VERSI
DI
DIODATA
SALUZZO ROERO.

Volume I.

CORRETTA ED ACCRESCIUTA

VOLUME I.

Prezzo fr. 4 50 cent.



VERSI
DI
DIODATA
SALUZZO ROERO

QUARTA EDIZIONE

CORRETTA ED ACCRESCIUTA

VOLUME I.

TORINO
VEDOVA POMBA E FIGLI
STAMPATORI E LIBRAI

M.DCCC.XVI.

ALLA · MEMORIA · IMMORTALE
DEL · CONTE
GIVSEPPE · ANGELO · SALVZZO
FONDATORE
DELLA · ACCADEMIA · DI · TORINO
ED
ALLA · SIGNORA · CONTESSA
DI · LVI · VEDOVA
GIROLAMA
CASSOTTI · DI · CASALGRASSO
DIODATA · LOR · FIGLIA
QVESTI · SVOI · VERSI · CONSACRA

Indora il sole il rustico mio tetto, E m'invita ch' io torni al verde bosco; Salutare il mattino è mio diletto Quando il giorno succede all' aer fosco. Prema la morbidezza il vano letto, Cui danno è 'l sonno, ed il riposo è tosco; Vegli il sozzo livore, ed il sospetto, Che sospetto e livore io non conosco. Sola talor, col crine inanellato, Peregrina su Pindo andar mi piace, Cinta di fresche rose il plettro aurato. Poi quando torno io siedo in grembo a' fiori, Del Sol nascente alla diurna face, E son l' aure e i ruscelli i miei tesori. Quando sorge il mattin, sorgendo anch' lo In verde praticel meno il mio gregge: Involontario il cuor per guida elegge Il corso breve di quel chiaro rio. Deh ! dimmi la cagion che al piede mio Senza ch' io men avveda impon la legge, E i passi miei costantemente regge Così ch' al margo stesso ognor m' avvio. Ah non è già perchè più dolce sia L' ombra in quel luogo, o l' erba sia migliore, Più fresca l' aura, o più piana la via. È sol perchè io scorgo, o scorger credo La terra u' nacqui, e per virtù del cuore Gli affetti miei colà raccolti io vedo. Sopra lo stesso stel crescean due rose: Nascer le vidi, aprirsi a poco a poco, Piegarsi entrambe, e nello stesso loco D' un cespuglio cader che le nascose. Due pomi vidi sulle piaggie erbose, Cui scherzando Natura avea per gioco Del sole oriental esposti al foco Unite sì, che non parean due cose. Colsi que' pomi, e le rose cercai Tra quelle frondi, ed alla giovin Clori Le belle rose, e i bei pomi recai; E baciandola dissi: un dono, o cara, Eccoti; in questi frutti, e in questi fiori Come tu m'ami, e com' io t' amo impara. Protervo Fauno, che saltelli e ridi, Dammi 'l tuo nappo, ch' è di nettar pieno; Certo meno leggiadro, e ricco meno È quel di Bacco, ed io l'egual non vidi. Domani all' alba, se di me ti fidi, Ti darò bianco agnel con roseo freno: Jer lo vedesti ancor nel campo ameno, Dove le allodolette hanno lor nidi. Non mi spinge all' inchiesta ingorda sete; L'acqua del fonte a me bastò finora, Nettare a me son l' onde pure e quete. Ma voglio sol quel nappo al Nume amico O ffrir in olocausto, affin ch' ognora Ei serbi a me quel mio riposo antico. O collinetta, che poggiando stai Dell' Eridan sulla fiorita riva, E che in tuo vago sen ricetto dai A una leggiadra magionetta estiva; Come sei bella, quando de' suoi rai L' occidental cadente Sol ti priva, E quando di splendor candidi e gai La pallidetta luna ti ravviva ! Come sei bella, quando fresca aurora Dietro tue cime sorge, e amabilmente I poggi tuoi verdi fronzuti indora ! E come nel mio sen pose natura Un cuor che tutta vede, e tutta sente La tua bellezza semplicetta e pura ! Auretta figlia della notte bruna, Che dolce dolce susurrando vai, E al queto raggio della bianca luna In mezzo a' fior tranquillamente stai; Apri l' ali di rose, e poi raduna Tutti gli odori più vivaci e gai, Nè integra lascia pianticella alcuna; Che un inno in premio di tal dono avrai Ma quì gli porta, dov' io siedo sola Dolce cantando il crin d' Aglaja, e 'l cinto Di lei che 'l pomo disputato invola. Forse ch' io cessi 'l canto hai tu desio? Il cesserò: sì, bell' auretta, hai vinto; Grata è tua voce più del canto mio. Dammi semplice gonna, e ghirlandella Ond' io circondi la serena fronte, E pommi al lume di vivace stella Su' lidi erbosi di tranquillo fonte. Dammi una loggia solitaria e bella Tra fronda e fronda del fiorito monte, Dove posi la fida rondinella, Provida madre, l' ali brune e pronte. Il molle lusse, le lascive feste, Il dolce inganno, la lusinga, e l' arte Volgano lunge le lor cure infeste. Meco sol si rimanga il mio riposo, E quel nume che spande in su mie carte Piacer ch' è al volgo eternamente ascoso.

I

“ In cestellino di leggiadri fiori Dormia la pargoletta Primavera; Del picciol sen gl' irrequieti avori Copria la chioma lucida leggiera. Era pinta di vividi colori La ritondetta gota lusinghiera, E de' più vispi giovanetti amori L' accarezzava la ridente schiera. L' ôra colse le rose ad una ad una, Con quelle rose le toccò 'l bel viso, Ond' ella aprì la pupilletta bruna, E sogguardando suo novel soggiorno Salutò con un timido sorriso Il sacro a Fille avventuroso giorno.

II

Il sacro a Fille avventuroso giorno, Suavemente susurrò l' auretta, T' invita a far tra noi dolce ritorno, Bambolina gentil e vezzosetta. Vate novel, novellamente adorno Di ghirlandella la sua cetra eletta, Ove freme l' altier rapido corno Del magno fiume d' Eridan t' aspetta. Non mai da ninfa o da pastore udito Un inno a Fille consacrò; d' un faggio Sulla scorza recisa ei l' ha scolpito. Recalo alla gran donna; i tuoi tesori Recale in un col meritato omaggio In cestellino di leggiadri fiori.
Qual farfalletta che d' intorno gira Ad un notturno scintillante lume, E ratto sente incenerir le piume, Trascuratella, e pur non si ritira; Vola mia mente, che a gran cose aspira, Ove ha seggio di Gloria il vano nume. Alto Ragion le grida, il tuo costume Seguì più d' un che invano or ne sospira. Ella non sente: suo cammino audace Calca verso l' eterna e somma sfera, E dietro lascia l' innocente pace. Oh cieca ! oh folle ! che varrà l' alloro, Benchè cingesse la mia fronte altera, Se avrò perduto il maggior mio tesoro? O rustica vezzosa forosetta, Che mi sogguardi mesta, e poi sospiri, D' uno stato maggior invidiosetta, Uno stato maggior dunque desiri? Nè ti piace veder la tua negletta E bionda chioma in tortuosi giri, Da roseo nastro la tua fronte stretta, Nè più la tua candida veste ammiri? Semplice ! tu non sai, l' aurate anella Quanto costino a donna eccelsa e grande, Per arte sol, non per natura bella. Col tuo vermiglio vivido colore Ben vorrebbe cangiar l' alte ghirlande, E i ricchi panni suo superbo cuore. Ofanciullini, cui sì dolce e viva Gioja si pinge nel sereno viso, Deh ! donde nasce quell' allegro riso Quel sì vivo piacer donde deriva? Si volge forse d' amarezza priva Vita immagin per voi del paradiso? O non per anco ha 'l vostro cuor conquiso La cieca alata ingiusta instabil diva? Ah ! nel vedervi mi rammento anch' io Com' era lieta in quell' età mia sorte, Com' era soddisfatto ogni desio. Che se pel vizio ogni delizia è poco, Dell' innocenza sulle quete porte Siede in grembo al dover l' allegro gioco. Buon vecchiarello incanutito e bianco, Che i giorni passi senza lutto e guai, E con tua cara vecchiarella a fianco Movendo il piè per la pendice vai; Mentre qui posi deboluzzo e stanco, Dimmi, 'l destino non t' offese mai? Ah no ! che bieca non guardotti unquanco Stella maligna co' funesti rai. Oh te felice ! a quest' età condotto Pascendo il gregge sulla balza amena Per quarantotto verni e quarantotto. Giovine i' sono, e pur io cangierei Con la cadente tua vita serena La più bella metà degli anni miei. Fonte leggiadro, che gli estivi ardori Rallenti in parte a questa piaggia ombrosa, Mentre baciando vai l' erba odorosa, E 'l pinto sen degli olezzanti fiori; Se una meta tu brami a' lunghi errori, Ruscelletto gentil, quì ti riposa: In men bassa pendice, e meno ascosa Proverai dell' està gli aspri rigori. Di più che brami? Sei di piante cinto A mille aurette, agli augelletti nido, Nè in bronzo altier vai prigioniero avvinto. Ma tu segui il tuo corso? e un van desio Incostante ti spinge al mare infido? Ah nel tuo inganno riconosco il mio ! Ape novella tra leggiadri fiori Scherzava lieta in dolce primavera, E raccogliendo giva i suoi tesori Sull' erba umil, e sulla rosa altera. L' ali battendo in mezzo a' dolci odori Dicea fra speme cara e lusinghiera; Avrà, son certa, avrà da tutti onori Quel miel ch' io giunsi a radunar primiera. Ape amica l' udi; che speri? oh folle ! Sclamò, se fosse pure opra d' un Dio Quella che industre or componendo vai, Genti vedrai del cibo van satolle Dannar l' ape ed il miele al cieco obblio: Piacere a tutti? Ah nol sperar giammai. Rabbiosetto augellin, che in lacci avvolto Vai dibattendo le fugaci piume, E desiri seguendo il tuo costume Andar liberamente all' aure sciolto; Più non si spezza il fil dove sei colto, E prima al Sol si toglierà suo lume Che 'l tuo destino, invariabil nume, D' una lieve pietà si tinga in volto. Inasprisce tua sorte il tuo lamento. Ah ! se ognora piangesse un' infelice, Il riso del piacer sarebbe spento. Tutti viviamo schiavi, ed il rigore Può sol di schiavitû render felice La tolleranza di pieghevol cuore. Bionde le chiome, e l' occhio azzurro ardente Giovinetto vid' io cinto di rose, Che mi porgea la mano, e poi repente Lieto fuggiva sulle spiaggie erbose. Lo riconobbe 'l cuor più che la mente Alle sue luci tenere vezzose: Era il Piacere; e l' alma alteramente Seguirlo ovunque, ahi cieca ! si propose, Allor m' apparve semplicetta donna, Che sulla fronte avea candor divino, E bianchissime membra in bianca gonna. E sdegnosetta, il breve error perdono, Disse, t' additerò l' alto cammino, Piacer sta meco, ed Innocenza i' sono. Se quell' insetto sì schifoso e vile, Che bava impura va spargendo intorno, Di vaghe alette si vestisse un giorno, E d' ôr coprisse la sua scorza umìle; E se dell' alba al lagrimar gentile Sul verde sermolin fesse soggiorno, E si pascesse, di beltate adorno, D' un odoroso nettare sottile; Credi tu forse ch' ei non scorderebbe L' antica sorte, e ch' egli avria memoria Che in sozzo ammanto disprezzato crebbe? Ah ch' io nol credo ! Quando stato amico Ebbro fa 'l cuor del nettare di gloria Ov' è chi sappia ricordar l' antico? Posta nel ferro sulle fiamme ardenti Polve del lampo estivo emulatrice Pria diventa licor, e poscia a' venti Spande dolce fiammella avvivatrice. Volge 'l fanciul cupidi sguardi attenti Al caldo vaso, e suon di gioja elice Battendo palma a palma, ed i portenti S' appressa ad ammirar dell' arte ultrice. Sospeso il piè, fisso lo sguardo ei tace: Oh sventurato ! con fragore orrendo Scoppia la fiamma rapida e fugace; Scoppia ! ed il fanciullino atterra e strugge. Ah ! da quell' infelice almen s' apprenda Come splende Lusinga, uccide e fugge. Fola non è, che in sen d' Italia mia Scorre un umor di così rara vena, Che verde legno tocca l'acqua appena Già s' indurisce, e par che pietra sia. Nè 'l pastorello, che lo vide pria Cinto di foglie sulla sponda amena, Il riconosce tra la fredda arena, Che intorno copre la calcata via. Passa e nol cura; ma s' è meno adorno È più saldo quel tronco, e sprezza i venti Che romoreggian sordamente intorno. Sì cangia avversitate il cuor nel seno; Men dolce il fan lunghissimi tormenti, Ma il fan rigido più, più forte almeno. Stavasi in mezzo a'fior donna ridente Di debol móle rovinosa in cima, E quanto di più bello il mondo estima Tutto scorgeva in lei mia cieca mente. Pareami 'l crin del più bell' ôr lucente, Tal che spiegarlo non m' è dato in rima, Ed avea fiamma non più vista in prima Sul roseo labbro, e sul bell'occhio ardente. Ma cadde e si sfasciò la mole antica, E seco cadde la leggiadra donna Così che pianto trasse all' alma amica. Ahi ch'era dessa Gioventù ! Sedea Di nostra vita sulla fral colonna, E al suo fato vicin non sel vedea. Oh terra ed ossa ! Oh miserandi avanzi Di chi prima di me chiuse sua vita ! Tacita parmi che fra voi si stanzi Di bruno manto Eternità vestita. Quel cener bianco ricoprì poc' anzi Alma mortal c' ha sua stagion compita: Forse avverrà che della sera innanzi Io pur qui muta dorma e scolorita. Spezza talor la più robusta pianta Soffio di vento, o folgore improvviso, Ed i fronzuti rami atterra, e schianta. Nacqui, vissi, morrò; cangia la morte In pianto amaro l' ingannevol riso, E in tempo immenso l' ore lievi e corte. Libri, velato il ciel, l' ali sue brune Madre d' orror la cupa notte, e 'l canto Lungi, ohimè, dalle altrui gioje importune Disciolga il gufo alla mia cetra accanto; E voi, che andate di piacer digiune, Alme, che il di traete in lungo pianto, Dite se fra di voi forano alcune, Ch' abbian mio duol di superare il vanto. Or volge l' anno, che tra fier dolore E giusto, ahi troppo ! mi furò la morte Il dolce oggetto di mio primo amore; Nè valse biondo crin, nè fresca guancia, Ch'Eternità dalle terribil porte Tutto ugualmente ad ingojar si slancia. Alteri marmi, che chiudete in seno I freddi avanzi di beltà divina, Voi mestamente il cuor pietoso inchina D' amor, di duol, di riverenza pieno. Colui che regge dell' etati il freno Non consenta giammai vostra ruina, Che alla straniera gente e alla latina Del nostro duol voi parlerete almeno. Lo sappia ognun, se v'ha chi non lo provi, Quanto è Morte crudele, e quanto fiera Nell' altrui danno il suo piacer ritrovi. E se mai fia quaggiù chi fidi, ahi lasso ! A gioventù la speme lusinghiera, Dolente volga a rimirar quel sasso. Genii d'amor, poichè la notte imbruna, Fra 'l dubbio volteggiar delle tenébre Venite u' s' erge maestosa e bruna Sacra ad eterno duol tomba funébre. Quì bella donna è chiusa; ad una ad una Sopra le nubi nericanti e crebre Passano l' ore; da tre anni alcuna Non fugò 'l sonno dalle sue palpebre. Amori, ahi chi la desta? ah mi recate Colme del pianto della madre amante Tre sacre alabastrine urne dorate, Beva il sasso l' umor, voi fisi intanto Mirate se ravviva il bel sembiante La dolce forza del materno pianto. I Tindaridi ancor non avean mossa L' aurata biga dell' antico Infirto, Quando di fier delir l' orrida possa Mostrommi Morte col crin nero ed irto. Ardente febbre rai scorrea per l' ossa, E tutto tutto m' accendea lo spirto; Già mi parea veder l' estrema fossa, E cangiarsi in cipresso e lauro e mirto. Ahi lassa ! ahi di cader già mi parea, E pur, chi 'l crederia? scioglieva il canto, E d' immagini l' alma si pascea. Cantava degli eroi; del colle aprico La doppia cima; e della gloria il vanto: Tanto può sul mio cuor costume antico. Scriveva Tirsi; un Amorin gentile A' piedi suoi tacitamente stava Guatando intorno dolcemente umile, E rósea penna di sua man temprava. Altro cruccioso Amor un puerile Dirotto pianto tenero versava, Altro la spada armigera virile Dal suolo invano sollevar tentava. Altro più vispo militar divisa Vestia superbo, e con dorata freccia Stava in guardia alla queta amica soglia. E 'l più leggiadro in non usata guisa Cinto di vaga fronda boschereccia Elmo faceva d' odorosa foglia. Tirsi, quell' arboscel, che un dì pianlasti Con la tua mano fanciullesca e pura Su la riva gentil, dove scherzasti Prima del genitor soave cura, I picciol rami diseguali e guasti Mai non fregiò di nobile verzura; Ed ahi ! per nostro duol saper ti basti, Che recisa cadeo pianta immatura. Vi pianser sopra i pargoletti Amori, Pianser le Muse, con la chioma sciolta Pianser le giovin ninfe ed i pastori. Erato presso di quel tronco infranto Sedè sdegnosa, e disse a me rivolta: Donna, a qual ombra scioglieremo il canto? Allor che semplicette bamboline Parlare, o Nice, potevamo a stento, Un serto feci a te di roselline: Forse 'l rammenti ancor: io lo rammento. Giuro, sclamai, che s'alle balze alpine Le mie canzoni d' eternare io tento, Eternerò 'l tuo nome: ei dalle brine D' età non fora ricoperto e spento. Mi rispondesti; amica, ah ! se vorrai Secondar col tuo voto il voto mio, Invocami amistà, gloria non mai. Nice, que' detti tuoi mi piacquer tanto, Che degli anni al cangiar cangiai desio, Ed è 'l mio cuor che ti consacra il canto. Tu sei felice! Ah! sei felice appleno, Dolce di questo cuor tenera cura; Sfavilla l' umidetto occhio sereno, Specchio verace di gentil natura. Quel caro pianto, ch' or ti bagna il seno, Timidetta perchè tua man mi fura? Lo rasciughi 'l mio labbro, o il colga almeno Su la tua gota sorridente, e pura. Quanto è dolce quel pianto! O figlie, o spose, O madri, o voi, cui l' insensibil cuore Tien così care voluttà nascose; Fuoco è quel pianto : sovra 'l freddo petto Ah vi cadesse! ah v' accendesse amore Per sì facil piacere e sì negletto! Ad un' intatta rugiadosa foglia Stava una coppia d' api avvinta insieme Con piccioletto fren, ch' ondeggia e freme, Pur non avvien che si rallenti e scioglia. Da sull' eterna luminosa soglia Dell' ori-azzurre region supreme Scese la Diva, che 'l bel cocchio preme, E 'l guida ovunque l' alma sua s' invoglia. L' Armonia riconobbi a quel sorriso, Che muove gli astri dell' eterna sfera, E fa la venustà del Paradiso. Salve, donna, sclamò, ne' canti tuoi Pingi 'l mio cocchio, in un pingi all' altera Sposa il più sacro de' doveri suoi. Qualor d' Adamo la dolente sposa Madre chiamar dal fanciullin s' udio, Non più fiera nomò, nè dolorosa La sorte, ahi sorte! a cui dannolla Iddio. Ed anzì, ebbra d' amor, bevea pensosa Coll' occhio pien di cupido desio Il breve detto, e rispondea pietosa, Ah sì! parte di me, sei figlio mio! Tu primo nato, al mesto genitore Primo conforto, e tu cresciuto un giorno Pagherai coll' amore il nostro amore. Ahi misera! strisciò sulle sue chiome Lampo d' orror, e udiss' intorno intorno; Caro ti costerà l' amato nome. Indocile del giogo in sovra 'l lido D' Inaco altier il suo cammin s' aprio La cangiata in giovenca amabil Io Vittima dell' error di Giove infido. Guardò il suo condottier occhiuto e fido, Indi nel fiume si specchiò, muggio, E nel muggir parea gridar: son io Fra tanto duol pur viva, e non m' uccido? Il padre surse, ed ella, oh meraviglia! Scrisse col piè sulla deserta riva, Ahi! che sei padre ancor, i' ti son figlia. Perchè fu grande si cangiò mia sorte, Nè andrei piangendo di mia pace priva Se d' un nume minor foss' io consorte. Cadde il fuoco dal cielo; incenerito Fu 'l bosco d' Ida; nel fatale istante Qual fu distrutta delle sacre piante, Qual restò tronco mozzo ed annerito. Sovra 'l gran monte di terror vestito Serpeggiava crudel la fiamma errante, Qualora il ferro se gli fe' davante Tra rocca e rocca del sentier romito. Tal era il fuoco, ch' in un sol momento La ferrea mole qual ruscel discese. Dattilo abitator surse contento; E disse, incendio portator di morte, Domare il ferro alfin da te s' apprese, Ch' all' arti belle la gran madre è sorte, Omai vicino a condannare i figli L' austero padre, in sì funesto errore Non la lor gioventude, e non l' amore Potean cangiar i rigidi consigli. Pera, dicea, da meritati esigli Chi richiamar tentò l' empio signore; Se i figli miei han di Tarquinio il cuore, Ceda Natura a Roma, a' suoi perigli; Schiava si giacque in sonno vil finora, E se di nuovo assoggettarla han brama, Mora Tiberio pur, e Tito mora. Misero padre!..… la condanna scrisse, Ed, oh rigor, che fe' stupir la Fama! Gli condannò, morir li vide, e visse. Ch' io viva? mai..… così dicea l' altera Vergin del Tebro di rossor dipinta, Quando si vide a schiavitù sospinta Da speranza nefanda e menzognera. Appio, ch' io viva?..… e ceda alla preghiera Da mia viltà, da tua laidezza vinta?.…. Nell' onta, ahimè! di rio servaggio avvinta Che a te mi serbi, oh tirannia! si spera?.…. Icilio, genitor, m' udite; oh Dio! Datemi morte, ch' io son vostra ancora, Nè trionfi 'l crudel nel fato mio. Dice, l' uccide 'l padre, e ben pietate Ei mostra che l' uccide, e non chi plora, Che 'l sol pregio di donna è l'onestate. Del Dio d' Abram stavasi l' occhio irato Sopra Gerusalem, nè si movea L' empia, e da' figli, e da nemico armato Lacerata periva, e nol vedea. L' occhio rapidamente forsennato Piombava Morte sulla gente rea: Terribil Fame le scorreva a lato Per trarne il caldo sangue, e sel bevea. Madre fu vista del suo figlio stesso Apprestare l' iniquo, e sozzo pasto, E in parte offrirlo all' atra turba infesta. Lo Spirito d' Averno a tale eccesso Rise guardando il suol di sangue guasto, E in quel sangue lavò l' orrenda testa. Signor del ciel, quand' io mi volgo addietro A rimirar la mia passata vita, Veggio che tempo è ben ch' io cambi metro E men stolta diventi, e meno ardita. Leggier più ch' ombra, e fragil più che vetro Ohimè! sen fugge la stagion fiorita; E se pronto perdono or non impetro, Che sarà di quest' alma sbigottita? Lo sent' io ben, che tu mi desti un cuore Che avvivò striscia d' un immenso fuoco, Ond' è capace d' un immenso amore: Dolce rispondi tu, quand' io ti chiamo! Muori per me! ed io ti prendo a gioco? Padre! ah padre! sì m' ami, ed io non t' amo Immaginar troppo vivace e forte, Che 'l duol, la gioja e la speranza pascì, Ahi perchè 'l cuore, a cui calma non lasci, Scuote invan tue moltiplici ritorte! Io piango: che d' orror tetro e di morte Tutto il mio cuor miseramente fasci; E tu presago di funesta sorte Terribil più dal pianto mio rinasci. Felicissimi voi, cui mai non venne A tormentar sì fiera smania; e voi, Cui tarpò il fato del pensier le penne; E infelice colui, che in suo pensiero Prova gli affanni altrui, gli affanni suoi, E 'l sognato dolor, e 'l dolor vero! Fiume superbo per orgoglio d' onde, Che muovi in grande maestoso letto, Ben ti vid' io vile ruscel negletto Bagnar piangendo le deserte sponde: Che là, dove 'l tuo capo alto s' asconde Sorge degli avi miei l' antico tetto, Ond' io calcai col piede pargoletto Le spesse arene tue fra quelle fronde. Ben ti vid' io ruscello; e tu fanciulla Ben mi vedesti, e ben m' udisti un giorno Nella dolce vagir picciola culla. Ma ohimè! novello flutto e nasce e nacque, E nascerà, mentr'io verrotti intorno Il mio crin bianco a rimirar nell' acque. Pingonsi capovolte immaginette Sulla retina allor che si diparte Raggio di luce da ciascuna parte Dell' oggetto guardato, e vi riflette. Le immagini gentili e picciolette Son due, se due son gli occhi: e con qual arte Sol una ne vediam, in dotte carte Il fisico sottil spiegar promette. So che quando t' ascolto, e tanto imparo Ammirando lo spirto onde mi bei Due Clori contemplar sariami caro. Ma temo, ahi! temo che a rovescio pinta Raddoppiata così io ti vedrei, E fuggirian le grazie onde sei cinta. Olucernuzza, che i notturni orrori Irraggi in parte di mia stanza oscura, Esce fiochetta la tua luce fuori, Ora sfavilla, ed or s' asconde e fura. Spegniti, lucernuzza; in cento errori Volano i sogni fra le quete mura: Fra le cortine i più vivaci fiori Sparge la turba folleggiante e pura. Ahi, lucernuzza! fra le mie cortine Passando il raggio tuo dolce cadente Turba le immaginette a me vicine. Perchè le turbi, o luce misgradita? Sai ch' all' accesa mia fervida mente La vita è sonno, il caro sonno è vita. Farfalla è l' estro; e se fermarlo credi, Semplice troppo, il tuo desir t' inganna; Ei le catene ad isfuggir s' affanna, Ed a suo genio volteggiar lo vedi. Farfalla è l' estro; e se in tua cura eccedi, E se imporgli tu vuoi legge tiranna, Egli all' esiglio si risolve e danna, E invan superbo lo ricerchi e chiedi. Farfalla è l' estro; e se lo serri, e domi, E vuoi guardarlo, colla man tua greve Del suo pregio maggior tutto lo schiomi. E quindi ancor liberamente uscito Sen fugge altrove, e solo a te la lieve Polve in sua vece si riman sul dito. Movendo il piede in regolato giro Vidi le trine Grazie in sull' erbetta, E 'l Brio sull' ali della molle auretta Sedersi lieto in trono di zaffiro. Alternando dolcissimo respiro Dormian le Muse sulla piaggia eletta, E con la chioma sua crespa negletta Uscì Bacco gentil, le Ninfe usciro. La Fantasia movendo il suo pennello Iva su foglia d' una fresca rosa Pingendo a suo piacer quadro sì bello. E a me rivolta: in questi luoghi alpestri, Disse, la cara cetra appendi e posa, E Parte impara da sì gran maestri.

I

« Su nuvoletta di leggiadre rose Un fanciullino amabile sedea, E nelle palme picciole tenea Le due gotuzze, furbicel, nascose. Qual chi dentro al pensier volge gran cose, Gli occhi azzurrigni placido chiudea; E le labbra talor dolce movea, Labbra simìli a fragole odorose. Vivo desio mi spinse, e lo baciai; Ei sonnacchioso sbadigliò ridendo, Strofinò colle dita i suoi bei rai; E rispose, destato al bacio mio: Questa nube pel ciel vassi movendo, » E su pel ciel son peregrino anch' io.

II

«Esu pel ciel son peregrino anch' io, E queste rose son mia dolce cuna; Luogo cangiai, ma non cangiai fortuna, Angiolo in terra, ed or angiol d' Iddio. Quel pianto, ah pianto doloroso e pio! Che a' rai seduta della bianca luna La madre sparge, mentre notte bruna Involve il margo del paterno rio; Sovente richiamò dal Paradiso Me, dolce figlio; e del maggior fratello Talor sul breve letticciuolo assiso, Nel picciol volto suo vedo gran cose, E spando a nembo i fiori ond' io m' abbello «Tra nuvoletta di leggiadre rose.

I

Poichè l' eterno Amor ti mira, ed ode Pietosamente il suon de' preghi tuoi Misti col suon di sua perenne lode, Ottienmi pace tu che farlo puoi. Tempo con Morte la tua salma rode, Memoria fugge, ella morrà con noi; Ma so che nel tuo cor beando gode Quel Dio che ti fa speglio a' raggi suoi. Dacchè divise siam, candido giorno Non sorse, e stammi all' affannato cuore Nube di morte ottenebrata intorno. Sola nel cieco allegro mondo sono; Io sempre, ah! sempre piansi al tuo dolore: Or tu perchè Iasciarmi in abbandono?

II

Dietro al gran velo della notte oscura Flebile voce al mio languir si duole. Odo il suon delle angeliche parole Soavemente dir: chi mi ti fura? Sciolse il mio fragil vel Sorte e Natura, Anzi il volere del divino Sole; A che piangi così? ti racconsole Pensier, che Umanità passa e non dura. Avrai pur calma nel mio seno e pace, Che qui ti aspetto, e 'l rimaner fia corto. Io le porgo le palme, e ferma, esclamo: Io t' amo sempre..… Ella rifugge, e tace. Ahi più non m' ode! e va mio grido assorto Per l' aer vano ridicendo: t' amo.

III

Alla tranquilla tua placida sede, Albergo d' onestate e di candore, S' io fanciulletta rivolgeva il piede, Rideami il volto, e palpitava il cuore. Ah! l' alma ancor rammenta, ancora vede E le dolci accoglienze, e 'l dolce amore; Udir per anco il festeggiante crede Di noi tutte fanciulle alto clamore. Adulta ti serbai la fè soave, E se mai volsi al tuo novello seggio, Recaivi meco la dolcezza antica: Or guarda indietro il mio pensier, or grave M' è il viver dove io non ti sento e veggio, O d' ogni mia stagion fedele amica.

IV

Sovra il carro del Sol vid' io colei, Che mi fea dolce quest' amara vita; Piovevan gemme i crini sciolti e bei Giù per la strada del cielo fiorita. No, così vaga da che la perdei Nel giorno dell' amara dipartita, Nè così chiara su questi occhi miei Non balenò la sua vista gradita. Come a balcone d' ôr stava del cielo Tra 'l bel fulgore, e colla man di neve Mezzo schiudeva il rilucente velo. Oh gioja assai maggior d' ogni mio vanto, Se da quel fonte ove la luce beve Ella vien tratta al suon mesto del canto!

V

È questa l' ora, è questa l' ora stessa Ch' io pur teco sedei sotto quel faggio; Notte stellata lucida s' appressa, E risplende del Sol l' ultimo raggio. Quì pur mi seggo immobile ed oppressa, E cupa guato sovra 'l suol selvaggio, Mentre mia chioma sospirosa anch' essa Lambe l' auretta del ridente maggio. Quì t' aspetto, qual pria tu m' aspettavi, E invan Ragion mi va gridando in cuore Che più non tornerai come tornavi. La tua voce, i tuoi passi, in dolce inganno Rapita ascolto; ah! senza il caro errore Come vivrei fra sì penoso affanno!

VI

Ella è pur dessa: quel soave riso Ecco sul labbro morbido ridente, Ecco il bel guardo tenero languente, E i dolci vezzi del sereno viso. Stommi col guardo mutamente fiso, Nè più 'l fiero dolor l' anima sente, Che un vivo, un forte immaginare ardente Ha 'l mesto cuor dalla ragion diviso. Aspetto, ahi van desir! ch' ella favelli, E co' teneri nomi, onde solea Chiamarmi un tempo, me dolente appelli. Taccio, spero, la guardo; alfine il santo Volto corro a baciar; la tela rea Cede al mio bacio, ed io mi sciolgo in pianto.

VII

Io piango, e 'l pianto doloroso e vano Tuo cuor, misera me! non cura e vede, Forse, svanito ogni pensiero umano, Scordasti la mia lunga e pura fede? O più non senti il lamentare insano? O nol compiangi perchè troppo eccede? Ahi come fatto è l' amor tuo lontano Da questa mia mortale afflitta sede! Tutta t' involvi nel gran Sole eterno; Scintilla accesa di quel fuoco vivo Vibri fulgor con gli angioletti alterno; Mentre del pensier mio di gioja schivo Fa cupo duolo asprissimo governo: Più non ti vedo, e più non t' odo, e vivo.

VIII

Vibrato ha Morte rea l' iniquo telo, E sciolta è l' alma da sua vesta pura. Io del marmo la chiedo al freddo gelo; Ei non cangia la sua cruda natura. La chiedo invano al non pietoso cielo, Che lei beando mie speranze fura; A te mi volgo, invan mi volgo, o dura Terra, che cuopri suo caduco velo. Orrida vista d' immenso dolore! Indarno i' piango, e torno al nudo sasso; Egli non sente il pianger mio d' amore. Tuoi giorni asperse Eternità d' obblio; Oh tu sì cara! ed io rimango? e 'l lasso Viver non sciolse quell' eterno addio?

IX

Era la chiara folgorante stella, Che 'l cuor traeva ed i pensieri a riva, Novellamente di sua luce priva Fra la crudele occidental procella. Al soffiar d' aura dolorosa e fella Dal bruno ciel pallida luce usciva; Io pel cammino stanca fuggitiva Cercava la mia scorta antica e bella. Solo poteva il mio solo pianeta Al pavido segnar piede fugace La dubbia scelta della dubbia meta. Or stommi, e manca l' ardir mio primiero, In cìeca stommi neghittosa pace Che vedo Morte al fin d' ogni sentiero.

X

Dov' è quel caro, quel soave pianto, Pianto di dolce non mentito amore, Che al solo udir del tenero mio canto Tante volte ti uscì dagli occhi fuore? Dov' è lo sguardo u' sfavillava il tanto Di me ripieno tuo sensibil cuore? Dov' è il desio d' onor sublime e santo? Dov' è il semplice tuo nobil candore? Dov' è 'l sorriso, ch' ogni detto mio Ogni scherzo leggier nascer facea? Tutto mi ha tolto, ah tutto! il destin rio. Sol men rimane la memoria amara; E dall' amor, ch' eterno io mi credea, A non amar quaggiù quest' alma impara.

XI

A venticel simìle odo lontano Tenera voce languida dolente; L' orecchio no, ma l' anima ne sente Il favellare armonioso e piano. Ella mi chiama, ed io piangendo invano Seguo 'l mio vivo immaginare ardente; Veggo l' amica balenar presente, E m' alzo e spingo ad afferrar sua mano. Lenta ella passa, lenta il nome mio Ripete, sospirosa pellegrina, E fammi un dolce di morir desio. Ch' io l' odo fuora del terreno velo Dirmi: a che tardi? fugge la mattina, Ed io t' aspetto sul meriggio in cielo.

XII

Fallace senso è l' amistà fallace, Onde si fregia ogni volubil cuore; Iniquo senso è 'l folleggiar mendace, Che dai men fidi vien nomato amore: Lusinga è gloria, e 'l so! lusinga è pace Che men stabil di gloria ha men fulgore, Fa dura guerra il duro tempo edace Alla credula speme ed al candore. Oh tu cagione del mio lungo pianto, No, non fia ver ch' altri t' involi mai Parte d' un' alma che ti piacque tauto. Ma s' io mi serbo qual veduta m' hai, Egli è favor di sorte, e non mio vanto, Che femmi scuola d' infiniti guai.
Io vidi il fuoco fra la crebra e nera Nube, che vela le tue balze alpine, O delle antiche età reina altera, Seduta or mesta sulle tue rovine. Sei tu quella sì vaga, ed ahi! sì fiera, Invidia un dì dell' emole reine? Ohimè! ricopre tua beltà primiera Un manto bruno, un lacerato crine. Ma come, oh! come, fra i tremendi orrori, Sacrarti, o madre d' infelici, e mia, Ardirò il serto degli Aonii fiori? I' t' offro i carmi alla stagion del pianto; Ma canta il cigno allor che muor, nè fia Chi vieti al cigno moribondo il canto. A voi, colonne delle altere porte, Memorie Subalpine, onor dell' armi, A voi ritorno; ed a te, sacra a morte Perenne face, che rischiari i marmi. Quand' io qui venni in fanciullesca sorte, E l' improvviso sciolsi estro de' carmi, Il re dell' alpi laggiù stava in forte Muro; e che sia solo un mattino or parmi. Io mi sedeva su corsier superbo; Seguiami il padre, e con paterno orgoglio Ei del mio sorrideva ardire acerbo. Io riedo or qui, ma quasi bianco ho il crine, Più non ho padre, è rovesciato il soglio, E sepolta è la cetra in le rovine.

I

Sedea languidamente, e l' amorose Cader lasciava morbidette braccia La bella Ausonia, cinta il crin di rose, E pinta e liscia la leggiadra faccia. Ma perchè avvien che a genti viziose Lascivia d' atti in vaga donna piaccia, Il Gallo, sceso per le vie sassose, Guarda, sorride, e la vil druda allaccia. L' indebolita man la donna stese All' amator, che in altra etade udisse Chiamar da' saggi veritier nemico. E fra indistinto mormorio s' intese Dispettosa d' Eroi voce che disse: Madre, rammenta il Campidoglio antico.

II

Al comun grido de 'suoi prischi Eroi Volse quella proterva ardito e fiero Sguardo di fuoco, e ne' begli occhi suoi Brillò scintilla del valor primiero. Impallidì, tremò, si scosse, e poi Ricercossi vicin l' elmo guerriero; Il tocca appena, e già par che l' annoi, E già ricade quel grand' elmo altero. Con un loquace sospirar d' amore Le chiude gli occhi in un profondo oblio Sonno, di morte lenta annunciatore. La guata il Gallo; con un molle canto Lusinga il lungo sonno atroce e rio: Italia dorme, ed ei le veglia accanto.

III

Italia! Italia dorme: un nappo d' oro Le sta vicino; ed ahi! quel nappo orrendo, Ove il sozzo amator cercò ristoro, Ebro lo fece di un velen tremendo. Guardati, cieca donna; il suo tesoro Costui ti appella tenero ridendo; Costui ti appella, e va gridando: i' moro! Tua bella man nella sua man stringendo. Deh! perchè il labbro al nappo suo letale Vai sonnacchiosa avvicinando, e suggi Il terribil veleno a te fatale? Empietade, lascivia, oro, mollezza Stan sull' orlo del vaso ..… ah donna! ah fuggi! Nè appanni vile amor la tua bellezza.

IV

Vedi, misera donna, ove t' incalza Un cieco amor pel tuo nemico amante, Vedi l' orrenda rovinosa balza Di negre cinta diseccate piante. Sacro all' Inganno un bigio tempio innalza Perfida man sulle ruine infrante Della superba antica Roma, e balza Morte dall' Appennin cupo sonante. Dessa precede, e seco vola, ahi lassa! Colui che accese in te l' immondo affetto: Virtù si ferma, lo sogguarda, e passa. Ahi coppia! ahi tale error dove si vide? Segue l' Italia chi le squarcia il petto, Ed ancella si fa di chi l' uccide.

V

Ecco il tempio fatal: siede vezzosa La rea Lusinga nel terribil loco; Pare il suo labbro un profumier di rosa, Le infiamma il volto un verecondo fuoco. Sul colmo sen la Voluttà riposa, E 'l crin le intreccia, e col bel crin fa gioco: Cade la treccia d' ôr, cinge amorosa L' eburneo collo, e lo ricopre un poco. Italia s' avvicina; un bel sorriso Apre Lusinga cupidetta e cara, E poi la bacia dolcemente in viso. Pone la man d' Italia mia scherzando Nella man del nemico in sovra l' ara, Sacerdotessa d' Imeneo nefando.

VI

Traballa il suolo, e digrignando i denti Sorge, terribil vista! il fiero Sdegno; Guida il Lutto, la Strage ed i Tormenti, Pronubo orrendo di quel nodo indegno. Strisciano al suolo i dolorosi Stenti, E cercan, angui atroci, il dubbio segno; Disperazione, mettendo lamenti, Alza la testa dal profondo regno. Ahi! che lo Sdegno Italia bella afferra; L' ingemmate del crine anella stringe; La segue, lotta, la preme, l' atterra; Poi dalla rocca dell' Inganno, al fischio Della tempesta, misera! la spinge, E ride 'l crudo amante al fiero rischio.

VII

Al riso atroce, al suo cader si desta L' ingannata sin or venusta donna, Lacera sue ghirlande e le calpesta, E di un lauro vicin fassi colonna. Scuote la polve dalla nobil testa, Cangia in corazza la vermiglia gonna, Brandisce il ferro, ed a punir s' appresta Il seduttor, che lusingando indonna. All' armi, grida, in suon funesto e tetro; All' armi spaventato alto risponde Ogni remoto lido in flebil metro. E al generoso invito uscir già parmi Gli antichi magni che la polve asconde, Alto gridare, alla vittoria! all' armi!

VIII

Alla vittoria! o di vittorie antiche Italia usata all' immortal splendore: Alla vittoria! Itale schiere amiche, Use del sacro lauro al sommo onore. Sacre a vittoria sulle piagge apriche Copran l' eterne palme il vincitore, E la vittoria le fatal loriche Cinga di vividissimo fulgore. Già sorge il Gallo di minacce armato, Ma 'l ciel si annegra, e sta sospeso il lampo Della deforme testa àl manco lato. Italia! Italia! ti ravvedi, e pugna: E tu, Signor, del rio nemico il campo Col soffio atterra, e con lo sguardo espugna.

IX

Libra le immense sue bilancie, e scuote Il sommo Sire l'alta man possente: Stavano appese le bilancie immote Del Sol, lucido chiodo, all' asse ardente. D' ogni pianeta le superne ruote Pesate fur dalla superna mente, E le cognite terre e le remote Furon pesate nell'uscir dal niente. Da un lato Italia, il Gallo atroce e fiero Dall' altro van pugnando in campo aperto, E ne libra il destin l' eterno vero. Mentre in silenzio d' alta meraviglia Ferma ogni globo il divin ballo, e incerto Aspetta il lampo dell' eterne ciglia.

X

Verrà quel lampo. Scoppierà simìle Ad altissimo tuon vindice voce: E allor singulto cupamente vile Italia udrà dall' amator feroce. Sovra l' arene, u' scorse il fuoco ostile, Vicino a cupa rovinosa foce Starà Vendetta, e sotto 'l giogo umile Porrà del Gallo la cervice atroce. La forte Italia rammentando i suoi Antichi vanti, ed il vigor passato, Gli alti ritroverà vetusti eroi. E seduta sul giogo, ove ridutto Avrà 'l nemico, fia da lei scordato Il tempo, oimè! d' ìnenarrabil lutto.
O rondinella dalle alette brune, Ch' ultima lasci d'Eridan la sponda, E cangiando di ciel, non di fortune, Cerchi una spiaggia al tuo desir seconda; Così nel tardo tuo viaggio, immune D' ogni periglio sulla torbid' onda Ti serbi il ciel, e alfin dopo sei lune Te 'l caro nido con la prole asconda: Com' io vorrei seguire il tuo bel volo, E girmen teco in più felice lido Da questo seggio d' infinito duolo. Torbido è 'l cielo; aspra stagion è questa; Soffia su le capanne un Euro infido, E crollar falle su la nostra testa. Quando del soglio fiso eternamente Sovra i gran nembi, ond'ha gradí e sostegno, A piè depone un Cherubino ardente Il vaso immenso del Divino sdegno; Sbucan Demonii a torme orribilmente Fuor della foce del tartareo regno; Treman le sfere, e l'Angiol reverente L'ali dispiega di terrore in segno. Che ribolle colmato il vaso santo Di quel, che sparger fe' l'ira d'inferno, Sangue innocente, e disperato pianto. Sol nel creato allor l'empio s'inganna, Nè sa, che chiusa ha nel gran vaso eterno Possente peccator la sua condanna. Erge l'alte bilance il sitibondo Angiolo di vendetta, e di rovina: La grave ira d'Iddio stassi nel fondo, E al feral centro il gran peso declina. Tu, Sacerdote Re, tu fra 'l profondo Silenzio universal, la man Divina Alza su questa dell'afflitto mondo Misera parte, ch'a'tuoi piè s'inchina. E te rimiri sovra noi pregante L'Angiolo minaccioso, e di te, Padre, L'amor ne salvi al Divin Padre innante, Onde la doppia sua lance tremenda L'Angiolo abbassi, e dall' eteree squadre L'Angiol di pace a disarmarlo scenda. Ti credo, o Re dei Re; m'odan fiammanti I tuoi guerrieri Cherubin dal Cielo; M'odano i firmamenti, ond' hai tu velo Al tuo trono immortal, Santo de'Santi. Ti credo: m'oda il sole, e le rotanti Stelle, e le affisse; ed il fulmineo telo; Il mar, l'alba, la sera, estate e gelo; E i tuoi sacri cantori angioli amanti. Ti credo: e'l monte e 'l fiume e l'aura e 'l fiore M'odano, e l'orbe tutto, e sdegno roda Del miscredente il rubellato core. Ti credo: ingegno in servitù perduto L'empio mi chiami pur; pur ch'ei dir m'oda Nel gran giorno de'giorni: ho in Dio creduto. Dormiva Iddio Bambino, e picciol core Di bambinelli a lui scherzava intorno; Gli avea guidati al mistico soggiorno Rustica madre, tolta al suo lavoro. Con alito leggier un di costoro La man scaldava al Facitor del giorno: Di luccioletta lo splendore adorno Altri gli nascondeva entro 'l crin d'oro. Fiore tra fascie e seno un gli ponea; Ed un cantando, con suo breve piede La cuna u'stava il Re dei Re muovea. Mentre dal ciel fra gaudio e maraviglia Cantavan gli Angioletti inno di fede: Oh sol beato chi a fanciul somiglia! O Bambinello Amor, s'io ti vedea Quando vegliavi in tua picciola cuna, Allor sì che al tuo pianger io piangea, Narrando mie sventure ad una ad una; Allor sì, che, non vedi, io ti dicea, Questo mio gregge scherzo di fortuna? Piena di neve è la pendice rea, Ed è sanguigna la nebbiosa luna. Al dubbio lume, dietro arido faggio, Sta il lupo ingordo, e non potran le agnelle Riprender al mattino il lor viaggio. Bambino Amor, se il mio pianger ti piace, Fa, che velate più non sian le stelle, Fugga la belva, e stian le agnelle in pace. Non beltà, no, ma puro aer sereno, Raggio di Dio, ti sfavillava in viso; Nè chiamar bello il tuo pudico riso De' mortal labbro, o bello il tuo bel seno. Beltà creata d'arditezza pieno Uom può mirarla inverecondo e fiso: Ma quel tuo lampeggiar di Paradiso, Chi 'l mira, chi, non abbagliato appieno? Così il Sole al meriggio il guardo inchina Di chi 'l vagheggia; qual tu sei fra' Santi, Fra gli astri ei la maggiore opra Divina. Bella tu fosti, ed io mel sento in cuore: Ma il tuo bel mai non fu poscia, nè innanti; Ma il tuo bello innamora il tuo Fattore. Io ben so come doglia immensa e prima Signoreggiando l'affannato cuore Profondamente s'inasprisce, e lima La breve vita col lungo dolore. Io ben so come stassi oppressa ed ima Alma senz' avvenire e senz' amore, Cui manca quella, che il desir sublima, Speme, fonte di vita e di valore. So come allor l' ingegno torpe e giace, Pari a splendente nella vuota tomba Lugubre vacillante estrema face: Ma so, Donna, che amor, speme, desio, Se avvien che al duolo il mio pensier succomba, Raccender posso, e ravvivare in Dio. Tu mi vedesti; in me sorgea mal nota Scintilla prima dell' Aonio fuoco; Ridea speranza su l'allegra gota; Pace era meco ed innocenza e giuoco. Sognai dolce avvenir, ma la remota Sorte orrenda spiegossi a poco a poco; Io piansi, e piango, e l'età breve e vuota Di fama e gioja menzognera invoco. Te prima, e poscia i miei più cari, e vosco Le lusinghe, il piacer tolsemi il fato, Sì che in me più me stessa io non conosco. Qual mi vedresti? e fra sì dolci errori Pur mi lasciasti! Ah mio destin cangiato! Chi mi vi rende, o miei perduti amori? Dalla reggia del Sol col primo raggio Esce la nata in ciel santa Armonia, Sbuccian le rose per l'azzurra via, E le ingemman le stelle il suo viaggio. MAZZA, togli tua cetra appesa al faggio, Mentre io piango fra sorte acerba e ria; Chè certo a te sen vien tua Diva e mia Col sempre caro venticel di maggio. L'Armonia regna in ciel; per te d'amore Arde; insegnar sulla divina cetra Inno le puoi sacrato al mio dolore; Onde a Dio ritornando ella il ridica, E 'l mio duolo suonar oda per l'etra Dal sen d'Iddio così la fida amica. Ahi vuote e vaste sale! ahi! qui vid'io Un dì, quai donne! e invan le cerca il cuore. Figlio e sposo infelice, il tuo dolore Sol risponde col pianto al pianto mio. Ahi vuote sale! qui TERESA aprio Consigli e voti di materno amore; Qui giovin sposa, delle spose il fiore, Fu CAROLA tua vita e tuo desio. Tutto passò. Qui, fra la notte oscura, Sole al raggio di luna, il caro albergo Visitan l'ombre, già tua gioja e cura. Ma pur non pianger, deh! Vedi, levolle A te con gli anni, che ti lasci a tergo, Quel Dio che suo, che tutto suo ti volle.

Nel giorno della Commemorazione dei Defunti, dopo la morte
di METILDE TAPPARELLI, Contessa di Rinco, sua figlia

No, non fia ver ch'io taccia or, benchè intorno Fischi del sole occidentale il vento, E pianger sembri, nel fatal soggiorno Di mie gelide rupi, il dì ch' è spento: CESARE, non fia ver: a pianger torno Teco dei bronzi al flebile lamento; Invan del lauro il crine è disadorno, E privo il labbro del divino accento. Sacro agli estinti il dì fatale è questo, Sacro a MATILDE: e chi non ha di pianto Cagione eterna in giorno ahi! sì funesto? No, il cuor non tacerà..… che dico?.… Ah! noi Piangiam creduti vivi; e lungi tanto Da chi non piangerà prima nè poi.
Pallido, curvo sul funebre oggetto Stette il primo infelice genitore; Mirò di Abele il già deforme aspetto In silenzio d'altissimo dolore. Al corpo esangue avviticchiato e stretto Non pianse, ma l'invase alto terrore; Poscia gli uscì dal lacerato petto Un grido funestissimo d'orrore. A quel paterno gemito profondo Fattosi bruno tra le nubi il Sole, Feral mestizia ricoverse il mondo, S'impietosiro le celesti squadre. Vate, ah scorda gli Achei, scorda le fole; Di', la madre che fe'? che fe' la madre?

Argomento proposto al signor VECCHIONI, che improvvisò in casa
della Contessa CAROLA COSTA DELLA TRINITA', nata VALPERGA
DI CALUSO

Or poichè l'estro agitator discende, E batte intorno l'infocate piume, Al fatidico crin stringi le bende, O sacerdote dell' Aonio nume. Narra d' Alceste il fato, e le vicende, E 'l scender pronto sul Tartareo fiume, E come tolta alle magion tremende Tornolla Alcide al desiato lume. Certa d'eterna fama, or qual maggiore Le dava forza nel fatal momento, Amor di sposa, ovver di gloria amore? Dillo, o vate gentil, sarà tuo vanto Se CAROLA d' Alceste ode il lamento, E a sue stesse virtù dà plauso e pianto.
O patria! disse, e sul corsiero ardente Slanciossi, e pronta si tuffò nell' onde: Spumò, partita in due, l'onda fremente, E al forte grido risuonàr le sponde. Clelia, ove corri?..… Ah! fugge, e più non sente, Dominatrice delle vie profonde; Il vento mugghia, e in turbine volvente Le cuopre gli occhi colle chiome bionde. Ella non vede, ella non ode il grido Del Tosco campo; e di Porsenna irato L'odio disprezza, che l'insegue al lido. Giunge fra' suoi prima ella, e sola, e forte: Chè vinse donna ognora e l'armi, e 'l fato, S'ella impavida volle onore, o morte. Piange l'Aurora; del suo vago pianto Limpida goccioletta in sulla rosa Muore cadendo, e tra le foglie ascosa Muore senza splendore, e senza vanto. Ma se invece del fiore, e cuna e manto Le dà conchiglia che nel mar riposa, Divien gemma la stilla rugiadosa Sovra il picciolo fior negletta tanto. Così, donna gentile, il canto mio Ignoto ancora all' Eliconie rive Cadrebbe in sen del sempiterno obblio Ma il tuo canto l'ingemma, e in cuor mi spira Ardir, chè certo un nome eterno vive Quando cantollo l'immortal Temira. Che cosa è mai la nuvoletta? un lieve Vapor che il caldo Sol leva e sublima, Quando ogni spiaggia più riposta ed ima I rai del Sirio desolanti beve. Eppur se avvien che 'l volo suo solleve La bianca nube d' alto monte in cima, Specchio al grand' astro su quell' ora prima Vibra la luce che da lui riceve. Fiammeggiante di un vivido fulgore La mira il vulgo: oh! chi la fe' sì bella? Grida: chi mai le diè tanto splendore? Donna eccelsa, m'intendi? io m'innalzai Alla tua sfera, un nuovo Sol mi abbella, E per darmi splendore io ti cantai. Tace la madre? Ah, pastorella, ah sai Dirmi perchè la cara madre tace? Passàr più lune, i' l' ho presente assai, Dacchè le diedi l' amor mio verace. Deh! se la Diva non ti lasci mai Onde si abbella gioventù fugace, Nè più smorzi 'l bel fuoco a' tuoi be' rai Quel, che t' offese già, morbo pugnace; Donzelletta gentil, rispondi, dimmi, Perchè tace così? dal suo bel cuore Del suo tenero cuor chi dipartimmi? Dal non tranquillo mio paterno fiume A te mi volgo; oh, se bastasse amore, Come al bell' Arno volgerei le piume! Non selvetta di rose incoronata, Non rio tranquillo, non auretta estiva, Non fior, non fronda, e non la prolungata Ombra del poggio in sulla verde riva; Non della forosetta innamorata Canzone che dall' anima deriva, Non folto armento, e non veltro che guata La turba d' augelletti fuggitiva; Non l' aer dolce, e non il chiaro sole, Che pur son vita dell' estro vivace, Ponno in me, quanto il suon di tue parole. Bastava, se fior, fronda e forosetta Di trarmi a' campi tuoi non fu capace, Il dir: BELINDA tua t'ama, e t'aspetta. Me fanciulletta in l'amorose braccia La suave ridente Erato avvolse, Ed io baciai quella divina faccia, E dormii su quel seno ove m'accolse. Crebbi poeta, e giovinetta in traccia De'sacri fiori in Pindo ella mi volse: Quasi bambin, ch'altro bambin minaccia, Venne, fuggì, mi si mostrò, si tolse. Molto l'amai, molto sperai, ma invano; Chè ostinatella ed incostante or vieta Ch' oggi fior colga questa ardita mano. Nice, niun fiore avrai, chè lieve al pari Son cuor di donna, e ingegno di poeta; E in Elicona sai qual fè s'impari. O fida amica, o mio più caro amore, Cui volendo celarmi io non potrei, Che nella gioja sempre, e nel dolore Affettuosa mia compagna sei; Quel dolce melanconico languore, Che col vivo piacer non cangierei, Spiegami; e scenda la tua voce al cuore, Voce che impera sugli affetti miei: Spiegami il palpitar, spiegami il pianto: Perchè ti stringo lagrimando al seno, E nulla dico?..… ed oh! potrei dir tanto? Ma se favello?..… ah! favellando, mai Que'dolci moti non dipingo appieno, Che tu sola, tu cara intenderai. Questa mela gentil, che t' assomiglia, E ch'è sol bella perchè a te simìle, Prendi, o di Clori pargoletta figlia, Per cui sol sette volte è nato aprile. Così sotto tue brune e vaghe ciglia A mezzo pinta fra 'l candor gentile È la pienotta tua guancia vermiglia, Così vermiglio è 'l tuo labbro sottile. Fu questa mela un dì picciolo fiore; Un fior tu sei: dell' arboscello a fregio Crebbe; tu cresci pel materno onore. Fanciullina, che più? se pari a quella Avrai, certa ne sono, il doppio pregio D' esser dolce così come sei bella. Stava sul margo d' un ruscel d' argento Un insettuzzo colle alette d' oro: Moveva in dolce giro il fresco vento L' erbetta, ond' egli avea culla e ristoro. Beveva l' insettuzzo il molle e lento Olezzare del mobile tesoro, E parea dire con gantil lamento: Vissi un giorno felice, a sera muoro. E già tra 'l sermolino egli piegate Aveva l' ale, e già cadea tra' fiori, Chè l' ore di sua vita eran passate. Ma che fur troppo brevi, erra chi 'I dice; S' uom sì raro può dir ne' lunghi errori: A sera muoro, e vissi un dì felice. Natura diemmi un cuor di madre, e diede A me solinga gioventù fugace; Breve fu l'imeneo, lunga la fede; Chè fu mio solo amor gloria mendace. Disciolta pria del sesto lustro, al piede Di quest' alpi cercai sol gloria e pace. Ma invano il suo destin superbo crede Sceglier uom vivo, nell' età fallace. Qual mi sarei, or che miei cari intorno Cader mi veggio, e fra volubil sorte Tremo col crin di vani lauri adorno? Qual sarei, se bambina a me nel seno Il cuor di madre non destavi? in morte Figlia quest' occhi chiuderammi almeno! O saggia, o sola a ravvivare eletta Del prisco Omero la favella antica, Eccoti la dipinta immaginetta; Ecco l' immago di tua fida amica. Quella sembianza veritiera e schietta Forse avverrà che pur tacendo dica: La tua Glaucilla, o vergine diletta, Ebbe beltade al nascer suo nemica. Credi all' immago, e non al nobil canto De' sacri cigni; sono i voli alteri Di un vivo immaginar tutto il mio vanto. Ma il mio vanto maggior, quel per cui sono Atta a dolci e magnanimi pensieri, È quel cuore, che a te consacro e dono.

Si allude alla Raccolta pubblicata dall' Accademia nel 1797
in lode dell' Autrice.

Salve, armonico fiume, e tu diletto Mio primo lauro, e fregio mio primiero; Salve, caro alle Muse eccelso tetto, D' un amico fedel cura e pensiero. Qui non giovine sposa in dolce aspetto, Non fanciullin col vezzo lusinghiero, Ma d' un' Egida sacra armata il petto M' apre Minerva il limitar severo. Qui donna non son io; di me maggiore Mi rende la divina aria ch' io spiro, E la grata memoria, e 'l prisco onore. E certo all' altre età la Dea pudica Dirà: Dafne cantò dov' io m' aggiro, Non volgar di Timante ospite amica.

Si allude all'avola paterna dell' Autrice, ROSA OPERTI SALUZZO,
e all' amica BARBARA PROVANA BERTINI DI MONTALDO

Queste le mura sono, ove bambina L' avola antica mia disciolse il pianto, Da queste mura in sulla falda alpina Ella discese al nodo eterno e santo: Qui in giovanetta etate io pellegrina Colsi l' alloro al suon d' egregio canto, Chè la primiera qui fronda divina Al crin mi cinsi della Stura accanto: Qui dell' anima mia parte migliore Vive in Donna gentil, che in queste mura Annoda un sacro ed immortale amore: Qui nacque eccelso e vero amico, il mio Saggio Timante: or chi l' ardir misura? Se qui non canto, ove cantar degg' io?
Non mai sul Po disciolse inni servili, Nè curò di fortuna il vezzo infido, Non mai tra l' armi e le vicende ostili Diede all' inique stragi e lauro e grido; Nè mai nascose tra gli aurati fili Caro a' poeti il fanciullin di Gnido, Questa cetra che a voi, Donne gentili, Straniera giunge della Stura al lido. E pur, se il cuor non m' ingannò, la cetra È nota in Pindo, e dagli Aonii chiostri Il suono non volgare alzossi all' etra; E pur canta di voi; gioja e diletto E pur qui veggo ne' begli occhi vostri, Ch' oggi è 'l carme immortal pari all' affetto. L' Auriga altiero in la palestra Achea Nel gran momento ove s' apria la meta, I cupidi occhi sull' allôr spingea, La fronte alzando desiosa e lieta. Ma fremendo arretrava ei, se vedea Sorger furia d' Averno irrequieta, Che negra face innanti a sua movea Biga atterrata dalla man segreta. Nume di Coo, m' intendi? a terra spinse Miei Delfici corsier furia letale, Dacchè morbo crudel l' ingegno avvinse. La via mi sgombra, o spirto eccelso, e tale Avrai lauro da me, che ugual non cinse Chi l' Olimpico agon rese immortale. Di che mai piangi, o bianca tortorella, Che su mia capannuccia hai tuo soggiorno? Chi mai, nasca la notte, o rieda il giorno, Chi 'l flebil lungo tuo lamento appella? Hai l' ali al tergo; a questa pianta, a quella Facile trovi e grato cibo intorno; E 'l candidetto sen di piume adorno Col picciol rostro lisci, e ti fai bella. O solitaria tortora innocente, No, non è pianto il tuo gemito, amico Del mio cuor che nell' intimo ti sente. È un sospirar senza incostanza alcuna, È un estasi d' amore in cor pudico. Così piange il poeta a' rai di luna. Fugace è ver, ma impetuoso sdegno Talor mi sorge in cuor, possente ahi! tanto, Che invano oppongo di ragion contegno Al mio dirotto mal frenato pianto: E poscia il lagrimar, e l' atto indegno, E l' ira ognor col pentimento accanto, E quegli affetti, che nel cuore han regno Breve, ma pur han di turbarlo il vanto; Io mi rammento ed arrossisco, e dico: Se così piango quando è 'l ciel sereno, Che farò mai se 'l cielo avrò nemico? Ardenti affetti io no, bramo sol calma, Calma soave: e come averla in seno Ove sì calda e sì sdegnosa è l' alma? Diva, ch' io cerco, e rinvenire io tento, Prendi il fren del pensier da te negletto, Poichè d' ogni più puro e caro affetto Troppo vivace cuor fassi tormento. Cessiamo il lungo querulo lamento: Scondi, Filosotia, nel forte petto E spiri 'l tuo rigore ogni mio detto, Sì che il legga ogni donna, e l' oda a stento. Si scordi ognuno, e per la gloria sola D' entusiasmo nobile si viva: Gloria abbaglia, sostien, regge, consola. Lieta vivrò nel più felice errore; Arde la mente già; tutta si avviva; La mente?.… ahi lassa! e che farò del cuore? Un Dio mi diè la nobil cetra, e diede A me il poter di ragionar col Fato, Onde degli astri al suon gli muovo allato Nel vocal tempio sua temuta sede. Fra l' ombre eterne l' animoso piede Volgo, ove ei tiene l' avvenir celato; Tremar l' alloro, ond' è 'l mio crine ombrato, A quella ispiratrice aura si vede. S' infuoca il volto; palpitando il cuore Pongo la man sulla fatal cortina Che a me nasconde del mio viver l' ore. Che tento? oimè! fuggir da quelle porte Speme potria dell' avvenir reina; E l' avvenir senza speranza è morte. Se udrassi ancora il non volgar mio canto Quand' io, spirito nudo, il verde alloro Bacierò coll' auretta, e quella tanto Consolatrice mia cetera d' oro; Forse tal sorgerà pudico e santo Nuovo poeta tra l' Aonio coro, Che la mia tomba bagnerà di pianto, La tomba ignota a gran parte di loro. Amor vien dalla mente in cor gentile: Forse saravvi allor chi m' ami, e dica; Oh! vedess' io qua giu donna simíle! E l' alma ardente, che a se stessa increbbe, Avrà tal gioja a quella voce amica, Che in questo duro viver mio non ebbe. È vaga l' aura del mattin; l' auretta Ha l' ali al piè, nè può fermarsi mai. Vago è 'l ruscel che un vivo Sol saetta; Ma il ruscello è fugace, e tu lo sai. Farmi schiava potrei la farfalletta; Ma che farò di lei, che ne farai? La rosa damaschina in sull' erbetta Io raccorre poteva, e nol bramai. Immagin nate sul Castalio monte Di gioventù, d' amor, di sorte, ahi! sono La rosa, la farfalla, e l' aura, e 'l fonte. Nè curar può di labil cosa il dono Chi vide gloria scintillarsi a fronte; Ch' eterna cosa è della cetra il suono. Fuggì, fuggì dal ciel l' alba serena; Ecco il meriggio; ed io mi sciolgo in pianto : Ah! ch' ho smarrita mia diletta avena Usata al pastoral semplice canto. Là sulla spiaggia villereccia amena Il candido lasciai rustico ammanto, E fatta cittadina, oh doglia! oh pena! Ho perduto così mio più bel vanto; Pietoso Cielo, a me l' avena rendi, O 'l cuore a' boschi miei sempre rivolto Di men nobil piacer col vulgo accendi; Chè, per mio duolo, ognor le gioje mie Nacquer dal canto; or se 'l cantar m' è tolto, Chi addolcirammi l' ore acerbe e rie? Esce rivolo fresco ed argentino Dalle falde di vaga collinetta, E all' odorosa fragola vicino Passa tra i fiori ad irrorar l' erbetta. Ma Sirio arde nel cielo, e 'l giogo alpino Avido invan l' estiva pioggia aspetta; Già 'l fiumicel sofferma il suo cammino, E la poc' onda in picciol lido è stretta. Inaridito alfine, a stilla a stilla Cade, e non sembra quel ruscello stesso, Ch' ebbe ricca la vena, e ricca aprilla. Così talor la Fantasia nemica Ha la stagione, e al suo vigore oppresso Tenti invan surrogar l' aspra fatica.
Regio signore un tempo, Illustre figlio di famosa schiatta, Ebbe nel vasto albergo un picciol loco, Ove candida pietra Ad ogni guardo altrui tenea sottratta: Ei giva a poco a poco Artefice divino Cangiando in ninfa bella Il sasso alabastrino: Così se un giorno attempo Interamente non morrò, dicea: Questa mirabil Dea Eternerà mio fragile destino; So che barbara morte non s' arretra, Perch' è del fato ancella, Ma la mia vita d' una nube oscura Tutta non può coprir l' età ventura. O nobil fabbro d' una nobil opra Pigmalione, anch' io Di giovin Musa il simulacro eressi: Un vel che la ricopra Pietoso al buon desio Oh ritrovar sapessi! Ma non il vel d' obblio; Il vel d' accorto indugio, Che si levasse solo al morir mio. Poichè tua sorte fiera Al crudo rammentar l' anima trema, E ricerca nel tempo il suo refugio; Che se quest' opra altera All' opra tua somiglia, Invaghirmene temo Qual madre cieca di venusta figlia: Ma se di Musa in vece Dal mio scalpello umìle. Deforme mostro, ahimè! surse, e si fece, Che sarebbe di me, fabbro gentile? Ah sol un cuore avvezzo A vil pensier può tollerar lo sprezzo! E s' anco bella fosse, E che liberamente Per mio voler sen gisse infra la gente, Qual timida fanciulla, Ch' amabile trastulla, Le guancie tenerelle si fa rosse S' uno stranier la guata, O se la madre irata La cara fantoccina le ritoglie, Così vergognosetta La Musa semplicetta Ritrosa andrebbe certo Sotto l' occhio severo D' osservator che ne librasse il merto. Ah! sarà meglio assai Che 'l vel pietoso non si levi mai. Come tu festi, o colto Dell' isola di Cipro almo signore, Alla Venere tua tutto rivolto, A lei ch' è mia fattura L' intatta fronte, e pura Ad ogni giorno fregierò d' un fiore Sin che vaga diventi Tanto che 'l chiaro dì non la spaventi, E possa dir con nobile candore; Sotto notturno ammanto Andai celata a vui Sol perchè l' opra d' una donna i' fui; Dessa il pensier mi palesò nel canto, Ed io fuggendo dallo sguardo altrui Fei dolci e non famosi i giorni sui. Ahimè! ch' indarno chiamo L' oscuritate, e bramo Celar gelosamente I sensi e le parole. Ah! che 'l destin nol vuole. Padre, che chiedi mai? Padre, 'l tuo nome d' un novello fregio Uopo non ha; con la sagace mente Tu l' onorasti assai; È l' esser figlia tua tutto 'l mio pregio. Perchè 'l mio corso spingi Sovra quel mar crudele? E a combatter m' accingi Quel flutto altier, che sordo alle querele L' altrui speranze procelloso inghiotte? Deh! se spezzate e rotte Saranno poi l' antenne, Chi mi darà di Dedalo le penne? Ah ch' io resisto in vano Alla paterna mano! Se disveli la Musa, ah! lascia almeno Scolpito il nome tuo Sulla serena fronte, Sul disadorno seno: Di tue bell' opre conte, Come d' un fregio suo, Andrà superba e chiara. O madre dolce e cara, Il vuoi tu pur?..… Se tue virtuti impronte Io potessi lasciar ne' versi miei, Come tu 'l brami più secura andrei. Canzon, s' alcum s' avvede Di tua venuta, e chiede Chi ti palesa colle tue sorelle, Poichè del tuo poeta, Che solitarie felle, Il ragionar lo vieta, Rispondi: “ ad una figlia “ Comanda il genitor quando consiglia. Torreggiante nel mar superbo scoglio Cinto di nembi fiammeggianti intorno, Che chiudono nel sen tempesta e lutto Crebri velando i primi raggi Eoi, Con magnanimo orgoglio Imperturbabil vede a' piedi suoi Romper l' irato flutto, Ch' orribilmente alto mugghiando passa, E sollevando asciutto L' irsuto capo maestosa massa, Dice: io mi siedo sopra eterno soglio, Nè a me fa guerra d' una nube il velo, O 'l vano fuoco che serpeggia in cielo. Così Zenon nella severa scuola Saggio perfetto disegnando finse, E se natura cangia, e 'l tempo vola, E segna il mondo di fatal rovina Impassibil immobile lo pinse. Ma in qual città Latina O in qual straniera troveremo il saggio, Che del destin nemico Al non pensato oltraggio, D' ogni suo ben mendico Non pieghi 'l capo sotto il fier servaggio, Ed alma troppo ardita Vagheggi con piacer la sua ferita? O tu cresciuto all' ombra veneranda Del rigoglioso verdeggiante alloro, Caro all' egidarmata e forte Diva, Che nacque in guisa strana ed ammiranda Dalla cervice dell' eterno Giove, PROSPERO, quando nel tuo seno piove Nembo d' aspro martoro, Forse potresti trattenere il pianto Per dura anima schiva Avida d' un sognato e folle vanto? Io che la dolce tua consorte ploro, Certo nol posso: nel comune danno Saria delitto il non sentire affanno. Dalla più chiara stella, Ch' ardesse in cielo d' immortal favilla, La tua sposa sortì l' anima bella. Sulla sua cuna venustà splendea, Ed Aglaja tergea La sua primiera lagrimosa stilla. Terpsicore gentil coi veli adorni Scese, e col piè discinto, Come talor va carolando d' Ida Ne' fioriti soggiorni, Ad erudir la fanciullina prese Coll' armonia che 'n mezzo al ciel s' annida, E ch' è alle Muse fertil madre: appese Il serto vario pinto All' arpicordo aurato, E da quel dì venne sederle a lato. PROSPERO, oh Dio! che credere Non può tanta virtù chi non la vide; Io sì, che negli azzurri occhi sinceri I candidi pensieri Leggea del cuor già per ragion sublime. L' alma mia semplicetta e giovenile, Ch' ora da sì gran ben morte divide, Nelle stagion mie prime Ammirò con stupor luce divina Oltre l' usato eccedere Nell' eccelsa leggiadra pellegrina, Sì che al sommo piacer somma paura Dovette, ohimè! succedere; Che per legge severa Cosa bella quaggiù passa e non dura Fuggendo qual mattin di primavera, E breve fa di sua vaghezza mostra Spirto divin nella terrena chiostra. Ma perchè la speranza In sensibile cuor pronta rinasce, E occultamente serpeggiando avanza, Cessàr del dubbio le ferali ambasce Qualor di rosa e d' edere Imene inghirlandato, Pinto nell' occhio che sfavilla e ride, Ahi menzogner! vostro destin beato, Al decimosest' anno, in cui fioriva Sull' Eridania riva Il vivere di lei veloce e grato, Fra gl' inni delle Grazie in terra scese, E al raggio di virtù la face accese. La gioventute florida Il non previsto orror d' un vel copria, E con la destra rorida Amabilmente apria L' ultima està del quarto lustro appena; D' immensa doglia piena Passò l' Ora fatal le brune porte Tarpando al Fato le dorate penne. Invocata pietosa Ilizia venne, Non come un di d' Alcmena Vista fu già dentro le stanze aurate Con le dita intralciate Minacciar l' immatura estrema sorte, Ma la fronte serena E la pietate in viso Celava morte nel fatal sorriso. Ahi momento d' angoscia e di terrore! Se di quel caso acerbo Dura memoria serbo, Ombra adorata, il dica il mio dolore. Nell' età giovanetta, Infelice ENRICHETTA Di quest' anima mia parte migliore, Dipartita da noi, sulla tua sfera Teco portasti il nostro vivo amore. Bell' aurora così dolce foriera Del luccicante Sol che 'l mondo avviva Langue cadendo in ciel di vita priva. O di prole gentil inclito padre, Chi può il sostegno rendere A' tuoi diletti figli? Chi può co' dolci lusinghier consigli Gioja pietosa accendere In METILDE infelice? Ahi sposo! ahi figli! ahi madre! Chi degno più della pietate altrui, Mercè la morte ultrice, Sarà di tutti nui, Ora, che poca terra Nostra speranza rigogliosa serra? Canzon, che piangi sovra 'l mio dolore, E porti in fronte d' ENRICHETTA il nome, Altrui dirai, siccome L' abbiam noi tutti eternamente in cuore. Spirto di fuoco, che volteggi e passi Sul facil labbro di cantor verace, E nobilmente audace Meraviglia e stupor indietro lassi, Spirto di fuoco, che sul labbro altero Di vergin sacra al Sole, Ispirator d' armoniosi accenti, Ispirator di nobile pensiero, Spingesti le parole, Così che' l vulgo in Focide adunato Sul tripode beato Del Delfic' antro udio Come ponno cangiar pochi momenti Cosa mortal, se la sconvolge un Dio, In cosa sovrumana; e come forte Donna di se maggior vincea la morte. S' è ver, che care a te sono le figlie Dell' Italica terra; S' è ver, ch' albergo in femminile petto, Ch' alma vivace serra, Da te, spirto divin, talora eletto Si vide sì, che l' occhio invido chiuso Tacque la gente, che 'l mio sesso danna Per un antico error all' ago, al fuso; Scendi! deh scendi! o spirto! o fuoco! o nume! D' aquila i' vo' le piume, I' vo' fissare il Sol, cui non appanna Nube benchè leggiera. Ma per usanza umìl, per genio altera Come degg'io fissare il Sol sereno, Spirto immortal, s' io non ti chiudo in seno? Ma dove sono? ah! vedi, FELICE, ah vedi! l' Appenino è questo, Che' l colto pian, dove nascemmo, adombra. Di quelle rocche all' ombra Italia! Italia! perchè mesta siedi? Copre la tua beltà sanguigno velo; Ahi! che'l mio cuor di tua mestizia è mesto. Italia è cieca, e chiusi gli occhi al giorno Più non puote mirar limpido cielo. Sul fulminato stelo Di quell' allôr, che le cresceva intorno, Misera posa, ed a' suoi piè si volve, Tra l' ossa, tra la polve, Torrente caldo di vivace sangue. Versando stille d'interrotto pianto, Il bel labbro che langue, Ch' ebbe di venustà superbo vanto, Porge la donna a quell' infesto flutto, Nè dissetarsi puote a ciglio asciutto, Ch' or, non più come già ne' dì felici, Sangue de' figli or bee, non de' nemici. Geme, tra speco e speco A lei risponde or sospiroso or muto Alternamente il solo gufo e l' eco. Su rosse nubi cavalcando Morte Digrigna il raro lungo dente acuto, Ed apre al Tempo le temute porte. Ah! chi ci salva? ah! chi ci reca ajuto? Par che Virtù miseramente assonne, Nè più pietate dal Destin n' impetra. O almen chi ci consola? Dov' è, dov' è la cetra, Che le Ausoniche donne Feron sovente risuonare all' etra? Perchè obbliata e sola Da quella palma, ch' ombreggiando scende, La gloriosa antica cetra pende? Donna non vi sarà, che possa 'l pianto Scemar d' Italia con suo dolce canto? Spenta è la fiamma ch' altre volte ardea Nel sensibile cuor di colta gente, Nè più come solea Dotta canzone risuonar si sente. Ma che dico? che parlo? entro dell' alma Scende suave calma. Udisti? dolce dolce Voce che l' aer molce Simile all' ondeggiar d' aura leggiera Nella tranquilla sera. Ah! chi è costei che dell' età maggiore Rende all' Italia il suo passato onore? Deh! chi le diede quel famoso cinto, Dove stanno le grazie, il vezzo, il riso, Ond' essa 'l cuor d' ogni più schivo ha vinto Ond' ogni spirto è dal suo dir conquiso? Certo sacrollo a lei nel dì che nacque L' alma figlia dell' acque, Sì che piacer e tenerezza imprime Il sospirar delle vezzose rime. Amarilli è costei ch' ovunque muove Con l' opre altere e conte Gioja divina piove. Erato il crin le cinse Con la sua man di neve Di ghirlandella leggiadretta e lieve, E 'l suo pettine d' ôr con rose avvinse; Indi baciolla in fronte, E vienne meco, disse, al sacro monte. A te, donna immortale, Deggio quel fuoco che 'l mio petto inonda; Per te sciolta dal frale Velo che mi circonda Nuova natura ammiro. Avess' io come tu del genio l' ale! Ahi mio vano desiro! Volta l' Italia a te sorride: oh Dio! Perchè mai non poss' io Meritarmi così, eh' Italia colta Dolcemente sorrida a me rivolta? S' è ver, che terra sia la salma, ah dimmi, È raggio l' alma dell' eterno foco? Onde sublime gioco Ogni fibra del cuor agita e scuote. Ah! quando dipartimmi L' alto Fattore dall' eteree ruote, Certo mi diè dell' armonia celeste Innato amor, onde'l mio cuor percuote Magica forza, che così m'investe, Ch' io nel provarla sento Un contento maggior d' ogni contento. FELICE, oh te beato! Che ti concede 'l Fato Di rimirar costei, cui rese omaggio Un cantor colto e saggio Usato sol a celebrar gli eroi; E udirla allora poi Che pittrice del ver l' abbella e informa Di sì leggiadra forma, Ch'Italia mia terger si può le ciglia Madre famosa di sì nobil figlia. Canzon, vanne a FELICE, Che m' inviò leggiadro carme in dono. Rammenta ciò che giova, e ciò che lice: Celati altrui se brami aver perdono; Poichè le incolte cose Deggiono star modestamente ascose. Stringendo il freno, onde superbo accoppia Sulle nubi del cielo Eto e Piroo, Al lito opposto del bel lito Eoo Guidava il Sol velocemente ardita La rilucente coppia: Tutto aveva nel mondo e moto e vita: Ma l'uom di terra fatto Sulla terra giacea, E di Giapeto il figlio, Che formato l'avea, A destarlo non atto Chiedea rivolto al ciel qualche consiglio. A che val, sospirando egli dicea, Quella divina forma, S' avvien ch' eternamente ei giaccia e dorma? Scese dal ciel Minerva, Non quella Dea che altera Colla ruvida mano impugna l' asta, Quella bensì, che d' ogni cosa osserva Indagatrice la cagion primiera; Cui la corona d' un ulivo basta: Scese dell' uomo ad ammirar l' eccelsa Fronte, specchio mortal d' eterno Sole. Sotto arboscello ove fioria la gelsa Vide 'l suo facitore, Che nel suave errore Per riscuoterlo invan facea parole, E a lui volta ridente Avvivò sue speranze a mezzo spente. Là dove volge 'l cielo In cristallino velo Beltà somma infinita, Disse, il mio cuor t' invita A venir meco, e con industre cura Se mai lassù ritrovi Nella parte del ciel più eccelsa e pura Cosa che all' uopo giovi, Io te la dono; tacque; in quel momento Faron rapiti con sublime gioco Alla region del fuoco, E andaro entrambi a camminar sul vento. Prometeo vide, che del moto alterno Di quel bel regno eterno D' ogni mondo creato intorno intorno Tenea'l fuoco governo; Fuoco era quel che dispensava il giorno, Che infondeva il calore in ogni obbietto: Ei, pien d' ardire il petto, In tutto quel soggiorno Adocchiò solo il fuoco, e dalla sfera, Ove levato s' era, Un raggio tolse accortamente saggio, E avvivò l' uom con quel superno raggio. Se questa degli Achei fola ingegnosa Contemplar acconsente La tua sagace mente Sacra a devoti riveriti studi, Di verità nascosa, Vedrai, germano, i nobil sensi ignudi; Vedrai, che quella fiamma in noi trasfusa, È del saper la sovrumana luce Nell' universo infusa. Pari ad accorto duce Filosofia, che di Minerva ha nome, Ogni saggio mortal lassù conduce; E le rie passion oppresse e dome Ogni errore disgombra Sì, che fugando l' ombra Nuova esistenza a' fidi suoi comparte, Del volgo sonnacchioso in altra parte. German, vedi qual s' apre Immenso campo a te di bella gloria. Non più pastor sull' Eliconia riva Cantando giovanil novella istoria Nosco verrai cinto di fronda estiva Guidando agnelli saltellanti e capre; Poetica follia, Benchè pregiato in pria, È quell' impiego umìle; Tu l' avrai certo a vile Or che fra' saggi dottamente accinte Alla dotta contesa Hai col valor nostra speranza vinto. Ah in te si veda nobil brama accesa (Perdoni il padre, se favella il cuore) D' emular negli studi il genitore. Ei t' aspetta fregiato Dell' anello onorato, E dell' eccelsa rispettata veste. Voi, Penati tranquilli, ah! voi vedeste Pel giovanil suo vanto Bagnar le gote a' genitori il pianto. Ah! scenda ognor così pianto di gioja, Nè mai ti venga a noja, CESAR, l' aspro cammin della virtute. Prometeo fu punito Sol perchè l' uomo ardito Con misere cadute, Opre del senso infermo a lui fatale, Del fuoco si abusò dono immortale. Canzon, se non poss' io Nel luminoso coro Cinger virile invidiato alloro, Eternare desio L' altrui vittoria almen nel canto mio. Come in vuota profonda immensa stanza Fosforo luminoso Di viva luce sempiterno rio, Pago di sua possanza Sedea fra 'l nulla l' increato Iddio; Qualor dal fuoco nel gran volto ascoso Rapidamente uscìo Raggio vivace, che si sparse in cento Portentose scintille; Volaron le scintille; in un momento Uscìr creati Soli a mille a mille, Sovra se stessi roteando accesi, Entro'l vuoto sospesi; E roteando insieme udiss' intorno Gridar gran voce da' novelli poli, D' onde novello uscia perenne giorno; Tre volte santo chi dà luce ai Soli. Sorrise 'l Nume, e fu diviso il nulla In turbinose parti, E di que' Soli sparti L' aere si fece vestimento e culla: Ad ogni Sol segnò suo loco il Nume Nell' ampio vuoto, e lo adornò di mondi, Onde ogni Sol circondi Stellata sfera e bella, Alla gran forza ancella, Ch' ogni lontana parte Verso 'l suo centro appella; Che 'l centro sol vibra dovunque lume; Grande mirabil arte, E mirabil governo Dell' immenso signor d' un regno eterno. Tutti que' mondi, e Soli luminosi Gran parte al nostro immaginar nascosi, L' alto Sire divino Con sue possenti dita Spinge sopra il cammin primô segnato; Nè 'l segnato cammino Torcer potrebbe in più lontano lato Un solo globo aurato, Che sente 'l dito gnidator vicino, E la scolpita nell' eterna mente Legge d' universale ordine ei sente; Alla man reverita, Che lo trasse dal niente, Volve intorno ogni Sole: In mirabil carole Volvono i mondi, e s' ode In un carme di lode; Santo! Santo! tre volte Chi le fiamme del cielo in danze ha volte. Come in un folto bosco rigoglioso Ogni arbor conta centomila foglie, Nell' universo vastamente pieno Ogni mondo non meno Immenso stuol d' abitatori conta. Qual pellegrin vorria con strane voglie Annoverar d' ogni arbor maestoso Ogni foglinzza non curata e conta? Passa sulle fogliuzze e le calpesta, Mentre innalza la testa Attonito a mirar l' arbor frondoso: Noi le fogliuzze siam; ma 'l pellegrino Non somiglia per noi l'occhio divino. Oh quanti mari in tanti mondi! eppure Egli sa quante arene ha 'l nostro mare; Ei pesa l' onde amare Nel cavo della destra; E la voce maestra, Che insegna agli astri l' armonia celeste, All' usignuolo insegna, Dolce sollievo di sue tristi cure, Le canzonette dolcemente meste. Egli regna; egli regna Or pietoso, or severo, Checchè ne dica l' acciecata terra, Ugualmente in quel forte orrendo impero Gran colosso di guerra, E in quel reame d' api picciolette Dal non curante giardinier neglette. Ei le divine veste Di smeraldi conteste, Dagli omeri immortali ampio pendenti, Ampio d' intorno sparse, Apre alle afflitte genti: Al vinto, al vincitor fa dolce invito Di riposar le nubilose fronti Entro 'l grembo infinito: Al vinto, al vincitor sui sacri monti Apre i mistici fonti, Onde le labbra scolorite ed arse Vi porgano color, che Sorte inganna, Color che fanciullini entro la cuna Fa dondolar Fortuna Sovr' un abisso colla man tiranna. Ebbre dell' acque di quel sacro rio S' addormentino pur l' umili torme, S' addormenti il possente in grembo a Dio, Che se dorme ciascun, Iddio non dorme. Nostra ragion non è dal vulgo intesa, Nè la nostra speranza; Però cauta t' avanza, O mia canzone, dagli eventi resa, Per tua somma ventura, Modestamente oscura; Di' al mio buon Genitor, che veglia in cielo Chi coperse d' un velo La verità, la sorte e la paura; Nè ti curar d' altrui, s' egli ti cura. Sorge novella aurora Rugiadosetta e bella Velando col crin d' ôr la fronte e 'l petto; E mentre 'l ciel s' indora, La più lontana stolla Del rinascente dì fugge l' aspetto: Le grazie ed il diletto Danzan per l' aer chiaro: Ebe sciogliendo il canto Va raccogliendo intanto Ogni fior ch' esser puote a Febo caro, E con sferza di rose Percuote 'l sonno tra le selve ombrose. Prima che'l Sol dal cielo Tolga del tutto il velo, Di mia solinga stanza Chi chiede a me l' entrata? Notturno pellegrino Sei forse tu?..… Chi mai ti diè baldanza Di turbar mio riposo mattutino? Con aspra voce ingrata, Apri, tu gridi, ch' hai tardato assai; Son pellegrin che non aspetto mai. Ve', ve' ch' io t' apro..… oh come Tu nudo fanciullino Ti trovi sul cammino? Chi mai cinse di fior tue bionde chiome? Hai l' ali al capo, al piede. Chi l' ali mai ti diede? Dimmi, perchè ti fidi Andar così discinto, E di periglio cinto Sopra lontani lidi? Ch' hai di straniero il volto e la favella. Forse, scendesti a noi da qualche stella? No, da stella non vengo, Odo che tu rispondi, Il tempo sol fu che mi diè l' uscita, E da lui sol io tengo E l' ali e i capei biondi; Sono il nato pur ora Colla novella aurora Diciannovesim' anno di tua vita. Son nudo, ma in tua cura Or mi pone natura, E a vestirmi t' invita; Vestimi presto, o donna, oppur paventa Ch' io nudo fugga, e 'l tuo pregar non senta. Già diciotto fratelli a me simìli Da te si son partiti Lievi più ch' aura montanina e fresca. Deh! pensar non t' incresca Come sono fuggiti Da te negletti umìli Quegli anni giovanili: Già l' ultimo che a te portò rovina, E minacciò vicina Prima del mezzodì l' ultima sera, Mostrotti nel fuggir, come talora Orrendamente nera La notte vien all' apparir d' aurora. Se vuoi che bella sembri A te la morte stessa, Che nella buja fossa Dé chiuder i tuoi membri, Fa che sia pura la tua vita anch' essa, Così che quando la celeste possa Nell' ultima giornata Più non lasci di te ossa con ossa, S' allegri la beata Alma felice, che volando al cielo Il frale lascierà terreno velo. E se talor ti pare Il cammin aspro e duro, Indietro volgi a rimirar chi giace Sovra 'l terreno impuro, E tra lagrime amare Vedi 'l sozzo piacer come si sface Nelle terribil ore, Nè più ritrova pace Pensando che v'ha in ciel chi tutto vede. Più lo stolto non crede Recar un'empia guerra ad ogni nume, Ma anzi aver le piume Ei vorria per fuggir quella ch'aspetta, Premio del suo costume, Interminabil orrida vendetta. Saggia ti renda, o donna, L' altrui follia che vedi; Se al detto mio tu credi Mi vestirai di gonna Splendida al par del Sole, Nè mia partenza ti sarà molesta; Io non mi fermo: il mio signor nol vuole, Ch'io servo al Tempo, e la mia scusa è questa Deh tu mi manifesta La strada che seguir teco degg' io, E guida il passo mio, Ma rammenti i miei detti 'l tuo pensiero, Poi segni 'l mio sentiero. Il tuo sentier ti segno, Fanciul, vientene meco Sin a quel dì che del passato in grembo Cadrai nel muto regno. Il Tempo guata bieco D' eternitate al lembo, E già 'l nostro indugiar lo muove a sdegno. Col paventato nembo, Che in sen chiudea lo stral di fera morte, Già già tuo precursor tocca le porte U' dé giustizia esaminarvi insieme Quando sarà mia vita all' ore estreme, Andiam. Canzone umìle, Se vieni nosco non averti a vile, E s' avvien che m' acciechi umano errore Parlami tu con la ragione al cuore, Gl' immensi allarga tenebrosi vanni L' Angiolo del dolore, E gelido terrore Sparge con l' ombra delle nere piume. L' ombra funesta delle piume nere Già tutta Italia copre. Ahi le mirabil opre Delle stagion primiere! Ahi di prische vittorie i lucid' anni! Ahi le Romane glorie, e 'l bel costume! Sinchè disciolto in polve Sia 'l nostro mondo anch' esso, Il Tempo tutto involve Nella in dodici parti Or bianca, or bruna, ripartita fascia, In cui de giorni sparti Il gran tesoro lascia Il Sol che la passeggia, e le dà lume. Chi mi darà negletti e neri panni? Chi mi farà corona D' un ramuscello di feral cipresso? Sì ch' io pianga il dolor, la tema, i danni, La sanguinosa guerra Dell' infelice terra. Ah! pianga 'l vulgo, pianga l' Elicona Sovra i comuni affanni; Pianga sovra il Pastor, del giusto amico, Degno del tempo antico, Nostra speranza, ch' a noi tolse Morte. Ahi! piangi, Italia, tua futura sorte. Chi potrà discoprir l' arcano evento, Che celata matura L' alta sorte futura? Qual Pindaro novel spiegar potrebbe, Come gigante crebbe La contraria Fortuna in un momento? Scosse la testa, e 'l corpo mostruoso, Fere spine vibrando, Qual istrice crudel e portentoso: Poi calpestò, volando Rapida più del vento, Ciechi e non ciechi, che scontrò passando; Deh! non calpesti ancora Il fragile naviglio, U' noi salimmo per fatal sciagura, Dato al riposo ed alla calma esiglio. Già in terra e 'n mar magnanima reina Or sulla rotta prora Sta l' aquila Latina, E incurva il dorso, e de' gran rostri fuori Lascia cader gli allori, E lentamente chiude i lucid' occhi In letargico sonno spaventoso: Nè v' ha pur chi la scuota o chi la tocchi; Sol havvi invano chi chiamando plora. Il suo gran rostro ascoso Sta sotto l' ali, e più non esce fuora: Turba d'antichi eroi, Or fatti nudi spirti, Qual d' uom che sdegno accora Prendono cupo volto, Occhio bieco sepolto, Crin biancheggianti ed irti, Ed alle rotte vele intorno stretti Metton singulti, e van gridando poi Dalla pietà costretti: È 'l gran giorno vicino, Italia pianga il suo crudel destino. Rapace mano all' aquila superba Levò già in parte le sue penne ardite Facendole così gran piaga acerba. Tenta la man rapace Di ritorle ogni penna ad una ad una, Sin che l' aspre giornate alfin compite Per sua crudel fortuna Cada l' augello audace Entro 'l mar che s' innalza, e mugge e freme Oh! dell' Italia speme Fosse alla prora almeno un sol pilota, Che su per l' onda ignota Il naviglio guidasse amico in porto. O COSTA, o magno venerando padre Di nostra oppressa gente, Fora da te nostro naviglio scorto Infra le rocche solitarie ed adre, U' stretto 'l nostro mar geme passando, U' 'l cielo folgorando Morte minaccia dalla nube ardente. Ah COSTA! queste rovesciate vele, Scherzo d'aura infedele, Raddrizzi la tua mano: Italia piange e grida; e grida invano. Chè 'l buon nocchiero del nemico flutto L' impeto non raffrena, Or che per opra altrui bolle già tutto, E volge sangue sull' arida arena. Oh di smania, di lutto Miseramente carca Mezzo distrutta barca D' infelici ripiena, Deh! chi ti mirerebbe ad occhio asciutto? Ahi COSTA! ahi vedi qual destin n' aspetta. Stassi la calma sull' opposto lido, Lido lontano tanto Da questo mar di pianto; L'aquila dorme nell' indegno nido, E 'l Dio della vendetta Veglia sovr' essa intanto: Invan t' adopri in ogni mezzo umano. Ma pur, che dico? non t' adopri invano. Ammiratelo voi, lontane etati, Ammiratelo voi, degni fors' anche Della gran madre altera Nella gloria primiera, O più di noi beati Venturi figli dell' Italia nostra. Per queste turbe affaticate e stanche Il buon pastor si prostra Sotto le scosse vele folgorate, E così prega l' increato Iddio: Se pilota e pastor i' basto solo, Fammi provar morendo Ogni supplizio orrendo, Che 'n terra piova dalle stelle irate; I' t' offro il viver mio, Ma spicchi l' aura della pace il volo; Se così vuoi si muora; Italia piange; ah! più non pianga allora. Disse; nube funesta Calò dal cielo in quel fatal momento, E avviluppò la reverita testa. Cadde qual Curzio nella gran vorago, Ed offerse se stesso a Curzio uguale: Fu pur del suo cader contento e pago, Sol che 'l pungente della morte strale Non cagionasse altrui l' aspro tormento; Ma di Curzio maggiore Al suo divin fattore Vittima diede l' innocente vita Al suo fattor gradita. Spirto celeste, e sempre caro a noi, Deh! che farlo tu puoi, T' affaccia al Sol; immensamente grande Fenestra, da cui spande Soffio di luce l' immortal signore, Ed al naviglio con tuo cenno addita La palma consacrata al vincitore Su nobil spiaggia ch' è da noi smarrita. Grida da' tuoi divini alti soggiorni: Liberamente torni Al suo gran volo l' aquila Latina, Nè pianga Italia sulla sua rovina. Il dubbio vel, che ancor in parte copre La scena funestissima, solleva, E col consiglio sian dirette l' opre. Sacro al popolo amico, A Roma sacro, che virtute onora, Sacro all' istesso ancora Dell' Italia nemico; Ov' è chi ti conobbe e non ti plora? L' Eridano da te pace riceva; Senti l' umìl mio voto; S' è ver che 'n questo basso mondo e ciece A te 'l mio rozzo canto Si fe' palese e noto, Ed ebbe di piacerti il sommo vanto; La navicella di terrore e pianto, Dove noi gimmo teco, Salva, se pur il mio pregar t' è grato, Saggio spirto beato. Ponga la mano Iddio sul flutto atroce, Ed il gran flutto abbassi Nella profonda foce: Soffi dentro le nubi rosseggianti, E del suo soffio avanti La gran tempesta volteggiando passi, Onde ogni pianto lassi La bell' Italia, ch' or di duol rimbomba, O pianga sol sulla tua nobil tomba. Deh! nata in terra, se tu sali in cielo, Mia felice canzone, Spogliato della porpora Romana COSTA vedrai fuor del terreno velo, Ma vestito di luce più ch' umana. Dolente a lui ti mostra, Che fa la speme nostra, E grida: Italia trema, e n' ha ragione; Stringe 'l nemico le sue lunghe chiome, E le riman d' Italia il solo nome. Fiamma, a quella simìl di lampo estivo, Apparve in volto dell' eterno Iddio; E l' ira sua tremenda Fra turbinosi fuochi in ciel salío. Piegossi il ciel sotto l' invitto piede, Ed allargando l' ale Feron aerea sede I Cherubini al camminar suo divo; Si divisero i venti, E in portentosi accenti Tuonò la voce sacra ed immortale, Qual freme in balza orrenda Di gelida notturna ampia foresta La struggitrice aquilonar tempesta. Terribil ira! ahi padre! Or chi'l ravvisa, il Dio, che serra intorno Con angeliche squadre Il nebuloso uman nostro soggiorno? Or chi 'l ravvisa, il Dio, che nei consigli Alti d' amore, un dì promise al giusto, Che quai novelli ulivi i cari figli, Dolce coro venusto, Cingerebber le mense a lui gradite? Chi lo ravvisa? Egli che te già fece Sei volte ricco nel paterno tetto Di cara prole, e come al giusto, unite Le tue speranze ti mostrò serene, Or della gioja invece, Nell' ore infide di terror ripiene, Egli, sommo signor del mondo intero, Riempì di dolore il tuo pensiero. Sotto onorata ma feral lorica Tre miei germani nell' atroce guerra Sudan per lunga ed ahi! vana fatica, Là dove schiera ostil empia diserra Tutto 'l terror d' orribile tenzone. Sopra l' alpina balza Già i tre colori innalza Nell' insegna abborrita Fiera nemica al cielo ed a ragione. Ahi! l' abborrita insegna Angiol gigante, tenebroso e forte, Che nella stanza cieca ed annerita Nacque nel grembo a Morte, Fa volteggiar rabbiosamente ratto: E intanto a cerchio il vulgo mentecatto Danza intorno al vessillo sanguinoso Com' Israello saltellando intorno Al muto idolo vano, Di sua caduca mano Lavoro abbominoso, E di suo nome eterna infamia e scorno. Possente Dio! com' Israel dispersa Vada senza pietà la turba avversa. Piangi la patria sorte, o genitore, Non il guerrier: nel bellicoso coro Cresce ovunque l' alloro, Ovunque il coglie chi nel forte aduna Generoso suo cuore Lo sprezzo di volubile fortuna E l' alta sete di verace onore. Sai che di tue virtù l' esempio egregio Invogliò d' egual fama i figli tnoi. Così ne' rami suoi, Non mortale suo pregio, Antica quercia rinverdisce altera, Nè perde la primiera Ch' ebbe in sua gioventù vaga freschezza, E ammira il passeggier la sua bellezza. Ah! qualor l' infelice FEDERICO, Molle di sangue, la crudel ferita, Dal barbaro nemico Aperta, ti mostrò, certo fu 'l duolo Giusto, o signor, nè tu piangesti solo. Ma quando la gradita Ombra di palma eterna La stanza coprirà, dove la eara Tranquillità vezzeggieratti intorno, Sfavillerà di luce eterna e chiara L' alba foriera del funesto giorno; Ed alla madre amata, Eccelso don della pictà superna, Da nostr' alme adorata, Dirai superbo e lieto: Bella è la gloria in viver dolce e queto. Coltivator di men acerbi studi Viva CESARE nosco; in altri lidi Tra gli affannosi stridi Della discordia, e tra penosi e rudi Campi, gli altri fratelli al ferro al fuoco Esporre invitti si faranno gioco I viril petti ignudi: Giovanetto ROBERTO osservi intanto Come il valor nella tua stirpe ha loco, E invidiando il fraterno e nobil vanto, Buon genitor, t' asciugheremo il pianto. Canzon, secura sei: carme suave, Dono del cuor, obblivion non pave. Or che risorge il giorno, Batti, ribatti intorno I freschi vanni d' oro alla pendice, O venticel felice. Vedrai dormir negletta Tra l' erbette odorose E i bocciuoli di rose Giovane canzonetta Che ascese in grembo della bella aurora E i fior ne trasse fuora Onde poscia formai sovra il suo crine L' ingemmate ghirlande pellegrine. Sospirale vicino, O vago ventolino, Come al mattin d' april tanto sospiri. Destata non s' adiri, Ma scenda dolcemente U' molle spirar sente Te, Zeffiro gentile. Così risorga aprile A consolar tua voglia; Così un' onda in ruscello, in siepe foglia Non siavi mai tant' osa Che resista alla tua possa amorosa. Vedi, vedi, che intende Il tuo garrire, e scende. Ahi Zeffiro leggier! vanne, t' invola, Vergognosetta e sola, Qual pastorella scinta Di bel rossor dipinta, La canzonetta non farà parola. Tu vispo sei fanciullo, Di tutto fai trastullo, Ond' ella al tuo veder saggia s'attrista. Fuggi dalla sua vista, Ahi venticello altero! O dentro il vel ti fo mio prigioniero. Vieni, canzon, deh vieni: Ah dove ti trattieni? Or Zeffiro fuggì tra quelle fronde Nel sermolin s'asconde. Alza quel crin negletto, Stringi quel vel sul petto. Vaghissime a vederle L'alba mi diede perle Entro sua reggia oriental formate. Di perle fregerò tua veste bianca; Ma vanne ardita e franca. Tu per età minore Le suore tue conduci. I tempi sono truci, Ma non ti prenda orrore, Chè mireratti sol ninfa, o pastore Le tue maggior sorelle Ti fo compagne ancelle, A BALBO tu le guiderai cantando. Non ti fermar narrando Le fallaci novelle. Passa, passa veloce. Giglio vedrai superbo Sovra quel lido atroce, Cui fu gran ramo acerbo Miseramente tronco. Sovra l'infesto tronco, Terribili, funeste, Ben cento, cento teste, Posano atrocemente; e minacciosi Orribilmente sibilando acuti Contro que' rami muti Aspidi velenosi; E vedrai con quel giglio in lunga guerra, L' aure in ciel, l' onde in mar, le belve in terra. Ciò che narrar tu senti, Canzon, non ti sgomenti. Cosa volgar, lo sai, guardo non merta. Ma pur la fronte vela, Le tne gotuzze cela; D'esser veduta men sarai più certa. Ravviva il tuo coraggio: Vai messaggiera al saggio, D'altro saggio immortale alunno e gloria. Forse di te memoria Faran l' età più conte Perchè hai suo nome in fronte. Ricca dell' alto nome, Il fior delle tue chiome Può diventare alloro: De' pregi suoi tesoro Puoi far passando, onde alla tua fatica Plauda virtute amica……. Ma perchè piangi? ed inquieta muovi? Ah fanciullina! a replicar che trovi? Odo, piangendo dici, Nelle stagioni ultrici Sovra terra fatal volgo dolente; Regina un dì possente Versar di sangue un rio Io vidi dal piagato Candido sen gelato; Singhiozzava tacendo; ah! piango anch' io, E n' ho la guancia smorta, Chè mia bellezza è morta Pel lungo pianto mio; In stagion d'alti guai teco ragiono, Ma pur tua figlia i' sono, E a mie sorelle mi farei di scorta; Ma prima, o donna, a chi mi mandi pensa; Alta dottrina immensa, E più di sua dottrina Alta mirabil alma Di suo voler reina. Io negli eterei chiostri Pur mi aggirai talora Più che nel cieco e chiuso mondo vostro; Virtù divina là nel ciel s' onora: Gran cose udii, e le rammento ancora. Nella splendente mole Fra la reggia del Sole, Stanza d' amor sublime, Io vidi il veglio magno, Che sulle sponde fece all' Eridano Spander sì chiaro giorno. Io gli sclamai, ma in vano, Nell' animose rime: Deh fa, deh fa ritorno! Or vedi se a ragion io tremo e piango? Il Fato, ei mi rispose, Le mie virtuti pose In quel figlio ch'io scelsi all' amor mio; In terra vivo in lui, qui regno in Dio. Ora, me miserella! Semplice sì, non bella! Ah come mai formar seco gli accenti? Ei nato a grave cura, Io canzonetta oscura: Cingesse mio crin d' oro Un ramuscel d' alloro! Un solo raggio almeno, Raggio del Sol sereno, Fosse nelle mie luci! Fra nobili pensieri Cento mi fosser duci Mirabilmente alteri. Ma son negletta e sola, E tu non vieni meco: Chi mai riman con teco? Solo il bosco t' udrà, solo lo speco, Stringi il bacolo verde, o mia canzone: Pingesti tua ragione; Ma ti ritorni in mente, Che un rossore innocente Alletta più che i molti detti audaci; Addita tue sorelle a BALBO, e taci; Nè t' avvilir, se venustà non spandi: So che piace il candore all' alme grandi. Piegato a cerchio orribilmente un angue Prese la Morte, e se ne fece un arco; E di cometa infesta Si fe' col raggio una fatal saetta, Il crin d' aspidi carco Cingea nube funesta, Scritta nel cavo seno In gran note di sangue: Ah! vendetta, vendetta, Proterva Italia, su tua sozza testa; Stagion d' affanno è questa. Dall' occhio cupo di furor ripieno, Ad irraggiar lo scritto, uscia di foco Terribile baleno. Con la funesta mano Segnò l' Europa tutta in più d' un loco Il mostro disumano; Ma dell' antica Roma Giunto al lido famoso, Pieno d' atro livore Il mostro abbominoso Si pose ambe le man entro Ia chioma, E gridò per terrore Come leon che di gran sete muore. Poi come toro furibondo ardito Velocissimamente il corso prese, E risuonar s' intese Il cupo suon di querulo muggito. A quell' acuto grido ed impensato Si scossero le nobili rovine Al gran Tebro vicine: Ma ratto scese sul famoso lito Angiol ministro del superno Dio; E dall' occhio beato Versò di raggi onnipossenti un rio, Onde il barbaro mostro forsennato La saetta di fiamma Abbassò verso terra, e mandò in alto Un gemito simìle all' Aquilone, Che in chiusa valle fischia imprigionato, Qualor gran mole al suo passar s' oppone: Indietro mosse con un lieve salto, Qual fuggitiva damma, L' atro mostro crudel, e tutta in guerra Sossopra andò sotto il suo piè la terra. Si scossero le rocche, e cento e cento Gran tnrbini di fiamme sprigionati Spinse rapido vento A' più riposti lati: Ma l' angiol pose 'l piè dentro quel foco, E in cener lo converse; Così talor fanciullo Piccole canne accende, e va per gioco Spegnendo poscia in pueril trastullo L' ardita fiamma, se s' innalza un poco. Mirò l' angiol divino Entro 'l dolor sommerse L' alme campagne del bel suol latino, E sì parlò..… Ma del parlar chi sente La non divina forza Me sola incolpi: le parole accese Di fiamma viva e pura Sol la mia bocca ripetendo ha spente. Ahi dell' uomo caduca umil natura! Cosa celeste, volgar cosa rese La mia favella oscura: Se una gemma nascondi in rozza scorza Ella è coperta, e 'l suo fulgor s' ammorza. Pur qualunque io mi sia, benchè negletta Pastorella tra voi, genti, m' udite: La sovrumana lite Vid' io dal monte, ove le sacre Muse, Ch' ebbero il canto sovrumano in dono, Al fresco rezzo d' una palma eletta Co' profeti divin seder son' use. L' angiol gridò: la tua fatal saetta Deponi, o Morte, e me conosci: i' sono L'angiol, che veglia al limitar del cielo. Qualor del dolce suo primier soggiorno T' apri la donna le serrate porte, Gustando il fatal pomo (ahi tempo! ahi giorno!) Allor col brando, o Morte, Io fui che discacciai dal Paradiso L' uom per cui s' annebbiò la giusta sorte, E tu sorgesti col terribil telo; E ben qual eri allor, io ti ravviso; Te potrebbe fugar l' Eterno Nume Con lieve riso della diva bocca, Ma l' uom punir ei brama Per cui la colpa diventò costume: Pur benchè irato, Egli ama; Somma pietà dal divin cuor trabocca; Ei comandar potrebbe, e non lo vuole: Sospese le parole, Ei, Morte, a te mi manda; or lotta meco: In altra etate sotto umana veste Un messaggier celeste Scese all' uom, nè sdegnò di lottar seco; Sospeso è 'l fato, i' vo' lottar con teco. Dirollo? A me parve veder la cruda Morte lottar col sacro messaggiero: Morte scarnata e nuda Intralciava le braccia alle robuste Braccia del santo, e col suo piede altero Premea le piante auguste. M' assalse allor terribile pensiero; Volsi alla Musa de' profeti il dire: Deh! deh! gridai, come possibil fia Ch' un angiol provi di quel mostro l' ire? Cosa mistica vedi, a me rispose La sacra Musa mia; Vedi novelle inusitate cose; Quella è la Morte, ed ahi! Roma minaccia L'orribil ghigno dell' atroce faccia; Quell' angiol vedi? ed ahi! così nascose Vedi in mistico velo L' anime sante che fan forza al cielo. Io voleva gridar; che fia di quella Mistica pugna, ch' a me gela il sangue? Io voleva gridar, ma l' alma ancella Dell' umil velo, che la copre ancora, Mancò nel petto allora, Come fiammella consumata langue, E parole non già, sciolsi sospiri; Ma rimirata appena, Sparve per me la scena, Cagion de' miei martiri. Tuonò 'l ciel fatto bruno, e piogge e lampi Precipitar su i campi; Musa, ah Musa! gridai, qui parla un Dio, Irato Dio! non vi sarà chi scampi? Musa fuggiam, deh! guida il passo mio; Bramo securo porto Contro 'l destino minaccioso e rio: Ghirlandella di fior su 'l Tebro i' porto, Lungo e nobil viaggio, Ma non manca il coraggio; Deporla i' voglio a' piè del trono, u' siede Del Galileo pastor l' eccelso erede: Cerco per mio conforto In tanto orror, se non ho pace in seno, Di chi è nume quaggiù sguardo sereno. Il mar, e 'l sol son dell' eterno nume L' opra grande maggiore, Pur degna il sol d' un guardo il picciol fiore Feconda i lidi 'l mar colle sue spume. Dal saggio, in cui l' eterno facitore Ha i sagri pregi uniti, Delle trine virtù forte colonna, Forse sarà, che 'l mare e 'l sol s' imíti. Sorrise l' alta Musa, e disse: o donna, Mal tempo prendi a consacrar l' alloro; Pur io nella mia gonna Ricevetti già quella, Che fu di te lavoro, Piccola ghirlandella; Andiam, se 'l vuoi; cogli que' fior già sparti; Volgi 'l passo sicuro, Chè dell' armi l' orror vedo e non curo, Perchè foco divin tutta m' accende, E da lui forza prende Lo spirto, che quaggiù lena può darti: Ma chi troppo pretende Nulla riceve; non fissar nel grande; Che sacra luce spande, L' occhio, a cui sua natura lo contende; Non dei tant' alto alzarti; L' allôr deponi al sacro piede, e parti. Canzon, veder potessi Come terminerà la lite atroce, Che pinse la mia voce: Ma s' era scritto in ciel, ch' io non vedessi Il dubbio fin della crudel tenzone, Potessi teco peregrina almeno Girmene, o mia canzone, In fertil lido sotto ciel sereno, Dove a somma virtù possa divina Diè 'l governo dell' onda Tiberina. Presso la grotta immensa Che alla profonda reggia D' Eternità gli anni veloci guida; Fra l' atra notte e densa Che sulle vaste porte signoreggia, Ed è interrotta, ahi! poco, Da poca luce infida, Per cui s' abbaglia l' uom quando vaneggia Sull' orme incerte dell' età remote; Cinte il crin lungo d' un eterno alloro, Stavano in giro immote Ombre famose a ragionar fra loro; Ombre discese al bipartito loco Onde segnar tra l' aure cupe e vuote Sentier di luce nelle rie tenébre A uno spirto celébre Che al varco, ohimè! d' Eternità venia Per la degli anni disastrosa via. Prima d' un saggio qui la nobil ombra Stava, che moti e circoli, severo Indagator, librando Trovò non rare volte equabil vero; E all' aspettata or sul fatal sentiero Mirabil donna, allor del frale ingombra, Non rare volte l' additò maestro: Ei per ingegno altero In Gallia nacque, e là sul Tebro visse, Giorni di gloriosa età segnando. Seco era un' ombra di canuto senno Che d' Ettore, d' Ulisse, D' Ilio e d' Achille pur seguia narrando, Com' altre volte in l' alta Roma il fea, Piena d' antico ed ammirabil estro. Con desioso cenno All' ombra amica il varco iva segnando. Ed oh! dicea, noi della donna invitta Alunna un tempo nostra, or fatta Dea, Noi rivedrem fra poco il nudo spirto. Quest' è la via prescritta, Ch' ella ove eterno è 'l mirto L' alloro eterno in non mutabil sorte, Giugner non può che per la via di morte. Stavan le Porzie e le Cornelie antiche Ad aspettar la chiara ombra famosa, Ed il Romano cuore E le grazie pudiche Gian rammentando dell' età migliore Quand' ella ramo d' un' egregia pianta Vicina al Campidoglio e nacque e crebbe. Oh sacro Campidoglio! Oh patrio fiume, Re già del mondo! ed oh possente Roma! Dicean: quanto di gloria ella v'accrebbe, Degli allori latin cinta la chioma! Sai, fiume eccelso, che de' figli tuoi Eternità nel tempio suo ragiona; Sai che 'l prisco immutabile costume Serba la Diva fra gli arcani suoi, Onde madre possente e generosa Altrice tua si vanta, E la fatal corona Dal crin si toglie, ed al tuo crin la dona. Saffo, Corinna, ed altre cento e cento Usate all' ombre d' Academo, e al metro Sacro di Pindo; in un con lor l' Agnesi, Seco pensosa la Felsinea Bassi, La di Gilberto amante, e la dei sassi D'Ischia signora nobile Colonna, E la dolce Faustina, e le poc' anzi Tra l' Ausonico duol giunte al feretro, E Corilla e Suarda, alti cortesi Spirti, di gloria all' immortal concento Usi fra i lampi accesi Che della Eternità cingono il tempio; Fattisi incontro all' ammirabil donna, Ogni virile esempio Fra lor membravan del suo forte ingegno; Come d' anglico vetro Armato l' occhio, ella il volgeva a segno U' 'l variar degli astri ei segue e libra; Come lo spirto indagator spingea Delle cadute età nei dubbi avanzi E sorger ne vedea Le arcane fonti d' ogni nuovo evento; Come de' coupi in ogni occulta fibra Di natura spiò l' arte e 'l portento; E come accenti d' ogni opposto regno Usciano un dì da' labbri suoi divini, Angli, Gallici, Toschi, Achei, Latini; Membravan essi: e al tenebroso lido Piombavan già per l' atra via di morte Estreme l' ore del cadente giorno, Quando sonò di cara speme un grido, Che dei Romani allori il crine adorno, Ombra di eccelsa donna in veste bruna Scendea di morte pel fatal sentiero. Tremò la nera grotta, e vorticosi Spinsero gli Euri le terribil porte; Il sentier cupo dell' obblio comparve, Che guida ai regni ciechi e tenebrosi L' alme volgari tra bagliore infido, Al manco lato della grotta orrenda: Rapidamente allor l' alta cortina Al destro lato Eternità dischiuse: Corsero l' ombre invitte al varco intorno, Al suon degli inni dell' eteree Muse; E lo spirito lucido leggiero Nella d' Eternità reggia divina Entrò, fra lor fatidiche parole, Come in sua reggia d' oriente il Sole. Vanne, canzon; ti chiede Roma de' nostri affetti e meta e speme, Potess' io girti insieme, Ove la tomba di colei si vede, Per cui si strugge in disperato pianto Vergin bella d' altissima virtude. Tu le dirai nell' animoso canto: O del Pindo magnanima cultrice; A spirto eccelso e santo Via d' immortalità morte dischiude; Che in la grotta degli anni espiatrice, Oltre al varco fatale Tempo ed Invidia rea tarpate han l' ale. Strale di fiamma viva Dalla faretra di cantor sublime Spinge l' altera Fantasia sagace, Sacra ed eccelsa Diva, Se a nobil segno drizza l' alte rime Nobil pensiero audace. Arcana, e grande visione ebb' io; Ahi! vision fugace Che in seno all' ore col gran dì fuggío! I' sento, i' sento un Dio, Che adatta all' arco il suo possente strale, E dell' obblio fatale In seno il vibra, onde avrem chiara vita, Quando nostra stagion sarà compita. Sovra un carro di sette Bei colori, refranti Delle nubi sfuggevoli nel seno, E di raggi settemplici saette Stringendo nelle palme scintillanti, Dea col ciglio velato, Seco mi trasse su pel ciel sereno. Sparve la terra appieno, Sparve, o sembrommi, ogni stellata sfera, E le nubi, l' azzurro, il cielo, il vento Sparvero al cenno della donna altera. Il Sol coverto e spento Io vidi, e l' acciecato Universo crollare in un momento. Ondeggiante nel vuoto Il Caos profondo stette, Poscia nel nulla rotolossi. Seco Cadde entro 'l nulla in variabil moto Ogni creata cosa; e sola meco Rimase l' alta sconosciuta donna, Che delle braccia sue mi fea colonna; Voce simìle a quel concento divo, Che udir s' infinse in le sue dieci sfere Il nato in Samo di Teano amante, Uscì dalle sue labbra lusinghiere, Mentre scovrì l' angelico sembiante. Oh sembiante! Oh momento! Oh non sperata Visione beata! Piovea di luce un rivo Da' suoi begli occhi, ed io le caddi in grembo; Caddi vinta, abbagliata. Qual madre innamorata Il fanciullin, che piange, Con un bacio consola; Così la donna mi covrì col lembo Della sua veste, e dissemi: che t' ange? Iddio ti scelse alla potenza mia Spettatrice inusata: Son quella, cui l' eterna maestría Diè l' ineffabil nome d' Armonia. Me su' globi lucenti Creò primiera a signoria verace Il grand' Ente degli enti. Di me quest' orbi sono; Io 'l tutto guido nel divino regno; E sin tua cetra è mio non lieve dono; Cetra, che in modo vile Mai non temprò l' adulatrice lode, Nè schiavi fece per timore indegno L' anima dell' ingegno, E 'l vero della frode; Cetra, cui non lambì l' aura lasciva, Che della Saffo Argiva Macchiò la fama, e di suo plettro il suono; Cetra, che in modo stoltamente audace Sulle umane bilancie empia non pose Il creator delle create cose. La radiante sua mano adorata, Così dicendo, in mezzo al turbinoso Vuoto ella spinse; e sovra i poli accesi, Al toccar portentoso, Scosse novello Sol nuova infiammata Chioma nel vuoto cieco e tenebroso; E torrente di fuoco Giù cadde impetuoso Dalla gran mole aurata, Diviso in mille e mille Ineguali faville. Cessaro a poco a poco Gl' impulsi eccelsi. Appesi Globi di fuoco su pel cielo immenso In più vicino e più lontano loco Diventar le fiammifere scintille, Così sospinte fuor del Sole accenso; Ed opra fu d' operatore eterno, Che all' Armonia governo Diè sul ciel, sulla terra e sugli abissi, Se volser gli astri in non segnate elissi. Fra i vorticosi lampi Ebber l' urto maggiore Due faville maggior, Saturno e Giove, Su riaccese pei celesti campi Lontane sì che nel lor seno piove Gelido verno e dubitosa luce. Fatte novellamente e Terra e Marte, Non lungi si fermar, doppie facelle, Coll' astro vivo, cui diè 'l prisco duce De' tradimenti, all' eloquenza amico, Nome nel tempo antico. Men di lui, più degli altri al Sol cocente Sorse vicina, bella infra le belle, Face gaja lucente, Sacra dai Greci all' arte Del vergognoso amore, E allumò suo dolcissimo splendore. Vista miranda! Accesi Volgeano i mondi sovra l' asse loro, Assi di fuochi ardenti: Ma furo alfine rallentati e spenti Que' mondi; e 'l vidi. La veloce terra E le stellate moli Spenser col moto i cardini roventi; Cessar le fiamme la cocente guerra; Tornò al ciel scintillante Ogni pianeta errante, Che, roteando, sfera Si fe' qual prima egli era, Coll' equator sublime, e bassi i poli; Mentre il magno primiero occhio del giorno De' primitivi mescolati raggi Piovea fascetti intorno, Che portar ne' lor rapidi viaggi, Riprodotta in un retto e vivo moto, La successiva luce ovunque ascosa, E colla luce giù per l' aer vuoto I bei color tornaro, Diversi per li mezzi in cui passaro, Varii toccando i corpi variati; E riprese natura i fregi usati, Allor dolce sorrise La mia duce immortale, E sorridendo me da me divise. Poscia riprese in amoroso suono: Nacqui col Tempo; sono Baggio di Nume: e 'l mio poter tu vedi. La cetra, ch' è mio dono, A me consacra. Già da lunga etate Fuggo la terra, e l' ali Infangar non vogl' io: Ma allor che spira entusiasmo il canto Nel cuor d' innocuo vate, Io son che 'l muovo col celeste incanto, O tu, che ascolti e vedi Quant' io son bella, e quanto son possente, Volgi a me l' estro ardente; Pingimi ad ogni cuore avverso e rio, Sicchè vivo desio Strugga chi in terra non mi vide mai. Narra ch' offenso Dio, Dator di gioje e guai, Quando spegne il mio amore in ogni petto In ira immensa trasmutò l'affetto. Canzon, ben sai qual dalle nubi scesi; Com'ella nel fuggir ripose il velo. Or da te si palesi, E passi il fuoco all'anime di gelo. E di', che se mirarla Potesse quando ella governa il cielo, Arder al par di noi e desïarla, Ch'ella è pace, virtute, estro e bellezza, Dovria chi non l'intende o non l'apprezza, Oh d' armonico ciel figlio canoro! Inno sublime e forte, Che in turbine di luce Aleggi intorno alla mia cetra d' oro; Prendi il mio cuore a duce, Il non imbelle cuore Disprezzator della volubil sorte; E in mezzo al cielo sali A rivestir grand'ali Stellate, immense, lucide, divine. Lascia, lascia, bell'inno avvivatore, L'impoverite e sorde rupi alpine; Ch'io, pittrice di duolo, Seguiterò l'inarrivabil volo. Della reggia del Tempo all'ombra antica, Inno, sofferma il piede. Sciolta la breve e mal troncata chioma, Quivi una donna, anzi una diva siede, Languida la pupilla, afflitta e muta, Slacciato l' elmo e la fatal lorica Sovra 'l suolo caduta; Ella stupida vede Fra l'una e l'altra mamma ampia ferita; L'affetto mio te 'l dica Ch'io piansi, piango e piangerò, sintanto Ch'ella ha cagion di pianto; Oh dolce madre amica Della caduta e della nuova Roma! Italia! Italia! il mio dolor ti noma. Vedrai, che stalle a fianco Un giovine lascivo e lusinghiero; Al crin lungo dorato Forma un serto di rose elmo e cimiero; Velo olezzante e bianco Orna le belle membra, e non le copre; Molle agli atti, al sembiante, al velo, all'opre; Specchio argentino il fianco Destro gli adorna, ed il sinistro lato Orna catena di vermiglie rose; Colle rosate dita Tutte asperse di miel, soavemente Preme d' Italia la bocca amorosa; Languido seducente, Dei fatti prischi a ragionar l'invita, E in lei, buon narrator d'antiche istorie, Pasce albagía colle vetuste glorie. L' Ozio, il sappi, è costui; d' ogni delitto Sorgente infausta, e dell' Italia amante; Pur dell' Italia egli ha il bel sen trafitto: Lentamente dal seno Stilla il sangue, e vien meno Vaneggiando la donna, e fatta serva Di sua voglia proterva: È costui l' Ozio, insultator del Nume; Ch'a riempire il sempre vuoto istante Vil sofista l' annienta, e non l' onora; Fonte al truce costume, Alla di fama non curanza vile, E a voluttade ingorda e seduttrice: Per lui la sozza e ricoa meretrice Trionfa in cocchio aurato Del pudor non curato, E per lui, casta sposa in sorte umìle La sorte invidia al turpe amor servile. L' oro e le false lodi Egli brama e dispensa; Italia bella L' oro e le false lodi a lui consacra, Pur ch' egli in dolci modi Le rannodi del crin le sparse anella, E molli baci imprima Sovra la faccia disadorna e macra. Oh sì pudica in prima! Oh magna Italia! egli di fior t'abbella; Forza ti toglie, e 'l vedi, E a sue lusinghe cedi, Ahi veramente rimbambita ancella! Inno lucido, sacro, t' avvicina, E piangi in lei la maestà Latina. Verrà il giorno, cred'io, ch'alle sassose Terribil porte il Tempo affaccierassi, E la vigil lucerna Discovrirà le trasandate cose, Poichè in mezzo alle mobili rovine Della sua reggia eterna Perenne luce Veritate ascose; Al balenar del lume suo tremendo Il nobil ciglio alfine Italia pingerà d' alto rossore, E le piaghe tergendo Che già le fece un vergognoso amore, Morte lenta, ma certa, in sen vedrassi, E forte più dal primo error farassi. Sin che il Tempo non sorge, E di costei sugli occhi abbacinati La infallibile sua luce non porge, Ferma i modi cortesi ed onorati O nato a veritade inno fulgente; Ma se le piaghe sente, Se vedi i folli amori abbandonati, L'inchina reverente, E dille: torna a'magni fregi usati; Vincerai gli usi effeminati e rei Or che veracemente Italia sei. Quel Dio, che immenso con un dito volve Roteando la terra in sovra i poli, E con un soffio cento mila soli Nell' infinito muove, Com' aura muove la terrena polve; Quel Dio, che vibra la perenne luce, Che sovra noi riluce, Con li grand' occhi, da cui fiamma piove; Quello che dall' eccelse insino all' ime Parti della lucente Chiara stanza sublime, Dov' egli posa eterno eternamente, La schiera reverente De' santi adora con prostesa fronte; Quel Dio che schianta il monte, Sol ch' ei l' accenni, inaridisce il mare, E all' onde salse amare Incava il letto, come al picciol fonte; Egli che libra, ineluttabil, forte Dell' insetto e dell'uom natura e sorte; Ei creò la Fortuna, egli che siede Cinto da fuochi dell'azzurra notte Fra le bilance eterne Immobilmente appese Del Sol, gemma del cielo, all'asse aurato; Sacre bilancie in cui l' orbe allor nato Il facitor sospese Pria di vibrarlo fra le danze alterne Dell'universo vasto equilibrato: Creò Fortuna quell' Iddio che vede, Quai nuvolette in ciel disperse e rotte, Passar del trono folgorante al piede, Col rinnovar de' secoli leggieri E delle schiatte infide, I brevi sempre succedenti imperi; È quasi padre, allor che manca il segno Il bambinello arcier, guarda e sorride, Ride egli eterno con un lieve sdegno Sovra le cure dell' umano ingegno. Creò Fortuna, allor che al fango vita Diede, e che 'l fango rubellossi a Dio; Ed ahi! l' insania ardita Meritò che celasse Suo giusto scettro l' alta ed infinita Sapienza dell' opere create, Quasi caduto fatalmente in mano Ad un potere insano, Sicchè dal nulla Sapienza trasse Costei, non so s' io dica o Furia o Diva, Insana, multiforme, fuggitiva, Che sulle terree spiaggie afflitte e basse Incominciò dalla primiera etate La gran carriera, che per lei s' apriva. Poc' anzi la vid' io Starmisi a fronte, quasi in me fissasse Gli scintillanti lumi, E mi porgesse le lucenti chiome, Dicendo: sai chi sono? Per me varian costumi, Per me mutan le cose e pregio e nome. Per me sorge il potente e per me cade, L' universo è 'l mio trono; Dammi la cetra, ed il mio crin ti dono. Ella face tenea Che più del Sole a me lucente apparve, Benchè 'l fuoco n'ombrasse un aureo velo. Questa è la face, che volgendo crea Ripopolato di mirabil larve Un universo, emulator del cielo; Ondeggiava il crin lungo, e giù piovea Mollemente diviso Quanto ha di gemme l' Indica marea; Un' aura orientale e lusinghiera Far mille ciocche volteggianti parve Sferzando col crin biondo il gajo viso; Mezza celata dalle ciocche ell' era Quale in aurato profumiero ascosa Fresca vergine rosa: Vuoi tu 'l mio crin? diss' ella, ed un bel riso Dolce fe' tra pudica e desiosa, Qual chi dir molto puote, e dir non osa, Proruppi: un vil desiro In vero Italo cuor vedesti mai? Non io per soffermarti Prenderò tuo bel crin, labil Fortuna: È noto a me quale di magic' artì Vario rapido giro Usi col volgo, e qual sorridi e stai, E qual tuo crin si volve e si raguna; Nè a prezzo vil la non vil cetra avrai. Oro! oro! grida questa molle etate, E dove oro non è ride superba, Onde senno, dottrina ed onestate O stan coll' oro, o'l volgo li disprezza. Tutto vidi. Sia pur. Me non vedrai Pregar, che tua mercè mi serbi alcuna Gemma d'alta ricchezza. Te preghi colle labbra miniate Da man lasciva ad emular bellezza Chi sol d' Itala donna il nome serba. Nacqui ove nacquer nell' età pudiche Porzie e Cornelie antiche, Nacqui u' nacque Vetturia, e mel ramment In cuore, in volto a niuno liscio avvezza. Come ferisci impavida provai Chi 'l tuo fallace lusingar disprezza; E ancor sent' io più d' una Di tue ferite, ahi mia nemica acerba! Provai qual ridi, e fuggi al par del vento, Dell' amor, del pensiero e del momento. Qual esempio non vidi? il tuo livore Fiede ancor l' agitata fantasia; Odo, ancor odo, il chiaro genitore Sei volte ricco d' amorosa prole, Da noi cinto, in magnanime parole Pingere l' alma che in tai voci uscia: Oh, sol cognito ai saggi, oh patrio amore! Oh, gran pregio de' saggi, eterna fama! Misero il freddo cuore Che più di voi Fortuna apprezza e brama. Buon padre! non scordai, com' ei dicea, E qual con brevi palme il picciol coro De' figli imberbi plauso gli facea. Ah pera il vile! a noi concesso fia Sederci all' ombra del paterno alloro, Noi, noi, cresciuti a non umil valore, Te sprezzando, Fortuna, o lieta o ria, Te, ch' allor vidi atrocemente irata Della fraterna lega ed onorata Trarre feral vendetta: un ne colpisti Ahi furia dispietata! Noi da noi dividendo, e ne punisti. Ahi campi di Verona! ahi del fraterno Sangue bagnati! Ahi mio dolore eterno! Io farò sì colla spontanea cetra Come nascesti, ed il perchè narrando, E come vai de' veri saggi a scorno (Di poche voci incanto memorando!) In fazioni dividendo il mondo, Che invan del crine adorno Andrai le ciocche lucide mostrando. Ella proruppe in riso; e come? e quando? In ogni tempo mi scherzò d'intorno Turba, che del mio crine il volo incerto Guata ed osserva ogni aura, e ne sospira, Turba, che se quell' aura avversa gira Oppostamente il bel tesoro biondo, Grida, che in giro unquanco Altri nol rimirò com' ella il mira: Ma tu ben sai, che 'l fabbro onnipossente Immoto è solo sull' immobil etra, Ch' ei simil fe' 'l passato ed il presente, E l' avvenire, u' l' occhio non penetra; Sai ch' anni fur pari a quest' anni, e certo Sull' orbe vecchio rinnovato e stanco, Ove tutto si muta Fato al suo fato ugual vid' io sovente; Potrei cangiarne le nocive impronte, Se cangi 'l cuore austero ed inesperto; Ma nol vuoi tu, cuor alto e verecondo; Tienti 'l tuo plettro, parlatrice arguta, Che in guiderdone al merto Tu, che serbi a Fortuna e sprezzi ed onte, Da questo dì non mi vedrai la fronte. Fuggì labil Fortuna ed incostante, Nè 'l suo fuggir mi cale. Ho cetra, ho cuore, e nasccranmi l' ale, Che ho grandi esempi luminosi avante; E starò forse a contrastar col Fato, Fra l' ombre alte di Dante e di Torquato. Suprema, immensa, avvivatrice e forte Aura, che movi per la via stellata, E sotto l' ali al Cherubin fiammante Commossa all' urto, e lievemente accesa Volvi in celesti ruote armonizzata; Aura, che nel toccar le dive porte Della reggia mirabile d' Iddio, Magniloquente resa, Gl' inni accompagni dell' eterna corte; T' invoco, onnipossente Aura, mi scendi in core, In cor di veritade ardito amante: Quella, quella son io, Che al Pindo mentitore Diedi sul plettro d' oro eterno addio. Chi mai, se t' ode e sente, Soffio sublime del sublime amore, Può non seguirti sola avidamente? Ah! costui non ha cuore, o 'l cor rubello Non gusta senso d' increato bello. Ti sento, ti respiro, Aura sublime; Levami dove su' tuoi giri siede Fulminator degli empi Quel Dio, che forze nel mio seno imprime: Di Lui parlo, a Lui parlo, Unico e Trino; Di lui, che in mar sommerse, Grave e sacra memoria De' trapassati fuggitivi tempi, Il re perverso dell' Egizia sede; Che un altro re di peli irti coverse, E che con lieve canna un fiume d' onda Trasse dalla sassosa arida sponda; Di lui, che fermò 'l Sol nel suo cammino, Onde Israelle avesse Gran campo, e certo ad immortal vittoria; Di lui, che da poc' oste, e molta fede Fe' che tal forza emerse, Ond' alte mura ne crollaro oppresse; Di lui, che a' tre fanciulli il varco aperse Tra fiamme orrende, che piegaro anch' esse; Che a Danïello diede Frenar le belve a se ruggenti accanto; Di lui, che adoro al suon degli astri, e canto. Qui 'n ciel ti seguo, Aura divina, e schiudo Dalle fervide labbra un inno acceso. Mio Dio, sei tu quello, che in dir: si faccia; Di luce viva l' universo tinge, L' universo, che trema, allor che siedi Del turbinoso vento in sovra l' ale, E ch' ira somma sfolgorando cinge L' ignifera terribile tua faccia. Dove sei, uno invitto ed immortale, Che dicesti a te stesso: i' son chi sono? Dove sei? Dove sei? Quale t'abbraccia Immensità di tua possanza uguale? In quale sfera, in quale Trono stellato sovra i cerchi appeso Tutta in te stesso eternitade vedi, D' ogni altro vel, che di tua luce, ignudo? Dove sei? Dove sei? Oh meraviglia! Chi qua su mi consiglia A ricercarti in la tua gloria ascoso? Se come un velo piccioletto e bianco Di lieve nuvoletta occidentale Del Sol ne cela il volto maestoso, Te, pan mistico, cela Mar di fiamme avvivante e portentoso; Te, che 'l mio sguardo vaneggiante e stanco Conosci, oh generoso! E vel tessesti, al par dell' occhio, frale. Oh amore! oh velo! oh Cherubini! oh dono! Ah! ti vela, ti vela; S' io ti mirassi in ciel, luce infinita, Cadrei, convinta sì, ma incenerita. Noi t' adoriam, mistica nube: al nuovo Cede l' antico rito, e fede viva De' sensi ciechi ogni difetto emenda. Perenne lode al Genitor, al Figlio Con gli angioletti sulla cetra i' movo: Lode! giubilo! onor! Per la virtude, Che d' entrambi deriva, Ad adorar con lor quest' orbe apprenda Lo Spirito d' Iddio: luce increata, Noi t' adoriam: la tua pietà discenda, La via rischiari al tuo fedel segnata, E 'l tragga di periglio Fra la turba omicida e sconsigliata: Veggan nella tua luce I popoli protervi, Che tu sei solo regnatore e duce; Giustizia eccelsa d' ogni macchia priva, Che a suo voler conduce De' forti l' oste, e la genía de' servi. Dà pace a'tuoi: quanto di grazie chiude Il ciel, discenda, e fin su lidi estremi L'uom si ravveda, o sacra nube! e tremi. Dominatore altissimo degli anni, Nol vedi l' uom superbo! Egli deride L'Aura tua magna, che 'l mio carme onora. Quasi co'sogni d'una mente insana Scherza sotto la man fulminatrice Co' tuoi portenti non ben noti ancora: In mezzo a noi ti vede, e non t'adora; Eppur quella sei tu nube vittrice, Che te medesma vendicasti, e fuora L'empio hai tratto di senno in fieri inganni: Hai posto a dura scuola iniqua etade, E Italia contro Italia in aspra guerra Spingesti, ed a tenzon virtude e forza: Tutti gli affetti imperversar tiranni, E ne piobbero affanni, Che un lungo error la tua pietade ammorza. Tu sol potevi tranquillarci in terra; Che la tua destra serra L' alta catena della sorte umana: Il primo anello il tien la tua Pietade; L' anello estremo il desti a Morte ultrice. Tempo ed eternitade una divide Brev'ora ingannatrice. Nube adorata! nasce, passa e cade In vasta eternitade Il labil tempo, e l' uom superbo illude Tanta ravvolvitrice Delle cagion seconde immensa piena, Che te, prima cagion, rammenta appena. Levati! quale, or son cinquanta e venti Lustri, Pane Divin, pel ciel t' alzasti Con rosee fiamme tuo cammin segnando. Ecco l' alba, ecco 'l giorno memorando, In cui lordò di Subalpino sangue Guerriero estrano alpina rocca antica. T'offese quella età, tu vi soffiasti Lo spirto d' ira, allumator di pugne, Ed a crudel tenzone La patria mia nel tuo furor guidasti. In quell' etate un empio sorse, oh, degno De' nostri tempi miserandi e guasti, In cui l' umano audace orgoglio pone L' increata ragione Sulle bilancie del creato ingegno! In quell' etade un empio sorse, un folle, Che te con vili prede rotolando, De' vetusti portenti Il facitor sprezzando, Guidotti in mezzo a nostre avite mura. S' aprir colà le vili prede, e fuori Spontaneo emerse Iddio velato, alzando Se stesso in mezzo a vividi splendori. Colà tra plebe, in cui fede non langue, Di sacerdote in mani intatte e pure, Ostia' librata pel sentier de' venti, Dio ridiscese a' popolari accenti. Vedi, Signor, l' alba felice e chiara, Che dipinge le vette a'nostri monti: Ella è l' alba di rose, alba suave, A cuì desti la chiave De' mattutini dubitosi rai: Ecco 'l giorno, ecco l' ora; oh re! che fai? T' alza nella tua pompa, e 'n vivo esempio Sorgi dal chiuso tempio; Levati 'n mezzo dell' aer sereno, Ostia, che posi sulla nobil ara, Che un dì sacrò coll' ineffabil nome La città magna, che 'l tuo cor prescelse: Levati; e qual etate ebbe giammai Uopo maggior di maraviglie eccelse, Onde mutarne il cor perverso in seno? Mentitrice mortal Filosofia Chiamò le irresistibili vendette, Versando lunge da sue altere vette Di sofismi e di fraudi ampio torrente Sull'ingannata gente. Un tuo portento ne disecchi i fonti, E tua pietade sia Il mostrarne, siccome Più val d' ogni fallace umano lume Religïone, ardir, senno e costume. Ogni cinquanta estati ergesi a volo Novello albor del grand'evento adorno: Io non vedrollo dal terrestre suolo, Chè fugge vita, e più non fa ritorno, Mio Dio; ma in tuo magnifico soggiorno Fa si, ch'io, spirto abitator dell' etra, L' inno rinnovi su divina cetra. Non mai vagire in cuna Può gentil bambinello Che un angioletto per amor pietoso Presso alla cuna l' ale sue d' argento Non dispieghi vezzoso, Ed al placido sonno La pupilletta bruna Non chiuda al caro alunno suo novello, E non ne acqueti quel fatal lamento Ch' è nunzio, ohimè! della ventura sorte. CESARE, e che non ponno Le create dal Dio possente e forte Sante angeliche scorte? Guidan esse la torbida fortuna Del fanciullin cresciuto a nova etade Che nasce e piange, e che piangendo cade. Quando le luci apriva, Verginella gentile, MELANIA tua ch' ora piangendo stai, Bello, quasi mattin di fresco aprile, Dal cielo adorno d'argentini rai Spirto discese al letticciuolo a lato, Ed il labbro rosato, I piccioletti e gai Occhi, e la fronte candida e giuliva Egli baciò, poi dolcemente disse: No, che in cielo stellato Vago e puro cotanto angiol non visse; Ben io saprò ritorla Alla sorte mortal torbida umíle, Ben io sapró riporla Ove bellezza non minora mai, E fian gli estremi i fanciulleschi lai, Pargoletta crescea: Ahi! già la genitrice Lei sovra l'Arno riveder credea; Ahi! l'avola infelice Già tutta tutta l'alma in lei pascea, Ed il pensier da lunghi affanni stanco; Ma l'angioletto che le stava a fianco Qualora uscir sotto le molli udia Dita l'alta armonia, Qualor mirava la leggiadra salma, Qual rosellina da l' auretta scossa, Che in danza verginal dolce movea, D' amor vivace ardea. Pensier dell'avvenir son sogni e larve: Spiegò l' ali suo duce, ed ella sparve. Sparve, e salì sull' etra, E 'l nuziale ammanto L' angiol le pose, ed alle nozze eccelse Il suo Dio la prescelse Al suon perenne d' increata cetra. Solo nel tempio santo Di Sionne, le increbbe Il tuo dolore, e della madre il pianto, Pianto materno ahi! dove Dove affanno non desta e non penetra, Se MELANIA si dolse al Nume accanto? Ma l' angioletto n' ebbe Alta pietà, che già rapilla a voi: Battendo i vanni suoi, Quando limpida piove Su l' orbe nostro la notturna luce, Venne di pace apportatore e duce. CESARE, allor che mesto Volgi solingo l' orme Là dell' Arno ospital lungo la riva, U' non vestigio uman avvien si stampi; E nei solinghi campi Il tuo destin funesto, Che d' una parte del tuo cuor ti priva, Piangi, e al dolor conforme Il pianger tuo sgorga da larga vena, Il pianger tuo che sovra il cor ti piomba; Quando teco si lagna La mesta donna in su l' estrania arena Di tue vicende e dell'amor compagna, Volo non odi che d'intorno romba Qual di flebil colomba? Dimmi, non l' odi per l'azzurra calma, D' alta malinconia ripiena l' alma? De l' angioletto vago Il sospirar non odi Nel sospir de l' auretta in su le sponde? Non odi il vol leggiero Tra 'l mover delle fronde Nel lento lento lor pieghevol giro? Senti nel lusinghiero Odor di rose intatte il suo respiro: Ve', ridente si mostra La sua lucente immago Tra gli arboscelli dell' ombrosa chiostra; Ed in pietosi modi Scote il candido vel, che lo ricopre; Dolce ti chiama a nome Suavemente, e scopre Le crespe treccie bionde, E dalle scosse sfavillanti chiome, E dal manto e dal lembo Pioggia di fiori egli ti sparge in grembo. Ed a che piangi? ei dolce Va susurrando; o tu felice padre D'una vergine eletta al magno trono? A che piange la madre? Iddio la diede, e vi ritolse il dono; Quel Dio ch' a te ritolse Padre, suora, fratello; Quel Dio possente, quello Ch' ogni speranza in sul fiorir ti colse; Che tra fiere ritorte in aspra pugna Te guerrier forte avvolse; Sì che la bruna spoglia In disperata doglia Vestì piangendo tua fedel consorte; Quel Dio ch' ora ti folce, Or che d'avverso fato ingorda l' ugna Tua speranza t' invola, E la costanza tua rimanti sola. Così, CESARE, l' odi, Di tua vergine figlia Favella il santo messaggero eletto: Gioja ti scenda in petto, Gli allegri panni in tua pietà ripiglia: Estraneo senso fora il tuo dolore, Ch' ove ha regno MELANIA, è tutto amore. Ahi come il molle raggio Della candida luna Fa palpitar novellamente il cuore! Ahi come il mirto e il faggio, La tacente laguna, E l' auretta ch' ondeggia in su quel fiore, Il già sopito amore Di gloria, e la già doma Speme nel sen mi han desta! Ahi perchè, lassa! su mia bruna chioma Non più serto di lauro oggi s'appresta? Ahi perchè, lassa! il regnator dell'etra Mi calpestò la sospirosa cetra? Dunque fibra vivace, E fantasia presaga, Ch'antivedendo non ripara il danno, Cruda nemica e varïabil maga, Ebbi solo, onde pace Perder dal primo fanciullesco affanno, Tutti in un fascio ritrovando i mali, Che furono, che sono e che saranno? Mi ritolser la cetra avversi Numi, E sugli egri miei lumi Stese Apolline re nubi fatali, Onde dal fatal giorno Sta l'oggetto fallace Nello specchio degli occhi; e bruna e ria Macchia infosca la luce a me d'intorno. Mi fu tolta la cetra; e in ciel fu scritto, Che pietà non trovasse il mio delitto. Pria dell' età senile Se inaridir dovea Il sacro onor della pensosa fronte, Era più dolce cosa in dolce aprile Fuggir dall'onda Ascrea, Nè tesser rime armonïose e pronte: Era più dolce cosa in sovra il monte Non ricercar le Muse, innamorate Di mia giovane ctate, Che udii sovente ragionar fra loro Del mio nascente alloro; Sì che grata contesa era d' affetto Fra l' alte Muse, qual m' ardesse il petto, Erato gia danzando, Ed io la gia seguendo Dell' Ippocrene alla ridente sponda, Mentre venia cantando E sua nave movendo Apollo reggitor della bell'onda, Serto di nobil fronda Erato al crin mi pose. Sul primo lustro io stava, Crescente al par di verginelle rose, Di sue vergini rose il crin fregiato. Ella meco scherzava; E sulla nave nel giorno beato Dal giovin Nume anch'io riposta fui, Egli di me s'accese, ed io di lui, Corsero a me vicine Le suore vezzeggianti; E tutte tutte mi recaro in dono Veli, coturni e serti di reine, E di Filosofia gli alteri ammanti. Or muto è 'l plettro, e posta in abbandono Dalle proterve io sono. Ma non men prendo cura, Poich'amoroso stato In cuor di donna poco tempo dura. Sol tu dal crine aurato, Signor del ciel, ove t'accendi e stai, Ch'ardi di fiamma inestinguibil pura, Rammenta ch'io t'amai, Se tu pur di donzella il cuor non hai, Amor l'arco offerirmi, Pluto i ricchi tesori, Giuno il pronubo vel poteano forse. In sui primieri albori Potean le Grazie aprirmi Forse più dolci fiori, Che non le Muse a'miei vagiti accorse, Ma di te solo accesa, Io te sol dissi ai casti affetti uguale. A tutti i Numi offesa Feci, e posì in non cale L'are non tue, che dal mio labbro udire Potean voto immortale. Te mi posi a seguire, Nè curai delle Grazie i vezzi e l 'ire. Ben di vivace fuoco Anch'io t'accesi l'alma; Ed io mel seppi, ed il Parnaso il vide. Ma in divin core è gioco Turbar femminea calma. Ride l'arcier, se tortorella uccide, Qual per Issea facesti Già tua speranza acerba. Tu degli armenti miei cura prendesti, Ond'io sedendo in mezzo a' fiori e l' erba, E di Leucotea e Clizia il prisco duolo Beffeggiando superba, Pareami per te solo, Ch'ahi! narrasse al pastor la pastorella: Arde il gran Nume, e la sua fiamma è quella. Oggi di luna al mesto Raggio tacendo piango, Ch' io cerco te, benchè da te sprezzata. Sul plettro d' or contesto L' aurata corda io frango, Che l' armonia non rende al plettro usata. Toglimi almen dal seno Il cuor di te ripieno, Ond'io tranquilla possa, Qual neghittosa suol donna volgare, Il raggio queto queto Seguir di luna, che tra fronde appare. Fa, ch' io non più soavemente scossa Dal palpitar secreto Nel volger gli egri lumi al puro cielo Serbi immoto sembiante, e cuor di gelo. Rendi or dunque, gran Nume, a mie pupille L'usata forza, e la virtù primiera: E non scuotano invan l' anima altera Pindariche scintille. Rendimi l' amor tuo: riprendi il mio: O l' acerbo ti dono estremo addio. Sovra le sfere ardenti Un regno eterno ha l'immutabil sede: Là stassi una regina, anzi una diva, Che il volgo mai non vede; Aura vocale in portentosi accenti La precede, la segue e la circonda, E, come raggio in onda, Penetra ovunque ella rivolge il piede; Luce feconda e viva Mista coll'aura del fatal soggiorno Sfavilla a lei d'intorno; Le intreccian l'Ore la fulgente chioma; E nel regno del ciel Gloria si noma. Torrite in sul bel crine, Quasi Cibele dell' antica etate, Intorno intorno al suo lucente trono Stanno aspettando le parole usate L' alte città Latine, Alunne sue già ne' passati tempi; Ma que' passati esempi Non v' è chi narri, e le speranze andate; Alto è 'l silenzio, e sono Tacenti e mute le città superbe; Vedon le piaghe acerbe, Ed all'antica lor gloria davanti Incerte del destin stansi tremanti. Prima in la nobil schiera Vien la regina delle Cozie rupi, Stretta e composta l'ordinata chioma, Nata fra tori ed orsi crudi e lupi, In la gran selva tenebrosa e nera, Mentre cantavan della Gallia antica I Bardi, in mezzo a sassi ombrosi e cupi; Usa dell'armi alla dura fatica, Funesta ad Anniballe aspra nemica, Della libera Roma Poscia alunna magnanima ed altiera; Ella, che in ogni età l'Itala porta Chiuse, per anco porta La forte chiave dall'età primiera; La inutil chiave, or che costei si vide Abbandonata dalle suore infide. Va pensando costei dell' Alpi a scampo Come vegliar altri la vide, e sola, E come, al par del prisco suo Fetonte, Che sul carro de! Sol passando vola, E cade poscia di quel Sole al lampo, Ella è caduta, e sol rimanle il nome; Ma che può fare il suon d' alta parola Se più l'elmo non posa in sulle chiome? O se straniero in fronte Elmo risplende a chi è gagliardo in campo? Gloria ancor riconosce il fiume e 'l monte Del bel paese, ove Torino ha sede, Ma l' elmo suo stranier guarda, e nol erede. Vicino a lei, del mare Regnatrice superba, in ricca veste Vien Genova immortale, Nuda di gemme, nelle età funeste Della Cozia regina in sorte uguale. Gloria rammenta le sue pugne amare Col prisco Tebro; a lei nell' alma stanno Di quel Lazio tiranno Le con Genova invan perdute geste: Gloria rammenta quando Genova e Roma insiem lottar già vide Fra le schiere Numide; E, presa Roma a meta, orrendo calle Come s'aprir pugnando Del nevoso Apennin dietro le spalle, E l' antico e 'l novel fiero Anniballe, Oggi le leggi del possente figlio Del Ligure Fetonte il fato atterra, Ed in Gallica guerra Le schiere di Sabazio, ahi! son cadute; Con i Liguri stretta in un periglio Serve l' Insubre terra, E cinge Italia tutta una catena Sotto la man che il lungo crin le afferra; Invan Genova, invan la sua virtute Vanta, e i Romani consoli rammenta, Che a raffrenar la piena Di sua possanza ch'ora giace spenta, Miser tant' armi e sì lungo pensiero; La vincitrice terra Gloria conosce, ma di duol ripiena Genova guata, e sotto il manto altero Mal riconosce il Gallico cimiero. Vede la Gloria or qui d' altri maestra Milano incoronata, e se credendo Fatta maggior in servitù proterva; Milano usata ad infiorar servendo La lunga chioma con straniera destra. Qui stanno a Gloria innanzi, e Parma e Manto E Venezia piangente, ancor stringendo La sacra gemma, onde a Nettuno è sposa, Ella invecchiata in libertate acerba. Qui d'Italia Minerva Stassi Firenze col cimier di rosa; Qui stanno della gloria Itala accanto E Napoli tradita, e la superba Roma, ch' estranie penne ha sulla chioma; Pur sempre Gloria riconobbe Roma. Taccion l' alte città: l' aura miranda, L' aura vocale, che la Gloria diva Circonda, quasi i rai cingono il Sole In la sua reggia estiva, Manda un suon di pietà, mentre sfavilla L'etra, là su tranquilla, E di novelli rai Gloria s'avviva. Il gran decreto d'immutabil fato Così pel ciel stellato Suona in quell'aria altrice di portenti, Ed ai divini accenti Tolgonsi l'elmo le città sorelle, Gallica insegna di cittadi ancelle. Fugge il Tempo, ed alterna Sovra l'orbe mutabile gli allori. Sorgete! or la possente, Che gran parte del mondo aspra governa, Nemica acerba vacillar mirate; Dalle chiome gemmate Cadde la trionfal corona eterna! Ah! l' abbia Italia. Il Tempo, ch'esce fuori Delle rovine Galliche vedete: Ei s' affaccia; sorgete! Una lorica, un cuore ed una mente; Ed un novello FILIBERTO avrete, Chè il tempo a voi darallo; e se cattiva Italia, fu, regni ora Italia, e viva! Bacia Genova in fronte Al suon delle magnanime parole Dei monti antichi la città custode; Le chiavi innalza, e sfavillante Sole Levasi dietro dell'alpiuo monte, Ed ambe veste delle eteree luci. Ma della patria speme or fatte duci Perchè due città sole? Città divise non da Gloria han lode; Deh! vi baciate in fronte, e strette insieme Siate, o d' Italia speme! Or chi mai, chi v' uguaglia, e chi v' atterra, Se in Italia cessò l' Itala guerra? Quando al Ligure mar starai sul lido, Canzon, ripeti della Gloria il voto; Se le città sorelle odono il grido, Odalo Italia, e non ritorni a vuoto; Calchi lo scettro de'stranier superbi, E sovra i suoi la signoria si serbi.

FINE DEL TOMO PRIMO.

V˙ ZAVATTERI LL˙ AA˙ Praeses

Se ne permette la stampa.
BESSONE per la Gran Cancelleria

Pag. 9vers. 8Unitecorr.Uniti
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