ADA NEGRI

I CANTI
DELL' ISOLA

EDIZIONI A˙ MONDADORI
MILANO

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Copyright by Casa Editrice A˙ Mondadori
1924

Alla memoria del mio buon tratello Cesare Sarfatti questo libro è dedicato.



Ho male di luce, ho male di te, Capri solare. Oh, troppo belia, oh, simile all'onda sul capo del naufrago. Ma forse ai miei occhi non sei che un raggiante capriccio del prisma, una dorata nuvola emersa dal fiato del mare?… No. Sento il tuo cuore che vive, che batte, in un cavo di roccia del Pizzolungo; e guardia dal mare gli fanno i Ciclopi che mai non conobbero il sonno; e dal monte le lance dell'àgavi, e, immote, da torri di rupi, pupille di falchi. Guizza ancor lungo i fianchi dei tre Ciclopi, e sfavilla la lucertola azzurra che nacque al tuo nascere, o Capri. Sacra al tempo, ella è maga, sovrana del sortilegio glauco. Perfida come l'acqua che intorno agli scogli in cristalli multisplendenti s'indura, dissolti da un tuffo di remo, s'io l'afferro mi sfugge e m'irride, lasciandomi agli occhi il barbaglio. Azzurra è la tua follia, Capri, nube del mare. Azzurro il canto eterno di che tu colmi i cieli. S'io debba morire di te, dammi la morte azzurra. Chi fu mai, che dall' alto del muro mi gettò tre rose vermiglie? … Miravo, passando, il rosaio scalare il muro come un amante dai mille cuori per mille amori, cuori malati di troppo sangue: ed ecco, una mano dall'alto mi gettò tre rose vermiglie: per la fede, per la speranza, per la gioia che ancora non so. Fanciulli dell'Isola, in grazia, cercate per strade, per boschi, per campi colui che dall'alto del muro mi gettò tre rose vermiglie: conducetelo a me, ch'io lo veda, e gli dica ch'egli è mio fratello: e mangi con lui pane intriso di sole, e beva acqua di libertà. Così basse le stelle sul capo, che par mi vogliano incoronare. Se alzassi a pena — per gioco — la mano, forse le potrei toccare. Ma non ho forza d'alzar la mano: l'aria sa troppo di rose bianche. Rose e stelle si guardano, fisse, con occhi immensi di donne stanche. C'è così poco fra loro: un po' d'aria: solo un po' d'aria; e non posson baciarsi. C'è così poco fra me e te: un po' d'aria: solo un po' d'aria; e non posso baciarti. Tu sei nascosto; ma la tua vita chiama nell'ombra i miei sensi veglianti. Il mare è nascosto; ma il suo respiro empie la notte di tutti i miei pianti. Solaria, il vento del sud scrolla e devasta il tuo pergolato di glicini. Ne piombano a terra i corimbi, chicchi violetti di grandine, pesanti d'un peso di morte. Così a te traboccan dagli occhi, nell'ora del torbido amore, le lacrime; ma non si raccoglie il pianto d'amore, non si raccolgono i fiori caduti del glicine. Il mare, tuo re, magnifico amante, ti donò una cintura di giada che cinse egli stesso a' tuoi fianchi, Solaria, regina dell'isole. Nella sua gemmea sostanza, secondo i capricci del sole, s'incastonan le perle del pianto, e i diaspri della passione, e gli smeraldi della speranza, e le ametiste della nostalgia. E t'imprigiona e ti solca e a volte ti riga le reni di sangue; ma tu non puoi gettarla: la chiude, geloso, il suggello del tuo signore. Non v'ha forza al mondo — ne soffri e ne godi — che spezzi il suggello d'amore. Or cercherai riposo, sotto i carrubi: chè gli occhi t'ha resi folli il sole dell'Isola folle. Ora gli occhi tu chiuderai, sull'erba: fin che l'abbaglio sia spento. Non sapevi che la bellezza fosse sì gran patimento. Agli aromi che intridon la macchia, per dormire, chiederai grazia: questa è terra senza pietà, di troppa delizia ti macera e strazia. Voci che amavi, che t'eran sì dolci, sì necessarie, laggiù, al paese: voci del sangue: non son più tue, non ti chiaman più. Questa è terra senza pietà, ti ruba a te stessa, ti svuota della memoria, poi, con una risata di sole, ti scaglia a mare, consunta scoria. Se vuoi salvarti, vattene. — Domani sarà troppo tardi. Ma forse non vuoi salvarti. — Taci, allora. Abbandónati. Ardi. Fra l'erbe dàn sangue i papaveri, glierli tutti non posso, e quelli che colgo, morendo, mi si ragg sul cuore. Ma cento ne strappo e cento ne sgorg l'Isola intera zampilla di rosso: chi l'ha ferita di coltello, chi l'ha ferita more? … Se il libeccio trascina le nubi per i capelli, e ti squassa da Monte Tiberio a Punta Carena, e dai due golfi ti minaccia il mare; o se l'azzurro ti circonfonde, e non sai qual sia il mare o sia il cielo, Isola della mia gioia, io palpito in te come sul ponte d'una vasta nave. Va con ciminiere fiorite di rose, con gómene e sàrtie di verdi liane, va col mio cuore d'evasa pulsante fra l'onde e le stelle su prora di sogni, nave corsara della bellezza, pel viaggio donde io non ritorni più!… Per la strada rupestre scendevo, verso la spiaggia delle Sirene, e vidi che i rovi e i pinastri camminavano con me. Taciti volti, scavati dal tempo, protesi nel vuoto incolmabile, vidi che i picchi dei monti camminavano con me. Anche il cielo d'un torrido azzurro, anche i massi digradanti al mare si misero a camminare, e tutto camminò con me. Nel mondo fu, solo, quel cerchio, roteante su aperte voragini d'aria e d'acqua; ed in esso, perduto, il mio piccolo cuore con me. Sentìi che cadevo, giù giù negli spazii; e forse gridai, ma di gioia: perchè nel fondo tu eri, nel fondo mi avresti ripresa, Signore, con te. La luna scende in giardino per le scale della pallida sera: è tutta bella, le nubi la velano, la brezza la scopre. S'attarda dietro il cipresso, s'aggrappa all'àgavi e ai fichi d'India, stende trine leggère sui viali, lega le fronde con fili d'argento, nell'ombra screziata di raggi crea e dissolve danze di gnomi, con le perle della rugiada sfila e infila collane di sogni. So che sul mare è nata una strada, una bianca strada, per chi vuole arrivare la notte alle reggie di Dio. Vada chi vuole sulla bianca strada, vada chi vuole con barca e con vela: a me piace restare in giardino a giocar con i raggi e con l'ombre. Due stelle — sole — accanto alla luna: due larghe pupille serene. Dove sei tu, che mi amavi, e mi dicevi:— Dinin, mio bene?… —



Contro la porta chiusa, grovigli di rose canine: dentro, tre palmi di terra, e un càctus con grappe violette armate di spine. C'è, anche, un geranio. Sgorgò da uno spacco, per uno scherzo dei vènti. Adesso è il padrone: crepita, in tutti i suoi tizzi ardenti. Vorrebbe il càctus bruciare a quel rogo; e striscia e s'abbarbica, con ansia muta, mordendo la terra. V'è un muro di rose contro la porta. La chiave è perduta. Se quella porta s'aprisse, con la tua Ombra là dentro sostare vorrei, nè più udir voce d'uomini, voce di mare. Striscerei verso te, contro te, come verso il geranio di bragia del càctus le spire: barricherei la porta, col mio amore cangiato in rosaio, per non lasciarti partire. Dalla tua Ombra saprei, finalmente, se è vero che hai detto il mio nome in punto di morte: oh, non puoi non aver detto il mio nome. Rose di porpora, ne ho piene le braccia, sulla tua tomba le vorrei portare: ma la tua tomba è di là dal monte, la tua tomba è di là dal mare. Rose di porpora, le lascerò, grandi e stanche, sfogliarsi al mio piede: poichè tomba verace io ti sono, io ti accolgo e ti confesso in fede. Passo passo m'accompagnate lungo i giardini dell'Isola, fiori, soavi fiori, e tanti siete, e diversi, e sì belli ch'è vano chiamarvi per nome, fiori, soavi fiori, ed io non oso toccarvi, tremando di offendervi pur col mio fiato. E pure, voi, labbra dischiuse, voi, carne vivente e splendente, parole mi dite, delizie mi date che sin nell'occulto mi turbano ove solo potè col suo amore l'uomo che solo ho amato: fiori, soavi fiori, quando fra quelle braccia morire mi parve — e la vita fu. Nutrita di roccia, tu affondi nella roccia le tue radici e t'è impresso sul volto di fiore il mistero della madre pietra. Splendi in aprile come un disco d'oro, trascolori sulfurea nel maggio: l'arsura del luglio ti veste d'un drappo vinoso, di baccante ebra. Innamorata del fico d'India, dalle innumeri mani in preghiera, per lui disvellerti al sasso che t'è parte viva non puoi — nè esso può; e ti dilati, impura, gonfia di tossico, nel desiderio vano. O velenosa, sei bella; ma niun s'attenta a toccare i tuoi fiori perfetti. O solitaria, io conosco fra gli uomini un deserto ch'è simile al tuo. O alta sul mare, un cuore io conosco ch'è più in alto e più triste di te. Ho un tulipano viola, d'un viola intenso, chiazzato di nero. È il tuo gemello, bambina che vidi quest'oggi ruzzar sul sentiero, piccola, smorta, in tunica viola, d'un viola intenso, con la zazzera nera scomposta sui neri occhi dallo sguardo immenso. Quando l'estate fende le pietre su gl'irti fianchi del Castiglione, la sua vetta ha tre corone, tre corone di ginestre. L'una è d'orgoglio, l'altra di gloria, terza è quella della passione: le accende il sole, le difende il mare, cantano in esse i vènti: e non t'importa il dolore delle piaghe nei fianchi violenti, o Castiglione, se hai tre corone, tre corone di ginestre. Dolce nella memoria, mattino di festa, che in Capri io trovai fiorita la chiesa di fresche fanciulle! … Cantavano: «Stella maris, rosa mystica, virgo pia»; e ciascuna teneva una rosa in mano: alta e dritta sul vivido stelo, qual cero splendente. Taciuto il coro, ogni rosa benedisse il ministro di Dio con le stille del sacro aspersorio; e in ogni rosa la fede che la porgeva; e l'arbusto donde amor la recise; e la zolla che il primo seme ne accolse; e la casa serena che accanto le sorge; e i padri, e i figli, ed i figli dei figli nel tempo. Non rosa avevo io da offrire; ma il mio cuore, o Signore. Sbocciò d'un tratto; e da quel giorno il mio cuore ha profumo di rosa.



Uomo dell' Isola, tu la tua casa hai costrutta con spasimo vivo di roccia sulla montagna che guarda il mare d'Ulisse: candida e nuda tu l'hai costrutta, con archi lunati pieni di cielo. A picco sul mare d'Ulisse spalancate tu hai le sue logge per meglio affondar nell'immenso i tuoi occhi di gemma turchina, uguali ai duri smalti che finge il Tirreno intorno agli scogli. Il tetto antico d'àstrico imposto a l'eccelsa tua casa tu hai; e dodici uomini, a batterlo, secondo il costume, chiamasti; e vennero i dodici uomini, pel rito, con ferree mazzòccole. Sotto la furia del sole calcaron, tre giorni, nel grigio cemento l'ardente lapillo, «Morena, mia Morena, aaaah, ooooh!….. » scandendo sul battere alterno il canto ebro, signore dei cieli: « Morena, io per te moro, aaaah, ooooh!… » Consacrata così la tua casa al nume solare e marino, in essa, a colloquio con tre solitudini, l'acqua, la terra e il vento, tu vivi, Uomo dell'Isola: che il mondo hai percorso, ma qui le radici affondi: e non ami nessuno, ma sol la tua terra tu ami, sol d'essa godi: nè pensi alla morte: chè uscito tu sei dalla stessa matrice di roccia di che la tua casa hai costrutta; e, salso ed amaro, nelle vene, ti scorre il Tirreno.

« Sicut lilium
inter spinas
»

Viandante, se vai fino a Punta Tragara, argentea d'ulivi, prendi, a sinistra, un viottolo scavato a scaglioni nel sasso. Aspro; ma verso il mare tutto oro di folli ranuncoli, verso il monte tutto ombre di mirti, e pensoso amaranto di cardi. Ti condurrà alla casa che risponde, marmoreo silenzio, ai silenzii dell'aria: a quel cancello un giorno tremando io bussai, mendica d'eternità. Non si dischiuse il cancello, ch'è armato di lance di ferro spinose convergenti ad un cerchio ov'è infisso, prigioniero del sogno, il mio cuore. Non liberarlo: esso è il giglio vermiglio, che scelse il suo cerchio di spine, e là, soltanto, è felice: i monti dall' alto, dal basso i marosi gli favoleggian dell'alba in cui l'Isola apparve, virginea, su l' onde; e il vento gli porta, con murmuri densi di bosco, lo strido dell'aquila.
Nell'alta Anacapri, sorrisa da lucenti vitiferi colli, scopersi, fra boschi d' ulivi, una casa ch'è detta Il Rosaio. Qual le dia il nome, ignoro: tanti intorno le sboccian roseti candidi e gialli; ma forse è il purpureo, che il muro a levante inghirlanda; e pur nell'inverno ha potenza di fronde e di fiori. Casa nomata Il Rosaio, oh, bene io vorrei fra i tuoi orci d' argilla freschi al tatto nel portico basso, raccogliermi in giorni di pace. Ma non m' è dato. Restare non può nella casa nomata Il Rosaio se non Criseìda la schiava, di quindici anni: che intreccia sulla soglia gli ondosi capelli, nell'ozio, spiando con occhi di smalto se dalla spiaggia o dal colle, duro al comando, dolce all' amplesso, torni il padrone.



Voce che mi chiami, che mi dici: Svégliati: voce di bocca invisibile, di casto invisibile amore: voce che sorgi dal sogno, ma sei della terra, e più dolce mai non udìi: son pronta: ti seguo: spalanco il balcone. E l'alba color d'ametista mi arride dal tremulo mare, con cenni di nuvole rosee mi riconosce dal cielo, con fresco silenzio di fronde a me sospira dagli orti. Nasce l'Isola bella con me dall'innocenza dell'acque, nasce l' amore con me per le divine beatitudini, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Chiesi all' alba: Per quale prodigio ti sei svegliata così serena?… —Sorella—rispose—stanotte dormivo accanto alla luna piena. — Per quale celeste comando, così fresca, riprendi la strada? … — Sorella — rispose—stanotte io mi tuffavo nella rugiada. —Chi tesse, nell'ombra dei cieli, i tuoi veli di pallido argento? … —Una stellina ignota, la più piccola del firmamento. Così errammo pel monte, cantando, empiendo di fiori le mani: a un tratto ella sparve, nel sole, per tornare, più bella, domani. La luna stilla un suo pianto d' oro nel mar di viola: tacite lagrime d' alba, tristezza di partir sola. Ad una ad una le stelle sono scomparse lontano: tristezza d' aver camminato tutta la notte in vano. Si piega, sempre più stanca: affonda, sempre più smorta: tristezza, innanzi alla vita, sparire senza esser morta. Pur le conviene obbedire al Sommo che la governa: nel vuoto che non perdona, tristezza d' essere eterna. Sommesso gorgheggio d' uccelli, nell' ombra più pallida. Ancora un giorno, o mia vita, ancora un giorno. Aprirsi di pupille arboree, brividire attonito. Per la tua speranza, per la tua salvezza, ancora un giorno. Forse oggi udrai la parola che già disperasti di udire, compirai l'atto che più non credevi da te esser compiuto: vittoria avrà il segno nel quale combatti, avrà fine il patire: se tu cammini col tempo, nulla è perduto. Fra poco il pallore dell' ombra sarà gioia ardente di raggi, e saette di voli, del sole al ritorno. Riprendi te stessa, o mia vita, e sii tutta presente: per il tuo passaggio, per il tuo coraggio, ancora un giorno. Tu che ti levi affranta dal tuo letto senza riposo e lasci dietro di te la tua notte senza speranza giungi le palme a coppa, tuffale nella rugiada, fanne lavacro agli occhi, lavacro all'anima. Freschezza della rugiada, refrigerio più dolce del bacio materno: ogni convolvolo è coppa di rosea rugiada, il mare immenso è coppa di rosea rugiada, senz'orlo. Monte Solaro s' apre come un ventaglio roseo, sospesa ogni forma è nell'aria come nel sonno sognata, l'aria è felice — e non sa del tuo pianto notturno. Oh, smemorata e fluente alla luce, tu pure, tu pure!… Verrà, fra poche ore verrà l'ombra che chiude i convolvoli, e te ricaccia sul letto di rovi con la bocca contro il guanciale, perchè tu sola ti senta piangere. M'apparve stanotte una stella sì viva, sì grande che specchiava il suo volto nel mare, come la luna. Forse era il volto materno, il segno della fortuna. Mai sorrise più fulgido fiore fra le sideree ghirlande. Capri, so che tu attiri le stelle nel grembo fragrante de' tuoi mirteti; e, fra i baci, fino all'aurora le celi. Vo' cercando (ch'è presto l'aurora) quella che vidi sì sfolgorante; ma in vano. È fuggita la stella: è scomparsa nei cieli. Presa e ben stretta l' avessi, stanotte, nella mia mano!… Levata come una lampada, andando andando senza sostare!… Forse condotta m'avrebbe — di là dalla terra e dal mare — fino a Lui, che sta troppo in alto, troppo lontano.



Baciai la còccola del cipresso, nell' ombra del cipresseto: gioiosa, la còccola fulva mi donò, per il bacio, un segreto. Or che chiudo il segreto degli alberi nella bocca dolciamara, più non sento col piede la terra, e tutta la vita m' è chiara. Ora posso vestirmi di foglie, e ridere e piangere, leggera, col vento: vestirmi di nube, e rincorrere, sotto la luna, i cirri d'argento. Riconoscere il volto mio vero in gocce di pioggia, in gocce di luce: essere, o uomo, il pane che mangi, la speranza che ti conduce. Salutarti col verbo divino, braccio che zappi, seno che allatti, bocca che canti, casa che sorgi; e passar oltre, col passo lungo dei camminanti. Sette fiammelle di barche, che vanno a pescare: L'Orsa Maggiore è caduta, è caduta nel mare. L'Orsa Maggiore cammina nel chiaro di luna lungo i sentieri dell'acque cercando fortuna. — Sette fiammelle dell' Orsa, che andate a cercare?..… — Donna, cerchiamo un fanciullo perduto nel mare. Forse non è più nel mare, è nella montagna: forse a quest'ora dorme, all'ombra di Matermagna. Noi chiederem la sua grazia alle bianche Sirene: come può viver la madre che ha perso il suo bene?… — Se quel fanciullo trovate per cale o per grotte vi darò tutte le rose sbocciate stanotte: vi darò tutte le perle che in grembo alle foglie fino al mattino la fresca rugiada raccoglie: vi tesserò col mio canto la magica via che vi riadduca fra gli astri, lassù, in compagnia. Sette fiammelle di barche, che vanno a pescare: L'Orsa Maggiore è caduta, è caduta nel mare. Tessitrice, che in ordine lento le sete e i colori disponi al telaio augusto — e ti veglian le rocce, e ti fa ombra un rosaio: che a intrider di sole e di luna le tele sulla riva dei naufraghi, adduci e riadduci la spola guizzante tra fili d' oro, fili di luce: tessimi il drappo dell'ultimo sogno, tessilo saldo, tessilo bene, che vi sia dentro, tramato in porpora, tutto l'intrico delle mie vene. Tessilo di risa, tessilo di pianti, e di quel nome che in cuore ho sepolto: ch'esso mi vesta sin quando io viva, che nella morte mi copra il volto. Non eran che vani fantasmi, sospesi nel vuoto, le rupi sireniche, e sotto il piede non terra, non pietra, ma aerea sostanza di nube. Bianchi vapori, polvere d' astri, ondeggiarono intorno alla luna, formando e sfacendo ali e tuniche d'angeli, sideree scale, reggie di sogno: d'esse, nel pallido incanto, io regina, voi re. O roseodorata!… Dove io mai vidi sì piena, sì fulgida carne?… Non oso sfiorarti, per tèma d'una pronta vendetta del sole. Tu respiri: l' amplesso del sole ti riga di brividi lunghi, e nessun volto di donna, riverso nel bacio, ardendo e godendo sorride come te, roccia del Monte Solaro, amante amata. Così voi raccontaste, ed io tremai nell' udire, mentre la voce marina, rompente agli scogli, diceva di sì. (C' era una gioia e un tormento in quell' andare e venire dell' onde: una gioia e un tormento in quel dire di sì). — Da questa spiaggia, nel tempo lontano, all'alba d' un limpido giorno, i pescatori di Capri partirono a pesca, per lieto ritorno. Ma un loro pianto nascosto piangevan le donne accanto alle cune, accendendo la pia candeletta alla Madonna delle Fortune. La notte, i marosi assaltarono il cielo, il cielo piombò dentro l'acque: e fin che non ebbe l' ultimo uomo, non risalì il cielo, il mare non giacque. Qui calaron le vedove, in torma, clamando, imprecando al cielo ed al mare: poi — coi giorni — ripreser, placate, a tender le reti, a cucire, a filare. Non vi spiaccia: chè sempre una barca vi sarà che a una secca si schianta: sempre, a riva, una donna (gran festa di schiume, oggi, al sole! …) che piange, poi canta. Così voi raccontaste, ed io tremai nell' udire, mentre la voce marina, rompente agli scogli, diceva di sì. (C' era una gioia e un tormento in quell'andare e venire dell'onde: una gioia e un tormento in quel dire di sì). Alta la scalinata di Torre Saracena nel mio ricordo, fra il cielo e il mare antico. Il mare antico dei naufraghi canta e si rompe d'amore contro la scalinata di Torre Saracena che non l'ascolta; ma ascolta divine parole dal cielo. Alta la scalinata di Torre Saracena: vi ascende, fra due azzurri, la mia felicità. Non so che livido volto mi mostri oggi Monte Tiberio, inciso di cicatrici, saturo d' odio, forse d' amore: il volto di colui che fu per uccidermi, un giorno. Ove è colui che un giorno fu per uccidermi, perchè mi amava? … Ch'io tremi ancora al suo fiato geloso, ch'io svenga in quel brivido. Carcere duro è l' Isola ov'io mi credetti aria ed ala: l' alte rocce son mura di mastio, impervie: sul mare cinereo non onda, non vela, non varco, non remissione: — e pur sento, malfida Capri, ch' è dolce, troppo dolce esser vinta da te. So che domani riderai, perduta nell'azzurra follia del maestrale. Così ignuda sarai, che i tuoi roseti segneranno le vie delle tue vene. Riderai come donna innamorata sotto il crosciar frenetico dei baci. Saliran fino al cielo le tue risa, fino alle grotte s'inabisseranno. Grotta Meravigliosa, Grotta Azzurra, Grotta di Matermagna, Grotta Verde, solchi scavati dalla passïone del mare nella tua carne di luce: ch'io mi distempri in luce, ch'io non sia che un barbaglio di gocciole nel sole, e in ogni goccia l' universo viva!…



Non credevi soffrire così, donna, ancora così, col torbido cuore pesante entro il torbido corpo. Con la certezza che il male è senza rimedio, e quasi ne godi. Con lo spavento che altri lo sappia, e ti possa irridere. Oh, tanta vergogna ne avresti, che meglio esser morta. Ma — o donna — orgoglio è in te di soffrire ancora così, perchè un tale dolore è dolore di giovinezza: e tu sei pronta alla morte: alla rinunzia, no. Pallidi son gli ulivi dell' uliveto al monte: a ognuno ho dato un nome e a quel nome risponde: nel mezzo sta il più grande e tutto sa di me. Tutto di me gli dissi, un vespro che la luna sorgeva, tonda e pura come l'Ostia Eucaristica, dal mare immoto; e tanto piansi, che da ogni lacrima sbocciò per compassione una tenera foglia. Tenere foglie, trame di perla, succhi d'anima, voglio ascoltar quest'oggi la vostra aerea musica. Voglio dormire all' ombra di tutte le mie lacrime: oh, così chiara: velo d' argento, ombra di nuvola. Ulivo, padre Ulivo: tu mi vedi: non posso viver così, di nulla: di nessuno, senza nessuno, senza amar, senza odiare, non più serva, non più donna. Tu lo sai: se ho peccato, fu per amore: or dimmi tu la parola estrema che ancor mi sia d' amore, e ch' io ti muoia ai piedi: raccoglimi tu, padre: fammi radice in terra ch' è tua, linfa nel tronco. Voglio dormire all' ombra di tutte le mie lacrime: tenue ombra, e senza viso come l' oblio: suprema grazia, l' oblio: clemenza suprema, ombra di Dio. Fra gli ulivi, fra gli ulivi, in un giorno di nostalgia, con le sorgenti del pianto il mio paese rinacque in me. Dissi al cuore: Del dolce paese conviene riprender la via: cuore ch' è in terra lontana cuore vivente non è. Ma gli ulivi, ma gli ulivi, con cenni di braccia paterne, con murmure buono di fronde mi chiedettero: — Perchè? … — Scava nel suolo, e cerca del paese le radici eterne dovunque è un' ombra d' albero che si raccolga su te.



Alla memoria
di Luisa Vismara

Dama Luisa, che alla mia lontana adolescenza così dolce fosti che la dolcezza avea sentor di fiori: e quando a te mi tolsero le vie del mondo, sempre in cuore ebbi fragrante quella dolcezza, e mi durò la voce grave, d' organo, in fondo alla memoria: dopo tant'anni, ti ritrovo: dolce qual' eri, e solo un po' più curva: nella casa romita che somiglia un' ala sospesa sulla libertà del mare. Qui, per la gioia de' tuoi anni estremi, ti condusse per mano il buon figliuolo: quegli che più degli altri amasti, e pure tutti eran cari al faticato grembo: quegli che un giorno, nelle umili stanze ch' or sembran di leggenda, in Santa Marta, strano fanciullo solo in te perduto, t' adorava in ginocchio: e adesso, forte tra i forti, bimbo è nel tuo bacio ancora: chè tu, per lui, morta non sei; ma resti soave in Casa Dòmina custode. Occhiserena sotto la cuffietta nera, di trina, e i ferri tra le dita che mai del saggio oprar furono stanche, mi guardi; ma non mi ravvisi più. Foschi, allora, i capelli, come grappoli di mirtillo: ricordi? … e lampeggiante di giovinezza il volto. — Oh, tanto piangere, sai, da quel tempo: e tanto errare, e tanto offendere la vita ch' è sì bella e grande: ed ecco, ora son qui. Non dirmi nulla: tutto è ormai detto, ed è compiuto. Ma non io sola cercherò la pace e un rinnovato albor d' infanzia nella tua carezza, o Beata. Altri verrano. Verranno a Casa Dòmina in Tragara, rifugio estremo, i naufraghi del sogno, com' io già venni, dalle tristi rive. Affranti: e qui ritroveran la vita. Orfani: e qui ritroveran la madre. Per il lungo tormento e il pianto vano ciechi nel cuore: e dal tuo cuore assunti alla luce che vince ogni altra luce. E sarà il mare un prato d' asfodèli.
Oh, tu, figlia! … Oh, tanta terra e tanto mare fra noi!… Quando fu mai, fra noi, tanta terra e tanto mare?… E come puoi vivere senza di me?… dimmi che non puoi! … Saprò forse allora strapparmi all'incanto, lasciare l' Isola dolce. — So, ch' essa è sogno: ch'è vana parvenza di sogno. Sparire potrebbe, così, all'improvviso, nei flutti, o nel gorgo solare; e, con essa, la mia demenza … Serro su gli occhi le mani, per salvarmi; e nel cuor ti ravviso. Sei sulla terrazza, in tunica bianca: allatti la tua Donatella. Sole velato su lei, su te, attraverso le grappe e le fronde del glicine. Vien da San Bàrnaba, ingenuo, un canto di campanella: letizia materna ti penetra col succhiar della bimba, a grandi onde. Altro non sai, nè chiedi. Ti basta la tua purità. Ala fanno i capelli sul volto, perduto nel volto che gli somiglia. Raccolgono gli occhi la luce del cielo sulla diletta, che ride e non sa. Così, in cuore, ti penso — e mi salvo—giovine madre che sei la mia figlia. Tornerò: non temere: quando l'ebbrezza sarà caduta. Tutto cade: il fiore ed il frutto, la bacca e la ghianda. Tutto ritorna: l'ala alla terra, la barca alla riva. Mi rivedrà la casa ove tenta i suoi primi gorgheggi Donata, ove Mikika ronfa, vibrando il dorso arcuato sugli embrici al sole. Lasciami vivere, adesso — chè breve è il mio tempo — negli orti d'oro. Viva forse non fui, se non ora: nè pur quando i fianchi tu mi rompesti nascendo, e fosti la mia Primavera. Un altro maggio è qui, ch'io ignoravo splendesse nel mondo. Dio m'ha condotta negli alti luoghi: che in essi io m'esalti di me: ch' io tocchi le cime: ch'io beva alle fontane azzurre. Ch'io mi vesta tutta di rose, e dia sangue d'amore alle spine. Un giorno, chi sa? … nell'anima stanca mi pungerà desiderio d'un campo arato di Lombardia, fresco di solchi, fumante e bruno nella nebbia filtrata di sole: allora al paese verrò, per ritrovarti verrò, bruna e feconda come quel campo. Es'io non tornassi? … Lontana da me, fra siepi di fior d'ogni mese serena tu andrai dove il giovine amore ti chiama, con Donatella al fianco, e tu al fianco dell'uomo in cui guardi. Due volte alle madri è reciso, per legge di vita, il cordone del sacro umbilico: nel travaglio glorioso del parto, e dopo vent'anni. Diverse sono le strade, se pur uno ed uguale è l'amore, o figlia; ma sempre al mio pianto tu sei quella che in grembo nascosta per nove mesi io tenni; e baciavo la carne mia dolce, per te baciare; e di nessuno tu eri — nè pur del tuo padre: — solo eri di me. — Canta, streghetta. — Così pregava; e tu, coi fili della tua voce, coi fili de' suoi capelli tessevi una rete d'incanto: immerse le dita sottili nei riccioli, come su corde d'arpa, a quei brividi lunghi ritmavi il tuo canto. Era un antico canto della Bretagna, intriso di salsedini marine e di lacrime senza fine, una nenia di culla e di bara—tutto e nulla. Bassa e calda la voce come una confessione, e ad ogni nota più pallido il viso, e più addentro le dita nelle dorate chiome: canto oscuro, simile a te, modulato a ninna-nanna sul capo dell'Adolescente più bello del figlio del re. … Streghetta, quel tempo è passato. Lungi dorme l'Adolescente ch'era più bello del figlio del re. Niun destare può il Dormiente, chè eterno è il sonno sovra il Col d'Èchele. Grumi di sangue fra i bei capelli. Grumi di pianto nella canzone che più non canti (io sola quel tempo ricordo, e la voce bassa e calda, di confessione):

« Dors, mon petit gas…. »

Disse la madre: Lasciate socchiusa la porta, ch'egli verrà. Fu lasciata socchiusa la porta: egli entra, disceso dall'eternità. Per strade di neve e di fango gli fu guida la stella in cammino nei cieli sol quando rinasce, dentro una stalla, Gesù Bambino. Riaccosta l'uscio in silenzio, appende in silenzio al gancio il mantello (fori e bruciacchi di schrapnell nella divisa ridotta un brandello); ma ben calca sugli occhi l'elmetto, che la fronte non sia veduta, e siede, al suo posto, nel cerchio della famiglia pallida e muta. — Mamma, perchè non ti vedo la veste di raso dal gaio colore?… — È in fondo all'armadio, è in fondo all'armadio: domani la metto, mio dolce amore. — Babbo, perchè così curvo, perchè tante rughe intorno ai tuoi occhi? … — Son vecchio, ormai: vecchio e stanco; ma tutto passa, se tu mi tocchi. — Sorellina dal piede leggero, perchè un nastro nero fra i riccioli biondi? … — T'inganni, ha il color del cielo, ha il colore dei mari profondi. Intanto, dalle campane della Messa di Mezzanotte gigli e gigli di pace e d'amore fioriranno nella santa notte. Ed ecco al « Gloria » drizzarsi nell' alta e sottile persona il soldato, togliendo dal capo l'elmetto, piamente, con gesto pacato. Scoperta arderà in mezzo al fronte l' ampia stimmate sanguinosa: corona di re consacrato, fiamma eterna, divina rosa. Ma sotto il diadema del sangue egli il capo reclinerà come chi nulla ha dato, come chi nulla avrà. Bimba, che entrando nel mondo svelasti a tua madre la vita-vivente come ella a me, nel tempo in cui ero, più che anima, carne: non somigliano ai nostri i tuoi occhi, color degli stagni nell'ombra: altro è l'arco della tua fronte, altro il segno del tuo futuro. E pure io so che un giorno ti splenderà in bocca il mio riso ventenne, e, in un gesto, in un bacio, in un balzo di chiaro odio, di chiaro amore, nello zampillo d' un canto risarai la fanciulla ch'io fui. Forse l'opera bella che chiusa restò in me, mal viva, mal morta, tu compirai nel sole, per alta sapienza di Nostro Signore. Così la mia madre gaudiosa passò nelle vene a tua madre: in te, così, mi prolungo: e tu, quando giusto sia il punto, ne' tuoi figli e ne' figli dei figli: e niun seme verrà trascurato e niuna forza dispersa: e chi muore vivrà: e in questa certezza io ringrazio te d'esser viva e mia, se pure, infinito, ci separi il mare. Il gran corale del luglio sale in clangori di trombe d'oro a tua gloria; ed il mare ti cinge di fiamme, o tirrenia Walkiria. Io chiudo gli occhi; e penso, fra campi di lino turchino, grave di pianti d'organo, un sagrato di chiesa lombarda. Ombra gli fanno i platani, fresca l'erba gli arride fra i sassi: la neve d'inverno lo ammanta d'immacolata pace. Nel ricordo, nel desiderio, un tetto rosso, un lastrico grigio, lucenti di pioggia. Dolce pioggia senza vento, dolce brusire sul tetto e sul lastrico. Oltre il tetto, la cima d' un olmo gorgheggia per stormi di passeri che senton vicina la sera; e tu ignori, tu ignori qual sia più lontano, più caro e più triste al tuo male di nostalgia, se il brusir della pioggia sugli embrici o il gorgheggio rissoso dei passeri. C'era un mandorlo, che fioriva ogni aprile, in un orto ch'io so. Quando era tutto un biancore, le nubi, dall' alto, pensavano che una d'esse fosse caduta. Intorno, case di poveri con logge garrule, e stracci appesi ai ferri; e un gran ridere nei cortiletti, di bimbi; e suonar d'organetti, al crocicchio. Contar volli i fiori del mandorlo una volta (ero innamorata!) Ma forse si contano i bimbi dei poveri, i baci, le stelle del cielo, le gocce di pioggia? … Morto è l'albero di giovinezza, e sta per morire il mio cuore. O aprile, non fare ritorno: vano è il tuo ritorno, se chiusi per sempre son gli occhi del mandorlo. Leggero, il sonno mi portò lontano. Così lontano, ch' io non seppi più ove mi fossi: bianca era una strada fra case basse, sotto nubi e nubi grigio-moventi: senza nome e senza fine la strada, e senza ore il tempo. Ed aveva ogni casa un uscio aperto su uno scalino; ma nessun sedeva al limitare, e il vano era sì fosco che mi parea la bocca d'una tomba; ed il silenzio sì profondo, ch' io pietra credetti essere ormai, fra pietre. Ma camminavo; come si cammina nei sogni, non staccando dalla terra il piede. Ed ecco, sulla sesta soglia un uomo apparve. E riconobbi il figlio di mia madre in quell'uomo: il triste figlio per cui tanto ella avea sofferto in cuore. Disse: — Come ancor sei giovine e salda!… Ben, di noi, la più forte: tu, che hai nervi d'acciaio, e bianco lampeggiar di denti fra le quadre mascelle, e in te portasti il coraggio senz'ombra e il sangue sano di nostra madre, e il suo gioir di tutto. Io fischiettavo al buio — ti ricordi?… — per non sentire il fiato della morte. Annegavo nel vino — ti ricordi?… — la mia paura di morir trentenne. Vegliavo in folli danze — ti ricordi?…— per lo spavento di spirar nel sonno. E la madre dov'è?… Non si sa nulla qui, di chi vive e di chi muore. Ognuno qui è solo, nella sua tenebra eterna. Dov' è la madre?… Non mi amava: amava te. Ma vederla pur vorrei: perdono chiederle, d'esser nato dal suo ventre. Pensa la fredda casa in via dell' Orfane, e l'orto incolto, e i boschi in riva all' Adda, e i tuoi sogni di gloria, e i miei d' amore, tu quasi donna, io quasi uomo, entrambi assetati di mordere al gran frutto. Ma quel ch' io colsi, era già guasto. Ed ora, ora, o sorella … —e più non potè dire: un pianto irrefrenabile, un' angoscia supplice e vana ebbe negli occhi. Ahimè, che la morte per lui non era oblio: sovra un suo bene, a lui distolto innanzi d'esser dato, in eterno egli piangeva. Tesi le braccia; ma non strinsi che aria. Parlar tentai; ma non m' uscì la voce. Quel doloroso volto ondeggiar vidi qual di naufrago emerso a fior del flutto: poscia oscurarsi, e scomparire; e tutto scomparve; — e gli occhi mi feriva il sole. Madre, tu mi chiamavi « mamma » nella tua vecchiezza bambina. Triste nome in tua bocca per me, dolce come le cose sante. A pettinare i tuoi capelli non volevi che le mie mani: candidi fili di purità, tremavo, quasi, nell'intrecciarli. Ma non osai, baciarli non osai quando la morte ti rese sì bella che tutto parve di te risplendere intorno al letto della tua pace. Come pesanti, ora, queste mie mani sul tuo capo sì lievi, una volta. Come pesanti, e pur così vuote, madre — e niuno ti pettina più!… La morte aveva paura della tua fronte augusta. Tempio di casti pensieri, vetta di volontà. Non la turbava un'ombra, non la solcava una ruga, non dal sole traeva fulgore, ma dalla propria bianchezza viva. Avea quattro volte vent'anni, e l'innocenza degli astri che sono eterni e pur nascere sembrano, in cielo, ogni sera. E fu senza morte che andasti, o madre, verso la vita durabile: una notte d' agosto ch' era tutta un gran pianto di stelle. Scendevano, lagrime d' angeli, le stelle, per te ricondurre ai divini silenzii: ove splende sol chi in terra ebbe sete di Dio. Non soffro per te. Nella vita durabile, donde mi guardi, so che un giorno, più vasta del tempo, ritroverò la tua fronte.



Nel paese di mia madre v'è un campo quadrato, cinto di gelsi. Di là da quel campo altri campi quadrati, cinti di gelsi. Roggie scorrenti vi sono, fra alti argini, dritte, e non si sa dove vanno a finire. La terra s'allarga a misura del cielo, e non si sa dove vada a finire. Nel paese di mia madre v'han ponti di nebbia, che il vespro solleva da placidi fiumi: varca il sogno quei ponti di nebbia, mentre le rive si stellan di lumi. Pioppi e betulle di tremula fronda accompagnan de l'acque il fluire: quando ne' rami s'impigliano gli astri, in quella pace vorrei morire. Nel paese di mia madre un basso tugurio sonnecchia sul limite della risaia, e ronzano mosche lucenti, ghiotte, intorno a un ammasso di concio. Possanza di morte, possanza di vita, nell'odore del concio: ne gode la terra dall'humus profondo, sotto la vampa d'agosto che immobile sta. Nel paese di mia madre, quando il tramonto s'insanguina obliquo sui prati, vien da presso, vien da lontano una canzone di lunga via: la disser gli alari alle cune, gli aratri alle marre, le biche all'aie fiorite di lucciole, vecchia canzone di gente lombarda: « La Vïoletta la vaaa la vaaaa ….. » Quando sarò sepolta nel paese di mia madre, là dove la bruma confonde i fertili solchi terrestri coi solchi del cielo, le rane ed i rospi dei fossi mi canteranno la nenia notturna. Dagli acquitrini melmosi, filtrando fra il bianco umidor della luna, in soavi cadenze di flauti, in tremolìi lunghi di pianto sciogliendomi il cuore, blandiranno il mio sonno, custodi della perenne malinconia. Malinconia della patria, con sapore di terra bagnata e di grano maturo con quieto pudore di case ove accendon le madri pei figli la lampada al desco con fumo di tetti, ansare di fabbriche, radici dei vivi e dei morti a me verrà, con me dormirà, portata da canti di rane e di rospi quando sarò sepolta nel paese di mia madre.

ISOLA DI CAPRI Aprile - Luglio 1923.



Solaria:

Il male azzurro Pag. 11

L'offerta delle rose Pag. 14

Notte di Capri Pag. 16

Il pergolato di glicini Pag. 18

La cintura di giada Pag. 19

Stanchezza Pag. 21

Sangue Pag. 24

La nave Pag. 25

Vertigine Pag. 27

La luna scende in giardino Pag. 29

Corolle:

Rifugio fiorito Pag. 33

Per la tomba Pag. 36

Fiori, soavi fiori Pag. 37

Euforbia Pag. 39

Viola e nero Pag. 41

Le tre corone Pag. 42

Benedizione Pag. 44

L'Uomo e la Casa:

L'Uomo e la Casa Pag. 49

La Casa Solitaria Pag. 52

« Il Rosaio » Pag. 54

Canzoni dell'Alba:

Mattutino Pag. 59

Colloquio Pag. 61

Addio della luna Pag. 63

Ancora un giorno Pag. 65

La rugiada Pag. 67

La grande stella Pag. 69

Miraggi:

Il segreto Pag. 73

Filastrocca Pag. 75

La tessitrice Pag. 78

Miraggi Pag. 80

La roccia Pag. 81

La spiaggia delle vedove Pag. 82

Torre Saracena Pag. 86

Scirocco Pag. 87

Maestrale Pag. 89

Ulivi:

La sofferenza Pag. 93

L'uliveto Pag. 95

Il paese Pag. 98

Nostalgie:

Casa Dòmina Pag. 103

Lettera a Bianca (I) Pag. 106

Lettera a Bianca (II) Pag. 109

Le strade Pag. 112

Canzone bretone Pag. 114

Ritorno per il dolce Natale Pag. 117

Donatella Pag. 121

Il sagrato Pag. 124

Lontano Pag. 126

Il mandorlo Pag. 128

Un sogno Pag. 130

I capelli Pag. 134

La fronte Pag. 136

Nel paese di mia madre:

Nel paese di mia madre Pag. 141

Corale notturno Pag. 144

Finito di stampare il 10 aprile 1925 nelle Officine Grafiche A˙ MONDADORI Verona.