NEL SOGNO

MATILDE SERAO

NEL SOGNO

FIRENZE, 1897
R. PAGGI - EDITORE
15, Via Tornabuoni, 15

PROPRIETÀ LETTERARIA
dell'Editore Roberto Paggi

Io mi rammento, signore e signori, di un assai vecchio e assai malinconico libro di Carlo Dickens, intitolato I tempi difficili. Emana dalle pagine di questo romanzo dimenticato una di quelle acute e irrimediabili tristezze a cui neppure la indulgente e assolvente silososia dell'autore osa trovare, insine, consolazione: onde colui che legge, piega il capo sull'ultimo foglio e sente salire, dal fondo della sua anima, tutto quanto v'è di segretamente doloroso. Questo romanzo narra, principalmente, la storia di un padre che ha due sigliuoli, un maschio e una femmina, che egli ama molto, ma a cui, per un suo assoluto criterio matematico, egli impartisce una educazione, diretta solo a sviluppare le loro qualità positive, mentre tutte le facoltà fantastiche e poetiche sono, da questo padre, distrutte nello spirito dei suoi sigliuoli. Egli è il nemico dell'immaginazione: la ritiene come una facoltà sconveniente e quasi simile alla follia. Dice, questo Tommaso Gradgrind, tali parole, nella prima pagina dei Tempi difficili: — « Ciò che io voglio, sono dei fatti. Insegnate dei fatti ai giovanetti e alle giovanette, non altro che dei fatti. I fatti sono la sola cosa di cui vi sia bisogno quaggiù. Non piantate altra cosa e sradicate tutto il resto. Non è che coi fatti che si forma lo spirito di un animale che ragiona: il resto non gli servirà mai a nulla. » E, così, i suoi due sigliuoli riescono, per un certo tempo, due perfetti animali ragionanti: l' aridità più profonda e più larga regna in quelle due nature, poichè tutte le piante e i siori e le frutta ne furono sradicati e inceneriti. Tommaso Gradgrind è orgoglioso dell'opera sua. Sua siglia Luisa e suo siglio Tom, a guardarli nell'apparenza, sono due macchine bene oliate che girano e gireranno così, sino all'ora della morte. Ma ad un tratto, l'ingranaggio si ferma; e innanzi agli occhi del padre, prima stupefatto e poi straziato, si leva la sigura desolata e convulsa di sua siglia, che ha accettato di sposare un uomo ricco e tronsio, non amato da lei e che s'innamora di un altro: si eleva la sigura del suo sigliuolo diventato un ipocrita e un vizioso, il quale semina intorno a sè la vergogna e la sventura. E queste due creature delle sue viscere, agitantisi fra il dolore, il disonore e la morte, gridano la maledizione su colui che tolse ai loro cuori tutti i sentimenti di bontà, di tenerezza, di pietà, di poesia, di entusiasmo con cuì si lotta, vincendo e perdendo, nella vita. Essi imprecano contro una educazione che disseccò in essi tutte le fluide sorgenti sentimentali e che li lasciò in balìa di ogni tranello e di ogni seduzione, senza guida morale, senza sostegno della coscienza. Quando Tommaso Gradgrind s'accorge d'aver compiuto un'opera iniqua e scellerata, uccidendo nei suoi sigli la forza che li avrebbe aiutati a vivere, è troppo tardi: invano il padre che fu così duro con sè stesso, coi suoi e con quanti lo circondano, s'intenerisce, si pente, perde la testa: il male è irreparabile. I suoi due figliuoli non troveranno mai più il sentiero che conduce alla quiete e all'affetto: Luisa sarà votata a un'eterna vedovanza, senz'amore, senza sigli, senza dolcezze: Tom partirà per viaggi lontani, a redimersi dei suoi gravi falli e morirà lungi dalla casa paterna, in un ospedale straniero. E intanto, intorno a questa intima e duplice tragedia, altra gente, molto più umile, molto più semplice, procede nella esistenza, soffrendo, è vero, versando tutte le sue lacrime, ma ritrovando, sempre, il sorriso della serenità, il rislesso di una speranza intima, la energia silenziosa per camminare fra i triboli, con gli occhi sissi in un orizzonte dell'anima che nulla velerà giammai.

E non siamo noi, di buona voglia e contro voglia, un poco Tommaso Gradgrind, tutti quanti? Purtroppo, nulla c'inspira più difsidenza che la immaginazione. Se un nostro amico mostra della esaltazione, giusta o ingiusta che sia, per qualunque cosa, noi lo guardiamo con occhio sospettoso e nell'affetto che gli portiamo, non manca un certo sgomento e una certa pietà. Se una nostra amica ha delle qualità di entusiasmo, se ella si trasporta facilmente e arde di zelo, magari per cosa impari al suo ardore, noi cerchiamo ricondurla, ahimè, alla verità quotidiana, le tarpiamo le ali con qualche discorsetto freddo e ripetiamo anche noi, purtroppo, la regola del due e due fanno quattro secondo la quale, pare, tutti dovremmo vivere. Il figlio nostro che più c'inspira tenerezza e più ci dà preoccupazioni, è quello che mostra troppa fantasia nei suoi primi componimenti scolastici, nelle sue prime lettere: noi ci affanniamo del suo avvenire, quasi egli portasse in sè un pericolo permanente e minaccioso. La figliuola che più ci tormenta col suo carattere, è quella che ha delle idee poetiche per la testa e i suoi genitori cercano di far presto a maritarla, per affidare in altre mani la cura di questo singolar morbo che è l'immaginazione. Le frasi che più si sentono ripetere in questo tempo, quali sono? Chi dice: — Siamo serii. — Chi dice: — Siamo pratici. — Chi dice: — Ragioniamo. — Anzi, tutti dicono, anche i pazzi: — Ragioniamo. — Giammai la ragione, la ragione pura, semplice e fredda, trovò tanti adoratori, tanti devoti, tanti ammiratori. Uno dei più grandi elogi che si possa fare, ora, a un uomo, è di dichiararlo, ahimè, pieno di senso comune; e il maggiore elogio che si faccia, ora, a una donna, è di proclamare il suo buon senso. Noi non tentiamo combattere direttamente, come il fatale protaganista del romanzo inglese, la immaginazione: noi non oseremmo mai distruggere completamente in un amico, in un siglio, in un'anima che ci sia cara, le facoltà candide, spontanee, vibranti della fantasia, onde tanta poesia si riversa sull'esistenza; ma noi tremiamo per essi, noi vorremmo che un miracolo, non fatto da noi, impietrasse il loro cuore troppo tenero, spegnesse i colori della loro fantasia e li lasciasse nella vita gelidi, forti, ferrei, senza gioje e senza dolori. Oh quanto la temiamo, noi, la vita, per noi e per quelli che amiamo!

No, giammai la vita inspirò in noi tante inquietudini, tanti sospetti, tanti timori: giammai noi fummo tanto oppressi dal peso dell'esistenza, e giammai lo trovammo così affannato, così duro, così minacciante. La funzione del vivere, pensando, sentendo, agendo, ci sembra un continuo problema da risolvere e l'aver compiuto altre ventiquattr'ore del nostro viaggio, ogni sera, ci dà quasi un senso di sollievo, mentre l'aprir gli occhi alla luce, ogni mattina, ci dà un senso di smarrimento, come se ci misurassimo impotenti a trascorrere la nuova giornata. Ogni passo che noi facciamo, ci sembra arrischiato: ogni fermata ci sembra mortale. Ogni nostro movimento è da noi troppo discusso, troppo vagliato e noi andiamo egualmente dalla inerzia al pentimento, dall'azione al pentimento. Quanto migliaja di generazioni d'uomini trovarono facile e piano, a traverso il tempo, lo spazio, a traverso tutte le più varie condizioni, appare a noi irto di ostacoli, talvolta insormontabili: le più semplici azioni che esseri fatti di sangue e di nervi come noi, compirono spensieratamente, sempre, per secoli e secoli, sembrano a noi talmente difsicili da lasciarci scoraggiati. La scelta di una carriera, l'abbandono del cuore a un amore, un grande viaggio, una novella intrapresa, un matrimonio, un subitaneo cangiamento di cose, d'idee, di consuetudini, c'immergono nelle più amare dubbiezze, ci tolgono ogni equilibrio, spesso ci riducono alla ignavia morale, facendoci rinunziare a risolvere i problemi più incalzanti dell'esistenza. Chi è più spensierato, oramai? Mentre tutte le invenzioni della scienza, tutte le leggi della politica, tutte le manifestazioni dell'arte sono dirette ad appianare le difsicoltà dell'esistenza, ogni giorno di più quest'esistenza pare un orribile nodo gordiano che è impossibile di sciogliere e che niuno è tanto audace da tagliare. Noi non vediamo innanzi a noi che erte montagne da ascendere, mentre deboli sono i nostri polmoni e siacche sono le nostre gambe: non vediamo che deserte pianure da valicare, sotto il sole cocente, pianure senz'acqua e senza oasi, mentre già le nostre fauci son disseccate: noi non vediamo che un mare in tempesta da traversare, mentre già pende in brandelli la vela della nostra nave senza timone. Ma che ci è accaduto, dunque? Com'è che abbiamo dimenticato la scienza della vita? Come va che l'arte del vivere non ci è più nota? Chi ci ha tolto questa scienza e quest'arte? Chi diminuì e sperperò le nostre forze? Chi ha spezzato in noi la molla della nostra energia? Quale mano ha strappato a noi il velo che ci nascondeva la verità e ci ha resi timidi, trepidanti, quasi vili? Chi, chi ha ingrandito, innanzi a noi, la possanza della vita e ha ammiserito la nostra possanza?

È la fredda ragione che tanto fece. È la voce della ragione quella che vi parla, troppo spesso e forse unicamente all'orecchio e che vi dice, gelidamente, quanto voi siate impari all'avversario, nella lunga milizia che è l'esistenza. La fredda ragione v'invita a guardare in voi stessi, a misurarvi, a pesarvi, a calcolarvi; e voi sentite tutta la penuria del vostro vigore, le inevitabili eredità di debolezza che sono nella specie, le miserie del sangue e delle fibre, le limitazioni implacabili che mette la natura e che mette Iddio, le cadute fatali della volontà innanzi agli istinti che non si domano, le strettoie dove l'uomo si agita e che la ragione, la fredda ragione, vi descrive, come la catena del galeotto che si porta sino alla morte. Parla al vostro orecchio la fredda ragione e vi mostra lo spettacolo della vita senza velo, senza aureola, nella sua nuda verità; e voi vedete che siano le vane promesse della gioventù, i fallaci giuramenti della passione, le lusinghe ingannatrici dei trionsi umani, le brevi ed egoistiche gioje dell'età virile, i tornanti amari ricordi della maturità e le tristissime decadenze della vechiaja. Ah essa parla, parla tanto, parla troppo, la ragione, e vi mostra, sì, la via della virtù, ma ve ne dichiara anche tutte le spine pungenti, tutte le asprezze dolorose, tutte le privazioni inenarrabili e, questa via lunga, ve la fa vedere senza poesia, senz'attrazione, senza fascino, attossicante alla bocca e al cuore come l'assenzio, senza altre consolazioni, senza estremi compensi. Sì, è vero, la ragione vi assegna, rigorosamente, quello che è il vostro dovere: ma questo dovere ve lo infligge in tutta la sua austerità, in tutta la sua crudeltà, in tutta la sua amarezza; ma quello che v'impone di fare, la ragione, cioè il vostro dovere, essa ve lo mostra così brutto, così disadorno, così disgustoso, che l'uomo si copre il volto con le mani, per non vedere: e la mortale siacchezza lo colpisce e lo atterra. Tutto il congegno sociale, così bizzarro, così stravagante, così imperfetto, ma che non si potrebbe mutare, forse, che in peggio, la ragione ve lo smonta, innanzi, nelle sue ruote, e voi ne osservate tutti i traviamenti fatali, tutte le ingiustizie necessarie, tutte le infamie inevitabili e voi provate l'orrore mortale dell'uomo dinnanzi ad una macchina mostruosa che lo deve schiacciare. Questo fa, la ragione. È il suo còmpito. Essa deve dirvi la verità; e non importa che questa verità sia il vostro dolore e la vostra morte.

In un limpido raggio di luna che penetra nella foresta, sotto i grandi alberi dove si è addormentato il canto degli uccelli, mentre mille insetti notturni frusciano dolcemente, sovra un prato di erbe e di fiori, dorme Titania la bionda, regina delle fate. Bianca, tenue, quasi vaporosa, nella sua veste che pare di argento, velati i begli occhi azzurri da le sottili palpebre, Titania la bionda giace, sui siori, tutta molle del chiaror lunare che pare tessa una trama scintillante intorno al candido viso e alla leggiadra persona. La foresta manda sospiri e profumi; poco lontano è Atene. Oberon, marito di Titania, marito tenero e dispettoso, malcontento che Titania si sia risiutata a un suo lieve capriccio, decide di infliggerle una singolare punizione. Egli distilla sugli occhi di Titania dormiente un succo possente, un magico filtro: per esso, risvegliandosi, Titania amerà follemente il primo essere, che incontreranno i suoi occhi, quale che sia questo essere, bello o brutto, elegante o triviale, intelligente o stupido: per questo siltro mirabile, la prima persona che apparirà a Titania la bionda, le sembrerà dotata di una bellezza sovrumana e ogni suo atto, il più volgare, ogni sua parola, la più semplice, saranno per Titania una musica soave, un gesto incantevole. Titania la bionda si risveglia, come trasognata: e innanzi ai suoi occhi appare Bottom, un calzolajo, un grosso bestione, che si è smarrito nella foresta, dove, coi compagni, artieri ateniesi, veniva a concertare una commedia, visto che questa povera gente, oltre a tirar lo spago, a menar la pialla e a batterre il ferro sull'incudine, si industriava anche a recitare, per guadagnar qualche soldo, sopra un teatrino di tavole. Bottom, fra costoro, è il più goffo: brutto, stupido, con certe grosse orecchie asinine, egli resta anche più imbecillito di fronte a Titania la bionda, la esile e lieve regina delle fate, innamorata di lui. La malìa di Oberon agisce e la cretura che danza la notte sui prati, fra il coro delle sue ninfe, la creatura che beve la rugiada nel calice di un siore, abbraccia il grosso bestione, rivolgendogli le più appassionate parole e gli carezza le orecchie asinine amorosamente. Bottom è stato trasformato dal siltro miracoloso: tutto quello che gli manca, il siltro glielo dà: la sua goffaggine, il suo cretinismo, la sua bruttezza, colorite dagli occhi di Titania in cui il filtro agisce, prendono la parvenza dell agrazia, della bellezza, della seduzione; e tutta la foresta con i suoi siori, i suoi profumi, le sue musiche arcane, s'inchina a colui che divenne il signore della sua regina: e le ninfe e i folletti e Titania istessa, trasvolante nel bosco come un'ombra leggiera, s'inchinano a colui che l'incanto sece bello come un dio!

Volle il divino Guglielmo Shakespeare, nel suo Sogno d'una notte d'estate, in questo magico succo che riveste dei colori più maliosi una persona plebea e deforme, adombrare un simbolo amoroso ed umano? Chi sa! Egli volle tutto, io credo: e tutto espresse, tutto rafsigurò, tutto personisicò e, ancora per centinaia di anni, migliaia di lettori e migliaia di spetatori troveranno in lui cose nuove, cose grandi, cose profonde, cose impensate e meravigliose. Abbia o non abbia simboleggiato il sublime accecammento della donna innanzi all'oggetto amato, noi coi nostri occhi mortali vediamo in Titania il cuore umano, in Bottom la vita e nel magico siltro che tutto trasforma, il potere sconsinato dell' immaginazione. La vita è grossolana, è mediocre, è laida; ma basta cheg gli occhi di chi la guarda, sieno stati bagnati da quel misterioso elisire che è la fantasia, perchè la vita muti tutto il suo aspetto, perchè essa possa parer diversa da quello che è, un'altra cosa, un'altra sigura, un'altra immagine, qualche cosa che attrae, che conquide, che avvince. La vita è rude, è gretta, è crudele; ma se colui che la subisce, ha in sè il segreto siltro che Oberon distillò a Titania dormiente, tutto sarà singolarmente mutato in bene e Bottom, ancora una volta, farà delirare la creatura gentile. Questa possente forza di trasformazione agisce in noi così mirabilmente che, si può dire, la vita intorno sia quella che noi facciamo con la nostra fantasia e non già quella che è nella sua essenza così grama, così bassa. La fantasia, in noi, diventa un artista creatore, dotato d'un tal sublime potere di creare, che da un vile fango trae la statua, la persona, il monumento, la città, il mondo. Plasmatrice inarrivabile, la fantasia, in noi e fuor di noi, non muta solo il volto delle persone che amiamo, non cambia per noi solo l'aspetto esteriore degli uomini e delle cose, ma ne trasforma lo spirito e l'anima, ma trasforma il corso degli avvenimenti e vince il Destino!

Quale uomo potrebbe continuare a vivere, se la sua immaginazione non rifacesse intorno a sè la vita? Quale donna consentirebbe a vivere, se la sua immaginazione non le nascondesse le laidezze ond'è cosparsa la esistenza e non le insondesse il coraggio di esistere? Sublime potere della fantasia! Per essa, il povero lavoratore che passerà i suoi anni fra la fatica e gli stenti, lasciando di travagliare solo per morire, si creerà del suo lavoro e delle sue privazioni un dovere colorito di tutte le lusinghe di un nobile sacrisicio: per essa, il povero impiegato che trascina la sua vita fra aride e mal compensate umili funzioni, vedrà il suo lungo cammino trasformato dal sogno in pace famigliare, coi sigli benedicenti alla bontà segreta e costante del padre: per essa, la povera donna malmaritata, sofferente sotto un giogo che la ragione le mostrerebbe assurdo, ma che la fantasia le trasforma in un poetico dovere di onestà e di fedeltà, potrà compiere il suo triste viaggio senza errare, col cuore solitario, ma racconsolato: per essa l'uomo che sentì mancare in sè e attorno a sè le forze e le occasioni che lo dovevano condurre a una meta agognata, sentirà meno velenose, meno pesanti le delusioni di chi sbagliò la sua strada: per essa la fanciulla che amò invano, che non fu mai amata, che vede tolta a sè la miglior parte della vita muliebre, cioè l'amore, cerca altri moti più altruistici e più caritatevoli, di espandere l'ardore non corrisposto del suo cuore: per essa, pel prodigioso potere della fantasia, tutte le esistenze misere, senza conforti materiali, senza conforti morali, — e sono innumerevoli, ahimè, queste esistenze, — sopportano quietamente la loro desolazione e quasi ne traggono origine di serenità e di felicita. Sui nostri chiusi occhi, nel sonno, Oberon gitta la sua arcana malia; e l'anima nostra, trasportata dall'azione bizzarra del filtro, non si cura della congerie di tristezze disseminate lungo il corso degli anni, e trovo in sè la energia della lotta e della vittoria. Senza fantasia, chi potrebbe amare la vita dove è l'immondo contatto degli sciocchi e dei perversi, dove s'agitano le passioni più odiose e più nauseanti, dove la mancanza di fede, il tradimento, l'abbandono colpiscono le anime più degne, dove sono tutte le caducità e tutti gli errori? Chi, senza fantasia, potrebbe subire l'insulto dei potenti, l'indifferenza della solla, la ingratitudine degli amici? Chi, senza fantasia, potrebbe veder morire in sè ogni speranza e fuori di sè ogni desiderio? Chi, senza fantasia, potrebbe patire, sacrisicarsi, vivere di abnegazione e di abnegazione morire?

E felici, invidiabilmente felici, coloro in cui la fantasia assurge alla constante forma del sogno. Temperamenti caldi e, talvolta, delicatissimi: caratteri pieni di passione irrompente e, spesso, impacciati e taciturni: anime piene di poesia e, per lo più, inabili a esprimere quello che è la loro ricchezza spirituale: sibre spesso molto gracili, ma che appariscono sostenute da una siamma interiore: parvenze di uomini, di donne, spesso molto semplici, spesso molto austere, spesso inascoltate in ogni loro grido di gioja e di dolore: cuori dove prende origine, dall'amore, dalla malinconia, dalla tristezza, dalle lagrime che non sgorgano, il sogno, il sogno che trasporta, che trascina, che travolge: costoro, tutti costoro, per gli occhi che leggono oltre le chiuse fronti, portano il suggello di un dono speciale, prezioso, che su loro concesso dal Signore. Non è necessario, perchè questa nobilissima facolta del sogno si esplichi, che la mente sia dotata di grande intelligenza: non è necessario che il cuore sia saturo di sentimenti eroici: non è necessario che il carattere possieda qualità vigorose e combattive: no, perchè si possa vivere sognando e sognando morire, non si deve essere nè un grand'uomo, nè una grande donna, nè un artista trionfale, nè uno scienziato mondiale. No! La madre che, nella casa solitaria, ogni sera culla il suo bambino e quando egli si addormenta si curva, lo benedice e resta immota, a guardarlo, mentre l'ora passa ed egli non se ne accorge, è trasportata da un sogno di amore e di orgoglio nel quale suo siglio le appare già grande, florido, bello, dolce, sereno, amato, stimato, ammirato: il villano che si ferma, un minuto, guardando il campo che egli ha seminato con la buona semente, è trasportato dal sogno del futuro pane che la Terra gli darà, fecondata dal suo lavoro: l'operai o che ribadì i chiodi sulle tavole robuste della nave che andrà via, lontano, sui mari, sente nella ingenua anima il sogno di questa forza che egli crea, umilmente e oscuramente, e nel giorno del suo varo, convulsamente, l'operaio piange, di gioja, di tenerezza, vedendola, come nel suo sogno, partire! E cento e mille altri, nelle case borghesi, nei tuguri, nei palazzi, sui monti e sulle pianure, nelle popolose città, nei centri solinghi di provincia, nei piccoli borghi perduti nella campagna, sognano ad occhi aperti un sogno piccolo o grande, un sogno di gloria o di benessere, un sogno di odio o di amore, un sogno di bontà, un sogno di rassegnazione, un sogno di pietà. L'uomo che passa accanto a voi nella via, e che trascorre, quasi senza vedervi, porta in sè un sogno che vi è ignoto: la pallida donna che solleva la portiera pesante di una chiesa e s'inginocchia innanzi alla immagine di Maria, porta in sè un sogno di dolore, forse, e forse di pentimento: il gentiluomo che s'inchina, cortese, squisito, innanzi a una donna e pare galante e spensierato, sogna, forse, un sogno di gelosia e di furore: la dama che si covre di brillanti e appare fulgida nella festa dove trionfa il piacere, nasconde forse nell'anima un sogno di pace, di solitudine, di silenzio, inaccessibile: il banchiere gajo e vittorioso che vi stringe la mano sorridendo e sparisce, sogna, forse, il distacco da questo vecchio povero mondo europeo dove niuno fa più fortuna, dove tutti impoveriscono: la fanciulla che tace e pensa, quando intorno a lei si narrano i fasti dalle grandi nozze, sogna, forse e senza forse, l'altare che la vedrà inginocchiata nella candida veste, mentre ella quasi si curva sulla visione, per scorgere il viso del misterioso sposo che non le è apparso ancora: la donna che legge, nelle pagine di un romanzo, nelle cronache di un giornale, l'urto terribile o truce della passione amorosa, abbandona il libro, il foglio sulle ginocchia e sogna quello che non le fu, che non le sarà mai concesso, vivere e perire per un amore.

Oh potenza evocatrice del sogno, in chi sa sognare! Basta aprire un cassetto già chiuso da anni e guardare l'indirizzo di una lettera, per rivedere, sì, per rivedere come se fossero vivi, i cari occhi materni che mai seppero guardarvi senza dolcezza: basta contemplare un fascio di siori campestri, per sognare il grande silenzio delle vaste distese solinghe, sotto il cielo stellato, nelle notti di estate: basta odorare un noto profumo per vedersi apparire innanzi un volto ssiorito dal dolore che già, da molti anni, sparve dal mondo e le cui treccie nere odoravano di quel profumo: basta udire il sischio di un treno che passa, per creare il sogno di una fuga: fuga interminabile, chi sa dove, chi sa quando, in un paese che non si è mai visto, che esiste, forse, solo nel sogno: basta il verso nostalgico e disperato di un poeta per creare un sogno di dolore e di disperazione. Potenza creatrice del sogno! Forme, linee, espressioni mai scorte, che non si scorgeranno mai: voci, parole, musiche che le nostre orecchie di carne non udranno mai: emozioni, voluttà, ebbrezze che le nostre sibre terrene non saprebbero sopportare: alte felicità e alte sciagure più grandi di ogni avvenimento estremo: improvvise ricchezze, improvvisi trionsi, improvvise glorie che non ci saranno mai date: tutta un'altra vita e mille vite, insieme ardenti, vibranti, tumultuanti, conducenti all'apogeo di ogni sensazione e di ogni sentimento. O fortunati coloro in cui il sogno tanto opera! Il sogno distende fra il sognatore e la vita come un velario, come una nuvola e il sortunato essere si avanza in questa specie di custodia immateriale, in quest'atmosfera spirituale isolante; e fra i veli del suo sogno, fra la bianca nuvola che lo avvolge, nella solitudine che lo assorbe, il fortunato può abbandonarsi alla sua profonda e cara visione, può come Issione struggersi di amore, di dolore, di folle ardore, senza che nulla di quanto esiste, nella verità, lo strappi al suo sentimentale delirio!

Assai, assai più invidiabili coloro in cui, quale leva magnetica, il sogno diventa operoso. Può, spesso, la società positiva non saper risparmiare a questi sognatori il suo disprezzo; ma nella intimità del suo spirito, la società positiva invidia loro questa forza capace di sollevare le montagne, ma la vita e la morte di questi sognatori operosi sinisce per istrappare un lungo grido di rimpianto e di ammirazione persino in coloro che li derisero. Che importa poi ai sognatori operosi la derisione, il sogghigno, la beffarda incredulità? Coloro cui fu data questa suprema risorsa dell'intelligenza e del sentimento, coloro che portano in sè questo divino segreto, sono coverti di uno scudo fatato, scintillante, simile a quello su cui si spezzò la lancia di Telramondo senza giungere al petto di Lohengrin. Ogni anno, centinaja di deboli donne, soggette a tutte le fralezze del sesso, entrano negli ordini religiosi militanti e partono per le scuole, per gli ospedali, pei campi di battaglia, per le missioni nei paesi più inospiti e più selvaggi: e prese dal loro sogno di fede e di carità, esse combatono, decimate dalle malattie, dalle fatiche, dai climi perversi, dagli uomini perversi, e dove dieci sono cadute, venti, cento ne arrivano, e questa catena di nobilissime sognatrici giammai s'infrange, continuamente si prolunga. Ogni anno centinaja di giovani, di uomini maturi, di vecchi, entrano nei gabinetti della scienza e si curvano a interrogare tutti i misteri della natura e della vita, e impallidiscono sopra il microscopio, e perdono i loro occhi, la loro salute, semplicemente per portare un piccolo contributo all verità; e spesso intiere esistenze si consumano, così, ignorate; e, spesso, i loro sforzi nulla raggiungono; e, spesso la lotta è così inane, così acre, così tormentosa che essa li uccide, in pieno sogno di passione scientisica. Ma dove tanti perirono, altri, altri portanti nella mente questa visione fulgida, vengono ancora, lottatori accaniti, lottatori indomati, sino a che, un giorno glorioso, il sogno di tutti loro sia compiuto da un solo e la umanità possa dire di aver vinto, ancora una volta, il morbo e la morte. Ogni anno, ogni anno, in cento anime si svolge il sogno di viaggi in regioni non ancora percorse da piede d'uomo civilizzato: il grande sogno nordico, fra le nevi eterne del polo, fra le immortali bianchezze dove i giorni senza sole succedono alle albe livide e muojono ne le candide notti spettrali; e il sogno dell'Africa, sotto quella Croce del Sud che tanti occhi ansiosi interrogarono nelle notti di marcia, e che parve loro la mistica stella che condusse i Re nella peregrinazione verso Soria, questi due sogni immensi e profondi, affascinanti e travolgenti, tolgono alle ricchezze, agli agi, alla patria, alle famiglie cuori ed anime di sognatori sublimi. Invano essi langulscono di sonno, di fame, di malattia, fra i ghiacci che sanno scricchiolare la nave prigioniera: invano dieci, dodici muojono colà nel settentrionale estremo vedovo sito di silenzio e di gelo. Altri vi saranno che andranno, vinti dal sogno, a immolarsi, a cadere. Invano, la terra d'Africa si copre dei più nobili cadaveri di soldati, di marinai, di scienziati, di scrittori, di principi, di avventurosi: invano, ogni giorno, è la notizia di una nuova tragedia. Altri ancora, dalla Francia, dalla Germania, dall'Inghilterra, dalla stessa degenerata ed abbrutita Italia vi vanno, vi andranno ancora, poichè questo sublime sogno pare riceva un alimento prodigioso e misterioso dal sacrisizio, dal sangue, dalla morte. Infuria dappertutto la collera delle classi meno felici, meno fortunate contro coloro che tengono nelle mani tutti i poteri della Terra; ma dovunque sono donne di cuore, dovunque sono anime gentili muliebri, piccole e grandi associazioni di carità si formano, e ogni miseria morale, ogni infelicità sisica trova la mano che soccorre e che carezza, il sorriso che consola e che assolve, il ricovero che custodisce il sonno e l'innocenza, la protezione che sorveglia e che redime. Immensi dolori agitano il mondo: ma il sogno di carità che affratella le donne di ogni paese e di ogni condizione, ha tale sofsio ardente e vivisicante che esse sole, esse, le donne, le oscure e grandi anime sognanti, portano nel cuore il segreto che risolve il dolore umano!

E il letto di morte dove posa la sua testa stanca, l'uomo che visse e andò verso la tomba per un sogno di fede, di bontà, di gloria, di grandezza, è pieno di pace finale per l'agonzzante. La monaca che muore uccisa dal tiso, il missionario che sinisce, serito dalla zagaglia barbara, lo scienziato che è avvelenato dai farmachi che maneggia, l'inventore che è stritolato dalla sua macchina, il viaggiatore che cade di freddo sulla tolda della nave consitta nella banchina di ghiaccio, l'esploratore che è ucciso dalle febbri o dalla lancia di un selvaggio, la dama che muore di una malattia presa nelle sue opere di carità, muojono in pieno sogno senza destarsi dalla loro nobile visione e dànno la loro vita senza rammarico, rassegnatamente, serenamente, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di grande, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di nobile.

Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le siamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.

Se non a tutti è concesso arrivare a queste altitudini operose di sogno, tutti possiamo, però, mettere in noi e attorno a noi, la poesia di un sogno. Nello stretto giro di una piccola casa, nel piccolo limite di un'esistenza tranquilla e sconosciuta, nel breve ambiente di un amore, di una devozione nascosta, di una missione celata dell'anima, l'uomo, la donna possono creare un sogno che li aiuti a vivere, che li aiuti a soffrire, che insegni loro a godere, che li conduca serenamente all'estremo loro giorno. Facciamo un sogno della nostra vita, quale che essa sia, luminosa o tetra, deserta o popolosa: facciamo un sogno vivido e invincibile della nostra esistenza e le sue vicende aspre ci sembreranno facili e gradite e i suoi dolori sopportabili e purisicanti. Sogniamo di esser buoni, sino alla morte: sogniamo di amare, sino alla morte. Sogniamo, sino alla morte, non di esser felici noi, ma di render felici quelli che amiamo!

FINE