Piccola collezione « Margherita »

NEERA

CONCHIGLIE

Disegni di CASTELLUCCI.

Incisioni di BALLARINI.

ROMA
ENRICO VOGHERA, EDITORE
Corso d'Italia, 34
1905



La presente opera
è messa sotto la tutela
delle vigenti leggi e trattati
di proprietà
letteraria ed artistica.

(05.4256) Tip. E. Voghera

Un giorno di nozzePag. 13
La scelta di una professionePag. 69
A punto!Pag. 87
Socialismo SportPag. 109
Il poeta e il vasaioPag. 131
FilantropiaPag. 153
La prima lettera d'amorePag. 169
L'educazione di RosinaPag. 191

QUEL mattino del 26 gennaio che doveva essere il giorno più bello della sua vita, Battista Poma aprendo la finestra alzò subito gli occhi al cielo per vedere se finalmente dopo un mese di pioggia e di nevischio il tempo volesse mettersi al sereno. Tra la sua finestra e il cielo non vi erano ostacoli, poiché centoquindici scalini ben contati lo avevano portato ad una altezza conveniente sopra i tetti circostanti, cosi che egli vide subito la fitta nuvolaglia grigia incombente ancora sulla città e che non prometteva nulla di buono quantunque per il momento non piovesse.

Ritirò il capo crollandolo con aria malcontenta e si pose a chiamare:

— Papà, dormi?

Dalla camera vicina venne per tutta risposta un brontolio indistinto il quale tuttavia fu sufficiente a Battista per fargli comprendere che anche suo padre si stava alzando

— Ricordati, papà, di cambiare la camicia.

In seguito a questo mònito Battista si diede attorno a ricomporre la camera per far sparire le tracce della nottata. Il letto nuovo, i due cassettoni nuovi, i comodini, le quattro sedie, ogni cosa lucente per l'ultima vernice data dal falegname, faceva la sua discreta figura in quello scialbo mattino.

« Se ne avessi solamente pagata la metà! » pensava Battista infilando il suo abito nuovo che gli aveva portato via — 38 lire completo — ogni suo avere. Ma il falegname non era stato pagato per la stessa ragione che il calzolaio avanzava due paia di scarpe e il padrone di casa tre mesi di affitto.

— Maledetta la Russia! — mormorò Battista, dando un calcio nel muro, dietro il quale egli scorgeva probabilmente una figura che gli dava noia.

Nell'altra stanza dove dormiva il padre, e che serviva anche da cucina, il brontolio continuava or alto or basso accompagnato da uno strascicare di ciabatte e di sputi.

— Battista! — chiamò finalmente una voce soffocata a mezzo dal catarro.

— Cosa vuoi papà?

— Dove hai messo la spazzola?

— La spazzola!… — ripetè il giovinotto, affacciandosi sulla soglia dell' uscio con un fare smemorato. — Non c'è.

— Come non c' è?

— Quella vecchia è stata abbruciata ieri, ti ricordi? che non aveva più attaccato nemmeno un pelo e quella nuova, quella nuova.

— Ebbene?

— Anche quella nuova non c' è; è ancora in bottega. Non ho trovato posto per essa nelle spese, sai, furono tante!

— Naturale quando si incomincia dalle carrozze!

Mancò poco che un impeto d' ira strozzasse il vecchio, il quale si fermò dall'altra parte della soglia a liberarsi del suo catarro, finchè sfiatato ed ansimante non ebbe soggiunto:

— A' miei tempi si aveva meno fumo, ma una spazzola in casa perdinci l'ho sempre trovata. Non potrà dire altrettanto la signora sposa che arriva in carrozza.

Questa della carrozza era l' incubo del vecchio. Gli sembrava già una follia la risoluzione presa dal suo figliolo di ammogliarsi proprio in un momento in cui si trovava senza posto fisso, pieno di debiti, che non aveva nemmeno potuto pagare il letto e s'erano dovute cucire insieme due trapunte logore perchè quelle a credenza non le avevano volute dare, e come non bastasse eccoti il puntiglio della sposa, della mamma della sposa e delle amiche della sposa di esigere le carrozze ad ogni costo. Si può forse andare in municipio senza carrozza? aveva gridato la madre che faceva la lavandaia di colore e che stendendo i panni sopra un certo terrazzino sotto cui sfilavano le carrozze degli sposi che vanno a compiere il voto alla Madonna di S. Celso si era giurata che anche sua figlia sarebbe passata di là La Tina forse forse poichè in fondo voleva bene al suo Battista non avrebbe sofisticato tanto, ma le amiche facendo coro alla mamma non mancarono di gridare che a piedi non si sposano oramai altro che i cani, che sarebbe stato un disonore e tale che tutti i vicini non potevano a meno di mormorarne.

— Non si usa più! — aveva decretato per finirla la mamma Francesca rizzandosi sulla sua persona lunga lunga di pertica nodosa.

— E quando non vi sono denari?! — aveva risposto il vecchio catarroso. Egli non dimenticherebbe certo mai più lo sguardo altezzoso dí mamma Francesca e la risposta:

— Denari ve ne sono sempre.

A questo modo, lasciando intatti tutti i debiti, colla casa vuota, le coperte posticcie, ragranellati fin gli ultimi soldi messi da parte in un berretto da notte del vecchio e ceduti con lunga battaglia, le carrozze erano state noleggiate per gli sposi e per gli invitati.

Adesso Battista era pronto, col suo completo color avana e una cravatta verde tenero. Si guardò prima nell'uno poi nell'altro dei due specchi che sormontavano i cassettoni senza ritrarne un giudizio rassicurante. Cacciò a buon conto tutte e due le mani nei capelli sollevandoli dietro le tempia come piacevano alla Tina e mise fuori un sospiro che si sarebbe potuto interpretare in diversi modi. Dalla cucina intanto veniva un tramestio di pignatte e di scodelle.

— Cosa fai, papà?

— Cerco se fosse possibile di far scaldare un po' di broda.

Battista andò in cucina e si inteneri vedendo il povero vecchio curvo sul focolare Aiutarlo non poteva per non sciupare l'abito nuovo ma gli disse:

— Ora non ti seccherai più in codeste faccende. La Tina accenderà lei il fuoco, preparerà lei la zuppa e tu sarai servito come un re.

Il vecchio non si voltò nemmeno continuando a racimolare fascelli sotto la cenere, ma in quella positura tossiva più che mai e si vedeva la sua schiena alzarsi e abbassarsi come un mantice.

Battista tacque un poco e poi disse:

— Vado dal Rico.

— Rhum. rhum! — grugni il vecchio.

***

Strada facendo, fosse effetto del tempo sempre grigio o della visione esatta del pericolo che sembra rivelarsi a certe nature impressionabili allora appunto più nitida quanto più è irrevocabile, il pensiero di Battista si andava coprendo di nuvoloni.

Era ben vero che da tanti anni amoreggiava colla Tina, avendo incominciato quando tutti e due andavano a gettar sassi contro i castani del bastione, e che la gente parlava e che un momento o l'altro bisognava finirla. Ma perchè l'ultima volta che egli era a posto da un fornaio galantuomo dove si trovava tanto bene, perchè fu richiesto di un lavoro straordinario, per piacere e dietro compenso, il Rico gli aveva dato quel brutto consiglio di ribellarsi? I padroni possono essere buoni e possono essere cattivi ma sono uomini alla fine, e se non piace all'operaio di farsi schiacciare è naturale che non piaccia nemmeno a loro. Senza il consiglio del Rico egli non si sarebbe mosso dal suo posto, e qualche debito di meno ci sarebbe, se non pure qualche risparmio. Cosi, gira di qua gira di là, cattiva lavandaia non trova mai buona pietra. Ouff!

Il Rico, lui, poiché mangiava il pane del governo con una gamba sopra l'altra nell'anticamera del Demanio, lui, si, poteva permettersi i! lusso di parlar male del prossimo, capo primo de'suoi principali diretti e di tutti i principali in genere, ma un fornaio lo deve fare il pane, questo innanzi tutto!

Giunto al palazzo del Demanio trovò il Rico proprïo come se lo era immaginato, seduto davanti ad un tavolino con una gamba sopra l'altra, il piede destro dondolante nel vuoto, il piede sinistro appoggiato contro un piano di legno inclinato messo là apposta per proteg gerlo contro l' umidità del suolo. Leggeva un giornale disteso tutto sul tavolino e tenendo ambedue le mani in tasca si dondolava sull'asse della propria persona quasi accompagnando il ritmo del periodo; e rideva in pelle in pelle sprigionando dagli occhi un ventaglio di grinze col gusto di uno che assapora il più saporito manicaretto.

— Rivoluzione! Rivoluzione! — esclamò appena vide apparire la mite faccia melanconica del Battista.

Ma Battista, assorto nei suoi pensieri, diede al giornale un'occhiata indifferente e disse a bassa voce:

— È per oggi.

— Benone! — fece il Rico battendo il pugno davanti a sè.

Poi stettero tutti e due un momento a guardarsi, il Rico colla faccia ancora accesa di una fiamma malvagia, l'altro imbarazzato e quasi intimidito dall'attitudine spavalda dell' amico Disse finalmente tanto per dire qualche cosa.

— Fa molto caldo qui.

— Sicuro che fa caldo! Ci vogliono far crepare coi loro caloriferi. I capi, nei loro gabinetti, hanno le valvole da aprire e chiudere a piacer loro, ma noi siamo trattati al pari delle bestie. Farci crepare vogliono. Oh! ma vedremo chi creperà prima!

— Forse — suggerì ingenuamente il Battista — si potrebbe aprire una finestra?…

Per tutta risposta il Rico crollò le spalle con una espressione che significava chiaro: Sei un grande asino E tornò a cacciare il naso sul suo giornale.

Trascorso qualche altro minuto Battista si fece animo a interrompere la lettura dell'amico.

— È per le tre. Verrai?

— Naturalmente, se l' ho promesso!

— Temevo che non tossi libero.

— Vorrei vedere! Vorrei vedere! Tutti siamo liberi, capisci? Chi può comandare all'uomo libero?

— Credevo… credevo.

— Asino

Battista abituato al linguaggio del compare, non fece caso neppure di questo secondo: asino. È il suo carattere — pensava — ognuno abbiamo i nostri difetti. Anzi, per non irritarlo maggiormente, con tono conci liativo, soggiunse:

— Si potrebbe entrare un momento dal signor ragioniere Brambilla?

— Che? !

— Domando se è permesso, se non disturberei a entrare un momento dal signor Cesarino Brambilla.

— Tu conosci questa gente adesso? Ti fai amico dei signori? Ih! Ih! Non me lo sarei mai immaginato.

— È da quando sono nato che conosco il signor Cesarino Siamo dello stesso paese.

— Buon pro' ti faccia.

— È tanto una brava persona.

— Ih! Ih!

— Gentile colla povera gente.

— Ih! Ih! Zampe di velluto e artigli di ferro, come i gatti.

— No, Rico, ti assicuro. Egli ha fatto del bene alla mia famiglia quando si trovava in condizioni diverse, povero signor Cesarino! Chi avrebbe immaginato che si sarebbe ridotto a fare l' impiegato… È da poco tempo che lo so.

— Sta a vedere che lo compiangi adesso perchè ha una poltrona sotto al sedere e una valvola da aprire e chiudere a suo piacimento Lavoriamo noi, lavori anche lui. È forse fatto di un'altra pasta questo signore? Per me non lo posso soffrire; deve essere aristocratico come un accidente con tutte le sue smorfie di graziosità.

Battista che aveva l'abitudine di cedere, specialmente col Rico, non credette opportuno di continuare il panegirico del signor Brambilla e si accontentò di ripetere:

— Posso entrare? Avrei una parola da dirgli.

— Si accomodi — disse il Rico balzando in piedi ed aprendogli un uscio con cerimonia canzonatoria. — Il signor ragioniere riceve tutti

***

Nella stanzetta piccola e piuttosto scura, piena di polvere e di odore di carte un uomo dai quaranta ai quarantacinque anni stava intento a scartabellar fogli sotto la luce dell' unica finestra. Era mingherlino, vestito di nero con una sopramanica di tela sul braccio destro. Il suo volto dalla tinta giallina dell'avorio vecchio aveva la secchezza ascetica di certi fraticelli scolpiti nel legno. Con una mano pallida, quasi femminile, voltava i fogli di carta bollata che non scricchiolavano neppure al suo contatto come fossero carte veline preposte alle miniature di un messale antico.

— Desidera?… — domandò sollevando gli occhi un po' stanchi dalle palpebre arrossate.

Ma appena Battista ebbe esclamato: Non mi rizonosce signor Cesarino? egli soggiunse subito con accento cordiale:

— Oh! Battista, che buon vento. Come stai?

— Mi riconosce! — esclamò Battista commosso — Sa che sono molti anni che non ci vediamo? Forse sette od otto. L'ho saputo da pochi giorni appena che anche lei si trovava a Milano.

— Da due anni.

— Già da due anni e non cì sìamo mai incontrati!… Ma! è così grande questa città.

— Più grande di Zogno, non è vero? — disse il signor Cesarino con un sorriso melanconico.

— Oh! bei tempi passati!

— Cosa fai a Milano?

— Dovrei fare il fornaio, che è sempre stato il mestiere della mia famiglia; ma un po' gli scioperi, un po' una storia un po' l'altra sono a spasso la metà dell'anno.

Egli non volle confessare al signor Brambilla di aver perduto un buon posto per colpa sua, a mezza responsabilità col Rico.

— E tuo padre?

— Vive con me; non potevo lasciarlo a Zogno solo, nevvero? Egli fa qualche piccolo servizio presso un droghiere e in fondo è ancora lui che tiene in piedi la baracca. Era forse meglio che non ci fossimo mossi dal nostro paese, ma come si fa? Tutti dicevano: andate a Milano che è mar grande Sembrava, a udirli, che qui ci fossero le strade lastricate di salsiccia, ma oramai siamo in troppi anche qui e ci diamo i gomiti nelle costole

— E dunque? — fece il signor Brambilla con una voce fioca nella quale parve ripassare la stanchezza di lotte anche troppo conosciute.

Quella interrogazione così semplice, così naturale sconcertò tuttavia il buon Battista. Egli sì era messo oramai per uno sdrucciolo nel quale era difficile trovare una uscita comoda per annunciare il suo matrimonio; ma poichè era appunto questa la ragione che lo conduceva dal signor Brambilla, dovette dirla alla fine, non senza una interna vergogna che gli rimetteva sotto gli occhi più grave che mai la sua imprevidenza.

Infatti, Cesarino Brambilla, col volto inondato da un rossore improvviso che non si capiva bene perchè gli fosse venuto ma che cedette subito ad una pallidezza anche più cerea dell' usato, esclamò:

— Prender moglie in simili condizioni! Battista, hai riflettuto bene?

Battista voltava e rivoltava il suo cappello nelle mani. Lo sapeva anche lui di fare un passo falso, ma vi era trascinato ineluttabilmente dalla sua debolezza, dall'esempio, dalla contagione di spiriti ribelii cui non soverchiava alcun ideale di resistenza e di sacrificio. Rispose a bassa voce:

— È tanto tempo che ci amiamo.

La fiamma ricomparve sulla fronte del signor Cesarino, sulla fronte solamente, mentre stringeva le labbra con una contrazione spasmodica.

— Ti auguro… ti auguro… di essere felice.

Nel silenzio che segui, gli sguardi dei due uomini caddero sul rettangolo della finestra velato da vetri sporchi al di là dei quali il nevischio ricominciava a scendere, uggioso e freddo. Vedevano forse entrambi la loro valle lontana e le lontane primavere tra le siepi di nocciole.

Facendosi coraggio, Battista cacciò la mano nella tasca e ne trasse un involtino.

— Se permette…

— Che cosa? — fece Cesarino Brambilla trasalendo come uno destato improvvisamente da un sogno.

— È un'usanza del nostro paese… i confetti, sa; dovrebbe darglieli la sposa, ma la mia Tina non la conosce e se permette… scusi la libertà… in memoria dei beneficì ricevuti.

Le dita pallide del ragioniere si alzarono a tergere alcune stille di sudore apparse alla radice dei capelli e veramente singolari in quella stagione.

— Grazie… ti seì voluto disturbare… non occorreva. Grazie.

— Mio dovere.

— No, no, che dovere! se abbiamo fatto qualche cosa una volta…

— Tanto, tanto hanno fatto, lei e la sua famiglia e la mia riconoscenza sarà eterna.

— Egli è che…

Le dita pallide, dalla fronte erano scese sul panciotto ed erravano tremebonde intorno al taschino, poi fuggirono presso un ripostiglio più interno e sostarono indecise palpando la fodera. Con uno sforzo che gli alterava la voce dandogli un suono di trombetta scordata, il signor Cesarino si fece a sua volta un gran coraggio sporgendo la mano che era riuscita ad afferrare gli ultimi spiccioli della mesata e balbettando:

— Vorrei fare di più ma i tempi sono cambiati… sai…

— Oh! signor Cesare che dice! — esclamò Battista colpito da una luce improvvisa, quasi mortificato per l' imbarazzo in cui vedeva il suo antico signore.

Ringraziò con effusione e con tristezza insieme.

— Salutami la tua sposa e, di nuovo, auguri! — interruppe il signor Cesarino tentando di soriidere, ma non riuscendo che ad una smorfia intorno alla quale si accese per la terza volta una vampata di rossore.

Sulla soglia i due poveri si strinsero la mano.

Cesare Brambilla chiamato ad honorem ragioniere, impiegato a mille e seicento, quando il suo compaesano si fu allontanato rimase per un pezzo colla mano inerte sui fogli di carta bollata. Il vuoto della sua tasca, assoluto oramai in seguito al dono che aveva dovuto fare al Battista, ma sopratutto la causa stessa del dono lo inducevano a malinconiche riflessioni.

Ecco dunque che Battista a ventidue, ventitre anni — non poteva averne di più — garzone fornaio a spasso — lo aveva detto lui — moveva leggero verso il matrimonio. È tanto tempo che ci amiamo! — aveva detto ancora lui…

Cesare Brambilla reclinò la testa. Tutto il suo passato gli riapparve dinanzi incominciando dalla fiorente casa di Zogno dove era nato fra le agiatezze e i sorrisi della vita; agiatezze e sorrisi che sparvero a poco a poco nella stessa guisa di vedute dissolventi, ma dei quali ricordava con intensità di impressione il bel portico soleggiato aperto ai suoi giuochi infantili mentre riparata da una tenda di rigatino azzurro la giovane madre lavorava sorvegliandolo. Oh! bello Zogno! Ricordava la lunga scalinata che adduce al tempio, e il tempio stesso, e le vie salienti sul dorso della collina e i verdi boschi d'abetine e di faggi.

Ma un garofano, un grosso garofano morellone sporgente de un muro, quello era il ricordo dei ricordi. Quanti passi, quanti sguardi, quanti s ospiri!…

Tanto tempo che ci amiamo — aveva detto Battista per giustificarsi, — ma poteva essere questo tempo più di cinque, sei, sette anni? E lui invece?. Dio! Dio! Pensare che i suoi capelli erano così neri allora ed i suoi occhi così pieni di fuoco. Quanti anni erano dunque passati? Tutta la vita, ecco, la vita gagliarda dai venti ai quaranta trascorsa a spe rare, a desiderare, a tacere. In qual modo avrebbe potuto pensare a prender moglie se la sua famiglia cadendo in isfacelo lo aveva lasciato debole e solo a lottare contro il bisogno? Nella età più fervida del desiderio amoroso egli aveva avuto debiti da pagare, una povera vecchia da mantenere, cause, liti, brighe di ogni genere. Ed era delicato, era timido; la scarsa salute non gli aveva concesso di terminare gli studi. Ottanta lire al mese furono il suo primo stipendio. Ma non poteva vestirsi di fustagno lui; non lo avrebbero accettato in nessun posto. Furono lotte continue, umiliazioni, privazioni, oh! privazioni inaudite che andavano dalle rinuncie spirituali alle più crude mancanze fisiche. E il peggio?… vedere una cara persona deperire d'anno in anno, un caro volto invecchiare, perdere le fragranti rose, ingiallire a poco a poco e non poter far nulla!… Non poter sollevare l' amata sulle sue braccia, sul suo cuore! Non poterla rapire al destino! Non poterle dire: sei mia! — mai mia, nuppure una volta!…

Ne erano sbocciate delle primavere fresche, aulenti, facendogli correre nelle vene brividi di vita che egli aveva dovuto respingere come tentazioni. Al qual pro' accoglierle? Se non poteva, se non poteva affrontare gli impegni di una famiglia nuova! Mille volte si era messo a far conti, ad allineare clifre, a tracciare progetti, a fabbricare castelli in aria, ma tutto inutilmente Tirate le somme gli cascavano le braccia. Non poteva! Non poteva!

Povero signor Cesarino! Il sacchetto di raso lilla contenente i confetti del Battista gli stava davanti sullo scrittoio rinnovandogli la memoria di tutti i suoi dolori. Quello li lo aveva il cuor leggero. Egli non aveva pensato nè tanto nè quanto all'avvenire. Per í debiti non si va più in prigione; per malattie, disgrazie, vecchiaia, abbandono, morti, seppellimenti, la carità ha provveduto; per i figliuoli meglio ancora poichè dal momento che nascono trovano baliatico, asili, scuole, sottoscuole, refezioni, vesti. Dunque!… A questo proposito si ricordò le cinquantamila lire che una sua congiunta aveva lasciato a scopo di beneficenza per i figli dei poveri e non potè a men dal fare qualche amara riflessione suí figli propri che per mancanza di denaro non sarebbero mai neppur nati.

La caduta rumorosa del fascicolo d'ufficio sul nudo suolo lo ricondusse alia materialità del suo còmpito. Raccattò i fogli sparsi, li rìcongiunse, tornò a passare e ripassare sopra di essi la sua mano pallida di anemico e le ore consuete trascorsero nello studiolo angusto finchè la luce venne meno dietro la finestra dai vetri sporchi.

Allora il signor Cesarino si alzò, terse la penna con diligenza, con diligenza piegò i fogli e levatasi la sopramanica di tela la ripose accuratamente in un cassetto della scrivania. Poi tornò a ravvolgere nella carta il sacchetto di raso lilla e lo mise a giacere nella medesima tasca dove prima c'era il suo ultimo biglietto da cinque Questo atto lo compì sospirando, con un pensiero inquieto per certe scarpe di gomma ch'egli vagheggiava da un pezzo a sollievo delle frequenti infreddature e che per quella improvvisa sottrazione minacciavano di ritornare per qualche tempo ancora nel mondo delle ipotesi. Staccò dall' attaccapanni il suo cappello e il suo cappotto, diede un'occhiata ingiro e adattandosi le maniche del cappotto con un movimento concentrico di tutte e due le braccia verso il petto usci serio, meditabondo, con quell'aria stanca e distratta che il Rico chiamava aristocratica. Rico però questa volta non lo vide, avendo già abbandonato il suo posto in anticamera per andare a far da testimonio allo sposalizio di Battista.

Il signor Cesarino siavviò solo solo nel dedalo di strade grigie coperte di fanghiglia che dovevano condurlo al suo secondo lavoro. Poichè le mille e seicento lire dello stipendio coprivano appena le spese di vitto, alloggio, lavatura, abiti, e di quei benedetti fosfati che costavano un occhio e dei quali aveva tanto bisogno, gli aveva detto il medico, per reggere alla fatica (non poteva, lui, farseli dare gratis alle ambulanze), si era assunto in onta alla legge delle otto ore un secondo ufficio presso una casa di commercio che lo aiutava ad arrivare a fin d'anno senza debiti. Era un lavoro noioso, meticoloso, fatto alla luce del gas che gli faceva bruciare le palpebre e del quale usciva a sera inoltrata, sfiaccolato e senza appetito per andare a mangiare un boccone e poi buttarsi a letto. Sì in letto, subito, perchè a girare per la città correva rischio d' imbattersi coi colleghi d'ufficio più di lui vogliosi di godersi una bibita al caffè o un posticino in piedi al teatro.

Il signor Cesarino invece, sotto il duplice peso delle sue incombenze, se riusciva a salvare qualche liretta al mese la metteva da parte con una speranza così vaga, cosi vaga che non poteva quasi chiamarsi speranza, ma nella quale si rifugiavano tuttavia sgomentati e palpitanti tutti i sogni della sua giovinezza. Chi sa che a furia di economie — era questo l'ultimo sogno — non potesse raggranellare tanto da comperarsi un nido, un piccolo nido modesto dove addurre l'amata, un breve guanciale su cui posare insieme le fronti stanche ed i cuori fedeli ed ivi attendere il riposo eterno…

Tra questi ed altri pensieri il signor Cesarino urtò senza quasi avvedersene un gruppo di persone fra le quali riconobbe il Rico ed il Battista. Intravide alcane donne, udì un bisbiglio di voci, uno scintillare di falsi strass sotto le sciarpe di seta dai colori vivaci. Tutta la comitiva nuziale insomma. Egli si strinse contro il muro facendosi piccino, preso da una timidezza improvvisa e insieme da una curiosità di distinguere fra tutte quelle persone la sposa. Ma il gruppo gli passò davanti tumultuariamente mascherato dagli ombrelli e sparve nell'androne di una osteria dove lo sguardo del signor Cesarino lo seguì a lungo carico di nostalgia e di tristezza.

***

La lunga Francesca aveva finalmente avuta la soddisfazione di vedere sua figlia in carrozza col velo bianco appuntato da un ramoscello di fiori d'arancio; ma non era poi andata ad accompagnarla in chiesa perchè si trovava troppo mal vestita e un po' anche perchè avendo litigato tutta la mattina a proposito delle spese fatte le si era voltato l'umore di roseo in nero. Andavano dunque gli sposi colla madrina, il vecchio padre, un cugino venuto appositamente da Baggio e il Rico. Il Rico a dir vero, vantandosi ateo, perchè gli sembrava una prova d'ingegno superiore, reagì un poco contro la cerimonia religiosa ed espresse il desiderio di seguirli solamente in Municipio, ma poichè mancava un testimonio si rassegnò di mala voglia accontentandosi di ghignare tratto tratto sotto i baffi.

Congiunti due volte, prima dall'Assessore poi dal Parroco, gli sposini tornarono a casa a prender mamma Francesca, e la Tina anche per spargere qualche lagrima intanto che le toglievano il velo bianco.

— Oramai quel che è fatto è fatto — le disse per consolarla la madrina, operaia come lei in una fabbrica di bottoni — io voglio aspettare a maritarmi quando ci sarà il divorzio, cosi almeno se mi stanco del primo potrò prendere il secondo e magari il terzo.

— Ben detto!—esclamò il Rico lanciando una occhiata incendiaria alla giovine operaia. Si è o non si è liberi. Io sto sempre col progresso.

La lunga Francesca offri a tutti una marasca nello spirito, dopo di che uscirono insieme per recarsi all'osteria del Cavallino dove li aspettava il pranzo nuziale e dove appunto furono veduti da Cesare Brambilla.

Sedettero intorno ad una tavola già apparecchiata, le tre donne da una parte, i quattro uomini dall'altra.

— Siamo in sette come i peccati capitali — osservò il cugino venuto da Baggio.

Battista si versò un gran bicchiere d'acqua e la sposa ne volle un poco anche lei. Disse il Rico:

— Non bagnatevi troppo, pulcini.

— L'acqua è nociva alla salute — soggiunge il cugino — quando noi eravamo in marcia i superiori non ci permettevano di bere.

Successe un certo silensio interrotto solo nel momento in cui fu portato in tavola il risotto, un risotto asciutto e pallido che sembrava polenta mal cotta.

— Non ho appetito affatto — dichiarò la sposa.

— Verrà verrà — disse il Rico con una espressione che voleva essere furba

La lunga Francesca rigida e dura non diceva nulla. Di fronte a lei il vecchio padre tossiva e gracchiava.

— Che allegria! — esclamò la compagna della sposa gettando una occhiata al Rico.

Era costei una giovinetta dall'aspetto risoluto quasi impertinente. Vestiva una camicetta rossa tutta a pizzi, stretta in cintura, svolazzante sulle spalle, ed aveva la più mirifica pettinatura che si potesse vedere, coi capelli arricciati e spartiti in tre grandi ciuffi sui quali troneggiavano cinque pettini variamente luccicanti. Rico le contraccambiò l'occhiata.

— L'ho portata anch' io la camicia rossa — disse a un tratto il cugino da Baggio desideroso di attaccare discorso; ma l'operaia lo guardò d'alto in basso come se avesse parlato della luna.

Egli allora si rivolse agli uomini e mostrando un moncherino dentro alla manica del suo gabbano disse ancora:

— È per questo che mangio con una mano sola.

Nessuno fiatò.

— È stato a Bezecca.

Fu l'ultimo tentativo. Accorgendosi che la sua storia e le vicende in cui si era svolta non interessava alcuno, il reduce delle patrie battaglie si rassegnò a mangiare il risotto in silenzio. Ma questo divenne così generale che lo sposo, il buon Battista, si credette finalmente in obbligo di contribuire anche lui alla conversazione e disse:

— Nasce un frate.

Uno scoppio di risa accolse la vecchia facezia. Rico volle ribattere:

— È un po' presto per parlare di nascite.

Intanto il ghiaccio era rotto. Uno stufato pieno di droghe essendo venuto per seconda portata ognuno vi immollava religiosamente il suo pane e il litro del vino incominciava a vuotarsi, secondando la legittima aspettativa dell'oste che da un pezzo se ne stava colle mani ìn mano

A un tratto si aperse la porta di strada ed entrò un ragazzino titubante e vergognoso con una sporta sul braccio.

— Ancora qui? — fece l'oste; ma paternamente lo guidò in cucina, poi rivolgendosi ai commensali soggiunse ridendo: — È il più fedele dei miei avventori. Pare impossibile che vi sia della gente così priva di giudizio da mettere al mondo figli in queste condizioni.

— Chi è? — domandò la Tina.

— È figlio di un calzolaio qui vicino, ubbriaco sette giorni alla settimana e padre di sette marmocchi che la madre in miseria riesce a mantenere per amor di Dio e dei santi.

La Tina, quando il fanciulletto ripassò, trovatisi in tasca mezza dozzina di confetti glieli fece scivolare nella manina diaccia. Il Rico si pose a gridare battendo il pugno sulla tavola.

— Ecco che cosa fa il vostro Dio! Se Dio esistesse e volesse fare del bene dovrebbe permettere a un padre di famiglia di ubbriacarsi tanto?

— Dio veramente — si arrischiò a ribattere il cugino di Baggio — non può tenere la chiave di tutte le cantine.

— Ma se è Dio non dovrebbe permettere!

— Cosa volete? Dio fa l'uomo e poi lo lascia andare colla sua ragione dove vuole, poichè gliela dà, nevvero? e se vi sono degli animali che…

— No, no — interruppe il Rico inferocito — perchè Dio, un vero Dio come lo intendo io, non dovrebbe nemmeno permettere che vi siano degli animali.

— Ma se tu sei l'uomo della libertà! — disse ingenuamente Battista.

Seria seria mamma Francesca sentenziò:

— Io direi che toccherebbe al governo a proibire che nascano figli quando non si può mantenerli.

— Già! — fece il cugino — e mettere un carabiniere sotto ad ogni letto.

Le risate ricominciarono fragorose, insistenti, alimentate dal secondo litro di vino e da un formaggio pizzicante che ne chiamò subito un terzo senza che nessuno si impegnasse di dichiararlo l'ultimo.

Le donne bevevano poco, le due giovani almeno, poichè la lunga Francesca si lasciò forse andare un po' più in là, ed avendo il vino triste si fece a ripensare i suoi debiti. Tanto per la tela, tanto per le guarnizioni, tanto per gli abiti. Non voleva sfigurare lei e le cose le aveva fatte in grande; ma adesso che non c'era più rimedio quella grossa somma le sembrava una montagna, tale e quale una montagna sullo stomaco. E di chi era la colpa? Non certo sua, che aveva lavorato tutta la vita come una martire senza cavarsi un sol grillo, nè di sua figlia che se le era venuta la voglia di maritarsi era ben naturale, e più naturale ancora che volesse comparire più di quel che era. Diamine! Si deve forse mostrare a tutti che si è poveri? E non fanno tutti cosi? E si potrebbe diversamente senza far parlare la gente? Di chi era la colpa?… del Battista. Perchè era povero anche lui? Perchè si era innamorato di sua figlia? Ecco tuttoil guaio. Battista che si era innamorato della Tina.

Fatta questa scoperta mamma Francesca si voltò tutta d'un pezzo verso suo genero apostrofandolo in malo modo:

— La finirete di bere sì o no! È ora di andare a letto.

Non aspettò nemmeno la risposta e vedendo in fondo alla tavola il vecchio a cui nessuno aveva mai rivolta la parola lo coinvolse nell'aggressione dicendogli che suo figlio era senza testa. Ma il vecchio tossiva e gracchiava facendo: rhun… rhun: nè fu possibile cavargli altro. Mamma Francesca allora si pose a gemere:

— Ohimè! Ohimè! cosa ho mai fatto! Avere una figlia sola e darla in mano a questi pezzenti.

— La gran riccona che siete voi! — saltò su a rispondere Battista, cui il vino bevuto conferiva maggior coraggio del solito.

— Ricca ero quando non avevo debiti, prima che si parlasse di questo sciagurato matrimonio. Ohimè! Ohimè! Quarantasette lire per le camicie e scommetto che non fanno nemmeno durata, con quei pizzi che si stracciano subito, undici lire ancora! E la sarta che già da un mese ha detto di non voler aspettare… Ci voleva tanto a stare a posto? Almeno non avrei dovuto anticipare io anche la spesa delle lenzuola che questa dovrebbe proprio toccare all'uomo di diritto.

Voleva dire, evidentemente, di dovere; ma a furìa di udir confondere i due termini non li discerneva più e diritto, così a orecchio, le sembrava più squillante.

— La finirete una buona volta — disse ancora Battista — vi paion discorsi da fare qui?

— Se i miei discorsi non vi piacciono andiamocene.

— Oh! è presto — interruppe il Rico guardando alternativamente un grosso orologio d'argento che aveva nel taschino e i tre ciuffi scintillanti della giovine operaia.

Il cugino da Baggio sogniunse:

— Quando si è in ballo bisogna ballare cara Francesca. Questo per fortuna è un ballo piacevole. Se foste stata a Bezecca…

Ma anche questa volta l'argomento non attecchì. La lunga Francesca più che mai irritata dai fastidi, dal vino cattivo e dalla stanchezza di quella giornata continuò ad aizzare il genero che finalmente perduta la pazienza la chiamò vecchia strega. Allora Tina si pose a piangere e tutti si alzarono, gli uomini barcollando un poco, l'operaia aggiustandosi i pettini sull'edificio della capigliatura, mentre Francesca intascava un pezzo di formaggio che le era avanzato.

Uscirono cosi nella via nebbiosa coperta di fanghiglia, rasentando il muro ad uno ad uno per evitare il frequente gocciolio dei tetti in seguito al disgelo. Sul mnro opposto un'ombra sottile scivolava parimenti silenziosa.

Era il signor Cesarino che rincasava con un pacco di carte sotto il braccio per lavorare ancora un poco prima di coricarsi.



IL mio padrone di casa, approfittando dell'occasione che mi aveva condotta nel suo studio per lagnarmi a proposito di un guasto nell'acqua potabile, mentre stavo per uscire, arrestò gentilmente la mia mano già tesa verso la maniglia dicendo:

— Senta. Lei dovrebbe soccorrermi in un'opera di carità che mi sta molto a cuore. Mio cugino da Brescia mi raccomanda una povera donna disgraziatissima, vedova, con due bambini, priva di qualsiasi mezzo di sussistenza.

— A Brescia?…

— Ma è venuta a Milano per cercar lavoro.

— Curiosa che tutti abbiano a cader qui!

— Che vuole? Pensano che Milano è grande.

— Tanto, che presto in Italia la si dovrà chiamare per antonomasia: la città.

— Quella povera donna è disposta a tutto, vede. Mio cugino mi assicura che educata come è, una vera signora decaduta, non cerca altro che lavoro; qualsiasi lavoro

— Che a Brescia non trova?

— Forse in Brescia si vergogna… Infine, ella deve presentarsi da me domattina; se non le dispiace gliela mando sopra. La vedrà, la giudicherà, e se può aiutarla…

Passarono ben quindici o venti giorni. Avevo dimenticato il colloquio col mio padrone di casa, quando mi venne introdotta una specie di signora sulla trentina, belloccia, vestita con una grenadine molto sciupata ma tutta a fronzoli e con due grossi brillanti chimici nelle orecchie.

— Con chi ho l'onore di parlare?

— Io sono quella disgraziata… quella povera signora di Bresia… decaduta…

Ella pronunciava le lettere se con quella sillabazione particolare dei bresciani, si che rammentai subito la raccomandazione che me ne era stata fatta. La pregai di accomodarsi, ciò che ella fece con molte cerimonie, scusandosi di non avere nemmeno un paio di guanti. Si guardò in cosi dire le mani piccole, affusolate, colle unghie rosee e lunghette e ornate di parecchi anelli della stessa famiglia dei brillanti.

— E in che cosa potrei esserle utile? Mi hanno parlato di lei come di una signora che cerca occupazione. E forse maestra?

— Oh! no.

— Ha speciali abilità nei lavori femminili?

— Nemmeno.

— Forse le traduzioni?… ma la avverto che non guadagnerebbe nemmenola spesa degli spilli. In Italia non si traduce affatto.

— Ma io non conosco nessuna lingua. No, no, non sono quella signora che le sembro…

Gettò uno sguardo smarrito sulle gale del suo abito e con un bel gesto di rinuncia che fece brillare per un istante i vetruzzi degli anelli continuò:

— Finchè viveva mio marito egli voleva che vestissi con decoro; lo facevo per amor suo, per ubbidirgli, affinchè non perdesse la considerazione fra i suoi compagni d'ufficio. Ma per me ho gusti semplici e pur di poter allevare quei due angioletti mi adatto a qualunque cosa.

Tuttavia bisognerà che dica qual cosa.

— Dove li ha i bimbi?

— A Bresia, da mia madre.

— E ì parenti di suo marito?

Abbassò le palpebre, strinse le labbra.

— Non la aiutano? — insistetti.

Ebbe allora un principio di imbarazzo che ondeggiò lievemente sul suo volto, ma subito riprendendosi disse con disinvoltura:

— Non hanno mai voluto riconoscermi.

— ?…

— Sa… eravamo sposi davanti a Dio.

Questo genere di confidenze è sempre penoso per ambe le parti e fu seguito da un breve silenzio. Ella però riprese con slancio drammatico:

— Del resto non voglio essere a carico di nessuno. Sono giovane, sono sana, lavorerò.

— Ma che cosa?

— Farò la serva se occorre. Pensare che fui chiesta in matrimonio da ricconi sfondolati, che a quest'ora potrei andare in carrozza; perfino un conte, si immagini! Ma fui siocca… oh! se fui siocca!

Un buon pentimento a tempo salva qualche volta le peggiori situazioni. Le domandai se si sarebbe sentita di fare la cameriera.

— Si — rispose — pur che non vi sia da stirare nè da pettinare perchè non vi riuscirei.

— Sarà un po' difficile allora.

— Qualunque altro servizio, qualunque.

— Di cucina?

— Si, ma non aver piatti da lavare. Per i miei bimbi sono disposta a tutto fuorchè a questo.

— Mi viene un'idea. Se ama i bimbi potrebbe proporsi come governante. che ne dice?

— Oh! — fece crollando leggermente le spalle — mi piacciono i bimbi, ma per qualche ora solamente.

Il silenzio tornò a mettersi fra noi due, di cui io ero la più imbarazzata. Finalmente arrischiai un'altra proposta:

— Sa fare occhielli?

— Punto!

— Orlare scarpe?

— Nemmeno.

— Ricama senza dubbio in oro, in colore, in bianco?

— No, no, no. Sa che cosa ci vorrebbe? Un signore solo.

— Ah!

— Ricco, buono, anche se vecchiotto non importa.

— Capisco capisco.

La faccenda diventava più difficile. Mi alzai balbettando:

— Se capiterà…

La bresciana si alzò essa pure e stette un momento davanti allo specchio. Si strinse colle mani la vita, allargò il busto, fece colla punta dell' indice il giro delle sopracciglia e si guardò furtivamente il dito.

— Mai più vorrebbe entrare in una fabbrica? — le chiesi, colpita da una subita ispirazione.

— Chi sa! bisognerebbe vedere.

— M'hanno detto che occorrerebbe una pulitrice d'oro.

Non deve essere difficile.

— Forse no; ma è un mestiere che sciupa le unghie. La proprietà innanzi tutto. Il mio povero marito diceva che sono nata per fare la signora… Ah! che disgrazia dover dipendere dagli altri. Basta, sono pronta a tutto. Ella se ne andò molleggiando i fianchi, mentre io mi domandavo rimminchionita che cosa mai volesse intendere con quella frase.

Dopo un paio di mesi il mio padrone di casa incontrandomi sulle scale mi disse: Sa? la Bresciana ha trovato da collocarsi dai fratelli Bocconi; fa la commessa. Niente di meglio; l'impiego le si attagliava come un guanto ed io ne fui contentissima per lei. Pensavo anzi di andarle a fare i mici complimenti, quando me la vidi ancora sull'uscio, tutta umile e contrita.

— Come? non è dai Bocconi?

— Ci fui.

— Ebbene?

— Non mi piaceva. Capirà, a stare in piedi tutto il giorno ci si stanca e poi quell'abito nero obbligatorio è insopportabile. Io sto male in nero e non è a ventidue anni che si può rinunciare alla propria bellezza. Ho ragione o no? Vengo a pregarla di trovarmi qualche altro posto, magari di serva.

— Ma se non sa servire, non si ricorda? Cameriera senza pettinare e senza stirare; in cucina senza lavare i piatti; coi bambini per due o tre ore… Bisognerebbe fabbricarle l' impiego apposta.

Pensa ripensa le trovai fuori un laboratorio di passamaneria; occupazione semplice, pulita, abbastanza gradevole, dove le sue mani affusolate non avevano a far altro che scivolare tra le nappine ed i trafori. Ci stette un mese e poi tornò a dirmi che non le piaceva neppure quella occupazione.

— Ma perchè? non è pulita, semplice, gradevole?

— Si guadagna poco.

— Cospetto! colle sue abilltà, scusi, che pretese avrebbe?

— E poi — fece torcendo la bocca con un attuccio di disgusto — non v' è alcuna comodità per i pasti.

— Quanto dire?

— Si porta con sè la colazione al mattino quando si entra e non c'è molta scelta. Il cacio puzza, il salame stanca…

— Qualche ovo sodo?

— Va bene, ma non posso continuare a mangiar ova sode come un canarino. Io sono abituatà al caffè e latte o cioccolata…

— Coi crostini nevvero?

— Ma già.

— E un po' di burro. Vedo vedo. Non è di cattivo gusto.

— Che cosa mi consiglia dunque?

— Oh! si figuri, io non le consiglio più nulla. Ci farei troppo magra figura. Pregherò il Signore che le mandi un terno al lotto.

Tutto ciò accadeva nella primavera dell'anno scorso. Oggi, da tanto tempo che non ne sapevo piu nulla, vidi la signora vestita veramente da signora, o quasi, con un lungo cappotto alla moda, colletto d'ermellino e cappellone con piume di struzzo. S'avviava lungo i portici settentrionali verso il negozio Bocconi che oltrepassò senza nemmeno gettarvi uno sguardo, sdegnosa forse delle povere diavole vestite di nero che stavan dentro, mentre ella aveva tre rose sgaggianti sotto alla piuma del cappello e la sottanina che pendeva di sotto alio strascico rialzato era un misto di raso color carne e di trine color crema. S'avviava lentamente, mollemente, gettando a destra ed a sinistraocchiatine languide e oblunghe. Quando fu all'ultimo arco dei portici girò sui tacchi e rifece la medesima strada. Compresi ch'ella aveva finalmente trovata la professione conforme al suo temperamento.



I.

NON appena la signora Marianna vide il corbello nelle mani del fattorino della ferrovia, sicura come era del fatto suo, pensò subito: Ecco i tortellini — poichè fin da quando il signor Taddei, il compagno d' ufficio di suo marito, era stato traslocato a Bologna e che al pranzo d'addio le aveva detto: « Vedrà signora Marianna, che giunto a Bologna mi ricorderò di lei » ella non aveva dubitato un solo istante che le premure di quella brava persona si tradurrebbero in tortellini; la sua passione, la sua unica passione.

Svolse dunque con prestezza la fune sottile che legava il corbello gridando a Menica d'in sulla soglia della cucina: Portami il piatto per i tortellini. Mentre la Menica accorreva col piatto, la signora Marianna che aveva svolto tutto quanto l' involto arretrò d'un passo esclamando: Che bestiaccie sono queste? — E si dipinse nel suo volto una tale contrarietà, quasi schifo e terrore, che peggio non poteva essere se avesse visto il Basilisco.

Piano, piano, senza quasi toccarle, le smosse, le fiutò, arricciò il naso, tentò coll'unghia un becco lungo e duro che sporgeva tra un ammasso di penne macchiate di sangue, asciugossi subito il dito nella cocca del fazzoletto e come sintesi riassuntiva di quell'esame disse: Per me, di questa roba non ne mangio.

— Che vogliono mai essere? — chiese la Menica osservando a sua volta i due bipedi piumati che giacevano nel corbello. — Ho inteso parlare di galline Faraone…

— Che galline! — interruppe sdegnosa la signora Marianna. — Codesti sono uccellacci.

— Notturni?

— Forse.

Quando il marito tornò dall'ufficio la signora Marianna cui non era passata la mortificazione della speranza delusa, gli mosse incontro.

— Sai che cosa ha mandato il tuo amico Taddei?

Il marito che ne aveva da parecchie settimane la testa intronata rispose lieto:

— I tortellini?

— Giusto quelli. Guarda!

Medea davanti al cadavere de'suoi figli ebbe forse un gesto meno tragico di quello disegnato nell'aria dalla signora Marianna indicando l corbello. Ma con sua grandissima sorpresa il marito, dopo di avere guardato, esclamò allegramente. Beccaccie!

A vedere poi come egli le aveva subito prese in mano palleggiandole, soppesandole, palpando loro il ventre e il collo, la signora Marianna torse il muso con un atto pieno di sussiego; del che avvedendosi il marito soggiunse:

— Non ne hai mai mangiate?

— Io!! — proruppe la signora Marianna, al colmo dell'indignazione.

— Sono squisite, sai? squisitissime.

La signora Marianna grave e mesta implorò:

— Se non vuoi che avvenga una disgrazia, nello stato in cui mi trovo, ti prego, portale via subito.

Al delicato accenno il marito ammutolì.

— Dove le porto?

— Dove vuoi, purchè non le veda.

Egli prese prudentemente le beccaccie e sparve con esse nella profondità misteriosa di un corridoio. C'era là in fondo un piccolo terrazzo abbastanza fuori mano perchè i due disgraziati ospiti potessero trovarvi alloggio senza disturbare madama. Appesi ad un chiodo non stavano peggio di tanti altri ospiti che girano il mondo.

Allo sera la signora Ma rianna chiese al marito che ne avesse fatto delle bestiaccie

— Maturano.

— O che son nespole?

— Le beccaccie, spiegò il marito, per sviluppare tutto il loro aroma hanno bisogno di raggiungere un certo grado di maturanza.

— Ti giuro che io non le assaggio neppure.

— Permetterai però che me le mangi io?…

La signora Marianna si strinse nelle spalle senza rispondere.

Ora avvenne che due giorni dopo, mentre già aveva dimenticato l' avvenimento, la signora Marianna recandosi a spazzolare sul terrazzo il suo abito di grenadine che non voleva affidare alle mani troppo rozze della Menica, scorgesse le bestiaccie (come le chiamava lei) ciondoloni al chiodo, colla testa in giù, e già penetrate di quell'odore acuto che acquista la selvaggina… maturando.

— Menica!

— Signora.

— Fammi il piacere annusa qui.

Menica cacciò il naso in quelle faccende non sue e gridò: Misericordia!

— Eh?… Ti pare una cosa pulita tenersi attorno dei cadaveri che puzzano? E l' igiene? E i microbi? Ho ben paura che mio marito non sappia quel che si faccia (e pazienza, non sarebbe la prima volta) ma ora ci va di mezzo la salute.

— Con questo caldo — conchiuse Menica.

Il marito preso d'assalto al suo ritorno dall' ufficio, spiegò che le beccaccie non puzzano mai troppo; che finchè non cadono da sè staccandosi dalla coda vuol dire che non sono mature; che quell'odore particolare, insistente, eccitante…

La signora Marianna fuggi turandosi le orecchie, ma in cuor suo una decisione era presa. Sulle prime le era balenato l' idea di proporre a suo marito il dilemma « o vìa io o via loro ». Poi trovò inutile cimentare cosi la propria dignità e chiamata di nuovo la Menica le disse semplicemente: Buttale via.

Esitò un istante Menica osservando:

— E il padrone?

— Il padrone? — ripetè la signora Marianna ne' cui occhi passò un lampo che sembrava dire: vorrei ben vedere che il padrone trovasse a ripetere sopra un ordine dato dalla padrona!— ma per tranquillizzare la ragazza si degnò di spiegare: Se il marito non ha giudizio tocca alla moglie ad averne. Pensa che cibandosi di quelle carogne imputridite egli potrebbe ammalarsi, morire, e lasciare orfano quel povero innocente che sta per nascere.

L'argomento non ammetteva replica. Menica staccò le bestie e le nascose sotto il grembiule

II.

Strada facendo, man mano che discendeva le scale, la ragazza faceva le sue riflessioni. Se la padrona proprio sentiva ripugnanza nello stato in cui si trovava via, la si poteva compatire e certo il padrone si sarebbe adattato; come sempre del resto. Ma se il padrone sosteneva che erano buone così (egli certo doveva intendersene) non era peccato mortale buttarle via mentre tanta gente muore di fame a quel che si dice? La portinaia per esempio, quella sfiancata tutta bocca ed occhi, ne avrebbe certo di grazia lei e i suoi cinque figliuoli, senza contare gli ossi per il gatto. Ecco una buona occasione di farsi voler bene. Menica, tutta ringalluzzita per l'atto generoso che stava per compiere entrò baldanzosa in portineria e posando le beccaccie sulla tavola con un bel piglio tra il nobile ed il benigno disse: Per voi buona donna. Arrostitele con molte cipolle e le troverete eccellenti.

Poi, modesta nel beneficio, si eclissò.

Lemme, lemme, trascinando le ciabatte, la portinaia che stava pulendo il naso al suo ultimo marmocchio si avvicinò alla tavola per vedere che ci aveva posto di bello la Menica.

Alla vista di quei due uccellacci con tanto di becco fatto rimase fra il sì e il no, incetta. Polli non erano. Anitre neppure. Fosser fòlaghe? Di queste non ne aveva mai viste, ma si immaginava che potessero essere cosi. Chinò il volto per esaminare meglio e fece un salto indietro: Puuh! ma questa è roba marcia!

Una fiamma di rossore passò sul volto giallognolo della donna. Per chi la prendevano dunque? Usci in corte e si pose a chiamare:

— Veronica! Veronica l

L' interpellata si affacciò ad una ringhiera del quarto piano.

— Volete scendere un momento per farmi un piacere? — Oh! bene, grazie. Ora ditemi un po', voi che siete stata a servizio, sono fòlaghe queste?…

Da consulente seria e coscienziosa la Veronica riflettè un poco prima di rispondere, poi concluse che fòlaghe non le sembravano Le fòlaghe non sono pesci?…

La portinaia scosse il capo coll'atto scoraggiato di chi appoggiandosi ad un piuolo per non cadere lo sente tentennare sotto la mano.

— Per codesti non v' ha dubbio che sono uccelli.

— È ciò che stavo per dire.

— Uccelli selvatici.

— Ho paura che siano di quelli che vanno a beccare i morti

— Dite da senno? — esclamò la portinaia inorrridita.

— Dico per dire — si corresse la Veronica.

— Già, con quel becco… — fece la portinaia sempre più sospettosa — E vi par roba questa che i cristiani possano mangiare?

— Questione di gusti; certo, se domandate il mio parere, vi dico schietto che preferisco un' insalata di cetrioli. Almeno si sa cos'è.

Le due comari stettero un poco in silenzio. A farlo apposta le beccaccie esalavano in quel momento un odore cosi forte, cosi forte…

— Da che parte vengono? — esclamò a un tratto la Veronica.

— Dagli inquilini del sccondo piano.

— Ah!

Un semplice monosillabo; ma chi sa mai perchè la portinaia credette scorgervi un commento ironico. Se l'avevano data a lei quella roba non era appunto perché giudicata indegna della loro mensa? e la fiamma di rossore tornò a invadere il suo volto giallastro.

— Potete lavarla prima nell'aceto — Suggeri la Veronica.

Suggerimento in fausto, perchè la portinaia si rammentò che quando era morto suo marito lo avevano lavato nell'aceto, precisamente perchè era d' estate, e incominciò a sudar freddo.

A un tratto poichè i suoi occhi non abbandonavano mai il soggetto della discussione, le parve di scorgere…

— Veronica guardate!… là vicino alla coda…

Alla Veronica che si era chinata premurosamente parve pure che qualche cosa si muovesse là vicino nella coda. Uno sguardo eloquente le unì nel medesimo sentimento d'orrore e la portinaia non si trattenne più.

— Ah! perchè siamo poveri credono di potersi permettere qualunque cosa! Perchè disgrazia nostra vuole che piú di pane e di minestra non si possa mangiare si immaginano di regalarci i rifiuti della loro mensa, quasi fossimo cani o peggio La roba che puzza! La roba marcia!… Ma il battesimo lo abbiamo anche noi e non c'è affatto bisogno che i signori vengano ad umiliarci colle loro porcherie, perchè la dignità l'abbiamo anche noi, e meglio di loro, meglio del Papa, meglio del Re

Su questo sfogo improvviso e violento la donna prese i volatili ed uscita con essi nel mezzo del cortile e agitandoli per aria verso l'appartamento del secondo piano gridò con un ultimo scoppio di indignazione

— Povera, ma onorata povera, ma pulita! Guardino che cosa ne faccio del loro dono coleroso.

Panf! Un colpo ben diretto, una curva rapida nell'aria e le due bestie passando al di sopra del muricciuolo caddero dall'altra parte.

— Così si insegna a farsi rispettare.

III.

Al di là del muro c'erano i rustici del palazzo di un Monsignore.

Monsignore aveva detto quella mattina al suo cuoco: A qualunque costo non manchino oggi le beccaccie a tavola perchè ho invitato il Priore del Sacro Cuore di Gesù che ci tiene. Il cuoco a dir vero si era permesso di far osservare che, tranne un miracolo, difficilmente le avrebbe trovate in quella stagione. Ma Monsignore aveva tanto insistito che il cuoco per un paio d'ore non aveva fatto altro che battere tutti i mercati della città, invano.

Se ne tornava appunto mogio mogio a capo basso, quando attraversando i rustici inciampò nelle due beccaccie che la portinaia aveva lanciate sopra il muro. Il miracolo era dunque avvenuto?? Chmossi, e colla maggiore delicatezza possibile ne sollevò una per la coda, che gli rimase in mano, mentre la bestia cadde pesantemente.

— A punto!!

Con un lampo di gioia negli occhi il cuoco le prese tutte e due e via di corsa.



NELLA sala bassa e nuda dell'albergo due signore sedute di fronte stavano facendo colazione. L'una grassa, grossa, massiccia, col viso piatto, il naso camuso, gli occhi largamente divisi e sporgenti nella loro massa cristallina senza raggio somigliava un enorme cetaceo; una vera balena vestita di seta nera con certi trasparenti malinconici sopra una pelle vizza e cascante e una collana d'ambre intorno al collo che doveva risalire alla data, forse innocente, ma terribilmente lontana della sua prima comunione. L' altra, svelta, asciutta, vestita all'inglese con camicetta di foulard, solino inamidato e cravatta maschile non era neppur essa molto giovane ma si vedeva data risolutamente ai partiti avanzati; un portasigarette d'argento niellato le stava d'accanto, insieme ai guanti, sulla tovaglia quadrettata dell'albergo; una bicicletta l'attendeva alla porta.

In qual modo incominciassero non so. Quando io entrai nella sala la donna cetaceo, agitando un braccio nella cui adiposità affondavano sei medaglioni di mosaico fiorentino lasciandovi il solco, gridava (e per una contessa, che tale affermavasi nell'albo dei viaggiatori, gridava un po' troppo).

— Non mi parli di eguaglianza, per carità! Tra noi e i nostri servitori c'è di mezzo l'abisso che separa due razze. Non vede le loro membra grossolane, i loro istinti codardi, tutta la bassezza e la volgarità dei loro atti? Il loro sangue non è simile al nostro le dico!

Io guardavo meravigliata la bocca che pronunciava tali bestemmie e le larghe mani da rigovernatrice di stoviglie che ne accompagnavano coi gesti le singolari affermazioni. E guardavo pure la sua compagna, rigida, nella attitudine di chi sta raccogliendo gli argomenti per la risposta mentre con lo stecchino toccava appena la superficie dei denti, con molta delicatezza, per non alterarne lo smalto In fondo alla sala, sulla parete del caminetto, un enorme Gambrinus di terracotta a cavalcioni della sua botte sembrava pure attendere tra lo scettico ed il curioso. Ma prima che la risposta venisse, la contessa replicò con im peto:

— Guardi! Mi ricordo quando ero piccina, io e i miei fratelli. Nostra madre voleva che noi fraternizzassimo coi figli dei contadini, appunto per non abituarci alla superbia e per farci apprezzare le loro qualità se mai ne avessero avute; ma che vuole, tanto è vero che la differenza sta nel sangue, essi arrivavano dopo di noi alla corsa! Essi, portando dei pesi, resistevano meno di noi. E poi erano bugiardi, erano vili, e noi no! Fisicamente e moralmente la loro inferiorità era manifesta. Che educazione, che progresso, che fisime! Frusta ci vuole.

A questo punto guardai Cesare, il domestico che serviva a tavola. Era di Pistoia; un buon ragazzo ed un bel giovane. Pallido, flemmatico, indolente, non si alterava mai per nulla Questa volta però io non mi sarei meravigliata se avesse rovesciato di botto la zuppiera in grembo alla contessa. Non ne fece nulla. Divenne un poco più pallido e un'ombra cupa oscurò i suoi occhi.

Si può essere più imbecilli! pensavo io tornando a guardare la contessa; ed una antica inquietudine tornando in quel momento a molestarmi stavo per chiederle se ella fosse ben sicura di non avere sangue di palafreniere nelle vene. Ma la donna-cetaceo non aveva finito ancora di agitare per aria la sua manona nel fremito di una scudisciata immaginaria che la donna biciclettista rispose:

— Idee vecchie, idee che hanno fatto il loro tempo. Il mondo cammina, cara signora, ed il progresso ha questo di buono che ci rende tutti eguali.

— Tutti eguali! Io eguale alla mia cuoca? Ma mi faccia il piacere! Non sa che la mia famiglla portava corona fin da quando Leone decimo bandiva una crociata contro i Turchi?

— Non fa caso. Il fatto è troppo lontano per interessarci. Una idea sovrana domina ora il mondo: non più ricchi e non più poveri; non servi e non padroni! Cesare dammi un posapiedi.

— Ma il sangue che noi abbiamo raffinato con quattro secoli di signorilità non dovrà dunque contare nulla?

— Pare.

— E i nostri diritti?

— I diritti appartengono ai poveri. È la loro volta. È giustizia, dopo tutto.

— Ma noi che cosa faremo? — gridò esasperata la contessa.

— Dovremo lavorare. Cesare abbassa quella tenda che il sole mi dà noia. Tutti dobbiamo lavorare perchè tutti siamo eguali. Le par giusto, per esempio, che un' altra donna, una donna fatta a nostra immagine e somiglianza si alzi di buon' ora al mattino, intanto che noi siamo a letto, per spazzolarci i nostri abiti? e intanto che noi andiamo al passeggio ella resti in casa a rifare la nostra camera e che ella mangi in cucina mentre noi ci facciama servire a tavola a suon di campanello?

— Ah! — fece la contessa con una voce bassa cavernosa che rivelava l'eccesso della sorpresa — dunque lei si spazzola da sè, e rifà il suo letto e mangia una fetta di pane abbrustolito seduta sul focolare di cucina?

La signora biciclettista ebbe un sorriso di compatimento, un sorriso che voleva dire « povera donna! » Prese con un moto languido, il portasigarette; mandò Cesare in cerca degli zolfanelli e del portacenere, diede fuoco alla carta di seta che racchiudeva il biondo tabacco e lanciando le prime boccate di fumo al soffitto mormorò in via di concessione:

— Le idee sono le idee; basta seminarle; i posteri le raccoglieranno.

— E mangeranno loro il pane abbrustolito sul focolare della cucina comune! — esclamò la contessa con un raggio improvviso negli occhi che sembrava quasi di intelligenza.

— No: avranno tutti il loro pollo nella pentola.

— Vedi Enrico quarto! ma qualcuno dovrà pure far bollire la pentola.

— D'accordo. Purchè tutti mangino il pollo non v' è nulla di male.

— E le cameriere continueranno a spazzolare gli abiti.

La biciclettista lasciò cádere la sigaretta con un gesto di noia:

— Oh! Dio, naturalmente.

— E allora? ?

Un breve silenzio seguì l impetuosa interruzione della contessa. Cesare, col vassoio in mano, si arrestò nel mezzo della sala. Evidentemente egli aspettava una parola rivelatrice, ma lo scettico Gambrinus a cavallo della sua botte lo ammoniva in silenzio sulla immutabilità della natura umana.

— Dobbiamo amarcie aiutarci a vicenda — soggiunse la signora provando a riscaldarsi colle frasi già udite tante volte dai suoi amici e lette su per i giornali — l'egoismo deve finire, deve cadere irremissibilmente davanti all'altruismo che si avanza vittorioso.

Gli occhi sfolgoranti da cetaceo si guardarono attorno e non avendo trovato a quel che pare nessuna prossima minaccia di finimondo si raccolsero in calma relativa mentre la loro proprietaria diceva sorridendo;

— Mi definisca un po' questo altruismo che da me non riesco a comprendere.

— Non comprende l'altruismo? Ma esso è la religione dell'avvenire.

— Ah!… una nuova.

— Dica la sola, la vera. Io piuttosto non comprendo l'egoismo. Noi dobbiamo godere della gioia degli altri, agire, lavorare per gli altri, vivere per gli altri.

— Corbezzoli! È dunque per gli altri che ella pretende che la stiratrice le insaldi quel colletto come un cartone? Per gli altri che rimanda l'abito cinque, sei, sette volte dalla sarta finchè non le va a pennello? Per gli altri che vuole le bistecche tenere e il latte fresco? Esigo anch' io queste cose, ma almeno non ho la pretesa di vivere per gli altri. Sono sincera. Io, ne' suoi panni, avrei rimorso a succhiarmi voluttuosamente quel tabacco che rappresenta il sudore di migliaia di coltivatori.

— Queste sono personalità.

— Forse che lei non parlava di persone? Chi sono gli altri e chi siamo noi stessi di grazia se non altrettante persone? Francesco d'Assisi gettando le sue ricchezze ai poveri faceva atto di personalità pur facendo dell'altruismo. Aveva torto ma era sincero.

— Non è possibile sostenere di questi confronti.

— Perchè?

— Perchè i tempi sono cambiati e non é più il caso di gettare le ricchezze ai poveri, bensì di offrire ai poveri il mezzo di procurarsele sollevandoli a noi.

È arrivato l'ambasciatore… tam tirum lirum lera!

— gorgheggiò, come fra sè, la contessa facendo un comico sberleffo. — Io le dico che i tempi possono mutare a loro piacere ma gli uomini non mutano. Carità se ne sono sempre fatte; ora vogliono un nome diverso; le chiamano altruismo, s'accomodino. Faranno meglio, non so, vedremo. Io continuo a dire che le bistecche le mangio per me e non per far piacere al prossimo. Al prossimo dò quello che mi avanza.

La grossa signora puntellandosi sulle braccia si alzò tutta rossa e scalmanata per la disputa. La seconda signora, allacciandosi i guanti, si avviava verso la bicicletta che Cesare aveva staccata dal muro e la teneva pronta senza che dal di lui volto trasparisse l'impressione ricevuta o le sue particolari idee sulla questione sociale.

— Ah! — disse la contessa raggiungendo la biciclettista sulla porta — quanto era migliore viaggiare in carrozza! Cuscini comodi, servitori in serpe e cic ciac i cavalli, hop!

— Noi abbiamo compassione anche dei cavalli — rispose l'altra accomodandosi sul sellino.

— Già, li mettono in serbo per le rivoluzioni future. Quando gli uomini non avranno più nulla a desiderare verrà la loro volta.

— E perchè no?…

La bicicletta partì come un dardo sullo stradale bianco di polvere. La contessa, eccitata ma non sazia, si volse imperiosamente a Cesare. Io li lasciai soli.

Uscendo dall'albergo, dopo aver dato un'ultima occhiata alla bicicletta che stava per scomparire, presi un viottolo, mulinando tra me gli spropositi e le ragioni delle due parti nemiche, deplorando che in questa come in tutte le questioni vi sia l'eterno malinteso che scava l'abisso dove a ben riguardare non esisterebbe che un fossatello da potersi scavalcare con una gamba sola. Ah! l'equilibrio…

La campagna intorno era tranquilla ed aveva quel pallore speciale dell'Appennino Toscano che riesce così nuovo a coloro che sono abituati al verde intenso delle Alpi. La luce piena del merìggio invadeva la valle dove il letto del Reno asciutto e ghiaioso metteva una nota pallida di più. A un tratto sul declivio della collina apparve una chiazza rosea, come una grande rosa che si muovesse delicatamente fra le erbe; ma quella che sembrava una grande rosa non era che una piccola bambina, una bambinetta di quattro anni nota a tutti i villeggianti della Porretta, deliziosa apparizione che mi immobilizzava sempre in un sentimento straordinario di dolcezza. Indivisibile da lei, proprio a guisa di ramo su cui poggiasse il bel fiore, era una vecchiarella tutta curva e tremolante e andavano così tutte e due tenendosi per mano, traballando, insieme, chini gli occhi verso la terra a cui la bimba era tanto vicina ed a cui la vecchia sentiva di avvicinarsi. Dal mattino fin quasi al tramonto le congiunte andavano sulla breve collina, lungo il torrente, a sceglier sassi, a cogliere farfalle; parlandosi in un loro linguaggio primitivo dai vocaboli scarsi pazientemente ripetuti; l'una ignara, l'altra dimentica delle cose del mondo; la piccola mano bianca stretta nella rude mano bruna; così fragili, eppure già l'ana ed ancora l'altra capaci di sostenersi a vicenda.

Chi non conosce a Porretta la piccola Adriana e la vecchia Caròla? Alla bimba delicatina avevano ordinato i bagni di sole e quel sole scaldava pure le membra rattrappite della fantesca fedele.

— Forse — mormorai seguendole intensamente collo sguardo — forse l'ultima parola è là.



VECCHIO, scorato, stanco della lotta, coll' infinito desiderio di riposo che segue quasi sempre una vita avventurosa, egli si era innamorato di quel cantuccio ridente.

La casina bianca a cavaliere del monte, tutta sola sul davanti del paese di cui formava l'avanguardia, lo aveva sedotto colle sue finestre verdi, coi muri rozzamente incorniciati di pampini, col piccolo cortile mal lastricato dove spuntava l'erba ma tutto aperto sulla valle come un terrazzo e pieno di sole.

Gli sembrava che le sue memorie e i suoi rimpianti, le sue speranze svanite, i suoi pazzi sogni di gloria, tutta la poesia morta del passato avrebbe trovato lassù un asilo di religiosa quiete.

E per questo aveva accettato subito quando gli proposero di comperare per una tenuissima somma la casina bianca del vasaio. Firmò il contratto e sborsò i denari senza averla neppure visitata. Gli erano bastate le finestre verdi, il tralcio di vite e il cortile che egli si proponeva di tramutare in un giardino delle Esperidi.

Effettivamente il fabbricato mancava di scala, supplendovi una scaletta di legno esterna, mezzo tarlata, ma il poeta la trovò abbastanza pittoresca e pensò che facendovi arrampicare dell'edera l'effetto doveva riuscire bellissimo.

Il giorno della consegna si decise poi a visitare minutamente il suo acquisto, guidato dal vasaio che si fermava ad ogni stanza, ad ogni parete, ripetendone la storia e asciugandosi una lagrima.

— Vidispiace dunque molto di abbandonare questa casa?

— Moltissimo, signore. Qui sono nato, qui presi moglie, qui restai vedovo: sono attaccato ad ogni chiodo, ad ogni sasso. I miei figli quand'erano piccini correvano per il cortile e la mia povera moglie li sorvegliava da quel balconcino — vede quel balconcino di legno? — intanto che stendeva il bucato o che rattoppava i panni.

— Ed ora non avete più nessuno?

— Ohimè! più nessuno!

— Come me — pensò il poeta.

— Se non erano i creditori che mi spingevano a vendere la casa per pagarli, io vi sarei morto di fame, signore, si, di fame; ma sarei morto dove sono nato.

Così dicendo entravano in una stanza più bella e più ampia delle altre. Il vasaio si levò il cappello;

— Era la camera di mia moglie; vi stette inferma due anni.

Il poeta si levò il cappello anche lui.

— E come faceste a ridurvi in tanta miseria? Il vostro mestiere non rende più?

— Purtroppo è così. Una volta non si comperava una scodella a dieci miglia in giro che non l'avessi fatta io. Vede quel quadrato di terra laggiù accanto al pozzo? Ci avevo il trogolo tutto circondato da un muricciuolo. Sciabordavo la creta e facevo i più bei vasi che si fossero mai visti: le mie scodelle verniciate di rosso erano celebri; nel colore azzurro riuscivo un po' meno, ma erano tutte solide, ben fatte e a buon prezzo. Ma che vuole? I tempi sono cambiati; di roba nostrana non se ne vuol più sapere. Capitano da tutte le parti degli stregoni forestieri che sanno spacciare più fanfaluche e le massaie (che già sono donne) preferiscono comperare da loro. Sono belli, non dico di no, ma quanto durano quei piatti? Eppure è così. Si corre dietro a quello che fa maggior figura, si ha il gusto di cambiare, e la roba fuori casa ci par sempre migliore della nostra. E poi, sa, il progresso… Badi, non metta il piede su questa trave, è fradicia. Infine gli affari andavano di male in peggio, io mi facevo vecchio e con tutti quei dispiaceri in famiglia, non avevo nemmeno più voglia di logorarmi il cervello. Ho venduto tutto, tutto; la cola, il menatoio, il banco, la ruota, il macinello Mi sono rimaste ancora due o tre dozzine di scodelle che nessuno vuole e alle quali darò un calcio un giorno o l'altro per farla finita.

— Brav'uomo — disse il poeta — quello che è successo a voi colle vostre scodelle capita qual più qual meno a tutti i viventi. Ognuno di noi ha una fornace dove lavora per molti e molti anni dei vasi che crede capi lavori finchè altri capolavori gli capitano davanti e veri o falsi la turba segue sempre gl' idoli nuovi. Abbiate pazienza. Ho anch' io un mucchio di cocci qui.

Si toccò la fronte.

— Il peggio, signore, è che non ho trovato nemmeno un canile dove andarmi a riposare, e quando le avrò consegnata la mia casa potrò dire di trovarmi nudo nel mondo.

— La mia casa — pensò il poeta — moralmente è sua dunque. I miei denari l'hanno pagata, l'atto notarile me ne costituisce padrone e mi dà il diritto di mettere questo uomo alla porta; ma posso io cacciare l'anima sua?

Avevano visitato il piano superiore e ridiscendevano per la scaletta di legno.

— Questa vite — domandò il poeta levando gli occhi a guardare il pergolato — dà molta uva?

— Oh! no, signore, non fa mai niente altro che foglie.

— È buono a sapersi: così la farò sradicare.

Il vasaio strinse le labbra e ammiccò con gli occhi come se volesse piangere.

— Ebbene? — Ho detto qualche cosa che vi offende?

Il signore vuol far sradicare la vite, e ne è il padrone, oh sicuramente, ne è il padrone; ma quella vite l' ho piantata il giorno che nacque il mio primo figliuolo, e se non la vedessi più, quando passerò di qui, mi parrebbe di veder morire una seconda volta il mio povero Battista…

— Quand'è così la lasceremo stare, non intendo accrescere i vostri dolori. Ora volete avere la bontà, brav'uomo di dirmi press'a poco il giorno in cui fate conto di sgombrare? La camera dove vorrei dormire è piena ancora delle vostre robe e non posso trasportarvi il mio letto se non è uscito il vostro.

Nuova stretta di labbra, nuovo ammiccare d'occhi e due lucciconi grossi grossi che scendevana adagino sul volto rugoso del vasaio.

— Che c'è ancora?

— Sono troppo povero per pagare un uomo che mi trasporti i mobili, e se il signore mi permettesse di portarmeli via a poco a poco…

— Be'; sia come volete. Intanto mi acconcerò alla meglio in un'altra camera.

— Che il Signore Iddio la benedica per la sua carità

— Grazie.

In quel momento saltando una siepe sbucò fuori un botolino giallo e venne a fiutare con diffidenza lo straniero.

Il poeta lo toccò col bastone sulle gambe.

— È il mio cane — intervenne subito il vasaio — non è cattivo, al contrario è il migliore di tutti i cani; non ha ancora vista la sua cuccia nel cortile vicino alla porta? Andiamo, Alì, fa' vedere la tua cuccia al signore; egli è ormai di casa.

— Gran mercè — disse fra sè il poeta — a quanto vedo siamo in tre a possedere questa casa.

— Se il signore vuol riposarsi un momento?

Così dicendo, colla massima cordialità, il vasaio indicava una sedia rustica posta nel cortile sotto un fico gigantesco.

— Troppa cortesia, obbligatissimo.

E il poeta sedette dominando con occhio sereno la quieta profondità della valle. Il vasaio, in piedi, continuava a fargli la descrizione del cortile, dei giuochi che vi facevano i suoi bambini, delle ore placide ch'egli vi aveva trascorse circondato dalla famiglia. Il botolino, accovacciato, guardava or l'uno, or l'altro dimenando la coda.

— Dunque per questa notte non posso dormire qui?

— No — fece il vasaio mortificato, così comicamente mortificato che il poeta sorrise — ma domani mi incarico io di metterle all'ordine la camera. Vedrà.

— Vi sono forse dei topi in questa casa?

— Qualcuno si sà. Ha paura dei topi lei?

— Non per me, ma per i miei libri.

— Oh! non tema. Io so fare una pasta con certi ingredienti che mi sono avanzati fin da quando fabbricavo le vernici per le mie scodelle; li faremo morire tutti. E poi, a un bisogno, Alì sa strozzare un topo tanto e quanto fosse nato da una gatta.

— Ha molte abilità il vostro cane?

— Le ha tutte; non gli manca che la parola.

— Ma questo è l' ideale! — riflettè il poeta — al vostro cane manca appunto la sola cosa che sia superflua.

Si separarono con una buona stretta di mano.

Il giorno dopo, il vasaio fu sollecito a disporre ogni cosa per l'arrivo del nuovo padrone; ridusse i suoi mobili in una stanza sola, non abbastanza tuttavia che non rimanesse qua e là un quadretto, uno sgabello, una pentola, quasi non potesse staccarsi totalmente da quelle mura e volesse illudersi ad ogni costo di possederle ancora.

— Amico mio — disse il poeta, arrivando col pacco de'suoi libri più preziosi sulle spalle — ho sognato tutta la notte di questa casetta, e credo proprio che mi ci troverò come in paradiso. Ma l'aria dèi monti aguzza l'appetito; io ho una fame del diavolo.

— Poco male — rispose il vasaio — quando si hanno denari da spendere.

— Qui non c'è osteria?

— Signor no. Ma una dozzina d'uova sono subito trovate.

— E cuocerle?

— Se non è che questo, me ne incarico io. Ho uno zio cuoco e l'arte non mi riesce affatto nuova. L'avverto a questo proposito, che se lei vuol tenere galline, io conosco perfettamente il metodo di allevarle, faccio covare le uova, svezzo i pulcini a trasformo i galli in capponi.

Il poeta pensava che quell'uomo era come ve ne sono pochi, di cuore semplice ed aperto. Quant'a lui, pove. retto, si sbracciava per fargli cortesie; dal momento che un piede in casa lo aveva ancora, egli si sentiva felice e colla felicità il bisogno di mostrarsi riconoscente.

Nè l' indomani, nè gli altri giorni che seguirono, non si parlò più di andar via. Il poeta si era accomodato alla meglio, mescendo i suoi mobili a quelli del vasaio accettandone i servigi spontanei.

Essendosi accorto che la fronte di lui si corrugava quando gli sfuggivano le parole casa mia, adottò una leggiera variante e, senza affettazione, pronunciava casa nostra, che faceva brillare di gioia gli occhi del povero uomo.

— Peuh! peuh! — concluse il poeta, dopo qualche settimana di prova — che possa esser vero che non tutti gli uomini sono bricconi?

— E fattosi portare sotto il fico un tavolino, un calamaio e un foglio di carta, scrisse a un'amico:

« Ho trovata finalmente la pace. Comperai in questo paese una asetta, un uomo e un cane, e non so ancora bene quale dei tre mi appartenga maggior-mente; perchè della casa io godo due sole camere e l'uomo e la bestia invece non mi abbandonano mai. Egli (l'uomo) fa la pulizia generale, frigge le uova, spazzola i mie abiti, va alla posta a prendere le mie lettere, ha cura che il mio calamaio non manchi mai d'inchiostro, insomma è il servitore più zelante che si possa desiderare; ma viceversa poi, è lui il padrone della casa mia; ordina e dirige le riparazioni, semina i fiori, taglia gli alberi e solo per estrema bontà mi ha permesso di aprire un'altra finestra nella camera dove dormo. Essa (la bestia), si corica a'miei piedi, fa da guardia, mi avverte quando arriva qualcuno e raccoglie il mio fazzoletto.

La mia casa, cioè la nostra casa, non abbonda di comodo e di superfluità; ma guarda tutta la valle, è battuta dal sole e gli uccelli la prediligono per venire a farvi il nido. Desidererei che fosse un po' più ombreggiata, e a questo proposito contavo di farvi piantare attorno un boschetto di acacie; ma il mio servitore, cioè il mio padrone, mi fece osservare giudiziosamente che la casa ne soffrirebbe a cagione dell'umidità.

Vieni a trovarmi. Questo buon uomo mi ha posto tanto amore che se lo prego è capace di sbarazzare una stanzuccia dove egli tiene un avanzo di scodelle, e così ti improvviseremo un alloggio.

Vedrai la mia beatitudine quando mi siedo dopo pranzo davanti al sole che tramonta e che i miei due amici mi si mettono a fianco, muti, l'uno dimenando la coda, l'altro fumando in una vecchia pipa. Io mi abbandono allora ai dolci sogni della fantasia, penso senza rimpianti al passato e mi sento tranquillo, tranquillo, tranquillo ».



CONOSCO una tedesca dagli occhi azzurri la quale è una delle persone più curiose e più interessanti che si possano immaginare. Grande ammiratrice dell' Italia e della musica, ella non può parlare di Roma e di Wagner senza sgranare que' suoi occhi azzurri che sembrano avere conservato nel cristallino stupore la poesia ingenua del nativo Brandeburgo, qualche cosa come un volo di cicogne sullo sfondo di un cielo pallido.

Dopo l' Italia e dopo Wagner, l'argomento che l'appassiona di più è l'amore del prossimo che nel suo temperamento di donna grassa incline alla tenerezza, assume qualche volta proporzioni inquietanti e che ella esten de senza pregiudizi di sesso, di età, nè di qual si voglia altra cosa a tutte le creature del buon Dio che si imbattono sul suo sentiero. L'anno scorso per l'appunto aveva accolto in casa sua un vecchio professore mezzo rimbecillito — una vittima del lavoro — diceva lei, del quale nessuno voleva sapere e che le serviva, oltre che per acquietare il suo ardore di bene, come pretesto a dispute filosofiche e sociali. « L'ammoe! L'ammoe! — gridava la buona tedesca alla quale manca l'erre e che pronunciando la parola sacra vi supplisce col raddoppiare l'altra consonante — è l'ammoe che ci fa vivere tutti! » Amore e accidenti — borbottava il vecchio palpandosi le gambe enfiate. Sulle quali parole non troppo corrette la filantropa concludeva che il professore doveva avere sofferto molto.

Da gran tempo non vedevo più la signora quando alcuni mesi fa la incontro ansante, sbuffante, scalmanata con un grosso pacco sotto il braccio. — Ah quante miserie vi sono al mondo — esclama appena mi vede; e nel fondo de' suoi occhi azzurri le cicogne del Brandeburgo sembrano sbattere le ali con un mistico accenno alla pietà.

La fermo, la invito a raccontarmi le sue preoccupazioni ed ella mi narra (facendo passare dall'uno all'altro braccio il grosso fardello) che nauseata dalla ingiustizia sociale la quale obbliga una metà degli uomini a lavorare per l'altra metà, si era messa ad abolire la persona di servizio; cucinava da sè, puliva i suoi abiti e quelli del professore, rigovernava le stoviglie e tutte queste faccende naturalmente la tenevano lontana dalle antiche abitudini per cui nessuno più riusciva a vederla.

— E la musica? — le domando.

Alla tenera evocazione le vennero quasi le lagrime agli occhi. Dovette convenire che non aveva mai avuto tempo di occuparsene; soggiunse però tosto che sperava di riprendere la musica perchè ora una donna di servizio l'aveva. E siccome, involontariamente, io guardavo in quel punto il suo fardello, — Ah! — disse — è un abito perlei. Figuratevi, cara amica, che la mia cameriera è nuda.

—?…

— O quasi. Conobbi questa povera donna un giorno in cui andavo a fare le mie provviste per il pranzo. Ella se ne stava sul canto della via con due scatole di fiammiferi vuote in mano chiedendo l'elemosina. Questa come vedete è una immoralità. Io mi guardai bene dal farle l'elemosina, le mostrai anzi l'avvilimento di quella professione dove la dignità umana ha tutto da perdere, le dissi che era giovane, che era robusta, che il suo dovere era dilavorare. Ma dove lavorare? — rispose colei. — Non ho alcun mestiere. Pensate, cara amica, il bivio in cui mi trovai allora. Da un lato una casa dove io mi affaticavo invano per conservare l'ordine e la pulizia, dall'altro una creatura che moriva di fame nell'ozio. C'era da perder la testa, nevvero? Fu per ciò che le proposi di venire al mio servizio ed ella accettò.

— Così, sui due piedi?

— Che fare? Il professore mi aspettava per cucinargli le sue uova solite, nè io potevo abbandonare quella donna alle tentazioni della miseria, dal momento che mi era concesso di redimerla col lavoro. Le dissi di seguirmi. Per verità aveva una maglia rossa da circo equestre che mi inquietava e che attirava gli sguardi della gente, ma quando si vuol fare qualche cosa di buono al mondo non bisogna badare ai pregiudizi.

— Ed ora la donna è in casa?

La buona tedesca sospirò. L'affare purtroppo non era stato così liscio come lei se lo immaginava. Per prima cosa il professore le domandò dove avesse avuto la testa a condursi con sè una vagabonda venuta chi sa da dove. Ma il peggio fu quando colei venne a confessare di avere una bambina che le rincresceva di abbandonare e che la pietosa signora ideò subito di prendersi in casa anche quella sotto pretesto che la carità diventava fiorita e che proteggere l'infanzia è il mezzo più sicuro per diminuire i vizi. Oh! — aveva esclamato nel suo inesausto ardore — se fosse un maschio capirei che potesse recare disturbo; ma una bambina è dolce, è amorosa, presta tanti piccoli servigi; una bambina è un angioletto.

— Dimodochè la vostra casa è divenuta un paradiso?

— Veramente… Ecco: sono stata a comperare un abito per quella donna la quale, lo credereste? non aveva che la sua maglia rossa sopra la pelle. Prima dell'abito, naturalmente, ho dovuto darle una camicia.

Vedremo poi!

Passano i giorni, passano le settimane, nessuno sa nulla della buona tedesca. Mi decido a andarla a trovare e la sorprendo in piene funzioni educative; con una bambina da una parte, un bambino dall'altra e un abecedario sui ginocchi.

— Lo credereste, mia buona amica? Questi fanciulli hanno quasi sette anni e non sanno ancora leggere!

Furono le sue prime parole.

— E chi sono di grazia questi fanciulli?

— Sono i figli della mia domestica.

— Non mi avevate detto che c'era una sola bambina?

— Lo credevo anch'io; ed è il rimprovero che le feci quando, dopo di essersi messa a posto bene, vestita e nutrita, mi confessò di avere anche un bambino. Le dissi anzi: Perchè non lo confessaste prima? — al che ella rispose che non glielo avevo domandato.

— Dimodochè sono tre persone che avete ora al vostro servizio?

— E che io servo — esclamò bonariamente.

— Tutto è dunque per il meglio — dissi ridendo.

— La maggiore difficoltà — soggiunse con un piccolo sospiro — è stata quella di far accettare il fanciullo aìl professore. Capisco anch'io che la cosa non era molto regolare e che avrei dovuto sostenere una battaglia, ond'è che mi preparai risolutamente e andando difilata nella camera del professore gli domandai a bruciapelo. « Di che umore siete questa mattina? » — Pessimo — egli rispose. Ed io allora, « Benissimo, non potrete diventarlo di più ». E gli snocciolai il rosario, al quale, vi assicuro, egli non rispose con delle avemarie. Si serviva inoltre per battermi delle mie stesse armi, non avendo dimenticato le mie difese a proposito della bambina e domandandomi ironicamente se avrei cercato nell' inferno gli argomenti per difendere il maschio. A farla breve vi sono riuscita.

Sopra queste parole gli occhi azzurri scintillarono di un gaudio tranquillo.

E le settimane si aggiunsero alle settimane.

Ieri mattina finalmente me la vedo capitare in camera come una bomba.

— Lo credereste, mia buona àmica?

Non vi era nessuna ragione perchè non dovessi credere oramai qualunque cosa. Le feci dunque un cenno affermativo ed ella, lasciandosi cadere sulla sedia a guisa di persona cui le forze mancano, disse brevemente senza preamboli:

— Voi sapete se ero bene intenzionata per quella donna e se feci qualche cosa per toglierla ai canti delle via ed alle scatole di fiammiferi vuote, voi sapete! Ebbene un'ora fa, mentre aveva appena finito di far recitare ai suoi figli la preghiera del mattino (perchè non sanno nemmeno la preghiera del mattino tale e quale come i conigli) la trovo lunga distesa sulla mia poltrona colla faccia smorta. Le domando se si sente male: mi risponde di sì. Le domando se le dole il capo: mi risponde di no. Infine, che cosa avete?

Non risponde, abbassa la testa, diventa rossa e si incrocia le mani sul ventre…

Avete capito, mia buona amica?

— Mi pare…

— Ah! — fece la impareggiabile tedesca con un impeto di indignazlone — questo è troppo.



(Storiella dei vecchi tempi).

AVEVA forse quattordici anni, era una ragazzetta; ma chi avesse guardato i suoi occhi pensierosi pieni di fiamme capiva che la donna era già nata e che un'anima ardente e precoce contrastava all'adolescenza i suoi ultimi diritti.

Ella ancora non lo sapeva, perchè bene educata e cresciuta rigorosamente in una famiglia di costumi esemplari, non spiegava ancora a sè stessa perchè quando gli amici del babbo gli stringevano il ganascino dicendo: La si fa bellina eh! presto presto…: ella arrossiva tutta e un fuoco interno le bruciava le vene.

Una cosa poi che non avrebbe confessato a nessuno e che per più giorni l'aveva tenuta nel terribile dubbio di un peccato mortale, era il fatto di avere osservato in una certa strenna un'incisione patetica che rappresentava un giovine ed una fanciulla nell'atto di scambiarsi un bacio; e che lei, proprio lei, guardando tutti i momenti di nascosto quella figura, allungava le labbra con un intenso desiderio di imitazione. Andata a confessarsi in quel torno, quando il prete le domandò: Sei sicura dí non aver mai commesso peccato di desiderio? — di non esserti volontariamente soffermata su pensieri od imagini disoneste?: ella meditato un istante su quel volontariamente che le offriva la scappàtoia della forza superiore rispose impavida: No.

Ma il suo desiderio immenso, irresistibile, era quello di ricevere una lettera d'amore. Ella pensava con invidia alle fortunate mortali che hanno una corrispondenza amorosa. Aveva inteso di una ragazza che s'era trovato un bigliettino nascosto nel libro da messa, e sa il cielo le distrazioni che le cagionavano tutti i biglietti da comunione pasquale che giacevano nel suo libro; li apriva tremando, sperando sempre di leggervi le parole fatali — angelo mio!

Passando davanti alla buca della posta interrogava con un lungo sguardo carico di desiderii quella misteriosa cassettina che doveva contenerne degli angeli e degli idoli! — almeno ella lo supponeva, giudicando che la metà del genere umano dovesse passare il tempo a scrivere lettere amorose e l'altra metà a leggerle.

Si sfogava a scrivere delle pagine appassionatissime alle sue compagne di scuola; le assicurava di un amore eterno; mandava a tutte ciocche di capelli e viole secche — e tuttavia non riusciva a illudersi di avere un carteggio amoroso. Ella faceva il conto dei mesi e degli anni; diceva: Chi sa se l'anno venturo, come oggi, avrò ricevuto una lettera d'amore? doveva essere quella la sua olimpiade.

Capita un giorno che la domestica le si avvicina con aria di mistero e le consegna un rettangolo di carta verdina, con tanto di indirizzo scritto sulla falsariga, in bell'ordine, che pareva stampato, e con ostia di gomma al posto della ceralacca — vedere che ostia elegante! — portava impresso un uccellino azzurro su fondo d'argento.

Poco mancò che la ragazza cadesse in terra di colpo; ma fattasi forte, come sapeva che in tali circostanze sono sempre forti le eroine da romanzo, domandò alla domestica:

— Per chi è questa lettera?

— È per lei, vede?

— Chi te l'ha data?

— Era giù dal portinaio. Anzi ho pensato di ritirarla subito, perchè…

— Hai fatto bene, brava; quando mi marito ti darò i confetti.

Senza essere soverchiamente lusingata da quei confetti lontani, la servetta ringraziò e lasciò sola la padroncina la quale, con una mano sul cuore che le martellava, fece in un momento e ad occhi aperti una dozzina di sogni uno più stravagante dell'altro.

Un foglio intravide lo sguardo indovino A un ramo sospeso del suo gelsomino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E Lina tremando d'un fremito arcano Al foglio piegato protese la mano; L'azzurro suggello ne infranse, l'apri… Il foglio amoroso diceva così…

Oh! quante volte aveva letta, riletta, tornata a leggere questa poesia d'Arnaldo Fusinato; ed ora la ripeteva, tenendo in mano la lettera che non osava aprire ma che beveva cogli occhi. A madamigella Giovanna Guzzolini: Sue gentilissime mani. Il gentilissime mani le sembrava già una dichiarazione d'amore.

Positivamente la carta scottava. L'A maiuscola della prima linea sembrava sorriderle con un volto pallido e un cappello a cilindro in testa; tutte le lettere che componevano la parola madamigella danzavano davanti ai suoi occhi; e Giovanna Guzzolini, il suo nome, scritto così bene, con quelle due G. inglesi a svolazzi le dava le vertigini.

Finalmente si decise:
L'azzurro suggello ne infranse, l'apri.

Conteneva un foglio tanto ricco di trafori e di ricami, con fiori, arabeschi ornati, pagode, gingilli, che sembrava un fazzoletto di battista colla trina. Ella non aveva mai visto un simile prodigio; doveva costare per lo meno ottanta centesimi senza la busta. Lo spiegò con mille precauzioni, tremando sempre un poco e lesse: Cara Giovannina!

Questo fu un disinganno, convien dirlo. Cara Giovannina non corrispondeva al vocativo che ella aveva imaginato. Cara Giovannina lo dicono tutti, è comune, non significa nulla. Ella era proprio mortificata. Tuttavia non volle fermarsi li e continuò a leggere:

« Tu forse (v'era stata, si vede una gran tenzone nell animo dello scrivente per sapere se forse andava terminata coll'e oppure coll'i perchè quest'ultima vocale era parecchio scombiccherata) crederai che io non mi ricordi più di te, come tu forse (aveva guardato il dizionario e s'era deciso per l'e) non ti ricordi più di me. Ma non è vero. Io mi ricordo sempre, poichè le montagne stanno ferme ma gli uomini s' incontrano.

« Se il destino vuole noi ci incontreremo e ricordati allora che io sono e sarò sempre il tuo

aff.o amico ed……

Giuseppino Perinelli.

Non c'era da illudersi, Giuseppino Perinelli non aveva nulla di comune col bruno cavaliere di Fusinato che scriveva alla sua bella:

Lina! dall'ora che nel tuo sembiante Avidamente il guardo mio fissai, Fin da quell'ora, da quel primo islante D'un' incognita fiamma arsi e t'amai: Di quell'amor t' amai, angiolo mio, Di che non s'ama che la patria e Dio.

Perinelli non parlava di patria nè di Dio; tirava in ballo le montagne, questo è vero, ed è già qualcosina, perchè si sa che altro è scrivere in versi e altro scrivere in prosa.

Passato il primo momento di sconforto la ragazza tornò a leggere la lettera, fermandosi con particolare compiacenza sulle reticenze della firma — el…… Che mi fate celia! Quell' ed…… era pieno dì misteri. Non si mettono mica impunemente dei puntini invece di una parola, se fosse una parola da potersi dire davanti a babbo e mamma!

Da quell' istante si palesò chiara a Giovannina la profonda scaltrezza di Giuseppino. Egli doveva essere preparato a che la lettera capitasse nelle mani dei genitori e per questo, tolto il paragone dell montagne che implicava l' idea di un amore a tutta pruova, niente nella lettera palesava i suoi intimi sentimenti, ma tutti si erano trasfusi in quei simbolici puntini che babbo e mamma non dovevano capire. Eh! sono furbi i giovinotti.

Ma chi sa poi se Giuseppino Perinelli era un giovinotto! Poco la ragazza se ne ricordava. Avevano giocato insieme, a otto e dieci anni, sparando delle pistole a vento in grandi fette di rapa: cinque buchi, la ruota — quattro buchi, la stella — tre buchi, l'occhio della fede — due buchi, gli occhiali — e quando facevano un buco solo, Giovannina e Giuseppino vi applicavano successivamente la pupilla per vedere il panorama.

Da quei giuochi innocenti in poi i due ragazzi non si erano più trovati insieme, e Giovannina che aveva completamente dimenticato il suo amico, ora che le ricompariva davanti coll'appendice romantica di quell' ed…… non potè a meno di sentirsi dolcemente commossa.

Intanto se aveva scritto ed invece di e, vuol dire che la parola seguente incominciava con una vocale. E quanti erano i puntini? Sei. Ergo — la parola sottintesa non poteva essere che amante. Dunque Giovannina aveva un amante!

A pranzo, quantunque quel giorno (come al solito per di vero) ella sentisse un forte appetito, restò un momento dubbiosa, ponendosi il quesito se una donna che ha un amante può permettersi di mangiare due volte lo stracotto? La soluzione affermativa le parve un po' troppo verista; Giovannina ebbe l'eroismo di scegliere la dieta. Le pareva anche che tutte le persone dovessero guardarla e accorgersi che ella aveva un amante, che il cielo, l'aria, il sole, gli alberi, i sassi, gli uccelli, il gatto, fossero tutti compresi di quel grande avvenimento; e da un punto all'altro dell'universo una melodia flebile e arcana mormorasse con un tremulo sostenuto: Giovannina ha un amante

La scelta del posto ove mettere la lettera non fu cosa da poco; posso anzi assicurare che quella lettera cambiò molte volte domicilio — prima al piano nobile del seno (e fu allora che Giovannina si agitava tutti i momenti e metteva fuori interminabili sospiri per udire il cric crac della carta contro il suo cuore) — poi negli ammezzati delle tasche — infine nel pedule di un vecchio paio di calze, cacciate in fondo in fondo al cassettone. Giovannina per altro non la dimenticò: ogni tanto andava a prenderla e tornava a deliziarsi nella contemplazione dei sei puntini, più provocanti a' suoi occhi che non fosse ad Eva nell' Eden il pomo della scienza.

S'era anche lusingata, ma inutilmente, che Giuseppino dovesse scriverle ancora; quanto a lei non poteva rispondergli perchè nel turbamento della prima dichiarazione il suo amico ed…… aveva dimenticato di darle il proprio indirizzo.

Così passò un anno all'incirca senza avere più notizie di Giuseppino, ma Giovannina lo cercava in tutti i giovanotti bruni e snelli in cui si imbatteva: ella pensava che in quattro anni doveva essersi fatto alto più di lei ed avere per lo meno mezzo centimetro di baffi e uno sguardo fatale.

Un giorno d'inverno che ella era uscita colla sua mamma incontrò sulla piazza di Santa Marta la scolaresca dell'istituto tecnico che usciva in massa tumultuosa, sbaragliandosi per la piazza come un branco di puledri scappati dalla stalla.

— Quello là — disse la mamma — guarda, mi pare Giuseppino, il figlio del farmacista che stava rimpetto a noi, che non voleva mai soffiarsi il naso…

Giovannina guardò e vide in mezzo a tre ragazzotti che facevano le palle di neve il suo amico ed…… — proprio lui, tale e quale lo aveva conosciuto quattro anni addietro, con un nasino rosso alla francese ed ora aveva per di più i geloni alle orecchie; portava un gran tabarro tagliato fuori da un ex cappotto della Guardia Nazionale e sui polsi aveva due manichini di lana violetta lavorati a un punto diritto e un punto rovescio coll' orlo festonato.

O ideale!

— Povero fiigliolo, non è punto imbellito! — disse la mamma.

— Punto — rispose mogia mogia la figlia.

Giunta a casa stracciò in cento pezzi la lettera traforata e la gittò nel fuoco, ultimo definitivo domicilio.

Molti, ma molti anni dopo, Giovannina faceva il viaggio di nozze insieme con un bel giovinotto e, vedi combinazione, chi le diede i biglietti per Venezia fu Giuseppino — naso francese sempre, assenza totale di baffi, berretto d'ufficio turchino con listino d'argento.

— Se tu sapessi! mormorò Giovannina all'orecchio di suo marito, indicandogli il giovane impiegato.

— Che cosa? domandò il marito.

Ma subito dopo entrarono in un vagone coupé e non si sa se Giovannina abbia avuto tempo di raccontare la sua storia.



Alla Signora Ernesta Monticelli
Presidente la benefica
Istituzione « Fanciulle
smarrite
».

SIGNORA, le chiedo scusa se vengo a disturbarla nelle molteplici sue occupazioni col racconto di un caso particolare, ma lei ha tanto altruismo nel cuore da potervi far stare questo ed altro ancora.

Alberto Sormani (lo ha conosciuto signora?) quando voleva scrivere una novella e gli mancava il soggetto andava sempre a pescarlo nelle sue reminiscenze. Tutto gli serviva: memorie d'infanzia, aneddoti di collegio, prime impressioni, ogni cosa nella sua fantasia e sotto la sua penna prendeva consistenza di racconto. Ed a me pure, ricordandomi di questo metodo, era venuto in mente di tessere un romanzo intorno alla psiche abbastanza complicata di una certa ragazza di mia conoscenza, ma…

Basta, non le voglio ridire tutte le ragioni che mi fecero abbandonare l' idea del romanzo; prima perchè dovrei contrariare non poco le sue illusioni ottimiste sulla particolare ventura di chi scrive romanzi, mostrarle quale ricerca affannosa di pensiero, quale attività di immaginazione, quale impiego di forza nervosa, quale battaglia colla forma, quale somma di lavoro infine assiduo, penetrante, logorante, occorre per condurre a termine le trecento pagine che il grosso pubblico non degna nemmeno di uno sguardo, che il piccolo pubblico accoglie indifferente e che S. M. la critica azzanna e spazza via con un colpo di coda. E poi… Come vede, la faccenda anderebbe per le lunghe.

Dunque, signora, invece di scrivere un romanzo ho pensato di narrarle la storiella tale e quale, trasformando ciò che doveva essere un libro disgraziato in una azione forse meritoria, o quanto meno utile, o alla peggio andare animata da buone intenzioni come ella vedrà in seguito.

La Rosina in questione era una ragazza che presi una volta al mio servizio, non senza qualche strappo alla regola lasciatami da mio padre la quale diceva: Non si devono prendere in casa se non persone di chiara origine e di specchiata onestà. Ma mio padre, pover' uomo, visse nel secolo passato e certe idee che allora sembravano giuste non lo sono più al giorno d'oggi; tant'è vero che accettai la Rosina piovutami non ho mai saputo bene di dove (chi sa se lo sapeva nemmeno lei) in uno splendido mattino di maggio, ammantata in una casacca di panno color nocciuola e facendo passare da una mano all'altra un parasole col manico d'argento.

— Mi prenda, buona signora. Non ho più nè padre nè madre, fa una carità. La servirò come un cane fedele.

E mentre io guardavo titubante la casacca di panno color nocciuola, ella subito si slacciò con molta disinvoltura mostrandomi che sotto non aveva altro…

— Vede quanto son povera!

Torcendo gli occhi per discrezione venni allora ad arrestare lo sguardo sul manico d'argento dell'ombrello; ed ella, con maggior disinvoltura se possibile:

— È argento fino. Chi più spende meno spende. Almeno mi durerà un pezzo.

Questa volta allibii e mi ricordo benissimo che risposi con un fil di voce:

— Credo… mi dispiace… ma mi sembra proprio che non fai… no, non fai per me.

— Pensa forse che l'abbia rubato? — chiese la ragazza fissandomi in volto due pupille nere che in quel momento apparivano piene di sincerità.

— No, no… oh! non è questo. Ma capisco dal tutto insieme che non sei adatta per la mia casa. Noi siamo alla buona…

Si buttò in ginocchio con lagrime e giuramenti di conformarsi in tutto e per tutto a' miei voleri! Doveva vestirsi di sacco? e si sarebbe vestita. Era quel manico che mi dava ombra?… Ma lei era disposta a bruciarlo, a gettarlo dalla finestra; anzi, me lo offerse in dono. Ma che non la respingessi per carità, altrimenti non rispondeva delle sue azioni.

Che fare, mio Dio! Non siamo noi a questo mondo per aiutarci l'un l'altro e sorreggerci a vicenda? Chi sa che cosa avrebbe fatto quella ragazza abbandonata a se stessa, consigliata dalla miseria, spinta dalla disperazione! Certo qualunque cosa fosse accaduta la colpa era mia. E di chi dunque di grazia? Non ero io che possedendo una casa pulita ed una tavola più o meno, mettiamo anche meno solamente, ma infine apparecchiata tutti i giorni, avevo l'obbligo di accoglierla e di nutrirla? Che diamine, non siamo tutti fratelli?

Mortificata dunque per quei pochi istanti di esitazione mi affrettai a dirle che poteva rimanere. Al suono di queste parole, come fossero il tocco di un tamburello magico, Rosina mi fece una profonda riverenza e girando su se stessa rapidamente descrisse quattro o cinque piroette in tondo. È allegra questa ragazza - pensai.

Ella si ingolfò poi in un lungo ed arruffato discorso per provarmi che era sola al mondo, che nessuno l'amava, che aveva tanta voglia di far bene ma che la sfortuna la perseguitava sempre. Concluse col ritornello che era da parte mia una carità fiorita.

E vada per la carità. Io mi accorsi veramente a poco a poco ch'ella era vana, volubile, bugiarda ma naturalmente ne attribuii la causa alla sua fanciullezza orfana, al bisogno di guadagnarsi la vita; dico bene? E la ammonii con indulgenza, cercando di suscitare in lei il principio della dignità e della responsabilità. Non era digiuna affatto di qualche buon avviamento poichè prima di me, altre persone l'avevano raccolta; ed aveva frequentato le scuole; sapeva cucire discretamente. Alla mia domanda perchè non era rimasta fissa in uno di quei posti dove pure doveva confessare di essersi trovata con piacere, rispondeva alzando le spalle, o ridendo, o accennando la propria giovinezza.

— Quanti anni hai? — le chiesi un giorno.

— Ventiquattro.

Giovinezza sì ma non verde. L'ora del giudizio era già dunque suonata e se Rosina non la sentiva ancora vuol dire che fosse un po' sorda. Anche non c'era pericolo che si potesse ottenere da lei il più piccolo miglioramento. Sotto il suo governo i bicchieri non risciacquati e le calze di polvere sulle gambe dei tavoli stavano per diventare una istituzione. Il tempo ch'ella impiegava alla mattina a farsi i ricci era evidentemente sottratto alle faccende domestiche. Ma con quale diritto me ne sarei lagnata? Tenere una persona di servizio perchè ci serva è una idea borghese, un calcolo da egoista. Me lo ripetevo costantemente trotterellando dietro a lei con un cencio in mano.

Tutto camminava dunque mel migliore dei mondi. È ben vero che siccome Rosina era un po' pallidetta ed ansava a fare le scale, io la obbligavo a prendere il lattato di ferro e non permettevo che scendesse senza una forte ragione i novantacinque scalini che ci dividevano dalla strada; viceversa quando io uscivo ella affrettavasi ad abbandonare la sua cucina (è per questo che l'arrosto sapeva così spesso di bruciato e correva a tener compagnia a un sottotenente che abitava parecchi scalini più in alto dei nostri novantacinque. Ma questo incidente non lo seppi che più tardi e Rosina lo giustificò dicendo che per guarire dall' anemia le avevano consigliato la ginnastica militare.

Che è, che non è, Rosina mi appare dinanzi un bel giorno con tanto di gota enfiata.

— È un dente — disse lei. Se è un dente — dico io — bisogna farlo curare. Sì, no, oggi, domani, finalmente la decisione è presa. Arriccia i capelli, annoda un foulard celeste intorno alla gota enfiata, si dà una spruzzatina di cipria generale e via. Aspetta, aspetta, aspetta, erano le due quando era partita, alle cinque non era ancora ritornata. Diamine, che se li sia fatti curare tutti e trentadue! — Alle sei e un quarta rientra, vispa, rosea, con gli occhi lucenti e con un garofano in petto.

— Ma che cosa hai fatto?

— Me lo son fatto levare.

— Il dente?

— Il dente.

— E niente altro?

Mi guardò dal sotto in su, quasi compassionevolmente, si fregò in fretta le mani l'una contro l'altra, e spingendole innanzi, e rovesciando indietro il capo usci fuori in una di quelle sue risate che mi scombussolavano. Già… un po' vedere, un po' esplorare, e un po' decidersi; e poi quel momento terribile: crac… Forse un po' di paura, uno svenimento… Tuttavia quattro ore e un quarto per levare un dente.

Nessun sospetto però. Io ero ben lontana dal vero. Infervorata nella educazione di Rosina sopportavo i suoi scatti, le sue leggerezze, le sue trascuranze con quella benedetta fede che muove, dicono, le montagne e può parimenti inchiodare nella immobilità il più abile cervello. Non intendo alludere al mio, ma è certo che la disinvoltura di quella ragazza mi paralizzava. Solamente qualche mese dopo, capogiri, nausee, appetiti singolari, un mutamento di fisionomia, e subite stanchezze, e digestioni laboriose mi impensierirono seriamente.

— Rosina?

— Signora.

— Che hai?

— Non lo so.

Passa un altro mese.

— Rosina?

— Signora.

— Tu ingrossi.

— Le pare?

Improvvisamente una sera, mentre stava per coricarsi, le arrivai alle spalle cheta cheta.

— Rosina confessa! Oramai non vi è più dubbio.

— Eh! già.

— Ma sciagurata, puoi rispondere con tanta indifferenza? e non arrossisci? e non ti vergogni?

Fece per piangere un po', ma sbattè solamente le palpebre.

— E come fu?

— Fu quel giorno del dente.

— Il dentista?

— Sì, lui. Ah! gli uomini sono privi di delicatezza.

Ecco una di quelle parole che mi allocchivano. Rosina ne aveva delle più impensate, Privi di delicatezza! via, è bellina; molto più che ricordavo perfettamente la sua attitudine spavalda nel giorno famoso del dente levato, il passo svelto, l'occhio luminoso, il garofano in petto erto e rosseggiante qual bandiera spiegata a significare che il padrone è in villa.

Dovetti decidermi a mandarla via. I vicini e gli amici di casa erano meravigliati che non lo avessi fatto prima, ma io m'ero ficcata in mente di poterla ridurre al giudizio, mentre, ironia del caso, era proprio stato il dente del giudizio che…

Non la lasciai partire senza qualche ammonimentom a riflettere, a farsi più seria, più conscia della sua condizione, de' suoi doveri, dell' avvenire che si preparava (a quel modo) tristissimo. Ella rise, pianse, giurò, maledi, volle baciarmi ad ogni costo le mani e mi confidò la sua intenzione di farsi monaca.

A questo punto, egregia signora, Ella desidererà giustamente sapere perchè le scrivo queste cose. Egli é che ho letto attentamente il programma della benefica istizione a cui Ella presiede e prevedendo che un momento o l'altro le potrebbe capitare innanzi, mi permetto di raccomandarle la Rosina. Sarà circa un anno che abbandonò la mia casa e la vidi appunto ieri tutta in ghingheri ma di nuovo colla gota enfiata…

Scusi, signora, e mi conceda l'occasione per offrirle tutti i miei rispetti.