Flegrea
RIVISTA DI LETTERE SCIENZE ED ARTI
DIRETTA DA
RICCARDO FORSTER

Anno I — Volume IV

NAPOLI
Piazzetta Mondragone
1899

Con fermezza, avendo nelle due notti e nel giorno di preparazione raccolte tutte le sue estreme forze, volendo anche una volta dare esempio di rassegnazione e di obbedienza alle sue monache, suor Teresa di Gesù, la badessa, aveva comunicato loro che tutte, e lei, dopo di tutte, erano forzate a lasciare il convento di suor Orsola Benincasa il lunedi, alle tre pomeridiane. Di nuovo, fu un accorrere attorno a lei, con uno sgomentio puerile, con un profluvio di domande, ingenue, bambinesche, con un gemitio sommesso delle più vecchie, delle più taciturne: la badessa non sapeva rispondere altro, che di raccomandarsi a Dio, il quale non le avrebbe abbandonate. Fermo era l' accento della misera donna, colpita da tanta sciagura, nell' ultimo limite della sua età e del suo coraggio, ma vi trapelava lo smarrimento di una coscienza candida, sgominata da un castigo inaudito, inaspettato, ineluttabile. E dalla sera prima, a ogni parola, a ogni atto, a ogni passo, dalle labbra delle monache, esciva un ritornello tetro, lugubre:

— Sorella mia, è l' ultima volta che diciamo le preghiere del vespro, insieme.

— Sorella mia, è l' ultima volta che cantiamo il Pange Lingua, insieme.

— Mia sorella, è l' ultima sera che passiamo, insieme, per questi chiostri.

— Sorella, è l' ultima notte che ci concedono di dormire, in questa cella.

A ognuna di queste frasi mortali di abbandono, di distacco, di addio, tutte le altre chinavano il viso, sotto il velo: ad alcune, le meno vecchie, le più sensibili, le mani riunite si torcevano, convulsamente. Quando l' ora del riposo venne, nessuna voleva andare nella sua stanzetta, prolungando la veglia, raggruppate nei corridoi, alla porta del refettorio, in piedi presso lo scalone, a piccoli gruppi, parlottando rapidamente fra loro, con quel mormorio un po' infantile delle monache, con quelle voci un po' leziose, in cui una gravità era passata, velandole, facendole roche di emozione. Due e tre volte la badessa, pazientemente, aveva mandato le converse a pregare le monache, perchè si ritirassero, perchè andassero al riposo, poichè il dì seguente era il giorno della gran prova: ad una ad una, funebremente, le monache rispondevano:

— È l' ultima notte…

— È l' ultima notte…

— È l' ultima notte…

Alla primissima ora mattinale, si videro cose anche più commoventi. Suor Veronica del Calvario, malgrado i suoi settant' anni, la piissima suora che, dicevano le altre monache, era in un profondo stato di grazia, si era levata di letto, malgrado gli anni e gli acciacchi, ed aveva passato la notte nel coro, sola, in orazione; uscendo di lì, all' alba, tremava di freddo e balbettava confusamente delle Ave Maria, ancora. Suor Francesca delle Sette Parole, non avendo pace, nella sua celletta, si era andata a distendere sui gradini della Scala Santa: quella scala, a imitazione di quella di Roma, aveva trentatre gradini, che, le più giovani, le più forti suore, salivano, per voto, per penitenza, sulle ginocchia, una scala che, ogni giorno, le più mistiche suore venivano a bagnare di lacrime, nell' impeto e nella commozione della orazione: suor Francesca delle Sette Parole vi era restata tutta la notte, abbracciando convulsamente la pietra benedetta. Nella notte, sotto il chiarore lunare, suor Giovanna della Croce, non potendo reggere allo spasimo, era discesa in giardino e aveva fatto dei mazzolini, coi poveri piccoli fiori, dei mazzolini legati da un filo di refe: questi mazzolini di fiori, essa li era andati spargendo sulle tombe delle suore, che erano morte in convento, nei tempi trascorsi e che erano state seppellite colà, quando la legge lo permetteva: ella era passata di tomba in tomba, nella notte chiara, in preda a una pena acuta, senz'accorgersi dell' ora, del posto, di sè: e le sue vesti nere erano molli di rugiada, alla mattina, e il velo, bagnato, le si attaccava alla faccia. Dopo le preghiere di mattutino, a ogni minuto che trascorreva, a ogni piccolo atto che facevano, a ogni passo che davano, monotonamente, con la più tetra monotonia, nella idea fissa delle piccole anime, nelle parole monotone di chi si aggira intorno a un sol breve sentimento, le monache dicevano:

— Sorella mia, fra poche ore non saremo più qui…

— Sorella mia, fra poche ore avremo lasciato Suor Orsola…

— Sorella mia, fra poche ore saremo fuori, pel mondo…

— Sorella mia, fra poche ore…

— … fra poche ore…

Le voci erano tremanti. Poi, come l' ora si avvicinava al mezzogiorno, le suore divennero più taciturne. S' incontravano, si salutavano appena, facevano meccanicamente il segno della croce: alle volte, due si appartavano, in un angolo: e si udiva qualche frase: così:…

— … io vi sono stata quarant' anni…

— … io trentotto…

— … avevo diciotto anni, quando ci sono entrata…

— … io ne aveva venticinque…

A mezzogiorno, dopo averle riunite in una sua grande stanza, la badessa le esortò, di nuovo, a soffrire nel nome di Gesù e della sua Passione, nel nome degli ineffabili dolori di Maria, questa tribolazione: e le pregò di raccogliere, nelle loro cellette, la poca roba che loro apparteneva, cioè il secondo vestito che possedevano, quello delle grandi solennità, poichè le Trentatre non poteano avere più di due vestiti: raccogliessero anche la loro rozza biancheria. Ella stessa, che apparteneva alla nobilissima famiglia dei Mormile e che aveva dato a Suor Orsola una grossa dote, aveva fatto preparare la sua poca roba dalla sua conversa Cristina: era dietro il suo seggiolone abbaziale, un semplice fagotto, chiuso in uno scialle oscuro.

— E le immagini? — esclamò la piissima suor Veronica del Calvario. — Possiamo portare le immagini, via?

— Quelle delle vostre stanze, sono vostre. Distaccatele e portatele via.

— Potessimo portar via il nostro Ecce Homo, dalla chiesa!

— Potessimo portar via la statua della Madonna!

— Il Sacramento, dall' altare!

— La Scala Santa, la Scala Santa!

— Le mura del convento, le care mura!

Così esclamavano, gridavano, quelle infelici con un balbettìo puerile. Col movimento delle sue antiche mani scarne che, da tanti anni, si erano mosse solo per pregare e per benedire, la badessa tentò di chetarle.

— Andate, andate, obbedite, figlie mie.

Andarono. Tutte le porte delle cellette erano aperte, sul lungo corridoi del secondo piano: in fondo alle piccole stanze, le monache andavano e venivano, togliendo il poverissimo loro corredo dal cassettone, distaccando le immagini, i quadretti, i crocifissi, i cerei pasquali, i rosarii: a ogni distacco, esse baciavano religiosamente l' oggetto, dicevano delle preghiere, si raccomandavano:

— Oh Gesù Cristo, pietà di noi…

— Madonna della Salette, guidateci voi…

— Sant' Antonio, che fate tredici grazie ogni giorno…

— Sant' Andrea Avellino, considerateci come se fossimo in punto di morte…

Qualcuna, gittata bocconi sul letto, ne baciava il cuscino su cui aveva posato il capo, da tanti anni; qualcuna, come disfatta, si era seduta sull' unica sedia, le braccia prosciolte; qualcuna vagava intorno, con attitudine smarrita, toccando e baciando gli oggetti. Quando, a un tratto, un passo rapidissimo attraversò il lungo corridoio: era Giuditta, la conversa portiera, che fuggiva verso la grande stanza della badessa, gridando, affannosamente:

— È spezzata la clausura, è spezzata la clausura! Ci sono quelli del Governo!

Come una grande raffica di vento passò lungo le celle aperte, come il rombo di un temporale si diffuse per Suor Orsola Benincasa. In preda a una paura folle, invincibile, dimenticando l' età, la debolezza, le monache uscirono, correndo, dalle loro celle, passarono, correndo, anche le più tarde, anche le più vecchie, anche le più acciaccate, per il corridoio, entrarono, correndo, dalla badessa, rifugiandosi dietro la sua sedia, come bimbe anelanti, affannando, balbettando, strette in un gruppo, attaccate al seggiolone:

— È spezzata la clausura… è spezzata la clausura.

Senza dire verbo, suor Teresa di Gesù si era levata in piedi. Sì vedeva solo un po' di tremito delle sue rugose mani, su cui brillava l' anello di argento abbaziale.

Tre uomini entrarono nella grande sala, con aspetto tranquillo. Innanzi andava un signore alto e magro, dalla barba rossa ben pettinata, dagli occhiali legati finemente in oro, vestito con la sobria eleganza di un uomo che ama di piacere, anche a cinquant' anni. Correttamente, teneva in mano il suo cappello a cilindro, lucidissimo e un bastone dal pomo di oro cesellato: sulla fisonomia inespressiva, non si vedeva di vivente che un sorriso amabile e gelido, non mancante di una certa ironia. Era il prefetto Gaspare Andriani, un prefetto, dicevano, a pugno di ferro e a mano di velluto. Accanto a lui era un giovine, pallido, bruno, dai bruni mustacchi arcuati, dall' aspetto freddissimo, anche egli assolutamente elegante: un giovine consigliere di prefettura, il cav. Quistelli. E ancora, più indietro, un altro signore, dalla fisonomia comune, dall' aria servile ed annoiata, vestito decentemente, col tradizionale paio di guanti neri che indica il funzionario di Questura. Tutti tre si avanzarono, verso la badessa, con una certa cautela; e fu con una voce melliflua e curvando ipocritamente la testa sovra una spalla, che il prefetto disse:

— Sono dolente di dover compiere una missione ingrata, illustre signora. Io vengo a prendere possesso, in nome del Re, del monastero di Suor Orsola Benincasa e di tutti i suoi beni mobili ed immobili.

— Io protesto, in nome della regola di Suor Orsola Benincasa, in nome della comunità che rappresento, per le suore qui presenti e per me, contro la violazione della clausura — disse, con voce limpida, la vecchia badessa, fissando i suoi occhi, di sotto il velo, in quelli del prefetto.

Costui torse un po' lo sguardo, s'inchinò, con una affettata galanteria:

— È spiacevole per me, illustre signora, non poter accogliere tale protesta. Il mio Governo ha sciolto le corporazioni religiose e queste clausure, per noi, non esistono.

Senza badare a queste parole, suor Teresa di Gesù continuò:

— Io protesto giuridicamente, amministrativamente contro questa presa di possesso illegale, ingiusta ed iniqua. E mi riserbo di far valere, debitamente autorizzata, davanti al magistrato, i nostri diritti.

Il prefetto si voltò verso il suo consigliere di prefettura, dandogli uno sguardo sarcastico: costui, correttissimo, sorrise anche lui, con una punta di commiserazione. Ambedue si strinsero lievemente nelle spalle. La povera suor Teresa di Gesù aveva ripetuto la formola di protesta, che Sua Eminenza le aveva mandata, in iscritto, per mezzo di don Ferdinando de Angelis: ma ne sentiva la inefficacia, la inanità, dinanzi a quegli uomini che avevano violato la perpetua clausura di quelle porte, come se entrassero in un caffè. E udiva, alle sue spalle, ai suoi fianchi, il forte anelare di quelle monache, il loro tremor forte che scuoteva la sua seggiola; e sentiva che quella era l' ora più affannosa e più dura della sua vita, vecchia come era, debole, senza difesa, senza sostegno, contro quella violazione:

— I tribunali decideranno — disse, con falsa compiacenza, il prefetto. — Vostra Reverenza voglia, per adesso, rispettare il fatto compiuto. E mi dia modo di eseguire tutta la mia missione, senza ostacoli, senza difficoltà.

Mentre sciorinava i fiori della sua eloquenza burocratica, dal primo momento che era entrato in quella stanza, il prefetto sogguardava verso le monache: anche il consigliere di prefettura, anche l' ispettore di questura, ammiccavano da quella parte. Una curiosità volgare li teneva, supponendo chi sa quali volti fiorenti di bellezza e di gioventù, sotto quei veli, pensando ai terribili voti che avevano sepolte vive quelle donne, li dentro, sottraendole all' amore, alla gioia, alla vita. Le monache, vedendosi guardate, si stringevano anche più dietro il seggiolone, come una branca di pecore folli, si serravano il mantello intorno la persona, si tenevano fermo sul volto il velo.

— Vostra Reverenza ha inteso? — domandò il prefetto, con un tòno dolciastro.

— Io non comprendo, signore. Vogliate spiegarvi.

— Bisogna che tutte le monache, cominciando da voi, sollevino il loro velo, mi dieno il loro nome di famiglia, per constatare la identità.

E un lungo grido ripetuto da quattordici voci, sorse:

— Il velo, no! Il velo, no! Il velo, no!

— Eppure bisogna sollevarlo, care signore mie — soggiunse il prefetto, con un sorriso, agitando con disinvoltura il suo bastone.

Ancora, elle gridarono, angosciate, infantilmente:

— No, il velo! No! Madre cara, madre, diteglielo, che non vogliamo, che non possiamo.

— Avete udito, signore? — disse la badessa, in preda a una profonda emozione — esse non possono sollevare il loro velo.

— Vostra Reverenza le induca all' obbedienza, come è nel suo diritto — disse il prefetto, meno sorridente, un po' accigliato.

— Non posso comandare loro, un atto contrario alla nostra regola.

— Via, cominci a farlo Vostra Reverenza — soggiunse il funzionario, diventato glaciale, guardando in aria.

— Io non lo farò, signore.

— Eppure, bisogna. Si decida, Vostra Reverenza.

— No, signore.

— Allora — mormorò, con un perfetto tòno di finto rincrescimento, il prefetto — dovrò ricorrere alla violenza.

— Appunto, signore. Ricorrete alla violenza.

Con un passo da esperto ballerino di quadriglia d' onore, il prefetto si avanzò verso la badessa delle Trentatre, suor Teresa di Gesù: mise in una mano il cappello lucidissimo e il bel bastone dal pomo di oro e con l' altra, dopo aver fatto un inchino, con l' altra mano, guantata di un guanto inglese di Lean, toccò il lungo velo della monaca e lo sollevò, con un leggiadro sorriso di galanteria. Suor Teresa di Gesù, mentre un lungo gemito di pudore offeso, di orrore religioso sgorgava da tutte le monache, non oppose nessuna resistenza. E un antichissimo viso di donna consumato nelle contemplazioni e nelle preghiere comparve: un viso dove alla nobiltà delle linee venuta dàlla razza, si era unita la nobiltà di una vita spesa a servire il Signore, in ogni atto pietoso: un viso di donna già prossima alla morte, con qualche cosa di già libero e di augusto in questa liberazione: un viso dove era sparso non solo il pallore della vecchiaia, della esistenza passata nell' ombra, ma il pallore di un dolore sconfinato, subito nella più profonda rassegnazione.

Veramente, il prefetto si arrestò interdetto: forse, in quel momento, la sua missione gli sembrò meno attraente, meno curiosa, meno divertente di quello che aveva pensato prima. Guardò il suo consigliere di prefettura, un po' turbato: anche costui aveva l' aria imbarazzata. In quanto all' ispettore di questura, egli conservava il suo aspetto volgare, tronfio di poliziotto che è onorato da un incarico di fiducia.

— Vostra Reverenza — disse il prefetto, cavando una carta dal suo portafogli e leggendola, per dominare il suo lieve turbamento — è la duchessa Angiola Mormile di Casalmaggiore, dei principi di Trivento?

Le palpebre della badessa batterono, replicatamente. Ella ebbe l' aria di riunire i suoi ricordi.

— Io sono suor Teresa di Gesù, badessa delle Trentatre. Ero… sì… ero, nel secolo, quello che voi dite.

— Bene. Si compiaccia farmi constatare l' identità delle sue monache. È doloroso… ma è così.

— Anch' esse non solleveranno il loro velo, che con la violenza.

E allora, con la stessa buona grazia di prima, con una celata, e mal celata curiosità, il prefetto si inoltrò, verso le monache. Costoro tremavano a verga. Ma, imitando la loro superiora, non apriron bocca, non fecero atto di contrasto. Ad uno ad uno, i quattordici veli furono sollevati, gittati indietro. Quattordici volti comparvero. Eran volti di vecchie: di vecchie monache, in tutte le apparenze della vecchiaia giunta nella solitudine, nell' astinenza e nella preghiera. Alcune scarne, con la pelle che le ossa parevan bucare; alcune grassocce e flosce; alcune emaciate; altre tutte rugose e pur tonde, come un frutto conservato lunghi anni; altre coi segni della decrepitezza, i nasi adunchi prolungati sulla bocca, le gengive senza denti, i menti rialzati. Tacevano: qualche fremito correva sulla loro pelle, non avvezza all' aria libera: le palpebre, ferite dalla luce, battevano. Ma su tutti i volti si distendeva un pallor grande di dolore: e una espressione di rassegnazione incomparabile. Il prefetto e il consigliere di prefettura apparivano un po' seccati e, certo, delusi.

Per arrivare al monastero delle Trentatre, dal Corso Vittorio Emanuele, a piedi, poichè non vi è via carrozzabile, bisogna ascendere un primo pezzo di via erta ma selciata, di fronte al grande palazzo Cariati; poi, comincia un secondo pezzo di strada, a grossi e larghi scalini, dalle pietre tutte smosse: si volta in un sentiero quasi campestre, ripido, lungo, dove, qua e là, restano delle tracce di scalini, sentiero che rasenta, a sinistra, l'alta muraglia chiusa e muta del convento e, dall'altra, certe casupole mezzo dirute e sporche; infine, a un altro gomito, un ultimo pezzo di erta strada, ancora a scaglioni, che conduce alle due porte del monastero, la porta piccola e la grande. È un'ascensione lunga, dura e faticosa. Verso il Corso Vittorio Emanuele, la rampa ha un aspetto ancora civile e popoloso; come si passa nell' aspra viottola, si cade nel deserto e nel silenzio: solo qualche rara popolana, dalle chiome spettinate, dalle vesti a brandelli, mentre culla col piede il canestro dove dorme, per terra, un poppante ravvolto in luride fasce, sta sulla porta del suo tugurio e torce, fra due sedie sgangherate, lo spago, a matasse. Da quelle parti, un po' più lontano, un po' più vicino, erano, un tempo le grotte degli spagari, antri quasi zingareschi, dove si accumulavano uomini e bestie, in uno stato selvaggio: la piccola industria della filatura e della torcitura dello spago ancora, in qualche stamberga di quelle, dà un po' di pane a chi vuol lavorare. L' ultima rampa, quella che mena direttamente alla grande porta del convento, è sempre deserta; ha l'aria claustrale, triste, fredda. Sulla porta piccola delle Trentatre, dove entrano a deporre i cibi, nelle mani delle converse, fuori clausura, i pochi fornitori, è una croce nera, di ferro: di dietro le mura, più basse, di questo lato non colpito dalla clausura, si vedono gli alberi di un orto. Di fronte, il gran portone sbarrato, non ha nessun segno religioso. Da quel portone sono entrate, per l'ultima volta, le monache, ad una ad una, senza più uscirne; quel portone, in trenta o quarant' anni, non si è aperto che due o tre volte, innanzi al cardinale e due volte innanzi al confessore delle monache, don Ferdinando de Angelis. Chiunque è salito, lassù, per curiosità, per distrazione, per bussare al piccolo portone delle Trentatre, ha sempre visto il gran portone, il portone del claustro, sbarrato. Ora è spalancato, vuoto, nero; un androne alto, profondo, oscuro, nero quasi, si scorge. La clausura è infranta, da due ore: e le monache, ad una ad una, lentamente, escono da quel monastero dove credevano di essersi sepolte vive, in onore e gloria della croce di Cristo.

Sul corso Vittorio Emanuele vi è già folla che, avvertita del caso singolarissimo, attende: pian piano la folla è ascesa verso la prima rampa, è ancora salita più su, più su, per la viottola, per la seconda rampa, fin quasi alla porta grande, spalancata. È una folla di popolani, di popolane, di operai, di piccoli borghesi, di sartine, di fanciulli: una folla muta, paziente, sul principio e un po' stupita, anche: una folla tenera, triste, sarcastica, pietosa, curiosa, burlona, animata da sentimenti diversi, tutti rudimentali. Curiosissima, sovra tutto, curiosissima di queste Trentatre, di queste Sepolte Vive che il Governo ha dissotterrate, che ha strappate alla clausura, al monastero, a ogni lor voto e che gitta nel mondo, di nuovo; e qualche esclamazione triste, irata, compassionevole, sgomenta, frizzante, si ode, fra la folla, lassù, quaggiù, mentre si attende la cacciata delle monache:

— Poverette, poverette!

— Che ne sarà di loro, che ne sarà?

— Oh malann'aggia il Governo!

— Tutto deve rubare, tutto!

— Hanno preso i loro denari, ora prendono il monastero.

— Lo vedrete che si vanno a maritare, quelle monache.

— Sono vecchie.

— Qualche giovane, ci sarà.

— Poverette, poverette!

— Gesù Cristo non lo dovea permettere.

— Sono castighi, sono castighi!

L'androne del gran portone attira gli occhi di coloro che, spinti lentamente, sono giunti sino alla soglia del monastero. Qualche cosa, in quel buio apparisce. È una monaca, vecchissima, sorretta da una conversa; è la badessa, suor Teresa di Gesù che viene a mettersi sulla porta, per salutare, ad una ad una, le sue monache che se ne vanno via. Le sue palpebre sono rosse, per qualche lacrima versata, bruciante come tutte le lacrime della estrema senilità. Degli ondeggiamenti di emozione corrono lungo la folla, dalla porta del convento, giù, giù, sino al Corso Vittorio Emanuele.

— È la badessa, è la badessa!

— Che sacrilegio, Madonna mia, che sacrilegio!

— Dove siamo arrivati!

— Povera vecchia, pare che se ne muoia.

Così, passa la prima monaca. È suor Gertrude delle Cinque Piaghe, una vecchia alta, magra, asciutta e snella. L' accompagna chi è venuto a raccoglierla, un suo fratello prete, meno vecchio di lei, di pochi anni: suor Gertrude va piano, col velo gittato indietro, poichè questo è stato l'ordine, a occhi bassi, senza scambiare una parola con suo fratello, un sacerdote dall'aria raccolta e triste. Nel vedere la badessa, sulla porta, suor Gertrude si scuote, si ferma, si abbassa su quella mano scarna e la covre di baci:

— Per l'ultima volta, madre, beneditemi — ella mormora, a voce bassa, per timore della folla, che più si accalca.

— Ti benedico, ora e sempre, figliuola. Addio — dice la badessa, a capo chino, anche lei.

Suor Gertrude delle Cinque Piaghe oltrepassa la soglia, dopo un momento di esitazione, si avvia lentamente, accompagnata a passo lento da suo fratello, va, va, tra un fremito lunghissimo della gente: ella scompare alla cantonata, è nel mondo, via. Un'altra monaca si avanza dall'androne: è suor Clemenza delle Spine, piccina, delicata, con certi lineamenti minuti che nascondono, nella gentilezza, la sua età gid molto avanzata. Col viso quasi nascosto dal fazzoletto tutto intriso di pianto, ella seguita a singhiozzare, mentre un suo cognato, un vecchio che ha sposato una sua cugina, unico parente, che ella non conosce, che non la conosce, un vecchio che ha l' aria di un umile impiegato dello Stato, le sta accanto, imbarazzato, intimidito, muto.

— Me ne vado, me ne vado, madre mia, addio! — esclama convulsamente la suora, baciando l'anello di argento della badessa.

— Ti accompagni il Signore, in ogni passo, sino alla morte — risponde la badessa, temendo di scoppiare in singulti, anche lei.

Suor Clemenza delle Spine ha un moto di repulsione, guardando la strada brulicante di gente, la strada che conduce giù: non sa reprimerlo. Il pianto la soffoca di nuovo. Ma deve obbedire, passa la soglia, cammina, cammina, senza vedere dove mette il passo, acciecata dalle lacrime. E, nella folla, qualche donna già piange, nel veder passare quella plorante: qualche collera scoppia in ingiurie, contro il Governo.

— Ladri e assassini!

— Povere anime di Dio!

— Che infamia è stata questa!

Suor Veronica del Calvario, la vice badessa, colei che è piena della grazia di Dio, come dicono le sue sorelle monache, colei che ha passato tutta la sua vita in astinenze e in preghiere, e Gesù e la Madonna sempre l'hanno colmata dei loro doni spirituali, suor Veronica del Calvario, ora esce, anche lei. Sul volto brunastro, magro, della suora, è una serenità completa. Ella ha accettato come un altro dono del Signore, quell' angoscia: ella è la vera figliuola di Dio, quieta, pacata, passiva, che si lascia andare dove la volontà del Cielo la conduce. Ella ha passato la notte scorsa, tutta intiera, in orazioni, nel coro e se ne è uscita tremante di freddo, il suo spirito è calmo, per sempre. Suor Veronica del Calvario non è napoletana, è messinese: si chiama Felicita Almagià. Alcuni suoi nepoti, avvertiti dalla circolare prefettizia, hanno telegrafato a Napoli, alla Navigazione Generale, per mandare qualcuno a prenderla, per imbarcarla e condurla a Messina. Suor Veronica del Calvario attraverserà il mare: un impiegato della Compagnia Marittima è venuto a prenderla, è un giovanotto dalla fisonomia volgare e fredda, che compie la sua missione senza interesse ma precisamente. Quasi, quasi, vedendo la sua badessa, suor Veronica del Calvario sorride. Le bacia la mano come ogni sera, a compieta: e la badessa la guarda, prima meravigliata, poi compresa di ammirazione. Le parti s'invertono, la badessa le si raccomanda, a quella piissima che Dio ha più racconsolata:

— Ricordatemi ogni giorno a Gesù crocifisso, suor Veronica.

— Indegnamente, madre mia.

Suor Veronica del Calvario se ne va, senz'esitare, fra la gente, seguita dal giovanotto. La folla sorride, vedendola cosi tranquilla, malgrado la vecchiaia, malgrado ella sia curva. E, intuendo, la folla, un'anima già, per sempre, benedetta, le si raccomanda:

— Un' Ave Maria, per me, buona madre!

— Anche per me, per mio figlio malato!

— Raccomandatemi alle anime del Purgatorio!

Suor Veronica del Calvario annuisce, chinando il capo, va, va, sparisce, ella è nel mondo, non importa! L'altra, che viene innanzi, ha nella persona, nel volto, tutti i segni della disperazione. E, suor Francesca delle Sette Parole, colei che ha passato la notte prima, distesa sugli scalini della Scala Santa. Suor Francesca delle Sette Parole si chiama, nel secolo, Marianna Caruso, d'una famiglia di piccoli commercianti, in generi coloniali; al tempo della monacazione, ella entrò nel convento coi denari d'una piccola eredità, raccolta. Sono venuti a prenderla alcuni suoi parenti, cugini suoi, vecchi venditori di zucchero e caffè, dal lontano quartiere dei Santi Apostoli; hanno certe facce fredde e oscure, certi volti lividi dalle labbra sottili di persone avarissime. La sogguardano, taciturni e diffidenti, venuti lì per obbligo, poichè la circolare del Governo era tassativa: essa non li guarda. Desolata, disperata, ella fa un passo innanzi e tre indietro: ella si ferma a baciare, ogni momento, le mura, gemendo, sospirando, agitandosi come in preda a un accesso di angoscia folle. I parenti, marito e moglie, stringono la bocca, malcontenti e sospettosi. Ella si dispera, senza nulla sapere. La badessa la esorta, con lo sguardo, accennandole la folla, a chetarsi. Ma suor Francesca delle Sette Parole si gitta in ginocchio innanzi alla sua superiora e, battendo il capo contro la sua tunica, le dice:

— Perdonatemi, perdonatemi, tutti i miei peccati, madre mia, in questo terribile momento…

— Dio ti ha perdonato, tu sei buona, va, figlia mia, non dare spettacolo…

— Madre mia, madre mia, beneditemi come in punto di morte…

Ella la benedice, mentre i parenti, infastiditi, aspettano che tale licenziata finisca. Suor Francesca delle Sette Parole non vuole andar via, ella si volta, bacia il legno del portone. Ancora, suor Teresa di Gesù la esorta:

— Obbedienza, obbedienza, figliuola mia…

La suora si avvia, vacillante, a capo basso, senza voltarsi più indietro: non vede il cammino, inciampa, è per cadere. La folla si commuove, novellamente:

— È come Cristo, come Cristo, sotto la Croce!

— Questa non campa.

— Meglio per lei, meglio.

La triste teoria delle monache discacciate dal convento si svolge, di minuto in minuto. Ognuna di esse, insieme allo stupore infantile e ai segni del pudore claustrale offeso, ha sul viso le tracce di lacrime recenti; qualcuna piange; qualcuna sembra inebetita dall'età, dalla sofferenza, dal caso straziante. A ognuna che passa la badessa suor Teresa di Gesù prova come una novella, più acuta impressione di pena: ogni distacco aumenta il dolore di tutti gli altri. Il gesto della benedizione si fa più largo, più tremante, su quella soglia, dove l'addio ha tutta la sua angoscia. Sono già passate, accompagnate da parenti vicini o lontani, da amici di famimiglia, da antiche conoscenze, nove monache. Sono via, nel mondo. Suor Teresa di Gesù non le vedrà più. Ecco, adesso, ne appaiono quattro, insieme. Invano, il Governo ha mandato tre o quattro volte la circolare ai parenti presunti, di queste quattro: nessuno ha mai risposto. Questi parenti sono o morti, o partiti, o non vogliono caricarsi del peso di una vecchia monaca, cacciata dal monastero. Sono queste quattro: suor Benedetta del Sacramento; suor Scolastica di Getsemane; suor Camilla del Sepolcro; suor Genovieffa della Passione. Non hanno, queste quattro suore, nessuno. La prima, nel secolo Maria Calenda, è napoletana, di nobile famiglia, pare, completamente estinta; la seconda, Clotilde Massari, è di Bari; i suoi hanno lasciato Bari da venti anni; la terza, Giulia Melillo, è napoletana, ma non vi sono tracce dei suoi; la quarta, Gabriella Filosa, è di Casamicciola, la famiglia è stata distrutta dal terremoto. Sono accompagnate, queste quattro abbandonate, dal delegato di questura, il signor Domenico Trapanese colui che era entrato nel convento col prefetto e col consigliere di Prefettura. Costui, ha sempre la sua aria tronfia e volgare e, per di più, è annoiatissimo di quel che fa. Le quattro monache, di cui nessuno vuol sapere, fra cui suor Camilla che zoppica atrocemente, circondano la loro badessa, balbettando, piagnucolando, lamentandosi:

— Chi sa dove ci conducono, madre!

— Chi sa dove ci gittano, madre!

— Che ne sarà di noi, madre?

— Nessuno ha avuto pietà di noi, madre?

L'antichissima badessa, ora, è alla fine delle sue forze. Queste quattro infelici, a cui si toglie ogni ricovero, fanno frangere il suo vecchio cuore di donna. Ella chiede al delegato che, fermo, sbuffa di seccatura:

— Dove le conducete, ora, signore?

— In Questura — dice lui, bruscamente.

Suor Teresa cerca di comprendere, di che posto si tratti.

— È un ricovero? — chiede, tremando.

— Eh!.… sì, se vogliamo — sghignazza il delegato.

— Ve le raccomando, signore — ella mormora, dignitosamente.

— E va bene, signora superiora. Andiamo, zi monacelle — egli dice, famigliarmente, come se indicasse la via a un gruppo di ladruncoli.

Anche le quattro, confuse, smarrite, non sapendo camminare, con suor Camilla che minacciava cadere a ogni passo, vanno via, scortate dal delegate. La folla sa, essa, chi è quell' uomo, qual sia il suo duro e triviale ufficio, che sia la questura. Comprende, subito, la folla:

— Queste non hanno nessuno.

— Le portano in Questura.

— Coi ladri! Con le cattive donne!

— Dormiranno dietro il cancello.

— Con le guardie e i malandrini!

— Poverette, poverette!

Le monache non odono, non comprendono, non sanno il loro destino. Vanno. Adesso, sotto l' androne, si vede venire l' ultima monaca, suor Giovanna della Croce. Non ha trovato nessuno in parlatorio, ma l' hanno avvertita che una donna l' aspetta, fuori. Suor Giovanna ha gli occhi gonfi per aver troppo pianto: le labbra le fremono, come a una bimba. Ha l' aria vecchia, assai vecchia, stanca, malata. Anche essa s'inginocchia, per farsi benedire dalla badessa: bacia la mano, bacia il lembo della tunica.

— Non avete nessuno? — chiede la badessa, che si sente morire.

— Sì… vi è qualcuno… — mormora suor Giovanna.

— Chi?

— Non lo so. Mi aspettano.

Difatti, fuori il portone, una donna si avanza, verso suor Giovanna della Croce. È una donna oltre la cinquantina, coi resti di una beltà bionda sul viso scialbo e floscio, coi capelli già quasi tutti bianchi, pingue, sformata: è vestita con pretensione di eleganza, non adatta alla sua età. Ha sul volto, una espressione d'incertezza e, forse, di sgomento. Ella si accosta a suor Giovanna della Croce e le dice, sogguardandola, non senza confusione e dubbio:

— Siete voi, suor Giovanna della Croce?

— Sono io. E voi, chi siete? — domanda con voce esitante la suora, fissi gli occhi nel volto di quella donna.

— Sono tua sorella. Sono Grazia Bevilacqua.

Intensamente si guardano, senza baciarsi, senza toccarsi la mano.

— Sono venuta a prenderti — soggiunge Grazia, affrettando le parole sotto quello sguardo.

— E papà, e mammà? — chiede la suora, infantilmente.

— Sono morti, in salute nostra — mormora, con un sospiro Grazia — Io sono venuta a prenderti.

— E Gaetano, mio fratello?

— È morto. Io sono venuta a prenderti.

— E Silvio Fanelli, tuo marito? — dice suor Giovanna, senza muoversi.

— È morto, è morto. Andiamo.

— Andiamo — dice suor Giovanna della Croce.

Ora che tutte le monache sono partite, via, disperse pel mondo, la badessa, suor Teresa di Gesù si muove per partire, anche lei. È venuta a mettersele accanto una giovinetta quindicenne, biondissima, bianchissima, dall'aria fiera e nobile: è una sua pronipote, donna Maria Mormile dei duchi di Casalmaggiore e dei principi di Trivento. La giovinetta è figliuola di una nepote della badessa: è l'unica di casa Mormile. Sebbene quindicenne, ha l'aria raccolta e austera. Un servitore in grande livrea, di casa Mormile, la segue. La giovinetta offre il braccio alla prozia, per andare. La badessa si volta a guardare le mura di Suor Orsola, l'ultima volta. Tremolante, curvissima, appena potendo muovere i passi, avendo esaurito ogni sua forza, oramai, ella si trascina per la discesa, al braccio della paziente, pietosa e taciturna nepote. Il gran portone si chiude, rumorosamente, dietro l'ultima delle Trentatre. E la folla, vedendola andare, rovina umana, già piena di morte, dice la parola semplice, la parola della giustizia e della pietà:

— Oh poveretta, poveretta! Non la potevano lasciar morire, li dentro?

Matilde Serao.

A occhi bassi, raccolta in sè, col passo tranquillo e cauto delle donne che furono lungamente claustrate, suor Giovanna della Croce discendeva lungo la via Magnocavallo, sfiorando il muro con la sua veste nera monacale, col suo largo mantello nero che la chiudeva tutta quanta: il viso era scoperto, ma la benda bianca fasciava la fronte sin quasi alle sopracciglia, uscendo di sotto il cappuccio nero, e il goletto bianco nascondeva il collo sino sotto il mento. Tirava un gran vento freddo mattinale ed ella rabbrividiva un poco, tremando nelle sue lane nere, sentendo più vivamente l' improvviso soffio della tramontana, per le vie deserte napoletane. Non veniva di lontano: era stata nella chiesa del Consiglio, sovra la via Magnocavallo, ad ascoltare la prima messa, come ogni giorno, una prima messa che si diceva alle sette del mattino e che solo poche popolane, qualche pinzochera, qualche mendicante ascoltava, nella penombra della non grande chiesa, mentre il sacrestano vecchio trascinava i passi, tossendo e scatarrando, mentre il prete appena appena si voltava verso il popolo assente, mormorando le parole sante. Suor Giovanna della Croce si era, quella mattina, anche comunicata. Quando, nel tempo felice della sua vita monacale, era sepolta viva in Suor Orsola, il suo confessore don Ferdinando de Angelis le dava il diletto spirituale della comunione una volta la settimana, sempre il venerdì, in onore della Croce: adesso, il prete era diventato più austero, più duro, malgrado la sua estrema bontà e le concedeva la comunione solo una volta il mese. Talvolta, ella si lagnava, sommessamente, di questa privazione:

— Ora, siete nel mondo… — mormorava don Ferdinando, senza soggiungere altro.

— È vero, sono nel mondo — ripeteva lei, con un profondo sospiro, pensando che nella vita profana il Signore poco si concede.

Affrettava il passo suor Giovanna della Croce, tutta chiusa nella sua consolazione umile, un po' puerile, anche, di aver preso parte alla Santa Tavola. Non doveva andare molto lontano. Con sua sorella Grazia Bevilacqua Fanelli e coi due suoi nepoti Clementina e Francesco Fanelli, suor Giovanna abitava un piccolo appartamento, in fondo al cortile del numero novantadue, in via Magnocavallo. Appunto, per non girare troppo per le strade, in quelle vesti monacali che attiravano l' attenzione, ora benevola, ora, talvolta, schernitrice, alla sua età già avanzata, per quel timore vivo e quasi infantile del mondo esteriore, da cui nulla poteva guarirla, suor Giovanna della Croce aveva scelto la Chiesa del Consiglio per le sue divozioni quotidiane: solo per confessarsi, ogni primo giovedi del mese, andava lontano, nella chiesa di Santa Chiara, per trovare don Ferdinando de Angelis. Erano appena le sette; la via Magnocavallo era deserta, silenziosa, sporca; qualche raro portone si veniva aprendo, da qualche portinaio ancora sonnacchioso; qualche basso di povera gente si schiudeva, lasciando uscire qualche operaio che andava al lavoro. Suor Giovanna della Croce scantonò subito, nel portone semiaperto del numero novantadue: la portinaia, una donna magra e scialba, coi resti di una bellezza sciupata dalla miseria e dai parti numerosi, incinta grossa, avvolta malamente in uno scialle di lana rossa, a maglia, tutto stinto, la salutò lamentosamente:

— Lodata sia la Vergine, zia monaca mia!

— Lodata sia — rispose, a voce bassa, la suora, volendo passare avanti.

Ma la portinaia, sospirando, gemendo, la trattenne:

Zi monaca, diteglielo voi, alla sorella vostra, donna Luisa, ditele che non ne posso più, col signorino don Ciccillo!

— E perchè? — chiese, quasi involontariamente, la monaca — Che ha fatto, mio nipote?

Poi, si penti. Non aveva promesso a Dio, al confessore, a sè stessa, di non occuparsi di cose profane, di cose mondane?

— Stanotte, non è ritornato — soggiunse la portinaia, querulamente — Gravida come sono, non ho dormito, per aprirgli la porta subito, quando avesse bussato.… Aspetta, aspetta, chi te lo dà!

— Mio nipote non è rientrato? — mormorò la monaca, pensosa, a capo chino.

— No. Niente. È vero che mi regala qualche cosa, quando torna tardi. Ma quando non torna.… io perdo il sonno e lui se ne scorda, di darmi nulla.… un giovane come lui.…

— Tenete, Concetta — e, messa la mano in tasca, la monaca dette qualche soldo alla donna piagnucolosa.

— Grazie, grazie! Che peccato, un giovane come lui, perdere le notti….. così…. a giocare…. o chi sa dove….

La monaca aveva subito abbassato gli occhi, arrossendo, assumendo un contegno distratto. La portinaia si raumiliò:

— Lodato sia il Sacramento, zi monaca mia.

— Lodato sia!

Suor Giovanna della Croce attraversò il largo cortile del palazzo, lasciò a destra la scala grande, penetrò in un corridoio e si trovò in un cortiletto, dove era la scala secondaria di quel grande edificio. Sali le scale strette, un po' oscure e si fermò su quel primo pianerottolo, cercando la chiave di casa. In questo, un passo lieve si udi, venendo dal secondo piano, dopo una discreta chiusura di porta, sempre al secondo piano. Una donna, una signora, scendeva lentamente, sola, come stanca, appoggiandosi alla ringhiera: era vestita con eleganza, ma come in fretta, coi panni che le pendevano addosso, male aggiustati, male abbottonati: il colletto della sua pelliccia era alzato. Pallidissima, del resto, dietro la veletta del suo cappello, con un paio di occhi mortalmente stanchi, dalle occhiaie oscure, con una bocca bella ma dalla piega affaiticata e come amareggiata. Vedendo la monaca, estitò un momento: poi passò, a capo chino, col suo andare abbattuto, di chi ha una grande lassezza fisica e morale. Due o tre volte, di sera, stando nella cucina a spegnere il fuoco, a mettere in ordine piatti e bicchieri, suor Giovanna della Croce aveva visto salire questa signora, lentamente, quasi furtiva, nascosta dietro la sua veletta fitta e l'aveva udita penetrare, senza bussare, dalla porta socchiusa de! giovane avvocato, al secondo piano. Anche, passando, la signora lasciò un sottile profumo di muschio. La monaca crollò il capo ed entrò in casa. Aveva la piccola chiave della porta di servizio, poichè non voleva disturbare sua sorella e sua nepote, passando dalla loro stanza; esse dormivano sino a giorno alto, ogni sera vegliando sino a ora tarda, ora rincasando da piccole serate di giuochi e di ballonzoli, ora avendo, in casa, amici e amiche, facendo del chiasso, giuocando a carte, suonando il pianoforte, qualche volta anche ballando, tra otto o dieci persone. Suor Giovanna della Croce attraversò la fredda cucina e una stanza da pranzo molto poveramente arredata, dove, sulla tavola, erano dei piatti sudici di grasso, dei bicchieri con qualche dito di vino, dei tovagliuoli macchiati; la madre e la figliuola avevano cenato di qualche avanzo del pranzo, rincasando, e avevano lasciato tutto li, calcolando che suor Giovanna della Croce avrebbe pensato a pulire e a riordinare tutto, quando si fosse levata di letto. In verità, esse fingevano d' irritarsi, quando la vedevano piegarsi a ufficii anche servili, e sgridavano l'unica domestica che avevano, un mezzo servizio, una sudiciona malcreata, ghiottona e pigra. Ma, in realtà, poichè per umiltà, per atto di dedizione e per occupare il suo tempo, suor Giovanna della Croce lavorava a tener pulita la casa, esse lasciavan fare, poltrendo sino alle nove, perdendo tempo, dopo, a pettinarsi, a infiocchettarsi, civettuole madre e figlia, di quella ostinata e delirante civetteria povera borghese.

Suor Giovanna della Croce, prima di mettersi al lavoro, rientrò nella sua camera. Questa era una delle migliori del piccolo e seminudo appartamento: formava angolo e aveva un balcone sul Vico Lungo Teatro Nuovo, un altro balcone sul Vico Primo Consiglio. La stanza aveva l'aspetto monacale, invero, col suo lettuccio un po' gramo, con le sue molte immagini, sulle mura, e i cerei pasquali, e l'acquasantiera: ma le melliflue premure di Grazia Bevilacqua verso sua sorella avevano messo un piumino sul letto e un tappetino innanzi al letto, sui mattoni lucidi. Nel vano del balcone verso il Vico Primo Consiglio erano due sedie: sovra una era posato un tombolo di stoffa verde, su cui era appuntato coi suoi spilli e coi suoi fuselli un merletto cominciato. In quel vano era il posto preferito di suor Giovanna della Croce quando aveva finito di dar mano alle faccende di casa. Ella non amava l' altro balcone, quello di Vico Lungo Teatro Nuovo: quella via era popolatissima, frequentatissima, piena di gente a ogni balcone, a ogni finestra, i suoi bassi erano pieni di donne, di bimbi, un vero formicolio di persone su e giù, da per tutto. Anche, dirimpetto, abitava un giovanotto molto bellino, molto elegante, con cui sua nepote, Clementina Bevilacqua, scambiava saluti, sorrisi, parole dolci, segni d'intelligenza; e sebbene zia monaca fingesse di non vedere, di non udire, ella aveva disposto tutto quel maneggio, sotto gli occhi di lei. Suor Giovanna della Croce si rifugiava presso il balcone, chiuso, del resto, che dava sul Vico Primo Consiglio. Era un vicoletto, piuttosto: nessuno o quasi nessuno lo attraversava, di giorno. Dirimpetto al balcone della monaca, vi erano due balconi sempre o quasi sempre serrati, con le gelosie verdi chiuse e abbassate: raramente, in estate, le mezze gelosie si sollevavano un poco o, un doco, si schiudevano le grandi gelosie, ma senza far nulla o quasi nulla vedere dell' interno. Questi balconi erano a un livello più basso, di quello della suora: e si accedeva alla casa, a questo solo primo piano, anzi, a questo ammezzato, da un portoncino sempre aperto, senza portinaio, la cui scaletta di marmo, un po' sporca, giungeva sulla via. Suor Giovanna della Croce aveva finito per amare questa casa dirimpetto, che aveva un aspetto cosi austero e così taciturno: le ricordava, non sapeva come, il monastero di Suor Orsola, con le sue fitte gelosie. Talvolta, ella sogguardava fisamente dietro le gelosie, presa da una curiosità bambinesca ma non arrivava a scorgere niente. Qualche volta, aveva visto una vecchia megera di serva aprire un po' le due imposte verdi e scuotere uno straccio, con cui aveva dovuto spolverare la camera oscura e misteriosa che era dietro quelle gelosie: null'altro. Madre e figlia, Grazia Bevilacqua e sua figlia Clementina, spesso, guardando la loro monaca compiacersi dietro a quel balcone, occupata a far saltare ritmicamente i fuselli della sua trina, avevano sorriso maliziosamente fra loro. Ma suor Giovanna della Croce non aveva visto quel sorriso e, anche, troppi sorrisi maligni, sfrontati, spuntavano sulle bocche delle due donne, perchè ella, nella sua naturale e anche voluta disattenzione, ne tenesse conto. Facesse freddo o caldo, piovesse o tirasse vento, quando aveva finito di aiutare la serva a fare i letti, a spazzare, a cucinare il pranzo, quando aveva finito le sue orazioni, i suoi rosarii, le sue contemplazioni religiose, suor Giovanna della Croce veniva a mettersi al suo posto favorito, nel vano del balcone, sul vico Primo Consiglio, di fronte ai balconi ermeticamente chiusi della casa dirimpetto, di fronte al portoncino sempre aperto. Quel silenzio, quella solitudine, le piacevano. Una o due volte, nella notte, risvegliandosi dal sonno leggiero dei vecchi, le era parso udire delle grandi risate sghignazzanti, delle voci roche, che venissero dal Vico Primo Consiglio: aveva pensato che, nella notte, delle comitive di ubbriachi, venuti dalle cantine di Via Settedolori, di Via Formale, delle Chianche della Carità, discendessero verso Toledo: e si era riaddormentata. Di giorno il Vico Primo Consiglio era deserto e la casa dirimpetto muta e cieca.

Prima di mettersi in giro, per la casa, suor Giovanna della Croce, poichè aveva avuta la bella consolazione di comunicarsi, volle passare un po' di tempo in raccoglimento, meditando sul dono mistico che era in lei. Come a Suor Orsola, nei buoni tempi della sua felicità monacale, ella s'inginocchiò presso il letto, appoggiandosi alla paglia della sua sedia. Ogni volta che faceva questi atti di adorazione alla Divinità, una tristezza le stringeva il cuore: il costante rimpianto della clausura, della regola rigorosa monastica, della pace conventuale, della vita religiosa, si faceva più vivo. La tela che aveva formato la sua esistenza di trentacinque anni, era stata lacerata, brutalmente: ed ella non giungeva a riannodarne i fili infranti. Tentava di non vivere nel mondo, ma era nel mondo; tentava di rifare quella trama di preghiere, di astinenze, di devozioni, di omaggi religiosi, ma non vi riesciva che in parte, imperfettamente, miseramente. Tutto si frapponeva fra lei e la rinnovazione della sua esistenza anteriore: e quanto ella tentava di fare, non era che una pallida e informe ripetizione, mancante di ogni spiritualismo, mancante di ogni conforto. Ora, voleva assorbirsi nel pensiero della Eucaristia, ma a traverso questi storzi per astrarsi, come le aveva raccomandato il suo confessore, ritornava una domanda inquieta, segreta: perchè suo nipote non era rincasato? Dove era? Correva qualche pericolo?

Questo nepote, Francesco Fanelli, era il più giovane dei due figliuoli di sua sorella. Aveva ventidue anni solamente: alto, snello, coi capelli castani, due occhi grigio-azzurri e due mustacchietti biondi, aveva, in sè, una rassomiglianza perfetta con suo padre morto, Silvio Fanelli. Mentre Clementina, biondissima, pallida, con gli occhi biancastri, ma leggiadra sempre, era simile a sua madre, col viso un po' inespressivo delle bionde e un' aria fra altiera e leziosa, Francesco Fanelli aveva l'aria dolce e ridente di suo padre, e una seduzione fisica che egli rendeva più grande, occupandosi moltissimo della sua persona, perdendo un tempo grande alla sua toilette, spendendo tutto quello che gli davano e che soleva portar via a sua madre, in abiti, in camicie eleganti, in cravatte, in cappelli alla moda, profumandosi da capo a piedi, portando anelli di brillanti al dito e fiori all' occhiello. La sua seduzione fisica non era inconscia: sapeva di esser un bel giovane ed adoprava questo suo potere, con tutti, sorridendo, mostrando i suoi denti bianchi, facendo brillare dolcemente i suoi occhi, dicendo delle frasi con la sua voce molle, un po' femminile, delle frasi che, quasi, egli cantava. La madre e la sorella erano costantemente arrabbiate contro lui, per la sua indolenza, per la sua indifferenza, per il suo continuo bisogno di danaro, mentre esse vivevano malaccio, con gli avanzi della fortuna paterna e materna, ma bastava che Francesco si presentasse, tutto bello, tutto elegante, con la sua aria lieta di sè e del mondo, coi suoi sguardi vivaci, col suo sorriso di bel giovanotto fortunato e felice, perchè le conquistasse anche loro. Egli era indifferente, ma carezzevole; egoista, ma gentile; esigente, ma sempre giocondo ed amabile; capriccioso, ma pieno di vezzi e di moine: freddissimo, in fondo, avido di tutti i piaceri, ma celante questa sostanza del suo essere sotto il più incantevole aspetto. E suor Giovanna della Croce, la vecchia zia monaca, invece di concentrarsi nel ringraziamento al suo Signore, per essere disceso in lei, si chiedeva ove mai fosse smarrito suo nepote, Francesco Fanelli. Correva egli qualche pericolo forse? Così giovane, una notte lontano dalla casa, dove, dove mai poteva essere? Stava da mezz' ora, così, inginocchiata, volendo invano fermarsi sovra i beneficii mistici della comunione, suor Giovanna della Croce, quando bussarono alla porta della cucina. Si levò rinunziando alla contemplazione. Chi bussava, era la serva Bettina: bisognava aprirle, unirsi a lei, per le faccende di casa. Infine, non era un atto di obbedienza, di rassegnazione alla bontà divina, quell'adoperarsi, in casa, presso coloro che le avevano aperte le braccia, che l'avevano ospitata? Non era suo dovere? Era vecchia e certi servizii pesanti la stancavano: ma molte cose le poteva fare ancora, per alleggerire la serva, che non bastava a tutto. Bettina borbottava sempre: la casa era grande, le padrone erano capricciose e colleriche, quindici lire di mesata e uno scarso pranzo: ella non finiva di borbottare.

— Hai portato il caffè? — le chiese la monaca.

— Caffè? Non avevo denaro — rispose l'altra levando le spalle.

— Grazia non te ne ha dato?

— No. Doveva comperarsi una scatola di cipria per sè e un paio di guanti per la signorina: come poteva pensare al caffè? — borbottò la serva.

— Tieni: va a comperarlo — disse suor Giovanna, mettendo la mano in tasca.

— Datemi anche i soldi per il latte, allora. Sapete che il signorino ama il caffè e latte.

— Il signorino non vi è — soggiunse la suora, a voce bassa e tremante — Non è rientrato.

— Tornerà più tardi — disse indifferentemente la serva.

— Tu credi? Veramente?

— Eh, zi monaca mia, non si è mica perso, a ventidue anni — esclamò la serva, cinicamente.

— Sarà sano e salvo? Una notte fuori di casa, così, chi sa dove!

— Eh, lo so io dove è! — borbottò la serva.

Ma la monaca non chiese altro. Il suo volto appassito di claustrata sessantenne, di nuovo arrossì come quello di una giovinetta. Si tirò il mantello nero intorno alla persona, come se avesse freddo: e mentre la serva si alzava il fazzoletto di cotone sulla testa, per ripararsi dal vento, uscendo di casa, suor Giovanna cominciò a portare in cucina i piatti sudici, pieni di avanzi di carne fredda, i bicchieri dove s' inacidiva, in fondo, del vinello, aprì la chiave dell' acqua di Serino, mettendovi sotto tutta quella roba sporca. Poi, prese della minuzzaglia di carbone con la paletta, accese il fuoco, perchè l' acqua pel caffè bollisse, quando Bettina fosse di ritorno. Quelle occupazioni volgari non la contristavano. In verità, in monastero, la badessa voleva che ognuna di loro, per turno, aiutasse le converse alla cucina, alla pulizia: e quella obbedienza, quella umiltà era loro cara, poichè pareva loro, nell' anima semplice e rimasta infantile, che tutto andasse a gloria del Signore. In casa Bevilacqua ella seguitava la sua opera di domesticità, ma con minore soddisfazione, in quella oscura e gelida cucina, tra quei poveri arnesi che sua sorella non pensava a rinnovare, tutta dedita all'apparenza e a un falso lusso della persona: seguitava, in compagnia di quella serva brontolona, ingorda, avida, pettegola, la cui lingua spesso correva al discorso turpe e alla bestemmia, soffrendo di quel contatto, ma soffrendone in silenzio, rassegnatamente. Quaranta, quarantacinque anni prima, quando erano nella casa paterna Bevilacqua, lei e sua sorella erano servite, godevano di un' agiatezza secura: ma gli anni erano passati, sua sorella aveva divorato, con suo marito, tutta o quasi tutta la sua fortuna e quella di casa Fanelli: era vedova, ora, con due figli, con rendite scarse, con una ragazza da maritare, con un figliuolo che non studiava, non lavorava e cercava una dote, con la sua beltà seducente. Quasi povera, Grazia Fanelli; eppure aveva raccolto sua sorella teneramente, in apparenza. Sua sorella, come tutte le altre monache di Suor Orsola cacciate dal monastero, aveva avuto, poichè i giornali conservatori e clericali avevano fatto gran chiasso, una somma di mille lire: ma, si diceva certamente, che il governo avrebbe restituito le doti, a ogni monaca. I più scettici dicevano che le sepolte vive avrebbero avuto un forte assegno. Suor Giovanna della Croce rendeva, dunque, l'ospitalità, lavorando, cercando di giovare al disordine e alla miseria segreta della casa, cercando di renderla più decente, mentre Grazia Fanelli si tingeva i capelli biondi incanutiti e sua figlia Clementina si ondulava con la ricciolina. Le ventimila lire di dote di suor Giovanna si aspettavano, da otto mesi. Niuno ne parlava: ma tutti le aspettavano. Ella stessa s' impazientava, vedendo le ristrettezze della casa, sentendo di essere a carico, privandosi molto, cavando, sempre che poteva, qualche cosa dal suo gruzzolo delle mille lire, soldi, naturalmente, ma cavandone sempre, meditando di fare un gran dono alla sorella e ai nepoti, appena le avessero restituita la dote. Le due donne non dicevano nulla, non domandavano nulla: quando zi monaca metteva fuori dei soldi, delle lire, voltavano la testa in là, fingevano di non vedere. Ed ella non si era fatta nè una camiciola di flanella, nè una sottana, nè un fazzoletto di più del suo povero corredo di convento; consumava i suoi due vestiti di Suor Orsola, lavorando e stirando da sè le sue bende candide e i suoi candidi goletti. Adesso avrebbe dovuto farsi un paio di scarpe: ma esitava a spendere quelle dieci lire.

Quando la serva fu tornata e il caffè e latte fu pronto, Bettina lo portò nella stanza, ove madre e figlia si voltavano e si giravano nel letto, non avendo voglia di alzarsi, sbadigliando, la madre dal viso sciupato e logoro, dai capelli mal tinti, la figliuola con le palpebre arrossate delle bionde troppo bianche.

— Che fa zia monaca? — domandò la ragazza, stiracchiandosi.

— Spolvera la stanza da pranzo. È già stata a messa — rispose la serva.

— Beata lei, che si può mettere in grazia di Dio — mormorò ipocritamente Grazia Fanelli.

Suor Giovanna della Croce, lasciato il cencio con cui spolverava, era andata ad aprire la porta, perchè avevano picchiato. E si trovò avanti il nepote, Francesco Fanelli, il bel Ciccillo, ben vestito, come un figurino di moda, tranquillo, col suo sorriso seduttore.

— Oh — esclamò la vecchia suora — Sei qui! Sei qui! E non gli disse altro, tutta tremante di gioia. Egli, sempre amabile, prese la mano rugosa e un po' callosa della vecchia monaca e la baciò rispettosamente.

— Sono stato a Caserta, con un amico — disse, come se niente fosse, sorridendo.

— Vuoi il caffè e latte? Lo vuoi?

E si avviò per andarglielo a prendere, felice di servirlo. Egli la tirò pel nero mantello monacale.

Zia monaca, mi fate un favore?

— Che vuoi?

— Ho da pagare la mia parte di viaggio. Prestatemi venticinque lire.

Col suo passo cauto e quieto di claustrata, ella se ne andò in camera sua, a prendere questo denaro, per darglielo. Egli fumava una sigaretta e canticchiava. Grazia e Clementina sua figlia si disputavano vivamente, infilandosi le calze, nella loro stanza.

Sedute, una di fronte all'altra, coi piedi sui freddi mattoni, con le mani nascoste nell'ampiezza delle maniche monacali, nell' atto tradizionale delle suore, le due vecchie si guardavano, volta a volta, con occhi teneri e tristi e, volta a volta, ripigliavano un discorso lento e sommesso. L' ora non era tarda, appena oltre le quattro pomeridiane: ed esse avevano collocate le loro sedie nel vano del balcone, quello che guardava il vico Primo Consiglio: ma la giornata era grigia, di un grigio eguale e chiuso di nuvole invernali. Il pomeriggio non era freddo: ma un brivido raggrinziva l'antica pelle di quegli antichi visi di donna. Una di esse, l' ospite, era suor Giovanna della Croce, cioè donna Luisa Bevilacqua: la visitatrice era suor Francesca delle Sette Parole che aveva, nel mondo, il nome di Marianna Caruso. Nei dieci mesi dopo la cacciata dal monastero delle Trentatrè, suor Francesca che non aveva avuto pace, se non le fosse stato dato di ritrovare una sua sorella sepolta viva, per mezzo di preti, di confessori era riuscita a saper l' indirizzo di suor Giovanna della Croce e, malgrado i suoi settant'anni, i suoi acciacchi, venendo dall' estremo quartiere di San Giovanni a Carbonara, in dieci mesi tre volte aveva picchiato alla porta di suor Giovanna, per farle una lunga visita. Le due monache restavano sole, in queste visite, e un po'taciturne, sull' inizio, guardandosi nel volto come per riconoscersi meglio: non si baciavano, non si toccavano la mano, poichè questi segni di affetto terreno sono proibiti, fra le suore. Si guardavano, sospirando: e nelle rughe che fitte solcavano il floscio e bianco volto di suor Francesca che era stata una giovane grassoccia e rosea, nelle rughe fini che si diramavano intorno agli occhi, intorno alla bocca della bruna e magra faccia di suor Giovanna, nella espressione di stanchezza rassegnata e pure dolente di suor Francesca, nel senso di malinconia ancora ardente, ancora vivida di suor Giovanna, ognuna cercava di leggere la umile storia di rimpianto segreto e inconsolabile, per il securo asilo che avean perduto, per la casa di Dio che era stata tolta loro, per la pace dell'anima che era stata loro turbata, per sempre, per il cibo del corpo che era stato loro rubato. Tacevano, entrambe, sole, sospirando insieme, poichè i loro cuori avevano i medesimi sussulti di tristezza, pensando al loro alto convento di Suor Orsola, ove si erano sepolte vive e donde erano state discacciate, per sempre. Poi, lentamente, mentre le ombre si venivan dileguando dai loro visi incorniciati di tele candide, si parlavano, pian piano, con la discrezione di chi è molto vissuto fra il chiostro e la chiesa, con la parsimonia di gesti di chi è abituato a dominare ogni impeto fisico, sotto un regime di calma e di rassegnazione. Infine, questa era la terza visita: in un pomeriggio di febbraio, senza sole, di un bigio diffuso da un velo eguale di nuvole.

— Io ho dovuto rinunziare alla divozione della Scala Santa, Giovanna mia — disse, sommessamente, suor Francesca — ed era la mia consolazione, in monastero. Mi dicono che vi sia una Scala Santa, a Napoli, ma in una chiesa verso Mergellina, alla fine del Corso Vittorio Emanuele: come ci posso andare, così distante dalla casa mia? Anche con l' omnibus ci vorrebbero due o tre ore, per andare, per tornare. Poi, forse, non avrei la forza di fare i trentatrè scalini sulle ginocchia. Sono così vecchia! Io ho da tredici a quattordici anni più di voi, Giovanna.

— Anche io ho dovuto rinunziare a varie divozioni — riprese, piano, suor Giovanna — Sono in casa di mia sorella, essa mi rispetta, ma è tutta del mondo e certe cose non le vuol capire. Una volta, vi rammentate, Francesca, io digiunavo tutti i giovedì, vigilia del venerdì, in cui è morto nostro Signore? Adesso, non lo posso fare più. Mia sorella dice che queste sono divozioni che fanno male alla salute, mia nipote Clementina mi burla e mio nepote Francesco dice che l' ostentazione è un peccato, anch' esso. Così, per non farmi notare, ho smesso il digiuno del giovedì, Francesca. Ma che volete, non ne ho più l'abitudine, di mangiare in quel giorno e ogni boccone mi pare che mi strozzi.

— Se ho voluto tenere accesa una lampadina innanzi al Sacro Cuore — riprese suor Francesca delle Sette Parole, a voce bassa — ho dovuto e debbo comperarmi l'olio da me. I miei parenti, sono avarissimi. Del resto sono molto poveri, marito e moglie, e sono stati fortunati di non aver avuto figli: quel poco che hanno, basta appena appena a loro. Io non ho il coraggio di chieder loro nulla. Per due mesi, dopo che ci hanno cacciate dal convento, mi hanno tenuta con loro, senza farmi pagare niente, ma sono stati dei gravi sacrifizii che hanno fatti per me e che non potevano continuare a fare. Li vedevo sempre freddi e muti, che si guardavano, imbarazzati, anche seccati di questo peso che era caduto loro addosso. Sono loro prozia, non avevano obbligo di mantenermi. Adesso… è un'altra cosa.

Un silenzio. Ognuna di esse, prima di parlare, guardava la compagna, con una breve contemplazione quieta e malinconica: poi, riannodava il discorso come se parlasse fra sè, senza interlocutore, pianissimamente, con ritmo eguale di voce, come lo scorrere costante e monotono di una fonte. Talvolta, come adesso, ambedue tacevano: sogguardavano nella stanza nuda e gelida di suor Giovanna, quasi senza vedere le cose, intorno: sogguardavano verso i balconi sbarrati della casa dirimpetto, nel vicolo deserto del Consiglio.

— Adesso, che fate? — domandò suor Giovanna, chinandosi un poco verso la sua vecchia compagna — Adesso, non siete più a loro carico?

— No. Pago. Pago qualche cosa, ogni mese, rispose suor Francesca, con un lieve sospiro — Da quando ho avuto le mille lire che voi sapete, Giovanna, non ho avuto la forza di mangiare il pane dei miei nepoti, così, senza far nulla per loro. Sul principio, non volevano, si vergognavano, dicevano che la gente avrebbe sparlato di loro, se accettavano il mio danaro. Ma io capii che lo avrebbero preso. Ora, io pago.

— E che pagate?

— Io pago quaranta lire al mese, per tutto — disse suor Francesca delle Sette Parole, con un sospiro anche più profondo — Mi dànno una stanza, il pranzo, la servitù, l' imbiancatura, per queste quaranta lire il mese. Un po' di caffè, la mattina; il pranzo alle due; e un po' di cena, alla sera.

— E come mangiate?

— Mi piaceva meglio la cucina del convento — disse suor Francesca, con un tòno più alto di tristezza.

— Quaranta lire il mese? Le pagate da otto mesi, è vero? Dovete avere speso trecentoventi lire, di già.

— Ne ho speso trecentocinquanta — riprese, tristissimamente, suor Francesca — L' olio nella lampada…. qualche piccola elemosina…. un paio di scarpe che mi son dovuta fare…. certi fazzoletti…. io non ho più che seicentocinquanta lire. Ho fatto varie volte il conto, Giovanna. Sono solo due anni che io posso aver da vivere, con quel denaro.

— Sì, due anni soltanto, suor Francesca — ripetette l'altra, con tòno dolente.

— Io non ho che una sola speranza, in tutto questo.

— Che ci restituiscano la dote?

— Non ci restituiranno più niente — soggiunse la vecchia monaca, crollando il capo — Oltre quelle mille lire, non avremo altro, lo vedrete. Si è fatto del chiasso allora e, per far tacere la gente, ci hanno dato quel denaro. Ora, tutti ci hanno dimenticate. Io ho una sola speranza: ed è di morire prima dei due anni. Sono assai vecchia e Dio mi chiamerà presto, io spero, prima di mandarmi all' elemosina o di lasciarmi morire di fame.

Un triste silenzio, ancora. Penosamente, suor Giovanna lo ruppe:

— Io non ho neppure questa speranza, suor Francesca, perchè sono meno vecchia di voi. Debbo raccomandarmi a Dio, perchè mi tolga da questo mondo di dolore e di miseria.

— Anche voi pagate, qui?

— No, non pago. Mia sorella e i miei nepoti non hanno mai voluto accettare che io pagassi una pensione. Ma è anche peggio, sorella mia. Erano agiati; sono, adesso, in ristrettezze. Non voglio dire per causa di chi e perchè, non debbo far giudizii maligni o temerarii. Spesso, il denaro manca, in casa. Allora, io debbo spendere, se non voglio farla da avara, da egoista o da profittante.

— E avete speso assai?

— Eh!… abbastanza — rispose, con voce smarrita, suor Giovanna.

— Quanto?

— Circa seicento lire.

— Seicento lire? Gesù! Più della metà?

— Più della metà, purtroppo!

— E come avete fatto?

— Così, a soldo, a soldo; a lira, a lira. Prima, tenevo un piccolo libro dove, ogni giorno, scrivevo quello che spendevo. Adesso…. non ci scrivo più nulla.

— Seicento lire! È troppo, Giovanna mia.

— Sì, è troppo, lo so. Ci è anche quel mio nepote, Francesco Fanelli, che ha tanti bisogni…. È un giovanotto…. si vuole sposare…. cerca una ragazza…. ogni volta che mi chiede denaro, non so dire di no.

— Gli volete bene, a questo nepote, è vero? — chiese suor Francesca delle Sette Parole, sogguardando un po' di più la sua sorella in Gesù.

— Sì, gliene voglio.

— È questo il figliuolo di quel giovane che dovevate sposare, mi pare?

— Sì, è questo: è il suo unico figliuolo. Il padre è morto. Se non fosse morto, io non sarei venuta qui — soggiunse, semplicemente, suor Giovanna della Croce.

— Per paura della tentazione, forse?

— No, sorella mia. Da molto tempo, Gesù mi aveva dato la pace. E la vecchiaia, poi! Ma non sarei venuta, ecco, se Silvio Fanelli fosse stato ancora vivo. Sarebbe stato ridicolo e sciocco, ritornare qui. Ma non vi è più: da un pezzo gli avevo perdonato ed egli stesso deve avermi perdonato, in punto di morte, se gli ho dato qualche tristezza.

— Il suo figliuolo gli rassomiglia?

— Sì, molto!

— E vi siete confessata di tutto questo?

— Sì, suora mia — disse, umilissimamente, suor Giovanna della Croce — Per scrupolo, mi sono confessata.

— E vi hanno assolta?

— Sì. Ma il confessore mi ha esortato a non dar più il mio denaro, nè a mia sorella, nè a mio nepote.

— Ha ragione. Quando non ne avrete più, come farete?

— Io non lo so — disse suor Giovanna, stringendo le mani nelle ampie maniche, rabbrividendo tutta — Non so niente!

— Io ne ho per due anni; ma voi, no, sorella mia.

— Forse per due mesi, non più; e io tremo di spavento, pensandoci. Non credete che ci ridaranno la dote? No? Non lo credete? Qui, lo credono. Sovra tutto, lo sperano. Io…. io non dovrei dirlo, ma è proprio così: ritengo che mia sorella ci abbia calcolato sopra, in questo decadimento completo della sua fortuna. Quando venne…. non dovrei dirlo, è troppo triste…. non mi parlò di denaro, non fece che condurmi qui, ma io restai sospettosa, diffidente: non mi aveva mai voluto bene, mia sorella. Perchè mi raccoglieva? Sulle prime, non mi hanno detto nulla. Fra le altre cose credevano che io avessi accumulato del denaro, in convento. Voi sapete che avevamo fatto voto di povertà! Poi, si sono convinti che non avevo altro che quelle mille lire: e se le vanno prendendo allegramente, senza dirmi neppure grazie. Da due mesi, adesso, non parlano che delle mie ventimila lire, come se fossero loro, come se dovessero averle domani.

— Non avremo mai restituita la dote — disse, monotonamente, suor Francesca delle Sette Parole.

— Voi lo dite! — disse, angosciosamente, suor Giovanna della Croce — E mio nepote, invece, crede il contrario. È già andato a Roma, due volte, da persone del Governo: gli ho dato cinquanta lire alla volta. Sempre, ha portato delle buone notizie. Si rincorano, fanno i loro conti, rimandano il pagamento di varii debiti a quel tempo, fanno progetti di nuove spese…. È una cosa che mi fa spasimare, ma non oso di parlare, sorella mia!

— Ma vi trattano bene? — chiese suor Francesca, con affetto.

— quando pensano a questo denaro, si — disse suor Giovanna. a voce anche più bassa — Non sono interessati, forse, ma sono bisognosi, che farci? Mi hanno data una buona stanza, vedete. Io lavoro, in casa: fo di tutto. Non servo loro, servo il Signore. Ci avevano abituate alla fatica, vi rammentate? Ma faticavamo in letizia, allora. Qui, vi è noia, vi è malinconia: spesso, litigano forte, fra loro, la madre e la figliuola. Si dicono delle cose brutte, assai brutte…. io ne soffro, suor Francesca.

— Pazienza, pazienza!

— Si, pazienza, è vero, ne ho; ma niente di quello che succede mi piace. Nè la madre nè la figlia amano il Signore: vanno in chiesa la domenica, solo per occupare un' ora. Fanno la burletta sulle cose della religione. Io mi alzo e vado via, quando questi discorsi cominciano: non posso udirli. Sento che ridono alle mie spalle; adesso, ridono anche più….

— Fermezza, nelle tribolazioni!

— Quando sono sola, piango, qualche volta, suor Francesca. Io penso che accadrà di me, quando non avrò più un soldo, e quando costoro avranno perduto ogni speranza di avere le ventimila lire! Ora, vengo spesso in questa stanza, m' isolo, mi metto a tessere il merletto, qui, in questo balcone….

— Potreste venderli, questi merletti, suor Giovanna — mormorò suor Francesca, toccando i fuselli.

— Venderli? E che me ne darebbero? Io non conosco nessuno. Così potessi! Questo merletto serve per l' altar maggiore della chiesa, qui, del Consiglio….

— È bello: uno simile, lo potreste vendere.

Tacevano. Imbruniva. Le loro persone si abbandonavano, stanche, abbattute, nelle vesti nere. Il volto molto bianco, di un bianco di cera di suor Francesca delle Sette Parole, si distingueva, nelle prime penombre: quello bruno e sottile di suor Giovanna si riempiva di ombre.

— Voi passate le giornate, qui, suor Giovanna?

— Sì; dirimpetto, vedete, abitano persone silenziose e solinghe, che non ho mai viste, che non schiudono mai le finestre nè i balconi. Nessuno mi osserva: io non osservo nessuno. E mi sembra, talvolta, di esser ritornata a Suor Orsola….

— Oh Suor Orsola era un' altra cosa — mormorò suor Francesca delle Sette Parole — Niente ci somiglia, sorella mia. Quanti anni, ci siamo state, quanti!

— Troppo pochi!

— Sono fuggiti come un giorno. Mi pare di aver sognato; penso che ho sognato. Vi rammentate di suor Clemenza delle Spine, quella piccola?

— Sì, povera suor Clemenza, vi ricordate? Come era divota delle anime del Purgatorio! Ed era così brava nel fare i letti, tutte quante la pregavano, perchè rifacesse loro il letto! Che ne sarà stato?

— Chi lo sa! Anche suor Gertrude delle Cinque Piaghe era buona, non è vero? Un po' superba, forse, della sua nascita: ma era un piccolo difetto. Se ne pentiva, poi, si batteva il petto, mi ricordo. Certe notti, per questo peccato di superbia, si batteva con la disciplina. Che ne sar à successo?

— Chi lo sa! Tutte le suore mi erano care, ma suor Veronica del Calvario mi sembrava una santa…

— Era una santa, era! Quante grazie particolari aveva da Gesù, da Maria, suor Veronica! Io mi raccomandavo sempre a lei, perchè mi affidasse alla Madre e al Figlio: ed essa, talvolta, restava ore intiere, inginocchiata, in estasi, pregando solo per me. Chi la vedrà più, ohimè, suor Veronica? Pregherà essa ancora per me? Dove sarà? Che farà?

— Chi lo sa!

— Voi non avete saputo più niente, di nessuna?

— No, di nessuna. Solo di voi.

— E io, solo di voi. Eppure, della povera nostra badessa, avrei voluto conoscere qualche cosa, Giovanna mia. Ho cercato, ho cercato: ma non vedo nessuno, sono così vecchia, mi è stato impossibile di averne notizie.

— Suor Teresa di Gesù era la mia madre e la mia benefattrice — disse, esaltatamente, suor Giovanna della Croce — Io mi sono divisa da lei, solo per la forza.

Ancora un silenzio, un lungo silenzio pensoso.

— Io dico che suor Teresa di Gesù deve essere morta — soggiunse suor Francesca, come se parlasse a sè medesima.

— Credete che sia morta? Voi lo credete?

— Lo credo, sorella mia. Quando ci separammo, compresi che non poteva vivere molto. Essa deve esser morta.

— Beata lei, se è morta.

— Beata lei, se è morta.

La sera era caduta. Suor Francesca delle Sette Parole si levò per andarsene. La visita era durata molto. Anche l' altra monaca si era levata. Erano di fronte, nell'ombra.

— Diciamo qualche avemaria, insieme — propose suor Giovanna, tristamente.

Orarono, un poco. Si separarono, insieme.

— Io vado. Prenderò l' omnibus, sino laggiù. Costa due soldi.

— Non avete paura, sorella mia?

— No. Che mi può accadere? Chi si cura di una vecchia monaca come me? È tardi: non vi sono neppure monelli, per corrermi dietro e gridarmi Zi monaca. Vi è l' omnibus, quasi qui, a Toledo.

— E quando ci vedremo? — chiese suor Giovanna — Grazie della visita. Quando ritornerete?

— Non so. Non posso dirvi. Come vorrà Iddio. Forse, mai più: meglio separarsi, come se morissimo.

— Dio vi benedica, allora.

— Benedetta voi, sorella mia.

L'una monaca se ne andò, a capo chino, con le mani nascoste nelle maniche, nelle vesti nere, sotto il candor delle bende: l'altra monaca rimase, a capo basso, stringendosi nel mantello, sotto le vesti nere, con la fronte chiusa sotto la fascia bianca: una, solinga, per le vie frequenti; l'altra, solinga, nella casa vuota, di fronte a una casa taciturna e oscura.

Matilde Serao.

Due o tre volte, Clementina Fanelli aveva fatto capolino dalla porta di sua zia monaca e aveva sogguardato, con curiosità ed impazienza, che cosa facesse suor Giovanna della Croce: prima l' aveva trovata assorta nella lettura di un libro di orazioni e la suora non si era neppure accorta della presenza della nepote: la seconda volta, la monaca era inginocchiata innanzi al crocifisso, a testa bassa, mormorando delle lunghe giaculatorie; la terza, diceva il rosario di quindici poste, quietamente, seduta presso il gramo letto. Clementina Fanelli aveva battuto il piede, dal dispetto e si era morsicate le belle labbra, sempre un po' pallide: era una bionda molto scialba, dai capelli di un biondo cenere arruffati sulla fronte e alle tempie, dagli occhi di un azzurro biancastro, dal naso all'insù, con un'aria di freddezza, d'indolenza, di seccaggine, in tutta la persona alta e sottile: vestiva bizzarramente, del resto, anche in casa, di chiaro, con un nastrino celeste al collo nudo, che si vedeva dall'apertura del vestito, malgrado si fosse in febbraio, con le maniche che appena oltrepassavano il gomito, coi capelli fermati da forcinelle di pastiglia, da pettinessine con brillantini falsi, con due grosse perle false, alle orecchie. Ella fremeva per entrare in quella stanza di suora Giovanna e per potersi avvicinare al balcone del Vico Lungo Teatro Nuovo; quel rosario non finiva, dunque, mai? Non potendo più stare ferma:

— Permettete! — disse alla zia, entrando, avvicinandosi al balcone tanto agognato.

Suor Giovanna non rispose. Guardò la nepote, il balcone e una espressione di tristezza e di confusione le si dipinse in viso: più lente, più fioche, si sgranarono le Ave Marie e i Pater sotto le sue dita, avvezze al trascorrere dei grani del rosario. Adesso, la nepote, si era installata dietro i cristalli e fissava il balcone dirimpetto, nel vivace e rumoroso Vico Lungo Teatro Nuovo; dietro i cristalli, il giovanotto con cui ella amoreggiava, era fermo, aspettandola al convegno. Si guardavano, si sorridevano: poi, una telegrafia vivace, di segni, di lettere alfabetiche riprodotte con le dita, cominciò, mentre suor Giovanna della Croce, sospirando, aveva voltato la persona in là, per non vedere. Ma questo non bastava, a Clementina: ella disse, a sua zia:

— Scusate, zi monaca: Ma debbo dire qualche cosa a Vincenzino. E schiuse i cristalli, lasciando entrare il freddo di una giornata rigida di febbraio; si mise a parlare col giovanotto, dirimpetto, che aveva aperto i cristalli anche lui, con voce moderata, dalla soglia del balcone. Come aveva cercato di non vedere, triste, imbarazzata, la vecchia monaca tentò di non ascoltare, s' immerse in altre orazioni, sebbene avesse finito il rosario. Clementina cercava di parlare nitidamente, ma piano e dal fondo della stanza, suor Giovanna della Croce dovette, per forza, udire le ultime parole del colloquio d' amore:

— …. stasera, stasera.

Clementina chiuse i cristalli, rientrò nella camera: dalla sua parte, il giovanotto era sparito. Animata e colorita, durante quella breve scena di amore, Clementina riprendeva, ora, il suo aspetto smorto, indifferente, annoiato. Si avviava per andarsene, quando la zia la chiamò:

— Clementina?

Zi monaca?

— Perchè, figlia mia, fai questo? — le domandò la vecchia suora, guardandola negli occhi, ma senza severità.

— Che cosa? — rispose la fanciulla, subitamente scossa.

— Quest' amicizia…. con questo giovane…. — mormorò la monaca che non voleva, per pudore, precisare bene.

— Non è amicizia, è amore — dichiarò Clementina, impertinentemente — Io voglio bene a Vincenzino, Vincenzino mi vuol bene, per questo lo faccio.

— Non sta bene, figliuola mia, non sta bene! — e crollò il capo, suor Giovanna.

— Perchè, non sta bene? Tutto il mondo amoreggia — continuò l' insolente Clementina.

— Non tutti, non tutti, figliuola mia.

— Voi non ne sapete niente, perchè siete monaca e siete vecchia. Tutto il mondo amoreggia e io pure. Tutte le mie amiche hanno l' innamorato; io che sono più bella di loro, anche lo ho.

— Non parlare così — disse, piano suor Giovanna della Croce, il cui volto pieno di rughe si andava covrendo di rossore.

— Io dico quello che penso, zi monaca. Sia maledetta la bugia! Sono ragazza e non debbo nascondere che amoreggio. Sono le donne maritate, che lo debbono nascondere! — replicò sfrontatamente la fanciulla.

— Zitto, Clementina, zitto! — e la povera monaca scandalizzata, fece atto di turarsi le orecchie.

— Le donne maritate anche fanno all'amore, se lo volete sapere, zi monaca, ed è una vergogna, perchè si potrebbero stare a loro posto! La portinaia, qua abbasso, ha per amante una guardia di pubblica sicurezza, che ogni sera viene a trovarla, nel casotto e Concetta, gli fa trovare il caffè e il bicchiere di vino. È maritata o no, Concetta? Qua sopra, al secondo piano, l'avvocato de Gasperis ci ha una donna maritata, che viene a trovarlo, due o tre volte la settimana, di notte e se ne va la mattina, io l' ho vista salire e scendere e voi pure, eh! zi monaca, l' avete vista….

— Gesù, Gesù, che scorno, una ragazza, parlare così! — esclamò la monaca che soffriva enormemente di quei discorsi.

— Eh le ragazze capiscono tutto adesso! — gridò Clementina, che era entrata in uno stato d' isterismo — Le ragazze, non sono più stupide come una volta, a tempi vostri, zi monaca! Foste stupida voi, ad andare nelle sepolte vive, per mio papà che vi aveva tradito, per mammà che vi aveva rubato l'innamorato! Mammà ha fatto altro che questo, dopo….

Ma si fermò. La vecchia monaca si era levata in piedi, tremante, con le mani tese, chiedendo, imponendo silenzio alla creatura sfacciata che gridava le brutali verità della vita. Clementina s'interruppe, balbettò:

— Scusate, zi monaca…. tengo i nervi, oggi …

Fece per uscire; ritornò indietro, cavò una lettera, larga, dalla tasca.

— Mi sono scordata di darvi questa lettera, che il postino ha portata.

E se ne andò subito, lasciando suor Giovanna della Croce in mezzo alla stanza, con quella larga lettera, fra le mani. Ancora un tremito mortale scuoteva le fibre della monaca: mentalmente, ella si raccomandava a Dio, perchè vincesse la sua confusione e il suo dolore. La ragazza aveva taciuto, era partita: un altro minuto ancora e la vecchia suora avrebbe pianto di umiliazione, di pudore offeso, di vergogna innanzi a sua nepote. Così, non potette aprire subito quella lettera, tenendola nelle mani, distrattamente, quasi non vedendola, quasi essendosene dimenticata: si andò a gittare sulla sedia, nel vano del secondo balcone, quello che dava sul Vico Primo Consiglio, dirimpetto alla casa muta e cieca. Teneva curva la testa, curve le spalle: si sentiva piegata sotto un peso atroce, che lentamente la schiacciava. Restò così, qualche tempo. Poi, si rammentò della lettera. Guardò il francobollo timbrato; veniva da Roma; portava questo indirizzo: Signora Luisa Bevilacqua, già monaca nell' Ordine delle Sepolte Vive. L'aprì: la lesse. La lesse di nuovo, più piano, parola per parola. Il suo viso era diventato plumbeo e il capo era caduto sul petto.

Quando, un' ora dopo, Grazia Bevilacqua entrò nella stanza di sua sorella monaca, la trovò a quel posto solito, di fronte alla casa oscura e silenziosa. Suor Giovanna della Croce teneva il tombolo del merletto sulle ginocchia, ma non lavorava: le mani lunghe e magre erano abbandonate sul cuscino, coperto di tela verde. La monaca pareva assorta, niente altro.

La sorella, meno vecchia di lei di cinque o sei anni, non le rassomigliava. Era bionda e i suoi capelli erano tinti malamente, tanto che assumevano, qua e là, ombre verdaste: il viso era bianco e gonfio di un cattivo grasso: una costante espressione di malcontento torceva quella bocca, che era stata molto bella. Come sua figlia Clementina, Grazia portava una vestaglia sgargiante, carica di nastrini, di ciuffetti, di cascate di merletto e portava dei braccialetti ai polsi: ma il corpo si deformava nella grassezza, rompeva la fascetta. Si sedette, di fronte alla sorella monaca.

— Che fai? — le domandò, senza interesse e senza curiosità, tanto, per entrare in discorso.

— Niente — disse suor Giovanna, con voce fioca.

— Non ti senti bene? Vuoi qualche cosa? — replicò l' altra, con una gelida premura.

— Grazie, non voglio nulla. Sto bene.

— Sei qui, sola sola, da molto tempo? Ho avuto tanto da fare, io! Ho tanti guai, tanti guai!

— Nessuno è solo, in compagnia di Gesù e di Maria — rispose la monaca, sempre a voce bassa.

Tacquero. Si vedeva bene che Grazia Bevilacqua volea dire qualche cosa d'importante, alla sorella. La guardava: le bianche e flosce palpebre battettero sugli occhi azzurro-grigi che erano stati così belli e così perfidi.

— Luisa? — chiamò Grazia.

— Non mi chiamare così. Chiamami Giovanna — soggiunse la monaca, scuotendosi.

— Come vuoi tu. Giovanna, Luisa, per me, è tutt'uno. Purchè ti ricordi che mi sei sorella, mi basta!

La monaca, tratta dallo stato di stupore, in cui si trovava, levò gli occhi in viso alla sorella, improvvisamente attenta.

— Io sono in un mare di tristezze, Giovanna. Con quel poco che mi è restato, non giungo a far vivere la mia famiglia e me, che a stento; tu lo vedi. Non è colpa mia, credilo. Silvio, mio marito, si è divorato quasi tutto il suo avere e una parte della mia dote: io, è vero, ho voluto sempre figurare, mi è piaciuto di mostrarmi al mio rango, ma ti giuro che non ho sciupato molto…

— Perchè mi dici queste cose, Grazia? Io le so.

— Non le sai bene! Non le sai abbastanza! Sei monaca, queste cose del mondo non le puoi capire perfettamente. Sono guai, sono guai grossi….

— Dio ti assista!

— Aiutati che io ti aiuto, dice Dio! Se non marito Clementina con un giovane ricco, se non procuro una sposa ricca a Francesco, come faremo? Perciò porto in giro la ragazza, perciò faccio dei sacrifizii per far vestir bene Francesco, qualche buon partito, ricco, molto ricco, deve capitare, all' una, all' altro. E allora, tutti saremo prosperi, felici, anche tu, Giovanna….

— Io chiedo al Signore la pace — disse la suora, con un profondo sospiro.

Grazia era inquieta, agitata, sulla sua sedia. Aveva fatto tutto quel preludio fra querulo e ipocrita, per venire a un fatto concreto.

— Per ora, sono nell'olio fritto, Giovanna.Debbo dare quattro mesi al padron di casa, cioè trecentosessanta lire, a novanta lire il mese, ed esso strepita, per averle. Mi ha anche citato due volte: un giorno o l'altro mi sequestra questi pochi mobili….

— Oh Gesù!

— Così è. Non si vergogna di fare strepito, per questa sua brutta casa, con l'inconveniente grave che vi è….

— Che cosa? — chiese, inconsciamente, la monaca.

— Nulla — disse Grazia, cangiando discorso, dopo aver sogguardato dalla parte del Vico Primo Consiglio, verso la casa sbarrata e taciturna — Alle corte, io ho cento lire, da dare al padron di casa: ma non le vuole. Vuole tutto. Dammi tu le altre duecentosessanta lire ed esciamo di pena.

— Volentieri, Grazia, volentieri — mormorò con voce umile, suor Giovanna della Croce — Ma non le ho.

— Non le hai? Non le hai? — esclamò, con un principio d'ira la sorella — Come è possibile?

— Non le ho, purtroppo.

— E che ne hai fatto, del tuo denaro?

— Quale denaro?

— Le mille lire! Qua non ti ho fatto pagare un soldo, di parte tua, in casa. Che ne hai fatto, di mille lire?

— Le ho spese — disse semplicemente la monaca.

— Dove, le hai spese? Mille lire, sono molte! — e la sua voce diventava furente, nella delusione dell'avidità.

— ….. così, un poco per volta….. le ho date a te…. a Francesco…. molte, a Francesco….

— Qualche lira, mi avrai dato: ed erano mille! Perchè le hai date, a Francesco? Quanto gli avrai dato? Non hai più niente? — e la guardava, con gli occhi torbidi e stralunati, con la bocca gonfia che si torceva.

— Cinquanta o sessanta lire, niente altro — disse suor Giovanna della Croce, lasciando cadere desolatamente le braccia.

— E stai fresca! Stiamo freschi! Cinquanta o sessanta lire, null' altro! E io che ti ho mantenuta, di casa e di vitto, come una signora! Io che me lo sono levato dalla bocca, per dartelo! Cinquanta lire! Te ne fai un cataplasma, di queste cinquanta lire: e io pure! Hai gittato novecentocinquanta lire: e qui ci sfrattano dalla casa! Hai gittato il tuo denaro e se ti serve una tonaca, domani, chi te la fa? Se ti ci vuole un paio di scarpe, chi te lo fa? Gittare questo denaro, così! Sempre una pazza, sei stata, sempre, da quando ti andasti a far monaca per Silvio…!

Suor Giovanna della Croce sopportava in silenzio tutta la collera di sua sorella, raccomandandosi mentalmente a Dio, perchè le desse una pazienza sublime. Era vecchia, era stanca, era triste: ma il rinfaccio crudele della sua miseria e del suo abbandono, il rinfaccio del tetto e del cibo datole quasi in elemosina e quel costante, perenne ricordo del suo amore per Silvio, facevano ardere il suo lento sangue di sessantenne. La sua mano stringeva il rosario cadente dalla cintura, convulsamente lo stringeva, come a reprimere ogni suo sentimento.

— E intanto, come si fa, ora! — gridò, novellamente, Grazia Bevilaqua — Come si paga, questo padrone di casa? Abbiamo bisogno di vestiti, per la primavera, dobbiamo farci della biancheria, possiamo girare lacere? E questa egoista ha buttato mille lire! Come si fa? Ma tu, cuore ne hai? Gratitudine, ne provi? Che monaca sei? Solamente di Gesù Cristo ti occupi? Quello sta bene, in Cielo! Pensiamo alla terra! Qua ci vuole un rimedio. Tu lo devi trovare. Ti ho tenuta un anno, in casa, gratis, tu devi trovare il modo di aiutarmi…

Suor Giovanna della Croce diede un' occhiata smarrita e desolata a sua sorella.

— Cerchiamo uno strozzino, facciamo un debito sulle tue ventimila lire, firma una cambiale….— disse Grazia, che aveva pratica di questi espedienti.

— Quali ventimila lire? — disse la monaca, trasalendo.

— La dote! La dote! Quella che ti deve restituire il Governo e che tu, se hai viscere di donna, devi dare a me ed ai nepoti. La dote! Ventimila lire!

Allora, suor giovanna della Croce levò la testa, chiuse un istante gli occhi e rispose:

— Io non ho più nulla.

— Come? Che dici?

— Dico che non ho più nulla — ripetette, fermamente, la monaca.

— Sei pazza! Sei pazza! Il Governo non ti deve ridare il tuo danaro?

— Il Governo non mi restituirà più niente, della mia dote.

— Chi te l' ha detto? Chi te l' ha detto?

Era spaventosa, di collera, di ansietà, di smarrimento, Grazia Bevilacqua.

— Me lo hanno scritto.

— Chi te lo ha scritto? Da dove?

— Ecco la lettera — disse la monaca, dandola a sua sorella.

Dopo la lettura affannosa, febbrile, della lettera, vi fu un silenzio fra le due sorelle. Suor Giovanna della Croce non appariva turbata: l'altra era accasciata.

— Tutto è finito, dunque? — domandò Grazia.

— Tutto è finito.

— Che ti daranno, al mese? Quarantuna lira?

— Si, quarantuna lira — rispose, senz' altro, suor Giovanna della Croce.

Di nuovo, silenzio.

— Con quarantuna lira — riprese, assalita da un nuovo accesso di rabbia, Grazia Bevilacqua — dovendo dormire, mangiare, vestirsi, calzarsi, ci è da stare bene. Sei ricca, eh!

Suor Giovanna della Croce apri le braccia, con un cenno vago e largo.

— E che intendi di fare? — disse Grazia, con voce fischiante.

La sorella trasali, la guardò.

— Io ho figli, ho poco denaro, non ti posso mantenere — continuò Grazia, duramente, crudelmente. Ho speso troppo, me ne pento, ma la cosa non può continuare. Le tue quarantuna lira non servono a nulla, in casa mia. Ci vuole altro. Che intendi di fare?

— Andarmene — rispose, senz' altro, suor Giovanna della Croce.

— Meno male, che hai capito. Ti ho tenuta dieci mesi, nessuno mi può dire nulla. Le tue mille lire, le hai disperse. Chi ne ha visto un soldo? Le tue quarantuna lira, non le voglio. Più presto si risolve, questa faccenda, meglio è!

— Andrò via domani — replicò suor Giovanna della Croce.

Esclamando ancora, trascinando il passo, col viso stravolto e la bocca carica di fiele, Grazia Bevilacqua lasciò la stanza. Suor Giovanna della Croce aspettò, immobile, rigida, che la sorella fosse lontana, all'altro capo della casa. E quando fu certa di non essere udita, suor Giovanna della Croce crollò, sul suo povero letto, singultando, dibattendosi, mordendo le coltri, gridando fra i singhiozzi:

— Vergine dei Dolori! Vergine dei Dolori! Vergine dei Dolori!

Albeggiava. Il cielo d' inverno, purissimo, passava dall' azzurro vero, profondo e nitido della notte piena di scintillanti e trepide stelle all'azzurro quasi bianco, unito, quasi latteo dell'aurora d'inverno. Il silenzio grande della città, dormiente, ogni tanto, era attraversato da un grido mattinale, ora lontano, ora vicino. La luce si diffondeva, limpida e cruda, dai cristalli chiusi dei due balconi, nella camera di suor Giovanna della Croce: ella non serrava mai le imposte, per lunga abitudine conventuale, tutte le monache dovendo levarsi all'alba, per le preghiere del rito. L'ombra favorisce troppo il sonno, l'infingardaggine, i sogni, e tutte le altre tentazioni della vita profana. La suora, quella notte, aveva avuto un riposo scarso e inquieto. Due o tre volte le era parso di udire del chiasso nel Vico Primo Consiglio, come qualche altra notte, voci irate mescolate a grandi sghignazzamenti, una canzone di voce briaca, un ritornello di fischi e di gridi. Con un moto di sgomento, ella aveva nascosto la testa sotto le coltri: le sue sempre più grandi tristezze, il suo rotolare infrenabile verso un precipizio di stenti e di miseria, la rendevano, oramai, più timida e più paurosa del giorno in cui era stata scacciata dal monastero di suor Orsola Benincasa. Di nuovo, però, il silenzio aveva dominato l'ambiente; e, nella stanza della monaca non era restata che l' agitazione della sua anima in pena.

Pure, quella mattina, la consuetudine monacale la portò ai soliti atti di prostramenti, di preghiere, di parole e di gesti ripetuti mille volte, quando era nella calma, sepolcrale solitudine delle Trentatre, protetta dalla sua clausura, protetta dalle forti mura simili a quelle di una tomba. Ancora una volta ella doveva fare un povero fagotto delle sue poche robe e partire, cercando un asilo poverissimo, ove andar a vivere gli anni della sua già avanzante vecchiaia: ma, prima di accingersi a questa novella dipartita, meno straziante, forse, meno angosciata, poichè il cuore ha la lenta assuefazione al dolore, ma non meno piena di dubbio, di smarrimento, di paura, suor Giovanna della Croce compi quanto ogni alba faceva, da quaranta anni. Certo, vi era alcun che di meccanico, di monotono, di esteriore, in tutto quel susseguirsi di gesti e di atti religiosi, di preci e di litanie, che si legavano l' una all'altra, ma bene la fede le ha riunite e le ha imposte, come un freno naturale a ogni orgasmo fisico, come esercizio, se non di elevamento, di pacificazione. Quando tutto ebbe finito, suor Giovanna della Croce andò in cucina, attraversando la casa in punta di piedi, per non risvegliare la sua avida e crudele sorella, i suoi sfrontati e duri nepoti. Con quell'abitudine sempre crescente della domesticità, della servilità, ella accese il fuoco, nella cucina ancora immersa nella penombra, e mise a riscaldare un poco di caffè, del giorno prima, in una cuccumetta di stagno. Era un suo peccato di gola, quel caffè: un bisogno di alimento nervoso che gli anni e gli acciacchi avevano reso prepotente, in lei. Anzi, per questo caffè, alla mattina, il suo confessore le aveva fatto ottenere una dispensa ecclesiastica, per ragioni di salute. Mentre il caffè si riscaldava, suor Giovanna della Croce lavò e asciugò le tazze che erano restate sporche, dal giorno prima.

Ora, il largo finestrone della sudicia cucina dava sul cortiletto del palazzo Marinelli, e si trovava di fronte al pianerottolo della scaletta: si vedeva la prima rampa di scale che conduceva alla casa abitata dalla famiglia Bevilacqua e la seconda che conduceva a quella abitata dall' avvocato de Gasperis. La suora andava versando il caffè nella tazza lentamente, provando già un piacere in quell'aroma, quando udì un violento battere di porta, sopra, al secondo piano: la porta a vetri dell' avvocato de Gasperis si era rinchiusa con tanto fracasso, da parere che tutti i cristalli andassero in frantumi. Suor Giovanna della Croce restò interdetta bevendo il suo caffè, guardando, dal fondo della semioscura cucina, verso le scale.

Un uomo scendeva dal secondo piano, con passo rapido e deciso, col bavero del cappotto alzato, col cappello abbassato sugli occhi: e intanto, pur si vedeva il volto di un uomo quarantenne, con una barbetta nera, l'aria tetra e truce, sparsa sovra un volto chiuso e duro. Lentamente, trascinando i passì, come se andasse a morire, una donna lo seguiva, appoggiandosi al muro: era la donna che, due o tre volte, suor Giovanna della Croce aveva incontrata, per le scale, salendole cautamente, con la veletta fitta che le nascondeva il viso, con la pelliccia stretta sulla persona. Adesso, ella aveva la pelliccia semplicemente gittata sulle spalle e le vesti un po' discinte, sempre male abbottonate: portava la sua veletta in mano: e mostrava un viso gracile, gentile, pallido, con un paio di occhi dolci, stralunati, una bocca fine e rosea come una tenue rosa: mentre scendeva, taciturna, senza guardare gli scalini, silenziose lagrime le si disfacevano sulle guance. Come ella rallentava il passo, quasi non volendo, quasi non potendo più camminare, due volte l' uomo dal viso tetro si era voltato, a guardarla fieramente, e un amaro sorriso si era disegnato sulle sue labbra. Subito, la donna aveva cercato di affrettarsi. Discesero: sparvero. E, a malgrado la sua senile e puerile ignoranza, a malgrado il suo candore di vecchia suora sparita dal mondo a venti anni, prima di nulla conoscere, suor Giovanna della Croce comprese che quell'uomo era il marito di quella donna, e che quella donna, sorpresa nel peccato, andava forse al più lungo e atroce martirio, forse alla più vicina morte. Suor Giovanna della Croce si segnò.

Quando ritornò in camera sua, sempre camminando pianissimo, ebbe un movimento di decisione. Doveva andare via, in quel giorno, più tardi, non sapeva dove, ma doveva andare. Rilesse la lettera del Ministero dell'Interno, con cui le si comunicava che, secondo la legge sulle corporazioni religiose, legge citata in due o tre articoli, ella non aveva altro diritto che a percepire una pensione mensile di lire quarantuno, pagabile ogni mese, a Napoli, all' Ufficio dei Benefici Vacanti; e che si fosse presentata per ritirare i suoi documenti certificativi, per poi, ogni ventisette del mese, avere il suo reddito. Ora, quel giorno, era il venti febbraio. Suor Giovanna della Corce apri un portafogli, e contò il denaro che le restava, dalle mille lire che sua sorella e i suoi nepoti si erano venuti divorando, man mano: non aveva che cinquantasette lire. Ella non aveva che una scarsa idea di quello che costava il cibo di una persona, avendo tutto dimenticato, in quei quarant'anni, e nulla avendo appreso o ben poco, in quei dieci mesi di permanenza, in casa di sua sorella; non aveva nessuna idea di quello che costasse un alloggio, una camera, in un qualunque posto. Ripose la lettera fatale e il suo denaro, nel portafogli. Sarebbe andata, infine: non sapeva e non voleva.

Si guardò attorno. Malgardo che ne fosse stata ospite per quasi un anno, ella non amava quella camera di casa borghese, a quel primo piano basso, dove salivano tutti i rumori, tutte le voci rudi della via e le parolacce e le bestemmie, e gli odori nauseanti, e l' alito vizioso di una via cittadina abitata da gente fra povera e corrotta, fra misera e furiosa. La camera era solinga e nuda, invero: ma, la strada vi arrivava, vi entrava, con tutte le sue cose brutte, nelle persone, nei loro atti, nei loro detti. No, non aveva amato nulla di quella stanza; forse era ingrata, poichè vi aveva avuto dei lunghi momenti di quiete e di raccoglimento: non vi aveva amato nulla, poichè la ospitalità che le aveva dato non era stata basata sulla tenerezza e sulla pietà, ma sul calcolo più laido e sull'avidità più sfacciata. Si, era stata ricoverata, li: ma le avevano elargito il ricovero solo per derubarla, man mano, del suo avere presente, solo per spogliarla di una ipotetica somma di denaro avvenire. Forse, era ingrata? Ma la sorella, i nepoti non le avean tutto tolto, e ora che non aveva più nulla, non la cacciavano via? Non poteva, dunque, amare quella stanza.

Pure, quando andò a prendere il suo tombolo dove era appuntata, con gli spilli, la sottile trina e i fuselli lievi che pendevano, quando volle mettere il tombolo nel suo fagottello, ebbe un sospiro breve di rimpianto, per quel vano di balcone, dove aveva trascors molte ore in contemplazione, in assorbimento. Sempre quella casa muta e cieca, dirimpetto, aveva prodotto su lei un effetto di pace: non so come qualche volta, le era parso che quella muraglia fosse quella di un convento, quelle gelosie le gelosie di un convento, sempre sbarrate. Infine, sì, avrebbe rimpianto quel piccolo spazio ove ella aveva pensato, pregato, lavorato, seduta sulla sedia di paglia, coi piedi appoggiati sui cannelli dell' altra sedia, tenendo sulle ginocchia o il libro di divozioni, o il rosario, o il tombolo. Quando mai un' anima, in quelle ore diurne era passata per quella viottola, da cui il suo balcone non era alto che quattro metri? Colà, ella aveva goduto una tranquillità perfetta.

Eppure, con sua sorpresa, in quell'alba che già cedeva il posto al giorno, ella vide una persona ferma all'angolo del Vico Primo Consiglio. Veramente costui, stava un po' dietro lo spigolo del muro, appoggiato ad esso, in attitudine di attesa. Era un giovanotto che di poco poteva avere oltrepassato i venfi anni, non alto, smilzo, imberbe, col viso biancastro, dagli zigomi sporgenti: vestiva come un operaio pulito, con un par di pantaloni giallastri, stretti al ginocchio, larghi al collo del piede, con una giacchetta azzurro-cupa, molto serrata alla persona, e di cui teneva il bavero alzato, per il freddo; in testa un cappelletto a falde strette, messo a sghimbescio. Un mozzicone di sigaro, spento, nero, stava all'angolo della sua bocca, ed egli teneva le mani in tasca, come per riscaldarle. Infatti, il freddo era vivissimo, tagliente. Dietro i cristalli, guardando curiosamente il giovanotto, suor Giovanna della Croce ebbe un brivido dentro le sue lane nere, che male la proteggevano contro il rigore della tramontana. Non passava alcuno, neppure più giù, verso il Vico Lungo Gelso, neppure verso la più larga via Speranzella, sempre animata: anche il Vico Lungo Teatro Nuovo era deserto. L'ora e il freddo glaciale prolungavano il sonno anche dei più mattinieri. Così, in quell' angolo non vi erano che quel giovanotto appoggiato al muro, con la espressione di una paziente e secura attesa sulla faccia, e la monaca, su, dietro i suoi cristalli, con una misteriosa curiosità nell' anima. Ella lo vedeva benissimo; egli non poteva vederla. Del resto, il giovanotto, ogni tanto, sogguardava verso la casa oscura e silenziosa che si ergeva, a un piano soltanto, dirimpetto al balcone di suor Giovanna della Croce; sogguardava, come se cercasse di penetrare, miracolosamente, dietro le gelosie ermeticamente otturate e chiuse, tutte polverose, per non essere state scosse e aperte da tempo immemorabile: e sogguardava, anche, verso quel portoncino sempre aperto, da cui mai, nella giornata, suor Giovanna della Croce aveva visto entrare o uscire alcuno. E sogguardava cosi attentamente, con tanta intensità nel suo viso bianco di ventenne, con tale fissità di sguardo, che la suora si senti rabbrividire, a un tratto, non solo di freddo, ma di paura.

Ella cercò sottrarsi a quella curiosità infantile che, costantemente, vinceva il suo spirito di monaca che nulla aveva visto, che nulla aveva saputo: cercò vincere quel desiderio di vedere e di sapere così fanciullesco: si allontanò dal balcone, girò per la sua stanza, volendo ritrovar tutti i suoi piccoli libri sacri, opuscoletti, foglietti volanti, figurine di santi alle cui spalle erano stampate delle speciali preghiere, volendo raccogliere tutti i suoi scapolari, gli abitini, tutte quelle minuzie della religione, di cui le suore formano un pascolo al loro semplice cuore. Ma, dopo un poco, quando tutto fu raccolto e messo in un panno bianco e appuntato con gli spilli, ella ritornò al balcone. Il giovanotto era ancora dietro il suo angolo, ad aspettare. Adesso, però, suor Giovanna della Croce osservò un particolare anche più strano: quel giovanotto si nascondeva, li dietro: stava appostato. Di fatti, era passato di li il caffettiere ambulante, con un bracierino portatile pieno di carboncini accesi su cui si reggevano le caffettiere, e una serie di tazzine infilate alle dita dell' altra mano: appena il giovanotto lo aveva visto, si era messo subito a fischiettare, come un essere spensierato e gaio, e mossosi dal suo posto, aveva fatto dei passi per allontanarsi, scantonando, verso Magnocavallo. Quando il caffettiere, emesso il suo grido tradizionale, si fu inoltrato verso la via Formale, quando fu sparito in quelle lontananze, il giovanotto dal viso imberbe e dalla persona smilza si era venuto, in fretta, ma con cautela, di nuovo ad appostare al cantone del Vico Primo Consiglio. Suor Giovanna della Croce, rivedendolo, ebbe, nello spirito, un novello, più forte brivido di paura. Quello, oramai, non distoglieva più gli occhi dal portoncino: non batteva palpebra: sugli zigomi scarni, sulla pelle biancastra, il freddo aveva fatto salire due macchie rosse. E, la suora si mise a guardare anche lei, involontariamente, verso il portoncino aperto.

Passò ancora un terzo d' ora. Il giovanotto, quasi tutto nascosto dal muro, piegato in due, spingendo innanzi solo la testa, anzi solo la fronte e gli occhi, per vedere, pareva un animale che concentrasse tutte le sue forze, per spiccare un salto feroce e afferrare la preda. La monaca, in preda a una paura sempre più affannosa, non dubitava più che quello sconosciuto non fosse li, animato da una intenzione oscura ma orribile: pure, ella non poteva nè comprendere, nè prevedere. Addossata allo stipite bianco del balcone, anche ella si era tirata indietro, temendo che quegli la scorgesse, mentre ella lo spiava e sporgeva solo il capo, per osservare il portoncino.

Un uomo apparve, infine, su quella soglia: un bel giovane alto, aitante della persona, vestito con l' uniforme dei Reali Equipaggi, col largo colletto azzurro aperto al collo, il fazzoletto a cravatta di seta nera e il berretto di marinaio abbassato un poco sulla fronte. Sulla soglia egli s' arrestò: non per guardare, poichè aveva l' aspetto tranquillo e securo, ma per respirare largamente, lungamente, come chi ha passato troppe ore in un ambiente chiuso e soffocante. Poi si avviò, con passo fermo, scendendo il Vico Primo Consiglio, dondolandosi un poco, come fanno tutti i marinai: non guardava nè a destra, nè a sinistra, andava via, sempre diritto. Il giovanotto appostato non aveva fatto che un solo gesto, cioè cavato la mano destra dalla tasca: aveva lasciato passare il forte marinaio che non si era accorto di lui, ma non aveva costui fatto tre passi più oltre, che lo aveva raggiunto con un salto da tigre, gli si era aggrappato alle spalle. Senza gridare, senza reagire, il marinaio cadde di un tratto, a terra, lungo disteso, supino, con un coltello nel petto: il giovanotto si chinò un minuto, poi fuggì verso le Chianche della Carità: sparve.

Un orribile grido di terrore era uscito dal petto di suor Giovanna della Croce; ma, nello stesso tempo in cui l' aggressione e l' assassinio era accaduto, in quell' attimo rapidissimo, una mano convulsa aveva fatto scrollare, sette od otto volte, le gelosie del balcone dirimpetto che, sotto l' urto si erano dischiuse, rompendo la catena di ferro che le teneva unite: una donna era apparsa, curvandosi sul balcone, interrogando le vie intorno. E, poichè il marinaio giaceva lungo disteso, quindici passi lontano dal portoncino, con un fiotto di sangue che sgorgava dalla ferita, gli intrideva i panni e si allargava in una pozza, sul lastrico, col viso già bianco e gli occhi socchiusi, la donna si mise a urlare, a urlare, a urlare:

— Gennarino, Gennarino, Gennarino!

Altre donne apparvero a quel balcone e visto l'assassinato, cominciarono a gridare anche esse: delle altre finestre si aprirono. La donna urlava, urlava, urlava:

— Gennarino, Gennarino, Gennarino!

Era una giovane, con una vestaglia di seta gialla, tutta a fiocchi rossi, gittata sovra la sola camicia, una camicia di seta lilla: i piedi erano nudi nelle pianelle di velluto nero a tacco alto: le guance erano cariche di rossetto e gli occhi tinti di nero: i capelli neri formavano un alto casco lucido di pomata: la fisonomia era piacente ma volgare. E, le altre donne erano in vestaglie vistose, in maniche di camicia e sottane di seta, tutte a merletti, e calzette di seta nera: alcune discinte e spettinate: altre con gli occhi imbambolati. Tutte gridavano, rovesciandosi sui ferri del balcone: quella in mezzo, si disperava, urlando:

— Gennarino, Gennarino, Gennarino!

Suor Giovanna della Croce vide tutto questo, e vide anche due uomini uscire rapidamente dal portoncino, scantonare inavvertiti verso Settedolori, e vide, mentre le donne chiamavan soccorso, dal balcone aperto, una grande stanza a divani rossi, a specchi dalle cornici dorate; e a malgrado la sua ignoranza, la sua innocenza, la sua cecità, ella comprese, in un baleno, quanto vi era di sozzo, d'immondo, di orrendo, in quello spettacolo; e, per la vergogna, per la nausea, per l' orrore, cadde indietro, sulla terra, come se morisse.

Matilde Serao.



Flegrea
RIVISTA DILETTERE, SCIENZE ED ARTI
DIRETTA DA
RICCARDO FORSTER

Anno II — Volume I.

NAPOLI

Redazione
Piazzetta Mondragone

Amministrazione
Libreria Detken & Rocholl

1900

Bussarono alla porta della stanzetta, leggermente.

— Entrate — rispose Suor Giovanna della Croce, a bassa voce, sciogliendo le mani dal suo rosario.

Entrò donna Costanza de Dominicis, la vedova salernitana che affittava, per dodici lire, quella stanzetta alla monaca. Era una magra, magrissima donna di cinquant' anni, alta, con certe grosse mani, certi grossi piedi, e i capelli bizzarramente bigiastri, a strisce bianche, piantati bassi sulla fronte, tirati alla contadinesca, dalle tempie sul mezzo del capo, in un mazzocchio: e un viso brunastro, dalla pelle arida e rugosa, dalla bocca grande e pallida sui denti giallastri, bruttissima infine, ma con un paio di occhi vividi, ove brillava la bontà umana. Portava un vestito oscuro di stoffa di cotone azzurro cupo, tagliato alla foggia cittadina, ma aveva il grembiale nero e il fazzoletto fiorato al collo, delle contadine.

Zi Monaca, non siete venuta a riscaldare il vostro latte, stamattina?

— No — disse Suor Giovanna della Croce, a voce bassa, — non l' ho preso, dal capraio.

— Perchè? Per qualche astinenza forse?

— No, no — replicò subito la vecchia monaca, che aveva orrore della bugia, — non è per un' astinenza. Così….. non l' ho preso…..

Un silenzio seguì. Donna Costanza guardò bene suor Giovanna della Croce e nello scarno viso della monaca, su cui l'aggravarsi degli anni, i patimenti morali e anche quelli fisici avevano seganto dei solchi, anche più profondi, in quel volto che si affilava, in quelle palpebre bluastre che si abbassavano sugli occhi, su quella fronte, dove erano segnate le rughe sempre più marcate del doloroso stupore, le parve vedersi diffondere un rossore.

— Suor Giovanna, perchè non dite la verità? A chi la volete nascondere? Di chi vi vergognate? Non sono io povera come voi? Voi non avete comprato il latte, perchè non avevate soldi — concluse, con voce irritata, ma affettuosa, Donna Costanza.

—…… Già — mormorò la povera monaca — Qualche soldo l' ho ancora — Ma, se voglio vivere sino al ventisette del mese, debbo far molta economia, molta economia.

— Cioè, volete restar digiuna? Allora, fate una economia completa, andatevene all' altro mondo.

— Dio volesse! — sospirò suor Giovanna della Croce.

Come mutata, come mutata! La sua persona alta si era curvata, sulle spalle, in segno di caducità servile; le mani brune e lunghe si erano disseccate e vi apparivano molto turgide le vene violacee, e, talvolta, un lieve tremore le agitava, queste mani. Anche i suoi panni di monaca avevano sentito il tempo che era passato: la sua tonaca nera aveva, nelle sue pieghe, riflessi verdastri della stoffa nera che si scolorisce: per non consumare il suo grande mantello nero, l'emblema più espressivo della sua dignità di sepolta viva, non lo indossava che per uscire e, intanto, mentre il manto era sospeso a un appiccapanni, contro il muro, le pareva sempre di aver freddo, di non esser completamente vestita: le sue candide bende, il suo candido goletto, non avendone ella che tre da cambiarne, troppo spesso lavati, in casa, con acqua e sapone, non avevano più il biancore immacolato, non reggevano l' insaldatura, erano giallastri, flosci, non assestavano. Il cappuccio nero, rigettato sulle spalle. pendeva, anche tutto sciupato, arrotolandosi agli orli, sfrangiandosi. Invano le industri mani di Suor Giovanna avevano cercato di riparare a questa crescente decadenza dei suoi panni: li portava da troppi anni e non li aveva potuti rinnovare e li vedeva deperire, tristamente, intorno a sè, portandosi via gli ultimi segni della sua vita monacale. Come mutata, come mutata!

Zi Monaca, voi dovete decidervi a fare qualche cosa — rispose bruscamente Donna Costanza. — Come volete tirare avanti, in questo modo?

— Decidere a che?

— Cercate di guadagnare qualche lira. Con quarantuna lira al mese, vi è impossibile di vivere.

— Lo so — rispose la monaca, malinconicamente. — Non sono neanche quarantuno, sono trentotto e mezzo, con la ritenuta della ricchezza mobile.

— Che governo porco! Anche la ritenuta! Che ricchezza mobile! Questa è miseria stabile! Bisogna decidersi a lavorare, Suor Giovanna!

— E sono pronta! Ma che debbo fare? Mettermi a servire? Sono vecchia, sono stanca, è difficile che mi prendano. Anche con queti vestiti, vi è chi mi guarda con occhi storti. Non vi è più religione, Donna Costanza mia. Chi si burla di me, chi mi prende per iettatrice, chi per una falsa monaca….. Oh. non sapete, non sapete niente!

E un singhiozzo, senza lacrime, le ruppe la voce.

— Non potreste vendere quei merletti che tessete?

— Ne vogliono dar pochi soldi. E non conosco nessuno Per la via vi sono merlettaie che li vanno offrendo, e io mi vergogno di fare questo, con questi panni E chi me li compra, qui?

— Non ne vendeste qualche metro, due o tre mesi fa, alla si gnorina del secondo piano?

— ….. Sì, sì: mi dette dieci lire, per otto metri. Vi avevo lavorato per tanto tempo! Ma dieci lire, donna Costanza, sono dieci lire e mi fecero gran bene. Potetti farmi una tunica, comprarmi un po' di mussola, per queste bende! Io chieggo perdono, ogni giorno, a Gesù, per queste vesti di monaca che non si riconoscono più. Ah! non dovrei mangiare, dovrei digiunare e farmi le vesti sacre! Che scorno, che scorno!

E la misera vecchia suora si celò il viso fra le mani. In piedi, la salernitana la guardava e il suo orrendo viso si contraeva di emozione, mentre i suoi occhi buoni si velavano di lacrime.

— Ne avete, del merletto, ancora, Suor Giovanna?

— Sì, ne ho tanto da mettere attorno a quattro foderette e a un lenzuolo grande. Non è una gran cosa, poichè i miei occhi non mi aiutano molto, più: non fa buona figura.

— E perchè non gìielo portate, questo merletto, alla signorina del secondo piano?

Suor Giovanna guardò la sua padrona di casa, esitando, e abbassò la testa, senza rispondere.

— Vi vergognate del vostro bisogno? O fate scrupolo di an dare da quella ragazza?

— …. Per le due cose — balbettò la vecchia suora.

— In quanto alla vergogna, smettetela. Tutti siamo poveri. Lo sapete come stentiamo, mio figlio ed io, con la borsa, che gli fa la provincia di Salerno, per studiare medicina. Se non fossi venuta io, qua, non avrebbe mai potuto vivere, povero figlio mio! Io fo la spesa, cucino, pulisco la casa, lavo, stiro, dalla mattina alla sera: se no, quelle poche lire come basterebbero? E non mi vergognerei se dovessi portare io fino dei merletti da vendere!

— Avete ragione: anche questa vergogna è atto di superbia — mormorò la suora — Ma …il denaro di quella ragazza…..

— Guè, forse, non avete torto. Ma che ci volete fare? A ogni peccato misericordia! Cristo non ha perdonato alla Maddalena? E voi non le volete perdonare?

— Oh, io sono una umile pentita. niente altro, non posso giudicare nessuno, tutti abbiamo peccato. Gli è che quel denaro, quel denaro…

— Eh, alla fine, quella vive con un giovane, come se fosse sua moglie, non riceve nessuno, non esce, fa una vita di schiava, infelice! Io la compatisco, che credete? Sulle prime, mi seccava per Errico, mio figlio, che vi fosse questa bella giovane, questa tentazione, nel palazzo! Ebbene, il mio ragazzo fa una vita così di studio e quella così di reclusa, che non si saranno mai incontrati. Andateci, andateci! Se no, come fate? Quante lire avete, per finire il mese?

— Quattro — disse angosciamente suor Giovanna.

— E ne abbiamo venti! Ci vogliono sette giorni per esigere la pensione. Andate, andate su, suor Giovanna della Croce, fate la volontà di Dio.

— Andrò — disse la suora, mostrandosi più curva ancora, mentre un vivo tremito le scoteva le mani.

La valorosa donna Costanza, contenta della sua opera, voltò le spalle e se ne andò. Doveva ancora spazzare tutto il piccolo quartino, in quel primo piano, al vico Rosario Portamedina, quattro stanzette, che costavano quarantacinque lire il mese e di cui era costretta ad affittare una, per aiutarsi. Ella era la madre, la innamorata, la serva, la schiava del suo figliuolo, uno studente medico, che aveva già ventitrè anni, un giovanottone venuto dalla vanga e che era giunto a elevarsi, per mezzo di una volontà tenace, ardente. dalla scuola elementare al Ginnasio, all'Università, avendo sempre pieni voti assoluti, guadagnando sempre le sue tasse scolastiche, finendo per avere una borsa, per mantenersi. a Napoli, durante gli anni di Università.

Brutto, forte, rude, Errico de Dominicis somigliava, perfettamente al suo dragone di madre: ed era un figliuolo severissimo, promettendo a sua madre di arricchirla. quando si fosse laureato in medicina. In quell'anno si laureava

Il sussidio della Provincia di Salerno finiva: ma egli si laureava, non importava nulla! E la coraggiosa madre e il coraggioso figliuolo vivevano una vita aspra e austera, uniti in un affetto profondo, che ne elevava le anime semplici e un po' grossolane.

Sospirando, suor Giovanna della Croce prese la scatola di cartone, dove teneva i suoi merletti da vendere, si mise sulle spalle il mantello, si assoggettò il grande rosario alla cintura e, fattosi il segno della croce, uscì dalla casa e salì la scala del secondo piano, lentamente. Sulla porta chiusa vi era una lucida placchetta di ottone, su cui era inciso: Concetta Guadagno. Una cameriera, vestita di nero, col grembiule bianco, venne ad aprire; ma, con atto diffidente, tenne la porta socchiusa.

— Volete dire alla padrona che vi è la monaca del primo piano? — balbettò la vecchia suora.

— Aspettate — disse la cameriera, lasciandola fuori la porta. — Ma ritornò subito.

— Venite pure. La Signorina è da questa parte.

Le quattro stanzette erano messe con un certo lusso di paccottiglia, molto pretenzioso, con certe false tende turche, con certi ventagli di carta Giapponesi, alle pareti, con certi lumi a sospensioni di falso bronzo dorato Un odore di papier d' Armènie, bruciato, fluttuava nell' aria, nell'anticameretta. La signorina Concetta Guadagno era nel suo salotto. tutto mobigliato di una bourrette gialla e rossa, con fiori celesti; era distesa sovra una poltrona a sdraio e leggeva un romanzo di Montepin. Era una bella giovane, venticinquenne, bionda, bianca, rotondetta, con certi capelli biondi riccioli, che le nimbavano la fronte: portava una vestaglia di lana leggiera celeste con merletti bianchi, e certe babbucce turche rosse, ricamate in oro. Il salotto era in penombra; le tendine bianche erano abbassate fra la tende di bourrette.

— Oh, zi monaca mia, come avete fatto bene di venirmi a trovare — disse, con una voce, un po' roca, Concetta Guadagno.

E si sollevò, stese la mano per prendere la mano della monaca e baciarla. Costei, umilmente, la ritrasse.

— Sedetevi, sedetevi zi monaca, fatemi compagnia. Io sto sempre sola — disse la giovane donna, con un lieve sospiro.

La monaca sedette: non osava aprir bocca, stringendo la sua scatola di cartone, sotto il braccio.

— Ciccillo non ha mai ora — disse Concetta, con una frase popolare napoletana. — Talvolta, viene due, tre volte al giorno; talvolta, resta due ore, talvolta un minuto….. Non si può calcolare…..

— E perchè fa questo? — chiese la povera suor Giovanna della Croce, per dire qualche cosa.

— Perchè è geloso — replicò subito la ragazza, felice di confidarsi. — È tremendamente geloso. Mi crede capace di tutto, zi monaca mia, è un morire.

— Mentre voi siete così buona!

— Sono buona, adesso. Prima, non ero buona. Voi siete monaca, non potete capire. Sono brutti peccati, non ve li posso dire, vi scandalizzereste. Io vivevo nella perdizione, non per mia colpa: ero una stupida, da giovanetta, non vi posso dire tutto: portate questa santa veste, che Dio ve la benedica! Ha ragione, quando mi sospetta, mi fa le scene…. ero una perduta….

— Vi sgrida spesso?

— Molto spesso. Talvolta mi batte — disse, a bassa voce, Concetta Guadagno.

— Ma voi non gliene date ragione?

— No. Sono innocente. Ma mi batte per gelosia Io mi tengo tutto. Che debbo fare? Gli voglio bene, gli sono grata di quanto ha fatto e fa, per me. Non vedete? Sto come una signora: mangio, bevo, dormo, sono servita. Prima…. non mangiavo, sempre, e dormivo quando potevo. È cattivo, è furioso, ma io non mi difendo.

— Vi vuol bene e vi maltratta?

— Il maltrattamento è pruova di bene, zi monaca — disse, filosoficamente, la ragazza.

— E perchè non vi fate sposare? — disse, candidamente, la po vera vecchia monaca.

— Sposare! Sposare! Voi che mai dite? — e rideva, rideva, di un bel riso perlato, Concetta Guadagno.

— Per togliervi dal peccato, figliuola mia — mormorò la suora.

— E qual peccato? Io non fo male a nessuno, zi monaca. Ciccillo mi vuol bene, mi fa vivere come una signora e mi basta.

— Per assicurarvi l' avvenire, figliuola mia — replicò suor Giovanna della Croce.

— Oh! — esclamò quella, con voce un po' velata. — In questo, avete ragione. Non si può mai esser certi di nulla, a questo mondo!

E, malgrado la penombra, suor Giovanna della Croce vide che la povera donna era impallidita sotto la sua cipria.

— Sì, qualche volta penso che Ciccillo mi possa lasciare. Anzi, ci penso spesso. Quando ritarda, quando sta un giorno senza venire, quando è silenzioso, quando è di cattivo umore, ci penso e mi tormento, zi monaca!

Tutta la beltà bionda, fresca e lieta di Concetta Guadagno era conturbata, ora, dalla tristezza: i suoi occhi cilestri si erano come sbiancati: la sua bocca tumida aveva il gonfiore delle lagrime imminenti.

— Non vi crucciate, figliuola mia — disse, vagamente, la monaca, pentita di aver messo quel discorso.

— Sì, mi debbo crucciare. Sono così quieta, contenta, felice, in questa casa, dove non mi manca niente. Se sapeste che ho sofferto, prima. Che orrore, Dio mio, che orrore! Se Ciccillo mi lasciasse, che ne succederebbe, di me?

— Se vi vuol bene…..

— Mi vuol bene…. mi vuol bene…. ma ci sono tante altre donne, che egli vede e che gli piacciono, certo…. ma la sua famiglia mi è contraria…. che ne so, io, se mi vuol bene?

— Bella mia, raccomandatevi a Dio — disse la monaca, non sapendo dire altro.

— È vero, è vero! Dio mi deve aiutare. Mi debbo mettere nelle sue mani, suor Giovanna mia. Voi siete un anima santa, assistetemi pure voi. Facciamo dire una messa, due messe, non vi pare?

— A che scopo, figlia mia? — chiese la monaca, tutta stupita.

— Per raccomandarmi al Signore, che Ciccillo non mi lasci. Io sono perduta, capite, semi lascia! Due messe: una allo Spirito Santo, di Santa Chiara, ove andavo sempre, quando ero piccola e abitavo a San Sebastiano: una a Santa Maria Egiziaca, di cui sono tanto devota, di Santa Maria Egiziaca, che è stata una peccatrice, penitente, come me!

— Ma che gli dico, al parroco? Io non gli posso dire la vostra necessità.

— La sa Iddio la mia necessità. Dite: secondo l'intenzione di una devota. E date cinque lire di elemosina, per ciascuno. Giusto, domani è domenica. Ci dovete andare oggi.

— Come volete, come volete — disse umilmente suor Giovanna della Croce. — Per qualunque cosa, mettiamoci nelle mani del Signore.

— Sì, sì. Esso deve ispirare a Ciccillo di non lasciarmi mai. Le messe, le messe, ne farò dire anche delle altre, sorella mia.

— Ditevi il rosario, ogni sera — mormorò, teneramente, suor Giovanna della Croce.

— Me lo dico, me lo dico sempre! Me lo dicevo anche allora, figuratevi! Io ci credo tanto! Sono così buona, ora mi faccio il fatto mio, non vedo nessuno. Dio non mi deve togliere Ciccillo.

— Dio vi aiuterà — finì per dire la monaca, trascinata da quel sentimento vero di sgomento e di tristezza.

— Io vado a prendervi le dieci lire — disse la giovane donna, levandosi. — Ma, aspettate, voi siete venuta per qualche cosa? Che volevate? Che portate sotto il mantello?

E con la facilità. la bonomia, la semplicità di una creatura buona, Concetta Guadagno prese la scatola, la schiuse, osservò curiosamente i merletti.

— È un letto, è vero?

— Sì. è la guarnizione di un lenzuolo e di quattro foderette.

— Io non sono maritata, ma non importa, mi servirà di augurio. Non posso darvi molto, suor Giovanna, come vi meritate,…

— Quel che volete, quel che volete — mormorò la suora, le cui mani, adesso, tremavano, come tremava la voce.

— Una ventina di lire, basteranno? È poco? Lo so Contentatevi, se no, dovete andar girando Contentatevi.

Mi contento di tutto. Ve le donerei, se non avessi bisogno, poichè siete devota e buona. Ma io sono assai povera…..

Già Concetta Guadagno tornava con un portafoglio di cuoio rosso, da cui cavò le trenta lire.

— Ho qualche soldo da parte — ella parlò, come a sè stessa — ma se Ciccillo mi lascia, non potrò andare avanti che uno o due mesi…..

— Poveretta, poveretta….. — disse la suora, con voce fievole.

Questa volta, Concetta Guadagno arrivò a prendere fra le sue manine bianche e molli di donna bionda, profumata di opoponax, la mano magra, rugosa, di suor Giovanna della Croce, e a baciarla.

La malata emise un lievissimo sospiro dal suo letto. Suor Giovanna si levò dalla sedia dove vegliava e si chinò sul letto.

— Volete qualche cosa?

— Un po' di acqua da bere.

La monaca prese un grande bicchiere d' acqua, in cui nuotava un grosso pezzo di pane abbrustolito, versò di quest' acqua in un cucchiaio da zuppa e lo intromise nelle labbra schiuse della inferma. Costei non aveva avuto la forza neanche di sollevare la testa dall' origliere. Spossata, esausta da una spaventosa emorragia, dopo un parto travagliosissimo, giaceva lunga distesa, con un sol cuscino sotto il capo, con le ginocchia sollevate, a impedire, anche meccanicamente, in quella posizione, che una novella emorragia, certamente mortale, sopravvenisse. La puerpera era la signora Maria Laterza, abitante al terzo piano di quel palazzo nel Vico Rosario Portamedina: al secondo piano abitava sempre Concettina Guadagno e al primo donna Costanza de Dominicis con suor Giovanna della Croce. Era una donnia magra e fine, Maria Laterza; con un gran mucchio di capelli castani, che pareva le tirassero la pelle dal volto e la estenuassero, una donnina di trentaquattro anni, moglie di un impiegato al Banco di Napoli, non poveri, quei due, non ricchi, ma che si sapevano regolar bene sulle duecentottanta lire che riunivano, da un po' di dote della moglie, dallo stipendio del marito. Fortunatamente, per dieci anni di matrimonio, non avevano avuto figliuoli, e con la gracilità della salute di Maria Laterza, con i loro modici mezzi, avevano finito per esser contenti di questa mancanza di prole. Anzi, facevano anche qualche piccola economia, essendo due, con una servetta che aiutava alla cucina la signora. A un tratto, Maria Laterza, in preda a uno sgomento invincibile, si era accorta di essere incinta: e tutto il tempo della gravidanza era passato fra atroci sofferenze fisiche, per tutte le paure della morte che colpiscono le gestanti, per le paure di tutte le complicazioni finanziarie che sarebbero derivate dalla nascita di questo figlio non invocato, non aspettato. La tenue creatura aveva sofferto due giorni intieri, nel parto di un piccolo neonato, gracile, fine, con una finissima e abbondante capellatura castana, come quella della madre: nelle ultime ore, pareva che morisse. E una perdita enorme di sangue era succeduta al parto, Maria Laterza non era stata salvata che dal coraggio e dalla freddezza d' animo del chirurgo che l'assisteva, mentre il povero marito, in piedi da due giorni, disfatto, stralunato, batteva i denti dal terrore ed era intetto a qualunque aiuto. Nel frattempo, era giunta una balia, poichè mai Maria Laterza avrebbe potuto nutrire la sua creatura, anche se avesse avuto un parto felice: e si era installata nella stanza seguente, facendosi servire a bacchetta dalla piccola serva sbalordita. Il chirurgo aveva dichiarato che, per tutto il puerperio, almeno per venti giorni, la malata aveva bisogno di una infermiera, di una monaca, ogni atto dell'inferma doveva esser sorvegliato, un nulla la poteva gittare di nuovo alla morte, il pericolo di una novella emorragia non era escluso. Il povero marito, che vedeva già tutto il disastro finanziario di quella malattia, aveva subito pensato, poichè vi era una monaca nel palazzo e poichè si sapeva che era poverissima, che costei, che suor Giovanna della Croce si sarebbe contentata di un paio di lire al giorno, pure vegliando la notte: le avrebbero dato anche il pranzo. Le altre monache, le vere infermiere, chiedono cinque, sei e persino otto lire al giorno. La vecchia monaca, a quella chiamata, restò confusa, incerta: non aveva mai assistito malati, non avrebbe resistito a non dormire la notte, forse. E poi, una puerpera! Ciò la metteva in imbarazzo, le dava un senso di pudore offeso, tutto il vecchio pudore di chi ha tolto, dalla sua vita, il sentimento dell' amore, l' idea del matrimonio, l' istinto della procreazione. Bisognò che, al solito, donna Costanza de Dominicis la sermoneggiasse, le dicesse che, per carità cristiana, per obbligo di consolazione temporale, vi era quello di visitare e assistere gli infermi: che essa era, da vario tempo, nel mondo, e queste fisime di monaca se le doveva levare, se voleva guadagnar qualche soldo, per farsi una tunica nera, un mantello nero, due bende bianche, due goletti bianchi. Senza volontà, abituata all' obbedienza, vinta oramai dal bisogno, piegata, oramai, malgrado la età inoltrata, al lavoro servile, suor Giovanna della Croce andò, rassegnatamente, ad assistere Maria Laterza, al suo quarto giorno di puerperio. E quel povero volto magro di donnina minuta, leggiadra, estenuato dall' anemia, cereo sul guanciale, quel corpo immobile e costretto alla immobilità, ma così sottile come se non esistesse sotto le coltri, quelle mani, più bianche del lenzuolo su cui si appoggiavano, inerti, con le dita allargate, con le unghie leggermente violette, tutto ciò commosse talmente il povero vecchio cuore pietoso della monaca, che ella si diede tutta quanta a quel dovere di carità, che non aveva mai compito.

— Come è disgustosa quest' acqua — mormorò la voce fiochissima di Maria Laterza.

— Il chirurgo ha detto che non potete bere acqua curda — rispose la monaca, china sul letto. — Volete qualche altra cosa?

— Sì: voglio che vi sediate più vicino a me.

Suor Giovanna della Croce trasportò il suo seggiolone proprio accanto al letto, presso al capezzale dell' inferma. Quella fece un piccolissimo atto della testa, per dire che andava bene. Un lungo periodo di silenzio seguì. Un orologio, sovra una tavoletta, fece udire un ronzìo, poi scoccò, cristallinamente, le nove.

— Che fa il mio piccino? — chiese la malata, riaprendo gli occhi, fissando la lampada da notte, che ardeva innanzi a una immagine della Madonna di Pompei.

— Pocanzi, dormiva nella culla. Debbo andare a vedere? — chiese, premurosamente, la monaca.

— La puerpera annuì con un abbassamento di palpebre. Era così stremata di forze, che pronunziava il minor numero di parole possibili. Dopo pochi minuti, la vecchia suora ritornò, si appressò al letto.

— Si è svegliato or ora: succhia.

— Succhia bene? — chiese, con un po' d'ansietà, la madre.

— Piano piano, succhia — mormorò Suor Giovanna della Croce, con un tremito di emozione nella voce.

— È debole, poverino.

— Non pare debole.

— Che ne sapete voi, sorella mia? Voi siete monaca.

Seguì un silenzio.

— E Gaetano che fa? — riprese la malata, sempre un po' inquietata.

— Vostro marito ha trasportato le sue carte di ufficio nella stanza da pranzo.

— Poveretto, poveretto, — mormorò Maria Laterza, agitandosi.

— Calmatevi, calmatevi, sorella mia: non dovete parlare tanto, non dovete muovervi tanto.

La malata s'immobilizzò, chiuse gli occhi: ma la fine e gentile fisonomia restò turbata da una espressione penosa. Parve che si addormentasse, giacchè non si mosse, per un'ora, con respiro leggerissimo, ma regolare. Anche suor Giovanna della Croce aveva un po' di sonno, malgrado avesse preso una forte tazza di caffè, per tenersi sveglia: per non lasciarsi vincere dalla stanchezza e dal torpore, cercava di rammentarsi tutte la orazioni che conosceva, specie quelle alle anime del Purgatorio, che sono proteggitrici tenere di tutte le persone malate. Sonnecchiava, quando la malata la chiamò, sottovoce: suor Giovanna si riscosse, subito, già avvezza, da due notti, a quel dormiveglia di chi nel pensiero della vigilanza non si addormenta mai completamente.

— Sorella mia?

— Che volete?

— Toccatemi le mani e la fronte.

Suor Giovanna le toccò la fronte: era fredda, con lievissime pulsazioni alla tempia. Le mani erano freddissime, ghiacciate. Glielo disse.

— Volevo sapere se avessi la febbre — susurrò la malata, stranamente.

— Impossibile, sorella mia. Temo, anzi, che siate troppo debole.

— Non ho la febbre?

— Ma che!

— Credevo di avere la febbre — si ostinò a dire l'inferma.

— Poi tacque, chiuse gli occhi di nuovo, si riaddormentò. Il marito della malata venne, più tardi, in punta di piedi, a vedere che facesse.

— Dorme? — chiese con voce che pareva un soffio.

— Dorme.

Io vorrei andare a letto, muoio di stanchezza e di tristezza. Se vi è qualche novità, mi chiamate subito, è vero, zi monaca?

— Non dubitate.

— Il bambino riposa quietamente. Dio lo benedica: e mi conservi sua madre!

— Così sia — rispese, pianamente, la suora.

Gaetano Laterza si allontanò. Era quasi mezzanotte Sempre con quel respiro piccole, breve, ma eguale, la inferma, supina, con un viso assottigliato e ancor bello, dormiva. Lentamente, suor Giovanna della Croce, dopo aver riordinato, in silenzio, a passi cautissimi, la camera, era tornata al suo seggiolone, lentamente le sue labbra e la sua mente avevano finito di ripetere le sue giaculatorie; la stanchezza grande la vinse, l' addormentò con un respiro un po' pesante, un po' ansante di vecchia. Uno stridio della lampada da notte, lo stridio particolare che, nel convento di Suor Orsola Benincasa, nel tempo dei tempi, l'aveva sempre svegliata, la destò di soprassalto. Con un batticuore, ebbe un momento crudele d' illusione, si credette ancora nella sua alta cella, sul colle, dove aveva passato trentacinque anni a servire il Signore, dove aveva sperato di vivere e di morire, servendo Iddio, serbando la fede e il rito: un minuto intenso d' illusione, che precipitò subito, dinanzi alla verità, in quella realtà di una stanza di malata, di puerpera esausta, che un nuovo assalto del male poteva far morire, accanto a un'altra stanza, dove dormiva, nella breve culla, il piccolo, fine neonato. Con passo vacillante, caduta nella realtà della sua opera servile, in un ambiente profano, dove tutte le ragioni fisiche della vita, del sesso, della generazione trionfavano, suor Giovanna della Croce andò a versare dell'olio nella lampada languente, il cui lucignolo fumicava. Così, nella notte, lassù! Tutto era scomparso, finito per sempre, da tempo. Forse, neppure lei era più la medesima suor Giovanna della Croce sotto la profonda mutazione delle cose. Quando ritornò accanto al letto, si accorse che erano già le tre e che Maria Laterza la guardava con un par d'occhi spalancati e vivaci, mentre tutto il giorno li aveva tenuti languidi e socchiusi, addirittura.

— Avete dormito bene? — le domandò, china sul letto.

— Non ho dormito — rispose con voce, singolarmente forte, la malata.

Eppure, suor Giovanna della Croce l'aveva vista riposare quietamente, a lungo!

— Ho pensato, sorella mia. Ho pensato molto.

Il tono della voce era così alto, che la monaca si spaventò.

— Non parlate così. Vi stancate. Tacete. Cercate di dormire di nuovo. Il sonno vi guarisce.

— Il sonno mi uccide. Nel sonno, posso morire, senza che voi ve ne accorgiate, suor Giovanna della Croce. Quando dormo, ricordatevelo, voi dovete scuotermi sempre, perchè io non me ne muoia.

— Sì, sì, ma tacete — disse la monaca, cercando di tenerla ferma sul letto, ove si moveva sempre. La fronte e le mani della inferma erano sempre più fredde.

Quella obbedì per un poco. Ma non si riaddormentò, non rinchiuse gli occhi.

— Ho pensato una grande cosa, suor Giovanna mia — le disse, prendendole una mano, stringendola, obbligando la monaca a curvarsi sul letto.

— Che cosa?

— Voglio mettere il mio figliuolo in marina.

— Ah! — esclamò la monaca, trasognata.

— Sì, in marina. Il mio Vittorio, — così si deve battezzare, domani, col nome di Vittorio, perche ha vinto la morte, per lui e per me — deve partire, per lunghi viaggi. Io piangerò molto, quando andrà via: e sarò tutta tremante, quando udrò il vento fischiare per le vie, venendo dal mare, quando il mare inonderà la banchina di via Caracciolo, nei giorni di tempesta: e lo raccomanderò a Maria, stella dei naviganti, Ave, maris stella. E che gioia, zi monaca mia, quando egli ritornerà sano, salvo, bello, forte, come un angelo, bello, come un eroe…..

— Non parlate tanto — mormorò la suora, tenuta ferma dalla mano della malata, immobilizzata, curva sul letto.

— Io farò altri figlì, vedrete! Ora, ho cominciato, non finirò più di fare figli. Ogni volta, ogni volta tutto il mio povero sangue se ne andrà via, appresso ai figli: ma la Madonna di Pompei mi salverà, il chirurgo mi scamperà, voi mi assisterete e io guarirò. È vero che mi assisterete? Non mi dovete abbandonare, con tutti questi altri figli, che io debbo fare!

— Ma non parlate tanto, per amor di Dio!

— Perchè vi spaventate? Io sto benissimo. Non lo vedete come sto benissimo? Andate a dirlo a Vittorio, al mio piccino.

— Dorme, il poverino: e non capirebbe ancora.

— Un ufficiale di marina capisce tutto, mia cara suor Giovanna. Voi siete monaca e non le comprendete certe cose. Del resto, sto benone. Volete andarlo a dire a mio marito Gaetano?

— Anch' esso dorme, poveretto: era così stanco!

— Lo so, lo so, lo so. Ha scritto il romanzo, tutta la sera, lo so, l' ho visto di qua. Credete che sieno conti, quelli, del Banco di Napoli, quelli che fa? No, è un romanzo: un bel romanzo triste, triste, così triste, mia sorella!

— Non parlate, non parlate, vi volete rovinare!

— Sto maguificamente bene, suor Giovanna, e vi debbo dire tutto. Sapete che è quel romanzo? Quella storia così triste, che scrive il mio caro Gaetano? È la storia del nostro amore, tutta la nostra storia. Ora io ve la racconto…..

— No, no, non la voglio udire, dovete tacere, fatelo per amore di quella Vergine!

— Lodata sia, la Vergine! Non la volete udire, la nostra storia? Vi vergognate di ascoltare una storia di amore? Non avete mai amato, voi, sorella mia? Non rispondete? Anche voi avete amato, e la vostra storia è stata, forse, più triste della mia.

— Vi farete venire un gran male, se continuate a parlare, così presto, così forte. Volete ammalarvi gravemente, di nuovo, volete morire, forse? — disse la suora, angosciosamente, non sapendo come far tacere la inferma, non potendo tirare la sua mano da quella gelida piccola morsa, che era una gelida piccola mano.

— Io morrò — soggiunse, quietamente, l'inferma.

— Che dite?

— Dico che morrò — replicò quella, guardando la monaca, con occhi vividissimi.

— Quando Dio vorrà, non ora, speriamo, per voi, per il bimbo, per vostro marito.

— Morrò. Così finirà la triste istoria, quel romanzo, sapete, di Gaetano. Con la mia morte, finirà. Il pover'uomo non lo sa. Ma lo so io. Crede di serivere una storia assai, assai triste, ma con un lieto fine. Ma io morrò, è certo.

— Ma chi vi dice queste cose? Perchè le pensate? Calmatevi, tacete!

— Me le ha dette mio figlio Vittorio.

— Vostro figlio?

— Sì, mio figlio, l'ufficiale. È venuto poco fa, piccolo piccolo, vicino al mio letto e mi ha steso le manine e una di esse ha toccato il mio viso. Ah, che ho sentito, quando quella mano di bimbo, di neonato, ha toccato la mia faccia. Voi non siete madre, non sarete mai madre, non potete intendere. E mi guardava, mi guardava, con certi occhi così dolenti, questo mio bambino, che io ho subito compreso, che egli vedeva sua madre morta.

— Se non tacete, vado a svegliare vostro marito — esclamò la povera vecchia monaca, disperata.

— Non chiamate nessuno. Datemi dell'etere…. dell'etere…. subito…..

Emesso un profondo sospiro, Maria laterza svenne. Albeggiava. E, solo allora, suor Giovanna della Croce, tremando di terrore. comprese che la malata aveva delirato tutta la notte, senza febbre, gelide le mani e la fronte.

Matilde Serao

Il giudice Camillo Notargiacomo, colui che occupava il quarto piano, nel palazzotto di Vico Rosario a Portamedina, proprio in alto, mentre al primo vi era donna Costanza de Dominici e suor Giovanna della Croce, al secondo Concetta Guadagno e al terzo Maria e Gaetano Laterza, il taciturno e austero giudice di tribunale aveva accettato di prendere al suo servizio la monaca, vivamente raccomandatagli da donna Costanza. Il puerperio di Maria Laterza era finito, da un paio di mesi, la gracile donnina si era levata, pallidissima, debolissima, con certi occhi dolci e stralunati, sempre rabbrividendo dal freddo, avvolta nei suoi scialletti di lana, facendo gridare il suo piccino, quando lo carezzava lievemente con le sue dita gelide: e suor Giovanna della Croce era stata licenziata bonariamente, con un pagamento di ventisei lire, giusto tredici giorni di assistenza. La suora non aveva potuto realizzare il suo desiderio tormentoso, cioè di avere una tonaca nuova e un mantello nuovo: anche a comperarlo di una lanetta nera molto inferiore, erano così larghi, così ampii, la tonaca e il mantello, che ce ne volevano molti metri, almeno da quaranta o cinquanta lire di stoffa, più la fodera della tonaca e la manifattura. Impossibile, dunque: e il cruccio segreto più acuto lacerò l'animo pio della povera monaca, che vedeva riescire vana ogni sua servile fatica, ogni sua umiliazione morale e materiale, per poter riprendere i segni del chiostro. Potette solo, ahimè, rifarsi la fascia pel capo e pel collo: candide, candidissime, esse facevano vieppiù risaltare la consunzione dei vecchi abiti monacali. E di nuovo ammiserita, ridotta a misurare i bocconi, con le sue trentanove lire, suor Giovanna della Croce piegò le antiche spalle e salì al servizio del giudice Notargiacomo, al quarto piano. Costui, anzi, non l'aveva presa, Suor Giovanna della Croce, che dopo molte difficoltà; tre volte la monaca era discesa dal quarto piano, lentamente, tristemente, scoraggiata dalla burbanza, dalla diffidenza, dal tono sospettoso con cui il giudice l'aveva interrogata e anche redarguita nelle sue parole.

Questo magistrato faceva una vita molto singolare. Abitava in quel palazzotto da otto mesi, cioè dal quattro maggio dell'anno prima: viveva in quel quartino solo, solissimo. Non riceveva mai la visita di un parente, di un amico: il portinaio aveva severissimo ordine di rispondere, sempre, che il giudice Notargiacomo era uscito o che, stando in casa, non vedeva nessuno. A cercarlo, ogni tanto, qualcuno veniva: ma si comprendeva bene, dall'aspetto di quegli uomini, di quelle donne, dalle loro vesti, dal tono della loro voce, fra il plorante, l'insistente, il fastidioso, che erano imputati, o parenti o amici d'imputati. Costoro erano rigorosamente cacciati dal guardaportone, a cui il giudice Camillo Notargiacomo dava apposta dieci lire il mese, per tale servizio. I queruli, uomini e donne, andavano ad aspettare il giudice, poco lontano, all'angolo della via: era inutile, egli aveva un modo così glaciale e altiero di volger loro le spalle, di non rispondere nè al saluto nè alle parole, di continuare la sua strada, sino al portone, dove il portinaio li fermava, che costoro restavano, per lo più, interdetti e confusi, alcuni lamentandosi, altri bestemmiando. Il giudice riceveva pochissime lettere e un paio di giornali giudiziarii: le lettere lo turbavano sempre un poco, egli ne guardava la soprascritta, sempre, con occhi smarriti. Ogni tanto, il postino, sospirando e sbuffando, saliva al quarto piano, nelle prime ore della mattina: aveva una lettera con ricevuta di ritorno, da consegnare al giudice Notargiacomo. Costui, ogni volta che questa letera arrivava, si agitava tanto, che non ritrovava più nè la penna, nè il calamaio che aveva davanti: balbettava qualche parola, guardando con gli occhi spalancati l'indirizzo della lettera di calligrafia sempre identica e a lui nota, certo: tanto che, un giorno, il postino gli disse:

— Vostra Eccellenza ha il diritto di respingere questa lettera: mi fa una piccola dichiarazione…..

— No … no … non posso — aveva mormorato fiocamente il magistrato. —

Il più bizzarro era che il giudice Notargiacomo aveva portato seco, nel suo quartino solingo, un mobilio di uomo ammogliato. Il suo letto di legno scolpito, lavoro pretenzioso, ma di terz'ordine, era coniugale: così la stanza da letto aveva due tavolini da notte, un grande armadio a tre specchi, due alti sècrètaires. Il suo salotto era non da celibe, ma da uomo che ha avuto, un tempo, in casa, una donna, moglie, amante, innamorata, servapadrona, una donna, infine, a lui legata: salotto pieno di mobiletti capricciosi, pieno di ninnoli in chincaglieria, che contrastavano con l'aspetto triste del silenzioso magistrato. Alto, scarno, con una testa a pera, calvo, con una corona di capelli castani che si brizzolavano, con un viso scialbo e inespressivo e un paio di mustacchi castani anche più brizzolati dei suoi pochi capelli, sempre chiuso in un thait nero, incravattato e inguantato di nero, il giudice Camillo Notargiacomo era funebre. Era ammogliato? Vedovo? Separato da una moglie, da un'amante, da una servapadrona? Non era, forse, quella casa di aspetto coniugale, il gus to singolare di uno scapolo? Egli ci viveva solo: il grande letto coniugale serviva a lui solo: sovra un angolo della tavola da pranzo, egli mangiava in perfetto silenzio un pranzo venuto da una trattoria poco lontana, un pasto quasi freddo che egli divorava senza guardarlo; nel salotto pieno di mensolette, di tavolinetti, di ritratti nelle cornici, di statuine, egli non si fermava mai. Nella sua stanza da letto vi era, anche, presso la finestra, una piccola scrivania feminile, un mobile vezzoso e, sopra, tutti i minuti oggetti da scrittoio di cui una donna si serve, pei suoi bigliettini, per le sue lettere amorose: non solo il giudice Notargiacomo non si sedeva mai a quella piccola scrivania, ma, passandovi varie volte innanzi, nella giornata, voltava gli occhi in là!

In complesso, il taciturno e triste magistrato menava la vita di un uomo avaro, sordido. Si conosceva bene la cifra del suo stipendio e si sapeva, anche, che aveva qualche proprietà immobile, dei titoli di rendita: la gente, persino, esagerava la sua agiatezza. Tra casa e vitto egli non giungeva neppure a spendere la metà del suo stipendio, in quel quartino, con quella trattoria di infimo ordine che gli mandava un cibo grossolano e disgustoso: non gli si vedeva mai un vestito nuovo, non prendeva mai una carrozza, non metteva mai piede in un teatro. Persino con la vecchia monaca, che doveva pulirgli la stanza e gli abiti, stirare la biancheria e rammendarla, fare tutto il servizio, infine, e custodire la casa nella sua assenza, persino con suor Giovanna della Croce egli aveva lesinato sul compenso. Voleva dare docici lire, non più: a stento, a stento, giunse sino a quindici lire, ma rimase inquieto ed irritato di questa concessione. Nel quartiere, si diceva che il giudice Camillo Notargiacomo aveva molti, ma molti denari da parte; lo si dichiarava il più duro fra i taccagni. Qualche parente di delinquente, anzi, aveva fatto circolare la voce che egli prestasse il danaro a usura. E nei dialoghi del vicinato, passava, ogni tanto, una di queste frasi:

— Una giornata di queste, i ladri scassinano la porta del giudice, legano la monaca e portano via tutti i denari.

— Una notte di queste, i ladri scannano il giudice e si portano via tutti i denari.

Pareva, pareva che il giudice Camillo Notargiacomo temesse qualche cosa di simile! Rarissime erano le parole che scambiava con la sua persona di servizio, solo per qualche cosa di necessario; a tavola, mentre ella gli serviva il pranzo nuotante nel grasso freddo della trattoria, egli apriva un giornale forense, per non parlare. Ma, ogni giorno, quando usciva per andare al Tribunale, era la stessa raccomandazione costante, insistente:

— Non aprite a nessuno.

— No, Eccellenza.

— A nessuno, avete capito? Neanche se dicesse di venire da mia parte.

— Neanche.

Talvolta, giungeva sino alla minaccia:

— Poveretta voi, poveretta voi, se fate entrare qualcuno!

— Mi debbono uccidere, per entrare — diceva con un fievole sorriso Suor Giovanna della Croce.

Ella stessa aveva finito per credere, la monaca, che il giudice temesse i ladri, fortemente: troppe erano le sue raccomandazioni e troppa era la sua inquietudine. Ogni volta che egli rientrava dal Tribunale, verso le cinque, la sua mano, toccando il campanello, rivelava la sua agitazione: ora, suonava fortemente, due o tre volte: ora, suonava a distesa: ora, suonava leggermente, debolmente e sempre che schiudeva la porta, Suor Giovanna della Croce, si vedeva innanzi un viso sconvolto e udiva una interrogazione precipitosa:

— Ci è qualcuno, è vero, ci è qualcuno?

— No, Eccellenza: non vi è nessuno.

— Proprio, non è venuto alcuno?

— Nessuno è venuto.

— Ne siete certa?

— Ne sono certissima.

Un lieve sospiro dilatava il petto del triste magistrato ed egli entrava in casa col viso ricomposto. Doveva aver denaro, certamente, in uno dei due sécrétaires della stanza da letto: all'altro non si accostava mai, voltava gli occhi, per non guardarlo, non lo apriva mai, il suo armadio, in presenza di Suor Giovanna della Croce e vi teneva, in sua assenza, oltre la chiusura a chiave, un lucchetto con un segreto. Talvolta, entrando in camera, la mattina, per portare i panni spazzolati e le scarpe lustrate, la vecchia Suora lo trovava, il giudice, innanzi alla porta aperta di quel sécrétaire, col capo abbassato sovra uno dei tiretti e con le mani che frugavano.

Si era sempre arrabbiato, con la sua serva, di queste sorprese, umiliandola con parole dure, come faceva spesso: l'antica suora aveva chinato il capo, decisa a sopportare tutti quei maltrattamenti, per amor di Dio. Però, sempre, in queste volte, Suor Giovanna della Croce aveva intravvisto il giudice a riporre del denaro nel suo portafogli, delle carte — monete rosse, da cento lire. Andava via, in queste giornate, il giudice Notargiacomo, più chiuso, più triste, più lugubre di tutte le altre volte. Ritornava più tardi, a casa. Qualche volta, D. Gaetano Laterza, quello del terzo piano, diceva che aveva inteso passeggiare avanti e indietro, tutta la notte, il tetro magistrato.

Ebbene, malgrado l'età che rendeva grave il servire, malgrado quei quattro piani di scale molte erte, che Suor Giovanna della Croce doveva fare tre e quattro volte al giorno, malgrado la asprezza continua con cui il suo padrone la trattava, malgrado che ella non avesse neppure un boccone di pane, oltre quelle quindici lire di stipendio, malgrado che nè i suoi occhi, più, nè le sue mani, nè le sue gambe l'aiutassero a servire bene, la monaca si contentava di quel suo stato e, quasi quasi, se ne compiaceva. Preferiva quello che faceva a vendere, sì e no, dei merletti a delle ragazze bizzarre viventi nel peccato, come Concetta Guadagno, tanto più che poco le riesciva, più, ad avere sveltezza nel maneggio dei fuselli; preferiva quello ad assistere delle puerpere come Maria Laterza, in quell'ambiente di sgravi, di bimbi che succhiano, dove tutto odorava di mondo, di matrimonio, di procreazione, di maternità, confondendo il suo pudore di vecchia monaca che nulla sa di queste cose. Meglio servire! quei dieci soldi al giorno ella li guadagnava a stento, specialmente nei giorni in cui doveva stirare la biancheria di liscio del magistrato: la antica Trentatrè si sentiva piegare le gambe sotto, era troppo vecchia, oramai, per istare tanto tempo in piedi, ogni tanto si doveva buttare sovra una sedia, senza fiato, col capo abbassato sul petto. Non importa, quei dieci soldi al giorno aumentavano la sua misera pensione mensile, ella poteva mangiare un boccone di carne alla domenica: poteva accendere la lampada innanzi al Crocefisso, ogni sera, ella che aveva portato, con tanta umiltà cristiana, il nome della Croce: ella poteva fare l'elemosina, di due soldi, ogni Venerdì, alle anime del Purgatorio! La casa del giudice Notargiacomo era deserta, fredda e malinconica: il giudice era triste, rude, sempre sospettoso, non mai una parola buona esciva dalla sua bocca, non mai uno sguardo dolce partiva dai suoi occhi, tutto ciò avrebbe pesato sull'anima e sul corpo di qualunque altra serva, ma non sul corpo e sull'anima della vecchia Sepolta Viva. Ah non così, non così, certo, ella aveva sognato di trascorrere la sua vecchiaia, in servitù materiale e bassa, comandata con asprezza, mal compensata, maltrattata spesso, tenuta a distanza! Ma il tempo del rimpianto era trascorso: quello della lunga ressegnazione servile era cominciato dal giorno, in cui, per la seconda volta, suor Giovanna della Croce era stata cacciata da una casa, dalla casa di sua sorella, dove, finite le sue povere mille lire, finite le speranze di riavere la dote, Grazia Bevilacqua l' aveva messa alla porta. Certo, suor Giovanna della Croce era rotolata anche più giù, caduta al grado di una serva volgare, rientrando in casa sua, di sera, stanca morta, balbettando le sue preghiere nella stanchezza, digerendo nelle orazioni le amarezze fisiche e morali di cui era stata piena la sua giornata: ma asservita come era, il suo giogo le era diventato meno pesante. Tante altre serve, come lei, erano più bistrattate, dovevano lavorare di più erano meno compensate, dovevano obbedire a cinque o sei persone, esser vittime di tutti i capricci dei padroni, malate, affamate, sporche, diventate vecchie prima del tempo!

Era alla metà del quarto mese di servizio, in casa del giudice Camillo Notargiacomo, che suor Giovanna della Croce, di mattina, mentre spazzava il salotto, intese bussare la porta. In generale, era difficilissimo che qualcuno bussasse, durante tutta la giornata: ma il ragazzo della trattoria veniva, verso quell'ora, a ritirare la stufa del pranzo del giorno prima. Pure, non senza una certa emozione, suor Giovanna della Croce andò ad aprire la porta: in quegli ultimi tempi, le raccomandazioni del suo padrone, contro coloro che avessero voluto entrare, in casa, si eran fatte più pressanti. In verità, la vecchia monaca non aprì la porta, completamente: ma ne schiuse una metà. E una voce sonora e dolce, insieme, una dolce e sonora voce feminile, disse:

— Vi è il giudice?

La monaca si vide innanzi un'alta e snella signora, che non poteva avere oltre i ventotto anni, vestita con ricercatezza, con un viso bianco e fresco, dalle linee belle e non mancanti di nobiltà, con certi bei capelli castani folti e ondulati, una bella signora dalle mani guantate, dalla fine veletta abbassata sul volto.

— Non vi è — disse la monaca, scossa, tentando di chiudere la porta.

— Benissimo, io entro e lo aspetto — disse nettamente, con la massima disinvoltura, la signora.

Schiuse la porta con atto tranquillo, ma energico, scostò la monaca, con la mano, ed entrò in casa, chiudendosi la porta di entrata alle spalle. Allora la monaca, sconvolta, si pose a balbettare:

— Non dovete entrare…. non dovete…. il giudice non ci vuole nessuno…. avete capito?

— Io ci sono e ci rimango — disse la bella signora, avviandosi verso il salotto, sorridendo un poco.

La vecchia suora la seguì, coraggiosamente, e prima che ella mettesse piede sulla soglia del salotto, l'afferrò per un braccio.

— Per amor di Dio…. andatevene…. questa non è casa vostra…. il giudice non ci vuole nessuno!

E tirava la signora, pel braccio, la tirava verso la porta. Costei si voltò, diventata freddissima, a un tratto, sciolse il suo braccio e si ravviò la manica di seta, come se suor Giovanna gliel'avesse sciupata.

— Buona donna — disse la signora — tu fossi impazzita?

— Io non sono pazza, signora, e voi ve ne dovete andare! — gridò la vecchia suora in preda a una grande commozione.

— Va là, va là, sta zitta, vecchia matta!

— Questa non è casa vostra. Se non ve ne andate via, io mi metto a chiamar gente dalla finestra! — strillò la monaca, esasperata.

La giovane signora, lentamente, si accostò alla suora, la fissò negli occhi, con grande freddezza e le disse:

— Ma tu chi sei?

— Sono la serva: la serva! Ma ho ordini di non far entrare nessuno. Ora mi metto a strillare, dalla finestra.

— E sai chi sono, io?

— Non lo so. Ve ne dovete andare, ve ne dovete andare!

Più ancora si accostò alla vecchia, la bella signora e con voce calma ed altera le dichiarò, in viso:

— Io sono la moglie del giudice Camillo Notargiacomo. Io sono sua moglie e sto in casa mia. Esci fuori tu.

Esterrefatta, tremante, suor Giovanna della Croce guardava la signora, muta. Costei, a sua volta, prese per il braccio la povera vecchia e aprendo la porta di entrata, la mise fuori:

— Questa è casa mia. Vattene. Via, via!

Alle cinque del pomeriggio, suor Giovanna della Croce aspettò il giudice Camillo Notargiacomo, sul pianerottolo del primo piano, innanzi alla porta. Costui, a vederla colà, in quel luogo insolito, a quell'ora, si arrestò e si mise a tremare, come tremava la vecchia.

— Di' la verità….. di' la verità? — gridò il magistrato, dandole del tu, per la prima volta. — Vi è qualcuno, sopra?

— …. Sì, vi è qualcuno — balbettò la infelice monaca.

— Una donna? Una signora?

— Sì: una donna, una signora — replicò quell'altra, così smarrita, da non trovar altre parole.

— E l'hai fatta entrare! L'hai fatta entrare! — gridò lui, con tono più desolato che collerico.

— È entrata da sè. È entrata e mi ha cacciata. Ha detto che era vostra moglie.

Ed ella guardava il pover' uomo, infelice, misero, ormai; lo guardava, piena di strazio e di pietà.

— È vero, — disse il misero, il povero, l'infelice uomo, a capo basso.

Matilde Serao.

In quel pesante pomeriggio del cadente luglio, suor Giovanna della Croce tornava, lentissimamente, a piedi, dall'Ufficio dei Beneficii Vacanti, dove era stata a prendere la sua pensione mensile La strada, non breve, doveva averla molto stancata, poichè la monaca transcinava il passo, come mai: la erta via e poi gli alti scalini della Via Settedolori le avevano tolto il fiato, completamente: ella dovette appoggiarsi al muro, per qualche minuto, prima di penetrare nel vico Rosario Portamedina. Ordinariamente, quando camminava nella strada, non si guardava mai attorno, non dava retta alle parole dei monelli, che ora la canzonavano, chiamandola zi monaca, zi monaca, ora le chiedevano seriamente i numeri del lotto, crollando il capo a qualche esclamazione pia di femminuccia che si raccomandava alle sue preghiere; ma, in quel soffocante giorno di piena estate, suor Giovanna della Croce sembrava anche più distratta, anche più raccolta in sè: e andava un po' curva, più dell' usato: e, con gesto abituale, la mano destra stringeva i grani del lungo rosario che le pendeva dalla cintura, li stringeva con una mano quasi contratta da una emozione interiore. Così pensosa, così assorta, suor Giovanna della Croce, che non si accorse di tre o quattro gruppi di persone che stazionavano innanzi al palazzotto numero quarantadue, del Vico Rosario Portamedina: non si avvide di gente fermata, che parlottava vivamente, nell'andito del palazzotto nè di alcuni che salivano e scendevano. Veramente, a capo chino, a spalle curve, reggendosi alla ringhiera di ferro delle scale, la monaca era salita a stento, a quel primo piano, ove ella abitava ancora, insieme a Donna Costanza de Dominicis: ancora, ella dovette sostare, reggendosi allo stipite della porta, come se le mancasse ogni forza, mentre toccava lievemente il campanello.

La bruttissima faccia di donna Costanza, dove brillavano due occhi pieni di una divina bontà, quando ella venne ad aprire, era stravolta: la sua chioma stirata e lucente di contadina civilizzata, era tutt'arruffata: le sue labbra larghe e violacee erano gonfie, come di singhiozzi già scoppiati, e da scoppiare: il suo fazzoletto da collo era tutto spiegazzato. E o malgrado la sua distrazione in un grande pensiero o in una grande cura, suor Giovanna della Croce si accorse di quell'aspetto nuovo e strano. Donna Costanza era una donna coraggiosa e allegra: qualche volta, andava in collera: ma triste non era mai. Le due donne si guardarono in faccia, in quella nuda saletta di entrata, ambedue, infine, tristi sino alla morte. E mentre donna Costanza si avviava verso la stanzetta che serviva da salotto, da camera da pranzo, da dispensa, suor Giovanna della Croce, invece di ritirarsi nella sua camera, la seguì. Senza parlare, si sedettero una da un lato, l'altra dall'altro lato della tavola, su cui era disteso un vecchio tappeto di lana: senza parlare, si guardarono in volto e ognuna lesse nel volto dell'altra un dolore vivo e sincero, uno schietto dolore che non temeva più la folla della via, l'irrisione degli estranei, degl'indifferenti: e ognuna si sentì, per sè, per l'altra, triste sino alla morte.

— Che è stato? — fu la prima a rompere il grave e dolente silenzio, suor Giovanna della Croce.

— Oh guai, grossi guai, sorella mia! esclamò, desolatamente, la salernitana, mordendosi le ampie labbra violacee, per non rompere in lacrime.

— Che guai, che guai? voi state bene? Errico sta bene?

— Sì, sì, sta bene, povero bel figlio mio, sta bene, ma non è questo, non è questo, zi monaca mia, il guaio che ci è capitato!

— Un grande guaio? — chiese, esitando, molto pallida, suor Giovanna della Croce.

— Grande, grande! Una cosa, Signore, Signore, che non ce la meritavamo, Errico e io, poveretti, che abbiamo lavorato e stentato, per tanti anni, non ce la meritavamo, suor Giovanna, con le privazioni e le cattive giornate, per cui siamo passati! — e la salernitana, ruvida nel suo dolore, si torse le braccia, come per infrangersele.

— Un po' di pazienza, un po' di pazienza, donna Costanza mia — soggiunse suor Giovanna della Croce, sempre con la sua voce incerta e un po' flebile — e sopporterete meglio questa tristezza. Ditemi che è. Io….. io, sono una povera monaca….. così povera, che nessuno più….. ma forse, una parola, potrò dirla, per consolarvi…..

— Ah, che voi non ci potete nulla, cara zi monaca mia, nè voi, nè le vostre sante parole! Dio se ne è scordato, di noi, nel cielo: dorme, dorme, il Padre eterno!….

— Zitto, per carità! — trovò forza di gridare, suor Giovanna della Croce, innanzi a quella bestemmia — non dite questo, che è peggio! È peggio! Scampate l'anima, almeno!

— Ah, suora mia, suora mia! — gridò donna Costanza, dando in un impetuoso scoppio di pianto.

Con un pianto ardente, rude, che scoteva tutta quella compassione di donna avvezza alle pesanti fatiche, ai diuturni sacrificii, alle abnegazioni fisiche e morali, taciturno: erano lacrime soventi, sull'orrendo viso sconvolto dallo spasimo. Suor Giovanna della Croce si era fatta anche più smorta nello scarno viso oramai solcato da mille rughe: e lasciando piangere donna Costanza, comprendendo che quello sfogo era necessario, era salutare, aveva, due o tre volte con fervore, baciato il crocifisso sospeso al suo rosario.

— Ditemi che è, donna Costanza — soggiunse, come la vide più calma.

— Una rovina, zi monaca, una vera rovina! Sapete che Errico mio si doveva laureare in medicina, questo anno, e avrebbe subito fatto un esame per medico condotto, in qualche paese qua intorno, e ce ne saremmo andati via, insieme, col mio bel figlio infine dottore, a guadagnare lui la sua vita e la mia, io a servirlo sempre…

— Ebbene?

— Errico, stamane, è stato riprovato in due materie: le due ultime: le più importanti.

— Cioè? Non gli danno più la laurea?

— Non gliel'hanno data. Lo hanno riprovato! Capite, mio figlio che studiava nove e dieci ore al giorno, poveretto, che si alzava di notte, per perdere la testa sui libri e io che mi levavo per fargli un po' di caffè, e che mi sentivo stringere il cuore, a vederlo patire, riprovato, un giovanotto simile, così bravo, così buono, capace d'insegnar la medicina a mille studenti e a mille professori, riprovato, riprovato, in due materie!

— Ma come è stato? — domandò, confusa, triste, suor Giovanna della Croce.

— Ingiustizie, ingiustizie! Due assassini di professori, due bestie infami, due carnefici stupidi, zi monaca mia! Ah è una cosa da morire, da morire!

— Non vi è rimedio, è vero? — soggiunse, timidamente, tristamente, la monaca.

— Che rimedio? Che rimedio? La borsa finisce con questo mese di luglio e a un riprovato, come il mio povero Errico, chi darà più niente? Come aspetteremo un altro anno? Di che vivremo? Come pagheremo la casa, come mangeremo?

Convulsamente, suor Giovanna della Croce strinse le mani sul petto, come se vi avesse ricevuto una ferita.

— Un anno, un anno ancora, capite, suor Giovanna, poichè a Novembre è impossibile riparare! Il mio ragazzo è disperato; stamane, quando è entrato in casa, grande, forte come è, mi è svenuto fra le braccia. O figlio mio, ti hanno ammazzato! Un anno! Che sarà di noi?

— Che sarà di noi? — mormorò, macchinalmente, la monaca.

— Tutte le mie speranze erano in questa laurea di questo figlio e faticavo e mi spezzavo le gambe e le braccia, suor Giovanna, per sostenerlo, per aiutarlo, per servirlo. È stato inutile, tutto è stato inutile! Quei due boia, dell'Università, hanno ucciso me e lui.

— Non parlate così; siate buona. Dio vede e provvede — mormorò, sempre con quella sua voce incolore, monotona, la monaca.

— Dio dice: aiutati, che ti aiuterò. Che possiamo fare, per aiutarci più? Siamo morti, siamo morti, suor Giovanna mia!

— Beati loro, i morti in grazia di Dio — soggiunse, con un profondo sospiro, la monaca. — E dove è, ora, vostro figlio?

— È sul suo letto, povero ragazzo mio. Ho mandato a chiamare un dottore, io, quando l'ho visto svenuto: era nel cortile, per fortuna, questo medico, venuto per le altre disgrazie del palazzo. E gli ha dato del cognac in una tazza di camomilla: abbiamo pianto insieme, Errico mio ed io, abbracciati, io l'ho culato, zi monaca, come quando era piccolo piccolo e lo tenevo, in collo, nelle fasce, e non voleva dormire, la notte. L' ho cullato un'altra volta, a ventiquattro anni, come se avesse pochi mesi e mi si è addormentato addosso, dopo tanto spasimo, e l'ho posato piano piano sul suo guanciale, come se fosse una creaturina. Ah che pena, qui, qui, nell'anima, per questo figlio!

Tacquero. Si guardarono in viso, di n ovo, entrambe tristi sino alla morte.

— Quando cervaco il medico, dalle scale, è venuta in casa Concetta Guadagno — riprese donna Costanza de Dominicis, che aveva bisogno di espandere la sua straziante cura. Ci è venuta, perchè passava innanzi alla porta e voleva salutarmi, così, prima di andarsene e voleva salutare anche voi…..

— Salutare, perchè? — disse suor Giovanna della Croce che al nome di Concetta Guadagno aveva subito abbassato gli occhi.

— Andava via.

— Via, dove?

— Non so: non lo apeva ella stessa.

— Andava via, per ritornare? Partiva, per un viaggio?

— No. Non torna più. Non la vedremo più, forse.

— Ha lasciato la casa, di estate?

— Non l'ha lasciata lei, poveretta. Gliel' hanno fatta lasciare. Sa Iddio, se se ne voleva andare! Ma ha dovuto farlo. I mobili erano già stati ritirati dal quartino ed ella doveva consegnarne la chiave a mezzogiorno.

— Ma dunque, il suo…. il suo sposo — esclamò, dopo una pausa di esitazione, la monaca — è morto?

— No, non è morto. Sta benone. Si marita con una ragazza onesta. a Roma. Ha abbandonato Concetta Guadagno.

— Oh disgraziata! — gridò suor Giovanna della Croce, congiungen do le mani.

— Disgraziatissima! Non era cattiva. Se l'aveste veduta, quando scendeva le scale, suor Giovanna, a malincuore, voltandosi indietro, quando si è fermata innanzi alla mia porta, per dirmi addio, pareva un fantasma. Ah, se non avessi avuto quel figlio, in quello stato, avrei cercato di consolarla un poco.

— Non le avete detto niente? — chiese, a voce fioca, la monaca.

— Che le potevo dire? Per me, Errico è tutto: non capivo più nulla, in quel minuto. Mi ha fatto pietà, misera giovane, con quel suo viso bianco bianco. Vi ha mandato a salutare…..

— ……. io non vi ero.

— Non vi eravate. Vi ha detto che preghiate un poco, per lei: alla Madonna dei Dolori vuole che la raccomandiate.

— La raccomanderò. Che ne sarà di lei?

— Eh! — disse donna Costanza, stringendosi nelle spalle, rudemente. — Tornerà come prima…….

— Vergine Santa, scampatela! — esclamò la monaca, nascondendosi il viso fra le mani.

Donna Costanza si levò dalla sedia e andò nell'altra stanza a vedere se suo figlio dormisse. Tornò, dopo qualche minuto.

— Dorme. Ma sospira, si agita, nel sonno. O che mi hanno fatto, di questo figlio, queste due belve, dell'Università! Che sarà mai di questa povera madre e del suo ragazzo, suor Gìovanna? E se mi si ammala? Poco fa, nel sonno, diceva delle parole sconnesse….. mi ha fatto paura…..

— Come donna Maria Laterza — rispose Suor Giovanna della Croce. — Poi, le passò subito. Queste cose passano.

— Non le è passato — soggiunse, tetramente, donna Costanza de Dominicis. — Anzi, le è ritornato…..

— Che cosa?

— Il delirio, a donna Maria Laterza.

— Se è stata bene, dopo?

— Pareva, che stesse bene. Pareva! Ma non l'avete mai incontrata, così pallida, così debole, con quelle mani magre magre e sempre fredde, come diceva la nutrice, del suo bimbo!

— L'ho incontrata. Ma non sembrava che dovesse ricadere malata…..

— Non è ricaduta: non si è guarita, mai: è stata sempre malata.

— Col delirio.

— Ogni tanto, specialmente di notte, il delirio le ritornava. Poi, le passava. Il marito, spaventato, non ne diceva nulla a nessuno. Poi, questo delirio è venuto anche di giorno…..

— Oh Gesù, Gesù! — soggiunse Suor Giovanna, curvando anche più la testa sul petto.

— E. infine, donna Maria Laterza è impazzita, mi ha detto il medico venuto per lo svenimento di Errico.

— Impazzita?

— Sì. Alle donne che sgravano, talvolta, questo succede. Una mia amica, a Salerno, pure è impazzita così. Donna Maria Laterza pensa di esser una madre solinga e di aver suo figlio, Vittorio, per mare, in un mare in tempesta: pensa che egli chiama aiuto e che lei non può levarsi, perchè è morta……

— Come quella notte, come quella notte!

— L'hanno portata via, ieri sera, in gran segreto. Don Gaetano Laterza piangeva. Non è al manicomio: è in una casa di pazzi, privata, ove un medico la cura, pagando bene…..

— E può guarire?

— Forse. Dicono. L'amica mia guarì tre volte; ma ridiventò pazza. Era una buona signora…..

— Sì: era buona.

Un lugubre silenzio si fece, fra le due donne. La monaca pareva oppressa, accasciata, piegata in due verso la tavola: la salernitana, si teneva la testa fra le mani, almanaccando, dolorosamente sul proprio destino.

— Oh, suora mia, non ho mai mancato di coraggio, ma ora sono per terra. Quel figlio, quel figlio! Come gli darò da mangiare, io, per un anno? E se egli volesse lavorare, dove trova lavoro e come farlo, quando deve studiare? Sentite, sentite, sono stata troppo ambiziosa, ho peccato di superbia, dovevo rimanere con mio figlio in paese, fargli fare il contadino, con quel pochissimo di roba che avevamo! Ho voluto farne un medico, un signore, ecco quel che mi è successo! Dio mio, che faremo mai? In questo grande paese, dove non vi è lavoro per nessuno, come vivremo?

Un singulto ruppe la voce di suor Giovanna, uno di quei singulti senza lacrime dei vecchi.

— Oh se non avessi Errico, suor Giovanna, io farei come ha fatto il giudice Notargiacomo, al quarto piano….. non ne posso più, di patire, come lui….

— Che ha fatto?

— Si è ucciso. Si è buttato dal quarto piano, nel vico dello Splendore, stamattina.

— Ah! — gridò la suora come se mancasse.

— Non ne poteva più, pare, con quella moglie. Essa era una birbante, una pessima donna, che lo copriva di vergogna, gli to glieva i denari, gli toglieva tutto, ed egli così cattivo in Tribunale, non sapeva resistere a lei. Tre volte se ne è fuggita: tre volte è tornata. Alla terza, il giudice non ha avuto la forza di vivere con lei; è stato due mesi, soffrendo mille morti: stamane, all'alba si è buttato dalla finestra.

— È morto?

— Sul colpo, sembra. Ma non se ne sono accorti che due ore dopo: egli è caduto nel giardino dello Splendore. La moglie dormiva profondamente e non ha udito nulla. È ancora lì, non l'hanno tolto: ma io non ho avuto il coraggio di mettermi alla finestra.

— Non uno si è scampato, non uno, in questo palazzo! — balbettò, sgomenta, suor Giovanna della Croce.

— Non uno! Ah, che il mio grande Errico non aveva fatto nulla di male, per essere così punito, e io, io che non ho avuto bene, per lui? Questa ragazza, di sopra, Concettina Guadagno, non voleva salvarsi, forse, non viveva del pentimento dei suoi antichi peccati? E la povera donna Maria Laterza, così tenera, così cara, che non vedrà più nè suo marito, nè il suo bimbo, che aveva fatto, se non maritarsi, se non vivere come Dio comanda? E quello sventurato che si è ucciso, al quarto piano, non era galantuomo, un magistrato? Ah zi monaca, suor Giovanna della Croce, la Religione è una bella cosa, è una grande cosa, ma il Signore ci ha troppo castigati!

— Dio sa quello che fa — mormorò la monaca, umilmente.

— Ah voi parlate così, perchè siete monaca; perchè non avete mai nè voluto bene a nessuno, nè desiderato niente; perchè non vi siete maritata e perchè non avete avuto figli; perchè non avete sofferto nella carne e nel cuore, zi monaca, perciò parlate!

— Forse — soggiunse suor Giovanna della Croce, umilmente — forse! Ma Dio sa!

— Dite questo, perchè il Signore vi ha risparmiata, in tante disgrazie — esclamò, duramente, la salernitana.

— No, non mi ha risparmiata — la monaca rispose, levando la testa, mostrando un viso scialbo e triste sino alla morte. — Anche io ho portato una triste notizia, a casa.

— E che notizia? — replicò l'altra, scossa, cominciando a intendere.

— Non importa, non importa — soggiunse, umilmente, suor Giovanna.

— Dite che è, ditelo! Non vi ho detto tutto? Voglio sapere.

— Non è nè una morte, nè una malattia, nè un abbandono, nè il ritardo di un anno, donna Costanza.

— Ma dite, che è infine!

La monaca si passò la mano sugli occhi. Poi riprese:

— Mi hanno comunicato….. all 'Ufficio della mia pensione, che essa era ridotta….. balbettò la suora.

— Ridotta?

— Sì, ridotta, per economia — continuò, senza levare la voce, la suora.

— E a quanto?

— Da quarantuno lire a ventisette lire il mese — disse, semplicemente, suor Giovanna della Croce.

— Ventisette lire?

— Venticinque e mezzo, con la ritenuta.

— Ma voi siete all'elemosina, suor Giovanna della Croce! — gridò la salernitana, rabbrividendo.

— Sono all'elemosina — soggiunse la monaca, aprendo le braccia, desolatamente.

Un più profondo silenzio. Si guardarono e stette, fra loro, un dolore forte come la morte.

Matilde Serao.

Prima di entrare nella Via Porto, la donna si fermò un poco, guardandosi innanzi, quasi esitasse a procedere. Erano le nove di sera e già la popolarissima strada appariva insolitamente deserta; i radi fanali a gas non poteano che dileguarne fiocamente le tenebre; e nella grande ombra notturna si disegnavano bizzarri profili di ammassi pietrosi, biancheggiavano dei monticelli, si rizzavano dei pali di legno. L' opera di demolizione della vecchissima via era cominciata da un pezzo, ma procedeva con lentezza: l' inverno piovoso ne impediva i costanti lavori e mentre tutti gli abitanti di Via Porto si venian ritirando nelle vie adiacenti, nei vichi, nei vicoletti, nei fondachi non ancora tocchi, la grande arteria abbandonata quasi completamente era un ingombro di pietre, di calce, di rottami, di travi, disselciata, sventrata, coi suoi fanali strappati e lasciati giacere, lunghi distesi sugli ammassi di terra, coi suoi vecchi marciapiedi diventati dei pantani di melma e d'immondizie, sotto la pioggia. La donna che doveva percorrerla, curva, guardava per terra, innanzi a sè, temendo qualche mal passo che la facesse urtare contro qualche cumulo di pietre, in qualche fosso pieno di mota: poi, con un piccolo sospiro, sollevando la gonna, si avviò con cautela. Camminava pianissimo e molto curva; ciò non le evitò di sdrucciolare, malamente, due o tre volte; ogni volta si fermava, come indecisa di continuare, piccola figura perduta, in quel deserto, in quelle ombre, in quel tragitto così periglioso. Pure, lo compì. Scantonò per la terza via a mano diritta, e il passo della donna parve si facesse meno incerto, meno pauroso, il corpo, però, non si raddrizzò.

La donna fece pochi passi nella via Sedile di Porto e levò gli occhi in aria: scorse un fanale rosso che pendeva da un balconcino, al primo piano e su cui si leggeva, distintamente: Locanda Della Villa di Parigi. Il portone, non grande, era aperto: nel fondo dell'androne, innanzi a una immagine della Immacolata Concezione, ardeva una lanternina e ne rischiarava stranamente una figura scolorita, sotto cui, sovra un piccolo piano di pietra erano collocati due vasetti mezzi rotti nei quali erano dei fiori artificiali. La donna, passando innanzi a quella immagine pia, si arrestò, tenendovi gli occhi fissi: dopo essersi segnata, dal lieve moto delle labbra, sembrava che dicesse delle orazioni. Le quali non furono molto lunghe. Dopo un novello segno di croce, la donna si staccò dalla figura di Maria e intraprese l'ascensione di una oscurissima scala, a mano diritta. Il terreno, anche sulla scala, era umido e fangoso: la donna si reggeva al muro, strisciandovi contro, in mancanza di ogni altro appoggio. Mentre compiva questa salita, un passo si udì, alle sue spalle: qualcuno entrava nel portone, camminando presto, facendo le scale con una certa sicurezza. Era un uomo alto, giovane, a quanto si potea distinguere: passando presso la donna che faticosamente saliva, si curvò ad osservarla, curiosamente. Dovette riconoscerla presto, poichè l'uomo si rigettò indietro, come soddisfatto e disse con una voce forte, ma roca:

— Buonanotte e salute.

— Buonanotte — mormorò una voce bassa e affannosa femminile.

L'uomo sorpassò subito la donna, lasciando dietro un puzzo di cattivo sigaro e sparve, dentro una porta aperta, sul primo pianerottolo. La donna non vi giunse che più tardi, estenuata forse, da un lungo cammino fatto nella giornata, a cui quella traversata di via Porto e quella scala avevano posto l' ultimo tratto. Anch'ella entrò nella porta aperta, al primo piano, e si trovò in una stanza di entrata.

Una donna sedeva presso una tavola sgangherata e al chiarore di un piccolo lume a petrolio, dalla palla di cristallo verdastro tutto unto, lavorava macchinalmente a una lunga calza di cotone rosso. Era una donna sulla cinquantina, enormemente grassa, con una grossa testa su cui si erano già fatti radi i capelli: il suo corpo non aveva più forma precisa, umana, femminile, era una massa di grasso, spalle lunghissime, petto, ventre riuniti, fianchi amplissimi, braccia corte e goffe, mani rotonde, rossastre, dalle dita fiacche che si muovevano intorno ai ferri della calza. Anche il volto della donna, grosso, gonfio, con un doppio mento, con le guancie che affogavano il naso e i già piccoli occhi, era di un brutto colore vinoso, a chiazze: una espressione dura, indifferente si distendeva su quel viso. Quando la donna udì rumore di passi, guardò verso la porta, senza curiosità, e crollò leggermente la testa, avendo riconosciuto la donna che entrava. Costei si accostò alla tavolaccia che, insieme a due sedie zoppe, formava il solo mobilio di quella stanza di entrata e salutò, sempre a voce bassa, dove ancora restava il fiato corto della scala fatta:

— Buona notte, donna Carminella.

— Buonanotte a voi — rispose il donnone, con aria indifferente, senza neppure fissare colei che la salutava.

— Mi avete conservato il letto? — richiese l'altra, con non so quale timidezza.

— Ce ne sono quanti ne volete, di letti — borbottò donna Carminella. E soggiunse, subito, aspramente:

— E voi avete portato i cinque soldi?

— Sissignora, sissignora, li ho portati — rispose subito la donna, mettendo le mani in tasca.

— E cavateli — disse donna Carminella, sogguardando con aria di diffidenza.

Dalla tasca della sua gonna, la donna cavò, ad uno ad uno, i cinque soldi e li depose, dopo averli novellamente contati, sovra un tavolino a cui si appoggiava, sempre un po' ansimante, la colossale padrona della locanda. Allora si vide, sul cerchio di luce del lume a petrolio, la mano della donna che deponeva i soldi: una mano lunga, scarnissima, dalla pelle indurita e grigiastra su cui si disegnavano, molto grosse, violacee, le vene violette, dalle dita nodose, contratte, tremanti. La mano si ritirò, sparve, la donna restò in piedi, nell'ombra. Donna Carminella prese i soldi, li contò, li guardò ad uno ad uno, li fece anche saltare sulla tavola, poi li intascò: e soggiunse, quasi a dare una certa spiegazione.

— È impossibile fare credenza, capite? Qui si stenta giorno e notte, e che si ricava? poco o niente. Se dovessimo far credenza, saremmo morti.

— Avete ragione, avete ragione — mormorò l'altra con un sospiro umile. — Vi è molta gente stassera?

— Così così — borbottò il donnone, sospirando anch'essa, cioè ansimando, ammansita un poco. — Ma siamo troppi. Ci stanno troppe locande. Ce ne sono a quattro soldi, a tre soldi, proprio delle cantine, dei sotterranei, capite? Ancora un poco e vi saranno locande a due soldi, uomini e donne nella stessa stanza, e non se ne vergognano!

— Gesù! — disse l'altra, sonnolente.

— Quì siete tutte donne, in una stanza, lo potete dire? Il timore di Dio, prima di tutto! Ci stareste, voi, in una stanza dove si corica un uomo?

— Io preferirei dormire sulla strada, sulle pietre — soggiunse la donna, con un brivido di orrore nella voce.

— E perciò pagate cinque soldi! — escalmò trionfalmente donna Carminella. — Se volete andare, potete: sapete che è la terza stanza, la migliore.

— Chi vi è stassera? — interrogò timidamente l'altra.

— Da voi? Vi è donna Fortunatina, sapete, la butterata, quella che sta in mezzo servizio: nel suo letto ho permesso che tenesse le sue due bambine; che ci volete fare, un po' di carità, ci vuole! Si stringeranno. Mi son preso solo cinque soldi, il mio cuore è troppo tenerello. Nel secondo letto, vi è una nuova, una giovane: non la conosco. Si chiama Maddalena Sgueglia. È malata, pare. — Ha una tosse, una tosse! Speriamo che vi lasci dormire. Gli altri due letti sono vuoti.

— Io vado, buona nottata — disse la donna, avviandosi.

— Buona nottata? Ho da vegliare, come sempre. Faccio giorno notte e notte giorno. Dormo domani io!! Quel sonno non mi va nè per l'anima, nè per il corpo.

— Non potreste dormire? — osservò dolcemente la donna, che voleva ingraziarsela.

— Voi scherzate? È impossibile. Se non faccio la guardia io, chi la fa? Possono succedere tante cose! Dio lo sa! — disse, infine, misteriosamente, donna Carminella.

— È vero, buona nottata, buona nottata!

Ancora, se ne andava.

— Il soldo pel caffè, me lo lasciate? — chiese la grossa femmina. La donna esitò un poco.

— Veramente….. non potrei……

— Ma che volete crepare? Meglio il caffè, che il pane, sentite me. Un soldo di caffè, la mattina, vi accomoda lo stomaco. —

La donna crollò il capo, come poco convinta: cercò per un certo tempo, in tasca, ne tirò fuori un altro e lo consegnò alla donnana. Costei, di nuovo, se lo studiò: poi se lo gittò in tasca con soddisfazione, quella piccola industria della tazza di caffè le stava molto a cuore. E diede dei chiarimenti.

— Corrono tante monete false….. — soggiunse — domani mattina avrete una tazza di caffè che vi consolate. Buona nottata.

No, nella locanda della « Villa di Parigi » gli uomini non dormivano nelle stesse stanze delle donne, come in quasi tutte le locande a tre o a quattro soldi la notte, del quartiere Porto: la Villa di Parigi conservava quest'ultimo lembo di decenza. Ma, per raggiungere le stanze ove le povere donne che non avevano casa e soprattutto non avevano otto, dieci lire mai tutte insieme, per affittare un basso e sovra tutto, sovra tutto non avevano nè uno tramazzo nè una sedia da mettere in questo basso, dovevano ricorrere a questa miserabile, sudicia, immonda e talvolta infame ospitalità notturna, per raggiungere queste stanze, le donne vecchie e giovani, zitelle e maritate, note ed ignote, bisognava che attraversassero due stanze ove dormivano uomini. Queste due grandi stanze possedevano solo quattro letti ognuna e una sedia, accanto al letto, non altro mobilio: delle funi circondavano, in alto, questi letti, delle funi cui erano sospesi dei lenzuoli di tela grezza che formavano tenda e nascondevano, sempre per la decenza, un letto all'altro. Ma non tutte queste tele giungevano a separare completamente i letti, troppo corte, troppo strette: altre erano mezzo sollevate, rigettate indietro, non curandosi quegli uomini di celarsi agli altri ospiti notturni. Un lumicino fioco ardeva nella prima stanza della locanda; un altro ne ardeva nella seconda: e s'intravvedeva, al loro piccolo chiarore, l'abbandono, simile alla morte, di coloro che erano venuti a cadere là, immersi in un sonno di piombo, dopo una giornata di vagabondaggio o di lavoro, di fame, di stenti, forse dopo una giornata di vizio. Come cadaveri giacevano in quei sozzi e duri letti ravvolti nelle coperte grigiastre e sporche che migliala di corpi avevano coperto, ravvolti nelle aspre e male odoranti lenzuola, col capo immerso nel magro guanciale, come cadaveri buttati lì, in un torpore, donde solo il respiro affannoso di qualcuno, il russo grave di qualche altro, il russo stridulo di un terzo, dava segno di vita, rompendo il silenzio. Vi era nell' aria un cattivo odore umano di corpi sporchi, di fiati avvinazzati, di fiati malati, di tabacco fetido, fumato nelle pipe di creta e, malgrado il freddo di quella notte d'inverno, un tepore malsano era nelle due camere, ove otto uomini dormivano.

La donna, per attraversare quelle due stanze, per recarsi alla terza ove si trovava il letto che le era destinato, insieme a due altre ospiti feminili, parve che avesse ritrovato un vigore che le mancava: mentre per Via Porto, per le scale, ella aveva una andatura lentissima, fermandosi a ogni passo, in quelle due stanze abitate da otto uomini dormienti, ella quasi quasi corse, andava rigida, fra le due file di letti, senza voltare la testa nè a dritta, nè a sinistra. Malgrado che ella tentasse camminare leggermente, per non fare accorgere nessuno del suo passaggio, qualcuno si svegliò, si udirono scricchiolare gli assi di uno o due letti, sotto i pesanti corpi che si rivoltavano: uno di questi uomini, forse quello giovane, che aveva salutato la donna nella scala e che essendo giunto da poco, coricato da poco, non aveva ancora preso sonno, si levò in mezzo al letto. La donna si precipitò sulla porta della terza stanza, che era chiusa con la sola maniglia e sparve lì dentro affannante pel cammino fatto o, forse, per altro,

Nulla di diverso aveva questa terza stanza, ove entravano e dimoravano solo donne, dalle altre due, ove dormivano gli uomini. Vi erano i soliti quattro letti, con le sedie accanto, ove erano deposte le povere vesti delle dormienti: lo stesso lumicino vi dava un po' di luce, donna Carminella non avrebbe, certo, fatto questo consumo inutile di olio puzzolente, se la Questura non l'obbligasse, con continue minaccie, a tenere dei lumi nelle diverse camere. Solamente, sui quattro letti, vi erano delle immagini sacre, di carta, attaccate con la colla al muro, una Madonna Addolorata, un Sant' Antonio, un San Gaetano: una immaginetta delle anime del Purgatorio era fermata, a malappena, con gli spilli, sul muro. In un letto dormiva Fortunata, detta la butterata, la serva, il cui marito era andato all' Ospedale ed ella non aveva più potuto pagare la pigione di un basso: Fortunatina teneva abbracciata, nel letto, per stare meglio, la sua figliuola più piccola, una bimba di tre anni e la più grande di cinque anni dormiva in contrario, con la testa verso i piedi del letto. Raggricchiate, strettissime, esse non potevano muovere un piede nè una mano, senza far cadere una delle altre persone, o senza pericolo di cader esse stesse: ogni tanto, da quel giaciglio un sospiro di donna veniva fuori, era la povera madre che non poteva distendere le sue membra abbattute dal diurno lavoro ser vile, e un balbettio lamentoso infantile, era una delle due figliuolette che chiedeva qualche cosa, nel sonno, nel dormiveglia, che si lagnava, sovra tutto di non potersi muovere. Nel secondo letto occupato, un'altra forma umana feminile si distendeva: ma non giaceva come le altre. Al chiarore incerto si vedeva che l'abitatrice di quel letto aveva sollevato contro il muro il suo origliere e vi aveva appoggiate le spalle e la testa. Guardando bene, fra la penombra, abituando a quella poca luce, si scorgeva che la giovane di cui aveva parlato donna Carminella stava su e non dormiva, con un paio di occhi spalancati.

Rincantucciandosi dietro il terzo letto, che era vuoto, la donna cominciò a spogliarsi, senza fare alcun rumore; fra i letti delle donne non era distesa nessuna tela, per separarli, come se il pudore, fra donna e donna, non esistesse. La donna deponeva i panni man mano, sulla unica sedia, presso il letto: e infine vi si appog. poggiò un poco, come se pregasse. E, in quel momento, dal letto ove stava colei che aveva dichiarato chiamarsi Maddalena Sgueglia alla padrona della locanda, venne un secco, continuo, crescente rumore di tosse. Fra un urto e l'altro, si udiva un sospiro fischiante di colei che tossiva e, in un più lungo intervallo, un gemito:

— Oh Madonna mia!

A quel rumore fastidioso e continuato, la serva Fortunata si mosse nel suo letto, le due bimbe si svegliarono anch' esse, spingendosi, dandosi dei calci, disputandosi, infine, quel pochissimo posto che avevano.

— Zitto, zitto — mormorava la madre, fra il sonno stringendosene una al petto, cercando l' altra con la mano, per farla quietare.

La giovane, più lentamente, più straccamente, seguitava a tossire, con la voce roca e bassa, con uno stridìo del fiato fra i denti: e qualche lamento, ancora, le usciva dal petto insieme alla invocazione alla Vergine. Poi, quando l'accesso fu calmato, ella dette proprio in un grido di dolore.

— Che avete? Che vi sentite? — chiese, dal suo letto, ove si era messa sotto le pesanti coltri, la donna giunta l' ultima.

— Ah io sto malata! sto malata! — gemette la giovane, battendo la testa sull' origliere, convulsamente.

— E statevi tranquilla, allora: se no, è peggio — soggiunse la donna, vedendo che quella continuava ad agitarsi nel suo letto.

— A che serve? A che serve? Tanto, non dormo più, la notte. Mi corico per coricarmi. Appena sento il calore del letto, mi viene la tosse, questa brutta tosse e non dormo, non dormo più.

Parlava piano Maddalena Sgueglia, perchè le mancava il fiato e perchè temeva di risvegliare la povera serva che si ravvoltolava nel letto, con le due figliuolette, e molto piano le rispondeva la donna venuta in ultimo.

— L' avete da molto tempo, questa tosse? — chiese alla giovane, con un senso di pietà.

— Da sei mesi e più. Non mi dà pace. Con questa tosse, io me ne moro.

— Speriamo di no, speriamo di no — soggiunse pietosamente l' ignota.

— E non è meglio? Non è meglio che io muoia? Che ci campo io, su questo mondo? Che ci resto a fare, io?

— La volontà di Dio, la volontà di Dio!

Maddalena Sgueglia si chinò a guardare bene colei che le consigliava l' obbedienza. Ma non arrivò a scorgere che un poco del viso, la parte alta, di colei che le parlava: non vide che delle rughe profonde scavate in una pelle giallastra: il resto della testa scompariva in qualche cosa di nero, un fazzoletto, forse, che la ignota aveva tenuto sul capo, per ripararsi dal freddo.

— Eh, proprio di me, si deve occupare il Padre Eterno! Io sono una miserabile, che campo di nascosto della sua volontà!

Qui un altro accesso di tosse secca, irritata, irritante, scosse il petto della giovane; e fu più lungo dell' altro. La ignota guardava, ascoltava, senza dire nulla; una delle ragazze di Fortunatina si mise a piangere.

— Mammà, mammà, questa tosse di questa giovane non mi fa dormire — si mise a singhiozzare la bimba.

— Ficcati sotto le lenzuola, turati le orecchie; dormirai — borbottò, sempre piena di sonno, la madre.

— La sento, la sento sempre. Dille che si stia zitta, dille che lasci dormire la gente — gridò la bimba.

— Hai ragione, hai ragione, creatura mia — rispose la malata — pure il sonno a quest' anima di Dio mi toccava di togliere! Ah che castigo, che castigo!

E un sospiro straziante le uscì dal petto.

— Non ti puoi stare zitta? — domandò la bimba, dal letto, donde levava la piccola testa, con gli occhioni spalancati — Perchè non vai da un medico? quello ti ordina una cartina e tu ti guarisci.

— Sono andata dal medico, quando avevo denari. Mi ha ordinato la cartina: l' ho presa e non mi ha fatto niente

— E perchè non hai preso le altre cartine?

— Perchè non avevo denari.

— Ah tu pure, tu pure, non hai denari. come noi?

Io pure. Se no, non starei qua.

La malata sospirò di tristezza, questa volta. Anche la donna ignota, dal suo letto, dove non dormiva, sospirò: e la bimba, dai piedi del letto ove giaceva, curva come un punto interrogativo, emise un sospiro. Tacquero. Ognuna, forse, cercava di riprendere sonno o di addormentarsi. La bimba dovette essere la prima, poichè il suo respiro leggiero si unì a quello di sua madre, più grave, più forte, a quello leggerissimo della sua sorellina. La malata anche parve che si assopisse un poco, sempre sollevata sul suo gramo guanciale, con le coperte ammuncchiate sul petto e avendo gittato sui suoi piedi tutte le sue vesti, per avere più caldo; ma si udiva, sempre, un fiato breve e fischiante. Dal letto della donna ignota non giungeva nè un forte russo, nè un grosso respiro; se ella si era addormentata, doveva avere il respiro corto e mozzo dei vecchi e dei bambini.

Il silenzio in quella terza stanza della locanda Villa di Parigi durò oltre due ore, senza che nulla venisse a turbarlo. Ogni tanto, dalle due stanze attigue veniva qualche rumore, scricchiolìo di letti su cui pesanti corpi addormentati si voltavano e si rivoltavano, qualche parola forte detta nel sonno: una grossa scarpa cadde, da una sedia, a terra e qualche bestemmia giunse, farfagliata da coloro che erano mezzi svegli: ma la porta chiusa impediva di udir bene. Dalla via, ogni tanto, qualche rumore, attenuato, giungeva: era un passo grave di qualcuno che rientrava in quegli sporchi e oscuri paraggi intorno Via Porto: era qualche passo incerto e strascinato, di mendicante, di trovatore di mozziconi, di cenciaiuolo disperso in quell' intrico di straduccole: era il canto balbettato di un ubbriaco che gridava raucamente il ritornello di una canzone sentimentale: ed era, più spesso, qualche fischio lungo, espressivo, a cui un altro fischio lontano, debole, rispondeva, il fischio tradizionale dei malandrini, il fischio dei ladri, che nella notte, fa fremere di sgomento anche coloro che sono chiusi e difesi nelle loro case, al sicuro nei loro letti. Ma tutto ciò arrivava affiacchito dalla distanza. — Due volte, quando si udirono dei fischi più vivaci, più lunghi, nella strada, Maddalena Sgueglia si svegliò dal suo sonno di persona infermiccia e tossicchiò un poco, sordamente: poi ella ricadde nel suo torpore. Così, sulle teste, sui corpi di quegli uomini sconosciuti che dormivano nelle stanze seguenti, sui corpi e sulle anime di quegli uomini certamente miseri, forse viziosi, forse criminali, si distendeva, in un ambiente di una povertà estrema, di ospitalità venoso e duramente venale, di comunanza umiliante e repugnante, di contatti pericolosi sotto ogni rapporto, si distendeva il beneficio del sonno. E nella camera ove le tre donne e le due bimbe giacevano, sulle tre donne e sulle due creaturine venute da opposte vie, da miserie differenti e pure eguali, venute da giornata di fatica, di delusioni e di stanchezze mortali, venute da tutte le torture umane, ignote torture, in quella camera che esse usavano insieme, non conoscendosi, nulla sapendo l'una dell'altra, costrette a quell' unione e a quel contatto, su quei letti duri, fra quelle lenzuola aspre che appena ne covrivano i corpi, sotto quelle coltri pesanti che non davano calore in quella camera, anche, si distendeva il sonno, divino beneficio di ogni creatura umana, la più infelice, la più abbandonata, la più dispersa nel mondo.

A un tratto, la maniglia della porta che metteva in comunicazione la stanza delle donne e quella degli uomini, stridette: la porta si schiuse: qualcuno comparve nel vano.

— Chi è? — chiese Maddalena, la giovane malata che aveva un sonno leggerissimo, alzandosi sul letto.

— Zitto! sono io donna Carminella…….

E il donnone, la cui voce era molto turbata, si accostò ai letti, traballando sulle sue gambe corte e grasse.

— Che cosa è? Che cosa è? — chiese Maddalena, agitatissima.

— Non abbiate paura: è cosa da niente……. — balbettò la padrona di casa, parlando più forte, quasi per risvegliare le altre persone dormienti.

— Che è successo? — domandò Fortunatina, la serva, levandosi sul letto, con la figliuola più piccola attaccata al collo. L' altra si era già levata, dai piedi del letto, e si guardava intorno.

— Ci vuole pazienza, ci vuole……. sono disgrazie……. — balbettò ancora donna Carminella.

— Che disgrazie? Che disgrazie? — chiese, tutta tremante, la donna, l' ultima arrivata, dal suo letto.

E quando vide che tutte erano sveglie, l' enorme donna pronuziò la frase spaventosa:

— Vi è la polizia.

Maddalena Sgueglia dette in un grido stridulo e si nascose la faccia fra le mani; Fortunata si mise a piangere, tirandosi le due figliuole accanto; l' altra donna non parlava, ma si udivano battere i suoi denti dal terrore.

— Ma perchè fate questo? — esclamò donna Carminella — Perchè strillate? Perchè piangete? Che vi può accadere? Che vi può fare la polizia?

— Madonna mia, Madonna mia! — seguitava a gridare Maddalena.

— Pure questo, pure questo! — esclamava, fra le lacrime, Fortunata, la povera serva.

— L' altra, la terza donna, allibbita, certo, non proferiva verbo, ma si comprendeva che il suo terrore doveva essere più grande di quello delle altre.

— Ma infine, se non avete fatto nulla, la polizia vi lascia in pace! — gridò donna Carminella, che cercava ella stessa di dominare la sua inquietudine.

— E che ci viene a fare, dunque, la polizia, se non abbiamo fatto nulla? — esclamò Maddalena, che non si dava pace.

— Ci viene……. ci viene……. perchè ci deve venire — mormorò la donnona — queste visite si fanno sempre…….

— Sì, quando si cerca qualcuno, per arrestarlo! — gridò Fortunata, che era più esperta.

E Maddalena, Fortunata, le due bambine si misero a gemere, come se fossero sul punto di essere ammanettate e condotte in carcere. La donna taceva, taceva: ma, probabilmente, era irrigidita dal terrore.

— Non si arresta nessuno! — sentenziò donna Carminella. — Nessuno, capite, alla Villa di Parigi! Quì ladri e assassini non ce ne vengono.

Ma il tono era più audace che sicuro: si scorgeva che la grossa tenitrice della locanda non era certa di quello che dichiarava.

— E intanto la polizia è qua! — gridò Maddalena. — Ci possiamo alzare, almeno? Ci possiamo vestire?

— Non vi è tempo: il delegato è nella prima stanza — disse donna Carminella, a bassa voce, per rispetto.

— Pure in letto, ci dobbiamo far vedere! — strillò Fortunatina, la serva, battendosi la faccia con le mani. — Oh, che mala sorte! Che mala sorte!

— E zitto, zitto, Fortunatì! Non gridate, chè è peggio! Un poco di pazienza, un poco di pazienza!

— Mammà, mammà, io ho paura della polizia — mormorò, con voce soffocata, una delle bambine, a sua madre.

— E questo ci manca, che le bambine si mettano a strillare!

Intanto dei passi si udirono nella stanza contigua. Immediatamente, vi fu un silenzio di terrore, nella stanza delle donne. Macchinalmente donna. Carminella aveva acceso un piccolo lume a petrolio che era sovra un comò e nella stanza si era diffusa una luce più viva. Le tre donne erano tutte sollevate sui letti: Maddalena Sgueglia mostrava un viso consunto, affilato, sotto una massa di capelli castani disciolti, e un par di occhi stralunati: Fortunatina aveva un volto tutto divorato dal vaiuolo, a trent'anni mostrandone cinquanta, rotta dalle fatiche, dalla fame, dalla mancanza di riposo: e la terza donna col lenzuolo tirato sulla figura, quasi a nascondersi tutta, lasciava vedere solo la sua fronte giallastra e rugata e un par di occhi infossati sotto le orbite, occhi di umiltà, di tristezza e di spavento. Adesso, dall' altra stanza, dei rumori si udivano, un parlottar concitato, un affrettarsi di esclamazioni fra ironiche e rabbiose, un andare e venire di passi. Donna Carminella, immobile, rigida, vinta anch' essa da un terror che non giungeva più a nascondere, tendeva l'orecchio: ma non osava muoversi dal centro di quella stanza. Tutte sembravano impietrite: e le due bimbe avevano nascosto il viso sul petto della madre, chiudendo gli occhi.

Di nuovo, la porta si aprì: entrò il delegato vestito in borghese, seguito da due guardie, in divisa. Il delegato era un giovanotto trentenne, alto, con un paio di mustacchi sottili, di lineamenti non brutti, ma con un' aria sì dura di sbirro, con un aspetto così seccato e irritato di quelle visite, a quell' ora, che tutto il suo viso ne diventava repugnante. Senza salutare nessuno, si avvicinò al letto di Fortunatina la serva: costei lo guardava, senza fiato, pallidissima.

— Che fa, qui tu? — le chiese, con voce forte e rude.

— Dormo…. dormo…. Eccellenza..

— Non hai casa?

— Mi mancano i mezzi, Eccellenza…. non ho nulla….

— Sei vagabonda, eh? — disse il delegato, con un ghigno di disprezzo.

— Nossignore, nossignore, io lavoro, io sono serva…

— Dove stai?

— Dal cavaliere Scarano, tutti lo conoscono, a San Giacomo… potete domandare…

— E ti chiami?

— Fortunata Santaniello, a servirvi.

— Sono figlie tue queste?

— Sissignore, sissignore, Eccellenza!

— Non tengono padre, eh?

— Voi che dite! — esclamò la poveretta, offesa — Non tengono padre? È all' Ospedale, povero Pasquale, all'Ospedale… mio marito….

E si stringeva convulsamente le figliuole al petto, singhiozzando. Ma il delegato, senza curarsi più di lei, si era girato sui tacchi e interrogava metodicamente la giovane malata, guardandola con maggior curiosità ma con maggior disdegno.

— E tu che sei venuta a fare qui? — le domandò, a sovracciglia aggrottate, masticando il mozzicone di un sigaro.

— A riposarmi un poco, signor delegato, — disse a voce bassa, tremante, Maddalena.

— Non hai casa?

— Non ho casa.

— Come vivi?

— Faccio la piegatrice di giornali.

— Oh! Neh! Guarda un poco! E quanto ti danno al giorno?

— Quindici soldi — e sempre più le tremava la voce alla misera.

— Come ti chiami?

— Maddalena Sgueglia, ai vostri ordini, Signor Delegato.

— Padrona mia! — disse l'altro, ironicamente — a crederti, che fai la piegatrice di giornali! A me pare che tu faccia qualche altra cosa.

— Nossignore, nossignore! — gridò disperatamente la giovane — Io non sono quel che dite! Domandate di me, domani, alla tipografia del Giornale di Napoli: Maddalena, Maddalena la malata tutti mi conoscono. Per amor di Dio! Questo ci mancava.

— E non mi offendere! Non ti offendere! — disse brutalmente il delegato. Qua siete tutte degli angioli, in questa locanda. A sentir voi, campate tutte onestamente, come tante Madonnelle….. già, già…..

— Signor Delegato, signor Delegato! — esclamarono Fortunatina e Maddalena, piangendo ambedue.

Egli si era ancora girato sui tacchi, frettoloso, forse, di finire quella visita, in quelle stanze puzzolenti, fra tutti quei cenci sordidi, in quella miseria. E si trovò innanzi donna Carminella che lo guardava immobile, con gli occhi sbarrati, piena del più grande sgomento.

— Voi prendete sempre i nomi di chi viene, qui, la notte? — le chiese, con le mani in tasca, cercando i fiammiferi per accendere il suo mozzicone.

— Ma come, Eccellenza, ma come! Sempre cerco i nomi…..

— Dovreste tenere un libro….. un registro.

— Io non so nè leggere nè scrivere, Vostra Eccellenza.

— Ci vuole un registro….. se no, pagate la multa….. e vi chiudo la locanda.

— Va bene, va bene…. — mormorò la grossa donna.

— E chi altro avete, adesso? — chiese il delegato, che credeva aver finito e faceva questa domanda per scrupolo di coscienza.

— Quest' altra donna — disse donna Carminella, scostandosi e scovrendo il terzo letto abitato.

— Oh! E voi che fate qui? domandò, monotonamente, il delegato alla donna.

— Sono venuta per dormire — rispose con voce fiochissima, trepida, infranta.

— Ci venite spesso?

— Da qualche tempo. Non ho casa — replicò la donna sempre con lo stesso tono di voce debole e rotto.

— Siete vagabonda?

— No, no.

— E come vivete?

— Ho una pensione…. — mormorò la interrogata.

— Di quanto?

— Di diciassette soldi al giorno.

— E chi ve la dà, di grazia?

— Il Governo — disse la donna e voltò la testa in là.

Il delegato voltò gli occhi verso Donna Carminella, come per interrogarla. Costei, incoraggiata, si piegò verso il delegato e gli susurrò una parola all'orecchio. La donna teneva sempre la testa rivolta, dall'altra parte. Il delegato le chiese, di nuovo, ma più piano:

— E volete dirmi il vostro nome?

La donna tacque. Non aveva udito, forse.

— Vorrei sapere il vostro nome.

Ella non rispondeva. Esitava, forse.

— È necessario che mi diciate il vostro nome — ripetette per la terza volta il delegato, ricominciando a seccarsi.

Io mi chiamo….. mi chiamo Luisa Bevilacqua — fu la rispo sta, infine, della donna, debolissima, come un soffio.

— Non avete nessuno soprannome?

— No, nessuno.

— Non avete mai portato altro nome?

Ancora, ella esitò. Poi d'un tratto, come se si fosse decisa, con un gran sospiro, disse:

— Mi chiamo Luisa Bevilacqua. E non ho mai portato altro nome.

Matilde Serao.

Le campane della Pasqua di Risurrezione allegramente risuonavano per l' aria tiepida primaverile, in quella domenica bella di mezzo aprile. La gente entrava ed usciva dalle chiese, dove finivano i canti delle messe solenni e seguitavano le orazioni delle messe piane: alla porta delle chiese si vendevano immagini e mazzi di umili violette pasquali da vecchi e da bimbe: agli angoli delle vie più aristocratiche i fiorai offrivano delle rose tea e dei lilla fragranti, fiori più ricchi. Il viavai era grande, dovunque, per le strade piene di sole, lungo i magazzini che ancora non si decidevano a chiudere le loro imposte, visto la folla che si fermava innanzi alle vetrine scintillanti. Donne giovani e giovanette andavano lente, lungo i marciapiedi, guardando innanzi coi loro begli occhi dolci e fieri napoletani, ove si alternano, seducentemente, il languore e la vivacità; uomini e giovinotti venivano loro incontro, e le fiancheggiavano o le segnivano, in cerca di un' occhiata, di un sorriso, di un cenno tenero. Il movimento delle carrozze padronali e da nolo era continuo crescente; fra due giorni vi erano le corse dei cavalli, il grande spettacolo a cui partecipano, animatamente, nobili e popolani, in Napoli. Tutto, intorno, aveva un'aria di gioia, che veniva dalla luce bionda del sole, dalla carezza dell' aria, dalla giornata di festa, da quel sentimento di liberazione e di giocondità onde è presa la folla, dopo le tristezze della Settimana Santa. Da ventiquattr' ore, le campane che avevano lugubremente taciuto, risuonavano, con toni gravi e con toni cristallini, in liete volate ora lontane, ora vicine: e il mondo godeva quel millenario, anniversario della resurrezione del suo Redentore.

In alto della via Toledo, proprio in alto, ove essa finisce nella piazza Dante e vi perde il nome, diventando, dopo, la salita Museo, sul lato sinistro di chi ascende verso piazza Dante, è una strada che conduce al palazzo di Tarsia. Strada di transito, per andare verso le vie di Pontecorvo, di Montesanto e della Pignasecca, la via Tarsia è molto frequentata, nei giorni feriali: poco, nei giorni festivi. Invece, in quella domenica di Pasqua, lungo i due suoi marciapiedi, uno che rasenta le case che sporgono, dall' altra parte, in piazzetta Latilla, l'altro che rasenta il piccolo e popolare teatro Rossini, molta gente andava in su, verso il palazzo di Tarsia. Qualche gruppetto già si vedeva, dove sbocca la grande rampa di via Pontecorvo, gruppetto di gente fermata che aspettava, in silenzio: altrove, sotto il portone del palazzo dirimpetto a quallo di Tarsia, altri piccoli gruppi erano fermi. E il palazzo di Tarsia, palazzo municipale, dalla architettura che vorrebbe imitare, malamente, il disegno di una delle deliziose case pompeiane, tutta la facciata di questo palazzo a un piano, era adorno di trofei di bandiere: piccole bandiere, abbastanza grame, in verità! Anche il peristilio che arieggia, come ho detto, quello della villa di Diomede, a Pompei, aveva, lungo i muri bianchi, alcune piante verdi, messe colà in maniera di addobbo. lnnanzi al peristilio e fra le sue bianche colonne, degli uomini andavano e venivano, dando degli ordini, parlottando fra loro: ognuno di quegli uomini portava una lunga redingote e il cappello a cilindro: più, all' occhiello della sua redingote portava una coccarda di seta rossa e gialla, come segno di riconoscimento.

E in verità, una singolare differenza vi era fra quei signori affaccendati che entravano ed uscivano dal grande salone severo del palazzo di Tarsia, con i gruppi di uomini e di donne, gruppi sempre crescenti, che si andavano formando nella via, introno al palazzo: folla, infine, di uomini e di donne, che tenean gli occhi fissi sulla porta del salone terreno, quasi ansiosamente. Mentre i signori erano correttamente chiusi nella redingote, alcuni, più civettuoli, mostranti, dalla redingote aperta, il panciotto bianco e alcuni persino, desiderosi di sembrare dalle persone elegantissimi, stringenti nel pugno un paio di guanti tortorella, non messi, la piccola folla che attendeva, muta e pure inquieta, tranquilla e pure ansiosa, aveva tutto un altro carattere.

Era una folla di poveri, di mendichi, quella che si era già raccolta, quella che si veniva raccogliendo: e mentre, qua e là, la povertà delle vesti di qualcuno appariva decente, in generale, quelle vesti e quegli aspetti rivelavano la povertà, annosa, passiva, oramai di nulla vergognosa, caduta all'abiezione della massima sporcizia, del massimo sbrandellamento. Non solo i vestiti erano laceri, ma nessuna mano provvida era più venuta a rammendarli, a mettervi una toppa: non solo i vestiti erano stracciati, sbrandellati, sfilacciati, ma erano scoloriti, pieni di macchie, fangosi, trascinati per le vie piene di melma, sporcati addosso, di notte, sui giacigli ignoti, sporcati di notte, forse, nelle notti quando si dorme all'aria aperta, accoccolati sui gradini di una chiesa, accoccolati sugli spiragli di una cucina, di un sotterraneo. Alla luce del sole, alla chiarissima luce primaverile, quelle vesti, che erano dei cenci, mostravano tutto l'orrore della lunga povertà, della lunga incuria, della crescente degenerazione: dicevano non solo la miseria, ma l' abbandono, dicevano non solo l'abbandono ma l' oblìo di ogni decenza e di ogni pudore; dicevano non solo tutto questo, ma dicevano il profondo cinismo del vizio, il cinismo fatale, assoluto, che viene dall'aver troppo digiunato, dall' aver troppo avuto freddo, dall' aver troppo patito, dall' aver troppo disperato della vita, degli uomini e di Dio.

Le donne portavano delle gonne stinte, cariche di toppe di altri colori che si erano consunte e lacerate alla lor volta e che non erano state toccate più, delle gonne pendenti da tutte le parti, tenute su a stento, battenti contro i piedi, a frangia di fango, portavano delle viti di altre vesti, che mostravano il luridume della fodera sotto le braccia, ai gomiti, al collo; vite senza bottoni sul petto, con le maniche troppo corte che lasciavano vedere i polsi nodosi, rossi, nudi; vite guarnite ridicolmente in tanta miseria indecente, da vecchi ornamenti scolorati, provenienti, queste vite, da lontani atti di carità che non si erano più rinnovati; e portavano, le donne, al collo, sul petto, qualche straccio di fazzoletto colorato, annodato come una fune, qualche straccio di scialletto di lana, tirato, invano, da tutte le parti, a covrire le macchie o gli strappi del vestito. Due o tre di quelle donne erano scalze, addirittura, venute dalla più nera miseria, dai subburbi estremi della città, che confinano con la campagna; molte portavano gli zoccoli di legno dei quartieri popolarissimi e poverissimi napoletani; molte in così detti pianelli, di grossolano cuoio, senza calcagno; altre avevano delle scarpe da uomo, con chiodi grossi.

In quanto agli uomini, ai poveri, ai mendicanti, la repugnanza che ispiravano le loro vesti era anche più grande. Dei pantaloni macchiati orribilmente, cento volte rattoppati, tenuti su con lo spago, troppo larghi per chi li portava o troppo corti, lasciando vedere delle ignobili calzature, dei piedi calzati da scarpe rotte e senza calzette, dei gabbani da essere diventati verdi, da verdi diventati gialli,, senza bottoni, senza mostra, senza orlature, delle camicie — qualcuno la mostrava, solo qualcuno — di cotone a scacchi, dove mancava il colletto, delle camicie di flanella, scure grosse, che avevano l'aspetto così lurido da fare schifo, e sovra queste camicie delle cravatte che sembravano delle corde. Molti, io l'ho detto, col bavero della giacchetta, del gabbano, alzato, nascondevano ogni traccia di camicia, e, probabilmente, non ne avevano. I covricapo più bizzarri erano sulla testa di questi poveri, di questi mendicanti: cappelli un tempo neri, e ora sparenti sotto strati di polvere e di untume; berretti senza visiera; cappelli a cencio, sfondati, messi di traverso; persino, un vecchio pezzente portava un cappello a cilindro, diventato marrone e tutto a pieghe.

La faccia e la persona di quelle donne era singolare. Quasi tutte erano vecchie o sembravano tali, affrante dalla indicibile povertà dal cibo scarso o nocivo, dai giorni senza pane, dalle case dove dormivano in quattro o cinque, in una sola stanza: molte erano vecchissime, con una grossa gobba, venuta dall' età e non dalla costituzione, quasi piegate in due; poche erano le giovani e costoro, a occhi bassi, si erano andate a rincantucciare negli angoli, voltando la testa in là, e, fra le giovani, anche qualcuna, si celava appena con un fazzoletto annodato sotto il mento e che si abbassava sulla fronte. Molte di queste donne apparivano malate, alcune scialbe e flosce di pelle per anemie che non si guariscono, per perdite di sangue nei miserabili parti fatti all' ospedale donde le mandavano via dopo due giorni, per mancanza di nutrizione; altre gialle e gonfie per malattie del sangue, per malattie cardiache, per la soverchia grassezza; alcune obese, sformate. Una era ributtante, con gli occhi cerchiati di rosso, sanguinolenti, un'altra nascondeva male un enorme gozzo sotto una sciarpa; un'altra aveva un tic nervoso, per cui, ogni tanto, il viso le si torceva ed ella dava in uno scoppio di risa frenetica, un'altra si appoggiava su due stampelle tutte scorticate. La comune espressione di queste donne era un' apatia profonda che si stendeva sui loro visi e sui loro corpi stanchi, come rilasciati, sulle mani abbandonate in grembo o lungo la persona; ma su questo fondo gemente si manifestavano delle diversiià. Alcune fra queste donne avevano l' aria truce e giravano intorno degli sguardi feroci; altre avevano l' aspetto timido, raccolto, quasi volessero sparire dalla bizzarra riunione; altre avevano il contegno dolente di un dolore quieto, oramai costante e inconsolabile, altre avevano l'aspetto provocante, cinico.

Quasi tutte tacevano: si appesantiva su queste pezzenti un silenzio, molte incapaci di lamentarsi, oramai, più, molte incapaci di pettegoleggiare sulla loro sventura, alcune oppresse, alcune vergognose di trovarsi colà. Erano riunite in gruppo: ma tacevano. Varie erano sedute sul marciapiede: una si era sdraiata verso il muro, appoggiandovisi e si era addormentata. Varie portavano dei pallidi, queruli e laceri bimbi al collo; alcune ne avevano due o tre; una ne aveva cinque, intorno.

Negli uomini, le stigmate della miseria, della malattia e del vizio erano più spiccate; massime nei vecchi, nelle loro rughe, nel colore della loro pelle, nella lacrimosità degli occhi, nei nasi adunchi, nei menti, rincagnati, in quelle bocche, violette, in quelle bocche livide, dalle labbra rientrate sulle gengive senza denti, lunghe storie apparivano di decadenze fisiche e morali, di degenerazione dei sensi e della coscienza, di traviamenti in tutte le sudicerie della persona e delle abitudini.

I più giovani — non ve ne erano, di giovanissimi — erano o storpi, qualcuno zoppo, qualcuno cieco, uno col braccio rattrappito e cavato fuori dalla manica della giacchetta, o malati, con certe facce sbiancate, con certe orecchie esangui di persone divorate da infermità fatali, con certi visi chiazzati di sangue ai pomelli, con certe guance plumbee dove la barba non rasa metteva fuori dei peli ispidi, incolti, brizzolati, come sudici anche essi. Vi era un lunatico che si riconosceva alla bocca storta, tirata verso un orecchio e agli occhi stralunati; vi era un cionco, che, pure, andava e veniva sulle sue mezze gambe, trascinandosi con le mani e alle cui mani erano infilati degli zoccoli di ferro, uno di essi aveva il viso mangiato da un lupus, tutto fasciato con sporche bende che si legavano sull'alto del capo. Molti avevano il naso rosso degli ubbriaconi, con le guance rovinate dalla salsedine; qualcuno fumava un mozzicone; qualcuno fumava in una pipetta corta, di creta, da due centesimi; qualcuno ciccava. Fra gli uomini, dominava, più che fra le donne, l'apparenza ignobile, quasi indegna di pietà, tanto era ributtante; quasi nessuno di quei mendichi aveva l'aspetto timido, dolente, come si riscontrava fra le donne, e in quasi nessuno l'aspetto vergognoso di essere lì, innanzi al palazzo, riuniti in corporazione di pezzenti, in quell'attesa del giorno pasquale. Bensì, varii avevano l' aspetto duro e feroce, uno di quegli aspetti di chi, di notte, all'angolo di una strada mette il coltello al petto di un viandante per togliergli il portafogli: molti affettavano la sfrontatezza, con le mani in tasca, il labbro piegato in una linea di disprezzo, le spalle che si levavano ogni tanto, in atto di sfida. Non discorrevano fra loro, guardandosi, anche con occhi diffidenti, con sguardi obliqui, come se l'uno dovesse rapire all' altro non so che cosa. Qualcuno si appoggiava al bastone, a capo basso, aspettando; molti si erano messi al sole, verso Pontecorvo, per riscaldarsi; qualcuno tossiva e sputava, ansimando, sotto la sorda tosse cronica dei vecchi. Anche, fra loro, borbottavano, a voce bassa, sogguardando verso il Palazzo di Tarsia.

Quando tuonò il cannone di mezzogiorno, fortemente, poichè il rione di Montesanto è sotto la collina di S. Martino, donde spara dalla fortezza di S. Elmo, il regolatore, vi fu un doppio movimento. Tutti i signori in tuba e redingote si misero in due file, sulla porta di entrata del palazzo di Tarsia, sul p eristilio, persino nella via, fiancheggiata da alcune guardie di pubblica sicurezza, da qualche guardia municipale e da quattro carabinieri: dall'altra parte i pezzenti, maschi e femmine si avviarono verso quella porta, chi camminando presto, chi trascinandosi appena, secondo la loro età, i loro acciacchi, le loro malattie. — Ognuno di essi, maschio o femmina, portava nelle mani un cartoncino bianco, su cui era stampato: pranzo per i poveri e il posto e l'ora e lo stemma del Municipio di Napoli, che per festeggiare la Pasqua di Risurrezione, dava da pranzo a trecento mendicanti, centocinquanta uomini e centocinquanta donne. Con grande garbo, anzi con la esagerazione del garbo, quattro signori, in tuba e redingote, due da un lato, due da un altro, osservavano se le carte di ammissione erano in perfetta regola, e le ritiravano a a mano mano. La sfilata era regolata, anche, dalle guardie e dai carabinieri che non lasciavano passare più di un mendico, o più di una mendica alla volta; e nulla era più strano di quel passaggio di gente lacera, lurida, inferma, curva dalla vecchiaia o dagli stenti, fra quelle due file di correttissimi e persino eleganti signori, dalle tube rilucenti. Quasi tutti i mendichi e le mendiche, anche i più cinici, anche le più sfrontate, in quel momento del passaggio, abbassavano gli occhi, fra la timidità e lo scorno. Qualcuno addirittura non trovava la strada per la mortificazione: e incespicava. Con le mani guantate, anzi, un bel signore dai grossi mustacchi castani, con la decorazione di cavaliere all' occhiello, raddrizzò una mendicante che stava per cadere. Era una donna, vecchissima, magra, magrissima, che portava la testa tutta avvolta in un fazzoletto di contone nero. Per la vergogna o per la debolezza, questa mendicante era stata lì lì per cadere.

Qualche contrasto accadde. Un giovane idiota, dal sorriso puerile sulla faccia imberbe, zoppo, con un grosso piede voltato contro l'altro, aveva perduto il biglietto del pranzo: egli fu respinto cortesemente, ma freddamente da un gentiluomo in redingote. L'idiota piangeva, come un bimbo, mentre la sua bocca seguitava a sorridere: e invano un altro povero testimoniò, che un quarto d'ora prima, il giovane idiota aveva il biglietto, che glielo avevano dovuto rubare, visto la sua imbecillità. Una donna voleva entrare, coi due figli: e combattette coi signori, alla porta, singhiozzando, dicendo che li avrebbe tenuti sulle sue ginocchia, giurando che sarebbero stati tranquilli: fu inutile. Ella carezzò i suoi figli, promise loro che non avrebbe mangiato, che avrebbe portato loro, fuori, tutto, disse loro di non muoversi da vicino al cancello: ed entrò, ancora tremante di emozione. L'altra, quella che ne aveva cinque di figli, portava due bigliet ti: non voleva entrare, lei, voleva mandare i suoi cinque fig liuoli, con quei due biglietti, si contentava di non mangiare lei, purchè le sue creature mangiassero; e parlamentava, scongiurava l'uno, scongiurava l'altro, fino a che permisero, per eccezione, che entrasse lei e due più piccoli, con due biglietti.

Matilde Serao.



Flegrea
RIVISTA DILETTERE, SCIENZE ED ARTI
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RICCARDO FORSTER

Anno II — Volume II.

NAPOLI

Redazione
Piazzetta Mondragone

Amministrazione
Libreria Detken & Rocholl

1900

Ma lo permisero per impazienza, quei signori, perchè già si faceva tardi, ed essi, in redingote e tuba, con la coccarda dai colori partenopei all' occhiello, già avevano consumata una lunga pazienza e una lunga amabilità, con quella processione di mendichi, di mendiche, di poveri veri, di poveri falsi, di viziosi ipocriti, di viziosi sinceri, persino di delinquenti.

Quando tutti i trecento banchettanti furono entrati nella vastissima sala terrena di Tarsia, erano quaranta minuti dopo mezzogiorno, la lenta teoria dei miseri non era durata meno di due quarti d'ora. Le mense erano disposte in due file, sul lato destro e sul lato sinistro del salone centrale, lungo i due colonnati quasi pompeiani che dividono il salone dalle sale adiacenti: nel mezzo, fra le due mense, intercedeva un larghissimo spazio libero, per lasciar circolare le persone. Alla lunga mensa di mano diritta dovevano sedere tutte le povere femmine; alla mensa a mano sinistra, tutti i poveri maschi. Le mense erano messe senz' alcun lusso, ma con decenza: tovaglia e tovagliolo bianchissimi: bicchiere di vetro, ma nitido: cucchiaio e forchetta di stagno, nuo — vissimi; quindi luccicanti come se fossero di argento: coltello col manico di osso nero. Una grossa fetta di pane bianco e fresco era accanto a ogni coperto: una bottiglia di vetro, di poco meno d'un litro, piena di un vinello rosso chiaro, fiancheggiava anche ogni coperto. Alle spalle delle tavole imbandite vi erano altre tavole, semplicemente coperte di tovaglie candide, ove i camerieri doveano dividere le vivande, tagliare altre fette di pane. L'aspetto delle mense, così, era semplice, non mancante di una certa gentilezza. Ma il vasto salone aveva sempre l'aria sua solita, di deserto agghiacciante e triste, malgrado le quattrocento persone, circa, che vi si agitavano dentro.

Poichè, adesso, tutti quei signori ben vestiti erano rientrati nella sala grandissima e unitisi ad altri che già vi erano, si occupavano con grande premura a far sedere quei trecento poveri. Altri signori, molto ben vestiti andavano e venivano dai colonnati, dirigendosi alle sale adiacenti o tornandone, poichè lì dietro pareva fossero disposte la dispensa e la cucina. Fra quei gentiluomini vi erano anche delle signore, qualcuna elegantissima, qualcuna meno elegante, ma tutte vestite con una certa ricchezza e portanti sul petto, come gli uomini, una coccardina gialla e rossa. Anch' esse avevano l'aria un po' misteriosa e un po' affaccendata di chi compie una missione piena d'importanza e piena di dignità. Esse erano le patrone, le ispettrici, le sorvegliatrici di quel banchetto dei poveri: e nel loro sentimento di sacrificio avevano, in quel giorno di Pasqua, lasciata ogni altra occupazione, ogni altro svago e avevano voluto benignamente, caritatevolmente presenziare quel pranzo d'infelici, di mendichi. Un paio di esse, anzi, si toglievano lentamente i guanti bianchi e denudavano le mani cariche di anelli, poichè la loro ferma intenzione era di servire a tavola i poveri. Forse era un voto, che avevano fatto: forse volevano imitare il Redentore che lavò i piedi agli apostoli. Una di esse, la più elegante fra tutte, alta, sottile, con certi magnifici occhi verdi in un volto bianco, con una ricca capigliatura di un castano dai riflessi rossastri, che portava alle delicate orecchie due solitarii da diecimila lire, guardava tutto questo con una curiosità stupida e un certo senso di lieve paura. Questa bella giovane stava più indietro delle altre signore, come ritrosa, come schiva: e si appoggiava sull'artistico manico del suo ombrellino, un manico di oro tutto disseminato di piccole turchesi. Essa vedeva entrare i poveri ad uno ad uno e restare in gruppo, a mano diritta, a mano sinistra; ella inarcava le sottili, gentili sopracciglia castane, come per un crescente stupore. Due volte ella portò la mano guantata alla bocca. Odorava una fialetta di cristallo smerigliato bianco, dal coverchio formato da una grossa opale tutta circondata di diamanti: ella aspirava gli effiuvii sani e vivificanti dell'aceto inglese.

Del resto, altre persone vi erano nella sala. Sulle gallerie del primo piano sbucavano teste di signore, di uomini, di bimbi che guardavano giù, con una curiosità grande. Erano famiglie di consiglieri comunali, di grandi elettori, d'impiegati municipali che, non avendo nulla da fare, in questa giornata di festa e avendo sentito a parlare, con una certa pompa, di questo banchetto dato ai poveri, erano venute là, a passare una oretta. Vi era anche qualche ragazzo venuto fuori dal collegio, per le vacanze di Pasqua. Lassù, nella galleria, come nei palchetti dei teatri, vi erano delle seggiole e dei seggioloni: le signore spettatrici, nei ricchi vestiti serici della Pasqua, ma portanti già i chiari cappelli primaverili, si curvavano sul bordo della galleria, chiacchierando fra loro, comunicandosi le loro impressioni, dando in qualche piccolo grido di sorpresa, di pietà, il piccol grido un po' artificiale delle persone ben pasciute, sane, ben vestite, cui appare il fantasma del povero, mezzo morto di fame, lacero, sudicio, in tutto il suo reale orrore. I collegiali, i bimbi, gittati sullo sporto delle gallerie, s'indicavano fra loro qualche pezzente e davano in qualche risata infantile. Le giovanette stavano diritte, sulle loro sedie, con la stessa immobilità, con la stessa distinzione, come al teatro.

Dopo qualche tempo di viavai, di agitazione, di ordini dati a voce, coi cenni, da vicino, da lontano, la squadra dei signori in redingote e tuba aveva man mano fatto sedere i trecento poveri, centocinquanta per parte, ai posti loro assegnati. La fatica non era stata poca, materialmente parlando, per collocare tanta gente diversa, impacciata, lenta, malata, trascinante i passi, che non trovava la sua sedia, che esitava, intimidita, imbrogliata, innanzi a quella funzione del pranzare, in pubblico, a una mensa pulita, servita da camerieri in marsina e da signori rispettabili in toilette irreprensibile. A un certo momento, vi fu un istante di sosta. Tutti i trecento poveri erano seduti, aspettando: i signori erano in ordine sparso, alle loro spalle, nel centro della sala, in aspettativa, anch'essi, di riprendere il loro lavoro e qualcuno di essi, più affaticato, si metteva e si toglieva la tuba dalla testa bollente: le signore caritatevoli, pietose, erano raccolte in un gruppetto, a un angolo, pronte anch'esse a lavorare per il massimo benessere di quel banchetto e due di loro, anzi, interessatissime, guardavano i poveri con le lunghe lenti, essendo miopi e una di queste lenti era in pesante argento cesellato alla maniera antica e l' altra di queste lenti era in tartaruga biondissima con un lungo monogramma in brillanti. Le due mense erano al completo: i poveri attendevano il loro pranzo; sotto gli sguardi delle persone che si spenzolavano dalle gallerie, giunte al colmo della curiosità, sotto gli sguardi tranquilli e sorvegliatori dei signori in redingote e tuba, sotto gli sguardi fissi delle poche signore che eran venute per presenziare, per ispezionare, per sorvegliare quel banchetto, persino sotto gli sguardi indifferenti e forse sprezzanti dei camerieri che dovevano servire a tavola quei poveri.

Ebbene, in quel lungo istante in cui si aspettava la prima pietanza, molti di quei mendichi e di quelle mendiche avevano curvato la testa, per evitare tutti quegli occhi, curvati verso il loro piatto vuoto; molti tenevano semplicemente gli occhi chini, fissi in un punto, non volendo guardare in giro; qualcuno aveva steso la mano verso il pezzo di pane bianco, ma non aveva osato di spezzarlo o di portarlo alla bocca; qualcuno vi teneva la mano sopra, come se temesse di vederselo portare via; quasi nessuno aveva preso il tovagliolo e lo aveva spiegato. Ebbene, in tutti quei poveri, a capo basso, a occhi bassi, insieme all'imbarazzo, alla timidità, alla confusione di trovarsi in quell' ambiente, fra quelle persone, oggetto di curiosità e non di tutta curiosità benigna, oggetto di pietà e non di tutta pietà sincera, oggetto forse, senza forse, di ripugnanza e di ribrezzo, ebbene in tutti questi miseri ignoti, affamati, luridi, fra tante espressioni serie, una sola risaltava, invincibile; la umiliazione, la umiliazione umana, l'umiliazione dell'uomo avanti l'altro uomo, a lui simile fatto simile da Dio, gittato all'estremo opposto della vita, dalla nascita, dalla fortuna, dalla sfortuna, dall'errore, dal dolore. dal vizio: la umiliazione di trecento creature umane, fatte di carne e di ossa, con cuore e con coscienza, con sensazioni, impressioni e sentimenti, la umiliazione di trecento creature umane innanzi alla fortuna altiera, alla carità altiera, alla pietà altiera, alla elemosina altiera, pomposa, inutile e sprezzante.

Ma già, sulle tavole laterali, dove erano solo le tovaglie candide, arrivavano dei piatti in cui una larga e grossa fetta di timballo di maccheroni fumava, con una crosta di pasta ben cotta nel forno, mentre, dentro, i maccheroni erano conditi con sugo di carne, rossastri, imbottiti di mozzarella, di formaggio, d'interiora di pollo. Il servizio cominciò, rapido, silenzioso, deponendosi la pietanza innanzi a ogni povero dai camerieri, sotto gli ordini di quattro signori che più si affaccendavano intorno alle mense. E allora, anche, due delle sette signore che erano venute a presenziare, a ispezionare, a sorvegliare il banchetto, in quella sentimentalità forse vera, forse falsa, mezza vera, forse, e mezza falsa, due di queste signore, molto ricche nelle vesti, se non eleganti, quelle due che si erano tolti i guanti, facendo scintillare le molte gemme sulle dita bianche, si diedero minutamente a servire, intorno intorno i poveri. Andavano, le due signore, dall'uno all'altro, curvandosi verso loro, spiegando loro il tovagliolo, offrendo loro il pane, mescendo il vino: quei mendichi, appena levavano il capo, sempre più confusi, ancora più umiliati, non rispondendo, lasciandosi servire, sentendo perfettamente, in quell'abbassamento volontario e altiero dei signori e delle signore l'orrore della povertà data a spettacolo, l'orrore di quel cibo offerto per la carità di un'ora soltanto, l'orrore di quel banchetto pubblico, di cui tutti s'interessavano, come di un divertimento singolare, bizzarro, ma non somigliante a nessun altro.

Adesso, tutti i pezzenti mangiavano la loro fetta di timballo di maccheroni. Alla espressione di confusione e di umiliazione un' altra se ne sostituiva tutta materiale, tutta fisica, quella di una lunga fame mai completamente sazia e che stava per saziarsi, almeno per un giorno, quella di un palato lungamente disabituato da cibi succosi e copiosi e che poteva, per una volta, sentire il sapore di una pietanza gustosa. L' espressione dei volti diventò volgare, bassa, in quel lento divoramento di cibo, fatto da mascelle di vecchi, di malati, di esseri deboli: qualcuno mangiava voracemente, senza guardarsi intorno, come una bestia affamata che trangugia il suo pasto, nell'angolo della sua tana; qualcuno masticava rumorosamente, in fretta, facendosi rosso per inghiottire troppo presto; qualcuno, con la forchetta, gelosamente ricercava l'imbottitura prima, per poi mangiare i maccheroni e infine arrivare alla crosta; qualcuno s'imbrattava la bocca, il mento, senz' asciugarsi col tovagliolo, per la urgenza grande della fame. Tutti mangiavano goffamente, mal seduti, col cappello o col berretto sugli occhi, con la testa curva, con le mani deboli, tremanti o impacciate che non sapevano maneggiare la forchetta e il cucchiaio. Le due signore cercavano di aiutare quella goffaggine, quella debolezza, quell' impaccio: ma, ogni tanto, innanzi a un mendico più lurido, più puzzolente degli altri, innanzi a qualche vecchissima mendica, la cui bocca senza denti, non arrivando a masticare i maccheroni, li lasciava sporcamente ricadere nel piatto, esse si arrestavano, scoraggiate. Qualche uomo, qualche donna, mangiavano piano e poco; erano quelli, quelle, che misuravano la loro fame, avendo fuori la porta, avendo a casa, qualcuno che aspettava la sua parte del timballo di maccheroni. Era stato detto loro che, dopo, avrebbero potuto portare via gli avanzi: anzi la pietà comunale dava loro anche il tovagliolo e la posata, qualche cosa che costava cinquanta centesimi e che si poteva rivendere per cinque o sei soldi. Nella grande sala si allargava un odore di maccheroni conditi, un rumorìo di forchette e di piatti: i trecento poveri seguitavano a mangiare, serviti benignamente dai ricchi, dai fortunati, dalle eleganti donne, dalle belle donne, con tanta ingordigia, con tanta realità di atti goffi e sconci, con tanto abbassamento di ventricolo affamato, che lo spettacolo cresceva di tristezza, infine, e di nausea.

La signora giovane, alta e snella, vestita di uno squisito abito color grigio tortora a gentili riflessi di argento, portante intorno al collo un lieve, vaporoso boa di piume grigie dalle punte argentee, macchinalmente, si mosse anche essa dal gruppo delle altre cinque signore, che erano ferme e si dette a girare intorno alla mensa delle donne, dalla parte esterna, fermandosi, ogni tanto, a guardare una della povere donne, chinandosi, un momento, e dirigendo la parola a una di esse. Chi sa, la sua inazione, in un angolo della sala Tarsia, le era parsa poco cortese, poco pietosa, mentre era venuta per fare atto di carità cristiana e tanti occhi la osservavano; forse, un desiderio di impressioni più forti, più profonde, più ignote a lei, giovane, bella, ricca, probabilmente felice, la spingeva verso quella mensa a guardare meglio, a interrogare, a conoscere; e chi sa, poichè tutto accade, un desiderio di viva e vera carità la spingeva verso quelle donne, verso quel suo prossimo, verso quelle donne create a sua somiglianza, come lei cristiane, la spingeva verso quelle creature che mangiavano il pasto pubblico gittato loro in elemosina.

La leggiadra e fine signora, i cui begli occhi verdi sorrideano dolcemente, dietro la sua veletta bianca, si curvava un poco sulla mensa delle donne, per poter loro parlare, mentre esse appena levavano la testa, per risponderle, tutte intente al piacere del cibo e forse infastidite moralmente da quelle domande: la giovine signora, dal volto bianco ove un sottile colorito roseo si diffondeva teneramente, parlava con una voce bassa e toccante ove pareva che corresse, sempre, un lieve fremito di emozione. Forse non era emozionata: forse era tutta fisica quella vibrazione della voce che dava, a ogni sua frase, una portata sentimentale assai più profonda di quella che non avesse: ma niuno poteva udire quella voce senza scuotersi. Ella si era curvata, adesso, verso una donna cinquantenne, dal viso freddo e ostile, che divorava con rapidità gli avanzi della sua grossa fetta di timballo:

— Siete contenta, è vero, buona donna, della vostra Pasqua? — chiese la giovine signora, con un tono di bontà.

La mendica levò gli occhi, li riabbassò subito e a voce bassa, breve, come mortificata di quella richiesta, rispose:

— Sì, Eccellenza.

L'altra restò un poco interdetta, da quella secchezza di povera orgogliosa. Fece qualche altro passo, sempre dalla parte esterna della mensa, da cui, ora, i camerieri andavano sparecchiando i piatti vuoti del timballo, che i poveri avevano anche ripuliti, intorno intorno, con la mollica del pane. E la signora, in questo intervallo, in cui quei miseri e quelle misere si sollevavano un po', guardandosi intorno, in attesa della seconda pietanza, interrogò una donna già vecchia, dall' aspetto, piccola, scarna, con la testa ravvolta in un fazzoletto rossastro, come una contadina.

— Voi non siete napoletana, è vero? — le mormorò con molta dolcezza.

La povera la guardò, con due occhi tristi, timidi, di animale ferito e malato.

— No, sono di Basilicata — disse con un forte accento di quella regione.

— E che fate? Che fate? — replicò la giovine leggiadrissima, con voce anche più insinuante.

— Facevo,.. facevo la serva …venni con una famiglia, di là, molti anni fa…

— E ora?

Mi hanno mandata via …da molto tempo…

— E perchè? E perchè? chiese la signora, che pareva piena dell' interesse più vivido.

— Perchè ero malata …aveva una malattia al cuore …e non potevo servire…

— Avete questa malattia, poveretta?

— Sì — disse la mendica, con un lieve rossore sulla faccia scialba, senza soggiungere altro.

E allora la signora si trovò incerta, senza sapere che dire di più. Forse in un instante comprese quanto fosse inane quel suo interessamento, innanzi a certe sventure inguaribili, poichè vengono dall' essenza della vita istessa, dalle cose, dagli uomini: comprese, forse, a volo, che quelle domande pietose, fatte, certamente, con molta pietà, non giovassero se non a rinnovare, in quelle infelici, tutti i dolori di cui era contristata la loro esistenza. E restò muta, qualche tempo, pensosa, come preoccupata, ferma presso la mensa, con le mani appoggiate sull' elegantissimo manico del suo ombrellino. La seconda pietanza appariva, sulle tavole posteriori, ed era distribuita nei piatti rapidamente per essere messa innanzi ai trecento poveri. Si trattava di una larga porzione di carne, cucinata napoletanamente a ragù, cioè nuotante in un sugo scuriccio e denso, dove entra lo strutto, la cipolla e la conserva di pomodoro: intorno a questa porzione di ragù, per ogni piatto, vi erano tre o quattro patate, cotte nel medesimo brodo di ragù. E la voracità suscitata dalla lunga astinenza, la golosità di chi, da anni non ha mangiato carne, fece ridiventare animalesche, novellamente, quelle faccie di banchettanti. Moltissimi inghiottivano la carne senza tagliarla, lacerandola coi denti, mentre il restante si abbandonava sulla bocca o rimaneva sospeso alla forchetta, moltissimi non sapevano adoperare il coltello e si vedevano confusi e taciturni, guardanti silenziosamente il loro pezzo di carne; altri ne avevano tagliato un pezzo, e dopo averlo lungamente assaporato, riponevano il rimanente per conservarlo a qualcun altro, per mangiarlo, loro, chi sa, l'indomani. Adesso, all'odor del timballo, che ancora fluttuava nell' aria, si univa quello del ragù, insieme ai poco buoni odori di tutta quella umanità povera e sudicia: ma gli uomini in redingote e tuba seguitavano, imperturbabili, il loro affaccendarsì, ma le signore continuavano il loro giro, prendendo i piatti con le loro mani gemmate, a forza, da quelle dei camerieri, perchè i poveri fossero serviti più presto.

La signora snella e fine, dalla voce che esprimeva una costante commozione di bontà e di dolcezza, si era fermata, in quel momento, di fronte a una povera che stava aspettando la sua seconda pietanza, a testa china. Era una donna dall' apparenza vecchissima; la sua pelle del volto, fra giallastra e brunastra, aveva i solchi che vi possono mettere, forse, settanta e più anni di vita, ma di vita tormentata, torturata, fra tutti gli stenti. Cento storie di tristezza si leggevano in quel volto di decrepita, attraversato da tutte le tracce che lo sconvolsero, e forse una sola lunga storia. L' antichissima mendica era molto curva, con le spalle ad arco e col mento aguzzo che quasi batteva il petto; non doveva avere quasi nessun dente, poichè le labbra erano rientrate completamente sulle gengive e la bocca era rincagnata, il naso scarno dei decrepiti, piegandovisi sopra. Portava indosso, questa vecchissima mendica, uno straccio incolore di veste nera, dalle maniche troppo corte che lasciavano vedere due mani cadaveriche: al collo aveva un cencio di scialletto di lana bianca, ma non annodato, sibbene bizzarramente tenuto fermo con uno spillo, quasi con un singolare intento di castità, ridicola a quel' età e in quella condizione: sulla testa, che doveva esser canuta e forse rada di capelli recenti, era curiosamente annodato un fazzoletto di cotone nero, messo in tale foggia che pareva che si fosse voluta bendare, poichè il fazzoletto le nascondeva anche le orecchie, annodandosi sotto il mento. Era collocata, questa vecchissima donna, quasi in fine della mensa dei poveri, verso l'alto della sala Tarsia, verso l' emiciclo: e colà, lontano, il movimento era molto meno vivo. la gente vi accorreva con minor premura. Essa stessa, la mendica, si era messa in un posto dimesso e non moveva le braccia, per paura di urtare i suoi vicini e non si voltava nè a diritta nè a sinistra, come raccolta nell' aspettativa.

In verità, adesso, il viso candido dai fugaci chiarori rosei della giovane signora si era trascolorato sotto una espressione di malinconia: come un velo torbido ne aveva leggermente appannato lo scintillio glauco degli occhi verdi grandi: quello spettacolo di miseria, di sporcizia, di sventura, di vizio, di abbandono aveva finito per turbare la sua secura coscienza di donna bella, amata, felice, inebbriata di vita. Forse, ella era già pentita, di esser venuta, in uno slancio spontaneo e ingenuo, ad assistere a quel banchetto di povertà e di dolore; forse, già affrettava, col desiderio, il momento di andarsene. E prendendo il suo piccolo coraggio a due mani, si curvò verso l'antichissima donna, dal corpo curvato in due, dalla testa bendata di nero e china sul petto; tentò l'ultima interrogazione a quella povera più solinga, più taciturna e più abbandonata delle altre.

— Avete fatto una buona Pasqua, è vero? — le chiese, non sapendo trovare nulla di nuovo, nulla di meglio.

La vecchissima mendicante levò il viso tutto tagliato dalle rughe, dalle pieghe, dalle sformazioni dell'età, fissò sulla signora un paio di occhi castani, velati dall' umidore della vecchiaia, dalle ciglia arse, ma conservanti, questi occhi, una dolcezza triste e umile. Pure, non rispose.

— Non vi è piaciuto di aver questo pranzo? — insistette la signora, con uno sforzo, sentendo che doveva strappare una qualche parola alla poverella.

— Sì, Eccellenza — mormorò la vecchia dalla benda nera che le fasciava la fronte e il collo.

— Sono molto buoni… tutti quanti… molto buoni — soggiunse la signora, con un intenerimento nella voce, per se, per le altre signore, per i gentiluomini.

— Sì, Eccellenza — rispose, ancora, fiocamente la vecchia dal fazzoletto appuntato sotto la gola, con uno spillo, in intenzione singolare di castità.

E tacquero. Pareva che nulla più si dovessero dire, che nulla vi potesse essere di comune, fra quella vivente immagine di grazia, di eleganza e di ricchezza e quell'emblema di ogni decadimento, fra la giovane signora e la misera che aspettava il suo pezzo di carne.

— Ora avrete la carne. Vi piace? — le domandò con un tremolio d' interesse.

— Sì, Eccellenza: mi piace.

— Sarà molto tempo, è vero, che non ne mangiate più, povera donna?

— Molto… moltotempo … — balbettò la infelice.

— Siete senza famiglia, è vero, povera donna?

— Io non ho nessuno… nessuno — replicò la vecchia, con voce smarrita.

— E che ne è della vostra famiglia? Che ne è?

— Saranno morti.. — disse la vecchia, a occhi bassi — saranno partiti… non lo so…

— E siete così abbandonata, povera donna? — disse la voce, un po' emozionata, della signora.

— Sì, abbandonata — disse, sottovoce, l'altra, a capo basso.

— Come vivete, allora, povera donna? Come vivete?

— Mi dànno …mi dànno diciassette soldi al giorno — e parve che un ultimo bagliore di rosso salisse a quel viso consunto.

— Chi? Chi ve li dà? — chiese la donna bella chinandosi, ancora, in preda a una curiosità più forte.

— Il Governo, Eccellenza.

— Ah sì! E perchè?

— Perchè… perchè ero monaca, e la confessione fu fatta tremando.

— Monaca? Monaca? Eravate monaca! — gridò la signora, in preda a uno stupore doloroso.

Ora mettevano innanzi alla vecchissima donna che era stata monaca, tantì anni prima, mettevano il piatto della carne, ove il pezzo rossastro, brunastro del ragù era circondato da quattro o cinque patate rossastre, anche esse, perchè cotte nel sugo del ragù. Ma la poverella non lo guardò neppure, il piatto: teneva le due mani scarne, gialle, cadaveriche, dalle vene gonfie e violacee, collocate ai due lati del piatto e non si moveva. Sì, un rossore estremo le bruciava i pomelli.

— E dove, dove eravate monaca? — chiese la signora, con una pietà grande, nelle sue parole.

— Nel monastero delle Sepolte Vive — rispose la vecchia.

— Me ne ricordo, me ne ricordo, io era piccina! Molti anni fa, è vero?

— Sì, molti anni …molti anni — disse la vecchia, vagamente, dolentemente.

— Quanti anni? Quanti?

— Forse venti anni. Forse: non mi ricordo bene.

— Vi danno diciassette soldi al giorno, è vero? Che potete fare con diciassette soldi? Cercare l' elemosina, è vero? — e la tenerezza triste metteva quasi delle lacrime, nella voce della signora.

— No — mormorò, subito, la vecchia. — Io non cerco l' elemosina.

— E perchè? — chiese candidamente la giovane.

— Perchè mi vergogno.

— Ah — esclamò l'altra — Qualcuno vi aiuta, allora?

— No, Eccellenza; nessuno mi aiuta.

— Nessuno? Nessuno?

— Dicono che ho la pensione dal governo: e nessuno mi aiuta.

— Oh, povera donna! Voi, forse, eravate una signora?

La vecchia donna crollò il capo, come si trattasse di una cosa assai lontana:

— Sì …sì …ero una signora.

— E come vi chiamate? Come vi chiamate? — soggiunse la bella giovane, con una immensa dolcezza.

— Io mi chiamo Luisa Bevilacqua.

Un silenzio.

— Mangiate la vostra carne — disse la giovane.

Con mani inesperte, tremolanti, la vecchia afferrò il coltello e la forchetta e si diede a tagliare goffamente la sua carne: la giovane la guardava, commossa, con l'interesse che si prova innanzi a un caso straziante e sorprendente. Poi, una novella curiosità la punse, mentre la vecchia sminuzzava il suo pezzo di carne.

— Ditemi, non avevate un altro nome, in convento?

L'altra si fermò dal tagliare e stette pensosa.

— Non portavate un altro nome? Un nome di religione?

La vecchia taceva. Non, forse, il viso si era cosparso del pallor plumbeo della estrema età?

— Ve lo siete dimenticato, forse, il vostro nome di religione, dopo tanti anni?

La bocca della vecchia si chiuse a stento ed ella disse:

— Mi chiamavo …mi chiamavo suor Giovanna della Croce…

Adesso, ella aveva curvato il viso scarno, incavato: dagli occhi le scendevano alcune rade lacrime che cadevano nel piatto della carne ed ella non mangiava più.

Matilde Serao.

FINE