La
Sottana del Diavolo
NOVELLE
DI
NEERA.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1912.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda

Copyright by Fratelli Treves, 1912.

Spadafora, uno dei pochi paesi rimasti lontani da ogni rete ferroviaria, ignoto alla carta del Touring perchè nessuna bicicletta e nessun automobile vi passa mai non essendovi nelle sue vicinanze cosa alcuna degna di essere vista; Spadafora infine, uno dei paesi più poveri in qualunque senso e sotto qualsiasi aspetto, fu messo sottosopra un giorno da una straordinaria notizia ben degna di commuovere un paese dove le donne sono in grande maggioranza. Don Assalonne Mei, parroco, aveva ricevuto da una lontana città questa lettera inaspettata:

« Reverendo signor Parroco,

« Una donna di nome Ester Serpinelli, nativa di codesto paese di Spadafora ma vivente da quasi vent'anni all'estero, venne a morte il giorno 4 del corrente mese lasciando con suo testamento olografo, in data di un anno prima, eredi dello spoglio personale i poveri di Spadafora e nominando esecutore testamentario il reverendo parroco di detto paese. In seguito a che mi pregio avvertirla che tengo a sua disposizione numero tre bauli, due valigie, una cassa di legno e ventidue scatole di cartone contenenti il suddetto spoglio personale della defunta Ester Serpinelli. In attesa di pregiata risposta le presento, signor parroco, tutti i miei rispetti.

« Devotissimo
« Dott. Gaudenzio Ripetti
« Notaio. »

— Ed ora che cosa si fa? — aveva subito pensato don Assalonne togliendosi e rimettendosi la papalina, come se quel modo di arieggiare il cranio lo dovesse guidare più lucidamente attraverso il dedalo delle ventidue scatole di cartone, senza contare il resto. La città da cui proveniva la lettera era troppo distante perchè egli potesse pensare neanche per ischerzo di andarvi in persona a verificare quella faccenda. Bisognava dunque scrivere e scrisse:

« Pregiatissimo signor Notaio,

« Mi affretto a darle ricevuta della sua stimata lettera nella quale era annunciata una eredità di spoglio personale per i poveri della mia parrocchia. Non essendo in grado di giudicare l'entità degli effetti lasciati dalla defunta Ester Serpinelli (che io non conobbi perchè da quindici anni appena ho qui cura d'anime), le sarei obbligatissimo se volesse darmi maggiori ragguagli, in seguito ai quali e visto se mi conviene per il vantaggio de'miei poveri accettare questo spoglio, ogni spesa dedotta, la pregherò del favore di mandare qui ogni cosa.

« Resto pertanto, egregio signor notaio, suo obbligatissimo

« Don Assalonne Mei
« parroco di Spadafora. »

Impostata colle sue proprie mani la lettera, don Assalonne mentre rientrava in casa si fermò sulla soglia della cucina a guardare la sua vecchia serva Agata che spennacchiava un pollo. A un tratto le disse:

— Agata, voi che siete di questo paese, vi ricordate di una certa Ester Serpinelli partita vent'anni sono? Signora Ester Serpinelli?

— I Serpinelli — rispose la donna — vossignoria lo sa al pari di me, non sono ricchi. Giacomo il taglialegna è un Serpinelli; sono Serpinelli quelli che fanno andare il mulino nel bosco, che non guadagnano nemmeno tanto da sfamarsi; signore Serpinelli, che io sappia, non ve ne sono mai state.

Lì per lì don Assalonne non chiese altro, ma la curiosità della vecchia, serva stuzzicata nel lungo digiuno non la lasciò tranquilla. Tolta l'ultima penna al pollo, scosso il grembiule, ripulite le mani e infilato sul braccio il secchio da attinger acqua mosse alla fontana persuasa che vi avrebbe bene incontrato qualcuno. Non si ingannava infatti, chè già due donne vi avevano attinto e prima di ripartire col carico scambiavano parola con Cristoforo, il vaccaro, venuto a vedere se la conca per le bestie era colma. A tutti costoro l'Agata domandò se avevano conosciuto una signora Ester Serpinelli.

A farlo apposta nessuno l'aveva conosciuta. Cristoforo il vaccaro tuttavia, cambiando di posto alla cicca che gli gonfiava una guancia, mormorò:

— Una Ester io conobbi, saranno vent'anni, che m'aveva stregato co' suoi occhi ladri e Dio sa che cosa non avrei fatto per entrarle nelle grazie. Ma la briccona sul più bello mi piantò in asso e nessuno la vide più in Spadafora.

— Allora è proprio lei! — esclamò l'Agata.

— Si chiamava Serpinelli?

— Può darsi. Era sorella di quel Gianni che tiene adesso il mulino nel bosco.

— Serpinelli, per l'appunto.

— Ma sono tutt'altro che signori i Serpinelli.

— È vero; tuttavia questa Ester che voi avete conosciuta può aver fatto fortuna, che so, sposando, per esempio, un gran signore. Ora che ci penso mi pare di ricordarmela. Non era una ragazza bianca bianca con due occhi neri neri che sprizzavano fuoco?

— Sì, — fece Cristoforo, — parevano due bracie. È a quelle che mi sono cotto, ma la storia è vecchia e l'Esterina è morta certamente.

La serva del parroco si affrettò a recare al suo padrone le poche ed incerte notizie aggiungendo solamente di suo come fatto appurato il ricco matrimonio. L'Agata apparteneva a quel tipo di persone che hanno raramente una idea e quando per caso se la vedono pullulare nel deserto cervello vi si attaccano tenacemente col vago istinto che dovrà passare del tempo prima che ne spunti un'altra. Quest'idea poi del matrimonio di una ragazza di Spadafora con un gran signore, onorando in certo qual modo il paese, le mandava di rimbalzo una gloriola nella quale si ringalluzziva tutta. Se avesse avuto anche lei il coraggio di abbandonare il paese venti o trenta o quarant' anni addietro…. e perchè no?

Il parroco ed il notaio intanto continuarono a scambiarsi delle lettere, finchè un bel giorno il corriere che faceva lo scarso servizio di Spadafora scaricò nel cortile della canonica un cumulo di pacchi di tutte le dimensioni e di forme così svariate che l'Agata, rinunciando a parlare, rimase a bocca aperta per qualche minuto.

— Ed ora mo' che cosa si fa?

L'esclamazione era del parroco. L'Agata, serrata ben bene la porta affinchè nessuno venisse a curiosare prima del tempo, prese in esame quei colli uno per uno, palpandone la superficie, picchiando colle nocche nei fianchi, tentando coll'indice la resistenza delle funi incrociate ed espresse finalmente la sua opinione.

— Io direi di aprire qui, fra noi, prima di darne avviso al paese. Bisogna ben sapere di che si tratta.

— Giusto, giusto, — fece don Assalonne che dal momento che se li era visti dinanzi in un mucchio così fatto guardava i bauli, le valigie e le scatole con una certa diffidenza.

Fu ancora l'Agata che disse: — Apriamo?

E poichè il prete, paralizzato da una singolare timidezza al pensiero delle femminili spoglie che stavano per uscire fuori non osava pronunciarsi, essa, ratta, tagliò colle forbici che le pendevano dal grembiule la funicella di una scatola rotonda che più delle altre aveva colpito la sua immaginazione e ne venne in luce un gran cappello tutto rosso con piume di siffatta lunghezza che mai più ella avrebbe pensato un uccello le potesse rivestire.

Dietro quel primo cappello, araldo sfolgorante di eleganze ignote fino allora agli abitanti di Spadafora, altri ne versarono le misteriose scatole, diversi per forma, per colore, per audacie fantastiche ed impreviste. E come non si poteva, lasciare tutta, quella roba in mezzo al cortile, l'Agata, aiutata da don Assalonne, si pose coscienziosamente a portare in casa ogni oggetto man mano che veniva fuori.

Si ammucchiarono così nel modesto tinello del parroco pervaso da una luce monastica e da un odore misto di incenso e di rinchiuso seriche gonne ricoperte di falpalà, trine, nastri, busti di raso bianco e di raso carnicino, calze di seta traforate, guanti, fazzoletti di trine, camicie sottili trasparenti, fibbie, fiocchetti, cinture, mantelline, tutta una ondata di morbidezze, di baluccichii, di profumi, di colori e di forme nuove. Certi nastri si attorcigliavano a guisa di serpentelli vivi intorno alle dita rugose della vecchia serva; da certe aperture di busto sembrava uscire uno scoppio di risa provocatrici e folli; non ridevano pure frementi ad ogni scossa le trine arricciate in fondo alle sottane, fluide tra le mani inesperte come se volessero prendersi giuoco dei loro nuovi padroni?

Più di una volta don Assalonne incespicò nello strascico di un abito da lui retto con braccia maldestre; gli caddero gli occhiali in una scarpetta bianca tempestata di lustrini e quando volle cercare più tardi il suo breviario lo trovò prigioniero fra un mazzo di ricci biondi e una scatola di belletto.

— Santo Dio, che cosa mi è mai capitato!

— mormorò il buon prete con una inquietudine che cresceva di minuto in minuto.

L'Agata, infocata nei pomelli delle guance, ficcava gli occhi in mezzo a quegli splendori non risparmiando le osservazioni.

— Domando io se queste sono camicie! una tela di ragno è più solida; cerco inutilmente le camicie vere, perchè già non è possibile che la defunta signora abbia indossato questa ragnatela senza avere una vera camicia. E come poteva camminare con queste scarpe che si piegano nelle mani a mo' di un giunco? soffiare il naso in questi fazzoletti che non basterebbero a coprire l'ostia consacrata?

— Non mischiate il sacro col profano, — ammonì severamente don Assalonne. — Già ci siamo occupati anche troppo di questa roba.

Occuparsene però dovette ancora il buon curato contro suo genio nei giorni seguenti, perchè avendo annunciato dal pulpito che e'era una eredità da dividere tra i poveri del paese, la sua porta fu presa d'assalto. Le donne principalmente non chiudevano più occhio alla notte facendo calcoli sopra calcoli, pensando ognuna di rifornirsi di abiti e di biancheria collo spoglio della defunta. I Serpinelli, in qualità di parenti, avanzavano le maggiori pretese e quantunque non avessero saputo più nulla della Ester fin dal giorno lontano della sua fuga, mostravano di interessarsi con maggior diritto degli altri.

Ma siccome il testamento parlava chiaro dei poveri di Spadafora senza precisare alcuno il parroco non potè tener conto delle querimonie dei parenti. Poveri poi in Spadafora lo erano, dal più al meno, tutti, eccettuato il farmacista, l'oste e poche altre famiglie. Fu dunque un accorrere in massa di cupidigie eccitate, di miserie speranzose, di desideri latenti sprigionatisi all'improvviso, come se una vampata misteriosa fosse passata sul tranquillo paese di Spadafora accendendo un focherello in ogni mente, un'ansia di gaudio in ogni cuore.

— Piano, piano, — badava a gridare l'Agata, — non vedete che pestate coi vostri zoccoli questo abito di velo? Giù quelle mani! Ehi! là in fondo, finitela con quel cappello, me lo spiumate tutto. Olà! olà! Non capite che è un busto? che bisogno c'è di fiutarlo? Lo avete forse preso per un mazzo di fiori?

La serva del prete si sbracciava a mantenere l'ordine spesso turbato da esclamazioni di meraviglia o da curiosità indiscrete, mentre don Assalonne andava e veniva, disorientato, colle mosse di un pesce fuori d'acqua, malcontento di sè e degli altri, pensando al modo di chiudere in fretta quella ridicola parentesi della sua vita.

Intanto, allo slancio ammirativo del primo momento, subentrava da parte di quelle povere donne la scoraggiante constatazione che nessuna di esse avrebbe mai potuto servirsi di quella roba. Invano le più giovani si sentivano crescere la saliva in bocca e tremavano di commozione toccando quelle stoffe, quei nastri, quei pizzi, quelle piume, quelle scarpette luccicanti d'oro, quelle vitine scollate che esse non avrebbero osato mettere, oh! no, ma dinanzi alle quali il loro cuore batteva collo stesso turbamento misto di paura e di attrazione invincibile che le prendeva qualche volta sulle balze scoscese dei loro monti là dove precipitava fosco d'ombre l'abisso. Invano! Di solide gonne di panno, di grossa tela, di pesanti calzerotti esse avevano duopo e il trovarsi dinanzi tutta quella roba magnifica ma inutile le rendeva meste.

— Cosa si fa? Cosa si fa? — gemeva don Assalonne.

Il consiglio lo diede la signora Radegonda, sorella del farmacista e vedova di un veterinario col quale aveva vissuto sei mesi appena, ma che per il fatto di essere stata maritata a un quasi dottore e di avere viaggiato (cinquanta chilometri lontano da Spadafora), assumeva volontieri delle arie da dottoressa e di donna pratica del mondo. Col suo naso aguzzo e la bocca tagliata in fessura da salvadanaio non le riusciva difficile di comporsi una maschera austera che incuteva rispetto agli ingenui spadaforesi.

Già guardando minutamente le opime spoglie sciorinate nel tinello la signora Radegonga aveva fatto un visaccio che così brutto ancora non lo aveva visto nessuno e tratto il parroco in un cantuccio non s'era peritata a mormorargli nell'orecchio qualche cosa di ben terribile perchè il buon prete andava negando colla testa: Ohibò! Ohibò! armeggiando colle mani nell'aria a guisa di uno che sta per annegare.

— A buon conto, — insistè la signora Radegonda, — se questa Ester Serpinelli si fosse maritata avrebbe chiesto a lei la fede di battesimo.

— Ma io non c'ero allora, io non so nulla, io non sospetto di nulla.

— Per qualche cosa esistono i registri della parrocchia; li può consultare quando vuole.

— Ma non occorre, non occorre. Ora si tratta di dividere la roba.

— Io non ne ho bisogno, — dichiarò alteramente la signora Radegonda, — pure vorrei morire nuda come sono nata piuttosto che mettere il mio corpo a contatto di quelle vesti corrotte. Non capisce nulla lei? Naturale del resto poichè non ebbe…. moglie (stava per dire marito). Dia retta a me che conosco il mondo, che ho viaggiato…. questa è roba del diavolo!

— Uh! Uh! — fece don Assalonne.

— Un onesto sacerdote come è lei non può permettere che le sue pecorelle si dividano il bottino di Berlicche. Del resto che cosa ne farebbero di questi veli e di questi rasi per andare a zappar la terra? Sa che cosa deve fare? Venda tutto. Il denaro non conserva traccia della via per cui è venuto e i poveri di Spadafora ne avranno almeno qualche utile.

Ragionevole era il consiglio, e don Assalonne, che non vedeva l'ora di lavarsone le mani, lo accolse subito. Ci fu qualche difficoltà per sapere a chi vendere una merce così fuori dell'ordinario, ma la signora Radegonda si offerse di farne parola a certe sue conoscenze di città e don Assalonne ordinò all'Agata di tornare a rimettere tutto nelle rispettive scatole e bauli.

— Se ne esco con decoro, — pensò il buon parroco, — faccio una novena a Sant'Antonio.

Chi non si consolava invece di dover rinunciare a tanta grazia di Dio era l'Agata. Ad ogni oggetto che rientrava nelle scatole ella vedeva sparire un raggio, un bagliore, un ondeggiamento, e il tinello rifarsi buio e l'odore di rinchiuso risorgere dai mobili. Si fermava a rimirare i più piccoli particolari, i bottoni di una giacca, gli spilloni di un cappello, accarezzando ogni cosa con un rammarico appassionato che quasi le spremeva lagrime dagli occhi. Ma il più doloroso distacco lo provò sollevando delicatamente una sottana che, a farlo apposta, le parve rispondesse con un sommesso frou-frou di simpatia.

Bella era la sottana, magnifica, a larghe righe, una di amoerro rosa, l'altra di raso celeste; e sulla riga celeste correva una ghirlandina di rose, sulla riga rosa si avvicendavano i piccoli fiori celesti dei non-ti-scordar-di-me. Morbida la stoffa, spumosa, pieghevole, lucente; splendido il disegno; e un sottile profumo si svolgeva dalle pieghe più riposte dandole una singolare parvenza di vita.

— No, no, — gemeva l'Agata, — questa non me la lascio portar via. Non s'è mai visto una meraviglia simile; bisogna farne un abito per la nostra Madonna.

Appena la visione di un abito per la Madonna balenò radiosa nella mente della pia femminuccia, che trovò subito gli argomenti per farne persuaso don Assalonne. Anzitutto non si sarebbe mai più presentata una eguale occasione per cambiare il meschino abituccio di cotone che era una vergogna a vedersi sul corpo benedetto di Maria Santissima. Poi era un modo di propiziare continuamente l'anima della defunta tenedola presente alla misericordia divina. Infine restava visibile a tutto il paese una memoria del benefizio ricevuto e questo era quasi un dovere.

Tanto disse e tanto fece l'Agata, rincalzando i suoi argomenti con quelle infinite piccole premure che ogni donna sa trovare quando vuole ottenere qualche cosa da un uomo, che il parroco finì per accondiscendere; ed ella, felice, incominciò nell'ombra e nel mistero la grande opera. Importava che non trapelasse nulla prima del tempo stabilito per evitare inutili commenti nel paese, e il tempo stabilito doveva essere la Madonna di settembre, consacrata alla festa particolare di Spadafora.

Con aghi e forbici, con misure e rettifili, piena di trepidanza e di audacia insieme, la serva del parroco si improvvisò sarta del paradiso; toltó dalla statua della Madonna l'abito vecchio, lo distese sulla meravigliosa sottana per rilevarne le proporzioni esatte, sentendo che ella compiva allora l'azione più importante di tutta la sua vita; e taglia e cuci e stringi e allenta, ora sembrandole di aver toccata la perfezione, ora avvilita in presenza di improvvise difficoltà, ma sempre sostenuta da quella specie di febbre che accompagna le grandi creazioni, ella potè finalmente mostrare l'opera sua a don Assalonne che ne rimase abbagliato.

Effettivamente la povera e meschina Madonna di Spadafora non sembrava più quella; cinta dalle pieghe flessuose della magnifica stoffa, la figura di legno che una rozza mano aveva intagliata con linee di una rigidità arcaica acquistava agli occhi dei due ingenui ammiratori una imponenza nuova. Gli occhietti dell'Agata luccicavano di strabocchevole letizia; quelli del parroco, più calmi, più avvezzi a contenersi, sparivano ogni tanto sotto alle palpebre quasi volessero raccogliere in asilo sicuro la gamma ridente dei due colori celeste e rosa così abilmente fusi nell'avvicendamento delle righe e dei fiori.

—Bello, bello, non c'è che dire. Brava Agata!

Questo fu il primo trionfo; ma ben altri se n'aspettava l'Agata per il giorno della festa, quando trecento o forse quattrocento persone sarebbero rimaste a bocca aperta dinanzi al capolavoro. Notti insonni, veglie agitate, ansia ed impazienza furono i naturali forieri dell' avvenimento. Contro l'abitudine, non si ammisero alla vigilia le donne del paese per vestire la Madonna; l'Agata volle fare tutto da sè affinchè l'effetto della improvvisata riuscisse più solenne.

E finalmente il gran giorno venne, giustificando tutte le speranze dell'Agata che rincantucciata presso all'altare si godeva ad una ad una le esclamazioni del popolo accorso, inintuendo nelle sue viscere di pulzella le ebbrezze di una madre a cui lodano la bella prole.

Improvvisamente, vera folgore a ciel sereno, la sua beatitudine fu interrotta da un terribile pizzicotto nel braccio.

— Siete pazza? — le urlò nell'orecchio la bocca a salvadanaio della signora Radegonda. — Bisogna proprio aver perduto la testa per vestire la nostra Madonna con quella roba venuta chi sa da dove. Come mai don Assalonne ve lo ha permesso? Si è mai visto un simile sacrilegio?

— Ma che sacrilegio! — borbottò l'Agata fregandosi il braccio, divenuta a un subito di pessimo umore —; se un'anima buona ha lasciato il suo spoglio ai poveri la Madonna non può che aggradire la sua parte.

— Siete proprio una zotica. Credete che non riconosca questa sottana? che non l'abbia esaminata, direi interrogata, se voi ne poteste capire qualche cosa. Ma cosa volete mai capire che siete senza marito, che non avete pratica di mondo e non metteste mai piede fuori del paese?

Al sommesso battibecco delle due donne la gente incominciava a distrarsi e la serva del parroco, vedendo compromessa la maestà della chiesa, rispose un: — Vada alla malora! — che mise il colmo alla collera della signora Radegonda, la quale, ritta in piedi, col naso più che mai aguzzo, teso l'indice minaccioso verso l'avversaria, esclamò:

— Andate alla malora voi che vestite la Madonna colla sottana del diavolo!

A memoria d'uomo non si era mai dato uno scandalo simile in Spadafora. L'Agata svenne cadendo a ridosso dell'altare, mentre la folla si stringeva intorno alla signora Radegonda per tentare di calmarla. Ma proprio allora un grido di spavento risuonò sotto la vôlta della chiesa e si vide una lingua di fuoco investire violentemente l'abito della Madonna. In men che si dica, le belle righe, i fiori delicati della serica stoffa scomparvero in mezzo alle fiamme ed al fumo.

È ben vero che alcuni volonterosi si prestarono subito a spegnere l'incendio saltando addosso alla sacra immagine con una furia che mai più si sarebbero permessa in altra occasione, ma brancicando alla cieca finirono col rovinare anche quello che per avventura s'avrebbe potuto mettere in salvo. Era una pena a vedere brandelli di amoerro rosa cadere sul suolo smunti ed avvizziti proprio come rose morte, e strisce di raso celeste volteggiare per l'aria sotto gli insulti del fumo che ne faceva uno straziante simulacro di illusioni perdute.

La signora Radegonda continuava a gridare: — Ecco la vendetta divina!

L'Agata, riavutasi dallo svenimento, piangeva a calde lagrime, e Dio sa dove si sarebbe andati a finire se il sagrestano non fosse accorso a far sgomberare la chiesa.

Mogio mogio nel suo tinello oscuro don Assalonne si abbandonava ad amare riflessioni. Quando mai le era venuto in mente a quella Ester Serpinelli di lasciare una così stramba eredità e di appiopparla precisamente sulle sue spalle! È obbligato un uomo che vive fuori del mondo, un povero prete di montagna, a conoscere vita miracoli e abitudini delle donne che non ha mai nemmeno viste? Certo, egli aveva accettato con soverchia leggerezza il carico di quel vestiario bizzarro, ma santo cielo, chi poteva immaginarne le conseguenze? La colpa maggiore, indubbiamente, andava difilata all'Agata ed alla sua strampalata idea di vestire la Madonna con quella sottana indiavolata….

Toltasi la papalina con un movimento rabbioso, don Assalonne si grattava la pera e la sua faccia bonaria andava facendosi buia. I teologhi, i padri della Chiesa, tutti gli interpreti della divina volontà concordavano col dire che Dio non avrebbe più fatto miracoli in un mondo che se ne mostra così poco degno. Miracoli dunque no. Tuttavia, chi può mettere ostacolo al volere di Dio? E se per un caso eccezionale, Lui che tutto può, avesse voluto ancora una volta ricorrere al miracolo, conveniva al parroco di Spadafora di contrastarglielo? Ma, corbezzoli, un miracolo nella sua parrocchia, anzi un castigo di Dio, chi sa a quali avvenimenti lo preparava! Se ne sarebbe immischiato il vescovo, forse il Santo Padre….

Don Assalonne sudava freddo. Non potendo reggere al peso di pensieri tanto gravi si alzò e per la porticina segreta della chiesa volle andare sul posto a verificare la strage.

Tutto si trovava ancora nel disordine che vi aveva lasciato la folla dei fedeli; le panche smosse, qualche rosario, qualche fazzoletto per terra, pezzi di stoffa bruciacchiata qua e là. Avvicinandosi all'altare vide la cara Madonna spogliata d'ogni suo ornamento e si sentì stringere il cuore, ma vide in pari tempo un oggetto verso il quale si precipitò con subita speranza. Era una candela dell'altare rovesciata proprio accanto alla sedia dove l'Agata aveva eretto il suo posto di osservazione e dove era caduta in seguito allo svenimento trascinando la candela che senza alcun dubbio aveva infiammato l'abito della Madonna. Ora la spiegazione dell'incendio si presentava semplice, chiara, indiscutibile.

— Signore vi ringrazio! — esclamò il prete inginocchiandosi e baciando con ardore i piedi della Madonna.

Comprese che il buon Dio si era accontentato di punirlo per la sua leggerezza con un po' di paura e tornò alla pieve con un passo tanto leggero che sembrava volasse.

Nota.

Credevo di avere inventato io il nome di Spadafora; invece il segretario del Touring mandandomi la carta del club mi avverte gentilmente che di Spadafora ve ne sono due in Italia. Chiedo grazia per questo terzo.

Dal momento che Filarete Assioli ebbe licenziato per le stampe il suo romanzo « Inesorabilmente », non ebbe più pace nè di giorno nè di notte. Di giorno appostava il procaccia, ansioso di ricevere dal suo editore una lettera che gli annunciasse l'edizione esaurita; di notte non vedeva che donne ideali curve sulle nitide pagine dove egli aveva posto tanta parte di sè stesso, dove palpitava la sua anima di giovane entusiasta confinata nelle anguste pareti notarili di uno studiolo da villaggio. Ma la lettera dell'editore non veniva e nessuna fra le celesti creature dei suoi sogni si decideva a prendere veste mortale per cingergli la chioma coll'alloro del vincitore.

Il maggior cruccio di Filarete era quello di doversene stare neghittoso colle mani in mano mentre l'opera sua correva il mondo a briglia sciolta. Egli numerava tutte le città d'Italia, i borghi dove il suo libro sarebbe apparso e le belle vetrine rilucenti dei librai, immaginandosi le persone che si fermavano di botto colpite dalla tinta signorile della copertina sulla quale spiccava in caratteri bizzarri quel titolo enigmatico: « Inesorabilmente ». Quante città, quanti borghi, quante vetrine, quante persone! A non contare l'estero, dove pure il suo editore gli aveva promesso di mandarne qualche copia, quanti occhi si erano già posati sulle parole scritte da lui, sui suoi pensieri, sulle belle fantasie della sua mente così a lungo carezzate e che dovevano portare a' suoi fratelli il saluto di un cuore vergine assetato di bellezza ideale.

E dunque perchè sì eterno silenzio?… Gli avevano detto (era questo forse il più sottile e il più celato dei suoi desideri) che gli autori ricevono talvolta graziose letterine di ignoti; specie di sorrisi, specie di baci, specie di fiori che la platea lancia all'artista preferito e che trasporta d'anima ad anima nel mistero della lontananza il calore benefico di una simpatia ricambiata. Oh! una forte e leale mano virile che a traverso poche parole di approvazione fosse venuta a stringere la sua in quel momento di battaglia! Oh! una manina lieve, graziosa, un po' tremante, che gli avesse scritto…. Che cosa? Non sapeva, non voleva pensarlo, non toccava a lui; ma che qualcuno avesse risposto a tutti i gridi d'amore e di dolore che aveva meso nel suo libro come un disperato appello alla umanità, questo!

La provincia, si sa, è goffa. Non si aspettava nulla dal nucleo di piccoli possidenti fossilizzati in farmacia attorno ai barattoli della cassia, nè dalle beghine che facevano la spola fra la casa e la chiesa intente a scacciare, peggio che mosche a luglio, ogni parvenza di idee nuove che ronzasse loro attorno. Nè il suo patrono, il notaio, avrebbe permesso che gli si parlasse di libri all'infuori dei classici; nè il dottore per la sua professione assorbente, nè il segretario per la sua poca cultura, nè il maestro per la sua dura cervice, nè don Anselmo per i suoi pregiudizi, nessuno, nessuno poteva intendere, amare, proteggere il suo libro.

In famiglia subivano il contraccolpo della prostrazione che finalmente aveva invaso l'anima candida di Filarete. La sua buona mamma che aveva più di ogni altro sognato e palpitato insieme con lui, senza chiedere nemmeno che cosa fosse quel sogno, lo guardava di sottecchi sospirando e raccomandandolo al Signore come fosse in pericolo di vita; ma il padre crollando la testa forte e dura di lavoratore sembrava appoggiare ad ogni colpo i pronostici già fatti sul cattivo esito della speculazione. Non sapeva chiamare con altra parola la follia di suo figlio che aveva ridotto in carta inutile le poche economie raggranellate a stento: cattiva speculazione. Le sorelle non fiatavano.

— Ouf! — fece una mattina Filarete tendendo i pugni al cielo, — se continua questa epidemia di silenzio, mi suicido.

Intanto leggeva nelle gazzette cittadine il fervore di vita pulsante più che mai verso la fine dell'anno; i teatri aperti, i negozi riforniti, il fiotto di persone che si riversava per le vie attardandosi fin sotto i riverberi della luce elettrica davanti alle bacheche seducenti. Il mio libro è là — pensava Filarete — tutti lo hanno visto, molti senza dubbio lo hanno comperato; lo si discute, lo si loda, lo si attacca forse…. e quel cane di editore non mi dice nulla!

Correva con ansia febbrile alla pagina delle recensioni sempre sperando di trovare un articolo e l'articolo non c'era. Si era preparato da tanto tempo a ricevere il trionfo con modestia, l'attacco con fermezza, lo scherno, se per disgrazia fosse venuto, con dignità; e tutti gli accordi presi con sè stesso riuscivano vani perchè non era nè ammirato, nè attaccato, nè schernito.

Rifaceva allora nella sua mente tutto il romanzo: come era nato, come si era svolto nel più grande ardore della ispirazione, come lo aveva curato per farlo mondo da ogni improprietà, con quale coraggio si era posto a sfrondarlo in diversi punti per renderlo più snello, più agile, più alato, più degno di quel pubblico intellettuale al quale lo dedicava con un atto profondo di umiltà e di fede. Egli scrivendolo aveva pianto, aveva riso, si era innalzato al vertice del lirismo ed era sceso nei più torbidi recessi del cuore umano. Tutta la vita colle sue passioni, coi suoi eroismi, colle sue viltà si agitava là dentro e c'era tanto pensiero da interessare il filosofo, tanto movimento da tener desta l'attenzione dell'uomo di mondo, tanto amore tanto entusiasmo da cattivarsi ogni cuore femminile. Oh! la donna intellettuale come doveva comprenderlo! Egli l'aveva veduta nei ritratti delle Riviste alla moda, nelle descrizioni di romanzi, nei cenni suggestivi dei giornali all' indomani di una première o di una conferenza celebre e l'aveva amata per la sua bellezza fatta di intelligenza, per la sua eleganza composta nei filtri più misteriosi della grazia e della sovranità. Era lei che voleva commuovere, perchè alle perle che cingevano il suo collo leggiadro egli, Filarete, aveva sognato di aggiungere la perla viva di una lagrima strappata ai bellissimi occhi.

— Addio mamma, vado. Non ne posso più.

Così il giovane autore si accomiatò dalla sua famiglia in un mattino di dicembre lasciandosi dietro quella fredda casa, quel freddo borgo che gli gelavano il cuore e corse alla voragine ardente della grande città.

Bisogna vedere, bisogna muoversi, bisogna imparare — pensava Filarete facendosi strada in mezzo alla folla della capitale e porgendo un orecchio attento ai discorsi che udiva colla vaga speranza di afferrare idee nuove, magari qualche rivelazione. Le donne soprattutto lo interessavano nel loro numero stragrande, nella varietà delle loro acconciature, nella scioltezza delle movenze che era l'indice di una raffinatezza ignota alle donne del suo paese; ma fu poco fortunato perchè a farlo apposta tutte quelle che seguì per raccoglierne la voce e le idee non parlarono mai d'altro che di nastri e di stoffe.

Col cuore che gli batteva Filarete entrò nel negozio del suo editore che era anche libraio. Non si erano mai visti, il contratto essendo stato fatto per lettera, e lo scrittore novellino si apparecchiava ad un momento di grande commozione. Non ne fu nulla però. L'editore-libraio stava ravvolgendo in un foglio di carta un libro sul quale Filarete fece scorrere l'occhio curioso. Era la Guida per Nizza e Montecarlo che un signore elegante prese, pagò e si pose sotto il braccio. Quando egli ebbe annunciato il proprio nome, il libraio che si era già rivolto da un'altra parte per sgridare un ragazzo che gli guastava il gomitolo della cordicella, lì per lì, o che non avesse inteso bene o che la sua mente fosse troppo lontana, non diede con nessun atto quella speciale dimostrazione di piacevole sorpresa che Filarete si aspettava da lui. Questo piccolo fatto bastò a sconcertarlo. Arrossì lievemente e ripetè con dolcezza: Filarete Assioli, l'autore di « Inesorabilmente ».

— Ahan!… Piacere.

— Anzi, si figuri, il piacere è mio, — riprese Filarete con grande premura, sorridendo.

Stettero mezzo minuto a guardarsi nel bianco degli occhi. L'editore disse:

— E lei è venuto per le feste? Magnifica occasione; la città si trova nel suo momento migliore. Abbiamo uno spettacolo d'opera….

— Ma no, ma no. Io Sono venuto per sapere come va il mio romanzo.

Pronunciando queste parole le guancie del giovane autore di rosa peonia che erano passarono al rosso fragola.

— Il suo romanzo? Non va niente affatto.

— Ni….en….te?

— Af-fat-to. Ne vuole la prova? Pietro (chiamò il commesso) quante copie hai venduto di «Inesorabilmente »?

— Neppur una, — rispose il commesso senza pietà.

E si ha compassione per quelli che si rompono una gamba! Quaranta giorni di letto framorbidi guanciali, accarezzati dai parenti, visitati dagli amici che recano fiori, dolciumi, giornali illustrati…. Ah! veramente il cuore è fuori di posto.

Siccome Filarete brancicava il banco come uno che mal si regge in piedi, l'editore gli offerse una sedia con sufficiente cordialità.

— Prego, s'accomodi, non faccia complimenti. Un autore, qui, è un poco in casa sua. Certo occorre abituarsi all'ambiente; nel nostro mestiere non sono tutte rose, anzi, al contrario…. Pietro, hai mandato « Aphrodite » alla marchesa Luparelli?

Filarete si rimetteva a poco a poco. Sembrandogli che quel libraio in fondo non fosse un cattivo uomo si arrischiò a domandare:

— Leggono molto le signore dell'alta società?

— Romanzi francesi, sì, specie se sono di un certo genere…. Pare che sia alla moda perchè non domandano che quello.

— Ma vi saranno pure le intellettuali….

— Intellettuali?… Non saprei. Vi sono le vecchie intellettuali abbonate tutte alla « Revue des deux mondes » e quanto alle giovani si servono del gabinetto di lettura dove si trova un po' di tutto.

— Il gabinetto di lettura? Libri in prestito?

— Sì. Due e cinquanta al mese: tre volumi per settimana.

— Ma questo è buono per le cameriere! — esclamò Filarete.

— Pare che vi trovino il loro tornaconto anche le signore perchè serviamo a questo modo le migliori case. Duchessa Vallese, contessa di Sira, principi Belmondo, le signore Guttierez, Vicobelli, Altalena, della Buscaglia…. tutte clienti del gabinetto di lettura. Quanto vi ha di meglio in fatto di nobiltà e di finanza.

— Ma — tornò a dire Filarete del tutto disorientato — questi libri che vanno in mano di chiunque, del bottegaio unto, del giovinastro avvinazzato, di persone a cui quelle nobili dame non vorrebbero a niun prezzo toccare un dito…. e in case sudicie, in lettignoti… questi libri pieni di infezioni e di microbi…. sui quali il vizio e la malattia hanno posato misteriosamente le loro traccie invisibili…. questi libri della comunità e della miseria che non si sa di dove vengono, carichi di fiati e di sputi…. che non si sa dove andranno portando via l'effluvio del salotto elegante dove posarono un giorno tra gli oggetti intimi e più più cari…. no, questi libri non possono soddisfare il gusto raffinato di quella parte di femminilità che tutte le altre donne guardano con invidia e che noi poeti collochiamo così alto nel nostro ideale.

Il libraio si strinse nelle spalle e rispose con finta bonomia:

— Che vuole, la vita è cara. I guanti devono essere freschi tutti i giorni al pari dei fiori, i nastri si gualciscono, le trine si stracciano, i cappelli si sformano prima che finisca la stagione. Un abito appena appena decente costa due o trecento lire, le mantelline duecento, trecento, cinquecento, ottocento a seconda dei ricami. Cenverrà che una signora vestita a questo modo non può portare scarpe scalcagnate e che se versa una goccia di profumo sul suo fazzoletto non può essere che una essenza da quindici lire la boccetta. Allora è naturale che per fare un po' di economia si permetta solo due e cinquanta al mese di intellettualità.

Caso singolarissimo in dicembre, Filarete si sentiva la fronte madida di sudore. Egli seguiva ora col pensiero la corsa misteriosa e fatale di quei libri e gli sembrava di scorgere i bacilli del tifo annidati tra le pagine sorgere e rampare lungo gli abiti eleganti di due o trecento lire, sulla bianca mano, nelle morbide chiome che in sogno aveva tante volte baciate. E dietro quei microbi da ospedale quanti altri microbi ancora non catalogati, microbi di cancrene morali e di inaudite volgarità non vedeva egli corrompere le più pure sorgenti delle sue illusioni! Stette così qualche tempo assorto, dimenticato dal libraio che si affaccendava intorno a clienti migliori, finchè approfittando di una sosta nel negozio arrischiò timidamente un'altra osservazione:

— E gli scrittori? Essi sono una falange. Questi uomini intelligenti non comperano mantelli da cinquecento lire nè profumi rari. Si interessano ben essi all'opera letteraria dei confratelli.

— Ah! caro signore, gli serittori non leggono che sè stessi. È il magro compenso che loro resta.

Filarete ammutolì. Inchiodato sulla sedia, in mezzo alle piramidi di libri che coprivano le pareti egli ne leggeva macchinalmente i titoli come si leggono in un cimitero le epigrafi delle lapidi. Tutti morti — pensava — eppure qualcuno deve pur vendersi poichè il libraio vive.

Quasi gli avesse divinato il pensiero, l'editore-libraio prese l'iniziativa di altre spiegazioni e pigliando dallo scaffale or l'uno or l'altro volume venne commentando:

— Ogni tanto capita un successo. Questo per esempio: « Mémoires d'une femme de chambre ». Non una delle mie clienti se ne è privata perchè le due copie circolanti del gabinetto di lettura non bastavano a soddisfare la curiosità di tutte.

— Anche « Quo Vadis » ha avuto a suo tempo un bel successo però.

— Sì, anche quello. Vede, o preti o…. Ci vogliono questi due argomenti per far fortuna. Ognuno ha il suo pubblico speciale e in giornata si specializza tutto. Se lei scriverà un altro romanzo ci pensi prima: o preti o….

Filarete abbassò il capo. Le ombre del crepuscolo invernale oscuravano già la soglia del negozio; altre ombre si addensavano nell'anima sua. Era dunque stato inutile tanto amore e tanto ardore?

A un tratto l'ombra sulla soglia apparve più cupa; una persona l'aveva ostruita in parte. Il commesso si affrettò ad accendere la luce elettrica facendosi innanzi ad un giovane che si avanzava timidamente sbirciando la fila dei libri schierati sul banco.

— In che cosa posso servirla?

L'incognito, portava un pastrano nero con bavero di velluto piuttosto usato e cappello a cencio schiacciato sull'occhio, mostrò un leggero imbarazzo continuando a guardare furtivamente le copertine. Finalmente disse a voce bassa, quella voce che tradisce immancabilmente lo stato della scarsella:

— Vorrei vedere il nuovo romanzo uscito: « Inesorabilmente » di Filarete Assioli.

Come mai non si accorse del giovine che diede un balzo sulla sedia a due passi da lui? Il commesso strizzò l'occhio da quella parte col fare di chi la sa lunga e porse il volume richiesto. Allora si vide una pantomima curiosa. Il nuovo arrivato, in piedi sotto la lampadina elettrica, sfogliava adagino le pagine introducendo il dito nei fogli ancora congiunti per tentare di allargare lo spiraglio, dando segni di interesse, di curiosità, di piacere; e Filarete dall'angolo semibuio dove si trovava abbandonato sulla sedia seguiva con ansia ogni movimento, ogni piega della fronte o delle labbra e cercava a sua volta di indovinare approssimativamente quale era il capitolo o il periodo che quello stava leggendo; quando lo vedeva sorridere si sentiva invaso da una straordinaria letizia e quando facevasi serio e attento tutta la sua anima trasmigrava nel corpo dello sconosciuto per scrutarne le sensazioni. A un certo punto il foglio chiuso da tutti i lati accrebbe la curiosità del lettore e diede a Filarete un brivido di febbre.

— Ebbene, quanto costa? — disse l'uomo dal pastrano nero; e prima ancora che il commesso potesse rispondere, avendo gettato uno sguardo sul dorso del volume, esclamò terrorizzato: — Quattro lire!

— Il volume ha quattrocento sessanta pagine, — si affrettò a dire il commesso, — l'edizione è elegante, caratteri nuovi….

Una viva contrarietà si era diffusa intanto sul volto dello sconosciuto; la sua tasca, quella tasca che aveva già dato il tono alla sua voce e che andava ora palpando malinconicamente modificò d'un tratto i guizzi lieti della sua fisionomia. Depose il volume sul banco mormorando:

— Ci penserò.

La sua voce era umile, scorata, mentre a passi incerti si avviava fuori della soglia.

Filarete non fece che un salto. Lo afferrò per la manica del nero pastrano e con voce ancora più umile, ancora più scorata, gli pose nelle mani il suo romanzo sospirando lieve:

— Lo accetti, la prego, lo accetti in omaggio…. Sono l'autore.

Conosco un paese che sta a quattro metri di livello sotto il mare, affondato dietro gli argini di un fiume dai ricchi affluenti le cui acque gonfiandosi lo inondano spesso e trasportando dall'una all'altra riva interi banchi di sabbia ne vanno mutando continuamente l'aspetto e la configurazione; malinconico paese perduto in mezzo a vaste campagne di grano sulle quali torreggiano cime di pioppi giganteschi appena mosse dall'aria greve. Paese triste che fu un tempo allegra città e che della caduta signoria conserva una specie di dignità pensosa sparsa nelle vie larghe dove l'erba verdeggia sulla soglia dei palazzi abbandonati, nelle piazze deserte, in certi viottoli oscuri mai battuti dal sole, dove pure rizza il fianco monumentale una vecchia bicocca trasformata in prigione e l'abside longobarda di una chiesuola coperta di musco.

Era appunto in una di queste vie, la più oscura, la più triste, la più romita, che salendo due deformi gradini di mattonato per una porticina esigua si entrava nell'abitazione di mamma Monica, dove l'impressione prima faceva pensare simultaneamente ad una cantina, ad un pollaio e ad un ripostiglio di legna. Ognuna di queste cose si trovava veramente ad occupare in piccola parte lo stretto vestibolo che a porta rinchiusa rimaneva quasi buio, e vi stava pure la scala conducente al piano superiore; ma tutta la vita delle persone che vi abitavano si svolgeva a quel pianterra umido e basso, in una lunga cucina che si apriva dirimpetto alla porta d'entrata mostrando in fondo una finestretta dai vetri affumicati come si vedono in alcuni quadri olandesi, ed era tanto lunga la cucina che quella finestretta sembrava la lente posta in fondo ad un canocchiale.

La giornata d'inverno, penetrando dai piccoli vetri opachi con una luce che la neve circostante rendeva più bianca, prendeva a tergo la figura evanescente di mamma Monica accantonata presso il focherello del camino; e mentre davanti il riflesso della fiamma le coloriva di insolito vigore il volto nonagenario, i raggi pallidi che le piovevano sulla capigliatura d'argento la circondavano di un nimbo etereo.

— Come è bella oggi la nostra mamma! — disse la maggiore delle tre figlie.

— Sì, è bella, — rispose la seconda.

— Molto bella, — confermò la terza.

Queste figliole erano anch'esse tre vecchierelle quasi incorporee, coi capelli appena un po' meno bianchi di quelli della loro genitrice. Girondolavano chetamente per la cucina, dandosi attorno alle loro faccenduole: una accomodava sul tagliere in belle file simmetriche certi cappelletti col ripieno di zucca che erano la grande specialità del paese nei giorni solenni; un'altra, seduta vicino alla finestra, macinava il caffè; l'ultima attizzava la legna sul focolare. Fu costei che soggiunse dopo un po' di tempo:

— Non vi siete accorte come oggi il fuoco soffia e sbuffa?… Segno di visite…. Verranno, verranno!

Mamma Monica sorrise debolmente.

— Nevvero, mamma, che verranno?

— Io lo credo; poichè domani è Natale, Piero non vorrà mettersi in viaggio nel giorno santo. Se assomiglia a suo padre deve avere il rispetto delle feste solenni.

La maggiore delle figlie, che era quella che macinava il caffè vicino alla finestra, si alzò, e dopo di aver riposto la polvere nell'apposito barattolo di latta, fattasi accanto alla madre le susurrò piano colle mani sotto al grembiule:

— Se devo dirti la verità, mamma, quel pensiero che la sposa di Pietro è una ballerina non mi va giù….

— Era, era, — rispose la nonagenaria.

— Ma è sempre una brutta cosa che lo sia stata. Quando mai vi furono ballerine nella nostra famiglia?

Le due sorelle, ognuna dal loro posto, approvarono in silenzio col capo.

— Il Signore — soggiunse mamma Monica — sa Lui quello che si fa. Del resto, anche una ballerina può essere una ragazza onesta.

Ubbidienti, le tre figlie non replicarono una sola parola; la mamma doveya saperne più di loro. Ammutolivano sempre così con una specie di rassegnazione umile tutte le volte che si accennava a cose od avvenimenti che la loro semisecolare innocenza non poteva comprendere. Ma la maggiore aveva visto tanti anni addietro, in un'antica strenna, una vignetta colorata che portava per titolo: « Zuleika la ballerina »; e rappresentava una giovane odalisca leggermente vestita la quale intrecciava una danza orientale davanti al Sultano con tali mosse e attitudini che le avevano lasciato nella memoria un turbamento incancellabile. Alla osservazione della veneranda madre ella tacque al pari delle sorelle ma tornò a prendere il suo posto vicino alla finestra guardando fuori.

L'orto, che appariva traverso il piccolo quadrato della finestra circondato da un alto muro e così pieno di verde che un po' ne restava anche nella fredda stagione, voleva dire per quelle volontarie recluse tutto l'orizzonte. Quanti pensieri, quanti sogni, quanti desideri, quanta tristezze, quante rinuncie, ed anche quanta definitiva acquiescenza dovevano racchiudere le esili pianticelle dei cucurbitacei arrampicate sul muro dal quale aprivano in primavera il largo ventaglio delle foglie molleggianti alle prime brezze! Pensieri ingenui, sogni casti, tristezze senza nome, rinuncie senza lotta e dolce dolce chinare dei cuori all'oscuro decreto della Provvidenza che tale aveva voluto dell'esser loro.

— Il gatto è fuori, — esclamò improvvisamente la maggiore che aveva visto ondeggiare la rada siepe di mortella che divideva l'orto, — andiamo a prenderlo, poverino!

— Vado io, — disse l'ultima delle tre sorelle che si era abbastanza abbrustolita accanto al fuoco.

Aperse la rozza imposta di legno che conduceva all'orto e trovato il miccio in mezzo alla neve se lo pose nel grembiule scottante ravvolgendolo con tenerezza materna.

— Stai bene eh? qui; stai bene, girovago, al calduccio?… Meglio il fuoco che la neve, eh?

La mamma lo volle vedere, lo volle accarezzare anch'essa, e le altre due vennero a far coro. Gli occhi del miccio luccicavano attraverso un lembo del grembiule e le quattro vecchie ridevano, ammiccando, solleticandolo colle loro mani rugose che tremavano un poco.

Suonarono in quel mentre le festose campane del mezzogiorno. La nonagenaria si fece il segno della croce, mormorando le prime parole del « Benedicite »; risposero le figlie in attitudine raccolta colle mani giunte; ed ella replicò:

— Diciamo un'« Ave Maria » per coloro che sono in viaggio.

Nella mente della vecchiarda l'idea del viaggio mal poteva disgiungersi da infinite peripezie su strade malagevoli infestate da briganti; non avendo per suo conto mai vista una ferrovia non cessava dall'aggiungere alle sue preghiere quel pio richiamo ai pellegrini viaggiatori d'altri tempi. Ma in quel momento la preghiera aveva una destinazione ben precisa. Ella pensava a Piero che doveva arrivare colla sposa. Questo nipote, che non conosceva, era figlio del suo unico figlio, il quale, partito da giovane in qualità di cameriere non aveva più fatto ritorno, ed era morto all'estero.

Compresero le figlie l'amorosa preoccupazione materna; colle tre teste grigie chine intorno alla venerabile testa bianca, l'« Ave Maria » fu recitata con ardore, seguita da un breve silenzio durante il quale il gruppo delle vecchie sullo sfondo della finestretta assumeva la rigidità arcaica dei primitivi. Ricominciava a nevicare lentamente.

Due colpi bussati alla porta di strada fecero sobbalzare la minore delle figlie la quale corse subito ad aprire. A quell'atto le povere guancie emaciate di mamma Monica arrossirono per la commozione; si levò in piedi, così fragile e barcollante che sembrava un'ombra, e mosse alcuni passi verso il vestibolo, seguita dalle altre due figlie che rattenevano il fiato e spalancavano gli occhi sulla singolare apparizione.

Chi erano questi signori e che cosa volevano? Un giovinotto con soprabito scuro e bavero di pelliccia si affacciò primo alla soglia; aveva un paio di pantaloni attillatissimi e scarpe gialle; l'orlo di un fazzoletto di finta batista usciva dal taschino del petto, una catena d'oro si sprofondava in quello del panciotto; aveva un paio di baffi ingommati e tirati su fin sotto gli occhi; un brillante scintillava al suo mignolo.

— Chi cerca? — domandò colei che aveva aperto la porta.

— La signora Monica Deviti?…

A un cenno affermativo l'elegante sconosciuto fece un passo avanti scoprendo una leggiadra donnina il cui volto sprofondava quasi tutto sotto l'ala prepotente di un cappello intorno al quale attorcigliavasi una lunga piuma grigiastra, ma il cui corpo provocante si mostrava invece con ostentazione sotto la morbidezza complice di un drappo sottile color turchese.

— A chi ho il bene di parlare? — articolò, confusa, la voce tremula della nonagenaria.

— La signora Monica Deviti?

— Monica Deviti sono io; signora no, — rispose col suo sorriso ingenuo, accennando ai forestieri che entrassero.

Ci volle un po' di fatica da ambe le parti per riconoscersi. Lo stupore e il disinganno furono reciproci. Ma quando il signore elegante dichiarò di chiamarsi Pietro Deviti, mamma Monica sopraffatta dalla commozione lasciò sfuggire qualche lagrima. La figlia maggiore esclamò: Gesù! Le altre, incapaci a parlare, si affrettarono a porre delle sedie intorno al fuoco.

Una vocetta stridula, aspra, stonata, fischiò di sotto alla lunga piuma:

— È questa la casa?

La seconda figlia si affrettò a spiegare che lì accanto c'era il tinello, ma nel rigore del verno la mamma preferiva mettersi in cucina, dove si stava più caldi.

— Ho novantadue anni, — disse la vecchiona, quasi per scusarsi.

La voce stridula risuonò ancora in una breve ma inopportuna risata; Pietro Deviti a sua volta scusò la sposa dicendo che era molto giovane.

Poi stettero a guardarsi tutti insieme passando di meraviglia in meraviglia. Pietro Deviti faceva il cameriere anche lui come suo padre, ma le povere vecchie zitelle non avevano mai visto altro che il cameriere della « Colombina », quando andavano a prendere un po' di vino per la mamma e non sapevano capacitarsi di tanta eleganza, ne pigliavano soggezione, nè per qualunque cosa averbbero ardito dare del tu a quel loro nipote così ben vestito. Quanto a mamma Monica, ci vedeva poco, e metteva tutte le sue forze nell'offrire da mangiare e da bere ai nuovi arrivati.

— Pranzerete con noi or ora, se non volete altro prima, — concluse ella affabilmente.

La donnina vestita in color turchese diede uno spintone al marito che si affrettò a rispondere:

— Ma noi non pranziamo a quest'ora.

— No?… — fece mamma Monica con dolcezza, — ebbene, quando vorrete.

La figlia minore additò il tagliere con benevola disinvoltura per vedere di rompere quel ghiaccio:

— Guardate, vi abbiamo preparati i cappelletti col ripieno di zucca; sono le zucche del nostro orto.

— E di sopra — soggiunse la seconda — vi aspetta il vecchio letto di papà e mamma, colla coperta filata dalla mamma stessa quando venne sposa.

La donnina che non aveva voluto sedersi accanto al fuoco fece una piroetta, mormorando ironicamente: Che gioia!… e l'aria mossa dalle sue sottane portò alle nari della seconda figlia un acuto odore di muschio. La maggiore delle tre sorelle, rannicchiata dietro la madre. guardava da un po' di tempo con indicibile sorpresa un gonnellino di seta rosa e verde coperto di merletti che appariva e spariva continuamente nei rapidi movimenti della sua proprietaria. Ciò le rammentava con una visione violenta « Zuleika la ballerina ».

Pietro Deviti si trovava più male di tutti. Aveva accettato per convenienza di sedere accanto alla veneranda Nonna, e, intanto che ella gli narrava di suo padre giovinetto, egli, con un fuscello, frugava nella cenere del focolare cercando il mezzo di cavarsela alla men peggio. Che sfortunata idea era mai stata quella di venire a conoscere i suoi parenti! Sollevando tratto tratto gli occhi dalla cenere vedeva il quadratello appannato della finestra, con quei vecchi vetri verdognoli dietro ai quali la neve sembrava anche più triste e si desiderava lontano cento chilometri.

A un tratto una delle sorelle esclamò:

— Venite a vedere il presepio?

Pietro Deviti si alzò con premura, stese i pantaloni sotto al ginocchio, arricciò i baffi e fece un cenno a sua moglie. In un angolo del tinello che fiancheggiava la cucina, sopra una cassapanca, era stato rizzato il paesaggio di cartone colla capanna coperta di paglia e il bambinello Gesù con un pannolino attraverso il corpo fra il bue e l'asinello che dovevano riscaldarlo. Le pie donne si affrettarono poi a spiegare che la Madonna era la figura in ginocchio col manto azzurro e i tre vecchi sul fondo rappresentavano i Re Magi. San Giuseppe mancava perchè proprio la sera prima era caduto per terra rompendosi in due.

— Guarda! Guarda!

L'interruzione veniva dalla sposina che aggrappata al braccio di suo marito si abbandonava a un nuovo accesso di ilarità.

— …. guarda il bambino. È il costume tale e quale avevo io nel balletto: « Amore è il più furbo ». Solamente che….

Pietro Deviti chiuse con una mano la bocca a sua moglie e prendendo una sùbita risoluzione, disse:

— Andiamo!

— Come? Dove? E il pranzo?

— Non posso fermarmi, — confermò lui abbottonandosi il soprabito fin sotto la gola.

— E i cappelletti?

— Li mangerete voi.

Mamma Monica dal suo cantuccio gridò:

— Che c'è? Cosa dice Piero?

— Dice che vuol partire.

— Ma è impossibile…. è appena venuto! Dobbiamo fare il Santo Natale insieme.

— Non posso, non posso.

— Lo avevi promesso, — gemette la vecchia Nonna con una tristezza profonda.

— Avevo promesso la visita e l'ho fatta; non ho parlato io del Natale; non posso, non posso. Addio a tutte.

— Ed anche ai personaggi del presepio, — esclamò la sua compagna strisciando una riverenza buffa. — A rivederci nella valle di Giosafat.

Mamma Monica tornò a sollevarsi dalla sedia, ma le gambe le tremavano troppo; le sue figlie la sorressero intanto che ella stendeva la mano in atto di benedire chi partiva. Non fece in tempo però; la porta di strada si schiuse rapidamente; ella brancicò un poco colla destra tesa, sbattè le palpebre, disse:

— Ma perchè sono partiti?

Su quelle parole così semplici di un dolore tanto profondo le quattro vecchie stettero mute. Parve che qualche cosa d'invisibile si fosse spezzato intorno a loro. La neve cadeva sempre dietro i vetri opachi della finestra…. Un odore di biscia era rimasto nell'aria.

Nicola Bordello entrò quella sera nell'osteria della « Testa d'asino » di assai cattivo umore. Diede subito una pedata al gatto, e sedutosi sulla panca con una mossaccia che gli scosse sulla fronte l'arruffata chioma picchiò un gran pugno sulla tavola esclamando senza la menoma intenzione di fare un giuoco di parole:

— Mondo infame.

La frase, per quanto energica, passò inosservata accanto a un piccolo gruppo di contadini che stavano discutendo dei loro affari, confidandoli a un vinello un po' acido, non tanto però che le mosche non accorressero da ogni parte a contenderlo — essendo pur vero che quando si tratta di pigliare ogni cosa torna buona. Solamente l'oste il quale stava dietro il banco grattandosi la testa ed i fastidi insieme sbirciò con indolenza il nuovo arrivato biascicando:

— Il solito ottavino?

— Un quartuccio perbacco e crepi la miseria! — esclamò ancora Nicola assestando un secondo formidabile pugno.

L'oste che non era nè guercio nè bolognese, ma che oste era, capì che lì ci stava un gran fuoco da estinguere e, dato di piglio al quartuccio e messolo sulla tavola, rimase in piedi davanti all'avventore con una cotal sua aria rimminchionita e dabbene che chiamava le confidenze come il cacio il pane.

Nicola Bordello prese il quartuccio e rovesciando indietro il capo ne bevette a garganella una buona metà ascoltando con piacere il glu glu del liquido che gli scendeva nell' ampio torace. Almeno bere si può sempre.

— Quest'anno, — disse l'oste, — il vino sarà anche migliore. Le viti sono di una bellezza….

— Accidenti! — esclamò Nicola stenando il suo terzo pugno.

L'oste rimase al pari di colui che avendo spianato il fucile verso un uccello pianamente posato in ramo se lo vede volar via ad un tratto. Per paura di far peggio stette zitto.

Fu Nicola Bordello che dopo un po'di tempo pizzicandosi il naso soggiunse:

— A me le capitan tutte.

L'oste si accontentò di fare: hum! hum! con un tono che non voleva dir nulla; e fu appunto quello che ispirò fiducia all'altro.

— Tu eri presente, nevvero, quando ebbi una disputa uno di questi giorni con Maso del Ghero, quello scimunito?…

L'oste tornò a fare: hum! hum!

— Ma già a lavare la testa all'asino (non parlo della tua, sai) si butta via sapone e ranno. Cosa mi salta in mente di volergli spiegare che cos'è la repubblica, come se lui potesse intendermi! Così da una parola all'altra ci siamo riscaldati la bile, ti ricordi?

— Vagamente.

— E gli dissi il fatto suo che gli stava bene, a quell'animale, ma niente di più del fatto suo; e nessuno ha parlato della Ghita del bosco che se ne infischia di lui; per questo il motivo della disputa non fu altro che la repubblica; tienilo a mente, la repubblica. Ora dimmi un po' per quale ragione m'ha tagliato nella vigna sette piedi di vite, che se non gli capita addosso mio padre la era tutta spacciata?

— Sette piedi di vite ti ha tagliato?

— Sette. Per vendetta che gli diedi dell'imbecille, come se la colpa fosse mia e non di sua madre che quando era gravida di lui ebbe certo voglia di una zucca.

— E quando è stato? — chiese l'oste con un interesse mediocre, solo per sostenere il discorso.

Ma Nicola Bordello ora che aveva dato la stura all'eloquenza non intendeva di finirla così subito. Buono che si fece portare un altro quartuccio prima di entrare nei particolari della sua disgrazia. Avvenne però questo, che le chiacchiere e il vino invece di calmarlo non fecero che eccitarlo maggiormente, al punto che gridava e smaniava sulla panca dell'osteria quando entrò per l'appunto il maresciallo dei carabinieri a farsi dare una gazosa perchè moriva dal caldo. Nicola Bordello vociava in quel momento:

— Non sono nemmeno io se non glie la faccio vedere a quel cane! Sette denti gli voglio strappare, sette martellate gli voglio dare!

L'oste ammiccò al maresciallo e questi che conosceva Nicola gli si avvicinò bel bello sorridendo col passo cauto della donnicciuola a cui è fuggito il merlo:

— Calma, calma, con chi l'avete, diavolo?

— L'ho che vedo rosso questa volta (Dio sa se intendeva rosso di sangue o rosso di vino) e uno sproposito lo faccio come è vero che mi chiamo Nicola.

— Perchè volete fare uno sproposito, — soggiunse il maresciallo con tono conciliativo, dopo di avere ascoltato il racconto di Nicola, — quando c'è modo di farvi rendere giustizia dai tribunali?

— I tribunali! — mormorò Nicola colpito dalla grandiosità della parola e dal mistero che in essa si celava, — possono forse i tribunali rendermi le mie viti?

— Possono obbligare Maso del Ghero a rifondervi i danni.

Gli occhi di Nicola luccicarono per improvvisa cupidigia, ma l'oste osservò:

— Maso è un po' corto di cervello. Chi sa se gli riconoscerebbero la responsabilità del mal fatto.

— Non importa, — soggiunse il funzionario, — i suoi genitori rispondono di lui ed hanno di che pagare sette piedi di vite.

— Ben detto! — esclamò Nicola. — Questa è giustizia. Io però non so come si fa a parlare ai tribunali.

— Se non è che questo vi aiuterò io a stendere l'atto d'accusa.

— Nel quale direte che fu in seguito a una disputa politica, senza parlare della Ghita del bosco che non c'entra per nulla.

— Come vorrete.

— In causa della repubblica, che lui non capiva che è il modo di comandare un po' tutti….

— Ma sì, ma sì.

— E siete sicuro che lo obbligheranno a rifondermi i danni?

— Almeno credo, se le cose stanno come le avete raccontate voi; ma anche alla peggio, male non ve ne può venire.

— Pare anche a me, — concluse l'oste che vedeva spuntare all'orizzonte un nuovo quartuccio.

In tal modo la querela di Nicola Bordello contro Maso del Ghero fu decisa.

*

— Gli faccio causa, — ripeteva in quei giorni Nicola a tutti i suoi conoscenti, smanioso di farsi pagare il guasto delle viti ed anche fiero di quell'improvviso contatto coi tribunali che doveva, secondo lui, accrescergli importanza. — In paese almeno sapranno che a Nicola Bordello non la si fa impunemente.

Quando uscì la citazione egli corse a casa con passi di un trabucco l'uno ed al vecchio che rimestava la cenere del focolare per trovare vare una brace da accendere la pipa gridò tutto giulivo:

— È quil ! È quil !

Padre e figlio consultarono attentamente il foglio di carta bollata nel quale si diceva che il querelante Nicola Bordello doveva presentarsi al tribunale della città di*** la mattina del giorno 28 alle ore nove precise.

— Ti daranno subito il denaro? — chiese il vecchio smettendo di soffiare sulla brace.

— Sfido io! e per che cosa mi chiamerebbero allora?

—Te ne daranno molto?

— Tutto quello che mi viene di sacrosanto diritto.

— Perchè, vedi, si son dati dei casi…. io almeno ho visto qualcuno a pigliare di più, capisci? Tu puoi dire intanto che era la miglior vite del podere; questo non è vero, ma tu lo devi dire.

— Sicuro.

— I genitori di Maso del denaro ne hanno, dunque paghino. Il tribunale non deve nemmeno sapere che noi quella vite la si sradicava lo stesso perchè era troppo fitta. È necessario dire in pubblico i nostri interessi?

— Giustissimo.

— Col denaro potremo invece rifare il tetto della stalla.

— O comperare l'oro per la sposa, — scattò fuori Nicola fregandosi le mani.

— Si vedrà, si vedrà, — disse il vecchio senza entusiasmo.

— Ma della Ghita in tribunale non parlo, — continuò Nicola con fuoco, — se Maso crede ch'ella lo voglia sposare per i suoi denari si inganna, si inganna, si inganna! La Ghita se ne infischia di lui e noi la lite l'abbiamo fatta per questioni politiche, lo giuro.

I due uomini stavano ancora discorrendo quando entrò tutta umile e compunta la madre di Maso e così sbigottita che sembrava una delle tre Marie reduce dal Calvario.

— Con permesso, — ella incominciò, — scusate se entro in casa vostra, ma è per il mio figliolo che voglio bene sperare non me lo lascerete solo nel ginepraio. Ha ricevuto la citazione per il giorno 28 alle ore nove precise e non sa che cosa fare, poverino.

— Come non sa? — gridò Nicola. — Non è per altro difficile. Egli se ne va a*** dove andrò anch'io e ci presenteremo al tribunale che farà giustizia. Vedremo quanto glie li faranno pagare i sette piedi di vite che mi ha tagliato, oltre lo scorno e il dispiaceré.

— Non è questo, non è questo, — gemette la donna, — se aveste parlato con me prima di fargli quella figuraccia della citazione si sarebbe potuto accomodare tutto fra noi; ed ora invece mi tocca di vedere il mio sangue a andare insieme ai ladri ed agli assassini.

— Ma che ladri, ma che assassini, — disse il vecchio scuotendo la pipa, — quando vostro figlio ci avrà, dato quello che ci viene saremo amici come prima.

— E non si poteva esserlo senza tirare in ballo i tribunali?

— Oramai ciò che è fatto è fatto, — disse Nicola, — la colpa non è mia. Non sono entrato io nel vostro podere a danneggiarvelo. Ognuno ha quel che si merita e la giustizia è la giustizia.

— Ma almeno — riprese la donna con accento lamentevole — non lasciatelo solo nel ginepraio. Egli non è molto svegliato di mente, lo sapete….

— Oh! se lo so! — disse Nicola squassando la folta chioma nel trionfo intimo della propria superiorità.

— Dunque usategli un po' di misericordia. Mio marito che ha una risipola in una gamba non lo può accompagnare; prendetevelo insieme per andare a***. Egli non ne verrebbe mai a capo da solo. È pentito, ve lo assicuro.

— Confesserà almeno in tribunale che il torto è tutto suo?

— Confesserà.

— E pagherà? — soggiunse il vecchio.

— Pagherà.

— E allora tutto va bene, — concluse Nicola, — ditegli che lo aspetto.

Ma la madre di Maso uscendo e tirandosi la pezzuola del capo sulla faccia perchè in seguito alla faccenda della citazione si vergognava di mostrarsi in paese, pensava:

— Eppure non c'era proprio bisogno dei tribunali!

*

— Il treno delle 8,15 non si piglia.

— E mo' perchè?

— Perchè arriva alle 9,30 e l'udienza è per le 9.

Il vecchio padre cui Nicola, la sera prima di partire stava, facendo l'osservazione, crollò la testa in aria di compatimento.

— Che ci fa? Minuto più, minuto meno….

— Il diretto parte alle 7,50. Quello sì anderebbe bene! Ma non ha la terza classe.

— Dici poco? Oltre il danno, il processo, il viaggio, sta a vedere che dovremo pagare la seconda classe.

— Per questo no, non ho intenzione di regalare i miei soldi alla ferrovia. Piuttosto beverli.

— Così va fatto. E che il tribunale aspetti! Tanto, cosa gli importa a lui? È pagato apposta per star là in poltrona ad aspettare le parti, Del resto non è nemmeno sicuro che il treno arrivi alle 9,30. Sbaglia il prete a dir messa; non può sbagliare anche un treno?

— E poi, — fece Nicola illuminato da un pensiero improvviso, — nessuno è tenuto a fare l'impossibile. Noi non possiamo prendere il diretto che è il treno dei signori, va bebe? E dunque non è colpa nostra se il treno della povera gente arriva alle 9,30. Questo ragionamento è così giusto che il tribunale non ci può trovar nulla a ridire. Io gli dichiarerò con tutta schiettezza: Signor tribunale noi eravamo pronti. È il treno che non era pronto.

— Impari il tribunale a studiare i treni prima di citare la povera gente, — brontolò il vecchio.

— Oppure, — sghignazzò Nicola, — ci ordini un treno apposta. Noi siamo nel nostro diritto, noi! Il governo ne fa abbastanza delle prepotenze, ma non può obbligarci a pigliare un treno che non ci accomoda. Ecco, dirò a quella bestia di Maso, ecco se non lo capisci ancora cosa vuol dire repubblica!

Maso per altro non fece nessuna difficoltà. La mattina del 28 giunse vestito a nuovo, con una penna di gallo nel cappello e le scarpe che facevano crac crac ad ogni passo. Teneva sul braccio un'ampia, sporta piena d'ogni ben di Dio; cacio, pane, un pollo arrosto, tanto salame da poter mettere bottega e un fiasco di vin vecchio; tutta roba che la sua buona mamma gli aveva ficcato addosso per forza temendo le peripezie del viaggio, fra cui, terribile, quella di patire la fame.

— Andate, — disse il vecchio, — e che Dio vi aiuti.

Nicola si voltò sulla, soglia:

— Purchè il treno arrivi proprio alle 9,30!…

— Minuto più, minuto meno, — tornò a fare il vecchio crollando le spalle come colui che certe fisime non gli entrano, — chi ci bada? e cosa sono pochi minuti davanti all'eternità?

La frase l'aveva udita in chiesa una volta, dal predicatore che era venuto a fare il quaresimale e gli parve di bell'effetto per incoraggiare i due giovinotti i quali correvano già attraverso i campi per andare a raggiungere il treno delle 8,15.

Il mattino era bello, l'ora fresca, i prati verdi; viaggiare in treno era un piacere. Nicola Bordello e Maso del Ghero lo riconobbero subito cacciandosi fuori degli sportelli colla gioia rumorosa ed ingenua di chi viaggia di rado. Poi fosse l'aria, il moto o la novità sentirono presto gli stimoli della fame, e la sporta che la mamma di Maso aveva così bene approvvigionata venne a proposito che mai più. Seduti l'uno dirimepetto all'altro cogli occhi allegri e le mandibole voraci, mangia tu che mangio anch'io, bevi tu che bevo anch'io, lo scopo per cui si trovavano insieme venne quasi dimenticato e non erano ancora a mezza strada che già si erano abbracciati brindando all'amicizia.

Come il vecchio aveva pronosticato sbaglia il prete a dir messa, possono sbagliare l'orario anche i treni; questo difatti invece di giungere alle 9,30 entrò in stazione alle 9,45.

— Che fa! — disse Nicola — minuto più, minuto meno….

Querelante e querelato entrarono in*** tenendosi sotto braccio come Damone e Pizia, non molto fermi sulle gambe a dir vero, ma pieni di speranza; e così mossero verso il tempio della Giustizia che trovarono chiuso.

— To', — fece Maso, — il tribunale ha la faccia di legno.

Venne fuori in quel momento l'usciere che domandò loro che cosa volevano. Fu Nicola che prese la parola:

— Noi siamo quei due che ebbero una bega per ragioni politiche, e costui mi tagl ò sette piedi di vite, che la repubblica non glie lo avrebbe mai permesso e per questo….

— Siete Nicola Bordello? — interruppe brusco l'usciere.

— Sono.

— E dov'è Maso del Ghero?

— Presente.

— Non essendo sul posto all'ora prescritta, — riprese l' usciere sempre più brusco, — il Tribunale ha fatto il processo senza di voi.

— Questa è bella! — esclamò Nicola, — come avrà fatto se non gli dissi le mie ragioni?

— Le ha dette per voi l'avvocato.

— E come poteva saperle l'avvocato?

— Gli avvocati sanno tutto.

— Bè, e che si fa ora?

— Ora si paga. Maso del Ghero per aver tagliato a scopo di vendetta sette piedi di vite nel podere di Nicola Bordello condannato in lire cinquanta….

— Che è giustizia! — gridò Nicola puntando l'indice verso il portone chiuso.

— …. e Nicola Bordello per non essersi presentato all'ora indetta lire cinquanta.

— Io! Io! Che c'entro io? Io pagare cinquanta lire? Non le ho tagliate io le viti. No! No! Giustizia! Voglio giustizia! Aprite il portone. Parlo io. La repubblica….

E cadde di botto sul sentiero.

Accorsero dalle case vicine uomini e donne spaventate chiedendo se era morto.

— No, — disse l'usciere con calma, — è solamente ubbriaco.

Maso del Ghero un po' intontito si raddrizzava sul cappello la penna di gallo.

Nel palazzo della Superbia, eretto sopra un' altura che dominava tutte le case circostanti, un guardaportone in gran livrea introduceva gli invitati i quali dovevano genuflettersi e fare atto di deferenza fin dalla soglia, poi attendere che Sua Maestà si degnasse riceverli; e questa attesa trascorreva in una galleria mobiliata di alti specchi destinati a riflettere, moltiplicandolo all'infinito, lo stemma di famiglia, la cui origine risaliva nientemeno che a Lucifero, e che si adagiava fra leoni rampanti ed aquile romane al di sopra di ogni specchio.

Prima ad arrivare fu la Gola, dal viso rubicondo e dagli occhietti lustri. Ella chiese subito se vi sarebbe stato trattamento e senza aspettare la risposta gonfiò le narici per cogliere nell'aria qualche buon odore di cucina. Era vestita in modo bizzarro ed appetitoso con una gonna succinta di un bel roseo tenero in gradazione di carne di aragosta e le cingeva la vita senza serrarla un corsaletto di velluto color tartufo bruno con guarnizione di piccoli gamberi di corallo. Una gorgiera trasparente di una tinta indefinibile tra il petto di tortora e il brodo di tartaruga le si allacciava intorno al collo rotondo, tenuta ferma da un largo topazio somigliante ad una gelatina d'arancio. Penduli da un braccialetto si cozzavano tra loro tre porcellini d'argento; le calze aveva di seta finissima nella intonazione delicata delle squamme di trota e sopra questa deliziosa piramide troneggiava un cappello a larghissime tese cariche di ciliegie, d'uva, di ribes, con due penne di fagiano e una testa di pappagallo. Sedette, e per non perder tempo trasse da una sacca che aveva portata con sè « fondants », gianduiotti e « marrons glacés ».

Venne seconda una splendida donna che al solo apparire fece correre un fremito nella schiera dei valletti ossequienti al suo passaggio. La sua entrata nella galleria degli specchi parve un soffio del caldo vento di Oriente pregno dei succhi delle rose di Teheran; la superficie dei cristalli si appannò riflettendo la sua bellezza come una guancia di efebo che si copre di pudibondo rossore ai primi assalti della voluttà.

— Buon giorno Lussuria, — disse Gola andandole incontro, — ti sei fatta bella assai per il convegno.

Sorrise l'altra, senza rispondere, coi denti candidi fra le labbra sanguigne; e trascinando in morbide onde il lunghissiomo strascico dell'abito marezzato di un verde smeraldo con fondi cupi di giaietto, raggiunse l'unico divano e vi si adagiò in posa molle. Le ampie pieghe della stoffa si distesero intorno a lei quasi sorreggendola in un amplesso; un profumo acuto corse per l'aria. La donna chiuse un istante le palpebre nell'attitudine di assaporare una sua intima ebbrezza e sollevando il seno con profondo respiro fece scintillare sulle carni nude un bizzarro amuleto incastonato fra vividi rubini che parevano goccie di sangue. (Ella aveva anche impressa sul dorso una maschera schifosa dalle occhiaie purulenti, ma non si poteva vedere se non quando si voltava; per questo non si voltava mai).

— Quanto sei bella Lussuria! — ripetè Gola, sempliciotta e ciarliera.

Un gran colpo intanto fece sbattere l'uscio e parve che una fiamma l'avvampasse. Ma non era che una personcina vestita di rosso, agitata e sbuffante, coi capelli in disordine e gli occhi di bragia.

— Come! — esclamò, — non è ancora riunito il Consiglio? Non sono tutte pronte le sorelle? Dovrò io aspettare a lungo? Superbia si prende forse giuoco di noi?

— Calmati sorella Ira. Non sono giunte tutte ancora, è vero, e Superbia sta a dare l'ultima mano alla sua toeletta. Ma c'è tempo.

— Io non ho mai tempo. Io ardo, brucio, investo, distruggo. L'ozio e la calma mi sono insopportabili. Io l'ho anche con te, Lussuria, che stai a poltrire fra i tuoi profumi invece di correre per il mondo in cerca di lotta. Vuoi che ci battiamo noi due intanto che si aspetta?

— Mille grazie, — rispose Lussuria accarezzando la testa di un serpentello d'oro che le formava cintura —; ben altre sono le mie battaglie.

— Sorelle, per carità, — mormorò una voce chioccia dietro la portiera, — chi di voi mi può prestare qualche lira per pagare il nolo della carrozza? Sono stata sorpresa dalla pioggia in mezzo alla via ed io non ho mai denaro con me, lo sapete, sono povera.

— Entra, Avarizia, entra, pagheremo noi.

Si presentò Avarizia, vecchia, sbilenca, vestita di nero, colle mani rugose senza guanti, con un cappello di forma e di stoffa indecise per poter servire in tutte le stagioni; aveva i chiodi sotto le scarpe e un randello sotto il braccio che le serviva ad allontanare i mendicanti ed i cani.

Un'altra voce dietro a lei implorò subito:

— Tienimi sollevata la portiera, sorella, affinchè possa entrare anch'io. Sono orribilmente stanca per la fatica di aver salito le scale.

— Vieni, Accidia, — disse Lussuria accompagnando l'invito con un grazioso movimento del braccio, — vieni amata sorella, ti farò un posticino su questo divano, bertuccia mia, còccola mia, vieni!

— Ah! — rispose Accidia lasciandosi andare sulla prima sedia accanto all'uscio, — sei troppo distante. Le forze non mi reggono.

Avarizia si accostò alla nuova venuta e palpandole colle dita adunche la stoffa dell'abito disse:

— Cospetto, che ricami! Devono esserti costati caro.

— Non lo so, non mi ricordo.

— È argento fino?

— Credo bene.

— Quando smetti questo abito lo vuoi dare a me?… Eh? Ne farò qualche cosa.

Accidia percorse con uno sguardo indifferente i ricami argentei del suo vestito che rappresentavano leggiere e soffici ragnatele sulla stoffa di crespo bianco. Elegantissimo vestito, a cui per altro cadeva qualche sbrendolo qua e là, ed era insozzato sul lembo estremo da numerose pillacchere dovute alla nessuna cura che si prendeva la sua proprietaria di sollevarlo quando attraversava un posto sudicio.

— Ci siamo tutte? Andiamo? — disse lra la quale non aveva voluto sedersi e passeggiava agitata in su e in giù.

— Manca….

Ma la frase fu troncata da un domestico che annunciò:

— Sua Maestà attende le loro signorie.

Rapida fu Ira a balzare all'uscio, seguita da Lussuria che snodò ancora sul pavimento lo strascico sinuoso della sua gonna marezzata di verde smeraldo con fondi cupi di giaietto. Gola veniva appresso sorreggendo Accidia sotto le ascelle e Avarizia se ne stava qualche passo indietro rovistando il suolo cogli occhi acuti e colla punta del randello per vedere se qualcuna delle sorelle avesse lasciato cadere una bazzecola qualsiasi.

Introdotte nella gran sala d'onore rimasero quasi acciecate dallo sfolgorio del trono sul quale stava rigida ed immobile Superbia, vestita con un magnifico abito di raso giallo lucente come oro fuso, recinto il collo di perle che le scendevano fino ai ginocchi, sparsa la persona di brillanti, di topazi, di rubini, di zaffiri, di smeraldi, cariche le dita di ogni sorta di gemme e la fronte altera chiusa in un diadema di stelle.

— Buon giorno, sorelle mie, prendete i vostri seggi. Scade oggi il mio turno di regno e dobbiamo nominare quella di noi che regnerà l'anno prossimo.

Lussuria si adagiò al posto d'onore, alla destra del trono, sorridendo coi denti candidi fra le labbra sanguigne.

— Grande è la nostra responsabilità, o sorelle, — continuò Superbia appoggiando la destra gemmata sopra uno scettro d'oro sormontato da una bestia favolosa, metà drago metà leone, cogli occhi di carbonchio —: noi assistiamo giornalmente alle conquiste davvero meravigliose che il progresse compie in tutti i rami. Dalla scienza alla legislatura, dall'arte alle più umili manifestazioni della vita tutto avanza, si svolge, si arricchisce. Ogni giorno ci dà una conquista nuova, ogni secolo ci presenta a gara invenzioni e scoperte, ed ogni invenzione ed ogni scoperta nuova mentre da una parte ci inorgoglisce sta pure a dimostrare da quanta imperfezione, da quanta insufficenza, da quanta manchevolezza siamo usciti. Solo il peccato non ha cambiato mai. Pensate: il progresso non ha saputo trovare un peccato di più! Ciò prova la nostra forza. Noi siamo al completo. E poichè nessun peccato è stato tolto, nessuno aggiunto, a noi che sempre fummo e sempre saremo, spetta di essere chiamate le Immortali.

Annuirono le sorelle con un modulato sussurro che dimostrava la loro soddisfazione.

— È d'uopo per altro riconoscere, — aggiunse Superbia girando intorno l'occhio sfavillante, — che io sola ho saputo fino ad ora tener alto il prestigio della nostra famiglia. Tu sei bella, Lussuria, ma io sono più bella di te e coloro che tengo stretti non si accorgono neppure de' tuoi vezzi. Nè tu Gola, nè tu Accidia, nè tu Avarizia potete illudervi di arrivare neppure a'miei calzari. Tu poi Ira mi fai ridere colle tue furie irriflessive….; sta cheta, non agitarti, tanto non mi spaventi. Ma vedo che sarà difficile trovare in mezzo a voi la persona degna di succedermi.

Rizzandosi sul busto morbido che si atteggiò in un movimento felino Lussuria prese la parola con voce velata e bassa:

— Io faccio dell'uomo quello che voglio; lo plasmo, lo trasformo, lo imbestialisco; oppure lo maciullo come stelo di canapa in tutta la sua carne fino all'osso; oppure mi attacco alla sua intelligenza che sotto il soffio delle mie labbra si spegne a poco a poco; e lo dilanio, e lo struggo finchè ridotto vil cencio muore nella morsa delle mie braccia. Nè basta, chè il veleno inoculato co' miei baci discende nelle stirpi e le attossica alle sorgenti. Io sono la lonza dai fianchi agili e dalla bocca crudele. Sono in una parola la Sterminatrice!

Un silenzio appassionato accolse le dichiarazioni della bellissima donna. Ognuno sentiva che lo scettro del potere sarebbe toccato a lei. Tuttavia facendosi innanzi con discreta audacia Gola volle anch'essa pronunciare il suo discorso:

— Per essere meno violenti di quelli di sorella Lussuria i miei mezzi di distruzione non sono meno efficaci e più lunga è la mia opera sugli uomini giacchè li prendo dalla culla e li posso dominare fino alla più tarda età. È ben vero che da qualche tempo quella pettegola di Igiene non fa altro che mettermi dei bastoni nelle ruote, ma io me ne rido, oh! se rido!…

La vecchia Avarizia movendo verso il trono a brevi passi sospettosi prese a sua volta la parola:

— Ecco, io non aspiro all'alto onore di essere nominata regina dei peccati, molto più che vi sarebbero certamente delle spese di rappresentanza e sono così povera così povera che vi farei sfigurare tutte. Però se quella che sarà assunta al potere vorrà gratificarmi di una modesta pensione, avuto riguardo alla mia età ed alle mie disgrazie, non credo di esserne immeritevole. Quanto bene io impedisco nel mondo! Senza strepito e senza scandali lascio marcire nella miseria innumerevoli persone, intralcio opere, faccio abortire progetti grandiosi, disprezzo l'arte e la poesia che soffocate dal soffilo gelido della mia mano si raggrinazano e cadono al pari di frutti bacati. Ben sta a sorella Lussuria il paragone della lonza. Io sono il tarlo. Ciascuno fa quello che può.

— E tu Accidia non dici nulla? — chiese la sedente in trono.

— Ah! lasciatemi stare, parlare è una ben grave fatica. E poi è tutto così inutile! L'ozio solo è bello.

— Eppure devi contribuire anche tu al fasto del nostro nome. Non si può essere peccati se non si fa qualche cosa.

— Scusa, sorella, non hai forse mai approfondita la mia missione nel mondo. Colla mia apparenza insignificante fo degno riscontro a sorella Avarizia; se ella è il tarlo che rode io sono l'acqua cheta che mina e ti so dire che ben molti ponti sotto i quali passarono trionfanti le fiumane dei secoli stanno per crollare in grazia mia. Chi vivrà vedrà. Ho detto.

— Ed io! Io! Io! Perchè non mi interroghi? — gridò Ira sollevando in ventate di rabbia il suo abito fiammeggiante.

— Taci, ragazza. I tuoi meriti come peccato sono considerati appena dai sacerdoti in confessione. Nel mondo non fai male abbastanza. Ora procederemo alla nomina della nuova regina. Ma che vedo, sorelle? Che è mai quella specie di fumo che entra dalla fessura dell'uscio?

— È forse nebbia.

— Pare un velo.

— Pare un cencio.

Una indistinta massa cenerognola strisciando di sotto all'uscio si avanzava pian piano, cresceva, ergendosi, e prendendo definitivamente forma e consistenza di donna si pose ritta dinanzi al trono.

— Ah! Invidia, povera Invidiuzza, ti avevamo dimenticata.

— Lo so, è quello che fate sempre. Ognuna di voi pensa e agisce come se io non esistessi.

Amarissima suonò la voce della nuova venuta, la quale chinandosi con ironica umiltà a baciare la mano di Superbia trovò modo di sputare senza essere vista sullo strascico di Lussuria. Ed era la più brutta delle sette sorelle, più brutta di Avarizia, benchè più giovane. Piccola, sparuta, dalla magrezza rachitica e viziosa, sulle sue guancie livide i desideri insoddisfatti e urlanti avevano scavato quasi una fossa; la sua bocca pieghevole alle basse adulazioni temprava nello stesso tempo la freccia avvelenata e i suoi occhi, dei quali uno era di vetro, avevano il sinistro bagliore degli occhi dello sciacallo vagolante intorno ai cadaveri. Sull'abito meschino di color bigio portava false perle e gemme di vetro sfacciatamente luccicanti.

— Come mai, — disse Gola grassa e senza malizia, — hai potuto passare nella fessura dell'uscio?

— Io striscio, raspo, gratto, lecco, mi schiaccio, mi assottiglio a piacer mio. È uno dei miei mezzi per penetrare dove voglio. Sono arrivata tardi perchè ero in giro d'affari.

— Dove?

— Nel mondo.

Così dicendo scoperse una face che teneva nascosta sotto la gonna e l'agitò per l'aria.

— Questa è la face della Discordia! — esclamarono insieme Superbia ed Ira.

— Appunto. Io me la faccio prestare sempre quando mi reco nell'uno o nell'altro luogo; con essa accendo le fantasie degli uomini dove già deposi il fermento infiammabile dell' odio. Voi quante siete agite con mezzi limitati sopra una categoria di individui ciascuna; il mio dominio invece è universale, perocchè io posseggo una parte dell'anima di ogni essere vivente così che il superbo, il lussurioso, l'avaro, il ghiottone, l'accidioso, l'iracondo mi appartengono a loro insaputa e mentre ognuno di costoro avrà uno dei peccati che voi rappresentate il peccato mio è in tutti.

— Oh! — fece Superbia aggrottando le ciglia.

— Da questo medesimo posto dove noi sorelle siamo riunite non ho che a scatenare il mio dèmone per vedervi tutte l'una contro l'altra. Tu per la prima, Superbia, invidii le belle forme e il sorriso incantatore di Lussuria.

La donna in trono si morse le labbra per dispetto. Invidia che la guardava col suo occhio unico torbido, mentre l'occhio di vetro riluceva sinistramente, continuò:

— Voi vi saziate qualche volta, io mai. Io sono la lupa dal ventre concavo e dalle fauci bramose che gira sempre in cerca di preda. Non udite i sordi rumori che salgono da ogni parte del mondo? Io sollevo i popoli come voi sollevate una festuca. Qualunque arma mi serve; perfino la Verità che so violentare e condurre a' miei fini, perfino l'Innocenza che accieco e della quale mi faccio scudo. Chi rompe le amicizie, chi disunisce le famiglie, chi mette in guerra i popoli, chi insidia il trono dei re? Io. Vedete quelle case silenziose, quegli austeri conventi dove nel nome di Cristo stanno riunite tante pie suore, tanti religiosi fratelli? Essi hanno rinunciato alle tue pompe o Superbia, alle tue tentazioni o Lussuria ed alle tue o Gola; essi dànno un pane a chi non ne ha e la regola vieta loro di essere oziosi ed iracondi. Sono soli con Dio. Una ferrea porta ingraticciata li divide dal resto degli uomini…. Ma io penetro, io, il peccato universale!

Un brivido corse nell'assemblea fatta muta e tremante.

— E coloro che si chiamano figli delle Muse, questi esseri ideali che si pascono di poesia e di fantasie leggiadre, grandissimi talvolta, talvolta assurgenti alle più alte questioni che preoccupano l'umanità, aquile librate sopra le miserie terrene, vedeteli, vedeteli questi superuomini, pallidi in volto del mio pallore, denigrarsi a vicenda e colpirsi alle spalle con zanne di tigre. Quale grandezza io rispetto? Quale sentimento mi arresta? Quale tradizione mi unisce a' miei simili? Io rinnego tutto e tutti.

Le sei sorelle si strinsero insieme intorno al trono con un movimento pauroso, tanto era bieco l' occhio unico di Invidia e l'altro, l'occhio di vetro, mandava riflessi gelidi di morte.

— Ah! voi vi amate? — rauca e cavernosa era la voce di Invidia, scosse le membra da un tremito febbrile, mentre soffiava in volto alle sorelle l'alito impuro. — Voi credete ancora ai vincoli del sangue? Guardatemi, prostratevi dinanzi a me, riconoscetemi per vostra regina. Io vi odio!

Tacita, Superbia discese dal trono, si tolse il diadema di stelle e ne cinse il capo di Invidia, allentò lo scettro e lo pose nella destra di lei, poi chinandosi al baciamano di rito, mormorò fra il silenzio sbigottito delle sorelle:

— Cedo a te le insegne del potere e ti riconosco regina dei peccati.

Rapidamente Avarizia raccolse da terra le gemme false che Invidia, ascendendo in trono, aveva lasciate cadere.

Coloro che conoscono Giacomo Gondi conoscono anche Pinotto. È impossibile che non rammentino la sua figura tozzotta, bassotta eppure svelta, i suoi capelli duri e ritti pari alle setole di una spazzola, i suoi occhi grigi e leali, buoni ed anche un cotal poco spiritati come se un folletto di dentro vi si affacciasse tratto tratto ad accendervi un pizzico di pece greca.

Fino a poco tempo fa gli amici di Giacomo Gondi quando andavano a trovarlo pregustavano fuori dalla soglia l'onesto compiacimento di vedere la faccia sorridente di Pinotto mentre diceva con una frase quasi invariabile:

— Resti servito, il mio padrone scrive ma la vedrà volontieri.

Era un'idea fissa di Pinotto quella di credere che il suo padrone scrivesse sempre. Secondo lui, per riempire tante colonne di gazzette, tante pagine di volumi, occorreva scrivere senza respiro. E se introduceva con gentile premura i visitatori c'era forse in fondo alla sua cortesia un retropensiero, sia pure vago ed incerto, di portare un po' di sollievo a quel terribile scribacchiatore; perchè Pinotto aveva buon cuore, bisogna convenirne; anche se altre facoltà scarseggiavano in lui, sarebbe a dire criterio, prudenza, senno, il suo cuore era buono, il suo cuore era largo, tanto largo che da vero ingordo ingoiava tutto.

È noto il simpatico accordo che da parecchi anni univa queste due creature rendendole vicendevolmente felici. Se Pinotto risparmiava al suo padrone la briga di occuparsi delle piccole faccende del suo appartamentino da scapolo servendolo con intelligenza e con onestà, è pur vero che Giacomo Gondi chiudeva facilmente un occhio sugli stivali mal lucidati o sul caffè troppo lungo, e se pure gli accadeva di dover riprendere Pinotto, lo faceva con perfetta carità di simile, ricordando a tale proposito il motto di Sterne: « Basta che nella faccia di un povero diavolo io legga questa espressione dolente: eccomi, sono tuo servo, per sentirmi subito disarmato ».

Giacomo Gondi, per quanto fosse di professione letterato, aveva ottimo stomaco e non era punto fegatoso. Non soffriva nè di dispepsia nè d'invidia e sapeva sorridere persino nel momento tragico in cui due direttori di giornali gli scaraventavano addosso contemporaneamente questi due quesiti: « Credete voi all'immortalità dell'anima? » — « Quale è la vostra opinione sui cappelli delle signore a teatro? » Evidentemente non si trova in tutta la repubblica letteraria un carattere migliore di quello di Giacomo Gondi. Pinotto era il primo a riconoscerlo.

Quanto a Giacomo Gondi, inveterato ottimista, si era a poco a poco persuaso di avere risolto in piccolo uno dei più gravi problemi che tormentano l'umanità. Egli pensava: io ho bisogno di Pinotto e Pinotto ha bisogno di me; egli mi serve con amore ed io lo tratto con amore; i nostri interessi sono così vicini che ne formano uno solo. Quello di noi due che sopravviverà all'altro gli chiuderà gli occhi in pace e il morto potrà essere sicuro che almeno una lagrima sincera sarà caduta sulla sua fossa. Pensando tali cose Giacomo Gondi si commoveva davvero.

Ma, non so se qualcuno se ne sia accorto, da qualche tempo Pinotto era cambiato. Quando apriva l'uscio agli amici del suo padrone non lo faceva più con quel garbo simpatico e sincero che gli accaparrava tutti gli animi: sorrideva meno; interpellato, rispondeva con una bruscheria e un disdegno affatto insoliti. Invece della frase sacramentale: — Resti servito, il mio padrone scrive ma la vedrà volontieri, — il più delle volte non parlava accontentandosi di accennare colla mano tesa l'uscio dello studio.

Anche in casa, col suo padrone, si era fatto torvo e concentrato.

— Pinotto, cos'hai? — gli chiese un giorno Giacomo Gondi mettendogli una mano sulla spalla.

— Oh! mi lasci stare, ognuno ha i propri pensieri, — rispose Pinotto con una scrollata che lo liberò dalla mano amichevole.

E un altro giorno essendo stato fuori per una commissione un'ora buona oltre il necessario, Giacomo Gondi osservò che già altre volte si era assentato così senza apparente motivo lasciandolo inquieto e che lo pregava quando volesse andare a spasso per suo conto di avvertirlo, almeno, per sua regola. Alle quali parole, dette con accento conciliativo, Pinotto non si peritò di contrapporne altre violente ed aggressive, soggiungendo che era un uomo libero, che il tempo delle imposizioni era finito e che i padroni non hanno il diritto di controllare le azioni dei domestici.

Io mi ricordo che verso quel tempo appunto Giacomo Gondi si era mostrato con me impensierito per il mutamento di Pinotto.

— Non vorrei che covasse qualche malattia, — mi disse. — Fosse l'itterizia?

Poco dopo, proprio quando si ebbe notizia dei primi sollevamenti russi contro lo Stato, Pinotto, che non si era mai occupato di politica, saltò su a gridare:

— Benone! Così va fatto!

Ero presente alla improvvisa sortita e so che il folletto nascosto in fondo ai suoi occhi mi fece quasi paura per la gran vampata che cacciò fuori.

Ma il peggio fu quando Giacomo Gondi, colle braccia cascanti dell'uomo che ha ricevuto una bastonata, mi confidò sospirando:

— Caro te, io ho un gran timore che Pinotto impazzisca!

Gli aveva parlato per tutta la sera di diritti conculcati, di sfruttatori, di succhioni, di egoisti, con un ardore di novizio che sfodera in un colpo solo tutte le sue armi, colla veemenza dell'allucinato in preda ai primi assalti dell'idea fissa. Giacomo Gondi, che è timido come una fanciulla (una fanciulla dei tempi andati), era rimasto ad ascoltarlo a bocca aperta. Gli promisi che lo avrei tastato io così alla lontana per cercare di farmi un'idea precisa di quella diavoleria che era entrata in corpo a Pinotto.

Giusto appunto essendo capitato un giorno dal droghiere a comperarmi delle caramelle di pomo per la tosse, trovai Pinotto in un gruppetto di quattro o cinque scamiciati riuniti intorno ad un tavolino dove si beveva non so che liquore brindando alla morte di tutti i padroni. Pinotto era anche lui col suo bravo bicchierino alzato e non lo depose affatto vedendomi, ma rosso d'ira mi gettò un'occhiata torva senza salutarmi.

— Ebbene, Pinotto, — gli dissi avendolo aspettato sul canto della via, — da quando in qua sei diventato un rivoluzionario?

— Da quando apersi gli occhi, — rispose il pover'uomo con una cert'aria tracotante che nelle sue intenzioni doveva rappresentare il coraggio. — Il mondo ha finito di essere ignorante; ora anche quelli che non hanno studiato la sanno lunga e non si lasciano più infinocchiare.

— Ma chi ha infinocchiato te, povero Pinotto?

— Oh! non parlo per me, non sono egoista io. Io sento vibrare (si diede un gran pugno sul petto) l'anima collettiva del popolo che soffre.

Era proprio Pinotto che parlava? Se non lo avessi avuto davanti in carne ed ossa, avrei potuto credere che un fonografo accanto a me ripetesse la concione tribunizia di uno dei tanti comizi che rallegrano le folle.

— Ma tu hai brindato alla morte di tutti i padroni….

Non mi lasciò finire. Sempre più eccitato nel fenomeno dell'autosuggestione e nella fanfara delle proprie parole che lo inebbriavano come il più capzioso dei vini, egli interruppe:

— I padroni rappresentano la tirannia del capitale, bisogna abbatterli tutti affinchè l'uomo sia libero. Guardi in Russia….

— Lascia stare la Russia, Pinotto, che tanto non è roba per i tuoi denti ed è troppo lontana perchè tu possa mai lusingarti di ficcarvi lo sguardo. Invece dell'anima del popolo, che anche codesto è un osso duro da rosicchiare, interroga la tua coscienza e dimmi che cosa puoi rimproverare al tuo padrone?

— Il mio padrone non c'entra, — si affrettò a rispondere Pinotto, — non parlo per lui.

— Benissimo. Ma se fra coloro che gridano morte ai padroni tre quarti, o la metà, od anche un quarto solo dovesse fare la restrizione mentale che fai tu, qual valore di sincerità e di verità vi sarebbe nel vostro plebiscito?

Qui Pinotto parve comprendere poco perchè si grattò malamente un orecchio e soggiunse con impazienza:

— Loro padroni non comprendono nulla dei nostri bisogni e poichè tengono la penna in mano quando non torna loro il conto a metter giù un nove lo capovolgono e ne viene fuori un sei, così hanno sempre ragione.

— Ti assicuro, Pinotto, che questa operazione aritmetica mi riesce affatto nuova e….

— Dovrebbero — continuò colle fiamme negli occhi — venir loro a tirare il carro, a sudare come bestie, a patire la fame, il freddo, i microbi….

Anche i microbi!!… A tal punto rividi bene Pinotto nella linda cucinetta di Giacomo Gondi, col suo bravo fuoco acceso sotto le appetitose vivande che cuocevano per entrambi; o cantarellare intanto che spazzolava gli abiti: o fumare la sua pipa accanto alla finestra aspettando il ritorno del padrone; o sfogliare i giornali illustrati alla sera quando aveva sparecchiata la tavola; od aprire l'uscio ai visitatori; o girare il rubinetto della luce elettrica; o portare una lettera alla posta; o preparare il caffè e prenderne la sua parte; o schiacciare un pisolino sulla poltrona di Giacomo Gondi quando Giacomo Gondi si attardava fuori di casa; e tutte queste miti occupazioni fra le quali si era svolta per tanti anni la vita serena di Pinotto facevano un tale contrasto colla sua descrizione della miseria proletaria, che non mi riuscì di frenare un sorriso ed allontanandomi lemme lemme mi veniva fatto di pensare: Possibile che vi sia in certi uomini tanta voluttà di soffrire che anche quando stanno bene vogliono persuadersi del contrario per non rinunciare al gusto di lagnarsi?

— Bada — dissi all'amico mio — che Pinotto frequenta una cattiva compagnia.

— Lo so, — mi rispose Giacomo Gondi, — e il mio dispiacere è di non potere fare nulla per questo povero illuso. Io lo vedo avviarsi giorno per giorno alla sua rovina, sento che mi sfugge, che si perde e che lo perdo e sono impotente ad arrestarlo. Nel suo cervello semplice quell'idea che vi hanno gettata come una noce in una scatola vuota gli fa intorno un frastuono indiavolato, lo intontisce, lo ubbriaca. Va a ragionare se puoi con un uomo che non sta ritto sulle gambe!

Francamente devo dire che ignoro ciò che avrei fatto nei panni dell'amico mio, essendo più che ogni altra cosa malagevole il sostituirsi al pensiero, al sentimento, alla impressionabilità di un altro, ma Giacomo Gondi nella infinita dolcezza del suo temperamento credette far bene raddoppiando verso il suo domestico di affabilità e di condiscendenza. Fu peggio che andar di notte, perchè costui a vedere quella remissione non pensò neppure un istante che fosse una nuova prova della bontà di Giacomo Gondi e l'attribuì tutta alla paura delle sue minacce, quanto dire alla superiorità inappellabile della sua causa, per cui si fece sempre più insolente, infingardo e pieno di pretese. Giacomo Gondi ne soffriva nelle più intime fibre della sua anima di timido, di sognatore, di ottimista e — come succede agli individui del suo temperamento — si lasciava andare pel verso della corrente, affidato ad una fluttuante speranza che le cose dovessero da un momento all'altro cambiare.

Si era a questo punto quando una delle scorse sere, un po' prima di mettere in tavola, Giacomo Gondi che ritornava da una lunga corsa in mezzo alla nebbia tutto rattrappito e freddoloso, pregò Pinotto di accendergli il caminetto nel suo studiolo, ed avvenne che accendendolo Pinotto lasciasse cadere sul tappeto un tizzo ardente.

— Bada, bada, raccattalo presto! — gridò Giacomo Gondi, il quale aveva visto con terrore la minaccia di una abbruciatura in quel tappeto a lui carissimo per lontane memorie.

— Cosa crede, che lo abbia fatto apposta? — fu pronto a rimbeccare Pinotto.

— Non dico questo, ma spicciati; non vedi che ne hai lasciato cadere un altro pezzo? Oh! povero me!

— Ih! quante smanie per un cencio di stoffa da tener caldi i piedi alle loro signorie mentre tanti poveri disgraziati muoiono di freddo nelle steppe….

—….russe, — completò Giacomo Gondi al corrente del tic russofilo del suo servitore.

Pinotto, che stava accoccolato soffiando nella bragia, si alzò come un galletto in atto di sfida:

— E non mi canzoni sa? perchè il tempo di umiliare la povera gente è passato. So benissimo che ella l'ha con me perchè le furono riferite delle cose che mi riguardano.

— Ti inganni, Pinotto, io verso di te non mutai affatto, tu piuttosto….

— Ma sicuro! (il neofita vedeva presentarsi l'occasione di affermare coraggiosamente il suo credo, forse di divenire un eroe, un martire, uno di quei personaggi che passano poi nei libri e dei quali si discorre per un pezzo; questo pensiero gli infuse una audacia straordinaria). È suonata la diana! Tutte le viltà degli sfruttatori ricadono sul loro capo; abbastanza essi abusarono del loro potere, ma la nostra coscienza ora si è svegliata, sentiamo la nostra dignità di uomini tutti eguali e soprusi non ne vogliamo soffrire più.

— Ma Pinotto, che diavolo è mai entrato nella tua pelle, non ti riconosco! Vuoi dirmi almeno che male io t'ho fatto?

— Lei, lei…. — non parlo per lei, — mormorò Pinotto con voce rabbonita; ma poi subito pentito quasi si fosse sorpreso in delitto di fellonia, soggiunse: — Del resto, anche lei come tutti gli altri. Se appariva buono, se mi trattava bene, non lo faceva mica per amor mio, ma solo per il suo interesse.

— Pinotto….

— Sì, per il suo interesse, perchè gli fa comodo a tenermi; e se mi nutre bene non è già per buon cuore, oh! no, ma perchè abbia maggior salute e maggior forza da mettere al suo servizio. I padroni non fanno nulla per buon cuore. Essi ci lascerebbero crepare di fame se non avessero bisogno di chi pulisce le loro camere e i loro abiti!

Giacomo Gondi tremava di commozione, di sdegno, di pietà a vedere così trasformato il suo compagno di otto anni, di quegli otto anni trascorsi con tanta soddisfazione reciproca e (almeno aveva creduto) reciproco affetto.

— Senti, — disse con accento pacato e grave, — tu non sei in stato normale, o hai la febbre o sei pazzo. Va a coricarti.

— Non sono nè malato nè pazzo. Ho tutto il mio senno.

— Allora c'è qualcuno che ti ha scaldata la testa, va, va a riposare.

— A me scaldare la testa? — esclamò Pinotto ridendo ironicamente, — non sono nè un bambino nè uno stupido; dica piuttosto che è lei che vuole liberarsi di me. Ah! ma se è questo (una vampata sinistra balenò ne' suoi occhi) il servizio glielo faccio subito e me ne vado.

Non così presto lo scatto di una rivoltella risponde alla pressione del dito quanto l'azione seguì le parole di Pinotto. Gettò via la paletta che teneva ancora in mano e corse all'uscio. Giacomo Gondi credette che si fosse riparato in cucina a sfogare da solo il malumore e già si rassegnava colla solita filosofia a posticipare il pranzo di qualche mezz'oretta, quando lo vide riapparire sulla soglia col cappello in mano e un fardello sotto il braccio.

— O dove vai ora?

— Vado che la riverisco.

— Ma sei matto?

— O matto o no, non voglio sopportare più gli scherni e gli oltraggi di un padrone che dopo di avermi succhiato il sangue, quando non fossi più buono a nulla mi caccerebbe via come un cane.

— Veramente, se c'è qualcuno che in questo momento possa dire di essere trattato come un cane, Pinotto, non sei tu quello! Rifletti….

— Ho riflettuto abbastanza. Un tozzo di pane duro ma colla dignità di uomo libero.

— La dignità, Pinotto….

Un bel discorso in proposito avrebbe forse pronunciato Giacomo Gondi che già se lo sentiva salire tutto caldo e sincero su dal cuore, se quell'indemoniato gliene avesse lasciato il tempo, ma che! Giacomo Gondi rincorrendolo lo vide precipitarsi per le scale a guisa di valanga, infilare la porta, sparire laggiù, laggiù verso la nebbia, dove era buio, freddo, solitudine.

— E pensare — mi diceva ancora ieri Giacomo Gondi — che io avevo già provveduto all'avvenire di quell'imbecille nominandolo nel mio testamento per una rendita vitalizia.

— Il bello poi sarebbe — soggiunsi io — che tu da questo fatto bizzarro ne ricavassi una novella. Allora sì Pinotto potrebbe chiamarti sfruttatore e succhione. Ti par poco?…. Far denari sulla sua pelle!

Una tenda a rete di color turchino scuro separava la bottega dell' ottico dalla strada, invasa a quell' ora da un sole cocente che sembrava, anticipare l'estate quantunque non si fosse che in giugno.

Nella vetrina i canocchiali da teatro allineati simmetricamente, quelli di pelle nera, quelli d'avorio, quelli di madreperla, quelli di metallo, tutti ben lucidi e puliti, avevano l'aria di dormire, come accade in tempo di morta stagione, accanto alle lenti solite che si vendono tutti i giorni ed a certi complicati trabiccoli per studi speciali che facevano fermare i ragazzi curiosi sempre di ciò che non capiscono.

Tentavano anche i ragazzi di sbirciare nell'interno della bottega dove si rizzava sopra un cavalletto di legno un grande stereoscopio, ma la tenda a rete di color turchino scuro nello stesso modo che impediva alle mosche di entrare impedivalo pure agli sguardi dei piccoli indiscreti.

A un dato momento, tuttavia, sotto la pressione di una piccola mano serrata in un guanto di pelle di Svezia, la tenda si scosse e ondeggiò aprendo il passo ad una signora dall' aspetto semplice e distinto che scomparve subito nella penombra interna. Giungendo dalla caldura della strada il negozio presentava un ristoro di oasi che la signora avvertì subito con una lieve espressione di piacere nel bel volto pallido un po' sfiorito.

— Le sue lenti non sono ancora pronte, — esclamò l'occhialaio da dietro il banco, sospendendo di frizionare con un pezzo di flanella un manico di tartaruga —; so ha la bontà di aspettare dieci minuti, un quarto d'ora al più…

— Benissimo, — fece la signora prendendo posto con tutto suo agio sopra un divanuccio collocato in fondo al negozio, fra due scansie che lo rinchiudevano isolandolo in una improvvisazione di cantuccio intimo assai attraente. — Non ho fretta e si sta bene qui.

Poi girò intorno gli occhi, calma, assorbendo la quiete dell'ambiente silenzioso e fresco come una biblioteca. Una scarsa luce quasi di tempio attraverso il turchino scuro della tenda le cui maglie filavano i raggi del sole, stendeva una specie di tessuto vaporoso dove non si muoveva un sol atomo di polvere. Dietro il banco il principale aveva ripreso a frizionare la sua tartaruga coi movimenti calmi e sapienti delle mani un po' floscie avvezze alle cure meticolose dei piccoli oggetti fragili; era vestito di nero con una severità professorale e portava i capelli argentei lucidi e ben pettinati divisi da una parte in una riga così perfetta che sembrava tracciata con un regolo. Un misterioso rumore intermittente veniva dal retro-bottega, come di lima… ma poteva anche essere altra cosa.

La signora si accomodò meglio sul divanino, presa da una languida stanchezza che aveva il suo fascino in quel luogo raccolto, fra le bacheche ornate di piccoli istrumenti ignoti, di rigidi astucci d'onde luceva appena con un bagliore discreto il torso convesso di una lente o una sottile rilegatura d' oro. Un termometro dinanzi a lei segnava ventisette gradi; fuori dovevano essere più di trenta. Con una mano sulla bocca, la signora sbadigliò lievissimamente.

In quell'istante apparve nel negozio un signore di mezza età, o piuttosto di tre quarti d'età, molto ben conservato, ritto, elegante, il passo elastico, la pupilla viva; alla bottoniera del suo complet grigio occhieggiava un mazzolino di fiori azzurri da campo. Egli chiese che gli mostrassero un canocchiale da montagna, e intanto trasse fuori dal taschino del bianco panciotto un paio di « pincenez » da fare aggiustare.

— « Sprechen Sie deutsch »?

Il signore saltò indietro due passi al suono delle barbare parole pronunciate dietro di lui e lasciò libero il banco a un drappello di viaggiatori che sulla risposta affermativa dell'ottico vi si precipitarono ingombrando il negozio colle loro persone massiccie, i grossi piedi corti e le grosse faccione erubescenti. Vi erano nel drappello uomini, donne e qualche campione di sesso incerto; e tutti tenevano tanto posto che il signore non sapeva più dove mettersi.

— Scusi, sa, — gli disse il principale con un sorriso imbarazzato, — se non le dispiace attendere….

— Si figuri!

Retrocedendo fino in fondo al negozio, e voltandosi, il signore si trovò faccia a faccia colla signora.

— Oh!!

— Voi!!

Certo nessuno dei due alzandosi quel mattino avrebbe immaginato di dover mettere fra i casi della giornata il singolare incontro. D'ambo le parti la sorpresa fu tanto schietta quanto piacevole; se lo dissero subito prima cogli occhi, poi con una stretta di mano lunga, cordiale….

Fu la signora che ritraendo la manina ed arrossendo un poco colla grazia che alcune donne conservano anche quando non sono più giovani mormorò piano:

— Da quanto tempo non ci vediamo più!

— Da quanto!

L'istante di silenzio che seguì fu impiegato da ognuno dei due a un breve calcolo mentale. Il signore disse:

— Ma vi ritrovo la stessa.

— Oh! prego….

— Sì sì, vi assicuro, la stessa, — soggiunse con accento commosso, — almeno per me.

— Sempre galante.

— Dite fedele.

— Questo mi sembra un po' troppo, via!

— Secondo ciò che si intende per fedeltà. Credete che….

— Ma anche voi state benissimo, — interruppe vivacemente la signora, — non soffrite più quei terribili mali alla testa?

— No. Da quando mi sono ritirato in campagna la mia salute si è rinnovata.

— Vivete in campagna adesso? Così si spiega perchè non ci siamo incontrati più.

— Veramente vengo spesso in città, ma piccole corse, scappate come questa per comperare gli occhiali.

La signora si morse le labbra con un sospiro doloroso.

— Io so a che cosa pensate, — continuò lui. — Volete che ve lo dica? Pensate al tempo in cui la mia vista, era così buona che in piena notte scrivevo versi d'amore per gettarli mella vostra fines….

— Anche la mia vista si é indebolita assai. Ho durato fatica a servirmi deile lenti, non potevo abituarmi. Fu l'oculista che me le impose. Che fare? Convenne rassegnarsi.

— Piccole miserie del resto quando gli occhi si conservano belli.

La signora abbassò i suoi, non sapendo come prendere il complimento che quantunque indiretto era stato accompagnato da una mimica troppo espressiva per non appropriarselo. Del resto ella sapeva perfettamente che i suoi occhi erano ancora belli e che tutta la sua persona, favorita da una grazia speciale, resisteva vittoriosamente alle insidie dell'età. Non si dice che non vi contribuisse un uso moderato e sapiente delle risorse che la civiltà offre alle donne ma infine, poichè il risultato era buono, nessuno poteva dolersene.

La banda dei tedeschi intanto aveva messo a soqquadro il negozio e il principale che appunto in quell'ora si trovava solo aveva il suo bel da fare ad accontentare tutti.

Con un gesto gentile la signora additò il posto vuoto sul divano.

— Credo che dovremo aspettare ancora un poco.

— Nè io me ne dolgo! — esclamò il signore sedendosi rapidamente accanto allia signora.

— Una volta non vi piaceva la campagna….

— Una volta. Ohimè si cambia. Non potete credere quale piacere io provi ora nella solitudine dei prati o coltivando i fiori del mio orto…. Fiori e frutti.

— Anche i frutti?

— Vi scandalizzerò. Ho un pollaio.

— Allevate le galline?

— Non le allevo precisamente ma il chiccherichì del gallo è una musica che mi innamora.

— In fatto di musica almeno converrete che non siete fedele. Vi piaceva tanto una volta « La stella confidente ».

— Mi piace ancora ma, capite, non ho più nulla da confidarle. E voi siete ancora mondana come lo eravate al tempo in cui mi toccava cercarvi di festa in festa, di teatro in teatro…. pazzamente, solo per scambiare uno sguardo, una parola, una stretta di mano?

— Non vado quasi più in società. Non siete persuaso che alla lunga vi si annoia?

— A chi lo dite!

— Sono sempre gli stessi discorsi inconcludenti e vuoti. Se volete parlare sul serio di un argomento nuovo vi guardano come una bestia rara e il meno che vi tocca è di sentirvi dare dell' originale. In teatro è peggio. Vi divertite forse voi agli spettacoli moderni?

— Ho rinunciato assolutamente al teatro. Assisto alle nuove produzioni seduto nella mia poltrona e leggendo quello che ne scrive il mio giornale. Non andiamo sempre d' accordo sugli apprezzamenti ma almeno se mi scappa detto che l'autore è un asino ciò non ha conseguenze.

— Vi ricordate il duello che aveste a proposito di Sbarbaro? Quanto ho tremato per voi!….

— Grazie, cara. Sarebbe stata una morte ben sciocca. Ho cambiato radicalmente di opinione.

— Eravate così bollente allora, così pronto ad accendervi, a lottare per le vostre idee….

— Non lotto più; lascio che ognuno pensi a suo modo o non pensi affatto. Purchè non vengano a gettar sassi nel mio pollaio ed a rovinarmi l'erba novellina del mio prato, piena libertà a tutti di fare o di disfare il mondo.

— Non è un po' di egoismo questo?

— Tutto è egoismo negli uomini. Quando agivo diversamente non era forse per obbedire al mio gusto d'allora? Il mio egoismo aveva un altro colore, ecco tutto. Ma, ditemi la verità, avete proprio tremato per me quando dovevo battermi?…

La domanda inaspettata ricondusse una leggera fiamma sulle guancie della signora che ne parve ringiovanita. Rispose subito:

— Ne dubitate?

— Tremato veramente? tremato per il timore di perdermi?…

— Per che cosa dunque?

Il signore assaporò per un attimo le dolci parole, ma non potè impedire che l' aspide nascosta tra i fiori non desse il suo sibilo. Involontariamente sussurrò, piano, guardandola sotto le ciglia:

— E Viviani?

— Dio mio! — fece la signora congiungendo le palme, — sareste ancora geloso?

— Non ne ho più il diritto, ma lo fui, lo fui terribilmente!

Egli continuava a fissarla sperando forse un diniego che non venne. Soggiunse allora con amarezza:

— Eravate tanto coquette….

— Io?!

— Ma sì, lo siete anche in questo momento. Non vi compiacete forse delle mie torture retrospettive?

— Tanto retrospettive che non devono più torturarvi affatto. (Così disse ironicamente la signora).

Il signore reclinò la fronte mordendo il pomo della sua canna. Per qualche minuto nessuno dei due parlò. Fu egli che riprese:

— Io passai notti di inferno pensando a quell' uomo che abitava presso a voi, che poteva vedervi a tutte le ore, che vi amava…. certamente vi amava.

Invece di rispondere la signora aperse e chiuse per ben due volte il suo ventaglio, poi, come colpita da un ricordo improvviso, chiese:

— Non facevate voi la corte un poco a vostra cugina Amelia?

— Che cattiva! Che cattiva!

— Già, noi siamo sempre cattive quando non vogliamo prestarci al vostro giuoco. Vi piacerebbe ora di rendermi responsale di quel che avvenne fra noi, ma io preferisco, poichè il destino di ciascuno è ineluttabile e il sogno che abbiamo sognato insieme non si tradusse in realtà, preferisco di questo nostro incontro così fortuito portare con me un dolce ricordo. Volete perdonarmi i torti che ho potuto avere, mentre io mi sento così bene disposta ad assolvervi di quelli che per avventura potreste avere voi stesso?

Il signore alzò gli occhi verso la porta. Una nuvola oscurava il sole e dalle maglie della tenda la luce più pallida sembrava sostenere un velo nell'aria. I tedeschi erano partiti; anche il principale non si trovava più al suo posto dietro il banco. Erano soli. I vetruzzi, le tartarughe, gli ori tutt'all'ingiro splendevano delicatamente colla moderazione di filosofi che sanno la vita.

Il signore che adagio adagio aveva ripresa la mano della signora vi depose un bacio lieve e lungo.

— La vostra generosità mi fa doppiamente rimpiangere ciò che ho perduto.

— No, non rimpiangete nulla, la felicità è fatta di transazioni.

— Vi ho conosciuta così piena di fede nell' assoluto!

— È vero. L'assoluto è l'ideale dei vent'anni; poi si comincia a transigere coll'amore che non è mai quello che si immaginava….

Il signore volle interrompere ma la signora continuò:

— … coll' amicizia di cui si scoprono a poco a poco i doppi fondi innumerevoli e sempre più ristretti, come quelle ingegnose scatole giapponesi che vi presentano un uovo e ne contengono sette od otto; con noi stessi infine quando all'apparire del primo capello bianco lo strappiamo, o lo tingiamo, o facciamo il possibile per nasconderlo, o rassegnandoci pensiamo che la tinta grigia nelle chiome non è poi quella spiacevole cosa che pretendono i pessimisti. Guardate il mio cappello, come vi sembra? Io ho sempre abborrito il colore viola, eppure alla mia età devo subirlo.

— Il vostro cappello è delizioso e il color viola vi si addice magnificamente; ma lasciatemi dire, amica mia, che se le vostre comparazioni tra l'assoluto e il relativo mi persuadono abbastanza ve ne è una che desidererei discutere. Avete affermato con una crudele sicurezza che l' amore non è mai come lo si immagina. Forse il primo amore….

— Ogni amore è un primo amore.

— Il motto è profondo. Pure, non vi sembra che (diciamo la prima volta) appunto per chè si parte dall'assoluto è ovvio che si cada nel relativo, mentre può accadere che più tardi, quando abbiamo fatta nostra la teoria, delle transazioni, ci aspetti la gradevole sorpresa di un assoluto…. o quasi.

La signora rise di un morbido riso smorzato:

— Quel quasi, amico mio, guasta tutto. Credete a me, quando si è perduta la fede nell'assoluto e che noi stessi non abbiamo più nulla di assoluto è meglio rinunciare all' amore.

— Che è mai allora la vita?! — esclamò il signore con impeto.

— Vi sono dei compensi, — rispose a bassa voce la signora.

— Nominatene uno.

— Quest'ora.

— Ecco il « lorgnon », — disse il principale sbucando dal retro-bottega, — chiedo scusa di aver fatto aspettare tanto.

— Ah! — mormorò sommesso il signore all' orecchio della signora che si era alzata prontamente, — se voleste essere ancora quella di una volta!

Ella prese il « lorgnon » dalle mani del principale piegando il capo con un movimento pieno di grazia e di malinconia:

— Mi chiedete l'impossibile.

— Perchè?

— Perchè io una volta guardavo il mondo coi miei begli occhi….

— Che sono sempre belli.

— Forse. Ma vedete questi vetruzzi? non posso più farne senza ora e gli occhiali, amico mio, sono essi che fanno guardare il mondo in un altro modo!

Nell'afa del recinto chiuso si sarebbero sentite a volare quel paio di mosche miserelle che erano capitate là dentro, se anch'esse sfiaccolate e senza energia non se ne fossero state aderenti alla tenda di grossa tela color arancione, la quale tenda pur non serviva nè a mitigare il caldo esterno del solleone nè quello interno della stanza dove una trentina di ragazze sbadigliavano sui loro compiti aspettando l'ora della liberazione. Già a terminare il componimento non o'era nemmeno da pensarci, con quella giornata sciroccale fatta apposta per togliere ogni lena a chi l'avesse avuta, figurarsi poi a chi non l'aveva! La stessa Varisco non era ancora riuscita a trovare la prima parola. Si sa che se non viene la prima le altre sono più difficili ancora, per cui Varisco se ne stava a masticare la cannuccia cogli occhi al soffitto. Improvvisamente, che è che non è, le pupille della fanciulla si accendono e scintillano del lampo della ispirazione; la cannuccia ricondotta alla sua naturale pendenza corre veloce sulla carta.

Le compagne di Varisco la guardano con invidia. Come mai ella ha potuto trovare il bandolo di quel tema su Gerolamo Savonarola, la sua predicazione e il suo supplizio? Bel soggetto da trattarsi nel mese di luglio, proprio quello che ci voleva. O chi si ricorda ancora di Gerolamo Savonarola dopo tanto tempo che è morto?… Ma già. Varisco è stata a Firenze, che ci ha la nonna; avrà veduto almeno il posto dove fu rizzato il rogo e allora, si capisce, qualche cosa si può dire. Fortunata Varisco!

La fanciulla non si accorge di essere osservata. Ella scrive, scrive, scrive, rossa in faccia, sprofondata così nella sua ispirazione che le compagne la chiamano invano.

— Varisco, dimmi una parola anche a me, la prima, tanto da poter cominciare….

— Varisco, ti ricordi di che paese era quel frate?

— Era proprio un frate, Varisco? E l'anno in cui visse?

Un ronzìo di alveare subentra al silenzio stanco; un subito risvegliarsi di energie che vorrebbero riconquistare il tempo perduto; un incrociarsi di domande, di risposte, di malintesi; un scrosciare sommesso di risatine miste a qualche ripicco, a qualche rimbeccata.

— Silenzio! — grida la maestra.

Tutte tacciono come per incanto; ma adagio adagio, con un movimento di acqua cheta, si spingono l'una verso l'altra fino a trovarsi a portata di leggere al di sopra della spalla della scrivente.

— Fatevi in là, — mormora Varisco infastidita, — come siete male educate! — e nello stesso tempo copre colla mano la sua paginetta di scritto.

Per alcuni istanti il silenzio ritorna. Nella caldura afosa si ode scricchiolare rapidamente la penna di Varisco e le sue pupille che tratto tratto si sollevano sembrano inseguire al di là della tenda color arancione una visione ridente che lascia le fanciulle più che mai perplesse sul modo con cui trattare la morte del Savonarola.

Ma Luzzani, che era più curiosa delle altre, rizzandosi in punta di piedi potè finalmente gettare un'occhiata sul foglietto e il suo stupore fu tale che per poco non ruppe in una fragorosa esclamazione. Videro l'atto le compagne e circondandola premurosamente si fecero subito a domandarle come incominciava la composizione di Varisco.

— Ah! come incominciava? — Luzzani con ambedue i pugni stretti sulla bocca tratteneva a stento le risa.

— Dillo! dillo! — imploravano le altre.

— Zitte! — fece ancora la voce della maestra.

E per un altro poco il silenzio ritornò. Ma la fanciulla che era la più vicina a Luzzani mormorò pianissimo:

— Dillo solamente a me!

Luzzani che ne schiattava dalla voglia le soffiò all'orecchio:

— « Mio adorato Gustavo ».

— Impossibile.

— Giuro.

— Che c'è? — Che avete detto? — Cosa ha detto Luzzani, « mio adorato Gustavo »? — Impossibile! — Che significa? Savonarola non si chiamava Gustavo. — Eh? Che cosa?… Non ho capito. — « Mio adorato Gustavo ». Oh! cielo! Ma questo è il principio di una lettera. — Varisco che fai? Lascia vedere. — Si può forse trattare il tema per lettera? — Sì. — No. — Lasciami stare. — Impertinente! — Villana! — Lo dirò alla signora. — No. — Sì. — Taci.

— Cos'è questo subbuglio? — tuona minacciosa la voce della maestra. — È il modo di gridare? Sono signorine o sono monelli che ho in classe?

Questa volta è fiato sprecato. Il demonio della curiosità domina tutte le ragazze che vogliono leggere a qualunque costo la singolare composizione, spingendosi, urtandosi, fino a che la maestra si accorge dove è veramente il focolare della sommossa e con accento imperiso chiama:

— Varisco!

L'interpellata si fa pallida. Tutte le altre palpitano per la commozione del momento, ma nessuna parla più.

— Varisco, che cosa ha davanti?

Le due mosche sulla tenda color arancione produssero forse l'indistinto stridore che seguì queste parole, o forse fu un tentativo di Varisco per far sparire il foglietto? Comunque, il suono non era ancora svanito nell'aria che la mano della maestra piombò con destrezza di avvoltoio sul malaugurato foglietto e lo portò via al di sopra delle teste esterrefatte delle scolare.

Nel gabinetto della Direzione era stato radunato un Consiglio d'urgenza. La direttrice severa, imponente, con un gran naso grifagno a cavalcioni della faccia giallognola rammentava lontanamente Pietro Arbuez, il terribile inquisitore. Della stessa famiglia appariva la maestra, irritatissima perchè lo scandalo era avvenuto nella sua classe. Più mansueto e bonaccione si mostrava don Celso, il catechista, il quale riusciva persino a sorridere di tanto in tanto mentre coll'occhio mite di linfatico percorreva le linee sottili del corpo del delitto.

— Non c'è che dire. Sembra una lettera portata fuori tale e quale dal « Segretario galante ». E la fanciulla è?…

— Varisco. Emma Varisco, di quinta.

— Quella brunetta che sembra una zingarella?

— Non ho mai visto zingari, — disse la maestra con piglio sdegnoso, — ma è ben degna di somigliare a simili banditi una che si permette tali cose; nell'aula della scuola! alla mia presenza!

— Che direbbero mai le « Orsoline » se lo sapessero! — esclamò la direttrice giungendo le mani quasi a scongiurare il pericolo. — Esse che accusano il mio educandito di mancanza di religione! Sarebbe un discredito senza esempi.

— Non lo deve sapere nessuno, — consigliò il catechista, — pur che le condiscepole non se ne sieno accorte.

— Lo sanno! Lo sanno! — gemette la maestra. — È questo lo scandalo. Quella Luzzani maliziosa come Lucifero l'ha letta certamente o tutta o in parte e riferita alle compagne.

Don Celso tornò a guardare il foglietto che aveva in mano. « Mio adorato Gustavo! Da quel giorno che ti ho veduto bello come un angelo e fiero come un soldato ».

— Non ha l'antitesi molto felice, Varisco.

— È una scribacchiona, — interruppe la maestra, — lascia scappare dalla penna tutto ciò che le passa per quella testa sventata, senz' ordine, senza stile.

— E chi sarà Gustavo? — osservò la direttrice. — È necessario saperlo.

— Probabilmente qualche cuginetto, — soggiunse don Celso con intenzione di attenuare la colpa. — Bisognerebbe interrogare la ragazza. Alcune frasi della lettera inducono a credere che legge romanzi. « l'ebbrezza che provo pensando a te…. » Ah! benedetta gioventù!

— E come fanno a leggere romanzi, domando io, colla sorveglianza, colla severità della nostra disciplina!! Chiamatela, chiamatela subito.

La fanciulla venne, a testa bassa, accartocciando le cocche del grembiule.

— È lei che ha scritto questa lettera? — domandò la direttrice con un cipiglio tale che, se fosse stato una saetta, di Varisco non rimaneva più neppure un capello.

La testa della fanciulla si abbassò più ancora ma non rispose.

— Chi tace acconsente. Possiamo prendere il suo silenzio per una confessione; anzi è desso la prova più sicura dello stato della sua coscienza. Ah! si vergogna ora? Non osa sollevare lo sguardo verso i suoi superiori? Ma con quali parole chiameremo noi la incredibile sfrontatezza sua che non si peritò di portare l'onda impura di tali sconcezze in mezzo alle innocenti compagne, nel sacrario dell'educandato, sotto i nostri occhi? Non sa che con questo documento in mano io potrei scacciarla ignominiosamente additandola all'obbrobrio di tutti gli onesti?

Uno scoppio di pianto interruppe la sfuriata. Don Celso credette bene di appoggiare una mano sulla testa della colpevole soggiungendo:

— O figliuola, figliuola l'hai fatta grossa.

La direttrice per nulla intenerita continuò acerbamente:

— Ci vuol altro che piangere quando il male è fatto! Chi rimedia allo scandalo dato? E chi è questa persona?

Varisco, sempre muta come un pesce, nuota nelle proprie lagrime ed asciugandosele col grembiule lascia sfuggire dal taschino di esso una piccola fotografia che la maestra raccoglie prontamente, guardandola prima, gettando un grido di orrore poi:

— Anche questa ci voleva!

Il cartoncino passa nelle mani della direttrice che a momenti sviene. Don Celso si accomoda gli occhiali e guarda anche lui. È il ritratto di un bel giovane dai lineamenti regolari, dall' attitudine ardita, dallo sguardo fiammeggiante; sotto c'è scritto: « Gustavo alla sua adorata Emma ».

— Questa faccia non mi è nuova, — pensa don Celso.

E la maestra al colmo dell'indignazione esclama:

— Ma è dunque una tresca in tutta regola!

La direttrice, a giudicare dall'apparenza, sta forse per decretare la morte di Varisco, quando don Celso, vedendo la fanciulla nel colmo dell'abbattimento, accasciata al suolo, la solleva con dolcezza e le dice:

— Andiamo, Varisco, un po' di sincerità. Sarai perdonata se aprirai interamente l'animo tuo a chi vuole il tuo bene. Fosti condotta a un passo sconsigliato, poverina; lo capisci anche tu, nevvero, di aver fatto cosa contraria alla modestia, alla verecondia, che sono le più belle doti di una fanciulla? Sei pentita, nevvero? Su, animo. Dio è misericordioso coi più fieri peccatori; lo sarà anche con te che non avesti certamente l'intenzione di offenderlo. Non l'avesti, di', l'intenzione di offendere Dio?

A queste buone parole, a questo grave scongiuro, la fanciulla sollevando finalmente il capo protestò energicamente:

— No, no, non volli offendere Dio!

Messa così a posto la questione principale don Celso riprese:

— Devi dir tutto figliuola. Perchè hai scritto quella lettera? Chi è Gustavo?

Una grande confusione, un tremore, uno spavento ignoto le paralizzavano le parole. Il buon prete la incuorò con un'altra carezza sulla testa:

— Via, andiamo, chi è questo signor Gustavo?

— Nessuno, — mormorò la fanciulla.

— Anche bugiarda! — inviperì la direttrice.

— Pace, pace, — disse don Celso, — non la spaventiamo. Se non vuoi dirmi chi è Gustavo, dimmi allora di chi è questo ritratto. Sarà bene di qualcuno!

— Io non lo so, — mormorò ancora Varisco tutta confusa.

— Spiegami allora come si trova in tuo possesso.

La fanciulla esitò, arrossì, volle tornare a piangere ma un sorriso venne suo malgrado a volteggiarle sulle labbra. Disse pianissimo:

— L'ho vinto alla riffa.

— Volevo ben dire! — esclamò don Celso rimettendo gli occhiali, — che non era una faccia nuova. Costui è Langiewitz!

I nasi della direttrice e della maestra disegnarono nell'aria un immenso punto interrogativo.

— Sì, — completò don Celso, — Langiewitz, l'eroe polacco morto da mezzo secolo.

Tutto fu spiegato. Varisco aveva realmente vinto il ritratto in uno di quei giuochi che fanno le ragazze nascondendo fiori o disegni tra i fogli di un libro ed estraendoli a sorte. Un po' romantica e colpita dalla bellezza del giovane sconosciuto se ne formò subito un ideale chiamandolo Gustavo. Era stata lei a scrivere sotto il ritratto « Gustavo alla sua adorata Emma ».

— Ha fretta questa figliola, — concluse don Celso ridendo bonariamente nel darle un buffetto sotto la ganascia.

Ma l' ultima parola la pronunciò la direttrice:

— Otto giorni a pane ed acqua.

Era la Luigia una spilungona senza garbo nè stampo che sembrava tagliata coll'accetta, uguale dinanzi come di dietro e per tale sua conformazione soprannominata dai maligni del paese: a due dritti. I maligni uomini si intende, perchè le donne non avendo nulla a temere da lei le tributavano volentieri molti elogi sulle sue qualità di buona massaia e giungevano pur anche a difenderla quando le beffe passavano la misura. Infine — dicevano con uno slancio di generosità — non è poi così brutta come si vuol far credere; ha dei magnifici capelli.

Ai capelli della Luigia peraltro non si attaccava nessun farfallone. Quantunque ella avesse cantato chi sa quante volte in coro colle sue compagne « Non c'è sabato senza sole, non c' è donna senza amore » per esperienza propria non poteva far testo. I giovinotti non la guardavano nè tanto nè poco, non la aspettavano sul sagrato all'uscire di chiesa, non zufolavano sotto alle sue finestre, non le offrivano in primavera un sol fiore nè in autunno un sol frutto. La Luigia era come fuori del suo sesso, una specie di essere neutro intorno al quale non fremeva l'onda tumultuante del desiderio. Appena qualche buon uomo maturo, qualche padre di famiglia mosso da un benevolo sentimento di compassione osava profetizzare: — Sarà ben fortunato colui che sposa la Luigia! — Ma nemmeno questo incoraggiamento indiretto valse alla povera ragazza la più lontana ombra di un sospirante. Toccava oramai, anno più anno meno, la quarantina.

Forse però tanto i maligni quanto i benevoli si ingannavano sul vero stato d'animo di quella zittellona triste e spersonita, argomentando a modo loro che dovesse trovarsi infelice per mancanza di marito e solo per questo. Ora la Luigia aveva una passione ancora latente e compressa ma unica ed immensa: i bambini; passione che si allaccia è verissimo col matrimonio ma che ha pure un suo lato indipendente, una vitalità propria che non tutti gli uomini conoscono.

Fin da quando, giovinetta appena, attardandosi lungo la strada sua madre la rimbrottava: — Luigina, Luigina, lesta, perchè non rientri? — novanta volte su cento ella si era, per dirla con una pittoresca espressione popolare, incantata dietro un gruppo di bimbi ammirando di questo i ricciolini, dell'altro gli occhioni, di tutti la sovrana incosciente innocente malìa.

Guardarli, accarezzarli, ascoltare i loro primi balbuzienti cicalecci, assistere ai loro giuochi, scoprire le loro ingenue malizie, era per la Luigia un piacere senza confronti. Quel cristallo tremulo delle loro pupille così piene di curiosità e di candore, quella intatta freschezza delle boccuccie dove i denti si mostrano appena piccoli e bianchi come goccie di latte, quelle guancine che sembrano fatte di petali di rose, quei corpicciuoli imbottiti di velluto con un lontano sentore di borraccina e di piume d'uccello, tutte le grazie, tutti i sorrisi, ed anche e soprattutto le lagrime e le disperazioni di quel piccolo mondo in miniatura, le creavano intorno una fonte inesauribile di osservazione e di tenerezza. Ella, se avesse potuto, ne avrebbe presa una bracciata nel grembiule e se li sarebbe portati a casa per gioia e consolazione della sua solitudine poichè non aveva più nè padre, nè madre, nè nessuno.

Fu in quel torno dei quaranta o giù di lì che si sparse in paese la notizia strabiliante del matrimonio della Luigia. Per quanto sulle prime molti fossero gli increduli dovettero pure arrendersi all'evidenza del fatto quando il signor curato bandì dal pulpito il matrimonio di L'uigia Peregalli con Battista Fenile detto Battistin del Fico.

E pazienza la Luigia che poteva dirsi giovane e bella in confronto di quella figura da presepio del Battistino, più piccolo di un terzo e rattrappito come un ceppo di vite secca, bolso per giunta da sembrare appena alzato dal letto una vecchia rozza reduce dal mercato. Chi si sarebbe mai immaginato un matrimonio simile! Proprio vero — dicevano i maligni, fra cui questa volta anche le donne — che ella ne schiattava dalla voglia.

Il vero perchè invece lo sapevano appena loro due, che quando Battistin del Fico essendosi addormentato una volta colla pipa accesa nella tasca del pastrano bruciacchiandolo mezzo e la Luigia sua vicina di casa si era gentilmente offerta per i debiti rattoppi, l'idea era subito balenata alla mente dell' uomo. Che cosa facevano così solitari uno da una parte e l' altra dall' altra? Non era meglio mettersi insieme per la comune assistenza? A tale proposta la zittellona aveva cominciato a nicchiare protestando che il suo tempo era già finito e che se mai avesse potuto acconsentire a nozze ciò sarebbe stato solamente per avere dei bambini, il che non le sembrava più del caso. Ma la dichiarazione fece scattare Battistino suggerendogli una quantità di argomenti per persuadere la ritrosa che tutto è possibile coll'aiuto di Dio e che non bisogna mai disperare della provvidenza. Aggiunse che se dopo la prova di un anno il Signore non avesse benedetto la loro unione egli si impegnava a prendersi in casa un trovatello adottandolo qual figlio. Questo fu proprio il peso che fece traboccare la bilancia dalla parte del matrimonio, il quale si compì pochi mesi dopo con grande serietà e serenità dei due contraenti.

Non un anno poi ma ben quattro o cinque attesero gli sposi la benedizione del Signore e sempre invano finchè una sera d'estate, mentre prendevano il fresco seduti entrambi sulla soglia della porta, la Luigia ricordò al marito la sua promessa di adottare un trovatello e Battistin del Fico dopo essersi fatto pregare un poco volle accontentarla pensando che alla fin fine si apparecchiava un aiuto per la vecchiaia.

La felicità della Luigia quando ebbe fra le mani un pargolo tutto a sua disposizione per le dodici ore del giorno ed anche per le dodici della notte fu qualche cosa di inaudito. Ella ne ringiovanì come per prodigio, fu vista a correre, la udirono cantare, e le venne una tale parlantina che le donne del vicinato a stento si potevano schermire dal sentirsi ripetere continuamente le meraviglie del piccino.

Già ella non lo chiamava mai altro che « mio figlio ». Sembrava che queste due parole giacenti da tanti anni in fondo al suo cuore e sbocciate a guisa di semi tardivi volessero rifarsi del tempo perduto con una fioritura veemente di steli e di boccioli, di aggettivi ammirativi e di tenerezze iperboliche. Tutto ciò che l'amore più intenso si trae dietro di ardore affannoso, di cure gelose, di mirabili previdenze, di rinuncie, di dedizioni, di sacrifici, quella madre putativa tributò al frutto del suo lungo desiderio. Ella ebbe la soddisfazione di salvarlo per miracolo da un braciere dove era caduto e più tardi di guarirlo a furia di attenzioni da una scarlattina dichiarata mortale.

— Come si fa alto il vostro bambino! — le disse un giorno un merciaiuolo ambulante che lo aveva veduto l'anno prima. — Vi somiglia.

A queste parole la Luigia arrossì tutta e si sentì balzare il cuore nel petto. L'idea che le assomigliasse davvero incominciò a impossessarsi di lei dandole un turbamento profondo e delizioso. Una volta che il piccino le buttò graziosamente le braccia al collo chiamandola mamma, ella se lo strinse al seno con impeto selvaggio mormorandogli dentro ai capelli:

— Viscere mie!

Oramai ella prendeva posto nei crocchi delle matrone dove si parlava di gravidanze, di parti, di bimbi nati e nascituri, di cibi speciali per le puerpere, delle prime pappe da darsi ai bambini slattati, e la sua parola appassionata e persuasiva dominava tutte le altre. Spesso i suoi discorsi incominciavano così: Io non ho che un figlio solo, tuttavia….

Ed ognuno in paese ripeteva « il figlio della Luigia » tanto che i giovani, gli ultimi arrivati, i distratti, non dubitavano neppure che egli fosse veramente suo figlio. La cosa era poi di mediocre importanza per il pubblico.

Ma quando il garzoncello giunto ai sette anni fu mandato a scuola dove non sempre riportava i primi punti, ed anzi il quaderno delle classificazioni riempivasi troppo sovente di note di biasimo, la Luigia si disperò sul serio gridando che nella sua famiglia non vi erano mai stati discoli. Una signora che era venuta quell'anno a villeggiare nel paese la calmò dicendole che buon sangue non mente; quindi si desse pace, col tempo e colla pazienza il monelluccio non avrebbe mancato di divenire così bravo e dabbene come la mamma sua. Questo ragionamento persuase la Luigia, la quale di suggestione in suggestione se ne venne a credere fermamente di averlo ella stessa messo al mondo; e siccome pare che basti una gran fede per trascinare la gente, nessuno si metteva a contradirla quando ella enumerava le somiglianze che il fanciullo aveva sia con lei sia con Battistin del Fico, passato a miglior vita già da qualche anno.

Molte leggende non hanno una base più solida.

Intanto il garzoncello era diventato un giovinotto ed essendosi messo a bottega da falegname nella città vicina vi aveva preso moglie, portandosi in casa naturalmente la sua buona mamma che potè dire questa volta di essere entrata in paradiso prima del tempo, perchè tutti gli anni nasceva un pargoletto e innanzi di andare a raggiungere Battistino nell'altro mondo ebbe la compiacenza di contarne undici, sei maschi e cinque femmine.

Quando finalmente venne anche per la Luigia il momento di rendere l'anima a Dio, avendole il medico domandato se ella avesse fatto parecchie malattie « Nessuna — rispose — tranne quando nacque il mio figliolo che stetti tre giorni fra la vita e la morte ».

Come dubitare che ella lo dicesse sul serio poichè aveva le mani congiunte sul crocifisso e gli occhi rivolti al cielo?…. Il sogno di tutta la sua vita era diventato la sua realtà.

Col suo leggero bagaglio appeso ad un filo, trascinando un paio di scarpe non sue (da tempo immemorabile egli non si era pagato il lusso di scarpe nuove) l'uomo dei palloni veniva ogni giorno dalle due alle quattro a collocarsi in piazza Cavour presso il cancello dei Giardini Pubblici. Tutte le mammine, le bambinaie, le nutrici che affollano in quell' ora gli ombrosi sentieri lo conoscevano; lo conoscevano soprattutto i bimbetti, i quali, appena riuscivano a scorgerlo sotto la massa ondulante delle vesciche multicolori, si aggrappavano alle gonne delle loro custodi gridando con uno scoppiettìo di gioia: « L'uomo dei palloni! L'uomo dei palloni! »

E l'uomo dei palloni, assicurata alle lancie del cancello la sua volubile merce, attendeva di piè fermo l'allegro sciame dei bimbi con un segreto e indistinto ma pure dolce compiacimento di tutta quella ressa che gli facevano intorno, sentendo che per due ore al giorno, dalle due alle quattro, egli assumeva l'importanza di una persona desiderata. Quegli occhioni lucenti di cupidigia, quelle manine tese, quelle vocette instancabili nel loro ritornello: « Comperami un pallone », anche se non sempre riuscivano a fargli vendere la sua mercanzia, lo circondavano di letizia e di vivacità. Alla soglia di quei bei giardini, sotto il sole di primavera, le vesticciuole bianche dei bimbi svolazzavano con agilità di farfalle; e i colori sgargianti che le nutrici portavano in giro pomposamente, le balze rosse dei loro abiti, i lunghi nastri, l'oro degli spilloni, insieme all'andatura lenta e molle, ai placidi sorrisi, alle ciarle, ai giuochi, lo mettevano in uno stato di dolce stupore come davanti a certi panorami giranti dove la coscienza della realtà svanisce nel barbaglio del sogno.

Aveva nel suo piccolo mondo diverse categorie di avventori. C'era il bimbo che otteneva un pallone subito appena chiesto; c'era invece la mamma o la bambinaia riottosa che si faceva tirare a lungo per la gonnella e non era che dopo una lunga scherma di domande e di ripulse, non senza qualche tentativo di protesta volgarmente chiamata capriccio, che si decideva ad acquistare il pallone; c'era eziandio la mamma e la bambinaia che fin dal principio emettevano un « no » così risoluto da non lasciare adito alla speranza; qualcuna ammorbidiva il rifiuto con lontana promessa: « Un'altra volta se sarai buono…. se non ficcherai più le dita sul naso », e finalmente qualche donna sbigottita e frettolosa trascinava rapidamente il bimbo dalla parte opposta borbottando: « Sei pazzo?… Costano troppo. E i denari dove li piglio? » Filosofo, l'uomo dei palloni non interveniva mai. Colle spalle appoggiate al cancello, si accontentava di biascicare di tanto in tanto: « Palloni, palloni, il più bel divertimento per ragazzi! »

La scabbiosa era tutta fiorita sul bell'albero del viale a sinistra; la fontana lanciava alto il suo getto in mezzo alle aiuole di tulipani e di primule; sul bacino della fontana una flottiglia di carta si avanzava con tutte le vele spiegate, provocando trilli di gioia fra la turba delle reclute marinaresche che arrivavano col naso all'orlo della vasca, ma al di sopra di quei nasi quanti raggi nelle pupille!… Le mammine lavoravano sulle panchine intorno, le nutrici oziavano, le bambinaie ciarlavano. Era nell' aria una mitezza particolare, nel cielo un particolare splendore. I bimbi che non si divertivano alla fontana correvano su e giù cercando le pratelline nell'erba, bevendo il sole, ebbri di luce. Quel giorno l'uomo dei palloni fece magri affari. Già erano passati i clienti migliori senza comperargli nulla; egli attese ancora un poco guardando l'omnibus dell'albergo Cavour che arrivava carico di valigie e di forestieri, guardando i tram, le carrozze, i viandanti; gridò una o due volte: « Palloni! Palloni! » e poi attorcigliandosi intorno al dito la funicella che li riuniva tutti piegò l'angolo di via Manin e mosse verso il bastione, agitando tratto tratto i prigionieri al di sopra del suo cappello, tanto che qualche bimbo attraverso gli alberi potè scorgerlo ancora e fargli ripetere il suo grido: « Palloni! Palloni! » grido che andò a spegnersi man mano ed a morire finchè anche l'uomo scomparve.

— E pazienza! — disse egli mettendo la chiave nella toppa sgangherata di un usciaccio da solaio dove teneva la sua cuccia, laggiù, laggiù verso porta Tenaglia. — Non tutti i giorni possono essere fortunati.

Entrò, appese i suoi palloni ad un chiodo, e cacciandosi le mani in tasca ne estrasse un piccolo deposito di funicelle che serbava per le diverse occorrenze; se non che all'atto di ritirare il groviglio delle funicelle uscì dalla sua tasca e cadde al suolo un grosso portafoglio di pelle nera.

L'uomo fece un passo indietro. Che diavolo poteva essere? Si chinò bel bello con quella poca elasticità che gli concedevano i sessantacinque anni suonati e raccolse delicatamente il misterioso oggetto. Era proprio un portafoglio in pelle ed ossa.

— Pelle ed ossa, — ripetè palpandolo e ridendo della propria spiritosaggine.

Pelle fina di bestia rara, ossa robuste che lo inquadravano in un'ampia e magnifica corporatura di portafoglio sano e ben nutrito.

— Che diavolo, che diavolo! — disse anaorc aprendolo con molta precauzione e con moltissima curiosità.

Vi cacciò dentro due dita, l'indice e il medio, così, per toccare, e sentì un grosso plico di carte. Semplici carte?… Denari?… Rapidamente il pollice andò a raggiungere le altre due dita c fra tutti e tre insieme estrassero, adagino, adagino, un pacchetto di banconote che gli diedero lì per lì le traveggole. Capì che la faccenda si faceva seria. Con un movimento secco afferrò l'unica sedia che si trovava nello stambugio e vi sedette stringendo i ginocchi per raccogliere con circospezione tutta quella grazia di Dio.

— Sono denari davvero! — mormorò il pover'uomo che sentiva alcune stille di sudore gocciolargli dalla fronte e un brusìo nelle orecchie, come se gli avessero dato una mazzata.

Sì, il dubbio non era possibile. Biglietti da cento, da cinquecento, da mille lire sgusciavano fuori dalle pieghe del portafoglio. Egli non reggeva a sommarli, abbacinato dal numero stragrande; ed anche non vi sarebbe riuscito perchè alcuni di quei fogliolini erano scritti in una lingua straniera ed avevano parole e motti a lui completamente sconosciuti. Forse non erano carta monetata, ma qualunque fosse il loro nome, cambiali o altro, il loro aspetto intimo e il loro odore era simile a quello dei biglietti di Banca. Tutte quelle earte avevano un legame di parentela, una fisionomia di famiglia su cui non era possibile prendere abbaglio. Mille lire più, mille lire meno, esse costituivano un tesoro.

Mai in vita sua l'uomo dei palloni aveva provato una commozione simile. Ma, singolare a dirsi, la sua commozione era piena di turbamento. Di dove gli venivano quei denari? Erano proprio suoi? Non trattavasi di uno scherzo o di un tranello? E se erano suoi, ehi glieli aveva messi in tasca a sua insaputa? E perchè poi a sua insaputa? Non era più semplice consegnarglieli in mano? Anzi, perchè non glieli avevano consegnati in mano? Trattavasi di un benefizio? Di una scommessa? Di un parente segreto? Di un terno al lotto?… E perchè non di una stregoneria? A questo pensiero della stregoneria il pover' uomo si metteva a girare e rigirare i misteriosi biglietti aspettandosi da un momento all'altro di vederli a pigliar fuoco; senonchè quelli, perfettamente immobili sui suoi ginocchi, conservavano un aspetto così tranquillo di gente onesta che va per i fatti suoi, che egli doveva pur convincersi dell'autenticità loro, per quanto potesse sembrare inverosimile.

— Infine, — concluse dopo un lungo almanaccare, — che ne faccio di questi valori? Sono miei? Posso spenderli? Non verrà nessuno a chiederne la restituzione?

Gli passò a un tratto per la mente l'idea di chiedere consiglio, ma a chi? I suoi vicini di casa erano tutti straccioni come lui, e la vista di tanto denaro non avrebbe fatto altro che scatenare sentimenti di invidia. E poi chi sa se gli avrebbero creduto. Non forse sarebbe venuto a qualcuno di loro il dubbio che egli avesse rubato?… Ci mancava altro!

Non avvezzo a lavorare di cervello, tutte quelle ipotesi lo stancavano assai. Gli era passata nel frattempo l'ora del desinare e vicino a tante ricchezze la scodella di minestra che gli preparava tutti i giorni il polentaio dirimpetto gli parve, per il momento, preferibile. Tornò a chiudere il tesoro nel portafoglio e se lo ripose in tasca. Lo estrasse però subito ancora pensando se non era meglio custodirlo in camera; ma nella camera non vi erano mobili e l'uscio stesso chiudeva così male che non c'era da fidarsi. Meglio la tasca.

Discese le scale tenendosi fermo il gabbano sul petto, stringendosi contro il muro se incontrava qualcuno. Trasalì addirittura quando sull' ultimo pianerottolo sentì posarsi una mano sulla spalla e una voce gridargli:

— Ohè, galantuomo!

Era Antonio, il lustrascarpe. Ma l'uomo dei palloni ne prese quasi paura e sgattaiolò prontamente.

— Ih! che fretta! Hai forse vinto un terno al lotto? — soggiunse Antonio, curvandosi sulla rampa della scala.

— Tsu…. Tsu…. sono cose da dire? Tsu…. tsu…. Vado a prendere la mia minestra.

Toccò l'ultimo gradino senza manco vederlo, attraversò la strada come una freccia e piombando nella bottega del polentaio sporse senz'altro i suoi venticinque centesimi.

— In ritardo, quest'oggi: si vede che è stata una buona giornata per i vostri palloni. A furia di vendere vesciche scommetto che vi mettete da parte un capitaletto.

L'uomo dei palloni fuggì. Quand'ebbe risalito le sue scale sbattè fortemente l' uscio, rigirò la chiave e vi pose dinanzi la sedia. Auf! che avventura!

Aspettò che la notte scendesse completamente, che tutta la casa fosse tranquilla, che i vicini dormissero in santa pace, e stesse zitta anche la macchina della cucitrice nella camera accanto alla sua. Allora tornò ad aprire il portafoglio colla vaga speranza di trovare la chiave del mistero, una parola, una spiegazione qualsiasi. Ma oltre ai valori, nel portafoglio non c'era altro; non un nome, non una cifra che potesse aprire la strada alle indagini. I biglietti di Banca stavano là muti, eppure straordinariamente espressivi nella loro immagine di forza e di potere. Non parlavano, ma sembravano guardare il pover' uomo con una sottile ironia.

—È inutile! Non ci capirò mai nulla!

Su queste parole pronunciate a fior di labbra, quasi per tema che qualcuno lo udisse, egli si gettò vestito come era pesantemente sul letto, il quale non scricchiolò per la ragione che consisteva in un semplice materasso steso sul pavimento, dormì subito, russando, col naso per aria e i pugni stretti; dormì le sue solite otto ore; ma nello svegliarsi ebbe subito l' impressione di un aculeo sulle coste. Era il portafoglio.

Alcune signore, entrando quel giorno ai Giardini del cancello di piazza Cavour, furono molto sorprese nel vedere l'uomo dei palloni che mosse loro incontro domandando se per caso non avessero perdute cento o duecento mila lire.

— Poveretto! — dicevano le signore, — è diventato pazzo!

E siccome la stessa domanda veniva rivolta imperturbabilmente anche alle nutrici ed alle bambinaie, molte furono le risate che echeggiarono quel giorno fra piazza Cavour e la fontana dei Giardini.

Per tre giorni l'uomo dei palloni tenne il suo posto rigido e impettito. Era un po' più pallido del solito, e aspettava. Ma ogni cosa intorno a lui appariva affatto estranea alìa sua preoccupazione. I bimbi sfarfalleggiavano per i viali, i nastri e gli spilloni d'oro delle nutrici luccicavano al sole, le mammine sorridevano, l'omnibus dell' albergo scaricava regolarmente viaggiatori e bauli, i tram correvano, i viandanti passavano.

— Orsù, — pensò al quarto giorno l'uomo dei palloni, — questi denari sono miei. Dio me li ha dati, è ora di spenderli.

Gli era accaduto molte volte (a lui come a tanti altri), mentre se ne stava ad aspettare gli avventori sulla soglia dei Giardini, di pensare quanto sarebbe stato piacevole trovarsi nei panni di quei signori che vedeva sbucare da via Manzoni con scarpette gialle e sigaro in bocca. Anche aveva pensato che farsi scarrozzare per la città dovesse essere un bel gusto, così come mangiar bene e bere delle buone bottiglie di vino vecchio. Per fare tutto ciò occorrevano molti denari, ed ecco che egli li aveva, se pure non era un sogno. Ma no, non era un sogno; e i denari egli non li aveva mica trovati in istrada, che allora il suo dovere sarebbe stato di andare a consegnarli in Municipio. Essi erano venuti a collocarsi di motuproprio nella sua tasca. Nulla dunque di più reale e di più legittimo. Bisognava adesso fare onore alla propria fortuna per mostrarsene degni.

Incominciò a soddisfare un suo antichissimo desiderio, quello di comperarsi un paio di stivali nuovi. Non gialli, no. Capiva che sarebbe stato ridicolo. Egli andò da un calzolaio di porta Tenaglia a comperarsi un solido paio di stivali neri a doppia suola, e pensò se non era il caso di provvedere anche un abito; ma gli parve miglior giudizio procedere a gradi. Poichè la ricchezza gli era capitata in un modo addirittura inverosimile, meglio valeva andar cauti. Conosceva il mondo e le male lingue.

Un buon pranzetto, invece della solita brodaglia, quello non se lo rifiutò. Con risotto, stufato, un pezzo di stracchino di Gorgonzola e un litro di Barbera vecchio, egli si eredette pari in lautezza al re. Il guaio fu che, non accontentandosi del primo litro, ne volle ordinare un secondo, e allora gli avvenne di passare una notte così burrascosa da farlo tornare il giorno dopo alla dieta del polentaio.

— Non si impara da un giorno all'altro a fare il ricco, — concluse filosoficamente l'uomo dei palloni.

In realtà, mentre altre volte gli era sembrata facilissima cosa quando si hanno denari a spenderli, trovavasi ora in cento imbrogli. L'età non gli consentiva più il soddisfacimento di certi grilli; non aveva per altro l'istruzione e la disinvoltura necessarie a gustare la maggior parte degli svaghi concecssi ai signori. Tanto per dire di essersi offerto un divertimento, si fece condurre a Monza in tram, prese un ponce al caffè di piazza, fece il giro del Parco, ma trovò che i Giardini di Milano sono più allegri. Volle allora concedersi il lusso di tornare al suo posto antico presso il cancello di piazza Cavour, non già come merciaiuolo ambulante, ma come signore a spasso. Anche qui però doveva toccargli una delusione, perchè nessuno dei bambini vedendolo senza palloni volle accostarlo; e le nutrici stesse e le mammine, supponendolo fuggito dal manicomio, giravano alla larga. La sua popolarità era svanita coi palloni, era volata via come una vescica quando si rompe la fune. Privo di quei globi rossi e azzurri che lo additavano da lungi al minuscolo popolo de' suoi avventori, egli non aveva più alcuna importanza, spariva. La sua mortificazione fu grande e incominciò a diventare malinconico.

I vicini che lo vedevano salire le scale borbottando fra sè parole incomprensibili, poi chiudersi nella sua stamberga e rinforzarne la porta con la poca mobilia di cui poteva disporre, e a tutte le domande che gli facevano fuggir via con una faccia spiritata, non sapevano più che cosa pensare. Per questo, quando una mattina vennero le guardie e forzando l'uscio penetrarono nella stamberga, alcune donne non mancarono di osservare che la doveva finire così.

— Chi lo avrebbe detto! — soggiunse qualche anima pietosa, — sembrava un tanto onesto uomo!

L'uomo dei palloni intanto poichè i questurini gli avevano trovato indosso il famoso portafoglio fu invitato sommariamente a seguirli davanti al Pretore. Egli disse loro bensì che era innocente, ma senza frutto. Tuttavia, con grande stupore delle donne che stavano a vedere, non si lasciò pregare troppo, anzi si fece a ubbidirli docilmente.

— Alfine, — pensava, — verrò a conoscere qualche cosa di questa diavoleria.

Davanti al Pretore raccontò fedelmente per filo e per segno in qual modo otto giorni prima, rincasando dalla sua solita passeggiata al cancello dei Giardini Pubblici, egli si fosse trovato in tasca quell'affare del portafoglio; come avesse sulle prime creduto ad uno scherzo o ad uno sbaglio e per tre giorni consecutivi rimanesse al suo posto, finchè fatto persuaso che a Dio tutto è possibile e avesse scelto quella via per metterlo alla prova, si era permesso un pranzo, una gita a Monza e un paio di stivali. Tutto ciò raccontato bonariamente fece sorridere il Pretore che si compiacque pur di rispondere:

— Il vostro racconto brav' uomo corrisponde alla verità. Vorreste ora, raccapezzando meglio le vostre idee, cercare di rammentarvi se quel giorno durante la vostra sosta presso al cancello non avvertiste nulla di insolito intorno a voi?

L'uomo dei palloni protestò di non avere avvertito nulla; ma il Pretore insistette:

— Non avete accostato un tram?

— Oh! molti tram. Se non è che questo….

— Voglio dire un caso speciale: procurate di rammentarvi. Un tram dal quale era disceso un uomo dandosi alla fuga…. gente agglomerata…. Pensateci, pensateci.

L'uomo dei palloni si prese il mento fra le mani sforzando la sua memoria a tornare indietro otto giorni.

— Forse sì, — disse finalmente. — Avevo già abbandonato il cancello quando vidi molte persone che circondavano un tram proveniente dalla Stazione. Non sono curioso per temperamento, tuttavia stavo per domandare se fosse accaduta qualche disgrazia quando un giovinotto mi passò vicino rapidamente dandomi uno spintone che mi fece cozzare contro il muro e allora non ebbi più voglia di sapere altro.

— Proprio così! — esclamò il Pretore soddisfatto, — era quello il ladro.

— Che ladro?

— Del portafoglio.

— Senta signor Pretore, intanto che ci siamo, vorrebbe farmi il piacere di spiegarla un po' anche a me codesta faccenda del portafoglio? Mi pare di averne un certo diritto.

— Ma come, non avete ancora capito? Il giovinotto stando in tram aveva fatto sparire il portafoglio dalla tasca di un signore che arrivava giusto allora a Milano per eseguire un pagamento. Sceso poi troppo prontamente destò il sospetto, fu inseguito e…. il resto lo sapete. Per salvarsi gettò il corpo del delitto addosso a voi. È un vecchio stratagemma ma questa volta la giustizia non ne avrebbe saputo nulla se il ladro stesso riparando all'estero non ci avesse scritto denunciando il tiro.

L'uomo dei palloni che intanto aveva continuato ad accarezzarsi la barbetta domandò placidamente:

— Allora i denari non sono miei?

— Ma vi pare? Centocinquantamila lire? Anzi dovreste restituire diciannove lire e quarantacinque centesimi che mancano alla somma se il proprietario non ve li avesse già generosamente condonati. Andate, siete libero; ma se un'altra volta vi trovate centocinquantamila lire in tasca siate ben persuaso che non vi sono fioccate dal cielo.

La piccola schiera dei bambini, le mamme, le nutrici avvezze a recarsi ai Giardini Pubblici rividero la solita macchietta dell'uomo dei palloni appoggiata ai cancelli di piazza Cavour. Essendosi diffusa l'avventura del portafoglio ognuno gliela faceva raccontare ed egli vi si prestava di buon grado senza rimpianti e senza querimonie, concludendo anzi con un sorriso soddisfatto:

— Gli stivali almeno mi sono rimasti.

Margherita Valori, che tutti chiamavano Margheritina per una cotal sua aria ingenua e fanciullesca, quantunque sposa da sei anni a Daniele Valori capitano di lungo corso, era quel che si suol dire una buona ragazza.

I due vocaboli Margheritina e ragazza sembravano oramai inseparabili dalle sue guancie tondette, da' suoi chiari occhi ridenti, dalla piccola persona agile ed irrequieta come di uccellino sul ramo. Quella Margheritina — dicevano le amiche — mette di buon umore solamente a vederla. Di nemiche non ne aveva.

Certo, quando Daniele Valori la prese in moglie, lui, un uomo serio, un uomo posato, un uomo che stava in mare per mesi e mesi, non mancarono i commenti ed i pronostici; ma poichè il matrimonio era riuscito bene, contento Daniele, contenta margheritina, nessuna nube all'orizzonte, nessun pretesto neppure lontano alla maldicenza; ebbene? — dicevano le amiche — perchè non si potrebbe essere bella, allegra e buona moglie insieme?

Attiva, piena di zelo, Margheritina si occupava non solo delle proprie domestiche faccende, ma dove le era possibile non si rifiutava mai di dare aiuto a sani e ad ammalati. Colla scusa poi che era senza figliuoli tutti si ingeganvano ad appioppargliene qualcuno, sia per battesimo o per cresima, sia per cullarli o portarli a spasso, o sorvegliarli nei compiti o far loro qualche predicuzza che uscita da quei labbri corallini atteggiati invano a severità, se non convertiva proprio i peccatori, glie ne ribadiva le simpatie ed allargava sempre più la riconoscenza di babbi e mamme.

Fu per questo che ella non si sorprese affatto quando una lontana parente le scrisse annunciandole l'arrivo di un suo figliuolo a scopo di compire gli studii per la carriera. navale, pregandola di cercargli una buona pensione dove potesse trovarsi come in famiglia. Senza por tempo in mezzo, perchè gli interessati avevano premura, Margheritina rispose alla parente: « Manda pure tuo figlio, lo terrò in casa mia e gli farò da mamma ». Poi scrisse a suo marito che si trovava in viaggio per Hong-Kong: « Ho una buona notizia da darti. La Lucia Anderloni, quella che a suo marito gli si spezzò una gamba e poi morì, manda qui il suo ragazzo agli studii, uno de' suoi ragazzi, perchè deve averne cinque o seì, non so bene. La buona notizia è che ho pensato di offrirle la cameretta d'angolo, colla tappezzeria rossa, se ti ricordi, che a noi non serve; pagando, si intende, ma un prezzo d'amicizia, e così colla compagnia del ragazzo non sarò più sola. Che ne dici? »

Quest' ultima frase in forma di domanda testimoniava l'animo schietto di Margheritina, ma in realtà era perfettamente inutile avvegnachè qualunque cosa avesse potuto dire Daniele Valori, con quel po' po di distanza sarebbe sempre arrivata in ritardo.

Così un bel giorno — bello per modo di dire perchè viceversa pioveva a catinelle, ma questo non conta — la Margheritina che aveva allestita la camera d'angolo colla tappezzeria rossa, si vide comparire dinanzi un giovinotto del più leggiadro aspetto, alto, smilzo, con due occhi neri neri e due baffetti biondi biondi, che sorrideva, bagnato come un pulcino.

— Vengo a nome di Lucia Anderloni….

— Benissimo. E dov'è il ragazzo?

— Quale ragazzo?

— Il figlio di Lucia, per il quale tengo pronta la camera e la colazione….

— Ma sono io.

— Il figlio di Lucia?

— Eh! sì, perbacco, il primogenito.

Margheritina seguendo il suo naturale impulso fanciullesco diede in una grande risata, e l'altro, senza sapere veramente perchè ridesse, si pose subito a farle eco così spontanea e gioconda che si trovarono immediatamente amici.

— Questa è curiosa però, — disse alla fine la giovane signora Valori ricomponendosi in dignità, — io avevo sempre creduto che si trattasse di un ragazzo.

— Mi dispiace, — rispose l'altro con un finto rammarico pieno di furberia e di grazia, — di doverle cagionare un disinganno al mio primo apparire.

Soggiunse Margheritina con disinvoltura, entrando nella sua parte di mamma:

— Quanti anni ha lei?

— Diciannove a momenti.

— E vuol studiare?….

— Entro come allievo alla scuola navale. Suo marito è capitano di lungo corso?

— Già. Ma forse vorrà cambiare d'abito? Gocciola da ogni banda.

In un paio d'ore l'ospite aveva preso possesso della camera, rossa, asciugato, ripettinato, con una bella scriminatura che dalla tempia sinistra gli andava fino alla nuca. tracciando una linea così sottile che sembrava un filo di seta.

— Se non le dispiace cambierei posto a quella testa di rinoceronte per allogarvi il mio servizio di toeletta.

— Si figuri!

Margheritina dovette ammirare l' elegante accolta di cianciafruscole che il giovinotto sciorinò in luogo della testa di rinoceronte, e questo trofeo dei viaggi di Daniele Valori venne portato in un'altra stanza dove trovavansi già in buona copia zanne d' elefante, onchiglie, yatagan e pappagalli imbalsamati. Ogni volta che Daniele Valori tornava in patria non mancava mai di portare alla sua sposina un pappagallo che ripeteva: buon giorno Margheritina!, ma poi il pappagallo moriva e Margheritina lo faceva imbalsamare per emoria.

Erano appena due giorni che l'allievo della scola navale si trovava nel suo nuovo alloggio quando una delle tante amiche di Margheritina balzando dentro alla porta che pareva una folata di vento, si pose ad esclamare:

— Ma che ti frulla, Margheritina, di tenerti in casa un simile giovinotto? S'è mai visto? Che ne direbbe tuo marito se lo sapesse?

— Mio marito — balbettò Margheritina sorpresa e sconcertata — lo sa.

— Ah! benone, lo saprà quando sarà giunto a Hong-Kong. Di qui a allora….

— Non capisco. Che male c'è?

— Ah! che male c'è? Un giovinotto bello, simpatico, elegante, distinto….

— Ih! ih! quanti aggettivi.

— Con due occhi da far saltare in aria una polveriera….

— Ma io non sono una polveriera.

— Noi donne — sentenziò l'amica assumendo un' aria grave — abbiamo tutte una polveriera dentro di noi. Dà retta a me che sono maggiore.

— Di un anno e mezzo.

— In un anno e mezzo, cara mia, si imparano tante cose. Bastano qualche volta cinque minuti. Ti avverto per il tuo bene, non per odio al giovinotto ehe è simpatico, distinto….

— Elegante e bello, — completò Margheritina tentando una delle sue risate. Ma la risata fu un po' stridula.

Il giorno dopo un' altra sua amica, una signora anziana, — Margheritina ne aveva di tutte le età, — presentandosi seria e compunta e dichiarandosi dolentissima dell' ambasciata che era obbligata a fare, le venne rivelando con abbondanza di parole e di citazioni lo scandalo che essa dava al vicinato con quella razza di pigionale e il dolore e la mortificazione che per lei ne provavano le sue amiche. Terminò col paragone un po' vecchio, ma sempre opportuno, dell'onore di una donna facile ad appannarsi come la superficie di uno specchio al quale basta un soffio.

Margheritina questa volta pianse. Oh! che colpa ne aveva lei se il figlio della Lucia occava a momenti i diciannove anni invece ei dieci o dodici che gli aveva attribuiti? E come si faceva ora a metterlo fuori dell'uscio? Poteva forse dirgli: Signor mio, ella è troppo pericoloso per una bella donnina come me?

Furono ancora le amiche che tagliarono il lo gordiano. Raccolte a conciliabolo inconinciarono a pescare una vedova di età venerabile e di scarsa fortuna, mettendo sott'occhio alla Margheritina prima, al giovinotto in seguito, l' opera caritatevole che sarebbe stata riportando su quella derelitta il piccolo provento della pensione; facendo anche osservare che i Valori essendo benestanti non facevano bella figura ad affittar camere e che certamente l' amor proprio di Daniele Valori ne sarebbe rimasto ferito. Batti e ribatti, che il giovin tto capisse o non capisse, che la Margheritina fosse o non fosse contenta, le amiche la spuntarono.

Ecco dunque l' allievo della scuola navale installato altrove, e la Margheritina mogia mogia a riportare nella camera rossa la testa di rinoceronte.

Questo però non voleva dire che l'Anderloni, da giovanue bene educato e già innanzi negli usi di società, non si credesse in obbligo di fare qualche visita alla sua parente, che anzi le visite col conoscersi meglio si fecero di volta in volta più lunghe e più frequenti. Alla Margheritina non pareva vero di passare qualche ora diversa dal solito e di penetrare in un mondo che non conosceva attraverso i racconti spigliati del suo giovane cugino. Si chiamavano cugini senza che a nessuno dei due fosse venuto in mente di verificare i gradi di parentela.

Parlavano poi del più e del meno, del tempo, del mare grosso o no, delle mode strampalate, dei libri, dei giornali, finchè un giorno cadde in mezzo ai loro discorsi la parola amore. Allora si accese una discussione sui diversi amori: amore sentimentale, amore sensuale, amore cerebrale, amor platonico, amore per civetteria, per burla, per ozio, per vendetta, per imitazione, per abitudine. L'allievo di marina si mostrava di una competenza straordinaria. Margheritina si chiedeva come mai, coi suoi diciannove anni non ancora compiuti, e dove e in che modo avesse potuto raccogliere tante e sì svariate nozioni sopra un argomento nel quale lei, donna maritata, si riconosceva assolutamente inferiore.

Se è vero che parlar d'amore fra uomo e donna è quasi come farlo (ma Margheritina non lo sapeva) quei due s'erano proprio messi sopra una cattiva strada. L'argomento, non mai esaurito, faceva capolino ad ogni visita apportando sempre nuovi rinforzi per parte del giovinotto che non si peritò a documentare le sue lezioni sull'appoggio dei più noti romanzieri d'amore e siccome le parole uscivano da una bocca rosea come un fiore e appetitosa come un frutto, Margheritina (senza accorgersene) le sorbiva avidamente.

E se è pur vero un altro proverbio, che la paglia vicina al fuoco si infiamma, a quale dei due si vorrà dar colpa dell'odore di bruciaticcio che già emanavano i loro colloqui passati dall'amore in genere all'amore particolare? Il giovinotto che era nato Don Giovanni come un altro nasce San Luigi non aveva bisogno di ricorrere ad astuzie di seduzione. Tutto era seduzione spontanea in lui: gli sguardi, il sorriso, la voce, il gesto, il parlare, il tacere. Ma ammettendo pure che la sua seduzione fosse inconscia ne vedeva però l'effetto in Margheritina, e dai rossori e dai tremori di lei prendeva sempre più ampiezza la sua fiamma quale incendio mosso da vento favorevole.

La conclusione fu che senza venire ad una dichiarazione esplicita i due, diciamo così cugini, sapevano oramai di che male pativano reciprocamente, colla differenza che Margheritina ingenua e primitiva lusingavasi di amare l'Anderloni di un affetto quasi fraterno, e lui invece sapeva benissimo quel che voleva. Stato d'animo codesto che non manca di dolcezza ma che a lungo andare diventa insostenibile.

Chi ne soffriva di più era la Margheritina non avvezza a quelle scherme e che nella sua coscienza di buona ragazza sentiva già rimordersi, pensando al suo Daniele lontano, di non pensarci tanto come prima. E godeva, sì, molto, nella compagnia del neo marinaro ma poi le venivano tanti scrupoli che il piacere ne restava amareggiato. La sua bella allegria era andata in fumo così tra un sospiro e una lagrimuccia finchè non potendone più se ne aperse coll'amica più intima, quella stessa che aveva dato il primo allarme.

— Non te lo avevo detto io? Ogni donna ha dentro di sè una polveriera. Non mi hai dato retta….

— Ma sì che t'ho dato retta, tanto è vero che lo mandai fuori di casa.

— Uscito per la porta, rientrato per la finestra.

— Oh! Dio, — fece Margheritina torcendosi le mani, — che cosa dovevo fare?

— Bè, non occupiamoci del tempo passato. Pensiamo piuttosto a quello che devi fare adesso. Pregarlo, per esempio, di diradare le sue visite….

— Ho già tentato, ma se ne mostrò afflitto per modo che non ebbi il coraggio di insistere. Ha già la malinconia di trovarsi lontano dai suoi, se gli chiudessi anche la mia casa…. E sua madre che me lo raccomandò tanto!… È una posizione delicata.

L'amica dopo una pausa soggiunse:

— Ne hai parlato al tuo confessore?

— Ma ti pare! Sono cose da dirsi al confessore? Se ci fosse peccato, oh! allora…. ma peccato non c'è.

— Scusa, scusa, peccati ve ne sono di diverse sorta….

— Come dell'amore.

— Precisamente, e i peccati di desiderio….

— Ma io non desidero! — esclamò vivacemente la Margheritina.

— Cioè, desideri alla maniera di noi donne; desideri di essere desiderata.

Margherita si fece di porpora gridando:

— No! No! Ti assicuro che io non ci penso e, se non fosse lui che smania per questo….

— Lasciamo andare, — fece l'amica in tono conciliante, — tu, lui, la differenza è nulla poichè il pericolo esiste. Riconosci che esiste?

Margheritina abbassò il capo con nuove fiamme sulla faccia.

— Dunque ci vuole il rimedio, e poichè diradare le visite ti dispiace e parlarne al confessore non ti va, se ricorressi al magnetismo? C'è qui una fattucchiera che, vero sì vero no, io non me ne intendo e non vado a cercare, ma ti assicuro ha dato dei responsi meravigliosi. Provare non costa che dieci lire pagate dopo la guarigione. Devi fare questo per il povero Daniele che laggiù a Hong-Kong non sospetta quale catastrofe lo minaccia. Ti vuole tanto bene Daniele.

— Anch'io gli voglio bene, — piagnucolò Margheritina.

— E allora andiamo dalla fattucchiera. Sai, la scienza ha fatto molti pregressi; le fattucchiere moderne non hanno nulla di comune con quelle vecchie ignoranti del Medio Evo che venivano considerate come streghe. Fra poco avranno il loro diploma di professoresse in scienze occulte.

Sorpassata una prima ripugnanza istintiva, incuorata dall'amica, Margheritina andò a sottoporre il suo caso alla onniveggenza della magnetizzatrice narrandole per filo e per segno i suoi rapporti col cugino, protestando che erano assolutamente puri e che solo li turbava l'insistenza del giovane a volerne cambiare la natura ingenua ed onesta; che ove potesse liberarsi da questa specie di persecuzione non vi sarebbe più nulla a temere, nè per lei nè per Daniele Valori che viaggiava in China.

— È dunque su di « Lui » che bisogna agire, — disse la negromante.

— Appunto! — rispose Margheritina felice di essere stata compresa.

Detto fatto la donna dei misteri le consegnò un piccolissimo oggetto quasi informe e così strettamente fasciato che non s'avrebbe potuto con certezza assegnarlo a nessuno dei regni naturali conosciuti.

— Questo è un filtro. Non uno di quei filtri antichi che bisognava bere per ottenerne l'effetto: è un filtro solidificato che agisce per emanazione; basta portarlo costantemente su di sè. Se Lei trova modo di introdurlo negli abiti di suo cugino ne vedrà subito l'effetto meraviglioso.

Di più facile applicazione e più simpatica, Margheritina immaginò un altro mezzo per mettere a contatto il filtro col corpo del suo innamorato. Ravvolse l'oggetto in una ciocca de' propri capelli, li serrò con una fettuccia color di rosa, vi sparse qualche goccia di essenza di verbena e stette ad aspettare il momento opportuno.

Era una sera dolce, tiepida, lunata. Dalle finestre di Margheritina si scorgeva il mare, odorava l'aria del profumo di mille fiori invisibili. L'allievo di marina sembrava più taciturno del solito, seduto sul balcone accanto a lei, mordendosi con un movimento nervoso i piccoli baffi biondi biondi.

— È mesto questa sera.

— Sì.

— Perchè mai?

— Me lo domanda?

Alla Margheritina incominciò a battere il cuore. Pensò: ci siamo.

Scorsero infatti pochi istanti e il giovinotto, accostando la sedia e prendendo una mano che tremò nella sua, con rotte parole si fece a ridire le sue pene oramai non più segrete ma ognor crescenti di desiderio inappagato.

— Senta, — proruppe a un tratto la Margheritina con un coraggio da leone, — è ora di intenderci. Noi siamo buoni amici, nevvero?, e resteremo sempre tali. Io le voglio bene, un bene di mamma, di sorella…. un bene onesto infine. Ah! non si oscuri così. Quando le dico che le voglio bene non le basta? Ne vuole una prova? Guardi, ho tagliato questa mattina una ciocca di capelli per lei…. so che le piacciono i miei capelli…. le porteranno fortuna…. li vuole?

Prese il giovine i capelli e baciandoli senza troppo entusiasmo se li cacciò nel taschino del panciotto. Poi riprese le sue querele lente, sommesse, imploranti…. Margheritina ancora tutta infervorata di santo zelo difendendosi alla brava soggiunse:

— Non sa che…. mettiamo una cosa impossibile, mettiamo che io acconsenta, non sa che morirei?

A un lieve sorriso di dubbio apparso sotto i baffetti biondi Margheritina si esasperò:

— Non sa che ad onta del mio aspetto robusto ho un vizio di cuore per il quale tutti i medici che mi hanno visitata dichiararono che una forte emozione mi sarebbe fatale? Io sono una donna onesta, io, amo mio marito e se dovessi fare uno sproposito simile morirei, le dico, morirei sul colpo. Morirei nelle sue braccia, ecco!

Il giovinotto vide infatti che Margheritina impallidiva tutta scossa da un tremito. Si alzò, disse qualche parola di scusa fra le quali Margheritina intese « Grazie, mi ha guarito ». Fece un inchino e infilò l'uscio.

— Mio Dio! — esclamò Margheritina con una stretta al cuore che somigliava ad un rimpianto. — come ha operato presto il filtro!

Sdraiati in un campo di ravettone i cui fiori gialleggiavano nella maturanza precoce di un giugno ardente i due figliuoli della Menica riposavano, avendo terminato per quel giorno i loro lavori di campagna, aspettando lo zio Titta che doveva passare di lì col vitellino nuovo.

Vissuti sempre insieme di una vita semplice e monotona i due fratelli non avevano grandi cose da raccontarsi, così quando ebbero fatto qualche pronostico sul tempo e convenuto insieme che il ravettone quell'anno prometteva bene Paolo trasse di tasca un mozzicone di sigaro raccolto per via, lo succhiò un poco e lo passò a Pietro, da buoni fratelli abituati a non avere nè tuo nè mio.

— Quel maledetto dente mi duole ancora, — disse Pietro a un certo momento.

— Converrà farlo levare, — soggiunse Paolo.

— Già.

E ricaddero nel silenzio.

Quante fossero precisamente le ore non sapevano. Lo zio Titta doveva passare di lì, essi lo aspettavano; niente altro. Pietro aveva in mano una verghetta e si batteva con essa la coscia, Paolo seguiva cogli occhi il volo di un falchetto. Il sole declinava.

Forse, molto lontanamente, il sospetto che fosse tardi attraversò alla fin fine il cervello di Pietro mettendogli innanzi questa domanda:

— Il diretto è già passato?

— No, non ancora.

— Sei sicuro?

— Sono sicuro. Guarda, è quello che viene adesso.

Entrambi i fratelli aguzzarono le pupille lungo il binario che attraversava i campi a pochi passi dal luogo dove si trovavano. Il piccolo punto indicato da Paolo cresceva a vista d'occhio delineandosi ferreo e nero sulla falda rosata dell' orizzonte seguito dal solito pennacchietto di fumo. Ben presto la locomotiva, i carrozzoni, il bagagliaio sfilarono sotto lo sguardo placido dei due contadini sdraiati nel campo di ravettone, ma — proprio all'istante in cui il treno svoltava tracciando una rapida curva — un oggetto lanciato con violenza da un finestrino venne a cadere non molto lungi da essi.

Pietro voltò appena la testa. Paolo disse:

— Che sarà?

— Un cartoccio vuoto, che vuoi che sia?

— Mi sembra una scatola.

— Una scatola di sardine allora, vuota si intende. La roba che i viaggiatori buttano sulla strada non è mai altro.

— Sicuro. Vorresti che buttassero i portamonete coi biglietti da mille?

I due fratelli risero. Paolo fece una capriola nell'erba.

— Olà, olà, — gridò alle loro spalle la voce dello zio Titta, — perchè non vi muovete? Qualche cosa è caduto dal treno. Bisogna andare a vedere.

— E se è un cartoccio vuoto? — Vedere bisogna sempre.

Fu Paolo che saltò in piedi per il primo e lo zio Titta dietro, mentre Pietro nicchiava incredulo e neghittoso. Quando però potè scorgere distintamente l' oggetto che il fratello aveva raccolto non fece che un salto balzandogli addosso con sùbito ardore. Paolo era diventato pallido stringendo il pugno contro il petto.

— Vedere, vedere! — gridò Pietro.

— Ih! che furia! È adesso che ti scaldi? — rispose Paolo tenendo sempre il pugno stretto.

Lo zio Titta non parlava. Battista, detto Titta, detto il « Bisogna », era in fama di uomo accorto. Il sopranome di Bisogna glielo avevano dato per una sua abitudine di cacciare questa parola in quasi tutti i discorsi. specialmente nella frase che ripeteva più di ogni altra quando era il caso di ammonire i suoi nipoti o magari sua cognata Menica che essendo rimasta vedova cadeva naturalmente sotto la sua protezione e direzione. La frase dunque era questa: Bisogna essere furbi! È d'uopo dire che l'esempio seguiva dappresso la predicazione e che per le trovate sempre abili dello zio Titta (abile non è precisamente sinonimo di corretto ma — diceva ancora lo zio Titta — non bisogna guardar troppo per il sottile se si vuole conservare la vista) la verità è che gli affari andavano abbastanza bene nella famigliuola di cui lo zio Titta era il capo riconosciuto.

Zitto, fermo, tenendo con una mano la fune a cui era attaccato il vitello, appoggiata l'altra sul fianco, tutta l'anima del vecchio furbo sembrava concentrata nel naso il quale, lungo, ricurvo, tagliente come un rostro, avido e frugatore come un becco, vigile come un faro, nella tensione palpitante di una sentinella avanzata, quasi fosse munito di una pupilla magica all'estremità, trapassava il pugno di Paolo, trapassava l'astuccio, vedeva! Così quando l'astuccio venne aperto il meno meravigliato fu lui.

Appena Paolo fece scattare la molla due orecchini di brillanti scintillarono morbidamente abbracciati da un cuscinetto di velluto celeste.

— Sacr….estia! — esclamò Pietro.

— Questa volta almeno le sardine ci sono, — soggiunse Paolo tutto allegro.

— Purchè sieno buoni, — insinuò Titta allungando la mano agli orecchini che prese e contemplò minuziosamente.

— Non vedi come brillano?

— Eh! brillare non vuol dir nulla. Bisogna essere furbi a questo mondo e sapere le cose come stanno. Si fanno in giornata dei brillanti che rubano gli occhi e che non sono niente affatto brillanti. Questi però se sono falsi convien dire che li hanno falsificati bene.

— Io dico che sono buoni.

— Per dirlo lo dico anch'io. Tutto sta ad essere sicuri.

— Ci vorrebbe uno che se ne intenda, — osservò Pietro.

— Un orefice, — soggiunse Paolo.

Ma l'istintiva diffidenza del contadino fece esclamare allo zio Titta:

— Adagio, adagio. Non andiamo adesso a propalare a tutti i nostri interessi. Bisogna riflettere prima di agire.

Così dicendo si pose in tasca l'astuccio.

— Ehi! dico, zio, — saltò su Paolo, — o veri o falsi questi gingilli sono miei.

— Perchè? — fece il « Bisogna » tranquillamente tirando la fune del vitello.

— Oh! bella, non li ho forse raccolti io?

— Tu?… Tu non ti muovevi neppure, nè tu nè tuo fratello, se non fossi stato io a mettervi sull'attenti.

— Però — interloquì Pietro — noi siamo stati i primi a vedere.

— Neanche questo lo puoi provare. llo forse visto prima io, ma ero più lontano e non potevo correre.

— Ad ogni modo — borbottò Paolo in tono minaccioso — l'astuccio mi appartiene. Sono pronto a andare in giudizio se occorre.

— Non stiamo a litigare — concluse Titta — prima di sapere se si tratta di brillanti o di cocci di vetro. Del resto fidatevi a me; il fratello di vostro padre non vi vuol tradire.

La frase era bella ma fece poco effetto sui due giovinotti che avrebbero preferito aver loro in tasca l'astuccio. Mogi mogi seguivano lo zio sul cammino della loro casa, tenendogli gli occhi addosso come se potesse volar via; quando furono quasi alla soglia Titta si pose un dito sulle labbra raccomandando:

— E silenzio per ora! Non dite nulla a vostra madre che lo saprebbe tutto il paese.

Oh! questo poi no! protestarono insieme i due fratelli. Che il vecchio sornione si sia messo in tasca l'astuccio e pretenda avervi dei diritti è una cosa che si potrà discutere, ma impedirci di parlarne a nostra madre è troppo.

Infatti non avevano ancor finito di mangiare la zuppa che Paolo schiattò:

— Zio, mostra un po' alla mamma quello che ho trovato oggi in un campo di ravettone.

Invano Titta si pose a fare gli occhiacci ed a schermirsi fingendo di non comprendere. Premeva troppo ai due fratelli di mettere in chiaro la faccenda, che di quel silenzio non si fidavano affatto ed a prendersi per alleata la madre restavano in tre contro uno. L'astuccio dunque, dopo alcuni tentativi di resistenza, uscì dalle tasche del vecchio ed aperto provocò le più alte esclamazioni ammirative della Menica la quale non finiva di voltare e rivoltare da ogni lato gli splendidi orecchini sentendosi crescere la saliva sotto la lingua per la gran gola che le facevano.

— Forse sono falsi.

Titta non lo credeva, ma buttò là ancora questo dubbio per studiarne l'effetto.

— Ohibò! — fece subito la donna, — sono in tutto simili a quelli della nostra padrona. Io li conosco bene.

— E quanto credi che possano valere? — domandò Pietro a un tratto.

Quattro respiri rallentarono per un istante il loro ritmo; l'attenzione era intensa quando Menica in seguito a certo suo calcolo mentale disse:

— Ma, se sono proprio fini come quelli della padrona, cinque o sei mila lire….

Lo zio Titta saltò in piedi con tutte e due le braccia per aria:

— Sei matta! Sei matta!

Pietro disse:

— È una bella sommetta!

Paolo si pose a ridere fregandosi le mani; ma lo zio Titta seguitava a gridare come un ossesso.

— Non è vero, non è vero. Siete matti!

Per quella sera non si concluse nulla. Solo che avendo lo zio Titta allungato la mano per rimettersi in tasca l'astuccio tutti furono d'accordo a protestare, così che egli trovandosi ad essere la minoranza si scusò facendo un breve discorso sulla sua qualità di capo della famiglia e sul suo affetto di zio.

— Del resto, — soggiunse, — non siamo tutti uniti d'amore e d'accordo? Quello che è dell'uno è pure dell'altro.

— Benissimo, — concluse Paolo, — e per ciò daremo l'astuccio in custodia alla mamma che stando in casa può meglio sorvegliarlo e che lo riporrà ben bene avvoltolato in un paio di calze in fondo al canterano.

Lo zio Titta si rassegnò; ma già subito all'indomani l'argomento fu ripreso e per tutti i giorni dovette essere quello il perno intorno al quale si aggiravano pensieri, parole, progetti, reticenze, piccole congiure occulte, piccole viltà. A nessuno era ancora venuto in mente che l'astuccio si dovesse restituire, tuttavia un vago timore che da un momento all'altro saltasse fuori il proprietario li teneva zitti, in attesa.

Qualche volta, lemme lemme, senza dare nell'occhio, Titta andava a zonzo per il paese a raccogliere notizie sui fatti del giorno; si spinse fino alla stazione dove pure s'avrebbe dovuto sapere qualche cosa, ma nulla mai trapelò dei gioielli perduti al punto che Titta e i nipoti e la cognata li consideravano oramai come gioielli di famiglia. E le dispute ricominciarono. Anzitutto, erano veri? erano falsi? A chi appartenevano? che cosa dovevano farne? La Menica se li era provati per ischerzo convinta immediatamente che non era roba per lei; e neanche se Pietro o Paolo avessero condotta la sposa potevano offrirle un oggetto così fuori della loro condizione. Venderli? Ma a chi per non essere imbrogliati?

Di punto in bianco un bel giorno la Menica si aperse colla padrona la quale osservando i brillanti da conoscitrice assicurò che erano buoni ma disse recisamente che in coscienza non si potevano tenere e occorreva denunciarli subito altrimenti c'era da incorrere nella prigione. Come mai non ci avevano pensato? Questa dichiarazione fu una mazzata per il « Bisogna » e per tutta la sua famiglia abituati come si erano già a ritenere i brillanti loro proprietà assoluta e chi ne andò di mezzo fu la Menica accusata di avere guastato ogni cosa colla sua smania di parlare. Che bisogno c'era di dirlo alla padrona? Bel risultato se ne aveva.

La padrona per calmare un po' tutte quelle cupidigie inasprite disse che quando avessero trovato il proprietario dell' astuccio sarebbe pure toccata a loro una buona ricompensa; ma non valse a nulla. Erano i brillanti che essi volevano e li volevano con una cocciutaggine fatta di ignoranza e di avidità sulla quale nessuna luce poteva gettare l'idea confusa che essi avevano del diritto.

Obbligati tuttavia a denunciare l'oggetto trovato lo fecero così di mala voglia che ne rimase ad ognuno l'amaro in bocca, e questo amaro si gettarono vicendevolmente l'un l'altro con reciproche accuse per tutto il tempo di attesa prescritto dalla legge. Caso singolarissimo! Per quanto annunciato e propalato dovunque il mistero dell'astuccio lanciato dal carrozzone di un treno in corsa restò un mistero. Furto? capriccio? vendetta? gelosia? Qualunque fosse stato il movente non se ne seppe mai nulla. Colpevole o impotente la mano che aveva tracciato il gesto audace non uscì dall'ombra. Nessuno venne mai a reclamare i brillanti. Per tal modo trascorsi i due anni d'obbligo Titta coi suoi due nipoti rimasero i legittimi padroni dell'astuccio.

Oramai si sono accordati per una equa divisione del bottino, ma non potendosi dividere in tre parti i brillanti che erano solamente due decisero di venderli. Più presto detto che fatto però. La padrona si era offerta lei di rilevarli a prezzo di stima, ma Pietro insinuò che se aveva fatta l'offerta ci stava dentro certo il suo tornaconto. Diffidarono della padrona, diffidarono anche del curato che aveva un fratello orefice e poteva occuparsi dell'affare. A vero dire diffidavano di tutti; se avessero potuto seppellirli quei brillanti indiavolati li avrebbero cacciati cinquanta metri sotto terra. Il guaio era che Paolo voleva prender moglie e Pietro aprire un negozietto, e come si faceva senza denari? La necessità di venderli era evidente ma volevano essere ben sicuri che nessuno potesse specularvi sopra. Avevano pensato tanto alla somma possibile da ricevere che essa era andata crescendo con giri iperbolici nella mente di ognuno dei tre.

Pietro una volta uscì a dire:

— Io so di brillanti che furono pagati dieci mila lire!

La padrona che lo udì e che ne rise gli diede l'indirizzo di un orefice a Bergamo consigliandolo a andare da lui per togliersi ogni dubbio. Pietro andò, ma andarono insieme Paolo e Titta. Non si è furbi per nulla. Con loro grande stupore e dolore l'orefice bergamasco pose la stima dei brillanti a tremila e duecento lire.

— Ci inganna! — disse Pietro, — vuole derubarci.

— È forse d'accordo colla padrona, — soggiunse Paolo.

Lo zio Titta propose di sentirne un altro e l'altro fece il prezzo di tremila e cento ottanta.

Tornarono a casa coll'attitudine dimessa di cani bastonati, nè per un pezzo si parlò più di brillanti.

— Vi credete furbi, — disse una volta la padrona, — ma in questa faccenda la fate proprio da ignoranti. Invece di mettere a frutto il vostro capitaletto ve lo tenete nascosto nelle calze della Menica. Chi lo gode così?

Il « Bisogna » fu il primo ad afferrare la logica di tale ragionamento; forse perchè egli era vecchio sentiva maggiormente la necessità di non perder tempo e propose ancora la vendita.

— Per tremila e duecento? — gridò Pietro indignato.

— Ma se non valgono di più?

— Chi lo sa se non valgono di più!

— Allora facciamo una cosa. Andiamo a Milano. Là orefici ve ne sono in gran copia, la città è ricca, tutti portano brillanti, vedremo se si può vender meglio che a Bergamo.

Eccoli a Milano tutti e tre, indivisibili e guardinghi, sorvegliandosi a vicenda.

— Sopratutto — aveva detto lo zio Titta — stiamo attenti ai ladri. Bisogna avere l'occhio sempre pronto in mezzo a tanta gente che non si conosee.

Pietro e Paolo che vedevano Milano per la prima volta si lasciavano distrarre un poco lanciando occhiate di qua e di là ad ognuna delle quali restava attaccato l'uncino di un desiderio.

— Deve essere bello a vivere a Milano, — osservò Paolo.

— Stai zitto, che quando abbiamo preso la nostra parte dei brillanti verremo qui noi due per una settimana senza dirlo allo zio Titta.

— Benone. E staremo allegri!

Intanto seguivano docilmente lo zio Titta che incominciò a fare il giro dei piccoli orefici di porta Ticinese e di porta Garibaldi ricevendo in parecchi posti un rifinto netto e tondo ad acquistare merce di ignota provenienza. Uno che sembrava disposto a entrare in trattative offerse duemila e cinquecento lire giurando su tutti i santi che non valevano di più.

— Ci vogliono truffare, — disse serio serio lo zio Titta, — ma bisogna mostrar loro che non siamo gonzi. Dovessimo fare il giro di tutti gli orefici che vi sono in Milano non dobbiamo darci per vinti.

Andavano, andavano i tre villici pazienti e intontiti, urtando i passeggieri, col rischio continuo di farsi prendere sotto le ruote dei tram, stanchi della stanchezza speciale che provano gli abitatori della campagna quando si recano in una grande città. Pietro non tardò molto ad accusare un forte mal di capo; Paolo vedeva doppio; lo zio Titta non diceva verbo ma il naso gli si affilava di minuto in minuto. La necessità di concludere si imponeva.

Oramai avevano offerto dovunque i sciagurati brillanti e fra tutti la somma maggiore era stata proposta loro in un negozio elegante del centro: tremila e cento ottanta. Memore però dell'orefice bergamasco che li aveva valutati tremila e duecento lo zia Titta non volle accettare subito. Solamente al calare del giorno, scorati, stucchi, frolli, furono tutti e tre d'accordo di farla finita e ritornarono nel negozio elegante.

— Veda — disse il « Bisogna » piagnucolando — di darmi almeno tremila e cento novantacinque. Sono cinque lire che ci rimetto come è vero Dio!

Sollevando gli occhi al cielo per accompagnare degnamente l'invocazione, vide nella traiettoria del suo sguardo qualcuno che gli sorrideva benevolmente; era un signore che stava guardando i gioielli della vetrina, e parve al « Bisogna » che con quel sorriso tacitamente lo incoraggiasse.

Lunga fu la disputa, fermo l'orefice, cocciuti i villani; finalmente l'affare venne concluso per tremila cento novanta lire, più un gran sospiro del « Bisogna » che rimpiangeva le tremila e duecento offerte tanto tempo prima dall'orefice di Bergamo.

— Via, — dissero i due giovinotti ridiventati allegri alla vista dei bei bigliettoni, — quel che è stato è stato. Dicci lire non ci fanno nè più ricchi nè più poveri. Badate piuttosto a metter via bene il denaro.

Per questo lo zio Titta non aveva bisogno di consigli. Cacciò la somma nelle ampie tasche di un portafoglio che sembrava quello di un ministro, tolto l'unto e lo sdruscito del lungo uso, ed allogato il portafoglio nelle profondità interne della giacchetta lo andava ancora spianando colla mano per diminuire il troppo appariscente volume.

Si presero tutti e tre sotto braccio, lo zio Titta nel mezzo per salvaguardare il gruzzolo, e s'avviarono alla stazione sperando di fare in tempo a prendere un treno prima che sopraggiungesse la notte. Erano stanchi, avevano fame, ma al pari dei cavalli affrettavano il passo fiutando di lontano l'odore della stalla.

A un tratto un gentile signore, vestito con eleganza e dai modi urbanissimi esclamò alle loro spalle:

— Temevo di non riuscire a raggiungerli, che gamba! Prego, prego, abbiano la compiacenza di fermarsi un momento.

I tre contadini rimasero dubbiosi, presi subito da diffidenza; ma l'altro continuò con una amabilità che avrebbe sedotto una roccia:

— C'è stato un piccolo sbaglio, scusino, le tremila e cento novanta….

Lo zio Titta fece un salto da lepre:

— Che sbaglio! che sbaglio! Chi è lei? Noi non la conosciamo, ci lasci in pace.

— Sicuro, sicuro, — riprese il garbatissimo incognito, — lei ha pienamente ragione, ma anch'io voglio mettermi in pace colla mia coscienza. L'onestà innanzi tutto. C'è qualcuno che dice: bisogna essere furbi. Il mio motto è: bisogna essere onesti.

— Ma infine che cosa vuole?

— Niente altro che consegnarle queste cento lire, se permette.

Da una busta rettangolare lo sconosciuto trasse un biglietto da cento e lo agitò nell'aria. Lo zio Titta credette di avere le traveggole e si appoggiò sulle braccia di Pietro e di Paolo non meno intontiti e rimminchioniti. Finalmente mormorò:

— Non capisco nulla.

— Ecco, — riprese il signore sorridendo colla sua inesauribile buona grazia, — io sono il socio dell'orefice al quale ella ha venduto i brillanti. Non mi ha visto in bottega? Non mi riconosce?…

Ah! sì. Quel sorriso fu un lampo nella mente ottenebrata del « Bisogna ». Egli riconobbe il signore che ispezionava la vetrina e che gli aveva sorriso appunto così amabilmente.

— Devo dire anche che il proprietario del negozio sono io; il mio socio non vi mette che l'opera. Io lo lascio fare ma lo sorveglio…. capisce? Fu a questo modo che mi parve di accorgermi che egli si sbagliava nell'apprezzamento dei brillanti. Naturalmente non volli mortificarlo in loro presenza…. mi piace essere delicato; ma appena usciti loro abbiamo fatto insieme i conti e risultò precisamente quello che avevo sospettato, cioè che il valore reale di quei gioielli è di tremila trecento lire o poco meno. Da galantuomo mi affretto a portarle la differenza.

La sorpresa, il piacere, la commozione paralizzarono talmente ogni facoltà di quei contadini avidi ed astuti, ma ignoranti, che balbettando a stento lo zio Titta riuscì a mettere insieme qualche parola di gratitudine intanto che toglieva fuori dal gabbano il voluminoso portafoglio per introdurvi il nuovo ospite tanto gradito quanto inaspettato.

— Come! — esclamò l'amabile signore, — ella tiene i denari in quell'enorme portafoglio che le fa gobba sotto la giacca e lo addita da lontano ai borsaiuoli? Non sa che Milano ne è piena?

— Ma noi partiamo subito, — rispose lo zio Titta un po' confuso.

— Devono pure attraversare tutta la città e quando bene siano giunti alla stazione è quello il posto preferito dai cavalieri di industria. Non parliamo poi del viaggio in ferrovia; le ferrovie sono diventate più malsicure di un bosco. Pochi giorni or sono un mio cugino è stato derubato dell'orologio e del portamonete, così, in un attimo, senza manco accorgersene. È un'imprudenza, caro mio, una grave imprudenza!

Terrorizzato il vecchio esclamò:

— Ma come faccio allora?

— Se crede, — insinuò dolcemente il socio dell'orefice, — posso mandarle il denaro per la posta. È più sicuro.

Le tre teste di Titta di Pietro e di Paolo come fossero una testa sola risposero energicamente di no. L'idea di separarsi, fosse pure per un giorno, da quella somma tanto agoganta e faticosamente raggiunta irritava troppo la loro nativa diffidenza.

— Bene, — soggiunse l'altro colla sùbita remissione di chi non ha alcun interesse in giuoco, — fàcciano come credono. Accetti però almeno questa busta, — così dicendo lo sconosciuto si pose in modo da voltare le spalle ai due giovinotti protendendosi verso il « Bisogna ». — È di carta pergamenata, solidissima; io non mi servo mai d'altro per trasportare i valori. La busta è molto più pratica del portafoglio; sopratutto un portafoglio di quelle dimensioni!

Non vi era nessuna ragione da opporre e poichè aveva già rifiutata la prima offerta il vecchio si credette obbligato, almeno per cortesia, a non rifiutare anche la seconda. Prese dunque la busta dalle mani del compiacente signore e tentò di farvi entrare la valuta, ma siccome era un po'impacciato nei movimenti l'amico con una mossa lesta e dicendo: — Lasci fare a me che sono pratico: — infilò le tremila trecento lire nella busta, vi appose rapidamente la lingua, la chiuse e la restituì con un inchino.

— Servo suo signore e buon viaggio!

Il « Bisogna » si voltò per ringraziare ancora una volta il servizievole sconosciuto ma non lo vide più. Egli era già scomparso, nè a dire il vero si diede troppa premura di farne ricerca poichè oramai tutti e tre non avevano che un solo ardente desiderio: quello di trovarsi a casa.

La Menica che li aspettava con impazienza avendo già fatto per suo conto una quantità non indifferente di castelli in aria volle subito sapere a quale cifra era giunta la vendita dei brillanti. Il cognato e i figliuoli ridendo sotto i baffi della meraviglia che ella avrebbe provato dinanzi alla somma non mai vista apersero con grande sussiego la busta pergamenata e…. la trovarono piena di biglietti dell'amido Banfi. Uno solo, messo da parte, era il biglietto da cento offerto dal generoso sconosciuto; ma quando vollero spenderlo si accorsero che era falso.

Possono queste due sensazioni andare d'accordo o non si escluderanno a vicenda, come da mezz'ora andava dimostrando il dottor Brocca appoggiandosi alla autorità di scrittori reputatissimi?

In conclusione egli diceva, che il menomo pericolo ci toglie la curiosità perchè noi allora non ci occupiamo che di noi stessi. L'istinto della conservazione è primordiale e congenito a qualsiasi essere creato, mentre la curiosità non si sviluppa che in seguito all'accrescimento dell'intelligenza. Guardate le bestie; esse non sono curiose. Potete fare quello che volete dinanzi a un cane, a un cavallo, a una pecora, se non li stuzzicate direttamente non riuscirete a interessarli. È facile spaventare un animale, è impossibile renderlo curioso. La curiosità è propria dell'uomo e più ancora dell'uomo intelligente.

— Ecco un bell'elogio per le donne, — interruppe Ciro Garzes.

Le poche signore presenti alla conversazione sorrisero di giustà compiacenza. Difatti non si rimprovera sempre loro di essere curiose come se la curiosità fosse una deficenza dell'intelletto? Qualcuno soggiunse (forse un antifeminista): Anche i bambini sono curiosi!

— Appunto, — ribattè vivacemente una signora, — ma più i bambini sono curiosi quanto più sono intelligenti.

— Ammettiamone l'intelligenza, ma si tratta di una intelligenza in formazione, quindi una intelligenza per molti lati manchevole. L'uomo adulto, l'uomo che sa, non è più curioso.

— Non è più curioso? Ma se Newton era così curioso da cercare il movimento della luna e della marea? e Galileo da voler sapere perchè una lampada appesa ad una catena dondola? E Dante non appagato ancora del nostro mondo volle conoscere l'inferno, il purgatorio e il paradiso? Che cos' è tutta la scienza se non una ardente, inestinguibile curiosità?

Una breve pausa della signora offerse al dottor Brocca l'occasione opportuna di riprendere l'interrotta divagazione.

— La curiosità dunque è propria dell'uomo, ma il pericolo la attutisce. Osservate che un teatro la principale preoccupazione è querla di assicurare un buon posto agli spettatori, comodo, fuori delle correnti d'aria e con una porta di sicurezza accanto in caso di incendio. Quando lo spettatore si trova a suo agio può assistere a qualunque rischio sulla scena; anzi più egli è sicuro e più si interessa alle peripezie, ai rischi ed ai pericoli degli altri. Questo è un grande segreto dell'arte drammatica: presentare delle persone nelle situazioni le più imbarazzanti ad altre persone che non lo sono affatto. Solo che piovesse nei palchi il teatro sarebbe vuotato. Ed anche rapporto alla curiosità dei bambini credete che non si duplicherebbe se invece dello spavento delle nostre scuole illogiche si potesse avere una scuola razionale che mettesse il fanciullo nella migliore e più comoda situazione per imparare?

Un vecchietto in un canto tentennava il capo. Ciro Garzes gli domandò quale fosse la sua opinione in proposito.

— Ecco, — rispose. — vi è certamente la curiosità dello sfaccendato che cerca a teatro la sedia imbottita e il palco dove non piova; io però mi ricordo di essere andato per tre sere consecutive a sentire la Malibran sdraiato sotto le panche del loggione. Dico sdraiato sotto le panche per il semplice motivo che stando in negozio fino alle sette (facevo allora l'apprendista) non mi potevo recare a far porta per procurarmi il posto ed ero così stanco che mi era impossibile stare in piedi. Annovero tuttavia quelle tre sere fra le più belle della mia vita.

— Chi non sa, — disse il dottor Brocca, — che l'entusiasmo crea miracoli? Queste sono eccezioni. Tu sei sempre stato appassionato per la musica e le passioni escono dal campo della curiosità semplice. Anche Romeo arrischiava di rompersi l'osso del collo su per quella scala di corda che metteva capo a Giulietta; non vi si sarebbe forse avventurato per vedere un cinematografo.

Ciro Garzes si chinò verso il vecchietto mormorandogli qualche cosa all' orecchio. Il vecchietto rise e poichè si cominciava ad essere stanchi della discussione tutti vollero sapere che cosa aveva detto di ameno Ciro Garzes.

— Oh! nulla, — protestò costui, — rammentavo una antica storia nella quale io non feci precisamente la figura di Romeo e che potrebbe dar ragione alla teoria del dottore circa il potere repressivo che esercita la paura sulla curiosità.

Ciro Garzes era da noi soprannominato il re di Navarra per l'inesauribile fondo di storielle e di aneddoti che conservava nella memoria. Abituati a saccheggiarlo non gli si volle far grazia naturalmente e benchè si mostrasse a tutta prima ricalcitrante annuì alla fine con quella schietta bonomia che gli conquista da oltre settant'anni tutti i cuori.

— Premetto che ero allora molto giovane.

— E bel giovane! — interruppe il vecchietto.

— Lo sappiamo, lo sappiamo, — disse il dottore, — posso anche aggiungere che lo vediamo. Forse che nell'albero fronzuto e nodoso non si può indovinare l'eleganza passata dell'arboscello?

Il complimento parve turbare la modestia di Ciro Garzes. Egli ripetè con tono dimesso:

— Ero giovane, timido, inesperto; crescinto prima in una vecchia casa di campagna, poi in un vecchio collegio sorgente anche quello nel mezzo del prati, in una solitudine perfetta e serena. Mia madre era una santa, mio zio canonico un santo, i miei maestri tutti sacerdoti dalla vita esemplare, dai costumi illibati. Per un po' di tempo ebbi anch'io l'intenzione di farmi prete, ma poi l'entusiasmo che c' era nell'aria per tutto ciò che sapeva di militare mi indusse a barattare il collarino colle spalline. Divenni soldato. Allora soldato era sinonimo di amico, di liberatore, di eroe; gli uomini ci invidiavano; le donne…. Basta! Fui dei primi ad occupare la Sicilia; quando entrai in Palermo credetti davvero di aver toccato il cielo. Tutto mi arrideva, l'età, il luogo, il tempo; il profumo delle zàgare mi inebbriava, gli occhi neri delle siciliane mi tenevano in uno stato continuo di dolce eccitazione….

Come la voce di Ciro Garzes tremava un po' il suo compagno di giovinezza lo volle redarguire:

— Andiamo, albero fronzuto e nodoso, non ti commuovere troppo, altrimenti perderai il filo.

— È pur necessario descrivere i due successivi stati d'animo fra i quali fui sballottato, — affermò Ciro Garzes, — il primo di purezza quasi claustrale, il secondo di estasi febbrile e di tentazione permanente. Non so se qualcuno di voi si è trovato a vent'anni lungo la più bella marina del mondo, trascinando una sciabola nuova fra siepi di fiori e gruppi di donne dal pallore d'ambra….

Il dottor Brocca volle dire la sua:

— La sola cosa importante in tutto ciò sono i vent'anni che tutti abbiamo avuto e che le signore qui presenti hanno ancora. Del resto, che si tratti della riva del mare o della sponda di un ruscello, di siepi di zàgare o di sambuco, hum! non credo che la differenza possa essere molta.

— No, no. Chi non ha visto le notti di Palermo, lungo la marina, al chiaro di luna, non può farsene una idea. In quella cornice di sogno gli equipaggi delle signore passavano eterei come una visione celeste e le belle creature che vi stavano abbandonate apparivano quali esseri soprannaturali. In tali contingenze vi assicuro che un giovinotto di sana costituzione e dotato di un briciolo di poesia non può fare a meno di innamorarsi pazzamente.

— Alla buon' ora! — esclamarono le signore, che da un pezzo aspettavano la parola magica.

— Devo certo attribuire — continuò con modestia Ciro Garzes — il merito della conquista all'uniforme la quale, come vi ho già detto, attirava simpatieamente gli sguardi. Forse ebbi altri complici, non so, ma il fatto è che dardeggiando di sguardi ardenti la signora prescelta nutrii tosto la sicurezza che il mio amore veniva ricambiato. Pare che laggiù, di fronte all'Africa infuocata, l'idillio maturi rapidamente in passione, perchè dopo alcune settimane di una corte assidua e rispettosa fui incoraggiato ad avvicinarmi alla mia bella. Ella ordinava alla carrozza di fermarsi un po' lontano dalla folla e dagli altri equipaggi; io mi facevo allo sportello, le davo la buona sera, le offrivo dei fiori…. non mi ricordo se ebbi il coraggio di palesarle il mio amore, ma ella con un accento che mi scatenò in petto tutte le fiamme dell'Etna mi disse una sera: « Domani sono sola. Vuol venire a trovarmi a palazzo? »

— Lesta la Dulcinea!

— È il clima.

— Il mare.

— Le zàgare.

— Il chiaro di luna.

Ciro Garzes lasciò che gli amici si sbizzarrissero in celie e poi riprese a narrare:

— Era la prima volta che mi capitava un'avventura simile e dovete sapere che conoscevo a mala pena il nome della signora. Solamente il giorno stesso del convegno qualcuno mi disse che ella aveva un marito gelosissimo, feroce. La credevo vedova e non posso dire che la rivelazione improvvisa di questo marito da melodramma mi rallegrasse molto. Ma pazienza, quando il vino è sturato bisogna bere. Abitava un immenso palazzo a picco sul mare, distante dalla città almeno un chilometro, cinto da una solitudine perfetta. Vi giunsi a cavallo, una sera che non c'era luna….

— Non abusare della nostra sensibilità, — esclamò il dottore.

— Le mie parole non aggiungono nulla, ve lo giuro, al romanticismo di quella cavalcata notturna verso un palazzo ignoto dove mi aspettava una donna incantevole ma ignota essa pure. Tutte le precauzioni erano state prese per conservare alla mia visita il suo carattere clandestino. Silenzio e oscurità dovunque, nessun domestico importuno; neppure un cane di guardia. Al mio giungere la porta, che era chiusa, girò tacitamente sui cardini e una giovane cameriera della quale non vidi al piccolo lume della lucerna che aveva in mano se non il biancheggiare del grembiule, mi ricevette con un dito sulle labbra. Conformandomi alla consegna la seguii senza far motto per una lunga fila di sale la cui vastità e l'arredamento mi sfuggivano, obbligato come ero a tenermi sul sottile filo di luce che la mia guida tracciava dinanzi a me. E vi assicuro che mi battè il cuore quando sollevando l'arazzo di una pesante portiera fui introdotto in un salottino circolare tutto pieno di rose e tutto color di rosa, rosea anche la lampada che sospesa in alto vi diffondeva una chiarità di aurora boreale. Là mi attendeva la signora e là scomparve l'ancella.

Un profondo sospiro diede la misura dei rimpianti di Ciro Garzes, ed è tanta la forza della sincerità che nessuno in quel momento ebbe voglia di scherzarci sopra. Egli continuò:

— Vi sono nella vita dei bei momenti, non c'è che dire. Seduto vicino a quella avvenente creatura, in mezzo ai profumi congiunti delle rose che erano nel salottino e delle zàgare che entravano dal parco abbarbicate alle finestre, potevo credermi un Sultano d'Oriente in avventura amorosa con una fantastica principessa. Ella mi narrava appunto la sua vita infelice legata a un marito barbaro del quale subiva le più inaudite tirannie e mi confessava arrossendo di avere indovinato in me fin dal primo sguardo un cuore leale e sensitivo capace di intenderla. Io non so che cosa avrei risposto a queste dolci confidenze; so che non ebbi tempo di rispondere perchè la portiera sollevata precipitosamente aperse il varco alla cameriera la quale entrò colle mani nei capelli gridando: « Il signor barone! Il signor barone! » Non ho mai compreso come in quell'istante la fugacità delle vicende umane. Precipitando dal cielo negli abissi e niente pratico di tale manovra non devo sicuramente aver fatto una bella figura; ma probabilmente nè la padrona nè l'ancella si occuparono del mio sembiante. « Fugga! Fugga! » disse la signora e furono le ultime parole che intesi dalla sua voce armoniosa. La cameriera prendendomi per una mano mi trascinò da una porticina contraria a quella dove eravamo entrati in un labirinto di camere, di corridoi, di scalette dove, essendo perfettamente al buio, per quanto la mia guida non avesse abbandonata la mia mano urtai in parecchi mobili invisibili e contro a pareti che mi sembravano più dure del naturale. « Non abbia paura, — mormorò la provvidenziale Arianna, — il signor barone non penserà certo a inseguirla fin qui ». Ma quale parola ella aveva pronunciato: paura!!… Signore e signori, è inutile che mi facciate gli occhiacci. Da cinque minuti io avevo proprio paura; la briccona doveva averlo sentito nel palmo della mia mano.

— Paura! — esclamò il dottore, — un soldato! Tu!

— Intendiamoci. Non credo di essere pusillanime; ne ho dato prove di poi, lo sapete tutti. Ma in quella circostanza così nuova, così inaspettata…. e non per un probabile colpo di stocco o di rivoltella ai quali non pensai nemmeno, no! Se ebbi paura, e l'ebbi, ve l'ho già detto, fu una paura fanciullesca per comprendere la quale è necessario ricordarsi tutta quanta la mia vita precedente. Capite? Io ebbi paura dello scandalo. Il reggimento, il colonnello, mia madre, mio zio canonico…. ah! mio zio canonico sopra tutti! Mi sarei sprofondato sotto terra anzichè comparirgli mai più davanti.

— E infine? — chiese una delle signore che aveva ascoltato con interesse il racconto di Ciro Garzes.

— La fine, — riprese il narratore coll'attitudine rassegnata di un cane che riconduce la coda fra le gambe, — fu che giunti a un certo punto la cameriera lasciò la mia mano e brancicando da persona pratica del luogo accese prestamente un lume. « Questa è la mia camera », disse poi con un amabile sorriso; e ristette appoggiando le spalle allo stipite dell' uscio. Aspettava evidentemente un complimento da parte mia. La guardai, era belloccia, lei, non la camera; ma il complimento non venne. « Il signor barone — disse ancora continuando a sorridere — qui non mette mai piede. Se crede di fermarsi è al sicuro ».

— Aaah!

— Già. Poche parole ma eloquenti. Solo che, come disse benissimo il mio amico Brocca, la paura paralizza la curiosità ed io…. non fui curioso.

1850.

Quanto era bello il lago di Como sulla fine di quel settembre ardente! Non ancora i battelli a vapore, che lo solcano ora senza posa, interrompevano la placidità misteriosa delle acque verdognole e dei folti giardini incornicianti le rive col molle fluttuare di rami, simili in vaghezza alle chiome disciolte di una bella addormentata.

Un'aria di sogno avevano pure le ville, emergenti appena dal roseo velo delle azalee e dal profumato intreccio dei gelsomini; con quei nomi di donna scritti in fronte, alcuni scintillanti del lampo corrusco di una gemma, altri soavi e teneri come un fiorellino di bosco, altri ancora inquietanti come un enigma, o battaglieri come una sfida, o voluttuosi come una carezza. Così recente era l'eco delle folli passioni annidate tra quelle ville che tutta l'aria ne sembrava impregnata; e più assai che nella antica città della Tracia s'avrebbe aspettato di udir quivi cori nascosti di Efebi e di più o meno giovani ninfe cantanti estasiati il verso di Euripide:

Re dei celesti e dei mortali, Amore!

Pensavano a questo i due giovani adagiati in uno stretto sandolino, che essi guidavano con negligenza a rari colpi di remo, assaporando la sottile ebbrezza dell'abbandono sulle acque?… L'amore tiene un grande posto in una esistenza di vent'anni. A questo dunque, e a cento altre cose; o più probabilmente ancora a nessuna. La divina giovinezza canta, scroscia, ride, si espande; uccello, fonte, raggio e fiore tutt'insieme, senza sapere, senza cercare il perchè.

E il sandolino girava lento la punta di Torno lasciandosi a destra la romantica Pliniana, movendo diritto verso Nesso selvaggia appollaiata sulla rupe in attitudine di falco. Altre barche salivano da Como, scendevano dalla Tremezzina, in quel pomeriggio delizioso d'autunno, tra il profumo dei giardini, sotto l'arco dei terrazzi che sporgenti sul lago offrivano alla brezza del vespero incombente la fioritura anche più capziosa delle figure femminili appoggiate alle balaustre; varie e suggestive nelle loro vesti dai colori teneri di cielo, di mare, di rose; con quel movimento delle braccia arrotondate sul parapetto e delle testine sfumate sul fondo dell'aria con morbidezze inattese di pastello; qualche ventaglio agitato in alto, e dei trilli, degli scoppi di risa gioconde, delle note di cembalo uscenti dalle finestre….

A un certo punto il sandolino rallentò più ancora, sfiorando quasi il muro di cinta di una villetta nascosta sotto larghi ciuffi di caprifoglio.

— Sempre?… — chiese sorridendo uno dei giovani.

— Bisogna pure passare il tempo, — rispose l'altro colla stessa intonazione gioconda.

Colui che rispose era il proprietario del sandolino, Giulio Sorisi, studente. Il suo amico, Paolo Cattaneo, non soggiunse nulla accontentandosi di seguire cogli occhi la manovra del sandolino intorno alla villa.

— Pare che non vi sia alcuno, — disse Giulio, — giriamo Balbianello. A Lenno troveremo certamente le signorine Cairati, o quando mai ci lustreremo la vista colla Ghita di Azzate. « Questa o quella per me pari sono…. » con quel che segue.

— Chi ci impedisce di raggiungere Bellagio?

— Forza di remi allora.

— Sarei contento di vedere, passando, l'inglesina della Cadenabbia. Non mi faccio nessuna illusione, ma poichè mi accontento di vederla!

— Non bisogna — sentenziò Giulio Sorisi — chiederci troppo spesso se ciò che ci piace è, oppure non è, illusione. Se ci piace basta.

— Sì, — sospirò il Cattaneo, — finchè abbiamo vent'anni.

— Sempre avremo vent'anni.

— ?…

Giulio Sorisi, bello, forte, audace, si rizzò quant'era alto lasciando sgocciolare il remo che descrisse nell'aria un semicerchio lucente.

— Ne dubiti? Io sono sicuro. Quando tu sappia evitare la malattia, il dolore, la povertà — morirai — questo non lo nego, ma fino all'ultimo giorno ti sarà dato godere di te stesso e della vita. Gli anni non contano allora.

— Egli è che non sta in noi evitare ciò che tu dici.

— Si può sempre quando si vuole.

— Frasi.

— No, volontà decisa.

— Non viviamo soli.

— Chi ce lo impedisce?

— Dobbiamo pure amare.

— Non ne vedo la necessità.

— Non ami tu?

— Niente affatto. Sono amato ed è fin troppo. Anche di questo si potrebbe far senza.

— Con tali massime si distrugge la società.

— Baie! Per tenere insieme la compagine umana bastano certi riguardi ed alcune abitudini.

— Sei crudele.

— Al contrario facilito il modo di essere felici.

— Incominciando con una rinunzia.

— Sì, ma per anteporvi una conquista. Non mi vorrai sostenere che l'amore valga la libertà.

— L'amore è l'istinto più prepotente della natura.

— E la libertà? E la libertà? Che me ne farei. dell'amore senza libertà?

— Che me ne farei della libertà senza amore?

— La libertà è condizione prima ed invariabile di felicità; quando siamo liberi. l'amore può andare e venire a suo ed a nostro piacere.

— Quello non è vero amore. Capirai tu stesso un giorno che l'amore più di ogni altro sentimento anela ad una estrinsecazione che lo renda immortale. Sarà il giorno in cui amerai davvero.

— Io e quel giorno non ci incontreremo mai!

La baldanzosa sfida tagliò l'aria, rimbalzando d'onda in onda, fino a lambire i boschi delle due rive. Sui terrazzi delle ville si continuava a ridere ed a scherzare; gli abiti femminili impallidivano nel crepuscolo, mentre si stendevano dai monti fasci di velo violacei e la prima falce della luna saliva sull'orizzonte.

1860.

Milano era in festa.

Da porta Venezia al Duomo, il Corso, tutto pavesato e imbandierato spiegava le sue ritorte di nastro multicolore tra una folla ebbra delle recenti conquiste; folla di ricchi e di poveri accomunati da una medesima gioia, fieri di una vittoria che aveva ridato ad ognuno una patria; quel popolo milanese semplice, ridanciano, un po' sensuale, che rialzandosi dal lungo servaggio della dominazione straniera riprendeva tutti i suoi diritti al tripudio ed alle feste, in quel primo carnevale di liberi scioglieva finalmente senza ritegni l'inno tradizionale al sabato grasso.

Non era più il caso dei grossi testoni in forma di zucca simboleggianti l'aborrito tedesco, maschera preferita negli anni decorsi a guisa di protesta e di sfogo; e neppure l'ingegnoso ravvicinamento di tre mascherine una vestita di bianco, l'altra di rosso, l'altra di verde per far balenare almeno un istante agli occhi degli oppressi la cara bandiera italiana, in barba alla polizia che non ci capiva nulla. Il carnevale del 1860 affacciandosi alla nuova vita aveva la spontaneità e l'irruenza dei giovani; voleva il piacere per il piacere.

I balconi sgargianti di drappi, carichi di donne ravvolte in bianchi veli per proteggere il volto dai coriandoli, accoglievano pure gruppi di ufficialetti francesi le cui uniformi rosse e oro spiccavano da lontano additandoli alla simpatia di tutto un popolo; neppure i « chasseurs de Vincennes » per quanto la loro divisa di un cupo azzurro filettata di giallo fosse meno brillante di quella dei compagni, sfuggivano alle ricerche patriotticamente appassionate delle giovani milanesi; nè si può credere che i milanesi, per quanto sentissero fortemente il loro debito di riconoscenza verso gli alleati, se ne stessero inerti accanto alle loro belle. Ne seguiva un intreccio vivacissimo di botte e di risposte, di assalti e di difese, di combinazioni strategiche rimpiattate dietro il getto abbondantissimo dei coriandoli fra i quali volavano fiori, aranci, dolci, e bigliettini amorosi.

Carri di maschere percorrevano il corso seguiti da veicoli d'ogni genere; carrozze signorili, vetturette da nolo, carrettelle, biroccini, volantini, musiche intonate e non intonate, pagliacci, uomini vestiti da donna, trombette, tamburelli, zuffoli; e una marea ondeggiante di popolo e di cappelli schiacciati, di pastrani bianchi dal gesso dei coriandoli, ma tutti con una voglia matta di divertirsi, di far chiasso, di pazzarellare.

Uno dei carri dove il brio appariva più indiavolato non era di vaste proporzioni e conteneva appena otto maschere, ma di tale sobria eleganza nel costume e straordinaria ricchezza nel getto di fiori e di dolci che tutti gli occhi erano rivolti a loro. Quando per la terza volta riapparvero sul corso, con una provvista sempre rinnovata di gettoni che andavano a cadere con traiettoria sicura ai piedi delle più belle, cento manine inguantate applaudivano, cento cuoricini si sarebbero gettati dai balconi per cadere fra quelle braccia.

— Affemia, — disse Giulio Sorisi che si trovava fra gli otto, — ecco una bella giornata!

— Ho le braccia rotte a furia di gettare roba, — soggiunse un altro della compagnia, — temo che questa sera la Gigia non sarà contenta di me.

— Io invece, — replicò il Sorisi, — non mi sento affatto stanco; ed è fortuna perchè dopo pranzo devo mettermi in giubba per andare alla Scala, poi ho tre feste da ballo dove mi aspettano….

— E la cena con Mimì? — saltò su un terzo.

— Giusto, la dimenticavo. Ci faremo stare anche quella.

— Ma perchè non è venuto con noi il Cattaneo? — chiese qualcuno.

Rispose Giulio Sorisi, dopo di essersi chinato a raccogliere un mazzolino di violette lanciatogli da un balcone:

— Non mi parlate di Cattaneo.

— Ma perchè?

— Perchè è un asino. Figuratevi che in pieno carnevale gli è venuta la funebre idea di fidanzarsi sul serio. Sul serio, domando io! come se non ci fosse la quaresima per questa sorta di esecuzioni.

— Oh! povero Cattaneo! — esclamarono in coro.

— Versiamo una lagrima sulla sua fine prematura.

Così concluse Giulio Sorisi afferrando una bottiglia di « champagne » e versandone in un calice che sollevò poi galantemente nella direzione d'onde gli era venuto il mazzolino.

1870.

Giulio Sorisi stava ritto sulla prua del bastimento che fa la traversata da Calais a Dover. Era ancora un bell'uomo Giulio Sorisi. La quarantina arrotondandogli le membra aveva rispettato i suoi capelli raccolti sulle tempie con molta cura e vergini di nevi moleste.

Lo sguardo vivace, i baffi rialzati, la carnagione fresca attestavano tutt' insieme di forze sapientemente distribuite e di una costante ricerca del piacere. Vestiva con eleganza sicura di sè un soprabito di mezza stagione nella tonalità delicata del color lavanda, aperto sopra un panciotto che non faceva una grinza e sotto il quale cadevano in perfetto a piombo i pantaloni di fina stoffa inglese. Una delle sue mani scompariva nel guanto grigio di pelle di daino; coll'altra, nuda e scintillante dei raggi di un magnifico brillante infilato al dito mignolo, sosteneva un piccolo canocchiale da tasca appuntato sulle bianche scogliere dell'Inghilterra che già si intravedevano lontanamente.

La giornata di giugno palpitava diafana e luminosa; la Manica era tranquilla come un lago. Quasi tutti i passeggieri stavano all'aperto respirando la sottile brezza marina che appena gonfiava i leggeri tessuti degli abiti femminili.

— E noi che abbiamo sempre temuto la traversata della Manica come una delle più pericolose! — esclamò una voce ingenua che partiva da una famiglia di italiani.

Giulio Sorisi dissimulò, sotto una lieve smorfia, la compassione un po' altezzosa che gli ispiravano quei viaggiatori novellini. Egli andava a Londra ogni due o tre anni almeno, fermandosi un mese a Parigi, avendo già visitate le principali città d'Europa. Discretamente provvisto di beni di fortuna, l'eredità di uno zio era venuta ad accrescere il suo patrimonio permettendogli il lusso dei frequenti viaggi.

Come egli aveva argomentato fin dalla prima giovinezza, un saggio metodo di vita conservava mirabilmente la sua salute. In ogni cosa — diceva egli con Voltaire — nulla di troppo nè di troppo poco. Bere fresco all'estate, caldo quando soffia la tramontana; digerire, dormire. prendersi qualche spasso e infischiarsi di tutto il resto.

Questa amabile filosofia trapelava da tutta la persona di Giulio Sorisi, ed aveva ragione di qualsiasi altro sentimento o impressione, sempre fuggevole in lui, sempre sottoposta ad una fredda disamina del proprio tornaconto.

Quando il piroscafo fe' sosta allo scoglio di Dover, Giulio Sorisi, da uomo pratico, attraversò rapidamente il pontile e raggiunse il treno pronto per Londra, stazione Charing-Cross. Fu uno dei primi ad arrivare e si scelse il posto migliore sui larghi cuscini di stoffa fiorata. Ma l'aspettativa, al solito, fu un po' lunga e per ingannare il tempo egli si pose a rileggere una lettera di Paolo Cattaneo, che aveva ricevuto a Parigi, proprio all'istante di partire. Diceva la lettera:

« Caro amico,

« Non ho potuto disimpegnare prima la commissione che tu mi lasciasti di rendere alla signora*** il ritratto e la corrispondenza. Mia moglie, dando alla luce il quarto figliuolo, si è messa in fine di vita; per una intera settimana perdetti la testa assolutamente fra il dolore e le brighe di tale angosciosa situazione, non trovando subito la nutrice per il neonato; e come non fossero bastati i guai, la compagnia di Assicurazioni sulla quale mi ero intestato per lasciare in qualche agiatezza la mia famiglia (cogli impegni della giornata) fallì, defraudandomi di cinque a sei mila lire già anticipate. Altre piccole seccature ebbi ancora, delle quali non ti parlo per non annoiarti troppo. Infine, appena mi fu possibile, mi recai col prezioso deposito dalla signora*** e ti tranquillizzo subito sui dubbii che tu avevi di scene e di seccature, perchè la signora si mostrò, non solo rassegnata, ma quasi in placida aspettativa di questo scioglimento. Tutto è andato nel migliore dei modi; sei proprio un uomo fortunato. Continua dunque di buon animo il tuo viaggio, sta allegro e divertiti, tu che lo puoi fare ».

— Quel povero Cattaneo! — pensò Giulio Sorisi, sdraiandosi sui cuscini. — Asino di un Cattaneo, è andato a pescarsene dei fastidi!

Involontariamente Giulio Sorisi pensò pure che lui non aveva nè moglie, nè figli, nè assicurazioni sulla vita e tirò un respiro profondo che gli diede una sensazione piacevolissima.

E quella faccenda della signora*** terminata così bene?… Giulio Sorisi era solo nel treno. Balzò in piedi con slancio giovanile fregandosi le mani, cantarellando un'arietta che aveva udito poche sere prima a un « café chantant ».

1880.

Un tepido salotto in via della Spiga, a Milano. I mobili di mogano, come si usavano qualche anno prima; le poltrone ampie e comode coperte di velluto verdone: un tappeto rosso e nero fissato coi chiodi intorno al pavimento; una lampada a gaz protetta da un gonnellino di seta; un franklin acceso; in un angolo il tavolinetto per il thè; un pianoforte; libri e giornali in giro; sopra una mensola un mazzo di narcisi e di garofani.

La padrona di casa deve essere stata una gran bella donna; lo è ancora, un poco, e vorrebbe parerlo molto, acconciata con arte in una vestaglia color avorio stretta qua e là da nodi di velluto violetto; i capelli giudiziosamente conservati in una tinta di mezzo fra il castano e il bruno che si potrebbe anche credere naturale; un leggerissimo strato di minio sulle guancie, impercettibile, quasi un rossore rimasto di tempi lontani. Vedova di due mariti riconosciuti, e di qualche altro meno noto, la signora sta compiendo l'abile manovra marinaresca di un burchiello avariato che vuole finalmente mettersi a riposo in porto. Non frequenta più nè teatri nè balli; dichiara di amare molto la sua casa e gli amici fedeli, rappresentati per il momento da un amico unico ma prezioso: Giulio Sorisi.

Egli entra nel salotto col passo sicuro dell' abitudine e della confidenza. La cameriera in anticamera lo ha aiutato a togliersi il soprabito ed egli stira le braccia per mettere a posto i polsini.

— Un freddo cane!

— Buona sera, Giulio.

— Buona sera, Clotilde.

Sorisi si avvicina alla signora e le stringe la mano lunga e morbida, accuratissima, con qualche riflesso madraperlaceo di bianco di Spagna non bene cancellato.

— Vuol nevicare certamente, — ripebe Giulio.

Una poltrona lo attende, anzi « la » poltrona; la sua; quella a cui ogni sera Clotilde sprimaccia il guancialino e raddrizza il merletto. Egli vi si stende senza guardarla, ma il movimento, solitamente vivace, gli è rotto a mezzo da uno stiramento delle reni che gli fa torcere la bocca.

— Che è stato? — si informa Clotilde con premura.

— Non so…. forse un reuma. Diavolo di un freddo, quest' anno, non finisce mai. Ah! ma qui si sta bene. Belli quei garofani.

— Nevvero?

La signora si alza, leva un garofano dal vaso e lo infila all'occhiello di Giulio, indugiando, sorridente, facendogli il solletico lungo la guancia.

Egli si stende morbidamente sulla poltrona, socchiudendo gli occhi come un gattone che fa le fusa. La signora si rannicchia un istante sul bracciuolo e gli mormora, col braccio intorno al collo:

— Giuggio, Giuggio, Giuggio mio….

Poi, lesta, si svincola, quasi temendo di soggiacere a una grande tentazione; e questo scherzo civettuolo stuzzica piacevolmente il cinquantenne don Giovanni che la minaccia col dito, sorridendo.

— Sai, — dice la signora rimettendosi al suo posto, — che nessuno de' tuoi amici si conserva così bene come te? Ho visto ieri Fabietti…. una pancia! E Rossi, quale precoce decadenza! Non so nulla di Cattaneo; che ne è avvenuto?

— Mah! Una volta aveva i bambini da condurre a scuola; ora che i bimbi sono alti come lui, c'è la signorina da portare a passeggio; se poi per avventura lo si incontra senza o l'una o l'altra delle suddette appendici, si può stare sicuri che ha un involtino in mano; uno di quegli involtini misteriosi legati con una fettuccia color di rosa che è il distintivo borghese dei padri di famiglia. Ed ha sempre fretta. Sono in tanti ad aspettarlo…. mah! Non tutti a questo mondo sanno comporre la propria vita con giudizio.

La signora assente con un grazioso movimento del capo; prendendo da un astuccio d'argento a portata di mano una sigaretta, la accende, e la offre all' amico; indi ne prepara un'altra per sè, e per alcuni istanti scompaiono entrambi fra le nuvolette profumate.

Forse pensano anche alla stessa cosa: alla dolcezza sibaritica della loro unione che dura da parecchi anni senza fastidi e senza scosse. Ella gli offre tutte le sere una sigaretta e una tazza di thè. Egli un dono ragionevole due volte l'anno: a Natale e a Santa Clotilde. Più dieci lire a Marietta, la cameriera.

Il fumo del tabacco fino riempie la stanza, misto all'odore sensuale dei narcisi; la fiamma di ceppo scoppietta allegramente nel franklin; all'ombra della gonnellina di seta della lucerna la vestaglia color avorio della signora ha una morbidezza suggestiva, sì che i larghi nodi di velluto violetto sembrano farfalle addormentate nel calice di una ninféa….

Giulio Sorisi, adagio adagio per non ridestare la fitta nelle reni, allunga i piedi sotto il tavolino e li appoggia sulla pelle di mongolia che vi sta sotto. Un tepore piacevolissimo è nell'aria del salottino chiuso.

1890.

L'opera di Wagner ha richiamato al teatro della Scala il piu eletto pubblico milanese.

Il grande musicista tedesco non si discute neanche più. Per intelligenza o per snobismo le signore sono le prime a mostrarsene entusiasmate e dietro a loro, nei palchetti, dove già esse presero posto in attitudini pensose di Brunechildi e di Walkirie, gli uomini, ritti, attenti, silenziosi, gravi, hanno l'aria di sacerdoti presenzianti a un sacro rito.

La sinfonia di apertura è già incominciata, quando un vecchio signore, entrando da una porticina laterale alla platea, trova tutte le sedie occupate, tutti gli occhi rivolti sulla scena e il padiglione di tutte le orecchie così intensamente teso in un sacro raccoglimento che egli non osa farsi avanti, e mormora tra sè: Diavolo! Questo non è più un teatro, è una chiesa.

Nella impossibilità di farsi avanti, e per non turbare la religiosa attenzione del pubblico, il vecchio signore si rassegna a stare in piedi fino alla fine dell'atto; posizione piuttosto incomoda perchè non ha nessun punto d'appoggio, e perchè dalla porticina laterale gli piomba sulla nuca una corrente d'aria fredda. Un po' per questo, un po' perchè da tanti anni non è più venuto alla Scala, il vecchio signore, che non si trova a suo agio, non riesce a gustare la musica di Wagner. Bisogna anche dire che l'udito non gli serve più così bene come una volta, e che certe delicatezze istrumentali gli sfuggono. Corretto, educato, il suo contegno non lascia trasparire l'interno malcontento, ma sotto i baffi grigi spioventi alla Napoleone III, egli mormora: Ah! il mio Verdi! Ah! il mio Rossini!

Appena gli è concesso di muoversi, cioè quando cala il sipario, egli si affretta a andare in cerca del suo posto numerato e nella smania di potersi finalmente insediare pesta i piedi al suo vicino di poltrona.

— Pardon, signore, scusi…. Questi sedili sono così stretti.

Risponde l'altro:

— È il pubblico che li fa diventare stretti. Quanta gente! Un magnifico teatro.

— Sì, sì, — biascica il vecchio signore per compiacenza: ma in fondo non è molto soddisfatto. Aveva in mente una sala sfolgorante di luce e di occhi femminili, carica di elettrici sorrisi e di bianche spalle offerte al desiderio. Ora gli sembra che una nebbia veli ogni cosa in giro. Frega e rifrega col guanto la lente del suo canocchiale e guarda, meravigliato di non trovare nessuna bella donna. Non è invece l'opinione del vicino che esclama con enfasi ingenua:

— Franca la spesa di venire a Milano aposta solamente per lo spettacolo affascinante che offrono i palchi.

Il vecchio signore dà una occhiata di commiserazione al provinciale, un giovanottone bianco e roseo che sembra una mela appiola. Non avrebbe voluto continuare una conversazione della quale non gli importa nulla, e che non è nelle sue abitudini, ma siccome gli ha pestato un piede, si crede in obbligo di cortesia e soggiunge per fargli piacere:

— Il signore viene da lontano?

— Da Pizzighettone, per servirla.

— Pizzighettone?… Avevo un amico di questo paese. Povero Cattaneo, è morto.

— C'era infatti un Cattaneo che si portò qui cassiere, credo, o segretario in una Banca.

— Lo ha conosciuto, lei?

— Oh! non io, mio nonno!

Il vecchio signore rimane male, stringe le labbra e si liscia in silenzio i baffi napoleonici facendo la melanconica riflessione che una volta i giovinotti avevano maggior spirito. Giura in pari tempo che a teatro non lo pigliano più. È forse quella la sua Scala? la Scala de' suoi trionfi e delle sue serate memorabili? Una musica che somiglia a dell'algebra per violino, cantanti che non cantano, sala noiosa piena di sconosciuti; neppure un volto noto a cercarlo colla lanterna; le signore poi così magre!…

Una rimembranza sentimentale gli fa alzare gli occhi verso un palchetto di terza fila; è là che egli vide per la prima volta Clotilde…. vestita di nero, con una rosa scarlatta sulle nevi del seno. Possibile che sia morta anch'essa? È proprio morta la dolce amica, come morì Cattaneo, come muoiono tutti i giorni intorno a lui le persone che era solito a vedere, a salutare….

Un' ombra si muove in fondo al palchetto. Clotilde? No, è una dama rigorosamente abbrunata, un po' curva, coi capelli bianchi, che cerca di nascondersi agli occhi del pubblico. Qualcuno, dietro a lui, ne fa il nome, la duchessa***, ma il vecchio signore non crede. Appunta il canocchiale, e subito lo abbassa, atterrato. Lei? La superba bellezza che fu per vent'anni la regina della vita elegante milanese, per cui si ebbero duelli, divorzi, fughe, il delirio di tutti gli uomini, l'invidia di tutte le donne…. più bella di Clotilde, molto più bella…. ma quanti anni sono passati dunque?

Il vecchio signore china il capo sul petto e gli passano ancora davanti agli occhi con un baleno ironico le magnifiche spalle della divina creatura che non è più.

1900.

Giulio Sorisi non sa oramai dove passare la sera. Si è provato a restare in casa, ma ebbe paura di impigrirsi troppo e di cadere sotto il dominio della sua governante. Anche aveva provato a frequentare qualche relazione nuova, ma si accorse di starvi come un pesce fuori d'acqua, ignoto e indifferente a tutti. I suoi frizzi erano passati di moda, le sue opinioni invecchiate, i suoi gusti tramontati; financo il suo patriottismo nessuno lo capiva più. Solamente qualche fanciulla pietosa gli usava la cortesia di domandargli se non gli dava noia una finestra aperta….

Così Giulio Sorisi prese il partito di rinunciare alla società oltre che al teatro.

Egli va ora, le sere che non piove, al caffè. Si mette in una sala in fondo e si fa portare i giornali, che legge poco, ma che gli tengono compagnia. La scelta della bibita a cui attenersi non gli è stata molto facile perchè in causa dell'acido urico ha la proibizione del thè, del caffè, e di tutte le bevande alcooliche. Si rassegna all'acqua di soda, che non gli piace, ma che gli dà l'illusione di prendere qualche cosa.

Un fatto straordinariamente antipatico che egli è costretto a verificare tutte le sere, molto suo malgrado, è che nell'onda di gente che va, viene, si rinnova, passa o rimane, il più vecchio è sempre lui. Gli pare incredibile che vi siano tante persone giovani nel mondo; sì, perchè' anche la donnina di quarant'ianni, anche l'uomo di cinquanta sono giovani al suo confronto; e quando fissa gli occhi sopra un sessagenario pensa che anche quello ne ha diccimeno della cifra fatale. Ed è tutta gente che ha una ragione di vivere: una famiglia, gli affetti, gli affari, delle gioie, dei dolori, delle preoccupazioni o tristi o liete che li tengono in azione di vita. Egli solo è solo!

Uno scambio di parole che volle tentare, una sera, con un vecchietto prossimo all'età sua, suo vicino al divano del caffè, gli aveva ingenerato un'uggia mortale. Il vecchietto arzillo e petulante non aveva fatto altro che parlare de' suoi nipotini, dei loro studii, degli esami, del sistema assurdo delle scuole, della insufficenza dei testi, dello scandaloso abuso delle vacanze, — tutti argomenti che accapponavano la pelle al celibe impenitente, facendogli tornare a gola il sapore disgustoso di certi bastoncini di liquirizia succhiati nell'infanzia.

— È inutile, — pensa Giulio Sorisi con amarezza, — il mondo è decrepito, non c'è più sugo in nulla; le donne sono brutte, gli uomini sono stupidi o matti; non ci si diverte più.

Pensa questo Giulio Sorisi, dinanzi al suo bicchiere di soda, toccando delicatamente colla punta del dito mignolo un dente che gli ballonzola in bocca pronto a seguire i fratelli lontani. E mentre pensa e tocca, guarda — con distrazione dapprima, poi con maggiore intensità — un gruppo (di giovani, naturalmente; quando mai, si vede un gruppo di vecchi?) che ciarlano a voce alta intorno a un tavolino prossimo al suo. Gli occhi lampeggiano, le risate squillano sonore, le mani disegnano nell'aria gesti vivaci. Chi sa che argomento interessante il appassiona per agitarli in tal modo.

Ma più di coloro che parlano lo attrae uno che tace; un magrolino pallido, biondiccio, cogli occhi dolci a fior di testa e un naso piuttosto lunghetto che incominciando sottile alla radice si arrotondava singolarmente in punta. Che strana somiglianza! Giulio Sorisi non gli può levare le pupille di dosso.

Gli altri intanto si riscaldano e gridano. Uno dice:

— L'amore è incostante per sua natura.

Il taciturno allora risponde:

— Ma quello non è il vero amore.

Qual voce! Giulio Sorisi si alza a metà, sporgendo il busto in avanti, sul punto di chiamare: Cattaneo!… Ricade subito e si passa una mano sugli occhi. Da quindici anni Cattaneo è morto. Eppure quel volto pallido, biondiccio, quegli occhi a fior di testa, quel naso a pestello…. e la voce, la voce di Cattaneo! Ma si può danque sopravviversi?

Rivede, in un rapido scorcio di visione, il lago di Como, in settembre, e due giovani che lo solcano arditamente con uno snello sandolino…. Non erano anche le stesse parole pronunciate allora da Cattaneo?

Torna a guardare il magrolino pallido e biondo così, così, come era l'amico suo, un po' ingenuo, con quel pronto rossore di fanciulla ch'egli aveva schernito tante volte. Tutto risorgeva: lo sguardo, il gesto, l'anima gentile. Egli era ancora lì, giovane, ardente, pieno di energia, pieno di ideali, vivo!

Ad una nuova interiezione partita dal gruppo, il biondino risponde:

— Certo. Amerò e sposerò. Non è la conclusione unicamente logica dell'esistenza? Guarda, ne sono tanto sicuro che il mio primo figliuolo ho già deciso di chiamarlo Paolo, come mio padre. E la catena, spero, continuerà nei secoli.

Un'ombra dolorosa offusca gli occhi di Giulio Sorisi. Appoggiandosi colle mani al tavolino si alza e muove alcuni passi incerti. Accorre il cameriere ossequioso:

— Forse si sente male il signore. che parte così presto? (La pallidezza apparsa improvvisamente sulle guancie dell'avventore giustifica la domanda del cameriere).

— No…. — balbetta Giulio Sorisi raddrizzandosi con uno sforzo eroico, — ho…. ho…. un appuntamento.

E si allontana, rigido, nella notte.

La marchesa Stefania Accoramboni rientrando quella sera nella propria camera aveva un volto così animato e le mosse così giovanili che la cameriera, al suo servizio da trent'anni, se non fosse stato per il rispetto era sul punto da esclamare: « Come è bella oggi, signora marchesa! ». Osservazione troppo confidenziale per una cameriera di stampo antico ed offensiva anche, in un certo senso, perchè implicava il sospetto che la marchesa potesse essere qualche volta meno bella.

Senza dubbio coloro che non sanno disgiungere la contemplazione di una donna da una immediata sensazione di desiderio avrebbero trovato che la marchesa era fuori combattimento; ma vi sono pure, per quanto rare, persone di gusto delicato capaci di intendere il fascino sottile di tutto ciò che muore, di un cielo velato, di una rosa appassita, e quelle persone ammiravano nella marchesa Accoramboni la maestà elegante della figura che gli anni non erano riusciti a piegare, la linea giovanile della testa che aveva conservato quasi tutti i suoi capelli, la grazia del sorriso che mostrava intatti quasi tutti i suoi denti e la piccola mano appena impallidita nella gradazione signorile di un fine avorio sul quale fossero passate le labbra di una schiera ristretta ma appassionata di fidi adoratori.

Nulla della degradante rovina che sembra in certe donne abdicare, oltre ai distintivi del sesso, perfino alla dignità umana, turbava in questa privilegiata l'equilibrio perfetto di una mente rimasta giovane in un corpo rimasto sano. Se ella non avesse già avuto nell'antichissimo stemma di famiglia il motto degli Accoramboni avrebbe potuto scegliere questo: « Frangar non flectar », tanto la sua avvenenza sembrava intangibile.

Non si nega che qualche ritocco sapiente qua e là cooperasse al risultato finale di un fascino che si esercitava senza pericoli ma non privo di compiacenze sopra una società raffinata e cortese, la quale, avvezza da un terzo di secolo a ripetere « la bella marchesa Accoramboni », non vedeva la necessità di modificare l'aggettivo. Diceva a tal proposito il vecchio generale di Rocca Latour, che era stato ufficiale nelle Guide e grande seduttore al cospetto di Dio: « Vi è restauro e restauro. Bisogna distinguere, perchè tutto dipende dal merito dell'oggetto restaurato e dalla abilità del restauratore. Convengo che a rifare una cappella rustica e goffa si perde tempo e denaro e impiastricciando malamente di pittura volgare un affresco prezioso scolorito dal tempo si offende l'arte e si disgustano gli occhi degli esteti; quando invece un tempio degno è degnamente conservato alla nostra ammirazione tutto è per il meglio e dobbiamo rallegrarcene. Non vi si celebreranno più i divini uffici, ma innalzato all' onore di monumento nazionale ci darà ancora una gioia per le pupille e un volo per il pensiero ».

La marchesa Accoramboni rientrava dunque quella sera nella sun camera (dopo di avere assistito alla scritta nuziale della figlia di sua figlia) con passo elastico ed occhi scintillanti. Era più che sera, veramente, poichè la pendola di marmo nero incrostata di rame dorato sullo sporto della caminiera segnava il tocco e mezzo. Ella peraltro non vi diede neppure un'occhiata e sedendo sul divanino di damasco giallo, fra le due finestre, sembrava disposta anzichè ad andare a letto a continuare per suo conto una piacevole conversazione interrotta.

— La signora marchesa sarà stanca, — disse a buon conto la cameriera per tastar terreno.

— Affatto. Non ho punto sonno. La serata è stata bellissima.

Tuttavia, scorgendo sul volto della vecchia donzella quel bisogno di riposo che ella non aveva, mossa a compassione e non volendo trattenerla oltre, le porse gentilmente il collo per farsi slacciare la collana di brillanti.

— Come stava bene la signorina nel suo abito rosa! — disse ancora la cameriera.

— Sì, stava bene, ed era tanto felice. La sua felicità mi faceva ringiovanire.

— La signora marchesa non ne ha bisogno.

— Non farmi dei complimenti, cara, ne ho già ricevnti troppi questa sera. Dammi l'acqua bollita e andiamo a letto da quelle due povere vecchie che siamo io e te. Ma prima toglimi l'abito, voglio stare un po' in libertà.

Intanto che la cameriera sfilava le brevi maniche dell' abito di velluto la marchesa sostò un istante a riguardare le proprie braccia, quelle braccia che erano state uno de' suoi principali vanti, che vedove ormai di materiali amplessi apparivano pur degne nel loro esiguo candore di stringere ancora il sogno. La cameriera la coperse poi con un leggero accappatoio e destramente, acconciandole il capo per la notte, ridusse a metà l'onda dei ricci.

— La signora marchesa fa il massaggio ora?

— No, no. Va pure a letto. Tutto è pronto nello spogliatoio?

— Ma se vuole che resti alzata….

— No, ti dico. Mi coricherò da sola.

— La bendatura….

— Niente, niente questa sera Va a letto.

— Le tolgo le scarpe almeno?

Çon un lieve moto d'impazienza la marchesa tese prima l' uno poi l' altro de' suoi piedini che liberati dallo stretto scarpino nero a ricami di giaietto ebbero un guizzo doloroso, in causa di un piccolo callo al mignolo, ma che furono subito messi a posto entro due pianelle foderate di cigno, morbidissime.

— Ed ora va.

La marchesa aveva gran bisogno di rimanere sola per richiamare all'ordine le sue idee scompigliate dalle diverse emozioni di quella serata memorabile. Anzitutto le belle nozze della nipotina adorata, nozze d'amore e di fortuna insieme, mentre colmavano i più ambiziosi de' suoi desideri rimovevano pure quelle dolci ceneri del passato che in un cuore di donna non diventano mai fredde interamente. È questa una soddisfazione che la natura riserba alle madri e alle nonne di rivivere nelle loro creature al punto che i successi delle figliuole sono come successi propri.

Precisamente così. La carnagione squisita di camelia che tutti avevano ammirato nella giovane fidanzata non era forse la sua, la sua carnagione di un tempo, quando ella pure portava abiti color di rosa, ed aveva quella vitina così sottile, e quei magnifiei capelli ondulati sugli omeri? Ognuo degli sguardi che il fidanzato rivolgeva alla sua graziosa promessa e che la marchesa afferrava a volo, le dava la sensazione di ritrovare in un bosco dove ci credevame perduti un sentiero noto. Ella si sorprese a sorridere quando i due si sorridevano e in un momento in cui il giovane chinandosi verso la fanciulla per dirle una parola la fece arrossire, commossa, la marchesa pure si sentì affocare la guancia dal riflesso di una fiamma lontana…. Era stato allora che un' amica, esagerando un poco, come succede, le mormorò all' orecchio: « Non sembri la nonna ma la sorella maggiore ».

I complimenti non ubriacavano la vecchia signora piena di spirito e di esperienza. Ella li accoglieva come moneta dovuta, buttandoli con indifferenza nel reparto della sua memoria dova se ne erano già accumulati tanti, dove se ne sarebbero accumulati ancora, fiori di carta della gentilezza; sempre fiori però e per ciò cari alla sensibilità femminile.

Una cosa che la marchesa voleva evitare ad ogni costo era il ridicolo delle donne mature che pretendono ancora di fare delle vittime nel sesso forte. Conservarsi bella, più bella che poteva, aiutare in tutti i modi la natura che già le si mostrava tanto favorevole, sta bene. Era per lei questione di decoro, di buon gusto, di fine educazione; era un bisogno per sè stessa, per non inorridire davanti a uno specchio, ed anche perchè se l'aspetto della vecchiaia è poco accetto dovunque e una vecchia rinfronzolita fa schifo, nondimeno una vecchia trascurata che presenta la testa calva e le mani ad uncino è altrettanto ripugnante. La giusta misura, l'equilibrio, ecco ciò che voleva la marchesa. Per questo la stoffa de' suoi abiti era di prima qualità, ma il colore severo; la sua conversazione amabile, anche gaia, ma di una gaiezza contenuta dove passava come un velo gettato sopra una nudità procace il soffio ineffabile di una dolce malinconia; malinconia nobile, rassegnata, che non la rendeva punto infelice, che solo toglieva al piacere di vivere una parte di volgarità.

Staccata da lungo tempo dai pensieri amorosi le accadeva qualche volta di provare una bizzarra sensazione, ed era quando percorrendo rapida le vie colla snella persona affondata nelle pelliccie invernali che la nascondevano per metà, sentiva posarsi su di lei uno di quegli sguardi di uccello da preda che gli uomini sogliono lanciare alle donne giovani. La marchesa allora affrettava il passo, fuggendo con una specie di pudore a ritroso da ciò che le sembrava una complicità di inganno.

Ma quella sera, quella sera ella aveva avuto il migliore de' suoi trionfi, bella nonnina ammirata, invidiata.

Ora, seduta sul divano giallo in mezzo alle due finestre, intanto che ritirava ad uno ad uno gli anelli dalle dita sottili, vedeva ripassare nella mente la figurina graziosa della fidanzata e il fidanzato anche, così tenero, così affettuose, ravvolti entrambi in quella luce siderale dell'amore felice ma non ancora soddisfatto che tinge ogni cosa intorno di un riflesso divino: nè la cornice faceva torto al quadro, chè era per tutto l'appartamento un olezzare difiori, uno splendere di doppieri di vecchio argento, un avvicendarsi di parenti e di amici tutti sorridenti, tutti recanti il loro augurio agli sposi.

E poi…. (gli usci erano chiusi, la cameriera lontana, il silenzio signore della notte) la marchesa osò riaffacciarsi ad un'altra visione. Quattro occhietti lucidi la guardavano, è vero, dall'alto della caminiera ma appartenevano a due statuine rappresentanti Dafne e Clori le quali fiancheggiavano la pendola di marmo nero incrostata di rame dorato e la marchesa non ne ebbe paura. Stavano là da tanti anni, dovevano avere tanta esperienza del mondo!…

Sulle…. sulle labbra….

Le prime note di un walzer roteavano, turbinavano nelle orecchie della marchesa. Oh! non era musica classica quel walzer di Luigi Arditi: « Il bacio ». Le sue nipotine avrebbero riso di una composizione così semplice, volgaruccia, musica per le gambe! Ella pure, la marchesa, se lo era scordato insieme al vezzo di coralli e alla ghirlandina di rose che avevano accompagnato il suo grande ingresso nella società. Pure quelle note saltellanti, piene di brio, riaffacciatesi così improvvisamente alla sua memoria, cancellavano il lavoro di un terzo di secolo. Ella non giudicava. Sentiva. Sentiva l'onda della sua giovinezza ritornare a lei, fremere, spumeggiarle intorno, sollevarla, cullaral. Il tempo? Ma il tempo non esiste che fuori di noi. Nel nostro cuore, nel nostro cervello, siamo noi i padroni del tempo: vecchi a trent'anni o giovani a sessanta.

Stavano suonando una fuga di Bach nella gran sala di cerimonia quando una voce alle sue spalle aveva mormorato sommessamente:

— Ricorda, marchesa, « Il bacio » di Arditi?

Ella si era voltata sussultando ma senza riconoscere il vecchio sdentato e sorridente che le aveva rivolta la singolare domanda.

È sempre penoso dover confessare ad una persona che non la si riconosce. La marchesa col suo tatto delicato faceva sforzi incredibili per evitare al suo interlocutore questa piccola mortificazione. Fu lui che replicò senz'ombra di amarezza.

— Sono cambiato nevvero? L'eterna giovinezza è privilegio delle Dee.

— Ah, — fece la marchesa rammentando a un tratto, — Vendramin!

Conte Vendramin, ora. Al tempo in cui lo aveva. conosciuto si chiamava semplicemente Gigi Vendramin, ma aveva vent'anni ed era un compenso.

— Un risorto, marchesa. Ho passato tutta la vita all'estero. Sono qui questa sera perchè sto per diventare un poco suo parente…. vi fu un giorno in cui desiderai esserlo molto….

— Infatti — soggiunse vivacemente la marchesa a cui si tinsero le guance di un leggero incarnato — i Vendramin sono congiunti alla famiglia del fidanzato di mia nipote.

Allora incominciarono a sgranare un fitto rosario di memorie! il come e il dove si erano incontrati la prima volta, la schietta allegria, il tripudio spensierato di quell'età; e la tale e la tal altra cosa, e la tale e la tal altra persona; quanti fuggiaschi, quanti morti, quanti smarriti lungo la via! Il vecchietto ritornava con particolare compiacenza a quel waltzer di Arditi.

— Se lo abbiamo ballato, eh?

La marchesa assentì con un grazioso movimento del capo.

— E cantato.

— Anche.

— E messo in esecuzione un poco…

— Oh! che dice mai! Questo poi no.

— Un poco appena…. per mio conto…. col desiderio. « Sulle…. sulle labbra…. se poteeessi…. » Sono le parole del walzer.

Accennando a bassa voce il motivo gli occhi del vecchietto brillavano.

— Vendramin, siamo seri.

Così aveva detto la marchesa agitando nobilmente con moto lento il suo ventaglio di piume nere. E Vendramin smorzava sotto un inchino rispettoso lo sfavillare delle pupille.

Ma tant'è, la stura era data allo spumeggiante vino dei vent'anni e la marchesa se lo sentiva correre nelle vene come un'onda di sangue rinnovato. Era quello il segreto dei suoi sguardi più luminosi, delle sue guance più rosee, del suo collo più eretto mentre si sottraeva con dotta modestia ai complimenti che fiorivano sul suo passo. L'aveva seguita, il dolce segreto, nel rifugio della camera sacra all'intimità, la urgeva nell'ora della stanchezza contendendo le sue forze al sonno. Con un braccio arrotondato sulla spalliera del divano, sciolto l'altro mollemente nel grembo, la marchesa non sapeva staccarsi dai leggiadri fantasmi del suo passato. Al pari di Faust il suo cuore implorava: Arrèstati ora felice!

Un po' di tosse venne bruscamente a strapparla al fascino. Guardò la pendola: mancava un quarto alle tre.

— Coraggio! — disse a sè stessa; e si alzò.

Venti minuti buoni passarono ancora prima che la marchesa potesse sollevare la coperta di pizzo del suo letto. Ella era entrata nello spogliatoio dove una fila discreta di oggettini misteriosi e di vasetti variopinti faceva bella mostra sul piano levigato della teletta.

Quando ne uscì, imbevuta di indistinti profumi, cinta di candida batista e toccò finalmente le coltri, si sovvenne di ingoiare una pillola che era il suo abituale viatico per la notte. Un po' umiliata da tante manovre dovute eseguire per la propria conservazione la marchesa diede un gran sospiro e spense la fiammella, elettrica.

Dobbiamo noi ringraziare o maledire quella arcana potenza che raddoppia la nostra vita creando per noi soli innumeri mondi, talora, pieni di orrore, tal altra attraversati da celestiali visioni? La marchesa stendendo nel letto le vecchie membra parve disfarsi di esse e librando a volo l 'immaginazione nutrita dalle rimembranze della sera ripiombò tutta nel suo passato più lontano, pur conservando coscienza di essere stata vecchia, quanto dire con una intensità di godimento quale non può essere data che dal sogno.

Si vedeva in una grande sala da ballo circondata da specchi che riflettevano il suo volto di quindici anni. Impressione inaudita! il suo volto di quindici anni, fresco, ridente, il volto di Stefania prima che diventasse la marchesa Accoramboni. La gioia di ritrovarsi così giovane le faceva balzare il cuore, la riempiva di un'estasi cui nessun'altra era paragonabile. Sorrideva a sè stessa nelle ampie specchiere dove si profilavano, come allora, altri volti di fanciulle, e, come allora, il suo era il più bello di tutti.

Sulle… sulle labbra….

La materialità del suono non giungeva alle sue orecchie, ma ella sentiva il waltzer di Arditi e insieme un formicolio di sangue nelle vene, una voglia pazza di ballare. Non fu Vendramin che venne a richiederla di un giro, no. Fu un giovinetto del quale non riusciva bene a distinguere la fisionomia. Un nuovo? Un dimenticato?… Si presero per la mano, egli le cinse la vita con un braccio e subito una grande dolcezza la invase. Passando dinanzi agli specchi vedeva ora un altro volto chino sul suo; che volto? chi era? un nuovo? un dimenticato?… Sempre le sfuggiva la fisionomia, ma cresceva la dolcezza del girare, cresceva, cresceva…

Oh! come si amavano! Egli non glielo aveva però detto e il soave mistero che stava ancora rinchiuso nella cerchia degli occhi la avvolgeva tutta di un magico incanto. Amava! Era amata!

La visione a questo punto si confuse un poco. Non più sala, non più specchi, non più lumi. Cessata la musica. Ogni cosa intorno sembrava sfumare in una evanescenza inconsistente. La realtà stava per vincere il sogno. Ma il giovinetto dal volto irriconoscibile stringendola vieppiù nelle sue braccia le aveva accostato le labbra alle labbra e la marchesa si destò con un gran grido sotto l'impressione di un bacio ardente.

E perchè no? Perchè la marchesa non avrebbe chiuso quel bacio fra le sue memorie più intimamente care? Un sogno! Ma che erano state se non sogni le promesse di altri baci menzogneri, il miraggio di altri amori? Era sicura la leggiadra fidanzata della sera innanzi cui appariva sì lieto il talamo di ritrovarvi sempre il sapore del primo bacio? Conosce l'amore voluttà più alte di quelle che dà l'illusione?

La marchesa non lo credeva. Un bacio ancora le aveva riserbato la vita, il più puro, forse il più vero perchè nessun disinganno poteva distruggerlo ed ella ne accolse in seno la profonda dolcezza. Chi sa! Il giovinetto dal volto irriconoscibile era forse Colui che ella aveva atteso invano fino allora.

Quando la signora Bettina ebbe chiusi gli occhi per sempre, suo fratello, l'illustre Spiridione Tomei, stentò molto a darsi pace.

Prima di tutto c'era l'affetto di famiglia. questo non è da mettersi neppure in dubbio; poi la consuetudine della vita in comune che quando non vi sia aperta incompatibilità di carattere crea pur sempre un vincolo. Quel vedersi tutti i giorni, prendere i pasti assieme, sapere che all'uno piace l'aglio e che l'altro non lo può soffrire, udir ripetere certe frasi ingenue « Vuol piovere, il mio callo mi dà noia », oppure « Oggi è Sant'Antonio, la giornata si allunga di un'ora », avere infine qualcuno a cui confidare che si è passato una cattiva notte o che si ha un principio di infreddatura, è vero, sono cose molto semplici, ma legano incredibilmente a quell'età che non si interessa più delle vicende d'amore e con un temperamento alieno dalla politica, chè tale era appunto quello di Spiridione Tomei.

Egli era vissuto fino allora così tranquillo accanto alla buona sorella, in un quartierino solitario rimasto incolume da un secolo nel centro della città, col Naviglio sotto le finestre e un giardinetto decrepito pieno di erbe parassite che si incappucciavano a primavera di un ridente padiglione di glicine sufficiente a dargli l'illusione del paradiso terrestre, perchè — era questo un canone fondamentale della filosofia di Spiridione Tomei — tutto ciò che ci rende felici non è che illusione. Egli si appoggiava anche per far valere la sua teoria all'autorità di un proverbio indiano il quale dice: « Checchè l'uomo faccia non potrà trasportare delle acque del Gange più che un vaso per volta ». Dunque un ciuffo di erbe e una pianta di glicine moltiplicate nella fantasia fino a dargli la visione di parchi infiniti abbellivano a' suoi occhi di saggio un vecchio appartamento privo di ogni moderna comodità, coi pavimenti di mattonelle rotte e le finestre che non chiudevano. È però vero che la sua buona Bettina aveva disteso lungo i vetri parecchie listerelle di cimosa avanzate dalla stoffa di un antico soprabito. Ed ora non c'era più la Bettina!…

Un' altra cosa che sconcertava le abitudini di Spiridione Tomei era la necessità di dover conferire direttamente colla donna di servizio. La sua vita morigerata di uomo di studio lo aveva tenuto così lontano dalle esperienze femminili che dinanzi a una donna egli si trovava sempre un po' imbarazzato. Nei primi giorni, siccome l'Agata gli stava intorno continuamente: « Signor padrone questo, signor padrone quello » e gli parlava con singolare volubilità della povera signora morta e del burro rincarato, nonchè del garzone macellaio che aveva preso il volo con cinquanta lire del banco e due vitelli e mezzo, gli sembrava proprio di avere aperto l'uscio a uno stormo di passeri. Si sentiva incretinire.

— Ti prego, — disse alla fine colla sua voce più melliflua, non volendo a nessun costo offendere una donna —: ho un lavoro importante da finire.

Quasi non bastasse l' urbanità della frase la accompagnò con uno sguardo umido e tremolante, uno sguardo pieno di tenerezza umana, interpretato chi sa come dalla servetta, la quale scoppiò a ridere irriverentemente e questo riso inopportuno finì di sconvolgere le idee del filosofo che stava preparando un importante lavoro dal titolo: « La coscienza nei rapporti colla volontà ».

— Le donne — egli concluse asciugando la penna con un rosolaccio di pannino rosso e nero (lavoro della defunta) — sono assolutamente incomprensibili.

Incominciato sotto tali auspicî il governo domestico di Spiridione Tomei non somigliava nè ad un regno nè ad una repubblica nè a qualsiasi altra forma di reggimento riconosciuto, perchè, se non vi erano i termini dell'imperialismo, mancavano pure le forze civili di una repubblica, e solo l'anarchia, che è negazione di governo, potrebbe paragonarsi a ciò che succedeva in quella casa, ammesso che si possa mettere a confronto la tragedia colla farsa.

— Agata, — diceva il padrone, — le calze che mi hai date stamattina sono piene di frinzelli.

— Fringuelli!? O come vi potrebbero essere dei fringuelli nell sue calze? Se li è forse sognati?

— Non ho detto fringuelli, — spiegava serio serio il padrone, — ho detto frinzelli, che sono, guarda qui, queste accapponature del tessuto le quali mi fanno l' effetto di avere una nocciuola nelle scarpe.

Alla seconda parola difficile l'Agata aveva preso un'aria di sussiego, come di persona offesa, brontolando:

— Allora si parla chiaro e non abusare di una povera ragazza che non ha avuto tempo di andare a scuola per mortificarla col suo latino. E se le calze sono bucate io non ne ho colpa, che non sono io che le porto, nè che le compero, nè che le faccio; Dio guardi, ci mancherebbe altro che dovessi anche sferruzzare a farle le calze, che del resto lei sarebbe capace di pretenderlo perchè i signori al giorno d'oggi non hanno più carità del prossimo e se c'è tanta anemia intorno, come dicono i dottori, che l'ho anch'io, è perchè i padroni ci fanno lavorare come bestie. Ci vuol altro che stare a tavolino a scrivere. Quello è un mestiere da nulla; dovrebbe essere nei miei panni; ma loro sono senza cuore tutti dal primo all'ultimo.Oh! verrà anche per loro il giorno!

Esterrefatto, Spiridione Tomei aveva seguito quello strano discorso, che, iniziato brontolando, si era a poco a poco alzato di tono fino a diventare una minaccia. E non capiva in qual modo avesse fatto l'Agata per passare così rapidamente dalla condizione di accusata a quella di accusatrice, girando la questione in guisa che il punto di partenza era scomparso affatto. Tuttavia, persuaso che un buon ragionamento aggiusta ogni cosa, si arrischiò a incominciarlo così:

— Ragazza mia tu manchi di logica.

Ma l'Agata non lo lasciò proseguire. Rompendo in uno scoppio di pianto e implorando l'anima della defunta padrona, che almeno quella di parolacce non glie ne aveva mai dette, uscì sbattendosi dietro l'uscio.

— Forse — argomentò il valent'uomo grattandosi un orecchio — avevo torto, per il passato, quando mi pareva che Bettina non usasse la debita pazienza. L'affare è più serio di quanto credessi. Sicuro, sicuro. Il male è che non vi sono termini fissi, nè giusta proporzione di piani, poichè è ben vero che i padroni comandano, ma non è detto che i servitori obbediscano; ovverossia è detto ma non fatto; ovverossia ancora il fatto quando avviene è come certe operazioni nelle quali l' operatore trionfa ma l'operato muore.

Contento della sua piccola diagnosi psichica e con quel felice potere di astrazione che hanno i pensatori, Spiridione Tomei si persuase di sfuggire alle noie domestiche comperando dodici paia di calze nuove e non pensandoci più.

Si sprofondò allora tutto quanto nel lavoro al quale voleva confidare la gloria maggiore del suo nome: « La coscienza nei rapporti colla volontà ». L'ora per lui propizia alla occupazione intellettuale essendo quella che segue immediatamente il levarsi, aveva raccomandato all'Agata di scaldargli bene la stufa del suo studiolo e per alcuni giorni la faccenda camminò liscia. Poi a poco a poco avvennero dei ritardi, insensibili dapprima, notevoli in seguito e sempre crescenti.

— Agata, questa mattina il termometro del mio studiolo misurava sei gradi di calore. È indispensabile che tu accenda la stufa più presto.

— Non posso mica accenderla di notte.

— Nè vorrei. Ma dopo la notte viene l'alba, poi il mattino fatto, e mi pare che per le nove si potrebbe avere una discreta temperatura.

— Alle otto è ancora buio, miracoli non ne fa nessuno.

Egli avrebbe potuto provarle che non c'era bisogno di miracoli per esaudire il suo modesto desiderio; tuttavia preferì aspettare tempi migliori, per amor della pace.

Verso la metà di febbraio, essendo nevicato sui monti, l'aria fattasi più frizzante che mai e lo studiolo a nove ore ancora freddo, egli arrischiò l' osservazione che le giornate essendosi allungate il miracolo di tenere la stufa calda per le nove non era proprio di quelli che possono pretendere alla canonizzazione.

E sorrise dello scherzo innocente, soddisfatto di poter temperare con esso l'insistenza della richiesta. Ma l'Agata non la prese per questo verso.

— Mi faccia il piacere! — esclamò con quanto maggior disdegno potè raccogliere sulla sua faccia di mela cotogna —: come può ella sapere che le giornate si sono allungate se si alza che è giorno fatto?

A tale incredibile sortita Spiridione Tomei eresse le braccia al cielo e ve le tenne un istante, quasi la terra gli traballasse sotto e andasse annaspando un sostegno lassù; poi lasciandole cadere con una espressione così compunta e rassegnata che avrebbe ammansato il furore di un tribuno popolare, con una voce dolce dolce, ammonendo sè stesso del dovere che incombe a chi sa di istruire coloro che non sanno, rispose:

— Senti, ragazza. Tralasciando certi calcoli per te difficili basta guardare il doppio Pescatore di Chiaravalle per sapere che col mese di febbraio il sole entra in Pesci e il giorno cresce al sei di ore 1,18, al dodici di 1,34, ecc. Oggi siamo al sedici e mi pare….

— Oh! — interruppe l'Agata seccata —: queste sono sciocchezze. Nè lei nè il Pescatore di Chiaravalle possono sapere quanto tempo occorre per riordinare una casa.

— Ma che le giornate si allungano sì. Lo diceva anche mia sorella, ti ricordi? A Sant'Antonio un'ora buona.

— Come non si lavorasse già abbastanza, c'è proprio bisogno di far crescere le ore.

— Ma no, non è così, dà retta….

— Non v' è peggior mestiere che quello di servire.

— Infatti, c'è anche una musica su queste parole. Ma dà retta, tutto si può aggiustare con della buona volontà.

— …. fin da quando — interruppe l'Agata seguendo il suo furore — mia madre mi mandava a attingere acqua lontano un chilometro con una secchia pesante che mi faceva traballare spargendo l'acqua su tutta la strada, che poi ne pigliavo delle busse e alla mattina dovevo alzarmi col canto del gallo….

— Vedi? Vedi? — interruppe a sua volta. Spiridione Tomei sembrandogli di avere afferrato un buon argomento per dimostrarle che la di lei condizione come si era già avvantaggiata poteva migliorare ancora. — Ma sì, acchiappa una vespa a volo se ti riesce!

— E se non le accomoda il mio servizio lo dica subito che per me me ne vado senza un rammarico al mondo.

— Eccoti, secondo il solito, fuori d'argomento. Non si parlava del giorno che cresce? E dunque che c'entrano le minaccie?

— La colpa è sua.

— Mia?

— Sua, sua.

— Agata, fammi il piacere….

— Oh! la finisca. Vuole che glie la dica? Con lei non si può ragionare.

Cercando un libro sull' alto palchetto della sua libreria, Spiridione Tomei era caduto una volta da una scala a piuoli e ne aveva risentito un forte intontimento al cervello; e un'altra volta, ancora ai tempi del collegio, un compagno gli aveva assestato un colpo di regolo sulla nuca che dopo aver visto quelle stelle mai più sperava di rivederne altre; ma tutto ciò era nulla in confronto allo stupore sbalorditivo da cui fu preso l'onesto filosofo quando l'Agata gli ebbe scagliata contro l'accusa di non saper ragionare.

— Si passa il segno, si passa il segno, — mormorò egli tra sè tamburellando colle dita sui vetri della finestra alla quale si era avvicinato mentre l'altra si allontanava nel trionfo della sua ultima frecciata.

Fu precisamente allora che gli venne la prima ispirazione di quell'ironico opuscolo « L'ignoranza forma di indipendenza » che ebbe un sì largo successo, specialmente perchè non si conosceva Spiridione Tomei come umorista. Un uomo per quanto filosofo prova in qualche momento della sua vita il bisogno di sfogarsi di un sopruso o di una ingiustizia o di una villania.

Così Spiridione si liberò dell'amarezza versatagli in cuore dall'Agata scrivendo un opuscolo — mite vendetta di intellettuale — e da allora, ogni qual volta i suoi occhi cadevano sulla ragazza li acuiva in uno sguardo malizioso e gonfiando le gote tratteneva giubilando uno scoppio di risa. Non avrà riso forse anche Michelangelo dopo di avere disegnato sulle pareti della Cappella Sistina l'effigie del suo detrattore nientemeno che nel ceffo del diavolo?

A primavera avanzata, quando il sole entrava di buon'ora nell' appartamento e la glicine del giardino mandava il suo saluto olezzante fin dentro le finestre, l'Agata si decise ad alzarsi presto. Giusto allora che non c'era più bisogno di accendere la stufa. Il guaio però stava questa volta negli zoccoli dell'Agata che trotterellando innanzi e indietro turbavano il suo padrone in quell'ultima ora di sonno tanto benefica per un cervello affaticato.

— Agata, se volessi smettere gli zoccoli mi faresti una carità fiorita. Io me li sento penetrare alla mattina tra il sonno e la veglia come tanti chiodi nella testa.

— Che c'entro io se lei ha la testa debole? Devo forse andare a piedi nudi?

Egli non stette a rilevare la solita esagerazione della frase, pur deplorando che ognuna delle sue osservazioni fosse accolta con una scarica di artiglieria, e si accontentò di soggiungere con semplicità che vi sono altre forme di calzature oltre gli zoccoli. Naturalmente l'Agata saltando di palo in frasca arrancò subito una dozzina di scuse una più strampalata dell'altra, col razzo finale delle lagrime perchè « le si voleva negare a lei poveretta che era orfana e senza appoggi quel po' di economia escogitata surrogando agli stivaletti costosi gli zoccoli a buon prezzo ». Il colpo toccò il centro. Spiridione Tomei che era di cuore tenero si rassegnò al tacchettio degli zoccoli pensando ad ogni protesta dei nervi: « È un soldo che quella poveretta risparmia per la sua vecchiaia ».

Pochi giorni dopo era Pasqua ed egli aveva lasciata libera la sua domestica di andarsela a spassare a proprio agio. Credeva che fosse già uscita di casa quando, avendo bisogno di un po' d'acqua per bagnare la gomma, andò lui stesso in cucina a prenderla e nell'attraversare un corridoio non troppo illuminato cozzò improvvisamente contro uno di quegli immensi cappelli femminili che egli aveva bensì incontrato in istrada ma la cui presenza in casa sua doveva colmarlo di stupore.

— Prego, signora…. scusi…. a che posso attribuire….

Egli strisciava contro il muro, rimpicciolendosi per far posto alla catapulta di nastri e di piume che aveva minacciato l' integrità della sua fronte, ma di sotto a quella macchina di guerra scoppiò un tale scompisciamento di risa sciocche, irriverenti, aggressive, che tutto il sangue gli si rivoltò nelle vene.

— Come! Sei tu? In maschera!

— Che maschera d'Egitto! — rispose l'Agata —: è anche diventato orbo?

— Ma quel cappello?

— Ebbene?

— Tu col cappello?

— E perchè no? Non porta il cappello lei?

Ecco, gli argomenti oratorî di quella ragazza erano così bizzarri, così pieni di imprevisto, che l'uomo di studi ne rimaneva sempre un po' allocchito e non trovava subito la replica. Gli faceva l'effetto di aver ricevuto un pugno di sabbia negli occhi. Finalmente si credette sicuro di possedere la rimbeccata giusta:

— Ma io non porto gli zoccoli.

— Lei non incominci a confondere le idee, — disse l'Agata colla maggior disinvoltura, — e mi lasci passare.

Il contegno sprezzante della ragazza, poichè giunge un momento in cui anche la pazienza di un santo si esaurisce, faceva prudere le mani a Spiridione Tomei. Ciò che lo feriva soprattutto, che gli faceva veramente male, era quella mancanza assoluta di raziocinio congiunta a tanta impudenza. Sperò ancora di convincerla colle buone:

— Vedi, bisogna essere coerenti. O sei povera o non lo sei.

— Quanti discorsi inutili!

— No, che non sono inutili se volessi darti solamente la pena di riflettere.

— Mi lasci andare che ho fretta.

Il tacchettio degli zoccoli passò in quel momento attraverso la mente del filosofo come una canzone di scherno.

— Allora non porterai più gli zoccoli?

— Porterò quello che mi pare e piace.

— Ragioni col cervello di un infusorio.

— E la finisca di insultarmi, altrimenti le dirò che è un villano.

Questa volta egli credette proprio di commettere uno sproposito mentre ella salvandosi nelle profondità del corridoio continuava a gridare come un'ossessa. Tutto il suo passato di prudenza, di moderazione, di compatimento, gli insorse contro dandogli un tale sapore di amarezza che comprese in quell'istante di quanto sollievo possa essere il gesto ampio di uno schiaffo Ciac!

E così, all' ïmprovviso, come sorgono talora non cercate le memorie più lontane, si risovvenne di certe studentesche battaglie nei tempi in cui stava alle prese coll'abborrita matematica; e una parola nella quale aveva condensato tutta la sua avversione, che era stata la sua invettiva maggiore per confondere un avversario, gli balenò dinanzi col tentante invito di una lama snudata. Le piume del cappello dell' Agata ondeggiavano ancora sotto l' arco del corridoio quando sibilò sovr'esse con terribile scoppio di voce questo oscuro anatèma:

— Ipotenùsa, va!

Spiridione Tomei si era vendicato come aveva potuto.

Quelle moderne incitazioni a delinquere che sono i concorsi a premio dei giornaletti letrarî avevano trascinato Filarete Persico al primo passo. Con sedici anni cento lire, anche cinquanta, guadagnate senza bisogno di ricorrere a babbo e mamma rappresentano una piccola fortuna.

Oh! se si fosse trattato di faticare su ponderosi volumi per mettere insieme un lavoro serio, o dar prova di eccezionale ingegno rispondendo a un quesito astruso, Filarete ci avrebbe pensato due volte. Peggio che andar di notte poi se il concorso rivolgendosi al carattere dei concorrenti avesse messo a premio un atto di magnanimità, una prova di onesta fierezza, una vittoria ottenuta sopra sè stessi. Ma per fortuna a nessuno è mai venuto in mente di bandire simili gare.

Una novellina dunque, un fatto diverso, il pettegolezzo del giorno, o brani di vita, o imitazioni di letture, o fantasie, o sogni…. chi non trova qualche cosa del genere nel proprio cervello o nel cervello del vicino? — i due termini sono quasi uguali —. Filarete, allievo di seconda liceale, lo sapeva benissimo.

E fu precisamente una novellina pubblicata da una minuscola Rivista, con relativo minuscolo premio, la galeotta che persuase Filarete della sua vocazione a scrittore. Fatto il primo passo, per la tentazione di quelle poche lirette, il secondo si imponeva in seguito al buon esito lusingante in un colpo solo e la vanità e la cupidigia del giovinetto. I componimenti extra-scuola si ammucchiarono sul banco del Liceo occupato da Filarete; è giustizia dire che non furono poi tutti premiati e neppure tutti accettati; ma tant'è, preso l'abbrivo e il gusto, lo studente non doveva arrestarsi più.

— Te felice, — gli diceva qualcuno de' suoi compagni minacciato da un avvenire burocratico in uno dei tanti uffici governativi.

— Te felice con quella tendenza di natura a imbastire frottole e a imbastirle con tanta facilità! Il guadagno sarà per te doppio, cioè di lucro e di piacere insieme.

Questo lo pensava anche Filarete che a fare il medico non ci aveva vocazione e per l' avvocatura gli mancava la facondia, così come gli mancava il bernoccolo della matematica e l' avvedutezza propria ai commerci. Certamente, certamente, per uno che non vuole arrovellarsi il cervello nè mettersi a sgobbare di buzzo buono, niente di meglio che darsi alla letteratura. Egli si vedeva già in uno studiolo elegantemente arredato, sparso di oggetti d' arte e dei libri che i suoi confratelli gli avrebbero offerto con dediche lusinghiere, intento a seguire dietro le nuvole della sigaretta le belle immagini che poi avrebbe tradotte sulla carta.

È ben vero che uno zio, grosso negoziante in generi coloniali, crollava il capo a questi sogni di avvenire letterario e lo consigliava a scegliersi una professione meno incerta. Ma quando mai uno scrittore ha accolto i consigli di un droghiere se non per deriderlo e chiamarlo filisteo?

La madre sì, la madre stava dalla parte di Filarete. Come donna sentiva il fascino delle belle frasi allineate sulle pagine bianche di un volume elegante e come madre non aveva nessuna difficoltà, ma proprio nessuna, a credere suo figlio emulo predestinato…. oh! Dio, non di Manzoni, questo si capisce; ma tanti scrittori moderni hanno un così bel nome e, ne era convintissima, non maggior talento del suo Filarete, che valeva bene la pena di tentare.

La Rivistina dove Filarete aveva fatte le sue prime armi era già morta da un pezzo, ma siccome ogni giorno ne sorgono di nuove e tutte animate da un gagliardo soffio di speranza che le tiene in piedi tre o quattro mesi, giusto il tempo di consumare il gruzzoletto raccolto tra amici di buona volontà, qualche bozzettino, qualche articolo incorniciato fra nomi sconosciuti continuò ad alimentare le tendenze di Filarete e quando giunse il momento di scegliere definitivamente una carriera egli confermò il proposito di voler essere uomo di lettere.

— Ma che cosa si guadagna a vendere parole? — domandò ancora lo zio droghiere.

— Milioni! — rispose imperterrito il neofita che pensava in quel momento alle ricchezze di Rostand. — Vi sono scrittori in Francia che col loro lavoro si sono fabbricate dimore principesche. Dumas, Sue, Zola guadagnarono tutto quello che vollero.

Lo zio droghiere non conoscendo questi signori tacque. Ciò non vuol dire che fosse persuaso.

Non bastava tuttavia a Filarete l'ospitalità concessagli dalla stampa ebdomadaria; la sua ambizione era quella di raggiungere il possesso dei grandi giornali quotidiani i quali soli dànno rinomanza ad uno scrittore e lo mettono in diretta corrispondenza col pubblico. Da questo lato però si accorse subito che l'osso era duro da rosicchiare.

— Scrivi un romanzo, — gli disse sua madre; — dopo sarà più facile che i giornali si occupino di te.

— Scrivi una commedia, — suggerivano gli amici; — se ha successo da un giorno all'altro sei celebre.

Per non sbagliare Filarete li scrisse tutti e due: solamente la commedia fu trovata troppo sguaiata, pare impossibile, e il romanzo troppo serio.

— Se potessi indovinare il gusto del pubblico! — pensava Filarete.

E si pose a frequentare tutti i teatri di prosa, si pose a leggere tutti i libri in voga cercando di carpire il segreto che faceva andare in visibilio le masse. Cosa curiosissima! Man mano che si rendeva conto di quanto avevano scritto gli altri riconosceva subito che avrebbe potuto scriverlo anche lui, che non vi era assolutamente nulla di straordinario, poichè egli stesso aveva tante volte pensato ad argomenti consimili e se non li aveva svolti era solo perchè non si sarebbe mai immaginato che potessero ottenere sì pieno trionfo.

— Bisogna vivere col popolo, — concluse Filarete; — l'osservazione verista è quella che conduce direttamente al cuore dei lettori. Grasso sul teatro, Gorki nelle novelle…. forza ci vuole, coraggio e forza.

Temprato così Filarete scese nell'agone con un fascio di letteratura sanguinaria che la stampa delicata respinse per sè stessa e quell'altra non volle incaricarsene perchè il nome dell'autore non serviva da portabandie a a nessun partito.

— Sono troppo onesto, — pensò egli questa volta; — anche in letteratura è la camorra che trionfa: « Odi profanum vulgus et arceo ».

Fu quello il tempo in cui si chiuse nella sua torre d'avorio. Maeterlink, Nietzsche, Ibsen, tutta la nebbia nordica passò attraverso il suo cervello. Ne rimase intontito e stanco per parecchi mesi. Gli accadeva allora di portare molte volte la mano alla fronte chiedendosi se non fosse per caso minacciato di una congestione cerebrale. A buon conto si ritirò un poco dalla letteratura. Fece un viaggio, prese moglie, seppellì lo zio droghiere che lo aveva lasciato erede di un discreto patrimonio; ma alla fine, come la farfalla che se pure allarga una volata nello spazio ritorna invincibilmente a girare intorno alla fiamma, egli ricascò nel calamaio.

Al guadagno non ci pensava più da quando, non una grande villa uso la villa di Rostand a Cambo, ma una villetta, una casetta sul bergamasco lasciatagli anche quella dallo zio soddisfece abbastanza la sua vanità di proprietario e l' altra vanità tornò a farsi strada nella mente disoccupata. Arrivare! Filarete voleva oramai arrivare a qualunque costo, essere celebre, farsi un nome che ogni persona appena appena colta dovesse trovarsi in dovere di conoscere. Non chiedeva denaro; al contrario, era disposto a spenderne pur di essere presentato al pubblico da un grande editore o da un critico autorevole. Era persuaso che tutto dipendesse dallo scavare la prima breccia, lanciare un articolo che facesse colpo, per cui ventiquattr'ore durante non s'avesse a parlar d'altro in tutta Italia.

Disgraziatamente, per quanto la cosa gli sembrasse agevole e per quanto a furia di preghiere e di raccomandazioni qualche suo articolo riuscisse a comparire nelle auguste colonne di un organo magno del giornalismo il pubblico non se ne diede per inteso. Il pubblico con singolare ostinazione continuava ad ignorare l'esistenza di un Filarete Persico.

Battuto ma non domo Filarete si presentò un giorno al primo editore della città con un grosso scartafaccio scritto a macchina per invogliare maggiormente la lettura:

— Ella mi sarà grato della preferenza che le do sopra gli altri editori portandole la primizia di un romanzo nuovo….

— Gratissimo. Solamente ho i tiretti del mio scrittoio che rigurgitano di romanzi in aspettativa ed ogni giorno invariabilmente ne rifiuto due o tre.

— Ma il mio è molto interessante. Non faccio per dire ci ho messo tutta l'anima.

— Non ne dubito. È d'altronde ciò che fanno tutti, ma….

— E non per speculazione, intendiamoci. Tutto il guadagno lo lascio a lei.

— Quale guadagno di grazia?

— Diamine, la vendita!

— Parla di vendita con molta disinvoltura, caro signore; ma, ecco, se è così sicuro di vendere favorisca anticipare le spese: carta, stampa, pubblicità, ecc. Sarò io che lascerò a lei tutto il guadagno, — soggiunse l'editore con un sorriso a doppio taglio.

Fu rizzato lì per lì un preventivo che fece sulle prime nicchiare Filarete. Ohibò! Egli che si era data la fatica di scrivere il romanzo doveva anche pubblicarselo a proprie spese? Che ci stanno a fare allora gli editori? Infine si decise riportando i suoi calcoli sulla vendita. Così a occhio e croce cinquecento copie dovevano andare tra parenti, amici, conoscenti, avventori del medesimo caffè, vicini di casa; senza parlare del gran pubblico che avrebbe visto il volume dal libraio e sarebbe corso, figurarsi se no!, a comperarlo. Mille copie dunque, mille e cinquecento colle provincie, duemila coll'estero…. Affaroni d'oro.

Intanto, a proposito degli avventori del caffè, Filarete incominciò a mostrarsi di una gentilezza particolare con tutti. Sempre il primo a levarsi il cappello, si affrettava a interrompere la lettura di un giornale per offrirlo a chi ne mostrasse desiderio; cedeva il suo posto alle signore ed accarezzava i bambini. Qualcuno vedendolo così compito avrebbe pur domandato il suo nome ed il cameriere, previa competente mancia, era autorizzato a dire: Il signor Filarete Persico, un grande scrittore.

— So anch'io, — argomentava tra sè Filarete, — perchè molti scrittori al giorno d'oggi non riescono a farsi conoscere. Non sanno preparare il terreno! Destrezza ci vuole, furberia, tattica, tenersi amici con tutti, abbondare in cortesie. Appunto, anche coi vicini di casa occorreva mostrarsi amabile; se prima non si era occupato di loro bisognava rimediare subito.

Viveva egli con sua moglie in una casa dei quartieri antichi, vecchia casa borghese modesta e comoda, con un giardino un po' trascurato ma ricco di piante, alcuna delle quali quasi centenaria. Egli e sua moglie godevano un ammezzato tutto sole e verdura; a pianterreno ci stava un vecchio originale che aveva il giardino in sua dipendenza, specialmente un prolifico albero di fichi da lui sorvegliato con attenzione paterna e che formava la meraviglia e l'invidia di tutto il vicinato; non molto numeroso a dir vero perchè, astrazione fatta di una famiglia al primo piano e del signor Edoardo al secondo, il rimanente della casa conteneva gente minuta, magazzini e ripostigli.

La tattica di Filarete si dirizzò dunque su quei tre pigionali che meglio potevano rappresentare un futuro lettore del suo romanzo: il vecchio del pianterreno, la famiglia del piano nobile e il signor Edoardo, il quale occupava da solo un appartamentino da scapolo ed era un giovinotto elegante accolto nella migliore società e non privo di un certo spolvero letterario. Il vecchio tutto occupato intorno a' suoi fichi che incominciavano a maturare faceva poco attenzione ai profondi saluti che Filarete gli dedicava al di sopra del cancelletto del giardino; la famiglia del primo piano rispondeva gentilmente ma con sostenutezza; col signor Edoardo invece la relazione fu presto fatta e siccoma Filarete aveva inteso narrare di un romanziere che deve la maggior parte della sua popolarità all'abitudine di invitare a pranzo amici e colleghi tutte le volte che mette fuori un nuovo volume, egli disse a sua moglie:

— Studia bene quella salsa di gamberi che mi hai preparata l'altro giorno: così potremo invitare a pranzo il signor Edoardo. Egli mi presenterà a qualche critico influente. Basta talora un articolo ben fatto per iniziare la fortuna di un libro.

Filarete non si arrestò qui. Egli fece stampare migliaia di cartoline col suo ritratto, nome, cognome e una piccola biografia contenente in estratto i suoi meriti e le sue glorie. E ancora: quindici giorni prima della pubblicazione del suo romanzo misteriosi cartellini incollati ai muri della città ne annunciarono il titolo suggestivo.

— Affemia! — gridò egli alla fine lasciandosi cadere lungo disteso in una poltrona, — più di così non si potrebbe fare!

Ed aveva ragione. Ma forse bisognava fare diversamente il romanzo.

Un sassolino gettato in un fosso prima di calare a fondo smuove l' acqua intorno, provoca dei circoli, evoca col suo tonfo un breve suono che spaventa i pesci ed alza a volo gli insetti attardati sulle linfe. Un colpo di fucile sparato in alto non toccherà la mèta, ma scuote l' aria fendendola con una scarica rumorosa che mette in fuga gli uccelli, attira l'attenzione del viandante e si lascia dietro una nuvola di fumo che domina per un istante lo spazio celeste. Il romanzo di Filarete invece nacque e morì senza nessuna rifrazione di circoli, senza rumore, senza nemmeno un po' di fumo. E dire che egli si sarebbe accontentato del fumo!

Una notte, mentre stava sognando che un editore americano gli aveva fatto la proposta di ristampare tutte le sue opere, si destò a un rumore insolito di gente che correva sopra la sua testa, cioè al primo piano, e sotto i suoi piedi, cioè al pianterreno, accompagnato da uno sbattere di finestre che si aprivano, di voci che si incrociavano e di qualche scoppio di risa. Cercò per prima cosa sua moglie; ma il letto accanto era vuoto e solo dopo infilati i pantaloni percorso l'appartamento ed uscito fuori inquieto e meravigliato sul ballatoio, trovò la signora Persico che saliva le scale piangendo o quasi.

Era accaduto un fatto singolare. Siccome il vecchio signore del pianterreno si era accorto che i suoi fichi da lui sorvegliati con tanta cura calavano regolarmente dalla sera al mattino, sospettando di ignoti ladruncoli che si introducessero nel giardino col favore delle tenebre aveva fatto preparare con tutta segretezza un congegno elettrico proprio intorno alla banchina che sottostava all'albero in modo che chiunque vi si avvicinasse senza essere prevenuto metteva in moto tutta una batteria di campanelli nello stesso tempo che una lampada nascosta fra i rami più alti si accendeva colla forza di venti candele. Una trovata ingegnosissima.

E così fu che in quella notte memoranda, non solo il proprietario dei fichi ma tutto il vicinato fu messo in allarme da una improvvisa scarica di campanelli e dalla specie di sole sorto come per incanto in cima all'albero, che illuminava tutto il giardino. L'originale inventore della burla doveva tuttavia rimanere estatico quando in luogo dei monelli da lui spiati sorprese sulla banchina, tutta tremante e sgomentata, la signora Persico e presso a lei il signor Edoardo. Erano dunque essi i ladruncoli dei fichi?…

No, il signor Edoardo, quel giovinotto elegante, non poteva prestarsi a un simile ridicolo. Qualunque altra soluzione piuttosto: un duello, due duelli, la morte, o rapire la signora Persico, ma passare per un ladro di fichi, giammai! Come però la povera donna si sfaceva in gemiti il cavalleresco complice ebbe un' idea e la lanciò subito alla testa di tutti i vicini che si avanzavano man mano agli usci ed alle finestre. « La signora Persico era sonnambula! » Egli l'aveva veduta scendere in giardino con quel passo incerto e fatale dei sonnambuli, procedere come un fantasma nelle tenebre, tendere le braccia nel vuoto…. e si era spaventato, spaventato per lei povera signora! Che fare? Avvertire il marito? Si perdeva troppo tempo. Egli era corso, il signor Edoardo, senza pensare ad altro ed era giunto proprio nel momento in cui la signora cadendo sulla banchina aveva fatto scattare la molla. Ecco.

Filarete ascoltando questa spiegazione pensò che la vita fornisce casi assai più bizzarri e complicati che non l' immaginazione dei romanzieri. Intanto la storiella della sonnambula pubblicata nei fatti diversi della stampa quotidiana fece il giro della città. Se ne impadronirono i giornali umoristici, se ne parlò in tutti i crocchi. Sul nome di Filarete si sbizzarrirono i sciaradisti: fila e rete. Molti domandavano: Ma c'è un romanziere che si chiama Filarete Persico? Chi è? Chi non è? Dopo tutto era un modo anche questo di occuparsi di lui e Filarete non se ne mostrò malcontento. Fortuna e dormi! Era proprio il fatto suo. Quando entrava ora in un caffè, tutti lo guardavano, amici perduti di vista lo fermavano in istrada per informarsi della sua salute e di quella della sua signora. Perfino il suo editore accogliendolo con un sorriso schietto gli annunciò di aver venduto due copie del suo romanzo. La gloria incominciava.

Non è storia, non è storia! io m' interesso solo di storia, cioè di cose vere, realmente accadute.

Così respingendo sdegnosamente romanzi e novelle molte brave persone rispondono all'offerta dei nostri modesti lavori letterari; e dal fare sostenuto, da una cert'aria di compatimento, sprizza fuori la loro intima opinione che ci vuole proprio del buon tempo per stare ad architettare frottole oggi in cui il vivere costa caro e sono tante le tasse. E anche questa è storia; storia antica. « Dove le avete prese codeste corbellerie, messer Lodovico? » diceva un principe di casa d'Este all'Ariosto, il quale avrebbe potuto replicare con piena sincerità: « Dalla vita ».

Noi pure i nostri romanzi, le nostre novelle le componiamo su brani di vita; un po' guardando dentro, un po' fuori di noi; e ciò è altrettanto vero quanto la nascita di Romolo e Remo; forse più.

Si diceva adunque, o almeno volevo dire, che agli onesti coniugi Barbaglia, negozianti in ferramenta alla Pusterla dei fabbri, dopo parecchi anni di matrimonio sterile e precisamente nel 1813 il Signore concesse la grazia di un figlio maschio, perfettamente conformato, di nove mesi giusti e qualche ora. La gioia degli onesti Barbaglia dovette essere grande, ma nessun testimonio è sopravvissuto per narrala e per dire quanti tortelli e quanto vin bianco spumante allietarono la cerimonia del battesimo. Solo sappiamo che in omaggio all'eroe del tempo il piccolo Barbaglia fu chiamato Napoleone.

I Barbaglia, oltre al negozio di ferramenta che rendeva bene perchè allora non vi erano tutte le angherie che strozzano il commercio attuale, possedevano a Baggio una casetta con un po' di terra, di quella buona terra grassa dove ogni grazia di Dio germoglia e cresce che è un piacere, sicchè il piccolo Napoleone venne su a tutto suo agio senza neppure il fastidio della vaccinazione, non essendosi ancora imposta come legge la teoria di Jenner e neppure l'altra teoria della istruzione obbligatoria; tempi di ignoranza e di schiavitù che permisero al bambino di fabbricarsi una solida carcassa resistente al sole, al vento, alla pioggia e di godersi in lungo ed in largo i sacri privilegi dell' adolescenza, sia dinanzi la bottega paterna alla Pusterla dei fabbri, sia sui prati di Baggio mentre intorno i filari di vite non ancora guasti dalla peronospora lasciavano pendere i loro grappoli maturi e profumati.

Senza fretta poi (nè ferrovie nè telegrafo non erano ancora inventati), quando il padre Barbaglia credette giunto il momento opportuno, avendo quell'unico figlio, decise di farlo istruire da un vecchio sacerdote che gli impartì le prime nozioni di latino facendogli in pari tempo servir messa e agitare nelle feste solenni il turibolo dell' incenso; onore e piacere insieme; a non parlare dell'incerto delle ampolle nelle quali restava sempre un po' di prelibato vino da sgocciolare in sacristia, e meglio ancora se ne restava molto, che allora il chierichetto se lo beveva a garganella trattenendo il respiro, tutto rosso in faccia e soddisfatto della prodezza compiuta.

Ma venne il giorno di surrogare le lezioni del prete con un metodo di cultura più esteso, e il bravo Barbaglia mandò suo figlio al ginnasio, dove se il giovane Napoleone non fece straordinari progressi, ebbe il compenso di potersi paragonare al suo grande omonimo per la frequenza delle macchie d' inchiostro sui quaderni.

Spinte sponte tuttavia il ginnasio fu superato e quasi quasi anche il liceo, quando accadde a Napoleone una cosa naturalissima per sè stessa, ma che, date le circostanze di tempo e di luogo, doveva recare molti fastidi a lui ed alla famiglia.

Aveva diciotto anni, due belli occhi neri, una nascente peluria sul labbro color del melograno e leggeva Byron che incominciava ad essere alla moda in Italia. Tutte queste circostanze concomitanti lo condussero a innamorarsi e ad innamorare fortemente di sè una fanciulla intraveduta attraverso il cancello dell'orto di un convento, ai piedi della quale fece cadere, ravvolto intorno a un sasso, un foglio dove erano trascritti i brani più ardenti del Giaurro.

Fu come dar fuoco a un pagliaio. La ragazza rispose, furono fissati i convegni, le lettere e le proteste d'amore si moltiplicarono a guisa dei pani e dei pesci della cena evangelica; ma appunto similmente accade coi cibi che mangiando cresce l'appetito, i due colombi a furia di tubare attraverso il cancello dell'orto provarono il bisogno di un nutrimento più sostanzioso e poichè i genitori della fanciulla non pensavano affatto a toglierla dal convento Napoleone prese una risoluzione degna di lui: la rapì.

Oh! a dirlo so anch'io che sembra una cosa da nulla e a scriverlo pure; due parole. Ma occorre immaginarsi che razza di fulmine a ciel sereno dovette essere tale notizia per l'ottima famiglia Barbaglia, e che scandalo in convento, e che ciarle intorno alla Pusterla dei fabbri, e che strilli in casa della ragazza! Fortuna che allora non c'erano i giornali a propalare il fatto altrimenti Dio ne liberi che putiferio! Si era proprio sotto gli esami.

I fuggiaschi intanto non avevano già preso l'espresso internazionale come si farebbe ai nostri giorni, ma con un modesto calessino si erano recati a Baggio e di lì fecero sapere agli sconsolati parenti che erano decisi a sposarsi o a morire. Corsero fuori subito i coniugi Barbaglia armati di fierissimi propositi per castigare i due monelli, rendere la fanciulla al suo convento e mettere il ragazzaccio in collegio o magari in prigione. Ma quando li videro così felici e sorridenti, sotto il pergolato, a piluccare l'uva moscatella e che entrambi si buttarono ai loro ginocchi chiedendo perdono ogni furore sparve per incanto e la crisi finì in un diluvio di lagrime e di baci.

L' amore va bene; però che cosa avrebbe fatto Napoleone quando si fosse messo al collo la dolce catena dell' imenèo? I traffici paterni non erano di suo gusto; finire gli studi con quel po' po' di occupazione che gli dava la luna di miele neppure gli sorrideva, e dunque? Si allogò provvisoriamente nello studio di un avvocato aspettando che l'erba crescesse. Purtroppo essa crebbe ma non conforme all' aspettativa, che due anni dopo il matrimonio la sposina soccombette in una febbre puerperale e venne sepolta a Baggio lei e il bambino.

Questo doloroso avvenimento ebbe almeno la fortunata conseguenza di maturare il senno di Napoleone il quale riprese di moto proprio gli studi interrotti iscrivendosi nella Facoltà di legge all' Università di Pavia. Non che laggiù conducesse una esistenza da cenobita; amori, risse, bagordi andavano di pari passo collo studio delle Pandette, ma infine era quello che facevano tutti; e lo strascico delle congiure carbonare, mettendo un lievito più nobile in quei giovani cervelli, teneva vivo in essi ad onta della scapigliatura il sentimento della patria. La canzone pubblicata sulla creduta morte di Silvio Pellico ognuno la sapeva a memoria:

Luna, romito, aereo
Tranquillo astro d'argento….

La rivoluzione del quarantotto trovò Napoleone sulle barricate. Ei visse intera l'ebbrezza dei milanesi dal 22 marzo al 4 agosto; conobbe tutti i capi, fu in mezzo a tutte le mischie, inalberò il maggior numero di coccarde tricolori, fino a disporre sulla banchina di una ortolana in Verziere un cesto di insalata, uno di rape e uno di pomodori allineati come il drappo di una bandiera. Per suo conto portava fieramente sulla camicia bianca una cravatta del rosso più sgargiante e un cappello verde in testa, verde come un prato.

Negli anni che seguirono il ritorno degli austriaci, ringuainati i bellici ardori, Napoleone dovette accontentarsi di mandare tratto tratto qualche anonima poesia al Vesta Verde e riprese moglie.

Questo secondo matrimonio benedetto dalla grazia di sette figliuoli segnò un periodo di calma; ma quando venne il cinquantanove, benchè il mezzo secolo battesse alle porte del nostro eroe (stile dell'epoca), egli si sentì ripreso dal fuoco giovanile. Tornò a sfoderare coccarde e a cantare « La bella Gigogin » con uno slancio che i suoi figli gli invidiavano. Fece qualche cosa di più; ad onta delle rimostranze della moglie volle arruolarsi sotto Garibaldi, prese parte alla spedizione dei Mille ed ebbe il legittimo orgoglio di tornare indietro con una bella cicatrice che gli attraversava la faccia dal naso all' orecchio. Ebbe anche una lettera del Duce che fece appendere, in cornice e sotto vetro, a capo del letto, sormontata dal suo berretto di garibaldino.

— Ora — gli disse la moglie — starai un po' tranquillo occupandoti delle nostre faccende.

Sette figli da allevare potevano essere infatti sufficente bisogna alla attività del vecchio patriota. Ma se egli era fiero di sentirsi chiamare patriota non ne voleva sapere di passare per vecchio e qualche bollore, qualche scappatella, vennero ancora di tanto in tanto a turbare la pace domestica. Napoleone ne rideva arricciandosi i grossi baffi alla Vittorio Emanuele.

Nel 1878 tre figliuole erano maritate e due figli preti. Gli altri due, avviati il primo nella magistratura, il secondo nel commercio, erano in forse di prendere moglie ma non avevano fretta. Volevano stare a vedere che cosa lasciava il babbo.

— Io — diceva il maggiore — mi prendo Baggio, faccio riattare quella bicocca e sul prato disegno un bel giardino all'inglese.

— Baggio — replicava il commerciante — lo vorrei per me; ho in mente di stabilirvi un'industria.

— Ma io sono il maggiore.

— Non vi è maggiorasco che tenga, i tempi feudali sono finiti.

— Papà non acconsentirebbe certo a vedere messa sottosopra la casa de' suoi antenati.

— Papà si occupa degli antenati come noi dell'impero chinese.

— Non importa, la casa deve restare come è.

— È quello che si vedrà!

Quando saltava fuori il discorso su Baggio i due fratelli litigavano sempre, al punto che decisero di non parlarne più. Ci pensavano però, ognuno per conto proprio, calcolando che il padre si avviava alla settantina e che lo scioglimento della questione non poteva essere molto lontano. Ma si sbagliavano; altri avvenimenti erano in vista. Anzitutto morì la madre, poi una sorella, poi uno dei preti. Per due o tre anni fu un seguito di lutti.

— Cosa volete farci? — diceva Napoleone, — un momento o l'altro bisogna pur morire.

Fu in quel torno che il secondo figliuolo, il commerciante, visto che l' eredità paterna tardava a giungere, prese la risoluzione di ammogliarsi rimettendo a più tardi l' impianto dell' industria a Baggio. Ma la sorpresa delle sorprese fu quando nel partecipare la notizia a suo padre lo vide sorridere del suo sorriso furbesco, fregarsi le mani e rispondere:

— Benone; ci sposeremo nello stesso giorno.

Come? Che aveva detto? Lo stesso giorno di chi? di che cosa? Delirava il padre o delirava lui stesso?

— Ecco, — spiegò Napoleone, — dalla morte della tua povera mamma io non ho avuto più pace; figurati con quegli altri morti che seguirono! La casa è diventata triste e vuota; nessuno ride più; non ho nemmeno con chi parlare poichè voialtri siete fuori tutto il giorno; quando mi corico la sera in quel lettone abbandonato sento come un pugno, qui, nello stomaco e alla mattina svegliandomi non avere più quella cara donna che mi porgeva il caffè colle sue proprie mani….No, è troppo, non ci resisto. Bisogna farla finita.

— E allora?…

— Allora prendo moglie anch'io.

— Papà!!

— Che c'è di strano? Non sono un uomo al pari di te? Non mi trovo nel mio diritto? Preferisci vedermi intristire nell' isolamento, ammalarmi, morire forse?… Del resto, — soggiunse con bonarietà, — non sposo mica una ragazzina; è una donna di trentasei anni, proporzionata alla mia età.

— Ma tu ne hai sessantotto! — scattò il figlio.

Con una calma magnifica Napoleone riprese:

— Ne sei sicuro? Io non me ne accorgo.

Convenne chinare il capo. La nuova signora Barbaglia portò in casa un umore allegro e comunicativo. Per primo atto del suo potere cambiò il nome troppo lungo e fuori moda di Napoleone con un grazioso vezzeggiativo: Napo. E Napo di qui, Napo di là. Si era di primavera, lui andava a comperarle tutti i giorni un mazzo di rose; lei lo attendeva alla finestra in vestaglia azzurra facendogli dei cenni amichevoli appena spuntava da lontano. Furono anche visti a gettarsi dei baci. Molte persone scambiavano la moglie di Napo per la nuora e il figlio ne stizziva.

Dovette essere ben peggio l' anno appresso poichè un amico attraversando la strada gli venne incontro a braccia tese congratulandosi:

— Di che?

— Eh! del bambino che ha fatto battezzare stamane.

— Io?!…

Fuggì a gambe levate. Il bambino era di suo padre, anzi due: due gemelli.

— Troppo! — aveva esclamato Napo in quella occasione, — un'altra volta bisognerà avere più giudizio.

I gemelli non camparono, ma nel 1891 il patriarca aveva ancora quattro figli, undici nipoti, tre pronipoti e una quantità di bimbi di famiglie affini che tutti lo chiamavano zio Napo. Era un bel vecchio rubizzo che portava con fierezza la sua cicatrice sulla faccia.

— Vedete? — diceva egli ai piccini, — questa sciabolata l'ho avuta da un soldato borbonico.

E i piccini sbarravano gli occhi senza capire che mai volesse significare soldato borbonico.

Quelle cose erano ormai tanto lontane!

Anche la lettera di Garibaldi, gelosamente conservata a capo letto, non faceva nessuna impressione sulla generazione ultima. Uno dei nipotini osservò che era scritta male.

— Quando faremo riedificare la vecchia casa di Baggio, — scappò a dire il figlio maggiore, — si potranno ritirare laggiù queste memorie di nostro padre.

— A meno — soggiunse subito il secondo — che non sia trasformata in un opificio.

— È quello che si vedrà.

— Si vedrà.

L'aspettativa, per altro, tirava in lungo. Nessuno ne parlava, ma era in ognuno un'ansia segreta, quasi un'impazienza. Non si desiderava la morte del vecchio, ma sembrava naturale che dovesse morire. Quando compì gli ottant'anni tutti pensarono:

— Poco lo avremo ancora fra noi.

E i figli ripresero a far calcoli, non per augurargli la morte, no, ma infine era inevitabile. Quanto avrebbe lasciato? Centocinquanta? Duecentomila lire? Benedetto uomo che non gli si poteva cavare una parola dei suoi affari! Non sarà almeno tanto pazzo da nominare erede la moglie?

A ottantaquattro anni si ammalò di bronchite.

— Ci siamo! — fu l'opinione generale.

La malattia, infatti, la prima sua malattia, si presentava con sintomi gravi, specialmente in vista dell'età. Quando mai una persona di ottantaquattro anni si salva dalla bronchite? A buon conto la moglie di Napo, che si era ordinato un cappello con piume verdi, lo fece sospendere in previsione delle gramaglie e il figlio prete che si accingeva a compiere un desiderio di tutta la vita approfittando di un viaggio in Palestina colla compagnia Cook, non ebbe cuore di abbandonare il padre alla vigilia della sua ultima ora. Gli altri due figli si guardavano in cagnesco, sentendo che si avvicinava il momento di battersi ad armi corte a proposito della proprietà di Baggio. La figlia pure, l'unica figlia rimasta, maritata a Cavarzere col medico condotto e madre di cinque pargoletti, piantò baracca e burattini per accorrere al capezzale del genitore morente. In certe ore di strazio profondo, mentre il vecchio rantolava già pallido come un cadavere, il figlio prete, col breviario aperto dinanzi, stendeva sopra un pezzettino di carta un modulo del cartello che si sarebbe appeso sulla porta della chiesa noverando i meriti del defunto, fra cui la sua fede cristiana.

— Coraggio! — ripetevano ad una voce gli amici che venivano in cerca di notizie.

E una bimbetta dei vicini che soleva tutti i giorni salire a prendere lo zucchero da zio Napo, gridò con la piena sincerità dei suoi cinque anni:

— Zio Napo, non morire!

Zio Napo infatti non morì. Al contrario, quella settimana di riposo e di purghe gli rifece una specie di giovinezza, per cui uscì dal letto più fresco e più vivace che mai. Il suo ottimismo, confortato dalla recente esperienza, gli fece concludere che un buon bucato de quando in quando è ottimo per la salute. Meglio senza dubbio fare la prima malattia a ottantaquattro anni e portarsela fuori allegramente che vivere fra le pillole e le cartine come fa la gioventù moderna. Questa l'opinione di zio Napo.

Al principio del secolo ventesimo un Barbaglia, che era partito ragazzo per l'America, tornando in patria, volle far ricerca de' suoi parenti e trovato un bel vecchio roseo sotto i capelli bianchi gli chiese se fosse figlio di quel Napoleone Barbaglia che aveva rapito una fanciulla dal convento, che si era battuto come un leone nel quarantotto….

— Sono io, — rispose modestamente zio Napo.

— Ma non è possibile! Dovreste avere cento anni.

— Lasciamo andare questo argomento degli anni tanto inutile quanto malinconico. Restate in Italia, ora? Bene, vi invito per le mie nozze d'argento.

— D'argento? Volete dire di diamante?

Zio Napo abbassò gli occhi con delicato impaccio.

— È la terza moglie. Sicuro. Ho avuto tre mogli, tre papi e tre re, senza contare Cecco Bebbo imperatore.

Il Barbaglia d' America, essendo ritornato laggiù per i suoi affari, lesse un giorno in una gazzetta l'annuncio funebre di un Barbaglia e non dubitò neppur un istante che fosse il vecchione quasi centenario. Era invece il figlio magistrato, morto col dolore e la rabbia di dover lasciare il fratello arbitro della casa di Baggio; dolore vano, rabbia prematura, perchè qualche anno dopo anche il fratello morì con gli occhi inutilmente fissi al suo progetto di fabbrica.

— Infine, — disse quella volta zio Napo alla vedova che piangeva, — bisogna essere ragionevoli; il caro figliuolo aveva una discreta età!…

Dopo tre settimane di pioggia assidua un bel sole si riversava con folleggiante letizia sulle aiuole ancora acerbe di piazza del Duomo, accolto con un largo respiro di sollievo dalla folla domenicale il cui andare lento e compassato riempiva i portici di masse brune. Candido e fresco sotto i raggi che lo prosciugavano dai recenti lavacri il Duomo presentava alla luce intensa il suo fianco meridionale specialmente ammirato dai forestieri, restando il fianco opposto, più scuro, più suggestivo, più misterioso, il preferito richiamo dell'osservatore sentimentale che vi smarrisce lo sguardo come in una foresta di sogno.

Ma chi non si occupava affatto del Duomo nè di ciò che potesse significare era il gruppo di ragazze che intorno al monumento di Vittorio Emanuele abbandonavasi con libere espansioni di gioia al piacere del ritrovarsi insieme, agitando nell' aria le sciarpe variopinte con accompagnamento di gesti, di grida, di rincorse, di giravolte e di qualche amichevole pugno nella schiena delle compagne. Non vi è nessuno a Milano che non le abbia viste, raccolte tutte le domeniche, chi sa perchè, sotto alla statua equestre del primo Re d'Italia queste ragazze venute quasi tutte dall'Emilia o dagli antichi ducati a cercare servizio in città.

Sentendo forse nell' aria benchè lontanetta ancora la primavera, le ragazze erano nella domenica che io dico più turbolente del solito. Non mancavano fra di esse le nuove arrivate tuttavia un po' timide nelle loro goffe sottane alla moda del paese; qualcuna scesa dalle capanne dell'Appennino odorava franco di quel selvatico che si appiccica a coloro che vivono nelle stalle fra le capre e i buoi; qualche altra invece già raffinata faceva pompa dell'acqua di chinina a poco prezzo che si era versata sui capelli. « Fiuta come sa di buono ». Ma le capoccie erano quelle che si trovavano già a Milano da un anno o due.

Scarpe gialle, calze nere, camicetta chiara, pettinatura a rigonfi, vita serrata, petto sporgente, esse passeggiavano in su e in giù con un, certo ritegno di persona superiore, oppure stavano ritte in mezzo a un capannello di novizie a predicare il verbo novo, ad impartire insegnamenti che le altre ascoltavano con avidità senza interrompere l'occupazione secondaria di sbucciare arancie o castagne, scoppiando a ridere tratto tratto colle mani sul ventre, o annaspando l'aria colle braccia tese nell'istintivo bisogno di prendersela con qualche cosa.

Mezza dozzina di giovinotti, cugini, compari, compaesani almeno, arrivano essi pure a braccetto, qualcuno vestito del cappotto militare. E i discorsi si allargavano, mutavansi i gruppi, dardeggiavano le occhiate. Le sciarpe bianche, le sciarpe rosa, le sciarpe celesti andavano su e giù dal collo alle spalle, dalle spalle sopra la testa, dalla testa lanciate improvvisamente con braccio teso a descrivere un mulinello nell'aria.

Tutto quel piccolo mondo venuto da lontane borgate, da ignoti casolari, si agitava nel bel centro di Milano, dinanzi alla grande basilica, intorno al monumento patriottico senza occuparsi menomamente delle cose circostanti, volgendo le spalle alla folla, chiuso in sè, stretto nel cerchio dei propri interessi, avendo in comune le memorie del passato e le speranze dell'avvenire. Per essi Milano non rappresentava altro che un gigantesco albero di cuccagna dalla preda ghiotta ed appetitosa lungamente vagheggiata nelle veglie fumose sotto il lumino ad olio, accanto al bestiame che fungeva da stufa, lo stomaco piuttosto vuoto; lavoro di immagiuazione alimentato e ingrandito dai racconti di chi vi era già stato e ne pativa la nostalgia, di chi ne narrava i grandi guadagni, il lusso, i divertimenti, le abitazioni comode, il lauto mangiare.

— Tu che mensile prendi?

— E tu?

— E tu?

— Venti lire? Sei pazza. A meno di trenta si rifiuta.

— Io ne prendo trentacinque e il vino pagato a parte.

— Perchè a parte?

— Che sciocca! Lo bevo lo stesso e guadagno cinque franchi di più; anzi, ora che è rincarato, me ne voglio far dare sei.

— E se non te le dànno?

— Li pianto in asso. Anche questo è un guadagno perchè ogni volta che cambio padrone aumento le pretese. Così bisogna fare. Quando mi presento la padrona domanda invariabilmente « Che cosa prendevi prima? » ed io, se erano venticinque, dico trenta, se trenta, trentadue o trentacinque. Allora la padrona è persuasa che tutti pagano quel prezzo, che non se ne può fare a meno. Sbuffa, sospira, ma paga anche lei.

Una risata generale è il corollario dell'interessante insegnamento. Ma lo spirito di emulazione si fa strada e suggerisce altre conquiste.

— Io mi accontento di venticinque ma voglio la chiave della porta per andare alla sera al cinematografo col Pinella perchè lui di giorno non può.

— Questa la voglio anchio: la chiave della porta!

— Sì, sì, la chiave. Viva la libertà! Lo disse anche Garibaldi.

La storica affermazione partiva naturalmente dal gruppo dei giovinotti ai quali sorrideva la proposta della chiave.

Una delle più evolute fra quelle ragazze, una che si era ingegnata di imitare nella acconciatura del proprio capo un ritratto di madama di Sevigné visto in casa della padrona, soggiunse con fare d'importanza:

— Io so di un altro progetto che se riesce non avremo più bisogno di stare qui in piazza a prenderci dei malanni.

— Malanni? malanni? — gridò una ragazzina piroettando su sè stessa, — io prendo aria non prendo malanni.

— Taci tu che sei una ignorante.

Il gesto, il sussiego che accompagnavano tali parole delinearono così nettamente la distanza da creare subito una barriera fra le due servette: al di qua l'aristocrazia di quella ben pettinata e che sapeva: al di là la plebe della zotica villana. Curiosa e interessata la maggioranza si schierò subito dal lato dell' aristocrazia che prometteva qualche cosa e chiese la spiegazione del progetto.

— Si tratta di fondare un Circolo per le persone di servizio dove esse possano riunirsi e star comode, con giornali e libri per la loro istruzione, in un ambiente riscaldato d'inverno, fresco all'estate.

— Ci vorrebbe un giardino annesso.

— Benissimo; ed anche un piano per fare un po' di musica.

— Chi la farebbe la musica? È necessario un maestro.

— Si fa venire il maestro.

— E allora si potrebbe dare anche delle feste da ballo!

— Sì, sì, sì, il ballo!

— Il ballo!

— Il ballo! E invitare chi si vuole.

— Che piacere! potrei mettere allora la mia camicetta scollata….

— Adagio, — disse a un tratto un bersagliere, — è necessario far prima i conti. Alloggio, mobilia, illuminazione, riscaldamento, giornali, libri, piano, maestro…. chi paga tutto ciò?

Un soffio gelato battè l' ali sopra le giovani teste in subbuglio; qualcuna si abbassava mortificata, qualche altra stava ruminando se con un franco al mese si potesse mettere insieme la somma occorrente. Ma prima che nessuno aprisse la bocca la dittatrice del quarto d'ora sentenziò con una sobrietà degna di Tacito:

— I padroni.

— È vero. I padroni perbacco! Giusto!

— È un loro dovere infine poichè lavoriamo per essi.

— E si intende che quando le veglie si prolungassero oltre mezzanotte il giorno seguente non si presterebbe servizio.

— Naturale.

Poichè tutti sentivano il bisogno di dire qualche cosa una giovane cameriera soggiunse di suo:

— E se il Circolo è lontano non sarebbero obbligati i padroni a pagarci la carrozza per il ritorno?…

A questo punto l'attenzione del gruppo fu distratta da due nuove figure apparse fra le aiuole. Donne o ragazze che fossero non mostravano una età determinata; giovanissime no, vecchie neppure, si avanzavano a passetti timidi sporgendo la punta delle pianelle dalla gonna di rigatino con tale fare modesto che parvero addirittura persone di altri tempi. Un breve scialle incrociato sul petto, ricadente in sbieco fra i due omoplati, compiva il loro abbigliamento a fondo campagnuolo ingentilito da una ingenua grazia primitiva che stava dentro di esse inconsapevole. Vedendole un po' imbarazzate ed incerte la capoccia uscì dal suo gruppo per squadrarle meglio e:

— Chi cercate? — chiese alla fine.

Le due si consultarono con una vicendevole scherma complimentosa perchè l'altra parlasse finchè conclusero insieme:

— Cerchiamo servizio.

— Di dove venite?

Nominarono un villaggio che nessuno dei presenti conosceva.

— Avete relazioni qui?

— No, ma siccome non abbiamo pretese….

La capoccia interruppe con violenza:

— Non avete pretese? E allora che cosa venite a fare a Milano?

— A servire per guadagnarci un pezzo di pane.

Tutte risero con sì evidente espressione di dileggio che le nuove arrivate ne rimasero confuse.

— Ho detto male? — mormorò umilmente quella che sembrava la maggiore.

Le risa ricominciarono più allegre che mai; ma la capoccia pensando che il divertimento poteva continuare, interrogò:

— Come vi chiamate?

— Io Affezione.

— Io Sottomissione.

— Che nomi strambi! E chi è quel tànghero che sta alle vostre spalle?

Non lo si era scorto prima perchè piccolo, magrolino, sparuto, quasi attaccato alle gonnelle delle due donne.

— È nostro fratello Disinteresse.

— Cerca servizio anche lui?

— Cerca, quantunque egli avrebbe preferito di restare al paese e venne per compiacenza, per non lasciarci sole in questa grande città.

— Con quel nome che gli hanno dato vuol proprio trovar fortuna!

— Oh! Egli, al pari di noi, non cerca la fortuna. Gli basta di trovare una casa onesta dove gli vogliano bene.

La dichiarazione parve a tutti un tal colmo di stupidaggine che nel primo momento non seppero che cosa dire. Affezione interpretando il silenzio a suo modo, continuò:

— Non è vero che se sappiamo guadagnarci la benevolenza dei nostri superiori ci troviamo in casa loro come in casa nostra?

Un urlo la interruppe:

— Non vi sono nè superiori nè inferiori. Siamo tutti eguali, per questo dobbiamo far valere le nostre ragioni e dei padroni noi ce ne infischiamo. Ve ne sono tanti! Se uno non accomoda, se ne prende un altro.

— A questo modo però si resta sempre stranieri.

— Meglio stranieri che servi.

— Anche i figli — si arrischiò a dire Sottomissione — ubbidiscono ai genitori, ai maestri che ne sanno più di loro, che li proteggono, li difendono, non li abbandonano mai nei loro bisogni. Ubbidire a chi ci ama non è gran fatica.

— Questa gente esce da un baule! — pensò la capoccia, e disse forte: — Sapete che cosa dovete fare? Tornatevene al vostro paese al più presto. Qui non è aria per voi.

— Pure ci hanno detto che alcuni padroni vanno in cerca di servitori zelanti, devoti, di serve fedeli e affezionate. Noi ci prestiamo per poco….

— Ci mancherebbe altro! Via, via, via, spulezzate coi vostri discorsi di miseria.

Altre voci si aggiunsero pronte:

— Ma sì, mandiamoli via questi pianeti della cattiva fortuna che stanno qui a stregare il tempo.

— Via, via!

— Al loro paese!

— Vadano a strigliare i loro padroni!

— A….

— A….

Facevano a chi le spiattellava più grosse. E ridevano! E colle sciarpe, coi fazzoletti, coi grembiali si posero a dare delle cenciate ai tre malcapitati che allocchiti e pesti si allontanarono in silenzio giù per via Torino.

Imbruniva. Un forte vento di tramontana aveva addensato nuvole e polvere sulla città e i passeggeri affrettavano il passo verso le loro dimore spopolando le vie.

— Dove anderemo mai a finire!? — esclamò Affezione con un certo orgasmo.

— Dio ci proteggerà, — rispose Sottomissione.

Il piccolo e gramo Disinteresse trascinando le gambuccie concluse con un accento che pareva quasi ilare:

— Se riesco a mettervi a posto voi due, per me non ci penso.

— E se ci rivolgessimo direttamente ai signori? — propose Affezione.

Veniva alla lor volta una dama vestita di velluto, con due immensi ciottoloni lucenti alle orecchie che a vederli a quel posto bisognava chiamarli brillanti e che fecero restare a bocca aperta i tre villici.

La dama si accorse dellimpressione prodotta e sorrise; quel sorriso diede coraggio ad Affezione:

— Signora, non per comandarle, ma di grazia, vorrei dirle una parola.

Una mano inguantata corse alla ricerca del borsellino.

— Signora, signora, — continuò l'altra ansiosamente, — non le occorre una donna di servizio? o due? o un servitorello?

— E che altro ancora? — fece la dama squadrando con diffidenza gli sconosciuti, — rappresentate forse un'agenzia di collocamento?

— Noi siamo appena arrivati a Milano, non conosciamo nessuno e vorremmo entrare a servizio in una buona casa.

— Ma sapete servire?

I tre rimasero interdetti. Sottomissione si arrischiò a soggiungere:

— Colla buona volontà….

— Eh! la buona volontà non basta. Sai stirare di fino? pettinare? allestire il bagno? ricevere le visite?

Sottomissione si smarriva a vista d'occhio.

— O sei cuoca? Conosci il mercato? Tratti i piatti dolci? O fai di tutto? Lucidi i « parquets »?

— Signora, io non ho mai fatto nulla di questo ma se ha pazienza imparerò, la servirò con zelo, con fedeltà, con amore….

— Inutili, inutili tali cose, non saprei che farmene, Addio ragazze, buona fortuna.

— E nostro fratello Disinteresse?…

— Quel meschino! che figura farebbe dentro una livrea? No, no. (Si allontanò mormorando: Domenico mi ruba a man salva ma almeno ha dei bei polpacci).

— Quella coppia che si avanza a braccetto, — notò Affezione, — ha l'aria di essere più alla mano. Voglio provare con loro.

Il signore era un uomo posato, serio, di mezza età; la signora voleva ad ogni costo sembrar giovane, con due larghe rose sul cappello e un abito in vita. Alla richiesta di Affezione la signora rispose subito con volubilità:

— Non ci occorre, andate.

— Un momento, — prese a dire il signore, — non c'è tua sorella che cerca una donna?

— Ah! è vero ma….

Gettò uno sguardo sprezzante sui vestiti di rigatino:

— …. non sono presentabili. E quelle pianelle? È possibile che nel giorno di ricevimento la domestica apra l'uscio in pianelle?

— Oh! Dio, queste mi sembrano considerazioni ben meschine, soprattutto per tua sorella che ha tanti bambini e le occorrono in casa persone oneste, semplici, quali appunto mi sembrano queste due donne.

— Le informazioni nostre, — saltò su Affezione, — le possono avere dal signor Sindaco e dal signor Curato.

— Sì, sì, — biascicò la signora infastidita, — ma quel fare contadinesco nessuno ve lo toglie. Come si fa ad allacciare un grembiule bianco ricamato su queste figure tozze? E il dialetto?… ora che parlano tutti in italiano!

Il marito si strinse nelle spalle. Disinteresse volle mettere anche lui la sua parolina prima che l'affare cadesse del tutto.

— Le mie sorelle non hanno grande apparenza, è vero, non sono eleganti e non parlano italiano, ma lavorano coscienziosamente, si accontentano di un mensile modesto e non pretendono di farselo crescere ad ogni po'.

— Senti? — sussurrò il marito all'orecchio della moglie, — questa è ancora una virtù antica.

Ma la signora con una smorfia trascinando lungi il marito rispose:

— E che ce ne importa? Quando i servi si fanno crescere il salario noi facciamo crescere i prezzi agli avventori e tutto cammina come dianzi.

Questa volta lo scoraggiamento si impadronì davvero dei tre infelici.

— A chi ci rivolgeremo noi, — pensavano, — se tutti ci respingono, servi e padroni?

Le tenebre scendevano rapidamente, il vento cresceva e col vento un freddo che tagliava la faccia. Stretti insieme, raggricciati, sperduti per vie ignote, col sentimento desolato della loro solitudine, arrischiarono un ultimo tentativo presso due vecchiette che si avviavano pari pari rasente il muro, mansuete negli atti e decorose nelle vesti brune di moda trascorsa.

— Oh! caro Signore! — esclamarono esse tosto che i tre ebbero fatta l'esposizione dei loro desideri, — quanto tempo che non udiamo parlare così! Ci sembra quasi di riconoscervi. Nostra madre, nostra nonna avevano in casa buoni e fidati domestici come voi. Una ci stette quarantadue anni, morì nelle nostre braccia….

La commozione delle vecchiette fece crescere la speranza ai postulanti.

— Ci aiutino buone signore, — disse il giovane Disinteresse, — almeno le mie sorelle, almeno Affezione che è la maggiore.

Tra il chiaro e il fosco il buon ragazzo vide alcune lagrimuccie farsi strada attraverso gli occhi vizzi delle vecchie donne ed una di esse, con voce che appena si sentiva, mormorò:

— Vi benedica Iddio, poveretti! Noi non possiamo prendervi perchè quantunque nate nobili e ricche ci troviamo ora in tali strettezze che i nostri servigi ce li facciamo da noi….

Le due desolazioni si separarono così.

FINE.

La sottana del diavolo Pag. 1

Viaggio di istruzione 22

Due mondi 37

Una citazione 50

Il convegno dei sette peccati 65

In qual modo Pinotto divenne uomo libero 81

Gli occhiali 96

Uno scandalo 110

Un bel caso 122

L'uomo dei palloni 131

Il filtro 148

L'avventura di tre furbi 164

Curiosità e paura 185

Decadi 198

Vecchio walzer 225

Ipotenùsa, va! 241

Come ebbe Filarete il suo giorno di celebrità 257

Zio Napo 272

Piccole virtù a spasso 288