verso la sua barca, pulirla, preparare l'asse e i remi.

Qualche personaggio importante doveva imbarcarsi: forse il referendario di Stato coi suoi bambini, forse il consigliere di prefettura, che vantava la sua parentela coi Dargenti, forse Davide!

Adone si allontanò, fra le macchie della riva, e sedette sulla sabbia ancora tiepida.

Sì, da due giorni egli evitava l' incontro col figlio del zolfanellajo. Voleva che Davide si accorgesse ch'egli lo disprezzava.

Passarono alcuni minuti. La luna saliva sul cielo ancora solcato di raggi rosei, riflettendosi nitida e rotonda nell'acqua tranquilla.

Sulla sabbia, che stendevasi bianca ed intatta fino alle macchie di gaggìa fra le quali serpeggiava un sentieruolo, crescevano radi ciuffi di scope dal verde chiaro, e alte piante di gigli palustri dai fiori d'oro, i cui calici pareva accogliessero la luna come una grande ostia insanguinata.

A un tratto egli udì le voci di parecchie persone che s'avvicinavano alla riva.

Sì: una era la voce nasale e rauca di Davide: e l'altra una voce chiara e vibrante di uomo sano, soddisfatto di sè e della vita.

— Per me i croati son sempre i croati, - diceva questa voce. - Secondo loro il torto è degli italiani. Ma la polizia, dico, la polizia…

— Ci vorrebbe una buona guerra, secondo te? Ah, una buona guerra!… - disse la voce nasale e ironica.

— Buffone! - disse Adone sottovoce. - Eccolo lì, il figlio del zolfanellajo. Egli se ne va a spasso col consigliere e la signorina Dargenti, e se occorre difende i croati!

Le voci si avvicinavano: ora si udiva anche la voce di Maddalena; quella voce alquanto velata, che pareva venir di lontano, e aveva come delle note melanconiche.

Benchè lontano dal punto d'imbarcò, Adone si stese sulla sabbia, dando le spalle al sentiero. Non voleva esser veduto. Quelle voci di gente felice lo irritavano; gli pareva rendessero più melanconico il silenzio che regnava attorno a lui, entro di lui. Gli pareva di esser solo nel mondo, come quella sera nell' isoletta deserta: sulla sabbia vergine egli scorgeva solo le orme di qualche uccellino e di qualche lepre, lievi come impronte di foglioline e di fiori.

Ma ad un tratto, mentre le voci risuonavano accanto alla riva, egli sentì un fruscìo, un lieve scricchiolar della sabbia intatta; e provò un vago turbamento, come se quel piccolo rumore indicasse il passaggio di un essere misterioso. Volse il capo, balzò in piedi. Sì, davanti a lui, fra i cespugli floriti, stava Maddalena.

Ella sembrava davvero un essere misterioso, un fantasma del crepuscolo, apparso per un incanto naturale, come appare in cielo la stella della sera.

La luna faceva aureola al suo capo, avvolto in una sciarpa di crespo rosa che pareva una striscia dei vapori dell'orizzonte. In una mano ella teneva un mazzo di fiori gialli; con l'altra staccava un giglio, torcendone il gambo resistente.

Adone la guardò: ella lo guardava già, senza meraviglia, senza esitanza, con occhi dolci, quasi sorridenti. Pareva lo invitasse ad aiutarla a strappare il fiore che resisteva alle sue dita lievi.

Fu un momento: ma a lui parve un lungo periodo di tempo che bastò a fargli dimenticare il luogo dove si trovava, i pensieri che poco prima lo rattristavano. Poi ella se ne andò, lieve e silenziosa come era venuta.

Egli si gettò di nuovo sulla sabbia: non pensò a seguirla, non pensò a rivederla. Ella era lì, davanti a lui: egli non vedeva altro nel mondo. Non aveva mai provato una cosa simile. Per qualche tempo stette immobile, ascoltando le voci che si allontanavano dalla riva. Gli pareva di sognare, e quando tutto fu di nuovo silenzio, egli si domandò se l'apparizione di Maddalena fosse stata reale. Ad un tratto si sollevò, con la folle speranza che l'illusione si rinnovasse. Ma non vide che le orme dei piedi di Maddalena, incise nitidamente sulla sabbia. Allora si alzò e seguì quelle orme, curvandosi a guardarle: così arrivò oltre i cespugli, oltre le macchie, fino al sentiero, dove le piccole orme si confondevano con altre impronte di grosse scarpe maschili. Di tratto in tratto si scorgeva anche l'orma di un piede ignudo, grande. Ed egli ricordò i grossi piedi di Caterina, e le parole che ella gli aveva detto una sera. Ecco, la profezia di lei cominciava ad avverarsi: egli andava dietro le orme delle scarpette come il gatto dietro le orme dell'uccello.


***

Finalmente piove. Nel camino brilla una fiammata gialla; nell'atrio i bambini, prigionieri chiassosi, stanno rannicchiati sotto l'ombrellone cremisi del Pirloccia.

— Io sarò il pulcino più grande e vi beccherò, - gridava il primogenito di Carissima. - Ho certi dentini fini fini, io, che sembrano becchi. State attenti; ora vi becco, eh?

Ed egli dovette eseguire il suo progetto, perchè si udirono subito due strilli, e l'ombrellone rotolò fino all'uscio di cucina.

Dio ve strabenediss, puttini! Ora vengo io e vi dò il beccare!

Fiorina, rossa e scarmigliata, rincorse i bambini, ma subito dopo si mise a ridere con loro. Carissima cuciva e cantava ancora, quasi al buio.

Gli anni passano; il crepuscolo può cader melanconico e torbido: le persone allegre non si accorgono di nulla. La canzonetta allora in voga era molto birichina e la sarta la cantava con piacere:

La vegna de chi La vegna de là; S'assenti de chi, S'assenti de là Il mio cor fa ti-che-ta

Adone rientrò, con le scarpe infangate e i vestiti umidi, e si mise davanti al camino.

— Nessuno è venuto a cercarmi?

— Nessuno.

Egli sedette, mentre le sue vesti cominciavano a fumigare, e gli parve di aver freddo. Non ventiquattro ore, ma mesi e mesi gli pareva fossero trascorsi dopo l'apparizione di Maddalena in riva al fiume. Ora tutto era buio e freddo: solo qualche lampo illuminava, a tratti, con un bagliore roseo, lo sfondo grigio della finestra.

Adone tendeva l'orecchio. Gli sembrava di udire un passo nell'aja, fra lo scorsciar della pioggia. Se fosse lui? Egli non voleva vederlo e lo sfuggiva; eppure lo aspettava, e l'idea d'incontrarlo ancora gli dava un'inquietudine quasi morbosa. Ma Davide certo non pensava a lui. Nessuno veniva. Solo, alcuni momenti prima della cena, Tognina, aiutata dalla sorella, scese pian piano dalla sua camera e sedette in un angolo della cucina. Ella stava un po' meglio: Adone la guardò alla sfuggita e ancora una volta gli parve ch'ella lo fissasse con tristezza. Egli volse di nuovo gli occhi alla fiamma e riprese il suo fantasticare. Egli non odiava la zia: non odiava più neppure il Pirloccia. Erano uomini degni di odio, quelli? No, più che di odio erano degni di pietà.

Essi non sapevano quello che si facevano: non erano neppure uomini; erano esseri d'una razza inferiore, gnomi di foreste primordiali, guidati solo dall'istinto rapace. Nessuno li aveva educati. Egli doveva serbare tutto il suo rancore per altri!

— Sei stato da Caterina? - domandò la zia, guardando le scarpe infangate ch'egli parava alla fiamma.

— No, - egli rispose seccamente.

Ella non aprì più bocca: piccola, rannicchiata nel suo seggiolino, pareva una bambina malata.

Carissima canticchiava ancora. Ed egli rivedeva Caterina, intenta a intessere le stuoje, all'ombra del portone. Anche lei cantava la canzonetta birichina. Col suo fazzoletto nero legato sulla nuca, le gonne corte a volanti, i piedi nudi entro le pianelle di legno e di stoffa, ella aveva un'aria zingaresca; le sue mani forti, che intrecciavano i giunchi come fili di seta, rivelavano in lei una creatura di forza che, volendolo, poteva afferrare, senza bisogno d'aiuto, la sua parte di bene nella vita.

— Anche lei, anche lei! - egli pensava. - Tutti cercano il proprio bene: io soltanto sono uno stupido, un inetto.

E l'immagine respinta gli tornò al pensiero: sparvero il fazzoletto nero e la stuoja di giunco: sullo sfondo luminoso della fiamma riapparve la sciarpa color di tramonto, sorrisero gli occhi dolci che egli conosceva da tanto tempo, da tanto tempo! Ed egli questa volta non li respinse; provò di nuovo una dolce vertigine, un senso di oblio: ma a questa dolcezza seguì un dolore sottile. Egli si accorse della sua capacità di tradire, gli parve d'essere astuto, calcolatore, simile a quelli ch'egli considerava infinitamente inferiori a lui. Ma fu un momento: egli si accorse di soffrire e tornò a sperare in sè stesso. Non si accorse, però, che nella sua speranza, oramai, v'era più orgoglio che bontà.


***

Dopo cena i bimbi andarono a letto, e per un momento restarono soli in cucina la zia, Fiorina e Adone. Egli capiva che Tognina, la quale non cessava di guardarlo coi suoi occhi strani, voleva dirgli qualche cosa.

— Aiutami ad andar su, - ella disse alzandosi a stento. Egli la prese subito per il braccio, ma Fiorina, che doveva aver anche lei la consegna, prese il lumino e li seguì fino all'atrio.

— Dà il lume, - disse Adone.

— No, no, vengo: devo salire in camera, - rispose la ragazza.

E li precedette per la scala fattasi umida. La donnina strinse il braccio del nipote.

— Come piove! - disse con la sua voce monotona. - Quest'umido mi farà proprio bene!

— Perchè non state a letto, quando piove? - egli disse, tirandola su pazientemente.

— Oh, ci starò! Ci starò; non dubitare!

Fiorina ascoltava, china sull'alto della scaletta come sull'orlo di un pozzo.

Egli fu assalito da un impeto di rabbia: appena furono sul pianerottolo stese ancora il braccio e ripetè:

— Dammi il lume!

Ma la ragazza aprì l'uscio della camera di Tognina, depose il lume sul cassettone e poi cominciò ad accomodare le coperte sul letto disfatto.

— Chiama Elena, - le disse Tognina.

— V'aiuto io, zia: ora vi levo le scarpe.

— Ma vattene! - gridò Adone, spingendola.

Fiorina si rizzò, coi capelli sugli occhi verdi rabbiosi.

— Vattene tu! - rispose.

Si guardarono: parevano ritornati bambini, pronti a lottare ed a graffiarsi.

— Andatevene; faccio da me, - disse allora la donnina. E chiamò: - Elena? Elena?

Adone uscì. Ma il cuore gli batteva forte, di rabbia e di speranza. E da quel momento non ebbe che un pensiero: trovarsi solo con la zia.

— Che farò poi? - si domandava. - Ella ha paura di morire e vuol rimediare al mal fatto. Che farò poi?

Vegliò a lungo, fantasticando, ed anche sofisticando. Si domandava se, evitando di scoprire la verità, egli non si rendesse, benchè a scopo apparentemente nobile, complice di volgari delinquenti. E, senza volerlo, di pensiero in pensiero, come nei piccoli viali d'un laberinto, egli s'inoltrava con la mente in luoghi tristi ed oscuri.

E la notte passò, come passano tutte le notti dell'anno: il vento e la pioggia tacquero e cantarono i galli. V'era una nota fresca nel loro canto rauco; ed egli, ancor prima di svegliarsi bene, capì che era una bella giornata. Gli parve di aver dormito a lungo, più di una notte, e di svegliarsi fresco e leggero come da bambino. Balzò dal lettuccio, slegò la cordicella della finestra. Una nuvola d'oro brillava sopra i tetti dei fienili; ed era così vivida che pareva uno strappo del cielo, attraverso il quale si scorgesse una lontananza dorata.

***

I bambini mattinieri guazzavano già nel fango assieme con le anitre basse e lente e con le tacchine gobbe.

Sison il cordaio parlava a voce alta col fabbro, al quale aveva affittato il portone: il mantice nero e giallastro soffiava già, il metallo infocato scintillava sotto il martello dell'uomo alto e rosso che pareva anch'egli fatto di ferro e di fuoco: la vita intorno si risvegliava, e c'era nell'aria, nei gridi dei bimbi, nella voce dei vecchi una vibrazione di gioia. Tutti dovevano provare la stessa impressione di freschezza e di giovinezza.

Adone scese nell'aja, a piedi nudi, e uscì anche nella strada: gli alberi parevano pieni di perle; un'oca bianca, in lontananza, sembrava un cigno. Com'è bella la vita! E noi, stupidi, ci vergogniamo di guardarla in viso, come l'adolescente che ha paura di una donna affascinante.

Adone ebbe voglia di saltare il fosso: ma fu proprio in quel momento che il portone del vicino si aprì e ne uscì un uomo scarno e giallognolo, dagli occhi infossati che parevano lontani, smarriti entro due buche profonde. Adone guardò e arrossì Gli parve di vedere il zolfanellajo resuscitato; senonchè l'ometto era cresciuto, nell'altro mondo, e s'era vestito da signore, e per non esser riconosciuto aveva messo una barba nera finta.

— Come la va, selvaticone? Son due giorni che ti cerco!

Adone si lasciò anche abbracciare: gli parve di sentire un odore di morte uscir dalla bocca grigiastra dell'infelice. Ah, come serbar rancore contro quel morto che camminava ancora?

Egli mentì, per scusarsi.

— Sono stato fuori… Ora volevo venire da lei. Come sta? E la sua signora?

— Camminiamo, - disse l'altro, avviandosi lungo la strada solcata da due strisce di fango lucente. - Benissimo. Mia moglie è rimasta a Salsomaggiore. Vieni.

— Sono scalzo.

— E che hai paura d'andar scalzo? E che hai paura? Fa bene. Dimmi dunque: come va, come va?

Egli quasi correva: pareva volesse riscaldarsi al sole. Adone lo seguiva, turbato, sorpreso, scalzo, a testa nuda, coi capelli arruffati sulla fronte rosea. Pensava:

— Ora mi parlerà della lettera. Ecco perchè non mi ha risposto! Voleva parlarmene.

Davide camminava e parlava rapidamente, domandando e non ascoltando le risposte del vicino. La sua voce era alta e rauca, ma a momenti pareva spegnersi come la voce d'uno che ha troppo gridato: il suo viso non sorrideva.

Dopo molte domande ne fece una che impressionò Adone:

— Fai le recite, quest'anno? Vuoi recitare al palazzo Dargenti, domenica?

— Recitare? Che cosa? Quest'anno niente recite! - rispose Adone, guardando Davide con occhi spaventati.

— Ma no, caro mio, vogliono te solo! Vogliono fare una recita nel teatrino del palazzo. Hai capito?

Egli aveva capito: e guardava i suoi piedi scalzi, chiazzati di fango, con lo sguardo turbato e spaurito di uno che ha ricevuto una proposta dalla quale può dipendere tutto il suo avvenire.

— Mi vogliono! - disse a un tratto, sollevando la testa con fierezza. - Io però non voglio. Non ho alcun desiderio di divertirmi!

— Che ti è accaduto? - domandò l'altro, volgendosi a guardarlo. - Se non ti diverti ora, quando ti divertirai?

— Che cosa mi è accaduto? Lei lo sa.

— Io lo so? Come posso saperlo?

— Le ho scritto una lettera, ai primi di luglio.

Davide si fermò: corrugò le sopracciglia.

— Ai primi di luglio? Io non ho ricevuto nulla. Ma nulla! Che cosa mi scrivevi?

— Ah, glielo dirò un'altra volta; sciocchezze! - disse Adone con disprezzo.

E scosse i riccioli sulla fronte impallidita come un orizzonte al calar delle ombre: e vide che gli alberi invece di perle sgocciolavano acqua torbida, e che l'oca rassomigliante al cigno era una bestiaccia infangata. Egli pensava:

— Costui mentisce. Tutto è menzogna.

***

Eppure nei pochi giorni che Davide stette in paese, egli andò a cercarlo di nuovo, lo seguì nelle sue passeggiate, discusse con lui. Lo disprezzava e ne sentiva pietà. E arrivò un giorno in cui egli, credendosi superiore all'uomo che gli aveva destato una soggezione quasi religiosa, oltre che a disprezzarlo e compatirlo, cominciò a deriderlo.

— Egli parla come un contadino che legge l'Avanti! - pensava. E non ricordava che Davide aveva « parlato così » prima ancora che i giornali socialisti fossero letti dai contadini.

Del resto Davide parlava anche di altre cose. Non era allegro, ma era tutt'altro che taciturno. Pareva che avesse bisogno di chiacchierare, per distrarsi, per dimenticare i suoi pensieri. Adone osservò che egli parlava di sua moglie con lieve ironia, come parlava di Maddalena e della vecchia marchesa: ed ebbe l'impressione che al figlio del zolfanellajo morto nella miseria fosse rimasto, come era rimasto nel cuore della matrigna, un fondo di rancore e un desiderio di vendetta contro i « felici della terra ».

Tuttavia egli ascoltava intensamente quando l'altro parlava di Maddalena.

— E un tipino, mio caro! Fra lei e la nonna c'è tutta un'epoca storica. La vecchia è bigotta: ha paura di tutto ciò che è nuovo, ed ha il feticismo del passato. Ed è frivola ancora, nonostante i suoi ottant'anni! Maddalena non le perdona queste debolezze; ed a sua volta la nonna ha poca fiducia nella nipote. Io credo che abbia paura che un giorno o l'altro le scappi di casa.

— Prenderà marito, - disse Adone con finta indifferenza. - Non dicevano ch'era fidanzata?

— Pare che tutto sia andato a monte.

— Ma in che consistono le sue stranezze?

— Eh, tu forse ne sai qualche cosa!

— Io? Se non le ho mai rivolto la parola?

— Lo sguardo sì, però! - disse l'altro con malizia.

Adone arrossì. Ah, dunque, quello che egli non osava confessare a sè stesso era già un segreto conosciuto da altri?

— Le giuro… le giuro… Io non la conosco; io non l'ho mai guardata in viso.

— Se tu vuoi conoscerla, allora, vieni con noi in barca, domani; andremo a far colazione nel bosco! Siamo in pochi. Verrai?

— Verrò, - egli rispose, per mostrarsi indifferente. Ma si sentiva turbato. Un pensiero strano gli passava in mente. S' immaginava che Davide volesse avvicinarlo a Maddalena per compensarlo in qualche modo del male che gli aveva fatto.

— E perchè non dovrei conoscerla? - diceva a sè stesso con orgoglio. - Devo aver paura? S'ella vuol divertirsi, perchè non devo anch'io imitarla?

In fondo, però, sentiva una dolcezza morbosa. Maddalena era per lui un mistero: le parole incerte di Davide, invece di lumeggiare la figura di lei, la coprivano d'un velo interessante. Ed egli sentiva una curiosità malaticcia di conoscer da vicino Maddalena, come un tempo desiderava conoscere l'interno del palazzo e le profondità del parco.

Al ritorno dalla passeggiata Davide lo invitò a cena, e gli disse cose un po' insolite e strane; Adone ascoltava con diffidenza, ma gli pareva di divertirsi come quando si ascolta un monologo ben detto.

Fra le altre cose Davide disse:

— Carissimo: noi dobbiamo metterci al disopra di noi stessi, salire sulla nostra testa, se è possibile. Di lassù vediamo gli altri e ci dimentichiamo di noi. Di lassù vediamo bene in faccia la vita. La vita, carissimo, è una astuta venditrice di illusioni e d'inganni; ne ha di tutte le qualità e di tutti i prezzi: illusioni di lusso, inganni a un soldo l'uno. Bisogna stare attenti a non comprare simili sciocchezze. Ci vuol altro! Perchè hai dubitato della vita, tu? Perchè senza dubbio da ragazzo hai comprato da lei qualche giocattolo credendo di comprare un oggetto che ti divertisse, ma ti fosse anche utile. Un bel momento il giocattolo s'è rotto. L'hai rotto tu, anzi! Tu credevi che fosse un pallone rosso, un piccolo sole: era una vescica colorata. E te la prendi con la vita! Ma lei fa il suo mestiere, carissimo; altrimenti non sarebbe la vita. Insegnare queste cose ai tuoi ragazzi; ecco la tua via. E tu dici: che via! Ma che via vorresti prendere? Ma che via, dico? Che cosa volevi diventare? Un poeta? Bella roba, carissimo! Un poeta! Ecco uno dei più grossi e attraenti giocattoli della vita. Che volevi diventare? Un apostolo? Diventalo: sei ancora in tempo!

— Ma io sono ignorante!

— Tanto meglio. Te la intenderai con gl'ignoranti. La gente colta s'infischia degli apostoli!

Poi gli suggerì quello che doveva insegnare ai suoi scolari.

— La verità. Niente illusioni. Non c'è peggior bagaglio dell'illusione. L'uomo non deve avere un così detto ideale, ma una meta precisa. Tu devi dire ai tuoi ragazzi: « Guardate l'orizzonte: quella è una nuvola che sembra una montagna. Guardatevi bene dal mettervi in mente di andarci: non arrivereste mai. Restate qui; vedete, intorno a voi la terra è solida. Lavoratela, e se il pero e la vite da voi coltivati daran frutti, mangiatevi la pera, bevetevi il vino, e guardatevi bene dal leggere libri fantastici! » Ti raccomando questo!

Adone rideva con ironia; ch, siamo in tempi nei quali anche i bambini vedono che le nuvole non sono montagne. Tuttavia, appena fu nella sua cameraccia egli aprì la finestra e si mise a fischiare ed a sognare.

Le stelle dell'Orsa brillavano sul cielo vellutato; l'aria odorava di mosto e di saggine tagliate. E da lontano arrivava un coro di spannocchiatrici che pareva un cantoreligioso, un coro di vergini silvestri riunite sotto i boschi di salici in riva al fiume.

— Che accadrà domani? - egli pensava; e si meravigliava che un'avventura simile potesse accadere così semplicemente.

Poi si coricò, spense il lume, ma non potè addormentarsi. Gli pareva di esser già nel bosco, tra i fusti dei pioppi dritti e grigi, così eguali e numerosi che à guardarli offuscavano gli occhi. A un tratto egli si trovava solo con Maddalena: ella cercava fiori e di tanto in tanto lo guardava. Egli osava avvicinarsele e dirle:

— Non lo sa che devo prender moglie? Posso dire, anzi, di averla già. È quella povera bambina contro la quale un giorno lei ha sbattuto la sua scarpetta.

Ma poi si stizzì del suo sogno. Erano cose da dirsi, quelle?

— No, veh, caro! Dormiamo! - disse a sè stesso. E cercò di pensare ad altre cose. Come riuscire ad aver un colloquio segreto con la zia? La cosa era difficilissima. Progetti fantastici gli passavano e ripassavano nella mente. Il primo giorno che la zia si sentiva bene egli si faceva prestare il carrozzino dell'oste e, giocando d'astuzia, riusciva a condurre Tognina a passeggio. Così nessuno poteva spiarli. Se occorreva, ed ella acconsentiva, egli era pronto a condurla da Caterina, o in altro luogo, e nasconderla e proteggerla. Che accadeva poi? E i suoi fratelli? Egli si disponeva dunque allegramente a rovinarli. No, bisognava aspettare, operare con prudenza. Il tempo è maestro e padrone. Egli lo sapeva già. E meditando sulle cose imprevedute che potevano accadere, egli pensò di nuovo al domani…


***

Prima dell'alba si svegliò. La giornata gli parve umida, quasi fredda: forse la gita verrebbe sospesa. La luce dell'alba rischiarava il soffitto basso e rozzo della cameraccia impregnata d'un odore vegetale come un orto chiuso: negli angoli in penombra le zucche color d'oro parevano mucchi di brage; e i manichi di scope, appoggiati alla parete, davano l'idea che molti vecchioni fossero passati lassù, dimenticandovi ciascuno il proprio bastone!

Adone si guardò attorno con tristezza; sentiva in bocca un sapore amaro, come uno che la sera prima s' è ubbriacato. E pensò ancora a Maddalena, ma con rancore. Ella era chiusa in una camera azzurra e tiepida, come devono essere le camere delle fanciulle ricche; oppure in una sala antica, ornata di arazzi, come egli immaginava ancora le sale del palazzo Dargenti. Egli si svegliava fra le zucche e i bastoni. Egli non invidiava Maddalena e non la riteneva felice perchè il letto di lei era coperto di seta; ma non le perdonava di aver turbato la pace della sua coscienza.

E fu per non andare. Ma poi si decise. Gli pareva d'essere ricaduto nella cupa indifferenza dei giorni scorsi. Andava, appunto perchè non sentiva più nulla. Sull'argine, sebbene fossero già le nove passate, non si vedeva nessuno: ma Pigoss ripuliva la barca, entro la quale aveva collocato duo sedie; la gita non era rimandata.

Adone dovette aspettare un bel po'. La giornata era tiepida; il cielo velato, l'acqua lattiginosa. Tutte le cose intorno, in quel silenzio profondo di giornata quasi autunnale, avevano un incanto fantastico. Le macchie delle isole e i boschi della riva si riflettevano taciti nell'acqua lattea, con profili indecisi, come nelle sere di luna. I colori della vegetazione, il grigio dei pioppi, il verdolino chiaro degli scopeti, il giallo di qualche salice, la figura stessa del barcajuolo, dai capelli argentei e gli occhietti verdastri, avevano sfumature delicate da pastello.

— Vieni tu pure? - domandò il vecchio, collocando un'asse attraverso la barca. - Hai letto il foglio, ieri? Che diceva di quel bastimento naufragato?

— Hanno trovato il cadavere d'un vescovo, ora. Lo hanno riconosciuto dalle vesti.

— Anche un vescovo! - disse l'altro con meraviglia. - Una cosa terribile così non s'era mai sentita, dacchè son vivo. E il cadavere del nostro compaesano? Si trova?

Adone non ascoltava più. Vedeva Jusfin, alto e imponente nel suo costume da caccia, avanzarsi, con due cestini in mano.

— Viene anche la marchesa? - domandò Pigoss.

Jusfin depose i cestini sulla sabbia, e per tutta risposta si battè sulla fronte la punta di un dito. Nè egli salutò Adone, nè Adone lo salutò. Subito dopo giunse svolazzante il seminarista: era allegro, ansante, come un cane giovane, coi grandi occhi castanei pieni di gioia. Non vedendo chi cercava tornò di corsa sull'argine.

— Eccoli! - annunziò finalmente Jusfin, riprendendo i cestini.

La comitiva s'avanzava. C'era il referendario, ch'era un uomo allegro e vivace, e la figlia del consigliere di Prefettura, una biondina silenziosa, dagli occhi furbi. Ella si stringeva a Maddalena, e pareva gloriarsi della sua compagnia, sebbene l'altra, avanzandosi col suo passo leggero e la sua aria distratta, non le porgesse troppa attenzione.

Adone si sentiva calmo; solo si domandava se Davide l'avrebbe o no presentato a Maddalena, alla quale egli non aveva mai rivolto la parola.

Ma Davide si preoccupava per i cestini: volle che fossero ben collocati sulla barca, e disse che li prendeva sotto la sua protezione.

La barca si mosse. Jusfin aiutava Pigoss a remare. Le donne presero posto sulle sedie e gli uomini sull'asse e sulle sponde della barca.

Nessuno parlava: tutti sembravano vinti dalla suggestione del silenzio che regnava sul fiume. Adone guardava in lontananza e pensava:

— Ella è qui, davanti a me. Eccola. Io non provo più niente. È una donna come tutte le altre.

Quel giorno Maddalena sembrava brutta: il suo viso era accigliato. E il referendario cominciò a scherzare, domandandole a che cosa pensava.

— Pensa alla sua parte, - disse il seminarista, che fissava arditamente le signorine e specialmente la biondina.

— Oh, no! Ho paura che tutto vada a monte. La nonna non sta troppo bene, - disse Maddalena: poi guardò verso un'isola di sabbia ed esclamò, animandosi: - C'è un bellissimo uccello ferito, là: guardate!

— Sì, è sdraiato sulla sabbia. È nero, col petto bianco. Ma non è ferito.

Cominciarono a discutere. Che uccello era? Nessuno lo conosceva, neppure Jusfin.

— Io vado a prenderlo, - disse Pigoss. - Accostiamoci alla sabbia.

— È più sano di noi! Sì, va e prendilo, - disse Jusfin con ironia mentre Pigoss si rimboccava i calzoni sulle gambe arse.

L'uccello restava immobile, con le zampine verdi abbandonate sulla sabbia; e parve non accorgersi del barcajuolo che s'avanzava sull'acqua bassa della riva; ma ad un tratto si alzò, saltellò di qua e di là, spiccò il volo.

Jusfin gli fece addio con la mano: Maddalena disse con ironia:

— Sono contenta!

E Adone fu per domandarle perchè allora aveva permesso a Pigoss d'andare a prender l'uccello; ma non osò parlare.

La barca risaliva il fiume: trovata la corrente vi si abbandonò, ridiscese un tratto, obliquamente, fino alla riva sabbiosa del bosco. Sbarcati, i gitanti cercarono il sentiero che doveva condurre ad un casotto vicino al quale volevano fermarsi per la colazione.

Tutti pretendevano di sapere ove cominciava il sentiero: nessuno riusciva a trovarlo. Finirono con lo sbandarsi. Adone seguiva da lontano Jusfin che dondolando i cestini allargava i rami delle gaggie per far strada a Maddalena. Ella seguiva l'alta figura dell'ex-cacciatore, e non dimostrava nè piacere, nè noia, nè stanchezza.

Adone, come aveva scritto nella sua novella, non amava il bosco ceduo, il cui suolo molle e sabbioso è coperto d'erbe grasse e di fiori spinosi, e dove pare si stenda sempre un velo di nebbia. Ma quel giorno egli si sentiva vinto dalla poesia della giornata melanconica, è quelle due figure, che apparivano e sparivano davanti a lui fra il grigio ed il verde del bosco, lo attiravano come due figure fantastiche.

Dove si andava? Egli non lo sapeva. Si udivano fischi, voci, colpi d'accetta, al di là delle macchie. In lontananza Davide gridava richiamando i compagni. La figura nera del seminarista apparve e scomparve tra i fusti grigi dei pioppi; Jusfin si fermò, si guardò attorno solennemente, vide Adone e lo attese. L'ex-cacciatore, offeso perchè egli solo conosceva il sentiero e nessuno gli aveva dato retta, meditava un tiro per vendicarsi.

— Il sentiero comincia qui; eccolo. - disse. - Loro due vadano avanti, fino al casotto; se gli altri arrivano dicano che non mi hanno veduto più. Così si spaventeranno; crederanno che mi sono smarrito coi cestini!

E guardava Maddalena, richiedendone l'approvazione.

Ella approvò, ma disse, con una sincera vivacità che stupì Adone:

— Sì, ma non tardate! Ho fame, io! E lei? - domando poi, rivolgendosi al giovine.

— Anch'io, - egli disse, arrossendo.

E si trovò solo con lei, come aveva sognato! Ma ella non pensava a coglier i fiori, che d'altronde non c'erano.

Il sentiero tagliava dritto il bosco, che da quel punto preciso apparteneva alla famiglia del seminarista. Si vedeva il casotto di rami secchi, e al di là una distesa di sabbia che indicava l'altra estremità dell' isola.

— Non è stato mai qui? - domandò Maddalena.

— No, mai! - egli rispose. E la seguiva, spaventato di trovarsi solo con lei. Suo malgrado il cuore gli batteva forte.

— Ora mi guarderà, - egli pensava. E temeva e sperava quello sguardo.

Ed ella, che cominciò a parlare con lui come l'avesse conosciuto da molto tempo, di tanto in tanto lo guardava; ma non con lo sguardo temuto e sperato da lui. Era mai possibile che quegli occhi dolci e amichevoli di bambina fossero gli stessi che lo avevano già fissato con ardore profondo?

Egli si meravigliava delle cose ingenue ed inutili ch'ella diceva:

— Jusfin ha ragione di castigarli! Sono contenta; specialmente per il seminarista, che non conosce neanche il suo bosco!

— Egli pensa ad altro! - disse Adone con malizia.

Ma ella finse di non capire. E parlò dell'uccello che s'era burlato del vecchio Pigoss. Ella conosceva gli altri uccelli che abitano le rive del Po: l'arzagola, i merli, le gazze, i pivieri; quello non l'aveva mai veduto. Ella amava molto la storia naturale. Ne aveva una bellissima, tedesca, con tavole colorate. Anche la fisica, le piaceva, ma sopratutto la chimica. Aveva anche desiderato studiar medicina. La signora Maria, ch'era stata direttrice infermiera d'una clinica, le aveva insegnato molte cose.

— Di nascosto dalla nonna ho anche freque tato una scuola di infermiere. I bambini malati mi volevano molto bene; ma avevano un cattivo odore!

— È stata molto tempo a questa scuola? - egli domandò, grave e serio.

— Due giorni! - ella rispose. E scoppiò a ridere, come ricordando un'avventura molto divertente. - Dopo m' han fatto la spia!

S'udiva la voce di Davide. Adone si fermò, Maddalena si volse. Si trovarono di fronte a un passo di distanza. Ella rideva ancora, e sembrava molto bella.

Egli diceva a se stesso:

— È questa la sfinge che io ho desiderato di sentir parlare? Se fosse stata meno bambina l'avrei creduta un po' sciocca. - E si domandò che cosa avrebbe fatto Maddalena s'egli l'avesse abbracciata. Una tentazione perversa lo investiva, come un'onda di nebbia improvvisa, offuscandogli la ragione. Maddalena gli pareva una bambina annoiata, pronta a tutte le avventure. Ella era davanti a lui: egli non aveva che a stendere le braccia… Ma non potè. La guardò, solamente, con occhi mutati, tragico in viso. Ed ella corrispose subito a questo sguardo che pareva di odio: ma gli occhi di lei, anch'essi mutati, erano dolci, profondi, ardenti. Allora d'un tratto, egli senti la tentazione cambiarsi in desiderio. Ma i compagni s'avvicinavano.


***

Da quel momento egli fu cotto da una specie di ossessione. Era ebbrezza? Era dolore? Era l'una, era l'altro: una paura, un desiderio di cose ignote. Come il primo e l'ultimo degli amanti, egli desiderò di trovarsi completamente solo con lei all'ombra amica del bosco; e nello stesso tempo fu contento per l'arrivo dei compagni.

Tutti gridavano, bisticciandosi; Davide notò subito l'assenza di Jusfin.

— Non l'abbiamo più veduto! - disse Adone con voce turbata.

Ma Davide intuì subito la burletta e cominciò a gridare:

— Ora basta, vecchione! Venite fuori! Perdono, perdono, padre!

Durante la rustica colazione sotto i pioppi Adone e Maddalena evitarono di guardarsi. Ella mangiava e beveva tranquillamente, e sorrideva per gli scherzi del referendario; ma Adone osservava ch'ella parlava poco, mentre con lui, nei brevi momenti passati assieme, aveva chiacchierato tanto.

Anch'egli sembrava ma non era tranquillo; la vedeva davanti a sè, adagiata su un mucchio di giunchi, osservava le sue labbra umide di vino, e non gli pareva più la creatura misteriosa dei suoi sogni romantici, la fanciulla vestita di bianco, vagante sotto gli alberi d'un parco, e per la quale la sua fantasia s'era esaltata forse per un nostalgico ritorno ai sogni infantili. Ma non poteva calmarsi.

E la sua agitazione crebbe quando il referendario cominciò a scherzare a proposito della novella di Paride e di Elena. Una copia era giunta fino a lui. Copia e ricopia, le ammiratrici della novella avevano mutato comicamente il senso delle frasi appassionate.

Adone finse di riderne; ma anche Maddalena disse d'aver letto la novella, ed egli s'irrigidi, ebbe quasi voglia di piangere.

Sdraiato sul fieno palustre, mentre la comitiva s'inoltra nel sentiero, in cerca di un punto dal quale si scorge lo sbocco del fiume Parma, egli finge a sè stesso una gelida indifferenza e si sforza di pensare a Caterina. Il ricordo della sua prima avventura amorosa lo ha come offeso e richiamato in sè. Se Caterina sapesse! Ma ella non saprà mai niente.

Chiudendo gli occhi egli la rivede nel bosco, seduta ai piedi di un tronco, col piede enorme abbandonato sulla sabbia. Ma il ricordo del loro primo bacio non lo esalta più. Si direbbe, anzi, che un vago rancore gli salga dal cuore, come un profumo amaro dal calice d'un fiore velenoso. Egli se ne accorge e se ne domanda il perchè. Forse perchè il legame che lo avvince a Caterina gl'impedisce di amare Maddalena? No, egli avvolge anche Maddalena nel suo rancore. Egli ricorda che una notte, nel silenzio della melonaja, ha desiderato di urlare come il cane perseguitato, perchè Maddalena e l'ex-cacciatore, il vecchio barbaro, hanno percosso Caterina!

Egli odia anche Jusfin; anche il referendario che ha tirato fuori la storiella di Paride. Gli pare che tutti si burlino di lui; tutti si son burlati di lui, sempre. Anche Maddalena, che non sa come passare il tempo, vuole divertirsi, come quando curava i bambini poveri « che avevano un cattivo odore ».

L'odore della miseria.

I bei giorni di settembre finivano, dolci e già un po' tristi. Il paesaggio si colorava, come dorato da un artista melanconico: fra gli alberi, nello sfondo cerulo dell'orizzonte che sembrava vicinissimo, apparivano nuvolette rosse e gialle che viste dal fiume parevano i fiori dei cespugli e degli alti steli di saggine tremolanti sull'argine.

Le cornacchie e i gabbiani passavano, annunziando l'autunno; il venticello increspava l'acqua, e verso il tramonto il cielo e il fiume gareggiavano di colori meravigliosi. Qualche volta, però, il tramonto era limpido e freddo, e un giorno Adone, ritornando da Casale dopo aver questionato con la vecchia Suppèi che si accorgeva del cambiamento di lui, vide all'orizzonte, al di là del fiume tutto color di rosa, la linea cerula delle montagne, chiara come pochissime volte all'anno si vedeva.

Egli si sentiva annoiato e triste. Non aveva più riveduto Maddalena, ma pensava a lei con una passione che gli sembrava colpevole. I sospetti della vecchia Suppèi lo offendevano. Egli non pensava a tradir Caterina; anzi desiderava andarsene presto, lontano, al di là di quelle montagne, per dimenticare, come l'anno scorso. Maddalena finirebbe certo col maritarsi: non si vedrebbero più. Addio, sogni! Ed egli invecchierà; andrà a passeggio sull'argine, solo, trascinando le vecchie ciabatte come il vecchio maestro di cui egli deve ancora prendere il posto. Non avrebbe figli; non sperava più di averne! I suoi scolari, diventati bravi negozianti di scope e di grano, non ricorderebbero una sillaba delle sue lezioni! A che era servita la sua esistenza? Il mondo camminerà senza di lui; e d'altronde non muterà mai. Ci saranno sempre bimbi perseguitati, e giovani che si contentano di veder le montagne da lontano! Il mondo non muterà: è una nostra illusione credere il contrario. Noi, della generazione presente, ci attacchiamo a questo sogno perchè non ne abbiamo altri! Non pensiamo più alla guerra con gli Stati vicini, ma pensiamo alla rivoluzione sociale perchè è più comoda! Noi siamo anemici, deboli; non ci sentiamo di portare lo zaino e marciare di notte; ci basterà scendere in istrada, al momento opportuno, o buttare le sedie dalla finestra.

E poi tutto ritornerà come prima: forse non ci saranno più affamati, infermi senza cure; forse anche in Italia ci sarà il divorzio, ma le anime deboli non ne profitteranno; ed esisteranno sempre le vecchie ignoranti, le donne brontolone, le sere fredde e lucide, quando pare che il nostro carattere si profili chiaro come le montagne all' orizzonte, rivelando tutte le sue gibbosità.

Ma bastò ch'egli svoltasse strada e vedesse Jusfin con una lettera in mano per cambiar d'umore e d'opinione. Dove andava Jusfin? Egli lo raggiunse, curioso, e non poteva credere ai suoi occhi quando il vecchio, solenne e silenzioso, accennò a dargli la lettera.

— A me? - egli disse, esitando a prenderla. - C'è risposta?

— Se c'è mandala! - rispose Jusfin, tornando indietro.

Adone prese la lettera: le dita e il mento gli tremavano visibilmente, nè egli pensava a dominarsi.

Idee folli gli turbavano la mente: egli credeva che la lettera fosse di Maddalena e contenesse frasi d'amore!

L'aprì, vide la firma; gli sembrò che quel nome, scritto a lettere alte e irregolari, fosse un nome arcano, il cui significato lo spaventava e lo riempiva di gioja. Sì, la lettera era di Maddalena.

Ma ella invitava semplicemente « l'egregio signor Adone » ad assistere, l'indomani sera, alla recita nel teatrino del palazzo.

— Andrò! egli disse fra sè; e non ricordava che per l'indomani sera egli aveva dato appuntamento a Caterina: non ricordava più nulla: non pensava neppure a Maddalena. Il suo turbamento era così forte che, come un acuto dolore fisico, non gli permetteva di pensare ad altri che a sè stesso.

Appena fu nella sua cameraccia volle rispondere a Maddalena; ma egli aveva della volgare carta rigata, e l'invito era su un cartoncino violetto con cifre d'oro. Si vergognò di adoprare, per la risposta, la sua brutta carta; e questo semplice incidente lo richiamò alla realtà.

Ricadde nella sua tristezza, ma non rinunziò all'idea d'assistere alla recita.

Passò una notte agitata: pensava con inquietudine come doveva vestirsi per andare al palazzo: vedeva, nella penombra, il suo strano attaccapanni rassomigliante ad un albero, e ognuno dei modesti abiti appesi gli pareva rappresentasse un diverso Adone: uno era triste, l'altro allegro; un terzo era povero e umile; un quarto, infine, era il giovanotto elegante e scettico che doveva recarsi al palazzo Dargenti! Poi sognava il teatrino, i lumi, la recita; gli attori recitavano bene, ma non facevano ridere!

Ed ella era là, sul palcoscenico, e lo cercava con gli occhi, come lui l'aveva cercata dal modesto palcoscenico del teatrino popolare! Si guardavano, si parlavano con gli occhi: poi si addormentò; stanco ed esausto, e nel sonno i suoi sogni continuarono, più arditi e frementi, come liberatisi da un laccio che nella realtà li tenesse prigionieri.

L'indomani per tempo egli andò a Viadana per comprare carta e buste di lusso: al ritorno passò da Caterina e le disse che quella sera non poteva andare al convegno perchè era invitato alla recita. Ella non protestò, ma impallidi. Egli se ne accorse, e d'un tratto ricadde nella sua inquietudine: ma non disse nulla, e gli parve che fra loro sorgesse un'ombra, davanti alla quale essi cercavano di mettersi, per nascondersela vicendevolmente.

Ritornandosene a casa pensava che forse era meglio non scrivere, e forse meglio ancora rifiutare l'invito! Il pallore di Caterina gli aveva rivelato il segreto della sua inquietudine; il ricordo dei sogni, però, lo eccitava e lo tormentava. Perchè non doveva accettare l'invito? Perchè non doveva permettersi uno svago? Era tempo di ribellarsi ai suoi ingenui scrupoli. Tutti gli uomini ammogliati vanno a divertirsi e non per questo si credono colpevoli.

Nella strada comunale egli incontrò la carrozza della marchesa, e dentro vi scorse un uomo grasso e colorito, coi lunghi baffi castanci spioventi, e gli parve di riconoscere in lui un noto medico di Parma. Egli ebbe subito il dubbio che la marchesa fosse malata; ma come spiegare l'invito, allora?

Spinto dalla curiosità più che dalla passione, ritornò indietro, si fermò davanti al cancello. Non si vedeva nessuno; le finestre erano socchiuse.

Allora egli s'avvicinò alla porta della chiesa, e aspettò che la gente uscisse. Voleva vedere Jusfin, domandargli come stava la marchesa. Vide infatti il vecchio uscire, alto e solenne fra i paesani scarni e bonarii, col suo vestito di velluto nero, col suo cappello a cono; ma non osò fermarlo nè interrogarlo.

Più tardi andò in cerca del seminarista e gli domando se era stato invitato.

— Io no! E neppure il referendario. Io credo che la recita non si farà! La marchesa è malata fin dal giorno che siamo stati al bosco: ha male alle reni e forse morrà presto.

Adone non parlò dell'invito ricevuto, ma mille ipotesi fantastiche gli turbarono di nuovo la mente. Era quasi certo che Maddalena gli aveva mandato il problematico invito perchè egli avesse una scusa a risponderle.

— E se io andassi, all'ora indicata? - si domandava. E ricadeva nei suoi sogni romantici: s'immaginava che Maddalena l'avrebbe ricevuto da sola, scusandosi con lui per la mancata recita! Era un modo come un altro per attirarlo al palazzo! Poi si accorgeva dell' ingenuità dei suoi sogni, e rideva di sè, e di nuovo gli pareva di sentire un cupo rancore contro Maddalena, la creatura del passato, capricciosa e sensuale, che faceva di tutto per turbare la sua pace di povero, destando in lui, che si credeva l'uomo dell'avvenire, l'uomo della giustizia, antichi istinti di tradimento e di sensualità.

Rientrando a casa trovò un altro biglietto di Maddalena: ella si pregiava avvertirlo che la recita era rimandata.

Egli si calmò; ancora una volta si vergognò delle sue fantasticherie: ma oramai la sua pace era profondamente scossa: egli provava un senso di vuoto, come se camminasse su una corda e di tanto in tanto fosse in procinto di perdere l'equilibrio. Quella sera non andò da Caterina: aveva paura di lei!

Ma sogni voluttuosi e strani tornarono ad eccitarlo. Gli pareva che Maddalena gli avesse mandato in regalo un uccello bizzarro, uno di quei misteriosi volatili che da bambino egli credeva esistessero nel parco. L'uccello non cantava; ma aveva due occhi dolci, lunghi, dorati, che si volgevano continuamente verso i suoi con uno sguardo umano pieno di voluttà. Egli aveva paura di quegli occhi, ma non resisteva al loro fascino, e mentre li guardava, smarrito, pensava a Maddalena con uno spasimo di desiderio. Egli non aveva mai sognato così, neppure nei suoi giorni di maggior passione per Caterina.

Svegliandosi, alla mattina, rabbrividì, si nascose sotto la coperta, e rimase a lungo così, nel tepore insidioso del letto, sognando come un adolescente.

Per parecchie mattine egli si lasciò vincere da questa mollezza ignota, da questo anormale risveglio di tutti i suoi sensi. Gli pareva di aver freddo e sognava un ambiente caldo, una stanza coperta di stoffe e di cuscini; gli pareva di sentire un profumo acuto, snervante, ben diverso dall'odore umido dei pomi di terra ammucchiati nella sua cameraccia: aveva l'impressione di sfiorare, con le piante dei piedi, una seta fina e tiepida; con le labbra attaccate al guanciale caldo credeva di baciare le labbra di Maddalena. E diceva a sè stesso che non faceva male a nessuno permettendosi questi sogni morbosi, lontani da una realtà ch'egli credeva di non desiderare. Ah, egli aveva sempre sofferto: tutti lo avevano tormentato e calpestato. Doveva per questo essere anch'egli crudele con sè stesso? Doveva privarsi anche dei sogni? Egli non faceva male a nessuno. E poi, fra pochi giorni, sarebbe partito, chiudendo per sempre entro il suo cuore, come la goccia di rugiada entro il fiore, questo sogno non più solido di una goccia d'acqua! Addio! La giovinezza passava: perchè non lasciarsi accarezzare da lei, quando ciò non reca male a nessuno? Ed egli si alzava, si vestiva accuratamente, e andava a gironzare intorno al palazzo Dargenti!


***

Un giorno, verso il tramonto, egli vide il viale del palazzo coperto di sabbia fina, come una volta, a Padova, aveva veduto la strada intorno al villino d'un signore moribondo. Credette che la nonna di Maddalena fosse agonizzante, e fu riassalito da una inquietudine nervosa. L'idea della morte tornava a destargli paura: segno ch'egli amava di nuovo la vita!

In quei giorni anche la Tognina fu ripresa dai suoi malanni, e si aggravò talmente che volle confessarsi. Adone andava dall'aja della sua casa al prato della chiesa, inquieto e turbato, come in cerca di qualcuno.

Tutto era pace, silenzio; il palazzo sembrava disabitato: la morte dei ricchi è diversa da quella dei poveri. Viene attesa con calma, con rispetto; e par che Essa giunga silenziosa e solenne come una regina che si degni visitare i suoi sudditi migliori.

Un giorno, mentre passeggiava davanti al cancello e guardava le finestre del primo piano con curiosità melanconica, Adone sentì come l'attrazione di un punto luminoso: sollevò gli occhi e dietro i cristalli d'una delle finestre più alte vide il volto pallido e scuro di Maddalena. Egli arrossì e passò oltre; ma fatti pochi passi tornò indietro, vinto dalla curiosità.

— M'aspetterà? - si domandava, palpitando.

Ella era ancora lassù, pallida, immobile, velata dal cristallo come una santa immagine! Si videro: si guardarono. Non avevano altro di meglio da fare! Ed egli passò e ripassò ancora, senza curarsi se qualcuno lo osservava.

— Ella mi ama! - pensava. E gli pareva di aver la febbre, di non essere più padrone dei suoi pensieri e dei suoi sogni. E sperava d'ingannarsi, e che il suo sogno rassomigliasse al giochetto che lo divertiva da bambino, quando egli correva dietro le ombre fuggenti immaginandosi d'esserne trascinato.

Intanto la notizia della malattia della vecchia signora era giunta fino a Casale. Si diceva che la marchesa era caduta, rompendosi il femore: ma che al palazzo tenevano la cosa segreta per non inquietare i parenti dell' inferma, che abborrivano la signora Maria.

— E facile rimettere a posto il femore, - disse la Suppèi. - Basta un bagno d'orzo bollito, e un cataplasma di gaggìe.

— Puoi dirglielo alla tua amica! - disse Caterina, beffarda. Egli finse di non sentirla. Poi entrambi si beffarono della nonna Suppèi e delle sue medicine: ma finirono col bisticciarsi, e la vecchia disse:

— Eccoli, i gatti! Prima giocano, poi si graffiano!

Caterina infatti, da qualche tempo in qua, aveva come delle mosse feline: si mostrava tenera con l'amante, poi ad un tratto lo guardava con occhi selvaggi, adombrandosi e offendendosi per ogni parola di lui. Ed egli si accorgeva benissimo ch'ella era gelosa e diffidente, ma non le domandava perchè.

Un giorno, verso la metà di ottobre, egli trovò Caterina che lo aspettava nel viottolo. Era insolitamente vestita bene, incipriata, con un nodo di velluto nero sui capelli: le sue scarpe nuove scricchiolavano ed ella di tanto in tanto batteva al suolo uno dei suoi grossi piedi stretti dalle incomode calzature. Egli le chiese dove andava.

— A fare una visita. Vieni.

— E la nonna? - egli disse meravigliato.

— Abbiamo litigato. E le ho detto che voglio fare quello che mi pare e piace. Non sono più una bambina. Andiamo.

— Non far sciocchezze, Caterina!

Ella batteva il piede al suolo, s'aggiustava il nastro sui capelli, e fissava Adone con occhi corruscanti, pieni di rabbia e di dolore represso.

— Quante volte mi hai pregato di venire a spasso con te? E non ricordi più, ora? Andiamo, andiamo…

E si attaccò al braccio di lui, e continuò a fissarlo, reclinando un po' il capo, destando in lui, con quello sguardo voluttuoso e truce, una impressione di tenerezza e di ripugnanza.

— Non voleva che uscissi, lei! Non voleva che mi cambiassi, - cominciò a dire, agitata. - Quasi pretende che io non esca più sola, che mi metta entro una nicchia! Proprio io! No, veh! E tanto un giorno o l'altro bisogna ch'ella sappia tutto. Dimmi un poco, tu, non è vero? Ora risponderai di no!

Egli guardava lontano, davanti a sè. Rispose di sì, convinto.

— Come lo dici! - ella gridò.

— Come vuoi che lo dica? Tu hai voglia di litigare anche con me! - egli rispose con voce monotona. - Bene, a chi dobbiamo far visita?

Ma ella non pensava più alla visita. Attraversò le strade più frequentate del paese, s'avvicinò a qualche porta salutando a voce alta le sue amiche, ridendo e parlando nervosamente con tutti. Adone fremeva, ma non osava provocarla, seguendola prudentemente. Al ritorno attraversarono un campo la cui larga cavdagna era coperta di fiori violacei. La sera cadeva, dolce e melanconica: attraverso gli alberi gialli l'occidente rosso e oro si copriva di nuvolette in colore dei fiori della cavdagna. Pareva che per un capriccio della natura malata il paesaggio e il cielo si tingessero di colori vivi, come una vecchia donna già bella che si trucca, ma non sa nascondere la sua tristezza.

Caterina taceva, ed ora precedeva, ora seguiva Adone senza guardarlo. La sua eccitazione pareva cessata. Ed egli guardava per terra, e pensava a Maddalena che lo attendeva dietro i cristalli della finestra. Tutto ciò che v' è di più dolce e di struggente nei pensieri colpevoli ardeva nel suo pensiero.

Caterina si fermò. Egli sollevò gli occhi e la vide rabbrividire. Le prese la mano e sentì che scottava.

— Di', di', ti senti male?

— No. Son tanti giorni che provo questi capogiri Ho paura…

— Di che?…

Ella lo fissò negli occhi. Egli trasalì, quasi entro il suo corpo si fosse staccato un viscere

— Che dirà la nonna? - disse come fra sè.

— E dica quel che vuole! Non doveva avvenire, questo? Meglio; così non farà più delle storie.

— Ma sei certa, Caterina?

— Eh, no, sicura no! Ma credo… forse…

— Se fosse vero! Come sarei contento!…

La prese sotto braccio, sollevò il viso: gli pareva che tutto, intorno a lui, fosse mutato. Aveva come l' impressione di svegliarsi da un sogno di morte, di ritornare alla vita, di rinascere assieme col figlio suo!

***

La nonna li aspettava nel viottolo, col cappello sugli occhi e il pomo del bastone entro il pugno un po' contratto. Era inquieta, ma non voleva dimostrarlo. Appena li vide volse le spalle e li precedette, trottando col suo passo di vecchia cavalla dispettosa.

Il fuoco avvolgeva il pajuolino nero e pareva, nel buio della cucina, un gran fiore rosso con una bacca nera nel centro.

— Va e compra il burro! - comandò la nonna a Caterina, indicandole il cestino col bastone. E si levò il cappello, ma se lo rimise tosto, lasciandosi la fronte scoperta, minacciosa.

Adone non aveva mai veduto la nonna così freddamente adirata. Con sua grande sorpresa Caterina obbedì, ed egli rimase solo con la vecchia. Egli certo non aveva paura; si sentiva quasi allegro, anzi; ma ricordava che la Suppèi si vantava di conoscere le donne incinte anche se lo erano da pochi giorni, e si domandava come l'avrebbe convinta a ritardare il matrimonio…

— Me ne vado, nonna! Addio! - E tentò di andarsene.

— Siedi lì! Siedi lì! - ella disse, battendo il bastone sulla sedia. - Devo dirti poche parole. Ma siedi lì!

Egli sedette, rassegnato.

— Sì, viscere, poche parole. Caterina, devi sapere, è diversa dalle altre ragazze. Le altre possono fare quello che vogliono: lei no, viscere! Lei no! Hai capito? - gridò; poi riabbassò la voce: - Ha una pietra legata al piede, lei: e quella pietra sono io! - Proprio io! - concluse battendosi il pomo del bastone sul petto.

— E lasciatela tranquilla! - egli disse allora, cercando di sviare il discorso. - Che male ha fatto? Non vedete che sta poco bene, poi?

— Chi, lei? Sta meglio di te, lei! Non è stata mai così bene, viscere! - ella riprese, con ironia. - Il male ce l'ha qui, al fiele; e tu lo sai! Ah, tu vuoi che io la lasci tranquilla? E tu, viscere, tu la lasci tranquilla, di'?

Si chinò e lo guardò. Egli arrossì, poi diventò livido. Balzò in piedi, gridò:

— Ma che cosa avete voi tutte? Sono stanco! Cosa avete?

— Te lo dirò subito, viscere, poichè non è buona a dirtelo lei! Tu non conosci Caterina, te l'ho ripetuto più di una volta! Tu le hai detto ch'era una zingara; ma non la conosci bene. Tu l'hai conosciuta da bambina e credi ch'ella sia rimasta una zingara. Per sua disgrazia, no, vedi! Così fosse rimasta, caro! Avrebbe saputo difendere il suo bene e magari prendere quello degli altri, il che tante volte non guasta! Ma tu ed io l'abbiamo disfatta e rifatta, per così dire! Io le ho detto che bisognava farsi una coscienza e lei se l' ha fatta! E le tue chiacchiere, poi, l'hanno ridotta così stupida che ora lei, quando è calma, non sarebbe capace di ammazzare una pulce, per così dire! Ma tante volte il sangue s'accende, viscere: il fuoco fa sciogliere e bollire anche il ghiaccio! E allora? Allora si vede rosso, si vede sangue! Sia pure il proprio sangue, ma si ha bisogno di veder sangue: Ella è capace di morire, sì, è capace di fare una pazzia, lei, ma ti lascerà tranquillo. Ah, sì, lei ti lascerà tranquillo, non dubitare. Ma c'è la vecchia, qui: tu hai anche da fare con la vecchia, caro!

Egli andò ad appoggiarsi al camino: tremava di rabbia e d'inquietudine.

— Continuate! - disse, provocante.

— Ho bell'e finito, invece! Ti dirò solo questo, viscere! Che i segreti volano, come i semi delle piante. E io andrò dalla vecchia, sai! Proprio, veh, andrò, con questi piedi! Non mi vergogno se ci ho le ciabatte o i zoccoli, io! Posso anche andare scalza, ed entrerò lo stesso! E dirò alla vecchia: « Siamo davanti all'uscio di Dio, entrambe. Tu ricca, io povera, ma peccatrici entrambe, eguali davanti a questa porta dietro la quale sta il Signore ». Poi le dirò: « Vecchia, tua nipote ruba a mia nipote l'unico bene che essa ha sulla terra. Dille che smetta, se non vuole che succeda un guaio… Chi è la zingara, in questo caso? La paesana o la signora?… »

— Che dite? Ma nonna, che dite! - egli gridò allora smarrito.

— Tu lo sai che cosa dico. E ho detto!

Egli si passò una mano sulla fronte, domandandosi se è possibile che il nostro pensiero, anche il nostro pensiero, ci tradisca! Ma poi si scosse, orgoglioso. Non aveva nulla da rimproverarsi. Gli parve che la vecchia e Caterina fossero ingiuste verso di lui, come lo erano stati gli altri, sempre. Caterina, poi, aveva mentito, dandogli, per paura, per calcolo, una speranza vana. Un destino crudele e volgare lo perseguitava. Egli non era neanche libero di sognare, di cercare un conforto nel mondo delle illusioni. Ah, ma non era più lo stupido bambino di un tempo! Sentì un impeto di ribellione, una sete di vendetta: vide rosso, come diceva la nonna; ricordò il giorno in cui Pirloccia l'aveva condotto a spintoni nella stalla..

Egli andò contro la vecchia, minaccioso, livido in viso; e afferrò il bastone di lei, con ambe le mani, quasi volendo sfogare la sua rabbia contro l'innocente legno.

Le nonna rinculò, turbata.

— E continuate! - egli disse, guardandola. - Buttate fuori tutto! Vi ripeto che sono stanco di tutte le vostre commedie. E se non dite tutto, in questo momento, vi assicuro che me ne vado e non mi vedrete più! Io non ho nulla da rimproverarmi. Che cosa volete da me? Che cosa? Chi è la vecchia di cui parlate? Chi?

La nonna ebbe paura? O fu per affetto ch'ella parlò?

— Non arrabbiarti, - disse con voce mutata, scuotendo le mani. - Calma, calma! Parlerò, giacchè vuoi. Caterina sa tutto: sa che giri attorno alla signora Dargenti, come la farfallina intorno al lume. Attento a non bruciarti, viscere! E Caterina vuol morire. Sì, dice: perchè altrimenti commette una sciocchezza più grave ancora. A te non farà nulla: ma all'altra sì, oh, sì, sì! Tu non conosci la ragazza, te lo dico ancora, viscere! Tu la credi una contadina, ed essa è più signora delle signore. Può aver rubato qualche uovo, da bimba, ma la nonna l'ha educata, viscere; la sua coscienza è pulita, ora! Le signore sono più ladre di lei: loro rubano anche i fidanzati delle altre!

— Basta! Basta! - egli implorò.

— Ah, ora basta? Volevi sapere tutto! Ed ora ti dico un' altra cosa. Caterina non possiede altra cosa al mondo che il tuo affetto: non ha altri che te, viscere! E lei non ti ha mai tradito; neppure quando gli altri, più ricchi e più bei giovani di te, l' hanno tentata. Sì, ti dico; non arrabbiarti. Scipione l'Ebreo era più ricco di te, e voleva farsi cristiano. E la ragazza gli voleva bene.

Egli sollevò il capo.

— Sì, gli voleva bene. E sicuro! E che hai da dire? Ella non lo ha mai guardato negli occhi, però! Prima di fare un torto a te si sarebbe ammazzata. E tu ora, e tu ora diventi superbo. E sappiamo anche perchè!

Egli parve calmarsi. La notizia che Caterina aveva nutrito simpatia per l'Ebreo lo turbava fino a un certo punto. Non era più innamorato per esser geloso. Ma, pur sentendo, in fondo, che la nonna diceva la verità, egli si sforzava a credere che ella mentisse.

Tutto nel mondo oramai gli pareva falso. Caterina aveva amato un altro uomo? E aveva sacrificato il suo amore per lui? Perchè aveva fatto questo?

— Per interesse, poichè io rappresentavo per lei un partito migliore, - egli pensò.

Ma subito s'accorse dell' assurdità di questo pensiero. Ad ogni modo, Caterina aveva mentito con lui: anche lei! La verità non esisteva più. Era caduta in fondo al pozzo!

Ed egli si sentiva irritato e ingiusto come non lo era stato mai. Decise di por fine alla scena disgustosa, prima che Caterina rientrasse e lo tormentasse oltre.

— E basta, dunque! - ripetè. - Voi credete alle chiacchiere degli sfaccendati. Peggio per voi. Ditemi dunque che cosa volete.

La nonna, che s'era apparentemente calmata anche lei, si mise a far la polenta, e disse:

— Sposatevi.

— Ci sposeremo; non dubitate, - egli rispose con ironia. - Non ci resta altro da fare!

E s'avviò per andarsene. Appena fu sulla porta vide Caterina. Gli parve ch'ella stesse ad origliare, e la sua ira aumentò.

— Vieni un momento con me, - le disse, afferrandola per il braccio. La trascinò in fondo al viottolo: voleva dirle molte cose, non ascoltato dalla nonna: voleva sfogare su lei tutta la sua rabbia; ma poi si accorse che ella tremava leggermente, decisa a non parlare, e anch'egli si dominò.

— Tu hai sentito cosa ha detto la nonna, - egli disse, dopo un momento di silenzio. - Non dire di no; non mentire oltre. Sono stufo delle vostre bugie! Sono stufo di tutto e di tutti! Sposiamoci pure: a me non importa più nulla! Ma non tormentatemi oltre, veh! Se no io… se no… io….

Un singhiozzo di rabbia non gli permise di continuare. Caterina ebbe pietà di lui: gli prese una mano e gliela baciò. Egli ritrasse la mano, la scosse, quasi volendo buttar via il bacio pietoso di lei, e s'avviò per andarsene.

Ella lo seguì: mentì ancora.

— Io non ho sentito nulla… Non so che cosa lei ti ha detto… Lasciala dire. È arrabbiata perchè ha chiacchierato con Dirce tua cognata… Sì! Dirce è venuta qui… Ha chiacchierato, sì… E la nonna crede che tu possa diventare presto ricco e superbo…

— Anche questo? - egli gridò. E si fermò di nuovo; ma subito scosse la testa e spinse Caterina. - Vattene, vattene! Lasciami in pace! Vattene!

E se ne andò. Ma la disperazione lo accompagnava, lungo la nota strada ancora vagamente illuminata dall'ultimo splendore dell'occidente. Egli sentiva un nodo alla gola. Gli pareva d'essere ritornato fanciullo, d'esser nuovamente perseguitato, nuovamente caduto in una rete di astuzie, di volgarità, di calcoli.

E, come per un ritorno ai suoi istinti infantili, sentiva ancora una volta una smania di fuggire, verso un luogo di riposo e d'oblìo. Ma oramai sapeva che questo luogo non esiste sulla terra, e il suo desiderio si mutava in rabbia, in odio verso tutti e verso ogni cosa. Gli pareva di odiare anche Maddalena: avrebbe voluto farla soffrire. Odiava sopratutto il Pirloccia e la zia, cagione di ogni suo male. Decise di tormentarli, di vendicarsi, a sua volta. Gli pareva di odiare anche la sua mamma, che gli aveva insegnato a rassegnarsi, a piegarsi, invece di aiutarlo è proteggerlo.

Cammina, cammina, lungo il nastro d'erba calpestata che orlava l'argine, gli parve che l'aria della sera e l'alito dell'acqua, dolce e lieve come carezza materna, lo calmassero alquanto. Il suo pensiero si elevò. Egli vide in sè come la personificazione di un popolo intero! Egli era stato allevato come questo popolo schiavo, sotto la frusta dei tiranni: ed era stato derubato e deriso, e la sua mamma, come la Santa Madre del popolo oppresso, pur sapendo di commettere un'ingiustizia abbominevole, gli aveva insegnato ad essere vile.

Ed egli s'era creduto buono! Egli si era piegato, con la speranza di un avvenire migliore; ed egli aveva chiuso gli occhi per sognare, e non s'era mai accorto che piegandosi, giorno per giorno, diventava piccolo e rachitico peggio del suo fratellino; e che i suoi occhi velati di sogno non s'adattavano più alla luce della realtà. Ora tutto si ribellava in lui. Egli si sentiva un altro; si rizzava come lo stelo piegato dal vento; apriva gli occhi stupiti. Voleva godere la vita, la sua parte di bene. Via ogni scrupolo, ogni stupida paura. Egli vuole sottrarsi all'ombra del passato che lo avvolge ancora come un tempo il mantellaccio rattoppato.

E per cominciare egli si propone di entrare in camera della zia, anche violentemente, e di strappare dal cuore appassito della misteriosa creatura, come l'oro dalle viscere secche della mummia, il segreto della sua fortuna legittima. Poi verranno altre fortune ancora, più grandi se non altrettanto legittime! E per cominciare, ancora prima di arrivare a casa sua, egli solleva gli occhi alla finestra dove Maddalena, di solito, lo aspetta. Ma la sorte, che egli sfida, comincia a sua volta ad irriderlo. Giusto questa sera la finestra è chiusa!


***

Egli rientrò a casa deciso di parlare subito con la zia. Ma nell'atrio, dove Carissima cuciva ancora, il Pirloccia finiva di scrivere una cartolina col suo inchiostro sbiadito e la sua penna arrugginita.

Adone passò oltre: ma quando egli fu sulla scaletta Carissima lasciò la macchina, lo raggiunse e gli disse con aria di mistero:

— Se rientravi poco fa trovavi Jusfin.

Egli non rispose, ma volse vivacemente la testa.

— Sì, poco fa! Mi ha pregato di andare al palazzo, per cucire dei tappeti!

— E che m'importa? - egli disse ruvidamente.

E salito nella sua cameraccia, cercò la carta elegante che una mattina aveva comprato per rispondere all' invito di Maddalena. Appena toccò i foglietti color di cera ebbe come un' impressione mnemonica. Rivide Caterina, pallida e muta, con gli occhi corruscanti di dolore selvaggio. Ma questo non gli impedì di scrivere. Aveva bisogno di fare qualche cosa d'insolito, di strano, pur sapendolo; come un pazzo nei primi momenti della sua follia, quando la coscienza non si è ancora completamente oscurata, ma la volontà è già spenta. E scrisse:

« Maddalena, mi permetta di chiamarla così, almeno una volta. Maddalena! Tutto il dolore d'uno che nella vita non ha conosciuto che il dolore, è nel mio grido. Lo ascolti pietosa. E mi dica che anche lei soffre. Questo solo, questo solo può confortarmi, e farmi sperare nel suo perdono. Solo chi soffre perdona! »

Ritornò giù. Pirloccia scriveva ancora, con la sua penna arrugginita che strideva nel silenzio dell'atrio.

Adone uscì nell'aja, attraversò la strada; ritornò davanti al cancello. Il cuore gli batteva di paura e di angoscia. Per un attimo egli esitò: gli pareva che il foglietto, che pure non conteneva una parola d'amore, racchiudesse il segreto d'una colpa. Ma appunto per questo lo gettò nella buca delle lettere. E gli pareva di cominciare a esser forte solo perchè cominciava a credersi colpevole!

***

Rientrando vide che Pirloccia se n'andava, a sua volta, ad impostare le sue cartoline. Allora egli sali dalla zia. Ma appena fu sul pianerottolo sentì, nella scaletta, il passo saltellante di Fiorina. Preso da una specie d'istinto selvaggio, egli aprì e chiuse l'uscio con violenza. La zia era già a letto, al buio, e trasalì al rumore improvviso.

— Zia, sono io. Devo dirti una cosa.

Fiorina battè all'uscio, lo spinse, gridò:

— Zia, vi porto da mangiare! Perchè avete chiuso?

— Adone, apri! - disse la donnina con voce tremula. - Che cosa vuoi?

— Devo dirvi una parola! - egli gridò. - Possibile che non vi si possa mai parlare?

E siccome Fiorina batteva ancora all'uscio egli riapri, ergendosi minaccioso davanti alla ragazza.

— Devo parlare con la zia. Vattene! Hai capito, si o no? Ora accendo il lume, e lascio aperto, qui. E se non te ne vai, o stai lì ad origliare, ti do tanti ceffoni che ti mando a rotolare per le scale. E che, non sono più padrone di dire due parole alla mia zia? Vattene!

Ella entrò, al buio, s'accostò al letto. Ed egli accese un fiammifero, ma non trovò il lume. Allora ridiscese nell'altrio, prese una candela, l'accese, la smorzò, la riaccese. Diventava incosciente, ebbro di collera. Si accorse che Carissima lo osservava, seguendolo con gli occhi lieti e luminosi. Egli si fermò accanto a lei; disse:

— Senti, ho bisogno assoluto di parlare in segreto con la zia. Se Fiorina non va via dalla camera, e se altri viene a disturbarmi, stassera non rispondo di me! Falla venir giù, subito!

E ritornò su. Ma con sorpresa vide che Fiorina, senza dubbio consigliata dalla zia, usciva dalla camera. Egli depose la candela sul camino, e s'accostò al letto. Tognina lo guardava, silenziosa, immobile sotto le coperte: gli occhi di lei, fissi e vitrei, non erano più indifferenti nè supplichevoli; avevano un'altra espressione ancora: pareva che, invece di Adone, scorgessero un fantasma e lo guardassero con terrore ma anche con beffe.

Davanti a quel visetto bronzeo, sul quale il dolore aveva impresso quasi una maschera sarcastica, egli sentì svanire la sua rabbia. Quello sguardo gli diceva tutto ciò che la donna non sarebbe mai stata capace di dirgli. Ed egli capiva tutto. Lo sguardo gli diceva: - So cosa vuoi. Ma è inutile che tu mi tormenti: è come se bastonassi un cadavere. Tutto, ciò che tu vuoi dirmi lo so. Ma tu non sai quello che potrei dirti io. Io ho sofferto più di te: io ho seminato il male, ho raccolto frutti velenosi. Sono stata più povera dei mendicanti, e non ho saputo neanche domandare l'elemosina come loro. Io sono morta: sono morta da lunghi anni. Da lunghi anni ho vissuto in compagnia dei morti: sono stata più morta di loro. Egli si è vendicato; egli mi è stato sempre vicino, tormentandomi sempre. La sua ombra mi ha avvolto come un sudario. Ed anche ora egli è lì, alle tue spalle, e basta che io ti guardi perchè lo veda, in tutto il suo terribile aspetto.

— Zia? Ti senti male? Vorrei dirti poche parole… - mormorò Adone, curvandosi sul letto.

— Son qui, - ella disse, sempre fissandolo.

— Vorrei dirti… Ebbene, ecco; io ti ho sempre voluto bene; ti ho rispettato. Hai da lamentarti di me? No, vero? Perchè i tuoi parenti ti fanno la guardia come ad una prigioniera? Perchè io non posso mai ragionare con te? Questo solo vorrei sapere. Anche ora ho dovuto gridare per poter restare un momento solo con te. E son certo che quelle donne, ora, correranno ad avvisare gli uomini perchè vengano qui… Io vorrei sapere… - E senza aspettare risposta, proseguì, sottovoce, curvandosi sul guanciale di lei: - E so tutto!… Non ti tormenterò, non aver paura. Se avessi voluto, ti avrei tormentato prima. Ma non voglio, capisci, non voglio. Non sono cattivo, io! Ricordati, una sera, qui: io caddi svenuto per il dolore di vederti soffrire. Non ricordi? Io sì! Tu m' hai dato la chiave. Ma poi non m' hai più voluto bene… Se tu mi avessi voluto bene saremmo stati contenti tutti e due. E così, invece… e così… siamo entrambi due disgraziati…

Ella chiuse gli occhi; il suo viso prese una espressione ancora più beffarda e macabra; la bocca s'aprì, le lagrime stillarono dalle palpebre aride come l'acqua purissima dal granito nero.

Egli ebbe come l'orrida e pietosa impressione di aver veduto piangere un cadavere.

E provò uno struggimento simile a quello provato in una sera lontana. I suoi piedi scivolarono sul pavimento, la sua testa s'abbandonò sulla coltre tiepida.

Egli non svenne, come l'altra volta, ma sentì nuovamente un senso di buio, gli parve d'avere innanzi agli occhi un imbuto nero, nella cui profondità brillava appena un punto bianco, lontano, una scintilla di speranza: la speranza della morte!

— Perdono, zia, - egli disse, come tra sè. - Non piangere, non piangere… Anch' io morrò. E tutto è vano; tutto è inutile, lo so, lo so! Tutto, tutto! Il bene e il male, tutto, tutto! Morremo; cadrà l'ombra su tutti, il mondo s'oscurerà… Tutto sarà finito… Tutto. Perchè tormentarci?

Tognina riaprì gli occhi e singhiozzò forte. Egli allora si scosse, s'alzò, si domandò che cosa voleva, e ricordandoselo ebbe come vergogna della sua ingenuità, della sua ridicola ribellione alla potenza fatale del dolore.

La donnina non disse una parola: ma l'espressione del suo viso diventava sempre più sarcastica. E il suo sguardo ripeteva:

— Tutto è inutile: nè il male nè il bene conducono alla felicità.

Adone stette un altro momento curvo sul guanciale. Qualcuno battè all'uscio. Allora Tognina chiuse ancora gli occhi e in un attimo il suo viso si ricompose.

Egli allora comprese tutta la potenza di finzione della piccola donna. Ella frugò sotto il guanciale e gli diede una busta grigia ripiegata in due, accennandogli di nasconderla.

Egli aprì l'uscio, dietro il quale la zia Elena, con un piatto in mano, aspettava inquieta. Egli passò oltre senza guardarla, risalì ancora nella sua cameraccia e aprì la busta. Trovò una striscia di carta ingiallita, bucata nelle pieghe: era la metà, per lo lungo, del testamento dello zio.

Dietro, Tognina aveva scritto col lapis: « L'altra metà ce l'ha P. ».

Adone esaminò a lungo, da una parte e dall'altra, lo strano documento che i due complici s'eran diviso, conservandone ciascuno la metà come un'arma di difesa: e si domandò cosa doveva farne. In mani sue quell'arma era spuntata: soltanto, egli si feriva stringendola. E la punta, anche la punta, egli la sentiva entro il suo cuore, avvelenata dalla ruggine dei lunghi anni passati.

Allora egli ricadde nella sua tristezza morbosa. Senza accorgersene imitava talvolta il contegno della zia nei suoi lunghi anni di muto accasciamento. Tutto gli sembrava inutile e vano o, peggio ancora, ridicolo. Smise ogni idea di vendetta e di ribellione; si pentì di aver scritto a Maddalena e si propose di non più rivederla. Ma intanto aspettava la risposta al suo strano biglietto, e non ricevendola s'irritava, ritornava a credere che anche Maddalena avesse mentito, con lo sguardo, come gli altri mentivano con le labbra! Anche egli aveva mentito, oramai. Mentito con gli altri e con sè stesso. Egli oramai non poteva più credere neppure a sè stesso: come poteva credere agli altri?

Ritornò da Caterina e le domandò, in presenza della nonna, se voleva ch'egli prendesse subito il posto di Casalino e rinunziasse al secondo anno di Università, per potersi immediatamente sposare.

Caterina rispose fieramente di no. La nonna ricominciò a stizzirsi, ma, per evitare una nuova scenata, Caterina si vestì e uscì assieme con Adone. La vecchia non si oppose. E loro se ne andarono a spasso lungo la strada comunale, chiacchierando ed anche ridendo, come facevano un tempo, quando pareva che si burlassero della vita. E anche ora pareva se ne burlassero; ma se un tempo lo facevano per istinto, ora lo facevano per dispetto.


***

La zia stava sempre male. Adone entrava spesso da lei, si avvicinava, la guardava con occhi pietosi. Anch'ella sollevava le palpebre livide, e lo guardava. E nonostante la continua vigilanza dei Pirloccia, zia e nipote si confidavano così le loro pene.

— Lasciami morire in pace, - supplicavano gli occhi di lei. - Per amore di lui, te ne prego! Dopo farai quello che vorrai.

Ed egli rispondeva:

— Vi lascerò in pace. Lascerò in pace tutti. Non tormenterò che me stesso.

E si tormentava, infatti. Non passava più davanti al palazzo, ma nella lontananza la figura di Maddalena gli appariva nuovamente circonfusa di mistero, alta e lontana come una stella. Ed egli la amava non per la voluttà di amare, ma per la voluttà di soffrire.

Le sue notti erano torbide come tutte le notti di passione dolorosa. Nei momenti d'insonnia egli si esaltava: gli pareva di aver compiuto il suo dovere, domandando perdono a Maddalena. Ella non aveva risposto; ma aveva certamente capito ch'egli rinunziava a lei per mantenersi fedele, non a Caterina soltanto, ma a tutti i suoi compagni di dolore, e sopratutto a sè stesso. E nella memoria di lei egli sarebbe rimasto come un eroe.

Ad occhi aperti sognava ciò che sarebbe la realtà della sua vita. Gli pareva di sedere davanti a un popolo di ragazzetti: tutti volgevano a lui le testine irrequiete: tutti rassomigliavano a lui, com'era dieci anni prima! Egli, con parole umili, diceva cose straordinarie. I ragazzetti lo fissavano, e nelle loro pupille si rifletteva il raggio di fede e di forza che animava le parole di lui. Tutta la luce dell'avvenire era in quel raggio. Egli diceva:

— Siate giusti, bambini. Sapete cosa vuol dire esser giusti? Non far soffrire gli altri. E non lo siate per la speranza di un premio nell' altro mondo. L'altro mondo non esiste: c'è solo questo, ma appunto perchè non c'è altra vita dobbiamo esser buoni in questa, perchè soltanto la bontà è verità, e solo la verità è gioja. Noi, io, voi, forse anche i miei figli, i vostri figli, soffriremo e soffriranno prima di abituarci alla verità, e parrà a noi ed a loro che questa sia dolore, e non gioja, come veramente è; ma dobbiamo appunto soffrire per abituarci alla verità. I nostri figli, e i figli loro, devono ereditare da noi, col nostro sangue, quest'abitudine. Per loro sarà altra cosa, allora: il loro istinto li porterà verso il bene e questa sarà la loro felicità, come la nostra è appunto la certezza che un giorno il mondo sarà popolato di uomini giusti! E sopratutto, bambini, sopratutto vi consiglio una cosa. Non abbandonate i vostri figli! Ah, non li abbandonate! Se voi li uccideste, il vostro delitto sarebbe minore di quello d'abbandonarli!

Ma poi si addormentava e il suo sogno mutava completamente. Egli incontrava Maddalena; ella gli diceva: - Perchè mi fai soffrire? Con me sola tu vuoi essere ingiusto! - E lo guardava. Il bene, il male, la giustizia, la verità, tutto sembrava lontano e piccolo, sotto la luce ardente di questo sguardo.

Dall'alba egli era nell'aja, irrequieto come un bambino. Poi andava alla Posta. Nulla. Ritornava verso casa, camminava su e giù per la strada, e quando passava oltre il portone della zolfanellaja si voltava al minimo rumore, e gli pareva sempre di scorgere la figura di Jusfin con una lettera in mano!

***

I Pirloccia fingevano di non essersi accorti del suo breve colloquio segreto con la zia. Forse le donne avevano taciuto, per paura di una scena violenta fra lui e il Pirloccia: forse meditavano qualche tiro malvagio. Egli aveva conservato la striscia di carta consegnatagli dalla zia, ma non si curava d'altro. Però ogni volta che Carissima tornava dal palazzo e parlava della marchesa e di Maddalena egli aveva l'impressione che la sarta lo guardasse con malizia. Egli sapeva che ella raccontava cose fantastiche: tuttavia l'ascoltava con attenzione morbosa, domandandosi che scopo ella avesse.

La vecchia signora, diceva Carissima, era caduta realmente, rompendosi un femore.

— Sì, non può muoversi, - aggiungeva, con aria di mistero. - Ma si tiene la cosa segreta perchè la signora Maria ha paura che i parenti della marchesa diano a lei la colpa della disgrazia.

— Ma la nipote? - domandò la zia Elena. - Non può fare la spia, lei?

— Ma se lei è attaccata alla signora Maria più che la vecchia? Eh, io poi penso una cosa. La ragazza dev'essere innamorata pazza di qualcuno, di un qualche ragazzo povero. La signora Maria deve sapere questa storia e favorisce l'amore dei due ragazzi.

— Ah, ecco, ora capisco! - disse ingenuamente la zia Elena.

Anche Adone capiva, ma taceva, ascoltando avidamente.

— Sì, - ripeteva la sarta. - Se la vecchia muore, la ragazza diventa padrona di tutto e sposa certamente il suo ragazzo. La signora Maria ha interesse a favorirla; così poi rimane sempre con lei.

— Ora capisco! Ma se la marchesa non muore? Può campare altri dieci anni, anche!

— Noè è campato novecento anni, e negli ultimi cento, almeno, doveva essere paralitico, - ribattè la sarta con ironia. - Ma non capite che se lei non muore la ragazza continua ad aver relazione segreta col suo ragazzo; e forse si divertirà più così! Un giorno o l'altro poi lo sposerà, se Dio vuole.

— Ma… ma sarà poi vera questa storia?

Carissima, dimenticandosi che poco prima aveva soltanto supposto la cosa, aggiungeva esaltandosi:

— Oh, proprio vero, veh! La ragazza è cotta cotta cotta. Si vede! Non si regge in piedi. È pallida, bruciata. Quest'oggi è venuta giù, per indicarmi come dovevo orlare un tappeto, e io le dissi se le piaceva star qui, ora che comincia il freddo. Mi disse: oh, no! Fino a tutto novembre ci starò volentieri, sebbene mi senta poco bene.

Una sera poi ella disse d'aver veduto Maddalena andare in casa del prevosto. Poi aggiunse di averla veduta uscire a passeggio.

— Esce tutti i giorni verso le quattro. Spesso va dalla signora Marina, a quell'ora. Va e ritorna sola, senza cappello.

La signora Marina era la sorella del prevosto, una vecchia signora caritatevole, dalla quale anche Adone e la sua famiglia avevano ricevuto dei benefizi.

Egli andava qualche volta a trovarla, quando sapeva che il prevosto non era in casa. Quanto il vecchio prete era rozzo altrettanto la signora Marina era bonaria e prudente. Forse ella posava alquanto: le sue parole parevano studîate; grassa, pallida, vestita alla moda del cinquanta, ella aveva l'aspetto e i modi d'una vecchia duchessa. E raccontava sempre d'un suo viaggio a Vienna, al tempo dei tedeschi. Adone l'ascoltava volentieri, e aveva l'impressione di trovarsi davanti a una figura d'altri tempi. Ed ora s'immaginava che Maddalena, triste e annoiata nella sua vasta casa, andasse dalla signora Marina per distrarsi.

E capiva che Carissima gl' indicava un mezzo per incontrarsi con Maddalena; ma anche con sè stesso fingeva di non capire.

Finito di cucire i tappeti, la sarta disse che le davano altro lavoro.

Fece delle sottovesti di lana per la signora Maria; poi disse che aggiustava una vestaglia di Maddalena. E questa, al solito, s'era degnata di conversare con lei, lamentandosi di forti dolori di testa.

— È pallida, sciupata; dev'essere molto infelice, - diceva Carissima; e per poco non aggiungeva che Maddalena le aveva confidato le pene del suo cuoricino malato.

Adone non credeva, o si sforzava a non credere a queste chiacchiere. Maddalena era troppo elegante per farsi aggiustare le vestaglie dalla sarta del villaggio: e ad ogni modo era troppo fina per mettersi a conversare con Carissima! Ma poi egli ricordava la gita nel bosco, la semplicità, l' ingenuità di Maddalena. Se ella non fosse stata così carina e semplice, non si sarebbe degnata di guardarlo! Perchè lo aveva guardato? Egli si domandava ancora, meravigliato, perchè ella s'era innamorata di lui. E chi poteva spiegarlo? E lui non s'era innamorato di lei? La stessa distanza li separava. Egli era un uomo, ella una donna. E l'amore non domanda altri ingredienti per compiere i suoi inesplicabili malefizi!

E le frottole di Carissima lo intenerivano, suo malgrado.

Egli tuttavia credeva di intuire qualche cosa di losco nelle mene ingenuamente astute della sarta.

Ella doveva aver paura di lui, dopo il suo colloquio con la zia: e forse agiva per conto proprio, forse era consigliata dal Pirloccia stesso. Ma evidentemente il suo scopo era di eccitarlo e incoraggiarlo ad avvicinarsi a Maddalena. Il loro segreto oramai era conosciuto da molti. Senza dubbio anche dai Pirloccia. E se il colpo straordinario sognato da Carissima riusciva, Adone certo non si sarebbe più curato dell' eredità della zia. Poi egli dubitava anche della signora Maria, e pensava che nelle ciarle di Carissima ci fosse qualche cosa di vero. Gli pareva che non solo l'amore coi suoi incantesimi, ma anche gli uomini con le loro astuzie, cercassero di avvolger lui e Maddalena nella rete di un intrigo pericoloso.

Alle volte però sussultava. Forse Carissima non mentiva. Maddalena soffriva davvero. Non soffriva anche lui? Egli che voleva esser pietoso con tutti, anche coi suoi nemici, tormentava colei che lo amava come nessuno, nessuno al mondo, neppure Caterina, lo aveva amato. E fu ripreso dal desiderio angoscioso di rivederla, di assicurarsi se anche lei soffriva davvero. Ah, ella non aveva risposto al suo grido, ma in silenzio, nel suo palazzo freddo come una torre, ella si consumava di passione e di tristezza, come una fanciulla di altri tempi, nella vana attesa dell'amato lontano!

Un giorno egli non potè resistere oltre: andò a visitare la sorella del prevosto e nel passare davanti al cancello guardò verso la finestra di Maddalena. Ella non c'era. Egli ripassò. E come chiamata dal desiderio di lui, ella s'avvicinò ai cristalli. Era davvero pallida e magra; il suo profilo, cereo sullo sfondo della finestra illuminata, pareva un cammeo sull'oro trasparente d'un'agata. Ella si volse: egli si fermò. E si guardarono come non s'erano ancora guardati; con tutta la voluttà dell'amore che soffre.

Ed egli si riabbandonò al suo sogno, con passione disperata.

***

Doveva partire fra pochi giorni, e un' idea fissa lo tormentava.

— Quando ritornerò ella non ci sarà più. Non la rivedrò più.

Andò parecchie volte dalla signora Marina, ma non v' incontrò mai Maddalena: scrisse ancora, lunghe lettere disperate; ma quando stava per mandarle si pentiva d'averle scritte e le lacerava, buttandone via i pezzettini, che il vento pietoso disperdeva assieme con le foglie morte!

Un giorno finalmente egli incontrò Maddalena che usciva dalla parrocchia. Era sola, vestita di nero, con una sciarpa di velo nero intorno al capo. Sembrava più piccola e sottile del solito, e il suo viso olivastro, nella vaporosa cornice nera della sciarpa, aveva un'espressione quasi tragica. Egli ricordò la figurina luminosa, in riva al fiume, e gli parve che la colpa del lividore e della magrezza di Maddalena fosse tutta, tutta sua, e non in parte del vestito e del velo nero! La guardò, con un tremito d'amore e di rimorso per tutte le membra. Maddalena si accorse del turbamento di lui, e mentre gli passava rapida davanti gli sorrise. Il suo volto s' illuminò: e così pure l'anima di lui. Egli vagò sull'argine e pei campi fino a tarda notte. Gli pareva d'impazzire di gioia, di dolore, di desiderio.

***

L' indomani Carissima gli disse che sarebbe rimasta a lavorare nel palazzo fino alle nove di sera, e lo pregò di aspettarla davanti al cancello, se egli passava di là. Altre volte egli si sarebbe offeso: ora avrebbe ringraziato con gioia. Alle otto e tre quarti era già davanti al cancello.

La notte era alquanto nebbiosa, ma tiepida e dolce. Attraverso la nebbia le finestre illuminate del palazzo parevano le finestre d'un castello fantastico, fatto di nuvole.

Egli camminava sull'orlo del prato e sentiva la nebbia sfiorargli il viso, come una tela di ragno. Sogni in verosimili gli attraversavano la mente, più diafani e inconsistenti della nebbia. Se ella, avvertita discretamente da Carissima, scendesse al giardino e si avvicinasse al cancello? Che avrebbe egli falto? Eh, si sarebbe avvicinato anche lui! Ella avrebbe mormorato:

— Adone!

A questo solo pensiero egli sentiva un brivido.

Scoccarono le nove. Nessuno. Egli continuò a camminare ed a sognare. Un uomo attraversò il prato, sparve nel viottolo. La luna sorse fra la nebbia, rossa di un rosso opaco come di sangue coagulato; un'ombra si avvicinò al cancello, dall' interno del giardino. Una voce chiamò:

— Adone?

Quasi quasi si avverava il suo sogno!

Ma la voce era quella di Carissima.

— Adone, vattene. Ho molto da fare, ancora. Mi riaccompagnerà Jusfin. Glielo ha ordinato la signorina.

— Senti… - egli disse, quasi incosciente. - L'hai veduta?

Carissima rispose di sì: e aggiunse con malizia:

— E tu, no? Le ho detto che mi aspettavi!

E ritornò di corsa verso il palazzo. Egli rimase, aggrappato al cancello, di cui gli pareva che il ferro tremasse. Era lui che tremava. Ella sapeva ch'egli era lì. Ella verrebbe; ne era certo! Ed egli ora l'aspettava, con tutta l'ansia d'una passione colpevole ma vittoriosa.

E non ricordava più nulla: nè chi era lui, nè chi era lei: nè che la sua amante l'aspettava alla finestra del viottolo. Gli pareva, soltanto, che nella sua vita egli non avesse fatto altro che aspettar Maddalena!

Ma ella non venne.


***

Allora egli fu colto da una specie di fissazione delirante. L'ombra del suo sogno gli sfuggiva davanti; egli si mise ad inseguirla con ebbrezza dolorosa, pur figurandosi di esserne fatalmente trascinato.

Ritardò di qualche giorno la sua partenza, e per altre due notti attese Maddalena al cancello, esponendosi alla curiosità dei pochi passanti.

Gli pareva che Maddalena sarebbe venuta, anche senza esser chiamata, per sola forza suggestiva. Una forza irresistibile li avvicinava. Essi sapevano di amarsi; si conoscevano da anni ed anni, da un'epoca remota: e si avvicinavano l'uno all'altro per un'attrazione fatale, come gli astri che si incontrano nello spazio. Egli pensava a questo incontro come ad un avvenimento inevitabile. E diceva a sè stesso che era suo dovere arrivare fino a Maddalena per domandarle perdono e dirle che non dovevano amarsi. Avrebbero pianto assieme; poi si sarebbero lasciati per sempre. Ma pensando così egli si accorgeva di mentire a sè stesso. Sentiva che la passione lo trascinava. Maddalena era per lui come il simbolo della fortuna, ma sopratutto era l'amore colpevole, con tutti i suoi attraenti misteri.

Quando egli vide ch'ella non veniva al fantastico appuntamento, pensò di arrivare direttamente fino a lei. Non era in obbligo d'andare a salutarla, prima di partire? Non era stata gentile con lui? Ma egli ricordò le chiacchiere di Carissima; ebbe paura d'essere spiato, di non essere ricevuto, e non andò.

E le scrisse ancora, deciso, questa volta, di non affidare al vento pietoso le sue parole.

« Addio! Domani sarò lontano, e il deserto della vita ci dividerà per sempre. Ma ella non mi ha detto ancora la sua parola di perdono, senza la quale io partirò disperato per questo viaggio per noi senza ritorno ».

Passò davanti al cancello, ma vide Jusfin e non mise la lettera nella buca. Gli parve che l'ex-cacciatore lo guardasse beffardo, e passò oltre. Fece il giro del prato, ed entrò nell'aja della parrocchia. La sorella del prevosto non c'era. Egli non voleva salutare il vecchio prete, che lo sgridava come un ragazzetto ogni volta che lo incontrava. Uscì di nuovo e si fermò sotto l'arco del portoncino. Di là vedeva il cancello, ma non poteva assicurarsi se Jusfin stava ancora nel giardino.

Ma all'improvviso trasali, come se qualcuno gli avesse dato un colpo alle spalle.

Il cancello s'apriva. Maddalena, vestita di nero, col velo nero intorno al capo, uscì e attraversò, col suo passo rapido e lieve, il prato solitario coperto di foglie secche. Ed ella si dirigeva al portoncino della parrocchia!

Egli s'appoggiò al muro, tremando. Gli pareva che quell'avvenimento semplicissimo, la visita di Maddalena alla parrocchia, fosse un fatto straordinario. Egli stringeva nel pugno la sua piccola lettera di addio, e si domandava smarrito se doveva consegnarla a colei che s'avvicinava.

Ella s'avvicinava: s'accorse ancora del turbamento di lui, ma questa volta non sorrise. Questa volta il suo viso esprimeva davvero qualche cosa di tragico e di sdegnoso in pari tempo. Egli ricordò i suoi sogni, il grido di lei « perchè mi fai soffrire? » e gli parve che ella si avanzasse spinta da una risoluzione disperata.

Quando fu davanti al portoncino ella invece domandò, turbata sì ma non tragica:

— Non è in casa la signora Marina?

— Non so… credo… no, non c'è! - egli disse, smarrito. E spinse il portoncino. Si vide la casa deserta, il pergolato, una foglia gialla sui mattoni rosei del pavimento dell'aja.

Maddalena salì lo scalino, fu con lui, vicino a lui. Egli sentì il profumo di lei, rivide da vicino la sua carnagione vellutata, gli occhi pieni di dolcezza. Dimenticò ogni altra cosa. Le disse, incosciente:

— Devo… devo parlare! Bisogna…

— Non ora, non ora! - ella impose.

— Quando? Stasera?… Sì… sì… Alle dieci sarò davanti al cancello.

Ella arrossì: non rispose, ma lo guardò; ed egli indovinò la tacita risposta.

Poi ella entrò nell'aja, ed egli se ne andò; e non seppe mai perchè, invece di ritornare a casa o di aspettare il ritorno della signora Marina, egli si diresse verso Casale.

Attraversò il viottolo, camminò sull'argine. Gli pareva di sognare, e guardava per terra, spaurito, come cercando qualche cosa che non riusciva a trovare!

— Ella verrà! - pensava: ma questa certezza, invece di colmarlo di gioia, gli dava quasi un senso di terrore.

Un fatto semplicissimo lo richiamò in sè. Al principio della fuga di Co' de' Brun, il sobborgo dei poveri, egli incontrò la signora Marina, che forse ritornava dall'aver fatto qualche visita pietosa. Con la sua gonna a volanti, di seta color tabacco, il corsetto a punta e il velo di merletto sui capelli troppo neri per una signora di settant'anni, ella si avanzava a passi lenti, e da lontano salutò Adone facendogli un amichevole cenno col ventaglio. Sì, nonostante l'autunno inoltrato, ella portava un bel ventaglio nero e rosso regalatole da Maddalena.

— Sono stato da lei, - disse Adone, fermandosi. - Parto domani.

— Ritorna con me, - disse la vecchia.

Egli arrosì, pensando che forse Maddalena era ancora alla parrocchia. Ma vinse la tentazione, o meglio ebbe paura.

— Non posso, ora. La saluto qui. Ora vado da Caterina.

— Ah, tu vai da Caterina? Ecco, volevo appunto domandarti di lei. La pace è fatta?

— Che pace? - egli domandò, inquieto.

— Oh, niente, allora! Dicevano che il matrimonio era andato a monte! No? Mi rallegro, mi rallegro.

Egli pensò a Carissima e alle sue chiacchiere.

— No! No! Eh, no! - disse. - Chi può aver detto questo?

Poi ripensò a Maddalena che asettava la signora Marina, e si senti molto triste.

Ed egli andò da Cateriná. E conobbe l'angoscia del tradimento. Baciando l'amante pensava all'altra: e il dolore muto e selvaggio di Caterina gli parve mille volte più lieve del suo.

Anche la vecchia lo guardò con occhi mutati, supplichevoli. Quello sguardo, simile allo sguardo di una volpe ferita, gli penetrò fino al cuore, più che tutte le occhiate d'ira e i rimbrotti della vecchia.

Le due donne dovevano aver paura: senza dubbio sapevano tutto; le chiacchiere della sarta, la voce or ora riferita dalla signora Marina; e che egli, nonostante le sue promesse, continuava a girare intorno a Maddalena come l'allodola intorno allo specchietto.

Ma oramai Caterina lo conosceva, come egli non conosceva ancora lei. E sapeva che da lui si otteneva tutto col silenzio e nulla con le parole. Quando si lasciarono, ella piangeva, però, d'un pianto silenzioso e desolato.


***

Le dieci. Come al richiamo insistente dei dieci rintocchi, la luna s'affaccia sul tetto della chiesa, e illumina i pioppi sfrondati, le cui foglie gialle, sull'erba fredda del prato, sembrano fiori addormentati. La notte è tiepida, sebbene un vento leggero soffi a intervalli, spingendo sul cielo azzurro qualche nuvola scura. Adone cammina su e giù per il prato, calpestando le foglie morte e le ombre dei pioppi.

Egli va, egli va, a testa china, e gli pare di camminare ancora sull'argine in compagnia dei suoi pensieri inquieti. E gli pare che nella sua mente ondeggi un velo a momenti luminoso, a momenti scuro, come il cielo in quella notte incerta. Verrà Maddalena? Non verrà? Egli sarà egualmente infelice. E gli pare di non aspettarla, ma di trovarsi lì come un tempo, bambino, distratto dal vano giochetto delle ombre. Ma basta un susurro, un calpestìo, per farlo tremare. I minuti passano. Ella non viene. Forse non verrà più.

Egli sente ancora una volta tutta l'ingenuità del suo sogno, gli pare d'essere ridicolo, e ricomincia ad irritarsi. E non si accorge che si irrita non per questo, ma perchè Maddalena non viene.


***

I minuti passavano. Si scorgeva una finestra del palazzo ancora illuminata, e un fanale acceso davanti alla scalea. Un'ombra passava e ripassava dietro i cristalli, in quel lembo di luce che pareva il segno di un mondo lontano. E la fiammella del fanale tremolava al vento, come un occhio inquieto. Pareva le desse fastidio l'andare e venire dell'uomo sotto i pioppi. Poi qualcuno spense il fanale; l'ombra non oscurò più i cristalli. Tutto fu silenzio. Il palazzo parve di nuovo disabitato.

La luna penetrò attraverso il cancello e illuminò il viale bianco: e le ombre dei cespugli tremolarono sulla sabbia, come agitate anch'esse, nel silenzio lunare, da qualche passione.

Egli s'irritava; e più s'irritava, più s'ostinava ad aspettare. Ma le ombre s'addensavano sopra il suo capo e dentro il suo cuore. Arrivò un momento in cui egli non vide più, sotto i suoi piedi, le ombre dei pioppi. Le nuvole coprivano la luna. Egli rivide, nella penombra, la figura di Caterina: ed ebbe un'impressione strana, gli parve ch'ella avesse gli occhietti azzurri supplichevoli della vecchia Suppèi.

La luna riapparve. Allora egli pensò agli ocdolci e voluttuosi di Maddalena. E un brivido di piacere attraversò il suo dolore, come il vento del sud attraversava, quella notte, la pianura melanconica.

Ma fu un attimo. Egli ricadde nel suo sogno penoso. L'ombra di Caterina lo seguiva: e quando la luna spariva e sparivano le altre ombre fondendosi con le tenebre, egli si fermava perchè gli pareva che Caterina si piegasse e si stendesse ai suoi piedi. Egli non aveva il coraggio di calpestarla. Si sentiva piegare anche lui: aveva quasi desiderio di gettarsi per terra, di fondersi con le ombre della notte. E Caterina piangeva: e il suo gemito era provocante e accorato. Egli si curvava ad ascoltarlo, come altre volte s'era curvato ad ascoltare le voci misteriose dell'erba, dell'acqua, delle foglie. Gli pareva che l'ombra dicesse:

— Ricordati le mie parole, Adone. I morti ritornano e si vendicano. Io sono morta, per te: ma la mia ombra ti segue e non ti lascerà più. Mi troverai da per tutto, sempre, sotto i tuoi piedi; e t'impedirò d'andare avanti. Tu potrai baciare l'altra, ma fra le vostre labbra vi sarà come la lama di un coltello, che taglierà i vostri baci! E sarò io. E sai chi sono io? Tu credi ch'io sia Caterina? T'inganni; non sono l'ombra d'una donna. Sono l'ombra di tutto il tuo passato!


***

Le nuvole camminavano verso ponente; a un certo punto parvero precipitarsi tutte laggiù, come attirate da qualcosa di strano che accadesse al di là dell'orizzonte. La luna riapparve, e un chiarore di madreperla inondò il prato.

In quel momento di silenzio e di luce, egli sentì che Maddalena veniva. Ridiventò incosciente: si trovò davanti al cancello, gli parve che tutto intorno tremasse per il grande avvenimento.

Maddalena era venuta per lo stretto viale che circondava il parco, rasente al muro; era ancora vestita di nero, con la testa velata. Egli non guardò il piccolo viso lividognolo, rischiarato dalla luna, nè ella guardò lui.

Parevano due colpevoli. Ma quando fu accanto a lei, rasente al muro, lungo il viale umidiccio, egli provò un nuovo sgomento. Gli parve che Maddalena fosse un'altra!

Egli capiva che doveva parlare e non poteva. Ma dopo il primo impeto di stupore, ed anche di paura, si dominò. La certezza che ella lo amava, la fiducia e la confidenza ch'ella gli concedeva, lo fecero esultare di orgoglio. Ancora una volta egli scambiò questo sentimento con la gioja. Gli parve d'esser felice: e che non avesse più nulla a rimpiangere. Ella lo amava!


***

Maddalena camminava rapida davanti a lui, come per insegnargli la strada. Il suo vestito lungo portava via le foglie secche del viale.

Egli si guardò attorno; la suggestione del luogo e dei ricordi lo vinse. Il vento riempiva di soffi il parco. Si udivano come dei passi lievi, saltellanti; egli ricordava le sue fantasie infantili, e credeva che le fiere un tempo scorazzanti nel parco si destassero nei loro nascondigli secolari, e si rincorressero agili tra gli alberi, come in una foresta. In alto gli alberi stendevano come una nuvola, al disotto della quale, sopra il muro, biancheggiava una fascia di chiarore argenteo che illuminava il viale. E a destra, attraverso i tronchi avvolti d'ombra, si scorgeva il terreno coperto di foglie gialle: in alto le foglie scintillavano alla luna. Tutto era fantastico, ma triste, freddo. Pareva un luogo abbandonato. Nel muro coperto d'edera s'aprivano, di tanto in tanto, larghe nicchie entro le quali v'erano statue corrose e sedili di pietra. Maddalena si fermò davanti ad una di queste nicchie, dietro una fontana il cui canaletto non gettava più acqua.

Adone le fu vicino. Sentì di nuovo il profumo di lei.

— La ringrazio… - disse; e tacque, spaventato dal suono della sua voce.

— Ma di che? - rispose subito Maddalena, con voce alta e quasi ironica. E s'appoggiò al muro, entro la nicchia, sporgendosi in avanti per spiare le profondita del viale.

Ed egli ridiventò sospettoso. Gli parve ch'ella, - anch'ella, - fingesse. Gli parve che ella non fosse abbastanza turbata, ma avesse anzi voglia di beffarsi di lui e della sua goffaggine. E di nuovo l'ombra lo avvolse.

Ricordò che era venuto per domandarle per dono: solo per questo: ma ebbe paura di sembrarle ridicolo e volle dirle tutto. Entrò anch'egli sotto l'arco della nicchia, s'appoggiò al muro e lasciò cadere il cappello sul sedile.

— La ringrazio d'esser venuta, - disse, stringendosi le mani, come desolato per la sua impotenza ad esprimersi bene. - Volevo venire… di giorno… Da tanto tempo volevo venire! Parto domani… Allora ho avuto paura di non rivederla più… Allora…

— Perchè? - ella domandò, con voce mutata. E sollevò il viso.

Ma invece di rispondere egli ripetè:

— Devo partire. Forse non la rivedrò più.

Ella replicò, più forte:

— Ma perchè? - E mise il volto quasi sotto il volto di lui.

Nonostante l'ombra fantastica e l'ombra vera che li avvolgeva, i loro sguardi s'incontrarono. Egli sentì che la creatura velata e profumata chiusa assieme con lui nella stessa nicchia, quasi entro quel muro contro il quale si erano spezzati molti suoi sogni, era veramente lei, la creatura dei suoi sogni. Le prese una mano: e vibrarono assieme a quel primo contatto. Ma egli ricordò subito un'altra mano, calda ed aspra, che parve mettersi fra la sua e la mano di Maddalena. Allora egli domandò:

— Sa chi sono io? Lo sa?…

— Sarei qui, se non lo sapessi?

— No, no, non lo sa! Lei è qui perchè… è buona… perchè una fatalità ci ha spinto l'uno verso l'altro… Io non so dirle…, - proseguì, disperandosi, - non so parlare… Sono venuto per domandarle perdono. Mi dica che mi perdona…

— Ma io non ho niente da perdonarle…

— Ma lei non soffre?

Maddalena non rispose subito. Parve cercare la risposta. Egli ricominciò a tremare, e il suo tremito si comunicò a lei. Ed ella mormorò:

— Sono contenta di soffrire…

— Perchè non ha risposto alla mia lettera? L'ha ricevuta?

— Sì! Sì! Che dovevo dirle? Che soffrivo?

Ho avuto paura di farla soffrire di più…

— Lei… Lei ha fatto questo? Ed io invece… Io le ho fatto molto male! Mi perdonerà, lei? Potrà?…

— Lei mi ha fatto del bene… - mormorò Maddalena, avvicinando il viso al petto di lui, quasi volesse parlare al cuore che l'amava. - Mi ha insegnato ad amare!

— Ma lo sa chi sono io? Lo sa? Lo sa? - egli insistè, smarrito.

— Lo so! Sì, sì, sí… - ella rispose, animandosi. - La conosco da tanto tempo. So tutto; so che le hanno fatto del male. Quando ero bambina… ragazzetta… una volta, mi ricordo, qui, non so perchè… qui, davanti a questa fontana, mi buttai per terra e piansi rabbiosamente. C'era Jusfin, che mi disse: « Com'è cattiva! E io conosco tanti bambini che non piangono neppure quando li bastonano. Ne conosco uno, poi, tanto carino; non ha padre, la madre non lo vuole, nessuno gli vuol bene, eppure è sempre buono ». Io rimasi tanto colpita da queste parole. Dicevo sempre a Jusfin: « Fammi vedere quel bambino ». E me lo fece vedere, un giorno. Stava arrampicato al cancello: scappò nel vederci… Era lei.

Adone si portò le mani al viso: pareva volesse piangere.

Maddalena proseguì, semplice e commossa:

— E poi io pensavo sempre a lei, pensavo: ma come la madre non lo vuole? E sentivo una pietà quasi materna. Sì, sì, davvero… Ma avevo vergogna di dirlo. Poi, quando fui grande, una persona mi parlò sempre di lei, e mi fece leggere la sua novella, e le sue lettere…

— Davide! - disse Adone. E una commozione violenta lo assalì. - Perchè ha fatto questo? - domandò, come parlando fra sè. - Perchè lo ha fatto? Ah, forse egli credeva di rimediare al male che mi ha fatto?

— Anche lui le ha fatto del male?

— Lui più di tutti… Ah, tutti mi hanno fatto del male, tutti… tutti…

— Lo no, però? - ella disse, carezzevole.

— Lei no… lei sola!…

Egli disse così, ma subito pensò a Caterina. Anche a lei egli aveva detto le stesse parole! Quando aveva mentito? Allora? O mentiva adesso? L'ombra di Caterina tornò a riafferrarlo. Ma egli fu assalito da una rabbia sorda contro il fantasma importuno. Volle scacciarlo; prese quasi con violenza le mani di Maddalena, la strinse a sè, la baciò, le sfiorò con mano tremante le spalle tremanti. E gli parve di sfiorarle la pelle, tanto la stoffa del suo vestito era liscia. E il profumo di fieno ch'esalava da tutta la persona di lei era così dolce e caldo che egli ebbe l'impressione di trovarsi in mezzo ad un prato, in una sera di giugno. E un tremito di passione lo scosse, ma non in modo da fargli dimenticare la rabbia e l'angoscia che lo avevano spinto a baciar Maddalena.

La profezia si avverava: l'ombra era sempre davanti a lui, in mezzo a loro.

Egli però si ostinava. Baciò Maddalena con maggior impeto, cercando sulle labbra di lei ciò che nulla, nulla al mondo poteva offrirgli: l'oblio; ma pronunziò parole insensate che tradirono la sua disperazione.

— Tu sola… Tu sola! Tu sola mi hai fatto del bene. Io però ti faccio del male… Sono colpevole, ma ti amo… Ma tu mi perdonerai; non è vero che mi perdonerai? Dimmelo… Dimmelo… - E lagrime di dolore caddero dagli occhi suoi, sul viso di lei, come gocciè di veleno.


***

Ella si staccò da lui, come respinta dal soffio di passione angosciosa che lo agitava.

— Ma perchè piange? - gli domandò, stringendo a sua volta le mani con atto disperato. E non gli diede del tu. Neppure un bacio d'amore poteva unirli.

Egli le riprese una mano e se la portò agli occhi. Ma la piccola mano era diventata fredda, morta.

— Le dirò tutto… - egli disse. - Bisogna: sono venuto per questo…

— Dica… dica! - ella impose, quasi irritata. Ma egli non potè subito parlare. Chiusi entro quel muro che pareva li dividesse dal resto del mondo, vicini, entro la nicchia, come le figure d'uno stesso gruppo, essi tacquero per alcuni istanti, come ascoltando le voci del vento. Adone sentiva che Maddalena non gli avrebbe perdonato mai l'offesa di averla baciata pensando all'altra. E sentiva che quella era la prima e l'ultima ora che essi passavano assieme. Tutto era finito davvero; ora che tutto invece avrebbe dovuto incominciare! L'arco stretto della nicchia racchiudeva tutto ciò che v'è di più tenace in due razze diverse: l'orgoglio; e il muro non li divideva dal mondo, poichè il mondo era dentro il lorò cuore!

— Che penserà di me? - egli disse, finalmente con la voce vaga di un malato sotto l'azione di un eccitante. - Sono uno sciocco, sì! Sono uno stupido, sì! Ha ragione, ha ragione! Ma lei perchè non mi ha risposto? Se ella mi scriveva una sola parola di perdono io sarei partito… Così non potevo! E ora invece… ora invece sono qui, a tormentarla ancora! Perchè non mi ha risposto, perchè?

— Sapevo che lei sarebbe venuto, - elle disse, con lieve ironia.

Egli riprese, eccitatissimo, parlando sempre come un infermo a cui sia stata iniettata una sostanza stimolante:

— E sono venuto! Ma perchè son venuto? Non lo so neppure io! So che dovrei essere felice… e invece piango! Sono uno stupido; mi perdoni! Maddalena, mi lasci parlare; se non le dico tutto ora, non riesco a dirglielo più. Mi pare di morire… e forse morrò, appena l'avrò lasciata. Mi lasci parlare… Senta, senta: io ho mentito, poco fa, quando le dissi che da tanto tempo volevo venire. Non è vero! Io non volevo venire; io sapevo che non dovevo venire. Questo è il castigo. Ma perchè? Perchè? - continuò, disperato, rivolgendo la domanda a sè stesso. - Perchè tutto questo? Sono stato sempre buono, io: da bambino mi hanno maltrattato, mi hanno tradito, mi hanno percosso mentre dormivo. Hanno ucciso la mia forza e la mia volontà. E chi doveva proteggermi m'hà insegnato a piegarmi, a sottomettermi: e così la mia piccola anima s'è deformata, così! Così, così! Me lo lasci dire! E' rimasta piccola, timida, vile! Io ora non sogno più nulla per me; più nulla, più nulla; non sono capace di prendere il mio bene per non far male agli altri! Ecco che cosa hanno fatto di me! Maddalena, lo capisce ora, lei, lo capisce chi sono io?

— Non parli così! Dio, mi fa male sentirlo parlare così! - disse Maddalena; ma egli proseguì, sempre più eccitato:

— Così! Così! È proprio così! Ora vedo chiaro, davanti a me, al di là di questa cupa ombra che mi avvolge! Poco fa mentre l'aspettavo, poi mentre la baciavo e credevo di dover morire per la gioia, ho sentito come un colpo alla testa. Ho veduto un fantasma. Ho creduto fosse il fantasma di una donna alla quale io sono unito per sempre, e invece era un altro fantasma. Era il mio stesso fantasma. Una volta mi hanno percosso mentre dormivo: io urlai, domandando giustizia. Nessuno rispose al mio grido. E questo rimase come dentro di me, e lo sento echeggiare ogni volta che credo di commettere un tradimento. E l'ho sentito anche poco fa, quel grido! Come era lungo e triste! Dio! Dio! Ricordo un'altra volta… un altro urlo… una notte come questa… Ma lei non può capire… Lei è stata sempre felice… Io no… io no; capisce?

Sì, ella capiva, finalmente! Egli lo aveva detto: egli era unito ad un'altra donna, per sempre. E mentre egli parlava Maddalena lo guardava fisso, fiera e spaventata. E forse vedeva negli occhi oscuri di lui un' ombra più densa e pericolosa delle ombre del viale. Che voleva, da lei, quell'uomo lamentoso? Questo ella non riusciva a capirlo. La sua pietà cadeva, davanti a quell'uomo che non poteva e non voleva essere più suo. Ella non domandò altro: non poteva umiliarsi, come si era umiliato lui. Lo aveva ricevuto come un suo eguale, poichè voleva innalzarlo fino a lei. Egli invece voleva rimanere al suo posto, al fianco d' una creatura misera, della quale Maddalena Darrgenti ostentava d'ignorare persino l'esistenza.

— Basta! - ella disse, morsicandosi le labbra - lo non sapevo. Ha ragione.

E si scostò, per indicargli che era tempo d'andarsene.

La calma di lei lo spaventò. Le balzò vicino, come un pazzo; le afferrò un braccio.

— Non se ne vada! Mi ascolti.

Ella si svincolò, tremando.

— Mi lasci! Che ha da dirmi ancora?

E s'avviò. Il viale era scuro: le nuvole coprivano anche la striscia di cielo, sopra il muro. Adone seguiva Maddalena, ripetendo:

— Mi perdoni… Mi perdoni…

Ella si mise a correre, come infastidita dalla supplica insistente di lui. Poi si fermò, lo aspettò e lo accompagnò fino al cancello. Ma egli non parlò più, avvilito. Uscì, e mentre lei chiudeva si volse e stette a guardarla. Ella non riusciva a chiudere bene il cancello. Egli pensò che forse ella aspettava da lui qualche parola ancora. Una parola ancora e forse tutto non era finito. Ma egli non volle dire questa parola. E lei se ne andò, silenziosa e lieve, com'era venuta.


***

Egli rimase nel prato. Gli pareva di aver sognato: un sogno terribile e stupido nello stesso tempo. Sulle prime fu vinto da un'umiliazione ardente. Disse a sè stesso che Maddalena doveva beffarsi di lui; che Maddalena lo aveva scacciato; che Maddalena era cattiva e crudele. Ella non si era commossa mai, nè alle sue parole d'amore, nè al suo grido di angoscia. Ma poi ricordò ch'ella tremava nel dirgli « mi lasci! »

Egli l'aveva lasciata. S'egli le avesse detto « son tuo ancora » ella non lo avrebbe mandato via. E a poco a poco egli fu ripreso da una convulsione di rancore e di angoscia.

Sentì che con Maddalena gli sfuggiva, non solo il sogno, ma anche la realtà della gioia e della fortuna.

E sentì la disperazione del bene perduto; il desiderio di ciò che non avrebbe posseduto mai più.

Vide ancora in sè stesso la personificazione di tutta una razza, accecata, come certi insetti viventi in luoghi oscuri, dall'ombra di un passato tenebroso. Egli era vissuto all'ombra di una mostruosa ingiustizia. Tutti l'aveano tradito, sua madre, i suoi parenti, colui che egli aveva quasi eletto a suo maestro. Ma la più grande ingiustizia che gli uomini avessero potuto fargli era questa, di renderlo ingiusto verso sè stesso.

E ancora una volta propose di ribellarsi, come appunto la razza della quale egli si credeva il rappresentante! Ma subito si accorse della sua contraddizione. Egli era infelice appunto perchè era un ribelle. Egli aveva sognato un avvenire di amore, e questo sogno aveva come paralizzato in lui la capacità di amare. Amare fino all'oblìo di ogni altro sentimento; amare fino al male. Sol-così, - egli pensò, - l'amore è gioia: tutto il resto è menzogna.

Ma dopo un-momento gli parve che anche quest'amore non esistesse. Nulla esisteva, nella vita, nulla di ardente e di vero.

Egli aveva creduto che la vita, come il parco Dargenti, racchiudesse misteri dolci e profondi; ed invece era piena d'ombre melanconiche, di fontane inaridite, di foglie morte. E il fantasma del sogno, simile a Maddalena, scacciava il sognatore dopo averlo attirato nei suoi recessi.

Perchè tutto questo? Egli sollevò il viso, come interrogando gli alberi, le nuvole, tutte le cose che un tempo gli rispondevano fraternamente.

Ma tutto era ombra. Le nuvole s'allargavano, coprivano tutto il cielo; e su quello sfondo cupo gli alberi mormoravano, con un rombo lontano, e parevano più alti del solito, alti fino al cielo, agitati come le nuvole.

Egli provò una nuova impressione: gli parve che anche gli alberi, quella notte, soffrissero: e invece di rispondere al suo grido gli domandassero, a loro volta, il perchè del loro dolore. Perchè il vento li agitava e l'ombra li avvolgeva?

Ma egli non seppe rispondere. E se ne andò, portando con sè l'ombra di un passato ben lontano, al di là di ogni nostro ricordo, al di là di ogni causa umana: ombra sorella delle nuvole e della notte, figlia anch'essa, come loro, della natura inesplicabile: il Dolore.

***

Ma quando fu nella sua cameraccia, fra le umili cose compagne al suo antico soffrire, egli ritrovò un altro fantasma che si coricò al suo fianco e gli propose di aiutarlo a combattere le ombre che lo tormentavano. Egli dapprima lo respinse. Tutto gli sembrava inutile. Ma l'altro era insistente, paziente, anche furbo. Era lo spirito folletto che la vecchia Suppèi dava per compagno a tutti gli uomini: la propria coscienza!

Come una vecchia fantesca che per calmare il bimbo malato ricorda, canticchiando, vicende passate, il piccolo fantasma rievocava alla memoria di Adone i dolori, i sogni, i propositi che egli aveva fatto sin da bambino. Fra le altre cose glì ricordava la lettera scritta a Davide, in un momento disperato. E gli diceva, lusingandolo:

— La lettera non ha ottenuto risposta. Ma ora tu puoi procedere egualmente verso l'avvenire, perchè puoi fidarti, se non in tutti, almeno in uno dei tuoi fratelli: il più intimo, il più sincero: in te stesso.

Fine.