Niccolai
IL GRANDE ANGOLO
Romanzo

La lucida, scabra, moderna storia segreta di una donna che
vede e che si vede come nel mirino d'una macchina fotografica
Il Nilo, una villa sul lago, New York e l'America sono i
luoghi. E poi ci sono tre uomini: il taciturno Karlheinz, Domínguez,
che muore suicida, e l'Honda, "che è come il Padre."

Le Comete 43         Feltrinelli



Niccolai
IL GRANDE ANGOLO
Romanzo



Feltrinelli

Il marinaio al timone controlla l'ago magnetico della bussola e guarda davanti a sé il mare. Impugna le estremità arrotondate dei raggi della ruota di governo e manovrandola imprime alla nave la direzione.

Poi di colpo stacca le manie lascia che la ruota giri a vuoto su se stessa e si disvolga.

Gli altri uomini nella cabina di comando sono ufficiali. Due di loro siedono a un tavolo di mogano su cui sono sparse le carte nautiche. Tracciano la rotta spostando la riga a parallele sulla rosa dei venti, con una matita collegano tra di loro i numeri sparsi negli spazi bianchi e marini di una carta.

I segni concentrici e ripetuti attorno alle coste e nei punti di secche sono simili a impronte digitali.

Il capitano fa scorrere la tenda di panno nera da camera oscura sulla bacchetta a cui è attaccata con anelli di metallo, e si trovano in uno spazio ristretto, come in una doccia senza luce con le pareti rivestite di legno.

Le indica il quadrante fluorescente del radar. Le onde elettromagnetiche sotto vetro incontrando un ostacolo si riflettono e tornano parzialmente alla sorgente, poi vanno a infrangersi contro il metallo in cui sta incassato l'apparecchio. Il capitano le offre una Muratti's facendole scattare il portasigarette e l'accendisigari d'oro sotto il naso.

Chiede di vedere anche lo scandaglio acustico. La profondità elle acque in quel punto è di cinquecentosessanta metri.

Passale giornate suuna sdraio del ponte con un plaid arrotolato attorno alle gambe sentendosi convalescente.

Quando la nave entra in porto e vengono eseguite le manovre per attraccare alla banchina è sul ponte come tutti gli altri passeggeri con i gomiti appoggiati al parapetto.

Osserva la gente il movimento le cose a terra e confronta questo paese (che ancora non conosce) con il suo. Le pare simile e lo accetta. Ha deciso subito cbe le piace.

Sceglie un albergo che si chiama Scarabeo poi va a presentarsi all'Information Department per farsi dare le tessere e i permessi di cui ha bisogno.

I funzionari la salutano con Fantico e ospitale gesto di benvenuto del loro paese: appoggiano la mano destra alla fronte poialla bocca poi al petto, si inchinano e allargano il braccio per dire che la loro mente le loro parole e il loro cuore sono messi a disposizione.

Il funzionario di lingua francese le offre un caffè prima di ascoltare le ragioni del suo viaggio. Quando le ha sentite l'accompagna dal funzionario di lingua inglese che le chiede di ripetere la sua storia dopo averle offerto un caffè

Assieme vanno dal direttore dell'Information Department, bevono un caffè nella loro lingua gli raccontano quello che lei ha già detto loro due volte.

Dopo averli ascoltati il direttore decide che deve tornare il giorno seguente con tre fototessera.

In un parco di eucaliptus trova un ambulante, indica uno dei campioni attaccati a un cartone e riesce a farsi capire e fotografare.

Aspetta che la sua immagine sia sviluppata in un secchio e appesa a asciugare a un filo con una molletta per la biancheria, poi torna allo Scarabeo per leggere la Guide Bleu. Il facchino con le palpebre pesanti nella palandrana di flanella a righe, accucciato su un gradino davanti all'albergo, le chiede la mancia anche se questa volta lei non ha valigie.

Per un paio di giorni gira con i funzionari in una Citroλn nera e polverosa di rappresentanza.

Non passa quasi piú luce dalle grandi vetrate incrostate di terra e di sabbia. Nello stanzone lavorano una trentina di donne con il volto protetto daun velo in una nebbia fitta di peli. Un uomo seduto in alto su un trono spruzza ogni tanto con il getto di una pompa per inumidire l'aria e fa posare a terra un po' di quelle particelle minute e pelose. Le donne aprono balle compresse di cotone per poi batterle e cardarle.

In un altro stabilimento vede ragazzi seduti con le gambe incrociate sul pavimento di cotto, ognuno con davanti una piramide di datteri. Frugano in quelle dolci montagne smistano scelgono e costruiscono due colline: una di frutti sani alla loro destra e un'altra di frutti ammaccati alla loro sinistra.

In un paese piú ud dove il grande fiume si divide in due braccia parallele si imbarca su un battello con una ruota a pale che macinerà acqua per sette giorni prima di arrivare alla diga.

Passa le giornate sul ponte e con un forte teleobbiettivo scatta immagini della vita che si svolge lungo il fiume: ora su una riva ora sull'altra.

Rimangono impressi sulla pellicola:
contadini che azionano lo shadouf, un mestolo alto due metri per attingere acqua dal fiume e irrigare i campi villaggi costruiti di fango e stereo di cammello le facciate con una mano di calce e disegnati cammelli aerei navi treni muli biciclette barche sulle case di quelli che hanno fatto il pellegrinaggio alla Mecca e raccontano cosí on quali mezzi hanno raggiunto la città santa le donne vestite di nero con i piedi nel fiume cheriempiono gliorci di acqua le palme gli eucaliptus le canne da zucchero i campi coltivati le vele delle feluche.

Il battello attracca quattro volte durante il viaggio e i passeggeri scendono a visitare i templi degli dei e le tombe dei re.

Su un taccuino annota le parole che sente in giro, che le rivolgono quando è terrae quelle di cui ha piú bogno. Gliele traducono un cameriere del battello e un americano dell'ambasciata che sa la lingua e è a bordo per un viaggio di piacere.

Shadouf e sakyieh = strumenti per attingere acqua bret = freddo bart = caldo jowa = sí shnee shnee = piano piano sura Mönfadlack = foto per favore? henna = qui stenna shnoja = aspetti un momento mofa = acqua nabit = vino esb = pane chattachera = grazie shnajs = buono sharmut = figlio diputtana tesnachlj = permesso inshy yella = va' via saida = buon giorno.

Al settimo giorno sente una marcia militare trasmessa a terra da altoparlanti e vede nell'oblò sul viale che costeggia il fiume archi trionfali di compensate. Ci sono uomini a cavalcioni sugli archi che danno gli ultimi ritocchi di colore e avvitano lampadine.

(A sera verranno tutte accese per dare il benvenuto alle autorità.)

Quando sbarca chiede subito dell'Information Department e mentre un facchino l'aspetta in basso con le valigie sale agli uffici dove i funzionari stanno cercando di sistemare e alloggiare un centinaio di rappresentanti della stampa estera.

Trovano anche il suo nome su una lista, vi mettono accanto un asterisco, le danno un pacco di fogli ciclostilati e le assegnano una stanza nell'appartamento G dello stabile B.

Viene fatta salire su un pullman con un gruppo di giornalisti. Si trova seduta accanto a uno spagnolo emigrate in Francia nel trentaquattro e che lavora per un giornale francese in questo paese da sei anni. Si presenta: Domínguez.

Parla la lingua e è in grado di spiegarle che il pullman li sta portando a Kima, il nuovo quartiere della periferia, appena costruito per le maestranze tedesche e francesi che verranno a lavorare alla nuova industria chimica.

Il pullman esce dalla cittadina e fa un paio di chilometri di strada asfaltata nel deserto. In fondo al rettilineo sorgono i grossi edifici bianchi a otto piani dove alloggeranno e quello basso e esteso dello stabilimento chimico. Le ricordano le fotografie dei modelli di città costruiti nel deserto dell' Arizona su cui vengono fatte le prove di resistenza e di snervamento dei materiali sotto l'effetto della bomba atomica.

Avvicinandosi vede che c'è ancora il cantiere, ci sono muratori che lavorano. Certe case non hanno ancora le finestre ma l'intonaco delle facciate e gia scalcinato e sbrecciato. "Effetto della sabbia," le spiega Domínguez.

Sente i rumori di una cucina e di una mensa: forchette piatti gli ordini dei camerieri e la vede approntata per loro sotto una marquée, una grossa tenda quadra appoggiata in ombra al muro di una casa e sorretta agli altri tre lati da pali piantati nel terreno.

Assieme agli altri trova lo stabile B, al settimo piano l'appartamento G e sulla porta di una stanza il suo nome scritto con il gesso. C'è odore di vernice e dappertutto quella polvere bianca delle case non ancora abitate. Una branda e una sedia. Sente che gli altri che hanno occupato le loro stanze stanno già facendo la coda al bagno per lavarsi le mani prima di scendere a pranzo.

Fa nota mentale che in paese dovr?omprarsi un asciugamano.

Prende i fogli ciclostilati e si butta sulla branda.

Nel riquadro della finestra vede solo cielo senza punti di riferimento. È un cielo azzurro e implacabile, mai attraversato da una nuvola. Lo fissa e si ripete che la piovosità di questa zona è di zero millimetri l'anno.

Cerca di capire questo concetto.

(È gennaio e ci sono venti gradi all'ombra.)

D?n'occhiata al programma ciclostilato delle cerimonie e agli orari. Comincia tutto domani. Poi ai fogli con i dati e le notizie sui lavori. Legge che il nucleo centrale della diga è ostituito da roccia, con una larghezza alla base di mille metri e un'altezza di centodieci.

Che la lunghezza sarà di tremilacinquecento metri.

Che per costruirla si impiegheranno quaranta milioni di metri cubi di materiale, che la diga sarà munita di un paramento impermeabile e raggiungerà la profondità di duecentodieci metri fino a toccare il letto di roccia. La nuova grande diga sarà costruita a sette chilometri a sud di quella già esistente. Formerà un bacino della capacità di centotrentamila milioni di metri cubi d'acqua che si estenderà su una superficie di quattromila chilometri quadri (con una larghezza media di otto chilometri e una lunghezza di cinquecento chilometri). Pari (calcola) alla distanza tra Milanoe Grosseto.

Tutto sommerso. Ma verranno guadagnati due milioni di acri di terreno coltivabile e irrigabile.

Il primo stadio del lavoro di costruzione che staper essere intrapreso dai sovietici costerà quattrocento milioni di rubli. I sovietici prima di iniziare ilavori veri e propri hanno dovuto costruireuna nuova linea ferroviaria per il trasporto dei materiali, trenta iniglia dinuove strade e un aeroporto con una pista per aerei a reazione.

Verranno inaugurati nei prossimi giorni anche una nuova centrale elettrica appaltata da tedeschi e italiani, una nuova industria chimica di fertilizzanti tedesca e francese, e l'aeroporto.

Per tre giorni assiste con gli altri alle cerimonie. I pullman li spostano da un punto della periferia all'altro seguendo o precedendo la colonna di macchine nere delle autorità.

All'aeroporto atterra il primo Caravelle con un carico di re di presidenti e di ministri, nel punto dove sorger?a diga viene fatta brillare la primacarica di dinamite, alla centrale elettrica scocca la prima scintilla, negli stabilimenti della Kima si attua il primo processo elettrolitico.

In ognuno di questi posti viene sgozzato un vitello propiziatorio. La sabbia si imbeve di sangue e l'animale ucciso e trascinato via lascia nel terreno morbido una traccia rossa come una passatoia. La sera ci sono pranzi e spettacoli folcloristici.

Durante uno di questi ricevimenti lei Domínguez e un chimico tedesco decidono di risalire il fiume per vedere e fotografare le terre che verranno sommerse dopo la costruzione della digae il grande tempio al confine del paese.

L'Information Department non è in grado di aiutarli. Il battello che dovranno prendere appartiene alla linea dinavigazione del paese vicino e attracca al di là del confine.

Se vogliono fermarsi al tempio dovranno convincere il capitano a farli sbarcare e a venirli a riprendere tre giorni dopo: al viaggio di ritorno.

Il tempio sorge sul fiume nel deserto. Non ci sono strade e i villaggi vicini sono raggiungibili solo con barche. Dovranno dunque dormire nel tempio e avere provviste sufficienti per tre giorni.

Terminate le inaugurazioni lasciano Kima e prima di imbarcarsi alloggiano per due giorni nel grande albergo coloniale della cittadina quasi vuota. Fanno una lista dicose ragionevoli e un po' estranee cercando di prevedere la loro situazione nel deserto. Al mercato comprano scatolame orci per l'acqua potabile coperte lampade a petrolio e molti fiammiferi (come può succedere a tre personaggi di un film).

Due facchini portano sulla testa le loro cassette di prowiste. Scendono una passerella molto inclinata, attraversano un ponte pieno di indigeni seduti in terra, fanno attenzione a dove mettono i piedi, risalgono per un'altra passerella e si trovano nella prima classe del battello. Attraversano un salone, la sala da pranzo e seguono il cameriere che li porta alle loro cabine.

Si ritrova da sola nella sua, verniciata di bianco, va a dare un'occhiata a quella dove stanno i due letti a castello di Domínguez e del tedesco Karlheinz. Premono l'interruttore che fa girare al centro del soffitto le quattro pale del ventilatore, provano le luci, sfilano dall'infisso sopra il lavandino la caraffa di cristallo con l'acqua potabile e due bicchieri. Karlheinz prende dalla valigia una bottiglia di whisky. Dall'oblò aperto sentono le voci alte la confusione che viene dal molo e dalla terza classe, poi gli ordini che non capiscono e quando cominciano a bere il tuffo il gocciolare ritmato della ruota e le vibrazioni del motore a nafta.

Allargano sul pavimento una carta geografica e si chinano a guardarla stando seduti sul bordo della cuccetta.

Vedono che attraverseranno il Tropico del Cancro prima di arrivare al tempio. Guardando la linea sottile e curva del fiume che taglia a metà il paese e scorre da sud a nord prova l'emozione di navigarlo in tutta la sua lunghezza. Dai simboli capisce che le rive di questo tratto saranno diverse, molto piú aride di quelle che ha gia visto. (C'e una striscia sempre piú sottile di verde tra la linea azzurra e lo spazio giallo e compatto di deserto ai due lati del fiume. E ci sono altipiani a macchie scure.) Salgono sul ponte quando il sole sta per tramontare. Ai due lati del corpo centrale del battello dove loro si trovano (i soli tre passeggeri della prima classe), sono agganciate due chiatte larghe e basse, ricoperte di un telone grigio. Sono la terza classe, ci stanno gli indigeni. Davanti a sé il battello spinge un'altra chiatta senza telo carica di merce.

Guardano gli indigeni che riposano sdraiati in fila sulle assi di legno del ponte. Ai ganci del telone sono appese due lampade a petrolio che mandano una luce verdastra. Forse uno si è sentito osservato perché alzandosi a sedere si è voltato a guardarli.

La sua espressione non è cambiata quando loro gli hanno sorriso.

Con il palmo della mano ha stirato le pieghe della coperta che gli serve da cuscino e girandosi sull'altro fianco si è riaddormentato. Ascolta i tuffi e il gocciolare ritmato della ruota e le sembra di sentire anche i respiri degli uomini nel sonno.

Di giorno li vedono quando pregano Allah in ginocchio dopo essersi tolti le scarpe, quando mangiano, bevono agli orci e cucinano su fornelli a spirito, ogni uomo, ogni famiglia circondata dai suoi bagagli.

Ne lei né Domínguez li fotografano.

I loro teleobbiettivi sui cavalletti sono puntati lontano sulla riva gialla di sabbia e sui villaggi che si riflettono nel fiume.

L'acqua in questo tratto è blu e immobile. Prima era sempre stata fangosa e rapida.

Dietro ai villaggi c'è un altipiano di roccia granitica e nera attraversata da sottili strisce verdi, cespugli di fave e lupini. In molti punti l'altipiano è solcato da larghe colate di sabbia die scendono fino al fiume.

La massa del deserto preme contro la barriera di roccia, la sabbia spazzata dal vento vi si ammucchia addosso. Sa che quando è trasportata in nuvole dall'aria emette un suono alto e acuto. Si dice che assomigli a quello di un aeroplano in volo costante e che abbia un'intensità simile al rombo del tuono.

La sera del secondo giorno di navigazione il battello fa una fermata: a un penitenziario. Gli uomini che scontano la loro pena non sono rinchiusi, fanno i contadini e vivono con le mogli nelle case del villaggio. Non ci sono piste attraverso il deserto che portino lí, potrebbero fuggire solo per il fiume ma non ci sono barche. Quando attraccano al molo gli ergastolanicontadini e gli indigeni di terza classe contrattano attraverso le sbarre del parapetto della chiatta. I passeggeri comprano uova canna da zucchero pane azimo e lupini per il resto del viaggio.

Guardano dal loro ponte in alto le facce le braccia e le mani che si scambiano i cibi e le monete. A tratti sono livide nella luce verde delle lampade a petrolio che oscillano, a tratti sono in ombra e appaiono fluide e allungate.

Lei cerca di capire le parole che si dicono questi uomini, cerca di riconoscerne un paio percbé Domínguez gliene ha insegnate una trentina. Poi di colpo... le pare di sentire il suo nome, qualcosa di simile a Ita, e chiede a Domínguez cosa possa volere dire in quella lingua. Non sa. Poi lo sente anche lui: Ita Ita nella bocca di uno di un altro di un terzo di cinque di dieci...

Il re sul trono tiene consiglio di guerra con i suoi ufficiali.

Il suo carro e la sua guardia di Sbardan con elmi sormontati dalla mezzaluna.

Karlheinz legge un periodo a voce alta tenendo la guida nel fascio di luce della lampada a petrolio die Domínguez regge per il manico.

Si bastonano due spie degli Ittiti per strappare loro la confessione.

Le volte rimandano molteplici echi delle sue parole francesi.

Il campo delimitato da una palizzata di scudi infissi nel terreno.

All'interno: cavalli sciolti e soldati occupati nelle mansioni dell'accampamento: cucina, trasporto di acqua e foraggio, pattuglie a guardia del recinto.

Alzano gli occhi dalla pagina sulla parete. Lei con un pila illumina in alto il bassorilievo che Karlheinz ha appena descritto.

La partenza delle truppe: la fanteria armata di scudi e di lance marcia dietro i carri.

Passa la luce sui contorni di ogni singola figura ricalcandone l'incisione. Lentamente. (Nel polso la pila le diventa uno scalpello.)

La cavalleria in azione.

Il re sul suo carro decima con le frecce il nemico che l'aveva attirato in un'imboscata.

Karlheinz prende tra due dita il capo del nastrino di seta rossa che pende dalla legatura della guida. Lo tende in modo che faccia pieghe. Poi richiude la guida con un colpo secco comprimendolo tra le due pagine che ha fnito di leggere.

Il re in piedi sul suo carro presiede all'arrivo di un convoglio di prigionieri e al conteggio delle mani e dei membri virili mozzati al nemico.

I suoi occhi sono due fessure sotto la fronte aggrottata che si sforza di ricostruire la battaglia, di attribuire suoni e odori esatti alle scene del bassorilievo (zoccoli ruote... al galoppo... sulla sabbia... frecce... urla scudi sciabole... comandi nitriti... sangue bracieri incenso... cavalli uornini sudati).

Per disincantarlo Domínguez gli fa oscillare davanti alla faccia la lampada a petrolio come se fosse un turibolo.

Le loro risate rincorrono per le volte del tempio gli stridii e i ticchettii dei pipistrelli.

Escono. La notte è molto fredda. Camminano sulla sabbia bianca verso un battello illuminato e attraccato alla riva.

Salgono sulla passerella di legno flessibile e inclinata che li obbliga a una camminata innaturale e elastica.

Sono accolti da otto tecnici che abitano nel battello da un mese.

Architetti ingegneri geologi e disegnatori venuti dalla capitale per eseguire i calcoli e decidere le operazioni necessarie a smantellare il tempio prima che le acque del bacino della nuova diga abbiano sommerso la zona.

Molti di loro hanno studiato in Europa. Hanno ricordi, esperienze inglesi francesi e tedesche. Alcuni persino la stessa università in comune con Kaiiheinz. Parlano insieme, cercano di sopraffarsi in tre lingue e a voce sempre piú alta. Ridono anche, di se stessi, di come tre estranei abbiano potuto mutare le loro cene abitudinarie e malinconiche.

In undid stanno stretti sulle due panche ai lati del tavolo dove mangiano con questi uomini ritornati bambini dopo un mese di vita nel deserto.

Mangiano una zuppa gialla e densa di lupini macerati nell'acqua salata e bolliti.

Fanno molto rumore con i cucchiai di stagno che grattano nei piatti fondi e ammaccati, dello stesso metallo povero. Alle prime cucchiaiate le loro labbra si fanno male sui bordi intagliati e aguzzi dei cucchiai malandati, poi se ne ricordano e imparano a rastrellare la zuppa con gli incisivi piuttosto che farsela scivolare tra le labbra.

Bevono acqua del fiume che ha il colore del tè nei bicchieri di vetro grosso e opaco.

Si puliscono la bocca con i fazzoletti o sul dorso della mano.

I tecnici li invitano a tutti i pasti per la durata della loro permanenza ma si scusano di non avere spazio per farli dormire da loro al coperto. Consigliano l'interno del tempio piuttosto che la sabbia o il ponte del battello perche la notte all'aperto è troppo fredda.

Li accompagnano fino alla passerella e li salutano sotto la luna sul limite del fiume e del deserto come sotto il portone di una casa.

Entrano nel tempio e appoggiano la lampada a petrolio accesa in terra. Riescono. Si siedono non visti ai piedi di un colosso della facciata e stanno lí a guardare la notte e le luci che man mano si spengono in tutti gli oblò del battello.

Il re è scolpito e ripetuto quattro volte alle loro spalle. Stanno seduti sul suo alluce e guardano l'unghia grande come un catino.

Le proporzioni sono perfettamente osservate. Ogni volta ii re misura venti metri, la fronte cinquantanove centimetri, il naso novantotto, l'orecchio un metro e sei, l'occhio ottantaquattro centimetri, la bocca distesa nel sorriso un metro e dieci. La larghezza della faccia da un orecchio all'altro è di quattro metri e diciassette, la mano è lunga due metri e sessantaquattro.

Tiene le due mani appoggiate sulle cosce. Gli avambracci sono ornati di bracciali con lo stemma reale. Ha una barba posticcia che scende sul petto, su un largo collare e su un pettorale dove pure è ripetuto il suo stemma.

Il tempio è scavato in uno sperone granitico di quella stessa catena rocciosa parallela al fiume che hanno visto per due giorni di navigazione.

Camminano sotto la luna. Si spostano sulla destra della facciata e vedono che le dune di sabbia si sono ammucchiate anche al di qua della barriera rocciosa in larghe colate. Ma in alto tutt'intorno al tempio spuntano dalla sabbia e scintillano le cime aguzze e nere delle rocce.

Tornano all'interno del tempio e preparano sul pavimento le coperte per dormire, una accanto all'altra. Decidono di tenere accesa la lampada a petrolio e restano svegli a fissare il bassorilievo nella luce verde e debole che non suggerisce piú niente. Ascoltano invece il ticchettio della sveglia di Karlheinz amplificato dallo spazio vuoto e dalle pietre del pavimento. Trattengono il fiato. Dominguez chiede a Karlheinz di avvolgere la sveglia in una coperta e di portarla venti metri piú in là dietro una colonna.

Karlheinz si alza e accende la pila. Vedono i suoi pantaloni e le sue scarpe che si allontanano nel buio accanto al piccolo cerchio di luce che lo precede sul pavimento. Ha scarpe alte di para che non fanno rumore. Di colpo lo sentono bestemmiare. La parola tedesca viene ripetuta dagli echi mentre corrono verso di lui con la lampada a petrolio. Lo trovano che fissa a terra una poltiglia rossa. Ci sono anche gusci frantumati lucidi e neri dai quali è schizzata fuori una specie di pasta dentifricia bianca.

"Uno scorpione," dice Karlheinz, "che ha morso la coperta quando ho appoggiato la sveglia a terra." Discutono se convenga o no dormire nel tempio ma capiscono di non avere alternative.

Lei e Karlheinz si rimettono sotto le coperte. Dominguez continua a girare. Gli chieclono perché ma non risponde. Sentono appena il fruscio dei suoi pantaloni a coste sfregati a ogni passo e ogni tanto vedono l'alone della pila accesa dietro una colonna.

Quando torna dice di avere schiacciato un altro scorpione, che gli scorpioni girano sempre in coppia — come la Guardia Civil. "Ma non era il caso di dirvelo prima di avere trovato anche il secondo."

Sotto le coperte fissano il bassorilievo, fumano e parlano poco con lunghi intervalli di silenzio.

Si addormentano solo all'alba quando cessano gli stridii e i ticchettii dei pipistrelli. Dopo avere spento la lampada a petrolio e il suo soffio appena percettibile.

Quando si svegliano è tardi e ci sono i tecnici che lavorano nel tempio.

Sono seduti su sgabelli pieghevoli e disegnano. In un punto lontano hanno calato un lunghissimo filo a piombo tenue e magnetico in quell'interno cosí vasto, come un ragno attaccato al filo.

Sul portone d'ingresso c'è un ingegnere che misura l'orizzontalità del suolo con una livella.

Fa loro notare che la scalinata d'accesso al tempio è composta di gradini molto bassi: sei centimetri di altezza per cinquantacinque centimetri di profondità e che questa stessa pendenza è riperuta all'interno. Appoggiano l'occhio allo strumento a bolla e vedono che il suolo si alza sensibilmente man mano che ci si avvicina al tabernacolo.

Nella stessa proporzione si abhassa il soffitto e si restringono le pareti.

La facciata del tempio è alta trentatré metri, larga trentotto, l'interno è profondo sessantatré.

Sul tavolo del battello sono ancora apparecchiati tre posti. Bevono tè, mangiano pane azimo con miele e fanno una doccia con l'acqua raccolta in un serbatoio sul tetto della casa galleggiante. L'acqua è tiepida. L'ha scaldata il sole già alto.

Prendono le macchine e decidono di lavorare ognuno per suo conto (per non essere tentati di scattare le medesime immagini).

Karlheinz che non fa fotografie va con Domínguez.

Nella luce senza ombre del mattino il grande tempio e lo sperone di roccia alla sinistra sono rosa. La sabbia spazzata dal vento ha agito come una mola naturale, ha sfregato e lustrato la superficie di pietra intagliandola alla base. Strati duri di roccia si alternano a strati teneri scavati in forme fantastiche e scanalate.

Un altro tempio, piú piccolo e dedicato alla regina, che sorge sulla riva quasi nell'acqua è verde smeraldo perche riflette il fiume.

A pranzo i tecnici dicono loro che l'Honda ha saputo del loro arrivo e che desidera conoscerli. Domínguez spiega a lei e a Karlheinz che "Honda" significa padrone e anche sindaco, il maggiore proprietario terriero e l'uomo piú colto, il piú saggio e il piú rispettato.

Al tramonto con una barca a motore dei tecnici guidata dall'ingegnere vanno a trovarlo nella sua fattoria distante un chilometro dal fiume.

Tutto è immobile quando sbarcano.

Vedono la grande villa bianca che appare disabitata e distante.

Silenziosa, sospesa come le antiche dimore patriarcali di tutto il mondo.

Si incamminano verso la villa e anche i loro passi non fanno alcun rumore (calpestano sabbia non ghiaia nei viali tra le aiuole del parco).

Passano accanto ai fusti inguainati dei banani, sotto le foglie larghe, lunghe un paio di metri con venature profonde. L'incisione centrale della foglia è cava e scanalata, nelle foglie piú alte e piú vecchie le nervature corrispondono a tanti tagli che arrivano oltre la metà della lamina e sono puliti come gli strappi in un tessuto di seta.

Non incurvati ma quasi a angolo retto con il fusto da cui si sviluppano, vedono i rami grossi e ritti che in cima portano i grappoli pesanti e verdastri di frutti. I caschi di banane non pendono, ma sbocciano dal ramo, eretti.

Riconoscono la chioma densa ed espansa dei carrubi con le foglioline fltte e coriacee e i legumi acerbi verdechiaro e carnosi.

La corteccia rossastra della pianta è ruvida e screpolata alla base del fusto.

Vedono le foglie grandi e pennate delle palme che formano una corona in cima al tronco rivestito di squame. Le bacche giallicce dei frutti che pendono a grappoli.

E ai confini del grande parco tutto intorno i filari di eucaliptus colossali e polverosi alti piú di cento metri con le chiome glaudhe e secche che riparano il giardino dalla sabbia, dal vento del deserto e scintillano contro il cielo.

Salgono i gradini del portico e un servo viene loro incontro dall'interno della villa. Indica le sedie di vimini attorno a un tavolo.

Si siedono e altri servi portano vassoi con bicchieri già colmi di te chiaro, piatti di datteri di mandorle e di spicchi caramellati, vescichette di cedri e di arance.

Dall'ombra del portico guardano il parco immobile e inquietante nel pulviscolo giallo e obliquo del tramonto.

Non parlano. Bevono il tè a piccoli sorsi tenendo i bicchieri che scottano con il pollice sull'orlo e il medio e l'indice premuti contro il fondo.

Aspettano l'Honda per piú di dieci minuti.

Non oppongono nessuna resistenza nessuna ironia alla messa in scena incantata di quel parco di quella villa bianca senza finestre di quell'uomo che ha chiesto di conoscerli, li ha fatti venire da lui e ora li fa attendere.

Sono entrati nel suo disegno e considerano con distacco, con indifrerenza anche l'eventualità che nel tè chiaro e bollente che hanno bevuto possa esserci stato un sonnifero.

Il suo passo non è silenzioso come quello dei servi che camminano scalzi, porta babbucce di cuoio rosse con le punte rialzate.

Si alzano dalle sedie, si voltano e vedono l'Honda inquadrato nella porta.

Saluta da quella distanza con l'antico e ospitale gesto di benvemito del suo paese: appoggia la mano destra alla fronte poi alla bocca poi al petto, china la testa avvolta nel turbante bianco di mussola, non dice parola e allarga il braccio sottile nella manica ampia del caffettano nero che gli scende alle caviglie. Sorridendo indica il parco la villa e li guarda negli occhi uno per uno come per dire che tutto quanto gli appartiene è anche loro.

Avanza e si mette a sedere su una poltroncina di vimini. Aggiusta le pieghe ampie della veste, incrocia le gambe, appoggia i gomiti ai braccioli, unisce tra di loro all'altezza della bocca i polpastrelli delle otto dita mentre i due pollici si incrociano sotto il mento e li guarda sempre in silenzio al di sopra delle mani lunghe e nodose.

Lei è la sola donna e si sente in dovere di parlare per prima.

Mentre si risiede si volge a Domínguez chiedendogli di tradurre all'Honda il suo pensiero. Vuole che lo ringrazi per l'invito, che gli esprima la sua gratitudine e gli dica che il suo parco le sembra il piú bello che abbia mai visto.

L'Honda ascolta Domínguez e quando ha finito si volge di nuovo a lei chinando la testa per ringraziarla a sua volta.

Karlheinz toglie dal portafoglio il suo biglietto da visita, lo porge al padrone di casa e chiede a Domínguez di dirgli che è onorato di avere lavorato nel suo paese all'installazione della nuova industria di fertilizzanti nella città dell'Alta Diga.

L'Honda sorride, parla per la prima volta: dice che uno dei suoi figli studia agraria nel paese di Karlheinz all'università di Hannover.

Domínguez gli domanda cosa prova un uomo come lui, sempre vissuto su queste terre, che le possiede le ha irrigate e coltivate tutta la vita, a sapere che tutto deve venire sommerso e scomparire entro sette otto anni.

L'Honda sorride di nuovo e allarga le braccia.

Stanno con lui tre giorni perché li invita, li ospita alla villa.

Vengono a sapere che ha dodici figli e tre mogli e che la sua famiglia possiede queste terre fertili da cinquecento anni.

Mangiano con lui. Lo vedono mangiare reclinato sui cuscini o seduto in terra a gambe incrociate. Dal tavolo basso di rame intarsiato e dai piatti che vi sono posati si serve con le dita pezzi di montone formaggi salati di capra riso e selvaggina che porta alla bocca.

Lo vedono fumare il narghilè: ogni profonda boccata fa gorgogliare l'acqua profumata nel recipiente di vetro attraverso il quale passa il fumo prima di salire nel lungo cannello flessibile e nel bocchino tenuto al centre delle labbra.

Lo seguono nei campi di canna cla zucchero e di tabacco, tra le coltivazioni di papiro. L'Honda fa strada, cammina sempre avanti e loro seguono in fila Indiana. Al sole il suo caffettano nero e lucido e liso sulla schiena nei punti dove si appoggia e si siede.

Con le clue mani: alza un poco la veste ampia quando salta i canaletti di irrigazione. L'acqua scorre nei condotti di cemento adagiati nella sabbia.

Vedono il suo cranio di capelli bianchi e rasati e le sue mani veloci e automatiche che avvolgono per trentadue volte la lunga benda di mussola bianca attorno al fez calcato sulla testa.

(L'Honda aveva allora sessanta settanta ottanta? anni.

Domínguez che gli parlava da due giorni nelJa sua lingua diceva che non aveva mai espresso un pensiero un giudizio o un'opinione: dava solo notizie.

Quando pensa a lui o ne parla lei se lo figura sempre in quel primo gesto che gli vide fare: l'Honda che sorride e allarga le braccia.

Forse il suo parco è già stato devastate dalle onde, o imputridisce nell'acqua che si alza e avanza adagio.

Tutte le sue terre, forse, sono già sommerse.

Le sue mogli e i suoi figli forse lo hanno già...

Nella morte, su una branda la sua pelle scura forse... nella luce di una lampada a petrolio la linea sottile dei baffi bianchi la barba corta sul mento il naso ancora piú affilato e aquilino le rughe piú profonde gli occhi grigi le dita lunghe e nodose...)

Che nel ricordo l'Honda è come il Padre.

Vanno con lui al paese che dista sei chilometri sul fiume. Quando arrivano al pontile viene ossequiato dagli uomini che si occupano della sua barca a motore e anche per i sentieri del villaggio la gente si china profondamente a salutarlo.

L'Honda ha da fare, dà loro appuntamento tra un'ora in un locale vicino al molo dove ai tavoli sotto una tenda ci sono uomini che bevono tè fumano e giocano a dadi.

Loro tre girano da soli per le strade di terra battuta tra le case bianche senza finestre.

Nella vasta mattina di luce implacabile che ha l'odore del cammello vedono le vele colorate delle feluche sul fiume, gli uomini che dondolano sulle groppe, le donne nere e velate che camminano a fronte china ma alzano un attimo gli occhi profondi e bistrati per guardarli. Le collane e i monili d'argento sui loro petti tintinnano a ogni passo scalzo e veloce. I palmi delle mani e le piante dei piedi sono tinti con il cinabro.

Vorrebbero trovare qualcosa da regalare all'Honda prima di partire.

Girano tutto il paese ma non vedono negozi, non ne trovano e pensano che nemmeno ce ne siano.

Camminano nelPultimo sentiero del villaggio delimitato dal fiume da una parte, e qui da un largo canale d'irrigazione.

Camminano sotto l'argine alto all'ombra dei muri di fango e di sterco di cammello che in questa strada sono istoriati e rinforzati da cocci di terracotta premuti nell'impasto. Guardano all'interno di una corte e vedono orci ammucchiati che asciugano al sole.

Ci sono forni e botteghe di vasai.

Un uomo fa loro cenno di entrare. Si lasciano convincere, sperano di trovare qualcosa da regalare all'Honda anche se hanno il dubbio che queste botteghe gli appartengono.

Seguono l'uomo nelle stanze calde e annerite dei forni, in quelle umide dove dei giovani modellano e impastano l'argilla e arrivano in un locale grande illuminato pieno di scaffali.

Ci sono donne che applicano con i pennelli uno strato di smalto e dipingono dei falli che tengono tra le mani o appoggiati sui deschetti di lavoro.

Anche gli scaffali che arrivano al soffitto sono pieni di falli in ceramica, i piú piccoli lunghi un mignolo, i piú lunghi un avambraccio, bianchi rosa decorati con fiori e foglie.

I due testicoli hanno piccoli fori nei quali altre donne infilano del crine di cavallo e di cammello. Attorcigliano a cavaturacciolo ogni pelo tenendone un capo tra due dita della sinistra e passandolo velocemente tra l'unghia del pollice e il polpastrello dell'indice della mano destra.

Riconoscono l'Honda da lontano. È seduto con un uomo a un tavolo in ombra sotto la tenda, butta dei dadi e sposta delle pedine. Da vicino lei vede che sono chinati su una tavola rettangolare di backgammon con i ventiquattro triangoli rossi e blu.

Dominguez dice che il gioco è originario di questo paese e che qui si chiama trictrac.

Calcola che sono passati quinclici anni da quando ha visto Pultima volta due persone che giocavano una partita. A villa Darsena nell'inverno del... ricorda le quindici pedine d'avorio, la tavola in pelle: ha sempre pensato che fosse un gioco anglosassone.

Invece lo ritrova qui. Sotto una tenda, sull'orlo del cleserto, giocato da degli indigeni anaifabeti con delle pedine ammaccate di stagno, su una tavola di cartone disegnata con la matita rossa e blu.

Ci pensa spesso durante la giornata.

Riaccompagnano l'Honda a casa e con la sua barca a motore tornano in mezzo al fiume.

Il fango dell a riva è pericoloso. Nel limo ci sono dei microbi che penetrano attraverso la pelle, circolano nel sangue e si insinuano nel fegato. Lo divorano lentamente, lo forano come una spugna, lo consumano in vend, trent'anni.

Ma nell'acqua alta ci si può bagnare senza correre rischi.

Si tuffano una volta e si asciugano al sole sulle assi di legno dell a barca. La loro biancheria è diventata trasparente inzuppandosi di acqua.

Sono sempre insieme, loro tre, da piú di dieci giorni: all'inaugurazione dell'Alta Diga, sul battello, nel tempio, con i tecnici, nella casa dell'Honda, nel villaggio e ora qui sulla barca.

Come sulla zattera davanti alla Darsena, la zattera dell'albergo Vittoria durante le estati di guerra. "In tre anche allora come adesso..." dice Ita.

Dice anche di avere vissuto questi momenti come se già appartenessero al passato. Cerca di spiegarsi meglio a Domínguez e a Karlheinz: questi giorni, questi posti hanno l'intensità, la malinconia della memoria, dei ricordi d'infanzia.

E non vorrebbe piu staccarsene.

Quando stanno zitti sentono i fischi i trilli gli stridii di uccelli che non conoscono e che stanno nascosti nella striscia di verde folto e tropicale della riva, sull'orlo del fiume e del deserto.

La mattina è luminosa, nei pochi centimetri di finestrino sotto la tendina abbassata vede macchie di verde che passano vicine e confuse, piú distante piú lenta e nitida la striscia gialla di deserto e quell a azzurra di cielo.

Il treno sui binari paralleli al fiume va verso la capitale: El Qahira! (i discendenti di Fatima iniziarono la costruzione delle mura quando il pianeta Marte incrociò nel suo corso il meridiano nel punto in cui era stato deciso di fondare la città).

Si passa la lingua sulle labbra secche e screpolate.

Muovendo i piedi sente dei granelli di sabbia tra le lenzuola.

Si alza.

Passa l'indice sulla ribalta di mogano lucidato sotto il finestrino e sente sul polpastrello alcuni granelli e polvere gialla e impalpabile.

E penetrata durante la notte attraverso le fessure del finestrino chiuso.

Sente bussare alla porta che comunica con lo scompartimento vicino.

Karlheinz entra con una tazza di caffè che appoggia sulla tavola ribaltabile: "Domínguez si sta vestendo, dice che arriveremo tra un'ora."

Beve il caffè turco dolce e schiumoso. Si lava si veste apre la porta che dà sul corridoio.

Nel passaggio stretto e lungo ci sono degli uomini che fumano e guardano fuori.

Il sole che entra dai finestrini fa risaltare le volute grigioazzurre che salgono dalle loro sigarette.

Il sole dietro la tendina abbassata mette in evidenza la trama della tela incerata grigia, i fiori viola le foglie verdi stampate; altera e ingiallisce tutti i colori.

Alza la tendina tirandola in giú per sbloccarla e farla poi arrotolare su se stessa.

Rimane abbagliata dal riverbero del sole che si riflette nel fiume largo e giallo poco distante.

Bussa alla porta di Domínguez e Karlheinz. Apre e lo vede nello specchio sopra il lavandino che si annoda la cravatta tenendo il mento un po' alzato.

Karlheinz è sdraiato sulla cuccetta bassa.

Apre la porta tra i loro due scompartimenti e la fissa alla punta di metallo che spunta dalla moquette rossa.

Si butta sul letto e guarda fuori.

Prova il desiderio di un bagno caldo.

Domínguez viene a sedersi sulla sua cuccetta, lei gli fa posto muovendo il bacino e le gambe verso la parete di legno.

Accende due sigarette, se ne toglie una dalle labbra e la mette tra le sue.

Gli sorride, gli passa due dita su una guancia.

Lui si passa tutto il palmo della mano sull'altra in su e in giú, storcendo un po' la bocca. Sente il rumore dei peli sfregati. "Me la farò a casa. Ti piacerà Machmoud! assomiglia all'Honda. Non sa che età ha, non c'era l'anagrafe quando è nato. Dice sessanta sessantacinque, secondo i giorni. Piú o meno l'età dell'Honda, forse settanta."

Vede l'ombra del treno che lambisce fino a metà il terrapieno della ferrovia e le prime baraccbe della città.

Si alza quando il treno rallenta.

I binari in questo punto sono sopraelevati, sotto nella strada guarda il traffico di biciclette di carretti tirati da muli e cavalli che vanno nella stessa direzione dell'ombra dei vagoni in. corsa sull'asfalto.

Domíguez si occupa del bagaglio. Il treno entra nella stazione Midan el Mahatta. Chiama un facchino sporgendo la testa dal finestrino abbassato.

L'uomo che ha visto il suo cenno dalla banchina rincorre il vagone sospingendo un carretto. Camminano verso l'uscita seguendo il facchino.

Nel centro della piazza della stazione, circondato dal traffico intenso e disordinato, luccica sotto il sole il corpo rosa di granito di Ramsete. La gamba sinistra che butta in avanti nell'atto di camminare è tronca sotto il polpaccio. Il suo nome è inciso sul bracciale sulle spalle sul petto e sulla cintura. È alto dieci metri.

Il facchino carica le valigie sul tetto di un taxi e loro si siedono. Domínguez da il suo indirizzo all'autista. La macchina attraversa la città.

Legge i nomi delle strade scritti in caratteri arabi e romani. Pronuncia Mazloum Bab- el-Louk — "è questa?" chiede.

La casa è in penombra, le persiane a saracinesca sono abbassate ma scostate verso l'esterno.

Seduta su un divano guarda il vecchio servo Machmoud che apparecchia. Toglie da un vassoio la zuccheriera le tazze i piattini e li appoggia su un tavolo.

Porta un turbante di mussola bianca e.un caffettano di cotone pure bianco. I suoi movimenti sono lenti e rituali — come se servisse messa — pensa. Non assomigliano a quelli di un cameriere o di un maggiordomo europei.

Sente la voce di Domínguez che parla in francese al telefono dalla camera da letto.

Ascolta i rumori delta città, il flusso lontano del traffico, i clacson e nella strada sotto ogni tanto gli zoccoli dei muli al trotto le mote dei carretti i campanelli delle biciclette. Bevono insieme un altro caffè.

È sdraiata e immobile nella vasca colma e calda.

Guarda Domínguez di profile.

Davanti allo specchio sopra il lavandino si passa lo stick verde di sapone sul viso. Bagna il pennello lo strizza vi nasconde dentro il mento e muove il pennello in senso circolare. Sente il rumore della schiuma che si sta formando e quello dell'acqua che scorre dal rubinetto.

Quando tutta la parte inferiore del volto è nascosta sotto lo spessore bianco, si passa l'indice sulle labbra e le libera dal sapone.

Appoggia il piede sinistro sul bordo della vasca per bilanciarsi meglio, forse per abitudine, appoggia la mano sinistra sulla coscia e spostando la testa leggermente verso lei si dà la prima rasoiata sulla guancia destra dall'attaccatura dei capelli vicino all'orecchio fino al mento. Un'altra dallo zigomo al mento. Ripete i due movimenti sulla guancia sinistra. Si avvicina allo specchio e preme tra loro le labbra prima di dare il colpo trasversale tra il naso e la bocca. Poi le rasoiate corte sul mento e sul collo.

La macchina costeggia le cave di pietra faraoniche e sale fino a duecento metri sull'altura del Mokattam. Si siedono a un tavolino all'aperto al sole. Il gruppo sabbioso del Mokattam appartiene alla catena del deserto Arabo. Sotto di loro la città si estende fino alle piramidi e al deserto Libico. Nella piú grande tomba di Sakkara vedono il signor Ti in viaggio attraverso il folto dei papiri.

Ti a caccia
di uccelli
nel Delta
Capanna con la cacciagione e i pesci
Ti con la famiglia visita gli operai
La pesca
Funzionari       Vita sui campi
Il bestiame passa a guado
Un uomo e una donna generici: sono seduti, la donna ha capelli lunghi.

Un dio: ha la barba posticcia ed è seduto.

Una dea: ha la corona ed è seduta.

I re: hanno lo scettro, in capo il diadema divino e sono seduti.

I capi: sono in piedi e camminano.

L'infanzia: è una figura maschile che si porta una mano alla bocca.

La vecchiaia: una figura china che si appoggia a un bastone.

La parola, il pensiero, l'alimentazione: una figura maschile seduta con la mano sulla bocca.

Il sole del pomeriggio passa tra le stecche della saracinesca abbassata.

I corpi sul letto sono attraversati da strisce di luce e di ombra.

La srande luce effusa del tramonto
la fontana ottagonale che gocciola nel centro del cortile
i fiori dipinti sulle piastrelle nel fondo della fontana
la grande sala a colonne, i capitelli in forma di fiore chiuso (boccioli)
le colonne papiriformi, i gambi di papiro legati insieme
i capitelli in forma di fiore aperto (campaniforme)
il Mirhab (la cella rivolta a oriente), le cupole alveolate le antiche catene dei lampadari che pendono dalla volta
la volta stellata
Maqrizi aggiunge che il legno in cui è scolpita
l'iscrizione coranica proviene dall'arca di Noè ritrovata sul monte Ararat
il Minbar (la cattedra elevata su cui sale l'oratore)
gli arabeschi, Rue Narrow (il nome di una strada); i vicoli stretti puntellati, tra le case un metro, mai piú di tre (per proteggersi dal sole).

Dal parcheggio dell'aeroporto vede le nuvole basse e grigie del temporale che si allontanano riflesse nella facciata di vetro, i facchini in tuta sotto le pensiline, il movimento della gente, il largo spiazzo con le automobili allineate.

Sente i fischi dei jet, le due note di xilofono che precedono gli annunci dei voli e la voce delPannunciatrice in italiano e in inglese. Vede i quattro gruppi di altoparlanti sistemati sopra le porte nella facciata lunga e bassa. Ogni gruppo è formato da tre trombe esponenziali rivolte in tre direzioni diverse, e la voce dell'annunciatrice si propaga per un chilometro verso i tre lati d'accesso all'aerbporto.

Nell'aria (che è il mezzo attraverso cui ci giungono abitualmente i suoni) un suono che duri un secondo genera un treno d'onde lungo 344 metri.

Una frase che si pronuncia in dieci secondi si estenclerebbe su 3440 metri dalla bocca di chi parla se la voce fosse abbastanza forte da arrivare cosí lontano.

Prima che i suoni o altri tipi di moto ondulatorio possano dirci qualcosa debbono interagire con qualcosa: la superficie della terra le pareti di una casa una laringe umana o il meccanismo complicato di un orecchio che ascolta.

L'annunciatrice bisbiglia i dati nella membrana metallica di un microfono che vibrando trasforma le oscillazioni acustiche in variazioni di corrente elettrica.

Gli altoparlanti trasformano l'energia elettrica della corrente fonica da cui sono alimentati in energia sonora.

Entra da una delle dodici porte a vetri che si aprono senza dover essere sospinte. Attraversa il raggio di una cellula fotoelettrica e le due ante si spalancano davanti a lei ruotando sui cardini con un lieve ruggito meccanico (identico a quello dell'orso quando viene colpito in uno dei suoi tre bersagli elettronici).

Cammina verso la fila di accettazioni in fòrmica azzurra. Da ogni stallo spuntano le teste di due impiegati in divisa, ai loro lati luccicano sotto il neon due bilance automatiche e cromate. Il pavimento su cui cammina è di lastre quadrate di granito nero. I suoi tacchi fanno un rumore appena percettibile e non sente i passi delle altre persone che si muovono sotto le alte volte.

È normale osservare come riecheggia il suono dei passi in una stanza molto grande e vuota, e quasi tutti hanno anche notato come è desolate il suono della conversazione in una casa priva di mobili e di tendaggi. Tutti questi effetti sono dovuti alla presenza o all'assenza di forti echi.

I suoni girano piú facilmente intorno agli spigoli ed è quindi piú difficile eliminarli da una casa, da una stanza.

Vede che il soffitto basso è ricoperto di pannelli traforati antiacustici.

La parola eco fa pensare di solito alla riflessione distinta e separata di un suono incidente da parte di una superficie posta a notevole distanza ma in senso piú generale un'eco è ogni onda sonora che abbia sensibilmente cambiato direzione dopo aver colpito un oggetto.

I pannelli quadrati e bianchi assorbono e trattengono gli echi come carte asciuganti.

Si siede su un divano di fronte al quadro degli arrivi e delle partenze.

Mancano cinquanta minuti all'arrivo dell'aereo proveniente dal Cairo.

Un annunciatore informa che hanno ascoltato Mosaico: programma di musica varia. Risente le due note di xilofono e la voce femminile dei voli.

Sale le scale che portano al ristorante e alle terrazze per i visitatori. Si siede a un tavolo del bar di fronte a una grande vetrata che dà sulle piste di atterraggio e di decollo.

Alla sua destra vede un hangar in costruzione e la torre di controllo che domina quella distesa di prati verdi e di cemento.

L'asfalto bagnato riflette le sagome degli aerei e dei furgoncini che si spostano sul campo, le macchie gialle delle autocisterne con il combustibile, dei meccanici che indossano impermeabili rigidi e incerati gialloarancione.

Dentro, fasci di piccoli riflettori incassati in pannelli antiacustici illuminano grosse piante di ficus poste tra i tavoli.

"‘Agrumi e poi? ’

"‘E poi... ’ Infilo la punta della cannuccia tra gli incisivi e la mordo.

"‘...e poi? ’ Alza la testa dal golf di lana che sta disfando.

"‘datterli e ma... maaanderli, ’ suggerisce la Schosche (la scignorina schwitzera).

"‘L'Ecitto protuce cotone... ’ tutti e quattro seduti attorno al tavolo tondo di pietra sul terrazzo che dà sul lago davanti alla villa. In un pomeriggio poco prima dell'ora della merenda.

"La Schösche controluce con il sole che le sealda la schiena, i tre bambini con la mano sinistra appoggiata sulla carta asciugante sopra il quaderno aperto perché il vento non alzi i fogli mentre scrivono."

Un furgoncino sta trainando una scala sproporzionata verso un aereo che è appena atterrato e ora avanza adagio sulla pista. Quattro uomini in tuta sono seduti sui gradini della scala in movimento. Quando si ferma li vede scendere e accostare la scala al portello dell'aereo.

" ‘ Chi pianta datteri non mangia datteri... ’ se a uno dei tre veniva in mente, gli altri due dovevano ripetere — chi pianta datteri non mangia datteri — chi pianta datteri non mangia datteri — cinque sei volte al giorno. Poi ridevamo tutti assieme. (Avevamo saputo da poco che una palma ci mette cento anni a crescere e dare frutti.)

"Abbiamo anche dissotterrato i noccioli di datteri che avevamo piantato vicino al prezzemolo sotto i cipressi. In un punto del giardino che Angelo il giardiniere non poteva coltivare perche troppo in ombra e su cui noi avevamo il perrnesso di far crescere quello che volevamo.

"Tutte le aiuole dei giardini privati e del lungolago erano seminate a patate carote cavoli e pomodori. Piselli.

"Venendo dall'imbarcadero, tra i rami alti dei platani e degli abeti dei parchi scorgevo dipinti sui tetti grossi circoli bianchi attraversati da una croce rossa.

"In certi punti, tra le siepi folte di pistoforo dietro i muretti che nascondevano questi parchi a chi camminava per strada, riuscivo a intravedere i feriti e gli ammalati che passeggiavano o giravano su sedie a rotelle nei giorni di bel tempo. Portavano tutti lo stesso pigiama a righe.

"Alle cancellate di ferro battuto erano state applicate delle lamiere di latta per impedire che si guardasse dentro.

"I grandi alberghi erano stati requisiti ed erano diventati ospedali e case di cura per i militari tedeschi.

"Facevo ogni giorno la strada del lungolago per andare a villa Darsena dai miei amici Krantz, fratello e sorella. Quando venivo da casa passavo davanti al porto. Lí i barconi stanno allineati nel bacino con le prue alte puntate contro la riva vicino ai gradini delFargine in muratura che dalla strada scende all'acqua. Sono legati con gomene tese, annodate agli scalmi e agli anelli di ferro infissi tra le lastre di pietra della gettata. I barconi non oscillano ma il loro fasciame cigola sotto le piccole scosse del Tivano e della Breva che increspano appena l'acqua macchiata di nafta all'interno del molo.

"Certi barconi navigano con questi due venti puntuali del lago che gonfiano la loro grande vela quadra. Altri hanno un motore a due tempi ritmato e familiare come i riflessi delle onde e del sole che si rincorrono sui soffitti delle nostre stanze.

Quando un barcone attracca per caricare o scaricare, butta la passerella fatta di tavole di legno accostate e gli uomini vanno avanti e indietro su queste assi con i pesi sulle spalle. Guardano a terra. Esitano appena quando lasciano il gradino saldo dell'argine o il bordo del barcone per posare il piede sul legno flessibile e inclinato della passerella che li obbliga a una camminata innaturale e elastica.

"Quando trasportano carbone gli uomini si pro teggono dalla polvere nera incappucciandosi con sacchi scuciti da un lato che scendono loro sulla schiena e sulle spalle.

"Quattro o sei uomini assieme, con uno sforzo sincronizzato (iiii-iissa) riescono a tirare su o a calare, con le corde annodate attorno ai fusti, grossi barili di vino. A volte questi barili si sfasciano e sugli scalini o sul piazzale davanti al molo rimangono larghe chiazze viola che tingono la pietra e mandano un odore aspro di fermentazione sotto il sole.

"Un uomo cammina davanti tirando la cavezza di corda e uno dietro storce la coda per smuovere una vacca o un bue e farli salire dal molo al barcone. I muggiti di terrore si sentono per tutto il paese e durano a lungo (se posso, corro sempre al porto a vedere).

"Gli uomini bestemmiano, la vacca si impunta due tre volte sulla passerella, poi il dolore alla coda le fa fare un salto in avanti con le due gambe anteriori ravvicinate come se volesse superare un ostacolo. Sulla passerella di legno gli zoccoli allora battono un attimo di galoppo sgangherato.

"Certe bestie hanno la museruola da cui pendono fili verdastri di bava e di erba.

"Ai vitelli da latte vengono legate assieme le quattro gambe e gli uomini se li portano in spalla come se fossero agnelli.

"Distolgo gli occhi quando una bestia si mette a fare una pisciata lunga e rumorosa. Cerco di guardare in giro, di far finta di niente, ma torno a fissare quel punto quando lo scroscio diminuisce (in tempo per vedere la coda che si riabbassa lentamente).

"Dopo un paio di ore il barcone riesce a prendere il largo come una stalla galleggiante con il suo carico di muggiti acquietati e due file di vacche legate agli scalmi che guardano l'acqua."

"Non buttammo via i noccioli dei datteri dissotterrati. Li lavammo per pulirli dalla terra e li allineammo sul muretto di pietra del terrazzo, al sole per farli asciugare. (Un paio ce li mettemmo in bocca.)

"Sotto di noi proprio in quel punto si muovevano adagio cinque o sei cavedani mantenendosi sempre nel fascio di corrente gelata del torrente e dello scarico che finivano nel lago sotto la villa.

"Erano pesci che a noi facevano schifo perché sapevamo che si nutrono di rifiuti e di melma e che la loro carne non è buona: sa di fango. Ma ci facevano anche rabbia perché li vedevamo ingoiare qualsiasi porcheria buttassimo giú e se invece cercavamo di pescarli con vermi o mollica sulla lenza, mai mai una volta che avessero abboccato.

"E paura. Ci facevano paura (come a un adulto può fare paura una murena). Per questo, non nuotavamo mai in quella direzione e le poche volte che lo facemmo avemmo cura di andare molto al largo. Ma quel fascio di corrente piú fredda arrivava molto lontano, la sentivamo di colpo sotto il primo strato di acqua intiepidita dal sole. Le nostre bracciate si facevano veloci ci si arricciava la pelle non solo per il freddo ma per la paura che le bocche di quei cavedani sfiorassero le nostre gambe.

"Buttammo i noccioli in acqua sperando che i cavedani li ingoiassero e si ferissero gli intestini con le punte aguzze.

"Nuotavamo sempre nella direzione opposta e come meta o come traguardo avevamo la zattera dell'albergo Vittoria su cui prendevano il sole i soldati tedeschi guariti o convalescenti. (Ci sembrava strano vederli con indosso il costume da bagno invece del pigiama o della divisa.)

"Piú che nuotare però ci tuffavamo dieci quindici volte di fila uno dopo l'altro dal molo della villa per ripescare dal fondo un sasso ovale e bianchissimo che non perdemmo per due anni. D'inverno lo tenevamo a turno sul comodino in camera da letto vicino a uno scarabeo di pietra dura verde, un fermacarte.

"La sera dopo le cinque, dopo i bagni e la merenda scendevamo alla darsena passando al buio apposta, senza accendere le luci, per i sotterranei della villa, la cantina, la stanza della caldaia e quella del carbone.

"I raggi del sole a quell'ora entravano di striscio dall'imboccatura ad arco della darsena e rendevano l'acqua verde. Facevano risaltare le alghe sul fondo e tutta la sporcizia che la cotrente e le onde avevano accumulato in quell'acqua ristagnante.

"Ognuno di noi prendeva un remo e cominciava a rimestare quel grosso minestrone facendo dei piccoli vortici in cui mulinavano foglie limoni pezzi di legno melanzane e bucce.

"Un paio di volte vedemmo le carogne gonfie e grigie di un topo o di un gatto. Cercavamo di squartarle in due con la pala del remo e colpivamo finché non ne venivano fuori gli intestini bianchi e rosa.

"Ieri ho ricevuto una cartolina da Roberto con i suoi saluti da New York. In bianco e nero, dal Museum of Modern Art. È la foto di quella tazza piattino cucchiaio tutti ricoperti di pelliccia di tasso della Méret Oppenheim, del 1936.

"Guardandola mi sono immaginata di versarci dentro della cioccolata calda e densa. Di rimestare contropelo e di portarmela alla bocca."

Si alza quando sente annunciate il volo dal Cairo e va alla vetrata. Vede il jet che atterra su una pista lontana e che si avvicina adagio puntando dritto sull'aeroporto.

Sullo spiazzo l'alto muso segue gli ordini di un uomo con due bandierine che indietreggiando lo chiama a sé e al punto dove ha deciso che si arresti.

C'è un movimento di persone, di tecnici e di meccanici che da vari punti del campo si dirigono verso l'aereo, di furgoncini: l'autocisterna con le pompe, la scala. Dall'interno un braccio in divisa spalanca il portello. Guarda fissamente quel punto. I passeggeri cominciano a scendere. Domínguez è il terzo, lo riconosce subito. Lo vede scendere, lo vede camminare controvento verso di lei. L'aria gli incolla gli abiti addosso.

Al casello lascia cadere a terra il biglietto dell'autostrada: l'inserviente chiuso nella cabina ascolta la partita fissando una transistor.

Da lí attraversa il paese poi prende la strada lungo il naviglio.

Non è piú larga di tre metri. Anche due utilitarie devono rallentare nel punto dove si incrociano e una delle due deve addirittura fermarsi dopo essersi spostata tutta sulla destra.

E quasi sempre quella a ridosso dei cespugli che sfrega la carrozzeria contro gli sterpi secchi e frena aspettando che lei avanzi adagio per non scivolare sul terriccio inzuppato e lucido.

I suoi occhi si fissano con quelli del guidatore che le viene incontro un attimo prim a di fare queste manovre. Basta per convenire che è lei a trovarsi nella situazione piú pericolosa e che l'altro deve darle strada. Lei e Karlheinz cercano di vedere il terreno al di là del cofano, poi piegano la testa a sinistra per calcolare la distanza tra la loro e l'altra macchina, poi a destra: ma non serve. Non possono vedere quanti centimetri di argine restano. Solo l'acqua del naviglio rasa ampia scura come un'autostrada appena bagnata dalla pioggia.

Il guidatore dell'altra macchina e i suoi accompagnatori fanno gli stessi movimenti quasi in sincronismo con i loro: si raddrizzano per vedere se ci sono buche al di là del cofano, piegano la testa per calcolare la distanza tra le due macchine. I bambini nei sedili posteriori si alzano in piedi e appoggiano le mani agli schienali davanti per vedere meglio.

Ha incrociato un paio di macchine all'inizio dell'alzaia. Dopo ogni manovra si è accorta di essere stata appoggiata tutta sulla sinistra del sedile come se il suo peso distribuito su quel lato potesse bastare a non fare scivolare l'auto in acqua.

Quando non vede arrivare piú nessuno abbassa il finestrino. L'odore di polvere olio e gomma del riscaldamento acceso le dà fastidio.

Sbanda cercando di evitare le buche.

Da lontano viene loro incontro un uomo in bicicletta. Vedono tutto intero e tondo il basco blu che porta calato sulla fronte e anche il picciuòlo nel mezzo. Non la faccia abbassata per studiare il filo funambolesco da fare percorrere alla ruota tra una buca e l'altra.

Al ponte ferma la macchina. Fissa la strada tutta buche che continua dritta.

"Scendiamo qui," dice.

Davanti a loro sull'altra sponda vedono una gradinata di arenaria che dall'acqua sale a terrazze sovrapposte a una grande villa abbandonata.

Quindici metri di giardino ancora verde: distingue magnolie allori pini e abeti, un salice grossissimo sulla riva. I rami senza foglie sono lunghi e sottili come fruste e hanno lo stesso colore del cuoio non conciato.

Conta le finestre della villa: trentaquattro. Dieci con persiane marcite le altre otturate con mattoni e calce.

Lo schiocco di una canna li fa voltare, è un pescatore alla loro sinistra che ha lanciato.

Seguono il galleggiante rosso e bianco che beccheggia appena sulla corrente levigata grigio piombo. Con piccole chiazze azzurre a guardare bene.

"Strano, come fa a esserci nafta nel naviglio? I barconi che trasportario sabbia non hanno motori a meno che —" Guarda in alto. Le piccole chiazze azzurre riflettono piccoli spazi di cielo scoperto dove i cumuli non aderiscono in uno strato compatto di nuvole basse.

Il galleggiante ora torna indietro tirato a strappi dal pescatore. Quando è fuori dall'acqua vede che sull'amo non c'è piú l'esca.

"Possiamo andare sul flume," dice.

Due sentieri si biforcano dallo spiazzo davanti a una trattoria per i campi piatti, senza alberi in direzione del flume che non vede ma sa laggiú dietro i pioppi allineati.

Camminano sul sentiero piú lungo guardando a terra.

Si fermano davanti a una roggia. Taglia di sorpresa quel terreno che i loro occhi hanno ormai registrato uniforme di terra e di prato bruciato dal gelo. L'acqua scorre limpida (piú che rapida le sembra affrettata) schiacciando il crescione e le alghe che crescono sul fondo. Karlheinz salta per primo e le tende una mano per aiutarla.

Piú avanti attraversano la striscia di pioppi un filare dopo l'altro e si trovano sull'argine ancora alto un paio di metri sopra il fiume ma corroso alla base, tutto curve e rientranze cave smangiate dalla corrente che ha messo a nudo radici bianche.

Camminano dove finiscono assottigliandosi le crepe che spaccano orizzontalmente il terreno e si siedono in terra sopra un mucchio di sassi bianchi tondi e lisci.

Sotto l'argine a destra e a sinistra ci sono pescatori con stivaloni alti nell'acqua fino al ginocchio.

Fissa le proprie scarpe di para e camoscio tutte sporche di fango dritte davanti a sé all'altezza del bacino. Le restituiscono l'estraneo ricordo delle sue gambe troppo corte per toccare terra quando veniva messa a sedere su un divano profondo della sua infanzia.

Sull'altra sponda lontana al di là della corrente ampia e rapidissima i pioppi sembrano bassi come siepi di mortella.

Una barca di ferro appuntita sta attraversando il flume, è quasi a metà tra una riva e l'altra stagliata in mezzo a tutta quell'acqua rapida.

Guardandola capisce che le due piccole figure che la comandano piú che remare cercano con fatica di mantenersi in una certa fascia di corrente familiare come un corridoio.

Si sta avvicinando alla loro riva. Scende il fiume obliquamente e lei se la figura già inclinata su un fianco sopra i ciottoli bianchi quando i due uomini la tireranno in secco.

"Andiamo a vedere," dice. Si alzano quando la barca scompare dietro un'ansa e camminano sul sentiero lungo l'argine tra il fiume e i pioppi.

Un uomo viene loro incontro e da come cammina intuisce che non è un pescatore venuto dalla città ma è uno di lí, di quei posti.

"Potrebbe anche essere uno dei due della barca."

Quando si incrociano lei lo saluta perché ha deciso di chiedergli se è vero e lui anche risponde, senza esitare perchè deve essere di quelli che ancora salutano gli estranei che incontrano.

"Era lei sulla barca adesso?"

"Si."

"Ma perché? voglio dire... non è..."

Perché anche questa e zona mia." Sopra la visiera del berretto grigioverde legge in caratteri di panno nero "Guardia Giurata."

"Fuma?" Karlheinz gli offre una sigaretta e gliela accende con un cerino ben protetto nel cavo delle mani. L'alito della guardia giurata sa un po' di vino. Anche le sue mani si sono alzate a coppa nel gesto di riparare la fiamma dall'aria e le tiene ai due lati della bocca nascondendovi dentro il naso e la sigaretta. I suoi polpastrelli sono rigati da taglietti a fior di pelle, neri.

I polsi larghi escono dalle maniche troppo corte della giacca.

"Ma, volevo chiederle, non è pericoloso? non è pericoloso attraversare il fiume?"

"Quando è in piena sí."

"Se si capovolge la barca?"

"È finita."

"Finita? per la corrente? per il freddo? non ci si può salvare? "

"Per i sassi. Lí dentro volano come piume... se la beccano in d'un rene rimbambiscono, cara la mia signorina..."

Guardando il fiume si ripete quell'immagine dei sassi, che volano come piume ha detto? In d'un rene? e in testa allora? ma anche in quel film... cos'era ... con Glenn Ford ... che viene aggredito assieme a un poliziotto da una banda di teddyboys in un vagone deserto della subway ... e i due vengono pestati a sangue con catene e pugni di ferro ... e presi a calci ... dopo ... quando si sono salvati per miracolo il poliziotto dice a Glenn Ford che la differenza tra un avvocato e un poliziotto è che l'avvocato si proteggeva il viso, lui poliziotto si proteggeva le reni. Perché l'avvocato non ha mai avuto a che fare con la violenza e non sa che un calcio alle reni uccide. Un calcio in faccia invece sfigura, ma non ammazza!

Sente la gragnuola di sassi bianchi, duri e veloci. La fanno morire in fretta, lei non deve metterci né coraggio né rabbia come Domínguez ...

"Ma lo sai tu come si è suicidato Domínguez? Si è ... e si è ... e si è ... e alla fine ha sbattuto i polsi svenati su tutti i muri della casa dipingendoli di rosso."

Dopo i millecinquecento dollari che ci hanno dato per i sei fotocolor siamo andati ad abitare a Central Park West. Dalla loft di Greenwich Avenue siamo passati a un appartamento al 137 di Central Park West. All'ultimo piano. Si entrava dall'ascensore direttamente nella living room. C'era un lucernario e quella sera pioveva. Non ho acceso lampade, non lo facevo mai perché dal lucernario anche di notte passava abbastanza luce per vederci e non urtare nei mobili. È il riverbero rosa della città illuminata, si vede anche dall'aereo atterrando o arrivando a New York da un'autostrada. E poi dalla camera da letto aperta i guizzi della televisione accesa. Rischiaravano anche quelli. Una donna leggeva il bollettino meteorologico. Devono essere state le sette e mezzo.

Io ho pensato che Domínguez fosse andato a trasmettere l'articolo e avesse dimenticato la televisione accesa. Sono entrata in camera. Ho visto subito il letto. Le lenzuola. Sul risvolto delle lenzuola dalla parte dove dormiva lui c'erano due disegni identici rossi, quasi marrone simmetrici. Con i polsi aperti deve essersi messo a fare dei movimenti circolari sempre piú larghi e ha disegnato due grosse spirali come due grossi gusci di lumaca. Deve essere stato sdraiato quando li ha fatti, poi si deve essere messo in ginocchio e ha sbattuto i polsi sul muro dietro la testata del letto, poi in piedi su un altro muro della stanza.

Quando il sangue non zampillava piú ma uscivano solo gocce deve essere tomato al letto perché sul cuscino e sul lenzuolo dalla parte dove dormivo io c'erano due righe parallele di tratti rossi, di gocce rosse, un altro disegno come due file di formiche che alla fine si allargavano e formavano due altre spirali ma cominciate queste dal cerchio piú largo per poi diventare phú piccole. Lui era in terra tra il letto e il muro dalla mia parte. In faccia era grigio. Ho visto le ferite ai polsi. Avevano i bordi bianchi e alti un paio di millimetri (era il grasso e la pelle), si aprivano a forma di mandorla, dentro erano marrone. Sono andata all'armadio ho preso due fazzoletti glieli ho legati stretti sotto le ferite poi in bagno ho preso un asciugamano e gli ho legato le due mani assieme una contro l'altra e in alto. Poi sono andata al telefono ho cercato i numeri sulla guida e ho chiamato un'ambulanza e la polizia.

Era l'otto gennaio.

Captain Morgan two! due detto con l'indice e il medio due come la Vittoria di Churchill due Captain Morgan: colonizzatori distillatori esportatori di una bevanda tonica e serotina che va bevuta con un rametto di mentina Ronricocorubacubalibre quale il cuba quale il libre? cuba il rhum libre la cola proviamoli tutti! due bicchierini di Carioca la bevanda ballerina di Corona la bevanda che si fuma dolci parole spagnole soffiate nell'orecchio: contusiones torticolis torceduras calambres musculares colicos lumbago ciatica dolce linimento la lista dei dolori... sulla scatola del dottore... (Sloan in spagnolo)... che Domínguez ripeteva... per calmarmi... la cantilena... nella sala bianca... sulla zattera di parquet... in piedi nell'orecchio... la radio indigena miagolava Valzer... a singhiozzo: un sorso le lacrime una boccata due parole i denti che battono... sgomenta dal mio nome... sulla bocca di quelli... in mezzo al deserto... "come? come è stato, Domínguez? come hanno fatto?... a sapere che io... mi chiamo Ita. Con il tam tam?... con il tam tam?" "è semplice," cercava di convincermi di minimizzare... "io o Karlheinz ti abbiamo chiamato sul ponte... ‘Ita vuoi una birra? ’ per esempio... no? è successo... uno dalla chiatta ha sentito... quando ci siamo fermati al penitenziario... l'ha detto a uno sul molo e ti hanno chiamato. Prima uno, poi due poi... ma cosí... per ridere... non è successo niente. Vedi? Siamo di nuovo in viaggio... senti la ruota, le vibrazioni?"

Che nel ricordo il frame è come il mare. La memoria ha dilatato l'acqua, l'ha resa piú azzurra e piú immobile di quanto possa essere, ha cancellato l'altra riva. Nella grande villa dell'Honda, nelle stanze fresche e in penombra, quasi vuote, nei corridoi dietro i muri e le grate di legno sentivamo il trapestio i bisbigli le risate dei figli e delle mogli. Ci sentivamo osservati ma in tre giorni non siamo mai riusciti a vedere qualcuno, solo lui l'Honda e i suoi servi...

La memoria ha trasformato il deserto in una spiaggia (quell'abitudine che aveva Domínguez di mettersi dell'olio solare sulla faccia invece di un dopobarba, dell'Ambra proprio... ha permeato di mare tutti i posti dove siamo stati assieme).

A New York ci sono soprattutto dei gabbiani.

"Tu sei il mare e io sono un pesce," diceva.

"Tu sei una donna di Picasso rosacrema e inarcata che corre verso il mare."

Il mare anche nell'incubo. Il ricordo di un quadro di Dalí che ho sempre in testa. C'è una pianura con uno spazio come in proiezione, mi pare azzurro (nel sogno diventa mare). Il cielo. La prospettiva è dal basso verso destra: in primo piano cerca di avanzare un manichino, il corpo è femminile tutto pieno di cassetti, le estremità le mani e i piedi si disfano si sciolgono diventano melassa.

Dai Silvestri che ti ospitano?... sei sicuro che non ci sono?... perchè proprio non siamo in grado... di fare conversazione... al buio... non accendere... zitto!... dammi la mano... in camera tua.. chiudi la porta... che lusso! tutto quanto con gli additivi? come dire sei zampe invece di quattro? L'ICA per esempio? Ridicolo! Ridicole le pantofole gli oggetti quotidiani il necessaire la tua giacca sullo schienale la sveglia sul comodino (la stessa che avevi nel tempio)... in questa stanza dove dormi povero Karlheinz con Palma il Vecchio. Dorato da lanterna fuori campo che illumina Vergine Giuseppe Bambino e ha suggerito il colore della moquette della tappezzeria del copriletto sotto il soffitto a cassettonesantocielo. Dormi già nel piccolo museo mausoleo dei tuoi amici chimici multimulti... Dieci rhum ti hanno steso anche questa volta... quattro cinque? anni dopo... ne hai fatta di strada... su tre Porsch 90... rosse... prima di sfasciarle tutte... sei anche stato fermo in un letto... mi hai detto... per sei mesi... con la gamba in trazione... dopo l'ultimo incidente... a Norimberga... e cosí hai deciso... di prenderti il brevetto di pilota... di volare... perché hai capito... che la velocità su strada... non fa per te.... come dire che... non ti ferma piú nessuno... non lo sapevi di Domínguez?... perché sei venuto a cercarmi?... a farti raccontare?... basta questo a dissanguarmi... ce la faccio anche senza... Tutta quella strada adesso... da rifare da sola... e la chiave?... dove ce l'hai? nella giacca? nei pantaloni. Telefonami domani... in punta di piedi... zitta zitta... senza accendere le luci ecco... vasone cinese: Ming diciamo (prima dinastia che venga in mente) qui... moretto veneziano specchio marmo cassapanca maniglia scalene scalone scorrimano portello chiave nel... Fatta!.

La facciata della villa è intonacata di giallo. Sopra il riquadro delle finestre e delle ante verdi delle persiane ci sono decorazioni grigie di stucco del seicento. Ma l'interno è tutto rifatto. La finestra che ha aperto è a un solo vetro infisso in una cornice di acciaio con una maniglia lucida che si impugna come quella di una porta. Il pavimento è di linoleum verde chiaro come le pareti lavabili. Gli armadi sono incassati nel muro. C'è un tavolo ricoperto di fòrmica e il letto è di alluminio.

Di suo c'è una lampada appoggiata alla mensola a sinistra della finestra con un paralume pergamenato che dà una luce piacevole. Il grammofono, il plaid, i libri, la tavola di backgammon...

Abbassando la leva che corrisponde alla sua stanza sul quadro di controllo in fondo al corridoio chi è di guardia può ascoltarla attraverso il microfono che è installato sopra il letto. Può sapere se si lamenta, se piange, se dorme, se parla, se suona un disco...

Ne mette uno e si vede riflessa nel vetro della finestra.

Abbassa una spallina della camicia da notte.

Non sposta i piedi scalzi sul pavimento, la pianta si stacca appena quando piega un ginocchio divaricato e fa oscillate il bacino. Tiene le spalle immobili, le braccia pendono lungo i fianchi, segue il ritmo della musica muovendo solo le anche.

Ha chiuso gli occhi e ha piega to la testa all'indietro, i capelli castani e lisci le scendono sulle spalle, si spostano da destra a sinistra assieme alle pieghe leggere della camicia di nailon.

Ripete le parole inglesi della canzone:

Soft and tender
young and lovely...

Quando il ritmo accelera piega gli avambracci e guarda i palmi delle due mani aperti all'altezza della vita. Fa schioccare le dita seguendo il tempo.

Abbassa l'altra spallina e di colpo lascia cadere le braccia.

La camicia scivola giú lungo il corpo e si ammucchia a terra coprendo i piedi.

Fa un passo e esce dal cerchio bianco della camicia senza pestarla.

Va a un armadio, lo apre e ne tira fuori una cintura di cuoio alta cinque, sei centimetri. Se la stringe alla vita. Prende un tagliacarte d'avorio dal tavolo e se lo infila sul fianco sinistro tra il cuoio e la pelle nuda.

Va al microfono, alza la puntina dal long-playing e la sposta indietro all'inizio del disco. Resta chinata a guardarlo finché non ricomincia la canzone. Ripete le parole con la cantante: "soft and tender, young and lovely..." torna davanti alla finestra e guarda la sua immagine nuda riflessa nel vetro.

In vita ha la cintura con il pugnale d'avorio.

Non sposta i piedi scalzi sul pavimento.

La pianta si stacca appena quando piega un ginocchio divaricate e fa oscillare il bacino, tiene le spalle immobili, le braccia pendono lungo i fianchi, segue il ritmo della musica muovendo solo le anche.

"Dovrei avere i capelli bagnati," dice.

Va verso una porta chiusa la apre e preme un interruttore vicino allo stipite. Si avvicina al lavandino e accende un'altra luce piú forte sopra lo specchio.

Guardandosi apre i due rubinetti dell'acqua calda e fredda, prova il getto con le dita, abbassa la testa e appoggiando il palmo della mano destra alla nuca butta in avanti tutti i capelli. Si china ancora di piú ficcando la testa nel lavandino e li bagna sotto lo scroscio guardando le ciocche che serpeggiano nell'acqua, a lungo, come se li stesse sciacquando dopo averli insaponati.

Chiude l'acqua e strizza i capelli torcendoli tra le mani.

Dà un colpo secco con la nuca e li butta tutti indietro sulle spalle. I capelli bagnati spruzzano lo specchio e le piastrelle nere del muro. Ora le gocce le cadono sulle spalle e giú per la schiena.

Prende un asciugamano di spugna e se lo passa in testa nascondendovi dentro la faccia. Prende un pettine dalla mensola sopra il lavandino e si pettina cominciando dalle punte per sciogliere i nodi nelle ciocche lunghe e bagnate. Poi lo passa dall'attaccatura sulla fronte con un movimento unico e lungo fino alle spalle. I capelli rimangono appiattiti sul cranio in sottili strisce larghe quanto lo spazio tra un dente e l'altro del pettine. Si guarda sempre allo specchio. Da una vaschetta di cristallo sopra la mensola prende un cilindro di metallo, lo apre, girandole spinge in su la punta verdesmeraldo di eyeshadow, si ac Costa ancora di piú allo specchio e se la passa prima sopra una palpebra poi sopra l'altra. Con una matita pastosa e nera sottolinea la forma degli occhi passandola sopra e sotto le ciglia.

Con una spazzolina impregnata di mascara rende piú folte e piú scure le ciglia che indurite si levano contro le palpebre.

Quando ha finite di truccarsi torna davanti alla finestra, rimette il disco, slega la cintura di cuoio e il tagliacarte cade a terra.

Appoggia un piede sulla mensola alla sinistra della finestra.

Appare di profile nel vetro, vede la coscia e il ginocchio piegato. Appoggia la guancia al ginocchio e imita l'espressione di una modella con i capelli bagnati nella fotografia pubblicitaria di una casa di prodotti di bellezza.

Guardandosi dice: "Domínguez, non ricordo la tua faccia..."

Volta le spalle alla doppiaporta chiusa della stanza. Si figura la piccola anticamera buia tra i due battenti: a sinistra le ante degli armadi, a destra un'altra porta che dà nel bagno.

E al di là delle due porte di legno il corridoio di linoleum con i lampadari spenti, le piccole luci di notte incassate a distanze regolari nello zoccolo del muro, che guidano lungo il percorso. Luci in una cornice di acciaio dietro vetri smerigliati come quelle che illuminano i fondi delle piscine.

Le scarpe di para silenziose i pantaloni rischiarati a intermittenza il camice bianco del medico di guardia e la sua faccia tutta in ombra.

Potrebbe entrare il medico...

Potremmo parlare del suicidio di Domínguez...

Potrei dirgli che non ricordo piú la sua faccia. Che la sua faccia mi appare di colpo solo se penso ad altro ma che se cerco di ricostruirla, di vederla...

Potrei dirgli che la sua morte mi è rimasta attaccata, che non sono rimorsi, non è paura, non è l'avere acquisito la dimensione della mia morte, ma mi è rimasta attaccata. Capisce? Potremmo cercare di capire assieme perche l'ha fatto dire che è ragionevole ormai non accettare l'atto del suicidio con il criterio del... ma qualsiasi ragionamento, qualsiasi! è inadeguato.

La soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero.

Potremmo piuttosto parlare del tempo, della pioggia, della mia salute. Potrei dirgli che mi sono bagnata tutta la testa solo per assomigliare di piú a un'attrice che in un film esce dal mare. E alla modella di una fotografia pubblicitaria per prodotti di bellezza...

Che vedevo Garibaldi a cavallo grande come l'unghia del mio mignolo, stagliato contro il cielo (un monumento lontano due o tre chilometri dalla mia finestra). Garibaldi galoppava verso di me. Caricava ed era il titolo di testa di un western.

Che era una spiaggia che va disegnata con una punta a secco: matita o carboncino, non acquarello e certo non olio. È importante questo (c'erano delle baracche di legno dipinte in azzurro, sei cabine su palafitte, delle dune, dei ciuffi di ginepro e dei cardi). Tutto era "secco," non c'era niente di tropicale e lussureggiante. Controluce, nell'acqua che gli arrivava alla cintola ho visto il negro che camminava verso il largo. Era del Senegal, aveva la pelle nera con dei riflessi viola. È bastato questo perché la spiaggia diventasse piú vera e piú esotica delle Bahamas che conosco, dove sono stata.

Che può leggere questa notizia se lo aiuta a capire: "A Hollywood c'è grande richiesta di direttori artistici. Non da parte dell'indtistria cinematografica, bensí dei proprietari di alberghi e bar locali che hanno iniziato la moda di progettare i loro ambienti a somiglianza dei modelli piú celebri visti sugli schermi cinematografici e della TV.

"I direttori artistici sono chiamati con l'incarico di fornire la loro consulenza di esperti per fare in modo che sale e salette siano esattamente come gli spettatori le hanno viste al cinema o davanti al loro televisore."

Che siamo davanti al castello restaurato e abitato da un nobile.

Domínguez esamina pezzo per pezzo quel forte in cima al paese di cubetti bianchi. Io appoggio l'occhio al buco della serratura alto cinque centimetri nel portone bugnato la ghiaia, le aiuole... mi attacco alla maniglia del campanello e tiro il filo di ferro ma non sento il rintocco. Rimango con l'occhio incollato e da in fondo vedo che viene verso il portone, per aprirci, una bambina. Man mano che si avvicina la osservo: ha calze di lana scure tenute da un elastico sopra il ginocchio, si vede un pezzo di gamba nuda sotto il grembiule corto con una grossa tasca a marsupio dove affonda le mani chiuse a pugno (le nocche premono contro il tessuto a quadrettini blu), la testa e le spalle sono tagliate via nella visuale limitata della serratura. Cammina adagio e a ogni passo il piede nello zoccolo è un po' incerto (in bilico) perché non affonda bene nella ghiaia compatta che scricchiola sotto il piede. Mi commuove, ho detto.

Quale benedetto tasto di seconda elementare... La visuale limitata della serratura, come quella di un mirino e la proiezione, profonda, l'hanno fatto scattare.

Oppure, potrebbe cbiedermi cosa sono queste due conchiglie sul comodino. Ne potrei prendere una in mano e spiegargli come è fatta.

Potrei dirgli che si chiama Conus Litteratus. Infatti, ha forma di cono, è ritorta e misura quasi dieci centimetri dalla base spiralata e piatta alla cavità, al "sifone" in punta da cui il mollusco all'interno respirava mangiava e secerneva acqua.

Che il colore del guscio è bianco maculato di punti neri e marrone disposti in file regolari.

Che si conoscono piú di quattrocento varietà di Conidae: ci sono per esempio il Conus Magnificus, il Conus Obesus, quello Splendidulus, Emaciatus, Nobilis, Circumcisus, Gladiator, Pauperculus, Spurius, Musicus, Crassus, Ambiguus, Eximius, Mutabilis, Nebulosus, Inflata, Hybridus, Miser, Aulicus, Minimus e Pontificalis.

Che i Conus si trovano nei mari equatoriali, soprattutto in quelli asiatici e al largo dell'isola Mauritius. Il Litteratus nel mar della Cina.

Che vivono nelle cavità delle rocce e delle barriere coralline. Bucano i gusci di altri molluschi piú piccoli e ne succhiano il sugo e la polpa. Gli potrei dire che la forma spiralata delle conchiglie ha una regolarità geometrica perfetta. La piú simmetrica che si possa trovare in un corpo organico.

Che il guscio viene prodotto dalla secrezione di una parte della pelle detta mantello accrescendosi con il graduale depositarsi di nuova sostanza minerale nell'acqua: il carbonato di calcio.

Che questi due esemplari li ho sempre visti per casa e ho cominciato a tenerli sul comodino dopo avere perso uno scarabeo verde in pietra dura, un fermacarte grosso come un pugno che ho avuto per tutta l'infanzia fino alla fine della guerra.

Angelo il giardiniere aveva una moglie che si chiamava Lena, che noi chiamavamo Bianca-Lena-Pistac-Miglio (non so come mai) e che faceva la portinaia.

Avevano un bambino di tre anni di cui non ricordo il nome.

Abitavano nella portineria della villa, uno chalet ai bordi del parco e dello stradone. La villa era molto piú in basso, sul lago.

Oltre allo scarabeo tenevamo sul comodino una collezione di animaletti d'avorio che si compravano dai gioiellieri sotto le arcate della piazza.

Avevo una rana grande come l'unghia di un pollice e uno scoiattolo.

È probabile che abbia scelto un albergo che si chiamava Scarabeo per via del fermacarte verde e coleottero che mi è stato caro per dieci anni.

Villa Darsena non era la casa dei miei. Ci abitavano i Krantz e avevano due figli: Babbie e Giulio che erano miei amici.

Sono andata a abitare da loro per tutto un inverno, l'ultimo della guerra, dopo che mia madre è stata ferita nel mitragliamento.

L'aereo è sceso in picchiata a motore spento. Ho visto il Varenna, il battello piú piccolo (che aspettava la coincidenza con il Bisbino) passare adagio davanti alla terrazza. Ne usciva fumo e sentivo delle grida e dei lamenti. Ricordo che mi domandavo come poteva funzionare ancora il motore.

Gli animaletti stavano in scatolette imbottite di cotone rosa.

L'albergo Scarabeo stava al terzo e al quarto piano di una casa di appartamenti. Il facchino con le palpebre pesanti nella palandrana di flanella a righe, lercia, di giorno stava accucciato su un gradino del portone, di notte stava sdraiato su una branda nell'ingresso vicino all'ascensore. Era anche il portiere. Era anche il cameriere, ma questo non lo sapevo, altrimenti non avrei mai chiesto il caffelatte a letto.

Quando è entrato e ho visto i suoi occhi torbidi e demenziali, ho avuto subito la sensazione che... e mi sono tirata sú le lenzuola fino al collo.

Non giocavamo mai con il bambino della Lena perché era troppo piccolo e non ci divertiva.

Quando lo abbiamo invitato da noi a fare merenda quel giorno, sua madre venne apposta a ringraziare la nonna.

Il bambino si vergognava di bere la cioccolata e di mangiare le paste.

Gli abbiamo proposto di fare una passeggiata. Abbiamo attraversato il parco e siamo saliti sullo stradone, allora era di terra battuta e polveroso, non l'avevano ancora asfaltato. Avevamo con noi una piccola forbice per le unghie e una di quelle scatolette con il cotone rosa.

Eravamo Babbie io e il bambino, Giulio non l'abbiamo lasciato venire.

Mi ha appoggiato il vassoio sulle gambe. Appena me lo sono trovato in grembo ho capito che l'aveva fatto per immobilizzarmi. Continuava a guardarmi e si avvicinava al letto. Ho pensato di gridare, di chiedere aiuto. Sono stata presa dal panico quando ho capito che non sarebbe servito a niente. Ero in un albergaccio, in una città africana, se avessi urlato forse sarebbero arrivati altri uomini ma non per aiutare me o fermare quello bensí per...

Quando ci siamo allontanati abbastanza dalla portineria e non vedevamo venire nessuno sullo stradone, gli abbiamo chiesto se voleva fare pipí. Disse di no. Camminavamo sempre. Abbiamo cominciato ad insistere. Cercavamo di convincerlo con le buone. Eravamo maggiori di lui e sicure che sarebbe bastata la nostra anzianità per farlo cedere.

Lo guardai fissa, mi schiacciavo contro la testata del letto, si avvicinava sempre, mise una mano sotto la palandrana e tirò fuori

Allora gli ordinammo di fare pipí. "Tu devi fare pipí," dicevamo, "devi."

Qualcosa nella nostra voce lo deve avere spaventato. Ci ha guardato un attimo con gli occhi sbarrati e di colpo è scappato via. Verso casa. Il suo panico si è trasmesso a noi. Abbiamo buttato la forbice e la scatoletta in un cespuglio.

un pacchetto di sigarette e da quello con il pollice e l'indice un cartoccio, lo svolge ammicca e sibila: "Hashish! Hashish!"

Ho tirato un sospiro di sollievo. Gli ho detto: "no grazie, un'altra volta," e l'ho mandato via con un gesto della mano.

Ma il Bisbino era nascosto dietro un promontorio, non si sapeva nemmeno se fosse stato colpito. Presi una bicicletta e cominciai a pedalare verso Tramezzo. Veniva molta altra gente in bicicletta, tutti si erano messi in strada. I feriti erano stati trasportati nel ristorante del Grande Albergo.

L'albergo era stato requisito dalla Snia Viscosa e in quello che una volta era il ristorante c'erano i tavoli da disegno e le scrivanie degli impiegati.

Mettevano i feriti su quei tavoli. Trovai mia madre. Non era grave in confronto a tanti altri... aveva una scheggia nel gomito destro e una nella schiena, ma a uno stavano amputando una gamba con un coltello... per terra era pieno di fogli mac chiati di sangue... una si teneva la mascella nella mano... era attaccata alla faccia solo da una parte, con un pezzo di pelle della guancia...

"Dottore, non ho mai assistito a un'amputazione nell'ufficio grafico della Snia Viscosa, sono inattendibile, mi lasci dormire e la smetta di interrogarmi come in un film di spie."

Dal capannone usciva molto rumore, quello perforante dei grossi bulini a pressione, quello stridente delle mole elettriche, i ticchettii aritmici degli scalpelli piú piccoli, i sibili di aria compressa. Ogni uomo concentrate sul suo pezzo indifferente a quel frastuono che lei non sarebbe riuscita a sopportare per molto.

Rocco lavorava con il suo aiuto vicino a una vetrata attorno a una scultura di marmo nero africano. C'era una polvere sottile in tutto il locale. Si raccoglieva nelle sopracciglia degli scalpellini e si posava sui loro baschi. Non era visibile sulle camicie e sui pantaloni grigi che tutti indossavano.

Sovrastavano quegli uomini al lavoro papi e principi bianchi, alti tre metri, copie di sculture distrutte dalla guerra e ricommesse dal Monastero.

Sui banchi di lavoro c'erano cosce di angeli, mani nobili benedicenti, teste incoronate di alloro che gli scalpellini riproducevano in marmo statuario dai modelli di gesso.

Rocco ne chiamò un paio per farsi aiutare.

Si trattava di separare la croce pomata, ricurva dal dorso colmo nella quale era incastrata. Si trattava di farlo con molta precauzione: le quattro braccia della croce penetravano a fondo nel corpo centrale della scultura. Toglierle dall'alveolo nel quale erano infisse poteva voler dire scheggiarle o addirittura spaccarle.

Lo scalpellino piú anziano andò al suo banco e prese un lungo punteruolo di ferro. Impugnandolo alla cima lo spinse sotto la pietra. La stava saggiando. Dietro le spesse lenti da miope i suoi occhi non cambiarono espressione. Non si capiva cosa avesse deciso di fare. Lasciò cadere a terra il punteruolo. Si spostò verso la parte anteriore della scultura dove un manico ricurvo terminante in una mezza sfera conteneva una grossa boccia di marmo lucidato. (La catapulta.) Appena fece per alzarla ci furono mani pronte a aiutarlo. Lo avevano capito. Lo scalpellino piú anziano non dava ordini, taceva sempre. Esigeva cosí la prontezza e la partecipazione degli altri.

Riadagiarono la boccia su uno strato di sacchi e di paglia per non farla poggiare sul pavimento duro e frenarla.

Intanto con altri stracci (ritagli delle loro camicie e maglie consumate) avevano riempito il vuoto sotto il manico rialzato.

Il dorso colmo e la mezza sfera, le due estremità pesanti della scultura, posavano sul piano del tavolo a un metro e mezzo di distanza l'una dall'altra. Gli stracci premuti sotto quell'ansa ricurva che le collegava diminuivano la tensione del pezzo di marmo centrale, il piú fragile.

Le piaceva seguire le loro precauzioni e spiegarsele man mano.

Ora le mani raccoglievano da terra e dai banchi le zeppe e le infilavano sotto la scultura nei punti dove non combaciava con il piano.

Poi la premevano cercando di scuoterla. Quando la sentirono immobile e aderente il vecchio con gli occhiali rimise il punteruolo sotto il braccio della croce.

Forzava appena poi aspettava che gli altri con i polpastrelli, anche con le unghie, scalzassero quel tanto che potevano le altre tre braccia dall'incastro: allora dava un'altra spinta.

Le fessure si facevano piú larghe, il gioco piú facile. Quando ci poterono passare le dita, l'afferrarono in quattro (ognuno un braccio) e la posarono a terra.

I tagli larghi una trentina di centimetri, ora visibili nel dorso della scultura, erano sporchi di schegge e di polvere.

Gli altri scalpellini erano tornati al loro lavoro.

Con l'aria compressa l'aiuto di Rocco aveva soffiato via tutti i detriti dai solchi e le mani degli uomini ora ci scorrevano sopra con la sensibilità di quelle dei ciechi interpretando la vena di marmo incisa (per esigenze) nella direzione contraria.

Tentarono di levigare quei punti con i bulini scegliendone diversi, grossi e piccoli, ma non fu possibile. Il marmo li rifiutava, le punte saltavano e non incidevano.

Suonò la sirena.

Gli scalpellini posarono i loro arnesi e staccando i grossi bulini dalle pompe le azionarono facendosi una doccia sibilante di aria compressa.

Da ognuno di loro usciva una nuvola di polvere bianca. Si lavarono la faccia in una tinozza d'acqua all'ingresso del capannone e rientrarono a salutare Rocco, il suo aiuto di Milano che lavoravano ancora e lei che li stava fotografando.

Quel punto indomabile del marmo non li aveva innervositi.

Quando furono convinti che non c'era niente da fare, lo lasciarono cosí com'era, non per ripiego ma perché "il marmo," dicevano, "ha sempre ragione."

Avevano finito.

L'indomani gli uomini avrebbero rincastrato la croce al suo posto e avrebbero imballato la scultura terminata.

Si pulirono anche loro con il sistema della doc cia e diedero un'occhiata in giro curiosando sui banchi degli altri prima di lasciare il capannone. Risero di tutte quelle commissioni ecclesiastiche che toccavano agli artigiani per tradizione piú anarchici d'Italia.

Alzarono dai banchi i martelli di ferro dolce e le fecero notare che l'incavo lucido dove picchia sullo scalpello era in una posizione diversa secondo il modo di battere della mano di ciascuno.

Che ogni uomo aveva il suo martello e non poteva usare quello di un altro.

Chiusero le porte a vetri del capannone.

Fuori c'era il tramonto e andarono verso l'uscita del grande deposito di marmi.

Le lastre e i massi numerati erano accostati e accatastati in file lunghissime e alte due tre metri. Loro camminavano in mezzo, in un piccolo sentiero di terra battuta dove affondavano gli stretti binari delle gru sospese.

Solo agli incroci con altri sentieri potevano vedere a destra e a sinistra le altre partite di marmo. Si spostavano allora per guardare da vicino quei blocchi che avevano già notato, passando, nei giorni precedenti.

Ne dicevano il nome, discutevano sul valore e sulla provenienza.

Ci passavano sopra le mani seguendone la vena, la direzione del taglio.

Cercavano le forme minute dei licheni e dei fossili impressi e se le indicavano.

A lei sembrava di camminare tra le rovine di un tempio e disse a Rocco che ogni pezzo di marmo da quel giorno...

"Allora ti porto a vedere la cava di Serravezza. Vado a parlarne con il padrone qui negli uffici," disse.

Aspettandolo sistemava le macchine fotografiche in una borsa di cuoio. Sul fondo di velluto rosso vide la busta azzurra posta aerea che le era arrivata a Milano prima di partire. Era di Domínguez e veniva da Los Angeles. La aprí e rilesse alcuni passaggi.

"Un viaggio che non finisce mai, una terra immensa e abbastanza noiosa senza di te."

"Io sono stato un po' male, niente di grave, e sarei volentieri tomato a New York se questi della Convention non avessero preparato tutto"
"talmente piú facile seguirla al televisore..."
"ho avuto un gran mal di fegato ieri in aereo e non mi sono rimesso"
"quanto alla tua gelosia, mi permetti di dubitarne? So di che si tratta, la lontananza, il fatto che una persona seguita a vivere fuori di noi. Ma non vorrei che ti portasse al rifiuto — alla difesa. Vivo abbastanza male."

E piú avanti: "Quando io ti parlo di me, tu dopo hai l'impressione che io ti abbia parlato di un terzo (cfr˙ tua ultima lettera). È vero.

"Una volta ho letto l'Amleto di Laforgue e mi ha colpito questa frase di Amleto, parlando di se stesso:

  "‘Sarò il solo biografo autorizzato
  di quest'essere calmo e simpatico.’

Non sono simpatico ma conserve una certa calma nel giudicarmi."

Rimise la lettera nella busta e sorrise perché a Milano non era riuscita a trovare questi versi in Laforgue. Capiva che li aveva inventati Domínguez.

La macchina saliva in prima per il sentiero ripido scavato nel fianco della montagna. Il sentiero non era piú largo di tre metri: sulla destra c'era la parete di roccia quasi perpendicolare ricoperta di muschio e di cespugli, gocciolante, sulla sinistra lo strapiombo. Non c'erano né paracarri né staccionate né parapetti.

Il terreno era fangoso e viscido. In un punto dovettero fermarsi per rimuovere dei sassi che erano franati, c'era un masso grosso in mezzo al sentiero che avrebbe potuto bucare la coppa dell'olio.

Rocco scese e a fatica con le due mani lo fece rotolare dal ciglio.

Da una parte il sasso era quasi bianco e liscio, dall'altra era marrone e sporco di terra fresca. Si era staccato da poco e calcolò che pesava piú di quaranta chili. "È una strada pericolosa," disse, "ci vuole il permesso del proprietario della cava per venirci, altrimenti passano solo i marmorari. La fece fare Michelangelo. Portarci giú il marmo allora, sui carri con i buoi..."

L'automobile era ferma sulla destra con il muso sollevato. Trovarono due sassi da mettere sotto le ruote posteriori per impedire che scivolasse indietro quando l'avrebbero rimessa in moto.

Guardando dal ciglio giú nello strapiombo verde di boscaglia videro un torrente con il fonclo e le rive bianche di sassi levigati dall'acqua.

Una donna ne stava raccogliendo e li metteva in un sacco. "È marmo anche quello," disse Rocco, "lo esportano in Giappone. Là ci fanno quella ghiaietta per i giardini..."A sinistra vedevano la pianura con gli orti i campi e i paesi. Il mare, i raggi del tramonto nel cielo limpido.

In sú verso la montagna c'era nebbia, c'erano nuvole basse e veloci e scendeva un'aria fresca e umida.

"Bastano un paio di chilometri di dislivello e già sembra di entrare in un'altra stagione," disse.

Fermarono la macchina nello slargo fangoso davanti alla cava, sembrava deserta. In terra vedevano i solchi profondi e tratteggiati che avevano lasciato i copertoni, seguendo le tracce potevano ricostruire il percorso che avevano fatto i camion per salire, caricare, girare e ridiscendere. Ce n'era ancora uno. Era un Dodge americano o inglese, residuato di guerra.

L'impalcatura di tubi di ferro a cui va legato il telone per proteggere gli uomini o la merce era arrugginito. Il camion era scoperto, il telaio aveva perso la verniciatura.

Sullo sfondo c'erano le pared di marmo intagliato alte dieci venti metri, perpendicolari e traslucide con poche venature e striature giallastre. Quando ci batteva un raggio di sole scintillavano. Osservando una parete da vicino distingueva nella grana saccaroide i calcari cristallini, fratturati e brillanti.

Videro il primo marmoraro stagliato contro le nuvole in cima a una delle pareti come una sentinella.

Seguendo con lo sguardo uno dei tre fili elicoidali che partivano dal punto dove stava quell'uomo, ne videro un altro, acquattato molti metri piú in basso vicino a una puleggia.

Avvicinandosi a lui sentivano il ronzio dei fili d'acciaio che trascinando sostanze abrasive incidevano profondamente la roccia.

Il marmoraro aveva scarponi chiodati, calzettoni pesanti di lana grezza sui pantaloni stretti sotto il ginocchio, un maglione, una giacca militare lisa e consumata, un fazzoletto attorno al collo e un berretto.

"Avete trovato la frana?" chiese a Rocco che gli offriva una sigaretta.

Guardando giú nella gola stretta e profonda vide il sentiero che avevano percorso in macchina. Ebbe la certezza che quegli uomini li avevano osservati da quando la loro macchina era apparsa dietro quella curva nel fianco della montagna un paio di chilometri piú in basso. E cherimanevano immobili a guardarli finchè loro non li scoprivano.

Ora sentivano anche dei picconi che avevano ripreso a battere.

Dopo una diecina di minuti che erano lassú e giravano, qualcuno doveva avere dato il segnale di smettere il lavoro perchè gli uomini scesero allo spiazzo e montarono sul camion per partire. Erano una diecina.

Dissero loro di non lasciarsi sorprendere lassú dalla notte, che quello non era sentiero da farsi al buio.

Quando vide il camion che scendeva a scosse giú per la gola e gli uomini in piedi con le braccia alte e le mani aggrappate ai tubi di ferro, e sentí il motore del camion e l'eco del motore, Rocco le si avvicino la prese per mano e la porto contro una parete di marmo tiepida di sole.

Con la mano fa girare il bicchiere sul banco di legno del bar.

Guarda i cubetti di ghiaccio che si sciolgono nel whisky.

Ascolta il rumore che fanno battendo tra di loro e contro il vetro del bicchiere.

"Questa città ha il ghiaccio piu puro del mondo," dice. "È come cristallo. Senza imperfezioni, trasparente. Non ha quel sedimento biancastro, latteo... che dev'essere calcio... non ci sono nemmeno bollicine d'aria."

Il bar è affollato. C'è gente seduta sugli sgabelli alti e gente in piedi che appoggia i gomiti al bordo di ottone del banco.

Molti parlano e mold guardano i loro bicchieri.

"Nei bar e nei ristoranti hanno bicchieri di vetro leggero, vetro buono. È una citta che ti fa bere... me l'ero dimenticato."

Le loro facce sono riflesse una accanto all'altra in due pezzetti di specchio dietro le bottiglie. Le bottiglie sono capovolte.

Nel collo di ognuna c'è un misurino con un cannello di metallo che premuto contro il fondo del bicchiere versa la dose esatta di liquido.

"Dopo Morandi, guardiamo le bottiglie con piú rispetto," dice.

Si vedono nello specchio e lei gli sorride.

"Sull'aereo c'era la fontanella di acqua gelata. Ho cercato di prendere un bicchiere di carta dal tubo di vetro in cui stanno infilati, ma non ci sono riuscita."

Si volta sullo sgabello verso di lui. Gesticolando con una mano mima nell'aria la forma del tubo e con l'altra piú in basso quella dei bicchieri.

"Cosí ho bevuto dal rubinetto."

"Dopo di me è venuto un bambino americano. Avrà avuto due tre anni. Si è preso come niente il suo bicchiere di carta, mi sono sentita cosí stupida... ma ho visto come ha fatto: invece di tirare ha premuto un po' in su con la mano..."

Domínguez le passa una mano sotto i capelli e le stringe la nuca.

Lei guarda l'orologio che ha al polso e che segna le due, poi quello elettrico appeso sopra una porta che dice le otto.

"Per me sono le due di notte... non so nemmeno se sono stanca, sono frastornata. E ho fame."

Vede i camerieri che entrano e escono dalla porta sotto l'orologio con i vassoi carichi di piatti e di cibo.

I due battenti sono a molla e i camerieri che hanno le mani e le braccia occupate li aprono spingendoli con il piede.

In basso i battenti di fòrmica grigia sono segnati di nero dove le punte delle scarpe danno la spinta.

Ogni cameriere che esce con le portate blocca il giro del battente sui cardini fermandolo con il tacco. Tiene un piede un po' arretrato per non ricevere il colpo della porta nella schiena o nei gomiti.

All'altezza delle loro teste ci sono due vetri rettangolari inseriti nella plastica.

"Tra poco verrà libero un tavolo," dice Domínguez, e si gira sullo sgabello. Alle loro spalle ci sono i divani di pelle rossa del ristorante. Alza un braccio e fa segni con una mano. Cerca di farsi notare da un cameriere. Resta con il braccio alzato e un cameriere lo vede e gli sorride. Con l'indice e il medio a "V" indica: due, e un tavolo dove due uomini si stanno alzando.

Scendono dagli sgabelli con i bicchieri non an cora terminati e si siedono al tavolo scivolando sul divano appoggiato lungo tutta la parete del locale.

Il cameriere che ha tenuto il tavolo scostato per farli passare, lo rimette a posto. Raccoglie la mancia e spazza via le briciole dalla tovaglia a scacchi con un tovagliolo mentre loro tengono i bicchieri sollevati all'altezza del volto. Chinandosi in avanti, alla loro destra e alla loro sinistra vedono la lunga fila dei clienti che mangiano.

Appoggiano i bicchieri e le sigarette sul tavolo. Ordinano dal menu. Il cameriere scrive su un blocchetto di carta e lascia sul tavolo la copia a carbone della loro ordinazione.

"Vuoi vino? California Rhine Wine? Mission Bell Muscatel? Manischewitz?" chiede ridendo.

"Il vino bianco con le ostriche..." ride, "non mi piace. C'è troppo ferro, ferro penso che sia... nelle ostriche, come nei carciofi. O iodio? e il vino cambia sapore."

Guarda gli oggetti sul tavolo, l'oliera con gli anelli di metallo che reggono il sale il pepe la senape e il ketchup. Alza il barattolo per leggere il nome sull'etichetta — "il vino diventa amaro... — o sa di zolfo — non ricordo bene."

Il contenitore metallico di tovaglioli di carta. Ne estrae due: uno per sè, l'altro lo dà a Domínguez.

"Devo fare sviluppare i rullini di Edimburgo," dice.

Il portacenere di ottone che il cameriere ha svuotato, munito di una morsa che stringe una seatola di fiammiferi. La zuccheriera con le zollette awoke nella carta.

"Ti ho detto no? quel gufo... il barbagianni... Melchior... dei Me Adoo?"

Guarda le sei ostriche nel piatto che il cameriere le ha posato di fronte.

Sono adagiate su un alto strato di ghiaccio tritato.

Al centro del piatto c'è una vaschetta di vetro che contiene una salsa rossa.

La assaggia sulla punta della corta forchetta. "Piccante," dice.

"A Parigi nei piatti ammaccati di stagno, sulle alghe..."

"E con il limone..."

In un piattino a parte ci sono dei salatini a forma di stella di rombo di esagono di lettera dell'alfabeto.

Con l'indice separa le lettere dalle figure geometriche e mette in fila sulla tovaglia dei piccoli ipsilon, a, d, m, o, b.

"Bad Body Mad Mob," legge Domínguez.

Infila un'ostrica sulle tre punte aguzze della forchetta tenendo la conchiglia ferma con due dita per strappare la polpa dalla columella attaccata al guscio.

Beve il sugo accostando la valva alle labbra. Masticando sente dei piccoli frammenti di madreperla che si sgretolano sotto i denti.

"Il petto bianco del barbagianni si contrae," dice.

" Sotto le piume si vede la spinta e il percorso del bolo nel tubo digerente. Dovrebbe essercene una dove il barbagianni allunga il collo, spalanca il rostro e espelle la pallottola compatta e bagnata di pelo."

Apre la bocca e imita il singulto.

"Il tonfo che fa il bolo cadendo sulle assi di legno lo fa chinare a guardare. Osserva un attimo la pallina grigia come se non lo riguardasse.

"L'ho preso di profilo quando piega la testa da un lato per guardare in basso. Si vedono le piume folte della testa che si staccano da quelle piú lisce e piú lunghe del collo. Disegnano un collare, un solco.

"Stacca una zampa dal trespolo e allarga gli artigli stitandosi. Poi ripete con l'altra.

"Ce l'ho che sbatte le palpebre e chiude i grossi occhi matrone nelle guance soffici e geometriche.

"La nanny ancestrale dei Mc Adoo, la tata ottantenne di quella casa dove tutti sono adulti da tempo, sale a fatica le scale del granaio quattro volte al giorno per vedere se il barbagianni ha vomitato la pallottola indigesta.

"Gli danno da mangiare passeri o topi. Quando non ne trovano ammazzano un coniglio. Gli fanno dei sandwich di carne e di pelliccia perché il barbagianni deve abituarsi a mangiare il pelo. Altrimenti se quando lo rimettono in libertà ha avuto solo carne preparata, senza pelo o piume... Deve abituarsi fin da piccolo a fare il suo bolo e a sputarlo.

"Quando vede la pallottola la nanny è contenta e dice: He's done his ball of pelt! he's done his ball of pelt! la raccoglie in un giornale e la fa vedere a tutti. Se non c'è, sta lí e aspetta che la faccia. Direi che va bene no?"

"Penso di sí.

"E quel servizio che hai fatto prima, in Italia, a quello scultore?"

"Bene. È andato bene. L'agenzia l'ha venduto anche qui. L'ha preso il Times."

Fa scivolare il palmo della mano sulla pelle rossa del divano, al tatto sente che è forato in un punto. Si abbassa a guardare e pensa che sia una bruciatura di sigaretta.

"Il fatto è che i barbagianni si stanno estinguendo anche in Scozia," dice. "Per questo i Mc Adoo li allevano con tanta cura quando ne trovano uno. Poi li lasciano andare. Quando sono grandi."

Infila l'indice nel foro della pelle cercando di agganciare all'unghia un po' di lana dell'imbottitura che si figura grigia e grezza come quella dei materassi.

"Tyto Alba. Si chiamano Tyto Alba nella classificazione di Linneo.

"Sono attratti dall'acqua, dagli insetti che si muovono sul pelo dell'acqua ma se appena si bagnano le piume delle ali o del petto... aflondano come sassi. Non sono protetti da quello strato di grasso impermeabile che hanno per esempio le anatre, si imbevono di acqua come una spugna, come la carta asciugante... Pare proprio che sia cosí..."

Con le dita prende un ciuffetto di crescione dal bordo del piatto di Domínguez dove sono rimasti un pezzo di filetto e un paio di palatine fritte tinte di rosso impregnate di sangue. Sente in bocca il sapore appena un po' salato delle foglioline e quello piú dolce degli steli.

Domínguez le accende una sigaretta e gliela passa.

Il ristorante e il bar sono sempre affollati.

Da punti diversi vede volute grigie che salendo si espandono si disfano e dileguano nello strato di fumo immobile e azzurro che sta in alto.

"Le luci di questo locale sono spaventose," dice.

"È il posto piú vicino all'albergo, ci vengo spesso, si mangia bene."

"Mi piace, mi piace molto, a parte le luci."

In terra vede della segatura bagnata, a grumi. Pensa che nel colore e nella consistenza è simile allo stereo dei cavalli. Ne vede molta ammucchiata contro il banco del bar, spinta lí dai passi della gente, sotto la sbarra di ottone a cui stanno appoggiati molti piedi.

Domínguez paga il conto e si alzano dai tavolo.

Lei scosta un tendaggio rigido di pelle foderato di feltro verde che protegge il locale dalle correnti d'aria e entra in uno dei quattro scomparti della porta girevole.

Domínguez la segue senza aspettare il prossimo raggio.

Appoggia le due mani alle sue spalle, preme contro la sua schiena e con la punta delle scarpe urta contro le sue mentre strisciano i piedi nello stretto triangolo e avanzano spingendo adagio il battente di vetro e di legno.

Fuori c'è una pioggia sottile e Domínguez la prende per mano. Quando girano l'angolo si trovano nella decima strada e il vento fa cadere la pioggia di striscio contro di loro.

"È il vento dell'East River," dice Domínguez, "un vento che attraversa l'isola di Manhattan percorrendola tutta nelle rigature parallele delle strade e sbocca poi a ovest sul fiume Hudson."

"È previsto un inverno molto freddo."

Salgono i gradini dell'albergo e si fanno dare la chiave della camera dal portiere chiedendo la sveglia alle otto.

Salgono in ascensore al settimo piano, lei guarda sotto la lampadina polverosa i capelli crespi, i ricci piccoli e grigi di Astrakahn del negro che manovra la leva del montacarichi. Al loro piano con una mano guantata apre il cancelletto di rombi snodabili che si sovrappongono scorrendo in un binario.

"L'altro ascensore è spesso guasto," dice Domínguez.

"Soprattutto dopo i weekend.

"Siamo vicini alla N˙Y˙U. Il venerdí, vedrai, vengono sempre una quarantina di studenti e studentesse per passare il fine settimana e dormire insieme. Fanno parties e un baccano d'inferno. Non si chiude occhio.

"I clienti fissi invece sono quasi tutti vecchi. Gente che vive di piccole rendite o di quello che gli passano i figli.

"Gente che chiederebbe l'elemosina pur di non finire in un ospizio.

"Questo è uno degli alberghi meno cari di New York. Subito dopo vengono le flophouses, infamanti..."

Al loro piano si infilano in un corridoio quasi buio salvo che per delle lampadine rosse sempre accese di notte che indicano il percorso.

Le pareti sono ricoperte di una carta che in molti punti si stacca. Ha disegno e colori antiquati.

"Ci ha abitato O'Neill e da allora non deve essere cambiato niente," dice Domínguez.

Lo sfondo è grígio argento, scuro, con fiori viola e foglie verdi.

Attraversano una porta stagna che dà in uno slargo del corridoio in cui sboccano altri tre passaggi ancora piú stretti.

"Per bloccare l'incendio?" chiede battendo le nocche sulla spessa lamiera di ferro. "Ma è un labirinto..."

In camera accendono il lampadario centrale. La luce è debole per la grande stanza quadrata. Domínguez accende una lampada sul comodino e un'altra su un tavolo.

C'è un grande specchio in una cornice dorata, è inclinato sopra il caminetto. Riflette la moquette grigia macchiata di inchiostro, le sue valigie ancora chiuse, gli abiti di Domínguez ammucchiati su una poltrona e altra roba, libri giornali scarpe golf tutti in terra, trasportati in fretta dalla sua stanza singola.

Accanto al camino c'è un termosifone. Va a toccarlo perché sente che la stanza è calda ma i tubi al tatto non sono nemmeno tiepidi. Domínguez le dice che funziona un altro riscaldamento a pannelli radianti nel pavimento.

Tira una piccola corda che fa sbattere le strisce di plastica della veneziana e alzandole le fa combaciare strette in un fascio. Solleva la finestra spingendola in su con gli indici lungo due scanalature di ferro, come i finestrini dei treni.

Due metri davanti a sé vede un muro cieco di mattoni rossi ricoperti di fuliggine nera. Le sembra di potere calcolare il suo spessore vellutato e unto perché il muro è illuminato di striscio dalla luce che passa attraverso le tende di una finestra alla sua destra.

Il muro in cui è incassata quest'unica finestra non è piú largo di due metri. Sul davanzale ci sono dei cartocci e una bottiglia di latte.

Qui non gocciola e lei cerca di vedere il cielo per capire se ha smesso ricordandosi che prima pioveva.

Si china fuori e guarda in alto. Conta sette piani ma non riesce a vedere né la cima dell'edificio né il cielo. Le sporgenze del muro le impediscono di vedere anche il suolo, giú in basso.

"Ma da qui si capisce che tempo fa?" Rimette dentro la testa e girandosi vede Domínguez che sta appendendo i suoi abiti in un armadio.

"No ma te lo dice la telefonista quando ti dà la sveglia. Dice buongiorno e l'ora. Poi automaticamente: se il cielo è sereno o coperto, se piove o nevica, la temperatura Fahrenheit, la percentuale dell'umidità nell'aria e la velocità del vento..."

Lo aiuta ad appendere gli abiti sugli attaccapanni che ci sono nell'armadio.

A letto tiene gli occhi sbarrati nel buio.

Una piantina di corallo pulsa ondeggia e si sposta sul pavimento.

La vede rossa perciò sa che non può essere un'ombra.

È sfinita, pensa che sia la stanchezza.

L'aereo si è alzato, ha ritirato il carrello, ho succhiato una caramella e ha puntato verso ovest.

In questo letto ho la testa a est e i piedi a ovest.

In questa città si è sempre consapevoli dei punti cardinali.

L'Avenue la taglia a metà: da una parte l'est, dall'altra l'ovest.

In tutto il paese si è consapevoli... — he went East — he went West, si dice. E c'è anche un Middle West.

In Italia solo un nord e un sud.

(No East or West worth while mentioning.)

L'Italia è una passatoia.

Questo paese ha cinquanta stati e una trama fitta come un tappeto.

Su di esso si rincorrono le ombre delle nuvole.

I confini degli stati sulla cartina sono segnati con linee dritte e precise... come quelle che separano i diversi tagli di carne nel disegno di un bue.

"Eri agitata nel sonno," dice, "appena ti sei addormentata hai avuto dei sussulti. Contraevi i muscoli.

"Ti sei calmata quando ti ho messo una mano sul braccio e l'ho tenuta lí."

Allunga una mano e prende un'agenda verde dal comodino.

"Mi ha svegliato un fracasso... dei colpi," dice, "ma era già l'alba. Deve essere stato il camion dell'immondizia che svuotava i bidoni."

La apre all'ultima pagina scritta e la sfoglia all'indietro:
alle undici lunedí Mr˙ Goldsmith "This Week" 1050 5th. Ave˙
venerdí pomeriggio telef˙ Audrey Langston interno 2775, stanza 959
Stashin venerdí otto e trenta
Mario Rossi interno 3651 stanza 486
Telef˙ Pat Caulfied
andare Rockefeller ritirare acidi Peter. Fiori Henry
527 Madison Ave˙ undicesimo piano MU 81-690
Delegaz˙ Italiana
Paul Green da Peerless per tele
Delegation of Afghanistan
gruppo afroasiatico decimo piano
Vittorio Ivella, Ortona 527 Madison
Bandi Bange Bomboko Kasavubu
il primo è Misano, Lumbaca secondo, Thomas
Kanza terzo sulle scale mobili
IV Marcellin Tshitenzi
717 5th Ave˙ dodicesimo piano stanza 56 Van Ky interno 3469
stanza 408 La Veritè
American Action UN 1-1267 Mr˙ Arthur Tyrnill
Picture Editor stanza 952
Tunisia 40 East 71 Mongí Slim YU 8-7200
Pedro Díaz Lanz Fabergas
Chanderlí Yahsid
Hotel Pierre Grand Ball Room Uruguay alle sette
Burundi Alto Volta Mali Gambia Togo
Foto Compo Didascalie Air Freight
Lista nomi delegati

Fa scorrere la punta della biro sulle sei morsette di metallo che trattengono i fogli perforati nella cerniera dell'agenda.

Guarda la cornice dorata dello specchio, le foglie che si avvolgono e si accartocciano, i petali di legno e si alza.

Esce sola dall'albergo.

Per strada slega un foulard annodato alla cinghia della borsa delle macchine fotografiche, lo piega a triangolo e se lo mette in testa. Per fare questi movimenti appoggia a terra sul bordo del marciapiede una cassetta di metallo col manico di cuoio che tiene con la sinistra. La cassetta è rettangolare e lunga quanto la custodia di un violino. Prima di abbassarsi per riprenderla aggiusta bene sulla spalla destra la cinghia della borsa delle macchine.

Vede che le facciate del marciapiede di fronte sono ancora in ombra ma da sinistra c'è una lama lunga e triangolare di sole che comincia a scendere nella strada stretta e illumina sottili fette di case molto alte.

Sa che tra un paio di ore saranno tutte al sole.

Entra nel drugstore. Il proprietario la saluta. Appoggia a terra vicino al banco di vendita la cassetta di metallo.

Dalla tasca esterna della borsa delle macchine estrae le sigarette i fiammiferi e il portafoglio.

Trova uno sgabello libero e si siede al banco dove servono da mangiare.

Ordina caffè e pane tostato a uno dei tre camerieri in piedi dietro il banco. Hanno bustine bianche inamidate in testa, camicie e grembiuli pure bianchi, inamidati e pulitissimi. Uno di loro è negro.

Alla sua sinistra sul lato piú corto del banco riconosce un cliente dell'albergo. È un uomo anziano, una volta l'ha visto attraversare la strada: cammina sempre molto lentamente strisciando i piedi.

Lo vede chinarsi sul banco e succhiare il caffè dalla tazza con una cannuccia. Un tremore alle braccia e alle mani gli impedisce di portare la tazza alla bocca.

Pensa che abbia il morbo di Parkinson.

Ha la camicia e la giacca piene di macchie.

Chiede dell'altro zucchero al cameriere. La sua voce è impastata e gorgogliante. Dall'angolo della bocca gli scende un filo di saliva.

Anche le corde vocali sono state colpite da paralisi.

Incrocia lo sguardo di due clienti che sentendolo hanno alzato gli occhi dai loro piatti e lo guardano con un'espressione di rimprovero. Lo credono ubriaco. La sua voce è simile a quella di un uomo molto ubriaco.

Poi però vedono la cannuccia biascicata nella tazza, le sue spalle e la testa scossa dai tremiti e capiscono.

È seduta davanti alla piastra di metallo sulla quale uno dei camerieri sta facendo tostare il pane e sta friggendo un hamburger.

Sente il calore sulla faccia e si toglie il foulard.

Non sente nessuna puzza di fritto.

La piastra è rettangolare lunga un metro e mezzo larga quasi un metro. Il cameriere versa poche gocce di burro già sciolto con un cucchiaio di legno in un punto della piastra e vi rompe sopra due uova. Gira l'hamburger già cotto da un lato, mette del sale sulle uova, toglie le due fette di toast. Passa un coltello sul grosso pezzo di burro che riempie una vaschetta di acciaio inossidabile e lo spalma su un lato delle due fette quadrate. Le mette una sopra l'altra e le taglia diagonalmente in quattro triangoli. Versa in una tazza il caffè che bolle in una boccia di vetro sopra un fornello.

Da un vassoio su cui stanno allineati tanti piccoli cappucci di carta ne prende uno che contiene gelatina di fragole e lo mette su un piatto accanto al toast già imburrato. Glielo passa assieme al caffè nella grossa tazza smaltata di azzurro che le ricorda quelle dei vagoni ristoranti europei.

Con una spatola stacca le due uova dalla piastra, poi l'hamburger. Scrosta le frange di albume e di carne che sono rimaste attaccate e pulisce quella parte della piastra passandoci sopra uno straccio. Masticando si volta a vedere se la cassetta di metallo è sempre dove l'ha messa.

Una sottile lama di sole che entra dalla porta a vetri dell'ingresso l'ha quasi raggiunta. La luce e gialla sulle piastrelle del pavimento.

Alzando gli occhi il neon che illumina il locale le appare bianco e insopportabile.

Per strada sente il vento freddo sul volto, si passa le dita di una mano sulla guancia. È calda e se la figura arrossata.

Cammina verso la fermata della subway all'angolo di Broadway e dell'ottava strada.

Scende le scale dell'ingresso, butta la sigaretta non finita su uno dei gradini dove ci sono molti altri mozziconi.

Schiacciandola con la scarpa dice "Marcellin Tshitenzi."

Pronuncia il nome che ha in testa a voce alta, involontariamente.

Si accorge che due uomini vicini lo devono aver sentito ma non si voltano a guardarla.

Fanno i gradini di corsa perché sulla scala sentono già il rombo e il tremore violento della ferrovia che passa sotto.

Appena arriva nel buio della galleria su un binario centrale passa un espresso velocissimo scuotendo il suo carico. Lo spostamento d'aria e il rumore le fanno strizzare gli occhi.

Riaprendoli vede il fanalino rosso di coda che si allontana, pezzi di giornale e di carta che si posano di nuovo tra le rotaie venti metri piú in là dopo essere stati sollevati e risucchiati dalla corsa.

Sale sul suo treno dopo che le porte idrauliche a pressione si sono spalancate sibilando e scorrendo sulle guide.

Il vagone è affollato, non trova posto a sedere e si aggrappa a una bianca maniglia di porcellana ancora tiepida del calore di un'altra mano che l'aveva tenuta stretta.

Nel viaggio sente che la cassetta di metallo picchia leggermente a intervalli, seguendo le scosse del vagone, contro le ginocchia di un uomo che legge il giornale seduto di fronte a lei.

Dà una scorsa automatica alle testate, guarda le immagini e le scritte pubblicitarie nelle locandine infisse sopra i finestrini. Scende alla quarantaduesima strada e prende un autobus.

Infila le monete del prezzo del biglietto in un contenitore di vetro al fianco del conducente. All'interno ci sono un piccolo imbuto e un tubo ritorto di ottone che ticchettando macinano il denaro e lo depongono sul fondo. La maccbinetta fa rintoccare un campanello se l'ammontare non è esatto.

Con questo tintinnio continuo nelle orecchie, con i respiri umani, con gli odori caldi e vicini dei capelli e dei cappotti, con il sole che passa attraverso il finestrino e l'abbaglia, si sente assopire e arriva alla U˙N˙ Plaza.

Scende nello spiazzo largo, bianco di marmo e ventoso. Davanti a lei brilla la facciata verde di vetro del grattacielo che riflette le case di fronte e l'acqua azzurra del fiume su cui passano chiatte e rimorchiatori.

Legge PepsiCola scritto in grande sulla fiancata bianca rossa e blu di una chiatta.

Distingue il carico alto e giallo di cassette.

Al cancello mostra una tessera plasticata al poliziotto di guardia. La giacca blu sul fianco destro è sformata dal fodero della pistola, dalle manette e dallo sfollagente che tiene al di sotto attaccati al cinturone.

Il poliziotto le indica a sinistra il posto di controllo.

Entra nella stanza e appoggia su un banco la borsa di cuoio e la cassetta di metallo.

Apre la borsa. Toglie le tre macchine fotografiche e la inclina verso i poliziotti che stanno dietro il banco perché vi guardino dentro.

Ci sono una diecina di scatolette gialle di rullini Kodak e l'esposimetro.

"O˙K." Un poliziotto batte con le nocche sulla cassetta di metallo. Apre anche quella.

Nell'interno foderato di velluto rosso é adagiato un teleobbiettivo in acciaio Schneider 300 lungo una sessantina di centimetri. Guardandolo con i poliziotti vicini le fa Peffetto di un'ogiva. Uno di loro sgancia le fibbie di cuoio che lo tengono fermo, lo toglie dal fodero e guarda nell'imboccatura circolare.

C'è quasi mezzo metro di tubo vuoto prima che comincino le lenti.

Non vi trova alcun oggetto nascosto e le fa cenno d'andare. Cammina nel largo spiazzo di lastre bianche di marmo e guarda in su verso la costruzione dell'Assemblea Generale e verso il grattacielo degli uffici.

Alla sua sinistra c'è un gruppo di turisti che seguono una guida e davanti a lei ci sono persone che escono dalla porta centrale e si dirigono verso l'uscita camminando in senso contrario al suo.

Cerca di figurarsi dettagliatamente questa scena con il movimento delle persone nei cappotti scuri sulle lastre bianche, la catena blu di poliziotti sotto i pennoni, le bandiere colorate dei paesi che sventolano, la ringhiera, la fila di alberi giovani verso il fiume, come se la vedesse dall'alto, da una delle finestre dei saloni e dei corridoi.

All'interno si mette in fila con altri fotografi aspettando che l'addetto stampa le assegni un posto. Le tocca la cabina numero cinque.

Lega a un bottone della giacca un cartoncino rosa con il suo nome scritto a matita sotto un grosso cinque impresso in nero.

Sale per le scale mobili al piano dell'Assemblea e da lí per scale piú strette all'emiciclo di cabine sopra la sala.

In basso i banchi dei delegati sono ancora quasi tutti vuoti. Osserva le guide in divisa sedute su una fila di poltrone che parlano tra di loro e aspettano l'inizio della seduta come le maschere in un teatro aspettano l'arrivo del pubblico e l'inizio della rappresentazione. Le luci sono basse. Sul sipario dietro il podio della presidenza, lo stemma, il mondo nei cinque cerchi all'interno di una corona d'alloro. I fotografi stanno prendendo posto nelle cabine semibuie e sistemano le macchine.

Toglie la Pentax nera dalla borsa, lo Schneider freddo al tatto dalla cassetta e li avvita assieme.

Apre, allarga il treppiedi e avvita il teleobbiettivo con la macchina sul perno del treppiedi finché non la sente ben stretta e aderente alla piastra portante.

Avvicina l'occhio al mirino, con la sinistra prova la messa a fuoco, con la destra stretta sull'impugnatura di una leva imprime un movimento girevole verso l'alto e verso il basso alla testa portante alla macchina e all'obbiettivo.

Dal buio delle cabine escono altri teleobbiettivi puntati. Lega una catena infissa nel muro attorno alla macchina e al treppiedi per impedire che possa cadere e precipitare in basso. Va all'ufficio di Domínguez al piano della stampa estera, lo trova vuoto e lascia un biglietto sulla macchina da scrivere.

Andando verso il bar e la cafeteria lo scorge in fondo a un corridoio che parla con il delegato di una nazione araba.

Aspetta l'inizio della seduta fumando, bevendo un caffè assieme a altri fotografi nella cafeteria davanti al televisore a circuito chiuso che riprende senza audio la sala dell'Assemblea mentre si sta affollando.

Nella cabina semibuia si sentono i respiri le parole sussurrate tra i quattro fotografi il corto ronzio lo scatto dei venticinquesimi a cui fotografano.

Le luci della sala si riflettono sui vetri delle cabine chiuse dietro cui stanno i traduttori e i commentatori della radio. Tiene l'obbiettivo puntato sulle mani del presidente di quella repubblica di cui si dice che...

Nel vetro smerigliato del reflex le mani sono bianche e ben curate. Le unghie strappate forse ricrescono perfettamente senza lasciare cicatrici, la tortura dei fiammiferi, le bruciature all'estremità di ogni dito... Se è vero non sono rimasti segni, o a questa distanza la lente non è sufficiente per...

Escono dalla galleria calda della sotterranea e si trovano nell'Avenue larghissima, a sei corsie quasi deserta e battuta dal vento. Le montagne russe le ruote le giostre del Luna Park immenso sono mostruose e ferme contro il cielo. Ha smesso di nevicare.

Attraversano l'Avenue e dal parapetto guardano giú verso la spiaggia e il mare mosso. Sulla sabbia c'è della neve. A destra e a sinistra fin dove arriva lo sguardo vedono a intervalli regolari le sagome scure dei pontili di legno gettati verso il mare.

In fondo la figura piccola di un uomo.

Scendono sulla spiaggia e camminano verso quel punto. Controvento. Passano davanti a due pontili. Sotto le assi di legno, contro i pali infissi nella sabbia il rumore delle onde è del tutto diverse. Ci sono le orme dei passi di un uomo sulla sabbia bagnata e sulle chiazze di neve non sciolta.

Dei gabbiani volano nella loro direzione stridendo.

Li vedono roteare sopra quell'uomo e poi abbassarsi. Contano piú di quindici gabbiani che gli zampettano vicino. Si fermano a pochi metri di distanza quando vedono che vengono a beccargli il pane dalla mano e si appoggiano come piccioni sulle sue spalle e sulle sue braccia tese in avanti.

Restano immobili. Gli uccelli li fissano con i loro occhi rossi poi si avvicinano anche a loro con quell'andatura da gobbi che dà loro lo sterno carenato. Alcuni riposano con la testa girata e affondano il becco giallo tra le piume bianche e grigie, dietro, in mezzo alla schiena.

"Non ho mai saputo che i gabbiani si avvicinassero cosí..." dice. Quando vedono che l'uomo ha finito la sua scorta di pane gli chiedono come sia riuscito ad ammaestrarli.

Spiega che gli uccelli lo riconoscono, che viene ormai da quindici anni, l'inverno. Non d'estate perché la spiaggia è troppo affollata e i gabbiani trovano da mangiare facilmente.

Dice che anche sul Baltico dove era vissuto da ragazzo era riuscito a fargli prendere il pane dalle sue mani. Che quel mare l'inverno gela come l'acqua di uno stagno. Sotto i quaranta gradi e a volte cosí subitaneamente che le onde sono bloccate in rilievo con le creste come in un calco, come in un grigio fondale fotografico dove il mare sia stato fissato nel suo movimento.

Protende il braccio, inclina la mano e disegna nell'aria le onde per sottolineare la sua immagine.

Con quel movimento la manica del cappotto gli scopre un pezzo di braccio sopra il guanto. Sulla pelle del polso c'è un numero. Tatuato.

La seduta ha termine alle dodici e trenta. L'aggiornamento è fissato per le quattordici e trenta.

Durante l'intervallo per il pranzo aspetta Domínguez al bar dei delegati. Dalle vetrate vede i gabbiani che volano sull'East River, sente le sirene dei rimorchiatori il brusio della conversazione. Beve un dry martini gelato in un bicchiere leggero triangolare come la punta di un diamante capovolto su uno stelo sottile. Il liquido fa da lente, ingrandisce l'oliva nel fondo e diminuendo lascia delle vaghe tracce oleose sul vetro.

In lontananza le Blue Ridge Mountains sono azzurre.

Sullo spiazzo della rampa di prova dei missili si rincorrono le ombre delle nuvole.

Gli anemometri che segnano la velocità del vento girano costantemente, le maniche di tela a strisce bianche e rosse che indicano la provenienza del vento sono gonfie e rivolte verso sudsudovest.

Una corrente d'aria calda e umida soffia in direzione nord sulla superficie terrestre e una forte corrente piú secca soffia da occidente a quote piú elevate.

L'aria umida si riversa a nord provenendo dal golfo del Messico, l'aria secca dopo aver superato le montagne si dirige a forte velocità verso oriente.

Cumuli, masse isolate di nuvole si sviluppano rapidamente in senso verticale e in forme tondeggianti.

A quote piú alte si formano i cirri che hanno un aspetto filamentoso e serico.

"È come se queste nuvole in movimento riescano a riflettere a rispecchiare lo spazio, la grandezza del paese," dice.

"Se potessi essere portata in un punto qualsiasi degli Stati Uniti senza sapere su quale continente mi trovo, credo che mi basterebbe guardare il cielo per capire dove sono, lo senti? lo senti anche tu questo?"

Con le dita separa due strisce della veneziana abbassata e guarda fuori.

"Qui a New York le masse d'aria che soffiano dall'Atlantico si incontrano con quelle piú fredde che scendono dai monti Alleghany paralleli alla costa. Altre correnti altre pressioni altri fronti e altri oceani sviluppano e sospingono altri tipi di nubi. I cieli di questo paese sono diversi dai nostri," dice Domínguez.

"Quella torre goticovittoriana laggiú è un palazzo di giustizia, la Jefferson Market Court dove vengono processate le donne. E quella costruzione in mattoni rossi e un carcere femminile. Me ne sono accorto mentre eri via.

"Le detenute sono negre e portoricane. È una settimana che le osservo con un cannocchiale."

Lei esamina dei fogli di provini con una lente, seduta a un tavolo sotto la luce forte e diretta di una lampada snodabile.

"I tedeschi sono dodici," dice, "parlano l'inglese con un forte accento...

"Uno di loro ha una cicatrice di Mensur che gli taglia a metà la guancia sinistra dallo zigomo al mento.

"Si mette in posa di profilo. Si lascia fotografare solo sul lato destro.

"Si occupa dell'elaborazione dei dati in tutte le fasi di ricerca di sviluppo e di testing dei veicoli spaziali. Dirige il reparto dei sistemi elettronici di calcolo."

La progettazione dei modelli di questo sistema ha tenuto conto di tutte le esigenze applicative: memorie accessibili ad alta velocita e di grande capacita, i migliori dispositivi per l'elaborazione a distanza, capacità di elaborare informazioni di tipo scientifico contenute in campi di lunghezza sia fissa che variabile.

Il sistema è stato realizzato utilizzando la microminiaturizzazione dei componenti e dei circuiti.

La resa totale è stata accresciuta mediante nuovi princípi che realizzano una maggiore efficienza interna di macchina, ad esempio: organi logici come gli accumulatori non implicano piú necessariamente un certo tipo di struttura fisica.

Il sistema è capace di supervisionare se stesso, richiedendo pochissimi interventi manuali da parte dell'operatore.

Questa supervisione è realizzata mediante programmi di controllo, canali per il comando e il controllo delle operazioni 1/0, il sistema per il conteggio del tempo reale, il sistema di protezione della memoria e un sistema di controllo delle interruzioni.

Le unità del sistema sono allineate contro le pareti e al centro di una costruzione progettata per contenerle.

Il locale misura cinquecento metri quadri.

Segue il Dr˙ Hoelzer nel suo giro. Ci sono pochi tecnici in camice bianco. Vede le spie luminose sui pannelli delle unità di controllo che si accendono e si spengono a intermittenza.

Vede i cavi neri ricoperti di gomma larghi trecinque centimetri che si snodano sul pavimento di linoleum e fasci di fili sottili rossi gialli blu bianchi verdi.

"Piú di seimila chilometri di fili," dice Hoelzer.

Le indica le unita principali del sistema: quelle di controllo, le terminali di interrogazione, le consoles, le unità e nastri magnetici, le Hypertape, le unità di commutazione, i lettori di nastri di carta, le memorie a dischi, le unità a celle, le memorie a tamburo e DISPAC, i lettori perforatori, le stampatrici, i lettori di caratteri numerici, i lettori di caratteri alfanumerici, i lettori di pagine, le unità di adattamento, i sistemi per la raccolta la trasmissione il controllo dei processi di dati.

Il sistema di controllo delle interruzioni rende possibile il funzionamento continuativo.

La necessità di rendere la procedura di interruzione rapida e semplice richiede l'adozione di un metodo altamente efficiente per il passaggio dal programma interrotto al programma che esamina ed elabora le cause delle interruzioni stesse.

Tale metodo funziona nella seguente maniera: lo "stato" complete del programma in corso è descritto in una doppia voce di 8 bit.

Questa doppia voce che contiene il contatore delle istruzioni, il codice di condizione, il codice di protezione della memoria ecc˙ viene memorizzata all'atto della interruzione e poi ripristinata quando l'interruzione è stata servita.

Infatti non appena avviene l'interruzione, le informazioni relative allo stato del programma, insieme all'indicazione della causa dell'interruzione, sono collocate in una doppia voce (di 8 bit) denominata "voce di stato del programma" (PSW).

La PSW è memorizzata in una posizione fissa della memoria, l'indirizzo della quale dipende dal tipo di interruzione. Il sistema estrae automaticamente una nuova PSW da una differente posizione fissa della memoria, il cui indirizzo dipende parimenti dal tipo di interruzione. Ogni tipo di interruzione usa due posizioni fisse della memoria centrale: una che riceve la PSW quando avviene l'interruzione, e l'altra che fornisce la nuova PSW che da l'avvio al trattamento dell'interruzione.

Non appena l'interruzione è stata servita, una istruzione utilizza la PSW memorizzata per ripristinare il programma nello stato precedente all'interruzione.

I tipi di interruzione sono 5:

1˙ Interruzioni da "programma" causate da vari errori di programmazione: l'indicazione dell'errore è contenuta nella PSW.

2˙ Interruzioni da "chiamata del supervisore" causate dall'esecuzione della istruzione (Supervisor call) che espressamente passa il controllo dell'elaborazione al programma Supervisore: indicazioni speciali, estratte dall'istruzione "Chiamata del Supervisore," vengono inserite nella PSW.

3˙ Interruzioni "Esterne" causate dalla richiesta di attenzione da parte di un dispositive di 1/0 o dall'orologio di macchina che ha raggiunto il valore zero.

4˙ Interruzioni per errori di macchina (machine Check), causate dai circuiti di controllo della unità centrale. Automaticamente viene adottata la procedura per la diagnosi del guasto.

5˙ Interruzioni di 1/0 causate dal termine di una operazione di una unità di 1/0: l'indirizzo dell'unità e del canale che causano l'interruzione è inserito nella PSW, inoltre lo stato dell'unità è memorizzato in una posizione fissa della memoria.

Alcune interruzioni da "programma," tutte quelle Esterne e tutte le interruzioni da 1/0 possono essere mascherate (ignorate). Se mascherate, le interruzioni esterne e da 1/0 sono tenute in sospeso e considerate nel seguito a discrezione del programma.

Durante l'esecuzione di una istruzione possono manifestarsi piú interruzioni e in tal caso queste sono elaborate in un ordine di priorità automaticamente stabilito.

Segue il Dr˙ Hoelzer per un quarto d'ora e lo fotografa mentre si sofferma davanti alle unità del sistema e discute con i tecnici. Le macchine emettono vibrazioni e ticchettii sommessi ma di colpo sente il vagi to di un neonato.

Il pianto appena percepibile si ripete come una debole implorazione.

Ascolta, guarda il Dr˙ Hoelzer, cerca di capire qualcosa dall'espressione del suo volto che non è cambiata.

Aspetta di risentire il lamento una quarta e una quinta volta per esserne certa. Si guarda intorno. Vede i calcolatori allineati, le spie luminose sui pannelli di controllo che si accendono e si spengono a intermittenza, le bobine dei nastri magnetici che girano sotto vetro, le leve delle stampatrici che si alzano e si abbassano, le schede perforate che seguono il loro itinerario e si ammucchiano in un parallelepipedo di acciaio, i tecnici, il Dr˙ Hoelzer.

Gli chiede una spiegazione. Gli chiede se può avere sentito un neonato che piange lí dentro.

Il Dr˙ Hoelzer ascolta un attimo e la rassicura.

In effetti l'ha sentito, lo sente. Si tratta del dispositivo che indica l'interruzione del programma di una unità.

"È stata scelta la riproduzione del pianto di un neonato come segnale d'allarme ma avrebbe potuto essere qualsiasi altro suono: una serie di note dal Valzer di Strauss, il rintocco di una campana, il nitrito di un cavallo," dice.

"Dalla strada non si possono vedere.

"Davanti a ogni finestra oltre le sbarre c'è uno schermo di legno che impedisce anche a loro di guardare giú," dice Domínguez.

"Gli schermi arrivano solo a metà vetro per fare entrare la luce.

"Dai piani alti delle case vicine perciò si vede nell'interno delle celle.

"Se una di loro si accorge che la stai guardando ti grida dietro degli apprezzamenti, delle oscenità quasi sempre in spagnolo. Le altre che la sentono si affacciano tutte e l'intera prigione..."

Si alza dal tavolo e va anche lei alla finestra.

Vede in basso l'avenue larga a sei corsie e a senso unico, i taxi gialli le automobili sull'asfalto scuro quasi nero, i pedoni sui marciapiedi, le vetrine dei negozi sotto le strisce colorate di insegne che nascondono i primi piani delle case, i reticolati delle scale antincendio, i muri di mattoni rossi, sui tetti i serbatoi dell'acqua, in fondo il minareto del palazzo di giustizia e la grossa costruzione del carcere. Prende il cannocchiale... le teste nere e ricce di due detenute, un tramonto con le palme e il mare su una foto a colori attaccata al muro di una cella.

"Ho calcolato che ci vorrebbe un tremila o un duemila per prenderle. Un tele cosí si può costruire, si può fare da noi applicando a un cinquanta sulla reflex dei mezzi binocoli. Non verrebbe a costare piú di duecento dollari, sono stato da Peerless e ho chiesto," dice Domíguez.

"Bisogna farlo," dice, "bisogna assolutamente farlo!"

Mette a fuoco una negra che si applica del rossetto alle grosse labbra viola. Si trucca con la luce che entra dalla finestra. Ha uno specchietto in mano. La bocca e la mano sono incorniciate nel riquadro di una sbarra.

"Dobbiamo farlo!" ripete.

"Dovremo fare molte prove prima di ottenere qualche risultato. Con simili lunghezze focali..."

"Ci faremo prestare la camera oscura da Peter. Svilupperemo e stamperemo noi i rullini. Non c'è fretta, ma l'idea è..."

Prendono la Pentax escono e vanno verso la fermata della subway all'angplo della quattordicesima con l'Avenue of the Americas.

È già buio, fa molto freddo, le macchie di bagnato sull'asfalto si stanno ghiacciando.

Camminano in fretta per arrivare da Peerless in tempo prima che chiuda.

Superano un beatnik in bluejeans e giacca a vento che si porta dietro un porcospino al guinzaglio.

La bestia che zampettava dietro il padrone sul marciapiede si impunta quando arriva su una grata per lo sbocco dell'aria di una galleria della subway. Sente delle zaffate calde e piacevoli sul ventre e non vuole andare avanti.

Vedono il ragazzo che si volta per vedere cosa abbia fatto fermare il porcospino.

Quando capisce lo tira trascinandolo con le zampette sempre puntate sulle sottili liste di ferro.

Da Peerless Louie il commesso da cui si servono abitualmente dice loro che il negozio questa sera resta aperto fino alle otto, e li accompagna agli scaffali delle occasioni.

Si trovano di fronte a cinquanta metri di pezzi di ricambio, di apparecchiature usate.

Hanno due ore e dovrebbero poter trovare quello che cercano. I commessi non hanno tempo per aiutare i clienti nell'acquisto di questa merce di seconda mano e a buon mercato. (Nel negozio ci sono delle telecamere puntate che dissuadono dai furti.)

Trovare le ghiere di applicazione adatte e gli aggiuntivi nel mucchio di pezzi disparati davanti a loro le sembra impossible.

Guarda quell'accozzaglia di roba sotto i cartelli stampati che ripetono "OCCASIONE!" per cinquanta metri.

Dice a Domínguez che non ce la fa, si sente troppo stanca troppo disgustata da tutto quel neon per "chi si mette a cercare qui dentro deve avere la stoffa dell'artigiano," dice Domínguez.

Escono e vanno a sedersi in un bar vicino. Ordinano due martini, "la pazienza, l'energia"

Ascoltano un piano alla filodiffuisione. "degli uomini che lavorano per conto loro e hanno perso l'abitudine di parlare. I pescatori per esempio i falegnami i guardiani delle ville," ride, "soprattutto questo: non parlano e forse sanno anche essere... Tutti gli altri sono ammalati."

Pesca l'oliva dal fondo.

"Domínguez! "dice, "non è possibile che noi..."

Tornano da Peerless.

Comprano uno Spacemaster giapponese con due oculari da 15X e da 25X, una lima pinze tenaglie e dei cacciavite sottili come aghi perché dovranno fare alcune correzioni per conto loro manualmente.

Usando il 15X ossia il quindici ingrandimenti ottengono un'escursione di lunghezze focali che vanno da un minimo di 750mm ƒ12,7 a un massimo di 1320mm ƒ22. Usando il 25X, da 2160mm ƒ38 a 3000 ƒ50. Lo Spacemaster però è alquanto ingombrante. Si sforzano di smontarlo. Stringendolo e girandolo Domínguez riesce a svitare la parte anteriore (l'obbiettivo) dalla parte posteriore che comprende oculare e sistema per la messa a fuoco.

Cominciano a concepire il mondo come rappresentazione di due possibili tipi di obbiettivi: il positivo e il negativo (uniti fanno il classico cannocchiale di Galileo).

"Datemi un positivo e un negativo che si adatti e vi rappresento il mondo con tutti i suoi pori!"

"Ma chi fa gli elementi negativi da mettere dietro ai teleobbiettivi in modo da moltiplicare il loro potere d'ingrandimento?"

Cercano e in breve si rendono conto di una congiura nell'industria ottica per fare comperare al consumatore un teleobbiettivo diverso ogni volta che ha bisogno di una lunghezza focale diversa.

Zeiss, è vero, fa un monoculare del suo famoso binocolo 8x30 (otto ingrandimenti per trenta millimetri di obbiettivo che in un binocolo cannocchiale telescopio ecc˙ corrisponde allo ƒO luminosità degli obbiettivi fotografici).

È un mezzo binocolo piccolo che si può avvitare rapidamente sull'obbiettivo normale da 50mm e farne un: 50 x 8 = 400mm.

Sarebbe come saltare vicino al personaggio o alla scena troppo lontani per riempire il negativo.

Ma si adatta solo alla Contaflex e per macchine da professionisti non è abbastanza inciso.

Leitz, è vero, fa una minuscola lente negativa da avvitare sul fondo di un Hector 135mm ƒ4,5 allo scopo di farne un monoculare. Ma si accorgono che poi non lo possono mettere sulla macchina fotografica a meno di smontare la montatura, fare rifare la ghiera di adattamento in modo da infilarlo dentro un Sonnar 135 ƒ4, aggiungerci opportune prolunghe (altrimenti l'ingrandimento è poco e gli angoli sono fuori fuoco) e alla fine prendere un altro adattatore che si avviti a una Miranda reflex.

Lo ƒ però scende a cifre minuscole e quindi abbandonano questa direzione di ricerche.

Fissano i loro appuntamenti di lavoro in maniera tale da avere libera un'ora al giorno per passarla assieme nella ricerca dell'elemento negativo adatto.

Domínguez che lavora per un quotidiano francese trasmette ogni giorno l'articolo alle sette per telescrivente dal suo ufficio nell'Herald Tribune Building vicino a Times Square.

Ma alle cinque deve già essere a casa per ascoltare le notizie della sera alla radio e alla televisione.

Lei sta facendo in servizio sui pittori newyorkesi e lavora soprattutto la mattina o di primo pomeriggio per ragioni di luce. Di solito si incontrano verso le quattro.

Comincia la lunga ricerca di elementi negativi abbandonati negli Army and Navy surplus stores fra vecchi periscopi, collimatori, mirini per bombardieri ma le lenti sono cosí ben montate e conficcate dentro i particolari elementi che senza una officina meccanica con torni ecc˙ non vale la pena di spendere nemmeno quel centesimo del loro vero valore.

Vanno agli Stands giapponesi alle mostre fotografiche, vanno al Japan Camera Center, parlano con tutti i riparatori di macchine fotografiche dagli occhi a mandorla.

"Perché nessuno fa un elemento negativo con montatura adattabile a tutte le reflex che moltiplichi il potere di ingrandimento del teleobbiettivi disponibili?"

Seminano l'idea e aspettano con fiducia.

Sanno che alcuni dei piú promettenti giovani ottici giapponesi stanno lasciando l'impiego e mettendosi assieme con l'aiuto di capitali americani per produrre in proprio elementi negativi da vendere a basso prezzo.

Sanno che nei sinistri angiporti orientali i tecnici si riuniscono e si scambiano informazioni sul vertiginoso aumento nel mercato americano di richiesta per elementi negativi che trasformino gli obbiettivi a lunga focale in veri teleobbiettivi o raddoppino il potere dei teleobbiettivi esistenti. (Ignorano che sono sempre le stesse due persone che girano di Kogatu in Kogatu a fare la richiesta.)

Un giorno, a pagina cinquantasei di una delle tre riviste fotografiche che leggono da copertina a copertina, la risposta.

È un piccolo "ad," parte della pagina di Spiratone, negozio di sottoprodotti fotografici. Si chiama Telextender.

Costa quindici dollari e quasi raddoppia il potere di ingrandimento di tutti gli obbiettivi dietro cui si monta.

I vantaggi che dà sono: leggerezza, portabilità, canna corta meno sensibile al vento, alle deformazioni delle montature provocate dalla dilatazione dei metalli al sole nonché dalla circolazione di aria all'interno dell'ottica.

Lo comprano. Caricano la Pentax con una pellicola veloce, una Tri x quattrocento ASA, la fissano sul treppiedi e cominciano a scattare dei rullini di prova.

In casa c'è spazio sufficiente per potersi allontanare abbastanza da un oggetto e fotografarne un particolare.

L'appartamento è composto da una sola grande stanza. È una "loft," un magazzino dove un tempo veniva custodita la merce. Prima di loro ci aveva abitato un pittore e lo usava come studio. La stanza misura centocinquanta metri quadri. Il bagno e la cucina sono stati ricavati in due angoli con dei paraventi di compensato. Dirigono un faro sul telefono e ne misurano la luce riflessa con l'esposimetro. Scattano delle foto variando i tempi di posa e di apertura dell'obbiettivo. Su un foglio di carta segnano i dati di ogni fotogramma per potere poi verificare con quale combinazione hanno ottenuto il risultato migliore.

Spostano il telefono lo mettono in terra e lo fotografano. Poi su un armadio e scattano nuovamente per vedere le distorsioni prospettiche dovute alla posizione non perfettamente orizzontale della macchina. Sviluppano i rullini di notte quando la camera oscura di un loro amico è libera.

Confrontando le foto stampate con gli appunti concludono che il valore di apertura luminosa della combinazione fra obbiettivo e aggiuntivo varia in rapporto all'allungamento della focale.

Il diaframma deve essere adoperato sempre totalmente aperto anche nella ripresa, non solo nella messa a fuoco: la chiusura parziale introduce vignettatura, caduta di nitidezza e di luminosità alla periferia del cono immagine.

Giudicano invece ottimi gli effetti di compressione dei piani (inevitabili con gli obbiettivi a focale lunga che abbracciano un angolo minore di quarantacinque gradi) e le distorsioni prospettiche accentuate nelle foto eseguite con la macchina non orizzontale. Puntano poi l'obbiettivo sulla strada e sulla prigione alzando appena il vetro della finestra e tenendo le veneziane abbassate per non essere visti dalle detenute.

Esaminando le foto stampate si rendono conto che l'aria ha uno scarso potere risolutivo a simili distanze.

Lo spessore dello strato d'aria interposto tra la macchina e il soggetto produce conseguenze dannose alla nitidezza dell'immagine. Si fa sentire in modo sempre piú accentuate man mano che la distanza aumenta.

La polvere e il fumo non si possono perforare nemmeno con i filtri. È quasi impossibile trovare il modo di fermare i serpeggiamenti dei pali e le onde delle orizzontali nelle grandi distanze.

Dalla prigione si alza un velo di calore un tremolio gelatinoso quando il sole vi batte sopra.

È invisibile a occhio nudo ma il tremila lo coglie.

I mattoni della facciata e le sbarre alle finestre si deformano e appaiono come sciolti nell'immagine stampata e torbida.

Vorrebbero provare l'obbiettivo in alta montagna senza onde di calura ma sono sicuri che attraverso una valle, ad esempio, con l'acqua del torrente piú calda della neve, lo stesso fenomeno si ripeterebbe.

L'ideale sarebbe fotografare un mondo tutto alla stessa temperatura o, in mancanza di questo, starsene bene addentro nell'ombra di modo che i tremolii dell'aria siano presenti solo in lontananza.

Nelle settimane che seguono fanno altre prove uscendo di casa. Si rifugiano nell'ombra, sistemano il treppiedi e preferiscono fotografare sopra la vegetazione (perché assorbe calore) e oggetti verticali al sole (perché sono rivestiti di un solo velo di aria calda che sale).

Provano con una pellicola a colori.

Scendono alla Battery, la punta estrema dell'isola di Manhattan dove le acque del flume Hudson si incontrano con quelle dell'East River al largo nell'Atlantico. Le maree dei due fiumi congiungendosi .formano un gorgo che i piloti chiamano "il ragno."

Intercettano una nave mercantile nell'oceano.

Gli alberi le gru e lo scafo sono dipinti in minio.

La vedono compressa nel vetro smerigliato quadrata e distorta come nel disegno di un bambino.

Il mare che solca è verde scuro e appare denso come metallo fuso. La prua incidendo quel crogiolo sprizza scintille di schiuma bianca.

Con un traghetto vanno alla Staten Island.

"...

I lift my lamp beside the golden door!"

Dal basso: la corona a raggiera l'occhio il naso la bocca e una guancia del volto di rame incandescente nella luce del tramonto.

La lancetta dei minuti nel mostmoso Colgate clock di Jersey City lunga e pesante come un'alabarda.

Gli uomini del fiume dicono che cali sulla mezza piú in fretta di quanto non risalga l'ora.

Un rimorchiatore rosso dei vigili del fuoco che dà il benvenuto del porto a una nave passeggeri spruzzando al cielo i suoi getti d'acqua.

Le tre ciminiere rosse e nere della Queen Mary, un pezzo di fiancata bianca e rettangolare incisa da finestre e oblò a distanze regolari, perforata come una scheda.

Un rimorchiatore controluce sfuocato e torbido con la sagoma nera e minacciosa come quella di un sottomarino che emerge dall'acqua d'oro davanti alla skyline. Le cime dei grattacieli tremolanti, accese come torce nel disco rosso del sole che tramonta.

Fine

Finito di stampare il 31 marzo 1966
da"La Tipografica Varese"
Varese