NEERA

Battaglie
per un'idea

MILANO
CASA EDITRICE GALLI
di BALDINI, CASTOLDI & C˙
Galleria Vitt. Emman. N˙ 17-80
1898

PROPRIETÀ LETTERARIA

Non sono molti anni usciva in Milano il programma di un periodico settimanale dedicato a studi e discussioni, specialmente di indole sociale. In questo periodico che sostenne vita onorata, attraversando ore tristi e solenni, venni pubblicando diversi articoli col modesto intento di raccogliere intorno a un vasto pensiero virile quella parte di pubblico, la quale, meno accessibile agli ardui ragionamenti della scienza, pure tende l'animo volonteroso a tutto ciò che riconduce verso un alto concetto della vita.

Ho pensato ora di riunire in volume quegli articoli uniti da un visibile legame di intenti che, agitando qualche idea e qualche problema di interesse generale, mi lusingano di non aver fatto opera totalmente inutile.

Ho davanti agli occhi, in un piccolo ed elegante volumetto edito per nozze, l'episodio di Râma e di Sitâ, tratto dal grandioso poema del Ramayana.

Era il forte Râma il figliuolo prediletto di Dasaratha, re saggio e caro a' suoi sudditi, celebrato nei tre mondi, vincitore dei nemici, ricco d'armenti e d' ogni altra opulenza: e pari alla virtù del re facevano corona quelle dei cittadini di Ayodhya, la capitale di quel paese fortunato dove nessuno era avaro o mendace o perfido, nessuno arrogante, iracondo, crudele, vantator di sè stesso o calunniatore. Fortunatissimo paese dove gli uomini stavano contenti alla propria sorte, le donne devote ai loro mariti; gli uni e le altre fedeli alle sacre osservanze e per costanza insigni.

Se a questi pregi d'ordine morale vogliamo aggiungere come degna cornice gli splendori della natura indiana, di quel suolo meraviglioso dove sorgono i fiori più belli, gli alberi più maestosi, dove gli uccelli più variopinti abbelliscono le foreste dagli acuti profumi balsamici e dove le eleganti corolle del loto spandono la loro poesia misteriosa, dovremo dire ancora per la terza volta: fortunatissimo paese!

Non ci voleva meno di questa culla d'oro per accogliere Râma e Sitâ. — Râma il dilettoso, Sitâ la bellissima, che dovrà essere il premio del più forte, capace dell' impresa sovrumana di sostenere e tendere l'arco di Siva, tanto pesante che sta chiuso in una cassa per smuovere la quale occorrono cento uomini. Râma solleva l'arco con una mano sola, lo spiega, lo incocca e tale è la forza che lo spezza come un fuscello. Sitâ diviene sua sposa in mezzo al giubilo ed alla generale ammirazione.

I pregi di Râma, le sue doti specialissime di virtù, di prudenza, di intelligenza, di generosità, nell'aureola di quell'amore felice e teneramente ricambiato, lo fanno splendere come un sole, sì che il vecchio re Dasaratha vorrebbe incoronarlo in sua vece. Tutto è pronto per la lieta cerimonia; ma una delle mogli di Dasaratha ricordandogli una promessa, una specie di discrezione fattale tempo addietro (un po'come Ernani a Silva) la esige sotto forma di esilio per Râma e di innalzamento al trono di un figlio suo. Il vecchio re, piangendo disperatamente, deve obbedire.

Qui la sproporzione fra la causa e la conseguenza appare stridente alla nostra moderna e raffinata intelligenza. Il nostro sentimento vorrebbe che Dasaratha trattasse da pazza quella sua crudele moglie che si rammenta così male a proposito una piccola indefinita promessa per applicarla barbaramente. Ma Dasaratha ha impegnata la sua parola; e davanti a questa forma antica dell' onore a noi non resta che deplorare la facilità e la dabbenaggine colla quale Dasaratha ha promesso.

Intanto l' annuncio della sua sventura è dato a Râma che lo sopporta da forte. Egli dovrà stare per quattordici anni esiliato nelle foreste impenetrabili, abitate solo da fiere e in balìa della crudezza dei venti. Armato di magnanimità si prepara a staccarsi dalla gentile consorte, che gli risponde: « O eroe! il padre, la madre, i fratelli, i figli, i congiunti fruiscono ciascuno quaggiù e nell' altra vita il frutto delle loro opere. La donna sola intimamente unita a suo marito è partecipe della sua sorte. Ti giuro che non vorrei abitare neanche in cielo da te divisa. »

Le rimostranze di Râma che le espone i pericoli e i disagi di una vita fra le selve, per lei avvezza alle cure delicate della reggia, non valgono a smuoverla. Invano egli le dice:

« Le selve, o donna dal bel sorriso, sono deserte di uomini e infette da animali, chiuse da piante striscianti, prive d'acqua e di fiori, con paludi inaccessibili; vi si soffre caldo e gelo, fame, sete e affanni infiniti. Qual dolcezza, qual diletto avrai tu quivi da me, consumato dalle astinenze e divenuto soltanto pelle ed ossa? »

Soggiunse Sitâ, dalla sottil cintura, dagli occhi come il fiore del loto:

« La dimora con te nelle selve mi sarà oltremodo gradita; andando dietro a te come su seggi di diporto non sentirò la stanchezza della via. Le cynosuroidi e i pruni silvestri mi saranno per via soavi al tatto come la seta. I letti apprestati sul l'erba mi saranno, con te, giocondi al senso come anosi velli d'antilope. Quando sarò seduta con tesopra solinghe piagge, sopra letti sparsi di poe, chi di me più felice? ».

Così la partenza d'entrambi resta decisa. Pianti ed abbracci strazianti circondano il principe e la sua sposa. Râma si veste da anacoreta; ma quando la bella Sitâ, già vestita di seta gialleggiante, vede presentarsi le ruvide vesti simili a quelle del marito indietreggia come una cerva che abbia visto il laccio.

Sitâ, dai bei labbri, dai bei denti, dal volto eguale a piena luna, Sitâ dagli occhi aperti come il fior del loto e dalla sottile cintura, la leggiadra donna dalle membra tornite e fini, Sitâ — la bellezza — vede il laccio e se ne spaventa. Non l'avevano spaventata gli orrori della selva perchè l' innamorato e forte Râma avrebbe saputo proteggerla dai rôvi e dai venti, dalle belve e dalla fatica, portandola sulle sue braccia; questo ella sapeva. Sitâ raggiante nel suo abito d'oro fuso poteva bene andare in esilio col suo diletto; ma Sitâ in dure tele da anacoreta, sarebbe ancora Sitâ?…

Al suo grido di terrore risposero i mille gridi delle donne presenti alla cerimonia. Ahi vitupero ed onta! così esclamarono tutte, e il vecchio re chiamato a parte il sopraintendende del tesoro gli disse: « Quanto è il numero d'anni che la bella Sitâ deve passare nelle selve, altrettanti tu le dona nobili ornamenti e ricche vesti. » Per tal modo Sitâ affronta l'esilio ornata al pari d'una regina e così radiante « come la candida consorte del sole. »

Alla loro dipartita si aggiunge Lacsmano, fratello di Râma, che non lo vuole abbandonare e che è indispensabile per sostituirlo nelle cure da prestare a Sitâ che, mercè loro, non soffre nel triste viaggio alcun affronto e continua a restare anche fra le selve grazioza come la luna piena che punto non si disforma; i suoi piedi naturalmente colorati come gomma di lacca, benchè privati dell' uso di essa, risplendono come fiori di loto; co' suoi piedi ornati di tintillanti gioielli segue scherzosa lo sposo e si capisce che quando è stanca non ha che la scelta fra questi e il cognato. Ambedue saranno fieri di portarla.

All' ombra dei bambù, dei sandali e dei cedri, sulle rive sacre del Gange, sotto il volo delle anase il cui soave canto riempie l' aria di dolci note, Râma trova un nitido masso di arsenico rosso, lo frega col dito e imprime un segno sulla fronte della sua sposa che da allora somiglia « alla nascente aurora. » Più innanzi Sitâ incontra una vecchia e buona strega che le regala un prezioso unguento destinato a perpetuare la sua bellezza. Altrove un' asceta raccomanda a Râma di adoperarsi perchè la sua sposa abbia a trovare, pur tra le selve, ogni diletto. Insomma l'esilio è, per Sitâ, un apoteosi. Non le manca neppure la droga piccante di una commozione nuova. Il re di un popolo selvaggio, intravistala, se ne innamora e dopo di averla inutilmente richiesta d' amore approfitta di una momentanea assensa di Râma per rapirla.

Vola sul carro del re feroce la bella Sitâ, salutando le foreste che furono testimoni della sua felicità e incaricandole di portare i suoi lamenti a Râma; vola, spargendo intorno i flavi e odorosi fior del loto, splendente nella sua veste divina, lasciando cadere lungo la strada qualcuno de' suoi gioielli, affinchè Râma possa seguirne le traccie. E gli alberi, i fiori, le ninfe degli stagni le dicono: « Non temere. » Gli uccelli, i pesci, la compiangono come fossero suoi amici. I leoni e le tigri le corrono dietro indignati seguitando la sua ombra. Le cascate e i monti gemono; il sole si fa mesto e impallidisce, perchè Sitâ era rapita.

Nella nuova dimora e presso il nuovo amante le vengono messi ai piedi tutti i tesori del regno. Sitâ li disprezza volendo conservarsi fedele al suo sposo e allora il rapitore per domarla la fa chiudere in una capanna con terribili minaccie d' altri castighi. Ma nè meno per questo manca Sitâ alla sua missione d'esser bella. Pur somigliante ad una fonte inaridita, a una fiamma che vien meno, a un' altare contaminato, ella conserva i neri e lucidi capelli, il colmo petto, la cintura sottile, gli occhi soavi come il fior del loto.

Naturalmente Râma ritrova la consorte, sfida il re barbaro, lo vince e riprende Sitâ; cioè la riprende, ma coll'intenzione di ripudiarla perchè in così lungo soggiorno presso un barbaro ella non poteva più essere degna di lui. Nuova e ardita è la conclusione, per cui Sitâ dopo di essersi difesa in base al libero arbitrio che le era stato tolto e alla fedeltà del suo cuore, solo valore reale dell'amore, affronta la prova del fuoco e ne esce incolume.

Tutto in questo episodio di Sitâ, fin dalle prime pagine, quando il padre di Sitâ dice che la sua figliuola non è nata di femmina, ma sorse un bel dì dal seno della terra, porta a credere che Sitâ risponde a un mito ideale. Per me Sitâ è la bellezza: la bellezza grandiosa che le piccole controversie della vita non possono alterare, la bellezza che ispira i forti e che ne è premio, la bellezza che il saggio reca con sè nell' esilio, per la quale sorgono incantèsimi e magie, per la quale si lotta e si trionfa, che può essere qualche volta insidiata, calunniata e fraintesa, ma che supera intatta tutte le prove.

In ogni manifestazione del pensiero destinata ad essere compresa da un largo pubblico, il concetto astratto non può riuscire penetrante senza essere incarnato in un simbolo materiale e facilmente accessibile. La donna si è sempre prestata a rappresentare la bellezza. Anche nella religione che sola fra tutte ha esaltato i meschini, i brutti, i disgraziati, nel cui nome si baciarono le piaghe del lebbroso e si decretò il regno de'cieli ai poveri di spirito, una donna appare splendente come Arca, roveto d'amore che arde senza distruggersi, verga che mette fiori, orto chiuso d'onde emanano deliziosi profumi, rosa di Gerico, cedro del Libano, molle palma e fatidico ulivo.

La donna, cioè la bellezza: la bellezza, cioè la perfezione. Ecco il concetto fondamentale. Sitâ, riunendo in sè tutte le virtù, deve necessariamente essere bella, più bella di qualsiasi altra donna.

Quando nell' emblema delle rozze vesti, pôrte a lei dalla invidiosa moglie di Dasaratha, Sitâ scorge l'insidia e se ne ritrae come cerva che abbia visto il laccio emerge in tutta la sua eloquenza di simbolo: più qui forse che in ogni altra parte del racconto. Nella bellezza tutto deve essere degno del concetto, pensiero e forma. Non si deve, idealmente, scongiungere mai la più seducente attrattiva esterna dalle profonde qualità dell'animo. Il maggior bene deve essere il substrato naturale e indivisibile del maggior bello. Sitâ, sposa ideale, è donna ideale.

Così il poeta del Ramayana nella sincerità de' suoi sentimenti intese la bellezza. Così, parmi, dovremmo cercare di intenderla noi nella faticosa e dolorosa rigenerazione che stiamo tentando delle nostre facoltà migliori.

La bellezza è quanto abbiamo di più ideale, di più alto, di più vicino a Dio. Perchè l'aspetto dei fiori, dei monti, del mare, delle cascate rumoreggianti, degli astri e del cielo inducono a pensieri e ad aspirazioni nobili? Niente altro che perchè sono belli, interamente e intimamente belli.

L'arte è educatrice appunto in quanto è bella e la moralità sua deve essere un tutto nella sua intera bellezza. Impossibile scompagnarle e solo una plebe ottusa, grossolana e fuorviata può dare alla bellezza altra interpretazione che non sia questa.

Spesso i giornali recano la notizia di uno studente suicidatosi per non essere riuscito alla prova degli esami e il fatto è così poco nuovo che non riesce nemmeno, nella sua tragica fatalità, a commuovere i dilettanti di cronaca cittadina, i quali sono abituati a leggere degli omicidi per le cause le più frivole e vanno persuadendosi che il suicidio è una cosa normale, che dopo tutto si muore in tutti i modi e che ognuno è padrone di disporre del suo come meglio gli aggrada.

Ed ecco in qual modo una delle azioni le più raccapriccianti entra a far parte tranquillamente delle idee comuni, prende il suo posto legittimo e riconosciuto tra la nascita e la morte sedendosi arbitra in mezzo a loro; e mentre si praticano le più esagerate precauzioni per riguardarsi dalla difterite, dal colera, mentre facciamo vaccinare i nostri figli e noi stessi, nessuno si impensierisce di questo morbo oscuro, di questo grave malore che cresce d' anno in anno, che attossica misteriosamente il sangue della nuova generazione.

Ma pensate a quella madre ricca e felice, che per tanti anni circondò di cure prima l'infanzia, poi l'adolescenza, poi la giovinezza fiorente del suo figliuolo; che ha creduto di far tutto crescendolo bello, sano, intelligente, onesto, colto e che se lo è visto strappare dalle braccia non da una malattia, non da una disgrazia, non dalla vendetta crudele di un nemico, ma dalla stessa volontà di lui. Oh! io sento il grido di quella madre: ella chiederà smarrita alla cara salma: Che cosa ti mancava, che cosa non ti ho dato? Angosciosa domanda che riassume in una sola voce la voce di tutto un secolo.

Perchè ora non si tratta più del suicidio di un Catone o di una Cleopatra, manifestazioni isolate di strane individualità. Ora il suicidio corre colla fiaccola accesa appiccando la sua fiamma fascinatrice dalla reggia alla taverna, alla soffitta, alla cameretta dello studioso e della modistina. C' è dell'epidemia nell'aria, c'è del contagio nel sangue. Se qualcuno si è salvato ancora è il contadino, l'ultimo custode della vita semplice e dignitosa, il lavoratore al cospetto di Dio.

Questo fatto è molto significativo. Esso è lì per mostrarci che non sono le cause materiali quelle che conducono al suicidio; non la lotta per la vita, non la povertà nè la miseria, non un amore tradito o una meta non raggiunta — ostacoli che anche il contadino può incontrare — e che vince o accetta nella semplicità grandiosa della sua rassegnazione.

No, il guasto è interno. Il giovane che si suicida oggi per un esame mancato, si sarebbe egualmente suicidato domani per i belli o brutti occhi di una donna qualsiasi, per una perdita al giuoco, per un cancro, per nulla anche.

Il suicidio che informa la stanchezza massima dell' esistenza è il risultato di un corrompimento generale, è come la putrefazione che giunge, quando tutti gli elementi vitali sono stati dissolti. Ma quali sono gli elementi vitali? Oseremo noi dire ancora che consistono nei beni materiali? Davanti alle tombe volontariamente aperte di re, di scienziati, dei così detti felici del mondo, sosterremo ancora che quel che più occorre all'uomo è il pane? O non ci sembrerà invece una derisione, un meritato castigo del nostro materialismo questo sfuggirci continuo della felicità, questa rinuncia a una esistenza comoda, agiata, quasi perfetta, per correre incontro alle misteriose attrazioni dell'al di là, alla luce ideale della tomba?

Questi fanciulli che si gettano volontariamente nel rogo, cinti di rose come le vittime antiche, sono al pari di esse l'olocausto cruento che l'umanità offre allo spirito immortale; sono la protesta del nostro Io invisibile che invano si vuole affogare nella dimostrazione visibile, è la natura, è l'anima, è Dio, è tutto quello che noi rinnegammo e che risorge inesorabile e onnipotente a fiaccare il nostro orgoglio, a dirci: Non andrai più oltre!

Già le Sacre carte avevano condannata quale peccaminosa la insistente ricerca del perchè della vita, quella ricerca sottile, ansiosa, roditrice e penetrante come una lima, che tende a falsare la nozione semplice della gioia, a mettere una punta di veleno in qualsiasi tripudio.

E un grande scrittore, Chateaubriand, disse pure: Non si diventa uomini superiori a forza di guardare il mondo sotto una luce odiosa e non si odiano gli uomini e la vita se non per mancanza di viste estese.

Dalle tombe precoci, che tanto tristamente ci parlano e che forse in alcuni generano un doloroso sconforto, solleviamo gli occhi ai vivi monumenti del coraggio e della perseveranza. Guardiamo i vecchi.

Non è mai senza una profonda commozione che io mi incontro con un vecchio. Si è detto tante volte che il bambino è un mistero, ma anche il vecchio è un mistero. Quando vedo uno di essi passarmi accanto con quella dolce e serena attitudine di uno spirito che si è elevato a furia di limarsi e collo sguardo grave di chi ha molto veduto, mi viene un rapido desiderio di accostarlo, di offrirgli il mio braccio, o di sedermegli accanto. Gli vorrei dire: Parlate!

Oh! la grande sapienza, la sapienza vera di chi ha saputo vivere; perchè nascere non è nulla, non vuol dir nulla, è vivere che bisogna! Un vecchio è un trionfatore.

Con umiltà, con compunzione vorrei dirgli: Narratemi come eravate da fanciullo, come vedeste poi i vostri capelli a diventar bianchi, per quale processo occulto tutto il vostro essere si è trasformato; e come sopportaste queste orribili cose: una madre che muore e l' amore che finisce! Ditemi ancora se gli amici non vi hanno dilaniato il cuore, se dopo di esservi dedicato tutto al culto delle verità nobili ed alte, non vi toccarono le derisioni e gli insulti di coloro che non erano nemmeno degni di allacciarvi i calzari. Eravate artista? e l' indifferenza del pubblico non vi ha isterilito! Eravate ricco? e l'ingratitudine dei beneficati non vi ha percosso! Eravate un operaio, un manuale, un povero? e la dura fatica di guadagnarvi il pane quotidiano non arrestò il corso della vostra vita! Oh! voi benedetto che sapeste lottare e vincere, la vostra canizie è un'aureola.

Falsamente si dice che l' egoismo fa vivere. Non è egoismo invece quello del suicida che getta su tutta la sua famiglia una dolorosa macchia indelebile, che dà al mondo lo spettacolo immorale della sua viltà?

Un uomo che si uccide è un soldato che diserta, è un pioniero che lascia il suo posto. In molti casi la perdita non è grave, individualmente, per la società; ma la gravezza sta nel fatto morale, e le lagrime di una madre e l'orrore e la compassione degli altri non danno la misura intera di questa gravezza, la quale si dilata ben più ampia e profonda, intaccando l'albero umano nelle sue più poderose radici, nella saldezza del carattere.

Non si può dire che non se ne parli qualche volta, onde questa non sara che una volta di più. Tuttavia, se l'argomento è noto, ho fondata ragione per credere che l'alta ed urgente necessità di esso non sia ancora penetrata abbastanza nello spirito pubblico. Se così fosse si dovrebbe vedere un maggiore risveglio della coscienza popolare, una minore frequenza di certi fatti, ed una più generale protesta di indignazione.

Non sono scorsi molti anni da che una signora forestiera, solamente perchè vestita diversamente da come vestiamo noi, fu fatta segno a scherzi e ad insulti per le vie, sì che dovette ritirarsi senza che nessuno venisse in sua difesa. Una grandine di briciole gettate sul volto, un fiore strappato brutalmente dalle mani, sono prodezze che si compiono tranquillamente tutti i giorni in mezzo alla gente che va a spasso.

Gli abiti macchiati e tagliuzzati, le case nuove subito imbrattate, gli zolfanelli gettati nella buca delle lettere ci dicono chiaro che il vandalismo è persistente, che un istinto selvaggio, bestiale, continua a serpeggiare fra di noi, che accenna a crescere anche, e ciò ad onta della istruzione obbligatoria e del progresso di cui tanto si parla.

Il caso ancora recente del beduino che uccise un giovinetto del popolo per legittima difesa della sua proprietà è anche più grave. (1) Che devono aver pensato di noi questi barbari, questi predatori del deserto, esclusi dalle razze civili, quando in una delle più colte città europee si incontrano nella stessa barbarie stupida e grossolana, nella stessa mancanza di senso morale che noi andiamo loro rimproverando?

Eppure non mancarono, per una deviazione della retta simpatia, quelli che si profusero a compassionare il giovinetto morto, quasi non fosse egli stato l'unico responsale della propria morte; quasi l'innocente, l'uomo giusto, il solo che si dovrebbe compassionare non fosse in un certo senso il povero beduino chiuso in prigione, dove forse sta ancora a perdere quelle illusioni che per caso potesse avere sulla nostra superiorità morale.

A vedere nel nostro popolo come onesti operai, padri affettuosi, che si priverebbero del pane per darlo ai loro figli, si fanno poi — per ignoranza, per basso istinto, per un pervertimento non solo del gusto ma del criterio — a vituperare in quei loro stessi figli la parte più elevata e più preziosa dell'uomo, la dignità; a vedere come calpestando il sentimento, l'amor proprio, il rispetto di se stessi, il ribrezzo, il pudore, tutte le corde più nobilmente vibranti, si va da tutti accarezzando lo spirito, la mordacità, il diletto, il riso, l'opportunismo, si prova un doloroso stringimento di cuore, e più fervente, più acuto viene il desiderio di combattere per la più grande delle conquiste e per la più necessaria: la conquista di una coscienza individuale.

E non è vero che il popolo sia sempre e dappertutto lo stesso. Basta essere stati solamente in Svizzera per sapere che cosa voglia dire il rispetto innato della proprietà e della dignità; là, dove le case si vestono esteriormente di siepi fiorite e fruttifere, così sicure al raggio della mite luna come non lo sarebbero da noi custodite in pieno giorno da un carabiniere. Anche a questo proposito citerò un fatto nostro. Quando si aperse, sul corso di Porta Vigentina a Milano, il quarto o quinto Presepio per raccogliere i bimbi lattanti, in una piccola aiuola esterna, fra cancelli di ferro, quasi simbolo del bene che fioriva dentro l'ospizio, le pie signore fondatrici piantarono dei rosai; ed era bello, era dolce, una bellezza ed una dolcezza offerta alle madri povere questa delle rose circondanti l'asilo dei bimbi…. ma quanto durarono? A colpi di sassi e di bastoni, senza scopo, nemmeno quello del furto, nemmeno quello della vendetta, per semplice bestialismo tutti i rosai furono sfrondati. Ma chi se ne indignò? Nessuno. Nemmeno le madri.

Ed ho qualche cosa di più grave a dire. Se non è vero che dovunque il popolo è così, è pur troppo vero che da noi non è così solamente il popolo. Quest'estate, in una valle remota ai piedi del monte Rosa, villeggiava una numerosa colonia delle nostre classi le più colte e le più ricche. Era uno sfoggio d'abiti, di eleganza, di virtuosità, di chic, di bon ton, di belle maniere, portati lassù fra quei semplici montanari, in mezzo a quella vita di lavoro e di abnegazione, di oscurità e di miseria, quasi una sfida ed un eccitamento, quasi una prova di eccelsi ideali raggiunti. Si sparpagliavano coll'aria di conquistatori, le signore distinte e i bimbi ben vestiti; entravano negli orti chiusi, calpestavano i fieni, rubavano le frutta, lasciavano brandelli delle loro trine e dei loro ricami fra le siepi dei campicelli. Le grame messi, i faticati raccolti scomparivano sotto il tacco lucido delle scarpette alla Molière e nella devastazione generale s'udiva un gaio cinguettare di gente per bene in lingua educata.

Una domenica, sulle colonne della modesta chiesuola, apparve una circolare del sindaco firmata da tutti i proprietari, invitando i signori villeggianti a risparmiare almeno gli interessi del paese che li ospitava, Io pensai allora al beduino ed arrossii di appartenere al ceto delle persone civili.

Dunque il male è profondo; dunque il rimedio deve esserlo del pari. Ma quale sarà il rimedio?

Per me è uno solo e deve venire dall'alto (l'obbligo è la prima gemma d'ogni corona) e in tre modi si potrebbe somministrare; colla repressione, colla predicazione, coll'esempio.

Repressione: Io vorrei assolutamente proibita, in nome di quel diritto che ci fa riguardare da un cane idrofobo, ogni pubblica mostra di ciò che tende a sviluppare la bestialità umana — e per non entrare in argomenti che, pur moralissimi, mi allontanerebbero dallo scopo fisso di questo articolo — preciso: Vorrei che non si avesse a trovare mai più sulle piazze, sui larghi delle vie maggiormente frequentate dal popolo un ciarlatano che sopra un sozzo scenario dipinto a tinte sanguigne fa ad alta voce la descrizione dei fatti e gesti di Jack lo sventratore, perchè queste lezioni educano gli animi alla sensualità, alla volgarità, alla morbosità, all'efferatezza, al delitto. Vorrei una legge severa contro l'accattonaggio, male esempio di scioperatezza e di manchevole senso morale, fomite di vizi, abbassamento continuo e pubblico della dignità umana, urto inutile della sensibilità vera ed ignobile sfruttamento di un sentimentalismo malsano. Vorrei infine che ogni cittadino, in presenza di un caso come uno dei sopra citati, investito della autorità d'uomo civile, procedesse colla parola e coll'opera in modo da reprimere non solo l'atto villano, ma togliendo al male intenzionato la volontà di ripeterlo, intimargli colla ragione del più forte che il regno della stoltezza è finito.

Predicazione: Per questa vorrei anzitutto che in ogni scuola, incominciando dalla più umile, dalla più piccina, a costo di sopprimere qualche regola di grammatica o la declamazione di qualche poesiuccia, sorgesse un vero e forte insegnamento morale, basato sulla dignità umana e sull' idea della responsabilità. La dignità è il più alto movente ideale, la responsabilità è la applicazione più pratica di esso ai bisogni della vita. Importa insegnare che migliorando sè stesso si migliora la propria situazione.

Il concetto caritatevole di uno Stato che proveda ai bisogni d'ogni singolo cittadino, le beneficenze prodigate dai ricchi ai poveri, dai sapienti agli ignoranti, hanno dato frutti troppo visibilmente immorali. perchè non si senta il bisogno di cambiare indirizzo alla filantropia. Non si gioverà mai con vero profitto all'uomo se non innalzandolo moralmente, istillandogli il principio di un nobile e severo individualismo. Si noti che questa qualità eminente di carattere può andare scompagnata affatto dalla coltura; non è necessario essere eruditi per sentire il proprio valore d'uomo.

È questo forse uno dei migliori benefici che la religione portava al popolo quando esso ci credeva. L'idea di un Dio che li aveva fatti a propria immagine e somiglianza conferiva anche ai più rozzi, anche ai più ignoranti, una specie di atavismo aristocratico che li ingentiliva e che accostavasi a ciò che noi intendiamo per dignità.

Questo sogno divino lo si riscontra ancora in certe provincie nostre, in certe campagne dove là razza contadinesca è rimasta pura col suo blasone intatto di fede in Dio, di rispetto e di amore ai simili, di costanza al dovere. Molti di essi non sanno leggere, ma nel loro contegno, nelle loro azioni domina l'idealità di chi sente di avere un'anima. Ecco dunque la cultura prima, rudimentale, la sola veramente necessaria.

E poichè, quando si tratta di educazione, sembra impossibile non citare Spencer, io pure mi permetto il lusso di una sua citazione: « Quale rapporto può esistere tra l'imparare che un certo gruppo di segni rappresenta certe parole e l'acquistare un sentimento più elevato del dovere? Come mai la facilità a comporre dei segni che rappresentano i suoni potrebbe fortificare la volontà a far bene? In qual modo la conoscenza della tavola di moltiplicazione potrebbe sviluppare i sentimenti di simpatia al punto da reprimere la tendenza a nuocere? e l'analisi grammaticale spargere in noi i semi della giustizia? » Eppure nelle scuole non si insegna altro! Lo stesso Spencer soggiunge: « La fede nei libri scolastici è una delle superstizioni del nostro tempo. »

Ho parlato anche di esempio; ma questa clausola ha, meno delle altre, bisogno di spiegazione. Si comprende facilmente che la parola non raggiunga tutta la sua efficacia se, non è accompagnata dall'opera.

Più che mai ora, scossa la fede nella divinità, in quel punto preciso che servì di faro per tanti secoli alle anime malferme, cresce l'obbligo agli uomini di cuore di raccogliere lo scettro caduto e di mostrare alle turbe inquiete, insoddisfatte, avide di felicità, che per quanto il bene cambi la forma esteriore esso non può sussistere che dove la dignità umana è più ampiamente sviluppata, dove si conosce e si mette in pratica il rispetto assoluto all'uomo e a tutto quanto gli appartiene.

Questi due qualificativi non scendono a caso dalla mia penna, e per quanto possano suonare poco armonici all' orecchio, io li ho lungamente ricercati e vagliati fra parecchi altri più dolci e più concilianti, ma non egualmente precisi.

Alcuni gentili stranieri scrivendo delle cose nostre osservarono già che la fibra italiana dotata di molta fantasia è in generale accidiosa. Noi che non abbiamo l' obbligo della cortesia e, quando mai, ci incombe prima quello della franchezza, mettiamo i punti sugli i. Diciamo addirittura furbi e fiacchi. Ad essere franchi con amore e col desiderio del bene non c'è mai nulla da perdere.

Non sono neanche del parere di coloro che dicono « E se siamo così cosa volete farci? » quasi nel caos primitivo esistesse già il germe italiano, germanico, inglese, francese; o non fossero invece i caratteri principali delle nazioni il risultato di circostanze mobili, di culture e di civiltà sovrapposte, destinate a modificarsi l'una coll'altra. Guardarsi nello specchio non è sempre frivola ed inutile cosa. Minerva suonando il flauto sulle rive d'un ruscello ebbe vergogna di se stessa nel contemplare riflesso dentro l'acqua il turpe aspetto delle gote enfiate; e Minerva era la dea della sapienza. Possiamo dunque imitarla colla speranza di ritrarne qualche buon frutto.

Troppo si ammira da noi quella istintiva svegliatezza di ingegno che fa commettere ai nostri fanciulli tante birichinate premature; troppo valore si concede allo spirito pronto, alla fantasia vivace, ed inseguendo tali larvate promesse di ingegno dimentichiamo di coltivare nei nostri figli la sola base sulla quale l'ingegno può innalzarsi con dignità e profitto: la serietà del carattere. Si può essere sicuri che agli uomini a cui il nostro paese deplora di aver confidato le sue fedi, l'ingegno non faceva difetto; persuadiamoci dunque che è questo uno stromento pericoloso, una lama a due tagli che acquista il suo vero pregio solamente quando è maneggiata da un' abile e forte mano.

Io lo domando a tutti: nella politica e nella letteratura, nella società e nella famiglia, è una certa svegliatezza di mente quella che manca o non è piuttosto una viva fede, un ardore di ideale, una saldezza di propositi? L' elemento corruttore si dilata e prende proporzioni incalcolabili, quando al suo prorompere non s'oppone altra diga fuorchè quella di una fredda rassegnazione. L'insensibilità s'avvicina alla morte; è se non altro uno stato patologico inferiore. Quanto gli preferisco quel caldo zelo che faceva esclamare all'apostolo: Irascimini et nolite peccare!

Sì, adiriamoci contro l'istinto subdolo, mancante di franchezza, che tanto compromette non solo la nostra fama, ma i nostri interessi presso le altre nazioni. Cullati nella retorica che ci ha sempre presentato il bene sotto la forma astratta di un dovere, troppi sono tra noi quelli che credono di fare il furbo sottraendovisi. È ora di persuadersi che l'onestà è anzitutto positiva. Dovrebbero saperlo almeno coloro che maneggiano le abbondanti ricchezze del nostro suolo, mandando sui mercati esteri della merce che non corrisponde al campione, per cui le commissioni scemano, il commercio scredita, e i pifferi che andarono per suonare restano suonati.

E quegli altri furbi che speculano sui tesori artistici dell'Italia, i custodi della Icone bizantina in S˙ Marco di Venezia che fanno pagare sette lire a chi vuole vederla? Neppure un terzo delle persone che vanno a Venezia potranno concedersi questo lusso; non il poeta e l'artista quasi sempre scarsi a mezzi, non l'impiegato intelligente, non l'operaio d'ingegno; resta l'opera d'arte a disposizione dei forestieri e di qualche pastaio o droghiere arricchito, il quale vuole veder tutto a tenore dei denari che ha.

Ma per quanto tal genere di speculazioni suddivida sempre i danni fra il pubblico e lo speculatore, questo non rimane persuaso; la meschina voluttà di succhiare il sangue del prossimo sotto qualunque forma, la corta ed ingorda veduta del suo calcolo, l'apatica abitudine parassitaria che soffoca qualunque aspirazione di dignità conducono lo speculatore a furberie grottesche, come quella di una chiesa a Bologna dove esisteva la S˙ Cecilia di Raffaello, trasportata poi nel museo di città, ma di cui si conserva la copia sotto la stessa tendina, visibile allo stesso prezzo.

Finora abbiamo parlato di trafficanti, di gente che negozia più o meno lealmente, ma che non nasconde il negozio. Che dire, sotto quali iperboli frenare lo sdegno, quando vediamo la bassa furberia salire, infiltrarsi a guisa di microbo immondo nelle fonti consacrate alla educazione? Oh! è questo un tasto ben doloroso, che io vorrei gettasse tali strida da far sobbalzare anche le coscienze più torpide. Ho conosciuto un maestro che esigeva da' suoi scolari il compito sul foglio doppio, coll' obbligo di non oltrepassare nello scritto il primo foglio, a costo di storpiare le parole accatastandole l'una sull' altra o di strozzare il concetto; e ciò perchè egli rivendeva agli stessi scolari il foglietto bianco. Se il maestro ha di queste marachelle al suo passivo è affatto inutile che legga a' suoi scolari le massime di Tito Livio. Essi vedranno sempre in lui l' uomo che li ha derubati di due centesimi per guadagnarne tre.

I doni agli insegnanti ed agli esaminatori non cessano di essere all'ordine del giorno, per quanto — lo noto con schietta gioia — abbiamo migliorato un poco da alcuni anni a questa parte. So in proposito un fatto grazioso. Una distinta maestra della nostra città era fatta segno ai doni continui ed incessanti d'una mammina assai poco al corrente della dignità dei genitori riguardo agli insegnanti; e siccome la maestra respingeva metodicamente tutti quei doni, la mamma, con un lampo della solita furberia, volendo spuntarla ad ogni costo, fece incidere sopra una certa quantità di carta da lettera elegantissima le iniziali della maestra, pensando « Queste non le potrà respingere. » Difatti la colta e gentile signora trattenne questa volta il regalo, ma ricambiandolo subito subito con un presente dello stesso prezzo. Ecco una bella applicazione della pena del taglione ed un esempio del come si possa alla furberia grossolana e volgare contrapporre una fine furberia di persona di spirito.

Tutto l' ingranaggio delle raccomandazioni che assediano scuole, ministeri, uffici pubblici e privati è retto dalla innumerevole falange dei furbi e dei fiacchi. Ognuno si lagna di ingiustizia quando la raccomandazione ha favorito un competitore, ma nel suo interno la giustizia verrà equilibrata quando sarà riuscito egli stesso ad avere un numero di raccomandazioni maggiori. Non si pensa neppure di poter passare un esame senza la raccomandazione — la qual cosa poi se fosse vera annullerebbe il vantaggio d' essere raccomandati. Ma non si ragiona tanto. La necessità di un appoggio sembra così ineluttabile che anche i migliori se ne lasciano abbarbagliare, ed ottimi giovani che avrebbero il diritto di portare alta sulla fronte la posizione conquistata dai loro meriti, si trascinano per tutta la vita l'umiliante riconoscenza ad un protettore molte volte immaginario.

Quella funesta pioggia di cavallette che sono la maggior parte dei nostri giornali letterari, quale altra cosa mostrano d' essere se non il ricettacolo di tutte le fiacchezze e di tutte le impotenze? Non a torto furono chiamati da qualcuno la guardia Nazionale della letteratura. Essi nascono appoggiati ad un fiacchezza e ad una furberia. Generalmente è il caso di un uomo senza ingegno che vuole speculare sull'ingegno degli altri: è difficile che a quest'amo mordano gli scrittori provetti, ma il pubblico ne resta danneggiato e danneggiata sopratutto quella sua vaga opinione sulla letteratura nostrana, così fragile e tentennante già, che ogni scossa la fa precipitare alla rovina estrema.

Il male è che tutti costoro non sono bricconi specificati; se fossero, le leggi, quelle povere leggi tanto tartassate se ne incaricherebbero una volta o l'altra. Ma no, si tratta di spostati, di vani, di deboli, di gente sprovvista di senso morale, di nevrotici, di anemici, di piccoli viziosi inconcludenti: è una gramigna nè più nè meno.

Ma c'è di peggio. Noi tolleriamo questa gramigna. E per noi che scrivo, ciò è evidente; una morale veramente utile deve rivolgersi più ai sani che agli ammalati. Sarebbe follia il credere che, non solo per le mie povere parole, ma per nessuna parola al mondo quegli altri vorrebbero e potrebbero mutarsi. Se trovo un cavallo imbizzarrito per la strada sono io che lo sfuggo, non prego lui di risparmiarmi.

La riforma delle coscienze non può oramai compirsi utilmente che col sistema della selezione. Quando i furbi vedranno che non accalappiano nessuno ed i fiacchi che nessuno li porta, daranno essi stessi senza saperlo il più alto esempio di moralità — non importa in qual modo — basterebbe quello di morire isolati senza lasciare successori.

Questo titolo mi viene suggerito da una riflessione che faccio spesso — ah! troppo spesso — e che mi sembra un sintomo sconfortante di quanto il senso morale sia basso tra noi.

Tutti scorgono (essendo facile scorgere il rosso in mezzo agli altri colori anche per chi ha la vista debole) i grossi fatti di immoralità, quelli che fanno parlar alto i giornali ed i crocchi, ma pochi, pochissimi distinguono la grigia melmetta che li inviluppa tutto in giro, che ne forma quasi un colore locale, un ambiente ed anche una specie di odore, come l'odore fluttuante e poco preciso che l' olfato fine afferra all'avvicinarsi delle paludi.

Il grosso fatto può essere una forma parziale di degenerazione, l'acqua sudicia di una catinella, ma quando il sudiciume invadendo tutta una regione ne ammorba l'aria e in quell'aria le persone sane fabbricano delle ville e si soffermano a respirare il fresco coi nervi e col naso insensibili, non è più una malattia, un caso, un fenomeno, è una epidemia delle più disastrose, è l'indifferenza al male.

Dirò una cosa che potrà sembrare paradossale: le prove della decadenza di un popolo non bisogna cercarle nelle prigioni e negli ospedali, ma bensi intorno alle tavole famigliari, dove crescono e dove si educano i figli. Quando il fanciullo, dopo di ave udito raccontare in famiglia che il signore o la signora X hanno una moralità dubbia, vede il padre scappellare e la madre far visite alla coppia X perchè sono ricchi o perchè hanno dello spirito o perchè bisogna prendere il mondo come è o, infine — questo i genitori non diranno, ma il fanciullo lo indovina dal sorriso — perchè i peccati degli altri non ci toccano ed è alle volte così saporito il dar loro di gomito, il fanciullo non esita tra le parole e i fatti. Essendo la logica un terribile dono naturale, egli conclude che la moralità non si fa che a parole. È come un leone dipinto che non incute paura; si sa che non morde.

Questo è il gran male, questa la piaga: l'insensibilità della coscienza. Adiratevi, adiratevi, santa è l'ira e la rivolta. La tolleranza sola è colpevole. È sopra di essa e in nessun altro punto forse che si appoggia così sicuramente tutto l'edificio della corruzione pubblica e privata. La tolleranza uccide a poco a poco la coscienza; è dessa veramente la pietra di paragone di ciò che forma la più alta e la più preziosa facoltà dell'uomo; essa accomuna in una ignobile fratellanza l'anima elevata e l'anima volgare; sotto il falso manto della carità del prossimo cova la corruzione e la tien calda, la propaga, la protegge.

Niente, niente tolleranza, siate sensibili. Adiratevi e non peccate!

La sensibilità, squisito dono superiore, ha pure una forma che si chiama generalmente ribrezzo. Si è detto che il riso, il pianto, la curiosità sono doti speciali dell'uomo, le bestie non le conoscono.

Ma il ribrezzo, oltre che ad essere ignoto alle bestie, è proprio solo delle nature raffinate. Esso è un istinto gentile che tende a dare dell'anima ai sensi.

Io vorrei che fosse maggiormente coltivato, anche nella forma rudimentale e spontanea che si annuncia nei bambini. Invece si fa precisamente il contrario. L' educazione insegna questa profonda immoralità: che bisogna essere eguale con tutti. Io mi domando perchè dobbiamo essere eguali con tutti, stringere tutte le mani e tutte ad un modo, togliendo così ogni significato alla simpatia, all'amicizia, all'elezione.

Una cosa che mi ha sempre indignata è la libertà che ognuno si prende di baciare i bambini e l' indifferenza con la quale i genitori li lasciano baciare, da chiunque, da un ignoto, dal primo che passa. Perchè? Con qual diritto? Si frustano i monelli che salgono dietro la nostra carrozza, non si permette a nessuno di toccare i nostri libri, i nostri fiori, si guarda in traverso chi accarezza il nostro cane e dovremo permettere che si usi impunemente sui nostri figli il diritto intimo e delicatissimo del bacio?

Quasi sempre il piccolo uomo o la piccola donna si ribellano. È la dignità personale, questo sentimento civile, è il ribrezzo, questo sentimento naturale, che protestano. Il bambino o scappa o piange o si difende a graffiate o si pulisce furiosamente la faccina contaminata, ed ha ragione, mille ragioni, tutte le ragioni che gli educatori non hanno.

Si deve chiedere al bambino il permesso di dargli un bacio. Non si può prenderlo come si prenderebbe un fantoccio per sfogare su di lui un momentaneo trasporto. Rendere i bambini insensibili al ribrezzo di baciare uno sconosciuto è togliere una delle loro più delicate difese, è insultare il loro pudore; mentre e pudore e ribrezzo e intransigenze e sdegni dovrebbero essere considerati con gioia dai genitori, guidati e moderati s'intende, ma non soppressi poichè essi sono la più bella prova del carattere, della coscienza, della individualità.

I genitori insensibili al pudore dei loro figli sono gli stessi che a proposito dei loro servi hanno questa massima: « Che ci importa la loro moralità, purchè servano! » Ah! orrore, non importa nulla la moralità di una persona che vive accanto a noi, sotto il nostro tetto, protetta dal nostro nome? È a questo modo che si prepara nelle famiglie la dissoluzione della società. Abituati a tollerare in casa, si tollera fuori, e, naturalmente, dopo di essere stati indulgenti cogli altri ci par giusto di usare la medesima indulgenza con noi stessi.

Conservare tersa la pietra di paragone, ecco la necessità; necessità per il fanciullo, necessità per l'uomo, obbligo dell'educatore e diritto dell'educato. Quando si pensa che con un senso morale diffuso e preciso si farebbe a meno delle leggi, perchè la legge starebbe nella esplosione della pubblica indignazione, non si farà mai troppo, non si farà mai abbastanza per suscitarlo e per tenerlo vivo.

L'esperienza mi ha ispirata una grande fede nell agitazione delle idee nobili. È un po' l'ufficio dei vessilliferi, ufficio modesto che non ha mai dato l'immortalità, ma che in un certo significato è anche più importante di quello dei condottieri. Esso tiene alti i cuori. Ognuno su questo campo può fare qualche cosa per il bene comune.

Ben più della arida, inconcludente questione, a quale spetti la superiorità fra i due sessi, io mi pongo questa domanda: Come possono l'uomo e la donna migliorarsi a vicenda?

L'osservazione la più superficiale ci dimostra che la civiltà è maggiore dove gli interessi dei due sessi sono egualmente tutelati: e per interessi intendo specialmente la libertà d'azione e di coscienza. Mettiamo quali parentesi estreme l' America e il centro dell'Africa — il paese dove la donna è padrona assoluta di sè stessa e quello dove ha ancora il dovere di lasciarsi bastonare a morte dal più o meno legittimo sposo.

Risalendo dai punti opposti al centro, a chiunque è dato di osservare le gradazioni talvolta insensibili, talvolta stridenti, che da città a città, e sopratutto da città a villaggio, la civiltà imprime alla donna.

Il cardinale Lavigerie racconta di un selvaggio, che avendo mandato la moglie a far legna e non vedendola più ritornare, le mosse incontro, finchè trovò la disgraziata affondata per metà in una palude dalla quale faceva vani sforzi per uscire. La situazione della donna sfangante davanti ad una morte certa, sembrò così buffa al buon selvaggio che volle godersela tutta e invece di gettare alla malcapitata una pertica od una fune, colle braccia conserte si godette tutta intera la di lei agonia. Ora, non essendovi qui nè vendetta, nè odio, il caso si spiega semplicemente colla nessuna importanza che quei selvaggi accordano alla donna, bestia da soma e di piacere.

Che orrore! esclamano gli europei. Sì, che orrore. Ma andiamo a vedere in certe provincie, in certi cantucci di questa beata Italia e d'altri siti come viene considerata la donna. Non la si affoga nei pantani, perchè vi sono Corte d' Assisi e processi, e più ancora perchè i nostri nervi non si dilettano a tali spettacoli; ma dal punto di vista morale, la si considera forse diversamente? Quanti e quanti ancora non vedono nella donna altro che la riproduttrice della specie e questo nemmeno dal suo lato migliore.

Il pregiudizio che un uomo ed una donna non possano stare insieme un'ora o cinque minuti senza tendere direttamente o indirettamente a questo scopo, lo vediamo espresso chiaro in quella specie di scandalo e di diffidenza che suscita l'aspetto di un uomo e di una donna stretti a conversare. Che diamine possono mai dire? Una cosa sola, si sa. Da Eva in poi è sempre stato così!

E il pregiudizio è tanto bene abbarbicato che una donna ove non sia sorretta dal braccio protettore di una madre o di un marito, è esposta a sentirsi rammentare continuamente questa sua unica missione sulla terra; ciò che fece dire ad un inglese: « Come volete che si innalzi la donna, se voi stessi la pareggiate alle femmine degli animali che si accoppiano solamente in date stagioni! »

Noi teniam buone tutte le stagioni, questo è vero, ma è la sola differenza.

Intendiamoci però subito. Io non sono affatto partigiana di quel nuovo metodo di elevare la donna che consiste nel farle studiare il latino, le matematiche e il diritto civile. A tutte queste belle cose nè mi oppongo, nè le aiuto; sono per me affatto separate dai veri interessi e dal vero progresso della donna. Ciascuna per proprio conto può essere avvocata o commessa, scrittrice o crestaia, o niente di niente in faccia alla società. La sola ragione che importa è che essa sia qualcuno, e precisamente sè stessa in faccia a sè stessa.

Non vedo la necessità di una cultura superlativa dell'ingegno della donna; se una di esse ha ingegno, questo è un campo speciale, una aiuola separata che nulla ha di comune colla missione della donna. Si coltiva forse un orto di ciliege doppie o una razza di merli bianchi? Accettiamo l'eccezione dalle mani della natura, ammiriamola se lo merita, ma non pensiamo a farne il campione di una nuova specie. Tutto ciò che turba l'ordine naturale va lasciato ai decreti sapienti del tempo.

Il progresso che ora si apre alla donna e che l'ulcerata anima umana le chiede sperando, è un progresso tutto morale, tutto intimo. Che sia molto colta forse non occorre, visto che anche l'uomo non è in genere molto colto; ed anzi succede spesso l'unione dolorosa di una donna più avanzata dell'uomo in studi ed in sapere; il che raramente è cagione di bene ad entrambi. Quello che importa è che la donna si affranchi dalla servitù dei sensi, dove fino ad ora la portarono non solo i suoi difetti ma benanche le sue qualità; e invero che è se non schiavitù dei sensi l'eccesso del buon gusto, della sensibilità, degli agi casalinghi, le cure, le premure infinite per tutto ciò che è caldo, freddo, fame, sete, sonno, dolcezza, morbidezza, appagamento pieno e raffinato di ogni desiderio materiale?

Badiamo. Ai tempi di Salomone saggia era la donna che sapeva tessere e cucire vesti per il marito e per i figli; ma figli e marito vivevano all'aria aperta, alla caccia, alla guerra, poco dissimilmente dalle bestie le quali tornando al covo null'altro cercano fuorchè il giaciglio. Noi adesso viviamo troppo spessi, troppo vicini e in troppe diverse occupazioni assorti perchè possa vigere l'antico regime; e se in tanto accumulamento di persone, se in una continua sovrapposizione di stimoli noi conserviamo la donna nel suo stato primordiale ed informe, nella sua materialità passiva di femmina, non faremo che crescere del cento per cento le avventure di Betsabea e delle figlie dei Sabini. La stazionarietà in tempo di progresso è regresso. Non sono la prima dirlo.

La religione cristiana, rompendo le tenebre del materialismo, tentò di elevare l'unione dei due sessi, e certo dobbiamo ad essa le prime, le più importanti conquiste della donna. È per ciò — disse un leggiadro spirito volteriano — che su cento increduli troviamo una incredula appena.

Ma se movendo i passi dalla più fitta barbarie, i legislatori cristiani credettero di separare l'uomo e la donna in tutti quei casi dove il sacramento non metteva il suo visto, pur conservando quale tramite di unione il prete, dopo tanto procedere dell'umanità, dopo una evoluzione così radicale di costumi e di ideali, noi sentiamo, ed essi pure lo sentono, che l'ultima parola della morale non è questa e abbiamo smania di camminare ancora, di raggiungere una meta più perfetta.

Secondo me, l'uomo e la donna non si conoscono abbastanza, non stanno abbastanza insieme; intendo quella unione degli spiriti che tanto gioverebbe alle due parti. Osservate che si avvicinano soltanto quando si tratta di divertirsi: ballare, mangiare, stare allegri, terreno questo dove naturalmente matura il desiderio delle conquiste galanti; terreno di impostura continua, perchè in tale attitudine anormale ognuno si mostra diverso da quello che è realmente, fa la ruota, posa, e la conseguenza di tutto ciò è indiscutibilmente il disinganno reciproco; per cui ascoltiamo tutti i giorni le lagnanze delle donne contro gli uomini e degli uomini contro le donne — tutte giuste, tutte vere, ma tutte imperniate su quella base falsa della conoscenza superficiale.

Quando l'uomo e la donna si decideranno a considerarsi l'un l'altro come esseri intelligenti e non come campioni sessuali, si comprenderanno meglio e meglio si ameranno.

Ma — è d'uopo ammettere e discutere i pareri contrari — in questa convivenza dell'uomo colla donna, in questa specie di amicizia nuova, non è facile che si annidi più profondamente il serpentello tentatore d'Eva?

Scrittori di vaglia hanno sostenuto che l'amicizia fra i due sessi è impossibile, che nel migliore dei casi è amore larvato, e si appoggiano a Schopenhauer il quale scrisse che l'amore, qualunque siano le sue smanie eteree, scaturisce dall'attrazione sessuale e da nessun'altra parte. Parole gravi, molto più se si confrontano con quelle altre di uno scrittore ben più antico e parimenti esperimentato, Ovidio. « Un mezzo sicuro per giungere all'amore, è quello di far precedere l'amicizia, perchè in tal caso il mandatario oltrepassa sempre il suo mandato. »

A così celebri e sapienti oppositori, non posso che rispondere molto umilmente; umilmente sì, ma anche francamente. Ebbene, ci sia pure in ogni simpatia fra uomo e donna la possibilità dell'attrazione fisica. Voglio andare più in la; ammetto assolutamente che questa attrazione c'è. E poi? Concessa l'attrazione del sesso è necessrrio venire alle conclusioni estreme? Tutta la questione è qui.

Non assistiamo noi giornalmente ad una delle più delicate fioriture di questa attrazione nella misteriosa simpatia che si sviluppa tra padre e figlia, tra figlio e madre, tra fratello e sorella, tra maestro e scolara? Le affinità fra il maschio e la femmina non conducono tutte alla soluzione brutale che per molti è il compendio della vità. Vi sono matrimoni al di sopra del senso; vi sono unioni invisibili, insondabili, fatte di elementi che sfuggirono finora al crogiuolo del naturalista(1) Innupti sunt coniuges, non carne sed corde. Sic coniunguntur astra et planetae, non corpore sed lumine: sic nubent palmae, non radice sed vertice. — S˙ Agostino.. Ah! lo dico non solo con slancio, ma con dati precisi di osservazione, non siamo tutte bestie a questo mondo.

Coloro che in ogni relazione fra uomo e donna non sanno veder altro che un volgare intrigo d'alcova, sono spiriti grossolani, psicologi superficiali, atti solo a cogliere la scorza visibile delle cose; incapaci dell'analisi fina, profonda, acuta, che va a rintracciare la verità nei più ascosi penetrali della psiche umana, dove esiste il segreto delle gioie e delle voluttà superiori.

Uno degli scrittori più simpatici e più gagliardi, Renan, confessa di dovere la parte migliore del suo carattere e del suo ingegno all'educazione ricevuta dalla donna, e, già vecchio, parla con indicibile tenerezza delle pure amiche della sua infanzia e della sua gioventù. Quasi la stessa cosa ripetono Lenau, Shelley, Lamartine, Vittor Hugo e cento altri.

Talleyrand, che nessuno certo potrà immaginare soverchiamente sentimentale, pianse rivedendo dopo molti anni una affezionata e costante amica.

Le vite degli uomini e delle donne che in qualche modo si elevarono al disopra dei loro simili, sono piene di esempi di queste amicizie nobilissime. Si direbbe quasi che le persone di ingegno e d'animo molto sottile preferiscano l'amicizia all'amore propriamente detto, per la stessa raffinatezza di sensazione che ci rende talvolta più piacevoli dei fiori delle aiuole il profumo sparso di piante invisibili, in certi giardini fitti d' ombra e di mistero.

Se fosse da noi maggiormente diffuso il gusto delle letture delicate si penetrerebbe un poco nel segreto delle dolci e salde amicizie leggendo gli epistolari numerosi dei secoli decimottavo, decimosesto, decimosettimo ed anche risalendo più in su.

L'amicizia di Michelangelo e di Vittoria Colonna è uno degli esempi più splendidi che noi possiamo contemplare in proposito; forse qui l'amicizia ha una forma ardente, benchè contenuta, da lasciarci facilmente credere che con un lieve spostamento di circostanze ai sarebbe cambiata in amore. Ma che perciò? Questo è un rafforzamento della mia tesi, una prova che l'attrazione si può contenere. Quando noi ammiriamo un magnifico arcobaleno, sappiamo benissimo che alla sua formazione concorsero lampi e tuoni, ma poichè il risultato è tutto di armonia e di pace lo prendiamo quale simbolo e promessa di tempo migliore.

La vita di madama Sevigné, dopo sua figlia, fu tutta dedicata all' amicizia, e il conte di Bussy Rabutin al quale diresse la maggior parte delle sue celebri lettere era ben più amico che cugino.

L'amicizia dell'abate Galiani con madama d'Epinay durò vent'anni interrotta solo dalla morte. Lo spiritoso e mordace napoletano che si era fatto di Parigi una seconda patria, tornato a Napoli, in quello « spaventoso deserto di cinquecentomila napoletani » (erano i napoletani di due secoli fa) serbò un costante rapporto di lettere sincere e schiettamente amichevoli colla d' Epinay di cui aveva apprezzato la grande bontà, e sicuramente la fedeltà di Galiani l'avrà consolata della ingratitudine di Rousseau, che ella aveva pure con onesta affezione colmato di benefici.

Contemporanea a costoro madamigella Lespinasse, tuttochè assorta e bruciata dai suoi due grandi amori per il conte Guibert e per il marchese di Mora, seppe ispirare vere e tenaci amicizie, fatte di ammirazione e di rispetto, agli uomini più ragguardevoli del suo tempo, il principe di Beauveau, Hénault, Turgot, La Harpe, Marmontel, Grimm; lo stesso amore di d'Alembert per lei, quell'amore così modesto, discreto, perseverante, che tutto perdonò tacendo, non era forse più che amore una grande e pietosa amicizia ?

A proposito di certi privilegiati salotti del secolo XVIII, così celebri per il loro spirito, dove sembrava aver cercato un rifugio ciò che ancora esisteva di ideale in quella società corrotta, Guizot scrisse: societé charmante où était conservé le goût desintéressé des plaisirs de l'esprit, la curiosité bienveillante, le besoin de mouvement moral et de libre entretien. » Ecco un riassunto approssimativo di ciò che dovrebbero essere i rapporti superiori per i due sessi, ed ecco La Fontaine, grande apprezzatore della intellettualità della donna, ecco Buffon che nutrì la più devota amicizia per quella ammirabile creatura che fu madama Necker, madre della Staël; ecco Joubert, amico così disinteressatato della principessa di Beaumont, rimpiangerla dopo morta come non fece neppure Chateaubriant che alla squisita signora aveva dedicato più che amicizia. Ma è giusto dire più in tal caso?…

Tempra d' amica ebbe certamente la Isabella Teotochi Albrizzi che tenne rapporti cordiali con Alfieri, con Cesarotti, con Pindemonte, con Byron, con Spallanzani, con Cuvier, con Humboldt. Ma forse più attraenti, più simpatiche ci riescono quelle amicizie che non confuse con molte altre, ma rare e solitarie emergono da una vita, dandoci un penetrante profumo di poesia intima.

Tale fu senza dubbio l'amicizia di Quirina Mocenni per Ugo Foscolo: e se ad alcuno sembrasse che l'esempio è troppo scottante, prendiamo quello della marchesa di Barolo e di Silvio Pellico. L'amicizia del poeta senza paura e della signora senza macchia è giunta fino a noi nella sua fama intatta di sentimento elevato e puro.

Trent'anni durò, fra gli scogli della politica e degli interessi personali che li allontanava, la relazione di Lamartine con madama de Girardin che egli conobbe fanciulla, che non amò mai d'amore, quantunque ella fosse bellissima e ricca di tutte le seduzioni fisiche e spirituali; ma fra cui si stabilì quella dolce e lenta cristallizzazione della simpatia che va dall' impressione esterna, sempre salendo, per una scala armonica di perfezioni e scansando il pericolo del desiderio, al nirvâna sereno dell'amicizia — amicizia alla cui formazione contribuiscono senza dubbio parecchi elementi, i quali tutti purificati e mondi nella evuluzione di due anime superiori, si piegano a formare quel tributo gentile della materia allo spirito che si chiama amicizia fra l'uomo e la donna.

In questa rapida e necessariamente incompleta rassegna, ho voluto di proposito inchiudere tutti i gradi dell'amicizia, dal primo che rasenta l'amore e vi si confonde, fino all'ultimo che tocca la relazione semplice e quasi comune; perchè ognuno di questi gradi concorre a portare nei rapporti fra l'uomo e la donna l'elemento ideale, quell'elemento che se è la più bella parte dell' amore è ancor più il complesso raggiante di una nobile amicizia.

Terminerò citando una osservazione di Bourget che trovo profondamente vera e della quale farebbero bene ad approfittare i nostri giovani scrittori: « Si l'on voulait resumer d'un trait toutes les insuffisances de certains romans de notre époque, on reconnaîtrait qu'il à manqué á leurs auteurs d'avoir vécu dans l'atmosphère d'idées fines et de sentiments délicats que repand autour d'elle une femme vêri tablement affinée et pure. »

Con intenzione serbai per ultimo questa osservazione del moderno psicologo. Essa mette veramente il dito sulla ferita e dà ragione a quanto mi sforzai fin qui di provare.

Se scrivessi ora un articolo per sostenere l'importanza della donna e la sua parte attiva nel progresso, dovrei appunto citare questa sua inevitabile influenza sull' uomo, per cui si potrebbe quasi dire « Dimmi che donne pratichi e ti dirò chi sei. »

Abbiamo infatti casi eccezionali (un apostolato di scienza o di religione) nei quali l'uomo vive e si innalza affatto lontano dalla donna; ma nella vita normale, nella vita di famiglia e di società è quasi impossibile che l'uomo non subisca l'influenza benefica o fatale delle donne che maggiormente avvicina.

Sans les femmes — ripete un vecchio proverbio francese — les hommes ne seraient que des ours mal léchés. Propendo a crederlo, ma la forza dell' argomento sta nella qualità della donna. Ecco perchè raccomando la frase di Bourget ai nostri giovani romanzieri e a tutti i giovani.

Per parte mia ho già dichiarato che la questione delle professioni maschili aperte alla donna non mi interessa e non trovo che su questa base ella possa mai appoggiare la propria felicità.

Sarà forse l' au pis aller per qualcuna, ma non si deve da un male parziale cavarne fuori una regola universale e quando io devo tracciare un concetto elevato e ideale di una società, penso anzitutto ad una società sana.

— Non vedete dunque — si grida — tutte le donne che soffrono?

Le ho sempre vedute tanto che la maggior parte della mia opera letteraria è dedicata a studiare ed a sviscerare i dolori della donna: ed è appunto per questo lungo e paziente lavoro di simpatia, per la conoscenza profonda dell'argomento, per una saldezza di fede adamantina che torno a ripetere: Le aspirazioni naturali della donna non si volgeranno mai alla toga dell' avvocato, alla cattedra del professore, alla lancetta del chirurgo, solo nel caso che la donna si sia strappata dal seno il suo cuore di amante e le sue viscere di madre. Ma io allora la compiangerò, non la invidierò certo.

Sono trascinata mio malgrado a trattare questo argomento, per scolparmi almeno, ed anche per un certo diritto al voto, visto che sono una donna.

Gli esempi che si citano sempre delle maestre e delle altre donne occupate fuori delle loro case, con nota di lode per lo zelo onde disimpegnano i loro uffici, provano solo in favore dell'abilità e dell'intelligenza femminile, non della felicità. Bisogna domandare a ognuna di loro, se non preferirebbe di gran lunga deporre quel peso, e basta ad ogni modo osservare come lo depongono volontìeri appena il possano.

Non venitemi dunque a parlare della felicità che avrebbero le donne in tale stato. Se veramente vi muove a compassione l'isolamento di tante povere fanciulle, il disinganno di tante spose, la vuota atmosfera di frivolezze in cui vivono parecchie di loro, amatele di più, rispettatele di più, insegnate loro i bisogni della vostra anima, conservatele sopra tutto nel tepore del loro nido, accanto ai vostri focolari, alla poltrona dei vostri vecchi, alla culla dei vostri bimbi.

Siete così occupato, voi sesso forte, nella vostra professione qualunque essa sia, che vi serve di scusa per non potervi dedicare interamente agli affetti della famiglia, alle cure gentili, alla pietà, al gusto dell' arte, ad una quantità di sentimenti delicati e soavi che pur vi piacciono riflessï nella donna, che ella conserva ed alimenta intorno a voi e che portano un raggio di poesia nella aridità dura e faticosa dei vostri uffici d'uomo. Ma quando anche la donna sarà travolta nell' onda torbida degli affari, quando anche lei non avrà più tempo da sottrarre al foro, alla clinica, alla borsa, e nel rozzo urtarsi di tutti i giorni, di tutte le ore, contro quelle ineluttabili necessità che formano la scusa del vostro scetticismo avrà perduta la sua grazia fatta di idealità e di tenerezza, quale vantaggio credete abbia a venirne e per chi? Per la donna ho già detto di no, ma neanche per voi, sapete?

Lascio da parte le obbiezioni d'ordine economico, già mosse da altri, come sarebbe quella della difficoltà sempre crescente per gli uomini di farsi una posizione e che sarebbe per nulla avvantaggiata da una simile concorrenza; lascio da parte anche le obbiezioni, pur così giuste, sul fisico della donna e sulle diverse fasi che deve attraversare. Voglio restare nel mio campo, nel sentimento, che è il vero dominio della donna, il terreno naturale dove le è permesso di mettere a frutto tutte le sue qualità, il solo dove ella innalza sia l' edificio grandioso dei suoi sogni sia la modesta casa che le conserva la felicità d' ogni giorno, conservandola donna.

So che voi soggiungete « oh, ma noi vogliamo bene che resti donna sempre » Ed è questo l' assurdo. Di un uomo che mette il velo, che si orna di nastri, che si profuma, che si guarda nello specchio voi dite a ragione che è effemminato, ed è l'eguale ragione che farà mascolinizzare la donna se dovesse seguire i vostri consigli; perchè poi è da notare che gli effemminati (di cui avemmo sì abbondante campionario nel secolo decimottavo) nella abitudine dello specchio e dei profumi perdevano quella delle armi, degli studi, della resistenza gagliarda, e così la donna trascinata per gli Uffici, nelle discussioni politiche, nella fatica esauriente della cattedra, dovrà necessariamente allontanarsi non dirò dallo specchio, e dai profumi che qui si accennano in forma superficiale, ma da tutta quella rete sottile di femminilità che nella casa di una donna fine incomincia dalla soglia e si diffonde per tutto l'ambiente, preparando all'uomo che vi ritorna dopo la lotta per la vita il sorriso della vita.

I desiderii dell'uomo stanno principalmente nella libertà, nell'ambizione, nel lucro, qualche rara volta nell' arte e quasi sempre. dopo le burrasche giovanili, in una quieta vita di famiglia. La maggioranza delle donne vive per l' amore, per la casa, per quel bisogno propotente della maternità che è il più chiaro indizio della loro missione. Una maggioranza anche abbastanza significante, quasi come la prima, fonda tutta la sua gioia nel vestirsi e nello spogliarsi per tornare a vestirsi ancora. Restano infine delle piccole frazioni senza valore di numero, fra le quale si può collocare la donna che aspira ad esercitare una professione virile; ma cedendo al proprio ideale costei non propugnerà mai il vero ideale delle donne.

Voltiamo ora la questione dall'altro fianco, quello che presentano gli emancipatori meno sentimentali, meno attaccati alla felicità della donna e che le dicono brutalmente senza restrizioni: « Tu sei un arnese inutile nel corso della civiltà, non hai mai fatto nulla, non fai nulla, fosti sempre il meschino trastullo deil'uomo, oziosa e viziosa. Vieni, noi ti porgiamo la nostra cappa e la nostra spada, sii nostra eguale. » E molte donne, si capisce, rimangono prese all'amo di parole cosi sonoramente generose.

Quelle che piangono e quelle che sono stanche di soffrire, quelle che furono avvilite, abbandonate, disprezzate, derise, si rialzano alla speranza nova e credono veramente di dover scontare la grande colpa di essere rimaste donne per tanti secoli, tributarie dell' uomo, quasi sue schiave, certo sue mendiche…

Oh! come è diversa la mia convinzione! Io credo fermamente che nessun sacrificio di donna sia mai stato perduto, nessuna vera lagrima dispersa, nessuna rinuncia inutile, che senza di lei non sarebbero mai germogliati da questa terra i due splendidi fiori dell' arte e della poesia, senza la donna non avremmo i nostri capolavori, Shakespeare e Goëthe non avrebbero scritto, nè Raffaello dipinto. Come? In fondo ad ogni gloria d' uomo si legge il nome di una donna, in ogni casa fiorente si trova l'opera della donna, in ogni infanzia felice la donna, in ogni ardore di carità la donna, in ogni azione generosa od eroica la donna, la donna sempre, ispiratrice, consolatrice, amica, custode, arca sacra dei popoli che verranno. e si osa dire che ella non ha nulla da fare, che non ha mai fatto nulla e che farà solo qualche cosa quando studierà il latino-

Davvero che se non fossi persuasa della buonfede degli emancipatori penserei che essi vogliono abbassare la donna, togliendole la sua aureola lua minosa di collaboratrice spirituale, di anima e coscienza dell' uomo, per mandarla a correre nella palestra maschile, permettendole per incidenza di mettere al mondo dei figlioli.

La natura ha voluto che la donna amasse perchè l'uomo non ha tempo d'amare; ha voluto che soffrisse perchè l'uomo non ha tempo di soffrire. La sua missione è la più alta, la più pura, la più necessaria ad una vita ideale. Ci voleva proprio un secolo come il nostro dove tutto si riduce a soldi e denari per sollevare una simile questione, per dire alla forza morale dei popoli: « Tu che fosti cuore, sia d'ora in avanti braccio e gamba; l' affetto è sentimentalismo, sentimentalismo la fede, sentimentalismo la famiglia, sentimentalismo l'arte e la poesia, sentimentalismo il bello, sentimentalismo il bene. Cifre ci vogliono. Una donna deve valere solo in proporzione di quanto guadagna. »

E quando si farà un processo ai fiori condannandoli in qualità di disutili ed obbligandoli a tramutarsi in rape e in patate? E la luna non è forse una inutilità fra il petrolio e la luce elettrica?

Oh! care, o sante, o ignorate donne che non facendo nulla insegnaste la strada dell'onestà a tutta una generazione, voi che foste le sorelle dei martiri, le mogli degli eroi, le madri dei genii, ed anche meno di tutto ciò, le compagne umili e pazienti dei diseredati; voi la cui anima è penetrata per gli oscuri e delicati meandri della intimità in tutto quanto è stato fatto di meglio al mondo, ribellatevi. Ma che la vostra sia una ribellione calma e dignitosa; meglio che una ribellione, una protesta; meglio ancora che una protesta, una difesa muta e tenace.

Ricordiamoci tutte che il nostro posto non è all' avanguardia e non è nemmeno coi comandanti. Noi siamo le sentinelle vigili e fedeli, noi le custodi del santuario che i nostri compagni hanno dovuto abbandonare chiamati da altre bisogne. Non ascoltiamo il falso all'arme, il grido di guerra che tenta di chiamarci fuori, di allontanarci dal nostro dovere, di farci deviare dalla nostra consegna. Ricordiamoci che il posto della sentinella è glorioso quanto quello del generale poichè, al pari di lui essa può morire per la salvezza di un'idea.

In un capitolo precedente, sui rapporti superiori fra l'uomo e la donna, ho cercato di elevare il concetto che si ha generalmente di questi rapporti e sono forse riuscita a dimostrare quanto giovevole sia all'uno e all'altro sesso una maggiore intrinsichezza di pensiero, un' abitudine più continua e più larga nello scambio delle idee. Ho però avvertito che non sono fautrice della cosidetta emancipazione della donna; ed ora mi faccio un dovere di spiegarmi più chiaramente.

Sarà bene che il lettore prenda per punto di partenza la generalità e non si soffermi alle eccezioni, le quali non varranno mai a provare la bontà di una tesi. Sarà anche necessario, se il lettore è maschio, che si astragga il più possibilmente dalle esigenze e dagli ideali del suo sesso, che consideri la donna quale essa è, nè più, nè meno, nè con ipotetiche aspirazioni di mutamento. Nell'articolo già citato, proponendo il modello di una donna elevata, non creavo nulla, non mi abbandonavo a nessuna utupia, poichè donne elevate ve ne furono sempre e speriamo sempre ve ne sia.

Ma la donna emancipata che cos'è?

Secondo alcuni la donna si emancipa sottraendosi agli umili uffici domestici per correre insieme all'uomo l'agone delle carriere intellettuali. Ma chi non vede che questo è il lato più superficiale della questione? Dottoressa o ricamatrice, leggendo umilmente il suo libro da messa, o affrontando le pagine di Spencer, pensando in italiano, in inglese o in latino, dove si posa, dove mette radice il gran problema della sua felicità? V'è alcuno che creda seriamente essere un bisogno della donna quello di eguagliare l'uomo, di fargli concorrenza, di provare che il peso dei loro cervelli è assolutamente eguale, o quanto mai, che la qualità compensa la quantità? Eh via!

Altri, più prossimi al vero, persuasi che il primo interesse della donna è di restare ciò che la natura l'ha fatta, e colpiti dalle ingiustizie che pesano su di essa in causa dei nostri usi e costumi, grida « Lasciate libera la donna, lasciate che fanciulla si abitui alla lotta e ai disinganni, lasciate che conosca, allora sarà più forte e più felice ».

Ogniqualvolta udii esprimere questo concetto udii pur anche un coro di approvazioni o palesi o tacite, tutte accorrenti a quella magica parola di libertà. tutte riscaldate al fuoco promesso del conoscere… Ma conoscere che cosa? Conoscere, evidentemente, vuol dire vedere. Che cosa volete che vedano le fanciulle? Sentiamo. Esse devono avere libera uscita nella famiglia e libera entrata, conducendovi chi fa comodo a loro, va bene? E allora, naturalmente, anderanno dove vogliono, con chi vogliono, facendo quello che vogliono, non è così? Al caffè, al club, ai teatri, dappertutto. E poi? Da questa mascolizzazione della fanciulla cosa sperate che ne venga fuori?

Si dice è la pratica della vita che dovrebbe acquistare così, ma quale pratica e quale vita? È necessario spiegarsi chiaro, quando si tratta di educazione e di morale. Ditemi dunque fino a qual punto volete condurre la vostra iniziata; È come per imparare le lingue; bisogna andare sul posto; mi immagino tuttavia che un punto d'arresto lo avrete.

Ma giunti a quel punto vi sarà facile avvertire quanto inutile e dannoso sistema sia quello di mettere il carro innanzi ai buoi, e troverete una volta di più l'applicazione della aurea sentenza di Alfieri:

Meglio ignoranza onestamente intera
Che del mezzo saper gli atroci abusi.

È inutile, — il mistero della vita, l'intima essenza delle cose, quasi il perchè di sè stessa, la donna non potrà mai afferrarlo che quando abbia percorsa tutta intera la sua parabola; nessun libro, nessun discorso potranno mai fare di una fanciulla una donna; è un privilegio che Dio ha trasmesso direttamente all'uomo e del quale egli dovrebbe essere più geloso e più fiero. Basta osservare le zitellone, quelle che lo sono realmente (e si trovano fra esse anime squisitamente temprate) per accorgersi della lacuna che c'è in tutti i loro giudizi: come uno scolaro che fosse promosso alle classi superiori senza avere superate le intermedie hanno lampi di intuizione, ma la nozione pratica, elementare, manca. Una volta le troverete in fallo sulla valutazione di un sentimento, un'altra volta su quella di un fatto. O si spingeranno fuori del mondo reale o volendo restarvi armeggeranno così forte di remi da dimostrare subito la loro paura di andare sott'acqua, portate di qua e di là, troppo in su, troppo in giù, qualche volta vicino al vero, nel vero assoluto mai.

— Oh! non bisogna dare soverchia importanza, in una questione morale, ad una questione fisiologica — dice qualcuno.

Come! come! siamo persuasissimi che una chiave per sè stessa abbia poco valore, ma ne acquista uno grandissimo quando chiude il tesoro del sapere, del sapere positivo, logico, naturale, senza del quale l'arte stessa manca di vigore e la poesia si perde in nebbia.

La fanciulla rapita dal mago, nelle Favole persiane e chiusa in una caverna, cerca di fuggire pronunciando la parola che il mago stesso pronunciava perchè la porta si aprisse. Ella ricordava vagamente che la misteriosa parola era il nome di un grano: orzo, frumento, segale, riso, avena… : ognuno di questi nomi volle pronunciare impaziente ed ansiosa, ma la porta non si apriva. Miglio, maïs, lino, non ottenevano miglior fortuna: ed ella si desolava davanti alla invincibile porta scuotendola invano, implorando la parola vera, l'onnipotente: e la parola non veniva alla mente confusa della fanciulla. Intanto il tempo utile passa, il mago che si era assentato sta per ritornare, eccolo. La sua voce poderosa grida sesame apriti, e la porta si spalanca.

Mi aspetto l'ultimo verbo: « Atterrate tutte le porte! » Certo il grido non è nuovo ed è anche logico, date le premesse dei tempi che corrono, della logica almeno che fa ruzzolare fino in fondo alla scala l'ubbriaco che mancò il primo gradino. Nè questo sarebbe il peggiore. Il male più grave è che persone provviste di tutto il loro senno, ma forse un po' superficiali nel metodo di osservazione o soverchiamente innamorate di tutto ciò che sembra un progresso, ci cullino in questa idea che la fanciulla lanciata a briglia sciolta debba darci una donna migliore per l'avvenire. L'unione libera — diciamo la parola come sta poichè la questione è di quelle che bisogna scrutare fino in fondo coraggiosamente — l'unione libera proposta a guisa di panacea alle sofferenze della donna, anzichè offrire un progresso è un regresso; la si è vista già nei popoli primitivi, l'hanno i selvaggi, l'hanno le bestie. Non so davvero quale miraggio ideale vi si possa intravedere ancora.

Che al puro spirito dell'amore e ad una coscienza veramente retta essa possa bastare, siamo d'accordo, ma le leggi si fanno per i puri spiriti e per le coscienze integre, o non piuttosto per reggere gli incerti ed i pericolanti?

Conosco l'obbiezione; si dice: Quando la scelta è libera è più facile che regni l'accordo. Fole! Se il compimento di un rito non basta a frenare le passioni, perchè la mancanza di esso doverbbe sopprimerle addirittura? Si dice ancora: Nella libertà dell' esperienza la fanciulla può scegliere meglio. Ma torniamo all'argomento di prima, al vero nodo della questione. Esperienza giovevole non vi può essere che a patto di riuscire intera. Dunque bisognerà sbagliare per imparare. Credere, ricredersi e poi tornare da capo… Così ogni donna potrà scrivere nella prefazione della sua vita la frase, certamente molto espressiva, che una celebrità femminile del secondo impero scrisse a capo delle sue memorie: « J' ëtais comme une pièce neuve, luisante et belle, j'ai roulé comme les piéces ». Ecco ciò che si offre alla donna invece delle sue lunghe aspirazioni, delle lagrime segrete, dei raccoglimenti intimi dell'anima, delle prove sopportate eroicamente in silenzio, delle altere ripulse, dei legittimi orgogli, dei santi pudori: circolare, ruzzolare come le monete.

Ebbene, no! Se questa deve essere la donna dell'avvenire, in nome dei miei figli e dei figli dei miei figli, in nome di tutte le donne che io conosco nobili e dignitose, in nome pure delle ignote il cui voto sarà rappresentato appena da un fremito o da un pallore, leggendo questa parole, protesto. Il mondo continuerà per la sua china: non sono una utopista io e non credo che un articolo possa arrestarlo di un passo; ma le parole rimangono, e mi è dolce il pensare che quando i due sessi a furia di atrofizzare la femminilità saranno riusciti a fondersi in uno, — raggiungendo in tal modo lo stato primordiale di certi animali infimi fra cui un solo campione rappresenta il maschio e la femmina insieme, — qualche raro sognatore perduto dietro le visioni del passato potrà esclamare: Eppure vi erano delle donne una volta!

Lasciamo il sarcasmo. Esso sgorga, è vero, dalle profondità più indolorite dell'anima; ma il ragionamento è più persuasivo, e persuadere è il bisogno di una ferma convinzione.

In una novella, oramai dimenticata, di un poeta dimenticato anch'esso, c'è una disgraziata, di quelle appunto che ruzzolarono, ma in cui la nobiltà istintiva del sentimento era sopravvissuta alla perdita di tutto il resto. Tardi si innamora; l'uomo amato è il poeta, ed è lui che raccoglie da quelle labbra avvezze alla bestemmia il grido più puro, più profondamente femminile che sia mai uscito da una bocca di donna: « Oh! potessi tornar vergine un'ora! » Non i baci la soddisfano, non l'amore ricambiato, non il minuto presente e la promessa dell'avvenire; uno solo è il desiderio che la distrugge: tornare in dietro, poter darsi all'amato nella sua purezza intatta di fiore. La donna che non sente questo, l'uomo che non lo comprende, sono indegni di appartenere alla razza che ha portato così alto il culto dell'ideale.

Ragioniamo con maggior calma ancora. L'uomo può riprendersi perchè, a rigor di termine, non si dà; tutto è diverso in questo scambio; il movente, l'azione e le conseguenze; impossibile stabilire un confronto. Sembra veramente che la natura formando la donna si sia ispirata a questo concetto: « Quando chiedo grandi cose non dispenso dai grandi sacrifici. » La sua missione elevata ed essenzialmente educativa le permette una volta sola di darsi interamente con intera nobiltà. La donna superiore che si è data invano, chiude in sè stessa il proprio disinganno, ma lo chiude con fierezza, quasi con un orgoglio di soldato per cui ogni ferita è una promozione di grado; e se giunge l'ora della grande gioia, se un uomo degno di lei la comprende e l'ama, ancor più ella si urta alla fatalilà irreparabile, e difende disperatamente il proprio ideale contro la stessa felicità, ripetendo in cuor suo il grido sublime: Oh! potessi tornar vergine un'ora!

No, ella non può comprendere che provando, ma quando ha provato la sua vita ideale è distrutta. So che si vive anche così felicemente, ed ammetto pure in certi casi onestamente; tuttavia l'ideale è quello. La forza dell'amore sarà la scusa e la giustificazione di certi amori, ma non può essere una ragione per noi.

Io voglio dunque il sacrificio continuo della donna, incominciando dalla fanciulla alla quale nego la libertà concessa ai maschi?… Preferirei non dover concludere a questo modo, ma per esprimere una scelta converrebbe che ci fosse una alternativa: ora l'alternativa non la vedo. Per togliere alla donna i suoi dolori nel modo proposto dagli emancipatori vedo anzitutto la necessità di trasformare la donna attuale in una creatura ipotetica, con un altro fisico, con altri bisogni, con una missione diversa; tutto un lavoro contro natura, forse dannoso, certamente inutile. D'altra parte questa vita d'abnegazione, di sentimenti rinchiusi, di devozioni oscure e pazienti, di desiderii repressi, di sante ignoranze, di fedi luminose, maturano e sviluppano nella donna le virtù che da essa, quale amica e quale madre, irradiano nel mondo e si trasformano, dando vita alle opere migliori del genio dell'uomo. Non c'è veramente di che compiangerla.

Tuttavia, non è possibile far progredire la sua condizione, secondando gli sforzi di coloro che la vorrebbero più libera e più felice? Sì, credo che si potrebbe e più ancora che si deve farlo. Ma non è un lavoro facile, nè pronto, nè direi quasi visibile; è un lavoro da compiersi individualmente, senza comitati e senza programmi. Non piacerà per questo agli spiriti turbolenti per i quali ogni conquista deve necessariamente rappresentare una scarica d'artiglieria, cannonate e sangue sparso, con relativi bollettini della guerra; ma sarà l'opera paziente di chi crede che elevando l'anima si migliora la vita.

È vero che circola più spesso l'opinione contraria. Si dice: beati gli ignoranti, gli sciocchi, quelli che non sentono, essi non hanno i dolori che abbiamo noi! Ma questi dolori si provano solamente quando l'elevazione è fatta a metà. Vi è un grado di superiorità morale che rimane inaccessibile alle piccole miserie che affliggono i più. Così dicasi dell'educazione, della virtù, dell'amore, di qualsiasi sentimento umano: la perfezione non sta a mezza via ma in alto. È il caso, quando si è stanchi, di camminare per giungere presto alla meta.

Questo io dico alle donne. Non uscite dalla vostra strada; se vi pare cattiva e faticosa, camminate, camminate ancora.

Le accuse e le violenti diatribe contro la donna non sono cosa nuova; quasi tutti i filosofi antichi da Eschilo a Platone lanciarono il loro motto feroce in proposito. Si può dire che ogni donna sciogliendo « il grembo doloroso » al figlio delle sue viscere dà alla luce un nemico. Non credo difatti che una vita virile trascorra senza avere o poco o molto provato un trasporto di odio verso la donna. Ciò è fatale, ma è anche logico per chi studia a fondo il cuore umano e solo sarebbe da disperarsi se tale odio progredisse a guisa di scala a cui si aggiungono nuovi gradini; ma invece non è così. Ora, come allora, la contumelia si alterna all'osanna, la guerra implacata alla invincibile attrazione, e il Grande Regolatore dell' equilibrio umano vuole che la donna continui a partorire con dolore il suo dolce nemico.

Ma accanto a questa rassegnazione, a questa parte di vittima che contribuisce ad accrescere la superbia maschile, un potere terribile fu concesso alla donna, a lei sola.

Oh! non è il potere di adescare co' suoi vezzi, ve lo dico subito belle signore che già schiudete le labbra a un sorriso di compiacenza, non è il potere d'ispirare dei madrigali, di istupidire un galantuomo o di rovinarlo o di mandarlo all'altro mondo, il che dopo tutto non colpisce se non colui che vuole lasciarsi colpire ed è di mediocre interesse per il moralista. L'arma cui regge la gracile mano femminile e che mi ha sempre profondamente impressionata è quella per cui una regina osò dire a suo marito: « Io posso fare dei re senza di voi e voi non potete farne senza di me. » L'uomo che si è impadronito di tutte le leggi e le ha rivolte al suo miglior profitto deve piegare il capo a questa, poichè la natura ha dato alla donna una missione tale di superiorità che il suo compagno non ne ha alcuna che la sorpassi. Che cos'è la scoperta di un astro, la creazione di un poema, la fondazione di un impero, davanti alla semplice asserzione che solo la donna può fare ad un uomo: Ecco tuo figlio. — ?

Io sono meravigliata come questo punto capitale dei rapporti fra i due sessi non sia che leggermente sfiorato dagli educatori e dai moralisti e trascurato affatto dalla donna.

Si consiglia la donna di restare fedele per pudore, per tema dell'inferno, per l'impegno preso, perchè il mondo vuole così, tutte piccole ragioni che cadono come un castello di carte al primo urto; e non le si dice mai la ragione alta e la vera, quella che rialzando la sua coscienza e la grande responsabilità delle sue azioni potrebbe seriamente impegnare la sua volontà.

In tutte le passioni analizzate da poeti e da romanzieri vediamo la donna lottare col pudore e rimanere vinta, perchè l'amore è appunto il padrone del pudore e una donna onesta crederà di doverlo giustamente sacrificare più all'uomo scelto ed amato che a quello imposto o subito. La vediamo lottare colla paura dell' inferno, ma Francesca non tarda a seguire Paolo nelle fiamme e nell'aere ardente. Il mondo? Esso è ben lieve ostacolo a un forte amore; e il giuramento dato nelle circostanze del matrimonio come si usa da noi, come lo impongono i nostri bisogni e la nostra civiltà, fornisce troppi lati indifesi e deboli all'attacco della più cieca, forse, fra le passioni. Non mi ricordo di avere trovato mai una donna alle prese con un pensiero di questo genere netto e chiaro: la frode, colla prospettiva di rubare a suo marito e a' suoi figli.

Nella fatale discesa dell'amore i freni sopracitati la arrestano un istante. Ella riflette anche talvolta che l'uomo a cui pospone il marito la posporrà un giorno ad un altra, o si arresterà dubbiosa e tremante davanti a quel nero misterioso abisso che la colpa deve scavare in un' anima nobile, o dirà: i miei figli i miei poveri figli: pensando alla somma d'affetto che sta per sottrarre a loro. Sente insomma per istinto che cade irremissibilmente, ma il vero perchè lo ignora; esso le è velato da una quantità d'ostacoli sentimentali, ipocriti ed egoistici fra i quali sommerge o vince senza molta gloria. Se si considera che il pudore, la vita futura e il giudizio del mondo sono tutti argomenti egoistici, quanto è facile intendere che l'egoismo supremo, l'amore, ha buon giuoco contro di essi! La donna che manca ai suoi doveri è persuasa di danneggiare solamente sè stessa, e in certi temperamenti appassionati l'ardore del sacrificio e dell'annientamento va fino ad affrontare con gioia il disprezzo in questa vita e il castigo nell' altra. Abbiamo dunque il coraggio di parlare francamente alla donna, anche se gli uomini devono rimetterci un po' del loro orgoglio. Mostriamole che al di sopra di sè stessa c'è l'umanità, e che quando credendo di disporre di un bene suo introduce uno straniero nel posto inviolabile dei figli di suo marito, essa non è più con perifrasi poetica la sventurata che cede all' amore, è una ladra domestica nè più nè meno.

L'uomo che uscendo dalla barbarie ha concesso alla donna quasi tutti i diritti di cui gode egli stesso, ed i pochi rimasti sta ancora per concedere, non le concederà mai questo, mai! In qualunque grado di civiltà sarà sempre colpa per la donna ciò che per l'uomo è semplice diletto.

Ma ditelo alla donna almeno che questa apparente ingiustizia è la prova che l'uomo le chiede della sua grandezza: è l'atto reverente dove il suo orgoglio si piega e mormora: Ho bisogno di te!

Non voglio già dire che il progresso della coscienza femminile, questa ragione altruistica aggiunta al rispetto di sè stessa e meglio ancora considerata a parte quale argomento supremo ma certo non intangibile all' amore, condurrebbe la donna alla sicura perfezione e la società alla virtù incondizionata: pure ripetendo continuamente ad una creatura: « Sei debole, sei fragile, sei fatta per cadere, » non è il mezzo più atto a migliorarla; ed è anche vergognoso per la donna che si continui a trattarla come i bambini, ai quali si proibisce di andare nel tal posto perchè c'è il babau, di fare una data cosa perchè il diavolo se li porterebbe via, col risultato identico nella donna e nel bambino, che cioè quando è sfatata la paura dell'ignoto, quando nell'ostacolo messo avanti riconoscono l'ipocrisia, come si fa più a tenerli?

Gli ebrei che lapidavano l'adultera, i mussulmani che a prevenire l' adulterio rinchiudono le lorofemmine nei serragli sono barbari, ma hannoun alto scopo per loro giustificazione. Noi che ci dichiariamo civili ci troviamo invece, sotto un certo rapporto, a un livello più basso, non avendo più il coraggio violento della tirannide e non possedendo ancora quello di una coscienza superiore.

Vorrei che la donna pensasse seriamente di quale importante mandato ella è custode, di quale religione è la vestale sacra. La storia delle generazioni riposa su di lei; l' aristocrazia non potrebbe esistere senza la fede nella donna; la sicurezza delle dinastie è il segreto di tutte le donne che hanno regnato; la scienza frugando nelle trasmissioni atavistiche è sviata dalla donna; l'eredità, questo diritto di ogni uomo, eredità di nome, di fama. di ricchezza, è in mano della donna. Non è vero che la donna sia un grazioso animaletto messo al mondo per il piacere del sesso forte. Essa è l'arca santa di tutte le sue fedi e quando il culto viene mancando se ne vendica in un modo così ampio e terribile che a suo confronto non sono più nulla e violenze ed i soprusi usati dall'uomo su di lei.

Non dunque perchè ella è debole ma perchè è forte, perchè la sua potenza è quella che maggiormente e diffusamente influisce sul mondo, perchè è collocata in alto, alta deve conservarsi; perchè molto può, molto deve.

Non si apprezza abbastanza la virtù femminile; non si apprezza, strano a dirsi, dai più interessati ad averla, che sono gli uomini. Si trova una grande idealità, un grande soggetto artistico nella traviata. Nekrassof apostrofa una donna sul canto della via: « Sei stata uccisa dalla miseria? Ove sei? Chi ti protegge? » e la compassione del poeta russo trova un'eco in tutti i cuori; altri poeti minori si associano, seguono i prosatori, si erige alla femmina venduta il monumento imperituro della letteratura di un secolo; e per la donna pura non si hanno che queste fredde parole: Ha fatto il suo dovere. Quasi fosse sempre facile fare il suo dovere e lo facessero coloro che ne parlano con tanta disinvoltura.

So che, ingenuamente o no, si dà tutta la colpa della massima abbiezione femminile alla miseria. Ma migliaia di donne stentano nella miseria, pur rimanendo oneste e vorrei conoscere i nomi di tutte per stamparli sopra colonne di bronzo davanti alle case infami. E se trovate, per compatire quelle, che è tanto difficile resistere alla seduzione, chè non vi sgorgano fiumi di eloquenza per ammirare e glorificare le altre!

Questo deviare della pietà verso le sorgenti più impure non è pur troppo un fatto isolato. Esso si collega, come certe piccole suppurazioni parziali, a un generale avvelenamento dell'organismo.

Vediamo tra gli uomini uno dei migliori, degli onesti: Egli è nato da un' ottima madre, ha in casa delle sorelle che sono angeli di abnegazione continua, martiri della loro giovinezza sepolta, della loro beltà appassita, delle loro aspirazioni deluse. Egli ha intorno a sè tutta una corona di donne caste e sacrificate, ligie a una tradizione di onestà che pagano con torture di tutti i giorni, colla vita intera sciupata, sconosciuia, derisa; eppure egli va a cercare fra le donne perdute un fantastico ideale di donna onesta. Ha vicino a lui, sotto i suoi occhi, accanto al suo cuore la donna pura, vittima della società, e non si sogna nemmeno di compiangerla; potrebbe riscattare dal celibato forzoso una delle tante vergini che vi muoiono in un martirio occulto — no — egli trova bella, nobile, poetica la riabilitazione della donna pubblica. Una curiosità malsana lo spinge a frugare nelle immondizie per cercarvi la perla caduta, e intanto lascia che si sfili e si disperda tutta la collana… Corre dietro a un sogno che sotto larva di umanità serba il sapore di peccato, ed è questo in fondo che lo alletta. Incapace di gustare la purezza dell' acqua di fonte, vuol bere acqua sì, ma la versa in un bicchiere dove c'è stata prima dell'acquavite. Infine, confessiamolo francamente, se la leggerezza della donna la trascina alla colpa, la leggerezza dell'uomo ve la mantiene e la moltiplica.

Non c'è dunque nessuna ragione di farsi dei rimproveri vicendevoli, bensi una ragione alta e potente di unire le nostre forze verso quella elevazione della coscienza femminile che se tornerà a decoro della donna sarà ben maggiore garanzia degli interessi e della dignità dell'uomo.

Ho letto un brillante articolo sul tema dato da Gesù: « Quegli che guarda una donna pensando di peccare ha già peccato con lei. »

L'articolista al pari di Tolstoï che sostenne l'assunto fino all'impossibile nella Sonata a Kreutzer, vorrebbe punito il peccato spirituale tanto quanto il peccato corporale e sembra lagnarsi che la legge non vi arrivi.

Ecco, mi pare che tutto ciò non sia abbastanza chiaro e che nella interpretrazione un po' troppo alla lettera delle parole di Gesù si confondano i diritti intimi della coscienza umana, di cui dobbiamo render conto solamente a Dio, colle leggi stabilite dagli uomini. Il solo Ente creatore dell'anima nostra può misurare sino a qual punto il nostro pensiero è colpevole ed in quali proporzioni la repressione sia una virtù.

Intanto io mi domando dove incomincia il desiderio. Quando, passeggiando in un giardino l'occhio è colpito dalla bellezza di un fiore, in quel trasporto di ammirazione che ci trascina verso di esso c' è bene istintivamente il desiderio. Noi siamo dunque già ladri?…

Non in tutti si presenta il pensiero netto di peccare; esso è spesso latente, involontario, mascherato da sensazioni sottili, indistinte, semplici aspirazioni. Nella donna per esempio. Non so immaginarmi una donna riguardante un uomo con quella determinata intenzione; o se me la immagino è sòlamente scendendo sotto al livello delle donne a cui si riferisce il presente argomento.

È certo che il desiderio si agita molte volte, inconsapevole, sin dal primo innocentissimo sguardo; ma è peccato allora? E il fremito che attraversa il cuore come una lama al vedere improvvisamente una persona, meno ancora, all'udirne pronunciare il nome, è peccato? Ma come si fa a prevenire questo peccato? Per guardarsene bisogna sapere che lo si può commettere, e se lo si sa, vuol dire che è già stato commesso.

Il desiderio è in fondo a tutte le forme dell'ammirazione; non è colpa nostra se nell' imperfetto organismo umano (imperfetto, e perchè?) i fili conduttori dell'altissimo e del bassissimo si incrociano spesso. Il desiderio scatta dall'impressione e l'impressione non è mai volontaria. Se abbiamo freddo una vampata di calore ci attira, se abbiamo caldo è la frescura che ci produce la stessa impressione; quello che si chiede alla nostra ragione è di non abbruciarci accanto al fuoco e di non rimanere fra le correnti d'aria. Uno scrittore oramai dimenticato a torto, Lorenzo Sterne, diceva: « E di che cosa dobbiamo rendere conto al Padre degli Spiriti se non del modo col quale regoliamo le nostre passioni?..,

O dobbiamo invece dividere gli uomini in due categorie: quelli che non hanno desideri (i virtuosi) e quelli che avendoli li combattono (i colpevoli). Ma chi di noi vorrà persuadersi che la perfezione consista nella negazione? Non è la perfezione una scala ascendente che dagli umili istinti, comuni a tutti gli animali, ci eleva con sapiente graduatoria alla conquista della coscienza la più intellettuale? Come useremmo le nostre armi se non ci fosse nulla da combattere? Come si arriverebbe se non si partisse? Come, se l'assenza del desiderio rendendo inutile la lotta, si salirebbe secondo il divino motto dell'Evangelista: de claritate in claritatem?

Si capisce l' uccisione del desiderio nell'ideale del chiostro; e il chiostro coi suoi muri impenetrabili, coi graticci, coi veli, coll'isolamento, colla morificazione della carne è lì per dimostrarci la necessità di tutte queste condizioni onde eliminare l'impulso così naturale del desiderio. Ma nel mondo, nella vita reale e palpitante, è un vero uomo colui che non ha mai desiderato? Non è già stata fatta la divisione fra la chiesa pregante e la chiesa militante? A quella l' aureola della rinuncia, a questa la gloria del com battimento. Quando noi moriamo delle nostre ferite nessuno ha il diritto di chiederci di più, mi pare.

La questione psicologica è quasi sempre posta dai romanzieri nello stesso caso in cui la pose il nostro articolista: il marito vecchio di una donna giovane. Eppure questa non è che una milionesima fra le combinazioni. Mi piace anzitutto ristabilire l' equilibrio che fa sempre pesare la parte di vittima sul marito; anche le mogli sono vittime, talvolta, direi in proporzioni eguali. Se succede di desiderare alla moglie non è detto che non succeda al marito; succede in matrimoni bene assort ti, felici, fedeli… perchè venti o trent'anni sono lunghi, e il fiore sbocciato nell'orto del vicino può sempre far esclamare ad uno dei coniugi: — Come è bello!

Io mi domando ancora: il desiderio astratto è esso pure colpevole? Poche sono le persone la cui vita intellettuale e sentimentale si trovi così bene riempita da non lasciare nessun vuoto. E allora, quando il vuoto esiste, è in una sera tepida d maggio davanti alla celestiale trasparenza del cielo che fa supporre altri mondi più puri, è nella grigia eloquenza dei mattini autunnali, nella suggestione degli alberi che si sfrondano, nel volo di un uccello che passa ratto sul nostro capo: è nell' aria, nella luce, nell'infinito, nell'invisibile, nell'inafferrabile, che sorge acuto e sottile il più terribile di tutti i desiderii, il desiderio senza oggetto. così immateriale che l'anima la più pura non ne resta turbata; ma è già una protesta, è un lamento, è una infedeltà, dunque una colpa.

Notiamo anche questo, Non tutti gli esseri sono dotati di una eguale forza progressiva, per cui avviene che, al momento dell'unione, fra quello che è arrivato e l'altro che si trova in formazione non esista dissonanza visibile e all'infuori dei bassi calcoli che si sogliono attribuire ai matrimoni, quei due si uniscano in perfetta buona fede d' amore. Poi, uno resta quello che era, l' altro continua a migliorare. È impossibile che in tale stato di cose chi dei due si trova in alto non senta l' orribile tristezza dell'abisso, e incontrando un essere simile a sè non desideri che il suo compagno gli somigli. Niente altro. Ma evidentemente è ancora un peccato.

Ebbene, no; il sentimento e la morale vi si ribellano del pari. Si ribellano, intendiamoci, ad una fredda interpretazione del motto di Gesù per il quale, come per quasi tutti quelli che abbiamo di lui, l'apostolo ci avverte « la lettera uccide e lo spirito vivifica. »

Adoperiamoci a frenare i nostri desiderii e sia pure coll' ideale di sopprimerli affatto, ma questo ideale non può essere dissimile dalle frazioni infinitesimali dell' atomo che in matematica vanno a perdersi nell' infinito.

Ripetere poi con insistenza all' uomo che è una fisima quella di resistere all'istinto, non parmi ufficio educatore. È bene che ci avvezziamo a calcolare, almeno un poco, sulla nostra volontà. Che direbbero tanti martiri di eroismi ignorati, di rinuncie compiute fra i desiderii più ardenti, all'udire che la loro sublime resistenza è affatto inutile e che macerandosi colle torture del sacrificio peccano nè più nè meno di chi si abbandona allegramente al piacere? Una conclusione si presenta inesorabilmente logica, ed è questa: Poichè i nostri sforzi di virtù sono dichiarati peccato, pecchiamo davvero, sarà un tanto di guadagno.

A proposito di una commedia di Giuseppe Giacosa

Dopo tanto prevalere della materia eccoci giunti, come del resto succede sempre, a un bisogno di spiritualità che pone sulla bocca di tutti la parola anima; e i libri recenti escono con questa parola scritta in fronte e le opere future si vanno maturando sotto la medesima ispirazione. È questa una parola che ognuno capisce, anche se non vibra in ognuno la cosa; si dice anima come si dice cuore, per intendersi così a un dispresso.

Ma anche questo significato largo e direi popolare non accontenta tutti a quanto vedo. Si domanda: che cosa è l'anima? entrando così in una questione metafisica, una di quelle questioni dove i filosofi ci si divertono mezzo mondo, ma che non sempre levano un ragno dal buco. Non saper nulla di quest'anima, di questo spirito, lo sfuggire come numero alla nostra conoscenza non è proprio dire che non esista, e se gli scienziati non l'hanno ancora pesata e catalogata è che per fortuna c'è qualche cosa che sfugge alle loro unghie grifagne.

Questo lo dico ridendo, si capisce, e solamente per quel po' di ruggine che le… (mettiamo anime fino a nuovo avviso) dei poeti e degli artisti hanno per i loro rivali nel diritto di sviscerare la compagine umana; ruggine di fratelli siamesi attaccati allo stesso giogo, lavoranti al medesimo scopo, necessitati dal supremo bisogno della verità, per cui l' uno dice continuamente: « Fai male » e l'altro « È colpa tua. »

Io non farò dunque una questione di parole con persone che mi metterebbero subito nel sacco. Mi limito a domandare con tutta la modestia che si conviene al mio sesso e conseguente ignoranza: La vibrazione nervosa la ammettete nevvero? Ammettete che il vedere è diverso dal toccare, il pensare dal fare, il sentire dal volere, o no?

In tal caso non saprei spiegarmi come noi tutti abbiamo provato qualche volta nella vita il desiderio di regalare un potentissimo schiaffo, desiderio momentaneo, improvviso, semplice vibrazione nervosa, e con tutto ciò non lo abbiamo regalato; bisognerebbe domandare alle persone interessate, se i due fatti sono proprio la stessa cosa.

La Chiesa che ha detto « pensare di peccare è eguale a peccare » ebbe di mira certamente il precetto educativo, che per ottenere poco occorre seminare molto; non ha cancellato tuttavia la differenza da essa medesima stabilita fra i peccati d'opere e quelli di pensiero; anzi riconosce che l'istinto del peccato è naturale all' uomo e solo suo obbligo è di resistervi. Davide è colpevole di aver cercato Betsabea dopo averla vista nel bagno, non già per averla vista — doveva forse cavarsi gli occhi?

Ma poichè le presenti osservazioni ebbero origine dalla commedia di Giacosa: I diritti dell' anima o a meglio esprimermi dalle confutazioni che se ne fecero, io che non vidi la commedia ma che ne conosco l'argomento, dichiaro subito di schierarmi con Giacosa per i diritti dell'anima, sia questa un parologismo della ragione pura o altro.

Veniamo al fatto. Può darsi che gli uomini si ribellino all'idea che una moglie pur fedele e sottomessa, pure ottima compagna, abbia nel suo interno pensieri o aspirazioni o simpatie o moti inconsulti, o desideri latenti o sogni inconsci, tutta quella vita dell'anima sulla quale il marito non può accampare diritti. E si capisce bene che il desiderio di un marito sia quello di possedere intera la donna sua, è anche questo un suo diritto ideale, non lo contrasto; ma appunto perchè si tratta di cose che non si vedono e non si toccano, che non hanno corpo, che non esistono nel significato normale, riesce impossibile stabilire il diritto. Il proprietario di un campo lo può difendere dagli uomini e dalle fiere, non dagli uccelli che volano al di sopra di esso, e tuttavia gli uccelli si vedono e si possono toccare. Ma il Governo, per esempio, questo feroce marito a cui la legge ci avvince anima e corpo, che tassa tutto quello che abbiamo, i prodotti delle nostre terre come quelli del nostro ingegno, può tassare l'ingegno stesso? L'obbligo, il diritto, la tassa, non cade che sul lavoro compiuto. Cento scribacchini inconcludenti devono pagare all'erario il loro tributo, e un Dante che pensasse un poema all'anno ma che non lo scrivesse non paga tassa alcuna.

Questi diritti dell'anima dunque non esistono sensibilmente, ma esistono meno per questo? Chi di noi non li sente? Chi non vi si rifugia come in un asilo intangibile? Attaccare il pensiero mi pare un sacrilegio; esso è ciò che noi abbiamo di più alto, dobbiamo difenderlo a costo della nostra vita.

I mariti dicono: « Non si può scindere il corpo dall'anima e credete che noi possiamo accontentarci del corpo di una moglie che non ci appartiene nell'anima? » Ecco dunque, in un certo modo confermata l'esistenza dell'anima; ma essi la confermano ancora meglio in quelle circostanze delicate ed oscure di cui si scusano con questa frase sacramentale « Credi, mia cara, fu semplicemente un trasporto fisico, l'anima non c'è entrata per nulla. » Oh! allora trovano che si può scindere il corpo dall'anima!

In conclusione mi pare così. Che l'anima esista o non esista filosoficamente poco importa. C'è nel fatto quotidiano questo sdoppiamento di noi stessi per cui spesso operiamo diversamente di come sentiamo? C'è. In tal caso ricordiamoci la conclusione di Goëthe: Natura, amore, mistero, vita, Dio, che importa il nome? Se con questo nome di anima ci intendiamo, basta. Non è il nostro mestiere di impagliare la luna

Resta ancora da dire qualche cosa sul diritto dei mariti. L'argomento non è nuovo per me, vi ho già accennato sotto il titolo Ad litteram? dove credo di avere dimostrato l'inafferrabilità della colpa astratta e dove chiamai diritti della coscienza ciò appunto che Giacosa chiama oggi diritti dell'anima. Non voglio ripetermi. Tuttavia è così insistente la ricerca dell'uomo a volere la donna perfetta, che non posso fare a meno dal richiedermi ancora una volta se non si pretende un po' troppo da lei.

L'uomo si ammoglia in condizioni di assoluto vantaggio sulla donna. E maggiore di età, è libero, è forte, conosce la vita, sa. Con tutto ciò, quanti uomini sbagliano nella scelta! quanti onesti si trovano legati ad una civetta, quanti intelligenti ad una sciocca, quanti cuori di poeta a fredde e stolide puppattole di carne. Si sono sbagliati, si sono ingannati, essi!

E non deve sbagliarsi e non deve ingannarsi più facilmente ancora la fanciulla, giovane, inesperta, ignara non che della vita, di sè stessa; la fanciulla che può essere un prodigio di intelligenza ma che non sa, la fanciulla ancora tutta chiusa, inceppata dalla sua innocenza, dalla sua educazione, dalle sue illusioni, dalle pressioni della famiglia, della società, della natura stessa; la fanciulla che si dà per sempre senza sapere che cosa voglia dire darsi, e ignorando più ancora l'insussistenza del sempre in un mondo dove tutto cambia, dove noi stessi ci veniamo mutando di giorno in giorno, dove lei principalmente subirà la più grande delle metamorfosi, quella che trasforma la fanciulla in donna, e che solo allora la rende responsabile, quando cioè il suo destino è irreparabilmente deciso?

È qui che incominciano i diritti della coscienza o dell'anima come si voglia dire. Pretendete che la donna sia sorda e cieca proprio nel momento in cui le sono levate le bende dagli occhi ed i sordini? Ma se è allora che vede, ma se è allora che giudica, ma se è allora che sa! Tocca all'uomo — lui che può farlo mercè la sua esperienza, mercè la sua forza e la sua libertà — a scegliere una donna della quale comprenda l'anima: tocca a lui, poichè si è assunto questo sacro deposito di una vita, assorbirla e compenetrarla colla propria fino a formare una vita sola.

Lo so, vi sono mogli che risparmiano al marito questa fatica, che vedono nel marito la posizione assicurata, il letto caldo, la tavola fornita, pagato il fitto e i conti della sarta e si accontentano e non vanno più in là. Sono terra a terra e sembrano ideali, la materia le domina e le soddisfa e le chiamano virtuose: che importa a loro del pensiero, dell'anima del marito, esse che sono sprovviste e dell'uno e dell'altra?

Ecco il tipo di donna che non darà mai al suo compagno i gratta-capi della ricerca psicologica ed è un tipo così abbondante, così comune, che ogni uomo amante della sua quiete può trovarlo colla massima facilità.

Ma davanti alla vera donna, a colei che non si crede congiunta se tutto non è congiunto, come potrete sottrarvi alla libertà del giudizio? come potrete accusarla del vostro stesso inganno? Se si è sbagliata, avete sbagliato anche voi. La fatalità del giogo coniugale pesa su entrambi; la donna che sa rispettarlo, sopportarlo, renderlo dolce colla sua fermezza, non fa già molto, non fa tutto quello che umanamente le si può chiedere? Non si è mai osservato che le creature elette sono maggiormente esposte alla tentazione, che la pienezza stessa del loro prisma sensorio e riflessivo accumula su di esse tutti gli attacchi? Da quando in qua lottare è diventato sinonimo di colpa?

Immaginiamola un po' questa donna, (prendiamo l'esempio offerto da Giacosa). Ella non cerca l'amore, ma si sa, l'amore non aspetta che gli si facciano delle avances. Arriva, piomba, ferisce il grande iddio! Esserne o non esserne colpiti non sta nel potere umano; si possono sfuggire le occasioni, è quello che fanno i mariti saggi e le mogli prudenti, tuttavia non basta sempre. Solo le mura del chiostro proteggono, esse che chiudono ad un punto occhi ed orecchi — e ancora!

La donna onesta respinge subito l'attacco; ma potrebbe respingerlo se non lo avesse nè visto ne sentito? Scaccia subito l'immagine peccaminosa, ma come la scaccerebbe se non fosse venuta? Combatte e resiste, ma che cosa combatterebbe ed a chi resisterebbe se neppur l'ombra di un dubbio, di un pensiero, d'una esitazione, di un terrore, di una vertigine non avesse balenato, sia pure un solo istante, nel suo cervello? — Ed ecco dove la coscienza si rizza potente, autocrata, gelosa del suo pudore e del suo diritto; essa mostra le ferite sanguinanti, le carni peste e battute dalla sua stessa inflessibilità, mostra il segno delle catene da essa imposte, le lacerature dei supplizi da essa inflitti e dice all'uomo: « Ferisci ancora se ne hai il coraggio! »

Ah! sì in tale situazione l'uomo può piangere ma non condannare, se ad una grande miseria non vuole aggiungere una grande ingiustizia.

Pare a me che la questione così posta offra due faccie egualmente degne di osservazione. Da una parte il coniuge che tranquillo e soddisfatto aspira all'unione perfetta delle anime e non trovandola si sente ferito ed offeso; dall'altra l'altro coniuge assalito, combattente e vincitore che si sente a sua volta offeso dalla inutilità della sua vittoria.

È possibile che dare nessun merito al dominio di se stessi sia una ragione etica superiore alla insensibilità? E veramente questa l'ultima conquista di una coscienza elevata? Io me lo domando perplessa col triste dubbio che, anche questa volta l'amor proprio trionfi di un pacato sentimento di giustizia.

Questo bel nome di coscienza, che preferisco nel caso attuale a quello di anima e su cui insisto, m'apre alla mente un orizzonte di libertà e di elevazione al quale vorrei che uomini e donne accorressero spogli della atavistica animosità addensata nei loro cuori per tanti secoli di reciproche disillusioni.

Quando Anna — nella commedia di Giacosa che ha dato origine alla presente discussione — grida a proposito del cugino morto: « Si, l'ho amato e non ho amato che lui! » sprigiona (se il giudizio non mi inganna) il grido di rivolta di una coscienza brutalizzata, violentata, spinta agli estremi, una coscienza che si dimentica e che si calunnia nella esasperazione del martirio, nella indignazione dell'oltraggio. Forse non era vero che lo amava; forse era vero, ma ella stessa non se l'era mai confessato, con una tenacia di resistenza che il sentimento del dovere infonde alla più debole donna nei momenti del pericolo. Ad ogni modo ella ha ucciso e l'amore e l'amante, carità se ce n'è!

Si sa che lo stato di perfezione è la salute, ma quando giunge la malattia lo stato di perfezione è la cura di essa. Sono due diverse manifestazioni del bene, sono due diversi punti di morale che lungi dal contraddirsi si completano.

Come è dolce e stranamente spirituale il piacere di vivere in una solitudine completa, e da questa specola seguire la corsa vertiginosa del mondo, tutto quel brulichio di folle cieche, di esaltati che le guidano, di scrocconi che ne approfittano, di maniaci, di ambiziosi, di perversi, di illusi, di innocenti pur anco.

Sì, di innocenti. Essi sono in grande maggioranza. Sono tutti coloro che aspirano vagamente ad un innalzamento ideale qualsiasi, e che al primo gradino che lor si para dinanzi intraprendono la salita senza sapere se la scala conduce ad un palazzo, ad un granaio o ad un pallone areostatico. Essi sono in piena buona fede, come dubitarne? Ma ahimè, la buona fede di quanto mal fu matre!

Passarono degli anni parecchi da che io scrissi il mio primo articolo contro il così detto movimento femminile. Ero allora molto giovane e molto più ignara della vita di quanto or sia; eppure tutto lo studio, l'esperienza, l'osservazione, le prove, le riflessioni, le indagini di tanti anni, anzichè smuovere il primo convincimento, lo hanno ribadito così saldo nel mio pensiero che non temo più di proclamarlo e di sostenerlo come uno de' miei più cari ideali.

Se la teoria dell'individualismo per l'uomo mi sembra la migliore, per la donna la ritengo addirittura la sola. Tutte le facoltà della donna, mente e cuore, sono fatte per lo svolgimento individuale. Uscendo dal suo cerchio d'azione sbaglia irremissibilmente; badate che io intendo di limitare questo cerchio nella vastità, non nell' altezza. Dalla stretta cinta della sua casa e de' suoi affetti si levi pure la donna alle più eccelse vette del sentimento e del pensiero. Sia l'allodola che spicca il volo altissimo e sereno e ispiratore di miti sensi, non la leonessa o la lupa che vanno a pugnare coi maschi sulle aride sabbie.

Si sa che gli uomini grandi di tutto il mondo sono stati dal più al meno accarezzati o guidati o innalzati o precipitati da due piccole mani di donna; ma due alla volta, ricordiamolo! Una donna può fare delle sublimi e delle potenti cose, un comitato di donne no, perchè l'uomo subirà l'ascendente di una donna, non di cinquanta, nè di cento, nè di cinquemila. La forza della donna è in ragione inversa di quella dei popoli. Ha bisogno di essere sola per giungere dove vuole.

Questo fatto, che nessun psicologo saprebbe negare, ha le sue radici in tutto il temperamento femminino, in quel complesso di timidità e di astuzia, di finezza e di perseveranza, di istintiva ritrosia e di inconscia seduzione, e nelle prodigiose facoltà di assimilazione e di trasformismo e nella pieghevolezza del suo spirito e — perchè negarlo? — nella misteriosa attrattiva del sesso, che irreggimentato a squadre, a battaglioni, otterrà ancora i trionfi volgari delle figuranti da operette, ma non potrà più agire nell'aere sottile e penetrante del vero allacciamento degli esseri, dove fioriscono i più grandi trionfi della donna.

Pensate a Beatrice, a Laura, alla Fornarina, che nella delicata aureola di adorazione di cui le circonfusero l'amore di un genio, quantunque nulla per sè stesse abbiano lasciato nè in opere nè in scritti, si affacciano alla nostra immagininazione quali sublimi creature; ma pensate di grazia un comitato di Beatrici, una associazione di Laure, un Circolo di Fornarine, tutte strette ad un patto, marciare alla conquista del novo verbo: l'infeudamento della donna nelle donne. E muover guerra alla divina estetica della donna creatrice dell'arte e della poesia, dalla donna antica, Rachele che ama Giacobbe e lo aspetta per sette anni e poi per sette ancora, Agar che ottiene da Dio un miracolo per il suo figliuolo Ismaele, la dolce Ruth, la saggia Noemi e Maria e la Maddalena, queste soavi creazioni del nuovo Vangelo! E poi le eroiche romane, le greche intellettuali, che non si chiamarono legioni ma sorgevano quali rari fiori sparsi coi nomi di Aspasia e di Saffo fino al Medio-Evo e al mistico quattrocento e al cinquecento pomposo — e via via senza leggi, senza accademie, senza invadere il terreno e i diritti dell'altro sesso, diffusero la luce della loro superiore individualità donne soavi, eroiche, intelligenti, sublimi, sante, — giungendo fino a quel secolo di vizi raffinati e di raffinata spiritualità che fu il decimottavo, nel quale appunto poche donne elette seppero attirare a sè ciò che vi era di migliore in fatto di intelligenza e di spirito: e solo quando dalla solitaria ispirazione della sua casa o del suo io intimo la donna volle uscire per aggregarsi, per moltiplicarsi, cadde nel ridicolo delle accademie arcadiche e nella vuota affettazione delle Precieuses ridicules.

La donna nasce armata; armi di offesa e di difesa si trovano abbondantemente nelle sue fascie, nella sua culla e crescono e si affilano con lei; guai alla donna che le getta via o le trascura per cingere la corazza virile.

So che i propugnatori del movimento femminile (ora si chiama così: una volta dicevano emancipazione) ripetono convinti: Ma noi vogliamo bene che la donna resti donna! — Nossignori. Voi avrete visto in primavera le belle susine color d' oro o color amaranto, ravvolte in una peluria argentea, dondolare appese al ramo, e su quella peluria che è il loro cinto di Venere rifrangersi irridati i raggi del sole e le goccie di rugiada, evocando immagini di morbidezze virginee, di purità ideali, non e vero? — Eh! ma noi vogliamo bene che restino susine! — esclama l' ortolano strappandole dalla pianta, palleggiandole, costringendole colla sua rozza mano a stare a cento a cento in un paniere e cacciandole poi sulla groppa dell'asino a viaggiare in mezzo al polverio della strada maestra, finchè posano mezzo rancide nella bottega del fruttaiuolo di città.

La peluria delle susine, la delicatezza della donna, ecco signori la questione!

Non se ne accorge subito; il primo urto, la prima lividura passano inavvertiti; ma nessuno mi farà credere che la donna viva in mezzo alla folla, tra i comizi, nelle pubbliche assemblee, nei centri popolari, sulle tribune, nelle bigoncie, in piazza, senza lasciare un po' dappertutto il suo velo argenteo, la sua delicatezza fatta di pietà e di pudore, e quella specie di mistero, di arca chiusa che è fra le sue più potenti seduzioni.

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A proposito di che io oggi, ammalata e triste, davanti alla pioggia che riga silenziosamente come un pianto muto i vetri della mia finestra, mi metto a scrivere? Forse penso al nostro perduto amico. In questa fine d'anno, in cui Egli ci lasciò noi tutti suoi amici, titubanti e dubbiosi davanti all'avvenire che ci sembra ora una derisione? Penso agli ideall che ci avevano riuniti, per i quali speravo da lui tanto fulgore e che tacciono adesso colpiti dallo sbigottimento della morte? E se è questo, se è il suo spirito che mi suggerisce di combattere ancora, ben venga la sognata continuazione, del pensiero d'anima in anima. Egli vivrà ancora, tra noi, noi lo vedremo e lo ascolteremo ancora, noi lavoreremo per i suoi sogni che non sono morti, per l'aristocrazia intellettuale, per la bellezza, per la poesia, per l'arte, per il soffio nobile che corre derisore e sdegnoso al di sopra della folla bruta, per i bisogni spirituali che non sono i bisogni di tutti, per la minoranza infine!

Ahimè! Non sono, come era Lui, sicura della vittoria. Può darsi che questo vecchio mondo saturo di eroi e di bardi precipiti irremissibilmente alla ruina degli ideali elevati, che tutto ciò che fu un tempo fioritura della vita non occorra più a della gente tariffata, numerata e classificata, dalla quale l'individualismo viene bandito per sostituirvi una monotona e piatta eguaglianza, dove è tolto il chiaroscuro dei rilievi, l'addentellato del troppo e del poco, la seduzione estetica delle sfumature, la sorpresa dello scatto, la libertà della lotta. Ma quando verrà il trionfo del brutto e del volgare, si saprà almeno che qualche poeta — questi ultimi veggenti — e qualche donna — queste ultime sacerdotesse del Bello — hanno resistito fino agli estremi!

S' è parlato abbastanza della donna secondo gli antropologi, perchè l'argomento possa ritenersi interessante, e gli scienziati hanno mostrata tanta deferenza verso il pubblico, che è permesso anche a noi di rispondere umilmente.

L' inferiorità della donna che ora si tenta di comprovare con tutti i mezzi, anche col sentimento, non è per sè stessa un argomento nuovo nè molto progressista. La legge di Maometto esclude la donna dai riti religiosi perchè dichiarata senza anima. Gli Indiani, obbligando la moglie ad immolarsi sulla tomba del marito, ma non il marito su quella della moglie, palesano chiaro il concetto di servaggio in cui tengono la donna.

Venne poi il cristianesimo, vennero i pensatori ed i poeti a dichiarare la donna compagna dell'uomo, carne della sua carne, ispiratrice soave e consigliera. Questo assioma è durato per dei secoli; tutte le letterature dei popoli civili vi hanno attinto i loro capolavori; la storia lo ha sottoscritto colle sue pagine di sangue: ed ora pare che si sieno sbagliati, pare che per raggiungere la verità vera convenga risalire ai codici mussulmani ed indostani.

Per parte mia dichiaro che la posa della questione non m'interessa affatto, non essendo di quelle che debbano far progredire la civiltà. nè recare giovamento ad alcuno; ma mi spiace vedere gli argomenti che gli scienziati pongono sotto gli occhi dei profani, e per il grande rispetto a chi sa, e per l'amore della scienza stessa, vorrei fossero di quelli che non fanno una grinza, che limpidi come il sole si impongono e si affermano anche ai ciechi, i quali se non vedono i raggi sentono il calore. Invece come sono questi argomenti?

Si dice che il cervello della donna pesa meno, ma poi si dice anche che tutta la donna pesa meno, per cui si esclude la particolarità del peso del cervello e resta solo un minor peso generale. Ma forse che gli uomini che pesano sessanta o settanta chilogrammi sono ritenuti inferiori a quello che raggiunge il quintale? E le razze orientali, piccole, minute, dalle attaccature fini, dalle gambe sottili come gli abissini e gli arabi; e l'antica intelligente famiglia semitica dalle mani, piedi e capo piccino, saranno inferiori al massiccio tedesco, al nordico della musculatura poderosa, alto, grosso, di un peso infinitamente maggiore? E quello che non si ritiene inferiorità da uomo a uomo, perchè lo sarà da donna a uomo, considerato anche che la natura per la sua legge d'equilibrio aveva bisogno di un genere opposto di bellezza? Infine il cervello di molte bestie non pesa più di quello dell'uomo?

Veramente sarebbe da intaccare il principio nelle sue radici e chiedere come mai si possano considerare sotto due diversi aspetti le due parti di un solo ed intimo tutto; fare una questione di razza dove è solo una questione di sesso. Se questa fosse davvero una questione, la vecchia favola dello stomaco umiliato dai suoi campagni l'avrebbe da un pezzo risolta; ed Erasmo ha pure suffragato una idea consimile osservando che non per opera delle parti umane ritenute le più nobili nasce l' uomo; per cui risulta evidente che la natura non fa di queste distinzioni ed è molto più logica di noi, ritenendo tutto nobile ciò che concorre ad un nobile scopo.

Ma ho già premesso di non voler discutere il principio, uscendo questo dalla mia competenza, molto più di fronte all'autorità di uomini che— lo ammetto subito e volontieri — sono per i loro studi, se non per la loro natura, di tanto a me superiori. Torniamo alle cosidette prove.

Stabilita colla ragione del peso l'inferiorità materiale della donna, uno scienziato pensò di interrogare i dentisti per sapere chi grida più, dell'uomo o della donna; ed avutane in risposta « l'uomo » annuncia che l'uomo è più sensibile.

Bisogna convenire che qui l'osservazione non è molto profonda e la scienza, appagandosi dei gridi dimenticò troppo la psicologia che le avrebbe forse data la chiave dei silenzi.

Non si è pensato che le signore, nel gabinetto del dentista, sotto le mani di quell'operatore quasi sempre giovane, in un contatto così immediato che i respiri si confondono, col salotto vicino dove aspettano le amiche, le rivali, forse un adoratore, hanno mille ragioni per frenare un grido inestetico ed irritante? E se invece della signora nel gabinetto del dentista celebre è la contadina nel cortile del medico condotto, quella contadina ha più che mai soggezione del medico, dei vicini, di sè stessa, poichè l'hanno abituata a dolorare in silenzio, lei che metterà al mondo i figliuoli tra una zappata e l'altra. Per civetteria o per timidezza la donna tace; e poi la donna, colta o no, sa che l'uomo è propenso a trovarle il lato debole, a deriderla, e tra le forme del suo pudore c'è anche questa, di nascondere le sofferenze fisiche. Gli uomini invece, abituati alla completa promiscuità degli altri uomini pareggiati nelle debolezze che si compatiscono a vicenda e spogli del bisogno di piacere (se non nel momento necessario) non hanno nessuna ragione psichica che prema sul naturale istinto di gridare nel momento del dolore.

Un altro scienziato raccoglie dati statistici sufficienti per provare che nelle malattie la donna ha maggior rassegnazione, che si stanca meno, si lagna meno, è meno impaziente — ed eccoti la conclusione: minor sensibilità. Ma mi pare che a questo modo si possano fare esperienze sui conigli, non su esseri nei quali l' intelligenza ha per lo meno altrettante ragioni tra buone e cattive, quante ne ha l'istinto, e che l' educazione, lo studio, i vizi, e le virtù hanno troppo allontanato dalla semplice animalità perchè l'antropologo non si degni di tenere conto.

Non si è mai osservato la speciale paura che hanno gli uomini per le punture degli aghi? Molti di essi preferiscono affrontare le baionette. È dunque per una superiorità di sensazione che l' uomo rifugge dalla puntura dell' ago o non piuttosto in forza dell'abitudine? ed anche perchè meno destro nel maneggiarlo si ferisce più facilmente, laddove la donna che riceve un cofanetto d'aghi fra i suoi doni della cresima si avvezza fin da bambina ad armeggiare con questi piccoli dardi che fa correre ridendo nella stoffa del suo lavoro?

Attirata l'attenzione sulle cause morali che rendono muta la donna nel dolore, non esito a esprimere i miei dubbi sulle prove fatte negli ospedali colla puntura delle iniezioni.

Se fosse vero che l' uomo sente maggiormente il dolore, dovrebbe dall'esperienza di tutte le nostre vite scaturirne luminosa la ragione di fatto. Invece noi vediamo soltanto che lo sopporta meno. E il fanciullo che lo sopporta meno ancora, che grida e piange per una semplice caduta, ha dunque una superiorità che va perdendo in seguito? Non è assai più conforme ad una equa osservazione lo stabilire che la sensibilità al dolore è eguale nei due sessi e che solo ne varia la manifestazione per cause esterne ed accidentali? Nel caso della malattia per esempio, non è vero che l' uomo costretto in un letto o in una poltrona è privato di tutta la sua esistenza d'uomo? gli affari, le corse, l' abitudine del caffe, del giuoco, delle discussioni cogli amici, la vita attiva, e la libertà suo primo bisogno? Un uomo in casa è come un leone in gabbia; ed è ben diversa cosa per la donna. Essa è nel suo regno; vi ha tutte le sue abitudini, i suoi lavori; la noia e l' impazienza aggravano di poco il suo male; ha, tutto sommato, non minore sensibilità ma minore ragione di lagnarsi.

Un' altra prova della insensibilità femminile la si vuol trovare nella resistenza che oppongono agli anni i capelli delle donne. Ma non si sa che le donne hanno una cura della propria chioma molto maggiore a quella che ne ha e che ne può avere il sesso forte? e che la donna lavora meno col cervello? e che infine, questa è pure una osservazione da tenersi in conto, non porta quel duro cappello maschile che segna quasi sempre il contorno preciso della calvizie?

Non è stato anche addotto contro la donna l' uso di far assaggiare agli uomini i vini e gli oli, come prova dalla inferioritè femminile perfino nel palato? E nessuno pensò che nei grandi depositi di olii e di vini dove le donne non ci hanno a fare sarebbe occorso nelle donne una dose maggiore di gusto perchè si avesse proprio da ricorrere a loro? E ciò senza tener conto che una grande maggioranza di donne o per disturbi isterici o per le crisi della gravidanza o per altre naturali ricorrenze non potrebbero prestare all'ufficio impassibile di macchina da assaggio un palato già anche troppo esposto ad alternative di nausea — un palato troppo sensibile.

Ma più sorprendente ancora è l'affermazione che la donna manca di pudore citando per esempio le nutrici che espongono il seno. Diciamo intanto che per stabilire un paragone bisogna che esistano i termini di confronto e non si sa ancora che cosa farebbero gli uomini nel caso delle nutrici, mentre sappiamo benissimo che cosa fanno tutti i giorni in circostanze molto meno elevate. Lo stesso dicasi per gli abiti scollati che gli uomini non mancherebbero di adottare, se questo potesse tornare in loro vantaggio; basta dare un'occhiata a certi costumi maschili del Medio Evo per convincersi che quando la moda consigliò o impose, il pudore non ha menomamente arrestato gli uomini.

E un'altra osservazione si potrebbe fare. Come mai seguendo un identico processo si mettono al mondo alternativamente maschi e femmine, cioè esseri superiori ed esseri inferiori?…

Sono un po' confusa e meravigliata per l'ardire che ebbi di discutere così alcuni verdetti della scienza che mi parvero per lo meno avventati. Mi si assicura che furono trovati argomenti migliori per sorreggerli, ma allora perchè si adoperano quelli scadenti? Se vi è qualcuno che deve sempre essere sicuro delle proprie argomentazioni è precisamente lo scienziato. Ai romanzieri, ai poeti, un così detto á coté della verità è permesso — ad essi no — e se insieme a ragionamenti buoni mettono anche quelli che zoppicano, restano questi come sono e perdono gli altri del loro prestigio.

Noi abbiamo bisogno di credere che lo scienziato non scherza colle idee e non tresca colle parole.

Concludiamo coll'argomento dal quale ho incominciato. La nuova teoria che il lamento e il grido sono prova di sensibilità, è di un materialismo troppo rudimentale perchè chi conosce ed apprezza le forze dell'anima non si faccia un dovere di mostrarne la poca consistenza. A tale stregua si dovrebbero rinnegare tutti gli eroi, tutti i martiri, tutti coloro che salirono il rogo cantando le lodi di Dio, coloro che non diedero un lamento fra le torture dell'Inquisizione, nelle segrete di Stato, sul patibolo e sotto la forca; Savonarola che prega in mezzo alle fiamme, Maroncelli che nelle carceri di Spilberg si fa tagliare una gamba fiutando una rosa; ma tutti, tutti coloro che nel nome santo dell'ideale, Dio o patria, scienza o amore seppero elevarsi al disopra del dolore umano e dominarlo. Forse che la sozza Dubarry urlando davanti alla mannaia era superiore alla Rolland e alla Lamballe che caddero mute? E dovremo credere che nel silenzio di tutti gli uomini grandi davanti alla morte si chiuda minore sensibilità che non nel grido gettato da un individuo qualunque all'atto di farsi strappare un dente?

Vedete bene che la questione della sensibilità si allarga ed assurge in un campo dove non esistono misure di peso, dove l'umanità ha intestate le sue pagine più luminose con nomi che appartenendo a entrambi i sessi affermano nelle due diverse attudini del maschio e della femmina l'unica, indivisibile e meravigliosa facoltà di progressione che caratterizza l'ente uomo.

Ho pensato molte volte a questa interrogazione che, ora più che mai, sale dalla coscienza dei giovani e move battagliera verso tutto un nucleo di consuetudini, di usi, di pregiudizi ammucchiati intorno al matrimonio e fatti bersaglio alla puntura ironica del filosofo e al taglio spietato del moralista.

Recentemente ancora, sfogliando alcuni appunti trovai le più energiche esortazioni al matrimonio d' amore e anatemi e fulmini per il matrimonio di convenienza — sulla quale cosa, non c'è neanche bisogno di dirlo, siamo tutti d'accordo. L'idealità è questa. Tuttavia si presume troppo dell' efficacia dell' amore come cardine e sicurezza nella unione matrimoniale.

L'amore è anzitutto un istinto della natura, libero, mobile, fugace. Non si sa come nasce, non si sa quando morrà. Nessuna forza morale può svilupparlo, appena qualche volta lo frena. Il matrimonio invece è una istituzione sociale; fra esso e l'amore esistono i rapporti che corrono fra l'uccelletto e la gabbia; noi possiamo bensì asseverare che una gabbia spopolata è un'inutile cosa, ma sarebbe da parte nostra un po' di leggerezza se volessimo garantire al trepido cardellino posto fra quattro pareti di vimini che esso vi si troverà a meraviglia.

Certo è bello che i giovani abbiano a sentire così. E' bello vedere una coppia fiduciosa e serena che move dai vent'anni incontro alla vita, verso l'avvenire, tenendosi per mano. Non fanno così tutti i giovani viaggiatori? Non partono forse in un mattino roseo, bagaglio a tracolla e dieci so'di in tasca? Il mondo è per loro in quel mattino, spunta per essi il sole, per essi volano le farfalle e odorano le rose. Chi pensa alla fatica, agli ostacoli, agli inciampi del sentiero? Il desiderio li spinge, il desiderio li porta, il desiderio è tutta la loro salvezza.

Dicono i miei giovani amici: Quando l'amore è grande e vero, non cessa nè per ostacoli nè per inciampi. Io glie lo voglio concedere. Ma qual'è l'amore che non si creda grande e vero, anzi l'unico grande e l'unico vero? E qual'è mai l'oggetto amato che non appaia in quella sublime trasfigurazione creato appositamente per noi, la nostra anima gemella, il solo perchè della nostra esistenza? E' questo l'effetto più immediato dell'amore, per cui venne chiamato cieco, con un battesimo che l'esperienza di tre civiltà ha pienamente confermato. Che se anche fosse possibile una scelta veggente, ciò non potrebbe succedere che più tardi, in seguito a parecchi esperimenti, non nell'età in cui ogni uomo accanto ad una donna è come uno zolfanello in un pagliaio.

Un poeta ha descritto con molta delicatezza questo stato speciale delle creature in bocciolo

Tu sai come la mente in quel soave
vaneggiar primo, le terrene cose
del suo dolce color tutte dipinge
e come l'alma che ad amare è presta
una gentile immagine si crea,
beltà, virtude, amor tutta spirante;
io giovin pellegrino il santo oggetto
cercavo in terra e sospirando a lui
m'era fuggito il ventunesim'anno!

Qual meraviglia che in tale condizione una fanciulla angelicata da un abito bianco, da un contegno modesto e da due begli occhi, appaia al sospiroso pellegrino come la fata de' suoi sogni?… Ah! se c'è una cosa contro la quale mi ribello sempre è quando si dice di un matrimonio male assortito: dovevano riflettere prima, dovevano conoscersi prima. Questo si riferisce sopratutto ai matrimoni d'amore, ma non vedete la bestemmia? riflettere, conoscere quando si ama, quando cioè si è fuori d'ogni possibile ragionamento, quando non è permesso conoscere, quando secondo la bella espressione del poeta noi dipingiamo il mondo coi nostri colori ed alla prima o seconda o terza animuccia che il destino ci pone accanto, prestiamo tutto il nostro slancio, tutte le nostre visioni, tutte le nostre illusioni? Perchè è precisamente così che fanno i giovani; ciascuno di essi è Prometeo, animala statua, fa guizzare la larva, trae dal proprio cuore l'amore e ne foggia un essere a sua immagine e somiglianza. L'amore non è mai stato altro che ciò. Tutto il resto è mera combinazione.

Più difficile ancora che per l'uomo la scelta giudiziosa è per la fanciulla, poichè grandi e belle cose avrà imparate a scuola e in famiglia, ma non certamente la conoscenza degli uomini, conoscenza che io nego possa venir mai concessa alla donna se non dopo il matrimonio. Occorre uno sguardo profondamente indagatore, larga esperienza e pratica della vita per poter argomentare con sicurezza che cosa saranno a quaranta, a cinquant' anni, un uomo od una donna di venti. Tutto si cambia, si altera, si sposta per legge di natura. L'elegante sveltezza che ci ha rapiti diventa col tempo obesità, il carattere allegro si fa cupo e malinconico, ciò che sembrava spirito non era che il gaz spumante della giovinezza, fuggevole come quella, era la grazia, il semplice desiderio di piacere; la cultura un piccolo bagaglio chiuso e suggellato dove non c'è più posto, e il sentimento un alberello promettente che si secca a mezza strada.

Si vedono cose meravigliose nella differenza degli uomini che molti si ostinano a chiamare eguali. Vi è una bellezza che è come la peluria dei frutti, biancheggia un giorno e muore, ed una ve n'è che attraversa gli anni e i dolori accrescendosi quasi di una forza occulta e vittoriosa che fa esclamare: Eterno giovane! L'evoluzione morale è anche più frequente. Qualcuno è assolutamente privo della facoltà di progredire ed a vent'anni sembra intelligente e garbato giovane colui che restando immobile troveremo più tardi un uomo inetto, mentre certi esseri privilegiati camminano in una ascesa continua verso la perfettibilità.

Scortati da queste considerazioni possiamo dare ancora un gran peso all'amore come garanzia di felicità perpetua? Mi pare di no. Elementi ben più difficili occorrono a sostenere la grave responsabilità del matrimonio; e di qui l'intromissione dei parenti, di qui il calcolo finanziario che non è sempre qual si dice gretto ed egoistico, ma cardine fondamentale per gettare le basi di una famiglia. E non è nemmeno questa, mi affretto a dirlo, la cosa indispensabile. La cosa indispensabile è la serietà dei propositi e degli intenti. L'amore dice all'uomo: inebbriati! E sta bene. Ma vi sono altre voci che l'uomo deve ascoltare principalmente quando assume la responsabilità di altre vite.

Due questioni preoccupano ora la società; la questione morale e la questione economica. Per quanto riguarda la prima è d'uopo convenire che il matrimonio compiuto sotto l'egida dell'amore dà ai concorrenti un buon punto di partenza, ma si sa che il punto di partenza è lieve vantaggio e solo decide del valore la meta che è tante volte ben diversa.

In quanto alla questione economica, l'amore la intralcia anzichè scioglierla; spero che nessuno sarà del parere contrario.

In conclusione, quando nell'estasi del desiderio prossimo ad avverarsi un uomo od una donna pronunciano il giuramento di eterno amore, dispongono di una cosa che loro non appartiene, che in sostanza non hanno. Saranno sinceri, ma dicono una bugia. Potranno amarsi eternamente, ma non perchè lo hanno giurato nè perchè lo hanno credato. Il solo valore nostro, quello che possiamo dare con piena sicurezza, è la nostra coscienza, la nostra operosità, la nostra idealita. Fondiamo il matrimonio sopra queste tre basi e mettiamovi pure anche l'amore, ma non contiamo troppo sulla felicità che esso potrà darci.

Il paese da cui scrivo, antico, tagliato fuori dalla linea ferroviaria e mascherato da piccoli rialzi del terreno che vorrebbero sembrare colline, è largo, piatto, monotono, esposto al sole ed alla polvere; una gran chiesa parrocchiale, due o tre oratorii, la piazza, un lembo di Ticino in fondo. Fra le case, una mi colpì: affondata in una specie di sacco che la divide dalla strada e la isola, essa non mostra dapprima che un cancello di ferro e al di là un fabbricato austero, tutto chiuso, dall'apparenza impenetrabile. Attraversando lo spazio che le sta innanzi, non senza destare la curiosità di qualche ragazzina che si affaccia dalle casupole vicine attratta dall'insolito rumore di passi, scorgo tra i vani del cancello un ampio cortile pieno d' erba, con alcuni alberi lungo i muri e delle pietre che il muschio ha inverdite; il fabbricato rimane austero, chiuso, impenetrabile più che mai. Si attende invano lo sgattaiolare di un animale domestico, una voce, un grido, un battito d'ali, l'aprirsi di una imposta, un segno qualunque di vita, e si abbandona il cancello e si riattraversa il piazzaletto, recando l'impressione di aver toccata la soglia di un cimitero. In paese la chiamano la casa delle vecchie; infatti una madre ottuagenaria vi è morta da poco tempo e le tre figlie sessantenni che ivi hanno trascorsa tutta la vita, non potendo oramai rifarla, vi attendono a lor volta la morte.

Una storia misteriosa di amore tradito circola ancora tra i più anziani del paese e le donne, passando davanti alla casa chiusa, accennano con una angoscia, che l'abitudine non raffredda, la stanza più lontana, la più solitaria, dove vive una delle tre sorelle diventata pazza. Oh! è corsa molt'acqua sotto il ponte del Ticino.! Erano i tempi della dominazione austriaca e nella austera casa signorile avevano posto gli alloggi per gli ufficiali superiori. La tradizione non dice di più. Sanno i muri, sanno le pietre verdeggianti, sa il cortile…

Il caso della pazza è pietoso; ma che dire di quelle due sorelle che la curano da quarant' anni, chiuse insieme a lei, sepolte come lei, attaccate alla larva di un amore che non fu il loro? Lei, la pazza, ha amato; e se sconta un'ora di gaudio con una vita di dolore, può dire almeno che ha vissuto, ma le altre, le altre? Ecco tre donne che furono giovani, che saranno state almeno in parte belle, intelligenti, care; che avranno, come tutte le donne della terra, sorriso al loro specchio ed ai loro sogni e di cui la realtà fu l'inganno per una e il nulla per tutte.

Ma pensate, quarant'anni in quella casa dall'immobilità di bara! Le primavere successero alle primavere, le rose alle rose, partirono e tornarono le rondini, cambiarono i governi, nuove idee sconvolsero i popoli, nuove scoperte li meravigliarono, e le tre donne non fecero altro che diventare vecchie.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Pochi giorni dopo — alla table d'hôte di un ritrovo alla moda — i miei occhi caddero sopra una elegante signora, una sposina, intorno alla quale, come d'uso ad ogni vaso ghiotto scoperchiato di fresco, accorrevano i calabroni. Ella aveva un abito a righe rosa e celesti; la riga celeste era opaca, la riga rosa trasparente; e nel suo contegno pure le righe (chiamiamole così) opache e trasparenti si alternavano in una confusione stranamente troublante. Guardavo e ascoltavo:

— Già un anno che è maritata?

— Sì, un secolo.

— E senza un bambino?

— Oh! venne.

— Venne?

— Venne, vide, andò.

Un riso fresco, argentino, che scosse con un sussulto ondulatorio tutte le righe celesti e rosee, distrusse prima ancora che si potesse formare, l'impressione penosa del morticino. La madre rideva del motto spiritoso che le era sfuggito. I suoi adoratori, più pudichi, tacquero.

Eppure — subito mi venne questo pensiero — se tra quei giovani si trova un romanziere, crederà di aver messo la mano sul più bel tipo di eroina che possa illustrare un elzevir!

Sì, il dramma oscuro, così profondamente ardente delle tre zitellone non troverà lo scrittore idealista che se ne innamori; e la civetta volgare, fredda, di un interesse superficiale, la donna senza sentimento e senza viscere continuerà la sua corsa di meteora cieca e sbalorditiva attraverso una letteratura che ha perduto di vista tutte le cose dell'anima.

Non faccio oggi una questione di morale; il mio assunto si regge all'infuori di essa e come tutte le verità luminose trova la morale nella sua stessa bellezza. La sola riflessione che il senso ha un limite ristretto, eguale per tutti, dovrebbe svogliare da esso chi sente il nobile istinto di togliersi dalla folla. Per quanto noi possiamo mangiare saremo sempre superati dal bue, nel dormire dalla talpa e dalla marmotta, e nella lussuria il mandrillo ci terrà buona compagnia. Avremo dunque sempre una bestia al di sopra di noi. Essa ci impedirà di salire più in alto, e un'arte che non può salire è un'arte già morta.

Quando dalla pittura ad olio che tappezzava le pareti dei nostri nonni di ritratti spesso duri e convenzionali, e dal dagherotipo che sprofondava le figure in mezzo ad ombre confuse balzò fuori snella e vera la fotografia, fu un entusiasmo generale e non mancarono gli esaltati che credettero per sempre sepolta l'arte del pennello. A poco a poco peró ci siamo persuasi che le fotografie interessano solamente quando rappresentano una persona cara od una cosa bella, quando cioè l'idealità esistendo già nel soggetto la fotografia non fa altro che compiere la sua funzione materiale fermandola davanti ai nostri occhi. Noi comprendiamo che l'arte, la vera arte, ha una missione superiore a quella di copiare dal vero e che una raccolta fotografica di nani, di gobbi, di chiese barocche, di edicole sciatte o di volgari statuine di Lucca, per quanto esatta e reale, non commoverà mai le fibre di un artista.

La ragione principale che i veristi adducono a giustificazione dei soggetti bassi è che, studiando sulla società, questa offre loro un così vasto contingente di brutture da non avere quasi altra scelta. Per un tipo ideale ne trovano cento ignobili e si capisce come debba riescire più facile ritrarre questi quando si vuol far consistere tutta l'arte nella abilità della copia. Ma è appunto in tale cardine del verismo che si sta scavando la sua rovina. Come? Noi dovremo dunque votarci al brutto in perpetuo? Dovremo sempre diguazzare fino al collo nei pantani immondi? Dovremo subire sempre la compagnia dei cattivi soggetti, delle donne perdute e non giungeremo a liberarcene mai? E questo colla scusa che i cattivi soggetti e le donne perdute ne circondano da ogni lato, che vivono accanto a noi, insieme a noi, vostro malgrado? Per questo?

Ma vivaddio, ecco una ragione di più per uscirne in qualche modo. Anche noi viviamo e siamo stanchi alla fine di un simile ambiente; le abbiamo conosciute fino alla nausea le vostre piaghe, le vostre cancrene, i rachitici, i gibbosi, gli isterici, i cretini. Abbiamo sete di bellezza, di salute, d'aria pura, di poesia, di forza; e a chi la chiederemo se non all'arte e principalmente ai giovani campioni che ci portano intatto il tesoro della loro mente e del loro cuore?

Io non escludo in modo assoluto i soggetti brutti, ma li restringo tanto e tanto che lascio solo un posticino per l'eccezione. Entriamo, se occorre, nel letamaio per cercarvi la perla, non per farvi una gita di piacere. E ancora insisto a ripetere che se la perla si può trovare senza insudiciarsi è meglio. Ad ogni modo bisogna mettersi bene in mente che dal fatto che un uomo di ingegno ha pescata la sua fra le immondizie non dobbiamo trarre la conseguenza che occorre proprio andar là per cercare la nostra.

Falsamente si afferma che per tal modo si conosce la vita. Conoscere per mezzo del vizio è conoscere male, è conoscere imperfettamente. Ed è una scienza povera che non conduce a nulla.

Il romanzo della signora vestita di rosa e celeste chi non lo intende subito di prim'acchito? Fa bisogno che uno scrittore intellettuale venga a spiegarci i misteri di una cosa così poco misteriosa? Tutto il dicibile — e anche più in là — è stato detto in proposito, ma torneranno a ripeterlo finchè l'ingegno dello scrittore non abbia ripreso il suo posto nelle regioni elevate del sentimento. Torneranno, come Jacques Vingtras, a pincer la queue du cochon.

Iacques Vingtras (nel romanzo di Vallès) va alla messa della notte di Natale insieme a sua madre; per andarvi attraversa contrade sucide dove i macellai hanno appeso teste sanguinolenti e carni squartate; nella stessa casa dove egli abita, il salumaio ha manipolato tutto il giorno carne di porco e budini di sangue rappreso, e Jacques Vingtras, in chiesa, davanti al mistico mistero continua a vedere porci vivi e morti. « Une satanée petite queue de cochon m' apparait partout. Le cordon de cire au bout de la perche de l'allumeur, le ruban rose qui sert à faire des signets dans les livres, jusque a une mèche d'un vicaire qui tirebouchonne isolée et fadasse au coin d'une oreille violette; la flamme méme des cierges, la fumée qui monte des trous des encensoirs, sont autant de petites queues de cochon que j'ai envie de tirer, de pincer ou de denouer. » Ma Jacques Vingtras era, per sua giustificazione, un misero fanciullo « qu'on habillait comme un singe et qu'on battait comme un tapis. »

Il tipo della vergine, così interessante, così eminentemente artistico appunto per tutto ciò che lascia di libero all' immaginazione, è troppo trascurato dai nostri romanzieri. Se lo studiano è solamente nei casi di isterismo, di morbosità precoce e patologica, quasi mai nella purezza severa dell'innocenza e del sacrificio. Si trovano molto vere le allucinazioni della Lacerteux che nelle sagome dei mobili e nelle gambe delle poltrone scorgeva des choses obscènes, e non si sogna neppure che esista il vero di una mente casta austeramente devota al dovere, alla tradizione, alla fatalità; ciò che offrirebbe tanta varietà di psicologia e tanta finezza di analisi, unitamente alla suggesione di commozioni che non sono quelle di tutti.

Ma è difficile. Sicuro, e per questo vi invito. Vi invito al difficile, all'alto, al poco conosciuto, al mistero delle grandi anime solitarie, dei cuori amanti e dei profondi pensieri. Nè crediate di poter raggiungere codesto scopo confondendo l'arte colla scienza e la bellezza colla patologia. Non illudetevi nemmeno di raggiungerlo col gingillarvi in argomenti puerili tratti da quel mondo minuscolo ed inconcludente dell'eleganza e del flirt che non interessa nè punto nè poco, che non vogliamo conoscere, cui neghiamo perfino il sostantivo caldo ed umano di mondo e che se pure esiste, esiste nella proporzione dei moscerini di contro al sole.

Una delle frasi fatte più generalmente accetta, è che nessuna donna vive senza amore. Nessuna donna vive senza amore? — io non lo ripeterò certo — gli ò che prima di dirlo mi guardo attorno e vedo tanti visi di fanciulle appassire senza baci, tante giovani fronti chine a guisa di steli infranti — e se le operette del vecchio repertorio cantano: « É una larva sulla terra chi d'amor non palpito » e quelle del nuovo: « Beatrice, il cor mi dice, che questa notte sarò felice » — ebbene, piena di larve è la terra e piena di notti e di giorni infelici la vita di migliaia di donne.

Ma queste donne non si vedono, non vestono di rosa e celeste; poichè gli uomini non le hanno amate, non le conoscono nemmeno, ed esse languono quasi radiate dalla lista dei viventi, vergini dai capelli bianchi, sante senza corona, martiri senza palma, eroine senza poeta.

In un periodo lontano, quando c'erano ancora delle persone che mi ponevano la mano sulla testa chiamandomi bambina, vedo digradare tra i veli della memoria una falange di zii, di prozii, di persone imponenti coi loro lunghi abiti di panno nero, il colletto della camicia rivoltato sopra una cravatta di raso nero e una tuba nera sui capelli biancheggianti; e da quelle brave persone che io venero, uscivano detti e sentenze che rammento sempre. Una di queste era che la storia resta superiore al romanzo perchè la storia narra fatti veri e che solo i fatti veri meritano l'attenzione degli studiosi. La quale opinione contristò assai i miei primi tentativi di romanzo che nascosi a lungo come un delitto colla trepidazione costante di essere sorpresa, vergognandomi di una vocazione così poco seria e tentando invano di soffocarla.

O care ombre dileguate, voi sapete ora che cosa è veramente serio nella vita e veramente vero!

Si dice che Balzac, incontratosi un giorno con un amico, dopo di aver parlato delle novelle che correvano per la città, soggiungesse: « Ora entriamo nel mondo reale, discorriamo di Nuçingen.» (Nuçingen è un personaggio della Commedia umana).

Si capisce la profondità di questa frase pensando che per l'artista come per il poeta non esiste mai nulla di più reale di quanto si agita nel suo interno, ed io giudico che per Shakespeare, Amleto dovesse essere più vero del suo vicino.

Che è mai la fredda verità registrata nella storia in confronto alle verità ardenti, alle verità dolorose e palpitanti che scaturiscono da un cuore di poeta? Che valore hanno un nome, una data, di fronte alla verità personale? Nella grandiosità dei secoli che scompaiono il giorno in cui Catone si è suicidato, il suo nome stesso a che servono? Se un documento dimenticato ci rivelasse che il suo nome era Pietro, quale luce, ne verrebbe? quale importanza? Ma ben importante sarebbe invece se si dicesse non essere stato l'amore della grandezza romana la causa della sua morte, sibbene un tetano o una risipola. Nel primo caso tutte le invocazioni a Catone che si son fatte da Roma in poi subirebbero una lieve modificaziene di sillabe: P-i-e-t-r-o — invece di C-a-t-o-n-e.

Nel secondo è tutta una fede che crollerebbe.

La sola storia vera è la filosofia della storia; la sola cosa che importi di studiare è l'evoluzione delle anime.

Sta bene che Gozzi abbia scritto: « Fur sempre amici
La menzogna e il poeta »
ma che cosa è la menzogna in tal caso? È precisamente l'alleata della verità! Senza l'abito menzognero del Giaurro o del Corsaro, Byron non ci avrebbe svelati gli ardori della sua anima; e le delicate bugie di Renè, di Jocelyn, di Edmengarda, ci hanno aperto i misteri di cuori pudicamente amorosi che avremmo invano cercato di conoscere nell'arida verità della biografia.

Il già citato Balzac, in una delle sue lettere alla incognita Louise confessa. « Io solo so ciò che vi è di orribile nella Duchessa di Langeais » e questa transustansazione del dolore in un' opera d'arte, queste lagrime cambiate in inchiostro, in colori, in note, tutto questo popolo uscito dalla fantasia dei geni, queste Ofelie, questi Sylok, questi Macbeth, queste Beatrici che piangono ed amano e tradiscono e mentono e salgono al cielo e discendono all'inferno con noi e per noi, sono la grande verità umana, l'unica, l'immortale, la verità assoluta.

Perchè non si piange sulla storia e si versano tante lagrime sulle pagine dei poeti? Lo storico non mette l'anima sua nei personaggi; egli esuma, non crea. Le più belle figure dell'antichità, le più vive, le più amate, non giunsero a noi che traverso l'anima di un uomo di genio; in tutte le opere d'arte vi sono palpiti, vi sono drammi e tragedie più vere di qualsiasi fatto documentato.

Michelangelo dipingeva in forma di diavolo il maldicente chierico suo nemico; Raffaello nelle sue madonne, immortalava la Fornarina; ogni poeta mette alla gogna della posterità i vili che lo insultarono e prepara l' apoteosi de' suoi canti alle care persone amate. Quanti baci che non si possono dare esalano in quartine e in ditirambi: quante lagrime che bisogna nascondere si trasformano in capitoli di romanzo!

La storia qualche volta ha mentito; ha mentito od ha sbagliato la scienza, l'arte non mente mai.

Ma esistono forse due verità, la verità materiale e la verità morale? Propendo a crederlo. Una volta mi accadde di scrivere una lettera dalla campagna, tutta presa e compenetrata dal verde che adoro, rapiti gli occhi e la mente nel delizioso panorama che mi stava davanti. La lettera incominciava: « Scrivo sotto un pergolato di glicini. » Appena vergate le prime parole mi accorsi che il sole mi acciecava ed entrai a finire la mia frase in camera. Non era dunque più vero che io scrivessi sotto un pergolato di glicini e ci pensai un momento se dovevo cambiare la frase; ma poichè restava in me la visione intatta del pergolato e la mente vedeva ancora le glicini e l'anima era tutta compresa di quella soavità, giudicai, che la verità — la verità dell'anima mia — era questa; e lasciai la frase intatta.

Certo questa verità non renderebbe buoni uffici in un processo criminale ed io penso quante volte una traccia di colpa o di assoluzione si sarà affermata su basi così poco sicure; quante induzioni fondate su lettere e documenti nei quali un raggio di sole sugli occhi dello scrivente può avere sostituita, come nel mio caso, la verità interna alla verità esterna!

Ma quando il poeta scrive:

« Tout frappe à ta porte benie; « L'aurore dit: je suis le jour. « L'oiseau: je suis l'harmonie « El mon coeur: je suis l'amour. »

Dobbiamo noi preoccuparci se fosse veramente di mattina, nel punto giusto in cui spunta l'alba e l'uccello spiega il volo? Scritta di notte, al lume della lucerna, il sentimento di quella strofa cambia? cambia la visione poetica dell' anima che associa tutta la natura al proprio amore? Era sincero lo slancio? basta — la verità è questa.

« Conoscere per la via del sentimento è il più alto grado del sapere. »

Questo pensiero di Vauvenargues, espresso pure da Pascal e confermato nelle opere dei più grandi poeti e dei più grandi artisti, può essere il filo conduttore che meglio guida alla scoperta del bello in tutti quei casi dove il tecnicismo dell'arte sembra mettere una barriera fra l'artefice ed il pubblico.

Difatti, perchè l'autore si preoccuperebbe tanto del giudizio del pubblico che non ha studiato nè il disegno, nè la prosodia, nè la musica, se al di sopra di queste nozioni parziali ed avventizie non stesse nell'anima di ogni uomo intelligente l'ineffabile sete del bello?

Io ho visto rapite in estasi davanti a S˙ Marco di Venezia persone che non sapevano nulla della architettura bizantina e che non avrebbero saputo ridire il soggetto della divina lunetta sopra la porta maggiore, nè le date storiche dei mosaici, ma che sentivano la misteriosa poesia di quel tempio unico al mondo.

Ed uno stesso sentimento, ma più grande e più religioso, più penetrato dal concetto cattolico, è quello che ispira a chiunque abbia fibra elevata il Duomo di Milano, Questa è la vera chiesa appassionata e dolorosa, la chiesa dei languori profondi, dove meglio si prega e si piange, dove le spine di Gesù e le spade di Maria si elevano al concetto ideale della umanità sofferente prostrata davanti a un Dio che tutto perdona. Bisogna dire che lo stile gotico si presta mirabilmente alla religiosità, che quegli archi sollevati in alto a guisa di braccia oranti, quei trafori che spiritualizzano la materia, sono quanto di meglio possa fare l'arte plastica per raggiungere il volo del pensiero; ma oltre a tutto ciò abbiamo nel Duomo di Milano una cosi sapiente distribuzione di luce, una tale armonia di proporzioni e di ornamenti, che mentre l'occhio ammira l'opera dell'uomo, l'anima non si stacca dal sogno divino.

Altre basiliche passiedono vetri colorati e lusso di marmi come il Duomo di Milano; nessuna credo lo eguaglia in questa sua specialità del sentimento religioso, non frastornato da effetti volgari, da particolari stridenti, ma concentrato, raccolto, quasi assurgente al concetto mistico di una profonda preghiera senza parole.

Io non potrò mai ripetere tanto che basti la bellezza del Duomo di Siena. Esso è meraviglioso addirittura ed anch'esso invita ad inginocchiarsi davanti alla maestà imponente della vôlta e delle colonne, alle incantevoli sibille che riproducono nei graffiti del pavimento la bellezza robusta insieme e gentile, voluttuosa ad un punto e fiera delle donne senesi; ma è una genuflessione tutta artistica piuttosto pagana che cristiana, e dà ragione al motto semplice dello scaccino il quale, affermandomi che il Duomo di Siena è il primo d'Italia soggiunse: « C'è anche quello di Milano, ma è altra cosa. »

Sì, è altra cosa; questa, « cosa, » questo perchè occulto che si impone al ragionamento e lo trascina, questa espressione che impera sulla linea e la piega al suo segreto dominio, quest'anima del marmo, pari all'anima della carne, è appunto il sentimento. Ed è forse la mancanza di esso che mi lascia indifferente davanti alla fredda nudità di S˙ Pietro in Roma?

Ecco un' accusa molto strana trattandosi di uno dei più grandi monumenti contemporanei; accusa che sarebbe di una imperdonabile leggerezza se io non la restringessi nei limiti affatto personali dell'impressione sentimentale.

Mi guardo bene dal toccare il valore di S˙ Pietro come opera architettonica, nè i tesori delle sue cappelle; ma considerandolo la meta di tanti pii pellegrinaggi, il sogno di tante anime ardenti, il più celebre tempio infine del cattolicismo ed immaginandomi io stessa, religiosa pellegrina, di arrivare trepidante su quella soglia, mi domando: È questo? E questo? E davanti alle pareti chiare sotto una gran luce chiara, che fanno pensare ad una magnifica pinacoteca in attesa dei quadri che la devono popolare, una voce di sconforto mi mormora dentro: Non é questo! Non è questa la visione che riempie i cuori di ineffabile dolcezza, che li ravvolge come in un velo, il velo mistico ed oscuro dei profondi amori. O ombre della chiesetta di Fiesole, o sospiri vaganti sotto le ogive malinconiche di S˙ Miniato, come sento la nostalgia della vostra bellezza occulta davanti al pomposo baldacchino del Bernini, nelle interminabili navate senza voce.

Ed anche senza voce è per me S˙ Giovanni Laterano: omnium ecclesiarum urbis et orbis mater et caput.

Ma che cosa manca a queste insigni basiliche così ricche e celebrate, se non il dono della commozione?

Questo dono è dunque la più difficile espressione dell'arte? e l'autore dell'Imitazione con quell'alto consiglio sentimentale: « Siate interni » creava una formula d'arte ideale? Si vis amari ama, che è il motto dei veri poeti, sarebbe per caso il segreto dei capolavori? Essere un cardinale, un papa, e spendere dei milioni, sono condizioni sufficienti, per darci la chiesa cattolica dei nostri sogni? Basta essere un architetto per erigere un tempio a Dio?

Quante volte, in certe chiesette dimenticate, in certe cappelle di frati amorosamente custodite, nei chiostri secolari e nel candore raccolto dei veli sopra certe madonnine primitive, noi abbiamo trovato l'espressione intima, invisibile, così bene espressa da Edoardo Rod a proposito degli affreschi nella chiesa di S˙ Francesco in Assisi « Emanano una impressione tutta immateriale, quasi musicale, in cui le linee e i colori non c'entrano per nulla. Rapiscono lo spirito al di là di ciò che esse mostrano agli occhi. Si è perchè i vecchi pittori che hanno fissato su queste vôlte le loro estatiche visioni, avevano rinunciato, senza dubbio, alla gloria di essere ammirati per la gioia più grande di abbandonarsi al sentimento che li guidava. Non sono forme che hanno dipinto; essi hanno colorito il loro sogno interiore. »

Alfredo de Musset, innamorato di Venezia, invocava:

Saint George à la Zuecca
Vivre et mourir là!

Era egli stato a S˙ Miniato? Oh! là morire. Il ridente cimitero che recinge il colle con una fascia alternata di avelli e di fiori è quanto di più soave possa confortare l'immaginazione sul doloroso problema del soggiorno ultimo. Non si è abbandonati a S˙ Miniato; tutti i sorrisi della vita circondano il piccolo cimitero. Coppie di fanciulli si rincorrono a lato delle aiuole, e le madri dolcemente pensose si voltano a guardare la città che si adagia ai piedi del colle. Ma più ancora che nel cimitero esterno vorrei essere sepolta nella chiesa così leggiadra e strana, con quel pavimento fatto di lagrime e di preci, con tanti voti appesi sulle lapidi, tante ghirlande sparse, e lampade e vasi e croci e veli, per cui non si può camminare profanamente, ma bisogna procedere cauti, quasi in mezzo a un popolo di morti che sentono ancora.

Vorrei essere sepolta là; non in principio dove c'è il monumento a Giusti, più avanti, in fondo, dove la vôlta è più scura, più profonda la dolcezza, e dove si leggono tanti nomi di donne ignote nei riflessi pallidi dell'oro vecchio scolpito nel marmo, sotto a miti profili di fanciulle, intorno alle fronti rassegnate di coloro che furono spose, madri, amiche.

Riposare là, per sempre, in quella penombra piena di incanti, mentre dalle porte spalancate appare tutta Firenze nella gloria del suo cielo azzurro, colla severa torre di palazzo vecchio ritta a guisa di pennacchio su nobile cimiero.

***


E ancora mi domando: che cosa è l'arte se non amore? Certo non l'amore di tutti, neanche quello dei più, sibbene l'amore dei geni. La delicata strofa di Cino da Pistoia mi viene sulle labbra in una delle prime gallerie degli Uffizi, dove i quattrocentisti sfilano l'un dopo l'altro uniti da un solo ideale:

Amor che vien per le più dolci porte Sì chiuso che no'l vede uom passando Riposa nella mente e là tien corte.

È appunto in questa corte superiore della mente che avviene la trasformazione artistica della passione; ivi è il crogiuolo dove gli elementi primi del dolore personale si tramutano nella concezione grandiosa dei dolori che toccano tutti. Le persone comuni amano, soffrono e dimenticano: le anime elette amano, soffrono e, assetate di eternità, tramutano il loro amore e il loro dolore in un'opera immortale.

Quanta passione, che ricerca amorosa dell'ideale in tutte quelle madonne di « ignoti toscani » del secolo XV! e come sono gentili e suggestive le parole che Andrea del Sarto scrisse sotto una delle sue madonne:

ANDREA DEL SARTO TA PINTA,
QUI, COME NEL COR TI PORTA,
NON QUAL SEI MARIA, PER ISPAR
GER TUA GLORIA E NON SUO NOME.

Uno studio interessantissimo è quello di seguire lo svolgimento dei diversi artisti sopra un medesimo soggetto: l'annunciazione della Vergine è uno dei più ricercati; il tema infatti e della più squisita idealitá. Un angelo ed una donna. il divino e l'umano in lotta: il pudore, il desiderio, un onore altissimo e un misterioso amore, ecco la trama di un poema al quale si accinsero uomini come Botticelli, Reni, Raffaello, Leonardo, Tiziano, Angelico, Dolci, ecc. ecc.

Annunciazione delle più curiose, assolutamente originale nella sua ingenuità, è quella che riunisce i due nomi di Lippo Memmi e di Simone Martini agli Uffizi. La Vergine, bruttina, ha una espressione tale di ritrosia e di sgomento, di pudore offeso e quasi di rivolta contro la strana novella, che ne forma un'opera a parte potentemente suggestiva. Certo la Vergine di Botticelli è più ideale, quella di Reni più bella, quella di Tiziano più efficace, quella di Raffaello più pura, quella di Dolci più soave e quella dell'Angelico più santa; ma codesta scontrosa pure ha una grande forza di espressione, la quale dimostra nell'autore la penetrazione del soggetto.

Ciò che io chiamo la penetrazione è parte così integrale d'ogni opera d'arte che, senza uscire dal soggetto dell'Annunciazione, possiamo osservarne gli effetti nelle cure maggiori che tutti i pittori riportarono sulla madonna a preferenza che sull'angelo.

In ogni tela il tipo della madonna, rispondendo facilmente a un tipo vagheggiato dall'artista, si sviluppa largamente con una varietà interessante di bellezze femminili, mentre quello dell'angelo, meno sentito, va ripetendosi con una monotonia costante di posa e di espressione. Piuttosto buffoncello e maliziosetto, cala davanti a Maria a quattro passi di distanza come in un duello a morte e nell'acrobatismo dell'atteggiamento, nelle tre dita invariabilmente spiegate con un richiamo ad azioni ben inferiori che non sia quella di precorrere la nascita di Gesù, mostra chiaramente l'indifferenza e lo scetticismo del pittore per un personaggio di concezione fantastica e senza modelli possibili.

Nei pittori più devoti, dove non appare la malizia del sottinteso, il volto di Gabriele è semplicemente senza carattere speciale, ma domina pure in tutti sovrano e quale unica espressione della angelicità, lo svolazzamento delle ali e della tunica. Perchè nessuno prima di Burne-Jones ha mai immaginato un angelo discreto, un angelo casto che giunga alle spalle di Maria, di cui ella oda la voce prima di vederlo, e che se ne stia in sì religioso momento, non atteggiato come un ballerino, ma grave e compunto, quasi mesto, colle bianche ali raccolte?

O meglio ancora, una Annunciazione senza la forma visibile dell'angelo. Maria sta pregando quando è colpita dalla voce divina; un raggio piovente dall alto l'indica solo a chi guarda; tutto il sentimento dovrebbe essere concentrato nel volto della Vergine, meraviglia, sgomento ed estasi.

Soave è l'Angelo Annunziante di Carlo Dolci. Se il gesto lascia ancora a desiderare, l'espressione del volto è tuttavia quella che maggiormente si avvicina all'altezza del soggetto, e le stesse tinte un po' tenui rimproverate qualche volta al Dolci e il leggiero manierismo, non privo di grazia, accrescono in questo caso il fascino e l'idealità del suo personaggio.

Dolci è del resto uno dei pittori se non meglio penetrati del sentimento religioso, certo con un grande desiderio di raggiungerlo. Le sue madonne, meno pastose di quelle di Andrea del Sarto, meno perfette di quelle del Sanzio, e senza il calore che profusero nelle loro, quantunque in modo affatto diverso, Botticelli e Giambellini, hanno tutte una parentela di profili spirituali, di movenze pudiche e direi quasi severe nella dolcezza. Lo stesso Gesù nell'orto (la preziosa tela appartenente alla duchessa di Galliera, che dopo esserle stata rapita le venne resa sfregiata da cima a fondo) è il vero figlio di quelle madonne, nè diversamente lo poteva concepire un artista così sinceramente innamorato del suo tipo ideale.

La costanza nel medesimo tipo è tenuta una prova di salda tempra artistica, ed è certamente una forza, se il pittore limita la scelta dei soggetti alle proprie convinzioni, poichè in tal caso abbiamo l'armonia tra l'idea e l'opera, come è appunto nel Dolci, che non uscì quasi mai dal concetto religioso.

Quanto è tuttavia più efficace e più penetrante frate Angelico! Le tele che egli dipinse sotto i quieti colonnati del chiostro di S˙ Marco, forse nella celletta piena di sogni che abitò non lungi da quella che doveva accogliere un secolo dopo il fosco Savonarola, hanno una purezza e una dolcezza tutta propria, quasi ingenua, di persona che ignora il male. È una semplicità, una grazia infinita, qualche cosa di radiosamente mite, reale ed evanescente insieme.

Questo effetto specialissimo appare anche ne suoi quadri di una o due figure, ma sopratutto risalta nei gruppi: il transito della Vergine, per esempio, dove la moltiplicazione della stessa espressione ingenua dà a tutta la composizione una grazia delicata e primitiva. Tutti quei volti ispirati, quei corpi dove è tolta ogni materialità, dove tra l'abito e l'anima pare non palpiti carne umana, ma un lieve tessuto di natura ignota, ci rivela l'ideale ascetico nella sua forma più graziosa e simpatica. E intorno alle lievi parvenze, dietro i nimbi dorati, quale armonia floreale di colori! come se i gigli, le rose e i miosotiti vestissero naturalmente i corpi di quei santi, di quelle vergini immacolate.

Non si può andare più in là nell'espressione del sentimento mistico, congiunto ad un verismo che non è certamente il solito, ma che è ben quello di un'anima pura, vivente in una atmosfera di aspirazioni celesti.

***


La costanza nel tipo preferito parmi tuttavia uno scoglio alla varietà della produzione: per cui si vedono tele dei maggiori pittori che, se accontentano sempre dal lato esecuzione, il solo che molti cercano nella pittura, danno tuttavia una impressione di sconforto ai riguardanti sentimentali, i quali vorrebbero indivisi il concetto e l'opera.

Questi sono gli ammiratori della celebre Diana di Houdon, non tanto per le forme classicamente pure, ma perchè quelle forme rispondono in modo assoluto all'ideale di una fanciulla vivente da selvaggia in mezzo ai boschi e che lotta di velocità colle sue cervette. Coloro che nel nudo femminile non vedono che la carne le preferiranno senza dubbio la opulenta e bellissima figura che Vanloo chiamò esso pure Diana, ma con un battesimo privo di convinzione. Costei e le sue numerose compagne non faranno mai rivivere nella nostra immaginazione

la Vierge au rêve solitaire
n'ayant que ses chiens pour amis
et dans l'âme d'autres mystères
que ceux des grands bois endormis.

Un amico mio dice: Non bisogna cercare in un quadro o in una statua più di quanto l'artista vi ha messo. — Sì, questo può andare benissimo se l'artista mi presenta una bagnante, una donna coricata, una donna in piedi, infine una figura qualsiasi dove il pittore è libero di esprimere qualunque ideale estetico. Ma quando l'opera d'arte porta un titolo, il quale a sua volta include un dato sentimento, noi abbiamo tutto il diritto di chiedere l'impressione che ci fu promessa. Sarebbe curioso che ci presentassero Niobe in abito da ballo, sorridente allo specchio, e proibirci di domandare al pittore più di quanto ha voluto darci. La libertà del pittore consiste nella scelta del soggetto e nello svolgimento di esso secondo i propri criteri artistici e psicologici, ma la nostra è quella di vedere se l'opera corrisponde all'idea. Offrendoci una vergine coi fianchi di una matrona, l'autore dà bensi un saggio del suo gusto il quale mi guardo bene dal contrastare, ma non ci lascia egualmente persuasi sulle sue cognizioni rapporto le età e fasi della donna, e meno ancora sul suo sentimento a proposito di quel delicato mistero che è la vergine.

Mi immagino che i pittori ribelli al tipo di Diana dovrebbero riuscire efficaci nella Maddalena: sempre però che al concetto di una superba fioritura carnale, sappiano congiungere un grande ardore di passione. Anche questo è un soggetto che i nostri antichi pittori trattavano con simpatia e con valore, ma non sempre con efficacia di interpretazione. La maggior parte di essi pensò a Maddalena come ad una bella peccatrice e niente di più. Quanti rilessero, prima di intingere il pennello, l'idillio velato che gli apostoli ci lasciarono degli incontri fra Gesù e Maria Maddalena? Quanti si penetrarono di quella calda e intima poesia? Quanti, dipingendo Maddalena, ebbero presente Gesù, Gesù che l'amava?

Le gallerie di Firenze riboccano di Maddalene. Aurelio Luini, figlio del celebre Bernardino, ce ne presenta una piena di affettazioni. La Gentileschi Artemisia gli tiene subito dietro. Il Rustici ci dà un Transito duro e niente toccante. Il Domenichino una florida faccia da massaia contenta, più Marta che Maddalena. Tiziano la sua solita bella donna. Taddeo Zuccari, affrontando le difficoltà della pittura sul marmo, si eleva al concetto ideale di una Maddalena portata in cielo, E quella del Perugino così lignea e impenetrabile? Con impressione sincera dobbiamo dire che ci è impossibile figurarci questa Maddalena, sciolte le lunghe treccie, abbracciare i piedi di Gesù.

Vi si avvicina maggiormente, come genere di bellezza, l'appassionata creatura dipinta dal Dolci, con quell'atteggiamento amoroso dello stringersi al petto il vaso dei preziosi aromi; ma il Dolci, fido al suo tipo originale, ci ha dato una affascinante fanciulla, che potrà diventare una Maddalena ma che non è ancora la donna che noi cerchiamo sotto questo nome; se pure (e tutto mi induce a crederlo) egli non ha confuso al pari di molti altri Maria di Magdala con Maria di Bethania.

Essa ci appare viva e commossa in un piccola tela dell'Albani, di proprietà privata, e che l'autore volle intitolare, dal momento in cui prese l'ispirazione, Noli me tangere. Bellissimo momento e degno di un grande artista. Non mi toccare — le parole dette da Gesù appena risorto — perchè non sono ancora salito al padre mio. Nella pinacoteca Vaticana la Maddalena del Guercino porta il prenome di santa. Ella si è già staccata dal mondo, Gesù è morto. Due angeli le presentano i chiodi e le spine della Passione, additandole il cielo. La figura è ben quella della peccatrice di Galilea, ricca di forme, dolce e simpatico il volto, le bellissime chiome disciolte, un languore molle di posa; l'espressione meditabonda di chi ha lasciato un mondo colmo di seduzioni per entrare nella via della penitenza. In queste ultime tele c'è la ricerca del sentimento esatto di Maddalena, c'è un desiderio di presentarla veramente come la troviamo nel Vangelo, come l'abbiamo, vagheggiata nella nostra mente ed amata nei nostri cuori.

***


Parlando di sentimento a proposito di pittura so di far ridere una quantità di persone che mi risponderanno coll'uva di Zeusi, coll' O di Giotto e con quella bella cassa di aranci esposta qualche anno fa alla Permanente di Milano.

Ma io non voglio distruggere nulla; non attento al culto pagano della forma, mi guardo bene dal pronunciare una sola parola che equivalga ad un giudizio sul disegno, sul colore, sulla prospettiva. Rispetto a priori tutto quello che non conosco. Ma una ricerca sentimentale nelle opere d'arte è proprio così fuori di posto?

Il sentimento fonte prima d'ogni concezione artistica è un po' come la madre che il figlio, attratto dalle bollenti tentazioni della giovinezza, trascura e lascia in disparte, ma alla quale ritorna nelle ore più profonde della vita, quando l'anima ha bisogno di avvicinarsi al tabernacolo dove si custodisce il mistero. Noi attraversiamo una di queste ore. Il sentimento, respinto e deriso negli ultimi anni, si vendica mordendoci al cuore colla sete dell'infinito. Noi siamo i figli esiliati, i figli lontani, che chiedono di tornare ancora nelle braccia della madre. E per questo in arte ci attirano i quattrocentisti, come nella poesia tentiamo di riafferrare il simbolo.

Passando davanti a quel colosso della pittura che fu Tiziano siamo conquistati, è vero, dalla solidità di un pennello che non ha rivali, che sembra tagliato fuori per miracolo nuovo da una verga di acciaio; ma quante sono le tele di Tiziano che penetrano dagli occhi al cuore? Adoratore convinto della plastica femminile, ce ne dà una lussureggiante prova nelle due Veneri degli Uffizi, vinte ancora in leggiadria dalla Antiope del Louvre che per essere più casta è forse anche più seducente. Ma infine, siccome a Venere non si chiede altro che di essere bella, Paride potrebbe questa volta come l'altra restare in certo fra le tre.

La Flora, splendido fiore carnale, non avendo essa pure nessun altra missione oltre quella di sorridere con delle rose sulle braccia, ci appare quasi divina. E anche, per vero dire, una delle più ideali figure del Tiziano e tale eccezione gentile si può interpretare giustamente coll'essere stato il modello di questa Flora la sua prima innamorata, la figlia di Palma il vecchio; che riprodusse pure ma con meno idealità nella mezza figura intitolata La Bella.

Al sentimento esterno della bellezza Tiziane aggiunge un altro sentimento esterno, la forza. Am bedue trovano in lui un vero apostolo. Se le Veneri, l'Antiope e la Flora ci danno ampia prova del primo, ammiriamo l'altro in una serie di ritratti efficacissimi. Oltre quello tanto vantato della Duchessa di Urbino, Giovanni dalle Bande nere, Pietro Aretino, e una quantità di principi e di capitani raggiungono fino all' ultimo limite possibile la riproduzione della forza espressa in un volto. E più ancora dei sunnominati è per me meraviglioso di espressione un Ritratto virile, senz' altra denominazione, esposto a Pitti nella sala di Marte. Qui, nessuna suggestione di nome o di fatti, nessuna leggenda che ci imponga l'interpretazione di un dato sentimento. È un uomo piuttosto giovane, non giovanissimo tuttavia, con piccoli e scarsi baffi di colore indeciso, volto pallido, occhi di un grigio azzurrognolo — nulla infine che possa aiutare l'immaginazione nel concetto di una forza superiore. Eppure si resta soggiogati davanti al ritratto di quell'ignoto, come se a traverso i secoli che lo dividono da noi la potenza della sua anima immortalata da un pennello egualmente potente ci stesse davanti viva e pronta ad agire. È una volontà indomabile che traspare dalle pupille fredde e taglienti come una lama, dall'ovale aguzzo del mento, dal disegno della bocca e più ancora, e forse niente altro che da ciò, dall'ingegno del pittore fatto per intendere quel modello.

A fronte di una efficacia così completa non mi è dato di ammirare come si converrebbe l'Assunta, la celebre Assunta che si conserva nell'Accademia artistica di Venezia. Una stessa tavolozza ha portato dal Ritratto virile all'Assunta la magia del colorista, del disegnatore, ma vi ha anche portato la stessa anima, gli stessi sentimenti esclusivi di bellezza e di forza nei quali si compendia tutto il Tiziano. La grandiosa figura che occupa una intera parete e che colpisce subito per lo slancio e per l'energia del movimento parmi quella di una donna portata in cielo, molto contenta ed anche sorpresa ma non della Madre di Dio che va a raggiungervi il divin figliuolo. II mistero, la passione, il sacrificio, tutte le idealità della vita di Maria non appaiono in questa donna troppo florida, troppo somigliante a una bella popolana di Venezia. Evidentemente l'adoratore fortunato della figlia di Palma non poteva immaginare la bellezza interna di Maria: la sua anima pagana mal si piegava al concetto di una vergine tutta pura, umile e santa: dipingendo una donna non seppe elevarsi al disopra della femminilità materiale; invece di Maria Deipara ci ha dato una mortale fatta a nostra immagine e somiglianza, colle bellezze che noi abbiamo e non con quell'unica che vagheggiamo in Lei.

La trascuranza dell'espressione interiore, la nessuna cura dell'analisi psicologica che nel Tiziano restava forse soffocata dalla esuberanza stessa della forza sensuale, ci viene dimostrata ancora dal fatto che il museo di Berlino conserva di lui una Bella giardiniera e il museo di Madrid una Salomé le quali non solo rappresentano la medesima donna, ma sono identiche nella posa, nella linea, nell'espressione. Il forte, il solido pittore, spregiando le visioni interne — forse non conoscendole — non amò nè il tipo di Salomé nè quello della giardiniera. Egli aveva davanti agli occhi la sua bella figliuola Lavinia; la fece posare, le mise in giusta luce la testa fresca e sorridente, le denudò le braccia e sollevandole in alto vi collocò sopra un paniere che, nella bella giardiniera è colmo di frutti, nella Salomé porta il capo sanguinolento di S˙ Giovanni. Ed ecco tutto.

Un altro quadro del Tiziano assai stimato è l'amore sacro e profano; una meraviglia per l'occhio, come tutti i suoi fratelli, un modello che ogni pittore deve guardare con venerazione. La parte decorativa vi è cercata e curata fin nei più minuti particolari di un paesaggio arcadico che forma lo sfondo. Sul davanti due donne stanno sedute ai lati di una vasca di marmo di bellissimo disegno, nell'acqua della quale tuffa la mano grassoccia un bambino. Le due donne, incaricate di rappresentare l'antitesi del titolo, hanno però questa sola antitesi: che l'una è completamente nuda e l'altra completamente vestita. Del resto, medesimo tipo, al punto che si potrebbe vestendo l'una e spogliando l'altra, sostituirle senza nessuna alterazione nella armonia del quadro. La fiamma ondeggiante al vento posta nel palmo della donna ignuda e lo scaldino di bragie raccolte che quella vestita sembra proteggere co! braccio amoroso, hanno certamente l'incarico di spiegarci il concetto dell'autore. Ma noi quel concetto lo vorremo trovare più profondo, più intimo, più emanante direttamente dall'anima. Dei vasi, degli abiti per tradurre un pensiero così commovente e sensibile? Dei vasi, degli abiti, quando l' artista aveva in suo potere due fisionomie, due anime?

Egli si servi anche questa volta di una donna sola, la stessa. Venere, Antiope, Flora, Salomé. la Madonna, la Maddalena, che importa? Una donna bella — il solo ideale di Tiziano.

Certo l'ideale della bellezza plastica non è nè spregevole nè indegno; dobbiamo ad esso i capolavori dell' arte greca e al pari di tutti gli ideali ebbe nel suo tempo e nella sua orbita la propria ragione di esistere. Ma esso è per lo meno scarso ai bisogni dell'arte moderma ed appare manchevole nella evoluzione sempre più sottile e raffinata del gusto di ciò che intendiamo noi per bellezza.

Vorrei veder trattati dai nostri artisti, con aspirazioni ed estetica nuova, questi grandi soggetti dell' antichità che furono troppo abbandonati per la pittura così detta di genere, per gli impressionismi superficiali della strada. I nostri padri hanno sfruttato tutti i soggetti, ma non tutti i modi di renderli col mezzo dell'arte. Anzi esiste in arte la teoria che non si crea mai nulla ma solo si rinnova. Rinnovare dunque la pittura di Tiziano aggiungendovi il nostro sentimento, toccare il suo ideale per portarlo più in alto, per renderlo più appassionato, più puro, più educatore; a questo penso. Mi sbaglio?

Fine.

I.

Il concetto della bellezza Pag. 9

Il dovere di vivere » 19

L'educazione morale » 25

Furbi e fiacchi » 35

Pietra di paragone » 43

II.

Dei rapporti superiori fra l'uomo e la donna » 51

Il lavoro della donna » 65

Il nodo della questione » 73

Per la coscienza femminile » 85

Ad litteram? » 95

Per l'anima e per i diritti dell'anima » 101

Parole nuove su musica vecchia » 111

Osservazioni » 119

L'amore nel matrimonio è garanzia di felicità? » 129

III.

L'idealità nell'arte » 139

La verità nell'arte? » 149

Il sentimento nelle opere d'arte » 155