ADA NEGRI

LE SOLITARIE

MILANO
Fratelli Treves, Editori
1917.

PROPRIET&AGrave; LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati
per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Copyright by Fratelli Treves, 1917.

Milano - Tip. Treves.

Giornate d'un maraviglioso settembre, al “ Soldo ”. Verde conea di frescura, erbe e fiori di Pratobello, salenti fino alle ginocchia. Orto selvaggio, vegliato dal cipresso nero a duplice vetta. Odor zuccherino di uve, canti di vendemmiatrici, campane dei vespri festivi, che riempivano i cieli della loro grave dolcezza. E il lauro gigante a ombra della fontana, sui rami del quale i nostri tre gaudiosi adolescenti raccontavano al sole ed alle nuvole storie di tutti i Poeti, dall'Odissea all'Anticlo dei Poemi Conviviali, rubandosi a gara fra un verso e l'altro succosissimi fichi sanguigni còlti poco prima nel frutteto; e Fiammetta nimbata d'oro, vestita di verde, gioia di vivere fatta creatura, Fiammetta alata e risplendente come il piccolo genio del luogo!…

O tu pure nimbata d'oro, donna di bellezza, di sanità e di letizia, che da ogni filo d'erba, da ogni raggio di sole traevi canto e riso, e mi conducevi per mano nei regni della tua pace: così che io pure credetti — per un momento — alla tregua di Dio fra il mio cuore e la mia vita!

Lavoravamo insieme, mostrandoci a vicenda le pagine liriche ancor tutte calde della prima impronta del pensiero. Per cambiare, un giorno, ripescammo e rileggemmo un mio grigio, torbido manoscritto di prose. Non lo amavo: lo volevo distruggere. Ma tu mi dicesti: Perchè?… Grigie fin che vuoi, queste novelle. Ma sono una parte viva di te.

Eccole, raccolte in volume.

Novelle?… No. Tutte, — o quasi —, umili scorci di vite femminili sole a combattere: malgrado la famiglia, sole: malgrado l'amore, sole: per propria colpa o per colpa degli uomini e del destino, sole. Le vidi, queste donne. Le conobbi, le studiai, le riprodussi, cercando di attenermi il più crudamente possibile alla verità, Ahimè!… Troppe volte la verità è più amara di un tossico.

Non per altro io pubblico questo libro di penombra, che per mettere sulla prima delle sue pagine il tuo nome di luce. Per fermare nel tuo nome (se pur mi è possibile) ciò che è già fuggito: la grazia di quei giorni sereni, talmente colmi d'armonia interiore che i nostri cuori ne zampillarono come fontane, e l'enigma della vita, per essi, ci parve sciolto.

Non già ch'io tema di dimenticarli.

Dimenticarli?

Tu lo sai, Margherita, che non potrò.

Milano, Maggio del 1917.

Ada.

Feliciana non provò grande sorpresa, nè grande commozione, quando, un giovedi, nell'ora delle visite agli infermi, alla sua solita domanda l'impiegato di turno all'ospedale rispose a muso duro, senza preamboli, scartabellando un registro:

— Il numero cinquantanove?… della corsia San Giuseppe?… è morto stanotte.

Quel burocratico della beneficenza, grazioso come un porcospino, aveva fatto benissimo a risparmiarle le condoglianze.

Già da qualche mese, in un angolo della sua camera in via Vetere, ella accendeva quotidianamente un lumicino dinanzi all'immagine della Madonna di Caravaggio; e lei sola ne sapeva il perchè, lei sola custodiva il voto. Ed ecco, la Madonna aveva compiuto il miracolo necessario: aveva tolto alla vita e all'osteria Gigi Fracchia detto Rossini, popolare nelle taverne di porta Ticinese per la sua splendida voce tenorile e per la burlesca e parolaia prodigalità, colla quale gettava nel fondo paonazzo dei bicchieri i suoi guadagni di vetturino pubblico e quelli di sua moglie, cucitrice di bianco.

La filosofia di Feliciana era dritta e logica: chi è inutile è dannoso, chi è dannoso deve morire. Suo marito era morto in tempo. Per due bimbi piccoli, è ben più provvida una madre vedova, ma attiva e sana, che non lo siano cento padri beoni. E basta, di uomini, nella sua vita. Quell'uno, in sette anni di malinconica esperienza coniugale, gliene aveva lasciata la nausea. Avrebbe tirato il carro da sola, fino a quando le fossero bastate le forze; e allora i ragazzi, cresciuti ed a posto, avrebbero pensato a lei.

Tuttavia, convinta a ragione che i guadagni d'una povera cucitrice di bianco son troppo incerti e saltuari perchè tre bocche possan fondare su di essi la certezza di vivere, Feliciana andò senza esitanze a raccomandarsi al cavaliere Agliardi — al quale da anni ed anni portava camicie e colletti per conto di un elegante magazzino, e che era proprietario d'una fabbrica di lanerie.

Il cavaliere Agliardi cadde dalle nuvole.

— Come, come, come?… (balbettava un poco, era il suo difetto e il suo incubo). Come, come, come?… Feliciana!… In una fabbrica, tu?… Ma non vedi quanto sei delicata?… Credi tu di resistere, in un inferno simile?…

La donnina che gli stava davanti aveva, infatti, l'aspetto minuscolo. Ma lo fissava con due larghi occhi lucenti di fosforo e d'energia: gli parlava con una larga bocca tagliata dritta sopra un mento sporgente. Maschera di resistenza: piccolo organismo d'acciaio, nel quale ogni molla era al proprio posto, ogni rotella funzionava a tempo, come nelle macchine di fattura perfetta.

Più che dalla compassione, il buon cavaliere fu vinto da un senso inconscio di rispetto per quella forza femminile foggiata, piegata a strumento di lavoro. E Feliciana potè entrare nell' officina; e qualche xmese dopo diveniva assistente d'una squadra di tessitrici — per una lira e settantacinque centesimi al giorno.

Già. Una lira e settantacinque centesimi al giorno. Poichè il cavaliere Agliardi era buono; ma, allora, verso il milleottocentosettanta, le paghe femminili non salivano più in là. Se ne accontentava, la coraggiosa, pur d'essere sicura del pane. In quei tempi non si parlava ancora di cooperative operaie, di sindacati e di scioperi. Ed ella riusciva, in letizia, a bastar con quel denaro a se stessa ed ai figli, che, dopo la scuola, le venivan sorvegliati da una vicina. A se stessa?… Oh!… Una ciotola di pane e latte a mezzogiorno, una minestra o una fetta di polenta alla sera…. Soleva dire ridendo: “ Chi predica che questo non è sufficiente per vivere, mente per la gola: il resto è buono per l'asma e per la gotta ”.

Feliciana era magnificamente ottimista. Sul balcone della sua unica stanza fioriva un geranio scarlatto, ch' ella inaffiava alle cinque del mattino, prima di partire per l'opificio, e salutava la sera con dolci e gaie parole, quasi fosse la sua terza creatura. La domenica, a passeggio coi due monellucci pei magri campi polverosi fuori porta, cantava con voce fresca la canzonetta di moda, e da tutti i pori del corpo e dell'anima respirava la gioia del sole, del verde, di quelle poche ore di libertà.

E il tempo passò. Perchè il tempo passa così rapido?… Quel che noi lasciamo indietro è sempre il meglio, anche quando è il dolore.

La donna si era insensibilmente assimilata al ritmo e alla qualità della sua giornaliera fatica. Era come se andasse e venisse con le spolette d'acciaio: come se accordasse le pulsazioni del cuore e dei polsi a quelle dei licci, dei brancali, delle leve, di quei piccoli e silenziosi bracci di macchina che sembrano moncherini dal gesto tragicamente preciso. Non poteva più immaginare la propria vita senza rotear di cinghioni sul capo, polvere di lana e odor d'olio rancido in gola, e l'amicizia rumorosa e cordiale dei compagni di fabbrica.

I figliuoli crescevano. Francesco, già a bottega, dimostrava felicissime attitudini alla meccanica e portava a casa un piccolo guadagno. Leonardo, nervoso, concentrato, intelligente, con la snella ossatura e la maschera energica della madre, s'era messo in testa di studiare, di divenir qualcuno; ed era entrato nelle scuole normali col sussidio governativo, dando lezioni per comperarsi i libri. Nel temperamento eccitabile, nell'ambizione repressa, nella fantasia di quel suo fanciullo Feliciana si riconosceva; così come vedeva riprodotta, nella robusta serenità di Francesco, la miglior parte di sè, l'ottimismo invincibile. La continuavano, forza tra le forze: era certa di trovare un giorno, in loro, il proprio riposo.

Ebbe tuttavia un muto, terribile periodo di crisi, fra i quarantacinque e i cinquant'anni. Non le sembrava più d'esser lei. Stanchezze improvvise l'abbattevano sul lavoro: insonnie aspre d'arsura, agitate da confusi incubi, la tenevan desta durante le lunghe notti, lasciandola, verso l'alba, e proprio quando doveva levarsi per correre all'officina, disfatta come un cencio. Cosa che non le era mai accaduta prima, e che l'opprimeva di vergogna, non poteva fissar gli occhi sulle larghe spalle o sulle massicce collottole de' suoi compagni, senza sentirsene la carne turbata da brividi. Mani invisibili, ma delle quali aveva profonda la sensazione, le scorrevano lungo il corpo, gonfiato e appesantito da un misterioso travaglio interiore.

Soffriva. Scoppi di dissonanze isteriche partivan da lei, fino allora così uguale e serena. Si stringeva talvolta, perdutamente, ai figli, ormai pezzi di giovanotti, respirando con affannosa delizia il profumo di quelle fresche forze. Si sorprese, una notte, nel buio, a rimpiangere di non avere, qualche anno prima, accettato per secondo marito Gianni Forgia, il capotessitore, che per amor di lei si sarebbe volentieri sobbarcato anche il carico dei ragazzi. Lo capiva: le era necessario un uomo, la sua carezza e il suo pugno, la sua protezione e il suo dominio. Ma gli uomini non la guardavano più: ella era giunta all'età in cui la donna, disperatamente tesa verso l'amore con tutta la maturità della carne, non desta più il desiderio.

A poco a poco le insonnie cessarono, il sangue si calmò, i nervi si distesero in un opaco equilibrio, una rilassatezza giallognola fiaccò i muscoli del corpo e del volto — e Feliciana fu vecchia.

Vecchia; ma non invalida. Per dieci anni ancora il grande viale suburbano che conduceva alla fabbrica vide, più rapida il mattino, più lenta la sera, la piccolissima figurina avvolta nello scialle nero, con la nuda testa nimbata d'argento, con la bocca pronta al frizzo, all'affettuoso richiamo, al gaio ritornello, fra le schiere dei camerati. Solo quando una sciatica l'ebbe inchiodata, tra febbri e spasimi, all'ospedale, e ridotta da non poter quasi più reggersi in piedi, Feliciana abdicò. Senza un soldo di pensione, povera in canna, col solo abito che aveva indosso, ma lieta e fiduciosa come san Francesco, disse a' suoi figli, aprendo le braccia in croce:

— Eccomi. Ho finito. Adesso tocca a voi. —

Francesco, il primogenito, le rispose:

— Vieni con me.

Era buono, Francesco; e guadagnava più di cinque franchi al giorno, in una fabbrica d'automobili. Non eran più i tempi nei quali Feliciana ringraziava Iddio di poter mantenere i bambini col lusso di una lira e settantacinque centesimi la giornata; ma tutto costava il triplo: pigione, carne, legumi.

E non era più libero, Francesco: aveva preso moglie: una sartina biondiccia, belloccia, energica, che lavorava in casa.

Le stanze eran tre: la madre dovette rassegnarsi a dormire in cucina, su una branda, dietro un paravento di cartone: poichè la cosidetta sala, attigua alla camera nuziale, serviva da laboratorio a Teresella durante il giorno, e da tinello la sera.

La cucinetta puzzava d'acquaio e di rinchiuso: l'unica sua finestrella a vetri smerigliati si schiudeva su una specie di pozzocortile, oscuro e sgretolato come lo sfogo di un carcere. Nel vecchio corpo indebolito, il giovine cuore d'allodola di Feliciana si strinse. Ella ripensò al vaso di geranio scarlatto sul balcone dell'alto nido pieno di sole ove s'era covati i suoi figli. Ora, in presenza di quell'estranea, di quella nuora dagli occhi taglienti e dalla faccia lentigginosa, sentiva bene di non essere a casa propria, sentiva bene che il figliuolo non era più suo.

Aiutava, come poteva, umilmente: rifacendo i letti, riordinando le stanze, rigovernando le stoviglie. Avrebbe anche voluto cucire e far da mangiare, canticchiando le sue canzoni; ma venticinque anni d'opificio e di dieta a pane, latte e polenta avevan ridotte a zero le sue abilità nell'ago e sui fornelli: e i malumori di Teresella, sempre furibonda contro il rincaro dei viveri e la pretensiosa grettezza delle clienti, le strozzavano il ritornello in gola. Povera donna!… Non poteva vincere, dentro di sè, la penosa impressione di essere, nella casa del suo primogenito, quasi una serva — certo una tollerata.

Ma Leonardo, dal grosso borgo dove aveva ottenuto un posto di maestro comunale, le scriveva: Pazienza, mammetta!… Presto verremo a prenderti!… Presto vivrai con noi!…

…. Noi. Anch'egli non era più solo. La solita commedia: matrimonio immaturo, capitombolo dell'ambizione nel sentimento: il giovine poeta pallido d'estri e di sogni, costretto a concorrere col diploma d'onore ad una scuoletta di campagna, pur di trovar da vivere: il “ colpo di fulmine ” pei riccioli neri ed il fiorito linguaggio della collega maestrina: molti contrasti, molta retorica, una capanna ed il tuo cuore, i versi messi a dormire in un cassetto, l'uomo legato per la vita al bisogno quotidiano, con la catena da lui stesso ribadita al piede….

Ma Tittì compiva i quattordici mesi, Tittì cominciava a camminare sulle incerte gambucce un po' storte; e Leonardo aveva riscritto alla mamma: Veniamo a prenderti, vivrai con noi.

Senza dolore ella Iasciò la cucinetta al quarto piano e le acri querimonie di Teresella, per andare a divenir la bambinaia di Tittì. Dio benedetto mille e mille volte!… C'era dunque ancor qualcuno al mondo, al quale poteva essere necessaria!…

Ebbe una cameruccia, questa volta, con la culla di Tittì accanto al letto. Si svegliava spesso, la bimba, durante la notte; e bisognava lasciar riposare tranquilla la nuora, che per ragioni d'economia non aveva voluto rinunciare all' impiego.

A Feliciana parve di ringiovanire, di rivivere i tempi lontani, in cui Francesco e Leonardo erano stati nient'altro che due batuffoli di carne morbida e rosea, tutti suoi. Aveva posto qualche vaso di cineraria e di garofano sul davanzale della finestra; la finestra s'apriva su campi e su cieli; Tittì balbettava le prime confuse parolucce; la vita era buona, il Signore era giusto.

Ma dopo Titti venne Totò, e dopo Totò venne Bebè. Malgrado la retorica chiaro-di-luna, il poeta rientrato e la maestrina agrodolce e nervosa dimostravan d'essere prosaicamente, spaventevolmente prolifici. Due parti immaturi finirono col rovinar del tutto il già sfasciato organismo della giovine donna, e le impedirono di continuar la scuola. A trentacinque anni ella era irriconoscibile, vittima d'una di quelle forme di squilibrio, che l'oscura, malefica perversità dell'utero ingenera in tante disgraziate.

Nella stretta casa le sei creature vivevano a ridosso, in promiscuità: urli di bambini, cieche e manesche collere della madre agitata dalla nevrosi, sfoghi di bile e crisi di misantropia dell'uomo sovraccarico di lavoro e di pesi morali: — e Feliciana, là in mezzo, viveva ancora.

La morte l'aveva dimenticata. Non possedeva di suo che il letto e un attaccapanni: il resto le era stato preso dai ragazzi. Quasi le mancavano i metri cubi d'aria necessari al respiro. Grandi e piccoli, con la prepotenza della loro rabbiosa vitalità, la serravano in una cerchia asfissiante, la spingevano involontariamente in là, su que' suoi passi barcollanti e lentissimi, che intralciavano i giochi di Totò e le capriole di Bebè.

Mangiava, adesso, a parte, in una scodella speciale, zuppe di latte e di brodo, quantunque, coll'età, fosse divenuta golosissima della carne e dei legumi: ciò, da quando s'era accorta che la nuora le contava i bocconi in bocca, e che il faticoso masticar delle sue gencive vuote di denti dava nausea alla donna, divenuta un sol nervo spasmodico. Aveva oltrepassato i settantacinque, s'avvicinava all'ottantina.

Il curvo scheletro del suo corpo, solo ricoperto di pelle accapponata, conservava pure, in quella lenta mummificazione, un sangue ancor rosso, un cuore ancor valido, un cervello ancor vigile, un desiderio ancora appassionato d'esistere.

Il magnifico strumento d'attività ch'ella era stata, l'antica Feliciana padrona del mondo davanti ad un telaio in moto, tentava a volte di far rifiorire, sulle labbra incartapecorite della larva superstite, brani di allegre ariette; ma la voce non teneva più la nota, si spezzava a metà, in un umile e tremante miagolio.

Tra lo sfacelo, la sola fronte era rimasta incolume, senza una ruga, statuaria nel duro disegno quadrato. La luce di quell'anima coraggiosa s'era raccolta tutta nella fronte. Ma, se il sonno veniva a chiudere gli occhi impalliditi, e il capo si lasciava cader ciondoloni sull'esilissima e curva spalla, allora il volto, nel rilassamento dei muscoli, diveniva terribile. Dalla bocca storta e rientrante colava, alternato al respiro, un fischio unito ad un filo di bava: la fronte possente schiacciava la parte inferiore della tragica maschera carica di tutti gli anni vissuti, di tutte le fatiche affrontate, le battaglie vinte, le umiliazioni sofferte: il color terreo ad ombre verdastre, unito all'assenza dello sguardo, faceva pensare al cadavere.

Ma il sonno dei vecchi è ingannevole. Somiglia alla morte; ed è così leggero!… Feliciana pareva, si, dormire; invece ascoltava, con l'orecchio rimasto fine come la vista…. ed una sera tremò dentro, udendo queste parole tra figlio e nuora:

— Non parlare così. Non sai quel che dici. Infine è mia madre, mi ha allevato, ha allevato Titti. Non posso cacciarla via.

— E chi ti dice di cacciarla via?… Se la pigli Francesco. È il primogenito, insomma. A novanta, a cento anni, colei sarà ancor viva. Tu lo vedi, qui non abbiamo più posto: Titti ha bisogno della camera per impiantarvi il suo piccolo laboratorio di ricamatrice in oro: i bambini dormono in un bugigattolo: allargarsi non si può. Tocca a Francesco: ci pensi lui!…

— Francesco ha anch'esso due figli che non guadagnano l'acqua che bevono, per ora. Anch'esso, nella sua casa, litiga con lo spazio… Povera mamma!… Abbiamo pietà… sarà per poco!…

— Per poco?… per poco, tu dici?… Saluterà il centenario, quella tempra di bronzo. E come mangia!… e come gode di vivere!…

La voce malvagia, rompendosi in uno stridulo riso isterico, feriva il cuore di Feliciana, con punte acutissime d'aghi. Bisognava dunque morir per forza, perchè non c'era più posto per lei?… E con qual coraggio la nuora aveva potuto affermare che ella godeva di vivere?… Non viveva, ecco, e non moriva. Era una sopravvissuta. La provvidenza dovrebbe, in tempo, concedere la buona morte ai vecchi poveri: concedergliela in premio, a lavoro finito, quando le energie di resistenza sono esauste, e i figli si son già messi in cammino.

Trangugiò in silenzio il tossico della nuova umiliazione: chiese ella stessa, più tardi, il favore d'essere ricondotta alla casa di Francesco. E rivide la grande città manifatturiera, e risalì, sorretta dai due figliuoli ormai canuti alle tempie, le ripide scale troppo pesanti al suo fiato; e tornò a rifarsi il lettuccio nell'angolo della stretta cucina dal puzzo d'acquaio. Gli occhi gelidi di Teresella le dissero senza reticenze quanto la sua misera persona quasi distrutta le fosse di peso.

Le cognate, che si odiavano, se l'eran scaricata a vicenda sulle spalle: gli uomini, deboli, nel dominio della moglie, tacevano e tolleravano; ed ella non viveva e non moriva.

La lotta per lo spazio e per il pane tendeva il nerbo d'ogni discorso, d'ogni gesto, in quell'angusto appartamento senza sole. Giornali socialisti, dal titolo e dai caratteri di fiamma, vi entravano, fra le mani dei robusti adolescenti e dei loro compagni di laboratorio e di lega. La sera, intorno alla tavola, sotto il giallo becco del gas, per bocca loro, con frasi balzanti e frementi, si ricomponeva la società secondo un magnifico assetto ideale. Tutti ricchi ad un modo!… Tutti lavoratori!… E un pugno di terra in ogni bocca inutile!…

Feliciana, dimenticata in un angolo, colla fronte di marmo giallognolo china sul petto, ascoltava, in silenzio, avvilita. Anche la sua era una bocca inutile. Era tempo di chiuderla con un pugno di terra, con due, tre, cento palate di terra, l'una sopra l'altra.

E venne, la morte. Tanto la chiamò che venne, una sera in cui, dormendo cogli occhi, ma non cogli orecchi, aveva udito figli e nipoti discorrere d'un ospizio di cronici dove l'avrebbero presto collocata, grazie all'alta protezione del principale di Francesco. Cambiare ancora, ridiscender le scale, dormire in un letto di carità, vivere fra suore dalla tonaca grigia, diventare una mendicante numerizzata….

No, no. — Tanto pregò la morte, che la morte venne. E se la portò via quietamente, a due ore di notte, senza un sussulto, nella visione d'un geranio scarlatto fiorito sul davanzale d'una finestra solatìa.

All'alba, dinanzi al cadavere già stecchito nel lettuccio in cucina, il senso della liberazione fu nei familiari così pronto ed intenso, che parve dolore, e ne assunse le forme più rumorose e commosse. Giunse Leonardo con la moglie e la nidiata. Le due cognate vegliarono tutta una notte la morta, ubriacandosi di caffè; ma la morta non le vide, era già lontanissima.

Il funerale riuscì magnifico, tanto più ch'era di domenica: gran numero d'operai, camerati di Francesco, lo seguiva, con viso di circostanza, feltro nero e cravatta rossa.

E l'un d'essi tenne, al cimitero, dinanzi alla cassa, un discorso: un discorso eloquente, pieno di paroloni terminanti in a, che strappò molte lagrime, e per poco non fu applaudito da tutti i presenti.

E la cassa, così piccina, così leggera che un bimbo l'avrebbe potuta portare, fu calata nella fossa e ben ricoperta con la buona terra umida e fresca, che non rimprovera il loro sonno ai morti. E Feliciana trovò finalmente il posto ove solo possono riposare i vecchi poveri, quando i figli si son messi in cammino, il lavoro è compiuto e le forze non reggono più.

Raimonda alzò il bavero del soprabito, attillato come una fascia sul suo bel corpo, di serpentina flessuosità: avvolse intorno al bavero il boa di pelliccia fino all'altezza del naso, ficcò le mani nel manicotto, e via, a capo basso, fra la nebbia.

Casì densa, così opaca era la nebbia, che si sarebbe potuta tagliar col coltello. Penetrava nella bocca e nelle narici, mozzava il respiro, dava il senso dell'asfissia. Vie e case scomparivano, dissolte nell'impalpabile massa dei vapori. Atmosfera di sogno. Ma un sogno sinistro, pieno d'agguati.

Si doveva aprirsi il varco a guisa di nuotatori nell'acqua, respingendo la potenza d'un elemento. Le carrozze, rarissime, avanzavano adagio, passo passo, ombre vaghe e difformi nel grigio, scampanellando dalle sonagliere dei cavalli. La coltre spessa e morbida tappava ogni fessura, attutiva ogni rumore, mascheravà ogni fisionomia.

Di questo, sovra tutto, era felice Raimonda, che camminava sicura, conoscendo così bene la sua via quotidiana dall'ufficio alla casa, che i piedi gliel'avrebbero potuta far da sè senza l'aiuto degli occhi. Raimonda aveva la parte destra del viso orribilmente sfregiata. A dieci anni, una mala caduta sulla brace rovente del caminetto l'aveva ridotta così. Per ironia della sorte era cresciuta agile e bellissima di corpo, calda di sangue, chiara nell'animo, pronta nei sensi, certo creata per un destino d'amore, se l'atroce mezza maschera raggrinzata, paonazza, costringendo anche la bocca ad una smorfia grottesca nel riso, non l'avesse deturpata senza rimedio.

Dinanzi all'apparente gaiezza di lei, d'una esuberanza a tratti eccessiva, parenti ed amici pensavano e dicevano: — Per fortuna è indifferente alla sua disgrazia. Pel mostro non esiste la propria mostruosità.

S'ingannavano. Non forse la madre, alla quale il sesto senso materno dava pupille più penetranti; ma, debole e incerta creatura crepuscolare, tentava, illudendosi, di sopire dentro di sè vergogna, dolore, rimorso.

La verità era questa: tolte le obliose ore del sonno, non un minuto della vita di Raimonda era trascorso senza che, — nel camminare, nel parlare, nel ridere, durante le più gravi e le più semplici occupazioni, sola o fra molti — ella non si fosse veduta nell'inesorabilità della sua laidezza, con quei terribili occhi in dentro, che non ingannano mai.

Per questo, nella propria camera, non teneva specchi. Per questo, portava feltri o cufflette di paglia d'un'estrema semplicità, che si potessero calcar sul capo alla brava, senza aiuto di spilloni; e vi avvolgeva intorno larghe e fitte velette a fiorami, le quali tuttavia non riuscivano a nascondere compiutamente il segno del fuoco.

Talvolta, a notte alta, un incubo angoscioso la svegliava di soprassalto, col batticuore; ed ella sbarrava nel buio gli occhi ancor ciechi di sonno; e, subito, nell'implacabile memoria dei sensi le si scolpiva la visione del proprio volto; e pensava, con terrore, la disgraziata, che l'ombra sarebbe svanita con la notte, che la luce avrebbe fatto ritorno, e con essa gli sguardi pietosi o ironici o stupiti o sfuggenti, sulla sua deformità.

Vi sono tragedie che afferrano una creatura in piena bellezza, in piena felicità, in piena armonia d'azione; e l'incalzano e l'aggirano vorticosamente nel loro turbine ruinoso: poi la lasciano, a terra, inerte, uno straccio, ma libera: ed ella a poco a poco si riconosce, si ritrova intatta, riprende a vivere, a gioire delle forze naturali, a respirare energia e speranza, quasi che nulla fosse avvenuto. — Vi è, invece, la tragedia muta, sorda, costante, fissa, che ha l'inesorabilità d'un cancro. Non v' è scampo contro di essa. Non v' è forza d'oblio che possa dimenticarla, o di dominio che possa vincerla.

In tale stato viveva Raimonda. Non lasciava, tuttavia, trasparire agli uomini se non quel ch' era impossibile nascondere: il marchio del viso.

Ella si sentiva isolata. Fra il suo fluido e il fluido altrui s'interponeva un divieto, Quel divieto la disonorava come una condanna. Dai dodici ai sedici anni, alle scuole tecniche, nei gruppi delle compagne non aveva udito che bisbigliar d'amore. Pareva che in tutte quelle fanciulle destinate a guadagnarsi la vita fra l'odor di muffa dei magazzini o l'odor d'inchiostro degli uffici, in tutte quelle adolescenze verdastre ed asprigne come i frutti acerbi, non germinasse che il desiderio dell'amore. Aritmetica, disegno, fisica, grammatica, non sembravano in realtà che pretesti inventati dalla dura esistenza e dalla volontà dei parenti, per ingannare, per strozzare in boccio l'istinto atavico in quelle piccole future femmine, che già davano furtivamente un nome ed un corpo al loro bisogno di amare e di sentirsi amate.

Più tardi, nel laboratorio di macchine e strumenti fotografici, dove Raimonda aveva potuto collocarsi in qualità di dattilografa, ella, intorno a sè, fra i compagni di lavoro, non aveva veduto che amore, illusione d'amore, menzogna d'amore. Le commesse, eleganti in abiti tagliati sull'ultimo figurino negli scampoli da trenta soldi al metro, colle trecce serrate intorno alle tempie secondo la moda, con tacchi altissimi, con ciglia e palpebre offese dal bistro, civettavano, nervose, coi giovanotti dello studio; oppure trovavan sulla porta, la sera, l'amico pronto per accompagnarle. Le varie correnti si urtavano, sprizzavan scintille nell'urto, creando per Raimonda un'irrespirabile atmosfera magnetica. La sua giovinezza era tagliata fuori da quelle vibrazioni di gioia. Per lei non poteva sussistere la legge naturale dell'esistenza. Lo sapeva. E vi pareva rassegnata; ma, in fondo, avvilimento, desiderio insoddisfatto, rancore, le si aggrovigliavan dentro come un viluppo di serpi.

Ed era giunta a desiderar d'esser cieca, quasi che la cecità personale riuscisse a nasconderla agli occhi altrui: simile in questo al bambino che, celandosi il volto col braccio alzato and arco, crede di essersi reso invisibile ad ognuno. Era giunta a non trovarsi bene che nell'ombra; e sempre avrebbe voluto moversi fra la densa bruma che l'avvolgeva quella sera di novembre, dandole un senso inatteso e mordente d'agilità, di libertà, di sicurezza.

Un fanale a gas, d'un fosco rosso di piaga nella compagine nebbiosa, le indicava lo svolto di via Solferino in via Pontaccio. Scivolava rasente i muri, imbacuccata e felice, quando una voce maschia le susurrò alle spalle: — Signorina….

Non si volse, continuò la strada, col cuore che le martellava. Nessuno, nessuno, fino a quel momento, l'aveva seguita per via.

— Signorina….

L'uomo la seguiva davvero, accordando il passo con quello di lei, mormorando altre parole, vuote, incoerenti, dolcissime. Raimonda le udiva per la prima, forse per l'unica volta; e la maschia voce era calda, profonda, vellutata, di quelle che agiscono immediatamente sui sensi.

Con un rapidissimo volger del capo e delle pupille aveva scòrta l'alta figura d'un giovane, sfumata nella bruma che intorbidava, velandoli, i lineamenti del viso. Ah!… Quell'ignoto non l'avrebbe vista in faccia, non avrebbe celato il brivido del ribrezzo davanti alla mezza maschera deforme. Fitta veletta, fitta nebbia, ora di sogno, nella quale ella pure poteva esser bella per un uomo: ora che forse non sarebbe ritornata più!…

Tacque, lasciò dire, lasciò che l'ignoto le si avvicinasse alle spalle, le si serrasse dappresso, tanto da alitarle nel collo il respiro profumato di sigaretta.

— Signorina…. Come si chiama?…. Non corra tanto. Mi dica il suo nome, il suo bel nome. Signorina….

Nessuna udibile risposta; ma un consenso pieno di turbamento nel silenzio stesso, nel passo un poco rallentato, nell'atto di alzare il manicotto fino a celare il mento e la bocca. La nebbia li univa e li divideva nel medesimo tempo. Altre fantastiche ombre passavano, larve nere apparenti nelle orbite dei fanali, subito inghiottite dall'elemento grigio. Milano era un'immensa nava naufragata, ove Raimonda agonizzava in una dolcissima agonia: rivelata finalmente a un uomo: finalmente donna: tremante di muta felicità: solo temendo che l'ora dell'incantesimo finisse.

In corso Garibaldi, quando comprese che soli cento passi la separavano dalla porta di casa, indugiò in un istante di perplessità, s'appoggiò al muro, sempre in silenzio. L'ignoto vide, in quel trepido atto, un invito. Trasse a sè la fanciulla pel braccio, cercò, avido, la bocca, senza vederla; e, attraverso la veletta, la baciò.

Con sua immensa maraviglia, il bacio gli fu reso.

Ladra d'amore, sì, ella era; e sapeva e godeva d'esserlo, chiudendo in quell'attimo l'intera sua vita di donna, accumulando in quell'attimo sogni, desiderî, brividi, carezze, impeti di dedizione, voluttà di sensazioni, tutta l'occulta parte di sè che alla luce spietata del sole non aveva diritto di esistere.

Quando le ingorde labbra lentamente si staccarono, e il lunghissimo bacio ebbe fine, l'uomo stupefatto, inebriato, cieco, rimasto intontito sul marciapiede, sentì la fanciulla guizzargli di mano con agilità di lucertola, e sparir nell'ombra.

Non tentò di seguirla. Ad un metro di distanza non sarebbe stato possibile riconoscere una persona. La massa fluttuante dei vapori s'addensava sempre più, diveniva un corpo quasi solido, benda agli occhi, bavaglio alla bocca.

Ritrovata per virtù di consuetudine la porta della sua casa, infilata a capo basso un'umidiccia scala a chiocciola anch'essa invasa di nebbia, Raimonda suonò il campanello d'un modesto usciolo bruno. Alla madre che, inquieta e premurosa, le aperse, mormorò un frettoloso saluto. Poi, con voce rauca: — Stasera non mangio, ho male alla testa, voglio riposare, abbi pazienza…. — E sgusciò nella sua camera e vi si rinchiuse.

Nel letto, al buio, colle braccia avvinte sul seno, coi begli occhi sbarrati nell'oscurità, rabbrividendo ancora per tutto il corpo sotto l'invisibile carezza della maschia voce carnale, rigustando in bocca il sapore dell'unico bacio, si raggomitolò, sussultò, si contorse, pregò Iddio che di quell'ora non le togliesse mai più la memoria — e pianse, e rise.

Dal grigio, asmatico, miserabile connubio d'uno spazzino pubblico più lercio delle lordure che raccoglieva nei crocicchi suburbani con una sarta da uomo che s'era mezzo rovinata la vista sull'ago, nacque, un giorno, una bambina. Non desiderata, non amata, supinamente subita come la miseria che vuotava del sangue le vene della donna ancor giovine e curvava verso la terra il corpo dell'uomo non ancor vecchio.

Questa figlia di due deboli nacque brutta e crebbe brutta. A dodici anni, tozza di corpo e grossolana di volto, con occhi obliqui di giapponese rilucenti di calda bontà in una maschera sbozzata con l'accetta nella pietra, ella sbrigava già tutte le faccende nell'umile casa. Scopava, rifaceva il letto grande ed il proprio giaciglio che aveva l'aria d'una cuccia, lavava in un mastello i cenci del padre, covava in un tepore di attiva e vigile tenerezza la precoce decadenza della madre canuta, sfasciata a quarant'anni, quasi cieca pel lungo agucchiare, indifferente a tutto fuor che alle trafitture artritiche, che la facevano urlare di spasimo. Si spense, la madre, in un'alba novembrina fasciata di nebbia, quietamente: si spense, alcuni mesi dopo, il padre, di sincope: disparvero entrambi come scompaiono, di solito, gli animali e i poveri, senza rumore, senza lasciar traccia. Anin aveva allora quindici anni. Raccolse la sua poca roba, vendette per un prezzo irrisorio il letto grande e il cassettone, s'infilò al dito l'anello di similoro della povera mamma, — e andò a servire.

Incominciò allora a disegnarsi, sul duro sfondo d'un lavoro indefesso, il vero stile della vita di Anin.

Ella aveva ricevuto in sorte, da natura, il genio dell'obbedienza gioiosa. Era nata serva come uno nasce pittore, poeta, affarista o ladro. Sottomissione, devozione, pazienza, serenità nella fatica erano gli essenziali caratteri di quell'umile ma compiuto e magnifico modello umano.

Imparò presto, sotto la fèrula d'una padrona meticolosa e dispotica, le più delicate, le più difficili, le più aspre faccende d'una casa borghese: tirar la galera (lo spazzolone di ferro pei pavimenti incerati) senza farla urtare contro i piedi e gli spigoli dei mobili: cucinar con arte e con economia: stirar la biancheria senza ingiallirla: rendere piatti e bicchieri lucidi come specchi, senza incrinarli: rendere simili all'oro gli ottoni delle maniglie e delle serrature, senza aguzzar gli orecchi dietro le porte: scacciar la polvere da ogni gingillo, da ogni angolo, da ogni nascondiglio della casa, con l'accanimento d'un nemico mortale, senza stancarsi mai di ripetere il medesimo gesto maniaco e vano.

Imparò presto, anche, quattro cànoni importantissimi. Quando un abito è ragnato alle cuciture e ha stinto tutto il colore, lo si regala alla serva: — quando la frutta comincia ad andare a male, la si dà in fretta da mangiare alla serva: — quantunque paralizzata

dalla stanchezza per l'incessante lavoro della giornata, la serva deve rimanere alzata fino a mezzanotte, in un angolo della cucina, ad aspettare il ritorno dei padroni dal teatro: — mentre in sala da pranzo e in salotto, alla luce di tutte le lampade, si chiacchiera e si gioca, allegramente, intorno al tavolino del thè o al vassoio del marsala, la serva se ne deve star quieta e silenziosa nel suo solitario cantuccio presso i fornelli, abbassando la fiamma del gas per non fare spreco. — Tutto questo non le pesò, nè le fu doloroso.

Era il suo gesto naturale: non avrebbe saputo far altro.

Anima obbediente: non già arida e muta. Ella nutriva in sè un umile, ma irresistibile bisogno di amare. I suoi piccoli, lucenti occhi giapponesi ridevan d'un limpido raggio di simpatia per tutto e per tutti: per la padrona arcigna, pel padrone burbero ed esigente, pel grasso e grosso amico di casa che veniva ogni sera a pranzo e non le dava mai un soldo di mancia: — pel fornaio, pel lattivendolo, per le scarpe che lustrava con ardore, pei rami che rendeva color di sole a furia di ranno, pel gatto tigrato, per la finestrella della cucina, ove aveva posto a fiorire una povera cineraria in una cassetta di latta.

Quegli occhi esotici, ingenui e gai la rendevano quasi bella, malgrado la sgraziata persona, la minuscola treccia color di ruggine attorcigliata sul cucuzzolo senz'ombra di civetteria, il volto brutalmente martellato nel granito rossastro.

Passò il tempo, lento ed uguale. Anin era ormai una donna di trentacinque anni, nerboruta e pelosa come un facchino. Nella casa aveva assunto l'importanza, inavvertita ma assoluta, dell'aria che si respira, dell'acqua che si beve, del pavimento sul quale si cammina. Col suo modesto abito di rigatino azzurro, con le sue piatte scarpe di feltro che le attutivano il rumore del passo, ella era dappertutto, tutto faceva, a tutto si prestava: rimanendo pur sempre l'Anin che, la sera, si eclissava quieta quieta in un cantuccio della cucina a sferruzzar calze, a rammendar strofinacci e lenzuola.

A sposarsi non aveva mai pensato. Nessuno, del resto, aveva mai guardato Anin con turbamento o con intenzione, come si guardano le altre femmine. Apparteneva al numero di quelle donne che attraversano la vita in margine, ignare d'aver un sesso, non avvertendone i languori e le inquietudini, non emanando intorno a sè il fluido che in molte brutte è assai più acre che nelle belle. — La sua instancabile attività le bastava. Ella era stata creata per essere serva.

Quando andò a nozze la figliuola de' suoi padroni, Liana, — una fragile, diafana giovinetta, simile ad una lampada d'alabastro ove arda una flammella, col viso troppo lungo, gli occhi troppo fissi, il profilo puntuto ed estatico d'una madonna del trecento — ognuno trovò naturale che Anin la seguisse, fidata domestica.

Liana non avrebbe mai conosciuta l'arte del comando: era una silenziosa che se ne stava ore ed ore appartata ed assorta, tremava ad ogni rumore improvviso, impallidiva per ogni parola più aspra del consueto. Figlia di due despoti, la volontà pareva in lei cancellata. L'ingegnere Carmi l'aveva scelta per questo, egli, così risoluto e intraprendente: pel mistero di fragilità che la rendeva preziosa, impenetrabile e quasi ambigua: per la parola in lei nascosta, che ella non avrebbe mai osato dire.

Anin l'adorava. L'aveva vista nascere. L'aveva aiutata a crescere, vegliata quand'era inferma, accarezzata quand'era triste. Il matrimonio di Liana fu, in certo modo, il matrimonio di Anin.

Mobili, tappeti, cortine, gingilli della nuova casetta felice vennero fatti segno, dalla buona servente, ad una specie di feticismo.

Mai le passò per la mente che quelle leggiadre cose avrebbero potuto esser sue, se la sorte fosse stata più generosa con lei. L'esser chiamata a custode di tali bellezze le piaceva, la esaltava come una deliziosa missione: lucidarle, disporle, riordinarle equivaleva, nel suo semplice spirito, ad averne il possesso. Il senso della proprietà, molto confuso in lei, univa vagamente il tarlato cassettone materno, per poche lire venduto, alla massiccia mobilia di noce scolpita, alle ampie lettiere di palissandro che ogni mattina le sue mani spolveravano, gelose, con piumino, strofinaccio e spazzola.

Coll'andar degli anni ingrossò, si curvò, si appesantì, insaccandosi. Ma nel posare un panchettino sotto i piedi della languida padrona, nessuna certo avrebbe avuto tanta delicatezza di movimenti. Era giunta, a forza d'intuito e d'amore, a comprendere alla muta i desiderî de' suoi signori, da un cenno, da un volger di testa, da un batter di ciglia, da un silenzio improvviso. L'ingegnere, furioso a volte come un temporale di luglio, che romba, tuona, lampeggia, per poi lasciare il cielo più sereno di prima, riusciva più spesso a calmarsi ascoltando una sommessa e sensata parola di Anin, che davanti al tremante pallore, al genuflesso mutismo, all'annientamento morale di sua moglie. Liana Carmi, dopo aver messo penosamente al mondo un cencio di creaturina morta prima ancor d'esser nata, cadde in preda ad una malattia d'esaurimento che la ridusse della trasparenza d'un cero, e la tenne a lungo fra letto e lettuccio, con periodiche crisi di cardialgia, in ciascuna delle quali ella agonizzò senza morire.

Durante quel tempo di dolore, Anin dimenticò sonno, stanchezza, fame. Fu un'infermiera indicibilmente devota, senza mai dipartirsi, con un tatto speciale che aveva del miracoloso, dalla sua schietta umiltà di servente. Le sue grosse mani incallite dalla granata, tagliuzzate dalla soda e dall'acqua bollente, ebbero, nel rimover l'ammalata, nel revviar le lenzuola, nel disporre i guanciali, nell'offrire i medicamenti, una soavità, una leggerezza di tocco, immateriali.

Gelosa di suore e d'infermiere estranee, la volle guarir lei, la sua signora. E questa guari; ma rimase come un flore affidato alle cure di Anin, come una bambina alla quale ella rincalzava le coltri del letto, la sera, mormorando: — Buona notte, madamin — con la stessa infinita tenerezza che scalda il cuore delle madri.

Invecchiando, divenne quasi calva; nè volle mai saperne di parrucca. La sua testa nuda, di un giallo oleoso, solo coperta alla meglio sulla nuca da uno striminzito mazzocchio di capelli grigiastri, s'era fatta più grottesca che mai, nelle guance giallognole, fiorite di bitorzoli, negli occhietti obliqui, sfavillanti di gaia cordialità, nel naso camuso, gonfio per le libazioni — giacchè un difetto doveva pure averlo, povera Anin!… ed era di amare il vino: mai però fino all'ubriachezza. Quando era un pochetto — oh, solo un pochetto!… — alticcia, danzava in cucina un buffonesco, irresistibile fandango, cantando canzonette in un suo gergo tra francese e piemontese; e tutto finiva in una piroetta e in un ritornello: Op là!… vive la galette!…

Un'antica casa di campagna ereditata dall'ingegnere Carmi alla morte della madre — placido asilo rustico, coi monti biellesi alle spalle e l'immensa digradante pianura davanti — formò la felicità degli ultimi anni di Anin. Vi si andava a passare, in quiete, l'estate e l'autunno. V'eran pareti imbiancate a calce, pavimenti di mattoni rossi, balconate di legno, il pozzo in cortile, uno stanzone pieno di pannocchie dorate, di stacci e di còrbole, e un denso pergolato d'uva di Sant'Anna, che cacciava i suoi tralci dentro le finestre. La semplice anima della serva si trovava maravigliosamente in armonia con quella semplice casa, colle incisioni a colori del Sacro Cuore di Gesù e Maria, appese, sopra un rametto d'ulivo, ai capezzali dei letti a colonne: cogli armadi corrosi dal tarlo, con quel profumo di antico lare domestico, aleggiante per le stanze che serbavan nei muri l'asprigna fragranza delle mele cotogne.

Ella stessa era un lare domestico, sereno e benevolo. In paese (un rozzo villaggio di contadini e di tessitori) godeva d'una indiscussa autorità: si veniva da lei per consiglio, la si chiamava per aiuto. Nessun povero batteva invano alla porta della quale ella era umile ma possente custode. Anin distribuiva larghe elemosine di pane, d'olio, di farina, naturalmente con la roba dei padroni; confondendo anche in questo il senso della proprietà, nella più evangelica santità d'intenzione.

A sessantotto anni, ancor vigile e pronta, alzata alle cinque, coricata alle ventitrè, una sola grazia chiedeva a Dio: quella di non afflevolirsi in una lunga malattia di vecchiaia, che l'avesse resa di peso ai padroni; ma d'esser fulminata di schianto dalla morte bella, dalla morte improvvisa, sul posto della sua fatica. — Dio l'esaudì. —

In un pomeriggio di calura, nella bassa ed affumicata cucina dove ronzavano alcune mosche, la vecchia sedeva sulla cassapanca presso il focolare spento, lavorando la calza. Aveva finito di rigovernare, spazzato ed inaffiato il pavimento, rimessi i piatti in ordine nell'alta rastrelliera di legno, riempiti d'acqua i rilucenti secchi di rame. I padroni riposavano nelle camere del piano superiore: un gran silenzio era nella casa, che pareva abbandonata.

Cullata dal tichettio dei ferri, Anin abbracciava coi piccoli occhi stanchi il profilo e l'armonia delle cose che amava: le bonarie pareti brune, le tede d'ottone a tre becchi appese alla caminiera, il ramo di lauro sull'architrave, la rocca e l'arcolaio in un canto, in memoria della massaia morta. L'uscio a vetri, aperto sulla ringhiera, raccoglieva nel vano una visione di pace infinita, un mare di verde in tre toni: ricco e lucido dei castagni, giallognolo dei noci, grigio delle betulle: giù giù digradante a onde, fin che terra e cielo andavan sommersi in una nebbiolina bluastra.

— Giorno di bucato, domani — pensava, più con l'istinto che col cervello. — Alzarsi alle quattro…. numerar la biancheria…. il sapone alle donne…. ma dov'era, dov'era il sapone?… Ouf, che caldo, che peso!… dov'era il sapone?…

Ma il fragile filo si spezzò nella sua testa: le mani le caddero, contraendosi, in grembo: la faccia illividita e contorta le si ripiegò sulla spalla sinistra. Rimase così, impietrita in una tragica bruttezza, che la maestà della morte rendeva solenne.

Si spense, in lei, l'ultima serva degna di questo nome. Anzi, finì con lei l'appellativo serva nel suo significato più bello, più umano, di sommissione volontaria, di vigile serenità, di oscuro ma necessario lavoro compiuto con l'ardore d'una vocazione, con la gioia organica di chi si trova in perfetta armonia col proprio destino.

La cassapanca sulla quale s'irrigidì nell'estremo sonno reca ancora la sua ombra, invisibile ma presente: genio tutelare di semplici cose e di semplici affetti che nessuno comprende più.

Sulla sua fossa, nel tranquillo cimitero di montagna, non cresce che erba; ma Anin ne è contenta; poichè ella pure fu in vita sua come l'erba, curva sotto il passo altrui, ma sempre rinnovata di generosi succhi: non chiedendo per sè che il sole e la pioggia, non esistendo che per far di sè un'instancabile offerta di refrigerio, di freschezza, di riposo.

Sedevano entrambi a sghimbescio sui sacchi di stracci accatastati contro il murello della tintoria, di fianco alla fabbrica. Una gran pena era negli occhi di Fresia: occhi lenti e fedeli, simili a quelli d'un cane. Una fredda e risoluta fermezza in tutto il viso di Marco, glabro, duro, coi caratteri della rapacità e della tenacia nell'ossatura sporgente di sotto l'asciutta pelle.

Cenci luridi, sbrendoli filamentosi d'ogni colore traboccavan dagli orli e dalle sbrecciature dei sacchi.

Asfissiante odor di polvere emanava da essi; acre odor d'acidi veniva dalla tintoria. L'opificio vuoto d'operai taceva nella calma grave del mezzogiorno; ma c'era nell'aria la stupefazione di quel silenzio, e un senso d'attesa, un vibrare d'attesa: come se a quel paese di ferro fosse impossibile esistere senza lo strepito, l'ansimo delle macchine in moto.

Grigiastri vapori passavano e ripassavano sul sole, difformandosi, sciogliendosi, ricomponendosi, mutando l'aspetto della montagna e del torrente secondo l'alterna vicenda dell'ombra e della luce.

E Fresia disse, per la decima volta:

— Te ne vai, proprio?…

E Marco, per la decima volta, rispose: — Il bastimento leva l'àncora giovedì venturo, da Genova.

Gli umidi occhi canini della fanciulla s'invetrarono in un'espressione di smarrimento. — Siamo in dodici, di queste parti. Viene anche Gianni di Fontanella e Paolo della Guercia: sai, il fuochista della Fabbrica Nuova. Ma tu credi forse che io vada in America per rimanervi un miserabile operaio, come qui?… Nemmen per sogno. Le mie classi le ho fatte, e ho seguìto tre corsi di scuola serale. Non so l'inglese; ma lo imparerò. Tutto sta nel cominciar con qualche affare da nulla, in piccolo. Poi…. lascia fare a me. Ogni giorno le cronache dei giornali narrano d'uomini che si costruiron da sè sostanze colossali; ed erano lustrascarpe, commessi di negozio o fattorini di banca. Voglio diventar ricco, capisci?… Non avrò pace, fino a quel giorno. Oh, perdio!… Non si nasce, solamente, signori. Si diventa.

Abbassò un poco la voce, volgendo la testa verso la casa dei padroni, addossata al fianco destro dell'opificio, e donde veniva un gaio acciottolio di piatti.

— Quello lì, per esempio, è nato ricco, forse?… Se I'è creata lui, la sua ricchezza, soldo su soldo, metro dopo metro. Adesso io mi levo il cappello quando passa, e gli dico: Monsù — e lo ringrazio quando, in fin di settimana, mi consegna, in un bel pacchetto di carta, già preparato, attraverso uno sportellino, il mio salario. Ebbene, allegra, Fresia!… Fra quindici o vent'anni, tornando qui, gli voglio dire: Caro amico!… — e domandar se la sua fabbrica è da vendere.

La piccina non aveva compreso, in tutto questo discorso, che la frase: “ fra quindici o vent'anni ”. Le labbra le tremarono: sporse timidamente una mano a stringere la mano di lui, dura, nocchieruta, con unghie brunastre, larghe e piatte. Egli rispose alla stretta; ma prosegui nel suo pensiero fisso.

— I compagni socialisti!… Già. Comizi, probiviri, propaganda, dimostrazioni, scioperi, il diavolo a quattro, un mare di gesti e di chiacchiere: per riuscire, infine, a guadagnar due o tre lire di più al giorno. Già. Anch'io, per un momento, ho pensato di farmi socialista. Ma che cosa si ottiene?… Che son mai due o tre lire al giorno di più?… Poveri cristi tutta la vita, lo stesso!… C'è, è vero, l'affare della fraternità. Ma ti mette qualcosa in tasca, la fraternità?… e ci credi. tu? Esser solo, bisogna: arrabattarsi, osare, trafficare, farsi avanti coi pugni, coi gomiti: esser solo e volere. E non aver paura di nulla. Nè dei mezzi, nè dei nemici.

— E io, io, intanto, che farò?…

— Tu?… Mi vorrai bene e mi aspetterai, Fresia.

— Oh, io vorrei tanto che tu rima nessi povero, Marco, e ritornassi presto presto, per sposarmi. Oppure mi chiamassi là. Verrei. Pensa, la vita, come è corta.

— Sciocca!… La vita è lunga. E tutto nel mondo è lì, per esser preso da chi lo vuole e lo sa prendere. Capisci?…

No, non capiva. Ma egli la baciò a piene labbra, da padrone, rovesciandole indietro la testina anemica: piantandole quasi un morso nella fontanella della gola, dove l'arteria batteva batteva, precipitosa. E, come ella si abbandonava, scolorita, immemore del posto e dell'ora, la raddrizzò, con gesto rude.

— Li vedi, tutti questi stracci?… — Cosi dicendo, strappava un ciuffo di cenci dallo squarcio di uno dei sacchi. — Pouah!… Che puzzo!… Fiuta. Che porcheria!… Sai tu donde vengano?… E chi li abbia portati e sporcati?… e a che cosa abbian servito?… Dicono che li passan per la disinfezione, prima di scaraventarli qui. Io, per me, vi sento il tifo, la scarlattina, e tutti i vizi e l'anticristo…. Ma domani saranno ben altro. Domani li metteremo a bollire nella grande caldaia: poi imbianchiranno, poi passeranno di macchina in macchina fino a diventare quella stoffa là — e additò le pezze umide ancora, distese ad asciugar sulle terrazze. — Cosi è per la ricchezza, Fresia!… Quando c'è, nessuno indaga di che cosa sia composta. Pur che ci sia, pur che si conquisti!… Fresia!… E tu, tu mi aspetterai.

— Si.

Ella pareva sonnambula. La scosse il fischio del tocco. Marco l'aiutò a scendere dall'alto dei sacchi, baciandola ancora, a tradimento, nel collo. Il portone si apriva: operaied operaie accorrevano in fretta, urtandosi, stuzzicandosi, ridacchiando. Qualche minuto dopo, ognuno era al suo posto, il lavoro ricominciava la sua canzone brutale e sacra. E il gesto delle macchine e il gesto dei lavoratori si snodavan cosi esattamente precisi, armonici, suscitati l'un per l'altro, che lo stesso ardore di conoscenza e di volontà sembrava animasse la creatura pensante e la materia disciplinata.

I giorni e le notti passarono sull'opificio grigio. La ciminiera continuò a fendere col suo impeto diritto, col suo fischio prepotente le brume delle albe, le luci dei tramonti. La Rovella si cinse di vapori impenetrabili, si ammantò di morbido velluto verde, si fece d'oro e di ruggine, a seconda delle stagioni. Ogni tanto, i piccoli uomini cozzavano l'un contro l'altro in liti rumorose ed inutili, in vertenze fra padroni e servi, in scioperi e serrate livide di minaccia. Allora la Rovella ammiccava in silenzio al torrente, il torrente bisbigliava qualche ironica, misteriosa parola alla fabbrica che rimaneva impassibile, con tutti i suoi occhi aperti sulla vallata, dove altre impassibili fabbriche ergevano le spade massicce dei loro camini. E i piccoli uomini ritornavano in pace.

E fra pace e fra guerra solo le creature invecchiarono, a differenza della terra e delle cose.

I bei capelli neri di Fresia lasciavano ormai trasparire i fili d'argento della quarantina. Nella sua bocca, ch'era stata cosi fresca e ormai s'afflosciva agli angoli, i denti, trascurati, ingiallivano, scalzandosi. Marco aveva da gran tempo cessato di scriverle: secondo voci varie di emigranti rimpatriati, arricchiva nel Canadà, divenuto più americano d'uno yankee, serrando nel pugno d'acciaio fili di intricatissime reti d'affari. Il suo silenzio non aveva scoraggiata la fedeltà della donna. Della promessa d'un giorno ella s'era fatta nutrimento e vita, unica ragione di speranza, (fosse pur vana), fra l'andare e il venire della spoletta entro i fili del telaio e l'ondeggiar delle litanie nella chiesa, i giorni di festa. Quantunque ognuno fosse certo che Marco non sarebbe tornato più, il sentimento quasi religioso di Fresia fu rispettato; e la tacita creatura dai dolci occhi canini venne a poco a poco considerata come una vedova.

Invece, un bel giorno, Marco tornò. Sbarbato, disseccato, arsiccio nel volto, con rughe amare e crudeli come cicatrici agli angoli degli occhi e della bocca, in perfetto costume inglese a piccoli scacchi fulvi e bruni, discese, con un salto, dal trenino di Biella alla stazione di Valle San Nicolao perduta nel verde, guardandosi in giro per riconoscere i luoghi.

Dalla soglia del caffè, una donna grassa e barbuta lo segui per un attimo coll'occhio indifferente. Egli prese la stradicciuola ghiaiosa che conduceva al Càmpore, attraversò il ponte sullo Strona, sostò un minuto a fissare il torrente, che schiaffeggiava colle gelide schiume rabbiose i macigni del greto. Senti, più che non vedesse, il paese, il suo paese: la Rovella alle spalle, aspra e ferrigna come il proprio nome, già livida sotto la minaccia dell'ombra: le colline di fronte col vitifero capo ancor nel sole: e fabbriche e fabbriche: all'orizzonte, su tutto, la punta candida del San Bernardino, con la croce di Fra Dolcino nitidamente intagliata nell'azzurro.

Dal Càmpore a Valle Mosso passò fra schiere d'operai che tornavan dal lavoro. Nessuno fra gli anziani lo riconobbe. Fra i giovani, non ravvisò alcuno. Tornava, come aveva giurato a Fresia ed a se stesso, ricchissimo: come allora, più di allora, solo

Prima a New-York, poi a Chicago, poi nell'interno del Canadà, meccanico, fattorino, segretario, inventore, socio in imprese ambigue, sempre sul punto di naufragare e sempre a galla, fulcro e leva di macchinose combinazioni commerciali, — dotato per gli affari di un miracoloso fluto d'animale da preda, — egli non aveva mai perduto di vista il suo fine. Cocciuto e duttile nel medesimo tempo, aveva saputo destreggiarsi, ed imporsi. Nè vino, nè lusso, nè donne, nè amici avevan potuto entrare a corrompere l'avida austerità della sua vita. Era stato un puro artista della ricchezza; e si era servito, per conquistarla, di tutti i mezzi possibili, fuor di quelli che intaccan troppo il codice. Per conquistarla: non per goderla. Che godere!… Quando il denaro c' è, bisogna contarlo, sorvegliarlo, muoverlo perchè renda ed aumenti, trattarlo come cosa viva che può guastarsi, sfuggire, morire.

Costruttore e schiavo, sacerdote e soldato della propria sostanza, l'amava per se stessa, solida, piena, accortamente disposta e collocata, bottino e signoria magnifica. — Ed era tornato al paese. — Avrebbe, lì, comperato un vecchio lanificio (perchè no, se fosse dossibile, quello di Pietro Oddo, ov'egli aveva lavorato in giovinezza?…) — e l'avrebbe rifatto, ampliato, reclutando operai, raddoppiando e perfezionando il macchinario, rinsanguando l'industria, maneggiando da despota affari, uomini, strumenti, terra.

Pietro Oddo, vecchio e stanco, senza figli maschi che potessero succedergli nell'azienda, gli avrebbe forse ceduto volentieri la fabbrica, a buone condizioni.

E tentò.

Una domenica, tre o quattro giorni dopo l'arrivo di Marco, i due uomini, seduti l'uno di fronte all'altro nello studio a piano terreno dello stabilimento, combatterono ad armi uguali il loro astuto duello. Ognun d'essi conosceva e venerava il valore di sua maestà il denaro, per averlo agognato, raggranellato, difeso soldo per soldo. Si rassomigliavano, anche, come un padre rassomiglia al figlio, nella fronte bassa e cocciuta, nel profilo duramente scolpito, nell'astuzia prudente e tenace che caratterizza la razza biellese. Il colloquio fu un capolavoro di finezza, di buon senso pratico, di avvedutezza commerciale. Si misero d'accordo, in massima. L'indomani si sarebbero riveduti.

Come mai, proprio dinanzi al portone della fabbrica, grigia sotto il cielo grigio nell'afoso vespero domenicale, Marco si trovò a viso a viso con Fresia?… L'aveva visto entrare, l'aveva atteso fuori, forse. Ed egli ebbe in quell'attimo, rivedendola, la certezza ch'ella era per lui come gli occhi nella fronte, come il sangue nelle vene: non vi si pensa, perchè esistono in noi.

Si salutarono, con semplicità. Presero, a paro, la tortuosa stradetta che conduceva, salendo, al canton Viole. Nessuno in giro: le donne a vespro, gli uomini all'osteria.

— Sei sempre stata bene?… — chiese Marco, pacatamente.

— Sì. Ma ora son sola. Mia madre è morta. Tu sei dimagrato, Marco.

Nemmeno la più timida allusione al suo silenzio di tanti anni, alla promessa ch'egli forse non ricordava o non voleva ricordar più, alla ricchezza che li separava, massa opaca ed informe.

Ma esisteva, veramente, quella ricchezza?… Oppure non pareva che nulla, nulla fosse fra loro, neanche l'aria, tanto si sentivano spogli ed ignudi, e trasparenti l'uno all'altra?… Da quando non s'eran rivisti?… Dal giorno prima?… No, da vent'anni. E Fresia aveva la bocca floscia, la pelle sfiorita, e qualche capello bianco. E Marco aveva sul viso e nell'anima l'inaridimento prodotto dalla vita violenta e rapace. Tuttavia ella era la donna unica, per lui: quella che si può gettare in un angolo come cencio vecchio, e per tanto tempo non si riaffaccia nemmeno alla memoria; pure, in disparte, in silenzio, umilmente, fedelmente, aspetta. Se non fosse tornato, lo avrebbe atteso sino alla morte. Ed era ignorante e rozza, fatta anche in questo per lui, che non possedeva altra scienza se non quella del guadagno. E portava negli occhi canini, nella carezzevole voce sommessa, nella tenuità devota della persona ciò ch'era necessario al riposo dell'esistenza di lui, sempre all'erta, in armi, in vedetta, solo risonante del metallico suono delle monete. E non chiedeva nulla: l'avesse lasciata lì, all'angolo della strada, brutalmente, vi sarebbe rimasta senza protestare.

La guardò a lungo: attraverso il lavorio del tempo, restava in lei intatto il tipo, l'indescrivibile segno di fisionomia che aveva chiamato ed acceso il suo cuore ventenne. Per quel segno immutabile ella era immutabile ai suoi occhi, simile alla casa in cui si crebbe, alla terra ove si è nati.

E fu con la calma di colui che riprende il filo d'un discorso interrotto qualche minuto prima, che Marco rivolse alla donna, nè triste nè lieta, queste parole:

— Sto per comperare la fabbrica d Pietro Oddo. Quando sarò il padrone, ti sposerò.

Fresia tacque. E continuarono la strada.

Gli occhi di Rosanna erano piccoli e trasparenti, d'un azzurro d'aria, d'una limpida serenità; la sua voce aveva la serenità e la trasparenza de'suoi occhi.

Angolosa nel corpo — che non aveva perduta mai la scarna goffaggine dell'adolescenza — di lineamenti comuni, ma non volgari, coperte le guance ed il mento d'una pelurie biondetta che i maligni del paese chiamavano, nel loro bastardo dialetto, la barba dla maästra, non possedeva di bello che le trecce: due inverosimili trecce di color rosso rame, a striature d'oro, così folte che ogni tanto s'allentavan sul collo e parevano crollar giù. E sorrideva bene, rialzando gli angoli della bocca ancor fresca su denti dallo smalto più azzurrognolo che candido; e le bastava sorridere, per ottenere da' suoi scolari ciò che voleva.

Di scolari, ne aveva ogni anno una sessantina, tutti piccoli, dai sei agli otto, gagliardi e sporchi, svelti come caprioli, più pronti a scalar muri, a sgorbiar banchi e a lanciar petardi, che a scrutare i misteri della tavola pitagorica. Venivan dal villaggio, e dalle cascine sperdute nella pianura: l' inverno, assidui, portando nella scuola odor di stalla e manciate di neve, cogli scarponi incrostati di fango e le dita gonfie pei geloni: ma disertavano in primavera, pei lavori dei bachi e dei campi, con grande disperazione della signora maästra.

E scorrevan le annate; ma a lei i ragazzi parevan sempre gli stessi, pel miraggio di un'affettuosa illusione, e anche pei nomi di casato che sempre si ripetevano: come avviene nei villaggi, dove le poche famiglie capostipiti si suddividono in innumerevoli ramificazioni: Friggi, Caserio, Conti, Corbetta, Mazzoni, Salvestri.

Ella conosceva profondamente l'attitudine ereditaria dei Conti a scrivere con le dita contratte ad uncino, tenendo il collo rientrato nelle spalle e il testone piegato a sinistra. I Friggi eran quasi tutti loschi d'un occhio, pronti a sferrar pugni, e ribelli alla grammatica. Nel piccolo Guido Corbetta ritrovava, con emozione tenerissima, la stessa morbosa facilità d' arrossire, la stessa mobilità di bocca e di sguardo dell'altro Corbetta, il maggiore, ormai soldato; che le mandava sempre, dal suo distretto in Basilicata, certe cartoline di celluloide che a lei sembravan del più squisito gusto.

Li adorava, — e l'adoravano. Nata in paese, non se n'era staccata che per infilare alla meglio gli studi magistrali nella più vicina città: e che fatica, mio Dio, che fatica, per riuscir ad afferrare un meschinissimo diploma, tutto di “ sei!… ” E buon per lei che il professore di matematica s'era mosso a compassione; ma non capiva proprio perchè esistessero al mondo le dimostrazioni algebriche, le radici cubiche e quadrate. Davanti alla Divina Commedia rimaneva terrorizzata come un uccelletto immobile sul ramo, vinto dalla fissità magnetica degli occhi dello sparviero, che gli piomba addosso a rapidi giri concentrici. Quanto alla storia, ella non aveva mai saputo chiaramente distinguere Alboino da Teodorico, Pipino da Carlomagno, la Marchesana di Mantova da Caterina Riario-Sforza. Erano morti e sepolti, tutti coloro, Dio li abbia in gloria!… A che scopo farli rivivere per lei, che pensava a ben altro?…

Verso la fine del terzo anno di corso, il cervello di Rosanna si sarebbe potuto paragonare ad un caldaione in cui andasse ribollendo il più inverosimile guazzabuglio di cognizioni, a dispetto del senso comune. Ma che importava?…

Ella non voleva che questo: tornare, ad ogni costo, maestra al suo villaggio, dove già il posto l'attendeva. Maestra dei piccini della prima classe elementare: non sognava diversa fortuna. Nella timida e goffa campagnola, zimbello delle normaliste di stile moderno, ma sana come il fieno e fresca come le margherite dei prati, ardeva il puro spirito religioso della maestra rurale. Nel semplice cuore ella custodiva ignuda ed intatta la vocazione, portandola in sè come un inestimabile bene che nessuno, che nulla, fuor della morte, avrebbe potuto toglierle.

Quando pose per la prima volta il piede nella rustica aula un po'buia, fra i banchi neri d'inchiostro e i vecchi cartelloni sbiaditi, Rosanna si trasfigurò; e tanto fu felice, che ne divenne quasi bella. Mai ferma, sempre tra le file dei ragazzi, agile, pronta, insegnava con la stessa naturalezza colla quale si respira e si cammina. Rapidissimi trapassi da una materia all'altra: novità, gioia, freschezza: la luce della parola e del gesto si trasfondeva negli alunni, per incanto.

Portava nella classe fiori vivi, insetti vivi, per lezioni che somigliavano a scorribande in campagna. Oh, così avesse potuto portarvi i passeri e le rondini, gli alberi e le acque, le stelle e le nubi!…

Fröbel, Pestalozzi, il metodo?… Se lo creava lei come lo sentiva, il metodo.

Quando le pareva che i fanciulli fossero stanchi, distratti, irrequieti, si metteva a raccontar favole, seduta in mezzo a loro sull'angolo di un banco, colle mani incrociate sul grembo e le spalle un po' curve, nella loro gracile linea rimasta adolescente. Ingenue favole, semplici e bianche come l'anima sua, che i fanciulli bevevano a bocca aperta immobili sotto il fascino di quegli occhi d'aria, di quella voce d'aria.

Ma la scuola di Rosanna non finiva alle tre del pomeriggio. Senza padre, senza madre, sola, ella si sentiva portata dal cuore a viver la vita de' suoi piccini. Paoluccio De-Giuli, lo zoppetto dal furbo musino di scoiattolo, tornava spesse volte a casa con un'ombra di febbriciattola: via, dunque, in grembiale, in capelli — quei bei capelli color di rame, troppo pesanti!… — su pei sassi di via de' Monaci dietro la chiesa, fino alla casupola dove la madre, giallognola, arcigna, sdentata a trent'anni, si lasciava indurre da lei a mettere il bimbo a letto, a fargli ingollare una pillola di chinino. La sorella maggiore di Marco Friggi, della Cascina Rossa, era alla vigilia delle nozze, e si cuciva il corredo da sè: ecco la maestra in cammino, con tele, pizzi, modelli di biancheria, fra magri campi di grano, tristi canali, boschi di frassini e di querece. La Cascina Rossa pareva isolata dal mondo, fra sterpeto e fiume. Il Ticino, rapido, azzurro e violento, mangiava e rimangiava le rive frananti di color d'ocra. Silenzio selvaggio: solitudine d'acque: solitudine di foreste. Ma ella non temeva di nulla. Era di quella terra, ne conosceva ogni albero, ogni macchia. Che avrebbe potuto accaderle?…

E il buon Mazzoni aveva la nonna paralitica; e Pietro Sabbia, tardo e cocciuto, non sarebbe certo riuscito a risolver da solo il problema….

Così Rosanna si componeva, per la propria vita, un'armonia di maternità paziente e vigile; che, ignara degli spasimi fisici, non conosceva se non le dolcezze, le trepidanze, gli orgogli dello spirito. E di ciò era paga; e le sue giornate non avrebber potuto essere più colme.

Amiche, non ne aveva. Le altre maestre del paese, dei vicini villaggi?… Niente, niente. Legate al loro lavoro dalla catena di ferro della necessità. Ma spostate, tutte, o quasi.

Chi sa perchè nelle campagne la maestrina è, il più delle volte, una spostate?…

Maria Barni, che si era sposata ad un fornaio, e metteva al mondo un figlio all'anno, si rifiniva fra la scuola e la casa, arrossendo dell'inferiorità di suo marito, che non sapeva nemmeno leggere. Ginetta Paloschi, pallida ed affilata sotto il casco turchiniccio dei crespi capelli d'araba, esalante odor di carne profonda e di rosa disfatta, si trovava ogni sera, dietro l'oratorio, col nuovo direttore del setificio, che aveva moglie e figliuoli. Margherita Massimi, alta, imperiosa, elegante, dagli occhi obliqui sottolineati con la matita blù, andava una volta la settimana a Milano, e i meglio informati ne raccontavano, sogghignando, il perchè; ma a voce bassa, per non esser citati in pretura a risponder d' ingiuria e diffamazione, da quella bella donna che non aveva certo paura dello scandalo.

Per ognuna, la scuola era il mezzo di guadagnarsi il pane; ma l'anima loro ne viveva lontana, come quella d'un incredulo dal raggio della grazia. Le più giovani sdottoreggiavano, sì, talvolta; quasi avessero giocato ai birilli con Guido Cavalcanti e messer Agnolo Poliziano. Ma la classe!… i ragazzi!… che peso, che catena, che galera!… Rosanna, nella sua innocente semplicità, avrebbe voluto accogliere, fra immense carezzevoli braccia, quei ragazzi e quelle bambine che, per lei, erano senza maestra. Ah, ne avrebbe trovato, dell'amore, anche per loro!… Si sentiva il cuore inesauribile, fresco d'uno zampillo perenne. Amore, sì. A tal parola non sapeva dare altro significato: lei, che aveva riso sulla faccia al fittabile del Castelletto, il quale l'avrebbe tolta dalla scuola per sposarsela in letizia: lei, che non entrava mai senza un brivido nella casa di Vanni Conti, il suo piccolo prediletto, pel terrore d'incontrarvi lo sguardo e la bocca del fratello maggiore, Mariano. Sguardo e bocca che le si appiccicavano addosso, avidi e beffardi, succhiandole sangue e pensiero, ferendola sin nelle viscere.

Mariano Conti teneva volentieri le mani in tasca. Forse vi nascondeva un coltello, per tirarlo fuori, di sorpresa, quando meno uno se l'aspettava.

E dava, invero, la sensazione di una lama di coltello, nel corpo allampanato, nel volto triangolare, nelle pupille taglienti. Scarno, ma di forza erculea: ribelle ad ogni arte, ma intelligente: di quell'intelligenza cavillosa, torbida e negativa che forma i vagabondi, i furfanti e gli anarchici. Spariva a tratti, a tratti ricompariva in paese, misterioso, glabro e sinistro. Aveva tentato tutti i mestieri; ma a tutti preferiva portar sassi e legname nella sua barca sul Ticino, dal villaggio, alle opposte terre di Vigevano: seminudo, libero, remando a gran forza e cantando canzonacce.

La madre aveva terrore di lui, e tremava e perdeva il sonno quando se lo vedeva ricomparir davanti, dopo lunghe, tenebrose assenze, come sbucato di sotterra. Egli era senza labbra: la sua bocca pareva una cicatrice. Se guardava in faccia qualcuno, lo sforacchiava fin nell'anima con due punte di succhielli.

Gli sarebbe piaciuto tenersi la maestrina nella barca, vederla rannicchiata a poppa, bianca bianca nel vestito nero, colle mani aggrappate agli orli e le grosse trecce fulve rallentate, pel troppo peso, sulla nuca. Oro e rame in quei capelli: quanta ricchezza!… Glielo aveva detto, un giorno; e le aveva anche offerto un posticino nella sua “ carcassa, ” sogguardandola, fra il rispettoso e l'ambiguo. Ma Rosanna, pallida come un giglio d' acqua, non aveva nemmeno risposto. Allora il beffardo giovine, colle mani in tasca secondo il solito, e la testa viperina affondata nel collo tutto corde e nodi, s'era allontanato obliquamente, fischiettando sull'aria: “ Son spagnola e danzo il bolero ” un suo pensiero venefico: Te la voglio fare, monachella: vedrai!…

In un nebbioso crepuscolo di novembre, la signora maästra tornava, sola, dalla Cascina Rossa. — Cric-cric — facevano sotto i suoi piedi le foglie morte. Pensava: Il bosco è un letto di foglie morte…. D'un balzo, qualcuno le fu sopra.

Non aveva avuto il tempo di scorger l'uomo sbucar da una macchia; e già boccheggiava nella sua morsa. Urlare non poteva. Si dibattè, gorgogliò qualche mozza parola disperata, cacciò le unghie nel collo dell'assalitore, cieca, demente. Fu la lotta originaria — senza pietà nel forte, senza speranza pel debole — che forse, nei tempi dei tempi, quelle selvagge foreste avevan vista combattere fra il maschio avvolto di pelli caprine e la femmina solo coperta dal manto de' suoi capelli. Tale si rivelò l'amore alla maestra di prima elementare, che aveva l'anima candida d'un bimbo appena nato, e gli occhi ascetici delle madonne di Giotto.

Il giorno dopo, i sessanta scolari di Rosanna non seppero riconoscere la loro dolce signora nella creatura terrea e disfatta, con lo sguardo assente e la bocca tormentata da un tic convulso, che sedette dinanzi a loro; anzi, parve cader sulla poltrona per non rialzarsi mai più.

Non era più lei.

Parlò, con voce rôca: si forzò di svolgere, come di solito, il corso delle lezioni; ma a tratti le si spezzava la frase sulle labbra. Forse era ammalata. Ognun d'essi lo pensò, non potendo, non sapendo trovare altra ragione al mutamento. E se ne stettero impressionati e quieti, sperando che l'indomani l' avrebbero ritrovata, gaia e ridente come sempre, la loro maestra: quella che nessun'altra poteva sostituire, quella che amavano ed alla quale erano avvezzi, come alla presenza materna.

Ma costei era morta.

Al suo posto si moveva, parlava, insegnava l'abbaco e l'alfabeto un'altra donna, lontana, diversa, indifferente, — inutile. — Rosanna non si sentiva più degna de' suoi bambini. Sul corpo e sull'anima qualcuno le aveva gettata una veste infame. Non poteva ormai rimanere al suo posto, vivere accanto ai fanciulli, splendere della loro luce, parlar loro del bene, della bontà, della speranza, delle bellezze terrene e celesti. Non v'era bene, non v'era bontà, non v'era speranza: non rimaneva che lasciarsi cadere a terra, sotto le ruote d'un carro, e morire.

I fanciulli, a poco a poco, le sfuggirono: divennero indisciplinati, impararono a chiacchierare, a ridacchiare durante le lezioni, a tagliuzzare i banchi coi temperini, a rispondere con spallucciate e atti di dispetto. — Il fluido magnetico era svanito. — Beppe Salvestri portò, un giorno, un rospo in classe. Punito, fece le corna dietro le spalle della maestra; e tutti scoppiarono a ridere.

Un terrore folle gelò il sangue della disgraziata, le offuscò la vista, le diede il senso dell'agonia.

Sapevano, forse, la cosa tremenda: ed ecco, la schernivano, non avrebbero più potuto rispettarla, lasciarle la loro piccola anima nelle mani: mai più, mai più!…

Deperi, deperì. Le donnicciuole susurravan fra loro che alla maestra Rosanna s'era guastato il sangue, in conseguenza d'uno spavento preso, del quale nessuno conosceva la causa, del quale lei stessa taceva ostinatamente la cause; e le più superstiziose parlavano di stregoneria.

Ridotta al puro scheletro, tutta denti e capelli, scarnita al punto che il corpo non riusciva a sollevare il lenzuolo, non potè più alzarsi dal letto. Pel miracolo che nelle malattie di consunzione rende così belli gli agonizzanti, ritrovò negli ultimi giorni il suo viso verginale, la sua espressione pacata, la carezzevole dolcezza del suo sorriso. Chiamava sottovoce, per nome, gli allievi: faceva l'appello: “ Ma come? non c'è?… sarà malato …. ”. E poi: “ Attenti: la lettera U… ”.

Ma sulla lingua ingarbugliata il sillabario si confondeva con Pinocchio dal lungo naso, e la fiaba di Cappuccetto Rosso balzava nel Giardino delle Tre Melarance, per morire soavemente nei versi che tutti i fanciulli sanno a memoria:

Il bimbo dorme e sogna i rami d'oro,
gli alberi d'oro, le foreste d'oro…

Finalmente il delirio cessò, la donna si spense, tentando con le diafane dita il gesto di tener la penna; e morte la compose in perfetta serenità.

Mai funerale fu più bianco; ma sulla neve di gennaio, dura, gelata, scintillante di piccoli cristalli, la coltre virginea gettata sulla bara e i veli delle figlie di Maria mettevan macchie stranamente torbide. Portata a braccia, la bara fu deposta nella fossa, fra cadenzato litaniare di donne.

Vanni Conti, ch'era stato il prediletto e che piangeva vere lagrime nel piccolo ignaro cuore, gettò sulla cassa le prime manate di terra mista a neve. Poi fu un succedersi di palate brutali come insulti; e tutti si allontanarono, e Rosanna rimase in pace. Di notte cadde altra neve: il fresco tumulo spari sotto il bianco: tutto il cimitero divenne una grande, sola, anonima tomba fatta per l'estasi, cinta di silenzio.

Per qualche tempo, nelle case rustiche, nelle stalle pettegole e fumose, fu un parlottare, un incrociarsi di domande e di supposizioni, un bisbigliar misterioso ed inquieto sulla morte di colei che per tant' anni era vissuta così felice. Vi fu pure chi pregò per lei, semplicemente. Ma presto sopravvennero i primi lavori nei campi e nelle vigne; e quando primavera fece per incanto brillare come smeraldi le folte erbe fra le croci, Rosanna era già dimenticata.

Le due voci avversari giungevano sino alla camera della fanciulla, urtandosi come spade aguzze, già insanguinate in punta, nel pugno di due esperti duellanti.

Quella dell'uomo, bassa, profonda, ostinata, senza alzarsi mai di tono ripeteva accuse ed ingiurie d'una trivialità che esasperave persin l'aria e le pareti. Quella della donna saliva e scendeva a sbalzi, scoppiava in stridule risate convulse, a volte netta e crudele in frasi che si piantavano sillaba per sillaba nel cuore nemico, chiodi in un muro: a volte gutturale, morente, soffocata nella gorgia da una mano di ferro.

Antonella era, purtroppo, avvezza a quei litigi. Da anni, quasi ogni settimana ne scoppiava uno. La sua bionda puerizia s' era schiusa alla luce dell' adolescenza, e stava per rasentare le soglie della giovinezza, respirando a fatica in quell'atmosfera di odio coniugale senza perdono, senza nobiltà, senza tregua. Ella preferiva, del resto, l'eco fischiante delle baruffe ai lunghi silenzi che le seguivano e alle pesanti ore dei pasti, durante le quali i due portavano a tavola i loro gesti macchinali e il loro volto chiuso, e non aprivan bocca se non per rivolgere qualche distratta domanda alla fanciulla.

L'acerba creatura, già conscia, allargava sull'uno e sull'altra gli occhi penetranti, raccontando storielle di scuola, chiacchierando volubilmente con istintiva furberia, senza attender risposta, convinta e orgogliosa di “ sostenere una parte ”. E ingoiava in fretta il dolce per scappare al pianoforte; e ne strappava tempeste di accordi.

Era certissima, oh, sì!… che suo padre e sua madre non avrebbero mai fatto divorzio. Ne sapeva anche il perchè, che essi non avevano avuto il pudore di nasconderle; e quel perchè la opprimeva come un rimorso, movendole quasi a colpa il fatto di essere nata.

— È per te, per te, mia bambina — le mormorava il padre, accarezzandole i capelli.

— È per te, per te, mia bambina — singhiozzava più tardi la madre, serrandola al petto con braccia che la passione e l'eccitazione nervosa rendevan d'acciaio.

Forse non era vero. Forse, nessuno dei due osava confessare a se stesso la ragione essenziale: che, cioè, entrambi eran giunti a non poter più vivere se non per l'acre bisogno di ferirsi, di dilaniarsi a vicenda, di affilare in punte acutissime d'odio quel che un giorno era stato amore, o illusione d'amore, in temperamenti terribilmente dissimili, fatti per urtarsi senza rimedio.

Tanto vi era avvezza, che nemmeno quella mattina Antonella si scompose nell'udire le voci violente. Ebbe soltanto un breve sorriso sarcastico, e continuò impassibile a spazzolarsi, dinanzi allo specchio della sua cameretta piena di luce, i lunghi capelli color ciuffo di pannocchia.

Quella strana tinta arsiccia era il suo orgoglio. Intrecciò le dense masse, le ravvolse in due semplici giri intorno al capo, secondo la foggia russa. La raggera d'un rosso fosco rendeva più bianco il viso, che nel fiero disegno delle labbra e nel verde-grigio cangiante degli occhi recava l'inquietante mistero d'un' anima già offesa dalla brutalità della vita.

Chiudendo con un secco “ tic ” i ganci automatici della camicetta candida e della sottana blù, si mise a canterellare. Si mise, — con forza, per null'altro intendere, per interporre una barriera fra sè e le due belve che si azzannavano a pochi passi da lei, — a pensare che la mattina di maggio era velata ma dolce, che non sarebbe piovuto, che i pomari dello Zürichberg erano ancor tutti in fiore, che Nellie Altwegg l'aspettava lassù, e lungo la strada ella avrebbe incontrato Petruccio.

“ Petruccio, Petruccio ” modulò sul ritmo d'un tango argentino, mentre di là veniva il fracasso d' una sedia buttata in terra, di due o tre rauche imprecazioni, e il mugolio disperato della donna fuor di sè.

Poì, la porta d'uscita sbattè sui cardini. Il padre se n'era andato, certamente: succedeva sempre così. Pochi minuti dopo, dalla finestra, Antonella lo scorse camminar lungo il marciapiede, con le mani nelle tasche e il mento sul petto, come uno che abbia freddo.

E nella casa fu un gran silenzio.

Tutta pronta nel succinto costume da passeggio, tutta fine e magretta dal piede calzato di camoscio nero alle trecce chiuse nel piccolo elmo di paglia blù, solo ornato di due alette candide, Antonella, nel corridoio, volse la testa per non incontrare gli occhi di Janna, la cameriera che passava in quel momento con un vassoio, scivolando tacita e ambigua con piedi feltrati. — Aveva notato da un pezzo che tutti i servi hanno la stessa faccia, quando i padroni litigano: faccia da schiaffi, compunta e soddisfatta, falsa, acre ed avida del peggio. — La sedia in sala da pranzo era stata rimessa al posto. Un odore dolciastro di acqua di melissa ondeggiava nell'aria. La fanciulla si chinò sul volto della madre, abbandonata in una poltrona; baciò la fronte sbarrata di sbieco da una ciocca grigia.

Ah, che tristezza, per Antonella, quella ciocca resa grigia non dall'età ma dalla sofferenza, quella bocca contratta, quelle chiuse palpebre violette, quell'infinita stanchezza materna!…

Ma dalla chiara fronte, dalla chiara voce l'emozione non trasparì.

— Mamma, mammina, come ti senti adesso?… Meglio?… Ripòsati, quiètati. Dovresti farti una ragione, ormai!… Aspetta: ti metto un cuscino dietro la testa. Io vado da Nellie, lo sai, nevvero?… per quel sunto di storia e quel famoso ricamo che non finisce mai. Rimarrò da lei a colazione: lo sai, nevvero?… Oggi è vacanza….

La madre non sollevò nemmeno il capo. Era piena del proprio spasimo, non capiva altro. Gli occhi le si dischiusero un istante, àtoni nelle orbite bistrate dalla passione, enormi nel piccole volto ancor giovine malgrado i solchi.

— Sì, cara — accennò con le labbra.

E Antonella partì dalla casa come chi fugge da un sotterraneo dove si muoia di asfissia. Evitò ancora, nell'anticamera, lo sguardo di Janna che le apriva la porta; ma Janna non ne fu sorpresa, nè malcontenta. Ella s'era accorta che la giovinetta sedicenne intuiva e penetrava molte cose che a quell'età passano generalmente inosservate. E quel limpido ma acuto viso era specchio nel quale non amava mirarsi la creatura viperina, che, destramente rigirandosi fra la violenta sensualità del padrone e l'orgoglio della padrona chiusa nel suo rancore esasperato, approfittava dell'anarchia dissolvente la compagine di quella famiglia per raggiungere, nell'ombra, un suo scopo.

Nella fulva e verde solitudine della strada alberata salente verso la collina, Petruccio, che pedalava vertiginosamente, si arrestò di botto sul passaggio di Antonella.

Il bel ragazzone bruno e muscoloso, dal sorriso brillante, dalle spalle quadre, scivolò dalla bicicletta, mise la mano al grigio berretto a visiera, e subito la stese alla fanciulla.

Erano rossi tutti e due, du'un rosso acceso di papaveri fra il grano. Poi divennero pallidi. E non si dissero niente. Si, la solita, l'eterna parola si dissero, cogli occhi. E seguitarono il cammino, lei tormentando il manico dell'ombrello, lui tirandosi dietro la bicicletta come un buon cane pel collare.

Intorno era il silenzio: il quieto silenzio dei giardini dello Zürichberg, che pare soffochino sotto la lussureggiante verzura le villette troppo piccole, vestite di piante rampicanti.

I peri e i pèschi avevan finito di fiorire; ma i cotogni, più tardivi, eran tutti una unvola bianca e rosea, e continuavano in terra l'aspetto del cielo, velato di nubi leggere, moventisi, sovrapponentisi in taciti cumuli. — Uno scoppio di vegetazione, una pletora di linfe. — Terrazze chiuse da vetri colorati, coperte di glicini dai fittissimi grappoli, d'un viola quasi grigio: alberi di serenelle, carichi più di fiori che di fronde, in un'armonia delicata di ametista, di lilla, di bianco latteo: biancospini, azalee, e le piogge d'oro dei citisi, a trabocco dalle basse cancellate dei parchi: e verde, verde, verde di tutte le sfumature, denso, fronzuto e trionfante, solo interrotto dai solchi delle stradette uguali, perdute l'una nell'altra, a somiglianza dei viali d'un labirinto. Nella sua veste primaverile, Zurigo, dove Antonella era nata da genitori italiani, dove Petruccio aveva conosciuta la sua “ Gioietta ”, pareva dire ai due bellissimi adolescenti: Sì, si, avete ragione d'esser giovani e di volervi bene.

La prima a trovar la parola fu Antonella.

— Peccato che i peri non abbian più fiori, adesso!… — (E le tremava la voce, quasi che davvero fosse un gran lutto per lei, che i peri non avessero più fiori.) Te ne ricordi, che maraviglia, due settimane fa?… Neve: neve odorosa….

— Sì — rispose Petruccio. — Ma non son belli anche questi?… Guarda, Gioietta.

E colse da un ramo di cotogno due o tre campanelline rosee.

Gli uccelli saltabeccavan sui loro passi, senza paura. Un passerotto faceva comodamente, ai loro piedi, il suo bagno di terra calda, tuffandosi con voluttà nella sabbia, scotendosela intorno col raspar delle zampette e il frullar delle ali. Essi si sentiron simili a quegli uccelli, a quei petali di cotogno, perduti nella primavera. Non tanto però, che la realtà d'ogni giorno non li uncinasse dentro, col duro artiglio.

Dietro le profumate nuvole dei flori, dietro il turbamento ineffabile del giovanissimo amore, Antonella intravide due devastati volti, riudì due voci fischianti a fionda: Petruccio ritrovò l'eco del painto di sua madre — una pallida signora milanese venuta da un anno a Zurigo col pretesto apparente di avviare il figlio agli studi d' ingegneria, col vero scopo di ottenere la cittadinanza svizzera per divorziar dal marito; che, sul limitare della cinquantina, aveva perduto la testa per un'attrice di cinematografo.

E vibrarono, nel pensiero comune; e la comune sofferenza li serrò più vicini. Tanto, non passava un'anima: non vivevano, in giro, che i passeri e gli alberi.

— Ebbene, Gioietta, sempre malinconie, nella casa?…

— Sempre. E da te?…

— Sempre. Mammà scorre le sue giornate, ormai, negli uffici degli avvocati. Intanto dimagra, si affila, s' inasprisce, perde il sonno e la grazia. Quando è a stremo di forze si aggrappa a me, e geme sulla mia spalla: (io sono tanto più alto di lei!…) “ Mi resti tu solo, mi resti tu solo!… ”

— Poveretta!…

— È da compiangere, sì. Ma non potrebbe, invece di accanirsi nel rancore, considera la follia, certo passeggera, di mio padre, come una malattia terribile dalla quale si esca o morti, o purificati?… È così difficile compatire?… è così difficile perdonare?… Io dovrò lavorare, viaggiare, farmi una posizione, una famiglia. Non potrò sempre starle accanto. Che farà, quando rimarrà sola?…

— No, Petruccio. Forse non si può sempre perdonare. Forse si giunge, talvolta, al punto dopo il quale il perdono non è più possibile…. Li vedi tu, mio padre e mia madre, in pace?… Ah, l'odio coniugale!… È una cosa terribile. Una volta almeno avevano il pudore della mia presenza. Ma già da un pezzo non mi sentono più, non ascoltano che il loro grido. Se l'un dei due non ammazza l'altro, è perchè non potrebbe continuare a vivere senza aver sotto le mani l'oggetto della sua demenza. Ma io non so aiutarli. Anche tu non sai aiutar la tua mamma. Io penso a te mentre si accapigliano: a te, a te, Petruccio!… Perchè non si separano?… Per me, dicono. Disgraziati che sono!… Petruccio, bisogna salvarmi, bisogna che ci salviamo insieme…

Il consapevole visino pallido, levato supplichevolmente verso di lui, aveva tanta dolorosa grazia che il giovine ne tremò. La bicicletta fu appoggiata contro una siepe di biancospini: le mani si strinsero, gli occhi si bevvero.

— Ma noi ci sposeremo, non è vero?… quando io sarò ingegenre. E staremo sempre vicini, e ci vorremo un gran bene, e le cose tristi saranno dimenticate… Gioietta!…

— Senti, Petruccio. Vorrei dirti una cosa che, se ci penso, mi fa male al cuore. Noi non amiamo, come dovremmo, nostro padre e nostra madre. Di chi è il torto?… Chi ha mancato?… noi, o loro?…

La risposta non venne. Era già scritta, inappellabile, nei cuori. Per proprio conto essi entravano nella vita, mettendo l'amara esperienza a servizio della propria felicità. L'esistenza era per loro. Era piena di fiori e di frutti. Tanto peggio per chi restava indietro, per chi aveva sciupato l'amore, lasciato disseccare i rami, morir le radici, isterilire il campo.

Ella si mosse:

— Per carità!… È tardi. Nellie mi aspetta. Devo affrettarmi.

— Non ancora!… non ancora!…

Avevan ripreso a camminare, lei, lui e la bicicletta, fra un aereo svolar di petali a un improvviso alzarsi del vento.

Si susurravano, ora, piccole fanciullaggini senza nesso, senza senso comune. Tornavan bambini. Intorno, tutto era appena nato. Un pettirosso li guardava, da un ramo di mandorlo. Un ragazzetto passò, col grembialino pieno di bacche rosse. Aromi a zaffate, d'una dolcezza amara, venivano dal traboccante rigoglio delle glicini. Da qualche nuvola, a capriccio, cadevan rade e intermittenti gocce d'acqua.

— Hai un cappellino nuovo. Ti sta bene.

— L'ho guarnito da me.

— Ci vai, domani, alla scuola?… Io passerò alle sedici, tornando dal Politecnico. Aspettami.

— Mi fermerò un minuto sull'angolo di Rämistrasse.

— Ma non ti mettere, sai, quell' orribile giacca sciolta color mattone, colla cintura bassa. Non voglio. È troppo ardita. Tutti ti guardano….

— Geloso!…

— Cattiva!…

— Tu, sì, sei cattivo. Ne vuoi la prova?… Hai il labbro inferiore che sporge, e i denti aguzzi, da gatto, troppo bianchi. Sei cattivo, sarai un marito violento, mi farai scenate tiranniche, ed io allora….

— E tu, allora?… Tu che cosa?… Tu piangerai, e mi amerai lo stesso. Hai capito?…

Le aveva afferrato il polso, l'aveva attirata a sè, ridendo ma dominandola col torace ampio, con lo sguardo appassionato. Si compresero, impallidirono, nella sùbita angoscia del ricordo familiare. Ebbero in quell'attimo la coscienza che il loro fresco amore racchiudeva qualcosa di ben più grave dei soliti capricci d'adolescenza, nati e morti in un soffio: un bisogno d'armonia, prepotente come quello del pane e dell'acqua: un desiderio di avviticchiarsi alla creatura necessaria, di mantener sempre viva la fiamma, di sentirsi immuni dalla contaminazione della discordia che avvelenava le loro case.

— Adesso basta. Adesso va. Il villino di Nellie è a dieci minuti di distanza. Potrebbero vederti.

— Addio, mia piccola.

— Addio, mio signore.

Il dolce appellativo di antichi tempi cavallereschi sbocciò come un fiore sulle belle labbra gonfie di giovinezza.

Come un fiore, e come un bacio.

E Antonella si allontanò leggera all'ombra d'oro dei citisi, violacea delle serenelle; e Petruccio discese dall'opposto lato, sul suo rapido cavallo d'acciaio. L'animo d'entrambi era consolato: era una foglia nuova che brilla al sole, ancor tutta intrisa della freschezza della recente pioggia.

Il primo tocco della messa dell'alba non era ancor suonato, quella domenica, e già Cristiana scendeva la scaletta di legno che univa la sua camera alla cucina. Ma trovò il fornello già acceso; e, quantunque tazze e piattini fossero tutti allineati in ordine sulla rastrelliera, e il barattolo dello zucchero al solito posto, s'accorse, dall'aroma sparso nell'aria, che la vecchia suocera aveva già preso il caffè, di soppiatto.

I peccati di gola, costei li commetteva tutti di soppiatto. Per non avvezzar male la sposa, diceva. A volte era pure avvenuto che, undendo il passo di Cristiana all'uscio mentre stava sorbendosi un ovo fresco, presto presto aveva cercato di nascondere il guscio fra il proprio dorso e lo schienale della sedia. Ma, pochi minuti dopo, s'era alzata per le sue faccende, dimentica del sotterfugio; e il guscio infranto, schiacciato e viscido di giallume era apparso agli occhi beffardi di Cristiana.

La bella donna si sentiva, quella mattina, salir fino alla gola gli impeti di nausea che l'avevan tenuta insonne buona parte della notte; e l'aroma del caffè la faceva quasi svenire; ma, come al solito, per fierezza, non osò chiederne un sorso.

Avvicinatasi alla credenza, ne trasse una scodella di minestra della sera innanzi, e tentò ingoiarne qualche cucchiaiata; ma non potè. Lo stomaco si rivoltava al gelido cibo salato.

Si ravvolse il capo in una sciarpa nera; a pena volgendo gli occhi verso la vecchia, disse, con voce dura:

— Vado a messa. Buon di.

— Buon dì — rispose la suocera, seduta a mondar legumi sul balcone di legno, dall'altezza del quale lo sguardo spaziava su un'infinita ondulazione di colline e di pianure, che nell'ora incerta parevan grigie, sotto un cielo grigio e rosa.

Ella era tuttavia fresca e maestosa, malgrado i suoi settantacinque anni: con una gran fronte convessa, la pelle tesa, le braccia legnose, aspre di nodi, e una sottilissima bocca rientrante, serrata, che sola diceva la vita trascorsa in durezza implacabile di fatica, in esercizio implacabile di virtù. Fatica e virtù ch'ella esigeva nei figli e nelle mogli dei figli; senza indulgenza per sè, senza indulgenza per gli altri.

Segui coi piccoli occhi freddi l'uscir della nuora, stringendo le labbra e tentennando il capo, per sospetto, o per inquietudine, o, semplicemente, per tremito senile: poi si rimise a mondar legumi, biascicando preghiere.

Cristiana camminava senza affrettare il passo, a testa alta, con l'innata dignità di portamento che in paese l'aveva fatta soprannominare: “ l'Imperatrice ”.

Era di corpo scultorio; e bella, se alla bellezza non nuoce la durezza altiera dell'espressione. Il suo grave profilo s'intagliava pallidissimo nell'ombra della sciarpa nera.

Come prevedeva, lungo la strada non incontrò nessuno. La chiesa era un poco lontana dal canton Prelle dov'ella abitava; e tutti i Prellesi, naturalmente, preferivano andar più tardi alla messa cantata, per aver agio di dormire. Sul viale di Sabbiarossa, fiancheggiato a sinistra dalla collina vitifera, a destra da un filare di acacie fiorite, s'appoggiò ad un tronco, stanchissima, con la bocca livida; il conturbante profumo dei candidi corimbi le faceva mancare il respiro. Pure cercò di vincersi; e continuò, più rapida, il cammino. Presso una cava di marmo fibrosa e spasimosa come una lacerazione in un corpo vivo, le si drizzò davanti l'uomo che aspettava, sbucato dalla capanna dello spaccapietre.

Entrambi strisciarono dietro la casupola, e rimasero addossati alla parete di legno, di fronte al ripido fianco del colle, spaccato dal piccone. Qualchecosa del muto tormento di quei macigni si rifletteva sul viso di Cristiana; ma l'uomo, — un magretto dai piccoli baffi, dal profilo femmineo — se ne stava freddo ed impassibile, come noiato.

— Che vuoi?… Di', presto. Qualcuno può passare e scorgerci — mormorò lui.

Ella esitò un momento, lottando con la parola che la feriva a sangue prima d'uscire; poi sillabò, rauca:

— Ciò che temevo è vero. Dubitare non posso più.

Un silenzio seguì, pieno di cose non dette: durante il quale i due volti fissi l'uno nell'altro ebbero lo stesso color cinereo, la stessa immobilità.

— Che debbo fare?… Mia suocera se ne accorgerà, ben presto. Giacomo torna da Buenos Aires fra quattro mesi. Se tu non mi aiuti, io fuggirò, chi sa dove!… prima che lei mi svergogni, prima che lui mi ammazzi. Che debbo fare?… dimmelo tu….

— Ne sei proprio sicura?… — balbettò il giovine. E parve rimpicciolito, con lo sguardo incerto e sfuggente di chi respinga una responsabilità che lo spaventi. Cristiana lo affrontò, lo investì, amara, violenta.

— Verrei forse a raccontarti questo, se non ne fossi sicura?… Ascoltami, rispondimi. Mi hai pur detto tu, me l'hai detto tante volte, che mi volevi bene. Dunque… è adesso, vedi, che me lo devi provare. Tu sei buon meccanico, io non mi stanco al telaio. In Francia, in Svizzera, in America, dove ti pare. Ti è così doloroso lasciare i tuoi?… Per me sola devi essere, ora. Dimmi di sì.

Gli si stringeva addosso, attanagliandogli gli omeri con le forti mani, avvezze al lavoro; e pareva lei l'uomo, tutta muscolo e volontà. Egli tuttavia sfuggì alla stretta, e torse la faccia: il fiato della bella donna, acido e greve pel disordine dello stomaco contratto, lo aveva fatto dare indietro, istintivamente.

— Càlmati: aspetta: forse t'inganni. La paura fa di questi scherzi. Come vuoi ch'io possa allontanarmi ora dal paese?… mia madre è malata di fegato, lo sai. Parleremo fra qualche giorno, con maggior quiete. Vien gente dalla cascina alle Vigne, non vedi?… il sole è già alto.

— Ma che debbo fare?… che debbo fare?… —ripeteva l'altra, con la monotonia dei maniaci.

— Oh, perdio!… Sai che cosa ti voglio dire?… Voialtre donne avete tanti mezzi, infine!… Non deve nascere: ecco.

Cristiana lasciò cader le braccia e lo guardò come si guarda un pazzo. Poi si mise a ridere, piano, a scatti.

— Ho capito — disse. — Addio, eroe.

Sempre guardandolo in faccia, mentre egli se ne stava immobile, indietreggiò di qualche passo, e girò l'angolo della capanna; poi si diresse, d'impeto, verso il villaggio, senza più curarsi di lui.

Nel subitaneo oscuramento delle facoltà, nella tenebra in cui l'anima brancolava, l'istinto guidava i suoi passi, come una mano ignota, ma sicura ed imperiosa, conduce quelli d'una cieca.

Liberarsi. Glielo aveva consigliato il suo amante. La parola, senza suono ma pregna d'un significato terribile, batteva batteva alle sue tempie, col picchiar sordo, uguale, incessante del martelletto d'una macchina. Liberarsi. Del vivo e del non ancor nato, nel medesimo tempo. Si vergognava di portar nel grembo l'impronta di colui, che non la voleva. Più del terrore d'uno scandalo, poteva su di lei quest'onta segreta. Eppure, come lo aveva amato!…

Quasi con rabbia, tanta era la passione. Ed egli, con che fame e con che furia s'era gettato su di lei, lungo i margini e dietro i macchioni delle complici scorciatoie selvagge!…

Femmineo, in apparenza; ma solido, temprato, con denti a sega capaci di ben mordere, con mani salde capaci di ben scrollare. E quel suo ridere, un po' gutturale! E quel suo modo di mormorarle sulla bocca, teso ed elettrico come un felino: — Adesso ti prendo, ti prendo… —

Ah, basta.

La forza incomposta, virile, che nell'adolescenza l'aveva tante volte spinta con sassi e contumelie contro i compagni di scuola e di fabbrica, più robusti di lei, con la sfida sulle labbra: — Non ho paura, io!… — la rivolgeva e la premeva, ora, contro la più gelosa parte di se stessa, affinchè il segno dell'uomo estraneo venisse offeso, cancellato, disperso.

Dietro il vicolo de' Fabbri, proprio all'entrata del villaggio, stava aggruppato un nodo di casupole lebbrose, con finestrelle scompagnate, con ballatoi di legno marcito, fra un insopportabile odor di stalla e di truogoli. Cristiana infilò un uscio, scese uno scalino e si trovò in una stanza più bassa del livello della via, mobiliata d'un lettuccio, d'un canterano, di due cassapanche e d'un'infinità d'immagini sacre a colorix vivissimi. Una vecchiarda, seduta su una panca presso l'unica finestra, non si alzò nemmeno, al comparire dell'Imperatrice. Si accontentò di volgere verso di lei la testa calva, la faccia senza sguardo, di marmo giallo, che dimostrava cent'anni.

Deo gratias. Che vuoi?…

Cristiana non rispose: rimase addossata allo spigolo, rigida.

— Chiudi la porta a chiave, allora — disse la vecchia.

Quando fu fatto, chiese, tranquilla:

— Dunque?…

Con uno sforzo, penosamente, confusamente, Cristiana si mise a parlare. L'altra la lasciò dire e dire, come se nemmeno l'ascoltasse; ma, quando la voce si ruppe in singulti di supplica angosciosa, crollò il capo, facendo segno di no, di no, di no. Fu un lungo combattere, fra quella singhiozzante preghiera e quel diniego muto. Esausta, Cristiana si lasciò cadere a terra, tutta in un gomitolo, con un gemito lungo di cagna. Solo allora vide la vecchia levarsi a fatica (e non le parve più alta di quando era seduta) e strisciar sulle ciabatte fino ad un usciolo che richiuse dietro di sè. Per qualche tempo (dieci minuti?… un'ora?…) silenzio. L'usciolo si riaperse: le due mani adunche stringevano una boccetta, piena di un liquido scuro e denso. E la porsero a Cristiana, mentre la sdentata bocca susurrava:

— Bere in tre volte: bada bene: in tre volte, a digiuno, all'alba. Poi lavorare, mangiare, camminare, come se nulla fosse. Qualunque cosa accada, tacere. Lo faccio per te, perchè mi fai compassione… Hai capito?… Dieci franchi.

— Ne ho cinque. Porterò il resto.

Cristiana trasse di tasca un fazzoletto, ne sciolse una cocca annodata, donde usci una carta bisunta, che pose sul canterano. Nello stesso fazzoletto nascose la boccetta, e rimise il tutto in tasca; poi, con un tacito cenno di grazie e di saluto, ritrovò la porta. La vecchiarda non la seguì nemmeno, co' suoi occhi bianchi: tornò, impassibile, a sedere presso la finestra, nascondendo il biglietto da cinque lire fra la camicia e la veste.

Ma altri occhi Cristiana doveva affrontare, sulla soglia della propria casa: scrutatori, e astuti, e nemici: gli occhi della suocera.

— Di dove vieni?… Bada, lo so che non sei stata in chiesa, alla prima messa. Me I'ha detto la Falletta. Sta attenta, Cristiana. Io son di guardia.

Molte volte le dure volontà delle due donne s'eran date di cozzo; e l'una aveva fatto fronte all'altra, senza che la vittoria rimanesse ad alcuna. Ma, quel mattino, l'Imperatrice non ebbe forza di rispondere. la madre le si drizzava davanti, al suo posto di custode della casa e dell'onore, inattaccabile nella vita rigidamente chiusa tra il focolare e l'altare, degna del comando e del giudizio, perchè degna di rispetto. E tacque; e salì, rapida, la scala.

Giunta nella sua camera, si strappò la boccetta di tasca. Il chiavistello dell'uscio non chiudeva bene: la madre, col suo passo cauto, reso sordo dalle pantofole a grossa suola di corda, avrebbe potuto entrar d'improvviso. Che fare?… La testa le girava vertiginosamente. Le si sfasciava la spina dorsale.

Per istinto di difesa, per impulso di follia, pel bisogno di compiere un atto selvaggio che a tante ansie ponesse un suggello definitivo, stappò la bottiglietta, e bevve a gorgozzule il giallastro fetente liquido, che le arse il palato e la faringe. Quando non ne rimase più una goccia, ricordò l'ammonimento della complice. — In tre volte. — Ma che importava, ormai?…

Una calma marmorea era succeduta all'angoscia spasimante: la sicurezza, l'impassibilità dell'atto compiuto. Atto che la distaccava dall'amante, gliela metteva lontana mille miglia, la liberava di colpo da lui, dal giudizio degli uomini, da tutto. Almeno così credeva. Rimorso?… Perchè avrebbe dovuto sentir rimorso?… Chi l'aveva aiutata?… Poteva morire… Ebbene, pazienza. Chi l'amava?… Non la suocera, e nemmeno il marito: quell' allampanato Giacomo detto il Lungo, che dietro il miraggio della fortuna se n'era andato a Buenos Aires tre anni dopo le nozze, lasciando lei a casa per non aver “ noie di donne in viaggio ”. E non l'amante, vanesio, sonoro e vigliacco come i fuchi.

Un lieve picchio all'uscio la fece trasalire. Stette un minuto sull'attenti; ma era stato un falso allarme. Nascose allora la boccetta vuota in un mucchio di cenci entro una cassa: uscì, raccolse sul pianerottolo un fardello, già pronto, di biancheria sudicia; e, malgrado fosse domenica, andò a lavare alla fontana.

La mattina del giorno dipoi la trovò smaniosa, febbrile, dopo una notte trascorsa fra brevi assopimenti lacerati da incubi, e risvegli improvvisi seguìti da ore di lucida insonnia. Onde impetuose di sangue le si avventavano a tratti dal grembo al cervello, lasciandole il cuore vuoto, naufragante in un languore di morte. A tratti, anche, un lancinante dolore le trafiggeva le reni; e pareva le portasse via brandelli di visceri.

Sentiva che un'agonia avveniva in lei, d'un altro essere in lei vivente. E, sentendoselo morir dentro così, cominciava a capire, ad amarlo, a spaventarsi di ciò che aveva commesso. Un mostruoso fatto stava accadendo, per sua volontà. Dalle radici della disumana sofferenza saliva un odio veemente contro l'uomo che se ne stava in quei momenti tranquillo, senza pensieri, senza rimorsi, senza che alcuno potesse fargli del male; mentr'ella, e chi si spegneva in lei, portavan soli il peso dell'amore, dell'errore, del delitto. S'alzò, nondimeno, dal letto, resistendo allo spasimo, agganciandosi alla meglio gli abiti, urtando negli spigoli dei mobili.

Lo specchio le riflettè un volto verdastro, gonfio, segnato da solchi profondi: un volto che non pareva il suo, che sembrava salire a galla da un gorgo. Uscì, come di solito, per andare alla fabbrica, che si trovava giù nella valle: gai saluti l'accolsero per via:

— Ohe, Cristiana del Lungo!… — Ti son giunte lettere dall'America?… — Come va che ieri non t'abbiam vista alla sagra di Casa pinta?… — Buon giorno, Imperatrice!… — La facciamo, questa volta, la strada insieme?… — Martin Pero era fuor della grazia di Dio, iersera, per non averti veduta. Voleva far con te un giro della nuova polca… —

A coppie, a gruppi, in fila indiana, fischiettando, scherzando, canterellando le novissime canzonette, operai ed operaie scendevan la china, chi per la strada maestra, chi per le scorciatoie. Le fanciulle ancor pallide di sonno, in camicetta candida e sottana attillata, pettinate con riccioli e nastri, si accompagnavano agli amanti, con la piena e superba libertà delle popolane, per le quali l'amore è un garofano rosso appuntato trionfalmente nei capelli.

Salaci frizzi correvano, risate alte e brutali scoppiavano. Mariettina Pria, dal musetto aguzzo di capra, dava, dondolandosi, la mano a Carlin Zoppetta, basso e membruto, geloso come un barbaro; e lui si guardava intorno con loschi occhi di sospetto, per paura che gliela portassero via. Càrola Gurda aveva rifatta la pace col capo reparto della filatura: camminavano stretti, in disparte, trasognati. L'orda adolescente degli attaccafili si ficcava dappertutto, fra le sottane delle donne, a un tiro di scappellotto dagli uomini, con risa e con motteggi.

L'alba frizzante, a lunghe strisce gialle e rosee nel cielo, fluttuava in veli di bruma lungo i pendìi delle montagne, svegliava il torrente, frusciava fra la ramaglia, fumava dai comignoli delle casupole sparse, attendendo di fumar fra breve dalle ciminiere degli opifici. Alba di lavoro, che squillava la sua diana coi fischi delle fabbriche; e scopriva, al graduale avanzar della luce vette nevose, chiome lussureggianti di foreste ove spesseggiavano il castagno e la quercia, profili altissimi di colmigni dominatori, larghi tetti a cristalli di padiglioni americani, razzanti ai primi raggi del sole.

Ma Cristiana non la vide: non vide nulla, co' suoi occhi che ormai non guatavan che in dentro, nell'oscurità delle viscere doloranti.

Passò coi compagni dal portone, attraversò il cortile, entrò nel suo salone, si trovò dinanzi al suo telaio, senza avvedersene. La motrice, tutta di ferro, si destò, al comando del capo meccanico che pareva, com'essa, di ferro; e il polso dell'opificio cominciò a battere.

Armonia concorde, formata di molte diverse armonie: scorrere di cinghioni, rombare e stridere d'ingranaggi, strepito di telai, sui quali i fili tramati dalle navette d'acciaio andavano e venivano in ritmo di flusso e riflusso: e rotear di cilindratrici e rapidissimo danzar di fusi d'ogni colore, e il turbinar delle due macchine da scardassi — il diavolino e il diavolone —, da cui la lana, ridotta in fiocchi aerei, balzava spumosa e tempestosa, come acqua di torrente a pena sgorgata dalle nevi d'un ghiacciaio. La musica sonora, fusa nei toni di innumeri strumenti, ripeteva una sua frase melodica, un suo leit-motif caratteristico, pieno di nobiltà. E operai ed operaie, vinti dall'incosciente gioia del ritmo, accordavano alla gigantesca sinfonia orchestrale la cadenza delle loro voci, con note larghe, lente, religiose, in coro.

Tutte le finestre erano aperte al sole e allo scroscio del torrente: nel cortile, di flanco alla tintoria, alcuni muratori innalzanti un nuovo padiglione, affaccendati fra pozze di calce, monticoli di mattoni, secchie, spranghe, scale e cazzuole, aggiungevano vita a vita, forza a forze: con quell'aspetto di gagliardìa, di bellezza e di speranza che sempre hanno gli uomini nell'atto del costruire.

A Cristiana sembrava di dissolversi in quell'onda di suoni, di perdere consistenza di forma umana, per non rimaner che un solo spasimo vaneggiante. Non era lo stridere degli ingranaggi; ma una diabolica macchina segante le sue reni: e il dolore urlava da sè, riempiva di sè tutta l'aria. Non rotear di cinghie e di cilindratrici; ma il suo cervello che girava, colle spole, coi dischi, colle pareti, coi canti. Qualcuno la mordeva dentro, la dilaniava per non morire, in una lotta bestiale, a corpo a corpo; e ripeteva, addentandola: Non voglio: — ed ella s'abbandonava, fiaccata, mormorando: — Perdono. —

Finalmente ebbe pace, non seppe più nulla. Due tessitori la portarono a braccia nella stanza della custode, e la distesero su un materasso, fra sospiri e lamentazioni di donne. La moglie del direttore accorreva intanto con la cassetta dei medicinali, e il più veloce degli attaccafili si precipitava alla ricerca del medico.

Ma il medico era già partito, dall'alba, pel suo faticoso giro di visite su per la montagna; e non sarebbe tornato che verso il tramonto.

— Secondina, oh!… Secondina!…

La donna, sulla cinquantina, fatticcia di corpo, con grossi e bonari lineamenti color mattone, capelli ancor brunastri e una singolare espressione di calma e di dolcezza nel viso, alzò il capo, sentendosi chiamare, dalla sua panca nella sala delle rammendatrici. Fece qualche domanda, udì qualche parola, comprese, sospirò, accorse.

Esperta di mali femminili, figlia d'una levatrice, e, per lunga umile pratica, più chiaroveggente, talvolta, d'un medico, non v'era inferma in paese ch' ella non avesse assistita. Vide subito di che si trattava: vide che Cristiana spirava nel proprio sangue. Con voce breve ordinò: — Acqua bollente!… poi, ghiaccio.

E si mise, con precisi ma leggerissimi movimenti, intorno alla disgraziata.

Mina, la custode, la seguiva come un'ombra, aiutandola trepidamente, con cordiali, garza, tamponi d'ovatta; e aveva l'aria d'una monaca nel suo pallore clorotico di magra zitella spaurita, scandalizzata, ma mite d'animo e pronta agli atti della pietà.

Quella vecchiaccia!… Secondina Cappio aveva veduta, il mattino avanti, la bella donna uscir dalla tana della cagna malvagia; e avrebbe giurato su Cristo che l'assassinio partiva di li. Ella — ed altri con lei — conoscevan bene l'immondo traffico clandestino; ma nessuno, in quel paese industriale dove uomini e donne, di giorno e di notte, vivevan nelle fabbriche in un' enorme promiscuità, aveva il coraggio di denunziarlo.

— Cristiana, Cristiana, figlia mia, che hai fatto?…

Cristiana riapriva in quell' istante gli occhi attoniti e vitrei. Il suo viso era più bianco del lenzuolo: un' ombra violacea scendeva dalle occhiaie alle narici: le labbra non esistevan più: solo splendevano, crudamente, i denti di smalto fra i muscoli della bocca contratta.

— È giusto — mormorò in un soffio, riacquistando la conoscenza solo per aver la percezione della verità: della verità vera, dell'unica che si possa portar con noi nell' altra vita. Ella era sola con suo figlio sul limitare dell'ombra, misera creatura di carne, da sè medesima offesa nelle radici dell' essere.

Dove andava quel rigagnolo caldo e vermiglio, che usciva da lei, ch'ella sentiva scorrere scorrere scorrere?… Ed ella andava dietro quel rigagnolo, galleggiava su di esso, entrava con esso in un' oscurità senza spiragli, senza scampo.

Un rumor cadenzato le giungeva all' orecchio, a volte sommesso come un ronzio, a volte alto e pieno come un coro di chiesa: era la canzone dei telai, la vecchia canzone al cui ritmo era cresciuta e vissuta, in allegrezza ed in forza: e scendeva anch'essa con lei, la vecchia e nota canzone, nell'oscurità senza spiragli, senza scampo.

— È giusto — alitò ancora, tentando penosamente di sorridere alla Cappio e alla custode.

Il tempo passò, il tramonto calò. Partirono i muratori in silenzio, partirono cigolando i carri degli spedizionieri con le balle di stoffa, le macchine s'allentarono, poi tacquero. Ad uno ad uno, operai ed operaie, affacciandosi all' uscio della portineria, scambiavan qualche parola sottovoce, scotevano il capo, e s'allontanavano tristemente. Anche il dottore, accorso in furia verso le diciotto, dopo aver tentato invano qualche iniezione se n'era andato, masticando amaro e sogghignando verde, con una certa sua smorfia fra dolorosa e cinica, che gli sopriva i denti nerastri fra la barbaccia mal tenuta.

— Maledette le donne! Maledetti i loro pasticci!… Come se io non lo capissi, che cosa c' è li sotto!… Roba da procuratore del re…. Taci, Bertoldo, e mangia la tua polenta. Tanto, chiacchierare non serve….

La suocera, avvertita della disgrazia fin dal mattino, non aveva voluto scendere alla valle. Rigida, diritta, colle mani scosse da un tremito, aveva balbettato: — Le sta bene. Dio le perdoni!… Mandatele un prete, che non muoia senza sacramenti. — E s'era chiusa nella cucina, a sgranare il rosario sulla pietra del focolare spento.

Il tempo passò, la luna sorse. Con la Cappio e con Mina, due altre donne, Romualda che era senza figlioli e Barbarella che non aveva nessuno, eran rimaste intorno all'inferma. Più nulla ormai era vivo di lei, se non la forma e un palpito impercettibile. Le vene s'eran vuotate del loro sangue violento: tutto si purificava nella dolcezza della morte vicina.

Quando Secondina s' accorse che le mani di Cristiana, tastanti a caso sulla coperta, eran divenute immobili, e anche l'ultimo lievissimo respiro era cessato, le chiuse piamente gli occhi, le mise un crocifisso sul petto e andò a spalancare la porta.

E la colpì una sensazione strana. Nella chiara notte, muraglie, montagne e cielo guardavan lei, non guardavan che lei, interrogandola. — L'edificio a tre piani, con tutte le finestre aperte come occhi, sormontato da una terrazza candida come una fronte, aveva la stessa espressione grave ed intenta della montagna a cui s'appoggiava, sparsa di lumi qua e là, nelle baite dei mandriani. La ciminiera tagliava in due il cielo stellato.

— C' è una morta, c' è una morta — diceva la lampada notturna, accesa ai piedi della ciminiera.

— C' è una morta, c' è una morta — ripetevano i lontanissimi fuochi delle baite.

— Come avvenne, come avvenne?… — chiedevano le finestre nere, spalancate come occhi.

Ma Secondina Cappio, nella propria umile esperienza, non ignorava che vi sono, per gli uomini e per le cose, molte domande che rimangono senza risposta. Tornò al fianco della bella donna irrigidita sul letto non suo: si strinse nello scialle perchè aveva freddo, e pregò sino all' alba.

Chi esce dal luogo dove ha, per lunghe ore, lavorato con intensità senza requie, ha molte volte lo stesso aspetto disfatto di chi esca da un'orgia.

La figuretta magrolina che nella luce rossa di quel tramonto milanese sbucava dall'ufficio postale di via Boccaccio, appoggiandosi al battente come se l'urto dell'aria aperta la colpisse in pieno petto, portava nel piccolo volto trasognato il pallore, lo smarrimento, l'abbandono quasi mortale che son pure le stimmate della voluttà.

Ella infilava, con gesto meccanico, nei guanti di filo rattoppati, le mani sporche d'inchiostro da timbri. Quante ricevute di lettera raccomandata aveva firmate?… Quanti moduli staccati dal mastro, quanti spiccioli contati e dati per resto, nella pesante giornata che pareva non dovesse finir più?…

Quante volte, presa tra il fiato graveolente d' un fattorino affacciato allo sportello, e il tic-tic della macchina Morse posta contro la parete, proprio dietro la sua schiena, ella si era sentita vuotar cuore e cervello, sprofondar nell'annientamento, scorrere alla deriva come un annegata?…

In quell'ufficio postale ripeteva da dieci anni, ogni giorno, lo stesso lavoro, cogli stessi gesti, gli stessi sorrisi, le stesse parole alle persone che si presentavano, in fila interminabile, al piccolo quadrato aperto nella vetrata opaca.

Non contava più il tempo, non s'accorgeva più delle stagioni. In quella prigione l'inverno somigliava all'estate, la primavera all'autunno. La sera, in gran fretta per non essere strapazzata, tornava a rinchiudersi nella bassa e stretta portineria d' un casamento in corso Ticinese, a fianco delle colonne di San Lorenzo: vi era nata, vi era cresciuta, vi avrebbe, forse, dovuto morire.

Al deschetto da calzolaio posto nella miglior luce sotto l'unica finestra, il vecchio padre di Maria Chiara non lavorava quasi più. Tanto lui che la moglie vivacchiavano sugli scarsi guadagni della portineria e sullo stipendio della figlia: lui, terreo, risecchito, storto d'una spalla, colla bocca nera e fetente di tabacco masticato, colle mani adunche e squamose: lei, grassa, torpida, volgare, troneggiante fra le serve pettegole del casamento e del quartiere.

A trent' anni suonati, Maria Chiara non ricordava d'aver veduto suo padre e sua madre più giovani, e diversi. Il babbo adoperava, adesso, assai meno il trincetto, il cuoio e lo spago: null'altro. La parca mesata dell'impiegatuccia postale, non appena ricevuta, passava nelle mani artigliate del vecchio, o in quelle, attaccaticce come il vischio, della vecchia. Per comprarsi una cintura, una veletta, un flore pel cappello, doveva chieder denaro alla madre; e la madre nicchiava, e lesinava persino i due soldi del tram, borbottando che i tempi eran duri.

Maria Chiara indossava da più di due estati un meschino abito grigio a giacchetta, di così goffo taglio che non riusciva a nascondere il difetto della spalla destra un poco più sporgente dell'altra, ereditato dal padre: difetto che un'abile sarta avrebbe certamente potuto attenuare. Le scarpe di falso capretto andavano scalcagnandosi: il feltro nero a piccola tesa, sui capelli folti ma già scoloriti alle tempie, mostrava la corda. Ella aveva l'aspetto sdruscito, incerto e disarmonico di chi vorrebbe essere elegante e non può, l'aria grama e penosa di chi vorrebbe sorridere e non riesce che a fare una smorfia, per nascondere l'irreparabile stonatura dei denti guasti.

Passata la prima impressione di stordimento, si mise a camminar lesta; ma con passo automatico. Il suo viso era d'una sonnambula. Giunta in piazza Nord, in luogo di voltare a destra come sempre faceva, proseguì diritta davanti a sè.

Dove andava?… Non lo sapeva. Davanti a sè. Questo solo sapeya, con assoluta certezza: che a casa sua non sarebbe ritornata più, nè quella sera, nè mai.

Una ributtante scenata del padre contro di lei, avvenuta la sera prima a proposito d'un nulla, non poteya essere la sola diretta provocazione alla fuga. Troppe ne erano accadute già. Ma la forza di pazienza, di resistenza della fanciulla — da tempo insidiata in un organismo nervoso giunto al parossismo della stanchezza — era caduta. Ella se ne era sentita spoglia, s'era trovata ignuda, priva d'ogni difesa morale nella viltà senza scampo d'una vita simile ad un budello cieco.

E s'era detta: Basta.

Basta, della sudicia casa dove sempre, rientrando, ella aveva ritrovato lo stesso puzzo di soffritto, di cuoiame e di detriti di gatto, gli stessi visi conosciuti in ogni grinza, le stesse voci note in ogni inflessione, lo stesso basto, la stessa nausea.

Eran pure, quei volti e quelle voci, di suo padre e di sua madre. L'amavan pure, costoro, a proprio modo: con gretto, incosciente egoismo, ma l'amavano; pensando: noi t'abbiam fatta; e tu aiutaci adesso, e vivi per noi.

Perchè dunque ella voleva sfuggire alla legge, che era legge comune di vita?… Accadeva dell'anima sua come della carne viva d' una spalla costretta per supplizio a sfregarne incessantemente un'altra: si piagava, mandava sangue e marcia, minacciando la cancrena.

Ma non aveva mai trovato un uomo che volesse sposarla?… Cos' è al mondo una donna che non sappia nemmeno trovarsi un uomo?… Ahimè!… Quella gracile figuretta miserella, nè operaia, nè signorina, non tentava alcuno. Orlatrice di scarpe, cravattaia, guantaia o tessitrice, mille volte meglio!… Un facchino dai muscoli bronzei, o un macchinista dall'allegra faccia color fuliggine se la sarebbe forse sposata; e l'avrebbe resa madre di molti figlioli, senza pensare al poi.

Ella, invece, possedeva la licenza tecnica. Cianfrugliava in francese. Occupava un impiego. Che ironia, che tristezza!… L'impiego non metteva un soldo nella sua tasca, non la liberava dalla schiavitù familiare, non avrebbe più potuto esser tenuto da lei, se avesse preso marito: non faceva che spostarla, inaridendola come un terreno senz'acqua.

E ammalata d'aridità lo era al punto che i genitori e i colleghi d'ufficio le eran divenuti estranei, il loro contatto fastidioso come lo stridere della penna sui foglietti delle ricevute, come il tic-tic della macchina Morse, penetrante nella sua schiena col lavorio d'un trivello.

Dove avrebbe passata la notte?… Non lo sapeva. Chiuse nella logora borsetta appesa al polso, teneva le settantacinque lire dell'ultima mesata, ricevute quel giorno. E andava.

Il tramonto, avvolgendola di vampate snervanti, smoriva nel primo sbocciare delle lampade elettriche. I comignoli e i cornicioni dei tetti serbavano un ultimo purpureo riflesso di sole, mentre le vetrine e i marciapiedi accendevano i loro strani fiori di cristallo. Tram carichi di gente passavano scampanellando, suscitando dalle rotaie scintille azzurre subito spente.

E carrozze e automobili e biciclette e carri: a Maria Chiara pareva di veder tutto per la prima volta. Quanta vita!… Ma non era per lei. Perchè nessuno e nulla era per lei?… Tutti quegli occhi di cose e d'uomini non la guardavano, non la conoscevano.

Non avvertiva più affatto il peso del proprio corpo. Stanca era; e pur fluida, immateriale, sollevata da terra, senza fame, nè sete, nè sofferenza, nè punto d'appoggio. La sua piccola persona dalle spalle leggermente asimmetriche, il suo visino scarno dagli occhi allucinati le balenavano a tratti dinanzi, dagli specchi delle vetrine; e allora si sentiva pervasa da un fuggevole brivido, da un improvviso terrore.

Era dunque Maria Chiara?… O non piuttosto un'altra, un essere staccato da tutto, lontano da tutto, indifferente a tutto?…

Lei, forse, sarebbe tornata indietro, avrebbe ripreso a testa bassa la strada mille volte percorsa, e così nota, che le erano ormai familiari le venature d'ogni pietra. L'altra, no. Fuggiva, fuggiva dal controllo dispotico delle consuetudini, dei doveri. Avrebbe potuto fuggir da se stessa?…

S'era lasciata alle spalle la piazza del Duomo: rasentando senza guardarlo il possente fianco del tempio, aveva infilato il Corso, tra una fiumana di gente e un accecante barbaglio di lumi elettrici.

Lo smarrimento della demenza ingrandiva i suoi occhi fissi. Non le pareva più di camminare. Senza avvedersene aveva rallentato il passo. Ma i suoi piedi le appartenevano ancora?… Era la folla, adesso, che la sospingeva, portandola, come le onde dell' oceano un avanzo di naufragio; e mai più, mai più sarebbe apparsa la riva.

Non riva, non approdo, nè salvezza. Nè passato, nè avvenire. L'attimo la rapinava nella sua vertigine. Sola, sperduta, anonima. Gli iridescenti riflessi delle vetrine, fulgide di gioielli, damaschi, velluti, cuoi dorati, l'assalivano con la sensuale sonorità delle loro musiche gialle, argentee, violette, purpuree. E belle donne lentamente passavano, per le quali quelle belle cose eran fatte; e tutte s' appoggiavano all'uomo che le amava e le proteggeva (per un giorno, per un mese o per la vita, che importa?…) e nell'ora lusinghevole ogni loro movimento, sotto i grandi cappelli a piume e nella carezza delle morbide vesti, era grazia, gioia, seduzione, luce.

Due pensieri incoerenti, usciti dai meandri dell'istinto femminile, zigzagavano nell'ondegiante cervello di Maria Chiara: essere nella carne della flessuosa creatura che la rasentava a sinistra, col visetto serrato in un capriccioso tòcco bianco, col corpo scolpito in una guaina bianca: vivere la dolce vita della giovanissima mammina dall'aria di bimba, che l' incrociava a destra, tenendo per mano un amore di fanciullo tutto riccioli, trine e sorrisi.

Del resto — e molte volte l'idea liberatrice era venuta a consolarla, nelle ore di buio fitto — del resto bastava un tuffo nell'ombra, un volontario disparire: ed ella avrebbe, dopo, potuto rinascere in bellezza, forza, felicità.

La morte?… La morte non esiste. Non è che una parola. Nulla va distrutto. Si scompare, ci si trasforma, si rivive, diversi. In qual libro aveva letto questo?… Era stanca di soffrire della sua spalla sporgente, del suo viso di topino spaurito, de' suoi genitori sudici ed avidi, del suo ufficio saturo d'odor d'inchiostro e di ceralacca, del vuoto in cui l'anima le boccheggiava d'asfissia.

Avesse almeno un ricordo d'amore, fosse pur lontano, lieve, illusorio, per custodire il quale le sembrasse necessario sentir battere il proprio cuore!… Ma chi s' era mai accorto ch'ella fosse una donna?…

Vagò ancora qua e là, per un tempo indefinito. Un tram, un'automobile avrebbero potuto passarle sul corpo, senza che si scansasse. Al limite dei bastioni di porta Venezia, ombra nell'ombra, credette svegliarsi da un sogno; e si domandò che mai facesse lì, dinanzi agli enormi profili degli ippocastani, fermi in ascolto. Si domandò: Dunque?… — E si vide com'era, nella vita e fuor della vita; e capì che bisognava o rientrar nell'ordine, o morire. Meglio morire.

Tornò sui propri passi, rifece il cammino, più leggera e più sinistra d' un pipistrello; ma solo fino all'angolo di via Senato. Là, mosse verso il Naviglio, s'appoggiò alla spalliera di granito. La notte era calata completamente: non passava nessuno, o le parve. Guardò l'acqua taciturna. Si assorbì nella vertigine. Già l'atto dell'abbandonarsi alla morte era compiuto in lei, prima che le membra obbedissero all'estrema volontà; quando una voce d'uomo, vicinissima, pacata, le disse:

— Anche lei, signorina, vuol morire?…

Si volse di scatto: vide e non vide un omuncolo alto poco più di lei, meschino sotto un cappellaccio nero: lo sentì, più che non lo vedesse; e rispose:

— Sì.

— Non ne vale la pena, signorina — proseguì la voce pacata. — Da circa un mese io torno qui tutte le sere, coll'intenzione di finirla con la vita. Guardo l'acqua, penso che è fredda, e mi dico: Dopo non c'è più niente…. perchè non c'è più niente, ne stia pur sicura. E mi dico: Ancora un giorno!… Chi sa che il nuovo mattion non mi porti quel tal dono essenziale che mi faccia amare la vita…. Così, tiro avanti. Ho udito, non so più da chi, l'abisso attira. Per me non è precisamente così: mi attira, e mi respinge. S' intende che, per un ometto come me, l'abisso è rappresentato da un braccio del Naviglio…. Siete sola?… non avete nessuno, voi?… (le dava del voi, adesso). Siete sola, come me?…

Ella ebbe il fugacissimo pensiero de' suoi vecchi che l'attendevano; ma le parvero irraggiungibili, cancellati, rimasti sull'altra riva. E rispose, di nuovo:

— Sì.

— Esser soli è impossibile. È mostruoso. Soffrire, sta bene; ma in due. lo presi moglie, qualche anno fa. Era gaia, graziosa, troppo giovine: una passeretta. È scappata. Forse ero troppo brutto per lei.

Sporse il volto caratteristico, divorato dagli occhi intelligenti, un po' folli. E fissò la donna.

— Voi non siete bella come Mariannina. Non siete giovine come lei. Tanto meglio. Mi assomigliate, voi. Credete al destion?… Era scritto che noi dovessimo incontrarci sulle soglie della morte, per continuare insieme la vita. Venite con me. Io posseggo una modesta casetta. Non bevo, non fumo, non sono violento. Mi piace cantare, la sera, accompagnandomi sulla chitarra. Sarete sempre a tempo a gettarvi nel Naviglio, se non riuscirete a volermi bene. È l'unica cosa che aiuti a vivere, l'esser sicuri che si può sempre, quando si voglia, morire…. Ma chi sa!… Riuscirete forse ad amarmi. A vete gli occhi soavi della capretta bianca che si trova ai giardini pubblici…. Non l'avete mai vista?… Vi andremo insieme, domani che è domenica…. Venite, venite con me.

Le prese il braccio, l'infilò sotto il suo, familiarmente. Al calore di quel contatto maschile, Maria Chiara ebbe un sussulto; ma dolce.

Era venuta sin lì, col proposito di finirla con la vita. Ed ecco, bastava la presenza, la parola d'un uomo, del primo che si fermasse sul suo cammino, per trattenerla. Il primo e l'unico che le avesse parlato di amore.

Da quell'ignoto, l' ignoto dell'amore stava per esserle rivelato. Per conoscerlo, ella moveva incontro all' inverosimile: agiva come una donna da strada: uccideva Maria Chiara, per dar vita ad un'altra donna. Suicidio per suicidio, dunque….

Chiuse gli occhi, e si lasciò condurre.

Franceschetta era assai piccola di statura, con rari e deboli capelli biondicci, e larghi occhi glauchi di una fissità che colpiva. Forse quelle palpebre (se pur le aveva) non potevan chiudersi mai, nemmeno nel sonno. Le alette delle narici, gli angoli della bocca anemica, i muscoli delle mascelle apparivano invece mobilissimi, parlanti più della voce.

Parole, veramente, ne proferiva poche: quelle poche, a stento.

Quando non era occupata nei lavori della casa o dell'orto, si grattava la fronte, su verso la radice dei capelli, con un gesto scimmiesco che aveva l' insistenza e la regolarità d'un vezzo maniaco.

Bimba, fra il padre indifferente e la matrigna perversa, era cresciuta chiusa in sè, senza compagne, sempre in atto di passiva ma costante difesa, adorando i libracci vecchi, raccogliendo furtiva tutti i pezzi di giornali che poteva trovare, per leggerseli in un angolo: e su di essi fabbricava, nel suo cervellino, castelli in aria che si gonfiavano, si sovrapponevano, si distruggevano a vicenda, nubi nel cielo in un mattino di marzo.

Da quando, a sedici anni, era stata sposata per forza a quel grosso Bernardone Mandri, mercante di cavalli e di buoi, giovialaccio, bestemmiatore, sempre in lotta con la cintura dei calzoni che non gli era mai larga abbastanza, la biondina s'era senz'altro raggomitolata su se stessa. Non si confidava con nessuno, non usciva mai, non rispondeva mai agli scherzi volgari o alle sfuriate del suo uomo, lo serviva in silenzio. Egli non era cattivo. Non guardava le altre donne, non lesinava sulla spesa. Amava Franceschetta, a proprio modo. Così suo padre, così suo nonno avevan trattata la moglie; e non altrimenti.

Ma la biondina, coll'andar degli anni, diventava sempre più fragile e trasparente: — un cero acceso, — diceva don Geremia, il coadiutore. Girellando per la casa in umili faccende, cucendo nel vano d'una finestra, dando brevi ordini alla servetta tredicenne dalla faccia melensa e sbalordita, e anche sedendo di fronte al marito durante i pasti, ella aveva l'aria d'essere lontanissima da ciò che la circondava. Spesso Bernardone si portava in casa certi suoi amici grossi, bracaloni, rumorosi al par di lui, in compagnia dei quali ingollava bicchieri e bicchieri d'un pastoso vinone rosso. Giocavano alla morra e parlottavan sugli affari del mercato, sugli interessi del villaggio — un paesotto della Bassa Lombardia, pieno di negozianti di bestiame e di fabbricanti di formaggio.

Il vino veniva, secondo il costume, servito da Franceschetta. Ella girava leggerissima fra gli uomini, col vassoio in mano, con un passo d'ombra, con la bocca suggellata, con lo sguardo spento. Straniera.

In realtà, viveva due vite. Era sempre stato così, sin dall' infanzia. Nessuno aveva mai potuto figurarsi le straordinarie visioni che sfilavano sulle pareti interne del suo cervello. Erano il suo tesoro: taceva perchè non gliele rubassero.

Spinta al matrimonio, presa, maneggiata con allegra brutalità, nulla aveva ceduto di sè, se non il corpo; e l' aveva ceduto male, nella contrattura d'un disgusto fisico che ad ogni volta si rinnovava, eccitando, invece di stancarla, la massiccia sensualità del marito. Era rimasta custode (o schiava?) dell'anima propria, chiudendola in sè come si chiude l'acqua in un pozzo profondo.

Ma, camminando la luna nel cielo, viene il momento nel quale il suo disco argenteo si riflette, in pieno, nel cerchio vertiginoso; e l'acqua nera, dal fondo, ne rabbrividisce tutta di gioia e di speranza, sommovendosi, trasfigurandosi in lucenti tremolii di brillanti e di perle.

Ad illuminare la buia anima solitaria, distaccata in così assoluto modo dalla realtà della vita quotidiana, era sopravvenuta l' occulta malia d'un songno. — Quale?… — Un lontano giorno, per non soffrire troppo della faccia nemica della matrigna, Franceschetta adolescente si era immaginata d'aver dinanzi non già lei, ma la madonna del grande quadro posto in chiesa sopra l'altare; e tale, realmente, l'aveva sempre veduta. — Quale sogno dunque?… — Strano, allucinante, inconfessabile — criminoso.

Suo marito poteva scomparire. Perchè no?… Il caso sa quello che fa. Come era entrato nella vita di lei, senza che il cuore lo avesse chiamato, l'uomo poteva sparirne.

In qual modo?… Non lo sapeva. La sua morbosa fantasia non osava giungere fin là. Gustava il senso selvaggio della liberazione, della certezza che il colosso trasudante sbuffante bofonchiante non sarebbe più ricomparso ad ostruire il vano della porta di casa. Il resto era ombra e mistero.

Due povere donne del paese piangevano in solitudine giorno e notte: Giovanna Làrici, il cui marito, emigrato da anni nel Canadà, non aveva più dato novella di sè; e Maria Bulca, la vedova d'un muratore che le era stato portato a casa su una barella, con le reni fracassate per una caduta dall' alto di un' impalcatura.

Avrebbe pianto, lei?… No. Non conosceva, lei, suo marito. Chi era quell'uomo?… La poteva sgridare, scuotere, accarezzare pesantemente. Poteva metterle sulla bocca il suo fiato avvinazzato. Poteva brancicare il suo sussultante corpo nudo con le manacce ruvide. Ma le era ignoto. Lo considerava, a volte, con uno stupore muto. Le sembrava un estraneo, che dovesse fra alcuni istanti svoltar l' angolo della via più vicina, per non ritornare mai più.

Sparire: non morire. Cos'era la morte?… Aveva paura, lei, della morte. Le era sempre mancato il coraggio di torcere il collo a una gallina: la sola vista del sangue la faceva dare in convulsioni.

E allora?… Disparizione non significa morte?… Dio, come il cervello le si affaticava, nello sforzo di quel pensiero!… Non pensare, non pensare, sognare solamente. Sognare, per essere liberata.

La presenza del marito, l'odore ferino che il suo gran corpo tramandava, il comando, la carezza dispotica, lo sputacchiare villano, tutto quello che in lui la feriva, l'esasperava, potrebbe non esser più.

E le notti!… Quel corpaccio che occupava tre quarti del letto matrimoniale, mentre Franceschetta, presa da un orrore maniaco, si raggruppava, tutta scarna e piccina, verso la sponda, col rischio di cadere!…

Quel russare su due toni, l'uno rauco, l'altro fischiante: quel russare implacabile che non cessava mai, che le dava la nausea e gli urti di bile, e le piantava dei chiodi nel cervello!…

Come facevano le altre donne?… Perchè la sua sensibilità nervosa era così indifesa, così a nudo, così spasmodica?… Cercava di non ascoltare, di nascondere il capo sotto le coperte, per dormire. Non poteva, non poteva. L'insonnia divorante le succhiava la ragione.

Riusci, lentamente, a vincere l'intollerabile ambascia, cloroformizzandosi col pensiero che il supplizoio sarebbe finito da sè, come finisce la notte quando spunta il giorno.

Un riposo del cuore, una distensione dei nervi, una quiete di tutto l'essere le veniva dall'immaginare quel che sarebbe stata la sua vita, dopo.

Silenzio: tepido come una coltre, corroborante come un farmaco, il silenzio avrebbe guarito il suo male, in una solitudine di clausura.

Nella freschezza dell'alba ella si sarebbe alzata dal letto monacale, con membra fatte elastiche dal buon sonno riparatore; e avrebbe spalancate le finestre sulla pianura verde, tutta rugiada e brividi, sentendo davanti a sè la sua giornata.

Nessuna voce rude le avrebbe gridato — fa questo e fa quello. — Nessuna presenza imperiosa avrebbe preso il suo tempo, diretto i suoi movimenti, manomesso alla cieca il suo povero fascio di nervi doloranti. Ella non avrebbe più pranzato e cenato a tavola; ma sullo scalino del focolare — d'inverno — con la ciotola del latte in grembo: sullo scalino dell'orto, — d'estate — ascoltando la musica delle cicale e dei grilli. Avrebbe assaporato i suoi minuti di pace, une per uno: fabbricato ogni giorno, per la propria gelosa gioia, storie maravigliose che solo l'aria e le rondini avrebbero udite.

Null'altro?… Null'altro. Riposare. Immobile. Era tanto stanca, tanto stanca, che il cervello le pesava nella testa come un ciottolo.

La vita pratica, quella che si vede, scorreva intanto senza interruzione. E il grosso mercante concludeva ottimi affari e prosperava in ottima salute e spillava dalle proprie botti ottimo vino; e badava alla tacita moglie sparuta come si bada ad un cagnolino, al quale ogni tanto si grida, con un fischio: — Fido, vien qua!… Fido, al guinzaglio!… —

Ma una sera, comparendole innanzi mentre se ne stava assorta in un lavoro di maglia, la vide trasalir con violenza, farsi di fuoco e di ghiaccio, balzare in piedi respingendo la sedia; stravolta, sfigurata.

Gli parve di non averla mai, fino allora, veduta. Gli parve nuovo quel viso scarnito, cogli zigomi sporgenti, col segno terribile dell'idea fissa negli occhi senza palpebre.

La scosse, le spruzzò dell'acqua in fronte, chiamò a gran voce la servetta: coll'aiuto di costei riuscì a calmare la misera creatura che sussultava in tutte le fibre, battendo i denti, guatandolo con terrore.

— Che diamine!… Franceschetta!… Non sono mica il mio fantasma!… — andava ripetendo per convincerla, stringendosi la manina di lei sul pancione prosperoso.

Ma ella rimaneva contratta, senza parola.

Qualche tempo dopo (le tre del pomeriggio: il dieci di agosto: calura: aria simile a fuoco rarefatto) — entrato in cucina, l'uomo vide Franceschetta abbandonata sopra una sedia, coi gomiti sulla tavola e il capo sui polsi incrociati. Pareva dormisse profondamente.

Volle, da quel bestiale bonaccione che era, farle uno scherzo: si avvicinò pian piano, e le cinse con un braccio la vita, soffiandole nell'orecchio.

Allora avvenne una cosa spaventevole. Franceschetta diede un balzo di pantera: cogli occhi fuor dell'orbita, i capelli dritti sul cranio, le braccia tese in avanti, cacciò un urlo, poi un altro, poi un altro. L'uomo, disperato, supplicava: — Franceschetta!… Franceschetta !… — Ma ella continuava ad urlare, retrocedendo con le braccia sempre tese a barriera, quasi che realmente, dinanzi a lei, fosse comparso il fantasma d'un morto; e rimase ritta, inchiodata al muro. Accorse gente, accorse il medico: la si trasportò all'ospedale più vicino: di là, in un manicomio. Non riprese più la ragione.

È tranquilla, ormai: indifferente a tutto e a tutti. Se ne sta in disparte, sferruzzando una calza di lana grigia, che, una volta finita, disfà, per ricominciarla. Raccoglie con inesausta pazienza brani di gazzette, fogli scritti e stampati, per leggervi, accoccolata in qualche cantuccio, certe storie stupefacenti, d'amore e di morte, che inventa da cima a fondo. Sorride sempre, di un immobile sorriso a fior di labbra, che si potrebbe dire interiore: con esso e con la fissità dello sguardo senza palpebre segue un suo caro sogno, che nessuno sa, che ella sola conosce.

Due sole volte ricadde nella crisi urlante: e fu quando Bernardone, grave e compunto nel rosso faccione bitorzoluto, venne a vederla, nella casa di cura.

I medici compresero; e, con persuasive parole, convinsero l'uomo a non più ritornare.

Egli, forse, non chiedeva di meglio; e disparve dalla vita estatica dell' inferma.

Si prese in casa una bella servotta, non giovanissima ma salda in carne, di volto aperto e gioviale, di magnifica salute: un placido animale caldo e sottomesso che gli divenne necessario come, a pranzo, una buona bottiglia di Barbèra. E tutti e due furono felicissimi.

In una città straniera, sotto il denso frascame odoroso del chiosco d'un giardino d'albergo, mentre un' inquieta notte d'estate nascondeva le sue stelle dietro ondeggiare e palpitar di nuvole, io ebbi da una donna una confessione terribile.

Vi è per la confessione, come per l'amore, un dato momento psicologico. lo mi trovavo, per caso, in quel momento, accanto a quella donna. Forse, guardinga per necessità, da troppo tempo schiava del proprio segreto, ella preferi schiuder l'anima alla compagna d'un giorno, estranea alla sua famiglia, estranea al suo paese, e che l' indomani sarebbe scomparsa dall'orbita della sua vita.

Come e per quale occulta ragione di simpatia la donna avesse sbendata per me la sua piaga, non so. Ho voluto scordare il suo nome. Veniva dal sud; sarebbe ripartita fra tre o quattro giorni verso una celebre casa di cura per gli ammalati di esaurimento nervoso, posta al confine della Svizzera francese. Era sola con una cameriera giapponese che la serviva in silenzio colla docilità d'una schiava.

Mi si era attaccata con ardore di sensibilità morbosa: diceva che, quando i miei occhi la fissavano, ella si sentiva useir l'anima dal petto. Certo era inferma di nervi. Avrò presente fin che vivrò la sua figurina tutta pallida nel tenue grigio delle vesti, nell' incerto grigio degli occhi, nell' oro stinto dei capelli infantilmente raccolti in due conchiglie sulle orecchie. nel fondo cinereo della tinta del viso, che intorno agli occhi sfumava in un alone violastro.

Povera di seno e di fianchi, parca di gesti e di parole, d'una timida e quasi paurosa grazia di movimenti, ella evocava in me l'immagine di quelle lettere d'amore delle quali il tempo ha reso pallido l' inchiosro e presochè illeggibili i caratteri. Sono spente; ma qualcosa sopravvive in esse, tuttavia: il profumo, il mistero d'una storia vissuta.

Io avevo sentito il brivido di quel tormento; e stringevo contro di me la donna, per riscaldarla; ma non osavo scandagliare. Le parlavo, così, balzelloni, di tante cose. Nell'agile discorso scivolante dall'ultimo figurino di mode all' ultimo libro del poeta in voga, eravamo giunte, come succede assai volte fra donne, a toccare, a penetrare, a discutere i più singolari problemi di psicologia femminile. Cioè, io chiacchieravo e discutevo: ella si lasciava condurre, ponendo ogni tanto nel discorso qualche parola, che cadeva come una perla di vetro che s' infranga.

Quella notte, invece, parlò lei sola: sotto il chiosco in fondo al parco, guardando dall'ombra coppie di raffinata eleganza ballare, alla luce cadaverica delle corolle elettriche, l'one step nella galleria vetrata, si liberò in me del segreto che la faceva morire.

“ — Io — cominciò a voce bassa — ho, laggiù nella mia casa, tre figli. Due, i maggiori, (poichè sembro ancor giovine tanto son esile, ma ho passato i quarant'anni) sono alti, robusti, larghi di spalle, coloriti in viso: somigliano a mio marito. Il terzo, l'ultimo — che non ha ancora sette anni — non è figlio di mio marito. ”

Rabbrividi, si strinse nel mantello color di ferro, che al buio pareva nero.

“ — Sapete bene come avvengono queste cose. Il marito è buono, è affezionato, lavora, guadagna denaro e denaro, e lo getta a profusione nel lusso di casa e nei gioielli della moglie. Ma non ha tempo di farle compagnia. Il denaro è una piovra che gli succhia tutte le ore. A pena ha il tempo di tornare a pranzo, sempre con qualche amico; poi v' è il circolo, e lo sport. Oh, perfetto, del resto…. Chi se ne potrebbe lamentare?… La moglie, oltre ai gioielli ed all'automobile, possiede anche la libertà, che è, dicono, il più prezioso bene della terra. Il male è che questa donna, proprio lei, non sa che farsene, della libertà. E resta sola in campagna, l'estate, perchè il marito non può abbandonare i suoi affari: s' intende. Sola coi bambini; ma i bambini vanno a passeggio con la governante: si sa. Un bel giorno ella è in balia del primo venuto che non sia un imbecille e che le sappia dire una parola d'amore con una morbida voce esperta. Credete che lo ami?… Nemmen per sogno. Ascolta ed ama in quell'estraneo la propria giovinezza che non è ancor finita, un mistero di gioia che non le è forse ancora stato rivelato, il mutamento, il bisogno di sfuggire alla noia atroce di tutti i giorni, regolata dalle sfere dell'orologio, dalle visite ai conoscenti, dai pasti e dalle sieste dei bambini, e dall'arrivo della posta. Ama sè, in quell'estraneo. ”

Sentii scricchiolare le falangi delle sue mani, intrecciate sulle ginocchia.

“ — Ed ecco, mi accorsi che di quell'estraneo ero rimasta incinta. ”

…. L'one step continuava, nella galleria vetrata, il suo ritmo balzellante e voluttuoso. Quelle coppie non avrebbero dunque mai finito di ballare?… Danzavano, danzavano, corpo contro corpo, faccia contro faccia, mani ad artiglio sulle spalle: le dame con un sorriso incosciente diffuso nel volto, i cavalieri col collo insaccato negli omeri come esigeva il brutale ballo di moda, in null'altro dissimili dai teppisti che nell'impeccabile taglio della marsina, aperta sullo sparato abbagliante di bianchezza.

“ — Il primo effetto della scoperta — continuò la dolorosa — fu di farmi comprendere, d'un lampo, la vanità del mio sentimento per quell'uomo. Chi era?… Perchè mi ero data a lui?… Che cosa rappresentava, lui, nella mia vita?… Era un gaudente, uno che passava, così, di corsa, sulla mia strada, per divertirsi. Ed io avrei dovuto mettere al mondo un bambino suo, capite, suo, del suo sangue, che sarebbe divenuto grande, che sarebbe divenuto un uomo. Ma avevo i miei ragazzi, io: mio marito, la mia casa. E ripetevo questi nomi cari, e ripensavo alle care consuetudini, folle di disgusto contro me stessa e contro colui. Le invincibili nausee che rendono così penosi i prodromi delle gravidanze mi rivoltavane stomaco e cuore insieme, fino allo spasimo. Sentii di odiare quell'uomo. Non lo avrei rivisto mai più. Gli scrissi due righe, violente, di congedo. Non osò nemmeno rispondere: forse non gli parve vero di cavarsela così a buon mercato. Da allora in poi la mia vita divenne una continua menzogna.

“ Dovevo pur mentire, per non perdere i figliuoli, per non andarmene sola pel mondo colla creatura che mi doveva nascere. Lo comprendete anche voi, non è vero?… E i mesi passarono; ed io imparai, anche, ad abbandonare con fiduciosa grazia il corpo appesantito dall'avanzata maternità al braccio di mio marito. Il mio stato lo aveva commosso, lo aveva riavvicinato a me con la confidenza dei primi anni di matrimonio. Discutevamo insieme sul nome da dare al piccolo che era per via. Egli voleva una bimba. — Dopo due maschiotti, capirai!… — diceva. Io no, non la volevo. È troppo orribile nascere donna, portare in noi per tutta la vita come un male inguaribile, la fatalità della nostra debolezza.

“ Enrico trascurava ora, un poco, gli affari e i cavalli, per me. Lo divertiva, lo lusingava il pensiero di diventar nuovamente papà d'una creaturina tutta fresca, mentre due grandi e turbolenti ragazzoni gli arrivavan già quasi alle spalle. Nacque un maschio, qualche settimana prima (per mio marito) del termine normale. Lo allattai io stessa; e il periodo dell'allattamento fu come la tregua di Dio. La placida serenità dell funzione animale aveva potuto assopire in me l'inquietudine, il rimorso: per null'altro ero vivente se non per la gioia di sentire il mio sangue trascorrere, attraverso i capezzoli dolcemente succhiati, nelle vene di quell'altra mia carne staccata da me. Ma, crescendo, il bimbo cominciò a guardarmi cogli stessi occhi bruni del suo vero padre, a sorridermi col sinuoso e facile sorriso del suo vero padre. La fisionomia scacciata dal mio ricordo ritornava nel figlio, affermandosi, scolpendosi sempre più nettamente. Persino certi gesti, certe inflessioni di voce!… Un'occhiata, una frase, un atteggiamento bastava a far balzare dinanzi a me l'immagine dell'altro, e il mio peccato e la mia frode. Col tempo, ebbi paura di qualche sospetto nell'animo di mio marito: nulla. Lo adora, lui, il suo Baby. E i due figli maggiori fanno a gara con lui nel viziarlo, nel dargliele tutte vinte; e il bellissimo fanciullo ne approfitta con morbido egoismo: con quell'irresistibile egoismo a zampa di velluto che tanto lo rende simile al suo vero padre, e ne farà, un giorno, un gaudente come lui.

“ Uno che ruba si mette sotto processo e si condanna al carcere, non è vero?… Ebbene, io ho rubato a mio marito ed ai miei figli maggiori: affetto, nome, parte del patrimonio, stato civile, insomma!… Sono una ladra. Sta il fatto che, non per avere avuto un amante, ma per essere divenuta madre, io sono una ladra. Ma volevo io, forse, avere un figlio?… ”

Quest'ultima frase, quantunque a voce sorda, fu quasi singhiozzata; e cinque dita contrattili attanagliarono il mio polso, penetrando nella carne.

Nell'ombra lievemente rotta dai lontani riflessi delle lampade elettriche, il piccolo volto perdeva ogni morbidezza di contorno per non conservar che la linea essenziale, una linea di dolore disperato.

“ — Molte volte ho pensato di confessar tutto a mio marito, e poi di andarmene col bambino. Ma non ne ho mai avuto il coraggio. Enrice è così buono, così lontano da ogni dubbio, così pieno di tranquilla fiducia!… Torna a casa, stanco, dall'ufficio o dalla Borsa: la sua gioia, il suo riposo siamo noi. Non parla più di circolo nè di sport, ora che c' è il piccino. Guai se Baby non gli corre incontro quando rientra!… Confessare sarebbe ucciderlo moralmente, e scardinar la famiglia. E poi, io gli voglio bene. Gli ho sempre voluto bene, anche quando lo stordimento della passeggera passione m'invase come la nebbia invade talvolta, all' improvviso, valle e montagna, fitta in modo che le campane non si sentono più…. Come faccio?… Mi rinfranco con mille cavilli. Penso che tante donne, nel mio caso, vivono senza rimorsi. Che ogni creatura ha diritto al suo posto nel mondo. Che questo fanciullo, infine, crescerà, farà di sè quel che vorrà, andrà l' orse lontano, fonderà la propria famiglia in nuove terre. Il nome?… L' hanno inventato gli uomini, il nome… E vado avanti come posso, mentendo per necessità ad ogni ora del giorno. La menzogna è divenuta, naturalmente, una camicia invisibile che mi sta attaccata alla pelle. Un cilicio, piuttosto. Poichè questo è il terribile, che io non ho bisogno di parlare per mentire. Potessi farlo!… Mi stordirei, attingerei coraggio dalle mie stesse parole. Ma no: io mento vivendo.

“ Ora son qui per ordine dei medici. Non mangio, non dormo quasi più. Mi par d'essere avvelenata. Mi pare che un'atmosfera d'isolamento mi separi dalle altre donne.

“ La vista del bambino mi è divenuta insopportabile; anche quella degli altri figliuoli….

“ Quando i medici lo permetteranno, Enrico mi raggiungerà. Solo. Chi sa!… In un paese straniero, in una quieta villa fra il verde, noi due, cuore su cuore, come nei primi tempi, quando i bambini non c'erano ancora…. Credete che io possa ritrovare la forza di vivere?… Credete che l'esistenza si possa ricominciare?… — ”

….Tacque; e tacque di colpo anche la musica. Parve che alla domanda volesse rispondere il silenzio. Nè io rammento ciò che le dissi qualche minuto dopo. Parole vane: parole che volevano essere di convincimento, ma non eran che di pietà.

Ci ritirammo; e quattro giorni dopo ella parti; ed io non ne seppi più nulla. Se la rivedo nella memoria, penso che mai la morte comporrà in pace con più benefiche mani un più tormentato cuore.

— La felicità coniugale?… No, non esiste. Nego che la felicità coniugale possa esistere. Non è che un nome astratto seguito da un qualificativo. Vi è, nel matrimonio, chi si illude, chi si rassegna, chi mente a se stesso, chi rompe il freno e chi, invece, le morde; ma la felicità coniugale non esiste, se non, forse, per eccezione.

— Pure….

— Non dite. Se ogni moglie, se ogni marito potesse, volesse confessare tutta la verità della sua intima vita familiare, se ne sentirebbero di incredibili…. Non invidiate le grasse coppie borghesi o le chiassose coppie popolane o le eleganti coppie aristocratiche che vi accade di veder passare, con l'aria più tranquilla e soddisfatta del mondo. C'est pour le parterre, ça, voyons!

La donna che mi parlava così, sull'alta terrazza d'un albergo del Dolder, in faccia alla verde conca di Zurigo attraversata dai brividi d'oro della Limmat e del Silhs, mi piaceva per la tendenza del suo spirito al paradosso, e per la voce ironica, tagliente, con la quale demoliva, in quattro e quattr'otto, ogni questione di sentimento. Mi piaceva, m'inquietava e m'incuriosiva. Una cinica, o una disillusa?… Non riuscivo bene a comprenderlo.

Ella trasse da ll'inseparabile borsetta a sacco, di cuoio fulvo impresso a croci greche d'oro, un foglietto di carta giapponese e un pizzico di tabacco biondo: arrotolò agilmente una sigaretta e me l'offerse per consuetudine, senza stupirsi del mio solito gesto di rifiuto: l'accese, e si mise a fumare, socchiudendo le ciglia.

Per me era ancora un enigma. Stava all'albergo da un mese: nessuno sapeva con precisione donde venisse. Non più giovine, non ancor vecchia, sostava in quel bizzarro periodo, turbato e turbatore, nel quale la donna può apparir vecchia e giovine, a lampi. Guizzi d'acciaio balen vano fra i suoi aridi capelli neri: rughe sottili si formavan fra il collo e la mascella, disegnandosi più nette al volger del capo, in quel punto spietato che porta più d'ogni altro il segno infallibile dell'età. Ma gli occhi a mandorla parevan di velluto, e la bocca poteva ridere senza timore, mostrando trentadue magnifici denti intatti.

—“ V'è sempre un salnitro — continuò — che sgretola e corrode i muri del più solido edificio matrimoniale. E la vita a due è così lunga, così spaventevolmente lunga!… Nel mio caso, il dissolvente è stata la gelosia: la vera, la classica, cioè quella che non ha ragione d'essere; e sta all'anima come il cancro sta allo stomaco o all' intestino. Volete udirlo, il mio caso?… Vi divertirà… ”

Scosse la cenere della sigarette sul parapetto della terrazza, gettò la testa indietro accentuando la linea un po' dura del mento: tacque un minuto per raccogliersi, poi… raccontò.

“ — Io ebbi un marito. Le mie amiche me lo invidiavano. Egli mi adorava con lo stesso istinto di esclusivo possesso che si ha, da ragazzi, pei propri giocattoli e pel proprio cane. Si compiaceva di condurmi nei negozi di mode, spendendo con gioia centinaia di lire in un cappellino, che però doveva piacere a lui; in un abito, che però doveva esser bello ed elegante secondo il suo gusto. Io ero la bambola che lui adornava: oh, una bella bambola, posso assicurarvelo, ora che della creatura di quel tempo non resta più nulla. A dir vero, io amavo il bianco, il grigio, le tinte tenui, le fogge discrete, i cappellini leggeri. Egli, invece, preferiva il rosso antico, il turchino cielo, i contrasti di colori, i larghi Gainsborough piumati di nero. Com'era naturale, io non dovevo portare che i suoi colori e le sue forme. Diamine!… Chi spendeva era lui. A me pareva d'esserne innamorata, allora. Si chiamava Paolo. Mi ero — cioè, mi avevano — sposata senza dote; ed egli maneggiava milioni. Intorno a me si bisbigliava: Come è stata fortunata la piccola Marika!… — Poi, bel cavaliere, robusto come un barbaro: a cavallo un centauro, al tiro un campione, in società un parlatore squisito. Non potevo, tuttavia, liberarmi da un oscuro malessere, da un senso come di aver perduto qualcosa di prezioso, che mai più, mai più avrei potuto ritrovare… Quel qualcosa era, in vece, qualcuno. Ero io.

“ Io appartenevo a lui, avevo l'obbligo di pensare come lui, di adornarmi secondo il suo stile, di uscire quando a lui ne veniva il capriccio, di leggere i libri da lui stesso scelti, di dirgli di sì quando il mio cervello avrebbe spontaneamente gridato: No. Mi aveva comprata, ero cosa sua. Il suo modo abituale di cingermi col braccio le spalle, attirandomi a sè, mi vuotava l'anima in un sorso, lasciandomi smarrita, senza volontà ma anche senza gioia — un piccolo niente che soffriva.

“ Egli si accorse della mia inconscia resistenza, e se ne irritò. E cominciò a farmi del male, così, pel piacere di farmi del male.

“ La cameriera mi aveva portato un gattino, un delizioso gattino bianco con una stella nera in fronte, che io m'ero messa a viziare, da quella bambinona che ero. Ingarbugliava le sete de' miei ricami, giocherellava con la catenella del mio orologio e la mia collana di perle; mi mandava in estasi con le sue mossette feline, la sua morbidezza di pallottola calda. Un mattino, mentre me lo tenevo in grembo, vezzeggiandolo infantilmente, susurrandogli in cantilena cento sciocchi nomignoli di carezza (faceva le fusa, tutto in un gomitolo) Paolo sopraggiunse: me lo strappò dalle mani, e lo lanciò dalla finestra nel giardino, ove rimase stecchito.

“ Discorrevo, un giorno, con un giovine operaio elettricista, quasi un ragazzo, venuto per rimediare al guasto di alcuni fili nella camera da letto. Lo interrogavo, curiosa della sua esistenza di povertà, colpita dall'espressione pensosa ed energica del suo volto malaticcio. Egli mi raccontava della sua mamma ch'era quasi cieca, della sua sorellina ch'era un vero folletto, della sua passione di leggere, leggere, leggere, così smaniosa che egli finiva col dormire, la notte, due ore su dieci…. — quand'ecco, lo vidi impallidire sotto il durissimo sguardo di Paolo, apparso sulla soglia: e rimettersi al lavoro senza far motto. Non vi siete mai trovata sotto uno sguardo che schiocca e fischia e riga le carni di rosso come una frusta?… Non vi descrivo la scena che seguì, quando l'operaio se ne fu andato: di violenza cieca, di basse ingiurie che io subii cogli occhi chiusi, senza più sangue nelle vene, ridotta un cencio.

“ Non fu la sola.

“ A poco a poco, con la paura, con la vergogna, nel mio acerbo cuore entrò l'odio. Mi nutrii d'odio tacito e tenace, come una belvetta prigioniera.

“ So che molti dicono: La gelosia è una prova di amore. So che molte donne la vogliono nel loro compagno. Io, no: io avevo un'anima dritta e libera. Per me la gelosia non poteva, non può essere che una brutale forma di tirannide. O, se volete, una malattia. Ma, a furia di chiamar malattie tutte le storte manifestazioni della psiche umana, tutte le debolezze passionali, noi finiremo col lasciar la destra, per la strada, agli assassini. Anzi, abbiamo già cominciato: le vie son piene di criminali a piede libero, che hanno le mani pure di sangue. Che ne dite?… ”

Con un rapido gesto delle manine cariche di anelli s'era cacciata indietro i capelli dalla fronte. Il suo viso mi parve una lama snudata. Balenava tutto, negli occhi, nei denti, nell'espressione di volontà indomabile.

— “ Divenni madre. Urlai di strazio, per mettere al mondo il mio bambino, un giorno e una notte. Riposavo, finalmente, abbandonata in quel delizioso languore, in quel soavissimo dissolvimento di tutto l'essere, che solo le puerpere conoscono. Oblio dei sensi, morte nella vita. Oh, se la vera morte fosse tale!… Fu in una di quelle ore di dolcezza e di santità, che la voce di Paolo mi bisbigliò nell'orecchio: Dimmi la verità, Marika. Voglio sapere la verità. Ti perdono, se mi dici la verità. Mi puoi, tu, giurare che il bimbo sia mio?… —

“ Perdetti i sensi. Il giorno dopo, con febbre altissima e delirio, mi sopravvenne una fiebite. Infermiere tenerissimo ed instancabile, l'uomo non si staccò mai dal mio capezzale. Ah, che fui proprio cosa sua, in quell'altalena fra la vita e la morte!… Ma chi sa se a vegliarmi così non lo spingesse l'ansia di sorprendere nel mio delirio la frase o il nome che mi accusasse?… Ed io guarii; ma il bambino mori, pochi mesi più tardi. Sono convinta che, se fosse vissuto, egli l'avrebbe adorato. Non aveva mai alluso alla scena do quella notte — e pianse, pianse, sul lettino del bimbo spirato, mentre io rimanevo muta, rigida, senza lagrime: un sasso: e pensavo: Meglio così. — E mi pareva impossibile che egli potesse piangere.

“ Se avessi posseduto uno sostanza, o un'arte dalla quale trarre guadagno, mi sarei divisa da lui. Ma che cosa avrei potuto fare?… dove andare?… a qual lavoro adattarmi, avvezza com'ero ad una vita di gran lusso?… Non avevo ragioni sufficienti per chiedere la separazione legale. Non avevo contusioni da mettere a nudo dinanzi agli avvocati ed ai giudici. La mia povera anima, sì, era tutta contusa e sparsa di lividure; e mi pareva di vederla, talvolta, staccata da me, ignuda e senza difesa nel vasto mondo. Mio marito continuò ad accompagnarmi nei negozi di mode, a coprirmi di belle vesti e di gioielli, a mettermi in mostra nei palchetti dei teatri, in carrozza, in automobile, rinfacciandomi a tu per tu (cogli estranei non si tradiva mai) d'esser l'amante di tutti gli uomini che entravano, fosse pure come semplici comparse, nella cerchia della nostra vita. Accusò suo cognato. Accusò un ufficiale. Un vecchio ingegnere. Un giovine medico. Un avvocato. Lo chauffeur … Forse ci si divertiva, lui, nel terribile gioco. Mi vedeva con piacere, forse, tremare e piangere, e gridare: No!… no!… —

“ Quando, stanca di lagrime e singhiozzi, mi abbandonavo senza forze, invocando compassione, stringermi fra le braccia, così colpita e dolorante, era forse per lui la più raffinata delle voluttà….

“ Ma io m' indurii, a furia di soffrire, e non trovai più in me la possibilità delle lagrime. Gli rispondevo rabbiosamente, cogli occhi fiammeggianti, colle labbra violette d'ira. Si scatenarono fra noi scenate feroci.

“ Non distinguevo più fra la morale che mi era stato insegnato di seguire e il mio istintivo bisogno di ribellarmi, di vendicarmi, di sfuggire alla morsa di quelle tanaglie. E mi presi, infine, per provare, un amante. Oh, la gioia d' ingannar mio marito, di raggirarlo col raggiro che lui stesso mi aveva rinfacciato, di abbassarmi al livello delle cattive donne alle quali mi aveva tante volte, ingiustamente, paragonata!… Non per amore, sapete?… Io non ero più capace di amore: ogni gentilezza era paralizzata in me: solo, un'arsura inutile e stupida di vendetta covava nelle mie vene. — Hai creduto che ne avessi tanti, non è vero?… Ebbene, sì, guarda, ne ho uno!… —

“ Ebbi il folle coraggio di urlargliele in faccia, queste parole, una notte in cui, di ritorno dal teatro, egli aveva trovato, per tormentarmi, le più sapienti novità, le torture morali più raffinate. E mi scagliai pazzamente contro la sua ira, volendo, nel mio parossismo, che almeno una volta fosse giustificata: certa certissima che Paolo mi avrebbe uccisa sull'atto.

“ Ed ero li, provocante, imperterrita, pronta a confessare — ma che dico?… — a proclamare il nome dell'altro e i particolari e tutto: a dilaniarlo alla mia volta, con frasi più affilate dei coltelli.

“ Ma non mi prese per la gola. Non mi strappò di bocca nessun particolare. Cadaverico, irriconoscibile, col terrore della mia colpa negli occhi, sgretolando con l'unghie il tavolo a cui s'appoggiava, non seppe altro che balbettare:

— Tu, Marika, tu?… hai fatto questo, tu?…

“ Capite?… Mai una volta quell'uomo aveva creduto alle ragioni che dava alla sua gelosia. Mai una volta aveva creduto ai capricci, alle infedeltà delle quali mi aveva accusata. La verità, ora, lo fulminava. Anni ed anni mi aveva fatta soffrire, così, per assecondare un suo perverso istinto, per sadismo, per sentirmi dibattere, innocente, sotto il sospetto ingiusto. Adesso, davanti a me più forte di lui, e forte soltanto perchè avevo realmente commessa una mala azione, pativa tutte le pene del mondo; e batteva i denti, stravolto. — Di' che non è vero!… Di' che non è vero!… —

“ Non potevo dirlo, io, che non era vero. Nessuno avrebbe potuto trattenere sulla mia bocca la verità. Sgorgava dalle labbra frenetiche, come una fontana di sangue. E con essa il rimpianto della vita che avrebbe potuto essere così bella, dell'anima che avrebbe potuto conservarsi così pura, di tutto ciò che di sacro era stato brancicato, sporcato, calpestato. A stremo di forze mi afflosciai sul tappeto — e non seppi più nulla. Un mese di poi, ritrovando la ragione dopo una febbre cerebrale che mi aveva condotta quasi alla tomba, scorsi, co' miei poveri occhi appannati, il volto di Paolo chino sopra di me. Come mutato mi pareva!… Smunto, ansioso, trasfigurato dalla pietà, infinitamente più dolce. Io non riuscivo ancora a connettere le idee: ero simile ad una bolla d'acqua a fior d'uno stagno profondo. La ragione psichica del male, però, restava, viveva nel sub-cosciente. Quando mi fu possibile parlare, mormorai in un soffio, volgendo un poco verso l'uomo immobile la testa che mi doleva: — Perdono. —

“ Lo chiedevo, o lo concedevo?… Non so. Certamente passò in lui, come in me, la sensazione ingannevole ma soavissima che una vita nuova potesse ricominciar per noi. ”

— E…. ricominciò?… — osai domandare, qualche minuto dopo, alla mia compagna, che s'era rinchiusa in un pesante silenzio.

— Oh!… che dite?… nulla ricomincia. Ci si illude, ecco. In qualche modo bisogna ben vivere quando non si ha il coraggio di morire. Così, anche noi abbiamo raccolto i cocci rotti, e ci siamo ingegnati di riappiccicarli insieme con… la reciproca pietà. Ma non eravamo abbastanza virtuosi, nè abbastanza immemori. Calmi ed uniti in apparenza, a somiglianza dell'altre centomila coppie che sfregano spalla contro spalla fino ad averne le carni piagate, abbiamo condotto al doppio guinzaglio l'esistenza, finchè sopravvenne la morte a liberare uno dei due…. La morte corporale, dico. L'altra morte era già in noi da un pezzo, quantunque nessuno se ne avvedesse. Il mondo è pieno di ombre che fanno finta di vivere….

Rise, rise, nervosamente: poi si strinse nelle spalle.

— Guardate, non v'è più una sola nube nel cielo, adesso…. Dove diamine se ne saranno andate?… Comincia a far freddo. Chiudetevi bene nel mantello…. e datemi un fiammifero, per favore.

Accese un'altra sigaretta, e si rimise a fumare, — mentre le stelle del cielo e le stelle elettriche sulle sponde del lago e dei due fiumi sbocciavano insieme, nella calma della giovine sera.

Ci eravamo raccolte nel salottino terreno della piccola Pension, tipicamente svizzero nelle rivestiture di legno laccato salenti fino al soffitto e nella panciuta stufa di maiolica bianca, fregiata d' istoriette turchine. Tavolini bassi, tozzi, negli angoli, eran carichi di giornali e di riviste illustrate. La finestra, velata da leggerissime tende di tulle, lasciava scorgere la piazzetta del Conservatorio, sassosa e nuda, il fianco grigio d'una scuoletta di bambini, e il campanile aguzzo d'una chiesa protestante.

Calava il tramonto, con nebbia e pioviggina. Cyna Ward, la viaggiatrice senza requie, che aveva veduto tutti i paesi del mondo e ch'io chiamavo per vezzo Madonna Aasvera, cercava un' introvabile indicazione nella Guida di Zurigo, battendo con impazienza sull'impiantito un insolente piedino di cinquantenne rimasta a maraviglia giovine nello spirito e nei nervi; e si cacciava a tratti la mano, una manina da nulla, un giocattolino di mano, fra i capelli tagliati corti. Fanny Marsan chinava su un fastoso lavoro di ricamo, verde su oro, la faccia d'un pallore spettrale, gravata da un casco di ricci tinti violentemente di rosso. Teodora Polas, una giovine greca che parlava tutte le lingue e aveva i superbi occhi azzurri di Pallade in un volto statuario, faceva, per noia e per gioco, roteare la trottola d'una minuscola roulette.

Io sentivo la malinconia, un'impalpabile ed invincibile malinconia penetrare come la nebbia, come il crepuscolo, nelle anime di quelle sradicate.

Avevano esse, lontano, in qualche angolo del mondo, un focolare che le aspettava?… O l' avevano abbandonato per sempre?… O l' avevan distrutto con le loro stesse mani, chi sa da quanti anni?… E chi erano?… Falso, o vero, il nome da loro scritto nei registri degli innumerevoli alberghi dove per qualche giorno, o per qualche mese, il loro piede nomade s' arrestava?…

Ma Cyna Ward gettò la Guida, accavallò le gambe, e disse a bruciapelo, con la sua vocetta squillante di campanello elettrico:

Mesdames, ne nous embêtons donc pas!… Voyons!… Est-ce que nous allons parler d'amour, pour nous réjouir un peu?

Allora, fra un generale silenzio di sorpresa, Maria Ben, che se ne stava quieta in un angolo, con un libro chiuso sulle ginocchia, alzò gli occhi stanchi e mormorò involontariamente: — Oh!… io sono stata cosi felice!…— Maria Ben era quasi vecchia. Di una donna quasi vecchia, e sola, non si pensa mai che abbia potuto amare ed essere amata. Pure, nella velata dolcezza di quegli occhi castani, nella finezza delicatissima di quel profilo sfiorito, nella grazia del vestire e del gesto, noi avremmo dovuto sentire la donna che non aveva vissuto se non per l' amore.

Tutte la fissammo in quel momento, come se la riconoscessimo solo allora. E restammo tese verso di lei, verso la storia appassionata che senza dubbio stava per raccontare: curiose e commosse come lo si è, sempre, dovunque, dinanzi al fascino d' una storia di amore.

Ed ella cominciò, lentamente:

“ — Sono stata felice perchè mio marito mi amava ed io lo amavo. Sono ora, forse, la più infelice donna che esista, perchè l' ho perduto.

Quando c' incontrammo la prima volta, io stavo per compiere i venti anni, egli i trenta. Non udii bene il suo nome: non udì bene il mio. Rimanemmo estatici, l' uno in faccia all' altra. La folla che splendeva rideva volteggiava in quell' immenso salone da ballo parve sparire ad un tratto, per non lasciar vivi che noi due. E fu finita. Egli non potè più pensare che a me, io non potei più pensare che a lui. Dovettero sposarci in fretta, perchè in verità diventavamo pazzi. E un poco pazza io fui sempre, anche dopo, per la gioia d'essergli unita. È ridicolo, non è vero?… ”

Ah, no. — I larghi occhi azzurri di Teodora Polas, dilatati fino ad inghiottire nelle orbite tutto l'intento viso, dicevan forte, essi, che non era ridicolo. Madonna Aasvera, la terribile bimba nomade di cinquant' anni, aveva brandito l'occhialetto, per meglio fissar la donna che osava confessare d' aver adorato il proprio marito e di esserne stata adorata; ma, dietro l' ambiguità del vetro, le brune pupille un po' malate brillavano, singolarmente dolci.

Fanny Marsan curvava sempre più, quasi volesse nasconderla, la sua tragica maschera deturpata dalla biacca, sotto il casco dei capelli tinti.

— “ Elio era bello — continuò Maria Ben. — La bellezza fisica formava in lui un tutto di magnifica armonia coi caratteri della bellezza morale. La sua coscienza era diritta, muscolosa, perfetta nel proprio equilibrio, come il suo corpo. Aveva il nome del sole: era veramente degno di portarlo. Come il sole, comparendo, irradiava calore e luce. Possedeva la serenità dei fortissimi. Un'assoluta padronanza sopra se stesso equilibrava in lui l' ultrapotenza fisica. lo ero così piccina e fragile presso di lui!… Ma mi piaceva tanto che si chinasse per guardarmi, per parlarmi. Oh, i suoi limpidi occhi, la sua grande bocca rossa, il suo modo di dire: Bambina!… — Ma non mi disse mai: — Ti amo. — Vi sono uomini che dinanzi alla compagna della loro vita hanno il pudore di questa espressione: quasi che il pronunciarla significasse profanar l' amore.

“ Era architetto. Non avrebbe potuto essere che architetto. Costruito per costruire, per nient'altro che costruire. Sempre in progetti, sempre in ardore, sempre in movimento, appassionato per la sua opera al punto da perderne talvolta il sonno.

“ Io non ero gelosa del suo lavoro. Andavo a sorprenderlo, con fasci di rose in mano, nello studio fra impiegati curvi su complicatissimi disegni, oppure (e questo assai più mi piaceva) sul posto delle fabbriche in costruzione, dove egli sovrastava a tutti, — tutto osservando con l'acutezza dell'occhio d' aquila, tutto disponendo e ordinando, obbedito in silenzio come un re.

“ Fra i cubici scheletri di ferro, l' andare e il venire dei manovali sulle impalcature aeree, e lo stridere delle carrucole e il cauto trasporto dei massi di cemento in braccio alle gru, la bellezza di Elio mi rendeva folle d'orgoglio. Dal lampo diritto degli occhi, dall' imperiosa ossatura del volto, dalla recisa brevità del comando, dall' atletica eleganza dei muscoli emanava tale un fluido d'energia, che ogni cosa intorno ne era pervasa e trasfigurata.

“ Io mi dicevo in quelle ore, con lo sguardo perduto in lui: È mio.

Mio. Mio tutto. Nel pensiero. Nel corpo. In ogni istante della sua vita. Mio come io ero sua, nella continuità del tempo, nell' assoluta sicurezza dell' esistenza in comune.

Mio era quel ch'egli toccava con le forti mani. Mia l'aria ch' egli spostava camminando. Gioia d' essere donna, e bella, e giovine, per la gioia di lui. In carrozza, in automobile, al suo fianco lungo viali d' ombra e spiagge di sole, stessa felicità di vivere, stessa profondità di sensazioni, come di notte fra le sue braccia: quando egli quasi mi distruggeva serrandomi, e dai fianchi alla gola, dal cuore al cervello tanta letizia mi dilatava, che l'alba d'ognuna di quelle notti mi parve la prima della mia vita. ”

…A chi parlava, in quel momento, Maria Ben?… Certo al suo cuore. Non vedeva le facce pallide, maravigliate, turbate, che la fissavano. Guardava in sè, con occhi dolcissimi, ridiventati giovani.

“ — Viaggiammo. Ma fra le bellezze dei paesi che rademmo a volo come le rondini, e i miei occhi, sempre si drizzò la persona di Elio: le vidi con lo sguardo di lui, ne godetti perchè egli m'era accanto, nulla avrebbero detto ai miei sensi se egli non fosse stato.

“ Ricordo. Un meriggio di luglio. Una sosta a Parma, dopo aver vagabondato pel Lazio, la Toscana e l' Emilia, e in attesa di prendere il direttissimo per Milano. L'aria era incandescente. Io m'ero accoccolata sui gradini della facciata del Duomo, presso i leoni di pietra, impassibili. Ero vestita di bianco, ero una piccola cosa bianca raccolta ai piedi di Elio, che se ne stava diritto davanti a me, come per difendermi dalla canicola. La piazza, deserta, chiusa nelle semplici e basse linee delle sue case intorno alla maestà del tempio e alla miracolosa grazia del battistero, era tutta un rogo. Vi bruciavo con Iui. Io sola, con Iui solo. Felice.

“ Elio non mi era mai apparso cosi bello. Lo vedevo dal basso all'alto, gigantesco. Egli accarezzava cogli occhi prima me, poi le colonnine del battistero. Diceva: Sono leggere come ali. Volano…. — Diceva: Nelle pietre del Duomo scorre sangue vero, sangue umano. Vivono…. —

“ Io pensavo che, per me, da Iui soltanto emanava il fascino di quelle maraviglie: che, se quell'uomo alto nel sole davanti a me fosse scomparso, avrei brancolato sulla terra come una cieca.

“ Ci nacquero due figli. Una femmina, un maschio. Belli, sani, gagliardi. Volli loro un gran bene, naturalmente: fui per loro una madre serena e dolce. Ma non mi furono mai, mai, nemmeno un istante, necessari alla vita.

“ Il necessario mio compimento io l'avevo e lo tenevo in Elio. Mi avessero detto: Scegli fra Elio e i bambini — non avrei esitato un attimo a seguir lui. Anormale?… No. Infine, amavo il padre de' miei figliuoli. Il mio dovere verso di loro, io l'ho compiuto. Ma egli era me. Quanto ad essi, erano usciti dalle mie viscere già foggiati e predisposti dalla natura (che non è sentimentale) per una strada che non sarebbe stata la mia. Erano della vita: avrebbero seguito le sue fatali necessità, che formano la perenne tragedia di tante madri esclusive.

“ Mario dichiarava, alzando la testina energica dalle carte geografiche: Io sarò capitano di marina e vedrò tutti i paesi del mondo.

“ Donella mi confidava in un orecchio: Io sposerò un uomo bello come il papà, e avrò dodici figli.

“ Io sorridevo e pensavo: Dio vi benedica entrambi!… Elio ed io invecchieremo insieme.

“ Invece accadde una cosa mostruosa. Me Io portarono a casa, un giorno, morto.

“ Piombato dall' impalcatura d'uno de' suoi palazzi in costruzione: infranta la base del cranio: spirato sul colpo.

“ Senza dirmi addio, senza dirmi nulla, senza trascinarmi con sè. Io rimasi di pietra per non so quanto tempo: insensibile a tutto, col corpo e l'anima in stato di paralisi. I medici temettero per la mia ragione. Fino a quando, per loro ordine, una mia buona sorella mi comparve dinanzi all'improvviso, mettendomi sotto gli occhi la giacca grigia che mio marito aveva indossata la mattina della disgrazia: ciancicata, polverosa, un cencio, lorda di sangue raggrumato sul bavero. E mi gridò sulla faccia, investendomi: Ma non sai?… ma non capisci?… Elio è morto, è morto, è morto!… —

“ Mi drizzai d' impeto, afferrai la giacca stringendomela contro il petto, urlai, singultai, bestemmiai, mi rotolai sul tappeto, battendo il capo negli spigoli dei mobili.

“ Ero salva.

“ E potei continuare a vivere. Come, non so. È così forte l' istinto vitale!… I fanciulli crebbero; ma dalla mia voce, sempre per essi chiara e soave, mai più udirono nominare il padre, che pure stava, ombra immobile, fra me e loro. Anche nella morte egli doveva essere mio, esclusivamente mio. Chiuso nel mio cuore, come nella sua tomba.

“ Mario è, ora, guardiamarina su una nave in crociera nell'Atlantico, e Donella sposa felice in Inghilterra. Le è nato il primo bimbo. Lo ha chiamato Elio. Non desidero di vederlo.

“ Sono contenta che i figli se ne siano andati. Ho disfatta la casa dove nessun dovere mi teneva più. Sto meglio: sola col mio uomo: lo porto con me, dappertutto. Senza radici sulla terra, poichè le radici son nel mio cuore. Io non credo nella vita futura, nel ricongiungimento degli spiriti dopo la morte. Se vi credessi, mi sarei già uccisa per andare incontro al Compagno. Ho spinto invece, per trovar la forza di vivere, la mia volontà di evocazione a tal punto d'intensità, che il Compagno mi è tornato vicino. Lo vedo, gli parlo, lo interrogo, mi risponde. Il suo sguardo mi tocca come se fosse la sua mano. — Ecco. — ”

Maria Ben tacque, rimanendo immobile, con gli occhi chiusi. Nessuna di noi osò aprir bocca. L'Assoluto, nella sua solennità religiosa, era penetrato entro la comunissima stanza d'albergo dove cinque donne nomadi avevan, per una breve sosta, arrestata la propria corsa nel vuoto. Per alcuni minuti un misterioso canto d'organo echeggiò nei nostri cuori, mentre l'ombra della sera si addensava, compatta.

Ma Cyna Ward balzò in piedi con una mossa da clown: stese la mano al commutatore, lanciò la luce della lampada elettrica sui pallidi volti femminili, come una spruzzata d'acqua gelida che schiaffeggi il sangue; e disse:

“ Oui, c'est ça. Il n'y a que l'amour. Tout le reste, de la blague, voilà!… Mesdames, je pars demain pour Paris, à dix heures. Je crois bien que vous viendrez m'accompagner à la gare?… ”

— Venite a vedere le mie trine. Ne sarei tanto contenta. Voi non mi conoscete abbastanza: è nel mio lavoro che dovete scoprirmi. Venite, venite con me.

Prendendomi sotto braccio mi fece attraversare il ponte sulla Limmat, contro i cui pilastri si frangeva il fiume tra un variare di riflessi grigio verdognoli. Entrammo per la gran porta del Landes Museum, fisso in immobilità grigio ferrigna sotto un pallido cielo grigio perlaceo.

Tutta un'ala terrena del gotico palazzo era (contrasto gaio) occupata da una modernissima esposizione di sale da pranzo, verande, chioschi da giardino, salottini pel thè, arredati e disposti uncamente da donne, esperte nell'arte della scultura in legno, della ceramica, del merletto, del disegno, della decorazione.

Il buon gusto ed il capriccio muliebre si eran divertiti, prodigati nel rivestire di fragile preziosità quegli interni, che pareva attendessero cinguettii di bambini, confidenze d'amiche e d'amanti, musiche di voci cordiali fra aromi di fiori e di thè.

Clara Walser aveva fretta, mi trascinava un poco. Non mi sembrava più lei, sempre cosi calma e quasi rigida.

Passammo di volo davanti ad un salottino che avrei voluto meglio osservare, per certi caldi toni di luce, ottenuti con giallo su giallo; ad un altro con piccola tavola, un gioiello di tavola, apparecchiata per due, tovaglia annodata da fiocchi rosei, tazze e coppe iridate d'una leggerezza d'ali, orchidee violacee: sedie, divanetto e cuscini armonizzanti in rosa stinto e viola smorto, come le note in sordina d'un minuetto.

— Ecco — disse Clara Walser.

In una stanza severa, con mobili di color fulvo a linee sobrie e diritte, con poche maioliche a disegni violenti su fondo d'ocra, erano esposti, di lei, una tovaglia e quattro cortinaggi da finestra in grossa tela, a larghe e regolari incrostazioni di punto lacis, d'uno stile cosi semplice, cosi puro, cosi robusto, d'un'esecuzione cosi perfetta, che non se ne poteva staccare lo sguardo.

Osservando attentamente le trine e la donna, si aveva, profonda, la sensazione che il lavoro rassomigliasse in singolar modo all'artefice, e che lo stesso ritmo di vita governasse l'uno e l'altra.

Io lo dissi a Clara Walser, uscite che fummo dall'esposizione, e lasciata che avemmo dietro di noi la mole del Landes Museum di una pesantezza di piombo sotto il cielo di una tenuità di fumo.

Ella sorrise e non rispose subito. Era tornata nella sua nobile calma abituale.

Qualche passo più in là, presso alcune fabbriche, sostammo un istante sulla furia delle acque, ribollenti in quel punto in due o tre vertiginosi gorghi intorno a denti di ruote enormi.

Quella tempesta d'onde e di spruzzi a vortice era grigia come le nubi e le pietre, come la veste e i capelli di Clara Walser.

Capelli argentei (decolorati da un veleno durante il corso di una sola notte?…) ma vivi e giovani, pieni di movimento e d'aria, costretti sulla nuca in un grosso mazzocchio. Qualche anno prima, biondi e sciolti, avrebbero potuto folgorare al sole sul dorso d'una Walkiria a cavallo.

Dopo una pausa — secondo il suo costume — ella mormorò:

— Le donne il cui destino è di essere madri (il più bello, il più gaudioso destino, sia pur nel dolore) dànno al mondo creature che loro rassomigliano, e nelle quali continuano a vivere. Quelle che rimangono sole e sterili, debbono pur trarre dal proprio io un'opera che sia la diretta espressione — e continuazione — della loro forza, della loro sensibilità. Credete che l'anima sia solo dell'essere umano?… Credete che qualche molecola o irradizione di essa non possa vivere in una trina, in una maiolica, in un legno scolpito, in un ricamo?…

Sorrideva, di un sorriso sereno che addolciva le linee di forza del suo volto, segnato d'ombre, lavorato a cesello dalla vita.

— Ed ora che avete veduto le mie trine, vi rapisco, per mostrarvi la mia cella e i miei disegni. Abito in una stanzetta da certosina: vi piacerà, ne son certa.

Avevamo infilata una delle viuzze più aspramente caratteristiche della vecchia Zurigo: stretta, ripida, sassosa, fiancheggiata di casette dalle piccole porte massicce, dalle finestrelle irregolari piene di gerani e di altri semplici fiori, coltivati fra doppi vetri come in serra.

— Salite.

Scale lucidissime, di legno: odor di abete: bacche die vischio e di lauro, sull'architrave d'un uscio all'ultimo piano: la “ cella ” mi apparve nella sua austerità.

Fasci di cartoni allacciati da fettucce verdi, su due tavole: dure e pungenti rame di pino e di ginepro, gettate qua e là in rustici vasi, con un'apparenza di disordine che altro non era se non una nota di stile. Una testa maschile di Hodler, brutale e tormentata, a una parete: un antico crocifisso di legno a capoletto.

L'ospite sciolse le fettucce verdi, aperse i cartoni. Certamente più artista nelle trine stupende, che nei disegni un poco duri. Anche i disegni, tuttavia, portavano il suggello della consanguineità; rassomigliavano a lei come certi figli, pur con linee di volto diverse, riproducono la fisionomia della madre.

Su ogni foglio era, prima, con matita colorata, tracciato un fiore, o una fronda, o una gemma ancor chiusa nel leggero involucro primaverile: poi, la mano inquieta cercava, di fianco o più sotto, di renderne, sola, la linea essenziale, amplificandola, intrecciandola a qualche altro motivo originale. Infine, la linea si determinava in figurazioni decorative, per stoffa, per tappezzeria, per merletto, per affresco o vetrata. E un'idea nuova ne balzava sempre.

Il fiore, la foglia, il bocciuolo, l'insetto eran segnati con diligente ingenuità primitiva: non tanto quali si vedono ad occhio nudo, ma piuttosto quali sono scòrti attraverso il microscopio. Sempre eran scelti i fiori selvatici, l'acònito, la genzianella, la violetta di bosco, la rosa di macchia; e la digitale purpurea ed altri fiorellini di piante velenose, — vere piccole maraviglie di colori e di forme.

M'era già nota l'istintiva antipatia di Clara Walser per le piante ed i fiori coltivati dal giardiniere. Aveva detto un giorno: La bellezza pura non appartiene che alla fiora selvatica: dopo, è corrotta: è simile ad un viso imporporato dal belletto, ammorbidito dalle creme, mascherato del sorriso che si porta in società.

— Questo vi piace?… Non è aprile, questo?…

Mi pose sotto gli occhi un prato visto dall'alto, cosparso di margheritine delle quali non era visibile che la corolla, aggruppate come le costellazioni nel cielo. Pareva che il cielo fosse disceso in terra, o vi si specchiasse cangiando colore. Vidi con la fantasia una camera di giovinetta tappezzata cosi, con finestre spalancate su campi e praterie, continuanti all'aperto la fresca bellezza del nido virgineo.

E poi, certi rametti di citiso, leggerissime piogge d'oro; e certe corolle gentilmente recline di mirtillo selvatico, trasformate in lampadette elettriche; e certi fiori di male erbacce, che, spogli d'un metà dei petali e con le interne filamenta allo scoperto, non sembravan più fiori, ma grossi insetti….

In ogni segno, intensità: e un'ansia sottile di spingerlo oltre la natural forma per rendere il misterioso ritmo collegante la vita vegetale con quella degli uomini, degli animali, degli astri.

— Vi dà molta gioia il vostro lavoro, amica mia?… — domandai.

— Oh, molta. Dal marzo al novembre vivo quasi esclusivamente nelle foreste. Là, comunico colla terr e colle piante. E scopro tesori. Non potete figurarvi quale infinita grazia di linee e dovizia di colori possegga la fiora libera del bosco e della montagna. Soltanto, per ben capirla, per esser degni di penetrarla, è necessario che anche l'anima nostra sia libera.

Segui una breve sosta, carica di vibrazioni: durante la quale, dal foglio disteso sulle nostre ginocchia, una viola del pensiero, gialla e paonazza, regolare come un volto, ci scrutò con occhi umani.

— Libera. Comprendete?… Voglio dire da tutto. A venticinque, a trent'anni, io non avrei nè cercata nè meritata questa rivelazione, che è un assentimento divino. Conviene molto amare, molto errare, molto piangere, renderci a poco a poco superiori al dolore egoistico, purificarci da ogni scoria, uccidere in noi il tormento del desiderio. Rinascere, insomma. Si può. Io ho potuto. E pienamente nuova mi sentii quel giorno nel quale, gettando scarpe e calze, camminai a piedi nudi nel fango della foresta, dopo una pioggia torrenziale che aveva durato parecchie ore. Fu un battesimo. Lo spirito della natura entrò in me. Da allora in poi, sempre, in campagna, coi piedi nudi, con l'anima nuda.

….Gli occhi della viola del pensiero non ci scrutavano più: il foglio s'era voltato su un viluppo gaio e folle di rosette di siepe con spine e fronde, simili a fanciulle di quindici anni allacciate per un passo di danza.

— Udite, che vento?… — continuò Clara Walser. — È la tormenta del nord: avremo la neve, a Natale. L'amate, voi, la festa di Natale?… No?… Vi capisco. Non siete ancora liberata. Io l'amo ormai non più per me stessa, ma per gli altri. Ed è così che bisogna amarla. La passerò quest'anno a Eriswil, un piccolo villaggio del contone di Berna, che ora si è già tutto incappucciato nel suo mantello di neve. Lassù, due amiche mie, sole nella vita come me, stanno preparando l'albero di Natale pei deficienti, per gli scemi del villaggio e dei dintorni. E sono molti, e poverissimi; e taluni di loro assai vecchi. Sapete: quanto più intensa è stata la nostra sofferenza, tanto più ci divien cara la compagnia dei…. poveri di spirito. L'albero delle due sorelle di Eriswil ha per ciascun disgraziato un dono utile, in roba; poi qualche dolce, e, si, qualche balocco. E si vedono tremuli vecchi dall'anima ancor ravvolta nei veli della prima infanzia, giocare, felici come bambini, con la trottola o il cavalluccio…. Ebbene, anche per compiere la dolce opera di pietà, è necessario aver l'anima libera. È necessario essere state poste, dal destino, o, meglio, dalla nostra volontà associata al destino, fuori della vita egoistica. Alla rinuncia delle due sorelle il premio (cioè la rivelazione) è stato dato dalla comunanza, in amore perfetto, con le più umili anime. Alla mia, dalle più umili maraviglie della natura. E viviamo, per questo, in allegrezza….

….Cercai, avidamente, negli occhi di Clara Walser l'ombra dell'uomo che era passato, senza dubbio, nella sua vita.

Passato, per devastare. — Ma il buon terreno s'era ricomposto in linee di nuova armonia, e del sole e della pioggia ancora aveva gioito per dar fiori e frutti.

Calmi, limpidi, gli occhi affrontarono la tacita domanda, senza negare, ma senza rispondere.

Poscia la donna fece qualche passo verso la finestrella quadrata: rimase in meditazione, ritta nel vano. Sulla bianca cortina il profilo si scolpiva con la stessa nettezza, sincerità, intensità delle parole uscite dalla pura bocca, delle trine e dei disegni usciti dalle pure mani.

Non sapevo nulla di lei, eppure sapevo tutto. Per lo spazio breve e infinito di qualche ora, un'anima mi si era denudata dinanzi, lasciando in ombra il suo dolore per non mostrarmi che la sua vittoria; e già il mantello si richiudeva sul cuore intrepido.

Presi un ramo di ginepro, me ne punsi le guance e la bocca: esitai, poi dissi umilmente, a bassa voce:

— Perchè non vorreste condurmi con voi, a Eriswil, nella casa delle due buone sorelle, per la festa dell'albero di Natale?…

Caterina fece la sua comparsa nel mondo assai discretamente, senza cagionar troppe sofferenze a sua madre, una piccola donna un po' gobba che aveva paura di tutto: del temporale, dei topi, delle stanze buie, della serva e del marito. Fu messa a balia presso una contadinotta della Bassa Lombardia, tozza e robusta, la quale, quando le toccava andare ai lavori dei campi, legava la piccoletta nella culla, dicendole: sta quiètta, rattin; e la piccoletta se ne stava davvero tranquillissima per ore ed ore, succhiandosi un ditino, cogli occhi chiusi.

A quattr'anni aveva già imparato che, quando il babbo (grave e saputissimo ragioniere imbottito di cifre) era tornato a casa dagli uffici del Credito Nazionale, bisognava giocar negli angoli, adagio, senza far rumore.

A quindici, la cattiva digestione dei complicati programmi dei corsi tecnici le aveva ingiallita la pelle, cerchiati gli occhi, resa la bocca amara e impoverito il sangue: per la qual cosa il padre pensò di tenerla in casa ad aiutar la mamma, sempre più gobba e spaurita, nelle faccende domestiche. Tanto e tanto, professori e maestri parlavan di lei con compatimento, come d'una di quelle scolare che nulla possiedon di buono se non la “ savia condotta ”, la diligenza e la calligrafia.

— Non ha fantasia!… — diceva l'insegnante d'italiano.

— Manca della facoltà di deduzione!… — brontolava l'insegnante di scienze esatte.

In fondo, il padre non era malcontento di tal risultato. A lui piaceva, nella casa, spadroneggiare senza trovar resistenza, sdottorare senza essere mai contradetto: era il tirannucolo borghese senza bontà, tirchio e sentenzioso. Se la fortuna non gli avesse concessa una moglie stupida, a renderla tale ci avrebbe pensato lui.

Fra quei due, Caterina crebbe, tacita e laboriosa, nè brutta nè bella, nè alta nè bassa, nè grassa nè magra. Anima chiusa; ma non si pensava ad aprirle la porta. Figura comune; ma i lunghi capelli castagni sarebbero parsi folti, se pettinati meglio; e gli occhi grigi sarebbero parsi grandi, se ella avesse osato fissar la gente in volto. Ma il padre la trattava come la serva numero due: quella numero uno era — s'intende — la moglie: della fantesca, che veniva ad ore pei bassi servizi, aveva maggior rispetto. La pagava, costei: le altre due gli appartenevano, diamine!… e portavano il suo nome.

Egli soleva dire agli amici, con un sogghigno che voleva essere mefistofelico:

— In casa si deve essere obbediti. Non bisogna, quindi, metter romanzi in mano alla moglie, nè dare troppa istruzione alle proprie figliuole…. Le donne devono servire. Devono dipendere da noi, in ogni atto e fino all'ultimo centesimo. Fuor di ciò non può esistere ordine

Il segaligno e fegatoso omuncolo non acconsenti, naturalmente, alle nozze della figlia, se non quando fu ben certo di metterla fra le mani d'un genero fatto, — salvo l'età e la florida persona — a sua immagine e somiglianza: un impiegato di prefettura, che cercava moglie perchè, a conti fatti, una mogliettina sana ed attiva, buona cuoca sovra tutto (su questo punto egli era inesorabile) gli avrebbe reso miglior servizio d'una fantesca.

Non si seppe mai se Caterina fosse innamorata del suo promesso: non parlava che a monosillabi. Disse di si cogli occhi bassi: si cuci da sola tutto il corredo e anche l'abito da sposa, che la rese più goffa del solito: salutò freddamente il padre e la madre, e se ne andò verso il suo destino.

Destino comune — in apparenza — d'una donna comune.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. — La pulizia del piccolo appartamento, la spesa, il bucato, la stiratura, le cure del pranzo e della cena, il tutto regolato dalle inesorabili sfere dell'orologio: il tutto spezzato, a periodi, dalle dolorose ma dolcissime eclissi dei parti. Dal marito non le venivano nè gioie, nè reali maltrattamenti. Egli saliva di grado, si gonfiava di se stesso, il giorno all'ufficio, la sera a discutere di protocollo e di politica cogli amici, fra un sorso e l'altro di birra: bell'uomo, vanesio, che aveva una singolar maniera di dire, scotendo il capo tra il soddisfatto e l'irrisorio:

— Già, le mogli non capiscono nulla!…

Ella udiva e taceva: aveva sempre taciuto, tacerebbe sempre. Del resto, che le importava?… Saziarsi di quella frase, ripeterla su tutti i toni, era una delle ragioni di vivere di suo marito; e lei… lei era stata sposata appunto per questo: perchè era una povera piccola donna, una donna comune.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. — Giacomo, il primogenito, metteva i baffi ed entrava in liceo: Gigetta, segaligna e pedante come il nonno, si preparava per la scuola magistrale: entrambi ostentavano la modernità di atteggiamenti e la sicurezza di giudizi della nuova generazione — e consideravan la madre passiva e taciturna dall'alto della loro vacua superiorità. L'orgogliuzzo del paterfamilias si compiaceva ugualmente dell'ombra in cui viveva la moglie e dell'ingannevole parvenza d'ingegno pavoneggiante nei figli.

V'è chi cammina, solo, pei deserti. — V'è chi naviga, solo, pei mari. — Vi sono vite di donne intessute così, a filo liscio, bianco su bianco. — si ignora tuttavia se questa monotona bianchezza, che può anche essere di sepolcro, nasconda in sè minor tragicità di altre tele d'esistenza a trame aggrovigliate d'oro, di gemme e di sangue.

Le rughe incominciarono, lentamente, a disegnar la loro rete sul volto tranquillo ed impenetrabile di Caterina. Tranquillo ed impenetrabile, anche quando ella s'accorse che Giacomo rubava denari dal cassetto dello scrittoio paterno, aprendolo col mezzo d'una chiave falsa. Tranquillo ed impenetrabile, anche quando ella s'accorse che suo marito pizzicava volentieri la serva in cucina, e si alzava di notte con infinite precauzioni, per scivolare, a piedi nudi, lungo lungo nel camicione bianco a sacco, fino allo stambugio in cui dormiva la ragazza.

Caterina fece mettere, col pretesto dei ladri, allo scrittoio una novissima chiave inglese, — e tacque: scacciò la domestica col pretesto ch'era ghiotta e fannullona — e tacque. Altre succedettero a costei nella casa; e tutte vennero successivamente licenziate, quale per inettitudine, quale per insolenza, quale perchè rubava sulla spesa. E il vicinato accusava Caterina d'incontentabilità; e il padrone si fregava le mani….

Una, tuttavia, rimase: una loschetta col seno enorme e i capelli unti. Caterina era stanca di lottare in silenzio. Si rassegnò. La notte, fingendo di dormire, rigidamente distesa lungo la sponda del letto, ascoltava l'uomo allontanarsi: ritornare, dopo qualche ora: strisciar fra le lenzuola come un lungo serpente, e russar quasi subito, con un bizzarro fischio alternato a gemiti gutturali. Ella si drizzava allora sui guanciali, allargando gli occhi nell'ombra. Occhi terribili, che nessuno le aveva veduti mai: occhi che inghiottivano la tenebra e ne erano inghiottiti: torbidi specchi di un'anima abbeverata di nausea, vigile in solitudine, distaccata da tutto.

Quei terribili occhi pur le videro i figli, il giorno in cui, chiamati per telegramma — Giacomo da una borgata del Veneto dove aveva impreso a condurre una farmacia, Gigetta da una città delle Marche dove era stata nominata maestra, — trovarono la donna immobile presso il letto del padre, morto di sincope.

E molti gesti di dolore essi fecero, e sparsero molti lamentosi pianti, poichè così vuole la convenienza; ma Caterina non si diparti dal suo gelo.

A funerale compiuto, nella camera mortuaria in cui persisteva un odore dolciastro di cera, di fiori e di putrefazione, i due fratelli offersero alla madre di venire ad abitar con loro; ma debolmente, come chi tema un sì. Giacomo, infatti, aveva in vista un matrimonio lucroso, che gli avrebbe permesso di comprar la farmacia; e Gigetta, oh!… Gigetta era una modernissima che adorava la propria libertà, pranzava ogni sera ad un ristorante cooperativo, apparteneva alla società pel voto alle donne, e manteneva un'attiva corrispondenza con direttrici di riviste e presidentesse di comitati.

La vedova capì a volo, e rispose di no, semplicemente. Un mese dopo la sua disgrazia, col solo mobilio necessario per tre stanzette, si stabiliva nel villaggio dove cinquant'anni prima era stata messa a balia, e dove era tornata varie volte, in giovinezza, per le vacanze.

Qualche anziano del paese si ricordava tuttora di lei; il parroco, gran vecchio robusto, bizzarro nei modi, franco nel linguaggio, infaticabile nell'esercizio del bene, l'accolse con queste parole, rifocillanti come un liquore:

— Benvenuta!… Siete qui per lavorare?… Vi sarà molto da fare per voi.

Così ebbe principio la vera gioventù di Caterina.

La sua casetta, — un buco rustico, per contadini — confinava con la canonica, e guardava l'erba del sagrato. Una siepe di biancospini, abbracciata da vilucchi di campanule, separava il giardino del curato dall'orticello della vedova, azzurro di cavoli, giallo di camomille, picchiettato dalle gaie macchie variopinte delle dalie e delle petunie. Ella si alzava alle cinque, entrava in chiesa al din-din infantile della fessa campanella annunziante la prima messa, fra il sì e il no della luce, fra gli svolii chiacchierini delle rondini di sotto agli embrici. La chiesetta spoglia, dai muri bianchi di calce, sui quali i quadri della Via Crucis mettevan chiazze violente di rosso e di turchino, non conteneva a quell'ora che poche donnicciuole avvolte in scialli neri, venute certo a raccomandarsi a Dio, perchè le aiutasse a soffrire. Caterina amava sentirsi confusa con loro: l'argentino scampanellio del Sanctus la metteva sempre in istato di grazia.

Dopo la mattutina offerta spirituale, la sua giornata era divisa tra gli infermi e i poverissimi del villaggio: a tempo perso, v'era l'orto da coltivare.

Tutti i bimbi trascurati, tutti i vecchi indigenti dei dintorni impararono a conoscere la piccola donna dai capelli color di cenere. Far della notte giorno in qualche camera d'agonia fu per lei dolce più della preghiera. Un'epidemia di tifo passò, durante un'estate tragica, fra i contadini, con l'inesorabilità d'una falce che mieta un campo di frumento. Un'epidemia di scarlattina devastò, durante un tragico inverno, le case ove sorrideva l'infanzia. Caterina parve allora l'ombra del medico e del parroco, pronta a seguirli fino alle più lontane fattorie, noncurante del caldo, del freddo, della fatica, dell'infezione, del pericolo.

Non parlava mai di sè, nè del passato, nè dei figli. Ova, latte e legumi le bastavano per cibo: la sua magra pensione di vedova d'impiegato governativo passava in gran parte nelle mani dei poveri. Si veniva da lei per consiglio. Ella guardava spesso cader la pioggia, sfioccarsi le nubi, sorgere e tramontare il sole, sbocciare od appassire un flore, con la fresca sorpresa di chi mira tali bellezze per la prima volta.

— Una donna insignificante, via, dalla quale è fatalmente sbucata una beghina — pensava di lei Gigetta, divenuta ormai un personaggio importante che parlava nei congressi e collaborava a riviste di pedagogia.

— Meglio così — concludeva Giacomo, mettendosi la sua miglior cravatta per far visita alla fidanzata.

— Qualcosa ci deve covar sotto — ruminava fra sè e sè il vecchio parroco, stringendo le labbra argute e sfavillando bonaria malizia di sotto agli occhiali. Poi, ritto presso la siepe viva ch'egli sorpassava di tutta la testa, chiamava, col suo vocione di basso profondo:

— Signora Caterina?… signora Caterina?… E il cancelletto gli veniva subito aperto; e li, lunghe e pacate discussioni sui legumi dell'orto, su un cespo di gladioli che era necessario trapiantare, sul rosaio che pativa, sul terreno che aveva bisogno d'ingrasso. E potavano, raschiavano, vangavano, nei calmi tramonti che trascoloravan lentamente su cieli e pianure, portando con sè la misteriosa parola di Dio.

Fu in uno di quei crepuscoli, carichi di sapienza e d'indulgenza superumana, che la donna, irrigidendosi, mormorò al prete:

— Reverendo, vorrei confessarmi. Ma non al confessionale. Qui.

Le era venuto, ad un tratto, un viso livido di agonizzante. Il vecchio erculeo si raddrizzò ancor più sulla persona, s'illuminò in fronte, parve ingigantire nella dignità del ministero sacro.

— Eccomi — rispose.

E precedette la donna nella cucina invasa di rosea penombra, sedendo sul pancone a lato del focolare spento. Ella, in ginocchio sullo scalino di pietra, appoggiandosi con una mano all'alare, parlò.

— Io ho lasciato morir mio marito senza soccorso. Dunque l'ho assassinato, Ma vorrei cominciare dal principio… Dio, che pena!… Mio marito… come dire?… si serviva di me; ma non mi amava. Era il mio padrone. Io ero il suo cane. Nient'altro, nient'altro… Anche mia madre, press'a poco, aveva subito lo stesso destino: io l'avevo veduta, d'anno in anno, cancellarsi, dissolversi sotto la mano di ferro di mio padre. Padre, veramente, nel mio cuore, io non l'avevo mai potuto chiamare. Mi batteva: non esigeva da me che silenzio, obbedienza, servitù. L'ho odiato. Molti figliuoli odiano così il loro padre, nell'intimo. È un grave peccato, questo?

— Sì, Ma andate avanti, povera anima.

— Mio marito non mi tiranneggiò, nel vero senso della parola. Vi sono uomini che si fanno adorare, maltrattando con violenza di passione la creatura che posseggono. Ma lui si accontentò di tenermi in tranquillo dispregio, lasciando crescere felici e liberi i figli. E i figli mi compatirono, certo. Mi disprezzarono anch'essi, forse. Io avevo troppo imparato a tacere, a vivere compressa e silenziosa, fin dall'infanzia. Non mi difesi, non cercai di conquistarmeli, mi rinchiusi in me. Nessuno penetrò nella mia vita interiore. Nessuno, da quando io venni al mondo (forse mia madre, ma nulla poteva per me) pensò mai che io avessi un'anima. Si vive soli, abbandonati, così, in famiglia, a contatto degli altri, delle creature del proprio sangue. E della famiglia, e anche dei figli, si finisce coll'aver la nausea, una nausea mortale. Non è mostruoso, questo?… Non è peggiore d'un delitto?…

— Sì. Ma continuate, povera anima.

— Forse è colpa mia, è colpa mia. Ma che potevo fare?… Dunque… dunque ascolti. Io avevo perduto il sonno. L'ultima notte, udii mio marito rientrar dalla camera della serva. La faccenda durava da tempo, io lo sapevo; ma m'ero messa il suggello sulla bocca. Che schifo!… Solo, quell'ultima notte, a pena strisciato nel letto, egli ebbe un brivido, un gemito soffocato, un rantolo. Erano le tre. Girai la chiavetta della luce elettrica. Si era portato le mani alla gola e restava lì, con gli occhi fuor dell'orbita, strangolato dall'asfissia, irriconoscibile. Mi vedeva, mi guardava, lui. Attendeva soccorso da me. Io non mi mossi: china su di lui, immobile, di pietra, spiai fino alle sei del mattino, su quel viso, su quel corpo, la maledizione del male subitaneo che lo inchiodava nell'impotenza della carne vile. Rantolava e non lo aiutavo, folle di rancore e di perversità, come se io stessa l'avessi colpito a morte. Non so qual forza mi tenesse. Quando chiamai, stava per spirare. Soccorso, salvato a tempo, avrebbe forse potuto sopravvivere, guarire. Sono un'assassina.

Ansava. Vi fu un silenzio rotto solo da quell'ansimo. Viva, in ascolto, una stella, nel quadrato di cielo color d'ametista intagliato nel vano della finestra aperta, diceva: So, so. — Diceva quel che il prete non poteva dire.

— Vedete bene — proseguì la vedova, più con la bocca che con la voce. — Espio come posso. Ma è così dolce curare i malati, assistere i moribondi, insegnare ai bambini!… Troppo dolce. Troppo mi piace. Ero forse nata per essere infermiera, o suora di carità. Nutrirsi dell'altrui dolore, per confortarlo, è gioia, è felicità. Debbo scontare, io. Ordinatemi una disciplina più aspra, una penitenza più dura. Sono pronta. So che ho commesso un delitto.

Attese, a capo basso. Il vecchio prete, raccolto in sè, meditava e pregava. Non era stupito. Troppe cose tremende egli aveva udite in cinquant'anni di sacerdozio, nel buio delle confessioni tragiche. Nessun segreto avevano per lui i sottostrati delle famiglie, i dietroscena delle case e delle anime. Sapeva che ogni cuore al mondo è solo, e che l'aiuto non si ha da nessuno, se non da Dio. Sapeva, anche, che l'aiuto di Dio si manifesta talvolta in modi che a noi non è dato di giudicare.

Posò la mano sulla testa grigia della donna, curva in ginocchio sullo scalino del focolare: guardò la stella benevola, palpitante nel quadrato della finestra, e disse:

Ego te absolvo.

— Bisognerà tener ben ordinate, ben precise le “ posizioni ”, signorina Ilde.

— Non dubiti. Ecco, in perfetta regola, anche quella di Benedetta Crimi, l'ultima venuta. Vuol dare un'occhiata, donna Marcella?…

La signora si alzò, lunga e sottile — un'ombra — e venne, col suo passo leggero, quasi immateriale, che non toccava terra, fino allo scrittoio dietro il quale scompariva la personcina un po' contraffatta della segretaria. Esaminò, attentissima, i duri fogli da protocollo riempiti, fra i due margini, d'una scrittura diritta, burocratica, implacabilmente regolare.

Poi, si mise a riflettere.

Benedetta Crimi. — Figlia di contadini poverissimi. — Quattordici anni. — Mandata a Milano a servire. — Già madre d'una creatura, avuta dal marito della padrona. — Ritirata la querela per corruzione di minorenne, dietro la consegna di una somma di denaro, fatta dal responsabile ai genitori della fanciulla.

— Ella voleva redimersi, voleva imparare un'arte, richiedere il bambino al Brefotrofio, riprenderselo, quando le fosse possibile allevarlo col guadagno del proprio lavoro.

— Un caso di purezza morale istintiva, di amor materno maraviglioso, in natura così rudimentale. Non le pare, signorina Ilde?… Piange la notte, pensando al piccino. Teme che glielo maltrattino. Fra un paio d'anni sarà divenuta un'abilissima ricamatrice. — E la De-Nobili?… La Sternieri no, la Sternieri m'impensierisce. Ma la Rondinella?… C'è da sperare, c' è da sperare.

Finestre spalancate sull'infinito, nel viso oblungo e macero della donna che non era vecchia ma non pareva essere stata mai giovine splendevano, di purissimo splendore, gli occhi azzurri. Le antiche sante, le antiche martiri vissute e morte nella gioia e nello spasimo della loro fede, certamente avevano avuti quegli occhi. Essi non vedevano l'umanità, ma quel che avrebbe dovuto essere l'umanità. Erano sereni e terribili, millenari ed innocenti.

La signora che possedeva quegli occhi, vedova senza figli di un ricco gentiluomo che aveva agonizzato per lunghissimi anni nel supplizio d'un'atroce malattia, e del quale era stata instancabile infermiera, dirigeva, in ardore e santità di opere, quella “ Casa delle Volontarie ” istituita con gran parte del suo patrimonio.

Nel tranquillo asilo eretto in linee di bellezza e di pace fra il verde di un frondoso giardino, venivano accolte, di notte e di giorno, con bontà e con rispetto, nel nome della più conscia e antiveggente fraternità femminile, le donne di mala vita, le fanciulle sulla cattiva strada, che volessero salvarsi.

Ma era necessario volessero.

E, allora, come sorelle e come figlie rimanevano, imparando a lavorare, orientandosi verso l'armonia grave e dolce d'una vita equilibrata, pur sapendo che erano libere.

— Quella piccola Mandelli!… Signorina Ilde, ha mai veduto lei nulla di più delicato?… Pensare che esce di sotto una specie di frantoio che l' avrebbe certo stritolata!… Padre, madre, fratellastro, tutti complici. Fango, marcia e sangue. E lei batte le mani come una bambina se vede fiorire una margherita e non cede a nessun'altra la gioia di andare, il mattino, a raccogliere le ova nel pollaio!… Domani alle dieci verrà il medico, per Simonetta. Non mi fido niente di quelle febbriciattole….

La cameriera aperse il battente a vetri.

— Signora, c'è una donna che vorrebbe parlarle, che vorrebbe essere ammessa. La faccio attendere nel salottino?…

— Sì. Eccomi.

Camminava sempre come se l' aria fosse la terra, donna Marcella: era il suo spirito che camminava, non il suo corpo. Più lieve proseguì, udendo nel giardino le voci gaie delle “ volontarie ”, che lavoravan di maglia o di cucito, nel tepore del sole: canora sulle altre squillava la risata della Rondinella, che aveva questo soprannome perchè bianca, nera e sdutta, tutta fremito e allegro stridio, al pari della sua semplice sorella alata.

— Serva sua, signora.

Colei che la salutava così, ritta nel mezzo del salottino, era una donna non troppo alta, formosa, bruna del bruno aromatico delle olive, vestita di nero con sobrietà. Il seno ampio e solido si modellava superbamente sotto la stoffa: la forzava, quasi. Un bel collo, corto e grasso, portava un filo di granate color di sangue rappreso; e anche la bocca pareva sanguinare, non per tintura ma per abbondanza e vitalità di globuli. Un bistro vellutato, posto dalla natura con tocco di misteriosa sapienza, sottolineava le lunghissime ciglia.

— Chiedo di essere accolta qui, signora. Vorrei cambiar vita. Vorrei…. ecco, capirà. Ho trentacinque anni. Da tre mesi sono incinta; e questa volta vorrei che la creatura nascesse.

Gli occhi immensi, pieni di cielo, fissarono profondamente la sconosciuta, senza che la bocca facesse motto.

— Io sono occupata in una casa di via Vetra. Capirà. Nella nostra condizione, si corre assai facilmente il pericolo di aver dei figli. E si fa di tutto per non metterli al mondo. È un peso della professione. Solo, questa volta, io non mi posso sbagliare sul padre. È l'uomo che amo. Abbiamo pur diritto di amarne — fra tanti che passano — uno, di uomo. E dunque io voglio che il bimbo nasca; e per questo debbo cambiar lavoro.

Durante la pausa che seguì, fu quasi udibile il cadere di alcuni petali di rose bianche, da un mazzo, sul piano lucente della tavola. E fu ancora la sconosciuta quella che riprese la parola, con impassibile sicurezza.

— Capirà. Non già che io mi abbia a lagnare menomamente della mia padrona. Si, vero?… della maîtresse. È una buonissima donna, una donna di energia e di coscienza. Un po' vivace, un po' tempestesa di carattere; ma non tollera, lei, che le sue ragazze si stanchino troppo. La salute delle ragazze le preme più della sua. Quando abbiamo compiuto un discreto numero di turni, è lei che ci piglia per un braccio, e ci dice: Ohe, figliola!…. Per oggi, stop!… Hai faticato abbastanza. Adesso va disopra, chiuditi nella tua camera, di' il tuo rosario, e mettiti a letto. — Ah!… non c' è che dire. Non si scherza con la mia padrona. Quel ch' è giusto è giusto. Ci si stanca, ma se ne ha un compenso. È una donna di proposito, una donna di religione.

La voce soave, che pareva uscire non già dalle labbra ma dagli occhi azzurri carichi d'intrepida dolcezza, rispose, finalmente, con tre domande:

— Avete ben ponderata la cosa?… Avete proprio l'intenzione di fermarvi qui?… Subito?… Non conosco ancora il vostro nome e cognome….

— Marta Nelli, signora; ma nella casa mi chiamano Carmen. È più pittoresco: è adatto al mio tipo. Fermarmi qui, oggi stesso?… Non posso davvero. Ah, no. Domani è sabato, giornata di mercato, giornata di gran lavoro. Una quantità d'omaccioni, che si rovesciano dalla campagn. Una vera invasione, sa!… Impossibile che io abbandoni la mia padrona proprio domani, mentre la casa avrà tanto bisogno di me. Capirà. In ogni professione, l'onestà sopra ogni cosa. Io sono una donna d'onore.

Si alzò, convinta, radiosa, contando sulla punta delle dita:

— Sabato, domenica…. Martedì, ecco. Verrò martedì. È contenta, signora?… Stia pur sicura: quando Carmen dà una parola, è quella. Vedrà quante cose so fare!… Cucire a mano e a macchina, roba d'uomini soprattutto: roba d'uomini è la mia specialità. La voglia di lavorare non mi manca certamente. Ma domani!… Domani, no. Commetterei un vero atto d'ingratitudine, di vigliaccheria verso la mia casa, la mia padrona. L'onestà sopra ogni cosa. Io sono una donna d'onore.

Sorrise, aggiustandosi la veletta, stirandosi i guanti sulle dita, col più sicuro sorriso che abbia mai dischiuse più sanguigne labbra, ombreggiate di bruna peluria. Sembrava molto soddisfatta di sè. Il saluto di commiato che rivolse a donna Marcella fu quasi confidenziale; fu il saluto d'un' amica che abbia l'aria di dire: C'intendiamo.

Donna Marcella sapeva benissimo che non sarebbe tornata più.

Un'ora dopo, la signora se ne stava ancor rannicchiata nella sua poltrona, in un angolo del salottino. Aveva raccolte le mani sul grembo, chiuse le palpebre e appoggiata la testa alla spalliera.

Dormiva, forse.

Privo dell'astrale trasparenza degli occhi, il viso pallidissimo, rilassato, inciso da crudeli rughe di pena sotto le orbite e agli angoli della bocca, pareva di una creatura che fosse morta volendo morire, per togliersi ad un'intollerabile impressione di dubbio, di vergogna, di scoramento.

Non si riaprirono nemmeno, quegli occhi d'intatta innocenza e di consapevolezza millenaria, quando Benedetta Crimi entrò timidamente, con un suo lavoro fra le mani, per mostrarlo a donna Marcella: una tovaglietta di grossa tela bianca ricamata a grappoli di ciliege rosse: rosse come una risata vibrante, rosse (ma Benedetta Crimi non lo sapeva) come la bocca di Marta Nelli, detta Carmen.

Si arrestò sulla soglia, impacciata, col suo buon faccione camuso sparso d'efelidi, col suo goffo corpo di fanciullona quattordicenne già violato dalla maternità. Poi si volse, fra l'uscio socchiuso e lo stipite, alla compagna che l'aspettava nel corridoio; e con un dito sulle labbra bisbigliò pianissimo:

— Silenzio. La signora dorme.

Aveva risposto — sì — senza sapere quel che dicesse. Piacere, tremore, turbamento, ed una floscia vigliaccheria ed una oscura curiosità le avevan levato di bocca il passivo monosillabo, udendo le parole sottilmente imperative:

— Verrà. Deve venire. Non è vero?… Un po'di bene me lo vuole?… Lunedi alle tre, davanti alle colonne di San Lorenzo. Da brava, non faccia capricci. Si fidi di me. Dopo ci penso io.

La sua sensibilità, di solito così acuta che un nulla la feriva, non era stata menomamente offesa dall'aridezza volgare di quell'ultima frase. La bocca che l'aveva pronunciata era di quelle che si soglion chiamare irresistibili; e non solo ridendo, ma anche parlando, metteva in mostra, sotto i baffi castani, denti troppo uguali, troppo abbaglianti, che ferivan gli occhi come la rampa accesa d'un palcoscenico.

Dell'uomo curvo sopra di lei non vedeva che quella luce della bocca; non sentiva, nell'umile carne inquieta, che il fluido animale.

E aveva risposto “ si ”. — Ecco. Ed era la moglie d'un professore di ginnasio. Ed era correttissima dalla punta dei capelli alla punta delle scarpette. E capiva di fare un salto nel vuoto; ma nulla avrebbe potuto trattenerla.

Spolverando mobili, rivedendo i conti della domestica, rammendando le maglie e le mutande sempre ragnate del professore, leggendo fra un punto e l'altro un libro di passione recentemente uscito che agiva su di lei come una puntura di morfina, attese, silenziosa, stupefatta di se stessa, il lunedì. La notte non dormiva, nel letto grande dove il suo meschino compagno se ne stava immerso in un sonno di mummia, aggrovigliato, nerastro, tutto nodi, un sarmento. E pensava che, tanti anni prima, l'unica volta in cui era stato promesso ad una certa bimba di condurla a teatro, quella tal bimba non aveva più potuto prender pace nè sonno, cercando di raffigurarsi in tutte le guise la festa che l'aspettava: “ E come sarà?… e quanto durerà?… e la reginotta avrà veramente una veste color di luna?… e il principe porterà veramente un elmo d'oro?… ”

…. Quel lunedì, a farlo apposta, piovve. Piovve a scroscio, da mattina a notte, senza interruzione, come se il cielo si fosse spaccato per l'eternità.

Acqua a ondate dalle nubi, a zampilli dalle grondaie, a rigagnoli, a pozzanghere lungo le vie. Il febbraietto “ corto e maledetto ” si accomiatava in quel modo, con un diluviale vomito d'acqua che ingiuriava uomini e cose.

La pioggia tamburellava, accanita, contro i vetri delle finestre: balzava sui selciati in bolle e spruzzi, dava agli asfalti lucentissime e gelide trasparenze di specchi, sgocciolava dalle stecche della moltitudine di ombrelli ingombrante piazze e strade, flagellava il mondo, affogava la luce.

L'implacabile ostilità dell'elemento parve per un minuto respingere nel buio del portone la donnina imbacuccata in un mantello color di ardesia, trepidante nell'atto di aprire il parapioggia.

Ma non fu che un minuto. Sotto l'acquazzone che l'investiva, navigando fra le pozzanghere (senza soprascarpe di gomma per non guastar l'estetica degli stivaletti di falso cuoio a tacco altissimo), a piedi perchè il borsellino tenuto assai magro dalla parsimonia del marito non le permetteva il lusso d'una carrozza, e i tram sovraccarichi di gente le fuggivan davanti senza badare ai suoi richiami, — Gianna Morgagni detta Gégé mosse verso il suo primo appuntamento d'amore.

D'amore?… Ignorava, a dir vero, come fosse l'amore. Per questo voleva conoscerlo. Diceva a se stessa: O oggi o mai più. — L'avevano sposata, a diciott'anni, con un brav'uomo che pareva un ramo secco da gettar nel fuoco. Bellina, ma senza dote, senz'arte: ringraziasse Dio d'aver pescato un marito!…

Ma l'ometto aveva il fiato pesante, il discorso pesante, e — qualche volta, quando i ragazzi in iscuola gli avevan graffiato i nervi a sangue — la mano pesante. Gli mancavano quattro incisivi, gli si brizzolavano già i capelli duri e dritti come setole, e durava ore ed ore su fasci di compiti da correggere, dai quali si alzava inebetito, con macchie gialloverdognole alle tempie ed agli zigomi. E non s'accorgeva che Gégé era carina, piccolina, con morbidi capelli biondi e il nasetto voltato in su.

E niente figli.

In compenso, libri. Valanghe di libri…. L'ometto aveva la mania dei libri. Non beveva, non fumava; ma riempiva di volumi la casa, che s'impregnava della loro impalpabile polvere. Piccoli, grossi, antichi, moderni. E Gégé li leggeva tutti, per noia; e molti non li capiva; ma su molti ritornava, dimenticando le ore, con occhi accesi, con bocca avida: sui romanzi e sui poemi d'amore.

Era, per lei, come stappare una fiala di essenze e tenerla accostata alle nari fino a svenirne. L'amore!… Con tutti i volti, tutti i nomi, tutte le fiamme, tutte le carezze, tutte le lagrime. Viverlo, almeno un giorno!… La donnina biondetta, magretta, un po'incolore, ma suffusa d'una certa sua grazia fluida, si guardava nello specchio e si chiedeva: Sono dunque così brutta, che nessuno mi ha desiderata, sinora?… —

Avrebbe vegetato così, sino alla vecchiaia?… La casa: la serva: l'ometto nerastro tossicchiante su fasci di compiti e pagine intonse di volumi: le lunghe letture in solitudine, velenose pel suo sangue come le atmosfere miasmatiche delle paludì: e i ricami a punto inglese e qualche rara, modesta serata nel salotto della vicina del primo piano….

Là, appunto, le era stato presentato l'uomo che pel primo le aveva detto: Non ho mai visto un biondo così dolce come quello de'suoi capelli, signora.

L'uomo che pel primo le aveva detto: A nessuna donna ho tanto pensato nella mia vita, come a lei, signora.

L'uomo che pel primo le aveva dato un appuntamento: Lunedì, alle tre. Si fidi, si fidi di me….

In piazza del Duomo potè, finalmente, balzare su un tram. L'orologio di faccia alla cattedrale segnava le due e cinquanta minuti.

Nel tram si tenne in piedi, aggrappata ad una cinghia. Il carrozzone, pieno zeppo, era impregnato dello specialissimo tanfo d'umanità sgocciolante, di troppi fiati al rinchiuso, di cuoi fradici, di membra in traspirazione, che hanno i tram nelle giornate di pioggia dirotta, e che dà la nausea e le vertigini. Fra un bracalone dalla bocca fetente di vino e una vecchia in cernecchi che portava in braccio un bambino moccioso, credette, ad un certo punto, premuta, soffocata, di mancare, di cadere.

L'istinto, più che la volontà, la sorresse. In corso Ticinese le colonne di San Lorenzo le apparvero attraverso il velo d'acqua: suonò, scese, fu in un balzo sul marciapiede, senza nemmeno trovar la forza di riaprir l'ombrello per difendersi dalla furia del maltempo.

E le giunse strana, quasi sconosciuta, la voce dell'uomo che, dal vano della porta d'un piccolo caffè, le era corso incontro; e l'uomo non le parve più quello.

— Laggiù c'è una vettura. Vieni.

Si sentì presa per un braccio, issata in una carrozza. Ma nella chiusa scatola di legno e cuoio umido tornò ad offender la malata sensibilità de' suoi nervi quell'odore muffoso, insidioso, pesante, che già in tram le aveva dato il capogiro.

Il bel signore che le sedeva accanto e le cingeva la vita — il suo amante — l'accarezzava, tuttavia, con mani che sapevan di lavanda e d'ireos; e il suo respiro ricordava il fumo della sigaretta. Ma lo conosceva, poi?… Non lo aveva veduto che poche volte, non le era noto, di lui, che il nome. Viaggiava per affari, era scapolo…. Altro?… Nulla. Dove l'avrebbe condotta?… Nel suo appartamento?… Ma aveva un appartamento?… Forse vi avrebbe trovato molti tappeti, molte violette. Desiderò perdutamente un mazzolino di violette, da schiacciar sulla bocca e sulle narici, per non più soffrire di quel puzzo di fradicio che le penetrava nei pori, che le avvelenava il sangue.

Ma l'amante non aveva pensato a portarle un mazzolino di violette. Le bisbigliava nell'orecchio frasi inutili e sciatte:

— Carina!… Bellina!… Sei tutta umida, tremi di freddo. Perchè non hai preso una vettura uscendo di casa?… Hai male?… Scaldati le manine, qui, nelle mie.

Le dava del tu, senza preamboli, senza complimenti, come se non avesse mai fatto altro nella vita. La stringeva a sè con la sicurezza d'un padrone, più che con la passione d'un innamorato. Non gli aveva dunque mai visto quel mento duro, quelle spalle prepotenti, quelle mani accuratissime, ma tozze e cariche di anelli troppo brillanti?…

La brutalità del temperamento si rivelava nella nuca piena e corta, nel naso largo e sensuale; e il sorriso smagliante, che l'aveva stregata col bagliore d'una collana di diamanti nella vetrina d'un gioielliere, era fulgido, sì, ma fatuo.

La carrozza si arrestò in una via solitaria, non asfaltata, lontanissima dal centro della città. Gégé non vi aveva mai posto piede. Ed ecco, il piedino ben calzato nello stivaletto dal tacco sottile affondò, scendendo dal predellino, in una pozzanghera, fin sopra la caviglia. L'ira della pioggia continuava.

— Su, vieni. Dammi il braccio.

— Qui?… Entriamo qui?… è la casa?… è la…. vostra casa, questa?…

— Che bambina!… Io non ho casa. Vivo all'albergo. E all'albergo, sai, non si può…. è proibito. Non aver paura. Il posto è tranquillissimo. Entra al mio braccio. E non tremare, che diamine!…

Una piccola porta, un atrio chiuso ed oscuro. In faccia alla porta, una scala interna, di pietra: a destra, visibile da un uscio socchiuso, una sala di trattoria, dove pochi uomini bevevano e fumavano. La coppia salì.

— Una camera?… — chiese sottovoce un'ossequiosa cameriera vestita di nero, col floscio volto mascherato da un grottesco strato di cipria.

— Una camera — confermò la voce maschile, mentre la figurina imbacuccata nel mantello color d'ardesia, scossa da un tremito di febbre, col manicotto sulla bocca, avrebbe voluto sprofondarsi nel pavimento.

— Desiderano due caffè?… — chiese ancora l'ossequiosa cameriera, spalancando l'uscio d'una camera bassa, tappezzata di rosso, quasi interamente occupata da un enorme letto matrimoniale.

— Si, due caffè. Ma presto, e bollenti.

Gégé rimase immobile, ritta contro il cassettone a specchiera, volgare come l'armadio, come la poltrona verde, coperta d'un pizzo a rete sfrangiato, come quel letto immenso, quel letto di tutti, d'un'impudicizia feroce nella luce del pieno giorno.

La donna mascherata di cipria bussò discretamente, entrò con gli occhi bassi, posò sul tavolino le due tazze fumanti in un vassoio, disparve.

— Bevi. Ti scalderà. Sembri una moribonda, povera piccola!…

Ella infatti batteva i denti, agghiacciata, quantunque il radiatore del calorifero fosse rovente.

Provò a bere; ma la bevanda nericcia le parve amarissima, disgustosa. Non capiva perchè lei fosse lì. Si chiamava Gianna Morgagni, abitava in una vera casa, via Cappuccini, numero quattordici. Non avrebbe mai potuto entrare in quel letto senza nome, sfacciato e promiscuo come la fossa comune. Ed era quell'uomo, quel signore al quale aveva dato il diritto d'umiliarla in tal modo, che trovava naturalissimo di averla condotta lì!… E non cercava nemmeno di stordirla con un po' di carezze!… Aveva cominciato a svestirsi, lui, gettando soprabito e giacca a sghimbescio sulla spalliera d'una sedia, in fretta, senz'ombra d'esitazione, restando in bretelle turchine incrociate su una camicia a righe bianche e lilla. Lo stesso colore delle bretelle di suo marito. Lo stesso gesto di suo marito, ogni sera…. Si assomigliavano in quel momento, i due uomini: nella guisa che un ramo secco può assomigliare ad un tronco d'albero.

— Tu che fai dunque, bambina?… Su, da brava, spogliati. Oh, guarda, guarda, povero uccellino spaurito!… Vuoi che ti aiuti io?…

Le pose una mano sulla spalla, cercò d'attirarla a sè. Ma ella lo respinse, andò con uno stanco passo legato verso la finestra, senza parlare.

Sollevò una cortina: dai vetri sporchi il suo sguardo affondò in uno stretto cortile cinto di muraglie altissime, scure, corrose da una lebbra verdastra: un ignobile budello sul quale si aprivano ballatoi ingombri di luridume, di stracci e di scope. La pioggia senza tregua e senza fine s'accaniva inutilmente a lavare quella putredine.

Se avesse, d'impeto, spalancato i vetri e si fosse buttata giù?… Forse le sarebbe stato più facile che togliersi il velo, sganciare il mantello.

Ma due braccia robuste la trassero indietro, un bacio duro e vorace sulla bocca le ricordò che ella aveva, venendo, concesso un diritto, data una promessa, e doveva pagare.

E perdette ogni forza di resistenza. E fu destituita di se stessa, e fu simile alle donne dei postriboli. E quel letto pubblico fu per lei il fondo di una palude ove l'avessero gettata per annegarla. E quando si allontanò, sola, da quella casa, si sentì misera e sperduta come le donne che hanno dormito sui giacigli degli asili notturni.

Dal fondo della coscienza naufragante nell'ombra le veniva un'unica certezza: che quell'estraneo non lo avrebbe rivisto più, nè egli avrebbe cercato di rivederla.

Sola più che mai, ora e sempre. Sotto la furia inferocita del diluvio camminava alla ventura, senza cercare di ritrovar la via della casa. Ma aveva ancora una casa?… Le pareva d'esser randagia e nuda; e che la sua nudità fosse coperta di vergognose macchie; e che, malgrado l'oscurità crescente, tutti i passanti se la segnassero a dito.

— Sono a buon punto le mie calze, Assunta?…

— Certo!… Guardi. Ho incominciato il calcagno della seconda, signorina.

— Che brava Assunta!… Un tesoro. Mi raccomando. L'ufficio del “ Pronto Invio ” ha sempre fretta, e non dà tregua d'un giorno….

E la svelta personcina, impellicciata fino alla punta del naso impertinente, scomparve sotto l'androne.

— Assunta!… Vorrei mi terminasse lei un paio di ventriere di lana, da consegnare fra tre giorni alla “ Pro-Esercito ”. Può?…

— Per lei sempre, signorina. Oggi stesso finisco le calze per donna Eva Carminati: mi porti stasera la lana ed i ferri. O preferisce che salga io?…

— Figurarsi!… Le mando giù Carlotta. E grazie!… Finita la guerra le faremo un monumento di lana!…

La seconda personcina, modestissima in un mantello quasi monacale di buretta color caffè, stretto da un cordone alla cintura, scomparve anch'essa sotto l'androne.

Noncurante del freddo, Lucetto giocava nel piccolo cortile, col suo cavallo di legno. Brandiva un vecchio mestolo carpito a nonna Assunta: aveva inforcato il cavallo e gridava, movendo contro un esercito immaginario:

— Morte ai tedeschi!… Nonna, vieni a vedere!… Ne ho ammazzati cinquantacinque!…

Il perchè di quel cinquantacinque era misterioso. Per Lucetto quella cifra rappresentava il massimo, equivaleva al migliaio, al milione, al miliardo. Uccidere cinquantacinque tedeschi!… Era la guerra vinta, il nemico in rotta, il babbo di ritorno, senza una graffiatura e col petto tappezzato di medaglie d'oro e d'argento.

— Nonna!… Vieni dunque a vedere!… Sono tutti per terra e non si muovono più!…

Assunta non lo udiva nemmeno. Sferruzzava quieta quieta, nell'angolo più chiaro della portineria, sotto un raggio obliquo di luce invernale che le accarezzava la dirizzatura troppo larga dei capelli bianchi.

S'era alzata alle cinque, prima dell'alba: aveva aperto il portone, scopato le scale e l'atrio, rimesso in ordine il suo bugigattolo, lucidate le maniglie d'ottone, ricevuta e distribuita la posta; e preparato il caffè-latte per sè e pel bambino, che aveva sempre fame: che, appena sveglio, apriva il becco come gli uccelli di nido. Si erano, come al solito, impacciate e smarrite un poco, le sue mani lente di sessantenne, nell'infilare i vestiti al diavoletto che le sgusciava fra le dita, serpentino, una vera anguilla; nell'allacciargli i bottoni — e ne mancava sempre qualcuno. Ma il piccino era adorabile, di carni sode e candide, di cuore allegro e pieno d'amore per la sua nonna. E non parlava mai, neppur per isbaglio — guidato dall'infallibile istinto che è la sapienza dei bambini — della madre, fuggita tre mesi prima con un operaio di vent'anni più vecchio di lei (e dove i due si fossero rifugiati nessuno sapeva): sempre, invece, inesauribilmente, del babbo, da un anno in trincea, sul Carso.

Assunta aveva raccolto il fanciullo. Alla notizia della fuga di sua moglie, scrittagli dalla vecchia con trepidante circospezione, il soldato, dalla linea di combattimento, non aveva risposto che con poche asciutte parole, dietro le quali, forse, si barricava il suo vero stato d'animo:

“ Cara madre, non vi date pensiero di me. Io sto benissimo e non ho in mente che di compiere il mio dovere e di uccidere i nostri nemici. Chi non mi vuole non mi merita. Vi raccomando il bambino. È cosi intelligente che potrà aiutarvi in portineria, per le piccole commissioni. Fategli dire tutte le sere un'avemaria per l'Italia e pel papà… ”

L'Italia?… Il Pease?… Assunta non vi aveva mai pensato. Sapeva leggere quel poco che bastava per decifrare gli indirizzi delle lettere da consegnare agli inquilini, e gli scarabocchi di suo figlio dalla trincea; e scrivere in proporzione. L'Italia?…

Bisognava fosse una ben grande terra, un tesoro assai più ricco di quello della Madonna d'Oropa, se tanti bei giovanotti pieni di sangue sano e tanti uomini maturi già carichi di famiglia eran partiti allegramente per la guerra, cantando evviva a quel nome. E molti non sarebbero più tornati indietro: i giornali portavano intere colonne listate di nero: anche qualche compagno del suo figliuolo era rimasto lassù, e le madri e le vedove non avevan più lagrime per piangerli. — Per l'Italia. —

Non lavorava anche lei, un poco, per l'Italia, terminando umilmente, silenziosamente, tutte quelle calze di lana, quelle ventriere di lana, e caschi e colletti e gambali color di ferro e di ruggine, che la contessina del primo piano e la maestra comunale del terzo e le due sorelle del quarto, impiegate alla Banca di Sconto, incominciavan con ardente e rumoroso entusiasmo pei soldati alla fronte, e non riuscivano mai a finire?… Per Assunta, lavorar di maglia era come respirare: sembrava nata coi ferri da calza in mano: gli indumenti morbidi e caldi le si foggiavano in grembo, perfetti, come soffiati li da un buono spirito di maga.

E pensava: qualcuno ne sarebbe forse giunto anche a suo figlio. E se non fosse?… Pazienza. Povere creature di mamma!… Tutti belli e cari ad un modo, tutti esposti all'ira di Dio delle tormente e degli acquazzoni, con le gambe nella neve o nel fango fino alle ginocchia…. Ah, se le madri fossero al governo!… Di guerra non se ne parlerebbe più….

Tie e tic, tic e tic, i lucidi ferri d'acciaio: tic e tac, tic e tac, il vecchio pendolo di legno posto sul caminetto, fra l'oleografia di Carmen e quella di Mignon. Non ha mai fatto altro che questo, non ha mai vissuto in altra stanza che in questa, l'umile donna insaccata nel giubbetto nero, curva nelle spalle non tanto per vecchiaia quanto per lunghissima consuetudine d'obbedienza e di rassegnazione?…

A tratti l'uscio a vetri si socchiude.

— È in casa il signor Cerri?…

— Secondo piano, uscio a destra.

— Ho un pacco per la signorina Fiorilli.

— Va bene. Lei non c'è; ma c'è la domestica. Quarto piano, uscio a sinistra.

— La posta…. Un telegramma….

— Va bene.

Un soldato entra: indossa la divisa grigioverde: ha una carta in mano.

Assunta non capisce. Non capisce, perchè è proprio di lei che quel soldato domanda. È per lei, quella carta. Gliela mostra, gliela fa decifrare. Al Comando?… Sì, deve presentarsi, nella stessa giornata, al Comando Militare, per una notizia d'urgenza.

— Io?… ma come?… ma perchè?… mi spieghi…

Il soldato ha, invece, una gran fretta d'andarsene: lascia il foglio sul tavolo, mette la mano al berretto e scappa.

Assunta rimane sola nel bugigattolo. Il calzerotto le è caduto dalle mani tremanti. Anche le labbra tremano, e il mento fa un po' di groppo. Non osa cercar di comprendere.

Verso le undici, esce. Lucetto è stato affidato alle cure d'una buona vicina, che farà le veci di Assunta nella portineria, fino al suo ritorno.

S'è fatta insegnare diligentemente la strada.

Ha messo la sua più bella sciarpa, a frange, e i guanti di filo. È andata, è scomparsa dietro l'angolo. Oh, così piccola, così china verso terra, così niente!…

Tornerà presto: lo ha promesso a Lucetto, che tornerà presto e gli porterà due soldi di cioccolatini.

È di ritorno due ore dopo. Che mai ha potuto fare, per la città, tutto questo tempo?… La sciarpa nera a frange le nasconde quasi la faccia: quando la toglie, scopre una misera maschera di vecchiaia e di disfacimento. Gli occhi incassati, di un grigio d'acqua sporca, rossi agli orli, non vedono più. Hanno fissato qualcosa che li ha resi ciechi.

La buona vicina comprende, e non osa parlare in presenza del bambino: vorrebbe mandarlo in cortile con qualche pretesto; ma il piccoletto s'è aggrappato alle gambe di Assunta, e grida:

— Nonna, nonna, me li hai portati, i cioccolatini?…

Sì, glieli ha portati, la nonna, Cerca, cerca penosamente in tasca il cartoccetto, fin che lo trova; e il bimbo, senza neppure dir grazie, raggiante di gioia fugge in un angolo, per allineare davanti a sè i suoi tesori: rosso, verde, argento. La bandiera…. — Viva l'Italia!… —

Allora soltanto le due donne possono guardarsi in faccia. Le labbra di Assunta disegnano, più che non dicano, le parole che l'altra ha già lette sul suo volto:

— È morto.

Verso le cinque del pomeriggio (è già notte fitta, le lampadine elettriche fasciate di violetto immergono lo scalone in una penombra livida e quasi paurosa, un diaccio nevischio mulina nella via intorno ai fanali azzurri, solo nella chiusa portineria splende il faro giallo d'un becco a gas) la vecchia, come se nulla fosse avvenuto, prepara la cena su un fornelletto.

Il fanciullo ha fame e sonno: frigna, piagnucola, inquieto, stanco, attaccato alle sottane della nonna. Ha in cuore il papà, non sa parlare che del papà, vuole il papà.

— Nonna, quando il papà sarà tornato, avrà la medaglia anche lui, come l'ufficiale che va sempre a trovare la signora contessa?…

— Sì, caro.

— E se io ammazzo cinquantacinque tedeschi, tornerà presto il papà?…

— Sì, caro.

La pazienza della nonna non si affievolisce. Ella imbocca, cucchiaiata dopo cucchiaiata, il bambino pallido di stanchezza, che le lascia cadere la testolina su di una spalla: lo spoglia, lo mette nel suo lettuccio, gli fa con l'indice, sulla fronte, un segno di croce: come le altre sere, come domani, come sempre, sino a quando sarà più grande.

Poi si mette al tavolino, e, fra uno squillo e l'altro di campanello, fra una domanda e una risposta, e il passare e il ripassar della gente dinanzi alla vetrata (è la vetrata, o è un vertiginoso schermo cinematografico?…) sferruzza maglie di lana pei combattenti: come ieri, come domani, come sempre, sino alla fine della guerra.

Alle dieci, chiuderà il portone. All'alba, si alzerà per riaprirlo. Nulla nella sua vita è mutato. Solo, il suo figliuolo è morto: in poche ore, per lo scoppio d'una bomba, sul letto d'un ospedaluccio da campo. Ella non ha potuto nè vederlo, nè curarlo, nè benedirlo. Ma non ha il tempo di piangere, di abbandonarsi al dolore. Non ha mai avuto il tempo di piangere, nella vita: null'altro ha potuto, null'altro può che tacere, curvarsi, lavorare, lavorare, lavorare.

La sua testa di un giallo avorio, intorno alla quale ha annodato, in segno di lutto, un fazzoletto nero, rassomiglia, china così sulla lana e sui ferri, a certe teste di vecchie madonne che cullano sulle ginocchia Gesù Cristo morto.

Dove glielo avranno messo, il suo figliuolo?… Chi sa se sulla fossa avranno posta una croce, sia pur rozza e piccolissima, che ne segni il posto?… Quante, quante!… Tutte croci per figli di mamma. L'Italia, ora, per lei, non è che un grande camposanto nel quale il suo ragazzo sta sepolto con tanti altri…. Perchè, perchè?… Si, cì deve essere un perchè, che una povera donnicciuola non comprende: un perchè ancor più grande di quel campo di morti. Se così non fosse, come farebbero tante madri a tacere?…

Gli ultimi cali della punta sono a termine, e il paio di calzerotti è finito. Assunta lo piega, lo mette accuratamente da parte. Poi prende fra mano la ventriera color di ruggine. Veglierà. stanotte, lavorando.

Una dolcezza che ella stessa non cerca di spiegare le viene da quest'atto di tacita rassegnazione, di attiva obbedienza alla forza superiore che l'ha premuta ma non fiaccata.

Ad una sola cosa non si rassegnerà.

Se un giorno la nuora le ricomparisse in portineria, con quel portamento spavaldo, con quello sguardo nero, con quella bocca sprezzante che il sorriso torce verso sinistra in una smorfia provocatrice che piace troppo agli uomini, — e pretendesse di portarsi via Lucetto, — Assunta si drizzerà tutta d'un pezzo sulla curva schiena, leverà con rigidezza inflessibile le pazienti mani, e dirà di no, di no, di no.

E il figlio di suo figlio dovrà restare con lei.

I.

Veronetta Longhena aveva dodici anni quando disse, un giorno, a sua madre:

— Tu hai le mani d'una signora. Perchè dunque vai alla fabbrica?…

— Per guadagnar denaro, figlia mia. Senza soldi non si fa nulla. Lo vedi bene che siamo sole, senza l'appoggio di nessuno — aveva risposto la madre, Anna Longhena, una donna magra e vivacissima, con occhi neri largamente aperti sotto una fronte tenace, e due manine che parevan balocchi, d'una delicatezza sorprendente in mani di tessitrice.

— C' è però chi non ha bisogno di lavorare, per aver denaro — ribattè la fanciulla, cocciuta.

— Figlia mia cara, quelli sono i ricchi.

E una mal frenata tristezza oscurò il viso della donna, che non era sempre stata povera, aveva veduto tempi migliori, amava i libri e la campagna, e solo doveva al suo amor della vita e alla sua inesauribile energia nervosa la possibilità di resistere a dieci ore di giornaliera fatica al telaio, in piedi da mattina a sera.

— Già — fece la piccola — già: i ricchi. — Ma parve più vecchia della madre, nella ruga verticale che le tagliava la fronte.

Anna si mise a cantare. Nessuna preoccupazione, nessun rimpianto potevano a lungo durare nella sua forte e mutevole natura. Ell aveva, come gli uccelli, l'istinto del canto e dell'oblio: le bastava la vista d'una striscia di sole sul muro di fronte, perchè la canzone le uscisse di bocca da sè; e la sua voce era poco intonata ma agile, una vocetta asprigna, di vent'anni.

Veronetta era diversa. Musiche gravi e soavi nascevano, si svolgevano in onde sommesse dentro di lei; ma, se schiudeva la bocca per esprimerle, la voce suonava rauca, si rompeva, si rifiutava. Allora ella se ne stava lunghe ore raccolta, nel silenzio delle due stanzette imbiancate a calce e quasi nude di mobili, dove, tolte le ore di scuola, viveva attendendo il ritorno della madre dall'opificio.

La solitudine si animava per lei d'immagini, di figurazioni vivissime: era più vibrante. più parlante d'una folla. Due vecchie incisioni ingiallite pendevan da una parete, con la loro brava scritta in caratteri gotici: “ Condanna e Fuga di Felice Orsini ”. Nella vagabonda fantasia della fanciulla la storia del carbonaro s'arricchiva di cento particolari, camminava parallela ad altre bizzarre storie di congiure, di condanne, di fughe, di patiboli.

Ed ella sarebbe rimasta a sognare fino al crepuscolo, se due fresche voci non l'avessero chiamata dal giardino:

— Veronetta!… Vieni dunque a giocare!…

Eran le due figliuole del padron di casa, Nanna e Ninna.

Il grembialone bianco, a foggia di tunica sciolta, che esse portavano in casa, non differiva molto, nella forma, da quello grigio, a quadratini, di Veronetta. Tutt'e tre avevan liberi i capelli sulle spalle: magnifiche chiome odorose ancor d'infanzia, formanti un accordo di tinte e di morbidezze diverse: nere e lisce in Nanna, castane e piene d'aria in Ninna, rossicce, aspre, di odor selvatico, a ondulazioni più fosche, in Veronetta.

Le due sorelle, ricchissime, non sapevano ancora d'esserlo: avevan l'aria franca e spensierata di chi trova tutto facile nell'esistenza. Con la figlia della tessitrice giocavano al teatro, lasciando a lei l'incarico di crear personaggi e scene. Ed era una finzione che non aveva termine mai, che ogni giorno s'arricchiva d'un nuovo episodio, inebriandole come dei sorsi d'un liquore prezioso.

Ognuna s'investiva della propria figura drammatica. Nanna aveva scelta la bionda bellezza d'una “ principessa Maria ”: Veronetta la maestà bruna e misteriosa d'una “ principessa Olivia ”; e Ninna, la più alta, la più atta alle rapide trasformazioni, rappresentava il principe Azzurro, il duca, il capitano, e tutti gli altri personaggi maschi.

E banchetti e balli e intrighi e amori e vendette: scenario di favola, atmosfera di sogno.

La principessa Olivia lasciava alteramente serpeggiar pei viali lo strascico d'una veste color di luna, mentre la principessa Maria splendeva in un manto trapunto di stelle: il duca giungeva a galoppo sul cavallo bianco di schiuma, portando in fronte la gioia e l'orgoglio d'una battaglia vinta.

La divina puerilità delle fiabe con le loro avventure di paggi, di nani, di reginotte, s'intrecciava a singolari spunti di vita vissuta, nel gioco ricco di maraviglie. La fantasia di Veronetta, in ispecie, vi trovava un pascolo aromatico come il fieno d'agosto al sole. Il portico a colonne di granito, lastricato di losanghe in cemento grigie e nere, formava il palcoscenico; ma quando il fondo di scena doveva animarsi di molte comparse, oh!… allora gli alberi ed i cespugli del vasto giardino si trasfiguravano in creature umane.

Il bel pino d'un verde turchiniccio, presso il cancello, diveniva il conte Sergio. Il rosaio fiorito da maggio a settembre di pallide thee, irto di spine ignude gli altri mesi dell'anno, la baronessa Giuliana. Le siepi di mortella, gli intricati tentacoli delle edere, le macchie delle ortensie, lussureggianti, decorative, fiere dei loro mazzi a pallottola incerti fra il verdino-lilla, l'azzurrognolo e il roseo, fingevan damigelle e cavalieri perfetti, cicaleggianti fra loro in vuote conversazioni mondane.

E le due file centrali di gladioli e d'ireos furono, un giorno di giugno, il corteo della sposa, che i felici occhi delle fanciulle videro — realmente videro — candida come fiocco di neve nell'abito nuziale e nel velo sparso di fiori d'arancio….

La campanella del pranzo richiamava Nanna e Ninna alle volgari cure di quaggiù; e la figlia della tessitrice, risalita nelle sue stanzette per preparare alla meglio un po'di minestra alla madre che doveva tornar dalla fabbrica, continuava, in virtù d'uno strano processo di polarizzazione delle idee, a vivere il fantastico sogno. Non potevano, quelle quattro pareti così spoglie, esser per lei tappezzate d'arazzi, sfolgoranti di candelabri d'argento e d'oro?…

Sol che lo volesse, sol che lo pensasse: ed ecco: le vedeva così.

Nella dolcezza del crepuscolo, appoggiata al balconcino di ferro che dava sul giardino, Veronetta inseguiva con occhi allucinati le figurazioni create dal suo cervello: alberi e cespugli, fiori e colonne, pietre e finestre, tutto la fissava con intenti occhi umani, le parlava con sommesse voci umane. Trasognata, indifferente al resto, ella sentiva gonfiarsi l'anima in pienezza di vita.

Un pomeriggio di carnevale (pioggia e sole alternati in scrosci e sprazzi) la madre di Nanna e Ninna, — una giunonica signora che tutti chiamavano rispettosamente donna Carla, e se ne stava sempre in veste da camera, e parlava sempre con reciso accento di dominio, — incontrò Veronetta sotto il portico, e le disse:

— Ti piacciono i tortelli?… Ne mangerai stasera in casa nostra fin che vorrai, se ti contenti di aiutar la cameriera a servirli in tavola.

La fanciulla avvampò; ma non ebbe il coraggio di rifiutarsi; nè l'avrebbe potuto.

La sera andò, tutta ben ravviata dalla mamma, che le susurrava dietro per le scale:

— Portane qualcuno anche a me!…

La si fece subito entrare in cucina, dove la cuoca, proprio in quel momento, stava sfornando i fumanti tortelli dal color biondo, dal succoso profumo, e li incipriava di zucchero alla vaniglia. La cameriera, una sfrontatella tutta bocca, bazza e maldicenza, mise nelle mani di Veronetta un vassoio carico dei leggeri dolci dorati, e le comandò:

— Da brava, piccoletta!… Ferme le mani!… e vienmi dietro.

E, sorreggendo un altro vassoio uguale, entrò con lei nella sala da pranzo.

Un fulgore di molte fiamme colpì Veronetta negli occhi, quasi accecandola. Nanna e Ninna eran là, vestite di rosa, con larghi nastri rosei nei capelli sciolti. Ma non la guardarono nemmeno. Cinguettavano fra liete amiche — ed ella rivide, in quello spietato lampeggiar di luci, i ciuffi d'ortensie, i gladioli e gli ireos formanti il corteo della principessa Olivia.

Uno spasmodico senso di vergogna la inchiodava a tre passi dall'uscio vetrato, col vssoio dei tortelli che le tremava fra le mani. Chi erano quelle persone in abiti di seta e in marsina nera?… Perchè proprio lei doveva servirle?… Non potevan dunque servirsi da sè?…

— A sinistra, a sinistra, — badava a susurrarle, negli orecchi, la cameriera. — A sinistra, stupida!…

Ma ormai non capiva più nulla. Quei cristalli, quei fiori, quella gente ingioiellata, i sorrisi distratti di Nanna e Ninna la schiaffeggiavano in pieno viso. Lasciò il vassoio su un angolo della tavola, volse le spalle e, con occhi feroci, fuggì, selvaggiamente.

— Mamma!… mamma!… Non voglio esser povera!… Non voglio servire!…

— Taci, cuore mio, taci.

E la povera mamma, che l'aveva messa a letto smaniosa, scottante di febbre, scossa da singulti nervosi, l'accarezzava pian piano, magnetizzandola con quel dolce ed uguale strisciar della mano sulla fronte, col quale tutte le madri sanno blandire i loro figli malati. E non aveva altro mezzo per calmare il terribile dolore, per rispondere alle terribili parole.

— Taci, cuore mio, taci.

Tacque infatti, si chetò; ma a notte alta. Gli occhi più larghi del viso cercavano, cercavano, ansiosi, nell'ombra, il motto dell'enigma. Finalmente la voce, raddolcita e quasi umile, pregò:

— Mamma, raccontami ancora la storia del fiume. Sai, quando da sola sono passata fra sbarra e sbarra, sul ponte….

— Benedetta!… Te l'ho raccontata mille volte!… Fu molto tempo fa: tu avevi tre anni e mezzo, ed eri un diavoletto con una zazzera di riccioli rossi. Sul ponte, una domenica, io ti tenevo per mano e parlavo con Disolina, sai, quella palliduccia di Borgo Pietra, che poi morì tisica. Erano entrate in crocchio anche le due sorelle Velluti. Ad un tratto non sentii più la tua mano nella mia; e vidi Disolina e le Velluti, bianche, immobili, tre fantasmi, cogli occhi fissi sulla balaustra. Tu eri sgusciata fra le spranghe, capisci, figlia mia, figlia mia!… e te ne stavi diritta sulla breve sporgenza di marmo — una spanna — fissando il fiume. Sotto c'era il gorgo, e chi vi cade non ne risale più… Ebbi la forza di non urlare, di non parlare, di non chiamarti. Avresti potuto volgerti indietro, e nel volgerti cadere a capofitto… Non so che santi mi tenessero. Allungai il braccio fra le sbarre, ti presi per la vesticciuola e ti trassi dentro pian piano… Ah, Vera, Veretta, Veronetta!…

— E io, io, che cosa dicevo, mamma?…— chiese la fanciulla, con sguardo avido.

— Tu dicevi: Mi piace l'acqua.

Veronetta rimase un poco in silenzio. Aveva l'illusione che il flume fosse li, a due passi, azzurro, fresco, rapido. Quale relazione corresse fra la scena del ponte e la scena di quella sera, non capiva bene. Ma vi doveva essere. Di là dall'acqua erano rive, paesi, campi, città: l'ignoto. Bisognava varcare il flume, raggiungere le magiche sponde, affermarsi, liberarsi.

— Mamma, ascoltami. Io non voglio esser povera. Io non voglio diventare operaia, o serva. Voglio studiare…

— Si, figlia mia, studierai.

E Veronetta studiò.

A quindici anni entrava nel primo corso normale. Non che la spronasse vocazione alcuna all'insegnamento; ma questa era per lei l'unica via per imparare, per dare sbocco ed espressione alle oscure forze che le palpitavan dentro.

Non riusciva in tutto: le matematiche le davan la nausea. Adorava la storia e si sarebbe nutriata di poesia, giorno e notte; ma era una ribelle alle regole, e nei compiti d'italiano s'allontanava dalla traccia, moveva il periodo secondo novità di armonie che lei sola sentiva, si perdeva troppo nel sogno, oppure copiava la vita con una brutalità che scandalizzava la professoressa: una pedante risecchita, polverosa come un libraccio vecchio. — E non l'amavano i maestri, credendola ribelle mentre non era che originale; e non l'amavano le compagne, credendola superba mentre non era che timida, e diversa da loro.

Per comperare i libri, per pagar le tasse, per mandar la figlia in ordine alla scuola, Anna Longhena aveva già venduto gli orecchini d'oro, la veste di seta nera, l'unico anello.

Così, semplicemente, allegramente: con la serenità che le faceva fiorir sulla bocca il canto: “ Croce e delizia — delizia al cuor…. ”, mentre inzuppava un poco di pane nel latte, dopo dieci ore di fornace.

La giovinetta pareva non accorgersi del sacrificio: pareva trovar naturale che la madre si spogliasse per lei.

Ma una sera — (era tornata dalla fabbrica febbricitante, con una mano fasciata per un chiodo rugginoso che le aveva quasi squarciato il palmo) — la donna disse a Veronetta:

— Figlia santa, bisognerebbe che a guadagnar qualche lira ci pensassi ormai anche tu. Perchè non cerchi qualche lezione?… Siamo in tempo di vacanze. Vi sarà pure qualche ragazza che dovrà ridar gli esami, e vorrà esser preparata, sai, spendendo poco.

— Cercherò, mamma.

Cercò, trovò. Trovò la figlia d'una fruttivendola di via Roma, piccola, paffuta, congestionata, stupida: resa ancor più stupida dall'incaponimento di sua madre a volerne fare una maestra, una maestra, nient'altro che una maestra; e che da due anni s'affannava inutilmente per farsi ammettere al terzo corso complementare.

Combinarono per trenta lezioni, a mezzo franco l'una. Ma Veronetta, che nella fantasia sapeva trasmutar per incanto roseti e rovi in creature da dramma, non era che un povero essere spaurito davanti alle frazioni, navigava male fra gli scogli della geometria, e, pronunciando: sud-sud-est, o nord-nord-ovest, pensava involontariamente a grandi uccelli rosei, sperduti fra immensità di cieli e di mari.

Lavoravano insieme, le due fanciulle, con ardore; e talvolta, di fronte ad un problema di soluzione ignota, il viso sciocco della scolara e il viso intenso dell'adolescente maestra esprimevano la stessa ansia accorata di chi si sforza di comprendere, e non può.

L'ultimo giorno d'esame, verso le sedici e mezzo, Veronetta udì battere all' uscio. Dal mattino aveva il tremito: tremava anche nell'aprire. Le comparve davanti la fruttivendola, grossa, tozza, bitorzoluta, con un viso acido e dispettoso.

— Gianna s'è chiusa in camera: piange. L'hanno bocciata in matematica….

Fu indescrivibile l'accento col quale la frase venne proferita. Rabbia, disprezzo, avarizia vi cozzavan dentro, vespe furiose in una boccia vuota. Gettò tre biglietti da cinque lire sul cassettone, e se ne andò senza salutare, con l'aria di chi s'è spremuto in bocca un limone acerbo.

La fanciulla era rimasta immobile. Il capo le girava un poco. S'udiva nella stanza il ronzio d'una mosca che batteva le elitre contro i mobili, alla cieca. Con quel ronzio negli orecchi, ella prese i biglietti, li esaminò. Erano tre carte logore, bisunte, con l'impronta d'innumerevoli mani sulla superficie gommosa: una di esse, rotta in due punti, portava due mezzi francobolli sui margini degli strappi. Esalavano odor di sudicio, di retrobottega, di tasche tabaccose, di dita avide e unghiute. Era il denaro, quello. Senza denaro nulla si poteva compiere. Sua madre si esauriva fra le macchine, si era squarciata il palmo d'una mano ad un roggio rampone di fabbrica, con pericolo d'ascesso o di cancrena, per il denaro. Ella, Veronetta, s'era esposta al volgarissimo disprezzo d'una fruttivendola analfabeta, per il denaro.

E chi ne possedeva molte, di quelle carte lercie e possenti, chi, come i genitori di Nanna e Ninna, ne possedeva tante da non contarle nemmeno, poteva farsi servire da coloro che ne eran privi; e chi gliele avesse prese, andava in galera.

Fissò i tre biglietti con odio. Erano i primi che guadagnava, a prezzo d'un'umiliazione scottante e meritata. Ne avrebbe dovuti guadagnare ancora, tanti, a stento, vincendo la nausea, per vivere, per conquistarsi il diritto di stare al mondo, insegnando cose sciocche alle quali lei non credeva. (Chi le poteva assicurare — provare — che due e due fanno proprio quattro?…).

Gli studi così faticosamente condotti a scopo di libertà, non sarebbero riusciti che a farne un'operaia, una serva di diverso genere: della scuola, del metodo, della memoria; ma nient'altro che un'operaia: nient'altro che una serva.

L'altro volto, dallo specchio posto sul cassettone, le chiedeva: Chi vorresti diventare tu, dunque?….

Pallido, con larghe mascelle, con larghe narici, con larga e tumida bocca, con archi cigliari di superba nettezza su occhi fosforici d'una intensità quasi folle, l'altro volto, col quale ella teneva ogni tanto strani colloqui, le apparve in quel momento come di persona conosciuta in un'altra vita. Ma di tal vita non le rimanevano nei centri nervosi che fuggevoli baleni, ombre improvvise, frammenti di sensazioni.

— Complimenti, signorina — sogghignò. — — Avete incominciato molto bene.

Oh, avrebbe esposta la pelle a ben altre lividure!… A quanto pareva, era necessario avvezzarvisi. E rise forte, rise per non piangere, protendendosi con l'agile torso di gatta magra fuor del balcone. Il sole, così limpido in quella prima decade d'ottobre, accendeva di riflessi la densità scarmigliata de' suoi capelli. Nell'aria scintillavano tante gemme, tante gemme!… E il giardino era lì, suo, quantunque ella fosse così povera: suo perchè lo potesse trasfigurare a capriccio, secondo le visioni della fantasia.

Possedeva ella dunque un mondo ove il denaro non entrava?…

Ridivenne la principessa Olivia, bellissima, incoronata di tutte le gemme sparse nell'aria, reginetta della fiaba seguita da un corteo di cavalieri dal viso floreale. Ma, travolti dallo strascico trapunto di stelle, comparenti or sì or no, le ammiccavano pure i tre biglietti da cinque lire, ignobili e schifosi come carte da giuoco.

II.

Aprile. Cielo di bambagia, soffice, d'un grigio dolcissimo. Pulviscolo verde-dorato di prime foglie nel giardino. Calici rosei di magnolie giapponesi precoci, senza fronde. Fragranza di violette invisibili, sparsa nell'aria. Giovinezza….

Veronetta, al suo balcone, con un libro in mano, mormorava versi. A dir vero avrebbe dovuto studiare le radici cubiche, ella che ripeteva il secondo corso magistrale (ahimè, che dolore, povera mamma!…) per quella maledetta scienza dei numeri. Ma un sonetto del Petrarca le entrava lentamente nel sangue, più inebriante dei succhi della primavera:

Sento l'aura mia antica, e i dolci colli
veggo apparir, onde 'l bel lume nacque….

Quand'ecco, scorse una massa nera di gente affollarsi al cancello, dal lato della via. E il cancello schiudersi, e la massa nera irrompere, come un'onda.

Portavano a lei, dall'opificio, sua madre, morta.

Era caduta di schianto, fra due telai, battendo il capo contro una cassa piena di spole. Nè una parola, nè un sospiro, nè un gemito: nulla. Un po' di bava alla bocca, un invetrarsi subitaneo delle pupille, un irrigidirsi di tutte le membra — e il silenzio.

Prima d'aver finito il suo lavoro, prima d'aver raggiunto lo scopo pel quale viveva, era crollata, così, al suo posto di fatica.

L'orfana la ricevette fra le braccia, aiutò a posarla sul letto, muta, con faccia terrea, con occhi sbarrati, insensibile in apparenza. Stupore, pareva, più che dolore.

Il padre, non lo aveva conosciuto. Alla morte non aveva mai pensato. Per la prima volta, la morte la colpiva in pieno, nella persona della sua mamma, nell'unica che la toccasse da vicino, che le fosse necessaria, e nota come il proprio corpo. Mai la madre le era apparsa creatura a sè, dalla quale potesse un giorno venir separata, e che fosse soggetta a leggi individuali di vita, di malattia, di morte. Era sua madre: cioè gli occhi pei quali vedeva, le membra con le quali si moveva, il cuore pel quale si sentiva esistere, le mani che lavoravano perchè ella potesse studiare.

Ritta a fianco del letto, cieca e sorda all'andirivieni della gente che ingombrava la camera, accarezzava con gesto monotono, quasi ritmico, la fronte della morta: vincendo il ribrezzo di sentirla così fredda, d'un altro freddo, diverso e lontanissimo da quello del marmo, della neve, del ghiaccio. E tendeva e moltiplicava le forze dell' attenzione, per penetrare il mistero.

Le ore passarono. La sera calò. Due mani pietose (Veronetta non sapeva quali) avevan posato sull'umile coperta bianca alcuni rametti d'aspirèe còlti in giardino, a pena fioriti, e posta una candela accesa a sinistra del capezzale. Una voce dolce e persuasiva (Veronetta non la riconobbe) tentò di convincere la fanciulla a distaccarsi di là; ma ella non rispose che con un cenno negativo del capo, tenendo gli occhi sempre fissi sulla fronte della madre.

Fu lasciata, finalmente, sola. E quando al terribile silenzio del cadavere più non si sovrapposero passi e bisbigli, si sentì più calma.

E mentre il tempo scorreva, i lineamenti dell'estinta si riscolpivano, fissandosi in una bellezza senza nome.

Quando mai, durante la faticosa vita, ella aveva avuto quella bocca di maraviglia e d'estasi, quell'armonia di contorni, quella pace nel volto?… Che vedeva, con occhi chiusi?… Che udiva, con orecchie pietrificate?… Vedeva, sentiva Iddio?… Dov'era, com'era, Iddio?…

In Veronetta respiravan due creature ben distinte: quella che soffriva e quella che scrutava entro la sofferenza, dilatando le pupille per meglio indagarla.

La morte era dunque così?… Sua madre sarebbe sempre rimasta così?… E la voce gorgheggiante e le braccia infaticabili e il cuore senza paura, tutto un germoglio di speranza anche nei giorni più torbidi, ove stavano ora?… Quale era la vera Anna Longhena?… La presente o la scomparsa?…

— Mamma!… — chiamò, sottovoce.

Silenzio. Immobilità. Bellezza suprema.

E riposo: riposo perfetto.

Nessuno spettacolo Veronetta aveva veduto mai sino allora, che le sembrasse così grandioso. Un orgoglio l'investì, di saper comprendere tale grandezza, in luogo di abbandonarsi in terra a piangere lagrime vane: d'esser rimasta diritta, lucida, a tu per tu con la morte: d'aver trattato il dolore da pari a pari.

Scacciò, come indegno, il timor della solitudine, lo sgomento di rimaner nel mondo senza un parente, senza una protezione, povera in canna. Continuare la scuola, impossibile. Ripeteva il corso: non meritava il sussidio. Ma non gliene importava nulla, e non cercava di comprenderne il perchè. Era libera. Aveva se stessa. Viveva un'ora sublime, accanto ad una morta che la sentiva, quantunque più rigida della pietra.

Una forza enorme, il cui annuncio ella aveva già altre volte, ma non così potentemente, avvertito, le accelerava i moti del sangue, le toglieva il senso d'essere circoscritta alla robusta magrezza del proprio corpo. Stavano in quella forza le sue armi per l'esistenza. La madre, non potendo altro, gliel'aveva lasciata in eredità.

Accolse in sè, penetrò di sè, perdutamente, le forme che la circondavano e la loro misteriosa bellezza e la loro intima ragione: la fiamma pregante della candela, il cadavere immoto in serenità, il casto profilo del letto mutato in sarcofago, i rettangoli dei due quadri “ Processo e Fuga di Felice Orsini ” emergenti dalla penombra ove il resto naufragava; e il vano spalancato donde entravan le stelle della tiepida notte con pavidi tremolii luminosi, con ondate di effluvi salenti dal giardino.

Tutto era vita. Anche la morte. Nulla era occulto. La materia era trasparente. Senza volume, senza peso, e pur lucidissima, tutta pervasa dell'ebrezza d'esser vivente, dinanzi alla purità dell'aspetto materno solo in apparenza inanimato, la fanciulla si sentì sollevata dalla sensazione del volo, in un'atmosfera senza principio e senza termine, padrona dell'eternità.

Ed ecco, violento, imperatorio, il bisogno di esprimersi. Il comandamento interiore, al quale Veronetta non può sottrarsi. — Un quaderno, una matita. — La mamma?… Oh, mamma!… Non ti lascio: ti ricompongo, ti fisso qui nelle pagine, come fosti, come sei. Tu mi guardi, tranquilla: mi chiedi, come facevi sempre: Veronetta, scrivi il tuo compito?… —

Quando i passeri, con sommesso cinguettio, e le campane della chiesa di Santa Barbara annunziarono l'alba, i cirri paonazzi e rosei che nel cielo si tenevano infantilmente per mano scorsero, pel vano del balcone, Veronetta Longhena curva a scrivere, a scrivere, col quaderno in grembo, a pie' del letto infiorato di aspirèe sul quale riposava la tessitrice morta.

Ma la morta sorrideva, calma, beata. Aveva servito: serviva ancora, fino al minuto in cui l'avrebbero inchiodata nella cassa e deposta nella fossa comune. Ella sapeva che la sua figliuola non era simile alle altre, e che bisognava lasciarla fare, perchè uno spirito misterioso guidava i suoi atti verso un misterioso fine. Scarmigliata, cogli zigomi accesi, col cerchio rovente della febbre alle tempie ed ai polsi, Veronetta Longhena scriveva, vegliando la salma della madre, come avrebbe pregato per lei, a mani giunte, in ginocchio.

Per parecchi giorni visse in solitudine fiera, nutrendosi di pane e latte, rimanendo ore ed ore immobile, chiusa in apparente inerzia, e riempiendo poi fogli e fogli di una fitta, disordinata scrittura. Non aveva più messo piede nella scuola. Varie compagne le inviarono lettere di conforto: ella non rispose. Non amava nessuno, non ricordava nessuno. S'era tagliata fuori dal mondo. I legami del dovere e della consuetudine non la toccavano più. Viveva nel sogno.

Il giardino, consapevole, s'infittiva, per lei, di fronde e di canti d'uccelli. Il morir dell'aprile metteva ai rosai, ancor senza fiori, foglioline nuove sanguigne nel sole: le rosee magnolie precoci cominciavano a sfiorire, le serenelle a schiudere i loro grappoli violacei d'un acuto amarissimo sentore. Ella avrebbe lasciato il tempo trascorrere sempre così.

Ma qualcuno vi doveva pur essere, che la prendesse per le spalle e la ponesse, diritta, di fronte alla dura realtà: e fu donna Carla, la padrona della casa, la madre di Nanna e Ninna, chiuse allora in un collegio di Firenze.

Ella era sempre giunonica di forme, recisa e brusca di modi, amante delle comode vesti da camera: al qual gusto s'era aggiunto quello, un po'troppo maschile, dei sigari virginia. Ne lasciò uno, un giorno, a mezzo, sul portacenere: scese in giardino, chiamò Veronetta.

Se la fece sedere accanto, sulla panca di pietra all'ombra del pino turchiniccio che nel dolce tempo era stato il conte Sergio. Ma dov'erano il principe Azzurro e la principessa Maria?… Nanna e Ninna eran lontane e avevan forse tutto dimenticato; e la principessa Olivia, pallida, trasognata, male in arnese, con le scarpe rotte, col viso così scarnito che la violenta quadratura delle mascelle vi si scolpiva come in un teschio, si trovava premuta dalla necessità di un'occupazione, comunque fosse, che immediatamente le procurasse il pane.

— Ascoltami, piccola — cominciò a dir la signora, con rude ma calda cordialità. — Hai pensato alla tua condizione?… Sai quel che devi fare?…

Silenzio. Grandi occhi torvi, fissi.

— Tu non puoi continuar gli studi. Lo sai benissimo da te. Potresti dar lezioni private; ma, senza diploma, è un affar serio: non è un pane sicuro. Poi, hai un certo caratterino!… E lavorare bisogna: mantenersi, pagar la pigione. Già codeste due stanzette, noi che non vogliamo saperne d'inquilini, le avevamo lasciate alla tua mamma per una miseria all'anno, unicamente perchè ci allattò la Ninna, prima di entrar nella fabbrica. Ma regalartele non possiamo. Lo capisci anche tu, non è vero?…

Silenzio. Grandi occhi torvi, fissi.

— Dunque dammi retta. Ho parlato ieri col commendator Verganti. Come sai, è mio cugino. In fabbrica è lui che fa la pioggia e il bel tempo. Per un riguardo alla tua mamma, che vi ha lavorato tant'anni e vi è morta, — per un riguardo anche a me — ti accetterebbe in qualità di apprendista dattilografa. Imparerai l'arte da un'impiegata che se ne deve andar fra un mese; e prenderai il suo posto. Perbacco!… stupida non sei. A dattilografare s'impara in fretta. E i conti li saprai fare, per quanto l'aritmetica non sia il tuo forte. Ti va?… Sei contenta?… Cinquanta franchi al mese, quando avrai assunto il posto regolare. Col tempo poi…. Potrai sempre bastare a te stessa. Siamo d'accordo?… o no?… E dimmi grazie, chè me lo merito. Senza di me, tu resteresti imbambolata a contar le stelle fino alla morte per inanizione. Moversi bisogna, perbacco!… Il commendatore ti aspetta in ufficio, mercoledì.

— Grazie, signora.

Veronetta non rispose altro; ma donna Carla se ne accontentò. Non aveva forse mai tenuto, in vita sua, un così lungo discorso. Sbuffò, si alzò, pensò con profonda soddisfazione al mezzo sigaro virginia che l'attendeva sul portacenere in camera, fece alla fanciulla un rapido cenno di saluto, e s'avviò verso lo scalone, trascinando la coda della sua eterna vestaglia di fianella a strisce rosse, azzurre e viola.

E non vide lo sguardo fosco, d'una gelida fissità di pozzo senza fondo, che la seguiva duramente, quasi con disperazione.

Tic-tic, tic-tic, tic-tic. Aveva imparato a dattilografare, in quattro e quattr'otto: più presto che non credesse. S'impara tutto: basta volere.

Tic-tic, tic-tic-tic dalle nove alle dodici, dalle due alle sette: tic-tic, tic-tic-tic, sotto l'agile movimento delle dita ridotte a strumenti meccanici come il cervello. I piccoli tasti scattavano, sparivano, ribalzavano, spiritelli beffardi e chiacchierini; e i fogli uscivan l'un dopo l'altro, regolari, ordinati, bianchi e turchini, irti di nomi tecnici, di formule commerciali, di cifre, di cifre, di cifre. E la forma del tavolo era quadrata, dei fogli, rettangolare, dei tasti, rotonda: e nulla mutava mai: e le cifre si raggruppavano in infinite guise per segnare un'infinità di numeri; ma eran pur sempre le stesse.

Accanto alla Remington, il copialettere. Tacito, ostinato, metodico. Abbassando e premendo il torchietto perchè le scritture si fissassero sui leggerissimi fogli di carta velina, Veronetta soffriva ogni volta la sensazione di schiacciar là dentro la propria anima, improntandola d'indelebili segni profanatori.

Tutto era, intorno a lei, inflessibilmente preciso, a base d'orario e di calcolo. Nel lavoro degli impiegati, nelle loro aspirazioni, nei loro discorsi, una sola molla, una sola base, un solo Dio: il guadagno. Le tappezzerie color grigio chiaro delle tre stanze d'ufficio, gli armadi a tiretti numerati, le cartelle legate da nastri verdi, le colossali scrivanie ingombre di fogli e macchiate d'inchiostro, pareva trasudassero, al par degli uomini, somme, sottrazioni, dividendi, note interminabili di “ dare ed avere ”.

Mongilardi, il capo contabile, chiamava sempre Veronetta a sè, per aiuto, nei giorni della distribuzione delle paghe. Dio, quei sacchetti, quei sacchetti a decine, a centinaia, bianchi, pesanti!… E quei visi allo sportello, d'uomini, di donne, di ragazzi, tutti simili nell' espressione d' avidità bruta e soddisfatta, quando il sacchetto spariva nella mano stretta ad uncino!…

Mongilardi era un simulacro d'uomo, giallo come una fiala di bioplastina, con capelli e baffi di capecchio, e le orecchie ad ansa: così magro, che le giunture dei gomiti e delle ginocchia gli foravan le maniche e i pantaloni. Prigioniero tra la cassaforte di ferro e lo scrittoio di quercia che lo nascondeva, costantemente curvo su libri mastri, fatture, reclami, biglietti di banca, si poteva ben chiamare l'uomo-cifra per eccellenza.

Non avrebbe sbagliato un totale d'un millesimo, neppure dormendo, neppure in punto di morte.

La cura meticolosa con cui contava e ricontava il denaro, preparava e disponeva le buste e i sacchettini delle paghe, quali tesori preziosissimi che soli al mondo valessero la pena d'esser custoditi, era ogni volta un nuovo, curioso spettacolo per la piccola dattilografa; come un gioco di bussolotti, come una scena di prestigitazione.

Con la moglie sempre malata e cinque bìmbi da tirar su, tutti biondicci ed ossuti al par di lui, non aveva che un sogno: un aumento di stipendio: non sorrideva che ad una speranza: una solida gratificazione a Natale.

E gli altri?… Paolo Màspero, il direttore della filatura, con quelle spalle d'atleta da fiera e quell'ispida, camusa faccia da tedesco?… Toccava la quarantina ed era ricco, colui, dicevano; e un giorno o l'altro si sarebbe fatto socio del commendatore. E guardava la magrezza acerba e salda di Veronetta con la brutalità dell'esperto conoscitore; ma la fanciulla non se n'accorgeva nemmeno; chè in lei la carne dormiva ancora un sonno d'infanzia.

E Cajrati, che ficcava dappertutto il suo muso da faina, e, quando le tasche gli ballavan vuote, mordeva dove poteva?… Era risaputo da tutti, che Cajrati lavorava sapientemente sott'acqua per sbalzare Terzi dal suo posto, e soppiantarlo; me se Cajrati aveva muso da faina, Terzi all'occasione digrignava mascelle da lupo.

Fra quegli uomini, sotto quel giogo, in quelle grigie stanze d'ufficio dove le brevi e tempestose apparizioni del principale apportavano spesso bagliori e scoppi di lampi e tuoni, al tichettio della Remington la vita di Veronetta si svolgeva, plumbea, scandendo la sua tristezza sulle troppo esatte pulsazioni di un lavoro non voluto, non sentito, non amato.

Solo un cortile separava gli uffici dal salone di tessitura nel quale Anna Longhena per sedici anni aveva intrecciato il suo logorante lavoro alle sue fresche canzoni: nel quale era caduta per sincope, senza una parola, senza un sospiro, senza un gemito, come un uccellino piomba fulminato dal ramo, a mezzo trillo, col becco in aria. Ma Veronetta non vi era mai entrata.

Tuttavia, con la tormentosa facoltà d'allucinazione che scolpiva e illuminava dinanzi ai suoi occhi i fantasmi del cervello, Veronetta scorgeva nettamente il cadavere, stecchito, nero, piccolissimo, sul pavimento oleoso, fra un telaio e una cassa di spole. Piccolissimo, un punto, un nulla, in tutto quel moto, quell'assordio; ma terribile. Avevan creduto di portarlo via; ed era rimasto là, allo stesso posto.

Gil operai che andavano e venivano gli passavan sopra coi piedi, senza vederlo, senza sentirlo; ma c'era: le sue molecole aderivano alla densità dell'atmosfera, al roteante fremito delle cinghie, all'animata materia delle macchine: e la voce dell'opificio altro non era che la voce di Anna: — Vera, Veretta, Veronetta!…

E tristi e soavi parole andava ripetendo la morta, vigile sempre e inconsolabile nella sua passione materna, alla fanciulla che tardi ne comprendeva il lungo, umile sacrificio:

— Figlia, figlia, anche tu qui?… Non è colpa mia se non giunsi in tempo.

Ordigno perfezionato per produrre solide stoffe multicolori, ordigno perfezionato per scrivere meccanicamente lettere di commercio, non significavan forse la stessa quotidiana necessità, per l'una, per l'altra: guadagnarsi da vivere?… I tasti beffardi e chiacchierini sui quali le dita di Veronetta avevan così bene imparato a scandere la tarantella avrebbero, davvero, logorato ne' tessuti più saldi, tolto al suo naturale destino l'organismo di singolarissima sensibilità che ella sapeva di possedere?…

Per il pane, per le scarpe, per un letto, per non morire. E intanto ella presentiva la stanchezza bruta, che si sarebbe interposta come una porta di ferro fra lei e la profonda verità dell'anima sua. Ella sarebbe passata così, senza comprendere chi fosse, e perchè fosse venuta al mondo. E quelle pagine che scriveva, febbrilmente, la notte, mentre gli spiriti del giardino entravan dal balcone aperto a tenerle compagnia, nessuno le avrebbe vedute.

E il sole avrebbe continuato a splendere e l'erba a spuntare e le stelle a fiorire nel cielo e i fiori a costellare le aiuole e l'infinita varietà degli attimi cosmici a svolgersi in bellezza nello spazio e nel tempo….

— Signor Mongilardi, — ella disse al capo contabile, dopo la distribuzione delle paghe agli operai, un sabato di luglio nel quale la canicola gravava sulle cose e sugli uomini come una cupola incandescente — signor Mongilardi, per carità, quanto denaro ha maneggiato quest'oggi!… E tutto quello che c'è ancor li dentro, nella cassaforte!… Non le mette schifo, alla fine? Non le vien mai la voglia pazza di gettarlo dalla finestra?… Non ha mai pensato, lei, quante anime, quanti cervelli sono stritolati dal bisogno del denaro?…

— Gettar biglietti dalla finestra?… Stritolati?… dei cervelli?… dal bisogno del denaro?… Figlia mia, è lei che mi diventa pazza. Il denaro è la molla dell'umanità!… Sentite un po'!… Benedette le donne!…

— Ebbene, a me mette schifo, ha sempre messo schifo, ecco. Non so perchè non lo dovrei dire. Provi una volta ad immaginarsi un mondo senza denaro, un'umanità liberata dalla sete o dall'incubo del denaro…. Ci riesce?…

Anche Paolo Màspero, che stava per andarsene, s'era fermato per ascoltarla, col testone camuso insaccato fra le spalle, divorandola cogli occhi: anche Cajrati, che però torceva in una smorfia di compatimento la bocca di faina.

Quella bimba!… Così libera e così fiera, con un passo così elastico e rapido che c'era da mozzarsi il fiato a volerla seguire, quando divorava in tre salti la strada, dalla fabbrica alla sua casa!…. Bei capelli, non castagni, non rossi, vivi, capricciosi; e due lampade elettriche al posto degli occhi… E parlava di rifare il mondo e l'umanità!…

— Biglietti da mille?… molti vorrei averne, io, signorina — ridacchiò Cajrati. — Tanti da poterli gettare a manciate sulla faccia del prossimo, da ubriacarmene, da farne indigestione. Li dia pure tutti a me, i soldi che vuol togliere agli altri. Le assicuro che ne farò buon uso.

— Non sapevo che lei fosse un'anarchica — concluse Paolo Màspero. — Nel denaro sta la regola.

Il riso di Veronetta fece schioccar nell'aria un colpo di frusta.

Ostile, armata, di razza diversa i tre uomini la sentivano: feriti oscuramente nella loro superiorità di maschi, nel loro senso banale e utilitario della vita, nel rispetto del guadagno, della ricchezza, ereditato dai padri in un coi mobili di casa, col nome, col culto. Vicina a loro, lontanissima da loro, Veronetta splendeva come una fiamma di sarmento, sottile, diritta, vibratile. Un malessere fisico, un sanguigno desiderio di scrollarla, di piegarla, di “ farle ingoiare i capricci ” gonfiò le vene del collo apoplettico di Paolo Màspero.

All'improvviso, un concitato suono di voci nella stanza attigua; e uno spalancarsi dell'uscio e l'apparire di tre persone: Giovanna Dominici, scapigliata, colla faccia ridotta un pugno di cenere, tenuta pel braccio da Sarteschi, l'incaricato della visita alle tasche durante l'uscita degli operai; e Terzi dietro.

— Per carità!… l'ho fatto pe' miei figli. Non mi rovinino, in nome di Dio.

Batteva i denti. La viltà della miseria stava impressa sulla sua persona floscia e lugubre come un cencio nero. Lo spavento la raggomitolava.

— Non vi vogliamo far del male, cara la mia donna. Ma il fatto sta che qui vi sono quattro matasse di lana, trovate su di voi, in un tascone interno della veste. Del male, no. Ma il posto lo perdete.

— Allora vuol proprio che io mi getti nel fiume?… Se è così, ecco, vado, vado sul ponte, mi butto in acqua. Che vuol che mangino i miei bambini?… Ne ho due, sono vedova. La paga non basta. La mia fatica vale di più della mia paga. Chi mi può chiamar ladra?… Sono anni che tribolo, che porto la croce. Loro non sanno, loro non possono capire….

Mongilardi si avvicinò, la sostenne. Un tremito ininterrotto le scuoteva le mani, le spalle, il petto incavato. La crisi isterica parve volere abbatterla.

— Se ne vada, signorina. Qui non è posto per lei, ora — disse Cajrati a Veronetta, pallidissima, stravolta.

— L'accompagno io — le mormorò Paolo Màspero nel collo. — Andiamo, andiamo. È già tardi. Lasciamo che quella disgraziata se la sbrighi da sè con l'amministrazione. Venga con me.

Uscirono, nella vampata vermiglia del torrido tramonto. L'uomo la portava, quasi: tanto l'emozione l'aveva resa debole, incerta nel passo, con vene vuotate di sangue. Per la prima volta la protezione d'un uomo si curvava sulla piccola solitaria, rimoveva un sasso dalla sua strada; ed ella vi si abbandonava infantilmente, come se quel maschio barbuto e muscoloso, che di sotto la civile apparenza emanava il sentore della bestia selvatica, fosse suo padre.

— Le perdoneranno?… Dica. Povera donna!… Ha due bambini. Vede, vede il bisogno, a che cosa conduce?… Nessuno dovrebbe trovarsi nel bisogno. Non è possibile che non le perdonino. Mi parrebbe d'esser complice d'un delitto.

— Forse sì, le perdoneranno. Si calmi. Non pensi a malinconie. Non si tormenti.

In via della Fontanella, dinanzi alla casa, la voce virile, più rauca, disse:

— Permetta che la conduca disopra, signorina. Lei è troppo agitata. Che vuol che si dica?… Ho quarant'anni: può esser mia figlia… Un solo minuto, fino a quando lei si sia messa veramente in quiete.

Come alti, quegli scalini!… Mai a Veronetta (e sì che Màspero la sosteneva) eran sembrati così ardui a salire. Le sue gambe erano spezzate ai ginocchi. Aveva la febbre, forse.

Dai balconi, il fronzuto giardino irrompeva con la densità del verde nelle due stanzette bianche e quasi nude. Di fronte, un ultimo raggio di sole traeva sangue e porpora dai comignoli del tetto. L'afa della giornata pesava ancora sugli alberi che attendevano, immobili, la frescura della sera. Un frenetico garrire di passeri veniva dall'ombra del pino turchiniccio. Rondini rondini rondini roteavano in cerchi di rapidità e di veemenza felice nell'azzurro, stridendo di amore e di ardore.

— Vede?… Io, qui, sono un'altra — principiò a dire Veronetta, già rianimata, col viso un po'meno pallido, coll'aria un po'meno smarrita. — Qui, anche se giungo stanchissima, mi riprendo subito. Niente dattilografa!… — e sorrise. — Niente impiegatuccia a cinquanta franchi al mese. Sono la principessa Olivia. Mi crede pazza?… Ho una maravigliosa veste a strascico, color di luna. Ho tanti gioielli quante sono le stelle. Tutto è mio; ma senza che io lo prenda, che io me ne impossessi. È mio, così, perchè vivo. Per paura di perderlo, l'ho scritto, il sogno. Ecco.

Additò, timidamente, una quantità disordinata di fogli, su un tavolino basso.

— Come?… Scrive?… Lei scrive?…

— Sì. Non posso mai dormire, nelle prime ore della notte. E racconto me stessa in questi fogliacci: come sono, e come debbo essere per guadagnarmi il pane. E anche lei c'è, qui dentro; e Mongilardi e tutti e la fabbrica e…. la mamma. La principessa Olivia che fa la dattilografa!… Lei non sa nulla. Abbiamo tanto giocato alle regine da fiaba, con Nanna e Ninna, nel giardino. È stato ieri, solamente ieri. Poi la mamma è morta. Ma perchè non dovrei continuare il mio sogno?… Solo nel sogno io posso vivere.

Paolo Màspero le si era avvicinato fin quasi a toccarla. Coi piccoli occhi incassati sotto ispidi cespugli di pelo grigio mattone, e che andavano iniettandosi di sangue, le fissava la gonfia bocca giovine, ignara del proprio fascino, e la vena jugulare pulsante di commozione a fior del collo ambrato. Che storie di sogni e di principesse gli andava raccontando quella zingarella bizzarra?… Gli piaceva, la voleva.

— Cara!… Ma lei non deve più tornare alla fabbrica, all'ufficio. Non è sola, senza parenti, senza nessuno che le comandi?… Venga a star con me. Mi voglia un po' di bene, Veronetta!… Sono vecchio per lei; ma non importa. Ho salute per cento. Sono un colosso. Mi piaci. Ti sposerò, se vorrai.

— Ma che dice?… Se ne vada, per carità.

— No. Non me ne vado, se non con te. Non è forse la miseria, che ti rende infelice?… Ebbene, sono ricco, io. Guarda!… — e trasse il gonfio portafoglio, e glielo spalancò sotto gli occhi. — Non avrai più bisogno di lavorare per vivere. Scriverai fin che vorrai, se questa è la tua passione; ma via!… troverai di meglio da fare: essere una donna, essere bella, adorata. È perchè ne sei priva, che tu odii il denaro. Vedrai, vedrai l'agiatezza come è dolce, piccola cara, piccola bella….

E la fanciulla si sentì presa per la vita, stretta alla cintura da ferree braccia: con l'odore ferino del maschio nelle narici, con quell'alito di fuoco sulla bocca, con quella carne madida incollata alla carne.

La sua chiusa ed aspra verginità si armò d'un balzo di mille punte, trovò in se stessa la più artigliata difesa. Graffiò, morse, lacerò, si strappò da quelle tanaglie, balzò, gatta elastica e minacciosa, contro la parete. I suoi occhi fosforescenti, tuttì pupilla, mettevan paura. La voce le usciva quasi afona dalla strozza, rotta dall'ansimo.

— Se ne vada. Ha capito?… Crede di comperarmi?… Non sono una balla di stoffa, io. Si guardi, è vecchio!… Tenga per sè i suoi biglietti da cento e se ne vada. Mi fanno orrore. Sono come quelli della fruttivendola di via Roma; ma ancor più nauseanti. Ah!… io so, io so. Vada, o mi metto ad urlare, che tutti sentano.

Avvilito, tutto in sudore, con qualche goccia di sangue sulla mano sinistra, Paolo Màspero indietreggiò verso la porta. Era cieco d'ira, di quell'ira sensuale che rende folli gli uomini pletorici.

Bofonchiò:

— Frena la lingua, bambina. Te ne potresti pentire. Bella superbia, scribacchiare sciocche fantasie che non ti procuran neanche da mangiare!… Portali dunque ad un editore, i tuoi preziosi fogli, che te li paghi e te li pubblichi. O intendi scrivere pe' tuoi begli occhi?… farai poca strada se sei di razza così selvaggia: to lo dice Màspero, bambina.

— Non me ne importa niente. Se ne vada.

Nella penombra crepuscolare, carica di forze magnetiche vibranti e cozzanti, gli occhi senza palpebre non cessarono di rimaner fissi, puntati verso l'uomo come coltelli, fino a quando egli non ebbe varcata la soglia. Il passo risuonò pesantemente lungo le scale. Allora soltanto le palpebre si riabbassarono, il corpo si abbiosciò, in un fascio, sul pavimento. Singulti ed urli spasmodici lo scrollarono, lo sollevarono, lo appiattirono, parvero romperlo a pezzi, frantumarlo. Poscia cessarono di schianto. Fu notte, e fu silenzio.

La sera seguente, a pena tornata dall'ufficio (dove era comparsa con una faccia di dissotterrata e aveva compiuto il suo lavoro con l'impassibilità meccanica d'un automa) Veronetta, senza quasi concedersi il tempo d'ingoiare un boccone, ricopiò molti fogli del manoscritto, li mise in una busta e vi unì una lettera. Scrisse, sulla busta, il nome di un celebre critico, direttore della più diffusa rivista letteraria di Milano. Portò il plico alla posta, il mattino; ed attese.

La lezione di Paolo Màspero aveva portato il suo frutto.

Tre settimane, lunghe più di tre anni, tardò la risposta a giungere; ma giunse, quando già Veronetta ne stava perdendo la speranza. Il critico — uomo probo, di sana coscienza, di largo intelletto, di fiuto infallibile, che nell'arte dei giovani amava ed esaltava le generose forze dinamiche — s' era, senz' altro, avveduto che quella giovanissima era qualcuno: aveva intravisto tutto l'oro che si poteva estrarre da quella ganga.

Nella sua lettera, la lode parca ma convinta illuminava l'ammonimento severo. Diceva un sì; ma tartassava dove c'era ragione di critica, trovava il nòcciolo del difetto essenziale, indicava la strada giusta, colpiva per incitare.

Veronetta gioì, tremò, sofferse con delizia, si scavò il cuore per prenderne a due mani il coraggio. Tornò sul manoscritto, cancellò, rifece, rinsanguò. Furono le sue sere regali. La corrispondenza con l'amico, che ella già chiamava “ il buon Maestro ” divenne la sua ragione di vivere. Il libro — non romanzo, non favola, non lirica, ma l'una e l'altra cosa insieme, fuse in quel divino crogiuolo che è l'originalità d'una vera tempra d'artista sbocciata in solitudine, — pubblicato in parte, a puntate, nella rivista che il “ buon Maestro ” dirigeva, colpì il pubblico in pieno petto. Voci contradditorie si levarono, curiosità morbose si acuirono sulla sconosciuta scrittrice che s'incarnava nella bizzarra figura della principessina dattilografa. E la “ Principessa Olivia ” incominciò a divenire un personaggio di leggenda.

Finalmente, un giorno, l'amico le scrisse:

“ Mai cara selvaggia, ho scoperto per voi due gemme. Un editore (grande) che vi pubblicherà il volume: un posticino (piccolo) qui, nella redazione della mia rivista: che vi permetta, quantunque modestissimo, di porre il piede sul campo di battaglia. Conosco una brava donnetta che vi terrà a pensione. Finora avete combattuto nell'ombra: venite a combattere in piena luce. Vi attendo ”.

Discretamente accluso nella lettera era un vaglia: compenso alla sua collaborazione, che durava da parecchi mesi. Esigua somma. Ma a Veronetta non bruciò le mani. Fu, quel denaro, il primo che non l'umiliasse, che non la fustigasse con la brutalità d'un nemico. Tutto il suo essere si componeva finalmente in armonia con le necessità della vita.

Ed ella si preparò in silenzio alla partenza, assorta nel religioso raccoglimento delle supreme vigilie.

Andò a salutare donna Carla, che aveva per i libri il più convinto disprezzo e le sfiorò appena la punta delle dita, soffiandole in viso il fumo del suo eterno sigaro. Si congedò, con indifferenza, dai compagni d'ufficio. A nessuno ed a nulla era legata: non aveva radice che in sè. Ma a Paolo Màspero, che dalla sera della scena brutale, vergognoso del proprio eccesso, non aveva quasi più osato avvicinarla, strinse la mano con franco sorriso, dicendogli: Grazie. — Ed egli non comprese il perchè di quella parola; e tacque, confuso, ispido, bieco.

In un'alba marzolina vivida di vento lasciò la piccola città nativa, senza volgersi indietro. Le piaceva quel vento che verso il cielo tagliente come un cristallo sollevava nembi di germi. Ella portava con sè una vecchia valigia troppo gonfia, irta di gibbosità, la memoria di sua madre e la visione del giardino.

Pensava: Non tornerò più. —

I.

Vi ritornò, invece. Molti anni dopo, per un solo giorno, con Fausto Mori.

Ella aveva, durante tutto quel tempo, tenacemente affrontata, superbamente vinta, estraendo dal proprio midollo materia sempre più viva di resistenza, una fulgidissima, formidabile nemica: la celebrità.

La stampa dell'epoca aveva discussa, commentata, vivisezionata a sazietà la scrittrice non ancora ventenne rivelatasi d'improvviso col libro “ La Principessa Olivia ”, del quale le edizioni e le traduzioni s'erano rapidissimamente moltiplicate.

In quelle dense, magnetiche pagine di confessione tumultuava invero, trascinando nella propria furia di torrente in piena una quantità di scorie, l'eterno contrasto fra il sogno e la realtà; ed il sogno era illuminato di tanta poesia e la realtà scolpita con tale durezza di linee e incavatura d'ombre, che le anime ne eran rimaste stupefatte e scosse.

E la cronaca ed il pubblico s'erano impadroniti di Veronetta Longhena.

Senza sforzo, senza sorpresa ella era balzata in piena crudità di luce. S'era trovata in una casa di vetro, esposta all'avida e non sempre benevola curiosità di tutti gli occhi: non un velo le era stato lasciato, perchè l'anima sua potesse coprirsene. Troppo ella aveva dato di sè in quella prima opera, perchè qualcosa avesse a rimanerle di chiuso e di geloso.

Ma il raffinato supplizio le era parso magnifico.

Non per vana febbre di esibizione, in donna così semplice e fiera. Ma perchè ogni alba, svegliandola, le dava la certezza di trovarsi di fronte ad una nuova battaglia, ed all'obbligo strenuo di armarsi. Aveva imparato a castigare, a disciplinare la propria arte, a penetrare il fondo dei cuori e dei caratteri per estrarne con forza e con dolore il sanguinante nòcciolo della verità, e per esprimerlo con la parola più aderente, con la sola necessaria. La guida del “ buon Maestro ” che aveva su di lei l'autorità d'un padre, le era stata preziosa per l'indirizzo della vita, per la serietà degli studi ai quali egli l'aveva sottoposta. La libertà senza limiti di cui, giornalista e romanziera, godeva, le aveva aperta la strada a esperienze importantissime per arricchire il suo tesoro di osservazioni. La fama le era stata frusta che riga le spalle di rosso e incita alla corsa, non falsa illuminazione di palcoscenico, che dà ai belletti ed alle biacche apparenza di carni vive.

I suoi romanzi possedevano il calore e il movimento naturale dei muscoli nel corpo, del sangue nelle vene, delle linfe nella terra.

Maneggiava e riplasmava la materia vitale con una schietta brutalità che molti chiamavan maschia; e che rispondeva invece perfettamente al sano vigore della sua natura femminile.

Era appunto quella nuda e nerboruta umanità che la rendeva più d'ogni altro bersaglio alle aggressioni della pseudo-critica, all'odioamore di tanti, al complicato sadismo intellettuale che le sputava addosso, pure riconoscendola.

Ed ella aveva adottata, per sfida, una superba divisa: “ Senza nemici scema il coraggio ”.

E col passare laborioso degli anni aveva guadagnato in elasticità ed in freschezza: poichè la madre l'aveva inconsapevolmente costruita di quell'incorruttibile sostanza nervosa che più spende di se stessa meglio in se stessa si riproduce.

Mai le era nato in cuore il desiderio di riveder la città dov'erano trascorse la sua miserrima infanzia, la sua smorta e spinosa adolescenza: dove nulla e nessuno poteva attirarla, e dalla quale era fuggita come una reclusa dal carcere di cui abbia segate le sbarre. Ricordando il tempo e il luogo della vigilia, la donna che aveva tutto superato compiva istintivamente l'atto di portarsi le mani alla gola, per strapparne un cappio che gliela strozzasse.

Pure, una domenica di piena estate, ella ritornò.

Col suo compagno.

Compagno, amico, amante: tutto questo insieme, e più: il suo uomo, e così lo proclamava, nell'intimo, con un largo sorriso felice.

Lo aveva incontrato tardi, a trentotto anni, quando gli occhi inquieti cercano già nello specchio i primi capelli bianchi, i primi accenni di ruga. A qualche altro amore, prima, nel corso della sua esistenza di libertà ch'ella non aveva mai voluto irretire in vincoli convenzionali, s'era data, s'era tolta: fuggevoli inganni del cuore o dei sensi, che le avevan lasciata la bocca amara, e la certezza di un destino di solitudine.

Un solo tenerissimo affetto, di nobiltà e di fedeltà senza pari, era bastato, fino alla comparsa di Fausto Mori, a riempir la sua vita gelosamente dominata dal travaglio dell'arte: l'amicizia pel critico che l'aveva tenuta al battesimo della lotta: pel possente vecchio dalla calva fronte a forma di torre, dalla candida barba di patriarca, dinanzi al quale ella talvolta s'inginocchiava baciandogli le mani, chiamandolo infantilmente “ papà ”.

Ma Fausto Mori era venuto.

Messi alla presenza l'uno dell'altra, si erano riconosciuti all'istante.

“ Eccola ” — “ Eccolo ” — aveva detto loro, dal profondo, la voce senza suono che ha maggior potenza d'ogni altra voce.

In un teatro, dopo un tempestoso comizio. Atmosfera rovente, satura d'elettricità. L'oratore aveva appena finito di trascinare il popolo nel turbine della sua travolgente eloquenza: vibrava tutto ancora della propria battaglia. Era l'avvocato Fausto Mori.

Un saluto: un “ bravo ”: una stretta di mano. Egli, altissimo, con petto e spalle tali da sostenere l'urto di una folla. Ella, piccola, con l'apparente fragilità delle donne dai nervi d'acciaio. Le due forze s'eran fuse senza che le due volontà ne avessero parte. Solo da allora, quell'uomo e quella donna avevan sentito quale smisurato godimento sia il vivere.

La veemenza con la quale s'eran gettati l'un verso l'altra non li aveva delusi: ognuno dei due, nell'impeto, s'era scavata nell'altro la propria impronta. E tale era la passione, che alcune volte, in una stretta folle, essi avevan creduto di entrar nella morte come in una seconda esistenza di maravigliosa perfezione.

— Veronetta, — egli le diceva, seduto di faccia a lei, nel treno, presso il finestrino, in quel meriggio festivo bianco di calore e di luce, stringendo fra le sue grandi mani tutte muscolo e nervo le manine pallide piene d'abbandono — Veronetta, oggi siamo due scolari in vacanza. Sei contenta?…

—Sì. Ma che capriccio il tuo, Fausto!…

— Perchè?… Noi andiamo a sposarci, senza cerimonia e senza testimoni, nella città dove tu sei cresciuta. Io voglio così. Voglio che tu mi mostri con queste care dita i luoghi e le cose della tua infanzia. Lo so: hai già tutto raccontato, tutto descritto, nel libro. Ma non importa. Ti voglio veder là, amare là. Devi essere mia tutta, dal principio.

— Sì.

Ella rispondeva — sì — con la stessa naturalezza ch'egli aveva nel dire: — voglio. — Bastava a lui parlare, guardarla, toccarle una spalla, perchè ella non avesse più volontà. E ciò le era dolce come il sonno quando si è stanchi.

— Credi forse ch'io sarei tornata, se tu non fossi?… Ho sofferto troppo, Fausto, laggiù. Ma con te!… Con te, vado anche a morire.

— A morire?… No, a rivivere. Cerca di ricordarti. D'ogni più piccola circostanza ti devi ricordare. Siamo vicini, abbiamo già oltrepassata l'ultima stazione. Un'ora e venticinque minuti di viaggio!… Un'inezia.

Le liberò il viso dal velo, glielo prese — poi ch'eran soli nello scompartimento — fra le palme, con uno de'suoi gesti rudi; e fece, ridendo, l'atto di morderla.

— Guai se non ti ricordi!… Ti mangio.

Gli occhi di Veronetta si velarono di voluttuoso languore; un brivido le discese dalla nuca alla schiena.

Fu nient'altro che una cosa sua, una sensibilità tutta aperta ch'egli poteva far vibrare a suo capriccio.

— Mi ritrovo, adesso. La fabbrica, fuori porta: guarda. Quei padiglioni larghi e bassi, quelle due ciminiere. La povera mamma morì là dentro. Dorme là dentro, per me. Quanto tempo!… La mamma!… Mi pare un secolo. Non l'ho compresa, non l'ho amata come meritava. È il destino di tutte le mamme, forse…. Dio, che sole!… E come son bianchi i muri, quando il sole li arroventa!… Adoro il sole. Sono felice, Fausto.

Il treno rallentò fischiando, ebbe due o tre scossoni, si arrestò sotto la tettoia plumbea. Balzato a terra, l'uomo erculeo, d'una solidità di quercia, in un'esplosione di gioia che lo fece ridiventare fanciullo, accolse Veronetta fra le braccia, la tenne per qualche secondo sollevata da terra; ed il sorriso che illuminò la bocca virile e la bocca femminea fu ugualmente trionfale.

Più tardi, nella carrozza che da un albergo vicino alla stazione li conduceva in città, egli le chiese:

— Riconosci i luoghi?…

— Sì — no. — I giardini pubblici colle magnolie fiorite…. come mi sembran piccoli, ora!… I bastioni colle due file d'ippocastani…. Il teatro diurno…. via Santa Maria degli Orti…. casa Ghislandi…. Ma che mi fa, ora, tutto questo?… Non è più la stessa cosa. Non sono più Veronetta. È passato, è morto. Mi hai fatta nascere ieri, tu. Mi chiamo Vera, la tua donna.

Gli si strinse addosso, aderendo a lui col tepore della spalla e del braccio, mentre la vettura passava nel solleone per viuzze deserte, strette, pietrose, ove la vampa piombava a perpendicolo su antichissimi palazzi anneriti dal tempo, che avevan chiuse tutte le imposte per respingere la calura.

La certezza della presenza amata, l'ardente plenitudine dell'ora le davano un senso di dolcissima vertigine. All'ombra della semplice tesa di paglia nera, il suo volto s'illanguidiva in un'espressione di sofferenza: la sofferenza della gioia.

Mai, prima dell'amore di Fausto, ella era stata bella così. Ogni movimento rispondeva in lei alla grazia d'un'interna, felice armonia: e i piani e le linee e i colori del forte viso s'eran fusi in un culminante splendore di vitalità.

Un mantello a pieghe morbide, di raso nero a grandi risvolti grigio perla, avvolgeva la sua fluida snellezza sino alla magra caviglia, calzata di seta trasparente. Nulla ancora tradiva in lei l'età non più giovine. Ella era giovine perchè era amata ed amava.

— Dove siamo, Vera?… Come puoi aver perduta la memoria dei luoghi?… Sarai passata di qui, chi sa quante volte, con la tua cartella di scolaretta sotto il braccio. Ogni sasso dovrebbe avere per te una parola….

— Taci. Santa Barbara!…

Allo sboccar della via in una quieta piazzetta, un miracolo di bellezza s'offerse ai loro occhi.

Scesero.

Il tempio dominava lo spazio con la semplicità della facciata di puro stile lombardo: intagliato nell'azzurro, penetrato di sole, nel suo slancio alato pareva, più che una forma, un pensiero. Era piccolo, e sembrava immenso. I vani delle due snelle ogive laterali ridevan di cielo. Folta era l'erba, ed umile, e silenziosa, fra le pietre della piazzetta. L'onda del ricordo sopraffece la donna, le piegò il cuore verso la sua terra.

— Oh, nella chiesa c'è tanta frescura!… Ci venivo sempre, nelle ore meridiane in cui non v'era nessuno, dominata da un bisogno di raccoglimento mistico. Non pregavo: pensavo. La mia madonna!… La mia madonna dipinta a fresco, lunga lunga, con gli occhi obliqui, che regge il bambino Gesù con una mano che ha sei dita!… Vuoi che io t'offra l'acqua benedetta nella chiesa dove un giorno ho pensato di farmi suora missionaria?…

Nel riposante silenzio delle navate immerse in una nebbia violetta, fra colonnati coperti di preziosi affreschi alla maniera di Giotto, ella intinse la mano in una pila enorme, scavata in un solo blocco granitico; e volle inumidirne le dita di Fausto; ma egli portò quelle di lei alla bocca, per suggerne l'acqua benedetta, e l'amore.

Risollevata la pesante portiera di cuoio, di nuovo il sole li schiaffeggiò, la vibrazione del calore li rese ebri. Licenziarono la carrozza. Veronetta poteva ora servir da guida. Ritrovava, con piccoli gridi di gioia, le vie, i crocicchi, le fontane, i nomi che la memoria credeva perduti. Un'impazienza febbrile precipitava le sue parole, le rendeva volubili e mulinanti; e l'amico alimentava, incitava con sapiente volontà quel fremito, quel riso, quell'emozione che faceva di lei un solo palpito vivente.

— Così, così ti voglio. Hai quindici anni. E il ponte sul fiume li accolse in trionfo. Gente vestita a festa passava e ripassava presso gli alti parapetti a spranghe di ferro: essi non videro alcuno, respirarono solitudine e spazio. La brezza del largo temperava l'afa pomeridiana, entrava, carezzevole, nei capelli e nei pori. Gusci di noce rapidissimi, canotti-frecce pieni di spalluti giovanotti seminudi, barche canore e lente solcavano le onde. Gioia animale della vita, negli esseri: vibrazioni innumerevoli di movimento e di splendore, nell'aria e nell'acqua.

Pianure verdi, grasse e morbide di pascoli, di là dal fiume apparivano anch'esse in trasparenza, sciolte dalla materialità del volume, fatte etere e luce.

— Tutto oggi si è liberato, Fausto: io e le cose. Sciolgo il voto. Ho passata la riva. Quel che ho sofferto non è più nulla. Lo scorgo in lontananza, simile a quelle isole verdi sospese fra due azzurri. Le lezioni a mezza lira l'una, la macchina Remington, la donna dalle matasse, il denaro vile e sporco…. Il denaro?… Fu l'incubo ossessionante della mia adolescenza. Si parava davanti a me, muraglia senza porte. Sibilava davanti a me con la lingua velenosa, mostro a sette code. Per passare — pensavo — debbo abbatterlo. Che follia!… Non era, no, il denaro in se stesso. Era il bisogno, che mi torceva dalla mia vera ragion di vivere, che mi disonorava costringendomi ad una fatica che non era in armonia col mio spirito. Quando potei aprirmi la strada, l'incubo svanì.

Rimase assorta, con quella sua carratteristica ruga scavata verticalmente fra le sopracciglia, con le forze del pensiero concentrate nella ricerca di una soluzione che mettesse in pace la sua coscienza; e tormentava intanto con la punta del parasole le due sbarre fra le quali, un giorno, la selvaggia bambina dai riccioli rossi era scivolata per guardar senza paura l'abisso.

— Non penso più al denaro. Non lo odio, nè lo amo. Non me ne accorgo. È un elemento naturale di vita, che viene a me, a te, come è naturale ch'io scriva romanzi e novelle, che tu difenda gli accusati in tribunale…. Ma difenderli è la tua gioia, scrivere è la mia gioia…. E poi, ci amiamo. Il denaro che c'entra?… Fausto!… Chi me l'avrebbe detto, quando attraversavo questo ponte ogni mattina per andare all'ufficio, malvestita, brutta, rasentando le spranghe come una gatta arruffata?… E mi rodevo nell'angoscia della miseria e non sapevo che sarebbe venuto l'amore, il tuo amore, Fausto!…

— Principessa Olivia — egli rise, inclinando verso di lei la testa leonina già canuta alle tempie, ma che s'illuminava di un radioso sorriso infantile. — Principessa Olivia, il principe Azzurro vi prega di accoglierlo nel giardino della vostra reggia.

— Benvenuto voi siate, signore — ella rispose, subitamente docile al fresco gioco.

E mossero verso la via del sogno. Il tempo col suo logorio, il mondo con le sue realtà era abolito. Ogni atomo intorno a loro rispondeva alla bellezza dell'illusione. Non era più vita, era musica.

Borgo Fiume: San Luca: via della Fontanella: una casa: un numero. Quella?… Sì, ma rimpicciolita: basso il portone vegliato da due cariatidi: buia la stanza del custode: trascurato, selvatico, in balìa di se stesso il giardino.

Incerti non rimasero che un attimo. Troppo bello era il gioco, per rinunziarvi. L'illusione riversò sulle cose invecchiate la sua allucinante copia di raggi.

— Principe Azzurro, benvenuto ne' miei regni. Oh, non è questa la maga Tessiluna?…

Dal portico, una vecchia sdentata e quasi calva mosse loro penosamente incontro. Malgrado la maschera del decadimento senile, Veronetta la riconobbe.

— Maria Luisa, non si ricorda più di me? Sono la figlia di Anna Longhena, la tessitrice che è morta qui.

— Santissima vergine degli angioli!… Veronetta?… Veronetta Longhena?… Quella che se ne andò tanti anni or sono, e chi s'è visto s'è visto?… Ma è divenuta una gran donna, a quanto dicono: e il suo nome è stampato nei giornali. Gesù benedetto!… E questo bel signore è suo marito?… Sa, i mobili della povera Anna buon'anima, che lei lasciò qui, donna Carla li ha regalati a me.

— Donna Carla ha fatto benissimo. Ma qui non abita più nessuno?… Pare un convento di clausura.

— Sa, pasticci, dispiaceri: donna Ninna è sposata a Roma: gli altri, tutti in campagna. Il palazzo si venderà. Nel giardino crescono le ortiche….

— Possiamo andare, Maria Luisa, nel giardino?… e rivedere le mie stanze?…

— Certo che possono. Nelle stanze abita ora la mia Teresa, che è rimasta vedova e m'aiuta in portineria. Oggi è a passeggio perchè è domenica. Vuole la chiave?… eccola. Dio la benedica!… Pare una madonna.

La maga Tessiluna non aveva ancor voltate le curve spalle, che la principessa Olivia ed il principe Azzurro ritrovarono, intatta, la gioia della lucida finzione. E celebrarono la festa delle loro nozze fra gli alberi e le edere folli, pomposamente, come stava scritto nel libro. Mancava la principessa Maria per reggere lo strascico della sposa; ma un intricato cespuglio di rosette gialle la sostitui. Morte erano le regali ortensie, morti i gladioli a lama di spada, gli ireos fierissimi color d'acciaio punteggiati di nero; ma piante selvatiche, arbusti spinosi, felci dentate si trasfigurarono, al tocco della bacchetta magica di Veronetta Longhena, in paggi, dame e cavalieri.

E l'uomo dalle tempie già grigie e la donna che stava per varcare il più alto limite della giovinezza ridevano come fanciulli. E il riso della donna aveva la pienezza, il calore, la musicalità delle cose intorno.

Un'ora da venti anni trascorsa si ripeteva intanto, indentica, nel tempo. Calava il torrido tramonto. Un ultimo raggio di sole traeva sangue e porpora dai comignoli d'un tetto. Frenetico garrire di passeri veniva dall'ombra del pino turchiniccio. Rondini rondini rondini roteavano in cerchi di rapidità e di veemenza felice nell'azzurro, stridendo di amore e di ardore.

Non era salito un altro uomo, venti anni prima, in quella stessa ora, per quelle stesse scale, a fianco della piccola principessa?… Brutalità del maschio, brutalità di biglietti di banca gettati a tentazione sulla faccia, vergogna, sofferenza della quale ancora le rompeva le ossa la spasmodica contrattura: e che pure ella adesso benediceva.

L'ingiuria di Paolo Màspero, dandole l'aspro coraggio di avventurarsi sulla sua vera strada, aveva chiamato a lei, con le vittorie della volontà, l'amore di Fausto Mori.

Che altro ormai le restava da ottenere?…

Sulla soglia tacquero, pallidi. Parlavan le pareti, il balconcino di ferro, le pietre sconnesse del pavimento. Chiedevano a Veronetta: — Sei tu?… — Ma ella era un'altra.

Fausto le prese il braccio, le bisbigliò all'orecchio:

— Ti amo. Non c'è che questo.

E il sogno floreale svanì.

Nelle stanze non più sue, ingombre di cose ignote, Veronetta non tentò nemmeno di ricostruire quel ch'era stato e non poteva più essere. Si senti di carne, piegò su se stessa, si rannicchiò, piccola e trepida, nell'ombra del suo uomo. Non ricordava, non sapeva più nulla, fuor che di essere vivente in lui. E in lui parve voler penetrare, quasi non esistessero le barriere della materia. Fausto se la schiacciò tutta sul petto, le ferì la bocca con un bacio imperioso, la tenne come egli voleva, fanciulla e donna, col suo passato e il suo presente costretti in un fascio di fibre e di vene, offerto all'amore. Ed entrambi desiderarono di essere eterni, per essere sempre avvinti.

FINE.

Lettera aperta (Prefazione) Pag. v

Il posto dei vecchi 1

Nella nebbia 21

Una serva 33

La promessa 49

Anima bianca 65

Gli adolescenti 83

Il crimine 101

L'incontro 127

L'altra vita 143

Confessioni 157

Un rimorso 159

Gelosia 170

L'assoluto 184

Clara Walser 196

Storia di una taciturna 207

Una volontaria 223

L'appuntamento 235

Mater admiradbilis 251

Il denaro 265