Anima sola.

MILANO
LIBR. EDITR. GALLI DI C. CHIESA E F. GUINDANI
Galleria Vitlorio Emanuele, N. 17-80
1895

DIRITTI DI PROPRIETA RISERVATI ALL'AUTORE.

Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.

A SIR LAWRENCE DEDLEY
Marchese di Middleforth

dovunque si trovi.

Sto per accingermi ad una cosa molto singolare, sì, mi sembra molto singolare per me. Sono seduta davanti al mio tavolino ed ho dirimpetto la vostra sedia, quella sedia dove vi ho veduto tante volte e che ora è vuota, ma non assolutamente vuota; vi è rimasta come un po' dell'aria che circondava la vostra persona.

Sorridete? Aspettate a giudicarmi almeno. Io non sono una letterata, una di quelle donne così giustamente antipatiche agli uomini, non scrivo un romanzo e non ho un pubblico che mi aspetta. Non so nemmeno se arriverò a dieci pagine, a venti od a cento: ho scritto così poco in vita mia!

Dunque non mi scoraggiate. Vedete, è una grande prova di fiducia che vi do, scegliendovi per mio interlocutore; è duopo lo confessi, mi sarebbe impossibile di scrivere senza rivolgermi a qualcuno. Come fanno i romanzieri? Non so neppure immaginarlo. Io invece faccio conto di parlare a voi e la cosa allora mi riesce più facile.

Ma c'è un' altra stranezza; dove siete voi? Vivete ancora? Esiste una millesima probabilità che abbiate mai a leggere queste pagine? Ho sentito dire che certi pianeti s'incontrano una volta in un lungo corso di secoli; così noi ci incontrammo. Se scrivessi per le stampe potrebbe darsi che il mio libro venisse a raggiungervi in quella qualunque solitudine dove siete andato a monacare la vostra anima sdegnosa del mondo; ma io non scrivo per le stampe e non credo che i miei eredi si daranno questa briga. Scrivo dunque colla quasi certezza che non mi leggerete.

E che importa? Avete mai risposto voi alle domande inquiete della mia anima? Mi basta di parlarvi. C'è un fascino oscuro e indefinibile a parlare con una persona che non ci risponde. Non è un po' come le preghiere che si mormorano ai piedi di una croce? All' Invisibile si osa dir tutto. Sarebbe assurdo scrivere un romanzo con tale programma, ma poichè non è un romanzo!

Mi ricordo un giorno de' miei giovani anni—sapete, quegli anni tristi che passai in modo così diverso dalle altre donne—non avevo ancora amato, ma pari alle gemme che inturgidiscono in primavera le cime degli alberi, il mio cuore era gonfio di una passione che non sapeva dove posarsi. Orfana, senza affetti, solitaria, ignorante, affidata alle cure di una donna anche più ignorante di me, con un avvenire di miseria e di lavoro volgare, cosa volete ch'io sperassi? Nulla.

Rinunciavo senza conoscerle a tutte le gioie della terra; il più curioso è che vi rinunciavo senza dolore e quando il fuoco della giovinezza scoppiando mio malgrado cercava ad ogni costo una uscita, invece di venir fuori rientrava. Mi spiego? Crescevo tutta dentro di me.

Udite che cosa feci quel giorno. Era d'autunno—la vecchia mia parente mi faceva villeggiare in un cascinale di non so più quale provincia; so appena che il paesaggio era tutto verde, i colli coperti di vigneti, e davanti alla nostra casa scorreva un torrentello che si chiamava la Versa. Mi trovavo sola lì come dappertutto. Una gora stagnante sembrava tenermi prigioniera entro i confini di un mondo, che, lo sentivo bene, non era il mio. Il sentimento della protezione, quella sicurezza, quell'abbandono che rendono tanto dolce la vita ai fanciulli delle famiglie felici mi mancava e non avevo nessun modello davanti, nessuno a cui credere, nessuno da poter amare intensamente; l'ammirazione, bisogno primo delle anime ardenti, non sapeva dove posarsi.

Tutto ciò che si facev e si diceva intorno a me, gli argomenti del discorso, l'interesse delle cose, il modo di giudicare, le allegrezze, i dolori, i passatempi, le noie, il bene ed il male mi lasciavano indifferente al punto che molti mi giudicavano stupida, altri senza cuore. Ed io mi avvilivo. Poichè tutti sì accordavano nel darmi torto, bisognava bene che avessero ragione, e tuttavia una certa ragione mi pareva di averla ma era come un oggetto chiuso in una scatola della quale non si ha la chiave. Si sente che c' è, ma in qual modo farlo uscire?

Così venne il giorno in cui, trovandomi più che mai il cuore gonfio riuscii a sfuggire la sorveglianza, ed aperto pian piano l'uscio della casa, girai dietro, tenendo un sentiero che conduceva ai monti. Anche questo vi parrà strano, ma tutto quello che devo dire è strano: sentii allora per la prima volta il piacere di vivere; e per la prima volta osservai che il cielo aveva tante gradazioni di azzurro tenero e di rose come soffuse ed annegate in un velo bianco palpitante; e che gli alberi sembravano vivi coi loro susurri sommessi, coi profumi dolcemente evanescenti, e che nell'aria, nella luce, nelle ombre pure, c'era un'anima.

Allargai le braccia e tenendole un po' sollevate, continuai a salire, a salire … Mirabile sensazione! Dal momento che fui sola non mi trovai più isolata. Il mio cuore cantava senza parole e senza musica in un prorompimento di ebbrezza; ed anche volava; e tutto ciò che cantava e che volava intorno a me, uccelli, farfalle, petali di fiori, mi sembravano amici e fratelli.

Così raggiunsi la cima del colle, tanto leggiera, tanto felice e con un desiderio confuso sorgente da tutto il mio essere, un bisogno di sfogo, un ardore che usciva per la prima volta da me e quasi il bisogno di chiedere una grazia, che in quell'istante divino parevami mi sarebbe stata concessa.

Una gioia profonda ed una grande audacia mi invasero guardando la solitudine che mi circondava; quell' aria e quel cielo tutto per me, quell'orizzonte, quel mondo che mi si offriva così vasto e così ignoto a me tanto giovane! Nessun senso di sgomento si mesceva al mio tripudio.

Ritta, abbracciando collo sguardo quanto maggior spazio mi fu possibile, colla fronte alta, gridai: Dio! Lo gridai veramente, misurando per la prima volta l'estensione della mia voce, meravigliata che quel grido cadesse così dolcemente sul declivio verde, senza destare nessuna protesta, nessuna recriminazione. Dio! Dio! Dio! Per ben tre volte dissi e mi ascoltai. La natura ascoltò insieme a me, fece essa da testimonio al rito. Io aveva sposato in quel momento qualcuno.

Volete che vi dica come io fossi in quel tempo? Allora non lo sapevo, ma adesso ripensandoci mi vedo. Alta e sottile, ma non flessibile; chè anzi il mio piccolo capo e le spalle gracili e le braccia ancora infantili si irrigidivano quasi in una attitudine di protesta continua. Un grande squilibrio esisteva tra le mie forme, appena adombrate di femminilità, e la seria, profonda espressione de' miei occhi cui solo faceva riscontro una piega quasi dolorosa del sorriso. Quando più tardi in mezzo alla folla elegante di una festa, mi giunse all'orecchio pronunciato da un ignoto il primo complimento sulla mia bellezza, esso mi parve così bizzarro che non l'ho dimenticato più.

E voi mi crederete quando vi avrò detto che non la vanità della lode o lo stimolo della civetteria mi punsero in quell'istante, ma una sottile curiosità spirituale di sapere se maggior potere abbia sulle anime il bello o il brutto, la gioia o il dolore. È un problema che mi ha sempre preoccupata nella mia incapacità di godere l'istante presente tal quale appare e di abbandonarmi ad esso con quella sensualità filosofica che isola perfettamente l'oggi dal domani e dall'ieri. Non ho mai avuto la febbre della vita; fu piuttosto la mia un dormiveglia rotto da frequenti visioni. Anzi la visione mi si è sempre imposta come uno stato superiore, come un rifugio ed una salvezza.

Forse il sonno magnetico è così, forse è così lo stato ultra sensibile di certi poeti e di certi santi. Se fossi dotta come voi potrei fabbricare una teoria sulle mie sensazioni: ignorante qual sono tento di descriverle, ma capisco che anche questa impresa supera in certi punti le mie forze.

Mi è capitato qualche volta di ridere leggendo o pensando; mi è capitato più spesso di piangere. Ma perchè non ho mai nè riso, nè pianto insieme agli altri? Nelle mie sere di maggior trionfo, quando tutto il teatro fremeva e migliaia di mani si alzavano per applaudirmi, la parte esterna di me si commoveva, ma il mio vero io, sempre sonnambulo, si meravigliava di tutto quel rumore e cercava ancora al buio la sua strada interna e solitaria. In verità vi dico: Uno è dentro di me che mi vuole tutta.

Vi confido queste cose, che non direi a nessuno, perchè siete nato gemello anche voi; anche voi non troverete mai l'anima compagna che tutti vanno cercando secondo la teoria di Platone, teoria che non è per noi, dal momento che quest'anima l'abbiamo già e forma una sola con l'anima nostra. Essa ci impedirà sempre di darci completamente, pur amando più degli altri e con tanta forza.

Io l'ho compreso subito la prima volta che vi vidi, ricordate quando?

So l'ora, la luce, perfino la gradazione di verde che avevano in quel giorno gli alberi di Villa Borghese; e lo stato del mio spirito mestamente tranquillo e la posa un poco stanca a cui mi abbandonavo seduta sull'orlo della fontana, scrivendo un nome con la punta dell'ombrellino sulla sabbia.

La Villa era così deserta in quell'ora che il vostro passo, sulle foglie secche, mi fece subito alzare il capo; e man mano che vi vedevo avvicinarvi a me, nella vostra persona, nel vostro volto, nella tinta indefinibile dei vostri occhi, nel modo che mi guardaste e in quello di arrestarvi, cortese ma freddo e leggermente sdegnoso, vi riconobbi diverso da tutti gli altri e pensai con una sensazione nuova palpitante di intima sorpresa: “Chi sarà costui?” Come se voi aveste udita la mia domanda interna pronunciaste nello stesso momento presentandovi: “Sono il marchese di Middleforth.”

Vedete, sono piccoli fili; non è di piccoli fili che si compongono tutte le tele? le tele dedicate ai modesti usi famigliari, quelle che vestono il soldato o che ondeggiano sulla sua testa col fiero nome di bandiera, quelle destinate a lottare coi venti e coi flutti, quelle che coprono gli altari: e i fili che tessono le simpatie e le parentele d'anima sono piccoli fragili fili, egualmente avvolti dall'Ignoto intorno a connocchie inconsapevoli dell'uso a cui sono destinati.

Pochi giorni prima a Milano, dopo il fiasco enorme della Badessa di Monreal, avevo ricevuto una lettera firmata: marchese di Middleforth: nella quale lasciando da parte l'insuccesso del lavoro drammatico, l'incognito scrivente riconosceva la forza del sentimento da me trasfuso nel personaggio della Badessa. Io non dubitai un solo istante che, malgrado la distanza delle due città, voi e il corrispondente sconosciuto non foste l'istessa persona, e nemmeno il più piccolo sospetto mi sorse che foste diverso da ciò che siete, cioè un gentiluomo perfetto. Voi pure—è una delle mie gioie più profonde e più delicate—sorpassando la ripugnanza che vi ispirano le attrici in genere, siete venuto a me guidato da quel filo invisibile che mette degli occhi all'anima; e lo faceste in un modo così naturale che potrebbe sembrare assurdo agli altri. Che c'è di più naturale che presentarsi da sè?

Oh! la soavità misteriosa di quel nostro primo colloquio! Voi entraste subito a parlare della Badessa di Monreal, dicendo che ad onta dei suoi grandi difetti vi piaceva in quel lavoro un certo ardore nascosto che io avevo saputo rendere quasi alla perfezione. “Quasi—ripeteste —perchè sento dentro di me un ideale più complesso e più forte!”

A questo punto tacemmo. Io pensavo che non avrei potuto facilmente spiegarvi nè così subito e forse mai, per quali vie il fatto della Badessa di Monreal era giunto a destare nel mio cuore quel gemito così lamentevole, così triste e scorato di illusione infranta, che voi avreste desiderato più forte e più complesso.

Il successo letterario della Abbesse de Jouarre aveva ispirato ad uno dei nostri giovani scrittori questo soggetto tolto alle cronache spagnuole del tempo dei Mori:

Una fanciullina di stirpe regale, rapita all'Africa nativa e chiusa in un convento della vecchia Castiglia, vi cresce in una perfetta consonanza di idee e di aspirazioni con le suore che la circondano; solamente la sua pietà è più ardente, il suo zelo più appassionato, le sue preghiere più poetiche, le sue astinenze più esaltate e continue. Nella patria di Santa Teresa e di Maria Alacoque la giovane selvaggia stupiva per la sua santità.

Non potete immaginarvi fino a qual punto io mi sento penetrata da questa situazione. La vedo la giovane esiliata, nelle notti azzurre che i gelsomini dovevano profumare così dolcemente, inginocchiata nella sua cella, cogli occhi e col cuore rivolti al misterioso paese che la affascina con lontani ricordi. Nominata badessa del convento, il suo misticismo cresce. È nella chiesa lastricata di marmi funebri, o nell'ampia spianata del giardino in mezzo alla quale sovrasta una croce, che ella aduna tutte le notti le suore intorno a sè, poichè il giorno non basta alla sua smania d'amore divino. Tutta la Castiglia la proclama santa; dai più lontani paesi si accorre per implorare la sua benedizione. Ella come non dorme, non mangia più, non parla; eterizzata trascorre i suoi giorni nell'estasi. Questo è tutto il primo atto che a voi piacque di più, mentre il pubblico non dissimulava la sua impazienza.

Ma quel momento della rivolta, quando nel silenzio claustrale rimbomba improvviso il fragore delle armi ed i Mori urlanti battono alle porte del convento! Come era il mio volto, che cosa dicevano i miei occhi nell'istante fulmineo della rivelazione? E come fu che senza parlare, movendo risoluta verso le suore per correre io stessa ad aprire le porte, un lungo applauso—il solo durante tutto il dramma—scosse il teatro da cima a fondo?

Abbiamo discusso, almeno voi discuteste, questo subito passaggio, questa apostasia di vent'anni di chiostro, suscitata dall'improvviso ritorno di voci, di squilli, da tutto un tumulto d'armi e di uomini per cui ella si getta nelle braccia degli invasori con quel grido: oh! mia patria! che voi trovaste volgare, che a me invece sembra cosi profondo per tutto ciò che contiene di simbolo.

Si, fu sotto gli alberi di Villa Borghese, nel tramonto splendido del cielo di Roma che voi, straniero, mi diceste di non comprendere quella invocazione alla patria.

Io pensai subito che dovete sempre essere stato molto felice, e guardai minutamente la forma eletta del vostro cranio, la vostra fronte sulla quale otto o dieci generazioni di intelligenti hanno stampto il suggello della sovranità e tutte le linee del vostro volto improntate a una distinzione di razza che mai non falla. Pochi istanti prima mi avevate detto che era vostra intenzione di percorrere l'Italia senza alcun limite di tempo e di luogo; eravate dunque libero e ricco, oltre che nobile ed intellettuale. Una breve vita senza lotte, abbellita dai migliori sorrisi della fortuna, vi aveva condotto al possesso pieno e completo dei vostri diritti d'uomo superiore.

Ed ancora, dopo queste riflessioni si fece un silenzio fra noi due. Calava la sera. L'umidità degli alberi mi faceva pensare con raccapriccio ai giorni della mia infanzia trascorsi in un tugurio, accanto ad una vecchia ignorante, fra persone la cui bontà rudimentale non scusava a'miei occhi l'invincibile volgarità; al pezzo di pane che mi davano ed all'inedia in cui lasciavano languire la mia anima e una tenerezza indicibile cui prese per la povera fanciulla che fui.

In voi l'ora doveva ridestare immagini ben altrimenti opposte: forse il paterno castello, rallegrato dalle fiammate che i pini scoppiettanti facevano salire sotto la cappa arabescata del regno degli Stuart; e il fantastico parco intravveduto dietro i cristalli policromi; e la madre, la dolce madre vostra che vi accarezzava.

—Bisogna andare a vedere la cupola di San Pietro indorata dal riflesso degli ultimi raggi—diceste.

Mi alzai come cosa naturalissima, come fosse già inteso che si dovesse partire insieme, come se vi avessi conosciuto sempre. Nell'istante di muovermi, vidi che il vostro piede aveva cancellato il nome da me scritto sulla sabbia con la punta dell'ombrellino, nè me ne rammaricai—mi parve anzi una liberazione. Credo di non aver dato nessun segno esterno di sensibilità, per quanto ogni memoria strappata dal cuore lasci una ferita, e conobbi fin da allora la vostra straordinaria finezza. Con un accento e uno sguardo che non vi aveva visti ancora, mormoraste piano, in una tonalità affettuosa che contrastava col timbro dominatore della vostra voce: —Spero di non averle fatto dispiacere. Ad ogni modo resteremo amici? …

Il velo misterioso dei vostri occhi si sollevò e mi parve di sprofondare i miei in un cielo radiosamente azzurro. Come ci comprendemmo in quel momento! Due o tre volte appena, nei tempi che seguirono, vidi nelle vostre pupille e nell'iride abitualmente fosca che le circonda, questo improvviso e rapido sfolgorio, come un momentaneo denudamento della vostra anima.

Mi è caro ritornare così sopra certe ore del passato, poichè non v'ha dubbio che la felicità si compone più di ore che di giorni e più di pensieri che di cose.

Come non potrei rammentare il piacere vivo, schiettissimo e reciproco che nessuno di noi due tentò dissimulare, quando ci incontrammo pochi giorni dopo al Pantheon? Per l'orrore delle parole comuni ci eravamo lasciati senza nessuna promessa di ritrovo, ma la certezza di rivederci aveva reso ben dolce il nostro addio:

—Fra le tombe,—diceste salutandomi.

Io vi guardai, stupita di trovarvi così giovane; e mentre la prima volta mi eravate sembrato pallido e quasi troppo serio, scoprivo allora con un certo timore la delicata freschezza del vostro colorito e la vostra bocca così infantile nella barba austera, che mi dava l'impressione di una rosa spuntata in un bosco. Ebbi un istante di vergogna, durante il quale credo di avere arrossito.

—Non avete recitato queste sere— diceste ancora.

Risposi un no asciutto senza spiegare la causa, occupata come ero a domandare a me stessa quanti anni potevate avere.

Eravamo fermi davanti alla tomba del gran Re, ma voi stavate di fianco, col volto alzato, e la luce dell'impluvium vi rischiarava così bene che potei cogliere la linea di quella bocca strana, infantile e crudele nello stesso tempo, che disegna nel vostro sorriso una specie di arco acuto. Osservai pure sotto la fierezza del vostro profilo la rivelazione della spiritualità che i vostri occhi confermano pienamente e che emana da tutta la vostra persona, come un fluido posto tra voi e il mondo, quella che io chiamo la vostra aria. Alfredo di Vigny e Chateaubriand dovevano assomigliarvi un poco.

—Amo queste tombe (staccandoci dall'arca di Vittorio Emanuele, seguivamo la curva del Pantheon osservando gli altri sepolcri) ed è un sentimento bizzarro quello che provo qui; piuttosto che l'ammirazione è una gioia orgogliosa che mi invade, uns serenità di persona che smarrita ritrova il suo sentiero. Se sapeste la folla di pensieri che mi assale sempre in questo luogo! Io penso che forse …

Non dissi di più. Ripetendo ora queste parole mi meraviglio che ne abbiate penetrato l'orgoglioso e folle significato. E che lo penetraste me ne avvertì subito il velo più cupo dei vostri occhi, quella fierezza fredda nella quale vi ravvolgete come in una corazza tutte le volte che sospettate un rivale del vostro orgoglio.

Ma io allora non vi conoscevo ancor bene. Confusa del mio ardire e della vostra freddezza vi domandai scherzosamente se avevo detto qualche sciocchezza. M'appagai della risposta: “tutt'altro”; e il silenzio che la seguì mi parve più dolce di qualunque altra parola che aveste potuto dire.

Veniva dalle tombe una voce così simpatica al mio cuore, e voi stesso entravate così bene nella elevata malinconia dell'ambiente, ci sentivamo così a posto, così vicini d'animo a quel Re ed a quei Genii, che mai forse come allora l'accordo invisibile di due intelligenze vibrò la sua nota più acuta e più penetrante. Sì: ho bisogno di evocarvi come eravate allora per continuare le mie confidenze. Alba luminosa di un periodo di tempeste, quei primi giorni mi stanno davanti incancellati. Che importa se a tanta distanza la vostra persona reale svanisce in una visione fantastica? Non è tutto sogno la vita? Voi mi insegnaste che il male ed il bene non esistono in modo assoluto; che importa a tal patto l'essere o il non essere? Io vi vedo, vi creo, dunque esistete.

Conoscere un'anima, cuore o intelligenza, e amarla senza speranza di ricambio: amarla per ciò che essa è, amarla per il bello che ha in sè; illuminarsi dei suoi raggi e bruciare nel suo fuoco, non è una prova che noi siamo degni di quell'anima? E se essa non ci risponde che cosa importa? La nostra soddisfazione consiste nel sentirci eguali.

Ho scritto questo pensiero, tanto tempo fa, sulla prima pagina di un libro che voi mi avete regalato. (Sapete quale?)

Ebbi sempre l'abitudine di segnare qualche mio pensiero accanto a quelli degli autori più simpatici, talvolta una semplice parola, un nome, un punto; mi pareva così, nella infinita tristezza dei miei giovani anni, di conversare con un amico, e posso dire che le mie sole gioie per un lungo volgere di tempo furono queste conversazioni ideali.

Trovavo in esse non un mondo fantastico, ma il vero mondo, la vera terra della quale io mi sentivo l'abitatrice, la patria che non so per quale crudeltà della sorte mi fu rapita prima di nascere, il mio possedimento, il mio diritto. Era quella la porta dietro cui sentivo il cozzare delle armi de'miei fratelli; ma quanto, quanto tempo rimase chiusa ai miei ardenti desideri!

Una descrizione minuta dell'ambiente dove trascorse la mia adolescenza, tutto quel contorno meschino, prosaico, tenterebbe certamente la penna di uno scrittore verista. Ma so che voi sdegnate tali compiacimenti volgari ed io stessa rivolterei a malincuore quel mucchio di rovine, dove ho sofferto anche troppo, per cui non serbo più nè rancore, nè odio, nè quasi direi memoria. Vi ripeterò invece certe scene isolate, brani della mia esistenza sopravvissuti alla distruzione del resto. È veramente questo un lavoro femminile, staccare dal canovaccio logoro di una vecchia tappezzeria i fiori del ricamo. Ahi! poveri fiori, molti di essi mi si rompono fra le dita e nessuno potrà essere riportato sopra un'altra stoffa.

Ho in mente una strada piena di sole e di polvere; una gran folla accalcata, un pigiarsi di corpi, di voci, di risa, tutto quell'insieme meccanico e animalesco che mi rende così avversa alle riunioni del popolo—ed io fragile fanciulla, vivente di sogni, travolta, urtata, offesa e ferita—e muta—e gemente nell'anima, mentre le mie compagne mi beffavano: e tutto intorno fin dove l'occhio arrivava, fin dove l'orecchio poteva cogliere un suono e la mente un pensiero, tutta una turba sorgente contro di me, contro i miei ideali più accarezzati e più occulti, un grido brutale che usciva da mille petti: tu sei sola!

Avevano detto in casa: andiamo a vedere il principe. Era il principe ereditario che passava per recarsi ad una rivista militare. Fu la prima volta che mi trovai davanti ad una forma di vita superiore, ad un essere ben reale e ben vivo che incarnava una delle mie visioni. Il principe! Questa parola magica mi suscitava un tumulto di idee confuse ed oscure nei profili, ma illuminate da un raggio fondo, da una attrazione misteriosa. I giudizi grossolani, i frizzi, le celie che si incrociavano tra la folla durante l'ozio dell'attesa mi facevano male; mi facevano male alcuni volti stupidamente beati, mi pungevano come lame gli scrosci di risa grasse; certi gesti trinciati nell'aria mi scendevano sul capo a guisa di fendenti; guizzi di sorrisi e lampeggiamento di pupille mi facevano salire il rossore alla fronte come attentati al mio pudore. Tutti sembravano allegri, soddisfatti, stimolati dalla curiosità superficiale di vedere il principe, di trovarsi intanto riuniti fiato a fiato, gomito a gomito, mescendo gli istinti inconsapevoli della loro carnalità al tripudio un po'cinico dei loro cervelli, sentendosi forte ognuno della forza degli altri, dello spirito degli altri, ogni personalità annegandosi voluttuosamente in quel morboso oblìo di sè stessi che tiene unite le masse.

Ed io mi stringevo nel mio abito, cercando di mettere uno strato d'aria fra me e loro, sfuggendo i contatti, essendo già riuscita ad isolarmi un poco turandomi le orecchie con le dita.

Ogni tanto dal fondo dello stradone un elmetto luccicante al sole faceva correre un fremito nella folla. È qui! Io allora provavo uno strano senso di amarezza, un singulto, un groppo che mi serrava la gola. Se il principe mi guardasse! Se sovrastando quel fitto muro di teste col suo occhio d'aquila mi riconosccsse!

La mia commozione cresceva di minuto in minuto; mi pareva che dovesse compiersi allora il più grande avvenimento della mia vita, mi batteva il cuore, sudavo ed avevo le mani di ghiaccio.

Già tre o quattro volte la folla aveva gridato: È qui! senza che si vedesse nessuno. Finalmente un piccolo gruppò di cavalieri apparve. È lui! È quello! Tutti si rizzarono sulla punta dei piedi, tendendo acutamente lo sguardo, tutti mossi, attirati da un punto solo.

Rammento benissimo, proprio nel momento che la zampa dei cavalli batteva il suolo davanti a me, io che m'ero pure alzata sulla punta dei piedi per vederlo, ricaddi e chinai gli occhi.

Un rispettoso silenzio dominò per alcuni istanti la folla, un palpito più accelerato del mio cuore, quasi una soffocazione, poi un urlo: Viva il principe! Egli era passato.

Sollevando allora lo sguardo vidi il bianco pennacchio che ondeggiava sulla sua testa e che rapidamente scomparve. La folla si sciolse subito ciarlando, commentando, leggiera, ironica, allegra, dimentica.

Devo dirvi che dormii male quella notte, che il giorno seguente mi trovai il cuore tutto occupato, triste fino alla morte e che per un lungo anno l'immagine del principe, che non avevo veduto, dominò tutti i miei pensieri?

Convenite che per un primo amore esso non è affatto comune. Risponde a quel bisogno di innalzamento, che in urto col mio destino mi rattristò tutta la giovinezza. Immatura ancora per l'amore credevo di amare, ed amavo veramente, un simbolo: colui che a'miei occhi inesperti rappresentava la maggior bellezza, il maggior ingegno, la più alta nobiltà, l'impossibile, l'inarrivabile, il sogno. Vi sono parole che hanno in sè stesse il potere di sollevare l'ideale anche quando nessuna realtà vi corrisponde.

Mi avete detto una volta che voi non conoscete l'antipatia, ma più di venti volte io l'ho sorpresa nei vostri occhi, in un gesto, in una esclamazione involontaria. Lasciatemi dunque il piacere di contraddirvi. È impossibile che non conosciate questa sensazione propria delle razze superiori. Più si scende nella scala sociale e meno la si trova perchè la bestialità attutisce la sensibilità. Voi cercherete di combatterla, questo lo credo, tanto per il bene degli altri come per il vostro, essendo essa una fonte perenne di sofferenza, ma la sentite e mi basta.

Mille sono le cause di antipatia: la goffaggine, l'ignoranza boriosa, la pretensione, il cattivo gusto; tutto ciò che vuol parere e non è. Certi sorrisi (pensate, vi prego, a certi sorrisi) essi colla voce, col portamento della persona, e colla mano (avete mai osservato la fisionomia della mano?) rappresentano le cause più comuni di antipatia fisica.

Questa parola non vi piace, lo so! diciamo di antipatia esterna, vi va? lo soffro parimenti se vedo coperta di trine una donna grossolana e degli oggetti d'arte in possesso di un giuocatore di briscola e delle ricchezze in mano agli ignoranti ed agli avari.

E la bruttezza? Certe bruttezze ignobili, volgari, viziose o cretine mi fanno male propriamente come uno schiaffo. Non succede così agli altri. Davanti alla bruttezza ho sempre osservato che sopra un gruppo di cinque persone, una ride, una compassiona, una trionfa, una è indifferente e una non se ne accorge. Io soffro, soffro, vi dico. Mia zia sentenziava: “Che colpa ne ha l'infelice?” Ed io dunque?

La mia sensibilità è sempre stata, anche sotto questo rapporto, eccessiva e non v'ha dubbio che ho sofferto per i mali e per la bruttezza degli altri più che gli altri stessi.

Mia zia mi faceva imparare il ricamo da una ragazza molto più vecchia di me, una povera ragazza linfatica con certe manone gonfie picchiettate di macchie pavonazze e certi denti gialli rigati di verde che sembravano voler saltar fuori tutte le volte che apriva la bocca e siccome non ero una scolara modello la bocca si apriva spesso “ma no, non così, sta attenta, i punti più corti” e le mani, le orribili mani mi passavano e mi ripassavano davanti, sfiorandomi, toccandomi, così lucide in certi giorni e così gonfie che io non potevo distogliervi gli occhi, pur sentendo la nausea di questa bruttezza. Eppure, cosa volete, un giorno che la povera ragazza fatta accorta della mia ripugnanza chinò il capo umiliata, le saltai al collo e la baciai e la abbracciai con tutto l'ardore. Ella si rasserenò subito, ma quante volte io dovetti abbracciarla in seguito e nessuno ha mai pensato a compiangermi!

I miei dolori erano così, diversi dagli altri, ma erano per ciò meno veri? o piuttosto non si raddoppiavano del loro stesso isolamento?

In fondo ad una vecchia cassa mia zia trovò una volta un paio di calze di seta nera; erano traforate nel piede, e in alto, alla ripiegatura dell'orlo, avevano tutto ingiro una righettina rossa. Me ne fece dono ed io esultai, ma quelle calze non le ho mai messe. Pensai subito che finito quel paio—il quale sarebbe finito presto—non avrei avuto mai più calze di seta; e se non dovevo averle sempre, perchè metterle? L'esultanza del primo momento si cambiò in una specie di tristezza tutte le volte che le prendevo in mano, dominata dal pensiero della loro caducità, del loro passagio effimero nelle soddisfazioni della mia vita. Le guardavo ogni tanto e le riponevo come una reliquia. Non vedendomele mai addosso mia zia disse ad una vicina, alludendo a me:

“È tutta superbia.”

Mia zia aveva di queste sentenze crudeli che mi colpivano in pieno cuore, che mi facevano lacrimare internamente come se gravasse su di me la miseria infinita di trovarmi perduta in un deserto, con una voce fievole fievole che non giungeva agli orecchi di nessun umano. Oh! l'orribile cosa, una voce che udivo io sola.

Non dubiterete menomamente dell'avversione che mi destano frasi di simil genere: Quando si rompe un piatto “come è stata?”; quando uno si lagna di dolor di capo o di stomaco o di piedi non importa “è il tempo”; e quando annunciano con un grido di spasimo la morte di una persona, cara, questa domanda: “che ora era?

Ma vi sembrerà forse eccessivo il mio orrore per le donne eleganti, che, pur di seguire la moda, non sentono nè il caldo nè il freddo, nè la stanchezza, nè il ribrezzo, nè il pudore; che si denudano, si stringono, si flagellano, digiunano, o si riempiono di vivande colla stessa indifferenza, onde io sono venuta a questa conclusione, che solo la pelle d'asino attaccata a un vecchio tamburo è paragonabile ad una bianca epidermide di elegante mondana.

Nulla vi dirò dello sdegno che mi fanno coloro che parlan d'amore arricciandosi i baffi e di religione con uno stuzzicadenti in bocca; nemmeno delle signore che si dichiarano nervose, sentimentali e amanti della musica. Fremo solamente a pensare come viviamo tutti in mezzo a queste volgarità.

E vi è ancora un peggiorativo nel mio carattere che ha sempre incrudelito le piaghe della mia sensibilità. È la manìa di voler cercare il vero ad ogni costo. Per raggiungere tale scopo io fui volta a volta sciocca, imprudente, sgarbata e senza cuore; sapete, questa terribile accusa della quale voi pure non siete mondo. Da una persona senza cuore, udivo ripetere continuamente nella mia infanzia, non c'è nulla da sperare.

Senza cuore, che vuol dir ciò? Si ammira il buon cuore di coloro che sorridono a tutti, che amano tutti, che sono gentili, premurosi, ossequiosi con tutti.

Ma è questo il buon cuore? Hanno bisogno di tutti; ecco la loro bontà. E perchè io non ho bisogno di nessuno dovrò ritenermi senza cuore?

Vi fu tempo in cui piangevo per ogni infelice che si trova nel mondo: se vedevo passare un funerale, se un uomo era lacero e nudo sotto il freddo, se un bambino era battuto; ed anche per un cavallo che cadeva sotto il peso della bara; ed anche, sì anche questo, per l'albero che i monelli prendono a sassate e i di cui rami si staccano gemendo come menbra recise.

Un giorno una barella dell'ospedale mi passò accanto recando un muratore caduto da un ponte; non si vedeva, nascosto dalle tende di tela bianca, ma si udivano i suoi lamenti fiochi, rauchi, quasi non più umani. Dovetti appoggiarmi al muro per non cadere e non so immaginarmi quale maggior compassione potrei provare di quella che allora provai. Pure, seguendo cogli occhi la barella, ho pensato che doveva essere ben più grande il cuore del medico che avrebbe senza batter ciglio affondate le mani nelle membra lacere dell' infelice ed ebbi vergogna della mia debolezza. I sommi scienziati, gli scopritori, i benefattori, Jenner e Charcot nel loro laboratorio pieno di animali squartati, che cuore dovettero avere in confronto alle persone che tengono i cani sui cuscini di velluto e porgono colle proprie mani la mandorla agli uccelli!

La compassione, l'amore del prossimo, anche la tenerezza per le bestie, non sono talvolta forme altruistiche di un sentimento profondamente egoista?

È l'istinto che parla nelle passioni umane come parla nel gatto che è lindo, gentile, carezzevole e non lorda mai la casa, perchè se facesse altrimenti non otterrebbe il piacer suo che è di vivere accanto all'uomo.

E come il buon cuore delle signore che accettano di questuare in giro pensando: ecco una buona occasione per sfoggiare il mio abito lilla. Volgarità, volgarità!

Ho conosciuto una famiglia rispettabilissima e venerata per il gran cuore di tutti quelli che la componevano. C'era una madre devota, che portava un gran nome, ed era convinta di riunire in sè stessa tutti i meriti dell'almancco di Gotha e del Vangelo insieme. Il figlio maggiore, uno scostumato pieno di debiti e d'impostura, andava a confessarsi per buon cuore, per far piacere a lei. Il secondo, tisico, per la bontà della madre e dei fratelli, udiva perennemente intorno a sè un inno alla sua salute, alla sua forza. E la ragazza, vecchia creatura incartapecorita, era circondata dai maggiori complimenti che possano consolare una povera donna della mancanza del resto. Ma perchè si consolava? Io non mi sarei consolata.

Tutta la famiglia andava d'accordo in questo mutuo servizio di menzogne e vivevano tutti beati nella più completa oscurità, sorridendosi a vicenda, scambiandosi teneri baci, inebbriati dal concerto di lodi che sorgeva sui loro passi; la madre colla sua aria di parente di Dio, il primogenito portando dignitosamente il primogenito portando dignitosamente il suo preteso ingegno, l'altro sfidndo il genere umano tra due colpi di toose, e la fanciulla colla dentiera finta, ripetendo commossa quasi accompagnamento al ritmo della propria persona.

Ella se'n va sentendosi laudare Benignamente d'umiltà vestuta.

Ho provato anch'io a consolare e non vi sono mai riuscita. Io dissi all'infermo “Guarda le sofferenze di tutto il mondo, infinite, maggiori delle tue, ineluttabili, obbedienti a un occulto volere.” Egli mi rispose:

“Non mi curo delle sofferenze degli altri, sento le mie.”

Dissi al debole turbato, smarrito nella lotta: “È un passaggio, è una prova; un giorno ti meraviglierai di esserti accasciato per così poco.” Egli rispose:

“Il presente solo vale.”

E mi caddero cento volte le braccia, mi domandai piena di sgomento che cosa mi divide dal mio prossimo e perchè non ci comprendiamo. Io arrossirei nel porgere una menzogna a guisa di conforto, mi sembra una derisione, un insulto. Ed è invece quello che tutti vogliono, quello che amano, quello che dànno con maggior ardore per ottenerne alla lor volta il ricambio; perchè prodigando oggi le parole oscuranti di adulazione e di blandizia, sentono inconsciamente che domani faranno ritorno: e se nel momento di prounciarle non ci credono, quando le ascoltano sembran loro tutt'altra cosa.

Così un giorno si mente per buon cuore, un altro giorno per egoismo, oggi per non offendere l'orgoglio di un amico domani per non subrine la debolezza. Si pena un poco per questa menzogna, ma pensando che è dovuta all'amicizia, alla prudenza, ai doveri sociali, ci sembra quasi virtù. Una volta giunti a questo punto torna logico allargarne i confini e dopo di averla esercitata per gli altri ci troviamo il diritto di applicarla a noi.

Evidentemente io ragiono troppo, ma amare la verità e soffrire per essa e sacrificare ad essa se stessi è cattivo cuore? Forse amo le idee più che le persone, anche questo può essere, ma provatemi che le persone valgono di più? Dalla gora profonda, da quello stagno d'acque morte dove ero costretta a vivere io guardavo intorno: e che cos'altro potevo fare? Speravo bene di trovare improvvisamente una rivelazione, un sentiero, un raggio, forse una voce, chi sa!

La religione la conoscevo solamente nelle paratiche meschine della mia vecchia zia. Le ova sode al venerdi, le acciughe al sabato, il rosario tutte le sere e la confessione una volta al mese; un lurido crocifisso di legno baciucchiato dalla mia parente mi si presentava solo e antipatico simbolo di una religione che non potevo comprendere e che non amavo. Era bensì vivo in me il desiderio di Dio e lo cercai tante e tante volte, cogli occhi solevati al cielo, nelle notti limpide; ma quale Dio cercavo? chi avrebbe saputo spiegarmelo? Dove era? So che una volta contemplando le stelle, fui presa da una tenerezza così profonda, così devota, così misteriosamente triste che ebbi il volto inondato di lagrime; la qual cosa vedendo mia zia disse: “Grulla” e poco dopo soggiunse: “Recita un Requiem per i tuoi poveri morti.”

Ricordo anche un vecchio uomo che mia zia chiamava ossequiosamente il signor professore. Era nostro vicino di casa e siccome teneva alcuni libri in permanenza sul suo tavolino e parlava sempre dell'istruzione, della cultura, della sapienza, mi sentivo attratta verso di lui con una speranza vaga di luce. Non osavo parlar molto perchè ero timida e troppo compresa della mia umile posizione, ma lo ascoltavo con ansia, con un certo battito nelle vene. Mi aspettavo da un momento all'altro che dovesse dire una parola sublime e nella attesa tremavo tutta.

Egli trovandomi un giorno più pensierosa del solito, ebbe la bontà di interrogarmi. Quella fu una grande commozione! Che cosa avrei saputo dire? E che cosa mi avrebbe risposto? Rossa, rossa e con le palpebre chine gli confessai l'afflizione che provavo nel non sapere che cosa ci fosse al mondo di veramente vero.

Il professore uscì fuori in una solenne risata, la quale invece di sconcertarmi mi suggerì subito subito questo dubbio: “Non sei forse vero nemmeno tu”; e allora ebbi il coraggio di sollevare gli occhi e di guardarlo in faccia.

—Ma—diss'egli, tentando di rifarsi serio—la virtù, il sapere, il bene ed il male sono cose vere. Ce n'è una più vera ancora ed è l'aritmetica. Sai tu, bimba, che due e due fanno veramente quattro?

Risposi che me lo avevano detto, ma che non lo sapevo; e tale risposta che poteva sembrare una arguzia profonda non era altro che la candida confessione della mia ignoranza.

Alcuni giorni dopo il professore mi condusse a vedere un opificio, una lunga galleria dove un gran numero di macchine giravano, sbuffavano, fischiavano e, piegandosi ironicamente al mio orecchio, disse: “Ecco la verità. Queste macchine che non sbagliano mai, che compiono regolarmente le loro funzioni come esser vivi sono precisamente il frutto di quella scienza superiore che incomincia col due e due quattro.”

Quasi nell' istesso momento l'operaio che sorvegliava una di quelle macchine esclamò: “Non va, si è spezzata una ruota.” Il professore comprese subito il guasto, ma comprese egualmente il mio sguardo immobile, pieno di tristezza, fisso nella macchina che non girava più?

Ed ancora io credetti per un gran pezzo di non amare la natura. Tranne la rivelazione istantanea che ebbi quel giorno della mia salita su uno dei colli della Versa, gli alberi, i monti, il cielo non erano per me che lo scenario monotono e freddo di passeggiate esasperanti.

Si partiva in quattro, in cinque, in sei, più che fosse possibile raccoglierne, muniti di provvigioni da bocca che bisognava sorvegliare tutto il tempo della gita e che formavano il vero scopo della passeggiata. Si camminava in coda, l'uno sulla pista dell' altro per i sentieri stretti del bosco, costringendo gli occhi a terra per evitare le lordure e con questo avvertimento che partiva tratto tratto dal capo fila: “Tenete a destra, tenete a sinistra”.

Sulla larghezza polverosa delle vie maestre la brigata invece si disponeva di fronte e se mi attardavo un poco, o se tentavo di precedere, subito la voce di mia zia mi richiamava all'ordine.

C'era un bichiere di pelle nera, screpolato dall'uso, il quale girava di tasca in tasca, di mano in mano, di bocca in bocca, profanando tutte le sorgenti che spuntavano sui nostri passi. Mi ricordo quanto a lungo vagheggiai la voluttà di bere alla fonte, con la bocca nell'acqua; ma un giorno che mi arrischiai a farlo, mia zia esclamò scandalizzata: “Si può vedere di pegggio? beve come le bestie.”

A poco a poco s'addensò nel mio cuore un odio per i sentieri da cui non potevo uscire. per i ruscelli cristallini filtrati nel bicchiere di pelle nera, per le spianate ombrose dove l'erba era cosparsa di cartocci vuoti e di ossa di pollo, e per tutto quel popolo di erba compiacente, per le innumerevoli pratelline, per i bottoni d'oro che ognuno coglieva ponendoseli all'occhiello, per i ciuffi di lattuga selvatica dai quali si aprivano come chiari occhi azzurri i cari fiori che avrei tanto amato, e che detestai dal giorno in cui li vidi galleggiare al di sopra di una insalata. Alcune canzoni popolari, amorose o patriottiche, cantate in coro sotto gli alberi finivano di mettere il colmo alla mia tristezza. Fu allora che imparai a piangere internamente.

Una volta ebbi un compenso. Con la preoccupazione costante di fuggire, approfittavo di qualunque distrazione della brigata, più facile nel momento in cui si trovavano tutti occupati a mangiare, per allontanarmi non fosse che di pochi passi, ed in tale occasione scopersi sotto il fitto di una pianta i cui rami scendevano fino a terra una apparizione così elegante che mi commuovo ancora di piacere nel ripensarvi.

Era un gruppo di fiori non mai veduti prima,—fiori di croco?—senza fusto e senza foglie, sorgenti ad uno ad uno dalla terra, nudi e bianchi, di una bianchezza carnea eppur diafana, che colorandosi poi di un pallido lilla, si aprivano leggieri sopra un calice allungato di una grazia squisitissima. Stavano i nobili fiori così l'uno accanto all' altro, protetti dalla densa ombra ramificante, ed a me sembravano aristocratiche dame fuggite a ripararsi sotto quella tenda, oppure dolci e malinconici poeti schivi della folla, redunati in un posto dove nessuno li avrebbe osservati nè côlti.

Io, la tentazione di coglierli, la scacciai come una brutalità. Lieve, lieve, sembrandomi quasi di distrubarli mi inginocchiai dapprima e mi lasciai scivolare fino ad essere tutta lunga distesa nell'erba con la faccia vicina ad essi, guardandoli; guardandoli solmente.

Appartenevano dunque ad un'altra razza di fiori? Avevano bisogno per schiudersi della solitudine, una solitudine perfetta poichè nessuna altra pianticella stava intorno, evidentemente allontanata dalla cortina verde che serviva loro di reggia. Usciva un profumo da quelle delicate forme liliali? no, più che la violenta sensazione che noi intendiamo con tale parola, era una dolcezza fragrante di purità, quasi l'emanazione di una essenza intima troppo delicata e spirituale per sposarsi alla materialità di un odore

La mia estasi contemplativa era quanto si può dire deliziosa. E mi pareva che essi pure si fossero accorti di me e che la mia presenza non desse loro alcun senso di ribrezzo. Li contai, erano sette e due piccoli sorgevano appena. Stavano tutti vicini senza toccarsi. Io sentii dentro di me una soddisfazione curiosissima, come se avessi trovato dei parenti. Ma anche quella ingenua soddisfazione mi costò cara. La zia mi rampognò aspramente dicendo che non era “civiltà” allontanarsi dalla compagnia, che bisogna fare quello che fanno gli alltri se non si vuol parere originali e male educati. In quello stesso momento una signorina della compagnia gettava mollica di pane in volto ai commensali e questa cosa non parve a nessuno originale, nè male educata; anzi se ne rise come di una spiritosità.

Mia madre—mi diceste una volta —era una donna superiore, un alto intelletto e un cuore puro.

Vi pregai allora, e più volte in seguito, di parlarmi di lei; ciò che faceste con una confidente espansione che resta fra le memorie più dolci dei nostri colloqui. Mi avete permesso di partecipare al culto di vostra madre, per vostro mezzo io la conobbi e l'amai. Questa cara morta di cui avete per un istante sollevato il sudario, è rimasta, ad onta che voi siate partito. Fa parte di quel mondo intimo della mia anima che io paragono ad un tempio.

Non so se ho visto veramente o se ho sognato un tempio gotico eretto nello spazio solitario di una campagna; circondato da boschi, tranquillo e scuro nell'interno, sotto i vetri colorati delle ogive che sembrano accendere un lieve calore nei marmi.

Così mi appare spesso l'anima mia; stanca del mondo, della mia vita, de' miei simili, entro in essa e mi riposo. Trovo tutte le sensazioni del tempio; una grande pace, un mistero dolce e solenne, un lieve raggio di malinconia elevata, un sentimento poetico ed una acuta ebbrezza di isolamento. Anche a me scende dalle trasparenze del pensiero una luce calda ed eguale, onde i sepolcri che rinchiudo si animano di un dolce tepore e l'eletto popolo de' miei morti mi circonda, sorgente per me sola dall'eterno oblìo.

Voi sapete bene che qualcuno piange nel mondo, ma non avete mai pianto. Voi non avete nessun sepolcro nell' anima, pure andate tante volte a meditare sulla tomba di vostra madre; quel sasso che mi avete descritto, cui l'edera invadente copre poco a poco le parole fino a formare un velo che voi solo avete il diritto di separare per leggere il caro nome. La nostalgia dei grigi mattini, passati nel cimitero del vostro villaggio, vi assaliva talvolta in questo paese del sole. Seduti sotto gli archi del Colosseo—ve ne rammentate?—mi diceste: “Non sapete cosa vuol dire pensare ad una tomba lontana!”

La sicurezza quasi dolorosa del vostro accento, ferendomi nell'orgoglio, mi impedì di rispondere allora. Ma ecco che vi rispondo. Sapete voi che cosa vuol dire pensare ad una tomba che si ignora, che forse non esiste? Vi immaginate questo profondo, questo insanabile dolore: non conoscere, non poter mai sperare di conoscere di chi si è figli?

Oh! tutto quello che mi diceste di vostra madre! le sue carezze, le sue ansie, le preghiere che vi faceva recitare con le manine giunte sul vostro lettuccio, le lezioni per essere buono, per essere giusto, per essere grande; e quel libro dove essa segnava giorno per giorno i vostri progressi? e il piccolo museo delle vostre piccole spoglie? la prima scarpetta, il primo guanto … e quei suoi dolci occhi fissi nei vostri, occhi vigilanti, amanti, che vi circondavano di una protezione continua, che vi seguono ancora attraverso monti e mari rompendo la pietra del sepolcro? Perfino il sepolcro vi invidio, quel lembo di terra, quel breve sasso sul quale piangendo potete dire: qui riposa mia madre!

Io non ho nulla.

Quando la vecchia, che si diceva mia zia, morì improvvisamente, le vicine mi annunciarono che ella stessa non sapeva chi fossi. Mi aveva ricevuto in deposito col compenso di una certa somma e siccome non le davo noia, anzi le ero di aiuto e di compagnia, si era quasi persuasa di avere in me una parente; ma per le sue facoltà molto limitate, per indolenza, per ignoranza, non si era mai data la briga di annunciarmi queste mistero della mia nascita; ed era tanto meschino l'ambiente che mi circondava, basso e soffocante ogni prorompimento di ideale, che io stessa non avevo mai sentito il bisogno di sapere di più.

La morte della povera donna mi svegliò come da un sogno pesante e torbido, senonchè prima dei sogni c'è la vita, ed in me invece la vita era stata il sogno stesso.

Chi ero? dove andavo? Che cosa avrei fatto? Ponete questi tre problemi davanti ad una fanciulla di quattordici anni, sola nel mondo. La prima notte, piansi; la seconda, non piansi, ma non dormii. Alla mattina per tempo seguii il feretro della sconosciuta che aveva diviso con me il suo pane ed il suo tetto. Tornata a casa mi posi a sedere in mezzo ai pochi mobili che ornavano le nostre tre camere e lì guardai trasognata, sotto un aspetto nuovo, quei mobili stranieri.

Non si sarebbe aperto improvvisamente un armadio? o non sorgerebbe un'ombra dalla poltrona verde, dallo specchio della caminiera incorniciato di legno lucido dentro il quale si rifletteva la pendola? la pendola, la sola cosa viva che restasse intorno a me, come mi tenne compagnia in quelle prime ore! La lancetta camminava lentamente ai piedi di una donna che se ne stava appoggiata ad una colonna con un'anfora sulle braccia, e la voce interna del meccanismo mi cullava come una nota ninnananna.

Una vicina venne a prendermi e mi condusse in casa sua. Passai alcuni giorni intontita, lasciandomi mettere un velo nero intorno al collo e delle boccole nere nelle orecchie, e rispondendo meccanicamente ad una quantità di requiem. Poi sopraggiunsero delle persone che on conoscevo, che mi fecero scrivere il mio nome e che guardarono in tutti i cassetti della morta.

Pare che la buona donna vivesse con una pensione che cessò subito e pare anche che tutti i mobili di casa fossero venduti a mio profitto, poichè intesi parlare di darmi uno stato. Così fui posta in un collegio di monache, dove rimasi poco più di due anni e dal quale mi levò poi una signora per prendermi a compagna delle sue figlie.

Ma intanto s'era formata nel mio pensiero una completa evoluzione. Finchè avevo creduto di appartenere alla famiglia della vecchia, l'umiliazione ed il dolore di trovarmi in un continuo disaccordo, in un disagio oltre ogni dire penoso, comprimeva qualunque molla del mio organismo. Mi sentivo prigioniera e come molti prigionieri sospiravo alla libertà, ma senza nessun disegno di fuga. Qualunque fossero i miei istinti, col regime a cui ero avvezza, non mi aspettavo che l'atrofia completa. Dove avrei trovato l'energia per insorgere contro tutto un passato di tradizioni, di pregiudizi, di ignoranza, inceppata come ero dalla mia ignoranza stessa?

Tutto cambiò quando seppi che non appartenevo a nessuno, quando il passato fu mio, esclusivamente mio, al pari dell'avvenire.

Questa grande responsabilità cadutami addosso all' improvviso, e cessato lo stordimento del colpo, in mezzo ad una malinconia penetrante ed austera rivelò me a me stessa. Non ero più la figlia e la nipote di gente gretta, degenerata, ridotta ad una vita di puro istinto: ero io, cioè una forza libera, una volontà assoluta, una coscienza intera; perfino il buio impenetrabile che precedeva la mia venuta nel mondo, lungi dall'avvilirmi, in certi momenti mi esaltava. Vedevo in esso dei punti d'oro a cui la mia fantasia attaccava fili misteriosi.

Chi mi avrebbe mai detto di chi sono figlia? Ma veramente un nome è sempre tutto? Io sento di avere degli antenati alti, una scala ascendente verso le migliori idealità umane e tutti i germi del bene mi furono tramandati. Che mi importa il nome? Che mi importano le ricchezze? Chiunque siate, avi degli avi miei, vi benedico!

Che cosa vuol dire parente? Chi è mio parente?

Zotici o maligni parenti ci dà il caso e noi dobbiamo amarli, perchè?

Una madre stolida dà vita a un genio, un uomo di genio si trova di avere per figlio un imbecille. Quanto di lui c' è in quel figlio e quanto vi posero altri che egli non vide, non conobbe, non amò? che non furono affatto carne della sua carne e spirito del suo spirito? di qual somma di unioni male assortite è frutto colui che egli crede unico frutto suo? Gli zii, i cognati, i cugini, che cosa rappresentano se non una combinazione fortuita nella nostra vita, indipendente dalla vostra volontà?

L'eguaglianza del nome, degli interessi, delle consuetudini, costituisce forse l'unione delle anime? E al di fuori di questa, che importanza può avere l'unione?

I miei parenti? Ma essi sono coloro che amo e che scelgo, non quelli che mi si impongono. Chi siete voi agli occhi del mondo, Lawrence, se non lo straniero nato sotto altro cielo, così lungi da me? Ma dirò io che il mondo ha ragione? o non dirò piuttosto che il mondo ignora quali vincoli esistano fra anima ed anima all' infuori di ogni patto sociale, di ogni sentimento riconosciuto?

Quando incontrerò uno che ama come me le grigie nebbie invernali, che a tutti i mari azzurri e a tutti i soli d'oro preferisce il verde cupo di un bosco, e al caldo il gelo, e alla vita esterna il raccoglimento, e alla musica il silenzio, al colore l'ombra, all' azione il pensiero, dirò di aver trovato un parente. Quando incontrerò uno che vive nell'anima sua come un sacerdote nel tempio obbedendo al mistero e adorandolo, dirò di aver trovato un fratello. Ma se mai appaia colui che della somma bellezza e della somma bontà mi apra il recondito santuario, quello sarà veramente il mio compagno. Chi potrà contendermelo? In nome di qual legge o di qual diritto? L'affetto elettivo è il più degno dell'uomo, il solo nel quale egli può recare tutto il suo contingente di intelligenza, di studi, di esperienze. Ed è così grandioso il concetto di un amore che dice: In tutta l' ampiezza del mondo, tra i vicini e tra i lontani, fra gli ostacoli del tempo, dello spazio e degli uomini, io scelgo te!

I due anni passati in convento furono molto dolci. Era un orizzonte nuovo che mi si apriva colle spiegazioni quotidiane, i libri, la parola elevata delle suore, l'ordine, il silenzio, il contegno, che nel suo rigore un po' duro non aveva nulla che mi urtasse; anche nella luce pallida ed uniforme dei corridoi, nel giardino chiuso, nella chiesetta così raccolta, così silenziosa, sotto i drappeggi di velo bianco frangiato d'argento che le suore distendevano davanti all'altare, trovavo un ambiente simpatico a' miei sogni.

Le suore, o molto indulgenti o poco penetranti, non badavano alle mie distrazioni; la verità è che non sempre recitavo tutte le preghiere d'obbligo, ma una indistinta preghiera doveva pure uscire dal mio cuore e salire a Dio, in quelle soavi ore di preparazione e di mistero che mi hanno lasciato in fondo all'anima, abbuiata da tanti dolori, come il riflesso di un raggio bianco. Non chiedevo ancora a me stessa “che cosa farò?” ma mi veniva la vaga persuasione che qualche cosa avrei fatto.

Ero sorpresa di trovarmi sempre cosi diversa dagli altri. Gli oggetti i più semplici, i più comuni, avevano per me un secondo aspetto; le parole si mutavano spesso in cose vive e concrete; animavo non solo la forma, ma il sogno.

La mia immaginazione era così alata che trasformavo senza nessuno sforzo il giardino del monastero in una specie di Eliso, in un mondo fantastico e primitivo non ancora abitato dagli uomini. L'ombra di tre piantine riunite bastava per farmi credere di essere in una foresta vergine, le albicocche gialleggianti mi sembravano i frutti d'oro delle Esperidi e i sottilissimi fili dei ragni, dondolanti sotto un raggio di sole li credevo veramente i capelli delle driadi e delle ninfe svolazzanti per l'aria.

Mi ricordo un caldo giorno d'agosto, la scolaresca abbattuta, annoiata, oppressa dall'afa che nell' ampia aula sembrava gravitare come piombo fuso; vedo ancora la striscia di luce gialla che penetrava attraverso la fessura delle tende; sento la durezza dei banchi, l'indolenzimento delle ossa per la forzata immobilità e la voce monotona della suora che leggeva le vite dei Santi. A un punto, dove ricorreva la descrizione di una grotta della Tebaide, questa frase mi fece trasalire di piacere: “sgorgava dal sasso una sorgente d'acqua pura, freschissima,” e per un istante sparve il caldo, sparve l'arsura; io mi sentii felice, trasportata veramente in quella deliziosa regione d'acque e di monti.

Sì poco era bastato perchè la mia immaginazione vincendo la realtà io sentissi quasi gorgogliarmi intorno alle membra e scendere nella gola riarsa la freschezza di quell' acqua. Lo dissi alla mia vicina che si beffò lungamente di me.

Oh! il fascino delle parole… Ricordate quelle che stanno scritte sul frontone di una chiesetta in un quartiere perso di una città a noi cara? Ascendit quasi aurora consurgcns. Come noi le amavamo, ricordate? Come le nostre labbra le pronunciavano ad una ad una, deliziosamente, accarezzandole! La vostra voce aveva una nota profonda di simpatia per la prima, ascendit, ed io ripetevo con una dolcezza calda e tremante le altre due quasi aurora; e ci sembrava di salire veramente nel raggio dell'aurora. Questa gioia innenarrabile di godere insieme, colla stessa anima, non l' ho mai avuta prima di conoscervi. Nel mio libro di preghiere, c'erano pure delle frasi che mi toccavano particolarmente; una versione del dies irae che incominciava “In quel dì che le Sibille” e una canzone del beato Alfonso de Liguori “Selva romita e oscura”. Io le ripetevo per delle giornate intere, estasiata nella misteriosa armonia delle sillabe, nel significato misterioso del simbolo. E ancora le mie compagne si beffavano di me.

Avevamo tutte un gran numero di immagini sacre; per la maggior parte delle ragazze esse rappresentavano un trastullo, per qualcuna un oggetto di santità, come un complemento della preghiera e degli altri riti; per qualcuna pure un mezzo di soverchiare le compagne. Per me ognuna di esse era la rivelazione di un mondo. Ricordo S. Francesco Saverio predicante a uno stuolo di selvaggi; erano figure rozze, mal disegnate, eppure io leggevo l'avidità della nuova parola nelle diverse attitudini dei volti e l'ardore della missione nel Santo che li dominava tutti dall'alto, cinto della tonaca bruna che faceva contrasto colle penne e cogli ornamenti dei selvaggi. Ricordo certe madonne eteree, evanescenti, certi angeli che guidavano le anime per sentieri di fiori, dandomi uno struggimento di tenerezza e un desiderio di quei mondi ignorati ai quali mi sentivo attratta, non per indole ascetica, ma piuttosto per una viva fantasia poetica e per il bisogno irresistibile del bello.

Sopratutto mi attirava una piccola immagine, dono della superiora, una delicata incisione che rappresentava un giovinetto inginocchiato sopra una nuda croce in mezzo a un paesaggio sublime, tenendo alzate le mani e il volto con una tale intensità di passione che, dimenticando affatto il soggetto quale appariva a' miei occhi, ero rapita nel mistero di quell' amore doloroso e non potevo gettarvi sopra lo sguardo senza una fortissima commozione. Io ho amato per lungo tempo quel giovinetto, inginocchiato accanto a lui sulla sua croce, alzando come lui le braccia a un sogno divino e lontano.

Un'altra immagine ancora—bersaglio degli scherzi delle mie compagne—era una gabbia, una semplice gabbia contenente un uccellino, e al disopra di essa un cuore fiammante. Il disegno, rudimentale della gabbia, la straordinaria ingenuità dell'insieme, tutto ciò infine che poteva far ridere io non lo vedevo. Io vedevo un essere prigioniero di un altro a lui superiore e il simbolo vinceva la forma; la materialità svaniva sotto l' irruenza dell'ideale.

Questa visione, evocata da così misero apparecchio, trovava nella mia mente degli sfondi a perdita d' occhio, un seguito di scene ardenti e spirituali ad un tempo, tutta una fantasmagoria di desideri latenti, di pensieri incompleti, di febbri, di scoramenti, di ricerche, di attese, di strane chiaroveggenze, involte e quasi inceppate da profonde tenebre, per cui mi succedeva di avere la parola tronca, lo sguardo vitreo, le mani sudate e gelate nello stesso momento, un vero stato di eccitazione nervosa non nuovo in me, che la mia povera zia dichiarava proveniente dai vermi e che sotto il suo regime mi veniva curato invariabilmente con una dose di santonina.

Nei queti vesperi domenicali che le mie compagne passavano volentieri ciarlando o passeggiando io guizzavo furtiva nella chiesetta e se riuscivo a trovarmici sola esultavo.

Non ero molto religiosa, memore delle grette osservanze di mia zia, ma un sentimento di profondo rispetto al mistero, un sentimento serio e solenne mi faceva amare la maestà del tempio. La solitudine di Dio mi appariva cosa alta e divina, il vero stato di perfezione al disopra del mondo e delle sue miserie; così l' adorazione che non usciva dai miei labbri faceva atto di umiltà in fondo alla mia anima.

Non ero artista, eppure i dipinti della vôlta, le trecento Vergini circondate dagli angeli, guidate dai patriarchi sotto un cielo rosato, che il tempo aveva stinto qua e là dandogli una trasparenza immateriale di cosa vista in sogno, mi attiravano invincibilmente. Certe braccia candide, diafane, certi volti di santa, certe pieghe violente delle tuniche che uscivano dalla cornice invadendo i pilastri, tutto quel mondo di personaggi inanimati io lo vivificavo colla mia immaginazione e lo amavo. Non mi appariva qui nessun urto stridente. Essi erano dei silenziosi come me.

Sicuramente non ero poeta; mi sarebbe stato impossibile di trovare un verso, e tuttavia sentivo un'armonia di suoni che mi turbinava deliziosamente nel cervello e che, mi pare, qualcuno avrebbe saputo mettere in versi. Le rose fresche dell'altare, odoranti, così lievi in mezzo ai lini color avorio, mi davano uno struggimento di piacere; seguivo cogli occhi incantati le punteggiature metalliche delle lampade, del tabernacolo incrostato di pietre le cui tinte cangianti serbavano i riflessi del misterioso Oriente al quale erano state tolte. Il raggio di sole che penetrava dalla stretta finestra, tutto pieno del canto degli uccelli, lambiva delicatamente una cortina azzurra prima di giungere nell'interno della chiesetta e vi portava l' allegria dei campi smorzata da un sentimento più intimo e più ideale.

Ma che cosa non mi piaceva di quel divino asilo, quando potevo restarvi sola? L' impressione era ben diversa in compagnia delle educande.

Le avevo interrogate ad una ad una e tutte si erano meravigliate de' miei entusiasmi; la maggior parte di esse non sapeva neppure che vi fossero dei dipinti sui muri; tutte convennero che bisognava andare in chiesa per dire le orazioni, ma che non ci si divertiva, tanto che si compensavano parlottando a voce bassa e mercanteggiando le immagini dei loro libri da messa.

A furia di osservazioni e di deduzioni arrivai anche a dubitare che le suore, le pie e buone suore che ornavano metodicamente la loro chiesetta di rose e di veli, misurando la navata col loro passo tranquillo, gli occhi socchiusi, le mani fredde sullo scapolare—oh! tanto buone e pie—non comprendessero però, non sentissero in quel modo ardente che sentivo io la poesia dell' invisibile.

L'ardore, un ardore chiuso e quasi violentato fu la caratteristica di tutte le mie impressioni; l'eccesso della senzazione è la battaglia quotidiana che combatto da che sono al mondo, che mi flagella ad ogni ora, ad ogni momento, lasciandomi dei lividi un po' dappertutto.

Non è vero, come disse qualcuno, che io coltivassi fino dall'adolescenza il proposito di darmi al teatro. Non ho pensato a divenire attrice che quando lo fui; e lo fui senza sapere il perchè. L' arte ha di queste incoscienze, per cui si cammina dritti ad un punto che non è la meta, ma solo il mezzo di arrivarvi. E l'ideale credete sia un palazzo campato nell'aria senza scale, o non piuttosto un succedersi di gradini sempre salienti e così ripidi che, quando si è raggiunto l'ultimo, siamo meravigliati di non vedere più il primo?

Oh! no, ve lo giuro, nei miei sogni giovanili le lustre del palcoscenico non entrarono per nulla e quel giorno che sulla vetta di un colle invocai Dio come la massima aspirazione, non sapevo io stessa che cosa volevo. Era l'amore? era la gloria? Forse, ma anche di più. Volevo tutto e volevo più in là.

S. Agostino dice: “quello che volevo, quello che bramavo era d'amare e d'essere amato”. Sì, ma che s'intende per essere amati? E amare? Oh! la difficile e profonda cosa!

Io credetti, uscita di convento, d'amare il mio nuovo stato, la famiglia che mi ospitava, i bambini affidati alle mie cure; non so come disimpegnavo i miei doveri, ma essi pure si credettero amati. Si apprezzava la mia serietà operosa, la giustizia e la dignità alla quale informavo la mia condotta.

I nuovi compagni datimi dal caso apparivano esternamente più elevati della povera donna che avevo chiamata zia per quattordici anni. I loro modi dolci e cortesi, le abitudini signorili, mi diedero sulle prime una gradevolissima impressione. Appartenevano a quella categoria di individui che, volendo uscire dalla massa e non avendo mezzi propri si fanno curare dal medico più distinto, frequentano la chiesa più a modo, hanno un sarto di primo ordine e per nulla al mondo abiterebbero una casa dove non fosse severamente proibito di parlare a voce alta.

Dovevo riconoscere che l'ideale da cui partivano non era assolutamente volgare, ma tutta la mia simpatia cadeva quando li vedevo occupati col medesimo zelo a non perdere messa e a non toccare il pesce col coltello.

L'educazione, ripetevano spesso, è la cosa più necessaria ad una persona superiore, e per educazione si faceva tutto in quella famiglia; era il perno a cui giravano intorno affetti, interessi, pratiche, gusti, divertimenti, relazioni, decisioni. Ammiravano l'ingegno perchè è proprio di una persona educata il farlo; ammiravano la musica, il mare, il chiaro di luna, i Promessi Sposi, l'Excelsior di Longfellow, l'Angclus di Millet. Imparai molto stando con loro. Una quantità di nozioni esatte e fredde andarono a popolare i vuoti della mia memoria; mi spogliai di gesti e di locuzioni improprie, cenci rimastimi della mia meschina infanzia. Mi si rivelò anzi allora una facoltà che posseggo in sommo grado, la facoltà degli stomachi perfetti: assimilare da uno scarso nutrimento le qualità migliori. Io assorbii in un anno il materiale psichico che tutta quella famiglia aveva accumulato pazientemente in due o tre generazioni di pedanti istruiti; avevo succhiato tutto il sangue che c'era in quello sfoggio grandioso di polpa molle incapace di rifornirsi; e mi succedeva come ad una biscia, quando ai tepòri del sole estivo si riveste di nuova pelle ed esce dalla pelle vecchia, lasciandola secca dietro a sè.

Ma uscire da quella pelle non era facile. Mi accusavo spesso di ingratitudine e tentavo di persuadermi che la mia sorte non poteva essere migliore. Infatti che cosa mi mancava? Certe asfissie graduali che uccidono lentamente non dànno neppure alla vittima la sensazione della mancanza d'aria; è la morte dolce sopra tutte, in mezzo ai fiori, col sorriso sulle labbra, la mente perduta nelle visioni.

Qualche volta mi pareva di muovermi in un paesaggio giapponese; uno di quei paesaggi dipinti sui vasi panciuti e sui ventagli sottili, dove le case sono trasparenti, le persone senza corpo e gli alberi e gli animali sembrano fossilizzati; paesaggi senza sfondo, irritanti nella loro inafferrabilità di ombre, dove le cicogne, allineate sopra un solo piano, immobilizzano le ali laminate d'argento in un cielo senz' aria.

Una malattia di languore mi prese, la chiamarono anemia. Dissero che ero cresciuta troppo presto, e non era vero, e dissero anche che vivevo troppo concentrata in me stessa, questo sì.

Per mostrarmi grata ai miei benefattori che volevano procurarmi delle distrazioni li seguii in società. Sulle prime, poichè tutto era nuovo, mi divertivo, o meglio speravo di divertirmi; (veramente essi pensavano che una gabbia di canarini nel salotto diverte pure e che i cari animaletti tengono compagnia) ma compresi presto che il divertimento non è fatto per me; la parola stessa mi è uggiosa. Nel più fitto di una festa, quando tutti erano allegri io mi domandavo: perchè? E mi trovavo sola. Mi riusciva impossibile di stabilire nessuna comunicazione con tutta quella gente, uomini e donne. Se non parlavano un'altra lingua, davano però una diversa espressione alle parole—e ne volavano tante nella insoffribile verbosità femminile— nella tracotante presunzione dei maschi —così rapidamente avventate, circolanti, rumoreggianti, trasportate come dal turbine e leggiere! Più essi parlavano, più ammutolivo. Provavo una vera sofferenza fatta di umiliazione e di sdegno e più ancora di una profonda malinconia. Cercavo di vincermi e non vi riuscivo. Dicevo a me stessa: Perchè tutta questa gente vive, si muove, parla, e non vive nè si muove, nè parla colui che io sogno?

I contrasti fra l' essere e il parere, che mi avevano irritata fin da bambina, si rinnovavano su larga scala, dandomi una esasperazione interna che non posso descrivere.

Quando vivevo nella misera casa della zia mi ero formata l'idea di un mondo a parte, un mondo dove si concretassero tutte le cose che amavo; la bellezza, la distinzione, l'intelligenza. Esisteva davvero questo mondo e dove si trovava? Nell' aristocrazia forse? Avevo simpatizzato sempre con questa parola, e poichè si incominciava già a chiamarmi aristocratica con una manifesta intenzione di allontanamento che formava tutta la mia gloria, accettai il battesimo. Il concetto di una catena ininterrotta di generazioni superiori mi appariva di una grande bellezza ideale. Pensavo allora che la società fosse nettamente divisa in due parti e cercavo la migliore per rizzarvi la mia tenda di pellegrina. Non avendo vincoli di famiglia, potevo ben prendere una famiglia di elezione: nessuna altezza mi intimidiva e completamente spoglia di vanità avrei accettato un trono solo perchè questo mi avvicinava di qualche gradino al cielo; essere grande, benefica, santa, ed elevare tutto intorno a me, che sogno! Ma anche questo; conoscere una vera bellezza, una vera grandezza, una vera santità e prostrarmi a' suoi piedi, adorandola. Quasi non facevo differenza tra i due modi di estrinsecazione purchè la cosa ci fosse. Capite nevvero?

Ma io non mi contentavo di una frazione, volevo l'ideale splendido ed intero. Facevo questo ragionamento: Io sono bella, sono sana, sono intelligente, sono alta, dunque mi piaccio. Eppure il piacere non è completo perchè la mia bellezza non è assoluta, nè la mia salute è intangibile, nè la mia intelligenza è genio, nè la mia elevatezza è perfezione. Ma se riuscissi ad essere così, mi pare che avrei la felicità—io nella perfezione e nella onnipotenza—cioè nella possibilità di diffondere il massimo bene e di accrescere il numero dei felici. Non è questo lo scopo più alto della vita?

Improvvisamente mi decisi per il teatro. Non potrebbe essere la mia strada per consolare, per far del bene? Forse che lo possono e lo debbono tutti allo stesso modo o non piuttosto ognuno secondo i propri mezzi? Dare un pezzo di pane è più meritorio e più proficuo che dare un raggio, un palpito, un sorriso? Nutrire il corpo è compito superiore al nutrire l' anima? Quando spezzo le divine ebbrezze dell' arte a un pubblico che se ne parte felice e migliore, più alto e più puro, faccio dunque cosa tanto diversa di chi reca ai poveri dei giubboncini lavorati colle proprie mani? Altri possiede del coton, un uncinetto e l'abilità di servirsene e mette tutto ciò a disposizione di chi patisce il freddo. Io non ho che un' anima ardente, vibrante, e la apro a coloro che hanno freddo nell'anima propria. Dò l'amore, dò la fede, dò il palpito che solleva, che innalza, che fa meno tristi.

Non hanno mai pensato gli uomini al bene che viene loro dall' arte? alle lagrime che l'artista ha asciugate? ai sorrisi che ha fatto spuntare? ai pensieri nuovi gettati come germogli nelle giovani menti? alla parola che calma i cuori agitati? In verità ve lo dico, quando l'artista piange, piange le legrime di tutto il mondo.

Pensare che tutti credono di amare ed hanno tutti un'anima così fredda, così impassibilmente rassegnata, e con quest'anima fredda si mettono a fare'dell'arte, della poesia della passionalità, dell'idealismo.… Non odiano e s'immaginano di poter amare!

L' odio, ecco il grande e nobile sentimento, il sentimento ideale per eccellenza. Non siete persuaso che Dante e Shakespeare, i due poeti della passione profonda ed oscura, si ispirarono anzitutto all'odio? Ofelia e Beatrice sono emerse da una ecatombe di persone e di cose che essi hanno odiate; è su un cumulo di cadaveri odiosamente calpestati che il genio evoca la sue più potenti creazioni. L'amore stesso non lo comprendo senza una preparazione di odio. Che valore avrebbe altrimenti? Amare non vuol dire scegliere? e scegliere non vuol dire anteporre uno a molti, uno a tutti?

E così: si vede sfilare davanti a noi la folla (la folla indifferente, dicono gli indifferenti, ma l'indifferenza non esiste per un'anima ardente, la nostra indifferenza è avversione). Sfilano uno, due mille, urtando ciascuno un'intima sensibilità, lacerando un velo che si teneva gelosamente stretto, accumulando nei nostri cuori lo sdegno, il disprezzo, la nausea, finchè l'Eletto appare. Egli appare e il cumulo d'odio si sfascia, si divide come le acque del mare misterioso al tocco della verga divina, sorge da esso l'Amore! L'amore grande per tutto ciò che ha sofferto, sicuro per tutto ciò che ha veduto, l'amore che non è il fiore innocente caduto dall' ala di un angelo, ma la fiamma che ha spasimato bruciando, che sa.

I miei protettori che spiavano ogni occasione per poter mettere in pratica la loro cultura e per avere sempre più l'apparenza di persone intelligenti, mi condussero a vedere lo spoglio di un vecchio palazzo destinato all'asta pubblica in seguito alla rovina del suo proprietario. Aggirandosi nelle sale auguste essi dicevano: “Povero duca, tanto buono, tanto gentile, ed educato poi!”

Questa specie di compianto non trovava eco in me. La bontà, la gentilezza, l'educazione del duca mi sembravano ben meschina cosa in confronto allo sfacelo della grande idea che quella rovina mi rappresentava, in confronto alla compassione che sentivo per la casa abbandonata, con tutti i tesori d'anima che conteneva, quei ritratti, quelle vesti, quei ricami lunghi e pazienti, quei cofani chiusi, quei mobili così muti e così eloquenti nella loro dignitosa tristezza di cose morte. Mi strinse sopratutto il cuore una cornicina contenente il ritratto del duca bambino. Era un disegno a chiaroscuro, fatto dalla madre stessa, e portava sotto questo verso scritto con mano leggera e termante: “Amor ti fece e qui ti pinse Amore.” Che cosa immaginare di più delicato? e che cosa c'era di più maliconico in mezzo a quelle rovine?

Fin da piccina, quando il gusto è ancora istinto, e in un tempo in cui dominava lo stile sciatto e freddo che il principio del secolo aveva imposto ai mobili ed agli arredi io mi ero attaccata con una passione cieca di bimba ai frammenti della grande arte antica. Relegato fra i rottami, c'era in casa di mia zia un cofanetto di ferro battuto coperto di ruggine e di velluto sbiadito, ròso agli angoli, colla serratura sconquassata e con due piedi invece di quattro—i due piedi posteriori—così che se ne stava tutto umile in attitudine prostrata quasi chiedendo la grazia di lasciarlo vivere; e quel cofanetto ebbe da me un lungo tributo di ammirazione, di desiderio, di pensieri fantastici e soavi, di leggende strane, amorose, palpitanti. Mi sembrava bellissimo, mentre tutti lo chiamavano brutto; e trovavo pure interessante un Agnus Dei che mia zia ebbe da una parente monaca, che doveva essere molto vecchio col suo raso gialliccio, coll'indefinibile profumo di incenso e di rose seche che faceva pensare alle dita delle suore morte; e mi pareva bello un piatto di maiolica bianca traforato, nel quale, perchè fesso, mia zia dava la zuppa al gatto.

Tutte, tutte le cose vecchie, le cose che avevano vissuto, che dovevano contenere tanti sorrisi e tante lagrime io le amavo. Ed anche la bellezza plastica, i fiorami del ferro battuto, la sagoma della serratura e la trama del velluto nel cofanetto, il colore del raso nell'Agnus Dei, il traforo ingenuo del piatto parlavano ai miei occhi il linguaggio di un' arte rigogliosa, che allora non era alla moda, che nessuno curava, ed alla quale si preferiva il motto d'ordine della linea angolosa e della rigidità. Ah! io ho troppo amato l'arte antica, l'ho amata con passione muta, chiusa, isolata, quando essa era abbandonata e derisa per potermi unire al coro degli indifferenti che l'acclamano ora in omaggio alla moda e con un catalogo in mano.

Già due o tre giorni innanzi i miei protettori avevano lette coscenziosamente riviste e libri d'arte per rammentare fino a qual punto dovevano entusiasmarsi per Donatello piuttosto che per Luca della Robbia, per Holbein o per Alberto Durer, e si erano ben penetrati dello stile dei quattrocentisti onde non confonderli coi loro successori; perciò davanti ad ogni quadro o statuetta, prima ancora di guardarli, si informavano del nome dell'autore. L'asterisco sul catalogo era necessario perchè potessero riscaldarsi, ma una volta riscaldati filavano al pari di locomotive senza mai uscire dal binario. Essi dicevano: Un Raffaello, che meraviglia! Un Dolci, un po'lezioso! Un Tiziano, che abbondaza! Un Veronese, che forza! Un Del Sarto, che morbidezza! (Oh! cara immagine vista a S. Miniato, in fondo a sinistra, e che le guide classificano con mia somma gioia “di un ignoto”. Ve ne ricordate?)

Le armi antiche, le gigantesche corazze facevano inarcar loro le ciglia, a tutti nello stesso modo, con un senso di ammirazione e di sbigottimento. Gli avorii, le lacche giapponesi, gli smalti così delicati nelle loro tinte azzurrine e diafane li curvavano sulle vetrine con atto rispettoso, mentre tentavano di accarezzarne i dolci riflessi, ma astenendosene da quelle persone bene educate che erano. Sui gioielli di strass non si erano pronunciati; in fondo non ottenevano la loro simpatia, ma essendo alla moda non ardivano andare contro alla corrente. Con molta precauzione sollevavano le tazze, i piccoli vasi di porcellana e quando vi scoprivano sotto le due spade incrociate od i tre DDD si scambiavano uno sguardo d' intelligenza non scevro di sussiego. Discutevano sul nome delle trine: Malines? Valencienne? punto di Venezia?… Un ventaglio di madreperla che era appartenuto alla principessa di Lamballe li fece esclamare in coro: sventurata donna!

Fra i visitatori si guardava con ammirazione una famiglia così istrutta che parlava bene a proposito di ogni cosa, ed a me tutto quell'entusiasmo comperato metteva il gelo nelle vene. Non capisco l'entusiasmo che in due; tre è già troppo.

Diversi amici e conoscenti sopraggiunsero poi, fra essi un vechio poeta, un giovane romanziere e due dame. Il romaziere, molto elegante, con certe scarpe verniciate che distoglievano l'attenzione dai cristalli, andava frugando in una cartela dove stavano chiuse delle stampe licenziose.—Cerca i documenti umani—disse il poeta.

—E lei che cosa cerca in quel servizio da tavola?—gli domandò qualcuno.—

Oh! naturalmente il profumo delle vivande del settecento—esclamò ironico il romanziere. (Era stato un poeta patriottico nel quarantotto, ma smorzati gli ardori proclamava adesso che la maggior poesia è quella di un buon pranzo.)

Le due dame osservavano un borsellino di raso color perla ricamato a rose in rilievo, lavoro squisitissimo della bisavola del duca. Peccato—disse una di loro—che non sia pieno di monete gialle! Io—soggiunse l'altra con nobile gara—preferirei quelle senza questo.

—Chi sono?—domandai piano alla mia protettrice, che mi rispose con perfetta compunzione:—Due grandi dame; i loro avi furono alle crociate.

Non risposi, ma sentii una tale tristezza scendere su di me, e la solita vampa d'odio, e il solito violento bisogno di solitudine, che fingendomi stanca mi lasciai cadere entro un seggiolone, sfinita da una ardente sete d' amare e di essere compresa.

Oh! Dio quando ciò succederebbe? Essere amati non è nulla se non si è compresi.

Vi ricordate una sera?… Stavo seduta colle spalle appoggiate verso la finestra, voi quasi devanti a me, nell'angolo un po' buio, sotto quella incisione francese che rappresenta L'Orage e che vi piace tanto.

Avevate parlato molto dei poeti inglesi, del loro sentimento sano, semplice e puro, della forza morale che domina il vostro paese e lo fa grande sopra gli altri tutti. La vostra voce così maschia che ha la saldezza e la sonorità del bronzo, risuonava ancora nel salotto tranquillo, nell'aria mite della sera e—perchè non dirlo?—nel mio cuore. Le idee svolte da voi con una dialettica esercitata e sicura mi risvegliavano cento echi dolci, dubbiosi, sopiti, lontani, confusi, fra i quali, a guisa di un accordatore cercavo la nota guista. A un tratto un po' impazientito, ma pur tanto dolcemente diceste: Non sapete proprio parlare? (La notte era caduta d'un tratto e dell'Orage non si vedeva oramai che il bianco velo svolazzante della fanciulla.)

Chinai il capo—come mi ricordo!—un filo delle perle che avevo intorno al collo si ruppe, e mentre cercavo a tentoni le perle, nello stesso modo che un momento prima avevo cercato le idee, risposi: È vero, non so parlare.

Che pensaste di una frase così semplice? Vidi bene che non l'avevate intesa nella profonda angoscia morale che racchiudeva. Ma ve lo dico adesso, io ho passato la vita col desiderio della parola. Come l'ho sognata una persona che sentisse come me, che soffrisse e che godesse per tutto quello che soffro e godo, e che mi amasse e che io amassi, alla quale poter dire tutto. Ma se non posso dire tutto, a che scopo parlare? Capite?

Fu così, fu in seguito al silenzio di tutta la mia giovinezza che per una reazione disperata entrai in una carriera dove finalmente avrei parlato; non colle parole mie, delle quali non riuscii mai ad essere padrona, ma con le parole degli uomini d'ingegno, dei poeti, degli eroi. Finalmente avrei potuto gridare per odio e per amore, alzare un inno a tutti i miei ideali; essere a volta a volta pura, altera, ardente, sottomessa, implacabile; Denise e Fedora, Ofelia e Margherita.

Ve la immaginate questa gioia di dire davanti a migliaia di persone; vile ai vili? e di poter piangere alto, forte, senza offendere il nostro pudore, senza tradire il nostro segreto, sentendo che migliaia di cuori piangono insieme al nostro? Ebbene, credete a chi lo sa, è una gioia sovrumana.

Io ho sempre recitata La visita di nozze mettendovi del mio sangue; pensate che a molti questo gioiello di lagrime piace come commedia allegra e se non piace per i suoi frizzi è un fiasco completo! In verità vi dico, un po' del mio sangue se ne andava tutte le volte che mi era dato esprimere quel disgusto dell'amore che ha toccato il fondo, che non può più nè credere, nè sperare, che non desidera nemmeno più, che non rimpiange, che è morto infine, ben morto poichè gli è tolta l'anima. Io lo dicevo, perchè lo sentivo, così bene!

Non è tutta vanità quella che ci fa preferire l'opera nostra all'opera degli altri. È perchè la nostra la comprendiamo tutta, come è, e come dovrebbe essere. Vedete, nevvero, la sproporzione? Un grande artistà è un grande innamorato, e per l'innamorato il solo amore è il suo.

Lo studio fa dei pedagoghi, degli eruditi, dei sapienti; per diventare artisti bisogna amare una cosa sola intensamente.

Eppure i critici mi suggerivano di consultare questo o quell'autore, e i miei compagni d'arte mi esortavano a frequentare la società per saper rendere bene le passioni. Ho sempre sorriso sdegnosamente a questi consigli; ed una volta che un novizio tutto bello, lindo, azzimato, roseo, indifferente mi domandò in qual modo avrebbe potuto imparare l'arte mia, gli risposi: “Piangete, se potete, come piango io. “Si, lo ripeto, non c' è altro da fare per l'arte; piangere lagrime vive e scrivere e dipingere e parlare con esse.

Mi chiamano sdegnosa è vero. Mi chia mano orgogliosa, è vero. Dicono che non amo i miei simili.… A tale acusa voi solo potreste rispondere. Voi sapete se amo i miei simili.

Fioriva (recente ne è la memoria) un dolce aprile ed io uscivo dalla porta S. Agostino a Bergamo, prendendo la viuzza a sinistra che discende il monte.

Pensavo che voi non conoscete Bergamo, la leggiadrissima, ed io ve la mostravo col pensiero nella pompa maestosa del suo passato, che si ammanta di così nuove e sempre rinascenti bellezze. All'azzurro intenso del cielo, all'incanto della valle, al tenero verde che sorge tutto intorno univo la vostra immagine. Saliva, odorava il vostro nome per l'aria insieme al profumo della glicine elegante ricordandomi una vostra frase “l'eleganza! questa qualità rara”, frase che scolpisce il lato mancante di una gran parte dell'arte moderna.

E tutto un ordine di idee elevate—le vostre idee—mi vennero al fianco, mi acompagnarono ora silenziose ora loquaci, così come voi stesso m'avreste accompagnata. Dov' erano i vostri occhi profondi? Lì, essi erano, io li vedevo; e vedevo la vostra boca dal sorriso spirituale. La mia ammirazione si duplicava evocando quella che voi avreste risentita. Voi avreste detto (lo sapevo certissimamente) “Quanta purezza!” ed io avrei risposto: È vero.

Sopra, negli orti pensili delle mura, giù, lungo il molle declivio, fra l'ombra dei pergolati, sulle grondaie spioventi, intorno alle finestre, nel cavo delle porte abbandonate ramificava l'edera e la vite, il convolvolo e il caprifoglio, e negli interstizi dei vechi sassi si allargavano con grandi macchie verdi e rosate i garofani di cinque foglie, i ranuncoli, le bocche di leone, e sui davanzali gelosamente custoditi fiammeggiavano i geranei doppi dal colore intenso di porpora. Pensavo. Chi è ape? Formiche, farfalle, moscerini, verminuzzi, tutti salgono o strisciano verso il fiore, ma chi sa estrarre il miele, chi è ape?

Sulla viuzza deserta così bianca e soleggiata in mezzo al verde, un passo d'uomo risuonò dietro a me. Se foste stato Voi!! Nello stato quasi ipnotico in cui mi trovavo le linee della realtà si perdevano nei vapori del sogno. Mi volsi rapidamente. Era un giovine bello e gentile abbastanza per non profanarvi troppo, ed io gliene fui quasi riconoscente e come m'ero fermata in quella attitudine estatica, egli pure si fermò. L'ombra del mio parasole mi circondava di una specie di velo attraverso il quale lo guardai; ma lo guardai pensando a voi, cercandovi, ed egli pure mi guardò per un attimo come se mi conoscesse o aspettasse da me una rivelazione. Strani questi sguardi che corrono talvolta da uomo a donna, carichi di rimembranze e di desideri, improvvisi, audaci, nudi, lasciando l'impressione di uno sbalordimento, come un dardo che colpisce senza sapere d'onde sia venuto, destinato ad altri, vero? Il momento, fatto di imbarazzo e di non so quale recondita curiosità non può prolungarsi. Per uscirné in qualche modo, domandai se era quella la direzione dell'Accademia Carrara.

Andavo all'accademia perchè mi avevano detto che vi sono tre madonne di Giambellini, o mio Maestro, vedete bene che vi andavo con voi! Non siete stato voi a farmi conoscere questo re del sentimento?

Passando dalla luce bianca della strada alla penombra della pinacoteca, ogni impressione esterna svani. Avevo davanti agli occhi intera e precisa la nostra Madonna, quella che è la vera madre di Gesù; così pallida, così triste sotto il manto verde, colle pupille stanche fissa nel vuoto e presaghe; pupille che vedono già la via dolorosa; che attendono che sanno! Avevo davanti agli occhi quella boca già suggellata dal mistero doloroso, quella linea che taglia la guancia portandole via tutto ciò che potrebbe restarvi di innocente voluttà; così spiritualmente e severamente bella! Ricordai la meraviglia estatica che ci prese entrambi quando la vedemmo per la prima volta a Brera, e come ci fu impossibile di parlare, e come ci stringemmo la mano in silenzio, un po' affannati, voi pallido per l'emozione ed io rossa. E poi come, adagio adagio, rattenendo la voce qual si costuma in luogo sacro, vi dissi: “Guardate anche il piccoletto Gesù. Avete mai visto niente di simile? È veramente il figlio di quella madre, le somiglia, ha gli stessi occhi intenti e velati, ha la stessa boca che non potendo essere triste della tristezza dell'uomo maturo, si atteggia a un pianto muto di bimbo sorpreso da un grande schianto.” E voi rispondevate di sì, colla testa. “Nessun pittore ha mai pensato alla necessaria rassomiglianza fra madre e figlio, sopratutto fra questa madre e questo figlio. Come ciò è grande, nevvero?” Voi ancora rispondevate di sì, colla testa. “Osservate, osservate. Il frutto che egli tiene in mano sta per cadergli, e non se ne preoccupa, non se ne cura. … è forse un bimbo come gli altri, Lui?—Sì, sì, pronunciaste finalmente, tutto ciò è grande. Giambellini in questa Madonna ha superato se stesso.

Rifacendo tutta questa scena nella mia mente mi accorsi di trovare in essa nuove dolcezze. Sarebbe dunque vero che un ricordo felice è talvolta più dolce della stessa realtà? La gioia fuggitiva dell'istante si accresce e perdura cogli istanti che vi aggiunge il pensiero?

Lungo i muri della pinacoteca sfilavano quietamente le battaglie del Borgognone, i contadini di Tenier, i paesaggi dello Zuccarelli. Nell'altissimo silenzio risuonava appena il passo del guardiano che mi accompagnava (il mio sapete, non fa rumore). Cercavo le madonne di Giambellini con una curiosità appassionata e piena di desiderio, guardando distratta i ritratti del Moroni che nereggiano fra le tinte calde della scuola Tizianesca.

Una bella madonnina di Gaudenzio Ferrari mi sorrise dalla sua alta cornice. “Non sei tu” mormorai passandole davanti. Ma fui presa improvvisamente da due strane teste del Mantegna. Che ne avreste pensato Voi? Questa divenne la mia preoccupazione più acuta. Che ne avresti pensato Voi? Sentivo la vostra ammirazione; china sulla tela vedevo l'ombra del vostro profilo attento, serio, e le vostre labbra sottili che si stringevano ancor più nella intensità dell'osservazione. La cameretta contenente il quadro del Mantegna era piccina, una specie di gabinetto annesso alla galleria principale; il guardiano non mi aveva seguita, ero sola davanti al capolavoro e così sola, nel rapimento dell'ammirazione, mormorai: Lawrance …

Squisito piacere questo di pronunciare un nome caro in cospetto della bellezza!

Ma mi parve—poichè vi sentivo così vicino a me—che anche l'anima vostra volasse lontano, là, alla nostra madonna; e che voi pure tornaste a vederla così pallida, così triste, e più commovente e più vera di quella del Mantegna, più grande sopratutto nella sua straordinaria malinconia interna che ci faceva tanto pensare davanti a Lei.

E non guardai più nulla, nemmeno le altre madonne di Giambellini per le quali ero venuta.

Lawrance … mormorai ancora, uscendo fuori nella viuzza soleggiata che mi fece chiudere le palpebre, cui sotto tremava l'immagine della Madre del Dolore.

Mi confesso. Quando concepii l' idea di scrivere le mie impressioni, quando cioè erano già incominciate le prime pagine e vedevo che il lavoro mi cresceva tra le mani, domandai a un celebre scrittore: Come si fa a scrivere un libro nel quale vogliamo dire tutto ciò che abbiamo nel cuore?

Lo scrittore mi guardò sorridendo, ma con una espressione di interesse e di bontà somma.

—Per chi fate questo libro? Per il pubblico?

—Oh! no.

Risposi questo no così risolutamente che egli soggiunse subito:

—Quand' è così, non preoccupatevi del metodo. Aprite il vostro cuore come gli antichi esponevano le arpe eolie al cozzo dei venti e lasciatelo cantare, lasciatelo gridare.

Voi lo avete conosciuto quello scrittore e un poco, alla vostra maniera, lo avete amato. Non appartiene a nessuna scuola; vive fuori del mondo, sente immensamente, scrive sinceramente. Seguo il suo consiglio.

Le maggiori gioie della mia vita le devo a questa risoluzione che mi fece entrare nell'arte: penso spesso all'antica credenza di una fata pronuba alle culle. La mia fata, dopo di avere distribuito largamente bellezza, forza, denaro, ingegno, fortuna, affetti di famiglia, non trovando nessuno di questi beni da potermi offrire intero, deve aver detto: Diamo a questa fanciulla un' anima di artista, e sarà compensata di tutto. Grazie mia buona fata!

Noi abbiamo letta insieme la prefazione al giornale intimo di Amiel, e ricorderete quel passo che mi sono attribuita: “L' intensità della vita interna rende inetti alla parte di uomo. Un contemplatore come Amiel non ci mette nessun interesse a persuadere gli spiriti o a piegare le volontà. Io non penso mai al pubblico, scrive Amiel, e provo una gioia sufficiente nel partecipare a un mistero, nell'indovinare una cosa profonda, o toccare una realtà sacra. Conoscere mi basta, esprimere mi sembra qualche volta profanare.”

Mi avete qualche volta rimproverata la mia avversione alla vita attiva, al fare; ecco la mia giustificazione. Se avessi fatto, se avessi detto, sarei come tutti gli altri.

Il mio successo, è pur d' uopo riconoscerlo, lo devo a questa intensità di vita racchiusa, a questa partecipazione solitaria e gelosa di ciò che Amiel chiama con tanta efficacia il mistero. Fino dai primi passi sulla scena, avevo adottato per divisa il verso di un poeta ignoto e profondo:

Tous entendront ma voix, nul ne verra mes pleurs.

Invano il pubblico pettegolo e la critica superficiale hanno voluto scoprire la mia individualità nei diversi personaggi che rappresentavo; ho custodito bene il mio segreto, i miei sentimenti e le mie esperienze. Del resto non c' è nessuna esperienza umana che non si possa riassumere in due parole: ho sofferto, ho fatto soffrire.

Ma soffermatevi ancora, vi prego, al significato di quel bellissimo verso: “la mia voce sarà intesa da tutti e nessuno vedrà il mie pianto” non è questo il segreto delle opere d' arte che scuotono le anime? Il pubblico crede alla storiella che il poeta gli racconta, si commove per Margherita, per Ermengarda, per Eloisa, che non sono mai esistite, che importa? Che importa il nome quando la fiamma è rovente e brucia dove tocca? I più furbi pensano: in questi personaggi l'autore ha rappresentato sè stesso; e cercano i particolari, gli accessori di sfondo, si smarriscono nella parola, nei piccoli ripieghi di forma, ignorando la lunga e profonda elaborazione artistica, dove dallo sposalizio fra la sensazione e l'arte nasce un frutto che la gente può ammirare o biasimare, qualche rara volta intendere, spiegare completamente mai.

Un piccolo critico oscuro disse una volta: “Come si capisce che recita per sè!” Voleva farmi un complimento o un' offesa? non mi sono mai curata di saperlo; comunque egli disse una grande verità. Ma certo che recito per me; che cosa credeva dunque? E il calzolaio che fa le scarpe per gli altri, l'artista lavora sempre per sè.

Entrai nell'arte drammatica per soddisfare un bisogno dell'anima mia; avrei preferito di essere poeta o prosatore, se queste cose si potessero scegliere; ho preso la voce di quelli che sapevano meglio parlare alla mia intelligenza, non avendo una intelligenza propria da comunicare altrui, e siccome conservavo sul palcoscenico lo stesso soggettivismo spontaneo, siccome non ho mai veduto il pubblico. non l'ho mai guardato, non ho mai pianto ne riso per esso, sibbene sparsi lagrime mie davanti a migliaia di persone, così sola e così lontana da loro che un chiostro non mi avrebbe protetta meglie, fu dappertutto una meraviglia. Si attribui ad uno studio eccezionale una forma eccezionale di sensibilità, e il trionfo mi giunse tanto inaspettato che stentai ad abituarmivi.

Tale incoscienza è forse la parte più piacevole del genio di un artista, ed è quella che porta il suggello della sua origine superiore, non vi pare?

L'argomentazione è il linguaggio della scienza, quello dell'arte è la divinazione. Si suggerisce ai giovani la buona volontà, ma con della buona volontà si transporta ad uno ad uno un mucchio di sassi, non si crea un sol verso immortale e nemmeno si riesce a far passare nel pubblico quel brivido che provavo io stessa gridando oh! mia patria. Guardate, ancora adesso scrivendolo mi sento gelare dalla testa ai piedi.

Patria! parola magica. Si stanno cancellando i confini delle nazioni, la patria non è già più circoscritta fra dati monti e dati mari, ma per essere meno concreta non è meno reale. Io e voi non abbiamo forse una patria comune che non è la terra comune? E sparsi per il mondo, ignorati, lontani, divisi, non vivono forse i nostri fratelli?

L'unione dei simili è un sentimento naturale che nessuna dottrina varrà mai a distruggere. Gli anarchici stessi che rinnegano patria e famiglia si amano e si riuniscono tra loro propagando quel sentimento che vorrebbero annichilire. Lasciamo dunque che le parole mutino a lor posta, lasciamo che il volgo si attacchi ad esse; che valore hanno le parole se non quello affatto transitorio e superficiale dei vestiti che si logorano e cadono a lembi? La verità che sta dentro di essi, come la fiamma nella lampada, è sola immobile. Non è questa che noi cerchiamo?

Sento di avere l'anima nordica. Tutto mi attrae verso i paesi dove la natura è tranquilla, dove sorgono le piccole città solcate da dolci acque, in mezzo al verde di boschi silenziosi e dove piove spesso.

Mi domina la visione delle vecchie case annerite, dove i muri son così grossi e dove vi sono tante ombre negli angoli.

La sola vista di un oggetto che richiami il focolare mi dà brividi intensi di piacere, di quel piacere voluttuario e fantastico che altri prova davanti alla marina azzurra, sotto il cielo azzurro —ma non solamente quello—il mio piacere è più intimo, più acuto, più oscuro, più profondo, e se non avessi paura dei vostri sarcasmi direi che mi piace il freddo perchè amo il ealdo.

Vaporare al sole davanti a una luce che m'accieca e ad un paesaggio che mi distrae non è un placere paragonabile a quelio di contemplare la pioggia o la neve da una camera ben chiusa e ben calda. La gioia del pensiero diminuisce all'aperio, l rumori ne scemano l'intensità; non amo la natura in parata come non amo le città imbandierate.

Il sole, convenitene, è un po' volgaruccio. Egli ci veste e ci nutre, va be nissimo; io gil sone per questo molto riconoscente. ma preferisco mangiare senza vedere il mio cuoco e quando mi vesto la presenza del sarto mi importuna. Io non dice di aver ragione, dico che sento così.

Torno dal cimitero, dove ho pensato tanto alla vostra simpatia per questi luoghi malinconici e affascinanti. Vi ricordate una volta? Eravamo andati a cercare in un vecchio camposanto abbandonato la tomba di una fanciulla russa, morta per non aver potuto raggiungere il suo ideale. Non ci riesci di trovare la tomba; e un po'delusi, un po' malcontenti, ce ne ritornammo in mezzo alle croci.—Era il novembre avanzato. Un freddo umido saliva dalle zolle erbose, dai marmi, e saliva pure da tutti que' nomi dimenticati, da, tutti quei cuori che avevano cessato di battere, da quei drammi sepolti sotto l'ironia di una pace eterna, e scendeva dal cielo in una nebbia sottile, transparente ancora ma già vicina a raggruppare i suoi veli come una piangente figura del dolore. Io vi presi il braccio in silenzio e mi strinsi contro la vostra spalla.

Ricordate? …

Diceste—Come sono soli i morti!

Io gridai, quasi ferita: No, no, non vedete che l'amore dei vivi va ai morti? Non siamo noi qui?

Vidi allora che stringevate le labbra come so che fate quando siete contento di me, e così ci immergemmo nella nebbia sottile.

Incombeva sopra noi l'incanto di quella prima giornata d'inverno; sentivamo la poesia elegante della luce grigia, del cielo chiuso e velato, così altamente spirituale, così fatto per le anime silenziose. Senza cerearli, ci venivano alla memoria i versi che inneggiano alle tinte pallide, ai fantasmi evocati dalla nebbia tra i rami morti degli alberi, dove l' ocehio riposa in una profonda quiete sì che i sensi sembrano allentanarsi per lasciare tutto il posto al pensiero. Una dolcezza ci allacciava che non era di questo mondo.

Davanti ad una tomba antica, quasi sepoìta nella chioma di un salice, ci siamo fermati insieme come ci succedeva spesso; e, come tante altre volte, sul punto di pronunciare la medesima parola, i nostri sguardi la indovinarono insieme. Insieme!—questa cosa divina quando si riferisce alle anime.

Ricordate? Ricordate?

E ancora oggi era il vostro volto indimenticato che evocavo tra i salici piangenti di questo cimitero di villaggio, era a voi che avrei voluto parlare, era sul vostro petto che avrei voluto piangere. Sedetti accanto ad una breve piantagione di mirto che circondava la fossa di un bambino: il mirto, erette, aspro, resistente, sempre verde, lorte, puro, non tollera nessuna vegetazione accanto, e fiorisce con piccole rosette bianche. Come vi somiglia!

Ho colto un ramoscello di quel mirto, dove forse era passata qualche cosa del l'anima innocente di un bambino e mi parve di sentire che la vita e la morte hanno vincoli occulti e profondi, per cui una ininterrotta corrente di simpatia fa palpitare in noi la vita di quelli che non sono più.

Udii ripetere molte volte che nulla rimane della misera arte dei commedianti, pure vi furono tra essi anime appassionate che noi amiamo ancora e la cui voce, spenta da secoli, ha lasciato un'eco che si ripercuote di generazione in generazione. Le anime non appartengono al corpo che le contiene. Esse hanno veramente in sè, quando sono grandi, come il deposito di tutte le consolazioni, di tutti gli amori, di tutte le ispirazioni; e da ogni parte della terra, qualunque sia la distanza di tempo che le separa, accorrono, risalgono a loro le piccole anime bisognose, come frotte d' uccelli feriti.

Anche fuori delle impronte virili del genio a cui spetta l'immortalità, le appassionate anime femminili vivono. Io conosco e vedo quella bruciante fiamma di sentimento che fu la Desclée. I pittori ci hanno trasmesso il suo profilo pensoso; i biografi ce l'hanno descritta pallida, coi grandi occhi magnetici; Dumas, che ebbe l'onore di intuirne per il primo le specialissime doti, dice di averla accolta ingenua provinciale, vestita con un abito verde fuori di moda, e seguita dalla vecehia nutrice che non l'abbandonava mai; non ci dicono altro, essi.

Ma io ricordo una signora che aveva assistito a tutte le recite della Desclèe in Italia, e già presso alla tomba si rianimava ancora mandando scintille dagli occhi e lagrime insieme quando parlava della Desclée.

Quelle scintille e quelle lagrime non sono state vane poichè la passione della Desclèe è giunta attraverso ad esse fino a me. E perchè non potrò io trasmetterla a qualcuno? È così che sopravivono le anime.

Ah! questo soffio invisibile, genio o sentimento, passione o pensiero che resta dopo la dissoluzione della carne e suscita, senza l'aiuto di nessuna forma, così ardente simpatia non è una prova della superiorita e della immortalità dello spirito? Come la Desclèe, quante incognite io amo! tutto una grande loutana famiglia di anime che sento mie sorelle, che non ho mai vedute, che non vedrò mai …

E parlare alle anime! Pensare che quando il mio corpo giacerà sotto le zolle, la mia voce vibrerà ancora e sarò ancora amata, e vivrò, vivrò io pure in tutti gli amori che verranno, nei grandi ideali nuovi che rischiarerannò la terra, sempre, finchè un grido di passione scuoterà il petto degli uomini! No, no, i morti non sono soli.

Chi non è felice un'ora nella vita? Ma cos'è la felicità che passa? In possesso della gioia presente, ho sempre anelato alle gioie dell'infinito. L'orologio va, va va, e quella continuita di movi mento mi sorprende e m'attira ma un urto, un cambiamento di temperatura lo arrestano, ed io penso che la bellezza del suo meccanismo è assai relativa per che si appoggia alla resistenza di una materia bruta. Cerco il fascino di ciò che resta, che continua, che non finisce mai. L'immortalità ideata dal paganesimo per gli eroi, la seconda vita promessa ai cristiani, non rispondono forse a questo bisogno superiore? Nulla è veramente belle, nulla è veramente vero se finisce; ma credete anche questo; nulla finisce di cio che è veramente bello. Quanti morti sono più vivi dei vivi?

Nellè ore del felice passato, quando eravate al mio fianco e che vi leggevo negli occhi, e che ascoltavo il bronzo sonoro della vostra voce, nella completa realtà della vostra presenza che sembrava dovesse colmare i miei voti, oh! anche allora, anche allora—e chi sa che cosa avrete pensato di me—gemevo silenziosamente:—finirà

Ma ora, nella disperata certezza di non vedervi mai più, mentre il mondo e forse la morte ci divide, nè voi potete ascoltarmi, nè io nulla sperare, che cosa abbraccio così ardentemente se non ciò che è sopravvissuto ai transitori rapporti della nostra amicizia, e che non finirà, il vostro pensiero, l'anima vostra, o Lawrence! Non la vostra fronte che deve chinarsi al destino dei mortali, non il vostro giovane corpo destinatò ai vermi, Voi, Voi, quello che di voi non morrà, che nessuno potrà mai nè contestarmi nè togliermi.

Arrossisco nel pensare a quanri sono piaciuta come donna—solamente per questo; per il mio volto, per la mia figura—solamente per questo; hanno amato i miei occhi e non il mio pensiere —non la sua profonda passione. Mi pare un insulto alla mia anima.

Come è diverso il mio modo di sentire da quello di Maria Bashkirtseff! Ella dice: “Quando soffro sono umiliata.” Io piu soffro e più mi sento diventare alta e pura. È forse una forma d' orgoglio superiore a quello della Bashkirtseff?

Ella dice ancora: “Non bisogna la sciarci vedere troppo neanche a quelli che ci amano. Bisogna camminare nel mezzo della strada e lasciarsi dietro dei rimpianti e delle illusioni. Si figura meglio e si appare più belli.” Che orrore! Siamo pure due donne e così diverse.

La vista della passione mi ha sempre commossa, come l'aspetto della folgore, delle innondazioni, dei vulcani, di tutti i grandi spettacoli della natura. Non è anche questo un grande spettacolo delle forze occulte, di ciò che è dentro di noi? Tutte le volte che vidi un uomo a' miei piedi ammirai Dio nella più profonda delle sue manifestazioni. Così grande è l'uomo nella passione! Balenano allora veramente in lui le maestà dei turbini e delle tempeste.

E anche quando non ho potuto ricambiare l'amore, ho però sempre provato una impressione profonda di rispetto, una commozione dolce e solenne per il nuovo mistero. E triste non essere amati, ma è anche triste assai non poter amare non poter rispondere ad un affetto che si ispira, sapendo che forse si cambiera in odio.

Mi spaventa molte volte il male che si fa senza saperlo e senza volerlo. Quando una parola mi offende, non posso esimermi dal ricordare tutte le parole che io stessa ho pronunciate, e quante fra esse avranno pure ferito qualcuno. Mi sembra allora un giusto riparto di pena e mi pare di trovarmi nell' equilibrio della natura. I frutti pigiati in un paniere si ammaccano l'un l'altro senza poter dire con giustizia che l'offensore sia più cattivo dell'offeso, non è vero?

È giunta al vostro orecchio la voce di un poeta che mi ha maledetta perchè non corrisposi al suo amore. Ma perchè si ama? Oh! il grande e malinconico mistero che ci incombe, l'inevitabile fatalità di soffrire e di far soffrire! Se l'amore non fosse un fanciullo cieco dovrebbe guidare a noi l'anima fatta per la nostra anima, e non è così, non è quasi mai così. Noi ci consumiamo in aspettative, in desideri, in lotte, in rimpianti e l'amore ci passa accanto e sorride.

Ma perchè si ama? torno a domandarvelo. Diciamo: amo la sua bellezza, il suo ingegno, la sua bontà; amo i suoi capelli perchè sono neri, amo la sua voce perchè è soave. E non è vero, e non è niente di tutto ciò. Amo perchè amo. Questa è la formula dell'amore; non ve ne sono altre.

Noi obediamo ciechi, ad una legge veggente; la prova è che non si ama quando si vuole e quando il disinganno amoroso ci percuote, accusiamo gli altri e non ci accorgiamo di essere nello stesso tempo vittima e carnefice, fedeli e infedeli insieme, strumenti misteriosi e fatali del grande lgnoto che ci guida.

Rileggendo ancora i versi ardenti di collera di quel poeta, mi sento invasa da una inesprimibile malinconia. Che cosa ci sarebbe voluto per invertire le parti? Oh! così poca cosa, meno che nulla. Se iò lo avessi amato, egli non mi amerebbe più, ora, e il crudele sarebbe lui.

Lo hanno avuto tutti un primo amore? Io penso che sia per la passione amorosa come per il sorgere del giorno. Le persone positive hano stabilito l'ora precisa in cui il sole spunta; ma prima che esso spunti non c' è qualche cosa in cielo che annuncia il giorno? È una luce. innanzi pallida, poi rosata, è un fremito sulla terra di foglie che si scuotono, di nidi che si aprono, è un trepidare d'ali non ancora distese, un vanire di profumi non ancora prosciolti dal grembo dei fiori; tutta la natura ha un palpito cheto, misterioso, quasi sacro.

Fu quando incominciava a cancellarsi dalla mia mente l'immagine del principe che non avevo veduto. Alcuni parenti della zia, essendo venuti dalla provincia a trovarla, mi condussero seco al ritorno. Era la loro una assai povera casa, anche più povera di quella a cui ero avezza; ed essi gente rozza che incominciarono a dimostrarmi come, per cambiar luogo non potessi mutare il mio destino. Languivo anche là, in mezzo a discorsi volgari, a idee grette ed abitudini meschine, senza prendere alcun vantaggio dell'aria buona e della libertà della campagna, alzandomi sempre di mala voglia alla mattina e invocando lungamente l'ora di gettarmi sotto le coltri, come in un asilo di pace e di oblio.

C' era in quella casa un giovanetto selvatico e scontroso assai, di cui vedevo appena qualche volta i grandi occhi lampeggiare nell'angolo più buio della stanza; non ne avevo mai udita la voce; a tavola occupava il posto più recondito e scappava prima di aver finito.

Una sera più annoiata del solito, tentai di andare a letto di soppiatto, salendo al buio la scaletta che dalle due misere stanzette terrene metteva alle altre due superiori, ma quando fui sul pianerottolo mi fermai. Avevo scorto una piccola fiamma proveniente da un moccolo di candela che il giovinetto teneva in mano, mentre se ne stava accoccolato per terra con un libro scucito sui ginocchi, e leggeva, senza aver udito il mio passo.

Buona sera—gli dissi finalmente passandogli accanto.

Egli balzò in piedi spegnendo in pari tempo il mocoletto e facendo atto di fuggire. Lo pregai di fermarsi, assicurandolo che ero dolente di averlo disturbato e che potevo dargli uno zolfanello per tornare ad accendere il lume. Quest'ultima considerazione parve deciderlo. Non rispose nulla, ma si fermò; io lo sentivo più che vederlo; soffiava un poco e i fogli di carta scricchiolavano nelle sue mani.

Quand'ebbe riaccesa la piccola fiamma —mio Dio! esclamai—come fa a leggere?

Egli arrossì.

Diedi allora uno sguardo ai fogli.

—Si può sapere, senza indiscrezione, che libro è questo?

Mi sentivo un po' sua superiore e mi veniva il desiderio di incoraggiarlo.

Egli schiuse finalmente le labbra e disse che erano quelli gli avanzi di una vecchia Antologia. Chinai il capo sulla sua mano e lessi:

Dagli atri muscosi, dai fori cadenti.

—Sono versi.

—Sì, sono versi di Alessandro Manzoni.

—Mi pareva di saperlo anch' io, ma non ne ero sicuro.

Egli sfogliò fino che ebbe trovato I Sepolcri.

—Questa—disse—mi piace assai.

—Lei studia?

Il rossore tornò vivissimo sulle sue guancie. Mormorò a fior di labbro:— Devo lavorare.

—Ma intanto studia?

Non rispose ed io lo lasciai.

L'indomani a tavola i nostri occhi si cercarono con una specie di curiosità. Egli aveva degli occhi molto belli. Fu allora che gli diedi nella mia mente il nome di Stello col quale mi ritorna sempre innanzi. Quella sera le donne di casa mi condussero ad una funzione religiosa, dalla quale tornammo piuttosto tardi e si andò a letto tutte assieme. Ma nei giorni seguenti, mi capitò ancora, andando a letto presto, di trovarlo sul pianerotto ed egli non fuggiva più.

Una sera mi domandò a bruciapelo:

—Sa cosa vuol dire “il limitar di Dite?

Confessai la mia ignoranza. Egli ne parve afflitto come di un disinganno che non si aspettava e soggiunse:

—Anch'io non capisco—poi lesse lentamente nella sua Antologia sdruscita:

Ma perchè pria del tempo a se il mortale Invidiera l'illusïon che, spento, Pur lo sofferma al limitar di Dite?

E restammo tutti e due muti, sopra la parola misteriosa. Ruppi io prima il silenzio:

—Questa è quella poesia che le piace tanto?

—Sì, ma non la capisco tutta.

Non mi meravigliai. Amavo anch'io certe cose senza capirle. La nostra cocomune ignoranza ci avvicinava e più ancora un certo non so che di intimo e di somigliante che c'era in noi.

Gli dissi di lasciarmi leggere la poesia per intero. Egli mi porse il libro reggendomi davanti il moccoletto e seguendo cogli occhi la mia lettura, che non fu nè rapida nè facile, ma dalla quale mi venne un tale diletto estetico che fu come una rivelazione.

Alcune frasi particolarmente mi avevano colpita:

Celeste è questa
Corrispondenza d'amorosi sensi.

ed anche:

… ricovrarmi sotto le grandi ali
Del perdono di Dio.

C'erano delle note al testo, per cui ci riuscì abbastanza facile di capire le allusioni a Parini ed altre; il mio amico tuttavia si struggeva su quei primi tre versi incomprensibili, ed io mi struggevo di non saperlo aiutare.

Intanto il moccoletto fumava, giunto alla fine. Ebbi un po' di rimorso per quella porzione che ne ávevo consumata io stessa e scappando in camera, tolsi la mezza candela dal mio candeliere e gliela portai, dicendo che potevo farne senza perchè la luna entrava raggiante sopra il mio letto.

Stello non fece molti complimenti; esitò un istante, mi guardò con una di quelle sue brevi ochiate da selvaggio e disse semplicemente: grazie. Io trovai molto piacevole quella sera il coricarmi a lume di luna.

Fu per ricompensarmi di questo piccolo servigio? Lo credetti; nelle sere che vennero dopo, quando lo salutavo sul pianerottolo, mi offriva sempre un mazzolino di fiori. Quei mazzolini meritano d'essere descritti: piccolissimi, di fiori comuni, legati strettamente da un pezzo di cordicella, colti chissà quanto tempo prima e spesso appassiti, testimoniavano la rozza ingenuità del giovinetto; da tutti esalava un profumo aspretto come lui, un profumo non delicato, nè inebbriante, ma penetrato da un aroma agreste che aveva un fascino particolare.

Mi accorsi che quel profumo veniva da una piccola foglia leggermente frastagliata, di un verde modesto, quasi un verde coperto di polvere, come hanno gli arbusti delle terre asciutte. Gli domandai una sera che pianta fosse: ed egli mi rispose che era un geranio d'Africa, un geranio suo che aveva piantato di sua mano nel giardinetto di casa.

—Vuole vederlo?—soggiunse bruscamente.

E senza attendere la risposta scivolò giù dalla scala, facendomi cenno di seguirlo.

Pochi momenti dopo eravamo nel minuscolo giardino, senza aver fatto maggior rumore di due piccoli scoiattoli sopra un albero. La luna batteva in pieno ed alla sua chiara luce mi mostrò la pianticella. Io osservai che era molto magra, che non doveva coglierne rami tutti i giorni altrimenti si sarebbe spogliata interamente.

—Che fa?—disse lui alzando le spalle.—Io devo abbandonarla lo stesso.

—Perchè abbandonarla?

—Vado via.

—Quando?

—Il mese venturo. Mi hanno trovato un posto di …

Pronunciò la parola a voce così bassa che non intesi che cosa fosse. La sua confusione mi turbava moltissimo; sentivo una tenerezza particolare per quello strano fanciullo condannato come me ad una vita che non era la sua. Cercavo che cosa avrei potuto dire per consolarlo. quando egli riprese:

—Però non ci starò sempre. Voglio fare il tipografo. In una stamperia mi dispiacerà meno a lavorare e poi leggerò e poi …

Sollevò uno sguardo dritto al cielo, senza completare colle parole il suo pensiero, ma io mi trovai così commossa che egli dovette pur comprenderlo.

E nessuno di noi due si moveva.

La sera era deliziosa, col giardinetto immerso in un bagno di luce, una quiete tutt'intorno, una pace, e tante stelle sopra le nostre teste e tanti pensieri dentro.

Da quella sera il pianerottolo fu un po' trascurato. Noi ci trovammo parecchie volte per tacito accordo nel giardino così dolcemente illuminato dalla luna; i nostri discorsi non erano molto lunghi, ma ci piaceva stare insieme anche senza parlare. Spesso ci fermavamo a guardarei; sempre egli mi dava qualche foglia del suo geranio, ed io gli mostravo i mazzolini vecchi che avevo conservati. Glieli mostravo perchè egli allora sorrideva e mi piaceva a vederlo sorridere, mi pareva che in quel momento fosse felice.

Quando venne fissato il mio ritorno in città ne provai un vivo dolore. Egli pure ne parve scosso. Non disse d'amarmi, ma io già lo sapevo.

L'ultima sera fu oltre ogni dire malinconica. Parlammo ancor meno del solito, ma ogni tanto ci dicevamo addio senza guardarci. Ad ogni arboscello egli si fermava e ne coglieva un fiore che mi metteva nel grembiule; quando ebbe còlti tutti i fiori, mietè le erbe odorose, tanto timo, del miglionetto e un po'di maggiorana. Tutto il suo geranio fu spogliato e siccome tentavo oppormi a quella devastazione, egli disse col suo accento risoluto:

—No no, è meglio che muoia!

Finalmente ci separammo rattenendo le lagrime; io avevo il grembiule colmo di fiori e una piccola foglia del suo geranio stretta nella mano.

Salita in camera, mi fu impossible dormire, il letto mi respingeva; e siccome non dormivo sola, la buona dona che mi aveva ceduto metà della sua camera, quando lei fu a letto, insistette perchè mi coricassi anch'io. Trovai il pretesto del mio piccolo bagaglio che non era ancor pronto, tanto da indugiare un poco, perchè veramente mi sentivo soffocare dall' angoscia. Poi, quando mi parve che la donna fosse addormentata, apersi la finestra, mi tuffai nel candore della luna come nel raggio di una pupilla cara e sciolsi finalmente le mie lagrime.

Di lì a un poco, asciugandomi gli occhi e fermandoli sul piccolo giardino sottoposto alla finestra, mi parve di vedere un'ombra coricata sull'erba; il cuore mi prese a battere disordinatamente e per un moto istintivo tesi le braccia.

L'ombra allora balzando in piedi alzò le sue verso di me. Preghiera, saluto, desiderî impossibili, che cosa significava quella muta adorazione? Io non lo so, ma il cuore mi batteva più violentemente ancora mentre una specie di morsa sembrava trattenerlo. Parlare ci era impossibile. Io avevo già sentito la mia compagna voltarsi e rivoltarsi nel letto e temevo che si svegliasse.

Era necessario chiudere la finestra, ma prima presi una manciata dei fiori che egli aveva colti per me e mi posi lentamente a fogliarli sopra il suo capo.

Caddero così spezzati nell'aria della notte petali di gelsomini, fogliuzze di rose, ramicelli di timo e di maggiorana, caddero alcune foglie del geranio d'Africa, lasciando nell'umida atmosfera una striscia di profumo acuto, e Stello sempre colle bracia alzate, ne era tutto innondato come da una pioggia.

Quello fu il nostro ultimo saluto.

E quando e che si ama davvero? Molte volte, nelle sere de'miei maggiori trionfi, davanti al teatro gremito di gente che pendeva dal mio labbro, che palpitava con me e per me in quel fremito meraviglioso che corre dal palcescenico alla platea, quando l'entusiasmo batte le ali, io pensavo con acuto desiderio ad uno fra tanti. Uno solo. Ed era per lui, per l'incognito fratello, che mettevo tanta passione ne' miei occhi e nelle mie parole. Dove era egli? Esisteva? Non mi sono sbagliata troppe volte? Non ci siamo ingannati reciprocamente, e non subiamo tutti l'inganno naturale, l'eterno inganno dell'amore?

È così vero che il cuore dei giovani somiglia a un albero fiorito sopra una strada maestra; è sempre sul primo che passa che lascia cadere i suoi petali e i suoi profumi. Come riprenderli poi? e chi accusare della loro dispersione?

Quando soffiano i venti primaverili i fiori appena sbocciati cadono, cadono talvolta sul letamaio, cadono sulla fronte di un poeta. Chi ne ha merito? Chi ne ha colpa? Chi sa nulla di nulla quando soffia quel vento?

L'amore è triste.

Triste sopratutto è il tornare ad amare. Ripetere senza fede le stesse parole che si sono pronunciate col sorriso dell'illusione, invitare ancora cogli occhi che hanno pianto, baciare colla bocca che ha imprecato, giurare ciò che non si crede più; essere felici e sapere che tutto passa, desiderare e conoscere che la fine del desiderio è la nausea o l'indifferenza …

Voi forse non potete comprendere, o felice fanciullo, questa terribile cosa: la stanchezza dell' amore. Siamo in una verde campagna alitante di vita, oppure in un salotto saturo di mistero; il nostro cuore batte sentendo battere all'unissono le forze vergini della natura, oppure le forze raffinate dell' ambiente; l' una o l'altra cosa ci rapisce, ci inebbria. Amiamo per la prima volta!

Ma ritorna la verde campagna co' suoi fiori, co' suoi profumi, coi susurri, col silenzio, coll'invito … Ritorna il salotto chiuso colle morbidezze, colle penombre complici, coll'arte suggestiva del lusso. —È la seconda volta!—E poi ancora, ancora …

Quel verde, che è sempre lo stesso, ci ripete che noi non lo siamo più, perchè noi sappiamo che non è più il verde d'allora e che i fiori appassiscono e che i profumi dileguano e che le traccie dei baci e delle lagrime nell'erba palpitante vengono distrutte dalle nuove erbe, dai nuovi nidi; e sui guanciali di seta vengono distrutte dal piumino che passa a levare la polvere, e nei nostri cuori, nei nostri cuori ulcerati e dolenti la scienza della vita ha scritto: Fine.

Tutto ciò è di una tristezza e di una dolcezza insieme di cui non posso darvi un'idea se non facendovi pensare a dei canti di bimbo intorno ad una bara, che è la cosa più triste e più dolce che io conosca.

Ho nominato la Desclée, ma ho pure un'altra sorella spirituale nell'arte, quella Adriana Lecouvreur, la di cui straordinaria sensibilità fu senza forse il suo pregio maggiore. Ella aveva la affettività attristata e pensosa che serve così bene ad interpretare la passione; affettività rara e solitaria che spunta in certe anime privilegiate senza bisogno di alcuna coltura e in ambienti assolutamente contrari, come poteva essere per Adriana il corrotte, frivolo e voluttuoso mondo teatrale del settecento. Ella è stata una prova luminosa della teoria che le persone elette possono rasentare il fango el anche fino ad un certo punto toccarlo senza cadere da quel loro trono di superiorità morale che le tiene sempre a tanta altezza sopra il volgo.

C'è una frase della Lecouvreur che mi pare toccante. È quella diretta ad un giovane che la richiedeva d'amore; “Siatemi amico, ma per amare scegliete un cuore vergine. La creatura eletta non dovrà aver perduta la felice illusione che rende attraente ogni cosa, non dovrà essere stata peranco nè tradita nè lasciata; dovrà credervi buono e buoni tutti gli altri uomini.”

È così che si ama. La fede e la speranza, come negli ingenui simulacri dei nostri nonni, accompagnano sempre l'amore. Il cuore, la croce e l'ancora—non lo sapevate?—erano cinquant' anni fa una specie di amuleto; si portavano al collo appesi ad una catenella e guai a perderne uno.

L'amore forse scomparirà dal mondo. Esso è un sentimento buono per le creature semplici: due fanciulli che si prendono per mano e credono. Un giorno ciò non sarà più possibile. Dico ora a me stessa:

—Ammirazioni, simpatie, desideri, estasi che vengono a te, fascini che susciti, ideali che ispiri, prendi tutto colla convinzione che tutto si risolve in nulla. Non tenere una sola particella di questi tributi, riportali alla divina fonte da cui vennero. C'è in essi qualche cosa di veramente buono, di veramente puro, ma non è per te. È un prestito: è il bene circolante nel mondo, rendilo.

E dico ancora a me stessa:

—Non condensare il sogno, non cercare di farne una realtà. Vedrai tante volte nell' arco del cielo forme di fiori strani e grandiosi, angeli, fiamme, nomi simbolici, ma non tentare di afferrarli perchè si scioglierebbero in nebbia.

Ho dovuto smettere; la sera era già inoltrata, mi posi alla finestra, e una dolcezza sovrumana mi allacciò a poco a poco il cuore, come se una mano invisibile lo premesse e ne facesse uscire delle lagrime di sollievo. Piansi nella freschezza della notte, sentendo venire a me dall'ombra tutti i miei dolori e insieme un conforto, una speranza, un'alba di pace.

Scrivo quasi al buio:

Fioriscono su le mie labbra i baci per te; per la tua fronte olimpica, pei tuoi divini occhi, per te. Ma questo non sarà, non sara mai; non ora, non nel tempo, mai non sarà: Comprendi tu la gioia, la malinconica gioia del no? Faccio un mazzo de' miei desiderii, de' miei desideri più occulti; li lego, come fascio di rose morte, come gruppo di ceri spenti e salgo, col soavissimo peso, serenamente salgo a te.

Non sentite in queste parole un ardore muto, soffocato? e come un pianto che viene da lontano, che non finirà, non finirà mai?

Com'è possibile ch'io dica tutto? L'ho tanto desiderato, ma ciò non può essere, Oh! se voleste indovinarmi! Ecco io gemo, mi struggo, grido, sospiro non basta? La musica dice forse di più? Eppure la capite. Perchè non mi capite? Lo so, è per questo: che non avete mai sofferto, nè pianto, e per quanto il vostro ingegno vi porti lontano, sempre cadrete, sempre vi arresterete davanti alla sfinge che si chiama dolore e non sarà mai vostra la mestizia sconfinata, lamentosa, piena di ferite e di lagrime di chi ha veramente conosciuto.

Anche voi aveste un giorno il crudele coraggio di rimproverarmi la mia mancanza d'amore. Lawrance! quando la terra si immerge nelle tenebre voi sapete bene che essa ha bevuto tutti i raggi del sole, non già che è senza sole. Voi dite la pura, la fredda, la casta notte, ma non ignorate quali profondi ardori essa celi, e che la sua freddezza è pudore e la sua castità è un velo di lagrime.

Una terribile fatalità pesa sui cuori elevati e sensibili. Essi amano e s'ingannano. Vedete, cerco di essere giusta fino allo scrupolo. Non io certo ripeterò le volgari verità che molti hanno creduto di scoprire accusando ora gli uomini, ora le donne, e nemmeno le frasi fatte “gli uomini egoisti, orgogliosi, sensuali—le donne vane, leggere, civette.” Ognuno di costoro, pronunciando una di tali frasi risponde al proprio sfogo, alla propria limitata ed egoistica esperienza.

Come si fa a dire: è l'uomo che fa soffrire, oppure è la donna che fa soffrire quando noi siamo tutti uno per uno un mondo e per un giro che facciamo intorno agli altri nessuno conta le mille rivolte compiute su noi stessi?

Se dobbiamo accusare qualcuno dei nostri disinganni accusiamoci, perchè noi soli fabbrichiamo i nostri amori dipingendoli coi colori della nostra fantasia. Il nostro cuore quando è giovane e ardente somiglia ad un prisma; presta le sue tinte all'oggetto che maggiormente lo avvicina. L'ideale è dentro di noi, e' noi vogliamo a viva forza estrinsecarlo in un'altra persona. L'amore è l'anima grande dell'universo che si perpetua nell'inno della vita, e noi vogliamo fissarlo in due occhi che la cateratta può chiudere oggi o domani e che la morte chiuderà per sempre.

Si incontrano le anime nella vita, nel tempo, nella possibilità, nella elezione? No, vero?

Date pure due anime eguali difficilmente potranno rivelarsi e compenetrarsi appieno. Se vi è il tempo mancherà la causa, se la causa è pronta sopraverrà l'assenza, e quand'anche tempo, ambiente e presenza fossero d'accordo, non esiste sempre il passato del quale basta un'ombra per oscurare qualsiasi gioia? E non basta una indisposizione dello spirito? Noi abbiamo impeti sublimi, ma nessuno in quel momento li vede, e rifatti non hanno più lo stesso valore; saremmo tante volte eroici, sublimi, appassionati, se mille piccoli fili invisibili non agitassero contemporaneamente la nostra timidezza o il vago terrore di agire che si impossessa così facilmente di chi è avvezzo alla vita del pensiero.

Ieri sera una luna meravigliosa correva agile in mezzo alle nubi, più bassa di esse e così luminosamente staccata dal firmamento che sembrava avvicinarsi con rapido moto alla terra. Aveva l'aria di un dio che venisse incontro a noi apportatore di verbi sconosciuti. Che cose alte vi avrei dette se mi foste stato vicino! Ma ve le avrei veramente dette?

Tutta la differenza tra la vita e il sogno è questa: Nel sogno si riuniscono le circostanze esterne alle interne, mentre nella vita manca sempre qualche cosa; qualche cosa che c'è, che esiste ma che viene o troppo presto o troppo tardi.

E allora perchè ostinarci ad amare? perchè rinnovare, convinti, l'inganno? Esso è buono per i cuori semplici, ve l'ho già detto. I cuori feriti e spasimanti, che sanno, devono elevarsi fin dove l' amore cambia natura. Nelle più alte regioni atmosferiche la rarefazione dell'aria impedisce lo sviluppo della vita organica, ma più ardente e più pura vi raggia la luce.

La fedeltà, forma elevata dell'amore terreno, è un non senso per il grande amore, di cui è aspirazione principale la evoluzione verso un tipo sempre più perfetto.

Il simbolo di un cane accovacciato si addice proprio all'amore ed alla fedeltà degli uomini, perchè nella formazione di questi loro sentimenti hanno tanta parte l'istinto, la bestialità e l'abitudine. Io, per simbolo del mio amore, vorrei un astro col motto: De claritate in claritatem.

Nei giardini di Milano (dopo Roma è questa la città dove abbiamo maggiormente vissuto insieme e, dopo Villa Borghese, i giardini di Milano sono quelli che amo di più al mondo), ci fermammo una volta—malinconica parola!—davanti al minuscolo villaggio degli uccelli. Due splendidi campioni di non so quale specie rara erano alloggiati a parte, in un fabbricato fra corte e giardino come i vecchi palazzi aristocratici, e i loro cortili apparivano separati appena da un leggerissimo graticcio. Noi, appoggiati alla ringhiera di ferro, li guardammo per un pezzo restando muti.—(Oh! come era in quel giorno trasparente fino alla idealità la vostra carnagione di anglosassone sotto il cielo d'Italia.)

Tutti ciarlavano intorno a noi; le bambinaie coi loro fanciulletti, i fanciulletti con le loro bambole, le signore con l'amica di passaggio, il vecchio seduto al sole con l'altro vecchio che la combinazione gli aveva posto accanto, e noi no.

Intanto i due nobili uccelli, separati dalla lieve barriera, si sentivano e si cercavano. Erano d'ambo le parti rincorse audaci, soste piene di attesa, tentativi impossibili di volo, atteggiamenti di sfida, e dolci lamenti e sdegni e colpi di rostro contro la barriera; tutta una guerra, un dramma, un poema. Animati dallo stesso ardore, l'uno non vedeva gli sforzi dell'altro e forse lo giudicava, inferiore. Correva l'uno fino all'ultimo limite del graticcio, attratto dal movimento e dalla voce del compagno, di cui doveva sentire anche il calore del respiro, senza riuscire a vederlo e a toccarlo, e retrocedeva con attitudine di vinto. Ma l'altro si trovava davanti al medesimo ostacolo e ripeteva gli stessi movimenti, i gridi, i colpi, i lamenti, il richiamo doloroso, insistente fine allo spasimo, per retrocedere poi anch'esso battuto, scorato, vinto. Stavano vicini, si intendevano, si sentivano e non potevano amarsi.

Perchè non vi ho parlato allora? Era così dolce il cielo sopra le nostre teste, mite l'aria e l'ora. Io ascoltavo fremendo la vita che passava, e dal fondo del cuore mi saliva una vecchia canzone che mi piace tanto: “Laggiù dove l'onda inquieta sospira la notte e il giorno; laggiù, quando cantava l'allodola, non hai incontrato l'amore. Egli ti era vicino e ti parlò.”

Per un istante ebbi la tentazione di ripeterla ad alta voce; ma tutte le volte che la mia anima è profondamente commossa, una specie di timidezza o di pudore, non so, mi spinge ad assumere un contegno troppo in contraddizione con la causa per non perderla affatto. Dissi:

—Che bel verde questi platani!

—Non sono platani,—rispondeste.

—Mi pare di sì.

—Non lo sono.

—Allora che cosa sono?

Il mio cuore insisteva a dire: “l'onda inquieta” e il labbro fece la domanda per conto suo.

—Non lo rammento; ve lo saprò dire.

—Eppure hanno la foglia frastagliata dei platani.

(Anche l'occhio guardava senza ascoltare il cuore.)

Ma la musica (fu il nostro breve cicaleccio come una levata d'archi) non coperse le parole mormoranti in fondo al nostro essere, le parole che non dicemmo.

Bensì voi alzaste poco dopo la voce per raccontare la disputa avuta con un amico al caffè; le vostre pupille scintillavano di gaiezza giovanile; la vostra voce aveva l'intonazione alta e leggermente alterata di chi vuole recitare una parte; non proseguiste molto, tuttavia. La divina bellezza del giorno e dell'ora ci riprendeva; la gioia di vivere ci penetrava per gli occhi e per il cuore.

Vi vedevo, voi, nell'aria inesprimibilmente pura, nella luce fatta di raggi e di veli come un ardore orgoglioso che si nasconde, nella mitezza generale delle tinte e dei susurri che poteva far credere ad una sospensione delle miserie terrene, ad un istante felice di perdono.

Un impercettibile, quasi involontario movimento portò il lembo della mia gonna accanto al vostro piede.

—Che giornata incantevole!—mormorai lievissimamente per non alterare il dolce tumulto interno.

Voi assentiste, muto, col sorriso. E intanto l'ora passava. Una leggera freschezza nell'aria era il primo avvertimento. Dalle cime degli alberi si ritirava a poco a poco il sole, strisciando sulla sabbia dei viali, concedendo fino all'ultimo il suo calore ai piccoli nidi, alle tane sepolte nell'erba, dove tra i fili lucenti saltavano ancora una volta i grilli e sparivano nella fluente eleganza delle loro ali di velo le libellule misteriose. Un fremito che si andava facendo sempre più dolce e più muto correva nelle fronde degli alberi. Sollevai gli occhi pensando “Laggiù, quando cantava l'allodola”. Ma le allodole e le rondini scendevano in larghi giri, silenziose, radendo le vette delle magnolie sotto le quali ci eravamo seduti.

Dolce e lucido verde delle magnolie, un po'freddo (come noi?) e aristocratico, verde che sfidi il gelo!

Mi cadde a terra il ventaglio, voi lo raccoglieste, ed io vi guardai mi pare con una grande e interna dolcezza, impiegando qualche minuto a ritirarlo dalla vostra mano, mentre voi stesso esitavate a cedermelo.

In quel momento di sensazione divisa rivisse nel battito dei nostri cuori tutto l'incanto dell'ora trascorsa, e vi si fissò coll'olezzo delle magnolie, col verde, col sole morente, col calore del vostro braccio che avevo toccato, della vostra mano che aveva sfiorato la mia, col desiderio che ci aveva avvinti, così sottile e celato, non affatto padrone di noi e non schiavo.

L'invisibile ci dominava; saliva dalle anime nostre incontro ai nostri labbri che si chiudevano per custodirlo meglio, incontro ai nostri cuori che sospendevano, quasi per arrestarla, la vita.

Chiusi gli occhi per un istante ed ebbi la gioia di accorgermi che anche sotto le palpebre chiuse vedevo il cielo, gli alberi e voi. Vi vedevo meglio, senza la distrazione degli oggetti secondari, come in una selezione sempre più pura dello spirito e in quel dolce oblìo sembrava annegarsi il mio malinconico passato. È questa la felicità!—pensai.

Respirare accanto ad un anima sorella senza fondersi, senza raggiungere il songno. Amarsi con qualche cosa ancora di incompleto, di incompreso, non è forse il fascino maggiore, il fascino unico, l'attesa?

Non vi avevo ancora ringraziato per avermi raccolto il ventaglio, ma era troppo tardi per farlo. Troppo tardi! ripetei fra me e me. Mi strinsi nel mio boa nero sfuggendo a un brivido e sôrsi in piedi.

Voi mi guardaste dubbioso, con una fiamma smorta nelle pupille. E vero?

Lo avete visto sulla mia scrivania il piccolo libro bianco. Siete voi che lo chiamaste così, dando una certa importanza ed anche una soavità recondita a questi poveri fogli, che non ho mai voluto lasciarvi leggere.

Molte donne scrivono il loro giornale, io no. Sarebbe così pieno di brutte pagine il libro della mia vita che mi felicito di non averlo scritto. Anche devo dire che non mi piace scrivere, sono meravigliata di farlo ora con voi cedendo ad una forza irresistibile.

Deve essere stata pure una forza irresistibile quella che mi fece segnare tanti pensieri in questi fogli; pensieri dettati in una forma strana che assomiglia tàlvolta ai versi, ma dove io trovo meglio ancora che la storia della mia vita, trovo la sintesi, il risultato stesso della vita. Sì, davvero la mia vita l'ho scritta nel piccolo libro bianco. Cercate di capirla così; che importano i fatti?

Amo ora tanto la natura. È quasi la mai unica consolazione. Ogni cosa ha una voce, ogni forma un'espressione, ogni cambiamento un significato. Il libro bianco lo sa. Io ho pianto cogli alberi e colle fonti; ci siamo dette tante cose in una lingua che prima non conoscevo.

Non ho cercata nessuna delle parole che stanno scritte qui. Esse, le parole, vennero a me già formate, come suggerite da una bocca invisibile; vennero invece di lagrime, invece di gemiti e di sospiri; vennero in questa foggia inusitata nè so il perchè. So io nulla di quello che dico all'infuori che è quello che sento?

Nella maggior parte degli uomini l'ammirazione per la natura è stata coltivata, come il bisogno di vestirsi, come l'abitudine di leggere o di fare della musica. Ho l'orgoglio io, di aver scoperta la natura per sola forza del mio amore.—L'ho detestata abbastanza quando me la volevano imporre alla lor guisa per avere or il diritto di amarla alla mia, con una passione muta e profonda, e gelosa anche, perchè non tollero compagni. Io sola in un bosco è per me la maggior sensazione estetica.

Non è il verde, non è il fresco, non è l'ombra, non è il susurro, non è il profumo, non il gaudio sensuale dell'erba vellutata che mi attira, ma piuttosto il significato di tutto ciò, quel significato oscuro, per cui il cuore degli uomini ha una parentela col filo d'erba, col fiore, col ruscello, cogli insetti, ed anche collo spazio ultrasensibile, col grande, misterioso, meraviglioso, ignoto, È questo che ho voluto dire nel libro bianco. Udite:

Ero un piccolo filo, un sottile filo d'acqua cadente da queste roccie. Cheto cadevo, non disturbavo alcuno, nessuno badava a me. Un giorno uno straniero mi vide ed ebbe sete, ebbe sete di me. Si inchinò grazioso, mi prese colla mano, coi labbri mi baciò. Poi la sua via riprese, io continuai la mia, ma da quel giorno piango! Noi siam voci erranti, siam baci e sospiri, siam gridi, siam pianti. Voliam, turbiniamo nell'aria, nel sole sul monte, sul piano. Noi siam l'illusione, noi siam la speranza noi siam la passione. Sono inflessibile, duro, severo, non mostro palpiti, voce non ho; ma della valle novello Amleto tengo un segreto che non dirò. Quello ch'io vidi, quel che pensai, lo seppe il bosco, lo seppe il ciel, ma perchè caddi freddo sul greto, è il mio segreto, non lo dirò. Pura ho la fronte l'occhio sereno, il manto azzurro, le stelle d'or, ma sette spade tengo nel seno, Madre di Dio e del dolor.

Noi siamo immobili, marmoree. Nessuna passione ci turba. I venti e l'uragano passano su di noi lasciandoci intatte. Dilaga la pioggia, cala la neve e noi sorgiamo sempre pure ed erette al raggio del sole. Tutto vediamo e nulla ci tocca. (Così pensano le vette e dominano.)

Son felice, felice, felice! non conosco l'amor. Son felice, felice, felice! non conosco il pensier. Son felice, felice, felice! dò una sfida al dolor. Son felice, felice, felice! vivo senza saper. —Noi siamo la bellezza, —E noi la forza, —Noi siamo dolci, —E noi costanti, —Siamo l'amore, —Siamo il dolore —Siam la poesia —Siam la sapienza —Cingiamo la fronte dei felici —E noi quella degli eroi. Quante volte seduta sotto gli alberi, i cari alberi verdi che amo, chiedo alle fronde tremule: capite? capite quando parlo e quando rido c quando taccio malinconicamente? Sì, esse mi comprendono, esse sole; nella lor chioma profonda poso lo sguardo come dentro un'infinita serenità. Comprendono esse il dolore dei cuori feriti a morte, comprendono! E ascoltano. Lievi e dolci ascoltano come coloro che tutti omai sanno i grandiosi misteri dell'anima; pietose, quali madri il lor pargoli, mi accarezzano amorosamente. O fronde, o rami, o verde, o deliziosa pioggia d'odori, o sopratutto care allo stanco mio cor ombre pudiche, ecco, mi dono, m'abbandono, oblìo … dolce è obliare nelle vostre braccia. Sento che siete miei fratelli o vivi alberi, o alberi quasi umani, voi sentimento della creazione non su basi granitiche saldi ma nati e morituri come me! Come me nati tenerelli e buoni, l'esili braccia tese verso il cielo; battuti sempre dal vento e dall'uomo, colle vostre giovani foglie strappate e rinascenti sempre … come me! Voi avete fremiti e baci, voi sentite! Nelle lotte del cosmo, nei grigi tramonti desolati e nelle bianche albe d'ottobre, quando il cielo piange, i vostri rami cadenti han lagrime. E quando il mare terribile dorme sul mucchio dei cadaveri ingoiati, quando impassibili guardano i monti, voi ululando con lunghi gemiti rispondete ai dolori, o alberi! Io dissi all'onda: perchè baci sempre così lo scoglio? non vedi ch'è insensibile, non vedi? le tue parole, le soavi parole che gli mormori vanno perdute sul duro macigno; bacia le rose! esse ben ti sapranno rispondere, morbide, col profumo dei petali. Disse a me l'onda: Mi guida un'alto destino che ignoro; dare, dar sempre senza ricevere; l'umano fango toccare e ognor rifarmi pura; prodiga, altera, semplice, incompresa passo ed oblìo un gran precetto lasciando ai mortali “nulla chiedete; amate per amare.”

Che vi siano delle persone che non mi amano mi pare naturalissimo. Piacere a tutti è una aspirazione volgare. Quello che non posso soffrire sono i finti fratelli. Essi mi fanno l'effetto di uno che essendosi rosolato al fuoco davanti e di dietro, tutto caldo di dentro e di fuori, si credesse per un momento il fuoco stesso e stendendo alla fiamma la sua mano scottante la chiamasse sorella.

Il mondo è abbastanza vasto perchè v'abbiano a trovar posto anche coloro che dell'arte, della poesia, della bellezza non intendono nulla, ma che non se ne occupino almeno! È la sola grazia che domandiamo loro. Vi sono delle parole sacre che non a tutti è dato pronunciare, che non si possono mettere insieme alle altre senza profanazione, parole che vengono rivelate in mezzo ai roveti ardenti a chi ne affronta il bruciore per la gran passione di esse. Le persone calme e ragionevoli hanno però un compenso. Possono chiamarci pazzi, ciò è nel loro diritto e dovrebbero approfittarne; ci riuscirebbe meno spiacevole che sentirci chiamare fratelli.

Sono grata a tutti coloro che mi vogliono bene; qualcuno mi conobbe bambina o giovinetta, altri mi ha beneficata, gli inferiori mi trovano buona e tutti si credono in dovere di ammirarmi. Sorridono benevolmente quando sentono dire che sono la prima attrice italiana, la sola che intuisce l'anima: questa parola li esalta. Mi proclamano superiore a chiunque e nessuno degno di sciogliermi i calzari; ma ecco che una piccola discussione, un' opinione contraria, manda all'aria trono ed altare. Sconto allora in pochi secondi le cambiali rilasciate sul mio merito e sulla mia intelligenza. Essa valeva finchè trattavasi di illuminare e riscaldare l'intelligenza loro? Trovo che è pagare troppo cara la benevolenza. Preferisco riscaldare gratis.

Sono più antipatici, ma mi fanno cadere da minore altezza i giovinetti entusiasti che hanno veduto in me la scala delle loro ambizioni e vengono a bruciarmi l'incenso della loro ammirazione con un manoscritto in tasca.

Il dolore è quando si ritrovano vecchie amicizie che il tempo ha fossilizzate in una immobilità mostruosa di mammuth. Non ci si intende più, ed essi si lagnano con una punta di ironia che sono molto cambiata. La facoltà di progredire è ben rara. Mi hanno conosciuta meschina, schiacciata sotto il mio destino che sembrava simile al loro, e non possono perdonarmi di esserne uscita. Pensano forse che li ho derubati. La proprietà pare sempre illegittima a questi Proudhon per cui il più alto ideale è il loro livello.

E i miei compagni d'arte? Che cosa abbiamo noi di comune? Nulla. I nostri principii e il nostro fine sono diametralmente divisi. Io li guardo qualche volta meravigliata senza odio e senza disprezzo, e li ascolto timida, un po' come un indigeno caduto dalla luna ci guarderebbe tutti noi; ben inteso che il torto è sempre di quello che cade dalla luna.

Il pubblico? Oh! il mio pubblico per poco non mi ha fischiata, una sera, nel secondo atto di Frou-frou perchè avevo un povero abito di sessanta lire.

Non dico verbo dei critici. I primi, i veri critici sono i filosofi, i poeti, i romanzieri; essi fanno la critica della vita. Non è che dopo di essi che si è costituita la critica della critica. Ci sarébbe troppo da dire in proposito e ben poco che ne valga la pena. Anche qui come dovunque lo spirito vivifica e la lettera uccide. Un vero critico non può sgorgare che da una grande intelligenza. Da ciò in fuori le ciane sui ballatoi, sui trivii e intorno al pozzo fanno continuamente della critica.

Tutto ciò, capite, è troppo diverso da quello cho provo quando piango o gemo o impreco o imploro o perdono dalle tavole del palcoscenico davanti alla bellezza ed alla verità assoluta. Io non vedo in quei momenti d'ebbrezza che il fantasma ideale della folla, la parte migliore, i più nobili istinti, le aspirazioni gentili che sotto il tocco dell'arte vibrano, divina musica, sopra una tastiera presa a prestito.

Ed essi pure non s'ingannano nella idealizzazione dell'artista? Forse. Noi siamo davvero l'arpa eolia che un soffio celeste percuote a intervalli e fa vibrare. Che cosa possono trovare essi quando ci avvicinano se non delle corde mute?

Sì, quando essi ci avvicinano trovano l'istrumento arido, torturato, fesso. Il nostro genio non è in noi; esso è volato via colla nostra voce, col fuoco dei nostri sguardi, coi nostri nervi, col nostro sangue che abbiamo prodigato per rivelare la bellezza.

Beati coloro che possono fermare l'anima dentro a un capolavoro. Noi, la nostra povera anima la diamo al vento.

E penso ancora qualche volta ad un ignoto che non mi abbia vista mai, che io mai non vedrò, che solo e lontano (sarà sopra una vetta ideale cinta di nevi? o in una triste palude fra i salici grigi e piangenti? o nel rumore vertiginoso di una grande città? o nella quiete austera di una vecchia casa di provincia?) segue la mia vita, il mio pensiero e palpita e sospira e spera insieme a me. Egli—l'ignoto—mi ha amata, lo so, lo sento, attraverso le vibrazioni del mio nome e questo amore puro che la caducità della materia non può raggiungere mi consola spesso; esso è come il profumo di un fiore che avessi chiuso nell'interno del mio abito. Lo sento senza vederlo.

Ma tremo tutte le volte che un'anima esce dalla moltitudine per accostarsi a me; so che perdo un amico. Accettando la gravosa responsabilità di parlare al cuore delle masse ho rinunciato al dono di trattenere il cuore dell'uomo. L'uomo che mi abbraccia stringe un fantasma. L'anima mia, pellegrina errante, non ha casa, non ha tetto, la sua dimora è il mondo.

Perchè venite da me? vorrei gridare al visitatore curioso. L'ora che vi concedo è dolce, mi fate dei complimenti ed io vi credo, più o meno, ma in fine vi credo. E poi? il visitatore si alza. Tornerà almeno?—Presto—Presto? —Prestissimo. Una stretta di mano, l'uscio si apre, il visitatore non appare più che di scorcio, è gia lontano, scompare. È finito tutto. Passeranno dei mesi prima di avere un'altra visita simile e quando verrà, la dolcezza sarà smussata, un velo malinconico sarà sceso sull'entusiasmo, non si crederà più.

E le lettere? Quelle lettere che si ricevono con tutto il fascino dell'ignoto, che si interrogano con un desiderio sempre morto e sempre rinascente, quelle città lontane che ci hanno lasciato nella memoria tanti profili graziosi e orizzonti puri e impressioni e rimpianti e che ci tornano davanti con una voce che sembra uscire sonora e sicura dal pudico mistero della busta! Certo sono un gaudio. Ma si scrive tutta la vita? Tutta la vita sotto lo stesso grado di passione? … Sere sono il lampionaio passava accendendo ad uno ad uno i fanali. Il mio vicino stando alla finestra col capo voltato a sinistra guardava con interesse ciascuna fiammella; quando i lampioni di sinistra furono tutti accesi il mio vicino volse tranquillamente il capo a destra. Si può stare tutta la vita in contemplazione di un lampione acceso?

C'era nella mia casa di fanciulla una boccetta faccettata colle stelline d'oro sopra ogni faccettatura, la quale a detta della buona donna che mi governava veniva -da mia madre. La ebbi vuota, restò vuota sempre, ma della essenza contenuta una volta le era rimasto così intenso profumo che era una delle mie delizie il fiutare al buio, come una carezza misteriosa, quel profumo che mia madre aveva fiutato prima di me e che durava ancora quando lei non c'era più. Ho cercato poi invano una essenza duratura; nessun fiore staccato dall'albero e condensato in un lambicco dà il profumo inalterabile. I migliori prodotti moderni durano un'anno o due al massimo; la boccetta di mia madre ha trenta o quarant'anni di vita forse. Però, ora, anch'essa odora un po' meno…

Si tornava ieri dall' aver fatta una escursione fuori delle mura, alcuni artisti ed altri. Presso alle porte della città quattro o cinque buoi cacciati innanzi da un bifolco si avviavano al macello. C'era con noi un romanziere, sapete, quel piccolino grasso che parla tanto di arte e si ubbriaca così spesso, che annuncia ogni po' di voler dare la scalata al cielo, ma che è sempre trattenuto dal peso del suo ventre; ebbene, egli parve riflettere profondamente e poi disse:—Povere bestie, camminano colle proprie gambe alla morte!

Ma forse che noi non camminiamo tutti i giorni, tutte le ore alla morte?

Io venivo un mattino d'aprile a raggiungervi in un paesaggio delizioso; odoravano per l'aria le primule in fiore, la gioia mi aspettava, ero felice, eppure dentro di me pensavo: Vado alla morte; su questi sassi che il piede sfiora leggero, portato dall'illusione, altri piedi non ancora nati ed altre illusioni passeranno calpestando le orme di coloro che sono passati prima di noi. Io le cerco sempre, queste orme, le interrogo con una curiosità sacra. Nulla di essi sopravisse dunque? Ma sì, vivono ancora le loro gioie e i loro dolori, vivono le loro ebbrezze, vivono le loro lagrime. Noi siamo loro, un po' più malinconici. La tristezza che opprime i nostri cuori così giovani, così vivi, non è che l' ombra del loro rimpianti; noi sentiamo gravare la cenere di tanti morti ed è per questo che ci facciamo silenziosi talvolta in mezzo alla gioia.

Voi eravate ad aspettarmi; nessuna realtà era più vera del vostro sorriso. Avevate scritto dei versi allora e me li leggeste domandando il mio giudizio. Invece di rispondervi subito, mi indugiai a scrutare la vostra allegrezza, sentendo che non avrei potuto mettermi a paro, che anche quell'ora era già trascorsa di cinque minuti, che il minuto volava e che vi avrei perduto. Gravava su me la tristezza dei giorni felici, di quei giorni che si sa non torneranno.

Più siamo forti e ardenti, più è la potenza d'amore che teniamo dentro di noi e più ci attacchiamo alla vita. Non è vero?

Noi della vita amiamo tutto, la nostra parte e quella degli altri, e il futuro e il passato.

Qualsiasi nostra sensazione, piacere o dolore, si riallaccia al palpito unico dell' universo; noi non facciamo come l'asse della ruota che credesse per avventura di girare solo; noi sappiamo che intorno a noi, sopra e sotto di noi gira tutto un'ingranaggio di meraviglioso lavoro e noi partecipiamo tanto della polvere e del fango che si avvoltola sotto come della messe lussureggiante e dei floreali trionfi che salgono alla cima.

Per questo noi amiamo i morti. Nessuno di essi è perito o cancellato dalla nostra memoria. I grandi eroismi, i grandi ingegni si perpetuano, risorgono sotto un'altro nome. Chi credete che fosse Dante? Dante era Omero. E quando vedete sorridere il raggio della bellezza nel volto di una donna, pensate: Ecco Elena! Non in polvere caddero le divine braccia, nè il seno, nè le chiome, nè i soavissimi occhi. Elena vive, Elena vivrà.

Amiamo il passato, amiamo il futuro se non vogliamo morire. Siamo noi il mondo!

E fu quel giorno che si venne a parlare di gelosia. Vi affermai che non sono gelosa, un po' come Santa Teresa diceva: “muoio perchè non muoio” la gelosia è di sua natura sensuale, per questo si dice geloso come una tigre, come una iena; ma quando l'amore si eleva ad una grande altezza di sentimento, la gelosia non ha più ragione d'essere. Si ama Dio senza esserne gelosi.

Se io dovessi esser gelosa lo sarei prima del seno che ha portato e che ha nutrito il mio diletto e poi dei primi oggetti che colpirono la sua immaginazione; i suoi balocchi, i suoi abitini di bimbo, i compagni che primi amò; e poi della casa che abita, dei sentieri che egli percorre, dei poeti favoriti, dei morti rimpianti ed infine delle persone che egli non conosce ancora, ma che conoscerà, che entreranno a far parte della sua vita a prendere un posto nel suo cuore, che lo divertiranno o lo interesseranno e lo faranno piangere o sorridere, o benedire o imprecare. Di una donna? Sì, forse, un momento. Ma qual donna potrebbe possederlo tutto e per sempre? Non v'è che la Morte … Oh quella mi renderebbe gelosa!

Eppure l'amore ha vinto qualche volta la morte; l'ha sempre vinta quando un genio altissimo lo portò sopra le sue ali. La morte ha domato i bei corpi di Atala e di Giulietta, l'amore ne ha reso immortali le anime.

Pensate al trionfo di Saffo. Le sue oscure rivali dormono da secoli nell'oblio, essa sola possiede Faone!

A questo modo comprendo la gelosia. Contendere l'amato non ad una misera donna, ma alla natura, all'eternità. Conoscete voi qualche cosa di più sublime? Ecco: hanno disceso l'amato nella oscura fossa, lo hanno coperto di fiori, gli hanno recitato le preghiere dei defunti, lo hanno salutato per sempre, hanno detto: è morto. La madre piange, i parenti preparano il lutto, gli amici pensano: non lo rivedremo più; tutti si rassegnano. Ma lei —la sublime innamorata—discende nel sepolcro, prende il cadavere, lo stringe al suo seno, gli infonde un'anima nuova e per la fragile vita perduta gli offre una vita di eternità. È suo finalmente, unicamente suo! Essi voleranno nel mondo al di sopra degli amori umani, al di sopra delle gioie umane, e i posteri, i tardi uomini venturi, parleranno ancora del loro amore e le giovinette trepide ed ansiose ripeteranno con gelosa meraviglia i due nomi immortalmente congiunti.

No non sono gelosa finchè sentirò di poter amare meglio di chiunque. Dare senza chiedere, senza ricevere, senza sperare nulla è la più grande voluttà per un cuore orgoglioso.

Povera Maria Bashkirtseff! Ella si accontentava come meta superiore al suo orgoglio di raggiungere un grado tale di celebrità che facesse voltare tutti gli sguardi quando entrava in un salotto.

Ma quando tutto un salotto e un teatro e una città intera mi acclama, io mi faccio piccina, mi nascondo. No, non è ancora quello che voglio!

Io vorrei—ve lo dico piano, misteriosamente —vincere Colei che sola riconosco per mia rivale.

Il fragore degli applausi non mi dà neanche la più piccola parte dell'irradiamento divino che proverei se sapessi di essere amata e desiderata oltre la tomba, sempre, capite? Se potessi essere sicura che di qui a cento anni un'anima sentirà tutto quello che io sento, come lo sento, e che la sua simpatia rifacendo il secolo mi verrà incontro attraverso il mistero della morte, ecco il mio amore, ecco il mio orgoglio. Non una platea, non un pubblico, un'anima come la mia. Non è questa la risurrezione?

Amare nel mondo la compagna invisibile dell'anima nostra, la cara, la sognata, l'ignota, l'irrealizzabile, quella che non troveremo mai. Oppure amarla nelle sue frazioni, amare cioè quella porzione di ideale che ci è permesso di raggiungere, raccoglierlo come una gemma preziosa, farne una corona di cui si possa dire: Questa è l'intelligenza, questo il sentimento, questa la bellezza, questo il genio, e su tali perle isolate recitare il rosario della nostra devozione.

Quale è preferibile?

La prima teoria è più ideale, la seconda più umana. Ma che cos'è l'umanità? Non sono io un membro della umanità, e perchè dovrò riconoscere negli altri maggior diritto che non in me stessa di decretare qual'è la via migliore? Il solo dovere che ha l'uomo verso gli uomini è di non turbare le leggi naturali. Intimamente, chi può avere maggiori ragioni di noi stessi?

Che cosa hanno fatto gli uomini per la verità se non trovare dei sistemi? In filosofia, in religione, in morale, in arte, in scienza tutto è stato filtrato attraverso il sistema, ma tutti i vangeli e tutti i trattati non ci rivelano nulla che non si sappia già, che non abbiamo già sentito ondeggiare nel nostro spirito, fremere ne' nostri nervi.

Ogni sistema rappresenta una strada, nessuno assicura la meta.

Il sistema circonscrive l'ideale entro date forme e il bisogno dell' ideale è l'assoluto. Finchè non mi si darà questo, continuerò a credere che il primo dovere dell'uomo è la ricerca, l'ascesa lenta ma ferma e libera.

Poichè in teoria tutto è ideale e in pratica niente lo è, amare e coltivare la nostra anima sarà il tempo meglio impiegato per ciascuno e per tutti. È un errore chiedere agli altri la nostra felicità. Il corso della felicità superiore va piuttosto da noi agli altri.

Quale piacere fisico non stanca? È pur bello che sia così; l'eternità del piacere è dovuta allo spirito e lo spirito siamo noi. Due occhi, due mani, due piedi, una bocca per mangiare, delle orecchie per udire, chi al mondo non possiede tutto ciò e chi non si riunisce in questi attributi per accrescere il proprio diletto?

Ma che cosa c'è di comune fra codesti diletti e il diletto nostro? Esiste nella natura un senso misterioso che si rivela appena a certe fibre particolarmente sensibili di poeti e di veggenti che le masse negano, alla stessa maniera che intere catene di montagne e popoli di selve e di grotte negherebbero l'eco ad essi non concesso. Qual'è la nostra strada, la nostra felicità, il nostro compito se non questo? “Ascoltare la Voce.”

Rimpiango gli anni e le forze perdute. Mi pare che la mia mente sorga ora da un viluppo di vecchi ciarpami, di cenci ingombranti e vedo cieli più puri succendentisi l'un l'altro quali promesse di gaudi imperituri.

Delle mie prime letture ricordo la leggenda di una fata condannata a vivere sempre sola in uno splendido palazzo. Tutte le bellezze dell'arte lo adornavano e la natura pure vi era penetrata con giardini ampî e maravigliosi; tuttavia la fata sentiva qualche volta il desiderio di un'altra sè stessa, l'istinto naturale dell'amore le faceva sospirare un essere fatto a sua immagine e somiglianza, per il quale essere bella. Così l'anima mia sospira nei suoi momenti di debolezza. Ma ciò non deve essere. Non solo cogli infimi, nemmeno coi simili, nemmeno coi superiori dobbiamo cercare quale ideale massimo la fusione delle anime. Un'anima che si fonde con un'altra anima si appaga e finisce la sua missione. Lo scopo deve essere ben più alto.

Voi mi diceste: (Lawrance, vi parlo ora nella nudità del mio cuore spoglio di qualsiasi illusione, lo sapete) “Noi ci uniremo, siamo fatti per ciò”. Era a questo che pensavate? Eccoci uniti; uniti come nessun' altro degli umani, nella lontanaza e nell' abbandono, nell'assenza d'ogni gioia e d'ogni comunicazione. Il principio solo è ideale e noi siamo congiunti nel principio. Quale vantaggio avrebbe portato il nostro amore? Noi siamo invece uniti per tutto ciò che abbiamo amato insieme, per l'elevazione insieme compiuta delle nostre anime, e perchè il nostro amore non l'abbiamo chiuso in noi, ma lo sprigionammo a tutte le cose belle ed immortali.

Pericola adesso il mondo minacciato da mostruose battaglie. È l'ora del sursum corda. Appunto perchè tutti gli idoli sono abbattuti e tutte le bandiere sfatate; appunto perchè non si crede più, noi crederemo. Perchè siamo discesi nella fredda anima degli scettici sentiamo orgogliosamente l'ardore della nostra e crederemo che non l'ideale cade, solo cadono le forze dell'uomo.

Non l'ideale cade se per ideale si intende togliersi dal proprio bene personale e ammirare spassionatamente il bene che esiste fuori di noi; sentirsi felici per questo solo che il bene esiste.

Quale bruttezza, quale sventura possono cancellare il fatto della bellezza e della felicità?

Brame selvaggie scaturiscono improvvisamente dall'ombra di detriti barbari, sorga e s'innalzi il diritto della nostra razza. Sento venire a me da lontani miraggi di luce la voce de' miei precursori, de' miei parenti d'anima, che mi incita e mi rassicura. Chi sono? Io non li guardo; guerrieri, principi, poeti, martiri dell'amore, eroi dell'idea, o povera gente umile, povere anime solitarie vissute lontane da ogni sole fecondatore, ignote, incomprese, sconosciute, avvilite eppure grandi nel fuoco d'amore che le consumava, essi hanno tutti un blasone che riconosco, che sento mio. Essi mi dicono:, Eterna è la bellezza, credi in lei!

Tutto sta qui, vero? intendere la bellezza, avere anima di intenderla in tutte le sue manifestazioni, non soggiacere a quella meschina e volgare cosa è il dolore. Il mondo è brutto—dice lo scettico dal cuore arido—perchè io vi ho sofferto. No, il mondo è bello perchè tutti i dolori si allacciano ad uno scopo infinitamente ideale.

I grandi attori, quando per le esigenze dell'opera devono accettare una piccola parte, una parte antipatica, la rappresentano collo stesso ardore, colla stessa coscienza e colla stessa perfezione delle parti eroiche. Il male è che vi sono pochi grandi attori sulle scene e nella vita.

Vi immaginate come sarebbe armonica l'esistenza se ognuno si impegnasse a compiere bene lo scopo per cui la natura lo fece nascere? Lo sciocco non è forse necessario all' uomo di spirito tanto quanto il crudele al generoso e il deforme al sublime?

Si trova più bella la stella che più di tutte palpita. Se la maggior parte degli uomini soffre è perchè non sente abbastanza. Sente il dolore che è un gradino basso della sensibilità e non sente la bellezza che ne è il coronamento.

L'uomo capace di intendere la bellezza nel suo significato più intimo e più complesso ascolterà poco un dolor di testa e colui che possiede il raro dono della creazione potrà dando vita ad un'opera d'arte, consolare gli spasimi del suo cuore. Il dolore come il piacere non sono che mezzi della vita, gli effetti cadono presto o tardi, sola esiste ed è immortale la causa.

Ma non sono queste le parole che corrono ora nel mondo. Noi assomigliamo ai primi cristiani, la nostra religione è perseguitata o derisa. Abbiamo bisogno di nasconderci qualche volta, viviamo delle nostre catacombe ed abbiamo il nostro motto di riconoscimento. Il culto del nostro Iddio si è rifugiato sopra un piccolo altare, sopra una unda mensa fra pallidi ceri, fra scarsi fiori, senza incenso, senza cori osannanti intorno, ma esso vive, esso vive e tanto deve bastare alla nostra speranza e al nostro ardore. Se noi non fummo felici non importa, altri lo saranno.

Non mi sono coricata stanotte. Ho riletto queste pagine, pensando a Voi che me le avete ispirate e che forse non le vedrete, forse non le leggerete così lontano da me …

Apro la finestra e sopra l' orizzonte che si tinge in color rosa riposo gli occhi stanchi dalla veglia. Entra l'alba!

Piccoli amori, piccoli dolori, piccolo agitarsi di anime piccine, come tutto ciò scompare davanti alla luce! Sali, anima mia, sali ancora in mezzo ai triboli ed alle spine, in mezzo ai fiori ed alle stelle sali; l'ultima parola è questa.

Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.