GASPARA STAMPA-VERONICA FRANCO

RIME

A CURA DI
ABDELKADER SALZA

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1913

PROPRIETÀ LETTERARIA.

Poi che le mie pene amorose, che per amor di V˙ S˙ porto scritte in diverse lettere e rime, non han possuto, una per una, non pur far pietosa V˙ S˙ verso di me, ma farla né anco cortese di scrivermi una parola, io mi son rissoluta di ragunarle tutte in questo libro, per vedere se tutte insieme lo potranno fare. Qui dunque V˙ S˙ vedrá non il pelago delle passioni, delle lagrime e de' tormenti miei, perché è mar senza fondo; ma un picciolo ruscello solo di esse; né pensi V˙ S˙ ch'io abbia ciò fatto per farla conoscente della sua crudeltá, perché crudeltá non si può dire, dove non è obligo, né per contristarnela; ma per farla piú tosto conoscente della sua grandezza ed allegrarla. Perché, vedendo esser usciti dalla durezza vostra verso di me questi frutti, congeturerá quali saranno quelli, che usciranno dalla sua pietá, se averrá mai che i cieli me la faccino pietosa: o obietto nobile, o obietto chiaro, o obietto divino, poi che tormentando ancora giovi e fai frutto. Legga V˙ S˙ dunque, quando averá triegua dalle sue maggiori e piú care cure, le note delle cure amorose e gravi della sua fidissima ed infelicissima Anassilla; e da questa ombra prenda argomento quali ella le debba provare e sentir nell'animo; ché certo, se accaderá giamai che la mia povera e mesta casa sia fatta degna del ricevere il suo grande oste, che è V˙ S˙, io son sicura che i letti, le camere, le sale e tutto racconteranno i lamenti, i singulti, i sospiri e le lagrime, che giorno e notte ho sparse, chiamando il nome di V˙ S˙, benedicendo però sempre nel mezzo de' miei maggior tormenti i cieli e la mia buona sorte della cagion d'essi: percioché assai meglio è per voi, conte, morire, che gioir per qualunque. Ma che fo io? Perché senza bisogno tengo V˙ S˙ troppo lungamente a noia, ingiuriando anco le mie rime, quasi che esse non sappian dir le lor ragioni, ed abbian bisogno dell'altrui aita? Rimettendomi dunque ad esse, farò fine, pregando V˙ S˙, per ultimo guiderdone della mia fedelissima servitú, che nel ricever questo povero libretto mi sia cortese sol di un sospiro, il quale refreschi cosi lontano la memoria della sua dimenticata ed abbandonata Anassilla. E tu, libretto mio, depositario delle mie lagrime, appreséntati nella piú umil forma che saprai, dinanzi al signor nostro, in compagnia della mia candida fede. E, se in recevendoti vedrai rasserenar pur un poco quei miei fatali ed eterni lumi, beate tutte le nostre fatiche e felicissime tutte le nostre speranze; e cosi ti resta seco eternamente in pace.

Dalle sue meste rime spera gloria, non che perdono.

Voi, ch'ascoltate in queste meste rime, in questi mesti, in questi oscuri accenti il suon degli amorosi miei lamenti e de le pene mie tra l'altre prime, ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, de' miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, poi che la lor cagione è sí sublime. E spero ancor che debba dir qualcuna: — Felicissima lei, da che sostenne per sí chiara cagion danno sí chiaro! Deh, perché tant'amor, tanta fortuna per sí nobil signor a me non venne, ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?
Era vicino il di che'l Creatore, che ne l'altezza sua potea restarsi, in forma umana venne a dimostrarsi, dal ventre virginal uscendo fore, quando degnò l'illustre mio signore, per cui ho tanti poi lamenti sparsi, potendo in luogo piú alto annidarsi, farsi nido e ricetto del mio core. Ond'io sí rara e sí alta ventura accolsi lieta; e duolmi sol che tardi mi fe' degna di lei l'eterna cura. Da indi in qua pensieri e speme e sguardi volsi a lui tutti, fuor d'ogni misura chiaro e gentil, quanto 'l sol giri e guardi. Se di rozzo pastor di gregge e folle il giogo ascreo fe' diventar poeta lui, che poi salse a sí lodata meta, che quasi a tutti gli altri fama tolle, che meraviglia fia s'alza ed estolle me bassa e vile a scriver tanta pièta, quel che può pi´ che studio e che pianeta, il mio verde, pregiato ed alto colle? La cui sacra, onorata e fatal ombra dal mio cor, quasi súbita tempesta, ogni ignoranza, ogni bassezza sgombra. Questa da basso luogo m'erge, e questa mi rinova lo stil, la vena adombra; tanta virtú nell'alma ognor mi desta! Quando fu prima il mio signor concetto, tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle gli diêr le grazie, e queste doti e quelle, perch'ei fosse tra noi solo perfetto. Saturno diègli altezza d'intelletto; Giove il cercar le cose degne e belle; Marte appo lui fece ogn'altr'uomo imbelle; Febo gli empi di stile e senno il petto; Vener gli dié bellezza e leggiadria; eloquenzia Mercurio; ma la luna lo fe' gelato piú ch'io non vorria. Di queste tante e rare grazie ognuna m'infiammò de la chiara fiamma mia, e per agghiacciar lui restò quell'una. Io assimiglio il mio signor al cielo meco sovente. Il suo bel viso è 'l sole; gli occhi, le stelle; e 'l suon de le parole è l'armonia, che fa 'l signor di Delo. Le tempeste, le piogge, i tuoni e 'l gelo son i suoi sdegni, quando irar si suole; le bonacce e 'l sereno è quando vuole squarciar de l'ire sue benigno il velo. La primavera e 'l germogliar de' fiori è quando ei fa fiorir la mia speranza, promettendo tenermi in questo stato. L'orrido verno è poi, quando cangiato minaccia di mutar pensieri e stanza, spogliata me de' miei piú ricchi onori. Un intelletto angelico e divino, una real natura ed un valore, un disio vago di fama e d'onore, un parlar saggio, grave e pellegrino, un sangue illustre, agli alti re vicino, una fortuna a poche altre minore, un'etá nel suo proprio e vero fiore, un atto onesto, mansueto e chino, un viso piú che 'l sol lucente e chiaro, ove bellezza e grazia Amor riserra in non mai piú vedute o udite tempre, fùr le catene, che giá mi legâro, e mi fan dolce ed onorata guerra. O pur piaccia ad Amor che stringan sempre! Chi vuol conoscer, donne, il mio signore, miri un signor di vago e dolce aspetto, giovane d'anni e vecchio d'intelletto, imagin de la gloria e del valore: di pelo biondo, e di vivo colore, di persona alta e spazioso petto, e finalmente in ogni opra perfetto, fuor ch'un poco (oimè lassa!) empio in amore. E chi vuol poi conoscer me, rimiri una donna in effetti ed in sembiante imagin de la morte e de' martíri, un albergo di fé salda e costante, una, che, perché pianga, arda e sospiri, non fa pietoso il suo crudel amante. Se, cosí come sono abietta e vile donna, posso portar si alto foco, perché non debbo aver almeno un poco di ritraggerlo al mondo e vena e stile? S'Amor con novo, insolito focile, ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco, perché non può non con usato gioco far la pena e la penna in me simíle? E, se non può per forza di natura, puollo almen per miracolo, che spesso vince, trapassa e rompe ogni misura. Come ciò sia non posso dir espresso; io provo ben che per mia gran ventura mi sento il cor di novo stile impresso. S'avien ch'un giorno Amor a me mi renda, e mi ritolga a questo empio signore; di che paventa, e non vorrebbe, il core, tal gioia del penar suo par che prenda; voi chiamerete invan la mia stupenda fede, e l'immenso e smisurato amore, di vostra crudeltá, di vostro errore tardi pentito, ove non è chi intenda. Ed io, cantando la mia libertade, da cosi duri lacci e crudi sciolta, passerò lieta a la futura etade. E, se giusto pregar in ciel s'ascolta, vedrò forse anco in man di crudeltade la vita vostra a mia vendetta involta. Alto colle, gradito e grazioso, novo Parnaso mio, novo Elicona, ove poggiando attendo la corona, de le fatiche mie dolce riposo; quanto sei qui tra noi chiaro e famoso. e quanto sei a Rodano e a Garona, a dir in rime alto disio mi sprona, ma l'opra è tal, che cominciar non oso. Anzi quanto averrá che mai ne canti, fia pura ombra del ver, perciò che 'l vero va di lungo il mio stil e l'altrui innanti. Le tue frondi e 'l tuo giogo verdi e 'ntero conservi 'l cielo, albergo degli amanti, colle gentil, dignissimo d'impero. Arbor felice, aventuroso e chiaro, onde i duo rami sono al mondo nati, che vanno in alto, e son giá tanto alzati, quanto raro altri rami unqua s'alzâro; rami che vanno ai grandi Scipi a paro, o s'altri fûr di lor mai piú lodati (ben lo sanno i miei occhi fortunati, che per bearsi in un d'essi mirâro), a te, tronco, a voi, rami, sempre il cielo piova rugiada, sí che non v'offenda per avversa stagion caldo, né gelo. La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda verde per tutto; e d'onorato zelo odor, fior, frutti a tutt' Italia renda. Deh, perché cosi tardo gli occhi apersi nel divin, non umano amato volto, ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto un mar d'alti miracoli e diversi? Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi d'inutil pianto in questo viver stolto, né l'alma avria, com'ha, poco né molto di Fortuna o d'Amore onde dolersi. E sarei forse di si chiaro grido, che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato, risoneria fors' Adria oggi, e 'l suo lido. Ond'io sol piango il mio tempo passato. mirando altrove; e forse anche mi fido di far in parte il foco mio lodato. Chi dará penne d'aquila o colomba al mio stil basso, si ch'ei prenda il volo da l'Indo al Mauro e d'uno in altro polo, ove arrivar non può saetta o fromba? e, quasi chiara e risonante tromba, la bellezza, il valor, al mondo solo, di quel bel viso, ch'io sospiro e còlo, descriva si, che l'opra non soccomba? Ma, poi che ciò m'è tolto, ed io poggiare per me stessa non posso ove conviene, sì che l'opra e lo stil vadan di pare, l'udranno sol queste felici arene, questo d'Adria beato e chiaro mare, porto de' miei diletti e di mie pene. Che meraviglia fu, s'al primo assalto, giovane e sola, io restai presa al varco, stando Amor quindi con gli strali e l'arco, e ferendo per mezzo, or basso or alto, indi 'l signor, che 'n rime orno ed essalto quanto piú posso, e 'l mio dir resta parco, con due occhi, anzi strai, che spesso incarco han fatto al sole, e con un cor di smalto? ed essendo da lato anche imboscate, sí ch'a modo nessun fess'io difesa, alta virtute e chiara nobiltate? Da tanti e ta' nemici restai presa; né mi duol, pur che l'alma mia beltate, or che m'ha vinta, non faccia altra impresa. Voi, che cercando ornar d'alloro il crine per via di stile, al bel monte poggiate con quante si fe' mai salde pedate, anime sagge, dotte e pellegrine, in questo mar, che non ha fondo o fine, le larghe vele innanzi a me spiegate, e gli onori e le grazie ad un cantate del mio signor sí rare e sí divine: perché soggetto sí sublime e solo, senz'altra aita di felice ingegno, può per se stesso al cielo alzarci a volo. Io per me sola a dimostrar ne vegno quanto l'amo ad ognun, quanto lo còlo; ma de le lode sue non giungo al segno. Sí come provo ognor novi diletti, ne l'amor mio, e gioie non usate, e veggio in quell'angelica beltate sempre novi miracoli ed effetti, cosí vorrei aver concetti e detti e parole a tant'opra appropriate, sí che fosser da me scritte e cantate, e fatte cónte a mille alti intelletti, Et udissero l'altre che verranno con quanta invidia lor sia gita altera de l'amoroso mio felice danno; e vedesse anche la mia gloria vera quanta i begli occhi suoi luce e forza hanno di far beata altrui, benché si pèra. Io non v'invidio punto, angeli santi, le vostre tante glorie e tanti beni, e que' disir di ciò che braman pieni, stando voi sempre a l'alto Sire avanti; perché i diletti miei son tali e tanti, che non posson capire in cor terreni, mentr'ho davanti i lumi almi e sereni, di cui conven che sempre scriva e canti. E come in ciel gran refrigerio e vita dal volto Suo solete voi fruire, tal io qua giú da la beltá infinita. In questo sol vincete il mio gioire, che la vostra è eterna e stabilita, e la mia gloria può tosto finire. Quando i' veggio apparir il mio bel raggio, parmi veder il sol, quand'esce fòra; quando fa meco poi dolce dimora, assembra il sol che faccia suo viaggio. E tanta nel cor gioia e vigor aggio, tanta ne mostro nel sembiante allora, quanto l'erba, che pinge il sol ancora a mezzo giorno nel piú vago maggio. Quando poi parte il mio sol finalmente, parmi l'altro veder, che scolorita lasci la terra andando in occidente. Ma l'altro torna, e rende luce e vita; e del mio chiaro e lucido oriente è 'l tornar dubbio e certa la partita. Come chi mira in ciel fisso le stelle, sempre qualcuna nova ve ne scorge, che, non piú vista pria, fra tanti sorge chiari lumi del mondo, alme fiammelle; mirando fisso l'alte doti e belle vostre, signor, di qualcuna s'accorge l'occhio mio nova, che materia porge, onde di lei si scriva e si favelle. Ma, sí come non può gli occhi del cielo tutti, perch'occhio vegga, raccontare lingua mortal e chiusa in uman velo, io posso ben i vostri onor mirare, ma la piú parte d'essi ascondo e celo, perché la lingua a l'opra non è pare. Il bel, che fuor per gli occhi appare, e 'l vago del mio signor e del suo dolce viso, è tanto e tal, che fa restar conquiso ognun che 'l mira, di gran lunga, e pago. Ma, se qual è un cervier occhio e mago, potesse altri mirar intento e fiso quel che fuor non si mostra, un paradiso di meraviglie vi vedrebbe, un lago. E le donne non pur, ma gli animali, l'erbe, le piante, l'onde, i venti e i sassi farian arder d'amor gli occhi fatali. Quest'una grazia agli occhi miei sol dassi in guiderdon di tanti e tanti mali, per onde a tanto ben poggiando vassi. — S'io, che son dio, ed ho meco tant'armi, non posso star col tuo signor a prova, ed è la sua bellezza unica e nova pronta mai sempre a tante ingiurie farmi, come a tuo pro poss'ora io consigliarmi, e darti il modo, con che tu rimova quel saldo ghiaccio, che nel cor si trova, per via di preghi, di consiglio o carmi? Ti bisogna aspettar tempo o fortuna, che ti guidino a questo; ed altra via non ti posso mostrar, se non quest'una.— Cosí mi dice, e poi si vola via; ed io mi resto, al sole ed a la luna, piangendo sempre la sventura mia. Rivolgete talor pietoso gli occhi da le vostre bellezze a le mie pene, sí che quanta alterezza indi vi viene, tanta quindi pietate il cor vi tocchi. Vedrete qual martír indi mi fiocchi, vedrete vòte le faretre e piene, che preste a' danni miei sempre Amor tiene, quando avien che ver' me l'arco suo scocchi. E forse la pietá del mio tormento vi moverá, dov'or ne gite altero, non lo vedendo voi, qual io lo sento; cosí penosa io meno, e men voi fiero ritornerete, e cento volte e cento benedirete i ciel, che mi vi diêro. Grazie, che fate mai sempre soggiorno negli occhi ch'amo, e quei poi de le prede, che fan tante di noi, vostra mercede, fanno il tempio d'Amor ricco et adorno, quando scherzate a que' bei rai d'intorno co' pargoletti Amor, che v'hanno sede, fate fede a colui de la mia fede, che 'n tante carte omai celebro ed orno. E, se di Grazie avete il nome e l'opra, fatemi graziosi que' due giri, ch'a lo splendor del sol stanno di sopra. E, poi c'hanno adescato i miei desiri, fate (cosí mai morte non li copra) che non mi lascin preda de' martíri. Vengan quante fûr mai lingue ed ingegni, quanti fûr stili in prosa, e quanti in versi, e quanti in tempi e paesi diversi spirti di riverenza e d'onor degni; non fia mai che descrivan l'ire e' sdegni, le noie e i danni, che 'n amor soffersi, perché nel vero tanti e tali fêrsi, che passan tutti gli amorosi segni. E non fia anche alcun, che possa dire, anzi adombrar la schiera de' diletti ch'Amor, la sua mercé, mi fa sentire. Voi, ch'ad amar per grazia sète eletti, non vi dolete dunque di patire; perché i martir d'Amor son benedetti. — Trâmi — dico ad Amor talora — omai fuor de le man di questo crudo ed empio, che vive del mio danno e del mio scempio, per chi arsi ed ardo ancor, canto e cantai. Poi che con tanti miei tormenti e guai sua fiera voglia ancor non pago od empio, o di Diana avaro e crudo tempio, quando del sangue mio sazio sarai?— Poi torno a me, e del mio dir mi pento: sí l'ira, il rimembrar pur lui, mi smorza, che de' miei non vorrei meno un tormento. Con sí nov'arte e con sí nova forza la bellezza ch'io amo, e ch'io pavento, ogni senso m'intrica, offusca e sforza. Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto; piangerò, arderò, canterò sempre (fin che Morte o Fortuna o tempo stempre a l'ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto) la bellezza, il valor e 'l senno a canto, che 'n vaghe, sagge ed onorate tempre Amor, natura e studio par che tempre nel volto, petto e cor del lume santo; che, quando viene, e quando parte il sole, la notte e 'l giorno ognor, la state e 'l verno, tenebre e luce darmi e tôrmi suole, tanto con l'occhio fuor, con l'occhio interno, agli atti suoi, ai modi, a le parole, splendor, dolcezza e grazia ivi discerno. Altri mai foco, stral, prigione o nodo sí vivo e acuto, e sí aspra e sí stretto non arse, impiagò, tenne e strinse il petto, quanto 'l mi' ardente, acuto, acerba e sodo. Né qual io moro e nasco, e peno e godo. mor' altra e nasce, e pena ed ha diletto, per fermo e vario e bello e crudo aspetto, che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo. Né fûro ad altrui mai le gioie care, quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio, mirando a le mie luci or fosche or chiare. Mi dorrá sol, se mi trarrá d'impaccio, fin che potrò e viver ed amare, lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio. Quando innanti ai begli occhi almi e lucenti, per mia rara ventura al mondo, i' vegno, lo stil, la lingua, l'ardire e l'ingegno, i pensieri, i concetti e i sentimenti o restan tutti oppressi o tutti spenti, e quasi muta e stupida divegno; o sia la riverenza, in che li tegno, o sia che sono in quel bel lume intenti. Basta ch'io non so mai formar parola, sí quel fatale e mio divino aspetto la forza insieme e l'anima m'invola. O mirabil d'Amore e raro effetto, ch'una sol cosa, una bellezza sola mi dia la vita, e tolga l'intelletto! Mentr'io conto fra me minutamente le doti del mio conte a parte a parte, nobiltate, bellezza, ingegno ed arte, che lo fan chiaro sovra l'altra gente, tale e tanto piacer l'anima sente, che, sendo tutte le sue virtú sparte, mi meraviglio come non si parte, volando al ciel per starci eternamente. E certo v'anderia, se non temesse che restasse il suo ben da lei diviso, e men beato il suo stato rendesse; perché 'l suo vero e proprio paradiso, quello che per bearsi ella si elesse, è 'l mio dolce signor e 'l suo bel viso. Fra quell' illustre e nobil compagnia di grazie, che vi fan, conte, immortale, s'erge piú d'altra e vaga stende l'ale del canto la dolcissima armonia. Quella in noi ogni acerba cura e ria può render dolce, e far lieve ogni male; quella, quand' Euro piú fiero l'assale, può render queto il mar turbato pria. Il giuoco, il riso, Venere e gli Amori si veggon l'aere far sereno intorno, ovunque suoni il dolce accento fuori. Ed io, potendo far con voi soggiorno, a l'armonia di quei celesti cori poco mi curerei di far ritorno. Chi non sa come dolce il cor si fura, come dolce s'oblia ogni martíre, come dolce s'acqueta ogni desire, sí che di nulla piú l'alma si cura, venga, per sua rarissima ventura, una sol volta voi, conte, ad udire, quando solete cantando addolcire la terra e 'l cielo e ciò che fe' natura. Al suon vedrá degli amorosi accenti farsi l'aere sereno ed arrestare l'orgoglio l'acque, le tempeste e i venti. E, visto poi quel che potete fare, crederá ben che tigri, orsi e serpenti arrestasse anche Orfeo col suo cantare. Per le saette tue, Amor, ti giuro, e per la tua possente e sacra face, che, se ben questa m'arde e 'l cor mi sface, e quelle mi feriscon, non mi curo; quantunque nel passato e nel futuro qual l'une acute, e qual l'altra vivace, donne amorose, e prendi qual ti piace, che sentisser giamai né fian, né fûro; perché nasce virtú da questa pena, che 'l senso del dolor vince ed abbaglia, sí che o non duole, o non si sente appena. Quel, che l'anima e 'l corpo mi travaglia, è la temenza ch'a morir mi mena, che 'l foco mio non sia foco di paglia. Quando sarete mai sazie e satolle del lungo strazio mio, de le mie pene, luci, assai piú che 'l sol chiare e serene, ch'ora illustrate il vostro amato colle? Quando fia che non sia di pianto molle il petto mio, ch'a gran pena sostiene l'anima fuggitiva, or che la spene, ch'era sí poca, ancora Amor ne tolle? Quando fia che vi vegga un di pietose, e duri la pietá vostra, e non manchi tosto, come le lievi e frali cose? O non fia, lassa, mai, o saran bianchi questi crin prima, e quei sensi amorosi, accesi or sí, saranno freddi e stanchi. Sai tu, perché ti mise in mano, Amore, gli stral tua madre, ed agli occhi la benda? Perché quella saetti, impiaghi e fenda i cor di questo e quel fido amatore; e con questi non possi veder fuore de' colpi tuoi la crudeltá stupenda, sí che pietoso affatto non ti renda, o almen non tempri l'empio tuo furore. Che, se vedessi un dí la piaga mia, o non saresti dio, ma cruda fèra, o pietoso o men aspro ti faria. Non vorrei giá che tu vedessi in cera i raggi del mio sol; ché ti parria forse a l'incontro picciola e leggera. Accogliete benigni, o colle, o fiume, albergo de le Grazie alme e d'Amore, quella ch'arde del vostro alto signore, e vive sol de' raggi del suo lume; e, se fate ch'amando si consume men aspramente il mio infiammato core, pregherò che vi sieno amiche l'ôre, ogni ninfa silvestre ed ogni nume, e lascerò scolpita in qualche scorza la memoria di tanta cortesia, quando di lasciar voi mi sará forza. Ma, lassa, io sento che la fiamma mia, che devrebbe scemar, piú si rinforza, e piú ch'altrove qui s'ama e disia. Cesare e Ciro, i vostri fidi spegli, in cui mai sempre, signor, vi mirate, poi ch'a seguir le lor chiare pedate par che ciascun di lor v' infiammi e svegli, perché, sí come è stato questi e quegli essempio di clemenzia e di pietate, solo in questa virtú v'allontanate da que' due chiari ed onorati vegli? Perché non sète voi mite e clemente a me vostra prigion, vostra fattura, come fûr essi a l'acquistata gente? Anzi forse voi sète di natura mite con tutti, e meco solamente d'aspra e spietata. Oh mia somma sventura! Altero nido, ove 'l mio vivo sole prese da prima il suo terreno incarco; onde però va piú leggero e scarco di quel che da tutt'altri andar si suole; i' vorrei dir, ma non so far parole di tanti e tanti pregi, onde sei carco; perché lo stil a l'alta impresa è parco, e via piú a chi t'onora entro e ti cole. Perciò mi taccio, e prego 'l ciel che sempre ti serbi in questo lieto e vago stato, in queste care e graziose tempre; e renda ognor piú chiaro e piú lodato il tuo signor e mio, e ch'i' mi stempre sempre nel mio bel foco alto e pregiato. Qualunque dal mio petto esce sospiro, ch'escono ad or ad or ardenti e spessi dal di che per mio sole gli occhi elessi. ch'a prima vista a morte mi ferîro, vanno verso il bel colle, ove pur miro, benché lontana, e vanno anche con essi i miei pensieri e tutti i sensi stessi; né val s'io li ritengo o li ritiro, perché la propria loro e vera stanza son que' begli occhi e quella alma beltade, che prima mi destâr la desianza. O pur sieno ivi accolti da pietade! di che non spero, poi che per usanza vi suol sempre aver luogo crudeltade. Se con tutto il mio studio e tutta l'arte io non posso accennar pur quanto e quale è 'l foco mio dal di che 'l primo strale m'aventò Amor ne la sinistra parte, come volete voi, signor, che ex parte l'altrui voglie amorose e l'altrui male con questa forza stanca e cosí frale i' dica in vive voci, o scriva in carte? Datemi o 'l ciel piú stile o voi men pena, ond'abbia o piú vigor o men martire, si che la vostra voglia resti piena. E, se ciò non si può, vostro desire adempiete da voi, ch'avete vena, stile ed ingegno eguale al vostro dire. Onde, che questo mar turbate spesso, come turba anco me la gelosia, venite a starvi meco in compagnia, poi che mi sète si care e si presso: cosí fiero Austro ed Aquilon con esso men importuno e men crudo vi sia; cosí triegua talor Eolo vi dia, quel ch'a me da l'amor non m'è concesso. Lassa, ch'io ho da pianger tanto e tanto, che l'umor, che per gli occhi verso fore, è poco o nulla, se fosse altrettanto. Voi mi darete voi del vostro umore quanto mi basti a disfogar il pianto, che si conviene a l'alto mio dolore. Ahi, se cosí vi distrignesse il laccio, come, misera, me strigne ed affrena, non cerchereste d'una in altra pena girmi traendo, e d'uno in altro impaccio; ma perch'io son di foco e voi di ghiaccio, voi sète in libertade ed io 'n catena, i' son di stanca e voi di franca lena, voi vivete contento ed io mi sfaccio. Voi mi ponete leggi, ch'a portarle non basterian le spalle di Milone, non ch'io debile e fral possa osservarle. Seguite, poi che 'l ciel cosí dispone: forse ch'un giorno Amor potria mutarle; forse ch'un dì fará la mia ragione. Tu pur mi promettesti amica pace, Amor, il dí che tua serva divenni, mostrandomi i begli occhi, i guardi e i cenni, ove tua madre alberga e si compiace. Ed or, quasi signor empio e fallace, poi ch'una volta il tuo giogo sostenni, ad or ad or nove saette impenni, ed accendi una ed or un'altra face; e mi trafigi e mi consumi il core col mezzo de l'orgoglio di colui, che tanto gode, quanto altri si more. Cosí, misera me, tradita fui, giovane incauta, sotto fé d'Amore; e doler mi vorrei, né so di cui. Dura è la stella mia, maggior durezza è quella del mio conte: egli mi fugge, i' seguo lui; altri per me si strugge, i' non posso mirar altra bellezza. Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza; verso chi m'è umíle il mio cor rugge, e son umíl con chi mia speme adugge; a cosí stranio cibo ho l'alma avezza. Egli ognor dá cagione a novo sdegno, essi mi cercan dar conforto e pace: i' lasso questi, ed a quell'un m'attegno. Cosí ne la tua scola, Amor, si face sempre il contrario di quel ch'egli è degno: l'umíl si sprezza, e l'empio si compiace. Se tu vedessi, o madre degli Amori, e teco insieme il tuo figlio diletto, l'accese e vive fiamme del mio petto, a quali altre fûr mai pari o maggiori; se tu vedessi i pelaghi d'umori, che, dapoi che 'l mio cor ti fu soggetto, mercé del vago e grazioso aspetto, per questi occhi dolenti verso fuori; so ch'avresti pietá del mio gran pianto e de la fiamma mia spietata e ria, che per sfogar talor descrivo e canto. Ma voi ferite, e poi fuggite via piú che folgor veloci, ed io fra tanto resto col pianto e con la fiamma mia. Io vo pur descrivendo d'ora in ora la beltá vostra e 'l vostro raro ingegno, e 'l valor d'altro stil, che del mio, degno, se non quant'ei piú d'altro mai v'onora; né, perch'io m'affatichi, giungo ancora di tanti pregi vostri al minor segno, conte, d'ogni virtú nido e sostegno, senza cui la mia vita morte fôra. Cosí, s'io prendo a scriver, il mio foco è tanto e tal, da ch'egli da voi nasce, che, s'io ne dico assai, ne dico poco. Questo e quello il mio cor nutrisce e pasce, e questo e quel mi dá martír e gioco: cosí fui destinata entro le fasce. Alto colle, almo fiume, ove soggiorno fan le virtuti e le Grazie e gli Amori, dal dí che dimostraste al mondo fòri chi fa me, chi fa lui chiaro et adorno, asserena tu 'l fronte, alza tu 'l corno, tu con nove acque, e tu con novi fiori, or che fa, colmo anch'ei di novi onori, il signor vostro e mio a voi ritorno. E, poi che fia con voi, per cortesia oprate sí ch'a me ritorni tosto; ché viver senza lui poco poría. Cosí stia 'l verno a voi sempre discosto, cosí Flora e Pomona in compagnia vi faccian sempre aprile e sempre agosto. Io son da l'aspettar omai sí stanca, sí vinta dal dolor e dal disio, per la sí poca fede e molto oblio di chi del suo tornar, lassa, mi manca, che lei, che 'l mondo impalidisce e 'mbianca con la sua falce e dá l'ultimo fio, chiamo talor per refrigerio mio, sí 'l dolor nel mio petto si rinfranca. Ed ella si fa sorda al mio chiamare, schernendo i miei pensier fallaci e folli, come sta sordo anch'egli al suo tornare. Cosí col pianto, ond'ho gli occhi miei molli, fo pietose quest'onde e questo mare; ed ei si vive lieto ne' suoi colli. Come l'augel, ch'a Febo è grato tanto, sovra Meandro, ove suol far soggiorno, quando s'accosta il suo ultimo giorno, move piú dolci le querele e 'l canto, tal io, lontana dal bel viso santo, sovra il superbo d'Adria e ricco corno, morte, téma ed orror avendo intorno, affino, lassa, le querele e 'l pianto. E sono in questo a quell'uccel minore: che per quella, onde venne, istessa traccia ritorna a Febo il suo diletto olore; ed io, perché morendo mi disfaccia, non pur non torno a star col mio signore, ma temo che di me tutto gli spiaccia. Qual sempre a' miei disir contraria sorte fra la spiga e la man mi s' è tramessa, si che la gioia, che mi fu promessa, tarda tanto a venir per darmi morte? Le mie due vive, due fidate scorte, il signor mio, anzi l'anima stessa, l'imagin, che nel cor m' è sempre impressa, perché non batte omai, lassa, a le porte? L'alma allargata a questa nova speme, che ristretta nel duol prendea vigore, mancherá tosto certo, se non viene. E saran de' miracoll d'Amore, ch'un'ombra breve di sperato bene tolga altrui vita, e dia vita il dolore. Poi ch'Amor mi ferí di crude ponte, vostra mercé, qual sète vivo e vero, v'ho scolpito nel fronte e nel pensiero, sí che nessun sembiante piú s'affronte. Il viso stesso, il proprio stesso fronte, il proprio ciglio umilemente altero, gli occhi stessi, i due sol de l'emispero, le stesse grazie e le fattezze cónte; in questo il mio ritratto è dissimíle: ché, qual mi sète, vi mostra alteretto, lá dove sète a tutti gli altri umíle. Ora, per far ch'anch'io v'abbia perfetto, per far ch'anch'io pur v'abbia a voi simíle, emendate anche meco un tal difetto. Vieni, Amor, a veder la gloria mia, e poi la tua; ché l'opra de' tuoi strali ha fatto ambeduo noi chiari, immortali, ovunque per Amor s'ama e disia. Chiara fe' me, perché non fui restia ad accettar i tuoi colpi mortali, essendo gli occhi, onde fui presa, quali natura non fe' mai poscia, né pria; chiaro fe' te, perché a lodarti vegno quanto piú posso in rime ed in parole con quella, che m'hai dato, vena e ingegno Or a te si convien far che quel sole, che mi desti per guida e per sostegno, non lasci oscure queste luci e sole. Beate luci, or se mi fate guerra voi, donde può venir sol la mia pace; se 'l viver mio a voi, luci alme, spiace e la mia vita in voi solo si serra; mi converrá (e chi nol crede s'erra) o viver sempre in guerra aspra e tenace, o tosto tosto l'anima fugace, lasciato il corpo, se n'andrá sotterra. E cosí rimarrete senza poi soggetto, ove possiate essercitare la crudeltate vostra, Amor e voi. Io ne verrò al fine a guadagnare; ché, morend'un senza peccati suoi, felicemente suol al ciel poggiare. Se d'arder e d'amar io non mi stanco, anzi crescermi ognor questo e quel sento, e di questo e di quello io non mi pento, come Amor sa, che mi sta sempre al fianco, onde avien che la speme ognor vien manco, da me sparendo come nebbia al vento, la speme, che 'l mio cor può far contento, senza cui non si vive, e non vissi anco? Nel mezzo del mio cor spesso mi dice un'incognita téma: — O miserella, non fia 'l tuo stato gran tempo felice; ché fra non molto poría sparir quella luce degli occhi tuoi vera beatrice, ed ogni gioia tua sparir con ella. Se non temprasse il foco del mio core l'umor, che verso per gli occhi sí spesso, io avrei visto giá di morte il messo, e l'alma ad ubidirla uscita fore; perché la speme omai cede al timore, ed ogni cosa mia soggiace ad esso, poi che si vede a mille segni espresso che chi può farlo vuole il mio dolore. Dunque, s'io vivo, è mercé del mio pianto; s'io moro, è colpa de le crude voglie del mio signor, in vista dolce tanto. Ei mi legò si ch'altri non mi scioglie, ei vuol aver de la mia morte il vanto. O poco chiare ed onorate spoglie! Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera imitate e vincete la natura, formando questa e quell'altra figura, che poi somigli a la sua forma vera, venite tutti in graziosa schiera a formar la piú bella creatura, che facesse giamai la prima cura, poi che con le sue man fe' la primiera. Ritraggete il mio conte, e siavi a mente qual è dentro ritrarlo, e qual è fore; sí che a tanta opra non manchi niente. Fategli solamente doppio il core, come vedrete ch'egli ha veramente il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore. Ritraggete poi me da l'altra parte, come vedrete ch'io sono in effetto: viva senz'alma e senza cor nel petto per miracol d'Amor raro e nov'arte; quasi nave che vada senza sarte, senza timon, senza vele e trinchetto, mirando sempre al lume benedetto de la sua tramontana, ovunque parte. Ed avertite che sia 'l mio sembiante da la parte sinistra affitto e mesto, e da la destra allegro e trionfante: il mio stato felice vuol dir questo, or che mi trovo il mio signor davante; quello, il timor che sará d'altra presto. A che, signor, affaticar invano per ritrarvi e scolpirvi in marmi o in carte, o gli altri c'hanno fama di quest'arte, o 'l chiaro Buonaroti, o Tiziano, se scolpito qual sète aperto e piano v' ho nel petto e nel fronte a parte a parte, sí che l'imagin d'indi unqua non parte, perché siate voi presso o pur lontano? Ma forse voi volete esser ritratto in sembiante leale e grazioso, qual sète a tutti in ogn'opra, in ogn'atto; dove, lassa, ch'a pena dirvel oso, vi porto impresso, qual vi provo in fatto, un pochetto incostante e disdegnoso. Deh perché non ho io l'ingegno e l'arte di Lisippo e d'Apelle, onde potessi il viso, che per sole al mondo elessi, dipinger e scolpir in qualche parte, poi che non posso ben ritrarr' in carte, com'avrian con lo stile ritratto essi, le mie due stelle, la cui luce impressi pria sí nel cor, che d'indi non si parte? Perch'io rimarrei sol con un tormento d'amar e sospirar, e 'l cor saria d'ogni altra cura poi pago e contento; dov'or piango l'acerba pena mia, e piango ch'atta a pinger non mi sento al mondo il mio bel sol quanto devria. Quelle lagrime calde e quei sospiri, che vedete ch'io spargo si cocenti da poter arrestar il mar co' venti, quando avien ch'ei piú frema e piú s'adiri, come potete voi coi vostri giri rimirar non pur queti, ma contenti? O cor di fère tigri e di serpenti, che vive sol de' duri miei martíri! Deh prolungate almen per alcun'ore questa vostra ostinata dipartita, fin che m'usi a portar tanto dolore; perciò ch'a cosí súbita sparita io potrei de la vita restar fuore, sol per servir a voi da me gradita. Quinci Amor, quindi cruda empia Fortuna m'affligon si, che non so com'io possa riparar questa e quell'altra percossa, che mi dánno a vicenda or l'altro or l'una. Aer, mar, terra, ciel, sol, stelle e luna, con quant'ha piú ciascuna orgoglio e possa a danno mio, a mia ruina mossa, lassa, mi si mostrò fin da la cuna. E quel ch'è sol il mio fido sostegno, per accrescermi duol, fra sí brev'ora partirassi da me senza ritegno. Almen venisse acerba morte ancora, mentr'io dolente mi lamento e sdegno, da le man di tant'oste a trarmi fòra! Chi mi dará soccorso a l'ora estrema, che verrá morte a trarmi fuor di vita tosto, dopo l'acerba dipartita, onde fin d'ora il cor paventa e trema? Madre e sorella no, perché la téma questa e quella a dolersi meco invita, e poi per prova omai la lor aita non giova a questa doglia alta e suprema. E le vostre fidate amiche scorte, che di giovarmi avriano sole il come, saran lontane in quella altera corte. Dunque i' porrò queste terrene some senza conforto alcun, se non di morte, sospirando e chiamando il vostro nome. Or che torna la dolce primavera a tutto il mondo, a me sola si parte; e va da noi lontana in quella parte, ov'è del sol piú fredda assai la sfera. E que' vermigli e bianchi fior, che 'n schiera Amor nel viso di sua man comparte del mio signor, del gran figlio di Marte, daranno agli occhi miei l'ultima sera, e fioriranno a gente, ove non fia chi spiri e viva sol del lor odore, come fa la penosa vita mia. O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore, a comportar che degli amanti stia sí lontano l'un l'altro il corpo e 'l core! Questo poco di tempo che m'è dato, anzi di vita, avanti il partir vostro, voi devreste, o del mondo unico mostro, essermi pur ad or ad or a lato; acciò che poi, essendo dilungato dal felice e natio terreno nostro, prenda vigor dal vago avorio ed ostro il mio poi, senza voi, misero stato. Perché, se vi partite, ed io non prenda prima vigor da voi, converrá certo ch'a morte l'alma subito si renda. E, dove al monte faticoso ed erto d'onor poggiate, temo non offenda questa macchia il candor del vostro merto. Voi che novellamente, donne, entrate in questo pien di téma e pien d'errore largo e profondo pelago d'Amore, ove giá tante navi son spezzate, siate accorte, e tant'oltra non passate, che non possiate infine uscirne fore, né fidate in bonacce o 'n second'ôre; ché come a me vi fian tosto cangiate. Sia dal mio essempio il vostro legno scorto, cui ria fortuna allor diede di piglio, che piú sperai esser vicina al porto. Sovra tutto vi do questo consiglio: prendete amanti nobili; e conforto questo vi fia in ogni aspro periglio. Deh, se vi fu giamai dolce e soave la vostra fidelissima Anassilla, mentre serrata, sí che nullo aprilla, teneste del suo cor, conte, la chiave; leggendo in queste carte il lungo e grave pianto, a cui Amor per voi, lassa, sortilla, mostrar almen di pietá una scintilla, in premio di sua fé, non vi sia grave. Accompagnate almen con un sospiro la schiera immensa de' sospiri suoi, che mille volte i ciel pietosi unîro. Cosi sia sempre Amor benigno a voi, quanto a lei fu per voi spietato e diro; cosí non sia mai cosa che v'annoi. Ricevete cortesi i miei lamenti, e portateli fide al mio signore, o di Francia beate e felici ôre, che godete or de' begli occhi lucenti. E ditegli con tristi e mesti accenti che, s'ei non move a dar soccorso al core, o tornando o scrivendo, fra poche ore resteran gli occhi miei di luce spenti; perché le pene mie molte ed estreme per questa assenzia omai son giunte in parte, dove di morte sol si pensa e teme. E, s'egli avien che 'ndarno restin sparte dinanzi a lui le mie voci supreme, al mio scampo non ho piú schermo od arte. Chi porterá le mie giuste querele al mio signor, al gran re franco appresso, d'ogni rara eccellenza essempio espresso e, fuor ch'a me, a tutti altri fedele? Aure de' miei sospir, voi che le vele de' miei caldi disir gonfiate spesso, sarete il mio secreto e fido messo, onde 'l mio stato a lui sol si rivele. E, se la lunga e faticosa via vi sbigottisce, venga con voi anche la poca e nulla omai speranza mia. E, s'egli avien ch'ancor essa si stanche, quando dinanzi a l'idol nostro fia, tornate a me, ch'anch'io conven che manche.

Chiaro e famoso mare, sovra 'l cui nobil dosso si posò 'l mio signor, mentre Amor volle; rive onorate e care (con sospir dir lo posso), che 'l petto mio vedeste spesso molle; soave lido e colle, che con fiato amoroso udisti le mie note, d'ira e di sdegno vòte, colme d'ogni diletto e di riposo; udite tutti intenti il suon or degli acerbi miei lamenti.

I' dico che dal giorno che fece dipartita l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri, tolti mi fûr d'attorno tutti i ben d'esta vita; e restai preda eterna de' martiri: e, perch'io pur m'adiri e chiami Amor ingrato, che m'involò sí tosto il ben ch'or sta discosto, non per questo a pietade è mai tornato; e tien l'usate tempre, perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre.

Deh fosse men lontano almen chi move il pianto, e chi move le giuste mie querele! ché forse non invano m'affligerei cotanto, e chiamerei Amor empio e crudele, ch'amaro assenzio e fele dopo quel dolce cibo mi fe', lassa, gustare in tempre aspre ed amare. O duro tòsco, che 'n amor delibo, perché fai sí dogliosa la vita mia, che fu giá sí gioiosa?

Almen, poi che m'è lunge il mio terrestre dio, che sí lontano ancor m'apporta guai, il duol che sí mi punge non mandasse in oblio, e l'udisse ei, per cui piansi e cantai: men acerbi i miei lai, men cruda la mia pena, men fiero il mio tormento, che giorno e notte sento, fôra per la sua luce alma e serena; e sariami 'l dispetto dolce sovra ogni dolce alto diletto.

S'egli è pur la mia stella, e se s'accorda il cielo, ch'io moia per cagion cosi gradita, venga Morte, e con ella Amor, e questo velo tolgan, ed esca fuor l'alma smarrita; che, da suo albergo uscita, volerá lieta in parte, dove s'avrá mercede de la sua viva fede, fede d'esser cantata in mille carte. Ma, lassa, a che non torna chi le tenebre mie con gli occhi adorna?

Se tu fossi contenta, canzon, come sei mesta, n'andresti chiara in quella parte e 'n questa.

Mentre, signor, a l'alte cose intento, v'ornate in Francia l'onorata chioma, come fecer i figli alti di Roma, figli sol di valor e d'ardimento, io qui sovr'Adria piango e mi lamento, sí da' martír, sí da' travagli doma, gravata sí da l'amorosa soma, che mi veggo morir, e lo consento. E duolmi sol che, sí come s'intende qui 'l suon da noi de' vostri onor, ch'omai per tutta Italia sí chiaro si stende, non s'oda in Francia il suono de' miei lai, che cosí spesso il ciel pietoso rende, e voi pietoso non ha fatto mai. O ora, o stella dispietata e cruda, ch'io vidi dipartir la gloria mia, lasciando di beatu ch'era pria la vita mia d'ogni suo bene ignuda! Da indi in qua per me si trema e suda, si piagne, si dispera e si disia: e sará meraviglia, se non fia che morte tosto queste luci chiuda. Che, del lor fatal sol restate senza, altra luce giamai mirar non ponno, che lor non sembri notte e dipartenza. Dunque o lor tosto, Amor, rendi il lor donno, o, per non soffrir piú si dura assenza, tosto le chiudi in sempiterno sonno. Quando piú tardi il sole a noi aggiorna, e quando avien che poi piú tardi annotte, quand'ei mostra il crin d'òr, quando la notte mostra la luna l'argentate corna, il mio cor lasso a' suoi sospir ritorna, a le voci, a le lagrime interrotte; sí l'ha tutte ad un segno ricondotte l'assenzia di colui che Francia adorna. E sí caldo disio di rivederlo fra tutt'altri martir mi preme e punge, che non so come omai piú sostenerlo. E duolmi piú ch'egli è da me sí lunge, ch'a poter richiamarlo ed a poterlo mover a pièta il mio gridar non giunge. La mia vita è un mar: l'acqua è 'l mio pianto, i venti sono l'aure de' sospiri, la speranza è la nave, i miei desiri la vela e i remi, che la caccian tanto. La tramontana mia è il lume santo de' miei duo chiari, duo stellanti giri, a' quai convien ch'ancor lontana i' miri senza timon, senza nocchier a canto. Le perigliose e súbite tempeste son le teme e le fredde gelosie, al dipartirsi tarde, al venir preste. Bonacce non vi son, perché dal die che voi, conte, da me lontan vi feste, partîr con voi l'ôre serene mie. Deh foss'io certa almen ch'alcuna volta voi rivolgeste a me l'alto pensiero, conte, a cui per mio danno i cieli diêro si da' lacci d'Amor l'anima sciolta. L'acerba pena mia nel petto accolta, l'empia mercé del dispietato arciero, i sospir, che 'n amor sola mi fêro, avrian triegua talor o poca o molta. Ma 'l sentirmi patir carca di fede, senza mover pietade a chi mi strugge, a chi contento i miei tormenti vede, sí le speranze mie tronca et adugge, che, se Dio di rimedio non provede, l'alma per dipartirsi freme e rugge. La gran sete amorosa che m'afflige, la memoria del ben onde son priva, che mi sta dentro al cor tenace e viva, sí che null'altra piú forte s'affige, sovra ogni forza mia move et addige la vena mia per sé muta e restiva, e fa che 'n queste carte adombri e scriva quanto aspramente Amor m'arde e trafige. Chi fa qual noi parlar la muta pica? chi 'l nero corvo e gli altri muti uccelli? La brama sol di quel che li nutrica. Però s'avien ch'io scriva e ch'io favelli, narrando l'amorosa mia fatica, non sono io no, son gli occhi vaghi e belli. Fa' ch'io rivegga, Amor, anzi ch'io moia, gli occhi, che di lontan chiamo e sospiro, fuor de' quai ciò ch'io veggio e ciò ch'io miro con questi miei mi par tenebre e noia. Quante fiamme or vome Etna, arser giá Troia in quell'incendio dispietato e diro, a petto a le mie fiamme, al mio martiro, son poco o nulla, anzi son pace e gioia. E, se 'l sol de le luci mie divine, chi 'l crederia? tornando non lo smorza, sento che 'l mio incendio è senza fine. Oh mirabil d'Amor e nova forza! ché dove avien ch'un foco l'altro affine, qui solo un foco l'altro vince e sforza. Quando talor Amor m'assal piú forte, e 'l desir e l'assenzia mi fan guerra, e questa e quel vorria pormi sotterra, preda d'oscura e dispietata morte, io mi rivolgo a le mie fide scorte, onde, benché lontan, virtú si sferra tal che la nave mia, che dubbiosa erra, subito par ch'al nido si riporte; si che quanto ho d'Amor onde mi doglia, tanto ho onde mi lodi, poi ch'io sento ch'una sol man mi leghi, una mi scioglia. O gioia amara, o mio dolce tormento, io prego il ciel che mai non mi vi toglia, e sia 'l mio stato or misero, or contento. O de le mie fatiche alto ritegno, mentre ad Amor ed a Fortuna piacque, conte gentil, a cui giamai non nacque bellezza egual, valor, sangue ed ingegno; se 'l vostro cor di maggior donna degno una volta in me sola si compiacque, se fin gli scogli d'Adria, i lidi e l'acque san che voi sète il mio solo sostegno, perché senza mia colpa e mio difetto, se non d'esser piú ch'altra fida stata, m'avete tratta fuor del vostro petto? Questa è la gioia mia da voi sperata? è questo quel che voi m'avete detto? questa è la fé che voi m'avete data? Gli occhi onde mi legasti, Amor, affrena, si che non veggan mai altra bellezza, altra creanza ed altra gentilezza di belle donne, onde la Francia è piena; acciò che quanto ora è dolce ed amena, non sia piena di lagrime e d'asprezza la vita mia, ch'ogn'altra cosa sprezza, fuor che la luce lor chiara e serena. E, s'egli avien che sia lor mostro a sorte obietto che sia degno esser amato, ed accenda quel cor tenace e forte, ferisci lui col tuo stral impiombato, o con quel d'oro dona a me la morte, perché viver non voglio in tale stato. La fé, conte, il piú caro e ricco pegno che possa aver illustre cavaliero, come cangiaste voi presto e leggiero, fuor che di lei d'ogni virtú sostegno? A pena vide voi 'l gallico regno, che mutaste con lei voglia e pensiero; ed Anassilla e 'l suo fedele e vero amor sparîr da voi tutti ad un segno. E piaccia pur a lui, che mi governa, che non sia la cagion di questo oblio novella fiamma nel cor vostro interna! O, se cio è, acerbo stato mio! o doglia mia sovra ogni doglia eterna! o fidanza d'Amor che mi tradío! Prendi, Amor, de' tuoi lacci il piú possente, che non abbia né schermo, né difesa, onde Evadne e Penelope fu presa, e lega il mio signor novellamente. A pena ei fu dagli occhi nostri assente, per gir a l'alta ed onorata impresa, che, noi scherniti e sua fé vilipesa, rivolse altrove la superba mente. E, quasi in alto pelago sommerso d'oblivione, a la sua Anassilla non ha degnato mai scriver un verso. O Nerone, o Mezenzio, o Mario, o Silla, chi fu di voi si crudo e sí perverso, d'amor gustata pur una scintilla? Questo aspro conte, un cor d'orsa e di tigre, che 'n cosí vago e mansueto aspetto per forza di valor e d'intelletto a la strada di gloria par che migre, non so per qual cagion guasti e denigre, col mancarmi di fé, sí degno effetto, e l'ali di sua fama col difetto d'infedeltá renda restive e pigre. Almen gli foss'io presso, onde potessi dimostrargli il suo fallo e 'l dolor mio, si che fido e pietoso lo facessi! Ma i' son qui, lassa, colma di desio, e i miei lamenti a l'aure son commessi: egli in Francia si sta colmo d'oblio. Qui, dove avien che 'l nostro mar ristagne, conte, la vostra misera Anassilla, quando la luna agghiaccia e 'l sol favilla, pur voi chiamando, si lamenta ed agne. Voi, dove avien che l'Oceano bagne, la notte, il giorno, a l'alba ed a la squilla, menando vita libera e tranquilla, mirate lieto il mar e le campagne. E si l'assenzia e 'l poco amor v'invola la memoria di lei, la vostra fede, che pur non le scrivete una parola. O fra tutt'altre mia miseria sola! o pena mia, ch'ogn'altra pena eccede! Cio si comporta, Amor, ne la tua scola? Oimè, le notti mie colme di gioia, i dí tranquilli, e la serena vita, come mi tolse amara dipartita, e converse il mio stato tutto in noia! E perché temo ancor (che piú m'annoia) che la memoria mia sia dipartita da quel conte crudel, che m'ha ferita, che mi resta altro omai, se non ch'io moia? E vo' morir, ché rimirar d'altrui quel che fu mio quest'occhi non potranno, perché mirar non sanno altri che lui. Prendano essempio l'altre che verranno a non mandar tant'oltra i disir sui, che ritrar non si possan da l'inganno. O sacro, amato e grazioso aspetto, o piú che 'l chiaro sol lucenti lumi, o sangue illustre, angelici costumi, o alto ingegno, altissimo intelletto, o colmi di prudenzia e di diletto, d'eloquenzia profondi e larghi fiumi, o finalmente, ond'io piú mi consumi, d'ogni grazia e virtú, conte, ricetto, qual contra a' miei disir stella empia e cruda giá mi vi tolse, ed or vi tien discosto contra la fé che voi mi deste pria? O morte dunque queste luci chiuda, od apritele voi tornando tosto; perché cosi non so quel ch'io mi sia. Quando talvolta il mio soverchio ardore m'assale e stringe oltra ogni stil umano, userei contra me la propria mano, per finir tanti omai con un dolore. Se non che dentro mi ragiona Amore, il qual giamai da me non è lontano: — Non por la falce tua ne l'altrui grano: tu non sei tua, tu sei del tuo signore, perché dal di, ch'a lui ti diedi in preda, l'anima e 'l corpo, e la morte e la vita divenne sua, e a lui conven che ceda. Si ch'a far da te stessa dipartita, senza ch'egli tel dica o tel conceda, è troppo ingiusta cosa e troppo ardita. Piangete, donne, e poi che la mia morte non move il signor mio crudo e lontano, voi, che sète di cor dolce ed umano, aprite di pietade almen le porte. Piangete meco la mia acerba sorte, chiamando Amor, il ciel empio, inumano, e lei, che mi ferí, spietata mano, che mi vegga morir e lo comporte. E, poi ch'io saró cenere e favilla, dica alcuna di voi mesta e pietosa, sentita del mio foco una scintilla: — Sotto quest'aspra pietra giace ascosa l'infelice e fidissima Anassilla, raro essempio di fede alta amorosa. Prendi, Amor, i tuoi strali e la tua face, ch'io ti rinunzio i torti e le fatiche, le voglie a' propri danni sempre amiche, la guerra certa e la dubbiosa pace. Trova un novo soggetto e piú capace, cui 'l tuo foco arda e la tua rete intriche, ch'io per me non vo' piú che mi si diche: — Questa per altri indarno arde e si sface.— Io son dal grave essilio tuo tornata, e son resa a me stessa, e non men pento, mercé di lui che m'ha la via mostrata. E ne' miei danni ho pur questo contento, ch'almen, s'io fui da te sí mal trattata, alta fu la cagion del mio tormento. Lassa, chi turba la mia lunga pace? chi rompe il sonno e l'alta mia quiete? chi mi stilla nel cor novella sete di gir seguendo quel che piú mi sface? Tu, Amore, il cui strale e la cui face ogni contento uman recide e miete, tu ber mi desti del tuo fiume Lete, che piú mi nòce, quanto piú mi piace. Ahi, quando fia giamai ch'un giorno possa voler col mio voler, resa a me stessa, del grave giogo periglioso scossa? Quando fia mai che la sembianza impressa dentro a le mie midolle e dentro a l'ossa mi smaghi Amor, e' miei marúr con essa? Ma che, sciocca, dich'io? perché vaneggio? perché si fuggo questo chiaro inganno? perché sgravarmi da si util danno, pronta ne' danni miei, ad Amor chieggio? Come, fuor di me stessa, non m'aveggio che quante ebber mai gioie, e quante avranno, quante fùr donne mai, quante saranno, co' miei chiari martír passo e pareggio? Ché l'arder per cagion alta e gentile ogni aspra vita fa dolce e beata piú che gioir per cosa abietta e vile. Ed io ringrazio Amor, che destinata m'abbia a tal foco, che da Battro a Tile spero anche un giorno andar chiara e lodata. Voi, che per l'amoroso, aspro sentiero, donne care, com'io, forse passate; ed avete talor viste e provate quante pene può dar quel crudo arciero; dite per cortesia, ma dite il vero, se quante ne son or, quante son state, a l'aspre pene mie paragonate, agguaglian un de' miei martir intero. E dite se vedeste mai sembianza piú dolce in vista e piú spietata poi del signor mio, ne l'amorosa stanza. Cosí talvolta Amor dia tregua a voi, mentr'ei con questa dura lontananza sfoga in me tutti ad uno i furor suoi. Novo e raro miracol di natura, ma non novo né raro a quel signore, che 'l mondo tutto va chiamando Amore, che 'l tutto adopra fuor d'ogni misura: il valor, che degli altri il pregio fura, del mio signor, che vince ogni valore, è vinto, lassa, sol dal mio dolore, dolor, a petto a cui null'altro dura. Quant'ei tutt'altri cavalieri eccede in esser bello, nobile ed ardito, tanto è vinto da me, da la mia fede. Miracol fuor d'amor mai non udito! Dolor, che chi nol prova non lo crede! Lassa, ch'io sola vinco l'infinito! Quasi quercia di monte urtata e scossa da ogni lato e da contrari venti, che, sendo or questi or quelli piú possenti, per cader mille volte e mille è mossa, la vita mia, questa mia frale possa, combattuta or da speme or da tormenti, non sa, lontani i chiari lumi ardenti, in qual parte piegar omai si possa. Or m'affidan le carte del mio bene, or mi disperan poi l'altrui parole; ei mi dice:—lo pur vengo;—altri:—Non viene.— Sia morte meco almen, piú che non suole, pietosa a trarmi fuor di tante pene, se non debbo veder tosto il mio sole. Qual fuggitiva cerva e miserella, ch'avendo la saetta nel costato, seguita da duo veltri in selva e 'n prato, fugge la morte che va pur con ella, tal io, ferita da l'empie quadrella del fiero cacciator crudo ed alato, gelosia e disio avendo a lato, fuggo, e schivar non posso la mia stella. La qual mi mena a miserabil morte, se non ritorna a noi da gente strana il sol degli occhi miei, che la conforte: egli è 'l dittamo mio, egli risana la piaga mia; e può far la mia sorte, d'aspra e noiosa, dilettosa e piana. A che, conte, assalir chi non repugna? a che gittar per terra chi si rende? a che contender con chi non contende? con chi avete mai sempre fra l'ugna? Sapete che co' morti non si pugna; ché lo splendor d'un cavalier offende, e' l vostro piú, che l'ali oggimai stende dove non so s'altrui chiarezza aggiugna. Guardate che la fama de le tante vostre vittorie poi non renda oscura, signor, quest'una sola, e non ammante. Io per me stimerei mia gran ventura l'esser veduta al vostro carro innante; ma voi del vostro onor abiate cura. Menami, Amor, omai, lassa! il mio sole, che mi solea non pur far chiaro il giorno, ma non men che 'l di chiara anco la notte, tal ch'io sprezzava il ritornar de l'alba, si di quest'occhi la sua vaga luce disgombrava le tenebre e la nebbia. Ed ora piú non veggio altro che nebbia, poi che l'usato mio lucente sole, con la sua e del mondo altera luce lume facendo in altra parte e giorno, vuol che mai non si rompa per me l'alba, perché da me non fugga unqua la notte. Deh discacciasse il vel di questa notte, il vel di tanta e sí importuna nebbia, e a l'apparir del suo ritorno l'alba mi rimenasse il mio bramato sole, sí che lieta vedessi ancora un giorno, pria che chiudessi in tutto esta mia luce! Ben fôra chiara e graziosa luce, che procedesse a sí beata notte; ben fôra chiaro e desiato giorno, e disgombrato di tempeste e nebbia, che mostrasse a quest'occhi il lor bel sole, spuntando tra le rose e tra i fior l'alba. Pur ch'innanzi che 'l ciel mi renda l'alba, morte amara non spenga la mia luce, invidiando a lei l'amato sole; e, chiusi gli occhi in sempiterna notte, ne vada, lassa, a star fra quella nebbia, dove mai non si vede il chiaro giorno. Tu dunque, Amor, che fai di notte giorno, e puoi condurmi in un momento l'alba, e via cacciar de' miei martí la nebbia, e di tenebre oscure trar la luce, rompi omai 'l vel di questa lunga notte, et adduci a quest'occhi il mio bel sole. Vivo sol, che solei far chiaro il giorno, mentre la luce mia non vide nebbia, perché non meni a la mia notte l'alba? Deh perché, com'io son con voi col core, non vi son, conte, ancor con la persona, com'io vorrei, tanto 'l disio mi sprona, tanto mi stringe il signor nostro Amore? Ché, mirando talor l'aspro furore sovra di voi, quando arde piú Bellona, di qualche cavalier, che la corona cercasse porsi di sí alto onore, vedendo scender qualche colpo crudo, o pregherei Amor che lo schifassi, o io del corpo mio li farei scudo. Ma 'l ciel pur fiero a le mie voglie stassi, né m'ode, benché 'l duol, che dentro chiudo, rompa per la pietate i duri sassi. O gran valor d'un cavalier cortese, d'aver portato fin in Francia il core d'una giovane incauta, ch'Amore a lo splendor de' suoi begli occhi prese! Almen m'aveste le promesse attese di temprar con due versi il mio dolore, mentre, signor, a procacciarvi onore tutte le voglie avete ad una incese. I' ho pur letto ne l' antiche carte che non ebber a sdegno i grandi eroi parimente seguir Venere e Marte. E del re, che seguite, udito ho poi che queste cure altamente comparte, ond'è chiar dagli espèri ai lidi eoi. Conte, il vostro valor ben è infinito, sí che vince qualunque alto valore, ma verissimamente è via minore del duol, ch'amando io ho per voi patito. E, se non s'è fin qui letto et udito de l'infinito cosa unqua maggiore, questi sono i miracoli d'Amore, che vince ciò che 'n cielo è stabilito. Tempo giá fu, che l'alta gioia mia di gran lunga avanzava anco il mio duolo, mentre dolce la speme entro fioria: or ella è gita, ed ei rimaso è solo, dal dí che per mia stella acerba e ria prendeste, ahi lassa! verso Francia il volo Io pur aspetto, e non veggo che giunga il mio signor o 'l suo fidato messo al termin che da lui mi fu promesso: lassa! ché 'l mio piacer troppo s'allunga. Ond'avien che temenza il cor mi punga, che qualche intoppo non gli sia successo; o ch'ei sol pensi in me quanto m'è presso, e l'assenzia il suo cor da me disgiunga. Il che se fosse, io prego morte avara che venga in vece sua, poi ch'ei non viene, a trarmi fuor di téma e vita amara. Ma, se giusta cagion me lo ritiene, io prego Amor, ch'ogni fosco rischiara, ch'apra la via, ond'io vegga il mio bene. O beata e dolcissima novella, o caro annunzio, che mi promettete che tosto rivedrò le care e liete luci e la faccia graziosa e bella; o mia ventura, o mia propizia stella, ch'a tanto ben serbata ancor m'avete, o fede, o speme, ch'a me sempre sète state compagne in dura, aspra procella; o cangiato in un punto viver mio di mesto in lieto; o queto, almo e sereno fatto or di verno tenebroso e rio; quando potrò giamai lodarvi a pieno? come dir qual nel cor aggio disio? di che letizia io l'abbia ingombro e pieno? Con quai degne accoglienze o quai parole raccorrò io il mio gradito amante, che torna a me con tante glorie e tante, quante in un sol non vide forse il sole? Qual color or di rose, or di viole fia 'l mio? qual cor or saldo ed or tremante, condotta innanzi a quel divin sembiante, ch'ardir e téma insieme dar mi suole? Osarò io con queste fide braccia cingerli il caro collo, ed accostare la mia tremante a la sua viva faccia? Lassa, che pur a tanto ben penare temo che 'l cor di gioia non si sfaccia: chi l' ha provato se lo può pensare. Via da me le tenebre e la nebbia, che mi son sempre state agli occhi intorno sei lune e piú, che 'n Francia fe' soggiorno lui, che 'l mio cor, come gli piace, trebbia. È ben ragion ch'asserenarmi io debbia, or che 'l mio sol m'ha rimenato il giorno; or c'han pace le guerre, che d'attorno mi fûr, qual vide Trasimeno e Trebbia. Sia ogni cosa in me di riso piena, poi che seco una schiera di diletti a star meco il mio sol almo rimena. Sia la mia vita in mille dolci, eletti piaceri involta, e tutta alma e serena, e se stessa gioendo ognor diletti. Io benedico, Amor, tutti gli affanni, tutte l'ingiurie e tutte le fatiche, tutte le noie novelle ed antiche, che m'hai fatto provar tante e tanti anni; benedico le frodi e i tanti inganni, con che convien che i tuoi seguaci intriche; poi che tornando le due stelle amiche m'hanno in un tratto ristorati i danni. Tutto il passato mal porre in oblio m'ha fatto la lor viva e nova luce, ove sol trova pace il mio disio. Questa per dritta strada mi conduce su a contemplar le belle cose e Dio, ferma guida, alta scorta e fida luce. O notte, a me piú chiara e piú beata che i piú beati giorni ed i piú chiari, notte degna da' primi e da' piú rari ingegni esser, non pur da me, lodata; tu de le gioie mie sola sei stata fida ministra; tu tutti gli amari de la mia vita hai fatto dolci e cari, resomi in braccio lui che m'ha legata. Sol mi mancc che non divenni allora la fortunata Alcmena, a cui sté tanto piú de l'usato a ritornar l'aurora. Pur cosí bene io non potrò mai tanto dir di te, notte candida, ch'ancora da la materia non sia vinto il canto. Son pur questi i begli occhi e quelle, c'hanno vinto il sol tante volte, alme bellezze; son pur queste le grazie e le vaghezze che luce e vita a la mia morte dánno. E tuttavia son sí pronte a l'affanno le voglie mie ed a' tormenti avezze di tanta assenzia omai, che l'allegrezze ritornar a star meco piú non sanno; quasi 'l gran re, che di sospetto pieno, fuggendo il crudo zio, per lunga usanza si fece natural cibo il veleno. Qui fa bisogno, Amor, la tua possanza, che del primo dolor mi sgombri il seno, sí che tanta mia gioia or v'abbia stanza. O diletti d'amor dubbi e fugaci, o speranza che s'alza e cade spesso, e nasce e more in un momento istesso; o poca fede, o poco lunghe paci! Quegli, a cui dissi: — Tu solo mi piaci, — è pur tornato, io l'ho pur sempre presso, io pur mi specchio e mi compiaccio in esso, e ne' begli occhi suoi chiari e vivaci; e tuttavia nel cor mi rode un verme di fredda gelosia, freddo timore di tosto tosto senza lui vederme. Rendi tu vana la mia téma, Amore, tu, che beata e lieta pòi tenerme, conservandomi fido il mio signore. Or che ritorna e si rinova l'anno, passato il verno e la stagion piú fresca, l'amoroso disir mio si rinfresca, e la mia dolce pena, e 'l dolce affanno. E qual i novi umor gravidi fanno gli arbori, onde lor frutto a suo tempo esca, tal umor nel mio petto par che cresca, al qual poi pensier dolci a dietro vanno. Ed è ben degno che gioia ed umore, or ch'egli è meco la mia primavera, mi rinovelli e mi ridesti Amore. Oh pur non giunga a sí bel giorno sera! oh pur non cangi il bel tempo in orrore, dipartendo da me l'alma mia sfera! Poi che m'ha reso Amor le vive stelle, che mi guidano al ciel per dritta via, e ne le molte mie gravi tempeste m'hanno mai sempre ricondotta in porto di questo chiaro e fortunato mare, ch'indarno turban le procelle e i venti; udite, benigne aure, amici venti, e voi, occhi del cielo, ardenti stelle, mentre qui sovra questo altero mare, da la mia lunga e faticosa via, la mercede d'Amor, tornata in porto, lodo di lui gli strazi e le tempeste. Voi, voci, voi, sospir, voi le tempeste sète voi sète i graziosi venti, che dimostrate poi sí dolce il porto, quando il sol arde e quando ardon le stelle; voi sète la sicura e dritta via, che ci guidate de' diletti al mare. Qual d'eloquenzia fia si largo mare, e sí scarco di nubi e di tempeste, che possa dir senza arrestar fra via, mentre stan quete le procelle e i venti, la gioia che mi dan le mie due stelle, or c'hanno il mio signor ridotto in porto? Dolce, sicuro e grazioso porto, che del mio pianto l'infinito mare m'hai acquetato al raggio de le stelle, ch'ovunque splendon fugan le tempeste, sí ch'io non posso piú temer ch'i venti turbin sí cara e dilettosa via! Menami, Amor, omai per questa via, fin che quest'alma giunga a l'altro porto, ch'io non vo' navigar con altri venti, né di questo cercar piú largo mare, né nel viaggio mio vo' ch'altre stelle mi sieno scorte, e sgombrin le tempeste. Aspre tempeste ed importuni venti non n'impediran piú del mar la via, or che le stelle mie m'han mostro il porto. Gioia somma, infinito, alto diletto, or che l'amato mio tesoro ho presso, or che parlo con lui, che 'l miro spesso, m'ingombrerebbe certamente il petto, se 'l cor non mi turbasse un sol sospetto di tosto tosto rimaner senz'esso, per quel ch'io veggo a qualche segno espresso, ché sol apre Amor gli occhi a l'intelletto. E, se ciò è, io vo' certo finire questa misera vita in un momento, anzi ch'io provi un tanto aspro martíre; perché conosco chiaramente e sento che senza lui mi converria morire, ch'è l'appoggio, a cui 'l viver mio sostento. Chi può contar il mio felice stato, l'alta mia gioia e gli alti miei diletti? O un di que' del ciel angeli eletti, o altro amante, che l'abbia provato. Io mi sto sempre al mio signor a lato, godo il lampo degli occhi e 'l suon dei detti, vivomi de' divini alti concetti, ch'escon da tanto ingegno e sí pregiato. Io mi miro sovente il suo bel viso, e mirando mi par veder insieme tutta la gloria e 'l ben del paradiso. Quel che sol turba in parte la mia speme, è 'l timor che da me non sia diviso; ché 'l vorrei meco fin a l'ore estreme. Pommi ove 'l mar irato geme e frange, ov'ha l'acqua piú queta e piú tranquilla; pommi ove 'l sol piú arde e piú sfavilla, o dove il ghiaccio altrui trafige ed ange; pommi al Tanai gelato, al freddo Gange, ove dolce rugiada e manna stilla, ove per l'aria empio velen scintilla, o dove per amor si ride e piange; pommi ove 'l crudo Scita ed empio fere, o dove è queta gente e riposata, o dove tosto o tardi uom vive e père: vivrò qual vissi, e sarò qual son stata, pur che le fide mie due stelle vere non rivolgan da me la luce usata. Se voi poteste, o sol degli occhi miei, qual sète dentro donno del mio core, veder coi vostri apertamente fuore, oh me beata quattro volte e sei! Voi piú sicuro, e queta io piú sarei: voi senza gelosia, senza timore; io di due sarei scema d'un dolore, e piú felicemente ardendo andrei. Anzi aperto per voi, iassa, si vede, piú che 'l lume del sol lucido e chiaro, che dentro e fuori io spiro amor e fede. Ma vi mostrate di credenza avaro, per tôrmi ogni speranza di mercede, e far il dolce mio viver amaro. Deh foss'io almen sicura che lo stato, dov'or mi trovo, non mancasse presto, perché, si come or è lieto ed or mesto, sarebbe il piú felice che sia stato. l'ho Amore e 'l mio signor a lato, e mi consolo or con quello, or con questo; e, sempre che di loro un m' è molesto, ricorro a l'altro, che m' è poi pacato. S'Amor m'assale con la gelosia, mi volgo al viso, che 'n sé dentro serra virtú ch'ogni tormento scaccia via: se 'l mio signor mi fa con ira guerra, viene Amor poi con l'altra compagnia, vera umiltá ch'ogni alto sdegno atterra. Mille volte, signor, movo la penna per mostrar fuor, qual chiudo entro il pensiero, il valor vostro e 'l bel sembiante altero, ove Amor e la gloria l'ale impenna; ma perché chi cantò Sorga e Gebenna, e seco il gran Virgilio e 'l grande Omero non basteriano a raccontarne il vero, ragion ch'io taccia a la memoria accenna. Però mi volgo a scriver solamente l'istoria de le mie gioiose pene, che mi fan singolar fra l'altra gente: e come Amor ne' be' vostr'occhi tiene il seggio suo, e come indi sovente si dolce l'alma a tormentar mi viene. Quelle rime onorate e quell' ingegno, pari a la beltá vostra e al gran valore, rivolgete a voi stesso in far onore, conte, come di lor soggetto degno; o trovate di me piú altero pegno, se pur uscir da voi volete fore, perché a si larga vena, a tanto umore son per me troppo frale e secco segno, e non ho parte in me d'esser cantata, se non perch'amo e riverisco voi oltra ogni umana, oltra ogni forma usata. Sí chiara fiamma merta i pregi suoi; in questa parte io deggio esser cantata fin ch' io sia viva, eternamente, e poi. Lodate i chiari lumi, ove mirando perdei me stessa, e quel bel viso umano, da cui vibrò lo stral, mosse la mano Amor, quando da me mi pose in bando. Lodate il valor vostro alto e mirando, ch'al valor d'Alessandro è prossimano: sallo il gran re, sallo il paese strano, che di voi e di lui vanno parlando. Lodate il senno, a cui non è simíle nel bel verde degli anni; e, quel che 'n carte vedrò famoso, il vostro ingegno e stile. In me, signor, non è pur una parte, che non sia tutta indegna e tutta vile, per cui sí vaghe rime sieno sparte. A che vergar, signor, carte ed inchiostro in lodar me, se non ho cosa degna, onde tant'alto onor mi si convegna; e, se ho pur niente, è tutto vostro? Entro i begli occhi, entro l'avorio e l'ostro, ove Amor tien sua gloriosa insegna, ove per me trionfa e per voi regna, quanto scrivo e ragiono mi fu mostro. Perché ciò che s'onora e 'n me si prezza, anzi s' io vivo e spiro, è vostro il vanto, a voi convien, non a la mia bassezza. Ma voi cercate con sí dolce canto, lassa, oltra quel che fa vostra bellezza, d'accrescermi piú foco e maggior pianto. Bastavan, conte, que' bei lumi, quelli, ch'al sol raggi, a Ciprigna alma beltate, ad Amor arme, a me la libertate furâr da prima che mirai in elli, a far ch'arda per voi sempre e favelli, sí che l' intenda la futura etate, senza cercar con pure rime ornate d'aggiunger nove al cor piaghe e flagelli. Ché col vostr'alto procacciarmi onore si strigneria, se si potesse, il laccio, s'accresceria, se si potesse, ardore. Ma di questo e di quel son fuor d' impaccio, ché quanto arder e strigner puote Amore, io son stretta per voi, conte, e mi sfaccio. Io non mi voglio piú doler d'Amore, poi che, quant'ei mi dá doglia e tormento, tanto il signor, ch' io amo e ch' io pavento, cerca scrivendo procacciarmi onore. O di tutte bellezze e grazie il fiore, nido di cortesia e d'ardimento, come posso bramar che resti spento cosí famoso e cosí chiaro ardore? Anzi prego che 'l ciel mi doni vita, sí che, dovunque il sol nasca e tramonte, sia la mia fiamma entro tai versi udita; e dica alcuna, ove d'amor si conte: — Ben fu la sorte di costei gradita, scritta e cantata da sí alto conte. Se qualche téma talor non turbasse, o qualche sdegno, il mio felice stato, sarebbe il piú tranquillo, il piú beato di qualunque altra donna altr'uomo amasse. Ché, s'avien pur che 'l mio signor mi lasse, talor a qualche degna opra chiamato, dentro il mio core e bello ed onorato, qual egli è meco, il suo sembiante stasse; sí che avendo mai sempre in compagnia tutto quel che piú amo e piú mi piace, turbarmi Amor o sorte non poria, s'egli, che nel mio pianto si compiace, con qualche nova e strana fantasia non turbasse o rompesse la mia pace. Chi vuol veder l' imagin del valore, l'albergo de la vera cortesia, il nido di bellezza e leggiadria, la stanza de la gloria alta e d'onore, venga a veder l' illustre mio signore, dove si trova ciò che si disia, fino il mio cor e fino l'alma mia, che gli dié giá, né poi mi rese, Amore. Ma, s'ella è donna, non s'affissi molto, ché resterá subitamente presa fra mille meraviglie del bel volto. Ivi Amor ha la rete sempre tesa, indi saetta, ed ivi giace occolto, quando vuol far qualche maggior impresa. Quando io movo a mirar fissa ed intenta le ricchezze e i tesor, ch'Amore e 'l cielo dentro ne l'alma e fuor nel mortal velo poser di lui, ch'ogn'altra luce ha spenta, resto del mio martír tanto contenta, sí paga del mio vivo, ardente zelo, che la ferita e 'l despietato telo, che mi trafige il cor, non par che senta. Sol mi struggo e mi doglio, quando penso che da me tosto debba allontanarse questo d'ogni mia gloria abisso immenso. A questo l'alma sol non può quetarse, a ciò grida ed esclama ogni mio senso: — O tante indarno mie fatiche sparse! O tante indarno mie fatiche sparse, o tanti indarno miei sparsi sospiri, o vivo foco, o fé, che, se ben miri, di tal null'altra mai non alse ed arse, o carte invan vergate e da vergarse per lodar quegli ardenti amati giri, o speranze ministre de' disiri, a cui premio piú degno dovea darse, tutte ad un tratto ve ne porta il vento, poi che da l'empio mio signore stesso con queste proprie orecchie dir mi sento che tanto pensa a me, quanto m' è presso, e, partendo, si parte in un momento ogni membranza del mio amor da esso. Signor, io so che 'n me non son piú viva, e veggo omai ch'ancor in voi son morta, e l'alma, ch' io vi diedi, non sopporta che stia piú meco vostra voglia schiva. E questo pianto, che da me deriva, non so chi 'l mova per l'usata porta, né chi mova la mano e le sia scorta, quando avien che di voi talvolta scriva. Strano e fiero miracol veramente, che altri sia viva, e non sia viva, e pèra, e senta tutto e non senta niente; sí che può dirsi la mia forma vera, da chi ben mira a sí vario accidente, un' imagine d' Eco e di Chimera. — Vorrei che mi dicessi un poco, Amore, c' ho da far io con queste tue sorelle Temenza e Gelosia? ed ond'è ch'elle non sanno star se non dentro il mio core? Tu hai mille altre donne, che l'ardore provan, com'io, de l'empie tue facelle: or manda dunque queste a star con quelle, fa' ch'un di n'escan dal mio petto fore. — Io ho ben — mi dic'ei — mille persone a chi mandarle; ma nessuna d'esse ha, qual tu, da temer alta cagione. Le luci ch'ami son le luci stesse, che, per dar gelosia e passione a tutto il mondo, la mia madre elesse. Cosí m'acqueto di temer contenta, e di viver d'amara gelosia, pur che l'amato lume lo consenta, pur che non spiaccia a lui la pena mia. Perch' è piú dolce se per lui si stenta, che gioir per ogn 'altro non saria; ed io per me non fia mai che mi penta di sí gradita e nobil prigionia; perché capir un 'alma tanto bene, senza provarvi qualche cosa aversa, questa terrena vita non sostiene. Ed io, che sono in tante pene immersa, quando avanti il suo raggio almo mi viene, resto da quel ch'esser solea diversa. Su, speranza, su, fé, prendete l'armi contra questa crudel nemica mia, importuna e spietata gelosia, che cerca quanto può di vita trarmi: diasi uscita a' sospir, verghinisi carmi, sí che si sfoghi tanta pena ria; trovisi dolce e grata compagnia, sí che possa il dolor men danno farmi. E, se questo non basta, un altro amore si prenda, e lassi questo onde ora avampo, e cosí vinca l'un l'altro dolore. Perch' ogni fèra in selva, in prato, in campo cerca per natural forza e vigore di tentar ogni via per lo suo scampo. S'io 'l dissi mai, signor, che mi sia tolto l'arder per voi, com'ardo in fiamma viva; s' io 'l dissi mai, ch'io resti d'amar priva, e resti il cor del suo bel laccio sciolto. S' io 'l dissi mai, che 'l lume del bel volto, di cui convien ch'ognor ragioni e scriva, a la mia luce di tutt'altro schiva non si mostri giamai poco né molto. S' io 'l dissi mai, che gli uomini a vicenda tutti, e li dèi, fortuna disdegnosa a mio danno, a ruina ultima accenda. Ma s' io nol dissi, e non feci mai cosa degna del vostro sdegno, omai si renda la vita mia, qual fu, lieta e gioiosa. O mia sventura, o mio perverso fato, o sentenzia nemica del mio bene, poi che senza mia colpa mi conviene portar la pena de l'altrui peccato. Quando si vide mai reo condannato a la morte, a l'essilio, a le catene per l'altrui fallo e, per maggior sue pene, senza esser dal suo giudice ascoltato? Io griderò, signor, tanto e sí forte, che, se non li vorrete ascoltar voi, udranno i gridi miei Amore o Morte; e forse alcun pietoso dirá poi: — Questa locò per sua contraria sorte in troppo crudo luogo i pensier suoi. Qual fu di me giamai sotto la luna donna piú sventurata e piú confusa, poi che 'l mio sole, il mio signor m'accusa di cosa, ov'io non ho giá colpa alcuna? E, per farmi dolente a via piú d'una guisa, non vuol ch' io possa far mia scusa; vuol ch' io tenga lo stil, la bocca chiusa, come muto, o fanciul picciolo in cuna. A qual piú sventurato e tristo reo di non poter usar la sua difesa sí dura legge al mondo unqua si dèo? Tal è la fiamma, ond' hai me, Amor, accesa, tal è il mio fato dispietato e reo, tal è 'l laccio crudel, con che m' hai presa. Poi che da voi, signor, m' è pur vietato che dir le vere mie ragion non possa, per consumarmi le midolle e l' ossa con questo novo strazio e non usato, fin che spirto avrò in corpo ed alma e fiato, fin che questa mia lingua averá possa, griderò sola in qualche speco o fossa la mia innocenzia e piú l'altrui peccato. E forse ch'averrá quello ch'avenne de la zampogna di chi vide Mida, che sonò poi quel ch'egli ascoso tenne. L'innocenzia, signor, troppo in sé fida, troppo è veloce a metter ale e penne, e, quanto piú la chiude altri, piú grida. Quando io dimando nel mio pianto Amore, che cosí male il mio parlar ascolta, mille fiate il di, non una volta, ché mi fere e trafigge a tutte l'ore: — Come esser può, s'io diedi l'alma e 'l core al mio signor dal dí ch'a me l' ho tolta, e se ogni cosa dentro a lui raccolta è riso e gioia, è scema di dolore, ch'io senta gelosia fredda e temenza, e d'allegrezza e gioia resti priva, s' io vivo in lui, e in me di me son senza? — Vo' che tu mora al bene ed al mal viva — mi risponde egli in ultima sentenza; — questo ti basti, e questo fa' che scriva. Cosí, senza aver vita, vivo in pene, e, vivendo ov' è gioia, non son lieta; cosí fra viva e morta Amor mi tiene, e vita e morte ad un tempo mi vieta. Tal la sua sorte a ognun nascendo viene, tal fu il mio aspro e mio crudo pianeta; di sí rio frutto in sitibonde arene, senza mai sparger seme, avien ch' io mieta. E s' io voglio per me stessa finire con la vita i tormenti, non m' è dato, ché senza vita un uom non può colpire. Qual fine Amore e 'l ciel m'abbia serbato io non so, lassa, e non posso ridire; so ben ch'io sono in un misero stato. Queste rive ch'amai sí caldamente, rive sovra tutt'altre alme e beate, fido albergo di cara libertate, nido d' illustre e riposata gente, chi 'l crederia? mi son novellamente sí fattamente fuor del cor andate, che di passar con lor le mie giornate mi doglio meco e mi pento sovente. E tutti i miei disiri e i miei pensieri mirano a quel bel colle, ove ora stanza il mio signor e i suoi due lumi alteri. Quivi, per acquetar la desianza, spenderei tutta seco volentieri questa vita penosa che m'avanza. Quanto è questo fatto ora aspro e selvaggio di dolce, ch'esser suole, e lieto mare! Dopo il vostro da noi allontanare quanta compassion a me propria aggio, tanto ho invidia al bel colle, al pino, al faggio, che gli fanno ombra, al fiume, che bagnare gli suole il piede ed a me nome dare, che godono or del vostro vivo raggio. E, se non che egli è pur quell'il bel nido, dove nasceste, io pregherei che fesse il ciel lui ermo, lor secchi e quel torbo: per questo io resto, e prego voi, o fido del mio cor speglio, ove mi tergo e forbo, a tornar tosto e serbar le promesse. Chi mi dará di lagrime un gran fonte, ch'io sfoghi a pieno il mio dolor immenso, che m'assale e trafige, quando io penso al poco amor del mio spietato conte? Tosto che 'l sol degli occhi suoi tramonte agli occhi miei, a' quali è raro accenso, tanto ha di me non piú memoria o senso, quanto una tigre del piú aspro monte. Ben è 'l mio stato e 'l destín crudo e fero, ché tosto che da me vi dipartite, voi cangiate, signor, luogo e pensiero. — Io ti scriverò subito — mi dite — ch' io sarò giunto al loco ove andar chero; — e poi la vostra fede a me tradite. Prendete il volo tutti in quella parte, ove sta chi può dar fine a' miei mali col raggio sol de' lumi suoi fatali, o sospir, o querele al vento sparte. E con quanta eloquenzia e con quant'arte vi detterá colui c' ha face e strali, dite a la vita mia pietose quali dí provo, quando egli da noi si parte. E se con vostri umili modi adorni potrete far pietoso il vago aspetto, sí ch'a star oggimai con noi ritorni, non tornate piú voi, ch' io non v'aspetto: rimanetevi pur in que' soggiorni, e venga a me con lui gioia e diletto. Sacro fiume beato, a le cui sponde scorgi l'antico, vago ed alto colle, ove nacque la pianta ch'oggi estolle al ciel i rami e le famose fronde, ben fûr le stelle ai tuoi desir seconde, ché 'l sí spesso veder non ti si tolle e 'l far talor la bella pianta molle, ch 'a me, lassa, sí spesso si nasconde. Tu mi dái nome, ed io vedrò se 'n carte posso con le virtú che la mi rende, al secol, che verrá, famoso farte. Oh pur non turbi il ciel, cui sempre offende la gioia mia, i miei disegni in parte! Altri ch 'ella so ben che non m' intende. Fiume, che dal mio nome nome prendi, e bagni i piedi a l'alto colle e vago, ove nacque il famoso ed alto fago, de le cui fronde alto disio m'accendi, tu vedi spesso lui, spesso l'intendi, e talor rendi la sua bella imago; ed a me che d'altr' ombra non m'appago, cosí sovente, lassa, lo contendi. Pur, non ostante che la nobil fronde, ond'io piansi e cantai con piú d'un verso, la tua mercé, sí spesso lo nasconde, prego 'l ciel ch'altra pioggia o nembo avverso non turbi, Anasso, mai le tue chiar'onde, se non quel sol che da quest'occhi verso. O rive, o lidi, che giá foste porto de le dolci amorose mie fatiche, mentre stavan con noi le luci amiche, che sempre accese ne l' interno porto, quanta mi deste giá gioia e conforto, tanto mi sète ad or ad or nemiche, poi che 'l mio sol (lassa, convien che 'l diche!) voi e me ha lasciato a sí gran torto. Io cangerei con voi campagne e boschi e colli e fiumi, lá dove dimora chi partendo lasciò gli occhi miei foschi, e di tornar non fa pensier ancora, non ostante, crudel, che ben conoschi che, se sta molto, converrá ch' io mora. Sovente Amor, che mi sta sempre a lato. mi dice: — Miserella, quale or fia la vita tua, poi che da te si svia lui che soleva far lieto il tuo stato? — Io gli rispondo: — E tu perché mostrato l' hai a questi occhi, quando 'l vidi pria, se ne dovea seguir la morte mia, subito visto e subito rubbato? — Ond'ei si tace, avvisto del suo fallo, ed io mi resto preda del mio male: quanto mesta e dogliosa, il mio cor sallo! E, perch' io preghi, il mio pregar non vale, per ciò che a chi devrebbe, ed a chi fállo, o poco o nulla del mio danno cale. Rimandatemi il cor, empio tiranno, ch 'a sí gran torto avete ed istraziate, e di lui e di me quel proprio fate, che le tigri e i leon di cerva fanno. Son passati otto giorni, a me un anno, ch' io non ho vostre lettre od imbasciate, contra le fé che voi m'avete date, o fonte di valor, conte, e d' inganno. Credete ch' io sia Ercol o Sansone a poter sostener tanto dolore, giovane e donna e fuor d'ogni ragione, massime essendo qui senza 'l mio core e senza voi a mia difensione, onde mi suol venir forza e vigore? Quando fia mai ch' io vegga un di pietosi gli occhi, che per mio mal da prima vidi in queste rive d'Adria, in questi lidi dov'Amor mille lacci aveva ascosi? Quando fia mai che libera dir osi, dato bando a' miei pianti ed a' miei gridi: — Or ti conforta, anima cara, or ridi, or tempo è ben che godi e che riposi? — Lassa, non so; so ben che ad ora ad ora ho cercato placar o lui o morte, e né questa né quello ho mosso ancora. Tal è, misera, il fin, tal è la sorte di chi troppo altamente s' innamora: donne mie, siate a l' invescarvi accorte. Ricorro a voi, luci beate e dive, a voi che sète le mie fide scorte, da poi che 'l cielo, Amor, fortuna e sorte sono ai soccorsi miei sí tardi e schive. Se per me in voi si spera e 'n voi si vive, come avien che per voi pur si comporte a star lunge da me quest'ore corte, che 'l mio ben la pietá vostra prescrive? Deh non state oggimai da me piú lunge! Fate che questo breve spazio sia concesso a me d'avervi sempre presso; ché l 'ardente disio tanto mi punge, che certo finirá la vita mia, se non m' è 'l vagheggiarvi ognor concesso. Liete campagne, dolci colli ameni, verdi prati, alte selve, erbose rive, serrata valle, ov'or soggiorna e vive chi può far i miei dí foschi e sereni, antri d'ombre amorose e fresche pieni, ove raggio di sol non è ch'arrive, vaghi augei, chiari fiumi ed aure estive, vezzose ninfe, Pan, fauni e sileni, o rendetemi tosto il mio signore, voi che l'avete, o fategli almen cónta la mia pena e l'acerbo aspro dolore: ditegli che la vita mia tramonta, s'omai fra pochi giorni, anzi poch'ore il suo raggio a quest'occhi non sormonta. Come posso far pace col desio, o farvi tregua, poi ch'egli pur vuole, non essendo qui nosco il suo bel sole, tranquillo porto e sole al viver mio? Egli fa giorno al suo colle natio, come a chi nulla o poco incresce e duole o 'l morir nostro o 'l pianto o le parole: lassa, ch'io nacqui sotto destín rio! Lá dove converrá che tosto ceda a morte l'alma, o tosto a noi ritorni la beltá ch'al mio mal non par che creda. Tal qui, fra questi d'Adria almi soggiorni, io misera Anassilla, d'Amor preda, notte e di chiamo i miei due lumi adorni. — Or sopra il forte e veloce destriero — io dico meco — segue lepre o cerva il mio bel sole, or rapida caterva d'uccelli con falconi o con sparviero. Or assal con lo spiedo il cignal fiero, quando animoso il suo venir osserva; or a l'opre di Marte, or di Minerva rivolge l'alto e saggio suo pensiero. Or mangia, or dorme, or leva ed or ragiona, or vagheggia il suo colle, or con l'umana sua maniera trattiene ogni persona. — Cosí, signor, bench'io vi sia lontana, sí fattamente Amor mi punge e sprona, ch'ogni vostr'opra m' è presente e piana. Se 'l cielo ha qui di noi perpetua cura, e partisce ad ognun, come conviene, che maraviglia è, s'a me dié pene, e mi dié vita dispietata e dura? e se 'l mio sol di me poco si cura? se mi vede morir e lo sostiene? Ei vince il sol con sue luci serene, illustre e bel per studio e per natura. A lui convien regnare, a me servire, vil donna e bassa; e parmi ancora troppo ch'egli non sdegni il mio per lui patire. Queste ragioni ed altre insieme aggroppo meco talor, per dar tregua al martíre col desir sempre presto e 'l poter zoppo. Sí come tu m'insegni a sospirare, arder di fiamma tal, che Etna pareggia, pianger di pianto tal, che se n'aveggia omai quest'onda e cresca questo mare, insegnami anche, Amor, tu che 'l puoi fare, come men duro il mio signor far deggia, come, quando adivien che pietá chieggia, possa placarlo al suon del mio pregare. Ch'io ti perdono e danni e strazi e torti, che tu m' hai fatto e fai, tanti e sí gravi, ch' io non so come il ciel te lo comporti; perché non fia piú pena che m'aggravi; ur ch' io faccia pietosi e faccia accorti gli occhi che del mio cor hanno le chiavi. Larghe vene d'umor, vive scintille, che m'ardete e bagnate in acqua e 'n fiamma, sí che di me omai non resta dramma, che non sia tutta pelaghi e faville, fate che senta almeno una di mille aspre mie pene chi mi lava e 'nfiamma, né di foco che m'arda sente squamma, né d'umor goccia che dagli occhi stille. — Non son — mi dice Amor — le ragion pari; egli è nobile e bel, tu brutta e vile; egli larghi, tu hai li cieli avari. Gioia e tormento al merto tuo simile convien ch'io doni. — In questi stati vari io peno, ei gode; Amor segue suo stile. Piangete, donne, e con voi pianga Amore, poi che non piange lui, che m' ha ferita sí, che l'alma fará tosto partita da questo corpo tormentato fuore. E, se mai da pietoso e gentil core l'estrema voce altrui fu essaudita, dapoi ch' io sarò morta e sepelita, scrivete la cagion del mio dolore: Per amar molto ed esser poco amata visse e morí infelice, ed or qui giace la piú fidel amante che sia stata. Pregale, viator, riposo e pace, ed impara da lei, sí mal trattata, a non seguir un cor crudo e fugace. Io vorrei pur ch'Amor dicesse come debbo seguirlo, e con qual arte e stile possa sperar di far chi m'arde umíle, o diporr'io queste amorose some. Io ho le forze omai sí fiacche e dome, sí paventosa son tornata e vile, che, quasi ad Eco imagine simíle, di donna serbo sol la voce e 'l nome; né, perché le vestigia del mio sole io segua sempre, come fece anch'ella, e risponda a l'estreme sue parole, posso indur la mia fiera e dura stella ad oprar sí ch'ei, crudo come suole, s'arresti al suon di mia stanca favella. Se poteste, signor, con l'occhio interno penetrar i segreti del mio core, come vedete queste ombre di fuore apertamente con questo occhio esterno, vi vedreste le pene de l'inferno, un abisso infinito di dolore, quanta mai gelosia, quanto timore Amor ha dato o può dar in eterno. E vedreste voi stesso seder donno in mezzo a l'alma, cui tanti tormenti non han potuto mai cavarvi, o ponno; e tutti altri disir vedreste spenti, od oppressi da grave ed alto sonno, e sol quei d'aver voi desti ed ardenti. Straziami, Amor, se sai, dammi tormento, tommi pur lui, che vorrei sempre presso, tommi pur, crudo e disleal, con esso ogni mia pace ed ogni mio contento, fammi pur mesta e lieta in un momento, dammi piú morti con un colpo stesso, fammi essempio infelice del mio sesso, che per ciò di seguirti non mi pento. Perché, volgendo a quei lumi il pensiero, che vicini e lontani mi son scorta per l'aspro, periglioso tuo sentiero, move da lor virtú, che 'l cor conforta sí che, quanto piú sei crudele e fiero, tanto piú facilmente ei ti comporta. Due anni e piú ha giá voltato il cielo, ch'io restai presa a l'amoroso visco per una beltá tal, che, dirlo ardisco, simil mai non si vide in mortal velo: per questo io la divolgo, e non la celo, e non mi pento, anzi glorio e gioisco; e, se donna giamai gradi, gradisco questa fiamma amorosa e questo gelo; e duolmi sol, se sará mai quell'ora, che da me si disciolga e leghi altronde la beltá ch'ogni cosa arde e inamora. E, se Morte a chi prega unqua risponde, la prego che permetta, anzi ch' io mora, che non vegga d'altrui l'amata fronde. Mentr' io penso dolente a l'ora breve, che del suo lume fien mie luci prive, questi lidi lo sanno e queste rive, io mi disfaccio com'al sol la neve; e quel che par che piú m'annoi e aggreve, è che 'l termine mio tant'oltra arrive, e che prima di vita non mi prive morte, a tutt'altri grave, a me sol lieve. Ché, s' io morissi innanzi a tanta doglia, l'anima andrebbe altrove consolata, lasciando qui la sua terrena spoglia; ma fortuna ed Amor m'hanno lasciata, perché morend'ognora piú mi doglia, questa vita penosa che m' è data. A che pur dir, o mio dolce signore, ch'esca frutto da me di lode degno, a che alzarmi a sí gradito segno, a che scrivendo procacciarmi onore, se da quel dí, ch'entrar mi fece Amore con l'arme de' vostr'occhi entro 'l suo regno, voi movete lo stil, l'arte, l'ingegno, sensi, spirti, pensier, voglie, alma e core? Se da me dunque nasce cosa buona, è vostra, non è mia: voi mi guidate, a voi si deve il pregio e la corona. Voi, non me, da qui indietro omai lodate di quanto per me s'opra e si ragiona; ché l' ingegno e lo stil, signor, mi date. Deh lasciate, signor, le maggior cure d'ir procacciando in questa etá fiorita con fatiche e periglio de la vita alti pregi, alti onori, alte venture; e in questi colli, in queste alme e sicure valli e campagne, dove Amor n' invita, viviamo insieme vita alma e gradita, fin che 'l sol de' nostr'occhi alfin s'oscure. Perché tante fatiche e tanti stenti fan la vita piú dura, e tanti onori restan per morte poi subito spenti. Qui coglieremo a tempo e rose e fiori, ed erbe e frutti, e con dolci concenti canterem con gli uccelli i nostri amori. Quella febre amorosa, che m'atterra due anni e piú, e quel gravoso incarco ch' io sento, poi ch'Amor mi prese al varco di duo begli occhi, onde l'uscir mi serra, potea bastare a farmi andar sotterra, lasciar lo spirto del suo corpo scarco, senza voler ch'oltra i suoi strali e l'arco, altra febre, altro mal mi fesse guerra. Padre del ciel, tu vedi in quante pene questo misero spirto e questa scorza a tormentare Amor e febre viene. Di queste febri o l'una o l'altra smorza, ché due tanti nemici non sostiene donna sí frale e di sí poca forza. Care stelle, che tutte insieme insieme con Cupido e Ciprigna vaghe e pronte deste il mio cor a quell'altero conte, che per premio m' ha poi tolto la speme, poi che vedete ch'ei, che nulla teme, contra voi, contra me alza la fronte, vendicate le vostre e le mie onte con vendette piú crude e piú supreme. E questo sia non che 'l mio cor mi renda, ma mi dia il suo, e rendami la spene, e cosí si dia otta per vicenda. Fate che 'n quelle ond' io son or catene presa e legata, il conte i' leghi e prenda: questo strazio al superbo si convene. Verso il bel nido, ove restai partendo, ove vive di me la miglior parte, quando il sol faticoso torna e parte, mai sempre l'ale del disir io stendo. E me ad or ad or biasmo e riprendo, ch'a star con voi non usai forza ed arte, sapendo che, da voi stando in disparte, ben mille volte al dí moro vivendo. La speme mosse il mio dubbioso piede, che deveste venir tosto a vedermi, per arrestar questa fugace vita. Osservate, signor, la data fede: fate, venendo, questi lidi, or ermi, cari e gioiosi, e me lieta e gradita. Se 'l fin degli occhi miei e del pensiero è 'l vedervi e di voi pensar, mia vita, poi l'un mi tolse l'empia dipartita ch'io fei da voi per non dritto sentiero, l' imagin del sembiante vostro vero mi sta sempre nel cor fissa e scolpita, qual donna in parte, ove sia piú gradita che gemme oriental, oro od impero. Ma, perché l' alma disiosa e vaga, troppo aggravata d'amorosa sete, di questo sol rimedio mal s'appaga, fate le luci mie gioiose e liete, signor, di vostra vista, e questa piaga saldate, che voi sol saldar potete. Quando mostra quest'occhi Amor le porte de l' immensa bellezza ed infinita de l'unico mio sol, l'alma invaghita de le sue glorie par che si conforte. Quando poi mostra a la memoria a sorte quelle di crudeltá mai non udita, tutta a l' incontro afflitta e sbigottita resta preda ed imagine di morte. E cosí vita e morte, e gioie e pene, e temenza e fidanza, e guerra e pace per le tue mani, Amor, d'un luogo viene. Né questo vario stato mi dispiace, sí son dolci i martíri e le catene; ma temo che sará breve e fugace. Occhi miei lassi, non lasciate il pianto, come non lascian me téma e spavento di veder tosto a noi rubato e spento il lume ch'amo e riverisco tanto. Pregate morte, se si può, fra tanto che mi venga essa a cavar fuor di stento; perché morir a un tratto è men tormento, che viver sempre a mille morti a canto. Io direi che pregaste prima Amore che facesse cangiar voglia e pensiero al nostro crudo e disleal signore; ma so che saria invan, perché sí fiero, cosí indurato ed ostinato core non ebbe mai illustre cavaliero. S'una vera e rarissima umiltate, una fé piú che marmo e scoglio salda, una fiamma ch'abbrucia, non pur scalda, un non curar de la sua libertate, un, per piacere a le due luci amate, aver l'alma al morir ardita e balda, un liquefarsi come neve in falda mertan per tempo omai trovar pietate, io devrei pur sperar d'aprir lo scoglio, ch' intorno al core ha il mio signor sí sodo, ch' altrui pregare o strazio anco non franse. Ed io ne prego ardente, come soglio, Amor e lui, che m'hanno stretto il nodo, e san quanto per me si piange e pianse. Io accuso talora Amor e lui ch' io amo: Amor, che mi legò sí forte; lui, che mi può dar vita e dammi morte, cercando tôrsi a me per darsi altrui; ma, meglio avista, poi scuso ambedui, ed accuso me sol de la mia sorte, e le mie voglie al voler poco accorte, ch' io de le pene mie ministra fui. Perché, vedendo la mia indegnitade, devea mirar in men gradito loco, per poterne sperar maggior pietade. Fetonte, Icaro ed io, per poter poco ed osar molto, in questa e quella etade restiamo estinti da troppo alto foco. Poi che disia cangiar pensiero e voglia l'empio signor, ch'onoro ed amo tanto, senza curar de' fiumi del mio pianto, e del mancar de la mia frale spoglia, io prego morte, che di qua mi toglia, perché non abbia questo crudo il vanto; o prego Amor, che mi rallenti alquanto, poi che de' doni suoi tutta mi spoglia; sí che o morta non vegga tanto danno, o viva e sciolta non lo stimi molto, allor che gli occhi altro mirar sapranno. Dunque o sia falso il mio temere e stolto, o resti sciolta al rinovar de l'anno, o queti il corpo in bel marmo sepolto. Che bella lode, Amor, che ricche spoglie avrai d'una infiammata giovenetta, che t' è stata sí fida e sí soggetta, seguendo piú le tue che le sue voglie, se per te cosí tosto si discioglie da la catena, che l'aveva stretta, la qual le piace sí, sí le diletta, ch'a penar dolcemente par l' invoglie? Non conviene ad un dio l'esser sí lieve, massimamente quando il cangiar stato non è diletto altrui, ma doglia greve. Ma tu pur segui il tuo costume usato, e fai la gioia mia fugace e breve, ritogliendomi il ben che m'hai donato. A che piú saettarmi, arcier spietato? Se tu lo fai per mostrar la tua forza, io ho giá tutto dentro e ne la scorza questo misero corpo arso e 'mpiagato. Se tu lo fai per farmi un dí placato chi la mia libertá mi lega e smorza, tu speri invan, perché tua poggia ed orza nulla rileva il suo legno ostinato. Egli si pasce del mio crudo strazio, quanto è maggior, e de l'aspre mie pene, non pur che mai ne sia pentito e sazio; ed in una gran téma mi mantiene che, fatto d'altra donna, in breve spazio mi torrá le sue luci alme e serene. Fammi pur certa, Amor, che non mi toglia tempo, fortuna, invidia o crudeltade la mia viva ed angelica beltade, quella ch'appaga e queta ogni mia voglia; e dammi quanto sai tormento e doglia: che tutto mi sará gioia e pietade; tommi riposo, tommi libertade, e, se ti par, tommi anco questa spoglia: che per certo io morrò lieta e contenta, morendo sua, pur che non vegga io ch'ella sia fatta d'altra donna, o senta. Questa sol téma turba il piacer mio, questa fa ch'a' miei danni non consenta, e fa la speme ritrosa al desio. Voi potete, signor, ben tôrmi voi con quel cor d' indurato diamante, e farvi d'altra donna novo amante: di che cosa non è, che piú m'annoi; ma non potete giá ritôrmi poi l' imagin vostra, il vostro almo sembiante, che giorno e notte mi sta sempre innante, poi che mi fece Amor de' servi suoi; non potete ritôrmi quei desiri, che m'acceser di voi sí caldamente, il foco, il pianto, che per gli occhi verso. Questi mi fien ne' miei gravi martiri dolce sostegno, e la memoria ardente del diletto provato, c' han disperso. S'una candida fede, un cor sincero, una gran riverenza, una infinita voglia a servir altrui pronta ed ardita, un servo grato al suo signor mai fêro, devrebbe pur, signor, l'affetto vero e la mia fede esser da voi gradita, se i vostri onor piú cari che la vita mi fûr mai sempre, e piú ch'oro ed impero. Ma poi che mia fortuna mi contende mercé sí giusta, poi che a sí gran torto a schivo il servir mio da voi si prende, ciò ch'a voi piace paziente porto, sperando pur che Dio, che tutto intende, vi faccia un dí de la mia fede accorto. Cantate meco, Progne e Filomena, anzi piangete il mio grave martíre, or che la primavera e 'l suo fiorire i miei lamenti e voi, tornando, mena. A voi rinova la memoria e pena de l'onta di Tereo e le giust' ire; a me l'acerbo e crudo dipartire del mio signore morte empia rimena. Dunque, essendo piú fresco il mio dolore, aitatemi amiche a disfogarlo, ch' io per me non ho tanto entro vigore. E, se piace ad Amor mai di scemarlo, io piangerò poi 'l vostro a tutte l'ore con quanto stile ed arte potrò farlo. Una inaudita e nova crudeltate, un esser al fuggir pronto e leggiero, un andar troppo di sue lodi altero, un tôrre ad altri la sua libertate, un vedermi penar senza pietate, un aver sempre a' miei danni il pensiero, un rider di mia morte quando pèro, un aver voglie ognor fredde e gelate, un eterno timor di lontananza, un verno eterno senza primavera, un non dar giamai cibo a la speranza m' han fatto divenir una Chimera, uno abisso confuso, un mar, ch'avanza d' onde e tempeste una marina vera. Quasi uom che rimaner de' tosto senza il cibo, onde nudrir suol la sua vita, piú dell'usato a prenderne s'aita, fin che gli è presso posto in sua presenza; convien ch' innanzi a l'aspra dipartenza ch'a sí crudi digiuni l'alma invita, ella piú de l'usato sia nodrita, per poter poi soffrir sí dura assenza. Però, vaghi occhi miei, mirate fiso piú de l'usato, anzi bevete il bene e 'l bel del vostro amato e caro viso. E voi, orecchie, oltra l'usato piene restate del parlar, ché 'l paradiso certo armonia piú dolce non contiene. Se voi vedete a mille chiari segni che tanto ho cara, e non piú, questa vita, quant' è con voi, quant' è da voi gradita, ultimo fin de tutti i miei disegni, a che pur con nov'arte e novi ingegni darmi qualche novella aspra ferita, tramando or questa, or quella dipartita, quasi ogni pace mia da voi si sdegni? Se volete ch' io mora, un colpo solo m'uccida, sí ch'omai si ponga fine al dispiacervi, al vivere ed al duolo; perché cosí sta sempre sul confine di morte l'alma, e mai non prende il volo, pensando pur a voi, luci divine. Poi che tu mandi a far tanta dimora, empia Fortuna, in sí lontan paese il chiaro e vivo raggio che m'accese, empia ed aversa a' miei disiri ognora, conveniente e giusto e degno fôra che tu mi fossi almen tanto cortese, che quest'ore sí brevi avesse spese qui meco tutte lui che m' innamora; sí che 'l cor e gli orecchi e gli occhi insieme prendesser cibo a sostenermi in vita quel lungo tempo poi ch'ei fia lontano. Ma tu stai dura, ed io mi doglio invano, dal ciel, da te e poi d'Amor tradita: però l'alma di ciò sospira e geme. Perché mi sii, signor, crudo e selvaggio, disdegnoso, inumano ed inclemente, perché abbi vòlto altrove ultimamente spirto, pensieri, cor, anima e raggio, non per questo adivien che 'l foco, ch'aggio nel petto acceso, si spenga o s'allente; anzi si fa piú vivo e piú cocente, quant'ha da te piú strazi e fiero oltraggio. Ché, s' io t'amassi come l'altre fanno, t'amerei solo e seguirei fin tanto ch' io ne sentissi utile, e non danno; ma per ciò ch'amo te, amo quel santo lume, che gli occhi miei visto prima hanno, convien ch' io t'ami a l'allegrezza e al pianto. Meraviglia non è, se 'n uno istante ritraeste da me pensieri e voglie, ché vi venne cagion di prender moglie, e divenir marito, ov'eri amante. Nodo e fé, che non è stretto e costante, per picciola cagion si rompe e scioglie: la mia fede e 'l mio nodo il vanto toglie al nodo gordiano ed al diamante. Però non fia giamai che scioglia questo e rompa quella, se non cruda morte, la qual prego, signor, che venga presto; sí ch' io non vegga con le luci scorte quello ch'or col pensier atro e funesto mi fa veder la mia spietata sorte. Certo fate gran torto a la mia fede, conte, sovra ogni fé candida e pura, a dir che 'n Francia è piú salda e piú dura la fé di quelle donne a chi lor crede. Se, come Amor ch' i pensier dentro vede, e passa ov'occhio uman non s'assicura, penetraste anco voi per mia ventura ove l' imagin vostra altera siede, voi la vedreste salda come scoglio, immobilmente appresso del mio core, e diporreste meco il vostro orgoglio. Ma voi vedete sol quel ch'appar fuore: per questo io resto, misera, uno scoglio, e voi credete poco al mio dolore. Diversi effetti Amor mi fe' vedere poco anzi: or mi pascea di gelosia, dimostrandomi quanto lieve sia creder suo quel ch'a molte può piacere; or mi pascea di speme e di piacere, mostrandomi la fé mai sempre pria salda e costante de la gloria mia, e le promesse sue secure e vere. Per questo or fra tempeste, or fra bonaccia guidai la barca mia dubbia e sicura, vedendo Amor or fosco, or chiaro in faccia. Or la speranza piú non m'assicura, e la temenza vuol ch' io mi disfaccia. Dir piú non oso, e sallo chi n'ha cura. La vita fugge, ed io pur sospirando trapasso, lassa, il piú degli anni miei, né di passarli ardendo mi dorrei, a la cagion de' miei sospir mirando; se non che non so punto il come o 'l quando den le mie gioie dar luogo agli omei; ché forse a poco a poco m'userei ad andar le mie pene sopportando. Anzi, misera, io so che sará tosto, ché per partenza o per cangiar volere il fin de' miei piacer non è discosto. E, perch'Amor mel faccia prevedere, non è per questo il mio petto disposto a poter tanta doglia sostenere. Deh consolate il cor co' vostri rai questo almen poco spazio, che m'avanza de la vostra vicina lontananza, ch' io non vedrò con gli occhi asciutti mai. Lasciate i vostri amati colli e gai, a voi sí cara e a me nemica stanza, colli, c'hanno imparato per usanza a farmi oltraggio sí sovente omai. Giá senza voi non fia manco fiorita la chioma de' bei colli, dov' io forsi resterò, senza voi, senza la vita. Che cosa è, conte, a la pietate opporsi, se non negare a chi dimanda aita i suoi pietosi, i suoi dolci soccorsi? Io non trovo piú rime, onde piú possa lodar vostra beltá, vostro valore, e contare i tormenti del mio core; sí cresce a quelli e a me manca la possa. E, quasi fiamma che sia dentro mossa, e non possa sfogar l' incendio fore, questo interno disio cresce 'l dolore, e mi consuma le midolle e l'ossa; sí che fra tutti i beni e tutti i mali, ch'Amor suol dar, io ho questo vantaggio, che quanti sien ridir non posso, e quali. Dunque, o tu, vivo mio lucente raggio, dammi vigore, o tu dammi, Amor, l'ali, ch' io saglia a mostrar fuor quel che 'n cor aggio. Io penso talor meco quanto amaro fôra il mio stato, se per qualche sdegno, o per stimarsi il mio signor piú degno, mi ritogliesse il suo bel lume e chiaro; e mi risolvo che 'l vero riparo, quando ad essaminar ben tutto vegno, per finire i miei mal tutti ad un segno, saria di morte il colpo aspro ed avaro. Ché, s' io restassi in vita, gli occhi e 'l core, la speranza, il disio mi farian guerra, che prendon sol da lui ésca e vigore; dove, s' io fossi morta e posta in terra, si porria fin ad un tratto al dolore, ch' è vita morte che piú morti atterra. — Che fia di me — dico ad Amor talora, — poi che del mio signor gli occhi sereni lasseran questi miei di pianto pieni, fatto esso d'altri infin a l'ultim'ora? — Che fia di me — mi rispond'egli allora, — ch'arco e saette e faci e teme e speni tengo in quegli occhi, e tutti altri miei beni, né mai ritrarli io ho potuto ancora? D' indi soglio infiammar, d' indi ferire; or, se come tu di', ce li ritoglie, caduta è la mia gloria e 'l nostro ardire. — In queste amare e dispietate voglie restiam noi due, ed ei segue di gire carco e superbo de le nostre spoglie. Se gran temenza non tenesse a freno la mia lingua bramosa e 'l mio disio, sí ch' io potessi dire al signor mio come amando e temendo io vengo meno, io spererei che quel di grazie pieno viso leggiadro, onde tutt'altro oblio, quant' è 'l mio stato travagliato e rio, tanto lo fesse un dí chiaro e sereno; e quello, onde m'avinse e strinse, nodo non cercherebbe, lassa, di slegarlo, allor che piú credea che fosse sodo. Ma per troppo timor non oso farlo: cosí dentro al mio cor mi struggo e rodo, e sol con meco e con Amor ne parlo. Quasi vago e purpureo giacinto, che 'n verde prato, in piaggia aprica e lieta, crescendo ai raggi del piú bel pianeta, che lo mantien degli onor suoi dipinto, subito torna languidetto e vinto, sí che mai non si vide tanta pièta, se di veder gli usati rai gli vieta nube, che 'l sol abbia coperto e cinto; tal la mia speme, ch'ognor s'erge e cresce, dinanzi a' rai de la beltá infinita, onde ogni sua virtute e vigor esce. Ma la ritorna poi fiacca e smarrita oscura téma, che con lei si mesce, che la sua luce tosto fia sparita. Lassa, in questo fiorito e verde prato de le delizie mie, fra sí fresca erba, onde, la tua mercé, vo sí superba, Amor, poi che 'l mio sol m' hai ritornato, per quel ch'a certi segni m' è mostrato, un empio e venenoso aspe si serba, per far la vita mia di dolce acerba e avelenarmi il mio felice stàto. Il che se de' seguir, prego che priva mi faccia morte e di vita e di senso, prima che questa téma giunga a riva; perch'a dover provar dolor sí immenso, assai meglio è morir che restar viva, se le provate mie doglie compenso. Acconciatevi, spirti stanchi e frali, a sostener la perigliosa guerra e 'l colpo, che fortuna empia disserra, da noi partendo i lumi miei fatali. Quanti avete fin qui tormenti e quali sofferti, poi che crudo Amor n'atterra, son sogni ed ombre, a lato a quei che serra questa seconda assenzia strazi e mali. Perché contra il dolor mi fece ardita un poco di virtú, che aveva allora che fece il mio signor l'altra partita; or, essendo mancata quella ancora, ed essendo cresciuta la ferita, altro schermo non ho, se non ch' io mora. Comincia, alma infelice, a poco a poco a ricever di fiera sorte il colpo, a cui pensando sol mi snervo e spolpo, ed in guai si converte ogni mio gioco. L'alta cagion del nostro chiaro foco partirá tosto; di che, lassa, io scolpo Amore, e 'l crudo mio signor incolpo, sí veloce a cangiar pensier e loco. Sí che, quando si parte e torna il sole, non vegga l'occhio tuo di pianto asciutto, poi che, dove si può, cosí si vuole; ch'un cor saldo e costante vince il tutto, e morte alfine, o'l tempo, come suole, ti trarran fuor di vita e fuor di lutto. Amor, lo stato tuo è proprio quale è una ruota, che mai sempre gira, e chi v'è suso or canta ed or sospira, e senza mai fermarsi or scende or sale. Or ti chiama fedele, or disleale; or fa pace con teco, ed or s'adira; ora ti si dà in preda, or si ritira; or nel ben teme, ed or spera nel male; or s'alza al cielo, or cade ne l'inferno; or è lunge dal lido, or giunge in porto; or trema a mezza state, or suda il verno. Io, lassa me, nel mio maggior conforto sono assalita d'un sospetto interno, che mi tien sempre il cor fra vivo e morto. Se quel grave martí che'l cor m'afflige, non temprasse talor cortese Amore, giá mi sarei di vita uscita fuore. e varcato averei Cocito e Stige; ma, perché quant'ei piú m'ange e trafige, tanto la gioia poi tempra l'ardore, tenendo sempre fra due, lassa, il core, né al sí, né al no l'alma s'affige. Cosi d'ambrosia vivo e di veleno, né di vita o di morte sta sicura l'anima, ch'or s'aviva ed or vien meno. O strana, o nova, o insolita ventura, o petto di dolor e noia pieno, o diletto, o martír, che poco dura! — Chi dará lena a la tua stanca vita — talor dentro nel cor mi dice Amore, — or che chi ti suol dar lena e vigore s'apparecchia di far da te partita? — Pensando a ciò, si a lagrimar m'invita questo vero e giustissimo dolore, che sarei giá di vita uscita fore, se non che 'l raggio di chi può m'aita. E rimango pregando o lui o Morte: lui, che non parta, o lei, che a me ne vegna, sí ch'ei vegga presente tanta pièta. Ma al mio gridare e al mio pregar sí forte di risponder né questa né quel degna, e la sua aita ognun di lor mi vieta. Voi vi partite, conte, ed io, qual soglio, mi rimango di duol preda e di morte, e questa o quello ingiurioso e forte userá contra me l'usato orgoglio. Né potrò farmi a' colpi loro scoglio, non avendo con me chi mi conforte, il vostro viso e le due fide scorte, che ne' perigli per iscudo toglio. Deh, foss'io certa almen che di due cose seguisse l'una: o voi tornaste presto, o fossero anche in voi fiamme amorose! Ché mi sarebbe schermo e quello e questo in far meno l'assenzie mie penose, e 'l vostro dipartir meno molesto. Ecco, Amor, io morrò, perché la vita si partirá da me, e senza lei tu sei certo ch'io viver non potrei, ché saria cosa nova ed inaudita. Quanto a me, ne sarò poco pentita, perché la lunga istoria degli omei, de' sospir, de' martir, de' dolor miei sará per questo mezzo almen finita: mi dorrá sol per conto tuo, che poi non avrai cor sí saldo e sí costante, dove possi aventar gli strali tuoi; e le vittorie tue, le tante e tante tue glorie perderanno i pregi suoi, al cader di sí fida e salda amante. Chi 'l crederia? Felice era il mio stato, quando a vicenda or doglia ed or diletto, or téma, or speme m'ingombrava il petto, e m'era il cielo or chiaro ed or turbato; perché questo d'Amor fiorito prato non è a mio giudicio a pien perfetto, se non è misto di contrario effetto, quando la noia fa il piacer piú grato. Ma or l'ha pieno sí di spine e sterpi chi lo può fare, e svelti i fiori e l'erba, che sol v'albergan venenosi serpi. O fé cangiata, o mia fortuna acerba! Tu le speranze mie recidi e sterpi: la cagion dentro al petto mio si serba. Se soffrir il dolore è l'esser forte, e l'esser forte è virtú bella e rara, ne la tua corte, Amor, certo s'impara questa virtú piú ch'in ogn'altra corte, perché non è chi teco non sopporte de' dolori e di téme le migliara per una luce in apparenza chiara, che poi scure ombre e tenebre n'apporte. La continenzia vi s'impara ancora, perché da quello, onde s'ha piú disio, per riverenza altrui s'astien talora. Queste virtuti ed altre ho imparate io sotto questo signor, che sí s'onora, e sotto il dolce ed empio signor mio. Signor, ite felice ove 'l disio ad or ad or piú chiaro vi richiama a far volar al ciel la vostra fama. secura da la morte e da l'oblio: ricordatevi sol come rest'io, solinga tortorella in secca rama, che senza lui, che sol sospira e brama, fugge ogni verde pianta e chiaro rio. Al mio cor fate cara compagnia, il vostro ad altra donna non donate, poi che a me sí fedel nol deste pria. Sopra tutto tornar vi ricordate, e, s'avien che fia quando estinta io sia, de la mia rara fé non vi scordate. Al partir vostro s'è con voi partita ogni mia gioia ed ogni mia speranza, l'ardir, la forza, il core e la baldanza, e poco men che l'anima e la vita: e restò sol, piú che mai fosse ardita, l'importuna ed ardente disianza, la quale in questa vostra lontananza mi dá, misera me! doglia infinita. E, se da voi non vien qualche conforto o di lettra o di messo o di venire, certo, signor, il viver mio fia corto; perché in amor non è altro il morire, per quel ch'a mille e mille prove ho scorto, che aver poca speranza e gran disire. — È questa quella viva e salda fede, che promettevi a la tua pastorella, quando, partendo a la stagion novella, n'andasti ove 'l grande re gallico siede? O di quanto il sol scalda e quanto vede perfido, ingrato in atto ed in favella; misera me, che ti divenni ancella per riportarne sí scarsa mercede! — Cosí l'afflitta e misern Anassilla lungo i bei lidi d'Adria iva chiamando il suo pastor, da cui 'l ciel dipartilla; e l'acque e l'aure, dolce risonando, allor che 'l sol piú arde e piú sfavilla, i suoi sospir al ciel givan portando. Poi che per mio destin volgeste in parte piedi e voler, onde perdei la spene di riveder piú mai quelle serene luci, c'ho giá lodate in tante carte, io mi volsi al gran Sole, e con quell'arte e quella luce, che da lui sol viene, trassi fuor da le sirti e da l'arene il legno mio per via di remi e sarte. La ragion fu le sarte, e i remi fûro la volontá, che a l'ira ed a l'orgoglio d'Amor si fece poi argine e muro. Cosi, senza temer di dar in scoglio, mi vivo in porto omai queto e sicuro; d'un sol mi lodo, e di nessun mi doglio. Ardente mio disir, a che, pur vago de' nostri danni, in parte stendi l'ale, ov'è cui de' miei strazi poco cale, e del mio trar fuor di quest'occhi un lago? Ben si può del mio stato esser presago il partir de la speme fiacca e frale, e la memoria, che sí poco assale quel de le voglie mie tiranno e mago. Egli a novi diletti aperto ha 'l seno, e di me si fedele ha quella cura, che di chi non si vede e' si può meno. Dunque tu di tornar a me procura, ché 'l turbar la mia pace e 'l mio sereno è troppo intempestiva cosa e dura. Virtuti eccelse e doti illustri e chiare, ch'alzate al cielo il mio real signore, sol co' passi di gloria e d'alto onore giá giunto in parte, ove non ha piú pare; voi, voi sol voglio volgermi ad amare, temprando il mio focoso e cieco amore, guidato sol da tenebre ed errore, ove ambedue potrá forse annoiare. Or, racquistato alquanto del mio lume, potrò specchiarmi in quel bel raggio ardente, che da prima m'elessi per mio nume; e di cibo miglior pascer la mente, dove io pasceva i sensi per costume di cosa, che si fugge via repente. Quel disir, che fu giá caldo ed ardente a bellezza seguir fugace e frale, l'alta mercé di Dio, prese ha giá l'ale, ed è rivolto a piú fido oriente, seguendo del mio conte solamente quella interna bellezza e senza eguale, che con fortuna non scende e non sale, e del tempo e d'altrui cura niente. Da qui indietro il suo sommo valore, la cortesia e 'l saggio alto intelletto, d'alte opre vago e di perpetuo onore, saran piú degna fiamma del mio petto, e piú degno ricetto del mio core, e de le rime mie piú degno oggetto. Canta tu, musa mia, non piú quel volto, non piú quegli occhi e quell'alme bellezze, che 'l senso mal accorto par che prezze, in quest'ombre terrene impresso e involto; ma l'alto senno in saggio petto accolto, mille tesori e mille altre vaghezze del conte mio, e tante sue grandezze, ond'oggi il pregio a tutti gli altri ha tolto. Or sará il tuo Castalio e 'l tuo Parnaso non fumo ed ombra, ma leggiadra schiera di virtú vere, chiuse in nobil vaso. Quest'è via da salir a gloria vera, questo può farti da l'orto a l'occaso e di verace onor chiara ed altera. Poi che m'hai resa, Amor, la libertade, mantiemmi in questo dolce e lieto stato, sí che 'l mio cor sia mio, sí come è stato ne la mia prima giovenil etade; o, se pur vuoi che dietro a le tue strade, amando, segua il mio costume usato, fa' ch'io arda di foco piú temprato, e che, s'io ardo, altrui n'abbia pietade; perché mi par veder, a certi segni, che ordisci novi lacci e nove faci, e di ritrarmi al giogo tuo t'ingegni. Serbami, Amor, in queste brevi paci, Amor, che contra me superbo regni, Amor, che nel mio mal sol ti compiaci. Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in foco, qual nova salamandra al mondo, e quale l'altro di lei non men stranio animale, che vive e spira nel medesmo loco. Le mie delizie son tutte e 'l mio gioco viver ardendo e non sentire il male, e non curar ch'ei che m'induce a tale abbia di me pietá molto né poco. A pena era anche estinto il primo ardore, che accese l'altro Amore, a quel ch'io sento fin qui per prova, piú vivo e maggiore. Ed io d'arder amando non mi pento, pur che chi m'ha di novo tolto il core resti de l'arder mio pago e contento. Io non veggio giamai giunger quel giorno, ove nacque Colui che carne prese, essendo Dio, per scancellar l'offese del nostro padre al suo Fattor ritorno, che non mi risovenga il modo adorno, col quale, avendo Amor le reti tese fra due begli occhi ed un riso, mi prese: occhi, ch'or fan da me lunge soggiorno; e de l'antico amor qualche puntura io non senta al desire ed al cor darmi, sí fu la piaga mia profonda e dura. E, se non che ragion pur prende l'armi e vince il senso, questa acerba cura sarebbe or tal che non potrebbe aitarmi. Veggio Amor tender l'arco, e novo strale por ne la corda e saettarmi il core, e, non ben saldo ancor l'altro dolore, nova piaga rifarmi e novo male; e sí il suo foco m'è proprio e fatale, sí son preda e mancipio ognor d'Amore, che, perché l'alma vegga il suo migliore, ripararsi da lui né vuol né vale. Ben è ver che la tela, che m'ordisce, sempre è di ricco stame; e quindi aviene che ne' suo; danni il cor père e gioisce; e 'l ferro è tale, onde a ferirmi or viene, che si può dir che chi per lui perisce prova sol una vita e sommo bene. Qual sagittario, che sia sempre avezzo trarre ad un segno, e mai colpo non falla, o da propria vaghezza tratto o dalla spene c'ha da ritrarne onore e prezzo, Amor, che nel mio mal mai non è sezzo, torna a ferirmi il cor, né mai si stalla, e la piaga or risalda apre e rifalla; né mi val s'io 'l temo o s'io lo sprezzo. Tanto di me ferir diletto prende, e tal n'attende e merca onor, ch'omai, per quel ch'io provo, ad altro non intende. Il vivo foco, ond'io arsi e cantai molti anni, a pena è spento, che raccende d'un altro il cor, che tregua non ha mai. Che farai, alma? ove volgerai il piede? qual sentier prenderai, che piú ti vaglia? Tornerai a seguir Amor, che smaglia ogni lorica, quando irato fiede? o, stanca e sazia de le tante prede fatte di te ne l'aspra sua battaglia, t'armerai sí che, perch'ei pur t'assaglia, non ti vincerá piú qual suole e crede? Il ritrarsi è sicuro, e 'l contrastare è glorioso; e l'ésca, che ci mostra, è tal, che può nocendo anco giovare. Non perde e non vince anco uom che non giostra: in queste imprese perigliose e rare si potria far maggior la gloria nostra. Un veder tôrsi a poco a poco il core, misera, e non dolersi de l'offesa; un veder chiaro la sua fiamma accesa negli altrui lumi e non fuggir l'ardore; un cercar volontario d'uscir fore de la sua libertá poco anzi resa; un aver sempre a l'altrui voglia intesa l'alma vaga e ministra al suo dolore; un parer tutto grazia e leggiadria ciò che si vede in un aspetto umano, se parli o taccia, o se si mova o stia, son le cagion ch'io temo non pian piano cada nel mar del pianto, ov'era pria, la vita mia; e prego Dio che 'nvano. La piaga, ch'io credea che fosse salda per la omai molta assenzia e poco amore di quell'alpestro ed indurato core, freddo piú che di neve fredda falda, si desta ad or ad ora e si riscalda, e gitta ad or ad or sangue ed umore; sí che l'alma si vive anco in timore, ch'esser devrebbe omai sicura e balda. Né, perché cerchi agiunger novi lacci al collo mio, so far che molto o poco quell'antico mio nodo non m'impacci. Si suol pur dir che foco scaccia foco; ma tu, Amor, che 'l mio martir procacci, fai che questo in me, lassa, or non ha loco. Qual darai fine, Amor, a le mie pene, se dal cenere estinto d'un ardore rinasce l'altro, tua mercé, maggiore, e si vivace a consumar mi viene? Qual ne le piú felici e calde arene, nel nido acceso sol di vario odore, d'una fenice estinta esce poi fore un verme, che fenice altra diviene. In questo io debbo a'tuoi cortesi strali, che sempre è degno ed onorato oggetto quello, onde mi ferisci, onde m'assali. Ed ora è tale e tanto e sí perfetto, ha tante doti a la bellezza eguali, che arder per lui m'è sommo, alto diletto. D'esser sempre ésca al tuo cocente foco e sempre segno a'tuoi pungenti strali, d'esser sempre ministra de' miei mali ed aver sempre i miei tormenti a gioco, io non mi doglio, Amor, molto né poco, poi che dal di, che 'l desri prese l'ali, mi son fatti i martir propri e fatali, e libertade in me non ha piú loco. Pur che tu mi conservi in questo stato, dov'or m'hai posta, e sotto quel signore, onde il cor novamente m'hai legato, o mi fia dolce, o tornerá minore quanto son per provar, quanto ho provato la sua rara bellezza e 'l suo valore. A che bramar, signor, che venga manco quel che avete di me disire e speme, s'Amor, poi che per lui si spera e teme, i piú giusti di lor non vide unquanco? Che vuol dir ch'ogni di divien piú franco quel che di voi desir m'ingombra e preme? La speme no, che par ch'ognor si sceme, vostra mercede, ond'io mi snervo e'mbianco. — Ama chi t'odia — grida da lontano, — non pur chi t'ama, — il Signor, che la via ci aperse in croce da salire al cielo. Riverite la sua possente mano, non cercate, signor, la morte mia, ché questo è 'l vero et a Dio caro zelo. Dove volete voi ed in qual parte voltar speme e disio che piú convegna, se volete, signor, far cosa degna di quell'amor, ch'io vo spiegando in carte? Forse a Dio? Giá da Dio non si diparte chi d'Amor segue la felice insegna: Ei di sua bocca propria pur c'insegna ad amar lui e 'l prossimo in disparte. Or, se devete amar, non è via meglio amar me, che v'adoro e che ho fatto del vostro vago viso tempio e speglio? Dunque amate, e servate, amando, il patto c'ha fatto Cristo; ed amando io vi sveglio che amiate cor, che ad amar voi sia atto. Ben si convien, signor, che l'aureo dardo Amor v'abbia aventato in mezzo il petto, rotto quel duro e quel gelato affetto, tanto a le fiamme sue ritroso e tardo, avendo a me col vostro dolce sguardo, onde piove disir, gioia e diletto, l'alma impiagata e 'l cor legato e stretto oltra misura, onde mi struggo ed ardo. Men dunque acerbo de' parer a vui esser nel laccio aviluppato e preso, ov'io si stretta ancor legata fui. Zelo d'ardente caritate acceso esser conviene eguale omai fra nui nel nostro dolce ed amoroso peso. Signor, poi che m'avete il collo avinto di sí tenace nodo e cosi forte, poi che a me piace, ed Amor vuol ch'io porte nel cor voi solo e nullo altro dipinto, a voi convien per quel gentil instinto, che natura e virtú v'han dato in sorte, volger pietoso le due fide scorte verso chi di suo grado avete vinto. Caritá, pace, fede ed umiltate sian le nostr'armi, onde si meni vita rado o non mai menata in altra etate. E sia chi dica: — O coppia alma e gradita, ben avesti le stelle amiche e grate, si dolcemente in un voler unita! A mezzo il mare, ch'io varcai tre anni fra dubbi venti, ed era quasi in porto, m'ha ricondotta Amor, che a si gran torto è ne' travagli miei pronto e ne' danni; e per doppiare a' miei disiri i vanni un sí chiaro oriente agli occhi ha pòrto, che, rimirando lui, prendo conforto, e par che manco il travagliar m'affanni. Un foco eguale al primo foco io sento, e, se in si poco spazio questo è tale, che de l'altro non sia maggior, pavento. Ma che poss'io, se m'è l'arder fatale, se volontariamente andar consento d'un foco in altro, e d'un in altro male?

MADRIGALI

— Dimmi per la tua face, Amor, e per gli strali, per questi, che mi dan colpi mortali, e quella, che mi sface, onde avien che non osi ferir il mio signore, altero de' tuoi strazi e del mio core, in sembianti pietosi? — Ove anniderò poi — mi risponde ei, — s'io perdo gli occhi suoi? Cosi m'impresse al core la beltá vostra Amor co' raggi suoi, che di me fuor mi trasse e pose in voi; or che son voi fatt'io, voi meco una medesma cosa sète, onde al ben, al mal mio, come al vostro, pensar sempre devete; ma pur, se al fin volete che 'l vostro orgoglio la mia vita uccida, pensate che di voi sète omicida. L'empio tuo strale, Amore, è piú crudo e piú forte assai che quel di Morte; ché per Morte una volta sol si more, e tu col tuo colpire uccidi mille, e non si può morire. Dunque, Amore, è men male la morte che 'l tuo strale. Io veggio spesso Amore girarsi intorno agli occhi chiari e vaghi, dolci del mio cor maghi, de l'amato e gradito mio signore. Quinci par che saetti, e sian gli strali suoi gioie e diletti: queste son armi, che dánno altrui vita in luogo di ferita. Sapete voi perché ognun non accende, e non empie d'amore, l'infinita beltá del mio signore? Però ch'ognun, com'io, non la comprende, a cui per sorte è dato vedervi quel, ch'a tant'altri è vietato; ché, se non fosse ciò, le pietre e l'erbe spirerebbeno ardore, e girian di tal fiamma alte e superbe. Se tu credi piacere al mio signore, come si vede chiaro, Amor empio ed avaro, poi che non gli hai pur tócco l'alma e 'l core; e, come è anche degno, poi che con gli occhi suoi mantieni 'l regno; perché vuoi pur ch'io moia? Per dargli biasmo e noia? biasmo d'esser crudele, avendo uccisa donna si fedele; noia, perché, se vive del mio strazio, chi lo fará poi sazio? Il cor verrebbe teco, nel tuo partir, signore, s'egli fosse piú meco, poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore. Dunque verranno teco i sospir miei, che sol mi son restati fidi compagni e grati, e le voci e gli omei; e, se vedi mancarti la lor scorta, pensa ch'io sarò morta. Qual fosse il mio martíre nel vostro dipartire, voi 'l potete di qui, signor, stimare, che mi fu tolto infin il lagrimare. E l'umor, che, per gli occhi uscendo fore, suol sfogarmi 'l dolore, in quell'amara e cruda dipartita mi negò la sua aita. O mio misero stato, d'altra donna non mai visto o provato, poi che quello, ond'Amor è sí cortese, nel maggior uopo a me sola contese! Signor, per cortesia, non mi dite che, quand'andaste via, Amor mi negò 'l pianto perché, vedendo in me giá spento il foco, l'acqua non v'avea loco per temperarlo alquanto; anzi dite piú tosto che fu tanto in quel punto l'ardore, che diseccò l'umore; e non potei mostrare l'acerba pena mia col lagrimare, per ciò che 'l corpo mio, d'ogni umor casso, o restò tutto foco, o tutto sasso. Le pene de l'inferno insieme insieme, appresso il mio gran foco, tutte son nulla o poco; perch'ove non è speme l'anima risoluta al patir sempre s'avezza al duol, che mai non cangia tempre. La mia è maggior noia, perché gusto talor ombra di gioia mercé de la speranza; e questa varia usanza di gioir e patire fa maggior il martire. Se 'l cibo, onde i suoi servi nutre Amore, è 'l dolore e 'l martire, come poss'io morire nodrita dal dolore? Il semplicetto pesce, che solo ne l'umor vive e respira, in un momento spira tosto che de l'acqua esce; e l'animal, che vive in fiamma e 'n foco, muor, come cangia loco. Or, se tu vòi ch'io moia, Amor, trammi di guai e pommi in gioia; perché col pianto, mio cibo vitale, tu non mi puoi far male. Beato insogno e caro, che sotto oscuro velo m'hai mostrato il mio felice stato, qual potrá ingegno chiaro, quant'io debbo e vorrei, giamai lodarte in vive voci o 'n carte? Io per me farò fede, dovunque esser potrá mia voce udita, che, sol la tua mercede, io son restata in vita. Deh, fará mai ritorno agli occhi miei quel vivo e chiaro lume, ond'io vivo e quei veggon per costume? Potran mai le mie lagrime e gli omei far molle chi di lor si pasce e vive, che sta da me lontano, e non mi scrive? Aspro e selvaggio core, quest' è la fé d'Amore? Conte, dov' è andata la fé sí tosto, che m'avete data? Che vuol dir che la mia è piú costante, che non era pria? Che vuol dir che, da poi che voi partiste, io son sempre con voi? Sapete voi quel che dirá la gente, dove forza d'Amor punto si sente? — O che conte crudele! o che donna fedele! Spesso ch'Amor con le sue tempre usate assal la vostra misera Anassilla, vi prenderia di lei, conte, pietate in vederla et udilla; perché le pene sue, i suoi cordogli rompono i duri scogli; ma voi state lontano, ed ella piange invano. Veggano Amore e 'l ciel, che 'l tutto vede, la vostra rotta e la sua salda fede. S'io credessi por fine al mio martire, certo vorrei morire; perché una morte sola non occide, consola. Ma temo, lassa me, che dopo morte l'amoroso martír prema piú forte; e questo posso dirlo, perché io moro piú volte, e pur cresce il disio. Dunque per men tormento di vivere e penar, lassa, consento. Con quai segni, signor, volete ch'io vi mostri l'amor mio, se, amando e morendo ad ora ad ora, non si crede per voi, lassa, ch'io mora? Aprite lo mio cor, ch'avete in mano, e, se l'imagin vostra non v'è impressa, dite ch'io non sia dessa; e, s'ella v'è, a che pungermi invano l'alma di sí crudi ami con dir pur ch'io non v'ami? Io v'amo ed amerò fin che le ruote girin del sol, e piú, se piú si puote; e, se voi nol credete, è perché crudo sète. Dal mio vivace foco nasce un effetto raro, che non ha forse in altra donna paro: che, quando allenta un poco, egli par che m'incresca, sí chiaro è chi l'accende e dolce l'ésca. E, dove per costume par che 'l foco consume, me nutre il foco e consuma il pensare che 'l foco abbia a mancare. Deh, perché soffri, Amor, che disiando la mia vivace fede resti senza mercede, anzi di vita e di me stessa in bando? S'io amo ed ardo fuor d'ogni misura, perché si prende a gioco l'amor mio e 'l mio foco chi mi vede morir e non ha cura? Gli orsi, i leoni e le piú crude fère move talor pietade di chi con umiltade nel maggior uopo suo mercé lor chiere; e quella cruda voglia, che vive di martíre, allor suol piú gioire, quand'avien ch'io piú sfaccia e piú m'addoglia.

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Donne, voi che fin qui libere e sciolte degli amorosi lacci vi trovate, onde son io e son tant'altre avolte, se di saper che cosa sia bramate quest'Amor, che signor ha fatto e dio non pur la nostra, ma l'antica etate, è un affetto ardente, un van disio d'ombre fallaci, un volontario inganno, un por se stesso e 'l suo bene in oblio, un cercar suo malgrado con affanno quel che o mai non si trova, o, se pur viene, avuto, arreca penitenzia e danno, un nutrir la sua vita sol di spene, un aver sempre mai pensieri e voglie di fredda gelosia, di dubbi piene, un laccio che s'allaccia e non si scioglie, quando altrui piace, un gir spargendo seme, di cui buon frutto mai non si ricoglie, una cura mordace, che 'l cor preme, un la sua libertate e la sua gioia e la sua pace andar perdendo insieme, un morir, né sentir perché si moia, un arder dentro d'un vivace ardore, un esser mesta e non sentir la noia, un mostrar quel ch'uom chiude dentr'e fore. un esser sempre pallido e tremante, un errar sempre e non veder l'errore, un avilirsi al viso amato innante, un esser fuor di lui franca ed ardita, un non saper tener ferme le piante, un aver spesso in odio la sua vita ed amar piú l'altrui, un esser spesso or mesta e fosca, or lieta e colorita, un ogni studio in non cale aver messo, un fugir il comerzio de le genti, un esser da sé lunge ed altrui presso, un far seco ragioni ed argomenti e disegni ed imagini, che poi tutti qual polve via portano i venti, un non dormire a pieno i sonni suoi, un destarsi sdegnosa ed un sognarsi sempre cosa contraria a quel che vuoi, un aver doglia e non voler lagnarsi di chi n'offende, anzi rivolger l'ira contra se stesso e sol seco sdegnarsi, un veder sol un viso ove si mira, un in esso affissarsi, benché lunge, un gioir l'alma, quando si sospira, e finalmente un mal che unge e punge. Da piú lati fra noi, conte, risuona, che voi sèt'ito, ove disio d'onore sotto Bologna vi sospinge e sprona, per mostrar ivi il vostr'alto valore: valor degno di tanto cavaliero, ma non degno però di tant'amore. Io, quando a la ragion volgo il pensiero, godo meco, e gioisco, e vo lodando che cosí prode amante i ciel mi diêro. Ma quando poi ritorno al senso, quando penso ai perigli, onde la guerra è piena, che Marte a' figli suoi va procacciando, di timor in timor, di pena in pena meno questa noiosa e mesta vita (mentre voi foste qui, dolce e serena), me accusando ch'io non fossi ardita di finir con un colpo i dolor miei, anzi che voi da me féste partita. Felice è quella donna, a cui li dèi han dato amante men illustre in sorte, e men vago di spoglie e di trofei; col qual le sue dimore lunghe e corte trapassa lieta, avendol sempre a lato, fido, costante, valoroso e forte. Felice il tempo antico e fortunato, quando era il mondo semplice e innocente. poco a le guerre, a le rapine usato! Allor quella beata e queta gente, sotto una amica e cara povertate, menava i giorni suoi sicuramente. Allor le pastorelle innamorate avean mai sempre seco i lor pastori, dai quai non eran mai abbandonate. Con lor dai primi matutini albori scherzavan fin al dipartir del sole, lietamente cogliendo e frutti e fiori. Ed or di vaghe rose e di viole tessevan vaghe ghirlandette e care, come chi sacri altari onora e cole. Né la quiete lor potea turbare l'émpito de le guerre amaro ed empio, che l'umane allegrezze suol cangiare: guerre che fan di noi sí crudo scempio, guerre che turban sí l'umano stato, guerre suggetto d'ogni crudo essempio. Ben fu fiero colui, per cui trovato fu prima il ferro, causa a tanti mali, quanti il mondo prova ora ed ha provato. Le guerre e le battaglie de' mortali erano tutte in quella etá novella contra i semplici e poveri animali; contra' quali il pastor, la pastorella con rete in spalla e con lacci e con cani givan cingendo questa selva e quella. Ma poi quegli appetiti ingordi, insani di posseder l'altrui robe e l'avere da l'antica pietá si fêr lontani. Quindi si cominciâr prima a vedere le crude guerre e strepiti de l'armi, che fan, misere noi, tanto temere. Allor sonare i bellicosi carmi s'udîro per citade e per campagne, contra' quai ogni stil convien che s'armi. Di lor convien ch'io mi lamenti e lagne: la lor mercede, il mio signor m'è lunge; per lor non è chi, lassa, m'accompagne. Voi, se zelo d'Amor pur poco punge, cavalier onorati, se si trova alcun, cui Marte dal suo ben disgiunge, dimostrate in altrui la vostra prova, perdonate cortesi al signor mio, in cui morir e viver sol mi giova. L'aspetto suo devria sol far restio l'émpito d'ogni cruda ed empia mano, senza che lo chiedessi umilment'io; la qual con quanto posso affetto umano, con quanta posso estrema cortesia (e giunga il prego mio presso e lontano) prego ch'ardito alcun di voi non sia d'offender pur un poco un signor tale, e turbar seco ancor la vita mia. E voi, conte, voi, animo reale, provato e riprovato in ogni impresa, deh, se di me pur poco ancor vi cale, quando sará l'aspra battaglia accesa, andate cauto, ed abbiate rispetto a me, tutta per voi dubbia e sospesa. E pensate che sia nel vostro petto l'anima mia con la vostr'alma unita, quasi in suo proprio e suo alto ricetto. E sí come pensaste a la partita, pensate, conte, omai anco al ritorno, se voi cercate di tenermi in vita; ch'io vi vo richiamando notte e giorno. Dettata dal dolor cieco ed insano, vattene al mio signor, lettera amica, baciando a lui la generosa mano. E digli che dal di, che la nimica mia stella me lo tolse, il cibo mio è sol noia, dolor, pianto e fatica. Ben fu 'l ciel al mio ben contrario e rio, ch'a pena mi mostrò l'amato obietto, che, misera, da me lo dipartío. O brevi gioie, o fral uman diletto! o nel regno d'Amor tesor fugace, subito mostro e subito intercetto! Il bel paese, che superbo giace fra 'l Rodano e la Mosa, or mi contende la suprema cagion d'ogni mia pace. Mentre ivi il mio signor gradito intende a l'onorate giostre, a' pregi, a' ludi, di cui sí chiara a noi fama s'estende, io, misera, che 'n lui tutti i miei studi, tutte le voglie ho poste, essendo lunge, conven che disiando agghiacci e sudi. E sí fiero il martír m'assale e punge, ch'io mi vivo sol d'esso e vivrommi anco fin che 'l ciel, conte, a me vi ricongiunge. Voi, qual guerrier vittorioso e franco, ferite altrui con l'onorata lancia; io son ferita qui dal lato manco. O per me poco aventurosa Francia! o bel paese, avverso a' miei disiri, che 'mpallidir mi fai spesso la guancia! Dovunque avien che gli occhi volga e giri, non vi trovando voi, conte, mi resto senza speranza, preda de' sospiri. Voi prometteste ben di scriver presto, non possendo tornar, per porger ésca fra tanto al mio disir atro e funesto: e, poi che non lo fate, temo ch'esca da la memoria vostra la mia fede, e che del mio dolor poco v'incresca. È questa de l'amor mio la mercede? e de la vostra fede è questo il pegno? Misera donna ch'ad amante crede! Credetti amar un cavalier piú degno e 'l piú bel che mai fosse, ed or m'aveggio che la credenza mia non giunge al segno. Empia fortuna, or che mi pòi far peggio, rottemi le promesse di colui, senza cui, d'ogni mal preda, vaneggio? Io non spero giamai che, come fui vostra, conte, una volta, non sia sempre; cosí non foste voi, conte, d'altrui! Non so perché la vita non si stempre, non so com'or con voi ragioni e scriva, afflitta sí de l'amorose tempre. Ma, lassa, che dich'io? perché mi priva sí 'l duol del vero mio conoscimento, ch'io tema d'una fé tenace e viva? Non sète voi quel pieno d'ardimento, di senno e di valor, ch'a mille prove trovato ho fido cento volte e cento? Perché debb'io temer ch'essendo altrove, da me partito a pena, in voi sí tosto novo amor a' miei danni si rinove? Deh, dolce conte mio, per quelle e queste fra noi ore lietissime passate, ond'io mi piacqui e voi vi compiaceste, piú lungamente omai non indugiate a scrivermi due versi solamente, se 'l mio diletto e la mia vita amate. Ché, non potendo veder voi presente, il veder vostre carte dará certo qualche soccorso a l'affannata mente. Questo al mio grand'amor è picciol merto, ma sará nondimeno ampio ristoro al faticoso mio poggiar ed erto. Ben felice è lo stato di coloro, che per buona fortuna e destro fato han sempre presso il lor caro tesoro! Misera me, che m'è 'l mio ben vietato, allor che piú bramava e piú devea essergli caramente ognor a lato! La mia fortuna instabilmente rea mi vi dié tosto e tosto mi vi tolse, che maggior danno far non mi potea. Ma voi, se dentro il vostro cor s'accolse giamai vera pietá di chi v'adora, di chi piú voi, che la sua vita, volse, non fate, com'ho detto, piú dimora di scrivermi e poi far tosto ritorno, se non volete comportar ch'io mora, come sto per morir di giorno in giorno. De le ricche, beate e chiare rive d'Adria, di cortesia nido e d'Amore, ove sí dolce si soggiorna e vive, donna, avendo lontano il suo signore, quando il sol si diparte, e quando poi a noi rimena il matutino albore, per isfogar gli ardenti disir suoi, con queste voci lo sospira e chiama; voi, rive, che l'udite, ditel voi. Tu, che volando vai di rama in rama, consorte amata e fida tortorella, e sai quanto si tema e quanto s'ama, quando, volando in questa parte e 'n quella, sei vicina al mio ben, mostragli aperto in note, ch'abbian voce di favella: digli quant' è 'l mio stato aspro ed incerto, or che, lassa, da lui mi trovo lunge per ria fortuna mia e non per merto. E tu, rosignuolin, quando ti punge giusto disio di disfogar tuoi lai con voce ove cantando non s'aggiunge, digli, dolente quanto fossi mai, che la mia vita è tutta oscura notte, essendo priva di quei dolci rai. E tu, che 'n cave e solitarie grotte, Eco, soggiorni, il suon de' miei lamenti rendi a l'orecchie sue con voci rotte. E voi, dolci aure ed amorosi venti, i miei sospir accolti in lunga schiera deh fate al signor mio tutti presenti. E voi, che lunga e dolce primavera serbate, ombrose selve, e sète spesso fido soggiorno a questa e a quella fèra, mostrate tutte al mio signore espresso che non pur i diletti mi son noia, ma la vita m'è morte anco senz'esso. Ei si portò, partendo, ogni mia gioia, e, se, tornando omai, non la rimena, per forza converrá tosto ch'io moia. La speme sola al viver mio dá lena, la qual, non tornand'ei, non può durare, da soverchio disio vinta e da pena. Quell'ore, ch'io solea tutte passare liete e tranquille, mentre er'ei presente, or ch'egli è lunge son tornate amare. Ma, lassa, a torto del suo mal si pente. a torto chiama il suo destín crudele, chi volontario al suo morir consente. Lassa, io devea con mie giuste querele o far che non andasse, o far ch'andando non desse al vento senza me le vele; ch'or non m'andrei dolente lamentando, né temenza d'oblio, né gelosia non m'avrebber di me mandata in bando. Emendate, signor, la colpa mia voi, ritornando ove 'l vostro ritorno piú che la propria vita si disia. E, se rimena il sole un dí quel giorno, non pensate mai piú da me partire, ch'io non vi sia da presso notte e giorno, poi ch'io mi veggo senza voi morire. Musa mia, che sí pronta e sí cortese a pianger fosti meco ed a cantare le mie gioie d'amor tutte, e l'offese, in tempre oltra l'usato aspre ed amare movi meco dolente e sbigottita con le sorelle a pianger e a gridare in questa aspra ed amara dipartita, che per far me da me stessa partire hanno Fortuna e 'l mio signor ordita. E, perché forse non potrem supplire noi soli a tanta doglia, in parte al pianto queste rive e quest'onde fa' venire; onde, che meco si compiacquer tanto de la cara presenza di colui, ch'or lunge sospirando io chiamo e canto. Questi, Amor, son gli usati frutti tui, brevissimi diletti e lunghe doglie, ch'io provo, che tua serva sono e fui. Ché, come toglie agli arbori le foglie tosto l'autunno, cosí di tua mano, se si dona alcun ben, tosto si toglie. Tu mi donasti, ed or mi tien lontano quanto ben tu puoi darmi, e quanto vede di caro il sol, tornando a l'oceáno. E, bench'io sia sicura di sua fede, bench'io riposi in quanto m'ha promesso, ne le dolci parole che mi diede, quando 'l disio m'assale, ch' è sí spesso, non essendo qui meco chi l'appaga, la vita mia è un morir espresso. Donne, cui punge l'amorosa piaga, di lassar dipartir l'amato bene non sia alcuna di voi che sia vaga; perché son poi maggior assai le pene di quel ch'altri si crede o che s'aspetta, qualor l'amara disianza viene. Niuna cosa a noi piace o diletta, se non v'è quel che ne la fa piacere, quel ch'ogni nostra gioia fa perfetta. Io quel che voglio non posso volere, se quel ch'amo non ho presso o dintorno, quel che le noie mie torna in piacere. Tu, che fai ora a Lendenara giorno, almo mio sole, ed a me notte oscura, sole, a cui sempre col pensier ritorno, de l'alta fede mia sincera e pura tien'almen la memoria che si deve, che durerá fin che mia vita dura. E, se degna pietá ti move, in breve o scrivi o vieni o manda, sí ch'io sia scema di cura dispietata e greve. Ché tanto durerá la vita mia, quant'io sarò sicura d'esser cara e d'esser presso a chi 'l mio cor desia, il mio cor, ch'ora alberga in Lendenara.
Sacro re, che gli antichi e novi regi, quanti sono o fûr mai eccelsi e degni, per forza di valor propria e d'ingegni vinci, e te stesso e tutto 'l mondo fregi, ed a' piú chiari spirti ed a' piú egregi, a' piú felici e piú sublimi ingegni la via d'alzarsi al ciel, scrivendo, insegni con la materia de' tuoi tanti pregi, volgi dal tron de la tua maestade sereno il ciglio, onde queti e governi popoli e regni, a la mia umiltade; ché, se tu aspiri a' miei disiri interni, spero, vil donna, a la futura etade far con tant'altri i tuoi gran fatti eterni. Alma reina, eterno e vivo sole, prodotta ad illustrar imperi e regni, e congiunta al maggior re, ch'oggi regni, cara sí che con voi vuole e non vuole, date a l'ingegno mio rime e parole, onde possa adombrar con quai può segni quanto la vostra altezza e i pregi degni il mondo tutto riverisce e cole. Lasciate ch' a la fama e agli scrittori, che parleran di voi si chiaramente, io donna da lontan possa andar dietro; lasciate ch'io di si famosi allori m'adorni il crin a la futura gente. Oh qual grazia mi fia, se questo impetro! Tu, che traesti dal natio paese le nostre muse tutte ed Elicona lá dove regge il Rodano e la Sona il maggior re che viva e 'l piú cortese, ed or con voi son tutte ad una intese insieme col gran figlio di Latona a celebrar quella real corona, e le sue tante e gloriose imprese, chiaro Alamanni, io vorrei ben anch'io venir in parte di cotanto onore, e lodar lui con voi e poi voi anco; ma s'oppone a l'immenso mio disio l'esser io, donna e vil, preda d'Amore. Lo spirto è pronto, ma lo stil è stanco. Alma fenice, che con l'auree piume prendi fra l'altre donne un sí bel volo, ch'Adria ed Italia e l'uno e l'altro polo tutto di meraviglia empi e di lume, bellezza eterna, angelico costume, petto d'oneste voglie albergo solo, deh, perché non poss'io, come vi còlo, versar, scrivendo, d'eloquenzia un fiume? Ché spererei de la piú sacra fronde, cosi donna qual sono, ornarmi il crine, e star con Saffo e con Corinna a lato. Poi che lo stil al desir non risponde, fate voi co' be' rai, luci divine, chiare voi stesse e questo mar beato. Voi n'andaste, signor, senza me dove il gran troian fermò le schiere erranti, ov'io nacqui, ove luce vidi innanti dolce si, che lo star mi spiace altrove. Ivi vedrete vaghe feste e nove, schiere di donne e di cortesi amanti, tanti, che ad onorar vengono, e tanti, un de li dèi piú cari al vero Giove. Ed io, rimasa qui dov'Adria regna, seguo pur voi e 'l mio natio paese col pensier, ché non è chi lo ritegna. Venir col resto il mio signor contese; ché, senza ordine suo, ch'io vada o vegna non vuole Amor, poi che di lui m'accese. Mentre, chiaro signor, per voi s'attende a poggiar nel camin ch'al ciel vi mena per via di lingue e di scienzie e vena, che 'l vostro nome in tutto il mondo stende, io, donna e vil, cui desir egual prende, e l'acque di Castalia ho viste a pena, vorrei venirvi dietro, e non ho lena, ché la bassezza mia tant'opra offende. Però mi resto, e di lontan sospiro i nobil frutti de l'ingegno vostro, che con tant'altri giá tant'anni ammiro. Quei son la vera porpora e 'l ver' ostro, gli archi e le statue, se ben dritto miro, che rendon chiaro e caro il secol nostro. Se voi non foste a maggior cose vòlto, onde 'l vostro splendor, Venier, sormonte, avendo si gran stil, rime sí pronte, e de' lacci d'Amore essendo sciolto, vi pregherei che 'l valor e 'l bel volto e l'altre grazie del mio chiaro conte a la futura etá faceste cónte, poi che 'l poterlo fare a me è tolto; e faceste ancor cónto il foco mio e la mia fede oltra ogni fede ardente, degna d'eterna vita, e non d'oblio. Ma, poi degno rispetto nol consente, vedrò, tal qual io sono, adombrarn'io una minima parte solamente. Speron, ch'a l'opre chiare ed onorate spronate ognun col vostro vivo essempio, mentre d'ogni atto vile illustre scempio con l'arme del valor vincendo fate, poi che di seguir io vostre pedate per me l'ardente mio desir non empio, voi, d'ogni cortesia ricetto e tempio, a venir dopo voi la man mi date; sí che, come ambedue produsse un nido, ambedue alzi un vol, vostra mercede, e venga in parte anch'io del vostro grido. Cosí d'Antenor quell'antica sede e questo d'Adria fortunato lido faccian de' vostri onor mai sempre fede. Zanni, quel chiaro e quel felice ingegno, che splende in voi, e quel sommo valore, di cui non ha, per quel che s'ode fuore, Adria piú ricco e piú leggiadro pegno, io quanto posso umíle a inchinar vegno, serva di cortesia, serva d'Amore, dogliosa sol che in cosi santo ardore non van le forze del disir al segno; perché, a ridir per via di rime a pieno quanto io v'onoro e quanto è 'l vostro merto, ogn'altro stil, che 'l vostro, verria meno. Voi sol col passo saldo e passo certo in questo d'Adria e fortunato seno salite al monte faticoso ed erto. Conte, quel vivo ed onorato raggio, che splende fuor del vostro chiaro ingegno per via di rime, ed è giá giunto a segno, che o l'ha con pochi, o non ha alcun paraggio, è frutto sol del vostro santo e saggio petto, d'ogni virtú nido e sostegno; ch'io per me propria, se a stimarmi vegno, non pur per darne altrui, lume non aggio. E, se talvolta vo spiegando in carte oscure e basse qualche mio martíre, Amor, che me lo dá, dammi anche l'arte. Voi per voi sol potete al ciel salire, cigno gentil, sí ch'altri non v'ha parte: cosí potess'io il vostro vol seguire! Quel lume, che 'l mar d'Adria empie ed avampa di si bei frutti e di sí degni effetti, per via di prose e versi alti ed eletti, che natura ed Amor, conte, in voi stampa, è lume proprio de la vostra lampa, e frutti de' vostr'alti e bei concetti, e non reflesso degli oscuri obietti di me misera, afflitta e lassa Stampa. E, se vostra infinita caritade me bassa e grave di terreno peso di cosi rare lode empie ed ingombra, alfin ritorna in voi la chiaritade, che, di nessuna indegnitá ripreso, fate sparir la lode altrui qual ombra. O inaudita e rara cortesia, donar i pregi del suo proprio onore ad una donna umil, che 'l proprio core, non pur altro, non ha che di lei sia! Ben v'avea fra tutti altri alzato pria a chiaro segno il vostro alto valore, senza nova cercar gloria e splendore per questa disusata e rara via; sí che non resti modo alcuno in terra, ond'úom possa poggiar per farsi chiaro, non cerco da l'illustre Vinciguerra. O spirto, in mille guise eccelso e raro, qual vena d'eloquenzia petto serra, che possa gir a le tue lodi a paro? Signor, da poi che l'acqua del mio pianto, che sí larga e sí spessa versar soglio, non può rompere il saldo e duro scoglio del cor del fratel vostro tanto o quanto, vedete voi, cui so ch'egli ama tanto, se, scrivendogli umíle un mezzo foglio, per vincer l'ostinato e fiero orgoglio di quel petto poteste aver il vanto. Illustre Vinciguerra, io non disio da lui, se non che mi dica in due versi: — Pena, spera ed aspetta il tornar mio.— Se ciò m'aviene, i miei sensi dispersi, come pianta piantata appresso il rio, voi vedrete in un punto riaversi. Se quanta acqua ha Castalia ed Elicona beveste tutta e sí felicemente, chiaro signor, che poi le vene spente restasser secche ad ogn'altra persona, come poss'io, quando desio mi sprona a dir di voi sí caldo e sí sovente, sperar di pur adombrar solamente quanto di voi si stima e si ragiona? Anzi, perché non pur i versi miei non posson dir quant'io v'onoro e còlo, ma mille Lini meco e mille Orfei, o voi dite di voi, o di me solo sappia il mondo ch'io vòlsi e non potei alzarmi pigra a sí gradito volo. Io vorrei ben, Molin (ma non ho l'ale da prender tanto e sí gradito volo), portar, scrivendo, a l'uno e l'altro polo l'alta cagion del mio foco immortale; ché l'opra e la materia è tanta e tale, ed io son sí dal mal vinta e dal duolo, che a ciò non basto, e voi bastate solo, od altrui stile al vostro stile eguale. Voi far fiorir potete eternamente il colle ch'amo; voi farlo, lodando, novo Parnaso a la futura gente. Io vo ben ciò talor meco provando, quanto mi detta il mio desir ardente; ma forse scemo sue lode cantando. Tu, ch'agli antichi spirti vai di paro, e con le dotte ed onorate rime rischiari l'acque e fai fiorir le cime del colle, ove si sale oggi sí raro, movi il canto, Molin, canoro e chiaro, se mai movesti; e 'l mio colle sublime fa' fiorir fra le cose al mondo prime, poi ch'a me il ciel di farlo è stato avaro. A me dié solo amarlo, e l'amo quanto si puote amar; ma 'l celebrarlo poi è d'altro stil incarco, che di donna. Qui convien sol la tua cetra e 'l tuo canto, chiaro signor; tu sol descriver puoi questa del viver mio salda colonna. Voi, che fate sonar da Battro a Tile, onde il sol viene a noi, onde si parte, quel chiaro stil, che 'l cielo vi comparte, che può d'orrido verno far aprile, o a soggetto men basso e men vile le vostre rime, in tutto 'l mondo sparte, rivolgete, o pregate Amor ex parte che faccia me a voi non dissimíle; sí che, qual sono i vostri versi gai, sia egual la materia, e regni e viva quanto il sol gira, e quanto ne sperai, Ché, s'ella è di valor in tutto priva e quei sí chiari, indegna opra dirai, d'Adria felice ed onorata riva. Dotto, saggio, gentil, chiaro Bonetto, la cui bontá il bel nome ancor pareggia, e l'alta cortesia, che signoreggia il nobil cor, ch'a ogniun vi rende accetto, saper bramo io dal vostro almo intelletto, che le cose segrete in Dio vagheggia, quale è piú, il danno o l'util che si veggia il mondo trar da l'amoroso affetto. Ditemi ancor perché fu Amor dipinto giá dagli antichi, e da' moderni ancora si pinge faretrato, ignudo e cieco. Questo dubbio da voi mi sia distinto, che nel mio cor gran tempo giá dimora, mercé de l'ignoranzia ch'è ognor meco. È sí gradito e sí dolce l'obietto del mio foco, signor, e tanto e tale, che di soffrir ardendo non mi cale ogni acerbo martír, ogni dispetto. Duolmi sol ch'io non sia degno ricetto di tanto bene e a tanta fiamma eguale, e che 'l mio stil sia infermo, stanco e frale a portar l'opra, ove giunge il concetto. E sopra tutto duolmi che la ria mia fortuna s'ingegna sí sovente a dilungar da me la gloria mia. Che mi giova, signor, che fra la gente, illustre, come dite, e chiara io sia, se dentro l'alma mia gioia non sente? Il gran terror de le nimiche squadre, che sotto il piú felice imperadore frenò si spesso il tedesco furore, fatto ribelle a la sua santa madre, come hai potuto tu, celeste Padre, veder degli anni suoi nel piú bel fiore, fra donne imbelli, empia mercé d'Amore, cader per man servili, indegne et adre? Marte il suo bellicoso orrido carme cangi in sospiri omai, e con lui chiuda sotterra i suoi trofei, l'insegne e l'arme; o d'esse almen la bella amica ignuda, Venere sua, come piú degna, n'arme, poi ch'ella è piú di lui sanguigna e cruda. Se da' vostr'occhi, da l'avorio ed ostro, ond'Amor manda fuor faci e quadrella, se dai tesor de l'anima, ch'ancella nacque d'alto valor nel divin chiostro, ciò ch'io scrissi e cantai mi fu dimostro, per lor d'ogn'atto vil tornai rubella, e, se mercé di quelle e mercé d'ella, col tempo avaro e con gl'ingegni giostro, a voi deve ogni lingua dotta e chiara rendervi lode, poi che 'n voi s'accoglie virtú, che 'l fosco mio sgombra e rischiara. A voi de' morte, che tutt'apre e scioglie, non esser come agli altri empia ed amara, e 'l mondo ornarvi il crin di doppie foglie. — Grazie, che fate il ciel fresco e sereno, quando v'aggrada, e tu, che l'innamori, sacratissima madre degli Amori, al cui bel raggio ogn'altra ombra vien meno, spargete con cortese e largo seno nembo odorato di grazie e di fiori sopra questi chiarissimi pastori, che me di gioia et Adria han d'onor pieno; sí che non turbi il lor felice stato fortuna avversa o torbida procella, e sia sempre, come or, dolce e beato. — Tal pregando Anassilla, pastorella d'ardente zelo e 'l cor caldo e 'nfiammato, le Grazie udîrla e la piú chiara stella. A voi sian Febo e le sorelle amiche, schiera gentil, che col vivace ingegno, con l'arte e con lo stil giungete a segno, ove non giunser le memorie antiche. Voi le piú gravi cure e le nimiche voglie acquetate, voi l'ira e lo sdegno; voi sète dolce altrui triegua e ritegno ne le lunghe, penose, aspre fatiche. Io de la interna mia cura e vivace, fin ch'è durato il vostro dolce dire, ho, la vostra mercé, trovato pace. Cosi piaccia ad Amor di stabilire questa mia breve gioia; e chi mi sface tenga mai sempre queto il mio disire. Amica, dolce ed onorata schiera, schiera di cortesia e d'onestade, soggiorno di valore e di beltade, di diporti e di grazie madre vera, io prego Amor e 'l ciel ch'unita, intera ti conservi in felice e lunga etade, e questi giochi e questa libertade veggan tardi, o non mai, l'ultima sera. Cosa non possa mai perversa e ria turbar per tempo alcun o disunire cosí dolce e gradita compagnia. A me si dia per grazia di gioire con lei molt'anni e con la fiamma mia, che sovra il ciel mi fa superba gire. Rivolgete la lingua e le parole a dir di cosa piú degna e piú chiara, che non son io, schiera onorata e cara, onde tanto Elicona s'orna e cole. Come la luna il lume suo dal sole prende, onde poi la notte apre e rischiara, io, cui natura è stata in tutto avara, splendo quanto il mio sol permette e vuole. A lui dunque si de' tutta la lode, perché, s'ei non mi dá del suo vigore, non è chi mova la mia lingua o snode. La mia vita in lui vive ed in me more, di lui sol parla, pensa, scrive et ode. Oh pur mi serbi in questo stato Amore! Voi, ch'a le muse ed al signor di Delo caro piú ch'altri, quasi unico mostro, la via d'andar a lor m'avete mostro, pensier cangiati innanzi tempo e pelo; e, di Morte schernendo il crudo telo, chiaro poggiate a quel celeste chiostro, ov'io con voi d'alzarmi indarno giostro, ché pur m'atterra il peso grave e 'l gelo; fate col vostro stil palese e note le vostre lode a tutto 'l mondo e 'l saggio senno e valor, ch'ogn'altro par ch'adombre, perch'io per me, Michiel, cosa non aggio d'esser cantata da le vostre note, che tempo e morte tosto non la sgombre. Deh, perché non poss'io, qual debbo e quale voi m'imponeste, al mio stil porre i vanni, sí che 'l vostro bel nome, dagli inganni del tempo tolto, al ciel spiegasse l'ale, coppia onorata, a cui null'altra eguale si vede, o vedrá mai dopo mill'anni, per virtute e valor salita a' scanni, ove raro o non mai si salse o sale? Felice Serravalle, a cui per sorte si diede l'esser retta e governata da sí gran donna e sí degno consorte! Felicissima me, se fosse nata o con voi prima, o con voi fin a morte vivesse questa vita che m'è data! Perché Fortuna, avversa a' miei disiri, quasi smarrita e stanca navicella da lunga combattuta e ria procella, come a lei piace mi rivolva e giri, e meco piú ad or ad or s'adiri, e mi percuota in questa parte e 'n quella, né lassi l'empia e di pietá rubella che da' suoi colpi il cor punto respiri, io pur, Balbi, nel mal mi riconforto, poi che ho le vostre ornate rime amiche, onde malgrado suo vivrò mill'anni. Queste a la speme mia mostrano il porto, queste contra de l'aure aspre e nemiche saran dolce ristoro de' miei danni. Anima, che secura sei passata per questo procelloso mar, per questa vita mortal senza provar tempesta, dagli onori e dal volgo allontanata, ed or con quella angelica brigata ti vivi vita eterna in gioia e 'n festa, lassata qui tutta confusa e mesta la gioventú da te retta e guidata, pianga il tuo dipartir, la lontananza del buon Socrate suo celeste e santo tutta Italia e tutta Adria in ogni stanza; ed io per me, se non che mi fa tanto pianger Amor per lui, che non m'avanza, colmerei l'urna tua col mio gran pianto. Qual a pieno potrá mai prosa o rima la vostra cortesia lodar e l'arte, quella, ch'a me di lode dá tal parte, questa, ch'orna ed illustra il nostro clima? Voi sète sol, signor, se 'l ver si stima, cui altri non pareggia; in voi ha sparte le grazie il ciel, ch'altrove non comparte in questa nostra etade o ne la prima. Voi sète il Sol, ch'ogn'altra luce avanza; da voi si prende qualitate e lume e tutto quel di ben, che splende ín nui. Felice me, poi c'ho trovato stanza ne la vostra memoria, per costume usa a far viver dopo morte altrui. Ben posso gir de l'altre donne in cima fin dove il sole a noi nasce e diparte, poi ch'io son scritta da le vostre carte, Emo, e polita da la vostra lima. Il chiaro Achille ebbe la spoglia opima d'onor fra gli altri gran figli di Marte, non perché fusse tale egli in gran parte, ma perché Omero lui alza e sublima. In me è sol amor, e disianza di ber de l'acque del Castalio fiume, ove voi spesso ed io ancor non fui. Se questo onesto mio disir s'avanza, se un dí m'infonde Apollo del suo nume, andrò lodando queste rive e vui. Porgi man, Febo, a l'erbe, e con quell'arte, che suol render altrui salute e vita, il mio buon Emo e 'l Tiepol nostro aita, due che tengon di noi la miglior parte; e l'empia febre e le reliquie sparte, onde han la faccia pallida e smarrita. sia da lor, tua mercé, tosto bandita, se disii presso noi famoso farte. Sí vedrai poi d'incensi e d'odor vari e di votive tavole e di segni carco il tuo tempio e' tuoi sacrati altari; et udrai mille e mille chiari ingegni dir le tue lode e i fatti egregi e chiari, onde fra gli altri dèi lodato regni. Ninfe, che d'Adria i piú riposti guadi sacre abitate, e tu, dea degli Amori, che da quest'acque prima uscisti fuori, care sí che 'l tuo Cipro men t'aggradi, a' modi adorni a meraviglia e radi, a la maggior beltá ch'oggi s'onori, al soggetto piú degno di scrittori, pur che sia stil ch'a sí gran segno vadi, a la Barozza, a cui nulla è seconda, dei piú ricchi tesor, che 'l mar vostro aggia, ornate il crin e l'aurea treccia bionda. E lungo questa erbosa e chiara spiaggia canti l'una di voi, l'altra risponda, la vostra donna bella, onesta e saggia. Felice cavalier e fortunato, a cui toccò fra tutti gli altri in sorte, aver sí bella e sí nobil consorte, e di sí chiaro ingegno e sí pregiato, voi potete obliar, standole a lato, i gravi assalti di fortuna e morte, perch'ella può con le due fide scorte render tranquillo il ciel fosco e turbato. Coppia gentil, dopo mill'anni e miile de' vostri veri pregi e vero onore splenderanno fra noi chiare faville. Ed ancor fia chi dica pien d'ardore: — Alme felici, poi che 'l ciel sortille a sí bel nodo ed a sí santo ardore! Le virtú vostre e quel cortese affetto, che mostrate, Guiscardo, avermi a parte, e quel vergar de l'onorate carte in lode mia sí chiaro e sí perfetto, hanno tanto poter dentro al mio petto, che con quanto si può mai studio od arte io son vòlta ad amarte ed onorarte, quasi di vero onor nido e ricetto. Ma con quel sol e non altro disio, che prescrive onestate, e che conviensi al voler vostro ed a lo stato mio; perché l'amar con questi frali sensi è amor breve; e spesse volte è rio, ché n'ancide la strada, ond'al ciel viensi. Quel, che con tanta e sí larga misura felice ingegno il nostro alto Fattore vi dié, Guiscardo, e quel raro valore, che de' piú chiari il vivo raggio oscura, quel vago stil, quella cortese cura, che di lodarmi sí v'infiamma il core, non per mio merto, a tanta opra minore, ma per mia rara e mia sola ventura, e sopra tutto quello amor, che tanto mostrate avermi, che l'amato move, e fa uno il voler quando è diviso, son cagion che v'onori ed ami, quanto può donna chiaro ingegno, stile e viso; però quanto onestá detti ed approve. Quel gentil seme di virtute ardente, che germogliar nel vostro ingegno intende fin da' primi anni, ed or tal frutto rende, che n'è pieno Adria omai tutto, e lo sente, con quel disio, che sí fervidamente spiegate in carte, che di me vi prende, sí viva fiamma nel mio cor accende, ch'a la vostra è minor o poco o niente. È ben ver che 'l disio, con ch'amo voi, è tutto d'onestá pieno e d'amore, perch'altramente non convien tra noi. Appagate di questo il vostro core, spirto gentil, e fate noto poi ne' vostri versi questo santo ardore. S'io non avessi al cor giá fatto un callo e patteggiato dentro col pensiero non dar piú luogo al despietato arciero, mal trattata da lui quanto egli sallo; di farmi entrar ne l'amoroso ballo novamente, e piú crudo che 'l primiero, per farmi uscir dal mio preso sentiero e commetter del primo un maggior fallo, avrian forza i vostr'occhi e quel cortese atto e tante altre grazie e la beltade, onde natura a farsi onor intese. Ma, per aver di me giusta pietade, tanto ho di voi, non piú, le voglie accese, quanto permette onor ed onestade. — Pastor, che d'Adria il fortunato seno di tanti onori e tanti pregi ornate, e de le rive sue chiare e pregiate avete omai, cantando, il mondo pieno; pastor, ch'alto saper chiudete in seno ne la piú verde e piú fiorita etate, e, da radici uscendo alte e lodate, fate col canto il ciel fosco e sereno, deh potess'io del vostro almo splendore venir in parte e di quei chiari effetti, ché non temerei morte o tempo oscuro. — Cosi, lodando il suo saggio pastore, Anassilla dicea, di dolci aspetti ripieno il cielo, a l'aer chiaro e puro. Mentre al cielo il pastor d'alma beltate Coridon alza l'una e l'altra Stampa, e mentre l'una e l'altra arde ed avampa di far lui chiaro a questa nostra etate, in note di vivace amor formate, d'amor, che solo in gentil cor s'accampa, dice Anassilla al sol volta, che scampa le forze avendo a piú poter legate: — Deh, perché stil, vaghezza ed armonia d'alzar lui non ho io, rime e concento. a segno ove pastor mai non è stato? Perché a voglia sí santa e cosí pia non risponde il poter, che in un momento faria lo stato mio chiaro e beato? Qual è fresc'aura, a l'estiv'ora ardente, a la stanca e sudata pastorella, qual è a chi dorme in riva erbosa e bella il mormorar d'un bel cristal corrente, qual di sol raggio in bel prato ridente a fior che langue a la stagion novella, qual certo porto a dubbia navicella, ch'esce fuor di tempesta aspra e repente; tal fu il vostro apparir gradito tanto, Priuli nostro, a nostre luci meste, e le rime ch'agli altri han tolto il vanto. Quell'a noi stesse ne fu caro, e queste, dopo il dipor del terren vostro manto, ne faran chiare ovunque amor si deste. Chiunque a fama gloriosa intende per via di chiaro stil, d'alto intelletto, talor basso e vilissimo soggetto, per essaltarlo poetando, prende. Omero, che per tutto fama stende, alzò cantando un animal negletto; e Virgilio, la lingua saggio e 'l petto, de la zanzala, al ciel, scrivendo, ascende. Tal di noi, basso tema, fate vui, che 'l nostro nome, indegno ch'uom riguardi, alzate si che non fia mai che moia. A voi, Priuli saggio, ceda lui, che Mantov'orna e i bei campi lombardi, e chi cantò Micena insieme e Troia. Cercando novi versi e nove rime per poter far le lodi vostre cónte, Apollo, sceso giú dal sacro monte, l'orecchie mi tirò ne l'ore prime. — Altro ingegno, altro stile ed altre lime, — mi disse — o d'eloquenzia un maggior fonte ti converrebbe a poter stare a fronte con soggetto sí degno e sí sublime. Un mar, che non ha fine e non ha fondo, cerchi solcar, cercando di lodare il riverendo a null'altro secondo. A tutt'altri le stelle fûro avare, quando mandâr sí chiaro spirto al mondo, a cui han dato ciò che si può dare. Soranzo, de l'immenso valor vostro e de l'alte virtú tante e sí nove raggio sí vivo e sí possente move e di sí chiaro lume il secol nostro, che, volend'io vergar carta ed inchiostro, sí come son or qui, sien note altrove, la grandezza de l'opra mi rimove, e ritarda lo stil quel che m'è mostro. Io vinco ben tutt'altre di disio in amarvi e onorarvi come deggio; ma l'opra è tal, che vince il poter mio. Onde maggior virtute a chi può chieggio da pagar tanto e sí devuto fio, o vo' tacer di voi per non far peggio. Questo felice e glorioso tempio de la piú chiara dea ch'oggi s'onori, poi ch'io non ho condegni incensi e fiori, (colpa del duro mio destino ed empio) dietro a voi, che di morte fate scempio, fra i piú famosi e piú saggi scrittori, dotti figli d'Esperia, almi pastori, di queste basse rime adorno ed empio. Ché, se m'avesse il cielo alzata dove alzato ha lei, alzato ha 'l vostro stile, o me lodata, o paghi e' disir miei! Voi dunque in rime disusate e nove fate udir il suo nome a Battro e Tile, e tutto quel ch'io vòlsi e non potei. Signor, s'a quei lodati e chiari segni il vostro ingegno, i vostri studi e l'arte v'hanno alzato, e 'l vergar di tante carte, a' quai s'alzâro i piú chiari e piú degni, come poss'io, come i maggiori ingegni, entrando in tanto mar con poche sarte, quanto si vuol, quanto si de' lodarte, sí che di nostro dir tu non ti sdegni? Certo il disire e debito mi sprona, e via piú la vostr'alta cortesia, che talvolta di me pensa e ragiona. Ma l'opra è tal, tal è la penna mia, tal di voi parla e sente ogni persona, che, credend'io d'alzar, v'abbasseria. Voi, che di vari campi e prati vari con la penna metendo biade e fiori, mostrate ognor fra i piú saggi scrittori, ond'uomo si diletti ed onde impari; o degli ingegni al mondo eletti e rari, di mille edere degno e mille allori, il cui splendor non fia che discolori l'invido oblio o gli anni empi ed avari, quante grazie vi rendo, Ortensio, poi che senza merto mio, per vostri scritti, n'andrò famosa dagl'Indi agli Eoi con tant'altre lodate e chiari invitti, che per la vostra penna e pregi suoi di morte o tempo non temon despitti. S'una sola eccellenzia suol far chiaro chi la possede, e voi n'avete mille, gradito cavalier, quai voci o squille potran mai gire a' vostri merti a paro? Voi ne l'etá piú verde con quel raro giudicio restingueste le faville d'Inghilterra e di Francia, ove sopille non puoté alcun di quanti unqua provâro. Voi di grandezza, voi di cortesia, voi di presenzia, voi di nobiltate v'alzate a segno, ov'altri non fu pria. Cantin di voi le penne piú lodate; che io, quanto potrá la penna mia, vi farò chiaro a la futura etate. Mille fiate a voi volgo la mente, per lodarvi, Fortunio, quanto deggio, quanto lodarvi e riverirvi io veggio da la piú dotta e la piú chiara gente; ma da l'opra lo stil vinto si sente, con cui sí male i vostri onor pareggio; onde muta rimango, ed al ciel chieggio o maggior vena o desir meno ardente. Io dirò ben che, qualunque io mi sia per via di stile, io son vostra mercede, che mi mostraste si spesso la via; perché 'l far poi del valor vostro fede è opra d'altra penna che la mia, e 'l mondo per se stesso se lo vede. Signor, che per sí rara cortesia con rime degne di futura etate sí dolcemente cantate e lodate l'alto mio colle, l'alta fiamma mia, io priego Amor che, se spietata e ria vi fu giamai la donna che ora amate, ferendo lei di quadrella indorate, la renda a' desir vostri molle e pia. E prego voi che 'l vostro chiaro stile, lasciato me suggetto senza frutto, si volga al signor mio chiaro e gentile: io per me son quasi un terreno asciutto, sono una pianta abbandonata e vile, colta da lui, e suo è 'l pregio in tutto. Non aspettò giamai focoso amante la disiata e la bramata vista di quel, per cui versò lagrime tante; non aspettò giamai anima trista, e distinata nel profondo abisso, la faccia del Signor di gloria mista; non aspettò giamai servo, ch'affisso fosse a dura ed acerba servitute, a la sua libertá 'l termin prefisso; non disiò giamai la giovintute cara e gioiosa un uom giá carco d'anni, in cui tutte le forze son perdute; non disiò giamai d'uscir d'affanni un, cui fortuna aversa afflige e preme, carco e gravato d'infiniti danni; non aspettò giamai un uom, che teme vicin a morte, la sua sanitate, di cui era giá giunto a l'ore estreme; non aspettò giamai le luci amate di dilettoso caro e dolce figlio benigna madre e carca di pietate; non aspettò giamai di gran periglio si disiosa uscir nave, a cui l'onde e nemica tempesta diêr di piglio; quant'io le carte tue care e gioconde, Mirtilla mia, Mirtilla, a le cui voglie ogni mia voglia, ogni disir risponde; Mirtilla mia, con la qual mi si toglie ogni mia gioia ed ogni mio diletto, restando preda di perpetue doglie; col cui leggiadro e grazioso aspetto mi si rende ogni bene, ogni piacere dolce, amoroso, caro, alto ed eletto. Ché, non potendo te propria vedere, veder í frutti del tuo vago ingegno è quanto di conforto io posso avere. Però, tosto ch'io vidi il caro pegno de l'amor tuo ver' me, l'amiche carte, de la memoria tua perpetuo segno, quel piacer, che può dar a parte a parte cosa dolce e gradita, ho sentit'io, sí ch'a gran pena io lo potrei contarte. Quel c'ha turbato alquanto il gioir mio, è stato entr'esse il legger e 'l vedere cosa tutta contraria al mio disio, che la Mirtilla mia, degna d'avere prospero corso e vera e dolce pace, sia stata astretta per febre a giacere. Questo però fra 'l mezzo mal mi piace, che la mercé di Dio vi sète presto convaluta del mal aspro e tenace. Or attendete a conservar il resto del tempo, che da me sarete lunge, sí ch'anco a me non sia 'l viver molesto. Perch'un sol duol due corpi insieme punge, sí come un solo amor ed una fede ed una voluntá due cor congiunge. E, se talor di voi cerca far prede qualche cura noiosa, adoperate quell'estrema virtú, che 'l ciel vi diede, e fra tanto di me vi ricordate. — Di chi ti lagni, o mio diletto e fido, sovra questo famoso e chiaro lido, ove fan nido tante onorat'alme felici ed alme? — Io mi lagno, signor, di due begli occhi, onde eterna dolcezza avien che fiocchi, né par che tocchi a lor, né dia lor noia. perch'io mi moia. — Per le saette mie, per la mia face che 'l tuo languir a gran torto mi spiace; ma, s'egli piace a chi vuol che ti sfaccia, che vòi ch'io faccia? — Vo' che tu, che sol pòi soccorso darmi, tu, che sei nostro dio, tu, c'hai fort'armi, onde aitarmi, o tempri il duro core o 'l mio dolore. — Mille fiate e mille mi son messo per saettar quegli occhi e gir lor presso; ma 'l lume stesso si m'ingombra, ch'io non son piú dio. — Or se tanto essi, e tu sí poco vali, perché non cedi lor l'arco e gli strali e faci ed ali e 'l tuo carro e 'l tuo regno, come a piú degno? — Io cederei di grado, pur che loco mí desser que' begli occhi, e strali e foco, ond'apro e cuoco; ma lor non aggrada che seco vada. — Com'esser può ch'Amor voglia legarse e farsi servo altrui, né possa farse, e son sí scarse quelle vive stelle, che stii con elle? — Elle hanno a schivo che di lor vittoria abbia io, stando con lor, parte di gloria, perché d'istoria è men degno colui ch'è con altrui. — Dunque senza speranza e senza aita, poi ch'è la deitade tua finita, sará mia vita il tempo che m'avanza in disianza? — Cosí fia, lasso! ed io la face e l'arco e le saette mie gitto ad un varco, poi che son scarco, mercé di quel lume, d'ogni mio nume. — Piangiamo insieme, l'un la deitate, l'altro la sua perduta libertate, senza pietate di colei, che sola tutto n'invola. — Io volo al cielo. — Io resto fra quest'onde. — Io Giove. — Io chiamerò chi non risponde. Aure seconde, fate al mondo chiara cosa sí rara. Felice in questa e piú ne l'altra vita chi fugge, come voi, prima che provi, la miseria del secolo infinita; prima che dentr'al cor si turbi e movi per tanti inaspettati uman cordogli, e poi d'uscirne al fin loco non trovi. Felice anima, tu, che qui ti spogli di questi affetti miseri e terreni, e de le nostre pene non ti dogli! Tutti i tuoi di saran lieti e sereni, senz'ira, senza guerra e senza danni, di pace, di riposo e d'amor pieni. Felice chi si fa, sotto umil panni, di Cristo, signor suo, devot'ancella, né prova i nostri maritali affanni! E, gli occhi alzando a la divina stella, lascia quest'aspro e periglioso mare, ch'aura giamai non ha senza procella! Felice chi non ha tant'ore amare, né sente tutto 'l dí pianti e lamenti o di troppo volere, o poco fare! Qui s'odon sol al fin con gran tormenti o querele di figli o di consorte, e mai de l'esser tuo non ti contenti. Infelice colei, ch'a questa sorte chiama la trista sua disaventura, ch'in vita sa che cosa è inferno e morte! Questa è una valle lagrimosa e scura, piena d'ortiche e di pungenti spine, dove il tuo falso ben passa e non dura. Infelici noi povere e meschine, serve di vanitá, figlie del mondo, lontane, aimè, da l'opre alte e divine! Altre per far il crin piú crespo e biondo provan ogn'arte e trovan mille ingegni, onde van de l'abisso l'alme al fondo. Infelice quell'altra move a' sdegni il marito o l'amante, e s'affatica di tornar grata e far che lei non sdegni. Ad altri piú che a se medesma amica, quella con acque forti il viso offende, de la salute sua propria nimica. Infelice colei, che sol attende da mezzo dí, da vespro e da mattina, e tutto 'l giorno a la vaghezza spende; per parer fresca, bianca e pellegrina dorme senza pensar de la famiglia, e negli empiastri notte e dí s'affina! Infelice quest'altra de la figlia grande, che per voler darle marito, senza quietar giamai, cura si piglia! E, perché al mondo ha perso l'appetito, non fa se non gridar, teme e sospetta de l'onor suo che non gli sia rapito. Infelice qualunque il frutto aspetta de' cari figli, e sta con questa speme, lagrimando cosí sempre soletta! Questo l'annoia poi, l'aggrava e preme, che misera da lor vien disprezzata, e di continuo ne sospira e geme. Infelice chi sta sempre arrabbiata, e col consorte suo non ha mai posa, mesta del tutto, afflitta e sconsolata! Tropp'accorta al suo mal, vive gelosa, e col figliuolo suo spesso s'adira, non gusta cibo mai, mai non riposa. Infelice quell'altra, che sospira, ché sa che 'l suo marito poco l'ama, e di mal occhio per mal far la mira! Alcuna in testimonio il cielo chima, che sa di non aver commesso errore, e pur talor si duol de la sua fama. Infelice via piú chi porta amore, e di vane speranze e van desiri si va pascendo il tormentato core! Altre pene infinite, altri martíri, che narrar non si sanno, il mondo apporta, mill'altre angosce e mill'altri sospiri. Felice per seguir piú fida scorta chi elegge di Maria la miglior parte, e si fa viva a Cristo, al mondo morta! Felice chi sue voglie ha vòlte e sparte al sommo Sole, al ben del paradiso, e qui con umiltá pon cura ed arte! A voi convien, che 'l bel leggiadro viso celate sotto puro e bianco velo, avere il cor da uman pensier diviso. Felice voi, che, d'amoroso zelo accesa, v'aggirate al vero Sole, che luce eternamente in terra e 'n cielo! Voi correte qua giú rose e viole, sará del viver vostro il fin beato, ch'altro non è di chi tal vita vuole. Felice voi, che avete consacrato i vaghi occhi divini, il bel crin d'oro a chi sí bella al mondo v'ha creato! È questo il ricco, il caro e bel tesoro, quest'è la preziosa margherita, onde, di palme al fin cinta e d'alloro, vittoria porterete a Cristo unita. Alma celeste e pura, che, casta e verginella stata tanto fra noi, sei gita al cielo, dov'or sovra misura ti stai lucente e bella, di piú perfetto accesa e maggior zelo, perché nel mortal velo rade volte altrui lice unir perfettamente al suo Fattor la mente, sí trista è del nostro arbor la radice, e sí forte n'atterra questa del senso perigliosa guerra; tu vagheggi or beata quell'infinito Sole, di cui quest'altro sole è picciol raggio; e la voglia appagata hai sí, ch'altro non vuole, giunta a l'ultimo fin di suo viaggio; e la noia e l'oltraggio e l'ombra di quel male, che sostenesti in vita, è per sempre sbandita, salita in parte, ove dolor non sale, ove si vive sempre col primo Amor in dilettose tempre. Ben può gradirsi altero il nostro sesso omai per tanta donna e tanto a Cristo amica, che, mancato il primiero valor, spenti que' rai, ch'illustrâr giá la santa schiera antica, in questa etá nemica, dove 'l vizio governa, sia stata una di noi, che tutti i pensier suoi abbia rivolto a quella luce eterna, e qui fra queste rive sia vissa sempre come in ciel si vive. Adria si lagna parte del tuo da lei partire, parte s'allegra, poi ch'al ciel sei gita; ché, s'udirte e parlarte le ha tolto il tuo morire, or che sei sempre al sommo Ben unita, potrai chiedergli aita, quando il bisogno fia; certo soccorso e fido per lo tuo chiaro nido, sí che sicuro e glorioso sia, e fin quanto il sol giri ciascun lo tema, riverisca e ammiri. Da que' superni chiostri, ov'or sicura siedi, tutta raccolta in chi di sé ti prese, gli ardenti sospir nostri a temprar talor riedi con le voglie d'amor piú vive e accese. Mira, madre cortese, i tuoi diletti figli e la lor mesta casa, or senza te rimasa a le terrene noie ed a' perigli; e siale, ancor lontana, scorta e piú che mai fida tramontana. Se 'n te, quant' è disio, fosse valore, potresti leggiermente alzarti al ciel fra quella santa gente. Alma onorata e saggia, che tornando, dopo sí lungo corso, onde venisti, vergine e pura qual dal ventre uscisti, lasciato hai noi piangendo e disiando, ed or davanti al tuo principio stando, a cui vivendo ancor qua giú t'unisti, de le degne opre tue mercede acquisti, e d'esser gita lui mai sempre amando, mira dal cielo i tuoi diletti figli qual del tuo dipartir cordoglio prema, et Adria, che con lor t'onora ed ama. Quelli non è chi piú guidi o consigli senza il tuo senno, e questa resta scema di chi le mostri ognor come Dio s'ama. Casta, cara e di Dio diletta ancella, che, vivuta fra noi tanti e tant'anni, ti sei sempre schermita dagli inganni di questa vita neghittosa e fella, ed or semplice e pura verginella sei gita a volo a quei superni scanni, vero porto ed eterno degli affanni, d'ogni nostr'atra e torbida procella, Adria ha visto e veder spera ancor segno de la tua santa e gloriosa vita, e fiorir frutti del tuo santo ingegno; e de' tuoi dolci figli insieme unita la schiera, che ti fu sí caro pegno, pur te sospira mesta e sbigottita. Quelle lagrime spesse e sospir molti, che mandan fuor i tuoi figli diletti, poi che salisti al regno degli eletti, alma felice, che dal ciel n'ascolti, sien da la vera tua pietate accolti qual si conviene a' lor ardenti affetti; e quei pensier or casti e benedetti sieno a la cura lor, se mai fûr, vòlti. E, sí come qua giú fosti lor guida e madre e scorta, cosí su dal cielo sií lor la vera tramontana e fida; sí che tutti infiammati di quel zelo, che per dritto sentier a te ne guida, di quest'ombre qua giú squarciamo il velo. Quando quell'alma, i cui disiri ardenti sempre resse virtute ed onestate, finito il corso di sua lunga etate, salí al cielo, i mortai lumi spenti, l'eterno Re de le ben nate genti raccolse lei ne la sua maestate, e quelle squadre angeliche e beate empiêro il ciel di non usati accenti. — Vieni, diletta virginella e pura — s'udia dolce cantare, — a côrre il frutto de la tua castitá, lieta e sicura. Vieni, fedel, ché disdiceva in tutto star sí raro miracol di natura, sí gentil pianta, in un terreno asciutto. Di queste tenebrose e fiere voglie, ch'io drizzai ad amar cosa mortale, seguendo il van disio fallace e frale, che sí rio frutto di sue opre coglie, s'avien che la tua grazia non mi spoglie, poi che per me la mia forza non vale, temo che l'aversario empio infernale non riporti di me l'amate spoglie. Dolce Signor, che sei venuto in terra, ed hai presa per me terrena vesta per combatter e vincer questa guerra, dammi lo scudo di tua grazia, e desta in me virtú, sí ch'io getti per terra ogni affetto terren, che mi molesta. Quelle piaghe profonde e l'acqua e 'l sangue, che nel tuo corpo glorioso io veggio, Signor, che, sceso dal celeste seggio, per vita al mondo dar restasti essangue, che nel mio cor, che del fallir suo langue, vogli imprimer omai per grazia chieggio, si ch'al fin del viaggio, che far deggio, non trionfi di me l'inimico angue. Scancella queste piaghe d'amor vano, che m'hanno quasi giá condotta a morte, pur rimirando un bel sembiante umano. Aprimi omai del regno tuo le porte, e per salir a lui dammi la mano; perché a ciò far non giovano altre scorte. Signor, che doni il paradiso e tolli, doni e tolli a la molta e poca fede (per opre no, ch'a sí larga mercede sono i nostri operar deboli e folli), da' tuoi alti, celesti e sacri colli, ov'è 'l soggiorno tuo proprio e la sede, china gli occhi al mio cor, che mercé chiede del suo fallir co' miei umidi e molli. E, perché suol la tua grazia sovente abuondare, ove il fallo è via maggiore, per mostrar la tua gloria maggiormente, nel petto mio, ricetto d'ogni errore, entra col foco tuo vivo ed ardente, e, spento ogn'altro, accendivi il tu' amore. — Volgi a me, peccatrice empia, la vista — mi grida il mio Signor che 'n croce pende; e dal mio cieco senso non s'intende la voce sua di vera pietá mista, sí mi trasforma Amor empio e contrista, e d'altro foco il cor arde ed accende; sí l'alma al proprio e vero ben contende, che non si perde mai, poi che s'acquista. La ragion saria ben facile e pronta a seguire il suo meglio; ma la svia questa fral carne, che con lei s'affronta. Dunque apparir non può la luce mia, se 'l sol de la tua grazia non sormonta a squarciar questa nebbia fosca e ria. Purga, Signor, omai l'interno affetto de la mia coscienzia, sí ch'io miri solo in te, te solo ami, te sospiri, mio glorioso, eterno e vero obietto. Sgombra con la tua grazia dal mio petto tutt'altre voglie e tutt'altri disiri; e le cure d'amor tante e i sospiri, che m'accompagnan dietro al van diletto. La bellezza ch'io amo è de le rare che mai facesti; ma, poi ch'è terrena, a quella del tuo regno non è pare. Tu per dritto sentier lá su mi mena, ove per tempo non si può cangiare l'eterna vita in torbida, e serena. Volgi, Padre del cielo, a miglior calle i passi miei, onde ho giá cominciato dietro al folle disio, ch'avea voltato a te, mio primo e vero ben, le spalle; e con la grazia tua, che mai non falle, a porgermi il tuo lume or sei pregato: trâmi, onde uscir per me sol m'è vietato, da questa di miserie oscura valle. E donami destrezza e virtú tale, che, posti i miei disir tutti ad un segno, saglia ove, amando il nome tuo, si sale, a fruire i tesori del tuo regno; sí ch'inutil per me non resti e frale la preziosa tua morte e 'l tuo legno. Dunque io potrò, fattura empia ed ingrata, amar bellezza umana e fral qual vetro, e l'eterna e celeste lasciar dietro de la somma Bontá, che m'ha creata, e poi m'ha da la morte liberata e da l'inferno tenebroso e tetro, se del fallir mi pento qual fe' Pietro, poi che tre volte giá l'ebbe negata? Dunque io potrò veder di piaghe pieno il mio Fattor, per me sospeso in croce, e d'amor e di zel non venir meno? Dunque non drizzerò pensieri e voce, ogn'altro affetto uman spento e terreno, solo a' suoi strazi, a la sua pena atroce? Mesta e pentita de' miei gravi errori e del mio vaneggiar tanto e sí lieve, e d'aver speso questo tempo breve de la vita fugace in vani amori, a te, Signor, ch'intenerisci i cori, e rendi calda la gelata neve, e fai soave ogn'aspro peso e greve a chiunque accendi di tuoi santi ardori, ricorro; e prego che mi porghi mano a trarmi fuor del pelago, onde uscire, s'io tentassi da me, sarebbe vano. Tu volesti per noi, Signor, morire, tu ricomprasti tutto il seme umano; dolce Signor, non mi lasciar perire!

Accogliete benigni, o colle, o fiume, pag. 22

Acconciatevi, spirti stanchi e frali, pag. 103

A che bramar, signor, che venga manco pag. 117

A che, conte, assalir chi non repugna? pag. 53

A che piú saettarmi, arcier spietato? pag. 93

A che pur dir, o mio dolce signore, pag. 87

A che, signor, affaticar invano pag. 33

A che vergar, signor, carte ed inchiostro pag. 67

Ahi, se cosi vi distrignesse il laccio, pag. 25

Alma celeste e pura, pag. 176

Alma fenice, che con l'auree piume pag. 145

Alma onorata e saggia, che tornado pag. 178

Alma reina, eterno e vivo sole, pag. 144

Al partir vostro s'è con voi partita pag. 108

Altero nido, ove 'l mio vivo sole pag. 23

Alto colle, almo fiume, ove soggiorno pag. 28

Alto colle, gradito e grazioso, pag. 10

Altri mai foco, stral, prigione o nodo pag. 18

A mezzo il mare, ch'io varcai tre anni pag. 119

Amica, dolce ed onorata schiera, pag. 155

Amor, lo stato tuo è proprio quale pag. 104

Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in foco, pag. 112

Anima, che secura sei passata pag. 157

Arbor felice, aventuroso e chiaro, pag. 10

Ardente mio disir, a che, pur vago pag. 110

Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto; pag. 18

A voi sian Febo e le sorelle amiche, pag. 154

Bastavan, conte, que' bei lumi, quelli, pag. 67

Beate luci, or se mi fate guerra pag. 31

Beato insogno e caro, pag. 126

Ben posso gir de l'altre donne in cima pag. 158

Ben si convien, signor, che l'aureo dardo pag. 118

Cantate meco, Progne e Filomena, pag. 95

Canta tu, musa mia, non piú quel volto, pag. 111

Care stelle, che tutte insieme insieme pag. 88

Casta, cara e di Dio diletta ancella, pag. 178

Cercando novi versi e nove rime pag. 164

Certo fate gran torto a la mia fede, pag. 98

Cesare e Ciro, i vostri fidi spegli pag. 23

Che bella lode, Amor, che ricche spoglie pag. 92

Che farai, alma? ove volgerai il piede? pag. 114

— Che fia di me — dico ad Amor talora. pag. 101

Che meraviglia fu, s'al primo assalto, pag. 12

Chiaro e famoso mare, pag. 39

— Chi dará lena a la tua stanca vita — pag. 105

Chi dará penne d'aquila o colomba pag. 11

Chi 'l crederia? Felice era il mio stato, pag. 107

Chi mi dará di lagrime un gran fonte, pag. 76

Chi mi dará soccorso a l'ora estrema, pag. 35

Chi non sa come dolce il cor si fura, pag. 20

Chi porterá le mie giuste querele pag. 38

Chi può contar il mio felice stato, pag. 63

Chiunque a fama gloriosa intende pag. 164

Chi vuol conoscer, donne, il mio signore, pag. 8

Chi vuol veder l'imagin del valore, pag. 69

Come chi mira in ciel fisso le stelle, pag. 14

Come l'augel, ch'a Febo è grato tanto, pag. 29

Come posso far pace col desio, pag. 81

Comincia, alma infelice, a poco a poco pag. 104

Con quai degne accoglienze o qual parole pag. 58

Con quai segni, signor, volete ch'io pag. 128

Conte, dov' è andata pag. 127

Conte, il vostro valor ben è infinito, pag. 56

Conte, quel vivo ed onorato raggio, pag. 148

Cosi m'acqueto di temer contenta, pag. 71

Cosi m'impresse al core pag. 121

Cosi, senza aver vita, vivo in pene, pag. 75

Dal mio vivace foco pag. 129

Da piú lati fra noi, conte, risuona pag. 133

Deh consolate il cor co' vostri rai pag. 100

Deh, fará mai ritorno agli occhi miei pag. 126

Deh, foss'io almen sicura che lo stato, pag. 65

Deh foss'io certa almen ch'alcuna volta pag. 43

Deh lasciate, signor, le maggior cure pag. 87

Deh perché, com'io son con voi col core, pag. 55

Deh, perché cosi tardo gli occhi apersi pag. 11

Deh perché non ho io l'ingegno e l'arte pag. 34

Deh, perché non poss'io, qual debbo e quale pag. 156

Deh, perché soffri, Amor, che disiando pag. 129

Deh, se vi fu giamai dolce e soave pag. 37

De le ricche, beate a chiare rive pag. 139

D'esser sempre ésca al tuo cocente foco pag. 116

Dettata dal dolor cieco ed insano, pag. 136

— Di chi ti lagni, o mio diletto e fido, pag. 171

Dimmi per la tua face, pag. 121

Di queste tenebrose e fiere voglie, pag. 180

Diversi effetti Amor mi fe' vedere pag. 99

Donne, voi che fin qui libere e sciolte pag. 131

Dotto, saggio, gentil, chiaro Bonetto, pag. 152

Dove volete voi ed in qual parte pag. 117

Due anni e piú ha giá voltato il cielo, pag. 86

Dunque io potrò, fattura empia ed ingrata, pag. 183

Dura è la stella mia, maggior durezza pag. 26

Ecco, Amor, io morrò, perché la vita pag. 106

— È questa quella viva e salda fede, pag. 109

Era vicino il di che 'l Creatore, pag. 6

È si gradito e si dolce l'obietto pag. 152

Fa' ch'io rivegga, Amor, anzi ch'io moia, pag. 44

Fammi pur certa, Amor, che non mi toglia pag. 93

Felice cavalier e fortunato, pag. 160

Felice in questa e piú ne l'altra vita pag. 173

Fiume, che dal mio nome nome prendi, pag. 78

Fra quell' illustre e nobil compagnia pag. 20

Gioia somma, infinito, alto diletto, pag. 63

Gli occhi onde mi legasti, Amor, affrena, pag. 45

— Grazie, che fate il ciel fresco e sereno, pag. 154

Grazie, che fate mai sempre soggiorno pag. 16

Il bel, che fuor per gli occhi appare, e 'l vago pag. 15

Il cor verrebbe teco, pag. 123

Il gran terror de le nimiche squadre pag. 153

Io accuso talora Amor e lui pag. 91

Io assimiglio il mio signor al cielo pag. 7

Io benedico, Amor, tutti gli affanni, pag. 59

Io non mi voglio piú doler d'Amore, pag. 68

Io non trovo piú rime, onde piú possa pag. 100

Io non veggio giamai giunger quel giorno, pag. 113

Io non v'invidio punto, angeli santi, pag. 13

Io penso talor meco quanto amaro pag. 101

Io pur aspetto, e non veggo che giunga pag. 57

Io son da l'aspettar omai si stanca, pag. 28

Io veggio spesso Amore pag. 122

Io vo pur descrivendo d'ora in ora pag. 27

Io vorrel ben, Molin (ma non ho l'ale pag. 150

Io vorrei pur ch'Amor dicesse come pag. 84

La fé, conte, il piú caro e ricco pegno pag. 46

La gran sete amorosa che m'afflige, pag. 43

La mia vita è un mar: l'acqua è 'l mio pianto, pag. 42

La piaga, ch'lo credea che fosse salda pag. 115

Larghe vene d'umor, vive scintille, pag. 83

Lassa, chi turba la mia lunga pace? pag. 50

Lassa, in questo fiorito e verde prato pag. 103

La vita fugge, ed io pur sospirando pag. 99

L'empio tuo strale, Amore, pag. 122

Le pene de l'inferno insleme insieme, pag. 125

Le virtú vostre e quel cortese affetto, pag. 160

Liete campagne, dolci colli ameni, pag. 81

Lodate i chiari lumi, ove mirando pag. 66

Ma che, sciocca, dich'io? perché vaneggio? pag. 51

Menami, Amor, omai, lassa! il mio sole, pag. 54

Mentre al cielo il pastor d'alma beltate pag. 163

Mentre, chiaro signor, per vol s'attende pag. 146

Mentr'io conto fra me minutamente pag. 19

Mentr'io penso dolente a l'ora breve, pag. 86

Mentre, signor, a l'alte cose intento, pag. 41

Meraviglia non è, se'n uno istante pag. 98

Mesta e pentita de' miei gravi errori pag. 183

Mille fiate a voi volgo la mente, pag. 167

Mille volte, signor, movo la penna pag. 65

Musa mia, che sí pronta e sí cortese pag. 141

Ninfe, che d'Adria i piú riposti guadi pag. 159

Non aspettò giamai focoso amante pag. 169

Novo e raro miracol di natura, pag. 52

O beata e dolcissima novella, pag. 57

Occhi miei lassi, non lasciate il pianto, pag. 90

O de le mie fatiche alto ritegno, pag. 45

O diletti d'amor dubbi e fugaci, pag. 60

O gran valor d'un cavalier cortese, pag. 56

Oimè, le notti mie colme di gioia, pag. 48

O inaudita e rara cortesia, pag. 149

O mia sventura, o mio perverso fato, pag. 73

Onde, che questo mar turbate spesso, pag. 25

O notte, a me piú chiara e piú beata pag. 59

O ora, o stella dispietata e cruda, pag. 41

Or che ritorna e si rinova l'anno, pag. 61

Or che torna la dolce primavera pag. 36

O rive, o lidi, che giá foste porto pag. 78

— Or sopra il forte e veloce destriero — pag. 82

O sacro, amato e grazioso aspetto, pag. 48

O tante indarno mie fatiche sparse, pag. 70

— Pastor, che d'Adria il fortunato seno pag. 162

Perché, Fortuna, avversa a' miei disiri, pag. 157

Perché mi sii, signor, crudo e selvaggio, pag. 97

Per le saette tue, Amor, ti giuro, pag. 21

Piangete, donne, e con voi pianga Amore, pag. 84

Piangete, donne, e poi che la mia morte pag. 49

Poi ch'Amor mi ferí di crude ponte, pag. 30

Poi che da voi, signor, m'è pur vietato pag. 74

Poi che disia cangiar pensiero e voglia pag. 92

Poi che m'hai resa, Amor, la libertade, pag. 112

Poi che m'ha reso Amor le vive stelle pag. 61

Poi che per mio destin volgeste in parte pag. 109

Poi che tu mandi a far tanta dimora, pag. 97

Pommi ove'l mar irato geme e frange, pag. 64

Porgi man, Febo, a l'erbe, e con quell'arte, pag. 159

Prendete il volo tutti in quella parte, pag. 77

Prendi, Amor, de'tuoi lacci il piú possente, pag. 46

Prendi, Amor, i tuoi strali e la tua face, pag. 50

Purga, Signor, omai l'interno affetto pag. 182

Qual darai fine, Amor, a le mie pene, pag. 116

Qual a pieno potrá mai prosa o rima pag. 158

Qual è fresc'aura, a l'estiv'ora ardente, pag. 163

Qual fosse il mio martire pag. 124

Qual fu di me giamai sotto la luna pag. 73

Qual fuggitiva cerva e miserella, pag. 53

Qual sagittario, che sia sempre avezzo pag. 114

Qual sempre a' miei disir contraria sorte pag. 29

Qualunque dal mio petto esce sospiro, pag. 24

Quando fia mai ch'io vegga un di pietosi pag. 80

Quando fu prima il mio signor concetto, pag. 7

Quando innanti ai begli occhi almi e lucenti, pag. 19

Quando io dimando nel mio pianto Amore, pag. 74

Quando io movo a mirar fissa ed intenta pag. 69

Quando i' veggio apparir il mio bel raggio, pag. 14

Quando mostra a quest'occhi Amor le porte pag. 90

Quando piú tardi il sole a noi aggiorna, pag. 42

Quando quell'alma, i cui disiri ardenti pag. 179

Quando sarete mai sazie e satolle pag. 21

Quando talor Amor m'assal piú forte, pag. 44

Quando talvolta il mio soverchio ardore pag. 49

Quanto è questo fatto ora aspro e selvaggio pag. 76

Quasi quercia di monte urtata e scossa pag. 52

Quasi uom che rimaner de'tosto senza pag. 96

Quasi vago e purpureo giacinto, pag. 102

Quel, che con tanta e si larga misura pag. 161

Quel disir, che fu giá caldo ed ardente pag. 111

Quel gentil seme di virtute ardente, pag. 161

Quella febre amorosa, che m'atterra, pag. 88

Quelle lagrime calde e quei sospiri, pag. 34

Quelle lagrime spesse e sospir molti, pag. 179

Quelle piaghe profonde e l'acqua e'l sangue, pag. 180

Quelle rime onorate e quell'ingegno pag. 66

Quel lume, che'l mar d'Adria empie ed avampa, pag. 148

Queste rive ch'amai si caldamente, pag. 75

Questo aspro conte, un cor d'orsa e di tigre, pag. 47

Questo felice e glorioso tempio pag. 165

Questo poco di tempo che m'è dato, pag. 36

Qui, dove avien che 'l nostro mar ristagne, pag. 47

Quinci Amor, quindi cruda empia Fortuna pag. 35

Ricevete cortesi i miei lamenti, pag. 38

Ricorro a voi, luci beate e dive, pag. 80

Rimandatemi il cor, empio tiranno, pag. 79

Ritraggete poi me da l'altra parte, pag. 33

Rivolgete la lingua e le parole pag. 155

Rivolgete talor pietoso gli occhi pag. 16

Sacro fiume beato, a le cui sponde pag. 77

Sacro re, che gli antichi e novi regi, pag. 143

Sai tu, perché ti mise in mano, Amore, pag. 22

Sapete voi perché ognun non accende, pag. 122

S'avien ch'un giorno Amor a me mi renda, pag. 9

Se con tutto il mio studio e tutta l'arte pag. 24

Se, cosi come sono abietta e vile pag. 9

Se d'arder e d'amar io non mi stanco, pag. 31

Se da' vostr'occhi, da l'avorio ed ostro, pag. 153

Se di rozzo pastor di gregge e folle pag. 6

Se gran temenza non tenesse a freno pag. 102

Se 'l cibo, onde i suoi servi nutre Amore, pag. 125

Se 'l cielo ha qui di noi perpetua cura, pag. 82

Se 'l fin degli occhi miei e del pensiero pag. 89

Se non temprasse il foco del mio core pag. 32

Se poteste, signor, con l'occhio interno pag. 85

Se qualche téma talor non turbasse pag. 68

Se quanta acqua ha Castalia ed Elicona pag. 150

Se quel grave martir che 'l cor m'afflige, pag. 105

Se soffrir il dolore è l'esser forte, pag. 107

Se tu credi piacere al mio signore, pag. 123

Se tu vedessi, o madre degli Amori, pag. 27

Se voi non foste a maggior cose vòlto, pag. 146

Se voi poteste, o sol degli occhi miei, pag. 64

Se voi vedete a mille chiari segni pag. 96

Si come provo ognor novi diletti, pag. 13

Si come tu m'insegni a sospirare, pag. 83

Signor, che doni il paradiso e tolli, pag. 181

Signor, che per si rara cortesia pag. 168

Signor, da poi che l'acqua del mio pianto, pag. 149

Signor, io so che 'n me non son piú viva, pag. 70

Signor, ite felice ove 'l disio pag. 108

Signor, per cortesia, pag. 124

Signor, poi che m'avete il collo avinto pag. 118

Signor, s'a quei lodati e chiari segni pag. 166

— S'io, che son dio, ed ho meco tant'armi, pag. 15

S'io credessi por fine al mio martíre pag. 128

S'io 'l dissi mai, signor, che mi sia tolto pag. 72

S'io non avessi al cor giá fatto un callo pag. 162

Son pur questi i begli occhi e quelle, c'hanno pag. 60

Soranzo, de l'immenso valor vostro pag. 165

Sovente Amor, che mi sta sempre a lato, pag. 79

Speron, ch'a l'opre chiare ed onorate pag. 147

Spesso ch'Amor con le sue tempre usate pag. 127

Straziami, Amor, se sai, dammi tormento, pag. 85

S'una candida fede, un cor sincero, pag. 94

S'una sola eccellenzia suol far chiaro pag. 167

S'una vera e rarissima umiltate, pag. 91

Su, speranza, su, fé, prendete l'armi pag. 72

Trâmi — dico ad Amor talora — omai pag. 17

Tu, ch'agli antichi spirti vai di paro, pag. 151

Tu, che traesti dal natio paese pag. 144

Tu pur mi promettesti amica pace, pag. 26

Una inaudita e nova crudeltate, pag. 95

Un intelletto angelico e divino, pag. 8

Un veder tôrsi a poco a poco il core, pag. 115

Veggio Amor tender l'arco, e novo strale pag. 113

Vengan quante fûr mai lingue ed ingegni, pag. 17

Verso il bel nido, ove restai partendo, pag. 89

Via da me le tenebre e la nebbia, pag. 58

Vieni, Amor, a veder la gloria mia, pag. 30

Virtuti eccelse e doti illustri e chiare, pag. 110

Voi, ch'a le muse ed al signor di Delo, pag. 156

Voi, ch'ascoltate in queste meste rime, pag. 5

Voi, che cercando ornar d'alloro il crine pag. 12

Voi, che di vari campi e prati vari pag. 166

Voi, che fate sonar da Battro a Tile, pag. 151

Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera pag. 32

Voi che novellamente, donne, entrate pag. 37

Voi, che per l'amoroso, aspro sentiero, pag. 51

Voi n'andaste, signor, senza me dove pag. 145

Voi potete, signor, ben tôrmi voi pag. 94

Voi vi partite, conte, ed io, qual soglio, pag. 106

— Volgi a me, peccatrice empia, la vista — pag. 181

Volgi, Padre del cielo, a miglior calle pag. 182

— Vorrei che mi dicessi un poco, Amore, pag. 71

Zanni, quel chiaro e quel felice ingegno, pag. 147

I RIME DI DIVERSI in lode e in morte di Gaspara Stampa

Ahi, come tosto sei, Stampa gentile, pag. 195

Alto colle famoso, al ciel gradito pag. 191

Ben diss'io'l ver, ch'alla colomba e al cigno pag. 192

Ben è d'alta vaghezza il mondo scarco, pag. 194

Ben è ragion, Varchi gentil, s'avampa pag. 193

Benzon, se'l vero qui la fama narra, pag. 192

Donna, ne' cui bell'occhi alberga e regna pag. 188

Férmati, viator, se saper vuoi pag. 196

Giulio, quel duol, ch'entro 'l mio cor s'accampa, pag. 193

Or ne rendi al Tirreno il corso e l'onde pag. 189

O sola qui tra noi del ciel fenice, pag. 187

Qual sacro ingegno o'n prosa sciolta o 'n rima, pag. 190

S'Amor, natura al nobil intelletto pag. 191

Se 'l veder e l'udir splendor e canto, pag. 190

Se mira il ciel questa divina Stampa pag. 188

Si dolci sa il mio sol tesser gl'inganni pag. 189

Stampa gentil, ch'innanzi tempo sciolta pag. 194

Stampa, tu pur da noi sei spenta e morta, pag. 195

II RIME di Baldassare Stampa

— Alto Signor, venuta è l'ora omai, pag. 211

Crudel sirena mia, poi ch'è pur vero pag. 202

Cura, che sempre vigilante e desta, pag. 204

Di dolcezza e d'amor l'anima pieno, pag. 214

Dolce mio ben, deh qual cagion vi move pag. 201

Domenichi gentil, che fate voi pag. 210

Donna gentile, il cui purgato inchiostro pag. 212

Donna, la cui beltá pur non pareggia pag. 200

Felice cor, che vinto dal desio pag. 202

Figliuol di Dio, che dal paterno scanno pag. 209

Frena, mio bene, i lumi tuoi lascivi, pag. 198

Ho riveduto, amanti, il mio bel sole, pag. 199

Il fero mio desir tanto m'accende, pag. 203

Il non vedervi mi conduce a morte, pag. 199

Il vostro dono prezioso e caro pag. 203

Io provo giorni tenebrosi e rei, pag. 205

L'afflitto mio pensier cosi m'ingombra pag. 206

L'alta fiamma d'Amor m'incende, e sugge pag. 207

L'alto, felice e raro vostro ingegno, pag. 212

Lasso, ben so che 'l mio crudel martire pag. 205

Le vostre belle e pure e dotte carte pag. 210

Mentre che Amor fra speme incerta e tarda, pag. 208

Misero, che agghiacciando avampo ed ardo, pag. 204

Occhi, che la virtú vostra serena, pag. 201

O per cui sola ad alto onor m'invio, pag. 197

Qual lingua mai potria lodarti a pieno, pag. 209

S'a l'ardente desio, ch'a dir mi spinge, pag. 198

Sansovino gentil, cortese e caro, pag. 207

Savina mio, se voi sapeste quante pag. 208

Se v'accorgeste del fuggir de l'ore, pag. 200

Signor gentil, che'n dolci e stretti nodi pag. 213

Signor, il cui fedel, saggio consiglio pag. 213

Vera umiltá con gravi modi unita, pag. 211

Vostro orgoglio, madonna, e 'l vostro sdegno pag. 206

III RIME del conte Collaltino di Collalto

Candide rose e leggiadretti fiori, pag. 217

Dal lido occidentale a l'onde ircane, pag. 217

Domenichi gentil, se'l ciel vi dona pag. 220

Dunque un garzone un capitano invitto, pag. 216

Elena, poi ch'il pianto e le parole, pag. 218

In amoroso e florido giardino, pag. 216

L'umor, che da'begli occhi si discende, pag. 219

Muzio, se di saper pur hai disio pag. 218

Non si vedrá piú lieto il tristo core, pag. 215

Quel lume, da cui il ciel toglie il sereno, pag. 219

Se in quante forme mai qui scese Giove pag. 220

IV RIME del conte Vinciguerra II di Collalto

Corso, se'l ciel che vi produsse in terra, pag. 224

È questo il petto, Amor, a cui mi resi pag. 222

Fortunata cittá, beato mare, pag. 225

Fu morte il mio partire, pag. 223

Nel fiammeggiar de la vermiglia Aurora, pag. 222

Quando madonna il suo terrestre velo, pag. 221

Quando mercé d'Amore io giunsi al loco, pag. 223

A la tua ceda ogni regale insegna, pag. 354

Al nostro stato misero e dolente pag. 356

* Sono contrassegnati da un asterisco i capitoli di altri a Veronica Franco. A voi la colpa, a me, donna, s'ascrivepag. 246

Ben vorrei fosse, come dite voi, pag. 257

Come talor dal Ciel sotto umil tetto pag. 353

* Sono contrassegnati da un asterisco i capitoli di altri a Veronica Franco. Contrari son tra lor ragion e Amore, pag. 250

D'alzarmi al ciel da questo stato indegno pag. 360

D'ardito cavalier non è prodezza pag. 289

Deh, la pietá soverchia non v'offenda, pag. 356

Deh, qual d'Estor parti dal mondo tosto pag. 359

Del gran Francesco a la vita onorata pag. 357

Dolce del vostro amor mi è indizio stato pag. 359

* Sono contrassegnati da un asterisco i capitoli di altri a Veronica Franco. Donna, la vostra lontananza è statapag. 261

* Sono contrassegnati da un asterisco i capitoli di altri a Veronica Franco. Dunque l'alta beltá, ch'amica stellapag. 251

Ecco del tuo fallir degna mercede, pag. 361

In disparte da te sommene andata, pag. 264

* Sono contrassegnati da un asterisco i capitoli di altri a Veronica Franco. Invero una tu sei, Verona bella, pag. 267

Io dicea: — Mio cor, se ciò mi fanno pag. 316

Ite, pensier fallaci'e vana spene, pag. 360

La morte, ognor ne l'opre rie piú ardita, pag. 355

Lungamente in gran dubbio sono stata pag. 326

Mentre d'Estor vorrei pianger la morte, pag. 358

Molto illustre signor, quel che iersera pag. 299

* Sono contrassegnati da un asterisco i capitoli di altri a Veronica Franco. Non piú guerra, ma pace: e gli odi, Pire, pag. 277

Non piú parole: ai fatti, in campo, a l'armi, pag. 274

Non vorrei da l'un canto esser mai stata pag. 337

Oh quanto per voi meglio si faria pag. 271

Poi ch'altrove il destino andar mi sforza pag. 319

Poiché dal mondo al ciel, suo proprio albergo, pag. 357

Prendi, re per virtú sommo e perfetto, pag. 354

Quel che ascoso nel cor tenni gran tempo pag. 300

Questa la tua fedel Franca ti scrive, pag. 243

Questa la tua Veronica ti scrive, pag. 295

Questa quella Veronica vi scrive, pag. 308

Se pur devea da morte essere estinto pag. 358

S'esser del vostro amor potessi certa pag. 237

Signor, ha molti giorni, ch'lo non fui pag. 282

Signor, la virtú vostra e 'l gran valore pag. 249

* S'io v'amo al par de la mia propria vita, pag. 231

Sovente occorre ch'altri il suo parere pag. 332

Traslata l'alma al suo natio terreno, pag. 355

A pag. 21, n. XXXIII, v. 7 'anima correggi l'anima;

a pag. 42, n. LXXII, v. 14 ôre c. ore ;

a pag. 44, n. LXXVI, v. 8 nido c. lido ;

a pag. 66, n. CXV, v. 8 segno c. legno ;

a pag. 82, n. CXLVIII, v. 3 diè c. diede ;

a pag. 95, n. CLXXIV, v. 3 lodi c. doti.

Dedica. Allo illustre mio signore pag. 3

I. Rime d'amore.

I. A chi legge. Dalle sue meste rime spera gloria, non che perdono pag. 5

II. Il primo giorno del suo amore pag. 6

III. La grandezza del suo signore infonde in lei virtú di poesia pag. ivi

IV. A lui, nascendo, gli astri diedero le loro grazie pag. 7

V. Comparazione pag. ivi

VI. Le doti preclare di lui furono le sue dolci catene pag. 8

VII. Egli, bello e crudele; ella, fedele e dolente. pag. ivi

VIII. Amore, che l'ha sollevata a lui, ispira i suoi versi pag. 9

IX. Ella un dí sará libera; egli, tardi, pentito pag. ivi

X. Troppo alto soggetto egli è per le rime di lei pag. 10

XI. Lodi alla famiglia dell'uomo amato pag. ivi

XII. Si duole d'aver tardi appreso ad amarlo pag. 11

XIII. In lode del suo signore pag. ivi

XIV. Giovane e sola, fu vinta da Amore, al primo assalto pag. 12

XV. Cántino tutti i poeti le lodi dell'uomo da lei amato pag. ivi

XVI. Vorrebbe aver arte adeguata ai meriti di lui pag. 13

XVII. Io non v'invidio punto, angeli santi… pag. ivi

XVIII. Egli è il sole, a cui ella si rischiara pag. 14

XIX. Ella scopre in lui sempre nuove virtú pag. ivi

XX. Egli doma ogni cuore con la sua bellezza pag. 15

XXI. Nulla può Amore per lei: tempo e fortuna l'aiuteranno pag. ivi

XXII. Spera nella pietá dell'amante pag. 16

XXIII. Prega le Grazie di renderio a lei benigno pag. ivi

XXIV. Benedetti i martiri d'Amore, per i diletti che esso dá! pag. 17

XXV. Vuol liberarsi da lui, e poi disvuole pag. ivi

XXVI, Amare, piangere, cantare: è questo il suo destino pag. 18

XXVII. Amore tormentoso e pur doice pag. ivi

XXVIII. Dinanzi a lui è piena di confusione pag. 19

XXIX. Da lui viene all'anima sua ogni beatitudine pag ivi

XXX. Egli canta con dolcissima armonia pag 20

XXXI. Sullo stesso argomento pag. ivi

XXXII. Non teme la pena amorosa, ma la fine di essa pag. 21

XXXIII. Sará egli mal pietoso verso dl lei? pag. ivi

XXXIV. Ad Amore pag. 22

XXXV. Recandosi a soggiornare nei luoghi dov'egli è nato. pag. ivi

XXXVI. Perché non è mite e clemente con lei? pag. 23

XXXVII. Loda l' altero nido dov'egli nacque pag. ivi

XXXVIII. Ogni suo pensiero vola al luogo dov'egli dimora, lontano da lei pag. 24

XXXIX. Incapace a dir tutto l'amor suo, non sa cantar quello d'altri pag. ivi

XL. Le onde del mare non han sempre, come lei, tempesta pag. 25

XLI. Forse un giorno Amore fará le ragioni di lei pag. ivi

XLII. Amore le promise pace, e diede tormento pag. 26

XLIII. Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza pag. ivi

XLIV. Venere avrebbe pietá di lei, conoscendo i suoi dolori pag. 27

XLV. Non sa dir tutto l'amor suo pag. ivi

XLVI. Egli torna al luogo nativo pag. 28

XLVII. Stanca d'aspettarlo, ella talora invoca la morte pag. ivi

XLVIII. Lontana da lui, vive nel pianto pag. 29

XLIX. Perché egli ritarda al convegno? pag. ivi

L. L'immagine di lui è scolpita nel suo pensiero pag. 30

LI. Ad Amore, che la soccorra pag. ivi

LII. Morrá, se gli occhi amati non le saran benigni pag. 31

LIII. S'ella non è stanca d'amare, perché vien meno la speranza? pag. ivi

LIV. Il planto tempra l'ardore, ond'ella vive pag. 32

LV. Egli ha due cuori: il suo e quel di lei… pag. ivi

LVI. …ed ella, per miracolo d'Amore, vive senza cuore pag. 33

LVII. Non le occorron ritratti di lui, ch'è impresso nel suo petto pag. ivi

LVIII. Se sapesse dipingere e scolpire, cosi, meglio che in versi, lo ritrarrebbe pag. 34

LIX. Come può egli veder, senza pietá, le sue lagrime? pag. ivi

LX. Amore e Fortuna l'avversano, poiché egli presto se ne andrá pag. 35

LXI. Chi la conforterá, quand'egli sia partito? pag. ivi

LXII. Torna la primavera: non per lei, poi ch'egli se ne va via pag. 36

LXIII. Conceda a lei il tempo che lo separa dalla partenza pag. 36

LXIV. Consigli alle donne disposte ad amare pag. 37

LXV. Leggendo i versi di lei, in lui nasca qualche pietá pag. ivi

LXVI. Giungano a lui, in Francia, i sospiri di lei pag. 38

LXVII. Sullo stesso argomento pag. ivi

LXVIII. Nell'assenza di lui, ogni suo bene venuto meno (canz.) pag. 39

LXIX. Mentr'egli acquista gloria in Francia, ella si strugge di dolore pag. 41

LXX. Fu a lei fatale il momento ch'egli parti pag. ivi

LXXI. Lamento, nella lontananza di lui pag. 42

LXXII. Allegoria della sua vita dolorosa pag. ivi

LXXIII. Fosse certa ch'egli pensa a lei qualche volta! pag. 43

LXXIV. L'amore, che le dá i tormenti, le dá il modo di descriverli pag. ivi

LXXV. Cosi lo rivegga, prima di morire! pag. 44

LXXVI. Nella sua lontananza, il pensiero di lui le dá forza pag. ivi

LXXVII. Perché, s'ella è fida, egli non l'ama piú? pag. 45

LXXVIII. Teme ch'egli, in Francia, l'abbia scordata per altra donna pag. ivi

LXXIX. Sullo stesso argomento pag. 46

LXXX. Da quando è via, egli non le ha scritto mai pag. ivi

LXXXI. Egli in Francia si sta colmo d'oblio pag. 47

LXXXII. Priva di sue notizie, ella si duole pag. ivi

LXXXIII. Rimpianto delle gioie passate pag. 48

LXXXIV. S'egli non torna presto, ella ne morrá pag. ivi

LXXXV. Si torrebbe la vita, ma la trattiene Amore pag. 49

LXXXVI. Piangano la sua fine le donne pietose pag. ivi

LXXXXVII. Si lusinga d'essersi liberata da Amore pag. 50

LXXXVIII. La sua pace è turbata di nuovo: sará ella mai resa a se stessa? pag. ivi

LXXXIX. Ma alla libertá ella preferisce la sua servitú amorosa pag. 51

XC. Dican le donne se altra fu piú di lei misera in amore pag. ivi

XCI. Egli vince ognuno di valore: ella vince lui nella fede e nel dolore pag. 52

XCII. S'egli non torna, ella, nell'incertezza, vuol morire pag. ivi

XCIII. Come una cerva ferita a morte pag. 53

XCIV. Gli si arrende senza contesa. pag. ivi

XCV. Il ritorno dell'uomo amato la libererá da morte (sest.) pag. 54

XCVI. Vorrebb'esser con lui con la persona, com'è col cuore pag. 55

XCVII. Egli, in Francia, ha seco il cuore di lei; e non le scrive pag. 56

XCVIII. L'infinito valore di lui è minore della pena di lei pag. ivi

XCIX. Invano attende il suo ritorno, o un messo fidato pag. 57

C. Egli ritorna! pag. ivi

CI. Pensa alle accoglienze che gli fará, rivedendolo pag. 58

CII. Nel ritorno di lui, tutta si rallegra pag. 58

CIII. Benedetti gli affanni d'Amore, or ch'egli è tornato! pag. 59

CIV. Notte d'amore pag. ivi

CV. Vagheggia l'amante ritornato pag. 60

CVI. La gioia d'averlo vicino è turbata in lei dalla gelosia pag. ivi

CVII. Nella nuova primavera, vicina all'amante, si rinnovano gli affetti di lei pag. 61

CVIII. Ella si gode la presenza dell'amante (sest.) pag. ivi

CIX. Il timore di perderlo presto la turba pag. 63

CX. Sullo stesso argomento pag. ivi

CXI. Tutto sopporterá, s'egli non torna via pag. 64

CXII. Se le vedesse in cuore, non sarebbe geloso pag. ivi

CXIII. Vorrebbe che lo stato presente fosse durevole pag. 65

CXIV. Non riesce a scriver degnamente del suo amore pag. ivi

CXV. Egli rivolga a sé le rime che scrive per lei pag. 66

CXVI—CXVIII. Sullo stesso argomento pag. 66—67

CXIX. Si stima avventurata, perché egli la celebra in versi pag. 68

CXX. La sua gioia non è senza amarezze pag. ivi

CXXI. In lui tutti i pregi, onde Amore lega gli animi femminili pag. 69

CXXII. Gode dell'amor suo, ma teme ch'egli debba lasciarla pag. ivi

CXXIII. Egli le ha detto che, lontano da lei, non la ricorda pag. 70

CXXIV. Egli non l'ama piú pag. ivi

CXXV. Quesiti ad Amore pag. 71

CXXVI. Gelosia la tormenta: pur si rassegna a soffrire per lui pag. ivi

CXXVII. Speranza e fiducia combattono in lei la gelosia pag. 72

CXXVIII. S'io 'l dissi mai… pag. ivi

CXXIX. Si ribella ad un'ingiusta accusa di lui pag. 73

CXXX. Dello stesso argomento pag. ivi

CXXXI. Egli le vieta di dir le sue ragioni pag. 74

CXXXII. Sentenza d'Amore contro di lei pag. ivi

CXXXIII. Cosi, senza aver vita, vivo in pene pag. 75

CXXXIV. Ha in uggia Venezia, essendo egli a Collalto pag. ivi

CXXXV. Invidia Collalto, dov'egli soggiorna pag. 76

CXXXVI. Egli, dimentico, non le scrive pag. ivi

CXXXVII. Vadano a lui i suoi sospiri e dicano quant'ella soffre pag. 77

CXXXVIII. Al fiume Anasso, che bagna la terra ov'egli nacque pag. ivi

CXXXIX. Dello stesso argomento pag. 78

CXL. Poich'egli non torna, vorrebbe raggiungerlo pag. ivi

CXLI. Rimproveri ad Amore pag. 79

CXLII. Son passati otto giorni, a me un anno… pag. ivi

CXLIII. Quando sará libera da tante pene? pag. 80

CXLIV. Lo supplica di star con lei pag. ivi

CXLV. Ai luoghi dov'egli è, perché lo restituiscano a lei pag. 81

CXLVI. Lo invoca presso di sé pag. 81

CXLVII. Lo segue col pensiero nella sua vita campestre pag. 82

CXLVIII. Il suo destino è servire al suo signore pag. ivi

CXLIX. Perdonerá ad Amore, se da lui apprenderá a placar l'amante pag. 83

CL. È giusto ch'egli goda ed ella soffra pag. ivi

CLI. Ella morrá d'amore, compianta da ogni cuore gentile pag. 84

CLII. Non regge piú ad Amore, né spera pietá dall'amante pag. ivi

CLIII. L'animo di lei è un inferno pag. 85

CLIV. Sebbene Amore la tormenti, gode della sua passione pag. ivi

CLV. S'augura di morire, prima ch'egli sia d'altra pag. 86

CLVI. Vorrebbe esser morta, prima ch'egli sia partito pag. ivi

CLVII. È merito di lui, s'ella scrive con lode pag. 87

CLVIII. Viva con lei una vita tutta d'amore, senz'altre cure pag. ivi

CLIX. È inferma: la febbre e l'amore l'uccideranno. pag. 88

CLX. Vorrebbe sé libera, e lui suo prigioniero pag. ivi

CLXI. Tornando a Venezia da Collalto, prega l'amante di raggiungerla pag. 89

CLXII. Dello stesso argomento pag. ivi

CLXIII. Ondeggia tra gioie e pene; né le dispiace, purché duri, il suo stato pag. 90

CLXIV. Occhi miei lassi, non lasciate il pianto… pag. ivi

CLXV. Ella merita da lui premio, per l'amore che gli porta pag. 91

CLXVI. Troppo fu alta la sua mira amorosa pag. ivi

CLXVII. S'egli è stanco di lei, ella vuol morire o scordarlo pag. 92

CLXVIII. Si duole che Amore le ritolga il suo bene. pag. ivi

CLXIX. Teme ch'egli la lasci per altra donna pag. 93

CLXX. Tutto soffrirá, pur ch'egli non sia d'un'altra. pag. ivi

CLXXI. S'egli la tradisce, a lei resta la memoria del diletto provato pag. 94

CLXXII. Sopporterá con pazienza ciò che a lui piace pag. ivi

CLXXIII. Alla nuova primavera, ella piange, poich'egli è per partire pag. 95

CLXXIV. Tempeste dell'animo pag. ivi

CLXXV. E lo mira e lo ascolta piú intenta, or che deve partire pag. 96

CLXXVI. Egli gode di tormentarla, anziché ucciderla pag. ivi

CLXXVII. Lamentasi della fortuna, essendo prossima la partenza di lui pag. 97

CLXXVIII. Egli la strazia e tradisce: ella pur l'ama pag. ivi

CLXXIX. Ora la vuol lasciare, per passare a nozze pag. 98

CLXXX. Egli a torto l'accusa di poca fede pag. ivi

CLXXXI. Or fra tempeste, or fra bonaccia pag. 99

CLXXXII. È prossima la fine de'suoi piaceri pag. ivi

CLXXXIII. Lasci i suoi colli, e stia con lei, prima di andar lontano pag. 100

CLXXXIV. Non ha piú rime da celebrarlo pag. 100

CLXXXV. Sarebbe meglio, per lei, morire pag. 101

CLXXXVI. Che avverrá di lei, s'egli sará d'un'altra? pag. ivi

CLXXXVII. Se gli dicesse tutta la sua passione, egli non l'abbandonerebbe. pag. 102

CLXXXVIII. Timori e speranze. pag. ivi

CLXXXIX. Lalel anguis in herba pag. 103

CXC. Si prepara al doloroso distacco pag. ivi

CXCI. Sullo stesso argomento pag. 104

CXCII. Infelice stato d'Amore pag. ivi

CXCIII. Amore tempra di gioia i martiri pag. 105

CXCIV. Nuovi lamenti per la prossima partenza di lui pag. ivi

CXCV. Vol vi partite… pag. 106

CXCVI. Ella morrá: cosí finirá la lunga storia de' suoi dolori pag. ivi

CXCVII. Contrari effetti in amore pag. 107

CXCVIII. Amando s'impara a soffrire e ad esser forti pag. ivi

CXCIX. Da lontano la ricordi; e torni presto pag. 108

CC. Ogni gioia è partita con lui: oh torni presto! pag. ivi

CCI. Lamento d'Anassilla pag. 109

CCII. Partito lui, ell'ha trovato in Dio rifugio e quiete pag. ivi

CCIII. Lo vuol dimenticare, poiché di lei non cura pag. 110

CCIV. Vuol amar solo le virtú del suo signore pag. ivi

CCV—CCVI. Sullo stesso argomento pag. 111

CCVII. Libera dal primo amore, cerca un affetto piú temprato pag. 112

CCVIII. Per un nuovo amore pag. ivi

CCIX. Ad ogni Natale, le torna a mente il primo amore pag. 113

CCX. Torna a compiacersi del nuovo amore pag. ivi

CCXI. Amore non le dá tregua pag. 114

CCXII. Non sa se debba darsi al nuovo amore pag. ivi

CCXIII. Cede al nuovo affetto, e spera di non doverne plangere pag. 115

CCXIV. L'antico amore s'attraversa al nuovo, nella memoria pag. ivi

CCXV. Gode il nuovo e degno suo amore pag. 116

CCXVI. Si compiace d'amar nuovamente pag. ivi

CCXVII. Prega il suo nuovo amante, che voglia riamaria pag. 117

CCXVIII. Sullo stesso argomento pag. ivi

CCXIX. Riamata, gioisce pag. 118

CCXX. Tenace e dolce è questo suo nuovo amore pag. ivi

CCXXI. Ma che poss'lo, se m'è l'arder fatale? pag. 119

CCXXII. Domanda ad Amore (m.) pag. 121

CCXXIII. Or che son voi fatta io… (m.) pag. ivi

CCXXIV. Amore è piú crudele che Morte (m.) pag. 122

CCXXV. Le armi d'Amore (m.) pag. ivi

CCXXVI. Non tutti comprendono la beltá delsuo signore (m.) pag. 122

CCXXVII. Rimproveri ad Amore (m.) pag. 123

CCXXVIII. Pensa ch'io sarò morta (m.) pag. ivi

CCXXIX. Nel partire di lui, non poté piangere (m.) pag. 124

CCXXX. Sullo stesso argomento (m.) pag. ivi

CCXXXI. Soffre pene piú che d'inferno (m.) pag. 125

CCXXXII. Si nutre di dolore e di pianto (m.) pag. ivi

CCXXXIII. Beato insogno e caro… (m.) pag. 126

CCXXXIV. Tornerá, o le scriverá? (m.) pag. ivi

CCXXXV. Egli è, nella lontananza, troppo crudele (m.) pag. 127

CCXXXVI. Sullo stesso argomento (m.) pag. ivi

CCXXXVII. Rassegnazione (m.) pag. 128

CCXXXVIII. Non sa come provargli l'amor suo (m.) pag. ivi

CCXXXIX. Me nutre il foco… (m.) pag. 129

CCXL. Trascurata da lui, ne muore (m.) pag. ivi

CCXLI. Che cosa è amore (c.) pag. 131

CCXLII. Egli è alla guerra: ella ne trema, e rimpiange l'etá che non conobbe guerre (c.) pag. 133

CCXLIII. Mentr'egli è in Francia, ella soffre indicibilmente (c.) pag. 136

CCXLIV. Elegiaco lamento, essendo egli lontano (c.) pag. 139

CCXLV. Si duole della fortuna e d'Amore e di sé, poiché non seppe trattenerlo (c.) pag. 141

II. Rime Varie.

CCXLVI. Al cristianissimo re di Francia, Enrico secondo pag. 143

CCXLVII. Alla cristianissima reina di Francia, Caterina de' Medici pag. 144

CCXLVIII. A Luigi Alamanni pag. ivi

CCXLIX. A donna insigne per bellezza e costumi pag. 145

CCL. Ad un signore, dolendosi di non poter seguirlo a Padova pag. ivi

CCLI. A personaggio illustre per doti eccelse pag. 146

CCLII. Ad un Venier, forse Domenico pag. ivi

CCLIII. A Sperone Speroni pag. 147

CCLIV. Ad un Zanni (Zane?) pag. ivi

CCLV. Ad incerto poeta pag. 148

CCLVI. Forse allo stesso pag. ivi

CCLVII. A Vinciguerra II da Collalto pag. 149

CCLVIII. Allo stesso pag. ivi

CCLIX. Ad un incerto pag. 150

CCLX. A Girolamo Molin pag. ivi

CCLXI. Allo stesso pag. 151

CCLXII. Ricambio di lodi ad un ammiratore pag. ivi

CCLXIII. A Giovan Iacopo Bonetto pag. 152

CCLXIV. Risposta ad un incerto encomiatore pag. 152

CCLXV. Per un guerriero, ucciso ad una festa pag. 153

CCLXVI. Lodi ad un incerto pag. ivi

CCLXVII. Augurale, ai poeti di Venezia pag. 154

CCLXVIII. Ai poeti amici pag. ivi

CCLXIX. Ad una schiera d'amici pag. 155

CCLXX. Agli stessi pag. ivi

CCLXXI. Ad un Michiel pag. 156

CCLXXII. Ad una coppia illustre di sposi pag. ivi

CCLXXIII. Ad un Balbi pag. 157

CCLXXIV. In morte d'uomo illustre, forse Trifone Gabriele pag. ivi

CCLXXV. A Leonardo Emo pag. 158

CCLXXVI. Allo stesso pag. ivi

CCLXXVII. Per la guarigione dell'Emo e di un Tiepolo pag. 159

CCLXXVIII. Encomiastico, ad Elena Barozzi Centani pag. ivi

CCLXXIX. Ad una coppia gentile di sposi pag. 160

CCLXXX. A G˙ A˙ Guiscardo, o Viscardo pag. ivi

CCLXXXI. Allo stesso pag. 161

CCLXXXII—CCLXXXIII. Forse allo stesso pag. 161—162

CCLXXXIV. Ad un poeta incerto pag. 162

CCLXXXV. Forse allo stesso pag. 163

CCLXXXVI. Ad un Priuli pag. ivi

CCLXXXVII. Allo stesso pag. 164

CCLXXXVIII. Ad un reverendo degnissimo pag. ivi

CCLXXXIX. Ad un Soranzo pag. 165

CCXC. In lode di Giovanna d'Aragona pag. ivi

CCXCI. Ad un incerto pag. 166

CCXCII. A Ortensio Lando pag. ivi

CCXCIII. Ad un personaggio politico pag. 167

CCXCIV. A Gianfrancesco Fortunio pag. ivi

CCXCV. Ad un lodatore di Collaltino di Collalto pag. 168

CCXCVI. A Mirtilla, amica dilettissima (c.) pag. 169

CCXCVII. Dialogo tra Amore e un innamorato (ode) pag. 171

CCXCVIII. Esaltazione dello stato monastico (c.) pag. 173

CCXCIX. In morte d'una monaca (canz.) pag. 176

CCC—CCCIII. Sullo stesso argomento pag. 178—179

CCCIV. Invocazione a Dio pag. 180

CCCV—CCCVI. Sullo stesso argomento. pag. 180—181

CCCVII. Spera nel soccorso divino pag. 181

CCCVIII. Vuol amar solo Dio. pag. 182

CCCIX. Dio l'aiuti a pentirsi pag. ivi

CCCX. Rimorsi e pentimento religioso pag. 183

CCCXI. Dolce Signor, non mi lasciar perire! pag. ivi

I. Rime di diversi in lode e in morte di Gaspara Stampa.

I. Di Ippolita Mirtilla pag. 187

II. Di Carlo Zancaruolo pag. 188

III. Di Girolamo Parabosco pag. ivi

IV. Di Malatesta Fiordiano da Rimini pag. 189

V. Di monsignor Torquato Bembo pag. ivi

VI. Del medesimo pag. 190

VII. Di Leonardo Emo pag. ivi

VIII. D'incerto pag. 191

IX. Di Girolamo Molino. In lode di Collaltino da Collalto e di Gaspara Stampa. pag. ivi

X. Di Benedetto Varchi a Giorgio Benzone pag. 192

XI. Del medesimo allo stesso pag. ivi

XII. Di Giulio Stufa a Benedetto Varchi pag. 193

XIII. Di Benedetto Varchi, Risposta a Giulio Stufa pag. ivi

XIV. Di Giorgio Benzone pag. 194

XV. D'autore incerto pag. ivi

XVI—XVII. Dello stesso pag. 195

XVIII. D'ignoto autore. Epitaffio infamante pag. 196

II. Rime di Baldassare Stampa.

I. La bellezza della sua donna è specchio di quella divina pag. 197

II. Non sa ritrarre la bellezza di lei. pag. 198

III. Ella non lo faccia morire pag. ivi

IV. Al ritorno di lei, gioisce. pag. 199

V. Dall'amore ha soltanto male. (m.) pag. ivi

VI. Invano ella rimpiangerá poi di non averlo riamato pag. 200

VII. La pietá di lei gli dará animo a celebrarla pag. ivi

VIII. Senza la vista di lei, soffre e invoca la morte pag. 201

IX. Perché ella non lo rallegra piú de' suoi sguardi? pag. ivi

X. Va lungi da lei col suo tormento amoroso pag. 202

XI. Il cuor suo, ch'è con lei, a lei lo raccomandi pag. ivi

XII. Per un oriolo donatogli dalla sua donna. pag. 203

XIII. Ostacoli alle sue gioie amorose pag. ivi

XIV. Alla gelosia pag. 204

XV. Contrari effetti d'amore pag. ivi

XVI. Si duole di sé e degli affetti suoi discordi pag. 205

XVII. Vedendola, tempra l'affanno, che soffre in amarla pag. ivi

XVIII. Angosce amorose pag. 206

XIX. L'orgoglio di lei può ucciderlo, non fargliela dimenticare pag. ivi

XX. Consumato da amore, gli resta solo di morire. pag. 207

XXI. A Francesco Sansovino. Confidenze amorose pag. ivi

XXII. Ad un Savina, suo amico pag. 208

XXIII. Ad un amico che lo conforta pag. ivi

XXIV. Al Redentore pag. 209

XXV. A Dio redentore pag. ivi

XXVI. Ad un amico innamorato. pag. 210

XXVII. A Lodovico Domenichi pag. ivi

XXVIII. In morte di un Artuso. pag. 211

XXIX. Ad un nipote di Ermolao Barbaro pag. ivi

XXX. Ad un amico, cui non sa lodare come vorrebbe pag. 212

XXXI. A donna eccellente negli studi. pag. ivi

XXXII. Ad un amico saggio ed eloquente. pag. 213

XXXIII. Ad un gentile e cortese signore pag. ivi

XXXIV. In morte di donna fiorentina pag. 214

III. Rime del conte Collaltino di Collalto.

I. Respinto dalla sua donna, si dispera. pag. 215

II. Allegoria: amore di donna instabile ed avara pag. 216

III. Per un fatto d'arme. pag. ivi

IV. Amerá sempre lei sola. pag. 217

V. Nessuna fiera è piú crudele della sua donna. pag. ivi

VI. Ad Elena, perché abbia pietá di lui pag. 218

VII. A Girolamo Muzio, in lode di Elena pag. ivi

VIII. Il pianto della sua donna. pag. 219

IX. Ella è miracolo di natura. pag. ivi

X. La sua donna è ribelle ad Amore ed invincibile pag. 220

XI. A Lodovico Domenichi. Complimenti pag. ivi

IV. Rime del conte Vinciguerra II di collalto.

I. In morte di bella donna pag. 221

II. Effetti mirabili della vista della sua donna pag. 222

III. Rivedendo l'amata pag. ivi

IV. Giungendo a sera dov'ella dimora pag. 223

V. Distacco doloroso (m.) pag. ivi

VI. Ad Anton Iacopo Corso pag. 224

VII. Loda Venezia, patria della donna sua (canz.) pag. 225