VERSI
DI
DIODATA
SALUZZO ROERO.

VOLUME III.

Prezzo fr. 1 cent. 50.



VERSI
DI
DIODATA
SALUZZO ROERO

QUARTA EDIZIONE
SORRETTA RD ACCRESCIUTA

VOLUME III.

TORINO
VEDOVA POMBA E FIGLI
STAMPATORI E LIBRAI
M.DCCC.XVI.

O figlia del piacer, madre del duolo. Speranza infida, che sciogliendo vai Il lusinghiero canto al mondo solo; Madre feconda de' tardivi lai, E della gioja fuggitiva e breve, Madre leggiadra d'impensati guai; Vie più bianco è 'l tuo volto assai di neve, E si pinge il desio negli occhi vivi, Che quaggiù fanno ogni sciagura lieve: Tu in cuor d' ogn' uom favelli, e pensi, e scrivi, E'l tuo vivido fuoco ancor non muore Ne'nudi spirti della luce privi. Ma troppo, ahi! troppo sventurato il cuore, Che in tua balía depone il suo pensiero, E di se stesso per te vive fuore! Pur, s' ei non gode del presente, è vero Ch' ei non cura l passato, e sol si pasco D' un avvenir incerto e menzognero. Intorno scherzi delle nostre fasce, Intorno scherzi a gioventù vezzosa, E tempri al veglio le sue crude ambasce. Benchè la guati, all' occhio tuo nascosa Celando il volto sotto nube bianca Da te sen fugge Verità sdegnosa. S'avanza il tempo che l' etate imbianca Pel sentier della vita, e lo precede Tuo fievol lume, che giammai non manca. Cosìi colui, che muove stanco il piede Del suo cammin incerto e mal securo Dietro al baglior di vacillanti tede, Sfavillar mira nel lontano oscuro Tra Stella e stella piccioletta luce; E muove, e cade sul terreno impuro: E, s' alfin giunge ov' il fuoco riluce, Trova vil capannetta inonorata, U' vive poverel, o ladro truce. Ei là sperava sorgere beata Stanza di regi, od un superbo tempio, Ove Divinità venga adorata. Non c'instruisce d'altr' età l' esempio; Non c'instruiscon le spezzate antenne Sul mar, che inghiotte l' innocente e l'empio. L' acheo garzon, spiegando al ciel le penne, Iva sognando libertate e pace; Pur il raggio del Sol ei non sostenne. Incauto emulator del padre audace Cadde nell' onda, e vi cadde con ello La già seduta in ciel speme mendace. Oh quanti, oh quanti imitator di quello Soguan la gioja della smania accanto, E scherzan col destino iniquo e fello! Donna talor del suo fecondo fianco Nel caro frutt si vezzeggia, e in viso Beltà vi scuopre non più vista unquanco; E, mentre a côrre i primi detti fiso Lo spirto ha sulle care incerte labbia Dal proprio seno per amor diviso, Cade 'l fanciullo com' al vento sabbia, E lascia orbata lei, a cui sol resta Del passato piacer disdegno e rabbia. Sposi talor di nuziale vesta Vanno coperti, e nelle chiome d' oro Scherza beltate dolcemente onesta. Seguon le Grazie, ed il leggiadro coro Dell' Ore segue, e con fiorito laccio Si stringe or l' una or l' altra ad ambi loro. Ma ahi! non so s' io mi favello o taccio: Tal pianto involontario il volto allaga, E tal mi scorre per le vene un ghiaccio. Un de' consorti fiera morte indaga Con occhio bieco, e colla sua saetta Uu solo uccide, eppur entrambi impiaga, O tu cosi già tanto a noi diletta, Che siedi dove Eternità si volve Tra le figlie del ciel pura angioletta; Poi che fosti ridotta in poca plove, Non potrian mai spiegar le mie parole Come 'l tuo sposo in lagrime si solve. Ei rammentarti sospirando suole: Giusto è ben, che tal sia la sua costanza, Se fur le tue virtuti al mondo sole. Or chi biasmar potea giusta speranza Di madre, che credeva al figlio pria Cader, siccome è di Natura usanza? Ovver chi condannar giammai potria Sposo, che aver pensava alla sua vita Dolce compagna lei, che scelto avia? Ognun quaggiù falsa lusinga invita, Ed impensata perchè vien la sorte Tanto fassi più cruda e misgradita. Forte pianta o cadente atterra Morte, Come' l virgulto; e la selvaggia ortica Tutti calchiamo delle averne porte. Nè scampa alcun, sebben piangendo dica: Credei serbarmi pe' miei figli ancora, E per mogliema tenera e pudica. Chè quando il sole l' occidente indora Sempre aprir vede una novella tomba, E tombe nuove aprir vede l'Aurora. La cupa voce del dolor rimbomba Mista alla folle voce del desire, Che all' aer suona la sua vuota tromba. Ah speme! ah! fosti tu che in mezzo all' ire Tante volte cacciasti il forte Achille, Acciò parli talun del suo morire. E tu accendesti le crude scintille Di quella guerra, in cui la bella donna Menelao ritor crede in mezzo a mille. E tu copristi colla verde gonna, Quando s' alzò per muovere al ciel guerra, L' antica di Babel empia colonna. Speranza sol d' allôr quaggiuso atterra I più forti guerrieri e valorosi, E in poch' anni li chiude in poca terra. Speme d' impunitate i vizj ascosi Nutre, e' l rimorso vivo e naturale Fuga dal sen de' pigri e neghittosi, Ambiziou vive di speme; uguale Speme nutrica la crudel vendetta, E la cieca dell' ôr sete fatale. Vive alla speme inonestà soggetta; Nè v' ha cosa quaggiù che siane sciolta. Felice lui, che niun evento aspetta, E non lia I' alma da speranza avvolta In ferrei lacci, ed ha libero il volo, Nè tue lusinghe nè tua voce ascolta, O figlia del piacer, madre del duolo. Carlo, la giovinetta oscura, e priva Di gloria e lustro, allor che' l patrio fiume Seder ti vide sulla manca riva, A te ritorna col dubbioso lume Onde l' anno novel tutto cosperse Al vecchio Tempo l' instancabil piume, Primo raggio di gloria a lei s' aperse Colla non chiesta Arcadica corona, Nè le tue voci l' amistà disperse: Quel vario canto, che a me gioja dona Da che lasciasti il tuo paterno suolo, Udìi tutto l'altissimo Elicona: E palpitando tra la tema e 'l duolo Vidi far note le non conte rime, E tor la nube che celava il volo. I genitori alle mirabil cime Spinsero arditamente il passo mio: Mirai da lunge la vetta sublime, Ed ebbi plauso e lode al buon desio. E non sdegnommi la gente divina; E sul sentier d'Eternità son io. Tu non sai come volsi pellegrina Sovra la falda del lucido monte Ove stassi Melpomene regina. Gettai tutti i miei fiori in mezzo al fonte, E mi disciolsi la candida vesta, E cipresso mi posi in su la fronte, E fra l'orror di notturna tempesta, Tra 'l lutto e 'l sangue e la strage e la guerra, Giuusi iterando canzone funesta. Sorgea nel mezzo alla divina terra Alta colonna tra le ferree porte U' 'l passeggier singhiozzando s'atterra. Chi sa, chi sa chi un di, nobile e forte Qui suonarfaccia tra parole sciolte. Chi pastorella fu, canto di morte? L' ara sacra a Melpomene due volte Mici voti accolse, e miei liberi versi, E 'l sospirare di mie voci incolte, Di tenebrore la cetra coversi, E i nomi sacri scritti in alta pietra Col lagrimare mio perenne aspersi. Qui sire dell' altissima faretra Sofocle e sculto in mezzo agli altri dui Greci, onde Atene coronò la cetra. Meravigliando lunga etate fui Sui quattro sorti dalla fredda senua, E nè pur uno n'avevamo nui, Noi la cui lingua maestosa impenna Ali di fuoco, e si ripiega come Rapidamente Fantasia le accenna. Ma ben si vendicò l' ltalo nome, Ch' uno ne sorse, qual non vider mai Le due tanto diverse altere Rome. Sofocle, e questo più d' altri onorai, Che molle canto il cuor disprezza e fugge, Nè amor vulgare vuol tragici lai. Ah! che 'l mio labbro di speranza sugge L' anfora tutta, e lo spirto m'accendo Guatando meta che da me rifugge; E tragico coturno al piè vestendo L' atroce Tullia sanguinosa pinsi, E sul destin d' Erminia andai piangendo. E tanto all'ara sublime m' avvinsi, Che sino al giorno in cui morte lo vieti Voglio errar fra cipressi ov' io mi spinsi. Ma Diva degli instabili poeti La Fantasia volubile m' apparve, Passeggiando sui vividi pianeti. E m' accennò tra le volventi larve Una donna più bella assai del Sole, Presso cui l' altre son neglette e parve. Soavemente d' amore parole Con un sorriso la donna mi chiese: Io le fei serto di fresche viole. Ella mi mosse, ella infedel mi rese, E la bramai del mio cantare amica Qual l' altra prima che 'l mio cuore accese. Vestì sembianza d' Ipazia pudica; Era costei Filosofia celèbre, Che attrasse i cuori dell' etate antica. Tutta ella è cinta di dense tenèbre: Invano scosse Fantasia la face Ad irraggiar le vesti indegne e crebre; Giunse solo a turbar mia dolce pace, Ch' io vidi quanto mio cantare è frale, Cantar che volle soffermarla audace: Ella scherzando mi ha troncate l' ale, Mentr' io mi stava a ragionare intenta Co' Siggi accolti nelle Egizie sale. Pur questo cuor, che sua beltà rammenta, Beltà celeste, delle ali tarpate E del mio tardo andar non si sgomenta. Talor ripiglio le ghirlande usate, Ed il lirico canto all' aure sciolgo, Qual gia l' udiro mie stagioni andate; E talor pure in bruno vel m'involgo, E vo pingendo lo mio duolo vero, E in non mentito lagrimar mi sciolgo: Chè si ricorda I afflitto pensiero La dolce amica, che meco vedesti In tempo meno nubilose e nero. Tu che i miei giovauil carmi volgesti, Sai come amai Giuseppa, ella m'è tolta; Oh dura morte qual nodo sciogliesti! Bramo alla tomba, me misera! volta, Destar pietade amaramente viva In chi mie rime dolorose ascolta. Ma perchè avvien che sol ti narri e scriva Le poetiche fole, e non ti faccia Con miglior detti l' anima giuliva? Tu, che I' affetto ai Genitori allaccia, Tu li rammenta, e rammenta me stessa, Nè in lontananza la tua fede taccia. S'anco memoria nel tuo petto impressa È del paterno tuo dolce soggiorno; Se la tua mente all' Eridan s' appressa; Ah! credi, che 'l Sol mai volvere giorno Non vede, che 'l tuo nome, e 'l tuo valore Suonar non oda mille volte intorno. Altamente ti serba entro 'l suo cuore Degno a te fido amico il mio buon Padre, Che teco bebbe di Sofia l' amore. E la pur cara a te soave Madre T' invia salute a' miei Germani unita, Mentr' io le stagion piango indegne ed adre Cagion della tua lunga dipartita. Segui, Musa infelice, il tuo lamento: Suonava il monte, cui non v' è secondo, Il monte d' ogni armonico portento; Mentre faceva un lamentar profondo L' aura sacra di Pindo, e risplendea Pallida luna sul tacente mondo: Al mestissimo raggio una sorgea Su per la vasta solitudin muta Diva, ch' ignudo ferro in man tenca. Lenta saliva per la via perduta, E al balenar di luna in le tenebre Se le scorgea nel sen larga feruta. Nero e lungo vestia manto funebre, Quasi manto di vedova Regina, Sciolto il crin bruno all' aure gravi e crebre. Era costei Melpomene divina: ALFIERI ella piangea, piangea dell' arte L' inevitabil barbara rovina: La piìu scoscesa disastrosa partc D' Elicona santissimo cercava, U' rare l' orme, o nulle, ivano sparte. Fuggia da turba rea, che l' oltraggiava, Oltraggiando mordace il cener sacro Del Gran Poeta, ch' ella tanto amava. Fuggíia da chi diceva arido e macro Il facondo idioma, ed ahi! negletto Delle Italiche Muse il simulacro. Giù nel sassoso lido il fiume stretto Piangea cadendo, ed urlo mezzo spento Metteva il veltro del montan ricetto; E' l fiume, e' l veltro, ed il notturno vento Pareano dir col mormorio ferale: Segui, Musa infelice, il tuo lamento. Fra 'l silenzio de' mondi universale, L' alto notturno mormorar s' udiva. Oh! proruppe Melpomene immortale: Qui dove non salì persona viva, Cerco un sentier fra tauti bronchi e sassi, Su questa orrenda inaccessibil riva; Dal suol, ch' io scelsi, a forza mi ritrassi; Riedo a celare sal Parnaso antico, Vedova e sola, i disperati passi. Italia, addio! terra divina, amico Aer soave, itali vati, addio! Ultima volta, a voi sia pace, i' dico. Addio, tu lingua, amor d' Italia e mio, O dolce, o maestosa, o sempre chiara, Quando non è l'intenditor restío; È ver, con meco, alta favella, avara Ti fece ALFIERI, ed a più glorie crebbi: Grave sentenza in poche voci è cara. Ben fuvvi un tempò ch' a me stessa increbbi, Quando per te risorte al prisco onore Le sante Muse, sola onor non ebbi. S' appressava l' etá del mio fulgore, Sedea con Dante al varco del tormento, “Per cui si va nell' eterno dolore; Ei mi narrava in passionato accento UGOLINO e FRANCESCA, oh speme! oh duolo! Segui, Musa infelice, il tuo lamento. Io stava assorta nel celeste volo Del maschio creator terribil estro, Luce sovrana dell' ausonio suolo, Pensando a che non fui, divin maestro, Dell' ardente tuo cuor l' affetto primo, Tu fulmine, tu fuoco in fral terrestro. Tratta avremmo ben noi dal turpe limo L' italica tragedia! e in qual favella Io sì gran cose, in sì gran voci esprimo? Io Dea del forte immaginar, rubella Ai molli amori!.… io!.… io!.… Rapida intese Quell' alma sacra eternamente bella. L' occhio suo cupo scintillò, s' accese, E di nobile orgoglio un tal sorriso Fece, ch' immenso l' amor mio si rese. Va, ti consola, ei disse: uno indiviso Alunno mio per te cresco, e 'l vedrai Con Sofocle e con teco in Pindo assiso. È ver, seguirti ovunque io non tentai: Chè al secol mio la tua beltà celasti, E sulle scene non ti vidi mai. Amarti ignota io non potea; m' amasti, E in una età, cui nulla era scienza, UGOLINO e FRANCESCA a me dettasti. Ov' è d' ogni arte il fiore e l' eccellenza, A piè dell' alpi nacque al tuo desiro Il vate della tragica eloquenza. Disse Alighieri; reverenti udiro L' ascree pendici, e in cuor per anco sento Quel di speme e d' amor primo sospiro. ALFIERI amai d' amor, che I' alimento Diede all' austero ingegno, e fu mia sorte: Segui, Musa infelice, il tuo lamento. Nol piangerei, benchè mel tolga morte: Chè di Cinna il magnanimo poeta L' accolse, e 'l guida sulle elise porte. Ambi giunsero i primi ad una meta. Quel, men perfetto, a' suoi schiuse gran strada: Che questi l' apra, Italia stessa il vieta; Il vieta, col lasciar che ignara invada Genía le scene, sì che Roscio manca, Sofocle no nell' Itala contrada; Il vieta, non dettando uguale e franca Patria favella, onde s' avvien che pinga Sublime senso, o mal s' intende, o stanca. Di plauso universal manca lusinga; Manca entusiasmo in la turba de' tuoi, Che al patrio bello, Italia mia, ti spinga. Manca!… che più direi?… pur t'amo, c puoi Tua farmi appieno!… oh Vati! a pena acerba Me richiamando, toglietemi voi. Trionfo estremo nell' età superba Non sia l' Alceste, che 'l mio chiaro duce, Ch' or piango, ahi lassa! a' miei trionfi serba. La nuova Alceste, che la prisca adduce Seco in mostra alla Italia; e con tua pace, Atene, è altera di beu altra luce. La miri il vulgo, e taccia, ora che tace L' invitto ALFIERI, ora che 'l di supremo Gli toglie fulmiuar quel vulgo audace. Ben opra é di costor, s' io fuggo e gemo; Essi oltraggiaro ALFIERI mio! que' crudi! Oh! come agghiaccio, oh! come avvampo e fremo. Vada sossopra il monte! i sassi nudi La notte involva, e 'l verno tempestoso. Sentier di pindo, ti chiudi! ti chiudi! Morto é chi mi ritolse al neghittoso Sonno; ed oh potess' io morir con seco! Ei mia gloria! ei mia scorta! ei mio riposo! Per sin che 'l Sole sanguinoso e bieco D' Europa si rischiari, e nuovo ALFIERI Sorga a' miei voti… smania e morte ho meco. Vien men la forza… vacillanti e neri Veggo gli obbietti… ho le pupille asperse Di feral sonno, come a' di primieri. Più dir volea la Musa: un lungo aperse Fulmine il bujo ciel, tremò la terra Fra imperversanti bufere diverse. Qual chi l' atroce estrema angoscia serra, Alzò gli occhi e le palme al cielo irato Melpomene infelice in tanta guerra, Vacillò, cadde, svenne, e cesse al fato, E suonò 'l Pindo in lugubre concento: Sin che non riede il secol tuo beato, Noi ridiremo, o Musa! il tuo lamento. Dal roseo cocchhio uscito in Oriente Discendi, o giovinetta Poesia, Col primo raggio del mattin ridente. Avvolto il piede candidetto sia Di una argentina fascia, e giú danzando Segni di luce la celeste via. Son io colei, che ti traea cantando, Qualor scendevi sul paterno lido Me schiva bambinella accarezzando. Son io, che stretta sovra il sen tuo fido Te vidi dolcemente punitrice Troncar co' baci il pueril mio grido. La piccioletta mia destra felice Era appesa al tuo collo, e l' altra mano Pendeva su la cetra beatrice. Tu mi cingesti di quel lauro estrano Che voglia femminil sì raro invesca. T' amai pur tanto, oh non amata invano! Amor mio dolce, or scender non t' incresca Dal roseo cocchio, se l' antica fede, E l' armonia del mio pregar t' adesca. Ah sei tu dessa! ed hai calzato il piede Dagli amorini, e l' aura lusinghiera Inargentata si divide, e cede. Quell' aura instabilmente passeggiera I begli omeri tuoi copre e flagella Con una ciocca di tua chioma nera. Sorridi a vergin aura, o verginella, E quasi molle bocciuoletto schiudi La rosea bocca rugiadosa e bella. Stropicci colla man gli occhietti crudi, Me chiami con la tua voce argentina, Poi gli occhi al giorno colla man richiudi; Chi offenderti potria, belta divina? Vieni fra le mie braccia, e qui ti cela, Amorosetta schiva pellegrina. Sappiam ben noi come da te si vela La tua possanza, e colla rea fortuna Sappiam la lunga tua vana querela. Ma tu, l' ignori tu quale s' aduna Forza in te stessa, e qual rapisce il cuore Un raggio sol di tua pupilla bruna? Non è conscio a se stesso il tuo valore? Che non puoi, se tu'l voglia? ah sorgi! ah m'odi! E dammi prova del tuo lungo amore. Ali non ti chiegg' io, sebben tu godi Donarle a'tuoi fedeli, e trarli a vita Col magnifico suon delle tue lodi. Il roseo cocchio tuo me non invita, E non te 'l chieggio; ho solo un sol desio, Or ch' io ti stringo a questo seno unita. Ricevi, o verginella, il bacio mio, E domani dal cielo orïentale Reca sul Tebro un mio soave addio! O diva, prendi la faretra e l' ale, Con li sogni dolcissimi scendendo, Maggior d' ogni altra, ed a te stessa uguale; E sovra il letto soffice sedendo Della bella ENRICHETTA, in su la fronte Il mio tenero bacio a lei porgendo, Accortamente dalle voci conte La suasiva verità farai Piover fra rime nobilmente pronte. ENRICHETTA gentile, a lei dirai, Speme dell' onde Tiberine e vanto Che la giovine età vinci d' assai; A te m' invia quella, che lodi tanto Pastorella d'Eridano, e con teco Brama aver sol un cuore e sol un canto. Cresceste entrambe sull' Aonio speco, Nè vi fermò lo schernitor sorriso, Che il femmineo saver porta con seco. Saggia ENRICHETTA! sul fiorente viso Il terzo lustro ti sfavilla ancora, E già dai molti nomi è 'l tuo diviso. Nunzia à di chiaro Sol lucente Aurora: Ben alto giungerai, se 'l passo tuo Non abbandona la vetta canora. Segui 'l sentier, che non in uno o in duo Giorni si compie; e togli al sesso audace, Se 'l puoi, donzella, il primo lauro suo. Lascia il vulgo garrir, vulgo mendace; Egli a femmineo pià la via contende, E in donna inetto vaneggiar gli piace. Ma volgiti, ENRICHETTA, e le vicende De' pepoli rimira, e qual la sorte In mille giri si ravvolve e pende. Vedi l' ingegno vincitor di morte Tutta in se stesso ritrovar la calma, Dal sicuro avvenir reso più forte. Curvano gli anni la femminea salma; Pur sacra ad altra età bella si serba, Se la cetra toccò la grinza palma. Vacilla, cade coll' età superba La genía de' viventi, e l' età nuova Calca gl' imperi fra la sabbia e l' erba. Sol se stessa da se chiara rinnova La giusta fama, e Saffo ha plausi eterni Mentre un' orma d' Atene ahi! non si trova. Segui, e vedi com' altra il giorno alterni Fra vane cure; tu sprezzale, e passa: Serve al tempo costei, tu lo governi. Ardir può molto; il vulgo orma non lassa; Tu lascieraila, e dalla ria ventura Non mai tua fama andrà confusa e bassa. Ma gran pondo è gran fama; austera e pura, Qual sei, ti serba; in te saria delitto Ciò ch' è fralezza in giovin donna oscura. Fia 'l tuo costume in adamante scritto: Saffo tel prova, ed altre, e tu celebre Sarai vittrice nel fatal conflitto. O sia ch' entro le sue dive tenebre Solinga vita per te chiuda il fato, Vergin romita sin al dì funebre; Tua chiara guida al picciol Reno alato Allor sarà la mia Tambroni, chiara Per cetra, e cuore a grand' imprese usato: La mia Tambroni, onde Felsina impara L' achea favella, e come invitta sempre Grand' alma vince la fortuna avara. O sia che sposa e madre in nuove tempre Si ralienti 'l tuo fato, e cura dolce Le gravi cure del pensier rattempre; Fia la tua guida allor quella che molce L' aure sull' Arno donna alta e famosa, Cui bell' estro immortal solleva e folce: La Fantastici mia, che madre e sposa La prole ad emulare i suoi divini Carmi ha cresciuta, e' n suo fedel riposa. Si dirai, Poesia, de' suoi destini Parlando ad ENRICHETTA; e ben due volte Ribacerai que' labbri porporini. Poscia le annoderai sovra le colte Tempie lo stesso lauro, ond' io m' adorno; E già coll' orme al dipartir rivolte Dirai, che dell' italico soggiorne Gloria fu sempre la femminea cetra; Ch' andremo unite eternamente un giorno Itali carmi a modular sull' etra. Già di BRUNONE l' anima beata Era salita fra l' Empireo coro Alla fonte ineffabile chiamata: Piangean la sposa e 'l figlio, e in mezzo a loro Suonava ancor di lui tal detto estremo: Felice me, che in vostre braccia moro! Giunta sul varco del regno supremo, Abbassò l' alma guardo suo pietoso U' giacea' l corpo di suo spirto scemo; E udì 'l singhiozzo, il grido e l' affannoso Lamentar de' suoi cari. Eterno Amore! Ella proruppe: ah ch' io fui padre e sposo! Lascia ch' ultima volta in suo dolore, Gran Dio, m' oda laggiù la mia diletta, Cui tolto è 'l pianto, e, se non piange, muore! Dicea BRUNONE, e la div' aura eletta Di lui beato la beata voce Ripetea soavissima e perfetta: Ed eccheggiò tal parola veloce Sui lidi al fiume, che sorgente prende Nell' Appennino, ed ha nel Po la foce. Oh dolce amica! Oh delle mie vicende Fida compagna! Oh cara sposa, addio! Suon che ti è noto; ahi quanto! a te discende. Ti volgo i carmi, ch' or son sacri a Dio, A quel Dio, che conobbi ed adorai Fra l' alto universal tremendo obblio. Me I' iniquo costume, e me non mai Deviò la dottrina ingannatrice: Fei studio in l' opre, ed il Fattore amai. Vidi come la mente creatrice Nel creato adoprò sua possa immensa; Chè la terra la mostra e 'l ciel la dice. Vidi, e, in lume divin fiammella accensa, Spirai ne' carmi l' affetto e 'l desiro, Che l' una e prima carità dispensa. Questo spirto è di Dio raggio e sospiro, Fedel LUISA : Ei può bearlo, Ei solo; Per Lui vivo, a Lui vivo, in Lui respiro. Tempra, deh! tempra, thia LUISA, il duolo. T' amai pur tanto! e t' amo ancor! più t' amo Vedova afflitta sul mio patrio suolo. Qual fra' mortali, qui nel ciel ti bramo A me compagna; ma più d' un ti resti Giorno, e 'l rammenta: un sol volere abbiamo. Fu d' oro il giogo, e tu non lo rendesti Grave, non io: del tuo bel cor il dono A me col dono di tua man facesti Non rimorso t' è noto ed abbandono, O generosa amica; ond' io nud' ombra Per anco obbietto di tue cure or sono. In ciel, dove ogni error mi si disgombra, Fra l' abbominio dell' altrui costume Niun velo umano tua virtù m' adombra. Io ti fui guidator, conforto e lume; E tu mia speme, e tu mia pace fosti: Chè, di me parte, a me ti diede il Nume. Non d' affetti, di voglie e sensi opposti Fummo; non resi a l' un l' altro straniero, Fra patrii lari in turpe obblio riposti. Tu sposa e madre del mio dolce impero Non ti dolesti, e rossor non avemmo Di quel consolator nodo primiero. In ciel t' aspetto, ove 'l desio volgemmo. M' ama nel figlio, sin che in ciel t' appelli; M' ama: chè in lui nostro sperar ponemmo. A te sia pace. Tacque, e fra drappelli De' santi cori entrò l' alma vivace; E replicar gli eletti venticelli S' udirono tre volte: A te sia pace. Vegliava, o d' eloqenza alto Maestro, Io rimembrando tua fatal parola; Vegliava meco il non frenabil estro. Tremava alla tua voce ardita e sola Questa mia mente pavida e smarrita Fra 'l vaneggiar della terrena seuola. Io reggeva la fronte impallidita Sovra la destra, e dava estremo raggio La lucernuzza nel mancar di vita. Giunta era notte in mezzo al suo viaggio; Ed era l' ora, in cui scherzan gli stolti, Sono i miseri in pianto, e veglia il saggio. S' allungavano l' ombre, e dubbi e molti Fantasmi intorno alla parete oscura Sorgean nel bujo per metate involti. Così nel mondo fra la ria sozzura Tutto cangia d' aspetto, e fugge il vero Com' or fan l' ombre sulle vuote mura. D' Iddio dentro il mio pavido pensiero, (Iddio possente, che l' età rinnova) Io rivolgeva il giudicar severo; Ed a me vinta in la funesta prova Allor tra luce immensa andar già parve, Com' ombra vana, quando il Sol la trova. Dove più folte risorgean le larve, Sugli occhi miei con larghe ale d' argento Una velata immagine comparve. Arroventito vaso di tormento Stavale a' piedi; inestinguibil face Moveva, e dal suo cuore uscía lamento. Usa di Pindo al favellar mendace, Dal caldo immaginar uata credei La grandeggiante immagine fugace; Ed, oh! proruppi: immagine! chi sei? Brami il suon della cetra? ed hai diletto D' esser fatta immortal ne' canti miei? Il velo alzossi, e folgorò l' aspetto; A terra caddi, e un suon eupo s' udío, E tremar gli archi del paterno tetto. Giustizia son, vendetta son d' Iddio; Disse, scosse la face, e in volto irata Alzò le chiavi dell' eterno obblio. GONZANI, nella mente esagitata Tu 'l terror mi destasti e la vergogna, Onde l' immago sacrosanta è nata. Non più sul Pindo vaneggiando sogna La mente stanca in fanciullesco gioco; Ma teco, teco Eternitate agogna. Or veggio, pari allo struggente fuoco, Accesa in volto e le grand' ali aprendo, Piombar Vendetta nel profondo loco, Ove, il nulla invocando e lei veggendo, Stride e si desta la perduta gente, D' Iddio, d' Iddio col gran nome tremendo. Chi pingerla potrebbe? ella pendente Sul limitar della infuocata porta, Che sibilando s' apre orribilmente? Chi? se al solo veder la fiera scorta S' arricciano le chiome abbrustolite A quella turba eternamente morta? Sorse Giustizia dalla schiusa Dite, GONZANI, al tuo sacro tonante accento Fuor dellé stanze cieche ed annerite. Or che mi cale se 'l fatal lamento D' Ugolin pareggiassi, e 'n ferreo sonno Dormisse il cuore vacillante c spento? A quegli iniqui, che pur Dio non vonno, Che giova gloria, e 'l vegliar lungo ahi tanto, Se al fonte d' armonia giugner non ponno? Ma come, ahi! come al mio verace pianto Cangia d' aspetto la celeste immago! Sparì quel vaso, orrido sì, ma santo. Alzo la fronte ad un rosato e vago Chiaror di face, ed è la face istessa; E invan le antiche ignite chiavi indago. Ah! tu pingi la pace all' alma oppressa, Sacro Oratore; e più serena in viso La già temuta immagine s' appressa. Vela sua face con gentil sorriso; E nell' oscura stanza immago o luce, Spenta la lucernuzza, io non ravviso. Ah! se Giustizia della Pace è duce, Anzi han Giustizia e Pace un nome solo, Al Re dei Re chi 'l piede mio conduce? Sovvertan l' onde le tempeste: il polo Scuotasi; e fiamma, che in suo grembo aduna, Piova 'l grand' astro, e crolli 'l monte al suolo. Sovra gl' iniqui sta la ria fortuna: GONZANI, io piansi al minacciar fatale, E aspetto, tua mercè, fra l' aria bruna Sotto i vanni d' Iddio pace immortale. O tu, che pasci di suave pianto L' eccelso spirto che t' annida in petto, Musa, che pingi con possente incanto Smaniante dolor, perduto affetto; Deh! tu mi spira lagrimevol canoto, Chè teco sospirar è mio diletto; L' alma t' aspetta, e a piangere t' invita Il danno, ohimè! d' una fatal partita. Dove, ah ! dove fuggì la tua consorte, Giusta e sola cagion del tuo dolore, PROSPERO ? ahi quanto t' involò la sorte, Virtù, beltà, di gioventù sul fiore! Oh qual ferita mai spietata Morte Cruda t' aperse nel sensibil core ! Odi almeno far eco a' tuoi lamenti Cetra, che suona sol dogliosi accenti. Chè doloroso ben diviene il giorno A chi riman d' ogni speranza orbato: METILDE il sa, che un di scherzare intorno Si vide ENRICA al tempo suo beato. Misera madre! al caro sen ritorno Piu non farà, pur troppo! il peguo amato: E tu lo sai, che sull' albor degli anni La vedesti soffrir acerbi affanni. Ma ti consoli, che sull' alte sfere Il padre amante se l' accolse in seno; E librando nel ciel l' ali leggiere, Puro spirto divin, or vive appieno. Ad essa è dato il disprezzar le nere Onde di Lete, e suo mortal veneno. Ah! sento che dall' etra, ove t' assidi, Bell' alma, tu sola m' ispiri e guidi. Sopra remota sconosciuta riva Avvi sacrata stanza a forte Nume: Qui Sol eterno irraggia, e il vago avviva Felice suol, che irriga un ampio fiume; Qui velenosa mai pianta furtiva Non s' erge sotto al fecondante lume; Qui sol v' han colti ed odorosi fiori, De' zeffiretti fortunati amori. Autor d' ogni magnanimo pensiero, Di queste terre l'adorato Dio Estro si chiama, che immortal sentiero Schiude a quel vate, che non pave obblio. Tal solca l' onde intrepido nocchiero, Che all' incognite genti il varco aprio, Ed a' penati suoi dal lido adusto Ritorna un di di gran tesori onusto. Qui pur madre d' onor saggia Fatica Fuga il vil Ozio dal superno chiostro; Qui bell' alma talor di gloria amica Sparge grato sudor sul dotto inchiostro; Qui Diva annida, che d' Italia antica Cinse il superbo crin d' alloro e d' ostro; Fama s' appella, e di seguir le piace Nel, fortunato suol l' Estro vivace. Già 'l primo albor, che l' alte cime indora, Agli oggetti infondea colore e vita; Ma qui lenta spuntar parea l' aurora Tacitamente dubbia e scolorita, Mentr' al tempio ove 'l Dio regna e s' adora Orme incerte segnando io gía smarrita, Sperando ch' anco un cuor d' affanni oppresso Talor trovi conforto al Nume appresso. Quel ch' allora s' offerse agli occhi miei Soggiorno augusto d' immutabil pace, Cinti il crine d' eterni allori Ascrei, Abitan vincitor del tempo edace D' eroi sommi cantori, e degli Dei: Qui Fantasia securamente audace Guidarli gode fra quell' alme antiche, Di virtù non mentita altere amiche. Intorno al tempio non caduche rose Schiudono l' odorate intatte foglie, E susurrando tra le frondi ombrose Cerchia fresco ruscel l' eterne soglie: Siedon su' lidi suoi schiere vezzose, E lusinghiero canto all' aure scioglie Stuolo di vate, cui più dolce stella Più tenera dettò colta favella. Da vista troppo lieta il cuore offeso D' amaro pianto questi lumi aspergo, E oppressa l' alma da insoffribil peso L' allegre stanze io già mi lascio a tergo. Sommo poter dal vulgo non inteso Guidò miei passi a più rimoto albergo, Tutte pinte di duol meste campagne, Dove ognor si sospira, ognor si piagne. Quivi non chiari verdeggianti prati, Non dolce susurrar di limpid' onde, Ma rocche sol, ma sol monti gelati, Cui l' alte vette bigia nube ascondi; Solinghi campi di cipressi ombrati, Fatal silenzio tra deserte sponde, Turbato sol sulle dogliose corde Da mesti carmi spinti all' aure sorde. L'occhio tra fronda e fronda un debol mira Fosco chiaror di non sereno raggio: Largo torrente romoreggia, e gira Precipitando per lo suol selvaggio: Lamentevole gufo alto sospira Tra foglia e foglia d' un annoso faggio, E folto nembo tien la luminosa Faccia del Sol perpetuamente ascosa. Primo sedeva sulla nuda terra Anglico vate, che fra tomba e tomba Affaunoso i suoi di racchiude e serra, Nobil signor d' un' onorata tromba; Seco è colui, per cui l' accesa guerra D' afflitto cuor cotanto ancor rimbomba, Che fe' chiaro Avignon, e l' alta donna Di candida onestà salda colonna. Dogliosa in vista tra di lor sedea, Lacero 'l crin ch' un nero vel copria, Ancor non so capir se donna o Dea; Tanta mesce grandezza e leggiadria. Afflitta ahi quanto all' occhio mio parea! Quanti ardenti sospiri al cielo invia ! D' Avalo invoca, ed a tornare invita Lui che in morte adorò non men ch' in vita. Pietà, speranza quell' amara vista Destò nel cuor, nè mi scemò la pena. Alta ammirazion di timor mista Ogni sospiro in sul mio labbro affrena. A lei vicin sommessamente trista Sento il sangue gelar di vena in vena; Treman le labbra, mi s' offusca il ciglio, E di parlare invan formo consiglio. Ripieno ancor di mia crudel sciagura Non di scoprirsi fu 'l mio cor possente. Opra di non caduca alta natura E sovrana virtù vedea dolente, Virtù ch' umanità non fa secura, Nè salva dal soffrir alma iunocente; Ch' ebbe ENRICA non meno, ahi mio dolore! Angelici costumi e brevi l' ore. Mi volse alfine il languidetto sguardo La saggia donna, ed i begli occhi chiari Sfavillaron così, che assai men tardo Restò lo spirto ne' pensieri amari. Or gelo agli atti suoi, or fremo ed ardo, E sospirando su' miei fati avari lo dico a lei, gli occhi stemprando in pianto: Soffri, o donna, ch' a te qui pianga accanto. Per girne al cielo alteramente il volo Bell' alma sciolse sopra vanni ardenti, Ed eterna cagion del nostro duolo Lasciò sul primo fiore i giorni spenti. Ah! prima avventuroso or mesto suolo, Spoglia di fior le rive tue dolenti; Tuo primo amor a noi si fura e cela, E nel suo grembo Eternitade il vela. Oh! della Morte i sanguinosi artigli Perchè sì presto han dal suo vel disciolta Sposa sì cara? A' pargoletti figli Chi può render colei, che lor fu tolta? Veduto avesse almen pe' suoi consigli Sull' orme lor felicità rivolta; Veduto avesse almen passato in loro De' suoi pregi con gli anni il bel tesoro! Ma non lo vedrà più! Dove si chiude Il solo e caro onor di nostre arene, Cui non valse purissima virtude, Misera! per fuggire acerbe pene? A che serve il tesor di gioventude Se son brevi così l' ore serene? Sentimi, o tu, che gelid' urna serra; Scuoti 'l sonno feral, t' ergi da terra. Tu di questo mio cuor perduta cura Rammenta almen (chè rammentar li puoi) Gli anni primier, che semplice natura Con innocenza godè dare a noi. Rammenta almen, come tranquilla e pura Ravvivava la gioja i giochi tuoi: Scorre così lontan dall' aure estive Ruscel d' argento su fiorite rive. Ben della Dora il sa quella pendice, E 'l bel terreno, e le leggiadre piante Che insiem ci accolser nell' età felice. Ben quivi il sa la variopinta errante Vaga farfalla; all' aura allettatrice Tu la seguisti pur meco scherzante, E meco pur talora in dolce usanza Gorsier spingesti, od intrecciasti danza. In quelle, agli avi tuoi dolce ricetto, Antiche mura, sulle corde d' oro Ben mi sovviene ancor con qual diletto Schiudevi d' armonia dolce tesoro; Semplicette talor con quanto affetto Ne' carmi cercavam grato ristoro: Oh bell' età! oh bell 'ENRICA! obblio Non mai vi coprirà dentro'l cuor mio. Questa è colei, per cui mi struggo in pianti. O donna eccelsa! il duro incarco e greve Di sì gran duolo almeno in dolci canti Sfogar potessi, e al cuor render più leve; Cantar l' anima pura e gli atti santi, E la recisa etate, ahi! troppo breve; Pinger sacra onestate, e lagrimando Di sua partenza dir e 'l come e 'l quando! Dirti vorrei qual d' amorosa madre Per l' evento crudel fu 'l cuor trafitto; Dir come fosse dell'estinto padre La dolce cura insino al gran tragitto; Dir che furono in lei grazie leggiadre, E pensier sempre volti al cammin dritto; Dir che tenera moglie e genitrice E sposo e prole essa reudea felice. Ma per cantar di lei in colte rime Troppo è l' ingegno mio debole e corto: Deh ripiglia tu pur le voglie prime, E pietosa mi reca alcun conforto, Nobil VITTORIA, ch' all' Aonie cime Nome immortal suavemente hai scorto: Puote d' seternitate andar secura Affidata a te sol la nobil cura. lo tacqui, e con dolcissima pietate La bellissima donna a me si volse, E disse: Allor che somma feritate La metà di mia vita a me ritolse, È ver che in rime pure ed onorate Questo fido mio cuor al ciel si dolse; Ma è vero ancor, che d' Acheronte appresso Nuovi carmi formar non è concesso. Ben ti compiango io sì, ben io compiango Di cotanta virtude orbato il mondo; Ma ohimè! che un sol estinto adoro e piango, Nè cantar più m'è dato altro secondo: Chè desolata mentre io qui rimango Più non ha possa il genio un dì fecondo, E a nobil crin più le Febee corone Tesser non posso in immortal canzone. Ma vedesti pur tu gli atti suavi, E la salita in ciel donna gentile: I cauti sai quanto sacrar sien gravi A tal virtù sovra la cetra umile. Tu nol potrai! ma ben potrai, se amavi, Di pianto a questo mio fiume simile Versar sull' urna che la chiude, e almeno Serbar eterna sua memoria in seno. Così parlava; ad ascoltarla intenta Tutta l' anima mia m' era sul volto. Desio d' udirla il mio respiro allenta; Rapito l' occhio all' occhio suo rivolto Cosa celeste e non mortal presenta. Se le parlo, la miro, oppur l' ascolto, Par che leggiadra men, par che men bella Apparisca nel ciel l' alba novella. Tal, se tacitamente i passi affretta In cupa notte a sua capanna amica, La timidetta e stanca forosetta Mira scherzar in sulla riva aprica Fuoco notturno, che 'l suo guardo alletta. Obbliando la meta a sua fatica, Coll'occhio par che i dolci error ne segua, Mentr' ei scherza coll' aure, e si dilegua. Pari in colei sono i miei spirti attenti, Mentre a un solo pensier io m' abbandono. Ma strisciano pel ciel folgori ardenti, E rauco intorno romoreggia il tuono; Nell' aer cieco trascorrendo i venti Rendono sibilando acuto suono, E densa nube, che si stende in giro, Fa ch' ora in van cupido il guardo aggiro. Non pià vegg' io quelle leggiadre forme Uniche di beltà, di grazia sole; Stampando sul terreno incerte l' orme Invano la ricerco, e al cuor ne duole. Strano pensiero al mio stato conforme Sì m' ingombrò, che sol tronche parole Sciolsi dal labbro, e sbigottita e smorta, Ove son io, gridai, chi fammi scorta? M' apparve allor nel suo lucente aspetto Il Nume che là regna e tien sua corte; E scior I' udii dal generoso petto Queste parole in tuon severo e forte: Al ciel non meno che ad ENRICA è accetto Lo zelo tuo: ciò basti, e ti conforte; Ma coglier serto d' onorate fronde Ancor ti nega il fato in queste sponde. A pochi è dato il penetrar le arcane Soglie, alla cui custodia io stesso veglio; E ad immaturo piè l' orme profane Porvinon lice, e' l non osarlo è meglio. Tempra per ora le tue brame insane, E la ruina altrui ti sia di speglio: Sedici volte a te sol nacque l' anno; Tempo e fatica un dì tutto potranno. Tace, e ritorna l' aer cieco e fosco, Mentr' ei s' avvolge nel suo vivo lume. Ma ohimè! non scorgo io più l' annoso bosco, L' ombra suave, e 'l sacro argenteo fiume. Spora il patrio terren mi riconosco, Nè da spiegar al ciel trovo le piume; Chè a questo cuore travagliato e stanco Manca il coraggio, e mauca forza al fianco. O salita nel ciel, che a te s'apria, Anima d' immortal somma bellezza, Dall'ore corte, in cui l' età fioria, Tu la nostra misura alta amarezza; Mentre calchi stellata eterea via, Se del più puro amore hai tu vaghezza, Ben consolar tu puoi l' acerba doglia D' umanita, sol che dall'alto il voglia. * Stanza allusiva al picciolo rame, che trovasi sul frontespizio del libro che ha per titolo: Memoriae Henrichettae Tapparellae Prosperi Balbi uxoris monumentum. Questa è la face, che nel vuoto orrore Di vuota tomba in altr' età splendea, Quando Artemisia nel fatal licore Del caldo pianto il cenere bevea: Avvivolla poc' anzi un casto amore, Ed or la spense Morte ardita e rea; Tolse alle donne d' esser sole il vanto, Pure, o donna gentil, chiede 'l tuo pianto. Bruna, bruna è la notte, or la nativa Mia collinetta tutta copre; solo Il piccioletto rio fugge piangendo Entro verdifronzuta ascosa valle. Canto simìle al mormorio del rivo Io scioglierò; da quelle fronde un lieve Raggio di luna giù fra bianchi veli Del crin mi viene, sulla cetra scende: È mesto il raggio, come or mesta sento Tutta l' anima mia. La patria sorte Copre nube funesta. Ahi! mute stanno Abbandonate le paterne mura Prive de' figli; e meco è sempre sempre Malinconia, sacra pel cuor dei vati, Che d' immagini nate entro 'l profondo Seno è madre sublime. Ignota sono Vergin sull' Alpi ancor; mi sorge appena L' età del canto. Un dì sarò dell' Alpi Il nobil vate, e nobil carme udranno Sulla cetera i prodi: or canto solo Onde destar pietà, vergine ignota Abitatrice dei selvaggi monti. Dolci compagni dell' ore più liete, Prole dei forti, fratelli sorgete! Voi dalle mura turrite ed antiche Sciogliete scudi ed elmi e loriche; Viene dai monti terribile guerra, Tutta di sangue si copre la terra; Ve' ve' nitriscon funesti destrieri Già già dei monti negli alti sentieri; Gallica schiera sull' Alpi s' affaccia, Ve' ve' la tromba che morte minaccia. Dolci compagni dell' ore più liete, Prole dei forti, fratelli sorgete! L' ore funeste or son; entro l' ostello il suon Giunse dell' armi. Suonò l' ostel così, nei già famosi dì, Bellici carmi. Sovra la soglia vien il nobil padre e tien Dei forti il brando, Ed ahi! mentre gli va lagrima di pietà L' occhio bagnando. Padre piangendo stai?… Perchè piangendo vai? O duce! o forte! Invitto pur cader, invitto pur veder Sapresti morte. O tu che onor guidò, tu cui valor serbò La fama antica; Dei figli tuoi perchè destan dolore in te Spade e lorica? Deh! menta il tuo dolor, e sul sentier d' onor Corrano invitti. Padre, non pianger più; vincer saprà virtù Sogni e delitti. Latte di madre in noi sangue nutri d' eroi; Gloria n' è vita. Sol venga morte allor ch'avrem d'un vero onoy La via compita. Su su compagni dell' ore più liete, Prole dei forti, fratelli sorgete! Ohimè! s' annegra 'l ciel; ohimè! le nubi Orrendamente raggruppate avanzano: Brilla il lampo laggiù; roco ed uguale Lontan si sente il tuon; passando il vento Scuote le corde lucide dell' arpa; Cade la pioggia; neri neri nugoli S' addensano, s' incontrano, si scuotono Nell'alta e folta tenebria del cielo. Le picciolette rilucenti stelle Stanuo celate..… dov' è mai la luna?..… Ah l'azzurro dov' è?..… la terra aècerchia Inanimato di terror silenzio. Addio bei poggi, nel partirmi voglio Il canto sciorre a voi; voglio che 'l canto Rassomigli al fragor della tempesta. Sento sento L'accioccarsi dell' armi terribili, Ed il flebile Fiochetto grido de' cadenti eroi. Vedo vedo Le sointille tremende ed acerrime Uscir rapide Dall' acciaro che piomba in sull' acciar. Come su vetta diroccata e bruna Sta l'aquila montana, Che l' ali allarga, e fissa l' occhio al Sole; Così al chiaror dell' offuscata luna Sulla piaggia lontana Siede 'l fabbro d' armoniche parole: Stan fissi nella pugna i guardi suoi; Ei scioglie l' inno de' passati eroi. Udite, o forti: di quel monte all' ombra, Che tutto adombra, Stassi una belva oggetto di terror. Lingua ha di fuoco, ha piè di cervo, e cento Solleva al vento Teste piene d' orror. Se stessa rode, si raggruppa, e fischia; La lunga coda invischia In laccio ascoso tra le frondi e i fior. Sangue grondante maestosa testa Ogni sua lingua infesta Lambe, spargendo nera tabe fuor. L' accerchia un fiume d' atro sangue; Morte Cavalca forte forte Sul dorso infame non represso ancor. Nel disegual suo corso Le preme il curvo dorso Con speroni di fuoco il cieco Error. A debellarla intenti Voi siete, o forti! Eppur chi mi consola? Stanno vosco i fratelli ed io son sola. O voi compagni dell' ore più liete, Prole dei forti, fratelli ove siete? Freme il vento in bruno cielo; Denso velo Fura i monti, il piano adombra; Tutto d' ombra, Tutto copresi d' orror. Passeggier, la bell' Aurora Non indora I miei verdi allegri poggi; Chè per oggi Non si cinse il crin di fior. Lenta, mesta, sospirosa, Sta nascosa, Ed appena la cortina Più vicina Alza un poco, e guata in giù. Ma s' addensa il turbin nero, Ed altero Scorre il lampo in ciel piovoso; Romoroso Cupo suon mugghia lassù. Passeggier dagli occhi gai, Non potrai Seguitar il tuo cammino; Qui vicino Soffermar potresti 'l piè. Qui vicin sotto'l mio tetto Col Diletto Le tre Grazie stan celate, Spaventate Dalla pioggia che cadè. II mio tetto d' odorose Fresche rose È coperto intorno intorno; Caldo giorno Nel suo sen mai non entrò. Tutta fa la sua ricchezza La bellezza Delle agnelle vezzosette, Candidette, Ch' io di fior pascendo vo. Pastorella in bianche vesti Mi vedesti: Or vedrai il bacol mio; Presso 'l rio Arboscello ei crebbe un dì. La mia man fu che lo scelse, Che lo svelse Per sostegno del mio passo, Quando lasso Un cammin lungo compì. Mezzo bianco, o passeggiero, Mezzo nero Veggio 'l crin sulla tua fronte, Che già l' onte Manifesta dell' età. Gioventute a poco a poco Cede 'l loco Alla misera vecchiezza; Pur bellezza Anco in te pompeggia e sta. Capannuccia se ti piace, Dove pace Con l' auretta che susurra Dall' azzurra Sua magion disciolse 'l vol, Entra pur su queste soglie, Sin che scioglie L'alte nubi il freddo vento, E 'l contento Torna a noi col vivo Sol. Così dissi, mentre in cielo Denso velo Fura i monti, il piano adombra, E già d' ombra Tutti copreci e d' orror. Così dissi, e 'l vecchiarello Cattivello Non ardì passar le soglie, Ma tra foglie Ei sedette d' un allôr. Io non entro, donzelletta Semplicetta, Ei mi disse sospirando, Ed alzando Su me l' occhio lusinghier. Io non voglio entrar già teco; Sol ti reco La mia cara aurata cetra, Onde all' etra Suoni l' inno del piacer. Io non entro: ah ! dal mio fato Non m' è dato D' abitar con l' innocenza, Chè temenza Il suo sguardo ognor mi diè. Mi ravvisi dalla fronda, Che circonda L' alta fronte a' buon cantori? Da que' fiori, Che son nati intorno a me? Non ravvisi Anacreonte Dall' impronte, Ch' io lasciai su quest' arena? Ahi qual pena Nel mio sen or si destò! Io vorrei cantar verace Non fugace Virtù dolce generosa D' alta sposa, Ch' Ebe o Flora pareggio. Ma, s' io fermo l' occhio in lei, Troppo, o Dei! Temo ch' essa prenda a sdegno Un ingegno Che virtù non sa cantar. Bramerei dir dell' altero Suo guerriero, Che col braccio invitto e forte Vibra morte, Nè mai seppe paventar. Bramerei… ma van desio! Non l' os' io: Tu, sî certo, l' oserai, E 'l potrai; Inspirar ti deve 'l cuor. Sciogli tu la voce all' etra, Che la cetra Non macchiasti d' aura impura, E secura Puoi cantar pudico amor. Io da lui la lira prendo Sorridendo; Non t' inganni, vecchio amico, Io gli dico, Che di lor cantar saprò. Tu m' ascolta; e, se l' ingegno Manca 'l segno, Ben saprà trovarlo il cuore Tutto amore, Che in lei sempre si beò. Vidi sul primo albor candida cerva In mezzo a' fiori riposar sicura. Essa dir mi parea: Sol di me stessa, e non d' altrui son serva; Ha posta ogni sua cura Nel formarmi Natura, Così che l' occhio altrui nel mio si bea; Ma invan la gente rea Aver ricerca sopra me vittoria, Chè un uom degno non è di tanta gloria. La bella fera ad ammirare intenta, Vidi dalla foresta Venir un cavalier altero e forte, Che sul lucido ferro ha scritto, Morte. Ei dolce si presenta Alla belva gentil, che 'l piede arresta, E par tacendo dica: Ecco colui, Che uguale a mia virtute ha i pregi sui. D' alta speranza pieno Depon la spada il capitano, e scende Da su corsier veloce, E con suave voce Lei chiama, che non fugge, e non s' offenda: Con un aurato freno Il bel collo e 'l bel seno Orna ed allaccia, e falla sì cattiva Che disciorsi non può fin ch' ella è viva. Indi seco la guida Per lo fiorito vago suo cammino; Ad allôro vicino Sofferma 'l p'è, dov' aquila s' annida. Scherza 'l baleno nella nube aurata; Piovon dal cielo i più leggiadri fiori, Che alla coppia beata Riempion l'aer de' più grati odori. Breve canzon, tu vanne ove vedrai Bella e felice sposa, E, rivolta amorosa A'lumi suoi, dirai: Colei, ch' ora mi manda a te vicino, Applaude al tuo destino, E sotto il vel di dolce fera pinse Come il prode garzon seco t' avvinse. Io mi fermo, a lui rivolta Che m' ascolta; Ei mi guata disdegnoso, Sospiroso, E mi dice alfin così: Quando a te la cetra diedi, Non t' avvedi Ch' io bramai suave canto Che 'l mio vanto Emular potesse un di? Se tal canto ti diletta, Dunque aspetta, Io risposi, e 'l guardai fiso; Ma 'l mio viso Ricoprì vivo rossor. Sulle corde indi la destra Non maestra Lenta stesi, e prontamente Dolce ardente Scese un raggio avvivator. Già l'ara s'accende, Già splende la fiamma; S'infiamma la mirra, Che in Cirra raccoglie Tra foglie d' allòro Canoro quel Nume, Che piume di corvo Al tergo vestì. Ondeggia, serpeggia, Passando, volando Per gioco quel fuoco; Vezzose, ritrose Danzando, cantando Le Muse rinchiuse Tra impacci di lacci Di rose odorose Van liete, discrete Chiedendo, dicendo: Ah chi fu mai che ci legò così! Tu vieni! su, sposa Vezzosa; t'aspetta, Diletta, la pace: Fugace, GIUSEPPE Già seppe fermarla, Legarla Sì che da te mai più non partirà. Oh portento!…… ricopre quell'ara Fosca nube di nera tempesta; Fugge Imene, dogliosa s'arresta Presso 'l tempio la bella Pietà. Chi mi spiega il terribile incanto, Che fe' al riso succeder il pianto? Dimmi, sposa, tuo sposo che fa? Ah la sorte Di ritorte Fra le pugne lo legò; Ei d'Imene Le catene In più ruvide cangiò! FELICITA le lagrime Sul suo destin versò; Chè 'l Franco atroce e barbaro Da lei l'allontanò. Ma ritorna il tuo diletto, Verginella fortunata; E già l' ara inghirlandata Di bel nuovo fumerà. Riede 'l prode a' dolci lari; Spezzò 'l ciel le sue catene, E s' accrebbe nelle pene La sua bella fedeltà. Duri almeno, amata sposa, Il seren di questo giorno, In cui fece a te ritorno Il felice prigionier. E 'l periglio, e 'l crudo affanno Più non turibi tuo contento, E un lievissimo tormento Non ti scemi 'l tuo piacer. Perchè gioisce il cuor? Chi mi sa dir perchè? Ahi che lontan da me Ti guida il fato! Ma 'l dolce tuo destin Io già sognando vo, Ed accusar non so Il cielo irato. Sì cantai, e 'l labbro tacque; Ma non piacque Al buon vate il canto mio. Ve' qual'io Bramo canto oggi da te: Così disse, e sua pregiata Cetra grata Trattò lieve un sol momento, E concento Immortale uscir ne fe'. Ei per farsi a me maestro Toccò destro L'auree corde, e sì le scosse, Che scordosse Come ardire a lui mancò. Nè cantando dolcemente Pose mente, Che virtute ha sempre a sdegno Quell'ingegno, Che virtù non consacrò. Come pinse il vivo vivo Occhio schivo Della bella verginetta Mia diletta, Tutta fede, e tutto amor! Come pinse il molle latte Delle intatte Ed amabili gotuzze Vermigliuzze, E del crin il fulgid' ôr. Come pinse il dolce labbro Di cinabro, Ed il tenero sorriso Che'n suo viso Talor vidi balenar! Tutti ei disse i pregi suoi, Ch' agli Eoi Freschi raggi dell'Aurora, Ch' esce fuora, Sol si ponno assomigliar; Tutti ei disse; e mentre 'l cielo Denso velo Più non fura e non adombra, Nè più d' ombra Tutti copreci e d' orror, Zeffireto al mio soggiorno Vola intorno, E da quelle odorosette Fresch' erbette Uscir fa suave odor. Sorge il Sole a poco a poco, E per gioco Va le nubi dividendo, E sorgendo Variopinge il suo cammin. Ve' quell' arco grande grande, Su cui spande I color più vivi e gai Co' suoi rai Il bell' astro mattutin! Lieto guata Anacreonte L' orizzonte; Ritornare alfin mi lice, Egli dice, Donde il ciel mi dipartì. La mia cetra dammi, amica: Ell' è antica; Ma I' età, che sorge aecrba, Non ne serba Altra tenera così. Esce cantando per la falda erbosa La forosetta sul mattin di maggio; Poscia sul verde sermolin riposa, Giunta al bel rezzo dell' amico faggio. Mentr' ella coglie la nascente rosa, Dell' Alba fresca salutando il raggio, Nella nube, che in ciel s' alza e grandeggia, Balcna il lampo, e il folgore passeggia. S' oscura il Sole, e prematura notte Tutta ricopre la sconvolta terra: Esce Aquilone dalle ascose grotte; La polve s' alza turbinosa ed erra, E in crebre stille rapide dirotte Da bigia nube, che s' addensa e serra, Cade la pioggia, e fra tempesta e lampi Fansi gran lago i già fioriti campi. Ahi! nube vuota del terribil fuoco Pel cammin rapidissimo declina, E nel mortale spaventoso gioco All' infiammata nube s' avvicina: Sovr' al faggio, ove in suon lauguido e fioco Geme la sbigottita peregrina, Giunge, urla l'altra per l'eteree strade, Il fuoco attragge; il fulmin vola e cade. Cade! Riman la sventurata donna Morta non già, ma cieca, illividita: Spenti son gli occhi, è cenere la gonna, Ed è la chioma d' oro incenerita. Ricerca il faggio, che le fea colonna: Il trova alfin; ma sulla cima ardita Precipitando il folgore del cielo In due partillo l'infiammato telo. Deh! dimmi, onor dell' inclita Fiorenza, L'infelice che fa? Forse nel canto Pinge 'l dolore, e la fatal temenza Al crudo fulminar rapido tanto? Ah no! dall'arbor cerca far partenza, E grida, e smania, e si discioglie in pianto; E ad ogni tuon, che romoreggia, priva Cade di senso sull' alpestre riva. Così, qualora l'adorata e sola Giovane amica m'involò la morte, Spento il pensiero, spenta la parola, Tutte mie brame nella tomba assorte, Me disperata e cieca vide il Sole, Me lacerata dall'ingiusta sorte; E la notte lo sa, madre di calma, Sc da quel di ritornò pace all' alma. Non pingerotti il fatal giorno, ond' io Di lunga smania mi distruggo e moro; Persin, donna immortal, l'alto desio In me già langue dell'eterno alloro: Or più acceso non ferve entro 'l cuor mio Il sacro fuoco, onde i miei giorni onoro; Pensier vivace da quel dì non ebbi, Ed alle muse, ed a me stessa increbbi. E forse (il niegherò?) languido e tardo Discioglierei al tuo bell' Arno il canto; Ma un portento divin, ond'io tutt' ardo, Spettacolo m' aperse altero e santo. Ahi! lo rimira ancor l' avido sguardo; Inaridisce sulle gote il pianto: Estro divin tutte mie fibre muove, E' l carme ardito dalle labbra piove. Movean le stelle in giro Sotto le falde del gran trono eterno; Allentava il sublime alto governo Dell' increato Duce Fattor delle tenèbre e della luce Le vane cure al misero mortale; Spargean gli Angioli suoi riposo e pace, E de' bei sogni il moltiforme inganno; Quando tra l' ossa nude, Già membra un tempo, mi guidò l' affanno. Nel barbaro martiro Io non sciogliea sospiro: Chè non v' ha pianto pari a tanto danno. Oppresso dalla smania atra e letale Vegliava, ahi pena! il mio pensier fugace, Che immagini di morte in se racchiude. Sedei piangendo sovra il suol fatale, Estremo asilo dell' umana sorte; Mi volsi al cielo, ed invocai la morte. Tremàr gli aridi teschi, e l' ossa insieme S' urtàr coll' ossa; della luna il raggio Impallidi nel già screno cielo, Senza che nube un velo Fesse al suo dolce tenero chiarore. Destommi allora tenebrosa speme L' inusitato orrore. Ahi! l' eccesso del duol diemmi coraggio, E sciolsi cupa voce di dolore, Volta, fra notte tempestosa e bruna, Al raggio smorto della mesta luna. Spargi, bell'astro candido L'amico tuo fulgore, E 'l pianto del dolore Più dolce scenderà; Ma l' alma afflitta e misera Chi consolar potrà? Mira gli avanzi luridi Dell' uom, che speme invade: Chiamasi grande, e cade, E polvere si fa. Ah! l' alma afflitta e misera Chi consolar potrà? Odi, de' mesti gemiti Astro notturno amico! A te mia pena io dico: L' amica ah! dove sta? E l' alma afflitta e misera Chi consolar potrà? Morta è l' amica tenera: Io piangerò sintanto Che il mio lugubre canto Mio duolo eternerà; E meno afflitta e misera L' anima mia sarà. Dissi: splendor più vivo Versò l' astro notturno in sul terreno. Era il cielo sereno, E 'l mio pensier d' ogni lusinga schive Riempi d' ardimento Il desio d' eternar il mio dolore. M' alzai dal suolo, e sull' ingorda terra, Che mia speranza serra, Tra l' ossa e l'ossa in cento luoghi e cente Mossa la man dal cuore, Scrissi: Qui donna giace Invitta al mondo e sola. Piange l' amica afflitta; ah! la consola Quest' unico pensier, che 'l tempo edace Rapidamente vola, E divide un sol passo, un sol momento L' amico vivo dall' amico spento. Lassa! ciò scrissi; ma tremò la mano, Ch' ovunque scrissi si distese un ombra, Che celava le note, e le copria Così che intorno le cercava invano. Qual mostro disumano, Sclamai, distrusse ohimè! l' opera mia, E mie parole nella notte immerse? Atra smania m' ingombra, Gridai; mi volsi, e veglio alato e rio Mirai fra i morti avanzi miserandi, Che immensamente grandi I neri vanni aprio, E tutto il suol di tenebror coverse. Entro quell' ombra mi ravvolsi anch' io: I'lo credetti 'l Tempo; era l'Obblio. Qual belva, a cui vien tolta L' ancor lattante tenerella prole, Io mi slanciai al vecchio reo rivolta, E fra rabbia e dolor le mie parole Uscir confuse sul tremante labbro: Oh di ruine fabbro! Alfin sclamai, perchè le note estreme Del mio dolor terribile scancelli? Deh! s' anco non m'uccidi, Fuggi almen, vecchio, vola Sì che rapida più copra gli anelli Della mia chioma tua gelata brina. Barbaro! ……Forse ancora Più detto avrei; ma'l fatal vecchio i gridi Sì m' interruppe allora: Perchè t' adiri tanto, a me rivolta? Perchè mi chiami fabbro di rovina? O cieca donna e stolta! A me l' impero diede il Santo, il Forte Delle tenebre sì, non della morte. Me il vulgo adora, e par ch'ognor mi segua Calma tranquilla e gioja. A ignobil opra non do pace e tregua: S' avvien, ch' uomo vulgar cadendo muoja, Io ne ricopro la memoria oscura; Ma contro me secura E tua diletta sinchè resta un solo Di quelli ond' ebbe affetto. Sol tuo canto negletto Meco ne porto : abbiti 'l pianto e 'l duolo. Ciò basti. Egli sorrise, E mia speranza sorridendo uccise. Allora (il credi, invitta donna?) pose Il tuo gran nome su mie labbra un Nume; Un Nume certo, a cui pietade nacque Delle mie lunghe pene dolorose. Le nere immense piume Piegò l' Obblio feral, guardommi, e tacque. Tornò la bianca e risplendente luna Ad avvivar le note tenebrose, E sciolsi a te 'l mio canto, Spargendo amaro pianto: A te pinsi l' affanno e 'l duro evento; E, come volve il vento Per l' etra nelle notti tempestose, Volse fuggendo il mio crudel nemico. Arditamente a te lo narro e dico: lo spero eterno luminoso vanto Al nome di chi piango e tanto amai, Perchè a te volta, o Donna, io la cantai. Tu, se compiangi'l mio perduto amore, Mentre agli affetti tuoi (dirollo?) aspiro, Dona all' alta cagion del mio dolore Una lagrima sola, un sol sospiro. A chi siede primiero entro 'l tuo core Narra la mia speranza e 'l mio martiro: Alla figlia lo narra; al sen la stringi, E che cosa sia morte a lei dipingi. Ah no! che dico? ah no! madre felice, Non funestar così l' ore serene. Te rispetti la sorte, e te l' ultrice Smania non cinga mai di sue catene. Vivi alla figlia amante genitrice: Fuggan da te, da lei le atroci pene, A cui quest' alma misera soggiace; Per voi sorrida alla virtù la pace. Era la notte, ed il suo cieco errore Avviluppava una metà del mondo: Pingea la luna candido pallore, Specchio all' altro maggior auriga biondo: In manto negro trasvolando l' ore Cadean d' eternità nel sen profondo, E lentamente tra quel cupo speco Piangeva 'l gufo, rispondeva l' eco. Sotto un cipresso mestamente assisa Io cantava di duol canzon funesta. Da uno spirto del ciel, cred' io, conquisa Donna veder mi parve in bruna vesta, Velato il volto, ma velato in guisa Ch' io riconobbi sua sembianza onesta. Ah Cristina! gridai: su questa riva Chi cerchi mai, del tuo Cesare priva? Cerco un affanno che mi dia la morte, Gridò la bella donna a me rivolta: Ah piangi meco il mio fedel consorte! Ah piangi la mia speme al mondo tolta! Mirasti già la mia felice sorte, Or l' inutili smanie amica ascolta; Poi sciogli 'l carme all' Ombra bella e pia, Cagion eterna dell' angoscia mia. È fola Orfeo : chè non si vide mai Tornar lo spirto a lieve e muta polve; Nè suon pietoso di canori lai, Che in un col pianto amico vate solve, Tra fredde tombe penetrò giammai. Ah! la tenèbra, che quel sasso involve, Scioglier non può, lo so pur troppo, il canto; Ma almen compagna mi sarai nel pianto. Tu mi vedesti pria che del gemmato Anello un don mi fesse il caro sposo: Ahi tempo! ahi mia speranza! ahi mio beato Viver sì lieto, ed or sì doloroso! Son madre, oh nome!.… se mi toglie il fato Il sosteguo de' figli, il mio riposo, Ah! che sventura egual a mia sventura A cuor uman non diede mai Natura. Disse la sconsolata, e, la sua cara Destra stringendo, lagrima dolente Bagnommi 'l volto; ed oh, gridai, l' amara Tua perdita il mio cuor divide e sente. La fama del tuo ben altera e chiara Lassù salì nella regione ardente; È scritta in ciel. L' eterno Nume adora; Ei vibra il colpo, e pur t' è padre ancora. Come sull' ermo lido montanino Pende il leggiadro tenero arboscello In mezzo a' fiori a fresco rio vicino Pe' lunghi e spessi rami altero e bello, Stette immobile e lieto il tuo destino Non percosso da vento atroce e fello; Ma ahi! slanciossi dale' eterne porte E fulminollo la terribil morte. Questi romiti solitarii poggi, Poichè tu 'l vuoi, farà suonar mio canto, Canto negletto ruvido sin oggi. Qui tutto par, che a me richiegga pianto; Qui della morte siam ne'queti alloggi. Spirti del cielo, a voi saranne il vanto, Se di lui ch' eguagliò la virtù vostra La mia canzon l' alto valor dimostra. Chi fia costui, che impavido, veloce Fra stuol di morti rapido volteggia, E 'l lungo crin, ch' aleggia, Cinge d' allôr feroce? Dov' arde più la formidabil pugna Intrepido si slancia. Figlio guerrier della nemica Francia, Ei di sua man t' espugna. Domatore de' rei, Ti sacro, garzon prode, i versi mici. Così nel fosco ciel ottenebrato Altitonante fulmine Va con la morte allato: Così dall' alto solitario culmine Enorme massa si diparte e cade, E orrendamente schiaccia Le rinascenti biade, Sì che guatando scolorito in faccia Irto le chiome il passaggiero agghiaccia. Ti riconosco, o grande Emulator de' trapassati eroi: Già immensa luce spande Gloria su' passi tuoi. Ah basta! ah volgi quel tremendo acciaro, Che morte reca e sangue, Per opre eccelse già famoso e chiaro! Cesare, ti sofferma, e ti rammenta Che, se tu cadi esangue, Ogni speranza di Cristina è spenta. Ahi! già con l' ali nere Metà dell' oste ricopri la Morte; Sotto sue piante altere Dorme già più d' un forte. Sedute sulle nubi iu mezzo a' lampi, A riveder chi scampi Venite voi, Ombre degli avi eccelse, Che le terribil else Reggeste a' dì delle vittorie antiche: Voi le turbe nemiche Fugate sì, che in mezzo ai nostri campi Nessun di lor orma secura stampi. Ma ve'! di nebbia in grembo Su rosseggiante lembo Cinta di strisce di dubbioso fuoco S' alza la Fama a volo; Guata 'l tremendo loco, Campo di sommo duolo, Dov' or ora passò l' atra tenzone, E con un grido atroce Così dice sua voce: Ombre de' padri, nell' umil magione Scese colui, ch' era nel mondo sole; Lo spendente novello astro di guerra Giace spento sotterra. Piangi, Cristina misera! Morì tuo solo amor; Ei languidetto e pallido Cadde nel meto orror. Sempre il forte della morte Vibratore dormirà: Al tuo canto delce tanto Ah! non mai si desterà. L' occhio giri, poi sospiri Nell' eccesso del dolor. Ah! t' aspetta tua diletta: Torna, o prode vinciter. Come nero turbin fero Della messe struggitor Vola e passa, dietro lassa Lunga striscia di terror; Infelice! tua felice Bell' età così passò. Bruno velo copre 'l cielo, Ch' alla terra ti furò. Orrendo e lurido Fantastna tacito Siede sul nobile Brando guerrier, E I' occhio cupido Pien di mestizia Mostra l' orribile Crudo pensier. Chi l' acciaro sì grande, sì chiaro Dell' altero guerriero spezzò? Morte in pianto, ah barbaro vanto! Fra tenèbre su sasso funèbre Alto e reo trofeo n' alzò. Come Luna per la bruna Fosca notte se ne va, Tutto tutto d' atro lutto Il mio cuor si vestirà. Qui d' intorno mio soggiorno La Natura queta sta; Ma, se fuora sorge Aurora, La Natura desterà. Aura dolce tuo crin molce, O de'Franchi domator: Volge mesta, nè ti desta; Nè destarti può l' albor. Tu di rosa rugiadosa E d' alloro cinto stai; E su stella viva e bella Dormi sonni allegri e gai. Torna alla sposa tenera, O raggio di virtù: Vieni sul margin florido Dove vivesti tu. Scende, scende, al ciel si fura La ridente sua beltà; Su quel letto di verzura Sino a di riposerà. Io così canto; ella m' ascolta, e piange, Tinta la faccia d' amoroso fuoco. È immenso il lutto, che l'opprime ed ange; Pur parmi, ah! parmi, mi sorrida un poco. Piace 'l mio carme a lei; l' alma le tange. Con un sospir sommessamente fioco, Grata, mi dice, è la canzon di sangue A cuore oppresso, che per doglia langue. Tacque, e, mentre nel ciel sorgea l' aurora In bianco avvolta rugiadoso velo, Ogni augellin, ch' esce dal nido fuora, Saluta il magno Creator del cielo: La fresca rosa, che 'l mattino infiora, Imperla il grembo, avviva il verde stelo; E 'l ruscelletto sul primiero albore Volge l' onde d' argento, e bagna il fiore. Là dove sorge una funèbre tomba, Che chiude nel suo sen dilette spoglie, E dove ognor il cupo suon rimbomba D' alti singulti e di terribil doglie, Vento notturno passeggiando romba D' atro cipresso nelle verdi foglie: Ivi con lei drizzai languido passo; Ella piegò la fronte, e baciò 'l sasso. Simil tomba, mi disse, il mio tesoro Chiudrà nel sen, s' aver potrò suo frale: Qui desolata vedova lo ploro, Dolce cagione di mio crudo male. Eterno Iddio, la tua possanza adoro; Ma, per volar ver lui, dammi tu l' ale. Ah ch' io son sola sulla terra! e sai Nel suo velo mortal come l' amai. Ella parlava; un rapido baleno Sette volte strisciò sulle sue chiome, E all'austro chiaro del cielo sereno Voce chiamolla sette volte a nome. S' alzava il Sol di venustà ripieno; Fuggian l' ultime stelle oppresse e dome; Allor io vidi, oh divo caso e strano! Cosa maggior d' ogn' intelletto umano. Del gran pianeta sopra in vivo raggio Stava una donna dolcemente vaga: Seduta ell' era, e per lungo viaggio Parea venir dalla celeste plaga: Era 'l suo sguardo accortamente saggio. Angioletta fors' è? è forse maga? Sclamai; chè certo si leggiadro viso Opra è d' incanto, o nacque in Paradiso. Del biondissimo crin lucido incolto Sotto le anella per metate ascoso Pallidetto e gentil era 'l bel volto, Languido l' occhio cilestrin vezzoso. In fascia aurata era 'l suo fianco avvolto, E in schivo timidetto atto ritroso Mezzo celava la sua bella mano Il candor delle gote, e l' occhio umano. Piegò Cristina le ginocchia a terra, Nè favellar lasciolla il suo stupore. Tacita io stava, e nel mio seno guerra Faceano ammirazion, gioja, e timore: Un sol guardo di lei l' alma m' atterra; Un sorriso di lei m' avviva 'l cuore: Ed ella allora tolse al suo crin d'oro Una corona d' immortale alloro. Sposa a Cesare, disse, ecco quel giorno Che fe' palese altrui la tua virtute. Ciò basta al Ciel: per me nel tuo soggiorne T'invia l' Eterno il gaudio e la salute. Tornin le Grazie a ti scherzar d' intorno, Sinor nel tuo penar dolenti e mute. Vanne a' tuoi figli: ah! che 'l materno affetto Rammento ancor; ancor mi siede in petto. Vanne sorella, che a me suora sei! Non mi ravvisi, o cara?… io ti perdono; Dolcemente spiegar a te vorrei, Se lo potessi, del Signore il dono. Luce di gioja sono i detti miei: Senti a che vengo; capirai chi sono; (Inaspettata nuova a te gradita!) Vedrai lo sposo; ci non perdè la vita. Oh momento! oh piacer! oh chi potrebbe Spiegar la gioja di mia dolce amica? L' immenso gaudio avidamente bebbe, E nel suo sen tornò la speme antica. In un istante l' arditezza crebbe Si che in tempo minor di quel ch' io 'l dica Volò ver lei, ebbra del suo contento; Stringerla volle al cuor, e strinse il vento. Sorrise l' alta donna, e in saggi detti Così proruppe: Un spirto son; che brami? Puri ed intatti in me sono gli affetti: lo t' amo ancor, e giusto è ben che m' ami. S' io l' occhio abbasso su terreni oggetti, Vedo che tu mi piangi e tu mi chiami. Care mi siete entrambe; a voi diletta, Angiol di pace son, sono Enrichetta. Ah scorgo lo stupor, la meraviglia, Che tutte due vi preme, e che v' agghiaccia! Perchè tremar ed abbassar le ciglia? Voi non ardite di mirarmi in faccia? Vedo che 'l cuor vi parla e vi consiglia; Ma 'l timor vi trattien, e 'l labbro allaccia, Pur la pietà, figlia del Ciel, mi guida: Cosi 'l destin a voi per sempre arrida! Cesare è mio german : l' amo, l' amai, Nè obbliarlo potrei anco volendo; Chè là su 'n ciel, d' amor a' vivi rai, Quant' è la sua virtù tutta comprendo. Credi, Cristina, tu lo rivedrai: Ah 'l Palpitar di quel tuo cuore intendo! Dov' è? dov' è? mi chiede 'l tuo pensiero: Ei dell' oste nemica è prigioniero. Ma timor non ti prenda! io su lui veglio; Lo seguo ovunque, ovunque l' assicuro. Scorgo sagace nell' immenso speglio, Ove stanno il presente ed il futuro Scritti da man di quel vorace veglio, Che Tempo voi chiamate, e ch' io non curo, Poichè mi sto tranquilla in grembo a Dio, Mirabil meta d' ogni mio desio. Il tuo consorte a lunga età serbato Non cadrà già, com' io, prima di sera; Vivrà teco, vivrà (tempo beato!) Sempre intatta tra voi la fe primiera. Tu, che cantasti suo destin irato, (E a me si volse in aria lusinghiera) T' ingannò 'l cuor; sotto'l mortal suo velo Alberga 'l prode, che credesti in cielo. Di' a mia cara afflitta genitrice, Che caduto non è chi la consola. Io l' amo quant' amar lassù mi lice; Quanto spiegar non può la mia parola. Dessa, l' orbato sposo ed infelice, La mia crescente e dolce famigliuola Rammento: ahi tempi, quanto siete lunge! Ahi morte che ci parte e ci disgiunge! Qui troncò la parola un suo sospiro; La corona d' allôr stese a Cristina: Quest' è 'l premio del tuo lungo martiro, Questa l' Onnipossente a te destina. Ciò detto, con un lento e vago giro Volse la bella e diva pellegrina; Stese le braccia a noi, addio! gridando, E 'n ciel salì, inno d' amor cantando. Dove la rôcca torreggiando adombra La deserta pendice, e in rauco suono Torrente rapidissimo rovina, Colà nuda sedeva e scarmigliata, Eterna degli eroi celebratrice, Selvaggia e forte Fantasia sublime: Non quella no, che de' più dolci carmi Maestra suavissima sospira, E, degli affetti la volubil piena Variopingendo, nel sensibil cuore Desta l' amor, la tenerezza, il riso; Ma quella sol, di meraviglia madre, Madre del forte palpitar, che svolge Con un suo cenno nelle mute tombe I sozzi avanzi, e per l' orror solleva Del vulgo spettator le chiome in fronte; Quella, che 'l serto magico movendo Cento faville luccicanti intorno Leva dal nulla, e che talor si slancia Inebbriata di furor novello, Com' aquila montana, o come sasso Scagliato in que' dirupi indietro torna, E percuotendo ripercosso scuote Del fronzuto arbuscel la mobil cima. Alla superba sua magion celeste Portommi giovanil forte pensiero, D' entusiasmo divin cupido figlio: Ed oh qual vidi vision sublime! Col dito al labbro, tacite, sedute Pudiche spose degli antichi eroi Stavan membrando come l'alme accese « Timor d' infamia, e sol desio d' onore. Donna surse tra lor, lungo-vestita Di candidetta bipartita veste, Con seducente timido candore Amabilmente sorridendo alquanto. Levossi allor un bisbigliar confuso Tutto d' applauso, e nel veder costei La Fantasia dipinse un vivo vivo Scintillante rossor, simìle al Sole Che la splendida stanza del meriggio Arde passando sovra 'l carro d' oro. L' immaginetta della donna vaga Guardò pietosamente, e poi la cetra Cader lasciossi dalla man di neve. A me, sclamai, la cetra, a me la cetra Creatrice d' armonica lusinga, E risuonin le vette al canto mio! O surta appena dalla muta polvere Immaginetta bella, Deh! chi sei? d' onde vieni? e chi sospiri? Figlia leggiera e snella Di Fantasia fugace, Chi mai cerchi quassù? chi mai desiri? Sulla pendice florida L' ali battendo tremole, Il mio pensier ti ricercava audace. Vieni, immagin vezzosa, Vieni, o d' Ulisse venerata sposa. Oh deh! qual fiamma folgorante piombami Sul crin di rose adorno, E, scoppiettando intorno, Il sen, la destra lambemi? Oh deh! venusto e grande Spettacolo che s' apre, Ed alta luce spande Sull' alma mia che palpita! È Penelope questa : ah l' infelice Piange sull' alba ultrice Della terribil guerra, Per cui Troja superba or giace a terra. Tu piangi, o donna misera! I pochi Saggi porteran pur sempre La grave pena dell' crrore altrui. In lagrime si stempre L' alma pudica e tencra. Desolata consorte! i figli tui Ti sogguardano mesti; Nè san perchè così dolente stai, E l' occhio molle su' lor occhi arresti. Gli odi gridare attoniti Mentre ch' afflitta singhiozzando vai: Madre, che piangi? ah non t' offesi mai? Oh voi felici pargoli! Voi non sentite la pungente cura: Serbate son le lagrime Ad altr' età, ch' è pel dolor matura: Per voi non già; chè; chè passano Entro la vaga tenerella mente L' idee cangianti e vivide Tutte rapidamente; Nè può fermarsi alquanto Il riso al labbro, od alle luci il pianto. Per voi d' un puro giubilo Nunzia risorge fuora Con lieve vol festevole La mattutina Aurora. A voi ridente ed ilare, Come il trovò l' albore, Trova la sera placida Il giovanetto cuore. Alle vestr' alme candide Quegli affannosi guai, Ch' ora la madre assalgono, Deh! non s' appressin mai. Deh! 'l doloroso palpito D' un infelice affetto Non mai passando all' animo Turbi 'l sereno aspetto. Sempre destin propizio Di viva gioja il pinga; Nè mai l' acerba smania A lagrimar v' astringa. Per voi d' un puro giubilo Nunzia risorga fuora Con lieve vol festevole La mattutina aurora. Tu, bella madre amabile, Ti rasserena alquanto, O vedrai pur discendere De' fanciullini il pianto. Vedi, che a te si stringono, Nè alcun di lor si muove, E van chiedendo semplici: Ah! dov' è il padre? ah dove? Ei tra le turbe belliche Coglie l' eterno alloro, E d' un gran nome celebre Vi lascierà 'l tesoro. Così del Sol prolifico Il luccicante raggio Orna di fronde ombrifere Il rinascente maggio. La prima etate abbellano Tranquillitate e pace, E col fanciullo libero Felicità si piace. Passan que' giorni, simili Al fiumicel che passa, E sospirando incognito Orma di se non lassa. La gioventute instabile Sorge ridente in volto, Ma sol dai crucci barbari Il fanciullino è sciolto. E ben lo sa la nobile Leggiadra genitrice: Sperare a cuor sensibile Lungo piacer non lice; Chè sol d' un puro giubilo Nunzia risorge fuora Pel fanciullin festevole La mattutina aurora. Ma m' inganno? non già: ecco 'l guerriero. Odo la voce; slanciasi Impetuoso, altero Sovra la soglia; esultano Intenerite l' alme. Oh tra le Greche spose eccelsa sposa! All' ombra delle palme Dall' affanno riposa: Tornar già tanti valorosi Achei Prima del tuo consorte, Che in lungo error di sorte Trasser gl' invidi Dei Tra la turba nemica. Invidiasti un dì l' altrui fortuna, Felice te! ch' or già t' invidia ognuna. Ei di te rammentando Abbandonato e solo Ahi! che provò lo strazio Di tormentoso duolo, Ora nella tua fe si va beando; Con la madre, la sposa, i figli a fianco, Il giro del destino Pinge, e le terre che lontan trascorsero I buon guerrieri peregrini, e stanco Del grave peso della sua lorica Riposa invitto emulator di Marte, E rammentando va la sua fatica; Ch' è pur dolce memoria D' un affanno crudel passata istoria. Oh famiglia beata! Salve! a mirarvi accorrono Con la Gioja di mirto coronata Liete le Muse Aonie, E le ritrose Grazie Leggiadrissimamente folleggiando, Salve! vanno gridando: Salve! salve! a ripetere s' affretta Col bel labbro di rosa Celata nella bianca nuvoletta La Fedeltà vezzosa: Tornò la Pace ad abitar con voi, E colla Pace ritorniam pur noi. Or come può mai voce Pinger si vivo giubilo? Chi porterà veloce La mia canzone a voi, Coppia gentile? S' ella vi giunge, non l' abbiate a vile; Ch'a veritate è sacro Il novello cantar, ch' io vi consacro. O in altr' etè d' Orizia Superbo rapitore, Cui sovra l' ali gelide Siede 'l fatal terrore; Tu, che col soffio frangere Sul gran sentier del tuono Puoi l' alte nubi, e fartene Veste nericcia e trono; Se delle vette inospiti Dominator tu sei, Che dormi? ah t' alza! ah destati Al suon de' canti miei! Io non pavento, orribile Se 'l tuo fragor mi fiede; A un vil timor quest' anima No che non piega e cede. Usa son io del fulmine, Della tempesta ultrice Mirare il vol terribile Su ruvida pendice. Scendi, ti prego supplice, Fero rival del Sole; Porta alla stanza magica Porta le mie parole, O in alter' età d' Orizia Superbo rapitore, Cui sovra l' ali gelide Siede 'l fatal terrore: Chè sol tuo volo altissimo, Ch' io reverente invoco, Può far salire il cantico In sì sublime loco. L' oda la sposa, e volgasi Al suon de' pregj suoi; Ma colà giunto fermati, Ch' intimorirla puoi. L' oda 'l guerrier, e piacciagli Del suo felice vanto Udir che suoni impavido Un animoso canto. S' ambo le note armoniche Accoglieranno in dono, Altro non chieggo ai Superi; Per te contenta io sono. Mercè l'intonso Apolline Altar novello avrai Sovra quel sasso ripido, Ove dormendo stai. Forse tua fama i posteri Invidieranno un giorno, S' all' immortal Penelope Vai messaggiero intorno, O in altr' età d'Orizia Superbo rapitore, Cui sovra l' ali gelide Siede 'l fatal terrore. Or come al mio pensier tarpò le penne Subito gel, qual prematura neve, Che tra 'l silenzio della notte fiocca E 'l campicello germogliante copre! Ohimè! che indebolite a poco a poco L' immagini fuggiasche degli Achei Passan come in lontano anfiteatro Scena venusta, che si volge e passa. L' immaginetta della donna vaga Dolce ridente graziosa vassi Impicciolendo, allontanando, e sfuma. Ahi dove andò? ahi dove fia la sposa Bella così, ma così saggia? ahi dove Giovinetta gentil, che tanta aduni Forza vittrice del corrotto e vile Già quasi universal cieco costume, Eppur sia dolce sì ch' ognun l' ammiri E più ch' ammirazion riscuota amore, Onde perdoni 'l vulgo a sua virtute, Che tacita condanna i falli altrui? Dove fia?…dove mai?…ma come suona Alto eccheggiante la pendice bruna Il caro nome di Cristina, e vallo Rapidamente ripetendo intorno Cangiata in sasso garruletta Ninfa! Te felice Cristina! ah! sei tu sola Della più saggia tra le spose antiche Emula degna, te Natura acclama, Acclama 'l Ciel; e Fantasia dipinge Ai nostri di Penelope novella. Che dormi, Fantasia? Cesare torna, Com' Ulisse tornò; pianse Cristina, Come la figlia già d' lcario: ah! pingi Il suo piacer, s' un di pingesti il lutto; Pingi l' eccesso del contento, il vivo Replicar delle cupide domande, E 'l pender dolce dalle care labbra Dell'amato guerrier. Nulla poss' io, Se la tua forza non m' avviva e regge, Se tu non mi sorridi, e non m' ispiri. Ma sorda a'voti del mio cuor la Diva Piega 'l bel capo sonnacchiosa e stanca. Più non m' ascolta; sulla destra vaga L' irrequieta ognor mobile testa Poggia, e socchiude con languor suave Gli occhietti rapidissimi cervieri. Scendiam dal monte alfin, tacita e lieve Come scende dal fior la molle auretta, Poichè quassù la Fantasia riposa, E poichè sempre d' un vivace affetto Chi più 'l poter vivacemente prova Sente che pinger non lo può giammai. Sorge la luna pallidetta e bella; Dietro quel monte lento lento leva Il bel carro d' argento infra le nubi. Io ti saluto, candidetto raggio; Raggio sereno della notte figlio, Io ti saluto. Ah! non furarti dietro Di quell' errante piccioletta nebbia, Al suon della mia voce. A te ben noto Esser dovrebbe questo suon: sovente Tu m' udisti cantar inno suave A tua bellezza; ed or come sei bella Che, i verdi rami di quell' alta pianta Variopingendo, sulla terra lasci La tua pura cader amabil luce! Amica del Cantor, sei tu che spandi Tranquilla gioja nel suo sen; tu sei A cui sovente sua sensibil alma Offre d' involontario e dolce pianto Un segreto tributo; ah! sei tu dunque Amica del mio cuor. Ricevi, o Luna Raddolcitrice de' pensier, ricevi Questo, ch' io sacro a te, canto notturno. A tua bellezza candida Simil fu Clori un di; Splendeva pur così, Raggio vezzoso. Ed or caduta, ahi misera! Mai più non mirerà La fresca tua beltà, Raggio amoroso. Ah! se caduta è Cloride, Sopra que' fior che fai? Perchè scherzando vai, O zeffiretto? Più non rammenti, rapido Leggiadro volator, Che diede a lei tuo cuor Tutto l' affetto? E, se cadè l' amabile Vergin del biondo crin, A questo fior vicin Che cerchi ancora? Forse tu brami un termine A tanti errori tuoi, Ed aspettar tu vuoi Quivi l' aurora? Ma come rapido S' innalza il turbine! Che mai sarà? Perchè 'l cuor timido Tra fieri palpiti Tremando va? Su questa nuvola, Ch' erra per l' aria, Cloride sta. Torni dall' etera, Giovane vergine, Fior di beltà. Ve' 'l tuo Sposo Che vola amoroso, E tua guida per l' aria si fa! Chi ti diede quel serto di fiori Dì si vivi, sì freschi colori? Qual mai piaggia tuo regno vedra? Un bel regno Di te degno Il tuo caro già ti diè; I più helli Fior novelli Tutti tutti son per te. Non più Ninfa, che di morte Può la sorte Minacciar; Or sei Diva, Nè più priva Del tuo velo puoi restar. O di Flora Vaga Suora, Torna, torna al tuo fedel; L'odorosa Fresca rosa Non vedrai lassù nel ciel. Tutt' intorno Tuo soggiorno Le tue Ninfe si staran; Le carole, Nato il Sole, Con te ancor intreccieran. Vo' la freschissima Mia grotta ombrifera Per te serbar. Vienti, o bellissima Sposa di Zeffiro, A ripoar. Ma chi mi chiama?…ah chi su' labbri miei La dolce soffermò voce del canto?… Sei tu, mia Nice? perchè mai turbasti L' entusiasmo, che dal cuor spingea L' armonica canzon a notte sacra? Nel mie pensier profondamente stava L' immagine di Clori, allor che Diva L' ottenebrata della morte stanza Lasciò, vestendo dell' aerce forme L' alma ridente, e 'l suo Diletto dielle Su' fior l' impero: di beltà fu luce Occhiabbagliante; somigliava al cielo Del più puro mattin di primavera. Ella talora dolcemente assisa Sta sulla fresca nube intoruo sparsa D' odorosette rose, a te simìle, Quando sul letto stai del tuo riposo; A Natura simìl, or che si veste Di dubitosa tremolante luce Amabilmente. Anco talor, se dolce L' orierinita primavera torna, Torna Clori a' giardin, torna ne' prati. Vedesti mai, dov' essa lenta gira Il suo pietoso cilestrino sguardo, Schiudersi a mille i bocciuoli di fiori? Così, se meco sei, schiudonsi, o cara, A mille nel mio sen pensier di gioja; Chè a me suora d' amor, Nice, tu sei. Tra sasso e sasso d' una rocca bruna, Di selvaggia beltà cupo teatro, U' tra le nubi, che 'l meriggio aduna, Si cela il Sole impallidito ed atro, Superbe vision ad una ad una Passan sovra un altero anfiteatro, E vanmi alterne con sublime incanto Rapidamente volteggiando accanto. O dell' estro divin vìvide figlie, Sulle pietrose dirupate cime Non macchieravvi già l' ali vermiglie Il fango delle spiaggie impure ed ime. Sacra ad alte divine meraviglie Di mia mano innalzai l' ara sublime: La fiamma accese su quell'ara un Dio; Sacerdotessa dell' altar son io. Voi, che servite al mio voler, recate, Superbe vision, elmo e lorica; Coll' ali potentissime v' alzate Sovra la vetta della rocca antica: Appenderem colà l' armi ferrate, E sospirando l' aura al prode amica Passerà per quell' armi, ed useir fuore Farà gemito querulo d' orrore. E voi piu dolci e vaghe immaginette, Recate un cesto di vermiglie rose, E con l' ali gentili e pargolette L' ôre scacciate di que' fior gelose: Noi ne farem leggiadre ghirlandette, E mille piegherem palme vezzose, Sì ch' alzerò con voi sul prisco esempio Di rose miste colle palme un tempio. E rose e palme ad irrorar scendendo Il fatidico fonte, in un momento Nascer vedrem, vedrem dolce crescendo Moltiplicar tempietti a cento a cento. Allor andrò l'immagine scegliendo, Ch' avrà più dolce e più sublime accento; Darolle vesta vermigliuzza e bella, E una Grazia gentil darolle ancella. Ad Alessandro poscia ardita e balda Spingerassi l' immagine d' intorno; Del divin fuoco in cuor ardente e calda, Pingerà 'l mio poetico soggiorno E l' armi appese alla sublime falda Ed i nati tempietti al suo ritorno; Chè, mentre ei lungi fu, stava sopita In mesto orror la Fantasia smarrita. Trasse lungi, o german, te l' alta brama, Che nacque in noi, di fama eterna e chiara. Il duro peso di macchiata fama De' vili il vulgo a sopportar impara: Noi fuor del vulgo vil la sorte chiama. Breve la vita, ma famosa, e cara Al suo gran cuor Achille scelse, e vita Ebbe breve bensì, ma pur compita. Sai com'è bella Gloria, invitta prole Di schiatta bellicosa; è bella Gloria, Come al chiaro meriggio è bello il Sole. Pera del vil l'inonorata istoria, Nè vate mai muova di lui parole; Ma intatta serbi l'immortal memoria Di chi visse quaggiù vita d'onore L'entusiasmo d'immortal cantore. L'entusiasmo è che nel cuor si spande, E del sesso maggior dammi baldanza. Ah vedi, vedi!…da lontane bande In rozzo ammanto lacero s'avanza Mesta di donna o Diva immagin grande, Che nosco cerca più tranquilla stanza. Odi, Alessandro! Onde, tacete, e venti! Scioglie la donna il pianto e i tristi accenti. Ahi! che mi giova o questo crin biondissimo, O questa gota rosea, Che bella altrui mi rende? Raggio per me dal ciel dolce non scende. Or io son fatta di straniera spiaggia Abitatrice misera, Senza speranza vivo; Coperse duro gel il mio bel rivo. Inaridiro le fontane Incide, E delle fronde ombrifere Si dissecò la cima: Ahi terra per dolor fra tutte prima! Dalle montagne, che mie terre cingono, Venne una fiamma rapida, Simile a gran torrente, E disseccato il fior cadde repente. Corse mia cieca genitrice, ahi misera! Presso il torrente orribile, E stoltamente ardita Quivi parea cercar morte o ferita. E non s'avvide, che 'l destin suo barbaro Le avea con dense tenebre Entro del capo spente Le luci, che puon far chiara la mente. Corse sul lido del gran rio fiammifero; Pose la man sul margine: Alla sua bella mano Atroce piaga fe' fuoco inumano. Ah fuggi, o madre! ah corri ai figli! ah destali! Intorno a te ragunali, E ciascun d'essi ardito Il fuoco serri, ohimè! dentro 'l suo lito. Ah fuggi, o madre!…Ma qual Nume orribile Da sulla vetta spiccasi, E colle nere piume Ombreggia 'l tuo cammin orribil Nume? Pur or fanciullo, ormai gigante altissimo, L' irta sua chioma s'agita Con un fatal tremore: Ah! lo ravviso alfin, quest' è 'l Terrore. Gelo funesto fra l' estremo palpito, O genitrice pavida, Il tuo vigor t' invola: Cadi sul gran sentier, nè cadi sola. Cento fratelli, che maligni risero Quando tua mano nobile Piagò la fiamma atroce, Teco vedrem cader nell' atra foce. Presso alla foce dall' Etate incidasi: Qui cento ciechi giacciono, E ben lor sta; qui giace Donna, che inceneri fiamma vorace; Nè alcun de' suoi pietosamente diedele, Qualor la vide esanime, Qualche ristoro lieve; Tanto pietate un dì lor parve greve: Onde distrutta fu la donna, e 'l rapido Torrente mobilissimo Precipitò pel campo, Ed ahi! che un sol, un sol non ebbe scampo. E i suoi fratelli, che ridevan barbari, Udìr le fiamme stridere Ne' loro campi anch' essi, E dal terribil duol giacquero oppressi. Eterno esempio a chi lontan pericolo Mira sedendo placido, Ed, ah! crudel, ridendo Del fiero altrui dolor vassi schernendo. Eterno esempio a chi vicin pericolo Vede, nè corre all' argine, E che gli basti pensa Del suo passato onor la fama immensa. Copron le nubi di Livadia il monte, Chè le raguna l' orrida bufera; E celata la luna all' orizzonte, E densa densa la notte s' annera; Volve, trasvolve sovra al picciol ponte Fatta torrente la chiara riviera; Più non v' è guado, chè l' acqua trabocca, E lenta lenta giù la neve fiocca. Già quando il piede mossi, i raggi d' auro Il fervido meriggio raccogliea; Copria del giorno il lucido tesauro La bassa nebbia, che lenta sorgea: Ma poichè il don dell' onorato lauro, Ad onta di stagion iniqua e rea, Mi fero i vati del paterno fiume, Ebbi ardire oltre 'l sesso oltre 'l costume. E poich' essi innalzar tempio sublime Al giovanile incognito mio nome, E colle eterne luminose rime Fregiarono l' allôr delle mie chiome, Desir di giunger sull' Aonie cime Fe' le temenze neghittose dome, Onde, benchè minacci il cielo irato, Seguo 'l sentier, ch' è dall' ardir seguato. Giardin più vago dell' Ideo giardino Coltiva sulla cima erta ristretta Ori-crinito pastorel divino, E colà sorge tra la folta erbetta Lauro che vince il tempo ed il destino: Coglier vorrei da quella pianta eletta Tanti bei serti verdeggianti e lieti, Quanti sono gli altissimi poeti. Ma invan lasciai la dolce mia capanna; Lungi è la meta, e su per l' aria bruna L' alta ed azzurra volta, che s' appanna, Più non mi scopre nè stella nè luna. Cresce il torrente, e il viatore inganna; Tutta ribolle la morta laguna: Ulula il veltro pel cupo spavento, E gli risponde l' ulular del vento. Pur non m' inganno io già: dove s' innalza Ripida men la gelida pendice Fra notte cupa un vivo fuoco balza Agli occhi mesti; oh! che mai sia chi dice? Ah si salga lassù! su quella balza Forse almen troverò tetto felice, Albergo di pastore, ovver d' antico Canuto solitario al Cielo amico. Al mattin, quando le fresche viole Sparga l' aurora su' sentier fioriti, E certo prima che 'l novello Sole Scuota il bel freno de' corsieri arditi, E in ciel tessendo l' eterne carole Ad un peregrinar dolce m' inviti, Riprenderò la via scoscesa ed erta; Chè vedrò l' orme fra la strada incerta. Or ben lassù della gelata neve Fuggir la piena, e riposar potrei: Ma il piede è reso per stanchezza greve; Sovra quel sasso a stento salirei. Si tenti; chè più facile, più breve Scampo fra tanto orror non troverei, E per tornar alla capanna mia Chiude il torrente la romita via. Oh come sotto a' passi miei la terra Sdrucciola molle, da neve bagnata! Oh come il Ciel nerissimo disserra Il gelo di fierissima invernata! Oh come il vento quelle piante atterra! Oh come mugghia la fiumana irata! Qui par che il verno già crudel fra noi Cresca, rinforzi, addoppi i rigor suoi. Deh terminasse almen l' aspro viaggio! Parmi.…sì certo.…lungi non son io; E se per notte, o per pietra non caggio, E sull' aspro cammin se non travio, Ormai breve è la meta al mio coraggio, E s' accresce vigor al passo mio. Eccomi alfin! eccomi! il tetto è quello; Si batta all' uscio del selvaggio ostello. Ohimè! non odi? ..ah solitario! ah sorgi, E la smarrita peregrina accogli, Oh solitario! a me l' aita porgi, E dalla porta la ferrata sciogli. Cade la neve; tu lo senti e scorgi; E tanto, ahi! tanto di pietà ti spogli Che m' abbandoni sulla balza orrenda Fra 'l gel feroce di notte tremenda? Oh gioja inaspettata! ecco mi schiude Ruvida porta fresca verginella Con l' ali al tergo, e con le membra ignude; Sol del bel crine le nericce anella La difendon dall' aure erranti e crude, E sol la vita leggiadretta e snella Adorna un cinto del vello onde fassi Veste la tigre sovra i nudi sassi. Io nacqui al canto, o verginella, e venni Sovra 'l Parnaso a cogliere l' alloro, E 'l cammin aspro e ruvido sostenni Sin che 'l giorno spogliossi il velo d' oro. Vergin, m' accoglierai, sol ch' io t' accenni Che questo serto il luminoso coro De' vati ond' Eridano ha chiaro nome Annodò, non ha molto, alle mie chiome. Ma quante, oh quante donzellette! oh come Corrono tutte tutte a me d' intorno, E scuoton lunghe risplendenti chiome! Come le può capir questo soggiorno? E come vanno me chiamando a nome? Perchè s' uniro ad aspettare il giorno? Ventitre donzellette allegre e sole Che fanno in luogo, ove nessun le cole? Ride la vaga verginella, e ride Come suole al mattin l' Alba vezzosa; Il nero crin sul molle sen divide, E scuopre il viso e la bocca amorosa. Volano sparse quelle ciocche infide; E, qual cresce bellezza a fresca rosa D' ebano il bruno profumier, fra l' onde Del crine clla s' abbella, e non s' asconde. E delle labbra il porporino fiore Apre ad un riso, ad un parlare alterno, E dice: Noi siam ventiquattro suore, Ancelle or fatte del gelato verno; Esciam con lui qualora egli esce fuore Dell' orizzonte a prendere governo; Dall' Alba, che le rose in cielo aduna, Fuggimme noi, e dalla dolce cuna. Poi, quando il Tempo per la prima volta Nell' equabile suo giro librossi, La giovin Alba sonnolente incolta Dall' odoroso intatto letto alzossi, E all' Aura del mattin veloce e sciolta Sospirando dolcissima voltossi, E comandò che a noi ratta scendesse, E la più snella a lei serva traesse. Noi fatte adulte sul margo d' un rivo, Che su' giardini d' Elicona passa, Dormivam tutte su ridente clivo, Giovine turba delle danze lassa: Colse I' Auretta un ramuscel d' olivo Sulla pendice più riposta e bassa; Mi legò l' ali, e poi si scosse, e al seno Mi strinse, e m' innalzò pel ciel sereno. Piena d' alto timore in quel momento Un grido funestissimo levai, E tosto lieve più che il lieve vento Le mie sorelle intorno a me mirai: Volavan tutte, ed io n' ebbi contento, E vibrai gli occhi sfavillanti e gai, Baguati ancor dal rugiadoso pianto, Quaudo l' altr' Ore mi vidi d' accanto. Ci accolse l' Alba nel materno tetto, E poscia il tempo fra di noi divise; Ci additò l' Anno, nudo pargoletto, E amor pietoso tutte ci conquise. A noi piacque il vezzoso giovanetto; Ei tra le ancelle sue tutte ci mise, E da quel di dall' uno all' altro polo Librammo sempre volontario volo. Ella sì dice; intanto ad una ad una Escono l' Ore dall' oscuro speco: Ma poi ritorna rapida ciascuna Battendo l' ali giù per l' aer cieco. Alfin fra tante, che il Tempo raguna, Sorge colei che favellava meco: Rimanti, par che il labbro suo mi dica; Qui condurrotti tua vivace amica. L' ali ella scuote, poi fugge veloce: Già sulle nubi ancora brune ascese. Cade la notte d' Erebo alla foce, E tu fuggi da me, Vergin cortese? Sin ch' ella torni si sciolga la voce, Poichè il desir del canto in me s' accese; E voi, figlie gentil del Tempo rio, Danzate tutte al suon del canto mio. Porrommi presso al focolar, dov' arde Picciol rogo di platano e d' alloro: Voi, al danzar non mai ritrose e tarde, Fate ritondo ballo in dolce coro. Di voi alcuna attentamente guarde Quand' io comincio sulla lira d' oro. Su, verginelle, su: la bruna stanza Sia testimon della ritonda danza. Danza ogni stella leggiadra e bella, Danzano l' onde, che il mar nasconde, Danzano i fiori ricchi d' odori; Quando l' auretta muove l' erbetta, Soglion danzare la terra e 'l mare. Sul mattin primo son pastorelle Queste di Febo chiare sorelle; Io pastorella guido la dauza Nella del verno solinga stanza. S' io pastorella la danza guido In questo mistico solingo lido, Io vo' ch' ogni Ora, che m' abbandona, Il crin mi cinga d' una corona. Più d' ogni suono l' anima molce Il suon di cetera tenero dolce; Nè v' ha sì cara, sì dolce cosa Quanto ritonda danza vezzosa. Danza ogni stella leggiadra e bella, Danzano l' onde, che il mar nasconde, Danzano i fiori- ricchi d' odori; Quando l' auretta muove l' erbetta, Soglion danzare la terra e 'l mare. Ma ve', ritorna gentile adorna La verginella, ch' è tutta bella; Oh quante rose nel crin s' ascose! Ell' è gentile come d' aprile Il fiorellino fra 'l sermolino. La verginella, ch' è tutta bella, Oda 'l mio canto, ch' è pur suo vanto: Un' altra ardita se n' è fuggita; Ella s' avanza, ell' entra in danza. Danza ogni stella leggiadra e bella, Danzano l' onde, che il mar nasconde, Danzano i fiori ricchi d' odori; Quando l' auretta muove l' erbetta, Soglion danzare la terra e 'l mare. Ma chi l' uscio dischinde? oh! chi saltella? Mezza si mostra, ratta si nasconde. lo vedo sventolare una facella; Vedo le fila delle chiome bioude. Canta, tace, sospira, e ride, e appella; Poi serra l' uscio, e chiesta non risponde: Fa capolino, e poi d' un salto sbalza; Fra le carole ell' è-discinta e scalza. Fa moine or piangendo, or sogghignando, Ed alfm sclama: Tu mia fida sei, Poichè fai l' Ore muovere cantando, Nè curi i tempi a noi nemici e rei, E il mar di vita te ne vai passando In que' diletti, che son tutti miei; Me i nobil vati noman Fantasia, Chiara figlia d' instabile follia. Non vuo' che tu ten salga in Elicona: Chè 'l verace sentier occupa tutto Ampio torrente, che lugubre suona, E sterpi e bronchi e sassi havvi condutto. Se il tao cor cautamente non ragiona, Tenti salire alla stagion di lutto In quel giardino, ove il pindarico estro E il solo, il graude, l' immortal maestro. Ma ridente stagion d' eroi feconda Sol può guidarvi un giovine cantore. Rimanti meco su più bassa sponda; Lassù sta il lauro, ed è quaggiuso il fiore. Se densa notte quel sentier circonda, Fioriti serti ti daranno i' Ore; Tanti bei serti verdeggianti e lieti, Quanti sono gli attissimi poeti. Disse; ed ogni Ora, che veloce fugge, Serto di rose damaschine porge. Benchè sia buja la nube che adugge, Ricca di fior la Fantasia mi scorge; Mie speranze ritarda, e non le strugge, E a volo altero luminoso sorge; Se non m' ingannan le parole udite, Ella m' aspetta sulle cime ardite. I fiori côlti alla magion diletta Dell' Ore, giovin turba fuggitiva, Schiera di vati, alla grand' opra eletta Reco per voi sulla paterna riva. Gradir vi piaccia in don cetra negletta; Che se miglior stagion miei carmi avviva, Vi rechero dalla balza sublime Più chiari serti con più chiare rime. Era quel tempo del feral conflitto, In cui l' Italia lacerò se stessa, In due divisa dall' altrui delitto. Alla sorte degli empj era connessa La subalpina sorte, e lo spavento Avea l' antica signoria depressa. Giacean servi alla frode, al tradimento Gl' Itali tutti; e nell' età fallace Tacevano memoria ed ardimento. Varcato era l' alpin giogo pugnace, Su cui d' Altion, su cui d' Assietta i forti Precipitaron lo straniero audace. Molt' anni, scudo incontro a rie coorti, Invan le alpine schiere ardimentose, Invan tardato avean le infauste sorti. Stavan l' Itale genti sonnacchiose, Sinchè sull' alpi Italo figlio i primi Gallici lauri in suol d' Italia pose. Egli era sceso nei terreni opimi, Ed avea scorsa la Lombarda terra, Sacra alla gloria, ed or sol usa ai mimi. Rotta dei monti la terribil serra, Gallica schiera il Subalpino accolse, La Gallica finita acerba guerra. Feral necessità la legge sciolse, E 'l Re dell' alpi si velò la fronte, Chè la chiave fatal sorte gli tolse. Nè quand' egli pugnò sul patrio monte Italia mosse: ei cadde, e seco molti, Un contro mille, sul terribil ponte. Elmo stranier copriva i crin disciolti De' piangenti fra rabbia e fra disdegno Itali prodi incontro Italia vôlti. Fra lor ve n' era un di sublime ingegno, Di nobil cuor; del non volgar suo nome, Delle turrite sue rocche pur degno. Trilustre palma egli era; a brune chiome Cingea l' alloro; chè del sangue avea Già bagnate le terre or vinte e dome * Il cavaliere Federico Saluzzo ebbe le prime ferite all' età di 16 anni nella Valle d' Aosta, combattendo per il Re. V˙ Versi dell' Autrice, primo vol. pag. 166, e vol. secondo, Anacreontica a Carlo Denina, pag. 53. Federico fra' suoi lauri crescea Degno del padre, a cui serbò Fortuna Eterna fama, che tor non potea. Qual nave rovesciata in l'onda bruna, Vedea 'l buon padre le speranze e i voti E l' avvenir; ma senza gioja alcuna. E, del sublime cuor frenando i moti, Tre figli, prode gioventù, fra l'armi Egli tratti vedeva a' lidi ignoti. Era scritto il destino in duri marmi; Ed io col padre il rio destin pregava, Sacerdotessa d'Italici carmi. Afflittó l' Orbe riposar sembrava; Padre dei forti, in un lido selvaggio L' error dei molti ei meditando andava. Dormian le genti: il placido viaggio Seguia la notte al suo pensier seconda; Rendea tacendo all' Increato omaggio. Del gran fiume Eridan la picciol onda Nascente gli appariva a' piè del monte, Col tetto avito su deserta sponda: Tetto moutano, che ha moutana a fronte L' alta SALUZZO, dove il mio buon Padre L' opre pensò divinamente conte. Sovra que' balzi suoi l'afflitta madre Sospirosa il seguia; morte ella vede Sempre d' innanti a se, fra sangue e squadre. Pera chi speme ha nella dubbia fede, E patria merca co' nemici sui, Ed è tra ferri, eppur servir non crede. Pera la gente dipartita in dui, Che, in nullo amor per la paterna riva, Ne vende e nome e gloria a'sogni altrui; La gente di lorica indegna e schiva, Che tesse frode, e di sue proprie schiere La patria mesta lacerata priva. Stava sull' alpi sue, l' alpi primiere Fonti di vita a lui, il Saggio; e fiso Era nell' acerbissimo pensiere. Frattanto egra la salma, e mesto il viso, In Mantova superba il troppo acerbo Federico da' suoi piangea diviso; E, mentre morbo atroce in ogni nerbo Gli trascorrea, pur il suon di battaglia Salir lo fea sul corridor superbo. Oh generoso! il pianto mio ti vaglia, Se non mio canto nato dal dolore, Dolor che certo tua virtute agguaglia. Suon di battaglia mai del prode in cuore Vano non scese: dalle meste piume Sorse del proprio fato il vincitore. E già del Sole al rinascente lume La non amata insegna ei rivestia, E 'l ferro lampeggiante oltre 'l costume. Ferale annunzio! sull' acerba via Ch'egli ahi! calcava, ed era pur l' estrema, Mancogli Iena al petto, che languia. Su quella soglia fra speranza e tema Un vecchio stava, bianco il crin, tremante Il piè, la voce dalla doglia scema * Zaverio Bettinelli, in Arcadia Diodoro Delfico. Ciò che qui si narra di lui è verità, e non favola poetica.. Uso al sacro de' carmi inno sonante Un vate egli era; e l' avvenir presago Ai vati sempre s' accampa diuante. Diodoro egli era; cuor d' amor sol pago, Cui gloria non bastò, s' aveva accensi Spirti, e d' eterni affetti era sol vago. Amava il giovinetto, e gli alti sensi Divini suoi. Sovra la soglia ei venne, Ed ahi! proruppe, ove rivolger pensi? Oh forte! o tu, che tanto caro tenne L' immortal padre, e madre ahi! di lui degna, Odimi, m' odi nel gran di solenne. Da tua turrita SALUZZO l'insegna Fatal s' innalza sin dove ha possanza Su calda terra Napoli e vi regna. Rapido è 'l tempo, e pur molto ne avanza Pria che si muti l' italo destino: In cuor mel sento, e niuna hommi speranza. Ma breve è vita, e sul dubbio cammino Che cale a noi qual impero risorga? Chi sa, se ahi! rivedrem sorto il mattino? O vago, o dolce Federico, porga A te il Dio delle pugne e forza e vita! Deh! vedi il pianto, che dall' alma sgorga. Italia rediviva, a niuno unita Straniero impero, no, non vedrem noi: Seguata è l' ora, ed è l' età finita. Diodoro disse. Impalliditi i suoi Labbri aperse a sorriso ahi! mesto e lieve Il giovanetto, e proruppe: Che vuoi, Verace amico di mia vita breve? Si dirà: Là pugnossi; egli non v' era. No, il prode niuno consigliar riceve. Fors' io cadrò; la dolce primavera Fra le native rupi io forse mai Non rivedrò, come all' età primiera. Non quattro lustri io vissi; e forse assai Già piansi e vissi. S' io cado, rammenta Che i genitori n' avran duolo, c 'l sai. Se la salma verrà trafitta e spenta, (Ch'iopur nel cuor mel sento, eamorte andrommi) Consolator del padre mio diventa. Io neghittoso, io figlio suo, non stommi. Tu mi ricorda a' miei dolei fratelli, Alla sorella; e certo il canto avrommi. Fuor della tomba essa il mio spirto appelli Vago di gloria, e colla madre ell' abbia Questi recisi miei bruni capelli. Il mio frale starà fra nuda sabbia; Ma 'l mio nome ne' canti, e l' alma in Dio Del cupo Averno sprezzeran la rabbia. Tacque; sospinse il corridor restio, Addio! gridando al vate; e l' occhio fitto In lui teneva; e fu l' estremo addio: Chè, giunta l' ora del fiero conflitto, Movean le Franche schiere e le Tedesche, E l' Italia punian del suo delitto. Eran d' april l' ore ridenti e fresche Del giorno quinto, ed era l' alba in cielo, E 'l crudo lnferno cominciò le tresche. Stavano innanzi di Verona, e velo Le fean le schiere. Giunse in I' ora infesta Il prode; e un' aura spirava di gelo. Ed in calma le schiere eran funesta, Simile a calma di capace mare, Tacita nunzia di lunga tempesta, Quando l' occidental raggio solare, Fra silenzio profondo e minaccioso, Cade tutto rossigno in l' onde amare. Allor s' apri l' Averno; abbominoso Nembo levossi, e l' immovibil trono D' Iddio coverse, e funne il ciclo ascoso. Ascosi i campi; e in ripercosso tuono Una romoreggiò tra rupi alpestri Voce: Morte! vendetta! ed abbandono! I nudi ne tremàr colmi terrestri: Chè larve unite in doppio vol sorgeano, E ricovriano i manchi gioghi e i destri; Rapidamente fra l'oste pioveano, E rombo uguale al fragor di battaglia Le tenebrose lor ali faceano. Suona così, quando i dirupi assaglia Euro notturno in l' Apennin, ristretto Col fiume ch' alto dal ciglion si scaglia. Eran l' orrende larve il reo Sospetto, Seguito egli dal pallido Furore E da Lascivia di rosato aspetto, Ira, Abbominio, Crudeltade, Orrore E Duol represso; ed ultima venía Morte, ma senza fama e senza onore. Lo stridere dell' ali, e la di pria Tonante voce in tutta Italia udissi; Ma nella ferrea tomba ella dormia. Sull' Adige teneano i guardi fissi I Galli, pochi dì prima già spenti, E da Verona tratti a' negri abissi. Apriano l' ali i Cherubin roventi, E gli occhi dell' Eterno fiammeggianti Velavan ne' terribili momenti; Nè gl' inni di pietà, Santo de' Santi, Diceano; il Ciel tacea; tacea l' Averno; E in Roverbello eran silenzio e pianti. Diè 'l segno della pugna il dito eterno; E del campo già immoto ahi! Morte acerba Rapidissimamente ebbe governo. In tre divisa giva, alta, superba La falange de' Galli, e in mezzo stava Il prode che a morir il Fato serba. A manca e in mezzo torbida ondeggiava La dubbia sorte; ma la destra infida Retrogrado cammin ratto calcava. Picciolo tempio, ove 'l veracc annida Altar del vero Iddio, stavasi dietro Al forte centro dell' oste omicida. Nitriti di cavalli, e da foretro Gemiti e grida, e minacce, e tonanti Voci, e maledicente orrido metro, E suon di bronzi accesi, e suon di pianti, E sangue ovunque, e mozzi tronchi e rotti, E corsier rovesciati, ed elmi infranti, E cento voci, e detti empj interrotti, Qui riuniti innanzi al tempio sacro L'empie larve nemiche avean condotti. Tremonne del Dio vero il simulacro; Chè'l sangue umano alla divina porta Miserameute si facea lavacro. La decim'ora del mattino sorta Era fra quella atroce orrida strage; Fuggian le schiere sulla gente morta. E le genti vendute, e le malvage, E le schiere de'forti ivano insieme Rotte, e gridando tra l'ira e l'ambage. Il corridor del giovanetto freme Tra i gridi e gli urti: chè a lui stan le larve Innanzi; il prode il volge e spinge e preme; Il corridor nitrì, slanciossi e sparve. Il clangore d'un' orrida tromba Su per l'etra funesto rimbomba. Odo'l vento, che cupo sospira: Vedi, vedi qual turba s' aggira, Nera turba d' Averno funesta! Già l'incendio si desta, si desta; Ognun d' essi l' attizza, lo move, E saette terribili piove. Batte, ribatte sull'acciaro forte L'impavido guerrier; L'orecchio porge, ode 'l gridar di morte, E spinge'l suo destrier. Ahi! ch'egli piomba rapido Ove ferve l'orror della battaglia, E col corsiero intrepido Tra 'l battagliar terribile si scaglia. I ferri s'urtano; i destrier crollano; Ahi l'arme scrosciano! Dov' è 'l magnanimo Guerrier fortissimo? Traballa, ahi! miscro: Il colpo funebre già lo ferì. Il fuoco uscì dell' Istro infra le schiere; L'infelice morì. Nembo di polvere da terra innalzasi; Passano, volano le schiere alpedi… S'urtano, s'urtano!… Le trombe suonano… Cada a dividere i brandi lucidi, Che sangue grondano; cada, precipiti In sen dell' Erebo l'orribil dì. Dove, ahimè volgomi!… su qual mai spiaggia, Padre, il tuo misero figlio fuggi? Uno dolcissimo D'armi e d' amore Fratel, d' impavido Mirabil cuore * Il Cavaliere ANNIBALE SALUZZO., Il forte giovane Tra l' armi avea… Fratello, volgiti! N' ascolta il gemito; Ei più non è. Invan ricercalo Pietate e Speme. No, redivivere Nell' ore estreme Gli eroi non possono. A lui, che giacesi Fra sangue e polvere, Rivolgi il piè. Nel tempio estraneo, Di sangue lurido, La tomba egli abbiasi Lungi da' suoi: Sol don d' un feretro Fargli tu puoi; Ch' ei più non è. Ne' sogni torbidi Il padre vedelo, Pinto di squallido Mortal pallor. Ahi! l' Ombra pallida Sul letto curvasi; Il nome mormora Del feritor. L'ode; le tremole Palme già porgele Egli tra' l ferreo Mortal sopor. Ah padre, fermati! Ah! chi consolati, Rotto il dolcissimo Nodo d' amor? N' odo le smanie; N'ascolto i gemiti… Ridete, o barbari, Del suo dolor. Al suon de' carmi nostri, i nuovi ed ultimi Itali cuori esecreranno i rei; Avrà 'l tuo figlio certa fama e lagrime… Tu vendicato sei. Se iniqua un di pugna vedran risorgere Là dov' io nacqui sul paterno fiume, De' figli tuoi richiameranno i posteri Gloria e costume. E di Saluzzo l'alte torri, al margine Del Po nascente, i prodi additeranno; Là giù passando, fur costoro armigeri Cuori, diranno. E noi sempre Ombre nude, in sovra 'l culmine Là fra l'avito rovinoso ostello, Al suon di lode sorgerem nei secoli Fuor dell' avello. Alla nobile madre, a' figli serbati! Gloria de' sigli, n'avrai gloria un giorno. Vivi; i regni disprezza: a terra cadono; Nè fan ritorno. Pianto che giova?… Fu del Mincio a lato Presago it vate, ed è compito il fato. L'aer è freddo; lenta lenta cade Minuta pioggia dalla densa nube, Che uguale e bigia tutto copre il cielo; Più bassa nebbia le fangose rive Cinge del fiume; van radendo terra I fuggitivi augelli, a cui sull'ali Pesa l'aria gravissima, cedendo A stento e poco al remigar de' vanni; Il domestico augel, nunzio dell' alte Ore di notte e del mattin primiero, Di pioggia or nunzio, coll'acuta voce, D' umido verno il bruno di saluta. Qui dell' Eurota sulle vaghe rive, Ove mi diè l'Arcade Genio amico Tessuta d' alga rustica capanna, Pur scese il verno : nell'umil soggiorno Chiuso l'armento sta; l'arbor fecondo, Che tutto copre dell' Eurota il lido, E a cui rosseggia ancor tra fronda e fronda Di Piramo e di Tisbe il sangue antico, Inaridi; cadon le foglie, e s' ode Fischiare il vento fra gli avanzi estremi Della sacra a virtù rigida Sparta: Reverite rovine, onde superba Stassi la sponda del famoso fiume. Tepida è l' aura; sotto l' umil tetto Dorme il buon veltro sulla nuda terra Presso all' acceso focolare, e pende Al lauro appesa la negletta avena. Salve, Euforbo immortal, salve: ti piaccia Con lieve passo penetrare in questa Arcade mia solinga magionetta. Tu pure Arcade sei; tu pur sei quello, Che ai gravi studj, alle sublimi cure L' amore adegui dell' Aonie scuole. Ma dolcemente, Euforbo, deh! calchiamo Il suol di questa capannuccia; dorme Morbidamente su le sparse rose La più vezzosa delle Grazie. Fanno Sostegno al capo di que' dolci carmi * Masino, Poema dell'Ab. VALPERGA CALUSO., U'l'ardir di Mafalda e l'amor nato Da sua fama chiarissima pingesti, Gli eletti fogli, ed il bel crin d' Aglaja Copre coll' oro le ridenti carte. Oh! vedi: nella queta capannuccia Al tuo venir l' ali scuotendo cento Liriche sospirose immaginette Stanmi d'intorno, e da me chiedon vita Col noto suon della canora voce. Il loro vario e rapido atteggiare » Dell' armonico bel sovrana idea Desta per entro alla sensibil alma. Così lo stuolo delle aurate pecchie Di rosa illanguidita in sovr' al lembo Vanno, e coll' arte lor traggono il mele, Bench' ella in sen racchiuda ingordo verme Che pria di notte ad invecchiar la spinge. Una vivace immaginetta serge Al destro lato; d' un fanciul vezzoso Veste sembianza. Le sue liscie gote Pienotte, rubiconde, adorna un molle Sorriso pueril, che invita ai baci. Ride, ah! ride 'l bambin, le brevi palme Insiem battendo, e festosetto copre Le ritondette sue rosate membra Coll' ali d' oro: eccoti l'Estro! ai vati Messaggiere fedel, nacque nel cuore Del gajo Anacreonte in un co' mille Pigolanti Amorini. Egli ministro Ali' opre del cantor, porge la cetra; Ballenta, annoda le argentine corde, E dagli aurati suoi dipinti vanni Spicca la penna ond' io mi servo: poscia Nella candida man breve tagliente Acciaro stringe, e con leggiadro ardire La sottil penna, fanciullino esperto, Tempra così, che s' io mi siedo e scrivo, Da quella penna magica, di versi Un nembo piove facile, soave. Di', non ti piace mia capanna, Euforbo? Piace ai Numi silvestri; ed io sovente Li miro intorno a carolare, e muove Talora insieme le carole anch' io. Talor giocosamente, una giocosa Pastoral canzonetta modulando, Invito al ballo l'altre Ninfe. Invito Or io ti fo d' udire il carme sacro All' imeneo dolcissimo, onde sei Felice spettator; jer lo cantava L' addormentata or nella mia capanna Vergine Diva timidetta : oh come Presaga d' ineffabili dolcezze, Nè mentir san le Grazie, inno sciogliea! Oh come degli sposi i pregj aviti, I grati studj, i casti affetti, i puri Voleri, ed i purissimi costumi Degni d'età miglior lodò, col tuo Alternando il lor nome! Oh come pare Ch'ancor sin entro l' anima risuoni Il divino suo cantico, qualora Ella invocò d' Amor la face eterna Riproduttrice eternamente! Seco Gli Amorini cantavano. Ridirti Quel canto vo' sulla mia cetra… Oh vedi, Vedi che l'Estro me la reca!… Dammi, Pargoletto gentil, dammi la cetra!… Sorridi… mi sogguardi… e taci?… Dimmi: Ah che mai festi di mia cetra?… Forse, Protervo fanciollin, l'hai tu furata? Ah! sai che sferza non possiedo… ardire La mia dolcezza a te diede… Ben io Annodarti saprò col giunco stesso, Onde canestri vo tessendo. Al lauro T' annoderò, ch' io consecrai d' Euforbo Alla canora creatrice Musa. Ma come! ah piangi! pargoletto, dimmi: Della mia cetra che mai festi? Ah senti, Euforbo, senti! Ia mia nobil cetra, Ond' io tante formai note canore, Smarrita hammi costui… Senza la cetra, Come faro?… Ma parmi… ah! certo… ah vedi! Stava celata tra que' folti rami D' allôr vetusto, sulla chiusa soglia Del tetto agreste… Errai! non la sinarristi, Semplicetto bambin; prenditi un bacio… Dipinta a due color prendi la mela Che nel canestro sta… prendi la rosa Che in mezzo ai veli il sen m' adorna…Ah! certo Erra talor più del fanciullo istesso Chi del fanciul sovra gli scherzi impera. Già'l dissi, errai… Ma tu m' accenni, Euforbo, Ch' io canti i versi pronubi d' Aglaja: Oh li rammento… or ridirolli… ascolta! Al suon di cetera, Muse, scendete; Celesti cose al suon di cetera, Muse fatidiche, paleserete. Non già, qual sognasi turba di vati, Amor, ch' è fuoco, nacque da Venere Nacque in armonici regni stellati. Creollo un provvido scuoter di piume, Qualor, creando i mondi e l' etere, Sull' ali altissime librossi l Nume. Fiamme vibravano l' ali fiammanti, Fiamme che in cielo unite sorsero, E mille accesero mondi rotanti. Al suon di cetera, Muse, scendete; Celesti cose al suon di cetera, Muse fatidiche, paleserete. In quelle tremole limpide stelle Addormentate giacevan l'anime Delle freschissime rose più belle. Giuso il benefico raggio discese Sovra ogni stella, e luce diedele, E colla candida alma l' accese. Destate, in rapido equabil volo Partiron l'alme dal cielo armonico, E dall' armonico nativo polo. Al suon di cetera, Muse scendete; Celesti cose al suon di cetera, Muse fatidiche, paleserete. Narrate, o vergini, prole d' Amore, Muse possenti, com' egli fecesi Dell'orbe gelido fecondatore. In grembo all' Erebo tutto giaceva; Eternamente quest' orbe inospite In notte orribile dormir pareva. Amor col fervido fuoco lo cinse, E bello il fece, e le bell' anime, Che in ciel volgevano, sull' orbe avvinse. Al suon di cetera, Muse, scendete; Celesti cose al suon di cetera, Muse fatidiche, palescrete. Oh Nume insolito! lucido fuoco! Te colle Muse in sacri cantici, Te Nume incognito dal cielo invoco. Sul cielo armonico alme create, Che in ogni stella si ricercavano, Renda'l tuo vivido fuoco beate! Elle s'accesero nell' alte sfere; Sull' orbe piacciati, o Nume insolito, Nutrir le nobili fiamme primiere. Al suon di cetera, Muse, scendete; Celesti cose al suon di cetera, Muse fatidiche, paleserete. Alle bell' anime nel frale ancora, Muse possenti, fate memoria, Ch' alma in purissino ciel s' innamora. La lor ricordino stella natia; Ma si per loro quest' orbe allegrisi, Che tal memoria grave non sia. Caste Pieridi, incoronate Di rosci fiori cetra di Pindaro; Euforbo aspettala, voi l'adornate! Grand' inno pronubo alternerete Col saggio Euforbo al suon di cetera; Al suon di cetera, Muse, scendete. Così cantò l' oricrinita Aglaja; I Satirelli lascivetti intorno Si strinsero, battendo palma a palma; Dalle cortecce delle piante uscirono Le rosee pinte rigogliose Driadi. Avvezza i' sono a rimirare uniti I sacri Numi; ed oh! pur io vicina All'ancella di Venere m' assisi. Ella mirommi desiosamente; Chiedeva il canto l' eloquente sguardo: Poi per mano mi prese sorridendo; Il labbro non apri; ma' l suo tacere Che non dicea? che non intesi? il cuore E l' agitate fibre in un momento L'onnipossente Fantasia mi scosse. Scintillomuni negli occhi, e del suo fuoce Mi coverse le gote… Oh! chi nol vide L' ardente fabbro di spontanei versi Arrossire, tremar, dagli occhi fuori Vibrar l' anima tutta; impetuoso Spingere i passi, impetuoso tosto Fermarli, e non udire, e falto cieco Estranea cosa non curar qual sia; Or cupo e muto, ora in celeste voce Altamente parlando a chi non sente: Ah! chi così nol vide, ah mai nol vide Dell' increata fantasia ripieno L' animoso Poeta; in un sol tempo Stranissimo spettacolo e divino. Gridar gli allegri Satirelli baldi: Canta, o d' Eurota pastorella, canta. Euforbo, or vuoi che' l canto mio ti dica? Odi! a te lo dirò… ma deh! se alcuno Del mio carme ti chiede, a lui rispondi: Arcadia non l'udì. L' udrai tu solo, O teco solo udrallo, allor che spenga Le fiammelle sull' ara il sacro rito, E più vive ne' cuori ardan le fiamme Del compiuto imeneo, la nobil donna * La Contessa TERESA DAL POZZO COSTA di Carrù. Che la sposa gentil, la giovinetta D' Euforbo alunna accogliera, novella Sua prole, e sua carissima speranza. L' oda, e rammenti di Glaucilla il nome, E l'ossequio e l'affetto. A lei, se'l cuore Non m' ingannò, non suonerà quel nome Qual vulgar nome indifferente: e forse Daralle plauso: ch' al fremer soave Conoscerallo di poetic'aura. Ora m' udrai tu solo, inclito vate, Che appien conosci l' alma di Glaucilla, E di Glaucilla il canto: almen sorriso Non aprir mai, se l' inesperta voce Non segue il buon volere, o se cantando Novellamente m' arrossisco e tremo. Io so ben, che non so come Sovra l'etra Picciol Nume nasce Amore; Strali e rose come fuore Dalla lucida faretra Va spargendo, Fresco nembo sulle chiome E nel grembo del cantore; Poi nel seno gli penètra, E gli piange e ride in cuore Io so ben, che non so come; Poichè Amore unqua scendendo Non covrì coll' alte penne La mia cetra: Nume ignoto, udirlo quando Va cantando, Pastorella, non m' avvenne; Nè so dire in Elicona Qual d' Amor vi si ragiona. Ma so pur ch' ogni poeta, Sorte lieta Trasformando, Cangia in sasso, in fonte, in foglia, In augello, in aura, in onda; Si che vado desiando E bramando Inusata nuova spoglia. Farfalletta esser vorrei: E dell' Estro Nell' alpestro Divo regno salirei, Per udir sull' alta spouda, Farfalletta d'Elicona, Qual d' Amor vi si ragiona. Poserei sul plettro d' oro, Con cui suole Modular la canzonetta, Sacra e bella Verginella, Bionda Aglaja semplicetta: Delle corde fra 'l tesoro Arditella, Non curata, Fortunata Farfalletta, Da sue candide parole Udirei sull' Elicona Qual d'Amor vi si ragiona. Se in farfalla non potessi, In la rosa Di mutarmi avrei desio, Di cui strigne Bionda Aglaja verginella La sua chioma ricciutella, Mentre o cigne, O discigne La odorosa, La vezzosa, La cadente ghirlandella. S'io volgessi, Rivolgessi Verso'l labbro suo divino, In la bocca sospirosa Nel raccorre il ventolino, Udirei sull' Elicona Qual d'Amor vi si ragiona. Se non rosa o farfalletta, Fossi almeno La scherzosa fresca auretta! Seguirei Amore a volo, E vedrei come saetta: Nel ferire arcier bendato, Di cui solo Un sol colpo non vien meno, Un sol colpo deviato: E saprei qual fere Amore Nobil cuore; E udirei sull' Elicona Qual d' Amor vi si ragiona. Ma che dico? Ah! meglio fora Esser l' Eco Che in lo speco Del Parnasso si nasconde; Prima Ninfa, ed ora voce Nella foce, Ove perder tutte viene Tutte l' onde Il volubile Ipocrene. Ridirei su quelle sponde Molle canto, Molle oh! tanto, Ch' emmi pure ignoto ancora; E udirei sull'Elicona Qual d' Amor vi si ragiona. Farfalletta, rosa, od aura, Mobil Eco, Saprei come Al tuo nome Sovra'l Pindo si poteo Scioglier inno or che discendi, O santissimo Imeneo. Odi i voti! Nume, accendi; Nume, scuoti La vivace Tua gentile eburnea face, Onde l' orbe si restaura; Mille mille Spargi lucide faville, Sì ch'Euforbo di te canti: Egli vanti, Sacro Imene, Amor con teco; Ei che intese in Elicona Qual d' Amor vi si ragiona. Ma, Euforbo, deh! sorgi, ch'io taccio. Desta S' è la vezzosa Grazia lusinghiera: A mezzo la gentil vermiglia bocca Apre, e le braccia mollemente stende; Schiude le luci, ti sogguarda, e'l volto Vergognosetta nelle palme cela. D' un facile rossor tingon le gote Le Grazie verginelle, e le circonda Sacrosanto pudor dal ciel disceso. Or vanne, Estro fanciul, vannc; la prendi Per man così, ch' ella il bel capo abbassi: T' avvicina all' orecchio, e dolcemente Susurra il nome sol d' Euforbo; il nome Del buon poeta delle Grazie…Euforbo, Vedi che a te corre la diva…vedi; Essa la cetra, che fu mia, ti porge. La suadevol sua voce non senti? A chi s' aspetta il cingersi di fiori, Pronubo vate, il crine? A chi s' aspetta Cantare Imene sulla soglia aurata Del tetto nuziale, il santo Imene Ch'ama la soavissima armonia Degl'inni eterni? Euforbo, ah tu lo sai! Deh canta, Euforbo, ch'io l'ascolto c taccio. Il lento sole occidental si spinge Dietro il monte nevoso; e sovra il monte La bianca neve di rossor dipinge. Fra 'l tacer dell' azzurro ampio orizzonte Augel non s' alza, e duro ghiaccio stringe Ambe le sponde del castalio fonte. Odi, ma lungi, all'invernal bufera Mugghiar l'armento, e salutar la sera. Seguimi, vieni; torreggiante ed irto Ne aspetta il sasso dell' ascrea foresta. Tutto è silenzio intorno; un nudo spirto Invan richiami, o Carlo: or chi t' arresta Poc' anzi io sciolsi dal fronzuto mirto La mia sacerdotal candida vesta, E vo cantando a tua fedel consorte Sulla cetera eterna inni di morte. Spira la cetra di fatal lavoro Sotto questa mia mano un suon pietoso: Ch' io son, che stringo benda e cinto d'oro Sul fonte d' Ippocrene alto nascoso; Io, cui la fronda del sacrato alloro Or già muove sul crin l'Euro animoso, Or che sacro ad un Dio sorgemi in petto Il raffrenato invano estro negletto. In una selva, che le cime altiere Cuopre del monte armonico celèbre, Stassi uno speco fra le pietre nere Coverto dalle gelide tenèbre. Al suon di cetra qui dall' alte sfere Scendono l'Ombre in l'arie umide e crebre, Qualor misto col suon d'amaro pianto Scioglie buon vate sulla cetra il canto. Ecco il luogo feral! l'orme rivolgi Dove la selva oscura più discende. Oh! speme degli ALFIERI, il guardo volgi Pietosamente nelle sedi orrende; Entro l'ammanto vedovil t' avvolgi, Nunzio funesto delle tue vicende: Regno di morte è questo, e qui s' aggira La bella donna, che il tuo cor sospira. Ombre del vulgo, che nell' ima e bassa Spiaggia dormite, non vi desti il canto. Magnanimo Signor, guardale e passa; Chè insulta il vulgo a inconsolabil pianto. Qui, dove il sasso un picciol varco lassa, Scendi uel loco e paventato e santo: La via t'insegno tortuosa interna, Che guida alla profonda ampia caverna. Io curvai due cipressi, e fra' lamenti Mi cinsi di que' rami, e'l crin disciolsi Tra 'l fischiar mesto de'notturni venti, Quando alla cieca grotta io l'orme volsi: Al tripode divin fuscelli ardenti Poc' anzi accesi ch'ai cipressi io tolsi, Mistica fiamma onde turbar la notte; Or volgo in giro per l' oscure grotte. Senti aer denso, che torpendo assonna Umido lento in mezzo a vuoto orrore. Òompe il silenzio, che quà giù s' indonna, Soltanto il singhiozzar del tuo dolore. Tre volte e tre la tua perduta donna Oda il suo nome uscir dal mesto core, Onde la guidi onnipossente Iddio All' amplesso feral d' ultimo addio. Sorgete, udite, o Spirti! Ai cupi regni L' evocante fatidica armonia Scende di vita oltre gli usati segni, E voi richiama alla terrestre via. Stirpe feconda di sublimi ingegni, Suonan tue lodi sulla cetra mia. Sorgete, udite, o Spirti; un nuovo giorno, Al suon de' carmi, ne spargete intorno. Voce non odo? par nel verno gelido Aura rinchiusa tra fatal rovina: Pianto non è, voce non è, ma fremito Di selva alpina. Novello Enea, non d'Eritrea la Vergine Signor ti guida fra gli spettri e l' ombra; Ma 'l suon del canto delle sacre Aonidi La via ti sgombra. A che più tardi? Tu che 'l puoi, richiamala La casta donna… Ora è tuo pianto udito Io cesso l' inno; egli suonò nell' Erebo; Tutto è compito. Ah! riconosco dalla lunga veste, Dal bianco crine e dal severo ciglio Il prode Ogerio, che d' allôr celeste Cinto sen riede nel terreno esiglio. Rara virtù nell' età sue funeste, Non vendette a'possenti opra e consiglio, Quando del patrio fato ei vide incerto Italia contro Italia in campo aperto. Pugno pur egli invan; d' amari inchiostri La civil guerra e'l reo servaggio pinse, Quand' altri fuori degli astensi chiostri La forte gente di castello spinse. Oh Cuelfi! oh Ghibellini! oh furie! oh mostri! Empio chi vinto pianse, empio chi vinse. O patrio amor, che in rari petti or stai, Fra civiche discordie ardesti mai? Deh, magnanimo veglio, i passi altieri Deh ferma al suono de'dogliosi accenti! Ah come fugge! de' possenti Alfieri Come ricadon l'Ombre ai regni spenti! Ah! sibilan ne'lor voli leggieri, Qual fischio lieve de' rinchiusi venti. Ma vedi i tre, che ragionando insieme Giungono uniti, e son fra l'Ombre estreme. Viene primo un guerrier di sangue tinto; Muove rapidamente il lungo passo: Nella vorago dell' età sospinto Ei ti saluta col sospir suo basso. È il tuo fratello, nelle pugne estinto Là di lantosca sul conteso sasso. Guerrier! tra i forti, ove il destin t'appella, Con il fratello mio * Il Cavaliere Federico Saluzzo, morto alla battaglia di Verona. Vedi il poemetto qui sopra, pag. 167. di me favella. Fratello, ah! tu morte nell' empia guerra T' avesti; oh potess' io donarti fama! Forti, invano la cetra in questa terra Molle del vostro sangue oggi vi brama. Deh! qual gelida mano il cuor m'afferra? Chi 'l pensier cupo dell' età richiama? Fuggi, o pensier, che col passar degli anni Nulla mi scemi de'trascorsi affanni. Sta vicino al guerrier colui che in riva Del Po fe' torreggiar la sculta pietra, E a music' arte incantatrice e diva Erse mirabilmente un tempio all' etra. Lo segue l'altro, invitta anima schiva, Grande fra i grandi animator di cetra; Creò l' Itale scene, e cadde seco Il vanto primo del pierio speco. Vedi! sorride il gran cantore, e 'l nome Tuo ridicendo nell' aonia stanza Rammenta quale in tua CARLOTTA e come Pose del nobil sangue ogni speranza. Ahi! mente il Pindo, e invan le sacre chiome Cinge il buon vate, ed augure s'avanza; Ahi! d' unico fanciullo afflitto padre, Dov' è, de' figli tuoi, doy' è la madre? Oh vista! oh come segue un fanciullino L' eccelsa schiatta de' caduti eroi! Oh come egli scherzoso a noi vicino Ride, ed asconde quegli occhietti suoi! Nalle palme gli asconde, e un fioreilino Porge, ritoglie, e fugge via da noi: Questo è 'l caduto figlio tuo, venusto Pomicioletto sul ridente arbusto. Ultima, quale nella tacit' ora Esce la luna sulla falda ombrosa E l 'aere freschissimo innamora Tutto impregnato d' un odor di rosa, Venir mira laggiù, sorgendo fuora Nel cupo della stanza tenebrosa, Pallida imago in bianca bianca vesta. Ah! dove corri? misero, t' arresta. Invan, misero, invano ambe le palme A lei sospingi desioso amante. Ferma! cupida man sfuggono l' alme Divinamente vereconde e sante. Sincero amor, più che di frali salme, Nodo è de' cuori, e vita in quell' istante, Ove Imene invocato in terra scende, Più cara sì, non più durevol prende. Ah ferma! il sai se al tuo dolor profondo Io teco piansi amaramente, il sai M' odi…t'arresta…afflitto e gemebondo Colei rivedi, ch' io pur tanto amai. Ancor la piaga nel mio seno ascondo, Nè lunga età la sanerà giammai; Chè d' un affetto fuggitivo e breve Non quest' anima mia senso riceve. Trema il suol, scoppia il luon; nel loco orrendo Acuto fischia lungamente un angue; Fuggon gli spirti; io la mia cetra prendo; Bied' Ella, onor del generoso sangue: Spirto pallido pallido sorgendo, Viene a beare il suo fedel che langue; Ah! tu la vedi desiosamente Seguir mio canto col guardo ridente. Così nel giorno, in cui vergine schiva Sen venne al tempio, e la sua man stringesti, Sul rubinetto della gota viva Rossor vivace più sorgere festi: Così sue luci, che d' un vel copriva Santo pudore, al suol fise vedesti: Era bella così, quando il suo core Palpitar festi d' un primiero amore. Già nel bruno deserto Curvano l' ali altissime tenèbre; Tanto è 'l poter del sacro inno funèbre, Che sulla cetra il tuo dolor ridesta. L' occhio aggrottato incerto Segue per la foresta L' Ombre de' spenti, onde passando mute Ciù dalle vie perdute Alla di morte riaperta foce Non richiamin lo spirito veloce. Euro funesto spirare si sente, Che balza e vola sul flutto tacente, Spinge la nube su queta laguna, Resa sanguigna la torbida luna. Ve' ve' che viene l' acerbas tempesta; Piegan gli abeti fischiando la testa. Sulla maremma di dubbia fortuna Passa la nave; nel flutto sospinta Vien rovesciata, spezzata, ed è vinta. O bella donna, te, luna di maggio, La tempesta velò; E gioventù per te, qual mesto raggio Della luna, passò. Tu queta queta il ciel Fendi col bianco vel, Alma, che tutta amor Sorgi al mio canto. Odi del tuo fedel, Odi' l fatal dolor Suonar col pianto. Egli t' amò così Che fosti a lui del dì Ed aura e luce. Ora dinanzi a te La non mutabil fe Lo riconduce. Al suon di cetera, Sucon di dolore, Deb segui, o spirito, Segui fra geniti Il nobilissimo Tuo' primo amore. Lascia l' orribile Selva di pianto; Riedi alla stanza Del casto talamo: Il vate segueti; Hai gl' inni accanto, E, sin che 'l cantico Per l'aura scioglie, Nessan potere Ha' l torbid' Erebo, Bench' ei richiamiti Da quelle soglie. Sovra la vuota soglia Fra le colonne avite il nobil padre * Il Marchese Alfieri di Sostegno, susocero di Carlotta. Che amor ti diè, inuto ed immobil, sente Uscir dal fondo dell'aurate stanze L' acerbo grido, il singhiozzar di doglia, Che i figli del suo figlio ahi! non han madre. Il pianto a gioventù, dolor di morte A vecchiezza si serba. La mulabile sorte Ahi le vane speranze ha tutte spente: Tacito è 'l duolo dell' età cadente. T' inoltra e l' alto ingegno, Divino ingegno di tuo padre vedi ** Il Conte Luigi Duchi, padre di Carlotta, Che tutto è vinto dal terribil fato. T' inoltra; taci e siedi, Ombra mesta e pensosa Di quel Saggio immortal ti siedi a lato. Il loco è questo, ove tu madre e sposa Il roseo labbro a' dolci canti usato Schiudevi desiosa Ed ei sorgea beato D' esserti padre, padre eccelso e degno, Egli tornar ti veda; Nè il suo dolor dolor di morte ecceda. Tornar ti veda quella Stanza, ove siede la maggior tua figlia. In atto di pietate al padre a fianco. Dodici volte, fresca verginella, Vide la sorridente primavera; Ella il duol rinnovella Del tuo sposo nel cuor afflitto e stanco, Coila memoria dell' età passate. La soave pietate Vedendo la vezzosa bambinella, Ch' ulitma speme è di suo padre amante, Scuote la chioma inanellata e nera, E, pinte di stupor le allegre ciglia, Un bacio chiede e per la man lo piglia. Le brevi piante intorno Ella e Cesare tuo con lieve passo Vanno movendo, ed oh! gridando vanno Con puerile affanno: Non pianger più, chè tornerà la madre. Allora innalza al talmo deserto, Vedovo sposo, il desolato padre La fanciulletta: Non verrà, son certo, Dice con un sospir profondo e basso. Soli nel rio soggiorno Noi siam di un mondo di dolor coverto, Sela nano i due bambini; ah fa ritorno! Madre, che fatto abbiamo? Perchè ne lasci, onde sì mesti or siamo? Ah tu m' udisti! Vieni, Ombra felice, e con il tuo fedele Nell' aer vivio al suon de' carmi avanza. Già dietro lasci la ferale stanza, Già dietro lasci la ferale stanza, E 'i freddo aer crudele Più non respiri; già scoverto tieni Dal funèbre tuo velo il caro viso. Non è, non è sorriso Di morte il tuo! Se amor ne die' baldanza, Segui la via, che a nuovi dì rimena La tua vita serena; Ecco l' aura, ecco il ciel… Ma che ragiono? Ohimè! la cetera non rende il suono. Ferma ! la destra, Signor, non porgerle; Irresistibili i fati sono. Chè gl' inni armonici col lor potere Sol fra quest' orrida deserta riva Richiamar possono l' Ombre leggiere. Ma, se le cupide braccia lor stendi, Le vereconde Ombre sen fuggono, E invan dell' Erebo la via riprendi. Ella nascondesi; già l' onda eterna Tocca, e l' addio, che lenta mormora, Col lieve piangere dell' onde alterna. Ah che mai tenti!… Ah non seguirla! arresta! Ella è fuggita dagli amplessi tuoi, Pallida imago avvolta in bianca vesta. Riedi, infelice! riedi a' figli suoi. Lasciam la grotta orribile e fanesta; Regno di morte è questo, ove siam noi. Sulia mia cetra estremo addio disciologo, E dalla stanza funebre mi tolgo. Qui, dove luce dubitosa cade Fra l'aria greve di notturno gelo, Riprenderemo le deserte strade: Or vedi aere dolce e puro cielo. Imperlate di limpide rugiade Alzan le belle rose il molle stelo, E scema il duol dello spettacol diro Un ciel tutto di fiori e di zaffiro. Tu 'l volesti, Signor; d' amico invano Io non udii giammai prego verace: io t' ho guidato coll' ardita mano Ove scender può sol l' aonia face. Riedono l'Ombre nell' orror montano; Tu, padre, riedi alla perduta pace. Saggio sei tu; vive a'suoi figli il Saggio Vita simile al mattutino raggio. Era la fresca aurora appena sorta Dietro la selva annosa: un'armonia Universal dalle commosse frondi, Dal rapido torrente, e dai beali Nidi d'allodolette, e dal susurro Del venticel sorgeva. Al ridestarsi Della melie armonia, le proporine Ali sulla mia fronte i sviatelli Sogni battendo, sen fuggian scherzosi Dalla tacita mia capanna amica. Il letticciuol d' odorosetto e fresco Sermolino lasciando, io col primiero Raggio scendea dall' Elicona, stretta In man la cetra, ove l' angusta valle Dei mirteti s'incurva: in fondo a quella Fronzuta valle il sacro tempio stassi Della pronuba Giuno. Io qui la cara BARBARA mia cercava. Ella, già fatta Felice sposa di felice amante, Sorger col mattin nuovo, e venir meco Al sacro tempio, e porger voti, e 'l suono Promise udir della mia cetra d' oro. Prima che i caldi raggi in sulla volta Del ritondo tempietto il Sol vibrasse, Sparger seco di fior l' are invocate lo bramava di Giuno, ove sul nuovo Meriggio, tutta avvolta in croceo velo, La vergin suora di mia fida amica Eterno voto proferir dovea. Dell' amica fedel seguendo l' orme (Chè del suo dolce cuor tutti gli affetti, I sensi tutti, ed i pensier conosco) Mirar bramava dall'azzurro cielo Scender, agl' inni d' lmeneo, l' altrice Diva delle beate auree catene. Poichè, se a compier il temuto rito Onde invocar la vereconda Dea Di due giovani cuor propizia ai nodi Vien fortunata sposa accesa il seno Di mutuo ardor, sovr' alla mistic' ara Viva fiammella sorge; a'cari voti Fama è che sempre sovra questo lido Ridente in volto la sublime Giuno Scenda seguita dai soavi Amori, Dalle vergini Grazie, e vengan seco Fecondità, concordia, e'l pudor vero, E la vezzosa Viriplaca, e i cari Suasivi modi, e'l placido consiglio, E la velata il crine austera fede. Non apparia la dolce scorta, e l'Alba Del venticell sulle mobil' ale Si librava fuggendo. Io sola e mesta, Presa la via del tempio, indietro l'occhio Volgendo avidamente: Oh! sì, dicea, L'ora è pur questa. Ahimè, se più si tarda, Non troverà la vereconda sposa Sull' ara d' Imeneo le da me colte Idalie rose, e non vedrà sospesa La conscia cetra alle colonne antiche Del tempietto fatal. Amica, ah! dove, Dolce amica, ove sei? Forse alla saggia Madre seduta a fianco il fortunato Pianto d'amor le tergi, e le rammenti Le sparse cure, che nei vostri cuori, Prole beata, eterna fiamma accesa Hauno d' affetto, e lei nomare esempio Fan delle madri? O forse, alle ridenti Germane unita, e fiori e veii e gemme Eutro la stanza nuziale a cento Vagamente disponi?…e forse…oh certo! La tua CAMILLA e 'l giovanetto suo CESARE accogli… o forse… oh certo! è teco Di CESARE la madre. Oh lei beata D'egregio figlio genitrice amica, Conforto, speme e guida! Oh te beata Vergine d' alma pura e di rosato Eburneo volto, che nomarla dei Verace madre!… Oh Dio! non viene ancora BARBARA mia…trascorsa è l' ora…è questa L' ara fatal. Ah! dunque sola e mesta Scioglierò l' inno sulla cetra; il suono Ella n' udrè, e la promessa antica Rammenterassi, e verrà meco al tempio. In un cespo di fiori Io mi sedea cantando, E la mia cetra d'ôr stava negletta. Udendo i vispî Amori Mia dolce canzonetta, Sen givano danzande, Stretti per mano in sulla verde erbetta; Socchiuse l'ali, e non curando il volo, Avean gettato al suolo La mezzo spenta face, E al lor danzar stavano l'alme in pace. Al canto lusiughiero, Vidi tra fronda e fronda, Che ondeggiava pel ciel foglia di rosa: Il bel cocchio leggiero Farfalletta vezzosa Guidava sulla sponda, E dentro vi sedeva un Nume arciero; Ma picciol sì, che il carro, il corridore, E il Nume guidatore Star si potean fra corda e corda aurata Della candida cetra inghirlandata. Qualora il picciol Dio Impicciolito tanto Mirai sospeso per la mobil etra, Certo, costui, diss' io, Smarrita la faretra, Fugge il materno pianto, E vuol celarsi nell' eburnea cetra. Chiede scherzoso canto e riso e gioco Di giovinzza il fuoco. Ben venga il Dio! s'aggira Fuoco novel nella commossa lira: Ben venga! O sposi amanti, V'aspetta il tempio, e l' ora Giunta è nel ciel del sospirato nodo: Giovinetti costanti, Amor in dolce modo Lo stral felice mollemente indora. Su questa cetra, ove ei s'ascose, il lodo; Chè non più cieco balbettante Nume Veste l' arco e le piume, Ma in vestro amante cuore Fonte d' ogni virtù s'è fatto Amore. Naeque l'alma sul cielo, Bella qual rosa intatta, Fortunata qual Nume; irrequieta Ella dal seggio tratta Scese per via segreta A vagheggiare il suo terreno velo, E s' accese di fiamma immensa e lieta Sì, che scordossi la stellata reggia Ch' al suo nascere albeggia, E in terra stette neghittosa, umìle, Finchè un Nume le diè carro gentile. È questo il carro, è questo, Che impieciolito tanto Or va sospeso pel ceruleo vuoto; Ma 'l guidava funesto Corsier pel lido ignoto. L' anima stretta nel terreno ammanto, Ebbra di desianza, in folle voto Cià ma frenava il corridor superbo; Nel camminar acerbo Precipitando gía, Misera auriga dall' eterca via. Allor le Muse floride Sorsero dalla stanza Del fiammeggiante sole in oriente; Scosser le chiome roride, Ed ingemmaro un bel sentier ridente; Tolsero all' alma la fatal baldanza Coll' armonia del canto onnipossente: Sì che un dolce sentier, chiusa nel vele, Seguir può l' alma in cielo; Sentier dolce segnato Dall' alte Muse sovra 'l plettro aurato. Per queí sentier la benda Non ha sulle pupille Il Nume tessitor d' auree catene; Nè avvien, che a schivo prenda L' immutabil Imene. Segnon vergini Grazie a mille a mille; Colle sante fatidiche Camene Segue il felice carro, agl' inni usata, Fecondità beata; E dall aonio speco, Maggior d' ogni altro ben, Pace vien seco. A meritarsi impara Il bel nome di padre, Se colle Muse in sulle eteree porte Segue il giovane spirto eletta e chiara L' unica via d' un' immovibil sorte. La verginella, fatta sposa e madre E speme e vita di fedel consorte, Fuggir non vede col mutato viso La gioja ed il sorriso; E sin nell' ore estreme Seguon le vie del ciel gli spirti insieme. Tacqui, ed a me d' intorno Molle danza ritonda Ricominciaro gli Amorin festosi. Sorgeva allegro giorno Da sovra i poggi verdi e rugiadosi; E già tra fronda e fronda Venne il bel carro, e si posar nascosi Nella mia cetra il carro, il corridore, E'l Nume guidatore; Ond' io sclamai: Santo Imeneo, discendi, E la face d' Amore in ciel riprendi! Già l' alba verginella Sorge rosata e bella; Sbuccia sul fresco margine D' april ridente il fior. L' ora felice è questa; Vieui, chi più t' arresta? Scuopri la face vivida, Che in ciel ti diede Amor. Usa è la conscia cetra A richiamar per l' etra Il tuo, bel Nume armonico, Dolcissimo fulgor; E le divine Muse A riaccender use Sono la face vivida, Che in ciel ti diede Amor. Spiega l' argentee piume, O fortunato Nume, Tu, che ridesti i palpiti D' un innocente cuor. Un candido sorriso Sta di CAMILLA in viso; L' arde la face vivida, Che in ciel ti diede Amor. Di CESARE nel petto Un fortunato affetto Acceso ha quel dolcissimo Suo giovanil rossor. O santo Imen, discendi; O santo Imen, riprendi L' arco e la face vivida, Che in ciel ti diede Amor. Perchè fugge or dalla cetra Il bel Nume lusinghiero? E nel volo suo leggiero Perchè scorda la faretra, Mentre fan danza ritonda Gli Amorini sulla sponda? Se scordossi Amor lo strale, La faretra, o Verginella, La faretra sua fatale La vuoi tu? la vedi? è quella. Tu la vibra: eterno ardore Scenda a CESARE nel cuore; E faran danza ritonda Gli Amorini sulla sponda. Io sì diceva, e, nuovamente intorno Due volte rivolgendo il mesto sguardo, BARBARA mia non vidi: allor mi cadde Dalla mano tremante infra l' erbetta La nuziale cetra; a nembo a nembo Sparsi di rose il tempio ed il sentiero, Per cui salir dovea la cara e sola Ed aspettata invan vita dell' alma; Di ghirlandella ornai l' ara, ed in alto La cetra, ancora armoniosa voce Spirante, appesi alle colonne antiche. Così quando fia stretto il sacro nodo Di CESARE e CAMILLA, e all' apparire Di Giunone superba intorno intorno Spiri immortale ambrosia il susurrante Aer di primavera, udrà la cara BARBARA mia suonar fra l' aurce corde Scosse dal venticel, l' ultime voci Dell' ultimo soave inno ch' io sciolgo Ad Imeneo, riproduttore e vita Delle animate cose; udrà la cetra, Scossa dal lento sospirar dell' aura, Dar agl' inni d'Imene ultimo addio. Oh! d' onde scende l' aura lusinghiera, Che dolce dolce mi sospira intorno? M' inganno? o non è quella aura primiera, Che un tempo fe' sull' arpa mia soggiorno? Col raggio mattutin di primavera, Coll' erbette e le rose or fa ritorno; E, al suo grato aleggiar, nell' aurea cetra Un estro soavissimo penetra. Estro immortale, ti sent' io nel petto: Or chi 'n mio sen li desta, estro immortale, Se non la possa d' un egregio affetto Da virtù nato, e a sua gran fonte uguale? Donna, gloria di Felsina ed obbietto Del nostro amor, fu che ti diede l' ale. Ella il volle, ella il chiese, ella in noi fida; Nè puote errar chi mia CLOTILDE ha guida. Vaticinante spirito pudico, Spirto, ch'a lungo profetare aperto Della suora d' Aron lasciò l' antico Sen là di Sina nel fatal deserto, Parlerà ne' mici carmi; e al cenno amico Farò il destin di Felsina scoverto Sì, che del suo pastor lodando gli ostri Il picciol Reno applauda ai carmi nostri. Al cenno amico, estro del ciel, t' invoco; E già tua possa ogni mia fibra investe. Teco in le sfere dell' etereo fuoco Co' piedi io premo i nembi e le tempeste. Oh divo, oh magno, oh venerando loco! Chi mi fu guida? e quai stanze son queste? Angioli, o voi, che già sciogliete i canti, Ditemi, dove son, Angioli amanti? Ah! non è questa l' increata e prima Stanza, u' posa l' Eterno eternamente? Il Sol, ch' imparte luce ad ogni clima, Volge in la man d' Iddio sull' asse ardente: Ei nella parte eccelsa, ed ei nell' ima, Tocca il meriggio, e tocca l' occidente; E sin nel cavo sen trema la terra, Se 'l divin occhio un lampo sol disserra. Ei siede immoto; e tutto muove e gira Intorno intorno del divino soglio. Ei vita e pace con un soffio spira, E preme sotto al piè l' umano orgoglio. Magno nella pietà, magno nell' ira, Libra sdegno ed amor, gioja e cordoglio; Ei fonte d' armonia, con un sorriso, Forma la venustà del Paradiso. Angioli santi, lo conosco, io sono Sull' alta soglia del beato regno: Deh! deh! chi l' arpa d' ôr mi reca in dono? Deh! chi regge il mio fral, debole ingegno? All' estro, che m' invade, io m' abbandono: Vaghi Angioletti, non l' abbiate a sdegno; E tutto tutto, fortunato stuolo, A me d' intorno rivolgete il volo. Una è fra tanti sconosciuta Diva, Che in me sofferma la pupilla bruna, E se ne sta pensosamente schiva Su i gran pensieri, che 'l mio seno aduna. Vergine ignota, se persona viva Tu non isdegni, compi min fortuna; Guidami a lci ch'io cerco in l' alta via, All' antica profetica Maria. La suora di Mosè sull' alto cielo Seder dovrebbe, a' vaticinj avvezza. Se non lo vieta al mio terreno velo La lucid' etra, che d' aromi olezza, Abbia mercè l' ardir, l' amor, lo zelo, E 'l cuor che palpitommi a tua bellezza, Sì ch' io mi possa, verginella pura, D' Amram la figlia rimirar secura. Ma, mentre io parlo, scintillar vivaee Veggo il bell' occhio, c le covvine chiome Ti cinge ispirator raggio fugace: Se non sei dessa, ove trovarla, e come? Sorella di Mosè, l' aer capace Suonar io feci del tuo chiaro nome; Sorella di Mosè, parla, rispondi, Ed ogni sfera il carme tuo secondi. Oh si! canta la Vergine: Novello Aron, rammentati Il rosso mar, che si divise in dui; E loda il santo, il forte, Che di se stesso è gloria, Fatto campion giustissimo; Egli al cavallo, al cavalier diè morte, In rapida vittoria Gli empi uccidendo con gli strali sui. Toccò il superbo un vindice Sguardo, ed il mar rinchiusesi Ov' Israello a nudo piè varcò. Tu gli chiudesti l' onda: Chi, mio Signor, t' uguaglia, Tra gl' invitti invittissimo? Io li mirai dalla tranquilla sponda; E nella rea battaglia Un nemico de' tuoi non si salvò. Sempre così sul perfido Nimico tuo racchiudasi Il mar, di cui sei domatore e re; E al tuo retaggio passi Il popol tuo fedele Col guidator suo provvido, Mentre sommerso in l' imo fondo stassi L' oppressor d' Israele, Ch' ardito venne a contrastar con te. Al guidator de' popoli Segni il sentier difficile Nel deserto e nel mar la tua pietà. Duce all' antico Aronne, Fatti al novello duce. Io per lui sciolgo il cantico; Prega per lui l' universal Sionne: Vedi qual lo conduce Senno canuto in giovanil età. Grato al tuo cor dimostrasi Il nuovo Aronne ; e piaccionti L' olio e la mirra, onde sacrato fu, E del ruscello il flutto In cui Mosè lavollo, E 'l pan ch' ei t' offre, e 'l triplice Gran sacrificio al suo gran fin condutte, E quella, ond' anzi armollo Il tuo voler, altissima virtù. Oh! senza macchia avanzati, Speme de' molti, ed offransi Cento olocausti al tuo divin Signor: I rei lava col sangue Delle vittime, e puri Ardi gl' incensi; avvivisi A tua virtù l' altrui virtù che langue, Ed il tuo viver duri Quanto il brama di Felsina l' amor. I sacri fogli serbane: Ivi la legge chiudesi Di chi strinseti in lega ai voler suoi. E tu la veste negra, Felsina, cangia in ostri; E 'l rosso mar rammentiti Che la fede partì quell' onda integra, E che in gli ondosi chiostri Duce impavido guida i passi tuoi. Io pur, io pure offendere Un dì potei l' Altissimo; E grave affanno il peccar mio punì. Piansi l' ardimentoso Error del labbro mio: Quel, che il popolo udivami Chiamar ingiusto, allor chiamai pietoso; E, rediviva in Dio, Fede col pianto il chiuso ciel m' aprì. Cittate, ouor d' Italia, Qual don maggior potrebbeti Far l' increato provvido voler? Suona nel vasto cielo Del nuovo Aron la lode, E gli Angioletti intessongli D' ostro e di fiori porporino velo: Confida! in ciel non s' ode Carme ch' adorni, o che trasmuti il ver. Segue Maria, rosa d' eterno aprile, E ancor risuona il labbro suo vermiglio; Ma or qual può labbro, al labbro suo simile, Ridir suo canto nel terreno esiglio? Ahi! che 'l ciel mi furò nebbia sottile; Stanca è la voce, ed abbagliato il ciglio! E stanca voce in su terrena plaga Non mia CLOTILDE, e non me stessa appaga.

Non lo conobbe il mondo mentre l' ebbe;
Lo conobb'io, ch' a piangerlo rimasi.

PETRARCA.

Me dell' oprar degli empi Sospirosa pittrice Udite, o genti della età ventura. Io non più siedo sulle patrie mura Al suol cadute; degli antichi tempi Gli archi più non mi fanno ombra e sostegno; Ma, sciolto il crine, e senza cetra, vegno La sacra a respirar aura infelice. Qui fu la patria mia; qui fui narrando, Quasi larva notturna in scena oscura, Fra 'l dolor, la vergogna e l' alto sdegno Rapid' orme segnando. Età venture, deh! piangete a questa Mia canzone funesta. Sorga da sua rovina, Ed oda a' figli suoi Qual don dell' inno eternator facemmo, Dell' inospiti pietre alta reina Dov' Eridano ed io la culla avemmo, Saluzzo mia, mentre d' intorno a noi Fremono i sassi ed i montani venti, E dalla antica sua gran torre alpina Sporgonsi fuori e gridano gli spenti, Me conoscendo lor poeta antico, Vergin di lode, che non sia verace; Sicchè ogni Ombra fugace Grida: Venture età, piangete a questa Sua canzone funesta! Voi con il bianco velo Lente lente venite Sovra la patria torre, Ombre famose. Ritorna il patrio vate alle sassose Vette, or che all' autunnal nebbia del cielo La patria giace nel profondo sonno, Ed obbietti lontan fermar non ponno Gli occhi e le voci, dagli spenti udite. Appiè di queste mura rovinose lo canto l' inno fra gli alpini sassi, Che gl' italici cuori udir non vonno. Son elmi e scudi rovesciati e bassi, E le trascorse età piangono a questa Mia canzone funesta. Saluzzo è d' alte pietre Fatto rovina, e seco, Oh vergogna! oh terror! tutto è rovina. Il Po qui sorge; ma città latina, Ch' ora non danzi al suon di molli cetre E non si cinga di lascivi fiori Infra gallici amori, Egli non vede dal selvaggio speco Giù giù correndo nell' adriaco mare. L' inospite Saluzzo a noi vicina, Men rea dell' altre tra i perduti onori, Almen serva, qual è, negletta appare; Ma l' altre, no, non piangeranno a questa Mia canzone funesta. Qui l' ellera serpeggia Fra le pietre merlate; E gufi, nunzj che sen muore il giorno, Cantan funesti nel fatal soggiorno, Già de' due Lodovici avita reggia; E nelle mute sale, ove si stette A meditar vendette Un tradito fratello in altr' etate * La guerra civile ebbe luogo in Saluzzo nel 1323 tra Federico e Manfredi V, figli del M˙ Manfredi IV, e finì nell' anno 1341, il 14 aprile; il M˙ Tommaso II, figlio del già morto Federico, essendo stato fatto prigioniere da suo Zio Manfredi, che entrò nella città di Saluzzo, l'abbruciò, e fece rovinare l' antico castello., Passan fischiando l' Euro ed i colubri, L' immondo cibo ricercando intorno. Qui del fulmin saette Colpirono gli altissimi delubri; E l' aura, i sassi, il suol piangono a questa Mia canzone funesta. Del Sol, che cade in torbida Nube, fra' monti dell' alpina terra, L' estremo raggio scopremi Rotta la torre della patria guerra. Io nelle stanze armigere Pel dubbio varco già ripongo il piede; E un trovatore, insolito Nelle corti d' Amor, la torre or vede. A voi, degli avi spiriti, Qui senza cetra, degli spenti a lato, Dirò qual han gl' ingenui Cuori non compri lagrimevol fato. Mirate! giunge in torbido Cielo la notte, ed è la nube oscura: Sul rovinoso margine Io trarvi vuo' delle paterne mura. Io, trovatore insolito, Pec la rapida via starovvi innante; Chè feral canto mormora Il chiuso labbro fra l' oscure piante. Il lento carme guidavi In mezzo al monte dal castello avito. Solo il fanciul, che destasi, Muto e tremante ne segnò col dito; Chè i bianchi veli funebri, I cimieri splendenti in notte bruna, Il non segnar su polvere Traccia, al chiaror di vacillante luna, Ei vede, e grida, e sorgere Ei fa la madre dalle patrie grotte. Ella ne scopre, e celasi: Noi scendiam, fra terror, silenzio e notte, Dietro que' sassi, giù dai prischi secoli Or rovinati nel tranquillo fiume. Piegate i rami, folte querce ombrifere, Prive di lume. Aman gli spenti la solinga e tacita Strada: al sordo fischiar di chiuso vento, Io qui con lor cerco rovine e tenebre; L' ingegno è spento. Io, nell' alto castello, e degl' impavidi Duci consorte e madre, in largo ammanto Tra vaste sale avrei saputo sciogliere L' eterno canto: Chè ben fra gli odj, fra le pugne e i perfidi Agguati, e in cruda gelosia d' amore, E tra ferrate mura, il canto sciogliere Può nobil cuore; Ma in molli veli, tra la molle ausonica Sorte, Amor solo è guidator di carmi; Nè Amor nacqui a cantar, ma gloria, patria, Guerrieri ed armi. Meglio è sorger, pugnar, cader, risorgere; Nè Italia il sa: meglio saria l' orrendo Ultino fato, che portar l' estraneo Giogo tacendo. A voi solo lo narro, o spirti altissimi: Mentre scendiam per l'erta a mezzo il monte, A voi soli lo narro; e poscia tacciomi, China la fronte. Giunta a mezzo è la notte: or tutte incurvansi, Quasi in selva druidica fatale, Le querce antiche; piange il veltro, ed ulula Il suon ferale. Deh nol credete, generosi spiriti! Trarvi non volli dall' antico ostello, Onde farvi cangiar in danze e cantici Elmo e castello. Di voi, ch' or va l' età chiamando barbari, Pochi son degni di veder l' aspetto. Armi ed ingegno ad ammirar non traggovi, Tra mesto affetto. Ma, se possenti a trar gli spenti lagrime Veraci sono, più che 'l carme assai, Io tutto posso; da più lune, chi misera! Non tersi i rai. Io tutto posso: vi trarrò sul feretro, Ch' ignoto è quasi sulla patria balza. Dicon, che lungi egli non è, le angoscie Del cuor che balza. Mutò la sorte, non mutaron l' anime: lo da voi nacqui, e qui mi giace il padre, Di caor, d' ingegno eccelso; ei pari diedemi Spartana madre. Del di lei latte abbeverata, crebbemi Degna, e mel sento, della nobil cuna. Sparsero il sangue i miei fratelli; io vincere Seppi fortuna. Niun tra' viventi, ch' un di noi non siasi, Mi seguirà: quest' è l' avello, e 'l loco. Niun tra' viventi m' ode: in cerchio statevi, Ombre che invoco. O nobil padre! qui l' estremo a compiere Voto, qui vegno; tu la figlia aspetta. O nobil padre! fui, si fui, rammentalo, La tua diletta. Spirti degli avi, qui 'l primiero giacesi Che allo scabro saver schiuse la via; Ei che al Liceo primier, del Po sul margine, Le soglie apria. D' ignota a voi distruggitrice polvere, Di fiamme spente dall' aer rinchiuso, D' aria, che vita ai corpi serba, ei segnane La fonte e l' uso * Vedi Memorie dell' Accademia di Torino, Memorie della Società Italiana.. Ma che vi narro? nei passati secoli, Più del savere il petto era sublime. Immenso fu 'l saver; dal suo cuor nacquero Le glorie prime. Tutto in lui vinse carità di patria. Tamigi e Sprea ** Il Conte Saluzzo fu chiamato presso di loro da molti Principi stranieri, fra i quali il gran Federico re di Prussia, che fece tradurre in tedesco alcune opere di lui. gli offriro eletti giorni: Invan; qui cadde. E pur quel giorno immemore Fia che ritorni. Chè ahi! qui tomba negletta, o tomba aspettavi, Ingegni subalpini, in strania riva. Cigna, La Grangia * Cigna e La Grangia furono con il Conte Saluzzo fondatori dell' Accademia di Torino., Alfieri, ahi qual ricoprevi Pietra nativa! Ombre, baciate quel negletto feretro. Sappia l' età, che in l' avvenire stassi: Qui chiuso è 'l Grande, ed ignorati il coprono I patrii sassi. Visse in età di niuna fama italica. De' Proconsoli appiè van gl' inni alati, E, resi eterni lodatori, tacciono Gl' itali fati. Metton pietoso un grido Gli avi, e van lentamente La via prendendo dell' antica torre; Ed, al mio dir, un largo pianto scorre Dagli occhi muti. Il rovinoso lido Suona del sospirar profondo e rotto; Giù dal monte dirotto Un suon d' affanno risonar si sente Entro la valle del nascente fiume. Or, s' anco Italia fra' suoi rei consigli Ai generosi figli Niega una tomba, chi 'l potrà disciorre Il giogo, dove è 'l valor suo condotto? Pianto, non sangue, l' eridanie spume Volvono in suon di morte, udendo questa Mia canzone funesta. Ecco le pietre antiche, La torre rovinosa ed il sentiero. Della luna, che cade, al raggio estremo, Vedo 'l merlo supremo, Che sorge solo nell' età nemiche. Funèbre estremo sguardo Volgoumi l' Ombre dal fatal cimiero. Oh venga il di, che sulla rocca bruna Invan cerchi Fortuna Me spirito di vita ignudo e scemo! Fra quegli avi starommi, e verrà tardo Il comun pianto al padre eccelso mio. Ombre chiuse in maguanime loriche, Per breve etate, addio! Sin ch' io rieda fra voi, serbate questa Alle venture età canzon funesta.

Ah! più dei colti carmi
Il mio facciavi onor perpetuo pianto.

te Ab. PELLEGRINI

Feral cipresso, che la pallid' ombra Sovra l' arido suol lugùbre mandi, Da speranza fatal la mente sgombra E dai sogui volgari e miscrandi, La cetra ai rami, onde la via s' ingombra, Appendo qui, dove tenèbre spandi; Ne cantar più s' udrà la cetra antica Della mia gioventù l' ultima amica. Lo giuro a te, lugùbre irto cipresso, Se pria che notte di vecchiezza arrivi Non m' uccide quel duolo, ond' egro oppresso Langue lo spirto, e scorre il pianto a rivi; Lo giuro a te per questo pianto istesso, Ne' lunghi giorni di lor gioja privi, In ogni don della fugace sorte, Mirando a meta, mirerò la morte. Feral cipresso, un fremito funebre Scuote le tue fronzute altere cime; Fremon del sen nell' ultime latebre Così le mie dolci speranze e prime. Il Sol discende giù per l' aure crebre; Si spengono così le meste rime, E suona lento il gelido mio canto In lamentevol suon d' amaro pianto. Feral cipresso, il sai, ch' io, sorta appena Dal sen materno, amor non dubbio e cieco Trovai fra soavissima catena Con due bambine, che nacquero meco. Fanciullezza fuggia lieta e serena; Le cresciute fanciulle ahi! sparver seco: Onde sol mi rimase, e 'l cuor sa come, Di GIOSEFFINA e d' ENRICHETTA il nome * Gioseffina Provana, Marchesa Ripa ci Meana, ed Enrichetta Tapparelli, Contessa Balbo.. Lauro nascente il crin stringeva; il giorne Primo dell' imeneo m' era davante; E quel soave amor fece ritorno Di CAROLA nell'alma e nel sembiante ** Carola Duchi, Marchesa Alfieri.. Il riconobbi a quel d'affetti adorno Dir non mendace, ed all'oprar costante: Ei gioventù dolce mi fea; ma spento Entro la tomba fu sogno e momento. Minor sol una mi rimase in terra D' etate a me; di senno era maggiore. Ella mi terse il lagrimar, la guerra De'vani affetti mi quetò nel cuore. L'ammanto vedovil, che 'l petto serra, No, mai non mi balzò d'un altro amore: Passò tra'l palpitar d'un'alma ardente La solitaria mia vita innocente. Ahi! sola or qui rimango: e pur io crebbi In questo suolo, e per amar qui vissi; E, se a me stessa un tempo ah! non increbbi, Se'l patrio suono di mia cetra udissi, Fu perchè l'estro avvivatore accrebbi Con gli affetti, di cui paga mi dissi. Straniera gloria io non cercai; ma, privo Di vita il cuore, or per chi canto e vivo? È spento il padre; egli verace scorta Della mia fama, che mal sorge ancora. Fu breve l'imenco: la speme è morta D'amor materno; e sarò sola ognora. Niun sognato avvenir l' età mi apporta; Morrò; nè pianto spargerassi allora; E lietamente scioglierassi l'alma Da quel deserto, ove non ho più calma. Feral cipresso, quante volte, oh quante, Sedendo sotto l' ombra estiva e folta, Segreto palpitare ahi! l'alma amante Balzar mi fece, pel terror seonvolta! BARBARA fermerà qui'l passo errante, Io mi diceva all'ombra tua rivolta; Qui piangerammi, e forse, acerba speme! Quì l'ossa nostre giaceranno insieme. Udisti il voto, arbor funesto, e solo Or un ferètro ed una salma copri: Udisti il voto, ed or non odi il duolo, Ed a celar la tomba invan t'adopri. Sgombrate, ispidi bronchi, il duro suolo; Fatal cipresso, la mia tomba scuopri: Qui cerco pace, e tu non mi vedrai Volgere a vista meno acerba i rai BARBARA, oh mio conforto! oh tu già mia, Sin che'l Ciel nol vietò, speranza e gioja! Quasi in la stessa tua cuna vagia Quest'infelice, a cui la luce è noja. Mia vita di tre sole està fioria, Quando nascesti; ed or non fia ch'io moja? Perchè sonno di morte ahi! non coverse Gli occhi miei, quando un ferro il sen t'aperse? Sorgeva l'alba, ed a te duolo acerbo Acutamente lacerava il seno; Eppure Amor, del tuo destin superbo, Presso a quel letticciuol stava sereno. Vezzi ei teneva e dolci grazie in serbo Pel tuo bambino, già di vita pieno; Oh rimembranza! su mia fronte smorta S'alzàr le chiome, ed Amor disse: È morta! Terribil ferro dalla cara spoglia Il figlio trasse; il respir suo fu poco. Oh vista! oh duolo! o voi, che Imene invoglia, Vi soffermate nel terribil loco. Sebben, che dico? ah! come arida foglia Pera la cetra, e la distrugga il fuoco! Ah! per voler d'un Dio giusto e iremendo Te'l ferro uccise, e'l figlio tuo nascendo. Fedele amica, per quel guardo estremo, Ch'estremo, eterno rende il mio dolore; Per quell'istante, onde ancor gelo e tremo, Ov'io ti vidi di te stessa fuore; Per quel, che pose in noi l'Ente supremo Scambievol, dolce, illuminato amore, Rieevi ultimo bacio, ed alle antiche Deh! reca un bacio mie fedeli amiche. Vedi: già'l labbro mio tremante tocca _ L'arido sasso, che ti chiude e copre; Giunga il mio bacio alla tua fredda becca Nel mondo ignoto d'alti sensi e d'opre. Ma deh! qual fiamma dalla bruna rocca S'alza rapidamente e'l cicl ricopre? Piega il cipresso sibilando, e parmi Che ondeggin sotto alle mie labbra i marmi. Giunse quel bacio mio, giunse agli spenti Col suon pietoso del mio canto estremo. BARBARA, a lor ripeti ah! que'lamenti, Ond'io dipinsi il destin vuoto e scemo; Narra le lunghe veglie, i vani accenti Su quel del Pindo mio giogo supremo: Chè, spento ogni altro amore, ogni altra brama, È spento in me sin il desio di fama. Narra alle amiche, che al pensier mio, vôlto Ur tempo alla speranza, al canto, al riso, Il lusingar di gioventù vien tolto, Sì che I'alma invecchiò prima del viso. In bruno ammanto, non più detto ascolte D'un cuor che m'ami, e non vedo un sorriso; Gioventù senza gioja, inutil cetra Chiudo al scttimo lustro in fredda pietra. Tu nell'ignoto mondo al mio buon padre Narra che a piè d'un funebre cipresso Io traggo l'ore abbandonate ed adre, Ed è l'ingegno mio vinto e depresso; Di'che, lunge i fratelli, io colla madre Non starei della tomba in sull'ingresso, E m'avria spento il duolo acerbo e fiero, Se partir non dovessi il duol suo vero. La muta solitudine crescente, Ov'io men vivo fra speranza estinta, In patria non curante, e da ridente Età per gli anni già fuori sospinta, Non è la gloria ad addolcir possente. La mente ardita dal mio cuore è vinta; Ultima amica mia fedel, ben puoi Dir: Ella tutta pur morì con noi.
Auretta di maggio, che'l faggio scuotendo Ne'lenti tuoi giri sospiri piangendo, Men lieve ti renda Mio canto d'amor. O luna ridente, sorgente dal monte, Tra nubi ti vela, ti cela la fronte; Men chiara ti renda Mio canto d'amor. O rivo, che passi tra sassi leggiero, Cantante Augellino, vicino al sentiero, Voi taciti renda Mio canto d'amor; E, mentre tacete, quiete pietosa Il mondo riceva, poich'Eva riposa; E il sonno le renda Mio canto d'amor.

Ne'soavissimi giorni, in cui rinascono i venticelli e le rose, in chiara e steliata notte di maggio, che giugnea tacita alla metà del suo corso, così dolcemente cantava la più vereconda tra le figlie di Set, la bionda Mirza: clla vegliava sola nel mondo tutto, che da una sola famiglia, ma già divisa dalla colpa, veniva occupato; stava sedendo sotto i pieghevoli tralci di un'ellera, che giù serpeggiando incurvata chiudea colle verdi foglie la grotta regia, la grotta nuziale d'Adamo. Un bianco raggio di luna rifletteasi nelle svolazzanti anella del crine, e negli occhi azzurri della bellissima vergine: al finire dell'armonioso suo canto, le frondi lievemente scosse si aprirono, e la prima sposa, la prima madre, la prima misera fra le donne, Eva comparve. Eva, che un tempo rapìva colla maravigliosa bellezza i puri Angioletti del paradiso terreno; Eva, vezzosa immagine della maestosa immagine d'Iddio; Eva comparve: ma lauguida insanabilmente, vacillante, incurvata, facendosi colla mano puntello sul margine ignu do della rupe, co'bianchi capelli giù cadenti per gli omerì, e portando dipinti sulla fronte rugosa e pallida i pensieri dell'amara sua vita. Oh! proruppe ella, a stento traendo fuori dell'affannato suo petto le non libere voci, oh figlia del figlio mio! non t'inganni il tuo giovane cuore ripieno di care e fallaci speranze: più non v'è sonno per me; scorre gelido il sangue nell'egre irrigidite membra; io bevo tutt'ora freddissima l'aura; manca la vivace lena al palpitante cuore. Io veglio.…sì, io veglio.… Volea più dire; ma l'amorosa vergine già la stringea vivacemente fra le rosee braccia, e bevea col labbro, miste alle proprie lagrime, le lagrime dell'infelice vecchierella. Io fui la prima colpevole, riprese lentamente Eva; io guidai sulla terra il delitto, e la morte… la morte!… e pur sin ora altra morte non vidi, fuorchè quella del mio tradito Abele: egli colà presso al fonte, che giù precipita tra le altissime pietre, grondava sangue dalle tempie; sangue stillavano i bruni capelli. Non piangere, Mirza; Mirza, in mille maniere, cred'io, puonsi spegnere gli angosciosi giorni: guidami, tra pietra c pietra del monte, sino alla sponda fatale di quel fiumicello; forse mi son io vicina ad un sonno, che non verrà turbato giammai. Qui pose la fredda mano sul braccio di Mirza tremante, e, costeggiando con grave passo le falde del monte, compita aveva già quasi la breve strada.

Giù dal monte precipitavasi un rivolo, che rompeasi in argentini spruzzi sovra le minute erbette, ed ingemmava cadendo una fresca siepe di rose, piantata ne'primi giorni della fiorente primavera del mondo; questa siepe, dolce cura di Eva in ogni età, cingeva un semplice altare edificato con un mezzo tronco di palma, colpito altre volte dal fuoco celeste: il praticello, il rivolo, i fiori, il tronco privo di foglie, erano consacrati sin dalla creazione dell'uomo al Signore de'viventi. Qui un tempo Abele cadde vittima del fraterno livore, mentre offeriva la prima nata fra le lattanti agnelle; e qui appiè dell'altare giaceva egli, sacra immagine di una vittima divina.

La bianca luna era alta nel mezzo del cielo; e, benchè un'aura nascente, che dall'Occaso sorgea, avesse raunate d'intorno alcune nuvolette, pure scopertamente vedevansi tutti gli oggetti. Vide Mirza che vicino al sacro tronco, sulla tomba muscosa d'Abele stavasi prostrato il vecchio e piangente Adamo; e tosto: Ritorniamo, o madre, deh! ritorniamo alla tha grotta! non vedi le nuvolette che si addensano, e s'oscurano? oh! vedi, vedi il lampo nel bruno Occidente. E dicendo via via strascinava la misera, che piombata nel profondo, cupo, immenso dolore, col capo inchino verso il suolo camminava: ma un lampo rapidamente strisciò, e ferì la moribonda pupilla di Eva. Chi mai, chi stassi? diss'ella, alzando l'occhio annebbiato: chi stassi colà giù? non è egli Adamo? O Adamo! cadente, solo, abbandonato dalla più cara parte di te stesso, chi tergerà le tue lagrime? chi dividerà gli affanni de'tuoi fatali momenti? a chi, oh Dio! a chi narrerai la gioja de' trascorsi momenti già troppo felici? Tu spargi voti per me nel silenzio della notte: io voglio udire que' voti; voglio udire quella voce, che sempre scosse dolcemente l'anima mia. Deh! non ritormi, o figlia, così dolorosa, ma desiderata vista; io qui vuo' rimanermi: l' onnipossente Iddio, che a lui disse, Ecco l'ossa dell'ossa tue, che disse a me, Sventurata! ecco il tuo Signore, Iddio ne legò insieme sulla terra; uom non ne dividerà in terra giammai.

Eva seguir volle il cammino, sciogliendosi dalle braccia di Mirza; ma le vacillò il piede, s'oscurarono le laci, s'irrigidirono le deboli membra, e cadde svenuta presso alla tomba d'Abelc.

Al sibilo del vento notturno, che incurvava passando la cima degli alteri cipressi, e mugghiava rinschiuso tra le caverne del monte, allo scoppiare de'terribili fulmini frammischiavasi funestamente il profondo singhiozzare d'Adamo: sedeva egli sull'umido muschio tra le pallide viole, ond'era sparsa la tomba; reggeva colla sinistra mano la scolorita fronte di Eva, colla destra allontanava gli steli pungenti e l' acute erbette, che lei prostesa al suolo poteano offendere; e mentre la pietosa Mirza, incurvandosi, colle due mani, e col soffio della rosea bocca le riscaldava ora le gelide piante, ed ora il languente viso, alfine Adamo così: Deh! la più bella fra le opere create, destati! Adamo, Adamo t'appella: ah dal momento in cui, purissima vergine, mi volgesti la prima volta il ridente tuo aguardo, sempre sempre rispondesti alla voce mia; ed ora (quanto diversa da te stessa!) non odi la voce d'Adamo? Allora si scosse lievemente Eva, e, su su levando la pallida fronte, con fiochetta voce susurrò: Toglimi, figlia, toglimi queste ciocche di crine, che mi cadono su gli occhi; io vuo' vedere ancora una volta Adamo. Ah! si, lo ravviso. O mio signore, o mio sposo, or vedi in me, che cosa siano la vecehiezza e la morte? Oh Dio! Adamo, a te pure s'imbianearono, non so come, le anellate chiome, ch' io solea un tempo intrecciarti di fiori; a te pure mancò il bruno e rosato colorito delle gote; a te pure.… la vecchiezza e la morte… Ah! nascondimi, Adamo, mascondimi fra le tua braccia, ond'io non muoja disperatamente d'angoscia. Madre degli uomini, rispose l'addolorato Adamo, madre de'figli miei, qualora noi miseri udimmo la voce minaccevole dell'Angelo punitore, io non era già meno di te colpevole: tu fosti creata incantatrice e bella come la mattutina rosa; ma pieghevole come il verde giunco dei campi; fosti creata al pudico amore, alle soavi cure, ai cari affetti di consorte e di madre: in me stava la tua forza, in me creato alla signoria, ed al consiglio; io dovea vegliare sovra di te, o almeno io dovea serbar me stesso innocente, respingerti dolcemente, ed ottenere il perdono dell'error tuo, colle mie non colpevoli lagrime: s' io 'l feci, Eva, tu il sai! io reo più di te stessa. Io sola, io ti trassi nella colpa, riprese mestamente Eva; e sium puniti entrambi: io morrò la prima fra tutti noi vivi; io ti lascio tradito da un figlio fratricida, orbato di un figlio, tua adorata speranza; ti lascio fra una posterità in gran parte corrotta; ti lascio tra la vecchiezza e la morte. Tu piangi, mio consolatore? ah! salgano al pietoso Cielo le tue lagrime, miste alle lagrime della moribonda tua sposa. Ahimè! che in questa tenebrosa notte, tra quelle negre nuvole accavallate, sta forse sopra il capo mio l'Angiolo della vendetta divina. Oh! come la distruggitrice grandine dirottamente giù cade; come è gelida, ed impetnosa la bufera notturna! Ahimè, qual lampo! come raddoppiasi: ahimè! non vedi il terribile fulmine? ah! egli è caduto laggiù nell'annosa selva, creata, come io, ne'primi giorni del mondo: toglimi di qui, Adamo, io non resisto! ma pria reggimi, sostienmi, ond'io mi prostri l'ultima volta snlla tomba d'Abele. Ah! qualora io gli fui madre, tutte le mie fibre palpitavano pel dolore; ma nulla era quel dolore, che un tuo sguardo ed uu suo vagito racconsolarono: il dolor vero mio fu quando io lo vidi qui immobilmente prosteso; ch'io, o acerbo affanno! ch'io camminava nel suo sangue per giungere alla fredda sua spoglia; ch'io lo copriva di baci, e ad alte grida il chiamava. Allora ei non m'udiva: fra poco io pure non udrò la voce d'Adamo; ma l'anime nostre s'incontreranno sul cielo.—Baciò la tomba, alzossi gravosamente dal suolo, e curvata sul seno d'Adamo lasciossi condurre per la via della grotta.

Un tempo raggianti dalla fronte la maestosa innocenza ed il puro vivacissimo amore, spiranti da'begli occhi il celeste ingegno, e dalle rosate gote la dolce sanità e la vereconda bellezza, camminavano costoro tra gli odorosi arbosclli del paradiso terreno, quasi due giovanette palme, che s'innalzano intrecciando i fioriti rami: ora sull' umida terra tra le aure tempestose camminano; nevosi i capelli, muti gli sguardi, piegate verso il suolo le pallide membra, spirano il pentimento e la cadente distruzione; tanto l' ira terribile e giusta dell' offeso Iddio rendea varia la sorte tra l' uomo innocente, e l' uomo miseramente reo. Era lievemente vermiglio l'Oriente, ed un' aura mattutina diradava le nubi, e ondeggiar faceva olezzando le minute pianticelle del prato; le stille della caduta pioggia imperlavano le frondi, dove i ridestati augellini cantavano l'aurora; al suono di rustiche canne strette insieme dall'arte nascente, e le'tamburini formati colla pelle di capra selvaggia, s' avanzava tutta unita verso la tomba d'Abele la ancor fida famiglia d'Adamo. Mirza, che stavasi a lato di Eva quasi angioletto di pace, riconobbe prima il figlio d'Adamo, il padre suo, Seth; additollo ad Eva, e poscia affettuosamente l'incontrò a camminare, ponendosi fra le giovanette sorelle. Salve, esclamò Adamo, salve, o felice Seth, gioja e desiderio della madre tua; salve, o Eleliela, sposa di Seth, e voi tutti, fratelli e sorelle di Seth e d' Eleliela, voi tutti figli miei. Noi, proruppe Seth, noi offeriremo un sacrificio d'espiazione al Dio di salute e di pace, ond' egli ne renda e ne serbi la madre: tu, o padre delle generazioni nascenti, non vi assisterai? Vedi Enos il figlio mio, che tuttora guida i sacrificj, come altre volte li guidò abele il figlio tuo: vedi la sacra agnella condotta sull'altare, presso la tomba d'Abele. Seguiamoli, Adamo, rispose Eva; ch'io muoja attorniata da'figli nostri sulla tomba del figlio. Giunsero al vicin praticello da pochi momenti abbandonato: Enos accese appiè dell'altare un fuoco purissimo, e strascinò sulla tomba la belante agnelletta. Divisi in due fiorenti cori, da un lato stavano i figli d'Adamo, dall'altro le bellissime figlie; Eva sedè languidamente presso la siepe di rose, ed Enos così cantò, svenando la sacra vittima.

Pria che 'l monte levasse la fronte, Pria che 'l mondo sorgesse fecondo, Pria de' tempi tu fosti, mio Re. Tu pietoso d'un cuore affannoso L'uom mortale tra colpa fatale Richiamasti all'eterno tuo piè. Passan gli anni ricolmi d' affanni; Ma più lievi de' giorni più brevi, Più che veglia di notte non è. Del Dio forte ministra la morte Strugge vita com'erba appassita; Nè v' ha in terra chi pugni per me. Ma, se intanto sul monte suo santo Verrà, nato nel giorno beato, Delle pugne l' altissimo Re; Se il suo sdegno colpisce nel segno, Il Dio forte mi toglie da morte, E il Dio forte la vince per me. Morte ha vinto, ed a morte vien spinto. Che fec'io al popolo mio, Grida il Giusto; mia morte perchè? Su, dal cielo togliete ogni velo; Su, v'aprite, o porte infinite: Egli è'l Giusto, ch'agnello si fe'. Sei figura di sorte ventura; Sorgi, esulta, Abele, ed insulta Alla morte, ch'ei vinse per te. La grand'opra ne'tempi si scopra; Eva, Eva, la fronte solleva: Dio possente sua legge compiè; E la luce, che'l giorno conduce, E 'l momento d' eterno contento Entro a' tempi l' accerta il mio Re.

Egli diceva agitato da sovrumana possanza, mentre ardevano altamente nel puro fuoco le sacre viscere della svenata agnella, tra un silenzio di maraviglia e di rispettosa aspettazione.

Eva sommessamente il profondo silenzio interruppe dicendo: A te sia lode, Dio forte; siano lodi alle tue eterne promesse, riparatore del mio delitto. Sento sin nel profondo dell'anima, che il tuo culto vero è tutto amore. Errai; ma piansi, ma fui mi sera: errai, ma t'amo. Or qui tra il tuo sagrificio, qui in tuo nome io benedico il compagno dell' infelicità mia: tu me lo desti; il primo egli de'miei doveri, il primo degli affetti miei: e voi pure, Seth, Malaliela, Osia, voi tutti nati fra le mie lagrime, io vi benedico in nome dell'Increato. Oh! se mai (Iddio pietoso lo faccia!) se mai il protervo uccisore d'Abele, se il fuggitivo Caino ode in terra la voce d'alcuno di voi, ditegli: La madre lua soguì nella tomba l'innocente Abele; e a te, prima cagione di ogni suo dolore, a te pregò il perdono e la vita. Io vi benedico, ovunque siate nella terra deserta, sposa e prole innocente di un figlio reo. Tu piangi, Adamo? tu piangi? Oh Dio! Adamo! figli! ch'io non veda quell'inutile pianto! io sento quasi un sonno leggiero, che giù inchina le mie palpebre; un tremore inusato mi scuote; mancano le forze. Deh! Mirza, sorella di Enos, e certo sposa a lui destinata dal Cielo, io ti benedico. Vieni; lascia, che io appoggi sul tuo seno la stanca mia fronte. Dio giusto, Dio ottimo, ricevi l'abbattuto smarrito mio spirito. Dove, ah! dove sono?…L'ultima volta…sposo…figlio… ch'io vi oda!… io manco.

Fu così acerbo in quel fatale momento il dolore del primo consorte e della prima famiglia del mondo, che niun altro dolore umano pareggiarlo potè giammai, ne'secoli che seguirono: non mai levossi l'aurora, non mai cadde il sole occidentale, senza che dalla prole infelice venisse runnovato il sacrificio di pace sovra la tomba istessa, ove spenti si erano gli ultimi giorni di Eva, e dov'ella giacea inanimata presso il diletto Abele. Ailorchè il penitente Adamo vegliava solo fra il silenzio della notte su quella tomba, che lui pure aspettava, sovente udì egli il canto soavissimo degii Angeli censolatori; sovente la sacra terra trovavasi al nuovo mattino sparsa di freschissimi fiori da divina mano raccolti, e sovente udì il misero colla vespertina auretta, allorchè egli chiedeva al Cielo l'adempimento delle venture promesse, una voce dolcissimma, quasi la voce la prima volta udita della vergine sposa, che armoniosamente dicea: Spera.

FINE DEL TOMO TERZO.

V˙ ZAVATTERI LL˙ AA˙ Praeses

Se ne permette la stampa.
BESSONE per la Gran Cancelleria.