TREDICI CANTI
DEL FLORIDORO.
Di Mad. Moderata Fonte.
ALLI SERENISS. GRAN DVCA, ET
GRAN DVCHESSA DI THOSCANA.

CON PRIVILEGIO.

IN VENETIA M˙ D˙ LXXXI



MODERATA FONTE

FOlta, frondosa, e verdeggiante selua, Di sacri honor, non di Cipressi, o Palme, Produce il suol de le tue belle, ed alme Virtù, là 'ue ogni stil vago s' inselua. In lei non s' ode aspra feroce belua Fremir, ma dolce suon di ben nate alme, Che porta (ò gran Signor) tuoi pregi, e palme Di Cittade in Città di Selua in Selua. Io, che d' entrar fra li sentier diuersi, E frà l' immense vie bramo, & ardisco, Per quale hor deggio incaminar miei versi? Scopriran li tuoi merti? o 'l valor prisco De gli aui illustri? ò pur n' andran dispersi? MA gloria è porsi ad honorato risco.



MODERATA FONTE

PIoggia di gratie in te perpetue pioua, Celeste Donna, onde tal luce abonda; Viua ogn' hor la tua gloria alma, e gioconda Co 'l Ciel (non pur con la Fenice) à proua. I preclari intelletti illustre, e noua Tessino Istoria in lingua atta, e feconda, Ch' al tuo merto, al tuo pregio corrisponda, Al gran lume, al gran ben, ch' in tè si troua. Te scelta il fior de gli almi Heroi già scelse, Che d' amor vero, e di regal corona Il tuo cor cinse, e le tue belle chiome. Ed io scelgo tue lodi alme, ed eccelse; Nè maggiore hor desio l' alma mi sprona, Che di por frà miei versi il tuo bel nome.

ALLA SIG˙ MODERATA FONTE

NObil Cigno del Pò sourana gloria Cantò Ruggier con bellicosi carmi, Sì, ch' eterna via più che bronzi, e marmi Del sangue Estense il Mondo haurà memoria. Nobil Sirena (e se per lei si gloria La Regina del Mar, ben giusto parmi) L' amor di Floridor cantando, e l' armi Tesse al gran Duce Thosco illustre Istoria. Se già d' altre Sirene al dolce suono Chiuse l' auide orecchie il Duce Greco Saggio, accorto a schiuar perigli, e morte; Hor per questa vdir sol benigna sorte Brama ogn' un mille orecchie in caro dono, Tanta dolcezza, e maestade hà seco.

ALLA SIG˙ MODERATA FONTE PIega, per honorar sì bella Fonte, Che de l' altre ogni gloria oscurar suole, Come al nostro Orizonte arriua il Sole, Di sacro allor la coronata fronte. Lascian Parnaso il fauorito Monte Le Muse, poi ch' in lei ciascuna vuole Lauarsi il petto, e 'l viso, onde si duole Castalio, ed Hipocrene à noi sì conte. E le Ninfe, e le Dee del Mare intorno Le fan nobil ghirlanda, onde si stima Di gran pregio l' humor, ch' in lei risorge. Però, seguendo il portator del giorno, Honorianla ancor noi frà l' altre hor prima, Che stupore, e letitia al Mondo porge.

ALLA SIG˙ MODERATA FONTE

CHe d' amor canti il ben esperto amante, D' armi il soldato, il marinar de venti, L' architetto di fabriche, e di genti Varie, e d' usanze il peregrino errante, Marauiglia non è; quando di tante Fè proua à giorni suoi gioie, e tormenti, E l' aspre guerre, i sdegnati elementi, Gli edifici, e i costumi hà sempre inante. Mà che tu non esperta verginella, Stando rinchiusa in frà l' anguste mura Di tutto ciò perfettamente canti; Non pur stupisce il Mondo, e la Natura, Ma la gloria, che spargi eterna, e bella Leua à più degni spirti i primi vanti.



Giunto Macandro à le Cecropie mura Abbate tutti i Cauallier di Corte. Segue il destrier dentro vna selua oscura Lungi il Sican da le Palladie porte. Gli narra vna Donzella l' auuentura De la ghirlanda, e di Parmin la sorte. Macandro in gran terror pon tutta Athene, Al fin vn Cauallier contra gli viene.

SCegli d' ornati, e ben composti accenti Il più bel fior, leggiadra Musa, e canta Li spogliati Trofei, gli incendij spenti Dal tempo, ond' ancor Marte, e Amor si vanta. Dì le battaglie rie, le fiamme ardenti, Ch' vscir da l' arme, e da la face santa All' hor, che 'l fero Dio gli altari hauea, E Ciprigna adorata era per Dea. Canta l' inclite imprese, e i dolci affetti De' Cauallieri, e de le donne illustri, Fà che di quelle man, di questi petti Viua il pregio, e la gioia eterni lustri; Et aguaglia lo stil con quei concetti, Ch' escon de' pensier miei vaghi, et industri, Mentre al raggio purissimo, e diuino D' vn' alma coppia il rude ingegno affino. Fra tanto ella, che luce, e scorta fia De la nobil da noi fatica presa, Fauorirà per così lunga via Quel bel desir, di c' ho la mente accesa; Altrimenti quest' opera saria Oscura troppo, e mal guidata impresa, Ne sperarei, senza il suo lume grato, Di peruenirne al fin sì desiato. FRANCESCO Serenissimo, splendore Del fortunato Imperio di Thoscana. Voi, che quel sete, senza il cui fauore Ogni fatica mia reputo vana; Degnisi il vostro generoso core, Per l' alma sua virtù via più c' humana Tal' hor riuolger del mio basso ingegno Gli incolti versi, che cantando vegno. E voi BIANCA Illustrissima, ch' insieme Di casto vnita, e maritale affetto Lieta regnate, e gratie alte, e supreme Spargete in ogni cor vostro soggetto; Voi che sete non meno appoggio, e speme Di quei pensier, che m' infiammaro il petto, Non sdegnate accettar questo humil dono, Poi che frà tanti anch' io serua vi sono. Nel più vago fiorir di quel ben nato Secol famoso, in quella et&agravie; nouella, Ch' in Attene piouea propitio il Fato Quante può gratie dar benigna stella, Superbo in lei sen gìa del regio ornato, E d' ogn' alma virtù pregiata, e bella Vn Re, non men prudente, che gagliardo, Giusto, & human, che si nomò Cleardo. Con felice Himeneo, lieto, e giocondo Sciolti hauea i voti al protettor Cupido, E la stirpe real del Re Alismondo Tolta al Sicano, e tratta al Greco lido; Di cui produsse vna fanciulla al mondo, C' hebbe sopra le belle il pregio, e 'l grido, E fù dotata d' eccellente ingegno, Che in bel corpo non regna animo indegno. Erano i gratiosi almi sembianti Di costei, che fu detta Celsidea, Ei suoi costumi sì leggiadri, e santi, Che parea non mortal donna, ma Dea, Tal che sua fama à tutte l' altre inanti Pel mondo gìa, ne d' altro si dicea; E mentre ogn' huom di lei parla, e fauella, Ogn' altra perde il titol d' esser bella. Soleua il Re per suo contento il giorno Farsi seder questa fanciulla à lato, Con la Regina, e più donzelle intorno, Ch' eran le più gentil del Greco stato. Hor accade che stando in sala vn giorno Co' Greci Heroi nel modo, c' hò narrato, Comparue in mezo vn gran gigante, e fiero, A cui riuolse ogniun gli occhi, e 'l pensiero. Costui del Regno Armenio era partito, Oue gran tempo hauea seruita in vano Vna giouene bella da marito, Che di quel Regno hauea lo scettro in mano. De' cui begli occhi hauendo il cor ferito Venuto era per lei presso che insano; E stimando più ch' altro esserle grato, Si tenea sopra ogn' amator beato. Non che l' amasse la gentil donzella, Ch' era amante per lei disconcio troppo; Ma per che lite hauea con la sorella, E temea ogn' hor di qualche strano intoppo, Con lieta vista, e con dolce fauella Lo tenea stretto à l' amoroso groppo; E l' hauea vn tempo in corte intertenuto, Perche al bisogno suo le desse aiuto. Hor mentre egli in Armenia a la gran corte Beato serue, e altier di tanta dama. Ode quanto gran biasmo il grido apporte Di questa Greca à lei, ch' egli tanto ama, E gli accende vna rabbia il cor sì forte, Che (se potesse) vccideria la Fama, Pur, quando altro non puo disegna almeno Sfogar nel Regno Acheo tanto veleno. S' arma, e prende licentia da colei, Di cui nel core impresso hà il viso adorno; E com' io dissi inanzi al Re d' Achei Si transferì ne la gran sala vn giorno. Tosto ch' ei giunse, à gli occhi iniqui, e rei S' appresentò quella beltà, che scorno Al Sol facea, non che ad ogni altra bella; De la real illustre verginella. A l' estrema bellezza, in cui le ciglia Non osò di fermar l' huom crudo, e fiero, Conobbe lei per quell' eccelsa figlia, C' herede esser douea del greco Impero. E ne prese trà se gran marauiglia, Che la sua Dea mirando nel pensiero Non gli parue sì vaga, e bella, quanto Era costei, benche l' amasse tanto. Con tutto ciò, per non esser venuto In darno, e per l' amor ch' à lei portaua, E per hauer materia, onde veduto Fusse il valor, ch' ei tanto in sè stimaua, Non volse rimaner tacendo muto, E voltatosi al Re, ch' attento staua, Disse con alta, e con superba voce, Ch' ogn' vno intese il suo parlar feroce. Perche troppo s' estende il pregio, e 'l grido, Ch' à la figliuola tua tal rende honore; E per colmar di gloria il Parthio lido, E à l' Armenia donar luce, e splendore, Io Macandro ch' in Parthia ho 'l proprio nido, E son di tanto Imperio alto Signore, Son venuto à prouar con l' arme in mano, Com' il grido è dal ver troppo lontano. E dico, e vuò prouar ne i tuoi terreni Con chì frà i guerrier tuoi più in pregio sale, Che la bella Biondaura, ch' à gli Armeni Comanda, e al valor mio (ch' assai più uale) Di chiaro uiso, e d' occhi almi, e sereni Vince tua figlia, e non hà in terra vguale. Dico, c' ha sì bel viso, e sì giocondo, Che costei passa, e non ha par nel mondo. La proua con la lancia, e con la spada Sia per tre giorni, e di chì resta a piede (Questo patto frà noi voglio che vada) Lo scudo sia del vincitor mercede; E, per ch' altro disturbo non accada, Tu m' assicurerai sù la tua fede, Che 'l patto osserueranno i guerrier tuoi, Senza ch' altro romor nasca tra noi. Io me n' andrò (se 'l tuo parer l' approua) Fuor della terra al grand' Oliuo a canto, Et iui aspetterò chì vengha in proua Contra di me, che di prouar mi vanto, Che la Regina mia sol si ritroua, I cui begli occhi, e 'l cui bel viso santo Non pur non cede a la bellezza altrui, Ma non è volto human simile a lui. Parue a ciascun superba, & arrogante La sua proposta, e ne diè segno in vista. Ma tu bella fanciulla, che sembiante, Che cor fù il tuo per così strana vista? Il Re, che vede, che quel fier gigante La bella figlia sua turba, e contrista, Le dice, figlia mia sia il pensier vostro Di trouar, chi diffenda il pregio nostro. Io, quanto a me, sù la mia fè prometto Al Cauallier, che non gli fia mancato, E poi che 'l uostro almo, e leggiadro aspetto Sparge vn grido sì chiaro, e sì lodato, Non trouerete vn Cauallier perfetto, Che vi difenda il pregio, che vi è dato? Vada pur il guerrier, c' haurà ben cura Di difenderui alcun, state sicura. Notò Macandro altier, che la richiesta Non pose in lui terror molto ne poco, E si partì con vn crollar di testa, Quasi sprezzando ognun, ch' era in quel loco. Partito l' empio in corte altro non resta Da ragionar, che del futuro gioco, Che tanto aggrada lor, quanto dispiace La gran superbia del gigante audace. Erano alcuni dì per gran ventura, Ch' era in Athene Apollideo venuto, Cui lo scettro deuea di quelle mura, Che fondò de la cetra il suono arguto; E 'l Re de Sparta, e quel di età matura Griante così forte, e così astuto. Eraui anco Aliforte di Tessaglia, Che brama esser il primo a la battaglia. Non vede il franco Re d' Arcadia l' hora, Che 'l fier Macandro a la battaglia sfide, E gode di trouarsi iui à quell' hora, Il medesmo pensier fà Polinide. Costui uenne del Regno, oue Etna ogn' hora, Sospirando Tipheo, s' accende, e stride; Nipote era del Re per la consorte, E uenne dianzi à visitar la corte. Io vuò dir, che suo padre era fratello De la Regina moglie di Cleardo, Che fur del Re Alismondo e questo, e quello Figli, qual fù a' dì suoi tanto gagliardo. Poi morto lui fù fatto Re nouello Il suo figliuol, che si nomò Brancardo, Padre di Polinide, c' hò narrato, E di tutta Sicilia in coronato. Quel dì tutto, e la sera i cauallieri, Ch' uscir deuean contra il gigante strano, Spesero in gouernar l' arme, e i destrieri Per non cader sì facilmente al piano; E ben ch' ogniun d' esser uincente speri, (Se la ragion dà la uittoria in mano) Non però uol mancar di porsi à mente Ogni auiso più pronto, e diligente. A pena l' alba in Oriente apparse Per far l' antiqua scorta al nouo giorno, Che d' alto suon tutta la terra sparse Del gran Macandro il formidabil corno. Subito in piazza Apollideo comparse. E rispose al gigante ingiuria, e scorno. In tanto il popol uano di natura Corse in gran fretta ad occupar le mura. Il Principe Theban licentia tolse Prima dal Re, poi da la regia figlia, Nè senza il suo consentimento uolse Torcer un dito al suo destrier la briglia, Indi uer le gran porte il freno uolse Con pochi, che 'l seguir di sua famiglia, E il Re con la figliuola, e la mogliere, Anch' ei uenne sul muro per uedere. Le Cecropie donzelle e preghi, e uoti Fanno a la casta, e bellicosa Dea, Perche 'l lor cauallier l' arcion non uoti, E mantenga l' honor di Celsidea, Et ei; pregando che d' effetto uoti Non uadino i pensier, ch' in mente hauea; Lei mira nel passar, ch' in mezo splende Di cento belle, e 'l cor gli instiga, e accende. Erane occulto il Caualliero amante Da che mirò le belle luci sole, E dentro si struggea, qual sera inante Rapido foco, ò neue esposta al Sole. Ma nol rendeua Amor così arrogante, Che osasse à isguardi aggiunger le parole; Tacito egli adoraua il diuo aspetto, Ch' era sol refrigerio a l' arso petto. A l' aprir de la porta, e a l' uscir fuore Con molto ardir che fè, l' altiero Ismeno, Brillò nel uolto, e giubilò nel core Il gigante di gaudio, e d' amor pieno. E certo di restarne uincitore, E d' antepor al Greco il pregio Armeno, Si moue anch' ei, ma pria che gli risponda Riuolge il guardo alla Palladia fronda. Appeso à un ramo hauea del Sacro Oliuo Vn' efigie di donna alma, e gentile, D' un' aspetto sì nobile, e sì diuo, Che raro alcun se gli trouò simile, A questo che parea, non finto, uiuo, Sì lo ritrasse un diligente stile, Inchinossi l' altier diuoto, e fido, E roppe insieme il ciel con questo grido. Ben che degn' io non sia d' un fauor tale, O de l' Armenia, e del mio cor Regina, Ch' essendo un Cauallier uile, e mortale Essaltar cerchi una beltà diuina; Pur accetta il uoler pronto, e leale, Che sol la tua grandezza adora; e inchina, E degna, ch' io per te uinca hor gli Achei, Che poi uoglio anco in Ciel uincer gli Dei. Con questo allentò il freno, e punse il fianco Al suo destrier, che per lo prato corse; L' Agenoreo guerrier non fece manco, Che dritto uerso lui la briglia torse, Et andollo à colpir sì ardito, e franco, Che marauiglia ai circonstanti porse; Ne l' incontrar per colpa del cauallo Pose la lancia il fier gigante in fallo. Non fè così il Theban, che proprio giunse Il fier Macandro à mezo de lo scudo, Ma doppio, e ben ferrato indarno il punse, Quantunque fosse il colpo acerbo, e crudo. E perche troppa forza al braccio aggiunse Fracassò l' hasta insino al ferro nudo, Ne si piegò il gigante, nè si mosse Come una torre innanzi al uento fosse. Da l' impeto i caualli trasportati Con poco lor disconcio oltra passaro, E poi ch' un pezzo andar, furon uoltati Da i cauallier, ch' incontra si tornaro. Macandro bestemmiò le stelle, e i fati, Quando conobbe il suo diffetto chiaro, E l' assaltò una furia, di maniera Ch' Aletto è più placabile, e Megera. Già tratto il brando, onde più genti estinse Il buon Thebano inanzi si facea, Quando il gigante adosso se gli spinse, E con quella gran colera c' hauea, Prese col braccio horrendo, e in guisa strinse L' elmetto del campion di Celsidea, E se 'l tirò con tanta forza al petto, Che fù à cadere il cauallier costretto. Vide à questo ciascun, che forza estrema Hauea il gigante, e non minor destrezza, E 'l Rè (non che perciò s' affliga, ò tema) Ben si marauigliò di sua fierezza. Le donne Argiue, à cui speranza, e tema Combattea 'l cor, c' han fama di bellezza Molto si contristar, che 'l guerrier Greco Fusse caduto, e la lor gloria seco. Ma ben maggior fù la uergogna, e l' ira, Ch' Apollideo di questo caso prese, Onde col brando la battaglia dira Volea seguir per uendicar l' offese; Se non chel Rè, ch' a questo hauea la mira, Tosto un messo mandò, che gliel contese, E insieme gli ordinò secondo il patto, Che 'l uincitor lasciasse satisfatto. Lo scudo, oue la figlia di Peneo Si uedea ornar d' un nouo arbor la terra, Lascia dunque al gigante Apollideo, E torna uergognoso ne la terra; E ne l' entrar del giouene Cadmeo Vscì Aliforte a la seconda guerra, Che di tanti color uestir gli piace, C' hauer suol l' arco annunciator di pace. Era questo garzon molto gagliardo, Ma di natura uano, & arrogante, Onde uantossi inanzi al Re Cleardo Di riportar lo scudo del gigante. Venne si com' io dissi, ne più tardo Di lui fù l' auersario à farsi inante, Corsero il campo, e presero la uolta Con l' haste basse, e con la briglia sciolta. Colse Macandro il guerrier di Tessaglia Pur à lo scudo, e fè si picciol botta, Che senza aprirli pur piastra, ne maglia, Volò al ciel l' hasta in mille tronchi rotta; Ne più felice uscir de la battaglia Lo uide il Re de la Palladia frotta Del buon Theban, quando ne l' elmo urtollo Macandro sì, che de l' arcion gettollo. Non fù sì tosto in terra che risorse Il Caualliero, e rimontò in arcione, E 'l proprio scudo à l' auersario porse Con la gemmata insegna del pauone, Indi uer la cittade il fieno torse, E mal contento uscì de la tenzone. In tanto di giostrar tolse l' assunto Vn altro cauallier, ch' era già in punto. Di Sparta era costui Signor, ch' io dico Dell' Amphionio Re figliol minore, Sì liberal, sì di uirtute amico, Che sparta se lo elesse per Signore. Venne egli in contra al uincitor nemico Per emendar del suo fratel l' errore; Porta ben ne lo scudo anch' ei l' alloro, Ma sopra l' elmo ha una corona d' oro. Non hebbe il buon Algier (cosi nomosse) Del frate Apollideo più destra sorte, Ch' a l' incontro il terren verde percosse Restando in sella il suo auersario forte. Griante doppo lui ratto si mosse, Il più prudente cauallier di corte, E Macandro sfidò sdegnoso, e fiero, Ch' era del quarto honor lieto, & altero. Quel ch' ad ogn' altro Cauallier successe Col fier Macandro, anco a Griante auenne, Ch' a l' incontro il terren col tergo presse, E 'l Re de Parthi in sella si sostenne. Risorto il Cauallier lo scudo cesse, E ripreso il cauallo indietro venne. In tanto il Re d' Arcadia Elion detto Contra Macandro espose il franco petto. Hà ne lo scudo una Panthera pinta, Con arme bigie, e sopraueste tale, Così il destriero hauea la spoglia, tinta Però di color vero, e naturale. Macandro intento ad acquistar la quinta Gloria, com' habbia messo al destrier ale Venne a colpirlo con tal furia in fronte, Che 'l pose a terra, e u' hauria posto un monte. In questo Polinide, che nepote Era del Greco Re per la mogliera, Mont' a cauallo, e 'l fren gli allenta, e scuote, E Macandro incontrò, che già mosso era. Ma de l' arcion piegar pur non lo puote; Anzi cadde egli ancor con gli altri in schiera, E diè a Macandro il uerde scudo in mano, Oue pinto una spica era di grano. Gli dà lo scudo, e dietro il suo destriero Và, per pigliarlo, e rimontarui sopra, Ma 'l Caual corre uia tanto leggiero, Che d' acquistarlo era dificil l' opra; Non cessa di seguirlo il Caualliero, A fin che non si celi, e non si copra, Corre il cauallo, e tal uantaggio acquista, Ch' esce in breue hora al suo signor di vista. Polinide pur và dietro la pesta, Fin che cacciossi in mezo vn bosco folto, Et hor per quella strada, hora per questa Cercollo assai, per che l' amaua molto. Vna vaga donzella al fin l' arresta, La qual gli viene incontra a freno sciolto, E tenendo il destrier che più non gisse Sciolse la lingua, e tai parole disse. Dimmi per sorte, o Caualliero, hauresti Visto un guerrier d' aspetto ardito, e franco Quindi passar con belle, e ricche vesti, Di cui l' insegna in verde è vn giglio bianco? Rispose il buon Tinacrio, non han questi Occhi miei tal guerrier mai veduto anco, Che nome è 'l suo? nol sò, disse la dama, Sol lo conosco a l' habito, e per fama. Ho bisogno di lui perche mi caui D' vn gran martir, che nel mio petto hà stanza, Poi ch' egli vince tutti i casi graui, Tanto è maggior la sua d' ogni possanza. Ben narrereiti i miei tormenti praui, E quel dolor, ch' ogni dolor auanza, Se non c' hò troppo fretta di trouare Quel gentil Cauallier, che non hà pare. Io lo vado cercando in ogni banda, Ma sempre al desir mio contrario il Fato In loco a lui lontan mi gira, e manda: Pur hò per spia che quì d' intorno è stato. Forse al castel sarà de la Girlanda, Doue concorre ogni guerrier pregiato A la uentura apparsa di nouello Nel paese di Dacia in quel castello. Deh (disse Polinide a la donzella) Narrami questa impresa in cortesia, Dimmi come sia strana, e come bella, Di che periglio, e di che gloria sia. Per ch' io disegno di uenir a quella, E sarà forse la uittoria mia, Quando la donna la preghiera intese Subitamente del destrier discese. E disse, s' hai di uenir meco brama, Monta in arcion, che verrò dietro in groppa, E come udij, ti narrerò, per fama L' alta auentura, oue più d' vn s' intoppa. Il Cauallier, che di trouarsi brama A quella impresa auenturosa troppa, Accetta il proferir de la donzella, Prende la briglia, e salta nella sella. In groppa la donzella se gli mise, Poi uerso Dacia presero il sentiero, E caualcando, come ella promise, Così narrar comincia al caualliero. La Regina di Dacia, à cui conquise Lo sposo già destin crudel, e fiero, (Come à lui piacque, herede si rimase) Ne le regali sue splendide case. Et hauendo quel cor, che già tempo hebbe La casta Dido inuerso il suo consorte; (Come hauer ogni uedoua dourebbe,) Che non aperse à uan desir le porte, La sede marital, ch' al suo Re debbe, Pensò di mantener fino a la morte, E poi ch' hauea perduto il suo Signore Di uiuer senza sposo, e senza amore. Hor per sciagura un cauallier un giorno In quella corte uenne à dar di petto, E di costei mirando il uiso adorno (Ch' era ancor fresca, e di leggiadro aspetto) In guisa n' arse, che la notte, e 'l giorno Trahea caldi sospir da l' arso petto. Duca di Transiluania il giouene era, Bello di uiso, e di real maniera. D' altro già mai non pensa, altro non brama, Altro non cerca il giouene infelice, Che d' ottener la desiata dama, Che sola far lo può lieto, e felice. D' arischiar uita, facultade, e fama, Per ogni uia che lice, ò che non lice, Non si cura egli, pur c' habbia il suo intento, C' hauutol fia poi di morir contento. In corte era un garzon, che 'l Re alleuato Sin da fanciul d' ignobil schiatta hauea, Et era à la Regina il più fidato, Il più caro di molti, che tenea. Pensa poter costui rendere ingrato Con danari, e proporli ogni opra rea Il Duca, e 'l troua, e come meglio puote, Proua la mente sua con queste note. Tu sai Parmin (così nomar l' udia) Che, mentre stato in questa corte io sono, Io seruitù da te, tù cortesia Da me n' hauesti, e più d' un ricco dono; E parmi che tra noi contratta sia Già sì grande amicitia, che non sono Così grandi seruigi, ou' io uedessi D' apportarti piacer, ch' io non facessi. E così credo ancor, che dal tuo canto, S' io ti scoprissi un certo mio bisogno, Tu saresti prontissimo altre tanto Ad essequir quel, ch' io bramo, & agogno, E porresti ad effetto il desir tanto, Che senza il tuo fauor reputo un sogno; E se in questo mio affar sarai discreto, Tu ricco, & io sarò contento, e lieto. Parmin, c' hauea già fatto esperienza, Ch' e gli era un ricco, e liberal Signore, Gli disse. Homai deuresti conoscenza Hauer del mio uer tè concetto amore; Narrami questa tua noua occorrenza; Fà ch' io sappia quel, c' hai chiuso nel core; Che non son cose al mondo così grandi, Ch' io non facessi à un sol de tuoi comandi. Rispose il Cauallier; poscia che ueggio, Che sei sì pronto, e di seruirmi hai brama, Sappi che molti dì son, ch' io uaneggio Per la beltà d' una leggiadra dama, Et ogni giorno andrò di mal in peggio, S' io non ottengo lei, chel mio cor brama; Se non mi dai Parmin presto soccorso Io son al fin già di mia uita corso. Dimmi qual è costei, (Parmin gli disse,) Nè dubitar, ch' io non la uinci, e dome. È la Regina che 'l mio cor trafisse, Rispose Amandrian (così hauea nome) In lei le uoglie mie son ferme, e fisse, Ne' suoi begli occhi, e nel' aurate chiome. Io te l' hò detto, hora che l' odi, e sai, Non mi mancar, poi che promesso m' hai. Parmin rimase attonito, e confuso, De la promessa sua molto pentito, Ma il Cauallier, ch' era in tal pratiche uso, Tosto un ricco rubin gli pose in dito. Disse trà se Parmin, s' io me ne scuso, S' io lascio di accettar questo partito, Quando mai più di farmi ricco il tempo Verrà, s' io non mi faccio hor, che n' hò tempo? Fece animo, e gli disse, Amandriano Grande è la tua richiesta, e assai mi doglio, Che uogli, ch' io ti tenga in cosa mano Troppo nefanda, il che mai far non soglio; Pur perche 'l detto mio non resti vano, E per tua gentilezza oprar mi voglio; Dimmi pur tu ciò, che ti par che faccia, Che 'l tutto son per far, pur ch' io ti piaccia. Il Cauallier, ch' inanzi hauea pensato Come ingannar potesse la Regina, Rese Parmin benissimo informato Del modo, onde gabbarla ei si destina. Lascia Parmino il Duca inamorato, E uerso la real stanza camina, E troua con bel modo occasione, Che la Regina il manda à Belgirone. Belgiron di tre leghe era lontano, Da diporto un castel uago, & adorno, Qui (secondo insegnolli Amandriano) Fà quella notte il rio Parmin soggiornò; Poi, quando spunta il sol da l' Oceano, Fà in molta fretta à la città ritorno, Và à la Regina, e uoler farla accorta Mostra d' un caso, à suo parer, ch' importa. La Regina l' ascolta uolentieri (Ch' ogn' un d' udir da nouo ha gran diletto) E fà le damigelle, e i camerieri A un cenno sol partir dal suo cospetto. Narra Parmin. Signora io fui pur hieri A Belgiron, come m' hauete detto, Doue essequito il uostro alto comando Per lo cortil men uo' hiersera errando. Mentre soletto al fresco erro, e passeggio, E miro il prato uerde, e 'l ciel sereno, Mouersi il suolo à me propinquo ueggio, Come una talpe sia sotto il terreno. Mi fermo, e guardo, e nel guardar m' aueggio, Che s' alza il prato, e fà grauido il seno, Ne molto stà, che dal terren produtto Vien un felice, e mostruoso frutto. Io uidi con questi occhi, e à pena loro Posso anco prestar fede, e pur fù uero, Con bianco pelo, e picciol corno d' oro Vscirmi incontro un bel giuuenco altiero. Fioria sotto il suo piè sì bel thesoro Di chiare gemme, che abbagliar mi fero. Dico ogni fior, ch' egli calcando uenne, Di perla, ò di rubin la forma ottenne. Confuso di sì strana marauiglia, Io non sò all' hor quel, che mi debba fare; Sul principio un desir m' afferra, e piglia D' empir le man di quelle pietre rare; Ma nouello pensier poi mi consiglia, Ch' io proui il bel giouenco di acquistare, Che non inuidio all' Erittree maremme, S' acquisto il tor, che fà fiorir le gemme. Stendo la man per afferrargli un corno, Ma quel si scuote, e al mio desir non cede, Et io lo uò pur circondando intorno, Et affatico in uan la mano, e 'l piede. Al fin nel primo mio pensier ritorno Di farmi almen di quel thesoro herede, Mi chino, e apro la man; ma quel non meno Sotto la palma mia sgombra il terreno. Poi che quello ottener non posso, e uaglio, Ritorno al toro, e quel s' aretra, e fugge, Hor con quello, hor con questo io mi trauaglio, E dolor, e desir l' alma mi strugge. Il toro al fin ueggendo il mio trauaglio Si uolge à me, nè come toro mugge, Ma com' huom, ch' intelletto habbia, e loquela Il fin di questo error m' apre, e riuela. Non è fatto per te Parmin (mi dice) La strana, e felicissima auentura, Nè 'l mio thesor toccare ad alcun lice, E d' acquistarmi in darno altri procura; Sol la Regina tua può gir felice Del ben, di cui il maggior non fè natura. La ricca preda à lei sola si deue, Per un disturbo rio, c' hauer dè in breue. Sappi, ch' in breue un Re forte, e possente Le hà da far guerra, e porla in gran tristezza, Perche con l' or le mancherà la gente, E sarà in gran necessità, e strettezza, E però un sauio Mago suo parente Pose nel piede mio questa richezza, Hauendo l' empio suo caso preuisto, Perch' al bisogno ella ne fesse acquisto. Hor, che 'l tempo è uenuto, io m' hò scoperto A te, che sei frà tutti i suoi più fido, Però diman la troua, e falle aperto Il ben, che dentro à me chiudo, & anido. Dille che uenga sola, e sia coperto Il suo uenir, nè alcun ne senta il grido; Giunga di notte, e fuor che te non sia Altri che uenga à farle compagnia. Prenderammi ella, e fia uittoriosa Sol per uirtù de i pretiosi sassi. Così dicendo entro la tana ascosa Insieme ritirò le pietre, e i passi. Allhor s' aggiunse in un la terra herbosa, Et io restai in pensier con gli occhi bassi, Nè tutta notte mai potei dormire, Tanto hauea di condurmi à uoi desire. La semplice Regina, che gran fede Hauea in Parmin per lunga esperienza, Tutto quel, ch' ei le dice ascolta, e crede, Quando men gli deuea prestar credenza; E molto più da credere le diede, Perch' era il uer, ch' un zio d' alta scienza Ella hebbe già nel' arte di Medea, Che l' auentura fatta hauer potea. Subito entra in pensier, che Re sia quello, Che le hà da mouer guerra, e come, e quando; E già più d' un discorso iniquo, e fello La dubbia mente sua uien conturbando. Già, come à lei uicin fosse il drapello De nemici, si pensa ir preparando: È donna, il caso è graue, che la preme, E breue il tempo, ond' hà ragion se teme. Gli è uer, ch' assai le dà speme, e conforto Quel, che le hà detto il suo fedel Parmino, Chel felice giouenco da lui scorto Può trarla d' ogni crudo, empio destino. Onde non crede mai, che resti morto Il giorno per poter porsi in camino. Non uede l' hora mai, che giunga sera Per gir à Belgiron con l' aria nera. La notte era lunghetta, e la uia corta Sì, che spera di far presta tornata; Ne farà l' Alba al Sol l' usata scorta, Ch' ella nel letto suo fia ritornata. Come la notte in ciel le stelle apporta, E ch' al suo loco è tutta la brigata, Parmin due corridori in punto pone, Et aspetta, che dorman le persone. Ma uince il sonno ogn' alma, e sparge à pena Del suo liquor lo smemorato Oblio, E Morfeo rapresenta in uaria scena Più d' un caso à mortali ò buono, ò rio, Che la Regina fuor di casa mena D' acquistar l' auentura alto desio, E l' infido Parmin, di cui si fida Ella, uà seco, e le è compagno, e guida. Sopra buoni destrier spronaro tanto, Ch' in men d' un hora giunsero al castello. Dentro uegghiaua Amandrian da un canto, Ch' à un certo segno aprir deuea il portello. Staua ad udir; Parmin fà il segno in tanto, Nè stette il Duca à dimandar, chi è quello; Ma chetamente aperse, e senza luce, E la Regina dentro si conduce. Parmin l' incauta donna al buio tira Dentro un hostel, doue non è persona; Et ecco Amandrian, ch' arde, e sospira Vien per sforzar la bella sua persona; Ma la cosa non uà, com' ei desira, Che spesso auien, quel ch' in prouerbio suona; Che per pena riman del suo peccato L' ingannator à piè de l' ingannato. Amandrian si crede ne le braccia La bella donna hauer, ch' ama, e desia, Ma in quella uece una persona abbraccia, Che non gli par, che la Regina sia, La qual così lo stringe, e sì lo impaccia, Che più tenaglia stringer non potria, Nè ual che sì dibatta, e si dimene, Che preso al fin, e uia portato uiene. Il medesimo fù fatto à Parmino; La Regina rimase al buio sola; Più d' un ohime sentì dirsi uicino, Che tutta la spauenta, e disconsola. Parmin non sente più; chiama Parmino, E non s' ode rispondere parola, Non uede Tor, non uede cosa alcuna, E comincia a temer di sua fortuna. Nè sapendo che farsi afflitta, e muta, Senza punto dormir con molto affanno, Stette fin, che l' aurora in ciel uenuta Scoprì l' aurato suo lucido panno. Come desto ogni uccello il dì saluta, E rende il bel matin più uerde l' anno, La donna inanzi à se stupenda, e noua Vna superba machina ritroua. In forma di Piramide è composta, E risplende, e traspar come un christallo. Ne l' alta cima una girlanda, è posta Di rossi fiori assai più che corallo La donna sbigotita se le accosta, E uede in penitenza del suo fallo Dentro Parmino, e 'l Transiluanio Duce; Che 'l muro al guardo suo chiaro traluce. La Regina conosce ogn' un di loro, Ma il fatto ancor discerner ben non puote; Et ecco ne la pietra in lettre d' oro Vede uniti i caratteri, e le note, Che le scoprir la fittion del toro, E le fer tutte quelle fraudi note. Lesse poi che Parmino, e 'l Duca esterno De la pregion non uscirà in eterno S' un Cauallier non uien d' ingegno tale, Di tal ualor, che quell' in canto opprima, E spogli la piramide fatale De la girlanda posta in sù la cima. Quando (era scritto) alcun pur metta l' ale, E uoli ad acquistar la spoglia opima. Se Re fia quel, c' haurà sì ricco pegno, Non fia cacciato mai del proprio regno. Ma se sarà priuato Caualliero Quel, c' haurà la girlanda in sua balia, Sarà col tempo assunto à qualche Impero, Nè fia cacciato mai di Signoria. E se à donna, o donzella il cerchio altero Venirà ne le man, sicura fia, Che la sua castità le sia guardata Contra ogni mente disleale, e ingrata. E per c' habbia ciascun conoscimento Di chi quest' opra fè tanto importante, Sappi che ti guardò da tradimento (Nobil Regina) il uecchio Celidante, La Regina, compreso il fiero intento Del seruo auaro, e de l' audace amente, Scopertasi à la gente del castello Lor fè palese il caso iniquo, e fello. Sparsesi il grido, onde più d' un prouato S' hà poi per acquistar tanta corona. Vn gran martello d' or quiui è attaccato, Con cui si batte il marmo, che risuona. Allhor s' apre una porta, ond' esce armato Vn Re, che sembra al uolto, e a la persona Il Re di Dacia, che fù già diletto Sposo de la Regina, ch' io t' hò detto. Ilqual combatte con sì gran possanza, Che uince ogni guerrier gagliardo, e forte, E lo caccia per forza in quella stanza D' onde egli è uscito, e poi serra le porte, E se non è chiamato à noua danza Da nouo suon non esce ne la corte. Così la donna caualcando parla Al Cauallier, che staua ad ascoltarla. Ma non son di costor per dirui tanto, Ch' io non pensi tornar nel greco Regno, Doue il gigante hauea la palma, e 'l uanto Tolto di man à ogni guerrier più degno. Dissi, ch' Algier, ch' in Sparta ha 'l regio manto Gli hà lo scudo, e 'l Theban lasciato in pegno, Elion, Aliforte, e quel prudente Griante, e Polinide finalmente. Oltra questi Macandro al pian distesse Molti altri, et acquistò palma nouella, E gli scudi, da lor ch' in premio prese, Consacrò tutti à quella imagin bella; Quando il Re, non scorgendo in sue diffese Altri in quel punto apparrecchiarsi in sella, Verso il palagio suo fece ritorno, Ch' era già il Sol propinquo al mezo giorno. Macandro uincitor lieto rimase A mirar la sua Dea felice amante, Il cui feruente amor lo persuase A mostrar quì le sue prodezze tante. Tornò tutta la gente a le sue case Con replicar le forze del gigante, E le donzelle hauean tutte dolore D' hauer perduto il lor sì grato honore. Ma Celsidea più ch' altri sì sconforta Che sia la gloria sua sì presto spenta. Benche la sua modestia non comporta Che se ne mostri afflitta, e mal contenta. Quel giorno, e l' altro uscir fuor de la porta Contra il gigante huom non ardisce, e tenta. Nel terzo ui comparue un Caualliero. Di cui narrar ne l' altro canto spero.

IL FINE DEL SECONDO CANTO.



Vccide il rio gigante il guerrier strano, E dà di sè notitia al Re Cleardo. Bandisce il Re una giostra. Il buon Silano Dal Mar patisce assalto aspro, e gagliardo D' Egitto in Tracia si conduce il Nano A lui promette il Principe Risardo La Donna liberar dolente, e bella; Et ei dà lor de casi suoi nouella



NOn deue alcun di sè presumer tanto, Che fuor di se ciascuno habbia in dispregio, Benche sia ricco, et honorato, quanto Possa esser huom di sangue illustre, e regio. Se ben hauesse in dosso il regio manto, E risplendesse di un ualor egregio. E fusse ogni saper di Febo in lui Non dee per lodar sè dar biasmo altrui. Ogni persona deue esser humile, E benigna mostrarsi, e d' Amor piena, Che l' humiltà lega ogni con gentile Con dolce, e soauissima catena. La superbia a l' incontro è rozza, e uile, E in danno proprio i suoi seguaci sfrena. E Niobe, e Benteo, & altri fè perire Sul colmo de l' orgoglio, e de l' a rdire. Quando più credono esser sù la ruota, E goder di Fortuna i beni incerti Questi, ch' ella à sua posta aggira, e ruota, Lor fà prouar mille trauagli certi, E gli getta nel fondo; e lor fà nota Qual pena era spettante à i lor demerti, Come del Re Macandro udir potrete Voi, che per legger queste carte sete. Lasciai, che 'l terzo dì, quando inchinaua Il Sol lo sparso crin tepido, e giallo; E che doglioso il Re con gli altri staua Per non ueder, ch' altri uenisser in ballo. Vn Cauallier, ch' à la uentura andaua Ornato riccamente egli, e 'l cauallo, Ne la città fù per uentura entrato, Doue il sucesso udì, ch' io u' hò narrato. Il Cauallier parea gagliardo, e franco A la presentia, e sopra ogn' altro ardito. Era sua insegna in uerde scudo un bianco Giglio, era uerde, e candido il uestito. A pena entrò, che gli fur cento al fianco, Che gli fero accoglienza, e grato inuito; Altri porta al gran Re di lui le noue, Altri à lui narra il caso, e 'l cor gli moue. Onde subitamente al Re uenuto, Com' huom cortese, e d' animoso core, S' offerse inanzi al termine statuto Mostrar contra il gigante il suo ualore. Il Re, che non speraua altronde aiuto, Creder si può, che l' accettò di core. Tutto il popolo allhora à i merli corse, E marauiglia al fier Macandro porse. Il Cauallier, per ch' era tarda l' hora Del dì prefisso al termine narrato, Con licenza del Re ritornò fuora Ben à destrier, di nobili arme ornato. Gran cosa da notar fù uista all' hora, Che tosto, ch' egli uscì cascò sul prato L' efigie, che dai rami alta pendea, Che tanto il gran Macandro in pregio hauea. Quanto al Gigante il caso increbbe, e spiacque Di ueder la sua Dea premer la terra, Tanta à Greci nel cor letitia nacque, Che 'l tennero a buon fin di quella guerra. Il caualliero, à cui l' augurio piacque, Sfida Macandro, e al corso si disserra, Macandro pien di rabbia anch' ei si stese, E così l' un uer l' altro il corso prese. Lo strano Cauallier, ch' era del gioco Mastro, à incontrar l' empio Macandro uenne Sotto lo scudo, e dar si fece loco, Che 'l usbergo il gran colpo non sostenne. L' hasta in più schegge al Ciel uolò del foco, Ma la piaga nel fianco il ferro tenne, Donde in gran copia il sangue fuor si spinse, E 'l puro acciar di rosso fregio tinse. Come d' alta montagna interna fonte Esce con furia, e ruinosa scende Con torta uia per la sassosa fronte, E largo il fiume al pian conduce, e rende; Così dal uiuo, & animato monte, Come Macandro par, sì sparge, e stende Con larga il sangue, e furiosa uena, E fà un lago apparir sopra l' arena. Da l' empio fù ne l' elmo il guerrier colto, Ma nol passò, ch' era di tempra eletta; Sì spezzò l' hasta, e 'l Cauallier fù molto A trouarsi uicin sopra l' herbetta; Pur si ritenne, el fren presto raccolto, (Ch' era caduto) il destrier punse in fretta, Ch' al grauissimo incontro in terra posto Le groppe hauea, ma rileuossi tosto. Del colpo felicissimo, che dato Al fier gigante il Caualliero hauea, Si rallegrò ciascun del Greco stato, E se ne rise il Re con Celsidea. Il fier Macandro intanto era tornato, Che de la piaga molto si dolea, Pur, credendo esser stato uincitore, Tempraua al quanto il graue suo dolore. Ma quando incontra il Cauallier si uede Col ferro in mano, e che la selle preme, Così gran rabbia il cor gl' ingombra, e fiede, Chel tempestoso Mar tanto non freme. Tosto del brando anch' ei la man prouede, E uà sopra il guerrier, che nulla teme, E lo grauò di sì pesanti some, Ch' à tutti i Greci fè aricciar le chiome. Sì forte lo percosse à meza fronte, Che gli tolse ogni senso, e haurebbe reso L' alma smarita al Regno di Acheronte, Se l' elmo fin non lo tenea difeso. Smarite quelle forze inuitte, e pronte, Per lo prato il destrier correa disteso; Macandro irato il tempo allhor non perde, E sel pone à seguir per l' herba uerde. Ma come altera, e ben fondata pianta, In cui gran uento ogni sua forza impiega, Che non però dal piè la suelle, ò schianta, Ma gli alti rami al quanto inchina, e piega, Cessato quel furor, con altretanta Forza la chioma al ciel dirizza, e spiega; Così il guerrier dal colpo, che gli porse Macandro, e 'l fè piegar, tosto risorse. Con quell' estrema furia, che si puote Pensar, ch' ira, e dolor nel cor gli hà posta; Il caual gira poi che si riscuote, Et al nemico suo la spada accosta, E sù la spalla destra, oue 'l per cuote, Gli rende con gran forza la risposta; Ciò che tocca apre, e sù la coscia scende, Et arme, e carne, e ogni riparo fende. Macandro ancora il colpo à l' elmo segna Del Cauallier con tutto il suo potere; Alza ei lo scudo, e sù la uaga insegna Del giglio il brando impetuoso fere. Ben crede il Cauallier, ch' in Parthia regna Farlo in due pezzi al pian morto cadere; Taglia lo scudo, e taglia anco il cimiero, Ma resse l' elmo al colpo horrendo, e fiero. Stordito dal gran colpo il campion greco Tutto à la groppa del destrier si stende, E sì l' aspra percossa il rende cieco, Ch' s' è ben notte, ò giorno ei non comprende; Il feroce Macandro, ch' usar seco Alcuna cortesia già non intende, Gli afferra il manco braccio, e hà certa fede Di trarlo in terra, e hauerne il pregio crede. Ma nel tirar, che fece in sè riuenne Il Cauallier più che mai fosse ardito, È rileuato in sella si mantenne, Onde Macandro prese altro partito, E tentò di uenir (ma non l' ottenne) Seco a le braccia, e gli ne fece inuito; Ma l' esperto guerrier col brando in mano Quanto era lungo il tiene à se lontano. Macandro disdegnoso, che conosce, Ch' alcun de suoi pensier non hauea effetto, Poi che 'l guerrier tien strette ambe le cosce, E non lascia accostar petto con petto; Per dargli (se esser può) l' estreme angosce, E mandargli lo spirito al stigio tetto, Ripiglia il brando, e drizza il colpo crudo In loco tal, che nol difende scudo. Sù la sinistra spalla un gran fendente, Che sparato l' hauria fin sù la sella, Gli segna, ma 'l guerrier subitamente Schiua d' un salto la percossa fella, E poi caccia la spada aspra, e pungente Sopra la coscia à l' alma empia, e ribella; Tassa la punta ria tra 'l uentre, el fianco Due palmi, el fà uenir di uita manco. Di quattro piaghe sanguinoso cade Il Parthio Re, ma pria che giunga à morte; Sì come ancora Amor lo persuade Dice, che non gli duol de la sua sorte, Ma che per essaltar quella beltade, Ch' egli amò sì, non fusse ancor più forte; E sol gli incresce, e dà pena infinita, Poi che per lei seruir non hà più uita. Già tutto il fatto hauea da la muraglia Scorto Cleardo, e tutta insieme Atene; Però che da uicin fù la battaglia Fatta, e ciascun poteo mirarla bene. Onde, come à quel Re la Parca taglia Lo stame, e 'l mira spento in sù l' arene, Scende dal muro, e corre ogni persona, El uincitor di lode orna, e corona. Hauea nel fodro il brando egli tornato, E ne ueniua a passo tardo, e lento; E giunto à le gran porte, oue il Re grato Staua, lasciò la sella in un momento. Il Re lieto l ' abbraccia, el uole à lato Di sè, l' essalta, e loda il suo ardimento; Ma la sua cortesia più loda molto, Che da le spalle gli hà quel tedio tolto. Il guerrier, che gentile era, e cortese, Gratie rendendo al Re la lingua sciolse, E l' honor tutto à la sua figlia rese, Tutta la lode à lei conceder uolse. Lo prega il Re, c' homai uoglia palese Scoprir la faccia, ond' ei l' elmo si tolse, Et mostrò, chel guerrier sì forte in sella Era una gentilissima donzella. Si tolse l' elmo, e discoprì le bionde Chiome de l' or più terse, e luminose; E due stelle apparir tanto gioconde, Che per inuidia il Sol nel Mar s' ascose; Mouean le guancie fresche, e rubiconde Inuidia à i gigli, e à le purpuree rose; La man, che disarmata anco tenea, La neue di candor uincer parea. Com' ella à tutti il bel uiso scoperse, Che tutti in lei tenean fiso lo sguardo, Parue à ciascun colei, per cui conuerse Macandro il piè nel Regno di Cleardo. Quella à cui il miser già li scudi offerse Prima che Morte in lui scoccasse il dardo, E si marauigliar non men di questo, Che del ualor, che vider manifesto. Come chì fosse à la presentia, quando Tiensi donna tal' hor lo specchio inante, Et hora il uiso natural mirando Venisse, hora in quel uetro il suo sembiante, Non saprebbe, ogni parte essaminando, Qual cosa fusse in lor dissimigliante; Così parue costei del Re de Parthi L' amata in tutte assimigliar le parti. Volse, che si portasse iui il ritratto Il Re, ch' ancor giacea sopra il terreno; E il pinto e il uer parue ad un modo fatto, Quando propinqui fur, ne più, ne meno. Il Re la prega à dir, perc' hauea tratto Di uita un, chel suo honor chiaro, e sereno, Rendea, ch' altra non fù cbe sì splendesse; E la cortese figlia il tutto espresse. Perche sapiate il uer, questa donzella, Per cui morto Macandro in terra giacque, Che Risamante per nome s' appella, Con la bella Biondaura à un parto nacque, Figlie del Re d' Armenia e questa, e quella, Pari in tutto frà lor, come al Ciel piacque, Eccetto ch' una è molle, e delicata, E l' altra uà come guerriero armata. Al nascer di costei, per che le stelle La inclinauano ad opre alte, e leggiadre, Celidante gran Mago, al' hor ch' imbelle, E fanciulla era ancor rubolla al padre; Tal che dolente il Re di tai nouelle, Poi che la moglie sua non fù più madre, Lasciò morendo à quella, che rimase, L' heredità de le sue regie case. Per questo non rimase Celidante Con diligentia, e con paterno amore D' alleuar la fanciulla Risamante, Di cui preuisto hauea l' arte, e 'l ualore, Tal ch' ella poscia à tutti gli altri inante Andò ne l' arme, e n' hebbe eterno honore. Stette gran tempo seco ella celata Dentro una Rocca in mezo il mar fondata. Ma poi ch' errò diece sette anni il Sole Per lo cerchio, ond' a pporta il caldo, e 'l gelo, Il buon Mago auertì la regia prole De l' honorato suo paterno stelo. Ond' ella fè con humili parole A la sorella dir, che poi che 'l cielo Le fè nascer d' un padre, e tanto eguali, Nel dominar doueano anco esser tali. Volea inferir, che l' accettasse in parte, Come uolea ragion, del patrio Impero, Mà la sorella simulò con arte, Benche da molti hauesse inteso il uero; E così fè risponderli da parte Di lei, che non hauria sì di leggiero Pensato, non che mai creduto, ch' ella Esser potesse à lei carnal sorella. Ch' una, che n' hebbe il Fato in man condusse D' un ladro, che la uccise di sua mano; Ma quando ben colei, che 'l ciel produsse Seco fosse ella, e ciò le fosse piano, Non pretendea, che sua di ragion fusse La mettà di quel Regno, c' hauea in mano Poi che morendo il Re la regia soma Lascia a lei sola, e l' altra pur non noma. Per questa aspra risposta Risamante Sdegnossi contra lei di giusto sdegno, E ualorosa, e d' animo prestante Armata ogni città cerca, ogni Regno, E gioua à questo, e à quel, perche le tante Sue cortesie dian opra al suo disegno; Fà beneficio à questo, e à quel Signore, Per che al bisogno suo le dia fauore. Il caso raccontò l' alta guerriera Al Re Cleandro, e del gigante aggiunse, Che per la sua sorella uenuto era, La cui bellezza il cor gli accese, e punse. Il Re, ch' udì tutta l' istoria uera, Poi che la donna in suo fauor consunse L' empio gigante, à lei grato s' offerse, E a' aiutarla in tutto si proferse. Risamante al buon Re gratie ne rese, E perc' homai uincea la notte il giorno, Il Re con gli altri ne l' arcion ascese, Et al palagio suo fece ritorno. Ma la Regina, e Celsidea cortese A Risamante fur subito intorno. E in una stanza l' arme li spogliaro, E di feminile l' habito l' ornaro. Lascio di dir la festa, e l' allegrezza, Con l' honor, che fù fatto à la donzella, Che come donna hauea tanta bellezza, Quanto ualor come guerrier in sella. Già Celsidea così l' ama & apprezza, Che quella notte uol passar con ella; Et così giro insieme à riposarse, Sin che la fresca aurora in cielo apparse. Come l' altro matin le sueglia, e desta Le belle donne si leuar di letto, L' una si cinse la feminea uesta L' altra il solito acciar fuor che l' elmetto. Ma Celsidea n' vscì dogliosa, e mesta, Che la guerriera hà del partir già detto. Et il Re supplicò, che lei pregasse, Che per tre giorni ancor seco restasse. E così a preghi lor sì fù restata Altri trè dì, poi quindi accomiatosse Con general dolor, tanto era grata, Così ad amarla ogni persona mosse. Costei passò d' Europa in Asia armata, E tanto andò, ch' à un bel giardin trouosse, Ma vuò lasciarla quì, perche in Atene Rimaner con Cleardo hor mi conuiene. Il qual per allegrezza dell' hauuta Vittoria contra il barbaresco ardire. La più solenne giostra, che veduta Sì fusse ancor, fè in publico bandire, Di cui la fama con la tromba arguta Fà in ogni parte la nouella vdire, E presta occasion felice al mondo Di veder la nipote d' Alismondo. Vi fece il Re de la Soria passaggio, E 'l Re di Persia, e vn suo fratello forte, Si pose anco il Re d' Africa in viaggio, E mille altri lasciar la propria corte, Sol perueder l' Achiuo almo legnaggio Si moue ogn' un uer le Palladie porte. Venir ciascuno al lito Acheo disegna Sol per veder quella fanciulla degna. Ode anco Italia il fortunato grido, Onde Cecropia al Ciel suoi pregi estolle, Tal che Silano col fedel Clarido Lascia del latio anch' ei l' altero colle; Silano unico Principe del lido Saturnio anch' ei si crede à l' onda molle, E per due dì propitio hebbe al suo intento L' aria chiara, il mar queto, e in poppa il vento. Per due giorni, e due notti al legno arrise Fortuna sì, che più nocchier non chiede, Ma 'l seguente matin sua speme uccise, Chel cielo, il vento, e 'l mar si rupper fede. Leuossi un vento all' hor, ch' in aria mise L' oscure nebbie, el Sol più non si vede; Di spessi lampi il Ciel rifulge intorno, El vento, e l' aria, el mar minaccia scorno. L' onda tumida cresce à poco, a poco, E ad Aquilon contrasta, e al ciel ribelle, E l' acqua sbalza à la sfera del foco, Che par, che voglia in sen chiuder le stelle. Gioue al fulmineo stral fà cangiar loco, E le torri percuote, ei tronchi suelle, E 'l cielo, e 'l vento, el mar fanno tal guerra, Ch' abissa il uento, il mar, l' aria, e la terra. Il misero Nocchier palido, e smorto, Ancor che sia di gran terror confuso, Di far non resta industrioso, e accorto Ciò, che conuiensi al nauicabil uso, Comanda a questo, e a quel, ma 'l ueato a' torto Ne porta il grido, e ne riman deluso, Ch' alcun de nauiganti non l' intende, Ma pur ciascuno al proprio officio attende. Grida il mesto Nocchier, che sia disciolta Quella fune, che tien la maggior uela, Che spera pur che 'l tempo habbi a dar volta, Ma non può far sentir la sua querela. Il mar superbo intanto aggira, e uolta La naue, che si stratia, e si querela; Ne pur del morto gli hà parte leuato, Ma nel viuo anco l' acqua hà penetrato. Ben si tenner perduti i nauiganti, Scorto l' onda nemica entrar nel legno, E con gridi amarissimi, e con pianti Chieser mercede al sommo eterno Regno. Solo non perde il cor frà tanti, e tanti, Ne sà un minimo usar di viltà segno, Silano inuitto, e 'l suo fedel consorte, C' hanno il cor saldo, el uolto ardito, e forte. De nauiganti alcun corre a gran fretta Le fissure a turar, dou' entra il Mare; Altri co 'l cauo legno in Mar rigetta L' onde, che prima entrar salse, & amare. Ecco in tanto repente una saetta Da la celeste man su 'l pin scoccare, Che l' arbor spezza, e 'l timon arde, e seco Manda il miser Nocchier nel mondo cieco, Questo fù ben lo stral crudo, e funesto, Ch' uccise un solo, e passò à tutti il core; Ch' a tutti è homai ben chiaro, e manifesto Non esser scampo à quel mortal furore. Fù donque con Silan Clarido presto Quel partito a pigliar, che fu il migliore, Ricorsero al battel, ch' era vicino Per iscampar l' orgoglio empio marino. Volean molti seguir l' essempio loro, Ma questi lo uietar co 'l brando nudo, E dal legno si sciolsero, e da loro, Che restar preda al Mar uorace, e crudo. Non san se son uicini a l' Indo, ò al Moro, Che fan le nubi al dì riparo, e scudo, Gliè 'l uer, che 'l lampo apria souente il velo, Nè li mostraua altro, che 'l Mar, e 'l Cielo. Come poi si trouasse in miglior stato Col buon Clarido il giouane Silano, E come al lido poi fusse saluato Da la furia del mar crudo, & insano, In altra parte ui sarà contato, C' hora un poco lo stil uolgo lontano, E lascio questi in sì dubbiosa sorte, Per gir in Tracia à la superba corte. È una Città posta all' estremo lido, Che da Bithinia il Bosforo disgiunge, Quinci il Mar d' Helle appar fra Sesto, e Abido, Quindi le riue Eusin percote, e punge; Bizantio è detta; il cui superbo grido Dal basso centro al Ciel superno giunge, E l' Occaso non u' hà, nè l' Oriente La più feroce, e bellicosa gente. Era gran tempo in lei stato Agricorno Imperador del gran popol di Marte, Del cui ualor giua la fama intorno, Dando soggetto a le più dotte carre. Hauea un figliuol d' ogni uirtute adorno, D' ogn' alma dote, e d' ogni nobil arte, Ch' in tutte l' opre eccelse, alme, e leggiadre Fù raro al mondo, e fù maggior del padre. Oltra questo garzon, che fu Risardo Nomato, egli hebbe ancora una donzella, Che, come quel cortese era, e gagliardo, Così fù questa al par d' ogn' altra bella. Fù detta Ersina, e l' amoroso dardo Non facea ancor per lei piaga nouella; Non era stata ancor ne l' altrui petto Cagion di gaudio, ò di contrario effetto. Questo, perche si saggia era, e modesta, E di sì ornati, e nobili costumi, Che la sua gran beltà non manifesta, E tiene ascosi i due leggiadri lumi, Perche, essendo, non men che bella, honesta, Non uol, ch' alcun si stratij, e si consumi, Non vol ch' alcun per lei senta cordoglio, Che s' hà ben molle il uiso, ha 'l cor discoglio. Hor mentre sta l' imperator felice Di questa altera vergine, e de 'l figlio, E seco in sala è un dì l' Imperatrice Con graue aspetto e con sereno ciglio, E la Tracia d' Heroi schiera vittrice, Con tutto il regio suo maggior consiglio, Appar trà que signori un picciol Nano, Con un ricco uestir leggiadro, e strano. Di sì rara bellezza è 'l Nano adorno, Che me' Cupido alcun pittor non finge, Di tutti il guardo à sè tira d' intorno Quel bel color, che 'l uiso orna, e dipinge, Mesto, & humil s' inchina ad Agricorno Il Nano, e a gli altri, e ogn' un di pietà cinge; Si sforza di parlar, ma ne la gola Il suo dolor gli chiude la parola. Al fin tanto il desio gli infiamma il petto, Che rompe del dolor l' aspra catena, Et apre il uarco al suo dolente affetto, Mal grado del suo mal, de la sua pena; E spiega il suo mestissimo concetto, Che di sospiri, e lagrime incatena, E fà ch' ogn' alma di pietà sfauilla, Mentre le belle lagrime distilla. Sperando in uoi trouar giusta pietade, Alto, e supremo Imperador de Traci, Hò cercato (dicea) queste contrade, Lasciando i campi Egittij empi, e fallaci, Per saluar una angelica beltade Da le tirane man crude, e rapaci, C' hauendo ucciso il Re Galbo d' Egitto, Dan colpa à la Nipote del delitto. Sono homai uenti giorni, che fù morto, E non si sà da chì per certa proua, Et accusan la giouane del torto, Doue ogni fede, ogni bontà si troua; E perche Miricelso il figlio accorto Altroue il suo ualor dimostra, e proua, Hà preso ardir la setta empia, e pergiura. D' impregionar la dolce, alma figura. Per usur par quel Regno à l' innocente, L' hanno posta in pregion crudel, e fera; Che più stretto, e più prossimo parente Al defonto Signor di lei non era. Tutta Alessandria è per suo amor dolente, E per quel che si dice, in uan si spera Sua libertà; per che sententiat' hanno. Che stia così rinchiusa in fin dell' anno. Nel qual tempo la giouane infelice Hà da trouar campion, che la difenda Da un Cauallier che la calunnia, e dice, Che contra ogn' un, che sua difesa prenda, Vol prouar, ch' ella iniqua, e traditrice Fù cagione à quel Re di morte horrenda, E sosterrà per tutto l' anno intero, Ch' ella diede opra à si crudel pensiero. Ahi, che se Cauallier non viene in tanto, A prouar, ch' innocente, è Raggidora (Così hà nome la donna, ch' amo tanto) Giungerà senza colpa a l' vltim' hora. Mancò la uoce à questo, e crebbe il pianto, Al bel Nano, che s' ange, e lagna, e plora. Quando peruenne a quel pietoso punto Per forza pose alle parole punto. L' eccelso Imperator, ch' in alto siede, E de Principi intorno hà una corona, Veggendo, che 'l dolor sì 'l Nano fiede, Che 'l fià, che brama al suo parlar non dona, Se ben soccorso, e aiuto non li chiede, Sà ben, ch' ad altro fin' ei non ragiona. Però dà gli occhi a suoi presso, e lontano, E quai debba mandar pensa co 'l Nano. Tutti i Tracij guerrier giouani, e forti Erano accinti a così santa impresa, E bramauan veder de gli altrui torti La bella Raggidora esser diffesa; Ma perche tutti all' hor s' erano accorti, Che più l' alma u' hauea Risardo intesa, Alcun non fù, che 'l suo pensier mostrasse, Ne che prima di lui parlar osasse. Risardo in piè leuato, con licenza Del padre, disse al Nano; hor dati pace, Che ti prometto, e giuro à la presenza De 'l mio Signor, de tutto il popol Trace, Di liberar costei da tal sentenza, S' è (come dici) ingiusta, empia, e mendace E di farle acquistar quel regno ancora; E s' andò a por in punto a l' hora a l' hora. Di tal promessa il Nano consolato, Asciuga da begli occhi il tristo humore. E 'l Re, mentre si rende il figlio ornato Di terso acciar ministro al suo ualore, E ch' al grande Armiraglio ordine è dato, Che 'l legno apparecchiar faccia megliore, Vol, ch' all' Imperatrice esprima il Nano Più particolarmente il caso strano. E dica la cagion, per ch' ei sol uiene A procurar per lei si caldo aiuto, Che di tanti, che 'l muro Egittio tiene, Alcun (fuor che lui sol) non è uenuto, Potrebbe essere spia forse d' Atene, (Disse frà se l' imperator astuto) E uien con questa fraude, e questo inganno Per saper quì come le cose uanno. Era gran lite allhor fra 'l Tracio Regno Per cagion de confini, e 'l Greco nata, E di questo romor, di questo sdegno N' era forse, cagion la Tracia ingrata, Hor questo Rè, c' hà in mente empio disegno Di destrugger (se può) la Greca armata, Pensa, che 'l Re Cleardo dal suo canto Brami di far à lui danno altretanto. Tratto in disparte à canto à la Regina Per uolontà del Re fù il Nano assiso, Che con la uoce angelica, e diuina, Con uia più lieto, e gratioso uiso, Incominciò. La uaga, e pellegrina Fama hauea dato a l' Oriente auiso, Tal ch' era in ogni lingua, in ogni stilo La bellissima Vergine del Nido. Peruenne il suon altier di lido in lido La, ue son Re nel Regno de Pigmei, E sì m' accende il cor con questo grido, Ch' ogn' altro, e me in oblio posi per lei: Tal che lasciando il Regno amico, e fido, Soletto in Alessandria mi rendei, Quiui me le diè in dono Amor proteruo, E me le dedicò perpetuo seruo. Gionto trouai, che troppo era lontana La fama al uer; che quanto n' hauea inteso, Vna relation fù scarsa, e uana Rispetto à quel, c' hò poi uisto, e compreso. Non narro la bellezza soprahumana, Ch' è de gli huomeri miei troppo gran peso, Basta, che ouunque il Sol dispiega i rai, Maggior beltà non uide in terra mai. Io che l' amaua, e pace non potea Con questo Amor trouar longi, ne presso, Se non quando il bel uiso à la mia Dea Veder m' era dal Ciel tal' hor concesso, Per mitigar la fiamma, che m' ardea, Non mi curo mandar lettera, ò messo, Ma cangio in rozze, e uil le regie spoglie, E fò sì che per seruo ella m' accoglie. Poi che non mi trouo atto à essercitarme Ne l' opre Illustri, e à dimostrar ualore, E co 'l fauor de la uirtù de l' arme Acquistarmi di lei l' altero amore. In altra guisa penso d' aiutarme, E d' un tal ben di farme possessore. Mi fingo humil di stato, e faccio, ch' ella Frà suoi mi accetta, e per seruo m' appella. Huomo non era alcun di me più desto Nel seruir lei di tanti, che tenia, Era ne gli occhi, e nel parlar modesto, Sempre con gran prontezza la seruia. Tolse ella tanto in gratia ogni mio gesto, La seruitù, la diligentia mia, Ch' à me sol comandaua, e dir solea, Ch' alcun meglio di me non l' intendea. Ella ne le mie man tenea fidato Le sue più care cose, oro, & argento, Ogni uestir più ricco, e più pregiato, Le gemme, le girlande, ogni ornamento, Io cura hauea del suo regale, e ornato, Com' à lei conueniasi, appartamento. E sì crebbe il mio amor à poco à poco, Che 'l cor era poca esca a tanto foco. Con tutto ciò già mai non presi ardire D' appalesarmi à lei, che sempre alcuna Donzella meco la solea seruire, Al mio ingordo pensier troppo importuna, Al fin un dì propitia al mio desire Tra le man mi si pose la Fortuna; Vn dì, ch' ella il bel crin tendeua al Sole Senza la compagnia, ch' esser ui suole. Com' io mi trouo solo in sua presentia, E che d' appalesarmi fò pensiero; Il rispetto, c' hauea, la riuerentia, Il timor de turbarle il cor sincero, E ch' irata mi scacci, e dia licentia, Trattandomi da sciocco, e da leggiero M' hauea di tanto affanno il cor ristretto, Ch' io fui per uscir fuor de l' intelletto. Mentre le belle chiome ella apre, e stende Ad un balcon, per cui fà il Sol passaggio; E in tal modo le scuote, acconcia, e tende; Che fà ch' ogni crin gode il solar raggio, E co 'l dentato, e schieto auorio attende Quanto son longhe, à far spesso uiaggio, Gettò un sospir sì caldo all' improuiso, Che fà, ch' ella i begli occhi alza al mio uiso, Non però mi fà moto, e indarno stimo, Che cerchi quel, ch' à lei sì poco tocca, Onde mesto il secondo aggiungo al primo, E fò che 'l terzo ancor più caldo scocca. Veggendo ella, che 'l mal mio non esprimo, Pur al fin per saperlo apre la bocca, E la cagion mi chiede dolcemente, Che mi fà sospirar sì caldamente. Io non rispondo à questa sua dimanda, Ma gli occhi abbasso, e di sospir più abondo, Onde ella ancor mi replica, e dimanda, Et io stò pur tacendo, e non rispondo. Al fin come patrona mi comanda, Che le palesi il mal, che dentro ascondo, Di me si marauiglia, e n' hà dispetto, Che scoprir non le uoglia il mio concetto. Come sì accesa, & auida la ueggio D' intender quel, ch' à lei discoprir uoglio, La fò giurar, che quel, che dir le deggio, Non le darà ne sdegno, ne cordoglio. E se ben troppo ardito erro, e uanneggio, Non perderò quel ben, ch' ottener soglio; Anzi c' haurà di me qualche pietade, Risguardo hauendo à la mia uerde etade. Ella, c' hauria pensato ogn' altra cosa, Mì giura, è mì promette largamente; Et io con faccia mesta, e uergognosa Il mio stato Real narro humilmente, Poi le discopro la fiamma amorosa, Che per la sua belta m' arde la mente Con la sommission, ch' à me s' aspetta, E co 'l modo miglior, ch' Amor mi detta. Parue che nel principio si turbasse, E la uergogna il uolto le dipinse, Non però ch' à miei danni l' incitasse Quella gran nouità, che 'l cor le strinse; Si tacque un poco pria, come pensasse, E per risponder poi la lingua scinse; Mà in quel punto s' udir le regie genti Empire il Ciel di gridi, e di lamenti. Per intender la causa di quel pianto, Con la chioma sù gli homeri negletta, La donzella si moue, & io, ch' à canto Me gli spronaua Amor, corro in gran fretta. Vol saper la cagion d' un romor tanto Per prouederli in quanto à lei s' aspetta, E a la stanza del Rè prima s' inuia, Oue il grido, e 'l maggior tumulto udia, Di questa in quella camera la porta Il dubbio piè, dou' ode il mesto accento, Tanto, ch' arriua à la funesta porta, E frà donne, e donzelle entra ben cento; Come dà l' occhio dentro riman morta, Che uede il Re suo Zio di uita spento Giacer fra 'l popol mesto, e lagrimoso, Di più di uinti piaghe sanguinoso. Ella riman sì sconsolata all' hora, Che si lascia cader co' crini inconti Sopra 'l freddo cadauero, e uscir fuora Fà da begl' occhi suoi due caldi fonti. Mentre costei si strugge, e piange, e plora, La stanza empir Duchi, Marchesi, e Conti, C' hauendo inteso il doloroso auiso, Cercauan di saper, chì l' hauea ucciso. Trà questi Cauallieri era in Lideo, Che già d' Eubea in quelle parti uenne; Era ualente, e spesso combatteo Co' i più famosi, e sempre il pregio ottenne; Costui gionto frà gli altri al caso reo, Visto il Re morto, un mal giuditio fenne; La cagion non sò dir, ch' à questo il mosse, Basta che giudicò, che così fosse. Disse, e creder fè à tutti, che nissuno Pensato non hauria, non che operato, Che restasse di uita il Re degiuno, Che non sperasse hereditar lo stato; E non essendo in quel Reame alcuno, Che possi per tal causa hauer peccato, (Che Miricelso estinto era per fama) La colpa attribuiua à quella dama. Parla con lingua libera, e superba, E la sua auttorità sede gli dona; Mostra, che 'l gran dolor, che nel cor serba, Quel, che dir non uorria, fà che ragiona. Dice, che giusta merita, & accerba Morte, e tanto ogni petto instiga, e sprona, Che molti, che maligno hanno il pensiero, Dicon, che parla mal, ma dice il uero. Tutti hanno di regnar l' animo ingordo, E credon, ò di creder mostra fanno; I Baroni più nobili d' accordo Son con Lideo, che mostra ansia, & affanno, Secondo il suo consiglio, e 'l suo ricordo, Senza hauer chi lo uieti, ordine danno Che sia posta in pregion la donna mia, Come del fatto ella colpeuol sia. Fur seco presi ancor paggi e donzelle, Che, uinti da minaccie, e da promesse, Confessaro à le menti inique, e felle, Ch' un tanto error per sua cagion successe. Non essendo in contrario chì fauelle, Donque per tema il uero al falso cesse, E la innocente a l' hor fù presa, e uinta Da la malignità crudele, e finta. Vid' io la bella man candida, e pura Ristretta (ahime) da crudo laccio indegno, E uidi in carcer posta infame, e scura Colei, che poco il Mondo è d' hauer degno. Sepolta l' innocente creatura, S' hanno trà lor diuiso il suo bel regno: E il popol Solo è quel, la plebe è quella, Che piange l' infelice damigella. Hor poi, che la Natura ingiusta, e auara Non mi diè forza à l' animo conforme Per poter liberar donna sì rara, Che mi sforzò d' Amor seguitar l' orme, Riccorro à questa patria illustre, e chiara, Doue Giustitia, oue uirtù non dorme, E prego che ui piaccia aiuto darmi Contra li Egitiy rei con le uostre armi. Così contò l' inamorato Nano De la donzella misera il successo, E in tanto per punir l' Egittio insano Il buon Risardo in ordine fù messo. Mà poi, che egli hà finito il caso strano Di raccontar, come li fù commesso, Vò quì finir questo mio canto anch' io, Poscia di lor dirò, ciò, che seguio.

IL FINE DEL SECONDO CANTO.



La fiera Serpe uccide Risamante, Perde il destriero, e ne la grotta scende; Le uien la donna Frigia, el figlio inante, La qual de l' esser suo conto le rende. Compar la Fata, e à lei dona il diamante, Poi fà, ch' in uno specchio ella comprende Sua chiara Stirpe, & indi uscendo fuora Troua il cauallo, e buon albergo ancora.



O Gran virtù de Cauallier passati, Che con tanta pietà l' armi portaro, E senza obligo hauer, cortesi, e grati, Sempre per gli innocenti il brando opraro, E frà tanti perigli, oue chiamati Furon, le proprie uite auenturaro Per saluar quelle di persone strane, A la lor patria, e al sangue lor lontane. Credo, ch' à nostra età pochi sarieno, Ch' à rischio si mettesser per altrui, E non pur che lasciare il patrio seno Per gir in diffenssion non sò de cui, Mà che 'l padre uolesse, che uien meno (O s' altri è di più merito di lui) Senza premio aiutar d' una parola, Non che esponer la uita, ch' è una sola. Quanti orfani hoggi son, cui sono oppresse Le facultà, che de lor padri foro, Per non hauer, (non chì al morir s' appresse) Ma chi opri pur la lingua in fauor loro; Come fusse il parlar grande interesse, Se lor prima la man non s' empie d' oro, Pochi auocati son, che tor l' impresa Voglian d' aprir la bocca in lor difesa. Ma frà quei pochi hò da lodar il cielo Ben io di tai che non di questi sono, I quai cercan con fede, e amico zelo Di soleuarmi, oue sì oppressa sono; Di cui mai cessarò di alzar al Cielo L' immensa cortesia, l' officio buono, Riconoscendo le grate opre sole A mio poter con fatti, e con parole. Dourian pur imitar questi, ch' io dico, Tant' altri, in cui l' empia auaritia hà regno; Douria pur di pietade essere amico Ciascun di lor con questo essempio degno. Giouan Giacopo honor del Gradenico Lignaggio imiti ogni leggiadro ingegno, Giouan Vincenti illustre imiti, e il raro, E buon Thomaso Cernouicchio à paro. Ne debbono esser ben de gli altri ancora Di tal bontà, che mal starebbe il mondo; Ma come gli potrei discerner fuora Di numero sì grande, e sì profondo. Questi, che mi difendon d' hora in hora, Questi, che d' aiutarmi han tolto il pondo, A gli effetti conosco, e al buon uolere, C' han uerso me senza desio d' hauere. Gentil guerrier fù il Principe Risardo, Che si mostrò de tal bontade a l' hora, Quando à torsi l' assunto non fù tardo Di liberar la bella Raggidora; E se ben poscia il giouene gagliardo A nouello camin uolse la prora, Come ui narrerò, non l' incolpo io, Che pur à questo fin di corte uscio. Ogni più gran Signor del Tracio regno Col magnanimo figlio il Re incamina; Ei ueste sopra l' arme un manto degno, Che di sua man gli hauea tessuto Ersina, E s' allaccia lo scudo, ou' è il disegno D' una uaga donzella pellegrina, La qual, mirando il ciel, mostrar uolea La speme, ch' ei di uincer sempre hauea. Ma perche son uarj i soggetti, e i uersi Varij, e l' un l' altro il proseguir contende, Tal io son, qual fanciul, che di diuersi Fiori formar bella girlanda intende, Che acciò del bel d' ogn' un possa ualersi, Non sempre il giglio, ò la uiola prende, Ma hor l' uno, hor l' altro, e in uariar colore Si serue al fin d' ogni suo colto fiore. Però, lasciando il buon Risardo vn poco, A Risamante voglio far ritorno, La qual, sì come hò detto in altro loco, A vn bel giardin giunse per caso vn giorno. D' Acanto, Gelsomin, Narciso, e Croco, E d' ogni altro bel fior vago, & adorno; E di Bossi, e Ginepri intorno cinto Da vn verde muro d' arbuscei distinto. In mezo è vn largo, e bel boschetto ombroso Di vermigli rosai fioriti, e belli, Il resto è tutto netto, e spacioso, E sol produce herbette, e fior nouelli. Trasse la donna à prenderui riposo L' odor de fiori, el canto de gli vcelli; Smonta di sella, e 'l freno al destrier tolle Si caua l' elmo, e siede à l' ombra molle. De l' humil bosco à la soaue ombretta Disegna vn sonno far dolce, e quieto; Ma non è à pena acconcia in sù l' herbetta, Ch' vn gran romor sente dentro il Roseto; S' alza ella tosto, e ripon l' elmo in fretta, E moue il piè con passo muto, e cheto; Ma poi rimase al subito aparire Di quel, che vide incontra sè venire. Vide vna Serpe vscir trà fiori, e foglie, Non sò se Iacolo era, o Anfesibena, Ch' in' Africa ad ogn' altra il vanto toglie In esser grande, e di veleno piena; De l' oro altiera, e de le verdi spoglie La velenosa coda in giro mena, Salta de i cespi sibilando fuori, E strugge col suo fiato l' herbe, e i fiori. Di mezo 'l bosco d' incarnate rose, Che tutto arse, e pestò col suo furore, Vscì improuisa, e ne la donna pose Vn non sò che di spasmo, e di terrore; Ma pur lo scudo al collo si ripose, Tolse la lancia in man, riprese core, E con quella acconciossi à far contrasto A la fiera, che vien per trarne pasto. L' ingorda fiera con aperta bocca Le corre sopra, e corla già non puote; Ma 'l ferro incauta de la lancia imbocca, Che oppon la donna, e sè fora, e percote. La donna sempre più la punta imbrocca, E fà chel Drago in van s' aggiri, e ruote. Si fora il Drago, e per la doglia dira, Quanto più può, si scuote, e si ritira. Simil battaglia in quella antica etade Cadmo fè già col Drago horrendo, e diro. Che, viste l' ossa dei compagni amate, Li scorse giunti all' ultimo martiro. Poi che non men di membra ismisurate Era questo di quel, che uccise il Tiro, Ne men hà Risamante arte, e ualore Del generoso figlio di Agenore. Segue ella il Drago ualorosamente, E più ch' ei si ritira, ella uà inanzi, Ne ual, che ritirandosi il Serpente Cerchi fuggir la morte, c' hauea inanzi; Perche nel farsi indietro incautamente Cadde nel buco, ond' era uscito dianzi; Nè da la donna fù prima scoperto, Chel bosco lo tenea chiuso, e coperto. Poco men che non cadde la donzella, Che uenia dietro, in quella tomba scura; Ma in quel che traboccò la bestia fella Lasciò la lancia, e fù sua gran uentura. Sciolta da quel impacciò, disegn' ella Quindi partir cercando altra auentura, Ma trouò chel destrier fuggito altroue Per tema era del Serpe, e non sà doue. In questo ode una uoce à l' improuiso, Che dice; O nobilissima guerriera, Non ti partir del bel giardin t' auiso, Se pria non scendi in quella tomba fiera; Che quindi in guiderdon del Serpe ucciso Col premio uscirai fuor ricca, & altiera. Entra pur là doue la Serpe horrenda, Cadde, se uuoi ueder cosa stupenda. Risamante à quel grido riuoltosse, E non ueggendo alcun, non si ritarda; Ma, per saper ciò ch' in quel loco fosse, S' accosta al buco, e 'l capo china, e guarda, E, uiste dentro alcune scoglie grosse Sporgersi in fuor la giouene gagliarda Con man s' attacca à l' orlo, e i piedi cala, E si fà de le pietre appoggio, e scala. Pensa frà sè la uergine scendendo D' hauer il capo à premere, ò la pancia, Od' altra parte di quel drago horrendo, E racquistar la già perduta lancia; Mà uede, giunta in piana terra essendo, Che quanto ell' hà penssato è sogno, e ciancia, Perche ui troua in scambio del dragone, Vna nobil matrona, e un bel garzone. Il giouenetto non giungeua ancora A i tredici anni, & era fresco, e bello, Come giglio, ch' al nascer del' Aurora Apra le foglie, e spiri odor nouello, Tanta delicatezza in lui dimora, Che sembra il uiso, e 'l crin fatto à pennello; Par proprio, che dipinte habbia le membra, E tanto è bianco, che di neue sembra. Biondissima hà la chioma, e innanellata, E 'l ricco uel, che 'l suo bel corpo ornaua E' d' una seta bianca delicata, Ch' un' estrema lasciuia dimostraua; Ne gli occhi è d' aria poi sì dolce, e grata, Che à chì lo mira il cor del petto caua; Di lui più in somma dir non si potria; Se non ch' è tutto amore, e leggiadria. Stupisse la donzella, che comprende Sì bel fanciullo in quella tomba chiuso, Qual riuerente in contra se le rende, Come in gran corti à praticar fosse uso. La matrona gentil, ch' i lumi intende Ne la donzella all' hor scesa là guiso, Con maniera cortese la saluta, Dicendole, tu sij la ben uenuta. E pur gionto quel dì bramato, e caro, Nel qual son tratta fuor d' ogni periglio, E schiuerà di morte il colpo amaro Questo mio dolce, e mal ueduto figlio; Hor potremo uscir fuori al giorno chiaro, Che giunto è il fin del nostro lungo essiglio; E pur tu Risamante sei cagione Stata di liberarsi di pregione. Di che ti lodo, e ti ringratio tanto, Che fin, ch' in me sarà spirto di uita, Non serò mai per iscordarmi, quanto Obligo t' hò d' un' opra sì gradita. E per che intendi il caso tutto quanto, Ch' à te render mi fà gratia infinita, Sediamo insieme, ch' io uò farti espresso, Quando ti piaccia udir, tutto il successo. L' alta guerriera stupefatta resta, Che la sappia costei chiamar per nome, E brama udir la cosa manifesta, E per che qui uenisse, e quando, e come; Onde si trasse l' elmo de la testa, E mostrò fuor le crespe aurate chiome, Et à seder si pose a canto a quella, Dimostrandosi in un cortese, e bella. Quel garzon la miraua attentamente, Ch' altro bel uolto à giorni suoi non uide, Ma per li teneri anni amor non sente, E con semplicità la guarda, e ride. La madre incominciò Del Re possente Del Frigio pian che fù nomato Aclide Io fu consorte, e uissi un tempo al segno Contenta di tal sposo, e di tal regno. Ma quel possente Dio, d' Amor io parlo, Che doma i Mostri, e in Ciel uince anco i Dei, Inuido del mio ben uenne à turbarlo, Et interroppe tutti i piacer miei; Per che mentre il mio Re (per aiutarlo) Và al Regno Lidio contra i Sirij rei, Vn Re cortese à la mia corte giunse, E del suo amor il cor m' accese, e punse. Venuto era costui sin da Ponente, Doue reggea tutto 'l paese Ibero; E per che ualoroso era, e possente Hauea lasciato il suo felice Impero, E gìa cercando tutto l' Oriente, Ogni auentura, ogni periglio fero; Di mostrar sua uirtù desideroso, E di farsi immortal, & glorioso. Sanno i Dei quel, ch' io feci per leuarmi La noua passion dal fragil core, Ma non hebbi poter di ripararmi Contra le troppo inuitte arme d' Amore. Confesso, ch' io douea prima priuarmi Di uita, che far mai sì grande errore; Ma quando poi questo bel frutto guardo, Che di ciò nacque, anco à pentirmi tardo. Dico, che di quel Re, che dimostrosse Non men di me, ch' io di lui fosse, acceso, Rimasi pregna in tempo, che trouosse Il mio Signor à quella guerra inteso; Poi quando à noi di Lidia ritirosse, Grauida mi trouò, del non suo peso, Ne potei il fallo mio sì ben coprire, Ch' egli uenne la cosa à discoprire. Era stato da me diuiso un anno, Quando fece di Lidia à me ritorno, E, discoperto il mio amoroso inganno, Mi uol col brando far l' ultimo scorno; Io scampo la sua furia, e con affanno Vengo, e dò quì questo fanciullo al giorno, Doue mossa à pietà del mio periglio Vna Fata aiutommi, e diè consiglio. E per che non cessaua da ogni lato La persecution di mio marito, Che pur uolea punirmi del peccato, C' hauea commesso hauendolo tradito, Ella m' auisa, che col dolce nato In questo loco io stia chiuso, e romito, Per che secura esser non può mia uita, Fin che quella del Rè non e' fornita, E per ch' alcun di quelli non potesse, Ch' andauano spiando mia persona, Trouarmi in questa grotta, e non mi desse In mano à la sdegnata sua Corona, Pose quì quella Serpe, acciò che stesse A la mia guardia contra ogni persona; E mi disse. Di quì non ti leuare, Sin chel Dragon morendo non dispare. Per che in quell' hora, in quell' istesso punto, Ch' essendo ucciso, sparirà il dragone, Sarà rimasto il tuo Signor defunto, E tù sciolta sarai de la pregione; E sappi, che quel Drago esser consunto Non deue per ualor d' alcun Barone, Ma per man d' una vergine gentile, Che non hà paragon da Battro, à Thile. E mi disse, c' hai nome Risamante, E di chì figlia sei mi diede auiso. Volea seguir la donna ancor più auante, Quando lor soprauenne à l' improuiso La gentil Fata, ch' ella disse inante, Che salutolle con giocondo uiso; Et elle sorte, e quel fanciul cortese Tosto il saluto a quella Fata rese. La bella Fata, che l' amaua molto, Abbraccia Risamante come figlia, E mille uolte bacia il suo bel uolto, E quella bocca a par d' Ostro uermiglia; Et hauendosi poi di dito tolto Vn' annel le lo porse, e disse; Piglia Che questo annel, che tal rende splendore Ti dono in premio del tuo gran ualore. Sappi, c' hà in sè molta uirtù nascosa, Che ual contra ogni incanto, e ogni paura, E rende l' alma franca, & animosa Contra ogni strana, horribile auentura; Ma non mi basta così picciol cosa, Per che di farti maggior gratia hò cura, Tanto sono à tuoi merti affettionata, Ch' esser ti uoglio in maggior cose grata. Mostrar ti uo, quando ti sia in piacere, Molti di tua progenie Illustre e degna, In uno specchio, onde ciascun uedere Puote la stirpe sua, prima che uegna; Ma gli è ben uer, ch' alcun no 'l pote hauere, E d' acquistarlo indarno alcun disegna, Però che si riserba à un Caualliero, Che non è nato ancor, del Greco Impero. Così dicendo un picciol uscio aperse, Doue alcun mai non era ancora entrato; La figlia dentro à quella il piè conuerse, Et entrò seco in un hostel fatato; E per uirtù di quel annel disperse Molte ombre rie, che le uenir da lato. La matrona, el bel figlio anco prouarsi D' entrar, ma fur costretti à ritrouarsi. Buio era il loco, oue passò la Fata, Come la notte iui suo albergo hauesse; Ma quando la cortina hebbe leuata, Che lo specchio impedia, che non lucesse, Subito fù da quello illuminata, E parue, che col raggio il Sol ui desse; La Fata lui scoperse, e diede in luce, Et ei fè ueder lei con la sua luce. Era quel bel christallo al muro appeso, Chiuso in un studiol d' oro lucente. Come u' hà Risamante il guardo inteso, Dentro ondegiar uede infinita gente; E, per quel, ch' à la uista hebbe compreso, Tutti d' ingegno, e d' animo eccellente; Chì l' elmo hà in testa, e chì corona d' oro, Ma non conosce alcuno ella di loro. V' erano donne assai belle, & ornate, Frà quai uenne una à la guerriera inanzi, Costei, disse la Fata, di beltate, D' ingegno, e di ualor credo t' auanzi; Nè pur à te, ma à quante donne nate, Saranno à l' età sua passerà innanzi; Del Re di Cipro fià da te concetta Vnica figlia, e Salarisa detta. La sposerà quel Re bello, & altero, Il qual di Celsidea sarà figliuolo, E d' un altro famoso Caualliero, Di cui la gloria andrà pel mondo à uolo. Hor non ueste arme, e non possede Impero, Ma non trouo io da l' uno, a l' altro polo Più nobil sangue, ouunque il Sol risplende, Poi che la stirpe sua dal Ciel discende. D' Vlisse il ceppo uien del giouenetto, Che fù Nepote al Re dal sommo coro; Floricelso tuo genero fia detto, Vedilo là, c' hà in man lo scettro d' oro, Vedi Cleardo, non quel, c' hor soggetto È al caldo, e al gel ma un successor di loro; Poi Celsidoro, & indi Florideo Con duo figlioli Hippolito, e Liseo. Tutti questi regnar denno in Atene, Et altri assai di queste proli antiche, Di cui, per che son tanti, non conuiene, Che tutti i nomi ad un ad un ti diche. Ecco Siluestro dopo questi uiene, Il qual nutrito ne le selue antiche Fia di Nauplia naual Città pregiata, Che Napoli da poi fia nominata. Che, mentre il padre harrà da i Traci assedio, Di nascosto il fanciul metterà fuore, Il qual cresciuto poi sara 'l rimedio Del Regno suo per lo suo gran ualore, E leuera d' Atene in lungo tedio, Di cui sarà legitimo Signore; E sederà nel racquistato scanno, Poi che scacciato haurà l' empio tiranno. Onde hauendo sanato il patrio regno De le piaghe accerbissime, e mortali, Acquisterà quel nome illustre, e degno, Che scenderà ne' germi suoi regali, MEDICO de la patria, che d' ingegno, E di ualori Dei uince immortali, Di Febo, e d' Esculapio più perfetto Da tutta Grecia fia chiamato, e detto. Per lunghissima etade i successori, Pur col nome de' Medici, fien poi Di Napoli, e d' Atene possessori, E 'l fior saran di tutti gli altri Heroi, Del ceppo uso à produre Imperadori Portar poi ueggio un ramo i frutti suoi. Ne la gentil Ettruria, e fermar quiui L' alme radici, e i germi illustri, e diui. Frà quai uedi un Giouanni à la presenza Non ei tralignar dal suo splendor antico, La cui uirtù difenderà Fiorenza Dal Milanese suo crudel nimico; D' animo inuitto, e singolar prudenza Ecco Vieri, e di uirtute amico, Vedi un' altro Siluestro di tal gloria, Ch' i scrittor ne faranno eterna historia. Cosmo segue dapoi di ualor tale, Che non haurà 'l miglior tutta Thoscana, Ricchissimo, cortese, e liberale, Di fama à tempi suoi chiara, e sourana; Pietro gli è dietro di uirtute eguale, Di senno, e di bontà uie più, c' humana; Quell' altro è Giuliano. (ah dura sorte) Che gli fià dato à tradimento morte. Lorenzo noblissimo, e pregiato, Quanto altro sia di questa eletta schiera E questo, che gli uien dal destro lato, Anzi ti affermo, e dico alma guerriera, Che frà tanti, che t' hò sin qui mostrato, Alma non u' è più nobile, & altera; Giulio è quel poi, c' haurà sì degne some D' honor, che muterà l' habito e 'l nome. Questo da Giulian; ma dal germano Lorenzo, ò bella stirpe, che discende Vn' altro Pietro, e un' altro Giuliano, Et un' altro Giouanni al mondo rende; Costui prudente, splendido, & humano Veste altro manto, & altro nome prende, E Pontefice fia detto dal mondo, Ch' allhor fia grado à null' altro secondo. Questo è un nipote suo Duca di Vrbino, Detto Lorenzo, e quella, che gli è à canto D' aspetto ueramente almo, e diuino, Cui portar uedi la Corona, e 'l manto, Caterina è sua figlia, che destino Haurà felice, e fortunato tanto, Che fia di Rè consorte, e di Rè nuora, Di tre Rè madre, e d' una figlia ancora. In Francia se n' andrà questa à marito, Mà il suo fratel, ch' è quel, che uienle appresso, Detto Alessandro, uenirà tradito Essendo Duca, e crudelmente oppresso; Lascierà Guido. Hippolito uestito Di uirtù è quello, & è Asdrubal con esso. Ma lascia questo ramo, e quando quello; Lorenzo è quel del gran Cosmo fratello. Vedi Pietro Francesco, e uedi insieme Giouanni il figlio, il qual seco conduce La moglia uscita del Sforzesco seme, Di cui uerrà l' altro Giouanni in luce. Ecco quel da le imprese alte, e supreme, Ch' ornera 'l Mondo con sì chiara luce Dico il secondo Cosmo, il cui ualore, Vincerà ogni altro suo predecessore. Duca fia di Fiorenza giouinetto Di diciottanni il generoso figlio, Per li suoi merti, e di sua stirpe eletto Di uolontà di tutto quel consiglio; Indi gran Duca di Thoscana detto, La qual ei guarderà da ogni periglio; Nè certo il più degno huom uederà mai Il Sol, che spiega in ogni parte i rai. Ma che dirò di sua progenie bella, Di figli, e figlie al Mondo illustri, e rare, Questo Giouanni, e quel Garzia s' appella, Quà Ferdinando, e colà Pietro appare. Ecco Maria, Lucretia, & Isabella, Mà sopra tutti egregio, e singolare Vedi FRANCESCO di uirtute amante, Degno, che di lui scriua Apollo, e cante. Gran Duca di Thoscana fia secondo, Di cor tanto magnanimo, e preclaro, E di sì acuto ingegno, e sì profondo, C' humana stima non può girli à paro; Ben mostrerà uenir da quel facondo Vlisse, anzi più fià Splendido, e raro. O felice Francesco senza fine Per doti sì mirabili, e diuine. Ma più felice, e fortunato assai, Poi che per gratia di benigna sorte, Donna la più gentil, che fusse mai T' è dal Ciel destinata per Consorte, Poi che perduta quella prima haurai, Colpa di acerba ineuitabil morte; Dico Giouanna d' Austria, onde concetto Ne fià Filippo Cosmo giouenetto. Così disse la Fata, e aggiunse poi, Volgendo à Risamante le parole, Spechinsi in quella Donna gli occhi tuoi, Che fia seconda Aurora à sì bel Sole, Non troua il Tempo ne gli annali suoi Notata ancor di lei più degna prole; Nascerà questa in grembo à la marina, Di stirpe generosa, e pellegrina. Nel glorioso, e fortunato seno De l' Adria hà da fondarsi una Cittade, Ch' altra il Ciel non uedrà sopra il terreno, Di più grandezza, ò di maggior beltade; Con catena d' amor, senz' altro freno, Viuerà sua gente unita in libertade; VENETIA Il nome fia chiaro, e giocondo Che durerà sin à la fin del Mondo. Di quel Dominio i Nobili potranno Drittamente esser Principi chiamati, Sì, perch' à regger molti Regni hauranno, Sì per la nobiltà de gli antennati, Sì perche d' esser Principi saranno Habili tutti in quel consigli nati, Et fia l' un dopò l' altro quasi certo D' esser il primo in lei, quand' habbia al merto. D' una de le cui case Illustri, e degne, Che dei CAPPELLI, è la famiglia eletta, Verrà costei da le regali insegne Col tempo in luce, e sarà Bianca detta, Ella per sua uirtù d' ogni altro spegne La gloria de la sua stirpe perfetta, Anzi più accrescer dee col suo ualore De gli aui eccelsi suoi l' alto splendore. Oltra questa gentil, cortese, e bella Donna di senno albergo, e d' eloquenza, Tanto cara al marito, & egli ad ella; Tanto cari à Venetia, & à Fiorenza; Questa Casa Illustrissima CAPPELLA Produrà spirti di rara eccellenza, E ornerà 'l mondo inanzi di costei Di mille chiari egregi Semidei. Tra quali un Nicolò con uiuo raggio Spargerà di quei mari il suo splendore, E dopo di sì diuo almo lignaggio Il gran Vicenzo uscir ueggio, e Vittore; Indi Bartolomeo cortese, e saggio, Degno de la gran Bianca genitore; Mà tù non puoi uedergli manifesti, Per che non son di tua prosapia questi. Vestirà à Bianca il bel corporeo uelo, Che porterà dal Ciel tai priuilegi, Bartolomeo, nè il suo fecondo Stelo Fiorirà sol di questa Donna i pregi, Perche d' un figlio ancor loderà il Cielo, Giouene Illustre, e di costumi egregi. Fratello anco Vittor beato à pieno Per le tante eccellentie, ch' in lui fieno. Staua ad' udir la bella Risamante, Mentre così la Fata ragionaua, E i cari germi, che uedeasi auante, Hor l' uno, hor l' altri con amor miraua. La gentil Fata dopo lodi tante, Ch' à questi, e ad altri di sua stirpe daua, Col uelo ricoperse il sacro uetro, E con la figlia ritornossi in dietro. Tornaro, oue attendea col bel garzone La nobil Donna, à cui la Fata uolta Disse; hor puoi gir, e star frà le persone, Ch' al tuo persecutor la uita è tolta; E sappi, che in breuissima stagione Questo gàrzon, doue si uede accolta Vna sì rara angelica beltade, Sarà un de primi Heroi di questa etade. Così dicendo sparue, e la guerriera Da la matrona accomiatossi allhora, E acquistata la sua lancia intera, Ch' iui trouò, non fè lunga dimora, Mà ritornando al loco, onde scesa era, Con gran difficultà pur tornò fuora, E trouo, che rifatto era il Roseto, Più che mai di bei fior giocondo, e lieto. Trà folte spine dunque, e rami ombrosi Si pose à gir la Donna in fin ch' uscio; E, poi che fù ne' prati spatiosi, Il tralasciato suo camin seguio; Di trouar altri lochi perigliosi, Altre strane auenture è il suo desio; A piè lascia il giardin uerde, e fiorito, E duolsi del destrier, che le è fuggito. Ma non fè molti passi, che 'l destriero, Già per timor dentro una siepe ascosto, Se le fè incontro à mezo del sentiero, Come al giunger di lei si fusse apposto; Lieta la donna il prende di leggiero, E poi ch' in sella il fianco hebbe riposto Lo sprona sì, che quella sera arriua Ad una Villa detta Franca riua. In quella Villa un Gentil' huomo hauea Vn suo poder con ricco casamento; Et se Donna, ò Donzella ui giungea, O Cauallier, gli daua alloggiamento; Ricco era, e sempre il suo largo spendea In usar cortesie gionto, e d' intento, Onde per questo in tutto quel paese Era chiamato il Cauallier cortese. A punto si trouaua in sù la porta Del cortil, ch' era largo, e spatioso. Quando passò la Donna, e da lui scorta Fù per guerrier d' aspetto ualoroso; Il gentil' huomo, à dismontar l' esorta, Ch' era tempo di albergo, e di riposo. Dal prego, e dal bisogno la Donzella Vinta fermossi, e dismontò di sella. Tosto un seruo il destrier piglia, & alloggia, Lo sfrena, e biada assai gli mette inante; Altri per uarij lochi ò scende, ò poggia, E la cena apparrecchia in uno istante. Il Cauallier condusse in una loggia A disarmar la bella Risamante. Mà quì dò fine al ragionar presente, E la man riposar uoglio, e la mente.

IL FINE DEL TERZO CANTO.



Mette in cor à Risardo il buon Nocchiero Del Greco Re la giostra, e la figliuola, Tal ch' ei si fà condur nel Greco Impero, Per mirar la beltà stupenda, e sola, V' abbatte l' uno, e l' altro Caualliero D' Odoria, et ella il cor gli accende, e inuola. Lideo contra l' amata arso di sdegno L' accusa d' homicidio, e usurpa il Regno.



Le Donne in ogni età fur da Natura Di gran giudicio, e d' animo dotate, Ne men atte à mostrar con studio, e cura Senno, e valor de gli huomini son nate, E perche, se commune è la figura, Se non son le sostanze variate, S' hanno simile vn cibo, e vn parlar denno Diferente hauer poi l' ardire, e 'l senno? Sempre s' è visto, e vede (pur ch' alcuna Donna v' habbia voluto il pensier porre) Ne la militia riuscir più d' vna, E 'l pregio, e 'l grido à molti huomini torre, E così ne le lettere, e in ciascuna Impresa, che l' huom pratica, e discorte, Le Donne sì buon frutto han fatto, e fanno, Che gli huomini à inuidiar punto non hanno. E benche di sì degno, e si famoso Grado di lor non sta numero molto, Gli è perche ad atto heroico, e virtuoso Non hanno il cor per più rispetti volto. L' ORO che stà ne le minere ascoso, Non manca d' esser or, benche sepolto; E quando è tratto, e se ne fà lauoro E così ricco, e bel come l' altro oro. Se quando nasce vna figliuola al padre, La ponesse col figlio à vn' opra eguale, Non saria ne le imprese alte, e leggiadre Al frate inferior, nè disuguale; O la ponesse in fra l' armate squadre Seco, ò à imparar qualche arte liberale; Ma perche in altri affar viene alleuata, Per l' education poco è stimata. Se la militia il Mago à Risamante Non proponea, nè disponeale il core Non hauria di sua man condotto tante Inclite imprese al fin col suo valore, Dissi, che questa giouene prestante Fù dal cortese, e liberal signore Condotta in vna loggia à disarmarsi, Oue douea la cena apparrecchiarsi. Ma mentre di costei ragiono, e canto Il Trace Cauallier mi viene in mente Il qual com' io narrai nel' altro canto, Cinto l' acciar s' hauea terso, e lucente, Et per gir in Egitto à trar di pianto, E di prigion la giouene innocente, Tolto da suoi commiato, il patrio lido Lascia, e si crede al mar noioso, e infido. Sciolto hauea già tutto contento, e lieto Al fiato d' Aquilone il lino attorto, Nè vedea l' hora mai nel suo secreto, Che potesse veder l' Egittio porto. Hauea in naue vn Nochier' saggio, e discreto E d' vn ingegno assai viuo, & accorto; A cui piacea d' intender le nouelle Di ciò, ch' occorre in queste parti, e in quelle. Costui, veggendo il vento al suo camino Esser propitio, el Ciel chiaro, e giocondo, E che per gire al porto Alessandrino Hauea l' aer, con l' aura, el mar secondo; Si pose in atto riuerente, e chino, Com' huom discreto, e pratico del mondo, Trà quei Signori, e giunto in lor presenza, Ottenne anch' ei di ragionar licenza. E disse; Esser vi dee Signor palese Quella sì cara, e sì gradita noua, Che d' ogni region, d' ogni paese Tutti i guerrier, in cui virtù si troua Tragge in Atene à l' honorate imprese, Doue vna giostra il Re Cleardo approua, Chel grido altier di s` lodeuol opra Già tutto 'l mondo hà posto sottosopra. Corre ciascuno à l' Atica pendice, E tanto più, ch' egli hà vna figlia sola, Che di bellezza al Mondo è una Fenice, E à tutte l' altre belle il pregio inuola; E ben si potrà dir colui felice, Che goderà così gentil figliuola, Che presso la bellezza, ond' ella è ornata, D' ogni virtù mirabile è dotata. Et oltre ciò, sol à costei s' aspetta La heredità di sì famoso regno, Perche questa leggiadra giouanetta E (com' io dissi) al padre vnico pegno, E questa è la cagion, cred' io, ch' alletta A gir in Grecia ogni guerrier più degno, Che speran, che la faccia il Re consorte A quel di lor, ch' è più gagliardo, e forte. Mentre costui ragiona, il bel Risardo Noui pensier per la sua mente gira, L' ascolta attentamente, e 'l viso, e 'l guardo Tien in lui fermo, e à pena il fiato spira Segue il Nochiero, Ogn' huom forte, e gagliardo, Che di mostrar la sua virtù desira, O mirar il bel viso di costei A gara hor se conduce à liti Achei. Grande è la fama che d' intorno spande Del grido altier di questa alma fanciulla. Ma l' altro dì, ch' io giunsi in quelle bande, Trouai che 'l vero ogni credenza annulla. E sua gratia, e bellezza è così grande, Che si può dir, che sia la fama nulla. Io la vidi Signor, ne à gli occhi miei A pena credo ancor quel, ch' io vedei. Crespo oro il crine, auorio rassomiglia La fronte più, ch 'l Ciel serena, e tersa; Direste che son d' hebeno le ciglia, Là donde Amor foco, e dolcezza versa. Sembra la guancia candida, e vermiglia Neue di grana, ò di cinabro aspersa, Par, che la bocca al minio il vanto inuole, Onde nascon soaui, alme parole. Il sottil collo è d' allabastro eletto, Tondo come colonna, & di christallo È l' ampio sodo, e delicato petto, La man di perle, e l' onghie di corallo; In somma il tutto è in lei bello, e perfetto; Non fè Natura in lei punto di fallo; Ma lo splendor de gli occhi, e la vaghezza Vince poi tutto il resto di bellezza. Chì de' gesti la gratia, e leggiadria. Corrispondente à la beltà del viso; Chì la soauità narrar potria De le dolci parole, e dolce riso? Ch' in lei regna modestia, e cortesia Danno gli ornati suoi costumi auiso, Talch' io non credo à lei trouarsi pare Douunque il Sol riscalda, e cinge il Mare. Già non potea il Nochier trouar suggetto Miglior di questo, ò più lieta nouella, Che più mouesse assalto al Tracio petto, E gli fesse acquistar voglia nouella, Come Risardo hà inteso il suo concetto, Più d' ir non cura in Alessandria bella, Et al Nochier comanda al' hora al' hora, Che ver la patria Achea volga la prora. Obedisce il Nochier, nissun non osa Contra 'l mandato suo la bocca aprire, E più, ch' essendo ogn' alma al' hor bramosa, D' aquistar fama, e di mostrar ardire, A quella giostra nobile, e famosa Commune di trouarsi era il desire. Ciascun brama, c' ha 'l cor forte, & inuitto Di gir prima in Atene, ch' in Egitto. Già Silibria, e Perinto à destra mano Lasciando, passa il buon Nochier lo stretto Doue Leandro, & Hero amarsi in vano, Ch' à l' un' , e à l' altro fù sepolcro, e letto. In faccia e Creta, anchor che di lontano, E dal sinistro lato il Frigio tetto, E à l' Isola di Tenedo vicina Gionge, e solcando và l' Egea Marina. Entra poscia nel Mar, che 'l nome ottenne Dal' audace di Didalo figliuolo, Ch' ascese al Ciel con l' incerate penne, E poi cadde, e finì la vita, e 'l volo. Al promontorio Cafareo poi venne, Oue del verde mar l' instabil suolo Per dritto fil ver mezo dì non fende, Ma ver Fauonio il suo viaggio stende. Andro lascia a sinistra, e Negroponte Dal destro lato, e sì Volturno spira, Ch' in breue spinge il legno al Sunnio monte, E 'l bel terreno al fin Cecropio mira. Giunto, à terra gettar fa 'l Trace il ponte, E smonta, e l' occhio hor quinci, hor quindi gira, E seguendo l' essempio di Risardo, Dismonta al lito ogni guerrier gagliardo. A la scoperta gir non fà disegno, Ma da prudente à tutti si nasconde, Per l' odio, e nemicitia, che tra 'l Regno Achiuo è nato, e le paterne sponde: Vol prima intender meglio il Tracio pegno, Se 'l bando Regio a 'l suo voler risponde. Vol saper s' in quei giorni almi, e felici Cleardo fà sicuri anco i nemici. Non vole entrar' ancor ne la Cittade, Ma se ne và per la campagna herbosa, Rimirando co i suoi quelle contrade, E scopre hor questa, hora quell' altra cosa; Quando passar per le più trite strade Vede dinanzi a la Città famosa Tre Cauallier con arme, e destrier neri, Senza insegna ne i scudi, ò ne i cimieri. Parea ciascun in vista esser gagliardo, E (senza fregio hauer di gemme, o d' oro) Nel sembiante à l' altrui giuditio, e sguardo Mostrauan degnità, gratia, e decoro. Come gli vede il giouane Risardo Disegna di prouar la virtù loro, E in atto di giostrar tutto cortese Gli sfida, e l' hasta in sù la coscia prese. Quel de' trè Cauallier, ch' andaua prima, Che non sà quanto in arme il garzon vaglia L' inuito accetta, e senza dubio stima Rimaner vincitor de la battaglia. Per veder chì di lor sia di più stima Fermarsi gli altri, e chì più in pregio saglia; Gli è ver ch' i Tracij discostarsi alquanto, E gli altri diuo guerrier fero altre tanto. Risardo intento al destinato assalto Ritien' alquanto al suo destrier il morso, Lo spinge nel principio à salto à salto Destro, e leggier con arte, e con discorso, Indi voltato poi l' herboso smalto Premer gli fà con più spedito corso, E sì rallenta il freno, e i sproni stringe Ch' el suo nimico ad incontrar lo spinge. L' esterno Cauallier di lui non meno Ardito, pronto, e di giostrar maestro Gira con arte al suo destrier' il freno Dal manco lato, e 'l punge col piè destro; Quel con prestezza tal preme il terreno, Che non lascia orma il piè leggiero, e destro. Le dure lancie à gli elmi ambi drizzaro, E à mezo il corso i Cauallier s' vrtaro. Risardo al cui ardimento, al cui vigore Vn sol de la sua età si paragona, Portò nel colpo altier tanto valore, Senza incomodo hauer ne la persona, Che rimasto à l' incontro vincitore, Continuamente al corso s' abbandona, L' altro, ch' vscì di sella al colpo fiero, Con poco honor restò sopra il sentiero. D' vn incontro sì fiero, e sì gagliardo Ciascun si marauiglia, e 'l loda, e approua, E vaghi del valor del buon Risardo Bramano di veder qualch' opra noua, Dato hauendo egli volta à Ruggipardo, Veniua audace à la seconda proua, E l' altro, che lontan venir lo vede Di cor, d' arte, e di forza si prouede. Piglia del campo, e minacciante, e crudo Per vendicar se può del' altro il danno, Passa al feroce in contro il Tracio scudo E rompe l' hasta infrà l' usbergo, e 'l panno. Ma Risardo à lui troua il petto nudo E 'l pone in tal angustia, in tal affanno; Che, se non ch' a la groppa del destriero Si stese, l' hauria occiso il colpo fiero. Fù vicino à cader, pur si ritenne, Ma nel leuarsi, e in quel, che 'l brando trasse, Non sò come il cauallo à inciampar venne, Sì che necessità fù, che cascasse. Poi che 'l secondo voto il Tracio ottenne; Ch' uopo non fù, che più con quel giostrasse, Come sempre al suo honor Fortuna arrida, Il terzo Cauallier superbo sfida. Ma quel senza far atto, ò mouimento Che per giostrar' al Tracio corrisponda Ver lui moue il destriero à passo lento, E con voce humanissima, e gioconda Disse; deh Cauallier fammi contento, Ch' i o sappi in chi tal pregio il Ciel nasconda; Dimmi qual padre, & patria ti diè il Fato, I parenti, e 'l paese, onde sei nato. Quel proferir, ch' ei fè dolce, & humano Con piana, e soauissima fauella A Risardo, ch' ascolta, e parli strano, Sembra non di garzon, ma di Donzella. E rispondendo al prego humile, e piano, Tutto cortese anch' ei parla, e fauella. Benche mi piaccia altrui sempre occultarmi, Pur teco son contento appalesarmi. Risardo io son, del Re nacqui Agricorno De l' antica Bizantio Imperatore; Ma tù che mostri al fauellar adorno Esser donna dignissima d' honore, Fammi saper, chì ti diè al mondo, e al giorno, E s' io giudico il ver, s' io piglio errore; L' habito fà stimarti huomo virile, Ma la voce è di Donna alma, e gentile. Già non si rende al suo desir ritroso Colui, ma discoprendo il volto, Così ragiona al Prencipe amoroso; Vedi che 'l tuo vero giudicio è stato; Io Donna son di grado alto, e famoso; Di là dal Gange è il mio felice stato, Sono il mio Regno, e i patrij alberghi miei I campi felicissimi Sabei. Come il forbito acciar lucido, e graue Lascia scoperto à la Donzella il viso, E che 'l lume dolcissimo, e soaue Coglie il barbaro petto à l' improuiso; Sì stupido riman, sì trema, e paue, E ne diuien sì attonito, e conquiso, Che 'l nome più di vincitor non gode, E ne riporta Amor tutta la lode. Per che tosto, ch' in lei le luci intende, E vede l' aurea chioma errar co 'l vento Amor, che l' arco ne begli occhi tende, Per abbassar quel barbaro ardimento, D' vna saetta il cor tanto gli offende, Che 'l priua d' ogni honor, d' ogni ornamento, E già di tal desio l' arde, & allaccia, Che non sa, che si dica, ò che si faccia. Con vn bel modo al fin ragiona, & osa Chieder qual causa fà, c' hor si allontani Da la felice sua patria famosa, E cerchi i Regni à lei longinqui, e strani; E se del suo viaggio il fin riposa Ne campi Achei men fertili, e men sani. O pur s' in altro loco si conduce, Per farlo illustre, e altier con la sua luce. La Vergine, ch' Odoria era nomata, Che s' era accorta à i gesti, e a le parole, Quanto la Tracia mente era infiammata, De le bellezze sue diuine, e sole, Se non si rende al primo uoto grata, Il secondo negar non però uole, Tace per che lasciato hà l' Oriente, E del resto compiace à la sua mente. E dice, che di gir per la più trita, E breue strada in Delfo è il suo desio; Ch' in Oriente hauea la fama udita Del responso fatal del biondo Dio, Che le cose uenture a l' altrui uita Predice con l' Oracol santo, e pio, E, per c' hà due pensier dubbij nel petto, Vol saper qual di lor sia 'l più perfetto. Come la donna à questo punto arriua, Pensa Risardo anch' ei di gir al tempio, Per saper da la uoce eterna, e diua Se la Donzella ha 'l cor pietoso, e d' empio; Vol saper se l' apprezza, ò se lo schiua, S' haurà del nouo amor diletto, o scempio; E da quest' altra impresa il cor disuia, E s' offre à lei di farle compagnia. Consente la Donzella al gentil figlio, Che per la sua uirtù l' hà in pregio molto, E tutta uia trà sè prende consiglio, Come ueder potesse il suo bel uolto, Già poco poi, ch' ella scoperse il ciglio, S' era 'l Tracio collegio iui raccolte Pieno d' alto stupor, ch' una gentile Giouane andasse in habito uirile. Andaua così armata la Donzella, Non perche fusse in lei forza, ne core, Ma per non dar à quei, che gian con ella Spesso materia onde mostrar ualore; Che per esser fanciulla, & tanto bella, Potrian uenir per lei spesso à rumore; Potrian più d' un guerrier trouar per uia, Che per suo amor, à l' arme ne uerria. Onde per non hauer tante contese, Che ritardar lor fessero il camino, La donna di coprir partito prese A l' altrui sguardo il uolto almo, e diuino. Risardo si scusò tutto cortese. Co' i due guerier, che stanno a capo chino, E mostra gran cordoglio, e pentimento D' hauer lor dato questo impedimento. Eran questi guerrier molto pregiati Da lei, che uisto hauea di lor gran cose; Ma, sendo da Risardo scaualcati; In lei stupore, in lor uergogna pose. Hor poi che furo in sella rimontati, La bella Odoria l' elmo si ripose, Benche Risardo, à cui spiacea l' auiso, La pregasse à tener scoperto il uiso. Ma come il Nano intende, che Risardo I uestigi seguir brama Sabei, E che lascia l' impresa di Cleardo, E uole in Delfo accompagnar costei, Non è piangendo à scongiurarlo tardo Per la fè, c' hanno gli huomini à li Dei, Che non mandi più in lungo la promessa, Che d' aiutar fè la sua donna oppressa. Filardo lo conforta, e gli promette Di far presto per lui quanto far deue, E se prima in Egitto il piè non mette, E 'l seguitarlo à lui forse par greue, Che torni in Alessandria, e che l' aspette (Dice) ch' à lui uerrà quanto più in breue, Oue poi non si dubiti, che trarla Non debbia d' ogni affanno, e liberarla. Poi che prego non ual, pianto, ò lamento, Perche Risardo altro camin non prenda, Partesi il Nano irato, e mal contento, E fà, che la sua ingiuria ogn' un intenda, Per trouar huom più fido al suo talento, Che l' innocente giouane defenda, Et incontra al fine un Cauallier istrano, Dopò molto girar per monte, e piano. I Cauallier compagni di Risardo, Che mandò seco il Trace Imperatore, Per uolontà del Principe gagliardo Si ritornaro in dietro al lor Signore. Ma lascio questi, e di che acuto dardo Raggidora à Lideo passasse il core Vuò dirui, e come uccise egli in Egitto Il Re, dando à lei colpa del delitto. Dal Nano uoi sentiste in che maniera Fosse costei nel Regno suo trattata, Ma la cagion dir non ui seppe intera, Per che fosse del fallo essa incolpata. Hora vuò farui udir l' historia uera, E dir, che per amor fù impregionata; Per quell' amor così crudel, e reo, Che tanto errar fè il Cauallier Lideo. Poi che la gran beltà de la donzella Hebbe il guerrier d' Eubea legato, e stretto Che giunto à caso in Alessandria bella Restò pregion del suo leggiadro aspetto, E che la mente feminil ribella Troua, e contraria al suo amoroso affetto, La tenta con più uie, ch' usan gli amanti, Feste, uersi, tornei, preghiere, e pianti. La giouene crudel non hebbe mai Pietà di lui, che gli hauea dato il core, Non mai uer lui drizzò cortesi i rai, Non mai gli fece un minimo fauore; Onde il meschin tenea in continui guai L' anima inuolta in sì falace errore, Poi che più d' aspe sorda, e più che scoglio Dura costei godea del suo cordoglio. Quando nel fin quel cor fero, e spietato Non moue seruitù d' alcuna sorte, E che Lideo si troua disperato, Vol di sua propia man darsi la morte; Poi ripensando à un animo sì ingrato, Non uol morir, ma uendicar sua sorte; Pensa occider il Re nascosamente, E dar la colpa à lei, ch' era innocente. Non manca al rio pensier chì dia fauore, Che oltra, che al mal far Fortuna arride, Co' i serui può del' or si lo splendore, Che ne la propria stanza il troua, e uccide; Essente se n' and ò d' un tanto errore, Ch' alcun non se n' accorse, alcun no 'l uide, E, per far più sicuro il suo difetto, Vccise poi quei, che sapean l' effetto. Aggiunta colpa à colpa danno, a danno, Per le vie più nascoste, e più secrete, Tosto ch' à tutti è noto, e tutti sanno, Che 'l Rè varcato hauea l' onda di Lete; Per coprir meglio il suo crudele inganno, E far le voglie sue contente, e liete, Accusaa Raggidora, e s' offre, e spera La calunnia crudel sostener uera. Se ben non era il Cauallier d' Eubea Di troppo bello, e gratioso aspetto, Pure unn proceder sì benigno hauea, Vn conuersar così amoroso, e schietto, Che aggiunto al gran ualor, ch' in lui splendea, Gli portavano amor tutti, e rispetto, Sol Raggidora è quella, che non l' ama, E non prezza i suoi gesti, e la sua fama. Lideo co 'l mezo, & co 'l fauor ch' ottenne Da i più gran personaggi di quel Regno, A poco a poco in tal grandezza uenne Con arte, con astutia, e con ingegno, Che signor dopò Galbo ne diuenne, E riuscì talmente il suo disegno, Che, senza hauer contrasto, da la gente. Fù salutato Re publicamente. Ma ben che sia di sì gran Regno herede, E porti regio manto, e la corona, Che si riposi Amor non gli concede, Che più che prima ancor l' instiga, e sprona Per Raggidora, che 'l suo cor posiede, E niega a lui la bella sua persona; Poi ch' è tanto contraria a le sue uoglie, Che uol prima morir, ch' esser sua moglie. Egli che l' ama, e che l' hà offesa tanto Sol per l' ingratitudine di lei Si conduce a mirar quel uiso santo, Non una uolta al dì, mà cinque, e sei; E moue per placarla il prego, e 'l pianto Per celebrarne i debiti himenei. Sdegnosa ella lo sprezza, e non si piega, E di mirarlo in fin superba niega. L' inamorato Rè soffre ogni cosa, Ogni sua crudeltà si toglie in pace, Che spera più di renderla pietosa Co 'l dimostrarsi humil seco, che audace; E ben ch' ella superba, e disdegnosa Mostri portarli un odio pertinace, E sia di sguardi auara, e di parole, Egli l' honora, e l' ama, e amar la uole. Più non la tiene in tenebrosa parte, Ma in un libero albergo illustre, e altero, E di tutti quei beni à lei fà parte, Che può donar il suo superbo Impero; Ogni gratia al suo cor largo comparte, Che può render felice il suo pensiero, E, come fosse la Regina propia, Le fà d' ogni thesor, d' ogni ben copia. Di uisitar fà uoto in Papho, e in Gnido La Dea de le delicie, e de i piaceri, Acciò che 'l soauissimo Cupido Pieghi la bella donna à suoi uoleri; Ella ch' è d' ogni gratia albergo, e nido, Non però cangia i suoi costumi alteri, Ma che ritorni il Nano ogni dì aspetta, Portando in altre man la sua uendetta. Di punto in punto aspetta il Rè Pigmeo, Che con qualche campion faccia ritorno, Il qual leui al Tiranno ingiusto, e reo, Non pur lei, ma 'l Reame, e l' aura, e 'l giorno; Ben conietture hauea Ch' el fier Lideo Hauesse fatto al Rè l' ultimo scorno, Hauea più uolte ben trà sè discorso, Come douea quel fatto essere occorso. Onde uia più che prima in odio, e in ira Hauea l' infido Rè con gran ragione, E d' ei, che indarno lagrima, e sospira, Nè si puo trar del cor la passione, Vinto dal duol, che l' ange, e lo martira Spedisse un messo in fretta à Stellidone, Che uenga à mantener contra l' altera, Giouene il detto suo, perche al fin pera. Era uenuto in Alessandria fama, Che molti Cauallier di sommo ardire, Per le ragion difender de la dama, S' erano mossi, e già douean uenire; Il Rè, ch' ordito hauea l' ingiusta trama, E sentiua per lei tanto martire, Per honor suo non men, che per la doglia Vol, che di cio 'l fratel l' impresa toglia. Di tre fratei, che fur d' alto ualore; Che dominauan l' Isola d' Eubea, Questo Lideo, ch' io dico era il maggiore, L' ultimo Stellidon di cui dicea; L' altro Tisandro fù, molto migliore, Di cui Lideo nouella non hauea, Però sù Stellidon fece disegno. Mà giunta son di questo canto al segno.

IL FINE DEL QVARTO CANTO.



In Itaca trasporta la procella Silano, là ue in arbore trasforma Il Cauallier la magica Donzella, E salua lui da la ferina torma. Giungono i Greci al Re. Fanno una bella Mostra i giostranti. Il nobil hoste informa Risamante del modo onde l' anello Ottenne, e come uccise il Drago fello.



Ahi, che non può quel rio Tiranno Amore Se da buon senno un cor percote, e fere? A chì leua la uita, à chì l' honore, A chì la robba, e l' amicitie uere. Altri per sua cagione entra in furore, Et è sforzato oprar contra il douere; E per un sol, che le costui fauille Faccian saggio parer, ne impazzan mille. Per un, ch' accostumato, e riuerente, E che cortese Amor renda, e gentile, Infiniti son quei, c' hanno la mente Perfida traditrice, infame, e uile. E se la Donna al lor desire ardente Non si dimostra al primo tratto humile; Se non si rende a prieghi empi, e molesti Eccoli à gli odij, à le uendette presti. Fuggan le Donne pur più, chel peccato, Più chel morir l' officio de l' amare, C ' han la più parte il cor gli huomini ingrato Per quel ch' io leggo, e spesso odo contare; Benche da l' empio, iniquo, e scelerato Non ben si possa in modo alcun guardare, Che mal à qualunque ama, e peggio ancora Per non amar successe à Raggidora. La qual non consentendo al gran desire Del Cauallier per troppo amore insano, Fù cagion, ch' egli uinto dal martire Si mostrasse uer lei crudo, e uillano. Ben che dapoi, come faroui udire, La cercasse placar, mà sempre in uano. Hor restisi costei, che del marino Furor trar uoglio il Principe latino. Non cessò Borea impetuoso, e fermo, Nel suo rigor sin' a la terza sera, Sempre agitando il picciol palischermo Per la marina ingiuriosa, e fera; Nel terzo dì, che non u' hauean più schermo, Parue alquanto cessar la furia altera, E l' aer un poco aperto in Orizonte Scopri del Sol nel tramontar la fronte. Accolse il uento à poco a poco ogni ala, E placato si rese al suo gran Duce, E 'l mar anch' ei la rabbia, e 'l furor cala, E ne l' esser primier si riconduce; Vn dolce fiato all' hor contrario eshala, Ch' i nembi scaccia, e dà loco à la luce, E Cinthia mostrò fuor le chiome belle, E 'l Ciel s' o rnò di scintilanti stelle. L' Alba comparue poi ne l' Oriente, Che di perle quel dì freggiar sì uolse, E l' Aurora seguì d' oro lucente, Che di fresca girlanda il crin s' auolse, E i Cauallier, ch' assai più dolcemente Quella notte passar, dal sonno sciolse, Che furon (non sapendo in che paesi) Sopra una uaga, e bella Isola scesi. Lieti, quant' huomo imaginar si pote, Salutan' ambi il desiato lido, E piglian terra in quelle parti ignote, E danno il tergo al mar noioso, e infido, E con parole pie, sante, e deuote, Poi che fur tratti in più sicuro nido, Ne ringratiar l' eterne alme diuine Con le luci, e le mani al Ciel supine. Erano à piedi e di tutt' arme ornati (Che seco le saluò ciascun guerriero) Onde per lieti, e uerdeggianti prati, Per quel bel piano à caminar si diero, Veggon de fiori i bei campi stellati, Doue più d' un capriol scorrea leggiero, E poco lungi poi le spiche bionde Tremolando imitar le marine onde. Bel boschetto di lauri, e di Ginepri Veggion tra due fontane intatte, e dolci, Caro, e secreto albergo à damme, e à lepri, Che da le fere gli asconde, e da bifolci, Soaue Amor, che di pungenti uepri I cori impiaghi, e le ferite addolci, Quando in Cittera hauesti in Papho, ò in Gnido Così giocondo, e gratioso nido? Quanto il passo i guerrier mouean più auanti Scorgean noua beltà, uaghezza noua, Vdiuano armonie, sentiano canti Di uaghi uccel che fan concenti, à proua; Che lieti i due guerrier fra piacer tanti Giurar, che questo sol diletta, e gioua, Ne u' è più gioia à lor giudicio intera Che le delicie, e 'l bel di Primauera. Incognita de fonti è lor l' uscita, Che comprender non san donde l' acqua esca, Che, da due lati di lontano uscita, Più ch' ambra discendea limpida, e fresca; La terra da' duo riui tripartita Fà, che Natura i suoi thesori accresca; Da i lati son mille feconde piante, Nel mezo è il bosco, ch' io u' hò detto inante. Le fonti discorrean lucide, e terse Dentro un ameno, e florido pratello, Che di mirti, e uiole azzure, e perse, Intorno un muro hauea leggiadro, e bello; Quinci da la Natura in un conuerse Formauano passando un fiumicello, Ch' ombrose hauea le colorite sponde D' ogni più ricca, e fruttuosa fronde. Scorgon di quà, e di là mille arbor tutti, Carchi di pomi d' or uaghi, e ridenti, Ch' i tronchi sostenea, le fronde, e i frutti, Ch' ornano à Bacco i crin biondi, e lucenti. E u' hà con sì bell' ordine produtti Natura i rami, e ' n lor l' uue pendenti, Quai d' oro, e quai di color d' ostro pinte, Che da l' arte parean ritratte, e finte. Silano, che dal tempo aspro, e maluagio, La persona tenea debile e trista, E patia dal digiun lungo disagio, S' allegra i spirti à sì leggiadra uista, E per scacciar la fame, à suo bell' agio Si ferma a canto à la pendente lista, E Clarido di pomi i rami spoglia, E satia questo, e quel l' auida uoglia. Fù la uentura lor, che non toccaro De gli arbori di dentro frutto alcuno, Nè colser fior, nè di quel fiume chiaro Gustar, c' haurebbon mal rotto il digiuno. E più, ch' in quel boschetto non passaro, Di cui detto hò, che ui peria ciascuno. Silano ben dentro il pratel giacea Ma Clarido di fuor pomi cogliea. O fosse caso, ò lor prudentia ingombra Di quelli il seno, indi l' afflitto spirto, Ristorano ambi, e à l' odorifer' ombra S' assidon poi d' un amoroso mirto. Quel dolce tempo ogni mestitia sgombra, Spiran l' aurette un delicato spirto, Ma poco stan, ch' à un gran romor d' intorno Si suiar da sì lieto, almo soggiorno. E si leuaro, e per l' herbosa ualle De lo scudo prouisti, e de la spada, Doue udir quel romor presero il calle, Che li condusse à la più trita strada; Scopron d' un monte allhor le late spalle, Ch' ascende a la diuina alma contrada, E cinto ha il piè d' un ben composto muro, Che chiude il passo al peregrin sicuro. Affermar non si può, che la muraglia Di Pario marmo, ò d' allabastro sia, Perch' è di splendor tal, ch' ogn' occhio abbaglia, Quantunque saldo, e che lontan ne stia A si mirabil sasso non s' aguaglia Diamante alcun, che simil luce dia; Di Carbonchio, non è, nè di christallo D' Argento nò, ne del più fin metallo. Egli è di tal materia illustre, e chiara, Che eccede, e vince ogni pensiero humano, Però mirando vn' opera sì rara Stupido resta il Prencipe Silano; Clarido con le man gli occhi ripara Dal gran fulgor del magisterio strano, E finalmente fero ambi giudicio Che questo fosse vn magico artificio. Domandar mi potreste la cagione, Per ch' essi non l' hauean veduto inanzi, Et io dirò, chel magico sermone L' ascose lor, benche lor fosse inanzi. Ma poi ch' vscir del prato, oue Plutone Hauea sue forze, e caminar inanzi, Per la sicura via, sue lati furo E scoprir di lontano il monte, e 'l muro. Vanno più inanzi, e 'l gran romor ch' udiro Via più gli orrecchi lor fere, e penetra, E poi che presso à quel superbo giro Furo quanto sarebbe vn trar di pietra, Veggono vn' vscio aprir, non di zaffiro, Mà di più ricca, e pretiosa pietra, E vna Donzella vscir del gran girone, Che mena vn Cauallier come prigione. Costei il suo biondo innanellato crine Parte tenea sopra 'l bel collo sparso, Parte raccolto in terra era al confine De' vaghi orrecchi, e in fronte era più scarso. Le belle luci angeliche, e diuine Hauriano ogni cor d' Aspe, e di Tigre arso, Lo sguardo era viuace, accorto, e ladro, E 'l viso in ogni parte almo, e leggiadro. Gentile Amor da suoi cortesi sguardi Mouea lo stral soauemente altero, E già sentia de gli amorosi dardi L' assalto il suo pregion dolce, e seuero; Stanno à mirar nel fin, li duo gagliardi, Oue meni la Donna il Caualliero, Che di catena d' or legato serba, E in contro à lor ne vien grata, e superba Come fù preso lor con atto humile Fer riuerenza à la beltà diuina, Ed ella con sembiante almo, e gentile Gli risaluta, e tutta via camina; Sente Clarido già l' esca, e 'l focile D' Amor che ne begli occhi i strali affina; Sente il petto infiamarsi a poco, a poco, Et già sospira il suo nouello foco. Per quella via, ch' essi arriuaro al monte, La bella Donna al Caualliero è duce; Posto era vn ponticel sopra vna fonte, Per cui nel bosco ella il meschin conduce, Ch' à pena tocca in pian che cangia fronte, Perde l' aura vital, perde la luce, E Silano, e Clarido il mira, e 'l uede E à pena ancor, ch' à se medesmo, il crede. Come insensate statue immoti stanno Di lontan à mirar quel caso duro; Lo spauento, e 'l tremor, che nel cor hanno E tal, che per vscir del senno furo. Il Cauallier lasciando il carnal panno Diuenne tronco à vn semplice scongiuro, Le braccia si fer rami e 'l nouo stelo Spiego la vaga, e verde chioma al Cielo. Come accresciuto in numero, e in bellezza De la nouella pianta ha 'l bosco infido, Torna la bella Donna à la Fortezza E passa inanzi al Prencipe, e à Clarido. Clarido più quella beltà non prezza, Che gli fece nel cor sì presto nido, E in vn punto piagato, e fatto sano Sbigotito la mira egli, e Silano. Ella, ch' i Cauallier contempla in atto, Che paura dimostrano, e stupore, Disse, Non sia di uoi, chi stupefatto Prenda di ciò, ch' hà uisto alcun terrore; Per che gli mostrerò di quel, c' ho fatto Per mia uirtù miracolo maggiore; Et chi uol possar meco oltra quel muro, A uederne l' effetto io l' assicuro. Venite Cauallieri auenturosi, E non temete alcun periglio strano. Ah misera; tu cerchi i tuoi riposi Abbreuiar, e 'l cor ferir, c' hai sano. Quanto meglio saria, se con ritrosi Accenti, e con parlar fiero, e uillano Da te scacciasti i Cauallieri arditi, Che con sì care parolette inuiti. Segue ella, io ui farò quella auentura Vdir, che 'l mondo ancor saper non puote; E insieme narrerò la mia sciagura, Che mi tien chiusa in queste ualli ignote; Ch' anch' io son sottoposta à sorte dura, E ne spargo di lagrime le gote, Sperando in uan d' un Cauallier l' ingresso. E chì sà, ch' un di uoi non sia quel d' esso? Il qual per sua uirtù rara, e profonda A liberar di questo loco m' habbia, E sarà sua quest' Isola feconda, Poi che de Mostri haurà uinta la rabbia; E così ben la uoce alma, e gioconda Mosse costei da quelle dolci labbia, Ch' i Cauallier rassicurati alquanto Prestaron fede al parlar dolce, e santo. Nè fù di loro alcun tanto scortese, Che non tenesse il suo benigno inuito; E la Donzella il suo uiaggio prese Al muro, onde 'l gran monte è circuito Silano allhor le luci al sommo intese, E un tempio ui mirò d' oro brunito; E à Clarido il mostrò ne l' alta cima, Che non l' haueua alcun ueduto prima. Quando fur giunti à la superba porta, La Donzella passò co 'l piè non lento, E i Cauallieri stimola, e conforta A seguitarla, e non hauer spauento. Silano fatto cor segue sua scorta, E Clarido con lui mostra ardimento; Poi che la giouinetta afferma, e giura, Che d' ogni tradimento gli assicura. Ma dentro à pena à le gran soglie altere Pongon il piè, trà la muraglia e 'l monte, Ch' un milion di dispietate fiere Lor salta in contra à far lor danno pronte. Silano che non uol di lor temere Caua la spada, e con ardita fronte Trà lor si scaglia, e con percosse horrende Da l' importuna rabbia si diffende. Orsi, tigri, leon, lupi, e serpenti De l' aspetto uiril crudi nemici, Con acute onghie, e con uoraci denti Fan duro assalto à due fideli amici, Ma la Donzella pia, ch' à gli elementi Può commandar con suoi rari artefici Con la uirtù d' una parola sola. Tutta placò quella ferina scola. Per diuerso sentier lo stuolo horrendo Tutto di quà, di là si fù diuiso; E i Cauallier d' un atto sì stupendo Lasciò con basso, e uergognoso uiso, La dolcissima uergine ridendo, Con un discreto, e gratioso auiso E quello, e questo allhor prese per mano E s' escusò del caso iniquo e strano. Dicendo io ui prestai saluo condotto Quanto al ualor del' incantato carme, Non de gli altri accidenti à quali, e sotto, Posto l' huom' e adoprar puo 'l senno, e l' arme. Silano à lei con gratioso motto, Nè senno, nè ualor potrebbe aitarme Già contra uoi, se sol co' i dolci accenti Vincete orsi, leon, tigri, e serpenti. Nè credo ch' altra cosa un cor più incanti D' un uago uiso, e d' un parlar soaue; E ben uegg' io ne' bei uostri sembianti, Che d' altra forza il mio pensier non paue. Chinò la Donna i lumi honesti, e santi A quel parlar che non le fù già graue; E 'l uiso ornò del bel color, che suole Scoprir la rosa al matutino Sole. Vna stradetta assai larga, e capace Gira tra 'l monte, e 'l cerchio luminoso E à piè del monte vn' ampio vscetto giace Per cui sì và ne l' antro cauernoso; Quiui la Donna à cui in secreto piace Il ragionar del giouane amoroso Giunta, l' vscio percuote, e quel le cede, E vi pon' entro ella, e i guerrieri il piede. Ciò che facesser poi dentro quel monte I Cauallieri, e ciò che ne seguio, E di costei, che poi d' Amor tante onte Per vn garzon sofferse ingrato, e rio Conuien ch' in' altra parte io vi racconte, C' hor volgo al Re Cleardo il parlar mio, E à suoi guerrier, che con superba mostra Vogliono vscire à l' honorata giostra. Già; perche del giostrar, che publicato S' hauea più dì non fusse il pensier vano; Et per effettuar l' ordine dato; Cleardo, che di Grecia ha il freno in mano Raccolti hauea del suo felice stato Ogni guerriero, il prossimo, e 'l lontano Ch' vdito hauendo il general concorso Al regio Editto era in gran fretta corso. Già tutti i Re, Duchi, Marchesi, e Conti Che son Vasali al Re Cleardo altero Erano stati in corte à venir pronti Per honorar il suo superbo impero. E passar fiumi, e boschi, e valli, e monti, Sì come era diuerso il lor sentiero, Eccetto quei che non lasciar la corte Da che 'l fiero Macandro hebbe la morte. Lasciò Megara à le nouelle sparte Alarco, e Macedonia il Re Amarinto Vennero in fretta al publicato Marte Gli Duchi di Corcira, e di Zacinto. Frà gli altri il saggio, e nobile Siluarte Hauea passato l' istmo di Corinto Che per la sua bontà di fede piena Gli hauea 'l Re dato à gouernar Micena. Era venuto, e seco hauea menato Il bellissimo figlio Floridoro, Che da che nacque al giorno almo, e beato Sedici volte il Sol riuide il toro. L' aer del suo bel viso era sì grato, Sì vago lo splendor de' bei crin d' oro, E la sembianza hauea tanto diuina Ch' ad amarlo ogni cor ben ch' aspro inchina. Venne col padre accorto il gentil figlio Con vn vestir delitioso, e vago; Amor ridea nel suo tranquillo ciglio, Anzi parea d' Amor la propria imago. Lo splendido color bianco, e vermiglio Ogni occhio fea di contemplarlo vago; Ogni sua parte, fuor che la fauella, Par d' vna giouenetta illustre, e bella. Il damigello ancor non s' era mai Ne l' imprese di Marte essercitato, Ma per natura era gagliardo assai, Di gran destrezza, e d' animo dotato; E d' arme, e de caualli sempre mai S' era, e di veder giostre dilettato; Però, lasciando il padre suo Micene, Anch' ei volse venir seco in Atene. Appresentarsi inanzi al Re Cleardo Che con benigna fronte li raccolse, E riuolgendo al dolce viso il guardo Così gli piacque, e in tanta gratia il tolse, Che fin' , ch' Amor col suo pungente dardo A farli ingiuria il bel garzon non volse, Con dishonor del regio sangue Greco, Sempre l' amò da figlio, e 'l tenne seco. Per obedir al suo regal pensiero Venne anco Stellidon da Negroponte, E fù pria che l' Egittio messaggiero, Per trouarlo, in Eubea gettasse il ponte. Però giunse in Atone il Caualliero Con mesto core, e con turbata fronte Per due fratei, c' hauea gagliardi, e forti, Ma non sà se son viui, ò se son morti. L' vno è Lideo; quel, ch' accusò in Egitto La bella donna, ond' arse di desire; L' altro è il guerrier, che nel loco descritto Vide Silano in pianta conuertire. Per questi il buon fratel si rende afflitto, E sente nel suo petto aspro martire; Pur si consola vn poco hor con la speme C' hà di vedergli à quella giostra insieme. Non solo ogni Signor del Greco regno Si fù ridotto à la Palladia terra Ma ciascun guerrier barbaro più degno Se ne venne ancor da l' vniuersa terra. Ingombra il porto Acheo questo, e quel Legno, Già questo, e quel destrier preme la terra Ciascun ne la Città s' è già ridotto Che presta à tutti il Re saluo condotto. Il giorno de la giostra più à buon' hora Mangiò ciascun, che gli altri dì non feo, E poi non stette molto à venir fuora Il Principe di Thebe Apollideo. Quella pianta il suo scudo orna, e colora Ch' ascose al Sol la figlia di Peneo, L' istesso ramo anco 'l cimier corona Ch' è de' più illustri heroi pregio, e corona. Prossimo à lui si pose il Re Spartano Nomato Algier magnanimo, e cortese, E perche l' vn del' altro era germano Communi co' i parenti hebbon l' imprese. A passo il primo vien soaue, e piano Sì è vn bianco Turco, e 'l primo loco prese, L' altro à vn Villan di Spagna il dosso preme E co' i colori amor disegna, e speme. Sopra vn barbaro appar veloce, e snello Di Thessaglia il Signor frà cento, e cento, Che l' arme, e 'l suo vestir pomposo, e bello Orna ad vsanza sua di color, conto, Giouanetto era, e in così gran drappello Anch' ei mostrar quel di volle ardimento. Anch' ei, che detto era Aliforte, volse Entrar frà gli altri, e 'l terzo loco tolse. Elion dopò lui che Signor era D' Arcadia paradiso de' pastori S' offerse ne la lizza, onde hauer spera Ne le fatiche parte, e ne gli honori. Depinta hà ne lo scudo vna pantera Che vago hauea 'l mantel di più colori, E con sì bella, e sì leggiadra vista Le più semplici fere inganna, e attrista. Sirio d' età più forte, e più maturo Che di Lacedemonia ha 'l freno in mano Condotto uien da vn caual baio oscuro Che un piè di dietro alquanto hauea balzano L' arme, e lo scudo è di color azzuro Doue ritratto è vn libro entro vna mano, Per esser oltre il sangue, e 'l nome regio Filosofo, e Poeta alto, & egregio. Satirion di comparir non manca Ch' à l' Isola comanda di Corcira; La spoglia ha 'l suo caual morella, e bianca Sol vna Stella in fronte se gli mira. Fingea lo scudo vna Nereide stanca Che sù vno scoglio vna gran concha tira. L' ostrica vn gran thesor di perle asconde E mostra la ricchezza di quell' onde. Settimo appar nel martial collegio Clitio Re di Epirotti al mar vicini Montato sopra vn gran destrier' di pregio Con ricchi adornamenti aurati, e fini. Gli cinge l' elmo vn rubicondo fregio Di pretiosi, e splendidi rubini. L' impresa è il Rè del liquefatto gelo Che fere il mar col tridentato telo. L' altro è quel Stellidon, che non con lieta Faccia varcato hà l' infidel marina, Di nera ornato e di pardiglia seta E conforme al suo duol moue, e camina, Mancaua il Rè di Cipro, e 'l Rè di Creta Che doueuan far perfetta la decina. E ben di lor tardar si marauiglia Il Re con tutta l' Attica famiglia. Questi diece dal Re furono eletti Giouani Illustri, e di gran pregio altieri Per li più valorosi, e più perfetti C' hauessero à star contra i forestieri Ad vn ad vn prouando con gli effetti Ch' erano arditi, e franchi Cauallieri Con vna lancia, ò più ne la gran piazza. Ma non poteano oprar stocco, ne mazza. Potea ciascun di lor sendo abbattuto A noua giostra rimontar in sella, Ma contra quel, per le cui man caduto Fosse, non potea far proua nouella E ben di quanto fù dal Re statuto Hauean hauuto i Barbari nouella, L' ordine noto era a ciascun per punto E già n' era più d' vn comparso in punto. Era à veder grandissimo diletto. Hor quinci hor quindi vscir qual che guerriero Ad vso suo con ricco habito, eletto, Variando destrier, scudo e cimiero. Ma per non cantar sempre d' vn soggetto Hor volgo à Risamante il mio pensiero, La qual lasciai col Cauallier cortese Ch' era smontata, e si trahea l' arnese. Quando al trar de l' elmetto il Caualliero Conosce Risamante per donzella Si confuso riman dentro il pensiero, Che gran pezzo la guarda, e non fauella. In tanto vn' aueduto suo scudiero Portò vn bel manto alla guerriera bella; Che 'l gentil' huomo à quei, ch' egli tenea Più degni vsar tal cortesia solea. Data l' acqua à le man, si furo posti A mensa, e i camerieri al lor comando Si posero à seruir pronti, e disposti, Hor noui piatti, hor vin fresco arrecando. Mentre di varij cibi allessi, e arosti Si và la Donna, e 'l Cauallier cibando, Per caso il Cauallier mirò l' annello, Che la Donna hauea in dito illustre, e bello. Dico il diamante d' infinito prezzo, Che la Donna acquistato hauea pur prima; Stette à mirarlo il Cauallier gran pezzo, Giudicandolo gioia di gran stima; E benche fosse à veder gemme auezzo, Questa pur soura ogni altra aprezza, e stima, Onde à la Donna in cortesia dimanda Da chi l' habbia ella hauuto, ed' in qual banda. Mentre io miro (dicea) l' illustre anello, Ch' à te nobil guerriera orna la mano. In dubbio stò, se 'l più ricco gioiello Si potesse veder presso, ò lontano. Frà diamante mi par questo il più bello; Non sò già s' egli è Arabico, ò Indiano, Ma s' io risguardo al suo chiaro colore D' India egli vien, ch' à noi manda il migliore. Sempre m' hò dilettato à i giorni miei Di veder gioie, e me n' intendo vn poco; Ma frà tutti i bei sassi nabathei Questo e 'l più bel, c' hor veggio in questo loco. Deh dimmi ond' arricchita te ne sei, Che saper bramo la persona, e 'l loco; Bramo, ch' in cortesia mi manifesti (Se non ti è graue) il modo onde l' hauesti. Risamante al suo prego non si rese Contraria; ancor ch' assai mal volentieri Narrasse altrui le sue felici imprese, E fesse noti i suoi trionfi altieri; E così al Cauallier fece palese, Come del Drago estinse i morsi fieri, E poi ch' essendo ne la grotta entrata In guiderdon la gemma hauea acquistata. Come ode il Cauallier che Risamante La fiera bestia hauea di vita sciolta; Le man leua à le parti eterne, e sante, Che quella peste sia spenta, e sepolta. Homai pur sia sicuro il viandante, (Dicea) che non gli sia la vita tolta, E potrà il paesano, e 'l peregrino La bellezza goder di quel giardino. Di ciò m' allegro sì ma uia più gioia Hò perche spero che tu sij colei, Che m' hà da liberar da quella noia, In che son visso il più de i giorni miei. E de cui spero hauer prima ch' io muoia Quel ben che bramai tanto e poi perdei; E così prego il Ciel; che 'l mio pensiero S' habbia di questo indouinato il vero. Disse la Donna all' hor ch' io trouo il modo D' espormi a qualche impresa perigliosa Non mi ritiro indietro anzi più godo Quando si tien per impossibil cosa. Che di disciorre ogni intricato nodo Deue hauer l' alma pronta, e desiosa Ogni buon Cauallier quando à la gente Gioua come fù questo del Serpente. Soggiunse quel; da nobil zelo spinto, Che spinger suole vn generoso core, Anch' io sareimi à tal impresa accinto Per sicurezza d' altri, e per mio honore; Se non, che dubitai di restar vinto, Perche vi fusse alcun magico horrore; Tem' io gli incanti assai più, che la morte, Ch' iui non val l' esser ardito, e forte. Così dicendo mise vn gran sospiro Il Caualliero, e venne in faccia mesto; Nè potè sì celar l' aspro martiro, Che nol fesse per gli occhi manifesto. La Donna di pietade, e di desiro Arse d' intender la cagion di questo, E 'l pregò à dir qual nouità lo strinse, Qual fera sorte à lagrimar lo spinse. Rispose il Cauallier; Grande sciagura Turbar mi fè nel ricordar l' incanto, Per vn, che in vn castel molti anni dura, Che fù cagion di pormi in pena, e in pianto. Mà contarui la sorte iniqua, e dura, C' hebbe costui spero nel altro canto, Doue vdirete, che l' huom spesso viene Per ignoranza à piagnere il suo bene.

IL FINE DEL QVINTO CANTO.



Nicobaldo racconta à la guerriera, Come di Lucimena amante venne, Come l' hebbe per moglie, e de la fiera Donna, per cui tanto martir sostenne. L' inganno, che gli fece, e la maniera, Che per tirarlo à la sua rete tenne; Come si sciolse poi da quell' intrico, E l' auiso, che dielli il Mago amico.



ALcvn non può di sua ventura il fine Indouinar se tristo ò lieto fia, Nè ciò che di sua vita il ciel destine, Per dotto, e intelligente, ch' ei sì sia Sì come ancor ne l' hore matutine, S' à chiaro Sol l' Aurora apre la via, O se leuando quei fra le nubi esce, Chì sà se chiare, ò fosco il dì riesce? Per questo alcun non dee di sua fortuna Sicuro gir, ch' in lieto stato viua; Ne disperarsi mai colui, c' ha bruna La sorte, e al suo desir contraria, e schiua; Che stesso anco l' huom credesi, ch' alcuna Cosa gli sia di danno, e l' odia, e schiua, Ch' à prò gli torna; e di tal poi sì crede, Che ben gli auenga, e in mal pur gli succede. Così interuenne al Caualliero à punto, Che diede albergo à la Donzella ardita, Il qual fù à rischio di restar consunto Per cosa, che gli fù poi sì gradita; Come vi narrerò di punto in punto, Se verrete ad vdir l' historia ordita, Dissi, ch' aspro martir l' alma gli prese, E che la Donna la cagion gli chiese. Fiera cagion, rispose il Caualliero, Che rende i giorni miei turbati, e mesti, Sendomi ritornata hor nel pensiero, Sforzommi à lagrimar come vedesti. Perche mi ricordai l' incanto fiero, Di cui non sò se mai nouella hauesti, Il qual in vn Castel molti anni dura, Che si chiama il Castel de la Paura. Doue s' è Donna, o Cauallier, ch' arriui, Gli sopragiunge al cor tanto spauento, Che di rimaner preso ò morto quiui Non può schiuar con fiero, aspro tormento. Et anco vi restar di luce priui Forse i bei lumi, ond' io viueua contento. Il mio ben, la mia vita, el mio conforto (Ch' iui fù preso, oime;) forse anco è morto. Ma perche ti sia meglio aperto, e sciolto L' aspro dolor, che m' ange, e mi flagella, Sappi, che già qualche anno Amor m' hà colto Per la beltà d' vna gentil Donzella; Nè mi posso doler, s' à me riuolto Fù sempre il cor di Lucimena bella; Lucimena ella hà nome, io Nicobaldo, Ch' arsi per lei de l' amoroso caldo. In vna terra ricca, & abondante Io nacqui in Lidia d' honorati padri; Così non fuss' io, o 'l Ciel m' hauesse inante Tolto à gli anni più belli, e più leggiadri, Che di veder l' angelico sembiante Venisser gli occhi miei cupidi, e ladri. Nacque ne la medesma ella cittade, D' egual condition, di pari etade. Era venuto il tempo, che solenne Festa in honor faceasi di Minerua, Doue sempre ogni Vergine conuenne. Che la Città questo costume osserua. Quiui con altre Lucimena venne, Quiui mi vide, e mi rimase serua, Et io rimasi in seruitù di lei, Ch' io piacqui è gli occhi suoi, piacque ella à i miei. Cominciammo à scoprirsi i noui affetti Con sospiri d' Amor ministri fidi; Si rubbammo co i sguardi i cor de i petti; E tacendo mouemmo alterni gridi; Tutti gli altri godean varij diletti, Veder giostre, vdir suoni, e allegri stridi, Mirar Pompe, caualli, e armati Heroi, Noi quel dì non vedemmo altri che noi. Poi che la diua, & honorata festa Sì terminò col dì chiaro, e lucente, Ella mi lascia addolorata, e mesta, Et io da lei mi parto egro, e dolente. Ma l' aspetto gentil nel cor mio resta, Nè me lo posso mai leuar di mente, Anzi il nouo pensier, ch' Amor m' imprime Ogni antico pensier scaccia, & opprime. Visto ch' ogni hor più caldo il gran desio Sorge, e l' affetion cresce, & abonda, E che rinforza ogni hor nel petto mio Quella fiamma, che l' arde, e lo circonda, Poi che non posso lei porre in oblio, Procuro, ch' ella almen mi corrisponda, Che l' huom ch' in graue mal cade, & incorre Subitamente al Medico ricorre. Quando da lei venir la medicina Sol può, che 'l cor mi sani egro, & infermo, Trouo via di tentar la mia Regina, E le scopro il mio mal tenace, e fermo. La bella Donna al mio pregar s' inchina, Ch' anch' ella con Amor non troua schermo, Ma perche l' honestà la tenea in freno, Forse più amaua, e lo mostraua meno. Oltra i sguardi, i saluti, e i lieti cenni, Che con casto pensier mi rendeua ella, Tal gratia, e tal fauor largo n' ottenni, (Poi ch' ella mai mi si mostrò ribella) Che seco à par lamenti honesti venni, Doue tanto cortese quanto bella La ritrouo, e propitia à le mie voglie, Pur ch' io disposto sia farla mia moglie. Io ch' altro non ricerco, e non disegno (Che questo è il fin d' ogni amator discreto.) Come odo il suo conforme al mio disegno, Ben puoi pensar se ne rimasi lieto. Non hauemo altro indugio, altro ritegno Di palesare il nostro cor secreto, Se non ch' in Lidia allhor per nostra pena Non era il genitor di Lucimena. Per questa non mi par di dirne nulla Al mio, per c' hò speranza in breui giorni, Che, resa ogni tardanza irrita, e nulla, Quel, che bramo hauer socero ritorni. All' hor le farò chieder la fanciulla Dal padre mio senza, che più soggiorni, Che se 'l mio cor gli scopro fuor di tempo, Forse sì pentirà fino à quel tempo. Frà tanto di fruir l' amato volto Spesso ritrouo via facile, e destra, Ne mi è il soaue, e dolce sguardo tolto, Quando ne i Tempij e quando à la finestra; E spesso à parlar seco son raccolto Da lei, ch' in vna camera terrestra Ad vn balcon venia basso, e ferrato, Che guarda in loco assai dishabitato. Quiui del lungo indugio, che ci preme Mouemo spessi, e feruidi sospiri, E si dolemo amaramente insieme, Io piango i suoi, piange ella i miei martiri; Poi l' vn à l' altro dà conforto, e speme, Che verrà presto al fin de suoi desiri; Con dir, CH' al mal vien dietro il bene, e suole Sempre venir dopò la pioggia il Sole. Hor così stando occorre al padre mio Quindi partir, com' il Re nostra volse, Che di mandarlo in Siria hebbe desio Al Re, ch' ambasciator grato il raccolse. Pensa s' hebbi di ciò ramarico io, Se Lucimena meco se ne dolse; Perche se inanzi il padre suo venia, Ci conuiene indugiar pur come pria. Ma d' essi alcun non vien, ch' in pianti, e in pene Vedemmo vscir la sesta Luna noua; Doue se, l' aspettar chì mai non viene È gran martir, ne femmo l' hor la proua Crescea il desir, mancaua in noi la spene; Vltimamente intendere mi gioua, Che vien mio padre, & ho (doue hauer penso Gioia) dal suo venir trauaglio immenso. Fornito il regio affar mio padre riede, E col ritorno suo mi accresce doglie, Dicendomi, ch' in breue ei spera, e crede Darmi vna bella, & honorata moglie, E con questa parola il cor mi fiede, La vita, il sangue, e l' anima mi toglie, Tal ch' à pena di dirgli hò lingua, e fiato, Che per all' hor non vò moglier à lato. Egli che di natura era iracondo, E poca fiamma gli scaldaua il core, Come ode, ch' in contrario à lui rispondo, S' empie tutto di sdegno, e di furore; Io da l' ira paterna mi nascondo, E corro à la mia Dea pien di dolore, E di mio padre à quella il pensier narro, Huomo troppo ostinato, aspro, e bizzaro. Miseri noi rispose ella, ch' à punto Da vna stessa miseria oppressi semo; Questa mattina anco mio padre è giunto, Di che presi nel cor contento estremo, Sperando pur, c' homai sia l' hora, el pianto Venuto, onde sia al' alma il dolor scemo, E che si ponga fine al desir tanto, Per cui mai sempre hò sospirato, e punto. Così dicendo in tal dolor proroppe, Che le vietar le lagrime il seguire, E in modo si confuse, e s' interroppe, Che si sforzaua, e non poteua dire. A mè de la costantia il freno roppe Il suo martir, se ben nol posso vdire, E piango anch' io la non intesa pena, Ch' afflige tanto il cor di Lucimena. Al fin dice ella singhiozzando forte; Hora sì, che finito è il nostro duolo; Tu marito sarai d' altra consorte, Lasciando me, che sol t' adoro, e colo, Et io piglierò sposo d' altra sorte, Che non sei tù, cui me spettaua solo; Ma lassa hò di morir prima desio, Ch' altri m' habbia, che tù dolce ben mio. Sappi cor mio c' hò da mio padre vdito Dir in secreto à la mia genitrice, Come hà di fuori vn matrimonio ordito Per me, non sò con chì, che non lo dice; Basta ch' in breue mi vol dar marito, Con cui sarò per suo parer felice, Frà tanto vol ch' in casa ella proueggia, Come acconciar, come ordinar si deggia. Mio padre (soggiungea) non è men fiero, Nè men aspro del tuo, nè men crudele, Onde morire, ò star sotto il suo impero Conuiemmi, e ad altro amor volger le vele. O mal fondato, e van nostro pensiero, Come riesci, o nostro amor fedele; Deh Nicobaldo mio, che via, che modo Tenirem mai per districar tal nodo? Come all' hor mi cascasse vn monte adosso Io resto oppresso sotto il graue peso De la trista nouella, e non le posso Dar sì presto risposta, e stò sospeso. Non era inanzi assai vinto, e percosso, Ch' ancora io son da nouo affanno preso, Il qual così mi graua, e stringe forte, Che d' esser parmi al punto de la morte. Ogni arte io fò per consolarla, ogni opra, Indi mi parto languido, e doglioso, E mi conduco per pensarui sopra Verso il paterno homai muro odioso, E trouo il tutto in casa esser sossopra, Poi che mio padre vol pur farmi sposo, E, contra i mei disegni, e le mie voglie, Vol, ch' à suo modo io faccia, e prenda moglie. Io niego hor con audacia, hor mouo preghi, Acciò che di parer si muti, e volga, E che al giogo odioso non mi leghi, E la conclusa pratica disciolga; Ma non val, ch' io lo supplichi, e gli nieghi, Che vol, che Donna al mio dispetto tolga, E se nol fò minaccia di cacciarmi Di casa, e di più ancor disheredarmi. E dice, che non vol torsi nemica Vna famiglia tal per mia sciocchezza; Nè che per la Città di lui si dica, Che le promesse sue discioglie, e spezza. Oltra che più gentil, nè più pudica In tutta Lidia, ò di più gran bellezza Non è Donna di lei, ch' ei dar mi puote, Con vna ricca, & honorata dote. Quando io comprendo l' animo ostinato Del padre mio, che sempre più s' indura, Tutta la notte io penso disperato Di espormi ad ogni cruda empia uentura, E di esser prima d' ogni ben priuato, Di patir ogni pena acerba, e dura, Ch' abbandonar la bella donna mai, Che sì cortese à me fù sempre mai. Il fuggirmi di Lidia, e trarla meco, Fora ben stata buona oppinione, E condurmi nel Regno Italo, o Greco, O in qualch' altra lontana regione, E uiuer qualche tempo esule seco, Fin che mandasse il Ciel miglior stagione; Ma far così nol posso in uno istante, E l' empie nozze eran troppo ite inante. Non temo già di me, ma quel ch' importa E,ch' ella fià per forza à me ribella; Che s' huom sforzato al padre si riporta, Che può fare una debile donzella? Temo anco, che la pena, che ne porta; Vccida l' infelice, e me con ella, Che morta lei non posso uiuer io, Ch' io spiro col suo fiato, ella col mio. E questo rio pensier tanto s' affige. In me, che già mi par uederla estinta; E già sì gran tormento il cor m' afflige, E di tanta pietà l' anima hò cinta, Che pria, che passi l' onda atra di stige La uergine ombra del mortal suo scinta, Già son contento (ahi sorte iniqua, e fera,) Ch' altri se l' habbia in man, pur che non pera. Com' ella, & io tentato habbia ogni strada Per distrugger del padre il fier disegno, E ch' impedir non possa, che non vada, E che non corra il rio destino al segno, Più tosto, che di tosco ella, ò di spada S' uccida, ò uinta sia dal duolo indegno, Contento son, che l' habbia in sua balia Il nouo sposo, e sia d' altri, che mia. Con questa oppinion uenuto il giorno Salto di letto, e come Amor mi accende, Esco di casa, e a la fenestra torno, Doue l' afflitta giouene m' attende; Le ueggio il crin più de l' usato adorno, E che di gemme, e d' or tutta ella splende, Il che mi fù un pugnal dentro del petto, Che di quel, ch' era all' hor presi sospetto. Da questa nouità faccio argumento, Ch' ella douea quel dì pigliar marito; E sì gran passion nel cor ne sento, Che di non uiuer più prendo partito; Gli è uer ch' io morirei manco scontento, S' io non tenessi il suo caso spedito, Onde supplico lei mia Donna, e Diua, Che s' esser non può mia, sia d' altri, e uiua. E non si affliga tanto, che si toglia La uita, e secchi il fior de suoi uerdi anni, Che le prometto anch' io scemar la doglia Con ogni sforzo, e mitigar gli affanni, Non che da quella rete il cor mai scoglia, In che mi colser gli amorosi inganni; Che ben che i corpi sian disgiunti, insieme Viuranno i cori in sin' à l' hore estreme. Ella mi uol risponder lagrimando, Ma uien dal padre in quel (cred' io) chiamata. Onde si parte, & io men uado errando, Come cerua da ueltri assediata. Ecco più d' un parente salutando Mi uiene in contra in uista amica, e grata, Et si rallegra meco, & hà diletto Di quel, ch' io sol mi doglio, e n' hò dispetto. Tutti mi son intorno, e 'l vecchio padre Lagrimando ei di gaudio, & di dolore; E con più donne la mia cara madre Per far venute à le mie nozze honore. In mezo io vò de l' odiose squadre, E vinto da la rabbia, c' hò nel core, Protesto lor fatto da l' ira audace, Che mi conduchin pur doue lor piace. Ch' io non son mai per consentir' à quanto Oprar disegnan contra il mio volere; E con tal dir mi soprabonda il pianto Sì, ch' à pena oue io vò posso vedere. Vanno essi, & io con loro al loco intanto, Oue à forza pigliar deggio mogliere; Doue la noua sposa apparrechiata Esser douea tanto da me odiata. Io la bestemmio sempre, e maledico, Se ben colpa non hà del mio tormento, E, come seco habbia qualch' odio antico, Le bramo ogni infelice auenimento. Era tanto del Re mio padre amico, Che nel regal palazzo fù contento, Che 'l mio connubio celebrato fusse, E così ogn' vn di noi vi si condusse. Montamo la regal scala pomposa, E peruenimo in sala oue gran corte D' huomini, e donne adorna, e sontuosa Era, qual conuentasi a la lor sorte. Questi erano parenti de la sposa, Che bramavano à lei farmi consorte; Sedeasi anch' ella ornata riccamente Frà questa amica, & honorata gente. Ma come dal dolor lasso, e conquiso, Alzo le luci sospirando ancora, E ch' io risguardo la donzella in viso, Ch' in mirar me si turba, e si scolora; Vn gaudio, che mi prende à l' improuiso, Mi fa vscir quasi di me stesso fuora, Perch' io veggio, e conosco, e 'l credo à pena, Che questa è la mia cara Lucimena. Quella, che porto ogni hor fissa nel core, E che più me, che la sua vita prezza; Quella, che di lasciar tanto dolore Hauea, ch' anco il pensarlo il cor mi spezza. Io non sò dirti all hor, s' in noi maggiore Fosse, ò la marauiglia, ò l' allegrezza; Ciascun di noi si guarda, e non fà motto, Dal' vn estremo à l' altro ricondotto. Da vn mal estremo ad vn estremo bene Si conoscemo hauer fatto tragitto; Quando erauan più priui d' ogni spene, Quando haueuam più il cor lasso, & afflitto. Forza è che 'l mesto viso io rasserene, E ch' in faccia il piacer mostri descritto; Per cui s' allegra ogn' vn de miei, che scorge La gran mutation, ch' in me risorge. Seppi all' hor, che venendo di viaggio Verso la patria i padri nostri insieme, Essendo di ricchezze, e di lignaggio Conforme assai de l' vno, e l' altro il seme, Hauean tra lor contratto il maritaggio, Che ci rese felici oltra ogni speme; Ma, che mi val, se à venir tardo, e lento, E se presto à sparir fù il mio contento? Io non ti posso esprimer così à punto Con qual gaudio insperato, e con qual gioia In matrimonio à l' hor fussi congiunto Con lei, ch' amerò sempre in fin; ch' io muoia. Ma per uenire al lagrimoso punto, Che di nouo mi diè tormento, e noia, E perche sappi, Che frà noi non dura Mai ben alcuno; odi crudel sciagura. Poi ch' i nostri dolcissimi Himenei Fur legitimamente celebrati, E che fummo per gratia de gli Dei Con festa solennissima sposati, E ch' io conduco à casa mia colei, Di cui tanto i connubij hauea bramati, Tutti i miei studij, & tutti i miei pensieri Son di darle ogni dì spassi, e piaceri. Vn dì (misero me) la meno fuori In questa villa di delicie piena, Chiari acque, verde piante, ameni fiori, Lieti colei; fresch' ombre, aria serena. Trouo cani, caualli, e Cacciatori Per dar nouo diletto à Lucimena, E bramando far cosa, che le piaccia, Me n' esco seco vna mattina à caccia. Altri stende sul pian le sottil reti Per dar inciampo à l' animal gagliardo, Altri s' apposta à i varchi più secreti, E tien' in man ò lancia, ò spiedo, ò dardo; Chì tien à lassa i cani arditi, e lieti; Non è d' oprarsi alcun pigro, ne tardo. Ecco in tanto vn capriuol sbuca leggiero, Et io gli sprono dietro il mio destriero. Lucimena dolcissima compagna Spinge il cauallo à tutta briglia anch' ella; E perche mai da me non si scompagna, Cacciamo ambi la fera agile, e snella. La fera in vna aperta, ampia campagna Esce del bosco, e noi seguimo quella, La qual ci trasportò tanto lontani, Che più non s' odon cacciator, nè cani. Al fin perdemmo l' animal di vista, Onde erauam per dar indietro volta; Quando vna Donna di gioconda vista Sopra vn destrier venne à la nostra volta; E tosto c' hebbe in me ferma la vista, Da l' amoroso stral nel cor fù colta, Così la guancia mia vaga le parse, Ch' in vn momento il cor l' accese, & arse. E scorta la mia Donna, che più vaga Era di lei, pensò subito ch' io Hauesse di costei la mente vaga, E ch' in lei fusse tutto il pensier mio. Però sentendo la nouella piaga, Che la struggea per me di alto desio, Tra se discorre per hauermi seco Di far perir la giouane, c' hò meco. Era costei d' vn' empia incantatrice Damigella, da lei mandata intorno, Perchè trahesse al suo muro infelice Tutti i guerrier di Lidia, e del contorno; Nè men d' ogni Donzella è traditrice Costei, nè men le causa oltraggio, e scorno, Tal che con varie astutie hor meste, hor liete Sempre incauto qualcun tira à la rete. E lo conduce à quel castel dolente, Chel Castel del timor vien nominato, Doue stanza la Maga fraudolente, Ch' insidia ciaschedun del Lidio stato. Hor questa iniqua Donna sua seruente, Che noua inuention s' hà imaginato, Tutta riuolta à la mia Donna bella, Così bugiarda, e ria parla, e fauella. Tu non vai bella Donna, oue van tante Donzelle à gara in cui beltà si troua, Con questo tuo leggiadro, ò sposo, ò amante A quella impresa auenturosa, e noua. Trouasì in vn castel poco distante Vna auentura, onde ciascun si proua, E perche non vi s' opra hasta, nè spada L' impresa è gratiosa, e à tutti aggrada. Il caso è, che si troua in ripa à vn lago Vna Sirena à vn arbore legata Con laccio d' oro, e com' hà detto vn Mago Esser non potrà mai scinta, e slegata, S' vn Cauallier con la più bella imago Di Donna, c' hoggi dì sia al mondo nata Non giunge per ventura à questa riua, Il qual sia il più fedel, ch' al mondo viua. Egli per l' eccellenza di sua fede Scioglier dè il nodo con l' aiuto d' ella, Per la beltà, che tutte l ' altre eccede, E così il vanto haurà de la più bella. Ogni guerrier, ch' esser fidel si vede, Corre à la proua, e ogni gentil Donzella; Chì più, chì manco allenta il laccio stretto, Secondo hà bello il viso, ò fido il petto. Quei che la scioglierà beato al mondo, Ch' oltra, che fià tenuto il più fedele, Quel lacciò acquisterà ricco, e giocondo, C' hà gran uirtù contra ogni cor crudele. E l' huom, che grauerà si ricco pondo Mai trouerà la sua Donna infedele, Che la fatal catena haurà ualore Di farla sempre à lui uolgere il core. Non è mai stato alcun fin quì si degno, C' habbia disciolto l' animal biforme; E però mentre te mirando uegno Con questo tuo guerrier tanto conforme, Parmi ueder da uoi sciolto il ritegno; Poi che tu uinci le più belle forme Di Donne, che sian giunte à questo lido, Ond' hà questi cagion d' esserti fido. Ahi che, prestando fede à sue parole, Noi la pregammo à farne compagnia, Per che mia Donna è di bellezza un Sole, Et io di fè non cedo à chì, che sia. Ella, che scorge andar sì come uole Il suo desir, ci fà, lieta la uia. Caualcammo più dì, fin ch' ad un ponte Giungemmo ond' hanno i Cauallier tant' onte. Di là dal ponte è quel castel, c' hò detto, Doue l' iniqua Maga fa dimora, Io passo il ponte senza alcun sospetto Dietro la donna, e Lucimena ancora. Et ecco un timor tal m' ingombra il petto, Ch' io non sò ben quel, ch' i mi faccia all' hora, Tremo di gran paura, e bramo altroue Fuggir, & appiattarmi, e non sò doue. Mi getto del destrier, ch' infin di quello Piglio ombra, e la mia donna, el tutto scordo. E fuggo come suol timido agnello, Che teme ir sotto il dente al lupo ingordo. L' acqua, che corre sotto il ponticello, Cingea il castel, per quanto mi ricordo, E 'l ponte non sò chì leuato hauea, Onde per me scampar non si potea. Hor per conchiuder fui preso, e legato Da gente ria, ch' à la mia uolta uenne, E crudelmente in carcere serrato; Et altre tanto à Lucimena auenne. Più giorni poi fui tanto flagellato, Che non sò qual fra Dei uiuo mi tenne, Vien una notte al fin, dou' infelice Solo io mi stò, la Donna ingannatrice. Io parlo quella, che mi fè l' inganno De la Sirena, e che di me si accesa Era, che fù cagion di farmi un danno, Di cui sempre hauerò l' anima offesa; L' iniqua Donna, che 'l mio duro affanno Sente nel petto, e sin' al cor le pesa; De l' oscura pregion la chiaue inuola, E uien à ritrouarmi al buio, e sola. E, non hauendo modo di far scusa, Ch' ella non m' habbia offeso acerbamente, Confessando il suo fallo Amore accusa, Che l' iniquo pensier le pose in mente. E dice, c' hà nel cor tal piaga chiusa Per mio amor, che ben deue esser possente Ad impetrarle uenia, e quando amico Le sia mi uol discior di quello intrico. Di liberarmi mi promette, e giura De la pregion, pur ch' io l' a pprezzi, et ami; E trarmi del castel de la paura, Che ben conuien, ch' in tal modo si chiami. Io c' hauea sol di Lucimena cura, Nè altra sarà mai ch' adori, e brami, E poi che m' odo far questo partito Da colei, che ci hauea così tradito; Tu puoi pensar che rabbia all' hor mi uiene, Quando il lasciuo suo pensier mi spiana; Se non era legato di catene Non si partia da me, per Gioue, sana; Ma per forza ristringer mi conuiene, E la furia ingozzar d' effetto uana, Nulla rispondo à l' empia, e dishonesta, Ma fremo come il Mar quando è tempesta. Ella mi prega, e supplicando troua D' humiltà tutti i termini, che puote, E poi ch' i preghi, e i pianti indarno proua, Aggiunge queste à le sue prime note. Crudel, poi che l' amarti non mi gioua, Ne di pianto bagnar gli occhi, e le gote, Poi che darmi risposta non ti piace, Io mi uoglio partir, rimanti in pace. Ben mi duol, che vorresti, e non potrai, Hauer pigliato il mio fedel consiglio. Perch' io ti uoglio dir quel che non fai, E Gioue sà quanto dolor ne piglio, Che diman certo di pregion sarai Tratto, e condotto a l' ultimo periglio, Che questa vsanza quì sempre rimane, Hoggi toccò ad' un' altro, a te dimane. E quando non vi giunga altro guerriero, Si metterà poi mano a le donzelle; E la consorte tua sia di leggiero, In breuissimo tempo vna di quelle Quanto meglio è (se n' hai tanto pensiero, Che non le uuoi per altra esser ribelle) Se salui tè, che pria forse, che muora Trouarai uia di lei saluar ancora. Grande fù l' error mio, conosco, e veggio Che non douea pensar, non che far questo, Ma quel ch' è fatto, io non sò come deggio Disfar, fe ben pentita assai ne resto. Deh, per che cerchi gir di male in peggio? Perduto hai parte, e vuoi perder il resto; Deh non lasciar che quel castigo, ch' io Merito, a te peruenga Signor mio. Non voler pe 'l grand' odio, che mi porti, Con gran ragion, far tal danno a te stesso, Io non voglio, che d' altro mi conforti, Se non che t' habbia fuor del castel messo. E per che ancor conoschi, che m' importi, Quanto mi prema il fallo, c' hò comesso, Io ti prometto a rischio por mia uita, Per dar (se posso) anco a tua donna aita, Il confessar l' error con atti humili, Con infinite lagrime, e con preci, Hà gran poter ne gl' animi gentili, Sì come esperienza all' hor ne feci. Io odo le ragion uere, e sottili, Che costei troua, e già sei de le dieci Parti mancano in me del rio pensiero, Così mi par ch' ella ragioni il uero. E poi ch' alquanto hebbi trà me discorso, Più per dar qualche aiuto a la mia dea, Che per mio conto, accetto esser soccorso Da lei, che sì pentita si rendea; Così fui scatenato e braccia, e dorso, E gambe, e' piedi, che ne ferri hauea, E da lei tratto fuor de la pregione, Et anco fuor di quel fatal girone. Ma come sol me trovo in libertade Senza colei, che più che me stimaua, Pensa pur tù, ch' affanno, e che pietade, Io ne sentiua, e come il cor mi staua; Andaua sospirando per le strade, E non sapea (qual cieco) ou' io m andaua; Et era ben il ver, ch' era all' hor cieco, Chel raggio del mio sol non era meco. Di tornar al Castel venni in desio, Doue il mio cor mi fù rubato, e tolto, E correr seco ogni periglio rio, Che non stà ben l' vn preso, e l' altro sciolto; Ma fece vn Mago il mio pensier restio, De le mie gran miserie à pietà volto, Che mi venne à trouar tutto pietoso, Perch' io prendessi alquanto di riposo. Acquetati (mi disse) Nicobaldo, Che non puoi per qualch' anno esser contento; Basta che quella, onde d' amor sei caldo, Non sarà tratta à l' vltimo tormento; E tieni il detto mio per fermo, e saldo, Ch' aspettar ti conuien l' auenimento D' vna regia fanciulla illustre, e bella Ch' armata andrà come guerriero in sella. Et acciò c' habbi conoscenza vera Di questa, tua fatal consolatrice, Sappi, ch' ella albergar deue vna sera Ne i tuoi ricetti (albergator felice) E ti dirà, che d' una Serpe fiera In vn giardin fia stata vincitrice; Ma pria che l' alma tua renda gioiosa Ella hà da diuentar Regina, e sposa. Mi disse de l' anello, e c' hà valore, Contra ogni fiero, e spauentoso incanto, Ond' io conosco, che non prendo errore, E che sei quella, c' hò aspettato tanto. Però dal tuo venir ripiglio core, Real Donzella, e mi consolo alquanto Veggendo pur, ch' in fatto è venuto hora Tutto quel, che mi disse il Mago all' hora. Ond' io ti prego, che ti piaccia poi Ricordarti di me pouero amante, Quand' habbi datto effetto a i pensier tuoi, Di che m' hà detto il sauio Celidante. Qui pose il guerrier fine a i detti suoi, Lasciando molto lieta Risamante, Però che 'l Mago, che costui narraua Era quel suo, che come padre amaua. Quel che l' hauea alleuata da bambina, Poi che la tolse al Re suo genitore, Quel da cui riceuè la disciplina Di vestir arme, e di mostrar valore. Hor poi, ch' ella pur deue esser Regina, Disegna effettuar quel, c' hà nel core; Disegna molte genti insieme vnire, Et indi sopra la sorella gire. Di proferirsi poi non si ritarda Con le sue forze al cauallier cortese. In tanto i serui; essendo l' hora tarda, Hauean portato molte cere accese, Al cui venir la giouane gagliarda Il cortese Signor per mano prese E la condusse in vn albergo adorno, Oue dormì fin, che comparse il giorno. Ma dirui in altra parte io vi prometto Di questa damigella ciò che fosse, Nè voglio dirne hor più di quel, c' hò detto Nè come in varie parti ella trouosse. Doue con quel valor, c' hauea perfetto Fece gran proue, e di maniera oprosse, Che sopra ogn' altro era gagliardo, e franco Stimato il Cauallier dal Giglio bianco. Nè diro che com' hebbe insieme vnite Le genti sue che da più regni accolse, Mosse à Biondaura vna terribil lite Sì ch' in Armenia ogni Città le tolse, Perche torno in Atene oue l' ardite Genti, desio di gloria in vn raccolse, Ma per non esser graue à chì m' ascolta Fia ben che ne ragioni vn' altra volta.

IL FINE DEL CANTO SESTO.



In premio de la giostra il Re propone Regal Corona. Il figlio di Siluarte Brama prouarsi, e al suo desir s' oppone Il Re Filardo il fa partir con arte: Ritorna armato. Amor, che 'l fa pregione Di Celsidea, gir fallo anco in disparte. Da la figlia di Circe vien raccolto Silan, che le arde il cor col suo bel volto.



Dvo sproni stringon molto il nostro core, L' uno è il commun desio d' acquistar fama, L' altro il natural stimolo d' amore, Che l' huom porta à colei, ch' adora, e brama. Val per sè molto il zelo de l' honore, E per sè molto l' amorosa brama; Ma giunte poi; qual si costante petto Fia che resista à lun' , e l' altro affetto? Queste fur le cagion tanto possenti Che fer di lontanissime contrade Tanti Re forti, e Cauallier valenti All' hor venire à l' Attica cittade, Nè per altro vi giunser tante genti, Che per veder l' angelica beltade Di Celsidea, di cui sentir la noua, E per vscire à quella giostra in proua. Tutto il popol di Grecia era già posto Giudice, e spettator d' i Cauallieri, E si strugga, perche non così tosto Vede a lancie spezzar, votar destrieri. Hor, mentre staua ad aspettar disposto Il segno grato à gli animi più fieri, Ecco portar con pompa alma, e superba Il pregio altier, ch' al vincitor si serba. Di ricche gemme splendida, e lucente Era composta vna corona, e d' oro, Di cui Vulcan ne la fucina ardente Non fe più degno, e più gentil lauoro. La sposa di quel Dio, che l' Oriente Corse, e portonne il trionfal alloro, Tal mai non l' hebbe à le sue chiome belle Pria, che splendesse in Ciel frà l' altre Stelle. Grato hebbe il don prOmesso ogn' inclita alma Per l' artificio, sì per la ricchezza, Ma più, perch' esser don di quella palma Deuea, che tanto ogniun loda, & apprezza. In premio al Cauallier, c' haurà la palma Colei, che vince ogn' altra di bellezza, La nobil Celsidea di propria mano Deuea quel pregio dar superbo, e strano. In tanto il giouanetto Floridoro Presso Cleardo ad un balcon s' appoggia, Mirando il degno, e regio concistoro Di tanti illustri Heroi, che 'l campo alloggia, Son altri Re, altri Principi con loro, Ch' ingombran tutti i palchi de la loggia. Le Donne di lor vista assai più scarse Non sono à le fenestre ancor apparse. Se ben il Re co i Principi maggiori D' età stassi à mirar sì degna mostra, Sorinda la Regina, e seco fuori In sala Celsidea già non si mostra; Che per lo gran concorso de i Signori, Ch' eran venuti ad honorar la giostra Non volson comparir, ma ritirate Steron più dì lontan da le brigate. Hor, come hò detto, il gratioso figlio Di Siluarte, ch' in guardia hauea Micena, Staua à mirar quel nobile bisbiglio, Propinquo al Re de la prudente Atena. Ardea ne gli occhi, e in faccia era vermiglio, E 'l sangue li bollia dentro ogni vena, Cosi l' infiamma vn generoso affetto D' entrar anch' ei nel bel numero eletto. Non può riposo hauer pace, o quiete, Tanto lo strugge il giouenil furore, E con parole tacite, e secrete Il souerchio del Rè biasma timore; Poi che scacciar così honorata sete Non gli lascia dal cor per troppo amore. Che s' armi, e giostri il Re non gli concede, Ch' in sì tenera età valor non crede. L' ama da figlio, & hà per consequente Timor di lui, che non patisca oltraggio; E quanto più lo prega ei men consente; Che vol goder più tempo il suo bel raggio, Fanciul lo chiama incauto, & imprudente, Che cerchi far sì periglioso saggio, Che tenti esporsi ad vn periglio certo, Essendo a l' armi inetto, e poco esperto. Qual generoso, e nobile destriero, Che scorrer brami in verde campo ameno, Se da l' esperto, e sauio Caualliero Contra sua voglia è ritenuto in freno; Percuote ad hor, ad hor co 'l piè il sentiero, E sbuffa impaciente, e rode il freno, Nè può star fermo in quel, ne in questo loco, Ma gira intorno, e spira fiamma, e foco. Tal l' ardito garzon, che d' vscir fuore Trà tanti Cauallier desira, e brama, Tutto arrabbia di sdegno e di dolore, Poi che ritienlo il Re, che tanto l' ama; Gli par, s' vscisse in campo, e gli dà il core, Ch' acquistarebbe anch' ei splendore, e fama. Hor mentre stà di ciò con tal cordoglio, vn messo giunge, e gli appresenta vn foglio. Vn suo caro compagno, che da canto Se gli era inanzi il desinar leuato, Che d' vn amor l' amaua intero, e santo, E Filardo di Creta era chiamato; Con cui commune haueua il riso, e 'l pianto, Il mal, e 'l bene, il tristo, e 'l lieto stato Fece, per fargli vn singolar piacere, Vn tratto bel, c' hor vi vò far sapere. Scorto haueua egli il damigel dolente, Perch' à la giostra il Re non vol, ch' ei vada, Onde sapendo ben, quanto valente Era, e in età d' oprar l' hasta, e la spada, Considerato hauea, come prudente, Qual fossse intorno ciò la miglior strada Per adempir del giouane i disegni, Senza che 'l Re lo sappia, e se ne sdegni. E poi che s' hebbe imaginato il modo, (Ch' ora pien d' accortezza, e di prudenza) A tempo sciolse à la sua lingua il nodo, E di partirsi al Rè chiese licenza, E tutto intento al destinato frodo, Lascia de tanti Heroi l' alta prefenza, E si và prouedendo di nascosto D' arme, e cauai con diligentia, e tosto. E senza al fatto pore altro interuallo, (Prouisto che si fù d' arme, e destriero) Si cinge intorno il lucido metallo, E chiama in molta fretta vn suo Scudiero, E mesta dimostrandosi, à cauallo Ratto si lancia, e colmo di pensiero, Vna lettera finta in man gli pone, E che la porti à Floridor gli impone. Finge vna faccia addolorata, e pia, Sì colma de pietà, priua d' orgoglio Ch' ogni più san giudicio errar potria, E creder la sua fraude, e 'l suo cordoglio, Timido il seruo à Floridor s' inuia, E gli appresenta il consignato foglio Appunto all' hor, che d' ira, e di dispetto Ardea nel cor, come di sopra è detto. Piglia il garzon, presente il Re Cleardo, Et apre, e legge il riceuuto scritto, Ch' esser de man del padre di Filardo Il nome fea saper, che sotto è scritto. Era il tenor; ch' vn mal troppo gagliardo Hauea così lo spirto oppresso, e afflitto De la sua genitrice à lui consorte, Che l' hauea addotta al punto de la morte Dice; che se di lei punto gli cale, Se di vederla viua è il suo desio, Ratto ne venga à lei pria che quel male Le mandi l' alma al Regno stigio rio; Pria ch' ella dica lor l' estremo vale, Pregal, che venga, e faccia ogn' atto pio; Nè sia cosa di là, ch' impedir possa, Che non veggia il figliuol le materne ossa. Aggiunge; ch' ella in bocca altro non tiene Che 'l suo Filardo in quello estremo duolo; Et anco spesso à ricordar si viene Di Floridor, ch' in loco hà figliuolo. In questi due ripon tutta la spene D' vn vltimo conforto amato, e solo, Ond' egli come padre anco l' essorta, Che non aspetti vdir, ch' ella sia morta. Floridor legge, e si conturba tanto, Tanto s' intenerisce di pietade; Che non può raffrenar da gli occhi il pianto, Che 'l bel viso rigando in sen gli cade. Si venne allhora à rimembrar di quanto Passato hauea ne le Dittee contrade, Quando in Creta passò tenero infante, Oue fatte gli fur carezze tante. E da chì scriue, e da colei, ch' inferma Stà per ad hor, ad hor chiuder i rai; Ch' vna obligation stabile, e ferma Nel cor le hauea da non pagarla mai; Et hor quella pietà gli la conferma, Ch' ella dimostra in quelli estremi guai, Quel materno, che serba, amor, e zelo Ver lui, mentre ancor gode il mortal velo. Per questo lagrimando al Re s' inchina, E con voce dolcissima e soaue, Impetra di solcar l' Idea Marina Per veder quella, à cui tant' obligo haue. Moue il Re la fauella alma, e diuina Sì, che gratia gli fà d' entrar in naue; Di nouo ei se gl' inchina, & a Siluarte, E per giunger Filardo indi si parte. Come, se Febo asconde i raggi d' oro, Il Mondo cieco, e tenebroso resta, Così, tanta beltà leuata loro, Rimase quella corte oscvra e mesta. Hor mentre vol partirsi Floridoro, Che 'l desio del giostrar più nol molesta, Venir si vede in contra vn Caualliero Sopra vn bianco destrier d' aspetto fiero. Il Cauallier di candide arme ornato La lancia arresta, e ad incontrar lo viene; Il giouene caualca disarmato, Nè, fuor che 'l brando, altr' armatura tiene; E di là via non si vede huomo nato, Che tutto in piazza il popolo conuiene; Nè vol però dal Cauallier fuggire, Che lo vien si scortese ad assalare. Ferma il cauallo, e con gran cor l' aspetta, S' auolge il manto, e in man la spada piglia, Quel, che venia più presto, che saetta Come gli fù vicin tenne la briglia, E leuò l' hasta, e discoperse in fretta A Floridor le desiate ciglia, Perche 'l garzon, leuando à lui lo sguardo, Conobbe il suo dolcissimo Filardo. E col piacer, che s' hà, quando vn diletto D' improuiso s' ottien, che non si spera, Il caro suo compagno abbracciò stretto, Qual si richiede à vna amicitia vera. Satisfatto in gran parte al loro affetto, Narra Filardo hauer questa man9era Tenuta, e questa fraude hauer vsata Per indi trarlo, e farli cosa grata. Egli soggionge poi, che teneua anco Per lui serbata vn' armatura forte, E vn bel destrier via più, che neue bianco, Ch' in vna stalla hà ritrouato à sorte; Ne vol, che impresa alcuna al lato manco, Ne sopra l' elmo (à suo parer) si porte; Floridor lieto, à questo annontio, ch' ode, Dir non potrei quanto 'l ringratij e lode. E di nouo abbracciandolo gli dice, Caro Filardo mio, tu sol sei quello, Ch' al mondo mi puoi far lieto, e felice, E tal per te, senza alcun par, m' appello, E mentre così il lauda, e benedice, Di pari entrar dentro vn secreto hostello, Che lontan da le piazze, e dal tumulto, Commodo parue al lor bisogno occulto. Quiui Filardo hauea già preparato Arme per Floridor, che farian scorno A pura naue, e sendo ogn' vn smontato, Gli le aiutò col paggio à porre intorno; Poi d' vn manto di seta delicato, Candido anch' ei, ne 'l fè parer più adorno; Indi il mena al destrier di tal bellezza, Che l' empie di stupore, e di vaghezza. Era questo destrier d' vn gran Signore; Venuto anch' ei trà 'l Barbaro drappello, Qual di tal forza fù, di tanto core Che mai temè d' alcun periglio fello. Hor vn Sauio gli tolse il corridore, Ch' amaua Floridor gentile, e bello; Il modo non dirò, ch' à tor lo tenne, Basta, ch' in man del suo Filardo venne. Il mago era nomato Celidante Il qual di tutti i Principi hauea cura; Dico di quei, che d' animo prestante Erano, e di benigna, alma natura; Et è quel ch' alleuato hà Risamante, Et ch' aiutarla, e fauorir procura, Dopò lei Floridoro ei prezza, & ama, E di giouarli, e d' esaltarlo hà brama. Piacque infinitamente à Floridoro Così leggiadro, e nobile destriero, Ch' à le fatezze, e à i fornimenti d' oro Lo giudicò di qualche gran guerriero; E presso la beltà le gemme, e l' oro, Ch' al corso, e in atteggiar presto, e leggiero Esser deuea; tal che contento prende La briglia in mano, e ne l' arcion ascende. Miser fanciullo i suoi dolori appresta, Mentre d' armarsi anch' ei gode, e procura, E s' allegra di quel, di quel fà festa, Che gli apporterà pena iniqua, e dura. Felice se lontan gisse da questa Patria mille, e più miglia à la ventura, Sì, ch' in lui non scoccasse il colpo fiero, Che gli prepara vn dispietato arciero. Il buon Ditteo, che prima era disceso Di sella col garzon per darli aita De l' arme à porsi intorno il graue peso Sì ben fatto al suo dosso, à la sua vita; Quando lo vede in sul destrier asceso Con quell' agilità tanto spedita, Anch' ei montò à cauallo, e dar si fece Due lancie scelte già fra diece, e diece. L' vna per Floridor, per se ritiene L' altra, & al seruo, e questo, e quel comanda, Che se per sorte alcun cercando viene Di lor, così risponda à chì 'l dimanda, Che gli hà veduti in fretta vscir d' Atene, Ma non sà doue il lor pensier gli manda. Con questo dir drizzaro i Cauallieri Ver la gran piazza incogniti i destrieri. In questo il Rè, che con legale editto Hauea gli ordeni dati, che douea, E ogni parola, ogni atto hauea inter ditto, Che produr risse, e scandali potea Data licentia à quel drappello inuitto, Cui lungo indugio vn punto sol parea, Tornò in palagio, e 'l bellicoso Agone Dal balcon regio à remirar si pone. L' alma Regina poi venne, e con ella La figlia, e mostrò il viso almo, e giocondo, E à l' apparir de la sua faccia bella Risplender parue vn nouo Sol nel Mondo. Stupida ogn' alma al Rè fida, o ribella Contempla la nipote d' Alismondo. Già tutto il campo ell' hà posto sossopra, Se ben lancia, o destrier non mette in opra. Come, se la Cometa in Cielo appare Tutti dan gli occhi à quel fulgor nouello, O come ogn' vn si vede il capo alzare, Se Cinthia opponsi al lume del fratello; Così, quando la Vergine compare, Ciascun si volta al raggio illustre, e bello. Col buon Filardo in tanto arriua il figlio Di Siluarte, e 'l commun sente bisbiglio. Mentre sì stà ciascun stupido, e intento A contemplar la dolce giouanetta, Se ne vien Floridor lieto, e contento Con quella compagnia tanto diletta; Di seta adorno candida, e d' argento, Col manto puro, e la corazza schietta, E le penne sù l' elmo hà per cimiero Di quel color, ch' è più contrario al nero. Deh Floridor, deh non leuar il guardo, Che mal per te vedrai quel dolce riso; Giunge il fanciullo, e senza alcun risguardo Leua le luci à quel celeste viso; Et ecco Amor d' vn inuisibil dardo Gli passa il cor, che staua in sù l' auiso; Crudel ferita, onde si pena, e langue, Che 'l duol si sente, e non si vede il sangue. Di mille, e mille strai, che 'l crudo arciero Da quei begli occhi in vn sol punto mosse, Questo fù il più crudel, questo il più fiero, Che 'l gentil Floridor punse, e percosse. Colto così il fanciul sopra pensiero Tutto sì sbigotì, tutto sì scosse. Gode Amor del bel tratto, e in quelle bionde Chiome sè, l' arco, e 'l suo delitto asconde. Resta il garzon tanto alterato, e pieno Di gran spauento, e d' alta marauiglia, Che più regger non sà la mano il freno, E in arbitrio al destrier lascia la briglia; Quel, che si sente libero, oue meno, Deuria, torcer il passo si consiglia, E non si cura più di gire inanzi Ma torna indietro onde parti pur dianzi. E mancò poco à non uscir d' arcione, Così rimase il giouane smarito; Non lo scorge Filando, e non vi pone Pensier, ch' altrove hauea l' occhio inuaghito. Egli di tante illustri, alte persone Mira buon spatio il numero infinito, E vede ancor quella fanciulla altera, Ma con mente più sana, e più sincera. Credea che Floridor fesse altretanto, E si voltò per dirgli alcuna cosa; E quando hauer non sel ritroua à canto Restò con l' alma attonita, e pensosa; Poi nol veggendo in quel, nè in questo canto, nè col pensier, nè col destrier riposa, Nè per mirar che faceia, e raggirarsi, De la vista di lui può lieto farsi. Come pien di dolor possente, e fiero Poi lo trouasse il Cauallier di Creta, Farui palese in altra parte io spero, C' hora Silan me lo disturba, e vieta. Ch' insieme con quell' altro Caualliero Ne la cauerna entro chiusa, e secreta, E con la donna, i cui detti possenti Gli liberar da Tigri, e da Serpenti. Creduto hauria, ch' in loco oscuro, e cieco Lo hauesse è trar del Re Latino il figlio, E se n' andò timidamente seco, Com' huom, che per honor segue il periglio. Ma come fù nel sotterraneo speco Col buon Clarido ambi inarcaro il ciglio, Colmi di marauiglia, che maggiore Dentro era, che di fuor luce, e splendore. A prima giunta in quelle stanze occolte Mirar con maestà, gratia, e decoro Tre belle donne in vn drappello accolte, Assise intorno vn ricco, e bel lauoro, Hauean gli occhi el e mani intente, e volte Le gemme in compartir, la seta, e l' oro, E in recamar quel fregio almo, e diuino Tenean fissa la mente, e 'l viso chino. Ma ne l' aprir del picciolo portello, E ne l' entrar de la Donzella altera, Tutte inalzaro à vn tratto il viso bello, E riuerir quella nouella schiera, La gentil donna al nobile drappello Comanda in vista assai graue, e seuera, Che per all' hor da l' ago si rimagna, E 'l disinar apparecchi à la compagna. Preste le Donne al primo motto inteso Lasciar la bella, & imperfetta veste; Chì di cuocer i cibi hà tolto il peso, Chi di candido lin la mensa veste, L' a ltra ad' altro essercitio ha 'l core inteso, E v' hà la mente pronta, e le man preste; E già Cerere, e Bacco eletto, e santo De la lungha touaglia empie ogni canto. Mentre di preparar studiano à pieno Le diuerse viuande allesse, e arroste, E col pepe, e col mel, ch' in copia hauieno, Apparecchian le torte, e le composte; Quella, c' hauea del bel paese il freno, Come cortese, e gentilissima hoste Facea l' indugio con parlar soaue A i conuitati suoi parer men graue. Era costei di quella Circe figlia, Che fù sì dotta, e sì perfetta Maga, Giouene honesta, e saggia à marauiglia, Di bellissimo gesto, accorta, e vaga; Tal che qualunque in lei volge le ciglia Si sente 'l cor ferir d' acerba piaga; E s' era il buon Silan priuo d' amore Donaua certo al suo bel viso il core. Ma perche serba impresso ne la mente La gran beltà de la Cecropia dama, Come gli la scolpì profondamente Nel Regno suo la relatrice Fama, Non poteua altra donna esser possente Di creargli nel cor nouella brama, Che 'l bel volto, che dielli il colpo crudo Gli è contra ogn' altro stral riparo, e scudo. Poi che ciascun di lor securtà prende Si traggono ambi i due guerrier gli elmetti. E la donna, ch' in lor le luci intende, Loda trà sè sì generosi aspetti; Ma Silano più bello il cor le accende, E par che più le piaccia, e le diletti, Non però, ch' in mirar l' alta presenza Dessè à begli occhi suoi troppo licenza. La prega il bel Silano, e la scongiura, Che le piaccia à narrar ciò, c' hà promesso De l' Isola, e ai lei l' alta auentura, E de gli empi animai tutto il successo. Ella, che pone accortamente cura, Ch' era dal bel garzon mirata spesso, Tutta lieta rispose à preghi suoi Quel, che ne l' altro canto io dirò à voi.

IL FINE DEL SETTIMO CANTO.



Narra Circetta al Cauallier Silano Del padre Vlisse i lunghi, è strani errori, L' incanto che fè Circe horrendo, e strano Dopò le vsate crudeltà, e furori. Floridor si lamenta, e piange in vano I noui suoi troppo eleuati amori. Vol celarsi à Filardo, e più ch' ei prega, Che gli si scopra, ei più s' asconde, e niega.



CIRCE già in virtù d' herbe, e di parole, Con alto studio, hoggi à nissuno espresso, Potè oscurar l' illustre faccia al Sole, Girar i Poli, e fermar Cinthia spesso; E far fiorir le rose, e le viole, Quando più il campo è da la neue oppresso, Seccar i prati, e tornar l' aria nera Sul più bel verdeggiar di Primauera. Ch' ella potesse far contra i statuti Di Natura sì degne opre ammirandi, Mi marauiglio sì, poi che veduti Hoggi non son miracoli sì grandi. Ma, che cangiasse in animali bruti Gli huomini à sue parole, à suoi comandi, Mi par si lieue, ch' io stupisco in vero, Ch' ella degnasse in ciò porre il pensiero. Poco mi par che fesse ella cangiando Gli humani corpi in Orsi, in Lupi, in Tori, Quando à la nostra età gli huomini errando Di lor medesmi son trasformatori; Et con tal faciltà girsi mutando Gli veggio, senza oprar versi, ò liquori, Che poco stima in ciò fo di quell' arte, Poi che 'l secol di noi n' hà tanta parte. Ciascun de l' esser proprio è sì buon mago, Che non ne seppe tanto ella in quel tempo, Quando spese in cangiar la nostra imago Tant' herbe, tanto studio, e tanto tempo, E d' vscir di sè stesso è cosi vago, Che di tornarui poi non troua il tempo; Di tutti nò, ma ben del più ragiono, A cui piace parer quel, che non sono. Io vi direi, come di Lupo ingordo Spesso pigli sembianza hor questo, hor quello, Altri de l' animal fangoso, e lordo, Altri di stolido Orso iniquo, e fello. Mà d' esser aspettata io mi ricordo Da la donna del monte, à cui si bello Parue il giouin Latin, che sol desire Hà di piacergli, onde comincia à dire. Quel Cauallier, che già molt' anni visse, La cui virtù non hebbe pari al mondo, Qual ne le Greche, è ne le Frigie risse Mostrò diuin saper, valor profondo, Quel sì prudente, e valoroso Vlisse Che più d' ogni altro ardito era, e facondo, Fù Signor di quest' Isola, che detta Itaca fù, si chiama hor di Circetta. Pria c' hauesse in quel tempo acceso, & arso Il superbo Ilion la Greca face, Frà i più degni di Grecia Heroi comparso Vlisse in ragionar pronto, e viuace; Contra il forte huom ver sè di pietà searso, Quel sì famoso, e furibondo Aiace, Ottenne con parole alte, & ornate Del fortissimo Acheo l' arme honorate. E poi, ch' al regio campo alto Spartano Rese placato il miser Filotette, Che ne lo scoglio irato di Vulcano Tenea d' Alcide l' arco, e le saette; Senza cui il Re de' Greci attendea in vano Sul muro Frigio l' vltime vendette, Si pose à ritentar l' ondoso sdegno Ver questa patria sua, ver questo Regno. Sì come quel, che tanto era bramoso Di riueder la sua progenie bella, E la casta moglier fida al suo sposo, Ch' à lui sol pensa, e sol di lui fauella; Ma 'l gran Rettor del mar gonfio, e sdegnoso Gli mosse irato asprissima procella Come à fautor de la corona Achea, E distruttor de la grandezza Idea. L' odio, ch' egli hà d' appalesar si affretta Per vendicare il suo superbo muro, E mentre irato aspira à la vendetta, E pensa darlo al regno inferno, e scuro; Il vento lo trasporta à vna Isoletta, Doue sopra vno scoglio infame, e duro Dormir troua il Ciclope in cima il monte, E l' occhio inuola à la terribil fronte. Poi spiega i lini, e l' isola abbandona Per fuggir Polifemo infame, ed empio: Và al Rè de venti, e così ben ragiona Col dolce stile, onde non hebbe essempio, Che Eolo tutti gli prende, e gli li dona, Acciò fuggisse il minacciato scempio; Ma tutto in van, che più d' vn seruo infido Del don lo priua, e de l' amato lido. Sciolser gli auari il vento empio, e leggiero, E 'l mar rinouò in mar l' empia tempesta; L' armata si disperde, e 'l Duca altiero Errando và co 'l legno, che gli resta. Al fine il tempo ingiurioso, e fiero Lo trahe di Circe à l' inclita foresta; Circe la bella, e virtuosa Fata Si mostrò à Vlisse, e à suoi compagni grata. E taccia pur, chì dice ingiustamente, Che trasformasse i suoi consorti in fiere, Che mai non fè, se non sforzatamente, A chì la volse offender, dispiacere. Venne à la Fata il Cauallier prudente, E riceuè da lei gioia, e piacere, E de l' vno, e de l' altra io fui concetta E del nome di lei nacqui Circetta. Il possente guerrier genitor mio Vlisse fù, mia madre quella diua, Che figlia fù del luminoso Dio, Che l' ombre scaccia, e 'l giorno spento auiua. Data che m' hebbe in luce, al suo desio Dimostrò Vlisse hauer la mente schiua, E con l' astutie, ond' era esperto, e dotto, Vn dì se l' inuolò senza far motto. Diè i remi à l' acque, e con più destro Fato, Egli, e li amici suoi quiui arriuaro, E dal tempo d' efigie trasformato Fù conosciuto à pena il signor caro. Circe s' accorge, esser il Duca amato Partito, e sparge vn rio di pianto amaro, E seguito l' harria, ma le 'l contese La propria sua virtù, ch' Vlisse apprese. Perche, mentre egli in gratia hebbe mia madre, E che gli piacque il bel Saturnio colle, E che d' vna figliola si fè padre, Tutta l' arte di Circe ritender volle. Ella, ch' à le maniere ostar leggiadre Non può con varij versi, e' varie ampolle, Fece à l' amante ogni scienza espressa, E per gradir altrui nocque à se stessa. Hor poi, che d' impedir non fù possente Circe, che 'l padre mio non si partisse, Che l' istess' arte, in ch' era ella eccellente Fauor prestaua al fuggitiuo Vlisse. Chiuse il dolor ne l' affannata mente, Et aspettò, che 'l Cauallier morisse, Per far sopra quest' Isola vendetta, Che la vista di lui l' hauea interdetta. Fatto il debito rogo vsato, e pio Dal popol di dolor colmo, e di pieta, E 'l cenere mortal del padre mio Chiuso ne l' vrna sacra consueta; Circe per donar loco al suo desio, Poscia ch' alcun non le 'l disturba, ò vieta, Qui si conduce, e i carmi alti, e fatali Inuisibil la rendono à mortali. Copre ella ogni città di nebbia oscura, Fà Leoni apparir, Tigri, e Serpenti, E furon quei, che guardan quelle mura, Che voi meco passar foste contenti. Quella ferocità, c' han per natura, Lor raddoppiaua il suon de maghi accenti, Tal ch' il tosco, la branca, il dente, e 'l corno Disolar le Città tutte d' intorno. E poi che fù d' essercitar ben satia, Quella gran crudeltà nata dAmore, (Che, mentre intorno à l' Isola si spatia, Non scorge illeso alcun dal suo furore,) Chiede al verso opportun fauor, e gratia, Per lo nome eternar del suo signore, Vol, che d' Vlisse il pregio al Mondo viua, E sia la fama sua splendida, e viua. E sforza il vento co 'l suo forte incanto A penetrar nel centro de la terra, E lì chiude le vie per ogni canto, Sì, ch' in van per vscir s' aggira, & erra; Ma il desio natural lo spinge tanto, Che moue con gran furia al terren guerra, S' alza, e gonfia il terren vinto, e sforzato, Come vn pallon s' alcun gli dona il fiato. Cede la terra al vento, è forma il monte, Il monte che ci serra intorno, e sopra; Circe allhor con parole accorte, e pronte In sì raro artificio il senno adopra. Nel giogo altier, ne l' eleuata fronte Fece da poi via più mirabil opra; Vn Tempio fe, ch' ounque splende, e gira Più bella cosa il Sol di lui non mira. Gli archi, le basi, i capitelli, e 'l tetto Comparte con egual proportione, Senza maestro hauer, senza architetto Con la virtù del magico sermone; Quando ella il suo lauor vide perfetto Con l' aiuto de l' Orco, e di Plutone, Ne la maggior Città discende sola, E le reliquie pie d' Vlisse inuola Oltra 'l cener, ch' al sacro Mausoleo De l' ingrato amator ritroua, e toglie, Vi troua ancor del figlio di Peleo Le gloriose, e trionfanti spoglie, Quell' arme, à cui Vulcan la tempra feo, Appese, e sparte, ispicca ella, e raccoglie E le trasporta in questo albergo fido, Come in più degno, e glorioso nido. A tutte queste imprese io fui presente, Che non hauea mia madre altro conforto, Che d' in me contemplar naturalmente Quel bel, ch' era in Vlisse estinto, e morto. Non però vol far dotta la mia mente, Com' altrui far si possa oltraggio, e torto M' insegna il ben, ch' uscir può da quell' arte, E asconde il mal ne le possenti carte. Come piacque a l' inique, e dure Stelle Termina à l' hor la genitrice mia, Che de l' human comercio empia ribelle, (Da me poi detto) in questo scoglio io stia. E meco pose ancor le trè Donzelle, Che seruitù mi fanno, e compagnia, E fè l' incanto à tutto 'l mondo oscuro, Che 'l secolo durar douea futuro. E statuì, che 'l tempo non potesse De la mia giouanezza hauer trofeo, E che di quella età mi mantenesse, Ch' ella mi pose in questo incanto reo; E ben si può ueder, quanto ualesse Il suo saper, ch in uan l' opra non feo, Quando da indi in quà tanti anni sono Corsi, e pur fresca, e giouanetta sono. E meco ancor di quei, (che, mentre uisse Il padre mio, se gli mostrar contrari) Circe (che lor più lunga etade ascrisse, Di quel, c' hanno ordinato i Cieli auari) Pose gli heredi à guardar quì d' Vlisse L' arme, fin, ch' un guerrier di virtù pari A lui di questo carcer uenga à trarmi, E sia signor de l' Isola, e de l' armi. E come uenne à lei l' amato Duca Non per sua uolontà, ma per uentura, Così non uol ch' alcun la fama induca A tentar l' immanissima auentura; Ma che Fortuna à caso lo conduca A prouar, s' hà la sorte amica, ò dura; Nè uol, che possa alcun nel Tempio entrare, Che non sia in arte à Vlisse, e in ualor pare, E quando audace alcun di poco merto Ne le mura infernal d' entrar si sforza, Così punito vien, che 'l tempo incerto Viue; de l' età sua sotto altra scorza. Pur dianzi il fatto voi vedeste aperto, Far mi uedeste à la Natura forza; Quel guerrier fù da uoi pur dianzi uisto Perder la carne, e far del legno acquisto. Hor, s' à voi Cauallier pare esser tali, Se vi dà il cor d' entrar per quella porta, Quando i contrasti haurete empi, e mortali Passati, e 'l gran terror, ch' ella vi apporta, Da le lastre richissime fatali Vedrete cosa vscir, ch' a ssai più importa, Colosso, e Tantalon ciascun estremo, Che vendetta vorran di Polifemo. Ma ponghiam, che 'l feroce empio gigante Resti da voi mirabilmente vcciso, Chì vi defenderà dal gran Theante, Che vi mouerà assalto à l' improuiso? Dal capo è inuiolabile à le piante, Ne può da ferro alcun restar conquiso, Fatato ha come 'l padre il carnal panno, E brama vendicar d' Aiace il danno. Il ragionar, che fè la giouenetta, Pose in un gran pensier l' alme Latine; Il desio de l' honor ben' ambi alletta A tentar quelle imprese alte, e diuine, Ma 'l timor del castigo, che s' aspetta A chi non giunge al desiato fine, Che vien costretto in arbore à cangiarsi Fà, ch' in dubbio si stan, ne san che farsi. Ma l' astuto Silan, che dal periglio Si cerca trar con arte, e con ingegno, Gira spesso ver lei cortese il ciglio, E le mostra d' amor questo, e quel segno; Che senza hauer da lei gratia, e consiglio Giunger non spera al destinato segno; Non si tien senza il suo fauor bastante D' una impresa trattar tanto importante. Hor, mentre stà sospeso, vna donzella Entra in quel loco, e con gentil inuito La gentil donna, ei Cauallieri appella, Ch' era già posto in ordine il conuito. Si mosser dunque, e in vna ricca, e bella Sala passar, ch' ella gli mostra à dito; Ch' era si ricca, e bella à marauiglia, Che di nouo stupir l' Ausonie ciglia. Hauea trè gran fenestre da Leuante Con le colonne d' Alabastro eletto, Tre verso l' Austro, e 'l Sol per altretante Verso la sera illuminaua il tetto. L' vltima faccia il muro di Diamante Trè vsci comportian d' auorio schietto. Sono le sogli, e i cardini d' argento, E di viui rubini il pauimento. Il tetto è d' oro, e l' architraue, e tali Son le cornici, e sopra gli vsci, e intorno E' vn gran feston di perle orientali, Che sparge in fuori, e d' altre gemme adorno Fingea vna vite poi, che naturali Hà l' vue sì, che fanno al vero scorno Trà l' architraue, e la cornice il fregio Con vn fogliame di smeraldi egregio. Ma lasciam pur che la gran sala dia Mirabile splendor di gemme, e d' oro, Anzi che pur tutta vna gemma sia, Distinta in raro, e non mortal lauoro; Metto per nulla ogni altra leggiadria, Rispetto à quel, che uince ogni thesoro, Dico l' illustri, adamantine mura, Onde fè l' Arte ingano à la Natura. In quella dura gemma forte, e salda, O pur che giunte in vn siano infinite; Com' in cera, ch' al foco si riscalda, Mille belle figure eran scolpite. Se fredda pietra son, se viua, e calda Carne, sarebbe ogni giudicio in lite, Che l' artificio u' hà sì poca parte, Che l' arte ascosa esser parea ne l' arte. Silano à prima giunta il senso adombra, E gli par, che quel parla, e questo spira, Che 'l rilieuo, il color, la linea, e l' ombra Mostra, che 'l labro ride, e l' occhio mira, E quella illusion tanto l' ingombra, E 'l creder falso à tal sciocchezza il tira, Che stimando esser uera, e uiua gente, Si mosse à salutarla riuerente. Ma come meglio del suo error si auide, Che non gli fà al cortese atto risposta; E che la giouinetta il guarda, e ride, E fà ch' al duro intaglio il dito accosta; E che proua la man le luci infide Sì, che la uana opinion si scosta, Per la uergogna, che nel cor lo prese, Di uermiglio color tutto s' accese. E tornando in sè stesso stupefatto Sorridendo ammirò l' opra celeste, Poi disse; Assai mi trouo satisfatto Di quel, che già per uia ci prometteste, Quando quel Cauallier fù per uoi tratto Fuor de l' humana sua natural ueste, Che seguendoui haurei ueduto cose Più del passato assai miracolose. Vi prego ben, che mi narriate un poco, Che uogliano importar queste scolture, Se fur per adornar questo bel loco Fatte le belle, e nobili figure, O pur, che siano uiue in alcun loco, A letà nostra, ò fian ne le future, Ouer che siano i naturali essempi De le persone de passati tempi. Disse la donna, assai uedete chiaro, Che queste Istorie inanzi à noi descritte, Non fur, nè sono ancor, ma 'l tempo auaro Le dee portar ne l' hore in Ciel prescritte; E fian di tanto preggio illustre, e raro, Di tanto honor quelle persone inuitte, Che da la Fata, à cui non furo occulte, Meritaro in diamante essere sculte. Ma perche ui bisogna un lungo tempo A dir le glorie al Mondo ancor non sparte, E l' alta Istoria del futuro tempo, Ch' à Circe dimostrò la magic' arte, Onde quì le ritrasse innanzi tempo, E me ne dè notitia à parte à parte. Io ui uoglio pregar, che pria disniamo, Poi ch' egli èl' hora, ei cibi inanzi habbiamo. Di ragionarne poi lor diè speranza, Onde accordarsi i duo guerrier Latini, Lasciando allhor di rimirar la stanza, Per gustar di quei cibi almi, e diuini. In tanto con gentil bella creanza, E con modesti, & riuerenti inchini, Entrar due donne in lor seruigio accinte Con le maniche al cubito succinte. L' una in man porta un ricco uaso aurato Pien d ' acqua rosa à chì lauar si deue, E sù la manca spalla un delicato Drappo, che di candor uincea la neue, L' altra un bacino d' or largo, e cauato Nel fondo, che lo sparso humor riceue, Et à la donna, e à Cauallieri strani, Incominciaro à dar l' acqua a le mani. Poi che le man l' un dopò l' altro asperge Di quello humor, che spira odor soaue, E con quel bianco lin l' asciuga, e terge, Che la donna à tal fin sù l' homer' haue; Circetta à Cauallieri il bel uiso erge, Nel parlar dolce, e ne l' aspetto graue, E lor concesse i lochi più sublimi, E uolle anco à seder che fusser primi. Poi siede anch' ella, e à le uiuande grate Pongono man con somma gioia immensa, E le due damigelle accostumate Volano intorno à la superba mensa. Chì serue di coltel, chì ne l' aurate Coppe il nettareo uin porge, e dispensa; Quella di nouo cibo i piatti ingombra, Questa de' primi il lin sparechia, e sgombra. Mentre à gustar quel desinar giocondo Si stà quell' honorata compagnia, Nè vien la terza giouane, ch' al mondo Non hauea par di gratia, e leggiadria; E con la cetra, e con vn dir facondo Mosse vna soauissima armonia, Talmente, ch' era à i due guerrier auiso, Fruir là tutto il ben del paradiso. Ma mi riserbo vn' altra volta à dire Di questa coppia, e de la figlia vaga, Perche Filardo hà di trouar desire Floridor suo, ch' Amor fere, & impiaga; Benche molto Filardo intorno mire Non può la vista sua far lieta, e paga; Di sù di giù per quella gente assai L' andò cercando, e no 'l ritrouò mai. E pien di alto stupor, pien di sospetto, Poi ch' in vano il Caual gira, e lo sguardo, Riuolge verso il solito ricetto Con poco speme il suo destrier gagliardo; Dou' era giunto il mesto giouanetto Molto pria che giugnesse il suo Filardo E d' estremo dolor chiuso nel core Staua confuso, e di se stesso fuore. Come huom cui mentre il sonno i sensi opprime, Finti, e varii pensier tratta, e discorre, E con sembianze rie nel petto imprime Cosa, che 'l suo cor odia, e 'l gusto abhorre; Che l' imagine allhor, che 'l sonno imprime Con ogni affetto rio, che vi concorre, S' affisa, e in lui diuien tanto possente, Che desto ancor più di se ne risente. Così di trarsi più non è bastante Quella diua imagine del core, Doue come in vn saldo, aspro diamante, Scolpita l' hà di sua man propria Amore, Quella memoria ogni hor salda, e costante Gli rinforza nel petto il viuo ardore; Cresce la pena ognihor, cresce l' effetto Nel semplicetto, e ancor tenero petto. Dal caldo, e da l' affanno afflitto, e stanco Disarma il bello, e scolorito volto, E stende sopra vn letto il suo bel fianco, Che troua à tempo in quell' albergo occolto. La fiamma, che lo strugge al lato manco Distilla il sangue intorno al cor raccolto. Quel trasformato in acqua pura ascende, E fuor per gli occhi in molta copia scende. Come vezzoso, indomito torello Vso libero à gir trà verdi campi, Se por si sente al collo ancor ribello Il duro giogo, auien che d' ira auampi, E in van ne gema, e per sottrarsi à quello S' aggiri assai, non però sì che scampi. Così Floridor preso al nouo laccio In van sì lagna, e cerca vscir d' impaccio. Tacito vn pezzo in lagrime, e sospiri Sfoga il suo graue, insolito tormento, Poi vinto da suoi noui, aspri martiri, Così accompagna al lagrimar l' accento. Lasso, che disusati, alti desiri Disturban la mia pace, e 'l mio contento, Che nouo duol, che nouo affanno è questo, Onde si afflito, e trauagliato resto. Se questo dolce mal mi nasce, e viene Dal dolce ben da me pur dianzi scorto, L' alma non vsa à sentir tanto bene Come non sciolse il subito conforto? Se forse Amor per darmi maggior pene Non oprò all' hor, ch' io non restassi morto. Fù certo quel tiranno empio, e crudele, Che seppe in un temprar l' ascentio, e 'l mele Miser m' acorgo ben, che quel proteruo Rozzo fanciul m' hà colto al laccio, e ignaro. E qual fugace, e temidetto ceruo Fuggo piagato in darno il colpo amaro. Ma come ardirò mai chiamarmi seruo Di lui per un soggetto così raro? Che sceso in noi da lo stellato chiostro E miracolo, e honor del secol nostro. Ah, per Dio non sia alcun, ch' oda, & ascolte Sì temerario ardir, voglia si insana, Stian le mie doglie quì chiuse, e sepolte, Nè le possa caper credenza humana. Che quando habbia tentato in van più volte Di far sì sciocca oppinion lontana, Fia questa spada al fin sola il rimedio, Che mi trarrà dal cor si duro assedio. Mentre tutto affannato, e lagrimoso Il bello innamorato Floridoro, Così disfoga il suo pensier focoso, E donar cerca al gran martir ristoro, Il caro amico suo dubbio, e geloso Di lui, ch' e ra il suo bene, il suo thesoro, Sopragiungendo in fretta a suoi tormenti, Gli interrompe le lagrime, e i lamenti. Il calpestio gli orecchi al garzon fiede, Ond' ei si rizza, e con astutia bella Corre al destrier con frettoloso piede, E d' acconciarli il fren mostra, e la sella. Ma indarno di celar s' ingegna, e crede Quella sua passion fiera, e nouella, Che Filardo giongendo il troua molto. Da l' esser suo trasfigurato in volto. A Floridor parea così gran fallo L' hauer leuato il suo pensier tant' alto Che mentre più, che può celando vallo, Fà il viso hor d' ostro, hor di color di smalto, E danna, e fà colpeuole il cauallo Del suo partir, con l' amoroso assalto; Ma l' accorto Filardo era ben certo, Ch' un danna egli hà, che vol tener coperto. Stuppisce il buon Ditteo, quando comprende, Che così Floridor celar si vole, Che pur sempre ogni mal, che 'l cor gli offende, Ogni pensier manifestar li suole; E di tanta pietà l' anima accende, Che più, ch' e gli non fà, si lagna, e duole, E non si può tener di non gli dire, Deh Floridor per Dio non ti coprire. Non ti coprir' a' me, che ben m' accorgo, Che noua passion nel cor ti è nata, Ma la cagion di ciò però non scorgo, Nè sò, perche la vuoi tener celata. A questo Floridor di pianto vn gorgo Distilla per la guancia delicata, Lo conforta Filardo, e gli occhi belli Col lin gli asciuga, e pregal, che fauelli. Con gran fatica il giouane, e con arte Al fin ne caua vna risposta tale. Deh fuggi amico il mio consortio, e in parte Ne và lontan dal mio propinquo male. Questo indegno figliuol del buon Siluarte Lasciar destina il suo carcer mortale; Per non esser d' alcun mai più veduto Brama in sì verde età donarsi à Pluto. Fuggi pria, che 'l duol sorte, o 'l serro audace Scioglia questo caduco, e fragil velo. E la cagion, che turba ogni mia pace Non ti doler per Dio s' ascondo, e celo; Perchè l' alto pensier, che m' arde, e sface E d' eccellenza tal, ch' io no 'l riuelo; Bastati di saper, ch' esca di vita Vn' alma troppo audace, e troppo ardita. Non sospirar del mio stato dolente, Che vol ragion, ch' io sol m' afliga, e pera, Nè mi duol di morir, quando la mente Morendo restar dee sciolta, e sincera; Ma sol mi aggraua il cor, che sia possente Morte à partir tanta amicitia vera, E sia diviso il nostro amor interno, Ch' io mi credea, ch' esser douesse eterno. Con questo il dolor cresce, e 'l cor gli stringe Sì, che raddopia in lui l' angoscia, e 'l pianto, E di tanto martir l' amico cinge, Che nel cor piange, e duolsene altre tanto; Ma la di lor pietade hor mi constringe Quindi suiarmi, e poner fine al canto. Come poi si scemasse il lor martire Farò nel altro à chì m' ascolta vdire.

IL FINE DEL CANTO OTTAVO.



Tanto pregò Filardo il gentil figlio Di Siluarte, ch' ei gli apre il suo secreto. Lo conforta, e gli dà speme, e consiglio Ei sì, che torna anco à la giostra lieto. Scioglie Gracisa; e in sempiterno esiglio Manda il Trace vn guerrier poco discreto, Vanno insieme à l' Oracolo, e del Diuo Mirano il Tempio sontuoso, e diuo.



Quai animi più lieti, e più felici Di duo, ch' uniti sian vissero in terra? Quai contenti maggior, quai benefici Ad huomo nato il Ciel largo disserra? Sol la cara vnion de i veri amici, Nè vince Tempo, nè Fortuna atterra. Robba quei ponno, e libertà leuare, Ma 'l thesoro del cor non pon toccare. O beati color, cui diero in sorte Tanta felicità le Stelle al Mondo, Che se ben corre in due varia la sorte, L' Amor fà d' ambi il cor mesto, ò giocondo; Nè cosa è, che tormento à l' uno apporte, Che non faccia doler di cor profondo L' Amico, e se ne l' un piacer si troua, L' altro il medesmo ben fruisce, e proua. Trouasi quel da graue affanno oppresso Hauer il cor, come tal' hora accade; E 'l caro amico suo per amor d' esso La vita espon non pur la facultade, E la metà del mal gl' inuola spesso Con l' aiuto, che può, con la pietade. O che dolce sfogar l' alma dolente Con chì del suo dolor cordoglio sente. Quell' altro di tal gaudio hà colmo il petto, Che ne morria se nol dicesse altrui, E ritrouando vn suo compagno stretto Gli lo discopre, e ne fà parte à lui; E con questo raddoppia il suo diletto, Che 'l ben, ch' in vn sentia si gode in dui, E fà d' alto piacer nouo guadagno, Prouando il ben nel cor del suo compagno. Ma che dich' io, sì l' amicitia stende Il suo valor, ch' in morte anco il mantiene, Poi che l' huom tutto in sè non si comprende, Che la metà di lui l' amico tiene, E in cambio à lui mezo sè stesso rende; Onde sè l' un di loro à morte viene, Mezo nel viuo il morto viue ancora, E mezo il viuo in lui conuien che mora. D' un amor sì possente, è sì gagliardo L' un verso l' altro d' animo sì pio, Ben in quel tempo esser douea Filardo, E Floridor di cui seguir desio. Il damigel, c' hauea leuato il guardo Troppo altamente, e 'l giouenil desio, Tanta vergogna hauea, che 'l suo martire, Non pur ad' altri, à sè brama coprire. Con tutto questo al fin chiuso nol tenne (Com' udirete) al suo compagno caro, Qual vi narrai, ch' a consolar lo venne, Con gran pietà del suo cordoglio amaro, E la metà del suo dolor sostenne, (Benche di fuor nol dimostrasse chiaro,) Dissi di lui che staua addolorato Per la fera risposta, che gli hà dato. Tutto dolente à la risposta dura, Che dica per gran doglia di morire, Lo supplica Filardo, è lo scongiura, C' homai questo suo mal voglia scoprire. Dunq;, li dice, il nostro amor non dura Almeno insino à l' ultimo martire? Tu dici che finir tua morte il deue, E parmi, ch' ancor viuo il vuoi far breue. Perche non scopri à me qual caso strano, Nouellamente al tuo pensiero occorre? Perche il giuditio tuo già saggio, e sano, Stolto hora, e infermo in tal sciocchezza ìcorre Che lasciar brami il viuer lieto, e humano, E te medesmo à vna vil morte esporre? Vccider dei chi te d' uccider brama, Non à te stesso tor l' alma, e la fama. Se forse alcun timor t' ingombra il petto, Che sia scoperto al Re l' inganno vsato, Che l' habbia scorto, ò gli sia stato detto, Che contra il suo voler tu ti sia armato, Spoglia pur il cor tuo d' ogni sospetto, E versa sopra me tutto il peccato, Ch' io l' error fei, la colpa in te s' annulla, E poi giurar, che ne sapeui nulla. S' anco d' entrar nel martial inuito Non ti dà il cor frà tanti Cauallieri, Che ti spauenti il numero infinito Sì, che de la vittoria ti disperi; Di partir quinci è facile il partito; Sian del finto pensier gli effetti veri, Ma non credo, che 'l cor t' affligga questo, Che non l' hauresti pria tanto richiesto. Deh se per altra causa e sì possente, L' affanno, in cui di fresco entrato sei, Che sì t' ingombra l' animo, e la mente, Che t' occupa l' honor, ch' acquistar dei, Perche non apri, e sfoghi il cor dolente A me? che tù sai ben, ch' io nol direi; E se potrò, e saprò donarti aita, Ecco pronta la mia per la tua vita. Perche non scopri il tuo nouo desio A la nostra sincera antica fede? Già che t' haurei spiegato il pensier mio, Se me premesse il duol, che 'l tuo cor fiede; Non si conserua in guisa tal (cred' io) La vera legge d' amicitia in piede; Deue vn' amico à l' altro aprir il petto, E mostrargli il suo cor senza sospetto. Sai pur Floridor mio, ch' apprezzo, & amo Tutto ciò, ch' egualmente ami, & apprezzi, E quel solo accarezzo, adoro, e bramo, Ch' io sò, che brami, adori, & accarezzi; Et per contrario à morte odio, e disamo Ciò, che disami à morte, odii, e disprezzi; Del tuo ben rido, e del tuo mal mi doglio, E in ogni caso accompagnar ti voglio. Così disse egli, e al giouenetto amante Con sì belle ragion combatte il petto, Ch' omai non è più di negar bastante, E forza è, che gli esprima il suo concetto; Il modesto fanciul, come importante Delitto fosse il suo amoroso affetto, Tingendo di rossor l' humide gote, Queste aperse alcor suo dolenti note. Piacesse à Dio, che mai fussi in Atene, Venendo il padre mio, venuto seco; O se pur io douea lasciar Micene, Fuss' io restato pria per mio ben cieco, Che non haurei veduto (ond' hò tal pene) L' alto splendor del regio sangue Greco, Nè per trouarmi in sì misera sorte, Cercherei darmi hor di mia man la morte. La singolar beltà diuina in terra De l' eccelsa figliuola di Cleardo, Così possente hà mosso al mio cor guerra, Ch' esprimer non potrei com' arsi, & ardo; Da che per pormi il mio destin sotterra Mi fè drizzar nel suo gran lume il guardo, Nè più seguì; che 'l duol l' occupò tanto, Che mancar le parole, e crebbe il pianto. Resta Filardo attonito, e scontento Di lui non meno al fero annuntio, ch' ode; Quanto sà, che nè ingegno, nè ardimento Può al gran desio giouar, che 'l cor gli rode. Nè dee nel suo saper far fondamento, Che iui non val nè fittion, nè frode, E quanto spera men donarli aita, Tanto dubita più de la sua vista. Pensa, e discorre hor questa cosa, hor quella, E non sì tosto à Floridor risponde, E mentre stà sospeso, e non fauella, Floridor versa in maggior copia l' onde; Che vede ben, che quest' empia nouella Il fido amico suo turba, e confonde, Ma l' accorto Ditteo con pronto auiso Tosto cangiar gli fè quel pianto in riso. Come c' hauesse più di pianger voglia, Sforzò 'l suo cor per non gli dar più pena, E del nouo desir, ch' in lui germoglia Con fronte se ne rise alma, e serena, Poi disse, Dunque Amor regge tua voglia? Nouello Amor tua libertà raffrena? Che soleui di me prenderti gioco, Quando narraua il mio amoroso foco. Non ti turbar, ch' inusitata, e noua Ti è questa piaga à me solita, e antica, Che mille volte io n' hò fatto la proua, E sò quanto mal fà, chì se n' intrica; Nè però in tanti affanni il mio cor troua, Così la sorte al suo desir nimica, Che, vinto da la pena, e dal martire, Per disperation cerchi morire. Io sò ben Floridor quanto ti preme Sù due cose impossibili il discorso, Che de l' vna, e de l' altra hai poca speme, E però finir brami il vital corso. La prima è di scacciar l' alte, e supreme Voglie, e di porre al nouo Amor il morso; L' altra è (se pur ti resti in tal tormento) Di conseguirne il desiato intento. Se ben Amor non vol vdir ragione, Vuò, che le ragion mie con pace ascolti; Scaccia vn poco dal cor la passione, E comincia à pensar doue ti volti, Vedrai, c' hai sciocca, e vana oppinione, C' hai fallaci pensier nel petto accolti, L' amar senza speranza è cosa vana, E ben sai quanto ell' è da te lontana. Tenta vn poco il tuo cor, poi ch' anco il piede Non v' hà fermato ben l' empia radice, Che, quando nel principio si prouede, Ogni stato schiuar puossi infelice, E poi se Amore imperioso siede, Nè discacciarlo à la tua mente lice, Tenta ogni via per arriuarne al segno, Prima che di morir facci disegno. Tu se' il più bello, il più leggiadro amante, Che si possa trouar da l' Indo al Moro; Più valoroso spirto, e più prestante Non si può immaginar di Floridoro. Oltra le gratie in te celesti, e sante, Tu sei ricco di gemme, e di tesoro, E se ben non possedi Imperio, ò Regno Almenne sei, quanto alcun altro, degno. La tua florida età, la tua bellezza, La gratia, la virtù, l' ardir, e l' arte, La cortesia, il valor, la gentilezza, E ogni altra degna tua lodata parte; Potrà forse in colei, che 'l tuo cor prezza, Sì, ch' otterrai de la sua gratia parte; Non parlar di morir Floridor senza Far de la tua Fortuna esperienza. Seruirla ti conuien celatamente, Che troppo vn' alto amor pericol porta, Ma scopri il tuo valor sì chiaramente, Che resti ogni altra gloria occulta, e morta, E fà, che 'l grido tuo l' orecchie tente De l' inclita, e real fanciulla accorta, Fà, che le sia palese il tuo valore, Ma non il nome tuo degno d' honore. Forse che la tua fama eccelsa, e diua, Peruenendo à l' orecchie illustri, e altere, Desterà in lei qualche scintilla viua Di desio di conoscerti, e vedere. Credimi Floridor, che l' huomo arriua Sol per tai strade al fin del suo volere, Sol per le vie de la virtù s' ottiene La felicità somma, il sommo bene. Dunque per non mancar dal proprio canto Di far quanto sei debito à te stesso, Asciuga da quest' occhi il tristo pianto, E comincia à sperar lieto successo, E ritorniam nel campo à mostrar, quanto Può nel tuo cor l' alto pensiero impresso; Escano hoggi da te prodezze tante, Che ti possa sperar felice amante. Queste, & altre ragion di più valore Disse Filardo al giouane dolente, Che gli van consolando il mesto core, E racquetando la turbata mente. Mancando à poco à poco il suo dolore, E il sospirar più raro, e meno ardente, Sì, che preso vigor leua la faccia, Rasciuga gli occhi, e 'l caro amico abbraccia. Qual gli fesse risposta, e di che sorte, Per l' obligation, che gli hà infinita, Ben si può giudicar, quando da morte Per lui conosce hauer salua la vita. Chiuse à i sospiri, e al lagrimar le porte La guancia torna bella, e colorita, Gli cresce il cor, gli torna il primo affetto, Che di gloria acquistar gli accendea il petto. Come fior languidetto, c' habbia il crine Tenuto chin sotto vna lungha pioggia, A l' apparir del Sol le pellegrine Foglie rasciuga, e 'l Ciel mirando poggia; Così fer le bellezze alme, e diuine Di Floridoro, ò in simigliante foggia, Poi che 'l piouer cessò de gli occhi, e insieme Godete i rai de la nouella speme. Quella dolce speranza hebbe tal forza Nel giouenil pensier d' amor acceso, Che nel petto il vigor cresce, e rinforza E' l dolce viso à i primi honori è reso. Già non vol più tardar, ma altier si sforza Di racquistar l' indarno tempo speso, Altier lo rende Amor, bello, e gagliardo Più che veduto ancor l' habbia Filardo. Rimontaro à Caual contenti, e lieti Ma più Filardo in faccia, che nel core (Ch' era vn de più prudenti, e più discreti Giouani, e temea il fin di questo amore.) E ritornaron taciti, e secreti A la gran moltitudine, a 'l romore, Doue trouar che del collegio strano Tre Cauallier caduti erano al piano. Il Prencipe Aliforte era il guerriero, Che vinti i Cauallier Barbari hauea. L' vn possedea di Persia il grande Impero, L' altro di Siria il popolo reggea; Cadde per terzo l' African Riuiero. Il primo nello scudo vn Sol tenea, Vn falcon il secondo, e per impresa Riuier portaua vna facella accesa. Giunto fra tanto à la superba lista Col suo Filardo il giouene possente. Vario pensier questo, e quel petto acquista, E comincia à mirar diuersamente Che Floridoro à la gioconda vista Di Celsidea tutto mancar si sente, E mentre il buon Ditteo la giostra mira, Egli su 'l palco in lei le luci gira. Ma 'l compagno al suo honor ministro fido Dal dolce oggetto suo l' inuola, e suia, Tal che pur viene ad occupar quel nido, Che 'l Re di Creta accomodar deuria. L' vltimo dedicato al Re del lido Venereo serue à la sua compagnia, Perche 'l Re non hauea posto in lor vece Altri per farne il numero di diece. Se 'l suo nipote si trouasse in corte, Parlo di Polinide il gran Sicano, E 'l buon Griante anco in vecchiezza forte, Gli faria in vece lor calar al piano. Ma 'l ritornar à l' vn vieta la sorte, L' altro gli bisognò mandar lontano, Con molta gente alcuni giorni inante In aiuto, e in fauor di Risamante. Loda il gran Rè, lodan l' altere squadre De Greci Heroi la bella coppia ardita, E Celsidea con la Regina madre Le dà loda non men rara, e infinita. Le belle spoglie candide, e leggiadre Ogni occhio guarda, & ogni mano addita, E di saper chì siano i Cauallieri Braman non men de Greci i forestieri. La bella giostra, e chì n' ottenne il vanto Altroue io dirò poi, c' hor me ne suia Risardo che và al Tempio illustre, e santo Con la sua bella Odoria in compagnia, E con quei due, che le van sempre à canto Colmi nel cor d' inuidia, e gelosia. Poi che fur vinti da Risardo egregio, Onde troppo la Donna il tolse in pregio. Giunsero vna mattina ad vna croce, Che 'l sentiero in due strade dipartiua. Et ecco vn grido, vna dolente voce Dal destro lato al loro vdito arriua. Punse Filardo il suo destrier veloce Ver quella parte onde il romor veniua, E la Donzella, e i due guerrier non manco Spronaro inanzi à lor destrieri il fianco. Nè molto andar che scorser di lontano Vna Donzella à vn grosso pin legata, La qual piangendo si lamenta in vano Tutta rossa nel viso, e scapigliata. Risardo che gentile era, & humano Corse ver la Donzella addolorata, E smentato la mano al tronco stese, Ma in questo vn Cauallier lo sopra prese. Vn Cauallier che staua iui nascoso Trà ver de piante à l' arbore vicino, E scoprendosi altero, e disdegnoso Non scioglier, gli gridò, costei dal pino; Non esser Cauallier ver lei pietoso, Lasciala stare, e torna al tuo camino; Perche potresti à lei sciogliendo il laccio, Te poner meco in più grauoso impaccio. E tuttauia dicendo, e minacciando, Perche Risardo al suo gridar non resta, Caua del fodro il suo tagliente brando, E gli segna vn gran colpo in sù la testa. Risardo, che lo vede fulminando Calar, lascia la Donna afflitta, e mesta, E spicca vn salto, à fin ch' egli nol giugna, Lo scudo imbraccia e anch' ei la spada impugna. Senza dir altro la battaglia cruda Cominciano, e à i gran colpi che si danno Hor quinci hor quindi in fin sopra la nuda Carne più volte à ritrouar si vanno. Già per timore Odoria hor trema, hor suda, Che ne riceua il suo Risardo danno. Intanto vn di quei duo discioglie, e sgroppa La Damigella, e se la pone in groppa. Tremaua ancor la Donna come foglia Per la paura del guerrier villano, Ch' vn' altra volta ancor se la ritoglia Per tormentarla à i Cauallier di mano. Ma il possente Risardo, c' hà gran voglia Di castigar quell' huom crudo, & insano A tal partito già l' hauea condotto, Che cominciaua à rimanergli sotto. Gli hauea tolto lo scudo, e l' elmo aperto In quattro parti, e rotto piastra, e maglia; Tutto del proprio sangue era coperto, Così il guerrier lo fere, e lo trauaglia; Tal che 'l meschin di sua arroganza in merto Perdè la vita insieme, e la battaglia. Miser, che non sapendo si condusse Contra vn de' buon guerrier, ch' al mondo fusse. Risardo quando scorse il Caualliero De la sua età condotto al fin amaro; Rimise il brando, e rimontò il destriero, E così al lor viaggio ritornaro. Odoria poi, ch' à caualcar si diero, Pregò la Donna à farle espresso, e chiaro, Qual sdegno seco il guerrier morto hauea, Perche à quel pin legata la tenea. Disse la Donna; io mi venia mandata Da la Regina de le genti Armene, Che da la sua sorella è assediata, E sola vna città per lei si tiene; Doue con pochi misera è saluata, Benche di ripararsi hà poca spene Da la sorella, che con genti tante L' assale ogni hor, che detta è Risamante. La mia Regina oppressa da ogni lato Secretamente mi fece vscir fuore, Perch' io troui alcun Re benigno, e grato, O Cauallier che venga in suo fauore, E la riponga nel primier suo stato, Nè vaglia à Risamante il suo valore; Così per lei seruir la strada presi, E vidi, e caminai molti paesi. Ma non hò ancora vn Cauallier potuto Trouar, nè Rè ch' à lei ne voglia gire. Quei che le han dato in sul principio aiuto, Di perder satij, hor niegan di venire; Altri d' aiutar lei fanno rifiuto, Perche di Risamante aman l' ardire, Amano il suo valor, l' audacia, e l' arte, Eson con l' arme lor da la sua parte. Ond' io, poiche più giorni indarno errai, Questa mattina à lei facea ritorno, Quando per mia disgratia m' incontrai Nel Cauallier, c' hoggi fù tolto al giorno, E che venisse meco lo pregai, Per, caminar secura d' ogni scorno; Il Cauallier fingendo cortesia Accettò il prego; e caualcammo via. Quando giungemmo oue la via si parte In due sentier, ch' à dietro habbiam lasciato, Riuolge il freno ei da la destra parte, E non segue il camin, c' hauea pigliato; Io lassa, che lo veggio ir in disparte Per altra via di quel, che l' hò auisato, (Del viaggio d' Armenia à pieno instrutta) Smarita resto, e mi conturbo tutta. Tosto m' afferra il cor con gran ragione Timor, ch' ei mouer pensi al mio honor guerra, Pur, fingendo pensarne altra cagione, Gli dico che la strada ci falla, & erra, E che se non volesser mio campione, Se non vuol venir meco alla mia terra, In libertade almen mi lasci gire (Come era) sola, e 'l mio camin seguire. Ma quando veggio, che 'l pregar non vale, Che mi tien per le redini, e và inanti; Per lo sdegno, e la doglia, che m' assalle Leuo dolente al ciel le stride, e i pianti; Lo bestemmio, e gli dico tanto male, Son tante ingiurie, e vilipendij tanti, Ch' ei vinto da gran sdegno, che lo prende Con furia del destrier mi getta, e stende. Poi smonta anch' egli, e per lo crin mi piglia E tutto il viso mi percuote, e straccia; E mentre egli mi batte, e mi scapiglia, Non può ottener che la mia lingua taccia. Al fin trà se medesmo sì consiglia Di legarmi à quel tronco ambe le braccia, E non sò donde, tolta vna catena, Tutta à quel pin mi lega, e m' incatena. Di flagellarmi credo hauea pensiero Ancora vn pezzo, e poi così lasciarmi; Quando sentìspronar più d' vn destriero Da voi, ch' à tempo fuste à liberarmi. Ond' ei tosto leuossi del sentiero Per ispiar s' alcun venisse à trarmi Dalle sue man, (mi penso) e manifesto Esser vi può da che giungeste il resto. Così disse la donna, e poi richiese I Cauallier con supplice preghiera, Che volessero andar seco in difese De la Regina sua, perche non pera; Che per l' alto valor, ch' in vn comprese, Di tutti insieme poi, tanto ne spera Che se vanno à colei, ch' ella lor dice, Rimanerà la vinta vincitrice. I Cauallier risposero à Gracisa; (Così la Damigella era nomata) Ch' essi anderian sì come ella diuisa Ad aiutar la terra assediata; Ma che volean gir prima ad ogni guisa In Delfo, oue la strada hauean pigliata; E come stati al sacro tempio sieno, Anderan poi con lei nel Regno Armeno. La Donna gli ringratia sommamente, E d' ir anch' ella al Tempio si destina, Per intender dal Dio biondo, e lucente Ciò, ch' esser dee de l' alma sua Regina. Così d' accordo spronano egualmente I lor destrieri, e tanto ogni vn camina, Ch' in breue furo in Delfo, e al Tempio santo Giunser, da lor desiderato tanto. Era l' egregia incomparabil mole Composta di celeste architettura, Ben degno albergo al gran nume del Sole Di ricchezza, d' intaglio, e di struttura. Tutto d' oro, e di pietre elette, e sole Il tetto splende, e le superbe mura, Il paumento, le colonne, e il fregio Son tutto gemme d' incredibil pregio. Appaion le fenestre altere, e sante Frà le colonne lor d' inclita stima, Che sembran di finissimo diamante Tutte d' vn pezzo esser dal piè à la cima. Le basi oue si posan tutte quante De la seconda serie, e de la prima, Sono intagliate con sottil lauoro Di figure, e fogliami espressi in oro. Sporgonsi in fuora i ricchi capitelli, Sopra cui di rilieuo assisi starsi Veggonsi più fanciulli ignudi, e belli, Che paion viuamente iui posarsi. Questi vn feston di smalti, e di gioielli Da gran giudicio accomodati, e sparsi, Con mani sostenean per ogni lato, Che cingea l' arco dal balcon formato. Sopra l' ordine primo era il secondo De le colonne di artificio eguali, E 'l terzo sopra quel, non men giocondo, Non men ricco di gemme orientali. Gli è ver, ch' vn fregio bianco, e rubicondo Di perle, di rubin, di gioie tali; Trà l' vn ordine, e l' altro era distinto, Tutto di lauree fronde, à gli orli cinto. La splendida muraglia intorno intorno Di viuaci carbonchi fiammeggiaua, Che la notte non men, che 'l chiaro giorno L' aria tutta, e la terra illuminaua. Di sopra esser coperta d' ogni intorno La machina d' argento si mostraua; Le porte eran d' auorio, e d' or conteste, Con figure d' intaglio almo, e celeste. Scolpito appar con somma industria quiui Il biondo Dio, ch' al fier Pithon s' oppone, E leua al Mondo i morsi empi, e nociui Del venenoso, horribile Dragone. Sembrano il cauto arciero, e 'l serpe viui; E in sì bell' atto stà contra Pithone Apollo, & opra l' arco tanto bene, Ch' altro à la verità non si appartiene. Risardo, e i suoi compagni stupefatti Restano vn pezzo à contemplar di fuore Quella fabrica illustre, e quei ritratti E lodan l' architetto, e lo scultore. Quell' opre, e quei lauori sì ben fatti Con tante gemme di vario colore. E poi che 'l tutto assai di suor miraro, Già scesi de i destrier nel Tempio entraro. Dentro il sacro, famoso, ampio edificio Era non men, che fuor lucido, e bello, E non men di ricchezza, e d' artificio, D' egregie pietre, e d' opre di scarpello; E di figure, c' han diuerso officio Nel muro espresse in questo lato, e in quello; Per tutto oue fenestra non appare Splendono statue sontuose, e rare. Vedeansi intorno il transparente muro I mesi tutti figurati in oro, Sei di quà, sei di là scolpiti furo, Di color varij, e varij di lauoro. Dal destro lato vn' huom forte, e sicuro Espresso appar, che primo era di loro, D' elmo, di scudo, e d' ogni spoglia ornato, Come guerriero à l' arme apparecchiato. Perche nel fin del Verno à la battaglia Esce il soldato pratico, & esperto, Disegna il Marzo l' huom di forte maglia, E di piastra finissima coperto. Propinquo à questo, ingombra la muraglia Vn Contadin, che 'l capo hauea scoperto, Con rabbufata barba, e crin negletto Parea vn pastor à l' habito, e à l' aspetto. A piedi suoi, ch' ignudi egli mostraua Sino al ginocchio, vna capra giacea, Che con graue dolor languendo staua, E due capretti partorir parea. Vna Sampogna il pastorel sonaua, E per questa figura s' intendea L' April, quando il pastor lieto, e giocondo Conduce al pasco il suo gregge secondo. Seguiua appresso vn giouane d' acerba Età, nel viso fresco, e colorito; Tutta è di fiori, e d' or vaga, e superba La spoglia; ond' era infino al piè vestito Parea che fosse in mezo vn prato d' herba, Di mille fior da Zefiro arricchito. Spira dal suo bel crin soaui odori Fresca ghirlanda di leggiadri fiori. D' herbe odorate, di rose, e di gigli, Di viole, e d' Acanti hà le man piene; Gli aurati panni suoi bianchi, e vermigli Lieue aura intorno solleuando viene. Che 'l leggiadro garzon si rassomigli Al Maggio par, con cui ben si conuiene; Tant' herbe, tanti fior, tanti ornamenti Mostran del Maggio i dì vaghi; e ridenti. Vn campo di bellissima verdura Era à costui per ordine vicino, In mezo à cui si scopre la figura D' vn faticoso, e rozzo contadino; Gli finge intorno il capo la scoltura Girlanda, non di rose, ma di lino. Hà vn dardo al fianco, e tien la falce adonca Con ambe mani, e l' herba mira, e tronca. Dir volea il Giugno allhor, che ne le apriche Campagne il fien maturo il Villan siega. Vn' altro dietro lui le bionde spiche Taglia del grano, el dosso incurua, e piega, E con queste importanti sue fatiche, Con tali effetti essere il Luglio spiega. Dal Sol li fà vn cappello in testa scudo, E fuor che 'l fianco in ogni parte è nudo. L' vltima effigie, ch' à man dritta appare, Era vn' altro huom pur nudo come nacque. Il fianco sol se gli redea celare D' vn pannolin, come al maestro piacque. Dinanzi vn bagno di fresche onde chiare Parea lauarsi in quelle limpide acque; Con la destra vna tazza al labro tiene, Con la sinistra il pannolin sostiene. Costui, che sitibondo il fresco sorso Ingozzar sembra, e bagnar piedi, e braccia, L' Agosto par, quando con tal soccorso L' ardor Canicolar l' huom tempra, e scaccia. L' altra mettà de l' anno, oue il suo corso Seguita il Sol staua da l' altra saccia. Ma saria troppo, se passar lasciassi Altri sei mesi pria, che mi posassi.

IL FINE DEL NONO CANTO.



Nel loco sacro, e pio de i chiari ingegni. Non nati ancor, vede Risardo il fiore. Apollo dà risposta à i voti degni, Floridor de la giostra è vincitore. Finge venir da più lontani Regni Con Floridor Filardo. Arde d' amore Celsidea per lo figlio di Siluarte, Gli dà la gemma, e quei vanno in disparte.



Deh, perch' à nostra età non si ritoua Vn' oracolo pio, santo, e verace, Che di quel, che ci nuoce, e che ci gioua Far potesse il pensier nostro capace. Sò ben, che si vedria spesso à tal proua Più d' vna guerra conuertire in pace, E mille danni l' huom, mille ruine Schiuar potria, s' indouinasse il fine. O quanti matrimonij son seguiti E seguon tuttauia per non sapere, Che non sariano in fatto riusciti, Quando il fin si potesse antiuedere Quanti da proprij suoi sono traditi Ne l' honor, ne la vita, e ne l' hauere, Che potrebbon, guardandosi da loro, L' honor saluarsi, e la persona, e l' oro. Più d' vn stà ne i peccati, e non s' emenda Con speranza di viuer lungamente, Che forse ne faria debita emenda, Se si vedesse il fin quasi presente; Ma non hauendo onde l' auiso prenda, A la cieca nel mal viue la gente; E s' huom pur troua huom, che 'l suo mal preuede, Per esser huom, com' egli, à lui non crede. Benche in quel tempo fede al falso desse Il Mondo, e à vn' Idol van rendesse honore, Pur si crede, ch' ei spesso il ver dicesse, Per mantener ogn' alma in quello errore. A cui la gente poi quel Tempio eresse, Di cui sentiste il magisterio fuore; E vi lasciai, che l' vna faccia hauea Descritta dentro, e à l' altra io mi volgea. Prima il celeste artefice vi spiana Nude le gambe vn' huom rozzo, e villano, A piè de cui risorge vna fontana Di chiaro vin, che già rigando il piano. La chioma sù le spalle hà stesa, e piana, Et vna vite hà ne la manca mano, Con l' altra i graspi in gran copia cogliea De l' vua, e con la bocca gli premea. Come il vendemiator co' piedi suole L' vua calcar per farne vscir il mosto, Con la bocca costui, con le man sole Era à diuersi officij atto, e disposto. Dunque con tal effetto inserir vuole Il mese successor del caldo Agosto; Et è ben con ragion, ch' ei si rassembre Al fruttifero mese di Settembre. L' imagine seconda è vn giouenetto, Ch' ancor non mostra il primo fior nel volto, Velato ha 'l capo, e candido il farsetto, Polito indosso e accommodato molto. E' ver, ch' egli era in sin à fianchi stretto E 'l resto largo al vento aperto, e sciolto. Le gambe, e i piedi sol gli hauea lasciati A studio lo scultor nudi, e spogliati. Costui con molte gabbie d' vcellini Parea, che mille frasche in mezo vn prato Piantate hauesse, e d' aggroppati lini Tutto quel campo fosse circondato, E che gli vcelli aerei, e pellegrini Non potesser veder l' inganno vsato, E parean quei di gabbia ascosi, e lieti Inuitar gli altri à dar giù ne le reti. L' ascoso vcellator lungo il pratello A la sua preda intento si vedea, E nel pigliar, che fea più d' vn augello, Di lor semplicità rider parea. Questo, ch' insidia il passero, e 'l fanello, L' Ottobre sol significar volea, Quando gli vcelli insieme à schiera vanno Verso il paese, ou' è più caldo l' anno. Vn rustico arator si vedea poi Oprarsi anch' ei nel nobile teatro, E stimolar gli trauagliati buoi, Che dietro si traheuano l' aratro. Eran tutti stracciati i panni suoi, Il color del suo viso è bruno, e datro Sù la chioma, c' hauea distesa, e corta Per lo vento vn cappel di lana porta. Con la man destra l' arator tenia L' aratro, che tirauano quei due Lassi animali, e nel terren scolpia Con la sinistra le fatiche sue. Il sangue che da le punture vscia De l' uno, e l' altro affaticato bue, Cosi leggiadramente era scolpito, Che da viui animai pareua vscito. Del mese de le Pliade inditio daua La figura, ch' io dico, e à suoi confini Era vn, che miglior habito portaua. Più bianco in faccia, e con più lunghi crini. La sua polita barba non mostraua Vn pel, che più de gli altri s' alzi, ò chini, Ne la man manca vn cesto hauea di grano, Di cui spargendo gia l' arato piano. Era il Decembre quel, la cui stagione, Che si semini il gran nel campo chiede. Appresso vn robustissimo garzone D' aspetto fiero, e d' animo si vede; Che và à le caccia il suo ritratto espone, Che i fieri veltri inanima à le prede; Ch' à le timide lepri il laccio tende, E qual co' i cani, e qual con reti prende. Il giouane mostraua atto, e robusto La ben composta barba, el crin ornato, Ma le gambe cingea, le braccia, e 'l busto D' un vestir molto stretto, e rassettato I cani, c' han d' i lepri auido il gusto Seco scherzando andauangli da lato, Ei gli lusinga, e liscia à lor la testa, Essi à lui con la coda fanno festa. Con Genaio tenea molta sembianza Questo ardito garzon, quando vscir fuore Con reti, e cani suol, com' hà in vsanza Per le neuose strade, il cacciatore. Per vltimo ingombrar quiui la stanza Si vede vn vecchiarel carco di horrore. Che presso ad vn gran foco siede inuolto Di folte pelli, e tutto in se raccolto. I giorni di Febraio aspri, e gelati Mostra il canuto vecchiarel tremante, Che stà co i membri inuolti, & arricciati, Con le man stese à quel gran foco inante. Vedeuausi i disegni variati Variar le figure tutte quante, E come à lo scultor fù ben auiso Vn color hà la chioma, vn' altro il viso. Con sì bell' arte era ciascun espresso, Che sembra viuo, e che si moua, e spiri, In modo frà le gemme era ben messo L' oro cinto da perle, e da zafiri Non hauean le figure vn' atto stesso, Ma con diuersi accomodati giri Facean l' officio à lor tempi opportuno, Con vn gesto, che proprio era à ciascuno. Non mancan copra questi i proprii segni, Ariete, Toro, Gemini, e i seguenti. Par poi ch' ogni Pianeta alberghi, e regni Sopra le case lor conuenienti, E tutti quei ritratti, e quei disegni, Che sono al chiaro Nume appartenenti, I rilieui, gl' impressi, i pieni, e i fori Cinti, e diuisi son da verdi allori. Il pauimento è tutto lastricato Di quadri d' allabastro, e de coralli, Sorge l' altar nel mezo almo, e sacrato Di marmo lustro assai più, che christallo; Sopra cui Febo in piede figurato Tutto d' vn pezzo è del più bel metallo; D' oro massiccio in mezo à l' altar sacro Splende il suo diuo egregio simulacro. Son l' auree chiome sue splendide, e chiare Di verdeggiante alloro incoronate. Ne la destra la cetra, e 'l plettro appare, Ne l' altra l' arco, e le saette aurate. Chiuso in vna cappella è il sacro altare Con colonne di porfido intagliate; Frà colonna, e colonna in piedi stanno L' hore pronte à seruir l' auttor de l' anno. I sacerdoti con dorata stola Van per lo Tempio taciturni, e cheti; Il Tempio alato hor quinci, hor quindi vola CHE à lungo andar tutti i secreti. Ma che dirò de la superba scola De' gloriosi, e nobili poeti, Ch' intorno al diuo altar furo intagliati, Ben ch' in quel tempo ancor non fosser nati? Ne la facciata anterior frà loro Vn' huom d' ogn' honor degno, & riuerenza Staua nel mezo, il cui lume, e decoro Parea frà gli altri hauer la preminenza. Più che di lauro hauer corona d' oro Meritaua egli à la regal presenza, E non parea frà quei, c' haueua à canto, Ch' altro huom vi fusse venerabil tanto. Sedea con graue, e con serena faccia Di gloriosa porpora togato; Di girli appresso ogniun ben si procaccia, Ma pochi son quei che vi vanno à lato; Et ei par, che pur chiami, che si faccia Inanzi ogn' alma, e se le mostri grato. Era il suo nome in or puro, e giocondo; DOMENICO VENIER luce del Mondo. Quel ch' a la destra più propinquo gli era Di fresca età, di generoso aspetto, Ben discerneasi al viso, e à la maniera, Ch' era vn leggiadro, e nobil intelletto. Leggeuasi de l' alma illustre, e altera In lettera d' argento il nome eletto, E si potea da quel comprender chiaro Ch' era MAFFEO VENIER celebre, e raro. Vn' altro dal suo lato era scolpito, Di lui seguace, e del suo honor compagno, Turauasi la bocca con vn dito, Quasi gli sia il tacer lode, e guadagno: Dicea l' argento in note compartito Sopra il suo capo, il nobil CLELIO MAGNO Parea di chiaro, e di eccellente ingegno, A la presenza l' huom famoso, e degno. Prossimo gli era vn' huom d' alta, e profonda Dottrina in vista, e d' ottimi costumi. Costui par che virtù col guardo infonda, E che del suo splendor la terra allumi Hà lungo manto, e d' anni in faccia abonda, E sopra vn libro aperto afisa i lumi. Di sopra BERNARDIN PARTENIO appare, Ne l' una, e l' altra lingua huom singolare. Quel che miraua à la sinistra mano Del chiarissimo padre il viuo raggio, Hauea nera la barba, el viso humano, Pareua huom di giudicio accorto, e saggio. Era la nota ORSATO GIVSTINIANO Felice spirto, honor del suo lignaggio. Sì come i primi vn lungo habito porta, Che grauità con riuerenza apporta. D' età matura vn' huom gli succedea, Che par ch' à le sue spalle il passo appreste E, per quel, ch' à la vista si scorgea, Era non men d' ingegno almo, e celeste. La lunga spoglia indosso non hauea, Ma corto è il manto, che l' adorna, e veste, Nel breue suo che la scrittura espone ERASMO si leggea di VALVASONE. Finia questa facciata vna persona, Che dimostraua al graue aspetto, e degno, Douer l' acqua gustar in Helicona, E nel metro passar de gli altri il segno. VICENZO GILIANI il breue suona D' eleuato saper colmo, e d' ingegno. In questa effigie è tal virtute espressa, Che non giunge il mio verso à i merti d' essa. In testa de l' altar dal lato manco D' età più fresta vn nobil huom seguia, Che ne l' aspetto esser parea non manco Dotto honorato, e pìen di cortesia; ALBERTO LAVEZVUOLA, che mai stanco Di seguitar il biondo Apollo sia Espresso hauer, per cui sarà gioconda La gran Città, che 'l bello Adige inonda. Poi si vedeua vn huom, che similmente Parea nato à gli studi, e nel cor molto Era benigno, e di eleuata mente, Se l' animo si può scerner dal volto. Quegli anni, che più rendon l' huom prudente Lo spirto possedea leggiadro, e colto. Biondo era, e 'l manto insino al piè l' ingombra E scritto hauea BARTOLOMEO MALOMBRA. Veniua à empir il quadro da quel canto Vna persona affabile, e discreta, Di saggio, e di bel animo, per quanto Mostra la faccia degna, e mansueta. Parea fermar le dolci acque col canto, Ne men de gli altri esser degno poeta; Hauea l' habito breue, e la sua nota CESARE SIMONETTI il mostra, e nota. Ne l' opposita faccia, pur in testa Del sacrosanto altar, ma da man dritta, Vn altra effigie in piè si manifesta, D' alta presentia, e signoril descritta Splendida, e vagha in dosso hauea la vesta, E la lettra, che sopra era descritta GIULIAN dimostraua GOSELIMO D' ingegno felicissimo, e diuino. Vn' altro presso lui di fresca etade, Vedeasi, il qual parea venir con fretta Quasi, che gli rincresca, e non gli aggrade, Ch' altra persona inanzi il piè gli metta. Il luoco oue è scolpito, persuade, Ch' ei sia d' una virtù rara, e perfetta; E la nota, ci hauea, rendea palese, Ch' egli era il dotto CESARE PAVESE. Appresso hauea ritratto lo scarpello Vn' huom d' età più giouane, e più fresca, Che di gir presso il nobil, drappello Par, che le forze, e l' animo gli cresca. Lungo hauea 'l manto, e in testa hauea vn cappello. E benche trà questi vltimo riesca, È però primo frà mill' altri dotti, Disopra era GIANMARIO VERDIZOTTI. Ne l' vltima facciata, che scolpita Di dietro fù, doue era poca luce; Vna giouane stauasi romita, E non ardia con gli altri vscir in luce; Vergognandosi assai, che troppo ardita Aspirasse à la via, ch' al Ciel conduce; Hauendo tanto basso, e fosco ingegno, Quanto sublime, e chiaro era il disegno. Bianca hauea in dosso, e lunga la gonnella Come à lo stato virginal conuiensi, E pareua in età verde, e nouella Hauer nel petto alti pensieri accensi. Non hauea breue alcun questa donzella, Che la fesse palese à gli altrui sensi, Ch' à lo scultor, che la sua effigie espresse, Grato non fù, che 'l nome si sapesse. De l' eccelsa cappella è il Cielo adorno D' azuro, e d' or pur con figure elette; V' erano le sette arti impresse attorno, Che liberali son chiamate, e dette; Nel mezo vn nobil huom vi fea soggiorno, Cui ciascuna parea di queste sette Voler cinger la testa illustre, e rara Di corona immortal di lauro a gara. Benche fusse d' età cinto, e ripieno, Com' à la vista scorger si potea, Di vera gloria hauer più colmo il seno, Il ritratto mirabile parea Vn aere in fronte hauea grato, e sereno, Che più felice, e amabile il rendea, Di GIOSEPPE ZARLINO il nome scopre L' argento, e lungo manto il veste, e copre. Poscia, ch' alquanto il giouane Risardo Con tutti i suoi religioso, e pio Andò pascendo il suo cupido sguardo Per lo Tempio fatal del biondo Dio. Deuoto ingenocchiossi, e non fà tardo A spiegar à quel Nume il suo desio, Così ciascun di lor fù ingenocchiato Con le man giunte, el volto disarmato. Il principal ministro, che consacra Le vittime ad Apollo, e quello adora, Per li gradi salì de l' ara sacra, E com' è suo costume il prega, & ora. Per hauer la risposta ò dolce, od' acra Il sacerdote il vaticinio implora; Pendon l' accese lam`padi d' intorno, Dando lume à colui, ch' alluma il giorno. A pena di pregar l' acceso Nume Finì il ministro auuolto in aurea gonna, Che raddoppiar le faci il sacro lume, E tremò del gran Tempio ogni colona. Indi s' udi fuor d' ogni human costume. HAVRÀ la donna, e l' huom l' huomo, e la donna, E s' unirà la coppia con la coppia, Che contra il sangue suo tant' arme accoppia. De l' oscura risposta assai confuse Restaro l' alme supplici, e deuote, Col cor doglioso, e con le labra chiuse, Non potendo caper l' oscure note. Allhor pien di furor la bocca schiuse Il profetico sommo sacerdote, E gridò forte. O Donne, o Cauallieri Vdite del gran Dio gli annuntij veri. Quello di voi, ch' in habito d' huom forte Nasconde il feminil suo vero sesso, Di quello Cauallier sarà consorte, C' hà ne lo scudo vna donzella impresso. A gli altri due riserbasi altra sorte, Come il felice oracolo ci hà espresso. Sono in Armenia, oue fan guerra, e liti Le sorelle, cui denno esser mariti. Colmo d' inestimabile contento De la risposta il giouanetto Trace, Ringratia il Dio propitio al suo talento, Poi che pur vuole il Ciel quel, ch' à lui piace. Leuossi in piede, e d' abbracciar non lento Fù la sua Dea che n' aroscisce, e tace; E dà quel giorno in poi volse Risardo, Ch' ella lasciasse l' habito bugiardo. Gli altri duo Cauallier dogliosi, e mesti Di ciò furono assai ne lor secreti, Ma non osar dolersi de i celesti Auisi, onde restar taciti, e cheti; E ver l' Armenia à caualcar fur presti, Onde speranza hauean pur d' esser lieti, E con Gracisa presero il camino, Che detto hauea l' interprete diuino. Risardo, che benigno era, e cortese, Di questi Cauallier mosso à pietade, Di voler seco gir partito prese, E caualcò per le medesme strade; Gli è ver, che non sì tosto in quel paese Si ritrouò, ch' Amor lo persuade A passar qualche dì solo in riposo, Poi che dir si potea nouello isposo. Ma perch' io temo, che 'l mio dir vi annoi, Se di lor seguo, e de le due sorelle, Fia ben che, diferendo à dirne poi, Del Re di Grecia homai vi dia nouelle. Dissi, che dieci Cauallier de i suoi, Con arme, e soprauesti riche, e belle, Erano vsciti ad acquistar l' alloro, Contandoui Filardo, e Floridoro. E lasciai, che dal Prencipe Aliforte Trè Cauallier furono posti al piano, Brandilatte, ch' in Siria hauea la corte, Acreonte di Persia, e l' Africano. Hor dico, ch' essaltando il guerrier sorte La nobiltà de i Greci, e il popol vano Vn Cauallier vscì da l' altra parte, Che parea ne l' aspetto vn nouo Marte. Miricelso d' Egitto, che d' un padre Nacque con l' innocente Raggiadora, Venuto anch' ei contra le greche squadre Fù quel, ch' uscì contra Aliforte allhora. Tosto à l' armi vermiglie, aure e leggiadre, Scorto fù da ciascun quando vscì fuora. Ciascun conobbe il Principe del Nilo A l' insegna, c' hauea del Cocodrilo. Preser del campo, è fù l' incontro tale, Che piegò molto il Cauallier d' Egitto, E mostrò di cader più d' un segnale, Perde le staffe, e pur rimase dritto. Ma non hebber però la sorte uguale, Cosi fù del gran colpo il Greco afflitto, Che perdute le forze, e insieme il freno, Fù sforzato a cader sopra il terreno. Doppo lui Miricelso abbate, e getta Il Re d' Arcadia netto de l' arcione, In di al Re Clitio fà premer l' herbetta Che presso il Duca hauea Satirione. Volea Satirion far la vendetta D' Aliforte, di Clitio, e d' Elione, Quando à la giostra vscì fiero, e sdegnoso De la gran Tebe il Principe famoso. Venirsi in contra, e poser l' haste in resta I Cauallier gagliardi oltre misura. L' Egittio vol, ch' el ferro il ventre inuesta, Egli roppe la lancia à la cintura; Ma 'l Teban lui percosse ne la testa, E dimostrò la spalla hauer più dura, Ne si potè l' Egittio schermir tanto, Ch' Apollideo n' ottenne il pregio, el vanto. Caduto Miracelso, Apollideo Del feroce Marcan, ch' era fratello Di l' alto Re di Persia, hebbe trofeo, C' hauea lo scudo candido, e morello. Quando vn guerriero vscì di cui non feo Natura il più superbo, e à Dei ribello, Hà l' arme azure, e ne lo scudo segna In campo azuro vn monte per insegna. Venti quattro anni il giouane feroce Hà già finiti, & è di forza estrema, Tal che in ogni periglio, e caso atrooe Par, che insino di lui la morte tema. Amor, ch' è sì arrogante à lui non noce, E da quel cor crudel s' asconde, e trema. Era costui del buon destrier signore, Del quale hor Floridoro è possessore. Suo nome era il superbo Sfidamarte, Cui l' Imperio deca di Trabifonda, De le cui chiare imprese in ogni parte Tutta la terra il grido altier circonda. Non valse al buon Teban l' ardir, e l' arte Contra costui, che di tal forza abonda, Che ben che si tenesse assai difeso, Lo gittò lungi dal destrier disteso. Con Stellidon roppe à l' incontro l' hasta, Nè l' un cadde, nè l' altro del destriero, E poi, che 'l primo incontro lor non basta, Con noue lancie vn' altra proua sero; Il Greco cade, e l' altro ancor contrasta Contra Satirion, Sirio, & Algiero, E ciaschedun di lor con poca guerra Per lo suo gran valor vince, & atterra. Hor in Filardo solo, e in Floridoro De Greci Heroi fondata era la speme, Che restano à prouar la virtù loro Contra il guerrier, che nullo incontro teme. Per coronarsi il crin di palma, e alloro Pon Sfidamarte le sue forze estreme Contra Filardo, il qual si mosse in fretta; E quanto è lungo de l' arcion lor getta. Gli è ver, che nel colpir, che fè Filardo, Il suo destrier, non ben si tenne in piede, E parue pigro à rileuarsi, e tardo, Così grand' urto il buon Ditteo gli diede. Ma se di lui più Floridor gagliardo Non si dimostra, il Barbaro l' eccede; Perdono i Greci il trionfal honore, Se non è Floridor di lui migliore. Restaua à Floridor l' ultima proua Contra costui ch' ogn' altro in terra stese, E ben credean de la vittoria noua I Barbari portar nel lor paese. Già Floridoro, à cui nel petto gioua, Quella fiamma ond' Amor tanto l' accese, La lancia tolta in sù la coscia hauea, E contra Sfidamarte il fren volgea. Ben parue in atto, a i gesti, al mouimento Superbo, al graue, heroico, e fier sembiante, Esser il fior de gli altri, e d' ardimento, Gire, e di forza à tutti gli altri inante. Come vso fosse de le volte cento Mila in tal gioco, altier si fece inante; E nel vscir tal mena il destrier vampo, Che par che tenga ei sol tutto quel campo. Grande, è il vantaggio suo, ch' oltra il valore, C' hà per natura, Amor gli accresce lena, E di più sotto hà sì buon corridore, Ch' un' altro tal porria trouarsi à pena: Sfidamarte, ch' ancor non sente Amore, E ch' à vn debil destrier preme la schena Altier vien à incontrarlo, & à la penna Dè lo scudo al garzon rompe l' antenna. Da Floridor fù colto ne l' elmetto Il Barbaro, che lui non hauea mosso, E s' urtaro i destrier petto con petto, E in guisa ne restò ciascun percosso, Che quel di Sfidamarte fù costretto A rouinar col suo signor adosso, Il qual di tale incontro hebbe più sdegno, Che s' hauesse perduto il proprio regno. Per la graue percossa anco il cauallo Di Floridor misse le groppe in terra, Ma pose al rileuar poco interuallo Tosto ch' à i fianchi hebbe l' usata guerra. Smarì ciascun di Sfidamarte il fallo; Marauiglia, e timor ciascuno afferra. Hor à la giostra il Re d' Arabia venne, C' hà la fenice, e anch' ei cader conuenne. Vinto costui, ch' era di bianco, e d' oro Ornato, e nome Lucidalbo hauia, L' un doppo l' altro assalse Floridoro Il Re di Media, e quel di Tartaria. Norando il primo hà per impresa vn Toro, L' altro vna Lince, e nomasi Anachia, La lancia Floridoro in resta pone, E l' uno, e l' altro abbatte de l' arcione. Doppo questi il garzon getta sul prato Il Re d' Ircania, e quei di Susiana Il primo, ch' Androcaspe è nominato, Vna Tigre crudel disegna, e spiana; Frangileo, che fù l' altro, hauea arrecato Vn' huom seluaggio in mezo vna fontana. Già il candido guerrier tutta la gente Vincitor de la giostra auguria, e sente. Ma il barbarico stuol che non intende, Che Floridor rimanga vincitore, Tosto altre lancie vna per vno prende, E rimonta ciascun sul corridore. Floridor non si perde, anzi s' accende In maggior ardimento, e in più vigore; Vrta il cauallo, e Miricelso coglie, Che primo venne, e del destrier lo toglie. Riuier scaualca, il Re di Persia abbatte, Che superbo l' incontra, e se gli oppone, Vrta Marcan, percote Brandilatte, E l' uno, e l' altro fà restar pedone. Il Cauallier più candido, che latte In soma vinse tutte le persone; Per l' allegrezza all' hor suona ogni tromba, E 'l grido de le genti al Ciel rimbomba. Gioisce il Rè, s' allegra Celsidea, Tutto il popolo ride, ogn' un ne gode, Che dal suo canto la vittoria hauea, Et à l' incontro il Barbaro si rode. Ma perche 'l nome altier non si sapea Del vincitor, non se gli può dar lode, Pur con quei nomi honorano il suo merto, Che dar si ponno à vn Cauallier incerto. Tosto inuitar per publico trombetta Fà l' alto Re l' Illustre vincitore, Perche 'l ricco thesor, ch' à lui s' aspetta Vol presente ciascun dare al suo honore. Anzi vol, che l' eccelsa giouenetta Lo dia per gratia al Cauallier maggiore, E comanda à ciascun de la gran corte, Ch' accompagni il guerrier famoso, e forte. Da i più illustri signori accompagnato Fù l' alto Cauallier non conosciuto, E si fù al Re Cleardo apresentato, Dinanzi à cui venne tremante, e muto. Quel magnanimo Re sel pone à lato, E vol, che sia da ciaschedun veduto, L' honora, l' accarezza, e gli dà loda, E cosi ognun lo riuerisce, e loda. O Re se conoscesti il Caualliero, Che tanto essalti, e sopra ogn' altro honori, Non sò se così caro al tuo pensiero Saria, com' hor, che 'l suo bel nome ignori? Anzi saria; ma se sapesti il vero De suoi nouelli à te non grati amori, Perche sei troppo altier, troppo superbo, Gli saresti nimico empio, & acerbo. Eran concorsi in numero infinito Duchi, Principi, Re, Conti, e Marchesi Ne la gran sala, oue al Reale inuito Sono co i Greci i Barbari cortesi. Iui Marcane, el Re di Persia ardito, Son con Riuier, con tutto il resto ascesi; Eccetto Sfidamarte che per sdegno, Allhora allhora vscì del Greco Regno. Fatta la dolce, e debita accoglienza Trà quella, e questa egregia alta persona, Floridor trema a la real presenza, E confuso non parla, e non ragiona. Non vede l' hora mai di far partenza, E d' acquistar la trionfal corona, E tuttavia si stà raccolto, e muto Per timor di non esser conosciuto. Stupisce il Re, ciascun si marauiglia, Che non dia il Cauallier la voce fuora, E se ne duol trà se la regia figlia, Che dentro più che fuor gia 'l pregia, e honora Il Rè lo prega à discoprir le ciglia E 'l nome à dir, che fia celebre ogn' hora. Vol ch' àl' altezza sua tal fauor faccia, Ch' esso lo veggia, e tutti gli altri in faccia. Gli altri signori instauano Filardo, Che si cauasse homai l' elmo di testa, E che fesse palese al Re Cleardo La loro altera, e gloriosa gesta. Il buon Ditteo non fù à risponder tardo A più d' un, che l' astringe, e lo molesta; Sapea finger benissimo: e mentire La voce, e i gesti, onde comincia dire. Serenissimo Re, noi siam fratelli Di Tanafrè gran Principe de Sciti, Nè per esser maligni, empi, e ribelli, Dal nostro almo terren semo partiti; Ma 'l grido de tuoi fatti illustri, e belli Ci hà tratti à tempo à i tuoi famosi liti, Doue, s' hoggi mostrato habbiam valore, Vogliam, che 'l tutto ceda à tuo fauore. Piaque al nostro signor nel partir nostro Questo statuto, e questa legge darci, Che mentre noi starem nel regno vostro Non douessimo mai l' arme spogliarci. Dunque se 'l sangue hò con la patria mostro, Non ti doler se non vogliam mostrarci, Che giustitia, e ragion non può patire, Che dobbiam si gran Re disobedire. Ne t' ammirar signor se 'l fratel mio, Che detto è Biancador, non ti fauella, Perche fiero accidente, iniquo, e rio Gli hà tolto la pronuntia, e la fauella. E per gradir più auanti al tuo desio Me Calindrano al tuo seruigio appella, Che sarò pronto à gli mandati tuoi Non men, che siam questi honorati heroi. Le honeste scuse il Re, ch' era prudente, Finse accettar con volto accorto, e lieto, E con l' essempio suo tutta la gente Rimase col pensier tranquillo, e cheto, Sol la regia fanciulla arder si sente Di contrario voler nel suo secreto, Nè il cor può far dal gran desir leggiero, C' hà di veder quel muto Caualliero. Di cento vaghi gioueni presenti, Che stanno à contemplar la sua bellezza, Ella non cura, e sol tien gli occhi intenti Nel Cauallier, che tanto ammira, e prezza. Se non son l' altre parti diferenti, (Dicea trà se) se 'l viso ha tal vaghezza, Qual l' aspetto dimostra, non è al mondo Vn Cauallier più bello, e più giocondo. Felice chì veder l' alto valore Potè di lui, che dianzi ogni altro oppresse; Ma più felice poi chi lo splendore Del suo volto diuin mirar potesse, Cosi và riuolgendo per il core Vn pensier, & vn' altro, che successe; Non sà qual che sia amor, nè sà dar nome Al nouo affetto, & arde, e non sà come. Rozza la verginella à i duri affanni D' Amor dà loco, e trà sè langue, e pena, E non intende in così teneri anni, Ch' Amor sia quel, che l' arde, e l' incatena; Ma vede ben, che de suoi dolci danni Saria rimedio, e di sua dolce pena, Se potesse mirar l' amato obbietto; Ma l' impedisce il verginal rispetto. S' accorse Floridor, ch' era mirato Con molta affettion da la sua Dea, E trà se dice. O Floridor beato, Se per tal ti tenesse Celsidea, E non per quel, c' hà finto, e imaginato Il Cauallier de l' Isola Dittea. Beato tu, s' ella sapesse il vero, E non fusse il suo cor ver te più fiero. In questo il Re con gratiose ciglia, Per non mancar d' alcun suo debito atto, Dolce ricorda à la diletta figlia, Che 'l Cauallier da lei sia sattisfatto. Diuenne più, che rosa ella vermiglia; Abbassò gli occhi, e riuerente in atto, In premio de l' altissima vittoria Diede al guerrier la meritata gloria. Diè, ma fù quel suo dar di tal valore. Che più gli tolse assai, che non gli diede; La corona gli diè, gli tolse il core; Strano cambio, e senza opra alta mercede. Ahi, che trà quelle gemme è ascoso Amore, Qual trà fior Serpe, e 'l misero nol vede, Per ricordarli poi col don felice La dolce auara sua condonatrice. Di quella bella man d' ostro, e di neue Troppo fù grato al Caualliero il dono, E mentre accorto il gran fauor riceue, Le offre con cenni ognihor la vita in dono. Fatta la cerimonia, che si deue, Il Cauallier che può dar fuora il suono, Chiede licentia al Re, che di negarla Già non ardisce, ond' in tal modo parla. Famosi Cauallier, che nel mio lido Venuti siete, e col valor, che mostro Hauete al mondo, oue fia eterno il grido, Conseruaste l' honor del Regno nostro; Mi duol di non poter nel proprio nido Pagar in parte il gran merito vostro Sol del vostro partir m' incresce, e duole. Ch' effetti vsar vorrei, non dir parole. E se debito alcun di gentilezza In generoso cuor ritroua loco, Vi prego à restar quì, doue s' apprezza Virtù, e valor più, ch' in ogn' altro loco; E con gaudio commune, e contentezza, Sarete i primi heroi di questo loco, Nè manco haurete quì gratia, e fauore, C' habbiate appresso il vostro Imperatore. De le cortese offerte il buon Ditteo Gratie infinite al Re Cleardo rese, E di lasciar disposto il campo Acheo Conferma il detto suo tutto cortese. Con Algier se ne duole Apollideo, Duolsene ognun che la partita intese; Ma Celsidea di cor tanto sospira, Che la madre ver lei le luci gira. Per vietar ogni scandalo occorente, Che del troppo tardar nascer potria Filardo all' hor si parte incontinente, E quasi Floridor per forza inuia. O quanto è graue à vn amator ardente Lasciar colei, che tanto ama, e desia. Credo che Floridor per quel partire Fusse vicino all' vltimo martire. Scendon le scale, e lascian mesti tutti Della partenza lor quei gran signori, E fingendo voler gli ondosi flutti Solcar girano al porto i corridori; Di nouo poi ne la città ridutti Spogliarsi l' armi, e i candidi colori; Ne fù chì comprendesse il lor ritorno, Ch' era già sera, e alcun non gia più attorno. Nel lor comodo albergo si raccoglie L' Illustre Greco, e 'l Cretico garzone, E vi ricchiudon l' armi, e quelle spoglie, Che potean farli noti à le persone. Orsil di preparar cura si toglie La cena à Floridor e al suo patrone. Orsil che di Filardo era seruente, Fido, secreto, accorto, e diligente. Ma satio Floridor troppo, e suogliato Da l' assiduo pensier, che lo molesta, Non può cibo gustar, che gli sia grato, E con la faccia stà languida, e mesta. Si finge tutto stanco, e trauagliato, Tutta la vita hauer lacera, e pesta, Nè vol, che 'l seruo sappia il suo concetto Per più d' vn ragioneuole rispetto. Tra lor conchiusa in breue spacio d' hora La poco grata, e solitaria cena, L' acceso Floridor, ch' adhora adhora Nel cuor si sente augumentar la pena, Col raggio di Proserpina esce fuora, Doue il desio troppo sfrenato il mena, E al palaggio tornò, mà già m' aueggio, Che pieno è il foglio onde posar mi deggio.

IL FINE DEL DECIMO CANTO.



Floridoro à spiar la regal cena Và di nascosto, e 'l Fato il piè gli inuia Nè la camera amata. Ei la sua pena Scriue, e per lo balcon scende, e và via. Celsidea troua il foglio, e duolse, e pena. L' vn Perse vccide l' altro. Hà literia Floridor con Marcan. Del Perse morto Danno à Cleardo i Rè Barbari il torto.



Qval vigor, e possanza alberghi, e regni Ne la virtù, ch' in gentil petto siede, A mille proue, à mille chiari segni, In mille occasion s' è visto, e vede. La forza di costei gli odij, e gli sdegni Spegne, e in suo loco accende amore, e fede La virtù non pur placa, e spegne l' ira, Mà l' huom da molte iniquità retira. Sforzisi ogn' huom de hauer qualche virtute, Che à loco, e tempo, in qualche modo, e via Esser non può, che questa non l' aiute, Che qualche ben, qualch' vtil non gli dia. Sua forza spesso trahe di seruitute L' huomo, e pregion gli schiua, e morte ria, E de gli antichi, e de i moderni tempi Addur potrei mille di questo essempi. La virtù ben disposta in vn soggetto Rende il suo possessor chiaro, e gentile, E l' huom, che l' ama, e se n' adorna il petto Non si può dir (sia chì si voglia) vile, Nè può da pouertade essere stretto. Chì di virtù segue il lodato stile, Che sia d' arme, ò scientia, premiato Da più d' vn spirto vien cortese, e grato. Ma non è da pigliarsi marauiglia, Ch' à l' huom tal dia costei gratia, e fauore, Che di man caua altrui la robba, e piglia Gran premij, ò per dottrina, o per valore; Se del Re Greco à la superba figlia Può la virtù cauar del petto il core, Di quel possente giouene in persona, Che vinta hauea la giostra, e la corona. Lasciaiue il giouinetto valoroso Poco di tanta sua vittoria altero; Che dopò vn breue spatio di riposo Lasciato hauea Filardo, e lo scudiero. E spinto da lo stimolo amoroso, Ch' entrar fà l' huomo in ogni caso fiero, Verso il real palagio i passi volse, Nè fuor, che 'l brando altra armatura tolse. Tra la turba de' serui entra infinita, Che dal felice albergo hor scende, hor sale, E senza alcun pensier de la sua vita Ardisce di montar le regie scale. Fortuna, che gli audaci spesso aita, Gli fù così propitia, e liberale, Ch' alcun non gli diè mente, alcun non disse, Chì sei? ne pur cercò donde venisse. Solicito ciascun studia, & attende Quell' offitio à fornir, che gli fù imposto, Nè cura di cercar l' altrui facende, Per essequir le sue quanto più tosto. Ne la regia cucina il foco splende Col diuerso animale altesso, e arosto, E le grate viuande in copia fanno Di quante sorti imaginar si sanno. Ne la splendida sala aurea, lucente De l' allumata cera in ogni canto La festa si facea solennemente Frà le donne, e i guerrier, c' honoro, e canto. Il cauto Floridor celatamente Si pone al buio, el popol tutto quanto Potea veder, nè esser d' alcun veduto, Non che raffigurato, e conosciuto. A prima giunta il Re di Persia vede, Che la regia fanciulla al ballo inuita, E lei cortese alzarsi da la sede, A la sua man la man barbara vnita. Mouer la scorge hor l' vno, hor l' altro piede Con gratia, e leggiadria tanto spedita, Ch' in vn medesmo tempo Amor l' assale, El punge gelosia cruda, e mortale. La danza à coppia à coppia era guidata Con lungo filo à passo graue, e lento, Felice occasion, commoda, e grata Di scoprir à gli amanti il lor tormento. Chì la sua Dea pietosamente guata; Chì le chiede mercè con muto accento; Tutto quel regio albergo è festa, e gioco, Ogni gaudio, ogni ben regna in quel loco. Era ne la stagion, che si rinoua Di Bacco il soauissimo liquore, E che 'l pesco maturo il gusto approua Col pomo più durabile, e migliore. E 'l Sol lontan da la vindemia noua Cresce à le notti, e à i giorni abbreuia l' hore, Tempo che di cenar s' hà per costume Di notte à lo splendor del cereo lume. Poi che in tanta allegrezza, e in piacer tanti Si consumò gran parte de la sera, Le tauole fur poste, oue di quanti Cibi si pon bramar gran copia v' era. Le cetere, e le lire consonanti Da humiliar ogni anima più fiera; Col canto dolce più che di Sirena Accompagnar la sontuosa cena. Nè vi mancaro illustri, alti poeti, Che di felice, e ben purgato ingegno, Versi accordando al suon leggiadri, e lieti, Laudaro ogni guerrier famoso, e degno. Nè celebraro men come discreti Gli esterni Heroi, che quei del Greco regno; Nè men lor piacque alzar sopra le stelle La virtù de le Donne ornate, e belle. Concesso hauea per somma gratia immensa A i Cauallier de le diuerse arene, Che sedessero insieme ad vna mensa Con le vergini Greche il Re di Athene. Quì (come il Fato à suo piacer dispensa Gratie,) tal loco il Re di Persia tiene, Che sedea in contra al suo lasciuo sguardo La bellissima figlia di Cleardo. Era de l' amor suo quel Re sì acceso, Ch' adhor adhor trahea caldi sospiri, E, fatto impaciente, il petto offeso Scopre col guardo i suoi noui martiri. La mira, la vagheggia, e stà sospeso, Acciò ch' ella comprenda i suoi desiri; Si rende hor tutto ghiaccio, hor tutto foco, Nè può cibo gustar molto, ne poco. Floridor, che nascosto il tutto mira, Amor lo strugge, e inuidia lo diuora, Lo afflige Amor, l' infiamma, e lo martira Per la beltà, che tutto il mondo adora, Gli accende il petto à la vendetta, e à l' ira La gelosia, che l' ange, e che l' accora, Nè può patir di veder posto à fronte A la sua cara Donna il Re Acreonte. Numeraua i sospir, contaua i sguardi, Che troppo spessi à lei quel Re porgea, E come hauesse al cor pungenti dardi Geloso, e impaciente si rodea. Tal' hor, (se ben non è) gli par che 'l guardi, Che l' ami, e 'l fauorischi Celsidea, Ne può la bella Donna alzar i lumi, Ch' ei non ne prenda affanno, e si consumi. E vinto da la rabbia finalmente, Ond' il misero cor languendo ferue, Si vol partire acceleratamente, Ma la memoria oppressa non gli serue; Che al buio entra in vn adito, oue sente Gran mormorio di paggi, e di conserue, E per fuggirlo à man sinistra cala, E s' allontana in tutto da la scala. Confuso se ne và di quella in questa Camera tardi il giouane pentito, E ben si duol, che mai venne à la festa Senza, ch' alcun gli hauesse fatto inuito. Se fia scoperto perderà la testa, Fia come ladro, e malfattor punito, Che v' è la legge, e vien di vita sciolto Chì ne le stantie altrui di notte è colto. Come 'l cupido amante al piè permette, Che troppo audace ingombri il terzo loco, Gli fere gli occhi vn lume, che reflette Dal quarto al terzo, el fà temer non poco; Teme che vi sia gente, onde non mette Più inanzi il passo, oue risplende il foco, Ma la fedel orecchia à l' vscio tende Per ascoltar, s' alcun parlare intende. Come l' attenta orecchia al senso apporta, Ch' à suo giuditio iui non è persona, E che sà l' alma senza dubbio accorta, Che dentro alcun non parla, e non ragiona; Fatta la man più ardita apre la porta, (Benche pian piano) e 'l guardo intorno dona E vede vna real camera ornata, Da vna splendida gemma illuminata. La stanza d' vna egregia architettura Ben compartita è vgual per ogni faccia, D' ostro vestite hà le superbe mura, Che la cornice d' or cinge, & abbraccia. Nel mezo vna bellissima figura Giace sul fregio à la gran porta in faccia, E stà con sì mirabil prospettiua, Ch' à tutti par natural forma, e viua. L' imagine di donna illustre, e rara, Anzi di vaga, e ben ornata Dea, La bionda testa hà di più gemme chiara, Oue vn carbonchio à par d' vn torcio ardea. Tosto il giuditio à Floridor dicchiara, Che vergine sì degna è Celsidea, Onde comincia à prendere speranza, Che questa sia di Celsidea la stanza. Di ciò ringratia in parte i Dei celesti, In parte teme alta vergogna, e scorno, Ch' in quella stanza non è ben, che resti, E non sà come indietro far ritorno. Varij pensieri hor consolati, hor mesti Fan nel cor giouenil duro soggiorno, Di lei non s' assicura, e d' ogn' vn teme E pon sol nel morir l' vltima speme. Mentre sospeso stà gli vien veduto Vn calamar co' l foglio, e con la penna; Lo scriuer loda, indi ne fà rifiuto, Ch' alto timor questo pensier dippenna; Si risolue nel fin di non star muto; Amore al cor noua speranza impenna; Prende la dura piùma, indi la tinge Ne l' atro inchiostro, è cosi il foglio pinge. Io vinsi il Mondo, e da vna sola fui Legato, e preso; e non men d' esser godo Vinto di lei, che vincitor d' altrui, Nè d' impresa miglior mi vanto, e lodo. Beato, e felicissimo colui, Che degno fia del marital suo nodo, Non pur s' huom fia quantunq; illustre, e degno, Ma Nume, e Dio del sempiterno Regno. Per questa via pensò l' occulta fiamma Il timido garzon render palese, E pregò Amor, ch' in lei destasse dramma Del foco, ond' el suo petto arse, & accese. Conchiuso in breue spacio l' epigramma, Sopra quel, che più importa à pensar prese; Comincia à imaginar qual via s' eleggia, Come fuggir, come saluar si deggia. Dopò vario discorso gli souenne, Che 'l meglio fia giù del balcon calarsi; Che più sicura, e miglior strada tenne, Che 'l tornar per tanti vsci à inuiluparsi. Dunque non si trouando al volar penne, A vn canape pensò d' accomodarsi; Fortuna, ch' aiutarlo si propose, Vn canape in quel punto in man gli pose. Prende la fune, e ben legata stretta La raccomanda à l' asse del balcone, E di calar ben più, che può s' affretta, Che già gli par che vengano persone. Ambe le pugna à quella attacca, e in fretta Giù per la corda il suo mortal deppone, Nè prima la lasciò l' accorta mano, Che la punta del pie toccasse il piano. Com' egli è in terra, in vn giardino adorno Di Frutti, e fior si troua esser disceso, Lucea la luna, che parea di giorno, Sì ch' ancor teme esser veduto, e preso. Onde cheto si posa à far soggiorno Trà spesse piante in grembo à i fior disteso, Aspettando, che lasci il Cielo oscuro Cinthia per vscir poi quindi sicuro. La prima cosa, che li vien in mente (Perche maggior pensier non lo premea) È colei di cui tanto hà il cor ardente, La bella Principessa Celsidea; A cui sempre vorebbe star presente, Poi del Re ricordandosi, c' hauea Del suo medesmo ardor sì acceso il petto, Tutto arrabbia di sdegno, e di dispetto. In tanto Celsidea, c' hà in mente fiso Di Biancador l' aspetto, e i bei sembianti, Sì ch' à sanarli il cor punto, e conquiso Poco valean le feste, e i piacer tanti; Poi che fù spesa in danze, in gioco, e in riso Più di meza la notte, e in soni, e in canti, Ver la camera sua drizzò le piante, Oue pur dianzi stato era il suo amante. Afflitta, e mal contenta si raccolse, Quiui la figlia inamorata, e bella, E dentro sol per suo seruitio tolse Carinta vna fedel sua damigella, E mentre i vestimenti si disciolse Di varie cose ragionò con ella, Forse per iscemar del mesto core L' ardor, che sempre in lei crescea maggiore. Mentre i passati giuochi replicando Si scioglie ella le perle, e le corone. E 'l bel collo, e 'l bel crin và disornando, E tutti gli ornamenti suoi ripone, A caso quella carta vien mirando, Onde il suo foco Floridor li espone, L' oscuro enigma, che 'l garzon già scrisse, In cui l' occulta sua fiamma descrisse. La piglia in man, la legge, e tutta resta Confusa, e 'l cor gli trema, e la persona; Sente, che quella carta manifesta Vn grande amor, senza nomar persona. Legge, e rilegge al fin troua, che questa Vien da colui che vinse la corona; Da quel che vinse il di la giostra altera, E n' hebbe il pregio poi da lei la sera. Quel gentil Cauallier la cui virtute Riceuè con tal forza essa nel core, Che per caso non fia, che 'l pensier mute, C' hà di seruirlo, e di portargli amore. Lette c' hà ben le note apperte, e mute, Interpretato ben tutto il tenore, Vn piacer pien di tema, e marauiglia Il suo dubbio pensier circonda, e piglia. Marauiglia, e timor le ingombra il petto, Che non sà come ei quì l' habbia arreccata; Il tempo breue non le dà sospetto, Ch' ad alcun seruo in man l' habbia fidata; Perch' insieme con lei stette à diletto Quel dì, e la sera tutta la brigata; Donne, e donzelle, e paggi tutto il giorno Presso, ò lontan le fur sempre d' intorno. Ma sia come si voglia ella è si vinta, Et hà di tant' ardor l' anima accesa, Che nel viso guardandola Carinta Tutta s' ammira, e trema, e stà suspesa Ben che sia Celsidea tutta discinta Di gir al letto le rincresce, e pesa, Ma pur per forza à riposar si getta Per non farsi à la serua più sospetta. Carinta nel serar (com' ogni sera Solea) i balcon trouò la fune auolta, Onde già Floridor calato s' era E senza motto far l' hebbe disciolta, E fù la diligente cameriera Di schiuarle cagion vergogna molta, Che ne venia (s' altri vedea 'l legame) A torto Celsidea tenuta infame. La misera licentia la seruente, Ch' in vna sua anticamera dormia, E poi ch' è sola, e alcun non vede, o sente Apre a' sospiri, e al lagrimar la via. Colei che sì felice, e sì ridente Fù dianzi hor mesta, e piena è d' angonia, Colei che non sapea ciò che dolore Fusse, hor tutta è dolor; colpa d' Amore. Come vago augellin, ch' in aria sciolto Con libere ale vn tempo volato habbia, Che quando men credea si troua inuolto Ne i tesi inganni, e ne l' angusta gabbia; In van s' aggira, e duolsi d' esser colto, In van di sù di giù salta, & arrabbia; Col dolce canto in van lamentar s' ode, E il cauto vccellator nè ride, e gode. Così l' innamorata verginella, Che già le voglie hauea libere, e liete, E vissa era molti anni altera, e bella, Fin che non arse d' amorosa sete; Hora s' affligge indarno, si martella, Che non si può discioglier da la rete; In darno si lamenta, in darno stride, E Amor, che l' hà in pregion, di lei si ride. Sopra tutte le cose la tormenta, Che 'l Cauallier ne sia sì tosto gito; Che se è ver che per lei tal pena senta Come del Re non accettò l' inuito? Come esser può, c' huom di lasciar consenta L' amato ben, quando può starui vnito? Doueua ei procurar di starle à lato E non partirsi essendone pregato. Sapess' io almen (dicea) doue ito sei Di me teco ben mio portando il core, Ch' in qualche modo intender ti farei, Com' è trà noi reciproco l' ardore. Forse che timor hai, ch' i pensier miei Non faccin conto alcun del tuo valore, E non pensando, ch' io t' apprezzi, e ammiri Da me lontano lagrimi, e sospiri. Ah Biancador gagliardo, e valoroso, Che non pur vinti hai tanti incliti Heroi, Ma 'l mio cor, che non sente vnqua riposo, Da che ascondesti i bei sembianti tuoi. Deh perche mi ti sei sì presto ascoso? Che fretta era la tua di lasciar noi? È segno, che l' amante è poco ardente, Quando può star dala sua donna absente. O Dei per qual mio error nefando, e tristo Questa punition da voi mi viene, Ch' io m' affliga per vn, che non hò visto? E ch' io proui nel cor si dure pene? Lassa costui, per cui tanto m' attristo, Forse mai più non tornerà in Attene; E lagrimo, e sospiro in pene, e in guai Nè forse son per riuederlo mai. Ma non promette questo il caldo affetto, E l' accorta maniera, ond' ei mi scriue, In guisa ei mostra d' essermi soggetto, Ch' è mio douunque stà, douunque viue. Forse per qualche suo degno rispetto De la sua vista hà le mie luci priue; Forse da noi partì contra sua voglia, E tornerà anco vn dì, quando il Ciel voglia. Queste, & altre ragion la bella figlia Trà sè discorre, e si conforta vn poco, Poi sì fà di sè stessa marauiglia Com' habbia dato à pensier vani loco, E fà la guancia hor palida, hor vermiglia, Secondo che l' assale ò ghiaccio, ò foco. Il ghiaccio del timor la rende essangue, Ma vergogna, & amor le accende il sangue. Mentre così trà se pensa, e ragiona, E veghiando sospira, e piange in vano; E al lume del carbonchio Amor la sprona A tuor quel scritto mille volte in mano; Improuiso romor la stanza introna Che le par nel giardin poco lontano; Sente ferri sonar, gridar persone, Onde timida s' alza, e và al balcone. Era à l' occaso in quel gita la luna, E tutto era il giardin tenebre, & ombra, La fanciulla si pone à l' aria bruna, E paura infinita il cor lo ingombra. Ma in breue più non sente cosa alcuna, E lo strepito, el grido intorno sgombra, Talche senza saper ciò, che si fosse, Tutta pensosa in letto ritornosse. La cagion di quel strepito, ch' vdio La bella figlia nel giardin, sù questa; Giaceua Floridor tra i fior, com' io Dissi, con quel pensier, che 'l cor gl' infesta. E del nouo amoroso suo desio Pensando, hor l' alma hauea gioiosa, hor mesta, Intanto ode chì parla, e chì risponde Con basso mormorio trà quelle fronde. Vno dicea; qual più felice stato Del nostro imaginarsi alcun potria? Qual' huom fia più di me lieto, e beato S' io posso far la bella donna mia? Il dolce viso suo benigno, e grato Mi promette dolcezza, e cortesia; L' aria soaue, el bel sereno ciglio Mi dà speme, fauor, gratia, e consiglio. Deh signor mio, quell' altro gli rispose, Guardi ben vostra altezza oue si pone, Le donne son gentili, & amorose, E si mostran ben grate à le persone, Ma quando lor si chieggion quelle cose, Che 'l donarle d' infamia è lor cagione Ciascuna è sì contraria, e sì nimica, Che si perde in vn punto ogni fatica. Nè credo mai, che tanto alta donzella Di macchiar l' honor suo fusse contenta; Anzi temo io come sagliate à quella Sì che vi veggia, ò almen, ch' ella vi senta; Alzera sì la voce empia e ribella, Che la famiglia ancor non sonnolenta Trarà à quel grido, e per menarla à noi Nè potreste restar per sempre voi. Con quella riuerentia, e quel rispetto Che deue il seruo al suo signor hauere, Io v' auertisco il periglioso effetto, Che può seguirne, e faccio il mio douere. Ben conosco fratel, l ' honesto affetto, (Quel primo replico,) ti fà temere, Ma fin ad hor di te prendo stupore, C' habbi sì poco ardir, sì basso core. Non dubitar, non fia tal gita in vano, Ch' io son de l' amor suo più che sicuro, Pur se sarà 'l destin tanto villano, Che mi serbi la morte entro à quel muro; Che contra il rio sicario armi la mano Ti prego, ti comando, e ti scongiuro; Fà del tuo gran fratel vendetta degna, S' in te giusta pietà, se valor regna. Promette quei, così d' accordo vanno Per corre il fior de le fanciulle adorne; E vna scala di lin, ch' arrecat' hanno, Attaccano à vna pertica bicorne, E ben studia finir l' ordito inganno La coppia rea prima, che Febo aggiorne, Che forse li sarebbe anco successo, Se non, che Floridor troppo hebbe appresso. A canto al muro, à quel balcon diritto, Dou' il buon Floridor scese pur prima, In terra il legno hauean piantato, e fitto, El vn s' accosta, oue montar fà stima; L' altro tenea la fune, el fusto ritto, Mentre salisse il suo compagno in cima, E se ne và con mente infame, e rea Per inuolar la bella Celsidea. Quando il buon Floridor l' oltraggio intende, Che di far pensa il Caualliero audace, E che conosce il danno, e che comprende Che seguir ne potria se soffre, e tace. Subitamente in man la spada prende, E grida; Ahi rio ladron, ladron rapace, Ben sei se credi in tutto e stolto, e cieco, Far questo scorno al regio sangue greco. Gli due, che l' un di Persia il signor era, E l' altro vn suo fratel detto Marcane, Empir d' ira, e stupor la mente altiera A le parole ingiuriose, e strane. E à l' improuisa voce, horrenda, e fiera, E questo, e quel da l' opra si rimane, Che Floridoro ardito come suole Lor soprauien senza più dir parole. E benche sia senz' arme al poco lume, Che gli rendea dal sommo Ciel le stelle, Di far battaglia, e vincer gli presume, E al Re di Persia intacca de la pelle, E già scorrer gli fà di sangue vn fiume Per le riche armi d' or lucenti, e belle, E perche sopra il braccio il colpo è sceso Gli fè il brando cader, c' hauea in man preso. Il feroce Marcan, ch' assalir vede Il suo fratel da chì non sà chì sia. Vn colpo à Floridor sul capo diede Che furioso incontra gli venia. Ma Floridor, che 'l suo pensier preuede Oppone il brando à la percossa ria, Sì, che quando col suo l' altro percosse Lo spezzò in due come di legno fosse. E la punta di balzo venne à corre Il Re di Persia, e 'l fè d' un occhio cieco. Floridor non s' indugia vn colpo à sciorre Sopra il fiero Marcan, che la vol seco. In tanto il Re và la sua spada à torre, E và di dietro al valoroso greco, E con tutta l' angoscia, che ne sente Mena vn colpo terribile, e possente. Pensò troncargli il collo, e ben seguito Saria senza alcun dubbio il rio pensiero, Se non che 'l suo fratel, ch' era stordito Dal colpo, c' hauea hauuto horrendo, e fiero, Trà ch' era poco lume, e hauea smarito La conoscenza, il buon giudicio intiero, Proprio in quel punto in fallo il fratel colse Per Floridor, ch' egli al garzon si volse. Con quella spada rotta à meza fronte Lo fere sì, che 'l parte insino al mento, E così l' infelice Re Acreonte Per man del suo fratel rimase spento, Credendo hauer ben vendicato l' onte Dice Marcane à Floridor contento; Dissi ben io Signor, che 'l tempo, el loco Non fan per noi troppo sicuro il gioco. Vn picciol foco è morto, e vn via maggiore Suscitar ne potria da queste mura, Leuianci via di quà per Dio Signore, Ch' un' altra volta haurem miglior ventura. Floridor, che comprende il grande errore Del Cauallier, che cerca à far sicura Al fratel quella vita che gli hà tolta. Senza parlar con gran pietà l' ascolta. Ben pensa, che sia fuor de l' intelletto, Non conoscendo il Re di vita fuora, Che pur sapea, c' hauea lo scudo al petto, E de l' altre arme era coperto ancora. E che egli in testa non vi tien elmetto, Nè altro schermo hà da la spada in fuora. Ma poi, ch' in tanto error sommerso il vede, Dietro gli moue taciturno il piede. Giunsero in breue ad vna porta angusta, Che rispondea sù la strada maestra, La qual fù (perche frale era, e vetusta) A l' entrar, e à l' uscir facile, e destra. Era già più, che mai bella, e venusta La candida Alba apparsa à la fenestra, Quando Marcan ne l' esser suo tornato Scorse, che Floridor non era armato. A prima giunta prese marauiglia, Come non fosse d' arme il Rè guarnito; E poi meglio afisando in lui le ciglia, Scorse vn volto sì bello e sì polito, Che mentre l' intelletto rassotiglia, Comprende il caso; e nè diuien smarito; E più che và volgendo per la mente, Stà per morir tanto dolor ne sente. E perche gli parea, che Floridoro Era stato cagion di sì mal opra, Che minacciando hauea assaliti loro, E con la spada era lor corso sopra; Qual cruda Tigre, ò qual feroce Toro, La forte branca, o 'l duro corno adopra, Tal sopra Floridor la spada mena Per isfogar là sua grauosa pena. Ah, disse Floridor, non ti ricorda, Ciò che viuendo il tuo fratel ti disse; Quando à tuoi detti fè l' orecchia sorda, Sperando ch' ad effetto il pensier gisse; Che s' auenia, per colpa de l' ingorda Sua volontà, ch' à morte ne venisse, Non cessaresti, che pietoso, e forte A l' uccisor di lui daresti morte. Dunque se stato sei tù quell' istesso, Che la misera vita gli hai leuata, Ben dritto fia se tè gli vccidi appresso, Acciò che l' ombra sua resti placata, Nè dar la colpà à me del rio successo, Che la vostra pazzia caggion n' è stata. Pur quando brami hauer meco battaglia Eccomi, ancor che senza piastra e maglia. Non sperar perch' io sia solo, e senz' arme, Che di sì vile impresa habbia spauento. Non potria tutto 'l Mondo spauentarme, Nè tutto 'l mondo à tè dare ardimento; Mà spero ben, che potro tosto armarme Di queste tue, che son nere, e d' argento, E se non ti fei pria noto il tuo errore Fù per pietà di te non per timore. Era tanto Marcan di rabbia acceso Che non gli par, nè vol che dica il vero, Et haueua à due mani il brando preso Per menargli d' un colpo horrendo, e fiero, Hor mentre Floridor si tien difeso, Ecco lor sopragiunge vn Caualliero, Che disfidò Marcane, e minacciollo; E à Floridor pose vno scudo al collo. Quando conosce il timido Marcane, Che contra due non potrà far contesa, Da la battaglia subito rimane, E crede nel fuggir la sua difesa. Il Cauallier ch' era sì come il cane Dietro à l' odor venuto à quella impresa, Poscia che fù l' empio Marcan discosto A Floridor sì die à conoscer tosto. Il sauio Celidante, che pensiero Hauea di Floridor, come di figlio, Hauendo auiso, che 'l garzon altiero Posto era in vn grandissimo periglio, Guidò Filardo suo per quel sentiero A dargli aiuto, e glie ne diè consiglio, E lo scudo gli diè, perche gli el desse, Acciò dal rio Marcan si difendesse. Si trasse l' elmo, e gli fè chiaro, e piano Così, ch' egli era il suo fedele amico, Che tutta notte il và cercando in vano, Sin che trouollo à fronte col nemico. Come vn anno sian stati, ò più lontano Quella festa si fer ch' io non vi dico, E s' andaro à posar, ch' era homai giorno, E la gente veggiaua, e andaua attorno. Venuto il di fù ritrouato morto Il Rè di Persia perfido assassino, E tosto fù chi fè di questo accorto Cleardo, ch' in persona andò al giardino. Spiacque il caso à ciascun quando fù scorto, Mà via più à i Rè del barbaro domino; Duolsi ogn' un di Cleardo, & ei l' intende, E di giusto furor l' animo accende. E più li duol, che sia trouato presso Al muro oue la figlia si raccolse, Che la cagion à lei di tal successo Forse qualche maligno imputar volse. Ella quando ch' intese il graue eccesso, Le increbbe molto, e molto le ne dolse, Non perche hauesse al Rè di Persia amore, Mà per gran gelosia, c' hà del suo honore. Il giusto Rè, che tutta Grecia honora, De l' innocentia sua fà chiara fede Benche fuor d' ogni dubbio il loco, e l' hore Fà ch' à suo modo ogn' un fauella, e crede. In tanto fu portato il morto fuora, Sì come il Rè Cleardo ordine diede; Publicamente in piazza fù condutto, E 'l popol corse à lo spettacol tutto. Cleardo assiso essamina ciascuno De la sua corte, e chiama hor questo hor quello, Per poter, se trouasse inditio alcuno, Al malfattor donar pena, e flagello, Ecco in questo apparir Marcan di bruno Armato, sopra vn gran caual morello. E poi ch' al fratel morto fù presente Così parlò ver la Cecropia gente. Tu Rè, che miri il mio gran frate morto, E voi perfide Achee genti villane, Poi che da voi m' è stato vcciso à torto; Poi che nel campo Acheo spento rimane, Sappiate pur, ch' un dì di sì gran torto Vendicar mi vorrò, ch' io son Marcane: E la Persia, onde fian vostre arme spinte, Voi mirerà, poi che sarete estinte. Al fin de le parole il destrier punse, E saltò fuor del cerchio, c' hauea intorno, Nè di spronar cessò, ch' al porto giunse, Et entrò in naue in quel medesmo giorno. Resta Cleardo, à cui l' alma compunse Ira, e dolor di così fatto scorno, Pur, però che prudente era, e discreto, Ritenne il volto saldo, e 'l ciglio lieto. E comando, ch' in ricca sepoltura Fusse deposto il Re priuo di vita A serui suoi che preser tosto cura, Che la sua volontà fosse adempita. E cosi lo portar fuor de le mura; E ordinò il Rè, che seco sepelita. Ne fosse ogni memoria, e chi di quello Parlasse più, s' hauesse per ribello. Gli altri signori, e Cauallieri strani, Che 'l giorno inanzi stati erano in festa, E c' hoggi, amando il Re di Persiani, L' accompagnar con pompa atra, e funesta, Biasmando l' empie, e scelerate mani, Ch' offeso hauean così honorata testa, E satij de piacer del Greco Regno D' ire à le patrie lor feron disegno. E furon questi, il Principe d' Egitto, Che Miricelso detto era per nome, E Brandilatte, il cui valor inuito Gli fè di Siria incoronar le chiome. Il superbo African giura, ch' afflitto Farà Cleardo, e le sue forze dome, E d' aiutar Marcan fà sagramento, A cui fù morto il frate à tradimento. Il Re di Tartaria fè similmente Poco del Re Cleardo satisfatto, E minacciollo, che 'l faria dolente, E che gli haurebbe il cor del petto tratto. Ch' era stato cagion secretamente, Che fù sì nobil Re morto, e disfatto E tanto più gl' incresce la sua morte, Quanto ch' era fratel de la consorte. L' alto Cleardo, à cui nè Ciel, nè terra Potria metter terror molto, nè poco Sprezza in secreto, e in publico tal guerra, Che minaccia à la Grecia, e ferro, e foco. Con tutto ciò d' assicurar la terra Non manco al gran bisogno à tempo, e à loco Ma di lui più non dico, hor che m' aspetta Ne l' Isola Silano di Circetta. Dissi di lui, c' hauendo vn paradiso Trouato à sorte in quella opaca cella, S' era à la mensa con Clarido assiso, In compagnia de la giouane bella, Doue frà suono, e canto, e giuoco, e riso L' udito appaga, il gusto, e la fauella; Ma pur con tutto ciò non vede l' hora, Che possa vscir di quell' albergo fuora. Non sò Signor; se vi e di mente vscito, Perche cagion Silano si partisse Da l' antic' Alba, ancor che transferito Fusse dal Tempo à l' Isola d' Vlisse. Amor fù che 'l leuò del proprio sito Per la beltà, che 'l petto gli traffisse. La fama della bella Celsidea Mosso à pigliar questo camin l' hauea. Ma Fortuna à desir nostri nemica Contra sua voglia in Itaca il condusse, Doue trouò la vergine pudica, Che l' uno, e l' altro al lieto prandio indusse. In tutto replicar faria fatica, Nè ciò accadea, che ricordato fusse; Basta ch' io son tornata al chiuso loco, Doue 'l lasciai con la donzella in gioco. Parea Circetta in quell' età nouella, Ch' è più disposta à l' amoroso strale, Et vna faccia hauea gioconda, e bella, Vn aspetto dignissimo, e reale; Ma la facondia, c' ha ne la fauella, Ben si dimostra à la paterna eguale; Hauea vn parlar sì dolce, e sì giocondo, Ch' à l' età sua poche hebbe pari al mondo. Ma con tutta la gratia, e la bellezza, Onde sì largo il Ciel ver lei si rese, Il Cauallier Silan poco l' apprezza, Che d' altro foco hauea le voglie accese. Pur non le vol negar quella dolcezza Che vien da vn giouenil guardo cortese, La mira la vagheggia, e con ingegno Le mostra ogn' hor qualch' amoroso segno. La giouane s' allegra nel pensiero, Ma finge fuor di non s' accorger punto, Che sì leggiadro, e nobil Caualliero Fusse de l' amor suo traffitto, e punto. Ahi falso Amor, come souente il vero Nascondi, e mostri vn petto arso, e consunto, Fai che tal ama, e alcun mai non gli crede, Altri poi finge, e se gli presta fede. Finito il desinar splendido, e magno, Che lungo fù, non fer molta tardanza Il Principe d' Italia, el suo compagno, Mà ritornaro à rimirar la stanza. Doue senza d' artefice guadogno Fù già intagliata, e fuor di nostra vsanza In aspro, e lucidissimo diamante La nobil gente ch' io vi dissi inante. Non si può satiar di contemplarla Del Rè Latin la stupesatta prole, E giureria, che quel ragiona, e parla, E questo tace, e ascolta le parole. Mà chì l' alto saper, c' hebbe à ritrarla La figlia incomparabile del Sole, Mi presterà si che narrarne parte Hoggi à voi possa in così basse carte? E le grandezze esprimere, e gli honori, Che seguir poi nel secolo futuro D' una illustre fanciulla, i cui splendori Da la gran Maga antiueduti furo? E con che straci vscir con che dolori Vn parto sì per fetto, e sì maturo Douea nel colmo de l' horribil guerra, Che fè di sangue human correr la terra. Tu sacro Cinthio, à cui la bionda chioma Corona il casto e sempre verde alloro; Tu che mirasti à quell' antica Roma, Che già 'l Tartaro vinse, il Turco, e 'l Moro, E c' hebbe di trofei sì ricca soma. D' honorati trionfi, e di thesoro, Ben sai, ch' à dir di lei fù vile impresa A paragon d' una miglior, c' hò presa. Però di sì leggiadro, alto concetto, Oue si perde ogni più ardito ingegno, Scopri l' alte eccellentie al mio intelletto, Et apri il Varco à stil più raro, e degno; Poi che ne l' altro canto il più perfetto Miracolo del Mondo à spiegar vegno; Pur che sia grato à l' alma patria mia, Ch' à suoi gran pregi alto principio dia.

IL FINE DEL CANTO VNDECIMO.



Narra Circetta à i Cauallier latini L' imprese di VENETIA illustri, e rare. Com' ella i fondamenti suoi diuini Douea locar (come poi fe) nel Mare. De i terrestri trionfi, e de i marini, Di mille honor, di mille palme chiare Gli fà capaci, e nel fatato muro Lor fà ogni gesto suo veder futuro.



Chi prouò mai sì auuenturosa sorte, O ne la nostra, ò ne l' antiqua etade, Da i liti Iberi à le Caucasee porte, O da l' ardenti à l' humide contrade; Che potesse trar vita da la morte. E thesoro cauar di pouertade, Di guerra pace, e gran piacer di duolo, E d' infiniti petti vn voler solo? Fortunata Città; tù sola il Cielo Hauesti al nascer tuo largo, e cortese, E di tai priuilegi ornasti il velo, Che scordò il Mondo le passate offese. Anzi sforzato fù (se 'l ver non celo) A benedir le sanguinose imprese De l' immanissimo Atila, ch' à foco, E à ferro pose Italia in ogni loco. Distrusse tutte l' altre, e fè vna sola Sorger Città de le reliquie sparse, Per cui la mesta Italia si consola, E ne godon le terre, e le mur' arse. Vita costei de l' altrui morte inuola, De l' altrui pouertà splendida apparse. Questo con tutto ciò, ch' à lei s' aspetta, Vol riferire à i Cauallier Circetta. S' eran, com' io dicea, con l' eloquente Giouane presso, i Cauallier condotti, Doue apparean de la futura gente Le lunghe Istorie con diuersi motti; Mà di ciò, che dir voglian finalmente Non si pon far da sè medesmi dotti; Nè per legger di breui, e di scritture Possono interpretar quelle figure. Quattro quadri per faccia eran distinti Trà vna fenestra, e l' altra; e da quel lato, Nel primo appar d' huomini d' arme cinti Vn infinito essercito adunato; Parean di sangue human bagnati, e tinti Strugger il più bel loco, e 'l più pregiato, Che fusse al Mondo (ahi troppo iniqua stella) E di sopra era scritto ITALIA BELLA Stauano intenti à quell' horrendo Marte, Ch' uscir vedean di quella gente armata, La materia lodando, e insieme l' arte, Onde sì viuamente era intagliata. Quando la bella Donna à quella parte S' accosta anch' ella, e per mostrarsi grata Al suo Silan di quanto gli promise, Così l' Istoria à raccontar si mise. Fù di mia madre il principal intento, Quando mostrò sì bei ritratti espressi, Sol per far noto à noi dal fondamento D' una illustre Città gli almi successi. Di lei l' auenturato auenimento, E la gloria mostrò de suoi progressi, Poi ch' in lei fiorirà Donna col tempo, Che fia honor del suo sesso, e del suo tempo. Di questa altera, e gloriosa Donna, Preuedendo l' ingegno alto, e sottile, E come vestirà sì chiara gonna Di bei costumi, e d' ogn' atto gentile; E che fia di virtù salda colonna Sì, che null' altra à lei sarà simile; Tanto mia madre amor li pose sopra, Ch' à gloria sua fè sì mirabil opra. Et anco ciò più volontier descrisse, Poi ch' ella in sposo haurà (felice sorte) Vn' almo heroe, che da mio padre Vlisse Discenderà, di lui più saggio, e forte. Il bel nome di lei ch' à me predisse Di sì degno Signor cara consorte, BIANCA è, che rende ogn' altro oscuro, e fosco, Et ei FRANCESCO fia gran Duca Thosco.
Hor mirate quel Re superbo, e crudo, C' hà il gran flagello in loco de la spada Contra cui non varrà maglia, nè scudo A la misera Italia, che non cada; Atila nome haurà di pietà nudo, Ch' allagherà di sangue ogni contrada, E struggerà con mille infami essempi L' eccelse torri, e gli honorati Tempi. Vedete il fior de le famiglie illustri, Ch' abandonar la cara patria denno, Per viuer, se potran, più lunghi lustri; Et à fuggire hauran Fortuna, e senno. Mirate come son pronte, & industri A dar le spalle al regnator di Lenno, Benche col viso tinto di paura Mirino ancor lontan l' amate mura. Così pria, che da gli Vnni arsa, e destrutta Con le terre vicine, e le lontane Sia la Città d' Antenore costrutta De le reliquie nobili Troiane; Sì trouerà la nobiltà ridutta De le misere genti Italiane Ad habitar frà i più deserti scogli Con le sostantie lor, con le lor mogli. E veggendo sicura la marina Per li thesor, per la seruata prole, Daran principio à la città diuina, Ch' empira poi di marauiglia il Sole. O fortunata Italica ruina, Che inalzerà così superba mole, Che fia cagion di partorir nel Mondo Vn mostro sì stupendo, e sì giocondo. E ben, c' habbi a di pria ne i latij prati Raro cespo à fiorir d' alme radici, Che i figli da la lupa nutricati Vi pianteran con opportuni auspici; Non però haurà così benigni i fatti, Come questo gran germe, e i cieli amici; Il qual frondi aprirà sì ricche, e belle, Che l' orneran sì come il Ciel le Stelle. E, se ben quello insin' adhor si vanta, Che 'l capo in lui de la futura fede Resider dee, di quella fede santa, In c' hora alcun non spera, alcun non crede; Non men del Mar questa celebre pianta Si pregia, e stima, e punto non gli cede, Che mille volte fia per lei difesa Roma col Papa, e la christiana Chiesa. Questa immortal Republica non Marte, Non Gioue adorerà, non altri mille Gentili Dei, c' hor hanno in ogni parte Del Mondo sacrificij, are, e fauille; Ma solo vn DIO, di cui predetto parte Hanno le prudentissime Sibille; Che venir dee per trar d' errore il Mondo, Che cieco hor giace, e tenebroso al fondo. Di questo poi che, fia successo in terra L' alto, e miracoloso auenimento Comincierà la sopradetta guerra Anni cinquanta aggiunti à i quattrocento. E così allhor per gloria de la terra Si fonderà, nel liquido elemento L' alma Cittade al cui felice stato Eterna libertà promette il Fato. Bench' al venir di Radagasso in prima Con Gepidi in Italia, e Goti sia D' habitar questo sen l' origin prima, Che lo spauento i popoli u' inuia; Et Alarico vn' altra volta opprima Ogni cor sì, (che dopò vn tempo fia) Che per tema il terren patrio, gradito Cangia con questo Mar, con questo lito. Vedete come cresce à poco à poco, Quasi fanciulla ingenua, alma, e gentile, E par che 'l Ciel, la Terra, il Mar, e il Foco Donin fauore al suo ridente Aprile Ch' i fondamenti suoi ne l' onde han loco Miracolosamente, oltra ogni stile. Il Ciel la copre, e la sostien la Terra Non men del Mar, che la circonda, e serra. Nè questi pur, mà si lieta, e ridente A i bei principij arridera Fortuna. Che mentre in altre parti haurà la gente La sorte al suo desir contraria, e bruna, S' amplierà costei quietamente. Senza contrasto, e senza guerra alcuna, E grande aquisterà forza, e vantaggio Prima, che pensi alcun di farle oltraggio. Nè mai sì bella, e sì leggiadra forma Fù vista al Mondo, ò sù nel Ciel superno, Com' in costei, che di virtute l' orma Seguirà ognihor nel suo diuin gouerno; Tal che per lei conuien che 'l vitio dorma, Anzi che muoia, e scenda ne l' inferno. Felice dunque, e cinque volte, e sei Beato l' huom, che nascer debbe in lei. E più felice, e più beato quello, A cui l' affettion prestando ardire Depingerà con stil leggiadro, e bello Non la di lei beltà, ma 'l suo desire. Che non fia mai così diuin pennello; Che pur le sappia il manto colorire; Ond' almen dee di generoso affetto Tal nome hauer, che ne fia sempre detto. E perche di sì degna alma figura Voi ne veggiate il vero essempio espresso, Eccol di quà, non di superbe mura, Mà di Mar cinto, anzi fondato in esso. Il breue là di sopra, è la scrittura Ond' e, VENETIA, il suo bel nome impresso, E se vi fusse spatio seguirebbe, A cui l' Europa, e tutto 'l Mondo debbe. Cosi dicendo vna Città superba Addita loro in mezo 'l Mar fondata, Ch' in sè tal mestà, tal gloria serba, Che par diuinamente fabricata. In forma poi d' una Donzella acerba Nel terzo quadro à studio era intagliata, Ch' à guisa di Regina eccelsa, e diua Siede, & hà in man la pretiosa oliua. Da l' un de lati vna fanciulla bionda Le porge riuerente vna corona, E specchiandosi in lei tutta gioconda D' un' altra sè medesima incorona; Indi vna giouenetta rubiconda Di lieta palma vn ramuscel le dona. Et vn di verde allor da l' altro lato Le dà vn garzon di ricche spoglie ornato. Vn' altro bel fanciul, pur da quel canto, Hà trà le labbia vna sonora tromba, E par che tanto suoni, e suoni tanto, Che tutto l' uniuerso nè rimbomba. La Damigella instrutta de l' incanto, Disse; costei ch' à guisa di colomba Porta l' oliuo glorioso, e sacro E' di Venetia bella il simulacro. La nobil giouanetta, che l' ammira, E di ricca corona ornar la vuole È detta gloria; e questa, che rimira Più fiso in lei, che l' Aquila nel Sole, E mentre gli occhi al suo bel viso gira Le dà la palma, onde l' honora, e cole; Vittoria è nominata; e fia ben degna De l' una, e l' altra gloriosa insegna. Quel leggiadro fanciul, che le offerisce Il lauro d' immortal pregio dotato, E 'l Trionfo diuin, che comparisce, Di sì superbi, e ricchi manti ornato. L' altro, che per contrario, non patisce Di vestir drappo, e mostra il dorso alato, E porge fiato à l' instrumento arguto, Da tutti per la Fama è conosciuto. Già parendole hauer detto à bastanza Circetta all' altro spatio si volgea, Quando chiese Silan con molta instanza Ciò che vn Leon significar volea. Significa l' estrema sua possanza, Diss' ella. E il Liocorno? ei soggiungea, Ed' ella à lui, sua castità cred' io, Che accennar voglia: e poi così seguio. Poni pur mente à questa vltima parte, A si bella vnion d' incliti Heroi, Che seguiran chì Pallade, e chì Marte; Parlo de quei, che fian Prencipi suoi. De' quai se tutti i nomi io vò contarte Temo, che 'l mio parlar troppo t' annoi, Ben' alcun ne verrò così nomando, Mentre i fatti di lei verrò contando. Fioriran questi ingegni pellegrini, Come tù sentirai, d' età, in etade, E con gesti mirabili, e diuini Conserueran la patria in libertade; Mentre fuori allargando i lor confini Giustitia manterran nella Cittade. Di tempo in tempo hauendo instituiti Ordini, leggi, magistrati, e riti. E ben che sian nel Vatican famoso Varij i parer de' varij Senatori, Ch' al ben commune, al commodo, al riposo Concorreran ne gli alti concistori Fia nondimen quel sol vittorioso (Non per auttorità, non per fauori) Che dal sacro, e giustissimo Senato Fia come l' oro al parangon prouato. E di sì chiare, e gloriose squadre De' Padri, Figli, e Prencipi di questa Non sarà Figlio, Prencipe, nè Padre, Nè porterà si ricco corno in testa. Chì d' esser degno di tal Figlia, e Madre Non mostrerà per proua manifesta, Tenendo i merti suoi proportione Con l' alto seggio di quel gran Leone. Quiui si può veder, come fia eletto Prima da quattro, e poi da quarant' vno, Ed in che guisa il suo candido affetto, E 'l libero voler spenda ciascuno. D' ottantasei n' è qui vn drappello eletto, Che l' vn succede all' altro, e l' altro à l' vno. Che tanti fien, sò senza, che gli conte Da Paulo Lucio, à Nicolò da Ponte. I successori lor mia madre hauria Scolpiti ancor, ma ad escusar la vegno. Che pien fù il quadro, e più non vi capia, Onde non potè 'l suo seguir disegno. E così ragionando tuttauia Sì ritrouaro al fin del quarto segno; La donna allhor, che compiacer li volse A la seconda faccia gli raccolse. Visto dice ella i fondamenti strani D' vna eterna, diuina alma cittade, Ben dritt' è ancor, ch' in questa parte io spiani L' alte sue imprese in più matura etade; Perche quì fian veduti i Venetiani Spogliar le toghe, e accingere le spade, E diuenir in terra, e' n mar si forti, Che fian terror de più superbi porti. Ma perche cerco ogn' hor d' esser più breue, Ch' io possa à fin, ch' à tedio il dir non vegna, Et perche ne' primi anni ella non deue Impresa far de vostri orecchi degna; Comminciarò dal tempo, che riceue Il primo Duce la pregiata insegna; Tanto più ch' anco Circe, hauendo sculto, Da questi in poi, lasciò il principio occulto. Quando, nel tempo, di sua etate acerbo Le ancor diuise, e picciole Isolette, Ch' vn dominio verran poi sì superbo, Fian da Tribuni amministrate, e rette; Che scorreran da l' incarnar del verbo Sei cent' anni oltre nontasette. E vinticinque manco di trecento Dal di lei memorabil nascimento. Hora volgete à questa gente il guardo, Ch' insieme parla, e fà amicitia, e lega, E l' vn, e l' altro Prencipe Lombardo, Che col Duce primier s' accorda, e lega. Ecco vn tempo dapoi, che lo stendardo Sotto altro Duce ella in lor danno spiega, E del sommo Pontefice ad instanza Gli fà vscir di Rauenna, e mutar stanza. Lascierà poi Venetia il principato, Con speranza d' hauer miglior Fortuna, Et crierà nouello magistrato, Sotto di cui non veggio impresa alcuna; Ma poco poi parendogli à lo stato Più la cura de Prencipi opportuna, Ritorna al Duce, e al tempo che 'l domino Terrà Obelerio in Mar vince Pipino. Sotto i Participatij (ch' in Rialto L' vn dopò l' altro i primi honori ottiene) Vince il Friuli, e dal Moresco assalto Và quì à difender le Sicane arene, Poscia, ottenendo il Gradenico l' alto Seggio, Narenta in cruda guerra tiene. Quì contra i Saracin spiega l' insegna, E nè riporta vna vittoria degna. Qui si prende Comacchio; i Narentani Son quei colà, cui tocca à star di sotto. Quello è Piero Tribun, da le cui mani L' essercito de gli Vngheri fia rotto. Nè men vinto à temer de' Venetiani E' Berengario Imperador condotto. Quei luoghi d' Istria son presi da loro, Che Barri aiuteran poi contra il Moro. L' Orseolo; quel, che di tal nome fia Secondo; star fà la Dalmatia al segno. L' altro è 'l figliolo, e ben conuien, che sia Giouane saggio, e di maturo ingegno, Poi ch' è dal Rè stimato d' Vngheria De gli Himenei de la sua figlia degno. Vedete quì, ch' egli racquista Grado Mentre de la sua patria ha 'l maggior grado. Vedete il Contarini huomo gagliardo Rifar pur Grado al Patriarca tolta, E tornar sotto il Veneto stendardo Zara, che s' era al Coruatin riuolta. Vedete in Puglia poi vinto Guiscardo Da lui, che la sua gente in fuga volta, Et essaltar sì di Venetia il grido, Che nè fia piena ogni sponda, ogni lido. Onde l' Imperador Greco per moglie Al successor di lui dà la sorella. Quiui il Faletro ottiene alle sue voglie Le città di Dalmatia, e le castella. Ecco l' armata il Michael discioglie, E manda in Asia il suo figliuol con ella, Che presso Rodi venirà alle mani, E venti due galee torrà à Pisani. E vincitor con fama eterna, e chiara Di Smirna, e in Puglia di Brindici fia. Ecco vn' altro Faletro, che prepara L' armata per andarsene in Soria. Ecco ritorna à obedientia Zara Datasi à Caloman Rè di Ongaria. Del sangue Padouan rosse le glebe Farà poi con suo honor presso le Bebe. Nel secondo quadrato à preghi giusti Mosso del Papa, ecco spiegar le vele, E liberarne Ioppe da gli ingiusti Turchi assediata. Vn' altro Michaele. Qui prendè Tiro, e mette à passi angusti Con le sue forze il popolo infidele; Hauendo quella al Patriarca data Della città, che santa fia chiamata. E Rodi hauendo, e Metelin riuolte A la deuotion del suo bel regno, Con Andro, Samo, e Scio, con altre molte Si mostrerà di tanto Impero degno. Questo e 'l genero poi, c' hà l' arme tolte Contra Pisani, e rompe il lor disegno; Riceue Fano sotto il gran Leone, E i Padouani vince, e 'n fuga pone. Ecco che dà soccorso à Emanuello Contra Ruggier di Puglia all' hor signore, E racquista Corcira, e 'n gran flagello Pon la Sicilia co 'l suo gran valore. Vedete il Moresin successo à quello Derei Corsali opprimere il furore, E mossa à Pola, & à Parenzo guerra, Tributarie le fà de la sua Terra. Sotto costui verran gli Anconitani, Già fatti amici, del Dominio in lega; E non pur quei, mà 'l Re de Siciliani Fà con Venetia pace, e si collega. Ecco il Michael terzo, ch' i Pisani Vecchi nemici ad amicarsi piega. Il muro Tracio quà rouina, e spezza, Là di Ragusi atterra ogni fortezza. Questa naual battaglia, oue si vede L' onda di sangue horribilmente rossa, Doue la troppo audace Aquila cede Al gran Leon, che l' hà vinta, e percossa, Sarà trà Venetiani, e trà l' herede De l' empio Federico Barbarossa, Che scaccierà di Roma il Papa giusto, E ne fia preso il suo figliuol Augusto. Ecco che torna, e mena Otton con esso Il gran Ziani, e le vittrici schiere, E 'l santo Padre allegro del successo L' abbraccia quì come si può vedere. Ecco ch' in dito vn' annel d' or gli hà messo Co 'l qual gli dà ragion di possedere Del Mar l' Imperio, e vol dà indi in poi, Che sia soggetto à successori suoi. Questo è l' Imperador poi, che discende Doue sicuro il gran Vicario regna, Perche l' amor paterno il cor gli accende A seguitar la vincitrice insegna; E così humiliato se gli rende, Che 'l santo piè baciar non si di sdegna; Et Alessandro all' hor conculca, e preme L' altera testa, onde sospira, e freme. Nel terzo spatio ecco mirate quante Vele di nouo in alto mar spiegate Son dal Leon Catholico in leuante Per racquistar Hierusalem mandate. E da lor presa è Tolemaida, e tante Gente del Saladin rotte, e spezzate; Quì Pola, e Zara hauendo rihauuto, Si fanno à Triestin pagar tributo. Vedete la città di Costantino Presa da loro, e l' Isola Dithea, E co 'l Peloponnesso al lor domino Ogni scoglio ridur de l' onda Egea; E non pur quei, ma quanti hà 'l mar vicino Di Creta, e insieme l' Isola d' Eubea. E i Padouani ancora, e i Genouesi Vinti da loro, e molti altri paesi. Ecco, che sotto il Thiepolo è soccorsa Candia, all' hor da Pirati molestata. Ecco, per torle vn graue assedio, scorsa Sin' à Costantinopoli l' armata. Ecco Fortuna, che sua rota inforsa, Come l' hà sotto il gran Leon fermata, Che mille, e più vittorie, e paci, e tregue Di tempo in tempo, e mille honor consegue. Ecco che à preghi di Gregorio santo Sopra la Puglia andran queste galere, (Le douete com' io conoscer tanto Al ritratto Leon ne le bandiere.) Queste, che son di numero altre tanto, Van contra Federico alle riuiere Di Genoa, che per lor sì racconsola, Zara à Venetia ricourando, e Pola. Mirate vn' altra impresa assai maggiore Contra Ezzelin di Padua all' hor Tiranno, Del cui furor fia d' Atila minore L' vsata crudeltà, men graue il danno. Per che quei mostrerà rabbia, e furore Contra nimici, e gli porrà in affanno. Ma questo à proprij suoi, con infinita Pena, torrà l' honor, l' oro, e la vita. Però dal gran Pontefice ammonito Vedete quì, dou' io v' addito, e mostro, Che dal Senato è 'l Moresin spedito Per trar dal mondo vn sì nefando mostro. E vedetelo al fin di stral ferito Mandar lo spirto di Pluton nel Chiostro: E Padoa, sciolta da sì graue incarco, Respirar sotto il protettor san Marco. Mirate vltimamente i Genouesi Esser pur dal Leon perseguitati, E vinti quei di Fano, e i Felsinesi; E gli Istri à sua deuotion tornati. E da lui Pera di là à pochi mesi Presa, e disfatta, & con più legni armati Assalir Greci, e trarne con molt' oro Quindeci mille, e più pregion di loro. Vedete quì, che si farà signore Di Spalatro, Tragurio, e Sebenico, E che difende il muro di Antenore Dal signor di Verona suo nemico. Ecco, che manda al Papa ambasciatore Per trattar contra il Turco emulo antico, E che 'l Re di Boemia ad dotto in lega Co' i Principi d' Italia vnisce, e lega. Ecco nel fin dopò molti litigi Tra 'l Veronese, e 'l Veneto domino, Ch' ei Castel Baldo acquisterà, e Triuigi, E si farà la pace con Mastino. Così la Donna, che scopria i vestigi Materni, e hauea lo spirto alto, e diuino, Narra à Guerrier la profetia fatale D' vna santa Republica immortale. Spiegato hauea de la seconda faccia I maneggi importanti, e di gran pondo. Onde si vede, che Venetia abbraccia Impresa vniuersal con tutto il mondo, E che 'l più de le volte hebbe bonaccia Nè mai d' alcun puot' esser messa al fondo. Gratie che nè gli Assiri, nè i Romani, Nè gli Afri hebbon, nè i Persi, nè i Spartani. E scorto, che 'l magnanimo Silano Non era d' ascoltar satio, nè stanco, L' vn, e l' altro di lor prese per mano, E girò ver l' occaso il suo bel fianco. E disse. De l' Imperio Venetiano Hò detto nulla à quel, c' hò da dir anco. Di questa bella patria hò detto poco, Rispetto à ciò, che resta in questo loco. I Cauallier vaghi d' vdir il resto, Drizzano al suo parlar la mente, e i rai, Ch' vdir maggior miracolo di questo Non han speranza in alcun tempo mai. Ella con lieto, e gratioso gesto Ritroua accenti più leggiadri, e gai, Come quella, che sà tutti i successi, Ch' eran nel muro adamantino impressi. Mirate il gran Pontefice Clemente, Che all' hor fia con Venetia collegato, A danni della fera d' Oriente, E di Boemia il Re da vn' altro lato Per far il Duca di Milan dolente; Et ecco sopra Genoua il Senato Mandar più legni in quel medesimo anno, E farle giustamente oltraggio, e danno. Vedete poi, che l' alto Re, ch' affrena L' Isola de la madre di Cupido, Viene à veder quella famosa arena, Che spargerà sì glorioso grido, Onde di feste, e d' allegrezze piena Si vede esser la gente, e 'l mar, e 'l lido, Et accettar con cor lieto e benigno Il Duca d' Austria, e 'l nobil Rè Ciprigno. Ecco, reggendo il buon Cornelio Creta, Che si ribella, e poi ritorna al segno; E che Trieste il Contarino acheta. Sotto il fauor del suo potente Regno. E che resa Antenorea humile, e cheta, Patteggia, co 'l Leon famoso, e degno. E Clodia, c' haue altrui volto il pensiero, Ritorna ancor sotto il medesmo Impero. Contemplate il Venier Prencipe giusto Che fà punir per sue male opre vn figlio, Quel per far danno al Carrarese ingiusto (Che sprezza ancor del suo Leon l' artiglio) Ferrara vnisce all' animal robusto, E Milan seco, e fà abbassargli il ciglio; Quì fanno pace; e quel, che là si vede E il Duca d' Austria, che à Venetia riede. E non pur quel, ma 'l gran nipote scende Del Re di Francia, e viensen da Parigi, Che d' infinito gaudio i cori accende, Sendo spenti di Marte i gran litigi. Però feste mirabili, e stupende Fansi in honor de l' aurea Fior deligi Come veder si ponno vltimamente In questo primo quadro espressamente. Di quà si vede, che Vicenza dassi Con Feltre, con Belluno, e con Bassano Al gran Dominio, il qual accorta i passi Al Signor Veronese, e al Paduano. Onde Verona, e Padoa acquister assi, Che contra lui terran con Genua mano. Poi le terre da l' Vngara si vede Redur nel Foro iulio alla sua fede. Ecco, tenendo il Foscari l' insegna, Il Fiorentin con questa patria vnito, Perche 'l Visconte à penitenza vegna, Che di far pace al fin prende partito; E con quel patto à Veneti consegna Rauenna, e Brescia. Indi al famoso lito Federico secondo se ne viene, Poi che dal Papa incoronarsi ottiene. Le bandiere spiegate al vento fresco, Che portan pur la generosa fiera, Manda Venetia quì contra Francesco Sforza Duca in Milan per la Mogiera, Poi con l' Imperio accordasi Turchesco; Indi sotto l' insegna Malipiera Vedete quì la pace con la copia Vnite star, come in lor casa propia. Ma poco poi, sendo già assunto il Moro Al maggior grado, vn' altra lite appare Tra 'l feroce Leone, e i Serpi d' oro, Che quì à Trieste ancor dara che fare; Manda ei nella Morea quì contra loro Per terra il Malatesta, e lì per Mare. Scioglie l' armata il Giustignan gagliardo, E dona Sparta al Veneto stendardo. Ecco poi che per lor fia stabilito Nel suo Ducato il buon Ercol da Este, Et ecco il Re di Persia à questi vnito Per abbassar le serpentine creste. Segue dopo i l' acquisto alto, e gradito, Ch' all' hor faran quelle famose teste, Della soaue, e bella Isola nido Della Dea delle Gratie, e di Cupido. Mostra quest' altro spacio, che 'l Marcello Terrà quell' alto, e sopra humano seggio, Sotto di cui daran pena, e flagello All' Ottoman, come descritto veggio. Ecco quì la vittoria, ecco il drappello, Onde i Macometani hauranno il peggio. Vedete come altero, e trionfante Torna da Scodra à queste riue sante. Scorgete sotto il Vendramin, che Troia Da l' empie man si salua in Albania; Qui 'l successor, c' hà poi tal guerra à noia Fà pace co 'l signor della Turchia. Coritta acquista, indi Ferrara anoia, Quì sopra il Re Ferrando il campo inuia; Ferrando Re de le piaceuol mura, Che fur de la Sirena sepultura. Questo; ch' è il Barbarico, il qual succede Al buon fratel; fà guerra con Gismondo D' Austria, per le minere, onde procede Il più fero metal, c' hoggi sia al mondo. Sotto lui caua il Re de Francia il piede D' Italia, e da lor rotto, e posto è al fondo. E cacciato costui si rende, e dona Con altre terre al gran Leon Cremona. Nell' altro quadro è manifesto, e piano Di Cambraì la memorabil Lega. Vedete qui l' Imperador Romano Co 'l Re di Francia, e quel di Spagna in Lega. Nè il Ferrarese vi starà lontano, Ma col Duca di Mantoa, anch' ei si lega, Perche l' Imperio sol da Dio difeso Resti per sempre oppresso, e vilipeso. Ma non potrà la forza, e la possanza, Che mostrerà tutta l' Europa insieme Sì, che non vaglia in lui più la speranza, Ch' egli haurà nelle gratie alte, e supreme. Per cui tanta difesa ancor gli auanza, Che ripararsi può, ch' altri no 'l preme. E squarcia l' vnion, scherne i furori, E torna più, che mai ne primi honori. Vedete come in breue, e facilmente Và racquistando le perdute terre, E per molti anni poi felicemeute Vieta la strada all' odiose guerre. Tal che per lei fià chiuso longamente Di Giano il tempio, e non fia chì il dissere. E molti Ducifian, de cui non dico, Sin' al Venier d' ogni bontade amico. Quest' honorato Principe la pace Conseruerà delle felici arene. Al suo tempo ogni vitio estinto giace, Fiorisce ogni virtù, regna ogni bene. Tal ch' à la fama, che 'l suo pregio face L' alta Regina di Polonia viene; Al suo felice, e glorioso grido Eccola scesa al fortunato lido. E poi quì non si vede altra figura, Che l' vltima è costei, però la lasso, Et per narrar de la città ventura Vn' altra impresa, à l' altro lato io passo. De la qual fortunata, alta auentura Molto direi, se non che troppo lasso Ciascun di voi già deue esser d' vdirmi, Onde con breuità voglio espedirmi. Ma pria ch' io dia principio à noui carmi, E narri il fatto eccelso, e glorioso, Voglio de la stanchezza riposarmi, E voi meco signor trarre à riposo. Con questo torse il piè da i sacri marmi, Nè sò se à lor fù ciò grato, ò noioso. Basta; ò di voglia, ò contra il lor desiro; A la cortese giouane obediro. Ella ad vna fenestra gli ritira, Che guarda le campagne d' Occidente, Doue vn fresco, vn odor zefiro spira Che ristoraua ogni affannata mente. Confetto in tanto, e vin soaue mira Portar Silano in coppe d' or lucente Da le donzelle di Circetta astute, Che sin' all' hor non s' eran più vedute. E così cominciaro à rinfrescarsi Con ragionar delle predette cose, E più dubbi i guerrier vennero à trarsi Che tutti accortamente ella gli espose. Ma mentre, ch' essi stanno à ricrearsi Ben dritt' è ancor, ch' alquanto io mi ripose. E somministri forze al mio intelletto, C' hà da narrar così importante effetto.

IL FINE DEL DVODECIMO CANTO.



Seguono i duo guerrier l' istoria incisa Di contemplar ne i quadri di diamante. In Armenia altri duo van con Gracisa Oue Artemita assedia Risamante. De la battaglia ria l' Alfier diuisa Lor la cagion. Prende il guerriero amante L' alta sorella di Biondaura ei crede, Ch' ella Biondaura sia, quando la vede.



Cinge con ricco, & pretioso fregio Giudicioso artefice tal' hora Vil pietra sì, che piace, e monta in pregio, Mercè de i smalti, ond' ei l' orna, e colora. Così risplende d' vn valor egregio Veste, se dotta man l' inostra, e indora, La qual è per se stessa, e rozza, e vile Ma i ricami la fan bella, e gentile. Et io di sì bei fili adorno, e tesso La tela mia, c' hà in sè rozzo ordimento, Che ben può parer bella, e star appresso Qualunque altra si sia d' oro, e d' argento. Mentre raccolgo in lei chiaro, & espresso De la mia bella patria ogni ornamento, E tutte le sue glorie altere, e belle, Di cui la fama ascende oltra le stelle. De l' alte imprese sue, del suo splendore Rendo quest' opra mia vaga, e pomposa; Ma qual trà belle gemme ha 'l primo honore La margarita, e qual trà fior la rosa; Come l' or trà metalli hà più valore, Tal sopra ogni altra eccelsa, e gloriosa E la vittoria, e fortunata à pieno, Che conseguì nel salso Ambraccio seno. De la qual ragionar volea Circetta, Quando per pigliar fiato i passi volse, E i Cauallieri à la fenestra detta Seco ridusse, e ristorar gli volse. Ma poi che fer ritorno, oue gli aletta La tralasciata historia, i labri sciolse, E stendendo la man candida, e bella, Mostra gli essempi, e poi così fauella. Mirate quante genti iui raccolte, Che gran cose trattar mostrano insieme; Il Senato è de Veneti, che molte Minaccie intende, e di nissuna teme. Questo, che parlar sembra, e che l' ascolte Ciascun (ch' à tutti il caso importa, e preme) Il Mocenico fia Prencipe degno D' alta eloquentia, e di profondo ingegno. Appar dapoi, che la Romana sede, E Filippo di Spagna in fauor piega Le forze sue de la Christiana fede, E con quei padri al fin s' accorda, e lega; E contra il forte Re, ch' in lei non crede, Conchiudon quì la fortunata lega. Hor mirate di quà de i porti vscite L' armate de Christiani insieme vnite. Guerra crudel per certa occasione Tra 'l signor Turco, e i Venetiani nata, Di por col tempo in Mar sarà cagione Così superba, e valorosa armata. Hor quiui ecco apparir contra il Leone, Contra la Croce, e l' Aquila ben nata Pertaù general', che inanzi fasse Con la potente sua Turchesca classe. Di quà, di là preparasi la gente, Scorte l' arme contrarie esser vicine, E pregano il lor Dio deuotamente, Che la vittoria dal suo canto inchine. Quei' per vn Regno hauer ricco, e potente Preso, e condotto à l' vltime ruine Somma speranza à la battaglia alletta, Patria, e religion questi altri affretta. Al felice mattin ridente, e vago Il Sol con noui rai la testa bionda Sporgerà fuor del mar forse presago Che la sorte i Christiani haurà seconda. Già quei de l' Adria, e quei vicini al Tago Solcano inanzi, e quei del Latio l' onda. Stanno i Dei, stanno i pesci, e i lidi intenti, Il Ciel, la terra, e tutti gli elementi. In questo terzo spacio è poi distinto Lo auicinar de le contrarie schiere, Epiro è da quel canto, iui è Corinto, Quì la Morea, ma non si pon vedere. Questo è l' Ambraccio sen di sangue tinto, Che renderà vermiglie le Riuiere, E questo è proprio il Mar (se 'l ver mi mostra La profetia) che cinge Itaca nostra. Quinci, e quindi ondeggiando à l' aria vanno Le varie insegne con varia fortuna, Queste de Turchi son, che dentro il panno Portan depinta vna scemata Luna; Le chiaui con la mitra arreccheranno Questi, che 'l Papa à l' alta impresa aduna, Venetia hà 'l suo Leon ne la bandiera, Hà il Principe Spagnol l' Aquila altera. Poco più in là mirate il fiero assalto, Vedete l' affrontar, che fanno insieme; Mandan l' arteglierie la nebbia in alto Di nero fumo, e il Ciel rimbomba, e geme; Cadon gli vccei sù 'l liquefatto smalto, Al fiero suono ogni cauerna freme; Apron le palle il Mar di rombo tale, Che sbalza sino al Ciel l' ondoso sale. Quel horrendo fracasso, e quel profondo Romor, che non si può discerner quiui, Quel portar via meze le naui al fondo, E in bocca à l' Orche dar gli huomeni viui. Quella ruina non più vista al mondo, Quella confusion de morti, e viui, Qual penna, ò stil sarà tanto eccellente, Che descriua, e disegni pienamente? Hor cessata la furia, e 'l grido infesto, E de l' arme fulminee il graue danno, Vedete che si abborda insieme il resto, E 'l più de le galee, ch' intere vanno. Ecco menar l' vn più, che l' altro presto I fieri brandi, e i colpi, che si danno; Tanto presso si son, che l' opre vane Son d' archibugi, e d' altre arme lontane. Ciascun con la Galea seco abbordata S' azzuffa, e quinci, e quindi, e taglia, e fora. Ecco il Venier de l' Adriana armata Capo col brando in man sopra la prora. Hà la galea contraria fracassa Con quel valor, c' haurò in memoria ogn' hora, E puossi dir con verità, che tale Virtù fia in lui via più, che d' huom mortale. Vedete, ch' vn ginocchio sanguinoso Gli fà nemico stral d' empia ferita, Nè vol con tutto ciò prender riposo, Nè ritirar la sua persona ardita; Ma più che mai gagliardo, & animoso Espone per altrui la propria vita; Riuolge francamente il petto, e 'l ciglio, Nè lo spauenta alcun mortal periglio. Ecco che giunto quì, doue quel franco Giouanni d' Austria à far gran proue attende, La galea del nemico vrta per fianco, Spezza, e fracassa, e 'l Capitano prende; E di gloria immortal s' adorna, & anco Dal proprio lato la vittoria rende, Mentre cento altri legni oppressi, e vinti Son da Christiani, e i lor contrarij estinti. Inalzano i fideli vnitamente L' amato nome di Vittoria al cielo; Et à quel grido horribil, che si sente, Scorre per l' ossa à gli Ottomani il gelo. Eccoli tutti rotti finalmente In preda à i defensori del Vangelo. Fuggir non ponno i miseri, che l' onda, E la fiamma i lor legni arde, e circonda. Più d' vn, che da l' ardor saluar si crede, Mez' arso in mar si getta, e vn poco appare; Ma in breue spacio il Mar tanto l' eccede, Ch' in foco annega, & arde ancor nel mare. Quel capitan, che de' suoi Turchi vede Parte viui abbruggiar, parte affogare, Con sessanta galee si salua quiui, Restan gli altri sommersi, arsi, e cattiui. Più d' vna naue in pezzi si profonda Con la misera turba iui adunata, Chì s' appiglia ad vn legno, acciò da l' onda La cara vita sua resti saluata, Ma poco stà, che sù l' istessa sponda Da crudel colpo gli è la man troncata; Altri le freccie, ò qual che traue vccide, Caccia altri il ferro, oue la fiamma stride. Al fin vedete dopò molti, e molti Incendij, vccision, stratij, e rapine, I soldati di Christo iui raccolti Con gli occhi al Cielo, e le ginocchia chine. A cui bagnando l' allegrezza i volti Di lagrime con mani al Ciel supine, Rendono insieme à Dio tai gratie, quali Render si pon per gli huomeni mortali. In questo vltimo spacio si comprende L' estrema gioia, ond' è Venetia oppressa, Quando le noue già sperate intende Da vn Giustinian de la vittoria espressa. Per l' immenso piacer, ch' ogni cor prende, Par che la gente sia fuor di sè stessa, E sì gran calca intorno il nuntio serra, Che no 'l lascia co' i piè toccar la terra. Vedete l' abbracciar, che fanno insieme, Lagrimando di gaudio per la via, Hor che la cara patria più non teme Del più forte signor di Pagania. De le concesse gratie, alme, e supreme Lodan ne i tempij il figlio di Maria, E in tutta la città lieti, e deuoti, Chì rende gratie à Dio, chì scioglie i voti. S' apron le porte à i pregioneri in tanta Letitia, che non pon caperla i cori; Ciascun de la vittoria altera, e santa Mostra il piacer con chiaro inditio fuori; Il Poeta diuin celebra, e canta Con dolce stil gli illustri vincitori; E, poi, ch' è in man de' Barbari Helicona, Quì cantano le Muse, e Apollo suona. Le ricche gemmè, e 'l pretiosissimo oro Con leggiadro spettacolo appar fuora; Altri scopre la seta, e i panni d' oro Con apparenza non più vista ancora. Ne' giorni, ch' vn tal ben succede toro, Se ben festa non è, non si lauora. Ciascun gli spende in giuochi, in suoni, in canti. Come sian Bacanali, ò giorni santi. Ma che dich' io? non pur l' humane genti S' empion di gaudio à la nouella vdita, Ma 'l ciel, la terra, e tutti gli elementi Senton di tanto ben gioia infinita. I freddi mesi de la bruma algenti Tornan la terra verde, e colorita, Che 'l Sol con chiaro, e temperato raggio Fà nel verno apparir l' Aprile, e 'l Maggio. E ben più renderà marauigliosa Tal nouità, che ne gli altrui confini Fia la stagion, com' esser suol, piouosa, E di frutti, e di fior priui i giardini; E fiorirà la delicata rosa, I gigli, te viole, e i gelsomini Sol in Venetia, e ne fia sol adorno Il terren fortunato à lei d intorno. Ecco il Venier, che chiaro, e trionfante, Con tal fauor, ch' esprimer non saprei, Torna à la cara patria altier di tante Degne del suo valor spoglie, e trofei. E gli và incontra à queste riue sante La nobiltà di tanti Semidei. A la sua giunta ogniun grida, e l' appella Conseruator de la sua patria bella. Poco dapoi, che 'l suo ritorno amato A doppio la città felice rende, Vedete questo giouene honorato, Che di Polonia al lito d' Adria scende. E' il successor di Francia, che chiamato Vien da quella corona, che l' attende. Al giunger suo così Venetia è lieta, Che 'l gaudio, e 'l bene in lei passa ogni meta. Vedete al fin, sendo nel Cielo assunto Il Mocenico huom d' immortal memoria, Con quanti applausi il gran Veniero è giunto Al maggior grado, à la più alta gloria. Mà poco stà, che (il suo mortal consunto) Lo spirto chiaro di sì gran vittoria, D' angeli accompagnato à Dio ne riede, E NICOLO DA PONTE gli succede. Di così degno Principe discerno, Ch' immenso fia l' honor, che sè gli debbe. Sarà del popol suo pregio, e gouerno, Con quel saper, che lungo à dir sarebbe. E se ei tal huom render potesse eterno, Beato lui, che gran ventura haurebbe, Poi che sotto il fauor di tanta insegna In lui la pace, & l' abondanza regna. Sotto sì chiaro, e glorioso Duce Ecco BIANCA Illustrissima CAPPELLA, Ad instantia di cui diè Circe in luce I sommi honor di questa patria bella. Vedi che tanto splende, e tanto luce D' ingegno, e di beltà, ch' amica stella La dona (onde via più sua gloria accresco) In moglie al Serenissimo FRANCESCO. E pregiata costei prima, che vegna Sarà, e viuendo, e dopò morte ancora, Nè credo mai, che la sua gloria spegna Il Tempo, ch' ogni cosa al fin diuora. E poi che fia per tanta Patria degna, Per stirpe, e ancor per se, com' hò detto hora, Qual è stupor se fia in moglier diletta Dal gran Duca Thoscan frà mille eletta? A la gradita auenturosa noua De le cui nozze splendide, e regali, Tanta allegrezza, e ben, Venetia proua, Che ne darà grandissimi segnali, E Fiorenza gentil tanto si troua Lieta chiudendo in se due teste tali, Che non la eccede alcun altra Cittade. O' de la nostra, ò de la loro etade. Con questo, & altro assai, ch' in honor disse Di tanta Donna, e di sì magno Duce, La giouinetta, il suo parlar prescrisse, Che già calaua in Mar Febo la luce; E pur Silan, c' hà ne la mente fisse Sì belle imprese, ancora si conduce A mirar hor da questo, hor da quel lato, Rammemorando il ragionar passato. Poi ch' iui stati fur più, ch' à bastanza I gioueni, a i conforti di Circetta, Lasciaro al fin di contemplarlta stanza, Perche la cena è in ordine, e gli aspetta. Silano con lietissima sembianza Segue douunque vol la giouanetta, Nè cessa di mirarla, e per più fido Parer finge guardarsi da Clarido. La vergine trà se loda, e ringratia Il cieco Amor, che lei fà cieca ancora, E con casta pietà mai non si satia Di rimirar quel Cauallier, ch' adora. Le par, che nel mirarla habbia tal gratia E sì le mostri il cor per gli occhi fuora; Che stima, per l' amor, che ne comprende, Gran villania, se 'l cambio non gli rende. Con queste opinion varie, e diuerse Passò la Donna, e i Cauallier la cena, E poi ciascun di loro il pie conuerse, Doue la Donna à riposar gli mena. Ma non dormiron mai; ch' in ciel disperse La notte l' alba candida, e serena, Poi che la figlia Amor fere, e trauaglia, E il dubbio i Cauallier de la battaglia. Ne manco questo à la donzella pesa, Che teme che Silan non sia di tanta Virtù, c' habbia l' honor di quella impresa, Onde conuenga poi cangiarlo in pianta, Quando ciascun, che di sì gran contesa Resta perdente, ella per forza incanta; E se ben di tal opra assai si duole, È costretta voler quel, che non vole. Pensa, e ripensa, e mai non chiude il ciglio, Qual sia la miglior strada, e 'l miglior modo, Perche salui Silan da quel periglio, Senza cangiarlo in tronco verde, e sodo. Al fin risolta per miglior consiglio Vol l' incanto ingannar con questo frodo Pensa inuisibil farlo, e vol che vada Sin' al Tempio fatal senza oprar spada. Sà me sia l' incanto, e di che sorte, Che 'l Cauallier, che di prouarlo intende, Pur che tratto non sia fuor de le porte, Il Fato in alcun modo non l' offende; Però se và, nè di lui sieno accorte L' alme, ond' il passo horribil si diffende, Pensa, senza temer di caso strano, Assicurar la forma al suo Silano. Ritornata la luce, il Sole, e 'l giorno I Cauallier di letto si leuaro, E la Donzella à lor fece ritorno, E con l' usato stil si salutaro; Ma lor, di quanto ellà pensato intorno A' i casi lor, non fà palese, e chiaro. Quei si dispongon di prouar l' incanto, Ma d' altro hor son per ragionarui alquanto. Io vò, che lasciam questi, e di lasciarli Non vi rincresca in tale stato vn tempo, Che poi verremo vn giorno anco à trouarli, E li trarem di quì forse col tempo. Hor de li due guerrier dritto è, ch' io parli, Che non credean che mai venisse il tempo D' arriuar in Armenia à quella terra, Oue patia Biondaura atroce guerra. Caualcan con Gracisa à gran giornate, (Fatto d' Europa in Asia già passaggio) E veggion più Città, più genti nate, Varie d' usanza, e varie di linguaggio. Giunser nel fine al sì famoso Eufrate, Che per l' Armenia stende il suo viaggio, Benche hoggidì l' Armenie sono due, Mà già per vna intesero ambedue. In ogni loco, o sian Città, o Castella Di quel reame, ouunque ergono il ciglio, Veggiono i Cauallieri, e la Donzella L' insegne suentolar del bianco Giglio; Che 'l tutto Risamante à la sorella Biondaura hauea già tratto de l' artiglio. E si tenean per lei tutte le terre, Ch' ella hauea debellate in quelle guerre. Tanto spinsero inanzi i lor destrieri Per la più breue via, per la più trita, Che giunsero la Donna, e i Cauallieri Al minacciato muro d' Artemìta. Da copioso essercito i sentieri Tutti occupati son di gente ardita; Per tutto son trabacche, e padiglioni. Che Cauallieri alloggiano, e pedoni. Quel giorno non haueano i terrazzani Assalto alcun per quanto si vedea. Non si scorgeua alcun menar le mani, Come ogni giorno inanzi si facea. Giunti che furo in campo i guerrier strani Con Gracisa, ch' un vel posto s' hauea, Videro vn gran duello incominciato Trà duo guerrieri in mezo vno steccato. Gli Artemitani ascesi in sù le murà Mesti contemplan la crudel battaglia, Gli esserciti di fuori à la pianura Stanno à mirar, qual di lor due più vaglia. Siedono in alto i Giudici, c' han cura De la giustitia, che le parti agguaglia; In tanto i due che fan l' horrendo Marte, A riposar si traggono in disparte. Era ciascun sudato, e sanguinoso; De' lor destrier l' un giace in terra spento, L' altro rodendo il fren rendea spumoso, Che di verde, e di bianco ha 'l guarnimento, Mà l' un guerrier non mostra di riposo Hauer bisogno, e stà con ardimento; L' altro stassi appoggiato in gran pensieri, Com' huom, che di sua impresa poco speri. La coppia de' guerrier, che venuta era Con Gracisa, accostossi ad vn Alfiero, E dimandolli con gentil maniera, Chì fosse l' uno, e l' altro Caualliero; E perche si facea la pugna fiera Lo supplicò, che lor dicesse il vero; L' Alfier sopra costor le luci fisse, E, miratoli alquanto, così disse; Quel Cauallier dal lato di Leuante; Ch' in verde scudo arreca il Giglio bianco, E' la nostra Regina Risamante, Che non ha 'l Mondo vn Cauallier più franco. L' altro, che mal per lui le venne innante; Con la bianca Colomba al lato manco, Di Babilonia è il Rè Cloridabello, Che per Biondaura fà sì gran duello. Biondaura già partecipar non volse Con la sorella sua di noi Regina Questo reame, & à sprezzar si volse Costei, ch' era lontana, e peregrina; Perche di casa vn Mago già la tolse Del Rè suo genitor sendo bambina, Il qual, morta stimando la fanciulla, A' morte venne, e non le lasciò nulla. Risamante dal Mago fù alleuata In ogni proua, & arte militare Dentro vna rocca, ch' è nel Mar fondata, Mà doue, non si sà, che non appare. Quindi (poi che benissimo informata L' hebbe de l' esser suo) la fè passare In terra ferma, e gire à la ventura Prouista di cauallo, e d' armature. Risamante à Biondaura (poi ch' uscio In libertà) la parte sua richiese; Mà la sorella al suo retto desio, Al giusto dimandar non condiscese; Talche sdegnata Risamante vnio Gran gente, e venne sopra il suo paese, E 'l tutto le hà di man tolto con scorno, Fuor che questa Città, cui siamo intorno. Ella raccolse da diuerse bande. Le genti, che vedete insieme vnite, E compose vno essercito sì grande In breuissimo spatio, e il modo vdite. Il Mago à quei portò le sue dimande, Che se le hauean proferto in questa lite, E solo in vna notte con sue arti Guidò tutte le genti in queste parti. Fù d' improuiso sì nostra venuta, Tacita sì, sì presta oltra ogni stima, Che trouammo l' Armenia sproueduta, Et la pigliammo in sù la giunta prima. Biondaura, che la noua hebbe saputa, Raccolse molta gente, e di gran stima, Ch' à la battaglia s' appicciò con noi, E sconfitti rimaser tutti i suoi. Hor la misera figlia è rifuggita Con pochi suoi fidati in questa terra, E perche mal si troua esser fornita Di vettouaglie, e munition da guerra, Hà posto di sè stessa, e d' Artemita, E di tutto l' hauer, che in lei si serra, La causa in man del Rè Cloridabello, O per saluarsi, ò per cader con ello. Questo Principe acceso già per fama De la rara bellezza di costei; E per propria virtute, e perche l' ama, Venne pur dianzi in difension di lei. Il patto è tal frà l' una, e l' altra Dama. Che se 'l Rè manda l' alma à i stigi rei, O' riman preso, perde la Cittade Biondaura, e in man de la sorella cade. Mà se per caso Risamante è quella, Che faccia fallo, e 'l Rè resti vincente, Viuendo reinuestir dè la sorella Di tutto quel reame incontinente, E dè rimouer la battaglia fella, Facendo altroue gir tutta la gente; Così, per ischiuar morti, e ruine Di genti assai, son conuenute al fine. Mà non hauea finito di dir questo Anco l' Alfier, che l' inclita guerriera, Sendole homai 'l posar troppo molesto, Ritornò ardita à la battaglia fiera. Cloridabel non fù di lei men presto, E menò vn colpo à la Donzella altiera, Mà scarso alquanto fù, che se cogliea A' pien la spalla destra le fendea. Pur ragliò di maniera, ch' uscir fenne Il sangue viuo l' arme luminosa, Risamante al gran colpo in viso venne Vermiglia più, che in sul mattin la rosa, E fù lo sdegno tal, che ne diuenne Poco men, che insensata, e furiosa; Perche se tinta è ben di sangue tutta, Non era ancor del suo macchiata, e brutta. Spinta da gran furor lo scudo getta, E con ambe le man la spada presa, Disegna far su 'l capo la vendetta Più debita à la man, che l' hauea offesa. Cloridabello alza lo scudo in fretta, Visto il colpo calar, per sua difesa; Taglia in due parti il colpo altier lo scudo, E penetra nel capo il brando crudo. Il Rè stordito cade, e 'l verde piano D' un corrente ruscel vermiglio irriga; La guerriera, c' hà 'l cor molle, & humano, Vistosi il meglio hauer di quella briga, Gli corre sopra, e con pietosa mano De l' elmo sanguinoso il capo sbriga, E dimostra à ciascun la sua vittoria Nel uolto smorto, ond' hà trionfo, e gloria. L' aer, che prese il Rè de l' elmo priuo, Qualche spirito in lui serbò di vita, Onde riuenne, e dimostrossi viuo, Mà preso in man de la Donzella ardita. Spargeua intanto vn lagrimoso riuo Biondaura, hauendo la nouella vdita Da alcuni suoi, c' hauean nel campo scorto Il suo Rèpreso, e lei giunta à mal porto. A' Risamante i Giudici donaro La palma, e l' adornar di lauree fronde; Si tolse ella l' elmetto, e mostrò chiaro Il suo bel viso, e le sue chiome bionde. Mà come il Rè prigion, che sente amaro Duol per Biondaura, e dentro si confonde, Costei mirò tanto simile ad ella, Pensò che fusse la sua Donna bella. Non è questo, dicea, l' amato volto, Che mi stampò nel cor la man d' Amore? Non son questi i begli occhi, che m' han colto Al dolce laccio, e posto in dolce errore? Io non son già sì cieco, nè sì stolto Che non conosca chi m' ha tolto il core. Dunque da la mia Dea restai conquiso, E rimango prigion del suo bel viso. Marauiglia non è, s' ella mi vinse, Poi che prima m' hauea preso, e legato, Chè altri che costei mai non mi strinse Tanto, nè potea pormi in tale stato. Mà presso la bellezza, onde m' auinse; Non credea, che valor tanto pregiato Regnasse in lei, nè sò per qual cagione Habbia voluto far meco tenzone. Felice inganno, se ingannar mi volse Per mostrar forse à me la sua virtute, Beate piaghe, e 'l sangue, che mi tolse, Quando col guardo suo mi dà salute, M' aggreua sol (nè d' altro vnqua mi dolse Tanto) de le percosse riceuute Da lei per me, de i colpi iniqui, e rei Che per troppa ignoranza io diedi à lei. Così dicea quel infelice amante, E certo non credea di restar preso, Parendoli che fusse Risamante La bella Donna, ond' hauea 'l petto acceso. Per non saper che tanto simigliante La giouene, che seco hauea conteso Era à Biondaura, che ciascun prendea L' una per l' altra, e 'l ver non discernea. Con gran pietà fè l' inclita guerriera Quel Rè condur nel regio padiglione, E medicar, che forte piagato era, Trattandolo da Rè, non da prigione. In questo vscir de la Cittade in schiera Le più honorate, e nobili persone. Quel, che poi ne successe altroue io canto, C' hora di Celsidea vuò dirui alquanto.

IL FINE DEL TERZO DECIMO, ET VLTIMO CANTO.

A B C D E F G H I K L M N O P

Tutti son duerni eccetto P, qual è Terno


Errori corsi ne l' opera.

Car.St.Lin.Erroricorret.car.stan.lin.err.cor.
5196amente.amante.20104da le fere.da fere
631distesse.distese.2243in terra.in treccia
744venisser.venisse.61fù preso.fù presso.
11111in Lideo.vn Lideo.75in pian.il pian.
137etade.etate.23124se ne.sen.
13156guiso.giuso.146si è vnsù vn
14128ritrouarsi.ritirarsi.2588è gli.à gli.
1522non vitralignar.non tralignar.26135pianto.punto.
74appresso.oppresso.8punto.pianto.
83Sforcesio.Sforcesco.2795scoglia.scioglia.
182di queiper quei.112& di.io di
197fratello.farallo.31114hà.hà di.
1656gionto.pronto3773confortio.consortio.
1726discorte.discorre.4025Filardo.Risardo
1812Didalo.Dedalo.4447Goselimo.Goselino.
68diuo.duo.4598lor getta.lo getta.
162il volto.il volto amato.46137sà qual.sà quel.
1981Filardo.Rifardo.

Gli altri errori intorno la Ortografia si rimettono al giudicio del saggio lettore, per esser di poca importanza.

IN VENETIA, Nella Stamparia de' Rampazetti.